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I LIBRI BIBLICI

Nuovo Testamento
6
Ideazione, progettazione e coordinamento redazionale
OLIMPIA CAVALLO

Primo Testamento
GIANANTONIO BORGONOVO

Nuovo Testamento
RINALDO FABRIS

Ha contribuito alla lettura critica della traduzione:


Prof. Anna Passoni Dell 'Acqua (aspetto filologico)
LETTERA
AI ROMANI
nuova versione, introduzione e commento
di ANTONIO PITTA
Per quanto riguarda il Primo Testamento, la Collana segue l'ordine del canone
ebraico.
I deuterocanonici sono posti alla fine.
L'espressione « Primo Testamento » sottolinea la continuità, pur nella diversità,
tra i due Testamenti (cfr. Eb 8,7.13): essa accoglie l'esito del dialogo ebraico-
cristiano, che ha portato a leggere con sensibilità diversa il rapporto tra antica
e nuova alleanza e quello tra i due testamenti.

Terza edizione, 2009

PAOLINE Editoriale Libri


© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2001
Via Francesco Albani, 21 -20149 Milano
www.paoline.it
edlibri.mi@paoline.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Corso Regina Margherita, 2-10153 Torino
A Vittorio Fusco,
amico, esegeta e vescovo indimenticabile,
servito la Chiesa, /a Parola e il prossimo
nella verità e nella carità
e che vive nel giorno senza tramonto.
PREFAZIONE

Nel 1522 M. Lutero così introduceva la Lettera ai Romani: « Questa episto-


la è il vero brano principale nel Nuovo Testamento, il Vangelo più puro, e biso-
gnerebbe che il cristiano non solo la sapesse a memoria parola per parola, ma la
leggesse quotidianamente, come il pane quotidiano dell'anima» . 1

Per grazia di Dio, vede la luce questo commentario che si colloca in binomio
con quello alla Lettera ai Galati (1996). A queste lettere ho dedicato anni di ricer-
ca e di approfondimento; e non posso che esprimere la mia gratitudine al Signore
che mi ha dato la costanza nel condurre a buon porto un lungo viaggio. Spesso so-
no stato colto dallo scoraggiamento che colpì sant'Agostino quando desiderò di
porre mano a un suo commentario a Romani. Chissà cosa sarebbero stati i com-
mentari di sant'Agostino, di Erasmo da Rotterdam e di M. Lutero che, pur tor-
nando spesso su questa lettera, non portarono a compimento tali fatiche. Per que-
sto, con una certa incoscienza diamo alle stampe un commentario a quello che ri-
teniamo il vertice del Nuovo Testamento, se non di tutta la sacra Scrittura, ben
sapendo che ogni parola e frase della Lettera ai Romani non può essere mai spie-
gata e interpretata in modo esaustivo.
Fra i molti nomi di amici e collaboratori che il Signore conosce, desidero es-
sere grato per questa pubblicazione a mons. S. Cipriani che mi ha chiamato a suc-
cedergli alla cattedra di Nuovo Testamento presso la Pontificia Facoltà Teologica
di Napoli e ai cari R. Uzzi e A. Mattace Raso che hanno avuto la grande pazien-
za di leggere per primi tutto il manoscritto.
Forse mai, come in questo caso, vale l'assioma di Bernardo di Chartres:
«Dicebat Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut pos-
simus plura eis et remotiora videre». Realmente siamo nani sulle spalle dei gi-
ganti: e i giganti della Lettera ai Romani sono quelli della grande tradizione della
Chiesa, dai Padri agli autori medievali, e a quelli delle riforme, per giungere ai
grandi pensatori del XX secolo. Fra questi si trovano anche autori contemporanei,
come J.-N. Aletti e R. Penna che hanno prodotto contributi eccellenti sulla Lettera
ai Romani e con i quali mi sono confrontato spesso nella ricerca dell'interpreta-
zione più personale. Come si potrà osservare nella bibliografia, mi sono limitato
agli autori più recenti e a quelli più importanti della tradizione, altrimenti non sa-
rebbe bastato un volume di commento.
1 Cfr. M. Lutero, Prefazione alla Bibbia, M. Vannini (ed.), Genova 1987, p. 146.
8 Prefazione
Spesso horisentitoin me quanto K. Barth ripeteva durante la gestazione del
suo commentario: «Romani aspetta! ». Questa lettera mi ha pazientemente atteso
perché entrassi in dialogo con essa, con tutti i limiti della mia conoscenza esegeti-
ca e teologica. Non è una lettera distaccata o asettica ma interpella, pone in discus-
sione e chiama al coinvolgimento qualsiasi lettore. Attraversarla è come essere col-
piti da una labirintite acuta, in cui lo smarrimento è più frequente del ritrovamento
di senso. La si contempla come un fuoco d'artificio, in cui sono innumerevoli i gio-
chi di luci e le folgorazioni; e i rombi si alternano a silenzi che meritano il massi-
morispetto.Ascoltarla è sentire una banda picaresca di paese, in cui nessun musi-
cista attacca al tempo giusto e, apparentemente, sono molti gli strumenti stonati:
spesso si odono soltanto le trombe o i clarinetti; e quando sembra che termini, la
fanfarariprendepiù assordante, stonata e violenta di prima. Le domande sono più
dellerispostee all'epilogo si trova il mistero! Soltanto allafineti accorgi che è la
più bella sinfonia che sia stata eseguita... ma la nostra vita, con le sue contraddi-
zioni e gli accadimenti, con le tensioni e i dormiveglia, è poi tanto diversa?
ANTONIO PITTA

4 novembre 2000, memoria di san Carlo Borromeo: Humilitas


ABBREVIAZIONI E SIGLE 1

ABR Australian Biblical Review


ACFEB Association Catholique Française pour l'étude de la Bible
ÂnBib Analecta Biblica
ANEP Ancient Near East in Pictures
ANEW Aufstiege und Niedergang der römischen Welt
ASE Annali di Storia dell 'esegesi
Asp Asprenas
AT Antico (o Primo) Testamento
BBB Bonner biblische Beiträge
BETL Bibliotheca Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium
BHT Beiträge zur historischen Theologie
Bib Biblica
BJ Bibbia di Gerusalemme
BJRL Bulletin of the J. Ry lands University of Manchester
BLE Bulletin de Littérature Ecclésiastique
btc biblioteca di teologia contemporanea
BthB Biblical Theology Bulletin
BZ Biblische Zeitschrift
BZNW Beihefte zur Zeitschrift für die neutestamentlische Wissenschaft
CBQ Catholic Biblical Quarterly
JCIG Corpus Inscriptionum Graecarum
CIL Corpus Inscriptionum Latinarum
CSEL Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum
CTNT Commentario Teologico del Nuovo Testamento
DBS Dictionnaire de la Bible, Supplément
ECNT Exegetical Commentary on the New Testament
EKK Evangelisch-Katholischer Kommentar
EvQ Evangelical Quarterly
EvT Evangelische Theologie
ExpTim Expository Times
1 Per i libri biblici sono utilizzate le sigle della Bibbia di Gerusalemme. Le altre sigle e abbreviazio-
ni sono globalmente quelle contenute in Biblica 70 (1989) 577-594, da cui provengono anche le norme per
le traslitterazioni ebraiche e greche.
10 Abbreviazioni e sigle
FilNeot Filologia Neotestamentaria
FRLANT Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen
Testament
FS. Festschrift o Studio in onore
gdt Giornale di Teologia
GLNT Grande Lessico del Nuovo Testamento
GNT 4 The Greek New Testament (4 ed. critica del NT)
a

Greg Gregorianum
HTR Harward Theological Review
ICC International Critical Commentary
Int Interpretation
JBL Journal of Biblical Literature
JETS Journal of the Evangelical Theological Society
JSNT SS Journal for the Study of the New Testament Supplement Series
JSNT Journal for the Study of the New Testament
JSOT Journal for the Study of the Old Testament Supplement Series
JTS Journal of Theological Studies
LA Liber Annuus
LCL Loeb Classical Library
LD Lectio Divina
LXX Testo greco del Primo Testamento
MBS Monografica di benedectina Serie
MT Testo masoretico ebraico del Primo Testamento
N-A 27 Novum Testamentum Graece (27 ed. critica del NT)
a

Neot Neotestamentica
NICNT The New International Commentary on the New Testament
NRT Nouvelle Revue Théologique
NT Nuovo Testamento
NT Novum Testamentum
NTD Das Neue Testament Deutsch
NTOA Novum Testamentum et Orbis Antiquus
NTS New Testament Studies
NTS Novum Testamentum Supplements
PG Patrologia Greca (Migne)
PL Patrologia Latina (Migne)
PSV Parola Spirito e Vita
RB Revue Biblique
RdT Rassegna di Teologia
RivBib Rivista Biblica Italiana
RivBibSup Supplementi alla Rivista Biblica
RQ Revue de Qumran
RSB Ricerche storico bibliche
RTR Reformed Theological Review
SB Studi Biblici
SBL DS Society of Biblical Literature Dissertation Series
11 Abbreviazioni e sigle
SBL MS Society of Biblical Literature Monograph Series
SBL SP Society of Biblical Literature Seminar Papers
SBS Stuttgarter Bibelstudien
SNTS MS Society for New Testament Studies Monograph Series
SNTU Studie zum Neuen Testament und seiner Umwelt
SOC Scritti delle origini cristiane
SR Studies in Religion
StNT Studien zum Neuen Testament
THNT Theologischer Handkommentar zum Neuen Testament
TJT Toronto Journal of Theology
TQ Theologische Quartalschrift
TrinJ Trinity Journal
TTZ Trierer theologische Zeitschrift
TZ Theologische Zeitschrift
WMANT Wissenschaftliche Monographien zum Alten und Neuen Testament
WTJ Westminster Theological Journal
WUNT Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Testament
ZNW Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft
ZTK Zeitschrift für Theologie und Kirche

1. Autori classici
Filone Alessandrino:
Abrahamo De Abrahamo
Allegoriae Legum allegoriae
Cherubim De Cherubim
Congressu De congressu eruditionis gratia
Decalogo De decalogo
Ebrietate De ebrietate
Fuga De fuga et inventione
Genesin Quaestiones et solutiones in Genesin
Heres Quis rerum divinarum heres sit
LAB Liber antiquitatum Biblicarum
Legatione De legatione ad Gaium
Legibus De specialibus legibus
Linguarum De confusione linguarum
Migratione De migratione Abrahami
Mosis De vita Mosis
Mundi De opifìcio mundi
Mutatione De mutatione nominum
Praemiis De praemiis et poenis
Probus Quod omnis probus liber
Somniis De somniis
Sobrietate De sobrietate
12 Abbreviazioni e sigle
Virtutibus De virtutibus
Vita De vita contemplativa
Flavio Giuseppe:
Ant. giud. Antichità giudaiche
Apionem Contra Apionem
Guer. giud. Guerra giudaica

2. Giudaistica
Ap. Abr. Apocalisse di Abramo
Ap. Bar Apocalisse di Baruc
Ap. Mos. Apocalisse di Mose
Aristea Lettera di Aristea a Filocrate
As. Mos. Ascensione di Mose
Bar. syr. Baruc Siriaco
2-3Bar 2-3Baruc
l-3En 1-3Enoc
4Esd 4Esdra
Giub Giubilei
Od. Salotti. Odi di Salomone
Or. Sib. Oracoli Sibillini
Sai. Salom. Salmi dì Salomone
Test. Aser Testamento di Aser
Test. Dan Testamento di Dan
Test. Gad Testamento di Gad
Test. Giobbe Testamento di Giobbe
Test. Issacar Testamento di Issacar
Test. Giuda Testamento di Giuda
Test. Gius. Testamento di Giuseppe
Test. Ruben Testamento di Ruben
Test. Simeone Testamento di Simeone
CD Documento di Damasco, dalla Geniza del Cairo
1QH I grotta di Qumran, Hòdàyòt (Inni di ringraziamento)
1QM I grotta di Qumran, Milhàmàh (Rotolo della guerra)
IQpHab I grotta di Qumran, pesher su Abacuc
1QS I grotta di Qumran, Serek hayyahad (Regola della comunità)
4QdibHam IV grotta, Parole dei Luminari
4Qflor IV grotta, Florilegium
4QMMT IV grotta, Lettera halakico
4QpGen a
IV grotta, I pesher a Genesi
4QpSal IV grotta, pesher Salmi
llQMelch XI grotta, su Melchisedeck
llQtemp XI grotta, Rotolo del Tempio
13 Abbreviazioni e sigle
Frg. Tg. Targum frammentario
Tg. Neof Targum Neofiti
Tg. Ps-J. Targum dello Pseudo-Jonathan

3. Patristica
Clemente Romano:
lClem 1 Lettera di Clemente
Ignazio d'Antiochia:
Efesini Lettera agli Efesini
Filadelfiesi Lettera ai Filadelfiesi
Magnesi Lettera ai Magnesi
Policarpo Lettera a Policarpo
Parte prima
SEZIONE INTRODUTTIVA
PROFILO STORICO E RETORICO-LETTERARIO

Uno scritto che, dopo duemila anni di cristianesimo, continua a suscitare


grande attrazione e a costituire una fonte sempre zampillante per qualsiasi livello
della vita cristiana, oltre che per molti ambiti della ricerca storico-critica, è la
Lettera ai Romani. Nonostante il peso dei millenni, restano dibattute questioni
fondamentali che inducono a continue revisioni interpretative: l'attenzione a que-
sta lettera non trova pause né corrispondenti per alcun altro scritto del NT, se non
per l'intera Bibbia . 1

1. Alcune questioni metodologiche


Prima di delineare le parti proprie per l'introduzione a un commentario, è be-
ne offrire alcune precisazioni di carattere metodologico. Dall'analisi del com-
mentario si potrà comprendere che, come per il nostro saggio sulla Lettera ai
Galati , intendiamo conferire attenzione al metodo storico-critico e alle nuove me-
2

todologie, note come sincroniche, quali l'analisi semantica, sociologica e struttu-


rale, ma soprattutto a quella che abbiamo definito «retorica letteraria» . 3

In verità, nonostante la ricca e significativa produzione sull'analisi retorica


del NT e la sua valorizzazione nel documento della Commissione Biblica, L'in-
4

terpretazione della Bibbia nella Chiesa , alcuni continuano a nutrire riserve sulla
5

1 Per citare alcuni fra i dibattiti recenti più interessanti su Romani, cfr. la seconda edizione aggiorna-
ta di K.P. Donfried (ed.), The Roman Debate. Revised and Expanded Edition, Edinburgh 1991 (1977 ); S. 2 1

Cipriani (ed.), La lettera ai Romani ieri e oggi, Bologna 1995; cfr. anche gl'interessanti contributi dal pun-
to di vista storico-critico in K.P. Donfried - P. Richardson (edd.), Judaism and Christianity in First-Century
Rome, Grand Rapids-Cambridge 1998 e per le problematiche contemporanee su Israele cfr. C. Grenholm -
D. Patte (edd.), Reading Israel in Romans. Legitimacy and plausibility of Divergent Interpretations,
Harrisburg (PA) 2000.
2 Cfr. A. Pitta, Lettera ai Galati (SOC 9), Bologna 1996.
3 Cfr. A. Pitta, Disposizione e messaggio della lettera ai Galati. Analisi retorico-letteraria (AnBib
131), Roma 1992. Cfr. i contributi precedenti dello stesso tipo proposti da J.-N. Aletti, La présence d'un
modèle rhétorique en Romains. Son róle et son importance, in Bib 71 (1990) 1-24; Id., La disposition rhé-
torique dans les épitres pauliniennes: proposition de méthode, in NTS 8 (1992) 385-401.
4 Per un primo bilancio critico-bibliografico cfr. D.F. Watson - A.J. Hauser, Rhetorical Criticism of
the Bible. A Comprehensive Bibliography with Notes on tìistory and Method, Leiden 1994.
5 Cfr. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del
Vaticano 1993, pp. 38-39. Per una valutazione critica del documento sull'analisi retorica cfr. A. Pitta, Nuovi
metodi di analisi letteraria, in G. Ghiberti - F. Mosetto (edd.), L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa.
Commento, Leumann (TO) 1998, pp. 146-153.
18 Sezione introduttiva
validità di tale metodologia per il NT e in particolare per l'epistolario paolino . 6

Queste si concentrano principalmente sulla ritenuta incompatibilità tra retorica ed


epistolografia e sulla carenza dirisultatio di novità che l'analisi retorica apporte-
rebbe, dal versante contenutistico, per scritti come la Lettera ai Romani.
Sulla prima obiezione, è bene riconoscere che Romani, come tutte le lettere
paoline, è realmente tale e non rappresenta un discorso trasmesso per via episto-
lare: la sua natura non dovrebbe mai essere posta in discussione! . Tuttavia se, 7

quanto al genere, una lettera si diversifica da un discorso verbale,rimanevero che,


come scrive Demetrius, «la lettera è come l'altra parte del dialogo», anche se
« bisogna organizzare la lettera più del dialogo » (secoli I a.C. -1 d.C.) . Fra le po- 8

che attestazioni sull'epistolografia nel mondo antico,rimanequella dello Pseudo-


Demetrius (datazione incerta, tra il 200 a.C. e il 300 d.C.), che nel suo Typoi epi-
stolikoi presenta ventuno generi di lettere, relazionandoli in gran parte proprio ai
principali generi retorici teorizzati dalla manualistica classica: il deliberativo, il
forense e l'epidittico.
Fermo restando che non tutta l'epistolografia si identifica con la retorica, è
pur vero che autori come Isocrate, Platone (cfr. Epistola 7), Demostene, Epitteto,
Seneca e Plutarco, non esitano a trasmettere i propri discorsi, in particolare quel-
li di natura morale, in forma epistolare. Nello stesso tempo, fra gli esercizi preli-
minari, o progymnasmata, affidati a quanti intraprendevano una formazione reto-
rica, c'era quello di una composizione epistolare. Con questo non intendiamo as-
serire che Paolo avesse seguito direttamente una scuola di retorica né che le sue
lettere, e in particolare Romani, procedessero secondo un canovaccio retorico
prestabilito, verificabile nei manuali di Aristotele, Cicerone e Quintiliano, per ci-
tare quelli più noti nel mondo antico, ma superare la presunta incomunicabilità tra
epistolografia e retorica.
Nello stesso tempo, dobbiamoriconoscereche non pochi studiosi sulla reto-
rica paolina cadono nella trappola del rhetorical criticism, ossia nell'imposizione
di un modello retorico esterno all'epistolario paolino . Forse, dopo gl'iniziali en-
9

tusiasmi sull'approccio retorico al NT, è bene evidenziare che quella di Paolo è


una retorica contro la retorica, ma è tale; anche il suo epistolario esula da qualsia-
si modello epistolare prestabilito, senza per questo non esser tale. Per questo, pre-
6 Cfr. le osservazioni sull'incompatibilità fra retorica ed epistolografia formulate da S.E. Porter, Paul
as Epistolographer and Rhetorician?, in S.E. Porter - D.L. Stamps (edd.), The Rhetorical Interpretation of
Scripture. Essaysfrom 1996Malibu Conference (JSNT SS 180), Sheffield 1999, p. 234. Questo contributo
di Porter è una revisione della posizione assunta in S.E. Porter, Paul ofTarsus and His Lette rs, in S.E. Porter
(ed.), Handbook ofClassical Rhetoric in the Hellenistic Period 330 B.C. - A.D. 400, Leiden - New York -
Kòln 1997, pp. 533-585. Cfr. anche l'obiezione espressa da R. Penna nella sua recensione al mio commen-
tario a Galati, comparsa in Lateranum 63 (1999) 404. Lo stesso Penna non esita a evocare la relazione tra
retorica ed epistolografia circa i destinatari della Lettera ai Romani: cfr. R. Penna, Giudaismo, paganesimo
e pseudo-paolinismo nella questione dei destinatari della Lettera ai Romani, in S. Cipriani, Romani, p. 67.
7 Così anche J.P Lémonon, L'écrit de Paul aux Romains est-il vraiment une lettre?, in L. Panier (ed.),
Les Lettres dans la Bible et dans la Littérature (LD 181), Paris 1999, pp. 121-133.
8 De elocutione 223-224. Sulle differenze e le relazioni tra epistolografia e retorica classica cfr. J.T.
Reed, The Epistle, in S.E. Porter, Classical Rhetoric, pp. 292-324.
9 Cfr. il modello proposto da G.A. Kennedy, New Testament Interpretation Through Rhetorical
Criticism, Chapel Hill 1984.
Profilo storico e retorico-letterario 19
feriamo parlare di « retorica letteraria », ossia di una persuasione (retorica) che
conferisce priorità al testo, come si è formato e come è stato trasmesso (letteraria),
senza provocare pericolose cesure di alcune parti.
Infine, è sempre vero che la pratica viene e vale prima della teoria! Che l'e-
pistolografia non vada confusa con la retorica è un conto; che di fatto, nella Lettera
ai Romani, Paoloricorraspesso a dialoghi con interlocutori fittizi, tipici della dia-
triba, è un dato che non si può ignorare. Lo spessore di oralità della Lettera ai
Romani è riconoscibile a più livelli: sono molti i verba dicendi (del «dire») che
introducono diversi paragrafi della lettera ; e l'abbondante uso di «infatti» (gar,
10

144 volte) non può non essere ricondotto alla dettatura della lettera che Terzo, il
segretario di Paolo, sta redigendo. Alla stessa motivazione sono riconducibili i
non pochi anacoluti della lettera, di cui il più noto si trova in Rm 5,12 . La Lettera
n

ai Romani non nasce soltanto dalla verbalizzazione del pensiero di Paolo trasmes-
so a Terzo ma, come vedremo, essa stessa, in quanto espressione del suo vangelo,
è verbale e richiede di essere letta o spiegata oralmente da Febe o da chiunque si
assuma il ruolo di centellinarne le dense e serrate dimostrazioni.
Circa l'altra fondamentale obiezione, secondo la quale l'analisi retorica non
offrirebbe nulla di nuovo al messaggio della Lettera ai Romani , riteniamo che 12

questo dipenda, in ultima analisi, dall'uso del metodo. Se questo si limita a una
valutazione estetica della lettera, non possiamo che condividere tale obiezione;
ma se dalla stilistica e dai generi argomentativi, utilizzati da Paolo nei diversi pa-
ragrafi della lettera, si passa al messaggio, le novità apportate dal metodo sono ri-
levanti e non possono essere ignorate. Ad esempio, se siriconosceche in Rm 2 si
assiste a una parodia del carattere di chi asserisce di fare il bene ma compie il
male, attraverso la quale si sceglie come modello il giudeo, si comprende che non
ci troviamo più di fronte a un testo antisemitico ma abbiamo a che fare con una ti-
picizzazione che finisce colriguardarechiunque. Senza l'approccio retorico rite-
niamo che sia impossibile uscire dal labirinto in cui si è andato ad aggrovigliare
l'io di Rm 7, perché soltanto questo permette di riconoscere l'utilizzazione del
modello tragico sull'ineffettualità o sull'impotenza dell'essere. Abbiamo scelto
due esempi che non soltanto rendono ragione di diritto sull'uso dell'analisi reto-
rico-letteraria a Romani ma, in definitiva, lo esigono perché la stessa lettera è
scritta in funzione persuasiva per porre in comunicazione, per la prima volta,
Paolo e i cristiani di Roma.
Con tale scelta metodologica di fondo non desideriamo assolutizzare l'anali-
si retorica, a discapito di altri metodi validi per l'interpretazione dell'epistolario
paolino, ma porla a stretto contatto con il metodo storico-critico, senza il quale l'a-
nalisi retorica è come un edificio senza fondamenta. Soltanto chiediamo, a quanti
non sono abituati all'analisi retorico-letteraria, la docilità di porsi in ascolto e di ve-
rificare irisultatiraggiunti, abbandonando forme di precomprensioni che finisco-

Cfr.Rm 4,1; 6,1; 7,1; 8,31; 9,14.30; 10,8.11; 11,1.11.19; 12,3; 15,8.10.
10

Cfr. anche gli anacoluti di Rm 2,20; 8,3; 9,10.23; 15,24.


11

12Cfr. la critica mossa da J.D.G. Dunn, The Formal and Theological Coherence of Romans, in K.P.
Donfried, Roman Debate, pp. 245-247.
20 Sezione introduttiva
no col rendere poco credibile lo stesso dialogo esegetico in atto . Non va dimenti- 13

cato che un metodo, non rappresentando l'aspetto più importante dell'esegesi o


della relazione con un testo scrìtto, ma essendo soltanto funzionale, necessita di es-
sere valutato anche dai suoirisultatie non soltanto dai postulati o dalle procedure.
Mai, come in questo caso, vale il detto: « Gli alberi siriconosconodai frutti ».

2.1 tre vettori relazionali


Secondo la manualistica della retorica classica, come per l'ermeneutica let-
teraria contemporanea, in ogni comunicazione scritta e orale si stabiliscono tre
orizzonti relazionali fondamentali che interagiscono: V ethos dell'autore, il pathos
del lettore e il logos della comunicazione. Questi tre vettori pongono in atto il sen-
sus o Yintentio auctoris, il sensus o intentio lectoris e il sensus o intentio textus:
tre intenzioni che si condizionano e si sviluppano a vicenda. Trasferendo questi
orizzonti nel campo dell'epistolografia, è preferibile parlare di mittente, destina-
tario e lettera. In verità, soprattutto l'ermeneutica contemporanea ha forse sbilan-
ciato eccessivamente l'attenzione sul sensus lectoris che diventa una sorta di lec-
tor in fabula o di lettore chiamato in causa dal racconto, dichiarando la morte del-
l 'autore. Così scriveva uno dei padri dell'ermeneutica contemporanea: « Quando
la scrittura comincia, l'autore entra nella propria morte» . Pur non ignorando14

l'intenzione del testo e quella del lettore, ci sembra che il metodo storico-critico
permetta di riequilibrare le proporzioni, in quanto senza l'intenzione dell'autore
non si genera il senso del testo e non si chiama in causa quello del lettore. Per que-
sto, è necessario ricuperare la cosiddetta autorialità di colui al quale appartiene,
comunque, qualsiasi testo e che chiama in causa ogni lettore . 15

a) Il mittente. - Uno dei pochi elementi condivisi nel dibattito sulla Lettera
ai Romani riguarda la sua autenticità: fu scritta da Paolo, verso la fine del terzo
viaggio missionario, da Corinto, in un periodo che va dal 54, come data alta, al
58 d.C., come data bassa . L'unica fonte che attesta l'autorialità di questo scritto
16

è la lettera stessa: non abbiamo altririferimenticontemporanei che accennino al-


l'invio di questa lettera alle comunità di Roma.
La datazione della lettera è stabilita dal confronto tra le notizie interne e
quelle biografiche degli Atti degli apostoli. Poiché è quasi certo che Paolo com-
13Da questo punto di vista è sorprendente la posizione aprioristica di T.R. Schreiner, Romans, Grand
Rapids 1998, p. 23, che non accetta l'analisi retorica a Romani soltanto perché non è convinto!
14 Cfr. R. Barthes, La morte dell'autore, in II brusio della lingua, Torino 1988 (fr. 1968), p. 51.
15Cfr. C. Debenedetti, L'ombra lunga dell'autore. Indagine su una figura cancellata, Milano 1999; e
per l'ermeneutica biblica in particolare cfr. R. Penna, In difesa della «Intentio auctoris»: Breve discussio-
ne di un aspetto non secondario dell'ermeneutica biblica, in Lateranum 61 (1995) 159-181.
16 Cfr. la convergenza in tal senso fra i recenti commentari di B. Byrne, Romans, Collegeville 1996,
pp. 8-10; J.A. Fitzmyer, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale Monferrato (AL) 1999,
pp. 57-58; K. Haacker, Der Briefdes Paulus an die Ròmer, Leipzig 1999, pp. 8-10; D.J. Moo, The Epistle
to the Romans, Grand Rapids 1996, pp. 1-2; T.R. Schreiner, Romans, pp. 3-5. Cfr. anche T.W. Manson, St.
Paul 's Letter to the Romans - and Others, in K.R Donfried, Roman Debate, p. 4.
Profilo storico e retorico-letterario 21
parve davanti a Gallione nel 51-52 d.C. (cfr. At 18,12-17) e che si fermò a Efeso
per altri due anni, la permanenza a Corinto comincia dal 54 d.C.: la composizio-
ne della Lettera ai Romani corrisponderebbe alle fugaci annotazioni lucane di At
20,1-3, ossia prima del viaggio di ritorno verso Gerusalemme. La designazione di
Corinto, come città di partenza della missiva, trova conferma nella sezione di Rm
16, in cui Paolo raccomanda ai destinatari la diaconessa Febe (cfr. Rm 16,1-2),
proveniente da Cenere, uno dei porti di Corinto, e accenna ai saluti di Giasone ed
Erasto, due credenti che trovano buone, anche se non certe, rispondenze nel con-
testo di Corinto (cfr. Rm 16,21-23). Queste prime coordinate permettono di foca-
lizzare l'attenzione non su tre città o regioni chiamate in causa, come si sostiene
generalmente, bensì su quattro: Corinto, Roma, Gerusalemme e la Spagna.
Il primo orizzonte è importante per il contenuto della lettera, perché permet-
te di chiarire le precisazioni di Rm 3,8 e di Rm 16,17-20: le uniche annotazioni
reali di Paolo su alcuni suoi oppositori. Di fatto, si può ben notare che la Lettera
ài Romani non ha alcuno spessore apologetico o di difesa, tranne in queste parti
in cui Paolo condanna alcuni diffamatori che lo accusano di fare il male in vista
del bene (cfr. Rm 3,8) e in cui invita i destinatari della lettera a stare in guardia da
quanti cercano di sviarli dalla dottrina ricevuta (cfr. Rm 16,17-30). L'assenza di
altri indizi nel corso della lettera a reali diffamatori (Rm 6ricalcalo stile del dia-
logo con un interlocutore fittizio) lascia intendere che l'unico contesto nel quale
tali asserzioni trovano spazio è quello di Corinto o, comunque, delle comunità
pâoline in cui egli si trova spesso a contrastare diffamazioni contro il suo vange-
lo, soprattutto in relazione alla legge mosaica . 17

Il secondo orizzonte topografico è quello di Roma: Paolo scrive ad alcune


comunità che non ha fondato e delle quali conosce soltanto alcuni membri (i no-
mi elencati in Rm 16,3-15): è l'unico caso dell'epistolario paolino. Le sezioni
propriamente epistolografiche dell'introduzione e della conclusione (cfr. Rm 1,1-
17; Rm 15,14 -16,27) permettono di cogliere le ragioni principali per le quali egli
scrive a cristiani che non ha evangelizzato : sono in prevalenza gentili, ossia cre-
18

denti che comunque, dal punto di vista etnico, non sono israeliti; ha il vivo desi-
derio di raggiungerli, dopo la missione della colletta per i poveri della Chiesa di
Gerusalemme; desidera anticipare, proprio attraverso la lettera, la presentazione
fondamentale del suo vangelo; spera di poter essere ben accolto nelle comunità
domestiche di Roma e si augura di essere aiutato in vista della futura fatica mis-
sionaria verso la Spagna.
Il progetto di viaggio per la Spagna pone inrisaltocome la Lettera ai Romani
non sia l'ultimo testamento di Paolo , per quanto possiamo condividere che rap-
19

presenti il suo scritto più elevato dal punto di vista contenutistico (in seguito scri-
17 Con buona pace di R. Penna, Giudaismo e pseudo-paolinismo nella questione dei destinatari del-
la lettera ai Romani, in S. Cipriani, Romani, pp. 84-85, che in base a Rm 3,8 riesce a ipotizzare la presen-
za di una minoranza lassista, di matrice antipaolina, nelle comunità romane.
18 Sull'attenzione a queste parti epistolari di Romani per identificarne lefinalitàcfr. L.A. Jervis, The
Purpose of Romans. A Comparative Letter Structure Investigation (JSNT SS 55), Sheffield 1991.
19 Con buona pace di G. Bornkamm, The Letter to the Romans as Paul 's Last Will and Testament, in
K.P. Donfried, Roman Debate, pp. 16-28.
22 Sezione introduttiva
verà ancora la Lettera ai Filippesi e quella a Filemone), né i suoi progetti intendo-
no concludersi a Roma ma orientano verso la Spagna . Anche se alcuni scorgono
20

contraddizioni tra Rm 1,8-15 e Rm 15,14-32, in quanto all'inizio della lettera non


si accenna alla missione in Spagna mentre se ne parla alla fine , sarebbe stato di 21

cattivo gusto cominciare la lettera chiedendo ai destinatari, dei quali conosce sol-
tanto alcuni, che lo aiutino a raggiungere la Spagna, soprattutto se si tratta di aiu-
ti non semplicemente spirituali ma anche materiali o economici. Al contrario, il
luogo ideale nel quale, con tatto, Paolo può accennare alla sua missione verso la
Spagna è proprio quello della conclusione epistolare, ossia dopo aver consolida-
to, attraverso il corpo della lettera, la comunicazione con i destinatari.
Di non minore importanza, sulle coordinate spaziali del mittente, è Gerusa-
lemme, che rappresenta la destinazione più prossima, al punto che alcuni consi-
derano la stessa lettera indirizzata ai cristiani di Gerusalemme . Anche se questa 22

è un'esagerazione, a causa dei dati sui destinatari della lettera che porremo in evi-
denza, non si può negare che Paolo vive con ansia e preoccupazione il viaggio
verso Gerusalemme, in particolare per il significato della colletta che le sue chie-
se della Macedonia e dell'Acaia (forse anche della Galazia) hanno raccolto. Se la
colletta non sarà accettata, si rischierà di frantumare la comunione fra le chiese,
perché finirà per essere considerata come un gesto di rifiuto verso le comunità
paoline. Proprio il timore per lariuscitadelritornoa Gerusalemme è una delle ra-
gioni principali per le quali Paolo indirizza la sua lettera più densa, dal punto di
vista contenutistico, alle comunità domestiche di Roma: più volte è stato impedi-
to di raggiungerle e da anni ha alimentato questo sogno; anche se spera di poterle
raggiungere quanto prima, ha il fondato timore che insorgano nuove difficoltà
(cfr. anche i riscontri di At 20,21). Per questo, Romani rappresenta, più che mai,
una lettera concreta che relaziona interlocutori impossibilitati a comunicare diret-
tamente fra loro. Da questa pluralità di orizzonti spaziali non emerge uiia sola ma
risaltano più finalità nella redazione della lettera,riconducibilicomunque all'an-
sia missionaria di Paolo di raggiungere alcuni cristiani che, come buona parte del-
le sue comunità, hanno aderito al suo vangelo.
b) I destinatari. - Non sappiamo con precisione attraverso quali missionari il
vangelo sia giunto a Roma, ma è certo che quirisiedonoalcune comunità cristiane
più antiche, almeno dall'impero di Claudio (41-54 d.C.) . Quando Paolo scrive la
23

20Per l'importanza della Spagna fra le finalità della lettera cfr. J.A. Crafton, Paul 's Rhetorical Vision
and the Purpose of Romans: TowardaNew Understanding, in NT 32 (1990) 328.
21Cfr. W. Schmithals, Der Römerbrief als historisches Problem (StNT 9), Gütersloh 1975, p. 169, che
considera Romani sintesi di tre lettere diverse (Rm 1,1 - 11,36 + 15,8-13; Rm 12,1 - 15,14-33 + 16,21-23;
Rm 16).
22Cfr. J. Jervell, The Letter to Jerusalem, in K.P. Donfried, Roman Debate, pp. 53-64.
23Cfr. a tal proposito P. Lampe, Die stadtrömischen Christen in den ersten beiden Jahrhunderten:
Untersuchungen zur Sozialgeschichte (WUNT 2/18), Tübingen 1989 , pp. 10-35; R. Penna, Configura-
2

zione giudaico-cristiana della chiesa di Roma nel I secolo, in L'Apostolo Paolo. Studi di esegesi e teolo-
gia, Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 64-76; M. Reasoner, Roma e il cristianesimo romano, in G.F.
Hawthorne - R.P. Martin - D.G. Reid (edd.), Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Cinisello Balsamo
(MI) 1999, pp. 1345-1353.
Profilo storico e retorico-letterario 23
lettera, è stato già pronunciato e rescisso l'editto di Claudio che commina l'espul-
sione dei giudei da Roma. Così scriverà Svetonio, il segretario privato di Adriano
(69-140 ca. d.C.): «Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expu-
lit» . La sintetica espressione di Svetonio può essere tradotta in due modi:
24

1) «Espulse da Roma i giudei che costantemente creavano disturbi per le


istigazioni di Cresto »;
2) « Poiché i giudei disturbavano costantemente per le istigazioni di Cresto,
egli li espulse da Roma ».
Nel primo caso, Claudio espulse soltanto coloro che fra i giudei creavano tu-
multi a causa di Cristo e l'editto valse soltanto per alcuni giudei, semmai i capi del-
le sinagoghe ; nel secondo, il provvedimento valse per tutti i giudei della capitale.
25

Il fatto che non si accenni mai a questo editto, soprattutto negli scritti di Flavio
Giuseppe, e che, se fosse stato applicato, avrebberiguardatoun minimo di 20.000
e un massimo di 40.000 giudei, lascerebbe propendere per la prima ipotesi.
Alcune importanti ragioni orientano verso la seconda ipotesi: l'editto in
quanto taleriguardavatutti gli ebrei. Di fatto, anche Luca accennerà a quest'edit-
to: « Qui (a Corinto) trovò un giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arriva-
to poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'editto di Claudio
che allontanava da Roma tutti i giudei» (At 18,2). Nella descrizione di Svetonio
e in quella lucana si può riconoscere una certa enfasi, giacché è difficile pensare
che tutti gli ebrei furono espulsi dalla città, ma rimane il dato che l'editto, pur se
non applicato alla lettera,riguardavagli ebrei e che il Chresto di cui parla Sveto-
nio, anche se si tratta di un nome diffuso nelle iscrizioni romane dell'epoca, è la
stessa persona nella quale hanno creduto Aquila e Priscilla prima dell'incontro
con Paolo. La convergenza di queste fonti conduce a un altro fondamentale risul-
tato sul quale torneremo: i cristiani di Roma, che siano di origine ebraica o genti-
le dal punto di vista etnico, sono ritenuti da Luca e Svetonio come giudei e non
aderenti a una nuova religione.
Altrettanto problematica è la datazione dell'editto: si colloca all'inizio del-
l'impero di Claudio (41 d.C.) oppure verso il suo epilogo (49 d.C.)? Un altro
storico romano, Dione Cassio (pretore a Roma nel 193 e nel 229 d.C.), a propo-
sito dei giudei a Roma, scriverà: « Intanto i giudei erano nuovamente diventati
così numerosi che a causa della loro moltitudine sarebbe stato difficile allonta-
narli dalla città senza che ne nascesse un tumulto, e perciò Claudio non li espul-
se, ma ingiunse loro, pur permettendo che vivessero secondo il tradizionale stile
di vita, di non riunirsi. Sciolse anche le associazioni, le quali erano state reintro-
dotte da Gaio» . 26

Anche Dione parla dei tumulti causati dai numerosi ebrei della capitale ma
non accenna mai a Chresto né ai cristiani e, soprattutto, annota il divieto di as-
semblea e non l'espulsione giudaica. In seguito, lo storico cristiano Orosio daterà
24Svetonio, Claudius 25,4.
25Così W. Lane, Social Perspectives on Roman Christianity During the Formative Yearsfrom Nero to
Nerva: Romans, Hebrews, lClement, in K.P. Donfried - P. Richardson, Judaism and Christianity, pp. 204-205.
26Dione Cassio, Historia romana 60,6,6.
24 Sezione introduttiva
l'espulsione dei giudei sotto Claudio durante il nono anno del suo regno (25 gen-
naio 49 - 24 gennaio 50 d.C.) . 27

Il confronto fra le fonti a disposizione lascerebbe ipotizzare due provvedi-


menti diversi: l'uno all'inizio dell'impero di Claudio, contro le assemblee dei giu-
dei (Dione Cassio), l'altro successivo con la loro espulsione (Luca, Svetonio) . 28

Tale ipotesi potrebbe essere tacciata, a buon diritto, di concordismo: un tentativo


per mettere d'accordo gli scrittori chiamati in causa. Fermo restando che abbiamo
pochi dati a disposizione, è preferibile parlare di un unico provvedimento e che sia
collocabile nel 49 e non nel 41 d.C. , soprattutto a causa dell'annotazione lucana,
29

secondo la quale Aquila e Priscilla sono arrivati da poco dall'Italia, in seguito al-
l'editto di Claudio . Paolo non può averli incontrati subito dopo il 41, ma appun-
30

to soltanto dopo il 49 d.C., ossia in occasione del suo arrivo nella capitale
dell'Acaia. Naturalmente non dobbiamo pensare che l'editto di Claudio abbia as-
sunto le stesse proporzioni di quelle durante la seconda guerra mondiale. Se nelle
fonti parallele non si accenna a un editto che avrebbe chiamato in causa un nume-
ro così elevato di ebrei vuol dire che la sua forza non fu molto coercitiva, anche se
toccò alcuni, come Aquila e Priscilla.
Non possiamo stabilire con certezza quanto l'editto di Claudio abbia condi-
zionato lo sviluppo delle comunità cristiane di Roma, determinando una riduzio-
ne notevole della presenza ebraica a favore di quella etnico-cristiana; né possia-
mo provare che durante il primo periodo della pace neroniana gli ebrei tornati a
Roma abbiano trovato le opposizioni dei gentilo-cristiani. Anche se tali ricostru-
zioni sono diffuse , vanno considerate con il beneficio dell'inventario perché si
31

tratta comunque di ipotesi . Tuttavia, le attestazioni sull'editto permettono alme-


32

no di riconoscere la presenza cristiana nella capitale già durante l'impero di


Claudio e che non si può ancora parlare di una nuova religione che prende le di-
stanze dal giudaismo bensì di gentili che hanno aderito al cristianesimo proprio
attraverso il giudaismo, anzi, ritenendo di appartenere, in tal modo, a una delle
forme di giudaismo.
Altrettanto importante, per il contesto dei destinatari della lettera, è il mal-
contento del popolo romano contro gli appaltatori delle imposte, al punto che
Nerone (58 d.C.) aveva pensato di abolire quelle indirette. A detta di Tacito, l'im-
peratore fu dissuaso dal senato romano a causa della notevole crisi che tale prov-
vedimento avrebbe causato per l'erario dell'impero . Non sappiamo se nell'esor-
33

27Orosio, Historiae adversus paganos 7,6,15-16: « Anno eiusdem nono expulsos per Claudium Urbe
Judaeos Josephus refert».
28Così J.D.G. Dunn, Romans (WBC 38A), Dallas 1988,1, p. xlix; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 64.
29Così anche B. Byrne, Romans, p. 11; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 64; D.J. Moo, Romans, p. 4; R.H.
Bell, Provoked to Jealousy. The Origin and Purpose of Jealousy Motif in Romans 9-11 (WUNT 2/62),
Tübingen 1994, pp. 67-68.
30Così anche G. Rossé, Atti degli Apostoli, Commento esegetico e teologico, Roma 1998, p. 655.
31Cfr. J.C. Walters, Romans, Jews, and Christians: The Impact ofthe Romans on Jewish/Christian
Relation in First-Century Rome, in K.R Donfried - R Richardson, Judaism and Christianity, pp. 177-178.
32Cfr. J.N. Vorster, The Context ofthe Letter to the Romans: A Critique on the Present State ofResearch,
in Neot 28 (1994) 128-130, anche se forse l'autore esagera nel minimizzare alcuni dati sull'editto di Claudio.
33Cfr. Tacito, Annales 13,50,1-2; anche Svetonio, Nero 6,10.
Profilo storico e retorico-letterario 25
tazione a pagare le tasse, in Rm 13,1-7, Paolo siriferisseesplicitamente a questa
turbolenta situazione nella popolazione romana ma è un fatto che tale raccoman-
dazione èrivoltasoltanto ai cristiani di Roma mentre non trova altririscontrinel-
l'epistolario paolino . 34

L'inclusione del cristianesimo delle origini nelle variegate forme di giudai-


smo o, come preferiscono alcuni, di giudaismi, esige che quanto si sia riuscito a
stabilire sugli ebrei di Roma valga anche per i cristiani, almeno prima dell'incen-
dio della capitale (luglio del 64 d.C.) . Le fonti letterarie greco-romane attestano
35

la presenza ebraica a Roma sin dal secolo II a.C., anche se non sappiamo con cer-
tezza quando cominciarono a stabilirsi nella capitale . Nella sua De legatione ad
36

Gaium, Filone Alessandrino (30 a.C. - 45 d.C. ca.) ci informa che uno degl'inse-
diamenti ebraici più sviluppati a Roma è collocato nella zona di Trastevere e che
gli ebrei si erano abbastanza emancipati . In verità, le fonti epigrafiche dimostra-
37

no che gli ebrei dell'epoca imperiale non vivevano in un ghetto né formavano


un'unica comunità ma erano sparsi in diverse zone della città. Abbiamo attesta-
zioni su almeno dodici o tredici comunità o sinagoghe giudaiche . Dall'elenco si 38

comprende che probabilmente le sinagoghe più antiche sono quella degli « ebrei »
e quella dei «vernaculi» (ebrei nati nella capitale). Alcune comunità prendono
nome da illustri benefattori come Augusto, M. Vipsanio Agrippa (62-12 a.C.), e
Volumno (legato in Siria nell'8 a.C.), altre assumono la denominazione delle lo-
calità di appartenenza, come quella dei campensi (Campo Marzio), dei suburensi
(la Suburra, il quartiere degradato collocato tra il Quirinale, il Viminale e
l'Esquilino), e dei calcarensi (forse la zona calcarea presso porta Collina). In una
satira, Giovenale c'informa sull'altro insediamento popolare di porta Capena . 39

Pertanto sono diversi i quartieri romani che attestano la presenza ebraica in epoca
imperiale; per lo più si tratta di zone malfamate o popolari, a dimostrazione delle
loro umili origini.
34Con buona pace di J.N. Vorster, Context, p. 129, che tende a minimizzare quest'ulteriore corrispon-
denza tra Romani e il contesto sociale della città. Per la valorizzazione di tale situazione cfr. anche C.C.
Caragounis, From Obscurity to Prominence: The Development of the Roman Church Between Romans and
1 Clement, in K.P. Donfried - P. Richardson, Judaism and Christianity, p. 261; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 68.
35 Cfr. Tacito, Annales 15,44. Così anche R. Brändle-Ekkehard - W. Stegemann, Die Entstehung der
ersten « christlichen Gemeinde » Roms im Kontext der jüdischen Gemeinden, in NTS 42 (1996) 1-11; M.D.
Nanos, The Jewish Context of the Gentile Audience in Paul 's Letter to the Romans, in CBQ 61 (1999) 283-
304, anche se questi finisce con l'ignorare qualsiasi elemento caratteristico delle diverse comunità di Roma.
36Per un'analisi dettagliata delle fonti letterarie ed epigrafiche sui giudei di Roma cfr. R. Penna, Gli
ebrei a Roma al tempo dell'apostolo Paolo, in L'apostolo Paolo, pp. 33-63; P. Richardson, Augustan-Era
Synagogues in Rome, in K.P. Donfried - P. Richardson, Judaism and Christianity, pp. 17-29.
37 Cfr. Legatione 155. Per gli altri riferimenti ai giudei nella letteratura greco-romana cfr. Valerio
Massimo (31 d.C. ca.), Facta et dieta memorabilia 1,3,3; Cicerone, Pro Fiacco 66; Orazio, Satirae 1,4,138-
144; 5,97,104; 9,16-73; Ovidio, Ars amatoria 1,76; Persio Fiacco, Satirae 5,176-184; Petronio, Satirìcon
68; Quintiliano, Institutio oratoria 3,7,21; Marziale, Epigrammaton 7,30; 11,94; 12,57; Giovenale, Satirae
3,10-16; 6,542-547; 14,96-106; Flavio Giuseppe, Ani giud. 17,299-303; 18,81-84.
38 Quella propriamente detta degli ebrei, dei vernaculi, degli augustesiani, degli agrippensi, dei vo-
lumnensi, dei campensi, dei suburensi, dei calcarensi, di Elea, dei tripolitani, dei seceniani e dell'Arca del
Libano. Non sono chiare le attestazioni su una sinagoga che mutua il nome da Erode o da Rodi. Forse è be-
ne precisare che il termine « sinagoga » non indica un edificio bensì un gruppo di ebrei radunati per il culto.
39Cfr. Satirae 3,11-14.
26 Sezione introduttiva
La natura semplice e dimessa delle catacombe e delle iscrizioni ebraiche, la
quasi totale assenza di sarcofagi e di dipinti confermano l'origine umile degli ebrei
romani: in prevalenza si tratta di schiavi o di liberti, tradotti tra il secolo II a.C. e il
secolo I d.C. (cfr. in particolare la deportazione nel 63 a.C., dopo l'occupazione di
Gerusalemme con Pompeo) . Questaricostruzionecontrasta con il luogo comune
40

chericonducele origini degli ebrei romani allo scambio commerciale: non abbia-
mo attestazioni di questo tipo, come invece per le comunità di Ostia e di Pozzuoli.
La conformazione variegata delle comunità ebraiche di Roma è convalidata dalla
mancanza di una sinagoga centrale dalla quale dipendessero le altre, come invece
per la vicina sinagoga di Ostia. Per questo, non si può parlare di sinagoghe com-
poste secondo una struttura gerarchica ma di comunità relazionate come collegio,
o thiasoi autonomi, gestiti da diversi responsabili . Le iscrizioni romane si riferi-
41

scono soprattutto alla figura del gherusiarca, il presidente degli anziani, agli ar-
conti (il comitato esecutivo della gherusia), all'arconte delegato per le tasse, al-
l'amministratore dei beni, al grammateus (il dottore della legge con funzioni di
cancelleria), al protettore legale, all'arcisinagogo (il presidente delle assemblee re-
ligiose che si occupa anche della gestione della sinagoga). Dalle iscrizioni romane
risulta che la lingua parlata dalle comunità giudaiche è il greco della koiné (su 534
iscrizioni, 405 sono in greco), mentre è meno diffuso il latino (123 iscrizioni); ra-
ro è l'uso dell'ebraico (3 iscrizioni) e dell'aramaico (1 iscrizione).
Se, come sembra, al tempo di Paolo, le comunità cristiane non si distinguo-
no da quelle giudaiche, quanto abbiamo sostenuto per gli ebrei vale anche per lo-
ro, a prescindere dalla loro conformazione mista, in cui i gentili sono più nume-
rosi dei giudei, al punto che Paolo considera i destinatari della lettera come genti-
li (cfr. Rm 1,5-6.13; 11,13). L'elenco dei nomi salutati in Rm 16,3-15 lascia
emergere almeno cinque comunità domestiche: i nomi appartengono in prevalen-
za a schiavi o liberti . Alcuni hanno intravisto nell'assenza del sostantivo ekklésia
42

(Chiesa), nel corpo della lettera (cfr. soltanto in Rm 16,1.4.5.16 e non per i desti-
natari), un indizio che conferma la struttura frammentaria delle comunità roma-
ne . In verità, poiché neppure nel prescritto di Fil 1,1-2 è utilizzato questo termi-
43

ne, non si può trarre troppo dal silenzio. Piuttosto, rimane vero che alla variegata
composizione delle sinagoghe romane corrisponde quella altrettanto composita
delle comunità cristiane.
Pertanto i destinatari della lettera hanno aderito, negli anni 40 d.C., al mes-
saggio cristiano attraverso gli ebrei della capitale, pensando di entrare a far parte
di una forma di giudaismo che considera Gesù Cristo come il messia. Con questa
ridefinizione delle comunità cristiane delle origini non vogliamo sottovalutare il
fenomeno del cristianesimo ma evitare concezioni diffuse che lo raffigurano co-
Cfr. le notizie di Flavio Giuseppe, Ant. giud. 14,4,5; Guer. giud. 1,7,7.
40

Così anche P. Richardson, Early Synagogues as Collegià in the Diaspora and Palestine, in J.S.
41

Kloppenborg - S.G. Wilson (edd.), Voluntary Associations in theAncient World, London 1996, pp. 90-109.
Sulle origini prevalentemente umili delle comunità ebraico-cristiane di Roma cfr. J.S. Jeffers,
42

Jewish and Christian Families in First-Century Rome, in K.P. Donfried - P. Richardson, Judaism and
Christianity, pp. 138-150.
Cfr. R.H. Bell, Jealousy, p. 71; J.D.G. Dunn, Romans, I, pp. LII-LIII.
43
Profilo storico e retorico-letterario 27
me una religione sorta dal nulla e già adulta, quando invece si tratta di una cor-
rente interna al comune giudaismo che soltanto dopo il 70 d.C. comincia a esse-
re definita come « cristianesimo » . 44

Non sappiamo come di fatto i gentili abbiano aderito alla forma cristiana di
giudaismo, anche se molti fannoriferimentoai timorati di Dio e ai proseliti , ma 45

è un dato che risalta dalla Lettera ai Romani se Paolo li considera come «cono-
scitori della Legge » mosaica (cfr. Rm 7,1) e se in Rm 14,1 -15,13 i forti e i debo-
li della comunità, senza ulteriori equiparazioni tra giudei e gentili, si trovano in
conflitto sulle questioni alimentari giudaiche, in particolare sul puro e sull'impu-
ro. Anche se si tratta di gentili, Paolo sirivolgeai cristiani di Roma citando l'AT
secondo la versione della LXX e nel corso della lettera assistiamo a serrate argo-
mentazioni midrashiche (cfr. Rm 4,1-25; 9,6-33) rivolte a destinatari già formati
nella conoscenza delle Scritture.
La conseguenza principale che emerge da talericostruzionesulle origini del-
le comunità cristiane di Romariguardal'esclusione di qualsiasi espressione o pro-
spettiva antisemitica nella lettera inviata da Paolo: abbiamo a che fare con un dia-
logo intragiudaico e non extra o antigiudaico . In definitiva, sulla conformazione
46

delle comunità cristiane di Roma resta valido quanto l'Ambrosiaster scriveva nel
prologo del suo commento (363-384 d.C.): «Si sa dunque che ai tempi dell'apo-
stolo alcuni giudei, poiché si trovavano soggetti all'impero romano, abitavano a
Roma. E, fra costoro, quelli che avevano creduto insegnarono ai Romani a conser-
vare la legge pur professando Cristo... » 47

c) Il logos della lettera. - Da quanto abbiamo sino a ora dimostrato risalta


che la Lettera ai Romani non è un trattato astratto di teologia né una summa teo-
logica ma una lettera concreta inviata a reali destinatari intorno alla metà degli
anni 50 d.C., in piena epoca neroniana. Nel corso del commentario si potrà nota-
re che non mancano difficoltà di natura testuale, come la collocazione di Rm
16,1-16 (le raccomandazioni per Febe e i tanti saluti ad alcuni della comunità di
Roma), di Rm 16,17-20 (la raccomandazione contro i sobillatori della dottrina) e
di Rm 16,25-27 (la dossologia conclusiva). Nonostante permangano alcune diffi-
coltà, preferiamo considerare anche questi paragrafi come integranti della lettera
originariamente collocati nella parte conclusiva.
Al largo consenso fra gli studiosi sulla redazionalità della Lettera ai Romani,
così come è trasmessa dalle edizioni critiche , corrisponde il consenso sulla sua
48

44 Cfr. i riferimenti espliciti ai cristiani in At 11,26; Tacito, Annales 15,44; Svetonio, Nero 16,2.
45 Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 66; DJ. Moo, Romans, p. 9.
46 Per questo non ha nessuna consistenza il « nuovo approccio » proposto da W. Dabourne, Purpose
and Cause in Pauline Exegesis. Romans 1.16 - 4.25 and a New Approach to the Letters (SNTS MS 104),
Cambridge 1999, pp. 29,117, secondo il quale la problematica principale di Romani sarebbe rappresenta-
ta dall'adesione dei gentili al giudaismo.
47 Cfr. H J. Vogels (ed.), Ambrosiastri qui dicitur commentarius in epistulas Pauli, Ad Romanos
(CSEL81), p. 1.
48 Cfr. le edizioni critiche di Eb. Nestle - Er. Nestle, Novum Testamentum Graece, Stuttgart 1993 27

(d'ora in poi N-A ); K. Aland - M. Metzger - C.M. Martini - B.M. Metzger - A. Wikgren, The Greek New
27

Testamene Stuttgart 1993 (d'ora in poi GNT ).


4 4
28 Sezione introduttiva
unitarietà. Non ci sono motivazioni valide per sostenere che Romani sia una rac-
colta di due o tre lettere scritte in precedenza da Paolo, né che alcune parti siano
state interpolate da un redattore successivo. Le tensioni che alcuniriscontranoso-
noriconducibili,come vedremo, alle complessefinalitàargomentative o retoriche
dello scritto. Queste ipotesi appartengono ormai al museo interpretativo di Ro-
mani e non trovano alcuna consistenza, per questo è inutile attardarsi più di tanto
su di esse . Piuttosto, nella definizione del logos o della comunicazione che pone
49

in relazione il mittente e i destinatari, è importante soffermarsi sulle diverse fonti


e sui generi che Paolo utilizza nella dettatura della lettera. Quest'analisi permet-
terà di entrare nei processi argomentativi di Romani e, per mezzo di essi, di co-
glierne la struttura e il messaggio.

3. L'inventario
Quando si ha a che fare con una fonte letteraria è importante, prima di tutto,
riconoscere ciò che secondo il linguaggio della retorica classica si chiama inven-
tio e che corrisponde a una sorta di inventario. Questo vale anche per Romani in
cui, senza nulla togliere alla sua dimensione unitaria o sincronica, è necessario
prima di tutto stabilire il materiale utilizzato da Paolo.
a) Il Primo Testamento. - In nessuna lettera come in Romani Paoloricorreal-
l'uso abbondante dell'AT . In tale utilizzazione possiamo distinguere le citazioni
50

dirette, quelle indirette o implicite e le allusioni ad alcuni significativi personaggi.


Innanzi tutto, in Romani sonoriconoscibili58 citazioni dirette dall'AT ; e in pre- 51

valenza Paolo utilizza la versione greca della LXX, anche se in diversi casi si di-
scosta da essa, oltre che dal Testo Masoretico. Da un punto di vista quantitativo,
l'autore più citato è Isaia, con ben 16 citazioni dirette ; seguono i Salmi con 13 ci-
52

tazioni , Genesi con 9 citazioni , Deuteronomio con 7 citazioni , Esodo e Osea


53 54 55

49 Con buona pace di W.O. Walker Jr., Romans 1.18 - 2.29: A non-pauline Interpolation, in NTS 25
(1999) 533-552, che ha recentemente sostenuto l'origine antipaolina e marcionita di Rm 1,18 - 2,29 per-
ché nonrientrerebbenel vocabolario e nel pensiero generale di Paolo.
50 Cfr. in particolare R.B. Hays, Intertextual Echo in Romans, in Echoes ofScripture in the Letters of
Paul, New Haven - London 1989, pp. 34-83; H. Hubner, Vetus Testamentum in Novo, Corpus Paulinum,
II, Gòttingen 1997.
51 Per le citazioni dirette dell'AT in Romani cfr. A. Pitta, Sinossi paolina, Cinisello Balsamo (MI)
1994, pp. 68-98; C.D. Stanley, Paul and the Language ofScripture. Citation Technique in the Epistles and
Contemporary Literature (SNTS MS 74), Cambridge 1992, pp. 83-184.
52 Cfr. Is 1,9 in Rm 9,29; Is 8,14 in Rm 9,33b; Is 10,22-23 in Rm 9,27-28; Is 11,10 in Rm 15,12; Is
27,9 in Rm 11,27; Is 28,16 in Rm 10,11; Is 29,10 in Rm 11,8; Is 29,16 in Rm 9,20; Is 40,13 in Rm 11,34;
Is 45,23 in Rm 14,11; Is 52,5 in Rm 2,24; Is 52,7 in Rm 10,15; Is 52,21 in Rm 15,21; Is 59,7-8 in Rm 3,15-
17; Is 59,20-21 in Rm 11,26; Is 65,1-2 in Rm 10,20-21.
53 Cfr. Sai 5,10 in Rm 3,13; Sai 9,28 in Rm 3,14; Sai 13,1-3 in Rm 3,10-12; Sai 17,50 in Rm 15,9;
Sai 18,5 in Rm 10,18; Sai 31,1-2 in Rm 4,6-8; Sai 35,2 in Rm 3,18; Sai 43,23 in Rm 8,36; Sai 50,6 in Rm
3,4b; Sai 68,10 in Rm 15,3; Sai 68,23-24 in Rm 11,9-10; Sai 116,1 in Rm 15,11; Sai 140,4 in Rm 3,13b.
54 Cfr. Gn 15,6 in Rm 4,3.9.22; Gn 17,5 in Rm 4,17.18.18; Gn 18,14 in Rm 9,9; Gn 21,12 in Rm 9,7;
Gn 25,23 in Rm 9,12.
55 Cfr. Dt 5,17-21 in Rm 13,9; Dt 29,3 in Rm 11,8; Dt 30,12 in Rm 10,6; Dt 30,14 in Rm 10,8; Dt
32,21 in Rm 10,19; Dt 32,35 in Rm 12,19; Dt 32,43 in Rm 15,10.
Profilo storico e retorico-letterario 29
con 3 citazioni , Levitico e IRe con 2 citazioni ciascuno , Proverbi, Abacuc e
56 57

Malachia con 1 citazione ciascuno . Tuttavia, ciò che maggiormenterisaltaè che,


58

se prescindiamo da Rm 7,7 e da 8,36, le citazioni dirette dell'AT trovano la loro


maggiore attestazione in Rm 1,17 - 4,25 e soprattutto in Rm 9,1 -11,36, mentre in
Rm 5,1 - 8,39 sono praticamente assenti. Questo dato sarà fondamentale per la de-
terminazione delle sezioni della lettera. Un altro significativorisultatoriguardal'u-
so di citazioni dirette in tutta la lettera, comprese la sezione esortativa di Rm 12,1 -
15,13 e quella conclusiva di Rm 15,14-33, a dimostrazione che, almeno da questo
punto di vista, le « sante Scritture » (cfr. Rm 1,2) rappresentano la fonte « del nostro
insegnamento e della nostra esortazione» (cfr. Rm 15,4-5), contro quanti tendono
a dare pocorilievoa Rm 12-15, quasi esclusivamente a favore di Rm 1-11.
Per quantoriguardale citazioni indirette, la quantizzazione e l'identificazio-
ne sono soggette a maggiori fluttuazioni, per cui è difficile stabilirne le propor-
zioni; in questa sede ci limitiamo a porre l'accento su quelle più significative. In
Rm 3,20 Paolo si riferisce chiaramente al Sai 143,2, citato nello stesso modo in
Gal 2,16: «...Non sarà giustificata nessuna carne davanti a lui». In Rm 8,32 l'e-
spressione « Egli che non harisparmiatoil proprio Figlio » è una chiara evocazio-
ne del sacrificio d'Isacco (cfr. Gn 22,12.16) . 59

Ai riferimenti indiretti appartengono anche gli accenni ad alcuni personaggi


dell'AT. Fra questi campeggiano Abramo, al quale Paolo dedica Rm 4, e Adamo,
posto a confronto con Cristo, in Rm 5,12-21 (cfr. le allusioni in Rm 7,7-13 e in Rm
8,21-22). Invece, sono unici e secondari ! riferimenti a Isacco, Rebecca (cfr. Gn
25,19-28 in Rm 9,10) e Davide (cfr. Rm 1,3; 4,6 e 11,9 citato soltanto per nome).
Uno sguardo globale sull'uso del Primo Testamento permette di cogliere co-
me le «sante Scritture» rappresentino l'autorità principale sulla quale Paolo co-
struisce le proprie argomentazioni. Spesso egli compie appropriazioni che possia-
mo definire indebite, a causa dell'orizzonte evangelico che gli sta principalmente
a cuore. Di fatto, non si riferisce mai all'AT per semplice erudizione estetica ma
sempre per dimostrare la consistenza del proprio vangelo che trova in Cristo e
nell'azione salvifica di Dio il suo punto di arrivo. A volte, per dare maggiore au-
torevolezza alle dimostrazioni, inserisce alcune catene di citazioni tratte dall'AT,
senza aggiungere nessuna glossa, se non alcune formule introduttive (cfr. Rm
3,10-18; 9,25-29; 10,18-21; 11,8-10), come a dire che, se le Scritture rappresen-
tano il « grande codice » che lo accomuna ai destinatari, vanno ascoltate per quan-
to preannunciano rispetto al suo vangelo. Così, se vi sono casi in cui egli parte da
una citazione per fondare una o più dimostrazioni (cfr. Ab 2,4rispettoa Rm 1,18
- 11,36), in altri esse si trovano alla fine per confermare quanto ha dimostrato in
precedenza (cfr. le catene di citazioni in Rm 3,10-18; 9,25-29; 10,18-21; 15,9-12).
56Cfr. Es 9,16 in Rm 9,17; Es 20,17 in Rm 7,7; Es 33,19 in Rm 9,15. Cfr. Os 2,1 in Rm 9,26.28; Os
2,25 in Rm 9,25.
57Cfr. Lv 18,5 in Rm 10,5 e Lv 19,18 in Rm 13,9b; IRe 19,10 in Rm ll,2b-3; 19,18 in Rm 11,4.
58Cfr. Pr 25,21 in Rm 12,20; Ab 2,4 in Rm 1,17 e MI 1,2-3 in Rm 9,13.
59Cfr. anche i riferimenti al Sai 34,15 in Rm 12,18; al Sai 115,2 in Rm 3,4 e a Gb 41,3 in Rm 11,35.
Per una trattazione più dettagliata deiriferimentiindiretti rimandiamo all'analisi dei singoli versi nel no-
stro commento.
30 Sezione introduttiva
b) Il materiale prepaolino. - Un versante critico sull'epistolario paolino che
trova un periodo di crisi è quello dei frammenti prepaolini, provenienti dalla tra-
dizione ecclesiale primitiva : se in passato si è assistito a un abuso di formule pre-
60

paoline, oggi si procede con maggiore cautela. Dalla lettura del nostro commen-
tario si potrannoriconoscerecome prepaoline soltanto le formule cristologiche di
Rm 1,3-4, di Rm 3,25 e Yipsissimum verbum Jesu di Rm 8,15b: Abba, ho pater.
Abbiamo ridotto al minimo queste formule in Romani poiché riteniamo che non
basti identificare alcune o molte variazioni di linguaggio e di stilerispettoal con-
testo immediato per ipotizzare la presenza di materiale prepaolino ma che siano
necessarie significative interruzioni argomentative che rivelano l'inserimento di
glosse mutuate dalle tradizioni della comunità primitiva . Circa l'origine di que-
61

ste formule, sembra che sianoriconducibiliall'ambiente siro-palestinese (Dama-


sco, Gerusalemme e Antiochia di Siria) e che riflettano principalmente quanto
Paolo abbia mutuato su Gesù Cristo . 62

c) Il materiale pre-Romani. - Se la Lettera ai Romani si colloca verso il pe-


riodo conclusivo dell'epistolario paolino, è lecito, se non opportuno, pensare che
in essa Paoloriversianche materiale utilizzato nelle precedenti lettere (lTessaloni-
cesi, l-2Corinzi, Galati). Così non è difficilericonoscereche in Rm 8,15-17 Paolo
riprenda, con ampliamenti, quanto ha già scritto in Gal 4,5-7, e che in Rm 13,8-10
sviluppi la tematica sull'adempimento della Legge mosaica, trattata nel contesto
esortativo analogo di Gal 5,14. Si potrà notare come in Rm 12,3-8 si assista a un
adattamento e a una sintesi di ICor 12,4-27; e in Rm 14,1 -15,13 l'esortazione ri-
volta ai forti e ai deboli delle comunità di Roma è molto vicina a quella di ICor
8,1-13; 10,23-33, anche se le situazioni e gl'interlocutori sono diversi.
Con questa parte del materiale presente in Romani non vorremmo far pensa-
re che ci sia stata una operazione del tipo tagliare-incollare, come nelle moderne
operazioni informatiche, ma evidenziare che dietro la sua composizione c'è una
complessa operazione che dimostra come non ci troviamo di fronte a una lettera
scritta di getto, ma a uno scritto ben pensato e sedimentato che pone in discussio-
ne l'idealistica considerazione, proposta da Deissmann, sull'epistolario paolino
inteso come un insieme di lettere e non di epistole . Le lettere di Paolo sono im-
63

mediate e contestuali, ma non per questo senza letteraturizzazione o senza atten-


zione alla composizione argomentativa che, al contrario, Paolo pone in atto con
grande originalità.

60Sul materiale prepaolino della Lettera ai Romani cfr. R. Penna,1 ritratti originali di Gesù Cristo. Inizi
e sviluppi della cristologia neotestamentaria, II, Gli sviluppi, Cinisello Balsamo (MI) 1999, pp. 118-120.
61 Si vedrà che siamo reticenti nel riconoscere Rm 4,25 e 8,3 come prepaolini.
62 Sulle relazioni tra Paolo e il giudaismo siro-palestinese cfr. M. Hengel - A.M. Schwemer, Paul
Between Damascus and Antioch. The Unknown Years, London 1997.
63 Cfr. A. Deissmann, Licht vom Osten, Tübingen 1923 , pp. 194-195. Cfr. le contestazioni teoriche
4

e pratiche sostenute da D.E. Aune, The New Testament in Its Literary Environment, Philadelphia 1987, p.
160; J.T. Reed, Paul's Letters: A Question of Genre, in S.E. Porter (ed.), Rhetoric and the New Testament,
pp. 293-295.
Profilo storico e retorico-letterario 31
d) I generi argomentativi. - Forse, su Romani, alla ricchezza dei contenuti si
accompagnano molte difficoltà interpretative, poiché Paolo non utilizza uno ma
più registri argomentativi, anche nella stessa sezione o nello stesso paragrafo.
Innanzi tutto, in questa lettera, è riconoscibile il diffuso uso della diatriba, ossia
del dialogo che Paolo intesse con un interlocutore fittizio, attraverso domande e ri-
sposte brevi che in seconda battuta sonoripresecon più logicità . In questa forma 64

argomentativa è importante riconoscere che il mittente non sta rivolgendosi im-


mediatamente a un interlocutore reale ma ideale, anche se le conseguenze del mes-
saggio hanno inevitabili ricadute sui destinatari della lettera.
Spesso, in connessione con lo stile diatribico, Paolo ricorre ad argomenta-
zioni midrashiche, ossia a dimostrazioni fondate sull'interpretazione personaliz-
zata dell'AT: così è soprattutto per Rm 9,14-29 e 11,1-12, ossia in una sezione
(Rm 9,1 - 11,36) in cui lo stile diatribico è funzionale alla dimostrazione midra-
shica. Al midrash è riconducibile anche l'esegesi di Gen 15,6 in Rm 4. A volte,
lo stile diatribico è posto in funzione di generi più complessi, come della parodia
in Rm 2,17-24 e del tragico in Rm 7,7-25.
In Romani non mancano i cataloghi dei vizi (cfr. Rm 1,26-31) e delle virtù
(cfr. Rm 12,9-16; 14,17), attestati in molta letteratura ellenistica, né il catalogo pe-
ristatico o delle difficoltà utilizzato in Rm 8,35.38-39 e quello dei carismi in Rm
12,6-8. Alla gran parte di paragrafi in prosa si alternano pericopi inniche o poeti-
che, come quelle di Rm 8,29-30, Rm 11,33-36 e Rm 16,25-27, in cui lo stile e i
contenuti diventano particolarmente elevati; e spesso, come conclusioni di para-
grafi, sono scelte formule dossologicherivoltea Dio per mezzo di Cristo . Da que- 65

ste esemplificazioni si comprende come Paolo si serva di più registri argomentati-


vi che esigono dal lettore e da chi interpreta una duttilità notevole di adattamento,
altrimenti si rischia di smarrire il progresso e le finalità delle sue dimostrazioni.

4. La disposizione
L'analisi retorico-letteraria richiede che dall'inventario si passi alla disposi-
zione o, secondo il linguaggio della semiotica, alla struttura di un testo. A riguar-
do, ci sembra che non si sia conferita sufficiente attenzione proprio all'interrela-
zione tra epistolografia e retorica, presente nella Lettera ai Romani, ma che si sia
spesso caduti in forme d'imposizione strutturali. Poiché abbiamo a che fare prima
di tutto con una lettera e non con un discorso, anche se si tratta di una lettera scrit-
ta per essere letta e quindi orientata alla verbalizzazione, è benericonoscereil mo-
dello epistolografico paolino utilizzato, altrimenti si rischia di snaturare la forma

64Cfr. lo stile diatribico in Rm 2,1-11.17-24; 3,1-9.27-31; 6,1 - 7,6; 7,7-13. Sull'uso della diatriba in
Romani cfr. in particolare i contributi di S.K. Stowers, The Diatribe and Paul 's Letter to the Romans (SBL
DS 57), Ann Arbor (MI) 1981; Id., A Rereading of Romans, Justice, Jews, and Gentiles, New Haven -
London 1994.
65Cfr. le formule dossologiche finali di Rm 1,25; 2,16; 5,11.21; 6,11.23; 7,25; 8,39; 9,5; 11,36;
15,6.13.33; 16,20.27.
32 Sezione introduttiva
di Romani. La convergenza di epistolografia e retorica paolina apre alla seguente
disposizione della lettera:
Introduzione epistolare (Rm 1,1-17)
Il prescritto (1,1-7)
Ringraziamenti-esordio (1,8-15)
La tesi generale (1,16-17)
Il corpo epistolare (Rm 1,18 -15,13)
A. Sezione dimostrativa (1,18 -11,36)
La rivelazione dell'ira e della giustizia divina (Rm 1,18 - 4,25)
La rivelazione dell'ira divina (Rm 1,18 - 3,20)
La narrazione (1,18-32)
Le prove: l'imparzialità divina (2,1-11)
I gentili, i giudei e la Legge (2,12-16)
La parodia (2,17-24)
I giudei, i gentili e la circoncisione (2,25-29)
II vantaggio del giudeo (3,1-8)
L'universalità della colpa (3,9-18)
La perorazione dell'accusa (3,19-20)
La manifestazione della giustizia divina (3,21 - 4,25)
La giustificazione per mezzo della fede in Cristo (3,21-26)
L'esclusione del vanto (3,27-31)
L'esempio di Abramo (4,1 -25)
La fede di Abramo (4,1-8)
L'accreditamento (4,9-12)
La promessa e l'eredità (4,13-22)
La perorazione (4,23-25)
Il paradossale vanto cristiano (5,1-8,39)
Dalla giustificazione alla pace (5,1-11)
Il confronto tra Gesù Cristo e Adamo (5,12-21)
L'incompatibilità tra la grazia e il peccato (6,1-14)
La signoria della grazia (6,15-23)
L'appartenenza a Cristo e non alla Legge (7,1-6)
La tragicità dell'io e della Legge (7,7-25)
La tragicità della Legge (7,7-13)
La tragicità dell'io (7,14-20)
L'epilogo tragico (7,21-25)
La legge dello Spirito (8,1-13)
La figliolanza nello Spirito (8,14-17)
Sofferenze e gloria (8,18-30)
L'amore di Dio e di Cristo (8,31-39)
La fedeltà della Parola di Dio (9,1 -11,36)
Una grande tristezza (9,1-5)
Non tutto Israele è Israele (9,6-29)
Profilo storico e retorico-letterario 33
Israele e l'elezione (9,6-13)
La giustizia e la misericordia divina (9,14-18)
Come un vasaio (9,19-23)
La chiamata dei giudei e dei gentili (9,24-29)
Cristo, il fine della Legge (9,30 - 10,21)
Israele e la giustizia divina (9,30 - 10,4)
La giustizia della fede (10,5-13)
La Parola di Cristo (10,14-17) -
Israele è inescusabile (10,18-21)
Dio non ha rigettato il suo popolo (11,1-32)
Il resto (11,1-10)
Caduta e gelosia (11,11-16)
L'ulivo e l'olivastro (11,17-24)
Il mistero (11,25-36)
B. La paraclesi (12,1 -15,13)
Il culto razionale (12,1-13,14)
La tesi (12,1-2)
Moderazione in comunità (12,3-8)
L'amore come ideale del bello e del buono (12,9-21)
Sottomissione alle autorità civili (13,1-7)
L'amore vicendevole (13,8-10)
L'attesa del giorno (13,11-14)
La reciproca accoglienza tra i forti e i deboli (14,1 -15,13)
L'accoglienza dei deboli (14,1-12)
Contro lo scandalo del fratello (14,13-23)
Cristo, modello per i forti (15,1-6)
La perorazione sulla reciproca accoglienza (15,7-13)
Il poscritto epistolare (Rm 15,14 -16,27)
Il vanto dell'evangelizzazione (15,14-21)
I prossimi progetti di viaggio (15,22-33)
Raccomandazioni e saluti finali (16,1-16)
Ammonizione e benedizione finale ( 16,17-20)
Saluti dalla comunità di partenza (16,21-23)
Dossologia finale (16,25-27)
Non è questo il luogo per dimostrare la fondatezza della nostra struttura o di-
sposizione della lettera: per le diverse interpretazioni e motivazioni rimandiamo
alle singole micro- e macrounità del nostro commento. Qui ci preme evidenziare
la convergenza tra epistolografia e retorica: di fatto si può notare che le parti pro-
priamente epistolari della lettera, come il prescritto (Rm 1,1-7) e il poscritto (Rm
15,14 - 16,27), risultano particolarmente sviluppate rispetto al restante epistola-
rio paolino. Tali ampliamenti sono causati principalmente dalla tensione retorica
alla quale si devono le anticipazioni e le sintesi di alcuni elementi principali del
34 Sezione introduttiva
corpo della lettera: si pensi all'anticipazione di Rm 1,3-4 e alla dossologia finale
di Rm 16,25-27. Per inverso, la tensione epistolare delle argomentazioni è rico-
noscibile in Rm 7,1; 10,1; 11,13 e nella sezione esortativa di Rm 12,1 -15,13, os-
sia in parti che confermano come ci troviamo di fronte a una lettera concreta e
non a un discorso retorico, incorniciato in forma epistolare.
Lo sviluppo del corpo della lettera procede con tre macrosezioni: Rm 1,18 -
4,25; 5,1 - 8,39 e 9,1 -11,36. Anche se per la prima e per la terza parte non si può
parlare di un discorso sinagogale interrotto dalla seconda , rimane vero che que-
66

sti tre blocchi del corpus sono abbastanzariconoscibili,fosse solo per l'uso delle
citazioni dirette dell' AT, ben sviluppato nella prima e nella terza parte e pratica-
mente assente nella seconda (tranne Rm 8,36). La maturazione del dibattito su
queste sezioni ha portato a non considerare più Rm 9-11 come appendice del cor-
po ma aritenerlacome sua parte integrante, senza cadere nell'eccesso opposto di
chi pensa a essa come al culmine della lettera. Non è facile ma, in definitiva, nep-
pure necessario né utile, stabilire quale sia la sezione principale di Rm 1,18 -
11,36: se questo ruolo spetti allarivelazionedell'ira e della giustizia (1,18 - 4,25),
al paradossale vanto cristiano (5,1 - 8,39) o alla fedeltà della parola di Dio ri-
67

spetto al mistero d'Israele e dei gentili (9,1 -11,36). Piuttosto, si tratta di tre par-
ti funzionali che spiegano, con modalità diverse e significative allo stesso tempo,
l'unica rivelazione del vangelo paolino (1,16-17).
Spesso, per identificare le macro- e microsezioni di Rm 1,18 -11,36, ci si è
attardati sulle ripetizioni di alcuni termini o di alcuni campi semantici: si pensi a
Rm 3,1-8 che anticipa diverse tematiche sviluppate in Rm 3,21 - 4,25 e in Rm
5,1 - 8,39 . In realtà, si tratta di un criterio utile ma non sempre indicativo poi-
68

ché, non poche volte, Paolo anticipa alcune tematiche che riprenderà in seconda
battuta e in sezioni autonome, senza per questo dare inizio a parti nuove delle sue
dimostrazioni.
Piuttosto, nello sviluppo delle dimostrazioni paoline, svolgono ruoli primari
le tesi generali e quelle secondarie : in tal senso, la tesi di Rm 1,16-17 incentrata
69

sul vangelo paolino occupa una posizione di primaria importanza. L'identifi-


cazione delle propositiones è la condizione necessaria per stabilire il bandolo del-
la matassa che attraversa gli intrecci tortuosi e complessi delle dimostrazioni . Un 70

66 Così invece R. Scroggs, Paul as Rhetorician: Two Homilies in Romans 7-77, in R. Hamerton-
Kelly - R. Scroggs (edd.), Jews, Greeks and Christians: Religious Cultures in Late Antiquity, FS. W.D.
Davies, Leiden 1976, pp. 271-298.
67 Cfr. R.N. Longenecker, The Focus of Romans: The Central Role of5:l - 8:39 in the Argument of
the Letter, in S.K. Soderlund - N.T. Wright (edd.), Romans and the People ofGod, FS. G.D. Fee, Grand
Rapids-Cambridge 1999, pp. 49-69.
68 Cfr. R. Penna, La funzione strutturale di 3,1-8 nella lettera ai Romani, in L'apostolo Paolo, pp. 77-110.
69 Cfr. le tesi secondarie di Rm 1,18; 3,21-22; 5,1-2; 6,1.15; 7,7; 8,1-2; 9,6; 10,4; 11,2.25; 12,1-2;
13,1; 14,1.
70 Si deve ad Aletti l'importanza delle tesi o delle propositiones retoriche per cogliere i dinamismi
delle argomentazioni paoline. Cfr. in particolare J.-N. Aletti, Modèle rhétorique, pp. 9-22, in cui delinea
anche le caratteristiche delle tesi paoline: brevità, cambiamento stilistico, sviluppo successivo che le chia-
rifica e, in alcuni casi, presentazione dettagliata delle tematiche trattate in seguito. Come si vedrà nell'e-
segesi, abbiamo soltanto alcune riserve per Rm 5,21-22 che, pur contenendo termini trattati in Rm 6,1 -
7,6, non costituiscono la tesi principale della sezione ma la dossologia finale di Rm 5,1-20.
Profilo storico e retorico-letterario 35
ruolo di non minore importanza spetta alle perorazioni che chiudono le singole
sezioni : queste sintetizzano con poche affermazioni quanto è stato annunciato
71

nelle tesi e sviluppato nelle dimostrazioni.


Anche la sezione esortativa di Rm 12,1 - 15,14 è originalerispettoal restante
epistolario paolino, non soltanto perché è la più estesa ma anche perché include
parti propriamente dimostrative, che secondo una logica più stringata dovrebbero
trovarsi altrove: questo vale per Rm 14,1 -15,13, la sezione dedicata alla reciproca
accoglienza dei forti e dei deboli. In essa Paolo non si limita a esortare i destinata-
ri ma a dimostrare le ragioni per la vicendevole accoglienza, al punto che negli stu-
di più recenti è considerata come fondamentale per cogliere le motivazioni che
hanno indotto Paolo a scrivere la lettera . Senza cadere in eccessi opposti, rimane
72

che al vangelo paolino non appartiene soltanto Rm 1,18 -11,36 ma anche Rm 12,1
-15,14, ossia non soltanto quella che comunemente è definita sezione kerygmatica
ma anche quella esortativa o paracletica della lettera.

5. Quale genere epistolare?


Poiché intendiamoriservarel'analisi del messaggio alla fine del nostro com-
mentario, in questo luogo è importante cercare di stabilire il genere epistolare o
retorico della Lettera ai Romani; anche in questo campo si addensano innumere-
voli ipotesi. Seguendo i generi argomentativi della retorica classica, sono state
esaurite tutte le ipotesi possibili: Romani come lettera forense o apologetica , co- 73

me discorso deliberativorispettoall'accoglienza dei giudeo-cristiani nella comu-


nità , e come intervento epidittico in cui domina il valore del vangelo . Se com-
74 75

biniamo i tre generi retorici non si riesce a trovare un genere globale che coin-
volga tutte le parti della lettera. Da questo punto di vista, la manualistica della
retorica classica non può non riconoscere tutto il suo limite: nessuno dei maestri
di retorica aveva ipotizzato un genere così complesso come quello di Romani che
non rientra nei ventuno tipi epistolari proposti dallo Pseudo-Demetrio.
Un genere che ha ricevuto immediate reazioni positive è quello protrettico:
Paolo si proporrebbe di suscitare, attraverso un processo di demolizione delle
obiezioni (parte distruttiva) e di proposta del suo vangelo (parte costruttiva), l'a-
desione dei destinatari . Ma in questo caso si è costretti a considerare almeno
76

71 Cfr.Rm 3,19-20; 4,23-25; 8,31-39; 11,25-36; 13,11-14; 15,7-13; 16,25-27.


72 Cfr. M. Reasoner, The Strong and the Weak. Romans 14.1 - 15.13 in Context (SNTS MS 103),
Cambridge 1999, pp. 24-44.
73 Cfr. J. Jervell, Jerusalem, pp. 60-61.
74 Cfr. K. Berger, Formgeschichte des Neuen Testaments, Heidelberg 1984, p. 217.
75 Cfr. W. Wuellner, Paul 's Rhetoric ofArgumention in Romans: An Alternative to the Donfried-Karris
Debate over Romans, in K.R Donfried, Romans Debate, pp. 128-146; cfr. anche B. Byrne, Romans, p. 17;
M.L. Reid, Paul 's Rhetoric ofMutuality: A Rhetorical Reading ofRomans (SBL SP 34), Atlanta 1995, p. 139.
76 Cfr. D.A. Aune, Romans as a Logos Protreptikos in the Context of Ancient Religious and
Philosophical Propaganda, in M. Hengel - U. Heckel (edd.), Paulus und das antike Judentum (WUNT 58),
Tübingen 1991, pp. 92-121; C. Bryan, A Preface to Romans. Notes on the Epistle in Its Literary and Cultural
Setting, Oxford 2000, pp. 18-22; A.J. Guerra, Romans and the Apologetic Tradition (SNT MS 81), Cambridge
1995, pp. 2-7; S.K. Stowers, Letter Writing in Greco-Roman Antiquity, Philadelphia 1986, pp. 113-114.
36 Sezione introduttiva
Rm 9-11 come una digressione e a escludere Rm 12-15 che non ha nulla di pro-
trettico. Al di fuori dei canoni epistolari e retorici classici, Romani è stata consi-
derata come lettera-saggio , ambasciatoria , di spiegazione o parenetica , ma
77 78 79 80

questi generi sono determinati più dalle finalità o dai contesti che dalla composi-
zione interna della lettera.
Seguendo la disposizione non si può non riconoscere che la Lettera ai Romani
non rientra in nessun genere; a suoriguardoviene daricordarelo scetticismo che
un grande saggista come B. Croce nutriva verso i generi letterari, sottolineando che
non poche volte l'opera d'arte non è catalogabile in nessun genere. Di fatto, se in
Rm 1,18 - 3,20 si possono cogliere i connotati di un processo giudiziario, in Rm 5,1
- 8,39 sembra di trovarsi di fronte alla presentazione dimostrativa o epidittica del
vangelo paolino, e in Rm 9,1 -11,36 il genere della diatriba si combina con quello
midrashico e con alcune parti forensi in cui Dio è posto sotto accusa. A prima vi-
sta, la sezione di Rm 12,1-15,13 sembra avere le caratteristiche delle raccoman-
dazioni epistolari, ma in Rm 14,1 - 15,13 subentra una inattesa dimostrazione de-
liberativa sull'accoglienza dei deboli. Infine, non possiamo ignorare la parte dedi-
cata alle raccomandazioni (Rm 16,1-15). Dunque, non abbiamo a che fare con un
genere unitario o monolitico bensì con un genere misto chefiniscecol rendere qua-
si inopportuna la ricerca di una definizione globale della lettera, soprattutto se si
desiderarispettaretutte le sue parti, senzaricorrerea digressioni o ad aggiunte suc-
cessive che non trovano alcun fondamento. Romani è una lettera a tutti gli effetti,
con parti retoriche di altissimo livello e che, per la sua complessità, almeno sino a
ora, non può essere schedata in nessun genere epistolare, retorico o letterario.
Tale novità è dovuta principalmente alla relazione tra Romani e il vangelo
paolino, variamente presentato attraverso diversi tipi di argomentazione, a creden-
ti che hanno già aderito al vangelo cristiano. Se dovessimo scegliere necessaria-
mente un modo per definire questa lettera potremmo parlare di « vangelo epistola-
re », ossia di un vangelo trasmesso per lettera, con la novità che deriva dal conte-
nuto e dalle sue variegate argomentazioni. In tal senso, il contenuto e la forma si
equivalgono e resta sempre attuale quanto Lutero scrive all'inizio delle sue lezioni
(1515-1516) su Romani: «"Evangelo" non designa soltanto ciò che Matteo, Marco,
Luca e Giovanni hanno scritto... Perciò questo è l'Evangelo stesso di Dio... » 81

6. Un originale profilo estetico


Se la Lettera ai Romani nonrientrain alcun canone epistolografico o retori-
co classico, saremmo indotti a pensare a un testo con breve o nessun momento li-
77Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 131.
78Cfr. R. Jewett, Romans as Ambassadorial Letter, in Int 36 (1982) 5-20.
79Cfr. A.C. Wire, « Since God is One »: Rhetoric as Theology and History in Paul 's Romans, in E.S.
Malbon - E.V. McNight (edd.), The New Literary Criticism and the New Testament (JSNT SS 109), Sheffield
1994, pp. 210-227.
80Cfr. T. Engberg-Pedersen, Paul and the Stoics, Edinburgh 2000, pp. 183-184.
Cfr. F. Buzzi (ed.), M. Lutero. La lettera ai Romani (1515-1516), Cinisello Balsamo (MI) 1991, p. 202.
81
Profilo storico e retorico-letterario 37
lieo capace di accattivare l'attenzione di qualsiasi lettore. Questa prima impres-
sione sembra essere avvalorata dal vocabolario e dallo stile della lettera: non è il
grecoricercatoed elevato come, ad esempio, della Lettera agli Ebrei o degli Atti
degli apostoli. Spesso si verificanoripetizionied espressioni involute: si pensi al
confronto tra Adamo e Cristo (cfr. Rm 5,12-21), alla complessa argomentazione
di Rm 2 in cui non è chiaro il rapporto tra i gentili, i giudei e la Legge, per non di-
menticare il conflitto dell'io e della Legge mosaica in Rm 7,7-25 o la difficile ac-
cusa rivolta ai giudei sulla loro giustizia in Rm 9,30 -10,4.
Ariguardo,già Origene aveva annotato, all'inizio del suo commentario: «Il
fatto che,rispettoalle altre lettere dell'apostolo Paolo, quella scritta ai Romani sia
ritenuta più difficile a capirsi, a me sembra dovuto a due motivi: l'uno perché
Paolo adopera periodi talvolta confusi e poco espliciti; l'altro, perché affronta in
essa moltissime questioni... » . Come può esprimere un livello estetico un testo
82

come Romani che non è stato scritto per bellezza letteraria ma per destinatari che,
peraltro, non sono tutti noti al mittente? Eppure, come si potrà notare nel para-
grafo dedicato alla storia dell'interpretazione, questa lettera continua a suscitare
grande attrazione che non trovariscontriper nessun altro scritto biblico.
La bellezza di questa lettera non nasce dalla stilistica né dallaricercatezzadel
vocabolario e neppure dalle pur dense argomentazioni paoline che, a volte, sono
macchinose, ma dalle conflittualità che in essa Paoloriescea evidenziare più che
in altri suoi scritti: le situazioni parossistiche e tragiche coinvolgono tutti e rap-
presentano i veicoli principali per l'originale bellezza di questa lettera. Più di
qualsiasi altro scrittore del NT, Paolo in Romani è capace non soltanto di ricono-
scere i conflitti in atto ma di evidenziarli, al punto da chiamare in causa coloro che
non avvertono nessuna conflittualità nella propria esistenza interiore e religiosa.
Per questo, sono dense di conflittualità le pagine di Rm 1,18 - 3,20, tra l'impar-
zialità divina e la colpevolezza umana, quelle di Rm 7,7-25 tra la Legge mosaica
e l'io, quelle di Rm 9,1 -11,36 tra l'elezione e l'incredulità d'Israele a confronto
con l'elezione e l'adesione dei gentili. Tali conflittualità non sono semplicemen-
terisoltecon l'adesione alla fede in Cristo ma continuano per quanti attendono la
definitiva redenzione del proprio corpo (cfr. Rm 8,23).
In Romani, la conflittualità coinvolge persino la Legge mosaica e Dio stesso.
In nessuna lettera, come in questa, la Legge è considerata, nello stesso tempo, in
positivo e in negativo: da una parte è bella, buona, giusta, non è abrogata anzi per-
viene al suo culmine nel comandamento dell'amore vicendevole e raggiunge il
suo fine in Cristo; dall'altra è minimizzata a causa dell'incapacità di liberare
chiunque dai vincoli del peccato, anzi rende peggiore la situazione di quanti han-
no puntato su di essa, perché conduce soltanto alla piena conoscenza del peccato,
mutandolo in trasgressione. Il conflitto di Dio si trova principalmente nell'espres-
sione del suo amore per i peccatori: ha scelto la via della consegna dell'unico
Figlio, perché ricevessimo la vita nuova per mezzo dello Spirito. Nei confronti
dell'Israele incredulo, se da un lato Paolo sottolinea che la salvezza è possibile
82 Cfr. F. Cocchini (ed.), Origene. Commento alla lettera ai Romani, I, Casale Monferrato (AL)
1985, p. 5.
38 Sezione introduttiva
con l'adesione alla Parola di Cristo, dall'altro rifiuta decisamente che Dio abbia
rigettato il suo popolo. Anzi, proprio il resto di coloro che, fra gli ebrei, hanno ade-
rito al vangelo, rappresenta la speranza per la salvezza finale di tutto Israele.
Come si può notare, Romani è densa di conflittualitàrisoltee non, più o me-
no tragiche, che aprono a una nuova visione estetica; e questa è particolarmente
elevata non dove il conflitto è superato bensì dove permane con tutta la sua po-
tenza. Per questo, anche se con un greco poco erudito, stilisticamente involuto e ri-
petitivo, sono di rara bellezza le pagine dedicate al conflitto dell'io e della Legge
(cfr. Rm 7,7-25), al canto dello Spirito (cfr. Rm 8,1-39) e alla salvezza di tutto
Israele (cfr. Rm 11,1-36). La liricità contenutistica di Romani perviene al culmine
quando Paolo si ferma a contemplare il disegno imperscrutabile di Dio (cfr. Rm
8,29-30), il mistero sulla profondità della suaricchezzae della conoscenza di Dio
(cfr. Rm 11,25-36) e larivelazionedel mistero tenuto nel silenzio per i secoli eter-
ni ma ora manifestato per mezzo delle Scritture profetiche (cfr. Rm 16,25-27).
In definitiva, ci troviamo di fronte a un'estetica paradossale o conflittuale
che si manifesta attraverso la novità positiva del vangelo paolino: in modo inau-
dito, ciò che è bello e buono non deriva principalmente dalla Legge mosaica e dal-
l'adesione ai suoi comandamenti ma, senza misconoscere tali valori, dalla sal-
vezza realizzata da Dio in Cristo attraverso l'evento della croce. Se da un lato, il
messaggio cristiano non ha nulla di estetico e, a prima vista, sembra pertinente la
concezione di quanti escludono qualsiasi relazione tra estetica e vangelo , dal- 83

l'altra lo stesso vangelo impone una ridefinizione dell'estetica: non è bello sol-
tanto ciò che piace o ciò che, dal versante comunicativo, è ben detto o ben scritto,
ma anche ciò che apparentemente è brutto o scandaloso e, nello stesso tempo, rap-
presenta il veicolo del vangelo. Se la bellezza nasce principalmente dalla tragicità
dell'esistenza umana, la conflittualità di gran parte della Lettera ai Romani non
può non condurre a unaricomprensionedell'estetica nel mondo antico né non in-
terpellare qualsiasi lettore che si ponga in dialogo con il vangelo che questa lette-
ra è capace di comunicare.

83 Cfr. l'esclusione di qualsiasi paragrafo sull'estetica cristiana nel saggio recente di G. Garchia, L'este-
tica antica, Bari 1999.
Parte seconda
TRADUZIONE E COMMENTO
INTRODUZIONE EPISTOLARE
Rm 1,1-17

Il prescritto 1

1 ^aolo, servo di Cristo Gesù,


chiamato apostolo,
messo da parte per il vangelo di Dio
che era stato preannunciato mediante i suoi profeti
2

nelle sante Scritture,


Riguardo al Figlio suo
nato dal seme di Davide,
secondo la carne,
Costituito Figlio di Dio in potenza,
secondo lo Spirito di santità
dallarisurrezionedei morti,
Gesù Cristo il Signore nostro,
mediante il quale abbiamoricevutograzia e apostolato
5

per l'obbedienza della fede fra tutti i gentili,


a favore del suo nome,
6fra i quali siete anche voi chiamati di Gesù Cristo,
a tutti coloro che sono in Roma,
7

diletti di Dio,
chiamati santi.
Grazia a voi e pace da Dio padre nostro
e dal Signore Gesù Cristo.
Ringraziamenti-esordio
Prima di tuttoringrazioil mio Dio per mezzo di Gesù Cristo
8

riguardo a tutti voi


1Nella traduzione della Lettera ai Romani le parentesi tonde sono redazionali, mentre quelle quadre
corrispondono alle opzioni testuali di Nestle-Aland, Novum Testamentum, editio XXVII.
42 Traduzione e commento
perché la vostra fede è proclamata in tutto il mondo.
9Infatti mi è testimone Dio,
al quale rendo culto con il mio spirito, mediante il vangelo
del Figlio suo, che miricordoincessantemente di voi,
chiedendo sempre, nelle mie preghiere, che finalmente mi
10

sia concessa, per la volontà di Dio, l'opportunità di venire da voi.


1infatti, desidero ardentemente vedervi per comunicarvi
qualche dono spirituale, così da rafforzarvi,
12o meglio, per esortarci assieme mediante la fede vicende-
vole, vostra e mia.
13Non voglio però che ignoriate, fratelli, che spesso ho pro-
gettato di venire da voi, ma sino a ora sono stato impedito, affin-
ché raccogliessi qualche frutto anche fra voi come in mezzo agli
altri gentili.
14 Sono debitore
tanto dei greci quanto dei barbari,
tanto dei sapienti quanto degli ignoranti,
15cosicché ho il desiderio di annunciare il vangelo anche a
voi che siete in Roma.
La tesi generale
Non mi vergogno infatti del vangelo: è difatti potenza di
16

Dio per la salvezza di chiunque crede,


tanto del giudeo prima, quanto del greco.
In realtà, in esso si rivela la giustizia di Dio, da fede in fe-
17

de, come sta scritto: «Il giusto però mediante la fede vivrà».

La prima sezione della Lettera ai Romani si compone di tre parti fondamen-


tali: a) il prescritto epistolare (vv. 1-7); b) i ringraziamenti-esordio (vv. 8-15);
c) la tesi generale (vv. 16-17) . Il vocabolario che attraversa questa sezione è so-
2

prattutto quello del vangelo: Paolo è messo da parte per il vangelo (v. 1), è pron-
to a evangelizzare i cristiani di Roma (v. 15) e definisce il vangelo come potenza
di Dio per la salvezza di chiunque crede (v. 16). Lo stesso vangelo è stato prean-

2 La stessa sequenza siriscontrain Galati e in Filemone: prescritto (Gal 1,1-5; Fm vv. 1-3); esordio di
biasimo oringraziamento(Gal 1,6-10; Fm vv. 4-9); tesi generale (Gal 1,10-11 ; Fm v. 10). Cfr. A. Pitta, Galati,
pp. 40-41; Id., Come si persuade un uomo? Rilevanza retorico-letteraria del biglietto a Filemone, in II para-
dosso della croce. Saggi di teologia paolina, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 279-290. Per questa compo-
sizione della parte introduttiva cfr. anche T.R. Schreiner, Romans, pp. 28-29. Vedremo perché i vv. 16-17 non
possono essere separati dai versi precedenti, come invece sostiene J.P. Lémonon, Romains, pp. 126-127.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 43
nunciato dai profeti, nelle sante Scritture (v. 2) ed è confermato dalla citazione
profetica di Ab 2,4 (v. 17). Proprio il vangelo funge da inclusione per questa pri-
ma parte: apre (v. 1) e chiude (v. 16) la sezione.
Dal punto di vista contenutistico, in Rm 1,1-17 il vangelo è relazionato so-
prattutto al Figlio di Dio come dimostra il peri di argomento che introduce il v. 3:
« ...Riguardo al suo Figlio... ». L'analisi delle parti introduttive di Rm 1,1-17 porrà
in risalto il ruolo di Dio e dello Spirito ma non bisogna dimenticare che il conte-
nuto del vangeloriguardainnanzi tutto il Figlio di Dio. Dalla relazione tra il van-
gelo e il Figlio di Dio dipende la fede o V obbedienza della fede, secondo l'espres-
sione di Rm 1,5. Per questo, l'altra tematica che domina questa sezione riguarda
la fede: all'obbedienza della fede sono chiamati tutti i gentili (v. 5); la fede dei cri-
stiani di Roma si diffonde nel mondo intero (v. 8). Paolo spera di condividere con
i destinatari l'esortazione derivante dalla fede (v. 12), in adesione al principio se-
condo il quale il vangelo è per la salvezza di chiunque crede (v. 16); e la giustizia
divina,rivelatanel vangelo, è trasmessa da fede in fede (v. 17).
Il prescritto (1,1-7). - Tutte le lettere paoline sono introdotte da un prescritto
epistolare che svolge il ruolo di presentare il mittente al destinatario di una missi-
va ; ma nessuna come questa lettera è introdotta da un prescritto così esteso e po-
3

co rispondente ai canoni epistolografici dell'epoca. Se nell'epistolografia paral-


lela il prescritto si limita a un rigo, corrispondente al nostro indirizzo su lettera,
4

«X (nominativo) a Y (dativo), salute (chairein)», in Romani questo occupa sette


versi. Forse tale estensione è dovuta principalmente all'esigenza di porsi, per la
prima volta, in relazione con una comunità non fondata da Paolo , e quindi di an- 5

ticipare, attraverso alcune prolessi argomentative, elementi fondamentali del suo


vangelo. Come tutti i prescritti paolini, anche quello di Rm 1,1-7 si compone di
due parti principali: l'intestazione o titulatio (vv. 1.7a) e i saluti o salutatio (v. 7b).
In questo caso, tra il mittente (superscriptio) e i destinatari (adscriptio) vi è uno
spazio di sei versi: soltanto al v. 7 compaiono finalmente i saluti per i destinatari.
La parte principale di questo prescritto è rappresentata dalla soprascrizione,
nella quale Paolo anticipa gli elementi contenutistici del suo apostolato e del suo
vangelo (vv. lb-6). Questi cambiamenti, rispetto al protocollo epistolare, dimo-
strano quanto egli sia libero dalle regole epistolografiche del tempo. Sarà impor-
tante rilevare questi dati contenutistici che distanziano il prescritto di Rm 1,1-7
dalle regole epistolografiche classiche e da buona parte del restante epistolario
paolino. Dal confronto con le altre grandi lettere, soltanto in Rm 1,1-7 Paolo si

Cfr. i prescritti di lTs 1,1; 2Ts 1,1-2; ICor 1,1-3; 2Cor 1,1-2; Gal 1,1-5; Fil 1,1-2; Fm vv. 1-3; Col
3

1,1-2; Ef 1,1-2; lTm 1,1-2; Tt 1,1-4; 2Tm 1,1-2. Per un confronto sinottico fra i prescritti paolini cfr. A.
Pitta, Prescritti epistolari, in Sinossi paolina, pp. 22-25.
Sulle parti dei prescritti paolini, dell'epistolografia greco-romana e giudaica cfr. K. Berger,
4

Apostelbrief und apostolische Rede: Zum Formular frühchristlicher Briefe, in ZNW 65 (1974) 191-207;
T.Y. Mullins, Disclosure. A Literary Form in the New Testament, in NT1 (1964) 44-50; F. Schneider - W.
Stenger, Studien zum Neutestamentlichen Briefformular, Leiden 1987, pp. 3-41; I. Taatz, Frühjüdische
Briefe. Die paulinischen Briefe im Rahmen der offiziellen religiösen Briefe der Frühjudentums (NTOA 16)
Göttingen 1991; J.L. White, Introductory Formulae in the Body of Pauline Letter, in JBL 90 (1971) 91-97.
Così anche DJ. Moo, Romans, p. 39.
5
44 Traduzione e commento
presenta senza collaboratori : bisognerà attendere i saluti di Rm 16,3-23 perché
6

sia citato Timoteo come suo principale collaboratore (Rm 16,21).


[1,1] La soprascrizione inizia come nel restante epistolario paolino: il mit-
tente si presenta come Paulos, secondo il nome greco-romano, mentre non utiliz-
za mai il nome Saulos, di origine giudaica, che invece è attestato in Atti . Al nome 7

greco-romano sono aggiunti tre attributi che si verificano insieme soltanto in que-
sto prescritto. Se nella sua prima lettera, inviata ai cristiani di Tessalonica, il mit-
tente è senza specificazioni (cfr. ITs 1,1), in seguito preferisce presentarsi soprat-
tutto come apostolo , servo e prigioniero (cfr. Fm v. 1) di Cristo Gesù. L'ac-
8 9

cumulazione inusuale di tre appellativi, uniti al nome, non dipende da motivazioni


polemiche o apologetiche che costringono Paolo a difendere il proprio apostolato,
ma dal fatto che egli si pone, per la prima volta, in relazione con una comunità che
non ha fondato né ha visitato in precedenza.
Il primo appellativo è « servo » che, in quanto tale, suscita una certa sorpresa
se non fosse per l'immediata specificazione « di Cristo Gesù ». Dal punto di vista
antropologico, è bene precisare che, per Paolo, gli esseri umani non si distinguo-
no in schiavi e liberi, anche se utilizzerà questa polarità sociale (cfr. ICor 12,13;
Gal 3,28; Col 3,11), ma in schiavi del «peccato per la morte» o «dell'obbedien-
za per la giustizia», secondo il principio che formulerà in Rm 6,16. Questo prin-
cipio è tipico dell'AT: Israele è definito servo di Dio (cfr. Ne 1,6.11; Is 43,10); e
questo servizio rappresenta la sua autentica libertà. Pertanto, questo titolo evoca
quello di 'ébed JHWH usato in particolare per Mosè (cfr. Dt 34,5; Gs 1,1), per
Giosuè (cfr. Gs 24,30; Gdc 2,8) e per i profeti (cfr. 2Re 9,7; Gn 1,9) . 10

Questa prima credenziale esprime la novità della relazione con Cristo che so-
stituisce, in certo senso, quella con JHWH nell'AT, giacché Paolo non si presenta
mai come servo di Dio, se non in Tt 1,1. Nello stesso tempo, essa avvicina tale ser-
vizio alla vocazione profetica : Paolo si definisce servo di Cristo in quanto invia-
11

to e messo da parte per il vangelo di Dio, come espliciterà con gli altri appellativi.
Non è forse estranea a quest'attributo la dimensione cultuale del servizio: nell'AT

6 II suo principale committente epistolare è Timoteo, citato nei prescritti di ITs 1,1; 2Ts 1,1; 2Cor
1,1; Fil 1,1; Fm v. 1; cfr. anche Col 1,1. Fra i committenti vanno considerati anche Silvano (cfr. 1 Ts 1,1) e
Sostene (cfr. ICor 1,1). Questa mancanza di committenti in Romani contrasta soprattutto con la loro ab-
bondanza in Gal 1,2: «E tutti i fratelli che sono con me». Da questo punto di vista, una situazione analo-
ga a Romani siriscontrasoltanto nell'epistolario deuteropaolino, in cui Paolo da solo si rivolge agli Efesini
(cfr. Ef 1,1), a Timoteo (cfr. lTm 1,1; 2Tm 1,1) e a Tito (cfr. Tt 1,1).
7 Cfr. At 7,58; 8,1.3; 9,1.8.11.22.24; 11,25.30; 12,25; 13,1.2.7.9. Lo stesso Luca non manca di usare
anche il nome Paulos (cfr. At 13,7; 14,9; 15,2); anzi, rispetto a questa duplice nomenclatura negli Atti, è
interessante lo slittamento narrativo, secondo il quale fino all'assemblea di Gerusalemme (cfr. At 15) Luca
utilizza sia Saulos sia Paulos, mentre da At 16, ossia dal momento dell'universale riconoscimento dell'e-
vangelizzazione paolina presso i gentili, Luca si serve soltanto del nome greco-romano di Paolo. Per il no-
me Paulos nel periodo imperiale cfr. M. Hengel, Il Paolo precristiano, Brescia 1992, pp. 45-50.
8 Cfr. ICor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1.
9 Soltanto in Rm 1,1 Paolo si presenta come « servo di Cristo » da solo, mentre in Fil 1,1 condividerà
questo attributo con Timoteo e in Tt 1,1 si definirà come « servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo ».
10 Luca presenterà Maria come « la serva del Signore » (cfr. Le 1,38.48).
11 Così anche K.O. Sandnes, Paul - one of the Prophets? A Contribution to the Apostle's Self-
Understanding (WUNT 2/43), Tübingen 1991, pp. 146-151.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 45
« servire Dio » vuol dire anzitutto rendergli culto. Paolo riprenderà questa prospet-
tiva in Rm 1,9: egli rende culto a Dio perché è servo di Cristo Gesù . La ragione 12

per la quale egli preferisce presentarsi come servo di Cristo e non di Dio risiede
nella funzione soteriologica di Cristo: secondo l'espressione di ICor 7,23, Cristo
ha pagato in contanti il prezzo del nostroriscatto;e senza il suo sacrifìcio sulla cro-
ce non potremmo passare dal servizio per il peccato a quello per la giustizia.
11 secondo e il terzo titolo della soprascrizione sono più collegati fra loro di
quanto non lo siano rispetto al primo, giacché tutti i cristiani sono servi di Cristo
Gesù ma non tutti sono separati per l'apostolato. La connessione tra le due for-
mulazioni èrilevabiledalla relazione logica tra apostolo e vangelo di Dio. Il sog-
getto sottinteso delle due espressioni è Dio poiché, come aveva già esplicitato in
ICor 1,1 e in 2Cor 1,1, Paolo si considera apostolo «di Cristo Gesù per volontà
di Dio ». Se il contenuto della vocazione e dell'apostolato paolino è rappresenta-
to dalla predicazione di Cristo, la relativa chiamata è attribuita a Dio. In base alla
relazione logica tra l'apostolato paolino e il vangelo di Dio emerge che a causa di
quest'ultimo Paolo è chiamato all'apostolato: non si dà apostolato senza vangelo
da proclamare, come non c'è predicazione del vangelo senza l'elezione per l'apo-
stolato (cfr. Gal 1,15).
Anche se nella LXX il sostantivo apostolos si trova solo in IRe 14,6, sembra
che l'apostolato paolino sia particolarmente relazionato all'invio profetico. Per al-
cuni, il suo apostolato trova unriscontronell'istituzione rabbinica dello sàlìah, con
la quale sono designate alcune persone rappresentative della comunità sinagogale
per particolari funzioni . A tal proposito è benerilevareche le fonti rabbiniche sul-
13

l'istituzione dello sàlìah sono successive al 70 d.C. e che, di per sé, questa figura
non è caratterizzata dalla missione come lo è invece per l'apostolato paolino . 14

Secondo il principio di At 1,21-22 gli apostoli sono coloro che condivisero la


sequela di Gesù sino alla sua ascensione; Paolo, non avendo conosciuto personal-
mente il Gesù terreno, non potrebbe essere considerato apostolo. In realtà, lo stes-
so Luca definisce Barnaba e Paolo come «apostoli» (cfr. At 14,14); e questi ri-
vendica l'origine divina del suo apostolato, fondata sulla personale apparizione
del Cristo durante la sua attività persecutoria contro la Chiesa di Dio (cfr. ICor
15,8-9; cfr. anche ICor 9,1). Con l'istituzione dell'apostolato nelle comunità pao-
line, come ministero da porre accanto a quello dei profeti e dei maestri (cfr. ICor
12,28; cfr. anche Ef 4,11), il sostantivo apostolo assume una prospettiva ancora
più ampia: designa quanti si dedicano all'evangelizzazione . Per questo in Rm 15

16,7 anche i coniugi Andronico e Giunia sono presentati come apostoli; anzi,
sembrano essere stati tali prima di Paolo stesso.

12 Per questa credenziale di Paolo e dei primi cristiani cfr. anche Gal 1,10; Fil 1,1; Col 4,12; Ef 6,6.
Cfr. anche D.B. Martin, Slavery as Salvation: The Metaphor of Slavery in Pauline Christianity, New
Haven 1990.
13Così C.K. Barrett, Shaliah and Apostle, in C.K. Barrett - E. Bammel - W.D. Davies (edd.), Donum
Gentilicium, FS. D. Daube, Oxford 1978, pp. 88-102; C.E.B. Cranfield, The Epistle to the Romans, ICC,
Edinburgh 1975,1, pp. 51-52.
14Così anche D.J. Moo, Romans, p. 42.
15Così anche P.W. Barnett, Apostolo, in Dizionario di Paolo, pp. 109-118.
46 Traduzione e commento
Il terzo titolo di Rm 1,1 è «messo da parte per il vangelo di Dio»: è l'unica
volta che Paolo si presenta con tale credenziale. Forse, a causa dell'accezione ne-
gativa con la quale è spesso utilizzato il termine « separato », in quanto sembra
orientare verso una sorta di ghettizzazione sociale (cfr. Gal 2,12) , è preferibile 16

tradurre aphórismenos con « messo da parte ». Di fatto, Paolo non è separato dagli
altri per una personale relazione con Dio ma è messo da parte proprio per essere
inviato come apostolo dei gentili. Per questo il termine richiama l'elezione e la
santificazione d'Israele, scelto per essere testimone della presenza di Dio fra gli
altri popoli. Forse non è estranea una relazione, anche se remota, con il titolo di fa-
riseo collegato comunque al verbo aphorizein, a condizione che ci si liberi da una
concezione dispregiativa del termine . Comunque, anche se Paolo non si presen-
17

terà più con questa credenziale, ha già utilizzato il verbo aphorizein per ricordare
la benevolenza di Dio che lo « mise da parte sin dal seno materno » (cfr. Gal 1,15).
A causa della sua connotazione positiva, al punto che nella LXX designa l'ele-
zione d'Israele (cfr. Lv 20,26) e, in particolare, dei leviti (cfr. Nm 8,11) , questo 18

verborichiamala vocazione di Paolo a essere apostolo per il vangelo di Dio.


Il vangelo va inteso nella prospettiva sia della proclamazione, come in que-
sto verso, sia del suo contenuto, come nei vv. 16-17. Il termine euaggelion può es-
sere illuminato sia dal contesto dell'AT, in cui come sostantivo siriferisceall'an-
nuncio di buone notizie (cfr. 2Re 18,20.22.27) e come verbo assume una rilevan-
te prospettiva salvifica (cfr. Is 52,7; 60,6; 61,1), sia da quello greco-romano in cui
nel linguaggio imperiale è utilizzato per la proclamazione di un tempo di pace o
per l'annuncio dell'erede al trono; a causa del modello profetico è preferibile il
primo retroterra.
Generalmente, Paolo preferisce stabilire una stretta relazione tra il vangelo e
Cristo, per cui spesso parla del vangelo di Cristo™, mentre è unica, nel suo episto-
lario, l'espressione vangelo di Dio . In ambito esegetico è dibattuto il valore di
20

questo genitivo: si tratta del vangelo proclamato da Dio stesso (genitivo soggetti-
vo o di autore) oppure del vangelo che ha come oggetto e contenuto il messaggio
21

salvifico di Dio (genitivo oggettivo)? Il parallelo di 2Cor 11,7, in cuiricordaai co-


rinzi che gratuitamente ha predicato fra di loro il vangelo di Dio, e la relazione che
Paolo stabilisce in Rm 1,2 con la predicazione profetica lasciano propendere per
la seconda interpretazione: egli è scelto per annunciare l'intervento salvifico di
Dio; in seguito parlerà anche del vangelo del Figlio di Dio (v. 9), non intendendo
il vangelo che Gesù Cristo annuncia bensì quello di cui egli è l'annunciato.
[v. 2] Come abbiamo sottolineato nell'introduzione al paragrafo, dal v. 2 al
v. 6 Paolo si allontana dal modello epistolare per soffermarsi sul vangelo di Dio.
16Cfr. Gal 2,12 per la separazione di Pietro dai gentili durante l'incidente di Antiochia; cfr. anche Le 6,22.
17In Fil 3,5 Paolo stesso si definisce fariseo; cfr. anche At 23,6; 26,5. Cfr. A. Pitta, Paolo e il giu-
daismo farisaico, in Paradosso, pp. 54-79.
18Cfr. anche la separazione dei primogeniti in Es 13,12 e quella di una parte di terreno in Ez 45,1.4.
19Cfr. ICor 9,12; 2Cor 2,12; 9,13; 10,14, Gal 1,7; cfr. anche il vicino «vangelo del suo Figlio» in
Rm 1,9.
20Cfr. Rm 15,16; cfr. anche l'espressione « il di Dio vangelo » di 2Cor 11,7.
21Così J.D.G. Dunn, Romans, p. 10; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 278; D.J. Moo, Romans, p. 43.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 47
Di per sé, tale violazione delle norme epistolografiche sembra inopportuna; ge-
neralmente prima si salutano gli interlocutori e poi si riferisce ciò che s'intende
comunicare! Ma egli si sente libero di anticipare gli aspetti principali del suo van-
gelo: per questo si sofferma sull'origine (v. 2), sul contenuto (vv. 3-4) e sulle con-
seguenze del vangelo per la vita cristiana (vv. 5-6).
Anzitutto, il vangelo di Dio è stato preannunciato dai profeti nelle sante
Scritture. Del tutto originale è il verbo composto proepèggeilato: siritrovasoltan-
to in 2Cor 9,5 per la colletta a favore dei santi preannunciata dai corinzi. Il vange-
lo paolino non comincia ex abrupto ma trova la propria origine nella predicazione
profetica della salvezza. Tale origine non implica una precedenza soltanto storica
o cronologica ma anche qualitativa rispetto ad altre dimensioni dell'apostolato
paolino: prima di tutto il vangelo! Ilriferimentoai profeti conferma il modello uti-
lizzato per le credenziali del v. 1 e sembra un'anticipazione della citazione profeti-
ca di Ab 2,4 che campeggia all'inizio del corpus epistolare (cfr. Rm 1,16-17).
Soltanto in questo caso Paolo parla di sante Scritture, mentre altrove preferi-
sce il semplice Scrittura o Scritture ; già Filone Alessandrino denominava così
22

l'AT . Anche se nel II secolo d.C. Marcione utilizzerà l'epistolario paolino per
23

separare il Primo dal Nuovo Testamento, con questa connessione tra le sante
Scritture e il vangelo di Dio Paolo si dimostra distante da una visione premarcio-
nita della storia della salvezza . Le diffuse citazioni dell'AT in Romani confer-
24

meranno il grande valore che egli attribuisce alle sante Scritture.


[vv. 3-4] Dopo aver precisato l'origine profetica del vangelo, Paolo ne de-
scrive il contenuto, rappresentato dal Figlio di Dio. Questi versi del prescritto an-
ticipano la centralità di Cristo nel vangelo paolino, spiegato lungo la lettera, e
contengono forse uno dei più significativi testi prepaolini : «...Nato dal seme di
25

Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di


santità dalla risurrezione dei morti... »
Abbiamo escluso dal frammento prepaolino il titolo « Figlio suo » che figura
anche nella breve professione di fede, e la conclusione, « Gesù Cristo il Signore
nostro», che consideriamo come contestualizzazioni paoline. Dal punto di vista
stilistico si può rilevare una composizione bipartita, in cui « costituito Figlio di
Dio in potenza » corrisponde a « nato dal seme di Davide » e « secondo lo Spirito
di santità dalla risurrezione dei morti » a « secondo la carne ». Dal confronto del-
le proposizioni si evidenzia lo sbilanciamento verso la seconda parte che ne assu-
me la preminenza: Paolo non dice come il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide,

22 Cfr. Rm 4,3; 9,17; 10,11; 11,2; 15,4; ICor 15,3.4; Gal 3,8.22; 4,30; lTm5,18; 2Tm3,16.
23 Cfr. Filone, Fuga 4; Legibus 1,214; Heres 106,159.
24 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 279.
25 Per la prepaolinicità di Rm l,3b-4a cfr. V. Fusco, Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze
nel cristianesimo delle origini, Bologna 1995, pp. 99-100; M. Hengel, Ilfigliodi Dio, Brescia 1984, pp. 89-
99; F.W. Horn, Das Angeld des Geistes: Studien zur paulinischen Pneumatologie (FRLANT 154), Göttingen
1992, pp. 96-100; S. Légasse, Fils de David et Fils de Dieu. Note sur Romains 1,3-4, in NRT122 (2000) 564-
572; R. Penna, / ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I, Gli
inizi, Cinisello Balsamo (MI) 1996, pp. 202-209; H. Schlier, Zu Rom l,3f., in H. Baltensweiler - R. Reicke
(edd.), Neues Testament und Geschichte, FS. O. Culmann, Zürich 1972, pp. 207-218.
48 Traduzione e commento
mentre sottolinea la potenza divina per la sua costituzione di Figlio di Dio. Nella
prima parte manca anche il corrispondente dell'espressione «risurrezione dei
morti ». Per questo, più che un parallelismo antitetico , è opportuno considerarlo
26

come climax o gradazione , in cui l'accento è posto sul secondo momento: colui
27

che è nato non diventa Figlio di Dio dal momento in cui è generato ma è costitui-
to come tale dallarisurrezionedei morti.
La prepaolinicità dello schema è fondata prima di tutto sul vocabolario con il
quale è descritto il duplice livello cristologico. Il verbo horisthentos è hapax lego-
menon paolino, e nel resto del NT assumeriferimentocristologico soltanto in At
10,42: « Questi è colui che è stato costituito, da parte di Dio, giudice dei vivi e dei
morti » . Anche la descrizione dellarisurrezionecome anastasis (elevazione) è ra-
28

ra nell'epistolario paolino ,rispettoad egeirein che invece vi compare 41 volte. Il


29

riferimento a Davide, come nome proprio, se altrove è citato come metonimia per i
Salmi (cfr. Rm 4,6; 11,9), non trova corrispondenza nelle grandi lettere mentre con
la stessa funzione è citato in 2Tm 2,8. Altrettanto inusuale è il sintagma « Spirito di
santità» che non compare mai nel greco biblico , mentre è diffusa l'espressione
30

« Spirito santo » che nel TM corrisponde a rùah haqqòdes . Il titolo Figlio di Dio
3i

(huios theou) senza articolo è inusuale mentre generalmente Paolo preferisce l'arti-
colo . Anche il parallelismo delle due proposizioni è originale: è introdotto da due
32

participi (nato e costituito) ed è costruito con il binomio secondo la carne e secon-


do lo Spirito che generalmente per Paolo è antitetico mentre in questo caso è ascen-
sionale. L'espressione « secondo la carne » non assume accezione negativa ma neu-
tra, come in Rm 4,1 ; 9,5. La formula «risurrezionedei morti » non è paolina, poiché
Paolo predilige la formula «risurrezione dai (ek) morti» . Forse con questa varia-
33

zione Paolo non siriferiscesoltanto allarisurrezionedi Cristo ma anche alla sua fun-
zione prolettica o di anticipazionerispettoallarisurrezionedei credenti . Dunque vi 34

sono fondate ragioni per sostenere l'origine prepaolina di Rm l,3b-4a; d'altro can-
to il prescritto proseguirebbe bene senza quest'inserzione: «Riguardo al Figlio suo
(v. 3a)... Gesù Cristo Signore nostro » (v. 4b); e non è la prima volta che, in un pre-
scritto, Paolo inserisce alcune formulazioni provenienti dalla tradizione cristiana . 35

26 Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 280.


27 Così anche R. Penna, Ritratti, I, p. 205.
28 Per le altre frequenze del verbo horizein nel NT cfr. Le 22,22; At 2,23; 11,29; 17,26.31; Eb 4,7.
29 Cfr. anche Rm 6,5; ICor 15,12.13.21.42; Fil 3,10; 2Tm 2,18.
30 Cfr. Test. Levi 18,11 : « Lo Spirito di santità sarà su di loro ».
31 Cfr. Sai 51,13; Is 63,10.11; per la LXX Sap 1,5; 9,17; Dn 5,12; 6,3; cfr. anche 1QS 3,7.8; 4,21;
8,16; 9,3; 1QH7,6-7; 9,32; CD 2,12; Test. Levi 18,7. Per «Spirito santo» nell'epistolario paolino cfr. Rm
15,16.19; lTs 4,8; ICor 6,19; 2Cor 6,6; 13,13.
32 Cfr. Rm 8,19; Gal 2,20.
33 Cfr. Rm 4,24.25; 6,4.9; 7,4; 8,11; 10,9; lTs 1,10; ICor 15,12; Gal 1,1; Col 2,12; Ef 1,20; 5,14;
2Tm 2,8.
34 Così E.R. Martinez, Ex anastaseòs nekrón: mediante la risurrezione dei morti in Romani 1,4, in L.
Padovese (ed.), Atti del V Simposio di Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1998, p. 101.
35 Vedi Gal 1,4 sulla cui prepaolinicità cfr. A. Pitta, Galati, pp. 68-69. Giustamente C.G. Whitsett,
Son ofGod, Seed: of David: Paul 's Messianic Exegesis in Romans 1:3-4, in JBL 119 (2000) 661-681, sot-
tolinea le connessioni tra Rm 1,3-4 e Rm 15,7-13 per evidenziare la portata messianico-davidica delle due
formulazioni (pp. 664-674): queste permettono di riconoscere la contestualizzazione paolina di Rm 1,3-4,
^ non ciano «ufficienti ner dimostrarne la paolinicità.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 49
Valutando la professione nella sua globalità si può rilevare che, in quanto ta-
le, si presenta secondo uno schema bipartito: lo stadio terreno e quello glorioso
del Figlio di Dio. Nella contestualizzazione paolina, che comprende anche il v. 3a,
questo schema diventa tripartito: dalla preesistenza del Figlio di Dio alla sua in-
carnazione e alla sua glorificazione. Sorprende la totale assenza diriferimential-
l'evento della morte di croce e al suo valore salvifico per noi che svolgono un
ruolo centrale nella cristologia paolina.
Circa il contesto, a causa delriferimentoa Davide e alla glorificazione in po-
tenza, della struttura participiale e della formula Spirito di santità, tipicamente se-
mitiche, si può pensare a un'arcaica formula di fede sorta in contesto palestinese,
attraverso unariletturacristologica di alcuni salmi messianici, come il Sai 2,7 e il
Sai 110,1 o di 2Sam 7,14 . In tal caso si tratterebbe di una professione incentrata
36

sul messianismo davidico e glorioso di Cristo . Tale contestualizzazione sembra


37

essere confermata dall'identità del messia davidico descritta nei Salmi di Salo-
mone 17,37-38: «E non s'indebolirà nei suoi giorni, a causa del suo Dio, poiché
Dio lo ha reso potente mediante uno spirito santo e maestro con sapiente pruden-
za, con forza e giustizia » . 38

Comunque, rispetto a questo retroterra, è bene precisare che non si tratta di


una cristologia adozionistica, nel senso che Gesù sarebbe adottato come Figlio di
Dio soltanto con l'evento della risurrezione. L'utilizzazione del verbo costituito
e della formula in potenza precisa bene che si tratta di una nuova condizione nel-
la quale si trova il Figlio di Dio e non di una sua diversa natura. Pertanto questa
professione non asserisce che Gesù è diventato Figlio di Dio con la risurrezione
ma che è stato costituito come tale da quest'evento, senza sostenere che prima
non lo fosse . 39

Il parallelo più vicino a questa professione di fede è 2Tm 2,8, in cui un'ana-
loga professione è considerata come patrimonio della primitiva tradizione cristia-
na: « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, èrisuscitatodai morti... » . 40

Dalle rettifiche di questo frammento di 2Tm 2,8, in cui si trova egeirein invece di
anistèmi e « ...dai morti » al posto di « dei morti », forse si deve pensare più a una
dipendenza da Rm l,3b-4a che a due professioni di fede parallele.
Sulla ragione che induce Paolo a inserire questa professione in Rm 1,1-7,
forse è giusto pensare alla fede che egli e i destinatari hannoricevutodalle prime
generazioni cristiane e che condividono, a prescindere dalla specificità del van-
gelo paolino. Di fatto, egli non avverte il bisogno di dimostrare il senso della ri-
surrezione dei morti e l'evento con il quale Dio ha costituito in potenza suo Fi-
glio: questo dato appartiene già al primo patrimonio della fede cristiana.
36Così anche DJ. Moo, Romans, p. 48.
37Così anche R. Penna, Ritratti, I, p. 209.
38Per la relazione tra Sai Salom. 17,37-42 e Rm l,3b-4a cfr. R. Penna, Ritratti, I, p. 207.
39 Con buona pace di M.-E. Boismard, All'alba del cristianesimo. Prima della nascita dei dogmi,
Casale Monferrato (AL) 2000, pp. 81-85, che per sostenere la prospettiva adozionistica del titolo «Figlio
di Dio » nel NT dimentica di analizzare proprio il nostro passo.
40 Sulle relazioni tra Rm 1,1-4 e 2Tm 2,8 cfr. R. Fabris, La tradizione paolina, Bologna 1995, pp.
236-237.
50 Traduzione e commento
Passando al livello contenutistico, a prima vista questa breve professione
sembra far emergere un livello trinitario che però va precisato. Anzitutto i verbi
« nato » e « costituito »rivelanoun chiaro riferimento teologico: Dio ha fatto na-
scere suo Figlio dalla discendenza davidica e lo ha costituito in potenza. L'uso del
verbo genesthai (diventare) invece di gennan (nascere) ha fatto pensare alla na-
scita verginale di Gesù . In realtà nel greco della koiné, il verbo genesthai inva-
41

de spesso il campo di gennan, significando semplicemente nascere, come nel ca-


so di Gal 4,4: « ...Nato (genomenon) da donna... » . 42

Il frammento sottolinea il secondo stadio della messianicità del Cristo, senza


ignorare il primo della sua relazione con la discendenza davidica: egli è costituito
in potenza come Figlio di Dio. Del tutto inusuale per Paolo è la relazione tra il
Figlio di Dio e il « seme di Davide », anche se nel resto del NT è ben attestata la di-
scendenza davidica di Cristo . Comunque, l'accento non è posto tanto su « Figlio
43

di Dio » in quanto tale ma sulla costituzione in potenza della figliolanza divina di


Cristo, appunto sul suo stato di gloria con larisurrezionedei morti. Se poniamo la
professione di fede di Rm l,3b-4a nel contesto di Rm l,3a ci troviamo di fronte a
uno schema tripartito: dallo stadio della pre-esistenza del Figlio di Dio si passa a
quello della sua figliolanza davidica per giungere alla glorificazione divina . 44

Più complesso è ilriferimentoallo Spirito di santità che, come abbiamo rile-


vato, è hapax legomenon nel greco biblico. In base al semplice « Spirito santo »
nel giudaismo del secondo Tempio, forse si deve pensare più all'azione potente di
Dio sugli eletti che a una chiara allusione alla terza persona della Trinità. Lo stes-
so genitivo «Spirito di santità» può essere inteso come oggettivo, nel senso che
Dio con il suo potente Spirito conferisce la santificazione al messia davidico . Per 45

questo, nel caso di Rm l,3b-4a è preferibile parlare di una discreta o implicita


struttura trinitaria . 46

Con il v. 4briprendeil linguaggio propriamente paolino: il Figlio di Dio è ri-


conosciuto come « Gesù Cristo il Signore nostro ». Rispetto a tale riconoscimen-
to è bene precisare che l'accento cade sulla signoria e sulla relativa personalizza-
zione di Cristo per quanti condividono la stessa professione di fede e non tanto su
« Cristo », che nell'epistolario paolino svolge il ruolo di nome proprio. La formu-
la più essenziale di questa professione di fede si riscontra in 2Cor 4,5: « ...Gesù
Cristo Signore»; compare secondo l'ordine inverso nell'inno prepaolino di Fil
2,6-11 : « Signore Gesù Cristo » (v. 11). Con gli stessi elementi e con la stessa se-
quenza, la formula di Rm l,4b si ritrova in Rm 5,21; 7,25 e in ICor 1,9 (cfr. an-
che Gd v. 15). L'importanza cherivesteil titolo di kyrios nella Lettera ai Romani

41Così J. McHugh, The Mother of Jesus in the New Testamene New York 1975, pp. 274-277.
42Cfr. anche Tb 8,6; Sap 7,3; Sir 44,9.
43Cfr. Me 11,10; Mt 1,1-20; Le 1,27-32; Gv 7,42; At 2,25-34; 13,22-36; Ap 3,7; 5,5; 22,16.
44Lo stesso schema è riscontrabile nell'inno cristologico di Fil 2,5-11: la pre-esistenza (vv. 5b-6), la
kenosis (vv. 7-8) e la glorificazione (vv. 9-11).
45Così anche D.J. Moo, Romans, p. 50.
46Così anche R. Penna, Ritratti, I, p. 206. Larilevanzatrinitaria di Rm 1,3-4 è troppo sottolineata da
P. Grech, Formule trinitarie in San Paolo, in L. Padovese (ed.), Atti del IV Simposio di Tarso su S. Paolo
Apostolo, Roma 1996, p. 138.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 51
è confermata soprattutto da Rm 10,9: « Poiché se confesserai con la tua bocca che
Gesù è il Signore... »
[v. 5] L'ultima parte dell'anticipazione di Rm 1,3-6 si riferisce alle conse-
guenze del vangelo o, meglio, al suo orientamento: Gesù Cristo Signore è la ra-
gione fondamentale per la quale Dio chiama Paolo all'apostolato e i gentili al-
l'obbedienza della fede. Risulta difficile stabilire a chi siriferiscail « noi » del v.
5: è una sorta di noi maiestatico, nel qual caso l'intero verso andrebbe inteso co-
me autobiografico, origuardaquanti sono chiamati all'apostolato?
In base alla rivendicazione paolina per l'apostolato presso i gentili sarebbe
più naturale considerare il noi come maiestatico . Paolo si riferirebbe al proprio
47

apostolato presso i gentili; e tale interpretazione sarebbe confermata da Rm 11,13


in cui si definisce « apostolo dei gentili » . Invece, in base all'estensione del pro-
48

nome, al v. 5b ci sembra che Paolo siriferiscaa quanti con lui e come lui si sono
dedicati all'evangelizzazione dei gentili; la stessa evangelizzazione delle comu-
nità di Roma conferma quest'interpretazione. Comunque, l'evangelizzazione dei
gentili rimane il principale orizzonte dell'apostolato paolino, confermato dal pa-
rallelo di Gal 1,15-16, che permette di riconoscere Dio come soggetto dell'apo-
stolato e Cristo come colui attraverso il quale si realizza ogni vocazione.
A prima vista sembra che la grazia e l'apostolato rappresentino due doni di-
versi: su tutti Dioriversala sua grazia mentre non tutti sono chiamati all'aposto-
lato. In realtà possiamo rendere l'espressione con un'endiadi : la grazia a cui si 49

riferisce è quella dell'apostolato e l'apostolato deriva esclusivamente dalla gra-


zia divina.
Non è facile rendere il significato dell'espressione «obbedienza della fe-
de» : si tratta di un genitivo oggettivo (l'obbedienza dei gentili alla parola del
50

vangelo conduce alla fede), di un genitivo epcsegetico (l'obbedienza stessa s'i-


dentifica con la fede) o di un genitivo qualificativo (i gentili pervengono a un'ob-
51

bedienza qualificata dalla fede)? La scelta è difficile soprattutto perché Paolo non
parlerà più di « obbedienza della fede », se non nella conclusione innica di Rm
16,26, cheriprendequasi alla lettera l'espressione di Rm 1,5 . Rispetto alla nostra
52

espressione, sono interessanti le frequenze parallele di Rm 15,18 e di Rm 16,19:


secondo la prima formula, Paoloricordadi essere inviato per condurre i gentili al-
l'obbedienza; nella seconda sottolinea che l'obbedienza dei destinatari si è diffu-
sa ovunque. In entrambi i casi siriferisceall'obbedienza della fede, anche se pre-
ferisce parlare soltanto di obbedienza: tale allusione è evidente per le connessioni
47 Così DJ. Moo, Romans, p. 51.
48Per la rivendicazione dell'apostolato paolino presso i gentili cfr. Gal 1,16; 2,9.
49Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 284.
50Per il retroterra giudaico dell'espressione cfr. D.B. Garlington, « The Obedience ofFaith ». A Pauline
Phrase in Historical Context (WUNT 2/38), Tübingen 1991.
51Così DJ. Moo, Romans, p. 52.
52 II termine hypakoé è tipico del vocabolario paolino: si riscontra 15 volte nel NT, di cui 11 nelle
grandi lettere (cfr. Rm 1,5; 5,19; 6,16.16; 15,18; 16,19.26; 2Cor 7,15; 10,5.6; Fm v. 21; cfr. anche Eb 5,8;
lPt 1,2.14.22). In genere, Paolo si riferisce all'obbedienza di Cristo verso il disegno di Dio (cfr. Rm 5,19;
cfr. anche Eb 5,8), a quella dei credenti per Cristo (cfr. Rm 6,16.16; 2Cor 10,5.6) o a quella dei corinzi ver-
so Tito e di Filemone per lui (cfr. Fm v. 21).
52 Traduzione e commento
tra Rm 1,8 e Rm 16,19 in cui egli elogia i romani per la diffusione della loro fede,
anche se in Rm 1,8 parla soltanto della fede mentre in Rm 16,19 solo dell'obbe-
dienza. Per questo sembra naturale considerare il genitivo come epcsegetico . 53

Senza negare la stretta relazione tra l'obbedienza e la fede, l'analoga espressione


«ascolto della fede», utilizzata in Gal 3,2.5, sembra orientare verso un genitivo
qualificativo: l'obbedienza a cui Paolo siriferiscein Rm 1,5 è l'obbedienza qua-
lificata dalla fede di Cristo. La scelta per un genitivo qualificativo più che epcse-
getico ha il vantaggio di non ridurre l'obbedienza soltanto alla sua relazione con
la fede, poiché nell'epistolario paolino assume anche altri orientamenti.
I destinatari di quest'obbedienza della fede sono i gentili ai quali Paolo e gli
altri apostoli sono stati inviati perché entrino a far parte del popolo dell'alleanza : 54

di per sé, il termine ethnos significa popolo, razza, per cui potrebbe includere an-
che gli ebrei; ma nel contesto di Rm 1,1-17 il sostantivo è utilizzato per indicare i
gòtm, ossia coloro che sono altro da Israele e che diventano, come Israele, i desti-
natari del vangelo . Il nome al quale Paolo relaziona ogni obbedienza della fede è
55

« Signore », quale attributo fondamentale di Gesù Cristo : egli è pienamente il « Si-


56

gnore » quando « nel suo nome si piegherà ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sot-
to terra » (cfr. Fil 2,10).
[v. 6] Con un improvvisoriferimentoai destinatari, Paolo li include fra i gen-
tili ai quali è orientato il vangelo di Dio. Questa specificazione è importante per
l'identificazione dei destinatari della lettera : in prevalenza sono etnico-cristiani,
57

anche se in una particolare relazione con la forma di giudaismo diffuso nella ca-
pitale. Alla chiamata paolina per l'apostolato (v. 1) corrisponde quella dei cristia-
ni di Roma: si tratta non tanto di un augurio a partecipare di Cristo quanto della
reale situazione di quanti sono stati chiamati ad appartenergli . La formula « chia- 58

mati di Gesù Cristo » indica semplicemente i cristiani, anche se non ancora se-
condo una netta separazione dal giudaismo del I secolo d.C.
[v. 7] Finalmente, dopo la lunga parentesi riferita al suo vangelo (vv. lb-6),
si trova il riferimento ai destinatari della lettera (adscriptio) . Anche la destina-59

zione di Rm l,7a è poco formale o standardizzata: Paolo riconosce i cristiani di


Roma come diletti di Dio e chiamati santi. In quest'indirizzo epistolare risalta
l'attributo diletti di Dio: è unico nell'epistolario paolino, mentre altrove preferi-

53 Verso quest'interpretazione è orientata l'analisi di D.B. Garlington, Obedience, p. 11.


54 Così anche D.B. Garlington, Obedience, pp. 234-252.
55 Per questa prevalente accezione di ethnos nell'epistolario paolino cfr. A. Pitta, Da Cristo ai genti-
li e alla Legge: percorso genetico a partire dalla lettera ai Galati, in Paradosso, pp. 137-176.
56 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 53.
57 Vedi la nostra introduzione generale.
58 Sulla rilevanza di kalein in Rm 1,1-7 cfr. W.W. Klein, Paul's Use ofKalein: A Proposal, in JETS
27(1984) 53-64.
59 Per le altre destinazioni epistolari paoline cfr. lTs l,lc; 2Ts l,lc; ICor 1,2; 2Cor l,lc; Fil l,lc; Fm
vv. lc-2; Col l,2a; Ef l,lb; lTm l,lb; Tt l,4a; 2Tm l,2a. Si noti il contrasto con l'essenziale destinazione
di Gal 1,5: «Alle chiese della Galazia». Pochi testimoni (G e la traduzione latina di Origene) omettono la
destinazione « in Roma », forse a causa della diffusione della lettera nelle comunità cristiane delle origini.
Non ci sono motivazioni valide per porre in discussione la destinazione romana della lettera, sia per la cri-
tica esterna sia per quella interna; il caso è ben diverso da quello della Lettera agli Efesini (cfr. Ef l,lb). Così
anche B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testamenti Stuttgart 1994 , p. 446. 2
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 53
sce parlare dei suoi interlocutori semplicemente come diletti, a volte con la speci-
ficazione miei . Soltanto nel prescritto di Fm vv. 1-3 si trova il termine agapetos
60

riferito alla relazione affettiva di Filemone con Paolo . 61

Per la terza volta, in pochi versi, è utilizzato il verbo « chiamare »: i cristiani


di Roma sono chiamati santi a causa del loro essere chiamati di Gesù Cristo (v.
6). Anche se spesso Paolo sirivolgeai destinatari delle letterericonoscendolico-
me santi , l'espressione chiamati santi si trova soltanto qui e in ICor 1,2. Dal-
62

l'insieme del prescritto è possibile rilevare le funzioni inclusive che svolgono il


sostantivo « Dio » e il verbo « chiamati »: al vangelo di Dio (v. 1) corrisponde l'e-
spressione diletti di Dio\ e sono chiamati sia Paolo, all'apostolato (v. 1), sia i cri-
stiani di Roma ad appartenere a Cristo (v. 6), e quindi santi (v. 7). Forse non bi-
sogna dimenticare la rilevanza elettiva presente nei termini «diletti» e «santi»:
sono due attributi comuni nell'AT per indicare il rapporto di predilezione tra
JHWH e il suo popolo. Tuttavia, al riguardo è bene non cadere nella concezione so-
stitutiva e sottolineare, invece, quella partecipazionistica. A causa della chiamata
in Cristo, i gentili non s'impossessano dei titoli e delle realtà che nell'AT appar-
tenevano soltanto a Israele ma li condividono con gli israeliti.
L'ultima parte di un prescritto epistolareriguardala formula valetudinis o dei
saluti, che in Rm 1,7risultacomune agli altri saluti paolini. Sembra che all'inizio
Paolo si limitasse a dire soltanto « grazia a voi e pace », come dimostra il prescritto
più antico di lTs 1,1. In seguito non ha esitato a teologizzare e a cristologizzare que-
sta semplice formula di saluti, attribuendo la grazia e la pace a Dio e a Gesù Cristo . 63

Sembra che in questi saluti Paolo combini la modalità greca con quella giudaica di
rivolgersi ai destinatari di una lettera: charis corrisponde al più comune chairein , 64

utilizzato nel formulario epistolare greco; eirènè rappresenta la traduzione del dif-
fuso salóni, di origine semitica. Nel contesto del prescritto, il termine charis evoca
la grazia citata al v. 5 che esprime il disegno benevolo di Dio, anche se forse è ec-
cessivo relazionarlo alla grazia della benedizione sacerdotale citata in Nm 6,24-
26 . Circa la paternità, è difficile stabilire se questa formula di saluti sia da attri-
65

buire a Paolo o se si trovasse già in uso nelle prime comunità cristiane. A causa del
tenore liturgico nella seconda parte della formula, corrispondente a una dossologia,
è improbabile che Paolo ne sia l'inventore, anche se nella tradizione del NT sarà
utilizzata, secondo l'attestazione paolina, in lPt 1,2 e in 2Pt 1,2 (cfr. anche Ap 1,4).
Ringraziamenti-esordio (1,8-15). - Una parte generalmente presente nell'e-
pistolario paolino, dopo i prescritti, è quella deiringraziamenti,nota anche come
Cfr. lTs 2,8; ICor 10,14; 15,58; Fil 2,12; 4,1.
60

Nei saluti finali della lettera, Paolo elencherà alcuni suoi diletti come Epèneto (cfr. Rm 16,5),
61

Ampliato (cfr. Rm 16,8), Stachi (cfr. Rm 16,9) e Pèrside (cfr. Rm 16,12).


Cfr. 2Cor 1,1; Fil 1,1; Col 1,2; Ef 1,1.
62

1 saluti di Rm l,7b sono uguali a quelli di Gal 1,3; Fil 1,2; Fm v. 3; Ef 1,2; sono simili, con legge-
63

re variazioni, a quelli di 2Ts 1,2; ICor 1,3; 2Cor 1,2; Col 1,2; Tt 1,4. Nei saluti di lTm 1,2 e di 2Tm 1,2
con la grazia e la pace è augurata anche la misericordia di Dio.
Per i saluti espressi con il verbo chairein cfr. IMac 10,26; 12,6; 2Mac 1,1; 11,7; 2Bar 78,2; Gc 1,1;
64

At 15,23; 23,26.
Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 272.
65
54 Traduzione e commento
del proskynema : prima di entrare nel vivo della lettera, Paolo non dimentica di
66

ringraziare Dio per i destinatari ai quali si rivolge . Questa sezione dei ringrazia-
67

menti si apre con la formula tipica della gratitudine o dell 'eucaristiarivoltaa Dio
(v. 8) e si chiude con il desiderio di annunciare il vangelo ai cristiani di Roma (v.
15), che rientra nel motivo tipicamente introduttivo di una lettera rappresentato
dal desiderio di colmare la distanza spazio-temporale tra il mittente e il destina-
tario . Dal confronto con le altre sezioni di ringraziamento si può notare che non
68

ci troviamo di fronte a un ringraziamento elevato: si pensi al solenne ringrazia-


mento di 2Cor 1,3-9, con il motivo della consolazione, o anche a quello incentra-
to sull'agape di Fm vv. 4-9.
Nel presente caso si ha l'impressione di un abbassamento di tonorispettoal
prescritto di Rm 1,1-7 e alla tesi generale di Rm 1,16-17. Tale sensazione è con-
fermata dalla correzione al v. 12,rispettoa quanto Paolo asserisce al v. 11: prima
dice di voler raggiungere i cristiani di Roma per comunicare qualche dono spiri-
tuale, poi si corregge precisando che anch'egli ha bisogno di essere esortato da lo-
ro. Anche il motivo del viaggio èripresopiù volte nei vv. 9-11 e nei vv. 13.15. In
queste affermazioni si percepisce un certo imbarazzo di Paolo nelrivolgersia una
comunità cristiana non fondata da lui e con la quale il primo contatto è rappre-
sentato dalla lettera che sta per inviare.
Spesso la sezione dei ringraziamenti paolini funge anche da esordio retori-
co, in cui sono introdotte le tematiche principali delle relative lettere; invece in
Rm 1,8-15 prende il sopravvento il motivo epistolare dell'assenza-presenza
(apousia-parousia) che intercorre tra il mittente e i destinatari . Da questo pun- 69

to di vista, il ringraziamento di Rm 1,8-15, più epistolare che retorico, si diffe-


renzia dagli altri ringraziamenti paolini: ciò deriva ancora dalla mancanza di
contatti diretti tra Paolo e i cristiani di Roma. Naturalmente non mancano ele-
menti che possono far pensare a Rm 1,8-15 come a un exordium, ma questo non
è tanto di tipo tematico quanto relazionale, giacché è scritto per stabilire una pri-
ma relazione tra il mittente e i destinatari. Possiamo sostenere che, dal punto di
vista contenutistico, il ringraziamento di Rm 1,8-15 ribadisce quanto è stato già
detto nel prescritto: in questione è ancora il vangelo che Paolo rivolge ai gentili
e che ora intende indirizzare, in modo specifico, ai cristiani di Roma. Comun-
que, rispetto agli altri ringraziamenti paolini, anche quello di Rm 1,8-15 com-
66Cfr. iringraziamenti-esordidi lTs 1,2-10; 2Ts 1,3-12; ICor 1,4-9; 2Cor 1,3-11; Fil 1,3-11; Fm vv.
4-9; Col 1,3-14; Ef 1,15-23; lTm 1,12-17; 2Tm 1,3-5.
67Cfr. a tal proposito M. Del Verme, Le formule di ringraziamenti postprotocollari nell'epistolario
paolino, Roma 1971; RT. O' Brien, Introductory Thanksgivings in the Letters of Paul, NTS 49, Leiden
1977. A questa regola fanno eccezione soltanto Galati e Tito.
68Stranamente J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 290-294, separa i vv. 8-9, considerandoli come ringrazia-
mento, dai vv. 10-15 che colloca sotto la denominazione di proemio. A parte la mancanza d'indizi lettera-
ri che permettano una tale divisione, l'autore sembra ignorare che unringraziamentopaolino spesso fun-
ge anche da esordio retorico-contestuale. Per l'unità letteraria di Rm 1,8-15 cfr. anche J.D.G. Dunn,
Romans, I, p. 27; D.J. Moo, Romans, p. 56; T.R. Schreiner, Romans, pp. 47-48.
69Generalmente questo motivo, tipicamente epistolare, si trova verso la fine delle lettere paoline
(cfr. Rm 15,14-33; lTs 2,17 - 3,8; ICor 16,10-18; 2Cor 10,1-11; 12,14 - 13,10; Fm v. 22; lTm 3,14-16;
4,13-16; 2Tm 4,9-18); a volte compare anche nel corpo delle lettere (cfr. ICor 4,14-21; Gal 4,20; Fil 2,12-
30; Col 2,1-5).
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 55
prende la formula introduttiva propria (v. 8a), il ricordo dei destinatari o
Mneiamotiv in contesto di preghiera (v. 9), l'elogio per la loro fede (v. 8b) e la
relazione tra mittente e destinatari, espressa con il motivo della apousia-parou-
sia epistolare (vv. 10-13.15) . 70

Sul versante retorico, i ringraziamenti paolini si caratterizzano come esordi


paragonabili, secondo la manualistica classica, a un preludio musicale oppure a
una via che introduce i contenuti della comunicazione . Ilringraziamentodi Rm
71

1,8-15 sembra più un paragrafo introduttivo che un preludio solenne, anche se


permangono le finalità tipiche di un esordio consistenti nel rendere i destinatari
«attenti, docili e benevoli» . L'attenzione degli interlocutori è capitalizzata me-
72

diante i riferimenti alla visita annunciata da Paolo (vv. 10.13.15); la docilità è ri-
scontrabile nel motivo dell'incessante ricordo che Paolo ha per loro (v. 9b), nella
prospettiva della vicendevole condivisione della fede (v. 12); la benevolenza è ri-
conoscibile nella captatìo con la quale egli sottolinea la notorietà della loro fede
in tutto il mondo (v. 8b).
Circa la composizione interna dei ringraziamenti, sonoriconoscibilitre par-
ti principali, introdotte da altrettante formule di apertura: l'introduzione del rin-
graziamento (v. 8), ilricordodei destinatari con la prospettiva di una visita (vv. 9-
12) e la proclamazione universale del vangelo (vv. 13-15).
[1,8] Ilringraziamentosi apre con un «prima di tutto» (próton meri), al qua-
le, come in Rm 3,2 e in ICor 11,18, non succede nessun «quindi dopo» (epeita
de), come invece ad esempio in Eb 7,2. Si vede che Paolo non è molto attento al-
le regole della sintassi! Per inverso, tale formula introduttiva, utilizzata soltanto
per questoringraziamento,pone in evidenza la priorità della gratitudine verso Dio
prima di qualsiasi altro motivo. Come in tutte le sezioni introduttive, Paolo rivol-
ge sempre il proprioringraziamentoa Dio che non esita ariconoscerecome mio:
nello stesso modo introduce iringraziamentidi ICor 1,4; Fil 1,3; Fm v. 4; mentre
quando utilizza la formula al plurale, «ringraziamoDio », non aggiunge il posses-
sivo «nostro» (cfr. lTs 1,2; Col 1,3) . Soltanto i ringraziamenti di lTm 1,12-14
73

sonorivoltia Gesù Cristo, mentre solo quelli di Rm 1,8 sono indirizzati a Dio con
la mediazione di Gesù Cristo.
La ragione per la quale egli ringrazia Dio è rappresentata dalla fede dei cri-
stiani di Roma della quale si sente parlare in tutto il mondo: questa motivazione è
formulata con linguaggio iperbolico in vista della captatìo benevolentiae attraver-
so la quale Paolo intende stabilire una buona relazione con i cristiani di Roma . Il 74

verbo « diffondersi » (kataggelletai) è utilizzato nel NT soltanto in Atti e nell'epi-

70Per questi motivi cfr. A. Pitta, Ringraziamenti ed esordi, in Sinossi paolina, pp. 27-35.
71 Cfr. Aristotele, Rhetorica l,l,1354b; 3,14,1414b; Anassimene, Rhetorica ad Alexandrum
28,1436a; Cicerone, De inventione 1,5,20 - 1,7,25; Cornificio, Rhetorica ad Herennium 1,4,6 - 1,7,11;
Quintiliano, Institutio oratoria 4,1,2.
72Così Cicerone, De inventione 1,15,20; Quintiliano, Institutio oratoria 4,1,42.
73Fra le grandi lettere, soltanto i ringraziamenti di 2Cor 1,3 sono introdotti dalla formula « sia bene-
detto Dio», come successivamente all'inizio di Ef 1,3, anche se dopo la benedizione di Ef 1,3-14 è ag-
giunto lo specifico ringraziamento di Ef 1,15-16, introdotto dall'espressione «non cesso di ringraziare».
74Cfr. l'analoga captatio di lTs 1,8.
56 Traduzione e commento
stolario paolino , con una sostanziale connessione rispetto alla predicazione del
75

vangelo e, in particolare, alla sua pubblica diffusione, come davanti al popolo o


nella sinagoga.
[v. 9] Per assicurare i destinatari del suoricordo,Paoloricorrea una formula
di giuramento, nonostante i divieti di Mt 5,33-37; Gc 5,12 . In questo caso la for-
76

mula di giuramento è abbastanza attenuata, mentre non mancano situazioni nelle


quali Paolo si vede costretto a esprimerla con maggiore chiarezza, come in 2Cor
1,23: «Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita...» . Tuttavia, Paolo ricorre a
77

queste formule di giuramento non per ogni situazione bensì per confermare la ve-
ridicità di alcune sue posizioni interiori che, comunque, non possono essere pro-
vate. In tal caso, il motivo per il quale chiama in causa Dio è rappresentato dal
culto che gli rende; qualcosa di analogo dirà, con il verbo latreuein, nei ringra-
ziamenti di 2Tm 1,3 . Pur non appartenendo alla tribù di Levi ma a quella di
78

Beniamino, Paolo descrive come cultuale la propria relazione con Dio; non è la
prima volta ch'egli considera il proprio apostolato per il vangelo come espressio-
ne del culto . Anche la prospettiva del martirio della sua esistenza, per la quale il
79

suo sangue sta per essere versato in libagione (cfr. Fil 2,17-18; 2Tm 4,6), è con-
siderata come espressione cultuale. Per Paolo, il culto dell'esistenza umana affon-
da le sue radici nell'evento massimamente cultuale della morte di Cristo, nostra
Pasqua (cfr. ICor 5,7) e strumento di espiazione (cfr. Rm 3,25).
Per questo non soltanto il proprio apostolato per il vangelo ma la stessa vi-
ta cristiana, nelle sue diverse espressioni e testimonianze, diventa modalità con
la quale si rende culto a Dio (cfr. lTs 1,9-10): con Cristo c'è un nuovo tempio, il
corpo dei cristiani (cfr. ICor 1,19; 2Cor 4,16) che permette di rendere culto con
la stessa esistenza. Paolo riprenderà questo motivo del culto della vita cristiana
in Rm 12,1, all'inizio della sezione paracletica o esortativa della lettera. Un
aspetto particolarmente significativo, per rendere culto a Dio, è rappresentato
dalla solidarietà economica verso i poveri (cfr. 2Cor 9,11-15; Rm 15,15-16); e
Paolo non esiterà a considerare come profumo soave e sacrificio gradito a Dio il
sostentamento economico ricevuto dai filippesi, per mano di Epafrodito (cfr. Fil
4,18). Dunque, ci troviamo di fronte a una vera ricomprensione della relazione
con Dio: la propria esistenza e, in particolare, il servizio per il vangelo e la soli-
darietà economica verso i poveri non rappresentano una semplice conseguenza
del proprio culto ma essi stessi sono liturgia. Forse non è estraneo a questa cul-
tualizzazione dell'esistenza cristiana uno dei motivi provenienti dalla formazio-
ne farisaica di Paolo: senza negare l'importanza del tempio e del sacrificio sa-
75 Questo verbo compare 18 volte nel NT, di cui 11 volte in Atti e 7 nell'epistolario paolino: cfr. ICor
2,1; 9,14; 11,26; Fil 1,17.18; Col 1,28; At 3,24; 4,1; 13,5.38; 15,36; 16,17.21; 17,3.13.23; 26,23.
76 Così anche C.E.B. Cranfield, Romans, I, pp. 75-76.
77 Per le formule di giuramento paoline con martys (testimone) e riferite sempre a Dio cfr. lTs 2,5.10; Fil
1,8; cfr. espressioni analoghe in Gal 1,20; Rm 9,1. Cfr. anche ISam 12,5-6; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 1,595.
78 Cfr. anche latreuein in Rm 1,25; Fil 3,3.
79 Cfr. anche Fil 3,3-4; 2Tm 1,3. Per la metafora cultuale nell'epistolario paolino cfr. S. Cipriani,
Aspetti « liturgico-cultuali » nella lettera ai Filippesi, in M.M. Morfino (ed.), Theologica, FS. S. Zedda,
Casale Monferrato (AL) 1994, pp. 219-234; A. Pitta, Motivo cultuale, in Sinossi paolina, pp. 180-185.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 57
cerdotale, per Paolo come per i farisei del secolo I d.C., il culto riguarda ogni
aspetto dell'esistenza . 80

Al v. 9 è precisato anche l'ambito del servizio cultuale: « con il mio spirito ».


Non è facile stabilire con certezza il senso di pneuma in questo contesto: si riferi-
sce allo Spirito santo che rende possibile il culto a un aspetto della propria vita op-
posto a quello della carne, oppure alla propria persona totalmente coinvolta nel
culto esistenziale, con particolareriferimentoall'apostolato? Il parallelo di Fil 3,3
in cui si parla di coloro che rendono culto con lo Spirito di Dio potrebbe far pen-
sare allo stesso Spirito di santità citato nel frammento prepaolino di Rm 1,4. In
realtà Paolo, pur vivendo una particolare relazione con lo Spirito, non lo cita mai
come mio, come invece per il «Signore». Piuttosto, in ICor 14,14 l'espressione
«il mio spirito» siriferisceall'intera persona vitalmente intesa; lo stesso avverrà
in Rm 8,16, in cui egli distinguerà tra lo Spirito che attesta e il nostro spirito-. Per
questo ci sembra che, anche in questo caso, egli si riferisca alla propria persona
coinvolta nel culto da rendere a Dio, mediante il servizio per il vangelo . 82

Di fatto, Paolo rende culto a Dio con tutta la sua persona, mediante il « van-
gelo del Figlio di Dio » che va inteso non tanto come genitivo soggettivo o di au-
tore, nel senso del vangelo proclamato dal Figlio di Dio, bensì come genitivo og-
gettivo : il vangelo che permette a Paolo di rendere culto a Dio consiste e ha co-
83

me oggetto fondamentale lo stesso Figlio di Dio. Sino ad ora Paolo ha precisato


due aspetti contenutistici fondamentali del suo vangelo: Dio (Rm 1,1) e suo Figlio
(v. 4); in seguito spiegherà la portata di questa relazione.
Nella seconda parte del v. 9 compare il Mneiamotiv, ossia ilricordoche Paolo
nutre per i cristiani di Roma: a ben vedere, quest'espressione, come quella riguar-
dante la notizia della fede dei destinatari, è iperbolica. Al massimo Paolo può nutrire
un incessante ricordo per le comunità fondate da lui (cfr. Fil 1,3; Fm v. 4), ma non
verso una comunità che ancora non conosce. Tuttavia, quest'iperbole assume la fun-
zione di stabilire una positiva relazione tra mittente e destinatari. Sia il sostantivo « ri-
cordo » (mneia) sia l'avverbio « incessantemente » (adialeiptós) appartengono esclu-
sivamente al vocabolario paolino e sono caratteristici deiringraziamentiepistolari . 84

[v. 10] La richiesta che Paolo rivolge a Dio per i destinatari riguarda l'op-
portunità che gli sia concessa di poterli raggiungere: in tal modo egli introduce un
secondo motivo, tipicamente epistolare, della apousia-parousia, ossia della di-
stanza che intercorre tra mittente e destinatario e che si cerca di colmare con l'in-
vio della lettera.
Il programma del viaggio verso Roma è sottoposto, principalmente, alla vo-
lontà di Dio dalla quale dipende anche la concessione di tale possibilità. In certo
80 Per il motivo farisaico del culto cfr. A. Pitta, Giudaismo farisaico, in Paradosso, pp. 71-77.
81 Per l'uso di pneuma nell'epistolario paolino,riferitoalla persona umana, cfr. lTs 5,23; ICor 5,3-
5; 16,18; 2Cor 2,13; Gal 6,18; Fil 4,23; Fm v. 25.
82 Così anche J.D.G. Dunn, Romans, p. 29; D.J. Moo, Romans, p. 58.
83 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 58.
84 L'avverbio adialeiptós compare per il NT soltanto in lTs 1,2; 2,13; 5,17; cfr. anche l'analogo adia-
leiptós in Rm 9,2; 2Tm 1,2. Anche il sostantivo mneia, presente 7 volte nel NT, è esclusivamente paolino:
cfr. Rm 1,9; lTs 1,2; 3,6; Fil 1,3; Fm v. 4; Ef 1,16; 2Tm 1,3.
58 Traduzione e commento
senso sembra strano, se non eccessivo, quest'appello alla volontà di Dio, soprat-
tutto se si pensa che Paolo vi si richiama perriferirsial disegno divino: alla volontà
divina appartengono il disegno della salvezza realizzata in Cristo (cfr. Gal 1,4), la
figliolanza (cfr. Ef 1,5), la santificazione dei credenti (cfr. lTs 4,3; 5,19; Rm 12,2)
e la vocazione paolina all'apostolato (cfr. ICor 1,1; 2Cor 1,1; Col 1,1; 2Tm 1,1).
Senza negare questerilevanzeteologiche del sintagma « volontà di Dio », innanzi
tutto è bene riconoscerne l'utilizzazione propriamente epistolare: corrisponde al
semplice se Dio vuole o vorrà, tipico delle introduzioni epistolari . Nel contempo, 85

non si può ignorare che, proprio a causa della volontà divina per l'apostolato pao-
lino,rientranel disegno salvifico la possibilità di annunciare il vangelo ai cristia-
ni di Roma. Nella conclusione della lettera, Paoloriprenderàquesto motivo, dopo
aver annunciato il timoroso viaggio verso Gerusalemme: « Cosicché giunto da voi
con gioia, possariposarmi,per volontà di Dio, presso di voi » (Rm 15,32).
[v. 11] Il desiderio di visitare i destinatari è finalizzato alla comunicazione di
doni spirituali. Anche se Paolo si premura di specificare il motivo della visita fu-
tura, non è facile il senso dell'espressione «dono spirituale» (charisma... pneu-
matikon) che, fra l'altro, figura come hapax legomenon del NT . Lo stesso ter- 86

mine charisma, inteso come dono derivante dalla charin, assume nella Lettera ai
Romani diverse accezioni: può riferirsi ai doni che Dio ha elargito a Israele (cfr.
Rm 11,29), al dono della grazia realizzata in Cristo (cfr. Rm 5,15.16; 6,23), o ai
doni dello Spirito offerti ai credenti per l'edificazione della comunità (cfr. Rm
12,6). Con quest'ultima accezione, il termine è utilizzato nella ICorinzi che con-
tiene una sezione dedicata alla relazione tra i carismi, lo Spirito e la comunità
(cfr. ICor 12,1 - 14,40). Poiché, in Romani, Paolo si rivolge ad alcune comunità
non evangelizzate da lui ma già cristiane, i doni spirituali che intende comunica-
re si pongono al livello successivo rispetto a una prima evangelizzazione, appun-
to nella fase del rafforzamento della fede. Egli non si rivolge come ai cristiani di
Corinto, come spirituale a persone ancora carnali (cfr. ICor 3,1), bensì come spi-
rituale a spirituali.
Non è necessario pensare che, in questo modo, Paolo interpelli i capi delle
comunità romane, presentandosi anch'egli come «spirituale»: la prosecuzione
della lettera non contiene indizi di questo tipo. Piuttosto, se consideriamo come
appartenente alla lettera l'inno finale di Rm 16,25, in cui compare nuovamente il
verbo stérìzein (rafforzare) , si deve pensare ai doni spirituali derivanti dalla pre-
87

dicazione del vangelo paolino: « A colui che ha il potere di rafforzarvi secondo il


mio vangelo... ». Per questo, oltre alla connessione tra il vangelo paolino e i doni
spirituali, è impossibile definire quali siano i doni che Paolo intende comunicare

85 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 296.


86 Preso singolarmente l'aggettivopneumatikos compare 26 volte nel NT, di cui 24 nelle lettere pao-
line: Rm 1,11; 7,14; 15,17; ICor 2,13.13.15; 3,1; 9,1; 10,3.4.4; 12,1; 14,1.37; 15,34.44.46.46; Gal 6,1; Col
1,9; 3,16; Ef 1,3; 5,19; 6,12; cfr. anche lPt 2,5.5. Il sostantivo karisma si trova 17 volte nel NT, di cui 16
nell'epistolario paolino: Rm 1,11; 5,15.16; 6,23; 11,29; 12,6; ICor 1,7; 7,7; 12,4.9.28.30.31; 2Cor 1,11;
lTm 4,14; 2Tm 1,6; lPt4,10.
87 Anche il verbo stérìzein è caro al vocabolario paolino: vi si trova 6 volte su 13: Rm 1,11; 16,25;
lTs 3,2.13; 2Ts 2,17; 3,3; anche Le 9,51; 16,26; 22,32, Gc 5,8; lPt 5,10; 2Pt 1,12; Ap 3,2.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 59
ai destinatari: egli non è ancora giunto a Roma per poterlo stabilire, anche se sa
che tali doni derivano dalla predicazione del vangelo.
[v. 12] Forse il desiderio di comunicare i propri doni a una comunità già cri-
stiana e senza che si conosca il suo livello di fede può essere considerato com'e-
spressione di autoesaltazione. Quali doni potrebbero ricevere i destinatari da
Paolo, come da altri cristiani, che non abbiano già sperimentato con la forza dello
Spirito? Paolo sembra prevenire tale obiezione che avrebbe potuto intorpidire le
relazioni con i destinatari, mediante una correctio o epanortosi retorica: corregge
quanto ha appena detto. Questa correzione può essere evidenziata con il contrasto
tra il verbo « comunicare » del v. 11 e il sintagma « esortarsi vicendevolmente »
del v. 12. Nell'espressione precedente, Paolo sembra sottolineare la propria auto-
rità apostolica, in quella attuale siriconoscecome cristiano fra gli altri che condi-
vide la stessa fede. Senza questa epanortosi, si potrebbe pensare all'esortazione
vicendevole come dono spirituale che Paolo intende comunicare ai destinatari,
una volta giunto a Roma; ma tale dono spirituale non ha bisogno della sua pre-
senza per agire nelle comunità cristiane né può essere considerato come un dono
particolarmente raro e specifico del vangelo paolino: è compito di ogni credente
esortare i fratelli nella fede, come dimostra il carisma dell'esortazione o della con-
solazione (cfr. Rm 12,8; anche ICor 14,31).
Per correggere la sensazione di boriosità che poteva emergere dalle prime
battute della lettera e lasciare spazio a una relazione di reciprocità, Paoloricorrea
un hapax legomenon del NT, symparakaleomai, verbo composto di syn (con) e
parakaleomai (esortarsi). L'insistenza sulla reciprocità, che contrasta con l'univo-
cità del v. 11,risaltaproprio dalla particella syn, dal pronome reciproco « vicende-
vole » (allelois) e dai pronomi « vostra » e « mia »riferitialla fede che condivido-
no Paolo e i cristiani di Roma. La stessa citazione della fede dei destinatari, prima
della sua, sembra addirittura capovolgere le posizioni relazionali, espresse in que-
sti versi: dai doni spirituali di Paolo ai destinatari (v. 11) si passa all'esortazione
reciproca (v. 12a) e alla preminenza della fede dei destinatari. Ancora una volta è
richiamata la fede dei destinatari, come all'inizio dell'esordio (v. 12); e per la ter-
za volta (vv. 5.8.12), in quest'introduzione della lettera, Paolo evoca l'importan-
za della fede, relazionata all'obbedienza (v. 5), senza ulteriori specificazioni: si
tratta della fede in chi e per chi? In tutta questa sezione introduttiva egli lascia nel
generico iriferimentidella fede che invece spiegherà successivamente.
[v. 13] L'ultima parte (vv. 13-15) dei ringraziamenti-esordio riprende il mo-
tivo della apousia-parousia epistolare per spiegare le ragioni che hanno impedito
l'incontro tra Paolo e i cristiani di Roma. Queste sono introdotte da una formula
tipicamente paolina, utilizzata altrove per l'inizio di una nuova pericope il cui
contenuto è particolarmente importante: «Non voglio però che ignoriate... » . In 88

tal caso, pur trattandosi di qualcosa di decisivo, questa formula non introduce un
nuovo paragrafo poichériprende,per precisare, la tematica della apousia-parou-
sia epistolare.

88 Cfr. Rm 11,25; lTs 4,13; ICor 10,1; 12,1; 2Cor 1,8.


60 Traduzione e commento
Alla formula introduttiva è aggiunto il vocativo «fratelli»: è la prima volta
che Paolo sirivolgein tal modo ai destinatari; lorifaràin Rm 7,1 nuovamente con
il verbo agnoein (ignorare), anche se in una formula diversa. I tentativi passati per
raggiungere Roma sono espressi con un raro ma intenso verbo di desiderio: « Ho
progettato» (proetheménè più intenso dei verbi analoghi boulesthai (essere
convinto, cfr. 2Cor 1,15) e thelein (volere, cfr. lTs 2,18) che Paolo utilizza altro-
ve per esprimere il desiderio di raggiungere le sue comunità . 90

La seconda parte è introdotta da un kai con valore avversativo che introduce


una frase parentetica con la quale Paolo precisa la motivazione che gli ha impedi-
to di raggiungere Roma. Non è facile stabilire chi o che cosa gli abbia impedito
tale viaggio: satana, Dio o eventi più urgenti rispetto all'evangelizzazione in altri
paesi? In base all'affermazione analoga di lTs 1,18 si potrebbe pensare a satana.
Non è impossibile neppure un riferimento alla volontà di Dio, citata già al v. 10;
una situazione analoga è raccontata in At 16,6, con l'attribuzione dell'impedi-
mento allo Spirito: « Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia es-
sendo stati impediti (kólythentes) dallo Spirito santo... ». Poiché in Rm 15,22 Pao-
loriprendequesta ragione, dopo aver sottolineato di avere evangelizzato da Geru-
salemme sino all'Illiria (cfr. Rm 15,19), sembra che non sia necessario pensare a
un passivo divino in Rm 1,13: la priorità di raggiungere paesi dove nessuno ave-
va ancoraricevutoil vangelo ha spinto Paolo a posticipare continuamente il viag-
gio verso Roma.
Dopo la parentesi del v. 13b, è spiegata una nuova ragione per la quale egli
avrebbe desiderato raggiungere i destinatari: raccogliere qualche frutto fra loro
come in mezzo agli altri gentili. Il sostantivo «frutto» (karpos) è utilizzato da
Paolo con diverse accezioni: come metafora per indicare il lavoro del ministero
apostolico (cfr. ICor 9,7; Fil 1,22; 2Tm 2,6), per esprimere l'azione fecondatrice
dello Spirito (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22; Fil 1,11; Ef 5,9), opposta alla vita secondo
la carne (cfr. Rm 6,11), e come eufemismo per valutare in modo positivo le col-
lette che le sue comunità hanno raccolto per lui (cfr. Fil 4,17) o per la Chiesa dei
poveri di Gerusalemme (cfr. Rm 15,28). Con molta probabilità qui si riferisce a
quest'ultimo senso, se visto in relazione a Rm 15,28: egli avrebbe desiderato che
anche le comunità prevalentemente etnico-cristiane di Roma, pur non essendo
state fondate da lui, avessero partecipato alla colletta per la comunità madre di
Gerusalemme . 91

Alcuni sottolineano a tal punto questa motivazione da pensare che Paolo


scriva ai romani per chiedere tale collaborazione economica, almeno in vista del-
l'evangelizzazione in Spagna: questo sarebbe confermato, ancora una volta, da
Rm 15,24-32. Non c'è dubbio che Paolo speri di essere aiutato economicamente
anche dai cristiani di Roma, ma che questa sia la ragione per la quale sirivolgaa
loro significa ridurre la presente lettera a Rm 1 e a Rm 15, mentre questa non rap-
presenta che una delle motivazioni secondarie: ne è prova che Paolo non dedica
89II verboprotihesthai compare 3 volte nel NT e soltanto nell'epistolario paolino: Rm 1,13; 3,25; Ef 1,9.
" Così anche C.E.B. Cranfìeld, Romans, I, p. 82.
91Così anche M.A. Kruger, Tina karpon, «Some Fruit», in Rom 1,13, in WTJ 49 (1987) 168-170.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 61
alcuna sezione, come invece in 2Cor 8,1 - 9,15, a una colletta da organizzare nel-
le comunità cristiane di Roma. Comunque, questa motivazione conferma l'origi-
ne prevalentemente etnico-cristiana dei destinatari (v. 6).
[v. 14] Nell'economia deiringraziamenti,questo verso svolge un ruolo parti-
colare, a causa della solennità con cui è formulato e della relazione asindetica ri-
spetto a quanto è stato scritto in precedenza. Tuttavia, dal punto di vista contenuti-
stico prosegue ilriferimentoalla colletta che Paolo sta per portare a Gerusalemme
e cui avrebbero potuto partecipare anche i cristiani di Roma: esso è riconoscibile
per l'aggettivo « debitore » (opheiletes) del v. 14 che, insieme al verbo ophe ile in, è
tipico del vocabolario economico . In tal modo egliriconosceche le sue comunità
92

hanno un debito di collaborazione economica verso di lui e, in particolare, verso la


comunità di Gerusalemme.
In questa prospettiva vanno intese le coppie di destinatari verso i quali egli si
riconosce debitore: greci e barbari, sapienti e ignoranti. La prima coppia, greci-
barbari, non utilizzata altrove nell'epistolario paolino, non sostituisce quella del
v. 16 (giudeo-greco), per cui il « greco » avrebbe funzione metonimica per indica-
re i gentili mentre « barbaro » siriferirebbeai giudei. Come Filone Alessandrino e
Flavio Giuseppe, Paolo utilizza questa coppia per indicare, da un punto di vista
linguistico-culturale, coloro che non sono ebrei, appunto i gentili . Di fatto, egli 93

non è debitore dei giudei ma soltanto dei gentili che hanno accolto l'invito a col-
laborare alle sue iniziative economiche. Accanto a questo binomio è collocato
quello più ampio, di natura culturale, tra sapienti e ignoranti: anche questa coppia
non sarà più utilizzata da Paolo, mentre i singoli termini sono tipici del suo voca-
bolario . In quanto tali, i termini sapiente e ignorante sono spesso utilizzati altro-
94

ve in senso etico: sapiente è colui che si adopera per il bene (cfr. Rm 16,19); men-
tre lo stolto è chi, come i galati, si lascia ammaliare dai predicatori della circonci-
sione invece di aderire pienamente a Cristo crocifisso (cfr. Gal 3,1.3). A causa
della relazione tra questa coppia e la precedente, i sapienti e gl'ignoranti vanno in-
tesi in base al livello culturale che caratterizza coloro che hanno aderito al vange-
lo, senza alcuna connotazione etica . Per questo abbiamo preferito tradurre il ter-
95

mine anoètos con ignorante, nel senso letterale di chi non sa, e non con stolto o
sciocco, con valore dispregiativo. In pratica, qui Paolo ribadisce l'universalismo
della missione sottolineato in ICor 9,1-27: «...Mi sono fatto servo di tutti per gua-
dagnare il maggior numero » (v. 19).
[v. 15] Iringraziamentisi concludono con una consecutiva in cui è sottolinea-
to l'universalismo della missione apostolica di Paolo: egli desidera annunciare il
92 Per opheiletes in senso economico cfr. Rm 15,27; per la stessa accezione del verbo opheilein cfr.
Rm 15,27; 2Cor 12,11.14; Fm v. 18.
93 Cfr. Filone, Ehrietate 193-205; Mosis 2,12,20; Legibus 2,44-45; Mundi 128; Decalogo 153. Così
anche DJ. Moo, Romans, p. 62.
94 II termine sophos compare 20 volte nel NT, di cui 15 nelle lettere paoline (cfr. Rm 1,14.22;
16,19.27; ICor 1,19.20.25.26.27; 3,10.18.18.19.20; 6,5); il corrispondente anoetos si trova 6 volte nel NT,
di cui 5 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,14; Gal 3,1.3; lTm 6,9; Tt 3,3; cfr. anche Le 24,25).
95 In ICor 1,19-3,20 Paolo passa invece facilmente dal valore culturale a quello morale di sophos:
sapiente è il greco che si appoggia sulla sapienza umana ma, nello stesso tempo, diventa falsamente tale
quando esclude la parola della croce.
62 Traduzione e commento
vangelo anche ai cristiani di Roma, come a tutti gli etnico-cristiani dell'impero. In
certo senso, sorprende il desiderio di evangelizzare una comunità già cristiana:
Paolo si riferisce all'edificazione di una comunità già radicata nel vangelo cristia-
no oppure intende evidenziare, con tale predicazione, la novità del suo vangelo?
96

L'uso del verbo euaggelizein nell'epistolario paolino, utilizzato generalmente per


intendere il primo livello di predicazione , fa propendere decisamente per la secon-
97

da ipotesi; e questa rappresenta la reale motivazione per la quale Paolo indirizza la


sua più lunga lettera ai cristiani di Roma: per annunciare il contenuto profetico e ori-
ginale del suo vangelo e non per edificare su quanto altri hanno già costruito. Tale
interpretazione sarà confermata nella parte conclusiva della lettera (cfr. Rm 15,20).
Questo significa che la Lettera ai Romani riguarda il vangelo paolino con la
novità della sua consistenza rispetto alla predicazione che i cristiani di Roma han-
no già accolto. Si può rilevare come il vangelo rappresenti la ragione fondamen-
tale per la quale Paolo scrive sia ai galati sia ai romani, anche se nel primo caso si
tratta di rievangelizzazione (cfr. Gal 1,11-12), mentre nel secondo è in gioco la
novità del suo vangelo rispetto alla prima adesione cristiana.
La tesi generale: il vangelo (1,16-17). - Un elemento strutturale della Lettera
ai Romani, sul quale si è generalmente concordi, riguarda la tesi o propositio ge-
nerale , anche se alcuni preferiscono separare il v. 16a dai vv. 16b-17, facendolo
98

rientrare nella pericope precedente . In realtà, è bene riconoscere che ci troviamo


99

sempre nella sezione introduttiva, per cui il passaggio da una pericope all'altra
non è marcato: il soggetto del v. 16 è lo stesso del v. 15, ossia Paolo disposto a
evangelizzare i cristiani di Roma e che non si vergogna del vangelo. La connes-
sione tra i ringraziamenti e la tesi è confermata dal gar (infatti) del v. 16a, che
svolge un chiaro intento causale: Paolo desidera predicare ai destinatari perché
non si vergogna del suo vangelo. Nello stesso tempo, i vv. 16-17 assumono un'au-
tonomia propria in quanto si passa dalla relazione tra Paolo e il vangelo al conte-
nuto stesso del vangelo. Con il v. 18 comincia la trattazione dell'ira divina, intro-
dotta dalla parola gancio apokalyptetai (si rivela), ripresa dal v. 17.
La tesi si compone di tre parti: la relazione tra Paolo e il vangelo (v. 16a); l'i-
dentità universale del vangelo (v. 16b) e il suo contenuto (v. 17). Si può rilevare
che queste tre parti sono cadenzate da un « infatti » (gar) che introduce ogni pro-
posizione; in questi versi non assume soltanto funzione di collegamento bensì di
causalità : ogni asserzione dipende e riceve il suo supporto dall'affermazione
100

successiva. Paolo non si vergogna del vangelo (v. 16a), perché esso rappresenta la
potenza salvifica di Dio (v. 16b) e il suo contenuto fondamentale è costituito dalla
giustizia di Dio (v. 17). I termini più frequenti di questa tesi sono « fede » (v. 17.17)

Così DJ. Moo, Romans, p. 63.


96

Cfr. ICor 1,17; 9,16; 2Cor 11,7; Gal 1,8.9.11.16.23.


97

Così J.-N. Aletti, La lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Roma 1997, pp. 33-34; J.A. Fitzmyer,
98

Romani, pp. 303-304; D.J. Moo, Romans, p. 63.


Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, pp. 86-87.
99

Sull ' importanza in Romani della natura « esplicativa » di gar cfr. A.C. Wire, « Since God is One »,
100

pp. 212-213.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 63
e «credere» (v. 16), «giustizia» (v. 17a), «giusto» (v. 17b): esprimono la temati-
ca generale della lettera.
[y. 16] Non è la prima volta che Paolo, dopo l'esordio, introduce la tesi ge-
nerale di una sua lettera : bisognerà decidere, in base all'analisi contenutistica,
101

se si tratta di una tesi generale oppure di una partitio, ossia di una tesi che intro-
duce, in modo dettagliato, le singole parti della lettera. Nello stesso tempo sarà
necessario stabilire se questa tesi vale per una parte, come ad esempio per Rm
1,18 - 4,25, per Rm 1,18 - 11,36, oppure per l'intera lettera, compreso l'epilogo
di Rm 15,14-32 e l'inno finale di Rm 16,25-27. Di certo è bene subito riconosce-
re che non siamo posti davanti a una semplice affermazione solenne che si staglia
dal contesto immediato ma, come generalmente nell'epistolario paolino, a una te-
si generativa che dinamizza quanto segue.
A confronto con le altre tesi generali che abbiamo segnalato, quella di Rm
I,16-17 comincia con una sentenza negativa e in tono dimesso: «Non mi vergogno
infatti del vangelo... » è una litote retorica, attraverso la quale, in forma negativa,
Paolo afferma che si vanta del vangelo. La scelta per una tesi espressa per via ne-
gationis è dovuta principalmente a quanto abbiamo sottolineato per i ringraziamen-
ti: è la prima volta che egli sirivolgea cristiani dei quali conosce soltanto una par-
te e spera di non essere frainteso nella proposta del vangelo che intende spiegare.
Una cosa è scrivere per la prima volta ai destinatari, dicendo di vantarsi, un'altra as-
serire di non vergognarsi: si è più ben accolti nel secondo modo che nel primo!
Per una sensibilità come la nostra, vantarsi crea comunque un problema re-
lazionale: si rischia di risultare antipatici, anche se non si dice! Invece, in epoca
ellenistica, la questione principale nonriguardavase vantarsi o meno bensì le cre-
denziali per farlo. Plutarco scriverà un manuale sulla periautologia o su come
vantarsi senza suscitare l'invidia; ed Ermogene di Tarso, nel suo manuale di reto-
rica, dedicherà una sezione al vanto di sé . Per questo Paolo non esita a vantar-
102

si : si tratta di definire la consistenza e lefinalitàdi tale vanto; perché egli « non


103

si vergogna » o meglio non esita a vantarsi?


Dal punto di vista semantico, nell'epistolario paolino il vocabolario del
«vergognarsi» risulta di gran lunga inferiore rispetto a quello del «vantarsi» . 104

Cfr. le tesi generali di ICor 1,18-19 rispetto a ICor 1,20 - 4,21; di Gal 1,11-12 per la Lettera ai
101

Galati e di Fm v. 10 per Filemone.


Cfr. Plutarco, De se ipsum citra invidiam laudando (Moralia 538A-547F); Ermogene di Tarso,
102

Sulla metodologìa retorica 25.


Sul motivo del vanto nel pensiero paolino cfr. G. Lyons, Pauline Autobiography. Toward a New
103

Understanding (SBL DS 73), Atlanta 1985; J. Sànchez Bosch, «Gloriarse» segun san Pablo. Sentido y
teologia de kauchaomai (AnBib 40), Roma-Barcellona 1970.
II verbo epaischynomai compare 11 volte nel NT, di cui 5 nell'epistolario paolino: cfr. Rm 1,16;
104

6,21; 2Tm 1,8.12; 2Tm 1,16; cfr. anche Me 8,38.38; Le 9,26.26; Eb 2,11; 11,16. Se da una parte la fami-
glia lessicale del « vanto » è quasi esclusiva del vocabolario paolino, mentre è rara nel resto del NT, dal-
l'altra è molto più diffusa. Il verbo kauchasthai si trova 37 volte nel NT, di cui 35 nelle lettere paoline: cfr.
Rm 2,17.23; 5,2.3.11; ICor 1,29.31.31; 3,21; 4,7; 13,3; 2Cor 5,12; 7,14; 9,2; 10,8.13.15.16.17.17;
II,12.16.18.18.30.30; 12,1.5.5.6.9; Gal 6,13.14; Fil 3,3; Ef 2,9. Il sostantivo kauchesis è presente 11 vol-
te nel NT, di cui 10 nell'epistolario paolino (cfr. lTs 2,19; ICor 15,31; 2Cor 1,12; 7,4.14; 8,24; 11,10.17;
Rm 3,27; 15,17). Paolo utilizza anche il sostantivo kauchema che si trova 11 volte nel NT, di cui 10 nel suo
epistolario (cfr. Rm 4,2; ICor 5,6; 9,15.16; 2Cor 1,14; 5,12; 9,3; Gal 6,4; Fil 1,26; 2,16).
64 Traduzione e commento
Non è un caso che la tesi principale di Romani si apra con questo motivo implici-
to del vanto: se considerata in termini positivi, la tesi introduce soprattutto le que-
stioni sul vanto del giudeo nei confronti del gentile in Rm 2,1 - 3,19: «Ma se tu
che porti il nome di giudeo ti adagi sulla Legge, ti vanti in Dio (Rm 2,17)... Che
dunque? Forse siamo avvantaggiati? Non del tutto! » (Rm 3,9). In Rm 3,27 si tro-
va la questione esplicita sul vanto: «Dov'è dunque il vanto?». Anche le prime
battute di Rm 5,1 - 8,39 si aprono con il vanto (cfr. Rm 5,2; anche Rm 5,3.11). Il
motivo del «non vergognarsi», ma con il verbo kataischynomai, tornerà in Ro-
mani, con chiararilevanzacristologica: Cristo è la pietra d'inciampo di fronte al-
la quale chi crede non si vergognerà (Rm 9,33) e « chiunque crederà in lui non si
vergognerà» (Rm 10,11) . 105

Questa prima asserzione di Rm 1,16 sembra contrastare con quanto Paolo


stesso aveva sostenuto scrivendo ai corinzi: «Non è infatti per me un vanto pre-
dicare il vangelo, è un dovere» (ICor 9,16). In realtà, mentre in ICor 9 si riferi-
sce al servizio per il vangelo, che rappresenta la ragione stessa del suo apostolato,
qui subentra l'attenzione al contenuto del vangelo, anche se Paolo lascia sospesi
i destinatari perché non spiega le motivazioni che lo inducono a non vergognarsi
del vangelo. In questa tesi, non vergognarsi è subito relazionato al vangelo, pre-
sentato per la prima volta, in Romani, senza specificazione: Paolo non dice di non
vergognarsi del vangelo di Dio (cfr. Rm 1,1) o del suo Figlio (cfr. Rm 1,9) né, an-
ticipando l'affermazione di Rm 2,16, del mio vangelo, ma semplicemente del
vangelo, in una prospettiva generale . 106

La seconda parte della tesi generale è dedicata all'identità e alla destinazione


del vangelo: è potenza di Dio e si rivolge a chiunque crede. Paolo ha utilizzato il
sostantivo dynamis in Rm 1,4 per specificare l'azione dello Spirito di santità nel-
la costituzione del Figlio di Dio in potenza dallarisurrezionedei morti. Ora la po-
tenza caratterizza lo stesso vangelo: senza ignorare il senso generale di dynamis,
che puòriferirsia qualsiasi azione di Dio, ci sembra che Paolo orienti decisamen-
te questo termine verso una connotazione pneumatologica: lo Spirito permette al
vangelo dirisultarecredibile, al punto da indurre a vantarsi di esso. Egli sostiene
qualcosa di analogo nella tesi di ICor 1,18-19, con la variazione che lo stesso van-
gelo è presentato in termini più espliciti, come « la parola della croce..., potenza di
Dio » . Tale connotazione pneumatologica di dynamis è confermata, in particola-
107

re, da Rm 15,17-19 in cui Paolo, vantandosi in Cristo, ricorda la «potenza dello


Spirito » che ha operato in lui . Con lo stile lapidario che gli è tipico, Lutero in-
108

tuisce bene l'istanza pneumatologica di questa dynamis: «Dunque affermare che


l'Evangelo è potenza di Dio, cioè che l'Evangelo è forza dello Spirito... >> 109

105 Cfr anche M.L. Reid, PauVs Rhetoric, p. 124.


106 Alcuni codici, come W e D,riportanola specificazione «di Cristo»; a parte l'insufficiente atte-
stazione per questa variante, mentre la maggior parte dei codici riporta soltanto il termine «vangelo»,
sembra più un tentativo di miglioramento o di spiegazione sulla relazione tra Cristo e il vangelo paolino.
107 Per «potenza di Dio» cfr. anche 2Cor 2,5; 2Tm 1,8; cfr. anche «potenza del Signore» riferita a
Cristo in ICor 5,4; 2Cor 4,7; 6,7 e «potenza di Cristo» in 2Cor 12,9; 13,4.
log p l'espressione «potenza dello Spirito» cfr. anche Rm 15,13; cfr. pure la formula «potenza e
Spirito santo» in lTs 1,5.
er

109 M. Lutero, Romani, p. 203.


Introduzione epistolare Rm 1,1-17 65
La potenza pneumatologica di Dio con la quale è definito il vangelo in Rm
1,16b rende possibile la salvezza di chiunque crede: così Paolo introduce un altro
termine centrale nell'economia della lettera, la salvezza (sótéria) intesa non come
liberazione spirituale bensì come evento storicamente riconoscibile , in quanto 110

relazionato all'intervento àpocalittico di Dio . Questa relazione tra il vangelo e


111

la salvezza apocalittica è vicina all'oracolo di Is 52,7 che sarà esplicitamente ri-


preso in Rm 10,15: « Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti an-
nunci, che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza».
Dunque, la relazione tra vangelo e salvezza è una delle principali tematiche di Ro-
mani, da valutare in relazione alla giustizia di Dio . 112

Accanto alla prospettiva apocalittica della salvezza è bene sottolineare quel-


la universale e sociale, contro ogni interpretazione intimistica e soggettiva: il van-
gelo assume come finalità principale la salvezza di tutti coloro che credono.
Anche l'aggettivo «tutti» (pantes) assume particolare significato in Romani, so-
prattutto nella sezione di Rm 1,18- 4,25. A « tutti coloro che hanno peccato » (cfr.
Rm 3,23) si oppongono «tutti coloro che credono» (cfr. Rm 3,22; 4,11; 10,4.11):
non è un caso che, a differenza dalla tesi di ICor 1,18, qui Paolo non opponga
« tutti coloro che credono » o « che si salvano » a « tutti coloro che hanno peccato »
o « si perdono ». Anche se dopo questa tesi generale tratterà di tutti coloro che han-
no peccato (cfr. Rm 1,18 - 3,20), non bisogna perdere di vista l'orientamento sal-
vifico per tutti.
L'universalismo della salvezza assume non caratteri generici bensì quelli di
una storia considerata come realizzazione della salvezza: per questo Paolo speci-
fica che tutti coloro che credono sono giudei e greci. Spesso le traduzioni di Rm
I,16b tradiscono la prospettiva paolina, quando rendono l'originale con «del
giudeo prima e poi del greco » (cfr. BJ) . In greco si trova una disposizione pa-
113

ratattica della proposizione: te... kai (tanto... quanto). L'universalismo della sal-
vezza vale sia per il giudeo sia per il greco, senz'alcuna differenza: e questo co-
stituisce il primo aspetto dell'universale orientamento della salvezza attestato nel
vangelo. Nello stesso tempo, è bene non misconoscere il «prima» (próton), rife-
rito al giudeo, che non contraddice l'universale uguaglianza della salvezza ma la
riconosce storicamente realizzata. Di fatto, la salvezza è stata annunciata prima ai
giudei e quindi ai gentili, poiché questo è richiesto dalla sua economia storica.
Queste asserzioni sembrano due redini di un auriga, da tener sempre equidistanti
per non rischiare di far deragliare il carro: come possono stare insieme l'univer-
salismo della salvezza e la priorità dei giudei? Sarà una delle principali preoccu-

110 II sostantivo sótéria compare 18 volte nell'epistolario paolino su 46 del NT (cfr. Rm 1,16; 10,1.10;
II,11; 13,11; lTs 5,8.9; 2Ts 2,13; 2Cor 1,6; 6,2.2; 7,10; Fil 1,19.28; 2,12; Ef 1,13; 2Tm 2,10; 3,15). In Rm
9,1-11,36 Paolo affronterà direttamente la tematica della salvezza in prospettiva cristologica.
111 In questa prospettiva cfr. l'intervento salvifico annunciato in Is 12,2; 25,9; 46,13; 49,6; 51,4-5;
52,7.10.
112 II rapporto tra il vangelo o « la parola della croce » e la salvezza o « coloro che si salvano » è sta-
to sottolineato in ICor 1,18; cfr. anche l'espressione «il vangelo della salvezza» in Ef 1,13.
113 L'errorerimanenella nuova traduzione della CEI, La Sacra Scrittura, Nuovo Testamento, Roma
1997, p. 352.
66 Traduzione e commento
pazioni di Paolo nelle dimostrazioni successive. Intanto è importante riconosce-
re queste tensioni annunciate nella tesi di Rm 1,16-17 senza tentare di escludere
il tanto... quanto, come propone buona parte delle versioni moderne, né il prima,
come avevano stabilito alcuni testimoni antichi (cfr. i codici B, G) e Marcione
con il suo antigiudaismo.
Il binomio giudeo-greco, tipico di Romani , sostituisce quello più generale
114

giudeo-gentile (cfr. ICor 1,23; Gal 2,15), ma è diverso da quello precedente tra
greci-barbari (v. 14). Ora Paolo non considera più soltanto la propria missione
presso i gentili, distinti in greci e barbari, intesi come altro da Israele, bensì rico-
nosce l'universalismo del vangelo indirizzato ai giudei e ai gentili: all'umanità
presentata dal punto di vista etnico-religioso. Dal versante propriamente ebraico,
egli ha sostenuto che, in quanto tali, i greci o i gentili sono peccatori (cfr. Gal
2,15), non in senso etico ma etnico-religioso, in quanto non appartengono al po-
polo dell'alleanza. Non di meno, ora afferma che il vangelo è indirizzato ai giu-
dei e ai greci.
[v. 17] L'ultima parte della tesi generale fonda l'intera argomentazione Pao-
lina, in quanto esplicita il contenuto del vangelo: la giustizia di Dio. La storia del-
l'interpretazione di questa tematica ha visto molteplici prospettive con le quali si
è cercato di chiarire il senso di un termine così complesso . Si è passati dal ver-
115

sante forense greco-romano a quello anticotestamentario della giustizia di Dio,


dalla rilevanza esistenziale a quella apocalittica, dalle implicazioni teologiche a
quelle antropologiche. Intanto è bene analizzare, volta per volta, il senso del ter-
mine «giustizia» e la sua rilevanza teologica o antropologica, per non rischiare
di caricarne la portata di un eccessivo peso contenutistico.
Buona parte della teologia luterana ha fatto della giustizia di Dio il carattere
distintivo del proprio orientamento, forse a volte con eccessiva appropriazione. In
ambito propriamente esegetico, non c'è più motivo per distinguere un'esegesi lu-
terana da una cattolica o ortodossa. Da questo punto di vista, il dialogo fra le Chie-
se è pervenuto a un accordo globale con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina
della giustificazione del 31 ottobre 1999, con la convergenza della Chiesa cattoli-
ca e della Federazione Luterana Mondiale. Se tutti concordano sull'importanza
della giustizia divina nell'epistolario paolino, non mancano studiosi di estrazione
luterana che la considerano come cratere secondario rispetto a quello principale
della misticapaolina dell'essere « in Cristo » ; e diversi studiosi di estrazione cat-
116

114 Nella stessa composizione con il « prima » e il « tanto... quanto » cfr. Rm 2,9.10; senza il « prima »
cfr. Rm 3,9; 10,12; ICor 1,24; senza neppure il «tanto... quanto » cfr. ICor 12,13; Gal 3,28. Tranne che in
Col 3,11, l'ordine della coppia procede dal giudeo al greco.
115 Per un bilancio bibliografico-critico sulla giustizia nell'epistolario paolino cfr. in particolare
J.D.G. Dunn, The Justice ofGod. A Renewed Perspective on Justification by Faith, in JTS 43 (1992) 1-22;
P.T. O'Brien, Justification in Paul and Some Cruciai Issues ofthe Last Two Decades, in D. A. Carson (ed.),
Right with God: Justification in the Bible and the World, Grand Rapids 1992, pp. 70-78; R. Penna, Il tema
della giustificazione in Paolo. Uno status quaestionis, in G. Ancona (ed.), La giustificazione, Padova
1997, pp. 27-36; G. Pulcinelli, «È stata manifestata la giustizia di Dio ». L'interpretazione di Rm 3,21-22
e la sua funzione nel contesto, in Lateranum 64 (1998) 19-35.
116 Cfr. in particolare A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, Tübingen 1954 , pp. 220-221.
2
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 67
tolica considerano la giustizia di Dio come l'articolo fondamentale che sorregge la
fede cristiana . 117

Rispetto a questo dibattito ritengo che l'apporto retorico risulti fondamenta-


le in quanto il concatenamento argomentativo delle asserzioni paoline permette
di riconoscere la priorità o meno di una tematica, come la giustizia, nell'episto-
lario paolino. Se Rm 1,16-17 rappresenta la tesi generale della lettera, ne conse-
gue che la giustizia di Dio, in quanto contenuto del vangelo, costituisce la tema-
tica principale della stessa lettera. Naturalmente è necessario comprendere in che
senso il vangelo in Romani riscontra nella giustizia divina il suo elemento di-
stintivo: intanto è importante riconoscerne la priorità. Questo però non significa
che la giustizia divina si trova al centro dell'intero pensiero paolino: altrove
Paolo ne tratta in misura inferiore e subordinata. Basta porre attenzione alla di-
sposizione retorica di Galati o di 1 Corinzi perrilevareche il vangelo paolino tro-
va le sue tematiche principali rispettivamente nella figliolanza universale e nelle
implicazioni della parola della croce. Dunque, ciò che è centrale per Romani non
lo è per Galati o per 1 Corinzi, per soffermarci alle principali esemplificazioni di
confronto. La centralità della giustizia di Dio in Romani è confermata dal livello
linguistico nella lettera: i termini dikaiosynè, dikaios, dikaiósis dikaióma,
dikaiokrisia e il verbo dikaioun sono tipici e, in alcuni casi, esclusivi di Romani.
La stessa espressione « giustizia di Dio » è diffusa in Romani mentre è rara nel 118

restante epistolario paolino.


In rapporto a queste frequenze è significativo che Paolo parli della giustizia
di Dio e non, ad esempio, di quella di Cristo, anche se lo riconosce come giusti-
zia per noi (cfr. ICor 1,30) e sottolinea che, mediante lui, siamo diventati giusti-
zia di Dio (cfr. 2Cor 5,21). Il panorama della Lettera ai Romani si apre non im-
mediatamente con Cristo bensì con Dio e con la sua giustizia, senza ignorare le
implicazioni cristologiche della giustizia divina che saranno spiegate successiva-
mente. Per la comprensione di questa tematica è decisivo l'apporto dell'AT e 119

del giudaismo del secondo Tempio , più che il retroterra greco-romano. Forse è
120

illuminante quanto sostiene la Regola della comunità di Qumran, a proposito del-


la giustizia di Dio:
« Quanto a me, se inciampo le misericordie di Dio saranno la mia salvezza
per sempre; se cado nel peccato, nella giustizia di Dio (b'sidqàt èl), che eterna- y

mente resta, sarà il mio giudizio; se inizia la mia afflizione egli libererà la mia ani-

1.7 Cfr. K. Kertelge, «Giustizia in Paolo ». Studi sulla struttura e sul significato del concetto paolino
di giustificazione (GLNT S 5), Brescia 1991.
1.8 Secondo l'ordine «giustizia di Dio» cfr. 2Cor 5,21; Rm 1,17; 3,21.22; 10,3b; nell'ordine inverso
«di Dio giustizia» cfr. Rm 3,5; 10,3a; Fil 3,9. Cfr. anche «giustizia» con il pronome autos, riferito sem-
pre a Dio, in 2Cor 9,9; Rm 3,5.25.26.
119 Cfr. a tal proposito soprattutto l'ottimo contributo di P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure,
vocabolario, orientamenti (AnBib 110), Roma 1986; cfr. anche J. Krasovec, La justice (sdq) de Dieu dans
la Bible hébraique et l'interprétation juive et chrétienne, Freiburg-Gòttingen 1988.
120 Cfr. 1QS 11,11-15; 1QM 4,6; Test. Dan 6,10; lEn 71,14; 99,10; 101,3. Per la concezione della giu-
stizia di Dio a Qumran cfr. O. Betz, Rechtfertigung in Qumran, in J. Friedrich - W. Pòhlmann - P. Stuhlmacher
(edd.), Rechtfertigung, FS. E. Kàsemann, Tiibingen-Gòttingen 1976, pp. 403-414.
68 Traduzione e commento
ma dalla fossa e renderà saldi i miei passi nella via; mi toccherà con le sue mise-
ricordie, e per mezzo della sua grazia introdurrà il mio giudizio; mi giudicherà
nella giustizia della sua verità, e nell'abbondanza della sua bontà espierà per sem-
pre tutti i miei peccati; nella sua giustizia mi purificherà dall'impurità dell'essere
umano, e dal peccato dei figli dell'uomo, affinché lodi Dio per la sua giustizia e
l'Altissimo per la sua maestà » (1QS 11,11-15) 121

Questa pericope offre un importante parallelo per la concezione paolina del-


la giustizia e permette anzitutto di liberarsi da una concezione legalistica del giu-
daismo a favore di una incentrata sul nomismo del patto o dell'alleanza, posta in
risalto in particolare da Sanders . Se nel contesto greco-romano la giustizia è in-
122

tesa come situazione individuale di fronte a una normativa che permette di rico-
noscere il giusto e il colpevole, in quello giudaico rappresenta soprattutto l'aspet-
to e la condizione positiva della relazione fra gli individui (cfr. Gn 31,26-54; Gdc
8,1-3; 2Sam 3,6-11) e in particolare tra Dio e il suo popolo (cfr. Sai 51,14; 65,5; Is
46,13; 62,1-2): si passa da una connotazione individuale a una relazionale dell'al-
leanza, propria dell'AT . Per questo nell'Ai e nella letteratura giudaica extrabi-
123

blica la giustizia è relazionata alla salvezza, alla misericordia e alla grazia di Dio,
senza comunque dimenticare la prospettiva finale del giudizio divino in base alle
proprie opere: un rapporto difficilmente comprensibile in ambito forense.
Dal concatenamento argomentativo della tesi generale di Rm 1,16-17 emer-
ge che se il vangelo è orientato alla salvezza di tutti, giudei e greci, questo è pos-
sibile soltanto attraverso il suo contenuto principale, appunto la giustizia di Dio.
In questione non è la giustizia dell'individuo, posto con la propria coscienza da- 124

vanti a Dio, né la giustizia di Dio in quanto tale, ma come questa renda possibile
la salvezza di chiunque crede, come permetta la partecipazione alla salvezza per
tutti. Perciò è semplicistico limitare la questione del centro del pensiero paolino
all'alternativa tra la giustizia e la partecipazione in Cristo: in Rm 1,16-17 è in
questione proprio la relazione dialettica tra la giustizia divina e l'universale par-
tecipazione alla salvezza.
Circa il senso dell'espressione « giustizia di Dio » ci si è spesso divisi, in mo-
do drastico, tra il valore soggettivo del genitivo, nel senso di una proprietà di Dio,
considerata nelle sue diverse implicazioni dinamiche nei confronti degli esseri
umani , e quello di autore o di relazione, nel qual caso si predilige la prospettiva
125

Cfr. F. Garcfa Martmez, Testi di Qumran, Brescia 1996, p. 94.


121

Cfr. E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione
122

(btc 21), Brescia 1986.


Così anche D.J. Moo, Romans, p. 74.
123

Si deve in particolare a K. Stendhal, Paolo tra ebrei e pagani, e altri saggi, Torino 1995 (orig. ingl.
124

1963), pp. 21-45, il superamento di una concezione introspettiva, particolarmente cara al luteranesimo classi-
co, della giustizia di Dio in vista di una prospettiva più universale e sociale sulla relazione tra giudei e gentili.
Così E. Kàsemann, La giustizia di Dio in Paolo, in Saggi esegetici, Genova 1985, pp. 133-145.
125

Cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 315; R. Jewett, Ecumenical Theologyfor the Sake ofMission: Romans
\ *~
: 17 +~16:24, in D.M. Hay - E.E. Johnson (edd.), Pauline Theology - III, Romans, Minneapolis
15:14

1995, p 105; K. Kertelge, Giustizia, pp. 106-111; S. Lyonnet, La giustizia di Dio e la storia della salvez-
za, in La storia della salvezza nella lettera ai Romani, Napoli 1966, pp. 23-49; P. Stuhlmacher,
crottesgerechtigkeit bei Paulus (FRLANT 87), Gòttingen 1966 . 2
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 69
antropologica della giustizia in rapporto con quella divina . Da una parte, è bene
126

considerare, volta per volta, il contesto argomentativo e dall'altra non opporre


nettamente il senso soggettivo del genitivo a quello di autore, giacché comunque
all'origine di ogni appropriazione della giustizia si trova l'azione gratuita di
Dio . Per questo, nel caso di Rm 1,17, ci sembra pertinente propendere per il sen-
127

so soggettivo della giustizia di Dio, in prospettiva relazionale: nel vangelo è pro-


clamato Dio, in quanto giusto e, nello stesso tempo, capace di giustificare qual-
siasi essere umano che entra in relazione di alleanza con lui.
La seconda connessione principale riguarda la relazione tra la giustizia e la
fede che Paolo evidenzierà nella seconda parte del v. 17, sulla quale torneremo.
Infine, non bisogna dimenticare la dimensione apocalittica della giustizia di Dio:
si tratta non tanto di una personale e soggettiva esperienza della giustizia bensì
della sua connotazione storica, appunto apocalittica o pienamenterivelativa,e so-
ciale. Non a caso la giustizia divina si rivela nel vangelo e non semplicemente si
trova in esso o gli appartiene: in Romani, annunciare il vangelo vuol dire asserire
principalmente larivelazionedella giustizia di Dio . Paolo non dice subito in che
128

modo la giustizia di Dio si rivela e non specifica il senso di tale rivelazione: lo


farà in seguito; intanto si preoccupa di precisarne la dimensione rivelativa.
In quest' ultima parte della tesi è abbastanza oscura la formula « da fede in fe-
de », al punto che alcuni, volendo inserire la prospettiva cristologica della salvez-
za, della giustizia e della fede, ricorrono alla figura retorica dell'antanaclasi: lo
stesso termine sarebbe utilizzato due o più volte con significati diversi. Così « dal-
la fede » siriferirebbealla fedeltà di Cristo o di Dio, mentre « in fede » al credere
della persona umana. Dietro tale prospettiva si trova l'interpretazione soggettiva
della formula fede di Cristo, che Paolo utilizzerà in Rm 3,22, per evitare una con-
cezione meritoria della fede cristiana. In tal modo si dimentica che Paolo, pur non
negando la fedeltà o l'obbedienza di Cristo a Dio, pone l'accento non su di essa
bensì sulla fede dei credenti intesa come dono gratuito di Dio. Soltanto interpre-
tando il v. 17 senza il contesto di Rm 1,1-16 si può concepire «da fede in fede»
come passaggio « dalla fedeltà di Cristo alla fede dei credenti », mentre Paolo ha
già sottolineato la prospettiva antropologica della fede per l'obbedienza qualifi-
cata dalla fede (cfr. Rm 1,5), e ha richiamato la diffusione della fede dei destina-
tari (cfr. Rm 1,8). Contrariamente a quanto pensano alcuni, la dimensione antro-
pologica della fede non entra in collisione con quella escatologica o apocalitti-
ca , ma ne dipende senza relativizzare l'incidenza di quest'ultima.
129

Alla luce di Rm 1,12 si comprende la formula « da fede in fede »: Paolo si ri-


ferisce alla condivisione della fede come motivazione fondamentale dell'esorta-
Così nello stesso ambito protestante H. Conzelmann, Teologìa del Nuovo Testamento, Brescia
126

1991, pp. 281-282. Cfr. anche C.E.B. Cranfield, Romans, I, pp. 95-99.
Per il superamento di questo dibattito cfr. J.D.G. Dunn, The Righteousness of God, in The
127

Theology ofPaul the Apostle, Edinburgh 1998, p. 344.


Anche il vocabolario della apokalypsis (rivelazione) è tipico di Romani: il verbo apokalyptein com-
128

pare 26 volte nel NT, di cui 13 nell'epistolario paolino e 3 in Romani (Rm 1,17.18; 8,18); il sostantivo
apokalypsis è attestato 18 volte nel NT, di cui 13 nell'epistolario paolino e 3 in Romani (Rm 2,5; 8,19; 16,26).
Contro D.A. Campbell, Romans 1:17, pp. 271-275. Cfr. anche la critica a Campbell di B. Dodd,
129

Romans 1:17 - A Crux Interpretum for the PISTIS CHRISTOU Debate?, in JBL 114 (1995) 470-473.
70 Traduzione e commento
zione vicendevole tra lui e i destinatari. In tal caso la lettera che sta per inviare
rappresenta il modo più immediato per esortare i cristiani di Roma a perseverare
nella fede. Dunque, l'espressione « da fede in fede » non si riferisce al motivo per
il quale soltanto la fede pone in una giusta relazione con Dio , ma rappresenta 130

un modo dinamico per intendere la trasmissione e la condivisione della fede fra


i cristiani.
La tesi di Rm 1,16-17 è sorretta dalla citazione diretta di Ab 2,4 introdotta
da una formula tipica dell'epistolario paolino: « Come sta scritto... » . Abbiamo 131

sottolineato che Paolo si riferiva in particolare a questa citazione dell'AT già in


Rm 1,2 sottolineando la preevangelizzazione profetica del vangelo di Dio.
Naturalmente, questa non è l'unica citazione dell'AT in Romani ma, poiché si
trova nella tesi fondamentale della lettera, rappresenta la principale. Secondo una
prospettiva retorica, la presenza di questa citazione dimostra che Paolo trarrà
dall'AT il principale materiale della sua inventio in Romani.
Nonostante il solenne « sta scritto », la citazione di Ab 2,4 è diversa dal TM
e dalla LXX. Così recita il TM di Ab 2,4: « Il giusto mediante la sua fedeltà vi-
vrà ». Invece la LXX rende in modo diverso: « Il giusto però mediante la mia fe-
deltà vivrà» . Nel giudaismo del secondo Tempio questa citazione doveva esse-
132

re particolarmente importante se la si ritrova in Gal 3,11, con la stessa formula-


zione di Rm 1,17, a eccezione dell'omissione del «ma» iniziale, in Eb 10,38 con
una nuova variazione (« Il mio giusto però mediante la fede vivrà »), presso la co-
munità di Qumran e fra i frammenti pervenutici da Nahal Hever . 133

Purtroppo nel pesher di Abacuc, trasmessoci da lQpHab 7,5 - 8,3, non sono
state conservate tutte le parole della citazione di Ab 2,4; comunque, l'interpreta-
zione del successivo commento spiega il significato che il pesher attribuisce alla
citazione profetica: «La sua interpretazione siriferiscea tutti quelli che compio-
no la legge nella Casa di Giuda, i quali libererà Dio dalla punizione grazie alle lo-
ro fatiche e alla loro fede nel Maestro di Giustizia» . 134

Così a Qumran la citazione di Ab 2,4 è intesa come attribuzione della giu-


stizia a coloro che rimangono fedeli alla Legge del Signore e che credono nel
Maestro di Giustizia. Nel frammento di Nahal Hever (8HevXIIgr 17,29-30) si ri-
scontra una versione simile al TM: « Il giusto nella sua fedeltà vivrà ».
Dalle citazioni paoline risalta la mancanza del pronome personale: Paolo
non cita la « sua » (TM) fedeltà,riferitaal giusto, né la « mia » (LXX) fedeltà, ri-

130 Così DJ. Moo, Romans, p. 76.


131 Questa modalità d'introdurre le citazioni dirette dell'AT si trova 25 volte nel NT, di cui 18 nel-
l'epistolario paolino e ben 14 in Romani (cfr. Rm 1,17; 2,24; 3,4.10; 4,17; 8,36; 9,13.33; 10,15; 11,8.26;
15,3.9.21).
132 1 manoscritti A e C della LXXriportanouna diversa lezione variante: « Ma il mio giusto dalla fe-
de vivrà ». Nonostante tali esitazioni, quellariportatasembra la versione originaria di Ab 2,4 nella LXX.
Così anche D.-A. Koch, Der Text von Hab 2.4b in der Septuaginta und im Neuen Testamene in ZNW 76
(1985) 74-75.
133 Sull'importanza di Ab 2,4 nel giudaismo paratestamentario e nel NT cfr. R. Penna, Il giusto e la
fede. Abacuc 2,4b e le sue antiche riletture giudaiche e cristiane, in R. Fabris (ed.), La Parola di Dio cre-
sceva (At 12,24), FS. C.M. Martini, Bologna 1998, pp. 359-380.
134 Cfr. F. Garcfa Martmez, Qumran, p. 335.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 71
ferita a Dio mariportaun testo senza attribuzioni. Se si potesse pensare a una fon-
te dell'AT che non conosciamo, ci sembra che tale variazione sarebbe volontaria,
dovuta a un suo intervento, come d'altro canto è diversa la prospettiva con la qua-
le egli interpreta l'identità del giusto. Se nel TM « il giusto » siriferisceagli ebrei
che, in situazione di cattività esilica, continuano ad avere fiducia nel Signore - e
questo doveva essere il senso originario dell'oracolo di Abacuc - per Paolo il
giusto è chiunque crede, «tanto il giudeo quanto il greco» . 135

In verità non manca chi interpreta in chiave cristologica o messianica anche


questa citazione: il giusto che vivrà mediante la sua fedeltà sarebbe Cristo . Tale 136

interpretazione ha il vantaggio d'inserire nella tesi generale di Rm 1,16-17 il con-


tenuto cristologico del vangelo. Tuttavia, è bene precisare che già in Gal 3,11
Paolo aveva citato Ab 2,4 in prospettiva antropologica e non cristologica: «Che
invece mediante la Legge nessuno è giustificato davanti a Dio è chiaro perché "il
giusto dalla fede vivrà". Si potrebbe però obiettare che in Rm 1,17 ci troveremmo
davanti a una nuova prospettiva. Invece ci sembra che, pur se in diverse conte-
stualizzazioni, anche in Rm 1,17 Paolo siriferiscaprincipalmente non alla fedeltà
o alla fiducia di Cristo nei confronti di Dio, bensì a quella di chi ha aderito a Cri-
sto . Purtroppo nell'interpretazione della citazione di Ab 2,4 permane spesso la
137

preoccupazione confessionale di evitare qualsiasi concezione meritoria della fede,


quando tale preoccupazione non rientra almeno nell'orizzonte di Rm 1,16-17.
Abbiamo rilevato che la citazione di Ab 2,4 è stata già riportata in Gal 3,11
per chiarire il senso della tesi principale di Gal 3,6-7, valida per Gal 3,1 - 5,12: in
quel caso la citazione di Ab 2,4 chiarifica la citazione di Gn 15,6: «Come
Abramo credette in Dio e gli fu accreditato a giustizia» (Gal 3,6). In Romani la
situazione è capovolta: la citazione di Gn 15,6 riportata in Rm 4,3 illumina ed
esemplifica il principio generale formulato con la citazione di Ab 2,4. Tale inver-
sione è causata principalmente dalla diversa prospettiva argomentativa delle due
lettere: se in Galati il problema fondamentaleriguardal'appartenenza alla figlio-
lanza abramitica degli etnico-cristiani, in Romani subentra la prospettiva univer-
sale della relazione tra giudei e gentilirispettoalla giustificazione mediante la fe-
de. Questa relazione tra Ab 2,2 e Gn 15,6 permette anche di comprendere che
l'accentuazione principale cade non tanto sulla relazione tra la fede e la vita, pur
descritta in Rm 5,18; 8,IO , quanto sulle connessioni tra la giustizia e la fede,
138

dalle quali dipende la vita del credente . 139

Di certo sorprende la mancanza di riferimenti cristologia espliciti in Rm


1,16-17: si parla della giustizia di Dio, senza precisare che questa è realizzata sol-
tanto in Cristo, della fede in generale, senza indicare il mittente o la destinazione,
e della vita senza ulteriori specificazioni. Il seguito della lettera preciserà questi
aspetti, ma non bisogna ignorare che nella tesi sono presentati in prospettiva ge-

Così anche R. Penna, « Il giusto per fede vivrà »: la citazione di Ab 2,4 (TM e LXX) in Gal 3,11 e
135

Rom 1,17, in L. Padovese, V Simposio, p. 94.


Così D.A. Campbell, Romans 1:17, pp. 282-284; M.L. Reid, Mutuality, p. 127.
136

Così anche R. Penna, Giusto, p. 93.


137

Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 319.


138

Così anche D.J. Moo, Romans, p. 78.


139
72 Traduzione e commento
nerale. Di fatto, quella di Rm 1,16-17 è una propositio generale e non una parti-
tio, anche se alcuni sostengono che il tema del vivere anticipa la sezione di Rm
5,1 - 8,39, quella della giustizia di Dio introduce la sezione di Rm 1,18 - 4,25 e la
precedenza del giudeo rispetto al greco annuncia il problema della salvezza, de-
scritto in Rm 9,1 - 11,36. Non c'è motivo di dubitare che queste tematiche della
tesi svolgano un ruolo centrale nella prosecuzione della lettera; ma è forzato pen-
sare a una tesi dettagliata in Rm 1,16-17, perché manca proprio ilriferimentocri-
stologico che svolge un ruolo fondamentale nella definizione della giustizia, del-
la fede e della vita.
In termini positivi, la mancanza dell'accentuazione cristologica del vangelo
in Rm 1,16-17, che crea un certo disagio in chirileggequesti versi dopo aver se-
guito l'argomentazione di Romani, è dovuta principalmente alla centralità del
vangelo di Dio annunciato in Rm 1,1. Senza escludere il valore delle anticipazio-
ni cristologiche sottolineate in Rm 1,3-4, al centro di Romani si trova il vangelo
di Dio con tutto ciò che di positivo determina per gli esseri umani. Non è un caso
che gli interlocutori principali della sezione successiva di Rm 1,18-3,20 siano
Dio e gli esseri umani, mentre Cristo rimane nel proscenio. Soltanto in Rm 3,21-
22 si assisterà a una chiara definizione cristologica della giustizia e della fede.
Dunque è necessario rispettare l'andamento dell'argomentazione, senza ca-
dere in interpretazioni cherischianodi dimostrare il contenuto della lettera quan-
do ancora non è stato spiegato nella sua complessità. Per questo è forzato e aprio-
ristico intromettere già in Rm 1,16-17 il valore cristologico della giustizia e del-
la fede: questo avverrà in un secondo momento, quando Paolo avrà preparato i
giudei e i gentili ad accogliere l'inatteso e inconcepibile dono della salvezza in
Cristo. In definitiva,riprendendoil principio proposto da E.P. Sanders, se è vero
che la prospettiva paolina procede «dalla soluzione cristologica all'angoscia
umana», l'evoluzione argomentativa di Romani è capovolta: dalla relazione tra
Dio e l'umanità a quella realizzata in Cristo.
La sezione introduttiva di Rm 1,1-17 è ricca di orizzonti teologici che ren-
dono l'idea sulla complessità contenutistica della Lettera ai Romani. Il prescritto
di Rm 1,1-7 forse rappresenta Vincipit più originale dell'epistolario paolino:
Paolo si allontana decisamente dal formulario epistolografico del tempo, per in-
trodurre anticipazioni contenutistiche che svilupperà in seguito. Ad alcuni basta
il v. 1, definito come « unaricapitolazionevertiginosa », per improntare un intero
seminario-commento alla Lettera ai Romani . 140

Spesso,rispettoa questo prescritto, è stata posta ben in evidenza la rilevanza


cristologica, presente nel frammento prepaolino di Rm l,3b-4a . Senza porre in 141

discussione tale importanza, forse non bisognerebbe dimenticare la connotazione


propriamente teo-logica del prescritto: Dio ha costituito suo Figlio in potenza, ha
chiamato Paolo all'apostolato e i destinatari della lettera a essere santi. Questo
140 Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino 2000, pp. 13-14.
141 Così D.J. Moo, Romans, p. 55.
Introduzione epistolare Rm 1,1-17 73
prescritto, anche se non costituisce l'esordio retorico della lettera , a causa della
142

sua struttura protocollare, introduce già il vangelo paolino incentrato sul piano
della salvezza compiuto da Dio mediante suo Figlio, per quanti hanno aderito al
vangelo con l'obbedienza qualificata o caratterizzata dalla fede in Cristo.
La seconda parte introduttiva, costituita dai ringraziamenti epistolari (Rm
I,8-15) che fungono anche da esordio retorico, non è fra le più riuscite dal punto
di vista stilistico e contenutistico dell'epistolario paolino. Nelle affermazioni è ri-
scontrabile un certo imbarazzo da parte di chi, come Paolo, sirivolgeper la prima
volta a una Chiesa non fondata da lui. Con quest'esordio egli cerca, da una parte,
di prevenire l'obiezione secondo la quale, egli come Apostolo dei gentili (cfr. Rm
II,13) non ha ancora raggiunto i cristiani di Roma e, dall'altra, di presentarsi con
la novità del suo vangelo che non ha timore di annunciare anche a loro, nono-
stante abbiano già aderito alla predicazione cristiana.
Forse nell'esordio Paolo ha dovuto dosare molte parole, finendo con l'esse-
re ripetitivo: rischia di essere frainteso come un esaltato che si presenta con un
vangelo da proporre a comunità già evangelizzate oppure, essendosi sparsa la no-
tizia fra le comunità etnico-cristiane che egli sta per raggiungere Gerusalemme,
può essere accusato di faziosità, perché non ha pensato al contributo economico
che le comunità di Roma avrebbero potuto fargli pervenire. Per questo traspare
un certo imbarazzo che influisce sulla riuscita dell'esordio.
La parte introduttiva perviene al suo vertice con la formulazione della tesi
generale (Rm 1,16-17): il vangelo per la salvezza di chiunque crede trova il suo
contenuto fondamentale nella giustizia di Dio. Il sipario di Romani si apre con il
duplice orizzonte della giustizia di Dio e della partecipazione universale alla sal-
vezza per tutti coloro che credono, tanto del giudeo prima quanto del greco.
La tesi generale di Romani non figura come partitio o come spiegazione di
tutto ciò che Paolo andrà delineando nel corpo della lettera. Piuttosto le temati-
che annunciate in Rm 1,16-17 sembrano volutamente generali, senza specifica-
zioni: si parla della potenza e della giustizia di Dio, della fede, della vita e della
salvezza; e sorprende l'assenza di qualsiasi specificazione cristologica se è vero
che, comunque, il vangelo paolino trova il suo centro in Cristo. Si tratta però di
una carenza momentanea, causata dall'orizzonte generale che Paolo intende con-
ferire alla parte introduttiva della lettera.

142Così invece S. Byrskog, Epistole»graphy, Rhetoric and Letter Prescript: Romans 1.1-7 as a Test
Case, in JSNT 65 (1997) 27-46.
LA RIVELAZIONE DELL'IRA
E DELLA GIUSTIZIA DIVINA
Rm 1,18-4,25

La narrazione
1 In effetti, l'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà
18

e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia,


19poiché ciò che di Dio si può conoscere è a loro manifesto;
Dio infatti lo manifestò a loro.
20Di fatto, dalla creazione del mondo si possono contempla-
re le sue invisibili qualità, essendo state comprese - la sua eterna
potenza e divinità - mediante le opere che ha fatto, affinché essi
siano inescusabili.
21Per questo, pur avendo conosciuto Dio, non gli resero glo-
ria né loringraziaronocome Dio, ma vaneggiarono nei loro ra-
gionamenti e si offuscò il loro cuore insensato.
22Pensando di essere sapienti, diventarono stolti,
23e cambiarono la gloria dell'incorruttibile Dio con la raffi-
gurazione di esseri umani corruttibili, di uccelli, di quadrupedi e
di rettili.
24Per questo Dio li consegnò all'impurità, secondo le bramo-
sie dei loro cuori, al punto che disonorarono i propri corpi fra loro.
25Essi pervertirono la verità di Dio con la menzogna: adoraro-
no e resero culto alla creazione al posto del Creatore che è bene-
detto per i secoli, amen.
26Per questo Dio li consegnò a passioni spregevoli: infatti,
le loro femmine pervertirono i rapporti naturali con quelli con-
tro natura;
analogamente, anche i maschi, abbandonando la relazione
27

eterosessuale, si infuocarono di libidine gli uni con gli altri, ma-


schi con maschi, compiendo ciò che è riprovevole e ricevendo in
se stessi la ricompensa necessaria per il loro inganno.
28E poiché non considerarono degna la piena conoscenza di
75
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25
Dio, li consegnò alla loro mente ignobile, così da commettere azio-
ni indecenti,
pieni di ogni ingiustizia, malvagità, avarizia, cattiveria, col-
29

mi d'invidia, omicidio, lite, inganno, malizia, diffamatori,


maldicenti, nemici di Dio, insolenti, arroganti, presuntuosi,
30

malfattori,ribelliai genitori,
insensati, sleali, insensibili, impietosi.
31

32 Essi, purriconoscendoil giudizio di Dio - che quanti pra-


ticano tali cose meritano la morte -, non soltanto compiono tali
azioni ma approvano anche coloro che le praticano.
Vimparzialità divina
2 berciò sei inescusabile, chiunque sia tu, o uomo che giu-
dichi:
infatti mentre giudichi l'altro, condanni te stesso, poiché
pratichi le stesse azioni che giudichi.
2 Del resto, sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità
contro coloro che commettono queste azioni.
3 Oppure pensi, o uomo che giudichi coloro che commettono
tali cose, e che le pratichi, di poter evitare il giudizio di Dio?
4 0 disprezzi la ricchezza della sua benevolenza, della tolle-
ranza e longanimità, ignorando che la bontà di Dio ti spinge ver-
so la conversione?
5 Con il tuo cuore indurito e impenitente incrementi per te
stesso l'ira nel giorno della collera e della rivelazione del giusto
giudizio di Dio,
6(a) il quale renderà a ciascuno secondo le proprie opere:
7(b) da una parte, gloria, onore e immortalità, per quanti cer-
cano la vita eterna
con la perseveranza nell'opera buona,
8 (c) dall'altra, ira e furore per coloro che con autosufficien-
za disobbediscono alla verità,
mentre si sottomettono all'ingiustizia.
9(c') Tribolazione e angoscia contro ogni animo umano che
compie il male,
tanto per il giudeo prima quanto per il greco,
10(b') invece gloria, onore e pace per chiunque realizza il bene,
tanto per il giudeo prima quanto per il greco.
n (a') Infatti, non c'è parzialità presso Dio.
76 Traduzione e commento
I gentili, i giudei e la Legge
In effetti, coloro che senza la Legge hanno peccato,
12

senza la Legge periranno,


e coloro che sotto la Legge hanno peccato,
mediante la Legge saranno condannati.
13Difatti, non saranno giusti davanti a Dio coloro che ascol-
tano la Legge,
ma saranno considerati giusti coloro che attuano la Legge.
"Qualora i gentili che non hanno la Legge
per natura mettano in pratica lerichiestedella Legge,
questi, pur non avendo la Legge, sono legge a se stessi.
Essi attestano l'opera della Legge scritta nei loro cuori: la
15

loro coscienza rende testimonianza assieme ai loro pensieri che


accusano o difendono,
per il giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, me-
16

diante Cristo Gesù, secondo il mio vangelo.


La parodia
17Ma se tu che porti il nome giudeo,
ti adagi sulla Legge,
ti vanti in Dio,
18conosci la volontà, sai discernere le cose migliori, essendo
istruito dalla Legge,
19e sei convinto d'essere guida per i ciechi,
luce per quanti sono nell'oscurità,
educatore degli ignoranti, maestro dei neofiti,
20

che possiedi l'espressione della conoscenza


e della verità nella Legge...
21Allora, tu che insegni all'altro, non insegni a te stesso?
22Tu che predichi di non rubare, rubi?
Tu che dici di non commettere adulterio, ti prostituisci?
Tu che disprezzi gli idoli, profani i templi?
Tu che ti vanti nella Legge, mediante la trasgressione della
23

Legge offendi Dio.


Infatti, « il nome di Dio è bestemmiato a causa vostra fra i
24

gentili », come sta scritto.


La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 77
I giudei, i gentili e la circoncisione
In realtà, la circoncisione è utile se pratichi la Legge, se
25

però sei trasgressore della Legge la tua circoncisione è diventata


incirconcisione.
Se, dunque, l'incirconcisione osserva i dettami della
26

Legge, la sua incirconcisione non gli sarà accreditata come cir-


concisione?
El'incirconcisione che per natura porta a termine la Legge
27

giudicherà te che nonostante la lettera e la circoncisione sei tra-


sgressore della Legge.
Infatti giudeo non è chi lo è esternamente né la circonci-
28

sione è quella visibile nella carne,


ma il giudeo è tale nel segreto, e la circoncisione del cuore
29

(è) nello Spirito non nella lettera, la cui lode non proviene dagli
esseri umani ma da Dio.
II vantaggio del giudeo
3 *Quale dunque il vantaggio del giudeo? O quale l'utilità
della circoncisione?
2Grande sotto ogni aspetto! Prima di tutto perché a loro fu-
rono affidate le parole di Dio.
3Che cosa mai? Se alcuni sono stati infedeli, forse la loro in-
fedeltà annulla la fedeltà di Dio?
4Non sia mai! Invece, sia chiaro che Dio è veritiero mentre ogni
uomo è falso. Come sta scritto: « Affinché tu siariconosciutogiusto
nelle tue parole e vincerai quando sarai chiamato in giudizio ».
5Ma se la nostra ingiustizia conferma la giustizia di Dio, che di-
remo? Forse Dio è ingiusto quandoriversal'ira? Parlo umanamente:
6Non sia mai! Altrimenti come potrà Dio giudicare il mondo?
7Ma se la mia menzogna fa accrescere la verità di Dio per la sua
gloria, perché allora sono giudicato come peccatore?
8 E, forse, non è come siamo calunniati e come alcuni so-
stengono che noi diciamo: « Facciamo il male perché derivi il be-
ne »? È giusta la loro condanna!
Uuniversalità della colpa
Che cosa dunque? Forse siamo avvantaggiati? Non del tutto!
9

Abbiamo già messo sotto accusa tanto i giudei quanto i gre-


ci che sono soggetti al peccato,
78 Traduzione e commento
10 come sta scritto:
« Non c'è un giusto, neppure uno,
11 non c'è uno che comprenda,
non c'è chi cerchi Dio.
12 tutti si sono smarriti, insieme si sono corrotti,
non c'è uno che compia il bene,
non ce n'è uno.
Una tomba aperta è la loro gola,
13

con le loro lingue ingannano,


veleno d'aspidi (è) sotto le loro labbra,
la loro bocca (è) piena di maledizione e d'amarezza,
14

i loro piedi (sono) veloci nel versare il sangue,


15

^distruzione e miseria nelle loro vie;


e non hanno conosciuto la via della pace.
17

Non c'è timore di Dio davanti ai loro occhi.


18

La perorazione dell 'accusa


Sappiamo però che ciò che dice la Legge lo dice per colo-
19

ro che sono nella Legge,


(a) affinché ogni bocca
(b) sia messa a tacere
(b') e sia considerato colpevole
(a') tutto il mondo davanti a Dio.
Poiché dalle opere della Legge non sarà giustificata nessu-
20

na carne davanti a lui; infatti, mediante la Legge si ha la piena co-


noscenza del peccato.
La giustificazione per mezzo della fede in Cristo
21Ora però, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata
la giustizia di Dio,
testimoniata dalla Legge e dai Profeti,
22giustizia di Dio, però, mediante la fede in Gesù Cristo per
tutti coloro che credono.
Non c'è distinzione!
23Infatti, tutti hanno peccato e sono privati della gloria di Dio;
24sono giustificati gratuitamente con la sua grazia,
mediante la redenzione in Cristo Gesù.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 79
Dio lo ha predisposto come espiazione con il suo sangue,
25

mediante la fede,
per la dimostrazione della sua giustizia dopo la dilazione dei
peccati passati,
durante (il tempo del) la pazienza di Dio, per la dimostrazio-
26

ne della sua giustizia nell'attuale momento,


per essere giusto e giustificare chi (proviene) dalla fede in Gesù.
Lesclusione del vanto
Dov'è dunque il vanto? È stato escluso!
27

Mediante quale Legge?


Delle opere? No, ma per mezzo della Legge della fede!
Riteniamo, infatti, che l'uomo è giustificato per la fede,
28

senza le opere della Legge.


0ppure Dio è soltanto dei giudei?
29

Non lo è anche dei gentili? Sì, anche dei gentili,


poiché Uno (è) Dio che giustificherà la circoncisione dalla
30

fede e l'incirconcisione mediante la fede.


Abroghiamo dunque la Legge per mezzo della fede? Non
31

sia mai! Al contrario, confermiamo la Legge.


L'esempio di Abramo
4 ^he cosa, dunque, diremo di aver trovato Abramo, nostro
progenitore secondo la carne?
2 Se di fatto Abramo fu giustificato in base alle opere, pos-
siede un motivo di vanto ma non davanti a Dio.
Infatti, che cosa dice la Scrittura?:
3

« Invece Abramo credette in Dio e gli fu accreditato per la


giustizia».
4 A chi lavora il salario non è accreditato come dono ma co-
me obbligazione,
5mentre a chi non lavora ma crede in Colui che giustifica
l'empio, la sua fede è accreditata per la giustizia.
6Così anche Davide asserisce la beatitudine dell'uomo al
quale Dio accredita la giustizia senza le opere:
7« Beati coloro ai quali sono state perdonate le colpe
e ai quali sono statiricopertii peccati;
8beato l'uomo al quale il Signore non accrediterà il peccato ».
80 Traduzione e commento
L'accreditamento
Dunque questa beatitudineriguarda(soltanto) la circonci-
9

sione o anche l'incirconcisione?


Diciamo infatti: « La fede fu accreditata ad Abramo per la
giustizia ».
Come allora gli fu accreditata?
10

Quando era circonciso o quando era incirconciso?


Non quando era circonciso ma quando era incirconciso;
ue ricevette il segno della circoncisione (come) sigillo della
giustizia (derivante) dalla fede, quella di quando era incirconci-
so, così da diventare padre di tutti coloro che credono fra gli in-
circoncisi, affinché [anche] a loro fosse accreditata [la] giustizia,
e padre della circoncisione, di coloro che non solo proven-
12

gono dalla circoncisione ma procedono anche sulle orme della fe-


de del nostro padre Abramo, quando era ancora incirconciso.
La promessa e Veredità mediante la fede
Infatti, la promessa di diventare erede del mondo non (fu
13

detta) ad Abramo o alla sua discendenza in virtù della Legge, ma


in forza della giustizia della fede.
Se, infatti, fossero eredi coloro che (provengono) dalla Leg-
14

ge, sarebbe vanificata la fede e inefficace la promessa.


La Legge infatti provoca l'ira; e dove non c'è Legge non
15

c'è neppure trasgressione.


Per questo (si diventa eredi) mediante la fede, affinché
16

(l'eredità sia) secondo la grazia, cosicché la promessa fosse sal-


da per tutta la discendenza: non soltanto per chi (proviene) dalla
Legge ma anche per chi (proviene) dalla fede di Abramo che è
padre di tutti noi,
come sta scritto: «Ti ho costituito padre di molti popoli»,
17

credendo al Dio che vivifica i morti e chiama all'esistenza le co-


se che non sono.
Egli credette nella speranza contro la speranza, così da di-
18

ventare «padre di molti popoli», secondo l'oracolo: «Così sarà


la tua discendenza ».
E non vacillò nella fede, pur sapendo che il proprio corpo
19

era già in fase di corruzione - aveva circa cent'anni - e (cono-


scendo) l'avvizzirsi del seno di Sara,
81
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25
ma, in vista della promessa di Dio, non esitò nell'incredu-
20

lità; al contrario, si rafforzò nella fede, dando gloria a Dio,


pienamente convinto che egli è capace di realizzare ciò che
21

ha promesso.
22 [E] perciò «gli fu accreditato per la giustizia».
La perorazione
E non è stato scritto soltanto per lui « gli fu accreditato »
23

ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato,


24

per noi che crediamo in Colui che ha risuscitato Gesù, no-


stro Signore, dai morti,
il quale fu consegnato per le nostre cadute
25

e fu risuscitato per la nostra giustificazione.

In questa grande unità letteraria (1,18 - 4,25) sorprende che Paolo, dopo aver
annunciato la tesi generale della lettera (Rm 1,16-17), rappresentata dalla relazio-
ne tra il vangelo e la giustizia salvifica, dedichi la prima parte di Rm 1,18-3,20
allarivelazionedella collera divina. Se il vangelo è qualcosa di positivo e di buo-
no che dovrebbe conferire speranza, come può Paolo cominciare in modo così ne-
gativo, collocando tutti sotto l'ira divina? Non sarebbe meglio iniziare con Rm
3,21 - 4,25, ossia con la manifestazione della giustizia salvifica di Dio? Forse, in
un contesto dirilettura,è preferibile partire da Rm 3,21 - 4,25, per rileggere a ri-
troso la sezione di Rm 1,18 - 3,20, altrimenti si rischia di fraintendere il signifi-
cato e la portata dell'ira divina descritta in questa prima sezione.
Precisiamo subito che la ragione principale per la quale Paolo preferisce co-
minciare in modo così negativo si trova non nella sua pessimistica concezione an-
tropologica bensì nell'esclusione di qualsiasi vanto al di fuori del vangelo. Forse,
non abbiamo più la percezione della posta in gioco per questo vanto cristiano, ma
per Paolo, come per il comune giudaismo del suo tempo, si trattava di una que-
stione di capitale importanza. In discussione è ciò che permette all'ebreo di con-
siderarsi migliore del gentile e la sua posizione davanti alla giustizia divina.
Dunque ne vanno di mezzo l'identità ebraica, con i suoi privilegi, e l'agire di Dio
con la sua giustizia.
La querela paolina si compone di tre parti fondamentali: la narrazione delle
colpe (1,18-32), le prove dell'accusa (2,1 - 3,18) e la perorazione (3,19-20).
L'intera unità dipende dalla tesi specifica di Rm 1,18, ovvero dalla rivelazione
dell'ira divina per tutti coloro che soffocano la verità nell'ingiustizia, che svol-
ge tale ruolo sino a Rm 3,20 per lasciare il posto alla manifestazione della giu-
stizia salvifica per mezzo della fede. Se ci fosse pervenuta soltanto la sezione di
Rm 1,18 - 3,20 non avremmo esitato a definirla come un incompleto processo
82 Traduzione e commento
giudiziario : si parla di accusati, di reati, di un avvocato e di un giudice, anche se
1

questi ultimi non sono definiti ma descritti per le loro azioni giudiziarie. Di que-
sta contesa ci sarebbe pervenuta soltanto la stesura del pubblico ministero che,
però, non è del tutto estraneo alla causa. Si procede dalla descrizione delle colpe
alle accuse verso tutti: sotto accusa si trovano giudei e gentili, nessuno escluso.
Dall'altra parte si trova Dio che funge da giudice, ma che non è mai denomina-
to come tale , in quanto anch'egli è coinvolto nella causa. Gli esseri umani sono
2

accusati, in diversi modi, di colpevolezza, mentre Dio è descritto per la sua im-
parzialità. Dunque, siamo posti davanti a un discorso forense di tipo accusatorio
o, secondo il linguaggio della retorica classica, a una categoria, nella quale non
è data mai la parola agli accusati, se non in modo indiretto, attraverso il dialogo
con l'interlocutore fittizio, con alcune obiezioni formulate da Paolo stesso, ma
messe subito a tacere in Rm 3,1-8.
Tuttavia, è una strana contesa: anche se ci sono alcuni reati ben definiti, gli ac-
cusati sono lasciati nella loro genericità: è un'accusa rivolta verso tutti. Anche la
condanna, per quanto Dio consegni tutti alle loro perversioni (cfr. Rm 1,19-32), non
è mai eseguita ma si ferma al limite, con la colpevolezza generale (cfr. Rm 3,19-
20). Nella sintesi conclusivariprenderemotali questioni e chiariremo le ragioni per
le quali siamo posti davanti a una contesa giudiziaria così anomala. Intanto dalla
parte divina è posto, in modo metaforico, il cartello: « La legge è uguale per tutti »;
mentre l'intenzione dell'accusa non è di dimostrare che tutti sono colpevoli , nel 3

qual caso varrebbe il detto « mal comune mezzo gaudio », ma che su tutti coloro
che sono colpevoli incombe l'ira divina. Anche se Paolo torna spesso sulla colpe-
volezza universale, per dimostrare che nessuno è escluso, la posta in gioco riguar-
da larivelazionedell'ira divina comerisvoltonegativo del suo vangelo . 4

La contesa giudiziaria si interrompe bruscamente con Rm 3,21 per lasciare il


posto alla manifestazione della giustizia divina per mezzo della fede in Cristo. Il
percorso delrisvoltopositivo della giustizia divina è caratterizzato da tre parti fon-
damentali: a) la giustificazione per mezzo della fede in Cristo (3,21-26); b) l'e-
sclusione del vanto (3,27-31); c) l'esempio di Abramo (4,1-25). In capite all'unità
prescelta si trova la tesi di Rm 3,21-22, con la quale Paolo sottolinea che, para-
dossalmente, la giustizia divina per mezzo della fede si è manifestata indipenden-
temente e nello stesso tempo per mezzo della Legge e dei Profeti. Il vertice del-
l'unità è occupato dalla perorazione (4,23-25), in cui Paolo applica il modello del-
la fede di Abramo al noi dei credenti nella morte e nella risurrezione di Gesù,
nostro Signore.
Anche se in questa sottounità prosegue lo stile della diatriba (cfr. Rm 3,27-
31), evidenziato spesso in Rm 1,18 - 3,20, mutano i registri argomentativi: si pas-
1Sulla natura forense di Rm 1,18-3,20 cfr. A.T. Lincoln, From Wrath to Justification: Tradition,
Gospel and Audience in the Theology of Romans 1:18-4:25 (SBL SP 32), Atlanta 1993, pp. 194-200.
2 Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 250.
3 Così invece DJ. Moo, Romans, pp. 92-93; R.H. Bell, No one seeks far God. An Exegetical and
Theological Study of Romans 1.18-3.20 (WUNT 106), Tübingen 1998, p. 11.
4 Così anche W. Dabourne, Purpose, pp. 24-25.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 83
sa da una parte segnatamente kerygmatica a un'altra con dense diatribe e all'e-
sempio di Abramo, attraverso la dettagliata spiegazione di Gn 15,6. In questa par-
te scompare il genere forense, di tipo accusatorio, mentre Paolo è interessato alla
relazione tra la giustificazione e la fede. D'altro canto, la tesi di Rm 1,18 perviene
sino a Rm 3,20, mentre in Rm 3,21 subentra la tesi sulla giustizia per la fede, che
giunge sino a Rm 4,25.
Se le due sezioni sono poste l'una di fronte all'altra, l'una negativa e l'altra
positiva, per il linguaggio e per i tipi di argomentazione, sono orientate alla rive-
lazione-manifestazione della giustizia di Dio. In entrambe Paolo utilizza il codice
autorevole della Scrittura e anche in Rm 3,21 - 4,25 ogni parte è finalizzata all'e-
sclusione del vanto. In pratica, non soltanto nessuno può vantarsi, neppure coloro
che hanno la circoncisione e la Legge mosaica, ma qualsiasi vanto è stato escluso
dalla giustizia divina per mezzo della fede in Cristo. Vedremo come lo stesso
esempio di Abramo è addotto per dimostrare che egli non trovò alcun vanto in ba-
se alla circoncisione e alla Legge ma tutto si resse sulla grazia divina e sulla fede
in Dio: il suo accreditamento, la promessa e l'eredità sono nettamente separati dal
vanto fondato sulla Legge e sulla circoncisione, mentre sono fondati esclusiva-
mente sulla fede. Addirittura, la circoncisione sarà considerata come segno di ra-
tifica, non per distinguere Abramo e la sua discendenza dagli altri ma per render-
lo « padre di molti popoli ».
Sul versante opposto della giustizia per mezzo della fede, Paolo colloca, co-
me in Rm 2,1 - 3,20, la Legge mosaica e la circoncisione,rileggendosoprattutto
la funzione della Legge in termini negativi, diremmo contrastanti, rispetto a Rm
2. Come si può dire che la circoncisione è utile se si mette in pratica la Legge (cfr.
Rm 2,25) e che la stessa Legge provoca l'ira divina (cfr. Rm 4,15)? E se provoca
l'ira divina, non è preferibile considerarla come abrogata,riprendendola doman-
da che Paolorivolgeràall'interlocutore fittizio (cfr. Rm 3,31)? Anche questa sot-
tosezione presenta diverse difficoltà interpretative che dovremo affrontare, e che
dimostrano come Paolo non proceda in modo organico, ma per settori, prendendo
di mira prima un aspetto e poi l'altro. Soltanto alla fine, ciò che sembra persino
contraddittorio perviene a una sintesi illuminante.
La narrazione (1,18-32). - La prima fase di Rm 1,18 - 3,20 è rappresentata
dallarivelazionedell'ira divina, raccontata attraverso una narrazione serrata e in-
calzante: questa èrivelatadal cielo contro tutti coloro che soffocano la verità nel-
l'ingiustizia. La narrazione è chiaramente delimitata dai vv. 18-32, giacché men-
tre il suo percorso è raccontato in terza persona singolare e plurale, in Rm 2,1 su-
bentra l'interpellante «o uomo» in seconda persona singolare . Paolo sembra 5

seguire i canoni della narrazione forense: in pochi versi descrive i reati di tutti. Dal
punto di vista argomentativo, si assiste a una progressivarivelazionedell'ira divi-
na che perviene al culmine con l'orizzonte della condanna a morte per quanti com-
piono le perversioni descritte.
5 Per l'unità letteraria di Rm 1,18-32 cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 324-325; D.J. Moo, Romans, p. 95.
84 Traduzione e commento
Rispetto ai personaggi in causa è bene precisare che, da una parte, si trova
Dio, dall'altra gli esseri umani non definiti per la loro origine etnico-religiosa, di
giudei o di greci, bensì per le loro azioni. Il narratore si pone dal versante di Dio e
descrive una narrazione accusatrice verso chiunque . Per questo i personaggi prin-
6

cipali della narrazione sono Dio stesso, citato per ben 12 volte , e gli esseri umani, 7

descritti con il generico « essi » , variamente declinato. Pertanto, ogni definizione


8

etnica di Rm 1,18-32, in base alla quale Paolo considererebbe soltanto la perver-


sione dei gentili, è fuorviante e impedisce di cogliere l'andamento argomentativo
della narrazione e della sezione di Rm 1,18 - 3,20 . 9

Si potrà obiettare che Paolo ha presente e utilizza un discorso tipico dell'a-


pologetica giudaica contro i gentili e quindi tale narrazione vale per i gentili. A
parte che, come vedremo, in questa narrazione si riscontrano anche alcuni riferi-
menti tipici della querela profetica verso il popolo ebraico - si veda il motivo del-
l'idolatria e l'accenno al vitello d'oro in Rm 1,23 -, rimane che Paolo non speci-
fica i destinatari della narrazione ma chiama tutti in causa. Nello stesso tempo,
comunque, è benericonoscereche egli non parla di tutti, genericamente, bensì di
coloro che compiono ogni empietà e ingiustizia. In pratica egli non sostiene che
tutti compiono il male ma che coloro che compiono ogni tipo di male sono sog-
getti all'incombente ira divina, anche se alla fine nessuno potrà ritenersi escluso
dagli strali dell'accusa.
La narrazione procede per contrappassi tra l'agire divino e quello umano: il
primo è caratterizzato per la consegna (paredóken nei vv. 24.26a.28); il secondo
dalle progressive perversioni (èllaxan, v. 23, metèllaxan, vv. 25.26b). La prima
mossa di questo contrastoriguardala positiva possibilità di conoscere Dio e la ne-
gativa risposta delle persone umane che non gli resero gloria né lo ringraziarono
(vv. 19-21). Da tale mancanza di corrispondenza derivano l'agire umano e la rea-
zione divina. In questo intreccio di contrasti si possono delineare quattro fasi, in-
trodotte dalla tesi generale di Rm 1,18:
a) vv. 19-20: Dio e la sua conoscenza;
vv. 21-23: gli esseri umani e la perversione della gloria di Dio;
b) v. 24: Dio consegna;
v. 25: gli esseri umani pervertono;
c) v. 26a: Dio consegna;
vv. 26b-27: gli esseri umani pervertono;

6 Per C.L. Porter, Romans 1.18-32: Its Role in the Developing Argument, in NTS 40 (1994) 216-221,
si tratta piuttosto di un discorso epidittico, in cui si distinguono l'esordio (v. 18), la narratio (vv. 19-21), la
divisio (22-31) e la conclusione (v. 32). Invece, Rm 1,18-32 è una narrazione dei fatti in contesto forense,
in cui si passa dai reati ai colpevoli.
7 Cfr. Rm 1,18.19.19.21.21.23.24.25.26.28.28.32.
8 II pronome autos è utilizzato 16 volte in Rm 1,18-32 (cfr. Rm 1,19.19.20.21.21.24.24.24.24.
25.26.26.27.27.28.32; cfr. anche il riflessivo eautois [se stessi] di Rm 1,27 e il sostantivo anthrópos [uo-
mo] in Rm 1,18.23). Soltanto in Rm 1,20 autos si riferisce a Dio.
9 Così invece E. Adams, Abraham's Faith and Gentile Disobedience: Textual Links Between Romans
1 and 4, in JSNT 65 (1997) 49; H. Boers, The Justification of the Gentiles. PauVs Letter to the Galatians
and Romans, Peabody 1994, pp. 82-84; B. Byrne, Romans, p. 63; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 326; J. Murray,
The Epistle to the Romans, Grand Rapids 1984, p. 63 ; H. Schlier, La lettera ai Romani, Brescia 1982, p. 101.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 85
d) v. 28a: Dio consegna;
vv. 28b-32: gli esseri umani compiono il male e approvano coloro che lo
fanno . 10

A ogni azione umana corrisponde una reazione divina: gl'interlocutori si ca-


ratterizzano per la loro incomunicabilità! Inoltre, è bene precisare che, di per sé,
Paolo non stabilisce un contrasto tra colpa e condanna ma tra colpa e consegna ; 11

soltanto al v. 27 si parla diricompensama, a ben vedere, la condizione nella quale


si pongono gli esseri umani rappresenta la lororicompensae non larispostadi Dio
alla loro perversione. Dunque, in questione è non tanto la relazione tra colpa e con-
danna perché, in tal caso, la narrazione si dovrebbe chiudere con l'applicazione
della pena, bensì l'incomunicabilità tra gli esseri umani e Dio. Non bisogna mai
dimenticare che sotto accusa per ora si trova la creatura umana e non Dio.
Questa prospettiva di Rm 1,18-32 è confermata dai riferimenti alla cono-
scenza di Dio che si trovano al centro della questione e che determinano le per-
versioni umane. Secondo Paolo, ogni esistente umano può conoscere Dio ito
gnöston, v. 19); anzi, può pervenire alla sua piena conoscenza (<epignösis, v. 28) e,
di fatto, conosce il suo giudizio (v. 32). Prima che siano pervertite le diverse rela-
zioni, gli esseri umani hanno pervertito la verità di Dio con la menzogna (v. 25);
anzi, l'hanno soffocata (v. 18). Questo significa che Paolo non affronta neppure le
diverse perversioni in quanto tali ma come espressioni di una originaria relazione
perversa con Dio. Per questo si assiste a una progressiva estensione delle aberra-
zioni che giunge al culmine con la lunga lista dei vizi (vv. 29-31). Dalle relazioni
con Dio (vv. 19-20) si passa a quelle con il creato (vv. 21-25), a quelle sessuali (vv.
26-27) e a ogni vizio che deturpa le relazioni umane (vv. 29-31).
A causa della prospettiva generale, dalla quale Paolo narra gli eventi per la
requisitoria, non è valida neppure la concezione di quanti considerano Rm 1,18-
32 come un frammento di rivelazione naturale . Il fatto che Paolo consideri la
n

creazione del mondo (v. 19) come via per conoscere la potenza di Dio non signi-
fica che siamo posti davanti a unarivelazionenaturale dalla quale se ne distingua
una soprannaturale: tale prospettiva dipende, in larga parte, dall'identificazione
degli uomini con i gentili, mentre ci sembra che qui il vangelo paolino riveli un
primo versante dell'ira divina per tutti, indistintamente. Paolo considera aberran-
te l'idolatria dal versante del monoteismo e non da quello della rivelazione natu-
rale, nel qual caso non avremmo una querela così drammatica. A ben vedere,
quando egli tratta del passato idolatrico degli etnico-cristiani, li considera pecca-
tori in quanto sono al di fuori dell'alleanza giudaica e non in quanto immorali, co-
me invece egli descrive gl'interlocutori di questa narrazione . Per questo, è al-
13

10Con leggere variazioni cfr. anche J.M. Bassler, Divine Impartiality. Paul and a Theological Axiom,
Chico (CA) 1982, p. 129; DJ. Moo, Romans, p. 96.
11Così invece G. Bouwman, Noch einmal Römer 1,21-32, in Bib 54 (1973) 411-414.
12Così J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 329-330; S. Lyonnet, La connaissance naturelle de Dieu: Rom
1,18-23, in Études sur l'Épitre aux Romains (AnBib 120), Roma 1989, pp. 43-70; R. Penna, Ipagani e la
ricerca di Dio (nella lettera ai Romani), in PSV 35 (1997) 177-191.
13Cfr. Gal 2,15; cfr. anche Gal 4,8-9; lTs 1,9-10.
86 Traduzione e commento
trettanto fuorviarne considerare la narrazione come una rielaborazione delle vi-
cende narrate in Gn 1-11, in particolare del peccato di Adamo , senza nulla to- 14

gliere ad alcuni significativi paralleli con esse.


[1,18] Una particella di collegamento, «infatti» (gar), stabilisce una fonda-
mentale connessione tra larivelazionedell'ira di Dio e quella della sua giustizia,
annunciata nella tesi generale di Rm 1,16-17. Per questo, essa non ha valore av-
versativo ma di collegamento rispetto a quanto precede. La relazione tra il v. 18
15

e il v. 17 è confermata dal verbo apokalyptetai, che collega le due proposizioni, in


quanto parola gancio: la giustizia di Dio non si relaziona soltanto alla salvezza
per chiunque (panti) crede ma anche a ogni (pasan) umana ingiustizia . Dal pun- 16

to di vista retorico, il v. 18 figura come tesi specifica della sezione che si conclu-
de con Rm 3,20: Paolo intende dimostrare che l'ira divina incombe su chiunque
perverte le relazioni con Dio. Tuttavia, anche questa tesi, come quella di Rm 1,16-
17, non è dettagliata ma generale, in quanto si limita ad annunciare l'incombente
ira divina, senza ulteriori spiegazioni.
La giustizia di Dio, rivelata nel vangelo, quando incontra l'ingiustizia uma-
na si manifesta come ira e non come misericordia. Paolo tornerà spesso a parlare
della collera divina, anche se soltanto in questo verso si trova l'espressione «ira
di Dio » . Larilevanzaper il passato, il presente (cfr. Rm 2,5.8; lTs 2,16) e il fu-
17

turo (cfr. Rm 5,9; lTs 1,10) che Paolo conferisce all'ira, conferma che questa non
appartiene soltanto all'economia divina, prima del vangelo, ma anche al vangelo
stesso, in quanto espressione dell'incompatibilità tra Dio e il male . D'altro can- 18

to, è tipica dell'AT questa connessione tra la giustizia e l'ira di Dio, soprattutto di
fronte agli empi che opprimono i deboli . Per questo, è inutile considerare l'ori-
19

gine « dal cielo » dell'ira di Dio come opposta all'origine evangelica della giusti-
zia di Dio, annunciata in Rm 1,17 . L'una e l'altra fanno parte della stessa origi-
20

ne apocalittica del vangelo, anche se tale connessione contrasta, a prima vista, con
il nostro modo di concepire l'annuncio cristiano . 21

Al genere apocalittico appartengono il verbo apokalyptetai e ilriferimentoal


«cielo», inteso come luogo teoforico, sostitutivo di Dio , ossia come spazio per
22

14 Così invece J.D.G. Dunn, Romans, p. 53; M.D. Hooker, Adam in Romans 1,18, in NTS 6 (1959-
60) 297-306.
15 Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 333.
16 Così anche S. Finamore, The Gospel and the Wrath ofGod in Romans 1, in C. Rowland - C.H.T.
Fletcher-Louis, Understanding, Studying andReading (FS. J. Ashton [JSNT SS 153]), Sheffield 1998, pp.
138-140.
17Cfr. Rm 2,5.5.8; 3,5; cfr. in seguito Rm 4,15; 5,9; 9,22.22; 12,19; 13,4.5; cfr. anche lTs 1,10; 2,16;
5,9; Col 3,6.8; Ef 2,3; 4,31; 5,6; lTm 2,8. Con l'articolo, cfr. anche Col 3,6; Ef 5,6; Gv 3,36; Ap 19,15.
18 Sull'ira di Dio annunciata con la venuta messianica di Gesù cfr. anche Mt 3,7; Le 3,7; Gv 3,36.
19Cfr. Sai 7; 84,5-12; Mi 7,9; Is 59,17.19. Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 250.
20Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 334.
21Alcuni, come R.H. Bell, No one, pp. 13-15, interpretano il presente apokalyptetai come futuro, pro-
prio per separare l'attuale rivelazione della giustizia salvifica da quella escatologica, snaturando la conce-
zione apocalittica paolina.
22La funzione teologica del «cielo» è tipica delle narrazioni sinottiche (cfr. Me 1,10; Mt 3,2.16.17;
5,3.10; 7,11; 10,32-33; Le 9,54), mentre è rara nell'epistolario paolino (cfr. lTs 1,10; 4,16; 2Ts 1,7; Gal 1,8).
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 87
indicare l'origine divina dell'ira. La collera di Dio è rivolta verso ogni genere di
empietà e di ingiustizia umana: Paolo non specifica, per ora, a quali empietà e
23 24

ingiustizie siriferisca;lo farà in seguito. Questi due atti d'accusa, anche se posso-
no far pensare a due ambiti relazionali diversi, nel senso che l'empietà si riferi-
rebbe al rapporto con Dio mentre l'ingiustizia alle relazioni sociali, in questo ver-
so sembrano assumere la funzione di una endiadi . In questione si trova ogni fal-
25

sità o menzogna umana: possiamo parlare di una ingiusta empietà e di un'empia


ingiustizia. Comunque, l'accento è posto sull'ingiustizia, che non rappresenta sol-
tanto l'oggetto dell'ira divina, assieme all'empietà, ma anche l'ambito nel quale
gli uomini sopprimono la verità.
Paolo non specifica, nonostante abbiano cercato di farlo alcuni testimoni , il 26

referente della verità: la verità è l'atto di accusa fondamentale verso tutti, sia in
quanto caratteristica fondamentale di Dio sia come opposta alla menzogna . Per
27 28

questo non è necessaria l'aggiunta «di Dio», in quanto a lui è relazionata nel-
l'immediato v. 25. La verità divina e la menzogna umana si trovano al centro del-
la requisitoria di Rm 1,18 - 3,20, caratterizzandone lo sviluppo. Non a caso la con-
tesa si chiude con l'apodittica affermazione che «Dio è vero mentre ogni essere
umano è falso» (Rm 3,4). La stretta connessione tra Dio e la verità permette di
considerare quest'ultima come uno dei suoi aspetti più caratteristici, sottolineati
dallafilosofiapopolare greca, più che come sinonimo di fedeltà, proprio dell'AT.
Il principale atto d'accusa consiste nella soppressione della verità: il verbo
katechein, che altrove significa semplicemente «tenere» (cfr. Fm v. 13), «posse-
dere» (ICor 7,30) o «conservare» (cfr. ICor 11,2), qui assume il significato for-
te e negativo di « sopprimere », « soffocare », a causa dell'ambito di riferimento:
l'ingiustizia. Per alcuni questo verbo ha una sfumatura conativa: gli uomini cer-
cano di sopprimere la verità . Invece, la narrazione dimostra che di fatto gli esse-
29

ri umani sopprimono la verità, anche se essa è liberata dall'ira divina attraverso la


predicazione del vangelo.
[v. 19] Il primo atto della narrazione comincia in positivo, riconoscendo la
possibilità che tutti hanno di conoscere Dio, in quanto egli stesso lo ha reso pos-
sibile con la sua manifestazione. L'accento di questo primo momento cade sull'e-
spressione «manifesto..., lo ha manifestato», che si presenta comeparegmenon
retorico o come figura etimologica in cui siripetela stessa radice lessicale: così è
sottolineata la manifestazione di Dio che rende possibile la sua conoscenza.
23II sostantivo « empietà » (asebeia) è proprio del linguaggio paolino: vi compare 4 volte su 6 del NT
(cfr. Rm 1,18; 11,26; 2Tm 2,16; Tt 2,12; cfr. anche Gd vv. 15.18).
24Anche il sostantivo « ingiustizia» (adikia) è diffuso nelle lettere paoline: vi si trova 12 volte su 25
nel NT, di cui 7 in Romani (cfr. Rm 1,18.18.29; 2,8; 3,5; 6,13; 9,14; cfr. anche ICor 13,6; 2Cor 12,13; 2Ts
2,10.12; 2Tm 2,19).
25Cfr. Sai 73,6; Pr 11,5; Os 10,13; Mi 7,18; Ez 18,30. Cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 335; D.J.
Moo, Romans, pp. 101-102.
26Cfr. la versione copto-sahidica, la Clementina e l'Ambrosiaster.
27Per la verità in Rm 1,18 - 3,20 cfr. Rm 1,18.25; 2,2.8.20; 3,7. Cfr. anche l'attributo « vero » per Dio
in Rm 3,4.
28Per la menzogna come antonimo della verità cfr. Rm 1,25; 3,4.
29Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 112.
88 Traduzione e commento
In questo contesto to gnóston, hapax legomenon paolino, non va inteso come
constatativo, nel senso di « ciò che è conosciuto » , ma come potenziale offerta
30

per tutti: « Ciò che è conoscibile di Dio » . Alcuni, a causa dell'esclusione di Rm


31

I,18 - 3,20 dall'economia del vangelo, distinguono nettamente il verbo «manife-


stare » (phaneroun) da « rivelare » (apokalyptei): il primo si riferirebbe alla cono-
scenza naturale di Dio, mentre il secondo a quella soprannaturale, propria del van-
gelo . Tale distinzione è arbitraria; lo dimostra non soltanto la presenza del verbo
32

«rivelare», a proposito dell'ira divina in Rm 1,18, ma anche l'uso del verbo


« manifestare » in Rm 3,21.
Piuttosto il verbo « manifestare » esprime la dimensione pubblica o di osten-
tazione di quanto è posto davanti allo sguardo di tutti; in tal senso denota la possi-
bilità, offerta a tutti, di conoscere Dio; ed è proprio questa opportunità irrealizza-
ta che determina l'universale e apocalittica o definitivarivelazionedell'ira divina.
Ancora una volta, l'interpretazione di quanti orientano la narrazione soltanto per
i gentilirischiadi fraintendere la dimostrazione paolina. In questa prospettiva l'e-
spressione en autoìs non va inteso in senso forte, di «in loro», come se Paolo si
riferisse alla conoscenza di Dio nel cuore umano, ma in senso debole, corrispon-
dente a un dativo semplice: « a loro » \ senza distinzioni.
3

[v. 20] Il primo atto della narrazione, incentrata sul versante divino della cono-
scenza di Dio, si conclude con la spiegazione della prima via attraverso la quale gli
esseri umani possono conoscere Dio: le cose che ha fatto sin dalla creazione del
mondo . Con questo motivo Paolo sembrarichiamareuno dei temi dominanti del-
34

lafilosofiapopolare greco-romana. Già Cicerone aveva sostenuto che « Dio non si


vede ma siriconoscedalle sue opere» . A causa di questo retroterra, alcuni trova-
35

no conferma che Paolo si stiarivolgendoai gentili e non agli ebrei. In realtà, il mo-
tivo della non visibilità di Dio è diffuso anche nell'AT , come appartiene al giudai-
36

smo ellenistico l'assioma della conoscenza di Dio mediante le sue opere . D'altro 37

canto, egli non specifica a quali opere si riferisca : dalla narrazione (vv. 22.25) è
38

chiaro ilriferimentoalle creature, anche se non bisogna dimenticare che tale via per
la conoscenza di Dio vale per ebrei e gentili; per questo tutti sono inescusabili!
30 Con questo significato cfr. Is 19,21; Ez 36,32; At 1,19; 2,14; 15,18; 28,22; Gv 18,15.
31 Cfr. anche Gn 2,9; Sir 21,7; Filone, Allegoriae 1,18. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 103.
32 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 336.
33 Per la stessa funzione di en cfr. Gal 1,16; 2Cor 4,3; 8,1.
34 L'espressione «dalla creazione del mondo» può avere senso qualitativo, in quanto il creato è la
prima via con la quale si può conoscere Dio, e senso temporale, poiché la conoscenza di Dio è a disposi-
zione di tutti. Poiché l'oggetto principale della conoscenza di Dio è rappresentato dalle «cose che ha fat-
to », è preferibile la seconda ipotesi: egli sembra dire che da sempre si può conoscere Dio per mezzo delle
sue opere. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 336. Per il valore temporale di apo cfr. 2Cor 8,10; 9,2; Mt
II,12; 24,21; 25,34; Ap 13,8; 17,8.
35 Cfr. Cicerone, Tusculanae disputationes 1,28,70: « Ut deum non vides, tamen, ut deum adgnoscis ex
operibus eius... ». Cfr. anche Platone, Timeo 28A-30C; 32A-35A; Pseudo-Aristotele, De mundo 6,397b-398b.
36 Cfr. Es 33,20; Dt 4,12; Sir 43,31; cfr. anche Filone, Somniis 1,11; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 7,8,7.
37 Cfr. Sap 12,1 - 14,31; Or. Sib. 3,8-45. Con l'aiuto del Thesaurus Linguae Graecae J.G. Cook, The
Logic andLanguage ofRomans 1,20, in Bib 75 (1994) 494-517, ha ben dimostrato che il vocabolario del v. 20
ricalca diverse tematiche provenienti dalla filosofia ellenistica per essere utilizzate dal giudaismo ellenistico.
38 II sostantivo poiema è raro nel NT: compare solo qui e in Ef 2,10, in cui èriferitoagli stessi uomini.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 89
Anche l'autore della Sapienza sostiene che «dalla grandezza e bellezza delle
creature per analogia si conosce il creatore» (Sap 13,5); e aggiunge che «per co-
storo leggero è il rimprovero, perché essi forse si ingannano nella lororicercadi Dio
e nel voler trovarlo » (Sap 13,6). Da una prospettiva diversa e intragiudaica, Flavio
Giusepperileggeràla relazione tra Dio e le sue opere: «Mostrò (Mosè) che Dio è
uno, ingenerato, eternamente immutabile, superiore per bellezza a ogni forma mor-
tale, da noi conoscibile nella sua potenza, inconoscibile nella sua essenza » . A sua 39

volta, Paolo estende la portata della conoscenza di Dio, considerando le sue opere
come espressioni della suarivelazioneper tutti, altrimenti l'accusa di inescusabi-
lità,ripresain Rm 2,1, sarebbe troppo marcata, seriferitasoltanto ai gentili.
Con un ossimoro che veicola il paradosso del contenuto, Paolo sostiene che
gli attributi invisibili di Dio si possono contemplare mediante le sue opere : come 40

si può contemplare ciò che è invisibile? Secondo Col 1,15 e lTm 1,17 Dio è invi-
sibile; invece in Rm 1,20 l'invisibilità di Dio rimanda alla sua eterna potenza e 41

alla sua divinità , quali suoi principali attributi. Qualcosa di analogo aveva già so-
42

stenuto l'autore della Lettera di Aristea, attribuendo la potenza divina al creato e


a tutta la Legge che permette diriconoscerel'esistenza di un solo Dio: « (Il nostro
legislatore) ha insegnato prima di tutto che Dio è uno e che la sua potenza è evi-
dente in tutte le cose e ogni luogo è pieno del suo dominio...; indicava così la po-
tenza che pervade tutta la Legge » . Con un nuovo hapax legomenon del NT,
43

kathoran (contemplare), Paolo specifica la percezione che guida nella conoscen-


za degli attributi di Dio, per sottolineare il versante antropologico della manife-
stazione divina attraverso le sue opere: queste sono visibili e percepibili.
Il primo atto della narrazione si chiude con una proposizione che può essere
consecutiva o finale: nel primo caso l'inescusabilità umana è conseguenza della
manifestazione pubblica delle opere di Dio; nel secondo, Dio stesso, attraverso le
sue opere, pone gli accusati di fronte all'inescusabilità delle loro azioni. A causa
della natura giudiziaria della narrazione, forse la seconda ipotesi è più sostenibi-
le . Nessuno può accampare qualche alibi, perché Dio stesso ha escluso possibi-
44

li incomprensioni di fronte alla manifestazione delle sue opere. Sembra che Pao-
lo segua il canovaccio narrativo di Sap 12,1 - 14,31: «Neppure costoro però so-
no scusabili... » (syggnóstoU Sap 13,8). Tuttavia, l'accusa paolina è più radicale:
essi non possono difendersi o pronunciare la propria apologia perché, da sem- 45

pre, le opere di Dio sono la prima possibilità per conoscere la sua potenza e la sua
divinità.
Cfr. Flavio Giuseppe, Apionem 2,16,167.
39

II sostantivo aoratos (invisibile) non è comune nel NT ed è tipico dell'epistolario deuteropaolino:


40

cfr. Col 1,15.16; lTm 1,17; cfr. anche Eb 11,27.


Anche se in Rm 1,16 Paolo ha già parlato del vangelo come potenza di Dio, ora siriferiscealla sua
41

« eterna potenza », in senso generale; l'attributo aidios compare solo qui e in Gd v. 6 per il NT.
II termine theiotés è hapax legomenon nel NT; compare soltanto 1 volta anche nella LXX, in Sap
42

18,9 a proposito della « Legge della divinità ».


Cfr. Aristea 132-133.
43

Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 338; D.J. Moo, Romans, p. 105.
44

II termine anapologetos, utilizzato soltanto qui e in Rm 2,1 nel greco biblico, evoca proprio la si-
45

tuazione di tribunale, durante la quale gli accusati sono invitati a pronunciare la propria difesa.
90 Traduzione e commento
[v. 21] All'azione positiva di Dio, che si è resa manifesta con le sue opere,
corrisponde il comportamento di coloro che non lo hannoriconosciutocome tale.
La nuova proposizione passa da Dio agli accusati, mediante due parti che si spie-
gano vicendevolmente: la mancata relazione positiva con Dio, che avrebbe dovu-
to condurre alla sua glorificazione e al suo ringraziamento, ha determinato una
condizione d'insensatezza della mente e di offuscamento del cuore umano.
Il vocabolario della gloria è spessoripresoin Romani, con il sostantivo doxa
e con il verbo doxazein , come nel presente caso: rendere gloria a Dio significa
46

concretamente riconoscerlo come l'unico Signore e non confonderlo con le crea-


ture che possono, per suo dono, partecipare soltanto vagamente della sua gloria.
Larilevanzauniversale di quest'accusa è confermata dall'asserzione di Rm 3,23:
« Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio ». Meno frequente nell'epi-
stolario paolino è il riferimento al rendimento di grazie verso Dio: il verbo eu-
charistein è prevalentemente usato per i ringraziamenti iniziali per i destinatari
delle lettere . 47

La prima conseguenza di questo contrasto con Dio si trova nella vacuità del-
le discussioni, che, a sua volta, dipende dall'offuscamento del cuore. Forse è be-
ne precisare, rispetto a queste discussioni, che Paolo non contesta quanto si pos-
sa comprendere di Dio attraverso la ragione. Tutt'altro. In questione si trova un
atteggiamento del cuore o, diremmo, della mente che conduce a non rendere gra-
zie a Dio; anzi, a vivere come se lui non esistesse. Alla stessa conclusione con-
duce la dimostrazione di ICor 1,18 - 3,23, con la citazione diretta del Sai 3,20: « Il
Signore sa che le discussioni dei sapienti sono vane ». In quanto tali, le discussio-
ni non sono vane; lo diventano quando non conducono a una positiva relazione
tra coloro che le compiono e Dio stesso che permette loro di attuarle . Anche se 48

il verbo mataioomai (essere vacuo) è hapax legomenon del NT, non è un caso che
in Rm 8,20 Paoloriprenderàquest'affermazione di Rm 1,21 dalla prospettiva del-
la liberazione a cui tende l'intera creazione, in quanto sottomessa alla caducità o
alla vacuità.
Nell'ultima parte di questa seconda fase della narrazione, Paolo pone sotto
accusa il destinatario principale dal quale dipende tutto il resto: il cuore umano,
soggetto a una pericolosa sclerosi, fino all'offuscamento. Dal cuore dipende ogni
relazione, positiva o negativa, con Dio e con il prossimo,riprendendoil detto ge-
suano di Mt 15,18-19. Per questo, soprattutto in Romani, Paolorichiamauno dei
motivi principali delle requisitorie profetiche sul cuore di pietra o di carne . 49

46 Per doxa cfr. Rm 1,23; 2,7.10; 3,7.23; 4,20; 5,2; 6,4; 8,18.21; 9,4.23.23; 11,36; 15,7; 16,27; per
doxazein cfr. Rm 1,21; 8,30; 11,13; 15,6.9.
47 Vedi a tal proposito la nota a Rm 1,8. Al di fuori deiringraziamentiepistolari cfr. l'uso di eucha-
ristein in Rm 14,6.6; 16,4; cfr. anche lTs 2,13; 5,18; 2Ts 2,13; ICor 1,14; 10,30; 11,24; 14,17.18; Col 1,3;
3,17; Ef 5,20.
48 Bisogna in ogni casoriconoscereche nell'epistolario paolino il sostantivo dialogismos assume una
sfumatura negativa, in quanto indica il perder tempo in discussioni che non portano arisultatisignificativi
o costruttivi (cfr. anche Rm 14,1; ICor 3,30; Fil 2,14; lTm 2,8).
49 Cfr. Is 44,18-20. Il sostantivo kardia compare 157 nel NT, di cui 52 nelle lettere paoline e 15 in
Romani che ne attesta la maggiore frequenza (cfr. Rm 1,21.24; 2,5.15.29; 5,5; 6,17; 8,27; 9,2;
10,1.6.8.9.10; 16,18).
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 91
Quando il cuore è soggetto a una sclerosi interiore, le conseguenze sono fatali: si
determina una sorta di black-out generale che investe ogni altro organo del cor-
po e qualsiasi dimensione relazionale. Per questo, Paolo utilizza un verbo che di
per sé è improprio per il cuore mentre riguarda l'organo della vista, «si offu-
scò »: verrà riutilizzato, con proprietà di linguaggio, in Rm 11,10, con la citazio-
ne del Sai 69,24. Questa improprietà permette però di comprendere che tutto di-
pende dal cuore: lo stesso occhio buono o cattivo dipende dal cuore. Quando il
cuore funziona bene è capace di intelligenza: non bisogna dimenticare che per
l'antropologia semitica si pensa con il cuore e si comanda con la testa, mentre i
sentimenti sono localizzati ed espressi nelle viscere. Per questo, l'intelligenza
(synesis) e coloro che sono intelligenti (synetoi) si oppongono a quanti sono in-
sensati (asynetoi): non potrà mancare questa colpa fra i vizi che Paolo elencherà
in Rm 1,31 . 50

[v. 22] La mancanza d'intelligenza conduce alla stoltezza: questo avviene in


ogni condizione fisica e interiore, come è abbastanza comune che colui che vive
tale condizione non si accorga di essere diventato stolto; anzi, che si ritenga sa-
piente . Il linguaggio di questo verbo è analogo a quello di ICor 1,18-31, anche
51

se non è utilizzato nella stessa prospettiva paradossale, in quanto lì Paolo aveva


dimostrato che « la parola della croce è stoltezza per coloro che si perdono »
(ICor 1,18) . 52

Dallo sviluppo argomentativo si può notare che Paolo ancora non pone sul
banco degl'imputati le prove dell'accusa: preferisce prima accusare e quindi di-
mostrare le prove. Da questo punto di vista la sua narrazione segue il percorso in-
verso, ad esempio, di Ger 10: le attestazioni idolatriche inducono il profeta a so-
stenere che «ogni uomo rimane inebetito, senza comprendere» (v. 14). Invece,
sembra che Paolo segua l'analogo percorso di Sap 11-14: dai ragionamenti insen-
sati all'idolatria (cfr. Sap 11,15). Alcuni ritengono che i verbi usati nei vv. 21-22
siano ingressivi: «Cominciarono a diventare insensati..., cominciarono a diventa-
re stolti » . Invece la prospettiva forense dimostra che si tratta di eventi accertabi-
53

li e verificabili attraverso quanto Paolo dirà nei versi successivi.


[v. 23] L'offuscamento del cuore conduce all'idolatria, presentata come prin-
cipale capo d'accusa per tutti. A prima vista, sembra che Paolo citi implicitamen-
te il Sai 105,19-20 che, a sua volta,richiamal'episodio di Es 32: « Si fabbricaro-
no un vitello sull'Oreb, si prostrarono a una immagine di metallo fuso; scambia-
rono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno ». Tuttavia, Paolo
sottolinea che la gloria di cui parla il Sai 105,20 è quella dell'incorruttibile Dio , 54

creando un contrasto maggiore con la corruttibilità degli idoli, e inserisce, accan-

50Cfr. anche Rm 10,19; Me 7,18; Mt 15,16.


51II verbo phaskein compare soltanto 3 volte nel NT: qui e in At 24,9; 25,19; indica la convinzione
che uno possiede in base alle proprie persuasioni.
52II verbo mórainein si trova soltanto qui e in ICor 1,20 per l'epistolario paolino; cfr. anche Mt 5,13.
53Così DJ. Moo, Romans, pp. 107-108.
54Anche se Paolo si serve altrove del vocabolario dell'immortalità (cfr. aphthartos di ICor 9,25;
15,52; aphtharsia in Rm 2,7; ICor 15,42.50.53.54; Ef 6,24), non definisce più Dio come « incorruttibile »,
se non nel passo deuteropaolino di lTm 1,17.
92 Traduzione e commento
to all'adorazione degli animali, quella degli esseri umani, considerati come divi-
nità. Per questo è insufficiente l'evocazione del vitello d'oro, per orientare il v. 23
verso un'accusa intragiudaica; egli sembra creare, ancora una volta, una commi-
stione tra l'idolatria giudaica e quella pagana.
La divinizzazione di personaggi illustri, nota come evemerismo , è tipica del- 55

1 ' apologia giudaica contro i gentili, come dimostra la Lettera di Aristea: « Costrui-
te delle statue di pietra e di legno, affermano che sono immagini di persone che
hanno fatto scoperte utili alla vita degli uomini e vi si prostrarono dinnanzi per
quanto sia evidente l'insensatezza di tali immagini... E coloro che hanno creato e
plasmato queste favole sono considerati i più saggi dei greci» (Aristea 135.137).
La stessa lettera prosegue, accennando al culto degli animali nella religione
egiziana: « E che dire degli altri sciocchi, egiziani e loro simili, che confidano ne-
gli animali, per lo più serpenti e bestie feroci, si prostrano dinnanzi a loro, offrono
loro sacrifici, siano essi vivi o morti?» (Aristea 138) . Comunque, a differenza
56

dall'autore di Aristea, Paolo non sembra convinto che « Mosè ha cinto di palizza-
te i giudei, perché non fossero contaminati da queste credenze » (cfr. Aristea 139):
evocando il Sai 105 e la propaganda profetica dell'AT, egli sottolinea che tutti,
compresi i giudei, sono caduti nell'idolatria.
Per idolatria, Paolo distingue l'adorazione di immagini umane da quella de-
gli animali: in tal modo segue l'ordine inverso alla narrazione sulla creazione de-
scritta in Gn 1 che procede dalla creazione degli animali a quella degli esseri
umani. Piuttosto, questa descrizione sembra seguire lo stesso ordine dell'accusa
idolatrica deuteronomistica di Dt 4,15-18. Si può ben notare come l'accento del-
la narrazione cada sui sinonimi «somiglianza» (homoióma) e «immagine» 51

(eikón) *: i due sostantivi sono utilizzati insieme per sottolineare l'inconsistenza


5

di tali raffigurazioni. Altrove Paolo stesso considererà Cristo e gli esseri umani
come immagini o icona di Dio (cfr. ICor 11,7; 2Cor 4,4). Ora però egli si riferi-
sce alla sostituzione dell'immagine corruttibile con la realtà incorruttibile di Dio;
per questo, quando si pone la creatura umana al posto di Dio, diventa una imma-
gine falsata perché pretende diriceverela sua gloria.
Per quanto riguarda l'adorazione degli animali, sembra che volutamente
Paolo proceda dagli uccelli ai quadrupedi per giungere ai rettili: queste rappre-
sentazioniriguardanoil cielo, la terra e ciò che si trova sottoterra, come per indi-
care che qualsiasi culto di animali è idolatrico, in quanto diventa una sostituzione
della gloria di Dio . Anche in occasione della visione di Pietro in At 10 com-
59

paiono gli uccelli, i quadrupedi e i rettili (v. 12; cfr. anche At 11,6), considerati co-
me semplici animali commestibili.
55Evemero, filosofo del secolo IV a.C, diffuse nel mondo greco la credenza popolare sulla diviniz-
zazione degli esseri umani.
56Sul culto degli animali in Egitto cfr. anche Filone, Decalogo 76; Legatione 139; 163.
57II termine homoióma è tipico dell'epistolario paolino e, in particolare, di Romani: compare 6 vol-
te nel NT, di cui 4 in Rm 1,23; 5,14; 6,5; 8,3; cfr. anche Fil 2,7; Ap 9,7.
58Anche eikón è diffuso nell'epistolario paolino: vi si riscontra 9 volte su 23 nel NT (cfr. Rm 1,23;
8,29; ICor 11,7; 15,49.49; 2Cor 3,18; 4,4; Col 1,15; 3,10.
59Cfr. da una prospettiva positiva la signoria di Cristo, nei cieli, sulla terra e sotto terra di Fil 2,10.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 93
La descrizione dell'idolatria è evolutiva: si procede dalle raffigurazioni più
comuni delle divinità a quelle che incutono maggiore terrore. Per gli uccelli, si
pensi alle raffigurazioni egiziane dell'ibis; forse con i quadrupedi si allude in par-
ticolare ai tori, considerati oggetto di culto nell'Oriente Antico, compreso Israele,
soprattutto sotto Geroboamo (cfr. IRe 12,28-31). Per i rettili, si possono evocare
i coccodrilli, particolarmente venerati in Egitto.
[v. 24] Il secondo momento della narrazione riprende l'agire di Dio (v. 24),
al quale corrisponde quello umano (v. 25), con la novità che se la prima volta Dio
ha manifestato la sua potenza mediante la creazione (vv. 19-20a), ora comincia a
manifestare l'ira, consegnando gli accusati a se stessi. Per descrivere l'ira divina,
Paolo utilizza il verbo paradidómi che implica una certa partecipazione del sog-
getto agente: con la ripresa di questo verbo nei vv. 24.26.28 egli non soltanto
sembra sostenere che Dio abbia abbandonato tutti a se stessi ma che addirittura li
abbia consegnati alle aberrazioni descritte . Ancora una volta, è il cuore umano
60

a essere chiamato in causa, perché orientato verso passioni impure. Di per sé, il
sostantivo epithymia non ha valore negativo: può essere tradotto anche con desi-
derio, nel senso positivo (cfr. lTs 2,17; Fil 1,23) . Tuttavia, la relazione con
61

akatharsia (impurità) orienta verso un'accezione negativa di passione o di bra-


mosia. A sua volta, il sostantivo akatharsia può assumere valenza generale e ri-
ferirsi a qualsiasi tipo di impurità: alimentare, cultuale e sessuale . Con questa 62

diversità di funzioni è utilizzato dalla LXX (cfr. Lv 7,20; Nm 19,13; Ez 4,14) e


da Paolo stesso (cfr. Rm 6,19; lTs 2,3; 4,7). L'immediato riferimento ai «corpi»
delimita il campo dell'impurità: Paolo ha di mira innanzi tutto l'impudicizia ses-
suale, come prima conseguenza dell'idolatria . 63

Non è facile interpretare la conclusione del v. 24: l'infinitiva, «al punto da


disonorare i loro corpi fra di loro », ha valore consecutivo o finale? Si collega a
« li ha consegnati » oppure a « impurità »? Poiché il soggetto principale dell'azio-
ne è Dio, è preferibile relazionare questa infinitiva a « li ha consegnati » e consi-
derarla come una consecutiva. Dio non ha consegnato gli accusati affinché diso-
norino i loro corpi, ma la consegna operata da Dio ha significato un consequen-
ziale disonore. Questo rapporto con il disonore umano sarà ribadito al v. 26, dove
il soggetto principale ridiventa Dio.
[v. 25] La terza fase della narrazione si conclude con l'esplicita accusa di ido-
latria. Ora Paolo non asserisce nulla di nuovo rispetto a quanto ha già detto al v.
23: si limita aribadirela perversione umana, soffermandosi sul culto idolatrico e
distanziandosene con una improvvisa professione di fede verso il Creatore. Anco-

60 Così già spiegava nel suo commentario Origene: « Per il fatto che sono abbandonati, sono conse-
gnati ai desideri perversi del loro cuore». Cfr. Origene, Romani, I, pp. 42-43.
61 II termine epithymia compare 38 volte nel NT, di cui 19 nell'epistolario paolino: la maggiore frequenza
spetta proprio a Romani, in cui si trova 5 volte (cfr. Rm 1,24; 6,12; 7,7.8; 13,14) e sempre con valore negativo.
62 Questo è un termine caratteristico della morale paolina, in particolare della lista dei vizi: akathar-
sia si trova 10 volte nel NT delle quali 9 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,24; 6,19; lTs 2,3; 4,7; 2Cor
12,21; Gal 5,19; Col 3,5; Ef 4,19; 5,3; cfr. anche Mt 23,27).
63 Con la stessa accezione cfr. 2Cor 12,21; Col 3,5. Cfr. anche lEn 10,11; Test. Giuda 14-15; Flavio
Giuseppe, Guer. giud. 4,562.
94 Traduzione e commento
ra una volta, in questione è la verità di Dio consistente nel suo essere il Creatore
rispetto alla menzogna rappresentata dall'adorazione della creazione . Qui, il ter- 64

mine ktisis (creazione) assume valore generale: si riferisce a qualsiasi creazione di


Dio, compreso l'essere umano, a causa della descrizione del culto idolatrico trat-
tato al v. 24. Si può notare come Paolo preferisca non specificare neppure in que-
sto caso gli accusati, lasciandoli nell'anonimato e nella genericità. Il parallelo di
lTs 1,9 per indicare il passaggio dall'idolatria al servizio dell'unico Dio, da parte
dei gentili, non regge in quanto qui Paolo sostiene il processo inverso : non dal 65

politeismo al monoteismo ma dal monoteismo al politeismo.


Per la descrizione del culto idolatrico sono utilizzati due verbi propri del-
l'ambito religioso-cultuale: sebazesthai che siriferisceall'adorazione in genera-
le, e latreuein che assume una funzione più specifica, nel senso di rendere culto.
Il primo verbo è hapax legomenon del NT, il secondo è generalmente usato da
Paolo per esprimere il culto per l'unico Dio . Raramente il Signore è definito co-
66

me il creatore nel NT: lo è qui per sottolineare la siderale distanza tra lui e la crea-
zione (cfr. anche Col 3,10; Ef 3,9) . Eppure gli esseri umani hanno adorato la
67

creazione al posto del Creatore: la formulazione greca, para con l'accusativo, può
indicare sia un paragone (più di, cfr. Rm 12,3) sia una opposizione (al posto di).
In questo caso, Paolo non intende semplicemente affermare che gli esseri umani
hanno adorato la creatura più del Creatore ma al suo posto . 68

Una benedizione divina chiude questa parte della sua narrazione: non è for-
mulata in occasione di una conclusione argomentativa, come in altri casi , ma co- 69

me spontanea professione di fede attraverso la quale Paolo riconosce Dio come


l'unico al quale bisogna rendere culto. La stessa formula di benedizione si trova
in Rm 9,5 e in 2Cor 11,31. Un «amen» chiude questa professione di fede e po-
trebbe anche concludere l'intera narrazione; invece Paolo preferisce entrare nel
dettaglio rispetto all'idolatria di cui sono tutti accusati.
[v. 26] Anche il v. 26a non fa che ribadire quanto è stato sostenuto al v. 24,
con la specificazione dell'impurità: questa è descritta in modo più dettagliato con
le passioni disonorevoli. Si può notare come ora Paolo si soffermi sulla valutazio-
ne etica delle perversioni sessuali: sono spregevoli. Appartengono al vocabolario
paolino i sostantivi pathos (passione) e atimia (disonore) . Dal punto di vista 70

grammaticale si tratta di un genitivo qualificativo: « passioni del disonore » signi-

64II sostantivo ktisis è tipico dell'epistolario paolino e in particolare di Romani: si trova 19 volte nel
NT, di cui 11 nelle lettere paoline e 7 volte in Romani (cfr. Rm 1,20.25; 8,19.20.21.22.39; 2Cor 5,17; Gal
6,15; Col 1,15.23). Soprattutto in Rm 8 Paolo affronterà la relazione positiva tra la creazione e Dio.
65Così invece D.J. Moo, Romans, pp. 112-113.
66Cfr. Rm 1,9; Fil 3,3; 2Tm 1,3. Cfr. anche l'uso di latreia in Rm 9,4; 12,1.
67Anche in questa professione di fede nell'azione creatrice di Dio, Paolo è vicino alla Lettera di Aristea
secondo la quale i giudei sono « adoratori del Dio unico e potente su tutta la creazione » {Aristea 139).
68Per casi analoghi di para + accusativo con senso sostitutivo o di opposizione cfr. Le 18,14; ICor
3,11; 2Cor 8,3; Eb 1,9; 11,11.
69Cfr. la funzione conclusiva di amen in Rm 9,5; 11,36; 15,33; 16,24.27; Gal 1,5; 6,18; Fil 4,20; Ef
3,21; lTm 6,16; 2Tm4,18.
70II termine atimia compare, per il NT, solo nell'epistolario paolino: ICor 11,14; 15,43; 2Cor 6,8; 11,21;
Rm 1,26; 9,21; 2Tm 2,20. Anche il sostantivo pathos è propriamente paolino (cfr. lTs 4,5; Rm 1,26; Col 2,5).
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 95
fica le passioni disonorevoli o spregevoli . Egli ha di mira le perversioni sessua-
71

li che si accinge a descrivere in dettaglio.


Con la seconda parte di questo verso comincia la descrizione delle perversio-
ni sessuali, introdotte da un infatti esplicativo e non causale. Secondo la maggior
parte degli autori, Paolo siriferisceprima all'omosessualità femminile o al lesbi-
smo, per trattare al v. 27 di quella maschile . Forse questa interpretazione deriva
72

dall'acquisizione moderna sulla parità sessuale mentre è bene riconoscere che


Paolo non specifica l'identità delle persone in questione, come invece per l'omo-
sessualità maschile. Con questo non intendiamo escludere, a priori, la condanna
del lesbismo ma sottolineare che non è precisato il tipo di relazione contro natura.
Rispetto a questa genericità della descrizione, possono essere chiamati in causa sia
il lesbismo sia le relazioni non coitali. Nel primo caso, è significativo il totale si-
lenzio dell'AT, di gran parte della letteratura giudaica del secondo Tempio e nel
resto del NT. Soltanto lo Pseudo-Focilide condanna l'omosessualità femminile e
quella maschile: « Le donne non imitino il ruolo sessuale dei maschi » . Bisognerà 73

attendere il giudaismo rabbinico perché si torni a condannare esplicitamente il le-


sbismo . Quindi, Rm 1,26 rappresenterebbe l'unica citazione sul lesbismo nella
74

letteratura biblica e giudaica prima del 70 d.C. Invece, nella letteratura greca clas-
sica e in quella ellenistica, il lesbismoriscontramaggiore trattazione, anche se non
abbondante come l'omosessualità maschile . Plutarco ricorderà che «a Sparta
75

l'amore era ammesso al punto che anche le donne belle e buone amavano le fan-
ciulle» (Licurgo 18,9); il caso più noto è quello della poetessa Saffo. Comunque,
anche in tali contesti, la letteratura e le raffigurazioni pittoriche di origine greco-
romana non preferiscono tanto porre l'omosessualità femminile quanto l'etero-
sessualità non coitale accanto a quella maschile ; e Paolo può benissimo riferirsi
76

a questo secondo caso, mentre bisogna riconoscere che non parla esplicitamente
del lesbismo . La descrizione delle perversioni sessuali, per la quale i peccati con-
77

tro natura delle donne precedono quelli degli uomini, sembrarichiamarela stessa
sequenza narrativa di Gn 3,1 -7, in cui si passa dal peccato della donna a quello del-
l'uomo, anche se qui il primo non è considerato come causa del secondo.
[v. 27] La condanna dell'omosessualità maschile nella letteratura biblica e in
quella giudaica è legiferata nell'AT poiché mina la struttura delle relazioni fami-
liari e tribali: «Non avrai con maschio relazioni come si hanno con donna» (Lv
18,22) . Dal punto di vista narrativo, è esemplare la vicenda di Sodoma e Gomor-
78

71Così anche DJ. Moo, Romans, p. 113. s


72Così B. Byrne, Romans, p. 76: C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 125; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 344;
DJ. Moo, Romans, pp. 114-115; D.E Wright, Omosessualità, in Dizionario di Paolo, p. 1100.
73Pseudo-Focilide, Sentenze 192.
74Cfr. Shabbat 65a; Yevamot 76a.
75Cfr. Platone, Simposio 189d-191e; Fedro, Favole 4,16; Ovidio, Metamorphoseon 9,720,97; Luciano,
Dialogi 5,289-292; Amores 28; Marziale, Epigrammaton 1,90; 7,67,70; Seneca, Controversiae 1,2,23.
76Cfr. Erodoto, Historia 1,61; Pseudo-Focilide, Sentenze 189; Marziale, Epigrammaton 3,87; 4,84;
6,67; 11,104.
77Così J.E. Miller, The Practice ofRomans 1:26a: Homosexual or Heterosexual?, in NT 31 (1995) 1-11.
78Cfr. anche Lv 20,13; per la prostituzione sacra maschile cfr. Dt 23,17. Per le rilevanze ermeneu-
tiche dell'omosessualità nella Scrittura cfr. M. Stowasser, Homosexualität und Bibel Exegetische und
Hermeneutische Überlegungen zu einem schwierigen Thema, in NTS 43 (1997) 503-526.
96 Traduzione e commento
ra, distrutte a causa dell'omosessualità maschile (cfr. Gn 19,l-28) . Nella conte- 79

stazione profetica di Geremia non mancherà l'accusa di omosessualità rivolta ai


profeti di Gerusalemme: « Per me sono tutti come Sodoma e i suoi abitanti come
Gomorra» (Ger 23,14; cfr. anche Lm 4,6).
La condanna dell'omosessualità maschile prosegue nel giudaismo extrabi-
blico e successivo, al punto che questo diventa uno dei principali argomenti del-
l'apologetica giudaica contro il mondo greco-romano. Così scrive l'autore della
Lettera di Aristea: « La maggior parte degli altri, infatti, si contamina con unioni
promiscue, commettendo grandi torti; regioni e intere città se ne vantano. Non so-
lo intrattengono rapporti fra maschi ma contaminano anche le madri e persino le
figlie. Ma noi siamo rimasti separati da queste azioni » (152) . 80

Circa questa descrizione, Paolo non si limita a dichiarare la colpevolezza del-


l'omosessualità, come per il peccato femminile contro natura, ma si sofferma sul
coinvolgimento dei corpi, utilizzando un linguaggio inusuale: il verbo ekkaiomai
(infuocarsi) e il sostantivo orexis (libidine) compaiono soltanto qui nel NT; i so-
stantivi aschemosyne (vergogna) e antimisthia (ricompensa) siritrovano,rispetti-
vamente, solo in Ap 16,15 e in 2Cor 6,13. Tuttavia non è la prima volta che Paolo
utilizza la metafora del fuoco per indicare la passione sessuale; lo ha già fatto in
ICor 7,9b per la relazione tra matrimonio e verginità: « È meglio sposarsi che ar-
dere» . Per sottolineare il coinvolgimento sessuale, egli ricorre a un sostantivo
81

particolare, orexis, che indica una passione smodata, conrisvoltinegativi: possia-


mo rendere il termine con « libidine » . Per la presenza di questa terminologia, for-
82

se non è errato pensare a una vera e propria burla verso l'omosessualità maschile.
Le conseguenze fondamentali per tali azioni sono la vergogna e la ricom-
pensa. Utilizzando il sostantivo plané*\ Paolo prende di mira proprio l'inganno
derivante da una relazione omosessuale (cfr. anche 2Pt 2,18 sempre in contesto
sessuale). Proprio questo inganno rappresenta laricompensadi Dio che comincia
a manifestare la sua ira verso quanti continuano a vivere nell'idolatria.
A causa della sottile ironia con la quale Paolo descrive l'omosessualità ma-
schile, forse è meglio rendere antimisthia con ricompensa e non con punizione . 84

D'altro canto, secondo la legge levitica l'unica punizione per queste colpe è la pe-
na di morte. Invece Paolo, per quanto descriva negativamente queste perversioni,
non sostiene che Dio ha messo a morte coloro che le hanno commesse: è bene non
dimenticare che, anche se in questa narrazione Dio manifesta la sua ira, non è mai
definito come giudice che condanna a morte i colpevoli.
Dal punto di vista etico, è inutile appellarsi alla distinzione tra la natura e la
volontà divina per sostenere che Paolo non condanna l'omosessualità. Non biso-
79Cfr. anche il delitto di Gàbaa narrato in Gdc 19,23-25.
80 Cfr. anche le apologie contenute in Or. Sib. 3,185; 3.595-600; Filone, Abrahamo 135; Legibus
2,50; 3,37; Flavio Giuseppe, Apionem 2,272-275.
81 Per l'uso di «infuocarsi» in ambito sessuale cfr. Alcifrone, Epistulae 3,31,1; Caritone di
Afrodisia, Callìroe 5,9,9.
82Cfr. anche Sir 23,6; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 7,169.
83 Questo termine si trova 10 volte nel NT, di cui 4 nell'epistolario paolino: cfr. Rm 1,27; lTs 2,3;
2Ts 2,11; Ef 4,14; cfr. anche Gc 5,20; 2Pt 2,18; 3,17; lGv 4,6; Gd v. 11.
84Con buona pace di D.J. Moo, Romans, p. 118.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 97
gna dimenticare che per Paolo, come per il giudaismo del suo tempo, ciò che è se-
condo natura appartiene anche alla volontà divina. Piuttosto è bene precisare che
egli non distingue, come in epoca postfreudiana, tra tendenza e prassi: la prima
sarebbe lecita mentre la seconda sarebbe condannabile . Egli non valuta neppure
85

la prassi omosessuale in quanto tale, bensì una prassi che rappresenta la manife-
stazione di una relazione pervertita con Dio. In pratica, egli non procede dall'o-
mosessualità all'idolatria ma, al contrario, dall'idolatria alle perversioni sessuali.
Dunque è inutile cercare in Rm 1,27 una trattazione a sé stante dell'omosessua-
lità. Infine è importante precisare che anche l'omosessualità può essere orientata
in modo cristiano perché il vangelo èrivoltoa tutti indistintamente. Non è un ca-
so che, da una parte, Paolo elenchi, fra i vizi, l'omosessualità (cfr. ICor 6,9; lTm
I,10) e che, dall'altra, riconosca che della comunità cristiana sono entrati a far
parte omosessuali che hanno compiuto la scelta radicale per il vangelo, a condi-
zione che abbandonino l'uso perverso della sessualità (cfr. Col 3,7). Per questo è
condannata ogni fornicazione, ma per chiunque vale la possibilità della salvezza
realizzata in Cristo.
Attraverso questo quadro che conclude la terza fase della narrazione, Paolo
stabilisce una evidente connessione tra l'idolatria e le perversioni sessuali, ri-
prendendo un motivo diffuso nel giudaismo del secondo Tempio: le perversioni
sessuali sono la manifestazione e l'attestazione dell'idolatria, la sostituzione del
Creatore con le creature. Questo motivo, riscontrabile nei livelli più arcaici del
giudaismo e sviluppatosi soprattutto nel confronto con le religioni cananaiche - si
pensi alla prostituzione sacra -, è applicato dall'apologetica giudaica contro i do-
minanti costumi ellenistici.
[v. 28] L'ultima fase della querela è quella più violenta: le colpe sulle quali
incombe l'ira divina sembrano estendersi a macchia d'olio, al punto da coinvol-
gere ogni relazione umana, non soltanto quella sessuale. Però anche questa fase
riprende il motivo originario che ha condotto tutti in una condizione dilagante di
colpa: la piena conoscenza di Dio non è stata considerata come il fine fondamen-
tale dell'esistenza.
L'oggetto di questa nuova fase è la mente umana che non ha portato alla pie-
na conoscenza di Dio; in pratica l'opera di discernimento che doveva compiere la
mente, tra la verità di Dio e la menzogna, non è stata realizzata. Ancora una vol-
ta, limitare quest'accusa soltanto ai gentili vuol dire considerare come deboli i ter-
mini che Paolo utilizza nella sua querela: il verbo dokimazein (discernere) e Ye- 86

pignósis (piena conoscenza) siriferisconoa tutti, con o senza la Legge mosaica.


87

Non è un caso che la sezione si chiuda con il motivo della piena conoscenza del

85 Così invece R. Scroggs, The New Testament and Homosexuality: Contextual Background far the
Contemporary Debate, Philadelphia 1983, pp. 101-109.
86 Questo è un verbo tipico dell'etica paolina, utilizzato soprattutto in contesti esortativi: compare 22
volte nel NT, di cui 17 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,28; 2,18; 12,2; 14,22; lTs 2,4.4; 5,21; ICor 3,13;
II,28; 16,3; 2Cor 8,8.22; 13,5; Gal 6,4; Fil 1,10; Ef 5,10; lTm 3,10; cfr. anche Le 12,56.56; 14,19; lPt 1,7;
lGv 4,1. Discernere vuol dire compiere un'opzione etica per ciò che è buono e bello.
87 Anche Yepignósis è un tema ricorrente del pensiero paolino: si trova 20 volte nel NT, di cui 15
nelle sue lettere (cfr. Rm 1,28; 3,20; 10,2; Fil 1,9; Fm v. 6; Col 1,9.10; 2,2; 3,10; Ef 1,17; 4,13; lTm 2,4;
Tt 1,1; 2Tm 2,25; 3,7).
98 Traduzione e commento
peccato attraverso la Legge mosaica (Rm 3,20). In questa situazione negativa la
mente umana è considerata come adokimon, ossia come ignobile o abietta . Si 88

può notare come Paolo giochi sulla radice verbale dokim- per sottolineare che la
mancanza di discernimento (dokimazein) porta la mente a diventare ignobile
(adokimon). E, ancora una volta, l'ignominia della mente è riconoscibile dalle
azioni umane: gli accusati commettono azioni che non dovrebbero , ossia ciò che 89

è moralmente sbagliato.
[vv. 29-31] Nella pagina più pessimistica dell'epistolario paolino non poteva
mancare la più lunga lista di vizi: Paolo enumera ventuno vizi che riguardano gli
ambiti principali delle relazioni umane; mancano soltanto i vizi sessuali, ai quali
però è stata dedicata attenzione nei versi precedenti . Rispetto all'origine, queste
90

liste si trovano, anche se in forma diversa, nell'AT , nel giudaismo palestinese


91 92

e in quello ellenistico , nella grecità classica e in quella ellenistica , in particola-


93 94

re presso la filosofia cinico-stoica . Non mancano neppure nel resto dell'episto-


95

lario paolino e altrove nel NT , nell'epoca subapostolica , nel giudaismo rabbi-


96 97 98

nico (cfr. Avot 6,5) e presso l'ambiente gnostico della comunità di Nag Hammadi
(cfr. Corpus hermeticum 13,7). A prima vista, questa diffusione potrebbe indurre
a pensare a liste decontestualizzate. In realtà, non è un caso che qui Paolo non
elenchi alcuni vizi sessuali, in quanto già trattati nei vv. 24-27, né che quelli elen-
catiriguardinosoprattutto le relazioni interpersonali o sociali. In tal modo, egli in-
tende dimostrare che l'idolatria conduce a un disfacimento relazionale generale.
Soffermandoci sulla lista di Rm 1,29-31 è difficile stabilire un ordine conte-
nutistico: i vizi sono elencati in modo disordinato perché disordinata è la situa-
zione di chi li vive! Piuttosto si può notare la disposizione onomatopeica di alcu-
ne parti della lista. I primi quattro vizi si chiudono tutti nello stesso modo, adik-ia
(ingiustizia), poner-ia (malvagità), pleonex-ia (avarizia) e kak-ia (cattiveria). Per
sonorità, più che per contenuti, sono accostati pthonos (invidia) e phonos (omici-
dio); un'alfa privativa caratterizza gli ultimi cinque vizi: apeitheis (ribelli), asyn-
etous (insensati), asynthetous (sleali), astorgous (insensibili), aneleemonas (im-
pietosi). In questo modo l'elenco è così amplificato da rendere l'idea di una lista

88 L'aggettivo adokimon si trova 8 volte nel NT, di cui 7 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,28; ICor
9,27; 2Cor 13,5.6.7; Tt 1,16; 2Tm 3,8; cfr. anche Eb 6,8).
89 II verbo kathèkein compare solo qui e in At 22,22 per tutto il NT.
90 Sulle liste di vizi e di virtù nell'epistolario paolino cfr. K. Berger, Hellenistische Gattungen, pp.
1031-1432; J.J. Fauconnet, Confrontation des vices et des vertus dans les épitres du Nouveau Testamenti
in BLE 89 (1988) 83-96; N.J. McEleny, The vice-Lists ofthe Pastoral Epistles, in CBQ 36 (1974) 203-219;
A. Pitta, Cataloghi dei vizi e delle virtù, in Sinossi paolina, pp. 259-265.
91 Cfr. Es 20,13-17; Dt 5,17-21; Is 33,14-16; Ger 7,9; Os 4,2; Sai 15,1; 24,3-4.
92 Cfr. 1QS 1,5; 2,24; 4,3-11; 5,4; 8,2; 10,22.25-26. Cfr. anche Test. Giuda 16,1; Test. Gad 5,1;Test.
Ruben 3,2; Ap. Bar. 4,16; 8,5; As. Uose 1.
93 Cfr. Sap 14,21-29; 8,7; Filone, Sacrificiis 22,32; Mosis 1,154; Legibus 4,84,87; Virtutibus 175-186.
94 Cfr. Platone, Gorgia 525A; Dione Crisostomo, Orationes 4,83-96; Pseudo-Crate, Epistulae 15.
95 Cfr. Seneca, Epistulae 95,65-67.
96 Cfr. Rm 13,12-14; ICor 5,9-11; 6,9-10; 2Cor 12,20-21; Gal 5,19-21; Col 3,5-8; Ef 4,31-5,6; lTm
1,8-11; 6,3-5; Tt 1,10-11; 2Tm 3,1-5.
97 Cfr. Me 7,21-22; Mt 15,19; lPt 2,1-2; 2Pt 1,5-7; Gc 3,13-18; Ap 21,8; 22,15.
98 Cfr. Erma, Pastore 16,1-7; 35-36; Didaché 2,1 - 5,2; Barnaba 18-20; Policarpo, Filippesi 2,2; 4,3;
IClem. 13; Pseudo-Clemente, Omelie 11,27-28.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 99
che includa tutti i vizi, anche quelli che sembrano più diffusi in una regione o in
un'epoca piuttosto che in un'altra. Alla fine della lista non si può sostenere che sia
stato dimenticato un vizio: nessuno può accampare una distinzione tra colpe gra-
vi, per le quali vale la condanna, e colpe lievi che possono essere escluse dall'ira
divina. Di fatto, si passa da alcuni peccati generici, applicabili a qualsiasi relazio-
ne o condizione umana, a peccati specifici o poco comuni, riconoscibili soltanto
in contesti particolari. Da questo quadro così pessimistico, non possono non rico-
noscersi tutti sotto l'incombente ira divina.
Dal punto di vista contenutistico, fra questi ventuno peccati sono distingui-
bili alcuni vizi che possiamo definire generali, in quanto applicabili a qualsiasi
condizione umana: l'ingiustizia, la malvagità e la cattiveria, posti all'inizio della
lista. Quindi è conferito largo spazio ai peccati sociali che determinano divisioni
comunitarie: l'invidia, la discordia, la malignità e laribellioneverso i genitori. Ai
vizi sociali appartengono anche quelli relativi alla lingua, come i diffamatori e gli
oltraggiosi, e vizi che conducono alla distruzione dell'altro, come l'omicidio e i
malfattori. Non mancano vizi caratteriali: le colpe che siriferisconoprima di tut-
to a chi le commette e quindi alle loro relazioni, come l'avarizia, la frode, la ma-
lizia, i superbi, i presuntuosi, gli insensati, gli sleali, gli insensibili e gli impieto-
si. La colpa dei « nemici di Dio » è onnicomprensiva, con la specificità che tocca
tutto ciò che riguarda una pessima relazione con Dio.
Dall'analisi dettagliata dei vizi emerge, innanzi tutto, la loro universalità:
possono essere attribuiti sia ai giudei sia ai gentili. Inoltre, la genericità di diversi
vizi lascia intendere a qualsiasi destinatario che tutti sono colpevoli, senza distin-
zione: l'universalismo del peccato non può non attirare l'ira divina. Di fatto, la
lunga enumerazione del catalogo tocca tutte le relazioni umane: da quelle con se
stessi (l'avarizia, la cattiveria, la malizia, l'arroganza, la vanagloria) a quelle con
il prossimo (l'invidia, l'omicidio, la lite, laribellioneverso i genitori, la slealtà, la
diffamazione, la maldicenza, l'insolenza, l'operare il male, l'insensatezza) sino a
includere quelle con Dio (nemici di Dio). Di natura generale sono l'ingiustizia, la
malvagità, la cattiveria e l'inganno: possono essere applicate a qualsiasi relazio-
ne umana. Infine, anticipando l'argomentazione di Rm 3,9-18, Paolo dimostra
che tutto l'essere umano è peccato: gli organi maggiormente compromessi sono
la lingua (diffamatori, maldicenti, insolenti), il cuore, inteso come sede della ra-
gione (insensati, insensibili) e le viscere (impietosi).
Per questo, anche se la narrazione si apre con l'affermazione che l'ira divina
incombe su coloro che compiono ogni sorta di male, si conclude con l'implicita
accusa che tutti sono colpevoli": su tutti sirivelal'ira divina, senza distinzione. Il
lettore di questa lunga lista non può non dubitare di esserne coinvolto: chi potrà
dirsene escluso? Per fortuna questo è il primo momento della rivelazione divina
contenuta nel vangelo; e non rappresenta l'ultimo né il più importante: Dio stes-
so, nonostante riveli la sua collera, non sta ancora applicando la condanna.
Circa il contesto, è difficile pensare che questo catalogo rifletta situazioni di
crisi nella comunità di Roma: Paolo non conosceva abbastanza quella comunità
99 Con buona pace per J.M. Bassler, Divine Impartiality, p. 155, che non trae le conclusioni da questa lista.
100 Traduzione e commento
per insinuare accuse così violente. D'altro canto, nella lista di vizi, riportata nel-
la sezione esortativa di Rm 13,13 ricomparirà soltanto il vizio della discordia o
della lite (erisun vizio riscontrabile in qualsiasi relazione. Piuttosto, egli elen-
ca un catalogo così ampio per dimostrare che su tutti, indistintamente, si trova la
minaccia dell'ira divina.
[v. 32] Se il Signore non commina ancora la sentenza, Paolo sembra antici-
parla, prospettando addirittura la morte per coloro che praticano queste cose. Dal
punto di vista giudiziario, il v. 32 figura come la formale richiesta di condanna
per i colpevoli: il massimo della pena, senza possibilità d'appello! Di fatto, se-
condo Paolo c'è un giudizio di Dio che tutti conoscono perfettamente : sono ve- 100

rificabili eventi inoppugnabili che non possono nonrichiamarela pena capitale . 101

Tuttavia è bene precisare che Paolo non afferma che saranno messi a morte ben-
sì che sono degni di tale condanna e che, ancora una volta, nonostante il contesto
forense, la narrazione non si conclude con la sentenza di morte. La giustizia di
Dio comincia con la rivelazione della sua ira ma non si conclude con essa: c'è
qualcosa di inatteso che interverrà in questa strana contesa.
Comunque la requisitoria di Paolo non si conclude soltanto né tanto verso
tutti coloro che sono colpevoli, bensì si scaglia verso quanti compiono i vizi elen-
cati e approvano coloro che li commettono . In tal modo è introdotta la seconda
102

categoria morale dell'argomentazione paolina contenuta in Rm 1,18 - 3,20: ac-


canto a coloro che fanno il male si trovano anche coloro che lo approvano. In con-
testo giudiziario la pena maggiore spetta alla seconda categoria, perché se la pri-
ma puòriconoscerela propria colpa per invocare la misericordia divina, la secon-
da è recidiva. La massima aberrazione umana non può non attirare la massima
collera divina; così Paolo anticipa le prove di Rm 2,1-29.
L imparzialità divina (2,1-11). - Dopo la narrazione di Rm 1,19-32, Paolo
prosegue con la probatio della requisitoria, ricorrendo allo stile tipico della dia-
triba . Non è facile stabilire la delimitazione della nuova pericope: per alcuni
103

perviene sino al v. 5 , per altri sino al v. 8 , per altri ancora sino al v. 11 . A ben
104 105 106

100II sostantivo dikaióma, che si trova 10 volte nel NT e che compare solo in Romani per l'epistola-
rio paolino (cfr. Rm 1,32; 2,26; 5,16.18; 8,4), assume diversi significati, in dipendenza dei contesti: co-
mandamenti (cfr. Rm 2,26; 8,4; Le 1,6; Eb 9,1.10), giustificazione (cfr. Rm 5,16.18), opera giusta (cfr. Ap
19,8) e giudizio (cfr. Ap 15,4). In questo caso è preferibile l'ultima accezione sia per la sua forma al sin-
golare sia per il contesto forense. Per questo il genitivo giudizio di Dio va inteso come d'autore o d'origi-
ne: dal giudizio Dio rivela la sua ira.
101Si può notare come Paolo giochi sulla variazione « fare » (poiein), « praticare » (prassein) per evi-
denziare la fondatezza delle sue accuse: vi sono prove che impediscono qualsiasi alibi.
102II verbo syneudokein si trova 6 volte nel NT, di cui 3 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,32; ICor
7,32.13; cfr. anche Le 11,48; At 8,1; 22,20).
103Per la diatriba paolina cfr. in particolare S.K. Stowers, Diatribe.
104Così DJ. Moo, Romans, p. 128; T.R. Schreiner, Romans, pp. 105-106; S.K. Stowers, Rereading
Romans, p. 127. Tale delimitazione non è sostenibile a causa del successivo « il quale » (hos) direttamente
collegato a « Dio » del v. 5.
105Così J.-N. Aletti, Romani, pp. 72-75. Neppure questa delimitazione convince in quanto il v. 9 è
asindeticamente collegato al v. 8 e per la composizione chiastica dei vv. 6-11.
106Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 139; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 355; U. Wilckens, Ròmer, I,
pp. 122-123.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 101
vedere, almeno dal punto di vista attanziale, la primarilevantecesura argomenta-
tiva in Rm 2 èriconoscibileal v. 17, quando Paolo sirivolgedirettamente al giu-
deo, mentre prima la sua interpellanza è rivolta a chiunque. Risalendo a ritroso,
dal v. 17 si può cogliere un'ulteriore suddivisione al v. 11, in cui la prima fase ar-
gomentativa si chiude con il principio dell'imparzialità divina: bisogna comun-
quericonoscereche, in questo caso, il passaggio da una pericope all'altra è poco
marcato. Di fatto, nei vv. 12-16 subentra la problematica della Legge che prima
non è presa in considerazione, mentre nei vv. 1-11 è delineato il giudizio impar-
ziale divino per tutti. Rispetto alla narrazione precedente, l'argomentazione dia-
tiibica non sirivolgepiù al passato ma al presente con la prospettiva del futuro in-
tervento escatologico divino.
Questa prima fase delle prove addotte è caratterizzata dal vocabolario foren-
se che aveva dominato nella narrazione precedente: è preso in considerazione l'at-
to del giudicare, attribuito soltanto a Dio. Di fatto, al linguaggio forense apparten-
gono i verbi « giudicare » (krinein, vv. 1.1.1.3) e « condannare » (,katakrinein, v. 1),
i sostantivi « giudizio » (krima, vv. 2.3) e « giusto giudizio » (dikaiokrisia, v. 5). Di
fronte al giudizio di Dio si trovano le opere e le azioni buone o cattive degli esse-
ri umani: per questo è altrettanto diffuso il vocabolario di termini operativi, come
il sostantivo «opera» (ergon, vv. 6.7.) e i verbi «praticare» (prassein, vv. 1.2.3.),
« fare » (poiein, v. 3) e « operare » (ergazein, v. 10; e il composto katergazein, v. 9).
Sorprende che la maggior parte degli esegeti pensi a una contesa diatribica
tra Dio e il giudeo : l'identificazione del partner giudaico è sostenuta soprattut-
107

to in base al v. 4, in cui Paolo sembra riprendere l'argomentazione intragiudaica


di Sap 15,1-2. L'autore della Sapienza riconosce la pazienza di Dio per il suo po-
polo, nonostante i peccati commessi. In realtà, proprio il parallelo di Sap 15,1-2
dimostra che Paolo estende nuovamente la propria argomentazione a chiunque e
non soltanto ai giudei: non è un caso che egli non accenni al pentimento d'Israele,
come invece sostiene l'autore di Sap 15,1-2. Piuttosto, anche in questa pericope
Paolo ha di mira l'uomo apostrofato esplicitamente nei vv. 1.3. Il fatto che utiliz-
zi il vocabolario profetico-sapienziale, tipico della requisitoria giudaica, non si-
gnifica che si rivolga soltanto agli ebrei. Al contrario, egli prosegue nell'inter-
pellare coloro che sono identificati dalle loro azioni, o meglio dalle loro opzioni
per il male e per il bene. Dunque, accanto alle categorie di coloro che compiono
il male e di quanti lo approvano, ora si delinea la categoria di quanti biasimano il
male ma lo compiono . 108

Rispetto alla diatriba in atto, è bene precisare che Paolo non pone la questio-
ne sulle vie attraverso le quali il giudeo possariconciliarsicon Dio, in particolare
ricorrendo all'alleanza con lui. Per questo non è assolutamente estranea alla con-
cezione giudaica del tempo l'argomentazione di Rm 2,1-11: chiunque sottoscri-

107Cosi B. Byrne, Romans, pp. 79-80; C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 138; J.A. Fitzmyer, Romani,
p. 356; D.J. Moo, Romans, p. 128; J. Murray, The Epistle to the Romans, Grand Rapids 1975, p. 54; U.
Wilckens, Romer, I, p. 121; F. Watson, Paul, Judaism and the Gentiles. A Sociological Approach (SNT MS
56), Cambridge 1986, p. 110.
Cosi anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 77-80.
108
102 Traduzione e commento
verebbe il principio dell'imparzialità divina e del giudizio divino escatologico o
finale in base alle opere . 109

[2,1] La nuova pericope non è introdotta da un inoltre o da una congiunzio-


ne che permetta di stabilire il passaggio verso la relazione con nuovi interlocuto-
ri, bensì dalla congiunzione consecutiva «perciò» (dio) che andrebbe considera-
ta come tale e non come una semplice particella di collegamento, come invece so-
stengono alcuni commentatori , a causa dell'aprioristica identificazione giudaica
110

del nuovo interlocutore. Di fatto, nell'epistolario paolino questa congiunzione as-


sume sempre una funzione consecutiva e mai di semplice collegamento . 111

La natura consecutiva della congiunzione dio e, attraverso essa, dell'intera


pericope rispetto alla narrazione precedente è confermata dalle connessioni ter-
minologiche tra le due parti. Anzitutto, in Rm 2,1-11 è descritta l'ira divina (v. 5;
cfr. Rm 1,18), anche se in una nuova prospettiva. La verità che gli esseri umani
hanno soffocato (Rm 1,18) e hanno pervertito (Rm 1,25) ora rappresenta il crite-
rio ultimo del giusto giudizio di Dio (cfr. Rm 2,2), poiché Paoloribadisceche gli
esseri umani sono diventati disobbedienti verso la verità (cfr. Rm 2,8). Anche in
questo primo momento della diatriba, Paolo prende di mira il cuore sclerotico e
impenitente (cfr. Rm 2,5),riaffermandole accuse di Rm 1,21.24. Non mancano le
insistenze su capi d'accusa ben verificabili, come dimostra l'uso dei verbi «pra-
ticare» (vv. 1.2.3) e «fare» (v. 3) già utilizzati in Rm 1,32. Questi collegamenti
dimostrano che l'«inescusabile» di Rm 2,1 non è diverso da quello di Rm 1,20.
D'altro canto, è compito dell'accusa forense confermare, attraverso le prove,
quanto si è sostenuto attraverso la narrazione dei fatti; e Rm 1,18 - 3,20 non sfug-
ge a questa regola di una contesa giudiziaria . Tuttavia è importante riconoscere
112

il passo ulteriore che la diatriba determina rispetto alla narrazione precedente:


Paolo passa da qualsiasi empietà (Rm 1,18) a chiunque giudica l'altro (Rm 2,1).
Se in Rm 1,18-32 sono stati presi di mira i fatti, ora sono accusate direttamente le
persone, risalendo dalle azioni ai colpevoli.
Lo stile della diatriba popolare è riconoscibile dall'interpellante «o uomo»
(vv. 1.3) che introduce la pericope . Naturalmente, come nella diatriba popolare,
113

Paolo non si rivolge a un interlocutore reale che riconosce come ipocrita, quale
potrebbe essere qualcuno fra i destinatari della lettera, bensì a un interlocutore fit-
tizio che rimanda a un modello di persona o a un carattere tipico. Chiunque può
rientrare fra coloro che giudicano gli altri ma commettono le stesse cose, a con-
ferma della identificazione generica dell'interlocutore. In questo verso è intro-

109Cfr. le fonti analizzate da K.L. Yinger, Paul, Judaism, and Judgment According to Deeds (SNTS
MS 105), Cambridge 1999.
110Cfr. B. Byrne, Romans, p. 83; D.J. Moo, Romans, p. 129.
111 Questa congiunzione compare 53 volte nel NT, di cui 27 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,24;
2,1; 4,22; 13,5; 15,7.22; ITs 3,1; 5,11; ICor 12,3; 14,13; 2Cor 1,20; 2,8; 4,13.16; 5,9; 6,17; 12,7.10; Gal
4,31; Fil 2,9; Fm v. 8; Ef 2,11; 3,13; 4,8.25; 5,14).
112Anche in questo caso, C.L. Porter, Romans 1.18-32, pp. 222-228, confonde laprobatio con la re-
futatio identificabile secondo lui in Rm 2,1-16. In Rm 2 si può ben vedere che Paolo non sta respingendo
le posizioni delie parti avverse ma dimostrando che l'ira divina vale per tutti, compresi i giudei.
113Cfr. a tal proposito Epitteto, Dissertationes 2,23,36-37; 4,9,5-6; 4,1,19.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 103
dotta una delle tematiche più proprie di Rm 2,1 - 3,18: quella del giudizio, attri-
buito esclusivamente a Dio . Dal giudizio che la persona umana rivolge contro
114

un'altra dipende la sua condanna , perché lei pratica le stesse cose che giudica.
115

Ci si interroga spesso sull'identità di ciò che l'essere umano giudica, ma che


di fatto compie. Alcuni, dopo aver identificato, in modo aprioristico, il soggetto
di Rm 2 con il giudeo, sostengono che Paolo si riferisce soltanto alla lista dei vi-
zi elencati in Rm 1,29-31 oppure alle accuse di Rm 2,17-24 . Se la nostra pro- 116

spettiva è valida, l'accusa non si limita a questi riferimenti ma all'intera narra-


zione di Rm l,19-32 , altrimenti vi sarebbe uno scollamento tra le prove e la nar-
117

razione, giacché le prime avrebbero a che fare con capi d'accusa diversi dalla
deposizione. Invece coloro che sono inescusabili in Rm 2,1 non sono diversi da
quelli descritti in Rm 1,20 ma gli stessi!
[v. 2] Dall'azione giudicatrice Paolo passa al giudizio di Dio caratterizzato
dalla verità, ossia da ciò che denominerà al v. 5 come « giusto giudizio ». Il prin-
cipio espresso in quest'affermazione è considerato come appartenente al patrimo-
nio comune , in quantoriconosciutonel giudaismo del secondo Tempio e nel-
118 119

le prime comunità cristiane . 120

La verità con la quale Dio giudica gli esseri umani è la stessa che questi han-
no soffocato con le loro azioni e che hanno pervertito: questa non indica tanto un
codice che vincola Dio stesso, per essere riconosciuto veritiero, ma rappresenta
una delle sue qualità più intrinseche che in quanto verità agisce secondo verità.
Ora questo giudizio secondo verità vale per tutti in qualsiasi tempo, prima e do-
po la manifestazione del vangelo, perché Dio non può essere confuso con la men-
zogna. In seguito, si tratterà di valutare come questa verità si relaziona non sol-
tanto al giusto giudizio di Dio ma anche alla giustificazione che egli realizzerà in
modo inaudito.
[v. 3] Allo stile diatribico appartengono anche le formulazioni di domande
retoriche, ossia di questioni che contengono già risposte ma che sono formulate
per prevenire alcune false conclusioni e per vivacizzare il dialogo con l'interlo-
cutore fittizio. Per questo nei vv. 3-4 Paolo esprime due domande che non neces-
sitano di una risposta immediata.
La prima parte del v. 3 riprende il motivo del v. 1: l'interlocutore fittizio è
nuovamente biasimato per l'incongruenza tra il dire e il fare: egli giudica chi

114 II sostantivo krima (giudizio) compare 28 volte nel NT, di cui 12 nell'epistolario paolino (cfr. Rm
2,2.3; 3,8; 5,16; 11,33; 13,2; lCor6,7; 11,29.34; Gal 5,10; lTm 3,6; 5,12). Il verbo krinein (giudicare), ab-
bastanza diffuso nel NT, per l'epistolario paolino trova la sua maggiore frequenza proprio in Romani ed è
caratteristico di Rm 2,1 - 3,18 e di Rm 14,3-22 (cfr. Rm 2,1.1.1.3.12.16.27; 3,4.6.7; 14,3.4.5.5.10.13.13.22).
115 Paolo sembra proprio insistere sulla relazione tra il giudizio e la condanna, attraverso la relazione
semantica tra il krinein (giudicare) e il katakrinein (condannare). Quest'ultimo verbo si trova 5 volte nel-
l'epistolario paolino su 18 neotestamentarie (cfr. Rm 2,1; 8,3.34; 14,23; ICor 11,32).
116 Così B. Byrne, Romans, p. 81.
117 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 131 che però identifica l'uomo di Rm 2,1 con il giudeo.
118 Cfr. la funzione analoga di « sappiamo» in Rm 3,19; 7,14; 8,22.28; ICor 8,1.4; 2Cor 5,1.
119 Cfr. 2Bar 85,9; CD 20,29-30; 1QS 4,19-20; 11,14; 1QH 1,26-27. Cfr. anche Avot 3,16 per il giu-
daismo rabbinico.
120 Cfr. Rm 13,2; ICor 11,29; Gal 5,10.
104 Traduzione e commento
compie le nefandezze descritte nella narrazione precedente ma egli stesso le pra-
tica. L'accento della domanda retorica è comunque posto sull'impossibilità di
sfuggire al giudizio divino . Forse è bene notare che il giudizio divino non ap-
121

partiene soltanto a quanto anticipa il vangelo ma rientra nella sua stessa predica-
zione: sarà importante comprendere se di fatto e in che modo Dio commina il pro-
prio giudizio. Per ora, Paolo si limita a sostenere che nessuno può sfuggire al giu-
dizio divino, sia per il suo esito positivo sia per quello negativo. Anche in questo
caso egli condivide buona parte del pensiero giudaico: nessuno può evitare il giu-
dizio apocalittico. Così scrive l'autore dei Salmi di Salomone: « Coloro che com-
piono l'empietà non sfuggiranno al giudizio del Signore » (Sai Salom. 15,8). Na-
turalmente Paolo non sta valutando i privilegi d'Israele che, dal versante divino,
permangono, bensì il giudizio finale della storia. Per questo è errato considerare
l'affermazione paolina come negazione dei privilegi concessi dal Signore al suo
popolo: questirimangonoma non apportano nulla al giudizio ultimo. Dunque l'o-
rizzonte argomentativo di questi versi non riguarda il versante antropologico del
giudizio bensì quello divino e non si limita al presente ma si apre al futuro del-
l'intervento finale.
[v. 4] La seconda domanda retorica previene una seconda obiezione: chiun-
que, di fronte alla pazienza di Dio nel ritardare l'esecuzione della condanna, ri-
schia di fraintendere la sua longanimità, orientata non alla concessione di ogni
abominio ma alla conversione del cuore. L'atteggiamento negativo verso Dio è
espresso con il verbo «disprezzare» (kataphronein) che indica una disposizione
mentale verso quanto è offerto . In questa domanda è identificabile una sottile
122

ironia, che prosegue anche nel v. 5, con il motivo del « tesoro »: come si può di-
sprezzare la ricchezza di Dio? Al massimo si può disprezzare quella del mondo,
come Paolo dirà di se stesso in Fil 3,7-9. Il disprezzo della ricchezza di Dio non
può che essere dello stolto, di chi ha il cuore indurito.
Seguono tre proprietà della ricchezza di Dio: la benevolenza, la tolleranza e
la longanimità. L'accento argomentativo è posto sulla benevolenza, ribadita nel-
la seconda parte del v. 4 con il sostantivo chréston. A prima vista, sembra che
Paolo segua pedantemente l'argomentazione di Sap 15,1-3: la bontà e la pazien-
za di Dio costituiscono le garanzie per la permanenza d'Israele, nonostante i suoi
peccati. A causa delle relazioni evidenziate tra Sap 13-15 e Rm 1-2 è possibile
una implicita dipendenza da Sapienza, tuttavia sembra che nuovamente Paolo
estenda gli orizzonti della propria argomentazione a tutti: ne è prova che in Rm
2,1-11 ometta proprio la possibilità offerta al popolo giudaico di poter contare
sulla misericordia divina, in vista della riconciliazione. Tale omissione è dovuta
sia all'estensione del giudizio divino, sia all'orientamento cristologico successi-
vo dellariconciliazionedivina con il mondo. Dunque i mattoni sembrano gli stes-
si utilizzati dall'autore della Sapienza ma l'edificio è nuovo. Per questo, non ba-
stariscontrareparalleli terminologici tra Sap 15,1-3 e Rm 2,4 per essere autoriz-
121II verbo « sfuggire » o « evitare » (ekpheugeìn) compare 8 volte nel NT, di cui 3 nelle lettere pao-
line (cfr. Rm 2,3; lTs 5,3; 2Cor 11,33).
122Per questo verbo nell'epistolario paolino cfr. anche ICor 11,22; lTm 4,12.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 105
zati a pensare che Paolo si stia rivolgendo soltanto agli ebrei. Il sistema argo-
mentativo di Rm 1-2 è totalmente diverso da quello di Sap 13-15; e questo va ri-
conosciuto, prima di ogni connessione terminologica, pur significativa, tra la
Lettera ai Romani e il libro della Sapienza.
Il primo attributo di Dio è la sua benevolenza (chrèstotes) , termine esclusi-123

vamente paolino per il NT . Nonostante Paolo riconosca che questo rappresenti


124

anzitutto un attributo dellaricchezzadivina e che non ci sia nessun essere umano


che compie la benevolenza (cfr. Rm 3,12), non esiterà a considerarlo come uno
dei principali frutti dello Spirito nella vita cristiana . In Rm 11,22 la benevolen-
125

za divina sarà attribuita ai gentili che hanno aderito al vangelo. La corrisponden-


te bontà di Dio, citata nella seconda parte del v. 4, è maggiormente esaltata
nell'AT, diventando uno dei suoi principali attributi . L'estensione della bontà di
126

Dio per tutti è sostenuta anche dal detto gesuano di Le 6,35: « ...Perché egli è buo-
no verso gli ingrati e verso i malvagi». Accanto alla benevolenza, Paolo colloca
la tolleranza divina, un termine raro nel greco biblico : indica il temporeggia-
127

mento divino nell'attesa della conversione umana. Invece, è tipica dell'azione di-
vina la sua longanimità, intesa come il contrario dell'ira: di fatto questa non fa che
dilazionare la collera divina permettendo a chiunque di nonriceveresubito la con-
danna per le proprie colpe . Nel contesto propriamente forense, come il nostro,
128

la longanimità indica il potere del giudice nel non applicare la condanna verso il
colpevole, appunto nel fargli grazia. Spesso nel NT la benevolenza e la longani-
mità si trovano insieme, in quanto virtù di Dio e delle relazioni umane . La bontà 129

divina non può essere intesa come lassismo ma assume la finalità di condurre tut-
ti alla conversione: questa funzionalità è tipica, ancora una volta, della letteratura
sapienziale . Anche se il linguaggio della conversione o della metanoia è diffu-
130

so nel NT, Paolo ne parla raramente : l'origine greca del termine potrebbe far
131

pensare a un cambiamento della mente. Invece l'immediato v. 5 dimostra che è il


cuore a essere chiamato a conversione, perché è considerato come il luogo della
conoscenza di Dio. In questo orientamento dellaricchezzadivina è bene precisa-
re che la conversione umana dipende da Dio stesso che intende condurre al cam-
biamento del cuore.

123 Per il riconoscimento di questo attributo a Dio stesso, cfr. anche Tt 3,4. Per la LXX cfr. Sai 24,7;
30,19; 84,12; 118,65.68; 144,7. Cfr. a tal proposito M.A. Siotis, La chrèstotes de Dieu selon l'Apótre Paul,
in L. De Lorenzi (ed.), Paul de Torse: Apótre du notre temps, Roma 1979, pp. 201-232.
124 II sostantivo si trova 10 volte nel NT e solo nell'epistolario paolino (Rm 2,4; 3,12; 11,22.22.22;
2Cor 6,6; Gal 5,22; Col 3,12; Ef 2,7; Tt 3,4).
125 Cfr. la presenza della benevolenza fra le liste delle virtù in 2Cor 6,6; Gal 5,22; Col 3,12; Ef 2,7.
126 Per la LXX cfr. Sai 24,8; 33,8 (citato anche in lPt 2,3); 68,16; 85,5; 99,5; Sap 15,1; Na 1,7; Ger
40,11.
127Per il NT si trova soltanto in Rm 2,4 e 3,26; per la LXX cfr. soltanto lMc 12,25.
128 II sostantivo makrothymia si trova 14 volte nel NT, di cui 9 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 2,4;
9,22; 2Cor 6,6; Gal 5,22; Col 1,11; 3,12; Ef 4,2; lTm 1,16; 2Tm 3,10; 4,2). Cfr. anche il verbo corrispon-
dente in lTs 5,14; ICor 3,4. Su questa virtù cfr. S. Tarocchi, Il Dio longanime. La longanimità nell'epi-
stolario paolino, Bologna 1993.
129Cfr. ICor 13,4; 2Cor 6,6; Gal 5,22; Col 3,12; per l'AT cfr. in particolare Sap 15,1.
130Cfr. Sap 11,23; 12,10.19; Sir 44,16; 48,15. Così anche B. Byrne, Romans, p. 85.
131Per metanoia cfr. soltanto Rm 2,4; 2Cor 7,9.10; 2Tm 2,25; cfr. anche il verbo metanoein in 2Cor 12,21.
106 Traduzione e commento
[v. 5] La parodia di chi disprezza la ricchezza della grazia divina continua al
v. 5, spostandosi sul versante propriamente umano. In causa è ancora chiamato il
cuore che non si alimenta della bontà divina ma della sua ira. Ormai il cuore è
sclerotizzato e incapace di conversione: per descrivere questa situazione, Paolo
utilizza due termini tipici della querela profetica . L'aggettivo «indurito»
132

(sklérotés) compare soltanto qui nel NT, ma il relativo verbo « sclerotizzare » sarà
utilizzato a proposito dell'indurimento del cuore operato da Dio stesso, in Rm
9,18. In questo caso però si tratta di una scelta operata dagli esseri umani, analo-
ga a quella di quanti non credettero nellarisurrezionedi Gesù, per il loro cuore in-
durito (sklerokardia, in Me 16,14).
Anche l'aggettivo « impenitente » (ametanoétos) è hapax legomenon nel gre-
co biblico, nonostante si parli spesso di conversione (metanoia) . Un cuore ridot- 133

to in questa condizione non può che arricchire l'ira divina sino al giorno del ver-
detto finale. Il verbo «arricchire» (thesaurizein) è scelto con ironia , perché ge- 134

neralmente si tesaurizza o si accumula qualcosa di valore, come lo stesso vangelo


(cfr. 2Cor 4,7). Al contrario, nessuno cerca di accumulare qualcosa senza valore
ma che addirittura gli recherà danno nel giorno del giudizio. Spesso nel NT il ver-
bo « tesaurizzare » e il sostantivo « tesoro » sono utilizzati proprio in contesto esca-
tologico, come nel nostro caso . Nello stesso tempo, bisognariconoscerela rela-
135

zione tra il tesoro da accumulare e il proprio cuore perché, come sostiene il detto
evangelico, «dov'è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore» (cfr. Le 12,34).
Circa la prospettiva paolina del giudizio divino, nel quale sarà rivelata l'ira
divina contro coloro che non si convertono, è importante l'utilizzazione del so-
stantivo «rivelazione» (apokalypsis) : senza ignorarne l'attuale realizzazione
136

(cfr. Rm 1,18), larivelazionedefinitiva si compirà soltanto quando si dovrà com-


parire davanti al giudizio di Dio. In questo processo rivelativo, o apocalittico, in
atto, che comincia con la giustizia divina e che culmina con il suo giusto giudi-
zio , è necessario comunque tener conto della rivelazione della giustificazione
137

divina compiuta in Cristo. Dunque Paolo sposta improvvisamente l'attenzione


dalla rivelazione attuale dell'ira divina a quella per il giorno finale, condividen-
do la concezione storico-salvifica dell'apocalittica profetica e giudaica . Il gior- 138

no dell'ira corrisponde al giudizio finale o escatologico, considerato anche come

Cfr. Is 63,17; Ez 3,7; anche 2Cr 30,8; Sai 94,8.


132

Cfr. Pr 14,15; Sap 11,23; 12,10.19, Sir 44,16; per il verbo corrispondente « convertirsi » cfr. Is 46,8;
133

Ger 3,28; 8,6; 18,8.10; 38,19.


Questo verbo non è frequente nel NT: 8 volte, di cui 3 nelle lettere paoline (Rm 2,5; ICor 16,2;
134

2Cor 12,14).
Cfr. Mt 6,19.20; Gc 5,3; 2Pt 3,7.
135

Come il verbo, anche il sostantivo «rivelazione» è tipico del vocabolario paolino, ed è la prima
136

volta che si riscontra in Romani (cfr. Rm 8,19; ICor 1,7; 14,6.26; 2Cor 12,1.7; Gal 1,12; 2,2; 16,25; Ef
1,17; 3,3).
Questa è l'unica volta in cui Paolo utilizza il sostantivo composto «giusto giudizio» (dikaiokri-
137

sia); la sua presenza come lezione variante in 2Ts 1,5, è poco fondata. Per il greco extrabiblico cfr. Papiri
di Ossirinco 71,1,4; 904,2; Papiri Fiorentini 88,26; Test. Levi 3,2; 15,2; cfr. anche il composto «giusto
giudice» (dikaiokrites) in Or. Sib. 3,704 e l'attesa del giusto giudizio in 1QH 1,23; 1,30; 1QS 4,4.
Per l'espressione «giorno dell'ira», che compare soltanto qui nel NT, cfr. nella LXX Sai 109,5;
138

Gb 20,28; Sof 1,15.18; 2,3; Lm 1,12; 2,1.21.22; Ez 22,24.


La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 107
giorno del Signore : quel giorno diventerà per Paolo anche il giorno di Cristo o
139

del Signore nostro Gesù Cristo . 140

[v. 6] Con il v. 6 comincia la seconda parte del paragrafo dedicata al giudizio


imparziale divino. Nella traduzione abbiamo già evidenziato la composizione
chiastica dei vv. 6-11 . In a-a' è sostenuto il principio generale dell'imparzialità
141

divina; in b-b' si passa alla retribuzione positiva per coloro che compiono il bene;
in c-c\ che rappresentano la parte centrale del chiasmo, è prospettata la retribu-
zione positiva per quanti compiono il bene. Nello stesso chiasmo si può rilevare
il parallelismo antitetico tra b-c, espresso mediante le formule « da una parte » e
«dall'altra», e quello antitetico tra c'-b', evidenziato con la ripetizione dell'e-
spressione « tanto per il giudeo prima quanto per il greco ».
Alcuni sostengono che, dal punto di vista contenutistico, questo chiasmo non
segua la regola che considera la parte centrale come quella più importante (c-c'):
in questo caso il peso dell'argomentazione paolina cadrebbe sul principio del-
l'imparzialità divina (a-a') . A tal proposito ci sembra necessario distinguere ciò
142

che è fondamentale nel chiasmo in quanto tale da ciò che risulta più importante
nel contesto generale della pericope. Di fatto, senza negare l'importanza dell'im-
parzialità divina in Rm 2, sino ad ora Paolo ha posto l'attenzione sui vizi. Per que-
sto il centro compositivo del chiasmo, ossia l'ira divina per chi opera il male, rap-
presenta anche quello tematico. Di fatto Paolo non sta trattando dell'imparzialità
divina, dalla quale dimostra anche l'affermazione della sua ira, oltre che della sua
benevolenza, ma l'inverso. Non bisogna dimenticare che la tesi fondamentale
della sezioneriguardalarivelazionedell'ira divina (cfr. Rm 1,18) e non la sua im-
parzialità, anche se questo principio svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo
argomentativo.
Questa osservazione è confermata dal fatto che Paolo tratta soltanto inciden-
talmente di coloro che compiono il bene , cogliendo di sorpresa chi ha seguito la
143

narrazione di Rm 1,19-32: com'è possibile riconoscersi fra coloro che compiono


il bene se l'ira divina incombe sui vizi descritti in Rm 1,19-32? All'inizio della
sezione successiva (Rm 3,21 - 4,25) Paolo stesso sosterrà che di fatto «tutti gli
uomini hanno peccato» (cfr. Rm 3,23). Dunque si può notare come Paolo proce-
da per argomentazioni parziali e non in base a valutazioni globali della storia del-
la salvezza: senza ilrispettodi questo principio argomentativo basilare non è pos-
sibile dipanare la complessa requisitoria di Rm 2.

Cfr. Am 5,18; Is 2,12; 24,21; Ger46,10; GÌ 2,1-2; Ez 7,7; 30,3; Sof 1,7; Mal 3,2; 4,1. Perii «gior-
139

no del Signore» nell'epistolario paolino cfr. Rm 14,6; lTs 5,2; cfr. anche 2Pt 3,10.
140Cfr. ICor 1,8; 5,5; 2Cor 1,14; Fil 1,16.10; 2,16.
141Per la struttura chiastica di questi versi cfr. DJ. Moo, Romans, p. 136. Non ci sembra opportuno
scindere questo chiasmo, come invece ritiene J.-N. Aletti, Romains 2. Sa cohérence et safonction, in Bib
77 (1996) 161, per sostenere la presenza di due pericopi autonome corrispondenti ai vv. 1-8 e 9-16.
L'autore considera i vv. 9-10 rapportati al v. 8 più in termini di reversio retorica, ossia diripresainversa
delle tematiche precedenti. Le connessioni che porremo in risalto tra i vv. 9-11 e i vv. 6-8 sono così evi-
denti che ci sembra preferibile interpretarli all'interno di un chiasmo.
142Così DJ. Moo, Romans, p. 136.
143Così giustamente anche J.-N. Aletti, Romani, p. 82.
108 Traduzione e commento
Passando all'analisi dettagliata del chiasmo in Rm 2,6-11, il primo stico è
rappresentato da una citazione indiretta di Pr 24,12 che nella versione della LXX
è praticamente uguale a Rm 2,6: « Il quale renderà a ciascuno secondo le sue ope-
re» . La carenza di una formula introduttiva, del tipo «come sta scritto», rende
144

più consistente la personalizzazione di Pr 24,12: Paolo condivide pienamente la


prospettiva escatologica della retribuzione divina in base alle opere umane. A pri-
ma vista, questa asserzione sembra contrastare con il principio della giustificazio-
ne mediante la fede e non mediante le opere (cfr. Gal 2,16; Rm 3,20). In realtà, è
bene precisare che il contesto di Rm 2,5-6 non è quello apocalittico, incentrato per
Paolo sulla relazione con Cristo, bensì quello escatologico, del giudizio finale.
Inoltre dalla relazione con a', ossia con l'espressione corrispondente del v. 11, si
puòrilevareche, per ora, l'attenzione èrivoltaal principio dell'imparzialità divi-
na e non alle modalità con le quali si possa essere giustificati davanti a lui. In base
a quanto egli stesso ha dimostrato nella narrazione precedente si potrebbe conclu-
dere che nessuno sarà giudicato positivamente, in quanto le opere di tutti sono di
fatto fallimentari. Invece, anche questa affermazione sulla retribuzione finale è so-
stenuta in vista dell'unica possibilità della giustificazione realizzata da Dio in
Cristo che, comunque, si compie attraverso una fede operante nell'amore (cfr. Gal
5,5-6). D'altro canto, la prospettiva del giudizio imparziale divino vale per tutti e
permane anche in seguito alla salvezza realizzata in Cristo, come dimostrano i pa-
ralleli paolini e neotestamentari : il problema riguarderà piuttosto la funzione di
145

Cristo,rispettoall'universale giudiziofinaledi quanti gli appartengono . 146

[v. 7] Il secondo stico del chiasmo (b) prospetta la retribuzione positiva per
coloro che perseverano nelle opere buone. In questa scelta dei doni concessi a
quanti operano il bene èrilevabileun significativo contrasto con Rm 1,23: se gli
esseri umani non hanno riconosciuto la gloria dell'incorruttibile Dio, alla fine
della storia coloro che hanno operato per il benericeveranno« gloria, onore e im-
mortalità» . Questo contrasto è, in certo senso, mitigato dal fatto che Paolo non
147

ha ancora esplicitamente sostenuto che tutti non hanno reso gloria all'incorrutti-
bile Dio, ma che coloro che sopprimono la verità di Dio si trovano sotto giudizio.
Tuttavia, implicitamente e di fatto, Paolo sembra aver sostenuto proprio che tutti

144Rispetto a Rm 2,6, in Pr 24,12 cambia soltanto il verbo apodosôsin invece di apodôsei, mentre
nell'altroriferimentoimplicito, quello del Sai 61,13, la LXX utilizza gli stessi termini di Rm 2,6 ma alla
persona singolare. La stessa citazione saràripresain 2Tm 4,14, per Alessandro il ramaio.
145Cfr. ICor 3,15; 4,5; 2Cor 11,15; 2Tm 4,14. Cfr. anche Mt 16,27. Per la concezione retributiva
escatologica cfr. Gb 34,11; Is 3,10-11; Ger 17,10; Os 12,2; Sai 37,37-38; Pr 10,16; Lm 3,64. Contro D.A.
Campbell, A Rhetorical Suggestion Concerning Romans 2 (SBL SP), Atlanta 1995, pp. 140-167, che con-
sidera Rm 1,18 - 3,20 come una ridicolizzazione del principio della retribuzione, dimostrandone l'inattua-
bilità. Per le critiche a Campbell cfr. J.-N. Aletti, Israël et la Loi dans la lettre aux Romains (LD 173), Paris
1998, pp. 48-53.
146 Su questa tensione tra giustificazione mediante la fede e giudizio finale cfr. K.P. Donfried,
Justification and Last Judgment in Paul, in ZNW 67 (1976) 90-110; R. Penna, Giustificazione, pp. 60-63.
N.M. Watson, Justified by Faith, Judged by Works: an Antinomy?, in NTS 29 (1983) 209-221; K.R.
Snodgrass, Justification by Grace - to the Doers: An Analysis ofthe Place of Romans 2 in the Theology of
Paul, in NTS 32 (1986) 72-93.
147In Rm 1,18-32 Paolo ha sottolineato la perversione della gloria e dell'immortalità divina, mentre
non ha accennato all'onore divino.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 109
non hanno reso gloria a Dio, cosa che dirà esplicitamente in Rm 3,23: « Tutti han-
no peccato e sono privi della gloria di Dio ». In questo contrasto, è bene precisare
che l'attenzione non è rivolta a quanti, di fatto, compiono il bene bensì alla ne-
cessità per tutti di una via della gloria, dell'onore e dell'immortalità che trovi la
sua ragion d'essere e di attuazione nell'azione salvifica di Dio.
Generalmente la gloria e V onore sono attributi di Dio , mentre raramente si
148

parla della sua immortalità . Il termine «immortalità», come attributo di Dio e


149

come promessa per chi opera il bene,risentepiù del linguaggio ellenistico che di
quello anticotestamentario (cfr. Sap 2,23; 6,19; 4Mac 9,22) . Invece è tipicamen-150

te giudaica la promessa della vita eterna ; negli stessi termini si esprime l'apo-
151

crifo Salmi di Salomone: « Invece coloro che temono il Signorerisorgerannoper


la vita eterna» {Sai Salom. 3,12) . In questi versi, Paolo usa un linguaggio tipico
152

dell'apocalittica giudaica, con la retribuzione positiva e negativa e con la netta di-


stinzione tra buoni e cattivi.
[v. 8] In contrasto con la retribuzione positiva sostenuta al v. 7, ora è pro-
spettata quella negativa per quanti disobbediscono alla verità. Si può notare in
questa proposizione la presenza del vocabolario usato in Rm 1,18: in questione è
ancora la verità di Dio pervertita dall'ingiustizia umana.
Non è facile tradurre il termine eritheia che è tipico del linguaggio paolino,
dove significa sempre «contesa» . Questa accezione può essere attribuita alla
153

relazione con eris (lite, discordia) citata nel catalogo di Rm 1,29, ma tale deriva-
zione non è certa. D'altro canto, non ha molto senso il significato di contese per
Rm 2,6-11 in cui predomina la relazione con Dio piuttosto che quella comunita-
ria o interrelazionale umana. Forse il raro uso di eritheia nella Politica di Aristo-
tele ci aiuta a cogliere un'altra accezione del termine: il sostantivo si riferisce a
coloro che nella vita politica si curano soprattutto dei propri interessi, senza pen-
sare al bene comune . Per questo preferiamo rendere il termine con « autosuffi-
154

cienza » o con « ambizione personale » . 155

In questo verso si può notare il gioco di parole creato dalla ripetizione della
radice verbale peith che possiamo rendere con « disobbediscono... obbediscono »,
anche se il verbopeithein, in quanto specifico dell'arte retorica, significa origina-
riamente persuadere o convincere . La retribuzione finale, nel giorno del Signo-
156

re, per questa originaria e fondamentale perversione è rappresentata dall'ira e dal


148Cfr. questo binomio in Rm 2,10; cfr. anche Eb 2,7; 2Pt 1,17; Ap 4,9.11; 5,12.13; 21,26. Per l'AT
cfr. LXX Gb 37,22; 40,5; Sai 8,5; 28,1; 95,7; Dn 1,9; 2,37; 4,27; IMac 14,21; 2Mac 5,16.
149Cfr. lTm 1,17 in cui la gloria e il timore sono attribuiti all'incorruttibile Dio.
150Per il NT aphtharsia appartiene soltanto al vocabolario paolino, in cui si trova 7 volte: cfr. Rm 2,7;
ICor 15,42.50.53.54; Ef 6,24; 2Tm 1,10.
151Così anche B. Byrne, Romans, pp. 85-86.
152Cfr. anche Dn 12,2. L'espressione «vita eterna» è diffusa nel NT, in particolare in Giovanni (cfr.
Gv 3,15; 4,14; 5,24; 6,27; 10,28); per l'epistolario paolino cfr. Rm 2,7; 5,21; 6,22.23; Gal 6,8; lTm 1,16;
Tt 1,2; 3,7.
153Cfr. 2Cor 12,20; Gal 5,20; Fil 1,17; 2,3; cfr. anche Gc 3,14.16.
154Cfr. Aristotele, Politica 5,3,1302b-1303a.
155Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 362; D.J. Moo, Romans, p. 138; B. Byrne, Romans, p. 86.
156II verbo «disobbedire» tornerà in Rm 10,21; 11,30.31 per la disobbedienza d'Israele. Cfr. anche
Rm 15,31.
110 Traduzione e commento
furore, due termini cari all'AT per descrivere l'intervento negativo di Dio contro
gli empi. Questi due sostantivi sono sinonimi e possono essere considerati come
un'endiadi: l'ira furente e il furore iroso di Dio diventano laricompensaper quan-
ti vivono come se Dio non esistesse , dominati dalla propria autosufficienza.
157

[v. 9] L'insistenza sulla retribuzione negativa continua all'inizio della secon-


da parte del chiasmo, in c'. Questa parte è caratterizzata dalla generalità delle sin-
gole asserzioni: è preso di mira qualsiasi animo umano che produce il male e, ri-
prendendo la tesi generale di Rm 1,16-17, ma in prospettiva negativa, «tanto per
il giudeo prima quanto per il greco ». A prima vista, Paolo sembra restringere l'o-
rizzonte della generale retribuzione per il male: si riferisce soltanto a coloro che
lo compiono e non a tutti indistintamente . Ma, come abbiamo sottolineato per la
158

narrazione di Rm 1,18-32, quale interlocutore può pensare di non trovarsi, di fat-


to, in questa categoria piuttosto che in quella di coloro che compiono il bene? In
Rm 7,8-20 Paolo stesso riprenderà, dal versante antropologico, la condizione di
chi non produce il bene desiderato ma il male che non vuole. Dunque se, teorica-
mente in Rm 2,1-11 sono riconosciuti alcuni che compiono il bene, di fatto nes-
suno può accampare tale pretesa. Questa tensione tra il principio teologico della
retribuzione per il bene e per il male servirà a Paolo non tanto per sottolineare l'a-
bissale distanza tra Dio e gli esseri umani quanto per condurre tutti verso l'acco-
glienza della giustificazione realizzata in Cristo.
In questa lista delle retribuzioni negative, sorprende la presenza della « tribo-
lazione» e dell'«angoscia», che in altri contesti sono utilizzati da Paolo per de-
scrivere la condizione di persecuzione nella quale si trovano coloro che credono in
Cristo . Si può sottolineare che se la « tribolazione e l'angoscia » fanno parte del-
159

le avversità più diffuse nella vita cristiana (cfr. laripresadi questo binomio in Rm
8,35) , nel giorno del Signore queste stesse avversità costituiscono la retribuzio-
160

ne, insieme all'ira e al furore divino, per coloro che compiono il male. La prospet-
tiva universale dell'ira divina è esplicitata da quello che possiamo considerare lo
slogan fondamentale di Romani: «...Tanto per il giudeo prima quanto per il greco ».
Se la salvezza varrà per tutti, purrispettandola priorità storico-salvifica dei giudei,
anche l'ira divina si scaglierà su tutti, sia per i giudei prima, sia per i gentili.
[v. 10] Il secondo stico della seconda parte del chiasmo (b') riprende quanto
asserito in b, corrispondente al v. 7, aggiungendo, fra i doni per coloro che com-
piono il bene, quello della pace. Proprio inriferimentoa questo dono si può nota-
re un significativo contrasto: se tutti non conoscono la via della pace (cfr. Rm
3,17), improvvisamente con la giustificazione compiuta in Cristo « abbiamo pace

157Per la presenza di quest'endiadi nel NT cfr. Col 3,8. Nella LXX troviamo le espressioni « ira e fu-
rore » (cfr. Sai 101,11; Sir 45,18; Is 13,9), « l'ira furente » (cfr. Sir 10,18; Na 1,6; Is 30,27) e « il furore iro-
so» (cfr. Is 9,18; cfr. anche nel NT Ap 16,19; 19,15) di Dio.
158Anche in questo verso continuano le riprese di Rm 1,18-32, in particolare si parla di coloro che
producono il male e ne sono colmi (cfr. Rm 1,29).
159Per thlipsis (tribolazione) cfr. Rm 5,3.3; 8,35; 12,12; lTs 3,3; 2Cor 1,4.8; 2,4; Fil 1,17; Col 1,6. Il
sostantivo stenochória (angoscia) invece compare soltanto 4 volte nel NT e nelle grandi lettere paoline:
Rm 2,9; 8,35; 2Cor 6,4; 12,10.
160Cfr. anche questo binomio in Dt 28,53.55.57; Is 8,22; 30,6.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 111
con Dio» (cfr. Rm 5,1). C'è qualcosa o, meglio, qualcuno, che permette non sol-
tanto il passaggio dall'economia dell'ira divina a quella della pace ma che antici-
pa nel presente la stessa realizzazione escatologica della pace.
Circa l'identità di quanti compiono il bene, si tratta di coloro che si sono
comportati bene prima della venuta di Cristo oppure di coloro che, pur non ade-
rendo al vangelo, si comportano bene? Abbiamo a che fare con un principio sol-
tanto teorico, ma che di fatto non si realizza, oppure Paolo pensa già implicita-
mente ai cristiani che possono , a causa della giustificazione realizzata in Cristo,
161

compiere il bene? . Soltanto l'estrapolazione dal contesto immediato della peri-


162

cope può far pensare ai credenti in Cristo che compiono il bene, giacché Paolo an-
cora non valuta la situazione di coloro che sono in Cristo né di quanti fanno parte
dell'economia della fede. Per la stessa ragione non è sostenibile l'ipotesi di chi
considera coloro che compiono il bene quanti, pur non credendo in Cristo, si com-
portano rettamente: si tratterebbe di unricuperodella rivelazione naturale, quale
orizzonte dell'argomentazione in Rm 1-2, mentre abbiamo già escluso tale ipote-
si a causa del coinvolgimento degli ebrei nella requisitoria paolina.
Per questo, coloro che sottolineano l'impossibilità di compiere il bene di-
stinguono tra l'ipotesi e la realtà: in base all'intreccio di Rm 1,18 - 2,9, anche se
tutti possono fare il bene, di fatto nessuno lo compie . In realtà, Paolo non inten-
163

de dimostrare che tutti fanno il male ma larivelazioneuniversale della collera di-


vina per tutti coloro che non compiono il bene. Ancora una volta, soltanto la di-
stinzione tra apocalittica ed escatologia paolina permette di cogliere la consisten-
za di questa categoria, tutt' altro che teorica. Questa categoria non è valutata a
partire dalla fase apocalittica della storia ma da quella escatologica in cui sovra-
sta il principio della retribuzione . Per questo, tale categoria non è sviluppata ma
164

soltanto accennata in questi versi né Paolo adduce l'esempio di qualcuno che nel-
la storia della salvezza abbia realizzato il bene invece del male.
[v. 11] Con parole proprie, Paoloriprendeil principio dell'agire divino cita-
to al v. 6 (a), sottolineando l'assioma dell'imparzialità divina : questo principio 165

non è posto in discussione neppure da quel prima dei giudei rispetto ai gentili. Il

161 Per gli impliciti riferimenti ai cristiani in Rm 2,10 cfr. T.R. Schreiner, The Law and Its Fulfillment:
A Pauline Theology of Law, Grand Rapids 1993, pp. 179-204.
162 Per la storia dell'interpretazione di quest'identità cfr. D.J. Moo, Romans, pp. 139-142.
163 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 141; F. Thielman, From Plight to Solution. A Jewish
Backgroundfor Understanding Paul's View of the Law in Galatians and Romans, Leiden 1989, pp. 92-96.
164 Per la distinzione di questi orizzonti nel pensiero di Paolo cfr. l'ottimo contributo di R. Penna,
Escatologia paolina. Aspetti originali dell'escatologia paolina, in ASE 16 (1999) 77-103. Invece per la
confusione tra l'escatologia e l'apocalittica paoline, diffusa in diversi contributi, cfr. R.B. Mattlock,
Unveiling the Apocalyptic Paul. Paul's Interpreters and the Rhetoric of Criticism (JSNT SS 127),
Sheffield 1996, pp. 247-316, anche se l'autore presenta una buona storia dell'interpretazione sull'apoca-
littica paolina (pp. 23-246).
165 Si deve in particolare a J.M. Bassler, Divine Impartiality, l'aver posto l'accento sull'importanza di
questo principio nell'economia di Rm 1,16 - 2,29, anche se l'autrice considera Rm 2,11 come l'assioma in-
torno al quale ruota l'intera argomentazione di Rm 1,16 - 2,10 da una parte e di Rm 2,12-29 dall'altra. Se
dal punto di vista compositivo questa proposta non regge,rimanevalida la centralità che l'autrice conferi-
sce al principio dell'imparzialità divina in Rm 1-2.
112 Traduzione e commento
sostantivo prosópolémpsia, che compare soltanto 4 volte nel NT , mentre è as- 166

sente nella LXX, è composto da prosópon (volto) e dal verbo lambanein che cor-
rispondono al semitico nàsà' pànim: l'espressione è un eufemismo per indicare
la preferenza di una personarispettoa un'altra . Paolo sirifaspesso a questo as-
167

sioma, non soltanto in vista del giudizio escatologico (cfr. anche Col 3,5) ma an-
che nel presente delle vicende umane, come dimostra la sua applicazione in Gal
2,6 a proposito delle autorità nelle prime comunità cristiane: «...Dio non si cura
dell'aspetto umano» . 168

Anche questo principio, come quello dell'universalismo della salvezza -


tanto per il giudeo prima quanto per il greco -, svolge un ruolo fondamentale in
Romani, al punto che i due assiomi saranno congiunti in Rm 10,12: « Non c'è dif-
ferenza tanto per il giudeo quanto per il greco ». Sarà complesso valutare la con-
sistenza di questo principio quando si tratterà di stabilire la sua compatibilità con
quello dell'elezione divina, soprattutto in Rm 9. Per ora è importante evidenziar-
ne la prospettiva escatologica e universalistica: Dio non fa preferenza di persone.
I gentili, i giudei e la Legge (2,12-16). - La prospettiva del giudizio finale,
sostenuto al culmine della prima prova diatribica (cfr. Rm 2,11), ha bisogno di es-
sere dimostrato soprattutto di fronte ai privilegi ebraici: Quali sono le conseguen-
ze per chi possiede la Leggerispettoall'assioma dell'imparzialità divina? Questa
è la prima volta in cui Paolo affronta la questione della Legge in Romani e questa
si presenta come fra le più complesse del suo epistolario; anzi, come quella più
conflittuale, al punto che non mancheranno autori che, per questo, lo accuseranno
di essere incongruente o inconsistente. Cercheremo di valutare la fondatezza di
queste accuse; intanto consideriamo il v. 16 come conclusione della pericope ini-
ziata al v. 12 : con questo verso si chiude questa pericope e la prima sottosezio-
169

ne delle prove introdotte in Rm 2,1.


La pericope di Rm 2,12-16 si compone di due parti fondamentali: nei vv. 12-
13 domina il parallelismo antiteticofracoloro che saranno giudicati con o senza la
Legge; nei vv. 14-15 Paolo si sofferma sulla relazione tra i gentili e la Legge. Il vo-
cabolario che unifica il paragrafo è ancora quello forense: a esso appartengono
i termini «Legge» (vv. 12c.12d.13a.13c.14a.14b.14c.15a.), «senza Legge» (vv.
12a.l2b), «giusto» (v. 13b), «giustificare» (v. 13c), «testimoniare» (v. 15b), «ac-
cusare » (v. 15c), « difendere » (v. 15c), « giudicare » (v. 16) e « condannare » (v. 12).
L'unità della pericope è confermata dall'inclusione tra «verranno condannati»
(krithesontai, v. 12) e «giudicherà» (ikrinei, v. 16): il soggetto di questi due verbi al
futuro è Dio stesso.

166Cfr. Rm 2,11 ; Col 3,25; Ef 6,9; Gc 2,1 ; cfr. anche gli hapax legomena prosópolémptein (essere par-
ziale, in Gc 2,9), prosdpolémptès (parziale, in At 10,34) eprosópolemptos (imparziale) in lPt 1,17. Prima
della letteratura cristiana antica non si trova questo termine se non in Test. Giobbe 4,8,11; per questo alcu-
ni, come D.J. Moo, Romans, p. 142, pensano a un neologismo di origine cristiana.
167Cfr. Lv 19,15; Sir 4,22.27; 35,13; 42,1; Gb 34,19; 42,8; cfr. anche Sai Salom. 2,18; Giub 5,15.
168Cfr. anche MI 1,8; 2,9; Ef 6,9.
169Per l'unità di Rm 2,12-16 cfr. B. Byrne, Romans, p. 88; DJ. Moo, Romans, p. 144; J.A. Fitzmyer,
Romani, pp. 366-367.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 113
Prima di analizzare le complesse proposizioni di questa pericope così proble-
matica, soprattuttorispettoalle funzioni della Legge, è bene confermare l'orizzon-
te argomentativo paolino, che non è quello apocalitticoriscontratoin Rm 1,18-32,
ma quello escatologico del giorno del Signore, introdotto in Rm 2,1. Paolo si è già
riferito in Rm 2,5 al giorno finale dell'ira;ribadiràesplicitamente questa prospet-
tiva al v. 16; per questo anche i verbi di Rm 2,12-16 sono prevalentemente al futu-
ro. Senza ignorare le relazioni profonde tra l'apocalittica e l'escatologia paolina, in
particolare per il ruolo che Gesù Cristo svolge nell'uno e nell'altro orizzonte, que-
sta differenza per l'analisi delle asserzioni paoline è fondamentale, altrimenti non
siriescea comprendere il senso della Legge e si potrebbe considerare Rm 2 come
un'appendice anomala e contraddittoria sulla Legge nel pensiero paolino . 170

[2,12] La pericope comincia con un parallelismo antitetico, retto sulla rela-


zione tra gli esseri umani, la Legge e il giudizio finale della storia: da una parte si
trovano coloro che hanno peccato senza la Legge, dall'altra coloro che hanno
peccato sotto la Legge. Per entrambi, in adesione all'assioma dell'imparzialità di-
vina, vale la futura condanna! L'universalismo del peccato sottolineato in questo
parallelismo conferma l'interpretazione generale che abbiamo dato alla narrazio-
ne di Rm 1,18-32.
Questa affermazione svolge un ruolo fondamentale nell'economia di Romani,
perché non solo introduce per la prima volta il sostantivo «Legge» (nomos) ma
perché Paolo sembra attribuire alla stessa Legge diverse accezioni . Come per la 171

LXX, con il termine nomos Paolo siriferisceprincipalmente alla Torah giudaica,


anche se bisognariconoscereche il passaggio linguistico dal semitico al greco im-
plica una maggiore accentuazione giuridica del termine, a detrimento della sua
contestualizzazione nell'alleanza tra Dio e il suo popolo, tipica dell'AT . La ca- 172

170 Così H. Räisänen, Paul and the Law (WUNT 29), Tübingen 1987 , pp. 101-109; E.R Sanders, Paolo,
2

la legge e il popolo giudaico (SB 86), Brescia 1989, pp. 204-223.


171 II sostantivo nomos si trova 195 volte nel NT, di cui 121 nell'epistolario paolino, all'interno del
quale la maggiore frequenza spetta proprio a Romani (74 volte) e a Galati (34 volte). Sembra che prima di
queste due lettere Paolo non avverta il bisogno di affrontare direttamente il problema della Legge: per que-
sto non se ne parla in ITessalonicesi; e nella corrispondenza con i corinzi, soltanto in ICor 9,8-20 e in ICor
15,56 si affacciano alcune questioni sulla Legge.
172 Negli ultimi anni la problematica della Legge nell'epistolario paolino è diventata centrale. Per un
bilancio bibliografico cfr. D.M. Moo, Paul and the Law in the Last Ten Years, in SJT40 (1987) 61-77; K.R.
Snodgrass, Torah and Nomos in Recent Scholarly Discussion, in SR 13 (1984) 19-27. Fra i principali con-
tributi sulla Legge in Paolo e in Romani cfr. R. Bergmeier, Das Gesetz im Römerbrief, in Das Gesetz im
Römerbrief und andere Studien zum Neuen Testament (WUNT 121), Tübingen 2000, pp. 31-90; B. Byrne,
The Problem of Nomos and the Relationship with Judaism in Romans, in CBQ 62 (2000) 294-309. W.D.
Davies, Paul and the Law: Reflections on Pitfalls in Interpretation, in Jewish and Pauline Studies,
Philadelphia 1984, pp. 91-122; L. Gaston, Paul and the Torah, Vancouver 1987; H. Hübner, La legge in
Paolo. Contributo allo sviluppo della teologia paolina (SB 109), Brescia 1995; C.G. Kruse, Paul, the Law
and Justiflcation, Leicester 1996; B.L. Martin, Christ and the Law in Paul (NTS 62), Leiden 1989; P. von
der Osten-Sacken, Die Heiligkeit der Tora. Studien zum Gesetz bei Paulus, München 1989; R. Penna, Il pro-
blema della Legge nelle lettere di San Paolo, in L'Apostolo Paolo, pp. 496-518; H. Räisänen, Paul; E.P.
Sanders, Paolo; R.B. Sloan, Paul and the Law: Why the Law Cannot Save, in NT 33 (1991) 35-60; F.
Thielman, Paul and the Law: a Contextual Approach, Downers Grove 1994; S. Westerholm, Israel's Law
and the Church's Faith. Paul and His Recent Interpreters, Grand Rapids 1988; M. Winger, By What Law?
The Meaning of Nomos in the Letters of Paul, Atlanta 1992; N.T. Wright, The Climax of the Covenant.
Christ and the Law in Pauline Theology, Edinburgh 1991.
114 Traduzione e commento
ratterizzazione di nomos con la Torah, per cui nella traduzione abbiamo reso il ter-
mine con « Legge » (maiuscolo) e non con qualsiasi legge (minuscolo), non signi-
fica che Paolo la consideri come una realtà statica o fissa ma dinamica e polisemi-
ca, ricca di significati, in dipendenza dai contesti di appartenenza.
In questa prima formulazione, per nomos Paolo intende l'economia della sal-
vezza caratterizzata dalla Legge, in pratica l'elemento che connota il popolo ebrai-
co e che lo distingue dai gentili. In tale senso, l'espressione «nella Legge» si ri-
ferisce a quanti si sottomettono alla Legge giudaica. Per questo il corrispondente
« senza Legge » (anomös) non significa senza giurisprudenza o senza leggi socia-
li e civili, la qual cosa corrisponderebbe a una condizione di anarchia nella quale
si troverebbero i gentili, e in particolare i greci , bensì « senza la Legge » giudai-
173

ca, ossia senza l'appartenenza al popolo dell'alleanza . In pratica, senza Legge


174

corrisponde all'essere gentile e sotto la Legge all'essere ebreo, con tutto ciò che
distingue quest'ultimo dal primo . Per l'uno e per l'altro, Paolo prospetta la di-
175

spersione e la condanna nel giorno finale. A causa della composizione antitetica


del parallelismo, il verbo krinein non significa semplicemente « giudicare » ma
« condannare », in quanto si trova in connessione con il verbo « disperdere ».
[v. 13] A conferma del giudizio finale per coloro che, pur essendo sotto la
Legge, hanno peccato, Paolo riprende una delle tematiche tipiche del giudaismo
del suo tempo: la relazione tra l'ascolto e la pratica della Legge. Tutti gli ebrei
converrebbero sul dato che non basta l'ascolto della Legge per essere considera-
ti giusti nell'ultimo giorno . 176

A prima vista, quest'affermazione contrasta con l'asserto paolino secondo il


quale dalle opere della Legge non sarà giustificato nessuno (cfr. Rm 3,20). In
realtà, non bisogna ignorare la tensione che Paolo crea tra l'essere giustificati per
la fede o l'esserlo mediante le opere: il verbo «essere giustificati» caratterizza
l'una e l'altra asserzione. Tuttavia accusare Paolo di contraddizione o di schizo-
frenia, per questa tensione, significarileggereil suo pensiero da un nostro sistema
teologico nel quale incasellare le singole affermazioni, senza badare al corrispon-
dente sviluppo argomentativo. Abbiamo già evidenziato che l'orizzonte di Rm 2
non è quello centrale della storia o apocalittico ma quello escatologico, del giudi-
zio nel giorno finale. Ora non c'è dubbio che anche gli ebrei non saranno consi-
derati giusti soltanto per l'ascolto della Legge ma per la loro adesione concreta al-
le sue esigenze; e questo varrà anche per coloro che aderiranno alla fede in Cristo.
Potremmo asserire che, parafrasando Giacomo, la fede e la Legge, senza le ope-
re, sono morte! Perciò per evidenziare la differenza tra livello apocalittico e quel-
lo escatologico paolino abbiamo preferito tradurre il passivo dikaiöthesontai con

173Così invece S.K. Stowers, Rereading Romans, pp. 134-138. Per chi è senza legge nel senso di
anarchia o di criminalità cfr. l'uso di anomös in Le 22,37; At 2,23; lTs 2,8; lTm 1,9.
L'avverbio anomös compare soltanto queste due volte nel NT; corrisponde al composto « senza la
174

Legge » di Rm 7,9. Per la LXX l'avverbio si trova soltanto in 2Mac 8,17. Cfr. anche Papirus de Magdola
6,11; Aegyptische Urkunden aus den königlichen Museen zu Berlin: Griechische Urkunden, I-VIII, Berlin
1895-1933, 1200,20; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 15,59; Apionem 1,147; 2,151.
Così anche D.J. Moo, Romans, p. 145.
175

Cfr. anche Sap 6,18-19; IMac 2,67; Mt 7,24-27; 12,50; Gc 1,22-25; cfr. anche Avot 1,17.
176
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 115
« saranno considerati giusti » e non con « saranno giustificati » : si tratta del li- 177

vello definitivo della giustizia umana davanti a Dio e non di quello passato della
salvezza realizzata in Cristo né di quello attuale in cui è importante l'opzione per
la fede in Cristo o per le opere della Legge.
Un problema diverso è quello del come essere abilitati nella storia della sal-
vezza a diventare «giusti davanti a Dio»: ma si può notare che qui Paolo non
considera la via della salvezza proposta dal comune giudaismo né quella propo-
sta da quanti, tra giudei e gentili, hanno aderito a Cristo. Questo sarà un proble-
ma successivo che non compare in Rm 2. Dunque, senza negare le tensioni tra
la giustificazione per la fede e quella per la pratica della Legge, entrambe pre-
senti nell'epistolario paolino e persino nella stessa lettera, come in Romani, è
necessario non imporre all'argomentazione paolina un proprio modo di intende-
re queste relazioni, diventate ormai dogmatiche nei successivi sistemi teologici,
ma cercare di rispettare lo sviluppo e l'intreccio delle singole dimostrazioni.
Con questo non intendiamo sostenere che Paolo delinei una toralogia o una con-
cezione lineare della Legge ma neppure che sia caduto in una contraddizione co-
sì macroscopica.
[v. 14] In questo verso si cominciano a delineare le relazioni etniche con la
salvezza o con la condanna: è la prima volta che Paolo distingue i destinatari del-
la contesa, volgendo la propria attenzione ai gentili. Tuttavia, proprio in quest'af-
fermazione è problematica la loro definizione: Chi sono coloro che non hanno la
Legge ma riescono a praticare le prescrizioni della Legge al punto da risultare
legge a se stessi?
L'interpretazione tradizionale identifica questi gentili con gli etnico-cristia-
ni che a causa dell'essere in Cristo e con la potenza dello Spirito mettono in pra-
tica la Legge . A prima vista questa ipotesi risolve molte difficoltà sulla conce-
178

zione paolina della Legge e si armonizza con diverse sue asserzioni sulla Legge,
in particolare con quelle di Rm 8,1-2 in cui Paolo distingue la legge dello Spirito
dalla legge della carne. Ma ci troviamo di fronte a una scorciatoia del problema
giacché, in Rm 2, Paolo non ha presente esplicitamente né implicitamente i gen-
tilo-cristiani; ne è prova che proprio in questo verso egli sostiene che i gentili pra-
ticano la Legge per natura , mentre coloro che sono in Cristo la praticano sol-
179

tanto per grazia . Dunque gli ethne non sono i gentilo-cristiani ma semplice-
180

mente i gentili che, comunque, hanno una relazione con la Legge mosaica.

177 Questa è la prima volta in cui compare il verbo «giustificare» (dikaioun) in Romani: questo ver-
bo si trova 39 volte nel NT, di cui 27 nell'epistolario paolino; la sua maggiore frequenza spetta a Romani
(15 volte, cfr. Rm 3,4.20.24.26.28.30; 4,2.5; 5,1.9; 6,7; 8,30.30.33). Sulle relazioni tra la giustizia e la giu-
stificazione divina vedi il nostro commento a Rm 1,16.
178 Così già Agostino, De Spiritu etLittera 26,43 - 28,49; Contra Iulianum 4,3,25. Così in seguito an-
che Lutero, Romani, p. 254; C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 156; N.T. Wright, The Law in Romans 2, in
J.D.G. Dunn (ed.), Paul and the Mosaic Law (WUNT 2/89), Tübingen 1996, p. 146.
179 II termine physei (per natura) non si rapporta a « gentili », nel qual caso sarebbe una tautologia,
bensì a « praticano le cose della Legge ». Così anche D.J. Moo, Romans, p. 149; con buona pace di C.E.B.
Cranfield, Romans, I, pp. 156-157; J.D.G. Dunn, Romans, I, p. 98; N.T. Wright, Law, p. 145.
180 Così giustamente H. Räisänen, Paul, p. 104.
116 Traduzione e commento
Rispetto a questa relazione, è bene tener conto anzitutto della particella ho-
tan (qualora): ha una connotazione temporale con sfumatura condizionale . 181

Paolo non afferma che, di fatto, i gentili praticano la Legge, pur non trovandosi
sotto la Legge, ma che essi, pur non trovandosi nell'economia della Legge, pos-
sono praticare le sue prescrizioni . Nello stesso tempo, Paolo non si riferisce ne-
182

cessariamente a tutte le prescrizioni della Legge bensì ad alcune di esse. Di fatto


non è necessario essere sotto la Legge per rispettare alcuni suoi comandamenti,
come l'amore per i propri genitori o non uccidere.
Per esprimere questa visione, Paolo gioca sul termine nomosriferendosi,nel-
lo stesso tempo, alla Legge mosaica che i gentili non posseggono (v. 14a.c), alle
sue prescrizioni (v. 14b) e al suo valorefigurativo,nel senso che i gentili sono leg-
ge a se stessi (v. 14d). Comunque in tutti questi casi il referenterimanela Legge
mosaica con le sue diverse accezioni e accentuazioni . 183

L'attenzione alle rilevanze o alle connessioni naturali della Legge mosaica


non è esclusivamente paolina ma la siriscontrasoprattutto in Filone Alessandrino
che sviluppa questa tematica per dimostrare l'applicabilità universale della
Legge . A sua volta, il giudaismo palestinese dedicherà attenzione a questa rile-
184

vanza naturale della Legge per sostenere che i patriarchi, pur non possedendo an-
cora la Legge mosaica, l'hanno implicitamente osservata. Così aveva già scritto
l'autore di 2Baruc\ « Perché in quel tempo, presso di loro, la Legge aveva nome,
senza libro, e le opere dei comandamenti erano allora compiute... » (57,2).
Forse non è estranea, a queste affermazioni paoline, la concezione della leg-
ge naturale, tipica della filosofia stoica, secondo la quale vivere secondo natura o
la ricerca del sommo bene, rappresentano gl'ideali di vita per il sapiente . 185

Pertanto non bisogna, con molta facilità, escludere l'influsso della filosofia stoi-
ca sulla legge naturale , giacché Paolo non esita a utilizzare lo stile retorico del-
186

la diatriba, diffuso nella filosofia popolare. Tuttavia, la prospettiva paolina sem-


bra più vicina alle diverse prospettive del comune giudaismo che alla filosofia
stoica. Di fatto, in Rm 2,14 è preferibile parlare dirilevanzenaturali della Legge
mosaica che di legge naturale in quanto tale, distinta dalla Torah.
Il complesso v. 14 si conclude con la personalizzazione figurativa della
Legge: quando i gentili mettono in pratica alcune prescrizioni della Legge mosai-
ca, senza saperlo essi diventano « legge a se stessi ». A prima vista, Paolo sembra
rifarsi a una nota sentenza aristotelica per la quale coloro che seguono i più alti
valori della società non hanno bisogno delle leggi: «Contro costoro non c'è leg-
Per hotan temporale cfr. Rm 11,27; lTs 5,2; ICor 13,10; 14,26; 15,24.27.28.54; 16,2.3.5.12; 2Cor
181

10,6; 12,10. Sulla connotazione condizionale della particella cfr. Strabone, Geographia 12,3,27. Così an-
che J.W. Martens, Romans 2.14-16: A Stoic Reading, in NTS 40 (1994) 63.
Contro H. Ràisànen, Paul, p. 104, che per sottolineare le contraddizioni sulla Legge in Rm 2 ri-
182

chiama la consistenza della condanna finale da parte dei gentili verso i giudei in Rm 2,27, estrapolando le
asserzioni paoline dal contesto argomentativo.
Così anche J.-N. Aletti, Romains 2, p. 153.
183

Cfr. Filone, Probus 46; Legibus 1,36-56; Abrahamo 276.


184

Cfr. Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 7,87,9; 7.128; Plutarco, De Alexandri fortuna aut vir-
185

tute 329 a-b; Cicerone, Re publica 3,33.


Così J.W. Martens, Romans 2,14-16, p. 66.
186
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 117
ge» (Politica 3,13,14; cfr. Gal 5,24). In realtà, sia in Gal 5,24 sia in Rm 2,14 egli
si riferisce sempre alla Legge mosaica, anche se con accentuazioni diverse. Nel
primo caso la traduzione migliore non è « contro queste cose non c'è legge », ma
«la legge non è contro queste cose» ; nel secondo è bene precisare che Paolo
187

non sta considerando i gentili come superiori agli ebrei, al punto che non abbiano
bisogno della Legge, ma che essi possano praticare le norme della Legge pur non
avendo alcuna cognizione di esse. Pertanto, egli sembra condividere la concezio-
ne filoniana: la Legge mosaica trova corrispondenze nella natura umana e tutti vi
possono aderire, indistintamente, anche se non sviluppa il secondo elemento del-
la visione filoniana.
Il dativo « a se stessi » ha valore di vantaggio o di favore: larilevanzanatura-
le della Legge può costituire un vantaggio per i gentili perché significa non rien-
trare nella categoria dei colpevoli, anche se altrove Paolo stesso li considererà co-
me peccatori dal punto di vista etnico, o razziale (cfr. Gal 2,15), in quanto non in-
seriti nell'alleanza giudaica.
[v. 15] Nella relazione tra i gentili e la Legge, il cuore svolge un ruolo im-
portante, perché su di esso si trova iscritto ciò che la Legge esige. In quest'affer-
mazione sorprende l'improvvisa valutazione positiva del cuore, mentre sino ad
ora è stato proprio il cuore « sclerotizzato » e « impenitente » (cfr. Rm 1,21.24; 2,5)
a essere posto sotto giudizio. Tale cognizione positiva emerge dal contesto ipote-
tico che regge l'argomentazione dei vv. 14-15. La realtà è ben diversa dall'ipote-
si perché tutti di fatto, in base a quanto Paolo ha dimostrato sino ad ora, si trova-
no sotto giudizio per il loro cuore impenitente. Da dove deriva questa inattesa con-
siderazione positiva del cuore dei gentili? Non bisogna dimenticare la prospettiva
escatologica più che apocalittica di questi versi né l'implicita contestazione dei
giudei attraverso questa esplicita positivizzazione dei gentili.
Per descrivere la presenza dell'opera della Legge nel cuore dei gentili, Paolo
ricorre alla concezione profetica della Legge inscritta nel cuore, tipica di Ger
31,31-34 e di Ez 11,19-21, e all'importanza che lo stoicismo conferisce alla co-
scienza come criterio di orientamento. Tuttavia, rispetto al primo orizzonte, è be-
ne precisare il ruolo diverso che Paolo attribuisce agli oracoli profetici : se per il 188

profetismo la Legge scritta sui cuori significava una ricomprensione personale e


intragiudaica della Torah, per Paolo si riferisce all'esigenza della Legge, senza
che i gentili la conoscano. Comunque, anche in questo caso, Paolo ha presente le
rilevanze naturali della Legge, poste inrisaltodalla formula collettiva « opera del-
la Legge », che è unica nell'epistolario paolino e assume una imprevedibile valu-
tazione positiva. Di fatto se le « opere della Legge » sono sempre considerate ne-
gativamente , qui l'opera della Legge svolge un ruolo positivo. Per questo, il
189

senso dell'« opera della Legge » è diverso da quello delle « opere della Legge »: si
tratta di un genitivo soggettivo, soprattutto a causa della contestuale espressione

187Per l'analisi dettagliata di Gal 5,24 cfr. A. Pitta, Gala ti, p. 366.
188 L'allusione a Ger 31,31-34 in Rm 2,15 rimane, anche se non è interpretata in chiave etnico-
cristiana; contro H. Ràisànen, Paul, p. 105.
189Cfr. Rm 3,20.28; Gal 2,16; 3,2.5.10.
118 Traduzione e commento
«le cose della Legge» (v. 14) . Dunque Vopera della Legge non si riferisce ai
190

singoli precetti della Legge, come la circoncisione o le norme alimentari, ma alle


esigenze globali della Legge.
Nella seconda parte del v. 15 l'attenzione è posta sulla coscienza e sui pen-
sieri o sui ragionamenti umani. Fra gli autori del NT, Paolo dedica maggiore at-
tenzione alla coscienza: ne è prova che questa è citata nel suo epistolario 20 vol-
te su 30 del NT . Se nella LXX il termine compare raramente e soltanto nella let-
191

teratura sapienziale (cfr. Qo 10,20; Sap 17,11; Sir 42,18), è ben attestato sia nella
produzione filoniana sia in quella stoica . Se per alcuni la coscienza, nell'episto-
192

lario paolino, è intesa come una sorta di istanza giudicante neutra , per altri è in- 193

tesa come una fonte di orientamento verso la trascendenza . Di fatto, in base a 194

Rm 2,14 l'orizzonte nel quale Paolo tratta della coscienza è quello delle relazioni
con Dio; e non bisogna dimenticare che ci troviamo in un contesto forense, con-
fermato dalla funzione che i pensieri svolgonorispettoall'accusa o alla difesa dei
gentili. Il ruolo « spirituale » della coscienza era stato già posto inrisaltoda Orige-
ne che così commentava: « Poiché dunque io noto in essa una così grande libertà
e che senza dubbio gode sempre e si rallegra per le azioni buone, mentre non è
rimproverata per quelle cattive; anzi, rimprovera e ammonisce l'anima stessa a
cui è congiunta, per questo ritengo che si tratti proprio dello spirito di cui l'apo-
stolo afferma che coesiste insieme con l'anima..., quasi come un pedagogo a lei,
per così dire, associato e quasi come una guida, perché le faccia osservare ciò che
è migliore o per le sue colpe la castighi o larimproveri» . 195

Attraverso il verbo « testimoniare con », da non confondere con il semplice


testimoniare , Paolo sembra stabilire una interazione tra i pensieri o i ragiona-
196

menti e la coscienza. Certo è difficile pensare che questi pensieri (logismoi), non
essendo molto diversi dai ragionamenti (dialogismoi) vani di Rm 1,21, svolgano
improvvisamente una funzione positiva di discernimento per i gentili. Per questo
la situazione descritta nei vv. 14-15 è più teorica che pratica: se tutti sono inescu-
sabili (cfr. Rm 1,20; 2,1), di fatto è preclusa la possibilità per una difesa giudi-
ziaria dei gentili, come lo è per i giudei. Ancora una volta è bene sottolineare che
questa possibilità di discernimento per i gentili non èriconosciutain questi versi
come fattuale ma per impedire ogni vanto, da parte dei giudei, che possa minare
il principio sovrastante dell'imparzialità divina . 197

Così anche B. Byrne, Romans, p. 93.


190

Cfr. Rm 2,15; 9,1; 13,5; ICor 8,7.10.12; 10,25.27.28.29.29; 2Cor 1,12; 4,2; 5,11; lTm 1,5.19; 3,9;
191

4,2; Tt 1,15; 2Tm 1,3. Sulla coscienza nell'epistolario paolino cfr. H.-J. Eckstein, Der Begrìff Syneidésis
bei Paulus. Eine neutestamentlich-exegetische Untersuchung zum « Gewissensbegriff » (WUNT 2/10),
Tubingen 1983; J.M. Gundry-Volf, Coscienza, in Dizionario di Paolo, pp. 341-345; U. Vanni, La coscien-
za (syneidésis): una novità antropologico-teologica di Paolo?, in L. Padovese (ed.), Atti del III Simposio di
Tarso su S. Paolo Apostolo, Roma 1995, pp. 5-25.
Cfr. Filone, Praemiis 206; cfr. anche Test. Giuda 20,1-5.
192

Cfr. H.J. Eckstein, Syneidésis, p. 318.


193

Cfr. U. Vanni, Coscienza, p. 8.


194

Cfr. Origene, Romani, I, p. 80.


195

Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 373.


196

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 156.


197
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 119
[v. 16] Non è la prima volta che Paolo sottolinea la prospettiva del giorno
escatologico del Signore (cfr. v. 5), nella quale è necessario comprendere le sue
asserzioni sulla funzionalità o meno della Legge; ma sorprende che improvvisa-
mente in Rm 1,18 - 3,20 parli di Gesù Cristo . Per questo non è mancato chi, co-
198

me Bultmann, abbia considerato questo verso come una glossa successiva . Dal 199

punto di vista testuale, alcuni codici invertono la sequenza in « Gesù Cristo » ma


nessuno esclude il v. 16 dalla lettera: la sua esclusione è un tentativo per separa-
re nettamente l'ira dalla giustizia divina realizzata in Cristo. Invece, la presenza
di questa affermazione conferma che, dal punto di vista argomentativo, al vange-
lo paolino di Romani appartiene anche l'escatologica ira divina, anche se è ne-
cessario ricordare che il suo centro è rappresentato dalla giustizia divina realiz-
zata in Cristo.
La pienarivelazionedei segreti avverrà secondo il vangelo paolino: come al-
trove, Paolo sottolinea la personalizzazione del vangelo con un « mio » che non in-
dica la natura diversa del vangelo,rispettoa quanti lo hanno preceduto o a quanti
evangelizzano come lui i gentili, bensì la relazione tra il vangelo e la sua identità
di apostolo. Il vangelo paolino non annuncia soltanto la salvezza realizzata in
Cristo e attualizzata nell'incontro con lui ma anche la futura e piena rivelazione
dei segreti che possono essere considerati positivi e negativi. Il soggetto del futu-
ro giudizio è sempre Dio , perché gli è attribuito l'assioma dell'imparzialità, ma
200

tutto si realizza mediante Gesù Cristo. Forse non è estranea a questa mediazione
escatologica di Cristo l'idea tipica del giudaismo apocalittico: giudicherà attra-
verso il Messia, presentato con le caratterizzazioni di Abele (cfr. Test. Abramo
13,5), di Enoc (cfr. lEn 45,3-6) o di Melchisedek (cfr. llQMelch), anche se per
Cristo è necessario distinguere il suo ruolo apocalittico, realizzato nell'evento
passato della morte erisurrezione,da quello escatologico del giudizio futuro.
La capacità di Dio nel conoscere e nel giudicare i segreti è una prova della sua
imparzialità: soltanto chi, come Dio, conosce le intenzioni e il cuore umano, può
essere imparziale, mentre gli esseri umani non possono che fermarsi alle apparen-
ze . Paolo attribuirà questa capacità anche a Cristo che « metterà in luce i segreti
201

delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori» (cfr. ICor 4,5). Il ruolo di
Cristo, nel giudizio finale, sarà importante quando si tratterà di valutare la salvez-
za escatologica d'Israele che non ha creduto al vangelo (cfr. Rm 11).
La parodia (2,17-24). - Le prove sulla colpa universale, cominciate in Rm
2,1, proseguono con la nuova apostrofe di Rm 2,17-24 in cui, per la prima volta,
Paolo sirivolgedirettamente al giudeo (v. 17). Rispetto a quanto precede, questo
nuovo livello della dimostrazione è incentrato su una nuova categoria etica:
quanti dicono il bene ma fanno il male, esemplificati in modo incisivo con il ca-

Nella sezione di Rm 1,18- 3,20 questa è la prima volta in cui è citato Gesù Cristo; il suo ruolo nel
198

vangelo paolino anticipato in quest'affermazione sarà spiegato soltanto in Rm 3,21 - 4,25.


Cfr. R. Bultmann, Glossen im Ròmerbrief, in TLZ12 (1947) 200-201 ; F. Watson, Paul, pp. 116-117.
199

II verbo krinei può essere inteso come presente o come futuro; il contesto escatologico orienta ver-
200

so la seconda possibilità. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 377.


Cfr. ISam 16,7; lCr 29,9; Sai 139,1-2.23; Ger 11,20; 17,10.
201
120 Traduzione e commento
rattere del giudeo. L'unità letteraria della pericope è chiara: si conclude con la ci-
tazione diretta di Is 52,5, per lasciare spazio alla questione sull'utilità della cir-
concisione (vv. 25-29) . Rispetto alla pericope precedente di Rm 2,12-16, pro-
202

segue la relazione con la Legge mosaica, valutata però dal versante specifico del
giudeo. La nuova apostrofe diatribica si compone di tre parti fondamentali: i cin-
que privilegi del giudeo (vv. 17-18); le cinque convinzioni del giudeo (vv. 19-20)
e le cinque contraddizioni del giudeo (vv. 21-23) . L'intera unità si chiude al v.
203

24, con la citazione diretta di Is 52,5; e si può notare che ogni parte minore si
chiude con il riferimento alla Legge (vv. 18.20.23).
Nonostante queste tre parti siano ben ordinate e curate dal punto di vista sti-
listico, la pericope presenta un anacoluto tra la seconda e la terza parte: la protasi
della condizionale introdotta da « se » (v. 17) non trova la sua corrispondente apo-
dosi nella terza parte della pericope. In pratica, Paolo non dice cosa succede al
giudeo che si pone in una condizione di superiorità verso i gentili; soltanto la ci-
tazione di Is 52,5 al v. 24 può forse colmare l'anacoluto: per le contraddizioni del
giudeo il nome di Dio è bestemmiato fra i gentili.
A prima vista questo paragrafo può essere considerato come una serrata re-
quisitoria verso tutti i giudei e il giudaismo, rispetto al cristianesimo: e purtrop-
po in questo modo è stato interpretato da Agostino a Lutero, da Bultmann a
Kàsemann . Se questa fosse l'interpretazione più adeguata di Rm 2,17-24, non
204

solo non sarebbe d'accordo nessun giudeo ma neppure lo stesso Paolo che, nelle
sezioni autobiografiche del suo epistolario, si presenta come irreprensibile verso
la Legge mosaica (cfr. Gal 1,13-14; Fil 3,4-6), durante il proprio passato di ade-
sione al giudaismo farisaico . 205

D'altro canto, tutti i giudei sono convinti che, per quanto siano fedeli alla
Legge, continuano concretamente a cadere nel peccato; e per questo, confidando
nella relazione di alleanza con Dio, possono appellarsi alla sua misericordia. Ma
questo non vale anche per i cristiani? Chi può dire di osservare con coerenza e
sempre le leggi del Signore e della Chiesa? Dunque come bisogna interpretare un
passo così apparentemente antigiudaico?
Riteniamo che l'unica possibilità per interpretare rettamente questa com-
plessa fase argomentativa sia data dalla sua prospettiva retorica e segnatamente
diatribica. Allo stile della diatriba appartengono l'interpellante tu al quale Paolo
sirivolge,chiamandolo giudeo, le incalzanti domande retoriche e la lista dei vizi
nei vv. 21-22. La diatriba non conforma soltanto lo stile di questi versi ma l'inte-
ra argomentazione paolina. Di fatto, Paolo sembra delineare una mimesi o raffi-
gurazione retorica, in particolare una rappresentazione del carattere del giudeo o,
meglio, di chi svolge un ruolo di guida fra i giudei (v. 19). In poche parole, Rm
2,17-24 non è una parodia delle guide giudaiche per sostenere che tutti i giudei

Per l'unità di Rm 2,17-24 cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 75; B. Byrne, Romans, p. 95; J.A. Fitzmyer,
202

Romani, p. 377.
Così anche B. Byrne, Romans, p. 96.
203

Per questa diffusa interpretazione cfr. S.K. Stowers, Rereading Romans, pp. 143-144.
204

Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 78.


205
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 121
sono falsi ma per rappresentare il carattere di quanti predicano il bene; anzi, che
annunciano il bene più grande rappresentato dalla Legge, ma che di fatto pratica-
no il male . 206

La rappresentazione di caratteri positivi o negativi è diffusa nei periodi mi-


gliori della retorica antica: si pensi ai Caratteri di Teofrasto (secoli IV-III a.C.) o
al Miles gloriosus di Plauto . Nella stessa diatriba non mancano le rappresenta-
207

zioni di alcuni filosofi che esaltano, ad esempio, i valori dello stoicismo o dell'e-
picureismo ma che di fatto si comportano diversamente dalle loro predicazioni . 208

Per rendere l'idea di queste rappresentazioni pensiamo alle parodie di quanti, nel
nostro tempo, inscenano raffigurazioni dei cristiani o, in particolare, degli eccle-
siastici, come quelle di Dario Fo, nel suo Mistero buffo. Si pecca di generalizza-
zioni e di superficialità se si ritiene che tutti i presbiteri o i pontefici rispondano
a queste rappresentazioni, anche se non sono pochi coloro che, prevenuti di anti-
clericalismo, non esitano a considerarle come reali. Con questo non intendiamo
sostenere che alcune asserzioni paoline sul carattere in Rm 2,17-24 siano false
ma che questo particolare genere enfatizza alcuni aspetti della realtà per presen-
tarli come esemplificazioni. Di fatto, Paolo non nega che il giudeo possegga la
volontà di Dio o che sappia discernere ciò che è meglio ma teme che questo lo
collochi in una posizione di vanto rispetto ai gentili.
Dunque Paolo assume come esemplificazione il carattere di quanti svolgo-
no funzioni di guide fra i giudei, per rappresentare il modello di chi «predica be-
ne e razzola male ». Dal quadro di questa parodia emerge la questione altrettanto
complessa su come un giudeo come Paolo abbia potuto stigmatizzare in tal mo-
do il giudeo del suo tempo, al punto che questo quadro venga, in seguito, utiliz-
zato come antisemitico. In questa descrizione egli non si pone come cristiano, os-
sia come non più giudeo di fronte ai giudei ma come giudeo che si propone di
scardinare ogni presunzione salvifica di chi tenti di porre in discussione l'assio-
ma dell'imparzialità divina. Possiamo sostenere ch'egli ha rappresentato questa
raffigurazione del giudeo non per separare i giudeo-cristiani di Roma dagli altri
giudei e in particolare dai capi della sinagoga, in vista di una maggiore comunio-
ne con gli etnico-cristiani , bensì per riconoscere su tutti l'incombente ira divi-
209

na, in vista della salvezza realizzata in Cristo. Per questo ogni lettura non soltan-
to antigiudaica ma anche extragiudaica di Rm 2,17-24 finisce col fraintenderne il
significato e le finalità retoriche . In definitiva, la scelta del giudeo per esprime-
210

re il carattere di chi dice il bene ma compie il male non è dovuta a una forma di
antigiudaismo ante litteram né ad alcuni tratti propri del giudeo, ma si spiega nel-
lo stesso contesto delle comunità cristiane di Roma che sorgono e si sviluppano

206Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 75.


207Così anche S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 145.
208Cfr. le stigmatizzazioni di Epitteto, Dissertationes 2,19,20; 3,7,17. Così anche J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 377.
209Queste le errate conseguenze che F. Watson, Paul, p. 115, trae dalla sua lettura sociologica di Rm
2,17-24.
210Per la natura intragiudaica di Rm 2 cfr. G.P. Carras, Romans 2,1-29: A Dialogue on Jewish Ideals,
in Bib 73 (1992) 185.
122 Traduzione e commento
nel comune giudaismo, pur nella loro specificità della fede in Cristo . Se i desti- 211

natari della lettera sono convinti di appartenere a una forma di giudaismo, il ca-
rattere dell'ipocrita non è scelto per antigiudaismo paolino ma proprio per la na-
tura giudaica delle prime comunità cristiane.
[2,17] L'apostrofe comincia in modo violento e con una interpellanza diretta
al giudeo: nonostante i tentativi di anticipare la requisitoria paolina verso il giu-
deo in Rm 2,1, questa è la prima volta che Paolo si rivolge direttamente a lui; e
l'invettiva non è formulata per condannarlo ma per parodiare il carattere ideale
di chi, pur predicando il bene, compie il male. Questa prima parte dell'apostrofe
è incentrata sui privilegi d'Israele che non sonorifiutaticon l'apparire della nuo-
va religione cristiana, secondo una falsa prospettiva religionistica, ma che sono ri-
conosciuti, pur se in una parodia del capo giudaico.
Il primo privilegio riguarda l'identità giudaica: ogni ebreo, per il semplice
fatto di essere tale, appartiene ai primi destinatari della giustizia divina annuncia-
ta in Rm 1,16. A causa della prospettiva positiva, con la quale Paolo introduce la
sua apostrofe, il verbo eponomazesthai, che compare soltanto qui nel NT , va in- 212

teso come intransitivo e non come riflessivo. Il giudeo «porta questo nome» e
non « si chiama con questo nome ». Al di fuori di questa requisitoria, Paolo stesso
non esiterà aricordaredi essere israelita (cfr. Rm 11,1). I privilegi successivi per-
mettono di chiarire la consistenza dell'essere giudeo: egli si appoggia sulla Legge
mosaica e, attraverso essa, conosce la volontà di Dio e le opzioni da compiere.
Dunque Paolo non comincia la propria apostrofe negando l'identità giudaica con
tutto ciò che comporta: la sua enfatizzazionerisiedealtrove e non sulla negazione
dei privilegi.
Il secondo privilegioriguardala relazione con la Legge: il giudeo trova in es-
sa il suo sostegno, il suo fondamentale punto d'appoggio. Non è casuale la scelta
del verbo epanapauesthai (appoggiarsi, adagiarsi), soprattutto se si considera che
ricomparirà, per il NT, soltanto in Le 10,6. Paolo sembra giocare sull'allitterazio-
ne dei due verbi che caratterizzano i primi due privilegi (epono-... epana-...) per
evidenziare la stretta dipendenza tra l'essere giudeo e il dono della Legge. Non di-
mentichiamo che in Rm 2,12 non era stato necessario il termine « giudeo » per in-
dicarlo con la parafrasi di « coloro che hanno peccato sotto la Legge ». In questo
caso, il sostantivo nomos assume una connotazione legislativa e rivelativa, nello
stesso tempo, soprattutto perché da esso dipendono i successivi privilegi. Tra le
frequenze di questo verbo nell'AT è interessante l'oracolo di Mi 3,11: il profeta
ricorda che i capi e i sacerdoti di Gerusalemme si appoggiano sulla loro relazione
con il Signore per vivere nel lucro, come se il Signore non badasse alle loro stru-
mentalizzazioni.
Il terzo privilegio è incentrato sulla fondamentale conseguenza del dono del-
la Legge: « vantarsi in Dio ». Come abbiamo già evidenziato per Rm 1,16, Paolo
211Sulla natura propriamente giudaica del cristianesimo romano al tempo di Paolo vedi l'introduzio-
ne al nostro commentario.
2,2II verbo è attestato nella LXX, spesso con valore attivo: cfr. Gn 4,17.26; 5,2.3; 21,31; 25,25; Es
2,10.22.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 123
non considera negativo il vanto in quanto tale, soprattutto quello derivante dalla
propria relazione con Dio, ma si interroga sulle sue ragioni e sulla sua consisten-
za. In Rm 5,11 affermerà che anche « noi ci vantiamo in Dio mediante il Signore
nostro Gesù Cristo » . Per questo non è in questione il vanto, perché se vissuto
213

nel Signore può suscitare una positiva considerazione di sé, bensì sono da valu-
tare le ragioni sottostanti. In base alla conclusione dell'apostrofe, come potrà
vantarsi in Dio chi l'offende con la trasgressione della Legge? Per questo Paolo
non esiterà a orientare in prospettiva cristologica il motivo del vanto: «Noi ci
vantiamo in Cristo Gesù» (Fil 3,3).
[v. 18] Il quarto privilegio è quello della conoscenza della «volontà», pre-
sentata in forma assoluta, senza ulteriori specificazioni: se di Dio o propria. Il
contesto della pericope orienta verso la volontà divina, come Paolo preferisce
spesso specificare altrove . Egli non nega che il giudeo conosca la volontà divi-
214

na, poiché questa si rende visibile attraverso la Legge . D'altro canto, la cono-
215

scenza di Dio è stata il punto di partenza della narrazione di Rm 1,18-21 e Paolo


si richiama alla volontà divina per esortare i destinatari delle sue lettere (cfr. Rm
12,2); ma qui pone in discussione le conseguenze che questa conoscenza, fonda-
ta sulla Torah, può determinare nella vita del giudeo.
L'ultimo privilegio è strettamente legato al precedente: Paolo riconosce che
quanti sono istruiti dalla Legge sono capaci di discernere le cose migliori per mol-
te opzioni concrete. Al di fuori delriferimentoalla Legge, questa diventa un'esor-
tazione importante anche per le comunità paoline che, attraverso una progressiva
conoscenza di Cristo, possano pervenire alla scelta delle cose migliori (cfr. Fil
1,10). In questo privilegio si può benrilevareil ruolo positivo che svolge la Legge
nell'esistenza del giudeo: è come un istruttore o un catechista che insegna a in-
carnare la volontà divina nelle singole scelte morali . Quando la Legge stessa sarà
216

posta a confronto con Gesù Cristo diventerà indifferente in ordine alla salvezza;
ma questo non significherà la sua abrogazione o abolizione. Piuttosto, essa può
continuare a orientare il cammino di quanti, per giungere a Cristo, si sono serviti
del suo indirizzo, a condizione che non la considerino necessaria per la salvezza.
[v. 19] Con la seconda parte (vv. 19-20) della parodia comincia a delinearsi
l'identità del giudeo che fonda sulla Legge la propria superiorità, attraverso la
presentazione di cinque pretese basate sul possesso della verità. La parodia deri-
va dalle convinzioni che Paolo attribuisce al giudeo: egli sembra prendere di mi-
ra proprio i capi della comunità giudaica, al punto che potremmo pensare a una
invettiva analoga a quella di Gesù verso alcuni scribi e farisei (cfr. Mt 15,1-20;
23,13-24), anche se nulla di questa parodia permette di identificare il giudeo con
il fariseo.

213Cfr. anche il « vanto nel Signore » di ICor 1,31 ; 2Cor 10,17 e il « vanto nella croce del Signore no-
stro Gesù Cristo » di Gal 6,13.
2,4Cfr. Rm 1,10; 12,2; 15,32; lTs 4,3; ICor 1,1; 2Cor 1,1; 8,5; Gal 1,4; Col 1,1; 4,12.
215Su questo privilegio del giudeo cfr. Sai 40,9; 143,10; 2Mac 1,3-4; Ba 4,4; cfr. anche 1QS 9,23.
216II verbo katèchein sarà utilizzato con questa prospettiva soprattutto in Gal 6,6, a proposito delle
relazioni tra il catechista e il catecumeno (cfr. anche ICor 14,19; At 18,25; 21,21.24).
124 Traduzione e commento
Ancora una volta, forse è necessario sottolineare che Paolo non apostrofa il
giudeo bensì un carattere come emblema di chi dice il bene ma compie il male,
senza attribuire a tutti i capi, come ai farisei, o a tutti i giudei tale rappresentazio-
ne. La parodia risalta per il contrasto tra le pretese del giudeo e le condizioni dei
destinatari: essi sono guide, luce, educatori, maestri, possessori della conoscenza
e della verità, mentre gli altri sono ciechi, nelle tenebre, ignoranti e neofiti.
Innanzi tutto l'interlocutore di questa parodia è convinto di essere guida dei
ciechi. In Mt 15,14 e in Mt 23,16.24 saranno proprio gli scribi e i farisei a essere
definiti guide dei ciechi, di coloro che non sono istruiti nelle diverse norme della
Legge. Ma Gesù dirà in Mt 15,14: « Come può un cieco guidare un altro cieco? ».
Entrambi andranno a finire nel fosso! In questo caso i ciechi possono essere sia
coloro che nelle comunità giudaiche si lasciano condurre supinamente dalle diret-
tive dei capi, sia coloro che, da esterni, sono attratti dalle tradizioni giudaiche.
Proseguendo nella metafora della vista, il secondo carattere dell'interlocuto-
re è di chi è convinto di essere « luce di quanti si trovano o camminano nella tene-
bra». Il contrasto tra le tenebre e la luce è utilizzato sia in contesto religioso, per
indicare il passaggio da una religione all'altra , sia in contesto etico, per sottoli-
217

neare il cambiamento di comportamento . Entrambi i riferimenti alla conversio-


218

ne religiosa e morale possono essere applicati a questa affermazione, in dipenden-


za dell'orizzonte di destinazione: il capo dei giudei può essere considerato guida
morale per gli altri suoi correligionari o per quanti si accostano al giudaismo . Il 219

contrasto tra le tenebre e la luce sarà diffuso nella teologia giovannea, con parti-
colareriferimentocristologico: Gesù è la « luce del mondo » (cfr. Gv 1,5).
[v. 20] La terza pretesa riguarda la relazione con gli ignoranti o con coloro
che non sono istruiti nella conoscenza della Legge. Questa pretesa stabilisce una
notevole distanza tra il giudeo e gli altri: qualcosa di analogo si riscontra tra i rab-
bini e il popolo della terra (gli 'am hä'äres) nel giudaismo rabbinico successivo.
La quarta pretesa si pone in continuità con la precedente, con la specificazio-
ne della relazione tra il maestro e coloro che si aprono alla conoscenza della
Legge. L'identificazione degli altri comq fanciulli è tipica di chi si trova a un li-
220

vello inferiore nella conoscenza filosofica o religiosa. Così Paolo definirà i corin-
zi,rispettoal loro cammino spirituale (cfr. ICor 3,1) ma, contrariamente al giudeo
deriso in questi versi, egliricorderàai tessalonicesi di « essere diventato fanciullo
in mezzo a loro » (lTs 2,7). Contro questa pretesa vale il detto evangelico secon-
do il quale « il Padre ha tenuto nascoste le cose del regno ai sapienti e agl'intelli-
genti e le harivelateai piccoli » (cfr. Le 10,21).
L'ultima pretesa è quella fondamentale; da essa derivano le precedenti: il giu-
deoritienedi possedere « la parvenza della conoscenza e della verità che si trova-

Cfr. la funzione di « luce delle nazioni » attribuita a Israele in Is 43,6-7; 49,6. Cfr. anche Sap 18,4;
217

Giuseppe e Asenat 8,10; per il NT cfr. questa funzione riferita a Paolo in At 26,17-18; cfr. anche Ef 5,8.
Cfr. Rm 13,12; lTs 5,4.5; 2Cor 6,14; Le 11,35; lGv 1,6.
218

L'orizzonte extragiudaico di quest'affermazione è sostenuto particolarmente da E.J. Schnabel,


219

Law and Wisdom front Ben Sira to Paul, Tübingen 1985, pp. 233-234.
Per il valore letterale di nepios nel senso di « bambino » cfr. ICor 13,11; Gal 4,1.
220
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 125
no nella Legge mosaica ». Non è facile rendere in italiano il termine morphósis che
compare soltanto due volte nel NT (qui e in 2Tm 3,5). Proprio il parallelo di 2Tm
3,5 in cui il sostantivo è utilizzato in senso negativo, in quanto riferito alla par-
venza della pietà, permette di cogliere l'ultimo attacco della parodia: il giudeo
pensa di possedere la conoscenza e la verità trasmesse nella Legge. In realtà non
ne ha che una parvenza, in quanto possedere la Legge significa pretendere di otte-
nere qualcosa che appartiene soltanto a Dio. Rispetto a questa fondamentale pre-
tesa, è benerichiamare,ancora una volta, la narrazione di Rm 1,18-32: possedere
la verità non significa altro che pervertirla con la menzogna (cfr. Rm 1,25), so-
prattutto se si pensa che in Rm 1-2 la verità è uno dei principali attributi di Dio che
giudicherà secondo verità, e non degli esseri umani che, al massimo, ne posseg-
gono una immagine.
Dal punto di vista sociale, è diffìcile stabilire, in base a queste pretese stig-
matizzate da Paolo, se nel comune giudaismo esistessero alcune correnti missio-
narie fra i gentili. Per alcuni si assiste al passaggio progressivo da una forma pas-
siva a una attiva di proselitismo ; per altri, non si può parlare di missione né di
221

proselitismo giudaico ma, al massimo, di simpatia da parte dei gentili . Il paral- 222

lelo di Mt 23,15, secondo il quale « gli scribi e i farisei ipocriti percorrono il ma-
re e la terra per fare un solo proselito », permetterebbe di ipotizzare una vera e
propria missionarietà, almeno in alcune correnti giudaiche; ma non bisogna di-
menticare che anche Mt 23 si caratterizza come parodia, con forti esagerazioni e
generalizzazioni, verso scribi e farisei. Comunque, nel mondo greco-romano non
mancano attestazioni di simpatia verso la religione giudaica e in particolare verso
le sue leggi . Di certo, anche se implicito e non esplicito, il fenomeno del prose-
223

litismo non può essere sottovalutato.


Da queste pretese ci si aspetterebbe una conseguenza rispetto al carattere
apostrofato: invece i vv. 17-20 si chiudono con un anacoluto, ossia con una frase
interrotta dalle domande retoriche dei vv. 21-22. Come abbiamo già proposto, al
massimo l'anacoluto può essere colmato dall'affermazione conclusiva del v. 23:
tali pretese invece di facilitare le relazioni dei gentili con il Signore le rendono più
problematiche, per la scarsa credibilità. Questa soluzione può essere confermata
da una delle maledizioni matteane: « Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che per-
correte il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio
della Geenna il doppio di voi » (Mt 23,15). Ma non è che una ipotesi, poiché è dif-
ficile stabilire a cosa Paolo pensasse con questa lunga condizionale, iniziata al v.
17 e interrotta al v. 20.
[vv. 21-22] L'ultima parte della parodia contiene cinque rimproveri rivolti,
in prevalenza, con domande retoriche, al giudeo che predica il bene e compie il
221 Cfr. G. Boccaccini, Il medio giudaismo. Per una storia del pensiero giudaico tra il terzo secolo a.e.v.
e il secondo secolo e.v., Genova 1993, pp. 202-214; L.H. Feldman, Jew and Gentile in the Ancient World.
Attitudes and Interactions from Alexander to Justinian, Princeton 1993, pp. 288-341.
222 Così M. Goodman, Il proselitismo ebraico nel primo secolo, in M. Ortello (tr.), Giudei fra paga-
ni e cristiani nell'impero romano, Genova 1993, pp. 81-110.
223 Cfr. Svetonio, Domiziano 12,2; Giovenale, Satirae 14,96-106; Plutarco, Cicero 7,6; cfr. anche, dal
versante giudaico, Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,463.
126 Traduzione e commento
male. Il tono dell'apostrofe è fra i più violenti: irimproveridovrebbero essere let-
ti d'un fiato, per fermarsi soltanto di fronte alla citazione del v. 24. Sembra che
Paolo non conceda neppure una pausa per lasciare spazio a qualche obiezione
dell'interlocutore fittizio. Si susseguono quattro accuse nelle quali il contrasto tra
il dire il bene e il compiere il male è accentuato dallaripetizionedello stesso ver-
bo: « ...Che insegni, non insegni..., non rubare, rubi..., non commettere adulterio,
commetti adulterio? »
La prima accusa riprende la funzione ideale del capo giudaico: eglirischiadi
insegnare agli altri ma di non trarre per se stesso i frutti del proprio insegnamen-
to. Paolo sottolineerà l'importanza della coerenza tra l'insegnamento e la vita
dell'apostolato, altrimenti si rischia di non rendere credibile lo stesso vangelo
(cfr. ICor 9,27). Questa accusa verrà specificata nelle tre domande retoriche suc-
cessive (vv. 21b-22): egli puòriferirsiin particolare all'insegnamento halakico o
morale della Legge che ordina di « non rubare, non commettere adulterio e non
saccheggiare » il sacro. Comunque, questa incongruenza può essere applicata a
qualsiasi falsa relazione con la Legge mosaica, esemplificata nelle situazioni de-
scritte in seguito.
Gli insegnamenti etici della Legge derivano soprattutto dal decalogo esodale
al quale Paolo sirichiamain Rm 13,9: « Non commettere adulterio, non uccidere,
non rubare... » (Es 20,13-17; cfr. anche Dt 5,19). Per questo non è un caso che la
parodia sulla relazione tra il capo e la Legge richiami alcuni dei comandamenti
più citati nella legislazione dell'AT , anche se si tratta in ogni modo di una cita-
224

zione indiretta. In certo senso sorprende l'uso del verbo «predicare» (kèryssein
collegato a «non rubare»: nel restante epistolario paolino, questo verbo e il so-
stantivo kèrygma assumono una dominante prospettiva cristologica più che etica
e caratterizzano lo stesso apostolato paolino . In tal modo è maggiormente sotto-
225

lineato il divario tra il dire e il fare; ed è confermata l'ipotesi che Paolo sta com-
ponendo una parodia rivolta ai capi delle comunità giudaiche.
Se i capi d'accusa elencati sino ad ora sono generali, e dipendenti in preva-
lenza dal decalogo, improvvisamente si fariferimentoall'abuso della profanazio-
ne dei templi. La rarità di questo abuso nell'epistolario paolino è confermata dai
verbi inusuali con i quali è descritto: «disprezzare» (bdelyssomai) si ritrova sol-
tanto in Ap 21,8 ; « profanare » (hierosylein) è hapax legomenon del NT . Il cor-
226 227

rispondente sostantivo «profanatore», in At 19,37, è un ottimo parallelo per co-


gliere il retroterra di questo abuso. Luca lo utilizza per larivoltadegli argentieri di
Efeso, durante la quale il cancelliere del tribunale obietta: « Voi avete condotto qui

224Questi comandamenti sono di nuovo citati in Rm 13,9; Me 10,19; Mt 19,18; Le 18,20. Cfr. anche
Filone, Linguarum 163, in cui sono elencati i vizi del furto, dell'adulterio e del sacrilegio dei templi.
225Cfr. Rm 10,8.14.15; lTs 2,9; ICor 1,23; 9,27; 15,11.12; 2Cor 1,19; 4,5; 11,4.4; Gal 2,2; Fil 1,15;
Col 1,23; lTm 3,16. Soltanto in Gal 5,11 il verbo « predicare » è relazionato al passato precristiano di Paolo.
226Invece la LXX utilizza spesso questo verbo e il relativo sostantivo per indicare l'abominio giu-
daico per gli animali impuri e per le altre religioni (cfr. Lv 5,2; Dt 12,31; IRe 11,7; 2Re 21,2; 2Cr 15,8;
28,3; Pr 15,8).
227Questo verbo compare una sola volta anche nella LXX: in 2Mac 9,2 a proposito del tentativo di
Antioco Epifane di saccheggiare il tempio di Persepoli.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 127
questi uomini che non hanno profanato il tempio né hanno bestemmiato la nostra
dea». Altrove, Paolo sottolinea che gl'idoli non esistono (cfr. ICor 8,4; 10,19) ma
questo non può indurre i forti della comunità a disprezzare i deboli provenienti dal
paganesimo, abusando, ad esempio, della carne immolata agli idoli.
Dunque, con questo abuso, Paolo non si riferisce tanto al furto delle offerte
votive dei templi giudaici bensì al saccheggio di tutto ciò che appartiene alle di-
vinità pagane, senza votare tutto allo sterminio. In tal senso, questo abuso non è
così raro come potrebbe sembrare a prima vista: spesso nell'AT è raccomandato
l'ordine di votare allo sterminio tutto ciò che appartiene agli idoli, per non conta-
minarsi (cfr. Dt 7,25-26) . Di fatto chiunque si impossessa di quanto appartiene
228

ad altre religioni, che considera false,rischiadi cadere nella tentazione di non vo-
tarlo allo sterminio ma di appropriarsene, senza preoccuparsi dell'impurità reli-
giosa che contrae. Questo è stato anche il peccato di Saul dopo la guerra con gli
amaleciti: risparmiò il miglior bestiame e votò allo sterminio solo quello scaden-
te (cfr. ISam 15,9). Non bisogna dimenticare che il sacrilegio è uno dei crimini
principali sia per le religioni orientali sia per la giurisprudenza romana, che con-
siderava le res sacrae come res nullius, proprietà di nessuno . Alcuni ritengono229

che questo abuso sia particolarmente rispondente alle relazioni tra i capi dei giu-
dei e le nobildonne dell'aristocrazia romana: le convincevano a devolvere i loro
beni per la causa del tempio di Gerusalemme, ma tenevano per sé le offerte . 230

Flavio Giuseppe attribuirà alla frode religiosa l'espulsione dei giudei da Roma
nel 19 d.C. . L'ipotesi è suggestiva ma forse delimita eccessivamente la natura
231

generale dell'abuso descritto in questo verso che sembra essere più relazionato ai
templi pagani che a quello giudaico.
[v. 23] L'ultima contraddizionericapitola,in forma affermativa, le preceden-
ti domande retoriche: torna il motivo del vanto, introdotto in Rm 2,17 ma che cam-
peggia su tutta la lettera, perché è citato con la litote «non mi vergogno del van-
gelo» nella tesi di Rm 1,16. Se si trasgredisce la Legge è inutile vantarsi di essa;
anzi, quest'orgoglio è controproducente per chi si vanta e per l'oggetto stesso del
vanto, per il giudeo e per la Legge. Soltanto qui Paolo cita il vanto nella Legge; ma
non è molto diverso dal vantarsi in Dio del v. 17, giacché la Legge rappresenta uno
dei suoi doni per Israele. Quindi il problema non riguarda se sia legittimo vantar-
si della Legge ma se questo vanto permette al giudeo di considerarsi migliore del
gentile o se, a causa della trasgressione della Legge, questo non diventi un motivo
per disprezzare Dio stesso.
[v. 24] A conferma della parodia, Paolo si appropria della citazione di Is 52,5
estrapolandola dal suo contesto e interpretandola secondo il proprio fine argo-
mentativo, come avviene spesso nel suo modo di leggere l'AT. In questo caso,
Cfr. anche Dt 12,29-31; 17,1; 29,15-17; IRe 14,24. Flavio Giuseppe, Ant. giud. 4,207, sosterrà che
228

questa norma dimostra la tolleranza giudaica nei confronti delle altre religioni.
Cfr. a tal proposito J.D.M. Derrett, You Abominate False Gods; but You Kob Shrines? (Rom 2,22b),
229

in ATS 40 (1994) 558-571 ; cfr. anche D.B. Garlington, Hierosylein and the Idolatry ofIsrael (Romans 2.22),
in NTS 36 (1990) 142-151.
Così D.A. Campbell, Suggestion, pp. 158-159.
230

Cfr Ant. giud. 18,81-84.


231
128 Traduzione e commento
l'appropriazione paolina della citazione è ancora più consistente perché, diversa-
mente dagli altri casi, Paolo colloca la formula introduttiva come sta scritto sol-
tanto dopo averriportatola citazione . Rispetto alla fonte di Is 52,5 si può nota-
232

re che la citazione paolina è quasi uguale alla LXX mentre si differenzia dal TM
nel quale manca l'espressione «in mezzo ai gentili». Così recita Is 52,5 nella
LXX: « A causa vostra, sempre il mio nome è bestemmiato fra i gentili ». Paolo
omette volutamente il « sempre » (dia pantos) e, a proposito del possessore del no-
me, non dice «mio» bensì «di Dio». La seconda variazione rispetto alla LXX
non è sostanziale, mentre la prima sembra restringere la minaccia, in quanto Paolo
non la considera come permanente ma situazionale. Tuttavia, la maggiore varia-
zione riguarda il cambiamento della prospettiva: ciò che per Isaia era un oracolo
di consolazione per i deportati, che vedono disonorato il nome di Dio, per cui la
liberazione d'Israele significherà anche il ristabilimento del nome di Dio, per
Paolo diventa un mordace rimprovero . 233

I giudei, i gentili e la circoncisione (2,25-29). - Dopo aver relazionato i giu-


dei e i gentili alla Legge (Rm 2,12-16), Paolo si sofferma sulla loro relazione con
la circoncisione: intende dimostrare che neppure la circoncisione pone in discus-
sione l'assioma dell'imparzialità divina. L'orizzonte dal quale egli valuta l'utilità
o meno della circoncisione è ancora quello escatologico, dell'incontro definitivo
con il Signore che non usa parzialità per nessuno. L'unità letteraria dei vv. 25-29
è generalmente condivisa, in quanto ruota sulla tematica della circoncisione-in-
circoncisione . 234

Bisogna subitoriconoscereche, quanto a stile, la nuova pericope non è fra le


piùriuscitedell'epistolario paolino: è caotica eripetitivaper l'uso del linguaggio,
anche se non è difficile cogliere ciò che Paolo intende dimostrare. Si passa im-
provvisamente dalla circoncisione ali'incirconciso senza specificazioni (v. 27); e
il binomio circoncisione-incirconcisione è ripetuto in ogni verso, a dimostrazio-
ne di uno stile enfatico.
Tuttavia, per quanto riguarda il genere retorico, continua quello della diatri-
ba, in una parodia che prende ancora di mira il giudeo: ne è prova che se in questi
versi si parla per due volte del giudeo (vv. 28-29), non è mai citato esplicitamen-
te il gentile, anche se a lui siriferisceil sostantivo « incirconcisione ». Lo stile del-
la diatriba è riconoscibile per l'uso della seconda persona singolare (vv. 25.27),
caratteristico dei vv. 17-24, e per la domanda retorica del v. 26. A causa di queste
connessioni tra i vv. 17-24 e i vv. 25-29 è importante considerare anche questi ver-
si nell'orizzonte della parodia iniziata al v. 17. La prospettiva parodistica del bra-
no èriconoscibilenel fatto che, mentre Paolo valuta la possibilità che l'incircon-

Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 85. Per la formula « come sta scritto » che altrove precede sem-
232

pre una citazione dall'AT cfr. Rm 1,17; 3,4.10; 4,17; 8,36; 9,13.33; 10,15; 11,8.26; 15,3.21; ICor 1,31;
2,9; 2Cor 8,15; 9,9.
Così anche R.B. Hays, Scripture, p. 45.
233

Così J.-N. Aletti, Romani, pp. 73-75; B. Byrne, Romans, p. 102; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 383;
234

D.J. Moo, Romans, p. 166; T.R. Schreiner, Romans, pp. 136-137; S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 155.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 129
ciso possa osservare la Legge, tace sulla possibilità che vi siano anche alcuni giu-
dei che osservano e mettono in pratica la Legge. Questo dimostra che la sua
preoccupazione non consiste nella questione se, realmente, l'incirconciso o il cir-
conciso osservi globalmente o in parte la Legge, ma nel mettere in discussione le
relazioni con la Legge, e in particolare con la circoncisione, per negare qualsiasi
vanto del giudeo rispetto all'assioma dell'imparzialità divina. Per raggiungere ta-
le finalità, Paolo ipotizza che l'incirconciso osservi le prescrizioni della Legge
mentre il circonciso non le disattenda.
Quindi è bene precisare che egli non intende negare o porre in discussione i
privilegi del giudeo rispetto al gentile - problematica che affronterà in Rm 3,1-8
- né desidera paradossalmente sostenere che il gentile è avvantaggiato rispetto al
giudeo, pur non essendo circonciso, bensì che l'imparzialità divina vale anche
per la questione specifica della circoncisione, intesa come condizione fondamen-
tale per entrare nel popolo dell'alleanza e come segno di distinzione oltre che di
separazione dagli altri popoli. Nella complessità del paragrafo sono riconoscibili
le seguenti antitesi:
circoncisione (vv. 25.26.27) incirconcisione (vv. 25.26.27);
esteriorità (v. 28) interiorità (v. 29)
carne (v. 28) cuore (v. 29)
lettera (v. 29) Spirito (v. 29).
La prima opposizione riguarda il giudeo e il greco, definiti rispettivamente
per la condizione di circoncisione e incirconcisione, mentre le altre opposizioni
si riferiscono soltanto al giudeo, nella dialettica relazione con la Legge.
[2,25] Per convincere gli etnico-cristiani della Galazia a non farsi circonci-
dere, Paolo aveva già sottolineato la stretta dipendenza tra la circoncisione e la
Legge: « Attesto di nuovo che ogni circonciso è obbligato a praticare tutta la
Legge » (Gal 5,2). Oraribadiscequesta relazione, sostenendo che la trasgressione
della Legge rende inefficace anche la circoncisione. Tuttavia, si può notare che, in
questo caso, Paolo non distingue tra l'osservanza di tutta la Legge e di alcune sue
norme, come in Gal 5,2, ma evidenzia che la trasgressione della Legge, a pre-
scindere dalla sua quantizzazione, pone in una condizione di incirconcisione. Si
può attribuire alla natura parodistica di questi versi tale esagerazione che induce
Paolo a tacere, ancora una volta, sulle possibilità offerte al giudeo di contare sul-
la relazione di alleanza con il Signore, nonostante i propri peccati.
In questi versi i termini « circoncisione » e « incirconcisione » assumono,
235 236

nello stesso tempo, tre orizzonti di significazione: siriferisconoal gesto materia-


le della circoncisione o alla condizione dell'incirconcisione fisica, alla situazione
della circoncisione o dell'incirconcisione e a coloro che sono circoncisi o incir-
concisi, in pratica ai giudei o ai gentili . Circa la pratica della circoncisione, es-
237

235II sostantivoperitome compare 36 volte nel NT, di cui 31 nell'epistolario paolino, con la maggiore
frequenza in Romani dove si trova 15 volte (cfr. Rm 2,25.25.26.27.28.29; 3,1.30; 4,9.10.10.11.12.12; 15,8).
236Anche il sostantivo akrobystia, utilizzato 20 nel NT, compare 19 volte nell'epistolario paolino, di
cui 11 in Romani (cfr. Rm 2,25.26.26.27; 3,30; 4,9.10.10.11.11.12).
237Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 384-385.
130 Traduzione e commento
sa non è sorta in seno al giudaismo né risulta esclusiva del popolo ebraico, in
quanto è attestata anche presso altre popolazioni, nel Medio Oriente Antico : era 238

già praticata per motivi igienici. Tuttavia, soltanto con il giudaismo divenne il
simbolo fondamentale di appartenenza al popolo dell'alleanza, relazionato so-
prattutto alla figliolanza abramitica con il testo eziologico di Gn 17,l-27 . Nel 239

periodo ellenistico si diventa giudei con il rito della circoncisione, anche se non
mancano esempi di proselitismo giudaico senza la sua obbligazione, come per il
caso di Izate di Adiabene, citato da Flavio Giuseppe . 240

La questione sull'utilità della circoncisione era stata già affrontata nelle cor-
rispondenze con i corinzi e con i galati; e per loro Paolo aveva sottolineato che « la
circoncisione non è nulla e l'incirconcisione non è nulla, ma conta l'osservanza
dei comandamenti di Dio» (cfr. ICor 7,19; cfr. anche Gal 5,6; 6,15). Per valutare
l'utilità o meno della circoncisione, Paolo si rifa alla querela profetica: la circon-
cisione del cuore assume valore superiore rispetto a quella della carne (cfr. Ger
9,24-25). Siamo ben lontani dalla prospettiva del giudaismo rabbinico successivo,
secondo la quale la circoncisione, in quanto tale, assicura i giudei dalla condanna
finale : per Paolo la circoncisione non è sufficiente a garantire l'esclusione dal-
241

l'ira divina perché, in tal caso, sarebbe posto in discussione il principio dell'im-
parzialità divina che sta cercando di dimostrare. Conta la pratica della Legge, an-
che se egli non specifica, in questo caso, se sia necessario mettere in pratica tutta
la Legge o sia sufficiente aderire alle sue esigenze fondamentali. A ben vedere, ta-
le precisazione non è necessaria, in quanto egliritieneche comunque la Legge e la
circoncisione non assumano valenza salvifica.
[v. 26] Una domanda retorica rende vivace la discussione diatribica con l'in-
terlocutorefittizioche Paolo continua a stigmatizzare. In termini affermativi, egli
sostiene che l'osservanza delle prescrizioni contemplate nella Legge, pur senza il
rito materiale della circoncisione, significa di fatto circoncisione. A questo punto
si pone la questione sull'identità dell'incirconciso capace di osservare le prescri-
zioni della Legge che, invece, lo stesso circonciso non osserva. Non sono pochi
coloro che, per l'opposizione tra la lettera e lo Spirito (v. 29), sostengono l'iden-
tità etnico-cristiana dell'incirconciso che osserva le prescrizioni della Legge . 242

Nulla impedirebbe di considerare i vv. 26-29 come prolessi argomentativa di Rm


8,2-4. Contro tale identificazione, è bene riconoscere che Paolo sta escludendo
per ora l'essere in Cristo. Inoltre, tale identificazione lascerebbe pensare a un'op-
posizione tra giudei ed etnico-cristiani, quando la requisitoria di Rm 2 non si svol-
ge di fronte ma nel giudaismo; e nei vv. 28-29 è assente l'orizzonte etnico o cri-
stiano mentre l'attenzione si concentra sulla profonda identità del giudeo. D'altro
canto, non bisogna dimenticare che per Paolo i cristiani non mettono in pratica la

Cfr. T.R. Schreiner, Circoncisione, in Dizionario di Paolo, pp. 246-249.


238

Cfr. anche Giub 15,25-34; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 13,157-158,318.


239

Cfr. Flavio Giuseppe, Ant. giud. 20,17-48.


240

Cfr. Tanhumà 60b.8; Genesis Rabbà 48; Exodus Rabbà 19.


241

Cfr. J.D.G. Dunn, The Theology ofPaul the Apostle, Edinburgh 1998, p. 644; N.T. Wright, Law,
242

pp. 138-139.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 131
Legge ma la adempiono, senza la necessità di osservarla parzialmente né total-
mente. In definitiva l'identificazione dell'incirconciso di Rm 2,26-29 con gli et-
nico-cristiani minerebbe proprio il principio dell'imparzialità divina, in quanto
creerebbe una pericolosa superiorità dell'incirconciso. Pertanto, ci sembra che,
ancora una volta, Paolo ponga a confronto il giudeo con il gentile in quanto tali e
partendo dalla prospettiva del giudizio finale . 243

Ali'incirconciso che osserva le prescrizioni della Legge è accreditata la cir-


concisione, pur non essendo materialmente circonciso. In questa ipotesi è interes-
sante l'uso del verbo « accreditare » (logizesthai): è un futuro passivo che può es-
sere inteso come passivo divino, nel senso che Dio stesso gli accrediterà come cir-
concisione l'osservanza dei comandamenti compresi nella Legge. La compresenza
del sostantivo dikaiómata (prescrizioni, dettami) e del verbo logizesthai anticipa la
tematica dell'accreditamento per la giustizia , di cui Paolo parlerà in Rm 3,21 -
244

4,25, ma sempre nella parodia per il giudeo, in quanto egli sa bene che ognuno è
giustificato per la fede, senza le opere della Legge (cfr. Gal 2,16; Rm 3,28). Nello
stesso tempo, il futuro passivo del verbo « accreditare » conferma l'orizzonte esca-
tologico del paragrafo, giacché egli ha già sostenuto che « coloro che mettono in
pratica la Legge saranno giustificati » (cfr. Rm 2,13). Ancora una volta, soltanto la
distinzione tra il livello apocalittico dell'essere in Cristo e quello escatologico del
giudizio finale impedisce di considerare tali asserzioni come contraddittorie . 245

[v. 27] Nell'orizzonte escatologico del giudizio finale si spiega l'audace af-
fermazione: il gentile giudicherà il giudeo che trasgredisce la Legge; e in questa
prospettiva la sentenza paolina non è infondata ma trovariscontrinel detto di Mt
12,41 : « Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condan-
neranno, perché si convertirono alla predicazione di Giona» (anche Le 11,31).
La prospettiva del giudiziofinale,a opera del giusto contro l'empio, è ben at-
testata sia nell'epistolario paolino sia nella contemporanea letteratura giudaica:
« Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? » (ICor 6,2) . Tuttavia, se per la 246

tradizione giudaica il giusto si identifica con il giudeo, per Paolo egli può apparte-
nere anche ai gentili. Per questo non si tratta semplicemente di una ipotesi irreale
bensì di una reale possibilità, se considerata in prospettiva escatologica: l'incircon-
ciso che «finalizza» (telousa) la Legge giudicherà l'incirconciso che la trasgredi-
sce. In questa affermazione è importante notare il capovolgimento della posizione
di partenza in Rm 2: se all'inizio c'è l'uno che giudica l'altro, ora il giudizio è pro-
spettato da chi, pur non essendo giudeo, di fatto orienta le intenzioni della Legge
contro il giudeo che si limita alla circoncisione della carne e non del cuore . 247

243 Così anche B. Byrne, Romans, p. 105; DJ. Moo, Romans, p. 171; H. Ràisànen, Law, p. 105; S.K.
Stowers, Rereading Romans, p. 155.
244 Questo verbo è tipico del linguaggio economico, in quanto evoca l'accreditamento di beni accumu-
lati presso una banca. Nel NT compare 41 volte, di cui 34 nell'epistolario paolino, con particolare attestazio-
ne in Romani dove si trova 19 volte (con il significato di « accreditare »; cfr. Rm 4,3.4.5.6.8.9.10.11.22.23.24).
245 Così invece H. Ràisànen, Law, p. 103.
246 Cfr. Mt 19,28; Ap 20,4. Cfr. anche Sap 3,8; 4,16; lEn 38,5; 91,12; 95,3; Ap. Abr. 29,19-21; Giub
24,29; 1QS 8,6; IQpHab 5,4-5.
247 Per questa inclusione tra Rm 2,1 e Rm 2,27 cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 76.
132 Traduzione e commento
Del tutto originale è il verbo telein (finalizzare)riferitoall'azione del gentile
verso la Legge: Paolo non dice semplicemente che l'incirconciso pratica (cfr. Rm
2,14) o porta « a compimento » (cfr. Gal 5,14) la Legge, ma che la porta a buon fi-
ne; ed è l'unica volta in cui relaziona questo verbo alla Legge . In Rm 10,4 affer-
248

merà che il fine (telos) della Legge è Cristo: questa corrispondenza potrebbe far
pensare, ancora una volta, agli etnico-cristiani. In realtà, tale finalizzazione va
compresa alla luce di Rm 2,15, in cui si sostiene che la coscienza e i pensieri indu-
cono i gentili a praticare la Legge scritta nei loro cuori . La corrispondenza tra Rm
249

2,14-15 e Rm 2,27-28 sarà confermata dal contrasto tra l'esteriorità e il segreto . 250

In questo verso, Paolo introduce un aspetto specifico della Legge, quello del-
la lettera che siriferiscealla Legge in quanto testo scritto e normativo per il giu-
deo. Si può notare che per Paolo il sostantivo gramma (lettera) acquista sempre un
significato negativo, in quanto opposto allo Spirito . Soltanto in 2Tm 3,15 le
251

« lettere » svolgono un valore positivo in quanto riferite alle sacre Scritture. Con
questa specificazione egli distingue nettamente la Legge dalla lettera: se il primo
sostantivo può assumere valore positivo o negativo, il secondo denota sempre l'a-
spetto negativo e materialmente scritto della stessa Legge, perché in quanto lette-
ra può costituire un motivo di vanto per il giudeo . Alla Scrittura come gramma
252

si rifanno anche Filone e Flavio Giuseppe, senza caricare il termine di un'acce-


zione negativa ma positiva : per Filone la lettera si riferisce spesso al singolo
253

verso della Scrittura. Forse dietro la negativizzazione paolina della lettera si trova
la concezione tipicamente farisaica, secondo la quale accanto alla Torah scritta bi-
sogna considerare anche la tradizione orale che Paolo descrive altrove come la
tradizione dei padri (cfr. Gal 1,14) . 254

[vv. 28-29] Con un'antitesi retta sulla sequenza «no... ma», Paolo introduce
la definizione del vero giudeo, richiamandosi ancora alla querela profetica sulla
circoncisione del cuore e non della carne. Anzitutto il giudeo si definisce per il se-
greto della sua identità e non per l'esteriorità. Paolo accentua questo primo con-
trasto non opponendo l'esteriorità all'interiorità ma al « segreto ». In questo caso
il termine « segreto» (kryptos) si relaziona direttamente al cuore , anche se egli 255

preferirà opporre quest'ultimo alla carne. L'importanza che Paolo attribuisce al se-
greto è analoga alla visione matteana dell'elemosina, della preghiera e del digiu-
no praticati nel segreto (cfr. Mt 6,1-18) . Lo stesso Matteo sottolineerà questo
256

Cfr. invece un'analoga espressione in Le 2,39; Gc 2,8; cfr. anche Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,495.
248

Sul senso dell'« opera della Legge scritta nei loro cuori » vedi il commento a Rm 2,15.
249

Per le connessioni tra Rm 2,9-16 e Rm 2,25-28 cfr. anche J.-N. Aletti, Romani, p. 75; G.P. Carras,
250

Romans 2,1-29, p. 204.


II sostantivo gramma si trova 14 volte nel NT, di cui 8 nell'epistolario paolino e 3 in Romani (cfr.
251

Rm 2,27.29; 7,6; 2Cor 3,6.6.7; cfr. anche Gal 6,11 con il significato di lettera alfabetica).
Cfr. E. Kàsemann, Spirito e lettera, in Prospettive paoline, Brescia 1972, p. 201.
252

Cfr. Filone, Abrahamo 15,85; 2,139; Congressu 12,58; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 10,10,4;
253

13,5,8; 20,12,1.
Cfr. anche Me 7,3.5.8.9.13; Mt 15,2; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 13,10,6; 17,2,4; Vita 2,12. Per
254

questo tratto caratteristico del giudaismo farisaico cfr. A. Pitta, Paolo e il giudaismo farisaico, in
Paradosso, pp. 65-71.
Cfr. l'espressione «segreto del cuore» in ICor 14,25; lPt 3,4.
235

Cfr. anche lPt 3,4.


256
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 133
contrasto nella polemica con i farisei: non è ciò che entra che contamina ma ciò
che proviene dal cuore (cfr. Mt 15,12-20). Forse è bene sottolineare che proprio il
termine «segreto» conferma l'intenzione paolina di porre in discussione ogni
vanto del giudeo nei confronti del greco rispetto alla rivelazione finale dell'im-
parzialità divina. Non è un caso che la pericope di Rm 2,12-16 si sia chiusa con la
prospettiva finale per la quale «Dio giudicherà i segreti degli uomini secondo il
vangelo paolino» (cfr. Rm 2,16).
La seconda opposizioneriguardala relazione tra la circoncisione della carne
e quella del cuore. Il parallelo di Fil 3,3-4, in cui Paolo sostiene che « i veri cir-
concisi sono quelli che servono Dio in quanto guidati dallo Spirito e non dalla car-
ne», lascerebbe pensare nuovamente agli etnico-cristiani che, guidati dallo
Spirito, sono circoncisi nel cuore e non nella carne . In realtà, anche se il sostan-
257

tivo pneuma siriferisceallo Spirito, non è necessario pensare ai giudei biasimati


dai gentilo-cristiani per la loro esclusiva circoncisione della carne . Piuttosto, il 258

motivo della circoncisione del cuore, al di là di quella della carne, è diffuso già nel
profetismo e nella letteratura giudaica apocrifa . Così, se la carne può essere cir-
259

concisa, il cuore può restare incirconciso; e questo finisce con il relativizzare an-
che la circoncisione fisica. Dunque Paolo non fa che riutilizzare il motivo della
circoncisione del cuore per denunciare che non è sufficiente quella della carne
perché il giudeo possa evitare l'ira divina. In pratica, la circoncisione del cuore si-
gnifica non soltanto contestare il male o predicare il bene,riprendendoalcune ca-
tegorie morali di Rm 2, ma operare il benerichiestodalla Legge stessa.
L'ultima opposizione è quella tra lo Spirito e la lettera; e anche in questo ca-
so si sarebbe facilmente indotti a pensare agli etnico-cristiani che aderendo a
Cristo « servono nella novità dello Spirito e non nella condizione vecchia della
lettera» (cfr. Rm 7,6) . D'altro canto soltanto con la potenza dello Spirito i cri-
260

stiani possono adempiere la Legge (cfr. Rm 3,27; 8,2-4). Al contrario, ci sembra


che Paolorichiami,ancora una volta, gli oracoli di Ger 31,31-34 e di Ez 36,25-27
per sottolineare che soltanto lo Spirito del Signore permette l'osservanza della
Legge . Anche se forse Paolo riutilizzerà questi oracoli profetici in Rm 8,2-4,
261

non significa che ora stia pensando agli etnico-cristiani ma agli stessi giudei che
si lasciano guidare dallo Spirito e non dalla lettera. Pertanto, in Rm 2,29 il so-
stantivo pneuma si riferisce allo Spirito di Dio, ma senza ancora la connotazione
cristologica di cui Paolo tratterà in Rm 5,1 - 8,39. Comunque, non bisogna di-
menticare la novità ermeneutica con la quale Paolo reinterpreta gli oracoli profe-

257 Così N.T. Wright, Law, p. 135. Per il valore metaforico della circoncisione cfr. anche Col 2,11.
258 Così anche S.K. Stowers, Rereading Romans, pp. 156-158.
259 Cfr. Lv 26,41 ; Dt 10,16; 30,6; Ger 4,4; 9,24-25; Ez 44,7.9; cfr. anche lQpHab 11,13; Giub 1,23; Od.
Salom. 11,1-3; Filone, Migratione 92; Legibus 1,6. Sulla diversa concezione della circoncisione per Filone
e per Paolo cfr. J.M.G. Barclay, Paul and Philo on Circumcision: Romans 2.25-9 in Social and Cultural
Context, in NTS 44 (1998) 536-556.
260 Così N.T. Wright, Law, p. 135.
261 Contro S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 156, che nega decisamente questiriferimentiprofetici
in Rm 2,26-28, forse per evitare una giusta spiritualizzazione del giudaismo in Rm 2. Anche se Paolo non sta
spiritualizzando l'identità del giudeo, questiriferimentirestano fondamentali per cogliere la sua prospettiva.
134 Traduzione e commento
tici: se per Geremia ed Ezechiele sono gli stessi israeliti a ricevere lo Spirito per
mettere in pratica la Legge, per Paolo vi è un netto contrasto proprio tra lo Spirito
e la lettera. Nella storia dell'interpretazione il contrasto tra la lettera e lo Spirito è
stato inteso come opposizione tra l'interpretazione letterale della Scrittura e quel-
la spirituale : è chiaro che Paolo non ha presente questo contrasto ma quello tra
262

l'economia della lettera, o della Legge puramente scritta, e quella dello Spirito . 263

La pericope si conclude con la lode del Signore per il giudeo che si lascia
guidare dal suo Spirito e non dalla lettera, invertendo la posizione del giudeo in-
trodotta all'inizio della seconda parte di Rm 2,17-29. Se la parodia paolina è co-
minciata con il vanto del giudeo in Dio (v. 17), ora si conclude con la lode che
proviene soltanto da Dio , confermando la finalità delle prove addotte in Rm 2:
264

escludere qualsiasi motivo di vanto.


Il vantaggio del giudeo (3,1-8). - Forse il livellamento del giudeo e del gen-
tile, dimostrato in Rm 2 è stato eccessivo, al punto da essere soggetto a pericolo-
si fraintendimenti. Per questo ora Paolo si propone di evitare alcune false conclu-
sioni che possano derivare dalla situazione universale dell'incombente ira divina,
proseguendo nello stile dell'argomentazione diatribica. Adesso entra in questio-
ne la priorità del giudeo rispetto agli altri popoli: Come si relaziona il principio
dell'imparzialità divina con i privilegi concessi da Dio al popolo giudaico?
Anche se Fitzmyer considera come unità della pericope i vv. 1-9 a causa del-
l'espressione « che dunque? »,ritenutacome formula di inclusione tra il v. 1 e il v.
9 , generalmente si è propensi a limitare la nuova pericope ai vv. 1-8 . Difatti,
265 266

nell'epistolario paolino la formula «che dunque» non funge mai da conclusione


argomentativa ma sempre da introduzione per un nuovo livello argomentativo,
anche se strettamente legata, dal punto di vista concettuale, a quanto precede.
D'altro canto, il criterio dell'inclusione per delimitare una pericope è debole in
quanto aprioristico: se è valido lo si deve stabilire soltanto alla conclusione del-
l'analisi strutturale e semantica. A conferma dell'unità letteraria dei vv. 1-8 basta
evidenziare il concatenamento di domande erispostebrevi, mentre al v. 9 suben-
tra una domanda breve con la lungarispostadelle citazioni bibliche nei vv. 10-18.
In Rm 3,1-8 Paolo prosegue nel dialogo con l'interlocutore fittizio, anche se
si parla concretamente anche del giudeo, presentato al v. 2 con la terza persona
plurale . Il dialogo, caratterizzato da domande diatribiche (cfr. vv. 1.5.6.7), ossia
267

Cfr. Origene, Contra Celsum 6,70; Atanasio, Ad Serapionem 8; Gregorio di Nissa, Contra Eunomium
262

3,5; Agostino, De doctrina Christiana 3,20.


Così anche D.J. Moo, Romans, p. 175.
263

Sulla lode di Dio per gli esseri umani cfr. ICor 4,5.
264

Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 389-390.


265

Cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 90; B. Byrne, Romans, p. 107; DJ. Moo, Romans, p. 177; R. Penna,
266

La funzione strutturale di 3,1-8 nella lettera ai Romani, in L'apostolo Paolo, p. 85; H. Räisänen, Zum
Verständnis von Rom 3,1-8, in SNTU 10 (1985) 93-108; U. Wilckens, Römer, I, p. 161.
Sullo stile diatribico di questi versi cfr. S.K. Stowers, Paul 's Dialogue with a Fellow Jew in
267

Romans 3,1-9, in CBQ 46 (1984) 707-722, contro D.R. Hall, Romans 3,1-8 Reconsidered, in NTS 29 (1983)
183-197.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 135
da questioni poste da Paolo stesso, e da domande retoriche (cfr. vv. 3.5b), vale a
dire da domande che contengono già le risposte, emerge dalla negazione di ogni
vanto del giudeo verso il gentile, dimostrata in Rm 2: Paolo ha azzerato ogni mo-
tivo di vanto di fronte all'ira divina. Per questo in Rm 3,1-8 si trova la questione
consequenziale sul vantaggio dell'ebreo rispetto al gentile. Se in seguito a Rm
2,1-29 ponessimo la domanda di Rm 3,1 a chiunque non abbia mai letto Rm 3, la
risposta sul vantaggio del giudeo rispetto agli altri popoli sarebbe negativa: non
c'è nessun vantaggio! Invece Paolo spiazza ogni lettore, riconoscendo non sol-
tanto qualche priorità ma la grandezza del vantaggio del giudeo. La sua dimostra-
zione non è contraddittoria ma ben fondata in quanto distingue nettamente il van-
to dal vantaggio: se il primo è negato, in quanto per tutti vale l'assioma dell'im-
parzialità divina, il secondo è saldamente affermato perché si regge sulla fedeltà
di Dio alle « sue parole ». Purtroppo spesso si confonde il vanto con il vantaggio,
rendendo contraddittoria e inconcludente l'argomentazione paolina di questi ca-
pitoli; invece è necessario tener ferme queste distinzioni sulle quali si regge la
profonda connessione tra Rm 2 e Rm 3. Che queste distinzioni siano fermamente
sostenute ne è prova cheriprendonoquella tensione originaria della tesi generale
che regge l'intera lettera: « ...Tanto prima... quanto... » (Rm 1,16).
Questo fraintendimento è aggravato dalla concezione di alcuni che considera-
no Rm 3,1-8 come annuncio tematico di Rm 6,1 - 8,39 e di Rm 9,1 - 11,36, sepa-
rando la pericope da quanto precede . Se, come riconosceremo, esistono reali
268

connessioni tematiche e linguistiche tra Rm 3,1-8 e le sezioni successive della let-


tera, questo paragrafo è incomprensibile senza le relazioni con Rm 2; anzi, esso
emerge proprio dall'eccessiva accentuazione sulla negazione del vanto e non co-
stituisce un excursus né un inizio per una sezione successiva della lettera . Co- 269

munque, bisognariconoscereche Paolo è più capace di porre domande fondamen-


tali sulle relazioni diverse con Dio che a dare risposte adeguate: le seconde sono
troppo brevi e spesso generali; anzi,risultanocomprensibili non tanto allafinedi
una pericope ma soltanto dopo aver attraversato intere dimostrazioni e, bisogna ri-
conoscerlo, a volte non in modo del tutto convincente!
Nel concatenamento di queste nove domande si può notare il considerevole
coinvolgimento del mittente; si passa improvvisamente da una persona all'altra:
dalla terza singolare dei vv. 1.5b.6-7a alla terza plurale dei vv. 2-4a.8b, alla se-
conda singolare del v. 4b, alla prima plurale dei vv. 5a.8a, alla prima singolare dei
vv. 5c.7b. Soprattutto l'accusa che alcuni gli muovono, citata al v. 8, induce Paolo
a non seguire un ordine logico o esauriente nell'enunciazione di domande e ri-
sposte ma a produrle di getto, per riprenderle successivamente in modo ordinato.
Comunque, si possono distinguere due parti fondamentali, in dipendenza dalle te-
matiche principali che affrontano le domande e le risposte: il vantaggio del giu-
deo (vv. 1-4); l'ingiustizia umana e la giustizia divina (vv. 5-8) . 270

268 Cfr. R. Penna, Funzione, pp. 91-92.


269 Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 90.
270 Così anche R. Penna, Funzione, pp. 94-95.
136 Traduzione e commento
[3,1] La pericope consequenziale di Rm 3,1-8 rispetto a Rm 2,1-29 si apre
con un « Che cosa dunque... » che introduce la catena delle domande e fa avanza-
re la dimostrazione paolina. Rispetto a questa formula, precisiamo subito che la
riteniamo fondamentale per la composizione argomentativa della lettera: intro-
duce sempre una nuova pericope e non costituisce mai un inizio assoluto ma sem-
pre l'introduzione di un livello argomentativo successivo nella stessa sezione . 271

La funzione argomentativa di « che dunque » in Romani è importante non


soltanto perché è la lettera nella quale Paolo utilizza maggiormente questa for-
mula , ma perché introduce sempre alcune chiarificazioni consequenziali rispet-
272

to a ciò che precede. D'altro canto non si introduce un nuovo discorso con dun-
que: sarebbe un uso indebito di una particella di congiungimento rispetto a quan-
to precede. Questa funzione di chiarificazione delle pericopi introdotte da ti oun è
maggiormente confermata da Rm 8,31 in cui Paolo dice esplicitamente: «Dun-
que, che diremo dopo queste realtà? ».
La prima domanda di Rm 3,1-8 riprende proprio l'inizio delle due pericopi
precedenti. La superiorità del giudeo richiama sia la questione sul vero giudeo,
trattata alla conclusione di Rm 2,28-29, sia l'inizio della seconda sottosezione di
Rm 2,17-29: «Se tu che porti il nome di giudeo...» (Rm 2,17). L'utilità o meno
della circoncisione è stata affrontata in Rm 2,25-29: « Infatti la circoncisione è uti-
le... » (Rm 2,25); «O qual è l'utilità della circoncisione...?» (Rm 3,1) . A prima 273

vista, la domanda di Rm 3,1 può sembrare pleonastica o tautologica, giacché Paolo


ha già sostenuto che il giudeo non può vantarsi del proprio stato, né la circoncisio-
ne è utile se non si mette in pratica la Legge. Invece, questa prima questione è so-
stanziale perché Paolo non valuta più la condizione del giudeo rispetto al gentile o
della circoncisione rispetto all'osservanza della Legge, ma del giudeo e della cir-
concisione in quanto tali o, meglio, per il loro valore dal versante teologico.
Non è un caso che in Rm 3,1-8 scompaia il motivo del vanto sul quale Paolo
ha retto le prove di Rm 2,1-29, per lasciare spazio a quello del vantaggio o del pe-
risson del giudeo. Le due questioni sul vantaggio ebraico e sull'utilità della cir-
concisione sono strettamente collegate. Abbiamo già evidenziato che il giudeo si
riconosce per la pratica della circoncisione, che non rappresenta semplicemente
unritoesterno o igienico ma la condizione per entrare erimanerenel popolo del-
l'alleanza. Per questo il giudeo, in quanto circonciso, si distingue dai gentili, con-
siderati come peccatori (cfr. Gal 2,15) non dal punto di vista etico ma da quello
etnico-religioso.
[v. 2] In forza di quel «prima» del giudeo nella tesi generale di Rm 1,16, che
spesso è dimenticato nello sviluppo argomentativo della lettera, Paolo può rispon-
271 Alcune esemplificazioni chiariscono l'importanza strutturale di questa formula nell'argomenta-
zione paolina: I) La questione dell'idolatria (ICor 10,14-18); II) la chiarificazione introdotta da «che dun-
que... » (ICor 10,19-22). I) La questione della glossolalia (ICor 14,12-25); II) la chiarificazione introdotta
da «che dunque... » (ICor 14,15-25.26-40). I) La questione della Legge (Gal 3,15-18); II) la chiarificazio-
ne introdotta da «che dunque... » (Gal 19-22). I) La vita nuova in Cristo (Rm 5,1-21); II) la chiarificazione
introdotta da «che dunque... » (Rm 6,1-14.15-23).
272 Cfr.Rm3,9;4,1;6,1.15;7,7;8,31;9,14.30; 11,7;cfr.anche lCor3,5;9,8; 10,19; 14,15.26;Gal3,19.
273 Sulla relazione tra Rm 3,1 e Rm 2,25-29 cfr. D.J. Moo, Romans, p. 181.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 137
dere con l'affermazione della superiorità del giudeo; e non si tratta di un vantaggio
parziale ma totale, in quanto storicamente fondato: «grande sotto ogni aspetto»,
ossia da ogni punto di vista e per sempre . A questo punto ci aspetteremmo un
274

elenco di privilegi donati da Dio ai giudei, anche perché nell'argomentazione pao-


lina c'è un « prima » al quale però non succede un « dopo » o un « inoltre ». Invece,
per ora basta soffermarsi sul dono incomparabile delle « parole di Dio »; bisognerà
attendere Rm 9,4-5 per leggere l'elenco dei doni di Dio agli israeliti. Dunque il
vantaggio ebraico si deve prima di tutto al dono storico-salvifico delle «parole di
Dio ». Purtroppo, questo primo privilegio è soltanto accennato, senza ulteriori spe-
cificazioni; e l'espressione «parole di Dio » è unica nel NT, mentre senza l'artico-
loricomparesoltanto in lPt 4,11,riferitaalla glossolalia e alla profezia . 275

Alcuni sostengono che le parole di Dioriguardinole promesse per il popolo 276

oppure l'AT nella sua dimensione oracolare o rivelativa . Tuttavia, è significativo


277

che in Rm 3 non compaia proprio il sostantivo «promessa» e che, per la funzio- 278

ne oracolare dell'AT, Paolo preferisca il sostantivo polisemico nomos (Legge).


Invece, ci sembra che qui siriferiscaalla funzione elettiva delle parole di Dio che
permette di distinguere il popolo ebraico dalle altre nazioni. Così aveva già soste-
nuto il Sai 147,19-20: « Annunzia a Giacobbe la sua parola, le sue leggi e i suoi de-
creti a Israele. Così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad al-
tri i suoi precetti » (cfr. anche Sai 103,7; Dt 4,8). Per alcuni, come il profeta Amos,
i privilegi concessi da Dio al suo popolo costituiscono anche le ragioni della puni-
zione divina per le iniquità commesse (cfr. Am 3,2); e questo orizzonte non va di-
menticato per Rm 3,1-8 poiché al v. 5 subentrerà la tematica dell'ira divina.
Per questo il parallelo più significativo di Rm 3,2 si trova in Rm 9,6a che
svolge il ruolo di tesi principale per la sezione di Rm 9,1 -11,36: « Tuttavia la pa-
rola di Dio non è venuta meno ». In fondo, gli altri privilegi appartengono alla per-
manente fedeltà della parola di Dio; e in questa prospettiva non è necessario ri-
chiamare gli altri doni perchérientranonelle parole divine considerate per la loro
dimensione verbale e operativa. Queste parole furono affidate agli israeliti da Dio
stesso, per mezzo dei profeti, come sottolinea il passivo divino episteuthésan. In
questo caso il verbo pisteuein non significa « credere » ma « affidare », a causa
della sua forma passiva . 279

274Per la formula generale kata panta tropon che compare soltanto qui nel NT, cfr. Nm 18,7; cfr. an-
che Ignazio, Efesini 2,2; Tralliani 2,3; Smirnesi 10,1.
275Per il singolare « la parola di Dio » cfr. Le 8,11; Gv 10,35; At 6,7; 12,24; 17,13; ICor 14,36; 2Tm 2,9;
Tt 2,5; Eb 4,12. Nella LXX l'espressione « parole di Dio », con l'articolo, si trova nel Sai 107,10-11 in un con-
testo di disobbedienza nei confronti del Signore, mentre senza articolo si trova due volte in Nm 24,4.16.
276Cfr. J. Doeve, Some Notes with Reference to ta logia tou Theou in Romans III 2, in J. Sevenster -
W. van Unnik (edd.), Studia Paulina, FS. J. de Zwann, Haarlem 1953, pp. 111-123; S.K. Williams, The
«Righteousness ofGod» in Romans, in JBL 99 (1980) 266-269.
277Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 179; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 391; DJ. Moo, Romans, p.
182; R.B. Hays, Three Dramatic Roles. The Law in Romans 3-4, in J.D.G. Dunn, Mosaic Law, p. 162. Il ri-
ferimento alla dimensione rivelativa dell'AT trova buoni riscontri in Filone, Praemiis 1,1; Vita 3,25;
Abrahamo 62; Mosis 2,176; Migratione 85,166; e in Flavio Giuseppe, Guer. giud. 6,5,4.
278Così anche B. Byrne, Romans, p. 112.
279Per lo stesso significato del verbo pisteuein cfr. ICor 9,17, Gal 2,7; lTm 1,11; Tt 1,3.
138 Traduzione e commento
In certo senso sorprende l'uso della terza persona plurale in questa prima ri-
sposta di Paolo: poiché anch'egli è israelita e non rinnega mai le proprie origini,
ci saremmo aspettati la prima persona plurale. Alcuni sostengono che questa dif-
ferenza si deve alla distinzione tra il Paolo precristiano e quello cristiano: in pra-
tica egli si distanzierebbe dai giudei per valutare la loro situazione religiosa da
una prospettiva cristiana . Invece, ci sembra che questa differenza dipenda dal-
280

l'interlocuzione che egli stabilisce in Romani soprattutto con gli etnico-cristiani


e non tanto con i giudeo-cristiani, fermo restando che anche i destinatari, preva-
lentemente etnico-cristiani, appartengono a un tipo di giudaismo che riconosce
Gesù come il Signore.
[v. 3] La questione dei privilegi sarà ripresa in Rm 9; per ora Paolo preferi-
sce sottolineare il contrasto tra la fedeltà di Dio alle proprie parole e l'infedeltà
di alcuni israeliti. La prima parte del v. 3 comprende una breve domanda di escla-
mazione, «che cosa mai?», riscontrabile nell'andamento dell'argomentazione
soltanto in Fil 1,18, mentre altrove introduce una questione più articolata . 281

Giocando sulla radice verbale pit- Paolo stabilisce un contrasto tra l'infe-
deltà di alcuni israeliti e la fedeltà di Dio, sostenendo che, nonostante tutto, per-
mane la fedeltà di Dio alle sue parole. Il verbo apistein può essere inteso sia co-
me essere incredulo e quindi non credere alle parole di Dio , sia come essere in-
282

fedele, dal punto di vista etico. In base al contesto delle categorie morali poste in
campo in Rm 1,18 - 3,20 è preferibile la seconda accezione e considerare l'e-
spressione come una meiosi retorica, ossia come una diminuzione che non abbas-
sa il livello dell'accusa paolina.
Non manca chi interpreta questa meiosi e questa prima parte di Rm 3,1-4 al-
la luce di Rm 9,1 - 11,36, in cui è specificata l'infedeltà dei giudei verso il mes-
saggio cristiano (cfr. Rm 11,20.23) . In realtà, non soltanto ci troviamo di fronte
283

a un'affermazione che ancora non contempla la relazione tra gli israeliti e Cristo,
ma se il contesto di Rm 1-3 lascia intendere una infedeltà etica, quello di Rm 9-
11 si riferisce chiaramente all'incredulità nei confronti del vangelo. Non biso-
gnerebbe dimenticare che, se in Rm 3,1-4 è affrontata la complessa relazione tra
l'imparzialità divina e i privilegi ebraici, in Rm 9,1 - 11,36 subentra la questione
della salvezza futura d'Israele . Per questo, anche il sostantivo apistia non va in-
284

teso come «incredulità» bensì come infedeltà etica di alcuni ebrei: basterà leg-
285

gere la conclusione della requisitoria paolina in Rm 3,9-18 per confermare l'ac-


cezione etica dell'infedeltà in questo verso (cfr. anche Sap 14,25).
Di fronte all'infedeltà di alcuni permane la fedeltà di Dio: questa è la prima
volta in cui, dopo la tesi di Rm 1,16-17, torna la tematica dellapistis ed è l'unica

Così DJ. Moo, Romans, p. 181.


280

Cfr. Rm 4,3; ICor 5,12; 7,16; 2Cor 12,13.


281

Con tale significato cfr. Me 16,16; Le 24,11.41; At 28,24; lPt 2,7; anche Sap 10,7; 18,13; 2Mac 8,13.
282

Così H. Boers, Agape and Charis in Paul's Thought, in CBQ 59 (1997) 695; J.A. Fitzmyer,
283

Romani, p. 392; D.J. Moo, Romans, p. 184; S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 172.
Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 90-91.
284

Per tale accezione di apistia cfr. Rm 4,20; 11,20.23; lTm 1,13; Mt 13,58; 17,20; Me 6,6; Eb 3,19.
285
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 139
volta nel NT in cui si trova l'espressione « fede di Dio », con l'articolo . Tuttavia 286

mentre in Rm 1,17 si parla della fede in generale, senza ulteriori specificazioni,


qui si trova un chiaro genitivo soggettivo, nel senso che la fedeltà di Dio non è an-
nullata dall'infedeltà umana . D'altro canto, qui Paolo comincia a elencare una
287

serie di attributi divini relazionati fra di loro, come la verità (vv. 4.7), la giustizia
(v. 5) e la gloria (v. 7).
Non è la prima volta che Paolorilevala fedeltà di Dio, in particolare verso le
comunità alle quali indirizza le sue lettere, anche se in questi casi si trova sempre
l'aggettivo pistos (fedele) e non il sostantivo pistis (cfr. ICor 1,9; 2Cor 1,18) . 288

Per indicare la permanenza della fedeltà divina, è utilizzato un verbo tipicamente


paolino, katargein , con il significato di annullare o di abrogare. Si può notare
289

che Paolo non specifica l'oggetto della fedeltà divina: se a uno o ad alcuni dei pri-
vilegi concessi al suo popolo. Il contesto immediato c'induce a pensare alla fe-
deltà di Dio alle sue parole, intese come la somma di tutti i privilegi concessi da
Dio a Israele . 290

[v. 4] Di fronte all'ipotesi che l'infedeltà di alcuni israeliti possa lasciare


spazio all'abrogazione della fedeltà di Dio, si ha una reazione immediata che è
poi dimostrata. L'esclamazione « Non sia mai! » è tipica dello stile diatribico, per
esprimere una risposta breve e immediata nel dialogo intercorso con l'interlocu-
tore fittizio : è il primo modo per porre in discussione quanto è stato detto in
291

precedenza.
A conferma della falsa conclusione, alla quale poteva indurre la domanda re-
torica del v. 3, Paolo sostiene con apoditticità che, mentre Dio è veritiero, ogni es-
sere umano è mentitore, sottolineando l'abissale distanza tra i due. Da una parte
si trova la verità di Dio, dall'altra la falsità o la menzogna umana. L'affermazione
per la quale Dio è veritiero richiama l'inizio di Rm 2, in cui Paolo aveva soste-
nuto che « il giudizio di Dio è secondo verità » (Rm 2,2). Ora torna il contesto fo-
rense nel quale Dio e gli esseri umani sono posti a confronto. Per questo più che
pensare alla verità di Dio come sinonimo della fedeltà per il suo popolo, tipica
dell'AT , è bene contestualizzarla nell'ambito forense di Rm 1,18 - 3,20: in giu-
292

dizio, Dio è sempre veritiero mentre gli esseri umani sono menzogneri. Natural-

286Senza articolo della « fede di Dio » si parla soltanto in Me 11,22 con chiaro significato oggettivo:
«Abbiate fede (o fiducia) in Dio». Per la LXX cfr. ISam 21,3; Sai 32,4; Sai Salom. 8,28-29.
287Per il significato di « fedeltà» del sostantivo pistis cfr. Mt 23,23; Gal 5,22; 2Ts 1,4; Tt 2,10.
288Cfr. anche ICor 10,13; 2Tm 2,13.
289Questo verbo compare 27 volte nel NT, di cui 25 nelle lettere paoline (cfr. Rm 3,3.31; 4,14; 6,6;
7,2.6; ICor 1,28; 2,6; 6,13; 13,8.8.10.11; 15,24.26; 2Cor 3,7.11.13.14; Gal 3,14; 5,4.11; Ef 2,15; 2Ts 2,8;
2Tm 1,10).
290Per la fedeltà del Signore alla sua parola, affidata al suo popolo per mille generazioni cfr. Es 34,6-
7; Nm 23,19; Dt 7,9; Is 49,7; Os 2,19-23.
291Cfr. l'uso analogo di questa formula esclamativa in Epitteto, Dissertationes 1,1,3; 1,2,35; 1,5,10;
1,8,15. Così anche A.J. Malherbe, Me gemito in the Diatribe and Paul, in HTR 73 (1980) 231-240. Nel NT
l'espressione è tipica di Paolo (cfr. Rm 3,4.6.31; 6,2.15; 7,7.13; 9,14; 11,1.11; ICor 6,15; Gal 2,17; 3,21).
La formula si trova anche in Le 20,16 come reazione immediata e non in quantorispostaa una precedente
domanda. Per questa funzione, il « non sia mai » paolino non trovarispondenzaneppure con la formula di
reazione ebraica 'àlilàh di Gn 44,7.17 che introduce espressioni più estese di quelle paoline.
292Cfr. Sai 89,2.6.9.15.25.34; 116,11; cfr. anche 1QS 11,9-14. Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 392.
140 Traduzione e commento
mente la verità divina, chiamata in causa, è quella per la quale egli si dimostra
imparziale, senza usare favoritismi per alcuni, a prescindere dai privilegi che ha
concesso. Per confermare l'accusa di menzogna verso tutti, Paolo sembra citare
indirettamente il Sai 115,2 (LXX): « Ogni uomo è menzognero » . La menzogna 293

consiste sia nel fare il male, pur conoscendo e predicando il bene, sia nel soffo-
care la verità nell'ingiustizia, secondo la tesi specifica di Rm 1,18.
La formula introduttiva « come sta scritto » (cfr. Rm 2,24) introduce la cita-
zione diretta del Sai 50,6 che così recita nel TM: « Perché tu sei giusto nel tuo par-
lare, sei limpido nel tuo giudicare ». Invece la LXX riporta il testo seguente: « Af-
finché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole e vinca quando sei chiamato in
giudizio ». La citazione paolina corrisponde globalmente alla versione della LXX,
tranne per il verbo vincere che nella LXX è al congiuntivo aoristo mentre in Rm
3,4 compare al futuro: vincerai. Anche se non sono pochi i codici cheriportanoil
verbo vincere al congiuntivo , è preferibile la versione con il futuro perché lectio
294

difficilior, e soprattutto perché conferma la prospettiva escatologica dalla quale


Paolorileggela relazione tra la giustizia e l'ira divina. Per questo si deve a Paolo
stesso tale mutazione verbale, come gli è propria la decontestualizzazione della ci-
tazione del Sai 50 della LXX per una diversa funzione argomentativa. Di fatto, se
per il salmista questa affermazione apre alla misericordia divina verso il peccato-
re, per Paolo serve per sostenere il giudizio imparziale di Dio. La citazione di que-
sto salmo, verso la conclusione Rm 1,18 - 3,20, conferma la natura forense della
sezione, anche se come vedremo nella conclusione teologica della sezione non si
tratta di un rìb o di una lite giudiziaria fra persone reali, soprattutto per la natura
diatribica che caratterizza Rm 2,1 - 3,9: non bisogna dimenticare che l'interlocu-
tore di Rm 2,1 - 3,8 è fittizio e non reale. Alla luce del contesto forense vanno
compresi i verbi «essere considerato giusto», «vincere» ed «essere chiamato in
giudizio»: si tratta della vittoria finale nella quale la giustizia divina non ha più
connotazione salvifica ma è collegata al giudizio finale.
[v. 5] Con il v. 5 comincia la seconda parte del paragrafo, introdotta da una
nuova domanda in prima persona plurale . In questa prima domanda, dallo stile
295

diatribico attestato soprattutto dalla formula « che diremo? » , compare improv- 296

visamente un «noi» che allarga gli orizzonti dei vv. 1-4, coinvolgendo tutti nella
contesa . Da una parte si trova la nostra ingiustizia, dall'altra la giustizia divina:
297

293 II raro uso del termine «menzognero» (pseustès) nell'epistolario paolino (cfr. solo in lTm 1,10;
Tt 1,12) e nel greco della LXX (cfr. solo in Sir 15,8; 25,2 mentre in Pr 19,22 la lezione con pseustès è in-
certa), forse conferma ilriferimentoal Sai 115,2.
294 Cfr. i codici B, G, L, 365, 1175, 1505, 1739, 1881.
295 A partire da Jeremias, i vv. 4-7 sono stati spesso composti in forma chiastica: (a) la verità di Dio
e la menzogna umana (v. 4a); (b) la giustizia divina (v. 4b); (b') la giustizia divina (vv. 5-6); (a') la verità
di Dio e la menzogna umana (vv. 7-8). Cfr. J. Jeremias, Chiasmus in den Paulusbriefen, in Abba: Studien
zur neutestamentlichen Theologie und Zeitgeschichte, Gòttingen 1966, pp. 287-289; anche J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 394; D.J. Moo, Romans, p. 193. Piuttosto si dovrebbe parlare di una reversio retorica, ossia di
ripresa inversa delle questioni poste al v. 4, in quanto al v. 5 comincia la seconda parte della pericope, ca-
ratterizzata dalla prima persona plurale.
296 Cfr. le analoghe domande in Rm 4,1; 6,1; 7,7; 8,31; 9,14.30.
297 Giustamente R. Penna, I diffamatori di Paolo in Rm 3,8, in L'apostolo Paolo, p. 139, interpreta
questo « noi » come enallage delle persone, ossia come inclusivo di Paolo e dei destinatari.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 141
se l'ingiustizia umana , tanto del giudeo quanto del greco, non fa che conferma-
298

re la giustizia divina, che senso ha la sua collera? . Si può notare come il voca-
299

bolario della giustizia in Rm 1,18 - 3,20 pone in crisi qualsiasi definizione dog-
matica: se in Rm 1,17 la giustizia di Dio è rapportata all'universale azione salvi-
fica, al punto da rappresentare il cuore del vangelo paolino, in Rm 3,5 assume una
chiara prospettiva forense, sino a essere rapportata alla sua ira . Questa vicinan- 300

za tra la giustizia e l'ira divina, in prospettiva escatologica, convalida la nostra in-


terpretazione di Rm 1,18 - 3,20rispettoal vangelo paolino: non ci troviamo in una
fase previa, di preparazione evangelica, rispetto a Rm 3,21 - 4,25, bensì nel ri-
svolto negativo dello stesso vangelo, almeno dal punto di vista argomentativo, an-
che se il vangelo in quanto tale e per la sua identità di annuncio positivo non può
comprendere l'ira divina. Dunque questa domanda non riguarda ancora la rela-
zione positiva tra l'ingiustizia umana e la giustizia divina ma, come specificherà
la seconda parte del v. 5, larivelazionedell'ira divina: questa vale per ogni ingiu-
stizia umana. In pratica anche l'ingiustizia di un ebreo non relativizza l'ira divina,
per il semplice fatto di godere di alcuni privilegi che non hannoricevutoi gentili.
Alla domanda diatribica, in cui Paolo ha incluso con un noi l'interlocutore fit-
tizio, succede una domanda retorica che contiene già larisposta:« Forse Dio è in-
giusto quando riversa l'ira?». Ancora una volta, egli sirichiamaal principio del-
l'imparzialità, sul quale si reggono le prove addotte in Rm 2,1 - 3,20: poiché Dio
non è ingiusto, la sua ira vale per tutti, indistintamente e non soltanto èrivelatadal
cielo, come aveva sostenuto in Rm 1,18, ma siriversagià nel presente delle rela-
zioni umane. Il parallelo di Gn 18,25 illumina bene la questione paolina; di fronte
al giudizio di Sodoma e Gomorra, Abramo chiama in causa il giudizio divino: « Il
giudice del mondo eserciterà forse la giustizia in modo ingiusto? ». Anche la sem-
plice ipotesi sull'ingiustizia divina nella realizzazione dell'ira, induce Paolo a ri-
conoscere che sta soltanto ragionando umanamente , ossia concependo, per un301

attimo, l'inconsistenza dell'imparzialità divina.


[v. 6] L'assurda ipotesi sull'inconsistenza dell'ira divina induce Paolo a una
nuova repulsione, espressa ancora dalla formula retorica « non sia mai », come al
v. 4. Quindi aggiunge che la posta in discussione dell'imparzialità significa an-
che la mancanza di credibilità da parte di Dio. Detto con linguaggio popolare, se
298 L'orizzonte universale di questi versi è confermato dall'uso del sostantivo adikia (ingiustizia) in
Rm 1,18 - 3,20: lo si trova soltanto in Rm 1,18-31 (vv. 18.18.29) perricompariredopo in Rm 6,13.
299 II verbo synistèmi è tipicamente paolino: compare 16 volte nel NT, di cui 14 nelle sue lettere (cfr.
Rm 3,5; 5,8; 16,1; 2Cor 3,1; 4,2; 5,2; 6,4; 7,11; 10,12.18.18; 12,11; Gal 2,18; Col 1,17; cfr. anche Le 9,32;
2Pt 3,5); in contesto forense indica la conferma delle prove addotte davanti alla corte.
300 Così anche DJ. Moo, Romans, p. 191. Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 394, che in-
terpreta nello stesso modo la « giustizia di Dio » in Rm 1,17 e in Rm 3,5. Per collegare la « giustizia di Dio »
di Rm 3,5 a quella di Rm 1,17, G. Pulcinelli, Giustizia, pp. 32-33, traduce impropriamente «gli dà occa-
sione di manifestare » la sua giustizia, mentre il sostantivo synistèmi significa confermare, in contesto fo-
rense: in Rm 3,5 si dice che non è Dio a manifestare ma che la nostra ingiustizia conferma la giustizia di-
vina. Sul senso della «giustizia di Dio» in questi versi cfr. J. Piper, The Righteousness ofGod in Romans
3,1-8, in TZ 36 (1980) 3-16.
301La formula kata anthrópon lego è utilizzata anche in Gal 3,15 per introdurre un'esemplificazione
umana mentre qui e in ICor 9,8 indica un'esagerazione alla quale può condurre la domanda retorica prece-
dente. Cfr. l'analoga formula di Rm 6,19.
142 Traduzione e commento
la legge non è uguale per tutti vuol dire che ci troviamo di fronte a giudici cor-
rotti che non applicano la norma elementare dell'eguaglianza. In tal caso neppu-
re Dio potrà giudicare gli esseri umani, designati in questo verso con il termine
onnicomprensivo «mondo» (kosmos) , se fa preferenze di persone, soprattutto
302

verso chi, come l'ebreo, è depositario delle sue parole . Forse il testo che chia-
303

rifica ulteriormente il senso della relazione tra la giustizia e il giudizio divino in


questi versi è quello dei Salmi di Salomone 9,2: «La diaspora d'Israele, in mez-
zo a ogni gentile, è contro la parola di Dio, affinché Dio sia chiamato in giudizio,
per la tua giustizia, per le nostre empietà, perché tu sei giusto giudice verso tutti
i popoli della terra».
[v. 7] Una nuova domanda diatribica introduce la questione sulla relazione tra
la menzogna umana e la verità divina. Lo stile diatribico di questo verso è ricono-
scibile per l'improvviso uso della prima persona singolare. Molti considerano
questa nuova domanda uguale a quella del v. 5 . In realtà le due questioni sono
304

diverse: se al v. 5 è in questione l'assioma dell'imparzialità divina, al v. 7 emerge


la funzione che la menzogna umana può svolgere rispetto alla verità divina. Le
due questioni sono teologiche ma da due versanti differenti: nel primo caso si trat-
ta della conferma della giustizia divina, nel secondo dell'aumento della sua verità.
Un altro errore interpretativo riguarda la natura prolettica di questa doman-
da rispetto a Rm 6,1 : « Che diremo? Continueremo a restare nel peccato, affinché
abbondi la grazia? » . Anche se la questione è analoga, il contesto argomentati-
305

vo delle due domande è diverso: in Rm 3,7 Paolo si riferisce alla condizione di


chi ancora non è in Cristo e affronta la questione della relazione tra la menzogna
umana e la verità divina, in Rm 6,1 si riferisce alla situazione di chi è in Cristo e
affronta la questione della relazione tra il peccato e la grazia, dal versante etico e
salvifico . Per questo, nonostante le apparenze, ci sembra che Rm 3,7 non anti-
306

cipi le questioni di Rm 6 . 307

Piuttosto l'improvvisa identificazione dell' io apre verso una diversa proles-


si argomentativa, quella di Rm 7,7-25. L'io di Rm 3,7 non è tanto quello autobio-
grafico di Paolo né quello dell'umanità, considerata come peccatrice, ma ci sem-
bra di poterlo identificare con l'io dell'ebreo che, a causa dei suoi privilegi, non
si considera peccatore come il gentile . Quell 'anch'io come peccatore richiama
308

l'affermazione di Gal 2,15-17: «Noi per natura giudei e non da pagani peccato-

302Se in Rm 1,20 il cosmo designa l'intero creato, qui come in Rm 1,8 si riferisce al mondo umano.
Con quest'accezione prevalente nell'epistolario paolino cfr. Rm 3,19; 4,13; 5,12.13; 11,2.15; ICor
1,20.21.27.28; 2,12; 3,19; 2Cor 5,19. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 395.
303 Per la concezione del giudizio universale di Dio cfr. Is 2,4; 13,6-16; 34,8; 66,16; Dn 7,9-11; GÌ
2,1-11; 3,12; Sof 1,14-23; 3,8; MI 4,1; Sai 7,6-8; 9,8; 96,13; 110,6; 94,2. Cfr. anche lEn 90,20-27; Giub
5,10-16; Sai Salom. 2,32-35; 9,2; llQMelch 2,9.13; Mt 25,31-46.
304Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 395; DJ. Moo, Romans, pp. 192-193; R. Penna, Funzione, p. 95.
305Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 395; R. Penna, Funzione, p. 96.
306Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 91-92; DJ. Moo, Romans, p. 195.
307 Comunque si può sottolineare che in Rm 3,7 e in Rm 5,15 Paolo utilizza lo stesso verbo peris-
seuein che ricomparirà soltanto in Rm 15,13.
308Questa è la prima volta che Paolo utilizza il vocabolario del peccato in Romani: hamartólos ricom-
parirà in Rm 5,8.19; 7,13.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 143
ri... se cercando di essere giustificati in Cristo fossimo trovati anche noi come
peccatori». Il contesto di Gal 2,15-17 è diverso da quello di Rm 3,7, ma l'essere
considerati peccatori nonostante i privilegi divini, al pari dei gentili, accomuna le
due formulazioni. Lo stesso io tornerà in Rm 7 e il parallelo di Gal 2,15-17 per-
mette di chiarire il senso dell'accusa dei diffamatori verso Paolo (v. 8). Precisato
il senso globale della domanda diatribica, si può notare che Paolo ipotizza una si-
tuazione nella quale la menzogna umana faccia accrescere la verità di Dio.
Tornano in Rm 3,7 due termini fondamentali della narrazione di Rm 1,18-31: la
verità (cfr. Rm 1,18.25) e la gloria di Dio (cfr. Rm 1,23), paradossalmente accre-
sciute dalla menzogna.
[v. 8] L'ultima domanda dallo stile diatribico è posta in prima persona plura-
le, ma conriferimentotutt'altro che retorico: Paolo prende di mira alcuni suoi ca-
lunniatori. Per questo il noi di quest'ultima domanda è un plurale humilitatis, rife-
rito allo stesso Paolo o, al massimo, allargato ai suoi collaboratori . Non è facile 309

delineare l'identità di questi diffamatori, non soltanto in questa occasione ma ge-


neralmente nell'epistolario paolino, poiché spesso Paolo li presenta con un gene-
rico « alcuni » (tinessenza ulteriori specificazioni . Di certo non si tratta più di
310

un interlocutorefittizio,riconducibileallo stile diatribico, ma di reali diffamatori.


Fra gli esegeti contemporanei, Penna ha dedicato particolare attenzione ai
diffamatori di Rm 3,8 delineando il seguente identikit: sono giudeo-cristiani che
predicano un vangelo libero dai vincoli etici della Legge e vanno ricercati nella
stessa comunità cristiana di Roma, formata in prevalenza di giudeo-cristiani . 311

Diversi elementi, interni alla lettera, rendono plausibile l'ipotesi di Penna che può
essere benissimo presa in considerazione. Tuttavia, in questaricostruzione,c'è un
punto debole cherischiadi minare l'intera ipotesi: la relazione, che abbiamo con-
testato, tra Rm 3,5 e Rm 6,1 - 7,6 . Il quadro di Rm 3 è diverso da quello di Rm
312

6 ed è difficile pensare che sia possibile chiarire Rm 3,8 alla luce di Rm 7,1 in cui
Paolo sirivolgedirettamente ai destinatari della lettera . 313

Di fatto non è difficile condividere l'ipotesi sull'identità giudaico-cristiana


dei diffamatori; anzi, è ben possibile che essi siritenevanodiscepoli di Paolo ma
non ne condividevano alcuni assiomi sulla relazione tra il bene e il male. Tuttavia
ci sembra poco fondata la conclusione secondo cui i diffamatori di Paolo predica-
vano un vangelo libero dai vincoli etici della Legge. Piuttosto, non vi sono atte-
stazioni in tal senso sul messaggio degli oppositori in Romani. Al contrario, la
diffamazione consiste proprio nel pensare che il vangelo paolino fosse libero dal-
la Legge e che conducesse a un libertinismo morale: assioma non condiviso da
molti oppositori e riscontrabile soprattutto in 1 Corinzi e in Galati.
Il vangelo paolino che sostiene la libertà dalla Legge, soprattutto per gli
etnico-cristiani, poteva benissimo prestare il fianco all'accusa di libertinismo
309Così anche R. Penna, Diffamatori, p. 139.
310Cfr. iriferimentiagli oppositori di Paolo in 2Cor 3,1; Gal 1,7; Fil 1,15.
311Cfr. R. Penna, Diffamatori, pp. 135-149.
312Cfr. R. Penna, Diffamatori, p. 141; cfr. anche I.J. Canales, Paul 's Accusers in Romans 3:8 and
6:1, in EvQ 57 (1985) 237-245.
313Così invece R. Penna, Diffamatori, pp. 144-145.
144 Traduzione e commento
morale. Gli stessi cristiani di Corinto andavano diffondendo lo slogan « tutto mi
è lecito » (cfr. ICor 6,12; 10,23) a causa dell'essere in Cristo; e gli etnico-cristia-
ni della Galazia desideravano sottomettersi alla Legge proprio in seguito alla pre-
dicazione di evangelizzatori che discreditavano il vangelo paolino (cfr. Gal 5,2-
12). Pur se in misura minore, anche la Lettera ai Filippesi riflette una situazione
analoga che induce Paolo a sostenere la vera circoncisione contro quella fisica
propagandata da altri predicatori (cfr. Fil 3,2-3). Per questo, pur condividendo
l'origine giudaico-cristiana dei diffamatori, in Rm 3,8 ci sembra che essi siano
collocabili sul versante opposto di quello libertinista: per loro, il vangelo paolino
rischia di condurre a un libertinismo morale proprio a causa della relativizzazio-
ne della Legge; e possono accusare Paolo di lassismo perché, tanto, dal male che
commettiamo deriva sempre il bene della grazia.
Nella seconda parte del v. 8 Paolo risponde in modo sbrigativo a questa ca-
lunnia, comminando la condanna verso i suoi diffamatori:riprenderàquesta pro-
blematica in Rm 3,27-31 per sostenere la conferma della Legge e non la sua abro-
gazione, come invece pensavano, calunniandolo, i suoi oppositori. Circa il con-
testo di questa diffamazione, non ci sono prove sulla sua origine nella comunità
di Roma , anche se è difficile pensare che l'eco di questo fraintendimento sul
314

vangelo paolino non sia giunta anche a Roma, dove comunque si trovavano di-
versi cristiani di origine giudaica. A causa dei collegamenti tra questa calunnia e
gli altri contesti epistolari delle grandi lettere paoline sono più propenso a ritene-
re che questa diffamazione sia sorta proprio a Corinto o in Galazia e che si sia poi
diffusa presso le altre comunità, comprese quelle di Roma, che non avevano an-
cora incontrato Paolo.
L'universalità della colpa (3,9-18). - L'ultima questione che Paolo intende
affrontare nella probatio di Rm 2,1 - 3,20 riguarda il vantaggio del giudeo ri-
spetto al greco: se ai giudei sono state affidate le parole di Dio, si potrebbe con-
cludere che si trovano in posizione di vantaggio rispetto al gentile. Per dare mag-
giore consistenza alla sua requisitoria, egli ricorre all'autorità della Scrittura, mai
citata sino ad ora in modo così abbondante. Per la maggior parte degli esegeti,
questo nuovo paragrafo, introdotto al v. 9, si conclude con il v. 20 . Ci sembra 315

più opportuno separare i vv. 19-20 e considerarli come perorazione retorica, os-
sia come ricapitolazione delle questioni principali affrontate in Rm 1,18-3,18.
La sottounità letteraria di Rm 3,9-18 si regge sull'uso esplicito della Scrittura che
è confermato dall'inclusione tra « non c'è uno che cerchi Dio » (v. 11) e « non c'è
timore di Dio davanti ai loro occhi » (v. 18).
A prima vista, questa nuova pericope non sembra necessaria, in quanto in
Rm 3,4b Paolo ha già sostenuto, con l'autorità dell'AT, che « ogni uomo è men-
zognero » (cfr. Sai 115,2). Invece, dal punto di vista retorico e, in particolare, dal
3,4Così invece R. Penna, Giudaismo, pp. 84-85, che ipotizza la presenza di una minoranza lassista
nelle comunità di Roma.
315Così B. Byrne, Romans, p. 115; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 400; DJ. Moo, Romans, p. 198; R.
Penna, Funzione, p. 98; T.R. Schreiner, Romans, p. 161.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 145
versante forense delle prove addotte in Rm 2,1-3,18, questo paragrafo si trova al
culmine della dimostrazione, in quanto Paolo si propone, con massicce citazioni
della Scrittura, di mettere tutti a tacere. A parte il v. 9, che introduce la questione
sulla superiorità del giudeorispettoal gentile, nei vv. 10-17 sonoriportate,in for-
ma diretta, sei citazioni tratte globalmente dalla LXX, con leggere ma significa-
tive variazioni: il Sai 13,1-3 nei vv. 10-12b; il Sai 5,10 al v. 13a; il Sai 140,4 al v.
13b; il Sai 9,28 al v. 14; Is 59,7-8 nei vv. 15-17 e il Sai 35,2 al v. 18. Le citazioni
più estese sono tratte dal Sai 13,1-3 e da Is 59,7-8 . 316

Circa la composizione della pericope, sonoriconoscibiliquattro parti fonda-


mentali: a) la questione retorica (v. 9); b) tutti sono colpevoli (vv. 10-12); c) tutto
il corpo umano è peccato (vv. 13-15); d) lo smarrimento totale della via (vv. 16-
18). In questi versi Paolo sembra tornare al tenore pessimista di Rm 1,18-32: di
fatto, anche se cambia il tipo di argomentazione, in Rm 3,9-18 è confermata, con
la Scrittura, l'universale situazione di peccato in cui si trova l'umanità. L'inten-
zione di quest'ultima prova non consiste nel dimostrare che tutti sono peccatori
ma che, a causa della situazione universale di peccato, il giudeo non è migliore
del gentile . In questione è ancora la relazione tra il principio dell'imparzialità
317

divina e il vanto del giudeo rispetto al gentile.


[3,9] Un'altra domanda diatribica introduce la nuova obiezione che può deri-
vare da quanto è stato sostenuto sino ad ora: l'obiezione nasce dalla falsa conclusio-
ne che i privilegi divini tutelino il giudeo di fronte all'imparzialità divina. La prima
parte del v. 9 inizia con una breve domanda che guarda indietro, verso la dimostra-
zione precedente, per introdurre una nuova obiezione: questo è il ruolo della breve
domanda « che cosa dunque » (ti oun), che abbiamo giàriscontratoin Rm 3,1 . 318

Segue una delle domande più oscure del NT, per la sua formulazione greca:
proechometha; non è facile coglierne il significato, innanzi tutto perché il verbo
proechomai è hapax legomenon nel NT; e nella LXX si trova soltanto nel codice
A di Gb 27,6 con valore intransitivo: « Segnalandosi per la giustizia» . Letteral- 319

mente, il verbo proechomai significa « tenere davanti » e, in senso traslato, « met-


tere una scusa», «avanzare un pretesto», oppure, con valenza cronologica, «sa-
pere in anticipo ». Per la forma media del verbo si possono distinguere tre signifi-
cati principali:
1) «Forse vogliamo scusarci?» : in questo caso Paolo cercherebbe alcuni
320

alibi per scagionare un po' la condizione del giudeo. Le successive risposte con-
trastano questo orientamento.
2) «Noi (giudei) siamo superati da loro (i gentili)?» . Dal punto di vista
321

grammaticale questa interpretazione è possibile ma cozza contro l'argomenta-


316 Cfr. anche L.E. Keck, The Function of Romans 3,10-18 - Observations and Suggestions, in J.
Jervall - W.A Meeks (edd.), God's Christ and His People, FS. N.A. Dahl, Oslo 1977, pp. 141-157; S.
Moyise, The Catena of Romans 3:10-18, in ExpTim 106 (1995) 367-370.
317Così anche R. Penna, Funzione, p. 98.
318Nella forma abbreviata di Rm 3,9, la domanda ricompare soltanto in Rm 6,15 e in Rm 11,7.
319Cfr. C. Maurer, Proechomai, in GLNT XI, pp. 199-204.
320Così J.D.G. Dunn, Romans, I, p. 144.
321Così J. A. Fitzmyer, Romani, p. 396; F.C. Synge, The Meaning ofproechometha in Romans 3:9, in
ExpTim 81 (1969-1970) 351; S.K. Stowers, Dialogue, pp. 719-720.
146 Traduzione e commento
zione di Rm 3,1-8, in cui Paolo ha dimostrato la permanenza dei privilegi per il
giudeo. D'altro canto ci aspetteremmo un riferimento esplicito all'agente dal
quale si sarebbe superati, appunto dai gentili.
3) « Siamo avvantaggiati? ». In questo caso il verbo medio assumerebbe il va-
lore attivo di avere qualche vantaggio ; e non risulterebbe l'unico caso del NT,
322

anche se sino ad ora non ci sono pervenute attestazioni per questo uso del verbo.
Questa interpretazione si contestualizza bene nello sviluppo argomentativo di Rm
3,1-18, ed è quella che abbiamo scelto nella traduzione . Anche se ci troviamo di
323

fronte a un verbo medio con valore attivo, questa interpretazione è confermata


dalla lezione più facile di alcuni codici e dalla Vulgata che traduce con praecelli-
mus eos \ La risposta del v. 9b, sull'universale livellamento della condizione pec-
n

caminosa conferma la validità di questa ipotesi.


Alla domanda sul vantaggio dei giudei Paolo risponde con un immediato
« non del tutto » , come preferiamo rendere ou pantós, invece che « niente affat-
325

to ». Con questa prima risposta Paolo si collega proprio alla questione affrontata
in Rm 3,1-8: i privilegi o i vantaggi ebraici rimangono ma non costituiscono il
motivo di vanto nei confronti dei gentili. Per questo, se la traduzione « niente af-
fatto » determina unarilevantecontraddizionerispettoa quanto precede, « non del
tutto » esprime la tensione che abbiamo già rilevato tra la superiorità elettiva e il
vanto del giudeo. Anche in ICor 5,10 l'espressione compare con lo stesso signi-
ficato: « ...Non del tutto con tutti i fornicatori di questo mondo... »
Segue unarispostapiù ampia nella quale Paoloricordadi aver già accusato , 326

in senso giudiziario, la situazione della condizione universale di peccato nella


quale si trovano tanto i giudei quanto i greci. Non è un caso che, anche se è ripre-
sa quasi alla lettera la tesi generale di Rm 1,16b, sia omesso il «prima» del giu-
deo proprio per sottolineare la condizione di uguaglianza nella quale si trovano
tanto i giudei quanto i greci. Questo dimostra che il problema affrontato in Rm
3,9-18 è l'affermazione dell'uguaglianza per tutti. Per questo torna il pantas con
cui Paolo aveva già sostenuto al v. 4 che « ogni uomo è menzognero ».
Nonostante Paolo abbia già denunciato o accusato tutti di essere sotto il pec-
cato, per la prima volta compare il sostantivo hamartia (peccato) al singolare, co-
me nella maggior parte dei casi, in Romani . Si potrà sostenere che essere « sot-
327

to il peccato» non sia diverso dall'«essere considerati peccatori» (cfr. Rm 3,7),


ma sino ad ora Paolo ha evitato proprio di asserire esplicitamente che « tutti sono
sotto il peccato » o che « tutti hanno peccato » (cfr. Rm 3,23). Abbiamo dimostra-
to che questi assiomi si trovano nel retroterra di Rm 1,18-32, anche se la questio-

322Così B. Byrne, Romans, p. 119; C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 190; A. Feuillet, La situation prìvilé-
giée des Juifs d'après Rm 3,9, in NRT105 (1983) 35; C. Maurer, proechomai, p. 202; H. Schlier, Romani, p. 176.
323L'ipotesi avanzata da J.-N. Aletti, Romani, pp. 89-90, ma non sostenuta esplicitamente dallo stes-
so autore, secondo la quale il senso della domanda sarebbe «perdiamo noi il vantaggio», sembra troppo
articolata e deduce troppo da una domanda così breve.
324Cfr. i codici D*, G, W, 104.
325Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 89; A. Feuillet, Situation, pp. 35-36.
326II verbo proaitiaomai (accusare, denunciare) è hapax legomenon nel greco biblico.
327 Cfr. Rm 3,29; 4,8; 5,12.20.21; 6,1.2.6.7.10.11.12.14.16.17.18.22.23; 7,7.8.9.11.13.17.23.25;
8,2.3.10.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 147
ne fondamentale non consiste nel dimostrare che tutti hanno peccato, ma che su
tutti coloro che hanno peccato incombe l'ira divina. Ora la questione fondamen-
tale non consiste tanto nel dimostrare che tutti hanno peccato bensì nell'afferma-
re che per tutti vale il principio dell'imparzialità divina, a prescindere dai privile-
giricevuti.Dunque, con questa affermazione Paolo non intende negare che vi sia
qualche giusto ma che ognuno possa ritenersi al di fuori dell'imparzialità divina,
dimostrata sino ad ora dal versante negativo dell'ira e in seguito da quello della
giustificazione.
La condizione dell'umanità sotto il peccato indica non tanto una situazione
etica - e per questo sino ad ora Paolo non ha parlato di « peccato », pur avendo
buone ragioni per farlo - quanto la situazione di schiavitù nella quale si trovano
tutti, al di fuori dell'azione salvifica di Dio in Cristo. Per questo, quando si par-
lerà della giustificazione in Cristo si potrà affrontare, con maggiore attenzione, la
relazione con il peccato (cfr. Rm 3,21 - 4,25; 5,1-21). Dunque, essere sotto il pec-
cato esprime l'universale condizione di schiavitù, prima e al di fuori della sal-
vezza realizzata in Cristo . 328

[vv. 10-12] La tipica formula paolina di introduzione per le citazioni dirette


dell'AT non introduce soltanto un passo biblico ma, come abbiamo già notato,
una lunga serie di citazioni: caso unico in tutto l'epistolario paolino . 1 vv. 10-12 329

sono accomunati dalla citazione globale del Sai 13,1-3; il rapporto tra Rm 3,10-
12 e il Sai 13 è talmente rilevante che alcuni copisti della LXX hanno aggiunto
alla fonte originaria del Sai 13,3 le citazioni di Rm 3,13-18.
La prima citazione è tratta dal Sai 13,1 che recita così: « Non c'è chi fa il be-
ne, non c'è neppure uno ». Invece Paolo parla di giusto e non di chi compie il be-
ne. Questa variazione ha indotto alcuni a pensare alla citazione di Qo 7,20:
«L'uomo non è giusto sulla terra» . Comunque, a parte, il termine «giusto», la
330

citazione di Rm 3,10 è più vicina al Sai 13,1 che a Qo 7,20. Per questo, preferia-
mo attribuire la citazione al Sai 13,1 e considerare il termine «giusto» come una
inserzione paolina dovuta all'importanza della giustizia in Rm 2,1 - 3,18 . Il cam- 331

biamento di « colui che fa il bene » in « un giusto » è facilitato dallaripetizionedel-


la prima categoria nel Sai 13,3 che sarà citata in Rm 3,12. Tali variazioni accosta-
no l'espressione paolina a uno dei diffusi motivi nell'antropologia qumranica:
« Nessuno è giusto, secondo la tua sentenza, e innocente nel tuo giudizio » . 332

Al v. 11 continua la citazione del Sai 13, con una variazione di pocorilievori-


spetto alla versione della LXX che, a sua volta, corrisponde al TM: « ...Per vedere
se c'è uno che comprenda » (Sai 13,2b). Al Sai 13 appartiene anche la citazione ri-
portata in Rm 3,1 lb, che così recita: « ...o che cerchi Dio ». Paolo stesso aggiunge
il «non c'è» che, in questi versi, assume un ruolo anaforico, ossia di formula in-
troduttivaripetutaper sei citazioni bibliche. Anche in Rm 3,12 continua la citazio-

Cfr. l'analoga espressione con l'articolo in Rm 7,14 e in Gal 3,22.


328

Qualcosa di analogo si verifica in Gal 3,6-14, ma le citazioni dell'AT sono interrotte dal com-
329

mento paolino; invece in Rm 3,10b-18 Paolo tace per lasciar parlare soltanto la Scrittura.
Così J.D.G. Dunn, Romans, I, p. 155, seguito da J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 400-401.
330

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 203.


331

3321QH 9,14-15; anche 1QH 4,29-31; 7,17.28-29; 12,31-32; 16,11.


148 Traduzione e commento
ne del Sai 13,3 che corrisponde alla versione della LXX: «Tutti si sono smarriti,
insieme si sono corrotti, non c'è uno che faccia il bene, non c'è neppure uno ». Nel
contesto di Rm 1,18-3,20 questa citazione svolge un ruolo significativo, perché
riprende la categoria etica di quanti fanno il male, descritta in Rm 1,18-32.
[vv. 13-14] La seconda fonte della catena di citazioni è quella del Sai 5,10 che
corrisponde alla versione della LXX e del TM: questa perviene sino al v. 13b. I vv.
13-14 sono accomunati dairiferimentiagli organi relazionati con la parola: la go-
la, la lingua, le labbra (v. 13), la bocca (v. 14). In questa sequenza si può notare un
climax retorico: si procede dall'organo più interno, la gola, a quello più esterno, la
bocca. Sembra di trovarsi di fronte a un laringoiatra che sta visionando la situa-
zione infiammata dell'apparato respiratorio.
Con questa attenzione somatologica si passa dall'universalità del peccato
(vv. 10-12) alla situazione del corpo umano considerato come peccato, dalla testa
ai piedi. A prima vista, il riferimento ai peccati relazionati con il parlare sembra
non apportare nulla di decisivo, rispetto allo sviluppo argomentativo Rm 1,18 -
3,20. Per questo alcuniritengonoche la sequenza di Rm 3,10-18 sia un florilegium
o una catena di citazioni prepaoline, senza reali connessioni con il contesto di Rm
1-3 . Invece ci sembra che iriferimentialla peccaminosità di tutto il corpo siano
333

ben relazionati alla lista dei peccati in Rm 1,29-30, alle maldicenze che i diffama-
tori vanno diffondendo contro il vangelo paolino (cfr. Rm 3,8) e all'universale
peccaminosità. Paolo sembra sostenere non soltanto che tutti hanno peccato ma
che ogni persona è sotto il peccato. Per reperire un ulteriore riferimento alle lab-
bra egli è costretto ad abbandonare il Sai 5 e giungere al Sai 139,4 che corrispon-
de sia nella LXX sia nel TM (Sai 140,4). L'ultima citazione che permette di chiu-
dere con ilriferimentoalla bocca è del Sai 9,28 (LXX) che recita: « La sua lingua
è piena di maledizione, di amarezza... » (così anche il Sai 10,7 del TM). La cita-
zione paolina cambia il singolare in plurale per adattarla alle altre citazioni e uni-
versalizzare, ancora una volta, la situazione di perversione in cui si trovano tutti.
[vv. 15-18] La terza fonte della catena di citazioni, riportata nei vv. 15-17, è
di Is 59,7-8 che peròrisultaabbreviata e alterata. Così scrive Is 59,7-8 della LXX
che corrisponde al TM: « I loro piedi si affrettano a compiere il male, sono rapidi
nel versare il sangue; e i loro ragionamenti sono ragionamenti insolenti, distru-
zione e miseria nelle loro vie, e non sanno la via della pace ». Si può notare che la
citazione di Rm 3,15-17 è più breve, soprattutto per la mancanza dell'espressione
« si affrettano a compiere il male »: tale omissione si può spiegare per la presenza
di questo riferimento già in Rm 3,12. La stessa formulazione si trova in Pr 1,17,
ma è preferibile considerare come fonte paolina quella di Is 59,7 per le successi-
ve citazioni di Isaia. In particolare, si può notare in Rm 3,17 il cambiamento del
verbo oida (sapere) in Is 59,8 con il verbo ginóskein (conoscere). Forse anche ta-
le leggero mutamento si deve al collegamento che Paolo intende stabilire tra que-
sto florilegio e la narrazione di Rm 1,18-32, in cui la mancanza della conoscenza
di Dio ha condotto tutti all'ottenebramento del cuore (cfr. Rm 1,19-21).
Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 203. Per l'origine prepaolina del florilegio cfr. anche J.A. Fitzmyer,
333

Romani, pp 399-400.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 149
L'ultima citazione del florilegio è quella del Sai 35,2 (LXX), con la leggera
variazione della seconda persona plurale invece della seconda persona singolare.
Forse volutamente la catena si conclude con la formula «non c'è...» che ha ca-
denzato le prime citazioni nei vv. 10-12, determinando una inclusione stilistica tra
il v. 10 e il v. 18. Accanto a questa inclusione non bisogna dimenticare quella più
importante tra « non c'è uno che cerchi Dio » (v. 1 lb) e « non c'è timore di Dio »
(v. 18): sono le uniche volte in cui si parla di Dio in Rm 3,9-18. All'origine di ogni
azione malvagia si trova sempre la mancanza del timore di Dio, che praticamente
significa la mancanza dirispettoper il suo giudizio e per la sua Legge . Ancora 334

una volta, questa catena sembra richiamare la prospettiva della condanna in Rm


1,18-32: gli esseri umani, anche se conoscono i comandamenti di Dio, secondo i
quali coloro che praticano queste cose meritano la morte, non solo le commettono
ma si compiacciono di coloro che le praticano (cfr. Rm 1,32).
La perorazione dell'accusa (3,19-20). - La contesa giudiziaria di Rm 1,18 -
3,18 si chiude con una breve perorazione, che succede alle prove addotte. In ter-
mini giuridici questi versi possono essere definiti come la formale richiesta del-
l'accusa: la colpevolezza dell'umanità! Tuttavia la stessa colpevolezza è finaliz-
zata a sostenere, contro ogni obiezione, il principio che regge la sezione: l'impar-
zialità divina. Per questo, Paolo ha ancora di mira soprattutto il giudeo che,
vantandosi dei propri privilegi, si illude di poter evitare l'ira divina.
Contrariamente alla maggior parte dei commentatori, a causa di questa fun-
zione retorica di Rm 3,19-20 preferiamo distinguere questi versi da quanto prece-
de e considerarli non soltanto come conclusione di Rm 3,9-18 ma anche della se-
zione di Rm 1,18 - 3,18 . Il compito principale di una perorazione retorica consi-
335

ste nell'esplicitare l'intenzione e i risultati di quanto è stato dimostrato in


precedenza. Di fatto, soltanto allafinedella requisitoria paolina si assiste alla chia-
ra accusa di colpevolezza (Rm 3,19) verso l'umanità, preparata dall'accusa di men-
zogna (cfr. Rm 3,4) e di inescusabilità (cfr. Rm 1,20; 2,1). L'attenzione di questa
perorazione èrivoltasoprattutto all'ebreo perché in Rm 2,17 - 3,8 Paolo ha dovuto
dimostrare che nessun privilegio esime dallarivelazionedell'ira divina: in pratica
il vantaggio del giudeo non pone in discussione l'eguaglianza che Paolo aveva so-
stenuto in Rm 1,16rispettoalla giustizia salvifica di Dio, eribaditoin Rm 3,9, per
affermare che tutti sono sotto il peccato. Anzitutto, questi versiricapitolanole due
istanze fondamentali di Rm 3,9-18: tutti e ognuno, in quanto menzogneri, sono col-
pevoli. Per questo l'accusa di colpevolezza è ormairivoltaa tutto il mondo.
Tuttavia, in questa perorazione l'attenzione è rivolta soprattutto alla Legge
mosaica: ne è prova che il sostantivo nomos compare quattro volte in due versi,
mentre bisogna risalire a Rm 2,27 per riscontrarne l'ultimo riferimento. Queste
conclusioni, da una partericapitolanol'argomentazione di Rm 2, creando una cer-
ta tensione rispetto alla valutazione positiva della Legge e della sua opera, e dal-
l'altra introducono la questione sulla relazione tra la Legge, il peccato e la giusti -
334 Cfr. Dt 6,2; Pr 1,7.
335 Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 72.
150 Traduzione e commento
ficazione che sarà affrontata in Rm 3,21 - 4,25. La funzione retrospettiva globale
di questi versi è riconoscibile anche per l'uso di pas (tutto), citato tre volte (vv.
19.19.20), che ha svolto un ruolo fondamentale in Rm 1,18 - 3,20.
Infine questa perorazione riprende la tesi generale di Rm 1,16-17 con l'im-
plicita citazione del Sai 143,2 che, come vedremo, riprende, per via negativa, la
citazione di Ab 2,4. Dunque, vi sono buone ragioni per considerare Rm 3,19-20
come perorazione di Rm 1,18-3,19, anche se si tratta di un epilogo di collega-
mento rispetto alla sezione successiva di Rm 3,21 - 4,25 . 336

[3,19] Con la formula « sappiamo però » Paolo introduce la sua perorazio-


ne : egli fa appello a una convinzione che lo accomuna ai destinatari della lette-
337

ra . Segue l'affermazione sulla relazione tra la Legge e coloro che sono nella
338

Legge, intendendo quest'ultima espressione come la sfera di appartenenza alla


Legge. Forse volutamente Paolo non utilizza l'espressione « sotto la Legge » (cfr.
anche Rm 6,14.15) per evitare il fraintendimento che essere «sotto la Legge»
equivalga a trovarsi « sotto il peccato » (cfr. Rm 3,9), anche se la Legge stessa per-
mette la piena conoscenza del peccato. In quest'asserzione è stabilita prima la re-
lazione tra la Legge e coloro che vivono nella sua economia, in pratica gli ebrei,
e quindi quella con il mondo : non è che un modo per ribadire, con linguaggio
339

diverso, il principio del « tanto prima... quanto »,ricorrendoa un'argomentazione


afortiori. Se la Legge non impedisce al giudeo di essere considerato colpevole,
nonostante egli viva nella sua sfera di appartenenza, quanto più questo vale per il
gentile. In altri termini, Paolo sembra sostenere che, se è riuscito a far tacere il
giudeo, non sarà difficile affrontare le obiezioni del gentile.
Forse è bene notare che anche la perorazionerifletteil contesto forense di Rm
1,18 - 3,20: a questo appartengono l'espressione «mettere a tacere ogni bocca» , 340

il sostantivo «colpevole» (hypodikon), hapax legomenon nel greco biblico, e la


condizione umana davanti a Dio.
Il sostantivo nomos al v. 19 acquista due significati: all'inizio designa la
Scrittura che « ha detto » le citazioni dei vv. 10-18, anche se nel precedente flori-
legio non è stato citato nessun passo della Torah o del Pentateuco ; poi nomos 341

indica lo stesso modello di esistenza per quanti vivono in relazione alla Legge.
Dunque la Legge stessa, con la sua autorevolezza, mettendo a tacere il giudeo,
chiude la bocca a chiunque, perché essa permette soltanto la piena conoscenza
del peccato (v. 20). Nella nostra traduzione abbiamo giàrilevatola composizione
chiastica del v. 19b : al centro del chiasmo, come al solito, si trovano le parti più
342

Tale funzione era stata già intuita da H. Sehlier, Romani, p. 180, anche se non con linguaggio retorico.
336

Le formule oidamen de (sappiamo però) e oidamen gar (sappiamo infatti) sono tipiche di Romani:
337

con de cfr. Rm 2,2; 3,19; 8,28; lTm 1,8; cfr. anche lGv 5,20; con gar cfr. Rm 7,14; 8,22; 2Cor 5,1.
Così anche B. Byrne, Romans, p. 120; D.J. Moo, Romans, p. 204.
338

Anche in questo verso, come in Rm 3,6 e generalmente nell'epistolario paolino, il mondo designa
339

il genere umano.
Cfr. quest'espressione in Sai 63,12; 107,42; Gb 5,16; IMac 9,55.
340

Cfr. la stessa funzione di nomos in ICor 14,21 con la citazione diretta di Is 28,11-12. Invece in
341

ICor 9,8.9 e in Gal 4,21, contrariamente a quanto sostiene D.J. Moo, Romans, p. 205, nomos vale per ci-
tazioni tratte proprio dalla Torah, rispettivamente da Dt 20,6 e da Gn 16-21.
Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 403.
342
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 151
importanti, ossia l'imbavagliamento di ognuno a causa della colpa (b-b'), mentre
nelle parti periferiche (a-a') si insiste sull'universale colpevolezza.
[v. 20] La Lettera ai Romani continua a sorprendere qualsiasi lettore: non
avessimo ancora letto Rm 3,20 - 4,25 saremmo indotti a pensare che Paolo ha
un'altissima considerazione della Legge, anche se essa non garantisce l'esclusio-
ne dall'ira divina, in quanto è necessario non soltanto ascoltarla ma praticarla.
Addirittura, in Rm 2,13 egli ha sostenuto che coloro che mettono in pratica la
Legge saranno considerati giusti. Ora invece non esita a sostenere che « dalle ope-
re della Legge non sarà giustificata nessuna carne ». Non è contraddittorio? Oppu-
re dobbiamo pensare, come alcuni, che le affermazioni positive sulla Legge, non
soltanto in Rm 2 ma anche in Rm 7 e nella Lettera ai Galati (cfr. Gal 5,13-6,2), non
siano che concessioni retoriche agli avversari di Paolo? . Non condividiamo né
343

l'una né l'altra posizione, anche sericonosciamoche la concezione paolina sulla


Legge non è sistematica: procede per accentuazioni funzionali rispetto alle que-
stioni poste in gioco, volta per volta.
Rispetto alla concezione contraddittoria sulla Legge, è bene sottolineare che
Paolo distingue chiaramente tra il livello escatologico, dell'incontro finale con
Dio, e quello apocalittico attuale, corrispondente alla rivelazione dell'ira e della
giustizia divina. Per questo, comericonosconomolti, se il verbo dikaióthésontai di
Rm 2,13 è un futuro reale ed escatologico, da rendere con « sarannoriconosciuti»
o « considerati giusti », dikaióthésetai di Rm 3,20 è un futuro gnomico da rendere
al presente: « è giustificata » . Nello stesso tempo, Paolo distingue nettamente tra
344

1'« opera della Legge » (hapax legomenon nel NT), al singolare e con l'articolo, e
« opere della Legge », sempre al plurale e senza l'articolo . 345

Siamo grati a quanti hanno sottolineato le relazioni tra l'espressione paolina


«opere della Legge» e la letteratura qumranica, in particolare con 4QMMTC21
e con 1QS 5,21; 6,18 . Così scrive il frammento di 4QMMTC21: «Noi ti abbia-
346

mo scritto alcune opere della Torah che pensiamo buone per te e per il tuo popo-
lo » . L'autore della lettera siriferiscea una lista di prescrizioni della Legge, de-
347

scritta in precedenza, che riguarda soprattutto la legislazione di purità. I contatti


tra le « opere della Legge » e le ma 'àsè hattòràh di 4QMMT C27 permettono di
confermare che quando Paolo parla delle opere della Legge non si riferisce sol-
tanto ad alcuni precetti, in particolare a quelli che distinguono il popolo giudaico
343 Così R. Penna, Giustificazione, p. 43.
344 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 404.
345 Cfr. Rm 3,20.28; Gal 2,16.16.16; 3,2.5.10. Per il contesto di quest'espressione in Romani cfr.
C.E.B. Cranfield, « The Works ofthe Law » in the Epistle to the Romans, in JSNT43 (1991) 523-542.
346 Cfr. M. Abegg, Paul, « Works ofthe Law » and MMT, in Biblical Archaeologist Reader 20 (1994)
52-55; R. Penna, Le « opere della Legge » in s. Paolo e 4QMMT, in RSB 9/2 (1997) 155-176; cfr. anche Id.,
Giustificazione, pp. 40-41; J.D.G. Dunn, 4QMMTand Galatians, in NTS 43 (1997) 147-153. Sulla presenza
di quest'espressione a Qumran cfr. anche P. Grelot, Les oeuvres de la Loi (à propos de 4Q 394-398), in RQ
63 (1994) 441-448. Contrariamente a quanto siritenevacon la pubblicazione di 4QFlorìlegium, non sembra
che in 4QFlor 1,7 si parli di « opere della Legge (hattórah)» ma di « opere diringraziamento(hattódah) » per
il relativo contesto cultuale. Cfr. G.J. Brooke, Exegesis at Qumran. 4QFlorilegium in its Jewish Context
(JSOT 29), Sheffield 1985, p. 108; E. Puech, La croyance des Esséniens en la vie future: Immortaliti, ré-
surrection, vie éternelle? Histoire d'une croyance dans le judai'sme ancien, Paris 1993, p. 578.
347 Cfr. F. Garcfa Martfnez, Qumran, p. 175.
152 Traduzione e commento
dagli altri popoli, come la circoncisione, il sabato e le leggi alimentari , ma a tut- 348

ti i « precetti legali... che la Legge comanda di praticare » . Comunque, per quan-


349

to il manoscritto di 4QMMT permetta di comprendere che Paolo non è stato il pri-


mo a coniare l'espressione «opere della Legge», non va dimenticato che se a
Qumran l'osservanza dei precetti della Legge assicura la giustizia davanti a Dio
e, quindi, permette di evitare la comminazione dell'ira divina, per Paolo questo è
possibile soltanto con la giustificazione in Cristo . 350

Non condividiamo l'assimilazione che alcuni determinano tra le opere della


Legge e la Legge stabilendo una sorta di metonimia : non vi sarebbe alcuna dif-
351

ferenza tra l'una e l'altra formulazione. Per quanto in Rm 3,20risultinovicine le


opere della Legge e la Legge, esse non sono interscambiabili, innanzi tutto perché,
come riconosce lo stesso Penna, mentre la Legge è considerata, a volte, in modo
positivo, le opere della Legge sono sempre trattate negativamente . Se si trattas- 352

se di termini metonimici, ciò che si asserisce della Legge varrebbe anche per le
opere della Legge. Inoltre, abbiamo già sottolineato che mentre l'espressione ope-
ra della Legge in Rm 2,15 è ritenuta positivamente, le opere della Legge sono pre-
sentate in modo negativo. D'altro canto se questi termini fossero interscambiabili,
si dovrebbe dire che anche con le opere della Legge si ha la conoscenza del pec-
cato, mentre questa funzione è attribuita solo alla Legge e non alle sue opere, che,
in quanto tali, non permettono alcuna conoscenza del peccato.
Per quantoriguardala concezione paolina della Legge, dopo l'analisi di Rm
2 e, come vedremo dopo quella di Rm 7, per citare le sezioni più significative in
Romafii, dovrebbe essere chiaro che quando Paolo parla positivamente della
Legge non compie una concessione retorica ai suoi destinatari, come se egli non
credesse al suo valore positivo, in quanto tale, ammesso che sia questa la funzio-
ne di una concessione retorica o non piuttosto riconoscere, comunque, una parte
di verità presente nelle stesse concessioni. Invece, i passi nei quali Paolo delinea
una valutazione positiva del nomos risultano altrettanto numerosi e importanti
quanto quelli in cui è considerata in modo negativo . Riteniamo che questo è un
353

modo troppo sbrigativo per affrontare la questione estremamente conflittuale del-


la Legge nel pensiero paolino. Se questa fosse sempre valutata negativamente do-
vrebbe essere ritenuta abrogata; invece Paolo rifiuterà proprio tale falsa conclu-
sione (cfr. Rm 3,31).

348 Per la concezione restrittiva di « opere della Legge » in Paolo cfr. J.D.G. Dunn, Romans, I, p. 154;
cfr. anche Id., Works of the Law and the Curse of the Law (Galatians 3.10-14), in NTS 31 (1985) 523-542;
Id., Yet Once More - « The Works of the Law »: A Response, in JSNT46 (1992) 99-117. Lo stesso autore ha
rivisto in parte, in seguito alle critiche mossegli, questa posizione, considerando le opere della Legge come
espressioni del covenantal nomism o del nomismo del patto proposto da E.P. Sanders. Cfr. J.D.G. Dunn,
Echoes of Intra-Jewish Polemic in Paul's Letter to the Galatians, in JBL 12 (1993) 465-467. Per il valore
restrittivo e sociologico di «opere della Legge» cfr. anche R.B. Hays, Three Dramatic Roles, pp. 152-153.
349 Così R. Penna, Opere della Legge, p. 173.
350 Così anche R. Penna, Giustificazione, p. 41.
351 Così invece R. Penna, Opere della Legge, p. 174.
352 Cfr. R. Penna, Opere della Legge, p. 158.
353 Cfr. anche R.B. Hays, Three Dramatic Roles, pp. 151-164, che pone ben in evidenza tale dialetti-
ca sulla Legge in Rm 3-4.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 153
Tornando alla formula « opere della Legge » è vero che è presentata in conte-
sti negativi, per l'opposizione alla fede (cfr. Gal 3,10-12; Rm 3,28), all'ascolto
della fede (cfr. Gal 3,2.5) e alla «fede in Cristo» (cfr. Gal 2,16.16.16), tuttavia
qual è il significato del sintagma paolino? Stabilito che le opere della Legge non
sono soltanto gli identity markers (J.D.G. Dunn), ossia i segni che distinguono i
giudei dai gentili , queste non sono considerate negative da Paolo neppure perché
354

dal versante sociologico impedivano ai giudeo-cristiani di separarsi dalla sinago-


ga per aderire pienamente agli etnico-cristiani . 355

Tale concezione è una pericolosa retroproiezione indebita e religionistica


che oppone il giudaismo al cristianesimo, avendo già evidenziato più volte che
il cristianesimo delle origini non costituiva una religione autonoma ma rappre-
sentava una delle forme di giudaismo; anzi, quella che si considerava la più ele-
vata e rappresentativa. D'altro canto, a proposito di Rm 2, abbiamo rilevato che
la polemica verso il giudeo non si pone al di fuori ma all'interno del giudaismo,
altrimenti non ha senso ed è totalmente distorta. Non c'è dubbio che nella pole-
mica sulle opere della Legge entri in campo la questione sociale dell'apparte-
nenza dei gentili al popolo dell'alleanza; ma tale concezione è riduttiva, come
se tutto fosse relegato alle relazioni tra i giudei e i gentili, senza implicazioni
salvifiche . 356

Sembrava ormai superata la concezione classica luterana, secondo la quale


Paolo polemizzerebbe con qualsiasi opera e non con quelle della Legge , e quel- 357

la bultmanniana per la quale la stessa esigenza di adempiere le opere della Legge


è peccato soprattutto dopo i contributi di studiosi luterani, come K. Stendhal,
358

E.P. Sanders e H. Räisänen. Invece, la prima concezione è stata riportata in auge


da DJ. Moo che, nel suo commentario, così scrive: « Le "opere della Legge" non
sono inadeguate perché sono opere della Legge, ma in ultima analisi perché sono
opere » . 359

Forse non è mai sufficiente rilevare che Paolo non si scaglia contro qualsia-
si opera di qualsiasi legge, ma sempre e soltanto contro le opere della Legge mo-
saica; e non è vero che il giudaismo è una religione dei meriti, di tipo parroc-
chiale, mentre il cristianesimo rappresenta la religione universalistica della gra-
zia. Questo non è che un modo di retroproiettare la polemica cattolico-luterana in
un tempo, come il secolo I d.C., nel quale il comune giudaismo, di cui faceva par-
te lo stesso cristianesimo, si reggeva sulla teologia dell'alleanza, anche se con
percorsi diversi per le singole correnti. Contro la concezione bultmanniana va ri-
petuto che, di per sé, per quanto Paolo negativizzi le opere della Legge, egli non

354 Così giustamente anche R. Penna, Opere della Legge, p. 162.


355 Così per F. Watson, Paul, pp. 63-72; anche R. Heiligenthal, Soziologische Implikationen der pau-
linischen Rechtfertigungslehre in Galaterbrief am Beispiel der « Werke des Gesetzes ». Beobachtungen zur
Identitätsfindung einer frühchristlichen Gemeinde, in Kairos 26 (1984) 38-53.
356 Così giustamente T.R. Schreiner, « Works ofLaw » in Paul, in NT 33 (1991) 237-238.
357 Cfr. Lutero, Romani, pp. 326-330.
358 Cfr. R. Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento (btc 46), Brescia 1985, pp. 264-265. In questo
Käsemann si mostra totalmente debitore del suo maestro. Cfr. E. Käsemann, Commentary on Romans, Grand
Rapids 1980, pp. 88-90.
359 Cfr. D.J. Moo, Romans, p. 217.
154 Traduzione e commento
sostiene mai che il solo desiderio di osservarle sia peccato. Anche questa è una
conclusione indebita e fuorviante che rischia di fraintendere l'intera concezione
paolina della Legge e non solo delle sue opere, retta più sull'antropologia nega-
tiva del simul iustus et peccator che sulla considerazione paolina del vanto.
Non ci resta che definire il senso del genitivo « opere della Legge ». Escludia-
mo innanzi tutto il valore oggettivo del genitivo, poiché non ha senso sostenere
che il contenuto delle opere è la Legge quando invece sarebbe il contrario, giac-
ché sino ad ora quando Paolo ha parlato di nomos si èriferito,pur con diverse ac-
cezioni, alla Legge mosaica e non a qualsiasi legislazione.
Per le motivazioni suddette, non ci sembra valida neppure l'ipotesi per un
genitivo epcsegetico, fondata sull'assimilazione tra le opere e la Legge. Natu-
ralmente questa precisazione non esclude che Paolo a volte dica semplicemente
«opere» per indicare quelle della Legge (cfr. Rm 3,27), e che parli di «Legge»
perriferirsialle sue opere (cfr. Rm 3,21), ma generalmente il termine Legge indi-
ca qualcosa di più ampio e di più complesso delle sue stesse opere.
Diversi esegeti propendono per un genitivo soggettivo : le opere della 360

Legge sarebbero i precetti o le normerichiestedalla Legge. In tal caso, perché la


Legge può essere anche considerata positiva, mentre le sue opere dovrebbero es-
sere sempre negative? . Per la stessa ragione escludiamo le ipotesi per il geniti-
361

vo possessivo , di autore o generale .


362 363 364

Piuttosto, come abbiamo già proposto altrove, ci sembra più pertinente pen-
sare a un genitivo qualificativo : le opere della Legge sono le opere legalistiche,
365

ossia le opere che lasciano cadere l'uomo nell'illusione che la loro osservanza ga-
rantisca comunque l'esclusione dall'ira divina. Questa ipotesi si regge sull'oppo-
sizione che in Gal 3,2.5 Paolo stabilisce tra le «opere della Legge» e 1'«ascolto
della fede ». Come l'ascolto è qualificato dalla fede così le opere sono qualificate
dalla Legge. Naturalmente la traduzione con opere legalistiche non deve indurre
a pensare a qualsiasi legge ma sempre e soltanto alla Legge mosaica.
Questo spiega anche la sottile differenza che Paolo stabilisce tra l'opera del-
la Legge e le opere della Legge: se la prima espressione è positiva, e per questo si
tratta di un genitivo soggettivo, giacché riferita all'esigenza globale della Legge
scritta nel cuore dei gentili, la seconda è negativa non perché si rapporta al lega-
lismo (con la lettera minuscola) bensì al Legalismo (con la lettera maiuscola), va-
le a dire a una concezione per la quale il semplice possesso dei precetti della
Legge induce il giudeo a considerarsi esente dall'ira divina. In questa opposizio-
ne tra le opere della Legge e l'ascolto della fede si trova, a nostro avviso, anche la

Cfr. J.D.G. Dunn, The Epistle to the Galatians, London 1993, p. 135; L. Gaston, Paul, p. 100; H.
360

Hübner, Was heisst bei Paulus « Werke des Gesetzes », in E. Grässer - O. Merk (edd.), Glaube und
Eschatologie, FS. W.G. Kümmel, Tübingen 1985, pp. 123-133; H. Räisänen, Paul, pp. 176-177.
Così giustamente T.R. Schreiner, Works ofthe Law, p. 231.
361

Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 404-405.


362

Cfr. E. Lohmeyer, Gesetzwerke, in ZAW28 (1929) 177-207.


363

Così R. Kieffer, Foi et justification à Antioche. Interprétation d'un conflit (Ga 2,14-21), Paris
364

1982, p. 49.
Cfr. A. Pitta, Galati, pp. 143, 169.
365
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 155
ragione principale che induce Paolo ad assumere una posizione così negativa ver-
so le opere della Legge. Alla luce del contrasto con l'ascolto della fede (Gal 3,2-
5) e con la giustificazione mediante la fede in Cristo (Rm 3,21-22), le opere della
Legge sono negative perché l'unica via per la giustificazione è la fede in Cristo.
Accanto a questa motivazione non dobbiamo ignorare quella che emerge dal
contesto precedente di Rm 2,1 - 3,18: le opere della Legge sono negative perché
rischiano di minare il principio dell'imparzialità divina. In altri termini, se le ope-
re della Legge rappresentassero la via della giustificazione, tutti dovrebbero ade-
rire alla Legge e alla circoncisione per essere salvaguardati dall'ira divina. Invece,
Paolo ha dimostrato in Rm 2 l'inefficacia di questa possibilità: nessun precetto
della Legge esclude dall'ira divina. Nell'ultima parte di Rm 3,20 Paolo annuncia
una terza motivazione che egli svilupperà in seguito: le opere della Legge non
possono giustificare perché la Legge permette soltanto la piena conoscenza del
peccato. Dunque, ci sono buone ragioni per considerare le opere della Legge co-
me genitivo qualificativo eriferirlea tutta la Legge e non ad alcuni suoi precetti.
In Rm 3,21, insieme alle opere della Legge, Paolo pone la citazione del Sai
142,2 che così recita: « Non sarà giustificato davanti a te nessun vivente » . Tra la 366

versione della LXX e il TM non c'è differenza; invece Paolo non solo inverte l'or-
dine delle parole e sostituisce ilriferimentoa Dio al posto della seconda persona
singolare, ma soprattutto cambia l'espressione «nessun vivente» con «nessuna
carne » . Per alcuni questo cambiamento si deve alla citazione mnemonica del Sai
367

142 . Invece, ci sembra che la variazione « nessuna carne » rappresenti una inser-
368

zione voluta , poiché pone maggiormente l'accento sull'impossibilità di essere


369

giustificati dalle opere della Legge; e spesso nell'AT il termine basar (carne) è uti-
lizzato per evidenziare il contrasto tra la fragilità umana e l'onnipotenza divina . 370

Anche il contesto precedente,riferitoal corpo umano sottomesso al peccato, dalla


testa ai piedi, permette di cogliere la scelta per « ogni carne », invece del più posi-
tivo « ogni vivente » della citazione originaria.
Non ultima ci sembra la motivazione che nasce dal collegamento argomen-
tativo tra il Sai 142,4 e Ab 2,4 citato nella tesi generale di Rm 1,17: « Il giusto me-
diante la fede vivrà». Per Paolo il Sai 142,4 dice in negativo ciò che Ab 2,4 e Gn
15,6 asseriscono in positivo. Dal confronto delle citazioni emerge che nessuna
carne sarà giustificata se non mediante la fede che le permette di vivere. Potrem-
mo affermare che il vivente è soltanto colui che si alimenta della fede; per questo
non soltanto ogni vivente ma persino ogni carne non sarà giustificata dalle opere

366Cfr. anche R.B. Hays, Psalm 143 and the Logic ofRomans 3, in JBL 99 (1980) 107-115.
367Lo stesso cambiamento è verificabile nel parallelo di Gal 2,16.
368Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 198.
369Così anche B. Byrne, Romans, p. 121.
370Cfr. Gn 6,12; Gb 10,4; Sai 78,39; Ger 17,5. Rispetto all'AT è interessante la relazione tra Gn 6-9
e Rm 3,20, evidenziata da N. Walter, Gottes Erbarmen mit « allem Fleisch » (Ròm 3,20/Gal 2,16) - ein «fe-
mininer» Zug impaulinischen Gottesbild?, in BZ35 (1991) 98-102: in tal caso «ogni carne» rappresente-
rebbe una reminiscenza della narrazione genesiaca sulla relazione tra l'ira, il peccato e la misericordia di Dio.
Tuttavia ci sembra che il contrasto tra il volto maschile e femminile, evidenziato da Walter, come modello per
larivelazionedell'ira e della misericordia di Dio, nonrientrinell'orizzonte argomentativo di Romani.
156 Traduzione e commento
della Legge. Se si può condividere l'idea che in questo verso il sintagma ogni car-
ne non ha un'accezione negativa , si può riconoscere che non è neppure positivo
371

come invece ogni vivente. Dunque, in prospettiva negativa, la perorazione di Rm


3,19-20 riprende la tesi generale di Rm 1,16-17, per sottolineare l'impossibilità di
essere giustificati con le opere della Legge, che esista un'alternativa per la giusti-
ficazione al di fuori del vangelo.
La perorazione di Rm 3,19-20 si conclude con un'asserzione che anticipa le
argomentazioni successive: la Legge permette soltanto la piena conoscenza del
peccato. Ancora una volta, Paolo compie una scelta terminologica ben precisa:
non dice « i peccati » ma « il peccato », e non parla di semplice « conoscenza » ma
della « piena conoscenza » (epignósis). La scelta per epignósis è causale, poiché il
peccato non riguarda soltanto il giudeo ma anche il greco. In Rm 5,13 dirà chia-
ramente: « Infatti, fino alla Legge c'era il peccato nel mondo, ma il peccato non
può essere imputato se non c'è la Legge ». Dunque la Legge non produce il pec-
cato ma permette di riconoscerlo pienamente, dove la conoscenza del peccato non
si limita alla comprensione di essere peccatori ma alla consapevolezza di essere
schiavi del peccato, di avere una imputazione divina in atto. Ancora una volta,
questa piena conoscenza richiama quella di Rm 1,32: «Essi conoscono perfetta-
mente il giudizio di Dio »; la Legge apre a una maggiore conoscenza del peccato
e del suo dominio sul genere umano.
La giustificazione per mezzo della fede in Cristo (3,21-26). - Con il primo pa-
ragrafo di Rm 3,21 - 4,25, Paolo affronta subito la tematica della giustizia salvifi-
ca di Dio, senza introdurre, se non con poche parole, il risvolto positivo del suo
vangelo. La delimitazione della pericope è abbastanza chiara poiché è segnata, al-
l'inizio, dalla formula «ora però» (v. 21) e, nella conclusione, dalla ripetizione
del motivo centrale sulla giustificazione divina (v. 26) : con il v. 27 subentra una
372

prima questione introdotta dallo stile diatribico che abbiamo giàriscontratoin Rm


2,1 - 3,9 . Una inclusione tra « ora però » (v. 21) e « nel tempo presente » (v. 26),
373

tra la «giustizia di Dio» (v. 21) e la «sua giustizia» (v. 26) conferma la micro-
unità letteraria. Nella pericope sono riconoscibili due parti fondamentali: la tesi
sulla giustizia di Dio e la fede in Cristo (vv. 21-22) ; la spiegazione sulla giusti-
374

zia e la giustificazione di tutti (vv. 23-27) . 375

371 Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 206.


372 Così anche B. Byrne, Romans, p. 122; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 409; D.J. Moo, Romans, p. 219;
T.R. Schreiner, Romans, pp. 178-179.
373 Per questo, a differenza da H. Schlier, Romani, p. 184, che considera Rm 3,21-31 come un'unica
pericope,riteniamoopportuno separare i vv. 21-26 dai vv. 27-31.
374 Sulla funzione di tesi di Rm 3,21-22b cfr. anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 45.93.
375 A sua volta, G. Pulcinelli, Giustizia, p. 8, preferisce scindere queste due parti in due pericopi au-
tonome, soprattutto per la tesi presente nei vv. 21-22b rispetto a Rm 3,21 - 4,25. Anche se condividiamo
pienamente questa funzione retorica di Rm 3,21-22b, nonriteniamoche sia necessario frammentare ulte-
riormente i vv. 21-26, sia perché il vocabolario della giustizia caratterizza entrambe le parti, sia perché lo
slogan paolino di Romani, « non c'è differenza», vale tanto per « verso tutti coloro che credono » (v. 22b)
quanto per « tutti infatti hanno peccato » (v. 23). D'altro canto si tratta di una tesi secondaria e non di una
tesi principale, come invece nel caso di Rm 1,16-17 che si staglia più nettamente dal proprio contesto let-
terario e retorico.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 157
Dal versante semantico, la pericope si caratterizza per la diffusa concentra-
zione del vocabolario sulla giustizia e sulla fede . Tra questi due campi semanti-
376

ci meritano particolare attenzione l'espressione «giustizia di Dio» (o «sua») e


« fede di Cristo » (o di « Gesù »). Il primo sintagma è stato introdotto nella tesi ge-
nerale di Rm 1,17, con valore positivo, ed è statoriscontratoanche in Rm 3,5, ma
con valore negativo poiché strettamente collegato all'ira divina. Finalmente
Paolo si propone di spiegare l'origine, l'attuazione e le implicazioni della giusti-
zia divina. Il contrasto con la sezione precedente di Rm 1,18 - 3,20 risalta mag-
giormente per l'uso del vocabolario sulla fede: il sostantivo pistis, dopo le tre fre-
quenze di Rm 1,17, si èriscontratosoltanto in Rm 3,3 mariferitoa Dio e con il si-
gnificato di fedeltà', ora invece è affrontato per la sua relazione con Gesù Cristo.
Anche il participio sostantivato pisteuontas (coloro che credono) compare qui do-
po la tesi di Rm 1,17, mentre il verbo pisteuein èricomparsoin Rm 3,2 ma con il
significato diverso di affidare.
Tuttavia, la novità principale di Rm 3,21-26 riguarda la comparsa di Gesù
Cristo (vv. 22.24; « Gesù » da solo al v. 26): nell'intera sezione di Rm 1,18 - 3,20
egli è stato citato, in forma parentetica e in prospettiva escatologica, soltanto in
Rm 2,16 . Invece, rispetto a quanto precede, continua la presenza di pas (tutto,
377

vv. 22.23) che dimostra la relazione, anche se in prospettiva opposta, con la si-
tuazione negativa di tutti e di tutto l'essere umano, sotto il dominio del peccato.
A causa del valore positivo di « tutti coloro che credono » (v. 22), è evidente il
collegamento con «chiunque crede» di Rm 1,16.
Questi collegamenti semantici con Rm 1,16-17 permettono diriconoscerela
funzione di tesi che Rm 3,21-22 svolge rispetto alla sezione di Rm 3,21 - 4,25.
Inoltre vanno considerate alcune connessioni altrettanto fondamentali, come tra i
verbi «rivelarsi» (Rm 1,17) e « manifestarsi » o come tra la testimonianza profe-
tica di Rm 3,21 e la citazione diretta di Ab 2,4 in Rm 1,17. Prima di passare al-
l'analisi delle dense espressioni di Rm 3,21-26 è bene riconoscere anche il con-
trasto tra questa tesi secondaria e quella di Rm 1,18 dedicata allarivelazionedel-
l'ira divina. Le due tesi secondarie e, mediante esse, le due sezioni di Rm 1,18 -
3,20 e di Rm 3,21 - 4,25, sono come due facce della stessa medaglia, l'una nega-
tiva (ira divina) e l'altra positiva (giustizia divina), rappresentata dalla dimostra-
zione del vangelo paolino cheriscontranell'universalità dell'ira e della giustizia
divina la sua massima espressione. Naturalmente la prima sezione è funzionale
alla seconda, perché tutto l'accento cade sull'annuncio positivo della giustifica-
zione, ma dal punto di vista argomentativo stanno l'una di fronte all'altra.
D'altro canto non bisogna dimenticare la contiguità, tipica dell'AT e giudaica, tra
l'ira e la giustizia divina:ribadiamoche se è vero che l'ira divina non fa parte del
vangelo, che è soprattutto annuncio di salvezza, non si può non riconoscere che,

376Al primo campo semantico appartengono i sostantivi dikaiosyné (vv. 21.22.25.26), dikaios (v. 26)
e il verbo dikaioun (vv. 24.25.26); al secondo campo si riferiscono il sostantivo pistis (vv. 22.25.26) e il
verbo pisteuein (v. 22).
377Per trovare l'espressione «Gesù Cristo» bisogna risalire alla sezione introduttiva di Rm 1,1-17
(cfr. Rm 1,1.4.6.7.8).
158 Traduzione e commento
dal punto di vista argomentativo, la salvezza in Cristo risalta maggiormente pro-
prio quando è posta a confronto con l'ira divina.
Per questo, anche se, come vedremo, dal versante esegetico l'attenzione è
stata rivolta soprattutto alla novità cristologica, in Rm 3,21-26 campeggia il
trionfo di Dio, per la sua imparzialità negativa e positiva: anche rispetto all'even-
to cruento dell'effusione del sangue di Cristo, l'azione principale non è svolta da
Cristo ma da Dio che manifesta la sua giustizia predisponendolo come espiazio-
ne. Forse con un'attenzione maggiore al percorso che procede da Dio a Cristo e
agli esseri umani e non l'inverso, avremmo evitato, dal versante teologico, la con-
cezione vicaria della salvezza realizzata da Cristo e, dal versante esegetico, il lun-
go dibattito sul senso della « fede di Cristo », se vada intesa comt fedeltà di Cristo
o non piuttosto come fede in Cristo. Paolo non ha bisogno di sottolineare la fedeltà
di Cristo per descrivere la giustificazione bensì di dimostrare che l'evento della
croce non implica soltanto la partecipazione di Cristo ma anche quella di Dio.
[3,21] Con la formula introduttiva « ora però » è segnata una netta cesura
378

non soltanto con la pericope precedente (Rm 3,19-20) ma anche con l'intera se-
zione dedicata all'ira divina: si tratta, nello stesso tempo, di un'espressione cro-
nologica , perché riferita al momento (kairos) della giustificazione mediante la
379

fede (v. 26), e argomentativa, a causa della svolta rispetto a quanto precede . 380

Ormai, l'uomo sta per uscire dal tunnel dell'impossibilità in cui si trova, per sta-
bilire una giusta relazione con Dio; e Dio stesso sta per abbandonare il criterio
della giustizia punitiva e retributiva per realizzare quello inaudito e carico di sal-
vezza che si realizza con la fede in Cristo.
L'accento di questa prima parte della tesi è posto sulla manifestazione
(pephanerótai) della giustizia di Dio: anche se con il verbo simile, «rivelarsi»
(apokalyptein), così sono state introdotte la tesi generale di Rm 1,16-17 e quella
secondaria di Rm 1,18. Se nella LXX questo verbo compare soltanto in Ger 40,6,
nel NT è diffuso, soprattutto nell'epistolario paolino ; è lo stesso verbo utilizza-
381

to per descrivere le apparizioni postpasquali o la manifestazione di Gesù . Tra le 382

frequenze paoline è particolarmente significativa la relazione tra il verbo manife-


stare e il mistero divino . Dunque come per Rm 1,19, anche in questo caso il ver-
383

bo manifestare non è molto diverso da rivelare: piuttosto sottolinea maggiormen-


te la concretizzazione (come per i verbi greci che si concludono con il suffisso in
-od) o la storicizzazione della rivelazione divina.
378Quest'espressione è tipica dell'epistolario paolino: in base all'edizione critica di N-A si posso-
27

no calcolare 19 frequenze nel NT, di cui 18 nelle lettere paoline (cfr. anche Eb 9,26).
379Per la natura temporale di nyni de cfr. Rm 6,22; 7,6; 15,23.25; 2Cor 8,11.22; Col 1,22; 3,8; Ef 2,13;
Fm vv. 9.11. Per questo la maggior parte dei recenti commentatori preferisce il senso temporale di « ora però ».
Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 411; DJ. Moo, Romans, p. 221; H. Schlier, Romani, p. 185. Anche la funzione
argomentativa di nyni de è ben attestata nelle lettere paoline (cfr. Rm 7,17; ICor 12,18; 13,13; 15,20).
380Cfr. anche Rm 6,22. Così anche G. Pulcinelli, Giustizia, p. 17.
381 Fra le 46 frequenze neotestamentarie, 22 appartengono alle lettere paoline (cfr. Rm 1,19; 3,21;
16,26; ICor 4,5; 2Cor 2,14; 3,3; 4,10.11; 5,10.11.11; 7,12; 16,6; Col 1,26; 3,4.4; Ef 5,13.14; lTm 3,16; Tt
1,3; 2Tm 1,10).
382Cfr. Me 16,12.14; Gv 21,1.4; lTm 3,16; 2Tm 1,10; lGv 3,8.
383Cfr. Rm 16,26; Col 1,26.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 159
Questa relazione tra manifestare e rivelare dimostra che il tempo della svol-
ta è quello dell'apocalittica, che non solo si distingue dal tempo della Legge ma
anche da quello escatologico, pur se con proporzioni e prospettive diverse dalla
prima relazione. Di fatto, al centro come all'inizio dell'apocalittica e dell'escato-
logia paolina si trova sempre l'azione compiuta da Dio in Cristo. Tuttavia queste
distinzioni permettono di riconoscere non solo la funzione dialettica della Legge
ma anche della giustizia nell'epistolario paolino. Se all'escatologia appartiene
anche la giustizia retributiva di Dio (cfr. Rm 2,6-16), dell'apocalittica fa parte sol-
tanto la sua giustizia salvifica realizzata in Cristo. In seguito, Paolo dimostrerà co-
me si relazionano queste due prospettive, senza considerarle semplicemente come
giustapposte né confuse ma coinvolte nell'evento Cristo.
La forma del verbo « si è manifestata» chiarisce un altro aspetto dell'apoca-
littica paolina: dal punto di vista grammaticale è un perfetto passivo da intendere
come un passivo divino . La giustizia divina non si è manifestata a caso o per
384

evoluzione naturale della storia, bensì per la potenza di Dio che ha deciso di dare
una svolta nell'economia della salvezza. Il verbo al perfetto sottolinea, in questo
caso, che questa manifestazione, come concretizzazione della fase apocalittica
della storia, è cominciata nel passato, anche se ancora non si dice quando né do-
ve, e raggiunge ogni presente della storia.
Queste prime battute della tesi permettono di definire il campo della giusti-
zia di Dio. A causa della totale assenza diriferimentiagli esseri umani e alla loro
giusta relazione con Dio, qui si tratta chiaramente di un genitivo che evidenzia
l'opera salvifica di Dio , e quindi di un genitivo soggettivo, se dovessimo sce-
385

gliere fra le diverse possibilità. Nella seconda parte della pericope sarà spiegato in
che senso la giustizia rappresenta la concreta manifestazione dell'azione di Dio,
anche se bisognariconoscereche Paolo preferisce non definire ma descrivere una
realtà così complessa come la giustizia divina.
L'attesa della rivelazione o la manifestazione della giustizia divina è ben at-
testata nell'AT e a Qumran: « Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate
la giustizia, perché la mia salvezza sta per giungere e la mia giustizia sta per ri-
velarsi » (Is 56,1 TM) . In una prospettiva analoga così recita la comunità di
386

Qumran: « Come il fumo svanisce e non c'è più, così svanirà per sempre la mal-
vagità; la giustizia saràrivelatacome il sole che regola il mondo » (1Q 27 1,6) . 387

Attraverso un ossimoro retorico, Paolo precisa subito che la giustizia di Dio


è stata manifestata senza la Legge ma, nello stesso tempo, è attestata dalla Legge
e dai Profeti; è uno dei tanti paradossi paolini che pongono in discussione e chia-
mano al coinvolgimento qualsiasi lettore. Come può la giustizia di Dio essere at-
testata dalla Legge e dai Profeti se è stata manifestata senza la Legge? . Se la 388

384 Così anche G. Pulcinelli, Giustizia, p. 36.


385 Così anche R. Penna, Giustizia, p. 47.
386 La LXXriportala « mia misericordia » invece della « mia giustizia », stabilendo una fondamenta-
le relazione tra la prima e la seconda.
387 Cfr. F. Garda Martmez, Qumran, p. 615; cfr. anche 1QH 6,14-16; CD 20,21.
388 II paradosso più vicino è quello di Gal 2,19: « Mediante la Legge sono morto alla Legge ».
160 Traduzione e commento
Legge testimonia la giustizia divina sarà pure implicata, in certo modo, nella sua
manifestazione? Invece Paolo rigetta decisamente questa relazione, mediante
l'affermazione paradossale sul ruolo della Legge nella storia della salvezza.
Anzitutto, non è pertinente separare nettamente le due espressioni del v. 21:
« ...Senza la Legge... dalla Legge», pensando a uriantanaclasi retorica, ossia al-
l'uso dello stesso termine con senso contrario , precisando che di per sé l'anta-
389

naclasi riguarda non soltanto l'uso contrario ma anche soltanto quello diverso
dello stesso termine. Questa prospettiva troverebbe fondamento se Paolo avesse
detto « dalla Legge contro la Legge », invece, per quanto la sua affermazione ri-
sulti paradossale, non è contrastante. Nel tentativo di dipanare questo puzzle, con-
dividiamo l'interpretazione di chi considera l'espressione senza la Legge come
formula sintetica per indicare le opere della Legge °, e dalla Legge come riferita
39

materialmente al Pentateuco o alla Torah . 391

Tuttavia non si possono scindere nettamente le due accentuazioni perché è in


questione sempre lo stesso nomos, ossia la Legge, con le sue diverse e molteplici
sfumature: la Legge come rivelazione, come Scrittura, come Legalismo o precet-
tistica, per citare le principali sfaccettature del sostantivo in Rm 2,1 - 4,25. D'altro
canto, si potrebbe obiettare che della Torah, in quanto rivelazione, che rendereb-
be abrogata la sua parte normativa, fanno parte non soltanto le fonti principali del
pensiero paolino, come Gn 15,6, ma anche le leggi di purità elencate, ad esempio,
in Lv 11-15. In tal caso, dovremmo separare qualitativamente la Scrittura, crean-
do una sorta di canone nel canone? Piuttosto, è necessario tenere insieme queste
diverse angolature della Legge che fra le mani di Paolo non sono viste in una mo-
nocromatica abrogazione della Legge bensì come una varietà di colori in un solo
caleidoscopio. Questo non significa che siamo pervenuti all'eccesso opposto di
quanti considerano sempre negativamente la Legge nell'epistolario paolino, se
non per concessioni retoriche, ma che l'espressione senza la Legge indica che la
Legge rispetto alla giustificazione non è né negativa né positiva, ma indifferente,
è un adiaphoron, cioè relativa: può essere vista in modo positivo e negativo, in di-
pendenza dei contesti in cui è affrontata.
Paolo non specifica se tutta la Scrittura o alcune sue parti testimoniano la giu-
stizia divina : guardando alla tesi generale di Rm 1,16-17, si potrebbe pensare ad
392

Ab 2,4 e, a causa della funzione retorica di questi versi, l'attenzione va rivolta so-
prattutto a Gn 15,6 (in Rm 4,3) o all'intera vicenda di Abramo, raccontata in Rm
4,1-25 (cfr. Gn 15-17) . D'altro canto, le citazioni di Gn 15,6 e di Ab 2,4 rappre-
393

sentano il binario sul quale prosegue buona parte del pensiero paolino.
389Così invece G. Pulcinelli, Giustizia, p. 16.
390Così anche B. Byrne, Romans, p. 129; DJ. Moo, Romans, p. 222; G. Pulcinelli, Giustizia, p. 18;
H. Schlier, Romani, pp. 188-189.
391La bipartizione Legge e Profeti per designare l'AT è tipica del NT (cfr. Mt 7,12; Le 16,16; Gv 1,45;
At 13,15; 24,14; 28,23; anche 4Mac 18,10). Invece è rara la tripartizione Legge, Profeti e Salmi di Le 24,44.
392La scelta del verbo « testimoniare » o « attestare » (martyroumené) è significativa: la Legge e i Pro-
feti sono come persone che testimoniano la giustizia divina. Soltanto qui, nell'epistolario paolino, questo
verbo è relazionato alla Legge e ai Profeti (per il NT cfr. anche la testimonianza dei Profeti in Gv 5,39 e in
At 10,43).
393Così anche B. Byrne, Romans, p. 124; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 412.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 161
[v. 22a] La seconda parte della tesi principale riprende la relazione tra la giu-
stizia e la fede, aggiungendo l'orizzonte cristologico. Il collegamento con Rm
1,16-17 è fondamentale in quanto permette di illuminare il senso della stessa te-
si generale sulla fede : per Paolo, il giusto che vivrà mediante la fede è colui che
394

crede in Gesù Cristo . Dalla tesi generale (Rm 1,16) Paolo riprende, volgendola
395

al plurale, l'espressione «per chiunque crede». Il participio «credente» nell'e-


pistolario paolino è un termine tecnico per indicare i cristiani . Comunque, ri- 396

spetto a tale esplicitazione è bene non ritenere che i cristiani si pongano a un li-
vello superiore dei giudei e dei gentili, biasimati in Rm 1,18 - 3,20; al contrario,
a questi appartengono quanti indistintamente, tra giudei e gentili, hanno aderito
alla fede in Cristo.
A causa di questa accentuazione partecipazionistica il termine « credenti »
non è pleonastico rispetto alla formula fede di Cristo, per cui sarebbe più logico
considerare quest'ultima espressione come genitivo soggettivo. Al contrario, « per
tutti coloro che credono » indica l'universalismo della giustizia per fede e la nuo-
va identità di quanti, tra i giudei e i gentili, hanno aderito a Cristo: e queste due
sfumature non si trovano nella formula fede di Cristo neppure se la considerassi-
mo come genitivo oggettivo.
[vv. 22b-23] La tesi della sezione è troppo breve; per questo ha bisogno di
chiarimenti e nei vv. 22b-26 Paolo si appresta a spiegare, mediante un'espolitio
retorica, come si relazionano la fede in Cristo e la giustizia di Dio. Ma dobbiamo
riconoscere che la sua spiegazione non è molto lineare e chiara; procede per pa-
rentesi, ripetizioni e precisazioni secondarie che egli riprenderà in seguito. Forse
la luce della giustizia salvifica di Dio in Cristo è troppo abbagliante per chi come
e con Paolo ha attraversato il terribile labirinto dell'ira divina (Rm 1,18 - 3,20).
Per questo si assiste a un'accumulazione di affermazioni che saranno riprese in
Rm 3,27 - 4,25 e nella sezione successiva di Rm 5,1 - 8,39.
Dunque, Paolo procede con sentenze assertive e kerygmatiche che cercano di
chiarire il primo impatto della giustizia divina realizzata in Cristo. Dal punto di vi-
sta retorico, per quanto si possano rapportare questi versi alla narrazione di Rm
1,19-32, per riscontrare alcune corrispondenze nello sviluppo argomentativo del
pensiero paolino , bisogna riconoscere che le due sezioni hanno poco in comune.
397

Se è giusto parlare di narrazione forense per Rm 1,19-32, non si può dire lo stes-
so di Rm 3,23-26: in quest'ultima Paolo considera come scontati e come anticipa-
tori molti elementi delle affermazioni kerygmatiche. Ad esempio, non dice né co-
me né dove sia avvenuta la redenzione mediante il sangue di Cristo: dal resto di

394 Questo ponte con Rm 1,16-17 non è necessario soltanto dal versante retorico o, come direbbero
alcuni, formale, ma soprattutto in termini contenutistici: non è un caso che, a parte Rm 3,2-3 in cui si è sot-
tolineato il contrasto tra l'infedeltà umana e la fedeltà di Dio alle sue parole, prima di Rm 3,22 Paolo ha
volutamente evitato di soffermarsi sulla realtà della fede e non ha citato, se non di transenna, Gesù Cristo
(cfr. Rm 2,16).
395 Sul significato del sintagma pistis Christou vedi Vexcursus seguente.
396 Cfr. anche ICor 1,21; 14,22; Gal 3,22; Ef 1,22; cfr. anche l'uso del participio presente pisteuou-
sin in Rm 4,24; lTs 1,7; 2,10.13.
397Con buona pace di J.-N. Aletti, Romani, p. 93.
162 Traduzione e commento
Romani e dai paralleli paolini sappiamo che tutto ciò si è verificato sulla croce, ma
non è un caso che proprio questo sostantivo manchi nei vv. 22-26. Non è neppure
spiegato come l'azione di Dio entri in relazione con quella di Cristo: da Rm 5,1-
11 e da Rm 8,32-39 sapremo che è in ballo il loro amore per tutti, ma neppure que-
sto tema è accennato in Rm 3,22b-36. Dunque è inutile cercare nelle sezioni di
Romani alcune corrispondenze o simmetrie perfette fra le parti, altrimenti rischia-
mo di costringere in una camicia di forza il dirompente pensiero paolino.
I vv. 22b-26 cominciano con un'analessi narrativa che ricapitola il contenu-
to fondamentale di Rm 1,18 - 3,20: «Non c'è differenza, tutti hanno peccato... ».
Nelle diverse edizioni del NT greco, l'espressione «non c'è differenza» è, me-
diante la punteggiatura, relazionata esclusivamente a «tutti hanno peccato».
Tuttavia questa formula può rivolgersi benissimo sia a «per tutti coloro che cre-
dono » sia a « tutti hanno peccato », come si trattasse del volto di Giano. Se la re-
lazioniamo a quanto precede, «non c'è differenza» anticipa l'universale impar-
zialità della salvezza per tutti coloro che invocano Dio (cfr. Rm 10,12); se la rap-
portiamo a quanto segue, ricapitola, insieme al v. 23, l'assioma dell'imparzialità
divina, dimostrato in Rm 2,1-3,18. Forse volutamente «non c'è differenza» può
essere applicato, nello stesso modo, al v. 22b e al v. 23: l'universalismo della giu-
stizia divina vale indistintamente per tutti, nella sua manifestazione negativa e in
quella positiva. A causa della ripresa dell'imparzialità divina, forse è giusto rela-
zionare «non c'è differenza» soprattutto a «tutti hanno peccato», ma non do-
vrebbe essere ignorato il collegamento con «per chiunque crede».
Segue la prima constatazione sulla situazione umana: « Tutti hanno pecca-
to»; è la prima volta che Paolo dichiara esplicitamente la situazione generale di
peccato, anche se in Rm 3,4 ha già sostenuto che « ogni uomo è menzognero ». In
certo senso, questa universale situazione di peccato contrasta con Rm 2,12 in cui
ha dimostrato che « coloro che hanno peccato, senza e sotto la Legge, saranno
condannati », lasciando intendere che non tutti hanno peccato. È bene riconosce-
re che in Rm 1,18-3,20 Paolo non ha detto esplicitamente che tutti hanno pecca-
to ma che per coloro che peccano incombe l'ira divina. Tuttavia, abbiamo anche
evidenziato che, implicitamente, soprattutto la narrazione di Rm 1,18-32 ha posto
tutti sotto accusa: nessuno può sentirsi escluso dalla lista dei vizi. Ancora una vol-
ta dobbiamo distinguere tra la fase apocalittica e quella escatologica della storia:
se nella prima tutti «hanno peccato», nella seconda «coloro che hanno peccato
saranno condannati ». Nella prima prospettiva, come nel caso presente, il peccato
assume la connotazione di potenza che rende schiavo chiunque (Machtkraft), dal-
la quale può liberarlo soltanto l'intervento divino, nella seconda il peccato acqui-
sta una prevalente rilevanza morale, perché si parla anche di « coloro che metto-
no in pratica la Legge saranno considerati giusti » (cfr. Rm 2,13).
Pertanto, in questo caso, non è vero che poiché tutti hanno peccato si trova-
no sotto il peccato, ma poiché tutti sono sottomessi alla potenza del peccato, tutti
hanno peccato. Non bisognerebbe dimenticare che nello sviluppo argomentativo
della lettera, Paolo sottolinea prima la potenza dominante del peccato su tutti (cfr.
Rm 3,9) e quindi che tutti hanno peccato. L'universalizzazione del peccato tor-
nerà nella relazione tra il peccato di Adamo e quello di tutti, in Rm 5,12-21.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 163
Una congiunzione, con valore consecutivo , introduce il risultato principa-
398

le della generale situazione di peccato: « ...Sono privi della gloria di Dio » . La 399

gloria, come la giustizia, è innanzi tutto un attributo di Dio che è donato a tutti:
in questo orizzonte dinamico dovrebbe essere intesa la mancanza della gloria di
Dio che caratterizza coloro che hanno peccato. Sino ad ora Paolo ha sottolineato
come la principale colpevolezza umana è consistita nel non aver riconosciuto la
«gloria dell'incorruttibile Dio» (Rm 1,13), anche se, paradossalmente, la men-
zogna umana permette una maggiore manifestazione della stessa gloria divina
(cfr. Rm 3,7). Inoltre, anche coloro che hanno perseverato nel bene riceveranno
la gloria di Dio (cfr. Rm 2,7.10). Per questo il sintagma « gloria di Dio » può esse-
re, nello stesso tempo, un genitivo oggettivo (« gli esseri umani mancano della
gloria che avrebbero dovuto conoscere di Dio, perché tutti hanno peccato »), e un
genitivo soggettivo (« Gli esseri umani mancano della gloria che Dio ha ritirato
dalla sua relazione con loro »). In questa estensione dinamica è limitante consi-
derare la gloria soltanto come un attributo di Dio, per cui ci troveremmo di fron-
te a una concezione diversa da alcune fonti dell'apocalittica giudaica che invece
sottolineano lo smarrimento della gloria nella vicenda di Adamo . La gloria non 400

è soltanto un attributo divino ma anche ciò che Dio pone in Adamo, come in ogni
creatura umana, e che rappresenta lo stesso criterio di valutazione dell'esistenza,
in vista della partecipazione finale della gloria . Per questo dove c'è il peccato
401

non può esserci la gloria divina né quella umana; il motivo della gloria dominerà
nella grande unità successiva di Rm 5,1 - 8,39.
[v. 24] Un goffo participio (dikaioumenoi) collega questo verso al v. 23, sen-
za neppure una particella avversativa di collegamento. Questo legame maldestro
ha indotto diversi studiosi a considerare i vv. 24-26a come prepaolini . In verità, 402

nel caso specifico, tale ragione è abbastanza debole, perché il vocabolario del v.
24 è pienamente paolino; soltanto per i vv. 25-26a si può ipotizzare l'uso di una
formula prepaolina.
Paolo non è il primo a ritenere che Dio giustifica con la sua grazia; già a
Qumran si riconosceva: «Mediante la tua grazia tu li giudichi con un'abbondan-
za di misericordia» (1QH 6,9) . La novità paolina sulla giustificazione per gra-
403

zia si trova nella specificazione cristologica: soltanto mediante la redenzione rea-


lizzata in e con Cristo, l'uomo è giustificato da Dio. In tale affermazione si deve
innanzi tutto rilevare l'insistenza sulla grazia: « Gratuitamente... con la grazia ». I
due termini sono sinonimici perché entrambi sottolineano la gratuità della giusti-

398Per il valore consecutivo di kai cfr. B. Byrne, Romans, p. 131; DJ. Moo, Romans, p. 226.
399II verbo hysterein, che compare 16 volte nel NT, di cui 8 nelle lettere paoline, al medio significa
« mancare di qualcosa » o « di qualcuno », « essere privato », « essere indigente ». Cfr. anche in ICor 1,7; 8,8;
2Cor 11,9; Fil 4,12.
400Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 415.
401Sul motivo apocalittico della gloria perduta di Adamo cfr. Ap. Mos. 21,6; 3Bar 4,16; Vita di Ada-
mo 20-21. Cfr. anche nel giudaismo rabbinico Bereshit Rabba 11,8; 12,36; Avot 7,7. Sulla tensione tra pre-
senza attuale e futura della gloria di Adamo cfr. anche 1QS 4,23; 1QH 17,15; CD 3,20.
402Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 409.
403Cfr. anche 1QH 7,27.
164 Traduzione e commento
ficazione. Tuttavia, se l'avverbio «gratuitamente» sottolinea la modalità della
giustificazione , « per grazia » pone in risalto la sua stessa origine, senza distin-
404

guere eccessivamente le due sottolineature. Il sostantivo charis (grazia) è diffuso


nell'epistolario paolino ma non è un caso che sia mancato nella sezione prece-
dente . Soltanto con la comparsa di Cristo si rende presente anche la grazia divi-
405

na. Per questo nell'epistolario paolino charis assume una valenza più ricca del
semplice corrispondente ebraico hên (benevolenza) . Dunque l'origine e l'inizio
406

della giustificazione sono rappresentati dalla sola grafia, cogliendo un aspetto


particolarmente caro al pensiero protestante.
Con l'aggiunta «mediante la redenzione in Cristo» è specificato l'evento
che ha reso visibile l'attuazione della giustificazione per grazia . Per descrivere 401

l'evento della redenzione, Paolo ricorre al linguaggio commerciale del riscatto: il


sostantivo apolytrósis si compone di apo- (da) + lytron (pagamento) . Il retroter- 408

ra più congeniale per cogliere il senso del termine è quello commerciale degli
schiavi: ne è prova che uno dei rari usi di questo vocabolario nella LXX riguarda
la possibilità che il padre deve conservare di riscattare la propria figlia venduta
come schiava (cfr. Es 21,8) . Quando si tratta di evidenziare l'azione del riscat-
409

to, Paolo non utilizza il verbo lytroun (riscattare, se non in Tt 2,14) ma l'altra fa-
miglia lessicale di tipo commerciale, ossia agorazein (comprare, cfr. ICor 6,20;
7,23) ed exagorazein (cfr. Gal 3,13; 4,5). Pertanto, doveva essere chiaro per i de-
stinatari che cosa intendesse Paolo con la redenzione in Cristo: si tratta di un
evento con il quale Cristo ha pagato in contanti (cfr. ICor 6,20; 7,23). La relazio-
ne tra il linguaggio delriscattoe quello della compera impedisce di escludere dal-
l'orizzonte di Rm 3,24 il motivo del riscatto, anche se va precisato . La libera- 410

zione di uno schiavo o di un prigioniero diventa possibile con il pagamento di un


riscatto, a meno che non si tratti di amnistia generale . Anche se il sostantivo
411

apolytrósis è praticamente assente nella LXX, forse di fatto non è estraneo il mo-
dello esodale della liberazione dall'Egitto, ripreso in particolare nel Deutero e nel
Tritolsaia . Questo spiegherebbe perché il soggetto della redenzione, in questi
412

versi, è sempre Dio e non Gesù Cristo. Comunque, il prezzo del riscatto versato

Cfr. anche dörean in 2Cor 11,7; Gal 2,21 (in quest'ultimo con il significato di « inutilmente »); 2Ts 3,6.
404

405 p i t er r r so precedente in Romani bisogna risalire al prescritto di Rm 1,1-7 (vv. 5.7),


s c o n r a r n e U

mentre è uno dei motivi dominanti in Rm 5,1 - 6,23.


406Sulla polivalenza di charis nell'epistolario paolino cfr. H. Boers, Agape, pp. 697-712, anche se
l'autore traduce proprio questa frequenza con favore (p. 705), che è troppo debole rispetto al contesto di
Rm 3,24-25.
Sulla relazione tra cristologia e soteriologia paolina in Rm 3,21-26 cfr. C. Breytenbach, Versöhnung.
407

Eine Studie zur paulinischen Soteriologie (WMANT 60), Neukirchen-Vluyn 1989, pp. 166-170.
Questo sostantivo compare 10 volte nel NT, di cui 7 nell'epistolario paolino (cfr. anche Rm 8,23;
408

ICor 1,30; Col 1,14; Ef 1,7.14; 4,30). Cfr. L. Morris, Redenzione, in Dizionario di Paolo, pp. 1286-1289.
II sostantivo apolytrösis nella LXX si trova soltanto in Dn 4,32; per il relativo verbo cfr. anche Sof 3,1.
409

Sull'idea diriscattocon il termine « redenzione » cfr. Filone, Allegoriae 3,21 ; Flavio Giuseppe, Ant.
410

giud. 12,27; Guer. giud. 2,273.


Invece B. Byrne, Romans, p. 131, esclude l'idea di riscatto per evidenziare l'iniziativa divina.
411

Cfr. l'uso di lytron e del verbo lytroun in Es 6,6; 13,13.15; 15,13; Is 41,14; 43,1.14; 44,22.24;
4,2

45,13; 51,11; 52,3; 62,12; 63,9.


La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 165
da Cristo è il suo sangue, anche se in Rm 3,24-25 tale riferimento si trova più in
un contesto cultuale (v. 25) che in quello propriamente commerciale . 413

[v. 25] Anche il collegamento tra questo verso e il precedente non è molto
riuscito: la proposizione comincia con hon (il quale), in prima posizione. Ma a
parte questo strano modo di collegare le proposizioni, in verità non estraneo allo
stile paolino , nei vv. 25-26 si riscontrano, da una parte, alcuni termini rari, se
414

non unici per il NT, dall'altra strane ripetizioni che fanno realmente pensare a un
testo prepaolino , inserito peraltro in modo disarmonico e forzato nel contesto di
415

Rm 3,21-26, anche se non mancano sostenitori per la sua paolinicità . 416

Per quanto riguarda il linguaggio, sono hapax legomena il sostantivo paresis


(remissione) e il verbo proginomai (avvenire prima). Il verbo protithemi, con il
duplice significato di predisporre o di porre davanti, in contesto teologico, si tro-
va di nuovo solo in Ef 1,9 (in Rm 1,13 ha valore autobiografico), il sostantivo hi-
lasterion (espiatorio o strumento di espiazione?) si trova di nuovo soltanto in Eb
9,5 e il termine endeixis (dimostrazione), che qui compare due volte, ricompare in
2Cor 8,24 e in Fil 1,28, al di fuori del contesto salvifico-cristologico. Altrettanto
inusuale è il sostantivo hamartema per indicare i peccati, mentre Paolo preferisce
hamartia . Il raro sostantivo anochè (pazienza) è stato già utilizzato in Rm 2,4, a
411

proposito della pazienza divina.


Molti ritengono che la concentrazione di linguaggio, inusuale non soltanto
nell'epistolario paolino ma in tutto il NT, sia un chiaro indizio per sostenere la
prepaolinicità di Rm 3,25-26. Di per sé, si tratta di un indizio debole perché l'e-
pistolario paolino è ricco di hapax legomena e di termini rari: dovessimo sce-
gliere l'originalità del vocabolario come criterio per stabilire la prepaolinicità di
una pericope sarebbero più i testi prepaolini che quelli paolini!
Tuttavia in Rm 3,25-26 c'è anche un doppione che suscita notevole sospetto:
l'espressione « per la dimostrazione della sua giustizia dopo la remissione » del v.
25 torna in parte uguale e in parte leggermente mutata al v. 26: «Nella pazienza
di Dio, per la dimostrazione della sua giustizia». Nella prima frase «dopo la re-
missione » succede alla parte uguale, mentre nella seconda « nella pazienza di
Dio » la precede; ma i due termini sono simili, in quanto si riferiscono al tempo
passato della pazienza divina. Bisogna riconoscere che una ripetizione così mas-
siccia degli stessi termini è rara nell'epistolario paolino; per questo vi sono fon-
date ragioni per considerare almeno il v. 25 come prepaolino, mentre il v. 26 sa-

413 II collegamento più prossimo tra la redenzione e il sangue di Cristo si troverà in Col 1,14; Ef 1,7.
Sull'importanza del sangue di Cristo nella soteriologia paolina cfr. R. Penna, Il sangue di Cristo nelle let-
tere paoline, in L'apostolo Paolo, pp. 395-417; A. Vanhoye, Il sangue di Cristo e la vita morale nelle let-
tere paoline e nell 'epistola agli Ebrei, in A. Triacca (ed.), Il mistero del sangue di Cristo e la morale, Roma
1995, pp. 18-26.
414 Cfr. anche « il quale » (hos) che introduce l'inno cristologico prepaolino di Fil 2,6.
415Per la prepaolinicità dei vv. 24-26 cfr. P.-G. Klumbies, Der Eine Gott des Paulus. Rom 3,21-31 als
Brennpunktpaulinischer Theo-logie, in ZNWS5 (1994) 192-196; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 410; R. Penna,
Sangue, p. 399; U. Wilckens, Römer, I, p. 183.
416Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 220; H. Schlier, Romani, p. 192.
417 II sostantivo hamartema si trova nelle lezioni sicure di Me 3,28.29 e di ICor 6,18 mentre in Me
4,12 e in 2Pt 1,9 la sua presenza testuale è incerta.
166 Traduzione e commento
rebbe unaripresapaolina di una breve professione di fede tramandata dalla prima
comunità cristiana. Forse al v. 25 la precisazione « mediante la fede » rappresenta
una glossa paolina, per precisare che soltanto nel contesto della fede si può com-
prendere l'azione salvifica di Dio con la pubblica esposizione di Cristo. La pre-
paolinicità del v. 25 è confermata dall'omissione della ragione per l'intervento di
Dio nell'azione salvifica di Cristo e del relativo riferimento al vantaggio per noi;
come abbiamo già evidenziato, manca l'accenno alla croce sulla quale Cristo ha
versato il suo sangue. Il contesto del breve frammento potrebbe essere quello cul-
tuale del giorno o dell'evento dell'espiazione, sorto in una comunità giudeo-cri-
stiana, anche se è altrettanto interessante il contesto martirologico attestato so-
prattutto da 4Mac 17,22: « E per mezzo del sangue di quei giusti e della loro mor-
te espiatrice la divina Provvidenza salvò Israele prima afflitto » . 418

A causa della loro prepaolinicità, è difficile stabilire con precisione il senso


di diversi termini usati al v. 25. Qual è il valore del verbo protithesthai: predi-
sporre in senso cronologico o in senso spaziale? Che cosa significa hilasterion! Si
riferisce al coperchio dell'alleanza che serviva per l'aspersione del sangue degli
animali oppure a un generale « strumento di espiazione », nel contesto cultuale
della remissione dei peccati? Il sostantivo paresis significa remissione o perdono
parziale dei peccati, distinguendosi dall'aphesis o perdono totale dei peccati?
Come si può vedere, non sono poche le difficoltà interpretative di questo verso.
Il verbo protithesthai di per sé può significare sia « predisporre », in senso
temporale, sia « porre davanti o innanzi », in senso spaziale. Nelle altre due fre-
quenze neotestamentarie, questo verbo ha una chiara connotazione temporale (il
progetto del viaggio paolino verso Roma in Rm 1,13; il mistero che Dio aveva
prestabilito in Cristo, in Ef 1,9). Tuttavia, mentre altrove Paolo sottolinea l'origi-
nario disegno salvifico di Dio in Cristo, non dice mai che Dio aveva già progetta-
to la morte cruenta del Figlio. Invece, il senso spaziale del verbo si accorda bene
anche con il sostantivo hilasterion che, comunque, indica un luogo o una realtà e
non un periodo della storia. Anche se con un altro verbo, in Gal 3,1 Paolo sottoli-
nea nuovamente che Gesù Cristo è stato posto innanzi (prographein) agli occhi
dei galati come crocifisso. Pertanto, anche se non vi sono altri riscontri neotesta-
mentari, qui è preferibile il senso spaziale e non temporale del verbo . 419

Più complesso è il senso di hilasterion , anche se nella LXX e nell'unico


420

parallelo neotestamentario di Eb 9,5 si riferisce chiaramente al kappóret, ossia al


coperchio dell'arca nel tempio che serviva per la remissione dei peccati e per il ri-
stabilimento dell'alleanza tra Dio e il suo popolo . Nel giorno del kippur il san-
421

418 Sul contesto cultuale di Rm 3,25 mutuato da quello martirologico giudaico cfr. R. Penna, Ritratti,
II, pp. 147-148; W. Zager, Wie kam es im Urchristentum zurDeutung des Todes Jesu als Stìhnegeschechen?,
inZAW87 (1996) 165-186.
419 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 418; D.J. Moo, Romans, p. 231; H. Schlier, Romani, p. 195.
Per questo significato del verbo «predisporre» cfr. U. Wilcken, Urkunden der Ptolemàerzeit 106,20;
Papiri di Ossirinco 8,1100.
420 Cfr. a tal proposito N.S.L. Fryer, The Meaning and Translation of Hilasterion in Romans 3:25, in
EvQ 59 (1987) 99-116; J.L. Gundry Volf, Espiatorio, in Dizionario di Paolo, pp. 582-591.
421 Cfr. Es 25,17-22; 38,7-8; Lv 16,2-15; Nm 7,89.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 167
gue era versato tra l'espiatorio e il popolo, per rendere possibile la riconciliazio-
ne. Questo retroterra ha indotto alcuni a ritenere che qui Paolo utilizza tale me-
tafora per sostenere che il vero kappóret, attraverso il quale si rendono possibili la
piena alleanza e la riconciliazione tra Dio e gli esseri umani, è Gesù Cristo . 422

Anche Filone sembra confermare questa interpretazione simbolica di hilastèrion:


è il coperchio dell'alleanza, tra i due cherubini . Un'ulteriore conferma filologi-
423

ca si troverebbe nel fatto che nel NT si trova anche il sostantivo hylasmos (cfr.
lGv 2,2; 4,10), che assumerebbe il significato proprio di « strumento di espiazio-
ne ». Il contesto di Rm 3,25 sembra convalidare questa ipotesi: il sangue di Cristo
sostituirebbe quello degli animali e la paresis o il « perdono parziale » indiche-
rebbe lo scarto tra il sacrificio degli animali e quello di Cristo che invece permet-
terebbe la piena riconciliazione o aphesis . 424

Anche se questa interpretazione è possibile e può benissimo essere sostenu-


ta, abbiamo dei dubbi sulla sua validità per Rm 3,25. Escludiamo l'obiezione più
ovvia, secondo la quale difficilmente i cristiani di Roma avrebbero colto una sim-
bologia così specifica, in quanto riferita a un elemento dell'arca dell'alleanza,
poiché non bisogna dimenticare la familiarità dei cristiani di Roma con l'AT né
l'importanza che per il comune giudaismo svolge il motivo della remissione dei
peccati e quindi il giorno dell 'espiazione o Yóma . Piuttosto, la prima sostanzia-
425

le obiezione deriva dall'assoluta carenza di questa simbologia per la concezione


messianica del NT. Di fatto, nel NT si attesta che Gesù è il nuovo tempio, l'a-
gnello per la remissione dei peccati, ma non si dice mai che è il nuovo espiatorio.
Anche questa obiezione potrebbe essere superata sostenendo che Paolo sia stato il
primo a stabilire questo parallelismo tra l'espiatorio dell'arca e Cristo. Comun-
que, rimane che egli non riprende più nel suo epistolario questa simbologia. D'al-
tro canto, la corrispondenza tra V hilastèrion e il kappóret è permanente quando
nella LXX, in Eb 9, e in Filone, si riferisce chiaramente al luogo concreto del sa-
crificio espiatorio, mentre in Rm 3,25 questo riferimento resta generico. Tuttavia,
l'obiezione principale si trova proprio nella corrispondenza tra hilastèrion di Rm
3,24-25 e il kappóret dell'arca: se in Rm 3,25 l'accento è posto su Dio e su Gesù
Cristo, ossia su coloro che compiono materialmente il sacrificio, in Es 25 e in Lv
16 l'attenzione è rivolta al sangue degli animali, a prescindere dalla natura delle
offerte, che si trattasse di ovini o di bovini. Una coincidenza porrebbe in secondo
piano l'offerente e il sacrificio, a favore del sangue, mentre in Rm 3,25 l'atten-
zione è posta proprio su Dio e su Cristo, senza specificare la natura del sangue di
Cristo, che per questo ha reso perfetto il sacrificio. In pratica, se nel contesto di
Eb 9 questa simbologia troverebbe maggiori corrispondenze, in Rm 3 sarebbe

422 Cfr. S. Lyonnet - S. Sabourin, Sin, Redemption and Sacrifice: A Biblical and Patristic Study (AnBib
48), Roma 1970, pp. 157-187; cfr. anche DJ. Moo, Romans, p. 232; M. Newton, The Concept ofPurity at
Qumran and in the Letters ofPaul (SNTS MS 53), Cambridge 1985, pp. 75-77.
Cfr. Filone, Cherubini 25; Mosis 2,95,97; Fuga 100.
424 Così S. Lyonnet, Le sens de paresis en Rom 3,25, in Romains, pp. 89-116.
425 Non ci sembra neppure valida l'obiezione di H. Schlier, Romani, p. 197, per il quale l'espiatorio
non veniva innalzato pubblicamente come lo è invece il Cristo sulla croce: è un'obiezione che non coglie
il valore simbolico di questo parallelismo che, comunque, non intende essere dettagliato.
168 Traduzione e commento
inadeguata. Per questo preferiamo rendere il termine hilasterion con strumento di
espiazione, lasciando implicito il riferimento al kappóret, come a tutto il luogo e
il giorno dell'espiazione . 426

Comunque, non bisogna dimenticare le connessioni tra il linguaggio com-


merciale del v. 24 e quello cultuale del v. 25, ossia, in termini contenutistici, tra la
redenzione e il sangue di Cristo. Non sono molte le volte in cui Paolo si sofferma
sull'offerta del sangue di Cristo, anche se la tradizione successiva si è spesso at-
tardata sul prezzo inestimabile del suo sacrificio . Cristo a chi avrebbe pagato il
427

prezzo del suo sangue? A Dio, a satana o alla Legge? Il contesto di Rm 3,24-25
esclude la concezione dell'offerta vicaria: Cristo avrebbe pagato il prezzo del ri-
scatto a Dio, al posto degli èsseri umani. In questi versi l'insistenza è non su que-
sta dinamica ma sulla partecipazione di Dio all'offerta del Cristo, tematica che
Paolo riprenderà e chiarirà in Rm 5,1-11 e in Rm 8,32-39. Nell'epistolario paoli-
no non si trova mai un accenno al pagamento delriscattoper satana o per la Legge
che, in tal caso, assumerebbero valore superiore a Cristo stesso, al punto da esi-
gerne la morte di croce. Nel caso specifico della Legge, è bene non dimenticare
che non rappresenta mai la causa della morte in croce di Cristo, ma al massimo lo
strumento con il quale egli è considerato maledizione (cfr. Gal 3,13-14). Dunque
egli non ha bisogno di pagare il riscatto alla Legge, anche se il suo atto di libera-
zione riguarda proprio quanti si trovano sotto la Legge (cfr. Gal 4,4-5).
Piuttosto, l'attenzione della soteriologia paolina non è posta sul destinatario
del riscatto ma su per chi (hyper) egli ha pagato ilriscattodel suo sangue: per tut-
ti (cfr. 2Cor 5,14), per me (cfr. Gal 2,20) o per la Chiesa (cfr. Ef 5,25). Dunque,
non a chi ma per chi: questo è il cuore della soteriologia paolina che coinvolge sia
Cristo sia Dio. In tal senso, l'uso del linguaggio commerciale o cultuale è me-
taforico, senza richiedere di essere decodificato, interrogandosi sulla questione
del destinatario: non è un'allegoria ma una simbologia nella quale alcuni elemen-
ti non trovano né possono riscontrare corrispondenze.
A causa della simbologia cultuale o sacrificale generale, in quanto riferita al-
l'atto di espiazione, il sostantivo paresis, che si trova soltanto qui nel greco bi-
blico, non significa «remissione», intendendo che nel passato Dio ha comunque
condonato i peccati, né « perdono parziale » nel senso di una remissione non to-
tale delle colpe, ma dilazione o pretermissione giuridica . Per Paolo, l'antica 428

economia si caratterizza non per la giustificazione ma per la dilazione dell'ira:


Dio ha procrastinato sempre la condanna per la sua misericordia, la sua longani-
mità e la sua pazienza (cfr. Rm 2,4). Per questo, il sostantivo paresis è diverso da

Anche in Ez 43,14-20 hilasterion non si riferisce soltanto al kappóret ma a tutto il luogo dell'e-
426

spiazione; e in 4Mac 17,22 si trova l'espressione « strumento di espiazione (hilasterion) per la propria mor-
te». Per il significato generale di espiazione nel greco ellenistico cfr. anche l'iscrizione augustea di Cos:
« Il popolo lo offre come espiazione (hilasterion) agli dèi per la salvezza dell'Imperatore Cesare Augusto »;
Dione Crisostomo, Orationes 11,121. Così anche B. Byrne, Romans, p. 133; D.A. Campbell, Rhetoric, pp.
130-133; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 419; H. Schlier, Romani, p. 197.
Oltre a Rm 3,25 cfr. ICor 10,16; 11,25 (prepaolino). 27; cfr. nelle deuteropaoline Col 1,20; Ef 1,7; 2,13.
427

Cfr. anche l'uso di paresis in Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates romanae 7,37; Così anche D.J.
428

Moo, Romans, p. 238.


La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 169
aphesis, ossia dalla remissione dei peccati realizzata con il sangue di Cristo (cfr.
Col 1,14; Ef 1,7).
[v. 26] Con questo verso, Paolo riprende il contenuto della professione di fe-
de pervenutagli dalla tradizione precedente per riformularlo con parole sue. Il
tempo della pazienza divina, accennato in Rm 2,4, è stato quello della dilazione
dei peccati o, secondo il linguaggio forense, della pretermissione delle colpe: su
tutti gravava la comminazione della condanna o l'attuazione dell'ira . 429

Come abbiamo già evidenziato, al v. 26 Paolo ripete letteralmente parte della


professione di fede del v. 25: « ...Per la dimostrazione della sua giustizia ». L'even-
to dell'offerta di Cristo ha rappresentato non soltanto una manifestazione di qual-
cosa già realizzato da Dio, ma la dimostrazione inaudita della sua giustizia . Per 430

questo, il raro sostantivo endeixis rappresenta la prova giuridica della giustizia di-
vina: non è molto diverso dall'epideixis, vale a dire dalla dimostrazione di un va-
lore fondamentale che interpella qualsiasi spettatore e che chiama al coinvolgi-
mento . In Rm 5,1-11 Paolo spiegherà che questa dimostrazione riguarda l'amo-
431

re paradossale e gratuito di Cristo e di Dio; per ora si limita a sottolinearne la


relazione con il contenuto del vangelo: la giustizia divina.
Le ultime battute del v. 26 sottolineano il tempo dell'attuazione della giustizia
divina e le sue implicazioni verso tutti. Anzitutto, anche se Dio ha posto pubblica-
mente Cristo come strumento di espiazione nel passato (v. 25), il tempo della sua
dimostrazione è il presente, l'oggi dell'incontro con lui, il kairos, ossia il momen-
to nel quale si è posti di fronte a questo strumento di espiazione. Non si tratta sol-
tanto del tempo (chronos) favorevole ma del momento o dell'ora favorevole che è
il kairos della salvezza e della decisione per chiunque. Riprendendo l'espressione
di Gal 4,4, questo è il momento della pienezza del tempo in cui Dio ha mandato suo
Figlio ed egli ci ha riscattati dalla Legge come da ogni peccato. Anche per questa
precisazione cronologica vale il bel commento di Lutero a Gal 4,4-5: «Non enim
tempus fecit filium mitti, sed et contra missio filii fecit tempus plenitudinis » . 432

Segue una proposizione finale più che consecutiva, in cui l'intero percorso
della salvezza è orientato verso la sua fondamentale ragion d'essere: « Perché egli
sia giusto e perché possa giustificare chi proviene dalla fede di Cristo ». Secondo
alcuni, Paolo riprende ora il valore forense della giustizia divina, nel qual caso la
seconda parte della proposizione finale sarebbe una concessiva:...al punto da giu-
stificare o anche da giustificare . In realtà, ci troviamo ormai nella nuova di-
433

mensione della giustizia divina, relazionata in modo imprescindibile alla salvezza


realizzata nell'evento principale, quello del sacrificio di Cristo; e la specificazio-
ne introdotta dalla congiunzione kai non è concessiva ma intensiva, strettamente
dipendente dalla prima parte della proposizione. In altri termini, non Dio è giusto

Sul tempo prima di Cristo come tempo della pazienza divina e dell'ignoranza umana cfr. anche At
429

14,16; 17,30.
Contro il significato debole di «manifestazione» scelto da H. Schlier, Romani, p. 198.
430

Cfr. anche J. Piper, The Demonstration ofthe Righteousness ofGod in Romans 3:21-26, in JSNT
431

1 (1980) 2-32.
432Cfr. M. Lutero, Vorlesung iiber den Galaterbrief 1516-1517, p. 18.
Così DJ. Moo, Romans, p. 242.
433
170 Traduzione e commento
e quindi giustifica ma Dio è giusto nel momento in cui giustifica il peccatore : 434

non c'è più un tempo né uno spazio nel quale la giustizia di Dio sia separabile dal-
la sua azione giustificatrice verso chiunque crede in Gesù.
Lasciando all' excursus successivo la questione sul significato del sintagma
«fede di Gesù», in quest'ultima espressione torna il motivo della relazione tra la
fede e Gesù Cristo, introdotto al v. 22. Sorprende il collegamento originale tra la
fede e Gesù: Paolo parla qui non della «fede di Cristo Gesù» ma della «fede di
Gesù ». Anche se le due espressioni non sono diverse, poiché per Paolo il titolo
« Cristo » assume il valore di nome proprio, la formula è carica di relazione affet-
tiva tra chi proviene dalla fede e Gesù: sembra una maggiore sottolineatura tra la
persona terrena e visibile di Gesù, cherimaneil Cristo, e il credente . Forse, que- 435

sta relazione tra il credente e Gesù, senza specificazioni cristologiche, o sulla sua
signoria che è unica in Romani, deriva dal riferimento all'evento della croce, che
si colloca nella vita terrena di Gesù e che può essere accolto soltanto nella fede,
come Paolo stesso ha precisato con l'inserzione della formula « mediante la fede »
nel frammento di Rm 3,25. Questa prospettiva sarà importante per entrare nel-
l'acceso dibattito sulla « fede di Cristo ».
Excursus: la «fede di Cristo ». Da circa quarantanni i paolinisti sono impe-
gnati nel definire il senso della densa e sintetica espressione pistis Christou, con
le sue diverse variazioni, nell'epistolario paolino. Da una parte si trovano i soste-
nitori per il senso soggettivo del genitivo: la giustizia di Dio si è manifestata me-
diante la fedeltà di Cristo a Dio o agli esseri umani ; dall'altra parte chi sostiene
436

l'interpretazione tradizionale per il genitivo oggettivo : la giustizia di Dio si è


437

manifestata mediante la fede in Cristo . In questo acceso dibattito, una posizio-


438

ne originale è stata assunta da J.-N. Aletti che considera il sintagma come geniti-
vo di qualificazione, nel senso della « fede nel Dio che si è definitivamente mani-
festato in Gesù » o « fede nel Dio che ha perdonato in Cristo Gesù » . 439

434Così anche B. Byrne, Romans, p. 134.


435Qualcosa di analogo si verifica nella relazione partecipazionistica tra la vita e la morte di Gesù e
quella del cristiano in 2Cor 4,7-12, in cui il nome « Gesù » compare da solo per ben 3 volte.
436Così D.A. Campbell, The Rhetoric of Righteousness in Romans 3,21-26 (JSNT SS 65), Sheffield
1993, pp. 58-69; Id., False Presuppositions in the pistis Christou Debate: A Response to Brian Dodd, in JBL
116 (1997) 713-719; L. Gaston, Paul, pp. 11-12; G. Howard, The Faith ofChrist, in ExpTim 85 (1973-1974)
212-214; L.T. Johnson, Rom 3,21-26 and the Faith of Jesus, in CBQ 44 (1982) 77-90; R.B. Hays, Pistis and
Pauline Christology: What Is at Stake?, in SBL SP, Atlanta 1991, pp. 714-729; M.D. Hooker, Pistis
Christou, in NTS 35 (1989) 321-342; B.W. Longenercker, Pistis in Romans 3.25: Neglected Evidencefarthe
« Faithfulness ofChrist»?, in NTS 39 (1993) 478-480; R.B. Mattlock, Detheologizing the PISTIS CHRI-
STOU Debate: Cautionary Remarks from a Lexical Semantic Perspective, in NT 62 (2000) 1-23; D.W.B.
Robinson, «Faith of Jesus Christ» -A New Testament Debate, in RTR 29 (1970) 71-81; T.F. Torrance, One
Aspect ofthe Biblical Concept of Faith, in ExpTim 68 (1956-57) 77-90; LG. Wallis, The Faith of Jesus
Christ in Early Christian Traditions (SNT MS 84), Cambridge 1995, pp. 75-76, 106.
437Per la dominante interpretazione del genitivo oggettivo nella tradizione patristica cfr. R.A.
Harrisville, PISTIS CHRISTOU: Witness ofthe Fathers, in NT 36 (1994) 233-241.
438Cfr. B. Byrne, Romans, pp. 124-125; C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 203; J.A. Fitzmyer, Romani,
p. 413; E. Kàsemann, Romans, p. 94; DJ. Moo, Romans, p. 224; R. Penna, Giustificazione, pp. 47-48; G.
Pulcinelli, Giustizia, p. 44; H. Schlier, Romani, p. 189; T.R. Schreiner, Romans, pp. 182-185; U. Wilckens,
Ròmer, I, p. 188.
439Cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 108.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 171
Con buona pace di quanti, con tanta sicurezza, sostengono il genitivo sogget-
tivo, al punto da ritenere questo dibattito ormai concluso , va subito precisato che
440

anche il genitivo oggettivo trova fondamento grammaticale, mentre l'ipotesi di


Aletti, anche se originale, non trova alcun fondamento, perché Dio non è mai og-
getto della fede nell'epistolario paolino, semmai ne è il soggetto (cfr. Rm 3,3),
confermando, in certo senso, il genitivo soggettivo . Quanto alle frequenze, è be-
441

ne subito riconoscere che della fede di Cristo, variamente declinata, si parla 6 vol-
te nell'epistolario paolino . A loro volta, queste frequenze possono essere divise
442

in due campi: quello nel quale il genitivo è preceduto da ek {dalla fede di Cristo)
e quello nel quale è preceduto da dia (mediante la fede di Cristo) . 443

A favore del genitivo soggettivo, bisogna riconoscere che soprattutto il re-


troterra semitico rende il sostantivo pistis polivalente: può significare fede, fidu-
cia, fedeltà, affidabilità ma anche persuasione e convinzione. Per questo non si
può sempre, in modo omogeneo e unilaterale tradurre pistis nell'epistolario pao-
lino, ad esempio, con fedeltà . Inoltre, dopo Rm 1,16-17, della pistis in Romani
444

si parla in Rm 3,3, in cui chiaramente il genitivo pistis theou è soggettivo: la fe-


deltà o la fiducia di Dio non è stata abrogata nonostante l'infedeltà di alcuni giu-
dei. Per i sostenitori del genitivo soggettivo, una conferma verrebbe dall'altro ge-
nitivo, quello della «fede di Abramo» (cfr. Rm 4,16) che è chiaramente sogget-
tivo: si riferisce alla fiducia del patriarca in Dio (cfr. anche Gal 3,9).
Tuttavia, diverse ragioni permettono di propendere per il genitivo oggettivo
quando si tratta di Cristo. Innanzi tutto, partendo proprio dalla fede di Abramo,
Paolo non relaziona mai la sua fedeltà o fiducia a quella di Cristo ma sempre a
quella del credente. In tal senso, è chiara la funzione generativa ed esemplare del-
la fede di Abramo in Gal 3,6.9: «Come Abramo credette... così coloro che pro-
vengono dalla fede sono benedetti con il fedele Abramo ». Sia in Gal 3 sia in Rm
4 il parallelo è non tra Abramo e Cristo ma tra Abramo e coloro che credono, sia-
no essi giudei o gentili . È vero che la prima volta in cui si parla della pistis in
445

Romani, dopo la tesi di Rm 1,16-17, entra in campo Ì&fedeltà di Dio (cfr. Rm 3,3),
ma il contesto oppone chiaramente la sua fedeltà all'infedeltà del popolo: conte-
sto che non si trova mai quando entra in gioco la fede di Cristo.
Al contrario, Paolo non dice mai che Gesù ebbe fede in Dio, utilizzando il
verbo «credere» (pisteuein) né che Gesù fupistos, accreditato da Dio o fedele a

440 Cfr. L. Gaston, Paul, p. 12.


441 Per la « fede di Dio » come genitivo oggettivo bisogna ricorrere a Me 11,22; anche con il dativo
«in Dio »di lGv 5,10.
442 La formula più usata è « fede di Gesù Cristo » (3 volte: Rm 3,22; Gal 2,16; 3,22); 2 volte si trova
« la fede di Cristo » (cfr. Gal 2,16; Fil 3,9) e 1 volta compare « la fede di Gesù » (Rm 3,26). A queste fre-
quenze bisogna aggiungere l'originale Gal 2,20 («Ma il presente che vivo nella carne, lo vivo però nella
fede del Figlio di Dio ») e la composizione con il pronome di Ef 3,12 (« mediante la fede di lui », riferito
sempre a Cristo).
443 Con ek cfr. Rm 3,26; Gal 2,16; 3,22; con dia cfr. Rm 3,22; Gal 2,16; Fil 3,9; cfr. anche «median-
te la fede di lui »di Ef3,12.
444Così invece L. Gaston, Paul, pp. 179-190, nell 'appendice della sua traduzione a Romani e a Galati.
445 Questo è il principale punto debole del saggio di R.B. Hays, The Faith of Jesus Christ: An Investi-
gation ofthe Narrative Substructure ofGalatians 3:1-4:11 (SBL DS 56), Chico 1983.
172 Traduzione e commento
lui. Si potrebbe scrivere un bell'articolo dal titolo sorprendente: « Per Paolo, Gesù
Cristo non credette in Dio». Invece, in Gal 2,16, dove si trova la maggiore con-
centrazione di questo genitivo, si passa da quanti ebbero fede in Cristo alla fede
di Cristo. Come abbiamo già dimostrato nel nostro commentario a Galati, in que-
sto caso il passaggio dalla fede in Cristo a quello della fedeltà di Cristo sarebbe
troppo rapido e incomprensibile per qualsiasi lettore . In definitiva, Paolo non ha
446

bisogno di affrontare la questione sulla fedeltà o sulla credibilità di Cristo, come


invece ritiene, ad esempio, l'autore della Lettera agli Ebrei, che per fondare il sa-
cerdozio di Cristo deve prima dimostrare che egli è degno di fede, accreditato
presso Dio (cfr. Eb 2,17; 3,2). Non è un caso che quando Paolo tratta di chi è fe-
dele siriferiscasempre a Dio e non a Cristo , se non forse in 2Ts 3,3 in cui si par-
447

la del Signore che è fedele. Si potrà obiettare che Paolo tratta dell'obbedienza di
Cristo (cfr. Rm 5,19; Fil 2,6-11) come equivalente della sua fedeltà, ma l'assimi-
lazione tra l'obbedienza e la fede è riduttiva proprio per la concezione paolina
della fede; e risente di una convergenza bultmanniana ormai superata . 448

Soffermandoci sull'espressione «dalla fede di Cristo», si può ben ricono-


scere l'implicito riferimento ad Ab 2,4: « Il giusto dalla fede vivrà». Questo ha in-
dotto alcuni a chiarire il genitivopistis Christou alla luce di Rm 1,16-17 . Prima 449

di tutto, il percorso metodologico è sbagliato, in quanto si cerca di illuminare un


testo complesso come quello di Rm 3,21-26 con un testo più complesso e impli-
cito come quello di Rm 1,16-17, quando dovrebbe avvenire il contrario. Inoltre,
nota molto bene R. Penna che proprio l'ipotesi per il genitivo soggettivo è esclu-
sa dalla citazione di Ab 2,4 in Rm 1,17 e in Gal 3,11 . In entrambi i passi, Paolo
450

si rifà alla versione della LXX che in quanto tale confermerebbe proprio il senso
soggettivo del genitivo perché così recita: «Il giusto mediante la mia fedeltà vi-
vrà». Invece Paolo ha soppresso volutamente proprio il possessivo mia per con-
ferire un senso diverso e più esteso alla fede . Dunque, vi sono ragioni fondate
451

per prediligere il valore oggettivo della fede di Cristo nell'epistolario paolino in-
vece di quello soggettivo che, pur fondato grammaticalmente, non trova reali ri-
scontri non solo nei relativi contesti ma nella concezione che Paolo ha di Cristo.
L'esclusione del vanto (3,27-31). - Dalle dense asserzioni kerygmatiche in-
centrate sulla manifestazione della giustizia divina mediante la fede in Gesù Cristo
(Rm 3,21-26), Paolo trae subito alcune conseguenze riguardanti la relazione tra la
fede e la Legge. La nuova pericope, caratterizzata dallo stile della diatriba, riscon-
446Cfr. A. Pitta, Galati, pp. 141-158.
447Cfr. ICor 1,9; 10,13; 2Cor 1,18. Per questo, con buona pace di A. Vanhoye, Pistis Christou: fede
in Cristo o affidabilità di Cristo?, in Bib 80 (1999) 1-21, la compresenza nella formula «fede di Cristo»
della fede in lui e della sua affidabilità è soltanto teorica ma non fondata sulla concezione di Paolo che di
fatto non parla mai dell'affidabilità di Cristo ma la considera come un dato scontato che non ha bisogno di
essere dimostrato.
448Cfr. le ottime critiche mosse a quest'assimilazione da J.-N. Aletti, Romani, pp. 100-103.
449Cfr. D.A. Campbell, Romans 1:17- A Crux Interpretumfor the pistis Christou Debate, in JBL 113
(1994) 265-285.
450Cfr. R. Penna, Giustificazione, p. 48.
451Vedi il nostro commento a Rm 1,16-17.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 173
trato già in Rm 2,1 - 3,9, è incorniciata da due domande diatribiche con risposte
immediate (vv. 27.31), l'una sul vanto l'altra sulla Legge, nelle quali compare la
stessa particella argomentativa « dunque » (oun) che funge da inclusione . 452

Come al solito, anche in questo caso, Paolo è più capace di porre domande
che di offrirerispostechiare e complete: in pochi versi si accavallano sei doman-
de con risposte immediate e brevi che lasciano più problemi di quanti ne risolva-
no. Allo stile della diatriba appartiene questo dialogo con l'interlocutore fittizio.
La tematica globale è quella del vanto: su cosa si regge? Per ora è dimostrata non
la via positiva del vanto (cfr. Rm 5,1-2) ma soltanto quella negativa, ossia l'e-
sclusione che possa esserci qualsiasi motivo di vanto per quanti si fondano sulla
Legge mosaica. Nel concatenamento delle domande diatribiche sono riconoscibi-
li due parti: l'esclusione del vanto retto sulla Legge (vv. 27-28); l'unicità di Dio
come condizione dell'imparzialità positiva della giustizia divina (vv. 29-30). Il
paragrafo si chiude con la questione sulla permanenza o meno della Legge (v. 31).
Dal punto di vista semantico, il brano è dominato dal sostantivo pistis (fede) che
vi si trova ben 5 volte (vv. 27.28.30.30.31), al quale è relazionato il nomos (Leg-
ge) che però, come vedremo, assume diversi significati.
[3,27] La prima domanda diatribica riguarda la consistenza del vanto: anche
se questa è la prima volta in cui Paolo utilizza il sostantivo kauchesis \ la que- 45

stione del vanto è stata già introdotta dalla litote nella tesi generale di Rm 1,16
(Non mi vergogno del vangelo). Nel corso della prima parte della sezione (Rm
1,18 - 3,20) Paolo ha dimostrato l'esclusione del vanto per il giudeo rispetto al
gentile (cfr. Rm 2,17-24) , anche serimanela situazione di privilegio del giudeo
454

(cfr. Rm 3,1-8). Ora è affrontato direttamente il problema della consistenza del


vanto in base al possesso della Legge. Tale problematica emerge dalla narrazione
kerygmatica di Rm 3,21-27: se ora Dio manifesta la sua giustizia per la fede in
Cristo, ossia con il valore salvifico della sua morte, quale possibilità è offerta a
qualsiasi vanto che non sia rapportato a questo evento? Il collegamento con la pe-
ricope precedente non si regge tanto sulla particella « dunque », quanto sulla pri-
ma risposta perentoria di Paolo: « È stato escluso! ». Si può notare l'uso di un ao-
risto passivo (exekleisthè) che assume un chiaro valore teologico : Dio stesso ha 455

452 Lo stile diatribico conforma anche la pericope successiva, nella quale subentra la narrai one delle vi-
cende di Abramo (Rm 4,1-25); per questo è preferibile distinguere l'unità letteraria di Rm 3,27-31 dal suo im-
mediato contesto, pur essendo strettamente relazionata a quanto precede e a quanto segue. Sull'u ìità lettera-
ria di Rm 3,27-31 cfr. B. Byrne, Romans, p. 136; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 429; D.J. Moo, Romans, p. 245.
453 II sostantivo kauchesis appartiene al vocabolario paolino più proprio: si trova 11 volte nel NT di
cui 10 nel suo epistolario (cfr. anche Rm 15,17; lTs 2,19; ICor 15,31; 2Cor 1,12; 7,4.14; 8,24; 11,10.17;
anche Gc 4,16).
454 Al linguaggio del vanto appartengono anche il verbo kauchasthai utilizzato in Rm 2,17.23, il so-
stantivo fattitivo kauchema che comparirà in Rm 4,2. Di per sé, il sostantivo kauchesis dovrebbe essere di-
verso da kauchema, a causa del suffisso « astrattivo » -sis. In realtà, Paolo sembra utilizzare i due termini
con lo stesso significato: in 2Cor 1,12 kauchesis indica la concretizzazione del vanto (« Infatti il nostro mo-
tivo di vanto è questo »), mentre in 2Cor 5,12 kauchema si riferisce alla sua astrazione (« ...Solo per darvi
una ragione di vanto per noi »). Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 433.
455 II verbo ekkleiein è raro nel NT: compare solo qui e in Gal 4,17, a proposito dell'esclusione rela-
zionale che gli oppositori intendono stabilire tra i galati e Paolo. Cfr. anche Flavio Giuseppe, Vita 294, in
cui il verbo è utilizzato per l'esclusione dalle porte della città.
174 Traduzione e commento
escluso la via del vanto retta sulla Legge mosaica, scegliendo la via crucis. Egli
che ha « predisposto suo Figlio come strumento di espiazione » (cfr. proetheto in
Rm 3,25), ha precluso ogni altra possibilità di vanto, soprattutto quella fondata
sulla Legge mosaica.
Con la seconda domanda diatribica, Paolo esplicita l'impossibile relazione
tra la Legge e il vanto. Per quanto riguarda il sostantivo nomos in questi versi,
dobbiamo subito riconoscerne l'ambiguità delle sfumature: siriferiscealla Legge
mosaica oppure alla legge in quanto principio o come norma di comportamento?
Non sono pochi coloro che rendono già questo primo uso di nomos con principio,
vale a dire con un significato generale del termine, attestato anche da Filone e da
Flavio Giuseppe ; e lo stesso varrebbe per le espressioni « legge della fede » (v.
456

27) e «confermiamo la legge» (v. 31b), mentre nei vv. 28.3la Paolo si riferireb-
be chiaramente alle opere della Legge mosaica e alla loro abrogazione.
Anche se questa interpretazione trova diversi sostenitori , non ci sembra 457

fondata nell'economia della pericope e in quella della sezione di appartenenza


(Rm 1,18 - 4,25). Intanto è chiaro che in Rm 3,28.30a Paolo prende di mira la
Legge mosaica con le sue opere; questo significa che l'interpretazione mosaica
di nomos, almeno per alcuni di questi versi, è ben fondata mentre quella generica
0 metaforica di principio o di norma non è stata utilizzata in Romani, se non per
1 gentili considerati come «legge a se stessi» (cfr. Rm 2,14) . Piuttosto, nell'e-
458

segesi di Rm 3,21 abbiamo dimostrato che l'espressione « ...senza la Legge... at-


testata dalla Legge... » non va intesa come separazione tra la Legge mosaica e la
Scrittura, come se l'una potesse prescindere dall'altra, bensì come un ossimoro
tipicamente paolino, attraverso il quale egli sostiene che l'economia della giusti-
zia mediante la fede in Cristo è attestata dalla Legge mosaica stessa che, in tal
modo, esprime la sua funzione positiva ma, nello stesso tempo, limitante rispetto
all'economia della fede in Cristo.
La terza domanda, posta in continuità con la precedente, è brachilogica o
troppo breve: «Delle opere?». Naturalmente bisogna sottintendere, prima o do-
po, il sostantivo nomos: sono le opere della Legge o si tratta della Legge delle
opere? Entrambe le ipotesi sono possibili e forse compresenti nell'argomentazio-
ne paolina. Il riferimento alle opere della Legge è confermato dall'immediata
presenza dell'espressione al v. 28, oltre che in Rm 3,20. Tuttavia, anche la formu-
la Legge delle opere troverebbe rispondenza in base al parallelismo antitetico del-
la risposta successiva: alla Legge della fede Paolo opporrebbe la Legge delle ope-
re, anche se bisogna riconoscere che quest'ultima espressione non trova paralleli
nell'epistolario paolino né nel resto del NT.

Cfr. Filone, Mundi 54,70; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 5,123.


456

Cfr. B. Byrne, Romans, p. 139; DJ. Moo, Romans, p. 249; H. Ràisànen, Paul, p. 52; E.P. Sanders,
457

Legge, p. 77; R.W. Thompson, Paul 's Doublé Critique ofJewish Boasting: A Study of Rom 3,27 in ìts
Context, in Bib 67 (1986) 531; A. Valentini, La giustizia di Dio (Rm 3,21-31), in A. Sacchi (ed.), Lettere
paoline e altre lettere, Leumann (TO) 1995, p. 458; F. Watson, Paul, p. 132.
Così anche S. Westerholm, Israel 's Law and the Church 's Faith. Paul and His Recent Interpreters,
458

Grand Rapids 1988, p. 123.


La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 175
Comunque, con questa domanda, Paolo sembra assimilare la Legge alle ope-
re: si tratta sempre delle opere qualificate dalla Legge e della Legge qualificata
lalle opere. Naturalmente tale assimilazione, unica nell'epistolario paolino, è una
caricatura della Legge valutata soltanto dal versante legalistico, delle obbligazio-
ni o dei comandamenti che costringono all'osservanza e che separano nettamen-
te l'ebreo dal gentile. La svalutazione della Legge in questa domanda diventa più
rilevante se si pensa che altrove Paolo considera sempre negative le opere della
Legge, mentre non esita, soprattutto in Rm 2, a valutare positivamente la stessa
Legge mosaica. Dunque, ci troviamo di fronte a una ricomprensione della Legge
mosaica che non ha come orizzonte le opere e la loro osservanza, sulle quali si
fonderebbe il vanto giudaico, bensì la fede in Cristo.
Per questo, nella terza domanda del v. 27 e nella risposta successiva Paolo
non sta parlando di due leggi, l'una abrogata e l'altra permanente, l'una fondata
sull'AT e l'altra sul NT, ma della stessa Legge mosaica considerata nel suo uso ne-
gativo, in quanto ridotta alle opere o al Legalismo, quale motivo di vanto, e nella
sua funzione positiva di relazione con la fede in Cristo. In tal senso, la Legge del-
la fede non è diversa dalla Legge di Cristo (cfr. Gal 6,2) mentre, come vedremo, è
differente il senso della legge dello Spirito, di cui parlerà in Rm 8,2. Non si tratta
di una legge o di un principio nuovo di esistenza che sostituisce l'antica e desueta
Legge mosaica bensì della stessa Torah che diventa Legge della fede e di Cristo . 459

[v. 28] L'opposizione tra la Legge della fede e quella delle opere ha bisogno
di essere motivata e spiegata. Per questo con un « infatti », Paolo introduce la ra-
gione principale per la quale si è giustificati in base alla fede e non per le opere
della Legge. Innanzi tutto egli si richiama a un elemento comune della fede che
condivide con i destinatari della lettera e con tutte le comunità cristiane : tutti ri- 460

tengono , a prescindere dalle conformazioni sociali delle comunità cristiane, che


461

l'essere umano è giustificato per la fede e non con le opere della Legge.
Giustamente, alcuni sottolineano che qui è espresso un principio antropolo-
gico-salvifico e non semplicemente la problematica delle condizioni richieste ai
gentili per entrare nel popolo dell'alleanza , come invece sostengono altri . Di
462 463

fatto, la questione della fede, quale unica condizione salvifica, per il giudeo e per
il greco, sarà affrontata nei vv. 29-30 ma non può detronizzare la problematica
fondamentale delle condizioni per la giustificazione che si trova a monte dell'ar-
gomentazione paolina. Se forse in passato si conferiva un'eccessiva attenzione al-
l'orizzonte antropologico-teologico, soprattutto in contesto luterano, in alcuni
contributi più recenti sirischiadi limitarsi all'orizzonte sociale della relazione tra
i gentili e le opere della Legge intese come semplici identity markers o segnali di

459Questo sembra anche l'orientamento esegetico più recente. Cfr. J.D.G. Dunn, Paul, p. 639; H.
Hübner, Legge, pp. 200, 241; B.L. Martin, Christ, p. 27; P. Osten-Sacken, Tora, p. 24; C.T. Rhyne, Faith
Establishes the Law, Chico 1981, pp. 67-71; S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 235; S. Westerholm, Law,
p. 123; U. Wilckens, Römer, I, pp. 245-247.
460Così anche D.J. Moo, Romans, p. 250.
461Per questo significato del verbo logizomai cfr. Rm 2,3.
462Cfr. DJ. Moo, Romans, pp. 250-251.
463Cfr. H. Räisänen, Paul, p. 171; F. Watson, Paul, p. 134.
176 Traduzione e commento
riconoscimento per entrare a far parte del popolo dell'alleanza . Dunque, appar- 464

tiene prima di tutto alla fede cristiana delle origini considerare come via della giu-
stificazione la fede e non le opere della Legge: lo stesso principio è stato espres-
so in Gal 2,16 e verrà ribadito in Fil 3,9.
Con l'aggiunta sola, il principio della giustificazione mediante la fede è di-
ventato Yarticulus stantis et cadentis ecclesiae della tradizione luterana. Così scri-
ve Lutero: « Qui isto articulo stante stat ecclesia, niente ruit ecclesia » . A sua vol- 465

ta il Concilio di Trento, nel decreto sulla giustificazione, al canone 9 normativizza:


« Se qualcuno afferma che l'empio è giustificato dalla sola fede, nel senso che non
sirichiedenient'altro per cooperare al conseguimento della grazia della giustifica-
zione e che non è assolutamente necessario che egli si prepari e si disponga con un
atto della sua volontà: sia anatema» (Oecumenica Concilia. Decreta).
Su questo articolo si è molto intensificato il dialogo cattolico-luterano, por-
tando a una revisione delle opposte posizioni. Così scrive la Dichiarazione con-
giunta sulla dottrina della giustificazione: « Insieme confessiamo che il peccato-
re viene giustificato mediante la fede nell'azione salvifica di Dio in Cristo» (n.
25). Da una parte, i cattolici condividono il principio della sola fide, dall'altra nel-
l'ambito luterano si assiste a una progressiva rivalutazione delle opere. Rispetto a
Rm 3,28 innanzi tutto è bene riconoscere che, di per sé, manca l'aggiunta sola
che, ironia della sorte, si trova nella Lettera di Giacomo che Lutero disprezzava
come lettera di paglia: «Osservate che dalle opere è giustificato l'essere umano
e non dalla fede soltanto» (Gc 2,24) . Tuttavia, tale aggiunta risponde piena-
466

mente al pensiero di Paolo: l'unica via di giustificazione è rappresentata dalla fe-


de e non dalle opere, anche se bisogna precisare che egli non sta parlando di qual-
siasi fede né di qualsiasi opera ma della fede in Cristo e delle opere della Legge.
D'altro canto, è bene riconoscere che Lutero non è stato il primo a interpretare in
questo modo Rm 3,28 e Gal 2,16: il principio della sola fide appartiene alla tradi-
zione patristica e medievale . Dunque, pur se con tensioni, il principio della so-
467

la fide rientra nella concezione paolina e nella tradizione più antica della Chiesa.
Il soggetto della giustificazione per fede è Dio stesso, al quale bisogna attri-
buire il passivo dikaiousthai, come conferma il seguente v. 30. A causa di questi
collegamenti tra il v. 28 e il v. 30, si può notare che il dativo semplice « per fede »
(pistei) sostituisce sia «dalla (eh) fede» sia «mediante (dia) la fede» che, come
vedremo, in sostanza non si differenziano . 468

464Così invece J.D.G. Dunn, Paul, p. 363.


465Cfr. M. Lutero, Expositio in Psalmos 130,4 (WA 40/3), p. 353.
466Per la relazione apparentemente conflittuale tra quest'assioma paolino e Gc 2,24 cfr. A. Pitta,
Galati, pp. 144-146 e Vexcursus seguente.
467A proposito di Rm 3,24 così scriveva già l'Ambrosiaster, Romani, p. 104: «Sono stati giustifica-
ti gratuitamente, perché santificati dal dono di Dio con la sola fede ». Cfr. anche Ilario, Commentarius in
Matthaeum 8,6: «Fides enim sola justificat»; Bernardo, Sermones in Cantica canticorum 22,8: «Solam
iustificatus per fidem ». Per la storia dell'interpretazione sulla sola fide, precedente allariformaluterana,
cfr. S. Lyonnet, La storia della salvezza nella Lettera ai Romani, Napoli 1966, pp. 208-209.
468Per questo la lezione variante « mediante la fede » attestata da alcuni codici (F, G) per il v. 28 rap-
presenta un tentativo di miglioramento o di facilitazione testuale ma, nello stesso tempo, ne restringe il si-
gnificato, escludendo che il dativo semplice si riferisca anche a « dalla fede».
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 177
Excursus: La «giustificazione per fede» e l'incoerenza del Nuovo Testa-
mento? Il principio della sola fide, come via della giustificazione, rappresenta non
un assioma statico o irremovibile ma dinamico e soggetto a continue tensioni non
soltanto tra Paolo e Giacomo o tra una lettera paolina e l'altra, come tra Galati e
Romani, ma persino nella stessa sezione. Ciriferiamoalle apparenti contraddizio-
ni tra Rm 3,28 e Rm 2,13, da una parte, e tra Paolo e Giacomo, dall'altra. Circa il
primo livello, Rm 3,28 sembra contrastare chiaramente con Rm 2,13: « Infatti non
coloro che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio ma coloro che mettono in
pratica la Legge saranno considerati giusti ». La tensione tra le due asserzioni pao-
line è profonda, al punto che sembrerebbe fondata la considerazione che autori co-
me Ràisànen deducono sulla concezione paolina della Legge: non è soltanto con-
traddittoria tra una lettera e l'altra ma anche in una stessa lettera . Di fatto, prima
469

Paolo sostiene che coloro che mettono in pratica la Legge saranno giustificati
(idikaiòthèsontai, Rm 2,13), poi che l'uomo è giustificato («dikaiousthai, Rm 3,28)
con la fede, senza le opere della Legge.
La contraddizione sembra troppo macroscopica per avere consistenza e ri-
mane tale soltanto quando le due formulazioni vengono estrapolate dai propri
contesti argomentativi, anche se non basta sostenere, con una certa superficialità,
che in Rm 2,13 si tratta di un'ipotesi mentre in Rm 3,28 si è posti di fronte alla si-
tuazione fattuale o reale . Piuttosto, se in Rm 2,13 la prospettiva è segnatamente
470

escatologica, in quanto la giusta retribuzione divina conferma il principio del-


l'imparzialità divina, in Rm 3,28 l'orizzonte è apocalittico e cristologico: la no-
vità di Cristo, come inizio della fase apocalittica della storia, crea apparenti con-
traddizioni tra le due asserzioni. Soltanto in questi diversi livelli è possibile supe-
rare le tensioni tra la giustificazione mediante la fede e il giudizio finale per le
opere. Naturalmente si tratta di due accentuazioni dell'unica relazione con Cristo
e non di due realtà distinte: in Rm 5,1 - 8,39 Paolo evidenzierà i dinamismi della
sua concezione apocalittico-escatologica. Altrettanto complessa è la tensione tra
Rm 3,28; Gal 2,16 e Gc 2,24:
Gal 2,16 Rm 3,28 Gc2,24
« L'uomo non è « L'uomo è giustificato « L'uomo è giustificato
giustificato dalle opere per la fede, senza le opere dalle opere e non solo
della Legge ma mediante della Legge ». in base alla fede ».
la fede di Cristo».
Il riquadro sinottico sembra evidenziare non soltanto tensioni ma persino vi-
stose contraddizioni tra il pensiero di Paolo e quello di Giacomo: se per il primo
l'essere umano è giustificato per la fede in Cristo, senza le opere della Legge, per
il secondo sono necessarie le opere, accanto alla fede . Nei contesti di questi pa-
471

ralleli si assiste persino a un uso contrario di Gn 15,6: se per Paolo la giustifica-

Cfr. H. Ràisanen, Paul, pp. 9-11.


469

Così invece B. Byrne, Romans, p. 139.


470

Su questa tensione cfr. J.-N. Aletti, Gesù Cristo: unità del Nuovo Testamento?, Roma 1995, pp.
471

96-102; R. Penna, La giustificazione per fede in Paolo e in Giacomo, in L'apostolo Paolo, pp. 470-495.
178 Traduzione e commento
zione di Abramo viene fatta derivare dalla fede (cfr. Rm 4,3; Gal 3,6), per
Giacomo, questa « cooperò » (cfr. Gc 2,23) assieme alle sue opere. Ancora una vol-
ta, le decontestualizzazioni delle argomentazioni inducono a evidenziare contrad-
dizioni irrisolvibili, mentre l'attenzione ai livelli argomentativi permette di coglie-
re tensioni e non contraddizioni. Di fatto, è bene precisare che se Paolo si riferisce
alle opere della Legge e non a qualsiasi opera o azione umana, Giacomo conside-
ra le opere derivanti dalla fede e non in contrasto con essa . In pratica, se Paolo si
472

riferisce alle condizioni per essere giustificati, per partecipare alla relazione di al-
leanza con Dio, Giacomo pone le sue attenzioni al livello della permanenza in que-
sta relazione. Per il primo, il livello è segnatamente cristologico, per il secondo di-
venta ecclesiologico e morale.
Di fatto, uno sguardo più globale e dinamico sulla sola fide permette di
escludere una fede che non si produce nell'azione sia perché « Dio renderà a cia-
scuno secondo le sue opere » (Rm 2,6) sia perché la fede stessa « si rende opero-
sa nell'amore» (cfr. Gal 5,6). Per questo Paolo non esiterebbe a sottoscrivere le
asserzioni di Gc 2,23-24. Da parte sua, Giacomo non sembra contestare il princi-
pio della solafidema proprio la falsa conclusione o l'accusa rivolta a Paolo stes-
so in Rm 3,8, corrispondente all'attuazione del male in vista del bene. In definiti-
va, Giacomo non pone in discussione la concezione paolina della giustificazione
per la fede senza le opere della Legge, ma un deleterio paolinismo che rischia di
rendere improduttiva la stessa fede, per la quale, richiamando uno degli slogan di
Corinto, tutto diventa lecito (cfr. ICor 6,12; 10,23). Per Giacomo, come per Pao-
lo, rimane il rischio che la libertà dalla Legge si riduca, nelle comunità cristiane,
a una sorta di libertinismo che non considera più la profonda e necessaria relazio-
ne tra la fede e le opere.
Dunque, non è necessario sostenere il principio della sola fede in modo stati-
co o, semplicemente, assiomatico ma dinamico ericcodi tensioni, tra la dimensio-
ne apocalittica e quella escatologica, tra le condizioni per essere giustificati e quel-
le perrimanerenella giustificazione, altrimenti sirischiadi appoggiarsi su un prin-
cipio non soltanto astratto ma persino controproducente per la stessa fede in Cristo.
[v. 29] Anche se nei vv. 29-30 continua lo stile della diatriba, caratterizzato
da domande e risposte brevi, ora Paolo aggiunge un'ulteriore prova per l'esclu-
sione del vanto: l'universalità e l'unicità di Dio. Dal punto di vista argomentati-
vo si può notare che Paolo procede dall'universalità di Dio (v. 29) alla sua unicità
(v. 30), mentre logicamente la prima caratteristica si fonda sulla seconda: poiché
Dio è unico, è anche universale, per tutti. Il principio dell'universalità divina tro-
verebbe riscontro in qualsiasi setta giudaica del secolo I d.C.; anzi, proprio tale
universalità pone maggiormente in evidenza il valore dell'elezione del popolo
ebraico, scelto fra gli altri popoli . Ciò che distingue l'argomentazione paolina
473

dal comune giudaismo è proprio l'esclusione del vanto che, invece, risulterebbe

472 Così anche R. Penna, Giustificazione, p. Ali.


473 Sulla posizione privilegiata d'Israelerispettoai gentili cfr. Exodus Rabba 29,4.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 179
naturale per quanti hanno aderito al nomismo del patto. Il motivo dell'universa-
lità divina, utilizzato in Rm 2,10-11 in funzione dell'imparzialità divina nell'ap-
plicazione della giustizia retributiva, ora è posto a servizio dell'inaudita giustifi-
cazione per fede, tanto per i giudei quanto per i gentili. L'universalità di Dio è sot-
tolineata anche dal binomio giudei-gentili (cfr. anche ICor 1,23) che sostituisce
quello più diffuso in Romani tra giudeo e greco : se Dio è tale lo è per tutti i po-
414

poli e non soltanto per i giudei.


[v. 30] A fondamento dell'universalità divina Paolo richiama il motivo della
sua unicità . Non è la prima volta che Paolo adduce tale prova: lo ha già fatto per
475

relativizzare la questione degli idolotiti (cfr. ICor 8,4-6) e per sostenere l'inferio-
rità della Legge rispetto alle promesse (cfr. Gal 3,20) . Per la prima parte del v.
476

30 forse non è errato pensare a un'allusione dello Shemah (Dt 6,4), già diffuso,
come professione di fede, nella pietà giudaica del secolo I d.C.
Sorprende, a prima vista, la prospettiva futura della giustificazione divina
nei confronti della circoncisione e dell'incirconcisione: come in Rm 2,13 potreb-
be far pensare alla giustificazione finale . In realtà, si tratta di un futuro gnomi-
477

co o logico, possiamo dire argomentativo , che sostituisce sia il passato (« Dio


478

ha giustificato», cfr. Rm 5,1; 8,30), sia il presente («Dio giustifica», cfr. v. 28;
Rm 8,33). L'uso del futuro può essere causato dall'implicito riferimento al Sai
142,2 citato in Rm 3,20: « Non sarà giustificata nessuna carne davanti a lui ». La
fede accomuna la giustificazione della circoncisione (il giudeo) e dell'incircon-
cisione (il gentile): la scelta per queste figure metonimiche, in cui è sostituito l'ef-
fetto con la causa o il concreto con l'astratto (cfr. Rm 2,26-27), svolge un ruolo
significativo per l'esclusione del vanto: la giustificazione per fede vale, in modo
paritario, per tutti . 479

Discussa è la ragione della variazione « dalla fede » per la circoncisione e


« mediante la fede » per l'incirconcisione. Per alcuni, « dalla fede », riprendendo
la citazione fondamentale di Ab 2,4, si riferirebbe alla funzione generativa della
fede, mentre « mediante la fede » porrebbe l'accento sul ruolo di mediazione che
Cristo svolge nel processo della giustificazione . Tale ipotesi si regge principal-
480

mente sul significato soggettivo della fede, intesa come fedeltà di Cristo. Ab-
biamo già dimostrato l'infondatezza di questa interpretazione per Rm 3,21-31 e

474Cfr. il binomio giudeo-greco in Rm 1,16; 2,9.10; 3,9; 10,12; ICor 12,13; Gal 3,28; Col 3,11.
475La congiunzione eiper che introduce il v. 30 ha valore causale e non condizionale: per questo si
può anche rendere con un semplice «poiché ». Così anche DJ. Moo, Romans, p. 251.
476Cfr. anche la tematica dell'unicità di Dio in Filone, Mundi 170-172; Flavio Giuseppe, Ant. giud.
3,91; 4,200; Me 12,29; Mt 33,9; Ef 4,6; lTm 2,5; Ignazio, Magnesi 8,2; Erma, Precetti 1,1; Diogneto 3,2;
Clemente Alessandrino, Pedagogo 1,8,10. Così anche E. Gràsser, «Ein einziger ist Gott» (Ròm 3,30). Zum
christologischen Gottesverstàndnis bei Paulus, in N. Lohfink (ed.), « lek will euer Gott werden ». Beispiele
biblischen Redens von Gott (SBS 100), Stuttgart 1981, pp. 203-204.
477Così H. Schlier, Romani, pp. 208-209.
478Così anche D.J. Moo, Romans, p. 252; A. Valentini, Giustizia, p. 459.
479Anche questo binomio non rappresenta che una variazione del più diffuso giudeo-greco (cfr. Rm
4,9.12; ICor 7,19; Gal 5,6; 6,15; Col 3,11).
480Così S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 241 ; anche Id., Eh pisteós and dia pisteós in Romans 3:30,
in JBL 108 (1989) 665-674.
180 Traduzione e commento
per tutto il pensiero paolino . Poiché in questa sezione Paolo si riferisce sempre
481

alla fede in Cristo e non di Cristo, è naturale considerare le due variazioni come
stilistiche , anche se « dalla fede » evoca maggiormente la citazione fondamen-
482

tale di Ab 2,4.
[v. 31] L'ultima domanda è incentrata sulla permanenza o meno della Legge;
una nuova questione che Paolo fa emergere da alcune false conclusioni che po-
trebbero derivare dalla dimostrazione svolta sino ad ora: se mediante la Legge si
ha la conoscenza del peccato (cfr. Rm 3,20), se la giustificazione non si ottiene con
la Legge né mediante le sue opere (cfr. Rm 3,20.21.28) e se questa non dispone a
nessun vanto del giudeo (cfr. Rm 3,27), non dovremmo concludere che è stata
abolita con l'avvento della fede in Cristo?
Coloro che hanno optato per un valore generico di nomos al v. 27 non esita-
no a scegliere questa falsa conclusione distinguendo tra la Legge del v. 3la e
quella del v. 31b: se la Legge in quanto obbligazione è abolita, quella come Scrit-
tura permane con tutta la sua forza, anche dopo l'avvento di Cristo. Ma è legitti-
mo scindere queste due accezioni della Legge? Non rappresenta anche questa una
forma di marcionismo, o di canone nel canone? In definitiva, la Legge come le-
gislazione non appartiene alla Legge come rivelazione o Scrittura? Per quanti so-
stengono la duplice visione della Legge in Romani e nell'intero epistolario paoli-
no queste difficoltà sono insormontabili e, riteniamo, irrisolvibili perché, ancora
una volta, Paolo non separa alcuni aspetti della Legge per salvarli a detrimento di
altri: egli ha una concezione olistica o globale della Legge, anche se a volte sot-
tolinea l'aspetto rivelativo rispetto a quello normativo ed etico. Per questo, la que-
stione sull'abrogazione si riferisce alla Legge nella sua globalità e non a un suo
aspetto, scelto a nostro piacimento; e se non avesse inteso in questo modo il ter-
mine nomos nei versi precedenti non sarebbe emersa neppure quest'ultima do-
manda, sulla permanenza o meno della Legge mosaica.
L'uso del verbo « abrogare » o « annullare » (katargein)riscontratogià in Rm
3,3 chiarifica anche la ragione fondamentale per cui la Legge non è abrogata ma
confermata, pur essendo negativizzata quando le viene chiesta la vita o la giustifi-
cazione che non rientra nelle sue capacità. A proposito di Rm 3,1-3 abbiamo evi-
denziato che anche la Legge fa parte delle parole di Dio affidate ai giudei: e queste
rimangono irrevocabili (cfr. Rm 11,29), anche se il giudeo osa vantarsi della Legge
o la strumentalizza. Vedremo che fra i privilegi d'Israele elencati in Rm 9,4-5 si
trova anche il dono della Legge e non soltanto Cristo secondo la carne. In defini-
tiva l'abrogazione della Legge significherebbe l'abolizione stessa del popolo
ebraico che si regge sull'affidamento delle parole di Dio; e questa falsa conclusio-
ne non può non suscitare ilrifiutodi Paolo: « Non sia mai » . 483

Naturalmente questo non significa che la Legge è vincolante anche per i cri-
stiani ma che questi, essendo morti alla Legge (cfr. Rm 7,4), possono assumere

Vedi sopra Vexcursus su «La fede di Cristo».


481

Così già Agostino, De Spiritu et Littera 29,50. Cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 437; D.J.
482

Moo, Romans, p. 252; A. Valentini, Giustizia, p. 459.


Cfr. la stessa formula dirigetto,tipica dello stile diatribico, dopo le false conclusioni in Rm 3,4.6.
483
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 181
una relazione liberante, non retta più sulle sue obbligazioni ma sul suo adempi-
mento in Cristo. Per questo la Legge non è abrogata ma confermata o stabilita
dalla sua relazione con Cristo e con i cristiani . Con questa conclusione Paolo
484

previene qualsiasi prospettiva abrogativa della Legge: questa non è abolita, pur
essendo in diversi contesti negativizzata, ma confermata, lasciata nella sua stabi-
lità per quanti, attraverso di essa, sono giunti alla conoscenza di Cristo, perché in
ultima analisi la stessa giustizia divina nella sua prospettiva salvifica, pur non de-
rivando dalla Legge, è attestata proprio da essa (cfr. Rm 3,21).
L'esempio di Abramo (4,1-25). - La dimostrazione sulla manifestazione del-
la giustizia divina, mediante la fede, necessita di attestazioni e non soltanto del-
l'annuncio kerygmatico sulla salvezza realizzata in Cristo, poiché Paolo stesso ha
sostenuto che, senza la Legge, tale giustizia è testimoniata dalla Legge e dai
Profeti (cfr. Rm 3,21). Il ricorso all'AT è esigito dalla conclusione della pericope
precedente in cui Paolo ha affermato, con forza, la conferma della Legge (cfr. Rm
3,31); e dal versante retorico, l'esposizione delle prove fondate sulla Scrittura co-
stituisce un appello basilare in quanto l'AT rappresenta il fondamentale elemen-
to di condivisione che accomuna il mittente e i destinatari della lettera. Se questa
funzione vale per tutto l'AT, il ruolo della Torah e in particolare le vicende di
Abramo assumono un rilievo particolare . Di fatto, nel comune giudaismo del-
485

l'epoca ellenistica una delle questioni più dibattute riguarda la relazione tra le di-
verse correnti e Abramo. A lui si rifanno i movimenti più interni, come quelli di
tipo farisaico, e quelli più settari, come la comunità di Qumran . Per questo non 486

sorprende che anche Paolo ponga la sua attenzione su Abramo e sulla sua consi-
derazione nelle prime comunità cristiane, in contesti polemici, come in Gal 3,6 -
5,1, e in contesti più sereni o di natura didattica, come in questo caso . Per co- 487

gliere l'orientamento dell'argomentazione paolina di Rm 4,1-25 è necessario


488

484 II verbo histanai, da histemi, indica proprio la stabilità di qualcuno o di qualcosa, la sua irremovi-
bilità (cfr. anche Rm 5,2; 10,3; 11,20; 14.4.4).
485 Cfr. a tal proposito G.W. Hansen, Abraham in Jewish Literature, in Abraham in Galatians.
Epistolary and Rhetorical Context (JSNT SS 29), Sheffield 1989, pp. 175-199; G. Mayer, Aspekte des
Abrahambilders in der hellenistisch-jüdischen Literatur, in EvT 32 (1972) 118-127.
486 Cfr. Sai. Salom. 9,15-19; Test. Levi 15,4, As. Mose 4,5; 4Esd 3,13-15. 30-22; 2Bar 57,1-3; CD 3,2-
4; 16,1.5-6; Filone, Abrahamo; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 1,154-156,233-234.
487 Se prescindiamo dall'incidentale 2Cor 11,22 in cui comunque Paolorivendicala stessa figliolan-
za abramitica dei suoi oppositori (« Sono discendenza di Abramo? Anch'io »), la figura di Abramo colle-
ga in modo unico Galati e Romani mentre non siriscontraaltrove nel suo epistolario (cfr. i midrashim di
Gal 3,6-29; 4,21 - 5,1; Rm 4,1-25; cfr. anche le questioni della figliolanza abramitica in Rm 9,7; 11,1). Su
Rm 4 cfr. in particolare i recenti contributi di J.-N. Aletti, Romains 4. Le cas d'Abraham. Eoi et oeuvres,
oufoi et particularité juive?, in Israel, pp. 71-100; M. Neubrand, Abraham - Vater von Juden und
Nichtjuden: Eine exegetische Studie zu Rom 4, Würzburg 1997.
488 Non è facile identificare il midrash: può essere più descritto che definito, come giustamente osser-
va R. Le Déaut, À propos d'une défìnition du midrash, in Bib 59 (1969) 401. In base alla sua derivazione eti-
mologica, il midrash indica il « cercare » (in ebr. däras) come atto interpretativo dell'AT: il lettore interpre-
ta l'AT secondo una propria prospettiva ermeneutica, in vista della dimostrazione delle proprie argomenta-
zioni. Rispetto alle sue origini è bene distinguere tra la sua canonizzazione in epoca rabbinica, dopo il 70
d.C., e la sua modalità di rileggere eventi e personaggi dell'AT. Così, se le regole o middòt del midrash ri-
salgono al periodo postbiblico, il cercare nell'AT la conferma o il fondamento delle proprie tesi si riscontra
182 Traduzione e commento
tener presente il percorso delle citazioni dirette e il relativo commento paolino . 489

Così è possibile individuare quattro citazioni dirette, alcune delle quali sono ri-
prese più volte nel corso della dimostrazione: Gn 15,6 in Rm 4,3.9.22; Sai 31,1-
2 in Rm 4,7-8; Gn 17,5 in Rm 4,17.18 e Gn 15,5 in Rm 4,18b.
La citazione di Gn 15,6 è quella fondamentale in quanto è ripresa tre volte in
Rm 4: l'attenzione è volta a spiegare il senso della fede di Abramo in rapporto al-
la giustizia e, dal versante negativo, come la sua fede non è relazionata alle ope-
re della Legge. Per questo Paolo è attento a citare alcuni passi genesiaci che pre-
cedono la promulgazione della circoncisione, legiferata in Gn 17,10-11, giungen-
do sino a Gn 17,5. In tal modo, Abramo diventa il modello di chi non trova nessun
vanto sulla Legge mosaica. La funzione di questo midrash è esplicitata nella con-
clusione: l'accreditamento di Abramo vale anche per tutti i credenti in Cristo (vv.
23-24). Pertanto, si tratta di un midrash haggadico o narrativo con finalità didat-
tica per i destinatari della lettera che, credendo come Abramo, si relazionano a
lui. Di fatto, in Rm 4,1-25 Abramo svolge un ruolo esemplare e generativo: chi
crede come lui, senza cercare motivo di vanto nella Legge e nelle sue opere, di-
venta anche suo figlio. In base al commento paolino delle citazioni dirette si pos-
sono distinguere quattro microunità: il midrash in quanto tale (vv. 1-8), l'accre-
ditamento (vv. 9-12), la fede e la promessa di Abramo (vv. 13-22) e la conclusio-
ne cristologica (vv. 23-25) . Il filo conduttore è tenuto da Gn 15,6, di cui Paolo
490

spiega prima il significato dell'espressione « gli fu accreditato per la giustizia» e


quindi della fede di Abramo. Vedremo come la conclusione di Rm 4,23-25 vale
per Rm 4 e per tutta la sezione di Rm 3,21 - 4,25, perché ricapitola gli elementi
essenziali di quanto Paolo ha precedentemente dimostrato.
La fede di Abramo (4,1-8). La funzione didattica dell'esempio di Abramo è
confermata dallo stile diatribico con il quale Paolo introduce la nuova micro-
unità: due domande rivolte ai destinatari della lettera segnano il passaggio alla
nuova pericope (vv. 1.3). Non è facile stabilire la conclusione di questa prima pe-
ricope: per alcuni si conclude al v. 8 , per altri al v. 12 . A prima vista, sembra
491 492

strano concludere al v. 8, senza il commento al Sai 31,1-2: sarebbe più naturale


giungere sino al v. 12. In realtà, bisogna riconoscere che le delimitazioni interne
di Rm 4 sono molto tenui in quanto si tratta di un'unica macrounità letteraria che

nell'AT stesso (cfr. Is 34,16; Esd 7,10). L'uso del verbo däras nella comunità di Qumran (cfr. 1QS 5,11; 6,6)
e la trasmissione del pesher di Abacuc (lQpHab) dovrebbero fugare ogni dubbio sulla presenza del midra-
sh in epoca neotestamentaria, nonostante qualcuno come DJ. Moo, Romans, p. 255, si mostri reticente sul-
l'uso di questo termine per l'esegesi paolina dell'AT. Per una trattazione più ampia del midrash, delle sue
caratterizzazioni e delle sue regole cfr. R. Bloch, Midrash, in DBS V (1975) 1263-1281; A. Del Agua Perez,
El mètodo midràsico y la exégesis del Nuevo Testamento, Valencia 1985; J. Neusner, What is Midrash ?,
Philadelphia 1987; H.L. Strack - G. Stemberger, Einleitung in Talmud undMidrasch, München 1982 . 7

489Sul midrash paolino cfr. W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism. Some Rabbinic Elements in
Pauline Theology, London 1970 ; T. Hanson, Studies in Paul's Technique and Theology, London 1974; A.
3

Pitta, Argomentazione midrashica, in Sinossi paolina, pp. 99-117.


Per queste delimitazioni interne di Rm 4 cfr. J.D.G. Dunn, Paul, p. 376; E. Käsemann, La fede di
490

Abramo in Rom. 4, in Prospettive paoline (SB 18), Brescia 1972, p. 121; D.J. Moo, Romans, p. 256.
Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 441; D.J. Moo, Romans, p. 259; U. Wilckens, Römer, I, p. 260.
491

Cfr. B. Byrne, Romans, p. 142.


492
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 183
giunge almeno sino al v. 22. Stabilita questa caratterizzazione di Rm 4, si può no-
tare tuttavia che al v. 9 subentra una nuova domanda diatribica che coglie l'occa-
sione della beatitudine citata nel Sai 31,1-2 per introdurre la questione sull'accre-
ditamento di Abramo. Per questo è preferibile delimitare il midrash, in quanto ta-
le, a Rm 4,1-8: ciò che segue è un commento esteso al senso di Gn 15,6.
La seconda regola midrashica normativizzata in epoca rabbinica e collocata
sotto l'autorità di Hillel è nota come gezerah showah che possiamo rendere con
il principio d'equivalenza: un passo dell'AT si spiega con un altro passo che sia
collegato al primo per connessioni linguistiche o terminologiche. Non sappiamo
se Paolo conoscesse già questa regola midrashica canonizzata in seguito (secolo
II d.C.); di fatto i due passi riportati nel midrash su Abramo, Gn 15,6 e il Sai
31,1-2, sono collegati fra loro dal verbo «accreditare» . La dimostrazione di
493

Rm 4,1-8 ruota intorno a queste due citazioni: l'una tratta dalla Torah, che svol-
ge il ruolo principale, l'altra dai Salmi che, è bene precisare, sono considerati,
dalla tradizione giudaica, come composti dal profeta Davide. In tal modo, Paolo
si attiene a una parte della tesi della sezione: «...Testimoniata dalla Legge e dai
Profeti »(Rm 3,21) . 494

Seguendo il canovaccio della liturgia sinagogale tramandataci dalla tradizio-


ne giudaica successiva si potrebbe pensare a una relazione tra un seder (organiz-
zazione, ordine), corrispondente a un passo tratto dalla Torah, e una haftarah (rin-
vio, fine), equivalente a un passo riportato dalla letteratura profetica. Non è faci-
le riconoscere la presenza di questo modello omiletico nel secolo I d.C., poiché
sino ad ora non ci sono pervenute attestazioni, anche se altrove Paolo illumina un
passo della Torah con uno dei Profeti . Si può notare come Paolo riesca a com-
495

binare bene lo stile della diatriba con l'argomentazione midrashica, con buona
pace di quanti oppongono, in modo aprioristico, la retorica greco-romana a quel-
la semitica, ammesso e non concesso che esista una retorica semitica . D'altro 496

canto, la stessa regola rabbinica della gezerah shawah corrisponde al principio re-
torico della sygkrisis, ossia al confronto tra due personaggi, termini o passi che si
chiarificano a vicenda. In questo confronto il ruolo principale è svolto da Gn 15,6
mentre il Sai 31,1-2 è citato a supporto o come conferma.
[4,1] La narrazione su Abramo si apre con una crux interpretum circa la pun-
teggiatura e il senso del v. 1: Paolo si introduce con una o due domande? Il verbo
« trovare » (heurèkenai) si relaziona a noi, ad Abramo oppure a « secondo la car-
ne»? Le principali edizioni critiche del NT preferiscono optare per un'unica do-
manda mentre alcuni esegeti ne distinguono due: « Che cosa diremo dunque?
497

493Sulla gezerah shawah di Rm 4,1-8 cfr. J.-N. Aletti, Giustizia, pp. 110-111; B. Byrne, Romans, p.
146; R.B. Hays, Scripture, p. 55.
494Così anche B. Byrne, Romans, p. 147.
495Cfr. Gal 4,21 - 5,1 in cui i passi di Gn 16,15; 21,2 sono chiariti da Is 54,1. Cfr. anche A. Del Agua
Perez, Midràsico, p. 347.
496Cfr. A. Pitta, Così «inesperto nell'arte retorica»? (cfr. 2Cor 11,6): retorica e messaggiopaoli-
no, in Paradosso, pp. 39-41.
497Cfr. Merk ; N-A ; GNT .
10 27 4
184 Traduzione e commento
Abbiamo trovato che Abramo è nostro progenitore secondo la carne? » . Anche 498

se non sarebbe la prima volta in cui Paolo introduce un nuovo livello argomenta-
tivo con la semplice domanda « che diremo dunque? » , la seconda domanda in-
499

trodotta dal verbo « trovare » giunge troppo improvvisamente rispetto a Rm 3,21 -


4,25. D'altro canto, anche se l'espressione « secondo la carne» è tipica del voca-
bolario paolino, ancora non si riscontra in Romani con la sua accezione negativa,
ma semplicemente neutra . In tal modo, ci troveremmo di fronte a un'anticipa-
500

zione per nulla preparata ed esclusa dallo sviluppo contenutistico di Rm 4.


Forse dietro queste varianti interpretative, rispetto alle edizioni critiche del
NT, si trova il trasferimento indebito delle argomentazioni midrashiche di Gal
3,6-29; 4,21 - 5,1, in cui Paolo tratta di Abramo per distinguere nettamente la fi-
gliolanza secondo la carne da quella secondo lo Spirito . Invece in Rm 4,1-25 501

Abramo è introdotto per tutt'altra questione: dimostrare storicamente che il vanto


fondato sulla Legge non trova nessuna consistenza. Per questo ci sembra più op-
portuno conservare un'unica domanda, riferire il verbo «trovare» ad Abramo e
intendere l'espressione «secondo la carne» con valore neutro, corrispondente a
storicamente . Dal proseguimento del midrash si coglie questo significato della
502

domanda introduttiva: la vicenda di Abramo diventa esemplare per quanti si fon-


dano sulla fede e non sulla Legge.
L'attributo « progenitore » o patriarca compare soltanto qui nel NT , ma non 503

bisogna dimenticare la diffusa attribuzione della paternità di Abramo , anche se 504

i suoi figli gli sono relazionati in modi diversi. Di fatto, se gli ebrei, a prescinde-
re dalla loro adesione a una delle forme del comune giudaismo, sono suoi figli se-
condo la carne, i gentili lo diventano proprio in dipendenza della loro adesione a
una delle forme di giudaismo. Per questo l'espressione «nostro progenitore se-
condo la carne » sirivolgeprimariamente al versante giudaico delle comunità cri-
stiane, facendo assurgere Abramo a modello della giustificazione mediante la fe-
de. Dunque è bene precisare che come Gesù Cristo, secondo la carne, appartiene
al popolo giudaico, così Abramo, secondo la carne, è prima di tutto progenitore
del popolo ebraico, come conferma l'elenco dei privilegi in Rm 9,4-5. In seguito,
Paolo dimostrerà che quanti credono come Abramo diventano figli suoi, anche se
non secondo la carne.
[v. 2] Nonostante, come abbiamo evidenziato nell'introduzione a Rm 4, la
vicenda di Abramo e l'appartenenza alla sua figliolanza rappresentino fra le prin-

Cfr. R.B. Hays, «Have We Found Abraham to be Our Forefather According to the Flesh? ». A
498

Reconsideration ofRom 4:1, in NT 21 (1985) 76-98; Id., Scripture, p. 54. Così anche M. Cranford, Abraham
in Rom 4: The Father of Ali Who Believe, in NTS 41 (1995) 75; S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 242,
che però traduce « secondo la carne » con « sforzo umano ». Restando nell'ipotesi di due domande, altri ri-
feriscono il verbo « trovare » ad Abramo e non a « noi ». Così T.H. Tobin, What Shall We Say that Abraham
Found? The Controversy Behind Romans 4, in HTR 88 (1995) 437-452.
Cfr. Rm 3,5 (senza «dunque»); 6,1; 7,7; 8,31; 9,14.30.
499

Cfr. Rm 1,3. Per l'accezione negativa di «secondo la carne» bisogna attendere Rm 8,4.5.12.13.
500

Per le critiche alle interpretazioni di Hays e di Cranford cfr. J.-N. Aletti, Israel, pp. 72-74.
501

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 259.


502

Per questo titolo attribuito ad Abramo cfr. Flavio Giuseppe, Guer. giud. 5,380.
503

Cfr. Rm 11,1; 2Cor 11,2; Gal 4,22; Le 1,55.73; 3,8; 16,24.30; 19,9; Gv 8,33.39; At 7,2; 13,26; Gc2,21.
504
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 185
cipali questioni del comune giudaismo, Paolo si distanzia subito dalla generale
concezione, separando nettamente la giustificazione di Abramo mediante le ope-
re da quella mediante la fede . Nessuno prima di lui aveva considerato l'alter-
505

nativa tra la fede e le opere di Abramo ma la sua fede, alla quale spettava sempre
la precedenza, era stata sempre relazionata alle opere; anzi, all'opera principale
del sacrificio di Isacco (cfr. Gn 22) . 506

Questo è confermato dalla concezione giudaica secondo la quale, anche se


Abramo non aveva ancora ricevuto la Legge mosaica, era considerato modello di
adesione alla Legge a causa dell'osservanza della circoncisione. Invece, Paolo so-
stiene che, persino se Abramo fosse stato giustificato in base alle opere, come
l'osservanza della circoncisione, ciò non avrebbe rappresentato comunque una
ragione di vanto davanti a Dio . Anche in questo caso, le opere come fondamen-
507

to della giustificazione sono quelle della Legge e non riguardano qualsiasi opera
umana (cfr. anche Rm 3,27). Paolo pone in discussione la giustificazione fondata
sulla fede e non sulle opere della Legge. L'accenno al vanto conferma la ragione
principale per la quale egli si richiama alla figura di Abramo: è il modello per l'e-
sclusione del vanto, sottolineata in Rm 3,27 . 508

L'affermazione del v. 2 è in forte tensione con quella di Gc 2,21: «Abramo


nostro padre non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio
sull'altare? ». Se Giacomo relaziona la giustificazione di Abramo all'opera del sa-
crificio di Isacco, Paolo non citerà mai esplicitamente Gn 22, che invece trova
grandirisonanzenella tradizione giudaica. Non solo egli separa la fede di Abramo
dal sacrificio del figlio ma, come vedremo per Rm 8,32, il sacrificio di Isacco si
trova nel retroterra del sacrificio di Cristo.
[v. 3] Proseguendo con lo stile della diatriba, Paolo considera la Scrittura
come una persona che parla e interpella direttamente i suoi interlocutori . 509

Segue la citazione diretta di Gn 15,6 che egli ha già posto a fondamento del mi-
drash di Gal 3,6-29, anche se si possono riconoscere alcune variazioni rispetto a
Gal 3,6 (cfr. la stessa citazione in Gc 2,23). Così recita Gn 15,6 secondo la LXX
che corrisponde al TM: « E Abramo credette in Dio e gli fu accreditato per la
giustizia». Paolo invece riporta due volte lo stesso testo con variazioni conte-
stuali: in Gal 3,6 anticipa il nome di Abramo davanti a «credette» e omette la
congiunzione kai; in Rm 4,3 riprende letteralmente la disposizione originaria di
Gn 15,6 e sostituisce il kai con un de avversativo. Le differenze sono determina-
te dai contesti diversi in cui Gn 15,6 è citato. Per questo, più che un ricorso a un
testo originario o Vorlage °, diverso dalla LXX, riteniamo che tali variazioni sia-
51

505Così anche R. Penna, Giustificazione per fede, p. 472.


506Cfr. Sir 44,19-21 ; Giub 23,10; 4Mac 2,50.52; 2Bar 57,2; Filone, Abrahamo 52-54; Flavio Giusep-
pe, Ant. giud. 1,256.
507La condizionale del v. 2 è di tipo semplice e non necessariamente reale.
508Per il significato di kauchèma vedi il commento a Rm 3,27.
509Con il verbo « dire » in contesti di domande cfr. anche Rm 11,2; Gal 4,30; senza domande ma sem-
pre con la Scrittura che parla cfr. Rm 9,17; 10,11; lTm 5,18; Gv 19,28.37; Gc 4,5.
5,0Così invece C.D. Stanley, Paul, p. 100.
186 Traduzione e commento
no causate dalle contestualizzazioni argomentative nelle quali Paolo riprende
Gn 15,6 . 511

Paolo non è il primo a richiamare l'importanza di Gn 15: la sua citazione è


riscontrabile già nella precedente tradizione giudaica ; tuttavia è il primo a con-
512

testualizzare la citazione di Gn 15,6 in netta opposizione con le opere. Da questo


punto di vista, è stridente non solo il contrasto con Gc 2,23 ma anche con IMac
2,52: « Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu accredita-
to ciò come giustizia?». Naturalmente, a Paolo spetta dimostrare questa separa-
zione radicale tra la giustificazione di Abramo per la fede e quella per le opere.
Comunque egli ricorre alla prima citazione della Scrittura in cui si parla della fe-
de: prima di Gn 15,6 non compaiono mai i termini « credere » e « fede » nella Ge-
nesi; soltanto in questo caso si parla della fede di Abramo rapportata alla sua giu-
stizia. Dunque, Paolo non viola l'andamento originario della storia di Abramo ma
si attiene alla narrazione genesiaca che pone l'accento sulla sua fede dalla quale
deriva la promessa della discendenza.
[vv. 4-5] Forse, Paolo stesso era cosciente che la sua esegesi di Gn 15,6 po-
teva essere considerata arbitraria per l'opposizione tra la fede e le opere. La stes-
sa narrazione di Gn 15 comincia con il motivo della ricompensa promessa ad
Abramo per la sua adesione all'elezione: «Non temere, Abramo. Io sono il tuo
scudo; la tua ricompensa sarà molto grande » (Gn 15, lb). Per questo Paolo si pre-
mura di precisare subito il senso della ricompensa e del relativo accreditamento,
partendo da un'osservazione di natura generale e, diremmo, lapalissiana. Già
Gesù avevariconosciutoche « l'operaio è degno della propria mercede » (Le 10,7)
riferendosi alla missione dei discepoli ; e Paolo non esiterà a considerare il mini-
513

stero apostolico degno della ricompensa futura (cfr. ICor 3,8-14), anche se la sua
predicazione per il vangelo, come affidamento divino, non è soggetta a ricompen-
sa ma è segnata dalla gratuità del servizio (cfr. ICor 9,17-18). Questa constatazio-
ne contrattuale permette di distinguere ciò che è gratuito da quanto è soggetto a
obbligazione: l'economia della gratuità , diremmo del volontariato, non ha nulla
514

a che vedere con quella della ricompensa!


L'esempio del salario corrisposto a chi lavora prosegue, dal versante negati-
vo, al v. 5 ma con una improvvisa applicazione alla relazione tra Dio e l'empio.
Piuttosto, ci aspetteremmo un'affermazione del tipo « mentre a chi non lavora non
è data nessuna ricompensa ma ciò che gli viene offerto dipende dalla gratuità del
padrone». Invece, Paolo orienta subito il paragone a favore dell'azione giustifi-

511 La presenza della stessa citazione in Gc 2,23 conferma la dipendenza di Giacomo da Paolo e non
il ricorso a una sua tradizione autonoma. L'accreditamento della giustizia è attribuito anche dal Sai 106,31
a Pincas e dal Libro dei Giubilei a Simeone e Levi (cfr. Giub 30,17).
512 Cfr. IMac 2,52; Giub 21,2; 23,10; CD 3,2; Filone, Mutatione ìli; 186; Migratione 44; Deus 4;
Virtutibus 216-218; Praemiis 27-30. In seguito nella tradizione subapostolica cfr. lClem 10,1.6; Barnaba
6,8; 9,7-8; Ignazio, Filadelfiesi 9,1; Giustino, Dialogo 23,4; 92,3; 119,6.
513 II detto gesuano sarà ripreso in lTm 5,18.
514 II sostantivo charin (grazia), anche se qui va inteso con gratuità, richiama la grazia della giustifi-
cazione in Cristo (cfr. Rm 3,24) e anticipa la grazia sulla quale si regge la promessa della discendenza (cfr.
Rm 4,16).
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 187
catrice di Dio verso l'empio, al quale è richiesta soltanto la fiducia nel Signore.
Uno degli assiomi fondamentali della giustizia divina nell'AT consiste proprio
nel non assolvere il colpevole e nel riconoscere la rettitudine del giusto:
« Assolvere il reo e condannare il giusto sono due cose in abominio al Signore »
(Pr 17,15) . Quando Dio giustifica l'empio non ci troviamo più di fronte alla sua
515

giustizia distributiva ma alla sua azione misericordiosa; e da quest'azione dipen-


de la fede o la fiducia accreditata come giustizia. Sottolineando questa relazione
tra la paradossale azione giustificatrice di Dio e la giustizia accreditata per la fe-
de, Paolo evidenzia come all'origine dell'accreditamento si trovi l'azione gratui-
ta di Dio. Dunque, anche la fede umana scaturisce dall'azione giustificatrice di
Dio e non dalla nostra giustizia.
In questi versi sorprende la mancanza di riferimento cristologico, in quanto
Paolo stesso ha sostenuto che l'azione giustificatrice di Dio e la fede umana han-
no un orientamento cristologico: in Cristo, Dio ha giustificato l'empio; e, per la
fede in Cristo, l'empio riceve l'accreditamento per la giustizia (cfr. Rm 3,21-26).
Tale omissione è determinata dalla scelta argomentativa del midrash: la vicenda
di Abramo dimostra che Dio giustifica soltanto in base alla fede, senza nessun'o-
pera della Legge; soltanto alla fine Paolo richiamerà il fondamento cristologico
della giustizia divina e della fede (cfr. Rm 3,24-25).
[vv. 6-8] Sino ad ora Paolo si è limitato a separare la fede di Abramo dalle
opere, contrastando la concezione generale del comune giudaismo e per questo,
essendo soggetto a molte contestazioni del tipo: la fede di Abramo haricevutoil
suo banco di prova nel sacrificio di Isacco! In ultima analisi non è necessario scin-
dere la fede dalle opere per riconoscere la preminenza della fede stessa! Per que-
sto è necessario un altro passo dell'AT nel quale si affermi che Dio non accredita
il peccato ma soltanto la giustizia fondata sulla fede-fiducia in lui, senza le opere.
Così il Sai 31,1-2 diventa il passo ideale che conferma Gen 15,6: all'accredita-
mento positivo della giustizia fondata sulla fede corrisponde la mancanza del-
l'accreditamento dei peccati. La citazione del Sai 31 è introdotta da una formula
originale: Davide stesso conferma l'accreditamento della giustizia senza le ope-
re . La citazione del Sai 31,1-2 corrisponde alla versione della LXX, ma risulta
516

volutamente monca, a causa dell'opposizione che Paolo stabilisce tra la fede e le


opere. Bastava citare anche l'ultima parte del Sai 31,2 per comprendere che il
mancato accreditamento del peccato si coniuga comunque con la collaborazione
umana: «...Né c'è nella sua bocca inganno». D'altro canto, proprio il Sai 31 si
conclude con la condanna futura di chi persevera nel peccato e con la grazia di chi
confida nel Signore (v. 10).
Questo collegamento tra Gn 15,6 e il Sai 31,1-2 serve a Paolo non soltanto
per chiarire il senso positivo e quello negativo dell'accreditamento ma anche per
stabilire un esemplare rapporto tra Abramo e chiunque ha aderito all'economia
della fede e non a quella delle opere della Legge. Già la tradizione giudaica pre-
515 Cfr. anche Es 23,7; Is 5,23; Pr 24,24; Sir 42,2; CD 1,19.
516 Per formule analoghe d'introduzione per un passo salmodico cfr. Rm 11,9; cfr. anche At 2,25;
Eb 4,7.
188 Traduzione e commento
cedente aveva sottolineato che Abramo quando ricevette l'alleanza e la promes-
sa di Gn 15 era un gentile ; con l'adesione all'alleanza divina egli è passato dal
517

politeismo alla fede nell'unico Dio; e questo gli ha permesso l'accreditamento


della giustizia. Tuttavia, se per il comune giudaismo questo retroterra della con-
dizione di Abramo diventa modello di adesione al giudaismo per i gentili, così da
essere considerato come motivo di vanto per i giudei , per Paolo rappresenta la
518

condizione ideale per sottolineare che Abramo non aveva bisogno delle opere
della Legge, come la circoncisione che sopraggiungerà in un secondo momento
(cfr. Gn 17,10-11): il suo accreditamento avvenne soltanto in base alla fede e non
per le opere della Legge.
L'accreditamento (4,9-12). - Il midrash di Rm 4 si sarebbe potuto conclude-
re con Rm 4,11, vale a dire con la netta opposizione tra la giustificazione per la
fede e quella mediante le opere della Legge, che trova il modello fondamentale in
Abramo. Invece, Paolo avverte la necessità di spiegare prima di tutto il senso del-
l'accreditamento divino per la giustizia di Abramo, perché chiunque avrebbe po-
tuto affermare che la giustizia accreditata in Gn 15 di fatto si realizzò con la cir-
concisione, promulgata in Gn 17. La centralità tematica dell'accreditamento è
confermata non tanto dalla ripresa di Gn 15,6 in Rm 4,9 ma soprattutto dalla do-
manda esplicita del v. 10: « Come dunque gli fu accreditata? » 519

Dalla questione sull'accreditamento dipende l'antitesi che Paolo stabilisce tra


la circoncisione e l'incirconcisione. L'unità letteraria della pericope è abbastanza
definita: comincia con la domanda sulla beatitudine e si chiude con la paternità di
Abramo per quanti credono (v. 12) . La tematica della fede, pur presente in Rm
520

4,9-12, dominerà nella pericope successiva. Con gran duttilità argomentativa


Paolo riesce ancora a combinare l'argomentazione midrashica con quella della
diatriba: anche in questa pericope sono lanciate tre domande diatribicherivolteal-
l'interlocutore fittizio. L'orizzonte argomentativo è marcatamente didattico: egli
ripercorre la storia di Abramo, dal periodo precedente all'alleanza (Gn 15) a quel-
lo della circoncisione (Gn 17), facendo valere il criterio cronologico come assio-
logico o di importanza qualitativa: ciò che viene prima è più importante!
[4,9] Il commento a Gn 15,6 comincia con l'esplicita connessione rispetto
al Sai 31,1 -2. La beatitudine che ha cadenzato la citazione del Sai 31 funge da pa-
rola gancio o da mot-crochet rispetto all'enunciazione del midrash (cfr. vv. 7.8) . 521

Dalla lettura del Sai 31 nulla fa pensare alla questione posta in campo da Paolo,
ossia se il condono del debito o il mancato accreditamento dei peccati valesse per

517 Così anche J.-N. Aletti, Giustizia, p. 111; E. Adam, Abraham's Faith, p. 51.
518 Cfr. Giub 12,1-8.12-14.16-20; Ap. Abr. 1-8; Filone, Virtutibus 219; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 1,155.
519 II verbo « accreditare » (logizesthai) caratterizza l'unità di Rm 4,9-12: vi si trova 3 volte (vv. 9.10.11);
scomparirà nella pericope successiva per essere ripreso in Rm 4,22 e nella conclusione di Rm 4,23.24.
520 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 452; DJ. Moo, Romans, p. 267; U. Wilckens, Römer, I, p. 264.
521 Si può notare, nella formulazione greca, l'ellessi del verbo, ossia la mancanza del verbo principale. Si
può supporre il verbo «è detta» (legetai) o «è data» (didötai)', il senso dell'affermazione è, in ogni caso, chia-
ro. Per il verbo « dire » cfr. F. Blass - A. Debrunner - F. Rehkopf, Grammatica del greco del Nuovo Testamento,
Brescia 1982, p. 590; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 454; per il verbo « dare » cfr. DJ. Moo, Romans, p. 267.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 189
i circoncisi o per gì'incirconcisi. Di fatto, questi termini non compaiono mai nel
Sai 31; e qualsiasi giudeo avrebbe risposto che tale condono si riferisce soltanto
ai figli d'Israele, poiché si regge sull'alleanza tra il Signore e il suo popolo, come
conferma l'interpretazione rabbinica successiva . Invece, Paolo non esita ad ap-
522

propriarsi del Sai 31 per porre la questione che gli sta maggiormente a cuore: l'u-
niversale orizzonte dell'accreditamento per la giustizia. Ancora una volta, i so-
stantivi concreti « circoncisione » e « incirconcisione » sostituiscono, per metoni-
mia, i corrispondenti « giudei » e « gentili » o « greci » (cfr. Rm 3,29-20).
Segue la citazione libera di Gn 15,6 in cui però il soggetto non è più Abra-
mo, come nella LXX o nella citazione diretta di Rm 4,3, ma la fede che fu accre-
ditata ad Abramo per la giustizia. Il senso della citazione non cambia, in quanto
è stato sostituito semplicemente il verbo « credere » con il sostantivo « fede », ma
questa citazione libera di Gn 15,6 permette a Paolo di inserire il termine « fede »
che regge la spiegazione successiva. Per questo il verbo « diciamo » richiama,
con più libertà, la citazione diretta di Rm 4,3.
[v. 10] L'evento dell'accreditamento (Gn 15,6) precede qualsiasi promul-
gazione della Legge, anche quella che distingue il popolo ebraico dagli altri po-
poli: la circoncisione, raccontata in Gn 17,10-11. Paolo si appella a questa pre-
cedenza cronologica per evidenziare la situazione di incirconcisione nella quale
si trovava Abramo, quando la sua fede divenne il fondamento dell'accreditamen-
to per la giustizia . In tale occasione la condizione di Abramo non era diversa da
523

quella di qualsiasi altro gentile: per questo diventa modello e padre non soltanto
dei giudei ma anche dei gentili.
[v. Ila] Che la visione della Legge in Romani risulti più serena e globale di
quella conflittuale e polemica di Galati emerge dalla relazione che qui Paolo non
esita ariconosceretra Gn 15 e Gn 17 . Di fatto, se in Galati era stato costretto a
524

opporre l'economia della fede a quella della circoncisione (cfr. Gal 5,2-3), sotto-
lineandone l'incompatibilità, in Romani la circoncisione è considerata come se-
gno e sigillo della giustizia accreditata in precedenza ad Abramo . Senza citare 525

direttamente l'evento, Paolo siriferiscea Gn 17,11 in cui la circoncisione è defi-


nita come «segno dell'alleanza» ('ót berìt). Forse volutamente egli non accenna
SL\Valleanza : avrebbe potuto far pensare che si trattasse di un'alleanza migliore
526

rispetto a quella di Gn 15, in quanto qualificata dal segno della circoncisione.


Il valore della circoncisione èriconosciutocon l'espressione « sigillo della giu-
stizia ». Il sostantivo « sigillo » (sphragis) potrebbe far pensare a un'allusione batte-
simale: con Cristo il sigillo battesimale sostituisce quello della circoncisione ; e 527

522 Cfr. Pesiqta Rabbati 45,185b.


523 Cfr. l'analoga argomentazione di Gal 3,17-18, in cui la precedenza dell'alleanza di Gn 15 è fatta
valere sulla successiva comparsa della Legge mosaica.
524 Per questa novità in Rm 4rispettoa Gal 3 cfr. H. Hiibner, Legge, p. 93.
525 Cfr. anche Giub 15,26 in cui la circoncisione è descritta come il « segno » dell'appartenenza par-
ticolare al Signore. Soltanto qui Paolo attribuisce alla circoncisione un valore simbolico di segno (cfr. l'u-
so diverso di semeion in Rm 15,19; ICor 1,22; 14,22; 2Cor 12,12.12; 2Ts 2,9; 3,17).
526 Cfr. invece l'espressione « alleanza della circoncisione » in At 7,8.
527 Cfr. l'uso del verbo sphragizein in Ef 1,13; 4,30.
190 Traduzione e commento
spesso il battesimo è considerato come rito d'ingresso nella comunità cristiana che
sostituisce la circoncisione. Questo parallelismo troverebbe conferma in Col 2,11-
15, in cui la circoncisione non fatta da mani d'uomo è relazionata al battesimo cri-
stiano; e lo stesso Paolo non esita ad asserire che « la vera circoncisione sono colo-
ro che mossi dallo Spirito rendono gloria a Dio » (Fil 3,3). In realtà, questo paralle-
lismo non soltanto è improprio marisultadeleterio per la stessa concezione paolina
del battesimo che non rappresenta il sigillo diriconoscimentoper la comunità cri-
stiana bensì, come vedremo per Rm 6, l'espressione di una vitale relazione in atto
con la morte e larisurrezionedi Cristo. Pertanto, anche se successivamente il sigil-
lo è collegato al battesimo , nelle grandi lettere paoline non si verifica mai tale ana-
528

logia, in quantoriduttivaper la considerazione del battesimo.


Un genitivo d'origine, « della fede » , specifica il significato della relazione
529

tra la circoncisione e la giustizia: quest'ultima rimane quella accreditata in Gn 15


che nonricevenulla di più dalla circoncisione, se non rappresentare il segno di un
evento già realizzato, quello della giustizia per la fede, quando lo stesso Abramo
era ancora incirconciso.
[vv. llb-12] Dalla precedenza cronologico-qualitativa della giustizia per la
federispettoalla circoncisione, Paolo trae subito conseguenze che relativizzano il
valore positivo della circoncisione. I vv. llb-12 sono costruiti secondo un parai-
lelismus membrorum: Abramo è, nello stesso tempo, padre degli incirconcisi e dei
circoncisi. Rispetto ai primi, Paolo parla di coloro che credono fra i gentili.
Ancora una volta, sorprende l'assenza di riferimenti cristologici: ci saremmo
aspettati un'espressione del tipo: « ...Coloro che credono in Cristo ». Invece egli si
riferisce in generale a quanti credono. A ben vedere, il participio pisteuontes indi-
ca generalmente per Paolo coloro che dopo verranno chiamati cristiani , in quan-
530

to, senza la fede in Cristo, i gentili non possono ricevere alcun accreditamento
della giustizia conferita da Dio ad Abramo. Comunque, Paolo sottolinea la pro-
spettiva partecipazionistica della giustizia divina, con buona pace di quanti op-
pongono il linguaggio della giustizia a quello della partecipazione in Cristo: cre-
dere come Abramo rende gli etnico-cristiani partecipi della sua stessa giustizia.
Naturalmente bisognerà attendere Rm 5,1 - 8,39 per comprendere quale fede ren-
de possibile tale partecipazione. Intanto a Paolo preme dimostrare che Gn 15,6
non vale soltanto per Abramo ma anche per gli incirconcisi che credono.
La seconda parte del parallelismo rivolge l'attenzione ai circoncisi, ossia ai
giudei: Abramo è anche il loro padre e non soltanto « secondo la carne », come ha
riconosciuto all'inizio del midrash (v. 1) ma, diremmo, anche per la fede. In ve-
rità, è dibattuto il significato del v. 12, perché non è chiaro se Paolo siriferiscaa
uno o a due gruppi: Abramo è padre dei circoncisi e di coloro che proseguono
sulle orme della fede, distinguendo due gruppi, oppure si tratta di un unico grup-
po, identificabile in coloro che sono circoncisi e imitano Abramo nel conferire

Cfr. 2Clem 7,6; 8,6; Erma, Similitudine 8,6,3; 9,16,3; Atti di Tommaso 131; Clemente
528

Alessandrino, Quis Dives salvetur 42,4.


Così anche DJ. Moo, Romans, p. 269.
529

Vedi sopra il commento a Rm 3,22.


530
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 191
preminenza alla fede rispetto alla Legge? . Nella prima ipotesi si potrebbe pen-
531

sare ai giudeo-cristiani da una parte e agli etnico-cristiani dall'altra ; nella se- 532

conda si tratterebbe soltanto dei giudeo-cristiani.


Contro l'unicità del gruppo diriferimento,corrispondente ai giudeo-cristiani,
si sottolinea la presenza dell'articolo prima del verbo «procedono» (tois stoi-
chousin), posto in parallelo con il precedente «coloro che provengono dalla cir-
concisione » (tois... ekperitomes). Tuttavia, è altrettanto vero che Paolo ha già par-
lato degli etnico-cristiani: non bisogna dimenticare che Rm 4,12 costituisce il se-
condo membro di un parallelismo cominciato al v. IIb. Per questo non ci
sembrano valide né l'una né l'altra ipotesi. Fermo restando che Paolo ha già af-
fermato che Abramo è padre degli etnico-cristiani (v. IIb), al v. 12 sono distinti
ma non separati due gruppi. Innanzi tutto, Abramo rimane padre dei circoncisi: e
questo rappresenta un dato storico, sempre valido ; ma questa figliolanza abra-
533

mitica non è sufficiente per condividere l'accreditamento della fede. Nella secon-
da parte del v. 12 Paolo distingue fra coloro che sono fisicamente circoncisi e
quindi i giudei, e quanti proseguono sulle orme della fede del nostro padre Abra-
mo, quando era ancora incirconciso. In altri termini, senza negare la paternità fìsi-
ca di Abramo per i giudei, ci sembra che Paolo ponga inrisaltoquella per la fede
di quanti fra i giudei credono come lui, prima della circoncisione. Così è anticipa-
to il gran dilemma di Rm 9,7: «Non sono discendenza di Abramo tutti i figli».
Questa interpretazione non soltanto rende ragione della ripetizione dell'arti-
colo, che altrimenti sarebbe superfluo, ma pone in risalto il significato del verbo
« proseguire » (stoichein) che non è uguale a « camminare » (peripatein) ma che in-
dica una continuità tra l'essere figli di Abramo secondo la carne e l'esserlo se-
guendo le orme della sua fede . Questo verbo non si può applicare ai gentili che
534

si sono dovuti convertire per aderire a Cristo, ma vale soltanto per gli ebrei che,
credendo in Cristo, non fanno che proseguire sulla lorofigliolanzaabramitica, ren-
dendola pienamente tale con l'adesione al modello della fede di Abramo. Solo co-
sì l'accreditamento della giustizia conferita ad Abramo vale anche per i suoi di-
scendenti. In questa ottica si coglie il dramma di Paolo per il mancato prosegui-
mento su questo cammino di molti suoi « fratelli secondo la carne » (cfr. Rm 9,1-2).
Pertanto, la paternità principale di Abramo non si regge tanto sullafigliolanzafisi-
ca, realizzata con la circoncisione, quanto su quella realizzata per la fede che di-
venta l'unica via d'accesso allo stesso credito di Abramo e che, per questo, è rag-
giungibile per i giudei e per i gentili.
La promessa e l 'eredità (4,13-22). - La fede di Abramo rappresenta non sol-
tanto il fondamento della sua giustizia ma anche della promessa e dell'eredità pre-
531Così B. Byrne, Romans, p. 151; DJ. Moo, Romans, p. 270; U. Wilckens, Römer, I, p. 266; F.
Watson, Paul, p. 141.
532 Così J. Swetnam, The Curious Crux at Romans 4,12, in Bib 71 (1980) 110-115; anche J.A.
Fitzmyer, Romani, pp. 456-457.
533Cfr. Rm 9,5 a proposito dei « padri ».
534Paolo usa questo verbo in Gal 5,25; 6,16 in una prospettiva analoga: coloro che hannoricevutolo
Spirito sono chiamati a proseguire secondo lo Spirito e a non passare sotto il potere della carne.
192 Traduzione e commento
viste dal Signore. Queste due principali conseguenze si trovano al centro dell'ul-
timo approfondimento in Rm 4. Non è facile determinare la conclusione dell'at-
tuale pericope: si conclude al v. 16 , al v. 23 oppure al v. 25? . A prima vista
535 536 537

sembra opportuno chiudere con il v. 16, a causa della citazione diretta di Gn 17,5
che introduce il v. 17. Ma, a ben vedere, dal v. 17 Paolo procede, senza soluzione
di continuità, sulla fede in relazione alla paternità di Abramo . A causa della cen-
538

tralità della fede è necessario proseguire sino al v. 22, mentre è opportuno distin-
guere i vv. 23-25 che applicano al noi dei credenti in Cristo l'esempio di Abramo.
Naturalmente rimangono le due parti della stessa pericope: nei vv. 13-16 è af-
frontata la relazione tra la fede, la promessa e l'eredità abramitica; nei vv. 17-22
la stessa fede di Abramo fonda la sua paternità. La ripetizione della citazione di-
retta di Gn 15,6 conferma che il midrash si conclude al v. 22: Paolo continua a
spiegare l'aspetto particolare della fede del patriarca. Infine, con la citazione del-
la sua giustizia (v. 22) si determina l'inclusione con il v. 13, in cui Paolo introdu-
ce l'espressione « giustizia della fede »riferitaad Abramo e alla sua discendenza.
In gran parte, 1 ' argomentazione di Rm 4,13-22, dedicata alla relazione tra la fe-
de, la promessa e l'eredità, era stata affrontata in Gal 3,15-22, ma con una prospet-
tiva esplicitamente cristologica: il seme di Abramo, destinatario della promessa, era
Cristo (cfr. Gal 3,16) e la partecipazione dell'eredità abramitica dipendeva dall'es-
sere in Cristo. Invece, in Rm 4 Paolo non applica più la vicenda genesiaca a Cristo
ma direttamente alla discendenza abramitica. Tale omissione è causata dal duplice
orizzonte della paternità di Abramo: quello derivante dalla carne, o dall'essere ge-
neticamente relazionati ad Abramo, e quello incentrato sulla fede. Dunque, ancora
una volta, come per la questione della circoncisione (v. 11),riconosciutacome se-
gno rispetto alla giustizia fondata sulla fede, in Romani Paolo sembra esprimere,
sulla relazione tra Abramo e la fede, una concezione più serena e più ampia di quel-
la conflittuale e radicale di Galati. Non ci troviamo davanti a due visioni contrad-
dittorie né poste in evoluzione ma diverse a causa dei contesti differenti.
[4,13] La prova precedente (vv. 9-12), fondata sul criterio cronologico della
giustizia di Abramo, con la preminenza della fede sulla Legge, apre al nuovo livel-
lo argomentativo: la promessa dell'eredità «detta» ad Abramo e alla sua discen-
denza non si regge sulla Legge mosaica ma sulla giustizia derivante dalla fede . 539

Di per sé, Paolo non specifica a quale promessa divina si riferisca , poiché 540

535Così U. Wilckens, Römer I, pp. 272-273.


536Così D.J. Moo, Romans, p. 272.
537Così B. Byrne, Romans, p. 152; J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 457-458.
538II vocabolario dellapistìs pervade la microunità di Rm 4,13-22: cfr. pistis nei vv. 13.14.16.16.19.20;
apistia al v. 20; pisteuein nei vv. 17.18. Anche il vocabolario della «promessa» (epaggelia) unifica questi
versi (cfr. epaggelia in Rm 4,13.14.16.20; in seguito cfr. solo in Rm 9,4.8.9; 15,8; cfr. anche il verbo epag-
gellesthai in Rm 4,21).
539Nel testo originale manca il verbo principale: si tratta della promessa «fatta» o «detta»? Anche
se noi preferiremmo utilizzare il verbo « fare », il parallelo di Gal 3,16 dimostra che qui è sottinteso il ver-
bo « dire » che, a rigor di logica, è più rispondente alla natura propriamente verbale di una promessa.
540Questa è la prima volta in cui Paolo tratta della promessa in Romani. Se, in quanto tale, epaggelia
significa «annuncio», «notizia», nel greco ellenistico assume l'accezione di «promessa», «assicurazio-
ne». Cfr. Polibio, Historia 1,43,6; 7,13,2; IMac 10,5; Filone, Mutatione 37,201; Flavio Giuseppe, Anf. giud.
5,307. Con quest'ultimo significato è utilizzato anche nel NT (cfr. Gal 3,14.16.17; 4,23; Ef 1,13; 2,12; lTm
4,8; 2Tm 1,1; At 2,33.39; Eb 6,12.15).
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 193
nella narrazione genesiaca sonoriportatediverse promesse ad Abramo: quella del-
la discendenza innumerevole (cfr. Gn 12,2; 13,16; 15,5), della benedizione per tut-
ti i popoli (cfr. Gn 12,3; 18,18; 22,18) e della terra (cfr. Gn 13,15.17). La seconda
parte del v. 13 permette di cogliere un riferimento alla promessa dell'eredità del
paese di Canaan fatta ad Abramo e alla sua discendenza (cfr. Gn 13,15) . 541

Tuttavia, si puòrilevareche, nella seconda parte di Rm 4,17-21, Paolo si sofferma


sulla promessa della discendenza. In verità, nella stessa narrazione genesiaca (cfr.
Gn 13,14-17) queste promesse non sono separate, dal punto di vista narrativo e
contenutistico: il possesso della terra è strettamente relazionato a quello della di-
scendenza, altrimenti è incompleto. A che servirebbe una terra senza discenden-
za? Entrambe le promesse costituiscono la benedizione principale di Dio per
Abramo e la sua discendenza. Per questo, anche se possono essere distinte diver-
se promesse dichiarate da Dio ad Abramo, si tratta di un'unica promessa della ter-
ra, della discendenza e della benedizione . 542

La narrazione genesiaca del ciclo di Abramo dimostra che vi è una stretta re-
lazione tra la promessa e l'eredità della terra: in Rm 4,13 l'eredità non è la fina-
lità della promessa bensì il suo stesso contenuto . Facendo propria una conce-
543

zione diffusa nel comune giudaismo, Paolo estende gli orizzonti dell'eredità pro-
messa ad Abramo e alla sua discendenza: questa non riguarda soltanto il paese di
Canaan ma il cosmo . A causa della tensione escatologica, questa promessa sarà
544

progettata per il mondo a venire . In alcune fonti giudaiche, per sottolineare l'u-
545

niversalità dell'eredità abramitica, questa promessa è collegata all'autorità confe-


rita ad Adamo nel governo del creato (cfr. Gn l,26-28) . L'estensione dell'ere-
546

dità rappresenta un'ulteriore prova per sottolineare l'origine della stessa promes-
sa: non si regge sulla Legge ma sulla giustizia che deriva dalla fede . 547

[v. 14] Alla precedenza cronologica della promessa rispetto all'eredità


abramitica, Paolo aggiunge l'incompatibilità tra la Legge e la fede. L'accento
della condizionale semplice cade sulle conseguenze di tale ipotesi: se l'eredità
dipendesse dalla Legge, si determinerebbero l'inconsistenza della fede e l'inef-
ficacia della promessa . Naturalmente, questa nuova prova non è così convin-
548

cente come potrebbe sembrare, in quanto nulla vieta a coloro che condividono

541 Per la continua promessa della terra cfr. anche Gn 26,3-5; 28,3.13; 35,12; 48,4; 50,24; Es 6,8;
32,13; 33,1; Lv 25,2; Nm 15,2; 27,12; 32,11; Ne 9,7-8; Mie 7,20; Eb 11,8. Per la tematica della terra data
ai padri cfr. in particolare Dt 1,8; 6,10; 9,5; 29,13; 30,20.
542 In Gal 3,16 Paolo si atterrà maggiormente ai dati storici, parlando di «promesse dette ad Abramo
e alla sua discendenza» (cfr. anche le promesse dei padri realizzate in Cristo, in Rm 15,8).
543 Sull'assimilazione tra la promessa e l'eredità abramitica cfr. Gal 3,29; cfr. anche 2Mac 2,17-18;
Sap 12,21; 18,6; 4QapGen 21,8-14.
544 Cfr. Is 55,3-5; Sir 44,21; Giub 19,21; lEn 5,7; Filone, Mosis 1,155;
545 Cfr. Sai Salom. 12,6; Or. Sib. 3,768-769; 4Esd 6,59; 7,9; 2Bar 14,13; 44,13; 51,3; 57,1-3; Avot
2,7; 5,19. Per l'eredità futura che attende i cristiani cfr. Ef 1,14.18; lPt 1,4.
546 Cfr. Sai 8,6-8; 4QpSal 37,3; 1QH 17,15; 1QS 4,22-23; CD 3,20; 4Esd 6,54.
547 II genitivo « giustizia della fede » è chiaramente di origine o di causa: la giustizia che deriva dal-
la fede. Così anche B. Byrne, Romans, p. 158.
548 1 due verbi che caratterizzano le conseguenze di tale ipotesi sono tipicamente paolini: kenoun (va-
nificare, svuotare) si trova solo qui e in ICor 1,17; 9,15; 2Cor 9,3; Fil 2,7; per katargein cfr. il commento
a Rm 3,3.31.
194 Traduzione e commento
l'eredità fondata sulla fede di considerare il dono della Legge come ratificazio-
ne della promessa: in questa prospettiva si colloca la concezione generale del
comune giudaismo. D'altro canto, lo stesso Paolo non ha forse riconosciuto la
circoncisione come segno e sigillo della giustizia fondata sulla fede (cfr. Rm
4,11)? Soltanto con la negativizzazione della Legge è possibile sostenere l'in-
compatibilità tra la sua economia e quella della fede: in questa funzionalità ar-
gomentativa si contestualizzano le asserzioni successive sulla Legge. Dunque in
quest'antitesi tra la Legge e la fede si spiega perché coloro che provengono dal-
la Legge non possono diventare eredi della promessa fatta ad Abramo. Co-
munque, per quanto, rispetto all'eredità abramitica, la Legge sia incompatibile
con la fede, è bene tener presente che Paolo non giunge a sostenere che la Leg-
ge si oppone alla promessa, dato spesso dimenticato da quanti negativizzano ec-
cessivamente la visione paolina sulla Legge. In un contesto apertamente pole-
mico, come quello di Gal 3,21, Paolo rifiuta decisamente questa falsa conclu-
sione: la Legge non è contro le promesse! Di fatto, egli non può giungere a tale
conclusione perché sia la Legge sia le promesse sono doni permanenti di Dio
per il popolo ebraico (cfr. Rm 9,4). Pertanto che l'eredità si regga sulla fede e
sulla promessa non significa che, in quanto tale, la Legge è abrogata ma soltan-
to che non apporta nulla di nuovo o di diverso alla partecipazione dell'eredità
promessa.
[v. 15] Sino ad ora, presentando il versante negativo della Legge, Paolo è
giunto ad affermare che attraverso di essa si ha soltanto la piena conoscenza del
peccato (cfr. Rm 3,20); adesso la sua considerazione diventa peggiore: la Legge
provoca l'ira divina, descritta in Rm 1,18 - 3,20, poiché è ancora la Legge a de-
terminare la trasgressione . In Gal 3,19, interrogandosi sul perché della Legge,
549

dirà addirittura che fu aggiunta in vista delle trasgressioni, negandole qualsiasi


funzione positiva . Tuttavia, a tal proposito è bene distinguere tra la Legge, il pec-
550

cato e le trasgressioni . Come chiarirà in Rm 5,13, il peccato esisteva prima del-


551

la Legge e le colpe umane, descritte in Rm 1,18-32, non erano state attribuite alla
Legge mosaica. Da una parte, la Legge permette la piena conoscenza del peccato,
dall'altra lo rende trasgressione. Dunque è bene precisare che se ogni trasgressio-
ne è peccato non ogni peccato è trasgressione , se non dal momento in cui so-
552

praggiunge la Legge: questa argomentazione verràripresain Rm 7,7-12.


Comunque, tale negativizzazione della Legge non è determinata dalla sua
economia, bensì dalla sua strumentalizzazione, perché altrimenti sarebbe valida
la falsa conclusione di Rm 3,31 sulla sua abrogazione. Invece, questa relazione
addirittura causale tra la Legge e la trasgressione è spiegabile sia per il vanto che
il giudeo potrebbe accampare di fronte al gentile (cfr. Rm 3,27-31) sia per l'in- 553

549Per queste due valutazioni negative della Legge nel pensiero paolino cfr. H. Ràisànen, Paul, p. 148.
550Cfr. a tal proposito A. Pitta, Galati, pp. 210-211.
551II sostantivo parabasis è tipicamente paolino (cfr. anche Rm 2,23; 5,14; Gal 3,19; lTm 2,14; Eb
2,2; 9,15). *
552Così anche D.J. Moo, Romans, p. 277.
553Così anche R.B. Hays, Dramatic Roles, p. 163.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 195
consistenza della Legge verso la promessa abramitica (vv. 13-14) . Pertanto, 554

Paolo non tratta in questi versi dell'economia globale della Legge ma coglie al-
cuni suoi aspetti, negativizzandoli, per evidenziare la preminenza della fede co-
me fondamento per la giustizia.
[v. 16] Una nuova ragione sulla relazione tra l'eredità promessa e la fede ri-
siede nella priorità della grazia divina : la benevolenza di Dio si trova all'origi-
555

ne della fede e permette di partecipare all'eredità abramitica. In Rm 4,4, rifacen-


dosi alla logica del contratto lavorativo, Paolo ha già evidenziato l'incompatibi-
lità tra l'obbligazione e il dono (charin). Adesso, il termine charin si carica di
significato teologico, propriamente detto, anticipando la tematica dell'accesso
alla grazia divina descritta in Rm 5,1-11. Soltanto se fondata sulla grazia divina,
e non sull'osservanza della Legge mosaica, la promessa rimane salda per
Abramo e per la sua discendenza . 556

Non è facile stabilire l'identità di coloro che partecipano all'eredità promes-


sa fondata sulla grazia: si tratta dei giudei e dei gentili o di quanti, fra loro, aderi-
scono alla fede come e a causa di Abramo? Una spiritualizzazione della paternità
abramitica indurrebbe facilmente a considerare i cristiani, provenienti dal giudai-
smo e dal paganesimo, come destinatari della promessa. Invece, è bene, ancora
una volta, distinguere, senza separare, l'identità di quanti, in forza della Legge e
della circoncisione, entrano a far parte della discendenza e quindi dell'eredità
promessa ad Abramo, da quanti tra i giudei e i gentili si richiamano alla fede di
Abramo. Per gli uni e per gli altri vale la priorità del principio della fede che li ac-
comuna e li pone sullo stesso livello . Per questo la paternità di Abramo è uni-
557

versale, come universale è il Dio nel quale credette (cfr. Rm 3,29).


[v. 17] La seconda parte di Rm 4,13-22 è incentrata sulla relazione tra la fe-
de e la paternità di Abramo: anche la sua paternità si regge sulla fede. Per di-
mostrare questa relazione tra la paternità universale di Abramo e la fede, Paolo
avverte l'esigenza di citare nuovamente la narrazione genesiaca e in particolare
Gn 17,5. Non a caso questa citazione della LXX, corrispondente al TM, si trova,
come le altre del midrash, prima della promulgazione della circoncisione, de-
scritta in Gn 17,9-14: Paolo sembra sostenere che Abramo era già stato costitui-
to padre di molti popoli, prima che gli fosse richiesta la circoncisione. Per questo,
non è necessario sottomettersi alla circoncisione per essere figli di Abramo: ba-
sta la fede! La stessa citazione è utilizzata dal giudaismo rabbinico per motivare

554 Inutilmente H. Hiibner, Legge, p. 150, cerca di attutire questa funzione negativa della Legge, con-
siderandola come premessa e non come causa delle trasgressioni; i paralleli di Rm 5,13; 7,7-12 e Gal 3,19
confermano la relazione causale tra la Legge e la trasgressione.
555 La formula «per questo » (dia touto) non si riferisce a quanto precede ma a ciò che segue: intro-
duce la priorità della grazia sulla fede, quale fondamento della promessa. Per la stessa funzione di dia tou-
to cfr. 2Cor 12,10; Fm v. 15; lTm 1,16; invece per la funzione retrospettiva della formula cfr. Rm 5,12.
Così anche B. Byrne, Romans, p. 158; DJ. Moo, Romans, p. 277.
556 Anche se utilizzando il verbo corrispondente, «fondare» (bebaioun), in Rm 15,8 Paolo attribui-
sce al suo servizio per Cristo la fondatezza delle promesse dei padri. Per l'aggettivo bebaios cfr. 2Cor 1,7.
557In tal caso, anche se l'espressione di Rm 4,16b è analoga a quella di Rm 4,12, la destinazione non
vale soltanto per i giudei che, pur aderendo alla Legge, condividono l'eredità di Abramo, in forza della fe-
de, ma anche per i gentili che credono come Abramo; ora è ripresa l'intera sequenza di Rm 4,11-12.
196 Traduzione e commento
l'adesione dei gentili al giudaismo ; invece a Paolo serve per porre sullo stesso
558

livello i giudei e i gentili.


Dopo la citazione, è riportata una professione di fede sulla potenza divina
capace di dare la vita ai morti e di creare dal nulla. La prima parte della profes-
sione di fede, sulla vivificazione dei morti, assume nel contesto di Rm 4 due pro-
spettive fondamentali. In base alla narrazione genesiaca, si riferisce alla potenza
divina che rende possibile la vita nei corpi invecchiati di Abramo e di Sara (v.
19). La nascita di Isacco è stata come una risurrezione, a causa della vecchiaia di
Abramo e della sterilità di Sara . Non bisogna però dimenticare che questa pro-
559

fessione anticipa anche quella conclusiva del v. 24: riguarda lo stesso Dio « che
ha risuscitato Gesù, il Signore nostro dai morti » . 560

In questo primo stico è importante l'utilizzazione del verbo «vivificare»


(zóopoiein) che assume nell'epistolario paolino una chiara connotazione «istolo-
gica: coloro che sono in Cristo sono vivificati con l'azione del suo Spirito . Al di 561

fuori del contesto cristologico, questo verbo è stato utilizzato soltanto in Gal 3,21,
a proposito dell'incapacità della Legge di vivificare e di conferire la giustificazio-
ne. Il contrasto fra queste asserzioni permette di cogliere l'origine della vivifica-
zione, ossia l'azione realizzata da Dio in Cristo mediante lo Spirito, e l'esclusio-
ne di qualsiasi vivificazione mediante la Legge. Ci sembra che questa rappresenti
la ragione principale per cui Paolo perviene alla negativizzazione della Legge in
Rm 4 e in Gal 3: la vita viene da Dio in Cristo e non dalla Legge, che svolge un
ruolo diverso. Per questo è inutile vantarsi della Legge attribuendole la vita che
non può donare.
Il secondo stico della professione di fede si sofferma sull'azione creatrice di
Dio: egli chiama all'esistenza le cose che non sono. L'uso del verbo « chiamare » non
riguarda soltanto la creazione ex nihilo ma anche, se non principalmente, in base al
562

contesto di Rm 4, l'elezione dei gentili a partecipare del popolo dell'alleanza . 563

[v. 18] La fede di Abramo trova il suo contenuto nella speranza illimitata e
paradossale in Dio: senza confine, al di là della vecchiaia e della sterilità nella
quale si trovavano lui e Sara; paradossale perché contro ogni logicità. L'espres-
sione « speranza contro speranza » è ossimorica, in quanto non si può logicamen-
te sperare al di là di qualsiasi possibilità. Qui Paolo introduce la tematica della
speranza che svilupperà in Rm 5,1 - 8,39 . La stretta relazione tra il credere e lo
564

558Cfr. i paralleliriportatiin H.L. Strack - G. Billerbeck, Kommentar zumNeuen Testamentaus Talmud


undMidrasch, Miinchen 1926, III, p. 211. Così anche B. Byrne, Romans, p. 159.
559Per la fede nel Signore padrone della vita e della morte cfr. Dt 32,39; ISam 2,6; Sap 16,13; Tb
13,2; Giuseppe e Asenat 20,7. Per l'epistolario paolino cfr. Rm 8,11; ICor 15,22.36.35; 2Cor 1,9.
560Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 378.
561Cfr. Rm 8,11; ICor 15,22.36.45; 2Cor 3,6; anche lPt 3,18.
562Per la fede nella creazione dal nulla cfr. Sap 11,25; 2Mac 7,28-29; Giuseppe e Asenat 8,9; Filone,
Legibus 4,187; Mundi 81; Migratione 183; Heres 36; 2Bar 21,4. In particolare per la fede nella creazione
ex nihilo e la risurrezione escatologica descritta in 2Mac 7,28 cfr. O. Hofius, Eine altjtìdische Parallele zu
Ròm TV.llb, in NTS 18 (1971-1972) 93-94.
563Cfr. l'uso di kalein anche in Rm 9,24-25 per l'elezione dei giudei e dei gentili al vangelo.
564Per una frequenza totale di 53 volte nel NT, Paolo è l'autore che maggiormente tratta della speran-
za, particolarmente in Romani (13 volte; cfr. anche lTs 1,3; 2,19; 4,13; 5,8; ICor 9,10.10; 13,13; 2Cor 1,7;
3,12; 10,15; Gal 5,5; Fil 1,20). Cfr. J.M. Everts, Speranza, in Dizionario di Paolo, pp. 1485-1489.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 197
sperare di Abramo lascia intendere quella tra la fede e la speranza: non si tratta
tanto di due virtù distinte quanto di una fede sperante e di una speranza fedele.
Su questa interdipendenza tra la fede e la speranza di Abramo si basa la realizza-
zione della promessa divina: una innumerevole paternità che attualizza l'oracolo
di Gn 15,5 . Anche in questo caso, Paolo cita un passo della narrazione gene-
565

siaca, tratto dalla LXX, che precede la promulgazione della circoncisione e della
Legge mosaica . 566

[v. 19] Non sorprende più di tanto l'omissione che Paolo compie rispetto a
Ismaele (cfr. Gn 16,1-16), il figlio di Agar , e aifigliche Abramo ricevette dal-
567

l'altra schiava, Ketura (cfr. Gn 25,1-2): comunque questi non sono i figli della
promessa che si sarebbe realizzata soltanto con la nascita di un figlio da Sara (cfr.
Gn 17,19-21). Il narratore di Genesi ricorda che, nonostante tale prole, « Abramo
diede tutti i suoi beni a Isacco » (Gn 25,5). Per questo Paolo insiste sulla fermez-
za della fede di Abramo, esplicitando il senso della speranza contro la speranza:
come si può ancora sperare di fronte al decadimento del proprio corpo e all'av-
vizzirsi del seno di Sara? Sono intensi i termini che descrivono il disfacimento
del corpo di Abramo, diventato ormai centenario , e del seno di Sara: il corpo di
568

Abramo è in fase irrimediabile di corruzione e nel seno di Sara c'è una necrosi
569

irrimediabile , dovuta alla sua naturale sterilità. L'uso di questo vocabolario


570

evoca la breve professione di fede del v. 17: Abramo credette in Dio che dona la
vita ai morti e che, per questo, poteva far rivivere anche il suo corpo e quello di
sua moglie.
[v. 20] Per Paolo, come per il comune giudaismo, Abramo è descritto con tut-
ta la sua esemplarità, in vista di una consequenziale imitazione nei destinatari: a
questa finalità si deve il silenzio sui dubbi e sulle modificherichiesteda Abramo
alla promessa della discendenza, riferite in Gn 17,17-18: non dimentichiamo che
Abramo e Sara risero all'annuncio della nascita di Isacco (cfr. Gn 17,17; 18,12),
ironizzando sulla promessa divina. Ma queste esitazioni non pongono minima-
mente in discussione la statura della fede e della speranza di Abramo; per questo
non mancherà chi, come l'autore di Giubilei, interpreterà ilrisodei patriarchi co-
me espressione di gioia: «Ed essi gioirono grandemente» (Giub 16,19).
La fede di Abramo rimase salda nonostante l'irrealizzazione, sino al suo
centenario, della promessa divina; anzi, si rafforzò nella fede, dando gloria all'u-
nico Dio. In questa esemplarità di Abramo si può notare il contrasto tra l'incre-
dulità (apistia) e la fede (pistis) e tra il verbo « dubitare » e « rafforzarsi ». Il ver-
565 Soltanto qui, nell'epistolario paolino, il participio perfetto sostantivato del verbo « dire » (to eireme-
non), che abbiamo reso con «oracolo», introduce una citazione diretta dell'AT; cfr. anche Le 2,24; At 2,16;
13,40.
566 La presenza dello stesso oracolo in Gn 22,17 non è che una ratificazione della promessa in Gn 15,5.
567 Soltanto in Gal 4,21-25 Paolo evocherà la discendenza di Agar, senza nominare mai Ismaele.
568 j|riferimentoall'età di Abramo non è approssimativo, comeritieneDJ. Moo, Romans, p. 284, col-
legando Rm 4,19 a Gn 17,1, in cui si dice che Abramo aveva novantanove anni, ma preciso, in quanto
Abramo stesso in Gn 17,17 si definisce centenario.
569 II verbo «corrompersi» (nekroun) si trova soltanto 3 volte nel NT: qui, in Col 3,5 e in Eb 11,12
(quest'ultimo parallelo si riferisce anche ad Abramo).
570 II sostantivo nekròsis è raro nel NT: si trova soltanto qui e in 2Cor 4,10 ma in contesto diverso.
198 Traduzione e commento
bo «rafforzare» (endynamein) nella forma passiva potrebbe essere inteso anche
come passivo divino, nel senso che Dio stesso lo rafforzò nella fede . Tuttavia, 571

la composizione parallela del v. 20b, in cui questo verbo è posto in antitesi con il
verbo « dubitare » , lascia pensare a un passivo semplice, con valore riflessivo:
572

Abramo rafforzò se stesso nella fede in Dio . Non bisogna esagerare con i pas-
573

sivi divini: per quanto è possibile, è bene attenersi a ciò che è spiegabile umana-
mente. Il contrasto tra l'incredulità e la fede dimostra che la prima non consiste
semplicemente nella mancanza di fede ma nel rifiuto della fede (cfr. anche V api-
stici di Rm 3,3). Invece, la fede di Abramo si concretizza nel dare gloria a Dio:
questa positiva esemplarità di Abramo è in netto contrasto con la condizione ge-
nerale dell'umanità, descritta in Rm 1,18-32: «Pur conoscendo Dio non lo glori-
ficarono come Dio... » (v. 21) . 574

[vv. 21-22] In definitiva la fede di Abramo si regge sulla convinzione che Dio
realizza sempre ciò che promette; e questa rappresenta la convinzione incrollabile
di Abramo . La conclusione dell'apparizione alle querce di Mamre conferma
575

questo assioma soprattutto di fronte all'apparente impossibilità della realizzazione


della promessa divina: «C'è forse qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gn
18,14; cfr. anche Le 1,37). Anche il commento al midrash sulla vicenda di Abramo
si conclude con la ripetizione della citazione principale della Genesi: per la terza
volta Paolo ricorda che «gli fu accreditato come giustizia» (cfr. i vv. 3.9). Il mi-
drash potrebbe concludersi in questo modo ma, in fondo, non sarebbe stato per
nulla diverso da qualsiasi altra esegesi del comune giudaismo: per questo non può
mancare l'applicazione cristologica e dell'intera argomentazione paolina.
La perorazione (4,23-25). - Le ultime battute di Rm 4 attribuiscono la cita-
zione di Gn 15,6 non soltanto ad Abramo ma anche a quanti credono in Cristo.
Nell'economia della sezione questi versi rappresentano l'ultimo livello del mi-
drash; per questo non li consideriamo autonomamente ma in stretta relazione con
quanto precede, anche se resta da definire la loro funzione retorica. La conclu-
sione del paragrafo è segnata dalla breve professione di fede (v. 25): con Rm 5,1
l'attenzione si sposta sulle conseguenze della giustificazione realizzata in Cristo
per tutti i credenti.
Abbiamo già evidenziato che sino ad ora, in Rm 4, Paolo ha sorprendente-
mente evitato di parlare di Gesù Cristo, a differenza del midrash di Gal 3: ora non
esita ad applicare l'accreditamento della giustizia di Abramo ai credenti in Cristo.
Nella logica dell'argomentazione manca un elemento essenziale: la figliolanza di
Cristo nei confronti di Abramo. Soltanto dopo aver dimostrato che Gesù è l'erede
delle promesse di Abramo si può sostenere che coloro che sono in lui condivido-
no la figliolanza abramitica: con questa prospettiva si sviluppa l'argomentazione

Così DJ. Moo, Romans, p. 285.


571

Per questo significato del verbo diakrinein cfr. Rm 14,23; Mt 21,21; Me 11,23; Gc 1,6; Gd v. 22.
572

Con lo stesso significato del verbo «rafforzare» cfr. Ef 6,10.


573

Così anche E. Adam, Abraham's Faith, p. 47, anche se l'autore sottolinea con diverse forzature le
574

connessioni tra Rm 1 e Rm 4. Sull'espressione « dare gloria a Dio » cfr. anche ISam 6,5; lCr 16,28; Le 17,18.
Per questo significato del verbo plérophorein cfr. anche Test. Gad 2,4; Ignazio, Magnesi 8,2.
575
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 199
di Gal 3. Invece in Rm 4 Paolo considera come scontata la figliolanza abramitica
di Cristo ed evita di affermare che Cristo rappresenta il suo unico discendente (cfr.
Gal 3,16) a causa della figliolanza abramitica che, comunque, condividono colo-
ro che non credono in lui. Tale salto argomentativo in Rm 4 è comprensibile sol-
tanto alla luce della cristologizzazione della fede: i termini « fede » e « credente »,
riscontrati sino ad ora, non si riferiscono soltanto alla fede di Abramo ma anche
alla fede di coloro che hanno aderito a Cristo (cfr. Rm 4,11). Dunque questo con-
testo argomentativo è diverso e più ampio di quello in Gal 3.
A prima vista, i vv. 23-25 possono essere considerati come un'appendice al
midrash di Rm 4, una sorta di morale della favola che rischia addirittura di re-
stringere la portata della narrazione genesiaca. Invece, l'analisi retorico-letteraria
permette di cogliere l'importanza di questi versi rispetto all'intero midrash: si
tratta della perorazione o della conclusione argomentativa della sezione iniziata
con Rm 3,21-22, incentrata sulla giustizia di Dio, senza la Legge ma attestata dal-
la Legge stessa . Tuttavia è bene precisare che, pur essendo una perorazione re-
576

torica, Rm 4,23-25 non è conclusiva; sembra più una perorazione di transizione,


soprattutto perché la seconda parte della tesi di Rm 3,20-21 resta ancora da spie-
gare. In pratica, Paolo ha soltanto esposto il kerygma cristiano dell'azione salvifi-
ca di Dio in Cristo (cfr. Rm 3,22b-26) per tornare al motivo del vanto in Rm 3,27-
31 che trova una sua esemplificazione in Abramo (Rm 4,1-22): sono da sviluppa-
re le implicazioni della giustificazione in Cristo; e a questa funzione si deve la
sezione successiva di Rm 5,1 - 8,39. Dunque, ci troviamo di fronte a una perora-
zione transitoria che chiude la sezione precedente e apre quella successiva . 577

[4,23] La perorazione di transizione di Rm 4,23-24 si collega innanzi tutto


all'esempio di Rm 4,1-22, riprendendo la parola chiave sulla quale Paolo si è
maggiormente soffermato: l'accreditamento di Abramo . A causa dell'ari reci-
578

tativo, corrispondente ai due punti del discorso diretto, si può ben considerare
«gli fu accreditato» come un'ultima evocazione di Gn 15,6 , anche se sintetiz- 579

zata, in quanto ormai è nota ai destinatari. Questo breve riferimento ha anche la


funzione di sottolineare che il problema fondamentale sul quale Paolo si è mag-
giormente soffermato in Rm 4 è stato quello dell'accreditamento come fonda-
mento del vanto: un accreditamento fondato sulla fede e non sulla Legge, per
Abramo e per quanti sono in Cristo.
[v. 24] La personalizzazione dell'esempio di Abramo comincia con un
«noi» che accomuna Paolo e quanti credono in Dio . L'accreditamento di 580

Abramo diventa anche dei credenti in Dio; esso è personalizzato con un'espres-
sione al futuro: « ai quali sarà accreditato » (hois mellei logizesthai). Anche se al-

576 Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 93-94. Invece D.J. Moo, Romans, p. 286, relaziona Rm 4,23-
25 soltanto a Rm 4 e non alla sezione iniziata con Rm 3,21.
577 Per questo, anche se Rm 4,23-25 rappresenta la perorazione di Rm 3,21 - 4,22 è ben diversa da
quella di Rm 3,19-20 rispetto a Rm 1,18 - 3,18: è di transizione e non è una sentenza definitoria.
578 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 287.
579 Cfr. la citazione diretta di Gn 15,6 in Rm 4,3.9.22.
580 A parte la prima persona plurale di Rm 3,28.31; 4,1.9, la sezione di Rm 3,21 - 4,25 si caratterizza
per la terza persona singolare o plurale.
200 Traduzione e commento
cuni considerano questo futuro come reale , alla luce di Rm 5,1, in cui la giusti-
581

ficazione è presentata come evento passato con ripercussioni sul presente, è pre-
feribile ritenerlo come futuro logico o gnomico, da intendere come presente : 582

oggi Dio accredita, come giustizia, la fede di quanti credono nella sua azione sal-
vifica compiuta in Cristo . 583

Generalmente, nell'epistolario paolino l'oggetto esplicito della fede è


Cristo , mentre è tipica di Romani la fede in Dio che, in questo caso, non è nomi-
584

nato . Questo spostamento di accentuazione è dovuto all'importanza che Paolo


585

conferisce all'azione di Dio in Cristo: è lui che, avendolo risuscitato, rappresenta


anche il principale contenuto della fede. Questa prima professione di fede, condi-
visa da Paolo e dai credenti, conferma la centralità dell'azione di Dio: tutto è ri-
condotto alla sua potenza (cfr. Rm 1,16-17), anche larisurrezionedi Cristo che, per
Paolo, non costituisce tanto un'azione realizzata da Cristo quanto un evento com-
piuto da Dio per lui. In certo senso, sorprende ilriferimentoa « Gesù nostro Signo-
re », senza il titolo « Cristo » che ormai per Paolo è diventato una sorta di nome
proprio di Gesù, mentre è tipicamente paolina l'affermazione dellarisurrezionedi
Gesù « dai morti » e non « dei morti » , come invece nel frammento prepaolino di
586

Rm 1,4. Se escludiamo tale frammento iniziale, in cui larisurrezionedi Cristo è ci-


tata come anastasis (rialzamento, sollevamento), questa è la prima volta in cui si
accenna allarisurrezionedi Cristo in Romani.
[v. 25] Anche se Paolo ha appena ricordato il contenuto della fede che acco-
muna i credenti in Dio, non esita a pronunciare una nuova professione di fede,
composta di due membri paralleli. Non sono pochi coloro che considerano il v. 25
un nuovo frammento prepaolino, di origine giudaico-ellenistica . A favore del- 587

la prepaolinicità è addotto il parallelismus membrorum: due verbi all'aoristo pas-


sivo (« fu consegnato », « furisuscitato»), un dia con l'accusativo e un pronome
personale presenti nella prima e nella seconda parte del parallelismo. Lo stesso
pronome hos (il quale), che introduce anche l'inno prepaolino di Fil 2,6-11, sem-
bra confermare questa ipotesi. D'altro canto, non è comune nell'epistolario pao-
lino il sostantivo dikaiösis (giustificazione) . 588

Comunque, a tal proposito, è necessario prima di tutto stabilire criteri più


consistenti e verificabili nelle fonti neotestamentarie. Così, se è vero che dikaiösis
è raro nell'epistolario paolino, non si può ignorare la diffusa utilizzazione dei ver-

581 Così E. Käsemann, Romans, p. 128.


582 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 287.
583 La prospettiva passata e quella presente della giustificazione divina non escludono, naturalmente,
T orizzonte futuro del suo compimento ma questo è molto meno sottolineato di quello incentrato sulle al-
tre due dimensioni cronologiche. Sulle coordinate cronologiche della giustizia divina nell'epistolario pao-
lino cfr. A. Pitta, La « teo-logia » nella soteriologia paolina, in Paradosso, pp. 308-311.
584 Cfr. lTs 4,14; Gal 2,16; 3,22; Fil 1,29; lTm 3,16. Vedi a tal proposito Vexcursus precedente sul-
la «fede di Cristo», pp. 170-172.
585 Cfr. Rm 4,17; 9,33; 10,9.11.16; Gal 3,6.
586 Cfr. Rm 6,4.9; 7,4; 8,11.11; 10,9; lTs 1,10; ICor 15,12; Gal 1,1.
587 Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 251; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 467; E. Käsemann, Romans,
p. 129; U. Wilckens, Römer, I, p. 278. Più incerto è D.J. Moo, Romans, p. 288.
588 II termine si trova di nuovo soltanto in Rm 5,18.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 201
bi paradidómi ed egeirein, soprattutto in contesti cristologici . Anche il sostanti-
589

vo paraptóma (caduta), che sostituisce il più comune hamartia (peccato), è co-


munque ben attestato nelle grandi lettere . Bisognariconoscereche il criterio se-
590

mantico, spesso utilizzato per l'identificazione delle fonti prepaoline, è quello più
debole, in quanto è naturale che, con il passaggio dallo stile prosaico o narrativo
a quello poetico o innico, qualsiasi autore prediliga un linguaggio ricercato.
Anche la composizione parallela delle frasi è tipica di Paolo e non ha bisogno di
essere attribuita alla tradizione precedente: ad esempio, anche l'intera composi-
zione di Rm 5,12-21 si regge sul parallelismo dei membri, per citare la pericope
più vicina a Rm 4,25. Con questo non intendiamo escludere a priori la prepaoli-
nicità di alcune espressioni nell'epistolario paolino, come quelle di Rm 1,3-4, di
Rm 3,25b-26a o di Gal 1,4 che abbiamo riconosciuto come tali ma, per quanto 591

è possibile, è preferibile seguire la via redazionale dell'autore e non quella ipote-


tica di altre fonti che, spesso,risultanopoco o per nulla verificabili. Piuttosto l'i-
potesi della prepaolinicità deve reggersi anzitutto sul riscontro parallelo in altre
fonti neotestamentarie ed extrabibliche, soprattutto in quelle di origine giudaica,
come gli scritti pseudoepigrafici e apocrifi dell'Ai . Inoltre, se si tratta di fonti
1

prepaoline è necessario che si verifichi nel corso dell'argomentazione paolina


un'evidente interruzione contestuale e non un semplice cambiamento di vocabo-
lario. Ultimo, ma non meno importante, è il criterio della decontestualizzazione
del frammento rispetto alla disposizione retorico-letteraria nella quale si trova. In
pratica, i frammenti di Rm 1,3-4 e di Gal 1,4 sono prepaolini anche per le interru-
zioni che causano nei relativi prescritti, come intrusioni strutturali. Invece nel no-
stro caso, la professione di fede nellarisurrezione,come azione di Dio, è stata pre-
parata dalla precedente professione del v. 17: Colui che vivifica i morti è lo stesso
che ha risuscitato Gesù dai morti. D'altro canto, se è vero che in Rm 4,1-22 non
si parla mai di Gesù Cristo, i vv. 23-25 fungono da perorazione rispetto alla se-
zione di Rm 3,21 - 4,22: non si collegano soltanto a quanto immediatamente pre-
cede ma anche a Rm 3,21-26, ossia al paragrafo nel quale Paolo ha esposto bre-
vemente il kerygma cristiano della giustizia di Dio realizzata in Cristo. Dunque vi
sono fondate ragioni per non considerare come pre- bensì come pienamente pao-
lino il breve inno di Rm 4,25.
Soffermandoci sul contenuto di questa professio fidei, condivisa anche dai
destinatari della lettera, i passivi « fu consegnato » e « furisuscitato» sono chiara-
mente divini : Dio stesso ha consegnato e harisuscitatoGesù perché fossimo li-
592

berati dalle cadute e potessimo partecipare della sua giustizia . La tematica della593

589Per paradidómi cfr. Rm 6,17; 8,32; lCor5,5; 11,2.23.23; 13,3; 15,3.24; 2Cor4,ll;Gal 2,20; Ef
4,19; 5,2.25; lTm 1,20; per egeirein oltre a Rm 4,24 cfr. Rm 6,4.9; 7,4; 8,11.11.34; 10,9; 13,11; lTs 1,10;
ICor 6,14; 15,4.12.13.14.15.15.16.16.17.20.29.32.35.42.43.43.44; 2Cor 1,9; 4,14.14; 5,15; Gal 1,1; Fil
1,17; Col 2,12; Ef 1,20; 2Tm 2,8.
590Cfr. Rm 5,15.16.17.18.20; 11,11.12; 2Cor 5,19; Gal 6,1; Col 2,13.13; Ef 1,7; 2,1.5.
591Per la prepaolinicità di Gal 1,4 cfr. A. Pitta, Galati, pp. 68-69.
592Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 466; R. Penna, Ritratti, I, p. 191.
593Per Dio come soggetto esplicito di paradidómi rispetto a Gesù cfr. Rm 8,32. Di per sé, il passivo
parédothèpotrebbe essere inteso anche come riflessivo, nella stessa traiettoria di Gal 2,20 (« Il Figlio di Dio
202 Traduzione e commento
nostra partecipazione alla giustificazione divina, con la risurrezione di Cristo, è
propriamente paolina (cfr. Rm 5,1), nonostante Paolo utilizzi il raro sostantivo
dikaiösis che figura come variazione stilistica per dikaiöma (cfr. Rm 5,16.18) . 594

Più complesso è il significato della preposizione dia, nel primo e nel secon-
do stico: con l'accusativo può esprimere causalità o finalità. Per questo sono di-
vergenti le interpretazioni su 4,25, anche se molti ritengono che il primo dia sia
causale mentre il secondo sia finale: « Fu consegnato a causa delle nostre cadute
e fu risuscitato per la nostra giustificazione » . Alcuni, per salvaguardare la na-
595

tura del parallelismo dei membri, preferiscono considerare il dia, in entrambi i


casi, come finale: « Fu consegnato per le nostre cadute e fu risuscitato per la no-
stra giustificazione » . Non manca chi conferisce a entrambi gli usi di dia un va-
596

lore causale: « Fu consegnato a causa delle nostre cadute e fu risuscitato a causa


della nostra giustificazione» . Forse proprio l'interpretazione causale è quella
597

più improbabile in quanto debilita la forza del verbo «consegnare»: per Paolo,
Cristo è stato e si è consegnato non soltanto a causa dei nostri peccati ma soprat-
tutto a causa del disegno salvifico di Dio. In tal caso sembra che la nostra giusti-
zia si trovi all'origine della risurrezione di Cristo, mentre è l'inverso: la morte e
risurrezione di Cristo come causa dell'azione giustificatrice di Dio . 598

L'esclusione del senso causale nel primo stico pone in discussione anche l'i-
potesi mista, del primo dia come causale e del secondo come finale; d'altro can-
to, in questo caso, avremmo un accumulo di significati in un inno già di per sé
ricco di contenuti; e non è malerispettare,anche nella traduzione, il parallelismo
dei membri che altrimenti verrebbe snaturato dal diverso significato di dia. Per
questo propendiamo per due stichi cadenzati da due finali, relazionati fra di loro
in forma ascensionale: « Fu consegnato per i nostri peccati e (ancor di più) fu ri-
suscitato per la nostra giustificazione » . L'accento cade soprattutto sul secondo
599

stico, ossia sul valore positivo della risurrezione di Gesù come origine della no-
stra giustificazione.

che... ha consegnato se stesso... ». Tuttavia, poiché l'azione del v. 24 è svolta da «Colui che ha risuscitato
Gesù », è preferibile pensare a un passivo divino. Lo stesso vale per il passivo egerthe, anche se altrove
Paolo non esita a sostenere che Gesù Cristo èrisuscitato(cfr. ICor 15,4.12.13.14.16.17.20: 2Tm 2,9). Per
Dio come soggetto di egeirein cfr. Rm 8,11.11; 10,9; ICor 6,14; 15,15; 2Cor 1,9; 4,14; Gal 1,1; Col 2,12.
Cfr. anche D. Kendall - G. O'Collins, Christ's Resurrection and the Aorist Passive of egeirö, in Greg 74
(1993) 725-735; R. Penna, Ritratti, I, p. 191.
594 Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 236. Quest'accezione della giustizia è diversa dal «fu giustifi-
cato nello Spirito» di lTm 3,16 in cui Gesù è il destinatario della giustizia. Per questo, anche se il voca-
bolario della giustizia accomuna questi due inni, cambia il relativo significato.
595 Così C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 252; E. Käsemann, Romans, p. 129; DJ. Moo, Romans, p.
289; U. Wilckens, Römer, I, p. 278.
596 Così J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 465-466.
597 Così K. Barth, L'epistola ai Romani, Milano 1993 , p. 123.
2

598 Questa era già l'interpretazione di Giovanni Crisostomo, Ad Romanos 9,1. Così anche E.
Käsemann, Romans, p. 129. Sulla relazione trarisurrezionee soteriologia paolina il sempre valido contri-
buto di S. Lyonnet, La valeur sotériologique de la résurrection du Christ selon saint Paul, in Greg 39
(1958) 295-318.
599 Così già Agostino, Sermones 236,1: «Traditus est propter delieta nostra, et resurrexit propter ju-
stificationem nostram ». Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 466-467.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 203
Circa il retroterra di questo inno paolino, il modello più vicino è quello del
Servo sofferente di Is 52,13 - 53,12 . Così recita l'oracolo in Is 53,12 (LXX): « E
600

a causa dei loro peccati fu consegnato» . In questa prospettiva la consegna di


601

Gesù sarebbe, nello stesso tempo, espiatoria e vicaria. Il collegamento con il IV


Carme di Isaia è possibile, tuttavia è bene precisare che, per Paolo, Gesù non muo-
re a causa nostra ma sfavore nostro, per noi, come sottolinea altrove mediante la
preposizione di vantaggio hyper . Dunque, se con Is 53 vi sono analogie, emer-
602

gono anche differenze che vanno evidenziate, soprattutto a causa dell'originale


relazione tra Gesù e Dio.
In questa unità del corpus della Lettera ai Romani (1,18 - 4,25) Paolo ha de-
lineato un percorso argomentativo che procede dallarivelazionedell'ira alla ma-
nifestazione della giustizia divina. Uno sguardo panoramico della sottounità di
Rm 1,18 - 3,20 permette di cogliere come l'accusa paolina non ha risparmiato
nessuno: vale per tutti e per tutto il corpo umano, senza distinzioni, che apparten-
gano al popolo giudaico o che siano gentili, al di fuori dell'alleanza con Dio.
Forse il modo peggiore per interpretare questa unità è quello più diffuso, poiché
generalmente si ritiene che se in Rm 1,18-32 Paolo avesse di mira le colpe dei
gentili, in Rm 2,1-29 sposterebbe l'attenzione verso i giudei. Invece, abbiamo po-
tuto constatare che nell'arco di Rm 1,18-2,16 Paolo non utilizza mai il termine
« gentile » e soltanto in Rm 2,17 ha cominciato a parlare esplicitamente del « giu-
deo ». Quando tali interlocutori sono chiamati in causa, l'intenzione non è quella
di distinguere le colpe degli uni da quelle degli altri ma per esprimere alcune pa-
rodie di caratteri che finiscono per riguardare tutti, indistintamente. Per questo,
come ha posto ben in evidenza Aletti, in questa requisitoria sono distinte alcune
categorie morali o etiche e non etniche, persone che in modi diversi si relaziona-
no al male e non al bene, secondo la seguente catalogazione : 603

a) Coloro che compiono il male (1,19-31);


b) Coloro che compiono e approvano il male (1,32);
e compiono il male (2,1-5);
e praticano il male (2,17-24);
c) coloro che criticano il male;
d) coloro che insegnano il bene;
e) coloro che compiono il male
in vista del bene (3,1-8);
f) nessuno compie il bene (3,9-18).

600Così B. Byrne, Romans, p. 161; C.E.B. Cranfield, Romans, I, p. 251; H. Kàsemann, Romans, p.
129; DJ. Moo, Romans, pp. 288-289.
601Cfr. anche Is 53,6: « E il Signore lo consegnò a causa dei nostri peccati ».
602Cfr. Rm 5,6.8; 8,32. Invece per l'interpretazione vicaria di Rm 4,25 cfr. J.A. Fitzmyer, Romani,
pp. 465-466.
603Cfr. J.-N. Aletti, Romani, pp. 77-88; la nostra catalogazione è leggermente diversa da quella di
Aletti, perché include anche la categoria di chi, come Paolo, è accusato di compiere il male in vista del
bene (cfr. Rm 3,1-18). Cfr. A. Pitta, Rm 1,18-32: soltanto i gentili oggetto dell 'ira di Dio?, in Paradosso,
pp. 177-194.
204 Traduzione e commento
In questa carrellata di accuse è bene subito riconoscere che Paolo stesso è
chiamato in causa, perché, secondo la calunnia di Rm 3,8, è stato accusato real-
mente di compiere il male in vista del bene. Proprio questa calunnia, fatta diffon-
dere fra le comunità paoline dai sostenitori della Legge mosaica, si trova all'ori-
gine della mordace querela di Rm 1,18 - 3,20: è sempre vero che il miglior modo
per difendersi consiste nell'accusare! Abbiamo potutorilevareche per il bene qui
non si intende soltanto quanto esige una retta coscienza ma la Legge mosaica che
rappresenta, in forme diverse, il principale criterio di valutazione del bene.
Le categorie morali sono delineate secondo uno sviluppo retorico che co-
mincia con l'accusa per tutti coloro che commettono il male e culmina con quel-
la verso chiunque non compie il bene. A ben vedere, in Rm 2,7.10 è considerata
per un attimo anche la categoria di chi compie il bene e che non ha bisogno di dir-
lo per farlo; ma tale categoria è presentata in vista della fase finale della storia,
quella escatologica, quando Dio giudicherà il cuore delle persone per le loro azio-
ni. Per questo, Paolo non si sofferma più di tanto su di essa, anche se questi ac-
cenni confermano che la finalità argomentativa di questa sezione non è quella di
dimostrare che tutti sono colpevoli. Lo svolgimento delle prove (Rm 2,1 - 3,18) è
cadenzato dal principio dell'imparzialità divina: serve per dimostrare la consi-
stenza della giustizia divina; e senza di esso Dio stesso è posto in questione. Che
Dio sarebbe colui che assolve l'empio e condanna il giusto? Tuttavia, per quanto
Rm 2 sia dominata dall'imparzialità divina, al punto che Paolorivolgela propria
attenzione non soltanto alla fase attuale della storia, quella apocalittica, ma anche
a quella finale o propriamente escatologica, questo assioma è funzionale sia ri-
spetto allarivelazionedell'ira divina sia verso i privilegi dei giudei. Nei confron-
ti di Dio, l'imparzialità divina dimostra che su tutti coloro che hanno peccato in-
combe la sua collera. Rispetto ai giudei, Paolo tiene salda la distinzione tra privi-
legi e vanto: l'imparzialità divinarimane,anche se agli israeliti sono state affidate
le parole divine; e non si può accampare nessuna prerogativa che escluda dall'ira
divina. Questo vale soprattutto per i privilegi principali che caratterizzano l'iden-
tità ebraica e che la distinguono, sino a separarla, dagli altri popoli: la Legge (cfr.
Rm 2,12-16) e la circoncisione (cfr. Rm 2,25-29).
Circa il genere di questa querela, a prima vista si potrebbe pensare a una con-
tesa chericalcail modello del rìb tra Dio e il suo popolo nell'AT e che è finalizza-
ta, soprattutto nella querela profetica, al ristabilimento della giustizia divina . 604

Anche se in Rm 1,18 - 3,20 siriscontranomolti elementi forensi, in base ai quali


non abbiamo esitato a definire la sezione come una incompiuta contesa giudizia-
ria,riteniamoche proprio il modello del rìbrischidi compromettere le funzioni e
lefinalitàdella sezione . A parte la mancanza di attestazioni su questo particola-
605

re genere forense, tipico dell'Ai , nel secolo I d.C., anche se questa è una ragione
1

debole perché retta sul silenzio, l'intenzione di Rm 1,18 - 3,20 non consiste nel ri-
stabilimento della giustizia divina né nell'esortare tutti alriconoscimentodelle lo-
604Così R. Penna, Giustificazione, pp. 33-45 e con più cautela anche G. Pulcinelli, Giustizia, pp. 30-
31. Sul genere del rìb cfr. l'ottimo contributo di P. Bovati, Giustizia, pp. 27-50.
605Così anche J.-N. Aletti, Israel, p. 24.
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 205
ro colpe e quindi nel portarli alla riconciliazione, come invece nel rib. Dal versan-
te propriamente divino, Paolo non ha bisogno diristabilirela giustizia divina per-
ché sarebbe stata infranta dalle persone umane, ma la stessa giustizia divina rap-
presenta la condizione fondamentale per larivelazionedella sua ira. Nello stesso
tempo, in questa contesa manca quasi del tutto l'orizzonte dellariconciliazionee
della conversione umana: il motivo della metanoia è accennato soltanto in Rm 2,4
e come constatazione negativa, senza alcunarichiesta.In pratica, Paolo non inten-
de neppure dimostrare che, giacché su tutti incombe l'ira divina, dobbiamo con-
vertirci al vangelo. In questa sezione non ci sono vincitori né vinti, ma tutti sono
chiamati in causa: sia Dio per la sua imparzialità che, per quanto sia sottolineata,
non libera i colpevoli dalla diffusione dilagante dei reati, sia gli esseri umani, per
una colpevolezza senza via d'uscita. Come abbiamo dimostrato nell'analisi delle
singole parti, la querela paolina non è posta in atto per definire colpevoli e vincito-
ri, e quindi per invitare al cambiamento delle relazioni con Dio, ma per escludere
qualsiasi possibilità di vanto che non sia, paradossalmente, relazionata al vangelo.
In questa ricomprensione della contesa possiamo rispondere alla questione
posta nell'introduzione della sezione, se l'ira divinarientrinel vangelo paolino o
se ne sia esclusa. In pratica, possiamo fare a meno di Rm 1,18 - 3,20 e collegare
direttamente Rm 1,16-17 a Rm 3,21 - 4,25? In termini contenutistici, non si può
sostenere che il vangelo, in quanto annuncio positivo di salvezza, includa anche
la prospettiva della collera divina: che vangelo sarebbe? E in che cosa consiste-
rebbe la sua novità? Per questo, molti ritengono che questa contesa rappresenti
una semplicepraeparatio evangelii, una semplice preparazione all'annuncio po-
sitivo del vangelo . Perché allora Paolo non ha reso il percorso più semplice,
606

spostando la tesi positiva di Rm 1,16-17 dopo tale querela, invece di anticiparla?


Abbiamo dimostrato che se, dal versante contenutistico, il vangelo trova il suo
cuore nell'azione giustificatrice di Dio in Cristo, non di meno proprio la rivela-
zione dell'ira pone maggiormente in risalto il valore del vangelo. Pertanto, tale
sezione costituisce non una semplice anticamera del vangelo - nel qual caso tut-
to si risolverebbe in un gioco retorico -, ma un modo per dimostrare l'incompa-
tibilità tra Dio e il male e, soprattutto, per precludere qualsiasi altra condizione di
vanto che non sia relazionata al vangelo.
Non si può certamente sostenere che l'ira divina rappresenti l'ultina o la mi-
gliore prospettiva del vangelo, anche se a essa Paolo accennerà dopo la rivelazio-
ne della giustificazione realizzata in Cristo (cfr. Rm 12,19), ma è comunque pre-
sente e vale contro quanti deprezzano il valore del bene o ritengono che Paolo
stesso compia il male in vista del bene. Pertanto, non soltanto l'ira in vista della
salvezza, che rimane un dato innegabile, ma anche come risvolto negativo del
vangelo, contro qualsiasi connivenza tra Dio e il male. Soltanto il riconoscimento
della collera divina in atto lascia maggiormenterisaltarequello della sua grazia . 607

606Così DJ. Moo, Romans, p. 92.


607Anche se da una prospettiva esistenzialistica più che apocalittica, così scriveva già R. Bultmann,
Nuovo Testamento, p. 250: « Si può parlare della charis di Dio soltanto lì dove si è parlato anche della sua
orge (collera) ».
206 Traduzione e commento
Il percorso della parte positiva di Rm 3,20 - 4,25 si èrivelatonon meno tor-
tuoso di quello negativo di Rm 1,18 - 3,20. Comunque, Paolo ha tenuto fede a
quanto si era proposto di dimostrare: la giustizia salvifica di Dio in Cristo si è ma-
nifestata indipendentemente dalla Legge e dai Profeti. Per sottolineare l'econo-
mia della fede, ha ritenuto opportuno richiamare subito il kerygma primitivo, se-
condo il quale « Dio ha presentato Gesù Cristo come strumento di espiazione con
il suo sangue, mediante la fede, per la dimostrazione della sua giustizia, dopo la
dilazione dei peccati passati » (cfr. Rm 3,25). In forza di questo kerygma prepao-
lino, l'attenzione è interamente rivolta alla fede in Gesù, come universale condi-
zione per accedere alla giustizia divina.
Con l'argomentazione diatribica (3,27-31), Paolo entra subito in discussione
con l'interlocutore fittizio per sottolineare che il vanto fondato sulla Legge e sul-
la circoncisione è stato definitivamente escluso dalla fede. D'altro canto non po-
teva essere altrimenti, perché Dio è Uno ma per tutti, sia per i giudei sia per i gen-
tili. Si può notare come, in questa parte, l'argomentazione paolina è proseguita
sul filo del rasoio,rischiandodi diventare contraddittoria. Soltanto conservando il
significato di Legge mosaica per il sostantivo nomos, pur con diverse accentua-
zioni, Paolo può non essere considerato inconsistente, mentre dobbiamo ricono-
scere lo spessore paradossale delle sue argomentazioni. Così, se la giustizia divi-
na si manifesta senza e con la Legge, nello stesso tempo il vanto non si fonda sul-
la Legge delle opere o sulle opere della Legge, riprendendo l'ambigua domanda
di Rm 3,27, ma sulla Legge della fede, ossia sulla Legge che conduce naturalmen-
te alla fede in Cristo. Per questo la Legge mosaica non è abrogata ma conferma-
ta, senza per questo diventare capace di giustificare o di conferire la vita, in quan-
to per la giustificazione Dio ha scelto soltanto il percorso della fede in Cristo.
Anche l'esempio di Abramo serve per dimostrare l'esclusione di qualsiasi
vanto fondato sulla Legge: soltanto la sua fede-fiducia divenne il fondamento del-
la sua giustizia. Per dimostrare l'incompatibilità tra la fede e la Legge, Paolo si in-
terroga sulle ragioni dell'accreditamento di Abramo rappresentate dalla grazia e
dalla fede. La priorità cronologica della fede di Abramo rispetto alla circoncisio-
ne, quale fondamento della sua giustizia, è anche qualitativa; anzi, la circoncisio-
ne non indica un diverso criterio di giustificazione ma costituisce il segno della
giustizia di Abramo, retta esclusivamente sulla fede.
In questa prospettiva si comprende la valutazione negativa sulla Legge in
Rm 4: succede non soltanto alla promessa e all'eredità divina per Abramo ma è
anche di natura diversa dalla fede. Per questo la Legge provoca l'ira divina e si
trova all'origine della trasgressione. Tuttavia, tale valutazione negativa non è as-
soluta ma contestuale e relativa: emerge quando è posta in conflitto con l'econo-
mia della fede. Abramo diventa padre e modello per tutti coloro che credono, per-
ché non venne mai meno all'adesione per la fede, mentre non aveva mai cercato
qualsiasi vanto che si reggesse sulla circoncisione e sulle opere della Legge.
Se prescindiamo dal momento kerygmatico (3,21-27) e da quello finale
(4,23-25), anche in questa sezione come nella precedente si verificano dei vuoti
inspiegabili: nel midrash su Abramo non si parla mai di Gesù Cristo né si accen-
na minimamente allo Spirito. Da questo punto di vista, se da un lato il midrash di
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina Rm 1,18 - 4,25 207
Rm 4 è più sereno di quello di Gal 3,6-29, in quanto presenta una valutazione più
positiva della circoncisione, dall'altro è meno completo, in quanto non accenna al-
meno alla figliolanza abramitica di Cristo, all'orientamento cristologico della fe-
de e alla promessa dello Spirito (cfr. Gal 3,14). Invece l'attenzione è tutta rivolta
al contrasto tra la fede e la Legge, per escludere qualsiasi motivo di vanto. In que-
ste carenze si trova anche la motivazione per cui la sezione dedicata all'ira divina
occupa più spazio di quellariguardantela giustizia per la fede. Se in seguito Paolo
non dedicherà molto spazio all'ira divina, tranne per alcuni accenni (cfr. Rm 9,22;
12,19), conferirà grande attenzione proprio ai ruoli di Cristo e dello Spirito nella
realizzazione dinamica della giustificazione divina. Di fatto, se la perorazione di
Rm 4,23-25 sintetizza non soltanto l'esempio di Abramo, applicandolo a tutti i
credenti, ma anche l'intera dimostrazione di Rm 3,21 - 4,22, nello stesso tempo
introduce già le positive tematiche sulle relazioni tra il noi dei credenti e la morte
erisurrezionedi Cristo, sulle quali Paolo si soffermerà lungamente nell'unità suc-
cessiva. In altri termini, mentre la sezione dell'ira è chiusa in se stessa, quale ri-
svolto negativo del vangelo, quella della fede è aperta in avanti, verso l'applica-
zione cristologica e pneumatologica della giustificazione divina.
IL PARADOSSALE VANTO CRISTIANO
Rm 5,1 - 8,39

Dalla giustificazione alla pace


5 dunque, giustificati dalla fede, siamo in pace con Dio, per
mezzo del Signore nostro Gesù Cristo,
Attraverso il quale abbiamoricevutol'accesso anche a que-
sta grazia, nella quale restiamo saldi e ci vantiamo, per la speran-
za della gloria di Dio.
3E non solo, ma ci vantiamo pure nelle tribolazioni,
consapevoli che la tribolazione genera la perseveranza,
4e la perseveranza (genera) la temperanza,
e la temperanza (genera) la speranza.
5E la speranza non fa vergognare,
perché l'amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito santo che ci è stato donato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, Cristo morì per gli
6

empi nel momento decisivo.


Raramente qualcuno muore per un giusto; forse si trova an-
7

che qualcuno disposto a morire per chi è buono.


Invece Dio mostra il suo amore per noi perché, quando era-
8

vamo ancora peccatori, Cristo morì per noi.


Dunque, quanto più, giustificati ora mediante il suo sangue,
9

saremo salvati per mezzo di lui dall'ira (divina).


Infatti, se quando eravamo nemici siamo stati riconciliati
10

con Dio attraverso la morte del suo Figlio, quanto più, poiché ri-
conciliati, saremo salvati mediante la sua vita.
nE non solo, ma ci vantiamo anche in Dio mediante il Si-
gnore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale ora abbiamo rice-
vuto la riconciliazione.
Il confronto tra Gesù Cristo e Adamo
Per questo, come a causa di un solo uomo il peccato è en-
12

trato nel mondo, e mediante il peccato la morte; e in tal modo la


209
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39
morte ha attraversato tutti gli esseri umani, per il fatto che tutti
hanno peccato...
13Infatti, fino alla Legge c'era il peccato nel mondo, ma il
peccato non può essere imputato se non c'è Legge.
14Comunque, la morte regnò da Adamo sino a Mosè anche
su coloro che non avevano peccato con una trasgressione simile
a quella di Adamo, che è modello di colui che doveva venire.
I5Ma la caduta non (è) come il dono di grazia;
se, infatti, a causa della caduta di uno morirono molti,
quanto più abbondarono la grazia di Dio e il dono con la gra-
zia mediante un solo uomo, Gesù Cristo, per molti.
16E l'attuazione della grazia non (è) come per uno che ha
peccato;
mentre il giudizio da uno (è) per la condanna,
la realizzazione della grazia dalle molte cadute (è) per la
giustificazione.
17Se infatti, per la caduta di uno, la morte ha regnato a causa
di quell'uno,
quanto più regneranno nella vita coloro che hanno ricevuto
l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia, per mezzo
del solo Gesù Cristo.
18Dunque (allora), come mediante la caduta di uno per tutti
gli esseri umani (fu) per la condanna,
così anche, mediante la giustificazione di uno per tutti gli es-
seri umani (fu) per la giustificazione della vita.
19Infatti, come per mezzo della disobbedienza di un solo uo-
mo i molti sono stati costituiti peccatori,
così, anche attraverso l'obbedienza di uno, molti saranno
costituiti giusti.
20La Legge poi sopraggiunse, affinché abbondasse la caduta;
dove però abbondò il peccato sovrabbondò la grazia,
21affinché, come il peccato regnò con la morte,
così anche la grazia regnasse a causa della giustizia per la vi-
ta eterna,
per mezzo di Gesù Cristo, il Signore nostro.
Uincompatibilità tra la grazia e il peccato
6 *Dunque che cosa diremo? Dovremmo restare nel peccato
affinché abbondi la grazia?
210 Traduzione e commento
2 Non sia mai! Come possiamo ancora vivere per il peccato
quanti siamo morti per esso?
3 Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù,
nella sua morte siamo stati battezzati?
4 Dunque, mediante il battesimo siamo stati consepolti con
lui nella morte, affinché come Cristo è statorisuscitatodai morti
per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo com-
portarci in novità di vita.
infatti, se siamo stati uniti in modo conforme alla sua mor-
te, lo saremo ancherispettoalla (sua) risurrezione,
Consapevoli che il nostro vecchio uomo è stato concrocifis-
so affinché fosse reso inefficace il corpo del peccato, cosicché
noi non serviamo più il peccato.
Infatti chi è morto è giustificato dal peccato.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo anche
con lui,
9sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la
morte non regna più su di lui.
10In realtà, chi è morto, è morto al peccato per sempre; inve-
ce, chi vive, vive per Dio.
n Così anche voi consideratevi morti al peccato ma viventi
per Dio in Cristo Gesù.
12Dunque, non regni il peccato nel vostro corpo mortale, co-
sì da sottomettervi alle sue passioni,
13né disponete le vostre membra come strumenti dell'ingiu-
stizia per il peccato ma offrite voi stessi per Dio, come viventi dai
morti, e le vostre membra come strumenti della giustizia per Dio.
14Allora il peccato non comanderà su di voi, perché non sie-
te sotto la Legge ma sotto la grazia!
La signoria della grazia
Che cosa dunque? Possiamo peccare perché non siamo sot-
15

to la Legge ma sotto la grazia? Non sia mai!


Non sapete che siete schiavi di colui a cui offrite voi stessi
16

per obbedirgli? Sia del peccato per la morte, sia dell'obbedienza


per la giustizia.
Grazie a Dio perché, mentre eravate schiavi del peccato,
17

avete obbedito di cuore al tipo di insegnamento al quale siete sta-


ti consegnati:
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39211
e liberati dal peccato, siete diventati schiavi della giustizia.
18

Parlo in modo umano, a causa della fragilità della vostra


19

carne: di fatto, come avete offerto le vostre membra come schia-


ve dell'impurità e dell'iniquità per l'iniquità, così ora offrite le
vostre membra come schiave della giustizia per la santificazione.
20Infatti, quando eravate schiavi del peccato, eravate liberi
nei confronti della giustizia,
21allora quale frutto avevate? Realtà di cui ora vi vergogna-
te: infatti il loro fine (è) la morte.
22Invece, ora che siete stati liberati dal peccato e siete diven-
tati schiavi per Dio, avete il vostro frutto per la santificazione, il
cui fine (è) poi la vita eterna.
23Mentre il salario del peccato è la morte, il dono della gra-
zia di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, il Signore nostro.
L'appartenenza a Cristo e non alla Legge
7 Torse ignorate, fratelli - infatti mi rivolgo a persone che
conoscono la Legge -, che la Legge comanda sull'uomo per tut-
to il tempo in cui vive?
2 Infatti, la donna sposata è legata alla legge per tutto il tem-
po in cui il marito vive; ma se muore il marito, è svincolata dal
diritto matrimoniale.
3 Pertanto, lei è chiamata adultera se, mentre vive il marito, si
concede a un altro uomo; ma se il marito muore, è libera dal vin-
colo, cosicché non è adultera se si concede a un altro uomo.
4 Così, fratelli miei, anche voi siete morti alla Legge, per
mezzo del corpo di Cristo, così da appartenere a un altro: a colui
che èrisortodai morti, così da produrre frutti per Dio.
infatti, quando eravamo nella carne, le passioni dei peccati
operavano nelle nostre membra, mediante la Legge, così da pro-
durre frutti per la morte;
6 invece adesso siamo stati separati dalla Legge, essendo
morti a ciò che ci teneva prigionieri, cosicché possiamo servire
nella novità dello Spirito
e non nel vecchiume della lettera.
La tragicità della Legge e dell'io
Che cosa diremo dunque? Forse la Legge (è) peccato? Non
7

sia mai!
212 Traduzione e commento
In ogni modo, non ho conosciuto il peccato se non per mez-
zo della Legge. E non avrei conosciuto il desiderio sfrenato se la
Legge non avesse detto: «Non desiderare».
8E il peccato, avendo approfittato del comandamento, ha
prodotto in me qualsiasi bramosia. Di fatto, il peccato è morto
senza la Legge.
9Un tempo, io vivevo senza la Legge; giunto però il coman-
damento, il peccato ha ripreso a vivere;
io sono morto e il comandamento che doveva servire per la
10

vita ha operato per la morte.


1Infatti, il peccato, dopo aver sfruttato il comandamento, mi
ha sedotto e per mezzo di esso mi ha messo a morte.
Così, la Legge è santa e il comandamento è santo, giusto e
l2

buono.
13Dunque ciò che è bene è diventato morte per me? Non sia mai !
Ma il peccato, affinché si manifestasse come peccato, ha
prodotto per me la morte per mezzo di ciò che è bene, affinché il
peccato diventasse oltremisura peccaminoso per mezzo del co-
mandamento.
14In realtà, sappiamo che la Legge è spirituale, mentre io so-
no carnale, venduto al peccato.
15Non capisco ciò che compio; infatti, non metto in pratica
ciò che voglio ma faccio ciò che odio.
16E se faccio ciò che non voglio, riconosco che la Legge è
bella.
17Ora però non sono più io che lo opero ma il peccato che
abita in me.
18In effetti, so che il bene non abita in me, cioè nella mia car-
ne: perché il volere è alla mia portata, ma non il compiere ciò che
è bello.
19Infatti, non faccio il bene che voglio ma metto in pratica il
male che non voglio.
20E se [io] faccio ciò che non voglio, non sono più io a rea-
lizzarlo ma il peccato che abita in me.
21Dunque, trovo questa legge: quando voglio realizzare il be-
ne il male è alla mia portata.
Infatti, secondo l'uomo interiore acconsento alla Legge di Dio
22

23ma osservo un'altra legge nelle mie membra che combatte la


legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del pec-
cato che si trova nelle mie membra.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 213
24Io sono un miserabile uomo: chi mi strapperà da questo
corpo mortale?
25Grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Dunque, in defini-
tiva, io stesso con la mia mente servo la Legge di Dio, ma con la
mia carne la legge del peccato.
La legge dello Spirito
8 dunque, ora (non c'è) nessuna condanna per coloro che
sono in Cristo Gesù.
2 Infatti, la legge dello Spirito della vita, in Cristo Gesù, ti ha
liberato dalla legge del peccato e della morte.
3 Ciò che infatti era impossibile alla Legge, perché era debo-
le a causa della carne... Dio, avendo mandato suo Figlio in un'e-
spressione visibile della carne del peccato e in vista del peccato,
ha condannato il peccato nella carne,
Affinché la giusta esigenza della Legge fosse compiuta in
noi che non camminiamo più secondo la carne ma secondo lo
Spirito.
5 Di fatto, coloro che vivono secondo la carne pensano alle
realtà della carne,
invece, coloro che vivono secondo lo Spirito alle realtà del-
lo Spirito.
6I1 pensiero della carne è morte,
mentre il pensiero dello Spirito è vita e pace.
7 Per questo, il pensiero della carne è nemico di Dio; in
realtà, non si sottomette alla Legge di Dio, né potrebbe;
8 ma coloro che sono nella carne non possono piacere a Dio.
9 Voi però non siete nella carne ma nello Spirito, poiché lo
Spirito di Dio abita in voi; e se qualcuno non ha lo Spirito di Cri-
sto non gli appartiene.
10 E se Cristo (è) in voi, mentre il corpo è morto a causa del
peccato,
lo Spirito è vita a causa della giustizia.
n E se lo Spirito di Colui che harisuscitatoGesù dai morti
abita in voi, Colui che harisuscitatoCristo dai morti vivificherà
anche i vostri corpi mortali, per mezzo del suo Spirito che inabi-
ta in voi.
12Così (dunque), fratelli, non siamo debitori verso la carne
per vivere secondo la carne;
214 Traduzione e commento
infatti, se vivete secondo la carne, morirete; se invece, per
13

mezzo dello Spirito, fate morire le azioni del corpo, vivrete.


La figliolanza nello Spirito
14In realtà, sono figli di Dio coloro che sono guidati dallo
Spirito;
15e non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per (avere)
paura ma avetericevutolo Spirito della figliolanza nel quale gri-
diamo: « Abba, padre».
16Lo Spirito stesso attesta assieme al nostro spirito che siamo
figli di Dio;
17se però figli, siamo anche eredi:
eredi di Dio, coeredi di Cristo,
se davvero consoffriamo affinché possiamo anche essere
conglorificati.
Sofferenze e gloria
18Ritengo, infatti, che le attuali sofferenze non contrastano
con la gloria che dovrà essere rivelata in noi.
19L'attesa della creazione è in ansia per la rivelazione dei fi-
gli di Dio.
Infatti, la creazione è stata sottomessa alla vanità, non per
20

sua colpa ma a causa di colui che l'ha sottomessa, nella speranza


21che la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della
corruzione in vista della libertà della gloria dei figli di Dio.
22Di fatto, sappiamo che tutta la creazione congeme e con-
soffre fino ad ora le doglie del parto.
23Non soltanto, ma anche quelli che hanno la primizia dello
Spirito, anche noi gemiamo in noi stessi mentre siamo in attesa
della figliolanza, della redenzione del nostro corpo.
Infatti, nella speranza siamo stati salvati; ma una speranza che
24

si vede non è più speranza. Come si può sperare ciò che si vede?
25Ma se speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con
perseveranza.
26In modo analogo, anche lo Spirito soccorre la nostra debo-
lezza. Infatti non sappiamo ciò che si deve chiedere, ma lo stesso
Spirito intercede con gemiti inesprimibili.
27E colui che scruta i cuori sa qual è il pensiero dello Spirito,
perché secondo Dio intercede per i santi.
215
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39
Tuttavia, sappiamo che tutto coopera al bene di coloro che
28

amano Dio, per coloro che sono chiamati secondo il disegno:


coloro che ha preconosciuto li ha anche predestinati a esse-
29

re conformi all'immagine del suo Figlio, affinché egli sia il pri-


mogenito fra molti fratelli.
Coloro che ha predestinati, questi li ha anche chiamati;
30

e coloro che ha chiamati, questi li ha anche giustificati;


e coloro che ha giustificati, questi li ha anche glorificati.
L'amore di Dio e di Cristo
Dunque, che diremo dopo queste realtà? Se Dio (è) per noi,
31

chi (è) contro di noi?


Lui che non harisparmiatoil proprio Figlio ma lo ha conse-
32

gnato per tutti noi, come non ci donerà tutte le cose insieme con lui?
Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica!
33

Chi condannerà? Cristo [Gesù] che è morto, anzi, è risorto,


34

siede alla destra di Dio e intercede per noi.


Chi ci separerà dall'amore di Cristo?
35

La tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nu-


dità, il pericolo, la spada?
Come sta scritto: « A causa tua siamo messi a morte tutto il
36

giorno, siamo stimati come pecore da macello ».


Ma in tutte queste realtà siamo più che vincitori a causa di
37

colui che ci ha amati.


Difatti, sono convinto che né morte né vita, né angeli né
38

principati, né presente né futuro, né potenze,


né altezza né profondità né qualsiasi altra creatura potrà se-
39

pararci dall'amore di Dio in Cristo Gesù, il Signore nostro.

Anche se il contenuto kerygmatico della fede è stato introdotto in Rm 3,21-


27 ed è stato brevemente ripreso in Rm 4,23-25, Paolo non ha ancora trattato del-
la sua relazione con coloro che credono in Gesù Cristo né si è soffermato sul-
l'importanza dello Spirito e sulle implicazioni della giustificazione per l'esisten-
za cristiana. Da queste esigenze nasce la nuova unità letteraria che è anche la più
ampia (Rm 5,1 - 8,39) della Lettera ai Romani . 1

1Sull'unità letteraria di Rm 5,1 - 8,39 efr. J.-N. Aletti, Israël, pp. 17-30; B. Byrne, Romans, p. 162;
D.J. Moo, Romans, p. 290; F. Thielman, The Story ofIsrael and the Theology of Romans 5-8 (SBL SP 32),
Atlanta 1993, pp. 227-249.
216 Traduzione e commento
In questa macrounità sono identificabili sei parti fondamentali: a) un nuovo
paragrafo kerygmatico dedicato alle implicazioni della giustificazione (5,1-11);
b) il confronto (sygkrisis) tra Adamo e Cristo (5,12-21); c) una sottounità diatri-
bica dedicata all'incompatibilità tra la grazia e il peccato (6,1-14), alla signoria
della grazia (6,15-23) e all'appartenenza a Cristo e non alla Legge (7,1-6); d) la
situazione tragica dell'io e della Legge (7,7-25); e) la liberazione per mezzo del-
la legge dello Spirito (8,1-30); f) la perorazione incentrata sul paradossale vanto
cristiano (8,31-39).
L'unità si caratterizza per l'uso di diversi generi argomentativi: si passa dal-
la ripresentazione kerygmatica allo stile della diatriba, al confronto tra Adamo e
Cristo o tra la carne e lo Spirito, allaripresadi alcuni elementi tragici, sino all'in-
no dirompente di Rm 8,31-39. Nell'introduzione generale abbiamo già rilevato la
quasi totale assenza di citazioni dirette o esplicite dell'AT in questa unità, rispet-
to alle altre, anche se non mancano allusioni e riferimenti a personaggi dell'AT,
come per Adamo in Rm 5,12-21. Tale carenza si deve principalmente alla funzio-
ne dinamica che svolge il paragrafo kerygmatico (5,1-11) dal quale dipende l'in-
tera unità.
Alcuni, ripercorrendo il canovaccio della dispositio più diffusa nei manuali
di retorica classica, identificano anche in questa unità un esordio (5,1-11), una
quasi-narratio (5,12-21) che culminerebbe con la propositio di 5,20-21, una pro-
bado (6,1 - 8,30) e unaperoratio (8,31-39) . Se condividiamo pienamente l'iden-
2

tificazione di Rm 8,31-39 come perorazione conclusiva, ci sembra che non vi sia-


no reali corrispondenze con la dispositio della manualistica, senza per questo ne-
gare lo spessore retorico dell'unità. Di fatto, Rm 5,12-21 non è una narratio\ e
inutilmente si cerca di salvare il modello pensando a una quasi narratio: rappre-
senta piuttosto un confronto assiomatico e per nulla raccontato, anzi dato per
scontato dal versante narrativo, su Adamo e Cristo. Inoltre, vedremo che se i vv.
20-21 di Rm 5 introducono, dal punto di vista terminologico, alcune questioni di
Rm 6,1 - 8,30, non presentano però le caratteristiche di una propositio, a causa
della loro fondamentale natura dossologica finale. Che si sappia, almeno nell'e-
pistolario autenticamente paolino, non si trova alcun caso analogo in cui una dos-
sologia finale svolga anche il ruolo di propositio, mentre proprio nella nostra uni-
tà spesso si verificano conclusioni di transizione (transitio) che introducono sol-
tanto, dal punto di vista lessicale, i successivi paragrafi . 3

Perriscontrareuna parte di Rm 5 che abbia le caratteristiche di una tesi e che


svolga tale ruolo per tutta o almeno per una parte dell'unità, bisogna risalire sino

2 Cfr. J.-N. Aletti, Romains 5,12-21. Logique, sens etfonction, in Bib 78 (1997) 28-29; S. Brodeur,
The Holy Spirit's Agency in the Resurrection of the Dead. An Exegetico-Theological Study of 1 Corinthians
15,44b-49 and Romans 8,9-13, Roma 1996, p. 211; A. Gieniusz, Romans 8:18-30 «Suffering Does Not
Thwart the Future Glory», Atlanta 1999, pp. 39-51; S. Romanello, Una legge buona ma impotente.
Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto (RivBSup 35), Bologna 1999, pp. 62-67.
3 Cfr. prima il ruolo di Rm 4,24-25 e nella grande unità di Rm 5-8 le funzioni di transizione di 6,14
rispetto a 5,15-23, di Rm 7,6 per 8,1-17 e di 8,17 per 8,18-30. In certo senso, sorprende che A. Gieniusz,
Suffering, pp. 73-76, identifichi la transizione di Rm 8,17 in funzione della tesi di 8,18 senza accorgersi
che lo stesso fenomeno si verifica in Rm 5,20-21 in relazione a Rm 6,1 - 7,6.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 217
a Rm 5,1-2: in essa Paolo anticipa diverse tematiche, non soltanto quelle attesta-
te in Rm 5,20-21, esclusa quella della Legge, ma anche quelle di Rm 5,3 - 8,39:
la relazione tra la giustificazione e la pace, per mezzo di Cristo; l'ingresso alla
grazia, il paradossale vanto cristiano e la prospettiva della speranza della gloria.
Di fatto, se Rm 5,20-21 contiene alcuni annunci tematici successivi, soltanto Rm
5,1-2 svolge un ruolo più ampio sino a inglobare tutto Rm 8. L'analisi dettagliata
dimostrerà come la tesi di Rm 5,1-2 è strettamente legata alle tesi precedenti, che
hanno cadenzato il complesso percorso di Romani (cfr. Rm 1,16-17; 1,18; 3,20-
21). Pertanto, preferiamo distinguere più semplicemente l'esordio (5,1-12), che
comprende la tesi di Rm 5,1-2, dalle prove di Rm 5,12 - 8,30 e dalla perorazione
conclusiva di Rm 8,31-39, che, a sua volta, riprende gli aspetti principali dell'e-
sordio e della tesi dell'unità.
Abbiamo collocato in capite all'unità il paradossale vanto cristiano, sia per-
ché l'accento della tesi principale cade proprio su coloro che possono vantarsi, no-
nostante le situazioni conflittuali della loro esistenza in Cristo, sia perché questo
rappresenta il filo rosso che attraversa Rm 1,16 - 11,36. Se fino a ora Paolo ha di-
mostrato, con diversi argomenti, che il vanto è escluso dall'orizzonte della giusti-
zia divina (cfr. Rm 1,18 - 4,25), adesso intende dimostrare che, se un vanto è pos-
sibile,risultaparadossale, fondato esclusivamente sulla grazia. Intorno alla positi-
va affermazione del vanto cristiano ruota la principale novità tematica non soltanto
di Rm 5-8 in relazione a Rm 1,18 - 3,20 ma ancherispettoa Rm 3,21 - 4,25.
Dalla giustificazione alla pace (5,1-11). - La seconda grande unità della
Lettera ai Romani (Rm 5,1 - 8,39) comincia con l'attribuzione del kerygma cri-
stiano, incentrato sulla giustificazione realizzata da Dio mediante Gesù Cristo, al
noi di quanti credono in Cristo. Al centro di questo paragrafo iniziale si trova il
motivo del vanto, come espressione della nuova condizione nella quale si trova-
no i credenti : il fondamento del vanto è rappresentato dalla giustificazione e dal-
4

la nuova relazione di riconciliazione con Dio nella quale si trovano i credenti.


Anche se non mancano espressioni poco chiare (cfr. vv. 6-7), questo inizio
della lettera è ben curato e ricco di tematiche che saranno sviluppate nel corso di
Rm 5,1 - 8,39: ciò che maggiormente risalta è l'ingresso dirompente di Cristo. In
precedenza, se escludiamo il brano kerygmatico di Rm 3,21-26, Gesù Cristo non
ha assunto un ruolo importante nelle sezioni precedenti. D'ora in poi la giustifi-
cazione sarà sempre dimostrata dalla duplice azione di Dio e di Cristo nella storia
della salvezza: essa consiste fondamentalmente in ciò che Dio ha realizzato me-
diante Cristo . Quest'iniziale paragrafo si compone di tre parti: la tesi principale
5

4 Anche se gli esegeti dissentono sulla funzione di Rm 5,1-11 rispetto a quanto precede o a quanto
segue, si è comunque concordi sull'unità della pericope, caratterizzata dalla prima persona plurale, dai mo-
tivi del vanto e della riconciliazione. La sottounità letteraria di Rm 5,1-11 è confermata dall'inclusione
causata dalla ripetizione dell'espressione «Dio mediante il Signore nostro Gesù Cristo» nei vv. 1.11. In
Rm 5,12-21 subentra il confronto tra Adamo e Cristo. Sull'unità letteraria di Rm 5,1-11 cfr. J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 469; A. Gieniusz, Suffering, p. 40; DJ. Moo, Romans, p. 295; H. Schlier, Romani, p. 241; D.
Zeller, La lettera ai Romani, Brescia 1998, p. 164.
5 L'ingresso prepotente di Cristo non pone in discussione la centralità di Dio nella struttura narrati-
va di Romani ma conferma che il passaggio dall'ira alla pace è stato realizzato da Dio stesso per mezzo di
218 Traduzione e commento
della pericope e dell'unità, consistente nel vanto a causa della giustificazione (vv.
1-2); il paradosso del vanto cristiano (vv. 3-5); il fondamento del vanto (vv. 6-11).
L'accento dell'argomentazione è posto, da una parte, sulla giustificazione-ricon-
ciliazione realizzata da Dio per mezzo di Cristo e con il dono dello Spirito, dal-
l'altra sulla nuova condizione dei credenti.
[5,1-2] Il tempo della collera divina (Rm 1,18 - 3,20) ha ormai lasciato il po-
sto a quello della pace (Rm 5,1 - 8,39). Purtroppo nei commentari e nei relativi
contributi monografici non è posto sufficientemente in luce il contrasto tra que-
ste due macrosezioni della lettera; e se in Rm 1,18 - 4,25 Paolo ha escluso ogni
motivo di vanto ora improvvisamente esalta il vanto cristiano. Ancora una volta,
in Romani tutto si gioca sulle ragioni e sulla consistenza del vanto, variamente
presentato. A causa di queste relazioni contrastanti tra Rm 1,18 - 3,20 e Rm 5,1 -
8,39, i versi iniziali di Rm 5,1-2 non introducono semplicemente la nuova peri-
cope e, conseguentemente, la nuova unità della lettera, ma rappresentano la nuo-
va tesi secondaria che contrasta con quella di Rm 1,18 e che si relaziona positi-
vamente a quelle di Rm 1,16-17 e di Rm 3,21-22 . 6

Rispetto alla tesi generale, Rm 5,1-2 ripropone in forma positiva il motivo


del vanto: « Non mi vergogno... (Rm 1,16) ci vantiamo » . Ora il vanto di Paolo è
7

condiviso dai credenti, compresi i destinatari della lettera . Sarà importante com-
8

prendere la relazione tra questo vanto e quello fondato sulla Legge che Paolo ha
categoricamente escluso in Rm 3,27. Accanto al motivo del vanto torna la rela-
zione positiva tra la giustizia di Dio e la giustificazione dei credenti: « ...La giu-
stizia di Dio...» (Rm 1,17; 3,21); «dunque, giustificati...» (Rm 5,1). In queste
formulazioni, la giustizia divina è sempre presentata come giustificazione o co-
me salvezza e non come giustizia retributiva (cfr. Rm 2,13). Infine, in Rm 1,16-
17, Rm 3,21-22 e Rm 5,1 la giustizia divina è strettamente collegata alla fede:
«Dalla fede... (Rm 1,17)... mediante la fede (Rm 3,22)... dalla fede... (Rm 5,1)».
L'espressione «dalla fede» di Rm 5,1 riconduce alla citazione di Ab 2,4 (ekpi-
steós) riportata nella tesi generale di Rm 1,17.
Nei confronti di Rm 1,18, la nuova tesi svolge un chiaro ruolo di opposizio-
ne: alla rivelazione dell'ira di Dio si oppongono la giustizia divina (Rm 3,20) e
Cristo. Per la centralità di Dio in Rm 1-5 cfr. R.W. Pickett, The Death ofChrist as Divine Patronage (SBL
SP 32), Atlanta 1993, pp. 726-739, anche se con eccessiva attenzione alla concezione greco-romana della
relazione religiosa con Dio.
6 Forse è bene precisare che nell'identificazione delle proposizioni o tesi principali di una lettera
paolina è necessario innanzi tutto valutare le connessioni con la tesi generale per stabilire quali siano real-
mente le tesi secondarie e non sceglierle semplicemente in base al contesto immediato delle affermazioni
paoline. Così, se Rm 5,1-2 si relaziona positivamente a Rm 1,16-17; 3,21-22 e negativamente a Rm 1,18,
non si può affermare altrettanto di Rm 5,20-21 che invece J.-N. Aletti, Romains 5,12-21, pp. 28-29, consi-
dera come tesi principale di Rm 5-8.
7 II tema del vanto sarà ripreso in positivo in Rm 5,3.11 e in negativo con quello della vergogna in
Rm 5,5.
8 Per la funzione relazionale tra mittente e destinatari di Rm 5,1-11 cfr. P.M. McDonald, Romans 5.1-
11 as a Rhetorical Bridge, in JSNT40 (1990) 81-96. Quest'importante dimensione di Rm 5,1-11 è invece
posta in secondo piano dal contributo di S.E. Porter, The Argument of Romans 5: Can a Rhetorical Question
Make a Difference?, in JBL 110 (1991) 655-677, che rilegge la pericope e in particolare l'uso della prima
persona plurale in chiave diatribica. A ben vedere, lo stile di Rm 5,1-11 è diverso da quello diatribico ri-
scontrato in Rm 2,1 - 3,8 e in Rm 3,27-31 a causa della natura reale e non fittizia degli interlocutori.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 219
la pace derivante dalla giustificazione (Rm 5,1). Naturalmente, Rm 5,1-2 ripren-
de in particolare il motivo della giustizia divina mediante la fede in Cristo an-
nunciato in Rm 3,21-22, considerato però dal versante del noi dei credenti e non
tanto da quello dell'azione divina.
Da questi collegamenti con Rm 3,21 - 4,25, al punto che il vocabolario della
giustizia funge da ponte o da gancio tra Rm 4,25 e Rm 5,1 (« Per la nostra giusti-
ficazione... dunque, giustificati... »), si potrebbe pensare che Rm 5,1-11 introduca
semplicemente, come esordio , la nuova unità di Rm 5,1 - 8,39 o rappresenti il cul-
9

mine di Rm 3,21 - 4,25 . In realtà, Rm 5,1-11 rappresenta l'esordio di Rm 5,12 -


10

8,39 che include anche la tesi specifica della sezione rappresentata dai vv. 1-2 . Di 11

fatto, ora si passa dalla colpevolezza (Rm 1,18 - 3,20) e dalla giustificazione uni-
versale (Rm 3,21 - 4,25) alla personalizzazione della giustificazione: ciò che in
Rm 3,21 - 4,25 valeva per tutti ed era presentato dal versante teologico, ora vale
per noi che crediamo ed è descritto per le implicazioni nella vita cristiana . Per la 12

prima volta in Romani, Paolo sostiene che noi siamo stati giustificati e abbiamo
pace con Dio: da questa fondamentale novità argomentativa si snoda l'argomen-
tazione di Rm 5,1 - 8,39. Per questo, in Rm 5,1 - 8,39 Paolo parlerà della signoria
di Cristo, della pace, della grazia, della speranza, della gloria e delle ragioni sulle
quali si fonda il nostro vanto.
Sino a ora egli ha sostenuto che tutti sono giustificati gratuitamente median-
te la redenzione realizzata da Dio in Cristo (cfr. Rm 3,24) e che nessuno sarà giu-
stificato per mezzo delle opere della Legge (cfr. Rm 3,20). Qui non solo afferma
che ora siamo giustificati ma che siamo stati giustificati dalla fede: l'accento cade
sulla prima persona plurale e sul passato della giustificazione che rappresenta la
dimensione cronologica fondamentale della soteriologia paolina . Nell'evento 13

della croce siamo stati giustificati: questo significa che l'ira divina non vale per
quanti sono in Cristo. Naturalmente il soggetto sottinteso di questo participio ao-
risto è Dio e non Cristo né tanto meno noi. A fondamento della giustificazione si
trova la fede, come aveva già sostenuto Paolo con la citazione di Ab 2,4: ora egli
riprende il sintagma « dalla fede » di questa citazione orientandolo in senso cristo-
logico. Si può ben notare che egli non dice esplicitamente « dalla fede di Cristo »
o « in Cristo » ma lascia il referente della fede in prospettiva generale. Dalla fun-
zione che Cristo svolge nella realizzazione della giustificazione si comprende be-
ne ch'egli non rappresenta il soggetto della fede, al quale Paolo non accenna mi-
nimamente, ma colui nel quale si crede per la giustificazione, confermando l'in-

9 Così J.-N. Aletti, Israel, p. 19; A. Gieniusz, Suffering, pp. 35-40; S. Romanello, Legge buona, pp. 63-65.
10 Cfr. J.D.G. Dunn, Romans, I, pp. 242-244.
" Dal punto di vista retorico, nulla impedisce che un esordio contenga anche la propositio argomen-
tativa, come dimostra proprio Rm 1,8-17, in cui la tesi generale della lettera si trova nei vv. 16-17. Per la fun-
zione introduttiva di Rm 5,1-2 cfr. anche P.J. Maartens, The Relevance of« Context» and « Interpretation »
to the Semiotic Relations of Romans 5:1-11, in Neot 29 (1995) 79-82.
12 II passaggio dal pantes (tutti) al noi dei credenti costituisce un ulteriore indizio per l'unità retori-
co-letteraria di Rm 5,1 - 8,39. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 292.
13 Per l'azione passata della giustificazione operata da Dio in Cristo cfr. anche Rm 5,9; 8,30.30; ICor
6,11; Gal 2,17; 3,24. Sull'accentuazione passata, più rilevante rispetto alla dimensione presente e futura
della giustificazione realizzata da Dio, cfr. A. Pitta, Teo-logia, in Paradosso, pp. 308-311.
220 Traduzione e commento
terpretazione oggettiva che abbiamo conferito all'espressione « fede di Cristo » in
Rm 3,22.
La prima conseguenza della giustificazione operata da Dio è la pace, da non
intendere semplicemente come condizione interiore dei credenti né come armisti-
zio delle ostilità tra noi e Dio, ma come espressione della salvezza invece della
collera : essa denota la nuova condizione nella quale ci troviamo rispetto a Dio.
14

Forse è bene rilevare il contrasto tra questa situazione salvifica di pace e la con-
dizione di coloro che, senza la giustificazione, non « hanno conosciuto la via del-
la pace» (Rm 3,17) . 15

In questo primo verso si può notare una indecisione testuale: diversi codici ri-
portano il verbo echómen al congiuntivo che dovremmo rendere con l'esortativo
dobbiamo avere pace . A parte l'attestazione, altrettanto fondata, per l'indicativo
16

echomen , il contesto di Rm 5,1-11 non è esortativo ma constatativo: la pace non


17

rappresenta una nostra scelta verso Dio ma il dono più visibile della sua giustifi-
cazione per noi . La novità della relazione con Dio è posta inrisaltodall'uso del-
18

la preposizione pros che qui assume una consistente dimensione relazionale: la


giustificazione operata da Dio pone in una condizione positiva, di pace con lui . 19

Il cambiamento improvviso dalla relazione negativa a quella positiva con Dio è


determinato dalla mediazione di Cristo, « nostro Signore ». Se fino ad ora Paolo
ha parlato discretamente di Gesù Cristo, soltanto in Rm 4,24 lo ha definito come
«Signore» (cfr. anche nel prescritto di Rm 1,4.7). La signoria di Cristo, in con-
trasto con quella della Legge, del peccato e della morte, è una delle accentuazioni
cristologiche fondamentali e caratterizzanti di Rm 5,1 - 8,39 . 20

La seconda parte della tesi principale della sezione spiega il senso della me-
diazione di Cristo rispetto alla giustificazione divina: mediante lui abbiamo rice-
vuto l'accesso alla grazia divina. Interessante è l'uso del sostantivo «accesso»
(prosagóghe) che compare soltanto 3 volte nel NT: qui e in Ef 2,18; 3,12. Alcuni
ne evidenziano la connotazione regale: mediante Cristo abbiamo accesso alla gra-
zia della regalità divina . Per altri, invece, anche se nell'AT questo sostantivo non
21

è mai utilizzato per l'offerta dei sacrifici, si riferisce al culto cristiano attraverso

14 Per questa connotazione della pace in contrasto con l'ira divina cfr. Is 52,7-10; 54,7-10; Ger 37,26;
Ez 34,25-31; 37,21-28; Test. Dan 5,2; Enoc Etiopico 1,7-8. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 299.
15 Della pace Paolo tornerà a parlare in Rm 8,6, considerandola come espressione dello Spirito nella
vita cristiana.
16 Cfr. i testimoni X*, A, B*, C, D, K, L, 33, 81, 630, 1175, 1739*, Marcione.
17 Cfr. XI, B2, F, G, P, 33, 1739, 1881.
18 Quest'indecisione testuale può essere attribuita a Terzo, durante la dettatura della lettera, o ai suc-
cessivi amanuensi che avrebbero confuso l'omicron con l'omega. Cfr. a tal proposito LA. Moir, Ortography
and Theology: The Omicron-Omega Interchange in Romans 5:1 and Elsewhere, in EJ. Epp - G.D. Fee
(edd.), New Testament Criticism: Its Significance for Exegesis, FS. B.M. Metzger, Oxford 1981, pp. 179-
183. Così anche B. Byrne, Romans, p. 170; D.J. Moo, Romans, p. 295.
19 Per questa funzione di pros in Rm 5,1 cfr. F. Blass - A. Debrunner - F. Rehkopf, Grammatica, p.
239,5. Sull'interdipendenza tra la giustizia divina e la pace cfr. in particolare Is 32,17-18 che per alcuni
rappresenta il retroterra evocato in Rm 5,1-11. Così A. Gieniusz, Suffering, p. 40.
20 Cfr. Rm 5,11.21; 6,23; 7,25; 8,39. Cfr. anche il verbo kyrieuein in Rm 6,9.14; 7,1.
21 Sul contesto regale di prosagóghe cfr. Senofonte, Ciropedia 7,5,45. Così B. Byrne, Romans, p. 170;
J.A. Fitzmyer, Romani, p. 472.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 221
la mediazione di Cristo . Forse entrambe le prospettive sono valide perché me-
22

diante Cristo, strumento di espiazione, è ristabilita la giusta relazione con colui


che ci ha usato benevolenza invece della condanna . 23

L'accentuazione sul passato della giustificazione continua con l'uso del per-
fetto: «Abbiamo ricevuto» (eschekamen)', la giustificazione non rappresenta sol-
tanto un avvenimento passato, per quanto fondamentale, ma raggiunge il presen-
te di ogni credente. L'ambito nel quale ora ci troviamo è quello della grazia: in es-
sa siamo stati ammessi e restiamo saldi . Paolo sottolinea che « questa grazia »
24

non siriferiscein generale alla grazia di Dio, con la quale egli chiama ad esempio
all'apostolato (cfr. Gal 1,15), bensì alla grazia che ha reso possibile l'imprevista
giustificazione dei credenti. Per questo, la grazia rappresenta, nello stesso tempo,
il modo con cui Dio ci giustifica e il contesto nel quale adesso ci troviamo . 25

Su questa grazia divina si fonda persino il vanto dei credenti: quest'afferma-


zione del vanto contrasta decisamente con la sua esclusione, dimostrata in Rm
3,27-31 e lo libera dalla discrezione iniziale di Rm 1,16: non soltanto Paolo non
si vergogna del vangelo ma si vanta, con tutti i credenti, della grazia nella quale
si trovano. Ora il vanto è stato trasferito dalla relazione negativa con la Legge al-
l'economia della grazia: non è più motivo di superiorità dei giudei verso i gentili.
Vantarsi della grazia significa appoggiarsi esclusivamente sull'azione giustifica-
trice di Dio: «vantarsi in Dio» (v. 11; cfr. anche ICor 1,31; 2Cor 10,17). Dunque,
ancora una volta, per Paolo il problema non consiste se possiamo vantarci ma se
abbiamo motivi o credenziali che rendano possibile il vanto. Nei versi successivi
spiegherà le caratteristiche del vanto cristiano: per ora ne sottolinea il fondamen-
to (la grazia) e l'orizzonte (la speranza della gloria di Dio).
Con la speranza è presentata anche la prospettiva futura della vita cristiana:
nel passato siamo stati giustificati, nel presente siamo relazionati alla grazia divi-
na e sino al futuro ci vantiamo di questa nuova condizione. Nell'unità letteraria
precedente, Paolo ha presentato Abramo come nostro padre nella fede e come
modello di una speranza paradossale che contrastava con le sue condizioni fisiche
(cfr. Rm 4,18): ora la speranza cristiana è relazionata alla gloria di Dio. Così egli
introduce due nuove tematiche fondamentali per Rm 5,1 - 8,39: in vista della spe-
ranza siamo stati salvati (cfr. Rm 8,24) ; e la speranza perviene al suo compi-
26

mento con la partecipazione piena della gloria divina . Queste anticipazioni te-
27

22 Per il contesto cultuale di prosagòghè cfr. Aristea 42, in cui siriferisceai sacrifici nel tempio. Così
E. Käsemann, Romans, p. 133; M. Wolter, Rechtfertigung und zukunftiges Heil: Untersuchungen zu Rom
5,1-11 (BZNW 43), Berlin 1978, p. 126.
23 Così anche D. Zeller, Romani, p. 166.
24 Dal punto di vista grammaticale il perfetto estekamen, in quanto intransitivo, ha valore di presente.
25 Anche con il sostantivo charis Paolo introduce una delle tematiche principali di Rm 5,1 - 8,39: cfr.
Rm 5,15.15.17.20.21; 6,1.14.15.
26Per la speranza cfr. in seguito Rm 5,4.5; 8,20.24.24.24. Cfr. anche elpizein (sperare) in Rm 8,24.25.
Cfr. a proposito G. Nebe, «Hoffnung» bei Paulus: Elpis und ihre Synonyme im Zusammenhang der
Eschatologie (SUNT 16), Göttingen 1983.
27 Rispetto alla gloria, è stridente il contrasto tra Rm 1,18 - 4,25 e Rm 5,1 - 8,39: se tutti hanno pec-
cato e sono privati della gloria di Dio (cfr. Rm 3,23), ora i credenti in Cristo sono stati glorificati (cfr. Rm
8,30) e sperano di partecipare pienamente della gloria divina (cfr. doxa in Rm 6,4; 8,18.21).
222 Traduzione e commento
matiche confermano la natura propositiva di Rm 5,1-2 rispetto a quanto seguirà:
dal punto di vista contenutistico, questa tesi pone l'accento sul vanto cristiano ret-
to sulla grazia, sulla speranza e sulla partecipazione della gloria divina, giacché fi-
nalmente abbiamo pace con Dio a causa della giustificazione realizzata per mez-
zo di Cristo.
[vv. 3-4] Il vanto cristiano ha bisogno di essere spiegato, altrimenti anch'esso
può essere frainteso e strumentalizzato: Che cosa vuol dire che ci vantiamo nella
speranza? Si tratta forse di un vanto illusorio, senzarilevanzeper la presente vita
cristiana? Oppure di un vanto possibile sin da ora? In questo primo momento del-
la spiegazione della tesi principale dell'unità letteraria, Paolo specifica subito il ti-
po di vanto cristiano, con la formula «e non solo ma... » (v. 3) cheriprenderà,in-
sieme allo stesso vanto, nella conclusione dell'esordio (v. 11). Dal punto di vista
delle sue manifestazioni, il vanto cristiano si regge anzitutto sulla coscienza di fe-
de che accomuna i credenti; essi sanno, sono consapevoli (eidotes) che il loro van-
to è rapportato alla tribolazione, alla perseveranza, alla temperanza e alla speranza.
Che strano il vanto se è relazionato alle tribolazioni: è assurdo, perché nes-
suno si vanterebbe o gioirebbe nelle situazioni di sofferenza, a meno che non si
tratti di un masochista. In realtà, se è paradossale il fondamento del vanto, rap-
presentato dalla croce di Cristo (cfr. Gal 6,14), non può non essere tale anche il
vanto dei credenti in lui.
Paolo ha già accennato alla tribolazione (thlipsis) in Rm 2,9 a proposito del-
la retribuzione negativa per quanti operano il male; invece qui, come generalmen-
te nel suo epistolario, la tribolazione caratterizza la situazione di persecuzione nel-
la quale si trova il testimone del vangelo : sarà uno dei termini citati nei cataloghi
28

peristatici o delle difficoltà per l'evangelizzazione . Il contesto della testimo-


29

nianza nel quale si verificano le tribolazioni chiarifica anche il senso del parados-
sale vanto cristiano; Paolo sembra applicare ai cristiani le attese dell'apocalittica
giudaica: le sofferenze dei giusti non sono considerate punizioni divine ma prove
per vagliare la consistenza della loro fede , in vista della gloria finale alla quale
30

parteciperanno . Forse non è estraneo a questa paradossale relazione tra il vanto e


31

le persecuzioni il modello stoico del sapiente che rimane fedele alla propria filo-
sofia, nonostante le opposizioni . Tuttavia,rispettoa questo retroterra è bene pre-
32

cisare che, se per gli stoici la perseveranza nelle tribolazioni si regge sull'ideale
dell'indifferenza, per Paolo è fondata sulle relazioni con la croce di Cristo e con
la crescita delle comunità cristiane (cfr. 2Cor 4,7-12).
La seconda parte dei vv. 3-4 è costruita secondo la figura retorica del climax
o della gradatio: si susseguono tre stichi concatenati dalla ripetizione dell'ulti-
mo termine utilizzato nello stico precedente . Si passa, per ascensione o per evo-
33

28 Cfr. lTs 1,6; 3,3.7; 2Cor 1,4.8; 2,4; 4,17; 7,4; Fil 1,17; 4,14.
29 Cfr. 2Cor 6,4; Rm 8,35.
30 Cfr. Sap 3,4; Sir 2,1-9; 4Mac 1,11; 9,8.30; 15,30; 17,4-23.
31 Cfr. Dn 12,3; 1QS 4,7; 4Esd 7,122.125; Enoc Etiopico 38,4; 50,1; 62,15; Test. Giobbe 43,16.
32 Così B. Byrne, Romans, p. 170.
33 Una gradazione concluderà la sezione di Rm 5,1 - 8,39 in Rm 8,30. Per gradazioni simili a questa
cfr. lPt 1,6-7; Gc 1,2-4. Con diverse tematiche cfr. anche le gradazioni di Sap 6,17-20.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 223
luzione retorica, dalla tribolazione alla perseveranza, alla temperanza per finire
con la speranza. Generalmente, se nel chiasmo l'accento è posto sulle parti cen-
trali della composizione (a-b-b'-a'). nella gradazione l'attenzione è rivolta so-
prattutto alle parti limitrofe (a-b-b'-c-c'-d) . Così in questo movimento ascen-
34

sionale, l'accento cade in particolare sulla relazione tra la tribolazione e la spe-


ranza: Come conservare la speranza, citata già nella tesi di Rm 5,2, nonostante la
tribolazione? Le altre parti della gradazione servono a collegare proprio la tribo-
lazione alla speranza e a rendere possibile il consequenziale vanto cristiano.
Senza ripetere il verbo principale della gradazione, ossia « produce » o « genera »
(katergazetainel secondo gradino sono collegate la tribolazione e la perseve-
ranza (hypomoné), che per Paolo è una delle virtù fondamentali della vita cri-
stiana, esaltata nei contesti di testimonianza e di persecuzione per la fede . Il ter- 35

zo gradino è dedicato alla relazione tra la perseveranza e la temperanza (dokimé).


Anche se della temperanza non si parla molto nell'epistolario paolino e per nul-
la al di fuori di esso , la relazione con il verbo corrispondente dokimazein (di-
36

scernere) permette di coglierne l'importanza: la temperanza deriva dal discerni-


mento della volontà di Dio nella nostra esistenza (cfr. Rm 12,2) e non semplice-
mente dal rafforzamento del proprio carattere. L'ultimo gradino riguarda la
connessione tra la temperanza e la speranza che, nel contesto di persecuzione,
corrisponde alla mancanza di scoraggiamento di fronte alle sofferenze derivanti
dalla propria adesione al vangelo . Riprendendo le relazioni gerarchiche fra que-
37

ste virtù, la tribolazione si apre alla speranza quando è affrontata con la perseve-
ranza e con la temperanza, altrimenti conduce allo scoraggiamento e all'abban-
dono. A prima vista, queste connessioni potrebbero indurre a un volontarismo
cristiano: saremmo noi a sperare se siamo forti nella tribolazione, attraverso la
perseveranza e la temperanza. Invece Paolo spiegherà subito l'origine gratuita o
divina della speranza cristiana.
[v. 5] Il motivo del vanto continua nella definizione della speranza, anche se
in forma negativa con il verbo «vergognare» (kataischynei) che purtroppo nelle
traduzioni correnti è reso in modo debole: «La speranza non delude» (BJ, CEI).
Anche in questo caso, come per Rm 1,16 in cui Paolo ha utilizzato il sinonimo
epaischynomai, abbiamo a che fare con una litote, ossia una negazione che affer-
ma. Possiamo rendere l'espressione con: «E la speranza permette di vantarsi» . 38

La speranza cristiana, relazionata alla croce di Cristo, non fa vergognare di


fronte ad altre forme di speranza, ma permette di vantarci perché l'amore che Dio

34Quest'accentuazione vale anche se consideriamo i vv. 3b-4 come sorite retorica, ossia come un
mucchio o un cumulo di parole. Su Rm 5,3-4 come sorite cfr. M. Wolter, Rechtfertigung, p. 145.
35Cfr. Rm 8,25; 15,4.5; lTs 1,3; 2Ts 1,4; 2Cor 1,6; 6,4; 12,12; Col 1,11; lTm6,ll;Tt2,2; 2Tm3,10.
Cfr. anche nei contesti di tribolazione Ap 2,2.3.19; 3,10; 13,10; 14,12. Per la tradizione giudaico-cristiana,
il modello della perseveranza nelle sofferenze è soprattutto Giobbe (cfr. Test. Giobbe 1,5; 4,6; 5,1 ; Gc 5,11).
36Oltre a Rm 5,4.4 cfr. anche 2Cor 2,9; 8,2; 9,13; 13,3; Fil 2,22.
37Per questo, altrove Paolo preferisce relazionare la speranza alla perseveranza (cfr. Rm 15,4; lTs 1,3).
38La relazione tra il vanto e la vergogna è esplicitata soprattutto in 2Cor 7,14: « Se in qualcosa mi
sono vantato di voi non ho dovuto vergognarmene». Per l'uso del verbo kataischynein nel NT cfr. anche
Rm 9,33; 10,11; ICor 1,17.27; 11,4.5.22; 2Cor9,4; Le 13,17; lPt 2,6; 3,16.
224 Traduzione e commento
ha per noi è stato riversato nei nostri cuori . All'agape, introdotta qui per la pri-
39

ma volta in Romani, Paolo dedicherà particolare attenzione nelle sezioni esorta-


tive del suo epistolario ; qui ne evidenzia la fondazione divina: l'amore che Dio
40

ha per noi deriva dalla sua grazia.


Rispetto a questa origine gratuita della speranza cristiana, è importante l'uso
del verbo «effondere» (ekchynomai) che, di per sé, vale per il versamento dei li-
quidi, come il vino, l'acqua o il sangue . Non bisogna dimenticare che nell'AT
41

versare il sangue vuol dire morire (cfr. Gn 9,6) e che durante la benedizione del
calice, nella cena del Signore, è usato proprio questo verbo: « Questo è il mio san-
gue dell'alleanza versato per voi» (Me 14,24 e paralleli). A causa dei successivi
riferimenti al sangue e alla morte di Cristo, in Rm 5,9-10 si spiega l'uso del verbo
« effondere ». In termini positivi, Paolo sembra dire che con l'effusione del sangue
di Cristo si è verificata quella dell'amore di Dio; e questa effusione contrasta con
quella della sua ira (cfr. Rm 5,9), della quale però Paolo non ha parlato in Rm 1,18
- 3,20. Questo rappresenta un punto decisivo dell'argomentazione paolina in
Romani: egli ha sostenuto che Dio rivela la sua ira ma non che l'ha riversata su
tutti, il che significherebbe eseguire la condanna a morte . Invece della sua ira, nel
42

momento decisivo della storia, egli hariversatoil proprio amore.


Soltanto con questa effusione si verifica il cambiamento del cuore umano
che, proprio nella sezione dell'ira, era stato messo sotto accusa (cfr. Rm 1,21;
2,5). L'uso del perfetto ekkechytai (è stato riversato) indica che questa effusione
è avvenuta nel passato ma continua a produrre i suoi effetti sino al presente. In
questa dinamica, tra il passato e il presente, si inserisce ilriferimentoallo Spirito
santo che ci è stato donato. Non è un caso che Luca, attualizzando la profezia di
GÌ 2,28-32, usi l'espressione «effondere lo Spirito» (At 2,17.18.33) e che in Tt
3,15 Paolo dirà che «Dio ci ha salvati... mediante il rinnovamento dello Spirito
santo che ha effuso su di noi abbondantemente » . Dunque con questa espressio-
43

ne, Paolo relaziona esplicitamente l'amore di Dio con lo Spirito santo e, implici-
tamente, entrambi con il sangue di Cristo. Lo Spirito rende presente nella vita cri-
stiana l'effusione dell'amore di Dio, anzi, egli stesso è l'amore di Dio effuso per
noi. Se prescindiamo dal frammento prepaolino di Rm 1,3-4, in cui Paolo ha ci-
tato lo Spirito di santificazione, questo è il primo riferimento allo Spirito in
Romani: sarà ampiamente ripreso e sviluppato in Rm 8 . 44

39 II genitivo agape tou Theou è soggettivo (l'amore che Dio ha per noi) e non oggettivo (l'amore che
noi abbiamo per Dio), come inveceritenevaAgostino, De Spirìtu et Littera 32,56. Così anche in Rm 8,39;
con lo stesso significato cfr. anche « l'amore di Cristo » in Rm 8,35; 2Cor 5,14. Per il valore soggettivo del-
l'espressione cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 475.
40 Cfr. Rm 12,9; 13,10.10; 14,15; 15,30; cfr. anche Gal 5,13.22.
41 Questa forma verbale è tipica del greco ellenistico (per il NT cfr. anche Mt 23,35; 26,28; Me 14,24;
Le 5,37; 11,50; 22,20; At 1,18; 10,45; 22,20; Gd v. 11), mentre in greco classico è utilizzato nella forma
abbreviata di ekehein, attestato anche nel NT (cfr. Rm 3,15; Mt 9,17; Ap 16,1).
42 Nella visione delle sette coppe, Giovanni descriverà l'apocalittica effusione dell'ira divina sulla
terra (cfr. Ap 16,1-4). Sull'effusione della collera divina nell'AT, cfr. Os 5,10; Ez 36,18; Sai 69,25; 79,6.
43 Cfr. anche Is 44,3. Così pregavano i membri della comunità di Qumran: « Tiringrazio,Adonai, perché
mi hai sostenuto con la tua forza e hai effuso il tuo Spirito santo su di me perché non vacilli» (1QH7,6-7).
44 Per il sintagma «Spirito santo »cfr. anche Rm 9,1; 14,17; 15,13.16; lTs 1,5.6; 1 Cor 12,3; 2Cor 6,6;
Tt 3,5; 2Tm 3,5.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 225
[v. 6] Dal v. 6 al v. 10 Paolo si sofferma sulla consistenza dell'amore di Dio,
relazionandolo storicamente e in modo inscindibile all'evento della morte di
Cristo. Così l'amore di Dio è raccontato più che definito! In un momento decisi-
vo della storia, Cristo è morto per gli empi: da quel momento tutti possono verifi-
care e partecipare all'amore di Dio.
Questo momento o kairos favorevole della salvezza (cfr. 2Cor 6,2) assume
una valenza molteplice: è innanzi tutto il momento nel quale tutti si trovavano in
una situazione di debolezza e di empietà . Gesù Cristo è morto nel momento in
45

cui l'ira divina stava per essereriversatasu tutti, permettendo a Dio diriversareil
suo amore e il suo Spirito. Nello stesso tempo, quel momento decisivo della sto-
ria siriferiscealla pienezza del tempo, quando Dio ha mandato suo Figlio per ri-
scattarci dalla Legge e dalla relativa maledizione (cfr. Gal 3,13-14; 4,4-5). Per
questo, quel kairos rappresenta anche l'inizio della fase nuova della storia, quel-
la apocalittico-escatologica, nella quale Dio ci ha giustificati, stabilendo una rela-
zione di pace e non di collera . In quel momento, Cristo è morto per gli empi: qui
46

Paolo introduce, per la prima volta in Romani, il linguaggio del morire ; ed è si- 47

gnificativo che, anche se egli stesso ha affermato che « coloro che praticano que-
ste cose meritano la morte» (cfr. Rm 1,32), riferendosi al tempo dell'ira divina,
non abbia mai affermato che gli esseri umani sono stati condannati a morte, nel
qual caso non ci sarebbe via d'uscita. Invece, proprio quando stava per essere
comminata la condanna, Cristo è morto per gli empi.
A prima vista, il contesto giudiziario potrebbe far pensare alla morte vicaria
di Cristo: egli è morto al posto nostro . In realtà, Paolo non dice mai che Cristo è
48

morto al posto nostro (anti) per placare, ad esempio, l'ira divina che stava per ab-
battersi su tutti, ma a nostro vantaggio, per noi (hyper), perché l'evento della sua
morte rappresenta il momento nel quale Dio stesso ha mostrato il suo amore per
noi . Forse dobbiamo escludere, una volta per tutte, la concezione vicaria della
49

morte di Cristo dall'orizzonte del pensiero paolino perché, al massimo, ci condu-


ce al pentimento, per il fatto che uno è morto al posto nostro, ma questo non cam-
bia totalmente la nostra esistenza.
Invece, cambia tutto quando si è posti di fronte all'amore di Dio attestato nel-
la morte del Figlio: allora ci troviamo di fronte all'amore più paradossale e illogi-
co della storia. Questo significa che, per quanto il modello del Servo sofferente di
Is 52,13 - 53,12 permetta di comprendere la morte di Cristo, soprattutto nei van-
geli sinottici, si rivela restrittivo se non deleterio per il pensiero paolino perché,
come vedremo con l'analisi di Rm 8,32-39, in gioco non è soltanto l'amore di

A causa dei collegamenti con « empi », il termine « deboli » non ha significato neutro, come in ICor
45

1,25; 4,10; 2Cor 10,10, ma negativo come in Gal 4,9: si riferisce all'indebolimento determinato dalla man-
canza della grazia e dello Spirito di Dio che possono fortificare. Per l'empietà umana cfr. Rm 1,18; 4,5.
Così anche DJ. Moo, Romans, p. 307, che però accentua la terza dimensione a detrimento delle al-
46

tre due.
II verbo apothneskein unifica l'intera unità di Rm 5-8 in cui Paolo passa dal morire di Cristo a
47

quello dei credenti con lui (cfr. Rm 5,7.7.8.15; 6,2.7.8.9.10.10; 7,2.3.6.10; 8,13.34).
Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 477; DJ. Moo, Romans, p. 307.
48

Per la morte di Cristo per tutti cfr. anche Rm 14,15; lTs 5,10; 2Cor 5,15.
49
226 Traduzione e commento
Cristo ma anche quello di Dio per noi . Dunque, senza voler escludere dal pano-
50

rama della soteriologia cristiana la funzione vicaria della morte di Cristo, ritenia-
mo che essa non trovi alcuno spazio in quella paolina: in Rm 8,32-39 Paolo espli-
citerà meglio il senso della morte di Cristo per noi e non al posto nostro.
[vv. 7-8] Per dimostrare il paradosso o l'assurdità dell'amore di Dio per noi,
Paolo utilizza un esempio tratto dalle semplici relazioni umane: uno che muore
per chi sia giusto o buono. Questo può verificarsi nella storia a causa della retti-
tudine o della bontà di colui per il quale si muore, anche se tale disponibilità è ra-
ra . Si può notare che la seconda parte del v. 7riproponequanto è detto nella pri-
51

ma, con la variazione di «buono» invece di «giusto». Per questo alcuni hanno
pensato a una correctio retorica: se prima Paolo ha sostenuto che qualcuno rara-
mente muore per un giusto (v. 7a), dopo si corregge dicendo che questo può av-
venire per chi è buono (v. 7b) . Invece, ci sembra più corrispondente pensare a
52

un'affermazione seguita da una concessiva o da una specificazione : morire per 53

chi è buono è più possibile rispetto al morire per chi è giusto, poiché in tal caso
si verifica un legame maggiore con la persona per la quale si muore . Comunque, 54

bisogna riconoscere che raramente si è disposti a morire per gli altri . 55

Trasferendo questo paragone al livello propriamente teologico, Paolo sostiene


non soltanto che Cristo è morto per noi ma che la sua morte attesta anche l'amore
di Dio. Per Paolo, la morte di Cristo non ha rivelato soltanto il suo amore per noi
ma anche quello di Dio; anzi nell'amore di Cristo (cfr. Rm 8,35),rivelatosulla cro-
ce, è attestato anche l'amore di Dio per noi. Si può ben vedere che, attraverso que-
sta sincronica compresenza dell'amore di Dio e della morte di Cristo per noi, Dio
non è distante dalla morte di croce del Figlio, ma vi è profondamente coinvolto, a
causa dell'amore per gli esseri umani. Il sintagma « per noi » rende contemporanei
la morte di Cristo e l'amore di Dio. Per questo, qualsiasi interpretazione vicaria
della morte di Cristorischiadi distanziare questa contemporaneità, come se Dio si
trovasse di fronte a Cristo nel momento della sua morte: invece, egli è con lui per
noi, dimostrando la grandezza e la concretizzazione del suo amore per noi.
[vv. 9-10] La dimostrazione paradossale dell'amore di Dio per noi è conferma-
ta attraverso le tre dimensioni cronologiche della soteriologia paolina: siamo stati
giustificati (passato); tale giustificazione vale per l'oggi della vita cristiana (presen-
te) e per il futuro in cui saremo salvati dall'ira divina. L'unica via d'uscita che tutti
hanno per evitare l'ira divina è rappresentata dall'adesione a Cristo e quindi dalla
partecipazione alla giustificazione che Dio ha realizzato con il sangue del Figlio.

50Contro B. Byrne, Romans, p. 171, che richiama la figura del Servo in Rm 5,6.
' L'avverbio molis generalmente designa le difficoltà nel compiere un'azione (cfr. At 14,18;
5

27,7.8.16; lPt 4,18) mentre qui si riferisce alla sporadicità della stessa azione. Così anche DJ. Moo,
Romans, p. 308.
52Così E. Kàsemann, Romans, p. 136.
53Così anche DJ. Moo, Romans, p. 308.
54Di per sé tou agathou può essere anche neutro e, quindi, essere tradotto con «cosa buona»: in tal
caso siriferirebbea un ideale per il quale si muore. Il contesto di Rm 5,6-11, in cui si parla della morte per
gli altri, esclude questa possibilità.
55Cfr. Gv 15,13 in cui questa situazione è applicata soprattutto alle relazioni amicali: «Non c'è un
amore più grande di colui che dona la vita per i propri amici ».
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 227
I vv. 9-10, costruiti in forma parallela, contengono due argomentazioni afor-
tiori, corrispondenti al qal wahhomaer rabbinico: in questo caso si procede dal
maggiore al minore e non all'inverso . Di fatto il peso dell'argomentazione non
56

cade sulla salvezza dall'ira divina ma sulla giustificazione e sulla riconciliazione


con Dio che permettono la liberazione dall'ira. Il problema principale è non come
evitare l'ira divina ma come essere giustificati da Dio, ossia come egli ristabilisce
la riconciliazione con tutti: dalla giustificazione e dalla riconciliazione deriva la
consequenziale salvezza finale. Ancora una volta, il peso della soteriologia paoli-
na non cade sul futuro ma sul passato e sulle sue conseguenze o implicazioni per
il presente e per il futuro.
Tale riferimento al sangue di Cristo permette di cogliere la diversa prospet-
tiva argomentativa di questa pericope kerygmatica rispetto a quella di Rm 3,21-
26: se in Rm 3,25 Paolo ha sostenuto che Dio ha prestabilito Gesù Cristo come
strumento di espiazione con il suo sangue, ora l'attenzione è posta sulla nuova
condizione di giustificazione nella quale ci troviamo mediante lo stesso sangue
di Cristo. Prima e senza il sangue di Cristo, tra gli esseri umani e Dio c'era una
situazione di incomunicabilità; anzi, la rivelazione dell'ira divina avrebbe con-
dotto alla morte. Ora il sangue di Cristo permette una nuova comunicazione: ri-
cevere la vita di Cristo e condurre alla relazione di alleanza tra Dio e tutti, com-
presi i gentili . 57

Con l'accenno all'ira divina per il futuro, dalla quale saremo salvati, è con-
fermata la prospettiva che abbiamo dato di Rm 1,18 - 3,20: essa non si trova sol-
tanto prima del vangelo ma anche nel vangelo, come suorisvoltonegativo, e per
il futuro escatologico della storia; soltanto l'adesione a Cristo permette a tutti di
evitare la collera finale. Naturalmente questo non significa che basta appellarsi al
sangue di Cristo perrichiederel'esclusione dall'ira divina ma che l'essere in Cri-
sto stabilisce un nuovo tipo di relazione con Dio, determinante per qualsiasi scel-
ta. Forse in questa opposizione tra il sangue di Cristo e l'ira divina è ripresa la
concezione anticotestamentaria dell'agnello pasquale: il sangue degli agnelli tu-
telava i figli degli ebrei dall'abbattimento dell'ira divina sugli egiziani (cfr. Es
12,1-14). Ora il sangue di Cristo impedisce l'applicazione dell'ira divina non sol-
tanto per gli ebrei ma per tutti: « Egli è la nostra pasqua » (cfr. ICor 5,7).
Nella seconda parte del parallelismo (v. 10), Paolo ricorda la condizione di
inimicizia nei confronti di Dio: «Eravamo nemici». Nella lunga lista dei vizi di
Rm 1,29-31 Paolo aveva incluso i « nemici di Dio » (theostygeis, al v. 30), in sen-
so attivo: coloro che si opponevano a Dio e tenevano prigioniera la sua verità nel-
l'ingiustizia. Quiricordache noi, giudei e gentili, eravamo nemici di Dio, in sen-
so attivo e passivo, senza la sua grazia e lontani dalla relazione di alleanza con
lui: ora però siamo stati riconciliati con la morte del suo Figlio.
In tre versi Paolo ripete il vocabolario della riconciliazione: «...Siamo stati
riconciliati» (v. 10) e «riconciliazione» (v. 11); insieme a 2Cor 5,18-20, qui si

56Così anche B. Byrne, Romans, p. 171; DJ. Moo, Romans, p. 309. Questo tipo di argomentazione,
anche se « dal minore al maggiore », caratterizzerà buona parte della pericope successiva (cfr. Rm 5,15.17).
57Per la relazione tra il sangue di Cristo e l'alleanza cfr. ICor 11,25-27; anche Eb 10,29.
228 Traduzione e commento
trova la maggiore attestazione di tale linguaggio nell'epistolario paolino . In Rm 58

5,9-11 e in ICor 5,18-20 il soggetto della riconciliazione non siamo noi né Gesù
Cristo ma Dio che ci riconcilia con se stesso, per mezzo del Figlio.
Da più parti è stato osservato che l'uso di questo linguaggio, in cui Dio è il
soggetto della riconciliazione, è praticamente assente nel greco extrabiblico, do-
ve è usato generalmente in contesti di diplomazia militare . Invece, nel giudaismo
59

ellenistico il verbo katallassein è usato anche per la relazione tra Dio e il suo po-
polo. Così scrive l'autore di 2Mac 8,29: «Alzarono insieme preghiere al Signore
misericordioso, scongiurandolo di riconciliarsi pienamente con i suoi servi».
Paolo non si limita a questa utilizzazione religiosa del verbo ma sostiene qualco-
sa di totalmente nuovo: non è Dio a esserericonciliatocon noi ma egli riconcilia
tutti con se stesso. Questa novità è stata interpretata da alcuni in prospettiva auto-
biografica, nel senso che, poiché con l'evento di Damasco Dio ha realizzato la ri-
conciliazione con Paolo, questo si verifica con tutti . Se però questa interpreta-
60

zione può essere, al massimo, valida per 2Cor 5, anche se abbiamo delle riserve , 61

non è adeguata all'argomentazione di Rm 5,10-11, in cui Paolo non sta ricordan-


do il proprio passato precristiano di peccatore ma si riferisce alla situazione del-
l'umanità. D'altro canto, se l'evento di Damasco è descritto come teofanico (cfr.
Gal 1,15-16), a differenza di At 9,1-19; 22,6-21; 26,12-18, in cui è presentato co-
me evento cristofanico, quando Paolo utilizza il linguaggio della riconciliazione
sottolinea la partecipazione di Dio e di Cristo, anche se con ruoli diversi. Dunque,
non bastarisalireall'avvenimento centrale della vita di Paolo, per motivare l'uso
del vocabolario della riconciliazione nella concezione paolina della salvezza.
Anticipando l'analisi di Rm 8,31-39, vedremo che Paolo sta utilizzando, soltanto
per accenni, il modello del sacrificio di Isacco (Gn 22), per sottolineare la parte-
cipazione di Dio all'evento della morte del Figlio . Come Abramo ha sacrificato
62

il suo unico figlio della promessa, così Dio ha consegnato suo Figlio: le differen-
ze tra queste due relazioni sono abissali, ma c'è una sottile connessione che per-
mette di cogliere che cosa vuol dire che Dio ha consegnato suo Figlio per noi e la
sua partecipazione alla morte di croce.
A causa delriferimentoal sangue di Cristo, preferiamo inserire questo voca-
bolario della riconciliazione con Dio non semplicemente nel contesto delle rela-
58 II verbo katallassein (riconciliare) compare 6 volte nel NT e soltanto nelle lettere paoline (Rm
5,10.10; ICor 7,11; 2Cor 5,18.19.20); se escludiamo ICor 7,11, in cui è utilizzato per lariconciliazionetra
moglie e marito, questo verbo compare sempre in contesti soteriologici. Lo stesso vale per il sostantivo ka-
tallage attestato soltanto 4 volte nel NT ed esclusivamente nel vocabolario paolino (cfr. Rm 5,11; 11,15;
2Cor 5,18.19) e per il verbo composto apokatallassein (riconciliare di nuovo) presente soltanto in Col
1,20.22. Cfr. a proposito C. Breytenbach, Versöhnung; R.R Martin, Reconciliation: A Study of Paul's
Theology, Grand Rapids 1989 , pp. 135-154; S.E. Porter, Katallassö in Ancient Greek Literature with
2

Reference to the Pauline Writings, Cordova 1994; C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria (GLNT
S4), Brescia 1994,1, pp. 840-845.
59Cfr. Sofocle, Aiace 744; Filone, Praemiis 166; Giuseppe e Asenat 11,18.
60Cfr. S. Kim, 2Cor. 5:11-21 and the Origin ofPaul's Concept of« Reconciliation», inNT2>9 (1997)
360-384.
61Cfr. A. Pitta, Paradosso, pp. 325-326.
62 Sulle connessioni terminologiche e contenutistiche tra Rm 5,8-10 e Rm 8,31-39 cfr. A. Pitta, La
funzione soteriologica di Isacco nell'epistolario paolino, in Paradosso, pp. 250-254.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 229
zioni umane o diplomatiche bensì in quello dell'alleanza tra Dio e il suo popolo . 63

Per Paolo, il linguaggio della riconciliazione, poiché il soggetto è sempre Dio,


tranne per l'uso di apokatallassein in Col 1,20.22 e in Ef 2,16 in cui il soggetto
diventa Cristo, esprime molto più di quanto possa dire per le relazioni umane.
Al v. 9 e al v. 10, accanto al vocabolario della riconciliazione, Paolo utilizza
per il futuro quello antropologico-religioso del verbo « salvare » (sózein): è tipico
dell'esistenza umana posta in situazioni di pericolo . In questo caso, il pericolo
64

che incombe su tutti è larivelazionedell'ira divina. Anche se nelle grandi lettere


il titolo di « salvatore » è utilizzato soltanto per Gesù Cristo (sótèr, in Fil 3,20), ge-
neralmente il soggetto dell'azione salvifica è ancora Dio . Come per gli altri ver-
65

bi della soteriologia paolina, anche « salvare » è utilizzato nel dinamismo crono-


logico del passato (cfr. Rm 8,24; Ef 2,5.8), del presente (cfr. ICor 15,2) e del fu-
turo sottolineato in questi versi (cfr. anche Rm 9,27; 11,26). Tuttavia, non bisogna
dimenticare che anche il peso della soteriologia paolina, evidenziato in questo ca-
so attraverso l'argomentazione afortiori, cade sul passato: poiché siamo stati giu-
stificati,riconciliatie salvati (cfr. Rm 8,24), saremo salvati dall'ira divina.
Il parallelismo tra il v. 9 e il v. 10 si chiude con la via attraverso la quale sa-
remo salvati: «la sua vita» riferita non tanto a Dio quanto a Cristo stesso, come
dimostra la connessione con «mediante il suo sangue» del v. 9. L'effusione del
sangue di Cristo ha significato per tutti la possibilità non di incorrere nella colle-
ra mortale ma di partecipare alla vita del Figlio . Questo riferimento alla vita di
66

Cristo è determinato proprio dalla sua relazione con il suo sangue, inteso come
via principale per la ricezione della vita.
[v. 11] In forma di inclusione rispetto al v. 3, Paolo riprende il motivo del
vanto (« Non solo ma ci vantiamo anche... », vv. 3.11) annunciato nella tesi gene-
rale di Rm 5,2, volgendo in positivo il vanto paradossale nelle tribolazioni. Ora il
vanto è relazionato direttamente a Dio, attraverso la citazione implicita di Ger
9,22.23 (« Chi si vanta nel Signore si vanti ») citata esplicitamente già in ICor
1,31 e in 2Cor 10,17. Il vanto in Dio nasce dalla consistenza del suo amore per noi
e non dai nostri meriti o dalla nostra capacità di ben relazionarci con lui; e rima-
ne un vanto paradossale, non soltanto perché relazionato con le tribolazioni ma
anche, se non soprattutto, perché il suo amore realizzato e attestato mediante la
morte del suo Figlio è sconvolgente, al di fuori di ogni logica umana.
La pericope si chiude con una breve dossologia cristologica, uguale a quella
che ha introdotto la stessa pericope (v. I) : il « Signore nostro Gesù Cristo », rico-
67

63 Così invece R. Penna, Peccato e redenzione. Una sintesi, in L'apostolo Paolo, pp. 389-390.
64 Su un totale di 107 frequenze nel NT, il verbo sózein compare 24 volte nell'epistolario paolino (per
Romani cfr. Rm 5,9.10; 8,24; 9,27; 10,9.13; 11,14.26). Cfr. W. Foerster - G.G. Fohrer, Sózóktl, in GLNT
XIII, pp. 445-607; C. Spicq, Lessicografia, pp. 626-641.
65 Per Dio come soggetto esplicito del verbo « salvare» cfr. ICor 1,21; come soggetto implicito del-
le forme passive del verbo cfr. Rm 8,24; 9,27; 10,9.13; 11,26; 2Cor 2,15; Ef 2,5.8; lTm 2,4; Tt 3,5.
66 Escludendo il riferimento alla vita escatologica per quanti operano il bene in Rm 2,7, la tematica
della vita mediante Cristo è centrale in Rm 5-8, confermandone l'unità retorico-letteraria (cfr. in seguito
zóéin Rm 5,17.18.21; 6,4.22.23; 7,10; 8,2.6.10.38; dopo questa sezione cfr. soltanto Rm 11,15; cfr. anche
l'uso del verbo zóein in Rm 6,2.10.10.11.13; 7,1.2.3.9; 8,12.13.13).
67 Da questa conclusione dossologica derivano le altre conclusioni di diverse pericopi della sezione
(cfr. Rm 5,21; 6,23; 7,25; 8,39).
230 Traduzione e commento
nosciuto come colui attraverso il quale abbiamoricevutolariconciliazione.Così,
Paolorichiamail motivo dominante di questa pericope e dell'intera unità lettera-
ria: lariconciliazionecome espressione e situazione nuova della giustificazione e
della pace che Dio ha realizzato con noi mediante la morte del suo Figlio.
Il confronto tra Gesù Cristo e Adamo (5,12-21). - Qual è la conseguenza del-
la morte di Cristo per noi, sottolineata a più riprese in Rm 5,1-11? Che cosa vuol
dire essere stati ammessi alla grazia divina per la quale ora ci vantiamo? E qual è
la relazione tra questa grazia e il peccato? Da queste implicite domande, rilevabi-
li dallo sviluppo argomentativo di Rm 5,1-11, nasce il confronto o la sygkrisis tra
Cristo e Adamo descritta in Rm 5,12-21 . Precisiamo subito che, anche se questa
68

è una delle pericopi più note e più commentate della Lettera ai Romani, a causa
della teologia del peccato originale, non è fra le piùriuscitedal punto di vista sti-
listico né fra le migliori dal versante argomentativo: si susseguono molte ripeti-
zioni, come quella tra uno-tutti (o « molti ») o il parallelismo dei membri introdot-
to da come-così e da se infatti-quanto più . Quasi in ogni verso si parla della rela-
69

zione tra il peccato e la grazia, anche se con variazioni terminologiche ; mentre 70

spesso si assiste all'omissione dei verbi principali (cfr. le ellissi nei vv. 16b.l8),
per non ricordare l'anacoluto iniziale del v. 12 («Come...»; e poi?). Neppure il
versante argomentativo della pericope è moltoriuscito:Paolo insiste più volte sul-
la superiorità della graziarispettoal peccato ma, in definitiva, in che cosa consiste
questa superiorità?
Abbiamo volutamente evidenziato questi aspetti carenti di Rm 5,12-21 per
sottolineare che sono quasi incomprensibili senza la relazione con Rm 5,1-11 e in
particolare con la tesi generale della sezione (Rm 5,1-2). Di fatto, soltanto a causa
della grazia divina, intesa come espressione della giustificazione realizzata da Dio
mediante Cristo, con la quale Dio ha manifestato il suo amore per noi, è possibile
cogliere il confronto tra Cristo e Adamo, altrimenti si ha l'impressione di forzatu-
re tese a dimostrare, a tutti i costi, la superiorità di Cristo nei confronti di Adamo.
Per questo ci troviamo di fronte a un livello argomentativo consequenziale ri-
spetto a quanto precede e non l'inverso: il punto di partenza della dimostrazione
paolina è la grazia divina realizzata in Cristo, come abbiamo evidenziato con la te-
si generale di Rm 5,1-2. Dunque, la questione principale di Rm 5,12-21 non ri-

68 La sottounità letteraria di Rm 5,12-21 è universalmente riconosciuta: la pericope è caratterizzata


dalla terza persona singolare, tranne nella conclusione dossologica dove torna la prima persona plurale che
domina le pericopi circostanti di Rm 5,1-11; 6,1-14. D'altro canto, soltanto in questa pericope Paolo si sof-
ferma sul confronto tra Cristo e Adamo, costruito sul parallelismo di ciò che li caratterizza.
69 II pronome numerale heis (uno) si trova ben 12 volte in Rm 5,12-21 (vv. 12.15.15.16.16.17.17.17.
18.18.19.19), mentre è raro nel resto della lettera (cfr. Rm 3,10.12.30; 9,10; 12,4.5.5; 15,6). Il versante op-
posto è occupato da tutti-molti (cfr. pantes nei vv. 12.18.18; polloi nei vv. 15a.15b.16.19.19). Il binomio co-
me-così si trova nei vv. 15.18.19.21 (cfr. anche l'anacoluto del v. 12 introdotto da «come» senza il succes-
sivo «così»); si vedano anche i parallelismi introdotti da «se infatti... quanto più» nei vv. 15b.l7 e quello
introdotto da « mentre... invece » al v. 16b.
70 Al campo semantico della grazia appartengono charis (vv. 15.15.17.20.21), charisma (vv. 15.16),
dórea (vv. 15.17) e dorema (v. 16). Del vocabolario del peccato fanno parte hamartia (vv. 12.12.13.13.20.21 ),
hamartanein (vv. 12.14.16), hamartólos (vv. 8.19), parabasis (v. 14) e paraptoma (vv. 15.15.16.17.18.20).
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 231
guarda la relazione tra « Adamo, la Legge e Cristo » bensì la concretizzazione con-
sequenziale della grazia, realizzata in Cristo, per l'umanità . 71

Il genere retorico che caratterizza Rm 5,12-21 è quello della sygkrisis o del


confronto tra Cristo e Adamo: si tratta di una prova tecnica abbastanza nota e dif-
fusa nella retorica antica cherichiedeil confronto tra persone, termini, caratteri o
modi di vivere . In funzione di questo confronto Paolo utilizza diversefigurereto-
72

riche minori, come la prosopopea o la personificazione del peccato e della morte,


da una parte, della grazia e della vita, dall'altra : queste sono come persone che
73

agiscono, si intromettono e regnano sull'esistenza umana. Di fondamentale im-


portanza è l'argomentazione a fortiori, in cui si procede dal minore al maggiore:
« Se infatti... quanto più... » (vv. 15.17) : la sua presenza permette di comprendere
74

che il confronto tra Adamo e Cristo non è a pari, tra due modelli da scegliere, ma
impari, in cui l'attenzione è interamenterivoltasu Cristo e non su Adamo. Per que-
sto preferiamo parlare del confronto tra Cristo e Adamo e non dell'inverso . 75

Per quanto riguarda la composizione interna della pericope, non sono man-
cate proposte di tipo circolare e chiastico : a una verifica di queste ipotesi ci si
76 77

accorge che sono costruite in base a scelte arbitrarie di alcuni termini a discapito
di altri. Per questo, preferiamo seguire lo sviluppo retorico, fondato sul rispetto
della composizione parallela della pericope e che permette di delineare tre parti
fondamentali: a) il regno del peccato, della Legge e della morte (vv. 12-14); b) la
supremazia della grazia sulla trasgressione (vv. 15-17); c) dalla trasgressione alla
giustizia per la vita eterna (vv. 18-21) . Dal versante tematico, l'attenzione non è
78

rivolta principalmente alla relazione tra la morte e la vita, pur presente, ma alle
condizioni che conducono all'una e all'altra, ossia alla relazione tra il peccato e la

71 Da questo punto di vista, la nostra prospettiva è diversa da quella di J.-N. Aletti, Romains 5,12-21
Adam, la loi, le Christ, in Israël, pp. 101-133, che considera lo sviluppo di Rm 5 orientato verso i vv. 20-
21 identificati come propositio della sezione. Cfr. anche Id., Romains 5,12-21, pp. 3-32.
72 Già in Galati, Paolo aveva stabilito il confronto tra se stesso e Pietro (cfr. Gal 2,11-14) o tra la vi-
ta secondo la carne e quella secondo lo Spirito (cfr. Gal 5,16-26). Per questa prova retorica cfr. anche J.-N.
Aletti, Israël, p. 26.
73 Per le figure retoriche presenti in Rm 5 cfr. M.R. Cosby, Paul 's Persuasive language in Romans
5, in D.F. Watson (ed.), Persuasive Artistry, FS. G.A. Kennedy (JSNT SS 50), Sheffield 1991, pp. 209-226.
74 In Rm 5,9.11, utilizzando lo stesso tipo d'argomentazione, Paolo aveva proceduto dal maggiore al
minore. Su quest'argomentazione a fortiori cfr. anche S.-H. Quek, Adam and Christ According to Paul, in
D.A. Hagner - M.J. Harris (edd.), Pauline Studies, FS. F.F. Bruce, Exeter 1980, p. 75.
75 Così anche J.-N. Aletti, Romains 5,12-21, p. 25; O. Hofius, Die Adam-Christus. Antithese und das
Gesetz Erwägung zu Rom 5,12-21, in J.D.G. Dunn, Mosaic Law, pp. 165-206.
76 Anche se della Legge si parla all'inizio (v. 13) e alla conclusione (v. 20) della pericope, i vv. 12-
14 e i vv. 18-21 non svolgono i ruoli di a-a' rispetto a b (vv. 15-17) come invece sostiene U. Wilckens,
Römer, I, pp. 306-308: si può notare che nei vv. 12-14, a causa dell'anacoluto, manca l'accenno a Cristo.
Per la stessa ragione non regge la composizione circolare (a: v. 12; b: vv. 13-17; a': vv. 18-19), proposta da
D.B. Garlington, Faith, Obedience and Perseverance, Aspects of Paul's Letter to the Romans (WUNT
79), Tübingen 1994, pp. 79-80.
77 Cfr. la composizione chiastica proposta da I.H. Thompson, Chiasmus in the Pauline Letters (JSNT
SS 111), Sheffield 1995: a (v. 12), b (v. 13), c (v. 14), d (v. 15a), e (v. 15b), f (v. 16), e' (v. 17), d' (v. 18),
e' (v. 19), b' (v. 20), a' (v. 14). Si può scegliere questa proposta per notare come viene smontato un testo
fondato sul parallelismo dei membri per essere ricomposto secondo una propria concezione: si veda la pre-
sunta relazione tra il v. 14 e il v. 19.
78 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 405. Il passaggio dalla seconda alla terza parte è determina-
to dalla breve anticipazione dossologica del v. 17b e dalle particelle conclusive ara oun del v. 18.
232 Traduzione e commento
grazia . Naturalmente, anche per questo binomio vale quanto è stato evidenziato
79

sulla relazione tra Cristo e Adamo: l'accento cade sulla grazia e non sul peccato.
[5,12] Dopo aver sottolineato il vanto cristiano derivante dall'azione salvifi-
ca realizzata da Dio mediante Cristo, Paolo si sofferma sul confronto tra due per-
sone che per ora non nomina. La formula dia touto è chiaramente retrospettiva e
non prospettica : essa guarda all'indietro, a Rm 5,1-11, lasciando intendere che
80

il confronto successivo si regge su quanto Cristo ha realizzato e non tanto su ciò


che ha compiuto Adamo, di cui si parla qui per la prima volta in Romani. La pe-
ricope che si sta per aprire non è di natura antropologica né riguarda principal-
mente l'origine del genere umano, del peccato o della morte, ma è di tipo cristo-
logico: l'attenzione èrivoltaa quella grazia della quale ci vantiamo e che ha per-
messo a tutti di accedere a Dio, in quanto giustificati. Vedremo in che senso una
prova così cristologica e cristocentrica apre anche a una nuova modalità di con-
cepire l'antropologia.
Senza introdurre il confronto, ad esempio mediante una citazione diretta de-
sunta da Gn 2-3, Paolo comincia con un « come », dopo il quale ci aspetteremmo
un « così »: invece manca nei vv. 12-14 la seconda parte del confronto, vale a di-
re, ciò eh'è avvenuto mediante il solo Gesù Cristo . Dunque, questa esposizione
81

paolina comincia con un anacoluto che lascia sospeso il confronto tra Adamo e
Cristo. Dallo sviluppo successivo si può pensare alle proposizioni introdotte da
« così » nei vv. 18.19.21 : « ...così anche mediante la giustificazione di uno per tut-
ti gli esseri umani (fu) per la giustificazione della vita» (v. 18). Comunque, è be-
ne riconoscere la presenza di un anacoluto che, per ora, sposta l'attenzione sul
versante negativo e non su quello positivo del confronto; la sua presenza è dovu-
ta all'accumulo di pensieri da trasmettere allo scritto: ci riferiamo in particolare
alla relazione tra il peccato e la Legge di cui si parlerà nei vv. 13-14.
La prima parte del confronto presenta il modello argomentativo fondamen-
tale del versante negativo: dal peccato, mediante un uomo, alla morte. Il sogget-
to principale della proposizione è non « un uomo » ma il peccato e la morte, che
si sono aperti una breccia fra tutti gli esseri umani . La figura della prosopopea
82

permette di considerare il peccato e la morte non tanto come realtà naturali o ine-
luttabili ma come persone che precedono e sovrastano l'umanità: attraverso la

79 Con buona pace di A. Feuillet, Le règne de la mort et le règne de la vie (Rom V, 12-21 ), in RB11
(1970) 481, il binomio morte-vita è inferiore e funzionale rispetto a quello tra peccato-grazia. Il sostanti-
vo thanatos compare 5 volte in Rm 5,12.12.14.17.21, mentre dell'opposto zóé si parla 3 volte (vv.
17.18.21).
80 Così anche B. Englezakis, Rom 5,12-15 and the Pauline Teaching on the Lord's Death: Some
Observations, in Bib 58 (1977) 231; D.J. Moo, Romans, p. 320; S.E. Porter, Romans 5, p. 671. Cfr. già dia
touto con la stessa funzione in Rm 1,26; 13,6; 15,9; 2Cor 4,1; 7,13.
81 Da più parti è riconosciuto l'anacoluto del v. 12: cfr. B. Byrne, Romans, p. 183. Alcuni hanno ten-
tato di risolverlo interpretando il successivo hai outós (e così) come corrispondente di outós kai. Cfr. J.T.
Kirby, The Sintax of Romans 5,12: A Rhetorical Approach, in NTS 33 (1987) 283-286. Cfr. anche la nuo-
va versione della CEI: « Come a causa... così in tutti gli uomini ». Per gli anacoluti nelle lettere paoline cfr.
Gal 2,6; Rm 2,20.
82 Per l'uso personale di eiserchomai (sopraggiungere) cfr. Rm 11,25; ICor 14,23.24; per quello di
dierchomai (attraversare) cfr. ICor 10,1; 16,5.5; 2Cor 1,16. Si può notare come Paolo utilizzi lo stesso ver-
bo erchomai, con diverse preposizioni, per sottolineare le profonde connessioni tra il peccato e la morte.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 233
trasgressione, queste entrano negli esseri umani e li devastano. Dunque è bene
subito distinguere il peccato (hamartia), come potenza che domina su tutti, dalla
trasgressione o dai peccati nel senso morale dei termini . 83

Lo stesso vale per la morte: non è tanto la morte fìsica a essere presa di mi-
ra, quanto quella morale, derivante dal peccato, e quella definitiva (o apocalittica)
relazionata al giudizio divino e alla condanna che stava per essere comminata . Il 84

primorisvoltodella morte morale, relazionata al peccato, è sottolineato nella pri-


ma parte del v. 12: non fosse a causa di quel solo uomo, il peccato non avrebbe
raggiunto il mondo e la morte non avrebbe attraversato tutti. Comunque, quella
del solo uomo è l'unica ragione per la quale il peccato e la morte hanno devasta-
to tutti o c'è qualcosa che grava sulle responsabilità di ognuno? Per non dimenti-
care questa seconda componente della condizione generale, Paolo ricorda che
« tutti hanno peccato », senza distinzioni.
In questo sviluppo argomentativo resta da interpretare la crux dell'espressio-
ne eph' ho sulla quale si è riaperto il dibattito esegetico . Le difficoltà interpreta-
85

tive di questa espressione derivano sia dalla molteplice funzione di epi (senso
causale, finale o consecutivo), sia dal valore di ho (maschile, neutro o avverbia-
le). Ormai si è generalmente abbandonato il significato conferito all'espressione
dalla Vulgata e che ha guidato l'esegesi agostiniana: « In quo (riferito ad Adamo)
omnes peccaverunt (nel quale tutti hanno peccato)» . D'altro canto non bisogna
86

pensare che tale esclusione scalzi la tradizionale concezione del peccato origina-
le o di origine: vedremo in che senso questa visione va interpretata alla luce del-
l'analisi retorico-letteraria della pericope.
Nel dibattito esegetico contemporaneo si propende per il valore causale
(«perché tutti hanno peccato... ») o constatativo («per il fatto che tutti hanno pec-
cato») di eph ho: nel primo caso, eph' ho corrisponde praticamente alla particel-
y

la causale dioti, nel secondo ho acquisterebbe valore neutro e non maschile. Anche
se la maggior parte degli esegeti propende per il significato causale , permango- 87

no alcuneriserve.In tal caso ci troveremmo di fronte a una duplice causa per l'in-
gresso del peccato e della morte nel mondo: Adamo e tutti gli esseri umani.
Tuttavia, è possibile scindere queste due cause, pensando, ad esempio, a una cau-
sa prima (Adamo) e a una secondaria (tutti)? Perché allora Paolo, nello sviluppo
argomentativo di Rm 1-5 non ha trattato prima del peccato di Adamo e quindi di
83Per questo il sostantivo hamartia in Romani è usato prevalentemente al singolare (cfr. Rm 3,9; 4,8;
5,12.12.13.13.20.21; 6,1.2.7.10.10.12.13.14.16.17.18.20.22.23; 7,7.7.7.8.8.9.11.12.13; 8,2.3.10; 14,23) e
di rado al plurale (cfr. Rm 4,7 con la citazione del Sai 32,1-2; Rm 7,5; 11,27).
84Per queste diverse accentuazioni sulla morte in Rm 5,12-21 cfr. M.C. de Boer, The Defeat ofDeath.
Apocalyptic Eschatology in Corinthians 15 andRomans 5 (JSNT SS 22), Sheffield 1988, pp. 109-140.
85Sulle diverse interpretazioni di eph ' ho cfr. A. Pitta, La concezione paolina del peccato originale:
ICor 15,21-49; Rm 5,12-21, in Paradosso, pp. 213-216.
86Cfr. Agostino, De peccatorum mentis et remissione 1,10,11.
87Così B. Byrne, « The Type of the One to Come» (Rom 5:14): Fate andResponsibility in Romans
5,12-21, in ABR 36 (1988) 19; B. Englezakis, Rom 5,12-15, p. 232; C.H. Giblin, A Qualifying Parenthesis
(Rom 5,13-14) andlts Context, in M.P. Horgan - P.S. Kobelski (edd.), To Touch the Text, FS. J.A. Fitzmyer,
New York 1989, p. 310; K. Kertelge, The Sin ofAdam in the Light ofChrist's Redemptive ActAccording to
Romans 5:12-21, in Communio 18 (1991) 504; F. Montagnini, Rom 5,12-14 alla luce del dialogo rabbinico
(RivBSup 4), Brescia 1971; D.J. Moo, Romans, p. 322. Per eph' ho in senso causale cfr. 2Cor 5,4; Fil 3,12.
234 Traduzione e commento
quello di tutti, e non l'inverso? . Invece, nonostante le riserve di alcuni, ci sembra
88

che il valore constatativorisultiancora valido e da sostenere: « Per il fatto (data la


condizione o la situazione) che tutti hanno peccato» . Per Paolo, non c'è il pec-
89

cato di Adamo e quindi il peccato di tutti ma nel e con il peccato di Adamo c'è
quello di tutti, senza nulla togliere al valore storico ch'egli attribuisce alla figura
di Adamo. Dunque, se con l'interpretazione causale si rischia di distinguere due
cause sull'ingresso del peccato e della morte, con quella constatativa è maggior-
mente rispettata l'interdipendenza tra il peccato di Adamo e quello di tutti.
L'asserzione secondo la quale « tutti hanno peccato »richiamala dimostrazione di
Rm 1,18-3,20 attraverso la quale Paolo ha cercato di dimostrare che su tutti co-
loro che hanno peccato incombe l'ira divina: «Tutti sono soggetti al peccato... »
(Rm 3,9); «Tutti hanno peccato e sono privati della gloria di Dio» (Rm 3,23).
Queste relazioni pongono in evidenza non soltanto la complessa relazione tra il
peccato di Adamo e Cristo ma anche quella con il peccato di tutti.
[vv. 13-14] Invece di introdurre la seconda parte della frase iniziata con « co-
me », Paolo avverte il bisogno di precisare il ruolo della Legge rispetto al pecca-
to. Anche se, a prima vista, i vv. 13-14 possono sembrare una semplice parentesi
di specificazione, l'attenzione rivolta alla Legge rispetto alla situazione generale
di colpa nella quale tutti si trovavano (cfr. Rm 2-4) permette di coglierne l'im-
portanza anche in Rm 5,1 - 8,39 . L'intenzione argomentativa di questi versi è
90

abbastanza chiara nella globalità, anche se entra in contrasto con le altre asser-
zioni paoline sulla Legge: Paolo sostiene l'universalità del peccato sul mondo,
con o a prescindere dalla Legge mosaica. Questo significa che la Legge, promul-
gata in un dato momento della storia della salvezza (cfr. Gal 3,16-17), non cam-
bia la situazione universale di peccato. Dunque, in questione non è l'universalità
della Legge per i giudei (quella mosaica) e per i gentili (quella premosaica) , 91

bensì l'universalità del peccato e della morte, evidenziata già al v. 12b con la col-
pa di Adamo e di tutti.
Questo sembra contrastare con la relazione tra la Legge e il peccato: soltan-
to con il sopravvento della Legge il peccato diventa passibile di colpa e quindi
trasgressione. Tale principio era già stato riconosciuto da Paolo stesso in Rm
4,15: «Dove non c'è Legge non c'è neppure trasgressione». Invece la devastan-
te presenza della morte, da Adamo sino a Cristo, dimostra che, con o senza la
Legge mosaica, la situazione umana non è cambiata.
A prima vista, quest'affermazione sulla funzione della Legge contrasta con
quelle di Rm 2, in cui Paolo aveva sostenuto che nel « cuore dei gentili » si trova-
va l'esigenza della Legge mosaica, al punto che diventano legge a se stessi.
88 Per questo, anche se il valore consecutivo di eph ' ho, sostenuto da J.A. Fitzmyer, The Consecutive
Meaning ofeph ' ho in Romans 5,12, in NTS 39 (1993) 328-338, trovarispondenzenel greco profano, rischia
di livellare e d'ignorare questa tensione tra Rm 1-4 e Rm 5.
89 Così S. Lyonnet, Il peccato originale, in Storia della salvezza, pp. 87-88. Cfr. anche Romaniuk, Nota
su Rm 5,12 (A proposito del problema del male), in RivBib 19 (1971) 332-333. Per eph' ho in senso relativo
cfr. Fil 4,10; cfr. anche lo stesso valore di eph' hois in Rm 6,20.
90 Sull'importanza contestuale dei vv. 13-14 cfr. C.H. Giblin, A Qualifying Parenthesis, pp. 305-315.
91 Così invece J.C. Poirier, Romans 5:13-14 and the Universality ofLaw, in NT 3% (1996) 344-358.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 235
D'altro canto, in Gal 3,16-17 Paolo non ha forse sostenuto il sopravvento della
Legge dopo 430 anni dalla promessa di Dio ad Abramo? Si può notare che, in
Romani, egli non utilizzi questa prova sulla storicizzazione della Legge ma che an-
che per il periodo che procede da Adamo a Mosè vale una trasgressione « simile »
a quella di Adamo . Dunque tutti, giudei e gentili, si trovano nella stessa condi-
92

zione di colpa, prima e dopo la promulgazione della Legge: questa non ha cam-
biato la condizione universale di colpevolezza; ne è prova la diffusione della mor-
te non soltanto in senso fisico ma anche morale e apocalittico. Tale relativizzazio-
ne della Legge, rispetto alla visione apocalittica della storia, non rappresenta
comunque l'aspetto decisivo che Paolo intende dimostrare in Rm 5, bensì un dato
che permette di cogliere la novità della grazia realizzata in Cristo. Di fatto, Paolo
ha già stabilito le connessioni tra la Legge, il peccato e la morte, nella prospettiva
apocalittica della storia, senza avvertire il bisogno di precisare questa visione ne-
gativa sulla Legge: « Il pungiglione della morte è il peccato, ma la potenza del pec-
cato è la Legge » (ICor 15,56) . Dunque, ancora una volta, il punto decisivo di Rm
93

5,12-21 nonriguardala relazione tra Adamo, Cristo e la Legge, senza negare l'im-
portanza della relativizzazione della Legge, bensì l'affermazione della grazia rea-
lizzata in Cristo.
L'importante parentesi dei vv. 13-14 si conclude con la relazione tra Adamo e
« colui che deve venire »: Adamo è il suo typon o modello. Di per sé, la relazione
tra il tipo e V antitipo puòriguardareanche Adamo e Mosè, del quale si parla nel-
l'immediato contesto, ma sia in Rm 5 come nell'intero epistolario paolino, non si
assiste mai a una relazione tipologica tra Adamo e Mosè, bensì tra Adamo e Cristo.
Per questo, è preferibile esplicitare l'asse relazionale Adamo-Cristo che, d'altro
canto, domina in questi versi . A prima vista, il sostantivo typos potrebbe far pen-
94

sare a una esegesi tipologica, in cui al modello, all'ombra o alla immagine


(Adamo) si relaziona la realtà o l'adempimento (Cristo). In realtà, non ci troviamo
ancora di fronte a una chiara esegesi antiochena che contrasti con l'allegoria ales-
sandrina, con conseguenze ermeneutiche fondamentali, bensì a un semplice con-
fronto tra due persone alle quali sono ricondotti, rispettivamente, il peccato e la
grazia. Tuttavia, per nonrischiaredi minimizzare eccessivamente il confronto tra
Adamo e colui che deve venire, è bene riconoscere prima di tutto che l'accento
non cade sul tipo (Adamo) bensì sull'antitipo, vale a dire su Cristo, a conferma

92 Secondo U. Vanni, Homoióma in Paolo (Rom 1,23; 5,14; 6,5; 8,2; Fil 2,7). Un'interpretazione
esegetico-teologica alla luce dell'uso dei LXX, in Greg 58 (1977) 444-445, homoióma del v. 14 va rela-
zionato a quanto segue, ossia alla trasgressione di Adamo, e non a « coloro che hanno peccato »: andrebbe
tradotto con « espressione percettibile della trasgressione di Adamo ». Quest'interpretazione, anche se sal-
vaguarda la causalità del peccato di Adamo, non prende in considerazione le relazioni tra il peccato di tut-
ti e la trasgressione, sottolineate con «per il fatto che tutti hanno peccato » (v. 12). Per questo, preferiamo
collegare homoióma a « coloro che non hanno peccato ». Così anche J.-N. Aletti, Israël, p. 112.
93 Cfr. a tal proposito anche H.W. Hollander - J. Holleman, The Relationship ofDeath, Sin and Law
in ICor 15:56, in NT 35 (1993) 270-291. Sulla relativizzazione della Legge di fronte al peccato di Adamo
e di tutti nel giudaismo apocalittico vedi Y excursus successivo.
94 Anche tou mellontos può essere considerato come neutro: Adamo sarebbe modello di ciò che do-
veva venire. In base al contesto, è preferibile l'interpretazione maschile, in continuità della relazione tra
Adamo e Cristo.
236 Traduzione e commento
dell'argomentazione a fortiori successiva. Inoltre, anche se in Rm 5,12-21 Adamo
è presentato in prospettiva negativa, a causa della relazione con il peccato, nel tipo
rimane qualcosa di positivo, al punto che Paolo non esiterà a sviluppare una cri-
stologia adamitica . Unrisvoltopositivo della relazione tra Adamo e Cristo è ri-
95

levabile in ICor 15,46: «Non vi fu prima il corpo spirituale ma quello animale, e


poi quello spirituale ». Il corpo spirituale, relazionato con Cristo, si sviluppa da
quello psichico, ossia sulla relazione che tutti abbiamo con Adamo . Per questo 96

non si può, per accentuare l'opposizione tra la grazia e il peccato, insistere sul-
l'opposizione tra Cristo e Adamo, al punto che alcuniritengonoquesto confronto
come generativorispettoa Rm 6-8 . Anche se Adamo si trova all'origine della dif-
97

fusione del peccato e della morte nel mondo, egli non è identificabile con l'uomo
secondo la carne in contrasto con quello secondo lo Spirito, almeno per il fatto che
l'essere spirituale non nasce dal nulla ma si sviluppa a partire da quello psichico.
[v. 15] Il confronto tra Adamo e Cristo apre a quello tra la trasgressione e il
dono della grazia: alla causalità della trasgressione di Adamo si oppone quella
della grazia divina realizzata in Cristo. Da una parte si trova la trasgressione (pa-
raptóma), che possiamo rendere anche con «caduta», ripetuta più volte nei vv.
15-21 , dall'altra il « dono di grazia» (charisma) che, nel resto della pericope, è
98

riutilizzato soltanto al v. 16. Comunque, Paolo si serve di diversi sinonimi, per di-
mostrare la sovrastante ricchezza della grazia rispetto alla trasgressione: « gra-
zia» (charis), «dono di grazia» (charisma) e «dono» (dórea) . Si può notare 99

come, in questo contesto, per charisma Paolo non intenda il carisma donato ai
cristiani in diversi contesti ecclesiali (cfr. Rm 1,11; ICor 12,4), ma, scegliendo il
valore letterale del sostantivo, la realizzazione della grazia divina.
Nella seconda parte del verso è introdotto il criterio numerale che dimostra
lo scarto tra la trasgressione e la grazia: dalla causalità di «uno » (Adamo-Cristo)
dipendono le conseguenze per « molti ». Ancora una volta, il parallelismo tra uno-
molti non è equilibrato: alla constatazione della morte dei molti dovrebbe corri-
spondere quella della loro vita. Invece, Paolo si ferma alla prima osservazione,
senza trattare della seconda: lo farà nei versi successivi. Circa la consistenza dei
numerali, anzitutto è bene riconoscere in molti non una limitazione della grazia,
bensì un semplice semitismo per indicare tutti, come conferma la presenza di pan-
tes nei vv. 12.18 . Più complesso è il valore da attribuire a «uno», riferito ad
100

Adamo: si tratta di un numerale esclusivo, nel qual caso Paolo pensa soltanto ad

95Sulla cristologia adamitica nell'epistolario paolino cfr. C.K. Barrett, The Significance oftheAdam-
Christ Typologyfor the Resurrection ofthe Dead: ICor 15,22.45-49, in L. De Lorenzi (ed.), Résurrection
du Christ et des Chrétiens (ICor 15) (SMB 5), Roma 1985, pp. 99-126; L.J. Kreitzer, Adamo e Cristo, in
Dizionario di Paolo, pp. 15-24.
96Questa rilevanza positiva di Adamo nel pensiero paolino è posta ben in evidenza da R. Penna, Il
discorso paolino sulle origini umane alla luce di Gen 1-3 e le sue funzioni semantiche, in RSB 6 (1994)
232-233.
97Così invece J.-N. Aletti, Israël, pp. 25-26.
98Cfr. vv. 15b.16.17.18.20.
99Per il sostantivo dórea cfr. anche Rm 5,17; 2Cor 9,15; Ef 3,7; 4,7; cfr. anche Gv 4,10; At 2,38; Eb 6,4.
100Sulle corrispondenze neotestamentarie tra « molti » e « tutti » cfr. J. Jeremias, polloi, in GLNT X,
pp. 1329-1354; R. Penna, Origini umane, p. 234.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 237
Adamo, oppure di un numerale assertivo, nel senso che quanto Paolo asserisce di
Adamo vale anche per gli altri? Premesso che, come vedremo nelVexcursus sul
peccato originale, per Paolo Adamo è un personaggio storico come e perché sto-
rico è Gesù Cristo, ci sembra che il numerale « uno » assuma valore assertivo e
non esclusivo. In altri termini, con la causalità della trasgressione di Adamo,
Paolo non intende affermare che la causalità del peccato di tutti sia diminuita o al
massimo sia diventata secondaria, ma che nella trasgressione di Adamo si trova
anche la trasgressione di tutti . Comunque, non bisogna dimenticare che il con-
101

fronto tra Adamo e Cristo è costruito secondo l'argomentazione afortiori: dal mi-
nore (Adamo) al maggiore (Cristo); l'attenzione è rivolta sul maggiore e non sul
minore . 102

[v. 16] Il parallelismo introdotto nel verso precedente prosegue anche ora,
soffermandosi soprattutto sul contrasto tra il «giudizio per la condanna» e la
« grazia per la giustificazione ». Si può notare come qui Paolo utilizzi la figura
dt\Vomeoteleuto, ossia della stessa conclusione che caratterizza più termini:
dorema... krima... katakrima... charisma... paraptóma... dikaióma; tutti i sostanti-
vi di questo verso si concludono con il suffisso -ma che è di tipo fattitivo, attra-
verso il quale si esprime la concretizzazione delle radici nominali. In tal modo,
Paolo sottolinea una martellante realizzazione del giudizio per la condanna e del-
la grazia per la giustificazione ; e poiché nuovamente l'attenzione è rivolta so-
103

prattutto sulla grazia, questa insistenza pone in evidenza che essa non è teorica o
astratta ma concretamente visibile con Gesù Cristo. Dunque, se il giudizio divino,
già prospettato per la fase escatologica della storia in Rm 2,2-3, rimane incom-
bente per tutti coloro che hanno peccato, la grazia dalla quale dipende la giustifi-
cazione spezza il circolo vizioso nel quale erano caduti tutti. Per questo il grido di
liberazione, al culmine di questa sottosezione, sarà rappresentato dall'abolizione
di qualsiasi condanna per quanti sono in Cristo Gesù (cfr. Rm 8,1.34).
[v. 17] Il parallelismo tra la trasgressione e la grazia, a causa di Adamo e di
Cristo, si sposta verso il relativo dominio. Così Paoloriprende,in parte, la paren-
tesi dei vv. 13-14: al regno della morte si oppone quello della vita, realizzata con
l'abbondanza della grazia e il dono della giustizia realizzate con Cristo. A causa
di questa stretta relazione tra la grazia e la giustizia realizzate in Cristo, il futuro
« regneranno » non ha valore cronologico ma gnomico o argomentativ r. di fatto,
con Cristo si è già passati dal dominio della morte a quello della vita, se nza nulla
togliere alla piena realizzazione della sua signoria (cfr. ICor 15,25). In questo ver-

101 Lo stesso procedimento argomentativo èrilevabilein Gal 3,16 in cui Paolo, interpretando alla let-
tera il sostantivo sperma, identifica il seme (singolare) di Abramo con Cristo; subito dopo non esiterà a in-
terpretare lo stesso sostantivo come singolare collettivo attribuendolo a quanti sono « seme di Abramo »
(Gal 3,29) mediante la relazione con Cristo. Per le corrispondenze tra Gal 3,16.29 e Rm 5,15 cfr. A. Pitta,
Paradosso, p. 211.
102 Per quest'argomentazione diffusa nell'epistolario paolino e introdotta dalle formule pollò mallon
t poso mallon cfr. Rm 11,12.24; ICor 6,16-17; 2Cor 3,7-8.9-11; cfr. anche Mt 7,11; 10,25; Le 11,13;
12,24.28; Eb 9,14.
103 A causa di questa figura retorica i sostantivi dorema e dikaióma non sono diversi da dórea e dikaiósis:
si tratta sempre del dono e della giustificazione divina.
238 Traduzione e commento
so Paoloriprendeil contrasto introdotto in Rm 5,10 che svilupperà in Rm 6-8: la
morte e la vita come l'alternativa per chiunque (cfr. Rm 6,23; 7,10; 8,2), di fron-
te alla giustificazione realizzata in Cristo.
[v. 18] L'ultima parte del confronto tra Cristo e Adamo è brachilogica o sin-
tetica, a conferma della natura conclusiva dei vv. 18-21: mancano i soggetti e i
verbi principali del primo parallelismo. Ormai il confronto perviene alla sua con-
clusione, come dimostra la formularidondanteara oun (allora dunque). Dovendo
mutuare i soggetti e i verbi dall'immediato contesto, possiamo pensare alla mor-
te e alla vita, come principali soggetti, e al verbo «regnare» quale verbo princi-
pale di entrambe le parti del parallelismo. In tal mondo, Paoloribadiscequanto è
stato espresso al verso precedente, con la novità della relazione tra la giustifica-
zione (dikaioma) e la « giustificazione (dikaiósis) della vita» . Non è facile ren-104

dere in italiano la differenza di sfumatura tra dikaioma e dikaiósis: il primo so-


stantivo dovrebbe riferirsi alla concretizzazione della giustizia mentre il secondo
alla situazione di giustizia nella quale si trovano tutti. Per questo abbiamo reso in
entrambi i casi con « giustificazione », perché comunque si tratta di una condizio-
ne verificabile. In tal caso, il genitivo « giustificazione della vita» potrebbe esse-
re inteso come oggettivo o qualificativo: è, nello stesso tempo, una giustificazio-
ne che ha come contenuto la vita e che si caratterizza come vita donata da Cristo.
[v. 19] La seconda conclusione del confronto tra Cristo e Adamo prosegue se-
condo la legge del parallelismo: da una parte si trova la disobbedienza di Adamo,
dall'altra l'obbedienza di Cristo. Ciò che maggiormente risalta, rispetto alla cri-
stologia paolina, è questo originale riferimento all'obbedienza di Cristo: è unico
nell'epistolario paolino ; e ci chiediamo se non sarebbe stato meglio costruire
105

l'intero confronto tra Cristo e Adamo sulla tematica dell'obbedienza. In realtà, an-
che se qui Paolo parla dell'obbedienza di Cristo, non sviluppa questa tematica re-
lazionandola, ad esempio, alla sua fede o alla sua fedeltà verso Dio. Egli preferi-
sce sottolineare l'obbedienza e la disobbedienza dei credenti piuttosto che l'obbe-
dienza di Cristo, in quanto Cristo rappresenta l'oggetto e non il soggetto della
fede. Dunque, tale riferimento all'obbedienza di Cristo emerge di transenna, a
causa della disobbedienza di Adamo, e non necessita una relazione con la fede che
Cristo avrebbe avuto verso Dio. Ancora una volta, la cristologia paolina è diversa
da quella, altrettanto significativa, della Lettera agli Ebrei, in cui si afferma che
«Cristo imparò l'obbedienza dalle cose che patì...» (Eb 5,8). L'obbedienza di
Cristo non è affermata per indicare la sua fede in Dio né la sua fedeltà ma come
contrasto verso la disobbedienza di Adamo.
Il verbo che caratterizza le due opposte condizioni è tipicamente giuridico:
«essere costituito» (kathistanai) peccatore o giusto, significa essere posti e ri-
conosciuti in una situazione di giustizia di fronte a colui che ha compiuto un

104 II sostantivo dikaiósis è raro nel NT: compare soltanto qui e in Rm 4,25.
105 Anche se l'espressione «obbedienza di Cristo» è usata in 2Cor 10,6 il relativo contesto si riferi-
sce chiaramente all'obbedienza in lui e non alla sua obbedienza. Nelle altre frequenze in cui Paolo utiliz-
za il sostantivo hypakoè si riferisce sempre all'obbedienza dei credenti e non a quella di Cristo (cfr. Rm
1,5; 15,18; 16,19.26; 2Cor7,15; 10,5.6; Fm v. 21).
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 239
processo di giustificazione . Per questo, possiamo pensare a un passivo divino
106

e considerare il secondo verbo più come logico che cronologico: « Dio ha costi-
tuito i molti... Dio costituirà i molti...»: nell'evento della croce si trovano il
tempo e il luogo principale con i quali Dio ha stabilito una relazione di giustizia
verso tutti.
[vv. 20-21] Nell'ultima proposizione del confronto tra Cristo e Adamo,
Paolo riprende il contrasto tra il peccato e la morte, da una parte, e la grazia e la
vita dall'altra. Si può notare come ora sono sintetizzati tutti gli elementi che han-
no caratterizzato il confronto, compresa la sequenza Legge, peccato e morte.
Anche se alcuni considerano questi versi come la tesi principale dell'unità di Rm
5,1 - 8,39 , ci sembra che si tratti piuttosto di una conclusione di transizione,
107

analoga a quella di Rm 4,24-25. Di fatto, è vero che la prima questione conse-


quenziale di Rm 6 è rappresentata dal confronto tra la grazia e il peccato; ma la
dossologia di Rm 5,21 rivela una chiara prospettiva conclusiva dalla quale Paolo
riprende le problematiche principali trattate in Rm 5,1-21. D'altro canto questo
sarebbe l'unico caso in cui, nell'epistolario paolino e soprattutto in Romani, una
dossologia svolgerebbe un ruolo di tesi e non di conclusione . 108

Ciò che pone particolarmente in risalto quest'ultima conclusione è la supe-


riorità qualitativa della grazia rispetto al peccato: «Però dov'è abbondato il pec-
cato ha sovrabbondato la grazia» (v. 20b) . Tuttavia, anche quest'accentuazione
109

è stata già dimostrata nei vv. 15-17 attraverso l'argomentazione a fortiori (quan-
to più, vv. 15.17) e con l'uso del verbo «abbondare» (perisseuein, v. 15).
Lo stesso vale per la relazione tra la Legge e la trasgressione: Paolo ha già so-
stenuto che la Legge non ha cambiato la situazione di peccato in cui si trovavano
tutti; anzi essa ha mutato il peccato in trasgressione, ossia in condizione di puni-
bilità o di condanna generale. Per questo, da una prospettiva negativa, la Legge è
sopraggiunta senza cambiare la situazione umana. Invece, Gesù Cristo ha deter-
minato il cambiamento totale perché attraverso lui sono state donate la grazia e la
vita eterna. Anche se in seguito Paolo riprenderà in dettaglio queste relazioni tra
la grazia e la Legge, tra la vita e la morte, senza le connessioni con la giustifica-
zione realizzata da Dio mediante la morte di Cristo descritta in Rm 5,1-11, il con-
fronto con Adamo non risulta soltanto debole e ripetitivo ma persino infondato.
Al centro di questa unità letteraria si trova la pace derivante dalla giustificazione
realizzata da Dio in Cristo (Rm 5,1-2), e non il pur importante confronto tra la
Legge e la grazia che assume un ruolo funzionale e non centrale . 110

Excursus. Originale il peccato originale? Una delle questioni antropologi-


che più dibattute nella teologia contemporanea riguarda la consistenza e le pro-
106Per larilevanzaforense di kathistanai cfr. Le 12,14; At 7,27.35.
107Vedi la nostra introduzione a Rm 5,1 - 8,39.
108Per la natura conclusiva delle dossologie cristologiche nell'epistolario paolino cfr. Rm 2,16; 5,11 ;
6,23; 8,39; 9,5. Questa formula dossologica è uguale a quella di Rm 7,25 e di Gd v. 25; cfr. anche quella
analoga di ICor 1,9.
109II verbo hyperperisseuein si trova soltanto qui e in 2Cor 7,4: è un verbo enfatico che indica il tra-
boccamento della graziarispettoall'abbondanza del peccato.
110Con buona pace di J.-N. Aletti, Israël, p. 131; così anche D. Hofius, Antithese, p. 205.
240 Traduzione e commento
spettive del peccato originale o, come si preferisce, del peccato di origine . Da 111

un versante negativo lo si considera come un ostacolo verso un'antropologia posi-


tiva, da uno positivo come un patrimonio quasi esclusivo della Chiesa cattolica. In
realtà, se di peccato originale si deve parlare nel NT - fermo restando che non vi
si riscontra mai l'espressione «peccato originale» né «di origine» - questo è
tutt'altro che originale: si parla del peccato di Adamo sia nel medio giudaismo sia
nel successivo giudaismo rabbinico.
Nell'esegesi di queste fonti è necessario innanzi tutto porre maggiore atten-
zione alla loro datazione: non si possono porre sullo stesso piano testi apocalitti-
ci, come 4Esdra, e fonti rabbiniche di gran lunga successive alla distruzione del
secondo tempio, come il midrash Sifra Leviticus: sarebbe come spiegare il retro-
terra di ICor 15,21-22.45-49 o Rm 5,12-21 alla luce del commento di Origene a
Romani . La querela contro un asettico modo di trattare le fonti giudaiche è sta-
112

ta ben formulata da autori come Levison: spesso i neotestamentaristi utilizzano


queste fonti per semplici parallelismi terminologici, senza cogliere il sistema di
pensiero retrostante alla concezione giudaica del peccato di Adamo . Pertanto 113

non basta estrapolare le fonti giudaiche dal loro contesto per sostenerne una di-
pendenza di Paolo: prima di tutto, è necessario considerare il modello o pattern
presente in ogni fonte giudaica sul peccato di Adamo.
Fermo restando che di Adamo non si parla molto nel NT , la sua relazione 114

con il peccato è espressa soltanto nelle lettere paoline. Fra queste frequenze è ne-
cessario distinguere quelle delle grandi lettere, in cui si parla soltanto del peccato
di Adamo, da quelle di lTm 2,13.14 in cui è collocato in primo piano il peccato
di Eva: « Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo a esse-
re ingannato ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione » . 115

Invece, per quanto sembri vicina alla proposizione di Rm 5,12 quella di Sap 2,24
(« Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza
coloro che gli appartengono »), Paolo non relaziona mai il peccato di origine alla
demonologia né tanto meno agli angeli ribelli menzionati in Gn 6,1-4, come in-
vece il libro della Sapienza e l-2Enoc . La relazione tra Adamo e il peccato ca-
m

ratterizza in particolare due fonti del medio giudaismo: il IV Libro di Esdra e il II


Libro di Baruc, collocabili intorno al secolo I d.C. . 117

111 Sulle diverse prospettive teologiche contemporanee sul peccato di origine cfr. A. Pitta, La conce-
zione paolina del peccato originale: ICor 15,21-49; Rm 5,12-21, in Paradosso, pp. 195-224. Cfr. anche gli
Atti del Convegno Nazionale ATI pubblicati da I. Sanna (ed.), Questioni sul peccato originale, Padova 1996.
112 L'uso acritico di fonti sul peccato di Adamo è riscontrabile innanzi tutto in H.L. Strack - P.
Billerbeck, Kommentar III. La stessa critica si può muovere a W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism, pp.
32-34. Sulla datazione tardiva delle fonti rabbiniche sul peccato di Adamo cfr. J. A. Fitzmyer, Romani, p. 492.
113 Cfr. J.R. Levison, Portraits ofAdam in Early Judaism (JSP SS1), Sheffield 1988, pp. 13-28.
114 II nome «Adamo» è utilizzato soltanto 9 volte nel NT, di cui 7 nelle lettere paoline: cfr. ICor
15,22.45.45; Rm 5,14.14; lTm 2,13.14; cfr. anche Le 3,38; Gd v. 14 in cui si parlarispettivamentedella
genealogia adamitica di Cristo e di Enoc.
115 Lo spostamento di attenzione dalla colpa di Adamo a quella di Eva è ben attestato già in 2Cor
11,3; cfr. anche Sir 25,24; 2En 30,17; 4Q 184,8; Ap. Mos. 7,14,20; Vita di Adamo ed Eva 32-34.
116 Cfr. anche lEn 6,1-16; 40,7; 54,6; 2En 18.
117Per il retroterra giudaico apocalittico del peccato di Adamo nell'epistolario paolino cfr. M. Garcfa
Cordero, La doctrina paulina sobre el « pecado originai » en el entorno de la teologia judia intertesta-
mental, in CiTom 121 (1994) 235-278.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 241
Partendo da una visione pessimistica delle vicende attuali del popolo giudai-
co nel secolo I d.C., l'autore dello pseudoepigrafico 4Esdra così scrive: «Tu m

però non portasti via da loro il loro cuore maligno, in modo che la tua Legge des-
se in loro dei frutti; fu infatti per portare il cuore maligno che Adamo, il primo uo-
mo, trasgredì e fu vinto - (lui), ma anche tutti quelli che sono nati da lui. Si pro-
dusse così una infermità permanente: la Legge era nel cuore degli uomini, insieme
alla radice cattiva, ma ciò che era buono se ne andò e quel che era cattivo rimase.
Passò il tempo e si compirono gli anni, e tu facesti sorgere un servo di nome
David. Gli dicesti di costruire la città del tuo nome e di farti in essa delle offerte da
ciò che è tuo. Questo fu fatto per molti anni, ma poi coloro che abitavano nella
città peccarono, comportandosi in tutto come avevano fatto Adamo e tutta la sua
posterità: anche loro, infatti, si erano rivestiti di cuore maligno» (4Esd 4,20-26).
Questa pericope di 4Esdra è fondamentale per il modello argomentativo che
attesta, rispetto a quanto dirà in seguito sul peccato di Adamo:
a) tensione tra il peccato di Adamo e quello universale di tutti;
b) fondamentale responsabilità attribuita al peccato di Adamo;
c) relatività della Legge mosaica;
d) prospettiva messianica.
Si può notare che lo stesso modello èriscontrabilein ICor 15 e in Rm 5,12-
21, soprattutto attraverso la trilogia «Legge, peccato e morte (o condanna)», an-
che se l'autore di 4Esdra non perviene alla concezione così negativa sulla Legge,
come quella di Rm 5,12-21: comunque, questa non ha cambiato la situazione uma-
na. Nella quarta visione l'autore risolve in questo modo la tensione tra il peccato
di Adamo e quello universale: « Questa è la mia prima e ultima parola: sarebbe
stato meglio che la terra non avesse prodotto Adamo, oppure una volta prodottolo
gli avesse insegnato a non peccare. Cosa giova infatti a tutti, che ora vivono nella
tristezza, e da morti debbano aspettarsi una punizione? Cosa hai fatto, Adamo! Se
infatti peccasti, la rovina non è stata solo tua ma anche di (tutti) noi che siamo di-
scesi da te » (4Esd 7,116-118).
Pertanto, l'autore apocalittico risolve la tensione tra il peccato di Adamo e
quello di tutti facendo gravare il peso della colpa su Adamo, per discolpare la ca-
tastrofe religioso-politica nella quale si trova il popolo ebraico del suo tempo.
Pur collocandosi nello stesso filone apocalittico, è diverso il sistema di pen-
siero con il quale l'autore di 2Baruc tratta del peccato di Adamo : «Se infatti 119

Adamo prima di me ha peccato e ha fatto venire la morte su tutto quello che al suo
tempo non (era), pur anche coloro che furono generati da lui, ognuno di loro ha
predisposto per la sua anima il futuro e, ancora, ognuno di loro ha predisposto per
la sua vita il tormento futuro e, ancora, ognuno di loro ha scelto per sé le glorie fu-
ture. Veramente infatti chi credericeveràla mercede. Ora però tornate alla corru-

118Cfr. B.M. Metzger, The Fourth Book of Ezra, in J.H. Charlesworth (ed.), The Old Testament
Pseudepigrapha, I, New York 1985, pp. 517-559; P. Marrassini, Quarto libro di Esdra, in P. Sacchi (ed.),
Apocrifi dell'Antico Testamento, I, Torino 1989, pp. 235-277.
119Cfr. A.F.J. Klijn, 2 (Syriac Apocalypse of) Baruch, in J.H. Charlesworth, Pseudepigrapha, I, pp. 615-
652; P. Bettolo, Apocalisse siriaca di Baruc, in P. Sacchi, Apocrifi dell'Antico Testamento, I, pp. 147-233.
242 Traduzione e commento
zione, scellerati di ora, perché sarete severamente visitati, voi che un tempo ave-
te disprezzato l'intelligenza dell'Altissimo. Infatti le sue opere non vi hanno
istruito né vi ha persuaso l'arte della sua creazione che (è) sempre. Non è dunque
Adamo la causa, se non per sé solo. Noi tutti, ognuno (di noi) è divenuto Adamo
a se stesso » (2Bar 54,15-19).
Molti sono i contatti tra Rm 1,18 - 3,20 e 2Bar 54, riconoscibili in particola-
re nella relazione tra la conoscenza di Dio, attraverso le sue opere, e il peccato di
tutti. A differenza di 4Esdra, per 2Baruc la tensione tra il peccato di Adamo e
quello di tutti si risolve con l'accentuazione sul secondo perché, come sottolinea
con la bella espressione, « ognuno è Adamo a se stesso ».
Dietro queste due diverse concezioni del peccato di Adamo si trova il dilem-
ma antropologico fondamentale tra il fato o il destino e la responsabilità: se per
4Esdra ognuno si trova in una condizione fatale o ineluttabile di peccato, attri-
buito ad Adamo, per 2Baruc ognuno è responsabile del proprio peccato. In que-
sto quadro si colloca anche la visione paolina del peccato di Adamo e di quello
universale. A prima vista, sembra che Paolorisultipiù vicino a 4Esdra: la dupli-
ce causalità del peccato di Adamo e di tutti gli esseri umani. Tuttavia, questo col-
legamento, confermato dalla relativizzazione della Legge, prende le mosse da Rm
5,12-21, ignorando quasi del tutto le precedenti dimostrazioni paoline di Rm 1,18
- 3,31. Invece, un'estensione di orizzonti permette di cogliere anche le connessio-
ni con 2Baruc: l'asserzione definitoria «Tutti hanno peccato» (Rm 3,23) prece-
de, nello sviluppo di Romani, l'affermazione per la quale « a causa della trasgres-
sione di uno ha regnato la morte » (Rm 5,17).
Dunque, sembra che Paolo condivida sia la prospettiva di 4Esdra, con la pre-
minenza del peccato di Adamo, sia quella di 2Baruc, con l'accentuazione sul pec-
cato di tutti: per lui le tensioni tra fato e responsabilità non si escludono a vicenda,
in quanto entrambe sonorisoltedalla centralità salvifica della giustificazione rea-
lizzata in Cristo. Questo significa, da una parte, che il peccato di Adamo è relati-
vo e secondario rispetto alla grazia realizzata in Cristo, al punto che forse Paolo
non avrebbe parlato di Adamo se non per sottolineare l'importanza di Cristo, e
dall'altra che lo stesso peccato di Adamo è relativo al peccato di tutti. Non biso-
gna dimenticare che in Rm 1-5 si affronta prima il peccato di tutti e quindi quello
di Adamo, e non l'inverso! Le tensioni tra il peccato di tutti e quello di Adamo
non sirisolvonocon l'opzione tra il fato o la responsabilità ma soltanto con Cri-
sto, che per Paolo rappresenta la soluzione del problema , in quanto prima del
120

peccato delle origini non c'era l'Adamo perfetto ma Cristo Gesù « che pur essen-
do di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma
spogliò se stesso... » (Fil 2,5-6) . In questa prospettiva dell'antropologia cristolo-
121

gica, che non è soltanto apocalittica ma anche protologica oppure originaria, for-
se il dogma del peccato originale ha ancora qualcosa da dire alla teologia e al-
l'uomo del nostro tempo.

120Sulla centralità dell'annuncio di Cristorispettoa quello del peccato cfr. anche R. Penna, Peccato
e redenzione. Una sintesi, in L'apostolo Paolo, p. 379.
121Cfr. anche la preesistenza di Cristo nell'inno di Col 1,15-20.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 243
L'incompatibilità tra la grazia e il peccato (6,1-14). - Qual è la relazione tra
il regime della grazia e quello del peccato? Il peccato permette comunque un'af-
fermazione della grazia divina oppure tra peccato e grazia si verifica una totale
distanza e incomunicabilità? La pericope di Rm 6,1-14, sulle prove addotte da
Paolo a conferma dell'appartenenza dei credenti alla grazia divina, affronta que-
sta relazione tra peccato e grazia . In verità, Paolo aveva già anticipato tale que-
122

stione, contestando la calunnia degli avversari riportata in Rm 3,7-8; tuttavia, ora


ci troviamo di fronte a un nuovo livello argomentativo, in quanto il termine di
confronto, almeno in Rm 6,1-14, non è quello della Legge al di fuori dell'essere
in Cristo bensì la relazione tra peccato e grazia nella vita cristiana.
In questa prima discussione diatribica di Rm 5,1 - 8,39 sono rilevabili tre
parti fondamentali: a) la tesi introduttiva, in forma di domanda, sulla relazione tra
peccato e grazia (v. 1); b) larispostaimmediata e articolata sull'impossibile rela-
zione tra peccato e grazia (vv. 2-11); c) l'esortazione conclusiva a non lasciarsi
nuovamente dominare dal peccato ma a restare sotto la grazia (vv. 12-14).
Dal punto di vista retorico-letterario, in questi versi torna, come in tutto Rm
6, lo stile della diatriba,riscontratosoprattutto in Rm 2,1 - 3,20.27-31 : Paolo stes-
so pone domande alle quali risponde immediatamente. Allo stile della diatriba
appartiene anche la personificazione del peccato: è come una persona alla quale
ci si relaziona e che tende a dominare sulla vita del credente. Tuttavia, la presen-
za degl'imperativi, nella conclusione dei vv. 12-14, dimostra che il dialogo con
l'interlocutore fittizio dei vv. 1-2 non è fine a se stesso ma in vista dell'esortazio-
ne morale per i destinatari della lettera . 123

La tesi principale di queste prove è rappresentata dal v. lb, ossia dalla rela-
zione tra il peccato e la grazia, e non dal v. 2b, ossia dalla morte dei credenti al pec-
cato, che, a ben vedere, è già una risposta . In pratica, Paolo sottolinea la situa-
124

zione della morterispettoal peccato non tanto né soltanto per sostenere che i cre-
denti non hanno più alcuna relazione con esso, bensì per evidenziare che tra il

122 Si è generalmente concordi nel considerare Rm 6,1-14 come microunità letteraria: è determinata
dalle due analoghe domande diatribiche che introducono i vv. 1.15, dalla questione sulla Legge che non
compare nei vv. 1-14, se non al v. 14, mentre si ripresenta nei vv. 15-23, e dall'inclusione stabilita attra-
verso il sostantivo « grazia» nei vv. 1.14. Così anche B. Byrne, Romans, p. 188; DJ. Moo, Romans, p. 351;
H. Schlier, Romani, p. 321. Alcuni preferiscono limitare la pericope ai vv. 1-11 a causa della formula dos-
sologia del v. 11 e per il passaggio dal livello kerygmatico o indicativo dei vv. 1-11 a quello esortativo dei
vv. 12-14. Così J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 514-515, 528. Pur riconoscendo questa diversità argomentati-
va, i vv. 12-14 sono la conclusione applicativa di quanto precede e non l'inizio di una nuova pericope.
123 L'orizzonte d'interlocuzione con i destinatari della lettera caratterizza soltanto l'applicazione esor-
tativa finale e non l'intero dialogo, che invece si qualifica come fittizio, perché tipico dello stile della dia-
triba. Per questo non ci sembra che da questo dialogo emerga una situazione di fraintendimento per il mes-
saggio paolino né tanto meno siarilevabilein riferimento alla situazione sociale tra padroni e schiavi nelle
comunità di Roma, Con buona pace di J.W. Aageson, « Control » in Pauline Language and Culture: A Study
ofRm 6, in NTS 42 (1996) 75-89.
124 Così invece R. Penna, Battesimo e partecipazione alla morte di Cristo in Rom 6,1-11, in Lapostolo
Paolo, p. 152. L'identificazione di Rm 6,lb come tesi secondaria della sezione conferma la priorità che Rm
5,1-2 svolgerispettoall'intera sezione: Paolo sta progressivamente spiegando il senso e le conseguenze del-
l'appartenenza alla grazia divina. Su Rm 6,lb come tesi specifica di Rm 6,2-14 cfr. A. Gieniusz, Suffering,
pp. 39.42.
244 Traduzione e commento
regime del peccato e quello della grazia non c'è nessuna relazione . La parte prin- 125

cipale della pericope (vv. 2-11) è caratterizzata dairiferimential patrimonio di fe-


de che condividono il mittente e i destinatari: «Non sapete che...?» (v. 3); «con-
sapevoli che...» (v. 6); «sapendo che... (v. 9)». Per dimostrare l'incompatibilità
tra il peccato e la grazia, Paolo si fonda sulla condivisione della fede nella morte
di Cristo, espressa all'inizio di questa sezione, soprattutto in Rm 5,6-8.
[6,1] Anche in questo caso, come spesso in Romani, la nuova pericope co-
mincia con una domanda retorica che Paolo si pone: questa ha la funzione di spin-
gere in avanti lo sviluppo dell'argomentazione . All'interpellanza introduttiva
126

segue una nuova domanda che contiene la tesi della pericope: La permanenza del
peccato permette l'abbondanza della grazia? Era necessario che Paolo affrontas-
se tale questione, soprattutto dopo aver sostenuto che « dove abbondò il peccato
sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20). D'altro canto, pur se in contesti diversi, Paolo
stesso era stato accusato di predicare un vangelo per il quale dobbiamo/are il ma-
le affinché giunga il bene (cfr. Rm 3,8) . In termini etici, tale relazione signifi-
127

cherebbe cadere in forme di libertinaggio, perché non solo attraverso il peccato è


esaltata la grazia divina ma perché il peccato sembra, in definitiva, necessario af-
finché si affermi la grazia. Qui, come generalmente in Romani, il peccato non è
tanto l'azione trasgressiva dell'individuo quanto la potenza che domina su tutti e
li rende schiavi: per questo più che di peccati, Paolo preferisce parlare del «pec-
cato » al singolare . Analogamente, la grazia è il nuovo regime o la nuova con-
128

dizione nella quale si trovano coloro che dovevano essere condannati dalla giu-
stizia divina e della quale invece partecipano in forza dell'azione giustificatrice
di Dio.
[v. 2] Dopo una prima e immediata risposta di rifiuto sulla connivenza tra il
peccato e la grazia , Paolo pone una nuova domanda retorica che, volta in positivo,
129

significa l'impossibilità di continuare a vivere in relazione al peccato per quanti so-


no morti a esso. I credenti in Cristo non si trovano più sotto il regime e la potenza

125In questo spostamento d'attenzione si può notare come la priorità esegetica di Romani e dell'epi-
stolario paolino in generale sia da conferire all'intreccio retorico o argomentativo e non a quello semanti-
co. Di fatto, se ci fermassimo soltanto al livello semantico dovremmo sostenere che, poiché il linguaggio
maggiormente utilizzato in questi versi è quello della morte e del peccato, Paolo intenderebbe trattare di
questa relazione. Invece, l'attenzione allo sviluppo retorico e in particolare a quello della diatriba permet-
te di cogliere che la principale opposizione non è tra morte e peccato bensì tra peccato e grazia, spiegata
anche attraverso quella tra la morte e il peccato.
126Per questo si può parlare di un inizio ma esso è strettamente collegato a quanto precede e non, co-
meritienead esempio R. Penna, Battesimo, p. 153, di un inizio assoluto che introduce una nuova sezione.
Vedi a tal proposito l'uso di « Che cosa dunque? » in Rm 3,9 con i relativi paralleli. D'altro canto, la que-
stione successivariprendequasi alla lettera la conclusione di Rm 5,20-21 e si fonda su ciò che Paolo ha
sostenuto in Rm 5.
127Così anche DJ. Moo, Romans, p. 356.
128In Rm 6 si parla sempre e solo del peccato al singolare (cfr. Rm 6,1.2.6.6.7.10.11.12.13.14.16.17.
18.20.22.23) e non dei singoli peccati. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 513; R. Penna, Battesimo, pp. 154-
155, Con buona pace di G. Röhser, Metaphorik und Personifikation der Sünde. Antike Sündenvorstellungen
und paulinischen Hamartia (WUNT 2/25), Tübingen 1987, p. 177.
129Per la formula « non sia mai », tipica dello stile diatribico, vedi il commento a Rm 3,4 con i rela-
tivi paralleli.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 245
del peccato perché sono morti nei suoi confronti : questa costituisce già la prima
130

prova dell'incompatibilità tra peccato e grazia. Naturalmente, formulata in questo


modo, tale risposta è, come al solito, meno chiara della domanda: ha bisogno di es-
sere spiegata. Che cosa vuol dire «morire al peccato»? E quando i credenti sono
morti al peccato, ammesso che già nella loro esistenza si sia verificato un evento co-
sì imponente da significare un totale cambiamento per la loro esistenza? Intanto,
Paolo lancia unarispostache catalizza l'attenzione dei suoi lettori: i versi successi-
virisponderannoin modo più organico a tali questioni. Comunque, con questa pri-
ma e implicitarispostaegli sostiene che la morte al peccato è un avvenimento rea-
lizzato nel passato della vita cristiana e non tanto nel presente o nel futuro . 131

[v. 3] Una nuova domanda retorica spiega che cosa vuol dire essere morti al
peccato: significa essere battezzati in Cristo e nella sua morte. Per introdurre la
nuova risposta, Paolo invita i destinatari a ricordare ciò che già sanno, o meglio
ciò che già condividono con lui per la loro fede . Circa il contenuto di questa im-
132

plicita risposta, è bene partire dalla sua composizione chiastica che offre alcune
importanti indicazioni per il relativo contenuto:
(a) Siamo stati battezzati
(b) in Cristo Gesù
(b') nella sua morte
(a') siamo stati battezzati . 133

Come al solito, l'attenzione della composizione chiastica èrivoltasulle par-


ti centrali, ossia su b-b' e non su quelle limitrofe di a-a': in pratica l'essere bat-
tezzati non è importante in quanto tale ma perché pone in relazione con Cristo e
in particolare con la sua morte. Questo significa che il rapporto con la morte di
Cristo, considerata come evento che precede il battesimo, rappresenta il contesto
dello stesso battesimo e non l'inverso. In pratica, non è il rapporto con la morte
di Cristo a costituire un aspetto del battesimo ma l'inverso: il battesimo pone in
relazione con una realtà, appunto la morte di Cristo, che lo precede e lo eccede . 134

Passando alle singole parti del chiasmo, non è la prima volta che Paolo parla
del battesimo , tuttavia è improprio considerare il battesimo cristiano come il
135

130 Dal punto di vista semantico, il vocabolario della morte e del morire è quello più utilizzato in Rm
6,1-14. Il verbo apothnèskein (morire) si trova 6 volte (cfr. vv. 2.7.8.9.10.10) mentre non è più utilizzato in
Rm 6,15-23; il sostantivo thanatos (morte) compare 4 volte (vv. 3.4.5.9; cfr. anche Rm 6,16.21.23).
131 Non è un caso che, tranne al v. 9 in cui Paolo utilizza la forma al presente, negli altri casi il verbo
apothnèskein si trova sempre all'aoristo.
132 Cfr. la funzione introduttiva di « Non sapete...? » in Rm 7,1. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 359.
Con buona pace di S. Légasse, Alle origini del battesimo. Fondamenti biblici del rito cristiano, Cinisello
Balsamo (MI) 1994, pp. 134-137, anche se questa formula può essere intesa come introduttivarispettoa ciò
che, di fatto, non sanno i destinatari della lettera, irichiamia ciò che essi già sanno, nei vv. 6.9, confermano
che qui Paolo si appella al patrimonio comune della fede. D'altro canto, Paolo non si sofferma mai sul rito
battesimale cristiano ma sul suo significato, perché non avverte alcun bisogno di spiegarne la realizzazione.
133 Cfr. anche B. Byrne, Romans, p. 195.
134 Per questa priorità tematica della morte rispetto al battesimo in Rm 6, cfr. anche R. Penna,
Battesimo, pp. 158-159.
135 II verbo baptizein si trova 77 volte nel NT, di cui soltanto 12 nell'epistolario paolino, con la maggio-
refrequenzain ICor 1,13-17 (6 volte): cfr. Rm 6,3.3; ICor 10,2; 12,13; 15,29; Gal 3,27. Il sostantivo baptisma
compare soltanto 2 volte nell'epistolario paolino (Rm 6,4; Ef 4,5); cfr. anche baptismos solo in Col 2,12.
246 Traduzione e commento
centro tematico di Rm 6,1-14; rappresenta un aspetto secondario e funzionale, al
punto che Paolo lo considera come già noto e acquisito per i destinatari. In verità,
bisognariconoscereche, a causa dello sviluppo della teologia sacramentaria suc-
cessiva, si è spesso considerato il battesimo come centrale nel pensiero paolino: a
esso Paolo si riferirebbe non soltanto quando utilizza il vocabolario esplicito di
baptizein ma anche quando userebbe quello del rivestirsi (cfr. Gal 3,26), del la-
varsi (ICor 6,11) e dell'unione alla morte di Cristo; e non sono pochi gli inni o i
frammenti prepaolini relazionati al battesimo (cfr. Gal 3,27-28; Fil 2,5-11).
Rispetto a questa tematica, nel pensiero paolino, si può dunque notare che se per
alcuni è tanto centrale, per altri è talmente secondaria da sembrare quasi svuotata
di significato . 136

Intanto, è benericonoscereche sono scarsi iriferimentiespliciti per il batte-


simo e che, fra questi, bisogna includere anche quello di ICor 1,13-17 in cui
Paolo polemizza con una visione magica del battesimo nella comunità di Corinto,
ponendo in risalto la priorità dell'evangelizzazione. Di per sé, battezzare signifi-
ca « immergere » nell'acqua : tuttavia questa prima accezione fondamentale, per
137

quanto utile, non sembra molto rilevante per cogliere il significato del battesimo
in Rm 6, in cui è considerato come patrimonio di fede che accomuna i cristiani.
Forse l'eccessiva attenzione per il battesimo nell'epistolario paolino è dovu-
ta anche, dal punto di vista storico-religionistico, alle relazioni con i culti miste-
rici del periodo imperiale romano, in particolare con il culto di Mitra, di Iside e
dei misteri eleusini . A un periodo di entusiasmo iniziale ha fatto seguito uno di
138

diffuso scetticismo : il vocabolario e il modo di presentare il battesimo, in quan-


139

to relazione con la morte di Cristo, ha poco a che vedere con i culti misterici, so-
prattutto per lo scambio tra la morte e la vita di Cristo e quella dei credenti . Per 140

le stesse motivazioni, il battesimo cristiano si differenzia sostanzialmente da


quello qumranico e da quello di Giovanni Battista, intesi soprattutto come ablu-
zione, e dalla concezione rabbinica che considera ogni ebreo inserito negli eventi
esodali della pasqua ebraica . 141

136Per la tendenza massimalista cfr. il commento a Romani di H. Schlier, per quella minimalista cfr.
il commento di DJ. Moo.
137Per questo significato letterale di « battezzare », cfr. ICor 10,2 in cui si ricorda che gli israeliti fu-
rono immersi nella nube e nel mare. Neil'AT è esemplare l'immersione battesimale di Naaman il Siro, rac-
contata in 2Re 5,1-19 (v. 14 con il verbo baptizein con il significato d'immergersi). Cfr. anche Flavio Giu-
seppe, Guer. giud. 2,18,4; Ant. giud. 4,4,6. In Flavio Giuseppe, Guer. giud. 122,2, il verbo baptizein signi-
fica « affogare ».
138In verità, già Tertulliano, De Baptismo 5,1, aveva stabilito una relazione tra il battesimo cristiano
e i culti misterici.
139Per le analogie e le differenze tra il battesimo cristiano e i culti misterici cfr. R. Penna, Battesimo,
p. 168.
140Contro il retroterra dei culti misterici cfr. J.D.G. Dunn, Paul, p. 446; A.J.M. Wedderburn, Baptism
and Resurrection: Studies in Pauline Theology Against its Graeco-Roman Background (WUNT 2/44),
Tübingen 1987.
141 Non soltanto le fonti rabbiniche sulla partecipazione esodale sono tardiverispettoalle fonti pao-
line ma manca il corrispondente scambio tra la morte e la vita, proprio della relazione tra Cristo e i cre-
denti. Il retroterra giudaico-rabbinico è sostenuto soprattutto da A.J.M. Wedderburn, The Soteriology of
the Mysteries and Pauline Baptismal Theology, in NT 28 (1987) 53-72. Sulle differenze tra battesimo qum-
ranico e cristiano cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 513-514.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 247
La formulazione di Rm 6,3 evidenzia che il battesimo pone, prima di tutto, in
relazione con Cristo: per diversi esegeti, essere battezzati in Cristo significa « es-
sere battezzati nel nome di Gesù Cristo », formula arcaica del cristianesimo delle
origini, attestata anche in ICor 1,13-17 . Tuttavia, è bene precisare il senso del-
142

l'essere battezzati nel nome di Cristo: se si tratta di una semplice attribuzione,


questa esplicitazione ha il vantaggio di chiarire l'affermazione paolina ma rischia
anche di restringerne la portata. La terza parte del chiasmo, in Rm 6,3, precisa be-
ne che essere battezzati in Cristo significa concretamente essere relazionati alla
sua morte e non semplicemente al suo nome: il battesimo rapporta prima di tutto a
un evento e non a un nome, a meno che quel nome con il quale si è battezzati sia
strettamente collegato all'evento della sua morte . 143

Paolo non è il primo a relazionare il battesimo alla morte di Cristo; Gesù


stesso rapporta il proprio battesimo alla morte: « C'è un battesimo che devo rice-
vere e come sono angosciato finché non sia realizzato » (Le 12,50; cfr. anche Me
10,38-39). Da questa relazione tra il battesimo e la morte di Cristo, il battesimo
cristianoriceveconsistenza: significa partecipare alla stessa morte di Cristo, giac-
ché egli ha condiviso la nostra condizione mortale. In questa condivisione della
morte di Cristo, quale origine e consistenza del battesimo cristiano, occupa un po-
sto di rilievo la funzione salvifica di questo evento: sulla croce egli ci ha liberati
dai nostri peccati e dal potere del peccato; per questo soltanto immergendoci nel-
la sua morte possiamo essere liberati dal peccato . Questo scambio partecipazio-
144

nistico esige una valutazione realistica dell'essere «battezzati in Cristo», anche


se dal versante dei credenti l'espressione può essere considerata come metafo-
ra : il realismo del battesimo di Cristo, come partecipazione alla nostra condi-
145

zione mortale, impone un analogo realismo per il battesimo dei credenti, anche se
la morte di questi si pone a un livello diverso da quella di Cristo.
[v. 4] La relazione con la morte di Cristo realizzata attraverso il battesimo ha
bisogno di essere ulteriormente spiegata: essere battezzati significa non semplice-
mentericordarela morte di Cristo ma entrare in rapporto con essa, sino alla con-
divisione definitiva della sua sepoltura. In tal modo, Paolo introduce un elemento
tipico dei versi successivi: il linguaggio originale della partecipazione espresso
con sostantivi e verbi composti, introdotti da «con» (syn...) . Questo riferimen-146

to alla sepoltura e allarisurrezionepotrebbe, a prima vista, far pensare al gesto li-


turgico battesimale dell'immersione e dell'emersione dall'acqua battesimale . 147

Cfr. «battezzare nel nome di Gesù Cristo » in At 2,38; 10,48; 19,5; cfr. anche la formula trinitaria
142

di Mt 28,19. Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 516.


Per la portata più ampia dell'essere battezzati in Cristo, attestata anche in Gal 3,27, cfr. D.J. Moo,
143

Romans, p. 360.
Così anche S. Légasse, Battesimo, pp. 138-139.
144

Sulla portata metaforica del battesimo cristiano cfr. J.D.G. Dunn, «Baptized» as Metaphor, in
145

S.E. Porter - A.R. Cross (edd.), Baptism, the New Testament and the Church, FS. R.E.O. White (JSNT SS
171), Sheffield 1999, pp. 294-310.
Sull'originalità di questo vocabolario composto dalla preposizione «con» cfr. Yexcursus di DJ.
146

Moo, Romans, pp. 392-393.


II verbo synthaptein (essere consepolto) compare soltanto 2 volte nel NT: qui e in Col 2,12, nello
147

stesso contesto battesimale, per cui si può ben ritenere che Col 2,12 dipenda e sviluppi il pensiero paolino
espresso in Rm 6. Così anche S. Légasse, Étre baptisé dans la mort du Christ. Etude de Romains 6,1-14,
248 Traduzione e commento
In realtà, non soltanto non abbiamo attestazioni su questa modalità rituale del bat-
tesimo nel periodo neotestamentario , ma se l'essere consepolti può far pensare
148

all'immersione, manca il corrispondente dell'essere corrisorti e quindi dell'e-


mersione. Di fatto, se Paolo sottolinea per Cristo le due fasi della sepoltura e del-
larisurrezione,non si può dire altrettanto dei credenti che condividono la sua se-
poltura ma non ancora la sua risurrezione. Il corrispondente della risurrezione di
Cristo dai morti è rappresentato dalla novità di vita e non dalla partecipazione al-
la suarisurrezione.Si potrà obiettare che la novità di vita corrisponde alla risurre-
zione; e in certo senso, dal morire con Cristo deriva per il cristiano un vivere con
lui. Tuttavia, se larisurrezionedi Cristo è un'azione compiuta da Dio stesso e dal-
la sua gloria, intesa come azione potente del Padre , la novità di vita dipende dal
149

comportamento o dalla condotta cristiana . D'altro canto, Paolo non può ritenere
150

il battesimo anche come partecipazione alla risurrezione di Cristo in quanto con-


sidera la risurrezione quale evento escatologico e non semplicemente conseguen-
za naturale della partecipazione alla morte di Cristo ma come dono di Dio, per
quanti perseverano nella partecipazione alle sofferenze di Cristo (cfr. Fil 3,11) . 151

In questa relazione con la morte e la risurrezione di Cristo si trova una fon-


damentale differenza tra il pensiero paolino delle grandi lettere e quello di
Colossesi ed Efesini: se per la concezione paolina originaria il battesimo relazio-
na direttamente alla morte di Cristo, in quella delle lettere deuteropaoline rappor-
ta anche esplicitamente alla suarisurrezione;non soltanto siamo stati concrocifis-
si e consepolti ma siamo anche corrisorti insieme con Cristo . Non c'è dubbio 152

che, con la partecipazione alla morte di Cristo, comincia per i credenti una vita
nuova ma questa non corrisponde di per sé alla partecipazione allarisurrezionedi
Cristo che, per il Paolo delle grandi lettere, riguarda il futuro e non il passato o il
presente, come conferma la spiegazione del v. 5. Comportarsi secondo la vita nuo-
va significa lasciarsi guidare dalla novità dello Spirito (cfr. Rm 7,6).

in RB 98 (1991) 558-559. Questo riferimento alla consepoltura indica sia il realismo della sepoltura di
Cristo (cfr. anche l'accenno nel kerygma di ICor 15,5), sia quello della morte del cristiano. Dal punto di
vista sintattico è preferibile collegare « nella morte » a « siamo stati consepolti » e non a « mediante il bat-
tesimo». Così anche B. Frid, Römer 6:4-5: Eis ton thanaton und tö homoiömati tou thanatou autou als
Schlüssel zu Duktus und Gedankengang in Rom 6,1-11, in BZ 30 (1986) 190-191.
148 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 362. Per la relazione tra il battesimo cristiano e il duplice mo-
vimento dell'immersione e dell'emersione cfr. Barnaba 11,11; Erma, Similitudine 9,16,4; Tertulliano, De
Baptismo 3.
149 Per quest'accezione della gloria come azione potente di Dio cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, pp.
516-517.
150 Nell'epistolario paolino il verboperipatein (camminare) esprime proprio il comportamento etico,
in adesione alla vita secondo lo Spirito oppure alle richieste della carne (cfr. Rm 8,4; 13,13; 14,15; ICor
3,3; 7,17; 2Cor 4,2; 5,7; 10,2.3; Gal 5,16; Fil 3,17; lTs 2,12; 4,1.1.12; 2Ts 3,6.11; Col 2,6; 3,7; 4,5; Ef 5,8).
Per il contesto e larilevanzamorale di questo verbo cfr. A. Pitta, Relazioni tra esortazione morale e keryg-
ma paolino, in Paradosso, p. 363; sul retroterra della halakah giudaica cfr. P.J. Tomson, Paul and the
Jewish Law: Halakha in the Letters oftheApostle to the Gentiles, Minneapolis 1990.
151 Per A. Campbell, Dying with Christ: The Origin of a Metaphor?, in S.E. Porter - A.R. Cross,
Baptism, pp. 275-276, le sofferenze per il vangelo si trovano all'origine della metafora battesimale e non
l'inverso, anche se bisogna riconoscere che almeno in Rm 6,1-14 non c'è alcun accenno alle sofferenze e
alle loro rilevanze sociali.
152 Cfr. Col 2,12; 3,l;Ef2,6.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 249
[y. 5] La morte del cristiano non è tanto diversa da quella di Cristo a causa
della croce, perché anche il nostro uomo vecchio è stato concrocifisso insieme con
lui; tuttavia, mentre per Cristo la risurrezione è l'unica via di superamento della
morte, per i credenti c'è di fatto una vita che, pur non essendo ancora risurrezione,
si relaziona alla vita iniziata con il dono dello Spirito. Questi elementi di conti-
nuità e di discontinuità tra la morte e la vita di Cristo e del cristiano permettono di
comprendere che se da una parte siamo uniti a Cristo mediante la partecipazione
alla sua morte e alla sua sepoltura , dall'altra la nostra partecipazione alla sua ri-
153

surrezioneriguardail futuro e non il passato o il presente.


Il senso del sostantivo homoióma che, di per sé, significa «somiglianza»,
«copia», è difficile da cogliere. A prima vista si potrebbe pensare ancora al bat-
tesimo, attraverso il quale il credente ricalca e ricompie lo stesso processo della
morte di Cristo. In realtà, sia il significato di homoióma nella LXX sia la conce-
zione paolina del battesimo escludono tale conclusione. Di fatto, nella LXX come
nel NT, homoióma non indica soltanto la copia di una realtà preesistente ma an-
che la ripresentazione e la riattualizzazione della stessa realtà . Per questo pre- 154

feriamo rendere il sostantivo non con somiglianza, come se la morte del credente
fosse metaforica o semplicemente simbolica, ma con conformità: la morte del cri-
stiano assume le forme e il processo della morte di Cristo, attraverso la partecipa-
zione alla sua morte, alla sua sepoltura e alla sua vita, in vista della partecipazio-
ne futura alla suarisurrezione.In pratica, qui Paolo sostiene quanto dirà in modo
più chiaro in Fil 3,10: « ...Per conoscere lui e la potenza della suarisurrezionee la
comunione alle sue sofferenze, diventando conforme alla sua morte » . In questa ,55

prospettiva la partecipazione alla risurrezione di Cristo èrivoltaal futuro e non al


passato o al presente, anche se già nel passato e nel presente, accanto alla parteci-
pazione alla sua morte, si verifica anche quella alla sua vita . 156

[v. 6] Dopo aver trattato della relazione tra il battesimo e la morte di Cristo,
Paolo avverte la necessità di approfondire il senso della partecipazione alla sua
crocifissione, introducendo questa nuova prova con una ulteriore formula di con-
divisione rispetto al comune patrimonio di fede che lo accomuna ai destinatari:
essi, come lui, già sanno di questa partecipazione alla crocifissione di Cristo . 157

Anzitutto, colui che partecipa alla crocifissione di Cristo è l'uomo vecchio, con-

153 Per alcuni l'aggettivo verbale symphytos deriva dal verbo symphytein: «innestare, impiantare».
In tal caso si potrebbe pensare alla nostra unione a Cristo, come i tralci alla vite (cfr. Gv 15). In realtà, il
termine deriva da symphyein, attestato per il NT soltanto in Le 8,7, che vuol dire « crescere insieme », « es-
sere unito». Così anche S. Légasse, Baptisé, p. 554; R. Penna, Battesimo, p. 162.
154Per la LXX cfr. Es 20,4; Dt 4,12-25; Sir 31,3; Ez 1,5.22.26; 8,2-3; 10,1; Dn 3,25; IMac 3,48. Per
questa dimensione fattuale di homoióma nella LXX e nell'epistolario paolino cfr. U. Vanni, Homoióma, p.
450, che rende il sostantivo con «espressione percettibile ». Così anche D.J. Moo, Romans, p. 370; R. Pen-
na, Battesimo, p. 163.
155Così anche S. Légasse, Baptisé, p. 556.
156Allarisurrezionepassata (anastasis) di Cristo dai morti corrisponde la nostra futura partecipazio-
ne alla suarisurrezione:qui il futuro non è semplicemente logico, come se corrispondesse al passato o al
presente, ma è reale, in quanto il Paolo delle grandi lettere non dice mai che abbiamo già partecipato del-
larisurrezionedi Cristo. Così anche H. Schlier, Romani, p. 331.
157Possiamo rendere il participio ginóskontes con un semplice indicativo « consapevoli che... »
250 Traduzione e commento
cepito non tanto come una parte dell'essere umano, come la sua carne, bensì rife-
rito a tutta la persona posta in relazione . L'uomo vecchio è la persona umana do-
158

minata dal potere del peccato che lo rende schiavo: proprio quest'uomo è croci-
fisso con Cristo . A ben vedere, soltanto qui Paolo cita esplicitamente la croce di
159

Cristo nella Lettera ai Romani; e lo fa con un nuovo verbo composto che esprime
la partecipazione dell'uomo vecchio alla croce di Cristo: «è stato concrocifìsso »
(synestauróthe). Non è un caso che questo verbo sia utilizzato nei vangeli sinotti-
ci per descrivere la crocifissione dei due ladroni insieme con Gesù . Al di fuori 160

di queste utilizzazioni, soltanto Paoloricorrea questo verbo per designare la pro-


pria partecipazione alla croce di Cristo, in Gal 2,19 («Sono stato concrocifisso
con Cristo ») e nel nostro passo, appunto per l'uomo vecchio . 161

Non è facile stabilire se qui egli si riferisca ancora al battesimo e quale sia il
senso della forma passiva del verbo «è stato concrocifisso ». Nel parallelo di Gal
2,19 manca il riferimento al battesimo cristiano: in forza della fede, Paolo come
tutti i credenti, sono stati concrocifissi con Cristo; e questa partecipazione non si
realizza attraverso il battesimo ma già con l'atto della fede in Cristo perché ri-
guarda tutti, considerati nella loro situazione di schiavitù rispetto al peccato.
Dunque, si tratta di un evento che precede qualsiasi realizzazione battesimale e
che siriferiscea ognuno. In questa prospettiva si spiega l'enigmatica formulazio-
ne di 2Cor 5,14: «...Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti» . L'evento 162

della crocifissione di Cristo determina la comparsa di un uomo nuovo, di cose


nuove (2Cor 5,17) o di una nuova creazione (Gal 6,15), in definitiva di una realtà
oggettiva e storicamente visibile, che precede qualsiasi personalizzazione battesi-
male. Con il battesimo, questa partecipazione è personalizzata e realizzata per co-
loro che già credono in Cristo e hanno ricevuto il dono dello Spirito. Pertanto in
termini di ordo salutis, prima del battesimo si trova la fede in Cristo e il dono del-
lo Spirito che pongono direttamente in relazione con la croce di Cristo: la pro-
spettiva paolina è più storico-salvifica che sacramentaria . 163

La condivisione della croce di Cristo ha finalità ben precise che Paolo non
omette di evidenziare: implica anzitutto l'inefficacia o l'impotenza del corpo del
peccato, ossia della persona umana posta sotto il dominio del peccato . In pratica, 164

l'uomo vecchio, in quanto schiavo del peccato, non ha più nessuna forza di azio-
ne , in quanto è sostituito dall'uomo nuovo emerso dalla novità di vita. Tale inter-
165

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 373.


158

Dell'uomo vecchio nel NT si parla soltanto qui e in Col 3,9; Ef 4,22, in analoghi contesti.
159

All'uomo vecchio, Paolo collega il «lievito vecchio» (ICor 5,7-8) e la «vecchia alleanza» (2Cor 3,14).
Cfr. Me 15,22; Mt 27,44; Gv 19,32.
160

Cfr. anche l'espressione di Gal 5,25, in cui però il verbo stauroun è all'attivo e separato dalla con-
161

giunzione syn: « Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni ».
Così anche J.D.G. Dunn, Paul, pp. 454-455; D.J. Moo, Romans, pp. 364-366; R. Penna, Battesimo,
162

pp. 159-160.
Per la relazione tra la fede in Cristo e l'essere battezzati in Cristo cfr. Gal 3,26-27.
163

In questa prospettiva l'espressione « corpo del peccato » non è aggettivale, da intendere come « cor-
164

po peccatore», ma qualitativa, ossiariferitaalla potenza o al dominio del peccato sul corpo. Così anche B.
Byrne, Romans, p. 197.
In questo caso, il verbo katargein non va inteso in senso forte di « distruggere » ma debole di « rendere
165

inefficace », « impotente »: il corpo al quale siriferisceè sempre lo stesso. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 375.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 251
vento non può essere realizzato dalla stessa persona umana ma da qualcuno che sul-
la croce di Cristo compie questarivoluzione:chi realizza tale crocifissione non è
l'uomo stesso, che si trova preda del peccato, ma soltanto Dio. Egli ha crocifisso la
vecchia umanità perché ne emergesse una nuova . Da quest'azione originaria di-
166

pende anche la nostra attiva partecipazione alla croce: « Quelli che sono di Cristo
Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri » (Gal 5,24).
L'inefficacia del corpo del peccato causa una finalità ancora più radicale: l'uomo
nuovo non è più a servizio del peccato perché non gli appartiene ; egli è passato 167

sotto un altro padrone, come Paolo sosterrà nella seconda parte di Rm 6,15-23.
[v. 7] Un'affermazione di carattere generale conferma l'ultima finalità della
nostra partecipazione alla croce di Cristo: chiunque è fisicamente morto non si
trova più sotto il dominio del peccato ma è libero , perché si trova in una nuova
168

condizione. Si può notare come ora Paolo sia passato, senza soluzione di conti-
nuità, da una concezione relazionale della morte, intesa come partecipazione alla
morte di Cristo, a una fisica o carnale che riguarda ognuno . Tuttavia, in questa
169

sovrapposizione di sensi del sostantivo « morte » in Rm 6, non bisogna conside-


rare il significato relazionale come secondario o metaforicorispettoa quello fisi-
co: per Paolo sono entrambi reali e, addirittura, la morte fisica rappresenta un'im-
magine per esprimere la consistenza di quella relazionale con Cristo che è origi-
naria e fondamentale.
[vv. 8-9] L'ultima parte delle prove addotte equilibra le relazioni tra la morte
e la vita, giacché sino ad ora, Paolo si è soffermato soprattutto sulla partecipazio-
ne alla morte di Cristo e non tanto su quella alla sua vita. Anche quest'ultima pro-
va è introdotta dalla convinzione comune della fede che condividono il mittente e
i destinatari della lettera: «...Sapendo che...». La nuova attestazione è formulata
con una condizionale semplice che non intende porre in discussione la partecipa-
zione dei credenti alla morte di Cristo ma che sottolinea la condivisione della sua
vita. Anche in questo caso, il futuro della vita con Cristo potrebbe essere inteso co-
me logico, in quanto la novità di vita è cominciata con la partecipazione passata al-
la morte di Cristo. In realtà, ora Paolo non si sofferma sul vivere in Cristo ma sul
vivere con lui, ossia sulla definitiva e piena partecipazione alla sua vita che si rea-
lizza soltanto con la nostra risurrezione . Questo contenuto della fede si regge, na-
170

turalmente, sul centro del kérygma paolino, ossia sulla convinzione che Cristo non
soltanto è morto ma èrisortodai morti : la partecipazione alla sua morte non può
171

166II soggetto sottinteso dei verbi synestauróthé e katargèthè è Dio stesso che ha crocifisso e ha reso
inefficace il corpo del peccato mentre noi e Cristo siamo i destinatari.
167Di per sé l'espressione introdotta da meketi può essere intesa anche come consecutiva (« cosicché
non serviamo più il peccato») o come epcsegetica («ossia non serviamo più il peccato»); è preferibile il
senso finale per quanto questa proposizione aggiunga di nuovorispettoalla precedente.
168A causa di apo, il verbo dikaioun (giustificare) diventa sinonimo di «liberare» o di «riscattare»
(con questa costruzione cfr. anche Sir 16,29; Mt 11,19; Le 7,35). Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p.
520; DJ. Moo, Romans, p. 520; H. Schlier, Romani, p. 335.
169 Su queste diverse accezioni della morte in Rm 6,1-14 cfr. C. Clifton Black II, Pauline
Perspectives on Death in Romans 5-8, in JBL 103 (1984) 422-424.
170Sulla prospettiva futura dell'essere con Cristo cfr. lTs 4,17; 2Cor 4,14; Fil 3,21; 2Tm 2,11.
171Sulla fede nellarisurrezionedi Cristo cfr. Rm 8,34; ICor 15,4.12; 2Cor 4,14; Gal 1,1; anche At
5,30; 13,30.
252 Traduzione e commento
non aprire anche a quella per la suarisurrezioneche, pur essendo cominciata con
la vita di Cristo in noi, si compie con la nostra condivisione della sua risurrezione.
L'ultima parte dei vv. 8-9 si chiude con l'applicazione per Cristo del princi-
pio naturale espresso al v. 7: se chiunque è morto è liberato dal peccato, il fatto
che Cristo vive dimostra che la stessa morte non domina più su di lui . In prati- 172

ca, la giustificazione dal peccato implica anche la liberazione dalla sua fatale con-
seguenza, la morte. In tal modo Paolo ricostruisce due parti della triade formula-
ta in Rm 5,12-21 : il peccato e la morte; allafinedel paragraforichiameràanche la
Legge dalla quale siamo stati liberati (v. 14).
[vv. 10-11] A conferma della relazione tra la morte e la vita di Cristo e di
quanti sono inseriti in lui, Paolo riformula il principio generale del v. 7, sottoli-
neando adesso che, da una parte, la morte al peccato avviene una volta per tutte e,
dall'altra, che quanti continuano a vivere lo fanno per Dio. Questo principio vale
innanzi tutto per Cristo: egli è morto al peccato una volta per tutte , perché si è 173

posto sotto il peccato, pur non avendo commesso peccato, anzi, diventando egli
stesso peccato. La suarisurrezionedimostra che egli vive per Dio. Quanto si è rea-
lizzato per Cristo vale anche per coloro che partecipano alla stia morte e alla sua
vita: anch'essi sono morti al peccato, una volta per tutte, ma vivono per Dio, in
quanto sono uniti vitalmente a Cristo Gesù . 174

In certo senso, sembra irrealistico considerare i credenti nella stessa condizio-


ne di Cristo, fosse almeno per il fatto che, se egli non ha peccato, i credenti conti-
nuano a sperimentare il peccato. In realtà, Paolo non sta parlando del peccato per-
sonale o etico di ognuno ma della potenza del peccato che domina sugli esseri uma-
ni: se i credenti non si trovano più sotto il potere del peccato appartengono alla
nuova vita realizzata in Cristo. I singoli peccati morali o personali tenderanno a por-
re in crisi questo passaggio di appartenenza, dal peccato alla grazia, ma non al pun-
to da significare una nuova sottomissione al peccato, perché V uomo vecchio ormai
è stato crocifisso con Cristo. Da tale conclusione deriva una visione profondamen-
te positiva dell'essere in Cristo: per quanto i credenti possano peccare, e di fatto
peccano, si trovano ormai in una condizione del tutto diversa da quando si trovava-
no sotto il potere del peccato. Si può notare come, in questi versi, Paolo passi con-
tinuamente dall' essere in Cristo ali 'essere con Cristo \ sono le formule più diffu-
115

se che esprimono il dinamismo della partecipazione dei credenti alla vita di Cristo.
[v. 12] L'ultima parte della pericope (vv. 12-14) trae alcune istanze etiche o
esortative sulla partecipazione alla morte di Cristo, applicando ai destinatari del-
172 Per indicare il dominio reale e passato della morte su Cristo Paolo utilizza il verbo forte kyrieuein,
che indica uno stato di signoria: dopo dirà che il peccato (Rm 6,14) e la Legge (Rm 7,1) non dominano più
sull'esistenza di quanti sono in Cristo (cfr. anche l'uso di questo verbo tipicamente paolino in Rm 14,9;
2Cor 1,24; lTm 6,15; cfr. anche Le 22,25).
173 L'avverbio temporale ephapax caratterizza nel NT il sacrificio perfetto di Cristo compiuto una
volta per tutte (cfr. Eb 7,27; 9,2; 10,10; cfr. anche le apparizioni di Cristo in una sola volta a 500fratelli in
ICor 15,6).
174 In Gal 2,19-20 Paolo utilizza nuovamente il verbo vivere per esprimere lo scambio tra la vita di
Cristo in noi e la nostra vita per Dio.
175 Cfr. a tal proposito A J.M. Wedderburn, Some Observations on Paul 's Use of the Phrases « in
Christ» and «with Christ», in JSNT 25 (1985) 83-90.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 253
la lettera l'intero percorso delle prove addotte nei versi precedenti. Paolo sa bene
che la liberazione dal peccato, in quanto potenza, se per Cristo è lineare e defini-
tiva, da tutti i punti di vista, non lo è altrettanto per i credenti: di fatto, anche se
ali 'uomo vecchio è subentrato quello nuovo, il corpo mortale o la persona umana
nella quale si è realizzato questo profondo cambiamento è lo stesso.
Da qui nasce l'esortazione applicativa a non lasciarsi dominare più dal pec-
cato , al punto da lasciarsi nuovamente schiavizzare dalle sue passioni o dai suoi
176

desideri : ciò che vale per tutti ora ha bisogno di essere incarnato nell'esistenza
177

concreta di ognuno, perché basta abbandonare la relazione partecipativa alla mor-


te di Cristo per tornare nella condizione disastrosa dell'uomo vecchio. Per questo
i versi conclusivi non sono una semplice applicazione moralistica del kèrygma ri-
volta ai cristiani di Roma ma l'istanza universale a realizzare quella condotta per
la quale la vita nuova non rimane qualcosa di astratto o di oggettivo ma diventa
concreta e personale.
[v. 13] Se il corpo del quale Paolo parla in questi versi è tutta la persona uma-
na, posta in relazione con il peccato o con Dio, anche le membra non rappresen-
tano alcune parti del corpo ma ogni dimensione implicata nella nuova relazione
con Dio . Nella composizione parallela del v. 13 Paolo ricorre al linguaggio mi-
178

litare o di sottomissione rispetto a un re : i credenti sono ingaggiati per il com-


179

battimento della giustizia divina e non per l'ingiustizia derivante dalla loro pre-
cedente sottomissione al peccato . 180

Del tutto inaspettata è la relazione contrastante tra l'ingiustizia e la giustizia,


soprattutto per la quasi totale assenza del vocabolario della giustizia in Rm 6,1-
14 . La ripresa delle stesse formulazioni in Rm 6,19 permette di cogliere un nuo-
181

vo aspetto dell'ingiustizia-giustizia in Romani: qui è intesa in senso etico come


comportamento o condotta nei confronti di Dio, fermo restando che anche que-
st'accezione dipende dalla nuova condizione di giustificazione nella quale si tro-
vano i credenti in Cristo . Di fatto, in base a Rm 6,19, l'ingiustizia corrisponde
182

all'impurità e all'empietà, mentre la giustizia conduce alla propria santificazione.

II verbo basileuein (dominare) è analogo a kyrieuein: indica il potere o il dominio di una persona
176

o di una realtà su un'altra; già in Rm 5,14-21 Paolo ha sottolineato il dominio del peccato e della morte su
quanti non sono in Cristo.
Se in Rm 1,24 Paolo ha sostenuto che Dio ha consegnato tutti alle passioni del loro cuore, ora i cre-
177

denti possono essere totalmente liberi dalle passioni che dominano sul corpo attraverso il potere del peccato.
Così anche D.J. Moo, Romans, p. 384. Il sostantivo melos (membro), tornerà spesso in Rm 6-7
178

con quest'accezione onnicomprensiva (cfr. Rm 6,19.19; 7,5.23.23; anche in Rm 12,4.4.5 ma con il signi-
ficato letterale di parte del corpo umano).
Per il contesto imperiale del verbo paristemi cfr. IRe 10,8.
179

180 p j ' er hoplon (strumento) in contesto militare, con il significato di «arma» cfr. Rm 13,12;
u s o

2Cor 6,7; 10,4; cfr. anche Polibio, Historia 3,109,9. Interessante è l'uso di hoplon in Ignazio, Policarpo
6,2, in cui siriferisceal battesimo: « Il vostro battesimo rimanga come un'arma ». Da questo sostantivo de-
riva il corpo militare greco degli opliti.
Soltanto al v. 7 Paolo ha utilizzato il verbo dikaioun per esprimere la liberazione da...
181

Per questo più che di genitivi qualificativi o di appartenenza si tratta di genitivi oggettivi. Così an-
182

che D.J. Moo, Romans, pp. 386-386. Sullarilevanzaetica della giustizia in Rm 6 cfr. B. Byrne, Living out
the Righteousness of God: The Contribution of Rm 6,1-8,13 to an Understanding of Paul's Ethical
Presuppositions, in CBQ 43 (1981) 557-581; A.B. du Toit, Dikaiosyné in Ròm 6: Beobachtungen zur ethi-
schen Dimension der paulinischen Gerechtigkeitsaujfassung, in ZTK 76 (1979) 261-291.
254 Traduzione e commento
[v. 14] La dimostrazione delle prove addotte in Rm 6,2-13 è orientata a spie-
gare l'incompatibilità tra la grazia e il peccato (v. lb). Per questo Paolo riprende,
quasi alla lettera, la tesi specifica del v. 1 per chiudere questa prima discussione
dallo stile diatribico: tra la grazia e il peccato non c'è alcuna relazione perché non
si può essere, nello stesso tempo, sotto l'uno e l'altra. Il peccato non ha più alcun
potere sui credenti perché si trovano sotto la grazia.
In certo senso sorprende che alla fine della pericope Paolorichiamila Legge,
senza averne accennato nella discussione: soltanto alla luce della triade negativa
della fondazione kerygmatica di Rm 5 diventa comprensibile la comparsa della
Legge che, ancora una volta, Paolo collega al peccato e alla morte. Questo lascia
intendere che se si è morti alla morte e al peccato, si è morti anche alla Legge; e
Paolo non mancherà di affrontare tale questione in Rm 7,1-6. Accanto a questa
motivazione retrospettiva, bisogna aggiungere che questa conclusione funge da
mot-crochet o da parola gancio per introdurre la questione successiva sulla rela-
zione tra il peccato senza la Legge e la grazia.
Sino ad ora, Paolo ha sottolineato due potenze sovrastanti che pongono in
condizione di schiavitù o di servizio: il peccato e la grazia; adesso al peccato ag-
giunge la situazione di chi è sotto la Legge . In verità, essere sotto la Legge non
183

è la stessa cosa che essere sotto il peccato, fosse almeno per l'origine divina della
Legge. Tuttavia, la condizione di condanna o di punibilità non cambia, perché me-
diante la Legge si ha soltanto la piena conoscenza del peccato (cfr. Rm 3,20) e non
la possibilità di essere liberati dal potere del peccato e della morte. Per questo, se
dal versante storico-salvifico, essere sotto la Legge è diverso dall'essere sotto il
peccato, da quello antropologico, valutato dalla nuova condizione di chi è sotto la
grazia, la situazione è la stessa: essere sotto la Legge significa essere posti sotto la
sua maledizione a causa del peccato. Soltanto se il Figlio di Dio si pone sotto la
Legge, al punto da diventare maledizione (cfr. Gal 3,13), può liberare chi è sotto il
peccato e in potere della morte, trasferendolo sotto il potere della grazia . 184

La signoria della grazia (6,15-23). - Dalla precedente questione, sull'in-


compatibilità tra la grazia e il peccato (Rm 6,1-14), emerge naturale la proble-
matica sulla relazione tra il peccato e la sottomissione al potere della grazia (Rm
6,15-23) : Se non siamo più sotto il peccato né sotto la Legge ma sotto la grazia
185

possiamo continuare a peccare? Anche se, nella tesi introduttiva del v. 15b Paolo
cita la Legge, non affronta ancora la problematica della relazione tra questa e il
183 Per l'espressione « sotto la Legge» che nell'epistolario paolino assume generalmente una valen-
za negativa cfr. Gal 3,23; 4,4.5.21; 5,18; soltanto in ICor 9,20 ha valore neutro, in quanto si riferisce pra-
ticamente ai giudei.
184 Per le formule « sotto il peccato » cfr. Rm 7,14; Gal 3,22; « sotto la grazia» cfr. Rm 6,14.15.
185 Anche se, come si è visto per la delimitazione della pericope precedente, alcuni fanno comincia-
re questa microunità con Rm 6,12 (cfr. Fitzmyer, Romani, pp. 528-529) si è generalmente concordi nel
considerare il v. 23 come conclusione, soprattutto a causa della chiusura dossologica analoga a quella di
Rm 5,11.21. Sulla sottounità letteraria di Rm 6,15-23 cfr. B. Byrne, Romans, p. 200; D.J. Moo, Romans, p.
396. In questo caso, come per Rm 6,1.14, il vocabolario della grazia funge da inclusione tra il v. 15 (cha-
ris) e il v. 23 (charisma): non bisogna dimenticare che il centro tematico della sezione è quello della gra-
zia e le sue conseguenze nella vita cristiana.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 255
peccato : lo farà in Rm 7. Si può notare come anche tale relazione sia affrontata
186

secondo lo stile della diatriba: Paolo stesso pone domande alle quali risponde pri-
ma brevemente e poi con una dimostrazione più articolata.
Allo stile della diatriba, che caratterizza questo nuovo dialogo retorico, appar-
tengono non soltanto la breve domanda iniziale con larispostaimmediata del v. 15,
ma anche lo stile antitetico che cadenza quasi ogni affermazione, l'esempio umano
(v. 19) e il linguaggio metaforico dei frutti (vv. 21-22). Di fatto questa pericope pro-
cede per marcate opposizioni tra Legge e grazia (v. 15), peccato e obbedienza (v.
16), morte e giustizia (v. 16), impurità e giustizia (v. 19), empietà e santificazione
(v. 19), schiavitù e libertà (v. 20), peccato e giustizia (v. 20), frutto del quale ci si
vergogna o per la santificazione (vv. 21-22),finalitàdella morte o della vita eterna
(vv. 21-22),ricompensadel peccato o di Dio (v. 23), morte o vita eterna (v. 23) . 187

Come per Rm 5,12-21, Paolo sembra ricomporre un nuovo confronto (syg-


krisis) tra la grazia e il peccato; e come per il confronto tra Adamo e Cristo, an-
che ora l'accento non cade sul peccato e la sua sfera di influsso, che rappresenta
la prima parte del parallelismo dei membri, ma sul positivo regime della grazia
che Paolo pone nella seconda parte della composizione parallela del brano. Dal
punto di vista compositivo, dopo la tesi, in forma di domanda, all'inizio del dia-
logo (v. 15) , sono rilevabili due parti principali: il presente della vita cristiana,
188

come servizio per la giustizia (vv. 16-18), e l'evocazione del passato religioso dei
destinatari (vv. 19-23). La seconda parte del brano conferma, in quanto esempli-
ficazione, il senso dell'attuale servizio cristiano per la giustizia.
[6,15] Anche se manca il verbo « dire », la pericope comincia come la prece-
dente (v. 1): il dialogo si svolge alla prima persona plurale perché riguarda tutti
coloro che sono in Cristo. La continuità tra Rm 6,1-14 e Rm 6,15-23 è rilevabile
per la ripresa delle espressioni «sotto la Legge» e «sotto la grazia» (vv. 14.15).
Tuttavia, ora l'attenzione si sposta dalla condizione dell'essere sotto la grazia al-
l'esperienza del peccato: Se non siamo sotto la Legge, siamo forse liberi di pec-
care o di agire come vogliamo? Tale questione etica emerge dalla nuova condi-
zione del cristiano perché, di fatto, non si è sotto la Legge; quanto segue confer-
ma che l'attenzione non è soltantorivoltaall'indicativo della fede (essere sotto la
grazia) ma anche all'imperativo etico che tale situazione determina (agire sotto la
grazia). Con buona pace di quanti considerano l'imperativo etico come una sem-
plice conseguenza più o meno presente nell'indicativo della fede, tra le due di-
mensioni della vita cristiana c'è una profonda compenetrazione, senza soluzione
di continuità: nell'imperativo etico si incarna o si manifesta lo stesso indicativo
della fede. Paolorigettasubito la possibilità che si possa peccare per il fatto di es-
sere sotto la grazia e non sotto la Legge: non sia mai! 189

186Gli scarsi riferimenti alla Legge in Rm 6 (cfr. soltanto i vv. 14.15) confermano che la tesi princi-
pale della sezione è quella di Rm 5,1-2 e non di Rm 5,21-22.
187Per la composizione antitetica di Rm 6,15-23 cfr. M. Bouttier, La vie du chrétien en tant que ser-
vice de la justice pour la sainteté. Romains 6,15-23, in L. De Lorenzi (ed.), Battesimo e giustizia in Rom 6
e 8 (SMB 2), Roma 1974, pp. 135-136.
188Su Rm 6,15 come tesi specifica di Rm 6,16-23 cfr. A. Gieniusz, Suffering, pp. 39,42.
189Per la formula me genoito tipica dello stile paolino e della diatriba vedi il commento a Rm 3,4.
256 Traduzione e commento
Come si concilia questa risposta con l'esperienza concreta del peccato che
tocca anche il cristiano e non soltanto coloro che non si trovano sotto la grazia? A
ben vedere, in questo caso Paolo non considera l'esperienza etica del peccato in
quanto tale ma come espressione della sottomissione al peccato inteso ancora co-
me potenza dominante. Una cosa è considerare il peccato come « caduta » o come
esperienza contingente anche per chi è in Cristo, un'altra è concepirlo come con-
ferma di una condizione di schiavitù nella quale si trovano gli esseri umani senza
Cristo; qui Paolo si riferisce alla seconda condizione e non alla prima, come so-
stiene il seguito della dimostrazione.
[v. 16] Questa volta, a differenza dalle analoghe espressioni di Rm 6,1-14,
l'invito a sapere ciò che Paolo sta per sostenere è più retorico che reale: di fatto,
egli esprime un principio tipico di antropologia giudaica, secondo il quale tutti so-
no schiavi; il problema è il potere o colui che si serve come schiavi . A causa di 190

questo principio, nell'AT è scarso il concetto di libertà, soprattutto a confronto


con la sua vasta attestazione nella letteratura greca : nella schiavitù, nel servizio
191

o nel culto per Dio ('àbòdà) il popolo ebraico riscontra l'autentica libertà . Per 192

questo, già Gesù aveva applicato tale assioma alle scelte per il discepolato: non si
può servire Dio e mammona (cfr. Le 16,13; Mt 6,24); e Paolo non ha esitato a pre-
sentarsi come « servo » di Cristo (cfr. Rm 1,1 e paralleli).
Naturalmente, qualsiasi servizio implica due conseguenze fondamentali: nel
caso della sottomissione al peccato conduce alla morte, in quello dell'obbedienza
orienta verso la giustizia. In questo parallelismo sorprende l'opposizione che
Paolo stabilisce tra peccato e obbedienza, in quanto anche il peccato esige una ob-
bedienza o una condizione di sottomissione. Come al solito, lo stile paolino è sin-
tetico; forse l'obbedienza alla quale siriferisce,come condizione per la giustizia,
è quella della fede (cfr. Rm 1,5): una obbedienza qualificata dalla fede in Cristo
che contrasta con quella del dominio del peccato. Nello stesso tempo, poiché ci
saremmo aspettati il contrasto tra peccato e grazia annunciato al v. 15, ora si trat-
ta di una obbedienza derivante dall'azione di grazia compiuta da Dio in Cristo:
per questo, tale obbedienza è non tanto una scelta individuale di fronte a Dio
quanto la conseguenza fondamentale dell'azione gratuita compiuta da Dio stesso.
[v. 17] Se tutti devono compiere l'opzione fondamentale per il servizio del
peccato o della grazia, i credenti di Roma, come tutti i cristiani, hanno già obbe-
dito all'economia della grazia e non a quella del peccato. Per questo, è spontaneo
190 A causa di questo principio, la pericope è dominata più dal linguaggio della schiavitù che da quel-
lo della libertà: cfr. il sostantivo doulos (schiavo) nei vv. 16.16.17.20, l'aggettivo doula al v. 19 (2 volte) e
il verbo douleuein (schiavizzare) al v. 22. Per l'antonimo eleutheros (libero) cfr. v. 20 e per eleutheroun cfr.
vv. 18.22. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 396.
191 Per eleutheria (libertà) in Lv 19,20; lEsd4,49.53; Sir 7,21; IMac 14,27; 3Mac 3,28; eleutheroun
(liberare) in Pr 25,10; 2Mac 1,27; 2,22. Soltanto il termine eleutheros è più attestato nella LXX (cfr. Es
21,2.5; 26,27; Dt 15,12.18; 21,14; lEsd 3,19; Gb 39,5; IMac 2,11; 10,33; 15,7; 2Mac9,14).
192 Per questo, è errata la prospettiva di H. Schlier, Eleutheros..., in GLNT III, pp. 423-468, che col-
lega direttamente il concetto della libertà paolina al retroterra filosofico-ellinistico. Anche se nelle fonti
più antiche dell'AT non è utilizzato il sostantivo «libertà», questa è espressa, in base al principio della
schiavitù, con il vocabolario del «servizio» (cfr. Es 4,23; 12,25.26; 13,5; Gs 24,19.21.24). Sul retroterra
esodale della libertà nel pensiero paolino cfr. F. Pastor Ramos, La Libertad en la Carta a los Gàlatas.
Estudio exegético-teológico, Madrid 1977, pp. 39-40.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 257
il ringraziamento a Dio per la loro sottomissione alla grazia. Un tempo, essi era-
no schiavi del peccato, come tutti: con la fede in Cristo sono passati in una nuo-
va condizione di schiavitù; e la loro obbedienza non è soltanto esteriore né senti-
mentale, come potrebbe far pensare a prima vista il sostantivo cuore: obbedire di
cuore equivale a obbedire con la propria mente, con il centro del pensiero, dove
si realizza ogni profonda conversione.
Una delle crux interpretum più note del NT è l'espressione «tipo di insegna-
mento » che si trova soltanto qui: a che cosa siriferisce?E a quale insegnamento si
obbedisce perché si è stati consegnati? Alcuni, pensando al sostantivo didache co-
me a una sorta di formula tipica del materiale protocattolico nel NT, evitano le dif-
ficoltà considerando l'espressione come una glossa redazionale dovuta a un inter-
vento successivo . Il sostantivo typos originariamente significa « marchio, segno,
193

immagine »; è utilizzato anche per designare il compendio o la sintesi di alcune te-


matiche religiose ofilosofiche.Al di fuori del presente uso, nell'epistolario paolino
typos si riferisce sempre ad alcune persone che diventano modelli per altre, in par-
ticolare nell'esemplarità della fede . Tuttavia, la personalizzazione del modello in
194

questo caso non regge a causa di didache a cui è direttamente collegato . Dunque, 195

è preferibile pensare al modello o al tipo d'insegnamento al quale i destinatari sono


stati consegnati, attraverso la loro fede, e al quale hanno cominciato a obbedire. In
questo contesto, il verbo paradidómi non si riferisce alla trasmissione della fede
bensì al passaggio degli schiavi da una sottomissione all'altra: i credenti sono stati
liberati dal peccato per essere consegnati all'insegnamento cristiano, in pratica al
vangelo della libertà dal peccato, dalla morte e dalla Legge . Oltre queste caratte-
196

ristiche del modello di insegnamento è difficile andare, evocando ad esempio una


connotazione battesimale del tipo di insegnamento : in tal caso si tratterebbe del-
197

l'insegnamento propedeutico al battesimo. Non sappiamo se, di fatto, nel secolo I


d.C. il battesimorichiedessetale insegnamento; e comunque questa interpretazione
rischia di retroproiettare un modello di catechesi battesimale successivo al NT . 198

[v. 18] Un nuovo parallelismo antitetico pone in contrasto il peccato alla giu-
stizia: e in questa opposizione merita particolare attenzione la forma dei verbi; i
credenti sono già stati liberati (eleutheróthentes) dal peccato e questa liberazione
ha significato la loro sottomissione (edoulóthéte) per la giustizia, che corrisponde,
ancora una volta, al regime della grazia.
193 Così R. Bultmann, Glossen im Ròmerbrief, in TLZ 72 (1947) p. 202. Anche se con maggiore cau-
tela, così anche D. Zeller, Romani, p. 197. Nonostante l'autorevolezza esegetica di R. Bultmann, bisogna
riconoscere che non c'è nessun fondamento testuale per quest'ipotesi bislacca. Per la critica all'interpre-
tazione bultmanniana cfr. R.A.J. Gagnon, Heart ofWax andaTeaching That Stamps: Typos didachès (Rom
6,17b) Once More, in JBL 112 (1994) 671-673.
194 Cfr. ICor 10,6; Fil 3,17; lTs 1,7; 2Ts 3,9; lTm 4,12; Tt 2,7. Per questo J.D.G. Dunn, Paul, p. 195,
intende anche in questo caso l'esemplarità di Gesù Cristo affidata ai credenti.
195 Per didache nell'epistolario paolino cfr. Rm 16,7; ICor 14,6.26; 2Tm 4,2; Tt 1,9.
196 Così anche F.W. Beare, On the Interpretation ofRomans VI.17, in NTS 5 (1958-1959) 206-210.
197 Così J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 535-536, con la citazione indebita, in quanto successiva, di
Giamblico, Vita Pitagorica 16,70; 23,103. Per l'interpretazione battesimale cfr. anche M. Bouttier, Vie, p.
142; K. Kertelge, Giustificazione, p. 307; H. Schlier, Romani, p. 347.
198 Per l'interpretazione generale di modello d'insegnamento cfr. anche S.K. Stowers, Rereading
Romans, p. 258.
258 Traduzione e commento
Nello stesso tempo, non bisogna ignorare il valore propriamente cristologico
di questi verbi: Cristo ci ha liberati dal peccato per renderci schiavi della giustizia
divina . Una volta chiarito il principio antropologico della libertà come servizio
199

o sottomissione nei confronti di Dio, non sorprende più l'uso paradossale del ver-
bo « rendere schiavi » per indicare la libertà cristiana, in quanto relazione deri-
vante dalla giustizia divina.
[v. 19] La seconda parte del paragrafo è introdotta da una formula paolina
(« parlo in modo umano »), analoga a parlo secondo un esempio umano di Gal
3,15, anche se ora Paolo non introduce un esempio esterno ma strettamente colle-
gato all'esperienza di fede dei destinatari. A prima vista, sorprende il riferimento
alla debolezza della carne dei destinatari della lettera: sembra far intendere un lo-
ro livello iniziale di fede, mentre in Rm 1,8-15 Paolo non ha smesso di elogiare la
maturità e la diffusione della loro fede. In realtà, qui l'espressione «debolezza
della carne » non va considerata in senso negativo ma neutro: corrisponde alla dif-
ficoltà nel seguire il ragionamento paolino. Un esempio tratto proprio dalla loro
fede aiuterà a comprendere il suo pensiero. Dal punto di vista retorico, possiamo
definire questo esempio come un'argomentazione ad hominem, anche se Paolo
non considera mai i destinatari della lettera come suoi oppositori.
Riprendendo il linguaggio militare del v. 13, Paolo torna a presentare le due
situazioni opposte che si sono verificate nell'esistenza dei destinatari; e, anche in
questo caso, le membra non sono alcune parti del corpo bensì l'intera persona
umana posta in relazione di servizio per il proprio padrone. In questa nuova op-
posizione, retta sul contrasto cronologico una volta - adesso, da una parte si tro-
vano l'impurità e l'iniquità per l'iniquità, dall'altra la giustizia per la santifica-
zione. In questo contesto il sostantivo anomia non si riferisce all'assenza della
Legge, come per anomós di Rm 2,12, ma all'iniquità umana quale situazione con-
trastante rispetto alla giustizia . A causa della relazione con l'iniquità, in questo
200

caso l'impurità non allude alla sfera sessuale ma a qualsiasi situazione di peccato
o di colpa. Al passato dell'iniquità corrisponde il presente della giustizia alla qua-
le i cristiani sono invitati a relazionarsi: questa parte positiva dell'opposizione è
espressa come esortazione a servire la giustizia divina, ossia a corrispondere al-
l'origine gratuita della nuova condizione nella quale ora si trovano tutti i creden-
ti. Per questo, adesso la giustizia non assume soltanto valore teologico o keryg-
matico ma anche etico : all'origine divina della giustizia, come salvezza e gra-
201

199 In Gal 5,1 Paolo esplicita l'origine cristologica della libertà cristiana: «Cristo ci ha liberato per la
libertà». Per l'uso del verbo eleutheroun tipico del vocabolario paolino cfr. anche Rm 6,22; 8,2.21 (cfr. inol-
tre soltanto Gv 8,32). Sull'origine e la consistenza della libertà cristiana nelle lettere paoline cfr. J.K.
Gamblin, Libertà, in Dizionario di Paolo, pp. 968-973; F.S. Jones, «Freiheit» in den Briefen desApostels
Paulus. Eine historische, exegetische und religionsgeschichtliche Studie, Gòttingen 1987; R. Penna, Legge
e libertà nel pensiero di s. Paolo, in J. Lambrecht (ed.), The Truth ofthe Gospel (Galatians 1:1 - 4:11) (MBS
12), Roma 1993, pp. 249-276.
200 Per anomia corrispondente a iniquità cfr. anche Rm 4,7; 2Ts 2,17; Tt 2,14. L'incompatibilità tra la
giustizia e l'iniquità è stata già espressa in 2Cor 6,14: « Quale rapporto c'è tra la giustizia e l'iniquità » (an-
che Eb 1,9).
201 Per questa interrelazione tra la dimensione teologica e morale della giustizia vedi Rm 6,13; cfr.
anche Fil 1,11 in cui si parla del frutto della giustizia. Così anche B. Byrne, Romans, p. 202; D. Zeller,
Romani, p. 199.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39259
zia, si relaziona l'agire morale per la giustizia, ossia il comportamento che piace
a Dio e che, per questo, conduce alla santificazione. A prima vista, potrebbe sem-
brare che, in questo caso, la stessa giustizia sia subordinata alla santificazione,
quale fine ultimo dell'etica cristiana . In realtà, si tratta di una relazione conse-
202

quenziale in cui la priorità e la centralità spettano sempre alla giustizia dalla qua-
le deriva la santificazione della vita cristiana . 203

[v. 20] Richiamando il passato dei destinatari, Paolo continua a utilizzare la po-
larità schiavitù-libertà: essere schiavi del peccato vuol dire essere liberi nei con-
fronti della giustizia; ma in questo caso, si tratta di una schiavitù reale, dalla quale i
destinatari sono stati liberati (v. 18a), mentre la loro libertà non aveva alcuna consi-
stenza in quanto non corrispondeva all'essere servi della giustizia (v. 18b) . Forse 204

non è estranea a questo interscambio tra la schiavitù e la libertà, per cui la libertà
passata non era realmente tale, una certa ironia che prosegue nei versi successivi.
[vv. 21-22] Se ogni albero siriconoscedai frutti (cfr. Le 6,44), anche l'etica,
in quanto espressione della propria esistenza, risponde a questa logica. Con l'in-
terpellante domanda che introduce questo nuovo parallelismo, Paolo non intende
negare che l'esistenza sotto il peccato sia senza frutti ma affermare che si tratta di
frutti orribili di cui ora ci si vergogna e che conducono alla morte dell'albero . 205

Purtroppo, è difficile stabilire a quali frutti negativi Paolo siriferisca:sarebbe sta-


ta un'ottima opportunità per identificare il retroterra dei destinatari della Lettera
ai Romani; invece Paolo lascia tutto nell'indefinitoricordandosoltanto la conse-
quenziale vergogna per quanti ora si trovano sotto il regime della grazia. A causa
del contrasto con la vita eterna, la morte, quale finalità dei frutti derivanti dalla
propria sottomissione al peccato non va intesa soltanto in senso morale ma anche,
se non soprattutto, in senso escatologico e definitivo: è la prospettiva irrimediabi-
le per quanti continuano a essere dominati dal peccato e dalla morte . 206

Nella parte positiva della metafora arborea, la vita cristiana è considerata co-
me liberazione dal peccato e sottomissione per Dio. In certo senso, sorprende l'e-
splicito riferimento a Dio che, di fatto, è risultato assente, almeno esplicitamen-
te, dai precedenti parallelismi: ci saremmo aspettati espressioni del tipo «per la
giustizia » o « per la grazia ». A ben vedere, questa esplicitazione conferma la no-
stra interpretazione dei precedenti parallelismi: la sottomissione alla giustizia e
alla grazia non significa altro che relazione con Dio; e questa volta la santifica-
zione, quale conseguenza dell'adesione alla giustizia divina, raggiunge la sua fi-
nalità con il dono della vita eterna . 207

202II sostantivo fattitivo hagiasmos è proprio del vocabolario paolino (cfr. Rm 6,19.22; ICor 1,30;
lTs 4,14.7; 2Ts 2,13; lTm 2,15; cfr. anche Eb 12,14; lPt 1,2).
203Così anche K. Kertelge, Giustizia, p. 319.
204Anche eleutheros è tipico dell'epistolario paolino: vi si trova 16 volte su un totale di 23 nel NT
(cfr. Rm 6,20; 7,3; ICor 7,21.22.39; 9,1.19; 12,13; Gal 3,28; 4,22.23.26.30.31; Col 3,11; Ef 6,8).
205Cfr. l'immagine delle due seminagioni secondo la carne e secondo lo Spirito in Gal 6,7-8.
206Anche se il sostantivo telos può significare «la fine» o la conclusione di un evento o di un'azio-
ne, qui assume un chiaro valorefinale:il fine della morte e il fine della vita. Così anche D.J. Moo, Romans,
p. 405. Cfr. anche Rm 10,4.
207Paolo si è giàriferitoalla vita eterna in Rm 2,7; 5,21; cfr. anche Rm 6,23: è una delle tematiche
sulle quali insiste in questa sezione.
260 Traduzione e commento
Si può notare come anche il frutto positivo della relazione con Dio non è
esplicitato: quale frutto conduce alla santificazione e alla vita eterna? Comunque,
basterà riprendere l'elenco delle virtù descritto in Gal 5,22-26 per comprendere
che si tratta anzitutto del frutto dello Spirito, ossia di un unico dono che si espri-
me nell'amore, nella gioia, nella pace... Nella sezione propriamente etica della
lettera (Rm 12,1 - 15,13), Paolo si soffermerà su queste virtù quali espressioni
della sottomissione al regime della grazia e non a quello del peccato. In questi ri-
ferimenti al passato dei destinatari, alcuni viriscontranochiari indizi per sostene-
re l'origine pagana delle comunità cristiane di Roma : in realtà, il loro passato è
208

descritto in modo sfocato per coinvolgere tutti i componenti delle comunità miste
di Roma anche se, in base ad altri indizi della lettera , le parti principali doveva-
209

no essere composte di etnico-cristiani.


[v. 23] Il confronto tra peccato e grazia volge al termine; e qui torna la dose
di ironia già introdotta al v. 20: Che ricompensa è quella che si identifica con
la morte? Per ironizzare su questa relazione tra il peccato e la morte, Paolo ricor-
re a un termine tipico, anche se non esclusivo , del linguaggio militare :
210 211

Vhopsónion è soprattutto la ricompensa o la paga dovuta per il servizio militare,


il soldo per il quale si è assoldati e si diventa soldati. All'assurda paga per la pas-
sata sottomissione al peccato fa da contrasto il dono di grazia (charisma) identi-
ficabile con la vita eterna. Come in Rm 5,15-16, qui il carisma di Dio non è un
dono per l'edificazione della comunità (cfr. ICor 12,4-31) ma la grazia divina ri-
versata su coloro che sono passati dal regime del peccato a quello della giustifi-
cazione. Alcuni, proseguendo sulla falsariga della ricompensa dei soldati, hanno
interpretato anche il sostantivo charisma in contesto militare o di schiavitù: in tal
caso si riferirebbe al donativum, ossia all'elargizione di grazia compiuta da un
nuovo re o da un nuovo imperatore . Non è necessario né forse pertinente inter-
212

pretare in questo modo il charisma che si identifica con la vita eterna. Piuttosto,
si tratta della concretizzazione stessa della grazia divina che domina la sezione di
Rm 5,1 - 8,39: non soltanto è la grazia alla quale abbiamo avuto accesso, con la
giustificazione compiuta da Dio in Cristo Gesù, ma la grazia con la quale comin-
cia per tutti la vita eterna. Una dossologia, praticamente uguale a quella di Rm
5,21, chiude anche questo livello della dimostrazione paolina: non bisogna mai
dimenticare che soltanto mediante Cristo, riconosciuto come nostro Signore, ab-
biamo avuto accesso alla grazia divina e abbiamo già ricevuto il dono della vita
eterna (cfr. Rm 5,1-2).

208Così B. Byrne, Romans, p. 203.


209Vedi la nostra introduzione generale al commentario.
2,0Di per sé Vhopsónion vale anche per gli schiavi, per gli atleti come per qualsiasi lavoratore (cfr.
Papiri del J. Rylands Library [Manchester] 153,25; Papiri greci del Cairo 28,6; 100,14).
211Nel NT il sostantivo opsónion compare soltanto 4 volte, di cui 2 in chiaro contesto militare (cfr.
ICor 9,7; Le 3,14) e 1 con valore generale diricompensao di paga (cfr. 2Cor 11,8). A causa del verbo pa-
ristemi utilizzato già in Rm 6,13.13.16.19.19 e spesso in contesti militari, anche in questo caso opsónion
sembra evocare la paga per il servizio militare. Per la LXX cfr. IMac 3,28: 14,32; lEsd 4,56.
212Per la relazione tra charisma e donativum cfr. H. Schlier, Romani, p. 358, anche se contenutisti-
camente interpreta il sostantivo alla luce della grazia in Rm 5,2.20-21; 6,1.14.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 261
L'appartenenza a Cristo e non alla Legge (7,1-6). - Il problema sulla relazio-
ne tra la Legge, il peccato e la morte, rimasto sullo sfondo in Rm 6, ora emerge in
tutta la sua complessità. Naturalmente Paolo intende trattare non della Legge in
quanto tale ma della sua sfera di influsso, assieme al peccato e alla morte, su quan-
ti sono in Cristo. Da questo punto di vista, ora egli affronta tale questione da una
prospettiva diversa rispetto a quanto ha sostenuto in Rm 2,1 - 4,25; in discussio-
ne si trova l'alternativa tra il dominio della grazia e quello della Legge e non più
la relazione tra la Legge e la giustizia di Dio per la fede. A causa della signoria,
quale elemento principale di connessione fra le diverse questioni diatribiche af-
frontate in Rm 6,1 - 7,25, Paolo comincia questo nuovo livello argomentativo at-
traverso l'interpellanza diretta ai destinatari della lettera, chiamandoli «fratelli»
(Rm 7,1); la microunità si conclude con l'opposizione tra lo Spirito e la lettera (v.
6), per lasciare spazio alla successiva questione retorica (v. 7) . 213

La pericope si divide in due parti fondamentali: l'esempio giuridico, tratto dal


diritto matrimoniale (vv. 1-3), e la sua applicazione per la vita cristiana (vv. 4-6) . 214

Naturalmente, si noterà subito che tra l'esempio e l'applicazione non si verifica


una perfetta sintonia, in quanto mentre nell'esempio è considerata la morte del
marito, nell'applicazione muore il cristiano che dovrebbe corrispondere alla mo-
glie. Ma, come vedremo, questa obiezione non pone in discussione il genere argo-
mentativo delle due parti, che conservano, pur nella discontinuità, alcune analogie
significative; ed è su queste che Paolo pone la sua attenzione . 215

Intanto è benericonoscereche lo stile della diatriba caratterizza anche questa


come tutte le pericopi di Rm 6-7: questo è riconoscibile nell'esempio che Paolo
trae dal diritto matrimoniale (vv. 1-3), nell'interpellante domanda retorica del v. 1
e nella conclusione applicativa di carattere etico dei vv. 4b-6 che riprende la me-
tafora agricola dell'albero o del campo e dei frutti (cfr. Rm 6,21-22).
Lo stile diatribico rappresenta l'indizio principale che impedisce di conside-
rare Rm 7,1-6 come conclusione della sezione precedente o come inizio di una
nuova sezione; piuttosto, si tratta di un nuovo passo che dinamizza ulteriormente
la dimostrazione di Rm 6-8. Di fatto, dal versante linguistico, vi sono buone ragio-
ni che inducono a collegare Rm 7,1-6 a Rm 6, al punto che alcuni la considerano
come perorazione di Rm 6,l-23 : si pensi allaripresadi termini come « signoreg-
216

giare», «vivere», «morire», «libera», «portare frutto», «membra», «servire»,

213Sull'unità letteraria di Rm 7,1-6 cfr. B. Byrne, Romans, p. 208; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 541;
DJ. Moo, Romans, p. 410; H. Schlier, Romani, p. 360; D. Zeller, Romani, p. 203.
214Questa relazione rimane tale anche se la seconda parte (vv. 4-6) non è introdotta dalla particella
houtós ma da hôste che segnala generalmente una finale o una consecutiva; il successivo kai, da rendere
con un anche conferma la relazione di confronto tra le due parti della pericope. Per questa funzione di kai,
cfr. ICor 15,49; 2Cor 13,4; Mt 6,10; Gv 6,57; 13,15; At 7,51. Così anche J.D. Earnshaw, Reconsidering
Paul's Marriage Analogy in Romans 7.1-4, in NTS 40 (1994) 71.
215Cfr. a tal proposito J.A. Little, Paul's Use of Analogy: A Structural Analysis of Romans 7:1-6, in
CBQ 46 (1984) 82-90; E.P. Sanders, Legge, pp. 126-127.
216 Sulle relazioni tra Rm 7,1-6 e Rm 6 cfr. J.D. Earnshaw, Marriage, p. 72; D. Hellholm, Die
Argumentative Funktion von Rom 7,1-6, in NTS 43 (1997) 409. Per Rm 7,1-6 come perorazione retorica cfr.
J.-N. Aletti, Israël, pp. 20-21 ; A. Gieniusz, Rom 7,1-6: Lack ofImagination? Function ofthe Passage in the
Argumentation ofRom 6,1-7,6, in Bib 74 (1993) 389-400.
262 Traduzione e commento
«novità» e «vecchiume». Tuttavia, non si può negare che, a parte Rm 6,14.15, in
Rm 6 la Legge è rimasta sullo sfondo mentre domina in Rm 7; al contrario, se in
Rm 6 ha dominato il peccato, in Rm 7,1-6 si parla soltanto una volta di peccato e
per di più al plurale (v. 5), mentre ora Paolo introduce, per la prima volta, la cita-
zione dello Spirito (v. 6) che dominerà soprattutto in Rm 8 . Per questo, non si può
217

isolare Rm 7,1-6 da quanto precede né da quanto segue : è una pericope di transi-


218

zione che funge da ponte nell'economia della sezione.


[7,1] Con una captatio benevolentiae, Paolo si rivolge ai destinatari della
lettera chiamandoli fratelli e riconosce la loro conoscenza della Legge . Non è 219

facile stabilire il significato di nomos al v. la: siriferiscealla Legge mosaica op-


pure alla conoscenza della giurisprudenza in generale, ben radicata nella cultura
romana? Nella seconda ipotesi questo rappresenterebbe un nuovo indizio per l'o-
rigine gentile delle comunità di Roma, o almeno delle sue parti principali; inve-
ce, nella prima emergerebbe l'origine giudaica. Ancora una volta, gli indizi sono
troppo pochi e sfocati; e da questo riconoscimento si potrebbe pensare a gentili
relazionati alla Legge mosaica, come timorati o simpatizzanti della sinagoga . 220

Comunque riteniamo che sia al v. la sia al v. lb il sostantivo nomos riguardi la


Torah che conoscono bene i giudei e i gentili delle comunità cristiane di Roma . 221

Nella seconda parte del v. 1 Paolo esprime un principio non soltanto noto nel
giudaismo del suo tempo ma persino lapalissiano : la Legge mosaica « signoreg-
222

gia » su chiunque soltanto durante l'esistenza terrena; dopo non è più principio di
orientamento né ha forza giuridica. Non è un caso che il verbo « signoreggiare »
(kyrieuein) sia stato usato, sino ad ora, per il peccato (Rm 6,14) e per la morte
(Rm 6,9) ; in tal modo, èricostruitala triade negativa di Rm 5-8: il potere della
223

Legge, del peccato e della morte; e non è neppure casuale la relazione tra que-
st'affermazione di principio e quella espressa in Rm 6,7.11 : « Chi è morto è ormai
libero dal peccato »; ora chi è morto è libero anche dalla Legge.
[vv. 2-3] A questo punto, Paolo sarebbe potuto passare all'applicazione del
principio giuridico sul potere della Legge mosaica (e questo vale anche per qual-
siasi legge) per coloro che hanno aderito a Cristo: anch'essi sono morti alla
Legge e non si trovano più sotto il suo potere. Tuttavia, questa immediata appli-
cazione rischia di essere posta in discussione innanzi tutto dal fatto che, comun-
que, anche il credente continua a vivere e che non può considerarsi del tutto esen-
te almeno da alcune esigenze della Legge, come non può considerarsi totalmente
libero dall'influsso del peccato e della morte. Per questo al problema della si-

217 Per Rm 7,1-6 come pericope introduttiva della sezione successiva cfr. DJ. Moo, Romans, p. 410.
218 Così anche D. Zeller, Romani, p. 203.
219 Bisogna risalire a Rm 1,13 per riscontrare l'interpellante «fratelli» (cfr. dopo Rm 8,12; 10,1;
11,25; 12,1). Anche in questo caso, come in Rm 6,3, « non sapete? » si riferisce a quanto è già noto ai cri-
stiani di Roma.
220 Così anche B. Byrne, Romans, p. 210; DJ. Moo, Romans, p. 412.
221 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 544. Soltanto in questa prospettiva Paolo potrà dire al v. 4
che i destinatari « sono morti alla Legge », riferendosi sia ai giudei sia ai gentili della comunità.
222 Cfr. l'attestazione rabbinica in Qiddushin 1,1; Shabbat 30a; 15lb.
223 Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 156.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 263
gnoria si relaziona quello della moralità . In altri termini, non avverrà che si sia
224

considerati più immorali per il fatto che non si è sotto la Legge ma sotto la gra-
zia, invece di trovarsi in una condizione migliore? Come si vede, torna la proble-
matica di Rm 6,1, sull'ipotesi assurda che sia necessario peccare per permettere
l'abbondanza della grazia. Per spiegare queste relazioni tra signoria e moralità,
Paolo ricorre a un esempio tratto dal diritto matrimoniale: la donna sposata è vin-
colata al marito soltanto quando egli è vivo ; se questi muore, lei è libera dal
225

vincolo matrimoniale.
Circa il riferimento concreto al diritto matrimoniale, sembra che Paolo si ri-
chiami alla giurisprudenza giudaica fondata su Nm 5,29, in cui si parla della pro-
miscuità sessuale della donna sposata . Comunque, è bene riconoscere che il ri-
226

ferimento alla donna in questo verso non è esclusivo, in quanto lo stesso princi-
pio vale anche per l'uomo; e non è presa in considerazione la questione della
pertinenza o meno del divorzio: in discussione è la condizione di adulterio nella
quale si trova la donna sposata quando si unisce a un altro che non sia suo mari-
to. Con alcune variazioni terminologiche, Paolo ha formulato lo stesso principio
in ICor 7,39: « La donna è legata per tutto il tempo in cui vive suo marito; ma se
il marito muore è libera di sposarsi con chi vuole, soltanto nel Signore ». La con-
clusione dell'esempio (v. 3) insiste sulla condizione morale della donna sposata
che si unisce a un altro uomo prima e dopo la morte del marito. Nel primo caso è
adultera, mentre nel secondo è libera di contrarre un nuovo vincolo matrimonia-
le, senza incorrere in alcuna condanna o contaminazione.
[v. 4] Non è la prima volta che Paolo, quando applica un principio giuridico,
pone in evidenza soltanto alcuni aspetti, senza preoccuparsi di eventuali incon-
gruenze . Così, arigoredi logica, sorprende che, mentre nell'esempio (v. 3) muo-
227

re il marito, determinando la libertà giuridica della moglie di unirsi con chi vuole,
nell'applicazione gli stessi credenti sono morti e sono liberi di passare alla rela-
zione sponsale nuova con Cristo.
Tuttavia non bisogna esagerare nelle contraddizioni, perché il primo elemen-
to di contatto tra l'esempio e l'applicazione si trova nella possibilità che la moglie
e i credenti hanno di passare a un altro uomo . Di per sé, Paolo non dice che il
228

224Quest'aspetto è stato posto particolarmente in evidenza da A. Gieniusz, Imagination, p. 400, an-


che se a detrimento della questione sulla signoria: i due aspetti non sono incompatibili.
225Anche se hypandros, che si trova soltanto qui nel NT, è sostantivo composto da hypo (sotto) + aner
(uomo), non evoca la condizione analoga di chi è sotto la Legge, sotto il peccato e sotto la morte. Nella
LXX e nella letteratura greca parallela hypandros vuol dire semplicemente essere «sposata». Cfr. Nm
5,20.29; Pr 6,24.29; Sir 9,9; 41,23; cfr. anche Diodoro Siculo, Bibliotheca 32,10; Polibio, Historia 10,26,3;
Plutarco, Pelopida 9; così anche J.D. Earnshaw, Marriage, p. 74. Il parallelo di ICor 7,39, in cui donna
equivale a moglie, conferma quest'interpretazione.
226Per il diritto matrimoniale nell'AT cfr. anche Es 20,17; Nm 30,10-15; Dt 24,1. Per il NT cfr. Mt
19,1-9; in Me 10,11-12 è contemplato, forse a causa del retroterra pagano del secondo vangelo, anche il
caso inverso della donna che ripudia il marito. Sul diritto matrimoniale nell'AT cfr. A. Tosato, Il matrimo-
nio israelitico (AnBib 100), Roma 1982, pp. 122-125.
227Anche in Gal 4,1-3 mentre, nell'esempio tratto dal diritto testamentario, il figlio è fanciullo, nel-
l'applicazione i fanciulli, identificati con i credenti, non sono ancora figli. Cfr. A. Pitta, Galati, p. 236.
228Al « diventare di un altro uomo » del v. 3a.b. corrisponde il « diventare di un altro » riferito ai cre-
denti. Per questa formula tipica del contesto matrimoniale cfr. Rt 1,12-13; Dt 24,2.
264 Traduzione e commento
primo uomo corrisponde alla Legge mosaica né che si riferisce al livello della
229

morte di Cristo e tanto meno alla condizione previa di chi ancora non è in
230

Cristo: queste sono conclusioni indebite che riducono l'esempio a un'allegoria e


lo costringono in una camicia di forza. Dunque, la prima conseguenza dell'esem-
pioriguardala libertà dei personaggi coinvolti nel paragone: come la vedova è li-
bera di sposare chi desidera, così i credenti sono liberi di entrare in relazione
sponsale con Cristo, perché sono stati uniti al suo corpo . 231

D'altro canto, è inevitabile la non perfetta corrispondenza tra l'esempio e


l'applicazione: mentre nell'esempio sono coinvolte due persone, il marito e la
moglie, nell'applicazione sono gli stessi credenti a passare dalla morte alla vita.
Comunque, è importante sottolineare che Paolo non dice che la Legge è morta o
è stata abrogata, perché non può pervenire a tale conclusione che, a prima vista,
sarebbe anche naturale dall'applicazione dell'esempio. Invece, si può notare che,
nell'applicazione, muore il credente e non la Legge . Ancora una volta, come in
232

Rm 3,31, quando sarebbe consequenziale pensare alla morte o all'abrogazione


della Legge, Paolo evita volutamente tale conclusione: noi, per mezzo del corpo
di Cristo, moriamo alla Legge e non l'inverso ; e a causa di questa morte non
233

siamo più sotto il potere della Legge, anche se questa non è abrogata ma negati-
vizzata o resa indifferente . 234

In questo processo di morte alla Legge, Cristo svolge un duplice ruolo: me-
diante il suo corpo moriamo alla Legge e siamo uniti a lui che è risorto dai mor-
ti . Dunque, egli è nello stesso tempo la via attraverso la quale moriamo e vivia-
235

mo per Dio, ribadendo quanto Paolo ha già dimostrato in Rm 6,10-11.


Il primo livello dell'applicazione si chiude con una consecutiva, nella quale
Paolo sottolinea la fecondità della vita cristiana: è un portare frutti (karpophorein)
per Dio. Alcuniritengonoche con questo verbo Paolo prosegua nell'applicazione
dell'esempio: come la donna sposata, i credenti generano nella fede a causa della
loro unione con Cristo . In realtà, i paralleli neotestamentari e il contesto di Rm
236 237

Contro H. Ràisànen, Paul, p. 61, che trova in questa corrispondenza la prova per l'abrogazione
229

della Legge mosaica.


Così invece J.D. Earnshaw, Marriage, pp. 80-88.
230

Per la relazione sponsale tra Cristo e la comunità dei credenti nell'epistolario paolino cfr. ICor
231

6,15,17; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33. Cfr. a tal proposito G. Baldanza, L'uso della metafora sponsale in ICor
6,12-20. Riflessi sull'ecclesiologia, in RivB 46 (1998) 317-340.
Non c'è dubbio che in questo Paolo prende le distanze da buona parte della concezione giudaica sul-
232

la Legge, secondo la quale l'adesione alla Torah assicura la libertà e la vita (cfr. Flavio Giuseppe, Ant. giud.
4,210-211 ; 16,23; Avot 6,2); ma è altrettanto vero ch'egli non sostiene mai l'abrogazione della Legge mosaica.
Qui Paolo ribadisce quanto ha già sostenuto in Gal 2,19: «...Mediante la Legge sono morto alla
233

Legge ».
Anche se alcuni relazionano il verbo « siete morti » al battesimo, in base a quanto dimostrato per
234

Rm 6,1-14, la partecipazione alla morte di Cristo è un evento oggettivo e storicamente rilevante, senza di-
pendere necessariamente dal battesimo. Contro T.J. Deidun, New Covenant Morality in Paul (AnBib 89),
Roma 1981, p. 195; D. Zeller, Romani, p. 204; A. Gieniusz, Imagination, p. 398.
II sintagma « corpo di Cristo » potrebbe avere anche rilevanza eucaristica o ecclesiologica (cfr.
235

ICor 10,16; 11,27): attraverso la partecipazione all'eucaristia o alla Chiesa siamo morti alla Legge. Il con-
testo di Rm 6 indirizza l'espressione verso il senso propriamente relazionale con Cristo.
Così B. Byrne, Romans, p. 214.
236

II verbo karpophorein si trova 8 volte nel NT e sempre in contesti agricoli o per esprimerne la por-
237

tata metaforica (cfr. Me 4,20.28; Le 8,15; Mt 13,23; Col 1,6.10).


Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 265
6,21-22 dimostrano che Paolorievocal'immagine dell'albero o del campo buono
e di quello cattivo con i relativi frutti . 238

[v. 5] Anche l'applicazione, come l'esempio, si conclude con larilevanzaeti-


ca dell'essere relazionati a un nuovo uomo; e Paolo ricorda la condizione di tutti
sotto il dominio della carne. In tal caso, a differenza di Rm 6,19, il sostantivo « car-
ne » (sarx) assume una valenza negativa, come avverrà soprattutto in Rm 8: esse-
re nella carne equivale a essere dominati dalla carne, dalle passioni dei peccati.
Risulta originale l'espressione «passioni dei peccati»: generalmente, nell'episto-
lario paolino, pathemata sono le sofferenze , mentre qui, a causa della relazione
239

con i «peccati», equivalgono al vizio del pathos (passione) . Rispetto a queste 240

passioni, la Legge non assumeva un ruolo causale ma strumentale, come conferma


quanto Paolo ha già detto in Rm 5,13: i peccati esistono prima e al di là della Legge
ma soltanto con la Legge possono essere imputati come trasgressioni. Per questo,
le passioni dei peccati operano mediante la Legge . Anche ora Paoloricordache
241

le nostre membra, ossia ogni nostra parte posta in relazione, sono il luogo nel qua-
le operavano le passioni (cfr. Rm 6,13.19a). La conseguenza è analoga a quella di
Rm 6,21: il frutto prodotto nel passato era per la morte, intesa come disfacimento
morale, fisico e apocalittico o definitivo. In tal modo, ancora una volta, Paolo ri-
costruisce la triade del potere negativo: dalla Legge al peccato e alla morte.
[v. 6] Al passato fa da contrasto il presente della vita cristiana; e qui Paolo
sottolinea l'ultimo collegamento tra l'esempio giuridico e l'applicazione: come la
donna, se muore il marito, è libera dal vincolo matrimoniale, così i credenti . Ma 242

anche in questo caso, la corrispondenza non è perfetta: se la donna « è libera » con


la morte del marito (v. 2), i credenti « sono stati separati » (katérgéthémen), inten-
dendo il passivo come divino: Dio li ha separati dalla Legge con la loro parteci-
pazione alla morte di Cristo . 243

Evocando ancora il passato precristiano dei credenti, Paolo ricorre a un ver-


bo che esprime un contesto di prigionia: la Legge è come un pedagogo (cfr. Gal
3,23-25) che non lascia liberi coloro che gli sono affidati . Una volta liberati dal-
244

la Legge e posti sotto il dominio della grazia, i credenti possono servire il Signore
nella novità dello Spirito e non nel vecchiume della lettera . L'applicazione si 245

conclude con un'antinomia tipicamente paolina: alla novità si oppone il vecchiu-


me e la lettera allo Spirito. Forse è bene interpretare questi genitivi come di origi-

238Così anche H. Ràisànen, Paul, p. 61.


239 Cfr. Rm 8,18; 2Cor 1,5.6.7; Fil 3,10; Col 1,24; 2Tm 3,11; cfr. anche lPt 1,11; 4,13; 5,1.9. Soltanto
in Gal 5,24 si riscontra il significato di «passioni ». Cfr. anche Plutarco, Moralia 1128E.
240 Cfr. il senso di pathos in Rm 1,26; lTs 4,5; Col 3,5.
241 Raramente Paolo parla di «peccati» al plurale (cfr. lTs 2,16; ICor 15,3.17; Gal 1,4; Col 1,14; Ef
2,1; lTm 5,22.24; 2Tm 3,6) e non al singolare. L'espressione può essere intesa anche con valore aggetti-
vale: le «passioni dei peccati» non sono altro che le «passioni peccaminose».
242 Si noti la ripresa del verbo katargein + apo tou nomou dal v. 2 al v. 6.
243 Per questo, adesso preferiamo tradurre il verbo katargein diversamente dal suo uso al v. 2 (« esse-
re svincolato »); « essere separati » dalla Legge ha il suo opposto nell'essere separati da Cristo (cfr. Gal 5,4).
244 Così anche B. Byrne, Romans, p. 215; D. Zeller, Romani, p. 205.
245 II sostantivo kainotès (novità) compare soltanto qui e in Rm 6,2. Il corrispondente palaiotes è ha-
pax legomenon nel NT.
266 Traduzione e commento
ne o soggettivi : dallo Spirito deriva o dipende la novità della vita mentre dalla
246

lettera il vecchiume della morte. Paolo ha già utilizzato l'opposizione tra la « let-
tera » e lo « Spirito » in 2Cor 3,6-7 e in Rm 2,27-29, a proposito della circoncisio-
ne dello Spirito e non della lettera. Queste connessioni pongono in evidenza il re-
troterra profetico dell'opposizione: all'osservanza esterna o della lettera si oppo-
ne quella interiore dello Spirito (cfr. Ger 31; Ez 36). Dalla compresenza di questa
opposizione e dall'applicazione sponsale della relazione con Cristo emerge che
lettera e Spirito corrispondono alle due economie della salvezza: da una parte si
trova quella vecchia in cui la Legge èridottaalla lettera, ossia alla sua osservan-
za esteriore, dall'altra quella dello Spirito. Per questo, dietro l'applicazione spon-
sale si trova, come nell'AT, la costituzione di una relazione di alleanza con Dio;
ora con Cristo si realizza la nuova alleanza . Ma, anche in questo caso, è bene
241

precisare che Paolo non dice che la Legge è abrogata: ciò cherisultanegativizza-
to, e quindi considerato come vecchio, è lariduzionedella Legge mosaica a lette-
ra, ossia a un'economia senza lo Spirito o, in definitiva, senza la sua finalizzazio-
ne cristologica . 248

La tragicità della Legge e dell'io (7,7-25). - Con Rm 7,7-25 perveniamo a


una delle sottosezioni più complesse e, per questo, più analizzate dell'epistolario
paolino. Dopo aver sostenuto che ormai i credenti, in quanto partecipi della mor-
te e della risurrezione di Cristo, non si trovano più sotto il potere del peccato ma
sotto quello della grazia (cfr. Rm 6,1 - 7,6), improvvisamente, con l'ingresso ar-
gomentativo di un io, Paolo descrive la situazione angosciante di chi si relaziona
alla Legge e al peccato. Qual è la posta in gioco in questa situazione così dram-
matica dalla quale non riescono a liberarsi l'io e la Legge? Chi sono gli interlo-
cutori di questa condizione disperata?
La storia dell'interpretazione di questa sezione ha dedicato grande attenzio-
ne all'identificazione dell 'io e quindi della Legge, pervenendo a diverse soluzio-
ni: si tratterebbe dell'io di Paolo, e in questo caso del Paolo precristiano o di quel-
lo cristiano? Dell'io d'Israele prima e dopo il dono della Legge? Dell'io di
Adamo o di quello di Eva e di Caino, come rappresentanti dell'umanità posta di
fronte al comandamento di Dio ma incapace di realizzarlo? Oppure di qualsiasi
cristiano che, pur essendo libero dalla Legge, vive nell'inevitabile condizione del
già ma non ancora pienamente redento? E di quale legge si parla: sempre di quel-
la mosaica, anche quando si accenna a un 'altra legge (v. 23), e alla legge del pec-
cato (v. 25)? Qual è in definitiva la relazione tra quest'/o, che prende improvvi-
samente il sopravvento sulla scena di Romani, la Legge e il peccato? . Poiché a 249

queste domande sono state date molteplicirisposte,ritengoche sia necessario non


246Così anche DJ. Moo, Romans, p. 421.
247Per le connessioni tra la relazione sponsale e quella di alleanza tra Dio e il suo popolo nell'AT cfr.
Is 54,5-6; 62,1-5; Ger 2,2; Ez 16,8-14; Os 2,16-20.
248Così anche C. Burchard, Róm 7,2-3 im Kontext, in R. Kollmann - W. Reinhold - A. Steudel (edd.),
Antikes Judentum und Friihes Christentum, FS. E. Gràsser, Berlin - New York 1999, p. 456.
249Comunque, prima di Rm 7,7-25 Paolo ha già utilizzato in Rm 3,7 il pronome « io » e la prima per-
sona singolare con una valenza retorica e non autobiografica.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 267
affrontare direttamente la questione sull'identità dell'io e della Legge bensì parti-
re dal genere retorico-letterario della sezione; soltanto all'interno di questo gene-
re diventa possibile dipanare la complessità dell'argomentazione paolina e quindi
affrontare le questioni sull'io e sulla Legge.
Per chi ha seguito il processo di Romani è abbastanza naturalericonoscerein
questi versi, che consideriamo prima nella loro globalità e poi nelle singole parti,
il tipico stile della diatriba: due sottosezioni (vv. 7.13) cominciano con due do-
mande retoriche, con risposte immediate, caratterizzate da un « non sia mai », e
con sviluppi dimostrativi più articolati (vv. 7b.l3b-29). Allo stile della diatriba è
riconducibile anche la personificazione del peccato che muore, rivive e si rivela
pienamente come tale, e quella della legge che parla e combatte con un'altra leg-
ge nelle membra dell'io . In questa prospettiva, sembra naturale considerare an-
250

che l'io di questi versi come retorico, ossia come un modo per riferirsi a chiun-
que: se al suo posto collocassimo un tu o un noi la situazione non cambierebbe . 251

Tuttavia, anche se importante, è sufficiente fermarsi al riconoscimento del genere


o dello stile diatribico in Rm 7,7-25? Sarà vero che abbiamo a che fare con una di-
scussione senza alcuna concretizzazione storica? Contro questa valutazione
esclusivamente retorica di Rm 7,7-25 e del suo io si collocano i riferimenti alla
Legge mosaica, presenti almeno nei primi versi della microunità . Se lo stile e il 252

genere diatribico sono importanti per cogliere diversi livelli argomentativi di


Romani non risultano sufficienti a rendere ragione di questa parte della lettera,
perché la condizione angosciante dell'io e della legge è reale e non fittizia o sem-
plicemente artificiale.
Di fatto, ci troviamo di fronte a una Legge e al suo comandamento che, pur es-
sendo santi, giusti e buoni, nonriesconoa liberare l'io dal potere del peccato che,
a sua volta, approfitta persino della Legge per mettere a morte l'io. Dall'altro lato,
si trova un io che conosce il bene, rappresentato dalla legge ma che non riesce a
compierlo; anzi, spessoripetedi non fare il bene che vuole ma il male che non vuo-
le. La situazione diventa angosciante quando nell'epilogo l'io grida la propria di-
sperazione e la legge stessa è divisa tra quella di Dio e quella del peccato.
Alcuni, per uscire da questa situazione disperata dell'io, leggono in opposi-
zione Rm 7,7-25 e Rm 8: nel primo caso si tratta dell'io senza Cristo e nel se-
condo di quello in Cristo con il dono dello Spirito . Come mai allora l'improv-
253

viso ringraziamento a Dio compare come penultima affermazione di Rm 7,7-25


per lasciare di nuovo lo spazio all'io in situazione di disperazione (v. 25b)? Non
c'è dubbio che in Rm 8 Paolo esplode con l'esultanza per l'assenza di condanna

Per la personificazione o prosopopea della Legge e del peccato in Rm 7 cfr. S.K. Stowers,
250

Romans, p. 270.
La prospettiva diatribica dell'io di Rm 7 è stata posta in evidenza dallo studio pionieristico di
251

W.G. Kümmel, Römer 7 und das Bild des Menschen im Neuen Testament: Zwei Studien, München 1974
(1929 )- Cfr. anche B. Dodd, Paul's Paradigmatic «I». Personal Example as Literary Strategy (JSNT SS
1

177), Sheffield 1999, pp. 221-234.


La prospettiva storico-salvifica di Rm 7 è stata posta ben in risalto da J.-M. Cambier, Le « moi »
252

dans Rom 7, in L. De Lorenzi (ed.), The Law ofthe Spirit in Rom 7 and 8 (MBS 1), Roma 1976, pp. 16-17.
Cfr. J.-N. Aletti, Israel, p. 163.
253
268 Traduzione e commento
verso quanti sono in Cristo e hanno il dono dello Spirito. Ma è vero che Rm 8
abroga totalmente Rm 7? Perché allora Paolo riprende la stessa tematica dell'in-
capacità di fare il bene che si vuole piuttosto del male in Gal 5,17, ossia in pieno
contesto di etica cristiana?
A meno che non si tratti di schizofrenia psicologica, siamo posti davanti a un
frammento complesso ma nello stesso tempo elevatissimo del tragico nel NT, sen-
za voler cercare gli elementi e le parti di una tragedia greco-romana trasferiti di sa-
na pianta nell'epistolario paolino . Allafinedella nostra analisi cercheremo di ti-
254

rare le fila di questa tragicità dell'io e della Legge; intanto cerchiamo di cogliere i
singoli elementi tragici, all'interno dei quali si spiegano anche le identità com-
plesse dell'io e della Legge. In Rm 7,7-25 sonoriconoscibilitre parti: la tragicità
della Legge (vv. 7-13); la tragicità dell'io (vv. 14-20); la disperazione dell'io e
della Legge (vv. 21-25) . 255

La parte centrale della microunità è rappresentata dalla tragicità dell'io, con i


due momenti quasi speculari, nei quali Paolo passa dall'angoscia dell'io rispetto
alla Legge (vv. 14-17) a quella dell'io di fronte al bene e al male (vv. 18-20). Dal
punto di vista attanziale, il personaggio principale della scena è non l'io, con tut-
ta la sua disperazione, ma la Legge: Paolo intende dimostrare che la Legge non è
peccato e che, nonostante sia giusta, santa, buona e spirituale, non libera se stessa
dalla strumentalizzazione del peccato né l'io dal dominio del peccato . Tuttavia, 256

è bene precisare che la presenza consistente del pronome io costituisce l'elemen-


to principale di novità che unifica la sottosezione di Rm 7,7-25, distinguendola
nettamente dal proprio contesto . 257

La tragicità della Legge (7,7-13). - Il primo atto della situazione tragica, po-
sta in scena da Paolo, riguarda la Legge, riconosciuta da una parte come santa e
dall'altra come strumento del peccato. Prima o poi doveva essere affrontata tale
questione, soprattutto perché sino ad ora, in Romani, egli ha sostenuto che per
mezzo della Legge si ha la piena conoscenza del peccato (cfr. Rm 3,20) e che, sol-
tanto per mezzo di essa, il peccato può essere imputato come trasgressione (cfr.
Rm 4,15; 5,13), al punto che trovarsi sotto la Legge non è molto diverso dall'es-
sere sotto il peccato, perché si tratta del regime contrario a quello della grazia (cfr.
254Per la ricomprensione del tragico nell'ermeneutica contemporanea rimandiamo al bellissimo sag-
gio di R. Ottone, Il tragico come domanda. Una chiave di volta della cultura occidentale, Milano-Roma
1998, in cui però l'autore accenna soltanto alla relazione tra Rm 7,18-19 e la Medea di Euripide (p. 374),
senza trattare di Rm 7 nella sezione dedicata al tragico nella Bibbia.
255Per la composizione interna di Rm 7,7-25 cfr. J.M. Diaz Rodelas, Pablo y la Ley. La novedad de
Rom 7,7-8,4 en el conjunto de la reflexión paulina sobre la ley, Estella 1994, pp. 128-147; T.K. Heckel,
Der innere Mensch: die paulinischeVerarbeitung eines platonischen Motivs (WUNT 2/53), Tübingen
1993, pp. 179-200; S. Romanello, Legge buona, p. 97.
256La centralità della Legge è confermata dall'uso di nomos in Rm 7,7-25: compare 15 volte, senza
tener conto che alla Legge Paolo si riferisce anche quando parla del comandamento (entolè, cfr. Rm
7,8.9.10.11), di ciò che è «bello» (cfr. Rm 7,16.18.21) e «buono» (cfr. Rm 7,12.13.13.18.19).
257Prescindendo dalle forme verbali in prima persona singolare, soltanto il pronome io (ego) al no-
minativo compare 8 volte in Rm 7,7-25; prima di queste frequenze bisognarisalirea Rm 3,7 e dopo si ri-
scontrerà in Rm 9,3. Per le altre declinazioni di ego in Rm 7,7-25 cfr. mou in Rm 7,18.23.23.23; emoi in
Rm 7,8.13.17.18.20.21.21; moi in Rm 7,10.13.18; me in Rm 7,11.23.24.
269
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39
Rm 6,14; 7,5). Questa prima parte della sottounità comincia con una domanda
dallo stile diatribico (v. 7) e si conclude con l'accusa definitiva del peccato (v.
13) ; un sappiamo infatti introduce il livello successivo dell'argomentazione.
258

Attraverso la questione diatribica del v. 7a, Paolo si propone di dimostrare che la


Legge non si identifica con il peccato ; ed è in funzione di questa tesi che spiega
259

come il peccato ha strumentalizzato la Legge per mettermi a morte. Per questo nei
vv. 8.11 egliribadiscela stessa dinamica: il peccato ha approfittato del comanda-
mento per sedurmi e farmi morire.
Dal punto di vista attanziale, o dei personaggi in gioco, è evidente che la
Legge di cui si parla in questi versi è quella mosaica, come dimostra l'unica cita-
zione diretta dell'Ai nell'unità (Es 20,17 con il comandamento «non desidera-
1

re... » in Rm 7,7c). Questo significa che il primo livello di partenza di questa vi-
cenda tragica è quello della Legge mosaica e di chi si relaziona con essa; V io di
cui si parla in questo primo momento non è quello di tutti ma dell'israelita, com-
preso Paolo, posto di fronte al comandamento della Legge.
Comunque, già in questo primo livello c'è qualcosa che trascende l'io e la
Legge mosaica per renderli paradigmatici o espressioni di una relazione più ampia,
com'è tipico della situazione tragica: ciò che si verifica per il singolo diventa pa-
radigmatico o applicabile, per alcuni aspetti, all'umanità. Pertanto, come per la pa-
rodia di Rm 2,17-24, anche in questo caso non si può parlare di un testo antigiu-
daico perché ciò che è detto dell'ebreo vale, a maggior ragione, per chiunque altro.
[7,7] Soltanto in Romani Paolo introduce alcune pericopi con la formula tipi-
camente diatribica « Che cosa diremo dunque? », alla quale succede, dopo una ri-
sposta immediata, una nuova e incalzante domanda . La seconda domanda ri-
260

guarda l'assimilazione o l'identificazione tra la Legge e il peccato; e anche se es-


sere sotto la Legge non è molto diverso dal trovarsi sotto il peccato, Paolo respinge
subito con un « non sia mai » (me gemito) diatribico questa falsa conclusione : la 261

Legge mosaica non si identifica mai con il peccato, per quanto possa essere stru-
mentalizzata da esso. Per questo egli introduce subito il primo dilemma della si-
tuazione tragica di Rm 7,7-25: la Legge mosaica, pur non essendo peccato, ha co-
munque una relazione con esso . La tragicità della Legge consiste nel fatto che,
262

258 Alcuni preferiscono delimitare questa pericope sino al v. 12 a causa della sequenza donanda-rispo-
sta diatribica all'inizio del v. 13. Così J. Lambrecht, The Wretched «1» andlts Liberation. Paul in Romans
7 and 8, Louvain 1992, p. 35; D.J. Moo, Romans, p. 423; N.T. Wright, Cain, p. 227. In realtà, i on sempre
questo tipo di domanda si trova all'inizio ma anche nel corso di una pericope (cfr. Rm 3,4.6; Gal 2,17); inol-
tre, è benerilevareche l'uso al passato dei verbi caratterizza i vv. 7-13 mentre nei vv. 14 ss. subentra il pre-
sente. D'altro canto, « ciò che è buono » al v. 13riprendel'ultima caratterizzazione della Legge, riconosciu-
ta al v. 12 come buona. Per questo, preferiamo estendere l'attuale pericope anche al v. 13, fermo restando
che, poiché si tratta di un'unica macrounità (Rm 7,7-25), le delimitazioni interne sono più sfocate che in al-
tre parti della lettera. Così anche J.-N. Aletti, Israel, p. 137; B. Byrne, Romans, p. 216; B.L. Martin, Christ,
p. 77; S. Romanello, Legge buona, pp. 88-89; E.P. Sanders, Legge, p. 129; H. Schlier, Romani, p. 368.
259 Su Rm 7,7a come tesi specifica di Rm 7,7b-25 cfr. S. Romanello, Legge buona, p. 79.
260 Cfr. Rm 4,1; 6,1; 8,31; 9,14.30. Cfr. anche le analoghe formule senza «dunque» o senza il verbo
«dire» in Rm 3,5; 11,7; ICor 14,26; Gal 3,19.
261 Per la natura diatribica di me genoito vedi il commento a Rm 3,4.
262 II ma (alla) che introduce la spiegazione più ampia della questione introduttiva non ha semplice
valore avversativo ma restrittivo o di obiezione. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 432.
270 Traduzione e commento
pur non identificandosi con il peccato, diventa suo strumento, senza potersi op-
porre a tale strumentalizzazione; e questa tragicità si svolge nell'io dell'esperien-
za umana perché sono io che conosco il peccato e la concupiscenza soltanto per
mezzo della Legge . 263

Come abbiamo già notato, a conferma della relazione tra la Legge e il pec-
cato Paolo cita la parte iniziale di uno dei comandamenti del decalogo di Es
20,17: «Non desiderare la donna del tuo prossimo; non desiderare la casa del tuo
prossimo né il suo campo né il suo schiavo né la sua schiava... » . Non è un caso 264

che questa citazione sia tronca, senza la specificazione dell'oggetto da desidera-


re: la donna o qualsiasi altra cosa del prossimo, come invece nel decalogo della
LXX; è tipico della situazione tragica universalizzare il contingente e ciò che, a
prima vista, riguarda soltanto una o poche persone. Tuttavia, per non astrarre ec-
cessivamente il contesto dell'argomentazione, è bene riconoscere che proprio a
causa della citazione, la Legge è quella mosaica e l'io siriferiscea qualsiasi giu-
deo, compreso Paolo, che haricevutoil comandamento in quanto rappresentativo
e come concretizzazione di tutta la Legge . 265

Su questa prima contestualizzazione si colloca l'orizzonte della vicenda di


Adamo, quale narrazione eziologica di Israele e come espressione dell'uma-
nità . Come Israele ha ricevuto nel deserto il comando di « non desiderare », co-
266

sì Adamo ed Eva sono stati invitati a « non toccare e a non mangiare dell'albero
al centro del giardino » (cfr. Gn 3,3). Per questo, anche se Paolo ha sostenuto con
forza che la Legge non esisteva agl'inizi dell'umanità ma è sopraggiunta 430 an-
ni dopo l'alleanza con Abramo (cfr. Gal 3,17; cfr. anche l'ingresso della Legge
dopo il peccato in Rm 5,13-14), sa bene che anche Adamo ha avuto a che fare con
l'archetipo della Legge che lo invitava a non mangiare il frutto dell'albero gene-
siaco . Così l'io e la Legge di Rm 7,7-14 si estendono progressivamente dalla
267

condizione del popolo giudaico a quella dell'umanità . 268

Contro quanti pensano immediatamente alla trasgressione e alla disobbedien-


za umana, si può notare come nei vv. 7-13 Paolo passi dal desiderio, inteso come

Anche se in greco classico il verbo oida (sapere) esprime una conoscenza astratta, mentre
263

ginóskein (conoscere) una più esperienziale, in questi versi sono utilizzati con la stessa valenza: si tratta di
una conoscenza esperienziale che si rivela anche di principio. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 433.
Es 20,17; cfr. laripresadi questo comandamento in Dt 5,21; 7,25; 4Mac 2,6; la stessa citazione è
264

riscontrabile in Rm 13,9. In seguito cfr. anche Pesiqta Rabbati 21. Così anche S. Romanello, Legge buo-
na, p. 107; J.A. Ziesler, The Role ofthe Tenth Commandment in Romans 7, in JSNT33 (1988) 41-56.
Così anche M.W. Karlberg, Israel's History Personifìed: Romans 7:7-13 in Relation to Paul's
265

Teaching on the « Old Man », in Trini 1 ( 1986) 68-70; DJ. Moo, Israel and Paul in Romans 7.7-12, in NTS
32 (1986) 122-135; Id., Romans, pp. 431-432; G. Strelan, A Note on the Old Testament Background of
Romans 7:7, in UJ 15 (1981) 23-25.
Per iriferimentialla vicenda di Adamo ed Eva in Rm 7,7-13 cfr. J.-N. Aletti, Israel, p. 139; B.
266

Byrne, Romans, p. 218; J.M. Diaz Rodelas, Ley, pp. 189-191; G.S. Holland, The Self Against the Self in
Romans 7,7-25, in S. Porter - D.L. Stamps, Rhetorical Interpretation, p. 265; H. Hiibner, Legge, p. 139; S.
Lyonnet, Le tappe della storia della salvezza (Rom. VII), in Storia della salvezza, p. 112; B.L. Martin, Christ,
pp. 77-78; S. Romanello, Legge buona, pp. 132-133.
Cfr. 4Esd 7,11.
267

In questa nuova prospettiva della cronologia storico-salvifica e della situazione tragica non c'è
268

contraddizione tra Rm 5 e Rm 7, con buona pace di H. Ràisànen, Paul, p. 230: nel tragico si assiste alla
sincronizzazione o alla contemporaneità di quanto nella storia è caratterizzato dallo sviluppo temporale.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 271
radice di tutti i peccati , alla morte: la sua attenzione non è posta sulla disobbe-
269

dienza o sui singoli peccati ma sulla strumentalizzazione della Legge a opera del
peccato . Per questo, per ora, la Legge ha soprattutto una funzione conoscitiva e
270

non causale rispetto al peccato al quale èricondottolo stesso desiderio . In que- 271

sta prospettiva si spiega perché, tranne che in lTs 2,17 e in Fil 1,23, il sostantivo
« desiderio » assume nell'epistolario paolino una connotazione negativa . 272

[v. 8] Il peccato, inteso anzitutto come potenza attiva, è descritto come una
persona che approfitta delle occasioni offertele da un'altra persona per operare
nell'io : e queste occasioni non le sono offerte dall'io bensì dalla Legge stessa
273

che ordina di non desiderare . Forse è bene precisare che in questi versi, anche
214

se la concupiscenza può far pensare al desiderio sessuale o alla cattiva inclinazio-


ne di origine rabbinica , il comandamento assume una portata generale: si tratta
275

di qualsiasi divieto che induce l'io a desiderare quanto gli è stato vietato dalla
Legge stessa.
A conferma della strumentalizzazione della Legge, che è concretamente ri-
conosciuta come comandamento , Paolo ribadisce l'assioma di Rm 4,15 per il
216

quale « dove non c'è Legge non c'è trasgressione », introducendo però il vocabo-
lario « del vivere e del morire ». In certo senso, l'affermazione che senza la Legge
il peccato è morto è eccessiva, perché Paolo stesso aveva riconosciuto che prima
della Legge «c'era già il peccato» (cfr. Rm 5,13): la morte del peccato si identi-
fica con la sua non mutabilità in trasgressione; soltanto con la Legge diventa tra-
sgressione, passibile di condanna e quindiriprendea vivere (anezêsen) . Per que- 211

269 La stretta relazione tra il desiderio e il peccato è ben attestata nel giudaismo del secondo Tempio
(cfr. Vita di Adamo ed Eva 19; Ap. Abr. 24.9; Ap. Mos. 19,3; Filone, Legibus 4,84-94; Decalogo
142,159,173; cfr. anche nel NT Gc 1,15. Così anche H. Schlier, Romani, p. 371.
270 Contro E.P. Sanders, Legge, p. 133.
271 Così anche J.-N. Aletti, Israël, pp. 143-144; con buona pace di S. Romanello, Legge buona, p.
115, che per evidenziare la natura concessiva del v. 8b pone in secondo piano questa funzione della Legge
mosaica.
272 Cfr. Rm 1,24; 6,12; 13,14; lTs 4,5; Gal 5,16.24; Col 3,5; Ef 4,22; lTm 6,9; Tt 2,12; 3,3; 2Tm 2,22;
3,6; 4,3. Questa relazione tra desiderio e peccato esclude l'interpretazione bultmanniana secondo la quale
lo stesso desiderio di osservare la Legge è peccato; cfr. R. Bultmann, Nuovo Testamento, pp. 253-257. In
questione non è l'osservanza della Legge né la questione dell'autogiustificazione, come sostiene H.
Hiibner, Legge, p. 135, ma la relazione tra il desiderio e il peccato. Così anche S. Romanello, Legge buo-
na, pp. 109-110.
273 II sostantivo aphormë che è utilizzato soltanto da Paolo nel NT (cfr. anche 2Cor 5,12; 11,12.12;
Gal 5,13; lTm 5,14) può significare sia «occasione», in senso positivo, sia «pretesto», con valenza ne-
gativa, come nel presente caso.
274 Per questo la congiunzione de ha più valore connettivo che avversativo. Così anche S. Romanello,
Legge buona, p. 110.
275 Cfr. R.H. Gundry, The Moral Frustration ofPaul Before His Conversion: Sexual Lust in Romans
7:7-25, in D.A. Hagner - M.J. Harris (edd.), Pauline Studies, FS. F.F. Bruce, Exeter 1980, pp. 228-245.
276 Coloro che intravedono in questi versi la vicenda di Adamo accostano il sostantivo entolë (coman-
damento) al verbo entellesthai (comandare) usato in Gn 2,16; 3,11.17. Così J.-N. Aletti, Israël, p. 139. Il col-
legamento è possibile ma in seconda battuta, dopo la relazione tra Israele e i comandamenti del decalogo.
277 Come sostiene S. Romanello, Legge buona, pp. 115-116, queste fasi del morire-vivere del peccato
nonriguardanola «consapevolezza del soggetto... ma lo scatenarsi operativo del peccato» (p. 116). Tutta-
via questo non significa che il verbo anezêsen, utilizzato soltanto qui e in Le 15,24, corrisponda al sempli-
ce vivere, come inveceritienelo stesso S. Romanello: esprime, piuttosto, ilriprenderevita del peccato per
mezzo del comandamento.
272 Traduzione e commento
sto, anche se l'affermazione paolina è audace, serve per introdurre la relazione tra
la morte e la vita, intese in senso metaforico, dell'io e del peccato. Attraverso que-
sto vocabolario, la relazione tra l'io, la Legge e il peccato viene espressa con una
composizione chiastica nei vv. 8b-9b che poi diventa la prima parte di una rever-
sio o inversione retorica rispetto ai vv. 9b-10:
(a) « Senza la Legge
(b) il peccato è morto
(b') io vivevo
(a') senza la Legge una volta,
(a") giunto però il comandamento
(b") il peccato ha ripreso a vivere
(b'") ma io sono morto» . 278

Anche in questo caso, come generalmente nelle composizioni chiastiche,


l'accento cade sulle parti centrali (b-b'), ossia sull'originaria morte del peccato e
sulla vita dell'io e non tanto sulla situazione senza la Legge. Poi nella reversio la
situazione cambia: l'io si considera morto e il peccato riprende a vivere . 279

[vv. 9-10] Non è la prima volta che Paolo utilizza in modo paradossale il vo-
cabolario della vita e della morte: lo ha già fatto in Gal 2,19-20 e in Rm 7,4: egli
stesso, come i credenti in Cristo, sono morti alla Legge per vivere per Dio, anche
se nel momento in cui comunicano fra di loro sono fisicamente vivi e non morti.
Come può uno dire di essere morto se continua a parlare e ad agire? In realtà qui
Paolo intende il vivere e il morire in dipendenza dell 'essere sotto la Legge e sotto
il peccato.
Non è facile stabilire chi sia l'io che un tempo viveva senza la Legge: si ri-
ferisce all'io di Paolo, di ogni cristiano, del giudeo o di Adamo, prima che gli fos-
se ordinato di «non desiderare»? Non manca chi pensa all'io autobiografico del
Paolo precristiano che, prima di diventare bar-miswà, ossia prima di essere capa-
ce di leggere e di interpretare la Legge a dodici anni, era senza la Legge . Non si 280

tratta che di un'interpretazione ridicola, anche se soltanto quando si diventa bar-


miswà si ha la possibilità di interpretare e di osservare la Legge: basta la circon-
cisione all'ottavo giorno (cfr. Fil 3,5) perché Paolo stesso si consideri giudeo sot-
to la Legge . m

Lo stesso vale per quanti considerano l'affermazione del v. 9ariferitaal Paolo


cristiano che, avendo relativizzato la Legge, si è comportato « senza la Legge con
quanti non avevano la Legge per poi essere sotto la Legge con coloro che erano
278Così anche S. Romanello, Legge buona, pp. 112-113.
279Tale dinamismo relazionale non è sufficientemente analizzato da S. Romanello, Legge buona, p.
116, che conferisce al verbo « rivivere », riferito al peccato, un senso debole. La composizione ben curata
di questi versi nasconde un dinamismo relazionale che non può essere ignorato, anche se si tratta di un lin-
guaggio metaforico, perché non può considerarsi morto un io che parla né appartiene al peccato il proces-
so del vivere e del morire.
280 Per l'interpretazione sulla fase precristiana di Paolo cfr. D.J.W. Milne, Romains 7,7-12, Paul's
Pre-Conversion Experience, in RTR 43 (1984) 9-17.
281Giustamente H. Schlier, Romani, p. 373, osserva che, anche se Paolo è stato invitato a osservare
la Legge a dodici anni, questo non significa che prima vivesse senza la Legge.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 273
sotto la Legge» (cfr. ICor 9,20-21) . In questione non è la strategia di relazione
282

con i giudei e con i gentili, per cui si possa pensare alle questioni di purità alimen-
tare, bensì l'io senza e con la Legge, con tutto ciò che implica tale relazione. Per
questo, se sino ad ora l'io di Rm 7 è valso prima di tutto per qualsiasi ebreo, qui il
suo orizzonte si focalizza sull'esperienza del popolo ebraico che dall'alleanza con
Abramo sino al Sinai è vissuto storicamente senza la Legge: soltanto per quel pe-
riodo vale la situazione di chi era senza la Legge. Nello stesso tempo, l'esperien-
za d'Israele è diventata, retrospettivamente, quella di Adamo vissuto senza alcuna
norma sino a quando non avevaricevutoil comando di non mangiare il frutto del-
l'albero. Dunque, ciò che vale per Israele, da Abramo al Sinai, vale per chiunque
ancora non conosce il comandamento divino, ma non certamente per Paolo, che
non ha vissuto mai un tempo senza la Legge; semmai soltanto quando egli è mor-
to alla Legge è vissuto senza la Legge (cfr. Gal 2,19), ma non c'era mai stato pri-
ma un tempo in cui era vissuto senza la Legge.
Con quest'affermazione l'io di Rm 7 trascende l'esperienza di Paolo per di-
ventare tipico d'Israele e di Adamo prima della Legge e dell'ordine genesiaco. Con
l'avvento del comandamento, il peccato che era morto ha ripreso a vivere, deter-
minando la morte dell'io perché il comandamento che doveva servire per la vita è
statoridottoa strumento per la morte . In questione non è la morte fisica ma quel-
283

la morale, determinata dalla strumentalizzazione che il peccato ha compiuto verso


il comandamento.
Si può notare come, in questo primo atto della condizione tragica dell'io e
della Legge, l'accusa sia rivolta non alla Legge o all'io d'Israele e di Adamo,
bensì al peccato che distorce lafinalitàpositiva stessa del comandamento e della
Legge. Non si possono negare i contatti tra queste espressioni e la funzione del
serpente nella narrazione genesiaca (cfr. Gn 3,1-6): impersona il peccato con la
sua capacità di strumentalizzare il comandamento divino e di portare realmente
alla morte dei primogenitori. Quest'implicitoriferimentodiventerà più consisten-
te nell'affermazione successiva.
[v. 11] La colpevolezza del peccato èribadita,in modo quasi uguale, al v. 8 e
al v. 11, con la novità che l'operare del peccato ora è specificato come seduzione:
il verbo exapatein è tipico dell'epistolario paolino ed è utilizzato 2 volte in modo
esplicito per evocare la seduzione del serpente nei confronti di Eva (cfr. 2Cor
11,3; lTm 2,14) . Nella sua difesa di fronte a Dio, Eva aveva asserito che « il ser-
284

pente l'aveva sedotta (epatesen) e aveva mangiato» (cfr. Gn 3,13 LXX). Dunque
è chiaro che Paolo evoca non soltanto il comandamento di Es 20,17 ma anche la
vicenda genesiaca del peccato, con la differenza che, adesso, è colpevolizzato il
peccato e non il serpente. In tal modo, l'io di Rm 7 non siriferiscesoltanto al giu-

282Così A.F. Segai, Romans 7 and Jewish Deitary Laws, in Paul the Convert. The Apostolate and
Apostasy ofSaul the Pharisee, New Haven - London 1990, pp. 224-253.
283L'interpretazione adamitica e quella israelitica non si escludono a vicenda, come invece tenta di
dimostrare inutilmente S. Romanello, Legge buona, che in una prima parte del suo contributo esclude l'o-
rizzonte israelitico a favore di quello adamitico (pp. 133-134), per affermare in seguito che «l'io di Rm
7,7-13 si presenta in primo luogo come soggetto ebreo» (p. 183).
284Cfr. anche l'uso di questo verbo in Rm 16,18; ICor 3,18; 2Ts 2,3.
274 Traduzione e commento
deo ma anche a chiunque si lascia sedurre dal peccato. La conseguenza della se-
duzione è rappresentata dalla morte dell'io e quindi dalla sua impossibilità a vi-
vere. Comunque, in questa prima parte della sezione, è bene precisare che Paolo
ancora non valuta il peccato dal punto di vista morale ma come potenza domi-
nante che tiene in scacco l'io, portandolo alla morte.
[v. 121 La prima conclusione dei vv. 7-11 riprende l'inizio della domanda
sulla relazione tra la Legge mosaica e il peccato: non soltanto non c'è identifica-
zione tra l'una e l'altro ma addirittura Paoloriconosceche la Legge e ogni suo co-
mandamento sono santi, giusti e buoni. Tuttavia, per quanto la Legge mosaica e il
comandamento siano riconosciuti positivi, non determinano la liberazione dal
peccato, anzi la Legge stessa non può opporsi alla strumentalizzazione che il pec-
cato compie nei suoi confronti per far morire l'io.
Per alcuni, questi riconoscimenti sulle qualità positive della Legge mosaica
sarebbero concessioni retoriche: Paolo concederebbe al suo interlocutore fittizio
che la Legge è santa, giusta e buona ma, dimostrando la sua irrilevanza salvifica,
sosterrebbe che questo riconoscimento è in ultima analisi irrilevante . In verità, 285

bisogna precisare il significato della concessio retorica; una cosa è dire che pos-
seggo una bella auto per raggiungere Roma ma che non decolla, un'altra è asseri-
re che, pur essendo bella, m'impedisce di arrivare a Roma perché ha alcuni pro-
blemi meccanici. In entrambi i casi si tratta di concessioni; però, mentre nel primo
caso è messa in discussione la funzione della mia auto in quanto tale, nel secondo
il problema riguarda la sua stessa natura. Rispetto alla Legge mosaica, le conces-
sioni di Rm 7,7-25 non sono irrilevanti per la Legge ma pongono in discussione le
relazioni tra l'io, il peccato e la Legge . Di fatto non è questo l'unico luogo in cui
286

Paolo tratta positivamente la Legge; basta soffermarsi su Rm 2 e su Rm 3,27-31


per cogliere la complessità della concezione paolina sulla Legge che, in ultima
analisi, rappresenta non una concessione bensì uno degli irrevocabili doni di Dio
al suo popolo (cfr. Rm 9,4). L'elogio della Legge in Rm 7,12 è reale; ed è proprio
questo positivo riconoscimento, posto in tensione con l'impotenza della Legge
stessa, a determinare la prima condizione conflittuale o tragica di Rm 7 . 287

[v. 131 Se il peccato si serve della Legge per procurarmi la morte, al punto
che lo stesso comandamento èfinalizzatoalla morte (vv. 10-11), nasce spontanea
la nuova domanda retorica sulla relazione tra la Legge e la morte. Paolo rigetta su-
bito anche questa falsa conclusione: prima con il solito «non sia mai», poi riba-

285 Così R. Penna, Legge e libertà, p. 253. Addirittura, S. Romanello, Legge buona, p. 122, conside-
ra il v. 12 come anacoluto a causa della mancanza di de in corrispondenza con men, per introdurre l'idea di
una reticentia attraverso la quale Paolo indurrebbe a confermare la natura concessiva delle positive asser-
zioni sulla Legge. Sinceramente mi sembra che si cerchi diricavaretroppo dalla mancanza di un de, quan-
do più volte abbiamo notato la scarsa attenzione di Paolo alla sequenza sintattica. In questo caso, non sol-
tanto il non detto completa marischiadi diventare più importante. Che in Rm 7,7-13 si trovino concessio-
ni è un conto, che siano così rilevanti sulla relazione tra la Legge, il peccato e l'io forse è esagerato.
286 In questa prospettiva si collocano le giuste concessioni sottolineate da J.-N. Aletti, Israel, p. 147,
che non perviene alle conclusioni negative di R. Penna.
287 Anche se S. Romanello, Legge buona, pp. 153-155, riconosce gli elementi tragici di Rm 7,7-25,
di fatto li ignora, riconducendo tutto a una concessio retorica. Pur riconoscendo la presenza della conces-
sio, Rm 7,7-25 dice molto più di una semplice concessione.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 275
dendo il contenuto fondamentale dei versi precedenti. Il peccato strumentalizza la
Legge per provocare la morte dell'io; in tal modo, la Legge stessa non soltanto ri-
vela il peccato ma lo macroscopizza, rendendolo oltremisura peccaminoso.
Sembra che qui Paolo riprenda il principio di Rm 4,15; 5,13: il peccato può esse-
re comminato soltanto quando c'è la Legge, anche se esiste prima di essa. In pra-
tica, il peccato diventa oltremisura peccaminoso quando, per mezzo del coman-
damento, diventa trasgressione ; in tal caso, chi trasgredisce la Legge può esse-
288

re condannato. Poiché in questione è la Legge mosaica, definita come ciò che è


buono , l'io messo a morte è ancora quello dell'ebreo che vive sotto la Legge;
289

ma progressivamente Paolo sta universalizzando l'identità dell'io e quella della


Legge. Il primo atto tragico di Rm 7,7-25 si sviluppa su due importanti chiarifi-
cazioni: per quanto la Legge sia relazionata al peccato e alla morte, essa non si
identifica né con l'uno né con l'altra. Il conflitto non è risolto ma lasciato aperto
con tutta la sua drammaticità, senza essere ridotto a una banale concessione, per
essere universalizzato nel secondo momento del tragico.
La tragicità dell 'io (7,14-20). - Il secondo livello della situazione tragica co-
mincia con un « sappiamo infatti » che introduce il coinvolgimento degl'interlo-
cutori di Rm 7: con questa prima persona plurale, Paolo e i destinatari della let-
tera non si trovano di fronte all'io e alla Legge, ma sono totalmente coinvolti. Per
questo, la seconda parte rappresenta il conflitto principale di Rm 7: quello dell'io
posto davanti al bene della Legge e alla propria incapacità di adempierlo. Dal
punto di vista compositivo e retorico si può notare come i vv. 14-17.18-20 siano
praticamente corrispondenti: il bène della Legge nella situazione tragica dell'io;
a riguardo possiamo parlare di una commoratio retorica, ossia di una ripetizione
della stessa tematica con parole diverse . Tuttavia, è bene rilevare che mentre
290

nei vv. 14-17 l'io è posto di fronte alla Legge, nei vv. 18-20 l'attenzione si spo-
sta sull'io interiore, inabitato o posseduto dal male e dal peccato e non dal bene.
[7,14] La Legge, in quanto tale, non soltanto è santa, come santo, giusto e
buono è il comandamento, ma è anche « spirituale ». In questo nuovo atto tragico,
Paolo colloca l'io di fronte alla Legge, dopo aver posto la Legge di fronte al pec-
cato. Da una parte la Legge mosaica è definita spirituale, dall'altra l'io si dichia-
ra carnale, anzi, come venduto al peccato. Rispetto alla Legge, soltanto qui Paolo
le attribuisce l'aggettivo spirituale (pneumatikos), mentre altrove questo aggetti-
vo è utilizzato per i carismi (cfr. Rm 1,11) o per le persone spirituali della comu-
nità cristiana (cfr. Gal 6,1) . Dire che la Legge è spirituale significa riconoscere,
291

accanto alle sue positive qualità, elencate al v. 12, la sua origine divina.
288L'espressione kath' hyperbolën (oltremisura) è tipica del vocabolario paolino: vi si trova 5 volte
rispetto alla totale assenza nel resto del NT (cfr. Rm 7,13; ICor 12,31; 2Cor 1,8; 4,17; Gal 1,13).
289In questi versi ciò che è buono non riguarda qualsiasi valore positivo, come ad esempio la vita (co-
sì invece J.M. Dfaz Rodelas, Ley, pp. 172-174), ma ancora la Legge mosaica definita come buona. Così an-
che S. Romanello, Legge buona, pp. 146-147.
290Sulla commoratio in Rm 7,14-17.18-20 cfr. J.-N. Aletti, Israël, p. 137.
291L'aggettivo pneumatikos si trova 26 volte nel NT, di cui 24 nelle lettere paoline (cfr. Rm 1,11;
15,27; ICor 2,13; 3,1; 9,11; 10,3; 12,1; 14,1; 15,44; Gal 6,1; Ef 1,3; 5,19; 6,12; Col 1,8; 3,16); non si tro-
va mai nella LXX.
276 Traduzione e commento
Di fronte alla Legge si trova l'io, per il quale Paolo precisa la condizione e la
signoria: è carnale ed è venduto, come uno schiavo, sotto il peccato . A prima vi- 292

sta, la caratterizzazione dell'io come carnale (sarkinos) potrebbe far pensare alla
condizione morale negativa di chi è dominato dalla carne e non dallo Spirito . In 293

realtà, Paolo sta opponendo non due possibili condizioni dello stesso io bensì
quella della Legge come spirituale e quella dell'io come carnale. Anche questo
contrasto riceve particolare luce dalla prospettiva del tragico: l'uomo carnale si
riferisce alla sua costitutiva debolezza, quella di qualsiasi uomo che non può non
fare proprio l'assioma di Terenzio: «Homo sum: humani nihil a me alienum pu-
to » . E come per il modello tragico in generale, questa humanitas è la base sul-
294

la quale si sviluppa il motivo successivo dell'umana impotenza.


Per quanto riguarda l'identità dell'io, il confronto con Rm 6,1 - 7,6 permet-
te di comprendere subito che non si tratta dell'io cristiano, che invece si trova
sotto la grazia ed è servo della giustizia. Pertanto è chiaro che, almeno in que-
st'affermazione, Paolo considera non la situazione del credente né di se stesso ma
di tutti coloro che, prima e senza Cristo, si trovano sotto il potere del peccato co-
me schiavi . Tuttavia, è bene non escludere totalmente l'orizzonte cristiano per-
295

ché la situazione tragica del giudeo è esemplare e, come vedremo, ha qualcosa da


dire anche a chi è in Cristo.
Comunque è chiaro che qui non è considerato direttamente l'io del creden-
te, neppure nella tensione tra «già e non ancora» , né all'interno della dialetti-
296

ca del simul iustus et peccator ; il contrasto tra quest'affermazione e Rm 6,1 -


297

7,6 è troppo evidente perché si possa pensare direttamente al cristiano sottomes-


so alla Legge e venduto come schiavo del peccato. In tal caso, tutto ciò che Paolo
ha sostenuto sino ad ora sarebbe inconsistente.
[v. 15] La situazione tragica della Legge diventa anche quella dell'io che si
trova in una condizione di estrema conflittualità: dal v. 15 sino al v. 20, Paolo ri-
pete, con verbi ed espressioni diverse, l'impotenza dell'io o quella che definiamo
la sua acrasia . Per chiarire il retroterra di questa impotenza dell'io, ci si è ri-
m

292II verbo pipraskein esprime bene l'idea della vendita degli schiavi (cfr. Mt 18,25); si trova sol-
tanto qui nell'epistolario paolino mentre altrove è usato per la vendita delle cose. Per la vendita delle per-
sone cfr. nella LXX Gn 31,15; Dt 15,12; 21,14; Sai 104,17; IMac 1,15.
293Così B. Byrne, Romans, p. 231; J. Lambrecht, Wretched, p. 50.
294Cfr. Terenzio, Heautontimorumenos 77. In questa prospettiva, l'aggettivo sarkinos è diverso da
sarkikos: il primo termine designa nell'epistolario paolino la debolezza della carne, e quindi neutra (cfr.
ICor 3,1; 2Cor 3,3), il secondo assume una valenza più negativa in quanto opposta allo Spirito (cfr. ICor
9,11; 2Cor 10,4), anche se in alcuni contesti, come ICor 3,1-3, i due terminirisultanoanaloghi. Il riferi-
mento alla « mia carne » in Rm 7,18 conferma questa prospettiva naturale e non morale di sarkinos.
295II contrario del verbo pipraskein (vendere) è agorazein (acquistare) che è utilizzato da Paolo pro-
prio per la redenzione compiuta da Cristo (cfr. ICor 6,20; 7,23). Quest'aspetto è posto bene in luce anche
da S. Romanello, Legge buona, pp. 193-194.
296Così invece J.D.G. Dunn, Paul, pp. 475-476.
297Così invece M.A. Seifirid, The Subject ofRom 7:14-25, in NT 34 (1992) 333; L. Thurén, Derethorizing
Paul: A Dynamic Perspective on Paul Theology and the Law (WUNT 124), Tübingen 2000, pp. 117-120.
298In questo contesto i verbi katergazesthai (operare, vv. 8.13.15.17.18.20), prassein (praticare, vv.
15.19) e poiein (fare, vv. 15.16.19.20.21) sono sinonimi e utilizzati per variazioni stilistiche: in questione
è ciò che di fatto compie l'io in contrasto con quanto desidera.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 277
chiamati spesso all'io della letteratura qumranica o a quello dei salmi che ricono-
scono il proprio peccato per invocare la misericordia di Dio . Rispetto a tali pa-
299

ralleli si può evidenziare la totale differenza della prospettiva paolina: non c'è al-
cuna traccia a Qumran dell'angoscia dell'io verso la Legge; e in Rm 7,15-20
manca larichiestadi perdono per l'affermazione della misericordia di Dio, come
invece nei salmi penitenziali dell'AT e a Qumran . 300

Invece, questa situazione dell'io è parallela a quella di Medea nella tragedia


euripidea che inaugura nella letteratura greco-romana il motivo dell 'acrasia . Al 301

vertice della sua conflittualità così dice Medea: « Comprendo il delitto che sto per
compiere, ma la passione, che è causa delle più grandi sventure per i mortali, è più
forte dei miei proponimenti» (Medea 1078-1080). In epoca ellenistica, saranno
soprattutto Epitteto , Seneca e Ovidio , riprendendo il mito di Medea, a evi-
302 303 304

denziare la situazione tragica del conflitto tra il logos del bene oggettivo e l'inca-
pacità umana di realizzarlo . 305

A causa di questa rilevanza dell'acrasia nella letteratura greco-romana e in


particolare in quella cinico-stoica ed epicurea, l'io di questi versi si riferisce di-
rettamente al giudeo che non mette in pratica il bene della Legge ma, nello stesso
tempo, assume una portata universale: sono Medea e Fedra tutte le persone che
non mettono in pratica ciò che desiderano. Ilriferimentoimmediato è a quanti so-
no ancora venduti sotto il peccato, a causa della strumentalizzazione della Legge,
e quindi ai giudei che non sono stati ancora liberati dal peccato. Tuttavia, c'è qual-
cosa che va al di là della condizione circostanziata del giudeo: è quella humanitas
che accomuna tutte le persone. Per questo, Paolo non esiterà a riprendere questo
motivo in contesto cristiano, per opporre la vita secondo la carne a quella secon-
do lo Spirito: « Infatti queste cose si oppongono fra di loro affinché facciate ciò
che non vorreste» (Gal 5,17). Pertanto, ciò che si verifica per il giudeo di fronte
al bene della Legge, diventa paradigmatico ed esemplare per chiunque, in ogni
tempo: con il motivo dell'ineffettualità o dell'impotenza, il tragico di Rm 7 per-

299 Cfr. l'io di Ger 10,19-22; Lm 1,9-22; 2,20-22; Sai Salom. 1,1 - 2,6. Per l'io a Qumran cfr. 1QS
11,9-15; 1QH 1,21-23; 3,24-26. Così J.-M. Cambier, Le « moi », p. 36; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 565; DJ.
Moo, Romans, p. 431.
300 Con buona pace di M.A. Seifrid, Rom 7, pp. 320-323.
301 Per questo topos in Rm 7,15-20 cfr. B. Byrne, Romans, p. 231; J.-N. Aletti, Israël, p. 155; DJ.
Moo, Romans, pp. 457-458; S. Romanello, Legge buona, pp. 148-153; S.K. Stowers, Rereading Romans,
pp. 261-264; D. Zeller, Romani, p. 220.
302 Cfr. Epitteto, Dissertationes 2,26,4: «Ciò che vuole non compie, e ciò che non vuole compie».
Cfr. anche 2,17,18-19.
303 Cfr. Seneca, Medea 915. Comunque è soprattutto in Fedra che Seneca sintetizza l'assioma del-
l'aerasi: «Vos testor omnes, caelites, hoc quod volo - me nolle» (Voi tutti celesti, siate testimoni che io
non voglio ciò che voglio » {Fedra 600); cfr. anche Fedra 180-189.
304 Cfr. Ovidio, Metamorphoseon 7,17,20-21 : « Video meliora proboque, deteriora sequor » (Vedo ciò
che è meglio e l'approvo ma seguo ciò che è peggio). Cfr. anche Ovidio, Amores 3,4,17: «Nitimur in vete-
tum semper, cupimusque negata» (Aspiriamo sempre a ciò che è proibito e desideriamo ciò che è negato).
305 Aristotele aveva già dedicato attenzione ali'acrasia in Etica Nicomachea 7. Cfr. anche Catullo,
Carmina 64,405; Platone, Protagora 352C; Plutarco, Moralia 446A; Luciano, Apologia 10. Il riferimento
a questo motivo diffuso nella letteratura greco-romana permane anche se, come sostiene H. Schlier, Romani,
p. 386, il contrasto di Rm 7riguardanon ciò che è migliore o peggiore ma ciò che è bene e male. Con buo-
na pace anche di M.A. Seifrid, Rom 7, p. 329.
278 Traduzione e commento
viene al suo vertice, non soltanto perché Paolo lo ribadisce più volte ma soprat-
tutto perché il conflitto dell'io è più radicale persino di quello della Legge.
[v. 16] L'ineffettualità umana induce Paolo a non trovare un alibi per l'io né
ad aprirsi alla misericordia di Dio, come avviene, ad esempio, nei salmi peniten-
ziali, ma ariconoscereche la Legge è bella e quindi positiva; il conflitto si è spo-
stato progressivamente dall'impotenza della Legge a quella dell'io . In questo 306

modo però è salvata almeno la santità della Legge: se la Legge è bella è anche
buona poiché «pulchrum et bonum convertuntur » . L'orizzonte di valutazione
307

sulla relazione tra l'io e la Legge permette diriconoscereche il conflitto dell'im-


potenza riguarda l'io ma da una prospettiva storica e non psicologico-esistenzia-
le: ancora una volta, Paolo passa dalla humanitas di Israele a quella di ognuno,
senza badare alle implicazioni psicologiche ed etiche, tanto care alla nostra co-
scienza occidentale. E quest'orizzonte storico può essere conservato soltanto nel-
la prospettiva del tragico che rende presente, sincronico e circostanziato ciò che si
verifica per tutti nella diacronia della storia.
[v. 17] Ci sembra che sia importante conservare la prospettiva storica di Rm
7,7-25, garantita dal suo genere tragico, altrimenti l'accusa del peccato suona co-
me un alibi psicologico per chi è schizofrenico o come un'attenuante morale, per
chi non esercita la propria volontà . Invece, il riconoscimento che non è l'io ad
308

agire ma il peccato che abita in me, esprime la condizione di chi, essendo sotto il
peccato, è inabitato da esso . Nella prospettiva del tragico, trova ragion d'essere
309

anche il riferimento alla vicenda di Caino: « ...Se non agisci bene, il peccato è ac-
covacciato alla tua porta, verso di te è il suo istinto ma tu dominalo » (Gn 4,7) . 310

Ogni persona si trova nella condizione di Caino, con la novità che nella narrazio-
ne genesiaca non è attestata l'impotenza umana, dimostrata invece in Rm 7.
Dunque per quanto la Legge sia considerata bella, la situazione dell'io non è cam-
biata, anzi dal dominio del peccato sull'io si passa a quello nell'io.
[vv. 18-20] L'affermazione dell'impotenza dell'io ha bisogno di essere spie-
gata, per non essere fraintesa. Per questo nei vv. 18-20, attraverso una commora-
tio retorica, Paolo torna sulla tematica dell 'acrasia. Quali sono le ragioni che lo
inducono a soffermarsi sull'impotenza umana? Perché universalizza la condizio-
ne di quanti avevano a che fare con la Legge? Qualsiasi interlocutore avrebbe po-
tuto contestare che l'impotenza dell'io si deve all'impotenza della Legge mosai-

306 Anche la bellezza della Legge non è una semplice concessione ma un riconoscimento che la di-
scolpa, almeno parzialmente. Con buona pace di S. Romanello, Legge buona, pp. 207-211, che finisce con
l'applicare la concessio retorica a tutte le asserzioni positive sulla Legge in Rm 7.
307Per l'assimilazione del bello e del buono nell'epistolario paolino cfr. Rm 2,10; 12,2.9; 16,9; Gal
6,9-10; per la LXX cfr. Gb 34,2; Is 7,16; Sir 33,14; 51,18.19. Sull'identificazione della Legge con ciò che
è bello cfr. Dt 13,19.
308 Per un'analisi psicologica di Rm 7,17-20 cfr. G. Theissen, Psycologische Aspekte paulinischer
Theologie (FRLANT 131), Gòttingen 1983, pp. 194-223.
309 La visione psicologico-etica di queste affermazioni è esclusa se si considera che l'inabitazione
dello Spirito è reale e storicamente visibile, come conferma l'uso del verbo oikein (abitare) in Rm 8,9.11;
ICor 3,16.
310Per le relazioni, in verità a volte molto forzate, tra la vicenda di Caino e Rm 7 cfr. N.T. Wright,
Echoes ofCain in Romans 7, in Covenant, pp. 226-230.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 279
ca e quindi potrebbe non valere per tutti, ma soltanto per quanti appartengono al
popolo giudaico. Per questo, la portata di questi versi diventa universale e va col-
legata - connessione purtroppo non riscontrabile in ambito esegetico - alle cate-
gorie morali di Rm 1,18 - 3,20. Colui che qui fa non il bene ma il male è lo stesso
che in Rm 1,18 - 3,20 ha fatto il male, ha detto il male e ha compiuto il male, ha
parlato del bene e ha praticato il male; non si tratta di una persona diversa! Per
questo, bisognerebbe leggere in continuità Rm 1,18 - 3,20 e Rm 7,7-25 per com-
prendere, da una parte, che V intenzione di Paolo in Rm 1-3 non è quella di de-
scrivere un'antropologia negativa ma di condurre tutti alla giustificazione in Cri-
sto, e dall'altra che la parodia del giudeo (cfr. Rm 2,17-24) si muta in situazione
tragica per ognuno in Rm 7,7-25.
Accanto a questa universalizzazione della situazione, propria del tragico, si
trova la considerazione etica sotto la quale è collocato l'io nei vv. 17-20 : il suo 311

fare ciò che non vuole, e dunque il suo agire morale, non è sottolineato per un'a-
pologia, con la consequenziale accusa del peccato: prospettive del tutto assenti
in Rm 7. Piuttosto, contro qualsiasi forma di alibi, l'agire morale dell'io confer-
ma che il peccato che abita in lui non è separato dal peccato che lo stesso io
commette.
Da questo punto di vista, se in Rm 7,7-25 si può parlare, almeno parzial-
mente, di apologia della Legge, non si può sostenere quella dell'io, perché altri-
menti la situazione tragica sarebbe risolta nella negativa passività di uno schizo-
frenico o di un immorale, in definitiva scusabile. Invece ci sembra che, come per
l'umanità di Rm 1,18 - 3,20, senza distinzioni razziali, Paolo non cerchi alcun ali-
bi, neppure per quella parte di sé che condivide l'impotenza generale dell'uma-
nità. A causa del contesto tragico, l'espressione « nella mia carne » non ha valore
morale negativo ma neutro: è ancora Yhumanitas che si riconosce caratterizzata
dall'impotenza e dal limite, in definitiva dal suo essere « carnale » . 312

L'epilogo tragico (7,21-25). - Il tragico di Rm 7 perviene al suo culmine (pe-


ro ratio) con la disperazione dell'io e con la dissociazione dalla Legge: entrambi
si trovano in estremo conflitto . Ormai la situazione storica della relazione tra
313

l'io e la Legge ha lasciato lo spazio alla condizione generale dell'umanità; e se


non fosse per l'intervento di Dio per mezzo di Gesù Cristo, non si potrebbe anda-
re avanti. In contesto tragico, è tipico lo scioglimento del dramma attraverso l'in-
tervento del deus ex machina: e in Rm 7,25 la gratitudine improvvisa per Dio fi-
gura come tale. Ma è fondamentale cercare di cogliere il senso di questo inter-
vento per non fraintenderlo e considerarlo comefittizioo artificiale. Il sostantivo
che domina i versi conclusivi di Rm 7 è nomos (legge): è utilizzato 7 volte ma con
significati diversi perché Paolo intende universalizzarne, per quanto possibile, la

Per larilevanzaetica dei vv. 17-20rispettoai versi precedenti cfr. J.-N. Aletti, Israel, p. 138.
311

Per quest'accezione di sarx nell'epistolario paolino cfr. Rm 1,3; 4,1; 8,3; 9,3; ICor 1,26; 6,16;
312

10,18; 2Cor 5,16; 12,7; Gal 1,16; 2,20; 4,13.14; Fil 1,22; 3,4; Fm v. 16. Si vedano le relazioni tra la mia
carne del v. 18 e l'aggettivo sarkinos del v. 14.
Su Rm 7,21-25 come peroratio retorica di Rm 7,7-20 cfr. S. Romanello, Legge buona, pp. 156-157.
313
280 Traduzione e commento
portata. Egli realizza questa polisemia del nomos attraverso la figura dell'antana-
clasi o ripercussione retorica : lo stesso termine assume più significati in dipen-
314

denza da ciò che si intende provare.


[7,21] La situazione dell'io è ormai universale: Paolo sintetizza quanto ha
sostenuto sino ad ora mediante laripresadell'impotenza dell'io applicandola a se
stesso e a tutti. A causa della generalizzazione, riscontrabile nello scioglimento o
epilogo del tragico, anche il sostantivo nomos assume una portata generale: non si
riferisce più alla Legge mosaica ma a qualsiasi principio che regola l'esistenza
umana. Riteniamo che proprio a causa del contesto tragico, in questi versi Paolo
utilizzi nomos in senso debole e generale di « principio »: in questi casi non si può
pensare neppure a ciò che di implicito della Legge mosaica si trova nell'esisten-
za dei gentili, come invece per Rm 2,12-15: non è in questione la Legge mosaica
bensì il principio dell'aerala o dell'impotenza dell'io . 315

[vv. 22-23] Per sottolineare l'impotenza dell'io, Paolo si sofferma suIVuomo


interiore che si sente attratto dalla Legge di Dio. A prima vista, potrebbe sembra-
re che egli cerchi di liberare l'io dalla condizione tragica, distinguendo tra l'uo-
mo interiore e quello esteriore. In realtà, l'Apostolo non oppone l'uomo interiore
a quello esteriore , ma si limita a sottolineare l'orientamento positivo dell'uo-
316

mo , caratterizzato per la sua « interiorità » verso la Legge di Dio , intesa come


317 318

il bene. Dunque, non ci troviamo di fronte a un'antropologia dualistica, tipica del-


la filosofia popolare ellenistica, ma olistica o totalizzante, più ancorata all'antro-
pologia giudaica: è tutto l'essere umano, valutato per la sua interiorità, ad accon-
sentire e a essere orientato verso il bene della Legge. Di fatto, se per la tradizione
popolare greco-romana l'uomo interiore corrisponde allapsychèin contrasto con
il corpo, considerato spesso come carcere o addirittura come sepolcro , per 319

Paolo rappresenta tutto l'uomo nella sua più profonda interiorità . 320

Anche se in questi versi è attestata una visione antropologica globalizzate,


non si può negare nei vv. 22-23 la presenza del vocabolario popolare: accanto al-
l'uomo interiore è posta la «mente» quando ci aspetteremmo un riferimento al
« cuore » . Almeno dal punto di vista linguistico èrilevabileuna certa relazione
321

314 Per l'antanaclasi di questi versi cfr. J.-N. Aletti, Israel, p. 148.
315 Con buona pace di J.D.G. Dunn, Paul, p. 158; M. Winger, Law, p. 196, che pensano ancora alla
Legge mosaica. L'uso del raro verbo parakeisthai (trovarsi accanto) nei vv. 18.21 (soltanto qui nel NT)
conferma laripresadell'impotenza al v. 21 e quindi la possibilità di considerare nomos in senso debole di
principio o di regola. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 566; DJ. Moo, Romans, p. 460.
sia p i '
er interiore cfr. anche Ef 3,16; cfr. pure la distinzione con quello esteriore in 2Cor 4,16.
u o m o

Sull'origine e la funzione di questa categoria antropologica paolina cfr. H.D. Betz, The Concepì of the
Inner Human Being (ho esó anthrópos) in the Anthropology ofPaul, in NTS 46 (2000) 315-341.
317 Uhapax legomenon del NT synedomai esprime il godimento o il piacere nell'acconsentire alla
Legge di Dio.
318L'espressione « Legge di Dio » è propria di Romani (cfr. Rm 7,25; 8,7) e siriferiscesempre alla Torah.
319 Cfr. Platone, Cratilus 400c; Phaedrus 62b; Filone, Genesin 1,70. Per il dualismo antropologico
greco cfr. Platone, Leges 12,959a-b; Re publica 4,430e-431a; 9,589a; Filone, Fuga 71; Somniis 2,207;
Epitteto, Dissertationes 3,10,15.
320Per questo tratto originale dell'antropologia paolina cfr. H.D. Betz, Inner Human Being, p. 338; R.
Penna, Sofferenze apostoliche, antropologia ed, escatologìa in 2Cor 4,7-5,10, in L'apostolo Paolo, pp. 282-283.
321 Così scrive Filone, Congressu 97: «La mente è propriamente l'uomo nell'uomo, il più forte nel
più debole, l'immortale nel mortale».
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 281
con il dualismo dell'antropologia popolare. Tuttavia questo tratto è funzionale al-
l'argomentazione dell'impotenza umana e non all'antropologia paolina che ri-
mane olistica. Per chiarire il senso del v. 23 è necessario considerare la sua com-
posizione chiastica:
(a) «Ma osservo un'altra legge
(b) nelle mie membra
(c) che combatte con la legge della mia mente
(c') e che mi rende prigioniero della legge del peccato
(b') che si trova nelle mie membra».
Il centro del chiasmo (c-c') è rappresentato dal contrasto tra la «legge della
mente » e la « legge del peccato », al quale corrispondono i verbi « combattere » e
«rendere prigioniero» . In (b-b') è sottolineato il luogo della lotta: le «mie
322

membra». Nelle parti periferiche del chiasmo si trova «un'altra legge» (a) che
funge da soggetto della proposizione. Tale composizione permette di cogliere una
nuova antanaclasi o ripercussione retorica, all'inizio del v. 23: l'altra legge non
è il nomos della Legge mosaica bensì lo stesso principio descritto al v. 21; è il
principio dell'impotenza umana, ossia di chi desidera compiere il bene, ma fini-
sce col realizzare il male.
Il principio o la legge, in senso lato, agisce nelle membra dell'io, ossia in
ogni parte del suo essere posto in relazione, combattendo con la legge della sua
mente e rendendolo schiavo con la legge del peccato. Anche se, a prima vista, si
potrebbe collegare la « legge della mia mente » alla Legge mosaica, inscritta nel
cuore umano con la sua opera (cfr. Rm 2,15), la corrispondenza con la legge del
peccato impone una nuova antanaclasi. Poiché la «legge del peccato» non può
equivalere alla Legge mosaica, altrimenti finiremmo con l'identificazione tra la
Legge e il peccato, smentendo la tesi di Rm 7,7, lo stesso vale per la « legge del-
la mia mente». In questo modo, Vacrasia (un'altra legge) combatte con il mio
desiderio di fare il bene (la legge della mia mente) e mi rende prigioniero del po-
tere del peccato (la legge del peccato) . 323

In relazione a questa legge o norma del peccato si trova ognuno, perché in


condizione di prigionia: sembra essere tornati nella condizione di Rm 7,5, ossia al
dominio delle passioni dei peccati per mezzo della Legge, con la novità che ora si
passa al peccato come potenza con una sua normatività operante. Per questo, an-
che se quest'io è valutato dal versante cristiano, non riguarda chi è passato a un
altro marito, ossia a Cristo, ma chiunque non è ancora liberato dal potere della
legge del peccato, ossia dal peccato che finisce con imporre le sue leggi o esigen-
ze. Con tale disfacimento o frammentazione della Legge mosaica, soppiantata
322 A causa del verbo antistrateuomai («combattere», hapax legomenon del NT), il verbo parallelo
aichmalótizein non esprime soltanto la condizione di schiavitù (come invece è generalmente tradotto) ma
addirittura quella di prigionia: la aichmalósia è la prigionia (cfr. Ef 4,8; Ap 13,10) per coloro che perdono
la battaglia.
323Con buona pace di S. Romanello, Legge buona, p. 161, il genitivo «legge del peccato» è tutt'al-
tro che « ovviamente da intendersi come epcsegetico », nel qual caso avremmo una perfetta corrisponden-
za tra legge e peccato (la legge cioè il peccato) ma soggettivo: il peccato che ha una sua legge o regola.
282 Traduzione e commento
dalla legge del peccato, e dell'io stesso in una dissociazione interiore che tocca le
sue membra, la situazione tragica perviene al suo culmine, o al suo esodo e scio-
glimento, per lasciare spazio al grido disperato dell'io.
[v. 24] Al vertice della situazione tragica si colloca generalmente il grido di
disperazione di chi non trova vie d'uscita al proprio conflitto. Nella tragedia di
Euripide, Medea aveva gridato: « Ahi, povera me, per la mia superbia » (Medea
1028) . A ben vedere, la disperazione dell'io non rappresenta soltanto la situa-
324

zione tragica umana ma anche il grido di contestazione verso Dio: egli è chiama-
to in causa dalla situazione disperata dell'io. E questo vale soprattutto per chi, pur
avendo ricevuto la Legge mosaica, quale spirituale dono di Dio, non è liberato
dalla propria impotenza tra il bene e il male.
Anche se per il NT l'attributo «infelice» si ritrova in Ap 3,17, questo grido
di disperazione è esclusivo di Paolo: a differenza dalla comunità di Laodicea, che
non sa d'essere « infelice », l'io di Rm 7 è ben cosciente del proprio stato di dispe-
razione. Dell'infelicità e dell'infelice si parla anche nella LXX ma forse il grido di
Rm 7,24 trova nella situazione tragica di Iefte e di suafigliail principale paralle-
lo . Di fronte a una diversa condizione di impotenza, tra il voto per la vittoria su-
325

gli Ammoniti e l'uccisione di sua figlia, Iefte non può non esclamare: « Figlia mia,
tu mi hai rovinato! Anche tu mi hai reso infelice » (Gdc 11,35). Quest'importante
parallelo conferma la nostra prospettiva tragica di Rm 7,7-25.
La disperazione dell'io risiede nell'incapacità di trovare chi lo strapperà dal
corpo votato alla morte, in quanto prigioniero del peccato. L'uso del verbo rhue-
sthai (liberare con forza, strappare) chiarifica l'identità dell'uomo infelice. Nelle
326

altre frequenze paoline, questo verbo ha generalmente come soggetto Dio (cfr.
2Cor 1,10; Col 1,13) o Gesù Cristo (cfr. Rm 11,26 con l'applicazione della citazio-
ne di Is 50,20; lTs 1,10; 2Ts 3,2); ed è spesso utilizzato al passato più che al pre-
sente o al futuro . Per Paolo, i credenti sono già stati strappati dall 'ira ventura (lTs
327

1,10) e dal potere delle tenebre (Col 1,13), com'egli stesso è stato liberato da tale
morte (2Cor 1,10); e in questa liberazione, realizzata da Dio e da Cristo, si può no-
tare una tensionerispettoall'invocazione matteana del Padre nostro: «...ma libera-
ci dal maligno » (Mt 6,13) . Dunque, a prima vista il grido di disperazione di Rm
328

7,24 nonriguardai credenti in Cristo perché proprio da lui e da Dio sono stati strap-
pati dalla morte: e questo costituisce uno dei punti saldi della soteriologia paolina . 329

Tuttavia, l'uso di questo verbo anche per il presente e per il futuro (cfr. Rm 11,26;

Cfr. anche il grido della Medea di Seneca: « La sventura mi haridottoin questo misero stato... »
324

{Medea 207); Epitteto, Dissertationes 2,17,10: «Chi è più infelice di me?». Per questo grido tragico cfr.
anche Ovidio, Metamorphoseon 18.
Cfr. iriferimentiall'infelicità in Is 47,11; Ger 6,7; 15,8; 20,8; Am 5,9; Mie 2,4.
325

Per questa connotazione del verbo rhuesthai nel NT cfr. W. Krash, Rhuomai, in GLNT VI, pp.
326

1003-1018.
Cfr. 2Cor 1,10; Col 1,13; lTs 1,10; 2Tm 3,11; 4,17; cfr. anche 2Pt 2,7.
327

Per questa tensione soteriologica tra Paolo e Matteo cfr. A. Pitta, La « Teo-logia » nella soteriolo-
328

gia paolina, in Paradosso, pp. 338-344.


Per questo, contro R. Banks, Romans 7,25a: An Eschatological Thanksgiving?, in ABR 26 (1978)
329

34-42, ilringraziamentodel v. 25 non si riferisce allarisurrezionefinale ma alla salvezza compiuta e pre-


sente per tutti coloro che sono in Cristo.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 283
2Cor l,10b; 2Ts 3,2) dimostra che questa liberazione non è pienamente realizzata:
il grido di disperazione non vale soltanto per quanti non sono in Cristo ma ha qual-
cosa da dire anche a quanti, essendo in Cristo, hanno a che fare comunque con il lo-
ro corpo mortale. In Rm 8,23-25 Paolo svilupperà queste implicazioni del tragico
in Rm 7, anche se è benerichiamareche l'io in conflitto, di questi versi, rimane so-
prattutto quello di chi non è stato ancora strappato dal potere della morte.
[v. 25] Improvvisamente, Paolo introduce, nella situazione tragica dell'io, il
ringraziamento a Dio e a Gesù Cristo, anche se in tutta la sottounità di Rm 7,7-25
ha evitato qualsiasi riferimento a entrambi: Come spiegare questo imprevisto ren-
dimento di grazie? . Al di fuori della situazione tragica, l'unica soluzione possi-
330

bile è quella della figura retorica dell'hysteron proteron, ossia dell'anticipazione


inversa rispetto al v. 25b e a quanto Paolo dirà in Rm 8 . Tuttavia, si tratta di un
331

ringraziamento conclusivo di carattere dossologico, analogo a quelliriscontratiin


Rm 5,21; 6,21. Per questo non manca chi abbia pensato a una glossa successiva,
senz'alcun valorerispettoa Rm 7 . Invece, soltanto nella situazione tragica, que-
332

sto improvvisoringraziamentoriceve tutta la sua consistenza,richiamandola fun-


zione del deus ex machina, anche se ha bisogno di essere ricompresa. Di fatto, il
ringraziamento divino per mezzo di Cristo sembra un deus ex machina inutile, co-
me una soluzione esterna, posta come un salvataggio in extremis perché la dispe-
razione dell'io è troppo acuta, senza via d'uscita. Bisognariconoscereche la con-
cezione del deus ex machina formulata da Platone, secondo la quale è utilizzata
dai tragici «quando non trovano più via d'uscita» (Cratilo 425d), ha influenzato
molto la critica sulla tragedia, soprattutto quella euripidea; in questa prospettiva,
è poca cosa la gratitudine di Paolo per Dio e per Gesù Cristo. In realtà, il deus ex
machina non rappresenta la soluzione ultima del tragico ma assume la funzione
fondamentale di confermare quanto è avvenuto, di comprenderne più in profon-
dità la portata e di chiamare in causa lo stesso trascendente . 333

In questa prospettiva si comprende come mai la descrizione tragica di Rm


7,7-25 non si concluda con la semplice gratitudine verso Dio ma con la riaffer-
mazione dell'impotenza dell'io, con la sua definitiva chiarificazione. Vedremo
come in Rm 8 rimane qualcosa del tragico descritto in Rm 7, anche se superato
dal grido di liberazione di Rm 8,1-2; e non è un semplice ricordo ma costituisce
lo spostamento del tragico in altri orizzonti.
La sentenza finale dell 'esodo tragicoriguardala definitiva dissociazione nel-
l'io e nella Legge : da una parte si trovano la mente e la Legge di Dio, dall'altra
334

330 Per analoghe formule diringraziamentocfr. Rm 6,17; 2Cor 8,16.


331 Così S. Romanello, Legge buona, p. 198.
332 Cfr. R. Bultmann, Glossen, p. 197; H. Lichtenberger, Der Beginn der Auslegungsgeschichte von
Römer 7: Rom 7,25b, in ZNW 88 (1997) 284-295.
333 Sono particolarmente grato a R. Ottone, Tragico, p. 341, oltre che per le discussioni orali con l'au-
tore, per questa ricomprensione del deus ex machina, che ritengo fondamentale per la valutazione del-
l'improvvisoringraziamentoin Rm 7,25.
334 L'espressione enfatica introdotta da ara oun (pertanto dunque), riscontrabile altrove nell'episto-
lario paolino (cfr. Rm 5,18; 7,3; 8,12; 9,16.18; 14,9; lTs 5,6; Gal 6,19; 2Ts 2,5; Ef 2,19), conferma la na-
tura definitoria della sentenza finale del v. 25b. Così anche S. Romanello, Legge buona, p. 165, che consi-
dera il v. 25b come epifonema o sentenza conclusiva di Rm 7,7-25.
284 Traduzione e commento
la carne e la legge del peccato. La Legge di Dio è quella mosaica,riconosciutaco-
me santa, giusta, buona e spirituale; invece la legge del peccato è ancora, per ri-
percussione retorica, il peccato presentato come potenza dominante, con le sue
leggi di schiavizzazione. A loro volta, la mente e la carne non si oppongono in
quanto tali, giacché appartengono allo stesso io, ma corrispondono all'interiorità
dell'io, orientata verso il bene della Legge divina (la mente), e alla sua umanità
(la carne), sottomessa alla legge del peccato.
Pertanto il dualismo della Legge e dell'io non è ontologico, diremmo oggetti-
vo, bensì funzionale: pone in maggiorrisaltol'impotenza dell'unica Legge e quel-
la dell'unico io . In caso di dualismo oggettivo, Paolo avrebbe trovato la soluzio-
335

ne per il tragico dell'io: l'autoliberazione della propria carne, mediante la morte,


oppure l'abrogazione del bene oggettivo, ossia della Legge mosaica. Invece la
mente e la carne si coappartengono e possono essere liberate soltanto dall'azione
dello Spirito; e lo stesso vale per la Legge mosaica. Ancora una volta, quanto Paolo
asserisce sulla Legge mosaica in Rm 7 è molto più di una concessione retorica che,
in definitiva, avrebbe potuto liquidare con poche battute; è una pièce conflittuale
che, attraverso l'io, non esclude nessuno dalla sua potente interpellanza.
La legge dello Spirito (8,1-13). - La relazione tra Rm 8 e Rm 7,7-25 suscita
la stessa sensazione di quella tra Rm 3,21 - 4,25 e Rm 1,18 - 3,20 : un fulgore 336

abbagliante che contrasta con le tenebre più oscure dell'esistenza umana.


L'impotenza dell'io, di fronte al labirinto della propria esistenza, è superata sol-
tanto con la potenza dello Spirito anche se, come vedremo, qualcosa del tragico
attestato in Rm 7,7-25 permane anche per quanti vivono secondo lo Spirito. Non
sarebbe fuori luogo definire Rm 8 come il canto o V apologia dello Spirito, con-
tro quanti ne relativizzano l'importanza nell'esistenza cristiana.
A prima vista, i versi iniziali di Rm 8 sembrano contrastare con quelli di Rm
7,7-25, come in una sygkrisis retorica ; ma il salto rispetto a quanto precede è
337

talmente elevato da spostare la dimostrazione paolina su un nuovo livello, anche


se siamo sempre nell'unità di Rm 5,1 - 8,39. Di fatto, Rm 8 non figura come la
soluzione definitiva di Rm 7,7-25 ma la novità assoluta che non scioglie del tut-
to il tragico dell'io e della Legge e che sposta radicalmente gli orizzonti dell'esi-
stenza umana sotto la potenza dello Spirito. Semmai, una sygkrisis si gioca pro-
prio in Rm 8 con il confronto tra la carne e lo Spirito.
Dal punto di vista retorico-letterario, in Rm 8 sono riconoscibili due parti
fondamentali (vv. 1-17.18-30) , cadenzate e dinamizzate dalle due tesi specifi-
338

che di Rm 8,1-2 e Rm 8,18 . In termini contenutistici, la prima parte è tesa a di-


339

mostrare l'azione liberante della legge dello Spirito, mentre la seconda orienta
decisamente verso la manifestazione e la partecipazione della gloria per tutti i

Sull'antropologia funzionale e non ontologica di questi versi cfr. J.-N. Aletti, Israël, p. 160.
335

Così anche TJ. Deidun, New Covenant, p. 70.


336

Cfr. S. Romanello, Legge buona, pp. 224-291.


337

Per la composizione di Rm 8 cfr. R. Penna, Lo Spirito di Cristo. Cristologia e pneumatologia se-


338

condo un'originale formula paolina, Brescia 1976, pp. 238-239.


Così anche S. Brodeur, Holy Spirit, p. 169.
339
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 285
credenti, nonostante le sofferenze del momento presente. Con Rm 8,31 comincia
la perorazione conclusiva di Rm 5-8 . 340

La prima microunità letteraria (vv. 1-13) di Rm 8 è dominata dal contrasto tra


la carne e lo Spirito : infatti, il parallelismo antitetico tra la vita secondo la car-
341

ne e quella secondo lo Spirito cadenza quasi tutte le affermazioni paoline. A cau-


sa di questo contrasto o sygkrisis retorica il sostantivo sarx non ha più valore neu-
tro,riferitoalla condizione umana nella quale si trovava l'io di Rm 7,7-25, ma ne-
gativo e morale: è la vita secondo la carne che si oppone a quella secondo lo
Spirito. Il contenuto della pericope si articola in tre parti: a) la libertà operata dal-
lo Spirito (vv. 1-4); b) il pensiero della carne e quello dello Spirito (vv. 5-11); c)
l'applicazione morale per i destinatari (vv. 12-13).
[8,1] All'inizio della nuova pericope è evidente l'abissale distanza tra Rm
7,7-25 e Rm 8: improvvisamente Paolo sostiene che per coloro che appartengo-
no a Cristo non c'è nessuna condanna. La mancanza di condanna dimostra, per
via positiva, che l'impotenza della Legge e dell'io descritta in Rm 7, non è stata
denunciata per condannare l'una e l'altro bensì per dimostrare che soltanto lo
Spirito libera l'io e la Legge dalla loro impotenza . 342

L'assenza di condanna nonriguardail futuro ma il presente di coloro che so-


no entrati in relazione con Cristo: l'avverbio temporale nyn assume una pregnan-
za apocalittica, analoga a quella espressa in Rm 3,21: «Ora indipendentemente
dalla Legge... ora non c'è nessuna condanna... » . In termini positivi, quest'ora
343

dell'assenza di condanna riguarda quella della grazia e della pace nella quale ci
troviamo e ci vantiamo (cfr. Rm 5,1-2). La condanna che era stata prodotta dal
peccato di Adamo (cfr. Rm 5,16.18) è stata definitivamente superata dalla grazia
divina realizzata in Cristo . 344

La seconda parte del verso introduce il personaggio escluso dalla scena tra-
gica di Rm 7,7-25, tranne che nell'incidentale v. 25: Cristo Gesù, dal quale di-
pende l'eliminazione della condanna per coloro che gli appartengono; i versi suc-
cessivi spiegheranno come la condanna è esclusa per i credenti.
[v. 2] La ragione principale per l'esclusione di qualsiasi condanna è costitui-
ta dalla legge dello Spirito che libera da quella del peccato e della morte: l'espres-
340 Per l'analisi dettagliata rimandiamo ai singoli versi, oltre che al bel contributo di A. Gieniusz,
Suffering, pp. 13-88. L'unico punto debole del saggio di Gieniusz rimane la scelta per Rm 5,20-21 come
tesi generale della sezione; fosse stato più attento alle relazioni tra Rm 5,1-2 e Rm 8,1.18 avrebbe potuto
cogliere come Rm 8 ha poche relazioni con Rm 5,21-22 mentre sviluppa la seconda parte di Rm 5,1-2, de-
dicata al vanto in vista della speranza della gloria.
341 La presenza di sarx (carne) intesa in senso negativo permette di cogliere l'unità letteraria dei vv.
1-13; in questi versi compare 13 volte (vv. 3.3.3.4.5.5.6.7.8.9.12.12.13). Anche la presenza del pneuma
(Spirito) è caratteristica dei vv. 1-13 (12 volte: vv. 2.4.5.5.6.9.9.9.10.11.11.13). Per questo paragrafo cfr.
anche B. Byrne, Romans, p. 235; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 571; D.J. Moo, Romans, p. 471; invece E.
Kàsemann, Romans, p. 212 e H. Schlier, Romani, p. 392, limitano l'unità della pericope ai vv. 1-11.
342La stessa successione è statariscontratain Rm 1,18 - 4,25: dall'universale colpevolezza (1,18 - 3,20)
all'universale salvezza (3,21 - 4,25), e non un semplice atto d'accusa per dimostrare che tutti hanno peccato.
343 Ancora una volta, è importante distinguere e non confondere la rilevanza apocalittica da quella
escatologica o finale della soteriologia paolina: qui / 'ora siriferisceali 'evento apocalittico cominciato con
la salvezza realizzata da Dio in Cristo e non al futuro della storia.
344 Per questo katakrima non ha tanto a che fare con l'io e con la Legge di Rm 7,7-25 ma riguarda
principalmente il peccato, come conferma il verbo « condannare » al v. 3.
286 Traduzione e commento
sione ha una notevole incidenza in quanto, nonostante alcune indecisioni testuali,
Paolo passa improvvisamente dalla terza plurale alla seconda persona singolare:
«Ti ha liberato» . L'improvviso cambiamento determina una marcata interpel-
345

lanza e un coinvolgimento analoghi a quelli dell'io di Rm 7,7-25: la tragicità del-


l'io è sorpassata dalla liberazione del « tu ». In questa nuova condizione dello sta-
to di grazia sono enigmatiche le espressioni « legge dello Spirito » e « legge del
peccato e della morte »: a quali leggi siriferiscono?Alla Legge mosaica collocata
sotto la potenza dello Spirito e non più sotto quella del peccato? . Alla norma o 346

all'azione dello Spirito che libera dalla Legge mosaica, ancora posta sotto il do-
minio del peccato? . Oppure alla potenza dello Spirito che riscatta da quella del
347

peccato e della morte, definiti in senso traslato o generico come leggiV 48

Anche se siamo reticenti a considerare nomos come qualcosa di diverso dal-


la Torah, poiché in Romani si riferisce generalmente a essa, tranne che in Rm
2,14 e in Rm 7,21-25, l'uso del verbo liberare (eleutheroun) e il parallelismo dei
membri impongono una nuova antanaclasi oripercussioneretorica: la legge del-
lo Spirito non è altro che lo Spirito come norma di vita; e la legge del peccato e
della morte è il principio del peccato e della morte (cfr. anche la legge del pecca-
to in Rm 7,23.25) . 349

Tale interpretazione sembra contrastare in parte con quanto Paolo ha affer-


mato in Rm 7,7-25 rispetto alla Legge: quale differenza ci sarebbe tra la legge
dello Spirito e la Legge riconosciuta come spirituale (cfr. Rm 7,14) o la Legge
della fede (Rm 3,27)? La novità è determinata anzitutto dal verbo principale che
regge le proposizioni: eleutherösen (ha liberato) sino ad ora è stato utilizzato sol-
tanto in riferimento al peccato (cfr. Rm 6,18.22). Il problema di Rm 8,2 non è se
noi abroghiamo o ristabiliamo la Legge mosaica per mezzo della fede in Cristo,

Preferiscono la lezione me (prima persona singolare) i codici A, D, 1739c; 1881, mentre i codici
345

X, B, F, G, 1506*, 1739* attestano quella con se (seconda singolare), come anche le edizioni di N-A e di 27

GNT . La lezione con la seconda persona singolare è più probabile perché è più attestata ed è lectio diffi-
4

cilior rispetto a quella con la prima singolare che figura come armonizzazione rispetto all'uso dell'io in
Rm 7,7-25.
Così J.D.G. Dunn, Paul, pp. 646-647; E. Lohse, Ho nomos tou pneumatos tés zóes. Esegetische
346

Anmerkungen zu Rom 8,2, in Neues Testament und christliche Existenz, Tübingen 1973, pp. 279-287; H.
Hübner, Legge, p. 250; B.L. Martin, Christ, pp. 30, 111-112; C.F.D. Moule, « Justification » in its Relation
to the Condition kata pneuma (Rom. 8:1-11 ), in L. De Lorenzi (ed.), Battesimo e giustificazione in Rom 6 e
8 (SMB 2), Roma 1974, pp. 177-187; P. Osten-Sacken, Christus, der Geist, der Glauben und die Liebe in
ihrem Verhältnis zur Tora, in Heiligkeit der Tora, pp. 13-33; E.J. Schnabel, Law and Wisdomfrom Enquiry
into the Relation ofLaw, Wisdom, and Ethics (WUNT 2/16), Tübingen 1985, pp. 288-289; U. Wilckens,
Römer, II, pp. 122-123; N.T. Wright, The Vindication ofthe Law: Narrative Analysis and Romans 8.1-11,
in Climax, pp. 209-214.
Così S. Lyonnet, Libertà cristiana e legge dello Spirito secondo s. Paolo, in I. De La Potterie - S.
347

Lyonnet (edd.), La vita secondo lo Spirito. Condizione del cristiano, Roma 1967, pp. 216-217.
Così B. Byrne, Romans, p. 325; TJ. Deidun, New Covenant, pp. 194-201; J.A. Fitzmyer, Romani,
348

p. 575; E. Käsemann, Romans, p. 215; D.J. Moo, Romans, p. 475; R. Penna, Infrazione e ripresa del rapporto
Legge-Sapienza in Paolo, in L'apostolo Paolo, p. 526; H. Räisänen, Paul, p. 52; E.P. Sanders, Legge, p. 34;
H. Schlier, Romani, p. 396; N.T. Winger, Law, p. 195; D. Zeller, La Lettera ai Romani, Brescia 1998, p. 236.
Contro quanti, come E.J. Schnabel, Law, p. 289, ritengono che nomos non possa assumere valore
349

generale di norma o di principio cfr. Sap 2,11 : « La nostra forza sia principio della giustizia... »; anche Filo-
ne, Somniis 1,102; Legibus 2,187; 4,96; Polibio, Historia 2,58,10; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,90; 5,20;
6,239.346.353; Ant. giud. 1,315; 15,157. Così anche R. Penna, Infrazione, p. 526; H. Räisänen, Paul, p. 52.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 287
o se riconosciamo che è santa, ma che la legge dello Spirito ci ha liberati da quel-
la del peccato . 350

In modo analogo, in questione non è più il mio servizio per la Legge mosai-
ca sotto il dominio del peccato ma che la legge del peccato è l'oggetto stesso del-
la mia liberazione. Non ha alcun significato affermare che la Legge mosaica, se
trasferita dal peccato allo Spirito, ha realizzato la nostra liberazione perché, da
una parte, ciò le resta impossibile, a causa della sua naturale debolezza: altrimen-
ti, sarebbe comunque necessaria la sottomissione alla Legge mosaica, anche per
coloro che sono in Cristo; dall'altra, per Paolo il solo soggetto della liberazione è
Cristo che ci ha liberati proprio dal giogo della Legge mosaica (cfr. Gal 5,1.13).
La composizione parallela del v. 2 conferma che laripercussioneretorica vale non
soltanto per la legge dello Spirito ma anche per quella della carne: sono i due
principi fondamentali che si oppongono in Rm 8,1-13 . 351

Tuttavia, proprio la figura dell'antanaclasi dimostra che si tratta di una ri-


percussione che parte dalla generale identificazione paolina del nomos con la
Legge mosaica. Dire che il principio o la norma dello Spirito ci ha liberati signi-
fica anche ribadire che la Legge mosaica è spirituale e che quando lo Spirito li-
bera l'io dalla tragicità di Rm 7,7-25 opera anche la liberazione della Legge mo-
saica dal potere del peccato. Nello stesso tempo, sostenere che il principio del
peccato è l'oggetto della nostra liberazione vuol dire anche che la Legge mosai-
ca, in quanto dominata dal peccato, non ha più alcuna forza d'accusa verso quan-
ti sono in Cristo. Dobbiamo riconoscere che soltanto l'attenzione allo sviluppo
retorico del pensiero paolino permette di cogliere sfumature che nessun altro me-
todo abilita a rilevare.
Chiarito il senso di questa crux, è bella l'espressione «La legge dello Spirito
ti ha liberato »: è originale per la soteriologia paolina; generalmente Paolo sostie-
ne che Dio o Cristo ci ha liberati e giustificati e non lo Spirito. Questo trasferi-
mento da Dio e Cristo allo Spirito è determinato dalla stretta relazione tra lo stes-
so Spirito e Cristo: poiché è lo Spirito del Figlio (cfr. Gal 4,6) e di Cristo (cfr. Rm
8,9), anche la salvezza dei credenti dipende dall'azione dello Spirito; anzi, sol-
tanto per mezzo del suo Spirito, Cristo personalizza e realizza ogni liberazione per
tutti, in qualsiasi situazione.
Altrettanto significativo è l'uso del verbo «ti ha liberato» (éleutherósen) al-
l'aoristo : i credenti non devono essere ancora liberati ma sono stati liberati; per que-
sto il grido di disperazione di Rm 7,24 nonriguardadirettamente i credenti, anche
se la loro liberazione non è pienamente realizzata ma avverrà soltanto con «il ri-
scatto del nostro corpo » (Rm 8,23). Dalla liberazione operata dallo Spirito deriva la

350 Per questo, con buona pace di R. J. Dillon, The Spirit as Taskmaster and Troublemaker in Romans
8, in CBQ 60 (1998) 692; R. Penna, Infrazione, p. 526; H. Ràisànen, Das «Gesetz des Glaubens» (Rom
3.27) und das « Gesetz des Geistes » (Rom 8.2), in NTS 26 (1979) 101-117; per quanto siano simili, « legge
della fede » e « legge dello Spirito » non si riferiscono alla stessa legge, intesa come norma; nel primo caso
si tratta della Legge mosaica dinamizzata dalla fede, nel secondo del principo attivo dello Spirito.
351 Per questo contro S. Lyonnet, Libertà, pp. 216-217, fanno giustamente osservare T.J. Deidun, New
Covenant, p. 194, e H. Ràisànen, Paul, p. 245, che qui Paolo non intende attualizzare gli oracoli profetici
di Ger 31,33 e di Ez 36,27 sulla Legge del cuore ma opporre i due principi della carne e dello Spirito.
288 Traduzione e commento
vita che non avevamo prima di essere in Cristo , come dal peccato deriva la mor-
352

te nella quale si trovano tutti coloro che non sono in Cristo. La formula in Cristo as-
sume una pregnante dimensione: può essere intesa come strumentale, nel senso che
per mezzo di Cristo siamo stati liberati dalla legge del peccato, come locale, in
quanto si entra sotto il suo potere, o come mistica, giacché l'unione o la partecipa-
zione alla sua morte erisurrezioneha reso possibile la salvezza compiuta per tutti . 353

[vv. 3-4] Lo Spirito compie ciò che Dio ha realizzato, una volta per sempre,
attraverso l'invio del suo Figlio: per questo la prima ragione della liberazione
compiuta dallo Spirito (v. 2) dipende dalla seconda, ossia dalla condanna del pec-
cato per mezzo di Cristo (vv. 3-4). In questi versi si assiste a un accumulo di con-
cetti che rendono tortuose le affermazioni paoline. Di fatto, la prima parte del v.
3 comincia con un anacoluto : forse Paolo avrebbe desiderato asserire che quan-
354

to è stato impossibile alla Legge lo ha realizzato Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Invece, preferisce interrompere quest'affermazione per introdurre una delle sue
tipiche formule d'invio (vv. 3b-4).
Il soggetto dell'anacoluto è l'impotenza della Legge mosaica, relazionata a
quella della carne, di fronte allo strapotere del peccato. In quest'espressione così
concisa Paolo ribadisce quanto ha lungamente dimostrato in Rm 7,7-25: l'impo-
tenza della Legge e quella della nostra umanità.
Nella seconda parte del v. 3 Paolo introduce la fomula d'invio, attraverso il
linguaggio paradossale dello scambio tra ciò che appartiene al Figlio di Dio e
quanto si riscontra nella nostra umanità . Le analoghe espressioni delle formule
355

d'invio pongono in evidenza il modello presente anche in Rm 8,3b-4 : 356

(a) azione di Dio per mezzo di Cristo o di Cristo stesso;


(b) affermazione centrale introdotta generalmente da hyper (per);
(a') finale conclusiva introdotta da hina (affinché).
Anche in Rm 8,3b-4 è verificabile questo schema, con la novità che manca
nella seconda parte la preposizione di vantaggio hyper; e la ripresa dello stesso
modello dimostra che non ci troviamo di fronte a una formula pre- ma paolina,
utilizzata in contesti diversi . Di fatto, anche se la formula d'invio si può ri-
357

scontrare in altri scritti del NT (cfr. Gv 3,16-17; lGv 4,9), la modalità di espres-
sione risponde pienamente al linguaggio e allo stile paolino.
Il primo livello del paradosso è positivo perché siriferiscealla condizione di
Gesù Cristo prima del suo invio: egli « non conosceva peccato » (2Cor 5,21), « era

352 II genitivo « Spirito della vita » può anche essere inteso come epcsegetico nel senso che lo Spirito
si identifica con la vita stessa ma è preferibile il significato oggettivo: dalla liberazione operata dallo Spirito
nasce la vita che si identifica con la nostra condizione di figliolanza divina (cfr. Rm 8,14-17). Così anche
J.A. Fitzmyer, Romani, p. 574; D.J. Moo, Romans, p. 476.
353 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 573.
354 Così anche B. Byrne, Romans, p. 242; M.D. Greene, A Note on Romans 8:3, in BZ 35 (1991) 103;
D.J. Moo, Romans, p. 477; U. Vanni, Homoióma, pp. 456-458.
355 Cfr. a tal proposito M.D. Hooker, Interchange in Christ, in JTS 22 (1971) 349-361.
356 Cfr. Rm 15,8-9; 2Cor 5,21; 8,9; Gal 3,13-14; 4,4-5. Per un'analisi sinottica di tali formule e sulla
loro rilevanza per la paradossale cristologia paolina cfr. A. Pitta, Paradosso, pp. 400-402.
357 Così invece di M.D. Greene, Romans 8:3, p. 103.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 289
ricco » (2Cor 8,9) ed « era il Figlio di Dio » (Gal 4,4; Rm 8,3). Dal confronto del-
le formule emerge la particolare vicinanza tra Gal 4,4 e Rm 8,3b: sono gli unici
casi in cui si parla dell'invio del Figlio di Dio, lasciando intendere la sua preesi-
stenza. L'uso dei verbi «inviare» (Gal 4,4) e «mandare» (Rm 8,3) sembra evo-
care quello della Sapienza e dello Spirito di Dio in Sap 9,10.17 . 358

Un improvviso contrasto segna il passaggio al secondo livello, generalmen-


te introdotto dalla preposizione hyper che assume sempre la funzione del vantag-
gio e non quella della sostituzione: non al posto nostro ma a nostro favore Gesù
«si fece peccato» (2Cor 5,2lb), «povero» (2Cor 8,9b), «maledizione» (Gal
3,13), «nacque da donna» (Gal 4,4) ed è stato mandato «in un'espressione visi-
bile della carne del peccato » (Rm 8,3). In questa seconda fase, la sentenza di Rm
8,3 è più vicina a 2Cor 5,21 in cui l'espressione «lo fece peccato» figura come
un'abbreviazione della formula sacrificale anticotestamentaria «sacrificio per il
peccato » . Anche in Rm 8,3b « in vista del peccato » può alludere al « sacrificio
359

per il peccato ».
Tuttavia, la presenza, appena accennata, del linguaggio sacrificale non può
indurre a considerare l'assunzione della carne del peccato come sostitutiva: la
presenza esplicita di hyper nello stesso livello del modello paolino dimostra che
Gesù non è stato mandato nella nostra umanità perché fosse sacrificato al posto
nostro , ma che Dio lo ha mandato a nostro vantaggio. Poiché il percorso del-
360

l'assunzione della nostra carne non è ascendente, ossia da noi o da Cristo a Dio,
ma discendente, al v. 3b Paolo aggiunge il sostantivo homoióma (espressione vi-
sibile), accanto a « carne del peccato », che non vuole tanto indicare le fondamen-
tali differenze tra la nostra carne e quella di Cristo, quanto il fatto che, nonostan-
te egli non abbia conosciuto il peccato (cfr. 2Cor 5,21), in lui risulta pienamente
visibile la carne del peccato . Proprio questa visibile assunzione della carne del
361

peccato permette la condanna del peccato nella stessa carne, ossia nell'umanità
che Cristo ha condiviso pienamente. Tale condanna è diventata possibile perché
Cristo non ha conosciuto il peccato e perché l'intero percorso del suo invio si è
realizzato a nostro vantaggio e non al posto nostro.
L'ultimo livello del paradosso, nel quale torna la parte positiva del pattern
d'invio, è sempre introdotto da hina: «Affinché noi diventassimo giustizia di
Dio » (2Cor 5,21), «ricchi» (2Cor 8,9), ricevessimo la « benedizione di Abramo,
lo Spirito promesso» (Gal 3,14), la «figliolanza» (Gal 4,5) e «si adempisse in
noi la giusta esigenza della Legge» (Rm 8,4). Qui il paradosso perviene al cul-
mine: Come può una persona, pur essendo Figlio di Dio, arricchirci con la sua po-

358 Così anche R. Penna, Ritratti, II, p. 187.


359 Cfr. l'uso di «peccato» per «offerta per il peccato» in Lv 4,3.14.28.35; 5,6.7.8.10.11.13; 8,2, Nm
6,15; 7,16; 2Cr 29,23-24; Ez 42,13; 43,19; Eb 13,11. Così anche B. Byrne, Romans, p. 423; M.D. Greene,
Romans 8:3, pp. 103-105; N.T. Wright, The Meaning of peri hamartias in Romans 8,3, in Climax, pp. 220-225.
360 purtroppo nonostante sia stata largamente dimostrata l'assenza della concezione vicaria del sacri-
ficio di Cristo nel pensiero paolino, alcuni come DJ. Moo, Romans, p. 481, continuano a intendere in que-
sto senso l'espressione di Rm 8,3. Per la prospettiva favorevole del sacrificio di Cristo cfr. A. Pitta,
Paradosso, pp. 102, 402.
361 Così anche U. Vanni, Homoióma, p. 461.
290 Traduzione e commento
vertà, renderci benedetti con la sua maledizione, sottomettersi alla Legge per li-
berarci dalla Legge e condividere pienamente la nostra carne per rendere possi-
bile la vita secondo lo Spirito? Soltanto la parte centrale, in cui tutto si svolge a
nostro vantaggio, permette di cogliere qualcosa di questo paradossale scambio:
Gesù Cristo non è diventato peccato perché era peccatore ma per noi, a nostro
vantaggio, come è diventato povero non perché non sapeva gestire la propria ric-
chezza ma perché noi diventassimo ricchi.
Questa è l'unica via attraverso la quale la giusta esigenza della Legge mosai-
ca, con i suoi comandamenti, possa essere compiuta in noi. Paolo non dice espli-
citamente quale sia questa giusta esigenza della Legge; e il verbo pléroun (com-
piere, adempiere) potrebbe subito far pensare al comandamento dell'amore vi-
cendevole . Anche se questa interpretazione è possibile, il contesto non accenna
362

a tale comandamento: Rm 13,8-10 è troppo lontano per essere anticipato in Rm 8!


Piuttosto, è bene lasciare l'espressione nella sua generalità : l'esigenza della
363

Legge è tutto ciò che essarichiedeper vivere e restare nella relazione di alleanza
con Dio . Per questo, il verbo « fosse compiuta » non è passivo antropologico e
364

neppure segnatamente teologico ma pneumatologico: lo Spirito adempie in noi, at-


traverso la sua azione liberatrice, qualsiasi esigenza della Legge mosaica, senza la-
sciarci soccombere alla condanna. Da questo adempimento, a opera dello Spirito,
deriva il nostro agire morale, espresso con il verbo «camminare» (peripatein) : 365

camminare secondo lo Spirito significa agire con la sua forza e realizzare final-
mente ciò che la Legge mosaicarichiede,senza la necessità di sottomettersi a essa.
La condotta contraria è rappresentata dalla vita secondo la carne, che assume ora
una chiara connotazione morale negativa che Paolo spiegherà nei versi successivi.
[v. 5] La seconda parte della pericope si sofferma sulle implicazioni e sulle
conseguenze della vita secondo la carne e di quella secondo lo Spirito, attraverso
un parallelismo antitetico: tra i due regimi c'è totale incomunicabilità. La prima
differenza è rappresentata dal pensare (phronein) come espressione di una menta-
lità sottostante che si produce, di fatto, in azioni morali corrispondenti . Pertanto 366

utilizzando alcune categorie morali, come in Rm 6, Paolo collega direttamente la


morale al kérygma, senza soluzione di continuità.
[vv. 6-8] Da due mentalità diverse derivano due conseguenze contrapposte:
il pensiero della carne produce la morte mentre quello dello Spirito apre alla vita

362 Così R.W. Thompson, How Is the Law Fulfilled in Us? An Interpretation ofRom. 8:4, in Louvain
Studìes 11 (1986) 32-33.
363 Contro F. Watson, Paul, pp. 156-157, che restringe il significato di dikaióma al comandamento « non
desiderare » di Rm 7,7, relazionandolo al desiderio sessuale.
364 Così anche R. Penna, Come interpretare la « giustizia della Legge » in Rom 8,4, in L. Padovese
(cur.), Atti del VI Simposio di Tarso su s. Paolo Apostolo, Roma 2000, pp. 25-46, che, tuttavia, con questo
contributo, in cui riconosce la funzione positiva della Legge, entra in tensione con quanto ha sostenuto in pre-
cedenza, in particolare con l'assimilazione tra questa e le opere della Legge (vedi il commento a Rm 3,20).
365 Per il valore metaforico dei verbi poreuesthai e peripatein nella LXX e nel NT cfr. Es 18,20; Lv
18,4; 26,3.27; Dt 13,4-5; Sai 1,1; 14,2; 31,8; Pr 1,15; 2,13.20; 6,22; 8,20; Is 59,9; Rm 13,13; 14,15; lTs 2,12;
ICor 3,3; 7,17; 12,18; Gal 5,16; Fil 3,17.18; Col 3,7; 4,5; Ef 4,1.17.17; 5,2.8.15; cfr. anche 1QS 4,31-32.
366 II verbo phronein compare 26 volte nel NT, di cui ben 23 nell'epistolario paolino; si trova soprat-
tutto in contesti morali (cfr. Rm 12,3.3.16.16; 14,6.6; 15,5; 2Cor 13,11; Fil 4,2.10.10; Col 3,2).
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 291
e alla pace . La morte e la vita non si riferiscono soltanto alla sfera fisica bensì
367

anche a quella morale ed escatologica o definitiva. Naturalmente il peso del con-


fronto cade sulla positività del pensiero dello Spirito; per questo, alla vita Paolo
aggiunge la pace che, in altri contesti, è uno dei principali frutti della vita secon-
do lo Spirito (cfr. lTs 5,3; Gal 5,22). Tuttavia, in questo caso, egli siriferiscenon
tanto alla pace come virtù dello Spirito bensì come conseguenza e come condi-
zione nella quale si trovano i credenti a causa della giustificazione realizzata da
Dio in Cristo per mezzo dello Spirito (cfr. Rm 5,1-2).
Nei vv. 7-8 l'attenzione è concentrata sulle relazioni tra il pensiero della car-
ne e Dio: questo è suo nemico perché non si sottomette alla sua Legge, intesa chia-
ramente come la Legge mosaica (cfr. anche Rm 7,25). Si può notare come, anco-
ra una volta, la valutazione positiva della Legge non sia per Paolo una semplice
concessione perché, in quanto tale, essa non ha nulla a che vedere con la carne ma
appartiene a Dio e rappresenta, comunque, un criterio attraverso il quale è possi-
bile comprendere che il pensiero della carne contrasta con Dio. Tuttavia, com'è
stato dimostrato in Rm 7,7-25, anche se il pensiero della carne non si sottomette
alla Legge di Dio, purtroppo è possibile l'inverso: il peccato, che si trova all'ori-
gine della vita secondo la carne, può strumentalizzare la Legge mosaica.
La sottomissione alla quale Paolo siriferiscenon indica semplicemente la su-
bordinazione del pensiero della carne al potere della Legge ma il servizio o l'ob-
bedienza che potrebbe svolgere in funzione della Legge: ipotesi del tutto impossi-
bile perché si tratta di due economie totalmente diverse, una dello Spirito, della
quale fa parte in definitiva anche la Legge, e una della carne . 368

[v. 9] Un improvviso cambiamento di persona, dalla terza singolare-plurale


alla seconda plurale introduce l'interpellanza verso i destinatari della lettera: essi
appartengono allo Spirito, sono in esso e non nella carne. Essere « nello Spirito »
corrisponde a essere « in Cristo », con le stesse accezioni date a questa seconda re-
lazione: i credenti sono nello Spirito perché si trovano nella sua sfera di influsso
(senso locale), sono stati liberati per mezzo dello Spirito (senso strumentale) e vi-
vono nello Spirito (senso mistico) . Tale vita nello Spirito permetterà ai credenti
369

di gridare in esso la loro figliolanza divina.


Tuttavia, si può essere e vivere nello Spirito soltanto quando lo Spirito di Dio
è o abita in noi: come per la relazione con Cristo, dallo Spirito in noi e da noi nel-
lo Spirito, attraverso una dinamica relazione di inabitazione. L'uso del verbo « abi-
tare » (oikein), per indicare la presenza dello Spirito in noi, conferma che la tragi-
cità dell'io in Rm 7,7-25, nonriguardadirettamente la vita cristiana ma coloro che
sono inabitati dal peccato (cfr. Rm 7,17.20); e per quanto in me possa abitare il be-
ne (cfr. Rm 7,20), questo non è ancora presenza dello Spirito perché non riesce a
superare da solo la potenza del male e del peccato.
367 II sostantivo phronema (pensiero) siriscontrasoltanto in Rm 8,6.6.7.27 per il NT.
368 L'espressione «piacere a Dio » è tipicamente paolina e viene utilizzata altrove per indicare la po-
sitiva o negativa relazione con Dio stesso (cfr. lTs 2,4.15; 4,1; Gal 1,10).
369 A causa della centralità dello Spirito in Rm 8, è unica l'affermazione «essere nello Spirito» co-
me corrispondente dell'«essere in Cristo», mentre altrove Paolo utilizza generalmente «in Cristo», con
valore strumentale (cfr. Rm 1,9; 9,1; 14,17; 15,16; ICor 6,11; 12,3; 2Cor 6,6; Col 1,8; Ef 2,22).
292 Traduzione e commento
Due condizionali, introdotte rispettivamente da eiper e da ei (se), sottolinea-
no l'inabitazione e il possesso dello Spirito di Dio e di Cristo. Tuttavia, è bene ri-
conoscere che mentre la prima preposizione ha valore causale, corrispondente a
poiché™, la seconda introduce una conditio sine qua non: se qualcuno non ha lo
Spirito di Cristo, non appartiene a Cristo stesso . Nel panorama del NT è origi-
371

nale il sintagma Spirito di Cristo:ricomparesoltanto in lPt 1,11 e trova significa-


tive connessioni con la formula Spirito del Figlio (Gal 4,6) . Rispetto allo Spiri-
372

to di Dio del v. 9a, lo stretto collegamento tra lo Spirito e Cristo apre verso una
specificazione maggiore: lo Spirito non è soltanto la potenza operante di Dio sui
profeti o sul suo popolo e sul Figlio di Dio (cfr. Rm 1,4), ma diventa di Cristo, gli
appartiene. In definitiva, avere lo Spirito di Cristo significa, alla luce dei versi
successivi, partecipare della morte erisurrezionedi Cristo. Per questo, soltanto at-
traverso lo Spirito è possibile appartenere a Cristo.
[v. 10] La presenza dello Spirito in noi non è diversa da quella di Cristo in
noi; anzi soltanto per mezzo del suo Spirito, Gesù Cristo può abitare nel nostro
corpo. Per questo, ora Paolo passa direttamente alla presenza di Cristo in noi,
attraverso tre stichi lapidari, come dimostra l'ellissi o la mancanza del verbo
principale. Nelle tre formulazioni, introdotte nuovamente da una condizionale
semplice, è bene sottintendere sempre il verbo « essere » . La prima parte so- 373

stiene che se Cristo è in noi, si realizza la morte del nostro corpo, a causa del
peccato, e la vita dello Spirito, a causa della giustizia. Anche in questo caso, la
proposizione introdotta da ei (se) ha valore causale, corrispondente a un « poi-
ché»; e a causa della presenza di Cristo in noi si stabilisce un netto contrasto
tra il corpo, la morte e il peccato, da una parte, e lo Spirito, la vita e la giustizia,
dall'altra . 374

A prima vista, sorprende la nuova antitesi tra il corpo (sòma) e lo Spirito,


mentre ci saremmo aspettati la solita opposizione tra la carne (sarx) e lo Spirito,
dato che anche qui per pneuma Paolo non intende lo spirito umano ma lo Spirito
divino che abita in noi a causa della giustificazione realizzata da Dio per mezzo
di Cristo . Ci sembra che tale novità sia causata principalmente dall'opposizio-
375

ne tra « morto », riferito al corpo, e « vita »,riferitoallo Spirito: Paolo non può so-
stenere che la carne è morta a causa del peccato; anzi, a rigore di logica, con il
peccato regna anche la carne. Invece, può asserire che il corpo è morto, in quanto
il peccato gli ha inferto un colpo letale: l'intera persona umana, quando è domi-
nata dal peccato, puòritenersimorta (cfr. Rm 7,10). Per questo, in questi versi si
assiste a uno slittamento dalla carne al corpo. L'azione dello Spirito, a causa del-
370Così anche S. Brodeur, Holy Spirit, p. 172; S. Romanello, Legge buona, p. 256.
371II pronome autou del v. 9b ha chiaramente valore cristologico e non pneumatologico. Così anche
S. Brodeur, Holy Spirit, p. 190; R. Penna, Spirito di Cristo, p. 260.
372Sull'originalità di queste espressioni pneumatologiche cfr. il bel contributo di R. Penna, Spirito di
Cristo, pp. 237-264.
373Così anche S. Brodeur, Holy Spirit, p. 192.
374Così anche S. Brodeur, Holy Spirit, p. 192.
375Per la connotazione teologica di pneuma cfr. anche S. Brodeur, Holy Spirit, p. 202; B. Byrne,
Romans, p. 245; D.J. Moo, Romans, p. 492.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 293
la giustizia redentiva di Cristo, apre alla vita nuova o alla trasformazione dello
stesso corpo, in vista della risurrezione finale . 376

[v. 11] L'azione dello Spirito nel corpo dei credenti è sottolineata attraverso
una sorta di argomentazione afortiori che, in questo caso, procede dal maggiore
al minore e non all'inverso. In pratica, Paolo intende sottolineare che se Dio ha
risuscitato Gesù dai morti per mezzo del suo Spirito, quanto più darà vita ai no-
stri corpi mortali per mezzo dello stesso Spirito . 377

Nella prima parte dell'argomentazione èribaditoun dato fondamentale della


fede: larisurrezionedi Cristo non come azione compiuta da lui bensì come even-
to realizzato dal Padre . Tuttavia, a causa della centralità dello Spirito in Rm 8,
378

ora Paolo aggiunge che la stessarisurrezionedi Cristo è dovuta all'azione di Dio


per mezzo dello Spirito; l'espressione è vicina a quella di Rm 1,4 in cui il Figlio di
Dio è « costituito in potenza secondo lo Spirito di santificazione dalla risurrezione
dei morti ». Pertanto, dalla risurrezione di Cristo riceviamo il dono dello Spirito
(cfr. Gal 4,6); e la suarisurrezioneè stata compiuta da Dio mediante lo Spirito.
L'azione vivificante dello Spirito non si ferma alla risurrezione di Cristo: ri-
guarda anche il nostro corpo mortale, nel quale abita lo Spirito, in quanto soltan-
to egli dona la vita a chi è morto . A questo punto, lo sguardo di Paolo si proiet-
379

ta verso la futurarisurrezionedei credenti, attribuendola direttamente all'azione


dello Spirito . Nella relazione tra la risurrezione di Cristo e la nostra, sono im-
380

portanti le precisazioni cronologiche: mentre la morte e la risurrezione di Cristo


si sono realizzate nel passato (ho egeiras), la nostra vivificazione (zóopoiései) ri-
guarda il futuro escatologico dell'incontro con Cristo, anche se la partecipazione
alla morte di Cristo implica già il morire e il vivere in lui.
[vv. 12-13] L'istanza etica della vita secondo lo Spirito è applicata ai desti-
natari della lettera con una conclusione esortativa .1 credenti non sono debitori
381

della carne poiché non vivono secondo la carne : per questo la morte non è l'o-
382

rizzonte conclusivo della loro esistenza. Tuttavia, in questa nuova condizione es-
si stessi sono invitati a far morire le azioni del corpo, ossia a cooperare o a met-
tere le loro membra a disposizione dello Spirito, per vivere. Quest'esortazione
applicativa è analoga a quella di Gal 5,24 (« Coloro che sono di Cristo hanno cro-
cifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri »), con la novità che ciò che
bisogna far morire, per mezzo dello Spirito, non è più la carne, intesa in senso
morale negativo, ma le azioni o il modo di agire del corpo.
A causa dell'orizzonte esortativo di quest'ultima parte del paragrafo, la sen-
tenza introdotta dalla preposizione ei (se, v. 13) non ha più una valenza causale
376 Così anche S. Brodeur, Holy Spirti, pp. 198-199.
377 Anche in questo caso, come nei vv. 9a.l0a, la frase introdotta dalla condizionale ei ha valore cau-
sale e non ipotetico: larisurrezionedi Cristo non è un'ipotesi ma una realtà, anzi, una causa reale.
378 Cfr. questa professione di fede in Rm 4,24; 10,9; ICor 6,14; Gal 1,1; cfr. anche lPt 1,21.
379 Cfr. la prospettiva pneumatologica del verbo zóopoiein in ICor 15,45; 2Cor 3,6; lPt 3,18.
380 Questo nuovo aspetto della pneumatologia paolina è stato ben approfondito da S. Brodeur, Holy
Spirti, pp. 216-255.
381 Cfr. già l'interpellante «fratelli» in Rm 1,13; 7,1.4.
382 II termine opheiletès è proprio del linguaggio economico-commerciale: designa l'obbligazione
per il debito contratto (cfr. anche Rm 15,27; Gal 5,3).
294 Traduzione e commento
(cfr. vv. 9a.l0 a), ma di condizionale semplice e quindi reale. Se nel presente si vi-
ve secondo la carne, certamente si morirà, mentre se si mettono a morte le azioni
del corpo si vivrà. Il v. 13 è ben costruito, secondo il parallelismo dei membri: da
una parte si trova la carne per la morte, dall'altra lo Spirito per la vita. Con que-
st'ultima opposizione, Paolo sembra ribadire l'incomunicabilità tra la carne e lo
Spirito: ciò che noi facciamo morire, per mezzo dello Spirito, sono le azioni del
corpo e non le opere della carne, perché queste sono state crocifisse, una volta per
tutte, con la nostra partecipazione alla morte e allarisurrezionedi Cristo.
Lafigliolanzanello Spirito (8,14-17). - Il canto dello Spirito prosegue con il
suo dono principale: la figliolanza divina. La novità fondamentale di questo para-
grafo di Rm 8,1-17 è rappresentata proprio dall'uso frequente del vocabolario sul-
la relazione familiare tra noi e Dio in Cristo, per mezzo dello Spirito . Tuttavia è 383

bene precisare che la tematica della figliolanza è stata già preparata, anzi, si fon-
da sulla formula dell'invio in Rm 8,3b-4: unendo le due parti, senza soluzione di
continuità, si comprende che possiamo diventare figli di Dio (vv. 14-17) perché
egli ha mandato suo Figlio in una visibile espressione della carne del peccato (v.
3). La contiguità fra queste parti di Rm 8 è espressa in modo più diretto in Gal 4,3-
7: dall'invio del Figlio di Dio alla nostra figliolanza divina. Per cogliere la ric-
chezza e l'originalità di Rm 8,14-17 è necessario porre questi versi in relazione
con Gal 4,6-7 a cui sembrano chiaramente collegati : «E che voi siete figli (è
384

chiaro perché) Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori che grida:
Abba, padre. Quindi non sei più schiavo ma figlio, se però figlio (sei) anche ere-
de da parte di Dio ».
Nello stabilire i principali elementi di continuità si può riconoscere che in
entrambi i testi èriportatal'invocazione della figliolanza, « Abba, padre », con la
traslitterazione semitica e con la traduzione greca. In Gal 4,6 e in Rm 8,15-16 è
espressa una stretta relazione tra lo Spirito e la figliolanza e quella tra la figlio-
lanza e l'eredità.
Dal versante della discontinuità, risalta subito il diverso processo tra il grido
e lo Spirito: se in Gal 4,6 lo Spirito grida in noi, in Rm 8,15 noi gridiamo nello
Spirito. Tra le due asserzioni sono diverse anche le accentuazioni relazionali: in
Gal 4,6 è più esplicita quella tra lo Spirito e il Figlio di Dio, in Rm 8,17 l'atten-
zione è posta maggiormente sulla relazione tra l'eredità di Cristo e la nostra.
Nello stesso tempo, Rm 8,14-17 aggiunge alcuni elementi che non compaiono in
Gal 4,6-7: la guida operata dallo Spirito (v. 14), l'opposizione tra lo Spirito della
paura e quello della figliolanza (v. 15a), l'attestazione dello Spirito di Dio al no-

383Escludendo iriferimentiallo Spirito che attraversano Rm 8, l'unità della pericope è riconoscibile per
l'uso contemporaneo di huios (figlio, v. 14), huiothesia (figliolanza, v. 15) e teknon (figlio, vv. 16.17), riferiti
ai credenti, mentre prima di Rm 8,14 questi terminiriguardanosoltanto Gesù Cristo (cfr. huios in Rm 1,4.9;
5,10; 8,3). Lo stesso vale per pater usato solo qui in Romani per la relazione tra i credenti e Dio, mentre altro-
ve caratterizza i patriarchi (cfr. Rm 4,12.12.16.17.18; 9,5.10; 11,28; 15,8) o il rapporto tra Cristo e Dio (cfr. Rm
1,7; 6,4; 15,6). L'appellativo abba compare soltanto qui e in Gal 4,6 per l'epistolario paolino. Sulla sottounità
di Rm 8,14-17 cfr. B. Byrne, Romans, p. 248; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 592; D.J. Moo, Romans, p. 496.
384 Cfr. anche R. Penna, Spirito di Cristo, pp. 126-131; A. Pitta, Galati, p. 241.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 295
stro spirito (v. 16) e la condivisione delle sofferenze e della gloria (v. 17b). Queste
novità ci inducono a ritenere che in Gal 4,6-7 sia contenuta l'originaria formula
d'invio dello Spirito sulla quale Paolo sviluppa quella di Rm 8,14-17 . 385

[8,14] L'inizio con il solito «infatti» (gar) potrebbe facilmente far pensare
che Paolo introduca la funzione di guida dello Spirito per aiutare i credenti a mor-
tificare le azioni del corpo (v. 13). In realtà, nonostante questo collegamento, l'af-
fermazione del v. 14 è lapidaria, senza riferimenti espliciti a ciò che possiamo
compiere per mezzo dello Spirito. Piuttosto ci troviamo di fronte a una sentenza
generale che introduce la relazione tra lo Spirito e la nostra figliolanza divina, sen-
za esplicitare alcun complemento di relazione: guidati da dove e verso dove? Per
ora non è importante stabilire l'orientamento della guida compiuta dallo Spirito,
ma che da essa derivi il nostro diventare figli di Dio.
In questa sequenza comincia la relazione con il modello esodale: dalla schia-
vitù alla liberazione, all'elezione e alla partecipazione della terra promessa . La 386

schiavitù del popolo ebraico in Egitto rappresenta il contesto storico paradigmati-


co sia per la condizione servile esilica, come nel profetismo dell'AT , sia per la 387

schiavitù sotto il dominio del peccato, come per tutti coloro che non sono in Cristo.
Come Israele è stato liberato dall'Egitto così i credenti sono liberati dal peccato e
dalla morte; e questa libertà conduce all'elezione che trova nel linguaggio fami-
liare la sua principale espressione . L'orizzonte finale è costituito dal possesso
388

dell'eredità e della discendenza . Trasferendo il modello esodale alla vita cristia-


389

na, siamo guidati dallo Spirito perché siamo stati liberati dalla legge del peccato e
della morte (cfr. Rm 8,2); e questa guida si esprime nellafigliolanzadivina. L'uso
del verbo «sono guidati» (agontai) all'assoluto, senza complementi, è dovuto al
modello esodale sottostante: «Il Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun
dio straniero » (Dt 32,12) . Per la stessa motivazione, anche in Gal 5,18, il verbo
390

«guidare» è usato senza complementi e direttamente collegato all'azione dello


Spirito: « Se però siete guidati dallo Spirito non siete sotto la Legge ».
Tuttavia, a causa del modello esodale, non bisogna cadere in una visione sosti-
tutiva, nel senso che i cristiani adesso prenderebbero il posto dell'Israele di Dio ; 391

385 Per le altre formule d'invio vedi il commento a Rm 8,3-4.


386 Per questo modello in Rm 8,14-17 cfr. I. De La Potterie, Le chrétien conduit par l 'Esprit dans son
cheminement eschatologique (Rom 8,14), in L. De Lorenzi (ed.), The Law of the Spirit in Rom 7 and 8
(MBS 1), Roma 1976, pp. 209-241; S.C. Keesmat, Paul and his Story (Re)Interpreting the Exodus
Tradition (JSNT SS 181), Sheffield 1999.
387 Cfr. Es 6,6; Is 41,14; 43,27; 44,6; 47,4; 48,17.
388 p j filiazione d'Israele come espressione dell'elezione divina cfr. Es 4,22-23; Dt 8,5; 14,1-2;
e r a

Ger 3,19; 31,9; Os 11,1-4; Sir 36,12; 4Esd 6,58. Per la paternità elettiva di Dio verso Israele cfr. Dt 32,6;
Is 64,8; Giub 1,25. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 499.
389 Cfr. Gn 15,7; 17,8; Dt 30,5; Nm 54,2; Is 60,21; Ez 36,8-12. A causa della centralità della discen-
denza davidica espressa in 2Sam 7,14 sono interessanti le connessioni che sottolinea J.M. Scott, Adoption
as Sons ofGod. An Investigation into the Background ofHuiothesia in the Pauline Corpus (WUNT 2/48),
Tübingen 1992, pp. 221-266, anche se mancano le relazioni esplicite rispetto a tale retroterra e alcune con-
nessioni sembrano forzate.
390 Cfr. anche l'uso assoluto del verbo «guidare» e dei suoi derivati in Es 14,25; Lv 26,13; Is 63,14.
391 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 593, l'espressione « Israele di Dio » (Gal 6,16) si ri-
ferisce al popolo ebraico e non ai credenti in Cristo né soltanto a quanti fra i giudei hanno creduto in lui.
Cfr. A. Pitta, Galati, pp. 404-405.
296 Traduzione e commento
tanto meno si può ignorare la novità dell'affermazione paolina, per la quale si pro-
cede dalla guida dello Spirito alla figliolanza divina . Per ora non è specificato l'o-
392

rizzonte della guida che lo Spirito realizza verso quanti diventano figli di Dio: in se-
guito si dirà che la finalità della sua azioneriguardala partecipazione alla gloria fu-
tura (v. 17) o la piena realizzazione della figliolanza, attraverso la redenzione del
nostro corpo (v. 23). Infine, è benericonoscerela natura assertiva e inclusiva del-
l'affermazione paolina : « Coloro che... » siriferiscea tutti coloro che sono guida-
393

ti dallo Spirito e sono figli di Dio, con una sottolineatura di appartenenza che non
significa l'esclusione della figliolanza e dell'elezione d'Israele cherimanefiglio di
Dio, proprio in forza del percorso esodale sottolineato.
[v. 15] La relazione tra lo Spirito e la figliolanza divina ha bisogno di essere
spiegata; e nei vv. 15-16 Paolo dimostra il senso di questo rapporto, utilizzando
una interpellante seconda persona plurale: « Avete ricevuto... ». Anzitutto, è evo-
cata l'origine divina dello Spirito: « avetericevuto» (elabete) significa che « Dio
ha mandato », come conferma il parallelo di Gal 4,6; e quest'invio si pone in con-
tinuità con quello del Figlio di Dio (cfr. Rm 8,3).
In adesione al modello esodale, lo Spirito non è quello della schiavitù ma
quello della figliolanza: in questo parallelismo ci saremmo aspettati il confronto
tra lo Spirito della schiavitù e quello della libertà; ma l'attenzione di Paolo è ri-
volta principalmente al rapporto tra Spirito e figliolanza. Per questo, egli non av-
verte la necessità di spiegare che quanti sono figli sono liberi mentre coloro che
non condividono la figliolanza sono schiavi.
Questa sostituzione permette anche di cogliere che la schiavitù e la figliolan-
za sono due definizioni, in negativo e in positivo, dello stesso Spirito di Dio: non
abbiamo a che fare con uno Spirito che ci riconduce nella situazione di impoten-
za e senza via d'uscita, descritta in Rm 7,7-25, ma che, attraverso il dono della fi-
gliolanza ci pone in una condizione di assoluta libertà . 394

L'azione dello Spirito non produce la schiavitù o la sottomissione al peccato


e alla morte ma la libertà proprio rispetto a questi poteri che rendevano schiavi
tutti e che in Rm 8,1-13 sono stati collocati nella categoria globale della carne . 395

Per questo, la paura che non devono avere i credenti è di tipo non psicologico ma
storico: è la paura della condanna incombente su tutti coloro che non sono stati li-
berati dalla legge dello Spirito (cfr. Rm 8,1-2). In tale prospettiva l'avverbio «di
nuovo » (palin) ha tutta la sua incidenza:rispondea un regresso nell'impotenza o
nell'acrasia, nella quale si trovava ognuno (cfr. Rm 7,7-25) prima dell'azione li-
berante dello Spirito.
Al contrario, i destinatari della lettera, come tutti i credenti, hannoricevutolo
Spirito che produce o che dona lafigliolanzacon la quale è espressa la loro nuova
392Così invece DJ. Moo, Romans, pp. 498-499, che subordina la guida dello Spirito alla figliolanza
divina, e non l'inverso. Anche in Gal 4,6 l'espressione «che voi siete figli» dipende dall'invio dello
Spirito del Figlio, e non il contrario.
393Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 595; J.M. Scott, Adoption, p. 260.
394Così anche B. Byrne, Romans, p. 249.
395A questa schiavitù appartiene anche la sottomissione alla Legge, che in Gal 5,1 è definita come
« giogo della schiavitù », anche se, in quanto tale, la stessa Legge è a servizio di Dio e non del peccato.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 297
condizione di libertà. Il sostantivo huiothesia (figliolanza) è utilizzato soltanto da
Paolo nel NT , e non lo si riscontra mai nella LXX . Sembra che questo sostan-
396 397

tivo si riferisca all'istituto forense, diffuso nella giurisprudenza greco-romana: co-


loro che sono adottati godono gli stessi diritti dei figli naturali, al punto che posso-
no partecipare all'eredità familiare . Nell'AT non ci sono attestazioni per questa
398

istituzione perché l'eredità è assicurata attraverso la poligamia (cfr. Dt 21,15-17) o


il matrimonio leviratico (cfr. Dt 25,5-10). Tuttavia, Paolo non si ferma a una istitu-
zione giuridica ma, attraverso il modello esodale, considera la figliolanza come
espressione della liberazione, della guida e dell'elezione compiute dallo Spirito.
Per questo, non esiterà a riconoscere che la figliolanza non appartiene soltanto a
coloro che sono adottati da Dio, insieme con il suo Figlio, ma anche ai privilegi in-
discussi del popolo ebraico (cfr. Rm 9,4). Comunque il retroterra giuridico greco-
romano permette di comprendere che la nostra non è una semplice adozione ma
una figliolanza piena, perché condividiamo l'eredità dell'unico Figlio di Dio.
La partecipazione alla figliolanza divina di Cristo permette di « gridare »
(krazein) « Abba, padre »: in questo caso e in Gal 4,6 Paolo utilizza un verbo che
implica un'intensa partecipazione del soggetto. A prima vista si potrebbe pensa-
re all'invocazione estatica durante l'esperienza comunitaria dello Spirito o alla
possessione profetica dello Spirito: ma non vi sono attestazioni di questo tipo nel
NT ; e Paolo riutilizza questo verbo soltanto in Rm 9,27, per introdurre una ci-
399

tazione di Isaia, al di fuori di un contesto carismatico. Forse, evocando nuova-


mente il modello esodale della liberazione dall'Egitto, questo verbo esprime il
grido della liberazione che si attende dal Signore in forza della relazione familia-
re o di alleanza che lo lega al suo popolo, anche se bisogna riconoscere che la se-
quenza delle fasi di liberazione in Rm 8 è diversa . 400

Dal confronto con Gal 4,6 risalta subito il cambiamento del processo nella
relazione tra lo Spirito e il grido: ora non è più lo Spirito che grida in noi ma noi
gridiamo nello Spirito. A causa della partecipazione con Cristo e con lo Spirito,
entrambi i movimenti sono significativi: lo Spirito grida in noi perché è in noi,
quale presenza permanente di Cristo; e noi gridiamo nello Spirito perché siamo
nello Spirito (cfr. Rm 8,9), come siamo in Cristo. Il cambiamento del movimen-
to è dovuto proprio all'accentuazione dell'essere nello Spirito e della relativa
partecipazione, propria di Rm 8,1-13, mentre in Gal 4,1-7 Paolo non aveva anco-
ra sviluppato questo aspetto relazionale tra i credenti e lo Spirito; più avanti si
soffermerà anche sul movimento inverso, dallo Spirito a noi (cfr. Rm 8,26).
Il nostro grido nello Spirito è raccolto nel termine « Abba, padre » che, con
la traslitterazione aramaica (abba) e la traduzione greca (ho pater), si trova sol-
396Cfr. Rm 8,15.23; 8,4; Gal 4,5; Ef 1,5.
397Filone, Somniis 2,41, dimostra di conoscere l'istituzione dell'adozione.
398Così anche F. Lyall, Slaves, Citizens, Sons: Legai Metaphors in the Epistles, Grand Rapids 1984,
pp. 67-99.
399 Nel resto del NT il verbo krazein è utilizzato soprattutto per l'invocazione di aiuto verso Gesù
Cristo: cfr. Mt 9,27; 14,26.30; 15,22; Me 10,47.48. Per questo è forzato l'accostamento al grido degli spi-
riti immondi verso Gesù (cfr. Mt 8,29; Me 3,11; 5,5.7; 9,24.26; Le 4,41; 9,39).
400Cfr. Gn 41,55; Es 5,8; Gdc 3,9.15; 4,3; 6,7; Os 8,2; Mi 3,4.
298 Traduzione e commento
tanto qui, in Gal 4,6 e in Me 14,36. Dopo un lungo periodo diricerchee di dibat-
titi si può essere concordi nelritenereche abba sia uno degli ipsissima verba Jesu
e che esprime, comunque, una relazione particolare che lega Gesù a Dio . 401

L'invocazione non va intesa come un vocativo arcaico ma come un normale sta-


to enfatico di origine aramaica; e non indica soltanto la relazione infantile tra il
bambino e suo padre, corrispondendo a papà, ma è utilizzata anche dall'adulto
verso suo padre . Nell'AT e nel giudaismo del secondo Tempio, Dio è invocato
402

come padre, anche se con una certa reticenza; e a Qumran lo si trova anche per la
relazione dell'individuo con Dio . L'invocazione si è diffusa soprattutto nelle
403

prime comunità di origine ellenistica: questo spiegherebbe l'aggiunta della tradu-


zione greca.
A livello di recezioni, bisogna riconoscere che la portata gesuana dell'invo-
cazione ha posto in secondo piano quella ecclesiologica e pneumatologica: di fat-
to, è diffusa la considerazione di abba in tutti i trattati di cristologia mentre non lo
è altrettanto in quelli di ecclesiologia e di pneumatologia, nonostante in due delle
tre frequenze neotestamentarie, appunto quelle paoline, l'invocazione sia riporta-
ta in contesti ecclesiologici e pneumatologici. La connessione tra abba e lo Spiri-
to rappresenta forse la novità principale dell'invocazione nel contesto dell'argo-
mentazione paolina: la nostra figliolanza è piena perché abbiamo ricevuto lo
Spirito del Figlio di Dio; tale conclusione è estranea alla relazione familiare tra
Dio e il suo popolo nell'AT e nel giudaismo del secondo Tempio. Invece, è diffi-
cile stabilire se «Abba, padre» rappresenti l'inizio oppure un'abbreviazione del-
la preghiera del Padre nostroanche perché nell'epistolario paolino questa non
è mairiportatanella sua interezza ; ma questo resta un argomento debole perché
405

tratto dal silenzio. Dunque a causa della partecipazione nello Spirito, come
espressione personale ed ecclesiale di quella in Cristo, i credenti sono diventati a
pieno titolo figli di Dio con tutto ciò che tale relazione determina, in vista dell'e-
redità che condividono i figli.
[v. 16] Se la figliolanza divina dei credenti non precede ma segue il dono del-
lo Spirito, l'attestazione che questi rende al nostro spirito, cioè al nostro essere vi-
tale, è intensiva : non c'è una duplice attestazione del nostro spirito e dello Spi-
406

rito di Dio rispetto alla nostra figliolanza divina, ma è lo Spirito di Dio che dice,
garantisce e testimonia che siamo veramente figli di Dio . In pratica, il nostro
407

401Cfr. anche R. Penna, Ritratti, I, p. 118; con buona pace di J. Barr, Abba isn 't « Daddy », in JTS 39
(1988) p. 47.
402In tal caso il corrispondente di abba non dovrebbe essere pater ma papas (cfr. Papiri di Giessen
80,3; Teocrito, Idilli 15,14-16). Per il contesto familiare non soltanto infantile cfr. Tg. Genesi 20,12; 22,1;
27,31; 31,5.42. Così anche R. Penna, Ritratti, I, p. 115.
403Cfr. 4Q372 1,16: « Mio padre e mio Dio »; Q460 5,6: « Mio padre e mio Signore ». Cfr. anche J.A.
Fitzmyer, Romani, p. 594.
404Così W. Popkes, Die letzte Bitte des Vater-Unser. Formgeschichtliche Beobachtungen zum Gebet
Jesu, in ZAW81 (1990) 1-20.
405Forse soltanto l'invocazione «liberaci dal male» trova un suo parallelo nel frammento prepari-
no di Gal 1,4, anche se con significative variazioni. Cfr. a tal proposito A. Pitta, Paradosso, pp. 342-343.
406Così anche H. Schlier, Romani, p. 420.
407Invece per il valore unitivo di symmartyrein cfr. D.J. Moo, Romans, p. 504.
299
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39
spirito da solo non dice che siamo diventati figli di Dio , perché questa nuova408

condizione si realizza soltanto con lo Spirito di Cristo o del Figlio in noi. In tal ca-
so, il riferimento al nostro spirito è di testimonianza incoraggiante o di profonda
esortazione, soprattutto di fronte alle sofferenze che toccano l'esistenza cristiana,
come dimostrano le affermazioni successive del paragrafo.
[v. 17] Dal punto di vista giuridico, l'istituzione dell'adozione filiale impli-
ca la partecipazione all'eredità della famiglia della quale si entra a far parte; e per
l'AT, l'eredità dei figliriguardain particolare la terra e la discendenza. Tuttavia,
anche rispetto all'eredità non mancano prospettive escatologiche: queste si iden-
tificano con la partecipazione alla vita finale o alla risurrezione . Comunque, an- 409

che all'origine della nostra eredità che condividiamo con Cristo , l'unico Figlio 410

di Dio sin dall'eternità, c'è l'iniziativa di Dio: siamo eredi di Dio non in quanto
egli rappresenti il contenuto della nostra eredità ma nel senso che Dio stesso ci ha
permesso di condividere l'eredità del suo Figlio, come dice in questo caso più
esplicitamente il parallelo di Gal 4,7.
A causa dell'origine divina, non va dimenticata la natura gratuita della stes-
sa eredità che condividiamo con Cristo: per questo un « se veramente » (eiper) in-
troduce la condizione principale per condividere la gloria di Cristo, quale conte-
nuto immediato dell'eredità alla quale partecipiamo in forza della figliolanza rea-
lizzata per mezzo dello Spirito. La partecipazione all'eredità di Cristo dipende, in
definitiva, da quella alle sue sofferenze e alla sua gloria. Per questo i termini com-
posti con la preposizione syn (con, coeredi, consoffrire ed essere conglorificati)
non hanno tanto una portata antropologica o ecclesiale , nel senso che la condi-
411

visione delle sofferenze degli altri diventerebbe garanzia per la nostra partecipa-
zione alla gloria e all'eredità finale. Piuttosto, anche questi originali verbi parte-
cipazionistici hanno una consistente dimensione cristologica: consoffrire signifi-
ca prima di tutto partecipare alla morte di Cristo; ed essere conglorificati con lui
vuol dire condividere la sua risurrezione . Questa relazione tra la partecipazione
412

alla morte e alla risurrezione di Cristo sarà esplicitata soprattutto in Fil 3,10-11:
«...La comunione delle sue sofferenze, diventando conforme alla sua morte, sem-
mai potrò giungere allarisurrezionedai morti ». La partecipazione alla risurrezio-
ne, quale concretizzazione della condivisione della gloria di Cristo, non è per
Paolo la conseguenza naturale del nostro essere mortali ma un dono che Dio ri-
serva a quanti sono diventati suoi figli per mezzo dello Spirito, e condividono non

408Qui, come in generale nel NT, teknon non è diverso da huios per cui si possa pensare a una figlio-
lanza diversa; l'uso di huios al v. 14 per quanti sono condotti dallo stesso Spirito conferma lo scambio tra
i due sostantivi.
409Cfr. lEn 40,9; 62,11; Giub 1,24-25; 2,20; Sai. Salom. 14,10; 17,30; As. Mos. 10,3; 4Esd 6,58;
2Bar 13,9; 4QDibHam 3,4-6; 3Mac 6,28; 4Mac 18,3.
410II sostantivo composto sygkléronomos compare 4 volte nel NT (cfr. anche Ef 3,6; Eb 11,9; lPt 3,7).
411II verbo sympaschein si trova soltanto qui e in ICor 12,26 per il NT; il verbo syndoxazein è hapax
legomenon nel NT.
4,2Così anche B. Byrne, Romans, p. 251; M. Wolter, Der Apostel und seine Gemeinden als Teilhaber
am Leidengeschick Jesu Christi: Beobachtungen zur paulinischen Leidenstheologie, in NTS 36 (1990)
535-557.
300 Traduzione e commento
soltanto la figliolanza ma anche le sofferenze di Cristo . Naturalmente queste af-
413

fermazioni hanno tutto il peso della loro inclusività e non quello dell' esclusività:
e quest'accentuazione non rappresenta un livellamento della relazione con Cristo,
perché non si tratterebbe tanto di dichiarazioni esclusive quanto assertive, ma
esprime la novità dell'essere in Cristo per mezzo dello Spirito.
Sofferenze e gloria (8,18-30). - Le ultime battute della pericope precedente
(Rm 8,14-17) sono state dedicate alla partecipazione alle sofferenze e alla gloria
di Cristo (v. 17); ora Paolo riprende la tematica delle sofferenze relazionandola a
quella della speranza per la gloria futura. Dietro la trattazione di questa tematica si
trova l'apparente contraddizione tra la libertà realizzata dallo Spirito (v. 2), le sof-
ferenze e la morte alle quali non può sfuggire neppure il credente. Come possiamo
dire che ora non c'è nessuna condanna (v. 1) se di fatto continuiamo a sperimen-
tare la sofferenza e la morte? Paolo affronta tale questione proprio per dimostrare
che, nonostante le sofferenze, anzi proprio per mezzo di esse, si realizza la piena
partecipazione alla morte e allarisurrezionedi Cristo.
Stranamente, dal punto di vista compositivo, non sono pochi coloro che pre-
feriscono distinguere ulteriori microunità letterarie in Rm 8,18-30, rischiando di
frantumare e, soprattutto, di ignorare l'orizzonte cristologico della speranza della
gloria, di cui Paolo parla soltanto verso la fine della pericope (v. 29) . Invece, si 414

può notare come quest'ultima parte, dedicata al canto dello Spirito (Rm 8), pro-
cede senza soluzione di continuità, per arrestarsi soltanto di fronte alla domanda
diatribica del v. 31. L'unità del paragrafo (vv. 18-30) è confermata dalla relazione
speculare con Rm 5,1-11, in cui Paolo ha introdotto la tematica della speranza
della gloria, nella tesi di Rm 5,l-2 . L'intera pericope di Rm 8,18-30 è attraver-
415

sata dal motivo del gemito, inteso come espressione di una sofferenza dalla quale
si spera di essere liberati, in un'attesa carica di fiducia . Di fatto, sono riconosci-
416

bili quattro parti fondamentali, di cui tre dedicate al gemito della creazione, dei
credenti e dello Spirito, e una allarivelazionedel disegno divino.
a) Il gemito della creazione (vv. 18-22);
b) il gemito dei credenti (vv. 23-25);
c) il gemito dello Spirito (vv. 26-27);
d) la rivelazione del disegno divino (vv. 28-30) . 417

L'intero sviluppo della dimostrazione paolina è finalizzato a spiegare la tesi


specifica del v. 18 in cui Paolo intende non tanto sottolineare la consistenza del-
la gloria, quanto la paradossale compatibilità tra le sofferenze e la gloria. Le sof-

4.3Cfr. a tal proposito A. Pitta, Paradosso, pp. 275-277.


4.4Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, che identifica 4 pericopi: Rm 8,18-23 (p. 601); 8,24-25 (p. 612); 8,26-27
(p. 614) e 8,28-30 (p. 620). Cfr. anche le divisioni in ulteriori pericopi proposte da B. Byrne, Romans, pp. 254-
255.266; B. Rossi, Struttura letteraria e teologica della creazione in Rm 8,18-25, in LA 41 (1991) 87-124.
415 Per l'unità letteraria di Rm 8,18-30 cfr. anche A. Gieniusz, Suffering, pp. 57-88; DJ. Moo,
Romans, p. 508; H. Schlier, Romani, p. 423; U. Wilckens, Römer, II, p. 147.
416Cfr. Fuso di stenazein (gemere) in Rm 8,23; di stenagmos (gemito) in Rm 8,26; e di systenazein
(con-gemere) in Rm 8,22.
417Così anche A. Gieniusz, Suffering, pp. 87-88.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 301
ferenze sperimentate sino a oggi non intralciano ma sono funzionali alla parteci-
pazione alla gloria futura. In tal modo, Paolo riprende le prime battute dell'unità
sul paradossale vanto cristiano (cfr. Rm 5,l-3) . 418

Il v. 18, con il verbo «rivelarsi», orienta verso il genere propriamente apo-


calittico: è proprio dell'apocalittica giudaica prospettare la fine della storia fa-
cendola precedere da una fase di sofferenze e la partecipazione della creazione al
destino dell'umanità, attraverso una solidarietà negativa o positiva. In questa con-
testualizzazione si spiega anche l'epilogo sullarivelazionedel disegno divino, at-
traverso le fasi delineate nei vv. 28-30 . 419

Tuttavia, è bene precisare che la novità principale tra l'apocalittica di questi


versi e quella del comune giudaismo si trova nella tensione tra la soteriologia e la
fine della storia, tra ciò che in questo commentario definiamo come apocalittica
e l'escatologia, cherisultaestranea all'apocalittica giudaica. In pratica, senza se-
parare queste due fasi della storia, ma distinguendole in forza della loro caratte-
rizzazione cristologica, in Rm 8,18-30 si assiste, da una parte, a una propensione
dell'apocalittica paolina, realizzata in Cristo, verso l'escatologia e, dall'altra, a
un'anticipazione dell'escatologia nel presente dell'appartenenza a Cristo.
[8,18] Nonostante i credenti siano stati liberati dalla legge dello Spirito, con-
tinuano a sperimentare le sofferenze e la morte; come queste si possono concilia-
re con la libertà cristiana dal peccato e dalla morte? E come le sofferenze non con-
trastano con il vanto annunciato in Rm 5,2, ossia con la partecipazione alla gloria
futura? Per chiarire tale questione non bisogna dimenticare che per Paolo, come
per la generale concezione giudaica, c'è una relazione di tipo retributivo tra il pec-
cato, le sofferenze e la morte . In ICor 11,30 ha sostenuto senza mezzi termini:
420

« Per questo fra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono mor-
ti ». Per evitare o, meglio, per superare tale concezione, l'unica via possibile risie-
de nel valore positivo delle sofferenze , intese come partecipazione alla morte e
421

risurrezione di Cristo; ed è la via che Paolo sceglie in questi versi, facendo appel-
lo alla sua convinzione personale . 422

Le sofferenze non contrastano ma addirittura confermano e orientano verso


la partecipazione della gloria che Dioriveleràin e per noi . In questa paradossa-
423

418 La paradossale relazione tra le sofferenze e la gloria è posta inrisaltoda A. Gieniusz, Fuffering, pp.
89-133, attraverso la relazione tra la tesi (v. 18) e laprobatio (vv. 19-30), anche se l'autore non collega que-
ste parti alla tesi principale di Rm 5,1-2 perché sostiene, erroneamente, che la tesi della sezioni; si trovi in
Rm 5,20-21. Si può vedere come Rm 8,18-30 ha ben poco da condividere con Rm 5,20-21, mentre riceve
nuova luce proprio dalle connessioni con Rm 5,1-2.
419 Così anche B. Byrne, Romans, pp. 256-257; J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 601-602; con buona pace
di DJ. Moo, Romans, pp. 514-517, che tende a svalutare gli elementi apocalittici della pericope.
420 La preoccupazione retributiva di questi versi è posta in risalto da A. Gieniusz, Suffering, pp.
138-139.
421 II sostantivo pathema, attestato per il NT soprattutto dall'epistolario paolino (9 volte su 16), può
avere significato negativo di «passione» e di «desiderio» della carne (cfr. Rm 7,5; Gal 5,24), o si riferi-
sce alla sofferenza, come nel nostro caso (cfr. anche 2Cor 1,5.6.7; Fil 3,10; Col 1,24; 2Tm 3,11).
422 II verbo logizomai introduce spesso asserzioni paoline fondate sulla sua convinzione (cfr. Rm
3,28; 6,11; 14,14; 2Cor 10,7.11; 11,5; Fil 3,13; 4,8. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 511).
423 La preposizione eis può avere sia il senso proprio di « per » sia il significato di en (in), come spes-
so nel NT.
302 Traduzione e commento
le relazione tra le sofferenze e la gloria, l'espressione ouk axia... pros ha non tan-
to valore comparativo, nel senso di « non sono paragonabili », come per le tradu-
zioni correnti di Rm 8,18 (CEI, BJ), quanto oppositivo o di contrasto: «...Non si
oppongono a... »; «...non contrastano con... » . A causa della funzione generale
424

del v. 18 rispetto a Rm 8,19-30, le sofferenze (pathemata) siriferiscononon sol-


tanto a quelle dei credenti ma anche a quelle della creazione e ai gemiti dello Spi-
rito, anche se l'attenzione di Paolo è principalmente rivolta a quelle di quanti so-
no in Cristo . La gloria, quale mèta finale della storia, è la presenza piena e per-
425

manente di Dio, presente nella storia della salvezza e nel suo epilogo.
[v. 19] Senza preparare i destinatari della lettera, Paolo allarga gli orizzonti
della relazione tra le sofferenze e la partecipazione alla gloria, soffermandosi sui
gemiti della creazione . Per questo è difficile stabilire l'identità della ktisis: Che
426

cosa intende Paolo con la creazione? Siriferisceall'atto creativo di Dio oppure al-
la situazione definitiva della creazione? Già Agostino ricordava che « tutto il ca-
pitolo 8 è oscuro perché non è sufficientemente chiaro cosa intenda l'Apostolo
con creatura» . Nella storia dell'interpretazione sono riconoscibili tre ipotesi
427

fondamentali: si tratta della creazione, esclusa l'umanità , di quella comprensiva


428

dell'umanità, esclusi i credenti , o dell'umanità, esclusa la creazione?


429 430

A causa della non definizione del termine, è consigliabile non omologare il


senso di ktisis, universalizzandone il significato ogni volta che Paolo lo utilizza . 431

Nel caso presente, per il noi dei credenti, di cui si parla nei vv. 23-25, è bene di-
stinguere la creazione, comprensiva dell'umanità, da coloro che hannoricevutolo
Spirito. Inoltre, a svantaggio dell'ipotesi antropologica, è benerilevareche in se-
guito Paolo sottolinea la sottomissione della creazione alla vanità contro la propria
volontà, mentre non ha esitato a evidenziare la responsabilità di tutti rispetto alle
loro colpe (cfr. Rm 1,18 - 3,20). Non rimane che l'interpretazione cosmologica;
ed è quella che meglio si contestualizza nel genere apocalittico che caratterizza

424 Cfr. l'espressione in Platone, Gorgia 47le; Dione Crisostomo, Orationes 57,2. Così A. Gieniusz,
Suffering, pp. 93-98.
425 Così anche A. Gieniusz, Suffering, pp. 100-133, che però per accentuare l'orizzonte generale del-
le sofferenze al v. 18 pone in secondo piano quello specifico delle sofferenze dei credenti che, in fondo, co-
stituiscono il problema principale di questo paragrafo.
426 Non è necessario considerare il v. 19 come propositio secondaria di Rm 8,18-30, subordinata a
quella del v. 18; così invece A. Gieniusz, Suffering, p. 176. Piuttosto, è bene non esagerare con laricercadi
tante tesi, come se le argomentazioni paoline seguissero un ordine serrato e perfettamente logico: nel caso
specifico basta la tesi del v. 18 dalla quale dipendono i versi seguenti.
427 Cfr. Agostino, De diversis quaestionibus octoginta tribus 1,671.
428 L'interpretazione subumana di ktisis è quella più seguita dall'esegesi contemporanea. Cfr. B.
Byrne, Romans, p. 256; O. Christoffersson, The Earnest Expectation ofthe Creature: The Flood-Tradition
as Matrix of Romans 8,18-27 (CBNT 23), Stockholm 1990, p. 137; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 604; DJ.
Moo, Romans, p. 514; D.E.H. Whiteley, Rom. 8,18-39: A Hermeneutical Approach, in L. De Lorenzi (ed.),
The Law ofthe Spirit in Rom 7 and 8 (MBS 1), Roma 1976, p. 169.
429 Cfr. B. Rossi, Struttura letteraria, p. 117; H. Schlier, Ciò di cui tutto è in attesa. Un'interpretazione
di Rom. 8,18-30, in La fine del tempo, Brescia 1974, pp. 285-306; Id., Romani, p. 428.
430 Cfr. A. Giglioli, L'uomo o il creato? Ktisis in s. Paolo (SB 21), Bologna 1994, p. 117.
431 Così è chiaro che ktisis in Rm 1,20.25 si riferisce alla creazione del mondo, inclusa l'umanità,
mentre in 2Cor 5,17; Gal 6,15 la « nuova creazione » riguarda la nuova umanità dei credenti in Cristo.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 303
questi versi . La creazione condivide, volente o nolente, il destino dell'umanità,
432

nel bene come nel male ; a causa di questa condivisione si assiste, in questi ver-
433

si, a una significativa personificazione della creazione : essa è come una persona
434

ridotta in condizioni di schiavitù, con la ferma speranza di essere liberata.


L'uso del suffisso -sis, accanto alla radice kti- permette di cogliere l'aspetto
dinamico della creazione, a differenza da ktisma che ne esprime quello oggettivo
o definitivo . Questa connotazione è confermata dalla relazione tra Dio, la crea-
435

zione e l'epilogo della storia: sembra che l'azione di Dio non sia limitata ai gior-
ni delle origini ma che si realizzi anche nel corso della storia, attraverso un per-
corso dinamico che perviene al suo culmine con la rivelazione dei figli di Dio. La
personificazione della creazione comincia con un termine utilizzato soltanto da
Paolo: apokaradokia che, per convenzione, traduciamo con il sostantivo « attesa »
mentre in greco esprime la condizione di una persona che protende il capo in
avanti per attendere con ansia gli esiti degli eventi . Come una persona umana,
436

la creazione attende la rivelazione dei figli di Dio che si compirà soltanto con la
piena realizzazione della gloria. L'unico parallelo neotestamentario di apokara-
dokia (Fil 1,20) evidenzia come l'attesa della creazione è carica di speranza, ana-
loga a quella di Paolo stesso, in situazione di prigionia . 437

[vv. 20-21] Spesso l'apocalittica giudaica rilegge, in modi nuovi, le prime


pagine della Genesi, con la vicenda di Adamo e del suo peccato: lo abbiamo sot-
tolineato per gli autori di 4Esdra e 2Baruc . Paolo sembra, ancora una volta, por-
m

si in questa tradizione per sottolineare la tensione tra la situazione negativa nella


quale si trova la creazione e la futura liberazione che condividerà con la libertà
della gloria dei figli di Dio. Se in questi versi egli rievoca le vicende di Adamo,
descritte in Gn 2-3, è possibile riconoscere una nuova inclusione tra le parti ini-
ziali (Rm 5,12-21) e quelle conclusive di Rm 5,1 - 8,39. Innanzi tutto, Dio ha sot-
tomesso la creazione alla vanità, come dimostra il passivo divino hypetagé . A 439

questa prima sottomissione si riferisce anche la narrazione di Gn 3,17: «Ma-


ledetto sia il suolo per causa tua... ». In tal modo, la creazione condivide la situa-

432 Per la personificazione della creazione cfr. anche Sai 65,12-13; Is 24,4; Ger 4,28; 12,4; Sap 16,24;
19,6; Sai. Saloni. 2,6; 5,17; 16,24; 19,6.
433 Sulla condivisione del comune destino tra l'umanità e la creazione, tipica dell'apocalittica giu-
daica, cfr. Gn 1,26-28; Sai 8,5-8; Is 11,6-9; 43,19-21; 55,12-13; Ez 34,25-31; Os 2,18; Zc 8,12; lEn 45,4-
5; 51,4-5; 4Esd 7,11-12; 8,51-54; 2Bar 29,1-8; Or. Sib. 3,777-795. Qualcosa di analogo si trova anche in
Virgilio, Eclogae 4,50-52, pur se in prospettive del tutto diverse.
434 Così anche B. Byrne, Romans, p. 256; DJ. Moo, Romans, p. 514.
435 Così U. Vanni, La creazione in Paolo. Una prospettiva di teologia biblica, in RdT 36 (1995) 287.
436 Oltre a Rm 8,19, questo sostantivo si trova soltanto in Fil 1,20 mentre è assente nella LXX e nel
greco classico: forse possiamo parlare di un neologismo paolino. Per il verbo corrispondente cfr. Polibio,
Historia 16,2,8; 18,48,4; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 3,7,26. Cfr. D.R. Denton, Apokaradokia, in ZNW
73 (1982) 138-140; A. Gieniusz, Suffering, pp. 176-187.
437 Con buona pace di A. Gieniusz, Suffering, pp. 183-187, che perrimarcarela condizione sofferta
della creazione, in base ai paralleli extrabiblici, finisce col sottovalutare l'orizzonte positivo del sostantivo.
438 Vedi Vexcursus alla fine di Rm 5,12-21.
439 Anche in ICor 15,27-28 questo verbo è utilizzato per indicare l'azione divina nella sottomissione
di tutte le cose. Cfr. anche Sai 8,6. Per il soggetto divino sottinteso cfr. B. Byrne, Romans, p. 260; D.J.
Moo, Romans, p. 516.
304 Traduzione e commento
zione negativa nella quale si trovano tutti gli esseri umani: giacché «essi sono di-
ventati vani nei loro ragionamenti» (emataiòthesan in Rm 1,21), anche la crea-
zione è stata sottomessa alla vanità (mataiotéti) . 440

La causalità delle colpe umane, in questa condivisione della vanità, è espli-


citata nella seconda parte del v. 20, mediante l'uso dello stesso verbo « sottomet-
tere»: in questo caso, colui che ha sottomesso la creazione alla vanità non è più
Dio, perché si tratta di una sottomissione che contrasta con la volontà della crea-
zione . Nonostante la sottomissione sofferta della creazione, Paolo sottolinea
441

che comunque Dio l'ha sottomessa nella speranza di liberarla da questa condizio-
ne di schiavitù che condivide con gli esseri umani . Proseguendo nella rilettura
442

delle prime pagine della creazione, si può notare che Paolo inserisce l'elemento
nuovo della speranza di cui non si parla in Gn 2-3. In questo sguardo sul futuro
disegno divino, prosegue la personificazione della creazione: essa è come uno
schiavo che sarà «liberato... per la libertà» . Da una parte, la schiavitù della
443

creazione si identifica con l'ineluttabile corruzione, a causa della sottomissione,


dall'altra, la libertà si identifica con la gloria dei figli di Dio alla quale parteciperà
la stessa creazione.
[v. 22] Anche il motivo del parto, come simbolo della sofferenza umana e
del creato, è tipico dell'apocalittica giudaica ; e a causa della condivisione del-
444

l'umano destino, per Paolo la creazione non geme e soffre soltanto in modo in-
tenso ma geme e soffre con i credenti e con lo Spirito, come dirà nei versi suc-

440 Per le corrispondenze con Rm 1 cfr. N. Walter, Gottes Zorn und das Harren der Kreatur. Zur
Korrespondenz zwischen Römer 1,18-32 und 8,19-22, in K. Kertelge - T. Holtz - C.P. März (edd.), Christus
Bezeugen, FS. W. Trilling, Leipzig 1989, pp. 218-226. A sua volta, A. Gieniusz, Suffering, pp. 153-154,
preferisce tradurre il sostantivo con « assurdo », « assurdità »,ricorrendoal valore di hebel in Qoelet. In tal
caso, Dio stesso avrebbe sottomesso la creazione all'assurdità, dimostrando che il principio della retribu-
zione non regge. In tal modo, l'assurda sofferenza della creazione spiega quella dei credenti. Per quanto
originale, l'ipotesi è talmente artificiale da essere inconsistente, soprattutto per il valore del verbo mataioö
nell'epistolario paolino e per l'attribuzione dell'assurdità alla relazione tra Dio e la creazione.
441 Con buona pace di R.J. Dillon, Spirit, p. 698; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 605; U. Vanni, Creazione,
pp. 315-316, che considerano Dio come soggetto anche per «colui che l'ha sottomessa». Invece l'inter-
pretazione adamitica era già sostenuta da Giovanni Crisostomo, Ad Romanos 14,5. Così anche B. Byrne,
Romans, p. 258; H. Schlier, Romani, p. 431; U. Wilckens, Römer, II, p. 154. Per costringere l'argomenta-
zione paolina in un suo progetto interpretativo, A. Gieniusz, Suffering, pp. 154-158, distingue tra funzio-
ne di agente e quella di causa del verbo hypotassein, attribuendo a Dio le due azioni di sottomissione.
Questa esegesi è forzata perché sembra finalizzata a dimostrare, attraverso la sofferenza della creazione,
l'assurdità dell'azione divina. Piuttosto, proprio per il valore giuridico di ouk ekousa che A. Gieniusz,
Suffering, pp. 154-156, rende bene con «non per sua colpa», il soggetto di «colui che l'ha sottomessa» è
questa volta l'essere umano, sul quale Paolo faricaderela colpa.
442 L'espressione « nella speranza » va collegata all'aoristo hypetage e non all'immediato hypotaxan-
ta. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 516.
443 Cfr. anche questa figura etimologica o paregmenon in Gal 5,1: con la ripetizione della radice
eleuth- nel verbo e nel sostantivo, si insiste sul contenuto dei termini; Paolo sembra dire che « veramente
la creazione sarà liberata».
444 In questa tematica è possibile che Paolo richiami ancora una volta i dolori della gravidanza an-
nunciati ad Eva: così D.T. Tsumura, An OTBackground to Rom 8.22, in NTS 40 (1994) 620-621. Tuttavia
questo rappresenta un tema comune nell'apocalittica giudaica che non può essere ignorato: cfr. Is 26,17;
66,8; Ger 4,31; Os 13,13; Mi 4,9-10; 1QH 3,7-18; lEn 62,4; 4Esd 10,6-16; 1QH 3,7-18; per il NT cfr. lTs
5,3; Me 13,8; Mt 24,8; Gv 16,21; At 2,24; Ap 12,2. Il motivo della terra che partorisce è utilizzato anche
nella filosofia greca: cfr. Eraclito stoico, Quaestiones homericae 39.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 305
cessivi . In questa negativa condivisione, Paolo sottolinea, con enfasi, che tutta
445

la creazione congeme e consoffre, estendendo il valore di ktisis all'umanità,


esclusi i credenti di cui parlerà nei versi successivi. Tuttavia, è bene precisare che
egli non tratta della sofferenza della creazione per una profetica teologia dell'e-
cologia, per quanto questi versi possano essere utilizzati in vista di una relazione
positiva tra l'uomo e la natura , bensì per rassicurare i credenti che le loro sof-
446

ferenze sono simili a quelle di tutta la creazione: non compromettono la parteci-


pazione alla gloria finale, nonostante la loro presenza . 447

[v. 23] Il secondo livello della dimostrazione, dedicata alla relazione para-
dossale tra le sofferenze e la gloria, riguarda il gemito di coloro che posseggono
la primizia dello Spirito. I vv. 23-25 sono disposti in forma circolare (a-b-a'): si
passa dai gemiti nell'attesa della figliolanza (a), all'attesa di ciò che non vedia-
mo (a'), attraverso la relazione tra la salvezza e la speranza (b) . La parte cen- 448

trale, ossia il dinamismo apocalittico-escatologico o, se vogliamo, quello tra la


condizione delle attuali sofferenze e la partecipazione alla speranza finale (b), è
quella più importante, perché attraverso l'orizzonte della speranza possiamo at-
tendere nelle sofferenze (a) e aprirci alla perseveranza (a'). In questa trattazione
del gemito dei credenti suscita meraviglia l'attesa della figliolanza: Paolo sembra
contraddirsi rispetto a quanto ha appena sostenuto in Rm 8,14-17, ossia che la
prima conseguenza della presenza dello Spirito è proprio il dono della figliolan-
za divina. Dunque, la figliolanza divina è un dono che abbiamo ricevuto (cfr. v.
15), con implicazioni per il presente e il futuro oppure è qualcosa che dobbiamo
ancora attendere?
L'affermazione paolina dovette risultare strana già per alcuni copisti della
lettera, se riportano il v. 23 senza il sostantivo huiothesia . In tal caso, la lezione
449

più difficile è da preferire, poiché in tal modo sarebbe semplificata la tensione tra
il v. 15 e il v. 23. Tuttavia, anche se omettiamo huiothesia, rimane una sostanzia-
le tensione tra l'attesa della redenzione del nostro corpo e la generale soteriolo-
gia paolina per la quale siamo già stati riscattati dal peccato e dalla morte . Per 450

445 Volutamente sono usati in questo verso gli hapax legomena composti systenazein e synödinein in-
vece del semplice stenazein che usa nell'immediato v. 23 e di ódinein attestato in Gal 4,19.27.
446 Cfr. a tal proposito W. Bindemann, Die Hoffnung der Schöpfung: Rom 8,17-27 und die Frage ei-
ner Theologie der Befreiung von Mensch und Natur, Neukirchen 1983.
447 Per il mistero del dolore come preludio alla fase apocalittica della storia cfr. Dn 7,21-22.25-27;
12,1-3; 4Esd 5,1-13; 6,13-24; 9,1-3; 2Bar 25,2-3; 27,1-15; 48,30-31; 70,2-10; Or. Sib. 1,162-165. Da que-
sto punto di vista, la tesi di A. Gieniusz, Suffering, è ben fondata e originale, anche se a volte l'autore si
innamora troppo della sua bella intuizione, da volerla imporre ovunque in Rm 8,18-20.
448 Anche in questo caso, A. Gieniusz, Suffering, pp. 190-191, pur riconoscendo questo tipo di com-
posizione, preferisce seguire il modello retorico della propositio, delle prove e della conclusione. Forse so-
no troppe lepropositiones identificate dall'autore per essere tutte vere!
449 Cfr. P44 , D, G, 614; cfr. anche 1'Ambrosiaster.
vid

450 Negli altri casi in cui Paolo utilizza il sostantivo apolytrósis (riscatto), lo contestualizza general-
mente nel passato o nel presente della salvezza compiuta in Cristo (cfr. Rm 3,24; ICor 1,30; cfr. anche Col
1,14; Ef 1,7); soltanto in Ef 1,14; 4,30 ilriscattoèriferitoal futuro escatologico. Per questo non ci sembra che
l'interpretazione di J. Swetnam, On Romans 8,23 and the «Expectation ofSonship », in Bib 48 (1967) 102-
108,risolvail problema: per l'autore, il verbo apekdechomai andrebbe inteso nel senso debole di « dedurre »
o di «comprendere». Invece, per il senso forte del verbo cfr. anche Rm 8,19.25; ICor 1,7; Gal 5,5; Fil 5,5.
306 Traduzione e commento
chiarire il senso di questa originale attesa della figliolanza è necessario prendere
in seria considerazione la tensione tra l'apocalittica e l'escatologia paolina e con-
siderare la consistenza della figliolanza divina.
Si può notare che anche rispetto alla giustizia si verifica la stessa tensione tra
la nostra giustificazione passata, per mezzo della fede in Cristo (cfr. Rm 5,1), e la
speranza della giustizia (cfr. Gal 5,5). Per Paolo rimane vero che siamo stati giu-
stificati e posti nella nuova condizione di figli di Dio; ma la giustificazione e la fi-
gliolanza non sono ancora piene perché continuiamo a vivere, come tutti gli altri,
nella carne mortale (cfr. Rm 7,24). Per questo, è preferibile non soltanto lasciare
il sostantivo huiothesia, ma conferire al verbo apekdechomai il suo valore forte,
perché esprime l'attesa della redenzione del nostro corpo, di fronte al mistero del-
la sofferenza, anche se abbiamo la primizia dello Spirito. In questa tensione tra la
figliolanza nello Spirito e l'attesa della futura figliolanza, che si identifica con la
partecipazione alla gloria, trova spazio quella parte del tragico umano che ha an-
cora qualcosa da dire anche ai credenti e che rimane in parte irrisolto anche per
quanti sono stati liberati dallo Spirito.
La tensione tra l'apocalittica e l'escatologia è causata dallo stesso Spirito,
definito come primizia (aparche) . A prima vista, il sostantivo aparché sembra
451

richiamare il contesto cultuale delle primizie offerte al Signore . A ben vedere, 452

in questi versi manca del tutto l'orizzonte cultuale e non è utile per cogliere il sen-
so della metafora: mentre le primizie sono offerte al Signore, lo Spirito è la pri-
mizia donata da Dio a noi. Altrove, Paolo preferirà definire lo Spirito come ca-
parra, in vista del dono finale nell'incontro con Cristo (cfr. 2Cor 1,22; 5,5; Ef
1,14). Per questo, preferiamo lasciare la metafora della primizia nel contesto agri-
colo generale. Nel trattare dellarisurrezionedei corpi Paolo ha applicato la stessa
metafora a Cristo, la primizia (cfr. ICor 15,20.23); e la pienezza del raccolto sarà
larisurrezionedel nostro corpo spirituale (cfr. ICor 15,44).
[vv. 24-25] La seconda parte di Rm 8,18-30 si conclude con il significato del-
la speranza: in vista di essa siamo stati salvati . Naturalmente, la speranza a cui
453

si riferisce è quella della partecipazione alla gloria (cfr. Rm 5,2) e alla pienezza
della figliolanza iniziata con il dono dello Spirito. In poche battute, Paolo richia-
ma le coordinate della salvezza: siamo stati salvati con la partecipazione alla
454

morte di Cristo; e tale salvezza èrivoltaverso il futuro della piena realizzazione.


Tuttavia anche la speranza cristiana, per quanto sia fondata sulla fede e sulla
partecipazione alla risurrezione di Cristo, non si identifica con ciò che si vede
bensì con ciò che, pur credendo, non vediamo. Ciò che risulta fondamentale è la
perseveranza che nei credenti produce l'attesa della speranza della gloria: si può
451II genitivo « primizia dello Spirito » è epcsegetico in quanto lo Spirito si identifica con la stessa
primizia.
452Cfr. Dt 26,1-15. Il termine aparche è tipicamente paolino: nelle sue lettere si trova 7 volte su 9 del
NT (cfr. Rm 11,16; 16,5; ICor 15,20.23; 16,15; 2Ts 2,13; cfr. anche Gc 1,18; Ap 14,4).
453Cfr. G. Nebe, Hoffnung, pp. 89-94.
454Fra i verbi usati per la soteriologia paolina, sózein assume generalmente una connotazione futura:
saremo salvati (cfr. Rm 5,9.10; 9,27; 10,9.13; 11,26; ICor 3,15; 7,16.16), anche se non mancano riferi-
menti al passato e al presente della salvezza (cfr. ICor 1,18.21; 15,2; Ef 2,5.8).
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 307
notare come in questa relazione tra la perseveranza e la speranza, Paolo richiami
le dense asserzioni di Rm 5,3-4: la tribolazione genera la perseveranza, sino al do-
no finale della speranza. Invece, qui la speranza genera la perseveranza che risul-
ta fondamentale nell'orizzonte della relazione paradossale tra sofferenze presenti
e partecipazione alla gloria futura.
[v. 26] Al grido e all'attesa della creazione e dei credenti si aggiunge quello
dello Spirito che ci aiuta di fronte alla debolezza della nostra perseveranza . In 455

quest'azione dello Spirito è riconoscibile la sua forza vivificante (cfr. Rm 8,11),


ben attestata nell'AT , ma anche la sua permanente presenza di fronte alla costi-
456

tutiva debolezza dei credenti . Concretamente, la nostra debolezza si esprime non


457

tanto nel tipo inadeguato di preghiera bensì nel contenuto stesso della nostra ora-
zione; per questo è necessaria la presenza in noi dello Spirito che intercede con ge-
miti inesprimibili . L'AT attesta molte preghiere di intercessione,rivoltea Dio da
458

personaggi come Abramo e Mosè , ma la novità principale di quest'affermazione


459

paolina si trova nel fatto che, di fronte all'incapacità umana di sapere che cosa più
che come chiedere, interviene lo Spirito che intercede in noi e per noi. Forse questa
originale espressione è dovuta alla profonda relazione tra Gesù Cristo e lo Spirito,
tipica di Rm 8: l'intercessione dello Spirito si collega a quella di Cristo (v. 34) . 460

Alcuni intravedono, nei gemiti inesprimibili dello Spirito, l'esperienza estati-


ca della glossolalia descritta in ICor 14, caratterizzata dall'espressione di voci inar-
ticolate e incomprensibili . Di fatto, Paolo non asserisce che quella dello Spirito è
461

una incomprensibile intercessione, ascoltata, comunque, nella comunità, bensì che


si tratta di una muta intercessione, non verbale, che è la condizione contraria della
glossolalia . D'altro canto, se la glossolalia è un carismariservatoad alcuni nella
462

comunità, qui l'intercessione inespressa dello Spirito siriferisceal noi di tutti i cre-
denti . Pertanto, in qualsiasi preghiera di domanda, lo Spirito intercede per noi da-
463

vanti a Dio; egli è come l'avvocato (il paraclito) che prende le nostre difese, di fron-
te a un tribunale giudicante. D'altro canto, qui Paolo siriferiscenon al modo più o
meno giusto di pregare ma al contenuto della preghiera e, in particolare, alla luce
della tesi specifica del v. 18, alla preghiera in situazioni di cattività e di sofferenze . 464

455II verbo composto synantilambanein, utilizzato soltanto qui e in Le 10,40 per il NT (per la LXX
cfr. Es 18,22; Nm 11,17; Sai 88,22), esprime bene la necessaria collaborazione dello Spirito per perseve-
rare nella speranza, a causa del nostro stato di debolezza.
456Cfr. Is 32,15-18; 44,3-5; Ez 36,26-27; GÌ 3,1-2.
457La quotidiana presenza dello Spirito è attestata soprattutto nella letteratura qumranica (cfr. lQtì
7,6; 12,11-12; 13,18-19; 16,12). Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 615.
458L'affermazione sull'intercessione dello Spirito in noi è unica nel NT, anche se non mancano le
connessioni tra la preghiera e lo Spirito (cfr. Rm 15,30; Ef 6,18; Le 11,9-12; Gd v. 20).
459Cfr. Gn 18,23-33; Es 8,8.12.28-30; Lv 16,21-22; Nm 6,23-27; 2Sam 12,16; IRe 18,22-40; Tb 12,12;
Test. Levi 3,5,6; As. Mosè 11,14-16.
460Cfr. anche E.A. Obeng, The Origin of the Spirit Intercession Motif in Romans 8.26, in NTS 32
(1986) 621-632.
461Cfr. E. Kàsemann, Romans, p. 241.
462L'aggettivo alaletos (inespresso, indicibile) compare soltanto qui nel NT; lo stesso vale per il ver-
bo composto hyperentygkanein (intercedere per).
463Per l'esclusione diriferimentialla glossolalia in Rm 8,26-27 cfr. anche E. Vallauri, I gemiti dello
Spirito Santo (Rom 8,20s.), in RivB 27 (1979) 95-113.
464Quest'aspetto è posto bene inrisaltoda A. Gieniusz, Suffering, pp. 216-217; E. Vallauri, Gemiti, p. 110.
308 Traduzione e commento
[v. 27] In una relazione dinamica, Paolo sottolinea che Dio conosce il pen-
siero dello Spirito che in Rm 8,6 ha identificato con la vita e la pace; ora egli ag-
giunge che all'origine del pensiero dello Spirito si trova l'intercessione per i cre-
denti, riconosciuti come « santi » . 465

Di per sé colui che scruta i cuori potrebbe essere anche lo Spirito stesso, che
altrove è definito come « colui che scruta tutte le cose, anche le profondità di Dio »
(cfr. ICor 2,IO) . In tal caso lo Spirito di Dio entrerebbe in relazione con il nostro
466

spirito, come in Rm 8,16. Tuttavia, qui non si dice che lo Spirito attesta al nostro
spirito ma che lo Spirito conosce il nostro spirito perché intercede per i santi,
espressione non riscontrabile altrove nel NT. Per questo, è preferibile pensare a
Dio come soggetto di colui che scruta o discerne i cuori (cfr. lTs 2,4) ; e, poiché 467

non soltanto noi siamo nello Spirito ma lo Spirito è in noi, Dio conosce il suo pen-
siero, motivato dalla salvezza per quanti sono in Cristo.
[v. 28] L'ultima parte della dimostrazione paolina sulla relazione paradossa-
le tra le sofferenze e la gloria, è dedicata al disegno di Dio, com'è tipico del ge-
nere apocalittico: Paolo estende ulteriormente lo sguardo sulla rivelazione della
volontà divina per coloro che amano Dio.
La prima parte presenta una variazione testuale: alcuni codici presentano ho
theos come soggetto che coopera in tutto per coloro che lo amano ; è preferibi- 468

le la lezione senza laripetizionedi theos, sia per la maggiore attestazione sia per-
ché è raro il valore transitivo del verbo «cooperare» (synergein) nel greco elle-
nistico . Anche la Vulgata traduce così: «...Omnia cooperantur in bonum». In
469

base al contesto, «tutte le cose» (panta) si riferiscono alle molteplici situazioni


di sofferenza e di impotenza nelle quali si trovano i credenti. Queste, invece di
porre in discussione il disegno elettivo di Dio, devono rafforzare la perseveranza
di coloro che lo amano, ossia di quanti sono chiamati secondo il suo disegno sal-
vifico . Il bene, come orientamento e finalità di tutto ciò che sperimentano i cre-
470

denti e dello stesso disegno divino, non è che un modo diverso per esprimere la
conclusiva partecipazione alla gloria . Contro qualsiasi interpretazione indivi-
471

dualistica , il disegno elettivo di Dio assume per Paolo sempre una dimensione
472

comunitaria ; e poiché consiste fondamentalmente nella salvezza, riguarda non


473

465 Per hagios (santo),riferitoa tutti i credenti e non ad alcuni, cfr. Rm 1,7; 12,13; 15,25; 16,15; ICor
1,2; 6,2; 16,1.15; 2Cor 1,1; 13,12; Fil 1,1; 4,22; Fm v. 5. A causa della sua universalizzazione, in questi ca-
si il termine « santo » non esprime tanto la condizione etica quanto quella elettiva: tutti i credenti sono san-
ti in quanto eletti da Dio, in continuità con la relazione tra santità ed elezioneriferitaa Israele nell'AT.
466 Cfr. G.W. MacRae, A Note on Romans 8:26-27, in HTR 73 (1980) 227-230.
467 Per la capacità divina della conoscenza del cuore umano cfr. anche 2Ts 2,17; 3,5; 2Cor 4,5; Ap 2,23;
perl'ATcfr. ISam 16,7; lRe8,39; lCr28,9; Sai7,11; 17,3; 139,1.
468 Cfr. P , A, B, 81.
46

469 Per la lezione senza ho theos cfr. K,C,D,F,G,W, 33,1739,1881. Così anche B. Byrne, Romans,
p. 272; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 622. Per synergein cfr. anche Me 16,20; ICor 16,16; 2Cor 6,1; Gc 2,22;
Test. Ruben 3,6; Test. Gad 4,7; Test. Issacar3,l.
470 Per questa connotazione elettiva o di appartenenza più che etica di « coloro che amano Dio » cfr.
anche ICor 2,9; 8,3; Ef 6,24; cfr. anche Dt 6,5; 7,9; 10,12; Sai 31,24; 97,10; Sir 1,10; 2,15-16; 47,22; Sai.
Salom. 4,25; 6,6; 10,3; 14,1; lEn 108,8; 4QpSal 37.3.
471 Cfr. anche Sir 39,25.27.
472 Cfr. l'interpretazione individuale di Agostino, De correptione et grafia 7,14.
473 Cfr. con questo significato prothesis in Rm 9,11; Ef 1,11; 3,11; 2Tm 1,9.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 309
soltanto alcuni (valore esclusivo) ma tutti gli esseri umani (valore assertivo o in-
clusivo), anche se, nella sua concretizzazione storico-salvifica, passa attraverso il
dinamismo dell'elezione.
[vv. 29-30] Il disegno divino è delineato in cinque fasi, attraverso un climax
ascensionale: si procede dalla preconoscenza alla predestinazione, alla chiamata,
alla giustificazione e alla glorificazione . L'identificazione del climax, con la
474

parentesi esplicativa sulla portata cristologica della predestinazione (v. 29b), per-
mette di cogliere gli aspetti che meritano maggiore attenzione: la preconoscenza
e la glorificazione . 475

Il disegno di Dio consiste prima di tutto nella preconoscenza per coloro che
10 amano, che significa, di fatto, l'amore di Dio per noi . Amare o conoscere Dio
476

significa prima tutto essere amati e conosciuti da lui (cfr. anche Gal 4,9). Prima di
qualsiasi scelta per Dio, si trova il suo disegno storico-salvifico, dinamizzato dal
suo amore per noi. La preconoscenza di Dio non è astratta ma è storicamente visi-
bile nella sua predestinazione per tutti con e nella persona del Figlio suo. Rispetto
alla predestinazione è importante precisare che, ogni volta che Paolo ne parla, la
collega sempre a Gesù Cristo e non alla questione della duplice predestinazione al
bene e al male . Poiché Gesù Cristo è il Figlio di Dio sin dall'eternità, la prede-
477

stinazione consiste non nella categorizzazione dei buoni e dei cattivi né nell'esse-
re genericamente a immagine e somiglianza di Dio ma nel partecipare alla fi-
478

gliolanza divina (cfr. Ef 1,5), nell'essere conformi all'immagine del suo Figlio.
A sua volta, la conformazione all'immagine di Cristo consiste nella parteci-
pazione alla sua morte e alla sua risurrezione (cfr. Fil 3,10) o nella condivisione
della sua gloria (cfr. Fil 3,21); se altrove Paolo considera Cristo come l'icona di
Dio (cfr. 2Cor 4,4; Col 1,15), qui sottolinea che quanti sono predestinati sono
chiamati a diventare conformi all'icona di Cristo. Con questa spiegazione, che
interrompe per un attimo il movimento del climax, Paolo sembra dire che la par-
tecipazione alle sofferenze di Cristo è la via per condividere la suafigliolanzaed
è già inclusa nella nostra stessa predestinazione: la protologia e l'escatologia
coincidono, perché alla fine si compie ciò che Dio ha stabilito nel suo eterno di-
segno di amore. Poiché la predestinazione consiste nella partecipazione alla fi-
gliolanza divina, Gesù Cristo è il primogenito fra molti fratelli : con la nostra 479

adozionefilialeegli non è più l'unigenito ma diventa il primogenito (prótotokos),


in quanto molti sono diventati suoi fratelli, attraverso il dono del suo Spirito.
Questa parentesi della gradazione è posta per sottolineare che, in tutte le fasi del
474Non è un caso che lafiguraretorica del climax incornici la parte centrale della Lettera ai Romani:
in Rm 5,3-4 si trova il climax della tribolazione sino alla speranza; qui quello del disegno divino che per-
mette di affrontare con forza ogni sofferenza.
475Contrariamente al chiasmo, abbiamo già evidenziato per Rm 5,3-4 che nel climax o gradatio il
messaggio principale si trova non nella parte centrale ma nei limiti della scala.
476Paolo utilizza il verbo proginóskein soltanto qui e in Rm 11,2 per la preconoscenza di Dio verso
11 suo popolo. Sulla conoscenza elettiva di Dio cfr. Ger 1,5; Am 3,2; Sai 1,6; 1QH 1,7-8; CD 2,8; ICor 8,3;
lPt 1,20; 2Pt 3,17.
477Cfr. anche 2Cor 2,7; Ef 1,5.11.
478Per l'uomo creato a immagine di Dio cfr. Gn 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23.
479Cfr. anche l'attributo cristologicoprótotokos in Col 1,15.18, cfr. anche Eb 1,6; 2,10; Ap 1,5.
310 Traduzione e commento
disegno divino, l'orizzonte è sempre quello cristologico: non soltanto il mistero,
nascosto per i secoli, è stato rivelato ma soprattutto si è anche realizzato in Cristo
(cfr. Rm 16,25-27).
In questo contesto, come generalmente per Paolo, essere chiamati significa
essere scelti da Dio, eletti a far parte della sua alleanza o partecipare alla comu-
nione con suo Figlio (cfr. ICor 1,9); per questo, anche la chiamata di Dio non è
individualistica ma universale: riguarda tutti, pur nelle coordinate storico-tempo-
rali della sua realizzazione; anzi, attraverso l'elezione di alcuni, come vedremo in
Rm 9,1 - 11,34, Dio chiama tutti . 480

La prospettiva cristologica del disegno divino è confermata dal terzo gradi-


no che coniuga la chiamata con la giustificazione: Dio giustifica non a prescinde-
re ma sempre per mezzo di Cristo (cfr. Rm 3,24; 5,1), perché Paolo ha già dimo-
strato che neppure per mezzo delle opere della Legge sarà mai giustificato qual-
cuno (cfr. Rm 3,20). Quest'unicità della giustificazione divina è dovuta al fatto
storico che si è realizzata soltanto con il sangue di Cristo (cfr. Rm 5,9). Come ve-
dremo, quest'unicità non esclude la permanenza dei doni che Dio ha fatto al suo
popolo, al punto che rimane la figliolanza d'Israele, ma l'unica via della giustifi-
cazione compiuta da Dio è quella realizzata con il sangue del suo Figlio.
A conferma della tematica generale di Rm 8,18-30, la speranza della gloria,
l'ultimo gradino della scala è occupato dalla relazione tra la giustificazione e la
glorificazione. Attraverso l'uso del verbo «glorificare» in Romani, si può co-
gliere una sorta di paradosso: se gli esseri umani non hanno glorificato Dio (cfr.
Rm 1,21), questi li ha glorificati con e nella persona del Figlio . L'uso del verbo
481

al passato « li ha glorificati » (edoxasen) potrebbe essere anche semplicemente ar-


gomentativo o gnomico, nel senso che saremo glorificati soltanto con lafinedel-
la storia, quando sarà realizzata la redenzione del nostro corpo. In realtà, qui
Paolo ricollega la prospettiva escatologica della speranza della gloria alla stessa
rivelazione della gloria compiuta in Gesù Cristo: la glorificazione in Cristo si
identifica con la piena partecipazione allafigliolanzadivina. Da questa glorifica-
zione compiuta in Cristo prende consistenza la nostra speranza nella gloria futu-
ra. Se, nello snodarsi della dimostrazione di Rm 8,18-30, il disegno divino, che
culmina con la glorificazione, si trova alla fine, dal punto di vista contenutistico
precede qualsiasi prova addotta da Paolo per sottolineare la paradossale compre-
senza delle sofferenze e della gloria. Per questo, la scala tematica di Rm 8,29-30,
pur trovandosi alla fine dell'unità, precede e motiva quella di Rm 5,3-4: non sol-
tanto le sofferenze dei credenti non intralciano la partecipazione alla gloria finale
ma sono incluse nel disegno divino, nella partecipazione alla sua gloria.
L'amore dì Dio e di Cristo (8,31-39). - Forse non si esagera se si sostiene che
con gli ultimi versi di Rm 8 Paolo raggiunge i vertici del lirismo e, come spesso,
le sue asserzioni più elevate riguardano la relazione con Cristo. L'unità letteraria

Cfr. anche lTs 2,12; 2Ts 2,13-14; 1QM 3,2; 4,10-11. Per la chiamata come gesto creativo di Dio
480

cfr. Rm 9,25-26; ICor 26-28; cfr. anche Os 1,10; Sir 36,17; Giub 1,25; 4Esd 6,58; 4QDibHam 3,4-5.
Così anche B. Byrne, Romans, p. 273; J.D.G. Dunn, Romans, I, p. 485.
481
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 311
della pericope è abbastanza chiara: comincia con una serie di domande retoriche
alla prima persona plurale (v. 31) e si conclude con una dossologia all'amore di
Dio in Cristo (v. 39). Dal punto di vista retorico torna lo stile della diatriba attra-
verso sette domande lapidarie, il catalogo peristatico o delle difficoltà (v. 35), e le
coppie terminologiche polari (vv. 38-39) . 482

L'inno all'amore di Dio e di Cristo trova la sua origine prossima nelle ultime
battute della pericope precedente, in cui Paolo ha sostenuto che « tutto coopera al
bene di coloro che amano Dio » (v. 28). La lista delle difficoltà concretizza la par-
tecipazione alle sofferenze di Cristo; e attraverso il motivo della perseveranza
nelle persecuzioni, si può evidenziare la relazione con Rm 8,18-30 e con l'unità
di Rm 5,1 - 8,30. Nella stessa direzione si collocano la relazione tra Dio e Gesù
Cristo (cfr. Rm 5,8-10) e la negazione di qualsiasi condanna per gli eletti di Dio.
Per questo è opportuno considerare questi versi come la perorazione conclusiva
dell'unità: riprendendo i collegamenti tra la tesi dell'unità e questa perorazione,
poiché siamo stati giustificati da Dio in Cristo e siamo in pace con lui (Rm 5,1-2),
non abbiamo nulla da temere (Rm 8,31-39).
Questa perorazione innica si compone di due parti fondamentali: a) l'esclu-
sione della condanna (vv. 31-34); b) l'amore di Cristo e di Dio (vv. 35-39) . 483

Nella prima parte si susseguono cinque incalzanti domande che pervengono a una
pausa con la professione di fede nel kèrygma pasquale (v. 34) ; nella seconda 484

parte l'attenzione si concentra sull'amore di Cristo per chiudersi con la dossolo-


giarivoltaall'amore di Dio in Cristo (v. 39) . Dalle relazioni fra le principali in-
485

clusioni della pericope emerge una significativa composizione chiastica:


(a) « per noi » di Dio (v. 31);
(b) « per noi » di Cristo (v. 34);
(b') l'amore di Cristo (v. 35);
(a') l'amore di Dio (v. 39) . 486

Tuttavia, è bene non separare nettamente queste parti della perorazione, per-
ché è attraversata dal linguaggio forense : si parla di accusati, accusatori, difen-
487

sori e vincitori. Poiché, come spesso in Romani, il vocabolario forense è a servi-


zio di quello diatribico, è inutile pensare nuovamente a un rtb o a una contesa giu-

482 Cfr. a tal proposito A.H. Snyman, Style and Rhetorical Situation ofRomans 8.31-39, in NTS 34
(1988)218-231.
483 Così anche J.-N. Aletti, Israel, p. 19; B. Byrne, Romans, p. 275; D.J. Moo, Romans, p. 538.
484 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 630, che considera ogni proposizione dei vv. 31-35
come domanda, è preferibileritenerei vv. 33b.34b come affermazioni che interrompono l'incalzare delle
domande, con risposte brevi, determinando il dialogo fittizio dello stile diatribico.
485 Queste due parti dell'inno sono caratterizzate da due inclusioni: nella prima c'è l'inclusione de-
terminata dalla formula hyper hèmòn (per noi, vv. 31.34), nella seconda quella tra l'amore di Cristo e di
Dio, con laripetizionedel verbo « separare» (chòrizein, vv. 35.39).
486 Come spesso nel chiasmo, la parte centrale (b-b') è anche quella principale: di fatto, l'amore di
Dio (a-a') è comprensibile e verificabile in quello di Cristo, e non l'inverso, anche se Paolo comincia e
chiude l'inno con Dio, per cui si tratta di un inno propriamente teologico.
487 Al vocabolario forense appartengono i verbi egkalein (accusare, v. 33), dikaioun (giustificare, v.
33), katakrinein (condannare, v. 34), entygchanein (intercedere, v. 34) ed hypernikein (essere supervinci-
tore, v. 37). Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 629.
312 Traduzione e commento
diziaria di origine profetica. Anche in questo caso, l'intenzione di Paolo non con-
siste nel determinare chi sia giusto o ingiusto, al fine di identificare il colpevole e
di ristabilire una giustizia infranta, bensì nel dimostrare il sovrastante disegno di
Dio, l'universale giustificazione in Cristo.
[8,31] La perorazione comincia con una domanda che si riferisce alle soffe-
renze dei credenti rapportate alla gloria finale (vv. 18-30) e a tutta l'unità di Rm
5,1 - 8,30: Paolo stabilisce il punto conclusivo verso il quale ha condotto i desti-
natari: « Dunque, che cosa diremo dopo queste realtà? ». A questa domanda di col-
legamento ne succede una sulla posizione di Dio di fronte alle sofferenze che, ine-
vitabilmente, toccano anche quanti sono stati giustificati. Come in un ideale tribu-
nale, egli si trova dalla nostra parte, « è per noi » , mentre nessuno potrà occupare
488

il suo posto per condannare i credenti, attribuendo le loro sofferenze alla retribu-
zione divina. Riprendendo i collegamenti con Rm 5,1-11, si coglie che la fiducia
sulla posizione di Dio si regge e si esprime nel suo amore per noi (cfr. Rm 5,8).
[v. 32] Per fondare la posizione di Dio di fronte a qualsiasi accusatore, Paolo
sottolinea con enfasi che Dio «non ha risparmiato il proprio Figlio» anzi, attra-
verso una correctio retorica, precisa che « lo ha consegnato per tutti noi ». In Rm
5,8 si era limitato a dire che «Dio dimostra il suo amore per noi perché mentre
eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi »; ora, esplicita questa relazione
tra Dio e suo Figlio.
Nella prima parte del v. 32 èriconoscibileuno schema di professione di fede,
tipicamente paolino: Dio + donare o consegnare + il Figlio + per + i destinata-
ri . Rifacendosi allo stesso modello di fede, Giovanni dirà che « Dio ha tanto
489

amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito affinché chiunque crede in lui non
muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Tuttavia, si può notare che, a differen-
za dagli altri paralleli paolini, qui è aggiunto « non harisparmiato» che,riferitoal-
la relazione tra Dio e suo Figlio, non trova paralleli nel NT . Per questo, sin dal-
490

l'esegesi patristica si è pensato a un collegamento con Gn 22,12.16: « ...E non hai


risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio, quello diletto, per me ». Commentando
Gn 22, così spiega Origene: «Per noi avviciniamo le parole dell'Apostolo, dove
dice di Dio: "Egli non harisparmiatoil proprio Figlio ma per noi tutti lo ha conse-
gnato". Vedi come Dio gareggia magnificamente in generosità con gli uomini:
Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale senza che questi morisse; Dio ha con-
segnato alla morte il Figlio immortale per gli uomini » . 491

Alcuni preferiscono relazionare l'espressione paolina all'esortazione di Da-


vide,riportatain 2Sam 18,5 («Risparmiate mio figlio Assalonne»), oppure al IV

La prima parte della pericope (vv. 31-34) è cadenzata dalla preposizione hyper (per): « per noi » è
488

Dio, « per noi » egli non harisparmiato(v. 32), « per noi » Cristo intercede (v. 34).
Con leggere variazioni, cfr. lo stesso schema in Rm 4,25; allo stesso modello appartiene anche la
489

formula in cui Cristo consegna o dona se stesso per gli altri (cfr. Gal 1,4; 2,20; Ef 5,2.25; cfr. anche lGv
3,16; Ignazio, Romani 6,1). Cfr. a tal proposito V. Fusco, Prime comunità cristiane, pp. 90-92.
II verbopheidesthai si trova 10 volte nel NT, di cui 7 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 11,21.21;
490

ICor 7,28; 2Cor 1,23; 12,6; 13,2), ma altrove non esprime la relazione tra Dio e Cristo.
Origene, Homilia in Genesim 8. Tale collegamento era già stato evocato da Ireneo, Adversus hae-
491

reses 4,5,4 e da Melitone di Sardi, Sulla Pasqua 59,430.


Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 313
carme del Servo sofferente di Is 53,12 («Ha consegnato se stesso alla morte»),
con la tematica della salvezza vicaria o sostitutiva . Dal confronto delle afferma-
492

zioni e dei relativi contesti si può notare che, se escludiamo il verbo «risparmia-
re», tra 2Sam 18,5 e Rm 8,32 non c'è alcuna relazione; anzi, si tratta di due af-
fermazioni contrarie: da una parte un padre (Davide) che supplica di risparmiare,
dall'altra uno (Dio) che non risparmia. Piuttosto, sembrano più consistenti i con-
tatti con Is 53, in cui l'accento è posto sulla funzione espiatoria e vicaria della
morte del Servo. Tuttavia, senza negare questi contatti, riscontrabili anche nelle
diverse narrazioni sulla morte di Gesù , questi sono insufficienti per cogliere l'o-
493

riginale formulazione di Rm 8,32. Di fatto, in Is 52,13 - 53,12 non si trovano mai


il sostantivo figlio (huios) né il verbo risparmiare; si parla del servo (Is 53,13) e
dell 'uomo dei dolori (Is 53,3) che « fu consegnato » (Is 53,12), senza esprimere la
relazione coinvolta tra un padre e suo figlio, come invece in Rm 8,32. Inoltre, nel
carme di Isaia manca la preposizione per (hyper) che in Rm 8,31-34 svolge una
funzione determinante: il Servo «è percosso a morte a causa dell'iniquità del po-
polo » (Is 53,8b) e per questo « il Signore lo consegnò a causa dei nostri peccati »
(Is 53,6). Di per sé, Isaia non dice che il Servo fu consegnato a nostro favore ma
a causa o al posto nostro. Dunque, se il carme di Is 53 pone bene in luce la fun-
zione salvifica di Gesù Cristo, è insufficiente per chiarire il senso della partecipa-
zione di Dio che non harisparmiatosuo Figlio.
Il solo parallelo per chiarire l'azione di Dio in Rm 8,32 è quello di Gn
22,12.16: di fatto, Gn 22,12.16 e Rm 8,32 sono gli unici passi del greco biblico in
cui il verbo «risparmiare» è preceduto da una negazione e seguito dal sostantivo
«figlio». Nell'uno e nell'altro caso si tratta di due padri che non risparmiano il
proprio figlio: le azioni principali sono svolte da Abramo e da Dio. Questi sostan-
ziali collegamenti tra Gn 22 e Rm 8,32 hanno portato a spiegare parte della sote-
riologia paolina con il teologumeno giudaico della äqedä o legamento d'Isacco,
4

con reazioni positive e negative . Intanto è importante riconoscere questo retro-


494

terra per cogliere il coinvolgimento di Dio nell'offerta del Figlio.


La parte positiva dell'azione di Dio è espressa con il verbo «consegnare»
(paradidömi) che svolge un ruolo centrale nella soteriologia paolina e in quella
neotestamentaria. Il primo livello dell'uso di questo verbo è quello più evidente:
alcuni consegnano Gesù ad altri: «Ilfiglio dell'uomo sarà consegnato ai sommi
sacerdoti... » (Me 10,33) . Senza ignorare questo livello imprescindibile della ge-
495

492 Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 632; S. Lyonnet, Dieu «n'a pas épargé son propre Fils, mais l'a
livré» Rm 8,32, in Romains, pp. 255-259; D.R. Schwartz, Two Pauline Allusions to the Redemptive
Mechanism ofthe Crucifixion, in JBL 102 (1983) 264-266.
493 Per l'importante retroterra di Is 52-53 nella soteriologia neotestamentaria cfr. G.K. Baele, The Old
Testament Background ofReconciliation in 2Corìnthians 5,14-21 andlts Bearing on the Literary Problem of
2Corinthians 6:14 - 7:1, in NTS 35 (1989) 550-581 ; P. Tremolada, «Efu annoverato fra iniqui »: Prospettive
di lettura della Passione secondo Luca alla luce di Le 22,37 (Is 53,12d) (AnBib 137), Roma 1997; O. Hofius,
Erwägungen zur Gestalt und Herkunft des paulinischen Versönungsgedankens, in Paulusstudien, Tübingen
1989, pp. 1-14.
494 Vedi 1 'excursus successivo a p. 314.
495 Cfr. anche Me 9,31; 14,10.11.18.21.41; 15,1; Mt 17,22; 20,18; 26,2; 27,2.26; Le 9,44; 18,32;
22,4.22; 24,7.20; Gv 12,4; 13,2; 18,35.36; At 3,13. Per alcuni, anche questo passivo «sarà consegnato»
dei sinottici ha valore teologico: Dio consegnerebbe Gesù. Tale ipotesi non trova fondamento perché non
314 Traduzione e commento
suologia neotestamentaria, attestato anche in ICor 11,23, Paolo sviluppa il livello
della partecipazione attiva di Gesù alla propria morte: « Mi ha amato e ha conse-
gnato se stesso per me » (Gal 2,20) . L'ultimo livello è rappresentato dalla parte-
496

cipazione attiva di Dio che « ha consegnato suo Figlio per tutti noi » . In questi 497

casi, i verbi all'aoristo assumono valore pregnante: siriferisconoall'evento della


croce. Dunque, sulla croce dove giustamente, secondo la narrazione sinottica, si
consuma la passione di Gesù Cristo che perviene al culmine nel suo grido di ab-
bandono (cfr. Me 15,34) o al massimo di fiducia (cfr. Le 23,46), Paolo sostiene
che Dio ha consegnato il suo Figlio, la persona che gli era più cara, l'unico Figlio.
Il percorso salvifico non è ascendente, da noi a Dio e neppure da Cristo a Dio, iti-
nerari assenti nella concezione paolina, ma discendente: da Dio e da Cristo a noi.
Al culmine della partecipazione di Dio si trova un'affermazione afortiori:
se Dio non ha risparmiato e ha consegnato suo Figlio per noi, a maggior ragione
ci donerà qualsiasi altro bene insieme con lui. Evocando l'argomento afortiori di
Rm 5,9, Paolo si riferisce alla salvezza finale dall'ira divina che, in positivo, si
identifica con la piena partecipazione alla gloria o alla figliolanza divina, con la
redenzione del nostro corpo (cfr. Rm 8,21-23). Tuttavia, l'accento è posto non
soltanto sul contenuto dei doni divini bensì soprattutto sulla grazia divina dalla
quale essi derivano, come dimostra l'uso del verbo charizesthai (donare) . 498

Senza l'accesso alla grazia (cfr. Rm 5,2), che si identifica con l'azione giustifi-
catrice di Dio, non è possibile ricevere nessun altro dono di Dio. Dal versante
propriamente teologico, questo significa che qualsiasi dono di Dio, soprattutto
quello del suo Figlio, non è determinato da alcuna condizione umana, neppure da
quella del peccato, bensì sempre e soltanto dalla sua grazia.
Excursus: L'àqèdà di Isacco e Gesù Cristo. L'analisi di Rm 8,32 ha fatto
emergere un significativo collegamento con il sacrificio di Isacco (Gn 22,12.16):
come Abramo nonrisparmiòl'unicofigliodella promessa così Dio non risparmiò
il suo unico Figlio. A tal proposito, bisogna riconoscere che si tratta di una cita-
zione implicita e che Gn 22 non è mai citato esplicitamente nell'epistolario pao-
lino: possiamo parlare di un discretoriferimento,riscontrabileanche in Gv 3,16.
Tale discrezione è dovuta principalmente all'esorbitante distanza tra i personaggi
in questione: da una parte si tratta di due persone umane, Abramo e Isacco, dal-
l'altra di Dio stesso e del suo Figlio, Gesù Cristo. Rimane aperta la questione su
come Paolo sia giunto a concepire la partecipazione attiva di Dio e di Gesù Cristo
nell'evento della croce, quando storicamente abbiamo evidenziato che Gesù Cristo
fu consegnato da alcuni ad altri e Dio stesso sembra distante dall'evento della cro-
ce, al punto da causare il grido di disperazione di suo Figlio: la questione è centra-
c i nessun passo sinottico in cui si dica esplicitamente che Dio consegna Gesù Cristo agli uomini. Per que-
sto, si tratta dell'applicazione indebita di un tratto caratteristico e proprio della soteriologia paolina che ha
corrispondenze soltanto in quella giovannea successiva.
496 Cfr. anche Ef 5,2.25. Cfr. anche l'espressione prepaolina di Gal 1,4: «...che ha dato (dontos) se
stesso per strapparci da questo presente secolo malvagio ».
497 Cfr. anche il passivo divino di Rm 4,25.
498 Questo verbo è tipico del linguaggio paolino: vi siriscontra16 volte su 23 del NT (cfr. ICor 2,12;
2Cor 2,7.10.10.10; 12,13; Gal 3,18; Fil 1,29; 2,9; Fm v. 22; Col 3,13; Ef 4,32.32).
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 315
le perché coinvolge l'origine della soteriologia paolina. Abbiamo dimostrato che
pur essendo presente, il carme del Servo sofferente (Is 52,13 - 53,12) permette di
cogliere la partecipazione di Gesù Cristo alla morte di croce, ma non quella di Dio.
Alcuni, riconoscendo l'assenza della piena corrispondenza tra il carme di
Isaia e Rm 8,32, preferiscono conferire maggiore consistenza all'evento di
Damasco come principale fonte di questo aspetto originale del pensiero paolino.
Poiché e come Dio ha realizzato la personalericonciliazionecon Paolo durante la
«vocazione-conversione-rivelazione» di Damasco, così tutti sono riconciliati da
Dio per mezzo dell'universale valore salvifico della crocifissione del Figlio (cfr.
2Cor 5,14-21) . A ben vedere, anche in questo caso, la coperta è troppo stretta
499

perché, ammesso che 2Cor 5,18-21 e Gal 1,13-16 si riferiscano all'evento di


Damasco, pongono bene in evidenza la funzione di Dio e non tanto quella del
Figlio. Non è un caso che quest'avvenimento è descritto soprattutto come teofani-
co, mentre in Atti è sempre descritto come una cristofania (cfr. At 9,1-19; 22,6-21;
26,12-18). Di fatto, il Figlio di Dio costituisce il contenuto dellarivelazionee non
il soggetto: Dio decide di rivelare suo Figlio a Paolo (cfr. Gal 1,15) e di riconci-
liarci con sé (cfr. 2Cor 5,18-21). Dunque, questo retroterra capovolge le accentua-
zioni del modello di Is 53 ma ancora non permette di cogliere la simultanea parte-
cipazione di Dio e del Figlio suo all'evento del Golgota, attestata in Rm 5,6.10 e
soprattutto in Rm 8,32.
Come abbiamo cercato di dimostrare altrove, l'unico retroterra possibile, per
la sincronica partecipazione di Cristo e di Dio all'evento della croce, è il teologu-
meno giudaico della 'àqèdà o legamento di Isacco . Per questo teologumeno, se
500

nella narrazione di Gn 22 agisce principalmente Abramo, mentre Isacco subisce il


sacrificio, in diverse fonti del giudaismo paraneotestamentario, Isacco svolge pro-
gressivamente un ruolo significativo nella narrazione: egli si dimostra ben disposto
a subire il sacrificio perché assumerà un valore inestimabile . In base a tali paral-
501

leli, la differenza tra Isacco e Gesù Cristo non si trova nel fatto che l'uno fu rispar-
miato dalla morte sacrificale mentre l'altro l'ha vissuta sino allafine,in quanto an-
che per tali fonti è come se realmente questi sia stato sacrificato. La novità sulla
quale Paolo pone l'accento è che sul Golgota si tratta di Dio stesso e di suo Figlio,
non semplicemente di due uomini che hanno creduto infinitamente in Dio.
Tuttavia, non manca chi ponga in discussione la consistenza di questo retro-
terra, soprattutto per il problema della datazione: le fonti giudaiche non possono
risalire oltre il periodo amoraitico (secoli II-III d.C.) . In realtà, se questo vale
502

499Cfr. S. Kim, The Origin ofPaul's Gospel, Tübingen 1981, pp. 13-20,311-315; Id., 2Cor. 5:11-21,
pp. 360-384.
500Per ilriferimentoalla 'äqedah in Rm 8,32 cfr. S. Meissen, Paulinische Soteriologie und die 'Aqedat
Itzchaq, in Judaica 51 (1995) 33-49; R. Penna, Il motivo della 'Aqedah sullo sfondo di Rom 8,32, in
L'apostolo Paolo, p. 199; Id., Ritratti, II, pp. 144-145; M. Pérez Fernändez, The Aqedah in Paul, in F. Manns
(ed.), The Sacrifice of Isaac in the Three Monoteistic Religions, Jerusalem 1995, pp. 81-94. Sui riferimenti
alla 'äqedah nel NT cfr. J. Swetnam, Jesus and Isaac. A Study ofthe Epistle to the Hebrews in the Light of
the Aqedah (AnBib 94), Roma 1981.
501Cfr. Gdt 8,25-27; Sir 44,19; Giub 17,15-18,19; 4Mac 13,12; 16,20; 18,11; Pseudo-Filone, LAB
18,5; 32,2-4; 40,2. In seguito, cfr. Flavio Giuseppe, Ant. giud. 1,225-235.
502Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 632; D.J. Moo, Romans, p. 540.
316 Traduzione e commento
per le fonti targumiche non si può dire lo stesso per 4Maccabei e per il Liber
Antiquitatum Biblicarum (LAB) dello Pseudo-Filone che sono vicine al NT e ri-
flettono la stessa matrice farisaica di Paolo, anche se non si può parlare esplicita-
mente di fontirisalentia questa corrente del giudaismo prima del 70 d.C. ma, al
massimo, di testi influenzati dal giudaismo farisaico . Qualora si dimostrasse
503

che 4Maccabei e il LAB risalgano al secolo II d.C., mentre riteniamo che appar-
tengono alla letteratura paratestamentaria, Paolo sarebbe il primo a relazionare,
per allusioni, la sua concezione della salvezza all'evento sacrificale di Gn 22: ed
è ciò che merita maggiore attenzione rispetto alle valutazioni che tendono a smi-
nuire questa connessione.
Fermando la nostra attenzione ai ruoli di Dio e del suo Figlio, non c'è dub-
bio che Paolo risale dalla partecipazione di Gesù a quella del Padre, mentre in
Gn 22 e nelle fonti paratestamentarie si verifica il percorso inverso: dalla centra-
lità del ruolo di Abramo progressivamente a quella di Isacco. Tuttavia, in Rm 8,32
Paolo sostiene che Dio svolge un ruolo decisivo perché è lui che « non ha rispar-
miato suo Figlio e lo ha consegnato per tutti noi »; altrove dirà che Dio « ha reso
peccato» (2Cor 5,21), «ha mandato il suo Figlio» (Gal 4,4) «in un'espressione
visibile della carne del peccato » (Rm 8,3). Il paradosso cristologico, secondo il
quale « Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando egli stes-
so maledizione» (cfr. Gal 3,13), diventa il paradosso di Dio che non risparmia il
suo unico Figlio per noi. In tal modo l'evento della croce non attesta la distanza
tra Dio e suo Figlio ma la profonda partecipazione di Dio stesso, al punto che pos-
siamo parlare di uno spostamento della situazione tragica: dal tragico dell'io e
della Legge, senza Cristo (cfr. Rm 7,7-25) a quello del creato, dei credenti e del-
lo Spirito (cfr. Rm 8,18-30), a quello di Dio e del suo Figlio (Rm 8,31-32). Il tra-
gico umano non si chiude con un deus ex machina cherisolvetutto ma si trasferi-
sce nella sofferenza dei credenti (Rm 8,23-25), in quella della creazione (Rm
8,19-22) e nei gemiti dello Spirito (Rm 8,26-27), sino a coinvolgere il bene più
grande di Dio, suo Figlio (Rm 8,32).
Dal confronto fra le situazioni conflittuali, bisogna tuttavia rilevare che, se
quella dell'io e della Legge trova la sua massima espressione nell"acrasia o nel-
l'incapacità di compiere il bene che si vuole, per quella di Dio il vertice è rap-
presentato dal paradosso, dall'illogicità: Come può Dio privarsi del bene più
grande, il suo unico Figlio? Proprio quando si assiste all'universale peccamino-
sità degli uomini, Dio ci ha riconciliati con la morte del suo Figlio (cfr. Rm
5,10). Ci troviamo al di là di ogni logica umana! E come per qualsiasi parados-
so, anche per quello divino non è possibile un processo di decodificazione, cer-
cando di riempire un vuoto incolmabile ed eterno, perché appartiene alla stessa
sfera di Dio.
Se nella teologia classica questo vuoto era colmato con la pericolosa separa-
zione tra Dio e il suo Figlio, per cui morendo Gesù in quanto uomo era salva-
guardata la sua natura divina, in quella contemporanea si tende a colmarlo con la

503 Cfr. a tal proposito A. Pitta, Paolo e il giudaismo farisaico, in Paradosso, pp. 71-77.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 317
sofferenza o con la morte di Dio : nell'uno e nell'altro caso si rischia di svuota-
504

re il paradosso e quindi di risolvere il tragico di Dio. In realtà, Paolo non dice mai
che Dio ha sofferto sulla croce né tanto meno che è morto, per quanto abbia par-
tecipato alla morte del Figlio. La soteriologia paolina si ferma a questo punto, non
per mancanza di dati e, quindi, per la sua incompletezza bensì perché di fronte al
paradosso divino, come davanti a qualsiasi paradosso umano, bisogna soltanto ta-
cere, altrimenti sirischiadi concepire una teologia troppo asettica, nel caso clas-
sico, o troppo antropologizzata, nel caso della morte di Dio. Il tragico divino ri-
mane con tutta la sua potenza e, poiché non può essere risolto a causa della sua
consistenza paradossale, esige soltanto la decisione per lo stupore dell'accoglien-
za o per lo scandalo delrifiuto.L'unico pallido modello è quello di Abramo e del
suo figlio, dove non soltanto siriscontrala loro grande fiducia in Dio, nonostante
la richiesta del sacrificio, ma anche il rinvio a un evento nel quale Dio manda il
suo Figlio in una visibile espressione della carne del peccato ma non lo risparmia,
anzi, lo consegna per tutti noi. E Paolo evoca questo modello proprio per trovare
qualche termine di paragone all'unico sacrificio compiuto da Dio e dal suo Figlio
nella storia dell'umanità: quello della croce.
[v. 33] L'uso del vocabolario forense comincia con la questione se ci sia qual-
cuno disposto o capace di accusare gli eletti di Dio, coloro che, per mezzo del suo
Figlio, partecipano a pieno titolo dellafigliolanzadivina . Se applichiamo questa
505

domanda a qualsiasi contesto forense, non possiamo non riconoscerne l'inconsi-


stenza perché proprio l'essere condotti nei tribunali civili è uno dei segni concreti
della propria testimonianza (cfr. Me 13,9-13). Piuttosto, Paolo siriferisceall'idea-
le tribunale di Dio o di Cristo, di fronte al quale tutti dovremo comparire (cfr. Rm
14,10; 2Cor 5,10): in quel contesto escatologico non ci sarà alcuna condanna per
coloro che sono in Cristo perché, nel passato e nel presente della loro adesione a
Cristo, Dio li ha già giustificati, li ha esclusi dalla sua collerafinale.Dio giustifica
perché « siamo stati giustificati per mezzo della fede in Cristo » (cfr. Rm 5,1); e ci
giustificherà in pienezza, sempre a causa della salvezza realizzata in Cristo.
[v. 34] Se non ci sarà nessuno che accuserà, a maggior ragione nessuno con-
dannerà gli eletti di Dio. Forse la scena evangelica che commenta, più di tutte,
quest'affermazione paolina è quella dell'adultera: « Nessuno ti ha condannata?...
Neanche io ti condanno... » (Gv 8,10.11). Comunque, Paolo ha nuovamente pre-
sente il contesto del tribunale escatologico, in cui se Dio e Gesù Cristo si trova-
no dalla nostra parte nessuno potrà occupare il posto del giudice: ecco perché ci
troviamo di fronte a uno strano tribunale. L'unico che avrebbe potuto svolgere la
funzione di giudice ha abdicato da questo ruolo; anzi, di fronte a lui c'è Gesù
Cristo, l'avvocato difensore che intercede per noi.
504Cfr. K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio (gdt 90), Brescia 1975; J. Moltmann, Il Dio crocifis-
so, Brescia 1973; F. Varillon, La souffrance de Dieu, Vendôme 1976. Più moderata è la posizione di quan-
ti preferiscono parlare della sofferenza in e della morte in Dio e non di Dio. Così B. Forte, Gesù di
Nazareth, Storia di Dio, Dio della storia, Cinisello Balsamo (MI) 1985 . 5

505II verbo egkalein (accusare), che si trova soltanto qui nell'epistolario paolino, è utilizzato negli Atti
degli apostoli per i contesti forensi nei quali è condotto Paolo (cfr. At 19,38.40; 23,28.29; 26,2.7).
318 Traduzione e commento
In poche ma dense battute Paolo ripercorre l'itinerario salvifico principale
dell'esistenza di Cristo: dalla sua morte alla sua risurrezione, sino alla sua intro-
nizzazione alla destra di Dio ; e da questo luogo teologico egli svolge lo stesso
506

ruolo dello Spirito (v. 27): intercede per noi. Tale funzione è svolta, in termini pro-
pri, dallo Spirito (cfr. Gv 15,26) e da Gesù Cristo (cfr. lGv 2,1), riprendendo la
teologia giovannea. Contro una netta separazione dei ruoli dello Spirito e del Fi-
glio di Dio, entrambi intercedono, anche se lo Spirito intercede dentro di noi, per-
ché lo abbiamoricevuto(cfr. Rm 8,15), mentre Cristo intercede dalla sua posizio-
ne di condivisione piena della gloria di Dio . 507

[v. 35] La seconda parte della perorazione (vv. 35-39) esplicita soprattutto il
senso del «per noi» della prima parte (vv. 31-34), soffermandosi sull'amore di
Cristo, per finire con quello di Dio in Cristo. Poiché nell'immediato v. 28 Paolo ha
trattato di coloro che amano Dio, si potrebbe pensare che nessuno ci separerà dal-
l'amore che noi abbiamo per Cristo. In realtà, quando Paolo utilizza l'espressione
« amore di Dio » (cfr. Rm 5,5), « di Cristo » (cfr. 2Cor 5,14) o « dello Spirito » (cfr.
Rm 15,30), intende sempre l'amore che Dio, Cristo e lo Spirito hanno per noi (ge-
nitivo soggettivo) e non l'inverso (genitivo oggettivo).
Il verbo che introduce la tematica dell'amore di Cristo per noi è intensivo e
Paolo lo utilizza soprattutto in ICor 7,10-15, per la relazione sponsale tra marito
e moglie : la nostra relazione con Cristo è così profonda da essere paragonata a
508

quella tra uno sposo e la sua sposa, immagine che Paolo ha già utilizzato in Rm
7,1-5. Quindi, come spesso, Paolo ricorre a un elenco perisfatico o delle diffi-
coltà , per esemplificare gli avversari che potrebbero determinare una separazio-
509

ne dall'amore di Cristo. Senza un ordine particolare, in questa lista sono descritti


sette nemici che potrebbero mettere in crisi la relazione con Cristo; forse è moti-
vata soltanto la collocazione della tribolazione, all'inizio, e della spada, alla fine
dell'elenco, come termine concreto o metonimico per indicare il pericolo mag-
giore della morte . 510

Circa l'origine di queste liste, presenti soprattutto nella corrispondenza pao-


lina con la comunità di Corinto, esse sono attestate anche nella filosofìa cinico-

506 L'essere posto « alla destra di Dio » è un'espressione figurativa di origine semitica che esprime la
partecipazione privilegiata alla signoria di Dio: è utilizzata soprattutto nel Sai 110,1, citato spesso nel NT
da una prospettiva cristologica e messianica (cfr. Mt 22,44; 26,64; Me 12,36; 14,62; Le 20,42; At 2,34; Eb
1,13); cfr. inoltre Is 63,20; Sai Salom. 13,1; Me 16,19; Le 22,69; At 7,55.56; lPt 3,22. Paolo la utilizza sol-
tanto qui, mentre ricompare nell'epistolario deuteropaolino (cfr. Col 3,1; Ef 1,20).
507Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 543, qui non c'è nessunriferimentoall'intercessione sa-
cerdotale di Cristo, descritta in Eb 7,25; Gesù Cristo non è mai definito né considerato da Paolo come som-
mo sacerdote che intercede: questo è un tratto esclusivo della cristologia nella Lettera agli Ebrei. Così an-
che J.A. Fitzmyer, Romani, p. 634.
508Per l'uso del verbo chórizein in contesti sponsali cfr. ICor 7,10.11.15. Nel greco profano «essere se-
parato da qualcuno » significa, di fatto, divorziare. Cfr. Euripide, Fragmenta 1063,13; Polibio, Historia 31,26,6.
509Cataloghi simili si trovano in ICor 4,10-13; 2Cor 4,8-12; 6,3-10; 11,23-27; Fil 4,11-14. Per il ge-
nere peristatico nell'epistolario paolino cfr. K. Berger, Peristasenkatalog, in Formgeschichte, pp. 225-
228; A. Pitta, Catalogo delle avversità, in Sinossi paolina, pp. 273-276.
510La tribolazione (thlipsis) si trova anche all'inizio della gradazione di Rm 5,3-4. Cfr. anche la ci-
tazione della persecuzione nel catalogo di 2Cor 6,4. La prima coppia di termini, « tribolazione e ango-
scia», si riscontra anche in Rm 2,9, mentre per l'angoscia in contesti analoghi di difficoltà cfr. 2Cor 6,4;
12,10. Paolo ha parlato di queste difficoltà già nelle liste di 2Cor 11,26-27 e di 2Cor 12,10.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 319
stoica . Tuttavia,rispettoa tali paralleli, è bene precisare che Paolo non elenca le
511

difficoltà per dimostrare di aver raggiunto l'ideale dell'indifferenza bensì per


esprimere la partecipazione alla morte e allarisurrezionedi Cristo: in questione si
trova ancora il «consoffrire» insieme con Cristo (cfr. Rm 8,17) . 512

[v. 36] A conferma dell'origine cristologia delle difficoltà che ogni creden-
te incontra e deve affrontare, Paolo cita il Sai 43,23 che corrisponde alla versione
della LXX, tranne per la presenza di heneken (a causa) invece di heneka, dovuta
forse a una versione diversa della LXX . Tuttavia, nonostante laripresaletterale
513

del Sai 43, nel contesto di Rm 8,35-36 la prospettiva paolina è non più soltanto
teologica ma anche cristologica : a causa di Gesù siamo « consegnati alla morte,
514

affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale », come dirà
in 2Cor 4,11 (cfr. anche ICor 4,9).
Forse accanto a questa citazione è opportuno collocare quella di Is 53,7-8 ri-
portata in At 8,32-33: Gesù Cristo « fu condotto al macello e come un agnello sen-
za voce dinanzi a chi lo tosa»; la stessa condizione tocca a quanti condividono la
sua morte e la suarisurrezione.L'intera unità di Rm 5,1 - 8,39 è caratterizzata dal-
l'assenza di citazioni dirette dell'AT, anche se, come abbiamorilevato,non man-
canoriferimentia personaggi e vicende dell'AT. Questa è l'unica citazione diret-
ta dell'unità e merita particolare attenzione. Contro qualsiasi fraintendimento, es-
sa costituisce la prova autorevole sulle ragioni cristologiche delle sofferenze e
delle persecuzioni nell'esistenza dei credenti.
[vv. 37-39] Se a causa di Cristo i credenti subiscono persecuzioni e sofferen-
ze, sono indenni, anzi, « supervincitori » di fronte a tutte le situazioni di pericolo
o di giudizio nelle quali possono trovarsi . Colui che ci ha amati è Gesù Cristo
515

stesso, giacché Paolo ancora non parla in questo paragrafo esplicitamente dell'a-
more di Dio per noi . L'inno si conclude con particolare enfasi attraverso l'e-
516

stensione massima degli orizzonti dell'amore di Cristo e di Dio. Per esprimere la


portata incommensurabile di questo amore, Paolo fa appello a tutta la propria con-
vinzione , fondata sulla certezza dell'amore di Cristo e di Dio.
517

Seguono quattro coppie polari che delineano alcune coordinate spazio-tem-


porali: soltanto il termine «potenze» (dynameis) non ha corrispondente e inter-
rompe la sequenza che si chiude con il riferimento a qualsiasi «altra creatura».
Alla coordinata temporale appartengono le coppie « morte-vita », « presente-futu-

511 Cfr. Epitteto, Dissertationes 3,22,50-61; così J.T. Fitzgerald, Cracs in an Earthen Vessel: An
Examination of the Catalogues ofHardships in the Corinthians Correspondence (SBL DS 99), Atlanta 1988,
pp. 7-31; J. Malherbe, Moral Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook, Philadelphia 1986, pp. 135-142.
512 Così anche W. Schräge, Leid, Kreuz und Eschaton. Die Peristasenkataloge als Merkmale pauli-
nischer theologia crucis und Eschatologie, in EvT 34 (1974) 141-175.
513 Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 103. Per la formula introduttiva della citazione diretta, «come
sta scritto», cfr. Rm 1,17; 2,24; 3,4.10; 4,17; 9,13.33; 10,15; 11,8.26; 15,3.9.21; ICor 1,31; 8,15; 2Cor9,9.
514 II Sai 44 è una lamentazione collettiva per le ingiustizie subite da Israele.
5,5 II verbo hypernikan è hapax legomenon del NT (cfr. nel greco classico Ippocrate, Peri Hebdomadön
50). L'uso del semplice « vincere » in Rm 3,4 conferma il contesto giudiziario in cui questo raro verbo è uti-
lizzato. Cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 635.
516 Cfr. anche la portata cristologica di agapèsantos in Gal 2,20.
5,7 Cfr. l'uso di pepeismai (sono convinto) in Rm 14,14; 15,14; 2Tm 1,5.12.
320 Traduzione e commento
ro », mentre le coordinate spaziali sono espresse con le coppie « angeli-principa-
ti » e « altezze-profondità » . Forse è bene precisare che queste coppie non rap-
518

presentano un nuovo catalogo delle difficoltà, così da essere interpretate negati-


vamente, ma sono semplicemente alcune coppie polari che indicano le estremità
del tempo e dello spazio, per dimostrare che l'amore di Dio e di Cristo resiste a
qualsiasi distanza ed è più forte persino della morte.
L'elenco delle coppie polari si conclude con la definitiva impossibilità della
separazione dall'amore di Dio e di Cristo proveniente da qualsiasi altra creatura.
Circa l'identità di ktisis in questo verso, si potrebbe pensare, come per il v. 21, al-
la creazione subumana; il riferimento precedente agli angeli, ai principati e alle
potenze, insieme all'aggiunta « altra », dimostra che qui Paolo ha presente tutto il
creato, compresa l'umanità (cfr. Rm 8,22). L'amore di Cristo incarna e rende vi-
sibile anche l'amore di Dio per noi; per questo la dossologia finale del v. 39 sta-
bilisce una continuità tra Dio e Cristo, riferendosi a un solo amore, quello di Dio,
che si realizza in Cristo Gesù il Signore nostro. Riconducendo tutto, anche l'a-
more di Cristo, a Dio, Paolo si rivela, ancora una volta, profondamente legato al
giudaismo del suo tempo che vede nell'unicità di Dio l'origine di tutto.

Con il ruolo centrale di Cristo e dello Spirito in Rm 5,1 - 8,39 non si è ab-
bassato il livello argomentativo e contenutistico delle unità precedenti; anzi, l'af-
fermazione del paradossale vanto cristiano crea maggiore suspence nei destinatari
della lettera. Il vanto cristiano si regge innanzi tutto sull'inaudita possibilità di ave-
re accesso e di restare saldi nella grazia divina (5,1-2): tale opportunità è diventa-
ta possibile attraverso la morte del Figlio di Dio e con l'effusione dello Spirito
(5,3-11). Il confronto tra Cristo e Adamo, in verità non moltoriuscitoe un po' ri-
petitivo (5,12-21), pone inrisaltol'abissale distanza tra la grazia e il peccato e tra
la vita e la morte. Con Rm 5,20-21 Paolo inserisce, attraverso una importante tran-
sizione, il confronto tra la Legge, il peccato e la grazia sui quali si sofferma in Rm
6,1 - 7,25, servendosi in particolare dello stile diatribico. Riprendendo le fila delle
tesi secondarie di questa seconda parte principale dell'unità, Paolo ha dimostrato
che non possiamo restare nel peccato perché siamo nella grazia (6,1-14) e perché
non siamo sotto la Legge mosaica (6,15-21) ma apparteniamo a Cristo (7,1-6).
Nonostante Paolo collochi la Legge sotto il potere del peccato, neppure la Legge si
identifica con il peccato, anche se nonriescea cambiare la situazione di chi si tro-
va sotto il dominio del peccato (7,7-25). Con Rm 8,1-30 si perviene al culmine di
questa grande unità, attraverso la definitiva affermazione della legge dello Spirito
che libera i credenti dalla legge del peccato e della morte (8,1-2): positivamente,
tale libertà si identifica con il dono della stessafigliolanzadi Cristo (8,14-17).
Il vanto cristiano rischia di barcollare di fronte alle situazioni di sofferenza
che continuano a toccare anche i credenti, nonostante essi siano morti alla Legge
e siano stati trasferiti dal potere del peccato e della morte a quello della grazia e
518 Le coppie « morte-vita » e « presente-futuro » si trovano anche in ICor 3,22; per « altezza-profondità »
cfr. l'analogo binomio in Ef 3,18. Per gli elenchi angelici cfr. ICor 15,24; Col 1,16; 2,10.15; Ef 1,21; 3,10.
Il paradossale vanto cristiano Rm 5,1 - 8,39 321
della vita. Per questo, attraverso la paradossale relazione tra le sofferenze e la
gloria (8,18-30), Paolo dimostra che le sofferenze non inficiano la partecipazio-
ne futura della gloria divina e quindi non pongono in discussione il vanto cristia-
no; anzi, soprattutto quelle immotivate e non colpevoli della creazione, dei cre-
denti e i gemiti dello Spirito dimostrano che le sofferenze di quanti sono in Cristo
non ostacolano la partecipazione alla gloria futura ma costituiscono la via crucis
in vista della via gloriae, le condizioni per partecipare alla morte di Cristo e con-
dividere la sua gloria finale. L'itinerario di Rm 5,12 - 8,30 è incorniciato dall'af-
fermazione dell'amore di Dio e di Cristo per noi che apre (5,1-11) e chiude (8,31-
39), in forma di inclusione, ogni momento delle diverse dimostrazioni.
La storia della teologia ha vistofiumidi inchiostro soprattutto sulle pagine di
Rm 5,12-21, a causa del peccato originale, su Rm 6,1-14 per via del battesimo cri-
stiano, e su Rm 7,7-25 per la concezione tipicamente luterana del simul iustus et pec-
cator\ ed è un inchiostro che non tende a diminuire nonostante siano diventate logo-
re le pagine! Rispetto alla prima pagina, abbiamo dimostrato che non è centrale il
peccato originale, in quanto non è importante lafiguradi Adamo e della sua caduta,
ma che tutto il peso cade sulla grazia e su Gesù Cristo che ha reso possibile lo stra-
ripamento della stessa grazia. Non avesse desiderato dimostrare il positivo dono del-
la grazia in Cristo, forse Paolo non avrebbe neppure parlato del peccato di Adamo.
Ma, in definitiva, il peccato di Adamo è non soltanto funzionale e secondario rispet-
to alla grazia in Cristo; lo è ancherispettoal peccato di tutti, sul quale Paolo si è lun-
gamente soffermato in Rm 1,18 - 4,25. Pur non trattando direttamente del peccato
originale o di origine, questa pagina apre un significativo squarcio di antropologia
cristiana: dietro la questione del peccato di Adamo si nasconde la tensione tra il de-
stino e la responsabilità, tra l'umanità che condividiamo con Adamo, come con tut-
ti gli esseri umani, e la nostra opzione fondamentale. Contrariamente a buona parte
delle fonti giudaiche, Paolo non scioglie questo dilemma dall'interno, a favore del
fato o della responsabilità, ma dall'esterno con la soluzione cristologica che antici-
pa la tensione, in quanto l'uomo perfetto non è Adamo prima del peccato, di cui non
parla mai, ma Gesù Cristo, in funzione del quale lo stesso Adamo è stato creato.
A prima vista, la pagina di Rm 6,1-14 sembra conferire particolare importanza
al battesimo cristiano, inteso come condizione per entrare e restare nel nuovo popo-
lo dell'alleanza. Invece abbiamo dimostrato che, nonostante l'attenzione della teo-
logia sacramentaria, Paolo non conferisce molto peso al battesimo perché non lo
considera comeritod'ingresso sostitutivo della circoncisione o come unritomagico
chericalcal'iniziazione misterica. Dietro e prima del battesimo si trova la relazione
con la morte erisurrezionedi Cristo che apre alla fede in lui. Basta la partecipazione
passata e presente alla morte di Cristo perché i credenti muoiano e vivano per Dio,
mentre la partecipazione alla risurrezione è spostata nel futuro dell'incontro con lui.
In questaricomprensionee relativizzazione è presente una positiva rivalutazione
dello stesso battesimo, non limitato alla condizione partecipativa nella comunità ec-
clesiale mariconsideratocome espressione di una relazione previa e fondante con la
morte e risurrezione di Cristo. Anzi, la tensione tipica delle grandi lettere tra la par-
tecipazione alla morte di Cristo, come causa della nostra morte e vita, e la condivi-
sione con la suarisurrezione,dimostra che il battesimo, così inteso, non riguarda un
322 Traduzione e commento
momento né un aspetto passato ma attraversa l'arco dell'esistenza umana per giun-
gere al suo compimento con la partecipazione alla gloria deifiglidi Dio.
La terza pagina è come un labirinto che conduce in una situazione di disper-
sione; anzi, di angoscia generale: sono in gioco l'impotenza della Legge e dell'io,
di fronte allo strapotere del peccato che porta alla morte. Anche se la Legge mo-
saica è buona, santa, giusta, spirituale e di Dio, nonriescea liberare l'io dalla sua
condizione sotto il dominio del peccato; anzi, tale incapacità dimostra che la stes-
sa Legge rappresenta un ottimo strumento nelle mani del peccato. Per questo, an-
che se inizialmente il rapporto tra il positivo e il negativo della Legge assume i
connotati di una concessione retorica, progressivamente si assiste a una situazione
tragica che coinvolge la Legge e l'io. L'io di Rm 7,7-25 non è direttamente quello
del cristiano né di qualsiasi persona umana maricalcal'esperienza di Israele e, re-
trospettivamente, quella di Adamo, prima e con il dono della Legge. Tuttavia, con
un'estensione tipica della situazione tragica, progressivamente la Legge mosaica
lascia il posto alla legge della mente contro quella del peccato e l'io d'Israele di-
venta quello di chiunque sperimenta situazioni di acrasia o di impotenza di fronte
al bene che vuole e al male che compie. Anche l'accentuazione sulla connotazio-
ne negativa della carne di chi è venduto al peccato si allarga progressivamente per
diventare espressione di quella humanitas cheriguardatutti e che siriferisceanche
ai credenti in Cristo, nonostante siano considerati morti al peccato e alla Legge.
Dunque, Rm 7,7-25 originariamente non ha nulla a che vedere con la condizione
del simul iustus et peccator del cristiano né con la situazione psicologica schizo-
frenica di Paolo. Allafine,Vacrasia della Legge e dell'io coinvolge qualsiasi altra
impotenza, anche quella del cristiano che, nonostante la liberazione compiuta dal-
lo Spirito, continua a soffrire e a dover lottare tra l'adesione allo stesso Spirito e al-
la carne con le sue passioni.
Un'attenta rilettura di Rm 7,7 - 8,30 dimostra che il messaggio cristiano è
tutt'altro che la distruzione del tragico, attraverso un moralismo a buon mercato,
bensì l'elevazione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la de-
bolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo.
La consegna partecipativa di Dio alla morte del Figlio e i gemiti sofferti dello
Spirito in noi dimostrano che, senza cadere in forme di antropopatismi o di antro-
pomorfismi, il tragico cristiano coinvolge non soltanto Gesù Cristo, per la sua as-
sunzione di una espressione visibile della carne del peccato, ma anche Dio che non
lo harisparmiatoper noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tut-
ta la creazione. Se la manualistica della tragedia antica e moderna esclude, con
estrema superficialità, dal suo campo d'azione la prospettiva cristiana , non può 519

più ignorare queste drammatiche pagine di Romani che, pur non avendo nulla a
che vedere con i canoni della tragedia, sono fra le più intense che siano state scrit-
te sulle condizioni tragiche dell'umanità e dei credenti.

5,9 L'antitesi tra il tragico e il cristianesimo trova l'espressione più violenta in F. Nietzsche, L'Anticri-
sto. Maledizione del cristianesimo, Milano 1995 ; Id., La nascita della tragedia, Milano 1997 . Cfr. anche
5 17

i recenti saggi di S. Natoli, L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano
1999, pp. 255-266; S. Givone, Eros/ethos, Torino 2000, pp. 35-37,86. Invece per ilricuperodel tragico cri-
stiano cfr. R. Ottone, Prospettive per uno studio del tragico nella Bibbia, in Tragico, pp. 447-503.
LA FEDELTÀ DELLA PAROLA DI DIO
Rm 9,1 -11,36

Una grande tristezza


9 *Dico la verità in Cristo, non mentisco, mi è testimone la
mia coscienza, per mezzo dello Spirito santo:
2in me c'è una grande tristezza e una continua sofferenza nel
mio cuore.
3Infatti, preferirei essere io stesso anatema da Cristo per i
miei fratelli, per i miei connazionali secondo la carne:
4essi sono israeliti, hanno la figliolanza, la gloria, le allean-
ze, la legislazione, il culto, le promesse,
5hanno i patriarchi e da loro proviene il Messia secondo la
carne.
Colui che è su tutto, Dio, sia benedetto per i secoli, amen.
Israele e Velezione
6 Tuttavia, la Parola di Dio non è venuta meno; infatti, non
tutti i discendenti d'Israele sono Israele.
7 Non sono discendenza di Abramo tutti i figli, ma « in Isacco
sarà chiamata per te una discendenza ».
8 Cioè, non sono figli di Dio i figli della carne ma i figli del-
la promessa sono accreditati per la discendenza.
9 Di fatto, questa è la parola della promessa: « Verrò in que-
sto tempo e Sara avrà un figlio ».
10 Non solo, ma anche Rebecca da un solo concepimento con
Isacco nostro padre...
u In realtà, quando non erano stati ancora generati né aveva-
no fatto nulla di buono o di cattivo, affinché rimanesse il disegno
di Dio secondo l'elezione,
12 in base non alle opere ma alla volontà di colui che chiama,
le fu detto: « Il maggiore servirà il minore »,
324 Traduzione e commento
come sta scritto: «Giacobbe ho amato, mentre Esaù ho
13

odiato ».
La giustizia e la misericordia divina
Che cosa diremo dunque? C'è forse ingiustizia presso Dio?
14

Non sia mai!


A Mosè infatti dice: « Avrò misericordia di chi vorrò avere
15

misericordia
e avrò compassione di chi vorrò avere compassione ».
Dunque, non dipende da chi vuole né da chi corre ma da
16

Dio che è misericordioso.


Dice infatti la Scrittura al faraone: « Per questo ti ho fatto
17

sorgere, affinché per mezzo di te dimostrassi la mia potenza e


fosse proclamato il mio nome in tutta la terra ».
Pertanto, (Dio) ha misericordia di chi vuole mentre induri-
I8

sce chi vuole.


Come un vasaio
Allora potrai dirmi: Perché [dunque] continua a rimprove-
19

rare? Chi può contrastare la sua volontà?


O uomo, chi sei tu per disputare con Dio? « Forse il vaso
20

può dire al vasaio: Perché mi hai fatto così? »


Forse il ceramista non ha autorità sull'argilla, per fare del-
21

la sua creta un vaso per uso nobile e l'altro per uso ignobile?
Ma se Dio volendo dimostrare l'ira e far conoscere la sua
22

potenza, ha sopportato con molta longanimità vasi d'ira, pronti


per la distruzione,
e per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi
23

di misericordia che predispose per la gloria...


La chiamata dei giudei e dei gentili
24E ci ha chiamati non solo fra i giudei ma anche fra i gentili,
25come dice anche in Osea: « Chiamerò "popolo mio" quello
che non era mio popolo e "mia diletta" quella che non era diletta »;
26e nel luogo in cui fu detto loro: Voi non siete « mio popo-
lo », là saranno chiamati « figli del Dio vivente ».
27Ma rispetto a Israele, Isaia grida: « Se anche il numero dei
325
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36
figli d'Israele fosse come la sabbia del mare, sarà salvato soltan-
to il resto.
28Infatti il Signore eseguirà la sua parola sulla terra con rapi-
dità e con rigore ».
29E come aveva predetto Isaia: « Se il Signore degli eserciti
non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo diventati come
Sodoma e saremmo stati resi simili a Gomorra».
Cristo, il fine della Legge
30Che cosa diremo dunque? Che i gentili, senza perseguire la
giustizia, hanno ottenuto la giustizia, però la giustizia (che deri-
va) dalla fede,
31mentre Israele, cercando di perseguire la Legge della giu-
stizia, non ha raggiunto la Legge.
32Per quale motivo? Perché non in base alla fede ma come
dalle opere; sono incespicati contro il sasso d'inciampo,
33come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion un sasso d'in-
ciampo e una pietra di scandalo, e chi crede in lui non sarà sver-
gognato ».
10 fratelli, il desiderio del mio cuore e la supplica (si rivol-
gono) a Dio per la loro salvezza.
2Attesto, infatti, a loro favore che hanno zelo per Dio ma non
secondo la piena conoscenza;
3di fatto, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire
la propria [giustizia], non si sono sottomessi alla giustizia di Dio.
4In realtà, fine della Legge è Cristo per la giustizia di chiun-
que crede.
La giustizia della fede
5Mosè infatti scrive sulla giustizia che proviene dalla Legge:
« L'uomo che ha messo in pratica queste esigenze vivrà per mez-
zo di esse».
6Invece, la giustizia della fede asserisce così: «Non dire nel
tuo cuore: Chi salirà in cielo? ». Questo è Cristo che è disceso.
Oppure: «Chi discenderà nell'abisso?». Questo è Cristo
7

che è salito dai morti.


8Invece, che cosa dice? « La parola è vicina a te, nella tua boc-
ca e nel tuo cuore », questa è la parola della fede che predichiamo.
326 Traduzione e commento
9Perché, se professerai con la tua bocca che Gesù è il Signo-
re e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvato.
Con il cuore infatti si crede per la giustizia e con la bocca
10

si professa per la salvezza.


uDifatti, la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui non sarà
svergognato ».
In realtà, non c'è differenza, tanto per il giudeo quanto per
12

il greco, giacché lo stesso Signore è di tutti, generoso verso tutti


coloro che lo invocano,
infatti, « chiunque invocherà il nome del Signore sarà sal-
13

vato ».
La parola di Cristo
Come, dunque, potrebbero invocare colui che non hanno
14

creduto?
E come potrebbero credere in colui che non hanno ascoltato?
E come potrebbero ascoltare senza colui che annuncia?
E come potrebbero annunciare senza che siano stati inviati?
15

Come sta scritto: « Come sono belli i piedi di coloro che an-
nunciano cose buone ».
Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Isaia, infatti, dice:
16

« Signore, chi ha creduto al nostro ascolto? »


Dunque, la fede dipende dall'ascolto e l'ascolto si realizza
17

attraverso la parola di Cristo.


Israele è inescusabile
Ma dico, forse non hanno ascoltato? Tutt'altro: « In tutta la
18

terra si è diffusa la loro voce e sino ai confini del mondo le loro


parole ».
19Dico ancora, forse Israele non ha conosciuto? Per primo
Mosè asserisce: « Io vi renderò gelosi di un non-popolo, contro
un popolo insensato vi farò irritare ».
Inoltre, Isaia si permette di dire: « Mi feci trovare da colo-
20

ro che non mi cercano, mi manifestai a quelli che non domanda-


vano di me ».
Invece contro Israele dice: « Tutto il giorno tesi le mie ma-
21

ni contro un popolo incredulo e ribelle ».


La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 327
Dio non ha rigettato il suo popolo
11 dunque dico: forse Dio harigettatoil suo popolo? Non
sia mai! In realtà, anch'io sono israelita, della discendenza di
Abramo, della tribù di Beniamino.
2Dio non ha rigettato il suo popolo che ha preconosciuto. O
non sapete che cosa dice la Scrittura per mezzo di Elia, quando
supplica Dio contro Israele?:
3« Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i
tuoi altari; solo io sono sopravvissuto e cercano la mia vita».
4Ma che cosa gli dice l'oracolo? «Mi sono riservato sette-
mila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal ».
5Così (pertanto), anche nel tempo presente si è formato un
resto secondo l'elezione, per grazia.
6Ma se è per grazia non (lo) è più in base alle opere, poiché
la grazia non sarebbe più grazia.
7Che cosa dunque? Israele non ha ottenuto ciò che ricerca
mentre l'ha ottenuto l'elezione; invece gli altri sono stati induriti,
8come sta scritto: « Dio diede loro uno spirito di torpore, oc-
chi per non vedere e orecchi per non ascoltare, fino al giorno
d'oggi».
9E Davide dice: « Diventi la loro mensa un laccio, una rete,
una trappola e una punizione per loro,
10siano offuscati i loro occhi per non vedere e la loro schiena
sia continuamente piegata».
Caduta e gelosia
uDico dunque, forse inciamparono per cadere? Non sia mai!
Ma, a causa della loro caduta, la salvezza ha raggiunto i gentili,
per ingelosirli.
Ma se la loro caduta è ricchezza del mondo, e il loro deca-
12

dimento è ricchezza dei gentili, quanto più la loro pienezza.


Tuttavia, dico a voi, gentili: proprio perché io sono aposto-
13

lo dei gentili rendo onore al mio ministero


se potessi ingelosire la mia carne e salvare alcuni di essi.
14

Infatti, se la loro esclusione (è) riconciliazione del mondo,


15

che cosa (sarebbe) la loro accoglienza se non vita dai morti?


Se però la primizia (è) santa (lo) è anche la massa; e se la
16

radice (è) santa (lo) sono anche i rami.


328 Traduzione e commento
L'ulivo e Volivastro
Se alcuni rami sono stati tagliati, tu però che sei ulivo sel-
17

vatico sei stato innestato in essi e sei diventato compartecipe del-


la radice, della fecondità dell'ulivo,
18non vantarti contro i rami; se però ti vanti non sei tu a por-
tare la radice ma la radice (porta) te.
19Allora dirai: I rami sono stati tagliati affinché io fossi in-
nestato.
20Bene! A causa dell'incredulità sono stati tagliati, invece tu
rimani a causa della fede; non montare in superbia ma temi.
Infatti, se Dio non ha risparmiato i rami secondo natura
21

non risparmierà neppure te.


Osserva, dunque, la benevolenza e la severità di Dio: seve-
22

rità per coloro che sono caduti; invece, benevolenza di Dio per te,
se perseveri nella benevolenza, altrimenti anche tu sarai reciso.
Ma anche quelli, se non rimarranno nell'incredulità, saran-
23

no innestati. Dio infatti è capace di reinnestarli.


Infatti se tu, secondo natura, sei stato tagliato dall'olivastro
24

e, diversamente dalla natura, sei stato innestato nell'ulivo, quan-


to più quelli secondo natura saranno innestati nel proprio ulivo.
Il mistero
Pertanto, non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero,
25

affinché non vi autoesaltiate: l'indurimento di una parte si è veri-


ficato per Israele, fino a quando sia entrata la pienezza dei gentili,
26e così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: « Uscirà
da Sion il liberatore, toglierà le empietà da Giacobbe,
27e questa sarà la mia alleanza con loro, quando distruggerò
i loro peccati ».
28Se secondo il vangelo (sono) nemici a causa vostra, secon-
do l'elezione (sono) diletti a causa dei padri.
Infatti, sono irrevocabili i doni e la chiamata di Dio.
29

In realtà, come voi un tempo foste disobbedienti verso Dio,


30

ma ora vi è stata usata misericordia a causa della loro disobbe-


dienza,
così anche loro adesso sono diventati disobbedienti per la
31

vostra misericordia, affinché anch'essi possano ricevere miseri-


cordia.
329
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36
Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, affinché
32

con tutti possa avere misericordia.


0 profondità della ricchezza
33

della sapienza e della conoscenza di Dio:


come sono imperscrutabili le sue decisioni
e impenetrabili le sue vie.
Chi infatti ha conosciuto la mente del Signore?
34

O chi è diventato suo consigliere?


0 chi gli ha dato qualcosa per primo
35

e dovesse essere stato contraccambiato?


Perché da lui, per mezzo di lui e verso lui (sono) tutte le
36

realtà,
sua è la gloria per i secoli, amen.

Dopo la vetta raggiunta in Rm 8,31-29, l'argomentazione riprende con la


nuova unità letteraria di Rm 9,1 -11,36 che crea non poche difficoltà di collega-
menti rispetto alle parti precedenti della lettera. Di fatto, si passa dalla posizione
di coloro che la considerano appendice di Rm 1,18 - 8,39 a quella di chi non esi-
ta aritenerlail vertice e il vero punto di arrivo della Lettera ai Romani. Se al cen-
tro tematico della sezione collochiamo soltanto la situazione o il mistero di
Israele\ non si può non optare per una sezione di appendice o di vertice . Nel pri- 2

mo caso, giacché il problema d'Israele non è stato affrontato in Rm 1-8, se non


nelle affermazioni fugaci di Rm 3,1-8, si passerebbe dall'universalismo della sal-
vezza, per i giudei e per i gentili, al particolarismo della condizione d'Israele . 3

Dalla prospettiva contraria, Rm 9-11 occuperebbe la posizione più importante


della lettera a causa della sua relazione con Rm 1-4, dopo la parentesi di Rm 5-
8 . In talerivalutazionedi Rm 9-11 non si può negare l'influsso della Shoah, con
4

le implicazioni sulla relazione tra Israele e la Chiesa.


A ben vedere, purriconoscendola presenza di motivazioni valide per l'una e
l'altra posizione, Rm 9-11 sembra affrontare questioni cheriguardanonon soltan-
to Israele ma anche i gentili e che, soprattutto, chiamano in causa Dio stesso. La
disposizione retorica e i generi argomentativi utilizzati dimostrano che il proble-
ma di questa sezione è non soltanto né principalmente il mistero e la situazione
d'Israele ma la fedeltà o la credibilità della Parola di Dio . Se dal versante seman-
5

1 Cfr. rispettivamente la CEI per la BJ e la nuova traduzione della CEI. Dal punto di vista esegetico
cfr. H. Hübner, Gottes Ich und Israel: Zum Schriftgebrauch des Paulus in Römer 9-11 (FRLANT 136),
Göttingen 1984.
2 Per la storia dell'interpretazione sulla funzione di Rm 9-11 rispetto a Rm 1-8 cfr. R.B. Bell,
Jealousy, pp. 44-46.
3 Cfr. S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 285.
4 Su Rm 9-11 come vertice di Rm 1-8 cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 642; N.T. Wright, Christ, the
Law and the People ofGod: the Problem of Romans 9-11, in Climax, p. 234.
5 Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 58, 195.
330 Traduzione e commento
tico e attanziale si possono delineare tre parti rapportate in forma circolare (a =
Rm 9,1-33; b = Rm 10,1-21; a' = Rm 11,1-36), una maggiore attenzione allo svi-
luppo argomentativo permette di delineare la seguente disposizione retorica: un
esordio specifico (Rm 9,1-5) che introduce la sezione, una lunga probatio (Rm
9,6 - 11,24), in cui sono poste in gioco argomentazioni di tipo diatribico e midra-
shico, e la perorazione conclusiva (Rm 11,25-36) cheriprendegli elementi prin-
cipali della sezione perrileggerlialla luce del mistero . 6

Come si potrà osservare dall'analisi dettagliata, la tesi principale dell'unità


è contenuta in Rm 9,6a, ossia la lapidaria sentenza sulla « Parola di Dio che non
è venuta meno». In termini positivi, tale affermazione esprime la fedeltà della
Parola di Dio, che abbiamo posto come titolo generale dell'unità. Nello svilup-
po delle prove, attraverso tre tesi secondarie, Paolo intenderà dimostrare che
« non tutti coloro che appartengono a Israele sono Israele » (Rm 9,6b-29), che
«Cristo è il fine della Legge» (Rm 9,30 - 10,21) e che «Dio non ha rigettato il
suo popolo» (Rm 11,1-25). Dalle connessioni tra la tesi principale e quelle se-
condarie, oltre che dalla perorazione dedicata al mistero divino, si comprende
che la tematica centrale dell'unità riguarda la relazione tra Dio, la fedeltà della
sua Parola e Israele. In questa prospettiva, Rm 9-11 non costituisce l'appendice
né il vertice di Rm 1-8, ma una nuova fase che fa progredire la tesi generale sul
vangelo paolino (cfr. Rm 1,16®7) . La novità principale di Rm 9-11rispettoalle
7

unità letterarie precedenti è costituita dalla sua marcata dimensione storico-salvi-


fica , senza negare la sua presenza in Rm 1-8. Di fatto, da uno sguardo globale,
8

la fedeltà della Parola di Dio è trattata non in astratto bensì nel suo realizzarsi ver-
so il passato (Rm 9,6b-29), il presente (9,30 -10,21) e il futuro (Rm 11,1-25), an-
che se è bene non semplificare o separare queste tre dimensioni, proprio a causa
della prospettiva storica di Rm 9-11.
In questa prospettiva storico-salvifica trovano ragion d'essere gli originali e
spesso sorprendenti modi di argomentare paolini: egli non offre uno sguardo pa-
noramico e generale sulla fedeltà della Parola divina, ma procede per settorialità
o per singole questioni. Così, nel dimostrare la consistenza dell'elezione o della
libertà divina (Rm 9,6b-29), Paolo non si preoccupa minimamente della libertà o
della responsabilità umana o d'Israele. Per inverso, quando si tratta di dimostrare
la responsabilità d'Israele (Rm 9,30 - 10,21), sembra dimenticare la libertà divi-
na. Si può osservare come il modo di argomentare di Paolo sia totalmente diver-
so dal nostro: per questo Rm 9-11 è diventato, in ultima analisi, una sorta di bom-
ba a orologeria che, nello scandirsi della storia, ha fatto esplodere l'agostinismo e
il pelagianesimo, il volontarismo e il fatalismo, una concezione salvifica con o
senza Cristo e le reali o inconsistenti possibilità salvifiche per l'Israele incredulo.
Una maggiore attenzione al modo settoriale di affrontare le problematiche avreb-

Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 56; Id., Israël, pp. 172-173, che però considera come perorazio-
6

ne della sezione soltanto Rm 11,33-36 mentre, come si vedrà dall'analisi, questa include anche Rm 11,25-32.
Così anche D.J. Moo, Romans, p. 576; F. Watson, Paul, p. 227.
7

Così anche R.B. Bell, Jealousy, p. 57; K. Haacker, Die Geschichtstheologie von Ròm 9-11 im Lichte
8

philonischer Schriftauslegung, in NTS 43 (1997) 209-222; B.W. Longenecker, Différent Answers to


Différent Issues: Israel, the Gentiles and Salvation History in Romans 9-11, in JSNT 36 (1989) 95-123.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 331
be evitato molti conflitti antropologici e soteriologia. Tale modo di procedere, se
ha il suo versante negativo nelle radicalizzazioni assunte soprattutto nella storia
del pensiero occidentale, non di meno trova il suo riscontro positivo nella sus-
pense che questa unità letteraria genera nel lettore, con un crescendo di tensione
che culmina con il mistero divino (Rm 11,25-36) . Per questo, anche in questo ca-
9

so, vale il principio dell'hysteron-proteron, ossia di ciò che è detto alla fine (Rm
11,25-36) e che spiega, armonizza e permette di comprendere quanto è sostenuto
attraverso le tensioni storiche di Rm 9-11.
Dal versante dei generi argomentativi, in Rm 9-11 si intrecciano lo stile del-
la diatriba e quello midrashico. Con il primo Paolo intrattiene un dialogo vivace
con il lettore, anche se è bene precisare che non tutta la discussione è fittizia, co-
me dimostra ad esempio la reale interpellanza di Rm 11,13 rivolta ai destinatari
della lettera. Attraverso l'argomentazione midrashica, invece, in cui a volte si as-
siste a un concatenamento di citazioni dirette dall'AT (cfr. Rm 9,25-29; 10,18-21;
11,8-10), Paolo si propone di dimostrare la consistenza della Parola divina nei
confronti d'Israele . Attraverso questi generi è importante cogliere anche lo spes-
10

sore profetico-sapienziale dell'unità letteraria, come dimostrano i diffusi riferi-


menti a questo filone dell'AT, con una particolare predilezione per le tematiche
care a Isaia, come l'elezione, il resto e la salvezza escatologica . Per alcuni, l'u- 11

nità segue il modello delle suppliche collettive postesiliche, particolarmente at-


testato in Dn 9,4-20 e in Ba 1,15-38: nella prima parte (Rm 9,1-29) verrebbero
confermate la giustizia e la potenza divina ; nella seconda (Rm 9,30 - 10,21) su-
12

bentrerebbe la descrizione della situazione d'Israele a causa delle colpe; nella ter-
za (Rm 11) Paolo farebbe appello alla misericordia divina. L'ipotesi è suggestiva
e trova buoni riscontri, anche se non mancano significative variazioni, come la
contestazione della stessa giustizia divina in Rm 9,14-20. Comunque, in poche
parti delle sue lettere, come in questa, Paolo si collega alfiloneprofetico-sapien-
ziale dell'AT per delineare le tensioni apocalittiche (la salvezza in Cristo) ed
escatologiche (la salvezza finale) della storia della salvezza e per ricomprenderle
nell'orizzonte del mistero o del disegno imperscrutabile di Dio . 13

9 Questo modo di argomentare particolarmente presente in Rm 9-10 è stato posto ben in risalto da
C.H. Cosgrove, Rhetorical Suspense in Romans 9-11: A Study in Polyvalence and Hermeneutical Election,
in JBL 115 (1996) 271-287, anche se l'autore tende aridurrela suspense della sezione a un semplice arti-
ficio retorico, in particolare per la tensione tra Rm 9 e Rm 11.
10 Anche se con specificazioni diverse, l'orizzonte midrashico di Rm 9-11 è sostenuto da A. Agua
Pérez, Midrâsico, pp. 228.249; S.P. Carbone, La misericordia universale di Dio in Rom 11,30-32
(RivBSup 23), Bologna 1991, pp. 57-58; F. Refoulé, «...Et ainsi tout Israël sera sauvé». Romains 11,25-
32 (LD 117), Paris 1984, pp. 270-271.
11 Per l'importanza di Isaia in questa sezione cfr. S.P. Carbone, Misericordia, pp. 62-63; P.E. Dinter,
Paul and the Prophet Isaiah, in BThB 13 (1983) 48-52. L'orizzonte profetico è ben posto in risalto da C.A.
Evans, Paul and Hermeneutics of« True Prophecy»: A Study of Romans 9-11, in Bib 65 (1984) 560-570.
12 Così J.-N. Aletti, Romani, pp. 50-51.
13 Sulla centralità della tensione apocalittico-escatologica e sapienziale di Rm 9-11 cfr. S.P. Carbone,
Misericordia, p. 60; E.E. Johnson, The Function of Apocalyptic and Wisdom Traditions in Romans 9-11
(SBL DS 109), Atlanta 1989; E.E. Johnson, The Funktion of Apocalyptic and Wisdom Traditions in
Romans 9-11: Rethink the Questions (SBL SP 34), Atlanta 1995, pp. 352-361, anche se l'autrice separa
nettamente sino alla semplificazione i canoni dell'interprete apocalittico da quelli del sapiente.
332 Traduzione e commento
Una grande tristezza (9,1-5). - Nella parte centrale della Lettera ai Romani
(5,1 - 8,39) nulla aveva fatto presagire il lamento di Paolo per i suoi consangui-
nei che introduce la nuova unità letteraria; anzi, la perorazione di Rm 8,31-39 si
è presentata come un inno di lode all'amore di Cristo e di Dio per noi. Improv-
visamente Paolo passa, senza soluzione di continuità, dal canto dello Spirito (Rm
8) all'angoscia per il suo popolo: ciò che accomuna le ultime battute di Rm 8 e le
prime di Rm 9 è l'intensità del pathos positivo e negativo; e Paolo sottolinea pro-
prio questo contrastante pathos per creare una suspense negli ascoltatori, senza
concedere alcuna pausa di riflessione . 14

L'esordio di Rm 9-11 si caratterizza per la suspense determinata non soltan-


to dal contrasto rispetto all'inno di lode dei versi precedenti ma anche per l'uso
contrastante di alcuni termini utilizzati in Rm 8, determinando in qualsiasi ascol-
tatore una serie di domande che, se fosse stato possibile, avrebbero causato l'in-
terruzione della nuova sezione . Ci riferiamo soprattutto alla figliolanza e alla
15

gloria (v. 4), elencata fra i privilegi d'Israele: come si può affermare che agli
israeliti appartengono la figliolanza e la gloria se Paolo stesso ha appena dimo-
strato che questi doni dipendono dalla relazione con Cristo e con lo Spirito (cfr.
Rm 8,14-30)? Non c'è modo migliore per generare l'attenzione degli ascoltatori
di un contrasto macroscopico tra due parti dello stesso discorso! La domanda re-
trostante a tale contrasto, dalla quale deriva la tristezza di Paolo, è come sia pos-
sibile ilrifiutodel vangelo da parte della maggior parte degli israeliti che si trova
nella condizione migliore per riconoscere Gesù come il Messia.
[9,1-2] L'esordio di Rm 9-11 si apre con una solenne formula di giuramento,
alla quale Paolo spesso ricorre, anche se con termini diversi, per confermare la
consistenza di ciò che ha appena detto o sta per riferire . La verità che sta per at-
16

testare è relazionata, nello stesso tempo, a Cristo e allo Spirito, in continuità con
il rapporto, focalizzato in Rm 8, tra l'essere in Cristo e nello Spirito; ed è proprio
a causa della vicinanza con Rm 8 che Paolo cita anche lo Spirito di cui invece non
parlerà più in tutta l'unità letteraria di Rm 9-11 . A conferma, Paolo chiama in
17

causa la sua coscienza che, in quanto relazionata allo Spirito, opera un'intensa te-
stimonianza . A ben vedere, tale verità non è di tipo contenutistico mariguardala
18

sua condizione interiore: avverte una grande tristezza e nel suo cuore una soffe-
14 L'unità letteraria di Rm 9,1-5 è universalmente riconosciuta: comincia con il verbo « dico » del v.
1 e si conclude con la dossologia del v. 5. A eccezione delle formule «ritengo» (Rm 8,18) e «sono con-
vinto » (Rm 8,38), in Rm 8 non compare la prima persona singolare che invece caratterizza l'inizio di Rm
9. Così anche R.H. Bell, Jealousy, p. 172; B. Byrne, Romans, p. 284; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 644; DJ.
Moo, Romans, p. 555; H. Schlier, Romani, p. 464.
15 Per Rm 9,1-5 come esordio retorico carico di suspense e di pathos cfr. J.-N. Aletti, Israël, pp. 168-169.
16 Cfr. le formule di giuramento in Rm 1,9; lTs 2,5.10; ICor 15,31; 2Cor 1,23; 11,31; Gal 1,20; Fil
1,8; lTm 5,21; 2Tm 2,14; 4,1.
17 In questo caso l'espressione « nello Spirito santo » va intesa più come strumentale che come loca-
le o di appartenenza, a differenza da Rm 8,9.
18 Come in Rm 2,15 Paolo utilizza il verbo symmartyrein collegato alla coscienza: ora essa non agi-
sce insieme ai pensieri ma da sola, per mezzo dello Spirito. Per questo il verbo symmartyrein va inteso co-
me intensivo (cfr. anche Rm 8,16) e non come relazionale. Per la stessa ragione, è forzato ilriferimentoal
criterio giuridico della testimonianza nell'AT, secondo il quale, perché sia fondata, ha bisogno di almeno
due testimoni (cfr. Dt 17,6; 19,15; 2Cor 3,1). Così D.J. Moo, Romans, p. 556. Qui la testimonianza è resa
soltanto da Paolo che è in Cristo o dalla sua coscienza che attesta per mezzo dello Spirito. Sulla funzione
della coscienza nell'antropologia e nell'etica paoline vedi il commento a Rm 2,15.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 333
renza interminabile che si aggiungono alle sofferenze che lo accomunano a tutti i
credenti e i mortali (cfr. Rm 8,17-35). Il rapporto tra la verità da attestare e il suo
contenuto, rappresentato dalla sofferenza, dimostra, implicitamente, che dall'altra
parte c'è qualcuno o molti che pongono in dubbio proprio questa relazione, ossia
che non si fidano di questa grande tristezza e della continua sofferenza di Paolo.
Comincia a delinearsi, progressivamente, la complessa relazione tra Paolo e
Israele, posta in discussione dalla sua concezione salvifica e dalla diffusione di un
vangelo cherischiadi escludere proprio i suoi consanguinei. L'intensità del pathos
èrimarcatadalla scelta per gli aggettivi « grande » e « continua » (v. 2), sui quali 19

cade in particolare l'accentuazione , e per l'uso dei sostantivi « tristezza » e « sof-


20

ferenza» , giacché non c'è sofferenza che non produca una certa tristezza e non
21

c'è tristezza che non significhi sofferenza. Con questi termini Paolo sembra evo-
care le suppliche di lamentazione per Israele in situazioni di cattività postesilica . 22

[v. 3] Uno dei motivi più significativi dell'inno di Rm 8,31-39 è rappresen-


tato dalla certezza che nulla potrà mai separare i credenti dall'amore di Cristo e di
Dio (cfr. Rm 8,35.38); neppure la morte! Ora, improvvisamente, tutto sembra es-
sererimessoin discussione: Paolo stesso preferirebbe non soltanto essere separa-
to ma sarebbe disposto persino a subire il vergognoso anatema della separazione
da Cristo, a favore dei suoi fratelli e consanguinei naturali . 23

In questo contrasto, tra la relazione con Cristo e con i suoi connazionali , si 24

rivela la profonda conflittualità che si trova alla base della tristezza e della soffe-
renza di Paolo: la scelta tra Cristo e la maggior parte di coloro che non ha credu-
19 L'aggettivo « grande » (megas) non è molto attestato nell'epistolario paolino: soltanto 13 volte (cfr.
Rm 9,12; ICor 9,11; 12,31; 13,13; 14,5; 16,9; 2Cor 11,15); l'aggettivo «continuo» (adialeiptos) si trova
soltanto qui e in 2Tm 1,3 per il NT (cfr. anche l'avverbio adialeiptos in Rm 1,9; lTs 1,2; 2,13; 5,17).
20 In questa prima parte del v. 2 è rilevabile la figura retorica del chiasmo: (a) tristezza, (b) grande,
(b') continua, (a') sofferenza; e, come per il chiasmo in genere, l'attenzione si focalizza soprattutto sulla
parte centrale, appunto sulla consistenza grande e ininterrotta della tristezza e della sofferenza di Paolo.
21 II sentimento della tristezza caratterizza la 2Corinzi (cfr. 2Cor 2,1.3.7; 7,10.10; 9,7) mentre sol-
tanto qui Paolo utilizza il sostantivo lypè in Romani (cfr. anche il verbo corrispondente in Rm 14,15). Il so-
stantivo « sofferenza» si trova soltanto qui e in lTm 6,10, per il NT, ma non bisogna dimenticare la sua
stretta relazione con il verbo synódinein (consoffrire) di Rm 8,22 e con l'analogo sympaschein di Rm 8,17.
I due sostantivi si trovano collegati anche in Pr 31,6; Is 35,10; 51,11.
22 Cfr. il libro delle Lamentazioni; anche Ger 4,19; 14,17; Dn 9; Bar. syr. 35,3; Ap. Bar. 14,8-9; 35,3;
Test. Giuda 23,1; 4Esd 8,16; 10,24.39.
23 Con la sua grande capacità oratoriale, così commenterà Giovanni Crisostomo il coi trasto tra Rm
8,35-38 e Rm 9,3: « Che cosa dici, Paolo? Di essere separato da Cristo? Dal tuo amato? Da c )lui dal qua-
le né regno, né la geenna ti aveva separato, né cose pensate, né qualunque altra realtà, da cos tui ora stai
chiedendo di essere anatema?» (Giovanni Crisostomo, Ad Romanos 16,1). Cfr. anche J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 647. Il termine anathema di per sé significa «cosa posta su», riferendosi originariamente al
contesto cultuale delle offerte votive per il Signore (cfr. Lv 27,28-29; Dt 7,26). In seguito, lo stesso so-
stantivo rende l'ebraico herem, utilizzato dal TM per la votazione allo sterminio di ciò che non appartiene
al Signore (cfr. Gs 6,17.Ì8; 7,1.11-13; 22,20; lCr 2,7). Paolo usa il lemma anathema secondo questa se-
conda accezione (cfr. ICor 12,3; 16,22; cfr. anche At 23,14; 1QS 2,15-16; Enoc slavo 52,10), dandole però
una rilevanza cristologica e non ecclesiologica, come invece nella storia dell'interpretazione.
24 Preferiamo rendere il termine syggenes con « connazionale » e non con « consanguineo », che im-
plica una certa parentela, né con « correligionale », per evitare una visione di netta separazione tra la reli-
gione ebraica e quella cristiana. Con lo stesso significato cfr. l'uso del termine in Rm 16,7.11.21, in parti-
colare per Timoteo, presentato come connazionale di Paolo, in quanto nato da madre ebrea, e non come
consanguineo o correligionale. A causa del sostantivo «connazionale », il vicino « fratelli » non ha conno-
tazione religiosa, come invece spesso nell'epistolario paolino (cfr. Rm 1,13; 7,1.4; 8,12; 10,1), bensì etni-
ca o di appartenenza allo stesso popolo ebraico.
334 Traduzione e commento
to al vangelo. Tale conflittualità si è risolta storicamente con la fede in Cristo o
meglio con larivelazionedel suo amore per Paolo; per questo è impossibile la se-
parazione da lui. Ma proprio questa sua appartenenza al popolo ebraico, secondo
la carne, come quella di Cristo stesso, continua a produrre una lacerazione e una
profonda prostrazione nella sua esistenza.
In questo estremo desiderio , per il quale Paolo sarebbe disposto a subire l'i-
25

gnominia dell'anatema, o della votazione allo sterminio, a vantaggio dei suoi fra-
telli o consanguinei, sirivelala sua profonda consapevolezza dell'appartenenza al
popolo ebraico e la prospettiva della nuova unità di Rm 9-11: egli non parla da ex
ebreo, diventato cristiano, ma da ebreo che ha creduto con pochi, nonostante le at-
tese, in Gesù Cristo . L'errore più consistente nella rilettura di Rm 9-11 sta non
26

tanto né soltanto nel porre l'accento sul mistero d'Israele, o sulla fedeltà della
Parola di Dio, quanto sulla presunta e irreale netta separazione tra giudaismo e cri-
stianesimo. Invece, ciò che crea le successive conflittualità della dimostrazione
paolina è proprio questa endemica coappartenenza tra l'essere ebreo e il credere
in Cristo; e tale coappartenenza deriva non tanto dal dramma della Shoah, nel qual
caso col passare del tempo muterebbe anche la prospettiva di lettura di Rm 9-11,
bensì anzitutto dalla consistenza dell'essere cristiano e giudeo nel secolo I d.C.,
ben sapendo che lo stesso cristianesimo delle origini rappresenta non una religio-
ne autonoma rispetto al giudaismo, ma una delle sue espressioni, e che i gentili
che aderivano al vangelo non entravano a far parte di una nuova religione ma era-
no certi di appartenere a quella che i suoi membri consideravano la forma più alta
di giudaismo. Senza questo parametro fondamentale, che risulta difficile ricupe-
rare per il peso della storia e per la netta separazione tra il contemporaneo giudai-
smo e il cristianesimo, diventa praticamente impossibile comprendere anche solo
un aspetto di questa drammatica unità letteraria della Lettera ai Romani.
Forse, in questa lamentazione per il suo popolo, Paolo evoca la figura di
Mosè che dopo la costruzione del vitello d'oro così sirivolgeal Signore: « Ma ora
se tu perdonassi il loro peccato... Altrimenti cancellami dal tuo libro che hai scrit-
to! » (Es 32,32) . Tuttavia, in questo desiderio è bene precisare che Paolo non in-
27

tende affermare che desidera essere separato al posto dei suoi connazionali ma a
loro vantaggio o a loro favore, perché anche se, per assurdo, egli fosse separato
da Cristo al posto degli ebrei che non hanno creduto al vangelo, questo non im-
plicherebbe la loro unione a Cristo . 28

25 II verbo euchestai può significare sia « pregare », che è l'accezione più attestata nel NT (cfr. 2Cor
13,7.9; At 26,29; Gc 5,16; 3Gv 2) sia « desiderare », come significato traslato e più raro (cfr. per il NT sol-
tanto in At 27,29; tuttavia cfr. anche Ignazio, Efesini 1,3; 2,1; Trallìani 10). Con buona pace di R.H. Bell,
Jealousy, p. 173, il contesto di Rm 9,1-5 orienta più verso un desiderio irrealizzabile, espresso dalla forma
imperfetta del verbo, che verso la preghiera di essere anatema da Cristo. Così anche B. Byrne, Romans, p.
285; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 646; D.J. Moo, Romans, p. 558; H. Schlier, Romani, p. 467.
26 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 646.
27 Le allusioni alle vicende di Mosè in Rm 9,14-18; 10,19; 11,13-14 (cfr. anche il chiaro riferimento
all'episodio del vitello d'oro in Rm 1,22-23) sembrano consolidare questo parallelismo. Così anche D.J.
Moo, Romans, p. 559; F. Siegert, Argumentation bei Paulus: gezeigt an Rom 9-11 (WUNT 34), Tübingen
1985, p. 121.
28 Nell'epistolario paolino la preposizione hyper ha generalmente valore di vantaggio, soprattutto in
contesti di salvezza, e non di sostituzione. Per questa interpretazione di hyper in Rm 9,4 cfr. anche B.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 335
[vv. 4-5] La tristezza di Paolo diventa più acuta se posta in relazione con i pri-
vilegi d'Israele che non considera assolutamente come revocati ma sempre presen-
ti, come garanzia e conferma della priorità degli ebreirispettoai gentili. La lista è
ben costruita, dal punto di vista retorico, e i privilegi elencati non sono scelti a ca-
so. Prescindendo dall'identità d'Israele che, in quanto tale, è già un privilegio, nel-
la prima parte sono elencati sei privilegi disposti in forma parallela di tre + tre:
« ...la figliolanza - la gloria - le alleanze; la legislazione - il culto - le promesse » . 29

In cima ai privilegi si trova l'identità degli israeliti; e volutamente Paolo evi-


ta il sostantivo « giudeo », di tipo etnico o razziale, che aveva dominato nelle par-
ti precedenti della lettera , per scegliere quello di « israeliti » che, con « Israele »,
30

indica l'identità elettiva e quindi relazionale del popolo ebraico rispetto al


Signore . Dal punto di vista storico, « Israele » è il nome che è dato a Giacobbe al
31

culmine della lotta con l'angelo del Signore allo Iabbok (cfr. Gn 32,28; anche Gn
35,10.21). In seguito, lo stesso termine è applicato alla discendenza di Giacobbe,
soprattutto alla confederazione delle tribù, al tempo dei giudici (cfr. Gdc 5,2.7) . 32

Con la stipulazione del regno, Israele designa il regno del Nord, sino alla depor-
tazione babilonese (722 a.C.); poi indica il regno del Sud, per tornare a essere uti-
lizzato in senso globale durante il periodo del secondo Tempio. La connotazione
religiosa, per la quale Israele è il popolo eletto da Dio e, per questo, separato da-
gli altri popoli, è sottolineata dai profeti . Giustamente da più parti si osserva che
33

nella lista dei privilegi manca proprio il termine « elezione », su cui Paolo porrà
particolare attenzione in Rm 9,6-29: tuttavia non bisogna dimenticare che lo stes-
so sostantivo « israelita » include proprio la categoria e la caratterizzazione del-
l'elezione. L'assenza di questo termine è dovuta proprio alla relazione tra Israele
e l'elezione: è una sorta di asso nella manica che Paolo siriservaper il momento
decisivo della dimostrazione successiva.
Non è un caso che la lista delle proprietà israelitiche cominci con idi figlio-
lanza: in Rm 8 è stato considerato come il dono principale derivante dall'essere in
Cristo e dall'azione dello Spirito. Per questo la presenza della figliolanza, all'ini-
zio della lista, crea una problematicità analoga a quella tra la sua appropriazione
per i credenti e la sua attesa escatologica (cfr. Rm 8,23). A tal proposito, bisogna
riconoscere che, poiché Vhuiothesia, in quanto tale, siriferisceall'istituzione giu-

Byrne, Romans, p. 287. Invece D.J. Moo, Romans, p. 559, opta per il valore sostitutivo di hyper. Il desi-
derio di Paolo è analogo a quello della regina Ester che così prega: « Avrei baciato la pianta dei suoi piedi
per la salvezza d'Israele » (cfr. Est 4,17).
29 Così anche R.H. Bell, Jealousy, p. 174; D.J. Moo, Romans, p. 562. Invece E.J. Christiansen, The
Covenant in Judaìsm and Paul: A Study ofRitual Boundaries as Identity Markers, Leiden - New York -
Kòln 1995, p. 219, preferisce disporre i doni in ordine chiastico, collocando al centro l'alleanza (al singo-
lare) e la legislazione. Tale proposta è arbitraria, dovuta alla preferenza tematica di Christiansen per l'al-
leanza in Rm 9, mentre non trovariscontrioggettivi.
30 Cfr. «giudeo» in Rm 1,16; 2,9.10.17.28.29; 3,1.9.29; in seguito il termine si trova solo in Rm 9,24
e 10,12.
31 II sostantivo «israelita» si trova soltanto qui e in Rm 11,1; il corrispondente «Israele» è più dif-
fuso e compare in Rm 9,6.6.27.27.31; 10,19.21; 11,2.7.25.26.1 due lemmi non sono utilizzati altrove nel-
la Lettera ai Romani, a conferma dell'unità letteraria di Rm 9-11.
32 Cfr. Gn 32,33; 34,7; Es 1,1.9.12; Gdc 1,1.28; 2,4.7.10.
33 Cfr. Is 63,7.16; 66,20; Ger 2,3; 4,14; Ez 2,3; 3,1.4; Os 1,1.4; Zc 1,19; MI 1,1.5; 2,11.16.
336 Traduzione e commento
ridica dell'adozione, non è mai citata nell'AT . Tuttavia, sono molte le citazioni
34

in cui Israele è presentato come figlio di Dio , senza ignorare quelle in cui Dio è
35

presentato come padre e madre del suo popolo. Dunque, Paolo sceglie positiva-
mente questo privilegio per evidenziare la condizione particolare di figliolanza
che lega Israele al Signore, già prima della sua definizione cristologica e pneuma-
tologica. Se da una parte si diventa figli di Dio soltanto per mezzo dello Spirito e
per l'unione a Cristo, dall'altra, Israele gode già, in forza dell'elezione, di questo
privilegio che non è metaforico ma reale. Piuttosto, se la figliolanza d'Israele è
fondata soltanto sull'elezione, quella in Cristo si regge sulla fede e sul dono dello
Spirito. Rispetto a questo privilegio, è necessario non anticipare alcune conclusio-
ni che rischiano di compromettere lo sviluppo argomentativo di Rm 9-11: Paolo
non afferma che tale figliolanza è di tipo soteriologico, per cui Israele sarà salva-
to comunque, a prescindere da Cristo, a causa del suo essere per semprefigliodi
Dio. Egli si limita a elencare questo privilegio per sottolineare che gli israeliti pos-
seggono una prerogativa che non appartiene a nessun altro popolo; e per questo
nessuno più di loro può passare da una figliolanza elettiva a una retta sulla rela-
zione con Cristo, l'unico Figlio di Dio da sempre (cfr. Rm 8,3).
La tensione tra la figliolanza elettiva, propria d'Israele, e quella in Cristo,
valida anche per i gentili, rimane per il secondo privilegio: la gloria. Accanto e
prima della gloria dei figli di Dio, che dovrà essere rivelata (cfr. Rm 8,21) e che
dipende dall'essere conformi all'immagine del Figlio di Dio (cfr. Rm 8,39-30), si
trova la gloria d'Israele, che si identifica con la presenza di Dio in mezzo al suo
popolo . In 2Cor 3,1 - 4,6, Paolo ha dimostrato la superiorità della gloria nel mi-
36

nistero cristianorispettoa quello mosaico; pur tuttavia, nessuno più d'Israele può
aderire alla pienezza della gloria sul volto di Cristo (cfr. 2Cor 4,4).
Il terzo privilegio d'Israele è quello delle alleanze, di cui Paolo parla per la
prima volta in Romani . L'uso del plurale e ilriferimentoalla storia d'Israele, nel-
37

la quale si contestualizzano le diathèkai, orientano decisamente verso le diverse al-


leanze che hanno caratterizzato la storia della salvezza: dall'alleanza con Abramo
(cfr. Gn 15,18; cfr. anche Gal 3,16) a quella con Isacco e Giacobbe, a quella con
Davide (cfr. 2Sam 23,5), per non dimenticare l'annuncio della nuova alleanza, di
cui parlano Geremia ed Ezechiele . 38

34A tal proposito vedi il commento a Rm 8,23.


35Cfr. Es 4,22-23; Dt 14,1-2; Is 63,16; 64,8; Ger 31,9; Os 11,1; MI 1,6; 2,10.
36Cfr. Es 16,7.10; 24,16; 40,34-35; Lv 9,6.23; Nm 14,10.21; 16,19.42; IRe 8,11; Ez 1,28; anche
llQTemp 29,8.
37II sostantivo diathéké (alleanza) compare 9 volte su 33 nell'epistolario paolino; Paolo ne tratterà
soprattutto in Galati (cfr. Gal 3,15.17.24; cfr. anche ICor 11,25; 2Cor 3,6.14; per il plurale « alleanze » cfr.
anche Ef 2,12). Di per sé questo termine può assumere diverse accezioni: alleanza, disposizione, testa-
mento, contratto; per la sua definizione è importante il contesto argomentativo in cui è utilizzato. Diversi
testimoni (P , B, D, F, G) riportano diathéké al singolare, mentre la lezione al plurale è attestata in X,
46

C, 0285, 33, 1739, 1881. A favore del plurale cfr. anche EJ. Christiansen, Covenant, pp. 221-222. La pre-
ferenza per il plurale delle edizioni critiche di N-A , di GNT e della maggior parte dei commentatori è più
27 4

fondata in quanto lectio difficilior: si può notare che i privilegi più prossimi sono al singolare.
38Cfr. Ger 31,31-34; Ez 16,62. Per le « alleanze con i padri » cfr. Sap 18,22; Sir 44,12.18; 2Mac 8,15.
Poiché Paolo si riferisce alle alleanze con Israele, non ci sembra che qui si possa anche riferire all'allean-
za con Noè (cfr. Gn 9,12-16), contro D.J. Moo, Romans, p. 563.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 337
La seconda strofa comincia con il quarto dono, quello della legislazione (no-
mothesia), termine usato soltanto qui nel NT e raro anche nella LXX . Natural- 39

mente, qui Paolo non si riferisce a qualsiasi legislazione, civile o sociale, bensì a
quella incentrata sul dono della Torah al suo popolo . In quanto tale, nomothesia
40

può essere inteso sia come atto della Legge sia comerisultatoe quindi legislazio-
ne; anche se questo, come tutti i privilegi d'Israele, è di origine divina, non è un
caso che Paolo in questi versi non parli esplicitamente della sua provenienza. Per
questo è preferibile rendere il termine con « legislazione », ossia come attuazione
della Legge mosaica e non con « dono della Legge » , anche se le due dimensio-
41

ni non possono essere separate. In base alla relazione non soltanto stilistica con il
primo privilegio della lista, Vhuiothesia, si coglie che Israele permane nella fi-
gliolanza elettiva di Dio proprio attraverso la legislazione mosaica.
Il quinto privilegio degl'israeliti è il culto (latreia) che si identifica con l'in-
tero sistema sacrificale dell'AT . Anche questa proprietà d'Israele ha una rela-
42

zione con il secondo privilegio della prima strofa, corrispondente alla « gloria »: se
la gloria di Dio è visibile in mezzo a Israele, è attestata soprattutto nel culto, in par-
ticolare in quello sacrificale nel tempio. Altrove Paolo creerà una tensione tra il
culto esterno o fondato sulla semplice appartenenza al popolo ebraico (cfr. Fil 3,3)
e quello interiore o esistenziale, realizzato con la presenza dello Spirito (cfr. anche
Rm 12,1).
La lista dei privilegi si chiude con le «promesse» (epaggeliai) che Paolo ci-
ta al plurale come già in Gal 3,16.21 ; in base a questi paralleli, si può pensare al-
43

le promesse dette da Dio ad Abramo: la benedizione, la discendenza e la terra (cfr.


Gn 12,7; 13,5; 17,8). Anche quest'ultimo privilegio presenta una stretta relazione
con l'ultimo privilegio del primo gruppo, non soltanto per corrispondenza stilisti-
ca, giacché sono gli unici privilegi citati al plurale: le promesse sono iscritte co-
me parti centrali delle alleanze tra Dio e il suo popolo. In Ef 2,12 dirà esplicita-
mente che, un tempo, i gentili erano estranei alle alleanze della promessa riserva-
te soltanto agli israeliti.
L'ultima parte dei privilegi si sposta su alcuni israeliti (v. 5a), che rientrano
fra i privilegi ebraici di fronte agli altri popoli: sono i padri e il Messia secondo la
carne. Con il termine onnicomprensivo « padri » Paolo si riferisce ai patriarchi ma
in particolare ad Abramo, « nostro progenitore secondo la carne » (cfr. Rm 4,1) e
a Isacco, che chiamerà « nostro padre » in Rm 9,10. L'appartenenza storica dei pa-
triarchi al popolo ebraico non è un semplicericordoma una importante garanzia,

39Cfr. 2Mac 6,23; 4Mac 5,35; come « lezione variante » in 4Mac 17,16. Per il greco extrabiblico cfr.
Aristotele, Rhetorica 1,1,7; Filone, Cherubini 26,87; Abrahamo 1,5; anche l'uso del verbo nomothetein in
Eb 7,11; 8,6.
40Per questa nomothesia quale proprietà d'Israelerispettoagli altri popoli cfr. Flavio Giuseppe, Ant.
giud. 3,287; 12,37; Apionem 2,170; cfr. anche Filone, Mosis 2,2.
41Così invece D.J. Moo, Romans, p. 564.
42II sostantivo latreia non è molto usato nel NT (5 volte: Rm 9,4; 12,1; Gv 16,2; Eb 9,1.6), mentre
è più diffuso il verbo corrispondente («rendere culto», cfr. Rm 1,9.25; Fil 3,3; 2Tm 1,3). Per la LXX cfr.
Es 12,25.26; 13,5; IMac 1,43; 2,19.22.
43Cfr. anche al plurale in 2Cor 1,20; 7,1; 2Mac 2,18; 3Mac 3,10; Sai. Salom. 12,6; Test. Giuseppe 20,1.
338 Traduzione e commento
perché nella parte conclusiva di questa sezione, Paolo sottolineerà che gli israeli-
ti sono « diletti a causa dei padri » (cfr. Rm 11,28).
Al culmine dei privilegi israelitici, quale proprietà più importante per Paolo,
si trova « il Messia secondo la carne » che, riprendendo l'inizio della lettera, è sta-
to rapportato alla « discendenza di Davide secondo la carne » (cfr. Rm 1,3). Gene-
ralmente, Paolo utilizza il titolo Christos come nome proprio, senza particolari
accentuazioni; qui invece, caso raro (cfr. forse di nuovo in ICor 1,13), il titolo ho
Christos assume una connotazione propria: possiamo renderlo con « il Messia »,
l'inviato o l'unto di Dio; e la relazione con Rm 1,3 permette di sottolineare che
Paolo si riferisce al messia davidico e non a quello profetico o sacerdotale, come
invece a Qumran (cfr. 1QS 9,11). Per quanto Gesù sia riconosciuto come Figlio di
Dio, rimane, nello stesso tempo, figlio di Davide.
La lista dei privilegi si conclude con una dossologia strana, dal punto di vista
stilistico e contenutistico, che può essere collegata in diversi modi a quanto prece-
de: «...Colui che è su tutto, Dio benedetto per i secoli, amen». A chi si riferisce
questa dossologia conclusiva dell'esordio di Rm 9,1-5: a Dio o a Gesù Cristo? Si
tratta di una delle più note crux interpretum dell'epistolario paolino. A favore del-
l'interpretazione teologica , propriamente detta, bisogna riconoscere che nell'e-
44

pistolario paolino, a eccezione del passo dueteropaolino di Tt 2,13, Gesù Cristo


non è mai definito come Dio. Anche le dossologie paoline sono principalmente ri-
volte a Dio e non a Gesù Cristo, soprattutto quelle introdotte dal termine eulogetos
(benedetto) . Lo stesso vale per le dossologie che si chiudono con l'espressione
45

«per i secoli, amen»: hanno sempre, come ultimo referente, Dio e non Gesù Cri-
sto . Su questa linea si colloca l'espressione « su tutte le cose » (lett.), caratteristi-
46

ca dellaricapitolazioneteologica tipicamente paolina (cfr. ICor 15,28; Ef 4,6).


A favore dell'interpretazione cristologia , è necessariorilevareche questo
41

tipo di dossologia finale si riferisce sempre al soggetto della formulazione prece-


dente e non è a sé stante: il soggetto che precede la dossologia del v. 5b è il Cristo
e non Dio. Se il soggetto della dossologia fosse stato Dio, la prima posizione sa-
rebbe stata occupata da « benedetto Dio » e non da « il quale è su tutte le cose ».
A sostegno della valenza cristologica, alcuni adducono anche la relazione tra il v.
5 e Rm 1,3-4, ossia con la formula prepaolina dei due livelli della cristologia:
quello della relazione « secondo la carne » con Davide e quello della « costituzio-
ne di Figlio di Dio in potenza, secondo lo Spirito di santificazione ». Così ora, da
una parte, Paolo riconoscerebbe che il Cristo, secondo la carne, è in definitiva il
privilegio fondamentale del popolo ebraico, dall'altra preciserebbe che egli è an-
che Dio benedetto per i secoli. D'altro canto, anche se Paolo non dice mai espli-
citamente che Gesù è Dio, come invece nella cristologia giovannea (cfr. Gv
1,1.18; 20,28), loriconoscecome « Signore » e nell' inno prepaolino di Fil 2,6-11
sottolinea la sua uguaglianza con Dio (v. 6).
Così B. Byrne, Romans, p. 288; R. Penna, Ritratti, II, pp. 190-191.
44

Cfr. Rm 1,25; 2Cor 1,3; 11,31; Ef 1,3; anche lPt 1,3.


45

Cfr. Rm 1,25; 11,36; 16,27; 2Cor 11,31; Gal 1,5; Fil 4,20.
46

Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 653; D.J. Moo, Romans, p. 568; H. Schlier, Romani, p. 471; N.T.
47

Wright, Climax, p. 237.


La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 339
Tuttavia, proprio questi paralleli in cui Paolo pone in particolare risalto la na-
tura divina di Gesù Cristo, permettono di propendere leggermente per l'interpre-
tazione teologica: Gesù è «di natura divina» (Fil 2,6), «figlio di Dio» (Rm 1,4),
« icona di Dio » (2Cor 4,4) ma Paolo non lo chiama mai direttamente Dio; e que-
sto denominatore comune del suo pensiero, dovuto al solido monoteismo giudai-
co, così articolato, varispettato.Per questo, preferiamo separare il v. 5a dal v. 5b,
attribuire anche questa dossologia a Dio e rinviare tutti i privilegi degli israeliti,
compreso quello del Messia secondo la carne, alla loro origine divina.
Israele e l'elezione (9,6-13). - Dopo l'esordio generale (Rm 9,1-5) dell'unità
letteraria, Paolo si accinge a dimostrare la permanenza della Parola di Dio, nono-
stante la maggior parte degli israeliti non abbia creduto al vangelo, pur posseden-
do i privilegi elencati in Rm 9,4-5. L'analisi semantica di Rm 9,6-29 permette di
delineare la seguente composizione chiastica: Israele e l'elezione (a = vv. 6-13),
la giustizia e la misericordia divina (b = vv. 14-18), la collera e la misericordia (b'
= vv. 19-23), la chiamata dei giudei e dei gentili (a' = vv. 24-29). In termini con-
tenutistici la parte principale è occupata dalla giustizia divina, con le manifesta-
zioni della collera e della misericordia (b-b'); da questa dipendono l'elezione e la
chiamata divina (a-a'). Tuttavia, dal versante argomentativo, è bene sottolineare
la priorità di Rm 9,6-13 rispetto a quanto segue , poiché attraverso l'autorità in-
48

discussa della Scrittura, Paolo fonda il principio dell'elezione che guida la suc-
cessiva discussione di Rm 9,14-29.
Gli esempi addotti dall'AT permettono di delineare due fasi narrative in Rm
9,6-13: la vicenda d'Isacco (vv. 6-9) e quella di Giacobbe e di Esaù (vv. 10-13).
Tuttavia, si può ben notare che il v. 6 si distingue dalle narrazioni in questione, per
introdurre lo spaccato letterario di Rm 9-11: è la proposizione principale che
Paolo intende dimostrare ; da una parte, in generale, che la Parola di Dio non è ve-
49

nuta meno, e dall'altra, in particolare, che non tutto Israele è Israele.


Come abbiamo già evidenziato nell'introduzione all'unità prescelta, la feca-
lizzazione su questo verso permette di cogliere la posta in gioco di Rm 9,6 -11,36:
la consistenza della Parola di Dio rispetto all'elezione d'Israele. Se, di fatto, la
maggior parte d'Israele non ha aderito al vangelo e se, per inverso, lo hanno ac-
colto i gentili, questo non pone in discussione la Parola di Dio? Pertanto, in que-
stione non è soltanto il mistero d'Israele ma Dio stesso; anzi, attraverso la condi-
zione conflittuale d'Israele è posta in discussione la fedeltà o la permanenza della
Parola di Dio.
[9,6] La tesi principale di Rm 9,6-29 si compone di due parti: l'una sulla
Parola di Dio e l'altra sull'identità d'Israele. Di per sé, Paolo non dice a quale

48L'unità della perieope è fondata sulle due esemplificazioni che Paolo trae dalle vicende dei patriar-
chi; con il v. 14 comincia la discussione, dallo stile diatribico, che egli intrattiene con l'interlocutore fittizio.
Per la microunità di Rm 9,6-13 cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 153; B. Byrne, Romans, p. 293; J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 662; DJ. Moo, Romans, p. 571; H. Schlier, Romani, p. 473; F. Siegert, Argumentation, p. 123.
49Così anche J.W. Aageson, Scripture and Structure in the Development ofthe Argument in Romans
9-11, in CBQ 48 (1986) 268; U. Wilckens, Römer, II, p. 191.
340 Traduzione e commento
« parola di Dio » si riferisca , se all'insieme delle citazioni anticotestamentarie dei
50

versi successivi oppure ai privilegi, citati nei versi precedenti, e anticipati in Rm


3,2 come «parole di Dio» affidate agli israeliti, o addirittura al suo vangelo . La 51

maggior parte degli esegeti propende per la somma dei privilegi concessi a Israele
e riconosciuta come Parola di Dio . Tuttavia, abbiamo notato che, a prescindere
52

dalla conclusiva dossologia di Rm 9,5b, Paolo evita di citare Dio e la sua Parola
nei versi precedenti. Per questo,riteniamoche la Parola di Dio che non è venuta
meno sia concretamente quella prossima di Gn 21,12 secondo la quale è annun-
ciata ad Abramo la discendenza in Isacco (v. 7) e che al v. 9 è riconosciuta come
parola della promessa. Dunque questa Parola di Dio non è tanto la sintesi dei pri-
vilegi che, comunque, permangono ma quella della promessa e dell'elezione, sul-
la quale Paolo insisterà nelle dimostrazioni successive.
Dal punto di vista retorico, l'espressione si presenta come litote (cfr. anche
quella di Rm 1,16), una negazione che afferma: asserire che la parola di Dio non è
venuta meno significa positivamente che «rimane salda», come Paolo sosterrà a
proposito dell'elezione (v. 11). Dunque, con questa prima parte della tesi, Paolo
intende dimostrare che la Parola della promessa e dell elezione rimane per sem-
y

pre , nonostante sembri che gli eventi della storia pongano in discussione la sua
53

stabilità. Già Isaia aveva utilizzato il binomio « svanire-rimanere », attestato in Rm


9,6.11 : se « l'erba inaridisce e i fiori appassiscono, la parola del Signore rimane in
eterno» (cfr. Is 40,6-8ripresoin lPt 1,24-25).
La seconda parte del v. 6 introduce l'altro versante della tesi paolina: non tut-
ti coloro che appartengono a Israele sono Israele. L'espressione è a effetto e cap-
ta subito l'attenzione di qualsiasi lettore; è unaripercussioneo antanaclasi retori-
ca: lo stesso sostantivo « Israele » è utilizzato con significati diversi per distingue-
re due categorie d'Israele . A questo punto, alcuni introducono la distinzione tra
54

l'Israele etnico e quello spirituale , appellandosi alla distinzione tra gli israeliti e
55

i giudeo-cristiani o la Chiesa . In realtà si tratta, ancora una volta, di petizioni di


56

principio cherischianodi deragliare dal centro del pensiero paolino. Egli non di-
ce, per ora, che all'Israele secondo la carne si oppone quello secondo lo Spirito e
che quest'ultimo è rappresentato dai giudeo-cristiani né tanto meno dalla Chiesa,
alla quale Paolo non attribuisce mai il titolo sostitutivo d'Israele, neppure quando
chiude la Lettera ai Galati con la benedizione per «l'Israele di Dio» (cfr. Gal
L'espressione «parola di Dio» è diffusa nel NT, anche se compare soltanto qui in Romani (cfr.
50

ICor 14,36; 2Tm 2,9; Tt 2,5; Le 8,11; Gv 19,35; At 6,7; 12,24; 17,13; Eb 4,2; lGv 2,14; Ap 19,13).
Così R.D. Kotansky, A Note on Romans 9:6: Ho logos tou Theou as the Proclamation of the
51

Gospel, in Studia Biblica et Theologica 1 (1977) 24-30.


Così B. Byrne, Romans, p. 293; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 663; A.J. Guerra, Romans: Paul 's Purpose
52

and Audience with Special Attention to Romans 9-11, in RB 97 (1990) 229; D.J. Moo, Romans, p. 573.
II verbo ekpiptein può avere sia significato letterale di «cadere» (cfr. At 12,7; 27,17.26.29.32) e
53

quindi metaforico di « cadere » dalla relazione con qualcuno o con qualcosa (cfr. Gal 5,4; 2Pt 3,17), sia si-
gnificato debole di « venir meno » o di « diventare debole », come nel nostro caso (cfr. anche in senso let-
terale l'appassire del fiore in Gc 1,11; lPt 1,24).
Vedi l'antanaclasi per nomos in Rm 7,23-25; 8,2: dalla Legge mosaica alla legge come principio
54

o norma.
Così D.J. Moo, Romans, p. 573, distingue l'Israele spirituale da quello fisico.
55

Per l'identità giudaico-cristiana di uno dei due Israele cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 663.
56
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 341
6,16) . Per ora si può e si deve soltanto affermare che, con i termini « israeliti » (v.
57

4) e « Israele » (v. 6b) è in gioco la fondamentale portata relazionale di alleanza:


se «Israele» vuol dire l'eletto, bisogna insistere su questo aspetto e non sull'i-
dentità di un Israele secondo lo Spirito contro uno secondo la carne. La distinzio-
ne tra i due Israele non nasce dalla loro interrelazione ma dall'elezione sulla qua-
le Paolo insisterà nei versi successivi. Accanto a questo punto fermo, è necessario
aggiungere che Paolo non confonde né sostituisce mai Israele con la Chiesa che,
a causa della relazione con Cristo, sarebbe il vero Israele. Se non abbiamo saldi
questi due dati di partenza, l'argomentazione di Rm 9-11rischiadi saltare e di es-
sere soggetta a conclusioni che, a prima vista, sembrano chiare ma che rendono
inconsistente, se non contraddittoria, la distinzione operata da Paolo.
[v. 7] La duplice tesi del v. 6 ha bisogno di essere subito spiegata perché, co-
me spesso nello stile paolino, è troppo brachilogica o sintetica, capace più di scon-
certare i destinatari che di chiarire la posta in gioco. Così, Paolo introduce una
nuova distinzione: tra la discendenza (sperma) di Abramo e i suoi figli (tekna). A
conferma di questa distinzione egli introduce la prima citazione dell'AT (Gn
21,12) in cui si trova il verbo kalein al passivo: «sarà chiamata», nel senso che
Dio stesso chiamerà per Abramo una discendenza. L'accento cade sul sostantivo
sperma (discendenza) e sul verbo kalein (chiamare) che svolgeranno un ruolo de-
cisivo in Rm 9,7-29 . Così la discendenza di Abramo non è determinata dall'es-
58

sere suoifiglima dalla chiamata divina . 59

A prima vista, questa distinzione potrebbe suscitare la reazione di ognuno,


mentre trova consistenza proprio nel ciclo di Abramo. Di fatto, egli ebbe più figli:
Ismaele da Agar (cfr. Gn 16,15), Isacco da Sara (cfr. Gn 21,2-3) e i sei figli gene-
rati dall'altra schiava, Ketura (cfr. Gn 25,1-2). Nonostante tutti questi fossero na-
turalmente figli di Abramo, soltanto Isacco è ilfigliodella promessa, a conferma
che ciò che conta non è l'appartenenza fisica alla discendenza di Abramo ma
quella fondata sull'elezione.
Giustamente, da più parti si osserva che qui Paolo richiama le vicende de-
scritte in Gal 4,21 - 5,1, in cui oppone il figlio secondo la carne a quello secondo
la promessa . Tuttavia, ora cambia la funzione argomentativa delle vicende evo-
60

cate: se in Gal 4,21 - 5,1 Paolo tratta delle duefigliolanzedi Abramo per identifi-
care i destinatari della lettera con la discendenza secondo Isacco (cfr. Gal 4,28),
qui l'orizzonte non è di confronto o identificativorispettoai destinatari della let-
tera ma per dimostrare che, all'origine della distinzione tra Israele e Israele o tra

57 Con buona pace di quanti, come E.P. Sanders, Legge, p. 282, identificano la Chiesa con l'Israele
di Dio o con la terza razza che si pone a un livello superiore d'equidistanza tra i giudei e i gentili. Cfr. a tal
proposito la discussione in A. Pitta, Galati, pp. 403-405.
58 Cfr. l'uso di kalein (chiamare) in Rm 9,12.24.25.26. Prima cfr. in particolare Rm 8,30 in cui l'at-
to del chiamare fa parte del disegno originario di Dio. Dalla stessa radice verbale deriva il sostantivo eklo-
gè (cfr. Rm 9,11); Paolo non userà più questo verbo in Romani. Per sperma in Romani cfr. Km 1,3;
4,13.16.19; 9,8.29; 11,1: tranne che in Rm 1,3, sperma è utilizzato in Romani inriferimentoalla discen-
denza di Abramo.
59"Di per sé, teknon (figlio) non si differenzia da sperma (discendenza), giacché Paolo ha sostenuto
che gli stessi credenti sono figli di Dio (cfr. Rm 8,16.17).
60 Cfr. AJ. Guerra, Romans 9-11, p. 229; R.B. Hays, Scripture, pp. 187-188.
342 Traduzione e commento
la discendenza e i figli, c'è il principio dell'elezione e non quello della semplice
appartenenza. Si può notare che in questo caso Paolo evita qualsiasi assimilazio-
ne tra i personaggi in questione e i destinatari della Lettera ai Romani; compiere
quest'ulteriore passaggio significa intromettere nell'argomentazione aspetti che
non hanno nessun peso, almeno per ora!
[v. 8] Paolo stesso si preoccupa di spiegare il significato dell'elezione attra-
verso Isacco, introducendo una distinzione più chiara tra i figli della carne e quel-
li della promessa. Qui ci saremmo aspettati l'antitesi più naturale e propriamente
paolina tra « carne-Spirito » e non tra « carne-promessa ». In realtà, la seconda op-
posizione risponde meglio ai dati di Gn 16-21: Paolo non può dire che soltanto i
figli secondo lo Spirito sono quelli legittimi, perché anche Isacco è nato come
Ismaele, mentre può benissimo sostenere che soltanto Isacco è l'erede della pro-
messa . L'uso del verbo « accreditare » (logizesthai) ha portato molti a richiama-
61

re il fondamentale passo di Gn 15,6 in cui la fede di Abramo diventa la ragione


dell'accreditamento divino per la sua giustizia (cfr. Rm 4,3). Ritengo che, in ulti-
ma analisi, questo collegamento risulti superficiale e fuorviante, perché in Rm 9
mancano proprio il termine e il motivo della fede. Anzi, proprio per questo, Paolo
evita di opporre i figli della carne a quelli dello Spirito, anche se ha fatto derivare
dall'azione dello Spirito la figliolanza divina (cfr. Rm 8,14-15). Ancora una vol-
ta, in questione non è la relazione o l'identità fra i figli di Abramo bensì il dupli-
ce principio dell'elezione e della promessa.
[v. 9] Se la Parola di Dio che non svanisce e non vacilla è quella della pro-
messa, Paolo non può nonrichiamarela parola della promessa detta ad Abramo in
Gn 18 e reiterata dopo la nascita di Isacco. Rispetto alla fonte, questo verso con-
tiene una citazione discussa in quanto, così come giace, non trova corrispondenze
letterali in Gn 18. Il passo più vicino a Rm 9,9 è quello di Gn 18,14 che secondo
la versione della LXX recita così: « ...Al tempo fissato tornerò da te alla stessa da-
ta e Sara avrà un figlio ». Dal confronto con Rm 9,9 si evidenzia la sostituzione di
eis (verso) con kata (secondo) e del verbo « tornare » con « venire ». Per alcuni, la
prima variazione è dovuta alla conflazione o citazione unitaria di Gn 18,10 e di Gn
18,14 : di fatto l'espressione «secondo il tempo fissato» si trova in Gn 18,10 e
62

non in Gn 18,14 dove dice: «Al tempo fissato». Comunque, non ci sembra ne-
cessarioricorrerea una conflazione per la sostituzione di eis con kata; è preferibi-
le considerare questa variazione come una decontestualizzazione che Paolo stes-
so compierispettoall'oracolo genesiaco . Per la stessa motivazione, sostituisce il
63

verbo «tornerò» (anastrepsó) con «verrò» (eleusomai), senza pensare necessa-


riamente alla prospettiva apocalittica della storia . Per ora non è in questione la
64

realizzazione apocalittica della promessa divina fatta ad Abramo ma la consisten-

61Anche in Gal 4,23 l'opposizione tra il figlio della libera e quello della schiava si regge su « carne-
promessa » e non su « carne-Spirito ». Fra i privilegi d'Israele, Paolo non ha dimenticato di citare le « pro-
messe » (cfr. Rm 9,4); naturalmente la promessa originaria e fondamentalerimanequella detta ad Abramo
(cfr. Rm 4,13.14.16.20; Gal 3,16-18).
62Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 576; N-A . 27

63Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 105.


64Così invece B. Byrne, Romans, p. 294; R.B. Hays, Scripture, p. 187.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 343
za del principio della promessa posto in relazione con l'attuale rifiuto della mag-
gior parte del popolo ebraico.
[v. 10] Se l'esempio di Isacco ha posto inrisaltoil principio della promessa,
quello dei figli di Rebecca evidenzia il principio concomitante dell'elezione.
Qualsiasi israelita avrebbe potuto dire, dopo la prova di Rm 9,7-9, che è figlio di
Abramo secondo la promessa e non secondo la carne perché non appartiene alla
stirpe degli ismaeliti ma proprio alla discendenza di Israele. Per questo, Paolo av-
verte la necessità di trovare un'ulteriore prova, attraverso la quale abbinare la pro-
messa all'elezione e non alla discendenza. Soltanto in tal modo può fondare la sua
sorprendente distinzione tra Israele e Israele . 65

Da acuto conoscitore della Scrittura, egli trova la prova sul principio dell'ele-
zione nella vicenda deifiglidi Rebecca: Giacobbe ed Esaù (cfr. Gn 25,19-28). La
prima parte di questo riferimento a Gn 25 è interrotta da una lunga parentesi in-
centrata sulla consistenza del disegno elettivo di Dio (vv. ll-12a), determinando
un anacoluto che Paolo non avverte il bisogno di colmare. Comunque, il suo pen-
siero è chiaro: se il principio della promessa è evidente per la scelta di Isacco ri-
spetto ai figli che Abramo ricevette dalle sue schiave, quanto più quello dell'ele-
zione attestato dai gemelli che Rebecca generò con Isacco , nostro padre . Paolo 66 67

considera Isacco nostro padre, ponendolo in continuità con la paternità di


Abramo; soltanto qui nel NT Isacco è definito in questo modo . 68

[vv. 11-12] Paolo interrompe l'esempio dei gemelli di Rebecca, senza rac-
contare la loro nascita, per sottolineare la consistenza del disegno divino fondato
sull'elezione e non sulle opere umane. La situazione di Gn 25 è ideale per la sua
argomentazione perché non racconta di due figli nati in tempi differenti e da madri
diverse, come per Ismaele e Isacco, ma di due figli generati dallo stesso concepi-
mento, appunto di due gemelli.
La scelta di Giacobbe, invece di Esaù, non è motivata da nessuna loro azio-
ne, anzi dipende esclusivamente dal disegno divino fondato sull'elezione. Si può
notare che sia per i figli di Abramo sia per i gemelli di Rebecca, Paolo non dice
nulla sulle azioni degli esclusi dalle promesse e dall'elezione, a differenza sia dal
midrash di Gal 4,21 - 5,1 sia da diversi apocrifi dell'AT in cui non si esita a fon-
dare la promessa e l'elezione sulle loro azioni . 69

65 Sostiene bene A.F. Segai, Paul, p. 277, che Paolo separa, contro qualsiasi concezione giudaica, il
criterio dell'elezione dalla discendenza per collegarlo soltanto alla promessa, mentre generalmente di-
scendenza e promessa sono vincolate.
66 II sostantivo koité significa di per sé « letto » (cfr. Le 11,7); quindi caratterizza il letto matrimonia-
le (cfr. Eb 13,4) e l'atto sessuale (cfr. Lv 15,21-26; Sap 3,13.16; Rm 13,13) o il seme maschile (cfr. Lv
22,4; Nm 5,20).
67 L'appellativo di « nostro padre » per Isacco dimostra come Paolo non sta argomentando da ex giu-
deo ma come uno degli israeliti che fra gli altri privilegi haricevutoquello dei patriarchi. Anche in questo
caso, non è necessario limitare la paternità di Isacco agli ebrei, perché a causa dell'accoglienza dei genti-
li, egli diventa anche loro padre. Ma, ancora una volta, non è questa la preoccupazione di Paolo, bensì il
principio dell'elezione.
68 Anche l'autore di 4Maccabei definirà Isacco come ethnopatora (padre dei popoli; cfr. 4Mac 16,20).
69 Cfr. Gal 4,29 in cui Paolo sostiene che il figlio della schiava perseguitava quello secondo lo Spirito.
Per l'attenzione alle azioni morali di Ismaele e di Isacco cfr. Tg. Ps-.J. Gen 21,9; Frg. Tg.; Tg. NeofI; per
quelle di Esaù e di Giacobbe cfr. Giub 10,73,31; 24,88,1-7; 24,91,1; Test. Gad 7.4; 4Esd 3.13-16.
344 Traduzione e commento
Per descrivere le azioni dei gemelli, Paolo utilizza il binomio agathos (buo-
no) e phaulos (malvagio): il secondo aggettivo phaulos, più raro di kakos, esprime
una maggiore connotazione morale perché indica non soltanto il male in quanto ta-
le ma come azione deplorevole e malvagia (cfr. lo stesso binomio in 2Cor 5,10). A
causa dell'accenno alle «opere», alcuniritengonoche Paolo si stiariferendoalle
opere (della Legge) contro la fede : nulla di più errato! Qui Paolo non sta discu-
70

tendo sulla relazione tra le opere in generale o della Legge, contro la fede senza o
in Cristo, bensì di qualsiasi azione umana rispetto alla volontà divina . Dio chia- 71

ma liberamente chi vuole, senza dipendere da nessun apporto o condizionamento


umano ma esclusivamente in base al suo disegno elettivo . Il suo gesto di chiama-
72

re non è che la concretizzazione del suo eleggere fin dal seno di qualsiasi madre,
come appunto nel caso di Giacobbe o di Paolo stesso (cfr. Gal 1,15). A conferma
del disegno elettivo di Dio, Paolo cita l'oracolo di Gn 25,23: prima della nascita
dei gemelli, fu detto a Rebecca che il maggiore avrebbe servito il minore.
[v. 13] Il primo paragrafo di Rm 9 si conclude in modo shockante, con la ci-
tazione di MI 1,2, attraverso un significativo crescendo argomentativo: la pro-
messa di Dio si realizza in Isacco, la sua elezione è come quella di Giacobbe, al
punto da determinare il risvolto negativo dell'odio per Esaù. Rispetto alla cita-
zione di MI 1,2-3 (LXX) si può notare come Paolo cambi l'ordine delle parole
per porre in risalto i nomi di Giacobbe e di Esaù , in un parallelismo antitetico.
73

Rispetto al contenuto della citazione, è importante sottolineare che si tratta di


verbi orientati a esprimere l'elezione di Dio, la sua scelta per Giacobbe, e che il
verbo « odiare » (misein) va inteso come « non preferire » e non come sentimento
di avversione per Esaù . Come altrove, per il retroterra semitico «odiare» signi-
74

fica amare di meno e nonrigettareuna persona . 75

Ma anche questa interpretazione è insufficiente: anche se non odia letteral-


mente, come può Dio preferire una persona all'altra, se proprio Paolo ha sottoli-
neato, a piùriprese,soprattutto in Rm 1,18 - 3,20, il principio dell'imparzialità di-
vina? In questo caso, l'interrogativo diventa più acuto se la preferenza di Giacob-
be al posto di Esaù deriva soltanto dall'elezione e senza che i due abbiano
commesso qualcosa di positivo o di negativo. Per ora non è possibile neppure pen-
sare alla fede che, in un'ipotetica applicazione della vicenda, avrebbe potuto de-
terminare l'elezione di uno e non dell'altro. Proprio la disposizione parallela e an-
70 Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 583, che pur contestando l'assimilazione compiuta da J.D.G. Dunn,
Paul, pp. 510-511, tra « opere » e Legge, ritiene comunque che qui Paolo opponga la fede alle opere. Nello
stesso errore cade D. Zeller, Romani, p. 277.
71 Così anche H. Ràisanen, Faith, Works and Election in Romans 9. A Response to Stephen Westerholm,
in J.D.G. Dunn, Mosaic Law, p. 240.
72 Per la relazione tra il disegno (prothesis) e l'elezione, forse è bene precisare che tra le due fasi del-
l'azione divina c'è una profonda interdipendenza: se qui Paolo fa dipendere il disegno dall'elezione, a cau-
sa della centralità tematica dell'elezione, in Rm 8,28 è l'elezione a derivare dal disegno divino (cfr. anche
Ef 1,11; 3,11).
73 In MI 1,2-3 (LXX e TM) c'è una disposizione chiastica (a: «ho amato, b: Giacobbe, b': invece
Esaù, a': ho odiato»).
74 Dalla tradizione giudaica Esaù è considerato come capostipite degli idumei o edomiti; nonostante
Giovanni Ircano li avesse costretti alla circoncisione, non furono mai considerati ebrei (cfr. Flavio Giu-
seppe, Ant. giud. 12,8,1; 13,9,1; 14,15,2).
75 Per misein (odiare) nel senso di «non preferire» cfr. Gn 29,30-31; Dt 21,15-18; Le 14,26; Mt 10,37.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 345
titetica dell'oracolo permette di cogliere che l'attenzione è interamente rivolta al
versante positivo e non a quello negativo. Per comprendere questa prospettiva
paolina forse è importante aver presente l'inizio di MI 1,1-2 in cui in questione è
proprio l'amore di Dio per Israele e non l'avversione nei confronti di Esaù o degli
edomiti: « E voi dite: Come ci hai amati? ». Dunque, per conferire consistenza al-
l'amore di Dio per Israele o per coloro che Dio ha eletto, sia Malachia sia Paolo
citano ilrisvoltonegativo delrifiutoo della non preferenza per Esaù che, al di fuo-
ri di questa intenzione, non ha alcuna consistenza. Per scardinare i fraintendimen-
ti sulla doppia predestinazione di matrice calvinista, K. Barth (Romani, pp. 324 e
329) scriverà nel suo commento a Romani: « Esaù, nella sua totale problematicità,
vive di Giacobbe; egli è Esaù soltanto in quanto non è Giacobbe... Giacobbe è
l'Esaù invisibile, Esaù è il Giacobbe visibile ».
La giustizia e la misericordia divina (9,14-18). - Come in altre sezioni della
Lettera ai Romani, la parte assertiva e apodittica della dimostrazione (Rm 9,6-13) la-
scia lo spazio alla discussione diatribica, in cui Paolo entra in discussione con un in-
terlocutore fittizio . Tuttavia, si può notare che, mentre altrove Paolo utilizza lo stile
76

diatribico per chiarire alcuni aspetti delle parti assertive precedenti, qui viricorreper
far progredire la dimostrazione, nel caso specifico la questione sulla giustizia divina
e sulla sua consistenza. Poiché, in questa sezione, Paolo procede per dimostrazioni
parziali o settoriali, ossia l'elezione, la giustizia, la misericordia, il resto..., è impor-
tante stabilire con chiarezza le delimitazioni delle pericopi, altrimenti si verificano
confusioni tematiche. Nel caso specifico, stabilito che la pericope comincia con la
duplice domanda diatribica sulla giustizia divina (v. 14), è abbastanza chiaro che si
conclude con l'affermazione sulla libera azione della misericordia divina (v. 18), fa-
cendo cominciare con una nuova domanda diatribica il paragrafo successivo (v. 19) . 77

Rispetto al contesto, questo paragrafo rappresenta la parte b della composizione


chiastica iniziata con Rm 9,6: ci troviamo nella parte centrale della microsezione . 78

Dopo le vicende dei patriarchi (cfr. Rm 9,7-13), la lettura corsiva della sto-
ria della salvezza prosegue con i riferimenti dell'esodo dall'Egitto. Paolo si sof-
ferma su due oracoli - quello rivolto a Mosè e quello rivolto al faraone - per di-
mostrare che davanti a Dio non c'è ingiustizia. Ponendo in relazione la duplice
tesi di Rm 9,6 sulla solidità della Parola di Dio e sul principio dell'elezione, ora
Paolo si propone di raggiungere un nuovo risultato: l'affermazione della miseri-
cordia, a servizio della quale Dio colloca l'indurimento del cuore umano.
[9,14] La conclusione di Rm 9,13 lascia shockati: l'elezione e la promessa
divina hanno il loro versante negativo persino nell'odio verso Esaù. Per questo ci
aspetteremmo una pausa di riflessione sul versante negativo del disegno elettivo
di Dio, con alcune precisazioni almeno sul significato delrifiutoper Esaù. Invece
Paolo prosegue diritto e, senza dare ascolto a questioni generali di teodicea, si po-
76 Vedi le sezioni dallo stile diatribico di Rm 2,1-3,9; 3,27-31; 6,1-23; 7,7-25.
77 Invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 669; DJ. Moo, Romans, p. 590, considerano unitari i vv. 14-23.
B. Byrne, Romans, pp. 295-296.300, distingue i vv. 14-18 dai vv. 19-21 e dai vv. 22-29; e F. Montagnini,
Elezione e libertà, grazia e predestinazione a proposito di Rom. 9,6-29, in L. De Lorenzi (ed.), Die
Israelfrage nach Rom 9-11 (MBS 3), Roma 1977, p. 67, separa i vv. 6-18 dai vv. 19-29.
78 Vedi qui l'introduzione a Rm 9,6-13.
346 Traduzione e commento
ne la domanda se dopo un'affermazione così radicale sull'elezione ci sia ancora
spazio per la giustizia di Dio. Dal punto di vista contestuale, bisogna riconoscere
che, quando è difficile identificare gli interlocutori di Paolo, si ricorre spesso a
oppositori di origine farisaica: nel caso specifico, per alcuni la duplice domanda
sull'ingiustizia divina sarebbe mossa da alcuni provenienti dal giudaismo fari-
saico che lo accuserebbero di separare la volontà divina dalla cooperazione uma-
na . In realtà, è Paolo stesso che pone domande e risposte dallo stile diatribico
79

per far avanzare la propria dimostrazione ; in questo caso la domanda sull'in-


80

giustizia di Dio serve per passare dalla consistenza dell'elezione e della promes-
sa a quella della giustizia e della misericordia.
La nuova domanda che regge l'argomentazione dei vv. 15-18 riguarda l'in-
giustizia divina o, in termini positivi, la consistenza della sua giustizia. Si può no-
tare che mentre in Rm 3,5 era in questione la nostra ingiustizia rispetto alla giusti-
zia divina, ora Paolo si sofferma sulla giustizia di Dio in quanto tale . Di fronte, 81

alla falsa conclusione sull'ingiustizia divina retta sul criterio dell'elezione, egli
reagisce con un rifiuto immediato, «Non sia mai! » , che poi riprende attraverso
82

unarispostapiù dettagliata, anche se sempre poco organica.


[v. 15] A conferma che davanti a Dio non c'è posto per l'ingiustizia, Paolo
cita l'autorevolezza dell'oracolo rivolto a Mosè durante la teofania dell'Esodo,
incentrato sulla scelta libera della misericordia e della compassione divina (cfr. Es
33,19 LXX). Non soltanto Dio sceglie chi vuole ma usa misericordia con chi vuo-
le; e in questa libertà non deve rendere conto a nessuno. Per questo, davanti a lui
non c'è ingiustizia. Come spesso nell'AT, attraverso questa citazione diretta di Es
33,19 Paolo collega direttamente la giustizia alla misericordia divina, senza solu-
zione di continuità: non c'è spazio per l'ingiustizia perché l'orizzonte finale sul
quale si gioca la giustizia di Dio non è quello di dare a ciascuno il suo ma di ri-
versare la sua misericordia su chi vuole . L'attenzione alla precedente dimostra-
83

zione di Rm 2,1-11 permette di comprendere che l'orizzonte argomentativo non è


più quello della retribuzione o della salvezza escatologica bensì, come in Rm 9,6-
13, quello protologico del disegno originario di Dio.
[v. 16] L'attenzione all'orizzonte originario del disegno divino è conferma-
ta dalla prima conclusione che Paolo trae dalla citazione di Es 33,19: la miseri-
cordia divina non dipende dalla volontà umana né dal suo impegno, espresso
con la metafora del correre , ma da Dio stesso che, per definizione, è misericor-
84

Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 590.


79

Cfr. le stesse domande « Che cosa diremo dunque? » in Rm 6,1; 7,7; 8,31; 9,30.
80

Per la consistenza della giustizia divina nell'AT cfr. Dt 32,4; 2Cr 19,7; Sai 91,16.
81

Cfr. le risposte diatribiche immediate con « Non sia mai! » in Rm 3,4.6.31; 6,2.15; 7,7.13; 11,1.11.
82

Con questa citazione Paolo introduce in Romani la tematica fondamentale della misericordia che
83

riprenderà in Rm 11 (cfr. eleein = avere misericordia in Rm 9,18; 11,30.31.32; 12,8; eleos - misericordio-
so in Rm 9,23; 11,31; 15,8; l'analogo verbo oiktirein è hapax legomenon del NT.
L'uso del verbo trechein (correre) può essere ricondotto sia al vocabolario del camminare, che
84

nell'AT indica l'agire morale (cfr. Sai 119,32: «Corro per la via dei tuoi comandamenti»; cfr. anche Is
50,1-11; Ab 2,2), sia alla metafora agonistica sportiva che Paolo utilizza spesso nel suo epistolario (cfr. Rm
13,12; lTs 2,1-2.19-20; ICor 9,24-27; 15,31-32; Gal 2,2; 5,7; Fil 1,27-30; 2,14-16; 3,12-14; 4,1-3; Col
1,28-29; 2,18-19; lTm 4,6-11) ed era diffusa nella filosofia popolare ellenistica: cfr. Dione Crisostomo,
Discorsi 8,4-5; Seneca, Epistulae 78,16; Plutarco, De cupiditate divitiarum 523C1. Per il motivo agonisti-
co nell'epistolario paolino cfr. A. Pitta, Sinossipaolina, pp. 156-163.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 347
dioso . Con questa priorità della misericordia divina rispetto alla volontà o al-
85

l'impegno umano, Paolo richiama il disegno elettivo, sottolineato al v. 11; in tal


modo egli rimarca il versante positivo dell'elezione, che gli sta maggiormente a
cuore: non l'elezione per la condanna o per il peccato, bensì in vista della mise-
ricordia divina. In certo senso, per la relazione tra il rifiuto e l'elezione, vale
quanto abbiamo precisato sul rapporto tra l'ira e la giustificazione divina (cfr.
Rm 1,18 - 4,25): attraverso ilrifiutorisalta maggiormente la misericordia; e pos-
siamo dire qualcosa sulla misericordia quando riconosciamo anche il suo rifiuto.
[v. 17] La seconda parte della questione sull'ingiustizia sposta l'attenzione
verso l'affermazione della potenza divina (vv. 17-18). Dal punto di vista storico,
Paolo compie una sorta diflash-back:dall'oracolo di Es 33,9 a quello di Es 9,16,
spostando l'attenzione da Mosè al faraone. Per sottolineare l'universale orizzon-
te della Scrittura, egli non attribuisce l'oracolo di Es 9,16 a Mosè, come invece
nella narrazione esodale, ma alla stessa Scrittura che si rivolge al faraone. Così,
il disegno divino non vale soltanto per il popolo ebraico ma anche per il faraone
e, con lui, per tutti i popoli.
Non è facile stabilire la fonte originale di Es 9,16, perché dal confronto con la
LXX e il TMrisultanodiverse variazioni: la più importanteriguardail verbo « sor-
gere» (exegeirein) che non corrisponde al verbo «conservare» (diatèrein) della
LXX né al verbo «mantenere» (he 'èmadttika) del TM . Comunque, a parte que-
86

sta sostanziale diversità, sembra che Paolo continui ariferirsipiù alla LXX che al
TM . La scelta del verbo «sorgere» (exegeirein) , dovuta forse all'intervento di
87 88

Paolo e non a una fonte diversa da Es 9,16, permette di cogliere maggiormente la


prospettiva teologica della citazione: non soltanto Dio ha conservato in vita il fa-
raone dopo la settima piaga della grandine ma lo ha fatto « sorgere », in pratica lo ha
scelto per manifestare la sua potenza e perché il suo nome fosse diffuso dovunque.
L'affermazione dell'origine e del disegno divino per i potenti è tipica dell'AT,
come ad esempio per il re Ciro: «Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: Io l'ho
preso per la destra» (cfr. Is 45,l) . Dunque, anche l'esempio di un uomo non ap-
89

partenente al popolo eletto, anzi che è suo nemico, dimostra che all'origine di tut-
to si trova la libera scelta di Dio e che l'orizzontefinaledi qualsiasi azione umana
rientra nel piano imperscrutabile di Dio. Contro una visione della doppia predesti-
nazione al bene e al male, è bene notare che Paolo non conclude con la distruzio-
ne del faraone ma con la sua funzione nella manifestazione della potenza di Dio e
nella diffusione del suo nome. L'esempio del faraone avrà ripercussioni sull'in-

85 Per l'azione misericordiosa di Dio cfr. Nm 6,25; 2Sam 12,22; Os 2,3.6; Is 14,1; 44,23; Ger 38,20;
Ez 39,25; Le 1,50.54.58.72.78; 2Cor 4,1; Fil 2,27; Ef 2,4; lTm 1,13.16.
86 Di minore importanza sono l'omissione del hai iniziale, la sostituzione di heneken toutou con eis
auto touto (per questo), di ischyn (forza) con dynamin (potenza) e di hina endeixómai con hopós endeixómai
(affinché dimostri): si tratta di variazioni più stilistiche che contenutistiche.
87 A favore della citazione dalla LXX cfr. C.D. Stanley, Paul, p. 107; per il TM cfr. B. Byrne,
Romans, p. 299.
88 II verbo composto exegeirein è raro nel NT: compare soltanto qui e in ICor 6,14 per la nostra ri-
surrezione.
89 Cfr. anche, con il verbo exegeirein, Ger 50,41 per i re fatti sorgere dall'estremità della terra; Ab
1,6 per i caldei; Zc 11,16 per il pastore a guida d'Israele.
348 Traduzione e commento
credulità d'Israele al vangelo; Paolo sta preparando progressivamente questo mo-
mento decisivo della sua dimostrazione (cfr. Rm 11,7-15).
[v. 18] La citazione di Es 9,16 lascia lo spazio a una nuova conclusione, ana-
loga a quella del v. 16, con la novità che il versante positivo della misericordia di-
vina è illuminato anche da quello negativo dell'indurimento. Il contesto immediato
permette di applicare la conclusione sulla misericordia e l'indurimento allo stesso
faraone . Nonostante la complessità, ilriferimentoal faraone è utile alla prospetti-
90

va paolina di Rm 9: sin dall'inizio, il narratore dell'Esodo sottolinea che Dio indu-


risce il cuore del faraone (cfr. Es 4,21). Alcuni sottolineano il valore antropologico
di questo indurimento, nel senso che Dio sclerotizza il cuore del faraone o di ognu-
no, perché all'origine c'è la propria libera scelta di opporsi alla volontà divina . In 91

realtà, non è questa la concezione del narratore di Esodo né di Paolo che non citano
mai la libertà del faraone nell'indurire il proprio cuore. Ancora una volta l'orizzon-
te non è antropologico, per cui entrano in campo la libertà dell'individuo e la sua
responsabilità, bensì teologico e, specificamente, si tratta di un indurimento che ri-
sponde al disegno originario di Dio: egli è libero di usare misericordia e d'indurire
chi vuole . Il problema di questi versi non è se l'indurimento del cuore sia dovuto
92

alla libertà e alla responsabilità umana ma se esso possarientrarenella volontà di-


vina. Per Paolo, anche l'indurimento del cuore del faraone e soprattutto quello di
una parte d'Israele (pórósis)rientranonel piano divino che non ha come orizzonte
finale la sua giustizia retributiva bensì la sua misericordia.
Come un vasaio (9,19-23). - L'interlocutore fittizio di Rm 9 non si arrende;
anzi, è pronto a deporre sul tavolo della discussione una nuova domanda dallo sti-
le diatribico, incentrata sull'azione biasimante di Dio: Se alla fine tutto rientra
nella volontà misericordiosa di Dio perché egli continua a rimproverare? Non è
più semplice riconoscere subito la grandezza incontrastata della volontà divina?
Anche l'unità di questo paragrafo è determinata dallo stile diatribico: Paolo
stesso pone alcune domande erispostecon le quali non affronta le questioni lasciate
aperte nella discussione precedente ma fa progredire la dimostrazione, passando più
direttamente alla relazione tra il creatore e gli esseri umani . Con termini diversi,
93

Paolo aveva già introdotto la problematica di questi versi in Rm 3,5-8, a proposito


della nostra ingiustizia che, allafine,conferma la giustizia divina. Tuttavia, mentre
in Rm 3 il versante era antropologico, degli esseri umani che attraverso la loro fal-
sità permettono una maggiore manifestazione della verità-fedeltà di Dio, qui ci spo-
stiamo su quello teologico della libertà divina di creare gli esseri umani come vuole.

90 Spesso il narratore dell'Esodoricordal'indurimento del cuore del faraone: cfr. il verbo sklerynein
in Es 4,21; 7,3.22; 8,15; 9,12.35; 10,1.20.27; 11,10; 13,15; 14,4.17; cfr. anche Dt 2,30 per l'indurimento di
Scon re di Chesbon). Paolo utilizza soltanto qui questo verbo (cfr. anche At 19,9; Eb 3,8.13.13; 4,7).
91 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 674.
92 Ci troviamo in un contesto diverso da quello di Rm 2,5, in cui Paolo biasima il suo interlocutore
per l'indurimento (sklerotes) del cuore, in vista della retribuzione finale.
93 Rispetto alla composizione generale di Rm 9,6-29 ci troviamo nella parte b' del chiasmo, che rap-
presenta il rovescio di b, ossia di Rm 9,14-18. Con il v. 24riprendeil vocabolario della chiamata e della
relazione tra Dio e Israele, introdotta in a (Rm 9,6-13), con la novità dell'inclusione dei gentili (a': Rm
9,24-29). Per la microunità letteraria di Rm 9,19-23 cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 153.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 349
[9,19] La nuova domanda diatribica è introdotta alla seconda persona singo-
lare, con una incisiva interpellanza simile a quella di Rm 8,2. In questione si tro-
va il biasimo di Dio verso gli esseri umani, giacché tutto rientra nella sua origi-
naria volontà ; chi potrà avere l'ardire di opporsi al suo disegno? . In queste do-
94 95

mande è riconoscibile il linguaggio sapienziale dell'AT; nella sua contesa


giudiziaria Giobbe aveva già riconosciuto l'impossibilità umana di entrare in
contesa con la giustizia divina: « Come può un uomo aver ragione davanti a
Dio?» (Gb 4,17).
96

[v. 20] Appartiene allo stile propriamente diatribico rivolgersi al proprio in-
terlocutore fittizio con il vocativo « o uomo » . Con due domande indirizzate al
97

suo interlocutore, Paolo introduce l'analogia e la metafora principale di questi ver-


si: quella del lavoro artigianale del vasaio, diffusa nell'Oriente Antico . L'uomo 98

non può disputare con Dio perché è come un vaso nelle mani del suo vasaio . 99

Senza introdurre un passo dell'AT con una formula tecnica, come invece si
verifica spesso nel suo epistolario, Paolo inserisce direttamente la citazione di Is
29,16 (LXX) che risulta uguale nella prima parte mentre cambia nella seconda:
l'originale «...Forse non mi hai fatto tu?» diventa «Perché mi hai fatto così?».
Forse anche questa variazione è dovuta alla decontestualizzazione dell'oracolo
profetico compiuta da Paolo stesso. Tale variazione permette di cogliere l'oriz-
zonte protologico o della creazione e non quello finale dell'argomentazione pao-
lina : per quanto l'essere umano possa indagare sulle proprie origini, non può
100

mai esaurire il disegno creativo di Dio ; qui tutte le sue domande e le sue conte-
101

se con Dio sono destinate a fermarsi, come dimostra soprattutto il dramma di


Giobbe: « Che cosa ti possorispondere?» (Gb 40,4). Per Paolo, la persona umana,
non soltanto la sua carne, è un vaso di creta chiamato a contenere il tesoro inesti-
mabile del vangelo (cfr. 2Cor 4,7).
[v. 21] Proseguendo con la metafora del vasaio, Paolo sottolinea non soltan-
to l'impossibilità del vaso di ribattere al suo vasaio, ma anche la piena autorità
che il ceramista ha sull'argilla: egli è libero di costruire i vasi secondo finalità
ben precise, che possono risultare più o meno nobili, in dipendenza del suo pro-
getto originario.

94 Per descrivere ilrimproverodi Dio, Paolo utilizza un verbo raro nel greco biblico (memphesthai),
utilizzato per Dio come soggetto soltanto qui e in Eb 8,8 (cfr. per la LXX anche 2Mac 2,7; Sir 11,7; 41,7).
95 Nella seconda domanda diatribica Paolo utilizza un verbo tipico delle contese giudiziarie: « op-
porsi» (anthistemi, cfr. anche Rm 13,2; Gal 2,11; 2Tm 3,8.8; Le 21,15).
96 Cfr. anche Gb 9,19; Sap 12,12.
97 Vedi il commento a Rm 2,1. Così anche S.K. Stowers, Diatribe, p. 98.
98 L'immagine del vasaio e del vaso è diffusa soprattutto nei miti di creazione nel Vicino Oriente
Antico e ben attestata anche nell'AT (cfr. ANEP 569; Gn 2,7; Gb 10,9; Is 45,9; 64,7; Ger 18,3-6; Lm 4,2;
1QS 11,22; 1QH 1,21; 3,23-24; 4,29; 10,3; 12,26.32; 18,12).
99 Mentre il verbo anthistemi (v. 19) indica la posizione di contrasto tra due schieramenti politici o
forensi, il verbo antapokrinesthai, usato soltanto qui e in Le 14,6 per il NT, si riferisce alla contesa verba-
le fra le parti.
100 Così invece DJ. Moo, Romans, p. 603.
101 II verbo plassein (plasmare) è spesso utilizzato nell'AT e nel NT per richiamare il gesto creativo
degli esseri umani (cfr. Gn 2,7; Sai 33,15; 2Mac 7,23; lTm 2,13; cfr. anche Flavio Giuseppe, Ant. giud.
1,32,34) e d'Israele (cfr. Is 43,1).
350 Traduzione e commento
La distinzione sulle funzionalità dei vasi è attestata anche in 2Tm 2,20 ma da
una prospettiva diversa da quella di Rm 9,21, perché la nobiltà o la volgarità dei
vasi è determinata dalle azioni umane e non dal disegno originario di Dio. Tut-
tavia, anche in questo caso, come per Esaù e per il faraone, il versante negativo
dei vasi per uso ignobile non è descritto per fondare la teologia della duplice pre-
destinazione al bene o al male, bensì come rovescio o come ombra che pone in lu-
ce il versante positivo della predestinazione al bene, come ben dimostra la con-
clusione della pericope.
[vv. 22-231 Sono diversi gli anacoluti o le frasi interrotte che Paolo lascia fra
le pagine della Lettera ai Romani, a dimostrazione della vivacità e della comples-
sità della sua comunicazione: a volte non riesce a esprimere tutto il suo pensiero.
Fra gli anacoluti della lettera si pone anche il lungo periodo dei vv. 22-23, in cui
Paolo comincia con una protasi senza concludere con un'apodosi . Tuttavia, 102

mentre per gli altri anacoluti si percepisce il pensiero di Paolo , qui risulta im-103

possibile definire l'implicita apodosi della frase: forse avrebbe concluso sottoli-
neando, ancora una volta, che all'origine dei vasi di collera e di misericordia si
trova la misericordia di Dio e, con questa, il suo disegno elettivo; ma non è che
un'ipotesi!
La prima parte della frase comincia con una causale , più che con una con-
104

cessiva : non giacché o per il fatto che, ma a causa della dimostrazione della sua
105

collera e della sua potenza, Dio ha sopportato con grande pazienza i vasi d'ira. La
presenza di vasi d'ira è considerata come dimostrazione dell'ira divina che, in
Rm 1,18 - 3,20, Paolo ha descritto in termini di incompatibilità con il male com-
messo dagli esseri umani. Per questo la manifestazione dell'ira divina non è che
un modo per far conoscere la sua potenza; e questa non si esprime con la distru-
zione, per quanto le creature umane siano come alcuni vasi destinati al macero,
bensì con la grande longanimità di Dio . 106

Non solo, dire che la pazienza di Dio vale anche per i vasi di collera signifi-
ca, per via positiva, dimostrare la ricchezza della gloria divina per i vasi di mise-
ricordia. In pratica, Paolo si sofferma sui vasi d'ira per sottolineare che la gloria di
Dio, ossia la sua presenza o la sua potenza si manifestano nei vasi di misericordia.
Da questo punto di vista la concezione paolina non si differenzia molto dall'apo-
crifo IV Libro di Esdra che scrive: « Quanto è il tempo, infatti, durante il quale
l'Altissimo ha avuto pazienza con quelli che abitavano il mondo; e non per essi,
ma per via dei tempi che egli ha predisposto » (4Esd 7,74) . 107

I riferimenti all'ira, alla distruzione e alla conoscenza della potenza divina,


posta in parallelo con laricchezzadella sua gloria, orientano verso il linguaggio ti-
pico dell'apocalittica giudaica, fermo restando che Paolo non siriferisceal desti-

102 Così anche B. Byrne, Romans, p. 301; S. Tarocchi, Longanime, p. 92.


103 Vedi gli anacoluti di Rm 2,20; 5,12; 9,10.
104 Così anche DJ. Moo, Romans, p. 605.
103 Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 675.
106 Come in Rm 2,4 anche qui l'ira divina è rapportata alla sua longanimità.
107 Cfr. anche 2Mac 6,12-14; Sai 15; Sai Salom. 13,4; 1QH 15,14-20; Le 13,8.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 351
no finale degli esseri umani bensì all'inclusione degli stessi vasi di collera nel di-
segno divino originario . Per questo, Paolo non sta sostenendo che i vasi di col-
108

lera sono chiamati al pentimento né che possono diventare vasi di misericordia,


come sostengono alcuni . L'orizzonte argomentativo di questa sezione è non an-
109

tropologico ma propriamente teologico: del disegno divino fanno parte non sol-
tanto i vasi di misericordia ma anche quelli d'ira perché attraverso di essi si mani-
festa la gloria di Dio . 110

La chiamata dei giudei e dei gentili (9,24-29). - Per confermare la tesi fonda-
mentale di Rm 9,6, Paolo aggiunge, sul tavolo delle prove, una serie di citazioni
tratte dall'AT e in particolare dalla letteratura profetica (vv. 24-29). In tal modo il
percorso storico-salvifico dell'Ai perviene al suo compimento: dalle vicende dei
1

patriarchi (vv. 6-13) a quelle esodali (vv. 14-18) e agli oracoli profetici. Anche se è
bene non separare eccessivamente le relazioni con quanto precede (v. 23), in quan-
to i giudei e i gentili sono rapportati ai vasi di misericordia , è opportuno definire
111

i vv. 24-29 come un nuovo paragrafo caratterizzato da una catena di citazioni . 112

Non è la prima volta che Paolo conclude una sezione minore o maggiore di
Romani con una serie di citazioni ininterrotte dall'AT: lo ha già fatto soprattutto in
Rm 3,9-18 per la sezione di Rm 1,18 - 3,20; e a differenza dalle altre parti di Rm
9, qui preferisce non commentare le citazioni con alcune glosse o inserzioni pro-
prie ma tacere, per lasciare spazio all'autorità indiscussa della Parola di Dio: pos-
siamo dire che la Parola di Dio non è venuta meno anzitutto perché si sostiene da
sola con la sua veridicità.
Tuttavia, questa apparente oggettività delle prove bibliche addotte è smenti-
ta dagl'interventi interni alle citazioni compiute da Paolo stesso: come vedremo,
saranno diverse le variazioni delle citazioni profeticheriportatenei vv. 25-29 che
lasciano cogliere una sorta d'intervento subliminale che Paolo realizza per orien-
tare l'autorità della Scrittura alla conferma della tesi principale della sezione.
In esergo o come tesi da dimostrare, attraverso le citazioni dell'AT, si trova
l'apodittica affermazione di Rm 9,24: Dio ha chiamato non soltanto i giudei ma an-
che i gentili; in funzione di questa proposizione vanno lette le successive citazioni,
altrimenti sirischiadi perdere il bandolo della matassa. Dalla relazione tra il v. 24
e i vv. 25-29 emerge una composizione chiastica, retta sulla chiamata dei giudei e
dei gentili: a) Dio ha chiamato dai giudei (v. 24a); b) Dio ha chiamato dai gentili (v.
24b); b') la chiamata dei gentili (vv. 25-26); a') la chiamata dei giudei (vv. 27-29) . 113

108A questo si riferisce il verbo proetoimazein (predisporre) che compare soltanto qui e in Ef 2,10.
109Cfr. S. Tarocchi, Longanime, p. 93.
110II genitivo «ricchezza della gloria» può essere ritenuto come epcsegetico, nel senso che la ric-
chezza di Dio si identifica con la sua gloria, o come « partitivo », nel senso che la gloria di Dio, come la
sua misericordia, fa parte della sua ricchezza. In base al contesto è preferibile la seconda accezione. Con il
sostantivo «gloria» Paolo stabilisce un significativo elemento di contatto tra Rm 9 e Rm 8 (cfr. Rm 8,30).
1.1Per colmare l'anacoluto dei vv. 22-23 B. Byrne, Romans, pp. 300-301 e U. Wilckens, Römer, II,
p. 198, preferiscono considerare, rispettivamente, come unitari i vv. 22-29 o i vv. 14-29.
1.2Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 678; DJ. Moo, Romans, p. 610; H. Schlier, Romani, p. 481.
113Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 159; DJ. Moo, Romans, p. 611.
352 Traduzione e commento
Le citazioni dell'AT seguono il seguente percorso: v. 25: Os 2,25 (termini
chiave: « chiamare » + « popolo mio »); v. 26: Os 2,1 (termini chiave: « chiamare »
+ «figli di Dio»); vv. 27-28: Is 10,22 + Os 2,1 (termini chiave: «figli d'Israele»
+ «resto»); v. 29: Is 1,9 (termine chiave «discendenza»). Circa l'origine di que-
sta catena di citazioni, si potrebbe pensare a un fiorilegium preesistente all'epi-
stolario paolino. A tal proposito, è bene distinguere tra l'attestazione del genere,
presente soprattutto a Qumran, e il suo contenuto: se Paolo non è il primo a crea-
re alcune catene di citazioni, dal punto di vista contenutistico riteniamo che que-
sto florilegio sia di sua mano, dovuto alla sua profonda conoscenza dell'AT ; lo ll4

attestano le diverse variazioni contenutistiche rispetto alle fonti della LXX.


[9,24] Il linguaggio del kalein così denso nei versi iniziali di Rm 9,6-13 (a),
torna in questa parte della dimostrazione paolina (a'), dopo la dialettica afferma-
zione della giustizia divina (Rm 9,14-18.19-23), per essere orientato a una prima
definizione dei destinatari. Non soltanto Dio ha chiamato, secondo i principi del-
l'elezione e della promessa nell'AT, ma « ci ha chiamati » tra i giudei e i gentili:
l'attenzione si sposta dalle vicende anticotestamentarie a quelle personali e co-
munitarie contemporanee. La novità principale di questo paragrafo riguarda la
chiamata dei giudei e dei gentili, mentre sino ad ora Paolo ha relazionato in Rm
9 la stessa chiamata soltanto a Israele, anche se con le specificazioni interne di ta-
le elezione . 115

Con questa novità, si coglie il punto di arrivo verso il quale Paolo intende
condurre il lettore di Rm 9: la libera chiamata di Dio, contro qualsiasi interferen-
za umana, dei giudei e dei gentili. La motivazione principale per la quale Paolo ha
calcato la mano sulla libertà di Dio nello scegliere alcuni e nelrifiutarealtri non è
stata per porre in discussione la libertà umana né per sostenere una generica du-
plice predestinazione, dell'individuo o della comunità, ma per includere tutti nel-
l'attuale chiamata. L'orizzonte non è negativo ma positivo, al punto che anche la
non chiamata svolge un ruolo significativo nel piano divino.
[vv. 25-26] Nonostante la formula per introdurre una citazione diretta
dall'AT , Paolo riporta una citazione molto diversa dall'originale profetico che
116

in Os 2,25 (LXX) così recita: «...E avrò misericordia di "Non-amata" e dirò a


"Non-popolo mio" "Popolo mio" tu sei... » 117

Dal confronto con la citazione paolina del v. 25 emerge anzitutto l'inversio-


ne dell'ordine originario: se in Os 2,25 si parla prima di Non-amata e quindi di
Non-popolo mio, in Rm 9,25 Paolo preferisce citare prima Non-popolo e quindi
Non-amata, conferendo particolare attenzione alla relazione tra il verbo chiama-

1,4Così anche DJ. Moo, Romans, p. 612. Laripresadi Os 2,23 in lPt 2,10 può essere dovuta all'uso di
questa fonte per dimostrare l'accoglienza dei gentili e alla dipendenza della lPietro dall'epistolario paolino.
115 E bene notare lo spostamento terminologico da «Israele» ai «giudei», di cui Paolo parla per la
prima volta in Rm 9-11 (cfr. dopo in Rm 10,12). Lo stesso vale per « gentile »: perriscontrarnel'uso biso-
gnarisalirea Rm 4,18 (in seguito cfr. Rm 9,30; 10,19.19; 11,11.12.13.13.25).
116Risulta originale la formula d'introduzione alla citazione diretta di Os 2,25: « In Osea» può esse-
re inteso come locale, ossia nel libro di Osea, oppure come strumentale, per mezzo di Osea.
117La versione della LXX corrisponde al TM. Per le differenze tra Os 2,25 e Rm 9,25 cfr. anche C.D.
Stanley, Paul, pp. 110-113.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 353
re e il sostantivo popolo. La seconda variazione principaleriguardal'uso del ver-
bo « chiamerò » che sostituisce il semplice « dirò » di Os 2,25. In tal modo Paolo
riprende e sviluppa una delle fondamentali tematiche di Rm 9,6-25: la chiamata e
l'elezione di Dio . 118

Senza interrompere la citazione di Os 2,25, Paolo aggiunge quella di Os 2,1


che però corrisponde alla versione della LXX, tranne un'aggiunta e un'omissione
minore . Le due citazioni di Osea sono relazionate fra di loro per gezerah
119

shawah, ossia per connessioni terminologiche: sono accomunate dal verbo « chia-
mare». Il non popolo è chiamato a diventare popolo suo (cfr. Os 2,25) e figli di
Dio (cfr. Os 2,1). L'inversione dell'ordine nei confronti dell'originale profetico
permette di sottolineare che i gentili, poiché sono amati da Dio, diventano suoi fi-
gli e non l'inverso . 120

Tuttavia, oltre a queste variazioni, pur significative,rispettoad Os 2,25.1, ciò


che sorprende è l'applicazione che, indirettamente, Paolo compie degli oracoli
profetici: se per Osea la vicenda narrata in Os 1-2 siriferiscealla prostituzione co-
me paradigma dell'idolatria di Israele e alla consequenzialeriaccoglienzanell'al-
leanza, per Paoloriguardal'inclusione dei gentili nel popolo dell'alleanza . Tale 121

variazione può essere anche mitigata sottolineando l'origine pagana di Gomer, la


moglie di Osea, ma resta la fondamentale novità rispetto alla narrazione origina-
le di Os 1-2.
[vv. 27-28] Spostando l'attenzione sui giudei, introdotti al v. 24, Paolo intro-
duce la citazione di Is 10,22-23 (LXX) che così recita : «E anche se il popolo
122

d'Israele diventasse come la sabbia del mare, il resto di essi sarà salvato; la parola
infatti sarà realizzata con rigore e con rapidità per mezzo della giustizia, perché
Dio realizzerà conrigorela parola in tutto l'ecumene ». Il confronto con l'origina-
le di Is 10,22 permette di cogliere prima di tutto l'importante novità dell'espres-
sione «il numero dei figli d'Israele» che sostituisce «il popolo d'Israele» di cui
parla Is 10,22 . Questa sostituzione è dovuta allaripresadi Os 2,la che afferma in
123

modo positivo: «E il numero dei figli d'Israele sarà come la sabbia del mare» . 124

118 Cfr. il verbo «chiamare» (kalein) in Rm 9,7.12 ed ekloge in Rm 9,11. Così anche R.B. Hays,
Scripture, pp. 66-67. Accanto a queste variazioni sostanziali, rispetto alla fonte di Os 2,25, nella citazione
paolina si parla del « popolo » all'accusativo e non al nominativo; manca « amerò », mentre alla fine da una
parte egapémenen (amata) sostituisce eleemenen («colei che ha ricevuto misericordia») e dall'altra è ripe-
tuto il titolo di « amata ».
119 Prima di «saranno chiamati» Paolo aggiunge l'avverbio «là» (ekei) e prima di «figli di Dio»
omette «anch'essi» di Os 2,1. Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 113.
120 La priorità dell'amore di Dio sulla chiamata alla figliolanza può essere ben evidenziata anche dal-
l'implicita presenza della metafora sponsale: ora i gentili entrano a far parte del popolo relazionato a Dio
da un vincolo sponsale. A tal proposito cfr. G. Baldanza, L'unione tra i giudei e i gentili: la metafora spon-
sale in Rm 9,23-25. Alcune riflessioni circa la Chiesa sposa, in Salesianum 59 (1997) 237-248.
121 Per questo primoriferimentoall'inclusione dei gentili in Rm 9 cfr. R.H. Bell, Jealousy, pp. 185-186.
122 Anche la citazione di Is 10,22-23 è introdotta in modo originale e particolarmente solenne: è l'uni-
ca volta in cui il verbo « gridare » introduce una citazione diretta dell'AT. Tuttavia, non è la prima volta che
Paolo si richiama esplicitamente all'autorità di Isaia; vedi l'introduzione generale del nostro commentario.
123 Ancherispettoa Is 10,22 sono riscontrabili variazioni minori, come la sostituzione di kataleimma
con hypoleimma, di « in tutto l'ecumene » con « in tutta la terra », di « Dio » con « Signore »; si veda anche
l'omissione della giustizia.
124 Così anche J.W. Aageson, Scripture, p. 273.
354 Traduzione e commento
Così Paolo stabilisce una nuova gezerah shawah, rispetto ad Os 2,1: i «figli di
Dio » (v. 26) sono relazionati ai « figli d'Israele »; e cambia la prospettiva della ci-
tazione di Is 10,22-23. Il resto non è soltanto considerato da una valutazione nega-
tiva rispetto a tutto Israele, ponendo in discussione la relazione con Dio, ma anche
da una positiva, come segno di speranza per la maggior parte d'Israele . Per que- 125

sto, se è giusto non anticipare a questo livello dell'argomentazione l'orizzonte po-


sitivo della categoria del resto che Paolo svilupperà in Rm 11, non si può esclude-
re il versante positivo di questa categoria tipicamente profetica . 126

[v. 29] La prospettiva positiva dell'oracolo di Is 10,22 è confermata dall'ultima


citazione della catena: quella di Is 1,9 che, questa volta, corrisponde all'originale
della LXX e del TM. Il principale sostantivo di questa citazione è sperma (discen-
denza), attraverso il quale Paolo determina un'inclusionerispettoa sperma Abraam
di Rm 9,7 . Con questo collegamento, Paolo sembra sostenere che la discendenza
127

di Abramo dipende esclusivamente dall'elezione divina: e questo è dimostrato dal-


la discendenza ebraica sopravvissuta all'assedio assiro (701 a.C.). Ancora una vol-
ta, Paolo non si preoccupa di evidenziare il lato oscuro della positiva sopravvivenza
della discendenza: gli israeliti sarebbero stati assimilati a Sodoma e a Gomorra se il
Signore non avesse preservato la discendenza. Si può notare come l'attenzione non
èrivoltaa Sodoma o a Gomorra ma esclusivamente alla discendenza che permette
la sopravvivenza d'Israele. Che cosa ne è di Sodoma e Gomorra?
Cristo, ilfinedella Legge (9,30 -10,4). - La nuova sezione di Rm 9,30 -10,21
si apre con una sorta di esordio secondario, attraverso il quale Paolo sposta l'at-
tenzione dalla tematica dell'elezione divina, quale criterio fondamentale per defi-
nire Israele, alla responsabilità di Israele di fronte alla giustizia divina. Anche se
con Rm 9,30 inizia una nuova microsezione, ci troviamo sempre in Rm 9,1 -11,36,
in cui la tesi principaleriguardala fedeltà della Parola di Dio (Rm 9,6a). A prima
vista sembra che, poiché prosegue lo stile della diatribariscontratoin Rm 9,14-23,
i vv. 30-33 siano da collegare alla sezione precedente, in modo da far cominciare
con l'interpellante «fratelli» di Rm 10,1, la sottosezione di Rm 10,1-21 . Da 128

un'analisi più approfondita di questi versi risalta una significativa continuità di


vocabolario: ci riferiamo soprattutto ai termini «giustizia», «fede», «Legge» e
«Cristo» che caratterizzano Rm 9,30 - 10,21 e che sono assenti in Rm 9,6-29 . 129

125 In questa prospettiva, la comunità di Qumran si considera come resto eletto nei confronti dell'Israele
infedele (cfr. CD 1,4-5; 1QM 13,8; 14,8-9; 1QH 6,7-8; 4QFlor 1,19; lQpHab 10,13).
126 La duplice funzione negativa e positiva del resto prende le distanze sia da quanti, come F. Refoulé,
Israël, pp. 149-150, si limitano al versante negativo, sia da quanti, come J.-N. Aletti, Romani, pp. 162-163;
Id., Israël, pp. 182-183, sottolineano soltanto quello positivo. Ci sembra che entrambe le prospettive siano
attestate in questi versi perché sono proprie della categoria di resto. Per il resto nella letteratura profetica
cfr. Ger 6,9; 23,3; 24,8; Ez 9,8; 11,13; Mi 4,7; 5,7-8; cfr. anche Esd 9,8; Sir 44,17; 47,22; IMac 3,35.
127 Così anche F. Siegert, Argumentation, p. 140.
128 Così J. Lambrecht, The Caesura between Romans 9.30-3 and 10.1-4, in NTS 45 (1999) 141-147.
129 II sostantivo «giustizia »compare 12 volte in Rm 9,30-10,21 (9,30.30.30.31.31; 10,3.3.3.4.5.6.10)
mentre prima cfr. Rm 8,10 e dopo cfr. Rm 14,7; della «fede» si parla in Rm 9,30.32; 10,6.8.17: in prece-
denza cfr. Rm 5,2, in seguito cfr. Rm 11,20. In Rm 9,6-29 Paolo non ha mai parlato della Legge (cfr. in pre-
cedenza nomos in Rm 8,7) né di Cristo (cfr. prima Rm 9,5): in Rm 9,30 - 10,21 tratterà spesso della Legge
(cfr. Rm 9,31.31.32; 10,4-5; in seguito cfr. Rm 13,8) e di Cristo (cfr. Rm 10,4.6.7.17; dopo cfr. Rm 12,5).
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 355
Comunque, il livello argomentativo o retorico di Rm 9,30-33 e di Rm 10,1-4 im-
pedisce di separare queste due parti di un unico paragrafo : vedremo come esse si
130

illuminano reciprocamente e permettono di chiarire la responsabilità d'Israele nei


confronti della giustizia divina . La presenza di termini nuovi e unici rispetto a
131

Rm 9,6-29 e a Rm 11,1-36 (logos), il marcatoriferimentoalla supplica di Paolo per


la salvezza d'Israele (ethos) e l'orientamento verso i destinatari della lettera
(pathos) rappresentano alcune significative indicazioni per considerare Rm 9,30 -
10,4 come un nuovo esordio che introduce la sezione di Rm 9,30 - 10,20 e che si
conclude con la nuova tesi secondaria di Rm 10,4, per lasciare spazio alla dimo-
strazione delle prove in Rm 10,5 ss. . In questa prospettiva, l'affermazione di Rm
132

10,1 è dovuta non all'inizio di una nuova sezione bensì alla reazione di Paolo per
l'inciampo d'Israele, descritto nei versi precedenti . 133

[9,30-31] Se è tipico di un esordio retorico suscitare, nel miglior modo pos-


sibile, l'attenzione degli uditori, quello di Rm 9,30 - 10,4 è fra i più riusciti per-
ché Paolo ricorre a un paradosso: Come i gentili hanno ottenuto la giustizia, sen-
za alcun bisogno di cercarla, mentre per Israele non è stato possibile, nonostante
la sua ricerca? . Se Israele non ha ottenuto la giustizia perché ha utilizzato male
134

la Legge, cadendo in una sorta di autogiustificazione, perché in Rm 10,2 Paolo


non esita a elogiare lo zelo degli israeliti per Dio? La concezione bultmanniana,
che considera negativa la stessa intenzione di cercare la giustizia per mezzo della
Legge e non per mezzo della fede , è stata definitivamente abbandonata. Lo stes-
135

so dovrebbe valere per l'accusa di fariseismo o di legalismo: non sembra proprio


che Paolo fondasse sulla visione farisaica della Legge la ragione per sostenere
l'accusa di questi versi, anche perché egli stesso non rinnega il suo passato fari-
saico di zelante osservante della Legge (cfr. Gal 1,13-14; Fil 3,2-6). Inoltre, se
l'accusa per Israele si fonda sull'incapacità di osservare tutta la Legge, questa può
rappresentare una ragione valida per sostenere il capovolgimento paradossale del-
la relazione tra Israele e i gentilirispettoalla giustizia? In definitiva, la Legge ave-

130 Generalmente, anche gli autori che fanno iniziare da Rm 9,30 la nuova sottosezione, separano i
vv. 30-33 da Rm 10,1-4: così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 684; DJ. Moo, Romans, p. 619. Per l'unità di Rm
9,30 -10,4 cfr. S.R. Bechtler, Christ the telos ofthe Law: the Goal of Romans 10:4, in CBQ 54 (1994) 288-
289; B. Byrne, Romans, pp. 308-309; T.R. Schreiner, Romans, p. 534.
131 Invece H. Ràisànen, Paul, pp. 53-56, per accusare d'inconsistenza l'argomentazione paolina sul-
la Legge, separa nettamente Rm 9,30-33 da Rm 10,1-4.
132 Per Rm 9,30 - 10,4 come esordio cfr. J.-N. Aletti, Romani, pp. 128-132; Id., Israel, pp. 202-204,
anche se, soprattutto nel primo contributo, l'autore colloca il v. 4 a volte con l'esordio (pp. 131-132) e a
volte con la probatio di Rm 10,5-17 (p. 132). Inoltre, se nel primo contributo Aletti si ferma a considerare
il v. 4 come propositio (p. 132), nel secondo identifica una partitio (vv. 2-3) che culmina con la proposito
del v. 4 (pp. 202-203). Vedremo come i vv. 2-3 assumono più una funzione speculare rispetto a Rm 9,30-
32 che di una partitio in cui Paolo introdurrebbe, in dettaglio, le tematiche di Rm 10.
133 Così anche R. Badenas, Christ the End ofthe Law: Romans 10.4 in Pauline Perspective (JSNT SS
10), Sheffield 1985, p. 108.
134 Anche se dal punto di vista sintattico, dopo la prima domanda diatribica del v. 30a, è possibile
considerare come una nuova domanda i vv. 30b-31 (cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 685), a causa dell'ulte-
riore domanda del v. 32 è preferibileritenereche le due domande diatribiche dei vv. 30a e 32a siano inter-
calate dalla risposta paradossale dei vv. 30b-31, altrimenti risulterebbe troppo ampia come domanda dia-
tribica. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 621; T.R. Schreiner, Romans, p. 535.
135 Cfr. R. Bultmann, La dikaiosyné come dikaiosyné theou, in Nuovo Testamento, pp. 265-271
356 Traduzione e commento
va, almeno prima di Cristo, la funzione di conferire la giustizia, ossia una relazio-
ne salvifica con Dio? Non sembra proprio che queste motivazioni siano sufficien-
ti per spiegare l'inversione della situazione tra Israele e i gentili.
Intanto è bene riconoscere, in base all'affermazione parallela di Rm 10,3, che
la giustizia di cui Paolo parla è relazionata alla fede e che entrambi hanno un deci-
sivo orientamento cristologico che diventa chiaro con Rm 10,4: secondo la tesi di
Rm 3,21-22, « la giustizia di Dio si è manifestata per mezzo della fede in Cristo »; e
a causa di questa cristologicizzazione della fede e della giustizia i gentili hanno rag-
giunto ciò che non cercavano, mentre Israele si trova in una condizione di caduta . 136

In questione non si trovano due giustizie, bensì due modalità per raggiungere
la stessa giustizia: una fondata sulla fede e una sulla Legge: con lo stesso linguag-
gio, Paolo opporrà in Fil 3,9 la giustizia proveniente dalla Legge a quella fondata
sulla fede in Cristo. Per esprimere il capovolgimento della situazione tra i gentili
e Israele, nei vv. 30-31 è utilizzato il linguaggio della corsa: «perseguire»
(diókein) e «ottenere» (katalambanein) . La concezione positiva dello zelo per
137

Dio (Rm 10,2) e il «perseguimento della giustizia», attestato in lTm 6,11 e 2Tm
2,22 , dimostrano che in quanto tale questa mèta non è sbagliata: ciò che risulta
138

errato è il modo o il criterio attraverso il quale Israele ha perseguito la giustizia;


appunto attraverso la Legge e le sue opere e non mediante la fede in Cristo.
Nella composizione paradossale dei vv. 30-31 sorprende l'affermazione con-
clusiva con la quale Paolo sostiene che Israele non ha raggiunto la Legge ; ci sa- 139

remmo aspettati un'espressione del tipo: «...Non ha raggiunto la giustizia», come


tentano di facilitare l'asserzione paolina alcuni testimoni . Purtroppo, molti studio-
140

si lasciano in secondo piano questa sorprendente asserzione paolina: da una parte


Paolo sostiene che Israele ha cercato di perseguire la Legge che conduce o permet-
te di raggiungere la giustizia - e questa rappresenta un'intenzione negativa -
141 142

136Anche se H. Ràisànen, Paul, pp. 53-56, separa nettamente Rm 9,30-33 da Rm 10,1-4, ha ragione
nel sottolineare contro S. Westerholm la questione cristologica e non tanto teologica in gioco nei vv. 30-
33: si tratta della giustizia di Dio in Cristo e della fede in Cristo. Cfr. H. Ràisànen, Faith, pp. 239-246. Per
la cristologizzazione della giustizia e della fede in Rm 9,30-33 cfr. anche F. Refoulé, Note surRomains IX,
30-33, in RB 92 (1985) 161-186.
137Cfr. soprattutto Fil 3,12-16 in cui la metafora della corsa è espressa con i verbi « perseguire », « ot-
tenere» e «raggiungere»; cfr. anche Rm 14,19; lTs 5,15; ICor 14,1; 2Tm 2,22; Sir 11,10; 27,8; Lm 1,13.
Così anche S.R. Bechtler, Christ, p. 292; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 685; T.R. Schreiner, Romans, p. 536.
138Cfr. anche Dt 16,12; Pr 15,9; Sir 27,8; Sap 6,4.
139 Per questo significato diphtanein cfr. Fil 3,16; cfr. anche Dn 7,13; Filone, Mundi 8; Test Ruben 5,7.
140Cfr. i codici N , F, W, 1881; la lezione senza « giustizia » non soltanto è più attestata (cfr. P ; N *, A,
2 46

B, F, G, 81, 945,1506, 1739) ma è da preferire anche perché più breve e più difficile.
141 L'originale espressione «Legge della giustizia» può essere intesa anche come genitivo di qualità:
Paolo intenderebbericonoscerecome in Rm 7,12 che « la Legge è giusta ». Così C.K. Barrett, Romans 9,30-
10,21: Fall and Responsability ofIsrael, in Essays on Paul, London 1982, p. 140. Tuttavia è preferibile con-
siderare l'espressione come genitivo telico o finale: in questione è la Legge che chiede o che conduce alla
giustizia e non una qualità della Legge in quanto tale. Così anche S.R. Bechtler, Christ, p. 293; C.E.B.
Cranfield, Romans, I, p. 508; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 686; B.L. Martin, Christ, p. 138; D.J. Moo, Romans,
p. 625; F. Refoulé, Note surRomains IX,30-33, in RB 92 (1985) 175.
142 Con buona pace di C.T. Rhyne, Nomos dikaiosynes and the Meaning of Romans 10.4, in CBQ 47
(1985) 489, che ritiene positiva l'espressione «Legge della giustizia» mentre sarebbe negativo soltanto il
desiderio della giustizia e non il percorso attraverso la Legge mosaica. La connotazione negativa della for-
mula è confermata dai paralleli paolini in cui la Legge e la giustizia sono sempre poste in antitesi (cfr. Rm
3,21.28; 4,13; Gal 2,16; 3,11.21; 5,4; Fil 3,6-9). Così anche DJ. Moo, Romans, p. 623.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 357
dall'altra che la Legge stessa non è stata raggiunta da Israele: da questo punto di vi-
sta, la Legge si trova al di fuori della caduta d'Israele, anzi, in una condizione posi-
tiva rispetto a esso. Riteniamo che in pratica Israele non ha raggiunto la Legge per-
ché questa non soltanto conduce a Cristo ma diventa essa stessa « Legge della fede »
(cfr. Rm 3,27). Si comprende come Paolo stia preparando pian piano la tesi princi-
pale di Rm 10,4 sulla relazione tra la Legge e Cristo.
[v. 32] Attraverso la tecnica retorica dell'insinuazione, Paolo non soltanto
prepara la tesi sul rapporto tra Cristo e la Legge ma anche la centralità di Gesù
Cristo che rappresenta la principale novità di Rm 9,30 - 10,20. La motivazione
principale per la quale Israele non ha raggiunto la Legge si trova nel modo di cer-
care la stessa giustizia che hanno ottenuto i gentili: non partendo dalla fede, che
abbiamo identificato con la fede in Cristo, ma fondandosi sulle opere che si iden-
tificano con quelle « della Legge » (cfr. Rm 3,20).
Attraverso l'opposizione tra la fede (in Cristo) e le opere (della Legge), Paolo
pone in contrasto due sistemi per raggiungere la stessa giustizia e non due diverse
forme di giustizia. Rispetto a questa opposizione, prima del pur significativo pa-
rallelo di Fil 3,2-6, è illuminante quello di Rm 3,27-28: il vanto fondato sulle ope-
re (della Legge) è stato escluso dalla Legge della fede (in Cristo). Dunque, rispet-
to alla via della giustificazione, il sistema delle opere è incompatibile con quello
della fede; e qui Paolo non si riferisce a qualsiasi opera, secondo la concezione
classica luterana, né per inverso soltanto alle opere che fungono da « segni identi-
ficativi » per i giudei verso i gentili, come la circoncisione, il calendario e le rego-
le alimentari , ma a qualsiasi opera della Legge, intesa come via per raggiungere
143

la giustizia.
Con l'affermazione finale del v. 32, Paolo esplicita la condizione d'inciam-
po nella quale si trova la maggior parte degli israeliti: è inciampata contro il sas-
so d'inciampo che, come dimostrerà l'uso della citazione successiva di Is 28,16
nell'epistolario paolino e nel resto del NT, è Gesù Cristo. Il percorso d'Israele si
è interrotto non perché fosse zelante rispetto alla Legge né perché fosse incapace
di osservarla pienamente ma perché ha inciampato di fronte al vangelo, davanti
al messia crocifisso.
[v. 33] Una formula propria per le citazioni dirette dell'AT introduce la dop-
pia citazione di Is 28,16 e di Is 8,14 che, secondo la versione della LXX, così re-
citano: « Ecco io getto nel fondamento di Sion una pietra preziosa, scelta, angola-
re e onorata nel suo fondamento, e chi crede in essa non sia svergognato » (Is
28,16); «...e se crederai in lui, egli sarà per te un santuario e non come un sasso
d'inciampo; lo incontrerete non come una pietra di rovina... » (Is 8,14) . Il con- 144

fronto con le fonti dimostra che la citazione principale è quella di Is 28,16, secon-
do la LXX, mentre sembra derivare da Is 8,14 l'espressione « sasso d'inciampo »;
a sua volta, l'espressione «pietra di scandalo» sembra più vicina a Is 8,14 secon-

143Così invece J.D.G. Dunn, Paul, p. 366.


144II termine lithos (pietra) funge da collegamento testuale tra Is 28,16 e Is 8,14, per cui si può anche
pensare a una gezerah shawah, ossia a una connessione terminologica, senza l'inserzione di un commen-
to paolino. Così C.D. Stanley, Paul, p. 120.
358 Traduzione e commento
do il TM che alla versione della LXX . Con l'inserzione di alcuni termini mu-
145

tuati da Is 8,14 Paolorileggel'oracolo di Is 28,16 in prospettiva negativa rispetto


a quella positiva originaria e orienta secondo una propria prospettiva il riferimen-
to della fede . 146

La citazione di Is 28,16 nel resto del NT e in particolare in lPt 2,6-8, dov'è


relazionata a Is 8,14 come in Rm 9,33, potrebbe far pensare a un testimonium pre-
paolino utilizzato negli strati più antichi della cristologia neotestamentaria . Tale 147

ipotesi non sembra molto solida; e laripresadi Is 28,16; 8,14 in lPt 2 può essere
dovuta al paolinismo di questa lettera successiva a Romani.
Pertanto la pietra sulla quale Israele è inciampato non è la Torah giudaica, nei
confronti della quale invece Paolo attesterà lo zelo ebraico , bensì Gesù Cristo e
148

lo scandalo che deriva dalla sua messianicità . L'interpretazione cristologica del-


149

la pietra di scandalo è confermata dalla tesi che Paolo colloca alla fine dell'esordio:
fine della Legge è Cristo (Rm 10,4). Israele non ha raggiunto la Legge perché ha
inciampato contro il vangelo scandaloso della messianicità di un Cristo crocifisso.
[10,1] Le ultime battute di Rm 9 potrebbero far pensare a un antigiudaismo
paolino senza frontiere; invece le prime battute di Rm 10 confermano la grande
sofferenza di Paolo per gli israeliti, introdotta all'inizio della sezione (cfr. Rm
9,2-3). Per questo l'interpellante «fratelli» che introduce il v. 1 costituisce l'i-
stanza di chi merita fiducia rispetto alla situazione d'inciampo in cui si trova
Israele e non indica il passaggio a una nuova microunità letteraria. Ciò che pre-
me a Paolo, nonostante l'incredulità verso il vangelo, è la salvezza degli israeli-
ti , ossia la loro giustificazione: per questo la sua non è una semplice preghiera
150

ma una supplica accorata , propria di chi non si trova di fronte a Israele, per ap-
151

partenere a nuova religione, ma di chi si riconosce come parte integrante dello


stesso Israele incredulo. La preghiera di Paolo è analoga alla supplica di Daniele
per il suo popolo (cfr. Dn 9) . 152

Così anche C.D. Stanley, Paul, pp. 122-123.


145

146 p l'interpretazione personale della pietra d'inciampo cfr. anche 1QH 6,26-27; 1QS 8,7. La pre-
ef

senza di Is 28 e di Is 8 in 1QS 8,4-10 ha indotto D. Flusser, From Essenes to Romans 9,24-33, in Judaism
and the Origins ofChristianity, Jerusalem 1988, pp. 75-87, a sottolineare le dipendenze di Rm 9,32-33 dal-
la concezione messianica della comunità di Qumran.
Cfr. anche iriferimentia Is 28,16; 8,14 in Mt 21,42; Le 20,17; Ef 2,20; 2Tm 2,19; At 4,11, Barnaba
147

6,1-4. Per l'ipotesi di un testimone prepaolino cfr. S.R. Bechtler, Christ, p. 295; DJ. Moo, Romans, p. 629.
Circa il confronto fra i diversi riferimenti a Is 28,16; 8,14 nel NT cfr. D.A. Oss, The Interpretation ofthe
« Stone » Passages by Peter and Paul: A Comparative Study, in JETS 32 (1989) 181-200.
Con buona pace di L. Gaston, Paul, p. 129 e di P.W. Meyer, Romans 10:4 and the End ofthe Law, in
148

J.L. Crenshaw - S. Sandmel (edd.), The Divine Helmsman: Studies on God's Control of Human Events, FS.
L.H. Silberman, New York 1980, p. 64, che considerano la Legge mosaica come pietra d'inciampo per Israele;
e anche di N.T. Wright, Climax, p. 244, che interpreta la pietra d'inciampo inriferimentoalla Legge e a Cristo.
Per l'interpretazione cristologica di Rm 9,32-33 cfr. anche G. Barbaglio, La teologia di Paolo.
149

Abbozzi in forma epistolare, Bologna 1999, p. 683; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 686; D.J. Moo, Romans, p.
628; E.P. Sanders, Legge, p. 86; C.D. Stanley, Paul, p. 122.
La relazione tra la giustizia e la salvezza si trova al centro della tesi generale di Rm 1,16-17.
150

In questo contesto il termine eudokia acquista un senso intensivo di « desiderio » (cfr. anche 2Ts
151

1,11; Sai 145,16; Sir 39,18; Est 4,17), anche se altrove, nell'epistolario paolino, equivale a «benevolen-
za» (cfr. Fil 1,15; 2,13; Ef 1,5.9). Anche la deèsis esprime non soltanto la preghiera ma soprattutto la sup-
plicarivoltaa Dio (cfr. anche 2Cor 1,11; 9,14; Fil 1,4; 4,6; lTm 2,1; 5,5; 2Tm 1,3).
Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 542.
152
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 359
[y. 2] Una solenne formula introduce l'attestazione di Paolo a favore degli
israeliti : essi hanno zelo per Dio. Possiamo relazionare questo zelo alla Legge
153

mosaica, perché è dall'amore per essa che Israele dimostra concretamente lo zelo
per Dio: la relazione implicita tra lo zelo e la Legge mosaica è confermata dall'u-
so del sostantivo zélos (zelo) e del derivato zelótes (zelante) nell'epistolario pao-
lino (cfr. Gal 1,13-14; Fil 3,5-6).
Circa lo zelo per Dio, è bene evidenziare che in quanto tale è positivo e non
negativo, giacché lo stesso Paolo non esita a vantarsi del proprio passato farisai-
co . Dunque, anche se altrove Paolo utilizza il motivo del legalismo per scredita-
154

re il percorso della giustizia fondato sulla Legge, quest'affermazione dimostra che


la ragione principale per la relativizzazione della Legge non si trova nel legalismo
o nel fariseismo bensì nell'impossibilità di raggiungere la piena conoscenza che
corrisponde alla relazione con Cristo . Se attraverso la Legge si ha soltanto la
155

piena conoscenza del peccato (cfr. Rm 3,20), la giustizia divina è raggiungibile


soltanto con la fede in Cristo, attraverso la paradossale condizione che la stessa
giustizia divina è attestata dalla Legge e dai Profeti (cfr. Rm 3,21-22). Per questo,
se a prima vista può sembrare un errore di poco conto il mancato raggiungimento
della piena conoscenza rispetto allo zelo per Dio, derivante dalla relazione con la
Legge, il dramma che Paolo sta evidenziando è che la piena conoscenza corri-
sponde al perseguimento della Legge stessa al quale purtroppo la maggior parte
degli israeliti non è pervenuta (cfr. Rm 9,31).
[v. 3] Le ragioni per le quali, nonostante il positivo zelo per la Legge e per
Dio, Israele non ha raggiunto la Legge e la giustizia di Dio, sono principalmente
due: una negativa e una positiva . In termini negativi, poiché molti israeliti han-
156

no ignorato la giustizia di Dio che si raggiunge non con la Legge ma con la fede in
Cristo, non si sono sottomessi alla giustizia divina che si rivela nel vangelo . In 157

termini positivi, questa mancata sottomissione è dovuta all'esigenza di stabilire la


propria giustizia che corrisponde all'itinerario fondato sulla Legge per ottenere la
giustificazione (cfr. Rm 9,31) . In quest'affermazione, si può notare il percorso
158

argomentativo inversorispettoa Rm 9,31-32: se prima Cristo costituisce la ragio-


ne per l'ostinazione d'Israele sulle opere della Legge, ora è l'ostinazione nello sta-
bilire la propria giustizia a causare la mancata sottomissione alla giustizi^ divina
rivelata in Cristo. Dunque, anche se il percorso che procede dalla soluzioni cristo-

II dativo semplice autois è da intendere come dativus commodi o di vantaggio: Paolo attesta a fa-
153

vore e non a sfavore dei giudei.


Lo zelo per Dio e per la sua Legge è ben radicato nella concezione giudaica del second| Tempio,
154

al punto che rappresenta uno degli elementi più caratteristici del comune giudaismo (cfr. Nm 25JS-13; IRe
19,9-18; Sai 69,9; 118,139; Sir45,23; 48,2; Gdt 9,4; IMac 2,15-28.50.55.58; 2Mac4 2' 4Mac 1&12; Giub
%

30,18-20; Test. Aser 4,5; 1QS 4,4; 9,23; 1QH 6,14; in seguito cfr. anche Flavio Giuseppe, Ant. gìud. 12,2).
Con buona pace di D.J. Moo, Romans, pp. 632-633.
155

1 participi agnoountes (ignorando) e zétountes hanno un chiaro valore causale/Così anche S.R.
156

Bechtler, Christ, p. 296; T.R. Schreiner, Romans, p. 543.


A causa del verbo « non si sono sottomessi », l'espressione « giustizia di Dio » non va intesa sem-
157

plicemente come genitivo di autore ma anche come genitivo soggettivo: è nello stesso tempo la giustizia
che proviene da Dio (v. 3a) e che appartiene a lui (v. 3b). Così anche K. Kertelge, Giustificazione, p. 118.
II verbo «stabilire» (histemi, histanein) appartiene al vocabolario dell'alleanza e corrisponde al-
158

Vhiphil del verbo qum (cfr. Gn 6,18; 17,7.19.21; Es 6,4; Dt 8,18; 29,13). Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 368.
360 Traduzione e commento
logica alla distretta d'Israele è fondamentale per il pensiero paolino , non bisogna 159

ignorare neppure il movimento inverso, altrettanto presente : limitare il problema


160

d'Israele alla non accoglienza del vangelo significa, in definitiva, semplificare gli
orizzonti della complessa visione paolina su Israele e sulla Legge mosaica.
Per questo, anche se la «propria giustizia» non si riferisce ali'autogiustifi-
cazione farisaica d'Israele, bensì a una giustizia etnica che impedisce ai gentili di
entrare a far parte del nomismo del patto , il confronto con Rm 9,30-31 e con Fil
161

3,9 dimostra che in questione non è soltanto un esclusivismo dell'alleanza ma an-


che due tipi di economie: quella delle opere della Legge contro quella della fede
in Cristo . 162

[v. 4] L'esordio di Rm 9,30 - 10,4 si conclude con una tesi enigmatica che
crea non poche difficoltà interpretative, soprattutto per la sua natura ellittica. Qual
è il significato di telosl La fine, ossia la conclusione, con una consequenziale
abrogazione della Legge , la mèta in quanto punto di arrivo della Legge , oppu-
163 164

re ilfine,nel senso che Cristo sarebbe il positivo raggiungimento della Legge? . 165

La seconda parte della tesi («per la giustizia di chiunque crede») si riferisce a


Cristo o a « fine della Legge »? Comunque, sarebbe Cristo la via per la giustizia di
chiunque crede o sarebbe la fine della Legge a determinare la giustizia di chiun-
que crede? Si può ben vedere come l'espressione sia enigmatica e soggetta a mol-
te interpretazioni!
Intanto, è benerilevareche il v. 4 rappresenta la tesi di Rm 9,30 -10,21: lo di-
mostra la ripresa di una parte della tesi generale della lettera: «Per la salvezza di
chiunque crede...» (Rm 1,16b) corrisponde a «per la giustizia di chiunque cre-
de... » di Rm 10,4. La giustizia di chiunque crede non è altro che l'affermazione
della salvezza per chiunque crede. La relazione con l'altra tesi secondaria di Rm
3,21-22 dimostra che non è il/la fine della Legge a determinare la giustizia di
chiunque crede ma Cristo: « ...Per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti coloro
che credono » (Rm 3,22a) . Dunque, a prescindere dal significato che conferiamo
166

al termine telos, Cristo è la via della giustizia per chiunque crede; e questo rap-
presenta il dato fondamentale della tesi che Paolo dimostrerà in Rm 10,5-21.

159Così E.P. Sanders, Legge, pp. 86-89; cfr. anche F. Refoulé, Note sur Romains IX,30-33, in RB (1985)
182-184; Id., Romains X,4. Encore unefois, in RB 91 (1984) 348.
160Così DJ. Moo, Romans, pp. 635-636.
161Così S.R. Bechtler, Christ, p. 298; E.P. Sanders, Legge, pp. 88-89; N.T. Wright, Climax, p. 241;
contro H. Hübner, Legge, pp. 220-221; T.R. Schneider, Romans, p. 544.
162Così anche R.H. Bell, Jealousy, p. 188.
163J.-N. Aletti, Romani, p. 128; R.H. Bell, Jealousy, pp. 189-190; A. Lindemann, Die Gerechtigkeit
aus dem Gesetz. Erwägung zur Auslegung und zur Textgeschichte von Rom 10,5, in ZNW 73 (1982) 242;
B.L. Martin, Christ, p. 134; H. Räisänen, Law, p. 175; F. Refoulé, Romains X,4, p. 350; E.P. Sanders, Legge,
p. 92; T.R. Schreiner, Romans, p. 545; F. Watson, Paul, p. 165; S. Westerholm, Israel's Law, p. 130.
164Così S.R. Bechtler, Christ, p. 298; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 694; J.V. Hills, « Christ was the Goal
ofthe Law... ». Romans 10:4, in JTS NS 44 (1993) 585-592. Per la combinazione di telos come cessazione e
come mèta cronologica cfr. J.-N. Aletti, Israel, pp. 215-216; D.J. Moo, Romans, pp. 636-640; F. Siegert,
Argumentation, p. 148.
165Così J.D.G. Dunn, Paul, p. 369; L. Kundert, Christus als Inkorporation der Tora, in TZ 55 (1999)
76-87; C.T. Rhyne, Nomos, p. 491; Id, Faith Establishes the Law, Chico 1981.
166Con buona pace di P. Meyer, Romans 10:4, p. 68; T.R. Schreiner, Romans, p. 548.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 361
Partendo dall'analisi del sostantivo te los nel NT e nel greco biblico o extra-
biblico le posizioni degli studiosi sono destinate a restare immutate: il sostantivo
significa sia «la fine» sia «il fine» , con l'aggiunta della mèta presente sia nel
167

valore negativo sia in quello positivo. Coloro che preferiscono il senso negativo
del termine sottolineano che Paolo intende considerare come abrogata l'economia
della Legge per lasciare il posto a quella della fede che si identifica con Cristo.
Alcuni aggiungono che è abrogato un uso cattivo della Legge e quindi il principio
dell'autogiustificazione . Il valore negativo di telos sarebbe confermato da alcu-
168

ne asserzioni paoline come « mediante la Legge siamo morti alla Legge » (cfr. Gal
2,19) e « siamo stati messi a morte alla Legge per mezzo del corpo di Cristo » (cfr.
Rm 7,4) . Dobbiamo denunciare una certa confusione in queste valutazioni ne-
169

gative di telos in Rm 10,4, dovuta all'intromissione di aspetti che non si trovano


nell'affermazione. Di fatto, Paolo non dice mai che la Legge mosaica è abrogata
per il fatto che noi siamo morti rispetto a essa: c'è un non sequitur che dovrebbe
esigere maggiore cautela rispetto all'abrogazione della Legge. Che noi siamo
morti alla Legge non significa che la Legge è morta o è stata abrogata!
Anche coloro che parlano della fine di un cattivo uso della Legge inserisco-
no al v. 4 un elemento estraneo al testo: il problema non è la nostra relazione con
la Legge ma quello tra la Legge e Cristo. Non possiamo nonrivolgereuna critica
analoga a quanti ritengono che Paolo consideri abrogata l'economia della Legge
rispetto a quella di Cristo e della fede: in questione non è la successione tra due
fasi della storia della salvezza, nel qual caso il tempo della Legge lascerebbe il po-
sto a quello di Cristo, dato abbastanza scontato, ma ancora una volta il rapporto
tra la Legge e Cristo in vista della giustizia di chiunque crede. Che l'economia
della Legge sia incompatibile con quella di Cristo o della fede non significa che
la Legge è abrogata: anche questa conclusione è affrettata.
Piuttosto, è necessario riconoscere che le asserzioni paoline sulla Legge in
Romani non sono soltanto negative ma anche positive; e queste ultime sono mag-
giori anche rispetto a quelle della Lettera ai Galati. Dunque, concentrando l'at-
tenzione sulla relazione tra la Legge e Cristo, Paolo non può sostenere che la
Legge è finita con Cristo o è abrogata: tale conclusione non si trova in alcun luo-
go dell'epistolario paolino né tanto meno in una frase così enigmatica. Già in Rm
9,4-5, fra i privilegi d'Israele sono citati sia la legislazione mosaica sia Cristo se-
condo la carne; e se questi sono doni irrevocabili, Paolo non può sostenere l'a-
brogazione della Legge ma al massimo la sua negativizzazione o relativizzazione
rispetto alla giustificazione per mezzo della fede in Cristo. Per quanto la sezione
Rm 9,1 -11,36 debba essere considerato autonomamente, non si possono ignora-
re le conclusioni di Rm 3,27-31: la stessa Legge mosaica è stata liberata dall'eco-

167Per telos nel senso dellafinecome cessazione cfr. lTs 2,16; Fil 3,19; Mt 10,22; 24,13; Le 1,33; Eb
6,11; lPt 4,7; con il significato del fine come mèta cfr. Rm 6,21.22; lTm 1,5; lPt 1,9. In diversi casi come
per 2Cor 3,13 il significato di telos è discusso. Per l'analisi di telos nel greco biblico ed ellenistico cfr. R.
Badenas, Christ.
168Cfr. H. Hübner, Legge, p. 260.
169Cfr. B.L. Martin, Christ, pp. 131-134.
362 Traduzione e commento
nomia delle opere per entrare in quella della fede in Cristo. Per questo, contro
quantiritengonoche la Legge sia stata abrogata, Paolo ha già sostenuto che « non
l'abroghiamo ma la confermiamo per mezzo della fede » (cfr. Rm 3,31) . 170

Se, dunque, la Legge perviene non alla sua fine ma al suo fine, alla sua pie-
na realizzazione e al suo compimento in Cristo, diventa chiaro il senso di questa
tesi e l'audace affermazione di Rm 9,31b: Israele non ha raggiunto la Legge per-
ché la Legge ha raggiunto Cristo. L'angoscia e la supplica accorata di Paolo sono
dovute a questa relazione da una parte positiva tra la Legge e Cristo e dall'altra
negativa tra gli israeliti e Cristo. In definitiva,ritengoche con questa tesi Paolo in-
tenda domandarsi: Se il fine ultimo della Legge è Cristo, come si può inciampare
davanti a lui e non raggiungere la stessa Legge che in Cristo trova la sua piena
realizzazione? Coloro che sostengono il valore negativo di telos sono chiamati
prima a prendere sul serio le affermazioni positive sulla relazione tra la Legge e
Cristo e a non inserire in Rm 10,4 elementi che Paolo non considera, come l'eco-
nomia della Legge o il suo cattivo uso, per sostenere una visione che non trova al-
cunriscontronon soltanto in questa sezione ma neppure in Romani né in tutto l'e-
pistolario paolino.
La giustizia della fede (10,5-13). - Sino ad ora, Paolo si è fermato a parlare
della fede di Abramo (Rm 4) e, pur avendo accennato alla fede in Cristo (cfr. Rm
3,21-26), non le ha dedicato particolare attenzione. Dopo aver posto l'accento
nell'esordio di Rm 9,30 - 10,4 sull'opposizione tra la giustizia fondata sulla
Legge e quella sulla fede, e aver relazionato, nella tesi di Rm 10,4, Cristo alla giu-
stizia di chiunque crede, ora avverte la necessità di spiegare la relazione tra Cristo
e la fede, in vista della giustizia . 171

Le prove addotte a sostegno della giustizia della fede sono tutte incentrate
sull'AT: si può parlare di un nuovo midrash di tipo antitetico in cui alla citazione
di Lv 18,5 si oppone quella di Dt 30,12-13, con i termini chiave «fare» (v. 5) e
« parola » (v. 8) . La tensione tra queste due citazioni èrisoltacon l'applicazione
172

cristologica dell'oracolo di GÌ 3,5: l'invocazione del nome del Signore conduce


alla salvezza . Tuttavia, questo midrash antitetico è incentrato su Gesù Cristo, ri-
173

170 Sulla relazione tra Rm 10,4 e Rm 3,31 cfr. R.B. Hays, Scripture, p. 76.
171 La microunità letteraria di Rm 10,5-13 è abbastanza chiara: comincia con il riferimento a Mosè
che introduce la citazione di Lv 18,5 e si chiude con la citazione di GÌ 3,5, per lasciare spazio a una serie
di domande dallo stile diatribico nei vv. 14-17. Così anche J.A. Fitzmyer, Romans, p. 587; T.R. Schreiner,
Romans, p. 550.
172 Coloro che come R. Badenas, Christ, pp. 118-125; L. Gaston, Paul, p. 130 e S.K. Stowers,
Rereading Romans, pp. 308-310, considerano i vv. 5-6 come complementari e non come antitetici si fer-
mano all'analisi delle citazioni bibliche mentre l'antitesi è creata da Paolo stesso con le formule introdut-
tive. Per l'opposizione tra il v. 5 e il v. 6 cfr. anche J.-N. Aletti, Romani, p. 134; M. Rese, Israel Umwissen
und Ungehorsam und die Verkündigung des Glaubens durch Paulus in Rom 10, in D.A. Koch - G. Sellin
- A. Lindemann (edd.), Jesu Rede von Gott und ihre Nachgeschichte im frühen Christentum, FS. W.
Marxen, Gütersloh 1989, pp. 252-266; T.R. Schreiner, Romans, pp. 552-553.
173 Con buona pace di S.P. Carbone, Misericordia, p. 63, che considera come chiave del midrash la
citazione di Is 28,16 in Rm 10,11 si può notare che questa citazione è stata già menzionata in Rm 9,33b e
che con l'aggettivopasrimandaalla citazione finale di GÌ 3,5.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 363
conosciuto come il Signore, che ne rappresenta anche la prospettiva ermeneutica
fondamentale; di fatto, prescindendo dal v. 5, Paolo non dedica più nessuna atten-
zione alla giustizia fondata sulla Legge, ma rivolge tutta l'attenzione alla giusti-
zia della fede. Dal punto di vista compositivo sonoriconoscibilidue parti: i vv. 5-
10 (la giustizia della fede contro quella della Legge) e i vv. 11-13 (l'universalità
della salvezza). Tra le due parti c'è una profonda relazione, in quanto la prima
fonda la seconda . Poiché la giustizia è realizzata in base alla fede e non per mez-
174

zo della Legge, la salvezza in Cristo non riguarda soltanto alcuni (il particolari-
smo etnico) ma tutti (l'universalismo della salvezza) . 175

[10,5] Il midrash comincia con un richiamo all'autorità di Mosè alla quale


Paolo oppone la parola della giustizia della fede (v. 6); e queste due formule in-
troduttive determinano opposizioni tra i due percorsi della giustizia mentre, in
quanto tale, la citazione di Lv 18,5 non si oppone a quella di Dt 30,12. In tal mo-
do Paolo crea una tensione nella stessa Scrittura cherisolvecon la prospettiva cri-
stologica della citazione profetica di GÌ 3,5 nella seconda parte della pericope . 176

La citazione di Lv 18,5 corrisponde globalmente alla versione della LXX


che, a sua volta, non si differenzia dal TM, con l'aggiunta di «queste cose», do-
vuta alla decontestualizzazione della citazione . A tale citazione Paolo non ag-
177

giunge nessun commento ma la dispone in antitesi con quella di Dt 30,12-13 ; e 178

alla luce di questa opposizione si comprende come il contrasto principale fra le ci-
tazioniriguardal'economia della giustizia fondata sulla Legge, caratterizzata dal
«fare» (poiein), rispetto a quella della fede fondata sulla «parola» (rhema). Di
per sé, Paolo non dice che la giustizia della Legge ha lasciato il posto a quella del-
la fede, per cui, prima di quest'ultima, si poteva pensare che la Legge avesse ga-
rantito un percorso di giustizia: è vero che questa conclusione emerge dalla rela-
zione tra Rm 10,5 e l'esordio di Rm 9,33 - 10,4, in cui Paolo ha contestato pro-
prio il percorso giudaico della giustizia per mezzo della Legge , ma riteniamo 179

che non sia questo il problema principale di Rm 10,5. In modo analogo, Paolo non
dice perché la giustizia fondata sulla Legge è negativa rispetto a quella retta sulla
fede: se a causa dell'incapacità umana di mettere in pratica tutte le normative del-
la Legge o perché la stessa esigenza di cercare una giustizia a partire dalla Legge
sia negativa . Anche queste sono intrusioni pericolose nell'argomentazione pao-
180

174 Così anche J.W. Aageson, Scripture, p. 275, che giustamente evidenzia come le citazioni di Rm
10,5-10 non sono menzionate come prove ma come fondamento per la base cristologica interpretativa.
175 Con buona pace di R.H. Bell, Jealousy, pp. 190-191, che rileva il primo orizzonte a discapito del
secondo, e di F. Watson, Paul, p. 165 che sottolinea il secondo orizzonte a discapito del primo.
176 Un'analoga opposizione è verificabile nel midrash di Gal 3,6-14 in cui la citazione di Lv 18,5 è
posta in contrasto con quella di Ab 2,4. Cfr. A. Pitta, Galati, pp. 173-174.
177 Si può notare che nel parallelo di Gal 3,12 Paolo omette il sostantivo anthròpos che invece si tro-
va in Rm 10,5 e nella fonte della LXX.
178 Così anche J.-N. Aletti, Israel, p. 219.
179 Così J.-N. Aletti, Israel, p. 218, che, a conferma della giustizia fondata sulla Legge prima di Cri-
sto, cita Fil 3,6; in tal caso Rm 9,5 esprimerebbe il punto di vista del giudeo e non di Paolo. Anche Id.,
Romani, p. 135.
180 La visione classica sull'incapacità di osservare la Legge è stata recentemente ribadita da T.R.
Schreiner, Romans, pp. 555-556.
364 Traduzione e commento
lina che invece si limita ad opporre due testi della Torah, per porre in contrasto
due percorsi in vista della stessa giustizia: quella della Legge e quella della fede.
[v. 6] Contro Mosè, Paolo fa parlare la giustizia della fede, con la quale in-
troduce la citazione di Dt 30,12 che nella versione della LXX così recita: « Non è
su nel cielo per cui possa dire: Chi salirà per noi in cielo e la prenderà per noi? ».
La prima parte della citazione sembra ricavata da Dt 9,4: «Non dire nel tuo cuo-
re... »: con quest'aggiunta di Dt 9,4 Paolo ha l'opportunità d'introdurre il motivo
del « cuore » quale dimora nella quale si esprime la fede, sul quale insisterà nei vv.
8-10. Tuttavia, il confronto con l'intera citazione di Dt 32,12-14 pone inrisaltoco-
me egli omette le parti conclusive di ogni citazione, in cui il Deuteronomista insi-
ste proprio sul verbo « fare » e sulla consequenziale attuazione del comandamen-
to: «E dopo averla ascoltata possiamo metterla in pratica...» (Dt 30,12); «e la
mettiamo in pratica... » (Dt 30,13); « e nelle tue mani per praticare » (Dt 30,14) . 181

Attraverso queste significative omissioni, mentre le citazioni di Lv 18,5 e di Dt


30,12-14 in quanto tali sono accomunate proprio dal verbo «fare», e quindi pos-
sono essere considerate come complementari, da Paolo sono poste in contrasto, at-
traverso l'omissione delle parti conclusive delle citazioni, proprio per evidenziare
1 ' incompatibilità tra il « fare » e il « credere ».
Con la spiegazione introdotta da tout'estin, che secondo alcuni richiama il
metodo peser nell'esegesi qumranica , Paolo stabilisce subito una omologia tra
182

Cristo e la Parola: non è necessario salire in cielo, perché Cristo è disceso dal cie-
lo . Pur se in modo discreto, questo è uno dei raririferimentiall'incarnazione di
183

Gesù Cristo o, meglio, secondo il linguaggio paolino, all'invio del Figlio di Dio
(cfr. Rm 8,3; Gal 4,4) ; e si può notare come, anche in questo caso, Paolo non di-
184

stingua l'invio del logos dalla persona di Gesù Cristo: chi discende è Cristo, sen-
za ulteriori distinzioni.
Poiché già nell'AT si assiste a unaripresadell'oracolo di Dt 30,12-14 in Ba
3,29-30, con l'assimilazione tra la Parola e la Sapienza, forse nel retroterra di
quest'applicazione paolina c'è un'analoga corrispondenza: Cristo come nuova
Sapienza o nuova Legge, senza necessariamente pensare all'abrogazione ma alla
relativizzazione della stessa Legge mosaica . 185

[v. 7] La fonte di Dt 30,12-14 prosegue con ilriferimentoall'abisso nel quale


si spera che qualcuno possa catturare la Parola (v. 13). Paolo omette la citazione
del mare per evocare il Sai 107,26: «E discendono sino agli abissi». Da questo
punto di vista, la differenzarispettoa Dt 30,13 non è sostanziale perché nella LXX
Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 118.
181

Cfr. in particolare il peser di CD 4,12-18. Così M. McNamara, New Testament and the Palestinian
182

Targum to the Pentateuch (AnBib 27), Roma 1978 , p. 72. Comunque, l'espressione tout'estin di questi
2

versi sembra assumere un ruolo diverso dalla formulapishró 'al (il suo significato è...) attestato a Qumran.
Così anche J.W. Aageson, Scripture, p. 276; J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 700-701.
II verbo katagein si trova soltanto qui nell'epistolario paolino; nelle altre frequenze del NT è uti-
183

lizzato in contesti nautici, per indicare l'accostamento della barca verso la riva (cfr. Le 5,11; At 27,3;
28,12), o significa semplicemente «condurre» (cfr. At 22,30; 23,15.20.28).
Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 558.
184

Filone evocherà spesso Dt 30,12-14 per sottolineare la possibilità di osservare la Legge mosaica
185

(cfr. Filone, Virtutibus 34,183; Postergate 24,84-85; Mutatione 41,236-237).


La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 365
l'abisso è spesso citato come sinonimo o in connessione con il mare ; ma questa 186

variazione è importante per Paolo perché permette di sottolineare l'evento della di-
scesa e della salita di Cristo dagl'inferi . Anche questo riferimento alla salita di
187

Cristo dai morti è unico nell'epistolario paolino e non va confuso con il momento
successivo alla suarisurrezionedai morti , anche se dal punto di vista teologico
188

si tratta di un unico evento. Quest'originale accenno alla salita di Cristo dai morti
potrebbe far pensare al modello greco della discesa e della salita nell'oltretomba di
Ercole o al processo redentivo dei misteri eleusini : non vi sono altririscontridi
189

questo tipo ed è più probabile che l'originale movimento di Cristo sia dovuto più
allariletturadi Dt 30,12-14 che a un retroterra soteriologico di origine ellenistica.
[v. 8] L'ultima applicazione di Dt 30riprendela citazione del v. 14, che cor-
risponde globalmente alla versione della LXX , anche se Paolo omette proprio
190

la conclusione applicativa di Dt 30,14b: « ...e nelle tue mani per praticare ». Nella
spiegazione Paolo riprende i termini principali dell'oracolo, stabilendo anzitutto
un'assimilazione tra la parola e la fede, mentre nella fonte manca il sostantivo pi-
stis. Nel vocabolario paolino, la « parola della fede » non è altro che il vangelo dal
quale deriva la fede e che genera la fede, come spiegherà nei vv. 14-17: i sostan-
tivi «parola» (rhèma) e «fede» hanno una chiara connotazione cristologica: noi
predichiamo la parola di Cristo (cfr. Rm 10,17) che genera la «fede in Cristo» . 191

A differenza dal sinonimo logos, il sostantivo rhèma sottolinea la concretizzazio-


ne della Parola che, in questo caso, si identifica con la fede in Cristo. Per questo
l'orizzonte non è quello dellafides qua creditur ma quello dellafides quae credi-
tur, ossia del contenuto della predicazione cristiana . 192

[vv. 9-10] Proseguendo nell'applicazione cristiana dei termini citati in Dt


30,14, Paolo si sofferma sulla relazione tra la professione di fede, la bocca e il
cuore, attraverso la seguente composizione chiastica:
(a) bocca - Gesù Signore;
(b) cuore - Dio lo ha risuscitato;
(c) salvezza dei credenti;
(b') cuore - giustizia;
(a') bocca - salvezza.
186 Cfr. Dt 8,7; Sai 33,7; 77,17; Gn 2,3-10; Ez 26,19; Am 7,4; Ab 3,10; così anche J. Fitzmyer,
Romans, p. 590; T.R. Schreiner, Romans, p. 558.
187 Non è certo che Paolo conosca già la parafrasi analoga di Dt 30,13 operata dal Tg. Neof. I, come
inveceritieneM. McNamara, New Testament, pp. 77-78, soprattutto per la datazione successiva della fon-
te targumica.
188 Così invece J.A. Fitzmyer, Romans, p. 591. Il verbo anagein (salire) si trova soltanto qui nell'e-
pistolario paolino; per esprimere lo stesso evento l'autore di Ebrei dirà che « il Dio della pace ha fatto sa-
lire dai morti il pastore... » (cfr. Eb 13,20).
189Così H.D. Betz, Zum Problem der Auferstehung Jesu im Lichte der griechischen magischen Papyri,
in Hellenismus und Urchristentum, I, Tübingen 1990, pp. 230-261.
190 Dall'originale di Dt 30,14 (LXX) manca anche l'avverbio sphodra (veramente) e l'ordine della
prima parte è leggermente variato, ma si tratta di mutazioni secondarie e irrilevanti.
191 Se prescindiamo da 2Cor 12,4 e 13,1 (cfr. per l'epistolario deuteropaolino Ef 5,26; 6,17), soltan-
to in questa sezione Paolo utilizza il sostantivo rhema mentre altrove preferisce parlare della predicazione
del vangelo (cfr. lTs 2,9; Gal 2,2).
192 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 702; H. Schlier, Romani, p. 507.
366 Traduzione e commento
La composizione chiastica dei vv. 9-10 è anche concentrica, con l'espressio-
ne « sarai salvato » che occupa il posto centrale del chiasmo: nelle altre parti si
procede dalla bocca al cuore (a-b) e dal cuore alla bocca (b'-a'). La bocca e il cuo-
re sono relazionati fra di loro non come l'esterno o l'interno ma per indicare la to-
talità della persona umana coinvolta nella professione della fede.
La prima parte del chiasmo è introdotta da un hoti esplicativo più che causa-
le, in quanto Paolo sta spiegando il contenuto della « parola della fede » . A cau- 193

sa dell'originale espressione «Signore Gesù», alcuni sostengono che qui Paolo


richiami la tradizionale professione di fede delle prime comunità cristiane (cfr.
ICor 12,3; 2Cor 4,5) : l'ipotesi sarebbe confermata dall'originale cristologia
194

della pericope. Invece, la seconda parte del v. 9 esprime il linguaggio più proprio
della cristologia paolina: non è stato Gesù a « salire » dagli abissi (v. 6) ma « Dio
lo harisuscitatodai morti » (cfr. Rm 4,25; ICor 6,14; 15,15). Per questo preferia-
mo attribuire il v. 9 al pensiero di Paolo, anche se il contenuto può essere consi-
derato tradizionale.
La conseguenza fondamentale della professione sulla signoria e sulla risur-
rezione di Gesù è costituita dalla certezza della salvezza finale o escatologica . 195

In tal modo, qualsiasi coordinata temporale della salvezza è collegata alla fede in
Gesù,riconosciutocome il Signore: questo dato sarà fondamentale per la proble-
matica della salvezza finale d'Israele . 196

Il v. 10, corrispondente alla seconda parte del chiasmo (b'-a'), è espresso at-
traverso due stichi posti in relazione parallela, introdotti dalla sequenza gar... de: al
cuore corrisponde la bocca, all'atto del credere quello del professare e alla giustizia
è rapportata la salvezza. Così, tra la giustizia e la salvezza c'è un'assimilazione che
non lascia più spazio ad altre dimensioni della stessa giustizia, pur presenti nella
Lettera ai Romani, quali il giudizio finale e la retribuzione (cfr. in particolare Rm 2).
[v. 11] La seconda parte del paragrafo (Rm 10,5-13) è introdotta dalla ripresa
della conclusione nella citazione di Is 28,16 utilizzata in Rm 9,33b; e questa ripeti-
zione dimostra la notevole libertà di Paolo nel citare e commentare l'AT . Di fat- 197

to, a differenza da Rm 9,33, questa volta non si parla più di « chi crede... » ma di
193 Cfr. anche T.R. Schreiner, Romans, p. 559; U. Wilckens, Römer, II, p. 227; contro D.J. Moo,
Romans, p. 657.
194 Cfr. J.D.G. Dunn, Romans, II, pp. 607; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 702; T.R. Schreiner, Romans, p.
560. La prepaolinicità della formula sarebbe fondata sulla mancanza del corrispondente « Cristo », sull'as-
senza di riferimenti alla morte di croce e sull'uso del verbo homologein che si trova soltanto in Rm 10,9.10
fra le grandi lettere paoline (cfr. dopo anche lTm 6,12; Tt 1,16; cfr. invece il verbo più paolino exomolo-
gein in Rm 14,11; 15,9). Iriferimentiall'incarnazione e alla salita dagl'inferi nei vv. 6-7 sembrano con-
fermare la prepaolinicità di questi versi. Comunque, bisogna riconoscere che, a differenza da altre formu-
le prepaoline (cfr. Rm 1,3-4), questa è ben armonizzata con l'argomentazione paolina.
195 II futuro « sarai salvato » è reale più che logico o argomentativo, a causa del prevalente uso al fu-
turo del verbo sözein nell'epistolario paolino (cfr. Rm 5,9.10; 9,27; 11,14.26; ICor 5,5), anche se non bi-
sogna dimenticare il processo già in atto della salvezza realizzata da Dio per mezzo della fede in Cristo
(cfr. il verbo « salvare » al passato e al presente in Rm 8,24; lTs 2,16; ICor 1,21 ; 15,2; Ef 2,5.8). Così an-
che T.R. Schreiner, Romans, p. 560.
196 Per la relazione tra larisurrezionedi Cristo e la salvezza dei credenti cfr. Rm 4,24; lTs 4,14; ICor
15,14-15; 2Cor 5,15.
197 La citazione di Is 28,16b è introdotta dalla formula propriamente paolina « dice infatti la Scrittura »
(cfr. anche Rm 9,17; lTm 5,18; come domanda cfr. Rm 4,3; 1 Ì,2; Gal 4,30; cfr. anche Gc 4,5).
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 367
«chiunque (pas) crede... ». Così, Paolo crea un collegamento terminologico (geze-
rah shawah) con la successiva citazione di GÌ 3,5 in Rm 10,13 e, nello stesso tem-
po, sottolinea, attraverso l'autorità della Scrittura, l'universalismo della salvezza . 198

A causa del contesto marcatamente cristologico dei vv. 6-10, che fonda le af-
fermazioni dei vv. 11-13, la citazione di Is 28,16 e le affermazioni successive
hanno una connotazione cristologica più che teologica. Abbiamo rilevato che
l'espressione « chiunque crede » determina una relazione terminologica con la ci-
tazione successiva di GÌ 3,5 in cui si parlerà di «chiunque invocherà» (v. 13).
Altrettanto significativo è il collegamento con la tesi generale di Rm 1,16-17 che
in questi versi diventa sostanziale: a «Non mi vergogno (epaiskynomai)... per
chiunque crede» corrisponde: «Chiunque crede in lui non sarà svergognato (ka-
taischynthésetai)»... La novità fondamentale rispetto alla tesi generale della let-
tera riguarda proprio l'identificazione cristologica della fede e del contenuto del
vangelo: non più orizzonti generali della fede e della giustizia ma la fede in Cristo
e la giustizia di Dio per mezzo della salvezza realizzata da Dio in Cristo.
[v. 12] Anche l'imparzialità divina di Rm 1,18 - 3,20 si connota di rilevanza
cristologica e per questo ora manifesta il suo volto positivo: se «non c'è più diffe-
renza perché tutti hanno peccato » (cfr. Rm 3,22), « non c'è differenza » perché Gesù
è Signore di tutti. Si può notare come Paoloriprendanuovamente dalla tesi genera-
le della lettera la formula paratattica « tanto per il giudeo quanto per il greco » (cfr.
Rm 1,16), con l'importante omissione del «prima» riferito al giudeo (come in Rm
3,9) , per sottolineare maggiormente l'imparzialità universale della salvezza.
199

La ragione per la quale non c'è alcuna differenza etnica per la salvezza si tro-
va nella signoria di Cristo verso tutti: la sua universale signoria corrisponde all'u-
niversalità dell'azione di Dio verso tutti, sottolineata già in Rm 3,29 . L'originale 200

cristologia di Rm 10,5-9 prosegue con l'universalità della sua Signoria, analoga a


quella di Dio, e con ilriconoscimentodella sua generosità verso tutti coloro che lo
invocano. Tali professioni, collocate al di fuori del contesto di Rm 10, lascerebbe-
ro pensare a Dio stesso ; in questo contesto si riferiscono a Cristo, a causa del-
201

l'attribuzione della stessa signoria di Dio nei suoi confronti . 202

Per questo, anche il verbo « invocare » (epikalein) assume unriferimentocri-


stologico più che teologico ; e in questa prospettiva prepara la citazione di GÌ 3,5:
203

198In questi versi si assiste alla maggiore concentrazione di pas (tutto, chiunque) nella sezione di Rm 9-
11 (4 volte nei vv. 11-13 [vv. 11.12.12.13]); l'aggettivo è stato introdotto dalla tesi di Rm 10,4 e aveva domi-
nato la sezione di Rm 1,18 - 3,20 per sottolineare l'imparzialità divina verso tutti coloro che compiono il male.
199Cfr. invece il próton del giudeo rispetto al greco in Rm 2,9.10.
200 p l'universalità della signoria di Cristo cfr. At 10,36: « ...Gesù Cristo che è Signore di tutti ». Sulla
er

rilevanza propriamente teologica del titolo «Signore di tutti» cfr. lQapGen 20,13; Flavio Giuseppe, Ant.
giud. 20,4,22. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 704.
201 Questo è l'unico caso in cui nel NT laricchezzao la generosità è attribuita a Cristo; altrove è sol-
tanto di Dio (cfr. larilevanzapropriamente teologica del verbo ploutein in Le 1,53 e del sinonimo plouti-
zein in ICor 1,5; cfr. anche il sostantivo ploutos = ricchezza in Rm 2,4; 9,23; 11,23; Fil 4,19; Ef 1,7.18;
2,7; 3,16). Solo in Ef 3,8 si parla della ricchezza di Cristo e in Ap 3,18 Cristo chiede alla Chiesa di
Laodicea di acquistare la ricchezza da lui.
202 Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 561.
203 Per la rilevanza cristologica del verbo «invocare» cfr. At 9,14; 22,16; Gc 2,7; per la prospettiva
teologica cfr. 2Tm 2,22; Eb 11,16; lPt 1,17.
368 Traduzione e commento
invocare Gesù come il Signore corrisponde a invocare il suo nome. L'uso di que-
sto verbo nella LXX dimostra che 1'«invocazione» non riguarda soltanto la pre-
ghiera ma anche la prostrazione o l'adorazione da rendere a Dio ; in questo caso 204

sembra più pertinente l'adorazione come espressione della propria professione di


fede in Cristo.
[v. 13] La dimostrazione di Rm 10,5-13 sulla giustificazione mediante la fe-
de si conclude con la citazione diretta di GÌ 3,5 che corrisponde alla versione del-
la LXX, tranne per la prospettiva cristologica: ora il nome che bisogna invocare è
quello di Gesù, riconosciuto come Signore. Il contesto di GÌ 3,1-5 sottolinea l'im-
portanza del dono dello Spirito per esprimere la professione di fede in Dio, come
dimostra la citazione dello stesso passo profetico in At 2,17-21. Per questo, Paolo
ha già sostenuto che « nessuno può dire "Gesù è il Signore", se non per mezzo
dello Spirito santo» (cfr. ICor 12,3).
La Parola di Cristo (10,14-17). - Nella seconda parte della sezione dedicata
alla centralità di Cristo, Paolo si sofferma sul dinamismo della vita cristiana che
inizia con l'annuncio della parola di Cristo (v. 17) e culmina con l'invocazione
della sua signoria (v. 14). Il verbo « invocare » (epikalein) funge da parola gancio
tra la pericope precedente e l'attuale (vv. 13.14), mentre un « dunque » (ara) con-
clusivo introduce la sentenza definitoria sulla relazione tra la fede, l'ascolto e la
parola di Cristo (v. 17) . 205

Il problema maggiore di questi versi riguarda l'identificazione di quanti so-


no descritti con una generica terza persona plurale: si tratta dei gentili, dei giudei
oppure di tutti gli esseri umani? A prima vista, si potrebbe pensare ai giudei, giac-
ché il problema principale della sezioneriguardala loro incredulità al vangelo , 206

mentre l'identificazione dei gentili sembra quella meno probabile poiché, in con-
trasto con il v. 16, molti di essi hanno ottenuto la giustizia per mezzo della fede
in Cristo (cfr. Rm 9,30) . 207

A ben vedere, nei vv. 14-17 manca qualsiasi identificazione e il collegamen-


to con i versi precedenti, determinato dallaripresadel verbo « invocare », dimostra
che Paolo siriferisceai tutti (pantes) dei vv. 11-14, volendo richiamare l'assioma
di Rm 10,12 tanto al giudeo quanto al greco, senza distinzione . Quest'inter- 208

pretazione è confermata dallo stile e dal contenuto principale dei vv. 14-17: Paolo
utilizza lo stile della diatriba con una generale seconda persona; e in questione si

204 Cfr. Gn 4,26; 12,8; 13,4; 21,33; 26,25; 33,20; ISam 12,17-18; 2Sam 22,4; IRe 8,43.52; Sai 4,2;
13,4; 17,4.
205 Per questo riteniamo più opportuno delimitare questa microunità nei vv. 14-17; una nuova do-
manda introdotta dalla formula « dico però » apre la pericope successiva. Su questa unità cfr. J.-N. Aletti,
Romani, pp. 129.133. Invece per la delimitazione di Rm 10,14-21 cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 701; H.
Schlier, Romani, pp. 512-513; T.R. Schreiner, Romans, p. 565.
206 Così J.A. Fitzmyer, Romans, p. 707; P. Stuhlmacher, Der Brief an die Römer (NTD 6), Göttingen
1989, pp. 144-145, che per confermare tale identificazione sono portati a estendere la pericope sino al v. 21.
207 Con buona pace J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 620 e di F. Watson, Paul, pp. 166-167, che conside-
rano i gentili come destinatari almeno nei vv. 14-15.
208 p l'identificazione generale dei vv. 14-17 cfr. R.H. Bell, Jealousy, pp. 84-85; T.R. Schreiner,
er

Romans, p. 566; U. Wilckens, Römer, II, pp. 228-229.


La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 369
trova il percorso della fede per tutti coloro che aderiscono al vangelo . Natural- 209

mente, non bisogna eccessivamente astrarre lo stile diatribico perché spesso riflet-
te situazioni concrete. Per questo, l'affermazione del v. 16 sulla constatazione che
non tutti hanno obbedito al vangelo, siriferiscechiaramente ai giudei ma si tratta
di una insinuazione retorica e di una prolessi che prepara l'ultimo paragrafo della
sezione (Rm 10,18-21).
[10,14-15a] Dal punto di vista stilistico i vv. 14-17 sono fra i piùriuscitidel-
la lettera: lo attestano le diverse figure retoriche utilizzate per dimostrare il per-
corso della fede. Così i vv. 14-15a sono caratterizzati dall'anafora, ossia dalla ri-
petizione iniziale dell'espressione « come dunque... come però » (pós... oun; pòs...
de) all'inizio dei primi quattro stichi, sia dalla scala o gradatio retorica discen-
dente . Di fatto si procede dalla relazione tra l'invocazione e la fede, per passa-
210

re dalla fede all'ascolto, dall'ascolto alla predicazione e dalla predicazione all'in-


vio. Questa volta il vertice della scala si trova all'inizio e corrisponde alla fede in
colui che bisogna invocare, mentre il punto di partenza è rappresentato dall'invio
di coloro che predicano il vangelo (v. 15a). La scala discendente si conclude con
la citazione di Is 52,7 che conferma l'importanza dell'evangelizzazione (v. 15b),
Abbiamo già evidenziato che, a differenza dal chiasmo che riscontra nelle
parti centrali quelle più importanti (a-b-b'-a'), nel climax come nell'anticlimax
l'accento tematico è posto sul primo e sull'ultimo gradino (d'/d-c'/ c-b'/b-a) ; e 211

in questo caso l'attenzione è concentrata sulla relazione tra l'invocazione di che


si crede (d') e l'invio degli evangelizzatori (a).
Così, tutti sono chiamati a invocare colui nel quale si crede; e i vv. 9-13 han-
no dimostrato che bisogna invocare « Gesù Signore » e che tutti devono invocar-
lo perché egli è « Signore di tutti ». In questo universale riconoscimento della si-
gnoria di Cristo è coinvolta l'intera persona umana, la sua «bocca» per invocare
e il suo «cuore» per credere (vv. 9-10). Per questo, non può esserci autentica in-
vocazione senza la fede nel Signore; altrimenti avremmo una contraddizione leta-
le, un'invocazione senza consistenza. Il secondo gradino è rappresentato dalla re-
lazione tra la fede e l'ascolto: la fede dipende dall'ascolto perché all'origine del-
la stessa fede in Cristo si trova non tanto una scelta umana quanto l'ascolto della
sua parola (v. 17). Il terzo gradino discende dall'ascolto alla predicazione: è ne-
cessario che ci sia qualcuno disposto ad annunciare il vangelo perché tutti possa-
no ascoltare, credere e invocare Gesù il Signore. L'ultimo gradino relaziona la
predicazione all'apostolato o all'invio; e, come gli altri verbi, il verbo apostellein
(inviare) ha una connotazione «istologica, come dimostrano i riferimenti auto-
biografici dell'apostolato paolino . 212

[v. 15b] Per confermare il movimento discendente che si conclude con l'in-
vio degli evangelizzatori, Paolo cita l'oracolo di Is 52,7 che, almeno in parte, è
209Forse è bene precisare che, a causa di quanto è stato dimostrato nei vv. 9-10, tra l'invocazione
(bocca) e la fede (cuore) c'è assimilazione e non distinzione.
210Su queste duefigureretoriche dei vv. 14-15a cfr. anche J.-N. Aletti, Israël, p. 205.
2,1Vedi il commento ai climax di Rm 5,3-4 e di Rm 8,29-30.
212Cfr. con apostellein ICor 1,17: «Cristo non mi ha mandato a battezzare»; cfr. anche l'espressio-
ne «apostolo di Cristo» in ICor 1,1; 2Cor 1,1; 11,13; Col 1,1; Ef 1,1; 2Tm 1,1; Tt 1,1.
370 Traduzione e commento
più vicino al TM che alla LXX . Così recita Is 52,7 secondo il TM: «Come so-
213

no belli sui monti i piedi di colui che annuncia un lieto messaggio, che fa udire la
pace, annuncia il bene, fa udire la salvezza, dicendo a Sion: Il tuo Dio regna » . 214

Dal confronto con l'originale profetico, risalta innanzi tutto l'abbreviazione del-
la citazione: Paolo omette qualsiasi riferimento ai monti e in particolare a Sion,
estendendo, in tal modo, gli orizzonti dell'oracolo, a conferma dell'uni versaliz-
zazione dei destinatari di Rm 10,14-15. Quindi invece del singolare nfbassèr al
quale corrisponde euaggelizomenou (colui che annuncia un lieto messaggio), par-
la di «coloro che annunciano», creando un significativo collegamento tra l'ora-
colo di Is 52 e tutti gli annunciatori del vangelo cristiano. Infine, invece del « be-
ne» quale contenuto dell'annuncio, preferisce parlare di «cose buone»; e que-
st'ultima parte sembra più vicina alla LXX che al TM . 215

[v. 16] Dall'ascolto nasce l'obbedienza: non a caso anche il nostro «obbedi-
re » deriva dal latino ob-audire (ascoltare sotto...); e nel linguaggio semitico il ver-
bo sàma* significa « ascoltare » e « obbedire ». Questa relazione tra l'obbedienza e
l'ascolto, evidenziata dal collegamento tra il verbo hypakouein (obbedire) e akoé
(ascolto), è sottolineata proprio dalla connessione tra la prima e la seconda parte
del v. 16, mentre la si perde se, come nelle traduzioni comuni, traduciamo akoé
con « predicazione » . 216

Ancora una volta è discussa l'identificazione di coloro che non hanno obbe-
dito al vangelo: alcuni di coloro che optano per l'identificazione generale dei de-
stinatari della pericope, almeno in questo caso,ritengonoche Paolo siriferiscaagli
ebrei, giacché essi « non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (Rm 10,3) men-
tre i gentili l'hanno raggiunta (cfr. Rm 9,30) . Forse, tale interpretazione è quella
217

più valida dal punto di vista contestuale, anche se non bisogna ignorare l'orizzon-
te generale, sottolineato anche dall'universalizzazione della citazione di Is 52,7 al
v. 15. Di fatto, il v. 16 figura come unriferimentoo una insinuatio retorica che pre-
para la pericope successiva in cui Israele è chiamato direttamente in causa . 218

A conferma della mancata obbedienza al vangelo, ancora una volta intervie-


ne Isaia che in Rm 9-11 svolge un ruolo primario; questa volta è citato l'oracolo
di Is 53,1, secondo la versione della LXX cherisultaleggermente diversa dal TM:
« Signore, chi ha creduto al nostro ascolto? » (LXX) . Il significato del « nostro
219

213 Per la formula introduttiva della citazione diretta «così sta scritto» cfr. Rm 1,17; 2,24; 3,4.10;
4,17; 8,36; 9,13.33. Il collegamento maggiore con Is 52,7riguardal'aggettivo hóraioi che corrisponde al-
l'ebraico nà'wu. Di per sé hòraios significa sia « bello » sia « veloce »; il retroterra ebraico di nà'wu orien-
ta verso il significato di «belli» (cfr. anche Gn 2,9; 3,6; Ct 1,16; 6,4; per il NT cfr. Mt 23,27; At 3,2.10).
Lo stesso oracolo è citato in llQMelch 2,15-19 per l'intervento messianico escatologico.
214Un analogo oracolo si trova in Na 2,1.
2,5Per questo forse, almeno in questo caso, si deve parlare più di un'edizione diversa della LXX che
di una citazione dal TM. Così anche R.H. Bell, Jealousy, p. 88.
216Così anche H. Schlier, Romani, p. 516.
217Così D.J. Moo, Romans, pp. 662-663; T.R. Schreiner, Romans, p. 569.
218In tal caso, si tratta di una meiosi o diminuzione retorica per dire che «pochi hanno obbedito al
vangelo ». Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 569.
219Nel TM manca il corrispondente di kyrie (Signore). Lo stesso oracolo sarà citato in Gv 12,38 nel-
la sua forma completa e in contesto polemico con i giudei.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 371
ascolto » è chiaro e corrisponde alla « nostra predicazione », giacché si tratta del-
l'ascolto da rendere nei «nostri confronti», ma preferiamo tradurre akoe con
« ascolto », per conservare la sua relazione con hypakoe (obbedienza).
Nel nuovo contesto di Romani l'ascolto e l'obbedienza sono strettamente re-
lazionati alla fede: da una parte, l'ascolto apre alla fede (v. 17), dall'altra, la fede
qualifica l'ascolto (cfr. Gal 3,2.5); e in questo caso Paolo preferisce sottolineare
la prima dimensione. Anche l'obbedienza non ha primariamente una connotazio-
ne morale o pragmatica quanto una caratterizzazione kerygmatica: obbedire al
vangelo corrisponde a una obbedienza qualificata e caratterizzata dalla fede (cfr.
Rm 1,5; 16,26) o richiama l'accoglienza del modello d'insegnamento ricevuto
(cfr. Rm 6,17).
[v. 17] Fra le diverse glosse della Lettera ai Romani, Bultmann non ha esita-
to a collocare anche il v. 17: si tratterebbe di un'aggiunta successiva di carattere
esplicativo ; e in effetti il pensiero sembra più lineare senza questo verso, giac-
220

ché tra il v. 16 e il v. 18 c'è un progressivo riferimento alla condizione d'Israele.


Tuttavia, non si può nonriconoscereche lo stile e il linguaggio del v. 17 sono pro-
priamente paolini : vi siriscontrauna nuova gradazione e la «parola» di Cristo
221

non è che un'esplicitazione della «parola della fede che predichiamo» (v. 8) . 222

Piuttosto il v. 17 contiene la conclusione sintetica sul percorso della fede che vale
non soltanto per i giudei ma anche per i gentili: Ergofides ex auditu..., come tra-
duce in modo lapidario la Vulgata.
Come nei vv. 14-15% c'è una nuova gradazione o scala discendente del tipo
c.-b'-b-a: si procede dalla fede in Cristo (c) per passare all'ascolto (b'-b) e giun-
gere dalla parola di Cristo (a). In questo caso, la parola di Cristo non si riferisce
a quanto Gesù ha detto (genitivo soggettivo) bensì alla portata redentiva del van-
gelo che trova il suo centro kerygmatico nella morte e risurrezione di Cristo (ge-
nitivo oggettivo) . 223

Israele è inescusabile (10,18-21). - L'ultima parte delle prove addotte a so-


stegno della situazione drammatica d'Israele è tutta incentrata sull'AT, attraver-
so una catena di citazioni dirette: si susseguono, senza commenti, quattro cita-
zioni attraverso le quali Paolo si propone di dimostrare l'inescusabilità d'Israele.
Non ci sono alibi da accampare! . Poiché la sezione dedicata alla situazione at-
224

220 R. Bultmann, Glossen, p. 199.


221 La paolinicità del v. 17 è oggi generalmente riconosciuta: cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 711; T.R.
Schreiner, Romans, p. 566.
222 1riferimentialla «parola di Cristo» e al vocabolario della «fede» riconducono il lettore all'ini-
zio della dimostrazione, evocando da una parte la «parola della fede » (v. 8) e dall'altra Cristo e la fede (v.
4), unificando in una sola sentenza questi elementi principali della dimostrazione e creando un' inclusione
argomentativa. Cfr. a tal proposito J.-N. Aletti, Romani, p. 130; Id., Israel, p. 206.
223 Cfr. il riferimento alla predicazione del rhéma in Rm 10,8 e nell'immediato v. 18. Così anche J.A.
Fitzmyer, Romani, p. 711; T.R. Schreiner, Romans, p. 567.
224Mentre la conclusione della pericope, che corrisponde anche a quella della sezione (Rm 9,30 -10,21),
è universalmente condivisa, come abbiamo già evidenziato per la delimitazione della pericope precedente, ri-
mane discusso l'inizio, soprattutto a causa dei destinatari della prima domanda retorica (v. 18a). La formula
« dico però » che introduce il v. 18 e il v. 19 è un indizio valido per collegare il v. 18 ai versi successivi, anche
se non sirivolgeancora direttamente a Israele. Per l'unità di questi versi cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 132.
372 Traduzione e commento
tuale d'Israele volge al termine, si potrebbe considerare Rm 10,18-21 come una
sorta di perorazione retorica in cui èripresoil contrasto tra la situazione d'Israele
e quella dei gentili, introdotta nell'esordio di Rm 9,30 - 10,4 . 225

Senza negare le connessioni fra queste parti della sezione, ci sembra impro-
babile che questi versi fungano da peroratio perché di per sé Paolo non dice nul-
la ma si affida alla Scrittura per mettere Israele con le spalle al muro. Per questo
preferiamo considerare questi versi come l'ultima prova, quella più autorevole, di
una catena di citazioni per impedire qualsiasi obiezione . In pratica, questo nuo-
226

vo livello di prove serve a dimostrare che la stessa Scrittura pone sotto accusa
Israele perché attesta la sua condizione d'incredulità e, paradossalmente, quella
della manifestazione di Dio verso i gentili.
[10,18] La prima domanda retorica procede, come l'intera pericope, alla ter-
za plurale; e per questorimanediscussa l'identificazione di coloro che non «han-
no ascoltato »: si tratta degli israeliti o di tutti, compresi i gentili? . Riteniamo che227

la difficoltà siarisolvibilenon separando la domanda diatribica dallarispostacon-


tenente la citazione del Sai 18,5, bensì considerandole rapportate secondo una sor-
ta di argomentazione afortiori che procede «dal minore al maggiore» . Inver- 228

tendo le proporzioni, Paolo sembra dire che se la «parola», che si identifica con
quella di Cristo (v. 17), ha raggiunto tutto il mondo, quanto più l'hanno ascoltata
gli israeliti ai quali sono state affidate le « parole di Dio » (cfr. Rm 3,2). A tale in-
terpretazione non si può obiettare con la situazione contestuale dell'evangelizza-
zione che non ha raggiunto ancora tutte le nazioni, come ad esempio la Spagna
(cfr. Rm 15,23-25). In precedenza, Paolo ha ricordato, attraverso un linguaggio
iperbolico, che la fede dei destinatari si è diffusa in tutto il mondo (cfr. Rm 1,8).
Dunque, nel contesto dell'argomentazione, la citazione del Sai 18,5 figura come
un'iperbole con la quale è sottolineata l'inescusabilità d'Israele. Questa interpre-
tazione del v. 18, in cui è implicitamente chiamato in causa Israele (v. 18a) attra-
verso l'evangelizzazione dei gentili, risponde pienamente al contrappasso tra
Israele e i gentili sul quale Paolo insiste attraverso le restanti citazioni dell'AT.
La citazione del Sai 18,5 corrisponde alla versione della LXX che non si dif-
ferenzia dal TM, ma muta il contesto originario del Sai 18 che siriferiscealla pre-
senza della gloria di Dio nel creato. Nel contesto di Rm 10, questa citazione si ri-
ferisce all'universale diffusione della predicazione cristiana, cosicché la «paro-
la» (rhema), diffusa ovunque, riguarda ancora quella di Cristo (v. 17).
[v. 19] Quanto è stato implicitamente detto al v. 18 diventa esplicito al v. 19:
ora sono presentati i destinatari delle prime due domande diatribiche e delle prime

225 Per Rm 10,18-21 come peroratio retorica cfr. J.-N. Aletti, Romani, p. 132.
226 Anche in Rm 3,9-18 e in Rm 9,24-29 si susseguono citazioni dell'AT che rappresentano il livello
conclusivo delle prove attraverso le quali si determinano inconfutabili dimostrazioni.
227 Per la destinazione israelitica cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 572; invece per la destinazione dei
gentili cfr. R.H. Bell, Jealousy, p. 93.
228 Non è un caso che questa sia l'unica citazione della pericoperiportatasenza formula introduttiva.
Per casi analoghi nell'epistolario paolino cfr. Rm 9,7; 10,13; 11,34-35; 12,20; lCor2,16; 10,26; 15,27.32;
2Cor 10,17; 13,1. La particella menounge, attestata per il NT soltanto qui, in Rm 9,20 e in Fil 3,6 ha valo-
re avversativo ed enfatico, da rendere con un «piuttosto» o «al contrario», in dipendenza dai contesti.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 373
citazioni dell'AT: Israele e i gentili. Volgendo in positivo le due domande retori-
che, Israele ha ascoltato e ha conosciuto la parola di Cristo: per questo l'accusa
iniziata al v. 18 diventa più incalzante. In questa domanda torna ilriferimentoalla
non « perfetta conoscenza » che significa il misconoscimento della giustizia di Dio
presente nel vangelo e che evoca lo stabilimento della propria giustizia (vv. 2-3).
Con la citazione di Dt 32,21 che corrisponde sia alla LXX sia al TM, tranne
per il cambiamento delle persone, dalla terza persona plurale alla seconda plura-
le, così da rendere più interpellante l'oracolo, Paolo introduce la tematica della
gelosia d'Israele . Si può notare come a differenza dei vv. 5.6, in cui Paolo ave-
229

va opposto la giustizia fondata sulla Legge, scritta da Mosè, alla giustizia della fe-
de che si assumeva il compito di dire, adesso è lo stesso Mosè che dice per pri-
mo™, a conferma che in questione non è l'abrogazione della Legge mosaica ma
la giustizia fondata sulla Legge e sulle sue opere. Di fatto, la stessa Legge attesta
la gelosia d'Israele attraverso la scelta dei gentili. La precisazione «per primo»,
in riferimento alla formula introduttiva per la citazione diretta, indica che Dt
32,21 costituisce la citazione principale: quelle successive non fanno che confer-
mare il suo contenuto sulla gelosia d'Israele e la scelta dei gentili.
Si può notare come la dimostrazione sulla giustizia per mezzo della fede, in
Rm 10,5-21, comincia e si conclude con due riferimenti al libro del Deuterono-
mio (Dt 30,12-14 e Dt 32,21) stabilendo un'inclusione tra la « parola della fede »
in Cristo (Dt 30,12-14) e la scelta di chi non appartiene, dal punto di vista etnico,
al popolo ebraico (Dt 30,21).
Dalle connessioni tra la domanda e larisposta,e con ilriferimentoalla man-
cata perfetta conoscenza da parte degli israeliti (Rm 10,2) risalta che Israele non
soltanto ha compreso e non ha accolto il vangelo della giustificazione per mezzo
della fede, ma soprattutto non ha riconosciuto che la Legge mosaica attesta l'in-
clusione dei gentili nel popolo del Signore. Più che di sostituzione, e quindi di ri-
fiuto d'Israele, il contesto di Rm 9,24-29 e di Rm 11,1-6 dimostra che si deve par-
lare di assimilazione dei gentili al popolo del Signore . In questa prospettiva,
231

Israele non può contrastare il vangelo paolino sull'inclusione dei gentili, soste-
nendo che di fatto pochi israeliti vi hanno aderito, perché la Legge aveva previsto
tale situazione: così, « la Parola di Dio non è venuta meno » (Rm 9,6), come ave-
va sostenuto la tesi principale dell'unità intera.
Con la citazione di Dt 32,21, Paolo introduce la tematica della gelosia
d'Israele che riprenderà in Rm 11,11.14 . Intanto è bene precisare che il primo
232

significato del verbo parazeloun non è positivo ma negativo perché nella stessa
citazione è posto in relazione al verbo parorgizein (irritare, incollerire). Per ora,
la gelosia d'Israele è di collera e quindi di sofferenza per l'accoglienza dei genti-

229Sulla gelosia d'Israele e sulle sue rilevanze nel dialogo interreligioso contemporaneo cfr. R. Fabris, La
« gelosia » nella Lettera ai Romani (9-11 ): Per un nuovo rapporto tra ebrei e cristiani, in RdT 27 (1986) 15-
230Cfr. la formula introduttiva analoga di Rm 9,15.
231Così anche R.H. Bell, Jealousy, pp. 97-103, che però esclude l'orizzonte della g i u s t i f i c a z i o n e
la fede e non mediante le opere a favore dell' inclusione dei gentili. Anche B. Byrne, Romans, P- - '
Schreiner, Romans, p. 573.
232Cfr. ICor 10,22 per la gelosia del Signore.
374 Traduzione e commento
li nel popolo dell'alleanza e per la giustizia che questi hanno raggiunto; in Rm
11,11-14 cambierà anche la funzione della gelosia d'Israele . 233

[vv. 20-21] Accanto all'importanza del Deuteronomio, in Rm 9,30 - 10,21


non va ignorata quella del profeta Isaia; e senza conoscere le distinzioni tra il pro-
to-, il deutero- e il trito-Istaia, Paolo sembra attraversare lo scritto profetico per ci-
tare l'oracolo di Is 65,1-2 che conferma la legge del contrappasso introdotta nel-
l'esordio di Rm 9,30-31 . Egli separa l'unico oracolo di Is 65,1-2 per attribuire
234

il v. 1 all'inclusione dei gentili e il v. 2 all'incredulità e alla ribellione del popolo


ebraico, in modo da sottolineare due situazioni diverse, attraverso due formule in-
troduttive di citazioni . 235

Con la citazione di Is 65,1-2 è ribadita, da una parte, la situazione parados-


sale venutasi a creare rispetto alla giustizia divina contenuta nel vangelo, ossia la
giustizia per i gentili e la sua negazione per i giudei, espressa già in Rm 9,30-31 , 236

e dall'altra che, in definitiva, questa situazione rientra nel piano di Dio (cfr. Rm
9,25-29), anche se questo non è ancora pervenuto alla sua piena realizzazione.
Dunque, se è bene non isolare la dimostrazione sull'elezione divina (Rm 9,6b-29)
da quella sull'incredulità d'Israele (Rm 9,30 - 10,21), perché anche quest'ultima
rientra nel disegno divino, non è giustoricondurreRm 10,20-21 sotto la tematica
della predestinazione . Dire che appartengono al progetto originario di Dio la
237

scelta dei gentili e l'esclusione di una parte d'Israele è un conto, ma che della pre-
destinazione divina faccia parte anche la sofferenza d'Israele è un altro.
Pertanto, è preferibile non collegare eccessivamente queste prime due sotto-
sezioni di Rm 9-11: alcune tensioni tra le responsabilità divine e quelle d'Israele
non sonorisoltema sono lasciate nella loro sfera di appartenenza e sono accosta-
te nella loro drammaticità. Riteniamo che sia meglio non livellare le tensioni sto-
riche di questa parte della Lettera ai Romani, senza tentare di antropologizzarle,
ponendo in campo la questione della predestinazione, soprattutto perché l'unica
predestinazione divina per tutti, e a maggior ragione per il suo popolo, è quella
dell'amore in Cristo.
Dio non ha rigettato il suo popolo (11,1-10). - L'attenzione sul futuro d'Israe-
le comincia con una domanda diatribica che conduce subito in medias res (v. 1).
In questa prima parte della sezione, Paolo delinea in modo più ampio e chiaro,
rispetto a Rm 9,27-29, la tematica tipicamente profetica del resto, ponendola in
relazione con il «popolo» e con «Israele». Sarà importante stabilire se vi siano
233 Cfr. a tal proposito R.H. Bell, Jealousy, pp. 39-43.
234 La citazione di Is 65,1-2 corrisponde all'originale della LXX tranne per la trasposizione di alcuni
termini; in particolare si noti la collocazione di « tutto il giorno » in prima posizione, per sottolineare il con-
trasto tra Dio e il suo popolo.
235 Nella prima formula si trova il verbo apotolman che compare soltanto qui nel greco biblico (cfr. le at-
testazioni di Polibio, Historia 2,45,2; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 7,8,3). Nella seconda formula si sottintende
naturalmente «Isaia», come soggetto del verbo «dice», e la preposizione pros ha valore non tanto di «ri-
guardo a » o « verso » ma oppositivo di « contro », a causa del contrasto creato da Paolo tra le due citazioni.
236 Così Rm 9,30-31 e Rm 10,20-21 formano un'inclusione tematica. Cfr. anche R.H. Bell, Jealousy,
p. 105.
237 Con buona pace di T.R. Schreiner, Romans, pp. 574-575.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 375
assimilazioni o differenze fra gli interlocutori tematici che si alternano in questi
versi . Dal punto di vista compositivo, dopo la breve introduzione dei vv. l-2a, in
238

cui Paolo annuncia la tematica di Rm 11,3-32, sonoriconoscibilidue parti princi-


pali: i vv. 2b-4, con la vicenda del profeta Elia, e i vv. 5-10 in cui passa all'appli-
cazione della narrazione profetica per la situazione attuale d'Israele . Un'analisi 239

più approfondita di questi versi permette di cogliere anche una composizione chia-
stica del tipo a-b-b'-a':
(a) il comportamento negativo d'Israele (vv. 2b-3);
(b) la scelta di un resto (v. 4);
(b') la scelta di un resto (vv. 5-6);
(a') l'indurimento d'Israele (vv. 7-10).
Il centro compositivo e tematico del chiasmo è rappresentato dal resto (b-
b'); nelle parti limitrofe è descritto il comportamento negativo d'Israele nel pas-
sato e nel presente (a-a') . Tuttavia è necessario subito precisare che il resto non
240

è presentato in quanto tale o come sostituzione d'Israele bensì come attestazione


che Dio non ha ripudiato il suo popolo, come dimostra la relazione tra la parte in-
troduttiva di Rm 11,1-2a e l'argomentazione successiva dei vv. 2b-10.
[ll,l-2a] Rm 11 comincia con una domanda diatribica più che retorica , os- 241

sia con una domanda reale che emerge dalla conclusione della sezione precedente
in cui, attraverso l'attestazione di Is 65,1-2, Paolo ha dimostrato che Dio si lascia
trovare da quanti non lo cercano e stende la sua mano contro un popolo incredulo
e insipiente (cfr. Rm 10,20-21). Se questa è la situazione, vuol dire che è in atto il
ripudio del popolo! Invece la risposta immediata, contenuta nell'espressione
« Non sia mai! » , e quella più articolata dei versi successivi dimostrano che, con-
242

tro qualsiasi falsa conclusione, Dio non haripudiatoil suo popolo.


Il collegamento con la pericope precedente è fondamentale per chiarire l'iden-
tità del popolo che Dio non haripudiato:si tratta non del nuovo popolo dei giudei
e dei gentili che hanno creduto in Cristo bensì anche dell'Israele storico. Di fatto,
l'assimilazione tra Israele e il popolo in Rm 10,21 continua anche in Rm 1 l,l-2 . 243

Pertanto, un primo dato che dovrebbe accompagnare l'analisi e la comprensione di


Rm 11 è l'identificazione del sostantivo «popolo» con l'Israele storico o etnico.
Tuttavia, è noto che proprio quest'assimilazione crea una tensione se non una
contraddizione tra Rm 9,6b-29 e Rm 11,1-32: Se nella prima parte Paolo ha so-

238Anche se la nuova domanda diatribica del v. 7 può rappresentare un indice per stabilire due mi-
crounità letterarie (vv. 1-6; vv. 7-10), è preferibile considerare unitari i vv. 1-10 che si caratterizzano per la
relazione tra resto e Israele. Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 171-172; J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 715-
716; H. Schlier, Romani, p. 521. Invece per la distinzione delle due unità cfr. T.R. Schreiner, Romans, pp.
585-586, che ritiene erroneamente i vv. 7-10 come l'epilogo di Rm 9,30 - 11,6.
239Cfr. la funzione che nell'argomentazione paolina svolge la formula outós kai in ICor 14,9.12;
15,42; Gal 4,3.
240Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 171-172.
241Se nella domanda retorica larispostaè evidente, in quella diatribica è sospesa in funzione della suc-
cessivarisposta.Per la formula di passaggio espressa con «dico però» cfr. anche ICor 7,8; Gal 4,1; 5,16.
242Per la natura diatribica e tipicamente paolina di me genoito vedi il commento a Rm 3,4.
243Così anche R.H. Bell, Jealousy, p. 106.
376 Traduzione e commento
stenuto e spiegato che « non tutto Israele è Israele » ma che la sua identità dipen-
de dall'elezione per grazia, come si armonizza tale principio con l'Israele etnico
non ripudiato? Torneremo su tale problematica con l'analisi di Rm 11,25-32; in-
tanto è importante stabilire che il rapporto tra Rm 10,20-21 e Rm 11,1 determina
l'assimilazione tra il popolo ripudiato e l'Israele storico del quale non fanno par-
te, dal punto di vista etnico, i gentili che hanno creduto al vangelo . Questi ulti- 244

mi, secondo 1 ' applicazione di Os 2,1.25, sono un « non popolo » che diventa « po-
polo mio » ma che Paolo non considera mai come sostitutivo di Israele.
A conferma dell'assimilazione tra il popolo non ripudiato e Israele, Paolo
adduce l'esempio della propria carta d'identità contenente tre dati autobiografici:
anch'egli è israelita, appartiene alla discendenza di Abramo e, in particolare, alla
tribù di Beniamino . Dei tre attributi, creano alcune difficoltà l'appartenenza al-
245

la « discendenza » (sperma) di Abramo e agli israeliti. Di fatto, in Rm 9,6-8 Paolo


ha sottolineato la differenza tra la discendenza e ifiglidi Abramo (tekna) per di-
mostrare che non tutti i figli appartengono alla discendenza ma soltanto coloro
che sono eletti da Dio. Lo stesso vale per «Israele»: se in Rm 9,6-8 l'accento è
posto sull'elezione, ora sembra subentrare la connotazione etnica o di razza: non
è una contraddizione?
In realtà, le due prospettive non si escludono sia perché in Rm 9 Paolo parla
dell'elezione originaria o protologica d'Israele, mentre in Rm 11 del suo futuro
escatologico o salvifico, dato sul quale torneremo, sia perché dimostra che, pur
non identificandoli naturalmente, l'Israele eletto non può non essere, almeno in
parte, anche l'Israele naturale. In altri termini, se è innegabile che l'Israele eletto
non si identifica con quello naturale (cfr. Rm 9,6-8), è possibilissimo che l'Israele
naturale sia anche eletto; e Paolo ne rappresenta l'esempio più evidente per i de-
stinatari della lettera . Ora il problema non è più tanto se l'Israele naturale si
246

identifichi con quello eletto ma che, in modo drammatico , l'Israele storico, pur 247

essendo eletto da Dio, non abbia accolto il vangelo o non abbia aderito alla fede
in Cristo; ed è in questa prospettiva che Paolo si accinge a trattare della relazione
tra Israele, in quanto popolo di Dio, e il resto.
La tesi annunciata in forma di domanda in Rm 11,1 èribaditacome assioma
chiaro definitorio con la propositio del v. 2 che regge la dimostrazione di Rm 11:
Dio non ha abbandonato il suo popolo che aveva preconosciuto. Dal punto di vi-
sta contenutistico, nella prima parte, Paolo sembra citare indirettamente il Sai

244 Per l'assimilazione tra « popolo » e « Israele » in questi versi cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 716.
245 Questi dati non apportano nulla di nuovorispettoagli altri elementi ricavabili dal restante episto-
lario paolino: per «israelita» cfr. 2Cor 11,22; per «discendenza di Abramo» cfr. 2Cor 11,22 e per l'ap-
partenenza alla « tribù di Beniamino » cfr. Fil 3,5.
246 Per questo condividiamo soltanto in parte la concezione di J.D.G. Dunn, Who did Paul Think he
was? A Study of Jewish-Christian Identìty, in NTS 45 (1999) 174-193, che giustamente sottolinea la con-
notazione propriamente elettiva d'Israele e quindi interna al giudaismo, a differenza del titolo « giudeo »
che si riferisce alla relazione con i gentili, ma erroneamente ritiene che, poiché l'elezione divina riguarda
anche i gentili, lo stesso termine « Israele » diventa inclusivo di essi (193). Di per sé, Paolo non applica mai
ai gentili il titolo d'Israele, pur considerandoli eletti allo stesso modo d'Israele.
247 Così invece T.R. Schreiner, Romans, p. 578.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 377
93,14 oppure ISam 12,22 che si corrispondono . Non è facile stabilire se real-
248

mente Paolo abbia in mente queste fonti, soprattutto perché, mentre in esse il ver-
bo « abbandonare » (apótheistai) è espresso al futuro, non si spiega perché Paolo
lo utilizzi al passato, se proprio in Rm 11 intende parlare del futuro d'Israele.
Pertanto, riteniamo che, al massimo, si debba parlare di un'allusione più che di
una citazione indiretta di queste fonti.
Nella seconda parte della tesi, Paolo riprende il verbo « preconoscere », che
ha utilizzato nella descrizione dell'universale disegno divino (cfr. Rm 8,29), per
stabilire una relazione positiva tra Dio e il suo popolo: questo non è abbandonato
da Dio perché è stato preconosciuto, ossia amato da lui . Giacché Rm 1 l,2a rap-
249

presenta la tesi principale di Rm 11,1-24, è bene evidenziare la sua relazione con


le altre tesi della sezione: la Parola di Dio non è venuta meno (cfr. Rm 9,6a), per-
ché Dio non harifiutatoil popolo che ha conosciuto sin da principio, anche se non
tutto Israele è Israele (Rm 9,6b) e se Cristo è il fine della Legge (cfr. Rm 10,4).
[vv. 2b-3] Per dimostrare che Dio non harigettatoil suo popolo, Paolo richia-
ma la teofania dell'Oreb raccontata in 1 Re 19,1-18, della quale cita l'invocazione
di Elia contro gli israeliti e larispostafinale del Signore . La citazione della sup-
250

plica di Elia corrisponde globalmente alla versione di IRe 19,10 secondo la LXX,
tranne per alcune variazioni minori: « Sono stato preso da un grande zelo per il
Signore onnipotente perché i figli d'Israele ti hanno abbandonato, hanno distrutto
i tuoi santuari, hanno ucciso i tuoi profeti con la spada; sonorimastosoltanto io e
cercano la mia vita per prenderla ». Nella citazione paolina si verifica l'inversione
delriferimentoall'uccisione dei profetirispettoalla distruzione dei santuari e, so-
prattutto, non sono citati i «figli d'Israele» forse a causa della posta in gioco
d'Israele in Rm 11. L'anticipazione sull'uccisione dei profeti si deve, probabil-
mente, al parallelo che Paolo intende crearerispettoall'avversione che lui stesso e
i predicatori del vangeloricevonodagli israeliti del suo tempo . Tuttavia, è bene 251

nonrimarcarequesto parallelismo perché, di fatto, Paolo non lo sviluppa nella se-


zione né in tutta la lettera; d'altro canto, questo è l'unico riferimento esplicito a
Elia nell'epistolario paolino ed èriportatoin funzione della scelta di un resto.
[v. 4] Una domanda retorica introduce larispostadel Signore: Paolo ne parla
come di un «oracolo» . La citazione di IRe 19,18rientrafra i pochi riferimenti
252

in cui Paolo sembra più vicino al TM che alla LXX; cosìriferisceil testo ebraico:
«Mi sonoriservatoin Israele settemila uomini, tutti coloro che non hanno piega-
to le loro ginocchia a Baal ». La LXX riporta IRe 19,18: « E tiriserveraiin Israele
settemila uomini, tutti quelli che non hanno piegato il ginocchio a Baal». Anche
in questo caso, Paolo omette ilriferimentoa Israele perché in Rm 9-11 il sostanti-
248Rispetto a queste fonti, Paolo utilizzerebbe il verbo « abbandonare » al passato e non al futuro; e
invece di « Signore » parlerebbe di « Dio ». Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 579.
249Cfr. anche ISam 12,22; Am 3,2.
250La particella kata prima di « Israele » non va intesa in senso debole di « riguardo a... » ma forte, di
avversione «contro» Israele (con lo stesso valore cfr. Gal 3,21; Me 11,25). Così anche T.R. Schreiner,
Romans, p. 581.
Per le relazioni tra le due vicende cfr. M. Òhler, Untersuchungen zur Bedeutung des alttestament-
251

lichen Propheten imfriihen Christentum, Berlin 1997, pp. 254-257.


II sostantivo chrèmatismos si trova soltanto qui nel NT (cfr. per la LXX 2Mac 2,4; 11,17; Pr 31,1).
252
378 Traduzione e commento
vo non si riferisce soltanto all'entità etnica ma soprattutto a quella elettiva
d'Israele. Nella citazione, l'accento cade su «mi sono riservato» che riprende la
tematica del resto introdotta in Rm 9,26 , con la novità della suarilevanzapoli-
253

tico-militare e teologica, propria del contesto di IRe 9.


Anche in questo caso si può scorgere una relazione tra le due situazioni: al-
l'idolatria d'Israele corrisponde il misconoscimento di Gesù come Signore, con-
tro quanti nel comune giudaismo considerano il vangelo paolino come eterodos-
so. Per questo, il Signore decide nell'uno e nell'altro caso di scegliersi un resto
fedele al suo disegno. Tuttavia, è bene non andare oltre questi vaghi collegamen-
ti perché Paolo non considera mai gli israeliti del suo tempo come idolatri, anzi ha
giàriconosciutoil loro zelo per Dio (cfr. Rm 10,2) . 254

[vv. 5-6] Nella seconda parte della pericope, Paolo si sofferma sull'attualiz-
zazione della vicenda di Elia, aggiungendo alcuni elementi propri del suo pen-
siero, come ilriferimentoalla grazia e non alle opere. L'elezione vale per la scel-
ta di Israele e per quella del resto, perché si regge sull'economia della grazia e
non su quella delle opere . 255

In ambito esegetico è dibattuto il significato delle «opere»: si riferiscono a


qualsiasi opera umana , alle opere della Legge o, ancora più specificamente, a
256

quelle opere, come la circoncisione, le leggi alimentari e quelle di calendario, che


separano Israele dai gentili? . Poiché in Rm 9,32 il sostantivo «opere» è un'ab-
257

breviazione per designare quelle della Legge, è preferibile conservare questo si-
gnificato anche per Rm 11,6, mentre è troppo restrittivo identificarle con gli iden-
tity markers che separano i giudei dai gentili. In questo contesto, il resto (leimma)
non si relaziona anche ai gentili ma soltanto a Israele del quale fa parte e per il
quale rappresenta un segno di contestazione, a causa dell'infedeltà della maggior
parte d'Israele, e di speranza perché, senza un resto, Israele non sarebbe neppure
sopravvissuto . Per ora, Paolo ancora non prospetta la salvezza ma si limita a
258

presentare la relazione dialettica, positiva e negativa, tra Israele e il suo resto.


[v. 7] Una nuova domanda, dallo stile diatribico , introduce l'ultima parte
259

del chiasmo (a') dedicata all'indurimento d'Israele (vv. 7-10). La risposta è ana-

253Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 580.


254Per questo J.-N. Aletti, Israel, pp. 243-250, contesta giustamente la presenza di Ez 16 come mo-
dello argomentativo di Rm 11 proposta da P. Beauchamp, Un parallèle problématique. Rm 11 et Ez 16, in
R. Kuntzmann (ed.), Ce Dieu qui vient, FS. B. Renaud, Paris 1995, pp. 137-154.
255Poiché l'elezione dipende sempre dalla grazia divina, la negazione ouketi (non più) ha valore lo-
gico e non cronologico (così invece U. Wilckens, Römer, II, p. 238), altrimenti sarebbe ipotizzabile un pe-
riodo in cui l'elezione divina dipenderebbe dalle opere e non dalla grazia. Cfr. anche J.D.G. Dunn,
Romans, II, p. 639; T.R. Schreiner, Romans, p. 580. Anche i membri della comunità di Qumran si ritengo-
no « scelti dalla benevolenza divina » (cfr. 1QS 8,6).
256Così D.J. Moo, Romans, p. 678; T.R. Schreiner, Romans, p. 583.
257Così J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 639.
258II sostantivo leimma (resto) compare soltanto qui nel NT ed è raro anche nella LXX (cfr. ISam 9,24;
2Re 21,14); per il simile hypoleimma vedi il commento a Rm 9,27. Cfr. a tal proposito R.E. Clements, «A
Remnant Chosen By Grace» (Romans 11,5): The Old Testament Background and Origin of the Remnant
Concept, in D.A. Hagner - M.J. Harris (edd.), Pauline Studies, FS. F.F. Bruce, Grand Rapids 1980, pp. 106-121.
259La stessa domanda, «Che cosa dunque?», si trova in Rm 3,9; 6,15 mentre è più frequente con il
verbo «dire» (cfr. Rm 4,1; 6,1; 7,7; 9,14.39) che forse bisogna sottintendere anche in questo caso.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 379
Ioga a quella di Rm 9,30, anche se cambiano gli interlocutori e non ha lo stesso
carattere paradossale: se in Rm 9,30 i gentili hanno ottenuto, senza cercare, la giu-
stizia che Israele ha cercato senza ottenere, ora una parte dello stesso Israele, il re-
sto, ha ottenuto ciò che la maggior parte d'Israele non ha ancora ottenuto. Si può
ben notare come qui il resto è presentato, come al v. 5, per la stretta relazione con
l'elezione, identificandosi con essa, attraverso una metonimia o una sostituzione
dell'astratto al posto del concreto. Comunque, il collegamento con Rm 9,30 è im-
portante perché ciò che ha ottenuto (epitygkanein) l'elezione invece della mag-
gioranza d'Israele è la giustizia fondata sulla fede in Cristo e non sulle opere del-
la Legge. Circa la consistenza dell'elezione, forse è bene precisare che, se in Rm
9,11 è posta in relazione con il disegno divino, d'ora in poi è collegata al resto
d'Israele, diventandone sinonimo (cfr. anche Rm 11,28).
A differenza del resto secondo l 'elezione, gli altri israeliti sono stati induriti;
e colui che opera tale indurimento non è Israele ma Dio stesso che lo ha indurito,
come ha sclerotizzato in passato il cuore del faraone (cfr. Rm 9,18) . Dunque, ac- 260

canto alla responsabilità d'Israele che non ha riconosciuto Gesù come il Signore
c'è l'azione di Dio che lo ha indurito. In definitiva: anche il rifiuto d'Israele tro-
va una sua ragione e una sua funzione nel disegno divino, come Paolo spiegherà
nei versi successivi. Intanto è benericonoscereche, se per una nostra sensibilità,
la responsabilità umana e quella divina sembrano incompatibili, per Paolo sono
relazionate al punto che la responsabilità d'Israele nelrifiutareCristo è ricondot-
ta all'azione sovrastante di Dio.
[v. 8] Una delle tipiche formule paoline, per citare l'AT («come sta scrit-
to »), introduce la citazione conflata o mista di Dt 29,3 e di Is 29,10. L'oracolo di
Dt 29,3 recita così: «E il Signore non vi diede un cuore per comprendere, occhi
per vedere e orecchi per ascoltare fino al giorno d'oggi» . Sembra che da Is 261

29,10 Paolo abbia estrapolato l'espressione «spirito di torpore» che non trova
paralleli nel greco biblico , mentre si deve a una sua appropriazione delle fonti
262

il passaggio dalla seconda alla terza persona plurale. Trasferendo la situazione


d'Israele durante l'esodo e l'esilio a quella attuale, Paolo sottolinea nuovamente
l'azione negativa di Dio di fronte all'incredulità d'Israele.
Tuttavia, come per i contesti di Dt 29 e di Is 29, questa non è l'ultima Parola
di Dio ma è in funzione della sua azione positiva per il suo popolo: l'indurimen-
to come l'offuscamento d'Israele è in funzione di un nuovo intervento del
Signore a favore dei gentili e per lo stesso Israele.
[vv. 9-10] A conferma dell'autorità della Torah e dei Profeti, con la citazio-
ne mista di Dt 29,3 e di Is 29,10 Paolo aggiunge quella dei Salmi, facendo parla-
re lo stesso Davide. La citazione riportata corrisponde a quella del Sai 68,23-24

260 Cfr. anche la situazione analoga descritta in 2Cor 3,14, a proposito dell'indurimento dei pensieri
dei figli d'Israele rispetto al disvelamento operato da Cristo nei confronti del velo di Mosè.
261 La versione della LXX corrisponde al TM.
262 Una parte più ampia di Is 29,10 si trova in 1 Cor 1,19. Il termine katanyxis non ha valore positivo,
di stupore o di meraviglia da parte d'Israele per l'adesione dei gentili al vangelo paolino, bensì negativo di
dormiveglia o di stordimento tipico di chi, ad esempio, è ubriaco (cfr. «vino da vertigini» del Sai 59,5).
380 Traduzione e commento
(LXX) tranne per l'aggiunta del riferimento alla «rete», che probabilmente pro-
viene dall'analogo Sai 34,8 (LXX) . Questa citazione è collegata alla preceden-
263

te di Dt 29,3 attraverso la ripresa del riferimento agli « occhi per non vedere » e,
quindi, per mezzo di una gezerah shawah. Non è facile stabilire a che livello si
ponga l'analogia tra questa citazione e la situazione attuale d'Israele, a meno che
non si voglia riscontrare un'anticipazione del problema sull'accoglienza tra i for-
ti e i deboli di cui si parlerà in Rm 14. In verità, questo collegamento è troppo di-
stante e gli interlocutori di Rm 14 sono tutti credenti in Cristo, mentre qui si trat-
ta di coloro che non hanno aderito al vangelo . Piuttosto, è bene rilevare che il
264

Sai 68 figura come un salmo di supplica individuale che contiene anche l'impre-
cazione per i propri nemici. In tal modo, Paolo sottolinea l'avversione del Signore
verso la maggior parte d'Israele che non ha aderito alla fede in Cristo. A causa
della questione successiva (Rm 11,11-16), l'espressione dia pantos non va resa
con «per sempre», ma con «continuamente»: l'annebbiamento e l'indurimento
d'Israele non dureranno per sempre perché, proprio attraverso il resto, sarà pro-
spettata la speranza.
Caduta e gelosia (11,11-16). - La seconda parte di Rm 11,1-32 spiega le fun-
zioni dell'offuscamento o dell'indurimento che ha colpito la maggior parte
d'Israele (vv. 11-16): il versante rimane quello propriamente teologico, anche se
Dio non è mai citato esplicitamente in questi versi, poiché la domanda fondamen-
tale riguarda il ruolo dell'ostacolo che Israele ha trovato nella sua relazione con il
Signore. L'unità letteraria della pericope è abbastanza chiara: si apre con una do-
manda dallo stile diatribico (« Dico dunque, forse inciamparono per cadere? »)
analoga a quella di Rm 11,1, e si conclude con la relazione metaforica tra la primi-
zia e la massa, la radice e i rami che Paolo svilupperà nel paragrafo successivo . 265

Il pensiero paolino di questi versi è brachilogico o stringato e, per questo, dif-


ficile da interpretare: quasi tutte le affermazioni mancano del verbo principale e
quindi figurano come ellittiche. Spesso, nella traduzione, abbiamo utilizzato il ver-
bo « essere » come sirichiedein questi casi; ma poiché in questione si trova la re-
lazione tra la maggioranza degli israeliti, descritti con una generica terza persona
plurale, e i gentili o il mondo, tali ellissi dei verbi rendono problematico proprio
questo rapporto. In pratica, la caduta degli israeliti rappresenta la ragione, l'oppor-
tunità per la salvezza dei gentili o non ha nessuna relazione con essa? Chi sono la
primizia e la massa o la radice e i rami? E quali relazioni hanno fra di loro? Come
al solito, Paolo è più capace di porre domande che di offrire risposte esaurienti!

263 Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 588. Le variazioni minori, come l'omissione di enópion (da-
vanti) e antapodoma invece di antapodosis (punizione), sono pocorilevantirispettoall'originale della LXX.
264 Lo stesso vale per il collegamento che J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 643 stabilisce tra il riferimen-
to alla mensa e le leggi culinarie giudaiche considerate come identity markers: questo problema non trova
alcunriscontroin Romani, come invece ad esempio in Gal 2,11-14.
265 L'immagine agricola introdotta al v. 16 svolge un ruolo di gancio rispetto a quanto segue più che
introdurre la pericope successiva in cui domina la relazione tra essi-tu (vv. 17-24) mentre qui prevale quel-
la tra essi-i gentili.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 381
[11,11] La domanda diatribica che introduce i vv. 11-16 è enigmatica, perché
nel contesto di Rm 9,1 -11,36 Paolo sostiene sia l'inciampo (cfr. Rm 9,32-33) sia
la caduta d'Israele (cfr. Rm 11,12). Che cosa significa allora la domanda «in-
ciamparono affinché cadessero »? . Forse Dio stesso li ha fatti inciampare perché
266

cadessero? Di per sé, l'inciampo non significa caduta? Oppure, pur essendo cadu-
ti e inciampati, non si tratta di una situazione definitiva? . Poiché, dal punto di vi-
267

sta stilistico, questa domanda è analoga a quella del v. 1 e dipende da essa, come
una nuova specificazione, forse la questione riguarda se Dio li abbia fatti inciam-
pare per farli cadere . Tuttavia, a prescindere da questo elemento di contatto, è
268

bene riconoscere che nei vv. 11-16 non si parla esplicitamente di Dio. D'altro can-
to, come abbiamo già sottolineato, l'inciampo d'Israele descritto in Rm 9,32-33
non è ricondotto soltanto all'azione di Dio ma anche alla responsabilità umana.
Pertanto è preferibile considerare gli israeliti come soggetto sottinteso dei verbi
contenuti nella domanda iniziale.
Dallo sviluppo dellarisposta,dopo l'immediato « Non sia mai! », si compren-
de che la questione principale nonriguardal'inciampo ma la caduta (paraptóma)
d'Israele (vv. llb.12) e la sua funzione nei confronti dei gentili. Quindi l'accento
della domanda e, di conseguenza, la tesi principale che Paolo intende dimostrare
in questi versiriguardala durata di questa caduta: se è definitiva o si svolge in un
tempo determinato della storia e, di conseguenza, per una funzione ben precisa.
Soltanto in questa prospettiva si spiega l'immediata reazione negativa che espri-
me una decisa repulsione verso quanto è stato ipotizzato nella domanda preceden-
te . In altri termini, anche se implicitamente, Paolo introduce, in questa domanda
269

che regge la seconda parte di Rm 11, l'importante prospettiva temporale a partire


dalla qualerileggeràla relazione tra Israele e i gentili . 270

Dopo l'immediata repulsione, Paolo introduce la relazione tra Israele e i gen-


tili: la caduta degli israeliti ha causato o forse è diventata lo strumento con il qua-
le la salvezza ha raggiunto i gentili ; e la salvezza dei gentili induce gli israeliti a
271

nutrire un intenso sentimento di gelosia. Come al solito, il pensiero di Paolo è


troppo sintetico e crea non poche difficoltà. Egli non dice perché la caduta dei giu-
dei costituisca la causa o lo strumento per la salvezza dei gentili: Perché non han-
no creduto al vangelo o in Gesù Cristo, costringendo gli apostoli arivolgersiver-

II verbo ptaiein (inciampare) si trova soltanto qui nell'epistolario paolino (cfr. anche Gc 2,10;
266

3,2.2; 2Pt 1,10). Il verbo piptein condivide la stessa radice verbale di ptaiein ed esprime il risultato del-
l'inciampo: il cadere (cfr. anche Rm 11,22; 14,4; ICor 10,8.12; 13,8; 14,25).
Comunque si è generalmente concordi nelritenerela parte introdotta da hina come finale e non
267

come consecutiva. Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 593.


Così J.-N. Aletti, Romani, p. 171, che nella sua ipotesi di traduzione scrive: «(Dio) li ha fatti in-
268

ciampare per provocare la loro caduta? »


Per il ruolo di me genoito nell'epistolario paolino vedi il commento a Rm 3,4.
269

Per l'importanza della dimensione temporale, corrispondente alla dilazione della salvezza d'Israele,
270

rispetto a quella spaziale, corrispondente alla sostituzione d'Israele con i gentili, cfr. T.L. Donaldson, « Riches
for the Gentiles » (Rom 11:12): Israel 's Rejection and Paul 's Gentile Mission, in JBL 112 (1993) 81-98, an-
che se l'autore non parte da Rm 11,11 per identificarla ma dal modello giudaico della salvezza escatologica.
Non è facile stabilire se il dativo semplice tö paraptömati sia da intendere in senso strumentale o
271

causale.
382 Traduzione e commento
so i gentili? , perché gli israeliti si trovano nella stessa condizione di Adamo (cfr.
272

Rm 5) rispetto alla salvezza realizzata in Cristo? . Oppure perché, in definitiva,


273

tale cadutarientravanell'imperscrutabile disegno divino?


Intanto è bene precisare che il sostantivo paraptóma non ha valore letterale né
assume una portata neutra rispetto ad esempio a parabasis ma traslato di « cadu-
ta» in quanto «trasgressione», facendo riferimento anche alla colpevolezza
d'Israele e non soltanto al progetto sovrastante di Dio . Per quantoriguardail so-
274

stantivo « salvezza» (sótéria), a causa del suo uso in Rm 10,1.10, con una chiara
rilevanza cristologica , anche in tal caso assume una portata cristologica: la sal-
275

vezza dei gentili è quella realizzata da Dio con e per mezzo di Gesù Cristo e non
una generica salvezza. Questo significa che la caduta d'Israele ha nuovamente una
portata cristologica, come abbiamo dimostrato con l'esegesi di Rm 9,30-31: non
bisogna dimenticare che Israele è inciampato di fronte alla pietra che, per Paolo, è
Cristo oppure la fede in lui . 276

Anche il motivo della gelosia conduce verso un orientamento cristologico: il


popolo «incredulo e ribelle» di cui Paolo parla in Rm 10,20-21, rileggendo gli
oracoli di Dt 32,21 e di Is 65,1-2, è reso geloso da Dio perché non ha creduto al
vangelo o perché non ha raggiunto la giustizia per la fede in Cristo. Tuttavia, co-
me dimostrerà nei versi successivi, ora la gelosia d'Israele non è più soltanto ne-
gativa, corrispondendo a una gelosia irritata, ma comincia a diventare positiva
perché nel pensiero di Paolo dovrebbe condurre all'emulazione verso i numerosi
gentili che hanno accolto il vangelo (v. 14) . Dunque, la caduta degli ebrei, de-
277

rivata dall'inciampo di fronte alla pietra che è Cristo, è diventata, nel disegno di
Dio, la causa o il mezzo con cui sono stati salvati i gentili; e quindi assume un
ruolo non soltanto negativo ma profondamente positivo . 278

[v. 12] Proseguendo sulla funzione della caduta degli israeliti, lo sguardo di
Paolo si apre sul loro futuro, attraverso un'argomentazione afortiori: se la cadu-
ta e il decadimento degli israeliti sono la causa o lo strumento per laricchezzadel
mondo e dei gentili, quanto più la loro pienezza . La parte minore dell'argo-
219

272 Questo modello classico è oggi quello meno seguito perché Paolo si sente inviato ai gentili sin dall'i-
nizio della propria vocazione e non in un secondo momento (cfr. Gal 1,15-16). Cfr. a tal proposito A. Pitta, Da
Cristo ai gentili e alla Legge: percorso genetico a partire dalla lettera ai Galati, in Paradosso, pp. 137-176.
273 Così N.T. Wright, Climax, pp. 223-224.
274 Non è un caso che in Rm 5,12-21, ossia nella pericope in cui Paolo utilizza maggiormente questo
sostantivo (cfr. 6 volte su 16), paraptóma si trova in connessione con parabasis (trasgressione) e con ha-
marthia (peccato). D'altro canto nel suo epistolario paraptóma non ha mai senso letterale ma sempre tra-
slato di «caduta». Così anche R.H. Bell, Jealousy, pp. 109-110.
275 Cfr. anche sózein in Rm 10,9.13.
276 Con buona pace di R.H. Bell, Jealousy, pp. 110-112, che, per criticare la lettura cristocentrica di
K. Barth, esclude la rilevanza cristologica di Rm 11,11 per poiricuperarlaattraverso il motivo della gelo-
sia. Per la prospettiva cristologica di Rm 11, cfr. in particolare K. Barth, La dottrina dell'elezione divina.
Dogmatica Ecclesiale II/2, Torino 1983.
277 Così giustamente R.H. Bell, Jealousy, p. 113.
278 Contro quanti, come R.H. Bell, Jealousy, pp. 110-112, separano la portata cristologica da quella
teologica della caduta d'Israele, è bene precisare che la caduta d'Israele è relazionata alrifiutodi Cristo e
della giustizia fondata sulla fede in lui e non sulle opere della Legge.
279 Si noti l'assonanza stilistica di alcuni sostantivi che si concludono con il suffisso -ma: paraptóma
(caduta), hèttéma (decadimento) e pléróma (pienezza). Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 597. Vedi il
caso analogo di Rm 5,15-17.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 383
mentazione è costruita secondo un parallelismo: la caduta corrisponde al decadi-
mento degli ebrei e la ricchezza del mondo equivale a quella dei gentili. Per que-
sto, il sostantivo hèttéma non ha valore numerico, di abbassamento o di diminu-
zione quantitativa degli israeliti, lasciando intendere la sostituzione dei giudei
con i gentili, ma assume una portata qualitativa : si tratta dell'abbassamento o
280

del decadimento degli israeliti, causato dalla loro caduta . 281

La composizione parallela della proposizione permette di stabilire che la ric-


chezza del mondo si identifica con quella dei gentili o, inversamente, che i genti-
li corrispondono al mondo, ossia a tutti coloro che sono altro da Israele ma che so-
no arricchiti proprio attraverso il suo decadimento. Dal punto di vista contenuti-
stico, la ricchezza del mondo può avere come agente sia Gesù Cristo (cfr. Rm
10,12) sia Dio (cfr. Rm 11,33): è preferibile la seconda ipotesi, anche se di fatto la
ricchezza per i gentili, come per tutti, è rappresentata dalla salvezza (v. 11), rea-
lizzata da Dio per mezzo di Cristo.
La parte maggiore dell'argomentazione afortiori è difficile da decifrare: La
«pienezza» siriferiscealla salvezza futura della maggior parte degli israeliti che
non ha ancora aderito al vangelo, come invece il resto, oppure assume una conno-
tazione cronologica, nel senso che la pienezza del tempo per gli israeliti si realiz-
zerà quando aderiranno al vangelo? Generalmente, quando Paolo intende riferirsi
alla dimensione cronologica del sostantivopleróma, parla esplicitamente di «pie-
nezza del tempo» (cfr. Gal 4,4) o della «pienezza dei momenti» (cfr. Ef 1,10),
mentre qui si riferisce alla pienezza degli israeliti, come più avanti parlerà della
«pienezza dei gentili» (Rm 11,25). Dunque, la loro caduta ha determinato l'e-
sclusione di molti israeliti: per ora, soltanto un resto ha ottenuto ciò che cercava-
no tutti (v. 7). Tuttavia, questo non significa che il posto della maggior parte degli
israeliti sia stato assunto dai gentili, secondo una diffusa concezione sostitutiva : 282

non è necessario dedurre dall'esclusione della maggior parte degli israeliti l'in-
clusione dei gentili; ancora una volta le due asserzioni non sono consequenziali . 283

Piuttosto, il futuro è aperto alla speranza per la maggior parte d'Israele, chiamata
a congiungersi con il resto che ha aderito al vangelo.
[vv. 13-14] Per dare maggiore consistenza alla sua reale speranza per la sal-
vezza d'Israele, Paolo si rivolge direttamente ai destinatari della lettera, definen-
dosi « apostolo dei gentili ». Secondo molti, questo riferimento dimostra che le
comunità cristiane di Roma erano composte, almeno in prevalenza, di gentilo-cri-
stiani. Di per sé, se questo rappresentasse l'unico indizio sarebbe debole, in quan-
to può essere inteso come assertivo e non come esclusivo: si potrebbe trattare di
un appello diretto ad alcune parti delle comunità cristiane. Tuttavia, se poniamo

280II sostantivo hettema si trova soltanto qui e in ICor 6,7 per il NT, e in entrambi i casi assume una
portata qualitativa o morale (abbassamento, decadimento) e non quantitativa (diminuzione); per la LXX si
trova soltanto in Is 31,8.
281Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 172; R.H. Bell, Jealousy, p. 114.
282 Per la visione sostitutiva di questi versi, attestata già in epoca patristica, cfr. Giustino, Dialogo
134-135; Tertulliano, Adversus Judaeos 1. Questa non manca neppure nell'esegesi contemporanea: cfr. PJ.
Achtemeier, Romans, Atlanta 1985, p. 180.
283Così anche T.L. Donaldson, Riches, pp. 92-98.
384 Traduzione e commento
questo appello in connessione con Rm 1,5, in cui Paolo considera il proprio « apo-
stolato per l'obbedienza della fede di tutti i gentili», l'ipotesi diventa più consi-
stente: senza escludere la presenza giudaica, forse le comunità cristiane dell'Urbe
erano caratterizzate da una prevalenza di etnico-cristiani e a esse Paolo si rivolge
come « apostolo dei gentili ». Naturalmente, questa precisazione vale per l'origi-
ne etnica dei destinatari e non per quella religiosa, giacché, come abbiamo preci-
sato nell'introduzione generale, i cristiani del secolo I d.C. si consideravano inse-
riti in una forma del comune giudaismo che pone al centro della propria fede la
morte erisurrezionedi Cristo, e non in una nuova religione a sé stante.
La natura assertiva di questa interpellanza vale anche per larivendicazionedi
Paolo all'apostolato: di fatto egli era apostolo non soltanto dei gentili ma anche dei
giudei. Tuttavia, la sottolineatura per l'apostolato presso i gentili appartiene ai trat-
ti ideali dell'autobiografia paolina, senza negare il suo l'apostolato presso i giudei
(cfr. ICor 9,20) . In questa prospettiva si spiega la funzione del suo ministero al
284

quale rende gloria (doxazö) o diremmo « che onora »: magari potesse ingelosire la
sua carne e contribuire alla salvezza di alcuni di essi! . In questa originale assimi-
285

lazione tra la « carne » e la maggior parte d'Israele è raccolto in sintesi il conflitto


di Rm 9,1 - 11,36. In quanto israelita, egli vive la relazione con il suo popolo co-
me con la sua stessa carne, non con un'identità che gli sta di fronte, come Israele
secondo la carne rispetto a un Israele secondo lo Spirito, ma con l'Israele che si
trova nella sua stessa carne. La virulenza di quest'assimilazione impedisce di ri-
solvere la conflittualità paolina con la scorciatoia dell'Israele secondo lo Spirito o
con l'identificazione d'Israele con il resto o, ancor peggio, con i gentili. Per quan-
to il resto, rappresentato dai giudeo-cristiani, rappresenti quantorimanedella mag-
gioranza d'Israele, e per quanto i gentili entrino a far parte di questo resto e, per
mezzo di esso, del popolo dell'alleanza, Israelerimanetale per sempre, perché Dio
non ha ripudiato il suo popolo (cfr. Rm 11,1).
Per questo l'ingelosimento che Paolo intende provocare si pone in conti-
nuità con quello di Dio per il suo popolo (v. 11); e non ha più i connotati dell'ir-
ritazione ma quelli dell'emulazione o dello stupore di fronte all'accoglienza che
molti gentili hanno riservato al vangelo. Poiché per Paolo la salvezza si realizza
soltanto per mezzo di Cristo, egli spera che l'emulazione o la meraviglia per l'in-
gresso dei gentili apra le porte alla salvezza anche per la maggior parte d'Israele
che non ha creduto al vangelo.
[v. 15] Forse Paolo era cosciente di aver dettato a Terzo alcune proposizioni
profonde ma concise e complesse, come quelle dei vv. 12-14; per questo riformu-
la un nuovo argomento a fortiori che procede dal minore al maggiore, analogo a
quello del v. 12. L'esclusione della maggior parte d'Israele ha significato la ricon-

284 Per i tratti ideali dell'autobiografia paolina cfr. Pitta, Paradosso, pp. 145-147; W. Stenger,
Biographisches und Idealbiographisches in Gal 1,11-2,14, in P.G. Müller - W. Stenger (edd.), Kontinuität
und Einheit, FS. F. Mussner, Freiburg-Basel-Wien 1991, pp. 123-140.
285 Contrariamente a Rm 3,3, in cui Paolo ha detto, per difetto o per meiosi retorica, che alcuni giu-
dei non hanno creduto al vangelo (cfr. anche la meiosi di Rm 11,17), qui realmente Paolo spera di condur-
re alla salvezza in Cristo almeno qualcuno di essi. Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 596.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 385
ciliazione che Dio ha realizzato con il mondo per mezzo di Cristo (cfr. Rm 5,11;
2Cor 5,19) : ne è stata addirittura la causa o lo strumento! Cosa sarà mai questa
286

scelta se posta a confronto con la loro accoglienza? . Questa è addirittura rela-


287

zionata alla « vita dai morti »; e qui Paolo utilizza un'espressione originale in tut-
to il NT. Qual è il significato di « vita dai morti »? Siriferisceallarisurrezionefi-
nale? Riguarda tutto Israele o soltanto il resto? Oppure è una metafora per espri-
mere lo stupore per la futura accoglienza della pienezza degli israeliti?
Riteniamo che sia da escludere l'interpretazione che limita l'espressione al
resto e quindi agli israeliti che hanno aderito al vangelo,rispettoai quali Paolo nu-
tre, come per tutti i credenti, la speranza di partecipare alla risurrezione di Cristo.
Di primo acchito, sembra che Paolo siriferiscaallarisurrezionedei morti alla qua-
le parteciperanno anche gli israeliti quando sarannoriaccoltio uniti al resto che ha
creduto al vangelo: come i gentili sono statiriconciliatie salvati (vv. 11), così gli
altri israeliti parteciperanno alla risurrezione di Cristo . Tuttavia, si può notare
288

che, in questi versi, non si parla dellarisurrezionefinale dei gentili, in relazione a


quella degli israeliti. Lariconciliazionee la salvezza dei gentili che hanno credu-
to in Cristo sono già in atto! D'altro canto, per parlare della «risurrezionedai mor-
ti» Paolo utilizza l'espressione anastasis nekrón (senza ek) o al massimo «vita
eterna » e non « vita dai morti » . Pertanto, è preferibile l'interpretazione iperbo-
289

lica: la riaccoglienza della maggior parte di questo Israele è analoga alla vita dai
morti che, secondo la bella parabola delle ossa inaridite nella valle, raccontata in
Ez 37,3-6, è conferita all'Israele della diaspora . 290

[v. 16] La seconda parte principale di Rm 11 si conclude con alcune metafo-


re che assumono orizzonti generici perché non sono state preparate ; sono me- 291

tafore prolettiche o anticipatorie, che introducono la simbologia dell'innesto dei


vv. 17-24, anche se Paolo si soffermerà soltanto sulla relazione tra la radice e i ra-
mi. Questo modo di argomentare rende difficile stabilire i riferimenti storici: chi

286 Sull'uso e sulla funzione del vocabolario della riconciliazione vedi il commento a Rm 5,11. Circa
il genitivo « la loro esclusione », non è soggettivo,riferendosiali'autoesclusione dei giudeirispettoal van-
gelo, come pensa J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 726-727, fondando la sua interpretazione sul fatto che Dio
non harigettatoil suo popolo, ma oggettivo, perché adesso si trova in questione la durata dell'esclusione
in relazione alla riconciliazione che Dio ha realizzato con il mondo. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 693;
T.R. Schreiner, Romans, p. 598; U. Wilckens, Römer, II, p. 245.
287 In questo verso Paolo utilizza alcuni termini rari: apobolè (perdita, esclusione) si trova soltanto
qui e in At 27,22; proslempsis (accoglienza) è hapax legomenon in tutto il greco biblico.
288 Così R.H. Bell, Jealousy, p. 112; J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 658; D.J. Moo, Romans, pp. 695-
696; T.R. Schreiner, Romans, pp. 598-599; U. Wilckens, Römer, II, p. 245. Qualora si optasse per questa
interpretazione, è bene rilevare che Paolo non stabilisce un ordine cronologico tra la risurrezione dei gen-
tili e quella d'Israele, invertendo l'ordine diffuso nel giudaismo apocalittico: questa prospettiva sarà uti-
lizzata soltanto in Rm 11,25-26.
289 Per anastasis nekrón (risurrezione dai morti) cfr. Rm 1,4; ICor 15,12.13.21.42; per «vita eterna»
cfr. Rm 2,7; 5,21; 6,22; Gal 6,8.
290 Cfr. l'uso della stessa iperbole in Le 15,24.32 e forse in Le 16,31. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani,
pp. 727-728.
291 Prima del v. 16 Paolo non ha mai parlato della radice (riza) né dei rami (kladoi)', il sostantivo « pri-
mizia» (aparche) è stato utilizzato in Rm 8,23 per lo Spirito santo. Anche di phyrama (massa) si è parlato
in Rm 9,21 ma nel contesto del ceramista e della sua creta.
386 Traduzione e commento
è la primizia o la radice? E chi la massa e i rami? Anche se le due immagini sono
poste in parallelo, la primizia corrisponde alla radice e la massa ai rami?
Prima di tutto, è bene contestualizzare le metafore: sono entrambe agricole,
una riguarda la raccolta di grano o di altri frutti della terra (primizia, massa) , e 292

una la struttura dell'albero (la radice e i rami). Tuttavia, mentre la prima metafora
sembra evocare anche il contesto cultuale dell'offerta al Signore delle primizie del
raccolto di frumento (cfr. Nm 15,17-21), la seconda è più semplicemente arborea . 293

L'interpretazione meno seguita nell'esegesi contemporanea è quella patristica che


generalmente considera Cristo come la primizia, alla luce di ICor 15,20.23. Così
commenterà Origene: « Io invece non conosco altra radice che sia santa e altro san-
to primo frutto se non il Signore nostro Gesù Cristo » . A ben vedere, il contesto
294

della metafora in Rm 11 non è escatologico né accenna a Gesù Cristo, anche se non


va dimenticato l'orizzonte generale di Rm 9-11.
Alcuni preferiscono scindere le metafore, attribuendo la primizia ai giudeo-
cristiani che hanno creduto al vangelo e la radice ai patriarchi con le promesse fat-
te a Israele : l'ipotesi è possibile ma determinerebbe un accumulo di significati,
295

mentre la composizione parallela in cui sono posti in relazione la parte e il tutto


orienta verso gli stessiriferimentiper la primizia e la radice, da una parte, e per la
massa e i rami, dall'altra. Di fatto, l'aggettivo « santa » collega l'una e l'altra me-
tafora, anche se si tratta di due immagini diverse.
Fra le interpretazioni più seguite c'è quella che pensa ai giudeo-cristiani ri-
tenuti, nello stesso tempo, primizia per la massa e radice per i rami di quanti ade-
riscono al vangelo, a prescindere che si tratti di giudei o di gentili . Tuttavia, 296

questa interpretazione ha il torto di non considerare attentamente il contesto pre-


cedente, in cui si procede da Israele al resto (i giudeo-cristiani) e non all'inverso
(cfr. Rm 11,1-10).
Invece sembra più consistente l'ipotesi che attribuisce la primizia e la radice
ai patriarchi e ai privilegi concessi a Israele, mentre la massa e i rami corrisponde-
rebbero a tutto Israele . Quest'interpretazione sembra essere confermata da Rm
297

11,28 in cui si dice che gli israeliti sono « diletti a causa dei padri » e naturalmente
da Rm 9,4-5 in cui sono enucleati i principali privilegi degli israeliti; e, poiché que-
sti sono irrevocabili (Rm 11,29), costituiscono la base e la primizia della santità
d'Israele. Tuttavia, è benericonoscere,contro quanti con molta facilità escludono
l'interpretazione patristica, che fra i privilegi d'Israele si trova anche «Gesù se-
condo la carne » (cfr. Rm 9,5) e Paolo stesso si è dichiarato israelita (cfr. Rm 11,1).

Per l'uso della metafora analoga tra il « lievito » e la « massa » cfr. ICor 5,6-7; Gal 5,9.
292

Così anche M. Härtung, Die kultische bzw. agrartechnisch-biologische Logik der Gleichnisse von der
293

Teighebe und vom Ölbaum in Rom 11.16-24 und die sich daraus ergebenden theologischen Konsequenzen, in
ATS 45 (1999) 128-129.
Cfr. Origene, Romani, p. 77.
294

Così R.H. Bell, Jealousy, p. 123; J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 728-729.
295

Così C.K. Barrett, A Commentary on the Epistle to the Romans, London - New York 1991 , p. 216.
296 2

Cfr. T.R. Schreiner, Romans, pp. 600-601; U. Wilckens, Römer, II, p. 246. Per le attestazioni pa-
297

ratestamentarie in cui i patriarchi sono descritti come la radice d'Israele cfr. Filone, Heres 56,277; Test.
Giuda 24,5; Giub 16,26; lEn 93,5,8.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 387
Pertanto, si tratta di un^ metafora « aperta » e non ristretta a un unico referente! Il
contesto di Rm 9-11 orienta verso tutto ciò che permette diriconoscerela santità o
l'appartenenza d'Israele al Signore: la primizia e la radice sono i padri e tutto ciò
che in Israele attesta la santità di Dio, compresa la Legge mosaica, inclusa fra i pri-
vilegi e riconosciuta come « santa» (cfr. Rm 7,12). A questa primizia, che è anche
la radice, si relazionano la massa e i rami d'Israele e dei gentili che hanno aderito
al vangelo. In questa prospettiva, il resto dei giudeo-cristiani appartiene sia alla
primizia, in quanto composto di israeliti e di credenti in Cristo, sia alla radice per-
ché non sono distinti ma sono « carne » stessa d'Israele (cfr. Rm 11,14).
Su questo duplice vettore simbolico, della radice e della primizia come rela-
zione nello stesso Israele e di questi verso i gentili, si spiega la complessità del-
l'accostamento tra le due metafore: attraverso la metafora della primizia e della
massa è espresso il risultato o il rapporto quantitativo d'Israele mentre, con quella
della radice e dei rami, è accentuata la sua identità o consistenza. La successiva
simbologia dell'ulivo e dell'olivastro si svilupperà a partire da questo duplice
orizzonte della metafora che chiude l'attuale paragrafo.
L'ulivo e l 'olivastro (11,17-24). - Le metafore di Rm 11,16 sono state utiliz-
zate con una certa rapidità e con poca chiarezza; per questo dalla metafora arbo-
rea tra la radice e i rami Paolo passa a quella più specifica sul processo di potatu-
ra e d'innesto dell'ulivo. Con i cambiamenti dei contesti ecclesiali e delle rela-
zioni tra Israele e la Chiesa, saremmo portati a pensare che Paolo intende criticare
la Chiesa per la sua posizione di superiorità e di vanto verso Israele. In realtà, an-
che se il motivo del vanto è presente in Rm 11,17-24, non è il principale né ri-
guarda il rapporto tra Israele e la Chiesa, ma è funzionale alla tesi principale di-
mostrata sino ad ora, ossia che Dio non harigettatoil suo popolo (v. 1) e che la ca-
duta della maggior parte d'Israele è temporanea (v. 11) perché Dio sarà capace di
reinnestarli con la sua potenza . 298

Per la stessa ragione preferiamo liberare l'interpretazione della metafora da


una specifica contestualizzazione nelle comunità cristiane di Roma, riconducibile
a una prospettiva polemica: Paolo si proporrebbe di rimproverare la maggioranza
etnico-cristiana per la posizione di superiorità verso la minoranza giudaico-cristia-
na. Non vi sono indizi di questo tipo nella lettera, anche se si potrebbe pensare a
una sorta di analisi preventiva contro tale pericolo. Questo è confermato dall'uso
del « tu », tipicamente diatribico, verso il quale Paolo sirivolge,mentre quando in-
terpella direttamente i cristiani di Roma utilizza il « voi » . 299

Più che una parabola, è bene considerare quella descritta nei vv. 17-24 come
una metafora sviluppata o aperta, e quindi come una simbologia attraverso la qua-
298 Così anche A.G. Baxter - J.A. Ziesler, Paul and Arboriculture: Romans 11:17-24, in JSNT 24
(1985) 25-26.
299 Cfr. Rm 11,2.13.25.30.31. Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 184-185. Per il «tu» dello stile
diatribico in Romani cfr. Rm 2,1-24. A causa dell'improvvisa ed esclusiva utilizzazione del «tu» non è
difficile riconoscere la microunità letteraria dei vv. 17-24, anche se la tesi principale di Rm 11,1 vale an-
che per questi versi. Eppure non manca chi come T.R. Schreiner, Romans, p. 603, separa, senza valide ra-
gioni, i vv. 23-24 dal v. 22.
388 Traduzione e commento
le la radice dell'ulivo porta rami propri e rami innestati dall'olivastro : alla fine 300

si rivelerà come metafora dell'assurdol Tuttavia, bisogna riconoscere che, a pri-


ma vista, la simbologia non sembra logica o coerente, perché generalmente non è
l'olivastro a essere innestato sull'ulivo ma il contrario: alcuni rami di ulivo sono
innestati sull'olivastro affinché questi possa portare buon frutto. Dunque ci tro-
veremmo di fronte al solito caso, tipicamente paolino, d'incongruenza tra l'e-
sempio e l'applicazione? 301

In realtà, la chiave di comprensione e lafinalitàdella metafora sono esplici-


tate al v. 24, in cui Paoloriconosceche in quest'originale innesto c'è stato un pro-
cesso contro natura, perché i rami di olivastro sono stati innestati su un ulivo buo-
no. Dunque, non è vero che Paolo non avesse una minima conoscenza agraria;
piuttosto, egli non esita ad adattare questo esempio alla relazione tra Israele e i
gentili. Per questo, non soltanto sorprende il processo d'innesto descritto nei vv.
17-23, ma come sia possibile che in futuro i rami buoni, che sono stati tagliati,
possano di nuovo essere innestati sul proprio ulivo (v. 24), senza essere seccati o
bruciati. Questo processo può realizzarlo soltanto Dio! . Dunque, egli conosce la
302

normale e generale modalità d'innesto nel mondo antico ma non intende compie-
re un excursus di agronomia bensì illustrare la situazione attuale del rapporto tra
Israele e i gentili in vista della futurariaccoglienzadella maggior parte d'Israele
rispetto a quella radice santa che sono i padri e coloro che, fra gli israeliti, hanno
aderito al vangelo.
[11,17-18] L'originale metafora aperta dai vv. 17-18 comincia con estrema
prudenza e delicatezza: Paolo sa e hariconosciutoche non pochi ma molti israeli-
ti non hanno aderito al vangelo (vv. 1-10), per cui avrebbe potuto benissimo dire
che « molti rami sono stati tagliati ». Invece, in questo caso, preferisce parlare per
difetto: «Alcuni rami sono stati tagliati» . Il soggetto di questo intervento agri-
303

colo è Dio, come dimostrano i diversi passivi divini e l'uso del sostantivo theos
utilizzati in questi versi . 304

Anche se nell'AT non si hanno attestazioni sulla coltura dell'ulivo e dell'o-


livastro , l'ulivo caratterizza, assieme alla vite, il paesaggio della terra promessa
305

(cfr. Dt 8,8; 28,40). Per questo, colui che si fida del Signore è come un ulivo (cfr.
Sai 51,10 LXX) e i suoi figli sono « virgulti d'ulivo » (cfr. Sai 127,3 LXX). Israele
è paragonato a un fertile ulivo (cfr. Ger 11,16; Os 14,7); e nei periodi di calamità

300 p f iamo parlare di metafora e non di allegoria perché il secondo termine ha subito una caratte-
re er

rizzazione diversa nella storia dell'interpretazione: si pensi all'allegoria alessandrina o a quella medieva-
le. In modo analogo, è preferibile non parlare di una parabola a causa dei canoni diversi del genere para-
bolico nel NT. D'altro canto, si potrà notare che la stessa metafora ampliata diventa veicolo di messaggio,
senza la necessità di ulteriori spiegazioni o attualizzazioni.
301 Non abbiamo esitato a evidenziare tali incongruenze in Rm 7,1-6 e in Gal 4,1-7.
302 Così anche J.-N. Aletti, Romani, p. 183.
303 II verbo « tagliare » (ekklan) è utilizzato soltanto in questi versi per il NT (vv. 17.19.20); è raro an-
che in greco classico e nella LXX si trova soltanto in Lv 1,17.
304 Cfr. theos nei vv. 21.22.23; nella pericope precedente di Rm 11,11-16 non è mai citato. Per i pas-
sivi divini cfr. vv. 17b. 19.19.20.23.24.24.
305 Per tale coltura nel mondo antico bisogna riferirsi a Teofrasto che ha tramandato una Historia
plantarum e al latino Columella con il suo De re rustica 5. Cfr. M. Härtung, Ölbaum, pp. 132-135.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 389
i suoi superstiti saranno come le poche ulive lasciate sugli alberi durante la rac-
colta (cfr. Is 17,6) . Tuttavia, soltanto Paolo pone in relazione la coltura dell'uli-
306

vo e dell'olivastro come metafora per indicare la relazione tra i padri, gli israeliti
che hanno aderito al vangelo e i gentili.
Dunque, contro il processo naturale, i rami dell'olivastro sono stati innestati
fra i rami buoni dell'ulivo affinché diventino compartecipi della loro linfa e della
loro radice. L'aggettivo verbale «compartecipe» (sygkoinónos) dimostra quanto
Paolo non si interessi della metafora ma della relazione tra la radice d'Israele e i
gentili . Di fatto, i credenti diventano « compartecipi » del vangelo o di Cristo
307

(cfr. ICor 9,23) e di coloro che condividono la stessa fede (cfr. Fil 1,7). La condi-
visione della radice è anche naturale condivisione della linfa dell'ulivo; anche se
Paolo non indica il corrispondente della «fecondità» (piotes) , ciò che accomu- m

na i gentili e la radice con i rami naturali dell'albero è il vangelo di Cristo o la fe-


de in lui, perché a causa di essi sono stati recisi alcuni rami buoni.
Il v. 18riprendeil motivo del vanto, trattato più volte nelle sezioni preceden-
ti : questa volta Paolo prende di mira il « vantarsi contro o di fronte a qualcuno »
309

(katakauchasthai) perriferirloagli etnico-cristiani verso gli israeliti. L'attenzione


a questo motivo conferma la nostra interpretazione dell'enigmatico v. 16: la radi-
ce non è costituita soltanto dai padri ma anche da coloro che, fra gli israeliti, han-
no creduto al vangelo. Anche questa volta, Paolo esclude qualsiasi vanto che non
sia relazionato con il paradosso della croce (cfr. Rm 5,1-4) perché, riprendendo
l'immagine arborea, non sono i rami a portare la radice ma l'inverso . Più avan- 310

ti, Paolo esorterà i gentilo-cristiani a essere sempre grati verso i giudeo-cristiani


perché da essi hannoricevutoi beni spirituali (cfr. Rm 15,27) . 311

[vv. 19-20] La personificazione o prosopopea retorica dell'albero si esplici-


ta con il dialogo che Paolo intrattiene con i rami dell'olivastro innestati sull'uli-
vo: immagina che il ramo innestato si vanti per la propria inserzione sulla radice
a discapito dei rami naturali. A prima vista, in quest'affermazione sembra pren-
dere consistenza la prospettiva sostitutiva, perché in qualsiasi tipo d'innesto biso-
gna tagliare alcuni rami naturali per inserire altri rami. In modo analogo, l'inser-
zione dei gentili nel popolo dell'alleanza dovrebbe verificarsi attraverso l'esclu-

Per il simbolo dell'ulivo applicato a Israele cfr. 2Mac 1,19; Giub 1,16; lEn 10,16; 26,1; 84,6; 93,10;
306

Test. Simeone 6,2; 1QS 8,5; 11,8; 1QH 14,15-17; 16,5-11; Filone, Sobrietate 13,65.
II verbo sygkóinonein e l'aggettivo sygkóinonos sono propriamente paolini erientranofra i termi-
307

ni composti che esprimono la partecipazione dei credenti con (syn-) Cristo. Cfr. ICor 9,23; Fil 1,7; 4,14; Ef
5,11; cfr. anche Ap 1,9; 18,4.
In contesti agrari, il sostantivopiotes non designa soltanto la «linfa», com'è spesso tradotto, ma
308

la fecondità o la fertilità della pianta. Il termine si trova soltanto qui per il NT ma è ben attestato nella LXX
che lo utilizza per la fecondità dell'ulivo nell'apologo di Gdc 9,9 (cfr. anche Gn 27,28.39).
Cfr. il semplice kauchasthai (vantarsi) in Rm 2,17.23; 5,23.ÌV, kauchesis in Rm 3,27; kauchèma in
309

Rm 4,2; per non dimenticare l'importanteriferimentoal vanto espresso con la litote di Rm 1,16: «Non mi
vergogno... ». Cfr. anche il motivo del vanto accennato nella citazione di Is 28,16 in Rm 9,33; 10,11.
II verbo bastazein (portare) si colloca nuovamente nella personificazione dell'albero, perché è im-
310

proprio per la natura, mentre si riferisce alle vicendevoli relazioni o al carico che ogni persona deve porta-
re (cfr. Rm 15,1; Gal 5,10; 6,2.5.17).
Cfr. anche 2Cor 8,13-14.
311
390 Traduzione e commento
sione di almeno una parte d'Israele. In realtà, con questo dialogo Paolo sembra
contestare proprio tale concezione che indurrebbe spontaneamente al vanto alcu-
ni etnico-cristiani verso gli israeliti che non hanno aderito al vangelo, come con-
ferma la successiva argomentazione ad hominem.
Questa consiste fondamentalmente nel concedere qualcosa all'avversario per
sconfiggerlo sul suo campo, proprio rispetto a ciò in cui ritiene di aver ragione.
Così, proseguendo nella personificazione e nel dialogo con l'interlocutore fittizio
(v. 20), rappresentato dal ramo innestato, Paolo sembra dire: d'accordo, ma le co-
se stanno diversamente da come tu pensi . Il taglio dei rami naturali e l'innesto
312

dei rami esterni è causato soltanto dall'incredulità e dalla fede che, come in tutta
la sezione di Rm 9-11, non si relazionano genericamente a Dio ma a Cristo che,
per la maggior parte degli israeliti, è il noto sasso d'inciampo davanti al quale so-
no caduti (cfr. Rm 9,30 -10,4). Naturalmente, in questo caso, l'incredulità si rela-
ziona anche alla giustizia fondata sulle opere della Legge mentre la fede denota la
giustizia basata sulla fede in Cristo o sulla grazia (cfr. Rm 11,6).
Poiché la fede in Cristo non è principalmente un'opera umana ma il dono che
Dio concede per grazia e soltanto in base alla sua elezione, questa dovrebbe pre-
venire contro qualsiasi forma di vanto o di autoesaltazione; anzi, deve lasciare
spazio al timore per la libertà con cui Dio elargisce l'elezione e la fede a chi vuo-
le. Il contrario del timore per il Signore, che spesso Paolo identifica con quello per
Cristo , è rappresentato dal «pensare cose alte» , appunto dall'insuperbimento
313 314

nei confronti del Signore e verso coloro che condividono la stessa fede (cfr. Fil
2,1-12) o che, come nel nostro caso, non hanno aderito al vangelo. La fede senza
timore e tremore sirivelacome autoesaltazione.
[v. 21] La ragione per la quale la fede in Cristo si accompagna al timore per
Dio e non all'autoesaltazione, o al proprio vanto, si trova nella libertà che Dio ha
di « nonrisparmiare» nessuno, sia i rami naturali sia quelli appena innestati. Per
sottolineare la libertà di Dio, Paoloricorrea un verbo che ha svolto un ruolo par-
ticolarmente significativo in Rm 8,32: «risparmiare» (pheidesthai). Questo ha in-
dotto alcuni a stabilire una relazione tra le due asserzioni: « Dio che non ha rispar-
miato il proprio Figlio » e che « non harisparmiatoi rami secondo natura » . In tal 315

caso, ci troveremmo di fronte alla funzione salvifica che comunque Israele svol-
gerebbe verso l'umanità. Il collegamento è significativo ma è troppo audace e non
trovariscontrinel pensiero paolino, perché, se Dio non harisparmiatosuo Figlio a
vantaggio di tutti, la parte dell'Israele indurito non èrisparmiataa causa della sua
incredulità al vangelo. Forse è bene non sottolineare eccessivamente il ruolo posi-
tivo che Israele compie verso l'umanità in quanto risente più della teologia suc-

312Quest'argomentazione ad hominem è introdotta dall'originale esclamazione kalos che corrisponde


al nostro « bene! ». Secondo T.L. Donaldson, Riches, p. 85, poiché si tratta di una concessione che poi Paolo
contesta è meglio rendere kalos con «no, grazie! ». Nonostante il parallelo tratto da Aristofane, Rane 888,
riteniamo più opportuno rendere kalos con « bene » proprio per evidenziare l'argomentazione ad hominem.
313Cfr. 2Cor 5,1; 7,1; Fil 2,12; Ef 5,21.
314Paoloriprendela stessa espressione «pensare cose alte» nel contesto esortativo di Rm 12,16.
315Così R.B. Hays, Scripture, p. 61; così anche T.L. Donaldson, Riches, p. 94.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 391
cessiva alla Shoah che del pensiero paolino. Qui egli intende sottolineare sempli-
cemente la libertà di Dio nelrisparmiareo meno i rami naturali e quelli innestati.
[v. 22] Dal timore per la libertà di Dio nel condurre il proprio disegno di sal-
vezza, Paolo trae alcune conseguenze verso coloro che sono stati presi dall'oliva-
stro per essere innestati sull'ulivo buono. Da una parte si trova la benevolenza , 316

dall'altra la severità di Dio , come due facce della stessa medaglia. Il v. 22 è co-
317

struito secondo una composizione chiastica:


(a) benevolenza
(b) severità
(b') severità per i rami caduti
(a') benevolenza per i rami innestati.
Anche in questo caso, il chiasmo trova la sua parte principale nel suo centro,
ossia nella « severità » di Dio (b-b'), perché, di fatto, il percorso non è dalla bene-
volenza alla severità ma all'inverso. In altri termini, storicamente Dio ha mostra-
to prima la severità nei confronti dei rami recisi dell'Israele naturale per dimo-
strare la sua benevolenza verso i rami innestati provenienti dalle nazioni. Per que-
sto il contenuto centrale del chiasmo è ripreso con l'esortazione a restare nella
benevolenza di Dio, altrimenti egli non esiterà a recidere anche i rami appena in-
nestati. In pratica, « restare nella benevolenza» divina equivale alla perseveranza
della fede (v. 20) in Cristo: con questa dinamica dello « stare » e del «rimanere»,
Paolo sembra anticipare l'altra bella metafora della vite e dei tralci, descritta in Gv
15,1-11 . In questo dialogo con l'interlocutore fittizio dei rami innestati si coglie
318

la concezione dinamica e non statica che Paolo ha di Dio: egli è come un agricol-
tore che può recidere e innestare sullo stesso albero quando e come desidera.
[v. 23] Per quanto sia drammatica la situazione d'Israele, Paolo non conclu-
de la sua metafora prospettando la definitiva distruzione dei rami che sono stati
recisi, come invece ad esempio avviene con la metafora della vite in Gv 15,6: i
rami tagliati saranno raccolti per essere bruciati.
Per assurdo e al di fuori di ogni logica agraria ma anche umana, Dio è capace
di reinnestare i rami naturali che sono stati tagliati dalla radice d'Israele. Tale ca-
pacità (dynatos) corrisponde alla potenza (dynamis) del vangelo per la salvezza di
chiunque crede (cfr. Rm 1,16) . L'unica condizione richiesta è che questi rami
319

non permangano nell'incredulità, ossia nelrifiutodella fede in Cristo. Dunque, per


quanto si possa pensare a un reinnesto determinato dalla potenza e dalla volontà di

316 L'accoglienza o ilrifiutodel vangelo determinano per Paolo l'affermazione o la negazione della be-
nevolenza divina (chrèstotés); per questo la ricchezza della benevolenza divina (cfr. Rm 2,4) sembra inter-
rompersi di fronte alrifiutodi Cristo. Ma questa interruzione non è che momentanea e in funzione della defi-
nitiva affermazione della benevolenza divina verso coloro che nel tempo presente non accolgono il vangelo.
317 II sostantivo apotomia compare soltanto in questo verso per il greco biblico: cfr. anche l'avverbio
apotomòs (severamente) per le relazioni umane in 2Cor 13,10; Tt 1,13.
3,8 Vedi la connessione tra il verbo epimenein (restare su...) di Rm 11,22.23 e il verbo menein (resta-
re) di Gv 15,4.5.6.7.10.
319 Così anche R. Hvalvik, A « Sonderweg » for Israel: A Critical Examination of a Current
Interpretation of Romans 11.25-27, in JSNT 39 (1990) 91; T.R. Schreiner, Romans, p. 612.
392 Traduzione e commento
Dio, è bene non dimenticare che queste hanno come orizzonte storico-salvifico
non una generica fede ma la fede in Cristo che si trova all'origine e all'epilogo di
qualsiasi permanenza e innesto che Dio ha realizzato e compirà nella storia.
[v. 24] Nell'introduzione alla metafora dell'ulivo abbiamo sottolineato che la
chiave di comprensione della pericope si trova nel v. 24. Attraverso un nuovo ar-
gomento a fortiori (cfr. anche quello del v. 12), Paolo riconduce la metafora del
paradosso al suo processo naturale: secondo il procedimento naturale dell'inne-
sto, i rami dell'olivastro sono stati tagliati dal loro albero ma, diversamente dallo
stesso procedimento, sono stati innestati sull'ulivo buono per diventare fecondi.
Dunque, Paoloriconosceche l'intera metafora si regge su un inconcepibile prin-
cipio di agronomia sia perché i rami recisi dall'olivastro dovrebbero essere di-
strutti, in quanto inutili, sia perché sono innestati sull'ulivo buono . L'assurdità 320

del processo non si trova soltanto nella fase dell'innesto ma anche nell'originaria
utilizzazione dei rami dell'olivastro. Paolo staribadendoil percorso assurdo della
giustizia, descritto in Rm 9,30-31: i gentili che non perseguivano la giustizia
l'hanno ottenuta in base alla fede.
Se Dio è capace di compiere tale processo, sarà capace anche di reinnestare
i rami buoni nell'albero buono originario: e questo procedimento avviene sempre
in forza di quella radice alla quale appartengono i padri e gli israeliti che hanno
aderito al vangelo. Ciò che accomuna l'ulivo buono, l'olivastro e i relativi rami,
è che Dio non distrugge né l'uno né l'altro, anche se nel tempo presente egli si
mostra benevolo con l'uno e severo con l'altro. Rimane il principio argomentati-
vo dimostrato in Rm 1,18 - 3,20: del vangelo fa parte, almeno quanto a dimostra-
zione, non soltanto la bontà di Dio ma anche la sua severità; e quest'ultima è in
atto perché dipende dall'accoglienza o dal rifiuto della fede in Cristo. Ma anche
la severità non è l'ultima Parola di Dio perché, in definitiva, egli non intende di-
struggere alcun ramo dell'ulivo e dell'olivastro.
Il mistero (11,25-36). - Con l'annuncio del mistero si conclude Rm 11 e la
grande unità letteraria di Rm 9,1 - 11,24: attraverso un linguaggio e alcune cate-
gorie apocalittico-sapienziali, Paolo si accinge a evidenziarne il contenuto. Nel-
l'analisi di questi versi è particolarmente importante la delimitazione della perico-
pe, perché è collegata alla natura e alle prospettive del mistero. Se l'inizio del pa-
ragrafo trova tutti concordi, a causa della formula introduttiva, tipicamente paolina
«Non voglio che ignoriate, fratelli... », generalmente la conclusione è collocata al
v. 32 a causa della sua natura assiomatica . Questa delimitazione sarebbe confer-
321

mata dalla natura prosaica dei vv. 25-32rispettoa quella innica dei vv. 33-36.

320 Anche se, come ritiene M. Hartung, Gleichnisse, pp. 131-139, Paolo conoscesse il procedimento
primario e quello secondario dell'innesto per l'ulivo e per l'olivastro, attestato nei trattati di Teofrasto e
di Columella, il problema si trova non nell'applicazione di entrambi i procedimenti ma nell'assurdità di un
modo naturale di innestare sull'ulivo buono, mentre Paolo non dice mai che i rami buoni saranno innesta-
ti sull'ulivo dell'olivastro.
321 Per la distinzione delle due pericopi cfr. S.P. Carbone, Misericordia, pp. 70-75; J.A. Fitzmyer, Ro-
mani, pp. 733-734; 750-751; H. Schlier, Romani, pp. 545-546,557. A sua volta, T.R. Schreiner, Romans, pp.
624, 631 distingue i vv. 28-32 dai vv. 25-27 e dai vv. 33-36.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 393
Pur riconoscendo la diversità dei generi tra queste due parti, non è detto che
siano separate; anzi, dobbiamo rilevare che senza l'inno finale (vv. 33-36) la co-
noscenza del mistero sembra ben definita erinchiusanella storia, perdendo quella
dimensione di eccedenza che le appartiene; per inverso, senza la parte descrittiva
del mistero (vv. 25-32), quella innicarischiadi diventare una semplice appendice
sull'onnipotenza di Dio, di matricefilosoficapopolare . Se, come vedremo, ap- 322

partengono al mistero paolino gli orizzonti apocalittici e sapienziali della storia, i


vv. 25-32 non possono essere separati dai vv. 33-36 come invece si ritiene gene-
ralmente . L'unità dei vv. 25-36 è confermata dalla ripresa del mistero in Rm
323

16,25-27 in cui Paolo sembra sintetizzare, con la novità dell'esplicitazione cristo-


logica, non soltanto Rm 11,25-32 ma anche Rm 11,33-26.
Se dal versante del genere il mistero paolino è descritto secondo il linguag-
gio tipico del filone apocalittico-sapienziale del giudaismo anticotestamentario e
paratestamentario, da quello retorico i vv. 25-36 sintetizzano la sezione di Rm 9,1
- 11,24, riprendendo, come perorazione, le fila principali della dimostrazione . 324

[vv. 25-26a] Un elemento caratteristico della conoscenza del mistero divino è


rappresentato dalla presenza dei verbi dirivelazione,come apokalyptein (rivelare,
cfr. Rm 16,25.26) ephaneroun (manifestare, cfr. Col 1,26) , ai quali è relaziona- 325

to anche il verbo «conoscere» (gnòrizein, cfr. Ef 1,9; 3,3). Non è un caso che la
prima (vv. 25-32) e la seconda parte (vv. 33-36) della descrizione del mistero sia-
no introdotte da due termini di conoscenza: « Non voglio che ignoriate... » (v. 25);
« ...la conoscenza di Dio » (genitivo soggettivo) (v. 33). Da una parte, Paolo si ap-
presta a far conoscere il mistero divino , dall'altra non può non riconoscere la
326

profondità e quindi l'eccedenza della conoscenza che Dio ha per noi . 327

Ciò che Paolo intende far conoscere ai suoi destinatari, interpellati come « fra-
telli » , è il mistero (al singolare) , senza specificazioni, se « di Dio » o « di Cri-
328 329

322Devo alle caratterizzazioni del mistero nel bel saggio di R. Penna, Il « mysterion » paolino. Traiettoria
e costituzione, Brescia 1978, la ragione per la qualeritengounitari i vv. 25-36, anche se l'autore da una parte
considera Rm 11,25 ss. come non significativo per la rilevanza teologica del mistero e dall'altrariconosceche
in questi versi l'attenzione alla relazione tra i giudei e i gentili anticipa il mistero in Colossesi e in Efesini (p.
16). Per Rm 11,33-36 come semplice appendice di Rm 11 cfr. S.P. Carbone, Misericordia, p. 66.
323Per la compresenza di elementi apocalittici e sapienziali in Rm 9-11 vedi l'introduzione alla sezione.
324Da questo punto di vista, la nostra disposizione è leggermente diversa da quella di J.-N. Aletti,
Romani, pp. 55-59, che considera come parte delle prove Rm 11,25-32 distinguendoli dai vv. 33-36. A cau-
sa della mancanza d'interruzione reale tra le due parti e per la natura del « mistero » che non può essere ad-
dotto come prova, riteniamo che l'intera microunità di Rm 11,25-36riguardila rivelazione del mistero e
rappresenti la perorazione di Rm 9-11. Più avanti, lo stesso J.-N. Aletti, Romani, pp. 175-176, ha ben di-
mostrato come i vv. 25-32 raccolgano gli elementi fondamentali della sezione.
325Così R. Penna, Mysterion, pp. 27-28.
326Spesso Paolo introduce nuove sezioni argomentative con la formula « Non voglio che ignoriate »
che, dal versante retorico, figura come una litote da rendere con il positivo: « Desidero farvi conoscere »
(la formula più vicina alla nostra è quella di ICor 10,1 in cui c'è anche l'interpellante «fratelli»; cfr. co-
munque anche le simili espressioni introduttive di Rm 1,13; ICor 12,1; 2Cor 1,8; lTs 4,13). Erroneamente
E Refoulé, Israël, p. 75, ritiene che questa formula introduttiva di carattere epistolare non si trovi dopo i
saluti iniziali delle lettere paoline: cfr. invece proprio Rm 1,13.
327 Quest'aspetto tipico del mistero «apocalittico-sapienziale» è posto ben in risalto da R. Penna,
Mysterion, pp. 83-84, anche se in relazione a Colossesi ed Efesini e non a Rm 11,25-36.
328 Cfr. le precedenti interpellanze con «fratelli» in Rm 1,13; 7,4; 8,12; 10,1.
329 II sostantivo mysterion si trova 28 volte nel NT, di cui 20 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 11,25;
ICor 2,13; 4,1; 13,2; 14,2; 15,51; Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19; Col 1,26.27; 2,2; 4,3;2Ts2 7; lTm 3,9.16; cfr.
r
394 Traduzione e commento
sto » °, anche se dai versi successivi si coglie la prospettiva eminentemente teologi-
33

ca del mistero . Per il background, è importante sottolineare le differenze rispetto


331

alla letteratura gnostica e ai culti misterici, altrimenti si rischia di fraintendere la spe-


cificità della concezione paolina del mistero. Di fatto, se per queste fonti, che parla-
no spesso di « misteri », al plurale, questi si relazionano all'arcano e alla sfera intel-
lettualistico-cultale o sacrale, con quasi nessuna incidenza storica ed etica , per 332

Paolo il mistero è profondamente radicato nella storia e, soprattutto, non è legato al-
la fatalità delle vicende umane bensì allarivelazionedi un preciso disegno divino . 333

Invece, sembrano più significativi i contatti con i livelli più recenti della LXX,
in particolare con l'apocalittica di Daniele , con il giudaismo apocalittico interte-
334

stamentario e con la letteratura qumranica . Così scrive l'autore dell 'Apocalisse


335 336

di Baruch: « E il Potente fece secondo la moltitudine della sua misericordia... e mi


ha fatto conoscere i misteri dei tempi e mi ha mostrato l'avvento dei momenti»
{Ap. Bar. 81,4). Da tale retroterra emerge larispondenzatra il mystërion (aramaico
râz) e il disegno divinorivelatonella storia, secondo una tensione apocalittica e sa-
pienziale; ed è propria del mistero nel giudaismo apocalittico, come nell'epistola-
rio paolino, la tensione verso la conoscenza universale del disegnorivelatoda Dio
ai suoi eletti. La ragione per la quale Paolo si propone di far conoscere « questo mi-
stero » si trova nel vanto che gli etnico-cristiani possono nutrire verso la maggior
parte d'Israele che non ha creduto al vangelo . 337

Segue la descrizione contenutistica del mistero che anche se, strettamente


338

parlando, è espressa nei vv. 25b-26a ed è confermata dalla successiva citazione

anche Mt 13,11; Me 4,11; Le 8,10; Ap 1,20; 10,7; 17,53). Per i contributi più recenti al «mistero» nell'e-
pistolario paolino, oltre al sempre valido contributo di Penna, cfr. J.-N. Aletti, Sagesse et mystère chez Paul,
in ACFEB, La Sagesse biblique de l'Ancient au Nouveau Testament, Paris 1995, pp. 357-379; P.T. O' Brien,
Mistero, in Dizionario di Paolo, pp. 1032-1035; C. Reynier, Evangile et mystère: les enjeux théologiques de
l'épître aux Ephésiens, Paris 1992.
330 Cfr. il «mistero di Dio» in ICor 2,1; 4,1; cfr. anche Col 2,2; il «mistero di Cristo» in Ef 3,4; il
« mistero del vangelo » in Ef 6,19.
331 Se prescindiamo dairiferimentiimpliciti a Gesù Cristo, nei vv. 25-36 tutto èricondottoa Dio (cfr.
theos nei vv. 29.30.32.33).
332 Per la letteratura gnostica cfr. Corpus Hermeticum 1,16; cfr. anche Filone, Gigantibus 54;
Sacrificiis 62; Allegoriae 17,3,100.
333 Così anche R. Penna, Mystërion, pp. 17-18.
334 Ciriferiamoin particolare a Dn 2 in cui il sostantivo mystërion compare 7 volte su 20 della LXX
(cfr. Dn 2,18.19.27.28.29.30.47). Le altre 13 referenzeriguardanocomunque fonti tardive (cfr. Gdt 2,2; Tb
12,7.11; 2Mac 13,21; Sap 2,22; 6,22; 14,15.23; Sir 22,22; 27,16.17.21). Per l'origine giudaico-apocalitti-
ca del mistero paolino cfr. R. Penna, Mystërion, pp. 19-20; F. Refoulé, Israël, pp. 76-77; T.R. Schreiner,
Romans, p. 613.
335 Cfr. Ap. Bar. 81,3-4; 85,10; lEn 48,6-7; 62,7; 4Esd 10,38-39; 14,5.
336 Cfr. 1QS 3,20-23; 11,34.19; 7 9,23-24; lQHfr 3,7; 1QM 14,14; 16,11; 17,9; IQpHab 1,1-8.13-
14; 1Q 27 1,3-4.
337 La situazione testuale del v. 25b non è sicura perché la particella para non è attestata in tutti i codi-
ci; e poiché « la lezione più breve e più diffìcile è da preferire », è meglio lasciare il testo senza para. In Rm
12,16 si trova l'espressione analoga con para'. «...Non autoesaltatevi» {me ginesthe phronimoipar'heau-
tois). Nel nostro caso, l'ultima edizione critica di N-A pone para fra parentesi. Così anche F. Refoulé,
27

Israël, pp. 77-78. Per la natura preventiva contro il motivo del vanto, espressa attraverso il dialogo con l'in-
terlocutore fittizio, vedi il nostro commento a Rm 11,18-19.
338 L'hoti che introduce il contenuto del mistero è recitativo, corrispondente ai due punti e non anche
epcsegetico, come invece ritengono S.P. Carbone, Misericordia, pp. 70-72, e F. Refoulé, Israël, p. 71; cfr.
la stessa funzione di hoti in Rm 1,13 mentrerisultadiversa da quella che svolge in lTs 4,16.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 395
dell'AT (vv. 26-27), riguarda tutto ciò che Paolo dirà sino alla conclusione (v.
36). Il contenuto principale del mistero riguarda gli avvenimenti della storia del-
la salvezza, rivelati e guidati da Dio: l'indurimento d'Israele, riconducibile alla
volontà divina, è temporaneo e durerà fin quando entrerà la pienezza dei gentili;
così tutto Israele sarà salvato.
Prendendo in esame le singole parti di questarivelazioneè fondamentale evi-
denziare che tutti i verbi dei vv. 25b-26a sono al passivo e hanno una valenza teo-
logica: Dio ha fatto indurire Israele (gegonen), « farà entrare » (eiselthé) la pienez-
za dei gentili e salverà (sóthésetai) tutto Israele. Innanzi tutto, il mistero si riferi-
sce all'indurimento d'Israele; e da questo punto di vista si potrebbe restare delusi,
perché Paolo ha già parlato dell'indurimento (pórósis) di molti israeliti (cfr. Rm
11,7) , preparato dalla sclerosi di Rm 9,18. Laripresadi questa tematica, come di
339

quelle dimostrate nelle sezioni precedenti, conferma che non abbiamo a che fare
con una nuova prova, soprattutto perché, in quanto tale, la natura stessa del miste-
ro non costituisce un'attestazione valida per qualsiasi discorso persuasivo, ma con
una perorazione retorica cheriprendequanto è stato dimostrato in precedenza, per
aggiungere i nuovi elementi sul mistero.
Dunque, accanto allaripresadell'indurimento parziale d'Israele c'è la novità
della sua temporalità: sino a quando sia fatta entrare la pienezza dei gentili . 340

Anche questa tematica è stata preparata da Rm 11,11-16, in cui Paolo ha previsto


la temporaneità e la funzionalità della caduta d'Israele, ma non in modo esplicito
e soprattutto senza relazione con la pienezza dei gentili . La funzionalità della re-
341

lazione tra Israele e i gentili in Rm 11,11-16 ora diventa cronologica. La pienez-


za dei gentili dovrà entrare in relazione con quella che Paolo ha definito la radice
d'Israele, composta dai padri e dagli israeliti che hanno creduto al vangelo.
Per il senso della pienezza dei gentili, anche se a prima vista potrebbe far pen-
sare a « tutti i gentili », il contesto apocalittico del mistero orienta verso il raggiungi-
mento del numero che Dio ha scelto, appunto la sua pienezza . Comunque, tale 342

compimento quantitativo rientra nel modello apocalittico del paragrafo, perché di


fatto la pienezza dei gentili può corrispondere a tutti i gentili, come la pienezza degli
israeliti puòriferirsia tutti gli ebrei: solo Dio conosce la misura di questa pienezza!
L'uso assoluto del verbo «entrare» è significativo: Paolo non precisa dove

339 Alla luce di Rm 11,7 l'espressione = apo merous ha valore quantitativo: si riferisce a « una par-
te » d'Israele e non ha valore cronologico (una parte di tempo). D'altro canto, questo è il significato prin-
cipale e generale di apo merous nell'epistolario paolino (cfr. Rm 15,15; 2Cor 1,14; 2,5) e nella LXX (cfr.
Nm 34,3; Gs 18,5.20; Gdc 18,2; IRe 6,24; Ne 7,70), con l'unica eccezione cronologica di Rm 15,24. A fa-
vore della valenza quantitativa c'è la connessione con la pienezza dei gentili, mentre la dimensione crono-
logica è ben espressa da achri (« fin quando »).
340 II verbo eiserchomai (entrare) si trova raramente nell'epistolario paolino (cfr. Rm 5,12; ICor
14,23.24); nella LXX è utilizzato spesso per evocare l'esodo dall'Egitto (cfr. Dt 4,1.21; 8,1; 11,8; Sai
104,23; Ger 41,10).
341 Con buona pace di R.H. Bell, Jealousy, p. 127, che riduce il mistero paolino alla semplice sintesi
di quanto detto in Rm 11. Si può notare come Paolo crei una connessione tra la « pienezza degli israeliti »
(Rm 11,12) e quella « dei gentili » (Rm 11,25).
342 Cfr. le analoghe espressioni con il linguaggio della «pienezza» in Ap 6,10-11; 4Esd 4,35-42; Ap.
Bar. 23,5; 70,1-2. Così anche F. Refoulé, Israël, p. 85.
396 Traduzione e commento
debbano entrare «tutti i gentili», se nel regno di Dio, nella Chiesa, o nell'allean-
za, o più semplicemente «in Cristo». Tutte queste interpretazioni sono possibili
ma il contesto immediato lascia pensare all'ingresso dei gentili in quella che me-
taforicamente Paolo ha denominato la radice dell'ulivo, ossia in relazione ai padri
e al resto d'Israele che ha aderito al vangelo.
Nell'ultima parte del contenuto specifico del mistero, Paolo torna a porre l'at-
tenzione su Israele, sottolineando che « tutto Israele sarà salvato » . Nel suo saggio,343

F. Refoulé perviene alla conclusione che «tutto Israele» non si riferisce all'Israele
etnico ma soltanto a quello eletto, al quale è relazionata la « pienezza eletta dei gen-
tili » . Intanto, è opportuno precisare che, se l'espressione « tutto Israele » compare
344

soltanto qui nel NT, è diffusa nella LXX per designare l'Israele etnico e quello elet-
to, giacché questa distinzione non appartiene all'AT . Inoltre, uno dei vettori co-
345

stanti che attraversa Rm 9-11 è la distinzione tra i gentili e Israele: i gentili sono rap-
portati a Israele, sono innestati sulla sua radice ma non diventano né sostituiscono
Israele che, per Paolo,rimaneil « popolo » che Dio ha preconosciuto. Abbiamo pro-
posto la stessa interpretazione per Gal 6,16: l'Israele di Dio è distinto da coloro che
seguono la norma paolina, identificati con quanti hanno accolto il suo vangelo . 346

Anche il contesto argomentativo di Rm 11,1-24 orienta decisamente verso


l'Israele etnico che, di fatto, è anche eletto: Dio non lo haripudiato,lo ha induri-
to temporaneamente e in funzione dell'ingresso dei gentili, ma non lo ha sostitui-
to con il resto o con quanti hanno aderito al vangelo, per cui soltanto quest'ultimo
sarà salvato. Si fosse trattato soltanto dell'Israele eletto che non è anche etnico,
non sarebbe stato necessario dimostrare l'indurimento parziale e temporaneo
d'Israele: questo sarebbe stato definitivo! Senza il riferimento all'Israele etnico
che è anche eletto, il mistero paolino sarebberidottosoltanto alla scansione stori-
ca degli eventi e non a una rivelazione sostanziale: che mistero o disegno divino
sarebbe? Persino l'annuncio della salvezza per tutto Israele sarebbe quasi pleo-
nastico, perché gli ebrei e i gentili che hanno creduto in Cristo sperimentano già
la salvezza; sarebbe in questione soltanto la sua piena realizzazione! Di fatto «in
vista della speranza siamo stati salvati » (cfr. Rm 8,24) . 347

In definitiva, se non si fosse trattato di tutto Israele, comprensivo del resto e


di coloro che non hanno aderito al vangelo , Paolo non avrebbericonosciutoche
348

343 Anche se l'espressione kai outôs puòrisultarecronologica (= e soltanto dopo), come sostiene P.W.
van der Horst, Only then will ali Israel be saved: A Short note on the meaning ofkai outôs in Romans 11:26,
in JBL 119 (2000) 521-525, in base ai paralleli extrapaolini, l'uso paolino in Rm 5,12; lTs 4,17; ICor 7,17;
11,28; Gal 6,2 lascia propendere per il suo valore modale. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 739.
344 Cfr. F. Refoulé, Israël, pp. 179-181. Così anche H. Ponsot, «Et ainsi tout Israël sera sauvé»:
Rom. XI,26a, in RB 89 (1982) 406-417; N.T. Wright, Covenant, pp. 246-251; Id., The New Testament and
the People ofGod, I, Christian Origins and the People ofGod, Minneapolis 1992, pp. 236-246.
345 Cfr. Es 18,25; 40,38; Dt 1,1; 5,1; 31,7; lEsd 8,7. Forse questo è il punto più debole dell'analisi di
Refoulé: l'aver inserito nella valutazione di pas Israël della LXX una distinzione che non c'è perché
l'Israele etnico è anche eletto. Piuttosto, questa è una distinzione che Paolo ha stabilito in Rm 9,6b-7, per
le ragioni che abbiamo indicato nell'analisi del testo.
346 Cfr. A. Pitta, Galati, pp. 404-405.
347 Cfr. anche ICor 1,21 e con gli altri verbi della soteriologia paolina cfr. Rm 6,18; ICor 6,11; 2Cor
5,18; Gal 3,13. Per la dimensione passata della salvezza dei credenti cfr. A. Pitta, Paradosso, pp. 320-321.
348 Così anche J.-N. Aletti, Romani, pp. 178-180; R.H. Bell, Jealousy, pp. 137-139; D.J. Moo,
Romans, pp. 720-721; T.R. Schreiner, Romans, p. 615.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 397
gli israeliti increduli sono nemici e, nello stesso tempo, « diletti secondo l'elezio-
ne a causa dei padri » (v. 28). Un altro problema sarà come conciliare quest'assi-
milazione tra elezione ed etnia in Rm 11 con la distinzione che Paolo stesso ha
compiuto in Rm 9,6b tra Israele e Israele: si potrà al massimo considerare Paolo
come contraddittorio - problema che affronteremo alla fine della nostra analisi -
ma con l'attribuzione di tutto Israele soltanto agli eletti che hanno creduto in
Cristo si rischia di banalizzare il mistero che, a ben vedere, non sarebbe più tale.
Dunque, del mistero che Paolo annuncia ai destinatari della lettera non fa parte
soltanto la scansione storica dell'indurimento di una parte d'Israele e dell'ingres-
so dei gentili ma anche, se non principalmente, l'annuncio di una salvezza opera-
ta da Dio per «tutto Israele» che rimane misteriosamente, nello stesso tempo,
eletto ed etnico.
[vv. 26b-27] A conferma del contenuto fondamentale del mistero, Paolo cita
la Scrittura e, in particolare, gli oracoli di Is 59,20-21 e di Is 27,9 . Prima di ana- 349

lizzare queste citazioni è benerilevareche non è la Scrittura, in quanto tale, a es-


sere lo strumento o la base del mistero ma il mistero costituisce la ricomprensio-
ne della Scrittura, altrimenti non avremmo alcuna novità rivelativa . In pratica, 350

il mistero, corrispondente al disegno salvifico di Dio per tutto Israele e per i gen-
tili, permette di rileggere in modo nuovo la Scrittura che Paolo sta per citare . 351

Nella prima parte, la citazione corrisponde, globalmente a Is 59,20-21 che


così recita: «E uscirà davanti a Sion il liberatore e toglierà le empietà da Gia-
cobbe; e questa sarà la mia alleanza con loro » (LXX) . Dal confronto con la
352

LXX si può notare che Paolo non dice «davanti (heneken) a Sion», ma «da
Sion » (ek), forse per sottolineare che da Israele si realizza anche la fase escatolo-
gica della storia. Nella seconda parte, è estrapolata un'espressione dell'oracolo di
Is 27,9 (LXX) e collegata a quello di Is 50,20-21: « ...Quando toglierò il suo pec-
cato ». Per armonizzare le due citazioni, Paolo non parla del « suo peccato » ma
dei « loro peccati ». Non è facile stabilire su quale aspetto delle due citazioni cade
l'accento: su Sion, sul liberatore, sull'empietà di Giacobbe o sull'alleanza futura?
Forse un indizio è offerto dalla connessione tra Is 50,20-21 e Is 27,9, vale a dire
dalla corrispondenza tra le loro « empietà » (asebeias) e i loro « peccati » (hamar-
tias) che in Is 50,20 e in Is 27,9 sono attribuiti a Giacobbe . Di fatto, il mistero
353

349 Come spesso, la citazione diretta è introdotta dalla formula «come sta scritto» (cfi Rm 9,33;
10,15; 11,8).
350Così anche J.-N. Aletti, Israël, pp. 250-252.
351Per dimostrare larilevanzanegativa della purificazione escatologica di Israele, F. Refoulé, Israël,
pp. 112-133, preferisce trasferire il contesto originario di Is 59,27 in Rm 11, ignorando il contesto positi-
vo di Rm 11,25-32 che avrebbe meritato maggiore attenzione. Non si può misconoscere che nella mag-
gioranza dei casi, Paolo si riferisce all'AT estrapolando le citazioni dal loro contesto per conferirne uno
nuovo. Circa l'origine dell'oracolo composito, come per gli altri casi, preferiamo non attribuirla a una fon-
te prepaolina, come invece sostiene C.D. Stanley, Paul, pp. 121-126, ma a Paolo stesso. Così anche D.-A.
Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangeliums: Untersuchungen zur Verwendung und zum Verständnis der
Schrift bei Paulus, Tübingen 1986, p. 177; T.R. Schreiner, Romans, p. 619.
352II TM corrisponde alla LXX tranne per l'inserzione della formula « oracolo del Signore ».
353La relazione semantica tra le «empietà» e i «peccati» dimostra che ci troviamo nuovamente di
fronte a una gezerah shawah: sono i termini che creano l'isotopia delle due citazioni.
398 Traduzione e commento
che annuncia l'indurimento temporaneo d'Israele (v. 25) è confermato con la li-
berazione dalle empietà e dai peccati di Giacobbe.
Non è un caso che Rm 9-11 si apra e si chiuda con ilriferimentoa Giacobbe
(cfr. Rm 9,10-13; 11,26): lo stesso Giacobbe, eletto originariamente al posto di
Esaù, vive nel presente il dramma dell'indurimento o dell'empietà; ma proprio
per esso è annunciata la liberazione. Giacobbe non può non essere tutto l'Israele
che in Rm 9 è eletto, in Rm 11,1-24 si trova nella condizione dell'indurimento e
al quale in Rm 11,25-27 è annunciata la liberazione, a conferma che anche se non
tutto Israele è Israele, nulla toglie che l'Israele etnico sia anche eletto.
Dalla connessione tra il mistero e la citazione composita dipendono anche
l'annuncio del liberatore da Sion e ilristabilimentodell'alleanza. Circa l'identità
del liberatore, siriferiscea Gesù Cristo, a Dio o a entrambi? Se la questione è spo-
stata nel dialogo attuale con le altre religioni il problema diventarilevante,perché
nel caso si trattasse di Cristo, Paolo sembra ricondurre anche la salvezza finale
d'Israele alla relazione con lui. Invece la prospettiva propriamente teologica la-
scerebbe aperte le porte per la salvezza d'Israele e di coloro che non credono in
Cristo. In realtà, quando l'oracolo di Is 59,20-21 è spostato in quest'orizzonte, si
cade in un falso problema perché per Paolo i liberatori sono sia Dio sia Cristo, an-
zi,riprendendoil grido di disperazione di Rm 7,24, è Dio per mezzo di Cristo. Se
per noi l'identificazione del liberatore è diventata quasi un dilemma tra Dio o
Cristo, in vista della salvezza di quanti non credono al vangelo, per Paolo non c'è
differenza perché Dio per mezzo di Cristo ci ha giustificati e ci salverà; e non bi-
sogna dimenticare che « Dio giudicherà tutti gli uomini per mezzo di Gesù Cristo »
(cfr. Rm 2,16). D'altro canto, Paolo attribuisce il verbo rhuesthai (liberare con for-
za) a Dio (cfr. 2Cor 1,10; Col 1,13) e a Cristo (cfr. lTs 1,10; 2Ts 3,2).
Stabilite queste precisazioni, è benericonoscereche il contesto di Rm 11,1-36
non parla mai esplicitamente di Cristo ma sempre di Dio; e che, nello stesso tempo,
nell'immediato v. 22 l'incredulità dei rami che sono stati tagliati si riferisce alla
mancanza di fede in Cristo e non in Dio. Questo duplice orizzonte lascia aperte le
possibilità per l'identificazione del liberatore; molto probabilmente Paolo pensa a
Dio per mezzo di Cristo . Un collegamento, altrettanto significativo, si trova nella
354

relazione tra l'alleanza promessa nella citazione di Is 59,21 e le « alleanze » elencate


in Rm 9,4-5. Adesso non è in questione un'alleanza diversa che rende abrogata l'an-
tica ma un'alleanza che porta a compimento le alleanze stabilite da Dio con Israele . 355

[v. 28] Purtroppo spesso, quando è analizzato il mistero in Rm 11, ci si limita


ai vv. 25-26 o, al massimo, si perviene all'analisi delle citazioni addotte da Paolo,
mentre ci sembra importante includere anche i versi successivi che dimostrano co-
me la pericope di Rm 11,25-36 rappresenti, nello stesso tempo, la perorazione re-

354 Da parte sua, F. Refoulé, Israel, p. 112, attribuisce la prima parte dell'oracolo, sull'intervento
escatologico, a Gesù Cristo e la seconda, sul ristabilimento dell'alleanza, a Dio. L'ipotesi è possibile ma
non bisogna dimenticare che anche l'intervento escatologico e il ristabilimento dell'alleanza sono ricon-
dotti all'azione di Dio per mezzo di Cristo. Per l'identificazione cristologica del liberatore cfr. anche T.R.
Schreiner, Romans, p. 616.
355 Per la questione dell'alleanza revocata o meno a Israele vedi la conclusione teologica della sezione.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 399
torica di Rm 9,1 - 11,24. Una maggiore attenzione all'intreccio argomentativo di
Rm 9-11 avrebbe evitato molte discussioni sull'identità di tutto Israele in Rm
1 l,26a. Così, gli israeliti, definiti come « nemici », secondo il vangelo, e diletti, se-
condo l'elezione, a causa dei padri, non possono essere coloro che fra essi hanno
aderito al vangelo ma quanti non hanno obbedito al vangelo (cfr. Rm 10,16) e che,
tuttavia, condividono sempre la stessa elezione dei padri e di coloro che apparten-
gono al resto, come dimostra la composizione parallela del v. 28 . Essi sono rico- 356

nosciuti come nemici, senza ulteriori specificazioni, se di Paolo, della croce di Cri-
sto (cfr. Fil 3,18), di Dio o dei gentili che pretendono di essere entrati nel popolo
dell'alleanza. Come si può osservare, gli orizzonti relazionali dell'inimicizia sono
molteplici; e gli israeliti possono essere visti come nemici in senso passivo o atti-
vo, anche se la corrispondenza con il termine eletti orienta verso il valore passivo
di echthroi. Forse l'inimicizia vale in particolare per Paolo stesso che, con la sua
predicazione, permette l'ingresso dei gentili nel popolo dell'alleanza, senza ri-
chiedere la minima osservanza della Legge mosaica.
Anche seritenessimooriginali le invettive di lTs 2,14-16, Paolo non esita a
ribadire l'inimicizia di quelli che chiama semplicemente come «giudei»; ma se,
nell'invettiva di lTs 2, l'ira divina è descritta in termini definitori, ora la rivela-
zione del mistero gli ha permesso di comprendere che ci sarà un tempo in cui per
tutto Israele l'ira sarà superata dalla salvezza finale . In modo visibilmente con-
357

trastante, per coloro che identificano « tutto Israele » soltanto con quello eletto che
ha creduto al vangelo, Paolo definisce tutti gli israeliti come « diletti », secondo
l'elezione, a causa dei padri. Nello stesso tempo, sorprende che prima abbia di-
stinto Israele da Israele, per sottolineare il principio dell'elezione (cfr. Rm 9,6b-
29) e ora consideri globalmente gli israeliti come eletti. Non si può che optare per
la contraddizione e l'inconsistenza del pensiero paolino o per la polisemia del so-
stantivo eklogè; e poiché questo non è un elemento secondario ma fondamentale
della sua argomentazione, se ci trovassimo di fronte a una contraddizione, l'inte-
ra dimostrazione di Rm 9-11 sarebbe inutile! Riprenderemo alla fine dell'analisi
questa problematica, intanto è bene riconoscere che Paolo attribuisce a tutti gli
israeliti l'elezione e la benevolenza di Dio e non soltanto a quelli che hanno cre-
duto al vangelo; anche quest'orizzonte rientra nella novità del mistero . 358

L'elezione è fondata sui padri, su uno dei privilegi che Paolo ha elencato in
Rm 9,4-5, ricollegando, ancora una volta, questa perorazione alla sezione di ap-

356 L'interpretazione di F. Refoulé, Israël, pp. 197-199, di questa espressione è insostenibile perché
attribuisce l'inimicizia all'Israele eletto e abbassa la sua consistenza identificandola con l'indurimento. Se
riconosciamo che sia possibile, a causa del parallelismo, considerare « nemici » in senso passivo, ossia che
Dio li ha resi nemici, l'attribuzione è più intensa dell'indurimento.
357 Questo è uno degli aspetti più tensionali dell'epistolario paolino, ma considerarlo come contrad-
dittorio significa non tener conto dell'evoluzione del pensiero paolino e supporre che le situazioni che han-
no generato le sue lettere siano omogenee e immutabili. Non è necessario ricorrere alla distinzione tra
l'Israele elettivo e gli altri israeliti per superare la contraddizione tra lTs 2 e Rm 11, come invece pensa F.
Refoulé, Israël, pp. 27-28.
358 Altrove Paolo utilizza l'appellativo « diletti » soltanto per coloro che hanno creduto in Cristo (cfr.
Rm 1,7; 12,19; 16,5.8).
400 Traduzione e commento
partenenza. Come poi si possa ancora essere eletti a causa dei padri se molti ebrei
sono stati staccati dalla loro radice, questo appartiene non alle contraddizioni pao-
line ma all'eccedenza del mistero che né Paolo né altri possono risolvere!
[v. 29] Paolo stesso non esita a delineare la ragione (gar) per la quale gli ebrei
che non hanno aderito al vangelo, pur non essendo temporaneamente legati alla
loro radice, sono eletti a causa di essa: i doni e la chiamata di Dio sono irrevoca-
bili! Giustamente alcuni hanno osservato che non è stato conferito il giusto peso
a questa lapidaria sentenza del mistero paolino ; e, quando lo si è fatto, si è pen-
359

sato a quanti hanno creduto in Cristo e non a Israele nella sua globalità. Invece,
anche se la proposizione paolina è assiomatica e generale, si riferisce principal-
mente agli ebrei che sono nemici e che non hanno creduto al vangelo; nell'irre-
vocabilità dei doni e della chiamata è contenuta la soluzione della tensione tra l'i-
nimicizia e l'elezione d'Israele . 360

La funzione retorica di questi versi, considerati come perorazione principa-


le della sezione, permette di comprendere che i doni irrevocabili di Dio si riferi-
scono ai privilegi elencati in Rm 9,4-5, in particolare, in base al contesto di Rm
11,25-36, all'alleanza (v. 27), ai padri (v. 28) e alla stessa identità degli israeliti
che sono tali in base all'elezione (v. 28) . Con grande capacità argomentativa,
361

dopo aver dimostrato l'origine gratuita dei doni (cfr. Rm 9,7-29), Paolo aggiun-
ge ciò che esplicitamente mancava ai privilegi d'Israele in Rm 9,4-5: la chiama-
ta, intesa come concretizzazione dell'elezione o della preconoscenza divina (cfr.
Rm 11,2). Soltanto ora, e in contesto apocalittico, Paolo riconosce la «chiamata
di Dio » per l'Israele incredulo; prima del mistero, tale attribuzione sarebbe stata
equivoca perché avrebbe ingenerato una concezione salvifica dell'elezione fon-
data sull'appartenenza etnica al popolo ebraico o sulle opere e non sulla grazia di
Dio (cfr. Rm 11,5-6).
[vv. 30-31] Nella perorazione finale di Rm 11,25-36 non manca la ripresa
del paradossale interscambio tra la situazione d'Israele e quella dei gentili, con
l'aggiunta della prospettiva sulla finale misericordia di Dio . Più che di un chia-362

smo, in cui Paolo passerebbe dalla misericordia alla disobbedienza (v. 30) per
giungere dalla disobbedienza alla misericordia , la lunga proposizione dei vv.
363

30-31 figura come un parallelismo ascendente, in cui al vertice si trova la pro-


messa della misericordia divina:
disobbedienza - misericordia - disobbedienza (v. 30);
disobbedienza - misericordia - misericordia (v. 31) . 364

359 Cfr. J. Sievers, « God's Gifts and Cali are irrevocable »: The Interpretation ofRom 11:29 and its
Uses (SBL SP 36), Atlanta 1997, pp. 337-357.
360 Così anche S.P. Carbone, Misericordia, p. 74.
361 L'aggettivo ametamelétos compare soltanto qui e in 2Cor 7,10 nel greco biblico; i paralleli del greco
profano, come Platone, Timeo 59d e Polibio, Historia 21,11,11, lasciano percepire che « irrevocabile » equi-
vale a « senza pentimento » o « senza rimpianto »: Dio non si è mai pentito dei doni e della chiamata d'Israele.
362 L'interscambio di questi versi riprende quello di Rm 9,30-31; 11,11-12.24.
363 Cfr. S.P. Carbone, Misericordia, p. 74.
364 II parallelismo è riconoscibile per una delle rare composizioni frastiche in cui Paolo è rispettoso
della stilistica greca: a ósper (come) corrisponde houtós (così) e a potè (una volta) corrisponde nyn (ora).
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 401
Il punto di partenza che accomuna i destinatari e gli ebrei è la disobbedienza
verso Dio, con la differenza che la disobbedienza dei destinatari è rimasta relega-
ta nel passato mentre quella degli israeliti prosegue sino al presente. Il secondo li-
vello del parallelismo è incentrato sulla misericordia divina per i destinatari della
lettera: « ...Vi è stata usata misericordia... per la vostra misericordia». Tuttavia si
può notare come, mentre nella prima parte Paolo sottolinea che Dio ha avuto mi-
sericordia dei destinatari, nella seconda evidenzia che la stessa misericordia per
loro rappresenta la ragione della disobbedienza degli israeliti.
L'ultimo livello procede dalla disobbedienza alla misericordia per gli israeli-
ti: l'attuale disobbedienza, come l'indurimento e la caduta, non è permanente ma
cederà il posto alla misericordia di Dio per tutto Israele. Dunque con il linguaggio
della disobbedienza e della misericordia, Paolo sta chiarendo ulteriormente il con-
tenuto del mistero del quale fa parte l'interscambio della situazione tra i gentili e
gli israeliti ma soprattutto la prospettiva finale della misericordia divina. Anche la
tematica della misericordia è uno dei principali vettori argomentativi che Paolo ha
trattato in Rm 9,13-23 e cheriprendein questa perorazione retorica . 365

[v. 32] La prima parte del mistero si conclude con la relazione tra la disob-
bedienza e la misericordia nel piano imperscrutabile di Dio. Se in Rm 1,18 - 4,25
Paolo ha seguito un percorso progressivo, dalla disobbedienza (cfr. Rm 1,18 -
3,20) alla giustificazione universale (cfr. Rm 3,21 - 4,25), ora disobbedienza e
misericordia sono descritte per la loro sincronia o compresenza e valgono, senza
distinzioni, per tutti. La disobbedienza che accomuna il passato di tutti lascia il
posto alla misericordia per tutti, senza distinzioni etniche o religiose . Il verbo 366

«rinchiudere» (sygkleiein) è stato utilizzato nell'espressione parallela di Gal


3,22-23 : « La Scrittura harinchiusotutte le cose sotto il peccato affinché la pro-
367

messa fondata sulla fede in Cristo fosse data a tutti» (Gal 3,22). Adesso la pro-
posizione paolina è più audace e, nello stesso tempo, meno chiara: « Dio ha rin-
chiuso tutti nella disobbedienza per essere misericordioso verso tutti ».
Dal punto di vista contenutistico, poiché la disobbedienza ha assunto una
connotazione cristologica nella citazione diretta di Is 65,2 (Rm 10,21), anche la
misericordia di Dio si realizza per tutti in Cristo o, secondo il parallelo di Gal 3,22,
attraverso la fede in Cristo. Tuttavia, è bene lasciare nel retroterra dell'argomen-
tazione questiriferimenticristologici perché in Rm 11 Paolo non ha mai nomina-
to esplicitamente Gesù Cristo: il suo sguardo è tutto rivolto al disegno universale
di Dio, anche se, di fatto, questo si è realizzato soltanto per mezzo di Cristo.
[v. 33] L'inno che chiude la sezione di Rm 9-11 è di grande profondità con-
tenutistica : l'elevato livello stilistico e contenutistico dimostra che questo inno
368

365Cfr. le ottime osservazioni di S.P. Carbone, Misericordia, p. 37, condotte su criteri semantici.
366Si noti la ripetizione di pantas nella prima e nella seconda parte del v. 32: l'indefinito pas ha do-
minato soprattutto nella sezione di Rm 1,18 - 4,25.
367II verbo sygkleiein si trova soltanto 4 volte nel NT (cfr. anche Gal 3,22.23; Le 5,6): il parallelo di
Gal 3 esprime bene la situazione di prigionia nella quale si trovano tutti.
368Si può notare come questo inno non sia introdotto da alcuna formula, a differenza da Rm 8,31 per
l'inno teologico di Rm 8,32-39 o di Ef 1,3 per l'eulogia Ef 1,4-14, ma è direttamente collegato a quanto
precede.
402 Traduzione e commento
teologico non chiude soltanto Rm 9-11, ma tutta la sezione dottrinale di Rm 1,18
- 11,32 , ponendosi in continuità con l'inno precedente di Rm 8,31-39 e con
369

quello seguente di Rm 16,25-27. Dal punto di vista compositivo l'inno si compo-


ne di tre parti: a) la profondità dei giudizi e delle vie di Dio (v. 33); b) gli interro-
gativi di carattere sapienziale (vv. 34-35); c) la conclusione dossologica (v. 36).
La parte principale è costituita dagli interrogativi sapienziali che collocano il mi-
stero nella sua fondamentale dimensione di eccedenza, come a dire che, nono-
stante quanto Paolo ha fatto conoscere ai suoi destinatari, permangono molte
oscure dimensioni del mistero. La convergenza tra gli orizzonti apocalittici e
quelli sapienziali del mistero permette di cogliere più chiaramente la prospettiva
ermeneutica di Rm 9-11, in cui si sono alternati motivi sapienziali e apocalittici,
senza soluzione di continuità.
Dal versante contenutistico, nell'inno domina ilritmoternario che scandisce
le parti evidenziate: tre attributi sulla profondità di Dio (laricchezza,la sapienza
e la conoscenza); tre domande sapienziali introdotte da tis (Chi ha conosciuto?
Chi è consigliere? Chi ha contraccambiato per primo?), tre orizzonti per tutte le
cose (da lui, per mezzo di lui e per lui).
La prima parte dell'inno si rivolge alla profondità della ricchezza, della sa-
pienza e della conoscenza di Dio, intendendo theou come genitivo soggettivo dei
tre attributi . In questione non si trova la nostra conoscenza di Dio (genitivo og-
370

gettivo) ma la sua conoscenza, la sua sapienza e la suaricchezza.Si potrebbe an-


che considerare «ricchezza» collegata a «profondità» (bathos) ed entrambi a
«sapienza e conoscenza» giacché Paolo non utilizza generalmente il sostantivo
«ricchezza» (ploutos) da solo . Invece è preferibileriferirela « profondità » ai tre
371

sostantivi successivi e lasciare «ricchezza» come attributo autonomo di Dio per-


ché introduce la tematica della «gloria» con la quale si chiude l'inno (v. 36). Di
fatto, in Rm 9,23 Paolo ha già sottolineato in contesto sapienziale-apocalittico la
ricchezza della gloria di Dio . Uno sguardo al binomio «ricchezzae gloria » nel-
372

la LXX permette di cogliere la relazione fra questi lessemi che aprono e chiudono,
in forma d'inclusione, l'inno . Pertanto, il primo attributo siriferiscealla profon-
373

dità dellaricchezzain quanto gloria di Dio.


Alla profondità della ricchezza è collegata la sapienza (sophia) di Dio, cita-
ta soltanto qui in Romani mentre domina soprattutto in ICor 1,17 - 2,13, in cui
l'attenzione di Paolo è rivolta alla sapienza paradossale di Dio che scaturisce dal-
la parola della croce. Anche se in ICor 2,7 Paolo accennerà a un mistero diver-
so, è significativo il collegamento tra la sapienza e il mistero, a conferma che
l'inno di Rm 11,33-34 non è staccato ma inserito nella descrizione del mistero

369Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 751.


370Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 633.
371Così T.R. Schreiner, Romans, p. 632.
372In Fil 4,19 parlerà nuovamente della « sua ricchezza per mezzo della gloria in Cristo ».
373Cfr. il binomio «ricchezza e gloria» come attributi della Sapienza personificata in Pr 3,16; 8,18;
22,4 e come doni elargiti a personaggi dell'AT in lCr 29,28; 2Cr 17,5; 18,1; 32,27. Per il NT cfr. in parti-
colare Col 1,27; Ef 1,18; 3,16.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 403
paolino: « Ma parliamo della sapienza nascosta di Dio attraverso il mistero: Dio
l'ha prestabilita prima dei secoli per la nostra gloria» . 374

La profondità della sapienza lascia lo spazio all'infinita e universale cono-


scenza di Dio; e con tale precisazione, Paolo rinvia al primo movimento del mi-
stero (v. 25): esso non nasce dalla ricerca umana ma dalla conoscenza benevola
che Dio ha di tutto e di tutti . Paolo ha già accennato a questa conoscenza di pre-
375

dilezione o di amore di Dio per i credenti (cfr. Rm 8,29) e per il suo popolo in par-
ticolare (cfr. Rm 11,2). Ora il prospetto della conoscenza divina è universale, sen-
za precisazioni per chi o per che cosa.
Nella seconda parte del v. 32 prosegue ilfiloneapocalittico-sapienziale del mi-
stero, accentuando l'imperscrutabilità e l'impenetrabilità dei giudizi e delle vie di
Dio. Gli attributi « imperscrutabile » e « impenetrabile » non sono scelti a caso ma
esprimono l'impossibilità umana di penetrare o di cogliere il mistero di Dio . A cau- 376

sa del parallelismo dei membri, è preferibile rendere il sostantivo krimata non con
giudizi (cfr. CEI) ma con decisioni o scelte : sono le decisioni che scandiscono il
377

contenuto del mistero; nel caso particolare, riguardano l'indurimento parziale e tem-
poraneo d'Israele e l'ingresso dei gentili nel popolo dell'alleanza. Anticipando le do-
mande dei vv. 34-35, già l'autore della Sapienza aveva detto: «Nessuno potrà dirti:
Cosa hai fatto? Nessuno potrebbe opporsi alle tue decisioni (krimata)» (Sap 12,12) . 378

Altrettanto raro, nel vocabolario paolino, è il riferimento alle «vie» (hodoi) di Dio,
riconosciute come impenetrabili : nei contesti apocalittico-sapienziali dell'AT si ri-
379

feriscono ai percorsi del disegno divino e quindi alla sua azione salvifica . 380

[vv. 34-35] A conferma dell'eccedenza del mistero di Dio, Paolo prosegue


nell'orizzonte apocalittico-sapienziale, con Vappropriazione della citazione di Is
40,13: tre domande introdotte da « Chi... chi... chi...? » . Queste domande si inse-
381

riscono bene nel contesto del mistero perché, da una parte, evidenziano il deside-
rio umano di conoscere il pensiero di Dio e, dall'altra, l'impossibilità di poterlo
raggiungere . La semplice inserzione di un «infatti» (gar) segnala il passaggio
382

374 Sorprende la mancanza di riferimenti a Cristo che Paolo stesso ha definito come « sapienza » di
Dio in ICor 1,30. Qui la sua attenzione è rivolta totalmente al mistero di Dio più che alla sua realizzazio-
ne in Cristo. Per l'espressione « sapienza di Dio» cfr. ICor 1,21.24; 2,7; Ef 3,10.
375 Anche in 2Cor 4,4 la conoscenza di Dio è strettamente collegata alla sua gloria.
376 II termine anexeraunétos (imperscrutabile) è hapax legomenon in tutto il greco biblico ed è raro
anche nel greco extrabiblico (cfr. Eraclito, Fragmenta 18, in cui si riferisce proprio all'insondabilità della
via che apre al mistero). Il parallelo anexichniastos (impenetrabile) è più attestato nel greco biblico (cfr. Ef
3,8 che dipende da Rm 11,33; per la LXX cfr. Gb 5,9; 9,10; 34,24). Si noti Yomeotelèuto o l'assonanza fo-
nica tra i due termini.
377 Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 634.
378 p i ' i o n e di giudizio e di condanna in krima cfr. Rm 2,23; 3,8; 5,16.
er accez
379 All'uso raro del termine hodos (via) nell'epistolario paolino (6 volte, di cui 2 in citazioni dirette
dell'AT, in Rm 3,16.17), rispetto al centinaio di attestazioni nel NT, si aggiunge la connessione tra le vie
divine e il mistero, mentre altrove Paolo parla della via in senso etico o comportamentale (cfr. ICor 4,17;
12,31; lTs 3,11).
380 Cfr. Gb 24,14 (LXX); Sai 9,26; 76,20; 94,10; Is 55,8-9; cfr. anche Ap 15,1.
381 A causa della composizione poetica, questa volta Paolo preferisce non indebolire il ritmo dell'in-
no con l'inserzione di una formula per le citazioni dirette del tipo « come sta scritto » (cfr. v. 26).
382 Nel modello evidenziato bene da R. Penna, Mysterion, p. 39, questa parte corrisponde al percor-
so ascendente che procede dall'uomo a Dio, in seguito a quello discendente del v. 33.
404 Traduzione e commento
alla citazione di Is 40,13 (LXX) che così scrive: « Chi ha conosciuto la mente del
Signore e chi è diventato suo consigliere... » . Le stesse domande si trovano nei
383

contesti propriamente apocalittici e in quelli sapienziali dell'AT . Poiché l'inno 384

fa parte del mistero paolino che svolge anche la funzione perorante di Rm 9-11,
queste domande non possono non richiamare quelle di Rm 9,20-21 in cui Paolo
aveva messo a tacere qualsiasi obiezione del « vaso » nei confronti del « vasaio ».
Contrariamente a quanto generalmente si pensa, il v. 35 non cita direttamen-
te Gb 41,3 (TM) o le analoghe domande di Gb 35,7; 41,1, per cui si possa pensa-
re a una nuova citazione diretta dell'AT: è più probabile che Paolo alluda soltan-
to a queste domande sapienziali caratterizzate dalla contesa con Dio. Comunque,
rimane che il passo più vicino al v. 35 è quello di Gb 41,3, secondo il TM in cui
Dio stesso dice: «Chi mi ha preceduto che io debba ripagare?». Nel contesto di
Rm 9-11 questa domanda assume particolare rilevanza perché pone in risalto il
primato della graziarispettoa quello delle opere (cfr. Rm 11,6). Il capovolgimen-
to dell'orizzonte relazionale delle domande, per cui non è Dio ma l'essere umano
a porle, come in Gb 41,3, conferma la posta in questione principale di Rm 9-11:
Dio con la fedeltà della sua Parola e le implicazioni per la salvezza d'Israele.
[v. 36] L'ultima parte dell'inno si conclude con una dossologia che ricondu-
ce tutte le cose (panta) alla gloria di Dio. Circa la triplice relazione di origine (da
lui), di agente (per lui) e di finalità (verso lui) per tutte le cose , non mancano col-
385

legamenti con lo stoicismo e con il giudaismo ellenistico . Tuttavia, a prescinde-


386

re dalla matrice panteistica dello stoicismo, del tutto contraria proprio al contesto
di Rm 11,33-36 che ha celebrato la trascendenza divina, nel contesto del mistero
questa dossologia assume una prospettiva diversa: chiama in causa la realtà co-
smologica che partecipa di quanto è statorivelatonel mistero . 387

Questa universalizzazione della relazione di tutte le cose con Dio non trova
paralleli nell'epistolario paolino, anche se non mancano collegamenti con ICor
8,6 e con l'inno successivo di Col 1,15-20: la novità principale di tale universa-
lizzazioneriguardal'assenza di qualsiasiriferimentocristologico, mentre nei pa-
ralleli di ICor 8,6 e Col 1,15-20 è sottolineata la mediazione cristologica della
creazione. L'inno più vicino a questa conclusione è quello di ICor 8,6: «Ma per
noi uno è Dio il Padre, dal quale tutte le cose e noi per lui, e un solo Signore, Gesù
Cristo, per mezzo del quale esistono tutte le cose e noi per mezzo di lui » . 388

Con l'orizzonte teologico di «tutte le cose», Paolo universalizza l'origine,


l'agente e lafinalitàdel cosmo; nello stesso tempo crea un collegamento con l'u-
383Si può notare come, anche se la citazione corrisponde a quella di Is 40,13 (LXX), Paolo ometta il
secondo hai per creare un maggiore incalzare di domande.
384Cfr. in particolare il serrato interrogatorio di Gb 38,4 - 39,30; Pr 30,4; Sir 1,2-3; e Paolo aveva già
citato una parte di Is 40,13 in ICor 2,16, sempre a proposito del mistero, anche se di contenuto diverso.
385Delle tre preposizioni, crea difficoltà quella corrispondente a dia + genitivo: poiché si riferisce a
Dio non è complemento di mezzo ma di agente, anche se diventa praticamente impossibile da rendere in
traduzione. Così anche F. Blass - A. Debrunner - F. Rehkopf, Grammatica, p. 295.
386Cfr. espressioni simili in Seneca, Epistulae 68,8; per il giudaismo ellenistico cfr. Filone, Cherubim
35,125-126; Legibus 1,38.
387Per la prospettiva cosmica del mistero paolino cfr. R. Penna, Mysterion, p. 58.
388Cfr. anche alcuniriferimentia «per lui» in Ef 1,5; 4,15; cfr. anche Eb 2,10.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 405
niversalità della disobbedienza e della misericordia (v. 32), come a dire che il per-
corso del mistero vale per gli ebrei e i gentili ma anche per tutte le cose che parte-
cipano di esso. Da questo punto di vista, il mistero di Rm 11,25-36 segue il per-
corso inverso a quello descritto in Rm 8,18-30: non più dalla creazione alle fasi del
disegno divino ma dal disegno misterioso di Dio alla relazione di tutte le cose con
lui. Comunque è interessante che, per l'uno e per l'altro percorso, al vertice come
all'inizio del disegno misterioso di Dio si trova la sua gloria (cfr. Rm 8,30; 11,36).
La sezione di Rm 9-11 si apre e si chiude con due dossologie simili, rivolte
all'onnipotenza divina su « tutte le cose » (Rm 9,5b; 11,36). Larilevanzateologi-
ca, più che cristologica, di questa dossologia conferma che anche in Rm 9,5 Paolo
pensava già a Dio « al quale appartiene la gloria per i secoli dei secoli, amen » . 389

In tal caso, è benerilevareche la sezione di Rm 9-11 si apre e si chiude con la dos-


sologia divina e soprattutto che l'intera dimostrazione così complessa di questi ca-
pitoli perviene al suo culmine e trova la sua piena comprensione nel mistero pao-
lino. A causa della notevole rilevanza conferita alla gloria e agli altri attributi di-
vini (v. 33), preferiamo non rendere questa dossologia con « al quale sia la gloria »
ma con « al quale appartiene la gloria» e quindi con « sua è la gloria». La gloria
divina non è semplicemente augurata o prospettata per l'adesione degl'interlocu-
tori, ma costituisce il momento originario e l'orizzonte principale nel quale si di-
svela il mistero: in tale senso, ilriconoscimentoo la constatazione della gloria di-
vina corrisponde a quello della sua santità (cfr. il Trisaghion di Ez 6,3).

A conclusione dell'analisi dell 'unità letteraria di Rm 9,1-11,36 non possia-


mo esimerci dall'affrontare due questioni fondamentali e di grande attualità: la
salvezza d'Israele e la permanenza o meno della sua alleanza. In ambito esegeti-
co, la prima problematica è stata affrontata con modalità diverse e, a volte, con ri-
sultati opposti: se per alcuni Paolo affronta con coerenza la questione d'Israele in
Rm 9-11, anche se in presenza di significative tensioni , per altri è contradditto-
390

rio . Non manca chi sostenga che in occasione della dettatura di Rm 9 Paolo non
391

aveva previsto la soluzione di Rm 11, ossia la salvezza di tutto l'Israele etnico , 392

e chi consideri la dimostrazione di Rm 9-11 una semplice suspense retorica che


alla fine si risolve con lo smacco per la conseguenza più naturale, rappresentata
dall'esclusione dell'Israele incredulo . D'altro canto, come possono conciliarsi
393

affermazioni del tipo «il resto sarà salvato» (Rm 9,27) e «tutto Israele sarà sal-

La formula dossologica « la gloria per i secoli, amen » è uguale a quella di Rm 16,27 e simile a quel-
389

la di Gal 1,5; Fil 4,20; cfr. anche quelle leggermente diverse di lTm 1,17; 2Tm 4,18; e per il resto del NT Eb
12,21. Il retroterra giudaico della lode alla gloria di Dio è ben attestato in Sir 39,14b-16; lEsd 4,40; 4Mac
18,24; 1QS 11,15-17; 1QH 7,26-27).
Cfr. J.-N. Aletti, Israël, pp. 167-174.
390

Cfr. H. Raisänän, Paul, pp. 192-196; Id., Römer 9-11: Analyse eines geistigen Ringens, in ANRW
391

III 25.4 (1987) 2891-2939; E.P. Sanders, Law, pp. 193, 197-199; cfr. anche W.G. Kümmel, Die Probleme
von Römer 9-11 in der gegenwärtigen Forschungslage, in L. De Lorenzi, Israelfrage, p. 32; F. Watson,
Paul, p. 170.
Cfr. U. Wilckens, Römer, II, p. 263.
392

Cfr. C.H. Cosgrove, Elusive Israel: the Puzzle of Election in Romans, Louisville 1997, pp. 31-33.
393
406 Traduzione e commento
vato » (Rm 11,26)? Come può convivere la concezione elettiva d'Israele, sottoli-
neata in Rm 9, con quella etnica descritta in Rm 11 ? Abbiamoriferitoanche la po-
sizione di F. Refoulé: tali contraddizioni si risolverebbero pensando sempre e sol-
tanto all'Israele elettivo e non a quello etnico . A prima vista, il risultato della
394

sua analisi è coerente ma dobbiamo rilevare, con tutta onestà, che sembra tradire
la complessità dell'argomentazione paolina in Rm 9-11. In definitiva, se l'induri-
mento e la salvezza siriferisserosoltanto al resto che ha creduto al vangelo, fini-
rebbe per essere inconsistente la stessa sofferenza di Paolo, ridotta a una parodia
per quanti non sono nella Chiesa e non hanno creduto al vangelo.
Spostando la questione nel dialogo interreligioso contemporaneo, si genera-
no nuovi interrogativi : c'è una via di salvezza per l'Israele incredulo? E se esi-
395

ste, è una via alternativa a quella in Cristo? O dipende da essa? In caso affermati-
vo, in che modo Cristo è il salvatore anche per l'Israele incredulo? E la salvezza
futura per Israele, senza Cristo, non potrebbe diventare paradigmatica per coloro
che non hanno mai incontrato Cristo e che con retta coscienza perseverano nella
propria professione di fede? Come si può vedere, ogni questione introduce innu-
merevoli problematiche che non si limitano alla relazione tra Israele e la Chiesa.
Circa l'identità d'Israele, è fondamentale richiamare i risultati dell'analisi
svolta: soltanto in Rm 9-11 Paolo utilizza i lemmi « Israele » e « israelita », che non
si trovano nelle altre parti della lettera. Per inverso, se nelle altre sezioni parla dei
giudei ora il sostantivo ioudaios è usato raramente (Rm 9,24; 10,12). A proposito
di «israelita», abbiamo sottolineato che si tratta di un attributo interno, di coloro
che appartengono a Israele. In quanto tale, il sostantivo Israele implica una con-
notazione elettiva anche se, come abbiamo evidenziato, Paolo costruisce proprio
sull'elezione la dialettica relazione tra Israele e Israele. Qualcosa di analogo si ve-
rifica per il sostantivo laos (popolo): si trova quasi esclusivamente in Rm 9-11 e
fra le sue rare frequenze compare quasi sempre nelle citazioni dirette dell'AT . 396

Sarebbe bastata l'attenzione a questi dosaggi linguistici per evitare l'accusa di


contraddizione o di incoerenza del pensiero paolino e per non pensare che i termi-
ni Israele e popolo abbiano abbandonato gli ebrei per essere trasferiti ai cristiani . 397

In caso diverso, non sarebbe più onestoriconoscerele difficoltà nel reperire alcu-
ne chiavi di soluzioni per la questione d'Israele in Rm 9-11 oppure limitare la pro-
pria esegesi alriconoscimentodi tensioni irrisolvibili, senza tentare di livellarle?
394 Oltre al saggio, F. Refoulé, Israel, cfr. Id., Cohérence ou incohérence de Paul en Romains 9-12?
in RB 98 (1991) 51-79. Per una valutazione critica al riguardo, cfr. S. Carbone, Israele nella Lettera i Ro-
mani, in RivBib 41 (1993) 140-141.
395 Fra i recenti contributi cfr. E.J. Christiansen, Covenant, pp. 218-234; J. Dupuis, Verso una teolo-
gia cristiana del pluralismo religioso (btc 95), Brescia 1998 ; Id., Alleanza e salvezza, in RdT 35 (1994)
2

148-171; B. Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione (SE 5),
Cinisello Balsamo (MI) 1995, pp. 87-105; F. Mussner, Il popolo della promessa, Roma 1982.
396 Cfr. Rm 9,25.25.26 con le citazioni di Os 2,25.1; Rm 10,21 con la citazione di Is 65,2. Restando
alla Lettera ai Romani, al di fuori di questa sezione, Paolo utilizza nuovamente laos soltanto in Rm 15,10
con la citazione di Dt 32,43 e in Rm 15,11 con quella del Sai 117,1. Restano soltanto due frequenze pro-
priamente paoline: quelle di Rm 11,1.2. Paolo si mostra particolarmente reticente nell'usare il termine
«popolo » proprio a causa della sua ambiguità di definizione.
397 Per la critica al modello sostitutivo cfr. M. de Goedt, La véritable question juive pour les chré-
tiens. Une critique de la théologie de la substitution, in NRT114 (1992) 237-250.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 407
Non è casuale che Paolo utilizzi i sostantivi Israele e israelita nelle parti più
significative della disposizione retorica della sezione . L'analisi retorico-lettera-
398

ria di Rm 9,6-29 ha dimostrato che non tutto Israele è Israele (v. 6b) perché prima
del diritto di appartenenza si trova il principio sovrastante dell'elezione divina.
Paolo calca a tal punto la propria argomentazione sull'elezione da escludere qual-
siasi intervento o cooperazione umana. In questione, per ora, non si trovano l'ele-
zione del singolo né quella di intere comunità; per questo non è lecito a alcun ese-
geta o teologo applicare i principi dell'elezione e della promessa a qualsiasi entità
etnica o religiosa, né proiettare questa parte di Rm 9 verso la realizzazione finale
del disegno divino . Paolo non si preoccupa neppure della libertà dell'individuo
399

o della duplice predestinazione, al bene o al male, ma soltanto dell'elezione origi-


naria di Dio che trova alcune esemplificazioni nelle vicende dei patriarchi. Questo
significa che il problema principale non è se Israele etnico corrisponda a quello
eletto né se la libertà umana sia posta a repentaglio dalle scelte divine, ma che al
di sopra di tutto c'è l'elezione. Dunque, in Rm 9 Paolo non distingue Israele da
Israele perché sia inconcepibile l'assimilazione tra l'Israele etnico ed eletto ma in
quanto l'Israele etnico è impensabile senza l'elezione!
Con Rm 9,30 - 10,21 cambia l'orizzonte argomentativo: Paolo intende di-
mostrare che se Cristo è il fine della Legge (Rm 10,4) sarebbe naturale che tutto
Israele aderisse a lui. Invece, paradosso della storia, i gentili hanno ottenuto ciò
che non cercavano mentre i giudei non hanno ottenuto ciò che cercavano. In que-
sta parte della sezione la questione si sposta sulla relazione con Cristo che è la pie-
tra d'inciampo per Israele (cfr. Rm 9,33; 10,24).
Alla luce di Rm 9,30 - 10,21 Paolo riaffronta la questione d'Israele in Rm
11,1-24 per sottolineare che nonostante la sua incredulità rimane il popolo eletto
di Dio: il mistero finale consiste sostanzialmente nell'ingresso dei gentili e nella
salvezza degli israeliti increduli.
In tutta la sezione resta immutata l'elezione del resto che, come abbiamo di-
mostrato, corrisponde agli israeliti che hanno creduto in Cristo; ed è proprio que-
sto dato invariabile che permette a tutto Israele di essere salvato. In questa pro-
spettiva argomentativa, la tensione tra il resto salvato e tutto Israele che sarà sal-
vato non è contraddittoria ma si svolge tra la fase apocalittica e quella escatologica
della storia. In pratica, l'elezione caratterizza non soltanto il disegno sovrastante
di Dio ma anche la sua storicità, in quanto appartiene prima di tutto alla fase apo-
calittica che si identifica con l'essere in Cristo. Nello stesso tempo, l'elezione di
un resto apre al mistero finale della storia o alla sua fase escatologica in cui, a cau-

398 Ci riferiamo agli esordi di Rm 9,13 e di Rm 9,31 - 10,4 (Rm 9,4: israeliti-, 9,31: Israele), alla tesi
secondaria di Rm 9,6b (due volte, Israele) e alla perorazione sul mistero in Rm 11,25-36 (Rm 11,25.26:
Israele). La lezione con «Israele» in Rm 10,1 è poco sicura, come dimostrano le rare attestazioni dei co-
dici. Nelle prove della sezione « Israele » è citato in Rm 9,27; 10,19.21; 11,23. A Israele, in quanto popo-
lo di Dio, è dedicata anche la tesi secondaria di Rm 11,2.
399 Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 587, che si preoccupa diricuperarel'interpretazione cal-
vinista della predestinazione individuale; di B. Byrne, Romans, p. 294, che introduce la prospettiva esca-
tologica del disegno divino; e di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 668, che sostiene soltanto il livello comunita-
rio dell'elezione e della predestinazione.
408 Traduzione e commento
sa sua, tutto Israele sarà salvato. Purtroppo, spesso si perviene alla falsa conclu-
sione che, poiché non tutto Israele è Israele, non è concepibile che tutto Israele
possa essere Israele a causa dell'elezione divina per un resto, affinché tutto Israele
sia salvato. Abbiamo evidenziato la stessa distinzione, tra apocalittica ed escato-
logia in Rm 2, per precisare che, se siamo giustificati soltanto per la fede (apoca-
littica), saremo giudicati per le opere (escatologia). Ora, se non tutto Israele è
Israele, e soltanto un resto si salva (apocalittica), con l'ingresso della pienezza dei
gentili si realizzerà anche la pienezza degli israeliti (escatologia). Forse uno dei ri-
sultati positivi nel saggio di F. Refoulé è l'insistenza su Israele come entità globa-
le e non come unione di due parti (il resto + la maggior parte) ; ma, proprio in 400

forza di questa globalità, l'Israele etnico non può essere scisso da quello eletto, an-
che se, nell'oggi dell'apocalittica iniziata con Cristo, c'è un resto mentre gli altri
sono induriti.
Circa la consistenza della salvezza futura, coloro che sostengono una via al-
ternativa di salvezza per Israele si fondano spesso sul dato che in Rm 9,6-9 e in Rm
11,1-36 non si parla mai esplicitamente di Gesù Cristo ma soltanto della relazione
tra Israele e Dio. Paolo prevederebbe una via alternativa di salvezza per Israele ri-
spetto a quella principale e storicamente visibile , realizzata in Cristo. Se perve-
401

niamo a conclusioni di questo tipo nonriusciremoa dipanare qualcosa del già intri-
cato pensiero paolino. La composizione di Rm 9-11 non è soltanto di tipo retorico,
con un esordio (Rm 9,1-5), alcune prove (Rm 9,6 -11,24) e una perorazione sul mi-
stero (Rm 11,25-36), ma è anche di tipo circolare, in cui alla definizione d'Israele
in base all'elezione (a: Rm 9,6-29) succedono la relazione positiva tra Cristo e la
Legge (b: Rm 9,30 - 10,21) e la prospettiva della salvezza finale per tutto Israele
(a': Rm 11,1-24). La parte centrale in cui campeggia l'opposizione tra la giustizia
per mezzo della Legge e per mezzo della fede è non un excursus ma l'unica via di
passaggio per giungere alla salvezza escatologica di tutto Israele. Dunque, per
Paolo non si può pensare a una via di salvezza alternativa a quella del vangelo, nep-
pure per l'Israele incredulo, pena la svalorizzazione e l'inutilità di Rm 10.
In altri termini, Cristo si trova all'origine di qualsiasi elezione, perché è pree-
sistente (cfr. Rm 8,3-4), e per mezzo di lui Dio realizzerà anche il giudizio esca-
tologico verso tutti (cfr. Rm 2,16), giacché con lui comincia la fase apocalittica o
il centro della storia. Sarà un problema diverso come si possa essere esclusi dal-
l'apocalittica salvezza in Cristo per essere inclusi in quella escatologica; e Paolo
non offre a tale questione alcuna soluzione. Di fatto, è significativo, e lo abbiamo
rilevato con l'esegesi di Rm 11,17-24, che i rami recisi dall'ulivo non siano stati
bruciati, come invece nella metafora giovannea della vite e dei tralci, ma che pa-
radossalmente possano, in futuro, essere reinnestati sulla radice originaria . 402

Comunque non è possibile discernere come questo percorso paradossale si realiz-

400Cfr. F. Refoulé, Israël, pp. 144-179.


401La duplice via di salvezza è sostenuta particolarmente da N. Lohfink, L'alleanza mai revocata.
Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991, pp. 86-87.
402Così anche G. Harvey, The true Israel: uses of the Names Jew, Hebrew, and Israel in ancient
Jewish and early Christian Literatüre, Leiden 1996, p. 231.
La fedeltà della Parola di Dio Rm 9,1 - 11,36 409
zi. Ciò che Paolo rivela del mistero è la certezza della temporaneità dell'induri-
mento d'Israele, contro qualsiasi definitività, e la prospettiva della salvezza fina-
le. Le definizioni salvifiche appartengono a quelle insondabili vie della cono-
scenza che Dio ha sulla storia della salvezza. Pertanto, non due vie ma una sola
via di salvezza, quella realizzata in Cristo: il resto appartiene al disegno divino,
che ha molte vie impenetrabili per chiunque; e proprio in forza dell'unica via rea-
lizzata in Cristo e delle vie impenetrabili di Dio (cfr. Rm 11,33) si percepisce la
prospettiva paolina della salvezza. Tutte le sue affermazioni sulla salvezza in
Cristo non sono esclusive ma assertive, ossia dicono che è necessaria la Parola
della fede per essere salvati, ma non sbarrano le vie impenetrabili di Dio attraver-
so le quali la salvezza possa essere realizzata per mezzo di Cristo, anche senza
credere in lui. Contro l'ipotesi delle due vie parallele ma anche contro l'esclusiva
via di salvezza c'è la via realizzata in Cristo, che nel tempo dell'apocalittica apre
al tempo della Chiesa: è l'unica via che conosciamo e che possiamo percorrere,
ma che non esclude i percorsi misteriosi di Dio che salverà tutti in Cristo.
Alla luce di talericomprensionecontenutistica di Rm 9-11,/ 'alleanza divina
con Israele non è mai stata revocata, riprendendo il noto discorso di Giovanni
Paolo II a Mainz nel 1980, perché fra i doni irrevocabili di Dio agli israeliti vi so-
no anche le alleanze (cfr. Rm 9,4). Nel percorso della nostra sezione, il sostantivo
diathèkè èripresosoltanto nella citazione diretta di Is 59,20-21 in Rm 11,27, vale
a dire nel contesto del mistero paolino. La connessione fra queste parti della se-
zione, oltre che la globalità della concezione paolina sull'alleanza, permette di
comprendere che nonostante il plurale (alleanze) e l'affermazione della nuova al-
leanza (cfr. ICor 11,25; 2Cor 3,6) rispetto ali 'antica (cfr. 2Cor 3,16), Paolo non
abbia una visione sostitutiva delle alleanze ma, com'è proprio degli oracoli pro-
fetici di Ger 31,31-34 e di Ez 16,60-63; 36,24-29, la deuteronomizzazione e la
storicizzazione dell'unica alleanza di Dio con Israele che perviene alla sua realiz-
zazione apocalittica e definitiva con Cristo. Per questo, è errato pensare a due al-
leanze parallele, con Israele e con la Chiesa, che includano due vie di salvezza,
com'è altrettanto sbagliatoritenereche Paolo distingua l'alleanza in quanto rive-
lazione profetica da quella come istituzione, per considerare abrogata la seconda
e permanente la prima . In realtà, per l'alleanza vale quanto abbiamo sottolinea-
403

to più volte, nel nostro commentario, sulla Legge mosaica: non è abrogata nella
sua globalità perché, come la Legge, appartiene ai doni irrevocabili di Dio.
Naturalmente, questo non significa che tutti i credenti in Cristo, giudei e gentili,
debbano osservare le prescrizioni dell'alleanza mosaica per essere salvati; La se-
zione di Rm 9-11 ha ben dimostrato come le alleanze, di per sé, appartengano agli
israeliti e non ai gentili: il percorso che procede dall'alleanza o dalla Legge a
403Per la distinzione tra la rivelazione profetica e quella istituzionale dell'alleanza cfr. invece A. Vanhoye,
Salut universelpar le Christ et validité de l'Ancienne Alliance, in NRT116 (1994) 815-835. Se tale distinzione
può valere per l'autore della Lettera agli Ebrei (cfr. Eb 9,15-28), essa non ha alcuna consistenza per l'epistola-
rio paolino. Invece, sulla tensione in Rm 9-11 tra ilrifiutodella messianicità di Gesù e la permanenza dell'ele-
zione d'Israele in vista del dialogo interreligioso contemporaneo, cfr. l'ottimo contributo di C. Marcheselli-
Casale, Gesù di Nazaret, Messia di Israele? Verso un dialogo sempre più costruttivo tra cristiani ed ebrei, in
G. Castello (ed.), Volti del Messia. Gesù di Nazaret e il dialogo ebraico-cristiano, Napoli 2000, pp. 62-66.
410 Traduzione e commento
Cristo vale per Israele e non per i gentilo-cristiani che entrano nell 'alleanza mai
revocata attraverso Cristo che è la sua pienezza. Per questo, l'alleanza, come la
Legge, può essere al massimo negativizzata quando, in seguito alla pienezza cri-
stologica, si pretende l'adesione alle sue normative per essere salvati, ma non
abrogata, perché tale conclusione implicherebbe l'abolizione della Legge e, gio-
co forza, lo svuotamento della stessa identità ebraica . 404

Abbiamo sottolineato che nel dialogo interreligioso contemporaneo le cate-


gorie della salvezza e dell'alleanza con Israele sono scelte spesso come paradig-
ma per l'alleanza e la salvezza nelle altre religioni o professioni di fede . Dob- 405

biamoriconoscereche, per quanto tale paradigma possa essere utilizzato, si scon-


tra con la dimostrazione di Rm 9-11, in cui non è Israele il modello di salvezza per
quanti non credono in Cristo ma, semmai, i gentili che hanno aderito al vangelo
rappresentano il modello per la salvezza universale. In pratica, fin quando si con-
tinuerà a optare per Israele in funzione della Chiesa, anche se come paradigma per
coloro che non credono al vangelo, e non l'inverso, come invece è ben sostenuto
da Paolo attraverso la metafora dell'ulivo e dell'olivastro, non si rispetterà mai
abbastanza il ruolo d'Israele nella storia della salvezza. Abbiamo più volte evi-
denziato che i gentili che aderivano al vangelo nel secolo I d.C. non pensavano di
entrare in una nuova religione, separata da quella ebraica, ma in una forma o cor-
rente del comune giudaismo chericonosceGesù Cristo come il Signore. Per que-
sto, in Rm 9-11, come in tutto il corpus epistolare di Romani, non è utilizzato mai
il sostantivo Chiesa che Paolo utilizza diffusamente altrove . In definitiva, il mo-
406

dello per le altre professioni di fede non si trova in Israele, almeno stando a Rm
9-11, ma nei gentili che entrano a far parte del popolo dell'alleanza e nella natu-
ra assertiva o inclusiva e non esclusiva di quanto Paolo attribuisce all'essere in
Cristo . Pertanto, la salvezza di chiunque non crede al vangelo non trova il suo
407

modello in Israele ma in coloro che hanno trovato la giustificazione per la fede in


Cristo, senza averla cercata. Per Paolo, come per qualsiasi israelita, non vale il
modello della conversione per credere in Cristo, mentre questo è sempre valido
per coloro che non hanno ricevuto, fra i privilegi divini, le alleanze, la Legge e,
soprattutto, Gesù Cristo, il Messia, secondo la carne . 408

404 Sulla permanenza dell'unica alleanza cfr. anche J. Dupuis, Teologia cristiana, p. 315; B. Forte,
Chiesa, p. 102.
405Così J. Dupuis, Teologia cristiana, pp. 309-317; cfr. anche A. Russo, La funzione d'Israele e la le-
gittimità delle altre religioni, in RdT 40 (1999) 95-118.
406 Per Romani il sostantivo ekklesia si trova soltanto nel poscritto (Rm 16,1.4.5.16.23).
407 II percorso inclusivo della salvezza nel dialogo interreligioso contemporaneo è posto ben in risal-
to da B. Forte, Dove va il cristianesimo? (gdt 271), Brescia 2000, pp. 128-129.
408 Con buona pace di R.H. Bell, Jelousy, pp. 175-178; J. Piper, Justification, p. 7; F. Watson, Paul,
p. 228, nota 10, i privilegi divini elencati in Rm 9,4-5 non hanno semplicemente una portata storico-teolo-
gica ma sono funzionali alla salvezza d'Israele.
LA PARÀCLESI
Rm 12,1 -15,13

Il culto razionale
12 dunque, fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a
offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio:
(è) il vostro culto razionale;
2 e non conformatevi a questo secolo ma trasformatevi nel
rinnovamento della mente, affinché possiate discernere la vo-
lontà di Dio, ciò che è buono, gradito e perfetto.
Moderazione in comunità
3Per la grazia che mi è stata data, dico infatti a ciascuno di
voi di non sopravvalutarvi più di quanto bisogna pensare ma di
pensare in vista della moderazione, come Dio ha distribuito a cia-
scuno la misura dell'affidabilità.
4Difatti, come in un corpo abbiamo molte membra, ma tutte
le membra non hanno la stessa funzione,
5così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e
membra gli uni degli altri.
6Dunque abbiamo carismi diversi, secondo la grazia che ci è
stata data,
sia la profezia, secondo la proporzione dell'affidabilità,
7sia il ministero, nel ministero,
sia colui che insegna, nell'insegnamento,
8sia colui che esorta, nell'esortazione;
colui che distribuisce, con spontaneità,
colui che presiede, con sollecitudine,
colui che usa misericordia, con gaudio.
L'amore come ideale del bello e del buono
L'amore non (sia) ipocrita: aborrite il male, attaccatevi al
9

bene.
412 Traduzione e commento
10 (Siate) affettuosi gli uni gli altri nell'amore fraterno, (sia-
te) premurosi gli uni gli altri nella stima
u Non (siate) pigri nella sollecitudine (siate) ferventi nello
Spirito, servite il Signore.
12 (Siate) gioiosi nella speranza, costanti nella tribolazione,
perseveranti nella preghiera.
13 Condividete le necessità dei santi (siate) solleciti nell'ospi-
talità.
14 Benedite coloro che [vi] perseguitano, benedite e non ma-
ledite.
15 Gioite con quanti gioiscono, piangete con quanti piangono.
16 Abbiate gli stessi sentimenti gli uni per gli altri: non pen-
sate alle cose troppo alte ma abbassatevi verso quelle umili; non
autoesaltatevi.
17 Non rendete ad alcuno male per male, proponetevi di com-
piere ciò che è bello davanti a tutti gli esseri umani.
18 Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con
tutti gli esseri umani.
19 Non fatevi giustizia da soli, diletti, ma date spazio all'ira, sta
scritto infatti: « A me la vendetta, ioripagherò», dice il Signore.
20 Ma « se il tuo nemico ha fame, dàgli da mangiare, se ha se-
te, dàgli da bere; facendo questo, metterai carboni ardenti sul suo
capo».
21 Non lasciarti vincere dal male ma vinci con il bene il male.
Sottomissione alle autorità civili
13 'Ogni persona sia sottomessa alle autorità precostituite.
Infatti, non c'è autorità se non da Dio e quelle esistenti sono sta-
te poste da Dio.
2Così, chi si oppone all'autorità si oppone alla disposizione
di Dio; ma quanti si oppongono riceveranno per se stessi la con-
danna.
infatti, i governanti non sono da temere quando si compie il
bene ma quando si fa il male. Desideri non temere l'autorità? Fa'
il bene e riceverai lode da essa!
Infatti, è ministra di Dio per te in vista del bene. Ma se fai il
male, devi temere; di fatto, non porta la spada inutilmente; in
realtà, è ministra di Dio in vista dell'ira, per la giusta condanna,
contro chi opera il male.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 413
5Perciò è necessario essere sottomessi, non solo a causa del-
l'ira ma anche per motivo di coscienza.
6Per questo, infatti, pagate anche le tasse; infatti, sono im-
piegati di Dio che si occupano assiduamente proprio di questo.
7Rendete a tutti ciò che è dovuto:
a chi la tassa, la tassa,
a chi l'imposta, l'imposta,
a chi il timore, il timore,
a chi l'onore, l'onore.
L'amore vicendevole
8Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello dell'a-
more vicendevole. Colui che ama l'altro ha adempiuto la Legge.
9Infatti, « non commettere adulterio, non uccidere, non ruba-
re, non desiderare » e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola
in questa parola: « Amerai il prossimo tuo come te stesso ».
10L'amore per il prossimo non opera il male; dunque, pie-
nezza della Legge è l'amore.
L'attesa del giorno
nE questo, consapevoli del momento: è già l'ora di svegliar-
vi dal sonno; infatti, la nostra salvezza è più vicina ora di quando
cominciammo a credere.
12La notte è avanzata, il giorno si avvicina.
Abbandoniamo quindi le opere delle tenebre,
rivestiamoci delle armi della luce.
^Comportiamoci onestamente, come durante il giorno,
non tra bagordi e ubriachezze,
non tra orge e dissolutezze,
non tra discordia e gelosia,
marivestitevidel Signore Gesù Cristo e non fate provvista
14

della carne per le passioni.


L'accoglienza dei deboli
14 Accogliete chi è debole nella fede, senza discussioni sul-
le opinioni.
2Uno crede di poter mangiare tutto mentre il debole è vege-
tariano.
414 Traduzione e commento
3Colui che mangia non disprezzi chi non mangia, ma colui che
non mangia non giudichi chi mangia: Dio, infatti, lo ha accolto!
4Chi sei tu che giudichi il servo di un altro? Per il proprio si-
gnore egli si regge o cade; ma si reggerà! Il Signore infatti è ca-
pace di farlo restare.
5C'è chi preferisce un giorno al posto di un altro, e chi con-
sidera qualsiasi giorno; ognuno sia convinto del proprio modo di
pensare.
6Chi pensa al giorno, pensa al Signore, e chi mangia, mangia
per il Signore; infatti, rende grazie a Dio; e chi non mangia, non
mangia per il Signore e rende grazie a Dio.
Infatti, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore
per se stesso:
8se viviamo, viviamo per il Signore;
e se moriamo, moriamo per il Signore.
Dunque sia che viviamo sia che moriamo, siamo del Signore.
9Infatti, per questo Cristo morì e cominciò a vivere: per es-
sere Signore dei morti e dei vivi.
10Ma perché giudichi tuo fratello? O anche tu perché disprez-
zi tuo fratello? Infatti tutti dovremo comparire davanti al tribunale
di Dio;
nsta scritto, infatti: « Io vivo, dice il Signore: a me si piegherà
ogni ginocchio e ogni lingua renderà lode a Dio ».
Pertanto, ognuno di noi renderà conto di se stesso.
12

Contro lo scandalo del fratello


Dunque non giudichiamoci vicendevolmente ma piuttosto
13

badate bene a questo, di non porre inciampo o scandalo al fratello.


So e sono convinto nel Signore Gesù che nulla è impuro
14

per se stesso, ma per chi ritiene che qualcosa sia impuro, per lui
è impuro.
Infatti, se tuo fratello si rattrista a causa del cibo, non ti
15

comporti più secondo l'amore: non perdere, a causa del tuo cibo,
colui per il quale Cristo morì.
Dunque non sia diffamato il vostro bene.
16

Infatti il regno di Dio è questione non di cibo e di bevanda


17

ma giustizia, pace e gioia nello Spirito santo.


Colui che così serve Cristo è bene accetto a Dio e approva-
18

to dagli esseri umani.


La paràclesi Rm 12,1 -15,13 415
Pertanto, perseguiamo i valori della pace e dell'edificazio-
19

ne vicendevole.
Non distruggere per il cibo l'opera di Dio. Tutto è puro ma
20

diventa male per chi mangia a causa dell'inciampo.


È bello non mangiare carne né bere vino né qualcosa per
21

cui tuo fratello inciampa.


La convinzione [che] hai, conservala per te stesso davanti
22

a Dio: beato colui che non ha bisogno di giudicarsi per ciò che di-
scerne.
Ma colui che è dubbioso, se mangia sarà condannato per-
23

ché non agisce con convinzione; e tutto ciò che non deriva dalla
convinzione è peccato.
Cristo, modello per i forti
15 tuttavia, noi che siamo i forti dobbiamo farci carico del-
le infermità dei deboli e non piacere a noi stessi.
2 Ognuno di noi cerchi di piacere al prossimo per il bene, in
vista dell'edificazione.
infatti, anche il Cristo non piacque a se stesso ma, come sta
scritto, « gli oltraggi di coloro che ti oltraggiano sono caduti su
di me ».
4In realtà, tutto ciò che fu scritto prima, fu scritto per il no-
stro insegnamento, affinché per mezzo della perseveranza e del-
la consolazione delle Scritture possiamo avere la speranza.
5 E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda
di avere fra voi lo stesso modo di pensare come Cristo Gesù,
Affinché unanimemente, con una sola bocca, glorifichiate il
Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
La perorazione sulla recìproca accoglienza
7Perciò accoglietevi vicendevolmente, come anche il Cristo
vi accolse per la gloria di Dio.
8Dico, infatti, che Cristo divenne servo della circoncisione
per la verità di Dio, così da confermare le promesse dei padri,
9e i gentili diano gloria a Dio per la misericordia, come sta
scritto: «Per questo ti loderò fra i gentili, canterò inni al tuo
nome».
10E di nuovo dice: « Rallegratevi, gentili, con il suo popolo ».
416 Traduzione e commento
E nuovamente: « Lodate, nazioni tutte, il Signore, e lo esal-
n

tino tutti i popoli ».


E di nuovo Isaia dice: « Spunterà il germoglio di lesse e colui
12

che sorgerà per governare le nazioni; in lui spereranno le nazioni ».


E il Dio della speranza vi riempia d'ogni gioia e pace nel
13

credere, cosicché abbondiate nella speranza per mezzo della po-


tenza dello Spirito santo.

Non c'è lettera interpersonale che manchi di raccomandazioni rivolte dal


mittente al destinatario: e in genere queste sono raccolte nelle parti conclusive di
una lettera, prima del poscritto epistolare . Con l'epistolografia neotestamentaria
1

e con quella paolina, in particolare, le raccomandazioni finali assumono uno spa-


zio e un ruolo sempre più rilevanti, se poste a confronto con la produzione epi-
stolare parallela . L'ampiezza delle esortazioni epistolari dipende non tanto dal-
2

l'importanza che l'etica cristiana svolge nel pensiero di Paolo, quanto dai diver-
si orizzonti relazionali chiamati in causa: da una parte si trova il mittente, con i
suoi committenti e con la comunità di partenza della missiva, dall'altra c'è una o
più comunità cristiane (cfr. in particolare le comunità della Galazia e di Roma)
esortate a vivere in adesione alla loro relazione con Cristo.
Tuttavia, nonostante quest'ulteriore novità epistolare delle lettere paoline, da
porre accanto all'ampiezza dei prescritti e dei poscritti, bisogna riconoscere che
l'esegesi neotestamentaria non ha dedicato grande attenzione a queste raccoman-
dazioni conclusive. Basta notare le proporzioni tra le analisi di molti commentato-
ri alle sezioni kerygmatiche e a quelle esortative: nel caso specifico della Lettera ai
Romani, la trattazione di Rm 12,1 -15,13 è spessoridottaal minimo, se non a una
parafrasi delle variegate raccomandazioni. Diverse motivazioni inducono a non
conferire molta attenzione a queste parti dell'epistolario paolino: il valore minore
dell'etica rispetto al kerygma della fede; la natura disarticolata delle esortazioni
paoline e la loro poca originalità rispetto alla tradizione etica giudaica, neotesta-
mentaria e popolare ellenistica. In pratica, se le sezioni kerygmatiche sono consi-
derate originali e ben articolate, quelle esortativeriprenderebberoil patrimonio eti-
co comune per essere applicate ai destinatari delle lettere. Gran parte delle respon-
sabilità per tale svalutazione è da attribuire all'autorevolezza di studiosi come M.
1 Sulle esortazioni epistolari conclusive cfr. A. Pitta, Relazioni tra esortazione morale e kerygma pao-
lino, in Paradosso, pp. 348-374. Per lo spessore esortativo dell'epistolografia antica cfr. A.J. Malherbe,
Moral Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook, Philadelphia 1986, p. 124; S.K. Stowers, Letter Writing
in Greco-Roman Antiquity, Philadelphia 1986.
2 Di questa sezione epistolare, oltre a Rm 12,1 - 15,13, fanno parte lTs 4,1 - 5,22; 2Ts 3,1-15; Gal
5,13 - 6,10; Fil 4,2-9; Col 3,1 - 4,6; Ef 4,1 - 6,20; lTm 6,2b-19; Tt 3,1-11; 2Tm 4,1-18. Queste sezioni
mancano soltanto in l-2Corinzi e in Filemone che per natura sono prevalentemente esortative. Per un qua-
dro sinottico di queste parti cfr. A. Pitta, Paraclesi conclusiva, in Sinossi paolina, pp. 235-257. Fra i con-
tributi più recenti sulle Schlussparànese cfr. H. Cruz, Christological Motives and Motivated Actions in
Pauline Paraenesis, Frankfurt am Main 1990; T. Sòding, Das Liebesgebot bei Paulus. Die Mahnung zur
Agape im Rahmen der paulinischen Ethik, Miinster 1995.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 417
Dibelius chericonosconopoca o alcuna originalità in queste sezioni dell'epistola-
rio paolino : sono valide per tutti e appartengono al senso comune dell'etica.
3

Senza negare che in queste sezioni conclusive convergano elementi tradizio-


nali dell'etica neotestamentaria e della filosofia popolare ellenistica, negli ultimi
anni questa concezione comune è stata sottoposta a critica serrata, perché è un da-
to di fatto che queste sezioni occupano uno spazio rilevante nell'economia delle
lettere paoline; e Rm 12,1 -15,13 rappresenta il caso più evidente! Piuttosto, que-
ste sezioni sono considerate sempre più importanti per delineare le ragioni per
l'invio della Lettera ai Romani e per identificare i contesti sociali del mittente e
dei destinatari . D'altro canto, vedremo come alla natura frammentaria della pri-
4

ma parte di Rm 12,1 -13,14 succede quella ben articolata di Rm 14,1 -15,13 de-
dicata alla reciproca accoglienza tra i forti e i deboli delle comunità romane.
Per importanti motivazioni abbiamo intitolato questa unità letteraria come
paràclesi e non come parenesi paolina, contrariamente alla trattazione comune di
Rm 12,1-15,13. Di fatto, mentre nel NT è raro l'uso del verbo parainein (2 vol-
te: At 27,9.22) e il sostantivo parainesis non è mai utilizzato, sono diffusi i corri-
spondenti parakalein e paraklésis . Non è un caso che Paolo introduca alcune se-
5

zioni esortative conclusive, fra le quali Rm 12,1, con il verbo parakalein e non con
parainein . Il valore semantico delle famiglie lessicali orienta decisamente verso
6

la nostra opzione per paràclesi: mentre parainein e parainesis significano soltan-


to esortare o incoraggiare, i termini paraklésis e parakalein assumono significati
più ampi, oltre a esortare, come consolare (cfr. 2Cor 1,3-4) e perorare la causa di
qualcuno in contesti giudiziari (cfr. lGv 2,1). L'esortazione paolina non è mai di-
staccata o esterna alle comunità di destinazione ma include un coinvolgimento
proprio della consolazione, nel senso positivo del termine. L'esortazione-consola-
zione paolina richiama l'origine divina della consolazione-esortazione, come di-
mostra chiaramente Veulogia di 2Cor 1,3-11: «Sia benedetto Dio, Padre del
Signore nostro Gesù Cristo, padre della misericordia e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione, affinché noi possiamo consolare
quelli che si trovano in ogni tribolazione, con la consolazione con cui siamo con-
solati da Dio» (vv. 3-4). In Rm 15,5 Paolo farà nuovamente appello al Dio della
consolazione, affinché i destinatari della lettera abbiano lo stesso modo di pensa-
3 Cfr. M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 1971 , pp. 239-244. Soltanto ne-
6

gli ultimi decenni del secolo XX l'assunto di Dibelius è stato posto seriamente in discussione. Cfr. J.M.G.
Barclay, Obeying the Truth. A Study of Paul's Ethics in Galatians, Edinburgh 1988, pp. 220-221; G.
Segalla, L'etica di Paolo, in Introduzione ali 'etica biblica del Nuovo Testamento. Problemi e storia, Brescia
1989, pp. 201-202. Comunque la concezione di Dibelius si riflette ancora nel contributo di R. Karris,
Romans 14,1 -15,13 and the Occasion of Romans, in K.R Donfried, Roman Debate, pp. 65-84.
4 Cfr. G. Smiga, Romans 12:1-2 and 15:30-31 and the Occasion ofthe Letter to the Romans, in CBQ
53 (1991) 257-273; F. Watson, The Two Roman Congregations: Romans 14,1 - 15,13, in K.P. Donfried,
Roman Debate, pp. 203-215.
5 II verbo parakalein è usato ben 109 volte nel NT, di cui 54 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 12,1.8;
15,30; 16,17; lTs 2,12; 3,2.7; 4,1; 2Ts 2,17; ICor 1,10; 4,13.16; 16,12.15; 2Cor 1,4.6; 2,7.8; 5,20; 10,1;
12,8; Fil 4,2; Fm v. 9; Col 2,2; Ef 4,1; lTm 5,1; 6,2; Tt 2,6.15); il sostantivo paraklésis compare 29 volte,
di cui 20 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 12,8; 15,4.5; lTs 2,3; 2Ts 2,16; ICor 14,3; 2Cor 1,3.4.5.6.6.7;
7,4.7.13; 8,4; Fil 2,1; Fm v. 7; lTm 4,13).
6 Cfr. anche Fil 4,2; Ef 4,1; lTm 6,2b.
418 Traduzione e commento
re di Cristo Gesù. La teologia giovannea aggiungerà l'origine pneumatologica e
cristologica della paràclesi: il titolo di paraclito (paraklètos) è utilizzato vuoi per
lo Spirito (cfr. Gv 14,16.26) vuoi per Gesù Cristo (cfr. lGv 2,1). Paolo stesso, sen-
za attribuire questo titolo allo Spirito e a Gesù Cristo, fonderà spesso sull'azione
dello Spirito e di Gesù Cristo le sue esortazioni . Pertanto, l'opzione per paràcle-
7

si, invece che per parenesi, non è semplicemente filologica ma è di tipo contenu-
tistico perchérichiamal'origine e la portata dell'esortazione paolina.
Per quantoriguardal'economia della nostra unità letteraria, sono riconoscibi-
li due parti fondamentali: Rm 12,1 -13,14, in cui sono raccolte esortazioni a largo
raggio; e Rm 14,1 - 15,13, in cui Paolo si sofferma sull'esortazione per l'acco-
glienza dei deboli nelle comunità cristiane. La prima parte è frammentaria, perché
passa dall'esortazione alla moderazione nella comunità (Rm 12,3-8), all'ideale
dell' agape come ciò che è bello e buono (Rm 12,9-21) in cui confluiscono senten-
ze di esortazioni brevi, alla sottomissione verso le autorità civili (Rm 13,1-8), al-
Vagape come compimento della Legge mosaica (Rm 13,9-10) e all'attesa escato-
logica del giorno del Signore (Rm 13,11-14). La seconda è un'eccezione nel pano-
rama delle esortazioni conclusive, perché non è frammentaria o diversificata ma è
ben organizzata, incentrata sull'accoglienza che i forti devonoriservareai deboli . 8

In questa unità, come in tutto Rm 1,18 -11,36, svolgono un ruolo decisivo le


tesi principali e quelle secondarie, in particolare Rm 12,1-2 per tutta la paraclesi
e Rm 14,1 per le relazioni tra i forti e i deboli. L'identificazione di queste propo-
sitiones è importante per non smarrire il bandolo delle molteplici raccomandazio-
ni che Paolorivolgealle comunità di Roma. In termini contenutistici, la paraclesi
di Rm 12,1 - 15,13riguardaprincipalmente l'offerta dei propri corpi, come sacri-
ficio gradito a Dio, attraverso unrinnovamentocostante della propria mente.
Il culto razionale (12,1-2). - L'etica paolina comincia con una tesi generale
che svolge il ruolo fondamentale d'introdurre la sezione esortativa della lettera
(Rm 12,3 -15,13): i vv. 1-2 si distinguono dal contesto immediato per il tenore ge-
nerale e per la loro natura unitaria , assumendo il ruolo di tesi o propositio gene-
9

rale. Nei termini introdotti in questi versi si trovano le tematiche e le coordinate


principali che Paolo svilupperà in seguito, anche se, come abbiamo osservato per
Rm 1,16-17rispettoa Rm 1,18 -11,36, non si tratta di una partitio retorica, in cui
sono anticipate in dettaglio le parti della paraclesi epistolare bensì di una tesi ge-
nerale, incentrata sul motivo del culto cristiano.

7 Per lo Spirito in Rm 12,1 - 15,13 cfr. Rm 12,11; 14,17; 15,13; per Gesù Cristo cfr. Rm 12,5.11;
13,14; 14,9.18; 15,1-6.7-8.
8 Per questo a Rm 14,1 - 15,13 dedicheremo un'introduzione a parte.
9 II verbo paratolo (esorto) e l'interpellante « fratelli » segnano il passaggio alla parte esortativa del-
la lettera. La conclusione della tesi è segnata dalla nuova formula introduttiva del v. 3: « dico infatti... ». Per
questa microunità cfr. anche H.D. Betz, The Foundations of Christian Ethics According to Romans 12:1-2,
in P.E. Devenisch - G.L. Goodwin (edd.), Witness and Existence, FS. S. M. Odgen, Chicago 1989, pp. 55-
72; B. Byrne, Romans, p. 363; C. Evans, Romans 12,1-2: The True Worship, in L. De Lorenzi (ed.),
Dimensions de la vie chrétienne (Rm 12-13) (SMB 4), Roma 1979, pp. 7-33; J.A. Fitzmyer, Romani, pp.
759-760; D.J. Moo, Romans, p. 748.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 419
Il confronto con la tesi generale di Rm 1,16-17 permette di riconoscere che,
per quanto si cerchi di stabilire alcune relazioni con la sezione precedente, la te-
si generale di Rm 12,1-2 orienta in avanti l'argomentazione paolina: in questi
versi non si parla del vangelo né dei suoi contenuti, come la fede e la giustizia.
Naturalmente, sono innegabili relazioni di contrasto con la mente travagliata de-
gli esseri umani che non hanno reso culto a Dio (cfr. Rm 1,18-32) o di continuità
con l'esortazione di Rm 6 sull'offerta delle proprie membra; comunque ora cam-
biano il livello contenutistico e il genere argomentativo della lettera . 10

Non di meno, tra le due tesi principali della letterarimanela continuità della
centralità di Dio: per tre volte Paolo rileva l'orizzonte propriamente teologico
(theos) della sua esortazione (vv. 1.1.2). Dio si trova al centro dell'universalismo
della salvezza (Rm 1,16-17) e all'origine dell'esortazione etica. Da questo punto
di vista non c'è soluzione di continuità tra quella che è generalmente denominata
sezione kerygmatica e sezione etica di Romani. La densità della tesi generale è ri-
conoscibile per la stretta relazione dei versi iniziali: una semplice congiunzione
hai introduce un'esplicitazione ulteriore (v. 2) di quanto è sostenuto al v. 1; l'of-
ferta del proprio corpo consiste nella trasformazione della propria mente e nel di-
scernimento della volontà divina.
[12,1] Come, per altre sezioni etico-epistolari, anche questa comincia con il
verbo tipico dell'esortazione paolina che ha permesso di definire l'intera sezio-
ne come paradetica più che come parenetica . Quest'esortazione è sostenuta
11

dall'interpellante «fratelli» con il quale Paolo stabilisce un nuovo collegamen-


to con i destinatari della lettera . L'uso iniziale della particella «dunque» con-
12

ferma i collegamenti tra l'esortazione e il kerygma paolino, anche se tali connes-


sioni si riferiscono a tutto Rm 1,18 - 11,36 e non soltanto all'immediato conte-
sto precedente.
Per esortare i cristiani di Roma Paolo fa appello alla misericordia di Dio , uno 13

dei motivi che ha dominato la sezione di Rm 9,1 -11,36, anche se bisogna ricono-
scere che qui utilizza il sostantivo oiktirmos e non il linguaggio proprio della mi-
sericordia divina, usato in precedenza . Il fatto che Paolo eviti il sostantivo
14

eleemosyné e che usi il corrispondente oiktirmos, generalmente (tranne in Col 3,12)


al plurale, dimostra che abbiamo a che fare con un semitismo: gli oiktirmón sono
analoghi agli splagchna, ossia alle « viscere », un antropomorfismo pe/ esprimere

10 Non c'è dubbio che la particella oun crea alcuni collegamenti con quanto precede, confermati dal
motivo della misericordia divina, ma da questo a considerare Rm 12,1 - 15,13 come appendice al motivo
della misericordia di Dio dimostrato in Rm 11, come sostiene S.P. Carbone, Misericordia, p. 66, è esage-
rato. Il centro tematico di Rm 12-15 non verte sulla misericordia salvifica ma, al massimo, su ciò che essa
causa nell'esistenza cristiana, appunto sull'esortazione all'offerta dei propri corpi.
11 Vedi a tal proposito la nostra introduzione alla presente sezione della lettera.
12 Cfr. le precedenti interpellanze introdotte da «fratelli» in Rm 1,13; 7,1.4; 8,12; 10,1; 11,25.
13 In questo caso dia + genitivo ha più valore di appellazione che strumentale: non è per mezzo ma
facendo appello o ricorso alla misericordia di Dio che Paolo esorta i destinatari. Così anche C. Evans,
Romans 12,1-2, p. 9; invece per l'interpretazione strumentale cfr. B. Byrne, Romans, p. 365.
14 II sostantivo oiktirmos compare soltanto qui in Romani (cfr. 2Cor 1,3; e in contesti propriamente
esortativi anche Fil 2,1; Col 3,12). Per l'uso di « aver misericordia » (eleein) e « misericordioso » (eleos) in
Romani cfr. Rm 9,15; 11,30.31.32.
420 Traduzione e commento
la misericordia di Dio . Per questo, l'espressione « misericordia di Dio » ha valore
15

soggettivo: è l'azione misericordiosa di Dio dalla quale deriva l'esortazione paoli-


na. In 2Cor 1,3 Dio stesso è definito padre di misericordia e di ogni consolazione.
Con la seconda parte del v. lb Paolo introduce il vocabolario cultuale che ca-
ratterizza, in modo particolare, questa tesi: i destinatari sono invitati a offrire i lo-
ro corpi come sacrificio . L'offerta dei propri corpiriscontrail suo principale cor-
16

rispondente in Rm 6,13-19 dove Paolo ha già invitato i destinatari a offrire se stes-


si per Dio ; così il sostantivo « corpo » (soma) siriferisceall'intera persona posta
17

in relazione con il Signore, senza ulteriori distinzioni di tipo dualistico.


Non è la prima volta che Paolo ricorre al linguaggio cultuale per descrivere
l'esistenza cristiana: il corpo del cristiano è, nello stesso tempo, sacrificio viven-
te e « tempio di Dio » ; e il servizio per il vangelo, come la solidarietà per i po-
18

veri, è inteso come vero sacrificio . Il primo livello della metafora cultuale ri-
19

guarda Gesù Cristo, espiazione (cfr. Rm 3,25), sacrificio per il peccato (cfr. 2Cor
5,21) e agnello pasquale (cfr. ICor 5,7). L'estensione del linguaggio cultuale dal
sacrificio materiale delle vittime alla partecipazione della propria esistenza è già
attestato nella querela profetica contro il culto esteriore, senza conversione del
cuore . Un analogo sviluppo è constatabile nella concezione filoniana dei sacri-
20

fici e presso la comunità di Qumran, ma forse il background più vicino alle for-
mulazioni paoline è quello farisaico per il quale l'offerta della propria esistenza
deve accompagnare quella delle vittime sacrificali nel tempio. A proposito del
sacrificio di Isacco, così scrive lo Pseudo-Filone: «E le generazioni saranno
istruite su di me e per mezzo di me i popoli comprenderanno che il Signore ha
considerato la vita dell'uomo degna (di essere offerta) in sacrificio» . Dunque, 21

più che alla sostituzione del culto materiale, è opportuno pensare all'estensione
della metafora cultuale.
All'origine e in quanto ragione fondamentale di qualsiasi esortazione che
Paolo esprimerà in Rm 12,1-15,13 si trova l'offerta dei propri corpi come sacrifi-
cio o vittima sacrificale. A sua volta, quest'originale vittima sacrificale è definita
come vivente, santa e gradita a Dio. Nella scelta di questi aggettivi si può cogliere
il retroterra anticotestamentario sulle condizionirichiesteaffinché il sacrificio degli

15 Per la corrispondenza tra l'ebraico ràhàmtm e il greco oiktirmos della LXX cfr. Os 2,21; Zc 1,16;
7,9; Is 63,15. Per la vicinanza tra i due termini cfr. Col 3,12 in cui si parla di «viscere di misericordia»
(splagchna oiktirmou).
16 Per il valore cultuale dell'espressione « presentare qualcosa o qualcuno » cfr. Senofonte, Anabasis
6,1,22; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 4,6,4; Luciano, Sacrificiis 13.
17 Uno sviluppo della bella espressione paolina si trova in Col 1,22.
18 Cfr. ICor 3,16-17; 6,18-20; 2Cor 6,16; Ef 2,21. Cfr. a tal proposito R. Penna, Laicità e categorie
cultuali, in L'apostolo Paolo, pp. 568-573; A. Pitta, Motivo cultuale, in Sinossi paolina, pp. 180-185.
19 Cfr. Rm 1,9-10; 15,16; 2Cor 9,11-15; Fil 4,18; cfr. anche Eb 13,16.
20 Cfr. Is 1,10-20; Ger 6,20; Os 6,6; 8,11.13; Am 5,21-27; cfr. anche ISam 15,22; Sai 50,8-15; 51,16-
17; 141,2; Sir 35,1; Tb 4,10-11; 12,12; 2Mac 12,43-44. Per il NT cfr. Mt 9,13; 12,7; Me 12,33.
21 Pseudo Filone, Liber Antiquitatum Biblicarum 32,3. Per l'influsso del giudaismo farisaico sul
LAB cfr. C. Perrot, Le but du livre et son milieu d'origine, in C. Perrot - P.-M. Bocaert (edd.), Pseudo-
Philon, Les Antiquités Bibliques (SC 130), voi. II, p. 32; A. Pitta, Paolo e il giudaismo farisaico, in Para-
dosso, pp. 72-73.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 421
animali risulti bene accolto dal Signore . Per tale accoglienza è necessario che i
22

corpi siano viventi e santi, ossia che coinvolgano la vita umana e che appartengano
al Signore. In modo analogo, in Fil 4,18 Paolo definirà i doni inviatigli dai filippesi
come sacrificio accetto e gradito a Dio. Pertanto, al vertice delle caratteristiche del
culto cristiano si trova il gradimento del sacrificio vivente e santo, come conferma
laripresadell'aggettivo « gradito » (euaresthos) nella seconda parte della tesi.
Il v. 1 si conclude con una enigmatica definizione del culto: è logike. Che co-
sa si intende con quest'aggettivo che sintetizza ogni altra dimensione del culto cri-
stiano? Non è facile tradurlo in modo corrispondente: un culto « logico », « spiri-
tuale », « vero » o « razionale »? Il corrispondente letterale « logico » è il più inade-
guato perché in italiano siriduceal tipo di argomentazione coerente o incoerente . 23

Anche la traduzione con « spirituale » (CEI) porta fuori strada perché Paolo sem-
bra evitare proprio l'aggettivo pneumatike, che pur conosce (cfr. Rm 1,11; 7,14;
15,27), per non creare un deprezzamento dell'offerta totale del proprio corpo che
invece intende sottolineare. Lo stesso vale per culto « vero », che inserisce nel te-
sto l'errata svalorizzazione del culto materiale nel tempio.
Non è facile rendere l'aggettivo anche perché logikos si trova soltanto qui e
in lPt 2,2 per l'intero greco biblico: « Come bambini appena nati bramate il puro
latte logikon » . Forse il retroterra più vicino all'espressione paolina è quello giu-
24

daico-ellenistico d'origine filoniana che utilizza spesso l'aggettivo logikos. Per la


parte indivisibile dell'uomo, Filone stabilisce un'importante assimilazione: «Ma
la parte razionale (logikon), che era chiamata mente, egli lasciò indivisa» . 25

Quindi, a proposito dei sacrifici scrive: « Ciò che è prezioso davanti a Dio non è
l'abbondanza delle vittime immolate ma l'estrema purezza dello spirito raziona-
le (pneuma logikon) di colui che offre» . Dunque, Filone relaziona il logikos al-
26

la ragione o alla mente umana; e quando si riferisce allo spirito umano lo dice
espressamente. Il rapporto tra logikos e la mente è confermato dal v. 2, in cui si
parla esplicitamente della mente e in cui è usato il verbo « discernere », tipico del-
le facoltà intellettive. Per questo nonostante alcune riserve, dovute al razionali-
smo contemporaneo, e con dovute precisazioni, sembra che Paolo si riferisca al
culto « razionale » o della mente dei credenti , poiché in essa, che però trova la
27

sua sede nel cuore e non nella testa, si compie la conversione. Se per Rm 1,21 tut-
ti si sono svuotati con i loro ragionamenti (dialogismois) e si è ottenebrato il cuo-
re umano, ora i credenti, a causa dell'azione misericordiosa di Dio, possono of-
frire il culto della loro mente, appunto un culto razionale.

22 Cfr. le condizioni per il sacrificio di animali richieste in Lv 10,16-20; 22,17-30.


23 Invece, così traduce M. Mazzeo, Il discernimento della volontà di Dio in Rm 12,1-2. Un itinerario
dinamico, in L. Padovese (ed.), Atti del V Simposio di Tarso su s. Paolo Apostolo, Roma 1998, p. 118.
24 II contesto di lPt 2,2-5 in cui si parla anche di « sacrificio spirituale » per definire il sacerdozio cri-
stiano dimostra la, dipendenza delle espressioni petrine da Rm 12,1-2 per cui è improprio spiegare Rm 12
alla luce del successivo lPt 2,2.
25 Filone, Heres 232-233.
26 Filone, Legibus 1,277; Cfr. anche Filone, Somniis 1,215; per ulteriori paralleli su logikos cfr.
Epitteto, Dissertationes 1,16,20-21; 2,9,2; Test. Levi 3,6; Corpus Hermeticum 1,31; 13,18.
27 Così traduce anche G. Barbaglio, Teologia, p. 707.
422 Traduzione e commento
[v. 2] In che cosa consiste il culto razionale dei credenti? E in che modo que-
sto si realizza? La seconda parte della tesi generale accenna al senso e alle pro-
spettive del culto razionale. Dal versante negativo, il culto cristiano è anticonfor-
mista rispetto al tempo nel quale si opera . La relazione con questo « secolo », che
28

corrisponde al presente secolo malvagio (cfr. Gal 1,4), è descritta dalla prospetti-
va escatologica della vita nuova nella quale sono entrati a far parte i credenti (cfr.
Rm 7,6). Così Paolo introduce l'orizzonte escatologico della sua esortazione: è
uno dei vettori sui quali si fondano molti imperativi successivi (cfr. in particolare
Rm 13,11-14) e che rappresenta un ulteriore elemento di continuità tra il kerygma
e l'etica paolina (cfr. Rm 6) . 29

In termini positivi, il culto cristiano si rivela come trasformazione di sé attra-


verso ilrinnovamentodella mente .1 vocaboli composti, utilizzati per indicare il
30

processo di trasformazione, sottolineano il livello superiore nel quale si colloca la


nuova esistenza del cristiano: meta- e ana- reggono rispettivamente la forma e il
rinnovamento della mente ; è in atto una vera trasfigurazione o metamorfosi del-
31

la vita che rende possibile l'offerta dei corpi. Naturalmente, questa trasformazio-
ne non si realizza in un momento ma, come Paolo ha già sottolineato in 2Cor 4,16,
il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno, sotto l'azione dinamica
dello Spirito . 32

La finalità della trasformazione della mente, che rende possibile il culto del-
la ragione , intesa come centro totalizzante di sé, è rappresentata dal discerni-
33

mento della volontà di Dio. Di fatto, è innanzi tutto con la propria mente che si
possono valutare le cose da scegliere, secondo un vero percorso di discernimento
che perviene al culmine e alla definitiva concretizzazione nell'opzione per le de-
cisioni da compiere . Contro il vanto di chi pretende di conoscere la volontà di
34

Dio (cfr. Rm 2,18), si colloca il dinamico discernimento di chi la cerca senza illu-
dersi di possederla. Non è un caso che il verbo « discernere » si trovi spesso nelle
sezioni propriamente etiche dell'epistolario paolino : in fondo, senza questa fun-
35

28 L'esortazione negativa è espressa con il verbo syschematizesthai che compare soltanto qui e in lPt
1,4 per il NT. La radice nominale schèma è utilizzata in Fil 2,7 per descrivere il percorso umano di Cristo,
e in ICor 7,31 per sostenere che passa la scena o l'immagine di questo mondo.
29 Cfr. A. Grabner-Haider, Paraklese und Eschatologie bei Paulus. Mensch und Welt im Anspruch
der Zukunft Gottes, Münster 1968, pp. 116-118.
30 II dativo « per ilrinnovamento» della mente è strumentale più che semplice.
31 II verbo metamorpheisthai compare 4 volte nel NT, di cui 2 nell'epistolario paolino e sempre in
contesto escatologico (qui e in 2Cor 3,18 per la metamorfosi causata dall'azione dello Spirito; cfr. anche
l'uso dello stesso verbo per la trasfigurazione di Gesù in Mt 17,2; Me 9,2). Utilizzando la stessa radice ver-
bale, in Fil 3,10 Paolo considererà la conoscenza di Cristo come conformazione (symmorphizomai) alla
sua morte per poter partecipare in futuro allarisurrezionedai morti. Anche il sostantivo anakainösis (rin-
novamento) è raro nel NT (compare qui e in Tt 3,5; cfr. anche il relativo verbo in 2Cor 4,16; Col 3,10):
conferma l'orizzonte escatologico nel quale si colloca l'esortazione paolina.
32 Per questo, anche se i sostantivi schema e morphe sono sinonimi, il verbo metamorpheisthai (tra-
sformarsi) ha, nel contempo, una connotazione riflessiva e passiva (« trasformatevi » e « lasciatevi trasfor-
mare»); mentre syschematizesthai ha soltanto valore riflessivo: «non conformatevi».
33 La proposizione introdotta da eis to ha valorefinalepiù che consecutivo: in tal modo è espressa la fi-
nalità della trasformazione per mezzo delrinnovamentodella mente. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 757.
34 Per il verbo dokimazein in Romani cfr. Rm 1,28; 2,18.
35 Cfr. dokimazein nei contesti morali di Rm 14,22; lTs 5,21; ICor 11,28; 2Cor 13,5; Gal 6,4; Ef 5,10.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 423
zione della mente, non è possibile alcun riconoscimento della volontà divina né
alcuna opzione categoriale. Per il momento, Paolo non definisce la volontà di Dio:
preferisce descriverla come ciò che è buono, gradito e perfetto, tre nuovi aggetti-
vi che bilanciano quelli del v.la per il sacrificio dei propri corpi. Questa volta, ciò
che è buono, ciò che si identifica con ciò che è bello (cfr. lTs 5,21) e gradito so- 36

no funzionali a quanto è perfetto. Altrove, Paolo considera come perfetti coloro


che hanno raggiunto un livello superiore di maturazione nella fede . Poiché al 37

culmine della condotta cristiana si trova V agape che è vincolo di perfezione (cfr.
ICor 13,10; Col 3,14), forse con quest'accenno a quanto è perfetto Paolo introdu-
ce un altro orizzonte fondamentale della sua etica: quello dell'amore.
Moderazione in comunità (12,3-8). - Con un appello alla propria autorità apo-
stolica, Paolo concentra il primo momento esortativo sulle relazioni comunitarie:
l'ideale della moderazione (sóphronein), espresso con la misura e con la propor-
zione della fede (vv. 3.6), deve guidare l'incarnazione di qualsiasi carisma e mini-
stero. Il riferimento all'autorità apostolica (v. 3), introdotto dalla formula «dico
infatti... », e la lista dei carismi (vv. 6-8) inquadrano bene le diverse affermazioni
paoline, così da creare una chiara microunità letteraria . 38

L'esortazione sui carismi forse dimostra, più di altre pericopi della Lettera ai
Romani, quanto sia importante il retroterra del mittente, in quanto egli sembra ri-
prendere alcuni motivi affrontati nella sua precedente corrispondenza epistolare
per collocarli in un nuovo contesto. Nella dettatura di Rm 12,3-8 non può non
aver influito la situazione della comunità di Corinto, divisa dalle esaltazioni cari-
smatiche a detrimento dell'unità nella comunità: Paolo scrive proprio da Corinto
alle comunità di Roma! . Per questo, in Rm 12,8-13 èriconoscibileuna sintesi di
39

ICor 12,1-30, anche se con significative omissioni dovute al contesto più sereno
della nuova missiva. Di fatto, in Rm 12,3-8 si può rilevare lo stesso sviluppo ar-
gomentativo di ICor 12,1-30: ,
a) contestualizzazione (ICor 12,1-3; Rm 12,3);
b) il corpo e le membra (ICor 12,12-27; Rm 12,4-5);
c) le liste di carismi e ministeri (ICor 12,4-11.28-30; Rm 12,6-8).
Il confronto pone in evidenza molti elementi di contatto tra le due sezioni, an-
che se è benerilevareche in Rm 12,3-8 non è mai citato lo Spirito che, invece, oc-
cupa il posto principale in ICor 12, né si accenna ai carismi prodigiosi o più ap-
pariscenti, come la glossolalia e i miracoli, che si trovano al centro della discus-
sione con la comunità di Corinto. Tuttavia, come in ICor 12, Paolo procede
dall'origine gratuita dei carismi alla metafora del corpo e delle membra, all'elen-

36Per l'ideale greco del kalonkagathon, ossia del bello e del buono, cfr. G. Barbaglio, Teologia, pp
707-710.
37Cfr. ICor 2,6; 14,20; Fil 3,15; Col 1,28; 4,12; Ef 4,13.
38Sulla funzione introduttiva di « dico infatti » o « dico però » cfr. Gal 4,1. Per l'unità di Rm 12,3-8 cfr.
B. Byrne, Romans, p. 367; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 764; D.J. Moo, Romans, pp. 758-759; J. Sànchez Bosch,
Le Corps du Christ et les charismes dans l'épìtre aux Romains, in L. De Lorenzi, Vie chrétienne, p. 52.
39Per l'influenza di 1 Corinzi sull'esortazione di Rm 12-15 cfr. R.J. Karris, Romans 14:1-15:13,
pp. 65-84.
424 Traduzione e commento
cazione di alcuni carismi. Il contesto polemico di ICor 12 lascia il posto all'esor-
tazione pacata per l'ideale della moderazione (cfr. Rm 12,3).
Se tale confronto dimostra come ICor 12 costituisca praticamente la forma
di Rm 12,3-8, non è facile contestualizzare il nostro brano nell'orizzonte lettera-
rio e comunitario dei destinatari. Non sappiamo se si tratti di un'esortazione pre-
ventiva o rispondente a situazioni di reale esaltazione in alcune comunità di
Roma: nel secondo caso, Rm 12,3-8 anticiperebbe la problematica sui forti e i de-
boli che Paolo affronterà esplicitamente in Rm 14,1 - 15,13 . Di certo non è un 40

caso che, diversamente da ICor 12, Paolo non si soffermi su carismi per il bene
proprio, mentre orienti la sua attenzione soltanto su carismi a forte connotazione
relazionale. Tuttavia, almeno per ora, non si può andare oltre un'anticipazione ge-
neralerispettoa Rm 14; e lo stesso vale per il contesto letterario precedente: la te-
si generale di Rm 12,1-2 non lascia intuire che Paolo avrebbe trattato dei carismi;
piuttosto ci saremmo aspettata l'esortazione sulla vigilanza di Rm 13,11-14.
In realtà, il collegamento tra la tesi di Rm 12,1-2 e l'esortazione sulla mode-
razione è meno consistente di quanto lo siano le relazioni tra le tesi e gli sviluppi
dimostrativi della sezione kerygmatica. In tal caso, si tratta non tanto di dimostra-
re quanto è stato annunciato in precedenza, quanto di rendere concreta l'esorta-
zione generale in incoraggiamenti minori che permettono di cogliere l'attuabilità
dell'etica paolina. In altri termini, anche se non vi sono consistenti connessioni
semantiche tra la tesi generale di Rm 12,1-2 e la pericope sui carismi, non c'è
dubbio che un modo concreto per non conformarsi alla mentalità del proprio tem-
po consiste nel non lasciarsi andare all'esaltazione di sé,ritenendosimigliori de-
gli altri, bensì nel mettere a disposizione i propri carismi, come fanno le membra
con il proprio corpo. Da questo punto di vista, il sostantivo soma funge da ponte
tra l'offerta dei propri corpi (v. 2) e l'essere un solo corpo in Cristo (v. 5).
Comunque, Rm 12,3-8 si contestualizza meglio nella situazione del mittente che
in quella dei destinatari, anche se non figura come un masso erratico trapiantato
nella Lettera ai Romani ma è un'esortazione che svolge, quanto meno, un ruolo
preventivo contro l'autoesaltazione nelle comunità di Roma, come in qualsiasi
comunità cristiana.
[12,3] Attraverso il gioco retorico dell'allitterazione, Paolo presenta la temati-
ca principale che intende sviluppare nei vv. 4-8 : la moderazione nella realizzazio-
41

ne dei carismiricevuti;e poiché qualsiasi carisma (charisma) è espressione o con-


cretizzazione della grazia (charis) divina, non sorprende che Paolo evochi la grazia
che gli è stata data (cfr. Rm 15,15) per sottolineare l'autorevolezza con la quale si
rivolge ai destinatari. Il momento genetico della sua autorevolezza apostolica è
quello che Lucaricordasulla strada di Damasco e che Paolo stesso presenta come
evento di rivelazione, vocazione e apostolato, nello stesso tempo (cfr. Gal 1,15).
Come dimostra laripresadella stessa formula in Rm 15,15, il soggetto della grazia
conferita a Paolo è Dio stesso; Cristo è il contenuto della grazia per l'apostolato . 42

40 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 765.


41 Per la funzione introduttiva del v. 3 rispetto ai vv. 4-8 cfr. anche DJ. Moo, Romans, p. 759.
42 Cfr. anche le formule analoghe in Rm 1,5; ICor 3,10; 2Cor 8,1; Gal 1,15-16; 2,9; Ef 3,7-8.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 425
Il motivo della moderazione è ben introdotto dalla figura della paronomasia,
ossia dall'accostamento fonico di termini simili con significato diverso, in una
composizione chiastica: (a) hyperphronein; (b) phronein; (b') phronein; (a') só-
phronein. Al centro del chiasmo si trova il verbo semplice phronein (pensare) che
rappresenta la condizione senza la quale non è possibile il negativo hyperphronein
(pensare di più, sopravvalutarsi) né il positivo sóphronein (pensare con equilibrio,
essere moderati) . L'ideale della moderazione o dell'equilibrio (sóphrosyne) è ca-
43

ro alla paideia greca ed è particolarmente consigliato per coloro che assumono


compiti di gestione o di governo nella polis. Secondo l'assioma di Sap 8,7 la giu-
stizia insegna la moderazione e la prudenza. Tornando sulla stessa virtù, Paolo
esorterà i destinatari a non « pensare a cose troppo alte ma a piegarsi verso quelle
umili » (Rm 12,16), dimostrando che l'ideale della moderazione si coniuga con l'u-
miltà eriscontrail suo modello, la sua ragione fondante in Cristo (cfr. Fil 2,5-11).
La moderazione cristiana non è ricondotta tanto al senso comune delle rela-
zioni umane bensì a Dio stesso che distribuisce il metro della pistis. Non è sem-
plice definire il senso dell'espressione « metro della fede », che non trova paralle-
li in tutto il greco biblico: Di che genitivo si tratta? E la pistis si identifica con la
fede in Cristo, come generalmente in Romani, oppure con la fedeltà o la credibi-
lità e quindi lafiduciaripostada Dio in quanti arricchisce con i suoi doni? Innanzi
tutto, è benerilevarela prospettiva teologica nella quale si contestualizza il metro
della fede: Dio lo distribuisce a ciascuno. Da questo punto di vista, l'espressione
più vicina è quella di Rm 3,2.3, in cui la « fede di Dio » si identifica con la sua fe-
deltà e non con la fede dei credenti in lui. Come agli israeliti furono affidate le pa-
role di Dio così ora Dio distribuisce ai membri della comunità cristiana il metro o
la proporzione della sua fedeltà. Tale connessione esclude la dimensione kerigma-
tica della fede in Cristo, perché questa è senza proporzione, anzi è posta nei cre-
denti con un dinamismo progressivo . Un'analoga espressione è riscontrabile in
44

ICor 7,17, a proposito del matrimonio e della verginità, anche se manca il sostan-
tivo pistis: « Tranne in questo caso, ciascuno si comporti come il Signore ha di-
stribuito, come Dio lo ha chiamato ». Paolo stessoricorda,in altri contesti, che gli
è stato affidato il vangelo (cfr. Gal 2,7). Questa connotazione di pistis, come affi-
dabilità o credibilità si colloca bene nel contesto dei carismi e permette di consi-
derare il genitivo metro della fede come qualificativo più che soggettivo: non si ri-
ferisce alla fede come criterio per una proporzionalità dei carismi che, d'altro can-
to, non possono essere confrontati fra di loro, quanto all'affidabilità o alla fiducia
di Dio verso i credenti e che diventa il criterio o il metro per carismi e ministeri . 45

43 II verbo semplice phronein è tipico dell'epistolario paolino rispetto al NT: vi compare 23 volte su
26 (per Romani cfr. Rm 8,5; 11,20; 12.16.16; 14,6.6; 15,5): verrà utilizzato soprattutto in Filippesi (cfr. Fil
1,7; 2,2.2.5; 3,15.15.19; 4,2.10.10). Meno frequente è il composto sóphronein (6 volte nel NT, di cui per le
lettere paoline cfr. 2Cor 5,13; Tt 2,6), mentre hyperphronein è hapax legomenon del NT (cfr. anche 4Mac
3,1; 14,11; 16,2; Polibio, Historia 6,18,7; Platone, Alcibiade l,104a).
44 Cfr. 2Cor 10,15; Fil 1,25; 2Ts 1,3. Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 765 che pensa alla fede
in Cristo.
45 Una prospettiva analoga èriscontrabilein Ef 4,7.13.16, in cui il dono di Cristo diventa il metro dei
carismi nella Chiesa. Per metron nel NT cfr. anche 2Cor 10,13.13 (cfr. anche per il greco extrabiblico
Platone, Legibus 4,716c; Senofonte, Ciropedia 1,3,18).
426 Traduzione e commento
In pratica, la proporzione della fiducia divina non è diversa dai talenti che, in pro-
porzione, un padrone affida ai suoi servi, prima della sua partenza: a ognuno sono
affidati cinque, due e un talento (cfr. Mt 25,14-30 e Le 19,11-27); e l'accento non
è posto sulla disparità delle proporzioni quanto sulla fiducia del padrone o di Dio
nell'affidare ai suoi servi i talenti affinché li facciano fruttificare.
[vv. 4-5] Per illustrare l'interdipendenza fra i diversi carismi nella comunità,
Paoloricorrecome in ICor 12,12-27 alla metafora del corpo e delle membra diffu-
sa nella cultura popolare ellenistica, soprattutto con l'apologo di Menenio Agrippa
alla plebe romana . Laripresadi ICor 12,12 in Rm 12,4-5 merita di essere posta in
46

sinossi perché permette di evidenziare l'originalità dell'argomentazione paolina ri-


spetto alla concezione ellenistica della repubblica o del cosmo:
ICor 12,12 Rm 12,4-5
« Come infatti il corpo, « ...Come in un corpo
pur essendo uno, abbiamo molte membra,
ha molte membra ma tutte le membra
e tutte le membra, non hanno la stessa funzione,
pur essendo molte, così noi, che siamo molti,
sono un corpo solo, siamo un solo corpo in Cristo,
così anche Cristo ». e membra gli uni degli altri ».
Le proposizioni sono simili, perché relazionano le membra e il corpo, da una
parte, e i credenti e Cristo, dall'altra. Tuttavia, si può notare come in Rm 12,4-5 la
metafora del corpo sia liberata dal contesto polemico di ICor 12,12-27 in cui
Paolo si sofferma sulle relazioni fra le membra e sui diversi ruoli che svolgono nel
corpo. L'apologo di ICor 12,12-27 è sintetizzato dall'assioma di Rm 12,4: «Tutte
le membra non hanno la stessa funzione » (Rm 12,4). Il confronto conferma la pro-
spettiva cristologica per la relazione tra il corpo e le membra: dall'appartenenza a
Cristo, per formare un solo corpo, alla molteplicità delle membra che entrano in
comunicazione reciproca. In questo modo di utilizzare la metafora si trova la prin-
cipale originalità dell'argomentazione paolinarispettoalla somatologia greco-ro-
mana: l'unicità dell'essere «in Cristo» determina la molteplicità delle membra e
dei relativi ruoli, non l'inverso. Questo implica che la relazione con Cristo rap-
presenta il nucleo centrale dal quale prende forma e incarnazione qualsiasi cari-
sma nella comunità; e ogni tensione nell'espressione dei carismi non va risolta
con il confronto fra le diverse membra che, il più delle volte, sirivelaimprodutti-
vo se non controproducente perché induce alcuni all'autoesaltazione e altri alla
frustrazione, ma a partire da questa relazione originaria . 47

46 Cfr. Tito Livio, Ab Urbe condita 2,32; cfr. anche l'applicazione della metafora alla repubblica in
Platone, Re publica 462c-d; e per le relazioni tra gli esseri e l'universo come in un corpo immenso in
Epitteto, Dissertationes 2,10,4-5; Seneca, Epistulae 95,52.
47 A questa originaria e fondamentale relazione dell'essere in Cristo si deve l'unica citazione di
Gesù Cristo in Rm 12: il prossimo riferimento comparirà in Rm 13,14 (cfr. anche il riferimento implicito
di Rm 12,11: « Servite il Signore »). La formula « in Cristo » è tipica del linguaggio paolino per esprimere
la partecipazione alla sua morte e risurrezione (per il suo uso in Romani cfr. Rm 3,24; 6,11.23; 8,1.2.39;
9,1; 15,17; 16,3.7.9.10).
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 427
Molto discussa è 1' origine della metafora del corpo applicata alla relazione
con Cristo. Ormai sembra tramontata l'idea gnostica dell 'uomoprimordiale in cui
Cristo assumerebbe la funzione di colui che incorpora in misura cosmica ogni
membro che gli si relaziona: le fonti sono tardive rispetto all'epistolario paolino.
Lo stesso vale per il modello dell'incorporazione adamitica, che troverebbe una
conferma nella relazione tra Adamo e gli esseri umani espressa in Rm 5,12-21: lì
Paolo non parla mai della capacità del corpo di Adamo d'includere tutti. A prima
vista, sembra più interessante la relazione tra il motivo del corpo e la metafora
sponsale, a partire dalla citazione di Gn 2,24 (« I due saranno una sola carne »), ri-
presa esplicitamente in ICor 6,16, alla quale Paolo aggiunge: « Ma chi si unisce al
Signore forma con lui un solo spirito » (v. 17). Tuttavia, anche se nelle grandi let-
tere Paolo utilizza il linguaggio sponsale per esprimere la relazione tra Cristo e i
credenti (cfr. Rm 7,4), questa derivazione è poco probabile perché Paolo non so-
stiene che i credenti sono partner di Cristo per formare un solo corpo, come in
contesto sponsale, bensì che i credenti stessi sono corpo di Cristo (cfr. ICor 12,27)
oppure che sono « un solo corpo in Cristo » (cfr. Rm 12,4) . 48

Invece più vicino al pensiero paolino è il collegamento con l'eucaristia, in


quanto Paolo non esita a parlare dell'eucaristia come corpo di Cristo al quale si re-
lazionano tutti i credenti: « E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con
il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi tutti pur essendo molti, siamo un
solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (ICor 10,16-17). Si può no-
tare come vi siano notevoli relazioni terminologiche sia con ICor 12,12 sia con
ICor 10,16-17, al punto che non si può escludere tale connessione sostenendo
semplicemente che « mangiare il corpo di Cristo non significa essere suo corpo » . 49

La questione non è se dall'eucaristia si diventi corpo di Cristo bensì che queste


due realtà siano corpo di Cristo e relazionate fra di loro. Non è un caso che l'ac-
cenno a «molti» e al «mio corpo» dell'istituzione eucaristica (cfr. ICor 11,24-
25) si ritrovi in questi passi in cui Paolo parla di carismi e ministeri nella comu-
nità. Dunque, anche se l'immagine del corpo è diffusa nella cultura popolare, for-
se Paolo, neir applicarla alla relazione della comunità con Cristo, sviluppa il
percorso inverso della partecipazione, che trova il modello più vicino nella rela-
zione con l'eucaristia: se da un versante Cristo è in noi con l'azione potente dello
Spirito, dall'altro, noi siamo in lui per formare un solo corpo.
[v. 6a] Dopo aver richiamato l'originaria relazione con Cristo, analoga a
quella tra le membra e il corpo, Paolo elenca una serie di carismi, analoga a quel-
la di ICor 12,8-10 e di ICor 12,28 . Prima dell'elenco, egli preferisce applicare
50

48Ancora non abbiamo l'uso esplicito della metafora sponsale di Ef 5,29-31, in cui Cristo si unisce
alla Chiesa per formare una sola carne e in cui, comunque, l'essere membra del suo corpo dei credenti pre-
cede e non segue né deriva dall'unione tra Cristo e la Chiesa.
49Così R.Y.K. Funk, Corpo di Cristo, in Dizionario di Paolo, p. 333.
50Soltanto Paolo e la sua tradizione utilizzano il sostantivo charisma nel NT (al di fuori delle lettere
paoline cfr. anche lPt 4,10). Questo puòriferirsiai doni interpersonali (cfr. Rm 1,11) e a quelli divini (cfr.
Rm 11,29), secondo il senso più comune nell'epistolario paolino; nello stesso tempo può avere una porta-
ta kerygmatica, come per il dono della salvezza (cfr. Rm 5,15.16; 6,23), oppure una portata ecclesiologi-
ca, come nel nostro caso e in ICor 12. Per i carismi nell'epistolario paolino cfr. N. Baumert, Charisma und
428 Traduzione e commento
ai carismi lo stesso dinamismo dell'autorità apostolica che ha richiamato al v. 3:
« ...Secondo la grazia che ci è stata data... ». Ancora una volta, è bene sottolinea-
re l'origine gratuita dei carismi, mentre in ICor 12 l'attenzione è focalizzata sul-
l'interazione tra lo Spirito, il Signore e Dio (cfr. ICor 12,4-6): qui non si parla mai
dello Spirito anche se, di fatto, senza lo Spirito non possono esserci carismi!
[vv. 6b-8] L'elenco dei carismi è presentato come un fiume in piena che fe-
conda il corpo della comunità: è l'impressione che crea la presente lista, confer-
mata dalla mancanza o dall'ellissi dei verbi principali. L'unica pausa è posta al-
l'inizio, con ilriferimentoalla proporzione o all' analogia della fede che va inter-
pretata come per il metro della fede : l'affidabilità di Dio qualifica la proporzione
51

dei carismi nella comunità . Per questo, anche se la proporzione dell'affidabilità


52

è accennata dopo la profezia, vale per tutta la lista in cui sono elencati sette cari-
smi che svolgono un ruolo esemplificativo e non intendono essere completi né
hanno la pretesa di essere i migliori o gli unici. Il confronto con le altre liste nel-
l'epistolario paolino permette di cogliere interessanti elementi di continuità e di
discontinuità : 53

ICor 12,8-10 ICor 12,28 Rm 12,6b-8 Ef4,ll


apostoli apostoli
profezia profeti profezia profeti
parola di conoscenza didascali didascalo didascali
poteri di miracoli miracoli
guarigioni
governo colui che presiede pastori
parole di sapienza
fedeltà
distinzione degli spiriti ministero
lingue lingue
interpretazione delle lingue
colui che esorta
colui che distribuisce
assistenza colui che usa misericordia
evangelizzatori.
Il confronto con le liste di ICor 12 che è quello prioritario, rispetto a quello
con Ef 4, pone in risalto l'assenza d'importanti carismi nell'elenco di Rm 12:
non si parla degli apostoli né di carismi portentosi, come le guarigioni, i miraco-

Amt bei Paulus, in A. Vanhoye, L'apótre Paul, pp. 203-228; R. Fabris, Prima Lettera ai Corinzi (LB 7),
Paoline, Milano 1999, pp. 155-187; G.D. Fee, Doni dello Spinto, in Dizionario di Paolo, pp. 475-487;
S. Schatzmann, A Pauline Theology of Charismata, Peabody 1989.
51II sostantivo analogia è hapax legomenon del greco biblico; nel greco profano è diffuso in conte-
sti matematici (cfr. Platone, Timaeus 31-32c; Aristotele, Ethica Nicomachea 1131,31).
52L'orizzonte comunitario dei carismi è posto ben in risalto da E. Testa, Condivisione dei beni, dei
carismi e dei ministeri secondo Paolo e Luca, in M.M. Morfino, Theologica, pp. 151-170.
53Cfr. anche W.A. Meek, First Urban Christian, p. 135; V. Scippa, I carismi per la vitalità della
Chiesa: Studio esegetico su ICor 12-14; Rm 12,6-8; Ef 4,11-13; lPt 4,10-11, in Asp 38 (1991) 5-25.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 429
li e le lingue. Forse, senza utilizzare con esagerazioni l'approccio speculare del
non detto o del mirror reading, tali omissioni sono dovute ai diversi contesti tra
la ICorinzi e Romani. A differenza da ICor 12, i carismi di Rm 12 sono orienta-
ti all'ordinarietà dell'esistenza cristiana e non alla straordinarietà, a dimostrazio-
ne che la grazia divina èriconoscibileinnanzi tutto nella semplicità della propria
condotta. Certo sorprende l'assenza dell'apostolato, che occupa, comunque, un
ruolo privilegiato tra i carismi e i ministeri: tale omissione pone maggiormente in
risalto l'originalità dell'apostolato che ha spinto Paolo arivolgersicon autorevo-
lezza ai destinatari della Lettera ai Romani.
Alcuni cercano di colmare la mancanza di verbi nell'elenco di Rm 12 con al-
cuni imperativi, a causa del contesto esortativo della lista; in tal caso avremmo af-
fermazioni come: «La profezia sia svolta secondo l'analogia della fede...». In
realtà, è difficile inserire alcuni imperativi che se, da un lato, semplificano la lista,
dall'altro rischiano di appiattire l'andamento dei carismi. D'altro canto, nes-
sun'altra lista è espressa in forma imperativale ma con indicativi che attestano la
realizzazione dei carismi.
Ilriferimentoal contesto di ogni carisma, proprio di Rm 12,6-8, è originale e
permette di focalizzarne il ruolo, anche se a volte si tratta di una sorta di polittoto
retorico ossia di una ripetizione dello stesso vocabolario utilizzato per i carismi:
il ministero nel ministero, colui che insegna nell'insegnamento, colui che esorta
nell'esortazione. Dal punto di vista stilistico, la lista si divide in due parti: i primi
quattro carismi sono introdotti dalla particella «sia» (eite), gli altri tre sono anti-
cipati dalla formula « colui che... » (ho + participio).
Soltanto la profezia èripetutanei quattro elenchi; e per essa vale, in partico-
lare, la proporzione dell'affidabilità divina. Di fatto, questo carisma attesta, più
di altri, la fiducia che Dio ha nel comunicare la rivelazione della sua volontà a
persone scelte nella comunità. Forse è bene ricordare che questo carisma, parti-
colarmente diffuso nelle prime comunità cristiane , nonriguardatanto la spiega-
54

zione oracolare del futuro quanto la rivelazione attuale della volontà divina per
l'orientamento dei percorsi personali e comunitari . 55

Più problematica è la definizione della diakonia:riguardaqualsiasi ministero


o quello specifico del diaconato? E in quest'ultimo caso, si relaziona alla parola o
al servizio delle mense, come sembra emergere da At 6,1-7? Nell'epistolario pao-
lino i sostantivi diakonos e diakonia svolgono innanzi tutto la funzione generale di
« servo » e di « servizio »: così è per Cristo definito diacono della circoncisione (cfr.
Rm 15,8), come per coloro che svolgono un'autorità nella società civile (cfr. Rm
13,4). Con questa ampia accezione, anche la colletta per i poveri è considerata dia-
conia (cfr. 2Cor 8,4; 9,1.12; Rm 15,31). Per inverso, Paolo non ignora il ministero
del diaconato quando sirivolgeagli episcopi e ai diaconi della comunità di Filippi
(cfr. Fil 1,1) ma si tratta di un caso raro e non è detto che siriferiscaa un ministero
particolare . Di fatto, più ampia è l'attestazione per la diaconia intesa come mini-
56

54Cfr. a tal proposito D.E. Aune, La profezia nel primo cristianesimo e il mondo mediterraneo anti-
co, Brescia 1996.
55Per la profezia nell'epistolario paolino cfr. ICor 12,10; 13,2.8; 14,6.22; lTs 5,20; lTm 1,18; 4,14.
56Nelle lettere pastorali si assiste a una maggiore identificazione del diaconato (cfr. lTm 3,8.12).
430 Traduzione e commento
stero in generale (cfr. ICor 12,5) ; e il contesto analogo di ICor 12 lascia intende-
57

re quest'ultima accezione anche per Rm 12: siriferiscea qualsiasi ministero svolto


nel servizio per la comunità . Poiché lo stesso Luca descrive, dopo l'istituzione, il
58

ministero di Stefano e di Filippo (cfr. At 7,1 - 8,40) come diaconia per la predica-
zione del vangelo, è improbabile che, prima del 70 d.C., il diaconato fosse collega-
to soltanto al servizio delle mense: è invece possibile che anch'esso assumesse una
portata generale di servizio per la predicazione . L'inclusione del servizio della pa-
59

rola nel ministero di Rm 12 è confermata dal contesto più prossimo in cui si parla
dei ministeri della profezia e dell'insegnamento, ossia di due ministeri caratteriz-
zati dall'evangelizzazione. In tal caso, di questa diaconia potrebbe far parte anche
l'apostolato che, comunque, non è citato esplicitamente in questa lista.
Il terzo carisma è quello dell'insegnamento (didaskalia), citato anche nella li-
sta di ICor 12,28.29 e in quella di Ef 4,11. Nel descrivere la comunità di Antiochia,
Luca parla di profeti e maestri, a conferma dell'importanza di questo ministero
nelle comunità cristiane delle origini : serve per l'insegnamento di chiunque nel-
60

la comunità ma, in particolare, per quanti intraprendono il percorso di formazione


o di ciò che oggi denomineremmo catechesi in senso ampio.
Anche il quarto carisma assume una portata generale: l'esortazione, nell'e-
sortazione. In verità, come abbiamorilevatonell'introduzione alla sezione, il ver-
bo parakalein e il sostantivo paraklésis esprimono significati diversi, in dipen-
denza dei contesti di appartenenza: esortare, incoraggiare, consolare, perorare.
Anche se potremmo pensare al ministero specifico della consolazione , è preferi- 61

bile optare per il ministero più generale dell'esortazione che include anche la fun-
zione della consolazione per coloro che si trovano nell'afflizione . 62

La seconda parte della lista passa dai carismi a coloro che li esercitano, spe-
cificando lo spirito che dovrebbe caratterizzare il loro ministero. Così, colui che
distribuisce ai bisognosi è invitato a svolgere il suo carisma con semplicità e non
con affettazione o con secondi fini, d'interesse personale . Il sesto carisma ri-
63

guarda coloro che svolgono un ruolo di governo o di presidenza: il loro ministero


sia improntato alla sollecitudine! Non è chiaro se Paolo siriferiscaal governo del-
la famiglia o alla presidenza della comunità cristiana. Tuttavia, poiché le prime
comunità cristiane erano domestiche , è preferibile pensare alla presidenza nella
64

57 Cfr. anche 2Cor 3,7.8.9; 4,1; 5,18.


58 Così invece D.J. Moo, Romans, p. 766, che relaziona questa diaconia all'organizzazione della co-
munità.
59Così anche G. Rossé, Atti degli Apostoli. Commento esegetico e teologico, Roma 1998, p. 274.
60Cfr. a tal proposito A.F. Zimmermann, Der urchristliche Lehrer. Studien zum Tradenkreis der di-
daskaloi im frühen Urchristentum, Tübingen 1984.
61Per la paraclesi come consolazione cfr. 2Cor 1,3.4.6.
62Sulla paraclesi com'esortazione cfr. Rm 15,4.5; lTs 2,3; ICor 14,3.
63Anche se il verbo metadidömi può valere per qualsiasi condivisione (cfr. Rm 1,11; lTs 2,8), il ri-
ferimento alla «semplicità» e i paralleli di Ef 4,28; Gb 31,17; Pr 11,26; Le 3,11; Erma, Visione 3,9,4,
orientano verso la condivisione materiale con i bisognosi. In pratica, questo ministero sembra più vicino al
diaconato della Chiesa successiva, caratterizzato dal soccorso per i bisognosi. Così anche J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 769; invece per l'accezione generale di questo ministero cfr. J. Sänchez Bosch, Corps, p. 68.
64II duplice orizzonte domestico e comunitario sarà sottolineato nelle lettere pastorali per i diaconi
(cfr. lTm 5,12) e per i presbiteri (cfr. lTm 5,17). Lo stesso carisma è elencato in ICor 12,28 con il lin-
guaggio del governo (kybernèsis). Così anche J. Sänchez Bosch, Corps, p. 70.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 431
comunità: questa sia svolta con sollecitudine, senza cadere in forme di disinteres-
se per quanti appartengono alla stessa comunità, soprattutto per i più bisognosi . 65

Da una prospettiva inversa, Paolo aveva già esortato i tessalonicesi ad avere ri-
spetto per coloro che svolgono questo ministero nella comunità (cfr. lTs 5,12).
L'ultimo carisma è quello della misericordia: sia svolta con gaudio . Anche 66

questo ministero siriferiscealla sfera caritativa o sociale della comunità, come di-
mostra l'insistenza sulla gioia per la colletta verso i poveri (cfr. 2Cor 9,7). L'azione
misericordiosa trova i suoi modelli nella vicenda di Tobia (cfr. Tb 1,3; 4,7) e in
quella del buon samaritano (cfr. Le 10,37) . Naturalmente, questo ministero può
67

riguardare anche la cura degli ammalati o dei carcerati e non soltanto quella per i
poveri.
L'amore come ideale del bello e del buono (12,9-21). - Il secondo quadro del-
l'esortazione paolina è incentrato sull'amore interpersonale, relazionato ai valori
fondamentali del bello e del buono, secondo l'ideale tipicamente greco del ka-
lonkagathon (ciò che è bello e buono). Sembra che anche in questa parte Paolo
prosegua sul canovaccio di ICor 12-14, in cui alla questione dei carismi e delle re-
lazioni tra il capo e le membra (ICor 12,l-31a) succede l'inno ali 'agape (ICor
12,31b - 13,13). Tuttavia, se in ICor 13 Paolo intesse l'elogio dell 'agape, qui si
sofferma sulle sue diverse manifestazioni concentrate sul bello e sul buono . 68

La tesi principale o propositio della sezione èriconoscibilenel v. 9, che si di-


stingue da quanto segue per l'annuncio tematico dell'amore, visto dal risvolto
negativo della separazione dal male e da quello positivo dell'attaccamento al be-
ne . Da questa tesi prendono spazio diverse esortazioni per le quali è inutile cer-
69

care composizioni simmetriche, come ad esempio le strutture chiastiche dei vv.


9-13 e dei vv. 17-21 . Piuttosto, le esortazioni paoline sono intrecciate per cop-
70

pie e per trinomi senza un particolare ordine interno; al massimo è possibile di-
stinguere i vv. 10-13, in cui tutte le esortazioni sono sviluppate con participi, dai
vv. 14-21, in cui si passa alle relazioni con il nemico, espresse anche all'impera-
tivo e all'infinito verbale. Preferiamo optare per questa distinzione generale più
che distinguere la parte sulle relazioni interne (vv. 9-13) da quella sulle relazioni

65La sollecitudine (spoude) è la virtù che Paolo propone, in particolare, ai corinzi, in occasione del-
la colletta per i santi (cfr. 2Cor 8,7.8), e sulla quale tornerà per le relazioni interpersonali in Rm 12,11.
66II sostantivo hylarotés è hapax legomenon nel NT: è sinonimo della «gioia».
67Così V. Scippa, Carismi, p. 19.
68Pur nella frammentarietà delle abbondanti esortazioni, la microunità di Rm 12,9-21 è ben ricono-
scibile proprio per le connessioni tra il bello e il buono, da una parte, e il male, dall'altra: questa polarità
antinomica determina una chiara inclusione tra il v. 9b e il v. 21. Stranamente B. Byrne, Romans, pp. 375,
380, distingue la microunità di Rm 12,9-16 da quella di Rm 12,17-21, per poi riconoscere un'inclusione
tra il v. 3 e il v. 16: se l'inclusione è reale in una pericope determina una consequenziale microunità lette-
raria. La stessa divisione è proposta da T.R. Schreiner, Romans, pp. 662-663; invece per l'unità dei vv. 9-
21 cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 772; DJ. Moo, Romans, pp. 769-771; C.H. Talbert, Tradition and
Redaction in Romans XII.9-21, in NTS 16 (1969-1970) 84-85.
69Per la funzione tematica del v. 9 cfr. anche D.A. Blach, The Pauline Love Command: Structure,
Style, and Ethics in Romans 12:9-21, in FilNeot 2 (1989) 3-5; DJ. Moo, Romans, p. 774.
70Così D.A. Blach, Love, pp. 3-22; cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 773. Contro il modello cla-
stico della pericope cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 662.
432 Traduzione e commento
esterne (vv. 14-21), mentre tale separazione è troppo restrittiva rispetto allo
sguardo globalizzate dell'esortazione . 71

Circa le fonti, nei vv. 9-21 sonoriconoscibilichiari collegamenti con la tradi-


zione sapienziale anticotestamentaria e del giudaismo del secondo Tempio, da una
parte, e con l'insegnamento etico propriamente greco-romano, dall'altra ; e non 72

sono irrilevanti le relazioni con i detti gesuaniriportatinei vangeli sinottici, anche


se, come vedremo, è diffìcile determinare con sicurezza il tipo di dipendenza. Il tal
senso, l'etica paolina raccoglie molto materiale tradizionale collocandolo in un
nuovo contesto determinato dalla situazione concreta della comunità di partenza e
di arrivo della lettera. Dunque, non abbiamo a che fare con esortazioni generiche
e valide per qualsiasi comunità o, ancor di più, per chiunque, né con un'etica che
sorge come un fungo nel panorama comportamentale del NT.
[12,9] Il titolo di un'esortazione etica a largo raggio non poteva non essere
incentrato sull'amore e sulla sua attuazione nelle relazioni con il bene e con il ma-
le. L'identificazione di questa tesi nella sezione etica della lettera è importante per
i collegamenti con la tesi principale della sezione: ciò che è buono, gradito e per-
fetto e che rappresenta il culto razionale dei credenti (vv. 1-2) è, in definitiva, l'a-
more che non è ipocrita e che prende le distanze dal male.
Il percorso figurativo dell 'agape nella sezione kerygmatica della lettera per-
mette di cogliere la sua origine teologica e cristologica: prima di questo verso,
Paolo si è soffermato sulla dimensione gratuita e storicamente riconoscibile del-
l'amore di Cristo (cfr. Rm 8,35.37) e di Dio per noi (cfr. Rm 5,5.8; 8,39), anche se
non ha omesso di accennare alla dimensione umana di « coloro che amano Dio »
(cfr. Rm 8,28). Quiriprendeproprio quest'ultima prospettiva, perché l'amore per
Dio trova la sua verifica nelle relazioni con il prossimo, come dirà in Rm 13,8-10.
Rispetto alle principali connotazioni dell 'agape cristiano, è necessario libe-
rare il campo da alcuni luoghi comuni come la netta separazione dall' eros (l'a-
more fisico) e dalla philia (l'amore amicale) oppure l'appropriazione indebita
dell'agape nell'ambito religioso cristiano, come se non se ne parlasse prima, so-
prattutto nella tradizione giudaica dell'AT. Di fatto, nella LXX è utilizzato spes-
so il verbo agapan (circa 270 volte), anche se il sostantivo agape risulta meno fre-
quente (19 volte); e in questo modo è descritto l'amore, tutt'altro che disincarna-
to, di Ammon per Tamar (cfr. 2Sam 13,15) o quello dello sposo per la sposa nel
Cantico dei cantici (cfr. Ct 2,4-7; 3,5-10). Non è sostenibile neppure la netta di-
stanza dall'amore amicale perché al v. 10 si parlerà dellaphilanthropia ossia del-
l'amore fraterno o dell'amicizia cristiana (cfr. anche Tt 3,4 per Idifilantropiadi
Dio). Pertanto, l'agape cristiano non prende le distanze dal coinvolgimento fisico
71 Da questo punto di vista la nostra analisi prende le distanze da quanti, come D. Zeller, Romani, p.
331, distinguono nettamente le relazioni interne (vv. 9-13 o vv. 9-16) da quelle esterne (vv. 14-21 oppure vv.
17-21), e da quanti, come K.L. Yinger, Romans 12:14-21 and Nonretaliation in Second Tempie Judaism:
Addressing Persecution within the Community, in CBQ 60 (1998) 74-96, rileggono le esortazioni paoline
soltanto nel contesto interno della comunità, mentre alcune esortazioni sono di portata generale, valide per
le relazioni interne e per quelle esterne. Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 678.
72 Cfr. a tal proposito W.T. Wilson, Love Without Pretense: Romans 12.9-21 and Hellenistic-Jewish
Wisdom Literature (WUNT 2/46), Tübingen 1991.
La paràclesi Rm 12,1 -15,13 433
né dalla reciprocità relazionale, rischiando di impoverirsi, ma si caratterizza come
espressione dell'amore originario e gratuito di Cristo e di Dio per noi. Piuttosto,
la fisicità dell'amore di Cristo per noi, che perviene al vertice con la sua morte di
croce, dovrebbe rappresentare l'antidoto principale contro una disincarnazione
dell'amore cristiano; e la gratuità dell 'agape trova nella benevolenza per il nemi-
co la sua più alta manifestazione. In questa tesi del paragrafo, Paolo sottolinea la
sincerità dell'amore perché, purtroppo, anch'esso può essere ipocrita o masche-
rato, come dimostrano le molteplici situazioni dell'esistenza umana . Questa ca- 73

ratterizzazione sembra evocare la proposizione di ICor 13 in cui Paolo ha soste-


nuto che / 'agape si compiace della verità (cfr. ICor 13,6).
Nella seconda parte del v. 9, l'esortazione alla sincerità dell'amore si concre-
tizza nella repulsione verso il male e nell'attaccamento al bene . Da tale relazio- 74

ne emerge che non sono il bene e il male a determinare l'orientamento dell'amo-


re ma il contrario; l'amore sincero permette diriconoscereciò che è bene e ciò che
è male, soprattutto in contesti culturali variegati in cui è difficile distinguere il be-
ne dal male. Dunque, ciò che è buono e bello e che, in definitiva, è gradito a Dio,
non è standardizzato o precostituito ma si identifica con l'amore sincero dal qua-
le deriva qualsiasi opzione categoriale autenticamente cristiana . 75

[vv. 10-13] L'ideale dell'amore come bello e buono abbraccia tutti gli ambi-
ti dell'esistenza cristiana: per questo alla tesi principale di Rm 12,9 succede una
catena dettagliata di dieci esortazioni di natura generale. Sono incluse le relazioni
interpersonali, intraecclesiali ed extraecclesiali, con se stessi, con lo Spirito e con
il Signore, contro quantiriduconotali esortazioni al tessuto interno delle comunità
di Roma. L'intreccio di specifiche esortazioni è cadenzato da una serie di partici-
pi che sostituiscono le forme imperativali dirette, come si verifica spesso nel gre-
co ellenistico, senza la necessità di ricorrere a forme sintattiche d'origine semiti-
ca, come invece ritengono alcuni . 76

Il primo orizzonte riguarda l'amore fraterno: sia intenso o affettuoso (philo-


storgoi) ! . A causa del pronome allelois (gli uni gli altri), diffuso nelle esortazio-
77

ni paoline, sembra che l'invito all'intensità dell'amore fraterno riguardi prima-


riamente le relazioni con coloro che condividono la stessa fede. Tale contesto è
più riconoscibile in lTs 4,9-10, in cui l'amore fraterno dei tessalonicesi è ricon-
73 L'aggettivo anypokritos, utilizzato per l'amore anche in 2Cor 6,6 (cfr. anche Sap 5,18; 18,15; lTm
1,5; 2Tm 1,5; Gc 3,17; ÌPt 1,22),rifletteil contesto teatrale delle maschere da indossare per esprimere i di-
versi caratteri della commedia o della tragedia.
741 verbi corrispondenti utilizzati per il male e per il bene non sono molto utilizzati nel NT: aposty-
gein è hapax legomenon nel greco biblico e non esprime soltanto il fuggire dal male ma l'odiarlo con vio-
lenza (cfr. Erodoto, Historia 2,47). Il verbo kollasthai (unirsi, attaccarsi) è più frequente nel NT (12 volte)
e nell'epistolario paolino caratterizza la relazione unitiva tra l'uomo e la donna (cfr. ICor 6,16.17; cfr. an-
che Mt 19,6).
75 Per l'odio per il male e l'amore per il bene cfr. Am 5,15; Sai 97,10; 1QS 1,4-5; Test. Ben 8,1.
76 Così P. Kanjuparambil, Imperatival Participles in Rom 12:9-21, in JBL 102 (1983) 285-288; C.H.
Talbert, Tradition, pp. 84-91. Anche l'ipotesi di W.T. Wilson, Love, pp. 161-163, per le esortazioni diplo-
matiche espresse con il participio invece dell'imperativo non regge, poiché Paolo non esita a utilizzare
l'imperativo nei vv. 14.21.
77 L'aggettivophilostorgos è hapax legomenon nel NT (cfr. anche 4Mac 15,13; Flavio Giuseppe, Ant.
giud. 7,252).
434 Traduzione e commento
dotto a Dio e si esprime verso i fratelli della Macedonia . Nella seconda parte del
78

v. 10, Paolo insiste sull'esortazione intracomunitaria, riprendendo il pronome del-


la reciprocità, perrichiamarealla stima vicendevole: siano premurosi . Forse con 79

quest'esortazione Paolo pone i presupposti per l'esortazione che rivolgerà ai for-


ti e ai deboli delle comunità di Roma; la stessa esortazione èrivoltaalle comunità
paoline (cfr. ICor 8,7-13; Gal 5,15). La prima parte del v. 11 resta ancorata alle
relazioni comunitarie, anche se l'esortazione alla sollecitudine può estendersi a
qualsiasi rapporto umano: questa non sia pigra ma generosa . 80

Con la seconda parte del v. 11 cambia l'orizzonte esortativo ma non sono


chiari i riferimenti relazionali: Paolo esorta i destinatari a essere ferventi nello
Spirito santo oppure nel loro spirito interiore? Sono invitati a servire il Signore
(kyrios) oppure a servire il kairós del tempo presente? La prima questione è di ca-
rattere semantico, la seconda è anzitutto di tipo testuale, per cui è meglio risalire
dalla seconda alla prima difficoltà. Il sostantivo kairós è riportato da autorevoli
codici del NT ed è preferito da alcuni esegeti , per sottolineare l'orizzonte esca-
81

tologico dell'esortazione paolina. Tuttavia, non è mai utilizzato con il verbo


« servire » (doulouein), come invece il sostantivo kyrios* . La scelta per kairós, al
2

posto di kyrios, può dipendere dall'uso delle sigle nella trascrizione dei codici:
l'originale kó è stato riferito al tempo (kró) e non al Signore . 83

Una volta stabilita la prospettiva cristologica della seconda esortazione, in cui


Paolo incoraggia i destinatari a servire il Signore, diventa più chiara anche quella
della prima esortazione: il servizio per il Signore è collegato al fervore nello Spi-
rito , giacché Paolo spesso crea una profonda relazione tra lo Spirito e il Signore,
84

al punto che « Signore è lo Spirito » (cfr. 2Cor 3,17); e ha stabilito una relazione tra
il servizio per il Signore e la novità dello Spirito (cfr. Rm 7,6). In tal modo ci tro-
viamo di fronte a una sorta d'endiadi: essere ferventi nello Spirito non è diverso da
servire il Signore; e poiché, come abbiamo già evidenziato nell'introduzione ge-
nerale a Rm 12,1 -15,13, le sezioni paracletiche presentano un significativo oriz-
zonte pneumatologico (cfr. in seguito Rm 14,17; 15,13), qui Paolo sembra sottoli-
neare la relazione con lo Spirito, mentre in Rm 13,11-14 evidenzierà la prospetti-
va escatologica della condotta cristiana. In pratica, servire il Signore equivale ad
agire o meglio a lasciarsi condurre dallo Spirito (cfr. Rm 8,14), poiché lo Spirito è
Cfr. gli stessi contesti in Eb 13,1; lPt 1,22; 2Pt 1,7.7.
78

II verbo proégeisthai è hapax legomenon nel NT. Il sostantivo timé può assumere diversi signifi-
79

cati, in dipendenza dei contesti: onore (cfr. Rm 2,7.10), rispetto (cfr. ICor 12,23.24), caro prezzo (cfr. ICor
6,20; 7,23). Qui è in questione la stima o il rispetto verso tutti coloro che condividono la stessa fede.
II contesto comunitario della sollecitudine è confermato dall'immediato v. 8 in cui questa virtù è
80

sottolineata per coloro chericopronoruoli di responsabilità nella comunità.


Cfr. i codici D, F, G. Dal punto di vista esegetico la lezione con kairós è preferita da B. Byrne,
81

Romans, p. 379.
Cfr. Col 3,24; anche le analoghe espressioni in Rm 14,18 e in lTs 1,9.
82

Così anche B.M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament, Stuttgart 1994 , p. 466.
83 2

Dalla prospettiva antropologica, « essere ferventi nello spirito » corrisponde a una dimensione del-
84

l'amo interiore; questa visuale è sostenuta da J.A. Fitzmyer, Romani, p. 776, a causa dell'espressione
analoga in At 18,25, in cui si verifica l'altro caso dell'uso del verbo zein (essere fervente) nel NT. Tuttavia,
il contesto di Atti è diverso da quello di Rm 12,11 in cui si parla del servizio per il Signore. Per la pro-
spettiva pneumatologica cfr. anche D.J. Moo, Romans, p. 778.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 435
in noi e noi siamo nello Spirito (cfr. Rm 8,9), come siamo in Cristo. D'altro canto,
la sequenza esortativa che procede dallo Spirito alla speranza, alla persecuzione e
alla preghiera cheriscontriamonei vv. 1 lb-12 è la stessa di Rm 8,18-27.
Dopo il binomio del v. 11 segue il trinomio del v. 12 in cui Paolo si sofferma
appunto sulla speranza, sulla persecuzione e sulla preghiera, con esortazioni brevi
e incisive. Si può notare come, se la speranza e la preghiera possonorientrarenel-
l'orizzonte comunitario, la tribolazione può assumere una portata generale, poiché
vale per le relazioni interne e per quelle esterne della comunità.
Se in Rm 5,3-4 la sequenza è stata dalla tribolazione alla speranza ora, come
in Rm 8,18-25, Paolo procede dalla speranza alla tribolazione e alla preghiera . 85

Non è facile stabilire il significato del dativo te elpidi: è causale, nel senso che i
destinatari sono esortati a gioire a causa della speranza , è strumentale, con riferi-
86

mento alla gioia per mezzo della speranza, oppure è locale, perché bisogna essere
gioiosi nella speranza? . Forse, a causa delle successive esortazioni sulla tribola-
87

zione e sulla preghiera, è preferibile l'ultima possibilità .1 motivi della speranza


88

e della gioia sarannoripresinella conclusione della sezione,riconducendola loro


origine al Dio della speranza che ricolmi i destinatari di ogni gioia e pace nel cre-
dere (cfr. Rm 15,13).
Anche l'esortazione alla costanza o alla perseveranza, nella tribolazione, ha
caratterizzato la sequenza di Rm 5,3 in quanto la tribolazione produce la perse-
veranza. Se tale esortazione non necessita di una contestualizzazione propria
nella situazione dei destinatari, è pur vero che assume particolare valenza pro-
prio per le comunità di Roma, in seguito all'editto di Claudio contro gli ebrei
(49 d.C.) . Tuttavia, bisogna riconoscere che la tribolazione, come la persecu-
89

zione, non riguarda soltanto le relazioni esterne ma anche quelle interne delle
prime comunità cristiane. Non sono molti i riferimenti espliciti alla preghiera in
Romani (cfr. Rm 1,10; 8,26; 15,30): e se in Rm 8,26 ha evidenziato l'origine
pneumatologica della preghiera, qui Paolo si sofferma sulla sua perseveranza
perché, in definitiva, la perseveranza nella preghiera rende possibile quella nel-
la persecuzione . 90

L'ultima coppia esortativa della prima parte è nuovamente incentrata sulle


relazioni comunitarie, in particolare sulle necessità dei santi e sull'ospitalità; le
prime siano caratterizzate dalla condivisione, la seconda dalla premura. Anche
queste esortazioni assumono una portata generale e valida per qualsiasi comunità
cristiana, poiché Paolo sottolinea spesso gli ideali della condivisione e dell'ospi-
talità. Forse volutamente, nella prima esortazione si parla di «santi» (hagioi) e

85 Così anche DJ. Moo, Romans, p. 779.


86 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 776.
87 B. Byrne, Romans, p. 379, opta per il valore locale e per quello strumentale. Invece, per il senso
locale soltanto cfr. D.J. Moo, Romans, p. 779.
88 Paolo tornerà spesso in questa sezione a trattare della gioia (cfr. Rm 12,15.15; 14,17; 15,13).
89 Vedi l'introduzione generale al nostro commentario.
90 Spesso il verbo proskarterein è utilizzato nel NT in connessione con la preghiera, soprattutto ne-
gli Atti degli apostoli (cfr. At 2,46; 6,4); la stessa esortazione paolina siriscontrain Col 4,2. Per la pre-
ghiera in contesti esortativi paolini cfr. anche Fil 4,6; lTs 5,17; Ef 6,18; lTm 2,1.
436 Traduzione e commento
non semplicemente di « fratelli »: in tal modo, Paolo sottolinea che la condivisio-
ne nelle necessità di coloro che condividono la propria federiguardaquanti sono
accomunati dalla stessa santità, anche se si tratta d'indigenti o di poveri . Anche 91

quest'esortazione dovette risultare particolarmente significativa per le comunità


cristiane di Roma che, come abbiamo evidenziato nell'introduzione generale,
erano composte in prevalenza di schiavi o di liberti. La condivisione della santità
interpella per una consequenziale condivisione delle necessità o dei bisogni ma-
teriali . Per questo, la santità in questione è non tanto etica bensì di tipo esisten-
92

ziale:riguardal'originaria santità derivante dalla santità di Cristo che è condivisa


dalla fede in lui. Quasi in forma d'inclusione, la prima parte della catena esortati-
variprendeil vocabolario costruito sulla radice philos (vv. 10.13) per concludere
con il motivo dell'ospitalità: i destinatari siano premurosi nell'ospitalità . 93

[v. 14] Cogliendo l'occasione dal duplice significato del verbo diókein , 94

Paolo passa dal motivo dell'ospitalità a quello delle relazioni con i nemici . In 95

queste proposizioni sono diffusi iriferimentialla tradizione sapienziale anticote-


stamentaria e gesuana, come dimostra la prima esortazione che sembra evocare il
detto di Mt 5,44-47 e di Le 6,27-28:
Mt 5,44 Le 6,28 Rm 12,14
« Amate i vostri nemici « Benedite coloro « Benedite coloro che [vi] perseguitano.
e pregate per coloro che vi maledicono, benedite e non maledite»,
che vi perseguitano ». pregate per coloro
che vi maltrattano ».
Il confronto con la duplice tradizione sinottica di Matteo e di Luca è illumi-
nante : per un verso, l'esortazione paolina è vicina al detto matteano a causa del
96

verbo « perseguitare » (diókein), per l'altro sembra più relazionata a quello lucano
a causa della benedizione iniziale (eulogeite) e per l'uso del verbo «maledire»

91 II vocabolario della condivisione è tipico dell'epistolario paolino: il sostantivo koinönia vi si trova


13 volte su 19 nel NT (cfr. Rm 15,26; ICor 1,9; 10,16.16; 2Cor 6,14; 8,4; 9,12; 13,13; Gal 2,9; Fil 1,5; 2,1;
3,10; Fm v. 6) e il verbo koinönein compare 5 volte su 8 del NT (cfr. Rm 12,13; 15,27; Gal 6,6; Fil 4,15; lTm
5,22). Cfr. a tal proposito E. Franco, Comunione e partecipazione. La koinönia nell'epistolario paolino,
Brescia 1986; Id., Chiesa come koinönia: immagine, realtà, mistero, in RivBib 44 (1996) 157-192.
92In Rm 15,16.25 Paolo delineerà il suo progetto di viaggio verso Gerusalemme per offrire la colletta
ai poveri dei santi nella comunità madre. Comunque qui non si riferisce alle necessità dei santi di
Gerusalemme, come in 2Cor 9,1.12, ma alle necessità verso i bisognosi delle stesse comunità di Roma.
93La relazione tra l'amore fraterno (philadelphia) e l'ospitalità (philoxenia) verràripresain Eb 13,2.
Per l'ospitalità nel NT cfr. anche lTm 3,2; Tt 1,8; lPt 4,9.
94Per il significato positivo di diókein nel senso di perseguire o cercare cfr. Rm 9,30.31; ICor 4,12;
invece per il significato negativo di perseguitare cfr. Gal 1,13.23; 4,29; 5,11; 6,12.
95 Cfr. a tal proposito S. Légasse, Vengeance humaine et vengeance divine en Romains 12,14-21, in
Department des Etudes Bibliques de 1'Institut Catholique, La Vie de la Parole: De l'Ancien au Nouveau
Testament, FS. P. Grelot, Paris 1987, pp. 281-291.
96 Sulle relazioni tra l'epistolario paolino e la tradizione gesuana dei detti cfr. J.D.G. Dunn, Paul's
Knowledge ofthe Jesus Tradition: The Evidence of Romans, in K. Kertelge - T. Holtz - C.-P. März, Christus
Bezeugen, pp. 193-207; S. Kim, Gesù, detti di, in Dizionario di Paolo, pp. 706-735; F. Neirynck, Paul and the
Sayings of Jesus, in A. Vanhoye, L'Apòtre Paul, pp. 265-321; J. Sauer, Traditionsgeschichtliche Erwägungen
zu den Synoptischen und paulinischen Aussagen über Feindesliebe und Wiedervergeltungsverzicht, in ZNW
76 (1985) 1-28.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 437
(katarasthai), anche se, mentre in Le 6,28 Gesù chiede di benedire coloro che ma-
ledicono, Paolo invita i credenti a benedire e non a maledire. Non è facile stabili-
re con certezza il tipo di relazione con questo detto gesuano, perché, fra l'altro,
l'esortazione paolina non è introdotta da alcuna formula di citazione e ricalca lo
stile paolino, riconoscibile nella ripetizione del verbo « benedire ». Forse più che
di un'esplicita dipendenza da Mt 5,44 o da Le 6,28 è più opportuno parlare di una
comune relazione con la fonte Q, che sembra precedere la redazione matteana e
quella lucana . D'altro canto, già in ICor 4,12 Paolo ha ricordato che «insultati,
97

benediciamo; perseguitati, sopportiamo» . Circa il contesto, l'esortazione assu-


98

me una portata generale, perché può valere per le relazioni interne e per quelle
esterne della comunità . 99

[v. 15] In questi versi confluisce anche la tradizione dei detti sapienziali
dell'AT; con la condivisione del pianto Paolo sembra collegarsi all'esortazione di
Sir 7,34: «Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto» . 100

Tuttavia, per il motivo della condivisione della gioia, assente in Sir 7, si può par-
lare soltanto di allusioni più che di citazioni o diriferimentidiretti. Comunque nei
vv. 15-16 Paolo sembra anticipare la sequenza di Fil 2,1-18 in cui, alla condivi-
sione degli stessi sentimenti succede il motivo dell'umiltà e la condivisione della
gioia . Non è un caso che al v. 15 l'esortazione alla condivisione della gioia pre-
101

ceda quella del pianto: è sempre più difficile condividere la gioia che il pianto
perché la prima condivisione non è falsificabile come la seconda; anzi, se la soli-
darietà nel pianto può essere dettata da una negativa compassione, quella della
gioia è autentica oppure è subito smascherata . Per questo, in questo caso vale
102

particolarmente l'esortazione generale a non amare in modo ipocrita (v. 9).


[v. 16] Il motivo del «pensiero» o del tipo di mentalità e di ragionamento
che deve regolare le relazioni comunitarie deve essere particolarmente caro a
Paolo, se anche in questi versi, torna sull'uso del verbophronein (vv. 3.3.16.16).
In ultima analisi, il rinnovamento della mente (nous) rappresenta il primo oriz-
zonte della fede e dell'etica, perché dal suo cambiamento (metanoia) dipende
qualsiasi altro comportamento etico.
97 Così anche D.J. Moo, Romans, pp. 780-781; D.C. Allison, The Pauline Epistles and the Synoptic
Gospels: The Pattern ofthe Parallels, in NTS 28 (1982) 11-12; N. Walter, Paulus und die urchristliche
Jesustradition, inAOT31 (1985) 498-522.
98 Cfr. anche lQapGen 20,28, in cui Abramo sembra pregare per il faraone, suo persecutore. Il Papiro
Insinger 19riportaun detto analogo: « È più bello benedire un altro che maledire chi ti ha fatto un danno ».
99 Con buona pace di K.L. Yinger, Romans 12, pp. 74-96, che in base ai paralleli della letteratura gii£
daica (cfr. CD 9.2-5; 1QS 10,17-18; 2En 50,3-4; Test. Gad 6-7; Ps. Focilide 76-78; Giuseppe e Asenat
28,10,14) ritiene che la revisione della legge del taglione si riferisce sempre alle relazioni interne.
L'asserzione è troppo generica per poter essereridottaalle relazioni intracomunitarie. Per lariformadella
legge del taglione anche nelle relazioni esterne cfr. G.M. Zerbe, Non-Retaliation in Early Jewish and New
Testament Texts: Ethical Themes in Social Contexts (JSP SS 13), Sheffield 1993, p. 75.
100Cfr. anche Gb 30,35; Test. Issacar 7,5; Test. Zàbulon 7,4; Test. Giuseppe 17,7.
101Si può notare come, in questi versi, le esortazioni sono espresse non soltanto con il participio (vv.
9-13.16-18) ma anche all'imperativo (v. 14) e all'infinito (v. 15): tali variazioni sono dovute alle diverse
opportunità stilistiche del greco che permettono di non appesantire l'abbondanza delle esortazioni paoli-
ne. Per la funzione imperativale dell'infinito, in verità non comune nel NT, cfr. Fil 3,16.
102In ICor 12,26 Paolo aveva fondato la condivisione della gioia e della sofferenza sulla metafora
del corpo e delle membra.
438 Traduzione e commento
Ora i destinatari sono invitati ad avere gli stessi sentimenti o gli stessi pen-
sieri, gli uni per gli altri; e concretamente la condivisione di tali pensieri si pro-
duce nel non pensare a cose troppo alte ma ad abbassarsi verso quelle umili. Torna
così il motivo dell'autoesaltazione a discapito di coloro che condividono la stes-
sa fede (cfr. hyperphronein in Rm 12,3). Con questaripresatematica, più che con
il motivo della persecuzione , Paolo sembra realmente anticipare la questione
103

delle relazioni tra i forti e i deboli nelle comunità di Roma . 104

A causa di tale anticipazione, l'espressione tois tapeinois potrebbe essere re-


sa al maschile (verso gli umili) e non come neutro (verso le cose umili), perché al-
trove il vocabolario dell'umiltà è utilizzato da Paolo inriferimentoalle persone e
non alle cose . In realtà, non perché in altri contesti si parla dell'umiltà interrela-
105

zionale si deve necessariamente pensare che in questo caso Paolo siriferiscaalle


relazioni con gli umili. Piuttosto, poiché l'asserzione del v. 16b è costruita in for-
ma parallela , è più naturale opporre le cose troppo alte a quelle umili e non a co-
106

loro che sono umili di condizioni sociali. D'altro canto, la scelta per le cose umili
include anche quella per coloro che sono economicamente disagiati; le due possi-
bilità non si escludono proprio con ilriferimentoalle cose umili . L'ideale dell'u- 101

miltà trova la sua origine e il principale modello in Cristo Gesù (cfr. Fil 2,5-11).
Forse, è bene evidenziare che l'umiltà cristiana non scaturisce da un'autodemoli-
zione personale che finisce con l'essere affettata ma dalla relazione con Cristo e
con la sua croce . L'esortazione sulla mentalità cristiana si conclude con una sen-
108

tenza definitoria e laconica (« Non siate saggi secondo voi stessi », in pratica « non
esaltatevi »), con la quale Paolo biasima ancora una volta l'autoesaltazione a detri-
mento degli altri, in particolare verso quanti appartengono alla stessa comunità . 109

[v. 17] L'ultima parte di questa densa e molteplice esortazione torna a tratta-
re delle relazioni con il nemico (cfr. v. 14), attraverso il superamento della legge
del taglione (vv. 17-21). L'ideale dell'amore come kalonkagathon, è ripreso, co-
me all'inizio della pericope (v. 8), attraverso l'opposizione tra il bene o bello e il
male . Anche in questo caso, Paolo si riferisce alle relazioni interne ed esterne
110

della comunità: il superamento della legge del taglione vale per tutti, indistinta-
mente (vv. 17.18) e non soltanto per i membri della stessa comunità. Naturalmen-
te se quest'ideale è importante per ognuno, a maggior ragione è fondamentale per
quelli della stessa comunità di fede.

Invece K.L. Yinger, Romans 12, pp. 90-95, per sostenere la prospettiva intracomunitaria di Rm
103

12,9-21 ritiene, con esagerazione, che il conflitto tra i deboli e i forti di Rm 14-15 sia di tipo persecutorio.
Cfr. in seguito il motivo del «pensare » in Rm 14,6; 15,5. L'espressione to auto...phronein (lo stes-
104

so pensare) è tipicamente paolina (cfr. Rm 15,5; 2Cor 13,11; Fil 2,2; 4,2).
Cfr. 2Cor 11,7; 12,21; Fil 2,8; 4,12. Così B. Byrne, Romans, p. 380.
105

II verbo synapagomai (sottomettersi) che fa da parallelo al verbo phronein si trova soltanto qui, in
106

Gal 2,13 e in 2Pt 3,17 per il NT; per la LXX cfr. soltanto Es 14,6.
Se intendiamo l'espressione come maschile, riscontriamo un nuovoriferimentoalle umili condi-
107

zioni dei cristiani di Roma. Così J.D.G. Dunn, Paul, p. 674.


Per questo motivo nell'AT e nel NT cfr. Gdc 6,15; Sai 10,18; 34,18; Pr 3,4-5; Is 14,32; 49,13; Gc 4,6.
108

Cfr. l'espressione analoga in Rm 11,25.


109

Si noti la piccola inclusione tra il « male » e il « bello » del v. 17 e il « male » e il « buono » del v. 21
110

e attraverso di essa quella con « ciò che è malvagio » e « ciò che è buono » del v. 9.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 439
II superamento della legge del taglione è un tratto caratteristico dell'insegna-
mento di Gesù , anche se non bisogna dimenticare che la sua revisione si trova
111

già nell'AT e nel giudaismo paratestamentario . Per questo, rispetto alla tradi-
112

zione di Mt 5,38-48, è più coerente ipotizzare alcuni paralleli che vere e proprie
dipendenze da parte di Paolo. D'altro canto, l'originale espressione «male per
male » (kakon anti kakou) è paolina e della sua tradizione, mentre non si trova al-
trove nel NT . Che anche per quest'esortazione sulla revisione della legge del ta-
113

glione sia in questione prima di tutto la mente (nous) lo dimostra l'uso del verbo
phronoein (proporsi, preoccuparsi): i destinatari sono invitati a preoccuparsi e
quindi a compiere il bello-buono verso tutti.
[v. 18] Paolo sa bene quanto sia difficile conservare le buone relazioni con
tutti, sia con quelli della propria comunità sia con gli esterni. Per questo, con tat-
to e con realismo, invita i cristiani di Roma a fare il possibile per vivere in pace
con tutti. Nel retroterra di quest'esortazione sembra tornare un altro motivo sa-
pienziale dell'AT: « Sta' lontano dal male e fa' il bene, cerca la pace e persegui-
la» (Sai 34,15). Anche in questo caso, è più realistico parlare di evocazioni che
di citazioni dirette dall'AT. Lo stesso vale per la relazione con la beatitudine
matteana degli operatori di pace che « saranno chiamati figli di Dio » (Mt 5,10):
le connessioni sono troppo flebili perché si possa trattare di dipendenze anche
soltanto dalla tradizione presinottica, come invece nel caso di Rm 12,14 . D'al- 114

tro canto, è tipico di Paolo esprimere un'esortazione, come quella a vivere in pa-
ce con tutti, in modo così incisivo, soltanto con l'uso del bel verbo eiréneuein
(vivere in pace) . 115

[vv. 19-20] Ora l'appello si fa accorato e più intenso, come dimostra l'inter-
pellante «diletti» rivolto ai destinatari della lettera (cfr. l'uso precedente in Rm
1,7). Paolo insiste sul superamento della legge del taglione richiamando l'origine
divina della giustizia: per questo non è bene che ci si faccia giustizia da soli, at-
traverso la vendetta personale, ma si dia tempo e spazio all'ira divina . Si può no- 116

tare che, da una parte, la giustizia è relazionata all'ira divina, come in Rm 1,17-
18, e che, dall'altra, di per sé, Paolo non asserisce che l'ira divina è soltanto quel-
la escatologica o finale . La prima connessione dimostra che, anche se la
117

giustizia divina sirivelaprincipalmente come salvezza e misericordia, non manca


1 ' orizzonte dell ' ira trattata lungamente in Rm 1,18- 3,20. Circa la prospettiva cro-
nologica dell'ira divina, comerivendicazioneper coloro che sono oppressi, è tipi-
co della figura anticotestamentaria del gó'él o riscattatore l'intervento immediato
IIICfr. Mt 5,38-39; Le 6,29; per l'epistolario paolino cfr. lTs 5,15; ICor 13,5-6.
112Cfr. Pr 20,22; 24,29; Es 23,4-5; Giuseppe e Asenat 23,9; 28,4.14; 29,3. Cfr. a tal proposito l'otti-
mo saggio di G. Barbiero, L'asino del nemico. Rinuncia alla vendetta e amore del nemico nella legislazio-
ne dell'Antico Testamento (Es 23,4-5; Dt 22,1-4; Lv 19,17-18) (AnBib 128), Roma 1991.
113Cfr. Rm 12,17; lTs 5,15; lPt 3,9.
114Così anche DJ. Moo, Romans, p. 785.
115Per il NT, prescindendo da Me 9,50, questo verbo si trova soltanto in Rm 12,18; 2Cor 13,11; lTs
5,13. Per la LXX cfr. Sir 6,6 per le relazioni di pace con tutti.
116Anche se non è detto esplicitamente, Paolo non siriferiscealla vendetta umana, ma all'ira divina.
Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 779; DJ. Moo, Romans, p. 786.
117Così invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 779.
440 Traduzione e commento
per la liberazione del prossimo . Il duplice orizzonte sulla certezza dell'interven-
118

to di Dio come riscattatore, nel presente e nel futuro del suo disegno, è posto ben
in luce dalla parabola lucana del giudice empio e della vedova: « E Dio non farà
giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà aspettare lun-
gamente? Vi assicuro che farà loro giustizia prontamente » (Le 18,7-8).
In questa complessità della giustizia divina si spiega perché lo stesso Paolo
interpreti, ad esempio, la partecipazione indegna alla cena del Signore come ma-
nifestazione attuale dell'ira divina: «Per questo fra voi ci sono molti ammalati e
infermi, e un buon numero sono morti » (ICor 11,30); e in Rm 3,8 ha già commi-
nato la condanna per quanti lo hanno calunniato . Dunque non sembra che, di fat-
119

to, si mostri tantorispettosodel principio enunciato in Rm 12,19, perché queste ri-


letture della manifestazione della condanna o dell'ira divina sono tentativi di ap-
propriazione indebita dello spazio e del tempo che appartengono soltanto alla
giustizia divina. Per sottolineare l'attribuzione esclusivamente divina della giusti-
zia, Paolorichiamail comandamento di Lv 19,18a: « Non ti vendicherai e non ser-
berai rancore contro i figli del tuo popolo... » . Ariguardo,è preferibile pensare a
120

una semplice allusione a una tematica diffusa nell'AT e nel giudaismo successivo
che a una citazione diretta , mentre la seconda parte di Lv 19,18b sarà citata in
121

forma diretta in Rm 13,9.


Segue la citazione diretta di Dt 32,35, anche se ci troviamo in un contesto
propriamente esortativo in cui sono rare le citazioni esplicite dell'AT . Nonostan- 122

te la formula di citazione, « sta scritto », la fonte paolina si diversifica dalla LXX


(« Nel giorno della vendetta ioripagherò») e dal TM (« Mia sarà la vendetta e il
castigo ») mentre è uguale a quella di Eb 10,30: « A me la vendetta, ioripagherò».
Non è facile stabilire se la citazione di Eb 10,30 derivi da Rm 12,19 o se entram-
be le citazioni dipendano da una fonte diversa dalla LXX: la seconda ipotesi è
quella più probabile . Circa l'aggiunta, «dice il Signore», è difficile considerar-
123

la come parte integrante della citazione , per quanto la fonte paolina sia diversa
124

dalla LXX e dal TM: è più probabile che sia un'aggiunta redazionale , posta per 125

118 Cfr. Lv 25,25-26; Nm 35,12-27; Dt 19,6-12; Gs 20,3-9.


119 Contro i tentativi di giustizia sommaria in 2Cor 10,6 Paolo stesso si dice pronto a punire qualsia-
si disobbedienza. Cfr. anche il quadro catastrofico di 2Ts 1,6-10.
120 Cfr. anche 2Cr 28,8-15; Pr 20,22; 24,29; Sir 28,1; Test. Gad 6,7; 1QS 10,17-19; CD 9,2-5.
121 Si può notare come Paolo estenda gli orizzonti intracomunitari di Lv 19,18 riferendosi a tutti, an-
che se quest'orizzonte più ampio è già presente nella tradizione giudaica e non è esclusivamente cristiano
(cfr. Pr 6,1; Sir 13,15; lEn 99,15; Filone, Legibus 2,63; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 7,260; Test. Issacar
7,6). Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 679.
122 La formula introduttiva « sta scritto infatti » siritroveràin Rm 14,11 ed è tipica delle grandi lette-
re paoline (cfr. ICor 1,19; 3,19; Gal 3,10; 4,22.27). Cfr. anche la formula «come sta scritto » in Rm 3,4.10;
4,17; 8,36; 9,13.33; 10,15; 11,8.26.
123 In questo caso la fonte paolina sembra più vicina a quella del Tg. Neof. I e del Frg. Tg. a Dt 32,35
che però sono successive all'epistolario paolino.
124 Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 787, chericorreal parallelo profetico sulla vendetta divina
di Ger 5,9 per ipotizzare l'inclusione di « dice il Signore » nella citazione di Rm 12,19. Un caso analogo è ve-
rificabile in 1 Cor 14,21 ; invece per 1 ' appartenenza di questa formula alle citazioni paoline cfr. Rm 14,11 ; 2Cor
6,17.18. Sull'attribuzione divina della vendetta oltre a Ger 5,9 cfr. anche Ger 23,2; Os 4,9; GÌ 3,21; Na 1,2.
125 Così anche B. Byrne, Romans, p. 383.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 441
rimarcare l'autorevolezza della citazione riportata. Tale interpretazione è confer-
mata dall'avversativa successiva (alla) che non appartiene alla citazione diretta di
Pr 25,21riportatain Rm 12,20.
Accanto alla citazione di Dt 32,35 è collocata quella più lunga di Pr 25,21 che
questa volta corrisponde alla versione della LXX, tranne per il verbo psómize (of-
frire da mangiare) invece di trephe (nutrire) che comunque sono sinonimi . In 126

cjuesto caso è più difficile cogliere il significato dell'espressione « ammassare car-


boni ardenti sul capo del proprio nemico» : ha valore negativo, come metafora
127

cherimandaall'ira divina , o assume anche un significato positivo, per il conte-


128

sto di Rm 12? . L'alternativa vale non soltanto per Rm 12,20 ma anche per la fon-
129

te di Pr 25,22 . Il contesto proprio di Rm 12,9-21 orienta decisamente verso il


130

pentimento del nemico, rimandato alla sua responsabilità e sul quale pesa la ver-
gogna per averricevutoil bene invece del male. Forse l'episodio più emblematico
che illustra bene l'applicazione di Pr 25,22 in Rm 12,20 è quello di Saul e Davide
narrato in ISam 14,12-21: « Tu mi hairipagatodi beni e io ti horipagatodi mali »
(v. 18) . Per il resto, è difficile stabilire se Paolo e l'autore di Pr 25,22 conoscano
131

l'istruzione di Amenemope 4,20; 5,5,5 («Non fare uno scandalo contro chi ti at-
tacca... Riempigli lo stomaco con il tuo pane, perché se ne sazi e pianga») o un 132

rituale di scrittura demotica,risalenteal secolo III a.C. in cui un penitente regge un


vassoio di carboni ardenti per esprimere il proprio pentimento . Comunque l'e- 133

sortazione paolina è, ancora una volta, vicina al messaggio gesuano che vede nel-
l'amore per il nemico una delle sue principali espressioni (cfr. Mt 5,44; Le 6,27).
[v. 21] Con il passaggio improvviso dalla seconda persona plurale alla se-
conda singolare, tipico dello stile diatribico, riscontrato più volte nella Lettera ai
Romani, Paolo crea una diretta e maggiore interpellanza verso ogni destinatario
della lettera, esortandolo a non lasciarsi vincere dal male ma a sconfiggere qual-
siasi male con il bene . Siamo ormai lontani dalla situazione conflittuale di chi
134

126 La dipendenza dalla LXX esclude la variante proposta da L. Ramarason, « Charbons ardents »:
« sur la tête » ou « pour le feu » (Prv 25,22a - Rm 12,20b), in Bib 51 (1970) 230-234, con la quale si avreb-
be l'espressione « e tu porterai brace per il fuoco ».
127 Cfr. a tal proposito S. Segert, « Live Colas tìeaped on the Head», in J.H. Marks - R.H. Good (edd.),
Love and Death in Ancient Near East, FS. M.H. Pope, Guilford 1987, pp. 159-164.
128 Così già Giovanni Crisostomo, Ad Romanos 612; Teodoreto di Cirro, Commentario alla lettera ai
Romani, in L. Scarampi - F. Cocchini (edd.), Roma 1998, p. 187. Per la funzione punitiva dei carboni cfr. Gb
41,11; Is 5,24; Sai 120,4; 140,19; GÌ 3,4; 1QM 11,13-14.
129 Così Origene, Romani, II, p. 121 ; cfr. in seguito Agostino, Commento di alcune questioni tratte dal-
la lettera ai Romani, in M.G. Mara (ed.), Milano 1993, pp. 148-149; Tommaso d'Aquino, Commento alla
lettera ai Romani, L. de Santis - M.M. Rossi (edd.), Roma 1994, II, pp. 138-139.
130 Così L. Alonso Schökel - J. Vilchez Lindez, 1 Proverbi, Roma 1988, p. 537. Il Tg. su Pr 25,21 in-
terpreta già questa metafora in senso positivo di pentimento.
131 Origene, Romani, II, p. 121,rimandaa Is 47,14 che, erroneamente, cita come passo di Geremia:
« Hai carboni di fuoco: siediti su di essi, ti saranno di aiuto ».
132 Così L. Alonso Schökel - J. Vilchez Lindez, Proverbi, p. 536.
133 Cfr. S. Morenz, Feurige Kohlen auf dem Haupt, in Religion und Geschichte der alten Ägypten.
Gesammelte Aufsätze, Weimar 1975, pp. 433-444.
134 II verbo nikan (vincere) è raro nell'epistolario paolino: lo si riscontra soltanto qui e in Rm 3,4 men-
tre è tipico del linguaggio giovanneo (inriferimentoal male cfr. lGv 2,13.14; Ap 2,7.11). Si noti l'uso del-
l'imperativo presente che assume una sfumatura di durata: bisogna sempre vincere il male con il bene.
442 Traduzione e commento
non compie il bene che vuole, ma il male che non vuole (cfr. Rm 7,14-25): con la
forza dell'amore di Dio o di Cristo per noi e per mezzo dell'azione dello Spirito i
credenti possono sconfiggere il male e possono spezzare la catena ininterrotta del-
la vendetta o della giustizia personale, restituendo il bene invece del male.
Sottomissione alle autorità civili (13,1-7). - Non si può negare che fra le pe-
ricopi più note e più analizzate dell'epistolario paolino, in dipendenza dei molte-
plici contesti economici e sociopolitici della storia della Chiesa, ci sia quella di
Rm 13,1-7 nella quale Paolo affronta le relazioni tra i destinatari e le autorità ci-
vili . Allaricchezzadei contributi si accompagna, come spesso, la varietà di pro-
135

spettive e d'interpretazioni, anche se è bene subito precisare che in questa perico-


pe Paolo non tratta delle relazioni con l'impero o con un tipo di Stato a discapito
di un altro, ma, in modo più concreto, dei rapporti che le comunità di Roma sono
tenute a conservare con le autorità civili . 136

Se da una parte Rm 13,1-7 èriconosciutacome microunità letteraria, dall'al-


tra sono dibattute la sua origine, le motivazioni e le relazioni con il contesto della
sezione esortativa. Così, alcuni continuano a considerare questo brano come in-
terpolato, appartenente alla scuola o alla tradizione paolina e non alla sua diretta
autorità . Innanzi tutto è bene sottolineare che questa pericope èriportatada tut-
137

ti i codici della lettera e a essa si riferisce già Ireneo (secolo II d.C.) . Anche se 138

bisogna riconoscere che, dal punto di vista tematico, la questione delle relazioni
con le autorità civili non è preparata dalle asserzioni precedenti e il pensiero sem-
bra fluire in modo più lineare da Rm 12,9-21 a Rm 13,8-10 poiché in questi para-
grafi domina il motivo dell'agape, non sono pochi i legami semantici tra Rm
13,1-7 e il suo contesto . Non meno decisivo per l'autorità paolina di Rm 13,1-7
139

è il modo con cui sono utilizzati i sostantivi diakonos (vv. 4.4) e leiturgos (v. 6)

135 Per un'abbondante bibliografia a Rm 13,1-7rimandiamoal commentario di J.A. Fitzmyer, Romani,


pp. 795-801. In seguito, cfr. J. Botha, Subjectto Whose Authority? Multiple Readings ofRomans 13, Atlanta
1994; S. Cipriani, Paolo e il «potere politico» nella lettera ai Romani (13,1-7), in S. Cipriani, Romani, pp.
125-137; E. Dal Covolo, « Subditi estote »: Romani 13,1-7 nello studio dei rapportifra la Chiesa e l'Impero
del 1 secolo, in L. Padovese (ed.), Atti del III simposio di Tarso su s. Paolo Apostolo, Roma 1995, pp. 145-
151; G. Jossa, I cristiani e l'impero romano. Da Tiberio a Marco Aurelio, Roma 2000, pp. 36-47; S.
Légasse, Paul et César. Romains 13,1-7. Essai de synthèse, in RB 101 (1994) 516-532; S.C. Mott, Autorità
civile, in Dizionario di Paolo, pp. 147-149; H. Merklein, Sinn und Zweck von Rom 13, 1-7. Zur semanti-
schen und pragmatischen Struktur eines umstrittenen Textes, in Studien zu Jesus und Paulus (WUNT 105),
Tübingen 1998, pp. 405-437.
136 A causa di tale tematica globale, che Paolo affronta soltanto qui in Romani, l'unità letteraria di Rm
13,1-7 è generalmente condivisa: cfr. B. Byrne, Romans, p. 385; D.J. Moo, Romans, p. 790; J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 785; S.E. Porter, Romans 13:1-7 as Pauline Politicai Rhetoric, in FilNeot 3 (1990) 115-139; T.R.
Schreiner, Romans, p. 677; R.H. Stein, The Argument of Romans 13:1-7, in NT 31 (1989) 339-341.
137 Cfr. W. Munro, Authority in Paul and Peter: The Identification of a Pastoral Stratum in the
Pauline Corpus and IPeter (SNTS MS 45), Cambridge 1983, pp. 56-67; A. Sacchi, Colpa e pena in Rm
13,1-7 nel contesto del messaggio evangelico, in A. Acerbi - L. Eusebi (edd.), Colpa e pena? La teologia
di fronte alla questione criminale, Milano 1998, pp. 91-93.
138 Cfr. Ireneo, Adversus haereses 5,21,1.
139 Dal versante semantico, il binomio « bene-male » si trova in Rm 12,21 e in Rm 13,3-4; lo stesso va-
le per il tema dell'ira (cfr. Rm 12,19; 13,4); cfr. laripresadi proskarterountes (perseveranti) in Rm 12,12;
13,6. Il linguaggio economico del debito (opheilas del v. 7 e opheilete del v. 8) funge da gancio con i versi
successivi.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 443
nel senso profano di funzionari o di impiegati: a causa del peso di questi termini
nella Chiesa primitiva è più comprensibile passare da una loro connotazione pro-
fana a una religiosa e non l'inverso, come invece per l'ipotesi postpaolina del pa-
ragrafo. D'altro canto, il confronto con la pericope parallela di lPt 2,13-17 dimo-
stra che non è Rm 13,1-7 a dipendere dalla fonte petrina ma all'inverso, confer-
mando l'origine propriamente paolina della stessa lPietro . Pertanto, a meno che
140

non si tratti di un abilissimo imitatore del linguaggio e dello stile paolino , non 141

ci sembra che vi siano valide ragioni per considerare Rm 13,1-7 come interpola-
zione successiva della tradizione paolina . Forse dietro tale ipotesi si nasconde la
142

solita preoccupazione del protocattolicesimo neotestamentario: quando si analiz-


zano fonti che sembrano occultare la tensione escatologica delle grandi lettere
paoline, si propongono inserzioni di glosse o interpolazioni successive, anche se
non hanno alcun fondamento testuale.
Inveceriteniamoche sia proprio la tensione escatologica di Rm 12,1 -13,14
a causare la genesi di Rm 13,1-7, nel senso che un'errata ricezione della prospet-
tiva escatologica paolina - si pensi all'esortazione a non conformarsi alla menta-
lità del tempo in cui si vive (cfr. Rm 12,2) - avrebbe potuto indurre al disinteres-
se e a forme di deresponsabilizzazione per la vita pubblica e per i doveri civili . 143

In questa visuale, la nostra pericope non rientra nel livello protocattolico del NT
ma conferma, in termini negativi, la tensione escatologica dell'epistolario paoli-
no e delle comunità alle quali è inviato.
Oltre a questa relazione con Rm 12,2, è importante il legame argomentativo
con Rm 12,18, ossia con l'esortazione a vivere in pace con tutti. Se Paolo avverte
la necessità di esortare i cristiani di Roma alla sottomissione verso le autorità civi-
li, insistendo su relazioni pacifiche, vuol dire che gli avvenimenti circostanziali al-
la datazione di Romani (56-57 d.C.) avevano pur significato qualcosa. Ci riferia-
mo ancora all'editto di Claudio sull'espulsione dei giudei da Roma (49-50 d.C.)
che aveva toccato anche le comunità cristiane e alla situazione di turbolenza con-
tro le tassazioni esose sotto Nerone (58 d.C.) . Dunque, è importante non consi-
144

derare Rm 13,1-7 come una teoresi sulle relazioni tra i cristiani e l'impero bensì
contestualizzarla nel tessuto sociale degli anni 50 d.C. che, per quanto sia scarso di

140 Con buona pace di A. Sacchi, Colpa, pp. 92-93, che considera Rm 13,1-7 successiva a lPt 2,13-
17. Per le dipendenze di lPt 2 da Rm 13,1-7 cfr. G. Jossa, La sottomissione alle autorità politiche in lPt
2,13-17, in RivBib 44 (1996) 209.
141 Si noti lo stile della diatriba nei vv. 3-4 e la lista delle obbligazioni al v. 7.
142 Per la paolinicità di Rm 13,1-7 cfr. B. Byrne, Romans, pp. 385-386; J.A. Fitzmyer, Romani, pp.
785-786; G. Jossa, Cristiani, p. 43; T.R. Schreiner, Romans, pp. 677-678. L'ipotesi di S. Légasse, César,
pp. 522-523, per la prepaolinicità di Rm 13,1-7 è più infondata della postpaolinicità.
143 Secondo D.J. Moo, Romans, pp. 791-792, la nostra pericope è un correttivorispettoai fraintendi-
menti di natura escatologica nella comunità di Corinto, dalla quale Paolo scrive la lettera. Ariguardo,for-
se si deve parlare più d'influsso che di causalità, nel senso che l'esortazione di Rm 13,1-7 non trova reali
paralleli con la 1 Corinzi, anche se in quella comunità sono diffusi gli abusi di natura escatologica, con ri-
percussioni sull'etica.
144 Così scriverà Tacito: « In quello stesso anno, in seguito alle insistenti proteste del popolo contro
l'esosità degli appaltatori delle imposte, Nerone si chiese se non fosse il caso di abolire tutte le imposte in-
dirette (vectigalia) e di fare all'intera umanità il dono più bello... Ma a frenare il suo entusiasmo provvi-
dero i senatori... » (Annales 13,50,1-2); cfr. anche Svetonio, Nero 6,10.
444 Traduzione e commento
notizie, permette di pensare a quest'esortazione come appropriata alla situazione
delle comunità di Roma. Dal punto di vista compositivo, il v. la funge da tesi ge-
nerale dell'esortazione paolina: succedono le prove principali che motivano la sot-
tomissione alle autorità costituite (vv. lb-6). Con il v. 7 si chiude la pericope attra-
verso l'esortazione concreta a favore del pagamento delle tasse dirette e indirette.
[13,1] L'esortazione si apre con una visuale generale, non limitata ai cristiani
di Roma, anche se Paolo sirivolgeprincipalmente a loro: pasa psychè (lett. « ogni
anima») esprime bene l'indirizzo personale e generale dell'invito per la sotto-
missione alle autorità precostituite . Circa i destinatari della sottomissione, in
145

passato alcuni hanno pensato alle autorità angeliche o a quelle sinagogali prepo-
ste al comando delle comunità giudaico-cristiane .1 versi successivi dimostrano
146

che Paolo siriferiscesoltanto ali 'exousia delle autorità civili , economiche o po-147

litiche alle quali bisogna essere sottomessi . 148

Con la seconda parte del v. lb Paolo adduce la motivazione principale per la


sottomissione alle autorità: sono divine la loro origine e la collocazione storica.
L'attribuzione divina dell'autorità potrebbe indurre alriconoscimentodi una teo-
crazia dalla quale deriverebbe una struttura monarchica dello Stato. In realtà,
l'argomentazione paolina è meno impegnativa di quello che sembri, perché non
siriferiscedirettamente all'imperatore o al tipo di Stato bensì a qualsiasi autorità
costituita per il bene pubblico, in particolare ai governanti e a coloro che sono de-
putati per lariscossionedelle tasse. D'altro canto, l'origine divina di qualsiasi au-
torità si colloca in piena sintonia con la concezione anticotestamentaria: l'oriz-
zonte ultimo delle vicende umane è divino, al punto che imperatori o governanti
che non hanno conosciuto il Dio d'Israele sono ricondotti al suo disegno di sal-
vezza . Qualcosa di analogo dirà Gesù a Pilato: «Tu non avresti alcun potere
149

(exousia) su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto » (Gv 19,11); e Paolo ha ri-
cordato in Rm 9,17 l'oracolo divino per il faraone (cfr. Es 9,16).
[v. 2] Attraverso alcuni collegamenti linguistici , sono tratte due conseguen-
150

ze dal principio espresso al v. lb: opporsi all'autorità civile significa contrastare


l'ordine stabilito da Dio; e coloro che si oppongonoriceverannola condanna. Non
145 Forse non è un caso che nella LXX questa formula generale è utilizzata spesso per le sezioni le-
gislative dell'AT (cfr. Es 12,4.15.16; Lv 2,1; 7,27; 11,10; 17,12; 21,11; Nm 6,6; 19,11; 31,35), anche se
non è necessario ricorrere a un semitismo per spiegarne l'uso greco. Per il NT cfr. anche Rm 2,9; At 2,43;
3,23; Gd v. 15; Ap 16,3.
146 II riferimento alle autorità angeliche, proposto da K. Barth, L'epistola ai Romani, G. Miegge (tr.),
Milano 1993 , pp. 464-466, è stato diffuso soprattutto da O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 1965,
2

pp. 226-246.
147 Per tale significato di exousia cfr. anche Tt 3,1; Le 12,11; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,16,4;
Polibio, Historia 28,4,9; 30,4,17. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 789; T.R. Schreiner, Romans, p. 682.
148 Per hypotassein in contesti civili cfr. Tt 3,1; lPt 2,13; anche Col 3,18; Ef 5,21.24 per le relazioni
familiari.
149Cfr. 2Sam 12,8; Pr 8,15-16; Is 45,1; Ger 25,7-11; 46,17.25; Dn 2,21.37; 4,17.25.32; 5,21; Sap 6,1-
3; Sir 17,17; cfr. anche lEn 46,5; 2Bar 82,9; Aristea 219-224; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,S,l;Apionem
2,6; IClem 60,2 - 61,2; Martirio di Policarpo 10,2. Per le relazioni con le autorità civili nel NT cfr. Me
12,13-17; Mt 22,15-22; Le 20,20-26; Tt 3,1; lPt 2,13-17.
1501 verbi antitassein (opporsi, usato solo qui per l'epistolario paolino; cfr. anche At 18,6; Gc 4,6; 5,6;
lPt 5,5) e anthistémi (resistere, opporsi, cfr. anche Rm 9,19; Gal 2,11; Ef 6,13) sono sinonimi; a essi è rela-
zionato anche il sostantivo diatagé (ordinamento; cfr. anche At 7,53 per la promulgazione della Legge).
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 445
è chiaro il senso e la portata della « condanna »:riguardala punizione escatologi-
ca o finale? La condanna già presente nella storia o quella che le autorità commi-
nano verso coloro che si oppongono alle leggi? Di per sé, il sostantivo krima si-
gnifica « giudizio » mentre la condanna, consequenziale al giudizio, è espressa con
il sostantivo composto katakrima (cfr. Rm 5,16). Tuttavia, nell'epistolario paoli-
no, in dipendenza dei contesti argomentativi, il sostantivo krima può essere inteso
come «giudizio» (cfr. Rm 2,2.3; 5,16) o come «condanna» (cfr. Rm 3,8; ICor
11,29; Gal 5,10); e con quest'ultima accezione è inteso nel nostro passo . 151

Poiché già in Rm 12,19 Paolo ha parlato anche dell'ira in generale, riferen-


dola tuttavia a quella divina, ci sembra logico attribuire anche questa commina-
zione della condanna a Dio e porla in tensione tra il presente della storia e il futu-
ro del suo epilogo: la condanna divina è quella finale che è anticipata nel presente
anche attraverso l'azione delle autorità civili che puniscono « con la spada » quan-
ti non si sottomettono alle loro disposizioni . In altri termini, in questi versi è in
152

questione la giusta condanna (v. 4) che anticipa e attesta quella finale di Dio con-
tro coloro che si comportano in modo insubordinato verso le autorità civili.
[v. 3] Dopo le conseguenze negative per coloro che disobbediscono alle autorità
civili, Paolo si sofferma sul comportamento ideale dei governanti, mentre non con-
sidera le situazioni nelle quali gli stessi governanti compiono il male. Egli sa bene
che i governanti hanno «crocifisso il Signore della gloria» (cfr. ICor 2,7) e che le
comunità cristiane hanno subito vessazioni e persecuzioni. Forse dietro l'idealizza-
zione positiva delle autorità, propria di questi versi, si trova il retroterra della forma-
zione farisaica di Paolo: a differenza dai circoli apocalittici del comune giudaismo, i
farisei cercavano di stabilire buone relazioni con le autorità civili e imperiali . 153

In questo quadro ideale delle relazioni tra i governanti e i sudditi , il criterio 154

dal quale dipende il timore per la condanna è costituito dal proprio comportamento:
per il bene o per male . Soltanto nel secondo caso bisogna aver paura delle auto-
155

rità, mentre nel primo non c'è motivo di temere alcun'azione giudiziaria o penale . 156

In questa sottolineatura dell'opera buonarispettoa quella cattiva, alcuni hanno in-


travisto il fondamento per un brano interpolato, giacché tale criterio contrasta con il
principio paolino fondamentale della giustificazione soltanto per mezzo della fede.
In realtà, sono in gioco contesti totalmente diversi: tale criterio non pone in discus-
sione il principio della solafideper entrare nel popolo dell'alleanza, né bisogna di-
menticare che la categorizzazione del bene e del male non vale soltanto per l'azio-
ne penale dei governanti ma anche per il giudizio finale di Dio (cfr. Rm 2,7-11).
151 Risulta tipicamente semitica l'espressione «ricevere la condanna» (cfr. anche Me 12,40; Le
20,47; Gc 3,1).
152 Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 799, che pensa soltanto alla condanna escatologica di
Dio. Invece per la relazione tra condanna temporale ed escatologica cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 683.
153 Così anche G. Jossa, Cristiani, p. 43.
154 Anche se il sostantivo archón è utilizzato nel NT per i capi della sinagoga o del popolo giudaico
(cfr. At 3,17; 4,5.8; 13,27), qui si riferisce chiaramente ai governanti (cfr. ICor 2,6.8), ossia a coloro che
sono preposti al bene pubblico, senza necessariamente pensare agl'imperatori.
155 Ancora una volta Paolo descrive l'umanità secondo categorie morali: quanti fanno il bene o il ma-
le (cfr. in particolare queste categorie in Rm 1,18 - 3,20; cfr. anche Rm 12,2.9.17.21).
156 Nella stessa pericope il sostantivo phobos assume valore positivo di rispetto (v. 7; cfr. anche Rm
3,18) e negativo di paura derivante dal proprio comportamento negativo, come al v. 3 (cfr. anche Rm 8,15).
446 Traduzione e commento
Improvvisamente, come è tipico dello stile paolino, nella seconda parte del v.
3 si passa dalla terza persona plurale o singolare, alla seconda singolare con un'in-
terpellanza diretta al « tu » in una domanda che ricalca lo stile della diatriba. La
domanda èrivoltaa qualsiasi interlocutore della comunità di Roma: se non si vuol
temere l'autorità è necessario compiere il bene ; e tale comportamento guadagna
157

la lode dell'autorità invece della condanna o dell'ira . 158

[v. 4] Secondo il quadro ideale che Paolo sta delineando, il bene dovrebbe ca-
ratterizzare i sudditi e l'autorità costituita. In questa cornice, egli attribuisce un al-
tissimo valore all'autorità civile: essa è ministra di Dio che opera per il bene dei
cittadini. Nel descrivere questa funzione, Paolo utilizza due termini che general-
mente assumono uno spessore religioso ed ecclesiale particolare: diakonos (cfr.
Rm 16,1; Fil 1,1) e leiturgos (v. 6, cfr. Rm 15,6; Fil 2,25). A ben vedere, in con-
testo profano, diakonos sta semplicemente per ministro e leiturgos equivale a fun-
zionario per il popolo. Pertanto, l'origine divina delle autorità non è espressa da
tali attributi ma dalla specificazione « di Dio », posta dopo di essi . 159

Poiché in questi versi è sottolineata la funzione punitiva delle autorità civili,


Paolo precisa che esse non portano inutilmente la spada. Alcuni hanno intravisto in
questa funzione della spada un riferimento allo ius gladii, il diritto di esecuzione
capitale di cui i magistrati godevano nell'impero romano . In realtà, questo dirit-
160

to era esercitato nelle provincie e non nella capitale dell'impero; sarebbe poco ri-
spondente alla situazione delle comunità cristiane di Roma . Piuttosto, è preferi- 161

bile attribuire taleriferimentoa qualsiasi esercizio punitivo contro quanti disobbe-


discono alle leggi civili; potrebberiguardaresemplicemente la funzione militare o
poliziesca dell'autorità che comprende anche la pena capitale, senza essere ridotta
soltanto a essa . Per questo, in contesto negativo o punitivo, l'autorità agisce per
162

la giusta condanna di chi opera il male: e, a sua volta, tale condanna anticipa la ma-
nifestazione dell'ira escatologica di Dio . 163

157 Utilizzando lo stesso stile della diatriba, Paolo ha dimostrato in Rm 2,1 - 3,20 che nessuno com-
pie il bene, mentre qui, in contesto diverso, non esita a esortare per il bene (cfr. anche lo stile diatribico in
Rm 12,21 per l'esortazione a vincere il male con il bene).
158 Generalmente l'unica lode o vanto ai quali Paolo dà spazio è quella di Dio (cfr. Rm 2,20; ICor
4,5; Fil 1,11). Poiché ora il contesto non è più quello della giustificazione per la fede, egli non esita a ri-
conoscere anche la lode che l'autoritàriservaper quanti compiono il bene. Questo tipo di lode può riferir-
si anche a quanti si dimostrano benefattori della società o del «genere umano». Cfr. anche D.J. Moo,
Romans, p. 800; B.W. Winter, The Public Honouring of Christian Benefactors: Romans 13,3-4 and IPeter
2,14-14, in JSNT 34 (1988) 87-103.
159Per il significato generale di diakonos come «ministro» (cfr. ICor 3,5; 2Cor 3,5; Gal 2,17; per il
valore civile o politico cfr. Est 1,10; 2,2; Sap 6,4; Is 45,1; cfr. anche Plutarco, Ad principem ineruditum
5,13,22 - 5,14,2). Il sostantivo leiturgos è utilizzato soltanto qui con accezione profana nel NT (cfr. inve-
ce 2Sam 13,18; IRe 10,5; 2Cr9,4; Sir 10,2).
160Cfr. A. Sacchi, Colpa, p. 84.
161Così anche D.J. Moo, Romans, p. 801.
162Così anche R.H. Stein, Argument, p. 336. Alla « spada» si accenna già nella lista delle difficoltà
elencata in Rm 8,35 mentre in Ef 6,17 si parla della spada dello Spirito. Per la spada in contesto civile cfr.
Papiro Tebtunis 391.20; Papiro Michigan 577,7-8.
163Con buona pace di R.H. Stein, Argument, p. 336, che relaziona l'ira all'ordinamento originario di
Dio, in Romani lo spazio dell'ira divina è collocato nell'azione futura di Dio (cfr. il vicino Rm 12,19), co-
me dimostra anche ilriferimentoalla funzione prospettica della coscienza, nel v. 5.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 447
[v. 5] Alle ragioni precedenti sulle quali Paolo fonda la sottomissione verso
le autorità civili, al v. 5 aggiunge la motivazione della coscienza, l'organo fonda-
mentale con il quale ogni persona è chiamata a discernere e a orientare il proprio
comportamento . Questo riferimento alla coscienza nei confronti delle relazioni
164

civili e sociali diventa fondamentale, soprattutto quando si è posti in contesti nei


quali l'autorità non agisce per il bene di tutti ma soltanto per interesse proprio o
di alcuni. Poiché la coscienza pone non soltanto in relazione con se stessi ma con
Dio, in essa, più che nell'ira, è riconoscibile il criterio per il quale è necessario
essere sottomessi all'autorità . 165

[v. 6] In forza dei principi dell'ira e della coscienza, Paoloricordainnanzi tut-


to che, di fatto, anche se i cristiani di Roma non si adeguano alla mentalità del tem-
po, pagano le tasse, come tutti i sudditi dell'impero . Per questo, anche se in que-
166

sti versi vi fosse un riferimento al detto gesuano sulla questione delle tasse (cfr.
Me 12,13-17), la problematica fondamentale che affronta Paolo non è quella del-
le tasse, se bisogna pagare o no il tributo a Cesare, bensì quella della sottomissio-
ne alle autorità costituite che si esprime con le responsabilità civili ed economiche.
Nei suoi Annali 13,50-51 Tacito offre un quadro abbastanza chiaro sul siste-
ma di tassazione all'epoca di Nerone: i phorous, che corrispondono ai tributa o
alle imposte dirette, erano pagati da tutti i sudditi dell'impero, tranne dai cittadi-
ni romani . Il sistema di tassazione era affidato agli appaltatori che aggiungeva-
167

no percentuali d'interesse abbastanza alte. Per questo Nerone ordinò che fossero
rese pubbliche le norme di esazione. A loro volta, gli appalti di esazione erano or-
ganizzati e controllati dai consoli e dai tribuni. Forse a questi diversi funzionari,
deputati per regolare il sistema di tassazione, siriferiscePaolo quando sottolinea
che le autorità si dedicano assiduamente allariscossionedelle tasse . 168

[v. 7] Con il linguaggio tipico del sistema economico, Paolo conclude la sua
esortazione parlando di opheilas (debiti) , di phoros (tassa diretta) e di telos (tas-
169

sa indiretta) . L'intera proposizione è costruita in forma ritmica di tipo bimem-


170

164Sul ruolo etico della coscienza, che non è un semplice organo neutro ma di discernimento per il
bene, vedi la nostra analisi a Rm 2,15.
165Si può notare nella relazione tra il v. 1 e il v. 5 uno slittamento argomentativo: dall'esortazione al-
l'obbligazione della propria sottomissione verso le autorità costituite.
166In questo contesto il verbo teleite non ha valore imperativale (« dovete pagare le tasse ») ma indi-
cativo o constatativo. Così anche D.J. Moo, Romans, pp. 803-804.
167Per phoros nel NT cfr. anche Le 20,22; 23,2. Sul contesto socioeconomico neroniano di Rm 13,6-
7 cfr. T.M. Coleman, Binding Obligations in Romans 13:7. A Semantic Field and Social Context, in
TynBull 48(1997) 307-327.
168Per il verbo proskarterein cfr. Rm 12,12 a proposito dell'esortazione alla perseveranza nella pre-
ghiera.
169Nell'epistolario paolino, il linguaggio del debito è utilizzato in senso letterale o materiale (cfr. Rm
4,4; Fm v. 18) e in senso metaforico o spirituale (cfr. Tm 15,1; 2Cor 12,11). Nel sistema economico romano
corrisponde alle obligationes. Cfr. a tal proposito B.E. Nikopoulos, «Opheile» kai « Opheiletès »: basikes
ennoies tou enochikou dikaioustis epistoles tou Ap. Paulos, in DeltBilMel 26 (1997) 95-120.
170In questo caso il sostantivo telos non significa « la fine » né « il fine », come spesso nel NT (cfr.
Rm 6,21.22; 10,4; ICor 1,8; 10,11) ma si riferisce all'imposta indiretta o vectigalia che veniva applicata
soprattutto sulle transazioni commerciali (per il NT cfr. Mt 17,25 ma con il significato generale di tassa;
cfr. anche IMac 10,31; 11,35; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 12,141). Per la relazione tra il telos e il phoros
cfr. Appiano, Romanae Historiae 2,13; Pseudo-Clemente, Omelie 10,22.
448 Traduzione e commento
brale e con l'assonanza sonora tra il phoros (la tassa diretta) e il phobos (il timo-
re). Non è pacifico che in tal caso Paolo evochi, almeno indirettamente, il detto ge-
suano di Me 12,17: « Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio quello che è di
Dio» . L'unico reale collegamento con il detto evangelico è riscontrabile nell'u-
171

so dell'imperativo «rendete» (apodote), mentre il contesto evangelico e l'asser-


zione gesuana sono diversi da quelli di Rm 13,7 . Di fatto, mentre Gesù distingue
172

il potere divino da quello di Cesare, Paolo stabilisce una stretta relazione tra le au-
torità governative e Dio, in un quadro ideale che comprende anche la questione
delle tasse . Dunque, a differenza da Rm 8,15 e Rm 12,14, in cui non abbiamo
173

esitato a riconoscere una maggiore relazione con i detti di Gesù, i contatti seman-
tici e contenutistici tra Rm 13,8 e Me 12,17 sono meno evidenti di come si potreb-
be pensare. La maggiore estensione del quadro paolinorispettoa quello marciano
èrilevabilenegli altri debiti che i credenti sono esortati a saldare: il timore, in sen-
so positivo (cfr. il valore negativo del timore come paura al v. 3), e il «rispetto» , 174

contro qualsiasi forma d'insubordinazione sociale ed economica.


L'amore vicendevole (13,8-10). - Con una parola gancio (opheilas del v. 7 e
opheilete del v. 8), Paolo passa dalle relazioni con le autorità civili (Rm 13,1-7) al-
l'amore vicendevole, che rappresenta la tematica principale della nuova microu-
nità letteraria (Rm 13,8-10) . Dal punto di vista contenutistico, in questi versi
175

egliriprendel'esortazione sull'amore, come ideale del bello e del buono, trattata


in Rm 12,9-21: per questo sarebbe stato più logico collocarli prima dell'esorta-
zione sulle relazioni con le autorità civili (Rm 13,1-7). Tuttavia, anche se l'esor-
tazione paolina non è composta secondo un percorso logico ordinato, non vi sono
motivazioni valide per sostenere l'impropria collocazione di questi versi nell'at-
tuale contesto. Piuttosto, poiché ci troviamo verso la conclusione della prima par-
te di Rm 12,1 - 15,13, non è fuori luogo intendere i vv. 8-14 come sintesi di Rm
12,3 - 13,7: l'amore vicendevole e la tensione escatologica sono gli orizzonti ul-
timi in cui trovano consistenza le variegate esortazioni indirizzate alle comunità
di Roma . Nello stesso tempo, l'esortazione all'amore vicendevole assume un
176

significativo ruolo proletticorispettoalla sezione successiva (Rm 14,1 -15,13) in

171 A favore del riferimento a Me 12,17, efr. J.D.G. Dunn, Paul, p. 677; alcuni, a causa del phoros
(tassa diretta) di Le 20,22 preferiscono alludere a Le 20,25. Così T.R. Schreiner, Romans, p. 686.
172 Anche in ICor 7,3 il verbo apodidömi (rendere) si trova in relazione con il «debito» del marito
nei confronti della moglie, senza per questo rappresentare un'eco di Me 12,17.
173 Non si può avocare, a sostegno dell'allusione al detto gesuano, che in Me 12 e in Rm 13 la que-
stione sul tributo precede quella del comandamento dell'amore, come inveceritieneB. Byrne, Romans, p.
392. In Me 12 c'è l'intermezzo della discussione con i sadducei sulla risurrezione (cfr. Me 12,18-27). Per
l'assenza di allusioni a Me 12,17 cfr. anche S. Légasse, Paul, p. 526.
174Per timi come rispetto e onore cfr. Rm 2,7.10; 9,21; 12,10.
175 L'unità letteraria di Rm 13,8-10 è generalmente riconosciuta. Cfr. B. Byrne, Romans, p. 393; C.
Burchard, Die Summe der Gebote (Rom 13,7-10), das ganze Gesetz (Gal 5,13-15) und das Christusgesetz (Gal
6,2; Rom 15,1-6; 1 Kor 9,21), in Studien zur Theologie, Sprache und Umwelt des Neuen Testaments, Tübingen
1998, p. 158; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 801; S. Lyonnet, La charitéplénitude de la loi (Rm 13,8-10), in L. De
Lorenzi, Vie Chrétienne, pp. 151-163; D.J. Moo, Romans, p. 810; T.R. Schreiner, Romans, p. 690.
176Su Rm 13,8-14 come sintesi della paràclesi di Rm 12,1-13,7 cfr. E. Käsemann, Romans, pp. 360-
361; A. Vögtle, Paraklese und Eschatologie nach Rom 13,11-14, in L. De Lorenzi, Vie Chrétienne, p. 179.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 449
cui Paolo sottolineerà che « se il fratello si rattrista per il cibo, non ci si comporta
secondo l'amore» (cfr. Rm 14,15) e che «i forti hanno il dovere (opheilomen) di
portare le infermità dei deboli » (cfr. Rm 15,1) . 177

La nuova esortazione dipende dalla prima parte del v. 8 in cui è introdotta la


tesi o propositio sull'amore vicendevole; ed è in funzione di questa tematica che
Paolo adduce le citazioni anticotestamentarie del v. 9. Senza dilungarsi sulla spie-
gazione delle citazioni, al v. 10 egli trae subito la conclusione sulla relazione tra la
Legge e l'amore. Dunque, in questi versi èriconoscibileuna composizione circo-
lare del tipo «a (v. 8b), b (v. 9), a' (v. IO)» : le citazioni del v. 10 hanno la fun-
178

zione di fondare l'adempimento della Legge (v. 8b), in vista dell'amore, pienezza
della Legge (v. lOb).
[13,8] L'inizio della pericope suscita una certa sorpresa, in quanto nessuna
relazione di amore si regge su un debito verso qualcuno: attraverso una sorta di
ossimoro retorico, in cui sono posti insieme due termini che di per sérisultanoin-
compatibili, come il debito e l'amore , Paoloridestal'attenzione dei destinatari.
179

Il paradosso consiste nel fatto che poiché V agape si caratterizza per la sua gra-
tuità, non può essere colmata da alcun debito : in definitiva, nessuno può rite-
180

nersi in credito nell'amore vicendevole! . 181

A prima vista, l'invito ad amarsi vicendevolmente sembra indirizzato verso


coloro che condividono la stessa fede, come dimostra l'uso del pronome relazio-
nale allelous \ e quest'orizzonte resta prioritario, in particolare se l'esortazione è
m

considerata come anticipazione della questione sulle relazioni tra i forti e i deboli.
Tuttavia, progressivamente, Paolo estende gli orizzonti dell'esortazione, ponendo
l'attenzione su qualsiasi rapporto interpersonale: così, passa dalla relazione vicen-
devole a quella con l'altro (v. 8b) o con il prossimo (v. IO) . In questi versi Paolo
183

riprende buona parte dell'esortazione indirizzata alle comunità della Galazia : 184

«Infatti, tutta la Legge in una parola è adempiuta, nel (comandamento): "Amerai


il prossimo tuo come te stesso"».
Si puòrilevareche in Rm 13,8-9 Paoloricalcal'argomentazione di Gal 5,14
in un contesto esortativo analogo, con la differenza che se in Galati l'esortazione
177Cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 801; D.J. Moo, Romans, p. 811; H. Ràisànen, Paul, p. 64.
178Alcuni, come L. Bencze, An Analysis of« Romans XIII.8-10 », in NTS 20 (1974) 90-92 e DJ. Moo,
Romans, p. 811, sostengono una composizione chiastica poco probabile in quanto retta su scelte arbitrarie
di termini e non sulla composizione globale della pericope. Al massimo si può notare l'inversione tra il v.
8b e il v. 10, dall'amore alla Legge e dalla Legge all'amore, anche se in greco è normale collocare il sog-
getto alla fine e non all'inizio della frase, come al v. 10. Dal punto di vista stilistico è preferibile limitarsi a
richiamare l'inclusione tra il v. 8 e il v. 10 retta sull'agape. Così anche B. Byrne, Romans, p. 394.
179 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 802.
180 Per la prima volta in Romani Paolo utilizza il verbo opheilein (cfr. dopo in Rm 15,1.27; cfr. anche
ICor 5,10; 7,36; 9,10; 2Cor 12,11.14; Fm v. 18), anche se, come abbiamo già rilevato, la famiglia lessica-
le delle obbligazioni è stata già introdotta in Rm 1,14; 8,12; 13,7.
181 Anche se la congiunzione ei me può essere intesa come avversativa (cfr. ICor 7,17 e forse Gal 1,7)
è preferibile renderla con il significato proprio di « se non »: in questo modo è maggiormente evidenziata
la relazione paradossale tra il debito e l'amore. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 812; T.R. Schreiner,
Romans, p. 691; per l'interpretazione avversativa di ei me cfr. T. Sòding, Liebesgebot, p. 256.
182 Cfr. allelòn in Rm 12,5.10.10.16 e nella pericope parallela di Gal 5,13-14.
183 Così anche J.A. Fitzmyer, Romans, p. 803; DJ. Moo, Romans, p. 813; T.R. Schreiner, Romans, p. 691.
184 Cfr. a tal proposito A. Pitta, Galati, pp. 339-343.
450 Traduzione e commento
si trova all'inizio della sezione paracletica di Gal 5,13 - 6,10, in Romani è ripre-
sa verso la conclusione della prima parte di Rm 12,1 -13,14. Questo cambiamen-
to si deve principalmente alle diverse situazioni epistolari: in Gal 5,13-15 preva-
le il contesto polemico verso i destinatari cherischianopersino di dilaniarsi per la
questione sulla sottomissione alla Legge mosaica, in Rm 13,8-10 il contesto è
globalmente positivo dal punto di vista comunitario e nei confronti della Legge.
Le due proposizioni sono accomunate dall'« adempimento della Legge » nella so-
la parola della citazione diretta di Lv 19,18.
Il contesto più sereno di Rm 13,8-10 permette a Paolo di soffermarsi più lun-
gamente sulle relazioni tra la Legge e il suo compimento (v. 9), e sull'adempimen-
to che i credenti realizzano verso la Legge (v. 8), mentre in Gal 5,14 manca questo
secondo orizzonte che però sarà ripreso in Gal 6,2 con la «Legge di Cristo» . 185

Il confronto delle asserzioni permette di stabilire che per nomos in Rm


13,8.10, Paolo intende sempre la Legge mosaica nella globalità e nella particola-
rità espressa con il «comandamento» . L'attenzione alla Legge mosaica, nella
186

sua globalità, permette dirisolvereanche la dibattuta questione sulla relazione tra


heteron e nomon al v. 8: Paolo non intende dire che « colui che ama ha adempiu-
to l'altra Legge», così che si possa pensare a una nuova «legge», al posto della
Legge mosaica, oppure alla seconda parte del decalogo citata al v. 9 , o ancora 187

all'altra Legge da porre accanto a quella civile . Paolo desidera asserire che « co-
188

lui che ama l'altro ha adempiuto la Legge» , anche se dobbiamo riconoscere la


189

poca chiarezza o la natura involuta della sua proposizione . D'altro canto, la que-
190

stione principale di questi versi, introdotta nella tesi del v. 8a,riguardal'amore vi-
cendevole, poi specificato nella relazione con il «prossimo » (v. 10).
Alcuni, per sottolineare l'adempimento della Legge mosaica, seguono il per-
corso cristologico o pneumatologico : poiché i credenti sono sorretti dall'amore di
191

Cristo per loro o dalla Legge dello Spirito, diventano capaci di adempiere la Legge
mosaica che, al di fuori di queste motivazioni, non può essere adempiuta. In realtà,
in questi versi e nell'intera prima parte di Rm 12,1 -13,14 mancano quasi del tutto
le ragioni cristologiche e pneumatologiche dell'etica; e Paolo non avverte la neces-
sità diricorrervicome invece in Rm 8,1-4. Non c'è dubbio che, soltanto con la po-

185 Per il verboplerounriferitoalla Legge efr. anche Rm 8,4, in cui si parla dell'adempimento in noi
della giusta esigenza della Legge.
186Con buona pace di H. Hübner, Legge, pp. 157-161, anche se in Gal 5,3 si parla di « tutta la Legge »
e in Gal 5,14 di « ogni Legge », non vi sono ragioni valide per distinguere la Legge mosaica nella sua glo-
balità dalla sua particolarità dei comandamenti. In Romani, l'orizzonte olistico o globale della Legge mo-
saica è stato già sostenuto in Rm 7,7-14: santi sono la Legge e i comandamenti. Per la critica alla posizio-
ne di H. Hübner, cfr. A. Pitta, Calati, p. 342; E.P. Sanders, Legge, p. 161.
187 Cfr. invece B. Byrne, Romans, p. 396, che collega heteron a nomon pensando alla seconda parte
del decalogo.
188 Così K. Finsterbusch, Die Thora als Lebensweisung für Heidenchristen. Studien zur Bedeutung
der Thora für die paulinische Ethik, Göttingen 1996, pp. 97-99, che unisce ancora heteron a nomon.
189 Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 803; K. Haacker, Römer, pp. 271-272; D.J. Moo, Romans,
p. 813; T. Söding, Liebesgebot, p. 256.
190Ci troviamo in un caso diverso da quello di Rm 7,23, in cui Paolo siriferiscea « un'altra legge » per
evidenziare la situazione conflittuale dell ' io. Per heteron con valore assoluto eriferitoali 'altro cfr. Rm 2,1.21.
191Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 805; D.J. Moo, Romans, p. 817.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 451
tenza dello Spirito e in seguito all'invio del Figlio di Dio, i credenti diventano ca-
paci di adempiere la giusta esigenza della Legge (cfr. Rm 8,4). Tuttavia, qui Paolo,
senza attardarsi sulle modalità che permettono ai credenti di adempiere la Legge
mosaica, sostiene soltanto che colui che ama il prossimo ha adempiuto la Legge . 192

Piuttosto, è importante sottolineare che questa valutazione positiva della Legge,


adempiuta da chi ama, conferma che per Paolo la stessa Legge non è stata abroga-
ta o sostituita da un'altra legge, bensì conserva la sua importanza, anche se non ne-
cessariamente i credenti sono obbligati a osservare i suoi comandamenti per adem-
pierla. Ancora una volta le asserzioni positive sulla legge mosaica non sono sem-
plici concessioni retoriche ma esprimono alcune importanti tensioni dinamiche.
[v. 9] Chiunque ama il prossimo non soltanto ha adempiuto la Legge mosai-
ca ma la stessa Legge, nella sua globalità e nella specificità dei comandamenti, si
ricapitola nel comandamento dell'amore per il prossimo . Rispetto a questo se-
193

condo percorso, bisogna riconoscere che in diversi contributi si verificano inter-


pretazioni confuse e arbitrarie : Paolo non sta dicendo che, per adempiere la Leg-
194

ge, colui che ama ha bisogno di osservare i suoi comandamenti, come quelli del
decalogo e quelli propriamente religiosi o alimentari, come la circoncisione e le
regole di purità, ma che la Legge, nella sua globalità e nella sua specificità, per-
viene alla suaricapitolazionenel comandamento dell'amore per il prossimo.
Per dimostrare questo secondo percorso, dalla Legge alla sua ricapitolazione,
a differenza da Gal 5,14, Paolo cita innanzi tutto alcuni comandamenti del decalo-
go anticotestamentario, riportati in Dt 5,17-21 introdotti da un semplice «infat-
ti» . I comandamenti riportati non sono quelli più importanti ma rappresentano
195

un'esemplificazione per tutte le norme contenute nella Legge mosaica, come di-
mostra l'aggiunta paolina per qualsiasi altro comandamento. Un elenco analogo,
per esemplificazione dei comandamenti, èriscontrabilenel dialogo tra Gesù e l'os-
servante della Legge che desidera pervenire alla vita eterna: « Conosci i comanda-
menti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare... » (Me 10,19) . La 196

molteplicità dei comandamenti della Legge mosaica perviene alla sua ricapitola-

La stessa prospettiva generale è sostenuta da H. Ràisànen, Paul, p. 64, anche se l'autore se ne ser-
192

ve, in modo improprio, per accusare Paolo di contraddizione: in alcuni casi affermerebbe l'abrogazione
della Legge; in altri, come questo, dimostrerebbe la sua validità. Vedremo come queste tensioni, presenti
nella valutazione paolina della Legge, non sono necessariamente contraddittorie. La stessa tensione è evi-
denziata da E.P. Sanders, Legge, p. 168.
II verbo anakephalaioun (ricapitolare) che si trova soltanto qui e in Ef 1,10 per il greco biblico,
193

non è utilizzato per sostenere che i singoli comandamenti della Legge sono soppiantati dal comandamen-
to dell'amore ma che in questo trovano la loro ragion d'essere. Così anche T. Sòding, Liebesgebot, p. 256.
Cfr. T.R. Schreiner, The Abolition and Fulfdlment ofthe Law in Paul, in JSNT 35 (1989) 47-74;
194

Id., Romans, pp. 692-695, che giunge a sostenere la validità della Legge mosaica e dei suoi comandamen-
ti anche per i credenti in Cristo.
Paolo sembra seguire la redazione deuteronomistica del decalogo, secondo la LXX che corri-
195

sponde al TM. Così anche C.D. Stanley, Paul, pp. 174-175. Per una variante del decalogo cfr. Es 20,13-17.
Cfr. anche Mt 19,18; Le 18,20. Allo stesso decalogo, Paolo si èriferitonella parodia di Rm 2,21-
196

22; cfr. anche Gc 2,11 e per il giudaismo della diaspora cfr. Filone, Decalogo 24; Legibus 3,28. Forse a
causa di un tentativo di omologazione rispetto a Me 10,19 si deve l'aggiunta «non dire falsa testimonian-
za» in Rm 13,9b (cfr. N, 048, 81, 104, 365, 1506). Per questo è preferibile la lezione più breve attestata
dalla maggior parte dei codici.
452 Traduzione e commento
zione in una «parola» che, come in Gal 5,14, assume il significato di «norma» o
di « comandamento » . 197

Non sappiamo se in questa reductio in unum, consistente nella citazione di


Lv 19,18, Paolo abbia presente la discussione attestata nel giudaismo rabbinico
sul kelal o «adempimento» dei 613 precetti della Legge mosaica . Comunque 198

non è un caso che la stessa questione sia riportata nella tradizione gesuana dei
detti, a proposito della discussione tra Gesù e il dottore della Legge . Non pos- 199

siamo neppure stabilire, con certezza, se Paolo stia citando implicitamente que-
sta tradizione gesuana sui due comandamenti più importanti della Legge mosai-
ca . A favore di una dipendenza dai detti di Gesù si sostiene che spesso Paolo si
200

riferisca a essi in Rm 12,9 -13,14. Invece, contro questa dipendenza si sottolinea


che Paolo non parla quasi mai di Gesù Cristo in questa parte esortativa della let-
tera e che qui e in Gal 5,14 non accenna al primo comandamento dell'amore per
il Signore (cfr. invece Me 12,30 con laripresadi Dt 6,5). Di fatto, anche se spes-
so egli ricorda l'assioma sull'unicità di Dio (cfr. l'allusione a Dt 6,5 in Rm 3,30),
non accenna mai alla seconda parte dello Shemah e raramente tratta dell'amore
che gli uomini hanno per Dio (cfr. l'eccezione di Rm 8,28). Questa omissione
può essere dovuta all'orizzonte prioritario dell'amore di Dio rispetto al nostro
amore per lui, e alle maggiori difficoltà nel realizzare l'amore per il prossimo, so-
prattutto in contesti comunitari.
Circa l'orizzonte dell'amore per il prossimo, il comandamento di Lv 19,18
si riferisce chiaramente al proprio connazionale mentre nella rilettura gesuana e
in quella paolina assume una prospettiva generale diriferimentoa qualsiasi pros-
simo. Tuttavia, non bisogna dimenticare che già in Lv 19,33-34, come nel giu-
daismo del secondo Tempio, lo stesso comandamento è applicato alle relazioni
con il « forestiero » . 201

[v. 10] Due affermazioni asindetiche sintetizzano i percorsi argomentativi di


Rm 13,8-10: quello di chi ama il prossimo e che, quindi, adempie la Legge e quel-
lo della Legge stessa che perviene al suo adempimento nell'amore. Il primo per-
corso è ripreso in forma negativa e da una visuale minimalistica: dire che «l'a-

197 Cfr. il significato di logos in Es 34,28; Dt 10,4; Filone, Decalogo 32; Flavio Giuseppe, Ani. giud.
3,138.
Cfr. i paralleli riportati in H.L. Strack - P. Billerbeck, Kommentar, I, pp. 357, 907-908. Per i rife-
198

rimenti a Lv 19,18 nel giudaismo del secondo Tempio e in quello rabbinico cfr. Tb 4,15; Test. Issacar 5,2;
Test. Daniele 5,3; Filone, Legibus 2,63; Shabbat 31 a; Genesis rabbà 24,7. In 4Mac 2,5-6 è considerato l'u-
so della ragione come kelal o adempimento della Legge. Cfr. a tal proposito A. Nissen, Gott und der
Nächste im antiken Judentum: Untersuchungen zum Doppelgebot der Liebe, Tübingen 1974; T. Söding,
Liebesgebot, pp. 43-66.
Cfr. Mc 12,31; Mt 22,39; Lc 10,27; anche Mt 5,43; 19,19; Gc 2,8; Didaché 1,2; Barnaba 19,5;
199

Giustino, Dialogo 93,2.


Per una tradizione autonoma dal detto gesuano cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 693; invece a favore
200

di una dipendenza da Mc 12,28-34 cfr. B. Byrne, Romans, p. 396; J.D.G. Dunn, Paul, p. 679; J.A. Fitzmyer,
Romani, pp. 803-804; B.L. Martin, Christ, p. 151; DJ. Moo, Romans, pp. 814-816. Cfr. a tal proposito O.
Wischmeyer, Das Gebot der Nächstenliebe bei Paulus. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung, in BZ
30(1986) 161-187.
Cfr. Pr 6,1; Sir 13,15; lEn 99,15; Filone, Virtutibus 116; Flavio Giuseppe, Guer. giud. 7,260; Test.
201

Issacar 7,6. Così anche J.D.G. Dunn, Paul, p. 679.


La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 453
more per il prossimo non opera il male » è una litote che, se volta in positivo, può
essere resa con « l'amore per il prossimo opera il bene » . 202

La ricomprensione positiva dell'amore per il prossimo avvicina questi versi


all'asserzione paolina di Gal 5,6: « In Cristo Gesù non serve né la circoncisione né
Vincirconcisione ma la fede che diventa operosa nell'amore». Questo parallelo
conferma la prospettiva paolina sulla relazione con la Legge: pur non sottomet-
tendosi a essa, i credenti la adempiono; d'altro canto, la Legge perviene alla sua ri-
capitolazione o alla sua pienezza nell'amore per il prossimo . 203

L'attesa del giorno (13,11-14) - Accanto all'orizzonte agapico non poteva


mancare, nella sezione paracletica di Rm 12,1 -15,13, quello escatologico , an- 204

nunciato già nella tesi principale della sezione (cfr. Rm 12,2) e anticipato in al-
cune sentenze delle pericopi precedenti (cfr. Rm 12,19; 13,4-5). Per questo, as-
sieme a Rm 13,8-10 i vv. 11-14 costituiscono la prima conclusione della sezione
etica, per lasciare spazio, con Rm 14, alla questione specifica sulle relazioni tra i
forti e i deboli . 205

Dal punto di vista stilistico, la pericope escatologica si caratterizza per le an-


titesi tra la notte e il giorno, le tenebre e la luce, dalle quali dipende il comporta-
mento dei credenti. A queste antitesi terminologiche è relazionata anche l'oppo-
sizione sintattica dei vv. 13-14 determinata dalla sequenza « non... ma », in cui da
una parte c'è la breve lista dei vizi, dall'altra l'esortazione a rivestirsi di Cristo.
Lo stile ritmico ha indotto alcuni a trarre da questi versi un inno prepaolino ri-
conducibile al contesto battesimale: di tale inno farebbero parte i vv. 1 lb. 12, men-
tre Paolo avrebbe aggiunto la spiegazione del v. 1 lb e i vv. 13-14 . In realtà, non 206

è la prima volta che Paolo conclude una sezione della Lettera ai Romani con stile
quasi poetico (cfr. Rm 8,31-39; 11,33-35). D'altro canto, per ipotizzare la presen-
za di un inno prepaolino nei vv. 1 lb.12 si è costretti a escludere il v. 1 le (« infatti
la nostra salvezza è più vicina ora di quando cominciammo a credere »), senza
reali motivazioni . Piuttosto, a differenza dai frammenti prepaolini, che abbiamo
207

riconosciuto in Rm 1,3-4 e in Rm 3,25, i vv. 1 lb.12 si armonizzano bene con il


contesto di Rm 13,11-14; e diversi termini non si distanziano dal normale voca-
bolario paolino. Naturalmente l'origine paolina di questi versi non esclude colle-
gamenti con la tradizione escatologica neotestamentaria e con il linguaggio tipico
dell'apocalittica giudaica che porremo in evidenza . Circa la composizione del-
208

202Su quanto non fa l'amore cfr. in particolare l'inno di ICor 13,4-6: « ...Non è invidioso, non si van-
ta, non si gonfia, non si adira, non tiene conto del male ricevuto e non gode dell'ingiustizia ».
203Anche se altrove Paolo utilizza il sostantivo pleröma (cfr. Rm 11,12.25; Gal 4,4), soltanto in que-
sto caso parla della « pienezza » della Legge.
204Per l'importanza della prospettiva escatologica nell'etica paolina vedi l'introduzione a Rm 12,1
- 15,13.
205Per l'unità letteraria di Rm 13,11-14 cfr. B. Byrne, Romans, pp. 397-398; J.A. Fitzmyer, Romani,
p. 808; DJ. Moo, Romans, pp. 818-819; T.R. Schreiner, Romans, p. 698; U. Wilckens, Römer, III, p. 75.
206Così H. Schlier, Romani, p. 635; anche B. Byrne, Romans, p. 398; U. Wilckens, Römer, III, p. 75.
207Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 807.
208 Cfr. a tal proposito M. Thompson, Clothed with Christ: The Exemple and Teaching of Jesus in
Romans 12,1-15,13 (JSNT SS 59), Sheffield 1991, pp. 141-149 che pone in risalto i collegamenti con la
tradizione marciana di Me 13,33-37.
454 Traduzione e commento
la pericope, dopo l'introduttivo v. 1 la sono rilevabili due parti fondamentali: i vv.
IIb-12, in cui domina l'antitesi tra le tenebre e la luce, e i vv. 13-14, in cui su-
bentra l'esortazione a comportarsi come in pieno giorno.
[13,11] L'introduzione della pericope si caratterizza per Vellissi dell'impera-
tivo: forse bisogna sottintendere un semplice « fate », a causa del contesto esorta-
tivo delle affermazioni paoline. Comunque l'orizzonte della formula «e questo
sapendo» non è ristretto ai vv. 8-10, nel qual caso l'esortazione alla vigilanza ri-
guarderebbe soltanto il comandamento dell'amore , ma è più ampio, riferendosi
209

a tutta la prima parte della sezione etica iniziata con Rm 12,1 . In quest'esorta- 210

zione Paolo fa appello al patrimonio di fede delle comunità primitive: poiché tut-
ti i credenti sono coscienti del tempo in cui stanno vivendo , è giunta l'ora di sve-
211

gliarsi dal sonno! Tale conoscenza siriferisceal momento escatologico del mag-
giore avvicinamento della salvezza. Nell'uso contestuale del sostantivo kairos, è
rilevabile la tensione paolina tra apocalittica ed escatologia : poiché Cristo è 212

morto per gli empi nel momento stabilito (cfr. Rm 5,18), che corrisponde al kairos
della salvezza originario o apocalittico, i credenti si aprono alla realizzazione de-
finitiva della salvezza nella fase conclusiva della storia.
In questa tensione tra il kairos della giustificazione per la fede in Cristo e
quello escatologico si colloca il momento presente dell'ora in cui i credenti sono
esortati a svegliarsi dal sonno . Raramente nel NT si parla del sonno ; e soltan-
213 214

to in questo caso non siriferiscea quello fisico ma a quello metaforico della pro-
pria condotta etica . Un'analoga esortazione si riscontra in lTs 5,14, anche se
215

con termini diversi: «Non dormiamo dunque come gli altri ma stiamo svegli e
siamo sobri » (cfr. anche ICor 15,20; Ef 5,14).
La seconda parte del v. 11 offre la motivazione principale dell'esortazione
paolina: la salvezza è più vicina ora di quando abbiamo cominciato a credere . A 216

differenza da altri termini della soteriologia, come la « giustificazione » e la « re-


denzione », il sostantivo söteria e il verbo corrispondente sözein sono particolar-

209 Così invece G. Barbaglio, Teologia, p. 714.


210 Così anche DJ. Moo, Romans, p. 818; T.R. Schreiner, Romans, p. 698; U. Wilckens, Römer, III, p. 78.
211 II participio eidotes ha una connotazione causale. Così anche DJ. Moo, Romans, p. 820; T.R.
Schreiner, Romans, p. 698.
212 Di per sé il sostantivo kairos non ha nessuna consistenza apocalittico-escatologica, come dimo-
stra il suo uso in Rm 8,18; 11,5; Gal 4,10; 6,10. Invece, per l'uso del termine in contesti analoghi al nostro
cfr. Rm 3,26; ICor 7,29; 2Cor 6,2; Gal 6,9; lTs 5,1. Per la relazione tra l'apocalittica e l'escatologia pao-
lina cfr. l'ottimo contributo di R. Penna, Escatologia, pp. 80-84.
213 Paolo non conferisce grande importanza alla höra, come invece Giovanni che la considera come
il momento decisivo della storia della salvezza e della rivelazione del disegno divino (cfr. Gv 2,4;
12,23.27; 13,1; 16,2.32; 17,1; Ap 3,3.10; cfr. anche Dn 8,17.19; 11,35.40). Nell'epistolario paolino l'av-
verbio temporale è utilizzato poche volte (7 su 106 del NT) e generalmente senza particolare significato
teologico (cfr. ICor 4,11; 15,30; 2Cor 7,8; Gal 2,5; lTs 2,17; Fm v. 15).
214 Cfr. Mt 1,24; Le 9,32; Gv 11,13; At 20,9.9; soltanto qui per l'epistolario paolino.
215 Per l'uso del verbo « svegliare » (egeirein) in relazione con il sonno cfr. anche Mt 1,24, mentre al-
trove nell'epistolario paolino questo verbo è utilizzato per larisurrezionedi Cristo (cfr. Rm 4,24.25; 6,4.9;
7,4,8,11).
216 L'aoristo episteusamen ha un chiaro valore ingressivo:riguardal'inizio della fede cominciato con
l'adesione passata alla morte erisurrezionedi Cristo (cfr. con lo stesso significato in Gal 2,16). Così anche
DJ. Moo, Romans, p. 822; T.R. Schreiner, Romans, pp. 698-699.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 455
mente relazionati alla fase escatologica della salvezza, senza ignorare la loro con-
notazione passata (cfr. Rm 8,24) e presente . La vicinanza della salvezza richia-
217

ma la prossimità del regno di Dio (cfr. Le 21,31) o, secondo il linguaggio paolino,


la seconda venuta del Signore (cfr. Fil 4,5). Di per sé, il pronome personale hemón
puòriferirsisia a « più vicina » sia a « salvezza »: la connotazione personale della
salvezza, attestata altrove nell'epistolario paolino (cfr. 2Cor 1,6; Fil 2,12), orien-
ta decisamente verso la «nostra salvezza» . Forse, è benerilevareche tale esor-
218

tazione conferma la fede nell'imminente ritorno o parousia del Signore (cfr. lTs
4,15; ICor 15,52), anche se neppure in questo caso Paolo si sofferma sui tempi e
sulle modalità della sua realizzazione (cfr. lTs 5,1). Piuttosto, l'orizzonte escato-
logico è sottolineato proprio per fondare, insieme a quello apocalittico, l'etica:
questa si colloca in una tensione permanente tra l'essere in Cristo (orizzonte apo-
calittico) e l'essere con lui (orizzonte escatologico).
[v. 12] Un parallelismo antitetico di carattere evolutivo (climax) caratterizza
la descrizione dell'attesa escatologica della nostra salvezza: da una parte c'è la
notte alla quale corrispondono le opere delle tenebre, dall'altra il giorno al quale
Paolo relaziona l'esortazione a rivestirsi delle armi della luce. Nello stesso tem-
po, come il giorno succede alla notte, con l'avanzare dell'alba, così il rivestirsi
delle armi della luce subentra alle opere delle tenebre. In questa progressione è ri-
conoscibile il carattere itinerante o evolutivo dell'etica cristiana: questa si regge
non tanto sull'improvviso cambiamento della propria condotta quanto sul fatico-
so andare incontro al giorno del Signore.
L'approssimarsi del «giorno», che implicitamente si riferisce a quello del
«Signore», è tipico del linguaggio apocalittico antico e neotestamentario ; nel 219

parallelo di lTs 5,14 che abbiamo giàriconosciutoper l'invito a destarsi dal son-
no, Paolo ha già sostenuto che « non apparteniamo alla notte né alle tenebre, ma
siamo figli della luce e del giorno» (cfr. lTs 5,5-6) . 220

Il contrasto tra le tenebre e la luce, utilizzato per descrivere la situazione di


coloro che fanno parte della comunità rispetto a quelli di fuori, è comprensibile
ancora nel linguaggio apocalittico, in particolare nella letteratura qumranica . 221

Anche se l'opposizione tra le tenebre e la luce è attestata nell'epistolario paolino,


diventerà dominante nel pensiero giovanneo . Sono originali nel vocabolario
222

paolino le espressioni « opere delle tenebre » e « armi della luce » che possiamo
rendere come genitivi qualificativi: sono le opere tenebrose e le armi luminose.
L'uso di erga per le opere delle tenebre potrebbe far pensare alle «opere della
Legge »; in realtà è preferibile collegare queste opere delle tenebre a quelle « del-

217Cfr. Rm 1,16; ICor 1,18.21; 2Cor 2,15. A tal proposito A. Pitta, Paradosso, pp. 318-337.
218Con buona pace di T.R. Schreiner, Romans, p. 697 che preferisce collegare hemón a «più vicina»;
invece per «la nostra salvezza» cfr. anche B. Byrne, Romans, pp. 401-402; DJ. Moo, Romans, p. 821.
219Cfr. Is 13,6.9; Ez 13,5; GÌ 1,15; 2,1.11.31; 3,14; Am 5,18; Abd v. 15; Sof 1,7; Zc 14,1; Mal 4,5;
per il NT cfr. Mt 24,42; At 2,20; ICor 5,5; 2Cor 1,14; Fil 1,6.10; lTs 5,2; 2Ts 2,2; 2Pt 3,10.
220Soltanto qui e in lTs 5,5-7 Paolo si sofferma sul contrasto tra la notte e il giorno in contesto morale.
221Cfr. 1QS 1,9-10; 3,19-25; 1QM 1,1.7-14.
222Cfr. lTs 5,4.5; ICor 4,5; Col 1,13; Ef 5,8. Per le tenebre e la luce nell'opera giovannea cfr. Gv
3,19; 8,12; 12,46; lGv 2,8-10.
456 Traduzione e commento
la carne » di cui Paolo ha già parlato nel contesto esortativo analogo di Gal 5,19.
Anche se soltanto qui si accenna alle armi della luce, non è la prima volta che
Paolo utilizza la metafora militare della panoplia . Già in Rm 6,13 aveva invita-
223

to i destinatari della lettera a non mettere a disposizione le loro membra come stru-
menti per l'ingiustizia ma a offrire se stessi per Dio; qui non si sofferma sulla de-
scrizione delle armi luminose che, di fatto, corrispondono a quelle della giustizia
(cfr. 2Cor 6,7) e che saranno descritte in modo dettagliato in Ef 6,13-17.
Ai contrasti precedenti corrispondono le esortazioni ad abbandonare le opere
delle tenebre e a rivestirsi delle armi della luce. Lo stesso binomio di verbi « ab-
bandonare» - «rivestirsi» si riscontra in Col 3,8-10 e in Ef 4,22-25, anche se in
modo diverso: i credenti si sono già spogliati (apekduesthai) dell'uomo vecchio e
hannorivestito(enduein) l'uomo nuovo ; e per questo devono abbandonare (apo-
224

tithesthai) definitivamente i vizi della loro condotta passata. Si può rilevare una
sorta di tensione nell'uso del verbo enduein (rivestire) nell'epistolario paolino : 225

se in Gal 3,27 Paolo sostiene che i credenti si sonorivestitidi Cristo, qui li esorta
prima a rivestirsi delle opere della luce e quindi nuovamente del Signore Gesù
Cristo. Come si spiega questa tensione delrivestimento?Più che di contraddizio-
ne preferiamo sostenere una nuova tensione tra l'apocalittica e l'escatologia pao-
lina. Di fatto, i credenti si sono giàrivestitidi Cristo e dell'uomo nuovo (cfr. Col
3,10; Ef 4,24); questorivestimentonon si limita al passato ma diventa importante
anche per il presente e per il futuro della loro esistenza. Tale tensione sarà più chia-
ra in 2Cor 5,2: «Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci
del nostro corpo celeste: a condizione però di essere trovati già vestiti, non nudi ».
Intanto, è importante collocare il verbo «rivestirsi» nel contesto della metafora
militare, come dimostra nuovamente il parallelo di lTs 5,8: « ...Avendo indossato
la corazza della fede». Al v. 14 Paolo esorterà i destinatari a rivestirsi di Cristo!
[v. 13] Durante l'inoltrarsi della notte, i credenti sono invitati a comportarsi
come se si trovassero già nel giorno: anzi, la loro condotta anticipa la luminosità
del giorno che attendono. Questa bella tensione tra l'attesa e l'anticipazione del
giorno ha una notevole rilevanza etica, espressa in questo verso con il verbo pe-
ripatein (camminare), utilizzato spesso da Paolo per esprimere la propria condot-
ta etica . Lo stesso verbo assumerilevanzaetica nella LXX dove corrisponde al-
226

l'ebraico hàlak, anche se più spesso è preferito il corrispondente poreuesthai . 221

A causa della rilevanza etica, il verbo « camminare » è particolarmente utilizzato

223 Cfr. 2Cor 6,7; 10,4; Ef 6,10-20.


224 Di per sé, il verbo apotithèsthai non significa « svestirsi » ma ha il significato più generale di « ab-
bandonare » qualcosa o qualcuno (cfr. Mt 14,3; At 7,58; Ef 4,22; Col 3,8); il denudamento è piuttosto espres-
so con i verbi apekduesthai (cfr. Col 2,15; 3,9) ed ekduein (cfr. 2Cor 5,3.4; Mt 27,28; Me 15,20; Le 10,30).
225 Questo verbo è utilizzato 27 volte nel NT di cui 13 nell'epistolario paolino: svolge una funzione
letterale per indicare il rivestirsi di abiti, come in generale nel resto del NT (cfr. Mt 6,25; 22,11; Me 1,6;
6,9; 15,20; Le 8,27; 12,22; 15,22; Ap 1,13; 15,6; 19,24), e una metaforica, come nell'epistolario paolino
(cfr. ICor 15,53.54; Gal 3,27; lTs 5,8; Ef 4,24: 6,11.14; Col 3,10.12; anche Le 24,49 per l'investitura del-
la potenza divina).
226 Cfr. lTs 2,12; ICor 3,3; 7,17; 12,18; Fil 3,17.18; cfr. anche Gv 8,12; 11,9; 12,35; lGv 1,6.7; 2,6.
227 Per peripatein nella LXX cfr. Pr 6,22; 8,20; Is 59,9; per poreuesthai cfr. Es 18,20; Lv 18,4;
26,3.27; Dt 13,3-5; Sai 1,1; 14,2; 31,8; Pr 1,15; 2,13.20; anche 1QS 4,31-32.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 457
nelle sezioni paracletiche dell'epistolario paolino, come in questo caso e in Rm
14,15 . La condotta cristiana è definita da un avverbio raro e utilizzato soltanto
228

da Paolo nel NT: « onestamente » . 229

Senza soffermarsi sulla consistenza positiva della condotta, Paolo preferisce


attardarsi su una breve lista di vizi, costruita per binomi tematici . Sono presi di 230

mira alcuni vizi alimentari-sessuali (gozzoviglie-ubriachezze, orge-dissolutezze) e


relazionali (lite e gelosia). Il confronto con gli altri elenchi di vizi nell'epistolario
paolino pone in risalto i collegamenti con la lista di Gal 5,19-21 : a prescindere 231

dalle « orge » (koitè), gli altri cinque vizi sono già citati nella lista di Gal 5 (cfr. an-
che la lista di 2Cor 12,20-21) mentre dalla lunga lista di Rm 1 èripresosoltanto il
vizio della «lite» (eris). Questi collegamenti dimostrano che tali liste non hanno
necessariamente dellerilevanzecontestuali, in quantorispondonoad alcuni cliché
diffusi nel contesto giudaico e in quello popolare della filosofìa ellenistica. Tuttavia,
non è un caso che della lite si parli in Rm 1,29 e al culmine di questo breve elenco:
anticipa la problematica della polemica tra i forti e i deboli di Rm 14,1 -15,13.
La prima coppia di vizi compare già in Gal 5,21, anche se in modo inverso:
per kómoi si intendono i bagordi di natura sessuale e non tanto gli abusi alimenta-
ri , come dimostra l'assonanza con koitais, citati nella coppia successiva. Natu-
232

ralmente, tra i vizi sessuali e quelli alimentari c'è una profonda relazione giacché
è più facile essere preda di vizi sessuali quando si è ubriachi, come dimostra il
classico episodio di Noè e di Cam (cfr. Gn 9,18-32). Forse dietro questa accen-
tuazione sulle orge c'è la polemica tipicamente giudaica contro la prostituzione
sacra, diffusa nell'Oriente Antico, e contro i culti dionisiaci particolarmente svi-
luppati in contesto greco-romano. Accanto ai bagordi, Paolo colloca i methai che,
di per sé, riguardano qualsiasi tipo di dissipazione; nella LXX e nel NT questi vi-
zi assumono la connotazione specifica delle ubriachezze . 233

La seconda coppia insiste sulle orge (koitai), citate soltanto qui con accezio-
ne negativa, mentre nelle altre frequenze neotestamentarie il koitè è semplicemen-
te il letto o il talamo nuziale e (cfr. Le 11,7; Eb 13,4), per metonimia, la relazione
sessuale (cfr. Rm 9,10). Alle orge sono abbinate le dissolutezze (aselgeiai) che,
ancora una volta, assumono rilevanza sessuale : in 2Pt 2,2-7 questo vizio è de-
234

scritto attraverso l'esemplificazione degli abitanti di Sodoma e di Gomorra.

Cfr. lTs 4,1.1.12; 2Ts 3,6.11; Col 3,7; 4,5; Ef 4,1.17.17; 5,2.8.15. Per larilevanzamorale del ver-
228

bo peripatein nell'epistolario paolino e nel giudaismo del secondo Tempio cfr. P.J. Tomson, Paul:; J.O.
Holloway, Peripateó as a Thematic Marker for Pauline Ethics, S. Francisco 1992.
L'avverbio euschèmonós si trova soltanto 3 volte nel NT (Rm 13,13; ICor 14,40; lTs 4,12); cfr.
229

anche il sostantivo euschèmón in ICor 7,35; 12,24.


Per una lista di vizi più ampia vedi il commento a Rm 1,18-32.
230

Cfr. l'analisi dettagliata in A. Pitta, Galati, pp. 351-358.


231

II sostantivo kómoi compare soltanto 3 volte nel NT (qui, Gal 5,21 e lPt 4,3); è raro anche nella
232

LXX (cfr. Sap 14,23; 2Mac 6,4); cfr. in seguito Flavio Giuseppe, Guer. giud. 1,570; Ant. giud. 11,66; 17,65.
Si veda in particolare il collegamento con le crapule in Le 21,34 e in Gal 5,21 con le orge (sono
233

le uniche frequenze dei methai nel NT); cfr. inoltre Tb 4,15; Pr 20,1; Is 28,7; Ez 23,33; cfr. anche Flavio
Giuseppe, Guer. giud. 5,21,23; Ant. giud. 1,301; 1,177.
La aselgeia è citata 10 volte nel NT e spesso in liste di vizi (cfr. Me 7,22; 2Cor 12,21; Gal 5,19;
234

Ef 4,19; lPt 4,3); invece il sostantivo è raro nella LXX (cfr. Sap 14,26; 3Mac 2,26). Cfr. anche Filone,
Mosis 1,305.
458 Traduzione e commento
L'ultima coppia di vizi sposta l'attenzione verso le relazioni interpersonali e co-
munitarie; e a differenza dalle precedenti, è descritta al singolare, nonostante alcuni
testimoni cerchino di omologare questa coppia alle precedenti, utilizzando il plura-
le : discordia e gelosia . Il vizio della discordia (eris) deve essere stato particolar-
235 236

mente sottolineato da Paolo, in contesti comunitari, se soltanto lui utilizza questo so-
stantivo nel NT . Accanto alla discordia è posta la gelosia (zèlos), un sostantivo
237

che, in dipendenza dai contesti, può assumere una connotazione positiva o negati-
va . Di fatto, proprio in Romani, Paolo ha elogiato lo zelo d'Israele (cfr. Rm 10,2);
238

e in Fil 3,6 haricordatoil proprio zelo per le tradizioni dei padri (cfr. anche l'analo-
go zelötes in Gal 1,14) . A causa di quest'accezione positiva dello zelo, Giacomo
239

avvertirà il bisogno di precisare il significato negativo con l'espressione « amara ge-


losia» (cfr. Gc 3,14). Questa varietà di significato rende possibile la presenza dello
zelo nei cataloghi dei vizi, come nel caso presente (cfr. anche 2Cor 12,20; Gal 5,20),
e in quelli delle virtù, come in 2Cor 7,11. Tuttavia, Paolo utilizza questo sostantivo
soprattutto con il significato negativo di gelosia: è il vizio che crea, insieme alla di-
scordia, pericolose divisioni nella comunità cristiana, in quanto determina situazio-
ni partitiche e di arrivismo . Anche per Paolo vale la tendenza tipicamente umana
240

nel sottolineare il male più del bene: per questo, mentre in altri casi bilancia la lista
dei vizi con quella delle virtù (cfr. Gal 5,19-23), in Rm 1 e nel nostro caso si limita
a elencare i vizi, senza aggiungere nessuna lista di virtù ma limitandosi a sottolinea-
re il valore positivo del rivestirsi con le armi della luce e di Gesù Cristo.
[v. 14] L'esortazione alla condotta positiva è descritta, in modo originale, co-
me rivestirsi del Signore Gesù Cristo. A prima vista, l'immagine sembra poco so-
stanziale, in quanto lascia pensare soltanto a un rivestimento esterno che non
cambia nella sostanza l'individuo. Questa sensazione verrebbe, in certo senso,
confermata dal riferimento che alcuni propongono rispetto al contesto teatrale:
come durante il teatro ci sirivestirebbedi personaggi da rappresentare, così i cre-
denti dovrebberorivestirsidi Cristo . Nonostante l'analogo uso del verbo «rive-
241

stirsi », in contesto teatrale, l'immagine paolina assume un orizzonte diverso, co-


me dimostra la frequenza del verbo enduein nell'epistolario paolino. Già in Gal
3,27 Paolo haricordatoche « quanti sono stati battezzati in Cristo si sono rivesti-
ti di Cristo »: è un mutamento sostanziale confermato dalle successive negazioni,

Cfr. il codice B e i minuscoli 048, 630, 1506, 1739, 1881.


235

Gli stessi vizi sono citati in contiguità anche in ICor 3,3; 2Cor 12,20 e in Gal 5,20.
236

II sostantivo si trova 9 volte nel NT e soltanto nell'epistolario paolino: si trova quasi in tutti i suoi
237

cataloghi di vizi (cfr. Rm 1,29; 13,13; 2Cor 12,20; Gal 5,20; lTm 6,4; Tt 3,9). Nella LXX si parla rara-
mente di eris (4 volte: Sai 138,20; Sir 28,11; 40,5.9); cfr. in seguito lClem 35,5; 46,5; Flavio Giuseppe,
Guer. giud. 1,227,452.638; Ant. giud. 15,47.
II sostantivo si trova 16 volte nel NT, di cui 10 nelle lettere paoline: cfr. Rm 10,2; 13,13; ICor 13,13;
238

2Cor 7,7.11; 9,2; 11,2; 12,20; Gal 5,20; Fil 3,6; cfr. anche Gv 2,17; At 5,17; 13,45; Eb 10,27; Gc 3,14.16.
Cfr. anche lo zelo di Gesù per la casa di Dio in Gv 2,17; per lo zelo in senso positivo cfr. anche
239

2Cor 7,7; 9,2; 11,2; nella LXX cfr. Nm 25,11; IRe 19,10.14; Sai 69,10; IMac 2,24-26.
Per lo zelo in senso negativo di gelosia cfr. anche ICor 3,3; 2Cor 12,20; Gal 5,20; per la LXX cfr.
240

Sir 30,24; 40,4; Plutarco, Teseo 6,9; Licurgo 4,3.


Cfr. l'uso della stessa immagine in Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates romanae 11,5 a proposi-
241

to delrivestimentodi Tarquinio. Per questo collegamento con il contesto teatrale cfr. B. Byrne, Romans, p.
403; J.D.G. Dunn, Paul, p. 194; K. Haacker, Römer, p. 274.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 459
in cui si sostiene che in Cristo «non c'è giudeo né greco, schiavo né libero, ma-
schio né femmina ». Anche se Paolo non parla molto del battesimo, quando ne di-
scute lo presenta come relazione sostanziale di partecipazione alla morte e alla ri-
surrezione di Cristo (cfr. anche Rm 6,1-4). Per questo, quando esorta i colossesi a
«rivestirsidi viscere di misericordia » (cfr. Col 3,12) e gli efesini a «rivestirsidel-
la corazza della giustizia» intende non un rivestimento esterno, ma un cambia-
mento interiore che si rende visibile nel comportamento. Dunque, rivestirsi di
Cristo è analogo arivestirsidelle armi della luce, ossia rendere visibile e ricono-
scibile un cambiamento interiore e sostanziale. Tale relazione tra interiorità ed
esteriorità, del tutto assente nel contesto teatrale, èriconoscibileproprio nella ten-
sione tra l'evento passato del rivestirsi di Cristo, attestato in Gal 3,27, di natura
kerygmatica, e l'esortazione presente a rivestirsi di Cristo: in pratica bisogna ri-
vestirsi di chi già ci si è rivestiti nella sostanza della propria identità cristiana . 242

Poiché Paolo non esiterà a presentare lo stesso linguaggio della « forma » per
descrivere il percorso dell'incarnazione di Cristo Gesù (cfr. Fil 2,6-7) e per sotto-
lineare la «conformazione» alla sua morte (cfr. Fil 3,10), forse non è estranea, a
questo modo di descrivere le relazioni con Cristo, l'immagine semitizzante del-
l'AT in cui «rivestirsi » di forza (cfr. Is 51,9), di giustizia (cfr. Is 59,17; Gb 29,14)
e di splendore (cfr. Sai 93,1) corrisponde all'adesione sostanziale per queste virtù.
Nella LXX, Gedeone (cfr. Gdc 6,34) e Amisai (cfr. lCr 12,19) sono rivestiti dello
Spirito del Signore, per indicare la presenza della potenza divina su di loro. La me-
tafora non è estranea neppure all'autore dello pseudepigrafico 2Enoc: « Il Signore
disse a Michele: Prendi Enoc e spoglialo delle vesti terrene, ungilo di olio bene-
detto erivestilodi vesti di gloria» (2En 22,8).
Questo retroterra esclude un facile riferimento al rituale battesimale antico,
perché per Paolo il battesimo non rappresenta la condizione per entrare in relazio-
ne con Cristo ma l'inverso , e in quanto non abbiamo attestazioni sullo spoglia-
243

melo e sulrivestimentoritualeprima del 70 d.C. Risultano altrettanto impropri i


collegamenti con i culti misterici o con le correnti gnostiche che utilizzeranno il
linguaggio dello spogliamento e delrivestimentoper esprimere l'adesione inizia-
tica : le fonti sono successive all'epistolario paolino e a volte discordanti in
244

quanto, per Paolo, si tratta di unrivestimentosostanziale cheriguardail passaggio


dal vecchio al nuovo uomo (cfr. Col 3,9-10; Ef 4,22-24) e non di una giustapposi-
zionerispettoalla propria identità.
Il cambiamento interiore è talmente radicale che coloro che accolgono l'e-
sortazione a rivestirsi di Cristo, poiché si sono già rivestiti di lui, non procurano

242Cfr. a tal proposito J. Eckert, Zieht den Herrn Jesus Christus an...! (Rom 13,14). Zu einer enthu-
siastischen Metapher der neutestamentlichen Verkündigung, in TTZ 105 (1996) 39-60.
243 Sulla concezione paolina del battesimo vedi il commento a Rm 6,1-14. Per questo è improprio
considerare la vita cristiana e quella etica, in particolare, un reditus ad baptismum come invece sostiene A.
Vögtle, Paraklese, p. 191; cfr. anche G. Barbaglio, Teologia, p. 713, a meno che non si riveda la conce-
zione dello stesso battesimo secondo la prospettiva paolina.
244Per il rivestimento iniziatico dei culti misterici cfr. Plutarco, De Iside et Osiride 352B; Apuleio,
Metamorphoseon 11,24; sul rivestimento in contesto gnostico cfr. Corpus Hermeticum 2,27,19-24; Od.
Salom. 7,4; 25,8; 33,12; 39,8.
460 Traduzione e commento
alcuna provvista della carne in funzione delle passioni . Un'espressione analoga
245

si trova in Gal 5,16: «...Camminate secondo lo Spirito e il desiderio della carne


non soddisferete » . Le passioni (epithymiai) alle quali Paolo si riferisce corri-
246

spondono ai vizi elencati al v. 13 (cfr. anche Rm 1,24-32).


La conversione di Agostino d'Ippona, che perviene al culmine con la lettura
di questi versi, dimostra l'incisività dell'esortazione paolina: «Così tornai conci-
tato al luogo dove stava Alipio e dove avevo lasciato il libro dell'Apostolo all'at-
to di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero
gli occhi. Diceva: Non nelle crapule e nell'ebbrezze... ma rivestitevi del Signore
Gesù Cristo... (Rm 13,13-14). Non volli leggere oltre né mi occorreva. Appena
terminata infatti la lettura di questa frase, una luce quasi di certezza penetrò nel
mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» (Confessioni 8,12,29) . 247

Forti e deboli (14,1 -15,13). - Nel panorama delle esortazioni conclusive del-
l'epistolario paolino, questa sottosezione è un'eccezione che conferma la regola:
essa non si caratterizza più per sentenze brevi, come la sottosezione precedente,
ma è una vera dimostrazione con la quale Paolo si propone di esortare coloro che,
fra i destinatari, siritengonoforti ad accogliere i deboli. Da una parte, i forti man-
giano tutto, senza badare alla purità o meno dei cibi, dall'altra i deboli mangiano
soltanto verdura (cfr. Rm 4,2). Non sappiamo se accanto alla purità dei cibi, i de-
boli si astengono anche da particolari bevande: vedremo che gli accenni alle be-
vande sono più sfocati di quelli sui cibi: di certo alle questioni alimentari Paolo
collega quelle di calendario, anche se neppure queste sono specificate. Il quadro
sfocato della situazione tramandataci da Paolo impone molta cautela, senza cade-
re nell'errore metodologico di trasferire, ad esempio, la questione degli idolotiti,
affrontata in ICor 8,1 -10,33, nella situazione delle comunità romane. Paolo non
precisa le motivazioni per cui i deboli sono vegetariani: se per l'impurità dei cibi,
per questioni di comunione di mensa o per evitare la contaminazione con carni im-
molate alle divinità. Dal quadro globale si coglie, comunque, che in questione è il
puro e l'impuro dell'alimentazione e quindi la relazione con la prassi giudaica de-
rivante dalla tradizione orale della Legge mosaica, anche se nella sezione manca
il sostantivo nomos . Gli interlocutori sono definiti soltanto per la forza o la de-
248

bolezza alimentare e non per la loro origine etnica: nella parte dimostrativa di Rm
14,1 -15,6 sono evitati i sostantivi giudeo e gentile. Soltanto nell'ultimo riquadro
(Rm 15,7-13), in cui si assiste a un uso abbondante dell'AT, sono chiamati in cau-

245Per indicare la provvista della carne Paolo utilizza un sostantivo raro nel NT: pronoian si trova
soltanto qui e in At 24,2. L'espressione «fare provvista» è diffusa nel greco extrabiblico (cfr. per la LXX
Dn 6,19; cfr. anche Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates romanae 10,1; Papiri di Ossirinco 899,17; Papiri
Fiorentini 2.207; Papiri di Londra, 1912; Aristea 80; Flavio Giuseppe, Apionem 1,9; Vita 62.
246Questo parallelo permette di considerare l'espressione « provvista della carne » come genitivo sog-
gettivo e non oggettivo: non si tratta tanto della provvista in funzione della carne quanto della carne che ha
bisogno di provvista per le sue passioni. Così anche B. Byrne, Romans, p. 403. Cfr. anche già l'esortazione
di Rm 6,12 a non lasciarsi dominare dalle passioni.
247Cfr. C. Carena, Sant'Agostino. Le confessioni, Roma 1982 , p. 249.
4

248Così anche B. Byrne, Romans, pp. 405-406.


La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 461
sa i giudei e i gentili; ma vedremo che si tratta della perorazione finale con la qua-
le Paolo propone l'ultimo appello per l'accoglienza dei deboli da parte dei forti.
Per questo, è fuori luogo omologare i deboli con i giudeo-cristiani e i forti con gli
etnico-cristiani : all'una e all'altra categoria possono appartenere sia i cristiani
249

provenienti dal giudaismo sia quelli di origine pagana. D'altro canto, a rigore di
definizione storica, i forti e i deboli sono accomunati, ancora una volta, dall'ap-
partenenza a una forma di giudaismo chericonosceGesù Cristo come il Signore.
Possiamo soltanto stabilire che gli uni e gli altri sono accomunati dalla fede in
Cristo: qualsiasi altra definizione etnica è infondata! 250

Per esortare i forti all'accoglienza dei deboli, Paoloricorrea una strategia di


tipo psicagogico : intende porre in discussione il tipo di mentalità che caratteriz-
251

za le due fazioni per orientarle a ricomprendere la loro relazione di fede con


Cristo. Di fatto, si passa dall'accoglienza verso i deboli (vv. 1-12) allo scandalo
per la loro fede (vv. 13-23) e all'esortazione, rivolta ancora ai forti, di farsi carico
delle debolezze dei fratelli (Rm 15,1-6). Tuttavia, anche se l'accento e la princi-
pale finalità dell'argomentazione paolina sono rivolti ai forti, l'epilogo della se-
zione (Rm 15,7-13) coinvolge anche i deboli, perché tutti, seguendo il modello di
Cristo, sono esortati ad accogliersi vicendevolmente . 252

L'accoglienza dei deboli (14,1-12). - L'esortazione paolina per la reciproca


accoglienza nella comunità di Roma comincia con l'attenzione verso i deboli nel-
la fede, anche se nel corso di questa prima parte della dimostrazione (vv. 2-12)
Paolo non mancherà di esortare gli stessi « deboli » a non giudicare « chi mangia »
tutto, ossia i «forti» nella fede. L'unità della pericope è abbastanza chiara, in
quanto è incentrata sui motivi dell'accoglienza e della relazione con il Signore,
per lasciare il posto alla questione dello scandalo nella pericope successiva (cfr.
Rm 14,13-23) ; lo stile della diatriba cadenza le parti minori del paragrafo (cfr.
253

vv. 4.10). Questo stile permette di distinguere nei vv. 1-12 tre parti fondamentali:
la situazione (vv. 1-3), la relazione con il Signore (vv. 4-9) e l'orizzonte escatolo-
gico (vv. 10-12); e come spesso nell'epistolario paolino, èrilevabileuna compo-
sizione circolare del tipo « a-b-a'», in cui la parte principale è rappresentata dalla
relazione di ogni credente con la signoria di Cristo (vv. 4-9) che fonda l'esorta-
zione a non giudicare e a non disprezzare i fratelli (vv. 1-3.10-12) . A conferma 254

249Così invece DJ. Moo, Romans, p. 835; T.R. Schreiner, Romans, p. 712; G.S. Shogren, «Is the
Kingdom ofGod about Eating and Drinking or isn't it?» (Romans 14:17), in NT 42 (2000) 238-255; F.
Watson, Congregations, pp. 206-207.
Così anche S.K. Stowers, Rereading Romans, p. 321.
250

251Così anche C.E. Glad, Paulus and Phildemus. Adaptability in Epicurean and Early Christian
Psychagogy (NTS 81), Leiden 1995, pp. 214-228.
252Per la disposizione quadripartita della sezione cfr. anche B. Byrne, Romans, p. 406; T.R.
Schreiner, Romans, p. 703; Wilckens, Römer, III, p. 80.
Per la microunità di Rm 14,1-12 cfr. B. Byrne, Romans, p. 408; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 814; DJ.
253

Moo, Romans, p. 834; T.R. Schreiner, Romans, p. 711; U. Wilckens, Römer, III, p. 80; D. Zeller, Romani,
p. 351.
1 verbi krinein con il significato di « giudicare » ed exouthenein (disprezzare) fungono da collega-
254

menti principali tra i vv. 1-3 e i vv. 10-12, mentre il vocabolario della « signoria» (kyrios e kyrieuein) do-
mina nei vv. 4-9. Per la composizione circolare dei vv. 1-12 cfr. anche DJ. Moo, Romans, p. 835.
462 Traduzione e commento
di tale composizione si può notare che le due domande diatribiche dei vv. 4.10 so-
no praticamente uguali: «Tu chi sei che giudichi... »
Senza misconoscere queste relazioni, è importante distinguere il v. 1 che rap-
presenta la tesi o propositio principale di Rm 14,2 - 15,13 . La preoccupazione 255

di Paolo non riguarda il puro o V impuro in quanto tali, di cui comunque parlerà
nei vv. 14-23, bensì l'accoglienza dei deboli nella fede (v.l) che, in seguito, di-
venta condivisione delle loro debolezze (Rm 15,1) e alla fine apre alla reciproca
accoglienza (Rm 15,7).
[14,1] Il contesto esortativo di Rm 14-15 motiva l'inizio imperativale della
tesi: «Accogliete chi è debole nella fede... ». Come nel corso della Lettera ai Ro-
mani, anche questa tesi non è dettagliata, paragonabile a una partitio, ma genera-
le o incoativa. Di fatto, Paolo non spiega subito perché bisogna accogliere i deboli
nella fede né chiarifica il pomo della discordia: preferisce introdurre la questione
in modo generico, per poi affrontarla progressivamente. Alla luce di quanto dirà
in seguito, « accogliere il debole nella fede » non significa sopportarlo ma « por-
tare i suoi pesi» (cfr. Rm 15,1), condividere la sua debolezza . 256

L'orizzonte esortativoriguardaprincipalmente i forti, anche se per ora questi


non sono citati esplicitamente (cfr. Rm 15,1). Non sappiamo se quest'orizzonte
esortativo implicito per i forti sia dovuto all'inferiorità numerica dei deboli, per
cui si possa stabilire la consistenza sociale delle comunità di Roma, ovvero se i
deboli siano i pochi giudeo-cristiani e se i forti corrispondano ai molti etnico-cri-
stiani . Per ora è necessario escludere qualsiasi identificazione etnica dei deboli
257

e dei forti, giacché Paolo distingue soltanto per comportamenti etici e non etnici
le fazioni delle comunità romane. Di certo, dalla sua prospettiva, si tratta di « de-
boli nella fede » e non di « delicati » o di persone particolarmente sensibili alle tra-
dizioni giudaiche . 258

I deboli sono subito definiti in base alla loro relazione con la fede: così Paolo
introduce la parte debole delle comunità di Roma. L'espressione è analoga a quel-
la di Rm 4,19 in cui, soffermandosi su Abramo, sottolinea che « non aveva vacil-
lato nella fede ». In questi versi, Paolo creerà diversi collegamenti impliciti con la
fede di Abramo , tuttavia è bene precisare la fondamentale differenza tra la fede
259

di Abramo e quella dei deboli nelle comunità di Roma: la prima è relazionata al-
la giustificazione mentre la seconda dipende, in definitiva, da essa, al punto da as-
255Senza eategorizzazioni retoriche, già T.F. Tomson, Paul, p. 237 parla del v. 1 come verso che « in-
troduce la scena», anche se poi ignora la questione delle purità legali (p. 242).
256II verbo proslambanein, che si trova 12 volte nel NT, se si esclude Fm v. 17, è utilizzato soltanto
in questa sezione dell'epistolario paolino (cfr. Rm 14,1.3; 15,7.7; cfr. anche Mt 16,22; Me 8,32; At 17,5;
27,33.36). Con la stessa rilevanza comunitaria o domestica cfr. Fm v. 17; At 18,26; 28,2. Cfr. anche il so-
stantivo proslèmpsis in Rm 11,15 per l'accoglienza futura dei giudei che non hanno aderito al vangelo.
257Per i sostenitori dell'identificazione etnica dei forti e dei deboli vedi l'introduzione a Rm 14,1 -15,13.
258Con buona pace di T.F. Tomson, Paul, p. 243 che preferisce tradurre asthenounta con « delicato »,
la polarizzazione con i «forti» (dynatoi) impedisce di limitare il significato del termine alla delicatezza
alimentare. In questione è la debolezza nella fede, determinata dalla particolare sensibilità alimentare che
poi siriversacome problema nelle relazioni comunitarie, anche se dobbiamoriconoscereche forse dal ver-
sante dei « deboli » questa definizione doveva suscitare non poche reazioni negative verso quanti, come
Paolo stesso, siritenevano« forti ».
259Così anche B. Byrne, Romans, p. 411.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 463
sumere risvolti ecclesiali o comunitari. Per questo, in Rm 14 la « fede » si avvici-
na più alla « convinzione » o alla « persuasione » che all'atto di credere in Cristo,
di cui non si parlerà, anche se all'origine di questa convinzione si trova comun-
que la fede in Cristo.
L'esortazione all'accoglienza verso i deboli nella fede non ammette alibi e
rappresenta il punto fermo e di arrivo dell'argomentazione paolina: per questo
nella seconda parte della tesi, Paolo invita tutti i membri della comunità a non per-
dersi in diversità di opinioni . Con tale esortazione negativa, Paolo non sostiene
260

Che si debbano bandire, nelle comunità cristiane, diversità di opinioni e di vedu-


te, sulle quali invece si soffermerà nel corso della dimostrazione, ma che queste
non pongano in crisi l'unità né determinino la separazione dai deboli nella fede.
Qualcosa di analogo, anche se in contesti diversi, dirà ai filippesi: « Fate tutto sen-
za mormorazioni e discussioni » (Fil 2,14).
[v. 2] Con poche battute, Paolo introduce subito la questione sulla discordia
con i deboli: da una parte si trova chi crede di poter mangiare tutto, dall'altra chi
mangia verdura. Naturalmente, egli non si riferisce a chi mangia anche verdura
bensì a chi si nutre soltanto di verdura, come conferma il v. 21, e per questo è con-
siderato debole nella fede. Purtroppo, il sostantivo «verdura» (lachanon) è utiliz-
zato soltanto in questo verso , così che diventa difficile stabilire il contesto so-
261

cioreligioso di chi è debole nella fede. L'indeterminatezza iniziale dell'asserzione


paolina ha indotto alcuni arileggerequesti versi in contesti gnostici o di correnti
religiose pagane : i deboli conserverebbero abitudini religiose pagane analoghe a
262

quelleriscontratenella comunità di Corinto, a proposito degl'idolotiti o delle car-


ni immolate agli idoli (cfr. ICor 8-10). Vedremo come la questione delle purità e
delle impurità esclude qualsiasi riferimento a correnti protognostiche o pagane e
orienta decisamente verso alcune halakót o norme comportamentali giudaiche,
nelle quali sono implicate leggi alimentari e di calendario . L'obiezione per la 263

quale la Legge mosaica non impedisce l'alimentazione della carne, a favore delle
verdure, non regge perché, in questi versi, è in questione l'alimentazione in con-
testi di diaspora e quindi la relazione con la carne impura, come quella di maiale,
per la quale i giudei erano noti nel contesto sociale romano . In definitiva, la si-
264

260 II sintagma « diversità di discussioni » va considerato come genitivo oggettivo e non soggettivo:
non si tratta delle discussioni diverse bensì delle diversità sulle discussioni inerenti le posizioni dei forti e
dei deboli. Il sostantivo diakrìsis (diversità) è raro nel greco biblico: si trova soltanto 1 volta nella LXX (cfr.
Gb 37,16) e 3 volte nel NT (qui, in ICor 12,10 e in Eb 5,14); invece per dialogismos (discussione) cfr. i pa-
ralleli in Rm 1,21, anche se qui assume valore meno negativorispettoai ragionamenti di quanti non hanno
reso gloria a Dio.
261 Per l'uso di lachanon nel NT cfr. anche Mt 13,32; Me 4,32; Le 11,42.
262 Si pensi alle tradizioni alimentari dei neopitagorici di cui si parla in Filostrato, Vita Apollonii 1,8;
per le tradizioni alimentari gnostiche cfr. Ireneo, Adversus haereses 1,24,2; in seguito anche Eusebio,
Historia Ecclesiastica 4,29.
263 Sulle relazioni tra la Torah e le halakót giudaiche in Rm 14-15 cfr. T.F. Tomson, Paul, pp. 237-245.
264 Cfr. le attestazioni di Giovenale, Satirae 14,9b-10b; Orazio, Satirae 1,9,67-72; Ovidio, Ars Amatoria
1,76,415-416; Remedia Amoris 219-220; Tacito, Historia 5,4,2-4. Spesso in queste attestazioni le tradizioni ali-
mentari sono poste in relazione con il calendario giudiaco e con il sabato. Sulla diffusione di queste tradizioni
giudaiche in contesti di diaspora e in particolare a Roma cfr. J.M.G. Barclay, 'Do we undermine the Law?'
A Study ofRomans 14.1 -16.6, in J.D.G. Dunn, Mosaic Law, pp. 293-295; L.H. Feldman, Jew and Gentile,
pp. 123-176; M. Stern, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, voli. I-m, Jerusalem 1976-1984.
464 Traduzione e commento
tuazione dei deboli che mangiano soltanto verdura non è diversa da quella di
Daniele (cfr. Dn 1,8-16), Ester (cfr. LXX Est 14,17), Giuditta (cfr. Gdt 12,1-2) e
Tobia (cfr. Tb 1,10-12) che, in adesione alla loro fede, preferiscono astenersi dal-
la carne e dal vino, in contesti di diaspora, per non incorrere in impurità alimenta-
ri . A conferma della consistenza di questa tradizione giudaica, Flavio Giuseppe
265

ricorderà una sua visita a Roma, in occasione della quale cercherà di salvare alcu-
ni sacerdoti inviati da M. Antonio Felice, procuratore della Giudea tra il 52 e il 60
d.C., a Nerone: « Questi non avevano dimenticato la pietà verso Dio e si nutriva-
no soltanto di fichi e di noci » . Pertanto, anche se non si parla esplicitamente del-
266

la Legge mosaica, i deboli che mangiano verdura nella comunità di Roma sono co-
loro che preferiscono restare vegetariani per non contaminarsi con carne impura.
Questo non significa che si tratta di giudeo-cristiani di fronte ai gentilo-cristiani
che sarebbero i forti: nulla in Rm 14,1 -15,13 permette tale omologazione. Di fat-
to, i deboli possono essere sia i cristiani di origine giudaica, sia i gentili che han-
no aderito al cristianesimo attraverso la loro adesione al giudaismo ortodosso, co-
me proseliti o come semplici timorati di Dio.
[v. 3] Anche se all'inizio Paolo ha invitato ad accogliere i deboli nella fede,
sa bene che la ragione non sta tutta da una parte e che non soltanto i forti sono ten-
tati dal disprezzare i deboli ma questi ultimi possono essere indotti a giudicare
i forti o coloro che non si preoccupano dell'alimentazione . Per questo, ora la 267

sua attenzione si rivolge anche al versante dei deboli che giudica i forti . 268

Quest'esortazione spiega che anche se Paolo ha definito i vegetariani come debo-


li, di fatto essi possono benissimoritenersii veri forti perché giudicano coloro che
mangiano di tutto.
Il contesto sociale delle comunità di Roma, a seguito dell'espulsione dei giu-
dei dopo l'editto di Claudio (49 d.C.) e del lororitorno,in seguito alla sua morte
(54 d.C.), rende quanto mai concreta questa possibilità. Se dal versante paolino i
forti sono coloro che non si preoccupano dell'alimentazione, in contesti di catti-
vità come quello romano, i forti sono coloro che perseverano nelle leggi di purità
giudaiche per testimoniare la loro fede. Questo significa che dietro queste identi-
ficazioni di comportamento, più che etniche, c'è il problema del valore stesso del-
la Legge mosaica. Di fatto, la forza e la debolezza nella fede sono determinate
dalla relazione con Cristo e con la Legge mosaica o, per dir meglio, con le hâlaköt
giudaiche in contesti di diaspora. Chi è debole per Paolo non è detto che lo sia dal
proprio punto di vista: per questo è preferibile escludere qualsiasi qualificazione

Cfr. anche Test. Issacar 4,5-6; 2Mac 5,27; 4Mac 1,34; Giuseppe e Asenat 7,1; 8,5; 1QS 5,16-18.
265

Cfr. Flavio Giuseppe, Vita 3,13-14.


266

Per descrivere l'atteggiamento dei forti verso i deboli Paolo utilizza il verbo exouthenein (di-
267

sprezzare) che ha già usato altrove in contesti ecclesiali (cfr. ICor 6,4; 16,11; lTs 5,20; cfr. anche in con-
testi autobiografici 2Cor 10,10; Gal 4,14; e in contesto kerygmatico cfr. ICor 1,28), anche se soltanto qui
e in Rm 14,10 si riferisce alle relazioni fra membri della stessa comunità (al di fuori dell'epistolario pao-
lino cfr. Le 18,9; 23,11; At 4,11).
Anche se meno forte del verbo « disprezzare », il verbo krinein (giudicare) è altrettanto negativo:
268

Paolo lo ha già utilizzato in Rm 2,1.3; in Rm 14 si servirà della varietà di significati di questo verbo per
passare dal « giudicare » (qui e nei vv. 4.10.13a.22) al « preferire » (cfr. Rm 14,5.5) e al « badar bene » (cfr.
Rm 13,3b). Così anche DJ. Moo, Romans, p. 837.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 465
etnica che conduce fuori contesto e rende impropria l'interpretazione della sezio-
ne e della relativa posta in gioco. L'esortazione verso i deboli si regge sul princi-
pio dell'accoglienza da parte di Dio per il cosiddetto «forte»: Dio lo ha accolto
nella stessa comunità di fede del «debole». Nell'uso del verbo «accogliere» in
questi primi versi dell'esortazione è bene notare lo slittamento di orizzonte: da
una parte i forti devono accogliere i deboli (v. 1), dall'altra i deboli sono invitati a
riconoscere l'accoglienza che Dio hariservatoai forti nella loro comunità.
[v. 4] Ricorrendo, come spesso nel corso della lettera, allo stile della diatri-
ba, Paolo interpella direttamente ogni membro della comunità per conferire mag-
giore consistenza alla sua esortazione . Allo stile diatribico appartiene anche
269

l'uso di esempi popolari che illustrano bene quanto si intende dimostrare. Così,
per sottolineare il divieto di giudicare a causa della signoria di Dio o di Cristo,
Paolo richiama la relazione domestica tra il padrone e il suo servo . Come nes- 270

suno, se non il padrone, ha potere di giudizio sul proprio servo, così nessuno può
giudicare chi vive la stessa relazione con il Signore; e come soltanto il padrone
può approvare o biasimare il proprio servo domestico, così soltanto Dio o Cristo
hanno potere sulla sorte dei propri servi . 271

In questo rapido parallelo che introduce la tematica della signoria, è bene ri-
levare il passaggio, senza soluzione di continuità, dalla signoria del padrone di
casa a quella di Dio o di Cristo. Paolo non specifica se sia Dio o Cristo il Signore
che approva o no il suo servo; e su questo duplice orizzonte egli insisterà nei ver-
si successivi per sottolineare la condivisione della stessa signoria. Comunque,
poiché ancora non parla di Gesù Cristo, ilriferimentoa Dio che ha accolto il fra-
tello (v. 3) lascia propendere, per adesso, verso la signoria di Dio. D'altro canto,
con ilriconoscimentodell'autorità divina nel permettere al servo di restare in pie-
di o di cadere, Paolo anticipa la tematica della signoria di Dio e di Cristo (vv. 6-9)
dalla quale dipende la vita e la morte di ognuno . 272

[v. 5] La diversità di opinione tra i deboli e i forti nelle comunità di Roma ri-
guarda anche il calendario: se il debole preferisce (krinei) un giorno al posto di un
altro, per il forte un giorno è uguale all'altro. Coloro che contestualizzano l'an-
notazione nel retroterra cultuale pagano pensano ai giorni fasti e nefasti della re-
ligiosità popolare greco-romana . In realtà, se fosse questo il background per il
273

269 Anche in Rm 2 ha utilizzato lo stile diatribico della seconda persona singolare in connessione con
il verbo « giudicare » (cfr. Rm 2,1,3).
270 Larilevanzadomestica dell'esempio è riconoscibile nell'uso del sostantivo oiketes che si riferisce
al servo domestico (cfr. anche Le 16,13; At 10,7; lPt 2,18) mentre per indicare il padrone di casa è più pro-
prio il sostantivo oikodespotes (cfr. Mt 13,27) oppure il semplice despotes (come in lPt 2,18), anche se il pa-
rallelo di Le 16,13 dimostra come il sostantivo kyrìos è utilizzato in contesto domestico. Il dativo tg idig
kyrig ha valore di relazione più che di vantaggio. Così anche B. Byrne, Romans, p. 412; D.J. Moo, Romans,
p. 840; T.R. Schreiner, Romans, p. 719; invece per il valore di vantaggio cfr. U. Wilckens, Römer, III, p. 82.
271 II binomio « stare » e « cadere » è eufemismo per indicare « approvazione » o « disapprovazione »,
come dimostra il parallelo di ICor 10,12; cfr. anche gli usi analoghi di isthemi in 2Cor 1,24; Col 4,12; Ef
6,11.13.14; e di piptein in Rm 11,11.12. Nel caso specifico del v. 4b, il passivo stathesetai non va inteso
come divino (cfr. H. Schlier, Romani, p. 652) ma come semplice passivo con valore intransitivo. Così an-
che D.J. Moo, Romans, p. 841.
272 Alla relazione tra Dio e i credenti che si pongono a suo servizio Paolo ha già dedicato Rm 6,15-18.
273 Cfr. E. Käsemann, Romans, p. 370.
466 Traduzione e commento
calendario in questione, forse Paolo sarebbe stato meno indulgente. Invece, anche
questa diversità di opinione si contestualizza bene nel retroterra giudaico delle co-
munità di Roma; e anche se non è specificato direttamente, forse Paolo si riferi-
sce in particolare all'osservanza del sabato, la pratica giudaica più nota nel mon-
do greco-romano . 274

Nella liberalità che Paolo concede ai deboli delle comunità romane si può ri-
levare una certa tensione con quanto scrive ai galati,rimproverandoliper l'inizia-
le adesione al calendario giudaico dei « giorni, mesi, stagioni e anni » (cfr. Gal
4,10). In realtà, anche se entrambe le situazioni possonoriferirsiin parte ai genti-
io-cristiani, il percorso di adesione al calendario giudaico è diverso. Se in Galazia
i gentilo-cristiani hanno prima aderito a Cristo e quindi si stanno facendo incanta-
re dalle pratiche giudaiche della circoncisione e del calendario, a Roma i « deboli »
possono essere sia ebrei che conservano le loro tradizioni, sia gentili che hanno co-
nosciuto il messaggio cristiano attraverso l'adesione iniziale al comune giudaismo.
Dunque, in questo caso, l'itinerario di fede non procede da Cristo al calendario o
alle regole alimentari, ma l'inverso: e questo spiega larigiditàusata da Paolo per i
galati e la sua tolleranza verso i deboli di Roma . 275

Se a Corinto, Paolo ha fatto appello alla coscienza dei credenti di fronte alla
questione degli idolotiti (cfr. ICor 8,7.10.12), qui si rivolge alla «piena convin-
zione della propria mente », senza citare mai la coscienza . Senza voler distin-
276

guere eccessivamente i due orizzonti, forse dietro quest'ulteriore diversità rispet-


to alla situazione di Corinto c'è proprio la funzione della coscienza rispetto alla
mente. Di fatto, se Paolo riconosce alla «coscienza» il ruolo fondamentale di
orientare verso le cose da scegliere o da fare, in Rm 14,1 -15,13 non c'è alcun bi-
sogno diricorrerea essa, perché è in questione l'intero sistema della mentalità dei
deboli e dei forti. La presa di posizione dei deboli dipende innanzi tutto dalla lo-
ro mentalità sviluppatasi attraverso la loro appartenenza alle tradizioni giudaiche
e non dalla loro coscienza. Nello stesso tempo, tale mentalità è chiamata a «rin-
novarsi » (cfr. la tesi generale di Rm 12,2) proprio attraverso la relativizzazione di
questioni alimentari o di calendario, per aderire sempre di più alla relazione con
Cristo, come dimostrano i versi successivi. La piena convinzione dei deboli e dei
forti è analoga a quella di Abramo, « pienamente convinto che Dio è capace di
realizzare le sue promesse» (cfr. Rm 4,21) . 277

[v. 6] Se Paolo affronta le diversità di opinioni tra i deboli e i forti a partire


dalla loro originaria mentalità che non contrasta con il suo vangelo, questo non si-

274Per le attestazioni greco-romane sulla tradizione giudaica del sabato cfr. Seneca, Epistulae 95,47;
Persio, Satirae 5,180-184; Orazio, Sermones 1,9,60-78; cfr. anche dal versante giudaico Flavio Giuseppe,
Apionem 2,282; Così anche J.M.G. Barclay, Law, pp. 297-298; DJ. Moo, Romans, p. 842. H. Weiss, Paul and
the Judging ofDays, in ZNW 86 (1995) 143.
275Con buona pace di B. Byrne, Romans, p. 412, in Gal 4,10 Paolo prende di mira proprio l'osservan-
za del calendario giudaico e non il calendario pagano per il quale si sarebbe mostrato meno violento. Per il
contesto giudaizzante di Gal 4,10, cfr. A. Pitta, Galati, pp. 254-255. Un atteggiamento analogo a quello di
Rm 14,5 è riconoscibile nella relativizzazione del calendario giudaico in Col 2,16-17, posto proprio in rela-
zione con alcune regole alimentari: queste sono considerate semplici ombrerispettoalla realtà che è Cristo.
276Per l'ultima citazione della coscienza in Romani cfr. Rm 13,5.
277Cfr. a tal proposito J. Becker, Zu plèrophoreisthai in Ròm 14,5, in Bib 65 (1984) 364.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 467
gnifica che ognuno è libero di restare nella propria posizione: i deboli possono
continuare a criticare i forti e i forti possono disprezzare i deboli! Al contrario, an-
che le proprie convinzioni mentali vanno rinnovate , per entrambi i versanti, at-
278

traverso ilricuperodella relazione con Cristo . A causa dei prossimi riferimenti


279

alla morte e alla vita di Cristo, ora il titolo di Signore ha una chiara valenza cri-
Stologica , più che teologica, anche se il ringraziamento del v. 6, rivolto a Dio,
280

dimostra, ancora una volta, la stretta relazione tra la signoria di Cristo e quella di
Dio. Forse il rendimento di grazie a Dio è dovuto alriferimentoper la mensa: in
definitiva da Dio dipende la signoria di Cristo e qualsiasi altro dono . 281

[vv. 7-8] Lo sguardo di Paolo non si limita alla questione del calendario o del-
l'alimentazione ma si estende all'esistenza stessa dei credenti: essi vivono e
muoiono per il Signore perché, in definitiva, gli appartengono. La relazione con
Cristo, per la fede in lui, permette di connotare ancora in termini cristologici la si-
gnoria di questi versi costruiti in forma innica o poetica. Le tre strofe dei vv. 7-8 so-
no caratterizzate dal parallelismo dei membri: in ogni strofa c'è il binomio « vita-
morte »; e a differenza da Gal 2,19-20 o da Rm 6,11, Paolo non siriferiscealla vi-
ta o alla morte interiore e spirituale ma a quella fisica. Il concatenamento delle
strofe induce a evitare qualsiasiriferimentoalla condizione umana, come ad esem-
pio all'assioma «nessun uomo è un'isola» . Il versante argomentativo non è an-
282

tropologico ma cristologico, in quantoriguardail « noi » dei credenti che vivono e


muoiono senza la minima diminuzione della loro relazione con Cristo. Anche se si
potrebbe pensare a un inno prepaolino della Chiesa primitiva, non c'è alcuna ra-
gione per escludere quest'inno dall'estro di Paolo : il parallelismo dei membri e
283

il vocabolario della « vita-morte » cheritmale tre strofe sono tipicamente paolini.


[v. 9] La seconda parte (vv. 4-9) del paragrafo si conclude con la ragione fon-
damentale per la quale i credenti vivono e muoiono per il Signore: non per una lo-
ro opzione di adesione a Cristo ma l'inverso, a causa della signoria di Cristo, rea-
lizzata attraverso la sua morte e vita, che lo ha reso signore dei morti e dei vivi.
La centralità e il movimento del kerygma cristiano, incentrato sulla morte e risur-
rezione di Cristo, determina l'inversione della sequenza dei versi precedenti (vi-
ta-morte): egli diventa Signore dei morti e dei vivi , mentre altrove si sottolinea
284

la signoria di Cristo sui vivi e sui morti . 285

278 L'attenzione alla mentalità dei deboli e dei forti prosegue anche nel v. 6, attraverso l'uso del ver-
bo phronein che Paolo ha già utilizzato nella prima parte della sezione esortativa (cfr. Rm 12,3.3.16.16).
279 Anche i dativi kyrig e theg del v. 6 hanno valore di relazione e non di vantaggio: in questione non
è ciò che i credenti possono fare per il Signore o per Dio ma la fondamentale relazione con loro. Così an-
che B. Byrne, Romans, p. 413.
280 Così anche R. Penna, Ritratti, II, p. 183.
281 Per il verbo eucharistein in Romani cfr. Rm 1,8.21. Forse è eccessivo pensare, in base a questo ac-
cenno al « rendimento di grazie », alla comunione di mensa, come invece ritiene B. Byrne, Romans, p. 413:
di per sé in questi versi Paolo non accenna minimamente alla coinofagia o comunione di mensa tra i forti
e i deboli, come invece in occasione dell'incidente di Antiochia (cfr. Gal 2,11-14).
282 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 844.
283 Così anche J. Cambier, Libertà, p. 63.
284 Anche se il v. 9 non èritmicocome i vv. 7-8, conserva la composizione parallela: alla morte e al-
la vita di Cristo corrispondono i morti e i vivi intesi, ancora una volta, in senso naturale.
285 Cfr. lTm 4,1; cfr., anche At 10,42; lPt 4,5; la sequenza di Mt 22,32 e paralleli, « non dei morti ma
dei vivi », è diversa perché si riferisce a Dio e non a Cristo ed è un'avversativa.
468 Traduzione e commento
Rispetto al linguaggio del « vivere » nell'epistolario paolino, è originale que-
sto uso per indicare la vita di Cristo dopo morte, mentre altrove Paolo si limita a
parlare della suarisurrezione.Per questo l'aoristo ezesen è ingressivo, da tradurre
con « cominciò a vivere » , a causa della suarisurrezione.I credenti non possono
286

vivere e morire per se stessi ma per lui che « li ha amati e ha consegnato se stesso
per loro » (cfr. Gal 2,20). Se questo vale per la vita e per la morte dei credenti quan-
to più per questioni secondarie come le regole alimentari o di calendario. In defi-
nitiva la centralità della relazione con Cristo permette a Paolo di affrontare e di su-
perare le tensioni sorte fra i destinatari della lettera.
[v. 10] Nell'ultima parte della pericope (vv. 10-12) è ripresa con maggiore
impeto la domanda dallo stile diatribico,rivoltaal « tu » di ogni membro della co-
munità, per rivolgersi ai due schieramenti fondamentali: quello dei deboli che
giudicano i forti e dei forti che disprezzano i deboli: alla luce di quanto ha dimo-
strato nei vv. 4-9, ossia a causa della loro relazione con Cristo, si trovano in erro-
re entrambe le parti della comunità. Questa volta il superamento delle divisioni è
sottolineato attraverso l'interpellante « fratello » utilizzato per i deboli e per i for-
ti. Prima di qualsiasi definizione dovuta alle proprie abitudini alimentari si trova
la relazione di fratellanza che accomuna tutti i membri della comunità . 287

Tuttavia, neppure in questa sezione poteva mancare l'orizzonte escatologico


del giudizio divino; Paolo lorichiamacon l'accenno al tribunale di Dio di fronte
al quale tutti dovremo comparire. L'immagine è quella forense dei testimoni chia-
mati a deporre davanti al giudice : serve bene per sostenere che anche i credenti
288

dovranno render conto a Dio delle proprie azioni. Comunque è bene precisare
che, come in Rm 13,11-14, l'orizzonte escatologico ha l'importante funzione di
consolidare la propria condotta etica e, nel caso specifico, di superare le divisioni
nella comunità cristiana, anche se, a differenza di Rm 2, qui Paolo accenna sol-
tanto al tribunale divino . 289

Anche rispetto ai ruoli nel giudizio finale si può notare una coesistenza del
« tribunale di Dio » e di quello di « Cristo » (cfr. 2Cor 5,10), analoga a quella del-
la loro signoria. L'orizzonte più esteso si trova in Rm 2,16 in cui Paolo ha già pro-
spettato il giudizio finale di Dio, secondo il suo vangelo, per mezzo di Cristo
Gesù. Da questo punto di vista, è interessante il riferimento che Policarpo farà a
Rm 14,10-12, unendo la prospettiva teologica e quella cristologica del giudizio:
« Siamo tutti sotto gli occhi del Signore e di Dio, tutti dovremo presentarci davan-
ti al tribunale di Cristo e ognuno renderà conto di se stesso » (Filippesi 6,2).

286Così anche DJ. Moo, Romans, p. 845.


287 L'inizio della sezione esortativa è caratterizzato dall'interpellante «fratelli» (cfr. Rm 12,1): su
questa relazione Paolo tornerà nella seconda parte di Rm 14,13-23 (cfr. vv. 13.15.21).
288A tale contesto non si riferisce soltanto il sostantivo bèma ma anche il verbo paristemi, utilizzato
in contesto forense per la deposizione dei testimoni (cfr. anche At 24,13; 27,24). Così anche T.R. Schreiner,
Romans, p. 721.
289Raramente Paolo parla del bèma (qui e in 2Cor 5,10) e a differenza dal resto del NT (tranne for-
se per Gv 19,13 in cui l'autore, pur accennando al tribunale di Pilato, pensa a Gesù che siede in tribuna-
le per giudicare il mondo), non utilizza questo sostantivo per designare il tribunale terreno (così in Mt
27,19; At 12,21; 18,12.16.17; 25,6.10.17; in At 7,5 bèma si riferisce all'orma del piede), ma quello della
fine della storia.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 469
[v. 11] Per confermare la signoria divina, Paolo ricorre all'autorità dell'AT
con una formula tipica per le sue citazioni dirette: « sta scritto infatti » °. Nono- 29

stante la formula, la citazione così come giace non si trova in alcun testo dell'AT,
anche se la parte principale riprende globalmente l'oracolo di Is 45,23b (LXX)
che così recita: « Lo giuro su me stesso: la giustizia uscirà dalla mia bocca, le mie
parole non torneranno indietro perché a me si piegherà ogni ginocchio e renderà
lode ogni lingua a Dio ».
Nella citazione paolina, la prima parte è sostituita da una formula diffusa
nell'AT: «Io vivo, dice il Signore» . A causa dell'uso frequente di questa for-
291

mula è difficile pensare che Paolo l'abbia mutuata da Is 49,18, la citazione più
prossima a Is 45,23b e non è facile stabilire le ragioni per tale variazione. Più che
a una fonte diversa della LXX siamo orientati verso una variazione redazionale
paolina: non è un caso che nei versi precedenti siano stati utilizzati spesso il verbo
«vivere» e il titolo «Signore» che ora assumono una rilevanza più teologica, a
conferma dello scambio tra la signoria di Dio e quella di Cristo.
La seconda parte di Rm 14,11 corrisponde alla citazione di Is 45,23, anche se
con l'anticipazione in prima posizione di «ogni lingua» rispetto a «renderà lode
a Dio ». Non sappiamo se tale inversione sia dovuta all'influsso dell'inno cristo-
logico prepaolino di Fil 2,10-11, anche perché se in Fil 2,11 il verbo exomologein
significa «confessare» o «professare», in Rm 14,11 equivale a «lodare», a cau-
sa della sua connessione con il dativo « a Dio » . D'altro canto, questa citazione
292

è riportata a conferma della signoria divina in riferimento all'universale giudizio


finale. Comunque, se nell'originale l'oracolo di Is 45,23b si presenta come paral-
lelismo, in Rm 14,11 è verificabile una composizione chiastica:
(a) «A me si piegherà
(b) ogni ginocchio e
(b') ogni lingua
(a') renderà lode a Dio ».
Le parti laterali del chiasmo sono occupate dai verbi che esprimono l'adora-
zione per la signoria di Dio, quelle centrali sono dedicate agli organi con i quali si
esprime talericonoscimento.Ilriferimentoalle parti del corpo umano che rendo-
no lode al Signore evoca, capovolgendo, la situazione negativa delle membra che,
attraverso la catena disastrosa di Rm 3,9-18, dichiaravano la corruzione di tutto
l'essere umano. Il passaggio dalla condizione negativa a quella positiva delle
membra è causato dalla trasformazione del corpo con l'azione dello Spirito (cfr.
Rm 8,1-4) e con la sua offerta per la misericordia divina (cfr. Rm 12,1-2).
[v. 12] La prima parte dell'esortazione alla reciproca accoglienza si conclu-
de con un caveat che pone in guardia i destinatari da comportamenti superficiali:

290 Cfr. Rm 12,19; ICor 1,19; 3,19; Gal 3,10; 4,22.27.


291 L'espressione si trova 17 volte nella LXX: cfr. Nm 14,28; Sof 2,9; Is 49,18; Ger 22,24; 26,18; Ez
5,11; 14,16.18.20; 16,48; 17,16; 18,3; 20,31.33; 34,8; 35,6.11.
292Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 178. Per exomologein con il significato di « lodare » cfr. 2Sam 22,50;
lCron 29,13; Sai 85,12; 117,28; per il NT cfr. Rm 15,9; Mt 11,25; Le 10,21. Così anche DJ. Moo, Romans,
p. 847; invece J.A. Fitzmyer, Romani, p. 819, preferisce rendere anche in Rm 14,11 con «confessare».
470 Traduzione e commento
« Ciascuno dovrà render conto di se stesso » (davanti a Dio, come preferiscono
293

esplicitare alcuni testimoni ). In questa sentenza finale è interessante il nuovo si-


294

gnificato di logos che assume valore economico o amministrativo: è il conto che


bisogna saldare o del quale bisogna rendere ragione al Signore quando tutti sa-
295

remo chiamati in giudizio per le nostre azioni.


Contro lo scandalo del fratello (14,13-23). - La preoccupazione che induce
Paolo a proseguire nell'esortazione all'accoglienza dei deboli è, nello stesso tem-
po, di natura cristologica ed ecclesiologica: c'è il rischio che per questioni ali-
mentari si perdano alcuni che sono stati redenti da Cristo e che sono diventati fra-
telli per la fede che condividono con i forti. Ora l'argomentazione paolina co-
mincia a farsi più concreta,rispettoalla parte precedente di Rm 14,1-12, anche se
permangono molti aspetti lasciati nel generico che impediscono di definire in det-
taglio la crisi delle comunità romane . In questione si trovano le regole alimen-
296

tari e forse quelle sul vino, anche se queste ultime sono soltanto accennate. In
questo secondo livello dell'esortazione, il debole si identifica con il fratello che
rischia d'inciampare o di scandalizzarsi: ora l'attenzione di Paolo sirivolgeprin-
cipalmente al forte che non è ancora esplicitamente citato in questa parte della let-
tera; lo sarà in Rm 15,l . 297

La tesi secondaria del v. 13 annuncia la finalità esortativa della nuova peri-


cope: evitare il giudizio vicendevole e non far inciampare o scandalizzare il fra-
tello . Da questa tesi dipendono due parti fondamentali: una incentrata sulla per-
298

suasione di fede di Paolo, fondata sulla relazione con Cristo e con il regno di Dio,
(vv. 14-17) e una consequenziale in cui egli esorta al perseguimento della pace e
dell'edificazione vicendevole (vv. 18-23) . Anche in questi versi Paolo ricorre
299

293 Cfr. l'analogo caveat in 2Cor 5,10.


294 Cfr. i codici B, F, G e i minuscoli 6,630,1739,1881. La maggiore autorevolezza dei codici che non
aggiungono theó (cfr. K, A, C, D, W, 0209, 33) e la preferenza per la lezione più breve e più difficile orien-
tano verso il testo senza questa specificazione (cfr. anche N-A e GNT ).
27 4

295 Cfr. lo stesso significato di logos in Fil 4,17; Mt 12,36; Le 16,2; At 19,40.
296 L'unità letteraria della pericope è abbastanza chiara: il v. 13 introduce la tesi secondaria della mi-
crounità e la sentenza generale del v. 23 conclude questo secondo momento della sezione. Per l'unità let-
teraria di Rm 14,13-23 cfr. B. Byrne, Romans, p. 415; J. Cambier, Liberté, p. 65; J.A. Fitzmyer, Romani,
p. 821; DJ. Moo, Romans, p. 849; H. Schlier, Romani, p. 660; T.R. Schreiner, Romans, p. 726.
297 Così anche J. Cambier, Liberté, p. 65; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 821; DJ. Moo, Romans, p. 849;
T.R. Schreiner, Romans, p. 726.
298 Laripresadei termini principali nel corso dell'esortazione conferma la funzione di tesi che il v. 13
svolge rispetto ai vv. 14-23: più che di un semplice verso di transizione, come invece sostengono J.A.
Fitzmyer, Romani, p. 822 e DJ. Moo, Romans, p. 850, è preferibile parlare di una tesi secondaria che ag-
giunge qualcosa di nuovorispettoa quella principale del v. 1. Di fatto, il pronome reciproco allélón si trova
soltanto nei vv. 13.19 mentre non era stato utilizzato nei versi precedenti (cfr. prima in Rm 13,8); anche di
« fratelli » si parla nei vv. 13.15.21 mentre prima Paolo ha utilizzato questo sostantivo soltanto verso la con-
clusione al v. 10 (2 volte). Tuttavia, la novità principale dei vv. 13-23riguardal'inciampo (cfr. proskomma
nei vv. 13.20 e proskoptei al v. 21) di cui Paolo ha parlato precedentemente soltanto in Rm 9,32-33 a propo-
sito dell'inciampo della maggior parte d'Israele. Il principale elemento di continuitàrispettoa Rm 14 si tro-
va nell'uso del verbo krinein che, con diverse accezioni, è utilizzato anche in Rm 14,13-23 (cfr. vv. 13.13.22).
299 Da parte sua D.J. Moo, Romans, pp. 849-850 preferisceribadireanche per questi versi lo stesso
modello circolare di Rm 14,1-13, in cui si passerebbe dai vv. 13b-16 (a), ai vv. 19-23 (a') mediante la fon-
dazione cristologica dei vv. 17-18 (b). Cfr. anche le tripartizioni proposte da B. Byrne, Romans, p. 415 e
da J. Cambier, Liberté, p. 68. A ben vedere, di Cristo si parla già nei vv. 14-15 per cui ci sembra forzata
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 471
allo stile della diatriba, mediante l'interpellanza rivolta al «tu» dei forti (vv.
15.21-22; cfr. prima nei vv. 4.10) che si alterna alle esortazioni in seconda perso-
na plurale e in terza singolare: in tal modo l'esortazione assume una maggiore in-
cisività, creando un maggiore coinvolgimento nei destinatari della lettera.
[14,13] Le precedenti motivazioni, in particolare la relazione con Cristo e la
prospettiva escatologica del giudizio finale, costituiscono il fondamento dell'e-
sortazione a non giudicarsi vicendevolmente. Queste prime battute della pericope
dimostrano chiaramente, attraverso l'uso del pronome relazionale allelón e il ri-
conoscimento dell'altro come adelphos, che la questione alimentare non riguarda
le relazioni tra i credenti in Cristo e gli altri giudei della diaspora che vivono a
Roma ma è un problema intracomunitario, tra i forti e i deboli, senza ulteriori spe-
cificazioni di natura etnica . Se nella precedente microunità l'esortazione è stata
300

rivolta ai deboli e ai forti ora, a prescindere dalla prima parte della tesi, in cui l'in-
vito a non giudicare è rivolto a tutti, l'attenzione è indirizzata principalmente ai
forti perché soltanto essi possono causare, con il loro comportamento di disincan-
to verso le regole alimentari, l'inciampo o lo scandalo del fratello.
Si può notare come in questa tesi Paolo indugi sul valore anfibologico o po-
lisemico del verbo krinein per passare dall'atto di giudicare a quello del valutare
0 dt\Yosservare con diligenza (cfr. lo stesso passaggio in Rm 14,3.5). I sostanti-
vi « inciampo » e « scandalo » sono sinonimi, come dimostra il loro uso in Rm
9,33 anche se ora Paolo non si riferisce a Cristo, come pietra d'inciampo e di
scandalo per gli israeliti che non hanno aderito al vangelo, bensì allo scandalo che
1 forti possono suscitare nei deboli. La prospettiva, pur nelle diverse situazioni, è
analoga a quella di ICor 8,9.13: « Però badate che la vostra libertà non diventi in-
ciampo per i deboli... Pertanto se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò
mai più carne, per non scandalizzare il mio fratello ».
[v. 14] Sino ad ora, Paolo si è soffermato sulle preferenze alimentari o di ca-
lendario dei deboli; adesso la sua attenzione si orienta in particolare sulle questio-
ni di purità alimentari, attraverso l'antinomia del puro (<katharos, v. 20) e dell'im-
puro (koinos, v. 14). L'uso originale di koinos con il significato di impuro , men- 301

tre generalmente in greco profano significa comune, e la relazione con il puro, in


analoghi contesti, dimostrano che il problema delle comunità di Roma non si li-
mita a questioni di preferenze alimentari mariguardale norme di purità alimenta-

una tale disposizione; è preferibile rispettare le formule introduttive dei vv. 14.19 per limitarsi a due parti
della stessa pericope. Si può notare come se nei vv. 14-18 domina la relazione con Cristo, nei vv. 19-23 si
parla soltanto di quella con Dio.
300II pronome della reciprocità allelón e il sostantivo adephos sono utilizzati spesso da Paolo per espri-
mere il contesto comunitario del suo epistolario; per questo non si spiega come M.D. Nanos, The Mistery of
Romans. The Jewish Context ofPaul's Letter, Minneapolis 1996, pp. 127.159-163 possa identificare i de-
boli con i giudei che non credono in Cristo e i forti con quanti hanno aderito al vangelo.
301 Se si prescinde da At 2,44; 4,32; Tt 1,4; Gd v. 3 in cui koinos significa «comune», nelle altre 7
frequenze neotestamentarie prevale l'accezione di « impuro »; e tali attestazioni sono verificabili in conte-
sti polemici sulla purità alimentare (cfr. Me 7,2.5; At 10,14.28; 11,8; Tt 1,4; Eb 10,29; Ap 21,27; cfr. an-
che l'uso del verbo corrispondente koinoun in Mt 15,11.18.20; Me 7,15.18.20.23; At 10,15; Eb 9,13). Per
le questioni di purità alimentari nell'AT e nel giudaismo del secondo Tempio cfr. Lv 11; Dt 14; IMac
1,47.62; 4Mac 7,6; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 11,8,7.
472 Traduzione e commento
ri della Legge e le hàlàkót giudaiche. In definitiva, dietro la crisi delle comunità
romane si trova una valutazione pragmatica e contestuale della Legge mosaica . 302

L'affermazione secondo la quale « nulla è impuro in quanto tale » è precedu-


ta dalla formula di autorità paolina « so e sono convinto » e dalla relazione con il
« Signore Gesù » che però non è definita e, per questo, è soggetta a diverse solu-
zioni . In pratica, la convinzione di Paolo si regge sulla relazione con Cristo e, in
303

particolare, sulla partecipazione alla sua morte e risurrezione, come ragione per la
libertà dalle regole alimentari e, in definitiva, dalla Legge mosaica? . Oppure la 304

convinzione nel Signore Gesù si riferisce ai detti gesuani sul puro e suIV impuro
trasmessi dalla tradizione sinottica (cfr. Me 7,15-23; Mt 15,11-20)? 305

Non è la prima volta che Paolo in Rm 12,1 -15,13 richiami almeno implici-
tamente la tradizione sinottica (cfr. Rm 12,14; 13,8-10). Tuttavia, è bene precisa-
re che egli non riporta nessuna formula di citazione in cui dica esplicitamente che
si richiama ai detti di Gesù; ed è possibile che lo stesso detto sul puro e sull'im-
puro, trasmesso in Me 7,15-23, sia meno antico di quanto sembri. Di fatto, è pro-
babile che la discussione farisaica di Me 7 appartenga a una tradizione successi-
va postpasquale e che sia stata collocata a livello gesuano per conferirle maggio-
re autorevolezza . Non è un caso che la questione sulle norme di purità
306

alimentari sia ancora accesa in occasione della conversione di Cornelio (cfr. At


10,14.28) e dell'assemblea di Gerusalemme (cfr. At 15,29) . D'altro canto, se 307

per il detto di Me 7 la valutazione del puro e dell'impuro dipende da ciò che en-
tra e ciò che esce dall'uomo, per Paolo il criterio fondamentale è quello della pro-
pria convinzione di fede . Pertanto siamo più propensi a considerare l'espressio-
308

ne « nel Signore Gesù » come formula di relazione con la morte erisurrezionedi


Cristo: questa determina la libertà verso la Legge mosaica nella sua globalità (cfr.
Rm 7,6) e per qualsiasi sua norma consequenziale.
A causa della relatività delle norme alimentari, il problema si sposta dal-
l'impurità, che in quanto tale non esiste, alla relazione che ogni credente ha con
le norme di purità: tutto dipende da ciò cheritieneil credente in Cristo. Per il de-
302 Quest'orizzonte è posto molto bene inrisaltoda J.M.G. Barclay, Do we undermine, pp. 305-308.
303 Per formule analoghe di autorità paolina cfr. Rm 8,38; 15,14; Gal 5,10; Fil 2,24; Fm v. 21; 2Ts 3,4;
2Tm 1,5.12.
304 Così J. Cambier, Liberté, p. 66; B. Byrne, Romans, p. 420; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 822; C. Heil,
Die Ablehnung des Speisgebote durch Paulus: Zur Frage nach der Stellung des Apostels zum Gesetz (BBB
96), Wienheim 1994, p. 250; D.J. Moo, Romans, pp. 852-853.
305 Così J.D.G. Dunn, Paul, p. 651; T.R. Schreiner, Romans, p. 731. Più prudente è S. Kim, «Gesù,
detti di », p. 718 che si limita a parlare di semplicerisonanzadi Me 9,42.
306 Così anche V. Fusco, Prime comunità, pp. 197-198.
307 Non è assodato che il decreto di At 15 sia stato realmente redatto alla fine dell'assemblea di
Gerusalemme; Paolo non lo cita mai nelle sue lettere, neppure nei contesti che sembranorichiederealme-
no vaghi riferimenti come il nostro e in Gal 2,1-10 o in ICor 8,1 -10,33, e il Paolo lucano sembra ignora-
re tale decreto (cfr. At 21,25). Per questo, dal punto di vista storico, è più probabile che Luca abbia com-
piuto una sorta di sintesi storica per conferire maggiore autorevolezza al decreto sulle relazioni con gli et-
nico-cristiani. Cfr. a tal proposito A. Pitta, Da Cristo ai gentili e alla Legge: percorso genetico a partire
dalla lettera ai Galati, in Paradosso, pp. 152-153. Nella poca attenzione all'evoluzione storica sulla pu-
rità alimentare si trova il lato debole principale dell'analisi di M.D. Nanos, Mistery, pp. 68-68, al punto che
l'autore rilegge la situazione di Roma a partire dall'assemblea di Gerusalemme.
308 Così anche B. Byrne, Romans, p. 420.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 473
bole queste norme continuano a svolgere un ruolo utile, nel suo percorso di fede,
mentre perii forte non assumono alcun valore, a causa della nuova relazione con
Cristo che ha sostituito la signoria della Legge mosaica; comunque, per entram-
bi conta innanzi tutto la nuova relazione con Cristo.
[v. 15] Il diverso comportamento dei forti e dei deboli di fronte alle norme ali-
mentari giudaiche haripercussioniecclesialirilevanti:se tale questione assume un
peso nella convivenza dei cristiani di Roma, da una parte il debole si rattrista, al
punto darischiaredi abbandonare la sua comunità , dall'altra il forte non si com-
309

porta secondo l'amore , non ha posto in cima, e prima di qualsiasi comandamen-


310

to della Legge, la regola d'oro dell'amore per il prossimo (cfr. Rm 13,8-10) . 311

Di qui l'invito a non perdere coloro per i quali Cristo è morto, in quanto a lo-
ro vantaggio egli ha offerto la sua esistenza . Anche quest'espressione trova il
312

suoriscontronella crisi di Corinto: « Infatti, per la tua scienza si perde il debole,


un fratello per il quale Cristo è morto» (ICor 8,11). Si può notare come, ancora
una volta, la relazione con Cristo è l'orizzonte fondamentale e prioritario dal qua-
le sono affrontate le diverse difficoltà ecclesiali . 313

Se tale esortazione è posta a confronto con l'incidente di Antiochia (cfr. Gal


2,11-14), Paolo sembra cadere in contraddizione perché finirebbe con l'assumere
lo stesso comportamento di Pietro e di Barnaba che abbandonano la comunione di
mensa con i gentili a causa dei giudeo-cristiani e, in particolare, per coloro che
provengono dal partito di Giacomo. In realtà, se ad Antiochia la questione verte
sulla coinofagia o comunione di mensa, qui è in discussione la debolezza o la for-
za dei credenti che condividono la stessa fede. In pratica, se ad Antiochia la crisi
nasce dalla pretesa di miglioramento nella fede di quanti desiderano imporre re-
gole alimentari, come quelli della frangia di Giacomo, a Roma i deboli continua-
no semplicemente ad attenersi alle regole alimentari, anche dopo aver aderito al
vangelo e non l'inverso. Per questo, l'incidente di Antiochia si colloca in un con-
testo diverso dalla crisi romana, anche se non mancano punti di contatto, giacché
rimangono aperte le difficoltà alimentari che nascono nelle diverse comunità mi-
ste del cristianesimo primitivo.
[v. 16] L'esortazione consequenziale di questo verso è troppo brachilogica
per essere comprensibile ai lettori successivi, anche se forse lo era per gli imme-
309 Soltanto in questo verso della lettera Paolo utilizza il verbo lypein (rattristare) che esprime la si-
tuazione di frustrazione relazionale nella quale si trovano i deboli (per l'uso di questo verbo cfr. in parti-
colare 2Cor 2,1-5, anche se in contesti diversi; in Rm 9,2 Paolo ha accennato alla sua grande tristezza per
la situazione di Israele).
310 Per il verbo peripatein (camminare), con valenza di comportamento etico vedi il commento a
Rm 13,13.
311 Sull'ideale comunitario dell'amore cfr. anche la funzione prolettica di Rm 12,9.
312 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 823, anche in questo caso la preposizione hyper ha
valore di vantaggio e non di sostituzione o vicario (cfr. la nostra analisi di Rm 5,6-8). Sul «favore» che
Cristo ha realizzato per i deboli si regge l'esortazione a comportarsi con amore.
313 La perdita del fratello ha innanzi tutto rilevanza cristologica ed ecclesiologica o, se vogliamo,
apocalittica, e non escatologica: qui è in gioco la relazione con Cristo e con la comunità cherischiadi en-
trare in crisi, non quella della salvezza finale, come invece ritiene T.R. Schreiner, Romans, pp. 734-735.
Per la rilevanza cristologica ed ecclesiale di questo verso cfr. anche DJ. Moo, Romans, p. 855. Il verbo
apollymi ha tali connotazioni anche in ICor 1,18-19.
474 Traduzione e commento
diati destinatari della Lettera ai Romani. Qual è il significato e chi sono i sogget-
ti del verbo blasphèmeinl A cosa si riferisce concretamente Paolo con il bene da
non disprezzare? . Poiché, egli quando parla del bene o del bello muta spesso la
314

consistenza, in dipendenza dai contesti argomentativi, è bene partire dal signifi-


cato del verbo blasphèmeìn, utilizzato 8 volte nell'epistolario paolino, che può as-
sumere due accezioni fondamentali: una intensa, tipica del contesto religioso, in
cui esprime la profanazione o la bestemmia contro le realtà divine , e una lieve 315

in cui equivale a disprezzare o diffamare . In questo caso, il contesto esige chia-


316

ramente un significato debole del verbo: non è in questione il disprezzo per il no-
me divino ma il bene che appartiene a una parte o a tutta la comunità cristiana di
Roma. Poiché Paolo si sta rivolgendo principalmente ai forti della comunità, ci
sembra più naturale considerare come soggetto principale della diffamazione i de-
boli, che secondo Rm 14,3 non esitano a criticare i forti, senza escludere anche le
critiche di coloro che dall'esterno assistono alle divisioni di quanti si considerano
fratelli™. Forse non è un caso che lo stesso orizzonte comunitario della diffama-
zione siriscontriin Rm 3,8 e in ICor 10,30.
Dunque, se ciò che è disprezzato è principalmente qualcosa che appartiene ai
forti, il « bene » al quale Paolo siriferiscenon è il vangelo, il regno di Dio, la sal-
vezza o l'amore che, invece, rappresentano il bene di tutti i credenti , bensì la 318

convinzione di fede che induce alcuni a non distinguere tra il puro e l'impuro. In
definitiva, ciò che può essere diffamato o disprezzato è la libertà che i forti pos-
seggono verso le regole alimentari o di calendario : tale convinzione può essere
319

facilmente fraintesa come libertinaggio non soltanto per le questioni alimentari


ma anche verso qualsiasi altra norma etica. Anche se i contesti sono diversi, la dif-
famazione che può raggiungere i forti della comunità di Roma è analoga a quella
verso Paolo stesso,ricordatain Rm 3,8: « Siamo calunniati e come alcuni sosten-
gono che noi diciamo: "Facciamo il male perché derivi il bene"». Anche dietro
queste diffamazioni c'è, in ultima analisi, la libertà di Paolo e dei forti verso la
Legge mosaica. Per questo, in Rm 15,1 egli non esiterà a condividere la convin-
zione dei forti.
[v. 17] A differenza dei vangeli sinottici che parlano spesso del «regno di
Dio » o di quello dei « cieli » °, Paolo utilizza raramente questa categoria teologi-
32

314Tali difficoltà interpretative sono ben affrontate dal contributo di R.A.J. Gagnon, The Meaning of
hymòn to agathon in Romans 14:16, in JBL 117 (1998) 675-689.
315Così in Rm 2,24; Tt 2,5; Mt 9,3; 26,65; Me 2,7; 3,28-29; Le 12,10; Gv 10,36; At 19,37; Ap 13,6;
16,9.11.21.
316Così in Rm 3,8; ICor 10,30.
317Con buona pace di J.D.G. Dunn, Romans, II, pp. 821-822; H. Schlier, Romani, p. 664 che consi-
derano la diffamazionerivoltaa tutti i cristiani di Roma.
318Invece per l'identificazione del bene con il vangelo o con la salvezza cfr. J. Cambier, Liberté, pp.
67-68; J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 821; H. Schlier, Romani, p. 664; T.R. Schreiner, Romans, pp. 739-740.
319Così anche B. Byrne, Romans, p. 420; R.A.J. Gagnon, Romans 14:16, pp. 684-688; J.A. Fitzmyer,
Romani, p. 824; U. Wilckens, Römer, III, p. 93.
320Cfr. il sintagma «regno di Dio» in Mt 12,28; 21,43; Me 1,15; 4,26; 10,14; Le 6,20; 10,9.11.20;
13,18; 16,16; 17,20.21; 18,16; 19,11; 21,31; 22,18; anche «regno dei cieli» proprio di Matteo in Mt 3,2;
4,17; 5,3.10; 10,7; 11,12; 13,24.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 475
ca per esprimere l'azione salvifica di Dio in Cristo . Spesso nel suo epistolario
321

tale categoria è sostituita da quelle della giustificazione e della partecipazione


dell'essere in Cristo o, in ultima analisi, dallo stesso vangelo. Tuttavia, le poche
volte in cui parla del « regno » (14 su 162 nel resto del NT), si riferisce sempre a
quello di Dio, come nel caso presente ; e diversamente dalla altre frequenze pao-
322

line, qui non si accenna alla futura partecipazione o all'escatologica eredità del
regno di Dio (cfr. ICor 6,9.10; Gal 5,21) ma alla sua attuale manifestazione . 323

Anche se il regno di Dio è indefinibile e incommensurabile, in quanto non si-


gnifica altro che la presenza di Dio nell'esistenza umana, Paolo non esita a esclu-
dere dalla sua sfera le questioni alimentari che creano subbuglio fra i credenti.
Forse per polarità retorica, accanto alle questioni di cibo, sono collocate quelle di
bevanda ; oppure ilriferimentoalla bevanda è una prolessi o anticipazione argo-
324

mentativa rispetto al v. 21 in cui si parlerà del vino. In termini positivi, il regno di


Dio si identifica con il breve elenco delle virtù che in Gal 5,22-23 sono definite
come «il frutto dello Spirito»: giustizia, pace e gioia . In certo senso, sorprende
325

la citazione della giustizia (dikaiosyné'), collocata peraltro all'inizio di questa bre-


ve lista delle virtù, che non è generalmente citata negli elenchi aretalogici delle
grandi lettere paoline , come invece la gioia e la pace . Per cogliere la portata di
326 327

queste virtù è importante il loro retroterra kerygmatico, espresso in Rm 5,1-2:


« Giustificati dunque dalla fede abbiamo pace con Dio... ». Queste tre virtù trova-
no la loro origine innanzi tutto nell'azione giustificatrice o salvifica di Dio. La
giustizia, pur trovandosi in contesto esortativo, non è la virtù dell'equità, richie-
sta a chi assume responsabilità sociali o comunitarie, come invece nelle lettere pa-
storali (cfr. lTm 1,8; 2Tm 3,16), ma si avvicina alla misericordia o alla longani-
mità verso i deboli della comunità, in quanto scaturisce dall'azione giustificatrice
di Dio in Cristo, per mezzo dello Spirito . 328

321 L'espressione «regno di Dio» con l'articolo si trova soltanto qui e in ICor 4,10 mentre in ICor
6,10; 15,50 e in Gal 5,21 compare senza l'articolo. Cfr. a tal proposito K.P. Donfried, The Kingdom ofGod
in Paul, in W. Willis (ed.), The Kingdom ofGod in Twentieth Century Interpretation, Peabody 1987, pp.
175-190; G. Haufe, Reich Gottes bei Paulus und in der Jesustradition, in NTS 31 (1985) 467-472; G.
Johnson, « Kingdom ofGod » Sayings in Paul 's Letters, in P. Richardson - J.C. Hurd (edd.), From Jesus to
Paul, FS. F.W. Beare, Waterloo 1984, pp. 143-156; G.S. Shogren, Kingdom ofGod, pp. 238-255.
322 Cfr. anche lCor4,20; 6,9.10; 15,24.50; Gal 5,21; 1TS2,12; 2Ts 1,5; Col4,11; lTm4,18. Soltanto
nell'epistolario deutero- e postpaolino si parla anche del regno di Cristo (cfr. Col 1,13; Ef 5,5; 2Tm 4,1).
323 Per la dimensione presente del regno di Dio nell'epistolario paolino cfr. ICor 4,20.
324 Invece di bróma, utilizzato nei vv. 15.15.20, qui è preferito l'analogo brósis che a causa del suffis-
so -sis designa l'astratto al posto del concreto: per questo abbiamo tradotto brósis e posis con « questione di
cibo e di bevanda». Per brósis cfr. ICor 8,4; 2Cor 9,10; Col 2,16; per posis, che è più raro nel NT, cfr. Col
2,16; Gv 6,55.
325 Forse è importante precisare che non soltanto la gioia ma anche la giustizia e la pace dipendono
dall'azione dello Spirito; e questo vale, in definitiva, per la stessa manifestazione del regno di Dio.
326 Cfr. invece la citazione della giustizia negli elenchi di Ef 4,24; 5,9; 6,14; lTm 6,11; 2Tm 2,22.
Soltanto in 2Cor 6,7 la giustizia è citata accanto ad altre virtù. Questa è l'unica citazione della giustizia nel-
la sezione morale di Rm 12,1-15,13: per trovare l'ultimoriferimentobisognarisalirea Rm 10,10.
327 Per la pace cfr. le liste di Gal 5,22; Ef 6,15; 2Tm 2,22; per la gioia cfr. gli elenchi di Gal 5,22; Fil
2,lb-4.
328 Per la rilevanza kerygmatica della giustizia in Rm 14,17 cfr. J. Cambier, Liberté, p. 69.
476 Traduzione e commento
Paolo si è soffermato spesso sulla pace in Romani (10 volte), rilevando la si-
tuazione negativa di quanti non hanno conosciuto la via della pace (cfr. Rm 3,17)
e la novità della relazione positiva con Dio a causa della sua azione giustificatri-
ce (cfr. Rm 5,1). Anche l'origine pneumatologica della pace è stata già espressa
in Rm 8,6: insieme alla vita, questo dono rientra nel pensiero dello Spirito . 329

Invece del tutto nuovo per Romani è ilriferimentoalla gioia: si tornerà a par-
larne in Rm 15,13, ancora in connessione con la pace, e a proposito del progetto di
viaggio verso la capitale dell'impero (cfr. Rm 15,32). Altrove, Paolo ha già eviden-
ziato la dipendenza della gioia dallo Spirito (cfr. lTs 1,6; Gal 5,22) e soprattutto in
Filippesi esprimerà la dimensione paradossale della gioia cristiana: permane anche
in situazioni conflittuali o di persecuzione (cfr. Fil 1,4.25; 2,2; 4,1). In questo caso,
la gioia assume più un orizzonte comunitario, in quanto si avvicina al « gaudio » di
chi usa misericordia verso il prossimo (cfr. Rm 12,8). Queste virtù, come qualsiasi
altra istanza etica positiva della vita cristiana, nascono dall'azione dello Spirito . 330

[v. 18] La prima parte dell'esortazione verso i fratelli delle comunità romane
si conclude con un'asserzione generale, valida per i forti e per i deboli. Dal servi-
zio per Cristo , attraverso la giustizia, la pace e la gioia, e qualsiasi altra virtù, di-
331

pendono l'accettazione divina e l'approvazione umana. Questa sentenza contrasta


direttamente con la diffamazione di cui si è parlato al v. 16, anche se ora l'oriz-
zonte è più ampio, in quanto l'approvazione non viene soltanto né principalmente
dai deboli ma da tutti. In verità, Paolo sottolinea spesso che gì'interessa piacere a
Dio più che ad altri : ma si tratta di contesti polemici in cui è costretto a difende-
332

re il vangelo e il proprio apostolato . Nel clima più sereno della presenza del re-
333

gno di Dio, attraverso l'azione dello Spirito, tenendo ferma la priorità dell'acco-
glienza di Dio, anche l'approvazione umana trova un suo spazio . 334

Tale approvazione nonriguardatanto la relazione di pace che i credenti stabili-


scono con quelli di fuori (cfr. Rm 12,18) quanto scaturisce da ciò che quelli di fuori
osservano nelle comunità cristiane: quando le relazioni interpersonali sono segnate
dalla giustizia misericordiosa, dalla pace e dalla gioia, non si può non apprezzare co-
loro che antepongono tali virtù a questioni secondarie, come quelle alimentari che,
invece,rischianodi dividere le comunità e di attirare il disprezzo degli altri.
[v. 19] Una formula enfatica conclusiva ara oun (allora pertanto) , introdu- 335

ce la seconda parte della pericope in cui la novità principale è rappresentata dal-

329 A causa del contesto conflittuale, Paolo tornerà a parlare della pace in Rm 14,19 e in Rm 15,13.33;
16,20.
Dello « Spirito santo » Paolo ha già trattato in Rm 5,5 e in Rm 9,1 (cfr. anche l'originale formula
330

« Spirito di santificazione » in Rm 1,4); neriparlerà,sempre in relazione alla pace e alla gioia, nelle ultime
battute della sezione morale (cfr. Rm 15,13).
II linguaggio del «servizio» è stato utilizzato soprattutto in Rm 6,1-23 (cfr. anche l'espressione
331

« servo di Cristo Gesù » nell ' incipit di Rm 1,1 ); per il verbo douleuein in Romani cfr. in particolare Rm 12,11.
L'espressione euarestos tó theó (gradito a Dio) richiama direttamente la tesi generale di Rm 12,1-
332

2; cfr. anche Fil 4,18; Col 5,9.


Cfr. lTs 2,4-5; Gal 1,10; Col 3,22; Ef 6,6.
333

Sull'approvazione umana nell'epistolario paolino cfr. ICor 10,33; 2Cor 5,11; Rm 15,2.
334

Quest'espressione enfatica è esclusiva di Paolo rispetto al resto del NT ed è diffusa proprio in


335

Romani (cfr. Rm 5,18; 7,3.25; 8,12; 9,16.18; cfr. anche Gal 6,10; lTs 5,6; Ef 2,19; 2Ts 2,15).
Ali
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13
l'esortazione al perseguimento della pace e dell'edificazione vicendevole. In ve-
rità, dal punto di vista testuale, ci sono autorevoli attestazioni sia per l'indicativo
presente diókomen sia per il congiuntivo esortativo diókómen: nel primo caso
Paolo constaterebbe che i credenti perseguono la pace ; nel secondo si trattereb-
336

be di un'esortazione a perseguire la pace . Poiché non è possibile decidere sol-


337

tanto in base alla critica esterna, è decisivo l'apporto di quella interna: il contesto
esortativo della proposizione orienta decisamente verso la lezione con il congiun-
tivo. Di fatto, l'esortazione a perseguire la pace deriva dall'affermazione keryg-
matica precedente nella quale Paolo ha relazionato la pace al regno di Dio (v.
17) . Avremmo così la sequenza tipicamente paolina che procede dall'indicati-
338

vo kerygmatico (v. 17) all'imperativo etico (v. 19).


L'espressione «perseguire la pace» è semitica: corrisponde a ràdap sàlòm
(cfr. Sai 34,15) : con lo stesso verbo, Paolo esorterà i credenti a perseguire l'amo-
339

re (cfr. ICor 14,1) e il bene (cfr. lTs 5,15). In concreto, perseguire la pace significa
offrire il proprio contributo per l'edificazione vicendevole. L'uso del sostantivo
« edificazione » (oikodome), con una consistenza metaforica tipica di Paolo , con- 340

tiene in nuce la visione della comunità cristiana come edificio (cfr. ICor 3,9) di Dio
e come suo tempio (cfr. ICor 3,16-17) . 341

[v. 20] A volte Paolo ricorre all'opposizione tra edificare e distruggere, ap-
plicando tale antinomia alla trasformazione del proprio corpo (cfr. 2Cor 5,1) e
al passaggio dal sistema delle opere della Legge a quello della fede in Cristo
(cfr. Gal 2,16-18) . In questo caso, la situazione è analoga a quella di Gal 2,16-
342

18, in cui l'opposizione è formulata dopo la narrazione dell'incidente di


Antiochia (cfr. Gal 2,11-14). Per questo, l'opera di Dio riguarda principalmen-
te la libertà cristiana di fronte a qualsiasi norma legale e che, in ultima analisi,
determina l'affermazione successiva: «Tutto è puro» . In senso più ampio, 343

l'opera di Dio può riferirsi alla comunità cristiana che rischia di frantumarsi per
questioni alimentari . 344

336 La lezione con l'indicativo diókomen è ben attestata da importanti manoscritti della lettera, come
K, A, B, F, G, e P, oltre che da diversi minuscoli come 048, 0209, 81, 1506.
337 Per la lezione con il congiuntivo diókomen cfr. i codici C, D e W; anche i minuscoli 33,1739,1881
e la tradizione latina del NT.
338 Così anche B. Byrne, Romans, p. 421; B.M. Metzger, Commentary, p. 532. In tal caso, ci trove-
remmo di fronte a un caso raro in cui, dopo l'espressione « dunque pertanto », è utilizzato un congiuntivo
esortativo (cfr. anche Gal 6,10; lTs 5,6) e non un indicativo (cfr. Rm 5,18; 7,3.25; 8,12; 9,16.18). Invece J.
Cambier, Liberté, p. 71 preferisce l'indicativo.
339 Cfr. anche Avot 1,12b; Sanhedrin 6b. Così anche H. Schlier, Romani, p. 666.
340 Questo sostantivo si trova 18 volte nel NT, di cui 16 nell'epistolario paolino (cfr. Rm 15,2; ICor
3,9; 14,3.5.12.26; 2Cor5,l; 10,8; 12,19; 13,10; Ef 2,21; 4,12.16.29).
341 Cfr. a tal proposito P. Hünermann, Zeit zum Handeln: « Lasst uns nach dem streben, was zum Frieden
und zum Aufbau (der Gemeinde) beiträgt» (Rom 14.19), in TQ 172 (1992) 36-49; A. Pitta, Motivo dell'edifi-
cio, in Sinossi paolina, pp. 164-171.
342 Cfr. l'uso di questo binomio in Ger 1,10; 12,16-17; 24,6; 31,4.28; 33,7; Is 5,2.5; Me 14,58; 15,29;
Mt 26,61; 27.40; Ef 2,14; Aristea 139.
343 Per 1'« opera di Dio » nel NT cfr. in particolare Gv 6,28.29; 9,3, mentre questa è l'unica frequen-
za nell'epistolario paolino (cfr. l'analoga espressione « opera di Cristo » in Fil 2,30).
344 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 825.
478 Traduzione e commento
Nella seconda parte del v. 20 Paolo riprende sostanzialmente l'affermazione
del v. 14, passando dall'impuro al puro e aggiungendo che, anche se tutto è puro , 345

e quindi buono, può diventare male per chi, con l'intenzione di non inciampare o
di non scandalizzarsi,finiscecol mangiare qualsiasi cibo. Forse questa considera-
zione, se non è generale e valida per qualsiasi credente, aggiunge un nuovo tassel-
lo alla situazione delle comunità di Roma : i deboli nella fede, o alcuni di essi, per
346

evitare ulteriori fratture nella comunità si adattano a mangiare anche i cibi che nel-
la tradizione giudaica sono considerati impuri, pur di non entrare in contrasto con
i forti. In tal caso, è importante rilevare come il criterio ultimo sul quale Paolo si
sofferma è quello della « fede », intesa sia come adesione a Cristo sia come per-
suasione o convinzione interiore. Per questo, egli non esorta mai i deboli a cercare
di superare le proprie convinzioni, diventando forti, ma a discernere qualsiasi op-
zione a partire dalla fede, che svolge un ruolo analogo a quello della coscienza in
ICor 8,7-12. Soltanto la propria convinzione di fede diventa il criterio ultimo che
permette persino la trasformazione di ciò che è puro in impuro. Questa prospettiva
saràripresa,come sentenza assiomatica, in Tt 1,15, dopo ilriferimentodSte, favole
giudaiche: « Tutto è puro, per coloro che sono puri ».
[v. 21] L'ideale evangelico, presentato nuovamente come ciò che è bello e
buono (cfr. Rm 12,9-21), non consiste nella richiesta che tutti diventino forti, su-
perando i limiti della debolezza nella fede, ma che i forti condividano le convin-
zioni dei deboli, pur di non lasciarli inciampare o scandalizzare nella fede. Ancora
una volta, questo ideale trova un suo confronto illuminante con la situazione di
Corinto, in cui Paolo presenta se stesso come modello: « Mi sono fatto debole con
i deboli per guadagnare coloro che sono deboli » (cfr. ICor 9,22; cfr. anche la bel-
la espressione di 2Cor 11,29: «Chi è debole che anch'io non lo sia?»). Se il de-
bole non può fingere di essere forte, a causa della propria mancanza di convin-
zione interiore, il forte può, anzi deve diventare debole, non per falsa commisera-
zione ma per condividere le infermità dei deboli (cfr. Rm 15,1).
Nel contesto di questo ideale di condivisone nella fede si accenna all'asti-
nenza dalla carne e dal vino che conferma la principale questione della discordia
nelle comunità di Roma: è di tipo alimentare. Tuttavia, se mangiare carne si con-
testualizza bene rispetto a mangiare verdura (cfr. v. 2) , e in tal modo torna la
347

problematica delle purità alimentari giudaiche, non è altrettanto chiaro il riferi-


mento al «bere vino»: lo si trova come semplice artificio retorico per esprimere
il binomio del mangiare e bere oppure si tratta di un nuovoriferimentoalla situa-
zione dei destinatari? Forse non è possibile trovare una soluzione definitiva, an-
che perché nel caso si trattasse di libagioni cultuali pagane che i deboli preferi-
scono evitare per non contaminarsi, ci troveremmo di fronte a una prospettiva di-
345Soltanto qui Paolo utilizza il termine katharos (puro) nelle grandi lettere (cfr. invece per le lettere
pastorali lTm 1,5; 3,9; 2Tm 1,3; 2,22; Tt 1,15.15.15). Per il resto del NT cfr. Mt 5,8; 23,36; 27,59; Le
11,41; Gv 13,10.
346In tal caso l'espressione « che mangia a causa dell'inciampo » è di tipo circostanziale e non gene-
rica. Così anche J. Cambier, Liberté, p. 72.
347II sostantivo kreas si trova soltanto due volte nel NT: qui e in ICor 8,13; a differenza dal secondo
caso, in Rm 14 Paolo non tratta di carne immolata agli idoli bensì, in generale, di carne da mangiare.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 479
versa da quella di ICor 10,19-22 in cui Paolo esorta tassativamente i corinzi a non
bere al « calice del Signore » e a quello dei « demoni ». Per questo siamo più pro-
pensi a considerare quest'accenno al vino, come quello alla bevanda del v. 17, da
una prospettiva semplicemente stilistica, senza reali riscontri. D'altro canto in tut-
ta la sezione, a differenza della questione alimentare, manca qualsiasi altro accen-
no alle normative sulle bevande inebrianti . 348

[v. 22] L'improvviso passaggio dalla terza alla seconda persona singolare de-
termina una nuova interpellanza rivolta a ogni membro delle comunità di Roma,
almeno nella prima parte del v. 22 . Per sottolineare il principio della convinzio-
349

ne interiore di ogni credente, Paolo utilizza il sostantivo pistis, che non si riferisce
alla fede in Cristo bensì alla consequenziale convinzione o persuasione personale
(cfr. anche Rm 14,2 con il verbopisteuein = essere convinto). D'altro canto, se al-
trove egli sottolinea l'importanza della condivisione della fede (cfr. Gal 6,10), qui
esorta a conservare la propria convinzione in funzione della relazione con Dio e
non con il prossimo.
Nella seconda parte del v. 22 è formulato un macarismo o una beatitudine
che scaturisce dal rapporto con se stessi : non è beato soltanto colui che non giu-
350

dica il prossimo ma anche chi non giudica se stesso nel proprio discernimento in-
teriore . Anche se l'orizzonte di tale beatitudine è generale e valido per ogni cre-
351

dente, forse vale in particolare per i deboli che cadendo nell'autogiudizio in-
ciampano o si scandalizzano (cfr. v. 21) di fronte alla libertà dei forti.
[v. 23] Lo sguardo di Paolo torna sulla situazione dei deboli cherimanequel-
la più critica. In ultima analisi, il debole è tale perché è indeciso, dubbioso rispet-
to alle proprie scelte . Tale dubbio gli deriva dalla nuova relazione con Cristo,
352

che ha reso indifferente qualsiasi esigenza della Legge mosaica, e dal comporta-
mento dei forti, che non esitano a farsi scrupoli sull'alimentazione. Per questo se
il debole mangia carne senza essere convinto finirà con l'essere condannato da
353

Dio . Paolo si serve di questa tensione tra il dubbio e la condanna non per giudi-
354

care il debole ma per mettersi dalla sua parte e, in definitiva, per condividere la

348 Così anche B. Byrne, Romans, p. 422.


349 Così anche B. Byrne, Romans, p. 422; DJ. Moo, Romans, p. 861. Invece J.A. Fitzmyer, Romani,
p. 826 e T.R. Schreiner, Romans, p. 732 preferiscono applicare l'esortazione soltanto ai forti.
350 L'aggettivo makarios caratterizza l'elenco delle beatitudini evangeliche (cfr. Mt 5,3-11; Le 6,20-
22) mentre è raro nell'epistolario paolino (7 volte, di cui 4 nelle grandi lettere): in Romani si è riscontrato
soltanto per la citazione diretta del Sai 31,1-2 in Rm 4,7.8 (cfr. anche ICor 7,40; lTm 1,11; 6,15; Tt 2,13);
alla stessa famiglia lessicale appartiene il sostantivo makarismos di Rm 4,6.9; Gal 4,15.
351 Tale discernimento interiore non si distingue, in ultima analisi, dal discernimento della volontà di
Dio (cfr. Rm 12,2). Un'analoga beatitudine si trova in Sir 14,1-2. Così anche J.M. Gundry Volf, Paul and
Perseverarne: Staying In and Falling Away (WUNT 2/37), Tiibingen 1990, p. 92.
352 Per questo significato del verbo diakrinein cfr. Rm 4,20, a proposito della fede di Abramo.
353 A causa delriferimentoal dubbio, nella prima parte del v. 23 il sostantivo pistis va reso con « con-
vinzione » e non con « fede »: la stessa accezione si èriscontrataal v. 22.
354 II verbo katakrinein non è analogo a krinein (giudicare) ma nell'epistolario paolino ha sempre va-
lore forte corrispondente a «condannare» (cfr. Rm 2,1; 8,3.34; ICor 11,32) e in questo caso può assume-
re una connotazione prolettica, nel qual caso Paolo prospetta la condanna di Dio, o una dimensione rifles-
siva, nel senso che il debole che mangia senza convinzione si autocondanna. Ilriferimentoal peccato nel-
la seconda parte orienta verso la prima accezione. Così anche M. Zerwick - R. Grosvenor, A Grammatical
Analysis ofthe GreekNew Testament, Roma 1981, p. 492.
480 Traduzione e commento
sua insicurezza nel discernimento. Questa prima affermazione trova buoni ri-
scontri nella sapienza popolare: «Non fare ciò di cui dubiti! » (Quod dubites, ne
feceris) . 355

La pericope si conclude con un'asserzione lapidaria di carattere generale, at-


traverso la quale Paolo sembra scusare definitivamente il comportamento dei de-
boli, di fronte al giudizio e al disprezzo dei forti: «Tutto ciò che non deriva dalla
convinzione è peccato » A prima vista, per l'uso improvviso del sostantivo « pec-
cato» (hamartia) , si potrebbe pensare all'incompatibilità tra questo e la fede
356

(pistis). A ben vedere, sono molte le cose che non hanno a che fare con la fede e
che non possono essere considerate peccato. Per questo, anche in tal caso, Paolo
non siriferiscealla fede in Cristo ma alle proprie convinzioni interiori : quando 357

queste vacillano inducono a « non centrare il bersaglio » . In tal senso, è vero che
358

agendo nel dubbio si finisce con lo sbagliare e quindi con il peccare; e questo va-
le non soltanto per chi mangia carne senza convinzione ma in ultima istanza per
qualsiasi opzione categoriale.
Cristo, modello per i forti (15,1-6). - Verso la conclusione della sua esorta-
zione all'accoglienza dei deboli (Rm 14,1 - 15,13), finalmente Paolo si rivolge
esplicitamente ai forti della comunità, invitandoli a farsi carico delle infermità dei
deboli; e per conferire maggiore consistenza alla sua esortazione si pone nella lo-
ro condizione. A causa del suo coinvolgimento nella posizione dei forti, la nuova
microunità letteraria è dominata dalla prima persona plurale (vv. 1-4) per chiu-
dersi con una dossologia finalerivoltaa Dio (vv. 5-6) . 359

Anche se la dossologia finale è rivolta a Dio, come generalmente nell'epi-


stolario paolino, non si può negare che questo paragrafo è incentrato sulla figura
di Gesù Cristo: Paolo lo presenta ai forti come modello da imitare nelle relazioni
con i deboli. Dal punto di vista strutturale, sono riconoscibili due parti: i vv. 1-3
incentrati sulle obbligazioni dei forti verso i deboli, che culminano con la citazio-
ne della Scrittura , e i vv. 5-6 dedicati alla preghiera di Paolo per tutti destinata-
360

ri. Fra queste parti, il v. 4 svolge il ruolo di ponte: rispetto ai vv. 1-3 attraverso la
funzione performativa della Scrittura , erispettoai vv. 5-6 con i motivi della per-
361

severanza e della consolazione . 362

355 Plinio il giovane, Epistulae 1,18,5; Cfr. anche Seneca, Epistulae 10,82,18: « Nessun'azione è ono-
revole se non quella a cui l'animo si è applicato e ha preso parte attiva con tutto se stesso ». Così anche K.
Haaker, Römer, p. 291.
356 Soltanto qui si parla di hamartia in Rm 12,1-15,13 (cfr. invece l'abbondante uso in Rm 5,1 - 8,39).
357 Così anche J.M. Gundry Volf, Paul, p. 92.
358 Qui hamartia non ha senso forte di peccato (cfr. Rm 6,1-14) ma debole e corrispondente alla sua
origine etimologica: il peccato come errore di bersaglio.
359 Sull'unità letteraria di Rm 15,1-6, cfr. B. Byrne, Romans, p. 423; J. Cambier, Libertà, p. 75; J.A.
Fitzmyer, Romani, p. 829; D.J. Moo, Romans, p. 864; H. Schlier, Romani, p. 670; T.R. Schreiner, Romans,
p. 746.
360 p i ' i q ti primi tre versi sono accomunati dall'uso del verbo areskein (vv. 1.2.3).
ra a tro Ues
361 Sulla funzione parentetica del v. 4 cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 748.
362 Si può notare come, dal punto di vista attanziale, nei vv. 1-3 domina la prima persona plurale mentre
nei vv. 5-6 si passa alla seconda plurale che assume un orizzonte più diretto d'interpellanza verso i destinatari.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 481
[15,1] Anche se il cristiano gode di una incommensurabile libertà, a causa
«dell'evento salvifico della morte erisurrezionedi Cristo, non è libero di agire co-
me vuole, ma in nome della sua libertà si pone a servizio di tutti, in particolare ver-
so i deboli. Questo principio, tipicamente paolino (cfr. Gal 5,13-14), si trova all'i-
nizio della nuova fase esortativa,rivoltaprincipalmente ai forti; e la loro obbliga-
zione verso le infermità dei deboli nella fede si concretizza nella realizzazione del
comandamento dell ' amore . 363

Per la prima volta, nella sezione di Rm 14,1 - 15,3 Paolo definisce alcuni
membri delle comunità di Roma come i forti e si riconosce dalla loro parte, an-
che se già in precedenza alcune sue affermazioni sono state indirizzate a questo
gruppo dei destinatari (cfr. Rm 14,13-14). La condivisione della loro posizione
non è precisata per esaltare le loro ragioni oppure per esortare i deboli a diventa-
re forti, bensì affinché i forti si facciano carico delle infermità dei deboli e si li-
berino da qualsiasi forma di autocompiacimento o di esaltazione egoistica . 364

L'accenno alle infermità dei deboli assume non una connotazione fisica né
tanto meno etica ma siriferisce,in base a Rm 14,13-23, alla mancanza di convin-
zioni per le regole alimentari : questa debolezza sirivelacome infermità quando
365

il loro cammino di fede rischia d'inciampare o quando si scandalizzano per il


comportamento libero dei forti. Farsi carico delle infermità dei deboli significa,
fra l'altro, non piacere a se stessi ma porre al centro delle proprie preoccupazio-
ni la condivisione delle loro situazioni. Anche in questo caso, come per Rm 14,18,
si può notare una certa tensione: da una parte Paolo sottolinea di voler piacere
fareskein) soltanto a Dio , dall'altra non esita a presentarsi come colui che « cer-
366

ca di piacere a tutti in tutto, senza cercare il proprio interesse ma quello di molti,


affinché pervengano alla salvezza» (cfr. ICor 10,33). Quest'ulteriore contatto
con la situazione di ICor 8-10 dimostra che se dal versante contenutistico del van-
gelo Paolo non ammette alcun compiacimento umano, da quello della attuazione
comunitaria è importante «piacere a tutti », perché lo stesso vangelo non si limi-
ta a qualcuno: Cristo sarà il modello principale di chi ha cercato di non piacere a
se stesso (v. 8).
[v. 2] L'orizzonte dell'esortazione paolina si estende progressivamente, co-
me dimostra il passaggio dairiferimential fratello (cfr. Rm 14,13-23) a quelli ver-
so il prossimo, anche se in questa categoria rientrano soprattutto i fratelli di fede.
Anche se non è detto esplicitamente, «piacere al prossimo per il bene» significa

363 Non è un caso che il verbo opheilein (essere in debito, dovere) sia stato utilizzato proprio in Rm
13,8 per introdurre l'esortazione all'amore vicendevole.
364 II verbo bastazein, utilizzato già in Rm 11,18 per la radice che porta i suoi rami, qui assume valo-
re metaforico e intensivo: i forti non devono semplicemente portare o sopportare i deboli, per quieto vive-
re, ma devono impegnarsi a farsi carico delle loro infermità. Il parallelo più vicino è quello di Gal 6,2 in
cui i galati sono esortati a « farsi carico dei pesi vicendevoli così da adempiere la Legge di Cristo » che, an-
cora una volta, si concretizza nell'attuazione dell'amore vicendevole (cfr. Gal 5,13-15). Per le connessio-
ni tra Rm 15,1-3 e Gal 5-6 cfr. C. Burchard, Gebote, pp. 172-181.
365 II sostantivo asthenema è hapax legomenon neotestamentario, anche se Paolo utilizza spesso il vo-
cabolario della «debolezza» (asthenein, asthenès).
366 Cfr. lTs 2,4; Gal 1,10.10.
482 Traduzione e commento
anteporre l'amore vicendevole a qualsiasi altra esigenza . Per questo, il bene è
367

Yagape descritto già in Rm 12,9-21 come ideale del kalonkagathon (bello e buo-
no); a sua volta, l'amore vicendevole diventa la prima e fondamentale modalità
per l'edificazione (cfr. Rm 14,19). Ancora una volta, è illuminante la situazione
di Corinto: «La conoscenza gonfia, invece l'amore edifica» (cfr. ICor 8,lb).
[v. 3] Per consolidare la sua esortazione, Paolo presenta il Cristo come mo-
dello di chi « non piacque a se stesso » ma si lasciò schernire dagli uomini per ade-
rire alla volontà divina . Non è chiaro se, con questoriferimentoal Cristo, Paolo
368

alluda alla vita terrena di Gesù o alla sua passione e, in termini ancora più ristret-
ti, alla sua morte di croce . Per tale questione è importante considerare l'uso del-
369

la citazione diretta del Sai 68,10 (LXX) nel NT . Di fatto, soprattutto nel ma-
370 371

teriale sinottico, sono rilevabili diverse allusioni al Sai 68: si pensi al particolare
dell'aceto dato a Gesù durante la crocifissione (cfr. Mt 27,34.48 e parr.) . Nel 372

contesto della passione, la duplice tradizione di Me 15,32 e Mt 27,44 utilizza lo


stesso verbo óneidizein (oltraggiare), presente nel Sai 68,10 e nella citazione pao-
lina di Rm 15,3: «Anche i ladroni che erano con lui lo oltraggiavano» . 373

Dunque, il prevalente uso del Sai 68, nel contesto della passione, lascia in-
tendere che Paolo non allude agli oltraggi ricevuti da Gesù durante la vita pubbli-
ca , bensì alla passione che culmina con la sua morte di croce . Per questo, i for-
374 375

ti delle comunità di Roma sono invitati a imitare la passione di Cristo per impara-
re a non piacere a se stessi ma a farsi carico delle infermità dei deboli. Altrove,
Paolo richiamerà l'evento della croce per esortare i credenti all'umiltà (cfr. Fil
2,1-11) e alla generosità verso i poveri (cfr. 2Cor 8,7-10). Il confronto con l'altra
motivazione cristologica dell'esortazione, riscontrata in Rm 14,15, ossia la mor-
te di Cristo per i credenti, permette di cogliere due aspetti complementari sulla re-
lazione con Cristo: da una parte la sua morte e risurrezione rappresentano la ra-
gione, dall'altra il modello della propria condotta verso i fratelli. Il primo oriz-
zonte, che rimane quello fondamentale, dimostra l'eccedenza irraggiungibile del
sacrificio di Cristo, il secondo si pone come esemplarità nel proprio percorso di
fede; e quest'ultimo corrisponde all'itinerario della sequela o del discepolato per

Non a caso plésion, che si trova 17 volte nel NT, nella maggior parte dei casi è usato per il co-
367

mandamento dell'amore (cfr. Mt 5,43; 19,19; 22,39; Me 12,31.33; Le 10,27.29.36; Rm 13,9.10; Gal 5,14;
Ef 4,25; Gc 2,18).
In questo caso, l'iniziale congiunzione hai corrisponde a un « anche », con il quale è maggiormen-
368

te sottolineato il modello di Cristo. Cfr. DJ. Moo, Romans, p. 868.


Anche l'articolo prima di «Cristo» non serve tanto per evidenziare la messianicità di Gesù (cfr.
369

invece Rm 9,5), giacché nell'epistolario paolino il titolo assume valore di nome proprio, quanto per evi-
denziare il modello di Cristo.
Tranne per l'omissione del hai, la citazione paolina corrisponde alla versione della LXX che, a sua
370

volta, non differisce dal TM Sai 69,10. Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 179.
Per la formula introduttiva delle citazioni dirette dell'AT, «come sta scritto», cfr. Rm 1,17; 2,4;
371

3,4.10; 4,17.
Cfr. anche iriferimential Sai 68 in Rm 11,9-10; Gv 2,17; 15,25; 19,29; At 1,20.
372

Cfr. anche l'uso di oneidismos (oltraggio) in Eb 13,13 per l'imitazione della passione di Cristo.
373

Invece C.E.B. Cranfield, Romans, II, p. 732, include in questo riferimento tutta la vita di Gesù.
374

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 869; J.S. Pobee, Persecution andMartyrdom in the Theology of
375

Paul (JSNT SS 6), Sheffield 1985, pp. 49-50; T.R. Schreiner, Romans, p. 747.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 483
Cristo delle narrazioni evangeliche. In definitiva, seguire lui significa per Paolo
cercare di imitarlo nell'amore, nell'umiltà e nella generosità per gli altri, anche se
nessuno potrà pretendere di averlo imitato in pienezza . 376

[v. 4] L'applicazione cristologica del Sai 68 è una buona occasione per evi-
denziare il ruolo positivo della Scrittura nella vita cristiana; come dimostrerà nel-
la pericope successiva (Rm 15,7-13), con la catena delle citazioni dirette dell'AT,
Paolo sottolinea il valore positivo di tutte le « Scritture », contro qualsiasi forma
di marcionismo. In questo caso, le Scritture sono valorizzate per l'insegnamento
che producono in quanti sono di Cristo ' ; anzi la citazione del Sai 68, secondo
7 11

unariletturacristologica, permette di comprendere come l'AT non ha valore solo


preparatorio al NT ma rappresenta anche il criterio interpretativo o ermeneutico
per la passione di Cristo e per la condotta dei credenti . 378

La dimensione performativa e didattica delle Scritture si esprime con i doni


della perseveranza e della consolazione ; e conduce ad alimentare la speranza
379

cristiana. Non sono chiare le funzioni della preposizione dia utilizzata per la
« perseveranza » e la « consolazione » °: per alcuni, Paolo intende dire che « in oc-
38

casione» della perseveranza (valore circostanziale) e «a causa» o «per mezzo


della consolazione » delle Scritture, i credenti progrediscono nella condotta cri-
stiana . In tal modo è sbilanciata la composizione parallela della proposizione
381

paolina ed è posta in secondo piano la funzione performativa delle « Scritture ».


Per questo preferiamo intendere l'espressione come strumentale: « per mezzo del-
la perseveranza e della consolazione », che derivano dalle Scritture, i credenti ali-
mentano la loro speranza . La funzione consolatrice delle Scritture è riscontrabi-
382

le anche in IMac 12,9 a proposito della lettera inviata da Gionata agli spartani:
«Noi... avendo come consolazione (paraklèsin) le Scritture sacre che sono nelle
nostre mani... »
Se escludiamo il motivo della consolazione, il binomio « perseveranza-spe-
ranza» ha caratterizzato l'asserzione kerygmatica di Rm 5,4: «Sapendo che la
tribolazione produce la perseveranza, la perseveranza la temperanza, la tempe-
ranza la speranza». Il modello della speranza rimane Abramo (cfr. Rm 4,18) e,

376 p l'imitazione di Cristo cfr. anche lTs 1,6; ICor 11,1. Sulla relazione tra sequela e imitazione
er

di Cristo cfr. R. Penna, Ritratti, II, pp. 110-111 ; J.B. Webster, The Imitation of Christ, in TynBull 37 (1986)
95-120.
377II vocabolario della didaskalia o dell'insegnamento è raro nelle grandi lettere paoline (qui e in Rm
12,7) mentre è caratteristico delle pastorali, in cui si trova 15 volte su 21 del NT (cfr. lTm 1,10; 2Tm 3,10;
Tt 1,9).
378Cfr. iriferimentialle «Scritture» in Rm 1,2; ICor 15,3.4.
3791 genitivi « perseveranza e consolazione delle Scritture » vanno intesi come soggettivi o di origi-
ne: non sono queste virtù a relazionare con la Scrittura ma è il rapporto con quest'ultima a produrre la per-
severanza e la consolazione. Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 748.
380A causa del v. 5 in cui si parlerà del « Dio della consolazione » è preferibile non limitare il signifi-
cato del sostantivo paraklësis a esortazione, anche se ci troviamo in contesto esortativo, ma estenderlo al-
la consolazione. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 870; H. Schlier, Romani, p. 674; T.R. Schreiner, Romans,
p. 748. Comunque, è bene non insistere su queste differenze perché, nell'epistolario paolino, esortazione e
consolazione si coappartengono.
381Cfr. D.J. Moo, Romans, p. 870; H. Schlier, Romani, p. 673.
382Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 748.
484 Traduzione e commento
spesso, l'orizzonte delle dimostrazioni in Romani si conclude con il motivo del-
la speranza (cfr. Rm 5,5; 8,24; 15,13). Nel caso specifico la perseveranza, la con-
solazione e la speranza assumono una significativa connotazione ecclesiale: sono
i doni che, trasmessi con le Scritture, permettono il superamento della crisi e l'e-
dificazione della comunità.
[vv. 5-6] L'esortazione lascia il posto alla preghiera, rivolta direttamente a
Dio che, in definitiva, si trova all'origine di ogni dono, compresi quelli della per-
severanza e della consolazione . Laripresadi questi due motivi, relazionati alle
383

Scritture nel v. 4, dimostra che dietro il valore performativo delle Scritture si tro-
va Dio che opera nell'esistenza dei credenti. La relazione positiva tra Dio e le
Scritture, espressa in questi versi, trova il suorisvoltonegativo nell'affermazione
di Gal 3,22: «La Scrittura ha rinchiuso tutte le cose sotto il peccato, affinché la
promessa derivante dalla fede in Gesù Cristo fosse donata a coloro che credono »
(Gal 3,22). In questa invocazione, la perseveranza e la consolazione non sono de-
scritte come attributi di Dio bensì come suoi doni per i credenti che, in definiti- 384

va, rivelano il suo farsi prossimo nelle condizioni più problematiche delle rela-
zioni umane. Tale prossimità di Dio si è concretamenterivelatain Cristo: per que-
sto, la perseveranza e la consolazione sono doni di Dio che trovano in Cristo Gesù
la loro espressione più visibile e piena. Al v. 5 Paolo anticipa quanto svilupperà in
Fil 2,1-11, anche se in ordine inverso: se in Rm 15,1-6 si procede dal modello di
Cristo (v. 3) alla condivisione del suo stesso pensiero (v. 5), in Fil 2,5-11 l'esorta-
zione ad avere gli stessi sentimenti di Cristo (v. 5) introduce l'inno che presenta il
modello cristologico dell'umiltà (vv. 6-1 1) . 385

Forse è bene non fraintendere l'ideale dello stesso modo di pensare, incen-
trato sul modello di Cristo: Paolo non chiede a Dio che le divisioni comunitarie
siano superate affinché i deboli possano diventare forti e assumano un atteggia-
mento di libertà verso le regole alimentari giudaiche, ma che tutti siano capaci
d'incarnare il comandamento dell'amore che in Cristo trova la sua incomparabi-
le realizzazione. In definitiva, avere gli stessi pensieri significa che tutti non cer-
chino di piacere a se stessi ma di condividere le situazioni degli altri.
L'ideale dell'unità nella lode di Dio chiude la preghiera paolina e questo ter-
zo momento della sua esortazione (v. 6): egli chiede che tutti i credenti, «unani-
memente» (homothymadon) e con una sola bocca, rendano gloria a Dio . 386

L'espressione è ridondante, poiché l'unità della comunità è espressa anche con


l'espressione «una sola bocca» che introduce il motivo della gloria di Dio. Da
uno sguardo complessivo della Lettera ai Romani, è stridente il contrasto tra la so-
la bocca dei credenti che rende gloria a Dio e l'imbavagliamento della bocca (cfr.

383In Rm 15,13.33; 16,20 Paolo parlerà del «Dio della pace» (cfr. anche lTs 5,23; Fil 4,9); anche il
« Dio dell'amore e della pace » in 2Cor 13,11.
384Così anche J. Cambier, Liberté, pp. 81-82.
385Si noti la connessione delle proposizioni esortative: « ...Lo stesso modo di pensare (phronein) di
Cristo Gesù » (Rm 15,5); « Questo pensate (phroneite) in voi come anche in Cristo Gesù... » (Fil 2,5). Cfr.
l'analoga espressione di Fil 4,2.
386L'avverbio homothymadon è diffuso negli Atti degli apostoli e si trova soltanto qui nel resto del
NT (cfr. At 1,14; 2,46; 4,24; 5,12; 7,57; 8,6; 12,20; 15,25; 18,12; 19,29).
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 485
Rm 3,19) di coloro che, nella parte dedicata all'ira divina, pur conoscendo Dio
non gli hanno reso gloria (cfr. Rm 1,21). La situazione si è capovolta perché, in
ultima analisi, Dio ha glorificato (cfr. Rm 8,30) tutti coloro che ha giustificato per
mezzo del suo Figlio. Per questo, la formula dossologica che conclude la perico-
pe, pur rivolgendosi a « Dio e Padre », non può omettere di accennare alla signo-
ria del « nostro Signore Gesù Cristo » . 38?

La perorazione sulla reciproca accoglienza (15,7-13). - La sezione paracle-


tica (Rm 14,1 - 15,13) volge al termine e, con essa, anche il corpus della Lettera
ai Romani: per questo l'orizzonte di questo nuovo paragrafo assume una pro-
spettiva più ampia rispetto alle parti precedenti dedicate alle relazioni tra i forti e
i deboli. Generalmente nelle sezioni esortative conclusive Paolo nonriportamol-
te citazioni dirette dall'AT; e questo vale anche per Rm 12,1 - 15,6, in cui non si
possono calcolare più di cinque riferimenti espliciti all'AT . Invece, in questa 388

pericope si riscontrano ben quattro citazioni dirette, poste l'una accanto all'altra
(vv. 9-12): soltanto la preghiera conclusiva del v. 13 pone termine a questo nuo-
vo florilegio paolino . 389

Se l'unitarietà dei vv. 7-13 trova concordi, non si può dire altrettanto della
loro funzionerispettoa quanto precede: siriferisconosoltanto alla sezione di Rm
14,1 - 15,6 , alla paràclesi di Rm 12,1 - 15,6 o a tutto il corpo della lettera, co-
390 391

minciato con Rm 1,18? 392

A prima vista, il confronto con il paragrafo precedente lascia pensare a una


sorta di doppione argomentativo: all'esortazione rivolta per la vicendevole acco-
glienza (vv. 1-2.7) succede il modello di Cristo a partire dalle Scritture (vv. 3-4.8-
12), per lasciare lo spazio alla preghierarivoltadirettamente a Dio (vv. 5-6.13) . 393

Per questo, non sembra del tutto infondata l'ipotesi di Schmithals che inserisce
questi versi nella lettera A di Rm 1,1 - 11,36 : ilriferimentoai giudei e ai genti-
394

li è estraneo al contesto di Rm 12,1 - 15,6. Per la stessa motivazione, ma senza


condividere la composizione di Romani come somma di più lettere precedenti, al-
tri collegano questi versi direttamente a Rm 1-1 1 . 395

In realtà, purriconoscendoqueste incongruenze tra Rm 15,7-13 e il suo con-


testo, l'esortazione iniziale all'accoglienza vicendevole (v. 7) si pone in chiara
continuità con il motivo dell'accoglienza dei deboli, evidenziato all'inizio della

387Cfr. anche le analoghe formule dossologiche di 2Cor 1,3; Ef 1,3; lPt 1,3.
388Cfr. le citazioni di Rm 12,17-20; 13,9; 14,11; 15,9-10.
La sequenza di citazioni e le parti limitrofe dei vv. 7-8.13 offrono gli indizi principali per riconoscere
389

la nuova microunità di Rm 15,7-13. Cfr. a tal proposito B. Byrne, Romans, p. 428; J.A. Fitzmyer, Romani, p.
833; D.J. Moo, Romans, p. 873; T.R. Schreiner, Romans, p. 753; D. Zeller, Romani, p. 364.
390Così D.J. Moo, Romans, p. 874; H. Schlier, Romani, p. 676; T.R. Schreiner, Romans, p. 753; U.
Wilckens, Ròmer, III, p. 104; D. Zeller, Romani, p. 364.
391Così J.A. Fitzmyer, Romani, pp. 833-834.
392Così N.T. Wright, Climax, p. 235; G. Sass, Ròm 15,7-13 als Summe des Ròmerbriefs gelesen, in
EvT52> (1993) 510-527.
Cfr. anche B. Byrne, Romans, p. 428; D.J. Moo, Romans, p. 873.
393

394Cfr. W. Schmithals, Historische Problem, pp. 210-211.


395Così J.D.G. Dunn, Romans, II, pp. 844-845; Id., Paul, pp. 529-530.
486 Traduzione e commento
sezione (cfr. Rm 14,1); e lo stesso vale per il modello di Cristo al quale Paolo si è
rifatto spesso in Rm 14,6-8.15-18; 15,3.5. Piuttosto, in questo modo, l'esortazio-
ne specifica alla reciproca accoglienza è collocata nel contesto più ampio della
lettera, in cui domina la predicazione del vangelo secondo le Scritture (cfr. Rm
1,2-4), con il suo centro nella salvezza realizzata in Cristo per tutti (cfr. Rm 1,16-
17). Per questo, è importante non considerare la sezione esortativa come un'ap-
pendice della lettera ma come la concretizzazione etica del suo contenuto fonda-
mentale. In questa prospettiva, Rm 15,7-13 svolge il ruolo di perorazione non ri-
spetto all'intera lettera né per alcune sezioni minori ma verso la sezione
396

specifica di Rm 14,1 -15,6, ossiarispèttoall'accoglienza dei deboli . In tal sen- 397

so, non ha consistenza l'obiezione retta sull'accoglienza reciproca e non di quel-


la dei deboli, in quanto a proposito di Rm 14,1-12 abbiamo evidenziato che anche
i deboli criticavano i forti. Per questo il motivo della reciproca accoglienza vale
per l'uno e l'altro versante comunitario; ed è pertinente che Paolo lo collochi al
culmine della sua esortazione!
Tale inquadramento di Rm 15,7-13 nel panorama più ampio della lettera im-
pedisce di pervenire alla facile identificazione dei deboli con i giudeo-cristiani e
dei forti con i gentilo-cristiani . Paolo non ha mai stabilito queste assimilazioni
398

e ora parla di giudei e gentili per una sorta di argomentazione a fortiori : se la sal-
vezza, realizzata in Cristo, vale per tutti, quanto più deve rappresentare la ragio-
ne fondamentale per la vicendevole accoglienza tra i forti e i deboli o tra fratelli
che condividono la stessa fede.
[15,7] Il motivo dell'accoglienza collega direttamente la perorazione di Rm
15,7-13 alla tesi specifica della sottosezione in cui Paolo ha esortato i forti ad ac-
cogliere i deboli (cfr. Rm 14,1); e sin dall'inizio, per tamponare le critiche dei de-
boli ha sottolineato che Dio ha accolto anche i forti (cfr. Rm 14,3). Ora queste due
traiettorie relazionali sono unificate dall'esortazione alla reciproca accoglienza e
dal modello di Cristo: in definitiva, Dio ha accolto i forti, come i deboli, in e per
mezzo di Cristo; e l'attenzione non cade più sull'accoglienza di Dio per mezzo di
Cristo ma su quella di Cristo in funzione della gloria di Dio . 399

L'origine cristologica per la vicendevole accoglienza si presenta, nello stesso


tempo, come causale ed esemplare: i credenti sono esortati ad accogliersi l'un l'al-
tro a causa di e come (kathös) Cristo li ha accolti. Naturalmente, com'è tipico del
pensiero paolino, egli non evoca un episodio della vita pubblica di Gesù che illu-
stri la sua ospitalità per tutti, bensì l'evento della sua morte erisurrezioneriletto
con l'originale motivo dell'accoglienza di tutti coloro che credono in lui, a pre-
scindere dalla loro identità etnica o civile.

396Per Rm 1,18 - 11,24 cfr. la perorazione di Rm 11,25-36; per Rm 12,1 - 13,10 cfr. la perorazione
di Rm 13,11-14.
397La delimitazione di Rm 15,1-13 proposta da K. Haaker, Römer, p. 293 è infondata: l'autore non è
attento alla funzione retrospettiva di Rm 15,7-13 rispetto a Rm 14,1 - 15,6.
398Con buona pace di T.R. Schreiner, Romans, p. 754.
399Così anche L.E. Keck, Christology, Soteriology, and Fraise of God (Romans 15:7-13), in R.T.
Fortna - B.R. Gaventa (edd.), The Conversation Continues, FS. J.L. Martyn, Nashville 1990, pp. 85-97.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 487
Anche se in Romani si è già fatto spessoriferimentoalla « gloria di Dio » (cfr.
Rm 1,23; 3,7; 4,20), qui l'espressione è posta in particolare relazione con la « ve-
rità di Dio » (v. 8) e quindi con la sua fedeltà che, a sua volta, diventa la ragione del-
la gloria che i gentili possono rendere a Dio (v. 9). Per questo la « gloria di Dio » si
riferisce all'azione ospitale di Cristo per tutti e alla vicendevole accoglienza in
comunità . 400

[vv. 8-9] Il modello di Cristo come fondamento per la reciproca accoglienza,


ha bisogno di essere ulteriormente illustrato: per questo nei vv. 8-9 Paolo si sof-
ferma sul percorso salvifico realizzato da Cristo per i giudei e i gentili. Purtroppo,
la lunga proposizione dei vv. 8-9 è contorta dal punto di vista sintattico e conte-
nutistico: l'espressione «rendere gloria a Dio» si riferisce a Cristo o ai gentili?
Dipende dall'iniziale «dico infatti», è parallela a «confermare le promesse dei
padri » o tutta la formulazione del v. 9 è indipendente dal v. 8?
Forse l'ipotesi meno sostenibile è quella che separa le due proposizioni,
giacché il modello di Cristo è addotto per i giudei e per i gentili; d'altro canto il
de (v. 9) collega direttamente a quanto precede, anche se ha funzione di congiun-
zione e non di opposizione. L'ipotesi di chi considera Cristo come soggetto che
glorifica Dio di fronte ai gentili è più contorta della stessa formulazione paoli-
401

na, perché si tratterebbe di unaripetizionedella successiva citazione diretta e per-


ché, in definitiva, tale asserzione nonrientranella cristologia paolina. Piuttosto, il
modello delle formule d'invio, attestato in Gal 3,13-14 e in Gal 4,4-5, offre la gri-
glia sintattica fondamentale che permette di cogliere le relazioni tra il v. 8 e il v. 9:
Gal 3,13-14 Gal 4,4-5 Rm 15,8-9
Cristoriscattai giudei Dio manda il suo Figlio Cristo diventa servo
dalla maledizione sotto la Legge per riscattare della circoncisione
della Legge coloro che si trovano
sotto la Legge
affinché la benedizione affinché tutti ricevessero affinché i gentili possano
di Abramo giungesse la figliolanza. rendere gloria a Dio.
ai gentili.
In queste formule d'invio, come in quella leggermente diversa di Rm 8,3-4,
l'accento cade sulla relazione tra Cristo e i giudei o la Legge mosaica dalla quale
dipendono l'universalizzazione dellafigliolanzaabramitica e la possibilità, offer-
ta ai gentili, di rendere gloria a Dio . Per questo, non è il Cristo a rendere gloria a
402

Dio tra i gentili, affermazione che non trova alcuna consistenza nella cristologia

400 Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 875, che limita l'espressione alla reciproca accoglienza
comunitaria, e di J.R. Wagner, The Chrìst, Servant ofJew and Gentile: A Fresh Approach to Romans 15:8-
9, in JBL 116 (1997) 475, che pensa soltanto all'azione di Cristo. Il duplice riferimento della «gloria di
Dio » èriconoscibileper l'uso di kathós (come) e per la presenza del verboproslambanein nella prima e nel-
la seconda parte del v. 7.
401 Così J.R. Wagner, Chrìst, pp. 482-483 che per sostenere il suo nuovo approccio a Rm 15,8-9 è co-
stretto a considerare « i gentili » come accusativo di relazione e Cristo come soggetto dell'infinitiva del v. 9.
402 Per l'analisi dettagliata di queste formule d'invio cfr. A. Pitta, Galati, pp. 188-190. Per le con-
nessioni tra Gal 3,13-14 e Rm 15,8-9 cfr. H. Boers, Justification, p. 157.
488 Traduzione e commento
paolina, ma sono i gentili che rendono gloria a Dio a causa della condizione di ser-
vo che Cristo ha assunto verso la circoncisione. D'altro canto, uno degli aspetti
piùrimarcatinella cristologia di Romaniriguardaproprio la relazione tra Cristo e
il suo popolo, da cui dipende l'universalismo della salvezza e quindi la possibilità
che tutti hanno di rendere gloria a Dio. In altri termini, qui Paolo sembra ripresen-
tare la tensione che ha attraversato la sezione kerygmatica della lettera: da una par-
te l'universalismo della salvezza, dall'altra la priorità dei giudei o dei circoncisi
rispetto ai gentili o agli incirconcisi . Dunque, è preferibile far dipendere il v. 9
403

dalla prima parte del v. 8 e considerarla come parallela della seconda parte: « Cri-
sto divenne servo della circoncisione... così da confermare le promesse dei padri e
i gentili diano gloria a Dio » . 404

Passando all'analisi dettagliata delle singole formulazioni, Paolo sottolinea la


relazione tra Cristo e i giudei, attraverso l'accenno al tratto più caratteristico del
popolo ebraico: la circoncisione, che ha funzione metonimica per indicare il giu-
deo . Cristo è diventato « diacono » della circoncisione, ha assunto cioè la condi-
405

zione di « servo » (cfr. Fil 2,7) per il suo popolo ; e tale serviziorispondealla ve-
406

rità di Dio che è sinonimo della sua fedeltà o che rappresenta l'elemento più visi-
bile della sua gloria (cfr. v. 7) . L'espressione «servo della circoncisione» è
407

audace: sarebbe impensabile, ad esempio, nella Lettera ai Galati in cui la circonci-


sione e Cristo sono incompatibili. In questa relazione si percepisce la prospettiva
più serena della Lettera ai Romani, confermata da quanto Paolo ha già riconosciu-
to sulla circoncisione, il sigillo della giustizia per la fede di Abramo (cfr. Rm 4,11).
La verità o la fedeltà di Dio per il suo popolo corrisponde alle promesse dei
padri che non sono abrogate dall'evento di Cristo ma, al contrario, sono confer-
mate o consolidate . Paolo non precisa, in questi versi, quali siano le promesse
408

dei padri ratificate dal servizio che Cristo ha reso al suo popolo, tuttavia poiché la
tematica della «promessa» è stata trattata in Rm 4,13-22 è chiaro che si riferisce
soprattutto alla discendenza innumerevole promessa ad Abramo e reiterata nella
storia della salvezza (cfr. Gn 12,2-3; 15,5; 18,18; 26,4; 28,14) . 409

Con il v. 9 si passa ai gentili, posti nella condizione di rendere gloria a Dio, a


causa della sua misericordia, accennata senza ulteriori specificazioni: a quale mi-
sericordia si riferisce? A quella per i giudei, per i gentili o per tutti? Il paragrafo
dedicato alla misericordia divina (cfr. Rm 11,25-36) spiega la ragione per la qua-

403Con buona pace di J. Lambrecht, Syntactical and Logicai Remarks on Romans 15:8-9a, in NT Al
(2000) 257-261 che per sottolineare la gloria dei gentili pone in secondo piano la relazione tra Cristo e il
suo popolo.
404Così anche DJ. Moo, Romans, pp. 875-876; T.R. Schreiner, Romans, p. 755.
405Cfr. le analoghe metonimie in Rm 2,26-27; 3,30; Gal 2,7-9.
406Soltanto qui si parla di Cristo come servo, in termini positivi, mentre in Gal 2,17 Paolo esclude ca-
tegoricamente che egli sia servo del peccato. Cfr. anche il verbo diakonein nel detto gesuano di Me 10,45.
407Sulla relazione tra la verità, la fedeltà e la gloria di Dio vedi il commento a Rm 3,7.
408II verbo bebaioun (confermare, consolidare, ratificare), utilizzato anche in ICor 1,6.8; 2Cor 1,21;
Col 2,7, assume particolare connotazione forense, in contesti di testimonianza e di apologia. Così anche
T.R. Schreiner, Romans, p. 755.
409Cfr. Gn 12,2-3; 15,5; 18,18; 26,4; 28,14. Le promesse sono state citate nella lista dei privilegi (cfr.
Rm 9,4-5; anche Gal 3,16).
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 489
le ora non sono esplicitati i destinatari: sono i giudei e i gentili, poiché « Dio ha
rinchiuso tutte le cose nella disobbedienza per usare misericordia verso tutti » (cfr.
Rm 11,32).
A conferma dell'universalismo della salvezza realizzata in Cristo, è addotta
tma catena di citazioni dall'AT: sono poste in collegamento quattro citazioni acco-
munate dal sostantivo ethnos (gentile, nazione) che funge da gezerah shawah o da
principio di equivalenza fra le fonti. Le citazioni sono tratte dalla Torah o Pentateuco
(Dt 32,43 in Rm 15,10), dai Profeti (Is 11,10 in Rm 15,12) e dai Salmi (Sai 17,50 in
Rm 15,9 e Sai 116,1 in Rm 15,11), ossia da tutte le Scritture che restano la fonte del-
la perseveranza, della consolazione e della speranza cristiana (v. 4).
La prima citazione, introdotta dalla solita formula « come sta scritto » (cfr.
l'ultima frequenza in Rm 15,3), è tratta dal Sai 17,50 (LXX), anche se questa ri-
scontra un suo parallelo in 2Sam 22,50: « Per questo ti loderò fra i gentili e can-
terò inni al tuo nome». La versione della LXX corrisponde al TM; e da questa
fonte è escluso il vocativo « Signore». Per alcuni, tale omissione è dovuta all'o-
rientamento cristologico che Paolo intende conferire alla citazione : il Signore 410

che ora bisogna lodare è Gesù Cristo, mentre nel Sai 17 si riferisce a Dio. In
realtà, anche nell' appropriazione paolina del Sai 17 si allude a Dio, come dimo-
stra la prima parte del v. 9 in cui si parla della sua gloria. D'altro canto, nel suc-
cessivo v. 11 Paolo stesso non esita ariportarela citazione del Sai 117,1 con il so-
stantivo kyrios . Per questo è preferibile pensare a un'omissione involontaria,
411

mentre resta oscuro il soggetto che loda Dio fra i gentili e inneggia al suo nome:
si tratta di Davide o del salmista, di Gesù Cristo o di Paolo stesso e di quanti, fra
i giudei, permettono ai gentili di lodare Dio per le promesse realizzate in Cristo?
Poiché Paolo relaziona direttamente Gesù Cristo al suo popolo e, attraverso que-
sto, ai gentili (vv. 8-9), mentre non parla mai di una missione di Cristo fra i genti-
li, è preferibile intendere la rilettura del Sai 17 in termini autobiografici o come ri-
ferimento implicito a quanti, come Paolo, annunciano fra i gentili la realizzazio-
ne delle promesse divine in Cristo . 412

[v. 10] Una semplice formula introduttiva, espressa con « e di nuovo dice »
(cfr. prima Rm 11,4.9), aggiunge al v. 10 un frammento della citazione tratta da Dt
32,43, secondo la LXX che, a sua volta, si differenzia dal TM. Così recita la ver-
sione greca: «Rallegratevi, nazioni, con il suo popolo e tutti gl'inviati di Dio par-
lino della sua potenza». Il TM riporta: «Rallegratevi, nazioni, per il suo popolo,
perché egli vendicherà il sangue dei suoi servi ». Forse la LXX traduce una Vorlage
diversa dall'attuale TM, che sembra più vicina a 4Qdeut : «Inneggiate con lui, o
q

cieli, e gli dei lo adorino» . A sua volta, Paolo applica la conclusione del cantico
413

di Mosè (Dt 32,1-43) alla relazione tra i gentili e il popolo di Dio.


Questa nuova citazione riprende, dalla precedente, il riferimento agli ethne
(gentili, nazioni) e il motivo della lode ma aggiunge il secondo interlocutore invi-
410 Così J.R. Wagner, Christ, p. 476.
411 Così anche C.D. Stanley, Paul, p. 180.
4,2 Così anche J.D.G. Dunn, Romans, II, pp. 849-850.
413 Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 836.
490 Traduzione e commento
tato a rallegrarsi: il suo popolo. Forse non è un caso che raramente Paolo parli
d'Israele come di « popolo di Dio » (cfr. Rm 11,1) e, quando lo fa, cita direttamen-
te, come in questo caso, o allude all'AT (cfr. Rm 9,25-26; 11,2) . Tale reticenza 414

forse è dovuta all'inadeguatezza che laos comporta rispetto all'ingresso dei gen-
tili nella relazione di alleanza con Dio. Comunque,rimanechiaro che per Paolo il
popolo chiamato in causa non è una parte, ad esempio soltanto i giudeo-cristiani,
ma tutto Israele invitato a lodare Dio insieme ai gentili.
[v. 11] La terza citazione diretta dall'AT è tratta dal Sai 116,1 (LXX) che
però si presenta, in alcuni tratti, leggermente diversa dalla fonte paolina: « Lodate
il Signore, popoli tutti, esaltatelo, popoli tutti ». Nella citazione paolina si verifica
l'anticipazione sintattica di «Signore», l'aggiunta della congiunzione hai e il
cambiamento della forma per il verbo « esaltare »: « lo esaltino » invece di « esal-
tatelo ». Forse tali mutamenti sono dovuti più a una redazione diversa della LXX
alla quale Paolo siriferisceche a suoi interventi redazionali . 415

Rispetto alle citazioni precedenti, si può notare ancora la presenza del sostan-
tivo ethne e dei verbi di loderivolti,ancora una volta, a Dio il Signore. Tuttavia con
questa citazione si assiste a una maggiore estensione degli orizzonti rispetto alle
precedenti: si passa dalla lode dei giudei fra i gentili (v. 9) a quella dei gentili e del
popolo del Signore (v. 10), per giungere a tutte le nazioni o i popoli (v. 11) . 416

[v. 12] Se, attraverso le citazioni dell'AT, fino ad ora Paolo ha sostenuto l'u-
niversale lode di Dio che si realizza con l'evangelizzazione dei gentili, non ha po-
sto ancora inrisaltola ragione per la quale non soltanto i giudei ma anche i genti-
li sono invitati a lodare Dio. Per questo le tre citazioni precedenti sono funzionali
rispetto a quella di Is 11,10 che chiude ilflorilegio:con questa citazione l'accen-
to è posto sulla signoria universale di Cristo, relazionata alla radice di lesse e alle
nazioni. Non è la prima volta che Paolo conferisce particolare attenzione agli ora-
coli di Isaia : spesso questi svolgono un ruolo centrale nelle sue argomentazioni,
417

per la loro possibileriletturamessianica e cristologica.


In particolare questa citazione in cui Gesù Cristo è implicitamente relazio-
nato a Davide, quale germoglio di lesse, assume una rilevanza significativa poi-
ché, sin dall'inizio della sua lettera, Paolo ha sottolineato l'appartenenza di Cri-
sto al seme di Davide, secondo la carne (cfr. Rm 1,3). In verità, si può notare co-
me, in questo caso, la versione della LXX è diversa dal TM: «E spunterà in quel
giorno il germoglio di lesse e colui che sorgerà per governare le nazioni, in lui
spereranno le nazioni» (Is 11,10 LXX); «In quel giorno la radice di lesse si le-
verà a vessillo per i popoli, le nazioni la cercheranno con ansia, la sua dimora sarà
gloriosa » (Is 11,10 TM). Naturalmente, come nella maggior parte dei casi, Paolo
segue la versione della LXX che, invece della «radice», preferisce parlare del
414 Cfr. W. Kraus, Das Volk Gottes. Zur Grundlegung der Ecklesiologie bei Paulus (WUNT 85), Tübingen
1996, pp. 326-333.
4,5 Così anche C.D. Stanley, Paul, pp. 181-182.
416 Per questo, ora preferiamo rendere il sostantivo ethnos con « nazione » e non più con « gentile »:
l'aggettivo pas (tutto)ripetutonella prima e nella seconda parte del v. 11 estende gli orizzonti della lode a
tutte le nazioni, compreso il popolo ebraico. La stessa estensione è verificabile in Gal 3,8-9.
4,7 Cfr. iriferimentiespliciti a Isaia in Rm 9,27.29; 10,16.20.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 491
«germoglio di lesse» così da orientare in prospettiva messianica l'oracolo pro-
fetico . Alla rilettura cristologica di Is 11,10 si deve l'omissione cronologica
418

« in quel giorno », dovuta all'intervento redazionale di Paolo: « quel giorno » si è


già realizzato con l'invio del Figlio di Dio (cfr. Rm 8,3) nella pienezza del tempo
(cfr. Gal 4,4).
Alcuni intravedono nel verbo anisthèmi un riferimento alla risurrezione di
Cristo, giacché in tale contesto è utilizzato in lTs 4,14.16 . L'uso raro di questo
419

verbo per indicare la risurrezione di Cristo e la mancanza di riferimenti nel con-


testo immediato della citazione rendono poco probabile il collegamento con tale
evento, anche se, comunque, la citazione assume una connotazione cristologi-
ca . L'applicazione messianica e cristologica dell'ultima citazione costituisce il
420

vertice della catena iniziata al v. 9b: soltanto con la signoria universale di Cristo
diventa possibile che i giudei e i gentili glorifichino Dio.
[v. 13] Anche questo paragrafo si conclude come il precedente (vv. 1-6), con
la preghiera rivolta a Dio per i destinatari della lettera: egli, che si trova all'origi-
ne della speranza cristiana , liricolmidella gioia e della pace nella condivisione
421

della fede in Gesù Cristo. Il tenore di quest'ultima invocazione è particolarmente


solenne come dimostra l'uso dei verbi «riempire» (pleroun) e « abbondare » (pe-
risseuein) . Al centro della preghiera di Paolo si trova larichiestadella speranza:
422

questa viene da Dio e, per mezzo dello Spirito santo, abbonda nell'esistenza dei
credenti; e si tratta di una speranza che « non fa vergognare perché trova la sua ori-
gine nell'amore di Dio per noi » (cfr. Rm 5,5). La centralità della speranza dipen-
de dall'ultima citazione di Is 11,10 nel verso precedente, in cui si afferma che
« tutte le nazioni spereranno in lui », e dall'importanza che questa tematica svolge
nella lettera, soprattutto in Rm 5,2-5 e in Rm 8,20-25. All'origine della speranza
cristiana si trova lo Spirito, che con la sua potenza opera per larisurrezionedi Cri-
sto (cfr. Rm 1,4) e per la definitiva giustizia dei credenti (cfr. Gal 5,5). Dunque
non soltanto lo Spirito rende attuale e personale la giustificazione realizzata da
Dio in Cristo ma agisce, con potenza, anche nel presente e nel futuro dell'esisten-
za cristiana.
Tuttavia, larichiestadi speranza che Paolorivolgea Dio per i destinatari del-
la lettera è meno astratta di quanto si pensi perché trova la sua concretizzazione
nella gioia e nella pace: sono gli stessi doni che, insieme alla giustizia, definisco-
no il regno di Dio (cfr. Rm 14,17). Quest'ulteriore collegamento con Rm 14 per-

Cfr. iriferimential germoglio di lesse in Ger 23,5; 33,15; Sir 47,22; 4QpGen 5,2-4; 4QFlor 1,10-
4,8 a

13; Ap 5,5; 22,16.


Cfr. anche il più diffuso anastasis (risurrezione) in Rm 1,4; 6,5; ICor 15,12; Fil 3,10. Così B.
419

Byrne, Romans, p. 432; J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 850; DJ. Moo, Romans, p. 880.
Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 759.
420

Più che di un genitivo oggettivo, come pensa J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 851, l'espressione «il
421

Dio della speranza » è di autore o soggettivo: non si tratta tanto della speranza che i credenti hanno in Dio
quanto della speranza che Dioriversanei loro cuori e che, per mezzo dello Spirito, diventa speranza in Dio.
Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 759. Nella stessa prospettiva, Paolo ha parlato del « Dio della per-
severanza e della consolazione » in Rm 15,5.
Per il verbo pleroun cfr. Rm 13,8; per perisseuein cfr. Rm 5,15.
422
492 Traduzione e commento
mette di contestualizzare larichiestadella gioia e della pace: sono particolarmen-
te necessarie per comunità in crisi, come quelle di Roma, in cui questioni alimen-
tari hanno creato diverse difficoltà. Non sappiamo se l'accorata esortazione pao-
lina ha raggiunto il suo scopo: comunque, egli ha tentato in tutti i modi di ricupe-
rare, a partire dall'accoglienza di Dio e di Cristo per tutti, l'unità delle diverse
comunità romane.

Gli orizzonti tematici delle esortazioni conclusive oparacletiche dell'episto-


lario paolino si raccolgono intorno all'importanza dell 'agape, dello Spirito e di
Gesù Cristo : lariccae lunga unità letteraria di Rm 12,1-15,13 conferma l'im-
423

portanza di queste tematiche. U agape, come ideale del bello e del buono (cfr. Rm
12,9-21) e come adempimento della Legge mosaica (cfr. Rm 13,8-10), deve ca-
ratterizzare anche le relazioni tra i forti e i deboli nella fede (cfr. Rm 14,15).
Quest'ideale perviene al suo vertice di attuazione con l'amore per il nemico (cfr.
Rm 12,17-21), quando al male non sirispondecon il male ma con il bene. Essere
ferventi nello Spirito (cfr. Rm 12,11) significa riconoscere che da lui dipende la
consistenza del regno di Dio, attraverso il suo unico frutto (cfr. Gal 5,22) della
giustizia, della pace, della gioia (cfr. Rm 14,17) e della speranza (cfr. Rm 15,13).
Servire il Signore (cfr. Rm 12,11) erivestirsiogni giorno di Gesù Cristo (cfr. Rm
13,14) comporta imitarlo nell'accoglienza verso tutti, in particolare verso i fratel-
li nella fede (cfr. Rm 15,1-13).
A questi tre vettori contenutistici che accomunano la sezione paracletica del-
la Lettera ai Romani a quelle del restante epistolario paolino, egli aggiunge gl'i-
deali della moderazione in comunità (cfr. Rm 12,3-8), la sottomissione alle auto-
rità civili (cfr. Rm 13,1-7) e l'attesa del giorno senza tramonto (cfr. Rm 13,11-14).
A differenza di ICor 12,1 - 14,40, i carismi elencati in Rm 12,3-8 sono segnati
dalla quotidianità e dal servizio per gli altri: i carismi da cercare non sono quelli
delle guarigioni, dei miracoli e della glossolalia, particolarmente cari alla comu-
nità di Corinto, ma quelli funzionali al servizio (la diaconia) della Parola (la pro-
fezia, l'insegnamento e l'esortazione) e delle relazioni sociali e comunitarie (la
condivisione, la presidenza e la misericordia). Tali carismi non hanno nulla di
straordinario o di appariscente, tranne la profezia per alcuni aspetti: la loro straor-
dinarietà consiste nelle possibilità che offrono di servire il prossimo e di vivere in
pace con tutti. Con la sottomissione alle autorità civili, Paolo richiama i destina-
tari alla responsabilità per il bene pubblico, evitando qualsiasi atteggiamento di ri-
volta, nonostante le umili condizioni delle comunità romane e, dato sempre attua-
le, l'esosità delle tasse. Con l'attesa del giorno (cfr. Rm 13,11-14), i credenti so-
no esortati a non abbandonarsi ai vizi della notte ma a rivestirsi ogni giorno di
Cristo: la loro alba è sempre prossima; anzi, con la loro adesione a Cristo e con la
condotta etica attestano la luminosità del giorno senza tramonto.

423 Così R. Penna, Problemi di morale paolina. Status quaestionis, in L'apostolo Paolo, pp. 550-562;
A. Pitta, Esortazione morale, pp. 360-368.
La paràclesi Rm 12,1 - 15,13 493
Le relazioni tra le sezioni paracletiche o di esortazioni conclusive e quelle
kerygmatiche dell'epistolario paolino, e di conseguenza quelle tra la fede e l'eti-
ca, sono complesse e diversificate. Se in alcune lettere, come Galati, la paraclesi
(Gal 5,13 - 6,10) è descritta come manifestazione o fenomenologia del kèrygma* , 24

in Romani si assiste a un'etica della consequenzialità. Tali diversificazioni dimo-


strano che il rapporto tra l'indicativo della fede e l'imperativo dell'etica non è
standardizzato ma variegato, in dipendenza della consistenza e delle esigenze del-
l'indicativo. Per questo, se a R. Bultmann si deve l'ingresso della relazione tra in-
dicativo della fede e imperativo dell'etica nell'esegesi neotestamentaria , l'ec- 425

cessiva attenzione che pone sull'indicativo e sulle sue implicazioni esistenziali ha


causato un deprezzamento dell'etica,ridottaa semplice appendice del kèrygma. Il
colpo decisivo all'etica del NT è stato inferto da M. Dibelius che, come abbiamo
evidenziato nell'introduzione a Rm 12,1 - 15,13, considera le parti paracletiche
dell'epistolario paolino come raccolte di esortazioni standardizzate, ricavate dal
contesto etico della filosofia greco-romana e senza alcuna originalità cristiana . 426

Con questa prospettiva, lo iato tra indicativo e imperativo diventa incolmabile.


Bisogna attendere il contributo di E. Kàsemann perché l'imperativo etico cristia-
no sia ancorato alla relazione apocalittica con la morte erisurrezionedi Cristo . 427

Così l'etica è definita come interinale o intermedia, collocata tra il già della fede
e il non ancora dell'incontro con Cristo.
In tale revisionismo si colloca la nuova prospettiva sull'etica paolina: non
rappresenta un aspetto secondario o di appendice dell'indicativo ma è parte inte-
grante del vangelo . In particolare, la parte paracletica di Rm 12,1 -15,13 dimo-
428

stra come, rettificando anche il modello apocalittico di E. Kàsemann, l'etica non


si pone neppure nella fase intermedia tra l'apocalittica adesione a Cristo e l'esca-
tologica partecipazione alla suarisurrezione,nel qual caso un abbassamento del-
la tensione escatologica significherebbe anche un ridimensionamento dell'etica,
ma nella stretta relazione con l'essere in Cristo o con la novità apocalittica della
partecipazione alla sua morte, come ragione del nostro morire al vecchiume della
lettera per appartenere alla novità dello Spirito (cfr. Rm 7,6). Riprendendo la bel-
la immagine di Rm 13,14, poiché tutti ci siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3,27-
28), dobbiamo ogni giorno continuare a rivestirci di lui. L'accentuazione è posta
sul primo livello, che è quello della fede, dal quale dipende il secondo lei rivesti-
mento quotidiano, in vista del pieno giorno. In altri termini, non dal già il non an-
cora o dal poco che siamo e abbiamo al molto del nuovo che attendiamo, ma dal-
l'essere in Cristo all'essere con lui!
In questa interdipendenza tra l'indicativo, il kèrygma e la fede da una parte,
e l'imperativo, la paraclesi e l'etica, dall'altra, si trova la principale motivazio-
ne per cui, in una sezione così ampia sull'etica, come Rm 12,1 - 15,13, nessuna
424 Per la consistenza dell'etica in Gal 5,13 - 6,10 cfr. A. Pitta, Galati, pp. 319-337.
425 Cfr. R. Bultmann, Das Problem der Ethik bei Paulus, in ZNW 23 (1924) 123-140.
426 Cfr. M. Dibelius, Formgeschichte, pp. 234-265.
427 Cfr. E. Kàsemann, Romans, pp. 323-325.
428 Così anche T. Sòding, Liebesgebot, p. 276.
494 Traduzione e commento
esortazione decada in forme di moralismo o di casistica rinchiusa in se stessa ma
indichi come il vangelo paolino coinvolga tutti gli aspetti comportamentali delle
comunità cristiane. Senza il legame vitale con il kèrygma, l'etica cristiana rischia
di livellarsi a semplice moralismo situazionale, e senza l'etica, il kèrygma del
vangelo corre il pericolo di essere mutato in una forma di gnosi disincarnata: tra
lo Scilla del moralismo e il Cariddi del neognosticismo transita l'attualità del-
l'etica paolina . 429

429Giustamente, R. Penna, Morale paolina, p. 559 parla del pericolo di urieutichianesimo morale,
ossia dell'eccessiva attenzione per il kèrygma a discapito dell'etica; forse nel nostro tempo è anche attua-
le una sorta di arianesimo morale, vale a dire una morale cristiana cherischiadi tacere o di diventare mo-
ralismo inascoltato.
IL POSCRITTO EPISTOLARE
Rm 15,14- 16,27

Il vanto dell'evangelizzazione
15 Fratelli miei, sono anch'io convinto che, per quanto vi
14

riguarda, siete colmi di benevolenza, pieni di ogni conoscenza e


capaci di ammonirvi vicendevolmente.
15Tuttavia, in parte, vi scrivo con un po' d'audacia, come per
ricordarvi di nuovo che, a causa della grazia che mi è stata data
da Dio,
16sono ministro di Cristo Gesù per i gentili, esercitando il sa-
cro impegno del vangelo di Dio, affinché l'offerta dei gentili sia
ben accolta e santificata per mezzo dello Spirito santo.
Pertanto ho una ragione di vanto in Cristo Gesù davanti a Dio:
17

18non oserò parlare di quanto Cristo ha operato attraverso me


per l'obbedienza dei gentili,
con la parola e con l'azione,
19con la potenza di segni e prodigi,
con la potenza dello Spirito [di Dio].
Così, da Gerusalemme e dintorni, sino all'Illiria, ho portato
a compimento il vangelo di Cristo
20e mi sono fatto come punto d'onore evangelizzare dove Cri-
sto non era stato ancora nominato, affinché non edificassi su fon-
damento altrui,
21ma come sta scritto: « Lo vedranno coloro ai quali non era sta-
to annunciato e quelli che non hanno ascoltato comprenderanno».
I prossimi progetti di viaggio
E per questo molte volte mi è stato impedito di venire da voi.
22

Ma ora, non trovando più opportunità in queste regioni e


23

desiderando venire da voi da molti anni,


496 Traduzione e commento
se andrò in Spagna... Infatti spero di vedervi almeno fuga-
24

cemente e di essere aiutato da voi per recarmi lì, a condizione di


aver un po' goduto della vostra presenza.
Però, ora vado a Gerusalemme per compiere un servizio a
25

favore dei santi.


Infatti alla Macedonia e all'Acaia è piaciuto fare comunio-
26

ne con i poveri fra i santi che si trovano in Gerusalemme.


27A loro è piaciuto perché anch'essi sono debitori nei loro
confronti. Poiché i gentili hanno condiviso i loro beni spirituali,
sono obbligati a rendere un sacro servizio per le loro indigenze.
Pertanto, dopo aver portato a termine e dopo aver sigillato
28

questo frutto per loro, andrò in Spagna, passando da voi.


E so che, venendo da voi, arriverò con la pienezza della be-
29

nedizione di Cristo.
Però vi supplico [fratelli], per mezzo del Signore nostro
30

Gesù Cristo e dell'amore dello Spirito, di lottare con me nelle


preghiere per me davanti a Dio,
affinché possa essere liberato in Giudea dagli increduli e
31

sia ben accolto il mio servizio per i santi a Gerusalemme,


cosicché, giunto da voi con gioia, possa riposarmi, per vo-
32

lontà di Dio, presso di voi.


I1 Dio della pace sia con tutti voi, amen.
33

Raccomandazioni e saluti finali


16 'Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è [anche] dia-
conessa della Chiesa (che si trova) in Cenere:
Accoglietela nel Signore, come si conviene ai santi, e assi-
stetela in qualsiasi necessità; infatti, anch'essa è stata protettrice
di molti e anche di me stesso.
3Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù:
4per salvarmi la vita hanno rischiato la loro gola; non soltan-
to io sono a loro grato ma anche tutte le Chiese dei gentili;
5(salutate) anche la loro Chiesa domestica.
Salutate Epèneto, il mio diletto, che è la primizia dell'Asia
in Cristo.
6Salutate Maria che ha lavorato molto per voi.
7Salutate Andronico e Giunia, miei connazionali e miei
compagni di prigionia, che sono insigni fra gli apostoli e che era-
no in Cristo prima di me.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 497
8 Salutate Ampliato, mio diletto nel Signore.
9 Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e Stachi, il
mio diletto.
I0Salutate Apelle, degno d'approvazione in Cristo.
Salutate quelli (che provengono) da Aristobulo.
1 Salutate Erodione, mio connazionale.
Salutate quelli (che provengono) da Narcisso che sono nel
Signore.
12 Salutate Trifena e Trifosa che hanno lavorato per il Signore.
Salutate la diletta Perside che ha lavorato molto per il Signore.
13Salutate Rufo, eletto nel Signore, e la sua e mia madre.
14Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i fra-
telli che sono con loro.
15Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, e Olimpa e
tutti i santi che sono con loro.
^Salutatevi vicendevolmente con il bacio santo. Vi salutano
tutte le Chiese di Cristo.
Ammonizione e benedizione finale
17Invece, vi esorto, fratelli, a stare in guardia da coloro che
provocano divisioni e scandali contro l'insegnamento che avete
imparato; tenetevi lontani da loro!
18In realtà, costoro non servono Cristo, il nostro Signore, ma
il loro ventre e con parole benevole e lusinghiere cercano di se-
durre i cuori dei semplici.
19Infatti, la fama della vostra obbedienza è giunta ovunque,
perciò sono contento per voi; però desidero che siate saggi per il
bene e immuni dal male.
I1 Dio della pace stritolerà al più presto satana sotto i vostri
20

piedi. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con voi.
Saluti dalla comunità dipartenza
Vi salutano Timoteo, mio collaboratore, Lucio, Giasone e
21

Sosipatro, miei connazionali.


Vi saluto nel Signore, io Terzo, che ho scritto la lettera.
22

Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità.


23

Vi salutano Erasto, l'amministratore della città, e il fratello


Quarto.
498 Traduzione e commento
Dossologia finale
A colui che ha il potere di rafforzarvi secondo il mio vangelo
25

e la predicazione di Gesù Cristo,


secondo larivelazionedel mistero tenuto nel silenzio per se-
coli eterni,
però ora manifestato e reso noto per mezzo delle scritture
26

profetiche,
secondo la disposizione dell'eterno Dio,
in vista dell'obbedienza della fede per tutte le genti,
all'unico sapiente Dio, per mezzo di Gesù Cristo, a lui (sia)
27

la gloria per i secoli, amen.

I canoni dell'epistolografia classica sono particolarmente alterati davanti a un


postscriptum come questo: è il più ampio del NT. A chi invia una lettera bastereb-
be la comune sottoscrizione espressa con «sta' bene» (erróste), «ti vada bene»
(eutychei) o « prego che tu stia bene » (errósthai se euchomai) e lafirmadi auten-
tificazione del mittente . Paolo preferisce andare oltre il protocollo epistolare, con-
1

ferendo maggiore personalizzazione ai poscritti . Il canovaccio dei poscritti paoli-


2

ni comprende i reciproci saluti (cfr. Rm 16,1-16.21-23), la benedizione divina (cfr.


Rm 15,33; 16,20), ilricordovicendevole nella preghiera (cfr. Rm 15,30-32) e l'in-
vito a salutarsi con il bacio santo (cfr. Rm 16,16). A causa dei fraintendimenti e
delle strumentalizzazioni sul suo pensiero, diffusi nelle comunità, spesso Paolo
aggiunge l'autentificazione personale conclusiva (cfr. ICor 16,21). In Romani
queste parti già sviluppate dell'epistolario paolino sono più ampliate, con l'ag-
giunta dell'autentificazione per l'apostolato presso i gentili (cfr. Rm 15,14-21), le
notizie per i prossimi progetti di viaggio (cfr. Rm 15,22-23), la raccomandazione
per Febe (cfr. Rm 16,1-2), l'ammonizione contro i sobillatori delle comunità (cfr.
16,17-20) e la dossologia innica finale (cfr. Rm 16,25-27). Con tali estensioni ri-
sulta un poscritto cheriprendele coordinate e le tematiche principali della sezio-
ne introduttiva (cfr. Rm 1,1-17) e del corpus epistolare (cfr. Rm 1,18 -15,13), an-
che se non si può parlare, come nel caso di Gal 6,11-18, di un poscritto che svol-
ge anche il ruolo di una perorazione retorica: il contenuto della lettera èripreso,in
forma sintetica e con stile poetico, soltanto dall'inno conclusivo (cfr. Rm 16,25-
27) che, com'è noto, presenta difficoltà di collocazione testuale . 3

La ricchezza di questo poscritto lascia intravedere un importante spaccato


sulla situazione sociale delle chiese primitive e, in particolare, delle comunità ro-
1 Cfr. i poscritti brevi di At 15,29; 23,20 (come lezione variante).
2 Oltre al nostro, cfr. i poscritti di lTs 5,23-28; 2Ts 3,16-17; ICor 16,19-23; 2Cor 13,11-13; Gal 6,11-
18; Fil 4,21-23; Fm vv. 21-25; Col 4,7-18; Ef 6,21-24; lTm 6,20-21; Tt 3,12-15; 2Tm 4,19-22. Per un con-
fronto fra questi poscritti cfr. A. Pitta, Sinossi paolina, pp. 305-315.
3 Vedi l'analisi dettagliata nei versi di riferimento.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 499
mane: le condizioni civili e sociali di alcuni cristiani, le composizioni delle diver-
se chiese domestiche del secolo I d.C., i ruoli di primo piano che svolgevano le
donne e le prime coppie cristiane.
Il vanto dell 'evangelizzazione (15,14-21). - La prima parte del poscritto (Rm
15,14 -16,27) è dedicata alristabilimentodell'autorevolezza di Paolo per l'evan-
gelizzazione dei gentili; da questa finalità dipendono il suo vanto e il diritto di po-
tersi rivolgere con audacia ai destinatari. Il vocabolario del vangelo e della sua
predicazione è l'indizio principale per la definizione di questo primo paragrafo:
soltanto qui si parla di vangelo (vv. 16.19), sono utilizzati i verbi evangelizzare
(euaggelizesthai, v. 20) e annunciare (anaggellein, nella citazione di Is 52,15 al v.
21), assenti nel paragrafo successivo . D'altro canto, se in questa pericope Paolo
4

ricorda l'itinerario passato di evangelizzazione, nella successiva presenterà i pro-


getti futuri (vv. 22-33) . Come spesso, le sezioni conclusive delle lettere paoline
5

sono speculari rispetto alle iniziali; e questo vale anche per Rm 15,14-21 che ri-
prende molti motivi introdotti in Rm 1,1-17, a conferma della natura epistolare di
Rm 15,14 - 16,27 . In termini schematici, richiamiamo i principali punti di con-
6

tatto tra Rm 1,1-17 e Rm 15,14-21:


a) Il vangelo di Dio (Rm 1,2.16; Rm 15,16) di cui si parla soltanto in questi
versi.
b) Al vangelo di Cristo (Rm 15,19) corrisponde il contenuto del vangelo sul
«suo Figlio» (Rm 1,2-3): sono gli unici casi in cui si parla esplicitamente di
Cristo come contenuto del vangelo.
c) La diffusione del «nome» di Cristo fra i gentili (cfr. Rm 1,5 e Rm 15,20).
d) Alla potenza secondo lo Spirito di santificazione (Rm 1,4) e del vangelo
corrisponde la potenza dello Spirito (Rm 15,19; anche Rm 15,13) e quella di se-
gni e prodigi (Rm 15,19).
e) La grazia ricevuta da Paolo per l'apostolato (cfr. Rm 1,5 e Rm 15,15; an-
che Rm 12,3).
f) L'obbedienza della fede (Rm 1,15) e l'obbedienza dei gentili (Rm 15,18;
in seguito Rm 16,19.26).
g) I gentili sonoriconosciutisanti (Rm 1,7) e offerta santificata (Rm 15,16).
h) Paolo rende culto a Dio (Rm 1,9) ed è liturgo di Cristo Gesù (Rm 15,16).
i) Rm 1,1-17 e Rm 15,13-21 si chiudono con una citazione diretta dei profeti
(rispettivamente Ab 2,4 e Is 52,15) con la formula « come sta scritto » (Rm 1,17b e
Rm 15,21), a conferma dell'anticipazione profetica del vangelo paolino (Rm 1,2).
j) Paolo si rivolge ai destinatari della lettera chiamandoli fratelli (Rm 1,13;
15,14) . 7

4 Sull'unità letteraria di Rm 15,14-21 cfr. B. Byrne, Romans, p. 434; D.J. Moo, Romans, p. 886; H.
Schlier, Romani, p. 684; T.R. Schreiner, Romans, p. 764; U. Wiclkens, Römer, III, p. 116.
5 Per questo, la delimitazione di Rm 15,14-24, proposta da J.A. Fitzmyer, Romani, p. 839 non consi-
dera questi cambiamenti semantici e cronologici fra i vv. 14-21 e i vv. 22-33.
6 A tal proposito cfr. J. A.D. Weima, Preaching the Gospel in Rome: A Study of the Epistolary Framework
of Romans, in L.A. Jervis - P. Richardson (edd.), Gospel in Paul: Studies on Corinthians, Galatians and
Romans, FS. R.N. Longenecker (JSNT SS 108), Sheffield 1995, pp. 337-366.
7 Per l'uso di questo appellativo nelle parti interne cfr. Rm 7,1.4; 8,12; 10,1; 11,25; 12,1.
500 Traduzione e commento
Accanto a queste connessioni semantiche, è importante evidenziare i se-
guenti collegamenti argomentativi:
a) In queste parti sonoriconoscibilielementi epistolografici comuni, come il
prescritto (Rm 1,1-7) e l'uso dell"aoristo epistolare (vi scrivo, al v. 15). Al tenore
epistolare sonoriconducibilialcune espressioni difiducia (Rm 1,13-16; Rm 15,14).
b) Soltanto in queste parti Paoloricorrealla captatio benevolentiae (cfr. Rm
1,7-8; Rm 15,14).
c) La litote di Rm 1,16 (« Non mi vergogno del vangelo ») è formulata in po-
sitivo con il vanto per la diffusione del vangelo in Rm 15,17-20.
d) L'orizzonte cattolico dell'evangelizzazione (Rm 1,14-17) torna nelle coor-
dinate geografiche della missione, da Gerusalemme all'Illiria (cfr. Rm 15,19).
I contatti fra la parte introduttiva di Rm 1,1-17 e Rm 15,14-21 sono talmente
rilevanti da far pensare persino a una redazione finale di queste due sezioni rispet-
to alle altre. Naturalmente non mancano alcune diversità tra l'inizio e la conclu-
sione della lettera che sembrano contrastanti: come mai se in Rm 1,15 Paolo non
esita a prospettare l'evangelizzazione di una comunità non fondata da lui, in Rm
16,20rilevail principio dell'evangelizzazione dove il nome di Cristo non è anco-
ra pervenuto? Alcuni non esitano a parlare di contraddizione ed escludono alme-
no alcune parti di Rm 15,14 - 16,27 dalla redazione originaria della lettera.
In realtà, più che di contraddizione è opportuno parlare di diverse accentua-
zioni: affermare che la strategia missionaria dell'evangelizzazione riguarda sol-
tanto coloro che non hanno conosciuto il nome di Cristo non significa che quanti
hanno aderito a Cristo non abbiano bisogno di conoscere il vangelo paolino.
Tutt'altro, l'originalità e le tensioni del suo vangelo esigono una ripresentazione
sia dove gli etnico-cristiani corrono il pericolo di essere fagocitati nel giudaismo
ortodosso, come in Galazia, sia dove i giudeo-cristiani rischiano di essere biasi-
mati in comunità prevalentemente etnico-cristiane, come a Roma. A meno di non
voler cercare a tutti i costi contraddizioni fra una sezione e l'altra, è fondamenta-
le riconoscere questa cornice di relazioni tematiche e argomentative che pone in
risalto l'orizzonte missionario del vangelo paolino, indirizzato in forma epistolare
(Rm 1,18-15,13).
[15,14] Anche se Paolo si è già rivolto ai destinatari, chiamandoli fratelli,
non è comune riscontrare nel suo epistolario l'interpellante e più coinvolgente
«fratelli miei» : tale cambiamento è causato dall'esigenza di stabilire un mag-
8

giore contatto con i destinatari dei quali conosce soltanto alcuni (cfr. Rm 16,3-
15). Così, egli è convinto della loro bontà e capacità di correggersi vicendevol-
mente , perché è fiducioso che, comunque, faranno di tutto per superare le tensio-
9

ni comunitarie . Non di meno, dal punto di vista retorico, Paolo ricorre a una
10

captatio benevolentiae, analoga a quella iniziale di Rm 1,7-8, in cuiriconosceche

8Cfr. Rm 7,4; ICor 1,11; 11,33; 15,58; Fil 3,1; 4,1; anche Gc 1,2.16.19; 2,1.5.14; 3,1.10.12; 5,12.19.
9Per l'uso del verbo peithein nel senso di « essere convinto » cfr. anche Rm 8,38; 14,14.
10L'inizio di Rm 15,14 rientra fra le espressioni di fiducia epistolari (con il verbo peithein cfr. Gal
5,10; Fm v. 21 e 2Ts 3,4). Cfr. S.N. Olson, Pauline Expressions of Confidence in His Addressees, in CBQ
47 (1985) 281-295.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 501
i destinatari sono colmi di benevolenza , pieni di conoscenza e capaci di correg-
11

gersi vicendevolmente. Il tenore della captatio è riconoscibile dagli aggettivi ri-


colmi e pieni utilizzatirispettivamenteper la benevolenza e la conoscenza. Di per
sé, Paolo non esplicita il contenuto della conoscenza (gnósis), e il raro uso di que-
sto sostantivo in Romani (cfr. soltanto Rm 2,20 e 11,33) non aiuta a definirne la
consistenza. Probabilmente, a causa del contesto positivo del v. 14 , si riferisce 12

alla conoscenza di Cristo (cfr. Fil 3,8) che diventa la fondamentale ragione perché
i destinatari possano ammonirsi o correggersi vicendevolmente . 13

[vv. 15-16] La captatio benevolentiae del v. 14 è stata utilizzata con partico-


lare diplomazia perché nei vv. 15-21 Paolo intenderichiamareai destinatari il suo
primato nell'evangelizzazione dei gentili; e questo non può non essere scritto con
una certa audacia, perché le comunità di Roma , composte in prevalenza da etni-
14

co-cristiani, non sono state evangelizzate da Paolo. In questa prospettiva, l'aori-


sto egrapsa non ha valore retrospettivo: non siriferiscea quanto è stato scritto nel
corso della lettera, comeritienela maggior parte dei commentatori e dei tradutto-
ri , ma prospettico, da rendere con un presente, com'è tipico dell'aoristo episto-
15

lare . Dunque, ora Paolo scrive perricordare,di nuovo (epanamimnéskón) e con


16 11

un po' di audacia, il suo ministero presso i gentili . Così diventa comprensibile


18

l'enfatico «ricordare nuovamente» che si differenzia dal semplice ricordare e


l'uso del futuro per il verbo « osare » (tolmèsó) al v. 18. Di fatto, Paolo ha già evi-
denziato più volte nel corso della lettera il suo ministero presso i gentili (cfr. Rm
1,5; 11,13): ora si tratta diricordarenuovamente tale ministero che si fonda sulla
grazia divina . Di per sé, non è necessario aggiungere la specificazione « da par-
19

Per la prima volta in Romani è utilizzato il sostantivo agathósyné che può significare benevolenza,
11

bontà o generosità: soltanto Paolo usa questo termine nel NT (cfr. le liste delle virtù di Gal 5,22 e di Ef 5,9;
anche 2Ts 1,11), mentre è diffuso nella LXX, in cui compare 16 volte (cfr. Gdc 8,35; 9,16; 2Cr 24,16; Ne
9,25.35; 13,31; Sai 37,20). Spesso in Romani, Paolo ha fatto appello all'ideale del bene (cfr. Rm 12,2.9.21;
13,3.4; 14,16; 15,2).
12Nell'epistolario paolino si parla di gnòsis in senso negativo, quando contrasta con l'amore (cfr.
ICor 8,1.11; 13,2), o in senso positivo quando si parla della conoscenza di Cristo o di Dio (cfr. 2Cor 4,6;
10,5) e del carisma della conoscenza (cfr. ICor 12,8; 14,6). Per l'elogio sulla conoscenza nei destinatari
cfr. ICor 1,15.
II verbo nouthetein, attestato prevalentemente nell'epistolario paolino (cfr. ICor 4,14; lTs 5,12.14;
13

2Ts 3,15; Col 1,18; cfr. anche At 20,31) e soltanto qui in Romani, esprime bene l'azione della correzione
relazionale.
L'avverbio comparativo « più audacemente » è hapax legomenon del NT; per la LXX soltanto Sir 19,2.
14

Così F. Blass - A. Debrunner - F. Rehkopf, Grammatica, p. 334,2; B. Byrne, «RatherBodly » (Rom


15

15,15): Paul's Prophetic Bid to Win the Allegiance ofthe Christians in Rome, in Bib 74 (1993) 83-96 che
relaziona l'espressione alle condizioni per la giustificazione; DJ. Moo, Romans, p. 888; S.N. Olson,
Confìdence, p. 292 che pure colloca Rm 15,15 in parallelo con 2Cor 9,1-2 in cui si trova il verbo scrivere al
presente. Cfr. anche le traduzioni di H. Schlier, Romani, p. 683, della BJ e della nuova versione CEI.
Cfr. lo stesso valore di egrapsa in Gal 6,11; Fm vv. 19.21 (anche ICor 9,15 nel corso della lette-
16

ra). Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 840.


Si noti l'uso del verbo enfatico epanamimnéskein (ricordare di nuovo) al participio presente, che è
17

hapax legomenon nel greco biblico (per il greco extra-biblico cfr. Platone, Leges 688a; Aristotele, Memoria
451a. 12; Erma, Visione 4,1,7).
In tal caso l'espressione apo merous, utilizzata soltanto da Paolo nel NT (cfr. Rm 11,25; 15,24; 2Cor
18

1,14; 2,25) non si riferisce a qualche parte o punto della lettera bensì alla consistenza dell'audacia e dell'e-
sortazione aricordare,da rendere con «in parte» o con «un poco» (cfr. il vicino parallelo di Rm 15,24).
Vedi i precedentiriferimentialla grazia per l'apostolato paolino in Rm 1,5; 12,3. Cfr. l'uso di ana-
19

loghe espressioni in ICor 3,10; 2Cor 8,1; Gal 2,9; Ef 3,2; lTm 4,14; 2Tm 1,9.
502 Traduzione e commento
te di Dio » perché, come dimostra il parallelo di Gal 2,9, il verbo « data» (dothei-
san) è un chiaro passivo divino. In tal caso, il riferimento esplicito a Dio è posto
per sottolineare maggiormente l'origine dell'apostolato paolino. Naturalmente,
l'insistenza sull'autorevolezza dell'apostolato non serve per avocare alcuni dirit-
ti di primato sulle comunità di Roma, giacché mancherebbero dell 'imprimatur
apostolico, ma perché Paolo sia ben accolto presso di loro.
Con un collegamento non molto riuscito, tra il v. 15 e il v. 16 , Paolo ricor- 20

da ai destinatari che dalla grazia divina dipende il suo ministero per Cristo Gesù
fra i gentili. Si puòrilevarecome al v. 16 egli preferisca parlare del suo apostola-
to con un vocabolario sacerdotale o cultuale più che profetico, come invece in al-
tri contesti (cfr. Rm 1,1; Gal 1,15-16) : egli è ministro di Cristo , esercita il sacro
21 22

ufficio del vangelo di Dio e i gentili sono descritti come offerta gradita e san-
23 24

tificata per mezzo dello Spirito . Gli aggettivi ben accolta e santificata richiama-
25

no quelli di Rm 12,1 nel contesto della metafora cultuale: « ...Offrire i vostri cor-
pi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio » . 26

Sulle rilevanze di questo linguaggio nell'epistolario paolino , forse è bene 27

precisare che Paolo non distingue tra sacro e profano o sacerdozio e laicato, così
che il sacrificio laicale dei credenti e, in particolare, dei gentili sostituisca quello
del tempio o dei leviti. Piuttosto, senza ignorare il culto propriamente detto, l'in-
tera esistenza dei credenti diventa il culto razionale (cfr. Rm 12,2), gradito a Dio.
Tale applicazione del linguaggio cultuale al sacrificio di Cristo e a quello della
propria esistenza, che Paoloriprenderàper la colletta (cfr. Rm 15,27), trova forse
la sua origine nel retroterra della sua formazione farisaica. Di fatto, è tipico di

20 L'espressione eis to einai me (per essere io) si collega direttamente a «per ricordarvi di nuovo»
del v. 15.
21 Così anche T.L. Donaldson, Paul and the Gentiles. Remapping the Apostle 's Convictional World,
Minneapolis 1997, p. 255; J. Ponthot, L'expression cultuelle du ministère paulinien selon Rom 15,16, in
Vanhoye, L'apôtre Paul, pp. 254-262.
22 Anche se in Rm 13,6 il termine leitourgos è stato utilizzato nell'accezione profana di impiegato, a
proposito dell'autorità civile, adesso a causa del vocabolario sacerdotale assume una valenza cultuale, ana-
loga a quella che svolge per descrivere il ministero dei leviti nell'AT (cfr. leitourgos nella LXX: 2Esd 7,24;
Ne 10,39; Sai 102,21; Is 61,6; anche Aristea 95; Test. Levi 2,10; 4,2; 8,3-10; 9,3; Filone, Mosis 2,94,149;
Legibus 1,249). Così anche D.J. Moo, Romans, p. 889.
23 II verbo hierourgein (esercitare l'ufficio sacro) è hapax legomenon nel NT e per la LXX si trova sol-
tanto in 4Mac 7,8 come lezione variante. Cfr. anche Filone, Mosis 1,87; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 6,102.
24 II genitivo vangelo di Dio non va inteso come soggettivo, nel senso che Dio sarebbe l'autore del van-
gelo (così D.J. Moo, Romans, p. 890) ma oggettivo: Paolo esercita il sacro ufficio del vangelo che riguarda
l'azione salvifica di Dio per mezzo di Cristo. Cfr. l'analogo «vangelo di Dio» (senza articolo) in Rm 1,1.
25 II sostantivoprosphora si trova raramente nell'epistolario paolino: qui e in Ef 5,2 (cfr. in contesto
cultuale At 21,26; 24,17; Eb 10,5.8.10.14.18). L'espressione offerta dei gentili, anche se può essere consi-
derata come genitivo oggettivo (così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 842 in base a Fil 2,17) è preferibile come
genitivo soggettivo o epcsegetico, nel senso che i gentili, come tutti i credenti, possono offrire i loro corpi
o se stessi in sacrificio. Così anche B. Byrne, Romans, p. 434; D.J. Moo, Romans, p. 890.
26 L'aggettivo euprosdektos (ben accolto) è raro nel greco biblico e appartiene soltanto al linguaggio
paolino e della sua tradizione (cfr. Rm 15,31; 2Cor 6,2; 8,12; lPt 2,5). Più diffuso è il participio sostantiva-
to hëgiasmenë (santificata) che, anche se è usato da Paolo in diversi contesti (cfr. ICor 1,2; 2Tm 2,21), cor-
risponde alla santità della vittima sacrificale (cfr. il commento ad hagios in Rm 12,1), evidenziata in Ebrei
(cfr. Eb 10,10.29).
27 Cfr. A. Pitta, Motivo cultuale, in Sinossi paolina, pp. 180-185.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 503
questa corrente non limitare il culto ai sacrifici nel tempio ma estenderne la por-
tata a tutti gli aspetti dell'esistenza . 28

Nel contesto sacrificale e cultuale si spiega anche il riferimento allo Spirito


santo: soltanto per mezzo della sua azione, o meglio del suo essere la potenza di
Dio, qualsiasi sacrificio può essere santificato e ben accolto da Dio. Non è un ca-
so che l'autore della Lettera agli Ebreiriprenderàquesta funzione dello Spirito per
il sacrificio di Cristo: « ...Quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eter-
no offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza...» (Eb
9,14). In modo analogo, i gentili diventano offerta ben accolta e santificata da Dio
attraverso lo Spirito santo che rende sacra qualsiasi azione dei credenti. Come per
i sacrifici antichi la potenza di Dio, che è il suo Spirito, trasforma le vittime sacri-
ficali, così nel nuovo sacrificio dei gentili si attua una trasformazione: essi non so-
no più per natura peccatori (cfr. Gal 2,15), esclusi dalla relazione di alleanza con
il Dio d'Israele, ma sono ben accolti attraverso l'azione trasformante dello Spirito.
[v. 17] Il motivo del vanto attraversa, in forme diverse, la Lettera ai Romani
(cfr. Rm 1,16; 5,1-2); e Paolo loriprendein questa parte conclusiva, sottolinean-
do che si regge esclusivamente sulla sua relazione con Cristo. Di fatto, a causa del
suo essere « in Cristo Gesù », egli può trovare un motivo di vanto davanti a Dio,
giacché al di fuori di tale sfera relazionale nessuno può vantarsi davanti a lui (cfr.
Rm 3,27). Forse è bene rilevare che ora, a differenza dall'inizio della lettera, il
vanto per il vangelo o per Cristo non è più espresso in forma negativa e discreta
(« non mi vergogno », Rm 1,16) ma con audacia e in modo positivo.
[vv. 18-19] L'evangelizzazione dei gentili rappresenta la fondamentale ragio-
ne di vanto di cui adesso Paolo osa parlare : a questa finalità è orientato tutto ciò
29

che Cristo ha compiuto per mezzo di lui . L'opera di Cristo nella sua esistenza e
30

nel suo apostolato è verificabile nella parola e nell'azione, nella potenza derivan-
te dallo Spirito che si è manifestata attraverso alcuni segni e prodigi .
31 32

In questo resumé sull'evangelizzazione Paolo evoca, senza entrare nel detta-


glio, tutto ciò che Cristo o il suo Spirito hanno realizzato nella sua missione: sulla
descrizione più dettagliata di questi segni e prodigi si è soffermato in 2Cor 11,16
- 12,21,ricordandole innumerevoli peripezie e le visioni. Ora preferisce focaliz-
zare l'attenzione sul segno e sul prodigio fondamentale: l'obbedienza dei gentili e
l'adesione a Cristo di quanti non appartenevano al popolo d'Israele.
28 Vedi il nostro commento a Rm 12,1.
29 II verbo tolmein (osare), utilizzato già in Rm 5,7 appartiene alla stessa radice di tolmeroteron del
v. 14 ed è usato al futuro, a conferma della nostra interpretazione del v. 15.
30 Paolo ha utilizzato lo stesso verbo « operare » (katergazesthai) in 2Cor 12,12 per descrivere i segni
del suo apostolato (per Romani in contesti diversi cfr. Rm 1,27; 2,9; 4,15; 5,3; 7,8).
31 II genitivo « potenza dello Spirito » ha valore soggettivo più che epcsegetico: è la stessa potenza se-
condo lo Spirito di santificazione che ha operato in Cristo (cfr. Rm 1,4). Così anche D.J. Moo, Romans, p. 893.
321 sostantivi segno (sémeion, cfr. Rm4,ll; ICor 1,22; 14,22; 2Cor 12,12; 2Ts 2,9) e prodigio (teras,
cfr. 2Cor 12,12; 2Ts 2,9) sono rari nell'epistolario paolino: nel resto del NT sono usati in binomio per de-
scrivere i miracoli compiuti da Gesù (cfr. Mt 24,24; Me 13,22; Gv 4,58; At 2,22). Soltanto qui e in 2Cor 2,12
questo binomio è usato per l'apostolato paolino (cfr. anche il riferimento biografico ai segni e prodigi di
Paolo e Barnaba in At 14,3; 15,12). Per i segni e i prodigi degli altri apostoli cfr. At 2,43; 5,12; 6,8. Nella
LXX questo binomio sintetizza gli interventi esodali di Dio (cfr. Es 7,9; 11,9.10; Dt 4,34; 6,22; 7,19; 11,3;
Sai 134,9; anche At 7,36).
504 Traduzione e commento
In questione non è l'obbedienza a un codice morale nuovo ma la stessa ob-
bedienza qualificata dalla fede in Cristo con cui Paolo ha introdotto la lettera (cfr.
Rm 1,5). Così Paolo rilegge, in chiave cristologica e pneumatologica, i percorsi
del suo ministero; in questa prospettiva andrebberilettala panoramica geografica
finale con cui, in un colpo d'occhio, delimita le coordinate della sua evangelizza-
zione per Cristo: da Gerusalemme sino aU'Illiria (v. 19b). In verità, il confronto di
quest'espressione con i percorsi della missione paolina crea diverse difficoltà.
Perché Paolo considera Gerusalemme come terminus a quo o punto di partenza
della sua evangelizzazione, se sappiamo da Gal 1,6-17 che, dopo la sua vocazio-
ne, non si recò a Gerusalemme ma in Arabia, per farritornoa Damasco? A detta
di Gal 1,18, egli raggiunse Gerusalemme soltanto dopo tre anni dalla sua missio-
ne presso i gentili. Cosa intende con la precisazione spaziale «in cerchio» (en
kykló) e perché considera l'Illiria, odierna Albania, come terminus ad quem della
sua missione, se forse non l'ha mai raggiunta?
Circa l'origine della missione, anche se nell'epistolario paolino non si parla
mai della sua evangelizzazione a Gerusalemme , il contesto di Rm 15,18-19 lascia
33

pensare alla città santa come inizio o punto di partenza teologico della sua missio-
ne. D'altro canto, secondo l'autobiografia di Gal 2,1-10, l'evangelizzazione pao-
lina presso i gentili èriconosciutadalle colonne della comunità di Gerusalemme.
Meno probabile ci sembra il riferimento alle tavole delle nazioni (cfr. Gn 10; Is
66,18-20): Gerusalemme rappresenterebbe il centro della missione e, per evolu-
zione concentrica, Paolo avrebbe raggiunto l'llliria cherientrerebbe,con la Mace-
donia, fra ifiglidi Jafet . 34

Forse, per cogliere la prospettiva escatologica dell'evangelizzazione paoli-


na, è importante aver presente l'oracolo profetico di Is 66,18-20 in cui si annun-
cia la missione presso le genti di Tarsis, Put, Lud, Mesech, Ros, Tubai e di Grecia
(v. 19) e la convergenza delle nazioni a Gerusalemme (v. 20) . Tuttavia, che Paolo
35

segua una mappa delle nazioni per la sua missione da Gerusalemme sino allTlliria
ci sembra poco sostenibile per la scarsa importanza che, dal punto di vista stori-
co, Gerusalemmerivestenella sua missione, come invece negli Atti degli aposto-
li. Non si può trarre troppo dal semplice avverbio spaziale kykló che può sempli-
cemente voler dire e dintorni (cfr. Me 6,6), perriferirloall'evangelizzazione pao-
lina nelle regioni della Siria e della Cilicia (cfr. Gal 1,21) . 36

A proposito dell'Illiria, distinta nel linguaggio ufficiale in Illyris Superior,


corrispondente alla Dalmazia, e in Illyris Inferior, identificabile con la Pannonia,
anche se non si parla mai di una missione paolina in questa regione dell'impero,

33Cfr. comunque At 9,29; 26,20 in cui si accenna all'attività missionaria di Paolo a Gerusalemme.
34Cfr. J.M. Scott, Paul and the Nations. The Old Testament and Jewish Background of Paul's
Mission to the Nations with Special Reference to the Destination ofGalatians (WUNT 84), Tübingen 1995,
pp. 136-146.
35Così anche B. Byrne, Romans, p. 438; R. Riesner, Die Frühzeit des Apostels Paulus. Studien zur
Chronologie, Missionstrategie und Theologie (WUNT 71), Tübingen 1994, pp. 216-225. Per il pellegri-
naggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme, oltre a Is 66,18-20 cfr. Is 45,14; 60,5-17; 61,6; IQM
12,13-15.
36Così anche D.J. Moo, Romans, p. 896.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 505
la connessione che gli storici stabiliscono tra questa regione e la Macedonia , 37

evangelizzata direttamente da Paolo, può lasciar intendere che, con una certa en-
fasi, Egli desideri evidenziare il compimento della sua evangelizzazione per
Cristo più che riferirsi a una sua reale missione in Illiria . 38

[v. 20] La conseguenza che Paolo trae dallo sguardo globale sulla sua evan-
gelizzazione verte ancora sul contenuto del suo vanto, ossia sull'evangelizzazione
nelle regioni in cui il nome di Cristo non è ancora giunto . In certo senso, l'affer-
39

mazione di tale vanto contrasta con l'intenzione iniziale della lettera in cui egli si
mostra desideroso di evangelizzare i cristiani di Roma (cfr. Rm 1,15).
In realtà, come per la destinazione dell'evangelizzazione presso i gentili, an-
che la missione in territori che non hanno mai sentito parlare di Cristo rientranei 40

tratti della biografia ideale ai quali Paoloricorrespesso quando parla del suo apo-
stolato (per quest'aspetto particolare cfr. anche 2Cor 10,15-16) . In pratica, ora 41

desidera sottolineare il suo apostolato profetico ed escatologico presso coloro che


sono altro da Israele e che, attraverso la sua fatica missionaria, diventano persino
offerta ben accolta e santificata per mezzo dello Spirito (v. 16). Dunque, ancora
una volta, più che contraddizioni, è bene riconoscere le funzioni e le finalità ar-
gomentative delle asserzioni paoline, altrimenti sarebbero innumerevoli le loro
inconsistenze.
Così Paolo si presenta come fondatore di comunità gentili che aderiscono al-
la fede in Cristo e al popolo dell'alleanza. Anche se in modo implicito, i termini
«edificare» (oikodomein) e «fondamento» (themelion) evocano la metafora del-
la comunità cristiana come edificio di Dio che Paolo ha sviluppato in ICor 3,9-12:
egli è un saggio architetto (v. 10) a servizio di Dio che edifica su Cristo, l'unico
fondamento (v. 11) . 42

[v. 21] A conferma della sua evangelizzazione sul modello profetico-escato-


logico, Paolo introduce, con la solita formula delle citazioni dirette (« come sta
scritto ») , l'autorità di Is 52,15 (LXX = TM) . Così èriportatoun passo tratto dal
43 44

quarto canto del Servo (Is 52,13 - 53,15); e in base a questo collegamento conte-
stuale, alcuni pensano a una ricomprensione della missione paolina sulla falsari-
ga di quella del Servo sofferente . A ben vedere, almeno in Romani, questo mo-
45

37 Cfr. Strabone, Geographia 6,6,4; Appiano, Bellum 3,63; 4,75; Historia romana 10,1,6. Così anche
J.A. Fitzmyer, Romani, p. 844.
38 II genitivo vangelo di Cristo ha valore oggettivo (cfr. vangelo di Dio in Rm 15,16). Cfr. anche J.A.
Fitzmyer, Romani, p. 845.
39 II verbo philotimeisthai (essere ambizioso, cercare) è raro nel NT (3 volte: cfr. 2Cor 5,9; lTs 4,11;
per la LXX cfr. soltanto 4Mac 1,35).
40 Soltanto in questo caso Paolo applica il verbo « nominare » a Cristo, mentre altrove parla sempli-
cemente del suo «nome» (cfr. Rm 1,5; ICor 5,4; 6,11; Fil 2,9.9.10; Col 3,17; Ef 5,20; 2Ts 1,12; 3,6).
41Per i tratti ideali dell'autobiografia paolina cfr. W. Stenger, Biographisches und Idealbiographisches
in Gal 1,11 - 2,14, in P.G. Müller - W. Stenger (edd.), Kontinuität und Einheit, FS. F. Mussner, Freiburg-
Basel-Wien 1991, pp. 123-140.
42Per themelion cfr. anche Ef 2,20; lTm 6,19; 2Tm 2,19; per il verbo oikodomein cfr. anche ICor 8,1.10;
10,23; 14,4.4.17; Gal 2,18; lTs 5,11. Sul motivo dell'edificio cfr. A. Pitta, Sinossi paolina, pp. 164-171.
43 Cfr. l'uso precedente in Rm 15,9.
44 Nella citazione paolina manca soltanto Vhoti (perché) iniziale di Is 52,15.
45 Così J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 847.
506 Traduzione e commento
dello non è mai espresso, neppure in forma implicita, mentre non si può negare
che Paolo se ne serva per la sua cristologia . Piuttosto, ilricorsoa Is 52,15 si de-
46

ve all'importanza della predicazione presso i gentili che si trova al centro di Rm


15,14-21: questa trova la sua anticipazione e autorevole attestazione nell'oracolo
di Is 52,15 con il quale Paolo intende, ancora una volta, ratificare la consistenza
della sua evangelizzazione presso coloro ai quali Cristo non è stato mai annun-
ciato e del quale non hanno mai sentito parlare.
I prossimi progetti di viaggio (15,22-33). - La seconda parte del poscritto è
dedicata ai viaggi immediatamente successivi: verso Gerusalemme e verso la
Spagna, passando per Roma. Nella realizzazione del primo viaggio di ritorno,
Paolo chiede la vicinanza orante dei destinatari, non soltanto perché non c'è viag-
gio senza pericoli ma soprattutto perché teme di non essere ben accolto nella co-
munità di Gerusalemme. Il paragrafo ruota intorno alle tematiche dei prossimi
viaggi e delle relative accoglienze, a Gerusalemme e a Roma ; e si conclude con 47

la formula di preghiera rivolta a Dio (v. 33) . Dal punto di vista epistolografico,
48

questi versirientranonel motivo della apusia-parusia o dell'assenza-presenza tra


il mittente e il destinatario: la lettera stessa è il mezzo immediato per colmare que-
sta distanza; e spesso, con essa, si annuncia l'incontro fra gl'interlocutori . A cau- 49

sa di questo motivo, prospettato già in Rm 1,8-15, Paoloriprende,come in quello


di Rm 15,14-21, alcune tematiche annunciate all'inizio della lettera:
a) La reciproca preghiera tra mittente e destinatari (cfr. Rm 1,8; 15,30).
b) La richiesta a Dio di poter raggiungere i destinatari della lettera (cfr. Rm
1,10; Rm 15,32).
c) L'impedimento, sino al presente, di arrivare a Roma (cfr. Rm 1,13; 15,22) . 50

d) L'incontro con i destinatari sarà caratterizzato dalla vicendevole esorta-


zione (cfr. Rm 1,12) e dal reciproco sollievo (Rm 15,32).
Come nel paragrafo precedente, anche in questo caso sono aggiunte alcune
tematiche assenti in Rm 1,8-15: ci riferiamo al viaggio verso Gerusalemme, alla
colletta delle chiese della Macedonia e dell'Acaia e al viaggio verso la Spagna.
Tali omissionirientranonella strategia retorica o argomentativa di Paolo: sarebbe
stato tendenzioso, se non negativo, cominciare una lettera inviata a comunità
composte in prevalenza di gentilo*cristiani, sottolineando che le chiese dei genti-
li, di fondazione paolina, stanno per inviare la colletta alla comunità di Gerusa-

46Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 847; D.J. Moo, Romans, p. 898.
47Si noti l'abbondante uso di verbi di movimento nei vv. 22-33: erchesthai (venire, vv. 22.23.29.29.32);
poreuesthai (camminare, vv. 24.25); diaporeuesthai (attraversare, v. 24) e prospempein (inviare, v. 24).
48Nonostante la presenza della formula introduttiva, vi esorto, fratelli, al v. 30, i vv. 31-33rientranonel-
la microunità letteraria che comincia con il v. 22, poiché l'invito a lottare nella preghiera per Paolo include i
riferimenti al viaggio verso Gerusalemme (v. 31) e verso Roma (v. 32). Per l'unità dei vv. 22-33 cfr. anche B.
Byrne, Romans, pp. 439-440; H. Schlier, Romani, pp. 693-694; U. Wilckens, Römer, III, p. 123, con buona
pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 852; D.J. Moo, Romans, p. 898; e T.R. Schreiner, Romans, p. 773 che se-
parano i vv. 22-29 dai vv. 30-33.
49Sulla apusia-parusia epistolare nelle lettere paoline cfr. A. Pitta, Sinossi paolina, pp. 291-303.
50Cfr. anche D.J. Moo, Romans, p. 899.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 507
lemme. Non a caso Paolo affronta sempre le diverse questioni economiche alla fi-
ne delle sue comunicazioni epistolari . 51

Sarebbe stato anche di cattivo gusto prospettare, all'inizio della Lettera ai


Romani, una visita ai destinatari per essere aiutato a raggiungere la Spagna: non
sarebbe stato un bel biglietto da visita! In entrambi i casi sarebbero emersi inte-
ressi poco edificanti; e la lettera si sarebbe ridotta, con molta probabilità, a pochi
capitoli mentre a Paolo non stanno a cuore soltanto né principalmente queste pro-
blematiche, quanto l'accoglienza del suo vangelo.
[15,22] Egli sa bene che la Chiesa di Roma è stata edificata su un fondamen-
to posto da altri, anche se purtroppo non ci è dato di conoscere la loro identità; e
rilegge in questa prospettiva la continua dilazione del suo viaggio verso la capita-
le dell'Impero. Anche se, scrivendo alla comunità di Tessalonica, aveva attribui-
to a Satana l'impedimento per raggiungerla (cfr. lTs 2,18), in tal caso non è ne-
cessaria tale allusione; è più probabile, in base al principio della sua evangelizza-
zione pionieristica (vv. 18-20), che Dio stesso si trovi all'origine dei molti
impedimenti che gli hanno sbarrato la strada verso Roma . 52

[vv. 23-24] Il tenore epistolare di Rm 15,22-33 è confermato dall'anacoluto


dei vv. 23-24a: c'è forse un accumulo di pensieri che determinano l'interruzione
della prima proposizione (vv. 23b-24a) . Forse bisogna intendere un'espressione
53

del tipo: «...Se andrò in Spagna mi fermerò da voi». L'anacoluto comincia con
due affermazioni sintetiche sull'operato di Paolo a occidente di Gerusalemme e
sul suo inveterato desiderio di poter finalmente raggiungere Roma. Anche ora il ri-
ferimento all'evangelizzazione passata è formulato con una certa enfasi, perché
egli sostiene di non trovare più spazio nelle regioni dell'Asia occidentale per la
sua evangelizzazione di zone non ancora raggiunte , mentre sa bene che diverse
54

regioni non hanno ancora sentito parlare di Gesù Cristo, compresa l'Illiria, citata
al v. 19 . Piuttosto, si tratta di un nuovo sguardo d'insieme che prepara la propo-
55

sizione successiva in cui si afferma che Paolo conserva da molti anni il desiderio
di poter raggiungere le comunità di Roma . Naturalmente, tale desiderio non deri-
56

va dall'estensione della sua autorità apostolica sulle comunità di Roma bensì, co-
me spiegherà successivamente, dalla speranza di poter godere della loro presenza
o di poter ottenere qualche frutto (cfr. Rm 1,13) fra i destinatari della lettera . 57

51 Cfr. in particolare Fil 4,10-20; anche nella conclusione di 1 Corinzi, Paolo affronta la questione del-
la colletta per la comunità di Gerusalemme (cfr. ICor 16,1-4).
52 Su questo passivo divino cfr. T.R. Schreiner, Romans, p. 774; per il verbo egkoptein nel NT cfr. Gal
5,7; At 24,4; lPt3,7.
53 Per quest'anacoluto cfr. D.J. Moo, Romans, p. 899; T.R. Schreiner, Romans, p. 774.
54 II sostantivo topos è da intendere come «opportunità», come in Rm 12,19; Ef 4,27; Eb 12,17.
55 II sostantivo klima presente soltanto nell'epistolario paolino (qui, in 2Cor 11,10 e in Gal 1,21) ha
più valore generico di regione che specifico di provincia in senso politico-imperiale.
56 Anche se il sostantivo epipothia è hapax legomenon nel NT, corrisponde al verbo epipothein (de-
siderare) usato con gli stessi riferimenti in Rm 1,11: esprime l'intenso desiderio di poter raggiungere i de-
stinatari della lettera (cfr. anche Yepipothèsis di 2Cor 7,7.11).
57 Anche il verbo theasthai, attestato soltanto qui nell'epistolario paolino (cfr. per il resto del NT Mt
6,1; Me 16,11; Le 5,27; Gv 1,14; At 1,11; lGv 1,1), ha connotazione intensiva, relazionato al desiderio di
vedere i destinatari della lettera.
508 Traduzione e commento
Tuttavia, Paolo non intende venir meno all'evangelizzazione pionieristica di
regioni dove il vangelo non è ancora pervenuto: così la sua attenzione si sposta su-
bito verso la Spagna; e in questa fatica spera di essere aiutato dai cristiani di
Roma. Non è chiaro se il verbo «mandare» (propempein),riferitoai destinatari,
riguardi soltanto l'aiuto morale per il viaggio verso la Spagna oppure alluda anche
a una collaborazione economica, come in altri casi . Di certo, il desiderio di poter
58

essere arricchito, per un po' di tempo, dell'ospitalità romana è un eufemismo per


esprimere larichiestadi accoglienza presso le comunità di destinazione . 59

Altrettanto vaghe sono le motivazioni che inducono Paolo a puntare lo sguar-


do verso la Spagna, anche se ormai non è più condivisa l'opinione di quanti so-
stengono che fosse a conoscenza di una comunità giudaica nella penisola iberica:
le attestazioni più antiche non vanno oltre il secolo III d.C. .1riferimenticonte-
60

stuali al profeta Isaia (cfr. Rm 15,16.19) hanno indotto alcuni a identificare la


Spagna con le genti di Tarsis (cfr. Is 66,19): la missione paolina in questa regione
sarebbe l'ultima tappa dell'evangelizzazione escatologica per tutte le nazioni . 61

Tale collegamento è possibile, anche se non è consequenziale che Paolo ritenesse


la sua missione in Spagna come segno dell'approssimarsi finale della storia.
Comunque, le colonne d'Ercole, nello stretto di Gibilterra, erano considerate il li-
mite occidentale del mondo antico; e Paolo intende raggiungere le regioni più
lontane da Gerusalemme per proclamare idealmente a tutti il suo vangelo. Non
sappiamo se egli ebbe l'opportunità di raggiungere la Spagna: a tal proposito non
abbiamo attestazioni nel NT, anche se nella 1 Clemente si allude alla presenza di
Paolo in Spagna: « Dopo aver insegnato sulla giustizia in tutto il mondo e giunto
ai confini dell'occidente... lasciò il mondo» (lClem 5,7).
[v. 25] Nonostante il vivo desiderio di arrivare a Roma, Paolo è costretto, an-
cora una volta, a dilazionare il suo viaggio: da Corinto sta per partire alla volta di
Gerusalemme . Così comincia la seconda parte del paragrafo, dedicata al viaggio
62

diritornoverso la città santa (vv. 25-27) . L'espressione camminare verso Geru-


63

salemme è tipica di Luca che se ne serve soprattutto all'inizio del grande viaggio
di Gesù verso Gerusalemme . 64

Questa volta, ilritornoa Gerusalemme assume significato particolare: non si


tratta di un sempliceritornoalla Chiesa madre ma è in questione un servizio a fa-

58 Cfr. ICor 16,6.11; 2Cor 1,16; Tt 3,13; 3Gv 6; cfr. anche At 15,3; invece senza riferimenti econo-
mici cfr. At 20,38; 21,5; Policarpo, Filippesi 1,1. A favore del supporto economico cfr. T.R. Schreiner,
Romans, p. 774.
59 II verbo empimplemi usato soltanto qui da Paolo (cfr. per il resto del NT Le 1,53; 6,25; Gv 6,12; At
14,17), al passivo e con il genitivo di relazione, indica l'arricchimento derivante dalla presenza dell'altro.
Per l'espressione apo merous in senso quantitativo e temporale (un poco) e non locale (in qualche parte)
vedi il commento a Rm 15,15.
60 Così anche R. Jewett, Paul, Phoebe, and the Spanish Mission, in J. Neusner (ed.), The Social
World of Formative Christianity and Judaism, H.C. Kee, Philadelphia 1988, pp. 144-147; T.R. Schreiner,
Romans, p. 775 e con buona pace di J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 872.
61 Così R.D. Aus, Paul 's Travet Plans to Spain and the Full Number ofthe Gentiles' ofRom. XI25,
in NT 21 (1979) 242-246.
62 II presente poreuòmai lascia intendere che Paolo sta per mettersi in viaggio.
63 All'inizio del v. 25 èripetutala stessa formula che ha introdotto il v. 23: « Ora però... ».
64 Cfr. Le 9,51.53; 17,11 ; cfr. anche iriferimentialritornodi Paolo a Gerusalemme in At 20,22; 25,20.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 509
vore dei santi . Rispetto a quanto dirà in seguito, è importante l'orientamento ge-
65

nerale del servizio che Paolo desidera rendere a Gerusalemme: è un beneficio che
riguarda, comunque, tutti i santi della comunità, anche se fosse indirizzato ad al-
cuni poveri in particolare . 66

[v. 261 Sin dalle prime fondazioni di comunità gentilo-cristiane, Paolo aveva
sensibilizzato i neo-convertiti a soccorrere i poveri della Chiesa madre di Geru-
salemme (cfr. Gal 2,10). Per questo, dal suo epistolario abbiamo attestazioni det-
tagliate sulla colletta organizzata dalle chiese della Galazia (cfr. ICor 16,1),
dell'Acaia (cfr. 2Cor 9,2) e della Macedonia (cfr. 2Cor 8,1). Diverse sono le mo-
tivazioni che spingono Paolo a sensibilizzare le sue comunità per questo gesto di
condivisione . Innanzi tutto è noto che la Chiesa di Gerusalemme versava in par-
61

ticolari indigenze economiche: dagli Atti sappiamo della carestia che colpì la
Giudea (cfr. At 11,27-30) , sotto Claudio (46-48 d.C.). Tale situazione storica non
68

è sufficiente a motivare la particolare attenzione di Paolo e delle sue chiese per la


comunità di Gerusalemme. Anche questo gesto, che svolge un significato rilevan-
te nel pensiero di Paolo, va inteso nella prospettiva apocalittica dell'evangelizza-
zione, ossia come adempimento profetico della convergenza delle nazioni verso
Gerusalemme che si rende visibile con la condivisione economica. A tale ragione
aggiungerà quella della gratitudine che i gentili devono sempre alimentare per la
Chiesa madre a causa del loro ingresso nel popolo dell'alleanza (v. 27).
Pertanto le comunità paoline di Tessalonica, di Filippi (Macedonia) e di
Corinto (Acaia) hanno liberamente scelto di compiere un gesto di solidarietà con
i poveri fra i santi della comunità di Gerusalemme . Non è chiaro se l'espressio-
69

ne poveri dei santi si riferisca a tutti i santi, vale a dire ai membri della comunità
che sono anche poveri, o se riguardi una parte della comunità in condizioni eco-
nomiche disagevoli . Nonostante la menzionata carestia, è difficile pensare che
70

tutti i santi di Gerusalemme fossero poveri; è più probabile che i poveri fossero
una parte consistente della comunità . 71

Sorprende, in certo senso, che nei riferimenti alle chiese della Macedonia e
dell'Acaia, Paolo non includa quelle della Galazia (cfr. invece ICor 16,1); forse
tale omissione deriva dalla sua relazione turbolenta con queste chiese o, sempli-
cemente, da un'omissione involontaria dovuta al contesto di Corinto nel quale si

65 II participio diakonón ha funzione finale: per realizzare o per compiere un servizio (cfr. anche D.J.
Moo, Romans, p. 902; T.R. Schreiner, Romans, p. 777). Per questo verbo nel contesto della colletta cfr.
2Cor 8,18.20. Sulla funzione finale del participio cfr. Mt 20,20; 22,16; At 3,26; 15,27; 17,13. Il dativo sem-
plice tois hagiois è di vantaggio.
66 Per l'appellativo santoriservatoda Paolo ai credenti in Cristo cfr. Rm 1,7; 8,27; ICor 1,2; 2Cor 1,1.
67 In 2Cor 8,4; 9,13 il sostantivo koinónia è usato per la colletta a favore della Chiesa di Gerusalemme.
68 Cfr. anche Flavio Giuseppe, Ant. giud. 20,5,2.
69 Come in 2Cor 8,8, con il doppio uso del verbo eudokein (è piaciuto, vv. 26.27) Paolo sottolinea,
contro qualsiasi costrizione, la libertà del gesto compiuto dalle sue chiese.
70 Per l'assimilazione fra i santi e ipoveri e quindi per il valore epcsegetico del genitivo ipoveri dei
santi cfr. H. Schlier, Romani, p. 697.
71 Sul valore partitivo del genitivo « i poveri dei santi » cfr. anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 854; D.J.
Moo, Romans, pp. 903-904. A conferma delriferimentoa una parte e non a tutta la comunità di Gerusalemme
si può notare che Paolo non utilizza mai il termine « povero » per i membri della Chiesa come invece lo si ve-
rifica nella comunità di Qumran (cfr. 4QpSal 1-2II9; 1,3-4 III 10).
510 Traduzione e commento
trova . L'ipotesi di chi sostiene che, in questo modo, Paolo esorti implicitamente
72

la comunità di Roma a partecipare alla colletta non ha alcun riscontro testuale e


probabilmente non è questa l'intenzione di Paolo, che non si preoccupa della col-
letta in tutte le chiese bensì di quella che le sue comunità riescono a realizzare . 73

[v. 27] Pur avendo presenti le ragioni addotte al v. 26, ora Paolo preferisce
porre l'attenzione sulla gratitudine che i cristiani delle sue comunità nutrono per
quelli di Gerusalemme; e nell'ottica della lettera in cui si assiste alla tensione tra
i gentili e i giudei della Chiesa di Roma, questa è una motivazione esemplare per
i gentilo-cristiani che tendono a deprezzare i giudeo-cristiani (cfr. Rm 11,18).
Forse in quest'orizzonte si spiega la precisazione «anch'essi sono debitori nei
loro confronti »; è un debito che si colloca in continuità con quello dell'olivastro
verso l'ulivo, poiché «la radice porta i rami e non l'inverso» (cfr. Rm 11,18).
Per questo, si tratta di un debito non economico ma di tipo morale verso i giu-
deo-cristiani . 74

La gratitudine dei gentili per i giudeo-cristiani è immensa: e Paolo la sottoli-


nea attraverso il binomio « spirituale-carnale » che non ha una connotazione anti-
tetica di tipo esistenziale , come per la vita secondo la carne o secondo lo Spirito,
75

ma esprime una contiguità di carattere qualitativo. I doni spirituali ricevuti dai


giudeo-cristiani, fra i quali occupano un posto centrale il vangelo e Gesù Cristo,
sono di gran lunga superiori alla colletta che i gentili della Macedonia o del-
l'Acaia stanno per inviare alla Chiesa di Gerusalemme . Per questo, nella solida-
76

rietà con i poveri della comunità, la libertà diventa obbligazione; e qualsiasi


espressione della libertà cristiana, pur essendo dono assoluto di Cristo, si esprime
come servizio nell'amore per il prossimo (cfr. Gal 5,13) . 77

[v. 28] La partenza di Paolo per Gerusalemme deve essere imminente e, no-
nostante il suo desiderio di raggiungere i destinatari della lettera, la sua atten-
zione è focalizzata sulla colletta e sull'esito del viaggio. Particolarmente signifi-
cativo è il verbo «sigillare» (sphragizein) che buona parte degli esegeti rela-
ziona al contesto economico agrario: Paolo figurerebbe come un mezzadro che
sigilla la raccolta dei frutti all'atto della consegna . Anche se nel NT non ci so-
78

no attestazioni di questo tipo per l'uso del verbo «sigillare» , la connessione 79

72 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 903.


73 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 854.
74Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 778. Per questa rilevanza del verbo opheilein cfr. Rm 13,8; 15,1.
75 Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 778, con buona pace di J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 876, che
conferisce al termine sarkikos valore negativo. Per la connotazione neutra di sarx cfr. Rm 1,3; 9,5.
76 Lo stesso verbo koinónein è usato in Fil 4,15 in contesto di aiuto economico.
77 II verbo leitourgein, che si trova soltanto 3 volte nel NT (qui, in At 13,2 e in Eb 10,11), non assu-
me necessariamente una connotazione cultuale, come dimostra l'uso della relativa famiglia semantica in
Rm 13,6: in tal caso significherebbe soltanto compiere un'azione per il popolo, secondo la sua portata eti-
mologica. Così T.R. Schreiner, Romans, p. 111. Tuttavia, la vicinanza del motivo cultuale (v. 16) determi-
na questa sfumatura per la colletta, come d'altro canto dimostra il parallelo di 2Cor 9,12. Così anche D.J.
Moo, Romans, p. 905.
78 Così J.A. Fitzmyer, Romani, p. 855; DJ. Moo, Romans, p. 906; H. Schlier, Romani, p. 699.
79 Generalmente il verbo è usato nel NT per il sigillo degli eletti (cfr. 2Cor 1,22; Ef 1,13; 4,30; Ap
7,3.4.4.5.8).
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 511
con i\ frutto della colletta rende verosimile la presenza della metafora agricola . 80

Con questo verbo, Paolo sottolinea la propria autentificazione e la ratificazione


sulla colletta delle sue chiese. Nell'ultima parte del v. 28 è ribadito lo stesso pro-
getto di viaggio delineato al v. 24: la mèta principale rimane la Spagna, passan-
do per Roma.
[v. 29] Ogni apostolato ha bisogno dell'autorità di colui che manda: ciò vale
soprattutto per la missione cristiana. In questa prospettiva si spiega il gesto del-
l'imposizione delle mani su Barnaba e Saulo, all'inizio della loro missione (cfr. At
13,3). Nella stessa prospettiva, ora Paolo è persuaso che il suo viaggio verso Roma
è sorretto da Cristo che benedice il suo progetto. In definitiva, attraverso la bene-
dizione di Cristo , Paolo intende evidenziare sia l'aiuto di Cristo durante il viag-
81

gio, sia l'autorità apostolica con la quale desidera presentarsi ai destinatari. Gesù
Cristo non si trova soltanto al centro del vangelo paolino ma anche all'origine di
qualsiasi missione, poiché Paolo avverte chiaramente la coscienza di essere « ser-
vo e apostolo di Cristo» (cfr. Rm 1,1).
[v. 30] Qualsiasi viaggio èriccod'imprevisti e pericoli; per questo è tipico di
chi si pone in viaggio invitare gli altri a condividere il suo progetto attraverso le
preghiere. Tale motivo, particolarmente diffuso nel mondo antico, chiude il para-
grafo sui prossimi viaggi paolini; quindi la formula « vi supplico, fratelli... », no-
nostante la sua solennità , non introduce una nuova microunità letteraria ma invi-
82

ta i cristiani di Roma al coinvolgimento nelle preghiere.


La supplica di Paolo è accorata, come dimostra l'interpellante fratelli e il du-
plice riferimento al Signore nostro Gesù Cristo e all'amore derivante dallo
Spirito : dietro tale supplica si coglie il timore che il viaggio non segua il suo per-
83

corso naturale ma che, come Paolo sottolinea al v. 31, insorgano nuovi ostacoli.
Per questo, anche se egli non conosce tutti i destinatari, li supplica a lottare con
lui nelle preghiere . La preghiera che Paolorichiedeai cristiani di Roma è segna-
84

ta da un'intensa partecipazione: con me e per me.


[v. 31] Paolo profetizza che in Giudea le cose non andranno secondo i suoi
progetti: teme per la propria incolumità fisica e che la colletta non sia ben accolta.
Per questo l'intenzione della preghiera che richiede ai destinatari riguarda gli in-

80 Soltanto in questo caso la colletta è definita comQ frutto, mentre nel restante epistolario paoli-
no il sostantivo karpos è usato per i frutti delle virtù nell'esistenza cristiana (cfr. Rm 6,21.22; Gal 5,22;
Fil 1,11; 4,17). Anche se in modo implicito, a qualche «frutto» di natura economica Paolo si è già ri-
ferito in Rm 1,13.
81 L'espressione «benedizione di Cristo », che si trova soltanto qui nel NT, ha valore soggettivo o di
autore: è la piena benedizione che Cristo riversa sulla missione paolina.
82 Per quest'espressione paolina cfr. Rm 16,17; ICor 1,10 e con leggere variazioni anche Rm 12,1.
83 L'espressione «amore dello Spirito» ha senso soggettivo, causale e di origine: non è l'amore che
i credenti hanno per lo Spirito ma quello che proviene dallo Spirito. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 909
che però limita il genitivo al valore soggettivo.
84 II verbo synagónizein è hapax legomenon nel greco biblico (per il greco extrabiblico cfr. Flavio
Giuseppe, Ant. giud. 12,2,2; 17,9,3; IClem 35,4). La descrizione lucana della preghiera di Gesù nell'orto
degli ulivi rende bene l'idea della lotta che esige la preghiera, al punto che i discepoli non riescono a con-
dividere la lotta di Gesù e si addormentano (cfr. Le 22,39-46). B. Byrne, Romans, p. 445, preferisce colle-
gare questo verbo alla lotta di Giacobbe allo Yabbok (cfr. Gn 32,23-32).
512 Traduzione e commento
creduli della Giudea , ossia i molti che fra gli israeliti non hanno aderito al vange-
85

lo e hanno osteggiato la predicazione paolina fra i gentili . In pratica, egli spera


86

che Dio lo liberi dalle opposizioni di quanti ostacolano il suo vangelo perché, fra
l'altro, teme che questo pregiudichi la colletta , definita come servizio a favore dei
87

santi . Lo sviluppo delle vicende raccontate da Luca in Atti conferma la fondatez-


88

za dei timori di Paolo: sarà imprigionato per essere tradotto sino a Roma dove non
giungerà liberamente ma sotto processo e dopo molte peripezie che si interporran-
no lungo il viaggio (cfr. At 21,1 - 28,31).
[v. 32] Nonostante il futuro imprevedibile per chi viaggia e in particolare per
chi si reca nella fossa dei leoni, Paolo spera, ancora una volta, diriceveredal Si-
gnore la gioia di poter raggiungere Roma . Ora, come in Rm 1,10, il progetto di
89

viaggio verso Roma èricondottoalla volontà di Dio, al suo disegno che sovrasta
qualsiasi comportamento umano. Anche se qui è utilizzato il verbo «riposarsi»
(synanapauesthai), per definire l'accoglienza di Paolo presso la comunità di
Roma, l'intenzione del viaggio non è di carattere turistico ma siriferisceal rinvi-
gorimento che Paolo spera di poter godere durante la visita romana : in gioco si 90

trova la vicendevole esortazione, derivante dalla condivisione della fede che lo


pone in comunione con i destinatari (cfr. Rm 1,11-12) . 91

[v. 33] Il secondo paragrafo epistolare si conclude con l'augurio che Paolo ri-
volge a Dio per i destinatari: il Dio della pace è lo stesso della perseveranza e del-
la consolazione (cfr. Rm 15,5), della speranza (cfr. Rm 15,13) e dell 'amore (cfr.
2Cor 13,11) . Naturalmente, anche se l'augurio per il dono divino della pace si
92

trova in altre lettere paoline, assume particolare rilevanza per le comunità di


Roma, divise tra i forti e i deboli (cfr. Rm 14,19). Pertanto, in quest'augurio non
c'è l'alternativa tra la relazione di pace con Dio (cfr. Rm 2,10; 5,1; 8,6) e quella
nella comunità cristiana . Piuttosto, qualsiasi virtù interpersonale trova la sua
93

unica origine in Dio: da lui scaturisce anche la pace necessaria per le relazioni co-

85 Per i rari riferimenti alla Giudea nell'epistolario paolino cfr. anche 2Cor 1,16; Gal 1,22; lTs 2,14.
86 Si noti la presenza dello stesso verbo apeithein (disobbedire) per gli israeliti increduli in Rm
10,21; 11,31. Sull'opposizione dei giudei alla predicazione paolina cfr. lTs 2,14-15; anche At 9,23.29;
13,45.50; 14,2.5.19; 17,5-9; 18,12-17; 19,9; 20,3. Così anche B. Byrne, Romans, p. 445; T.R. Schreiner,
Romans, p. 782.
87 II verbo rhysthó (cfr. Rm 7,24; 11,16; lTs 1,10) è passivo divino: egli spera che Dio lo liberi dalla
situazione di conflitto. La tipicità del verbo rhuesthai, rispetto agli altri verbi della soteriologia paolina,
consiste nella violenza che il liberatore deve compiere per strappare chi si trova in condizioni di pericolo,
come di fronte alla morte (cfr. 2Cor 1,10; 2Tm 4,17). Cfr. A. Pitta, La « teo-logia » nella soteriologia pao-
lina, in O.F. Piazza (ed.), Padre nostro... liberaci dal male. Teologia in dialogo, Cinisello Balsamo (MI)
2000, pp. 99-100.
88 Per il riferimento alla colletta cfr. il sostantivo diakonia in 2Cor 8,4; 9,1.12.13; anche il verbo
diakonein in Rm 15,25.
89 Per la gioia in contesti di persecuzione e tribolazione cfr. in particolare 2Cor 7,4.13; 8,2; Fil 1,25.
90 II verbo composto synanapauesthai, hapax legomenon nel NT (per la LXX cfr. soltanto Is 11,6 per
la relazione idilliaca fra la pantera e il capretto) esprime bene il desiderio della pace e della buona ospita-
lità fra Paolo e i destinatari.
91 Così anche H. Schlier, Romani, p. 702; T.R. Schreiner, Romans, p. 783.
92 Per l'espressione « il Dio della pace » che siriscontraspesso verso la conclusione delle lettere pao-
line cfr. lTs 5,23; 2Cor 13,11; Fil 4,9.
93 Così invece D.J. Moo, Romans, p. 910.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 513
munitane. Un amen conclusivo ratifica l'augurio della pace e chiude questa par-
te del poscritto per lasciare spazio ai saluti finali . 94

Raccomandazioni e saluti finali (16,1-16). - Il poscritto di Romani non è ori-


ginale soltanto per i paragrafi precedenti ma anche per la raccomandazione di
Febe (Rm 16,1-2) e la lunga lista di saluti personalizzati (vv. 3-15) che non trova-
no paralleli nelle grandi lettere paoline. Qualcosa di analogo è riscontrabile in
Colossesi e in 2Timoteo in cui alla presentazione dei latori della lettera, Tichico e
Onesimo (cfr. Col 4,7-9), succedono alcuni saluti personali (cfr. Col 4,10-15; 2Tm
4,19-21): comunque, sono saluti contenuti, per pochi membri delle comunità, e at-
testati in lettere della tradizione paolina.
In questo caso, siamo di fronte a una sorta d'ironia della storia: attraverso i sa-
luti indirizzati a comunità non fondate da Paolo abbiamo la possibilità di conosce-
re, almeno in parte, uno spaccato sulla Chiesa delle origini, mentre ciò non è pos-
sibile attraverso i salutifinaliper le comunità paoline. Questo paragrafo comincia
con le raccomandazioni per Febe (vv. 1-2) e si conclude con i saluti di tutte le chie-
se paoline (v. 16); al v. 17 Paolo introdurrà la raccomandazione contro coloro che
vanno creando subbugli nelle comunità cristiane . La pericope è cadenzata da di-
95

ciassetteripetizionidel verbo aspazein (salutare, 16 all'imperativo di seconda per-


sona plurale e 1 alla terza plurale) che in modo anaforico introducono i saluti ad al-
cuni delle comunità domestiche romane.
Anche se dal punto di vista contenutistico, questa lista sembra poco rilevan-
te, assume un ruolo prezioso sulla situazione sociale dei cristiani di Roma. Per
questo, su di essa si sono condensati molti contributi di matrice sociologica e 96

femminista . A tal proposito, è bene osservare che, se emergono dati molto inte-
97

ressanti sulle componenti della comunità cristiana delle origini, a volte si tende a
strumentalizzarli, retroproiettando alcune problematiche ecclesiali contempora-
nee. Ad esempio, non è facile stabilire l'origine etnica dei personaggi citati in Rm

94 Cfr. anche l'amen in Rm 1,25; 9,5; 11,33; 16,27.


95 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 860; D.J. Moo, Romans, p. 912; T.R. Schreiner,
Romans, p. 786, anche se i vv.1-2 riguardano Febe, non ci sono motivazioni valide per considerarli auto-
nomamente; soltanto la formula « però vi raccomando, fratelli » del v. 17 indica il passaggio a un nuovo pa-
ragrafo. D'altro canto, tanti saluti così personalizzati sono implicitamente una auto-raccomandazione per
Paolo, in vista della sua accoglienza presso le comunità di Roma. Per l'unità di Rm 16,1-16 cfr. anche K.
Haaker, Römer, p. 317.
96 Cfr. P. Lampe, The Roman Christians of Romans 16, in K.P. Donfried, Romans Debate, pp. 216-
230; W.L. Lane, Social Perspectives, in K.P. Donfried - P. Richardson, Judaism and Christianity, pp. 196-
244; W.A. Meeks, The First Urban Christian. The Social World of the Apostle Paul, New Haven - London
1983, pp. 56-57; E.W. Stegemann - W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo. Gli inizi nel
giudaismo e le comunità cristiane nel mondo mediterraneo, Bologna 1998, pp. 493-498.
97 Cfr. B. Byrne, Paolo e la donna cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 106,110; E.A. Castelli,
Paul on Women and Gender, in R.S. Kraemer - M.R. D'Angelo (edd.), Women and Christian Origins, New
York - Oxford 1999, pp. 221-235; M.Y. MacDonald, Reading Real Women Through the Undisputed Letters
of Paul, in Kraemer - D'Angelo, Women, pp. 199-200; P. Richardson, From Apostles to the Virgins: Romans
16 and the Roles of Women in the Early Church, in TJT2 (1986) 232-261 ; E. Schüssler Fiorenza, In Memory
of Her: A Feminist Theological Reconstruction of Christian Origins, New York - London 1983, pp. 170-
172; Id., Missionaries, Apostles, Coworkers: Romans 16 and the Reconstruction of Women's Early
Christian History, in WW 16 (1986) 425-426.
514 Traduzione e commento
16,3-16, poiché spesso i giudei della diaspora non esitavano ad assumere nomi
greco-romani, né è possibile distinguere, con certezza, quali siano coloro che
Paolo conosce di persona e quanti gli siano noti soltanto per nome . Pur ricono- 98

scendo l'importanza di Febe e delle donne elencate in Rm 16, non è pacifico pen-
sare che svolgessero un ruolo così primario nelle comunità cristiane, da porre in
secondo piano quello degli uomini. Bisogna almeno concedere che le funzioni mi-
nisteriali delle comunità cristiane delle origini sono talmente indefinite da impe-
dire la canonizzazione del diaconato, come nel caso di Febe, e dell' apostolato, co-
me per Giunia (v. 7): lo stesso vale per le attribuzioni maschili di questi ministeri
nell'epistolario paolino.
Comunque, anche se dal versante sociale emergono alcune domus ecclesiae
o chiese domestiche, è bene precisare che le raccomandazioni e i saluti sono rivolti
a tutti e, per mezzo di essi, ad alcuni in modo particolare. Non è un caso che la rac-
comandazione per l'accoglienza di Febe (vv. 1-2) e il saluto con il bacio vicende-
vole (v. 16) assumano un orizzonte globale di destinazione, pur nella specificità
dei saluti particolari. Dal punto di vista compositivo, se è vero che Paolo si soffer-
ma maggiormente sui primi nomi elencati, è difficile stabilire che nei vv. 3-7 sa-
luti coloro che hanno collaborato alla sua missione, mentre nei vv. 8-15 accenni ad
altri insigni personaggi, senza attardarsi troppo sui loro meriti nella Chiesa delle
origini . Questa netta distinzione non vale ad esempio per Maria (v. 6) e per
99

Urbano (v. 9). Piuttosto, come spesso nei saluti conclusivi, Paolo non segue un cri-
terio strutturale logico ma, progressivamente, saluta prima coloro che gli stanno
più a cuore, per finire con saluti più brevi. Pertanto, è preferibile distinguere sol-
tanto le raccomandazioni per Febe (vv. 1-2), i saluti a personaggi di merito (vv. 3-
15) e l'invito al bacio comunitario con i saluti delle chiese paoline (v. 16).
[16,1] Il motivo delle raccomandazioni è tipico dell'epistolografia classica;
e, di fronte ai suoi avversari, Paolo harifiutatolettere di questo tipo per se stesso
(2Cor 3,l-3) . In questo caso egli raccomanda Febe, proveniente da Cenere, il
100

porto di Corinto, collocato a l i chilometri verso sud-est nel Golfo Saronico . In 101

base alla provenienza e all'origine del nome, si può sostenere che Febe sia una
donna benestante, benefattrice verso i primi cristiani . La collocazione di questa
102

raccomandazione lascia intendere che Febe dovrebbe essere latrice della Lettera
ai Romani ; e se tale missione è probabile, a questa donna spetta il compito di
103

spiegare il contenuto così complesso della Lettera ai Romani e quindi di spiega-


re, a nome di Paolo, il suo vangelo. Per questo le credenziali per Febe sono parti-

98Con buona pace di T.R. Schreiner, Romans, p. 790.


99Così D.J. Moo, Romans, p. 918; T.R. Schreiner, Romans, p. 790; P. Stuhlmacher, Romans, p. 247.
100Per il verbo synistèmi con il significato di raccomandare cfr. 2Cor 3,1; 4,2; 5,12; 10,12.18.18;
12,11. Per le raccomandazioni epistolari cfr. 2Mac 9,25; At 18,27; 3Gv 9-10. Così anche T.R. Schreiner,
Romans, p. 786.
II collegamento fra questi versi e Rm 15 è determinato da un semplice de: ha valore di connessio-
101

nerispettoa quanto precede.


II nome Febe è di origine mitologica greca: è una Titana figlia del Cielo e della Terra; significa ri-
102

splendenteluminosa ed è diffuso nel mondo greco-romano.


Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 861; T.R. Schreiner, Romans, p. 786.
103
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 515
colarmente marcate: lei è sorella, diaconessa (v. 1), appartiene ai santi, ed è pro-
tettrice (v. 2) . 104

La prima credenziale non crea difficoltà, in quanto la qualifica di sorella


esprime l'appartenenza alla stessa famiglia di fede, mentre non è legata a Paolo da
relazioni parentali . Invece crea non pochi problemi l'appellativo diakonos, uti-
105

lizzato peraltro al maschile, anche se si tratta di una donna: si riferisce al ministe-


ro del diaconato che sarà progressivamente definito già in lTm 3,8-13, per gli uo-
mini e per le donne? O si tratta di un semplice attributo, per indicare il servizio in
generale che Febe svolge nella comunità di Cenere? . Se il diaconato è inteso co-
106

me ministero distinto dagli episcopi e dai presbiteri o dagli apostoli, forse siamo
lontani dalla sua caratterizzazione nelle comunità paoline, poiché Paolo utilizza
spesso questo termine per indicare il semplice servizio a favore di altri e di Dio
(cfr. Rm 13,4 per le autorità civili) , anche se in Fil 1,1 egli sirivolgeràagli epi-
107

scopi e ai diaconi della comunità. Tuttavia, il collegamento di questo titolo per


Febe con « la Chiesa che è in Cenere » dovrebbe impedire una svalutazione del so-
stantivo, per il fatto che si tratterebbe di una donna e non di un uomo. Al contra-
rio, lasciando al sostantivo una connotazione ministeriale di responsabilità gene-
rale, la presentazione di Febe come diacono di una comunità ben definita fa pen-
sare che il suo ministero non riguarda soltanto la carità per i poveri o per i
bisognosi, su cui Paolo si soffermerà nel verso successivo , bensì include l'evan-
108

gelizzazione e la predicazione. D'altro canto, questa diaconessa è inviata da Paolo


per spiegare il contenuto complesso della Lettera ai Romani e non per sostenere
economicamente i destinatari della lettera.
Dunque Febe svolge il suo ministero della parola e della carità nella Chiesa
che si trova in Cenere , la città portuale dell'istmo di Corinto nella quale, secon-
109

do Pausania, « c'è un tempio di Afrodite, con una statua in pietra della dea e, do-
po di esso, sul molo che avanza in mare, una statua di Poseidone; all'altra estre-
mità del porto vi sono santuari di Asclepio e di Iside » (Guida della Grecia 2,2,3).
Probabilmente la comunità di Cenere sorse come gemmazione di quella di Corinto
e quindi può essere considerata di origine paolina; su di essa non abbiamo altre
informazioni nel NT. Secondo la narrazione di At 18,18, a Cenere Paolo si fece ta-
gliare i capelli per esaudire il voto di nazireato, nella via del ritorno dal secondo
viaggio missionario.
[v. 2] Una finale, con valore imperativale, introduce l'esortazione rivolta ai
cristiani di Roma, affinché rendano buona e generosa accoglienza verso Febe; lei
104Cfr. a tal proposito M. Ernst, Die Funktion derPhoebe (Ròm 16, l f ) in der Gemeinde von Kenkreai,
in Protokolle zur Bibel 1 (1992) 135-147; K. Romaniuk, Was Phoebe in Romans 16,1 a Deaconess?, in
ZNW 81 (1990) 132-134; C.F. Whelan, Amica Pauli: The Role of Phoebe in the Early Church, in JSNT 49
(1993) 67-85.
105Cfr. la stessa qualifica per la sorella Appia in Fm v. 2.
106Per questo ministero nella Chiesa delle origini cfr. Ignazio, Efesini 2,1; Magnesi 6,1.
107Paolo non esita ad attribuire il sostantivo diakonos a Gesù Cristo stesso (cfr. Rm 15,8; Gal 2,17).
108Con buona pace di DJ. Moo, Romans, p. 914 che limita il ministero del diaconato alla carità.
109 p r p i o n e «la Chiesa che è in...», utilizzata soltanto qui nell'epistolario paolino, cfr. At
ef eS ress

8,1; Ap 1,4; con variazioni anche ICor 1,2; 2Cor 1,1. Per la prima volta siriscontrail sostantivo ekklèsia
in Romani (cfr. in seguito Rm 16,4.5.16.23).
516 Traduzione e commento
appartiene ai santi, ossia a coloro che sono stati santificati per mezzo dello Spirito
e attraverso l'appartenenza a Cristo (cfr. santo in Rm 1,7 per i destinatari della let-
tera). Questa raccomandazione per Febe è analoga a quella che Paolo rivolgerà ai
filippesi per l'accoglienza di Epafrodito (cfr. Fil 2,29): è un'accoglienza da com-
piere nel Signore, a motivo della reciproca appartenenza a lui. Per questo l'ospi-
talità verso Febe sia generosa, disposta ad andare incontro a qualsiasi sua neces-
sità (cfr. l'esortazione di Rm 12,13 a condividere le necessità dei santi).
Per sostenere la sua raccomandazione, Paolo ricorda la generosità di Febe
verso molti credenti e nei suoi confronti. Quest'ultima caratterizzazione crea una
connessione tra il verbo paristemi (mettere a disposizione, cfr. Rm 6,13.19) e il
sostantivo prostatis che compare soltanto qui nel NT. Così egli ricorre a un ter-
mine con particolare rilevanza giuridica o politica: il prostatis è colui che presie-
de a una comunità o garantisce gl'interessi degli altri. Il significato di leader se
può valere per la relazione tra Febe e molti credenti non ha senso per Paolo, giac-
ché non può aver svolto la funzione di comando nei suoi confronti . Per questo 110

è preferibile conferire al termine una connotazione giuridica di patronato o di ga-


ranzia per molti credenti e per Paolo a Cenere o a Corinto, di fronte alle autorità
civili. Dunque, la protezione e l'ospitalità che Febe ha offerto per molti, a causa
della sua posizione sociale, dovrebbero rappresentare la principale garanzia per
questa raccomandazione.
[v. 3] La seconda parte di Rm 16,1-16 è caratterizzata dai saluti ad alcuni (vv.
3-15), con le relative comunità domestiche: sono citati 26 nomi di persone, anche
se non tutti possono dirsi cristiani; è il caso di Aristobulo (v. 10) e di Narcisso (v.
11): Paolo non si rivolge direttamente a loro ma ai credenti che si trovano nelle
abitazioni che conservano i loro nomi . 111

L'abbondanza di tali saluti personali ha fatto pensare che almeno i vv. 3-15
non appartenessero originariamente a Romani ma che facessero parte della o di
una lettera inviata alla comunità di Efeso. Come può Paolo conoscere tante per-
sone di una Chiesa che non ha ancora visitato? In realtà, non ci sono motivazioni
valide per sostenere tale ipotesi, sia dal punto di vista testuale, sia da quello epi-
stolografico sia sociale e contenutistico. Di fatto, l'analisi testuale dimostra che i
vv. 3-15 non possono essere separati dai vv. 1-2: nessun manoscritto separa que-
ste parti, per cui dovrebbero essere esclusi o inclusi in blocco, senza tagli arbitra-
ri . D'altro canto nessuna lettera di Paolo si chiude nel modo di Rm 15,33: man-
112

cano elementi importanti tipici di un poscritto, come il saluto vicendevole con il


bacio santo (cfr. Rm 16,16). Anche se la conflazione di più lettere trova fonda-
mento per la 2Corinzi, questo è un caso diverso, in quanto la lettera di Rm 16 sa-
rebbe limitata ai saluti.

Così anche M.Y. MacDonald, Real Women, p. 208; E.W. Stegemann - W. Stegemann, Cristianesi-
110

mo primitivo, p. 496. Cfr. invece con questo significato l'uso diproistamenos in lTs 5,12 per coloro che gui-
dano la comunità di Tessalonica (cfr. anche colui che presiede in Rm 12,8; lTm 3,4.5.12; 5,17).
Sulla prosopografia romana antica cfr. in particolare S. Heikki, Die griechischen Personennamen
111

in Rom: Ein Namenbuch, Berlin 1998.


Questo vale anche per l'importante P che colloca i vv. 1-23 dopo la dossologia dei vv. 25-27.
112 46
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 517
L'attenzione al contesto sociale del secolo I d.C. ha dimostrato che gli spo-
stamenti, per emigrazioni o per viaggi, anche per gli schiavi o per i liberti, erano
più frequenti di quanto pensiamo . Non soltanto il riferimento a Cenere ma an-
113

che alcuni saluti elencati in Rm 16,3-15 trovano migliore collocazione se inviati


da Corinto che da altre città presso le quali Paolo ha dimorato, in sintonia con la
sezione di Rm 1-15, scritta dalla capitale dell'Acaia. La presenza di comunità do-
mestiche, attestata in Rm 16,3-15, trova corrispondenze con le sinagoghe sparse
nella capitale dell'Impero mentre non si può sostenere altrettanto per Efeso: non
bisogna dimenticare che a Roma manca una struttura centralizzata o gerarchica
delle sinagoghe e delle comunità cristiane domestiche . Invece, a conferma del-
114

l'appartenenza di questi saluti a Romani, è necessario riconoscere che assumono


un ruolo implicito di auto-raccomandazione per Paolo verso una comunità che
non ha mai visitato. Se in Rm 16,1-2 ha raccomandato Febe, ora con i saluti a di-
versi cristiani raccomanda se stesso in vista della futura accoglienza . Per questo 115

i contributi più recenti sono orientati a confermare l'appartenenza almeno di Rm


16,1-16 alla Lettera ai Romani . 116

I primi saluti di Rm 16,3-15 sono rivolti a Prisca e Aquila, una coppia che,
stando alle fonti neotestamentarie, ha subito diverse traversie per il vangelo ed è
stata costretta a non pochi viaggi . Anche se Prisca è citata per prima, non ab-
117

biamo molte notizie su di lei: il fatto che il suo nome preceda in genere quello del
marito forse dimostra una posizione più elevata dal punto di vista economico o un
ruolo di maggiore rilievo nella comunità che siriuniscenella loro casa. La narra-
zione di At 18,1-26 lascia intendere che Prisca, citata con il diminutivo di
Priscilla, sia di origine giudaica e che collaborasse con Aquila nella fabbricazio-
ne di tende (cfr. At 18,3). Da At 18,2 sappiamo che Aquila è un giudeo originario
del Ponto e che Paolo lo incontra in occasione del suo arrivo a Corinto, in segui-
to all'espulsione dei giudei da Roma, con l'editto di Claudio (49 d.C.). Dunque,
in occasione della Lettera ai Romani, Prisca e Aquila sono già emigrati dal Ponto
a Roma e da Roma a Corinto. La notizia sull'incontro di Paolo con questi due giu-
deo-cristiani in occasione del suo arrivo a Corinto non depone contro la paolini-
cità della comunità locale, ma può lasciar intendere che realmente essi diventas-
sero suoi collaboratori nella diffusione del vangelo . 118

Secondo At 18,18, dopo la burrascosa presenza di Paolo a Corinto, Priscilla


e Aquila lo accompagnarono a Efeso dove, presumibilmente, si stabilirono (cfr.

113 Una situazione analoga si è creata ad Efeso, in occasione della 1 Corinzi: Paolo è informato sulla
crisi della comunità da alcuni membri della famiglia di Cloe (cfr. ICor 1,11). Così W.A. Meeks, Urban
Christians, p. 57.
114 Vedi l'introduzione generale al nostro commentario.
115 Così anche B. Byrne, Romans, p. 450.
1,6 Così K.P. Donfried, A Short Note on Romans 16, in Romans Debate, p. 52; P. Lampe, Roman
Christian, p. 217; M.Y. MacDonald, Real Women, p. 207; D.J. Moo, Romans, p. 912; T.R. Schreiner, Romans,
p. 790.
117 Questi due evangelizzatori sono citati sempre in coppia e, tranne in ICor 16,19, il nome di Prisca
o il suo diminutivo Priscilla precede sempre quello di Aquila (cfr. ICor 16,3; 2Tm 4,19; At 18,2.18,26).
118 L'appellativo di synergos (collaboratore) si riferisce alla collaborazione di Prisca e Aquila per la
diffusione del vangelo (cfr. anche Rm 16,9.21; Fil 2,25; lTs 3,2; Fm vv. 1.24).
518 Traduzione e commento
At 18,19) eripreserola loro attività di evangelizzatori, come dimostra il caso del
giudeo Apollo (cfr. At 18,24-26). Si può benrilevareche, in questo caso, i dati de-
gli Atti concordano con quelli dell'epistolario paolino: da Efeso Paolo invia an-
che i loro saluti alla comunità di Corinto (cfr. ICor 16,19): ormai si sono stabiliti
in questa città, dove mettono a disposizione la loro casa per la comunità cristiana.
Tra la dettatura di ICor 16,19 e di Rm 16,3 la situazione della coppia deve es-
sere cambiata di nuovo, a causa della morte di Claudio (54 d.C.) e con l'avvento
della pace neroniana: l'iniziale liberalità del nuovo imperatore verso i giudei de-
ve aver favorito il loro ritorno a Roma. Per questo, non è inverosimile che Paolo
rivolga i suoi saluti a Prisca e Aquila, scrivendo ai cristiani di Roma. Invece me-
no probabile è la veridicità dei saluti rivolti a Prisca e Aquila in 2Tm 4,19: sup-
pongono che i due coniugi abbiano nuovamente lasciato Roma, per ristabilirsi a
Efeso, e si trovano in una lettera pseudepigrafica . Pertanto, i giudei Prisca e
119

Aquila sono in Cristo Gesù, una precisazione che Paoloriprenderàspesso in que-


sti saluti (vv. 5.7.9.10), insieme alla variante nel Signore (vv. 11.12.12) per desi-
gnare semplicemente il loro stato di giudeo-cristiani.
[vv. 4-5a] Per sottolineare il legame che lo lega a Prisca e Aquila, Paolo evo-
ca il loro impegno per tutelargli l'esistenza in alcuni momenti difficili. Questa no-
tizia non trova conferma in Atti, ma gli episodi conflittuali successi a Corinto (cfr.
At 18,12-17) e a Efeso (cfr. At 19,11-41) lasciano deporre sulla sua veridicità . 120

Lo stesso Paolo ha giàricordatodi aver combattuto ad Efeso contro le belve (cfr.


ICor 15,32). In occasione dei suoi saluti, egli non esita aribadirela sua gratitudi-
ne per Prisca e Aquila, alla quale si uniscono tutte le chiese dei gentili, presumi-
bilmente di fondazione paolina. Non sappiamo se la gratitudine per questa coppia
sia dovuta alla tutela della vita di Paolo o al loro impegno per l'evangelizzazione
presso i gentili, anche se l'una motivazione non esclude l'altra. Nel contesto con-
flittuale della Lettera ai Romani, questoriferimentonon serve soltanto a garantire
l'amicizia di Paolo con Prisca e Aquila ma anche ad alimentare la venerazione che
i destinatari della lettera, soprattutto i gentili, devono nutrire verso di loro.
Nella prima parte del v. 5, Paolo aggiunge i saluti alla Chiesa che si raduna
nella loro casa,riferendosialla prima comunità domestica che cita in Rm 16. Non
è chiaro il senso della formula kat'oikon autón ekklésia (la Chiesa della loro casa)
che si riscontra nuovamente in ICor 16,19, ancora per Aquila e Prisca, e in Col
4,15. Per alcuni, Paolo intende semplicemente riferirsi a una Chiesa domestica,
nel qual caso kat'oikon non sarebbe diversa da en oikQ . Tuttavia, l'orizzonte ec-
121

clesiologico di Rm 16, in cui Paolo invita tutti i destinatari della lettera a rivolge-
re i saluti a persone specifiche dovrebbe impedire una semplificazione della for-
mula, anche se non attribuisce mai a loro il sostantivo «Chiesa». Di fatto, senza
negare la composizione domestica delle o della Chiesa di Roma, con kat'oikon
Paolo sembra dire qualcosa di più della semplice assimilazione tra la casa di

Così anche P. Lampe, Roman Christians, p. 221.


119

Così anche D.J. Moo, Romans, p. 920; T.R. Schreiner, Romans, p. 795.
120

Cfr. M. Gielen, Zur Interpretation der paulinischen Formel he kat'oikon ekklésia, in ZNW11
121

(1986) 109-125.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 519
Prisca e Aquila e la Chiesa di Roma, come avverrebbe con la formula en oikon
(cfr. ICor 11,34; 14,35). Piuttosto, nella casa di questi coniugi si raduna una co-
munità che, comunque, senza eccedere in marcate prospettive ecclesiologiche, è
relazionata ad altre comunità domestiche . Anche se a Roma non abbiamo atte-
122

stazioni su una comunità centrale dalla quale dipendano le diverse chiese dome-
stiche, non è pensabile che queste non avessero alcun contatto: il fatto che questi
saluti siano rivolti ai destinatari per alcune comunità dimostra che a Roma esiste
una larga cognizione di Chiesa.
[v. 5b] Di Epèneto, non abbiamo che scarne informazioni: il suo nome è di ori-
gine greca e trova attestazioni nelle iscrizioni greche , anche se questi dati non di-
123

mostrano che Epèneto fosse di origine pagana e non giudaica. Comunque, egli si è
trasferito dall'Asia, corrispondente alla provincia romana con capitale Efeso, a
Roma; e poiché si trova sulla stessa rotta di Prisca e Aquila, forse per questo è citato
subito dopo. Oltre all'appellativo diletto, usato anche per altri saluti (cfr. vv. 8.9.12),
Epèneto è definito primizia dell 'Asia in Cristo: è il primo che in Asia ha aderito al
vangelo paolino (cfr. ICor 16,15 per la casa di Stefana, primizia dell'Acaia).
[v. 6] Di una certa Maria non abbiamo altri dati nell'epistolario paolino né nel
resto del NT. A prima vista, si sarebbe indotti a pensare a un nome di origine ebrai-
ca, corrispondente di Mariam o di Miriam; le iscrizioni romane dimostrano che
può trattarsi anche di un nome proveniente dalla famiglia gentilizia di Marius . A 124

causa delle scarse attestazioni su questa donna, non possiamo stabilire nulla sulla
sua origine ma soltanto evidenziare che per lei, e soltanto per altre donne elencate
in Rm 16 (cfr. vv. 12.12), Paolo sottolinea la fatica per l'evangelizzazione . 125

Anche se il verbo « faticare » è, a volte, posto in relazione con il ruolo di responsa-


bilità nelle comunità (cfr. ITs 5,12), forse è eccessivo pensare che Maria, avendo
faticato molto per i destinatari della lettera, svolga il ministero di guida nella o in
una delle comunità domestiche romane . 126

[v. 7] La seconda coppia salutata in Rm 16,3-15 è quella di Andronico e


Giunia, due giudei per i quali Paolo esprime credenziali particolarmente signifi-
cativerispettoalla definizione degli apostoli prima del 70 d.C. Intanto è bene pre-
cisare che, anche se Iunia può essere considerato diminutivo di Iunianus, poiché
non abbiamo attestazioni su questo nome nelle iscrizioni latine, non è maschile
ma femminile . Poiché Paolo attribuisce a questa coppia una posizione privile-
127

giata fra gli apostoli, nella storia dell'interpretazione si è pensato a Giunia come

122Così anche W.A. Meeks, Urban Christians, p. 57.


123Cfr. W. Dittenberger (ed.), Silloge Inscriptionum Graecarum, Lipsia 1915-1924, I-IV, 43,39;
585,250; 944,26; 1174,4; anche Diodoro Siculo, Biblioteca 19,79,2.
124Nel CIL VI il nome Maria compare circa 110 volte. Così anche P. Lampe, Roman Christians, p. 225.
125Così anche P. Lampe, Roman Christians, pp. 222-223. Il verbo kopian non è usato perriferirsial
lavoro propriamente detto (cfr. ICor 4,12; 2Tm 2,6) ma per l'evangelizzazione (cfr. ITs 5,12; ICor 15,10;
16,16; Gal 4,11; Fil 2,16; lTm4,10).
126Così anche S. Schreiben, Arbeit mit der Gemeinde (Rom 16.6,12). Zur Versukenen Möglichkeit
der Gemeindeleitung durch Frauen, in NTS 46 (2000) 204-226; T.R. Schreiner, Romans, p. 794.
127Dal punto di vista testuale, Iunia con l'accento circonflesso è maschile (così N-A ; W. Bauer,
27

Lexicon, p. 380) mentre con l'accento acuto è femminile: le due lezioni sono possibili a causa della man-
canza di accentazioni nei manoscritti greci.
520 Traduzione e commento
nome maschile. In realtà, a parte le attestazioni prosopografiche romane che la-
sciano decisamente propendere per un nome femminile, è significativo quanto già
scrive Giovanni Crisostomo a suoriguardo:« Quant'è grande la sapienza di que-
sta donna, che è stataritenutadegna persino del titolo di apostolo » . 128

Dunque questa coppia è di origine giudaica , ha sperimentato una prigionia


129

analoga a quella di Paolo , è insigne fra gli apostoli e ha aderito al messaggio cri-
130

stiano prima di lui. Se non è difficilericonoscereche Andronico e Giunia appar-


tengono ai primi aderenti al messaggio cristiano, anche se non sono citati altrove
nel NT , crea non poche difficoltà l'attributo di «apostoli», soprattutto in riferi-
131

mento a Giunia. Forse bisognariconoscereche, nella storia dell'interpretazione, il


sostantivo « apostolo » è stato caricato eccessivamente di significato, facendolo er-
roneamente coincidere con i «dodici». In realtà, se da una parte Paolo distingue
sempre i dodici dagli altri discepoli di Cristo (cfr. ICor 15,5-7), non esita a conferi-
re ad apostolos una portata generale, considerandolo praticamente come corrispon-
dente o variante di evangelizzatore o di missionario . Qualcosa di analogo si è ve-
132

rificato per il sostantivo diacono in Rm 16,1. Con questa estensione di significato,


non intendiamo sminuire il valore dell'apostolato attribuito anche a Giunia ma evi-
tare delle retroproiezioni indebite per non caricare l'apostolato delle origini di trop-
pe responsabilitàrispettoalla trasmissione della tradizione cristiana. Da tale ricom-
prensione del titolo di apostolo, anche l'attributo di «insigni» non è esclusivo ma
inclusivo : in pratica, Andronico e Giunia sono insigni anche in quanto apostoli .
133 134

[vv. 8-9] Di Ampliato, salutato come diletto nel Signore, non sappiamo altro
dal NT se non che è caro a Paolo come lo è Epèneto. Dall'uso del nome nelle
iscrizioni latine possiamo al massimo dedurre che forse si tratta di uno schiavo o
di un liberto , di un discepolo che Paolo ha conosciuto in Acaia o in Asia e che
135

ora risiede a Roma . 136

128Giovanni Crisostomo, Ad Romanos 31,2. Per l'identificazione femminile di Giunia cfr. anche B.
Byrne, Paolo e la donna, p. 110; E.A. Castelli, Paul on Women, pp. 221-235; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 872;
P. Lampe, Roman Christians, p. 222; M.Y. MacDonald, Real Women, p. 209; W.A. Meeks, Urban
Christians, p. 57; D.J. Moo, Romans, p. 923; U.K. Plisch, Die Apostelin Junia: Das exegetische Problem in
Rom 16.7 im Licht von Nestle-Aland und der sahidischen Überlieferung, in NTS 42 (1996) 477-478; T.R.
21

Schreiner, Romans, p. 796.


129II caso di questa coppia è tipico di due giudei con nomi greco-romani. L'origine giudaica di
Andronico e Giunia èrilevabiledall'uso di syggenés nell'epistolario paolino: non si riferisce alla parente-
la con Paolo ma a quella dello stesso popolo (cfr. Rm 9,3). Così anche D.J. Moo, Romans, p. 922; T.R.
Schreiner, Romans, p. 795.
130Anche se il termine synaikmalötos può essere inteso in senso metaforico, come nelle altre due fre-
quenze NT di Fm v. 23 e di Col 4,10 (così G. Kittel, aichmalötos (GLNTI), pp. 529-530), è probabile che
qui abbia valore reale di prigionia. Così anche D.J. Moo, Romans, p. 923; T.R. Schreiner, Romans, p. 795.
131Cfr. i 500 fratelli delle apparizioni post-pasquali di cui in ICor 15,6.
132Cfr. apostolos in 2Cor 8,23; Fil 2,25; anche Didaché 11,3-6; Erma, Visione 13,1; Similitudine
92,4; 93,5; 102,2. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 874; D.J. Moo, Romans, p. 924; T.R. Schreiner,
Romans, p. 797.
133Così anche R.S. Cervin, A Note Regarding the Name 'Junia(s)' in Romans 16.7, in NTS 40 (1994)
470; DJ. Moo, Romans, p. 924.
Per episemos nel NT cfr. l'unico parallelo di Mt 27,16 a proposito di Barabba, l'insigne prigioniero.
134

Cfr. CIL VI,4899,14918,15509. Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 874; D.J. Moo, Romans, p. 924.
135

136Così W.A. Meeks, Urban Christians, p. 57.


Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 521
Non sappiamo se i saluti per Urbano (v. 9), del quale si parla soltanto qui nel
NT, sono rivolti a una persona della quale Paolo ha sentito soltanto parlare , a cau- 137

sa del pronome «nostro», oppure di un collaboratore di Paolo nell'evangelizza-


zione, come Prisca e Aquila. Comunque, anche il suo nome è diffuso fra gli schia-
vi romani che hanno aderito al messaggio cristiano . Alla stessa classe degli hu-
138

miliores appartiene Stachi, diletto di Paolo, e citato soltanto qui nel NT: è un nome
di origine greca ma attestato anche in latino, ad esempio per uno schiavo della fa-
miglia imperiale (cfr. CIL VI,8607).
[v. 10] Soltanto nei salutirivoltiad Apelle, un cristiano del quale non sappia-
mo l'origine giacché il nome, pur essendo di matrice greca, era utilizzato anche
dai giudei , Paolo aggiunge l'appellativo dokimos che può assumere due acce-
139

zioni fondamentali. Apelle può essere stato provato in particolari situazioni di per-
secuzione per il vangelo o può essere approvato e, quindi, particolarmente stima-
to presso i destinatari della lettera. Forse a causa dell'uso di dokimos nel resto del-
l'epistolario paolino è preferibile la seconda possibilità , anche se non si può
140

escludere del tutto la prima, a causa delle scarse notizie che abbiamo su Apelle, ci-
tato soltanto qui nel NT . 141

La seconda comunità domestica, citata esplicitamente in Rm 16, dopo quella


di Prisca e Aquila (vv. 3-5), sirichiamaa un certo Aristobulo del quale non abbia-
mo nessun altro dato. Poiché i saluti non sono rivolti ad Aristobulo ma a quelli
della sua casa, è probabile che questi sia un pagano non convertito al cristianesi-
mo oppure un padrone defunto, del quale è conservato il titolo familiare . In que- 142

sta seconda ipotesi, si potrebbe pensare anche ad Aristobulo, nipote di Erode il


Grande, figlio di Aristobulo e Berenice e fratello di Erode Agrippa I, che trascor-
se l'ultima parte della sua vita a Roma . Tuttavia, tali connessioni vanno prese
143

con il beneficio dell'inventario poiché non abbiamoriscontrireali a disposizione.


[vv. 11-12] Tra i connazionali di Paolo c'è certamente un certo Erodione, uno
schiavo o liberto , altrimenti sconosciuto, che porta un nome relazionato alla fa-
144

miglia di Erode. La terza comunità domestica citata in questi versi è quella che fa
riferimento al nome di un Uberto, Narcisso: e come per Aristobulo, forse Paolo
non saluta Narcisso perché, a differenza dai membri della sua casa, non ha aderi-
to al messaggio cristiano, oppure perché è già morto lasciando ilricordodella sua
casa. Poiché non abbiamo altri dati, è difficile stabilire una connessione tra
Narcisso e un segretario di Claudio, un liberto che fu costretto da Agrippina al sui-
cidio, in seguito all'avvento di Nerone al potere . 145

Così DJ. Moo, Romans, p. 924.


137

Cfr. CIL VI,4247.


138

Cfr. Orazio, Satirae 1,5,100.


139

Cfr. Rm 14,18; ICor 11,19; 2Cor 10,18; 2Tm2,15.


140

Invece per ilriferimentoalle prove cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 875.


141

Così T.R. Schreiner, Romans, p. 793.


142

Cfr. le notizie di Flavio Giuseppe, Guer. giud. 2,11,6; Ant. giud. 20,1,2.
143

Per il significato etnico più che parentale di syggenés vedi quanto detto per Andronico e Giunia (v. 7).
144

Cfr. Tacito, Annales 31,1; Dione Cassio, Historia romana 60,34. A favore di tale corrispondenza
145

è D.J. Moo, Romans, p. 925.


522 Traduzione e commento
Fra i nomi salutati ci sono anche quelli di tre schiave o liberte (v. 12) alle qua-
li Paoloriconoscela fatica per l'evangelizzazione a favore dei destinatari, come per
Maria, e quella in generale per il Signore. I nomi di Trifena e Trifosa, probabilmen-
te due sorelle, si trovano in iscrizioni latine e greche , mentre il nome di Perside è
146

collegato alla Persia dalla quale forse proviene questa schiava (cfr. CIL V,4455).
[v. 13] Il nome di Rufo si trova due volte nel NT: qui e in Me 15,21 a proposi-
to del padre, Simone di Cirene, che fu costretto a portare la croce di Gesù. Tale re-
lazione potrebbe far pensare che Paolo saluti lo stesso personaggio della narrazio-
ne marciana ; una tesi che troverebbe conferma nell'origine romana del vangelo
147

di Marco. In realtà, anche in questi casi, gli elementi a disposizione sono scarsi, so-
prattutto per la diffusione del nome Rufo, fra gli schiavi o fra i liberti dell'epoca . 148

Comunque, soltanto per Rufo, Paolo sottolinea che è « eletto nel Signore » : 149

l'attributo è diverso da diletto (vv. 5.8.9.12), in quanto implica una particolare pre-
dilezione. Anche se purtroppo non conosciamo più il nome della madre di Rufo,
pur essendo nota ai destinatari della lettera, Paolo le invia i suoi saluti consideran-
dola anche come sua madre. Naturalmente si tratta di una maternità spirituale, for-
se dovuta all'ospitalità o all'accoglienza che la madre di Rufo hariservatoa Paolo
in altri contesti che non possiamo definire.
[vv. 14-15] La quarta comunità domestica che Paolo saluta da Corinto è quel-
la che siriferiscea quattro uomini che recano nomi di schiavi o di liberti di origi-
ne greca: Asìncrito, Flegonte, Erme e Patroba. Anche questi illustri sconosciuti
non ci sono noti, in quanto sono citati soltanto qui nel NT. L'attenzione dei suc-
cessivi commentatori è stata rivolta verso Erma, considerandolo autore di II pa-
store, lo scritto sub-apostolico ambientato a Roma . L'assimilazione con II pa-
150

store è improbabile, per la datazione di questo scritto (secolo II d.C.). Con questi
cristiani di umili origini, Paolo saluta gli altri della loro comunità.
La quinta comunità domestica è quella di Filologo e Giulia (v. 15), alla quale so-
no associati probabilmente i loro figli, Nereo e sua sorella, e Olimpa di cui non sap-
piamo il tipo di relazione che lo lega a questa famiglia di schiavi o liberti. I saluti di
Paolo per questa domus ecclesiae si estendono a tutti i santi che sono con Filologo e
Giulia. Tale precisazione per i santi corrisponde m fratelli menzionati al v. 14: sono
i credenti che spesso Paolo definisce santi per la loro appartenenza al Signore.
[v. 16] Anche se dai saluti personali di Rm 16,3-15 emergono diverse aggre-
gazioni comunitarie cristiane, Paolo conclude rivolgendosi a tutti i credenti di
Roma, invitandoli a salutarsi con il bacio santo. In tal modo egli conclude altre tre
grandi lettere . Alcuni, a causa della configurazione decentralizzata delle comu-
151

146Cfr. CIG 2819; 2839; 3092; 3348; CIL VI, 15622-15626.


147Così D.J. Moo, Romans, p. 925; T.R. Schreiner, Romans, p. 791.
148Cfr. Diodoro Siculo, Biblioteca 11,60,1; Flavio Giuseppe, Ant. giud. 17,10,3; 17,10,9; 20,1,2.
149Cfr. eklektos in Rm 8,33; soltanto in questo caso Paolo considera eletto un nome di persona ben
determinato.
150Così già Origene, Romani, II, p. 199; così anche Eusebio, Historia ecclesiastica 3,3,6.
151Cfr. lTs 5,26; ICor 16,20; 2Cor 13,12; anche lPt 5,14; Giustino, Apologia 1,65,2. Sulla rilevan-
za di questo gesto nel cristianesimo delle origini cfr. W. Klassen, The Sacred Kiss in the New Testament.
An Example of Social Boundary Lines, in NTS 39 (1993) 122-135.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 523
nità cristiane di Roma, tendono a sminuire il valore comunitario dei saluti con il
bacio santo . In realtà, la convergenza fra la portata comunitaria dei saluti rivol-
152

ti a tutti i membri per alcuni che Paolo conosce o dei quali ha sentito parlare e il
motivo del saluto scambievole, dimostra che, pur non trovandoci di fronte a una
comunità monolitica, senza una Chiesa domestica centrale, Paolo sirivolgeai de-
stinatari in contesto di relazione vicendevole.
Questa parte del poscritto si conclude con i saluti di tutte le chiese di Cristo.
L'universalizzazione di questi saluti è un'iperbole con la quale Paolo intende sot-
tolineare che tutte le chiese fondate da lui aderiscono al vangelo inviato ai cri-
stiani di Roma. Anche tali saluti generali si contestualizzano bene nella situazio-
ne di Paolo che sta per concludere una parte fondamentale della sua evangelizza-
zione: sono i saluti delle comunità paoline evangelizzate e fondate nei suoi viaggi
(cfr. Rm 15,19). Dunque, a questi saluti sono idealmente accomunate le chiese
dell'Acaia, della Macedonia, dell'Asia e della Galazia, come un ulteriore bigliet-
to di presentazione verso i destinatari della lettera.
Ammonizione e benedizione finale (16,17-20). - Tra le tematiche proprie dei
poscritti epistolari si trovano anche le ammonizioni contro il male o nei confronti
di coloro che lo provocano. In questa prospettiva si spiega l'improvvisa presenza
in Rm 15,14 -16,27 delle raccomandazioni contro coloro che vanno creando divi-
sioni nelle comunità cristiane (Rm 16,17-20). Quest'ammonizione si distingue
nettamente dai saluti di arrivo (vv. 3-16) e da quelli di partenza (vv. 21-23), al pun-
to che, a prima vista, sembra come un corpo estraneo, interpolato successivamen-
te nella Lettera ai Romani . 153

Non si può non riconoscere che il linguaggio di questi versi è inusuale per
Romani: diversi termini non compaiono altrove. Si pensi a termini come « stare in
guardia» (skopein, v. 17) , «divisione» (dichostasia, v. 17) , «ventre» 0koilia, v.
154 155

18) , «semplice» (<akakos, v. 18) , «immune» (<akeraios, v. 19) , «stritolare»


156 157 158

(syntribein, v. 20) . Di satana si parla soltanto qui (v. 20) in Romani e il sostan-
159 160

tivo chrèstologia (parola di benevolenza, v. 18) è hapax legomenon del NT. Il so-
stantivo eulogia (v. 18) assume il nuovo significato di lusinga, mentre altrove cor-
risponde a benedizione (cfr. Rm 15,19; ICor 10,16) o generosità (cfr. 2Cor 9,5-6) . 161

Così T.R. Schreiner, Romans, p. 798.


152

Sull'unità letteraria di Rm 16,17-21 cfr. B. Byrne, Romans, p. 455; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 879;
153

D.J. Moo, Romans, p. 928; T.R. Schreiner, Romans, p. 801.


Cfr. 2Cor 4,18; Gal 6,1; Fil 2,4; 3,17.
154

Questo sostantivo si trova soltanto qui e in Gal 5,20 per il NT.


155

II contesto più vicino al nostro per indicare con il « ventre » il proprio interesse è quello di Fil 3,14.
156

L'aggettivo akakos si trova soltanto qui e in Eb 7,26 per il NT.


157

Anche akeraios è raro nel NT: è attestato qui, in Fil 2,15 e in Mt 10,16.
158

Per questo verbo cfr. Me 5,4; 14,3; Mt 12,20; Le 9,39; Gv 19,36; Ap 2,27.
159

Per l'epistolario paolino cfr. 1TS2,18; ICor 5,5; 7,5; 2Cor 2,11; 11,14; 12,7;2TS2,9; lTm 1,20; 5,15.
160

Per tale significato di eulogia con paralleli extra-paolini cfr. J.L. North, « Good Wordes and Faire
161

Speeches » (Rom 16.18 AV): More Materials and a Pauline Pun, in NTS 42 (1996) 600-614, anche se l'au-
tore crea forzati parallelismi fra Rm 14,1 -15,13 e Rm 16,17-20. A ben vedere la situazioneriflessanei due
paragrafi di Romani è diversa, riconoscibile almeno per il comportamento richiesto ai forti verso i deboli
(reciproca accoglienza), da quella dei destinatari della lettera verso i falsi maestri (rifiuto totale).
524 Traduzione e commento
In base a taliriscontrilinguistici e stilistici, alcuni hanno ipotizzato che i vv.
17-20 rappresentino un'aggiunta successiva della tradizione paolina . A parte la 162

carenza d'indizi per tale ipotesi dal punto di vista testuale, si può notare che, re-
stando al versante linguistico, la formula introduttiva vi esorto, fratelli (v. 17; cfr.
Rm 12,1; 15,30), l'espressione il Dio della pace (v. 20; cfr. Rm 15,33) e l'augurio
finale della grazia del Signore (v. 20; cfr. lTs 5,28; Gal 6,18) sono tipici di Romani
e del vocabolario delle grandi lettere. Il motivo sulla diffusione dell'obbedienza,
essendo corrispondente all' obbedienza della fede (cfr. Rm 1,5), riprende l'elogio
iniziale di Rm 1,8 in cui Paolo ha sottolineato la diffusione della fede dei destina-
tari in tutto il mondo. Anche il binomio bene-male è stato riscontrato spesso in
Romani, particolarmente nella caratterizzazione delle categorie morali di Rm 1,18
- 3,20. D'altro canto, se i termini evidenziati sono inusuali anche per la tradizione
paolina (cfr. l-2Timoteo, Tito, 2Tessalonicesi), alcuni di essi trovano corrispon-
denze nelle grandi lettere e in particolare in 2Cor 11,3-14, dove Paolo affronta,
con un vocabolario analogo, la situazione conflittuale della comunità di Corinto.
Si può ancherilevareche già nel poscritto di Gal 6,11-18 Paolo ha ammonito i de-
stinatari della lettera contro gli oppositori del suo vangelo; e qualcosa di analogo
ribadirà in Fil 3,2-21. Tali corrispondenze c'inducono a pensare che Rm 16,17-20
sia un paragrafo paolino e che, mutuato dalle situazioni di Corinto e della Galazia,
sia stato collocato a questo punto della lettera. Non è la prima volta che Paolo ri-
prenda alcune sezioni di lettere precedenti e che le ripresenti o le rielabori nella
Lettera ai Romani: questo è valso per Rm 8,15-17, dipendente da Gal 4,5-7, o per
Rm 12,3-21, che dipende da ICor 12,1-31.
Tale prospettiva è confermata dall'interpretazione data per Rm 3,8 in cui
Paolo evoca il suo conflitto con i diffamatori di Corinto, mentre nel resto di
Romani non esistono conferme di questo tipo . Ricordiamo ancora una volta che
163

prima di pensare a paragrafi interpolati nell'epistolario paolino, senza negarne l'e-


sistenza, è necessario verificare le corrispondenze nei luoghi paralleli e non limi-
tarsi all'osservazione del linguaggio diverso; e non bisogna dimenticare che quan-
to può essere inteso come postpaolino può essere pre- o extra- contestuale ma sem-
pre paolinorispettoalla lettera diriferimento.Dunque,riteniamoche il paragrafo
di Rm 16,17-20 sia paolino, anche serispondentea una situazione precedente e di-
versa da quella di Romani; è stato posto giustamente in tale contesto per invitare i
destinatari della lettera a non cadere nelle stesse situazioni conflittuali che hanno
creato divisioni nelle comunità paoline di Corinto e della Galazia . 164

162Su Rm 16,17-20 come interpolazione successiva cfr. B. Byrne, Romans, pp. 455-456; R. Jewett,
Ecumenical Theology, pp. 105-108; V. Mora, Romains 16,17-20 et la Lettre aux Éphésiens, in RB 107
(2000) 541-547; W.-H. Ollrog, Die Abfassungsverhältnisse von Rom 16, in D. Lührmann - G. Strecker
(edd.), Kirche, FS. G. Bornkamm zum 75. Geburtstag, Tübingen 1980, pp. 226-234. Da parte sua M.É.
Boismard, Rm 16,17-20: Vocaboulaire et style, in RB 107 (2000) 548-557, estrapola Rm 16,17-20 dalla
Lettera ai Romani per aggiungerla a quella che ritiene l'originale Lettera agli Efesini di Paolo.
163Così anche D.J. Moo, Romans, p. 928.
164Per la paolinicità di Rm 16,17-20, cfr. anche K.P. Donfried, A Short Note on Romans 16, in Romans
Debate, pp. 51-52; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 880; DJ. Moo, Romans, p. 928; T.R. Schreiner, Romans, p. 801 ;
U. Wilckens, Römer, III, pp. 139-140.
525
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27
[16,17] L'inizio del paragrafo è simile a quello della sezione propriamente
esortativa di Rm 12,1 - 15,13: «Invece vi esorto, fratelli...» . L'ammonizione 165

paolina prende di mira quanti provocano divisioni e scandali nella comunità , so- 166

prattuttorispettoall'insegnamento che i credenti hanno appreso attraverso la loro


obbedienza della fede . Come abbiamo giàrilevatodal versante semantico, è im-
167

probabile che Paolo siriferiscaa situazioni concrete dei destinatari: non ci sono in-
dizi nel resto della lettera. Piuttosto, si tratta di una sorta di ammonizione preven-
tiva, poiché in tutte le comunità paoline si sono verificate feroci opposizioni con-
tro 1 ' insegnamento ricevuto.
L'esortazione paolina, anche se èrivoltaa cristiani dei quali conosce soltanto
alcuni (cfr. vv. 3-15), è perentoria: da coloro che cercano di travisare l'insegna-
mentoricevutobisogna tenersi a distanza. Si può notare come il caveat paolino è
generico, per cui è difficile stabilire a quale situazione si riferisca . Di certo, nel- 168

le comunità della Galazia e a Corinto, da cui Paolo sta inviando la lettera, si sono
creati diversi conflitti di natura dottrinale e morale. Dunque, Paolo teme che anche
a Roma, dov'è già difficile la convivenza tra i forti e i deboli della fede (cfr. Rm
14,1 - 15,13), si determinino ulteriori conflitti cherischianodi porre in discussio-
ne la condivisione della fede in Cristo.
[v. 18] Spesso nella corrispondenza con i corinzi (cfr. 2Cor 11,1-15), con i ga-
lati (cfr. Gal 4,16-17; 6,12-13) e con ifilippesi(cfr. Fil 3,17-19) Paolo è entrato in
discussioni sull'identità dei veri e falsi annunciatori del vangelo. Da una parte ci
sono coloro che « servono il Cristo nostro Signore » , fra i quali si colloca lui stes-
169

so (cfr. Rm 1,1), dall'altra quanti servono il proprio ventre. In entrambi i casi si


tratta di predicatori o di annunciatori del vangelo, con la differenza che quanti ser-
vono il proprio ventre cercano d'ingannare, con linguaggio solenne e accattivan-
te, il cuore dei semplici. Qui Paolo si limita a porre in guardia da tali predicatori,
mentre nelle lettere inviate alle sue comunità sottolinea la consequenziale crisi
nelle relazioni con il suo apostolato o il suo vangelo (cfr. in particolare 2Cor 11,1-
6 in cui si trova lo stesso verbo « sedurre », exapatein). In un momento di collera
aveva domandato agli stolti galati chi li avesse ammaliati (cfr. Gal 3,1), al punto
da allontanarli dalla relazione con il Cristo crocifisso.
Non sappiamo se i seduttori di questi versi siano di origine giudaica o pagana,
e se la loro dottrina sia relazionata a una forma di gnosticismo proto-crisl'ano: se gli
elementi di Rm 16,17-20 sono relazionati a quelli di l-2Corinzi, Galati e Filippesi,
si può al massimo pensare a giudeo-cristiani che cercano di costringere le comunità

165 Per il contrasto fra questo paragrafo e quello precedente, la particella de assume funzione di op-
posizione e non di semplice connessione, come invece nel caso di Rm 16,1.
166 p j jalo come espressione di divisioni nelle comunità cristiane cfr. Rm 9,33; 11,9; 14,13;
er 0 scan(

Me 4,17; 6,3; 9,42.43.45.47; Mt 5,29-30; 11,6; 13,21.41.57; Le 7,23; 17,1.2; Gv 6,61; 16,1; lGv 2,10; Ap
2,14; lPt 2,8.
167 Sul motivo della trasmissione dell'insegnamento nelle comunità cristiane attraverso la tradizione
ricevuta cfr. ICor 15,1-3; Gal 5,20; 2Ts 2,14-15; cfr. anche 1QS 5,7-13; CD 20,25-34.
168 Cfr. le analoghe esortazioni a stare lontani dai sobillatori in ICor 5,9.11; 2Ts 3,6.14; 2Tm 3,5;
Tt 3,10-11.
169 Cfr. le analoghe espressioni di Rm 12,11; 14,18.
526 Traduzione e commento
paoline alla sottomissione alla Legge mosaica e alla circoncisione. Tuttavia, i dati a
disposizione dalla Lettera ai Romani sono talmente scarsi che anche questa è desti-
nata a restare un'ipotesi di lavoro, fondata sull'epistolario paolino precedente.
[v. 19] Per convincere i destinatari a tenersi lontani dai falsi predicatori del
vangelo, Paoloricorrealla stessa captatio benevolentiae deiringraziamentiinizia-
li della lettera: «La vostra fede è proclamata in tutto il mondo» (Rm 1,8) corri-
sponde alla « diffusione della loro obbedienza » che, come abbiamo giàrilevatodal
versante linguistico, nonriguardatanto la virtù morale dell'obbedienza quanto l'a-
desione obbediente alla fede in Cristo. Alla stessa obbedienza della fede accennerà
nell'inno finale di Rm 16,25-27 (v. 26). Tale adesione alla fede in Cristo non può
non produrre la gioia dell'apostolo che, però, aggiunge con fermezza l'esortazio-
ne a distinguere il bene dal male, in modo da tenersi lontani non soltanto dai falsi
predicatori ma anche dal male che produce la loro predicazione. Tale esortazione
riprende, anche se con linguaggio diverso, quella di Rm 12,9 (« ...Aborrite il male,
attaccatevi al bene») e trova un suo parallelo nell'esortazione gesuana a essere
«prudenti come i serpenti e innocenti come le colombe» (cfr. Mt 10,16) . 170

[v. 20] I falsi predicatoririmandanoal male e il malerimandaa colui che, an-


che per Paolo, è la sua personificazione più visibile: satana. In questa lotta contro
satana, il tentatore, « il Dio della pace » lo stritolerà al più presto sotto i piedi dei
credenti che non si lasciano ammaliare dalle sue lusinghe. In questo linguaggio si
può notare come, in filigrana, Paoloriprendail quadro protologico della tentazione
genesiaca (cfr. Gn 3,15 TM) per applicarlo ai credenti . La precisazione cronolo-
171

gica per l'imminente vittoria su satana conferma l'attesa dell'intervento escatolo-


gico finale di Dio che Paolo e le comunità delle origini condividevano, anche se
non sono mai precisate le scadenze di realizzazione (cfr. Rm 13,11-14). L'attesa
dell'imminente vittoria corrisponde alla conclusione di ICor 16, in cui Yanàtema
contro coloro che non amano il Signore precede il marànà thà, « vieni, Signore »
conclusivo (v. 22) e la formula augurale della grazia (v. 23).
La formula augurale della grazia del Signore presso i destinatari della lettera
chiude questo breve paragrafo dedicato alla prevenzione contro i falsi predicatori del
vangelo . Anche se tale formula, tipica dei poscritti, chiude molte lettere paoline ,
172 173

assume particolarerilevanzanel contesto di Rm 16,17-20: ciò che garantisce la vitto-


ria più o meno imminente su satana, come su qualsiasi forma di male, è sempre la gra-
zia del Signore nostro Gesù Cristo che accompagna e guida l'esistenza dei credenti.
Saluti dalla comunità di partenza (16,21-23). - Accanto ai saluti per alcuni
destinatari (cfr. Rm 16,3-15) si collocano quelli di alcuni della comunità di par-

170Comunque, è difficile che qui Paolo alluda esplicitamente a tale detto gesuano, come invece so-
stiene DJ. Moo, Romans, p. 932.
171Cfr. l'evocazione di Gn 3,15 in 2Cor 11,1-15; anche Giub 23,29; Test. Mose 10,1; Test. Levi 18,12;
Test. Simeone 6,6.
172Alcuni manoscritti (D, F, G e la Vulgata) omettono questa benedizione finale che, invece, colloca-
no dopo il v. 24. Dal punto di vista della critica esterna e interna o contestuale è preferibile la lezione ripor-
tata nei manoscritti (P , X, B, 1881) che collocano a questo punto la formula augurale (così anche N-A ).
46 27

173Cfr. lTs 5,28; ICor 16,23; 2Cor 13,13; Gal 6,18; Fil 4,23; Col 4,18; 2Ts 3,18.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 527
tenza della lettera; e tali saluti trovanoriscontriin altre lettere paoline , anche se 174

soltanto in Rm 16,22 sono inclusi i saluti di Terzo, il segretario che ha manual-


mente scritto questa lunga lettera: è l'unico segretario dell'epistolario paolino del
quale però conosciamo soltanto il nome. I saluti di alcuni dalla comunità di par-
tenza sono più brevi e più scarni di quelli rivolti ai destinatari; comunque sono
sufficienti per confermare l'appartenenza di Rm 16 alla Lettera ai Romani, in
quanto si contestualizzano meglio nella comunità di Corinto che in quella di
Efeso. Tale contestualizzazione trova conferma soprattutto nella narrazione di At
20,4 in cui sono citati, durante la conclusione del terzo viaggio missionario, Timo-
teo, So(si)patro e Gaio.
Non sappiamo le ragioni per le quali Paolo riferisce i saluti di questi perso-
naggi e non di altri: di certo, per alcuni si tratta di persone nella comunità e nella
città di Corinto, come per Gaio ed Erasto. Alcuni dovevano essere noti ai desti-
natari della lettera, a causa dei nomi di origine romana: sono i casi di Terzo e di
Quarto. La citazione di Timoteo è dovuta al suo particolare ruolo di collaboratore
di Paolo nell'evangelizzazione, mentre di Lucio, Giasone e Sosipatro abbiamo
pochissimi indizi per spiegare la loro citazione. Comunque, forse non è un caso
che i saluti per alcuni destinatari e quelli da parte di altri della comunità di par-
tenza comincino con le citazioni di cristiani di origine ebraica (cfr. Rm 16,3.21).
Tale precedenza deve avere una certa relazione con l'assioma «tanto prima del
giudeo quanto del greco » (cfr. Rm 1,16), così centrale in Romani. Alla preceden-
za nell'evangelizzazione del giudeorispettoal greco, pur nell'universalismo del-
la salvezza, corrisponde quella dei saluti paolini.
[16,21] Una delle ragioni principali per le quali Rm 16 appartiene alla lettera
in questione si trova nella citazione di Timoteo, il collaboratore di Paolo: non sa-
rebbe necessaria se questo capitolo fosse indirizzato alla comunità di Efeso, men-
tre è opportuna per i cristiani di Roma che non sono stati evangelizzati da Paolo e
Timoteo . Di Timoteo, citato 24 volte nel NT , sappiamo che è un cristiano na-
175 176

to da un matrimonio misto fra una giudea di nome Eunice (cfr. 2Tm 1,5) e un gen-
tile (cfr. At 16,2). A causa della sua origine giudaica, prima di sceglierlo come col-
laboratore, Paolo lo fece circoncidere a causa dei giudei (cfr. At 16,3). Da Paolo è
presentato come committente di quasi tutte le lettere paoline ed è stato sempre 177

suo fedele collaboratore, il che non doveva essere facile dato il difficile carattere
di Paolo! Per questo a lui sono indirizzate due lettere pseudepistolografiche della
tradizione paolina: l-2Timoteo. Dal restante epistolario paolino sappiamo che
Timoteo doveva essere moltoriservatoe timido e che, inizialmente, fu inviato per
risolvere i conflitti nella comunità di Corinto (cfr. ICor 4,17; 16,10). L'esito nega-
tivo della sua missione in terra d'Acaia indusse Paolo a mandare successivamen-

174Cfr. i nomi dei saluti di partenza attestati in ICor 16,19-20; Fil 4,21-22; Fm vv. 23-24; Col 4,10-
15; Tt 3,15; 2Tm 4,19-21.
175Così anche J.A. Fitzmyer, Romani, p. 863; P. Lampe, Roman Christians, p. 219.
176Cfr. lTs 1,1; 3,2.6; ICor 4,17; 16,10; 2Cor 1,1.19; Fil 1,1; 2,19; Fm v. 1; 2Ts 1,1; Col 1,1; lTm
1,2.18; 6,20; 2Tm 1,2; At 16,1; 17,14.15; 18,5; 19,22; 20,4; Eb 13,23.
177Cfr. lTs 1,1; 2Cor 1,1; Fil 1,1; Fm v. 1; cfr. anche Col 1,1; 2Ts 1,1.
528 Traduzione e commento
te Tito (cfr. 2Cor 8,6.23), l'altro suo collaboratore, dal carattere più forte di Timo-
teo. Soltanto qui e in lTs 3,2 Timoteo è presentato esplicitamente come collabora-
tore di Paolo; e questo parallelo conferma che la qualifica di collaboratore, utiliz-
zata in Rm 16,3.9, si riferisce al vangelo di Cristo per il quale alcuni credenti han-
no operato con Paolo.
Ai saluti di Timoteo succedono quelli di altri tre giudeo-cristiani dei quali
sappiamo ben poco , in particolare per Lucio e Sosipatro. Di fatto, il nome di
178

Lucio (Loukios) è citato soltanto qui e in At 13,1 in cui si accenna a un Lucio di


Cirene, ben inserito nella comunità di Antiochia: probabilmente non si tratta del-
lo stesso personaggio né si può pensare che questo Lucio corrisponda a Luca, che
invece è citato sempre come Loukas (cfr. Fm v. 24; Col 4,14; 2Tm 4,11) e non co-
me Loukios, nonostante i due nomi siano stati accostati già da Origene e, in epo-
ca contemporanea, da J.D.G. Dunn . Di Giasone possiamo dire che sia lo stesso
179

giudeo della diaspora che a Tessalonica ha ospitato Paolo e lo ha difeso davanti ai


giudei della città (cfr. At 17,1-9). Probabilmente il nome greco lasón corrisponde
a quello giudaico di Ièsous. Anche di Sosipatro possiamo affermare che è lo stes-
so personaggio citato con il diminutivo di Sopatro in At 20,4: è un giudeo-cristia-
no della diaspora, originario di Berea e figlio di un certo Pirro, che accompagna
Paolo durante il terzo viaggio missionario.
[v. 22] Dello scriba o segretario della Lettera ai Romani non sappiamo nulla
se non che il suo nome, anche se raro, è di origine latina: nonostante la sua fatica
nello scrivere una lettera così lunga, per i lettori successivi è destinato a restare
nell'anonimato, mentre doveva essere noto ai destinatari della lettera. Terzo è l'u-
nico segretario del quale abbiamo notizia nella produzione dell'epistolario paoli-
no; e non è consequenziale che egli sia anche lo scriba delle altre lettere paoline . 180

Il confronto con l'epistolografia classica dimostra che raramente il segretario di


una lettera apponeva i suoi saluti nei postscritti epistolari. Se Terzo ha la possibi-
lità di rivolgere i propri saluti ai destinatari della lettera, questo è dovuto alla re-
lazione con Paolo e forse con i destinatari . 181

Dal confronto linguistico e stilistico con il restante epistolario paolino si può


pensare che Terzo abbia scritto manualmente questa lettera non per bozza da svi-
luppare, o in modo autonomo, con la tematica del vangelo affidatagli da Paolo,
bensì verbatim ossia sotto dettatura, parola per parola . La precisazione « nel Si-
182

gnore», a causa della sua presenza anche nei saluti di Rm 16,8.11.12.13, non si
riferisce all'aiuto del Signore nella fatica di Terzo durante la composizione della
lettera ma alla sua appartenenza al Signore che condivide con tutti i destinatari
della lettera.
[v. 23] Ai saluti di partenza sono aggiunti quelli di Gaio, un cristiano che
ospita Paolo e la Chiesa domestica di Corinto. Il nome latino Gaio è citato 5 volte

178 Per il significato etnico e non familiare di syggenès cfr. Rm 9,3; 16,7.
179 Cfr. Origene, Romani, II, p. 207; J.D.G. Dunn, Romans, II, p. 909.
180 Con buona pace di J.A. Fitzmyer, Romani, p. 884.
181 Così anche E.R. Richards, Secretary, pp. 170-171.
182 Così anche D.J. Moo, Romans, p. 935; E.R. Richards, Secretary, p. 172.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 529
nel NT e probabilmente per credenti differenti che recano lo stesso nome. In At
19,29 si accenna a un certo Gaio, originario della Macedonia, coinvolto, insieme
ad Aristarco, durante la rivolta degli argentieri a Efeso. Probabilmente un altro
Gaio è citato in At 20,4, un cristiano proveniente da Derbe in Licaonia (Galazia
del sud), che accompagnerà Paolo nella via del ritorno a Gerusalemme, a meno
che non si conferisca maggiore credito al codice Occidentale (D*) di Atti che con-
sidera questo Gaio originario di Dubero, una città della Macedonia. In tal caso, sa-
rebbe citato lo stesso Gaio di At 19,29, ma potrebbe anche trattarsi di un miglio-
ramento testuale per far coincidere i due nomi. Di certo, il Gaio di Rm 16,23 non
è lo stesso al quale è indirizzata la 3Giovanni (v. 1), mentre possiamo identificar-
lo con il credente che secondo ICor 1,14 ha ricevuto il privilegio di essere stato
battezzato da Paolo, insieme a Crispo. Tale convergenza di dati, almenorispettoa
ICor 1,14, conferma l'origine di Rm 16: è una sezione di raccomandazione scrit-
ta da Corinto e non da Efeso.
L'annotazione sull'ospitalità che Gaio offre a tutta la comunità domestica di
Corinto deverisultareun po' iperbolica, giacché sappiamo che a Corinto ci sono
altre chiese domestiche, come quella di Aquila e Priscilla (cfr. At 18,2-18), di
Stefana (cfr. ICor 1,16; 16,15), senza ignorare quella di Febe a Cenere (cfr. Rm
16,1). D'altro canto soltanto in una situazione ramificata della comunità cristiana
si spiegano le divisioni riflesse nella corrispondenza paolina con Corinto.
Fra i saluti di partenza è conferita una particolare importanza ad Erasto, ci-
tato come «amministratore della città» . Non è facile stabilire se sia lo stesso
183

Erasto menzionato in At 19,22 e in 2Tm 4,20: i dati a disposizione sono scarsi


per stabilire tale assimilazione . D'altro canto, se in passato il nome di Erasto
184

era ritenuto abbastanza raro, le recenti scoperte prosopografiche attestano circa


80 nomi in latino Erastus o in greco Erastos . Questo dato invita, quanto me-
185

no, a una maggiore cautela nello stabilire una connessione tra l'Erasto di Rm
16,23 e il noto costruttore (aedilis) che fece pavimentare una piazza romana di
Corinto. Così recita l'iscrizione romana «ERASTUS PRO AEDILIT(AT)E S P
STRAVIT» . 186

A riguardo, è bene riconoscere che comunque l'iscrizione risale al secolo I


d.C., anche se, poiché si tratta di un'iscrizione tronca proprio sulla «E» di ERA-
STO, è possibile che si tratti anche di un EPERASTUS . D'altro canto, il titolo
187

amministratore della città puòriferirsia uno schiavo o liberto delegato per il ser-
vizio civico, come dimostra un'iscrizione proveniente da Tessalonica per un certo

183 II titolo di oikonomos è attestato 10 volte nel NT, con valore amministrativo, come nel nostro ca-
so (cfr. Gal 4,2; Le 12,42; 16,1.3.8) e traslato, per l'economia dei misteri divini (cfr. ICor 4,1.2; anche Tt
1,7; lPt 4,10).
184 A favore dell'identificazione di un'unica persona cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 885; invece è con-
trario JJ. Meggitt, The Social Status of Erastus (Rom.l6:23), in NT 38 (1996) 222.
185 Cfr. CIL 111,2840, 9052; V,6821, 7232; CIG 1241; 1249; 6378. Cfr. l'elenco in JJ. Meggitt,
Erastus, p. 222.
186 La sigla S.P. sta per sua pecunia-, si ha così la seguente traduzione: «Erasto, per la sua canca di
edile, a proprie spese ha fatto pavimentare ».
187 Così J.J. Meggitt, Erastus, p. 222.
530 Traduzione e commento
Longeinos , e non è detto che oikonomos corrisponda a costruttore (aedilis), men-
m

tre generalmente è reso in latino con vilicus. Dunque, se alcuni elementi, come la
datazione, lasciano propendere per una convergenza tra Rm 16,23 e l'iscrizione di
Corinto, altri, come i titoli e la situazione prosopografica, esigono maggiore caute-
la. Pertanto di Erasto, citato in Rm 16, possiamo dire che, se da schiavo-liberto o
come benestante, ha comunque svolto funzioni pubbliche nella città di Corinto.
Dell'ultimo saluto di Quarto, non abbiamo altri dati, se non che si tratta di un
cristiano (fratello), con un nome di origine latina, come quello di Terzo. In alcuni
codici della lettera si trova l'aggiunta del v. 24: « La grazia del Signore nostro Gesù
Cristo sia con tutti voi, amen » . Tale postilla non trova riscontri nella maggior
189

parte dei testimoni, è un'inutileripetizionedel v. 20 e sembra un tentativo di omo-


logazione rispetto alle altre conclusioni dell'epistolario paolino in cui è utilizza-
ta . Per questo, giustamente, le più autorevoli edizioni critiche (N-A ; GNT )
190 27 4

escludono questo verso dal poscritto.


Dossologiafinale(16,25-27). - La Lettera ai Romani si chiude con una dos-
sologia (vv. 25-27) che presenta diverse difficoltà dal punto di vista testuale, per
la sua collocazione, e contenutistico, per il linguaggio. Questi versi appartengono
alla lettera o provengono dalla tradizione paolina? Se fanno parte di Romani, so-
no ben collocati o bisogna pensare a una diversa postazione? A prescindere dalla
loro attribuzione, svolgono una funzione significativarispettoa quanto precede o
sono un'aggiunta poco armonizzata con la lettera? Come si può notare, sono mol-
te le questioni da affrontare sulla natura e la funzione di Rm 16,25-27 e, forse, al-
cune di esse sono destinate a restare irrisolte.
Dal versante testuale, i vv. 25-27 non si trovano in tutti i manoscritti della
Lettera ai Romani nello stesso luogo: alcuni li collocano dopo Rm 14,23 , altri do- 191

po Rm 15,33 , altri dopo Rm 16,23 , altri ancora liripetonodopo Rm 14,23 e do-


192 193

po Rm 16,23 ; e non mancano i manoscritti che si chiudono con il v. 24 (« La gra-


194

zia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi, amen»), senza alcuna dossolo-
gia . L'autorevolezza dei manoscritti a sostegno di queste diverse collocazioni
195

impedisce di risolvere la questione soltanto in base alla critica testuale esterna.


Anche le edizioni critiche del NT (N-A ; GNT ) che collocano i vv. 25-27 alla fine
27 4

della lettera appongono una parentesi perriconoscerel'incertezza di tale opzione . 196

Così W.A. Meeks, Urban Christians, p. 56; E. Stegemann - W. Stegemann, Cristianesimo primitivo,
188

pp. 493-494; G. Thiessen, Soziale Schichtung in der korinthischen Gemeinde: Ein Beitrag zur Soziologie des
hellenistischen Urchristentums, in ZNW 65 (1974) 239-241; A.D. Clarke, Secular and Christian Leadership
in Corinth: A Socio-Historical and Exegetical Study of lCorinthians 1-6, Leiden 1993, pp. 49-54.
Cfr. i manoscritti ^ e 1881.
189

Cfr. lTs 5,28; 2Ts 3,17; ICor 16,23; 2Cor 13,13; Gal 6,18; Fil 4,23; Fm v. 25.
190

Cfr. i testimoni L, V, 0209 , 181, 326, 330, 614, 1175.


191 vid

Cfr. l'importante P .
192 46

Cfr. i testimoni P ^, X, B, C, D, 81, 1739.


193 61

Cfr. i codici A, P, 5, 33, 104.


194

Cfr. F , G, 629.
195 gr

Cfr. il commento di B.M. Metzger, Commentary, pp. 533-536, 540.


196
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 531
Dal versante della critica interna, è bene riconoscere che l'ipotesi meno so-
stenibile è quella che collega questa dossologia alla conclusione di Rm 14,23, poi-
ché creerebbe un'inutile e dannosa interruzione nello sviluppo dell'esortazione
paolinarivoltaai forti e ai deboli che, invece, prosegue e perviene al suo punto de-
cisivo proprio con Rm 15,1-13. Anche la collocazione dopo Rm 15,33 è impropria,
in quanto sarebbe unaripetizioneconclusiva: « E il Dio della pace sia con tutti voi,
amen... sia la gloria per mezzo di Gesù Cristo per i secoli, amen». D'altro canto,
senza questa dossologia, la lettera si concluderebbe ex abrupto con il v. 23, giac-
ché, come abbiamo notato nel paragrafo precedente, il v. 24 non trova consistenza
per la critica testuale esterna (il confronto fra i codici) e per quella interna (conte-
sto letterario). Non resta che lasciare tale dossologia alla conclusione della lettera,
anche se bisognariconoscereche si tratta di un caso unico nell'epistolario paolino,
poiché Paolo non chiude mai una lettera in questo modo.
Passando alla valutazione di Rm 16,25-27 dal punto di vista epistolografìco,
anche se nessuna lettera paolina si chiude con un inno, quella ai Filippesi presenta
una breve dossologia (Fil 4,20: « E al Dio e padre nostro sia la gloria per i secoli dei
secoli, amen»), prima dei saluti vicendevoli e dell'augurio finale (Fil 4,21-23).
Un'altra breve dossologia chiude il prescritto di Gal 1,1-5 («Al quale sia la gloria
per i secoli dei secoli, amen »), caso altrettanto unico nel suo epistolario . A soste- 197

gno della collocazione di Rm 16,25-27 non possiamo addurre le dossologie di lTm


6,16; 2Tm 4,18 e, tanto meno, quelle extra-paoline di Eb 13,21 e Gd vv. 24-25: so-
no successive e possono essere state composte sul modello di Rm 16,25-27. Il con-
fronto tra Rm 16,25-27 e il corpus della lettera dimostra che Paolo ha chiuso alcu-
ne sezioni con un inno (cfr. Rm 8,31-39) o una dossologia (cfr. Rm 11,33-36).
Dal versante semantico o linguistico, si puòriconoscereche alcuni termini so-
no unici nel vocabolario paolino: si pensi al verbo sigari (tacere, v. 25) non utiliz-
zato mai da Paolo e dal resto del NT in contesto teologico . L'attributo « sapien-
198

te» (sophos), attestato altrove nell'epistolario paolino , non si trova come appel-
199

lativo divino; e della « disposizione » (epitagè) divina non si parla mai nelle grandi
lettere , mentre l'espressione « secondo la disposizione di Dio » si troverà 2 volte
200

nelle Lettere pastorali (cfr. lTm 1,1; Tt 1,3). Sono uniche nel linguaggio paolino
espressioni come « scritture profetiche » ed « eterno Dio », mentre la formula « se-
coli eterni » si trova nuovamente soltanto in 2Tm 1,9 e in Tt 1,2; e del «kérygma di
Gesù Cristo » si parla soltanto qui nel NT. Dunque, se da un versante riscontriamo
alcune connessioni con la tradizione paolina, per cui alcuni hanno ipotizzato lo
stesso background delle lettere pastorali , dall'altro in Rm 16,25-27 alcuni termi-
201

ni sono nuovi nel linguaggio teologico del NT.

197Per il confronto fra Rm 16,25-27 e le altre dossologie del NT cfr. H. Marshall, Romans.16:25-27
- An Apt Conclusion, in S.K. Soderlund - N.T. Wright, Romans, pp. 174-180.
198Cfr. l'uso antropologico del verbo in ICor 14,28.30.34; Le 9,36; At 12,17.
199Cfr. ICor 1,19.20.26; 3,10; 6,5. Soltanto in ICor 1,25 abbiamo un accostamento fra Dio e «sa-
piente » ma in un'espressione meno diretta: « Ciò che è stolto di Dio è più sapiente degli uomini ».
200Cfr. invece l'uso diverso del sostantivo in ICor 7,6.25; 2Cor 8,8.
201Così J.K. Elliott, The Language and Style of the Concluding Doxology to the Epistle to the
Romans, in ZAW72 (1981) 124-130.
532 Traduzione e commento
A fronte di queste discontinuità linguistiche, dobbiamo riconoscere che altri
termini di Rm 16,25-27 trovano significative corrispondenzerispettoal resto della
lettera, soprattutto con Rm 1,1-17 e con l'inno di Rm 11,33-36 . Questo vale per 202

il verbo dynamenos (che ha il potere) cheriprendela dynamis (potenza) divina di


Rm 1,4 e di Rm 1,16 (cfr. anche Rm 15,13). Non è un caso che il verbo stèrizein
(rafforzare) compaia all'inizio (Rm 1,11) e alla fine della lettera (Rm 16,25). Il ri-
ferimento a « secondo il mio vangelo » è già stato formulato in Rm 2,16 (cfr. dopo
2Tm 2,8) e del vangelo si è parlato soprattutto in Rm 1,1.9.16. Anche il vocabola-
rio dellarivelazione(apokalypsis) e del manifestare (phaneroun) trovariscontriin
Rm 1,17.18 e in Rm 3,21. Per quanto l'espressione «scritture profetiche» (v. 26)
sia originale, presenta relazioni con l'espressione iniziale di Rm 1,2: «Che aveva
preannunciato per mezzo dei suoi profeti nelle sante scritture » (cfr. anche Rm
3,21). Lo stesso vale per l 'obbedienza della fede cherichiamaRm 1,5 e la sempli-
ce obbedienza, in Rm 15,18; 16,19. Poiché il sostantivo ethnos (gentile, nazione)
si trova ben 29 volte in Romani, non poteva mancare in Rm 16,26, anche se ora as-
sume una connotazione generale, riferita a tutte le nazioni, come in Rm 15,11.
Sull'unicità di Dio (v. 27) Paolo si è soffermato in Rm 3,29-30 e con la conoscen-
za del mistero ha concluso la drammatica sezione di Rm 9,1 -11,26 (v. 25). Infine,
la sequenza mistero-sapienza-conoscenza di Dio accomuna il paragrafo di Rm
11,15-26 e quest'inno conclusivo.
Pertanto, vi sono fondate ragioni per ritenere che, anche se la dossologia di
Rm 16,25-27 non appartenesse alla redazione originaria di Romani, la sua capa-
cità di sintetizzare molte tematiche costituisce almeno la ragione principale per la
quale non può essere collocata altrove, né in un altro luogo di Romani né in una
lettera successiva, come ad esempio in una corrispondenza con la comunità di
Efeso. Dobbiamoriconoscereche a volte ci si sofferma troppo sulle novità lingui-
stiche dell'epistolario paolino per dedurre, con superficialità, la non paolinicità o
la post-paolinicità di inni come questo, ignorando che, di per sé, naturalmente il
linguaggio poetico o innico si discosta da quello prosaico o discorsivo. Quindi, an-
che se la dossologia di Rm 16,25-27 non appartenesse alla redazione di Romani,
colui che l'ha composta, se Paolo o un suo discepolo , ha saputo, con un colpo
203

d'occhio, sintetizzare le tematiche principali e i momenti nodali della lettera.


Circa la composizione interna, nella dossologia sono riconoscibili due parti
che cominciano con due dativirivoltia Dio (v. 25: A colui che ha il potere... ; v. 27:
al solo sapiente Dio...) . Tra queste parti si collocano le ragioni della dossologia
204

(vv. 25b-26) che occupano la parte principale dell'inno. A sua volta, l'inno è ca-
denzato da un orizzonte cronologico che procede dal presente del vangelo, incen-

202Per tali connessioni cfr. anche D.J. Moo, Romans, pp. 937-938.
203A favore della paolinicità della dossologia cfr. L. Hurtado, The Doxology at the End of Romans,
in E.J. Epp - G.D. Fee (edd.), New Testament Textual Criticismi lts Significarne far Exegesis, FS. B.M.
Metzger, Oxford 1981, pp. 185-199; DJ. Moo, Romans, p. 937; T.R. Schreiner, Romans, pp. 810-811;
J.A.D. Weima, Neglected Endings: The Significance of the Pauline Letter Closings, Sheffield 1994, pp.
135-144; per la sua deutero-paolinicità cfr. B. Byrne, Romans, pp. 461-462; J.D.G. Dunn, Romans, II, pp.
912-913; J.A. Fitzmyer, Romani, p. 888; Wilckens, Römer, III, p. 147.
204Cfr. anche H. Marshall, Romans 16:25-27, pp. 173-174.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 533
trato su Gesù Cristo (v. 25a), al passato del mistero divino (vv. 25b-27) e al futuro
della gloria (v. 27). Nello sviluppo dell'inno èriconoscibileanche la disposizione
ternaria di alcune tematiche: ai tre sostantivi retti da kata (secondo la predicazio-
ne, larivelazionee la disposizione) corrispondono tre participi che definiscono il
mistero divino: «tenuto nel silenzio... manifestato... reso noto».
[v. 25a] Anche se l'inno non esplicita il soggetto di colui che ha il potere di
rafforzare i destinatari della lettera, dalla seconda parte (v. 27) si comprende che
Paolo si riferisce a Dio. Tale connessione dimostra la natura propriamente teolo-
gica dell'inno . Le precedenti analisi sulla funzione della potenza divina dimo-
205

strano che Dio ha il potere di rafforzare i credenti per mezzo dello Spirito, com'è
esplicitamente sottolineato in Rm 15,13. D'altro canto, abbiamo evidenziato che
soltanto la potenza dello Spirito rende possibile la «costituzione di Gesù Cristo
come Signore dalla risurrezione dei morti» (cfr. Rm 1,4); e il vangelo si presen-
ta come « potenza di Dio » (cfr. Rm 1,16) in forza dello Spirito. Dunque, anche se
questa dossologia è principalmente teologica, Dio realizza il consolidamento del-
la fede attraverso la sua potenza pneumatologica, senza voler canonizzare la dos-
sologia in una prospettiva esplicitamente trinitaria.
Dio opera nella vita dei credenti non con una generica potenza dello Spirito
ma « secondo o per mezzo >> del vangelo paolino, che trova il suo principale con-
206

tenuto nella predicazione di Gesù Cristo . Dal confronto con quest'assimilazione


207

tra il vangelo paolino e Gesù Cristo con le argomentazioni precedenti, si può evi-
denziare che in Romani ci sono diverse sezioni in cui non si parla per nulla o qua-
si di Gesù Cristo . Per questo, a prima vista, l'assimilazione tra il vangelo paolino
208

e Gesù Cristo sembra nonrisponderealmeno ad alcune parti della lettera. In realtà,


in queste tensioni, anche se si parla poco o punto di Gesù Cristo, l'orizzonte di ar-
rivorimanelui, senza il quale queste partirischianodi essere fraintese e strumen-
talizzate, come lo sono state spesso nella storia dell'interpretazione. Dunque, da
questo punto di vista è fondata la nota prospettiva di Sanders per la quale Paolo
procede dalla soluzione cristologica alla distretta o all'angoscia umana, in quanto
in ultima analisi, dire vangelo significa dire Gesù Cristo. L'accoglienza piena del
vangelo paolino e della sua predicazione di Gesù Cristo è la via attraverso la quale
la potenza pneumatologica di Dio rafforza l'esistenza dei credenti . 209

[vv. 25b-26] Alla predicazione di Gesù Cristo, l'inno collega la rivelazione


del mistero e la disposizione eterna di Dio. In questa seconda parte sono presenta-
te, in modo sintetico, le coordinate storico-salvifiche del mistero divino che corri-
205Cfr. gli altri inni teologici di Rm 11,33-36; Ef 1,3-14; Tt 3,4-7.
206Nelle tre espressioni con kata + accusativo («secondo il mio vangelo... secondo la rivelazione...
secondo la disposizione... »), è contenuto il valore normativo e quello strumentale del vangelo, della rive-
lazione e della disposizione. Queste entità non sono soltanto la norma ma anche il mezzo con il quale Dio
rafforza i credenti. Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 811.
207Forse è bene precisare che l'espressione kérygma Iésou Chrìstou ha valore oggettivo, in quanto Gesù
Cristo rappresenta il principale contenuto del « mio vangelo ». Così anche T.R. Schreiner, Romans, p. 812. Il
sostantivo kerygma compare soltanto qui in Romani (cfr. anche ICor 1,21; 2,4; 15,14; 2Tm 4,17; Tt 1,3).
208In Rm 1,18 - 3,20 Gesù Cristo è citato soltanto in Rm 2,16; in Rm 4,1-25 al v. 24; non è mai cita-
to in Rm 9,5-30 e in Rm 11,1-36.
209Sul motivo del rafforzamento della fede dei credenti vedi il commento a Rm 1,11.
534 Traduzione e commento
sponde alla disposizione o al disegno dell'eterno Dio. Si susseguono, senza pau-
sa, se non con la relazione tra il mistero e la disposizione divina (v. 26b), quattro
caratterizzazioni sulla rivelazione del mistero. Innanzi tutto è un mistero tenuto
nel silenzio per i secoli eterni: il mistero appartiene all'eternità originaria di Dio . 210

La contiguità tra il mistero, il vangelo paolino e Gesù Cristo pone in risalto che
questi appartengono all'originario silenzio di Dio, superato attraverso la rivela-
zione e la manifestazione del suo disegno. Ignazio di Antiochia, parafrasando que-
sto stico dell'inno dirà che « ...c'è un solo Dio che si è manifestato per mezzo di
Gesù Cristo suo Figlio, che è il suo Verbo uscito dal silenzio... » (Magnesi 8,2) . 211

Naturalmente, questa connessione tra il silenzio e Gesù Cristo non ha nessuna re-
lazione con lo gnosticismo di matrice valentiniana che vede nel « Silenzio » (Sigè)
e in Theos la coppia generatrice del Verbo. Paolo considera Gesù Cristo stesso co-
me preesistente e appartenente al mistero originario di Dio, al suo silenzio . 212

Piuttosto è tipico del linguaggio apocalittico antico e neotestamentario il supera-


mento del silenzio divino attraverso la rivelazione della sua volontà . Pertanto, 213

non c'è prima il mistero e quindi il vangelo e, di conseguenza, Gesù Cristo bensì
l'originario disegno misterioso di Dio che è Gesù Cristo, il vangelo di Paolo.
Il secondo stico sul mistero è dedicato, attraverso la prima coordinata tempo-
rale che segue lo schema una volta-adesso , al passaggio dal passato del silenzio
214

al presente della rivelazione e della manifestazione del mistero. In questa corri-


spondenza tra larivelazionee la manifestazione non si può non evocare il proces-
so dirivelazionedella giustizia di Dio delineato in Rm 1,17 (apokalypsis) e in Rm
3,21 (dikaiosynè Theou pephanerötai). Se tale collegamento corrisponde alle in-
tenzioni dell'inno, il mistero non siriferiscesoltanto all'inclusione della pienezza
dei gentili e all'indurimento di una parte d'Israele (cfr. Rm 11,25) ma diventa una
variante per indicare il vangelo che trova nella giustizia divina il suo principale
contenuto, per mezzo della fede in Gesù Cristo (cfr. Rm 3,22).
La terza caratterizzazione del mistero riguarda la sua attuale conoscenza at-
traverso le Scritture profetiche che, come abbiamo già osservato, rimandano al
prescritto della lettera: il vangelo di Dio è stato preannunciato nelle sante Scritture
(cfr. Rm 1,2). Sull'attestazione profetica del vangelo e del mistero Paolo è torna-
to per larivelazionedella giustizia di Dio (cfr. Rm 3,21). In quest'originale riferi-
mento è contenuto l'uso abbondante dell'AT in Romani, riletto in chiave cristo-
II soggetto del participio perfetto passivo sesìgémenou è Dio che ha tenuto nel silenzio il suo mi-
210

stero salvifico. Così anche K. Haacker, Römer, p. 332.


Anche se il manoscritto greco e la versione latina della lettera d'Ignazioriportanola lezione ouk
211

apo siges proelthön (non uscito dal silenzio), la lezione originaria sembra quella senza negazione; quella con
la negazione è antica ma dipende dalla polemica successiva con i valentiniani. Per la lezione in positivo cfr.
la versione armena della lettera d'Ignazio. Così anche le edizioni critiche di F.X. Funk, Opera Patrum
Apostolicorum, Tübingen 1878,1, pp. 196-197; K. Lake (ed.), TheApostolic Fathers (LCL 24), Cambridge-
London 1985,1, p. 204; Ignace d'Antioche, Lettres, in P.T. Camelot (ed.), (SC 10), Paris 1951 , pp. 102-103.
2

Per le implicazioni teologiche sull'assimilazione fra il Verbo e il Silenzio divino cfr. B. Forte, Teo-
212

logia della storia. Saggio sulla rivelazione, / 'inizio e il compimento, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo
1991 , pp. 56-57.
2

Cfr. le tematiche del nascondimento in ICor 2,7; Col 1,26; Ef 3,9 e della non conoscenza in Ef 3,5.
213

Per il silenzio di Dio cfr. Is 64,11; Sai 28,1; 35,22; 39,13; 50,3.
Per tale schema temporale cfr. H. Marshall, Romans 16:25-27, pp. 180-183.
214
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 535
logica e in vista dell'affermazione della giustizia divina. Dunque, per Paolo le
scritture profetiche non sono le fonti neotestamentarie che lo hanno preceduto né
le attestazioni profetiche delle prime comunità (cfr. la formula «profezia della
Scrittura» di 2Pt 1,20) bensì il Primo Testamento che rappresenta il fondamenta-
le codice di comprensione del Nuovo Testamento . Per questo, non ha alcun fon-
2X5

damento collocare questa dossologia in un contesto marcionita che, invece, tende


a deprezzare buona parte dell'AT.
Prima di aggiungere un'ultima caratteristica, abbiamo un nuovo collega-
mento tra il mistero e « la disposizione dell'eterno Dio »: tale annotazione, anche
se interrompe la descrizione del mistero, è preziosa perché si aggiunge alle con-
tiguità tra il vangelo, Gesù Cristo e il mistero. Il mistero non si identifica con l'ar-
cano o con l'indecifrabile ma con la disposizione, il disegno e la volontà dell'e-
terno Dio : i secoli eterni ai quali è appartenuto il silenzio del mistero non sono
216

altro che l'eternità di Dio. Tale specificazione del mistero, come disposizione, ri-
manda al disegno originario descritto in Rm 8,28 con le sue diverse fasi.
Il mistero divino ha come orizzonte finale l'obbedienza della fede di tutte le
genti. A tal proposito si può ben parlare non soltanto della finalità ma anche del
contenuto del mistero che trova nell'obbedienza qualificata dalla fede in Gesù
Cristo il suo contenuto principale . Questa definizione contenutistica del mistero
217

e quindi del vangelo è confermata dalla tesi generale della lettera in cui il vange-
lo, in quanto potenza di Dio erivelazionedella sua giustizia, rimanda all'adesione
di chiunque crede, perché il giusto per la fede vivrà. Tuttavia rispetto a Rm 1,5 e
Rm 1,16-17 dobbiamo rilevare una variazione sulla destinazione dell'obbedienza
della fede e quindi sul mistero: anche se in Romani il sostantivo ethnos si riferisce
soprattutto ai gentili e non ai giudei , ora assume, a causa della specificazione
218

«tutte» (panta), un orizzonte che include i giudei. Così sono chiamate in causa
tutte le nazioni o tutti i popoli. Questa estensione di significato per gli ethne trova
la sua anticipazione soprattutto nel modello di Abramo, costituito «padre di mol-
ti popoli » (cfr. Rm 4,17.18), ed è confermata dall'attualizzazione del Sai 117,1 in
Rm 15,11: tutte le nazioni sono invitate a inneggiare al Signore.
[v. 27] La dossologia perviene al culmine con l'attribuzione della gloria al-
l'unico sapiente Dio. L'ultima parte dell'inno riscontra i suoi aspetti più originali
nell'unicità della sapienza di Dio; e la relazione tra questa e le parti precedenti del-
l'inno dimostra che il mistero paolino non si relaziona soltanto alfiloneprof etico-
apocalittico ma anche a quello sapienziale dell'AT. La rivelazione-manifestazione
del mistero risponde all'unico sapiente Dio che guida la realizzazione del suo im-
perscrutabile disegno. Lo stesso congiungimento tra la dimensione apocalittica e
quella sapienziale del mistero è stato riscontrato nell'inno di Rm 11,33-36: «O
profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio...» (v. 33).

Così anche DJ. Moo, Romans, p. 940.


215

216Per il sintagma «eterno Dio» hapax legomenon nel NT, cfr. Gn 21,33; Is 16,4; 40,28; Ba 4,8;
3Mac 7,16; lQapGen 19,8.
Vedi il nostro commento a Rm 1,5.
217

Cfr. Rm 1,5.13; 2,14.24; 3,29.29; 9,24.30; 10,19.19; 11,11.12.13.13.25; 15,9.9.10.16.16.18.27;


2,8
536 Traduzione e commento
Anche in questo caso, l'unicità della sapienza divina trova il suo retroterra nelle
correnti apocalittiche e sapienziali dell'AT e non in quelle dellafilosofiapopolare.
L'inno si conclude con la formula dossologica in cui è esaltata la gloria di Dio
in vista del futuro; ma, anche in questo, l'inno si dimostra originale rispetto alle
formule dossologiche parallele, in quanto è l'unico a conferire la gloria all'unico
sapiente Dio per mezzo di Gesù Cristo . In tal modo, anche se la dossologia è
219

principalmente teologica, trova in Cristo la sua realizzazione: Gesù Cristo si trova


al centro del vangelo paolino, del mistero e della disposizione divina; e per questo
l'unicità sapienziale di Dio e la sua gloria sono esaltate e trovano la piena realiz-
zazione in Gesù Cristo.
A questo punto, alcuni codici aggiungono specificazioni sulla contestualizza-
zione della Lettera ai Romani: « fu scritta ai Romani da Corinto » oppure « fu scrit-
ta ai Romani per mezzo della diaconessa Febe » o « fu scritta per mezzo di Terzo
e fu inviata per mezzo di Febe » . Si tratta di postille successive della tradizione
220

amanuense, finalizzate a confermare gli elementi epistolografici già attestati nel


prescritto e nel poscritto della lettera.

Lo spessore contenutistico della Lettera ai Romani non diminuisce nell'u-


nità protocollare del poscritto (Rm 15,14 -16,27). La prima parte (Rm 15,14-21)
è caratterizzata dal ristabilimento dell'autorevolezza apostolica di Paolo verso i
gentili. Egli si presenta come ministro di Cristo, impegnato per il sacro culto, e
come profeta dedicato alla diffusione del vangelo di Dio o di Cristo. Attraverso
una valutazione della missione passata, non esita a vantarsi dell'opera che Cristo
ha realizzato per mezzo di lui, da Gerusalemme e dintorni, sino all'Illiria. Con
questa prima parte, Paolo pone le premesse per essere accolto, con il suo vange-
lo, nelle comunità di Roma e per essere aiutato a raggiungere la Spagna.
Con l'approssimarsi della conclusione di una lettera così ampia, è intenso il
desiderio dell'incontro tra il mittente e i destinatari: per questo in Rm 15,22-33 do-
mina la tematica della lontananza-vicinanza (apusia-parusia) tipica del genere epi-
stolografico antico e moderno. La speranza e la gioia di poter raggiungere Roma e
la Spagna, più volte evidenziate nel corso del paragrafo, sono tuttavia velate da
strani presagi. Paolo deve prima giungere a Gerusalemme, per condurre a buon fi-
ne la colletta delle sue comunità a favore dei santi e, in particolare, di quanti fra
loro si trovano in condizioni disagiate. Tuttavia, egli teme, con fondatezza, che a
Gerusalemme sarà osteggiato dai tanti giudei che non hanno aderito a Cristo e che
si oppongono al suo vangelo. In questa prospettiva, la colletta per la Chiesa di
Gerusalemme rischia di essere fraintesa: una sorta di corruzione per favoreggia-
mento e non un gesto di gratitudine verso i giudei. Le ansie per i prossimi proget-
ti di viaggio esigono dai destinatari la solidarietà e la vicinanza nella preghiera.

2,9Cfr. le formule dossologichefinaliin cui non si parla mai della mediazione di Gesù Cristo in Gal 1,5;
Fil 4,20; 2Tm 4,18. Soltanto in Ef 3,21 e in Eb 13,21 è espressa la mediazione cristologica della dossologia.
220Cfr. le aggiunte dei codici A, B*, C, X, 1739,2464,1881,337. Tali aggiunte mancano in P , 46

F, 365,629,630 e 1505.
Il poscritto epistolare Rm 15,14 - 16,27 537
Lo spaccato delle comunità cristiane di Roma che emerge da Rm 16,1-16 è
movimentato, attesta una rilevante vitalità che non doveva valere soltanto per la
capitale dell'impero ma anche per altre comunità cristiane delle origini. Non sap-
piamo con certezza quante comunità domestiche si trovano a Roma nella metà de-
gli anni 50 d.C.; di certo Paolo ne saluta almeno cinque: quella di Prisca e Aquila
(v. 5), di Aristobulo (v. 10), di Narcisso (v. 11), di Asìncrito (v. 14) e di Filologo e
Giulia (v. 15). Non dovevano essere le uniche domus ecclesiae; ma sono suffi-
cienti a dimostrare che a Roma non c'è una Chiesa centralizzata, dalla quale di-
pendono le altre, ma diverse comunità che, non di meno, interagiscono fra loro. Le
rilevazioni archeologiche confermano questo modello ecclesiologico che si collo-
ca in continuità con quello delle sinagoghe romane.
Attraverso l'analisi dettagliata dei nomi elencati in Rm 16 abbiamo potuto ri-
levare l'origine umile di molti cristiani: erano per lo più schiavi o liberti, tradotti
a Roma. Senza dedurre connessioni indebite tra i nomi e le loro origini ma fer-
mandoci soltanto a quelli che sono precisati come tali, emergono comunità miste
in cui convivono ebrei e gentili. Sono esplicitamente giudei Prisca, Aquila,
Andronico, Giunia ed Erodione. Questi dati confermano l'origine mista delle co-
munità romane, strettamente relazionate alle sinagoghe giudaiche, al punto che il
messaggio cristiano perviene a Roma attraverso giudei della diaspora dei quali,
purtroppo, ignoriamo l'identità. Non è un caso che su ventisei nomi di persone,
siano citate sette donne (senza calcolare la madre di Rufo e la sorella di Nereo),
ed è indicativo che gli elogi di Paolo siano rivolti soprattutto a esse, a dimostra-
zione della loro importanza nelle comunità cristiane delle origini . Includendo in
221

questa valutazione anche Febe, alcune donne svolgono ruoli di diaconato e di apo-
stolato, e sono elogiate per le fatiche nella diffusione del vangelo. Spesso si taccia
indebitamente Paolo di misoginia o di antifemminismo, ignorando il contesto so-
ciale della donna nel secolo I d.C., mentre non si pone a sufficienza inrisaltol'im-
portanza che le donne svolgono nelle comunità cristiane delle origini. Per quanto
questo spaccato sulle comunità cristiane di Roma sia datato e conosciamo poco
dei nomi salutati, la rilevanza attribuita alle donne dimostra che forse ha ancora
qualcosa da dire alle nostre comunità, in particolare sul fondamentale ruolo di
evangelizzazione che le donne svolgono nella Chiesa.
In Rm 16,17-20 Paolo sembra riprendere e adattare, da una prospettiva pre-
ventiva, le accese polemiche di 2Cor 11,1-15 e di Gal 6,12-14, anche se, a diffe-
renza da tali paralleli, si rivolge a cristiani non evangelizzati da lui. Questo para-
grafo anticipa quanto dirà aifilippesi,per metterli in guardia da coloro che hanno
per « dio il loro ventre » (cfr. Fil 3,17-19). Egli si sente in diritto-dovere di sferra-
re quest'attacco contro i falsi predicatori, dopo aver stabilito una personale rela-
zione con i destinatari e aver presentato il suo vangelo. Purtroppo, non si soffer-
ma sull'identità dei falsi predicatori, sia perché, se fossero già in agguato presso
le comunità domestiche di Roma, non li conosce, sia perché il suo vuol essere un
breve ammonimento affinché non si vengano a creare le condizioni analoghe che
hanno posto in crisi la fede dei corinzi e dei galati.
221 Così anche P. Lampe, Roman Christians, pp. 222-223.
538 Traduzione e commento
I saluti di alcuni della comunità di partenza della missiva confermano i dati
emersi dai contributi sulla situazione sociale della Chiesa di Corinto: se Erasto,
anche se con riserve, Giasone e Gaio appartengono a un livello economico supe-
riore, Lucio, Sosipatro, Terzo e Quarto sono meno agiati . Naturalmente questi
222

saluti non esprimono un quadro esaustivo sulla comunità di Corinto, poiché dove-
vano esserci molti nullatenenti (cfr. ICor 11,22) . Anche a Corintorisiedonocri-
223

stiani provenienti dal paganesimo e dal giudaismo; e la precedenza conferita a


questi ultimi (Timoteo, Lucio, Giasone e Sosipatro) conferma ilrispettoche nelle
comunità miste bisogna nutrire per i primi destinatari del vangelo. Questo vale in
particolare per Romani in cui i gentilo-cristiani tendono a screditare i connaziona-
li di Paolo.
L'ultimo sguardo della lettera si conclude sul mistero che si identifica con il
vangelo, con Cristo e con la disposizione divina: questi permettono ai destinatari
di essere rafforzati da Dio stesso nella loro adesione o obbedienza per la fede in
Gesù Cristo. In questi versi sono riconoscibili le tematiche fondamentali che at-
traversano la lettera, come il vangelo e l'obbedienza della fede, e i vettori argo-
mentativi che orientano nell'interpretazione e nella comprensione: ci riferiamo
all'orizzonte cristologico delle scritture profetiche dell'AT, alla prospettiva apo-
calittico-sapienziale che si trova alla base delle diverse dimostrazioni sviluppate
in precedenza, e alle coordinate storico-salvifiche che hanno permesso al mistero
di varcare il silenzio dell'eternità per raggiungere il presente dei credenti e aprir-
si al futuro della gloria di Dio. A causa di tali riprese abbiamo molte riserve sul-
l'apocrifia dell'inno: non ci sono motivazioni sostanziali per ritenerlo spurio e,
anche se lo fosse, trova qui l'unica collocazione possibile. L'inno finale assume
un ruolo retrospettivo fondamentalerispettoa questa lettera, al punto che, in una
ricomprensione o parafrasi della Lettera ai Romani, non sarebbe fuori luogo ri-
partire da questi versi per risalire alle grandi pagine conflittuali di quello che ri-
mane il vangelo più attuale.

Cfr. anche W.A. Meeks, Urban Christians, pp. 56-59; E.W. Stegemann - W. Stegemann, Cristiane-
222

simo primitivo, pp. 493-494.


Così G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi (SOC 16), Bologna 1995, p. 35.
223
Parte terza
IL MESSAGGIO TEOLOGICO
IL MESSAGGIO DELLA LETTERA AI ROMANI

Spesso ci si imbatte in contributi esegetici che delineano un'analisi struttura-


le puramente estetica, distaccata dai contenuti o dal messaggio del testo biblico.
In questi casi, l'esegesi è praticamente inutile perché non apporta nulla di nuovo
al messaggio che, invece, dovrebbe veicolare. Per questo, nel delineare il mes-
saggio della Lettera ai Romani, è decisivo partire dalla sua disposizione retorico-
letteraria per giungere al suo denso contenuto e alle proporzioni relazionali fra le
tematiche che si avvicendano. Da questo punto di vista, l'analisi retorico-lettera-
ria costituisce un'importante novità rispetto a quella semiotica e semantica: per
identificare le tematiche principali e quelle secondarie non basta concentrare l'at-
tenzione sulle frequenze lessicali né identificare le parti del corpo letterario in og-
getto. Pur valorizzando questi orizzonti, è necessario, attraverso l'analisi dell'ar-
gomentazione, stabilire le parti principali e secondarie, e come queste entrano in
relazione vicendevole. Una cosa è definire le parti di un corpo, e ne riconosciamo
l'importanza, un'altra è cercare di cogliere il loro movimento interno e le funzio-
ni. In tale orizzonte, sono importanti le proposizioni o tesi principali e le perora-
zioni conclusive delle dimostrazioni paoline: abbiamo più volte constatato come
soltanto alla fine, nelle sintesi argomentative, diventa chiaro il percorso delle ser-
rate e, a volte, intricate asserzioni paoline.
Dal versante tematico è stata giustamente abbandonata la prospettiva di chi
considera questa lettera una summa teologica o un compendio di tutta la dottrina
cristiana : mancano tematiche importanti come la cena del Signore, i novissimi e
1

la mariologia, per poter parlare di una simbolica completa. Per quanto la cristolo-
gia di Romani siariccae profonda, il livello gesuologico resta secondario come,
d'altro canto, in tutto il pensiero di Paolo: anche in questa lettera sono scarsi i ri-
ferimenti ai detti (logia) e alle azioni (facta) di Gesù di Nazareth. Quella di Paolo
non è una presentazione ordinata del vangelo ma situazionale e dinamica, in cui
si alternano tensioni che sembrano persino contraddittorie. Per questo, anche se
Rm 1,16-17 non rappresenta una partitio, un annuncio dettagliato delle tematiche
successive ma una tesi generale, è necessario partire e tornare a essa per delinea-
re i contenuti della lettera.

1F. Melantone definiva la Lettera ai Romani come « caput et summa universae doctrinae christianae ».
Cfr. C.G. Bretschneider (ed.), Dispositio orationis in epistolam ad Romanos, in Philippi Melanctonis opera
quae supersunt omnia, Halle 1834-1860, XV, p. 445.
542 II messaggio teologico
I. Il vangelo e la giustizia di Dio
L'identificazione della tesi principale (Rm 1,16-17) e di quelle secondarie o
minori pone in risalto prima di tutto la centralità di Dio, con larivelazionedella
sua giustizia , nella Lettera ai Romani. La centralità di Dio è progressivamente
2

spiegata attraverso larivelazionedella sua ira (cfr. Rm 1,18), della sua giustifica-
zione (cfr. Rm 3,20-21), della nuova relazione con quanti sono stati giustificati
(cfr. Rm 5,1-2), della permanenza della sua Parola (cfr. Rm 9,6a) e dell'elezione
del suo popolo (cfr. Rm 11,2). Anche la sezione propriamente esortativa (cfr. Rm
12,1-15,13) è introdotta dalla misericordia divina e perviene allaricercadella sua
volontà (cfr. Rm 12,1-2). Dunque, realmente in Romani il posto principale spetta
a Dio e alla complessarivelazionedella sua giustizia.
Il ruolo primario di Dio trova conferma nell'uso del sostantivo theos, attri-
buito sempre a lui (anche nella lezione dubbia di Rm 9,5) , in quello di pater (pa-
3

dre) e kyrios , senza calcolare l'utilizzazione diffusa dei passivi divini che han-
4 5

no Dio come soggetto sottinteso . Paolo sottolinea innanzi tutto la giustizia di


6

Dio, attraverso l'itinerario tortuoso e complesso che procede dalla rivelazione


della sua ira a quella della sua giustificazione verso tutti (cfr. Rm 1,18 - 4,25). A
tal proposito è bene rilevare che se, dal punto di vista contenutistico, la giustizia
divina si identifica e trova il suo centro nella gratuita e inaudita giustificazione
di tutti, almeno da quello argomentativo, fa parte della stessa giustizia anche la
rivelazione della sua ira. D'altro canto, questa non scompare del tutto con la ri-
velazione e la realizzazione della giustificazione divina ma è prospettata anche
per l'incontro escatologico con lui alla fine della storia (cfr. Rm 12,19). La sua
collera designa l'incompatibilità e la distanza che Dio prende dalle azioni mal-
vagie degli esseri umani. Comunque, il peso della bilancia cade sulla realizza-
zione inaudita della sua giustificazione verso tutti: è inaudita o assurda perché,
da una parte, è attestata dalla stessa Legge mosaica che non rappresenta il per-
corso della giustificazione (cfr. Rm 3,19-22) e, dall'altra, perché si realizza nel
momento in cui Dio dovrebbe comminare ed eseguire la sentenza universale di
condanna (cfr. Rm 5,1-11). In funzione dell'universale rivelazione e attuazione
della giustizia divina, Paolo ripete più volte lo slogan dell'imparzialità divina:
« ...Non c'è preferenza... non c'è differenza» . Dio è imparziale nell'universalità
7

dell'ira e della salvezza, a prescindere dall'identità etnica o religiosa degli esse-


ri umani. Tuttavia, sulla relazione tra la giustizia e l'imparzialità divina, è im-

2 Cfr. in particolare J.C. Beker, Paul theApostle. The Triumph ofGod in Life and Thought, Edinburgh
1980, pp. 94-108.
3 II sostantivo theos compare 153 volte in Romani, su un totale di 548 dell'epistolario paolino: in es-
sa si trova la maggiore frequenza.
4 II sostantivo pater, riferito a Dio, si trova 4 volte in Romani (cfr. Rm 1,17; 6,4; 8,15; 15,6).
5 II termine kyrios per Dio viene utilizzato 8 volte (cfr. Rm 4,8; 9,28.29; 11,3.34; 12,19; 14,11; 15,11):
per lo più si tratta di citazioni dirette dell'AT, mentre altrove Paolo applica questo titolo a Gesù Cristo.
6 Cfr. i passivi divini di Rm 2,13; 3,2.20; 4,9.10.11.24.25.25; 5,1.9.10; 6,4; 8,18.24; 10,9;
II,17.17.20.23.24.26.30.
7 Cfr. Rm 2,11; 3,22; 10,12. Si deve a J.M. Bassler, Impartiality, l'accentuazione di questa tematica
in Romani anche se, in alcuni casi, è eccessiva.
Il messaggio della Lettera ai Romani 543
portante non capovolgere la prospettiva: non la giustizia a causa della imparzia-
lità divina, ma l'imparzialità a causa della giustizia che trova il suo centro nella
giustificazione universale.
Accanto allarivelazionedell'ira e della giustizia, Paolo sottolinea l'amore di
Dio (cfr. Rm 8,39) e il suo misterioso disegno di salvezza per tutti, giudei e greci
(cfr. Rm 11,25-36; 16,27-28). L'amore di Dio per gli uomini non è astratto o disin-
carnato ma storicamente visibile nella « consegna del suo Figlio » (cfr. Rm 8,32) e
nella sua «espressione visibile della carne del peccato» (cfr. Rm 8,3). L'evento
della croce non vede Dio distante o separato dalla morte di Cristo ma profonda-
mente coinvolto, al punto che per descrivere tale partecipazione Paolo evoca, con
discrezione, l'avvenimento paradigmatico del sacrificio di Isacco: come Abramo
non harisparmiatoil propriofiglio(cfr. Gn 22,12.16) così Dio « non ha risparmia-
to suo Figlio per noi ». Naturalmente, siamo posti davanti a un confronto larvato,
che rende soltanto vagamente l'idea della consistenza dell'amore di Dio, poiché
nessuna relazione umana può essere paragonata a quella che lega Dio al suo unico
Figlio. In Rm 8,28-30 il disegno divino è descritto attraverso le fasi principali che
vanno dalla preconoscenza alla precostituzione, alla chiamata, alla giustificazione
e alla glorificazione. Il trionfo di Dio (J.C. Beker) è cosìrilevantein Romani che
Paolo non sembra preoccuparsi molto della libertà o delle scelte umane, ma punta
direttamente sul principio dell'elezione dal quale, in ultima analisi, dipende la de-
finizione di Israele (cfr. Rm 9,6-29).
Forse con eccessiva enfasi, si è sottolineato che il vangelo paolino trova il suo
centro e la sua realizzazione con e in Gesù Cristo, dimenticando che, comunque,
in Romani vi sono sezioni in cui questi è praticamente posto in ombra: si pensi a
Rm 1,18 - 3,20 in cui di Cristo si parla soltanto in Rm 2,16; a Rm 4 in cui Abramo
non è mai relazionato a Cristo (cfr. la citazione di Gesù Cristo soltanto allafinein
Rm 4,24-25); a Rm 7,7-25 con il conflitto tragico dell'io e della Legge (l'unico ri-
ferimento a Cristo compare al v. 25); a Rm 9,6-29 in cui il criterio dell'elezione
non è relazionato a Cristo; e a Rm 11,1-36 in cui soltanto implicitamente si può
parlare della salvezza escatologica in Cristo per l'Israele incredulo.
Non c'è dubbio che queste sezioni siano funzionalirispettoa quelle che pre-
cedono e succedono, in cui si asserisce chiaramente che la giustificazione divina è
realizzata per mezzo della morte erisurrezionedi Cristo, ma questi silenzi sono
troppo consistenti per essere semplici artifici retorici. Piuttosto, fermo restando
che il vangelo in Romani trova in Gesù Cristo il suo contenuto positivo, il disegno
divino assume proporzioni incommensurabili e aperte alla speranza, anche per co-
loro che non hanno aderito al vangelo. Pertanto, è un dato di fatto che se la figlio-
lanza divina passa attraverso l'adesione a Cristo (cfr. Rm 8,14-17) e il dono dello
Spirito,rimanela misteriosafigliolanzad'Israele (cfr. Rm 9,4), in forza della qua-
le Dio non haripudiatoil suo popolo (cfr. Rm 11,1-2). Da questo punto di vista, in
Romani non si può parlare di esclusivismo cristologico per la salvezza o di stret-
toia cristologica (K. Barth) ma si devericonoscereun asserzionismo o un inclusi-
vismo che lascia spazio alle imperscrutabili vie di Dio in Cristo Gesù . 8

8 Per questa problematicarimandiamoall'ampia conclusione teologica di Rm 9,1 -11,36.


544 II messaggio teologico
2. Gesù Cristo e la fede
Quanto abbiamo affermato sulla centralità di Dio non pone in secondo piano
l'importanza di Gesù Cristo, che costituisce l'aspetto positivo del vangelo paoli-
no . Nel corso della lettera, egli è presentato innanzi tutto come « Gesù Cristo » o
9

« Cristo Gesù » , quindi come il « Signore » e il « Figlio » di Dio ; non mancano


10 u 12

casi in cui si parla soltanto di « Gesù » o di « Cristo » . A tal proposito, forse è be-
13 14

ne precisare che il nome « Gesù » e il titolo « Cristo » sono interscambiabili e che


il secondo non ha piùrilevanzamessianica, se non in Rm 9,5, ma assume ormai il
ruolo di nome proprio, come Gesù . 15

Le funzioni di Gesù Cristo in Romani possono essere collocate a livello della


gesuologia e della cristologia propriamente detta, anche se naturalmente l'accento
cade, di gran lunga, sul secondo piano. Non è un caso che la lettera si apra con l'ap-
partenenza di Gesù alla discendenza di Davide (cfr. Rm 1,3) e che nel corso delle
dimostrazioniriscontriamoi tratti gesuologici più consistenti dell'epistolario pao-
lino. Paolo sottolinea che « Cristo secondo la carne » appartiene agli israeliti (cfr.
Rm 9,5), che si è fatto « servo della circoncisione per la verità di Dio, per confer-
mare le promesse dei padri » (cfr. Rm 15,8). La formula d'invio di Rm 8,3 eviden-
zia che « Dio ha mandato il suo Figlio in un'espressione visibile della carne del pec-
cato»: è uno dei rari casi in cui Paolo accenna, con discrezione, all'incarnazione
del Figlio preesistente di Dio. Per esortare i forti ad accogliere i deboli nelle comu-
nità di Roma, Paoloricorderàche « Cristo non piacque a se stesso ma subì gli ol-
traggi umani » (cfr. Rm 15,3). Alla gesuologia èriconducibileYipsissimum verbum
Jesu: « Abba, padre» (cfr. Me 14,36; Gal 4,6). Si può notare come questi accenni
gesuologici, pur essendo scarsi, in quanto Paolo non riporta alcun miracolo com-
piuto da Gesù nériferisceuna sua parabola, sono indicatori di unafinalitàben pre-
cisa: collegare Gesù Cristo alla discendenza di Davide, per confermare che il pri-
ma del giudeorispettoal gentile dipende anche dall'appartenenza di Gesù Cristo al
suo popolo. Dunque, il livello gesuologico delle affermazioni paoline non dipende
tanto dal fatto che Paolo intende « ingraziarsi (la comunità di Roma)riportandoaf-
fermazioni cristologiche a essa ben note », a causa della fondazione gerosolimitana
della Chiesa romana, dato tutt'altro che verificabile , ma dallafinalitàretorica di
16

dimostrare la priorità ebraica nell'universalità della salvezza.


Comunque, dobbiamoriconoscereche la proporzione del livello cristologico
su quello gesuologico è notevolmente maggiore, in quanto si regge sostanzial-
Cfr. J.-N. Aletti, Gesù Cristo: Unità del Nuovo Testamento?, Roma 1995, pp. 28-72.
9

Cfr. Rm 1,1.4.6.7.8; 2,16; 3,22.24; 5,1.11.15.17.21; 6,3.11.23; 7,25; 8,1.2.39; 10,9; 13,14;
10

15,5.6.16.17.30; 16,3.25.27.
Cfr. Rm 1,4.7; 4,24; 5,1.11.21; 6,23; 7,25; 8,39; 10,9.13; 12,11; 13,14; 14,6.8.14; 15,6.30;
11

16,2.8.11.12.12.13.18.20.22.
Cfr. Rm 1,4.9; 5,10; 8,3.29.
12

Cfr. Rm 3,26; 4,24; 8,11; 14,14; 16,20.


13

Cfr. Rm 5,6.8; 6,4.8.9; 7,4; 8,9.10.11.17.35; 9,1.3; 10,4.6.7.17; 12,5; 14,9.15.18,15,3.7.8.18.19.


14

20.29.29; 16,5.7.9.10.16.18.
Con buona pace di G. Agamben, Tempo che resta, pp. 137-150, che traduce sempre Christos con Messia.
15

Così R. Penna, Ritratti, II, p. 120.


16
Il messaggio della Lettera ai Romani 545
mente sulle affermazioni kerygmatiche della morte erisurrezionedi Gesù Cristo.
Questo è mutuato dalla tradizioneprepaolina, con l'originale sentenza di Rm 3,25:
«Dio lo ha predisposto come espiazione con il suo sangue... per la dimostrazione
della sua giustizia, dopo la dilazione dei peccati passati». Anche se in Romani
manca del tutto ilriferimentoesplicito alla croce di Gesù Cristo (cfr. invece ICor
1,17), pur accennando alla concrocifissione con lui del nostro vecchio uomo (cfr.
Rm 6,6), la cristologia paolina è theologia crucis, al punto che i credenti sono re-
lazionati a essa per passare dalla morte alla vita (cfr. Rm 6,1-14) , mentre la parte-17

cipazione alla suarisurrezioneriguardail futuro dell'incontrofinalecon lui.


Rispetto alla morte di Cristo, Romani attesta, come d'altronde tutto l'episto-
lario paolino, il duplice movimento partecipazionistico che procede dal passato al
presente, e l'inverso. Così, Gesù Cristo è morto per gli empi (cfr. Rm 5,6), per noi
peccatori (cfr. Rm 5,8), per i deboli e i forti delle comunità di Roma (cfr. Rm 15,1-
6) e, per questo, continua a intercedere per noi (cfr. Rm 8,34). Anche se in alcuni
commentari contemporanei continua a essere sostenuta la concezione vicaria del-
la morte di Cristo, nel senso che egli morì al posto nostro (J. A. Fitzmyer), ritenia-
mo che l'espressione composta da hyper + genitivo delle persone abbia sempre e
soltanto valore di vantaggio o di favore. Per Paolo, Gesù non muore mai al posto
ma a nostro vantaggio; e quando Paoloricorreal vocabolario dell'espiazione (cfr.
Rm 3,24-26), gli conferisce sempre valore di vantaggio e non di sostituzione.
Il percorso inverso, da noi alla sua morte, trova la sua massima espressione
in Rm 6,1-14, con l'originale utilizzazione dei verbi composti dalla preposizione
syn~\ siamo stati consepolti nella sua morte (v. 4), uniti a una morte analoga alla
sua (v. 5), e il nostro uomo vecchio è stato concrocifìsso con lui (v. 6). Tale parte-
cipazione non assume connotati metaforici o simbolici ma reali, al punto che i
credenti sono liberi dalla signoria della Legge perché sono morti alla Legge, per
appartenere a un altro Signore (cfr. Rm 7,1-6). In questa relazione aritroso,svol-
ge un ruolo significativo la dibattuta espressione «fede di Gesù Cristo» (cfr. Rm
3,22) alla quale abbiamo dedicato un excursus . Nonostante l'autorevolezza di
ÌS

quanti sostengono il valore soggettivo dell'espressione, siamo propensi per quel-


lo oggettivo, perché in Romani Paolo non parla mai della fede, della fedeltà, del-
la fiducia e della credibilità di Cristo. Per quanto siano vere, e non ne dubitiamo,
queste caratteristiche non trovano alcuno spazio nelle dimostrazioni paoline della
lettera. Al contrario, quando Paolo tratta della fede e del credere si riferisce ge-
neralmente ai credenti che credono e hanno fede nella morte e nella risurrezione
di Cristo (tranne in Rm 3,2-3 e in Rm 12,3 in cui il soggetto del verbo credere o
affidare è Dio stesso) . Per questo, Abramo è presentato come modello della fe-
19

de dei credenti e non per quella di Cristo (cfr. Rm 4,3).


Circa larisurrezione,in Romani raramente siriscontrail vocabolario dell'a-
nastasi o dell'innalzamento (cfr. Rm 1,4; 6,5) mentre spesso Paolo sottolinea che
Gesù Cristo è statorisuscitato(egeirein, cfr. Rm 6,4; 7,4), nel senso che Dio lo ha
17 Cfr. iriferimentialla morte di Cristo in Rm 4,24.25; 5,10; 6,3.4.5.9; 7,4; 8,11.11.34; 10,9.
18 Vedi dopo l'analisi di Rm 3,21-26.
19 Cfr. Rm 1,8.12.16; 6,8; 9,32.33; 10,4.9.10.11.14.14.16; 13,11; 15,13; 16,26.
546 II messaggio teologico
risuscitato dai morti (cfr. Rm 4,24). Dunque, l'unico prodigio o gesto di potenza
che Paolo racconta della vita di Gesù, quello della sua risurrezione, non è com-
piuto ma ricevuto da lui, in quanto azione di Dio. Tutti sono chiamati a credere
nella morte e nellarisurrezionedi Cristo, per essere salvati (cfr. Rm 10,9). Un pe-
so minore nelle argomentazioni di Romani, ma altrettanto originale, ha la funzio-
ne imitativa della morte e risurrezione di Cristo: a questa Paolo dedica la parte
esortativa di Rm 15,1-6, in cui Gesù Cristo è scelto come modello per la recipro-
ca accoglienza dei forti e dei deboli.
Sino ad ora abbiamo distinto il ruolo di Dio da quello di Cristo, pur sapendo
che Dio giustifica soltanto per mezzo di Cristo. In realtà, anche se soltanto al Dio
d'Israele Paolo attribuisce il titolo theos, a volte la sua signoria non si distingue
da quella di Cristo (cfr. Rm 14,4-9); e non c'è alcuna soluzione di continuità tra
l'amore di Dio (cfr. Rm 8,39) e quello di Cristo (cfr. Rm 8,35) per noi, poiché è
nell'amore di Cristo che quello di Dio trova la sua piena attuazione e la massima
rivelazione. Pertanto, la cristologia come la teologia paolina, per quanto possano
essere analizzate autonomamente, non vanno separate, come se si trattasse di due
trattati indipendenti, ma richiedono di essere considerate nella loro dinamicità e
nella loro espressione storica più che teorica.

3. Il giudeo, il greco e la salvezza per tutti


Se dovessimo scegliere un leit-motiv sul quale Paolo torna spesso in Romani
opteremmo per il binomio che campeggia nella tesi principale della lettera: « La
salvezza... tanto per il giudeo prima quanto per il greco » (Rm 1,17; cfr. Rm 3,29;
9,24) . L'attenzione su tale binomio è diventata centrale per le nuove prospettive
20

esegetiche sulla Lettera ai Romani: in questione non è la salvezza di ognuno, in


termini astratti o teorici, ma come i gentili possono entrare a far parte della sal-
vezza, riservata ai giudei, per mezzo di Cristo . In questa prospettiva, si è verifi-
21

cata persino unaricomprensionedella Legge e delle sue « opere »: queste non so-
no negative in quanto tali o perché conducono al legalismo ma perché separano i
giudei dai gentili in ordine alla salvezza.
In realtà, anche in questi casi le argomentazioni paoline sembrano più com-
plesse, senza negare la giusta esigenza di porre inrisaltouna maggiore contestua-
lizzazione sociale o storica della lettera. Che in Romani una delle questioni fon-
damentali sia rappresentata dall'inclusione dei gentili o dei greci nel popolo del-
l'alleanza è un fatto, ma non si può ignorare che tale problematica rimandi alla
salvezza di « chiunque crede ». In altri termini, dal versante umano della salvezza,
accanto e prima del giudeo e del gentile, c'è il «chiunque» (panti), che entra in
tensione con il tanto prima del giudeo quanto del greco. Come possono stare in-
sieme l'universalismo della salvezza (chiunque... tanto... quanto) e il particolari-
Questo ritornello èribaditoin Rm 2,9.10; 9,24; 10,12 e con variazioni in Rm 3,29; 9,24.
20

Cfr. in particolare J.D.G. Dunn, The New Perspectives on Paul, in BJRL 65 (1983) 95-122; K.
21

Stendhal, Paolo tra ebrei e pagani, e altri saggi, Torino 1995 (orig. ingl. 1976).
Il messaggio della Lettera ai Romani 547
smo o la priorità dei giudeirispettoai gentili? Questa tensione attraversa la Lettera
ai Romani e non è risolta con la scelta di un'opzione rispetto all'altra ma con la
compresenza dell'uno e dell'altro orizzonte.
Per questo, soprattutto in Rm 1,18 - 4,25 la questione fondamentale non ri-
guarda il giudeo e il gentile bensì le diverse categorie morali degli esseri umani
che, in modi variegati, si relazionano al bene e al male; e quando in questa parte
è biasimata l'ipocrisia del giudeo ed è elogiata la presunta coerenza del gentile
(cfr. Rm 2,12-28), ci troviamo di fronte a un'argomentazione diatribica e a una
parodia cherimandanoall'impossibilità della salvezza al di fuori della giustifica-
zione realizzata in Cristo e non a confronti reali tra giudei e gentili. Questo vale
anche per Rm 7,7-25 in cui non è più il tu del giudeo o il loro dei gentili a essere
chiamato in causa, anche se la situazione storica di questa pagina parte dalla rela-
zione tra l'ebreo e la Legge, ma 1 io di tutti che si trova in una tensione senza via
9

d'uscita, tra il bene che desidera e il male che compie. La categorizzazione mora-
le del bene e del male torna in Rm 12,9-21 con l'ideale dell'amore come ciò che
è bello e buono, contro qualsiasi tentativo di vendetta verso il prossimo: « Non la-
sciarti vincere dal male ma vinci il male con il bene» (v. 21). Quindi, non sor-
prende se nel poscritto Paolo conclude con il desiderio che i destinatari della let-
tera siano saggi per il bene e prendano le distanze dal male (Rm 16,19).
Tuttavia, l'universalismo della salvezza, espresso attraverso questo filo
conduttore delle categorie etiche e non etniche, non deve porre in secondo piano
la tensione storica del giudeo prima quanto del greco alla quale Paolo dedica
gran parte di Rm 9,1 - 11,36, perché una questione principale riguarda l'inclu-
sione dei gentili sulla radice d'Israele e la recisione di una parte consistente de-
gli ebrei che non hanno aderito al vangelo. Come può Israele essere ancora il po-
polo non ripudiato se harigettatola parola di Cristo? Eppure, anche in questo ca-
so, non è posta in discussione soltanto la salvezza futura di tutto Israele ma Dio
stesso è chiamato in causa, con la permanenza e la fedeltà della sua Parola. Come
non può essere venuta meno la Parola di Dio se la salvezza, primariamente ri-
volta ai giudei, si caratterizza adesso come inclusione di molti gentili? Dunque,
se da una parte è bene non astrarre gli orizzonti soteriologici di Romani, dall'al-
tra la loro sociologizzazione rischia di abbassare i livelli o di semplificare i per-
corsi. Dall'orizzonte dell'universalismo della salvezza (cfr. Rm 15,7-13), Paolo
affronta anche la tensione storica tra i forti e i deboli delle comunità romane (cfr.
Rm 14,1 - 15,6). Se Gesù Cristo si fece servo della circoncisione, permettendo
anche ai gentili di rendere gloria a Dio (cfr. 15,8-9), quanto più i forti sono ob-
bligati a farsi carico delle infermità dei deboli. Anche in questo caso, le catego-
rie paoline dei forti e dei deboli non sono di natura etnica, corrispondenti agli et-
nico-cristiani e ai giudeo-cristiani, ma rappresentano versanti etici delle comu-
nità romane, determinati dalle relazioni libere o vincolanti con le normative
alimentari della tradizione giudaica. Di fronte alle infermità dei deboli, Paolo
non delinea alcuna strategia pedagogica per superare tale condizione, ma chiede
ai forti di non creare ulteriori scandali o divisioni nelle c o m u n i t à . I n definitiva,
ciò che conta non è una tradizione alimentare piuttosto che un'altra, ma l'ade-
sione al «regno di Dio e ai suoi contenuti f o n d a m e n t a l i della giustizia, della pa-
548 II messaggio teologico
ce e della gioia nello Spirito santo ». La permanenza della tensione tra l'univer-
salismo della salvezza e la priorità del giudeo chiama in causa una tensione più
profonda: quella sulla Legge mosaica.

4. La Legge in conflitto
Rispetto alla visione della Legge in Romani si sono aperti innumerevoli di-
battiti che hanno portato spesso arisultatidiametralmente opposti, sino all'accusa
di inconsistenza o di contraddittorietà nel pensiero paolino . Possono coesistere
22

affermazioni come «coloro che osservano la Legge saranno giustificati» (Rm


2,13) e «dalle opere della Legge non verrà giustificata nessuna carne...» (Rm
3,20)? Quali sono le relazioni tra la legge dello Spirito (cfr. Rm 8,2), la legge del-
la fede (cfr. Rm 3,27) e la definizione spirituale della Legge (cfr. Rm 7,14)? Cristo
è la fine, l'abrogazione della Legge o il suo fine ultimo (cfr. Rm 10,4)?
Intanto è benericonoscereche in Romani, come nel restante epistolario pao-
lino, quando si parla della Legge, Paolo ne ha una visione olistica, senza distinzio-
ni tra la Legge comerivelazionee come obbligazione. Sono rari i casi, come Rm
7,21 - 8,2, in cui il sostantivo nomos assume la connotazione traslata di principio o
di norma: ma si tratta di eccezioni che confermano la regola, dovute principal-
mente all'universalizzazione del tragico conflitto tra la Legge mosaica e l'io, di
fronte alla loro impotenza. Inoltre, è importante distinguere tra la Legge e le opere
della Legge che sono le opere qualificate dalla Legge mosaica, in pratica il Lega-
lismo (con la lettera maiuscola in quanto riferito sempre alla Legge mosaica) con
le sue pretese di giustificazione. Se la prima è considerata positivamente e negati-
vamente, per le seconde Paolo esprime una valutazione sempre negativa, in quan-
to ritenute come condizioni per la giustificazione che si oppongono all'ascolto
qualificato dalla fede in Cristo.
Da una visione globale della Legge si può cogliere come emerga una dupli-
ce valutazione positiva e negativa: la prima è attestata in Rm 2,12-29; 3,27-31 e
in 13,8-10; la seconda trova fondamento in Rm 5,12-21 e in Rm 7,1-6. Alcuni, per
semplificare e ordinare il pensiero paolino, tendono a distinguere l'una dall'altra,
ignorando che le due prospettive confluiscono in Rm 7,7-25: la Legge è nello
stesso tempo santa, giusta, buona, spirituale e occasione per la piena manifesta-
zione del peccato (cfr. anche Rm 3,19-20). Neppure il tentativo di chi considera le
asserzioni positive sulla Legge come concessioni retoriche sembra dare ragione
della complessa visione paolina, fosse almeno per le molte affermazioni in cui es-
sa è riconosciuta con tutta la sua positività. In ultima analisi, possiamo condivi-
dere che le affermazioni positive sulla Legge di Rm 7,7-25 risultino concessioni
ma queste non riguardano la Legge in quanto tale bensì le sue relazioni con il con-
flitto dell'io . Le concessioni paoline sulla Legge non riguardano mai la sua na-
23

22Cfr. in particolare il violento contributo di H. Raisànàn, Paul-, con toni più moderati anche E.R
Sanders, Paolo.
Cfr. S. Romanello, Legge buona, pp. 207-211.
23
Il messaggio della Lettera ai Romani 549
tura ma sempre la sua funzione, poiché in quanto tale la Legge mosaica è vista, al-
meno in Romani, in tutta la sua positività; e questa rappresenta una sostanziale
differenza rispetto alla Lettera ai Galati, in cui le asserzioni negative sono mag-
giori di quelle positive.
In questa prospettiva, non si può affermare che, anche se la Legge è buona,
santa e giusta, va abrogata perché non offre la salvezza. Fra l'altro, Paolo stesso
quando si trova di fronte alla possibilità dell'abrogazione della Legge respinge,
con fermezza, tale conclusione (cfr. Rm 3,27-30). Da questo punto di vista, sono
emblematiche le argomentazioni di Rm 7,1-6 e di Rm 14,1 -15,13. Nel primo ca-
so, se nell'esempio del diritto matrimoniale muore il marito, la moglie è libera di
passare a una nuova relazione (cfr. Rm 7,1-3), nell'applicazione sono i credenti a
essere morti alla Legge per passare alla nuova relazione con Cristo (cfr. Rm 7,4-
6). La sezione di Rm 14,1-15,13 offre una preziosa relazione pragmatica con la
Legge, in quanto i deboli continuano a osservare le leggi di purità alimentari
mentre i forti si sentono liberi da tali vincoli. Anche in questo caso, Paolo non
chiede ai deboli di adeguarsi ai forti, perché tanto le norme di purità sono state
abrogate, ma ai forti di accogliere i deboli e di non scandalizzarli, a causa della
loro libertà verso la Legge. Dunque, possiamo affermare che, in Romani, la Leg-
ge mosaica non è abrogata ma relativizzata o, al massimo, negativizzata quando
le si chiede la giustificazione che non può donare, giacché questa è offerta da Dio
soltanto per mezzo di Gesù Cristo. Anzi, la Legge, assieme ai Profeti, testimonia
che la giustificazione non avviene per mezzo di essa ma con la fede in Cristo (cfr.
Rm 3,19-22). Per questo, Gesù Cristo non può rappresentare la fine o la conclu-
sione della Legge ma il suo fine, l'adempimento o la piena realizzazione (cfr. Rm
10,4). Senza il riconoscimento di questa relazione paradossale tra la Legge e
Cristo, non è possibile cogliere la visione così complessa sulla Legge nella
Lettera ai Romani.
Altrettanto complesso è il rapporto tra le opere della Legge (cfr. Rm 3,20), Yo-
pera della Legge (cfr. Rm 2,15) e le opere (cfr. Rm 9,12), in relazione alla giustifi-
cazione. A prima vista, il pensiero paolino sembra confuso e contraddittorio per-
ché, arigoredi logica, o la giustificazione avviene per mezzo della fede in Cristo o
attraverso le proprie opere e, semmai, con quelle della Legge. Basta estrapolare ta-
li affermazioni dal loro contesto argomentativo per non riuscire a dipanare più la
matassa del pensiero paolino. Per questo è importante distinguere i due orizzonti
fondamentali che fungono da paradigmi argomentativi in Rm 1,18 - 11,36: quello
propriamente apocalittico, relazionato all'evento della morte e risurrezione di
Cristo, e quello escatologico dell'incontro con il tribunale di Dio (cfr. Rm 2,16) . 24

Che tutti possono attualmente essere giustificati soltanto per mezzo della fede in
Cristo appartiene alla sostanza del vangelo paolino; e questo costituisce l'orizzon-
te apocalittico fondamentale sul quale cade gran parte dell'argomentazione paoli-
na. Da questo punto di vista, non trovano alcuno spazio le opere umane né quelle
della Legge. Tuttavia, è altrettanto vero che tutti saremo giudicati allafinedella sto-
24Per le differenze e le relazioni tra l'apocalittica e l'escatologia cfr. l'importante contributo di R.
Penna, Escatologia paolina, pp. 77-103.
550 II messaggio teologico
ria in base alle nostre opere, anche se questa non rappresenta la novità del vangelo
paolino, in quanto appartiene al patrimonio del comune giudaismo.
I due orizzonti non possono essere separati, perché Paolo non evoca il se-
condo per spaventare i suoi interlocutori o per indurli alla conversione e a una de-
gna condotta etica, ma affinché aderiscano pienamente al primo orizzonte della
fede in Cristo; tuttavia, non possono neppure essere confusi, altrimenti si rischia
di non comprendere il serrato e, a volte, sintetico modo di argomentare paolino.
In definitiva, ci sembra che la concezione paolina della Legge sia più complessa
e meno logica di quanto pensiamo ma, non per questo, poco consistente o inade-
guata. Questarisaltain un periodo in cui è in atto il conflitto tra il valore positivo
della Legge in quanto tale e quello negativo, perché non può offrire la salvezza,
che deriva soltanto da Cristo. Ancora non emerge la soluzione definitiva attestata
dalla visione sulla Legge in ITim 1,8-10 che considera la Legge mosaica come
buona ma valida soltanto per i peccatori: questa volta la concessione paolina toc-
ca la natura e la funzione della Legge, a differenza da Rm 7,7-25. Pertanto dob-
biamo essere grati a Paolo per la mancata soluzione del conflitto, altrimenti l'a-
brogazione della Legge avrebbe, gioco forza, condotto all'abrogazione d'Israele
e della priorità ebraica: forse non bisogna dimenticare che fra i privilegi irrevoca-
bili degli israeliti resta quello della legislazione mosaica!

5, La legge dello Spirito


Nella definizione delle tematiche che attraversano la Lettera ai Romani, al-
cuni pongono la pneumatologia, dopo la teologia e la cristologia, secondo un or-
dinato schema trinitario . In realtà, la pneumatologia, anche se presente nel corso
25

della lettera, non è diffusa. Se si prescinde dalla citazione iniziale sullo « Spirito
di santificazione » (cfr. Rm 1,4), bisogna attendere i paragrafi di Rm 5,1-12 e Rm
8,1-27 per cogliere l'importanza dello Spirito (cfr. i fugaci accenni di Rm 2,29 e
di Rm 7,6). D'altro canto, escludendo l'inizio di Rm 9,1 - 11,36, in cui Paolo si
appella alla sua testimonianza per mezzo dello Spirito santo (cfr. Rm 9,1), neppu-
re in questa sezione figurano problematiche pneumatologiche. Persino nella se-
zione esortativa (cfr. Rm 12,1 - 15,13) non sono molto presenti i riferimenti allo
Spirito (cfr. Rm 12,11; 14,17; 15,13); ed è significativo che, contrariamente a
ICor 12, quando in Rm 12 tratta di carismi e ministeri, Paolo non dedichi tanta
importanza allo Spirito.
Tale ridimensionamento tematico non è dovuto alla svalorizzazione ma 26

principalmente alla mancanza di problematiche relative allo Spirito: in pratica,


non ci troviamo di fronte a una difesa dell'azione dello Spirito, come in Gal 3,1 -
6,10, né allaricomprensionedelle sue funzioni nella vita delle comunità domesti-
che di Roma, come in ICor 12-14, ma abbiamo a che fare con le positive consi-
25Cfr. J.A. Fitzmyer, Romani, p. 169.
26L'attenzione allo Spirito è stata implicitamente introdotta dal sostantivo dynamis in Rm 1,16 e tor-
na esplicitamente nel poscritto (cfr. 15,16.19.30; anche dynamis in Rm 16,25).
Il messaggio della Lettera ai Romani 551
derazioni sull'azione dello Spirito nell'esistenza dei credenti. Non di meno, è dif-
ficileriscontrare,in tutto l'epistolario paolino, un paragrafo cosìriccoed elevato
come quello di Rm 8,1-27 sulla legge o il principio dello Spirito.
Nella pneumatologia di Romani risaltano innanzi tutto le antinomie o le op-
posizioni nelle quali Paolo colloca iriferimentiallo Spirito: sono contrapposti lo
Spirito e la lettera (cfr. Rm 2,29; 7,6), il principio dello Spirito e della carne (cfr.
Rm 8,2), la vita secondo lo Spirito e secondo la carne (cfr. Rm 8,4.5), il pensiero
della carne e dello Spirito (cfr. Rm 8,6), l'essere nello Spirito e nella carne (cfr.
Rm 8,9), lo Spirito della schiavitù e della libertà (cfr. Rm 8,15). Così, Paolo evi-
denzia la novità della vita cristianarispettoal disuso della lettera, in positivo e ne-
gativo. Lo Spirito è la potenza con la quale Dio ha costituito il Figlio di Davide
come suo Figlio dalla risurrezione dei morti (Rm 1,4) e, nello stesso tempo, la via
per la quale l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (Rm 5,5). In quanto
principio vitale, lo Spirito ci ha liberati dal principio della carne, nel superamen-
to del tragico conflitto dell'io (cfr. Rm 8,2), abita in noi (cfr. Rm 8,11), ci guida
(cfr. Rm 8,13), viene in aiuto della nostra debolezza (cfr. Rm 8,26), supplica con
gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8,26) ma, prima di tutto, è la condizione fondamen-
tale affinché diventiamo figli di Dio (cfr. Rm 8,15.16). Anche se Paolo non lo de-
finisce mai come persona, non conoscendo ancora le processioni intratrinitarie
ma limitandosi a sottolineare il suo essere potenza di Dio (cfr. Rm 15,13.19), lo
Spirito ha tutte le caratteristiche di una persona che opera per la risurrezione di
Cristo e per la nostra vita nuova: le sue espressioni più visibili sono la gioia (cfr.
Rm 14,17) e l'amore (cfr. Rm 15,30) che esprimono la sua azione nella vita per-
sonale e comunitaria dei credenti.
LA LETTERA AI ROMANI
E IL CANONE DELLA SCRITTURA

Se in termini cronologici la Lettera ai Romani si colloca verso l'epilogo del-


l'esistenza di Paolo e della sua produzione epistolare (dopo invierà soltanto la
Lettera ai Filippesi e quella a Filemone), per la ricchezza e l'ampiezza contenuti-
stica che trasmette apre la disposizione canonica del corpuspaolinum. L'esigenza
per una lettura di fede, fondata sulla tradizione della Chiesa, ha portato alcuni stu-
diosi dell'area americana a valorizzare il cosiddetto canonical criticism o lettura
canonica della Scrittura. In verità, neppure questo approccio è del tutto nuovo: si
pone sul solco della grande tradizione patristica e medievale, con un'attenzione
maggiore al percorso unitario delle coordinate e delle categorie bibliche che attra-
versano il Primo e il Nuovo Testamento . Anche il documento della PCB, L'inter-
1

pretazione della Bibbia nella Chiesa, ha dedicato attenzione all'accostamento ca-


nonico biblico, collocandolo non fra i metodi esegetici ma fra gli approcci e rico-
noscendone i pregi, senza mancare di evidenziarne i difetti . 2

Cercando di evitare gli ultimi, concentrati nei pericoli di fondamentalismo


contro il metodo storico-critico, a favore dei primi, giacché per il canone ebraico e
cristiano ogni testo biblico varilettonella fede della Chiesa, perché nasce da essa
e a essa torna, la Lettera ai Romani si pone in un punto cruciale del canone cristia-
no: si trova dopo gli Atti degli apostoli e prima del restante epistolario paolino e
neotestamentario. Sappiamo bene che le fasi storiche della formazione del NT non
seguono quelle canoniche perché l'epistolario paolino dovrebbe precedere almeno
i vangeli di Matteo, Giovanni e il corpus lucano del terzo vangelo e degli Atti; nel-
lo stesso tempo, dovrebbe essere collocata verso la conclusione delle grandi lette-
re paoline (dopo ITessalonicesi, l-2Corinzi e Galati) e prima delle deuteropaoline
(Colossesi, Efesini) e delle postpaoline (ITimoteo, Tito, 2Timoteo).
La postazione canonica di Romani permette di cogliere, in modo più com-
pleto e sereno, il pensiero paolino nella sua ampiezza, anche se questo si è anda-
to formando non solo per evoluzione ma anche con tensioni situazionali rispetto

1Fra gli antesignani del canonical approach cfr. B.S. Childs, Biblical Theology in Crisis, Philadelphia
1970; Id., Teologia dell'Antico Testamento in un contesto canonico, Cinisello Balsamo (MI) 1989; J.A.
Sanders, Canon and Community: A Guide to Canonical Criticism, Minneapolis 1984; Id., From Sacred
History to Sacred Text: Canon as Paradigm, Minneapolis 1987.
2 Cfr. Pontificia Commissione Biblica, Interpretazione, pp. 45-47. Cfr. il commento di F. Mosetto,
Approcci basati sulla tradizione, in G. Ghiberti - F. Mosetto, Interpretazione, pp. 162-173.
La Lettera ai Romani e il canone della Scrittura 553
alle comunità di destinazione. La serenità relazionale tra Paolo e le comunità ro-
mane lascia intravedere una visione più serena sulla Legge mosaica e su Israele
che non si coglie nelle altre grandi lettere. Rispetto alla Legge, se in 1 Corinzi (cfr.
ICor 15,56) e soprattutto in Galati (cfr. Gal 3) emerge una valutazione fortemen-
te negativa, a causa dei tentativi di giudaizzazione ortodossa delle comunità pao-
line, attraverso la circoncisione, abbiamo potuto constatare che, in Romani, la
Legge è vista più positivamente, anche se resta fermo che Paolo non la considera
mai come condizione o conseguenza dell'appartenenza a Cristo . Persino la valu- 3

tazione della circoncisione è più positiva in Romani: Paolo non avrebbe mai as-
serito in Galati che la circoncisione è il segno della giustificazione ricevuta da
Abramo per la fede (cfr. Rm 4,11 a confronto con Gal 6,12-23) e che Cristo si è
fatto servo della circoncisione (cfr. Rm 15,8 in tensione con Gal 5,2). Il presunto
antigiudaismo di Paolo avrebbe riscontrato più spazio se, contro la disposizione
canonica del NT, si fosse collocata la ITessalonicesi, con il suo attacco di lTs
2,14-16, prima della Lettera ai Romani. Invece, pur nelle tensioni tra Israele, il re-
sto di coloro che hanno aderito a Cristo e i gentili, la sezione di Rm 9,1 -11,36 di-
mostra che nessuna affermazione paolina è antigiudaica o antisemita ma si pone
in una sofferenza profonda di chi vede Israele come la sua carne (cfr. Rm 11,14)
che non ha aderito al vangelo.
Da più parti si sottolinea, erroneamente, che in Romani manca una vera ec-
clesiologia per il semplice motivo che nel corpus della lettera è carente il sostanti-
vo ekklèsia (cfr. soltanto in Rm 16,1-16). Nella nostra trattazione tematica, abbia-
mo evitato una focalizzazione autonoma sull'ecclesiologia della lettera ma l'ab-
biamo inserita nel paragrafo dedicato a il giudeo, il greco e la salvezza per tutti, per
escludere una concezione ecclesiologica statica, estranea a Romani. L'approccio
canonico permette diriconoscereche prima di un discorso generale sulla Chiesa è
necessarioripartiredall 'essere in Cristo, dalla possibilità universale di salvezza e
dalla relazione tra Israele e i gentili. La Chiesa non si presenta come tertium genus
o terza razza che prende le distanze da Israele (persino attraverso un'appropriazio-
ne indebita di quanto appartiene soltanto e sempre a Israele) e dai gentili, ma come
appartenenza di questi al popolo dell'alleanza, attraverso la fede in Cristo. Prima
di qualsiasi ecclesiologia dall'alto, come ad esempio nelle lettere ai Colossesi e
agli Efesini, ci sono le comunità domestiche che attestano un'ecclesiologia dal
basso, altrettanto importante. In quest'orizzonte canonico, è significativa l'impor-
tanza che in Rm 16 Paoloriconoscealle donne nelle comunità cristiane, contro la
sua presunta misoginia che lo rende così distante dalle sensibilità ecclesiali con-
temporanee (cfr. ICor 11,1-16): esse sono diaconi, come Febe (cfr. Rm 16,1), e
apostoli, come Giunia (cfr. Rm 16,7), che operano a servizio del vangelo.
Uno sguardo onnicomprensivo della sacra Scrittura, dal versante canonico,
permette di cogliere la profonda continuità tra il Primo e il Nuovo Testamento,
contro forme di marcionismo orientate a separare i due testamenti. Di fatto, il van-

3Quest'importante contributo, derivante dalla collocazione canonica di Romani, è posto bene in lu-
ce da A. Vanhoye, Lettera ai Galati, Milano 2000, pp. 159-160.
554 II messaggio teologico
gelo paolino della Lettera ai Romani non soltanto è preannunciato nelle sante
Scritture (cfr. Rm 1,2) marisultaincomprensibile senza di esse, come dimostrano
le abbondanti citazioni del Primo Testamento. Abbiamo potuto constatare come,
spesso, Paolo si collochi nel solco profetico-apocalittico per delineare lo snodarsi
della storia della salvezza. Il collegamento tra questa lettera e il Primo Testamento
permette di sfatare il luogo comune che vede l'AT comerivelatoredi un Dio ven-
dicativo e il NT come espressione di un Dio amorevole. Di fatto, è difficile ri-
scontrare nell'AT pagine così vendicative come quella di Rm 1,18-32. In realtà,
senza la relazione con il Primo Testamento sono incomprensibili le categorie del-
l'ira divina e della gelosia d'Israele, dell'elezione e della fedeltà divina, della giu-
stificazione per la fede e della retribuzione finale del giudizio divino.
Pertanto, pur riconoscendo i limiti dell'approccio canonico alla Scrittura,
perché ad esempio relega la categoria del termine vangelo soltanto alle narrazio-
ni sulla vita di Gesù, ignorando che quasi tutto l'epistolario paolino è inteso come
vangelo, l'attenzione alla collocazione canonica di Romani permette di evitare di-
sastrose conseguenze come l'antinomismo, l'antigiudaismo e l'antifemminismo
di molto cristianesimo postpaolino. L'ouverture canonica dell'epistolario neote-
stamentario con la Lettera ai Romani è troppo alta per essere compresa a suffi-
cienza: è come pensare d'interpretare la Divina Commedia partendo dal Paradiso
e non dall'Infernol Tuttavia, una volta decifrato il linguaggio, le categorie stori-
co-salvifiche e il complesso modo di argomentare, la comprensione della Lettera
ai Romani permette di cogliere molta parte dell'epistolario paolino, in particola-
re quando Paolo è costretto, dalle relazioni conflittuali con le sue comunità, a
prendere posizioni radicali ed estremizzate. Se l'approccio canonico si libera da
forme di fondamentalismo biblico e non pretende di essere un metodo, almeno
per questirisultati,merita l'apprezzamento possibile!
STORIA DELL'INTERPRETAZIONE

Non c'è teologo o pensatore cristiano che non abbia citato almeno alcuni pas-
si della Lettera ai Romani, e sono molti coloro che si sono avventurati nel com-
mentarla. Per questo, non si può che condividere la lapidaria affermazione
di P. Althaus: «Le più grandi ore della storia del cristianesimo sono anche le ore
della Lettera ai Romani» . La storia dell'interpretazione di questa lettera comin-
1

cia, caso unico, nello stesso NT, con gli scritti della tradizione paolina (Colossesi,
Efesini, l-2Timoteo e Tito) e con quanto dirà esplicitamente l'autore della
2

2Pietro: « La magnanimità del Signore giudicatela come salvezza, come anche vi


ha scritto il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata da-
ta; così egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono al-
cune cose difficili da comprendere e gl'ignoranti e gl'instabili le travisano, come
le altre Scritture, per loro propria rovina» (2Pt 3,15-16). Oltre a sottolineare il
contenuto propriamente soteriologico dell'epistolario paolino, l'autore sembra ci-
tare implicitamente il passo di Rm 2,4.
Senza soffermarci sui riferimenti nella tradizione patristica dei primi secoli,
il primo commentatore della Lettera ai Romani è Origene di Alessandria che, in-
torno al 244 d.C., redige un commento in 15 libri. Purtroppo il commento origi-
nale in greco è andato perduto: ci sono pervenuti soltanto frammenti e i riferi-
menti di seconda mano contenuti nelle successive catene greche. Sarà Rufino di
Aquileia a tradurre in latino il commento origeniano (405-406), riducendo a 10 i
15 libri dell'originale: è una revisione che sembra abbastanza fedele . Il com- 3

mento si colloca tra gli scritti polemici di Origene contro gli gnostici, i marcioni-
ti, i gruppi giudaizzanti degli ebioniti, i letteralisti e i millenaristi . 4

Anche se non è un commento ordinato, meritano attenzione le 32 omelie sul-


la Lettera ai Romani di Giovanni Crisostomo, scritte nel 392: si caratterizzano per
l'afflato pastorale e spirituale . Un commento sobrio mariccodi annotazioni di ca-
5

1 P. Althaus, La lettera ai Romani, Brescia 1970, p. 14.


2 Cfr. A. Pitta, Paolo dopo e al di là di Paolo: il paolinismo nelle Pastorali, in G. De Virgilio (ed.), Il
deposito della fede. Timoteo e Tito, Bologna 1998, pp. 39-52.
3 Origene, Commentarla in epistolam b. Pauli ad Romanos: PG 14,833-1922; per un'ottima tradu-
zione con note di spiegazione cfr. F. Cocchini, Origene, Romani.
4 Così anche F. Cocchini, Note sul Commento di Origene alla Lettera ai Romani, in S. Cipriani,
Romani, p. 14.
5 Giovanni Crisostomo, Commentarius in epistulam ad Romanos: PG 60,391-682.
556 II messaggio teologico
rattere antropologico e soteriologico è quello di Teodoreto di Ciro (393-46Ó) . Con 6

questi contributi comincia il grande filone dell'importanza conferita a Romani nel


IV-V sec. a causa delle problematiche soteriologiche sottostanti : di fronte al disfa- 7

cimento dell'Impero Romano i grandi Padri si interrogano su come e quale uomo


si salvi. Dall'ambiente romano proviene il commento delI'Ambrosiaster , tra il 366 8

e il 384, sotto il pontificato di papa Damaso. L'esegesi delI'Ambrosiaster è lettera-


le, ricca di citazioni anticotestamentarie e si serve principalmente della tipologia,
anche se non ignora l'allegoria; così, prende consistenza un commento attento alle
tradizioni giudaiche a causa di una nuova ondata di attrazione verso il giudaismo.
Nel percorso storico, siamo costretti a fare un'eccezione per Agostino d'Ippona
che, pur non avendo scritto un commento, si attarda spesso sulla Lettera ai Romani,
a partire dalla sua conversione che perviene al suo momento decisivo con la lettura
di Rm 13,13-14 . Quando diventerà presbitero, Agostino scriverà un Commento di
9

alcune questioni tratte dalla Lettera ai Romani e un Commento incompiuto della


Lettera ai Romani (394-395) . Il primo scritto si caratterizza per il genere delle
10

quaestiones, attraverso il quale Agostino affronta le crux più dibattute del testo pao-
lino: 76 serrate e brevi questioni. Il secondo doveva essere un vero e proprio com-
mentario ma, spaventato dalla gran mole di lavoro, Agostino stessoricorderàdi aver
abbandonato la fatica (cfr. Retractationes 1,24,1). Questi due contributi si collocano
tra i suoi scritti esegetico-polemici contro il manicheismo e il pelagianesimo . 11

Per riscontrare un nuovo commento degno di menzione dobbiamo passare


all'epoca medievale e accennare al bel contributo di Tommaso d'Aquino, collo-
cato tra il 1269 e il 1273, nel periodo conclusivo della sua esistenza . Si tratta di 12

un commento segnato dalla logica scolastica della divisione e dell'analisi detta-


gliata sul testo paolino: la prospettiva fondamentale scelta da Tommaso è quella
soteriologica della grazia.
Un nuovo balzo ci trasferisce all'epoca delle Riforme (XVI-XVII) in cui la
Lettera ai Romani occupa il ruolo centrale della teologia cristiana. Tra la prima-
vera del 1515 e il 9 settembre del 1516 il monaco agostiniano, Martin Lutero,
conferisce le Lezioni sulla Lettera ai Romani . A ben vedere, non si tratta di un
13

6 Teodoreto di Ciro, Interpretatio in XII epistulas Pauli: PG 82,36-877; cfr. la traduzione di L. Sca-
rampi - F. Cocchini (edd.), Teodoreto di Cirro, Commento alla lettera ai Romani, Roma 1998.
7 Così M.G. Mara, Paolo di Tarso e il suo epistolario. Ricerche storico-esegetiche, L'Aquila 1983,
pp. 63-64.
8 Ambrosiaster, In epistulam ad Romanos (CSEL 81/1); per la traduzione cfr. A. Pollastri (ed.),
Ambrosiaster, Commento alla lettera ai Romani, Roma 1984.
9 Vedi il nostro commento a Rm 13,13-14.
10 Agostino di Ippona, Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos (CSEL 84), pp.
3-52; Id., Epistolae ad Romanos inchoata expositio (CSEL 84), pp. 145-181. Per la traduzione e l'introdu-
zione in italiano cfr. l'ottimo contributo di M.G. Mara, Agostino interprete di Paolo. Commento di alcune
questioni tratte dalla Lettera ai Romani. Commento incompiuto della Lettera ai Romani, Milano 1993.
11 Così anche M.G. Mara, Agostino e la Lettera ai Romani, in S. Cipriani, Romani, pp. 21-32.
12 Cfr. Tommaso d'Aquino, Super Epistolas S. Pauli lectura. Ad Romanos, Torino 1953,1, pp. 1-230.
Per una traduzione cfr. L. De Santis - M.M. Rossi (edd.), Commento alla Lettera ai Romani, II, Roma 1994.
13 Per l'edizione critica cfr. Marthin Luthers, Werke. Kritische Gesamtausgabe. DerBriefan die Rómer,
voi. 56, Weimar 1938. In italiano cfr. le traduzioni con gli ottimi contributi di G. Pani (ed.), M. Lutero. Lezioni
sulla Lettera ai Romani (1515-1516), II, Genova 1991-1992; F. Buzzi (ed.), M. Lutero. La Lettera ai Romani
(1515-1516), Cinisello Balsamo (MI) 1991.
Storia dell ' interpretazione 557
vero e proprio commentario ma di spiegazioni divise in glosse e in scolia per uso
scolastico. Comunque, questi tipi di commento non vanno sottovalutati perché
attestano, più di altri scritti di Lutero, la complessità e la maturazione del suo
pensiero prima del conflitto con la Chiesa cattolica del 1517. Dal punto di vista
contenutistico, spesso queste lezioni contengono intuizioni geniali e folgoranti.
Con Lutero, il dibattito sulla Lettera ai Romani trova nella tematica della giusti-
zia o della giustificazione il suo principale polo di attrazione. La centralità della
giustificazione, nella ricomprensione di Romani, è dovuta principalmente alla
contestazione di Lutero verso la tradizione umanistica: contro l'esaltazione del-
l'individuo e delle sue capacità, Lutero pone la centralità della sola fide, come
adesione alla sola giustizia divina. Per questo, da queste lezioni traspare già la
theologia crucis che troverà ampio sviluppo nel successivo pensiero di Lutero e
del luteranesimo.
Quasi per contrasto con la prospettiva luterana, al grande umanista, Erasmo
da Rotterdam, appartiene l'importante Parafrasi della lettera ai Romani (1517)
che si caratterizza per larigorositàesegetica e per l'attenzione al contesto storico
della lettera, al punto che non sarebbe fuori luogo attribuirle un valore storico-cri-
tico, ante litteram . 14

In polemica con la Parafrasi di Erasmo, soprattutto sulla relazione tra il van-


gelo e la grazia, si collocano i poderosi commenti di Melantone alla lettera, ini-
ziati sotto richiesta di Lutero per contrastare la concezione erasmiana: vanno dal
1521 al 1540 . Nel solco dellariformaluterana si colloca il commento di G. Cal-
15

vino del 1540 . 16

Il XX secolo può essere, a buona ragione, considerato come un periodo d'o-


ro per la Lettera ai Romani: comincia con i due commenti a L'Epistola ai Romani
di K. Barth . Il primo commento si pone come progressiva distanza dalla teolo-
17

gia liberale e come rottura con il metodo storico-critico a favore di quello spiri-
tuale. Il secondo commento, ben diverso, è il manifesto della teologia dialettica,
con un'accentuazione propriamente cristologica . Nel 1932, K. Barth intraprende
18

la monumentale Dommatica Ecclesiale, sino al 1959, in cui torna spesso sulla


Lettera ai Romani, soprattutto nel volume II/2 dedicato a La dottrina dell 'elezio-
ne divina, del 1942 . In quest'importante contributo, l'accento è posto sulla que-
19

stione dell'elezione, con una marcata concentrazione cristologica. Risente di que-


sto saggio il Breve commentario ali 'epistola ai Romani, frutto di un co^so tenuto

Per l'edizione italiana cfr. M.G. Mara (ed.), Erasmo da Rotterdam. Parafrasi della Lettera ai
14

Romani, L'Aquila-Roma 1990.


Cfr. F. Melantone, Annotationes in Epistolas ad Romanos et ad Corinthios (1522); Id., Dispositio
15

orationis in Epistolam Pauli ad Romanos (1529); Id., Commentarli in Epistolam Pauli ad Romanos del 1532
e del 1540. Per l'edizione critica cfr. C.G. Bretschneider, Philippi Melanthonis Opera quae super sunt omnia.
Cfr. T.H.L. Parker, Iohannis Calvini Commentarli in Epistolam Pauli ad Romanos, Leiden 1981.
16

K. Barth, Der Römerbrief, Zürich 1919; 1922 .


17 2

Per la traduzione della seconda edizione cfr. G. Miegge (ed.), K. Barth. L'Epistola ai Romani, Milano
18

1993 .
2

K. Barth, Gottes Gnadenwahl, in Die Kirchliche Dogmatik, IVI, Die Lehre von Gott, Zürich 1942;
19

cfr. la traduzione di A. Moda (ed.), K. Barth. La dottrina dell 'elezione divina, Dommatica Ecclesiale II/2,
Torino 1983.
558 II messaggio teologico
dal 1940 al 1941 e pubblicato soltanto nel 1956 , in cui K. Barth lascia trasparire
20

la sua resistenza passiva contro lo sterminio del popolo ebraico.


Dopo tanto silenzio, anche la teologia cattolica cerca di recuperare il terreno
perduto verso la Lettera ai Romani: si pensi ai commentari di J.M. Lagrange
(1916) e di H. Schlier (1977) , e al significativo contributo di S. Lyonnet
21 22

(1966) . Intanto, dopo i commentari di area protestante di H. Lietzmann (1906) ,


23 24

T. Zahn (1910) , P. Althaus (1935) , C.K. Barrett (1957) ,0. Kuss (1957-1978) ,
25 26 27 28

F.F. Bruce (1963) , C.E.B. Cranfield (1965) , H. Kàsemann (1973) , e U.


29 30 31

Wilckens (1978) che, pur con significative variazioni e originali apporti, si col-
32

locano nell'alveo del pensiero protestante, una nuova fase interpretativa è inaugu-
rata, nello stesso contesto, dal commentario di J.D.G. Dunn (1988) attraverso la
detronizzazione della giustificazione a favore del partecipazionismo dei gentili e
l'identificazione delle opere della Legge come identity markers che separano i
giudei dai gentili . Nell'area cattolica si pongono il ricco commento di J.A.
33

Fitzmyer (1993), originale per la contestualizzazione storica della lettera in rela-


zione al giudaismo del secolo I , e quello di B. Byrne (1996), più attento al ver-
34

sante sincronico e contenutistico della lettera .1 più recenti commentari dell'area


35

evangelica, di D.J. Moo (1996), T.R. Schreiner (1998) e K. Haacker (1999) reagi-
scono al revisionismo proposto da J.D.G. Dunn, tentando di recuperare la tradi-
zione interpretativa luterana sulla Lettera ai Romani . 36

Il dialogo ecumenico sulla Lettera ai Romani ha ricevuto grande impulso con


i simposi di S. Paolo fuori le Mura, di cui sono stati pubblicati gli atti, con pre-
ziose relazioni e vivaci dibattiti . Fra gli studiosi contemporanei, anche se non
37

hanno prodotto ancora commentari a Romani, meritano attenzione i contributi di

20 K. Barth, Kurze Erklärung dés Römerbrief\ München 1956. In italiano cfr. Id., Breve commentario
all'epistola ai Romani, M.C. Laurenzi (ed.), gdt 138, Brescia 1990 . 2

21 J.M. Lagrange, Saint Paul: Épìtre aux Romains, Paris 1916.


22 H. Schlier, Der Römerbrief, Freiburg im Breisgau 1977.
23 S. Lyonnet, La storia della salvezza nella lettera ai Romani, Napoli 1966.
24 H. Lietzmann, An die Römer, Tübingen 1971 . 5

25 T. Zahn, Der Brief des Paulus an die Römer, Leipzig 1925 . 3

26 P. Althaus, La lettera ai Romani, Brescia 1970.


27 C.K. Barrett, A Commentary on the Epistle to the Romans, London - New York 1991 . 2

28 O. Kuss, Der Römerbrief : Übersetzt und erklärt, I-III, Regensburg 1957-1978.


29 F.F. Bruce, The Letter of Paul the Apostle to the Romans: An Introduction and Commentary, Grand
Rapids 1985 . 2

30 C.E.B. Cranfield, The Epistle to the Romans, I-II, Edinburgh 1980-1983 (rist.).
31 E. Käsemann, An die Römer, Tübingen 1980 . 4

32 U. Wilckens, Der Brief an die Römer, III, Neukirchen-Vluyn 1987 . 2

33 J.D.G. Dunn, Romans, II, Dallas 1988.


34 J.A. Fitzmyer, Romans, New York 1993.
35 B. Byrne, Romans, Collegeville 1996.
36 D.J. Moo, The Epistle to the Romans, Grand Rapids 1996; T.S. Schreiner, Romans, Grand Rapids
1998; K. Haacker, Der Brief des Paulus an die Kömer, Leipzig 1999.
37 Colloque (Ecumenique, Foi et salut selon s. Paul (Épitre aux Romains 1,16), AnBib 42, PIB, Roma
1970; L. De Lorenzi (ed.), Battesimo e giustizia in Rom 6 e 8 (MSB 2), Roma 1974; Id., The Law of the Spirit
in Rom 7 and 8 (MBS 1), Roma 1976; Id., Die Israelfrage nach Rom 9-11 (MBS 3), Roma 1977; Id.,
Dimensions de la vie chrétienne (Rm 12-13) (MBS 4), Roma 1979; Id., Freedom and Love. The Guide for
Christian Life (lCo 8-10; Rm 14-15) (MBS 6), Roma 1981.
Storia dell ' interpretazione 559
R. Penna, in particolare quelli sul contesto storico , e quelli di J.-N. Aletti sulle
38

relazioni tra retorica-letteraria e messaggio paolino . 39

In ambito italiano si distingue il contributo di G. Torti, che pur non essendo un


commentario esegetico spicca per le abbondanti annotazioni filologiche . Il recen- 40

te commento di A. Sacchi si caratterizza per l'attenzione al versante teologico-spi-


rituale della lettera . Una trattazione a parte meriterebbe l'incidenza della Lettera
41

ai Romani sullafilosofiacontemporanea: si pensi in particolare al peso della dia-


lettica «vita-morte» paolina in Essere e tempo di M. Heidegger , alla trattazione 42

dell'«età del Figlio» in Dell'inizio di M. Cacciari , o all'attenzione rivolta alla


43

«kenosis del Figlio » in Cristianesimo senza redenzione di V. Vitiello , per non di- 44

menticare l'originale prospettiva della «teologia politica» con cui J. Taubes rileg-
ge alcune pagine della Lettera ai Romani . A volte si assiste ad analisi per « globa-
45

lizzazioni », attente più a una sorta di eiségésis che di exégésis, ossia di imposizioni
interpretative più che di attente considerazioni esegetiche. Non di meno, il peso di
tali pensatori che si cimentano sulla nostra lettera non può non essere ignorato, an-
che serichiederebbeuna valutazione più dettagliata che esula da questo contributo.
Pur limitandoci ai commenti e ai contributi più significativi, forse facendo ine-
vitabilmente torto ad alcuni, la storia dell'interpretazione èricchissimae perviene
alla sua massima espressione con il XX secolo che, almeno per la Lettera ai Romani,
non può essere definito come il secolo breve (E.J. Hobsbawm). Intanto, dopo gli ac-
cesi dibattiti sulla soteriologia, l'antropologia e l'elezione divina, il dibattito tende
a spostarsi sulla funzione salvifica di Cristorispettoa Israele e alle altre religioni,
concentrandosi su Rm 9,1 - ll^ó , sul contesto segnatamente giudaico di Paolo e
46

dei destinatari , e sulle istanze ministeriali che Rm 16 provoca nelle comunità cri-
47

stiane. Forse non sbagliamo se prevediamo che la storia dell'interpretazione di


Romani non è destinata a decrescere ma a continuare con impulsi e prospettive nuo-
ve: storico-critiche, argomentative e contenutistiche. Non possiamo che concludere
il nostro percorso storico con la profetica previsione di K. Barth, nella prefazione al-
la prima edizione del suo commento: « In tutte le epoche affamate e assetate di giu-
stizia è sembrato naturale prendere posizione al fianco di Paolo, partecipando
profondamente al suo pensiero, anziché assumere l'atteggiamento indifferente e di-
stante dello spettatore. Forse noi stiamo entrando in una di queste epoche... La po-
tente voce di Paolo è stata nuova per me, e tale dovrebbe essere per molti altri » . 48

38 R. Penna, L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo (MI) 1991, pp. 33-199.
39 J.-N. Aletti, Comment Dieu est-il juste? Clefs pour interpréter l'épitre aux Romains, Paris 1991;
Id., Israel et la Loi dans la lettre aux Romains (LD 173), Paris 1998.
40 G. Torti, La lettera ai Romani (SB 41), Paideia, Brescia 1977.
41 A. Sacchi, Lettera ai Romani, Città Nuova, Roma 2000.
42 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 , pp. 300-316.
15

43 Cfr. M. Cacciari, Dell'inizio, Adelphi, Milano 2001 , pp. 455-684.


2

44 V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Bari 1995, pp. 53-68.


45 Cfr. J. Taubes, La teologia politica di san Paolo, Adelphi, Milano 1997, pp. 37-49.
46 Vedi la nostra conclusione dopo l'analisi di Rm 9,1 -11,36.
47 Cfr. la reazione di P. De Benedetti al breve contributo di S. Vassalli, Lettera ai Romani, Torino 1998.
Il contesto giudaico della lettera è stato sottolineato da G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla
Lettera ai Romani, Torino 2000, che però, nonostante il titolo, non è un commento ma una breve sintesi teo-
logica della lettera.
48 K. Barth, Romani, p. 2.
LESSICO BIBLICO-TEOLOGICO
(retorico-contenutistico)

Acrasia
Impotenza o ineffettualità degli esseri umani davanti al bene e al male: si de-
sidera il primo e si compie il secondo. Riflette la condizione tragica dell'io e del-
la Legge, nella loro incapacità di liberazione dalla morsa del peccato. Tale condi-
zione è fondamentale per comprendere l'intricata argomentazione di Rm 7,7-25.
Antanaclasi
Ripercussione retorica con la quale un termine acquista più significati tra-
slati che si aggiungono a quello fondamentale. La figura dell'antanaclasi è im-
portante per il passaggio dal nomos,riferitogeneralmente alla Legge mosaica, al-
la legge o principio e norma del peccato e dello Spirito.
Apostolo
Persona inviata da Dio per annunciare il vangelo della salvezza. Nella Lettera
ai Romani l'apostolo non si identifica con i dodici che hanno condiviso la vita ter-
rena di Gesù Cristo ma con chiunquericevail mandato dell'evangelizzazione né
si limita agli uomini ma anche alle donne, come dimostra il caso della coppia
Andronico e Giunia in Rm 16.
Apocalittica
Faserivelativadella storia della salvezza che perviene alla sua massima rea-
lizzazione con la morte e risurrezione di Gesù Cristo. A questa fase appartiene
l'universale giustificazione realizzata da Dio per mezzo di Cristo. L'apocalittica
paolina entra in tensione dinamica con la sua -> escatologia.
Apusia-parusia
Assenza-presenza: è un elemento caratteristico dell'epistolografia antica, atte-
stato soprattutto nei prescritti e nei poscritti epistolari, attraverso il quale il mittente
e il destinatario constatano la reciproca distanza spazio-temporale. L'impossibilità
d'incontrarsi o l'annuncio per una futura visitarientranell'apusia-parusia epistola-
re: da non confondere con la parusia o la seconda venuta di Gesù Cristo.
562 Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico)
Aretalogia
Comunicazione retorica riguardante le virtù da inculcare negli ascoltatori.
Spesso Paolo si serve dell'aretalogia per esortare i destinatari delle lettere ad ade-
rire al bene e a evitare il male. Le parti aretalogiche dell'epistolario paolino sono
riconoscibili per le liste delle virtù poste in contrasto con quelle dei vizi.
Comune giudaismo
Definizione onnicomprensiva delle diverse forme e correnti di giudaismo
presenti nel secolo I d.C. Il cristianesimo di questo periodo non è una religione
autonoma ma una corrente interna del giudaismo. Coloro che, fra i gentili, aderi-
scono a Cristo credono di entrare a far parte della migliore forma di giudaismo,
di stampo apocalittico (-> apocalittica).
Diacono
Servizio ecclesiale, al quale accedono gli uomini e le donne, come nel caso
di Febe, diaconessa dell'insediamento portuale di Cenere (cfr. Rm 16,1-2). Il mi-
nistero del diaconato nell'epistolario paolino non si limita alla carità delle mense
o per i poveri ma riguarda anche il servizio per l'evangelizzazione e per la guida
nella comunità.
Diatriba
Discussione che un autore immagina di svolgere con un interlocutore fitti-
zio, per stabilire un dialogo immaginario. Nella diatriba si passa facilmente dal-
l'interlocuzione con il tu a quella con il noi e un io immaginario. Lo stile dia-
tribico si caratterizza per le domande, le risposte brevi e le obiezioni possibili
che rendono vivace il dialogo in atto. Alla vivacità dell'argomentazione diatri-
bica si accompagna, comunque, un'interpellanza indiretta verso i reali destina-
tari della lettera.
Elezione
Principio fondamentale con il quale Paolo riconosce l'assoluta libertà di Dio
nello scegliere chi, come e quando desidera. Da tale criterio dipende anche la de-
finizione di Israele come popolo eletto. Anche se nella storia della salvezza l'in-
carnazione dell'elezione implica la scelta di qualcuno a discapito di altri, il dise-
gno elettivo di Dio vale per tutti e si esprime con l'universale chiamata a diven-
tare suoi figli.
Escatologia
Fase finale della storia della salvezza verso la quale tendono i credenti, in
forza della loro adesione, per la fede, a Cristo (-> apocalittica). Nella tensione tra
l'apocalittica e l'escatologia si coglie quella tra la giustificazione per la fede e il
giudizio universale per le opere, tra l'incapacità della Legge mosaica di offrire la
563 Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico)
salvezza e la sua permanenza per gli israeliti che, attraverso di essa, hanno aderi-
to al vangelo. Il peso dell'argomentazione paolina non cade sull'escatologia ma
sull'apocalittica relazione con Cristo.
Fede
Adesione personale e comunitaria a Gesù Cristo, per grazia e per l'ascolto
della Parola. In Romani non si parla della fede o della credibilità di Gesù Cristo
nei confronti di Dio o degli esseri umani ma sempre di quella in lui e della fedeltà
di Dio verso il suo popolo. Il modello della fede non è Gesù ma Abramo.
Figliolanza
Istituzione giuridica dell'adozione filiale, con la quale chi è inserito nella
nuova famiglia gode di tutti i privilegi dei figli naturali. Paolo si serve di tale isti-
tuzione, animandola del retroterra anticotestamentario, per definire la nuova re-
lazione dei credenti con Dio, attraverso l'inserimento in Cristo, per mezzo dello
Spirito. Accanto a questo percorso, in Rm 9,4-5 èriconosciutaanche la misterio-
sa figliolanza degli israeliti che permane anche se non credono in Cristo e non
hanno ricevuto il suo Spirito.
Gezerah shawah
Principio di equivalenza con il quale due passi del Primo Testamento si illu-
minano e si spiegano reciprocamente attraverso una o più corrispondenze termi-
nologiche. La gezerah shawah più importante e nota dell'epistolario paolino è
quella tra Gn 15,6 e Ab 2,4 che con le contiguità tra i termini credere e fede, giu-
stizia e giusto permette a Paolo di sottolineare l'importanza della fede in vista
della giustizia.
Giustizia
Attributo fondamentale di Dio che sirivelacome giusto nell'atto di giustifi-
care tutti in Cristo. L'universalità della giustizia divina si esprime sia nella rivela-
zione della sua ira sia in quella della sua giustificazione. Nella Lettera ai Ro-
mani la giustizia divina si trova al centro del vangelo paolino ed è strettamente re-
lazionata alla salvezza universale. Non esiste una giustizia secondo la quale Dio è
tenuto a operare, per dare a ciascuno il suo, ma prima della giustizia si trova sol-
tanto la gratuità dell'agire di Dio nella storia della salvezza. Anche se non si ridu-
ce a essa, la giustizia divina è strettamente collegata alla sua misericordia.
Ira
Cognizione complessa che indica un aspetto della giustizia divina, con la
quale si esprime l'incompatibilità tra Dio e il male che commettono gli esseri
umani. Con l'avvento del vangelo, che trova nella giustificazione degli empi il
suo cuore, l'ira divina è relegata in secondo piano ma permane in vista dell'e-
scatologica giustizia divina che agisce con tutti in base alle azioni di ognuno.
564 Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico)
Legge
Il sostantivo greco nomos corrisponde all'ebraico Tòràh che si riferisce alla
Legge mosaica nella sua globalità. In dipendenza dai contesti, l'attenzione di
Paolo si orienta sul Pentateuco o sul Primo Testamento, sulla Legge come rivela-
zione o come normativa non per salvare una parte di essa, a detrimento di un'al-
tra, ma in una visione globale oppure olistica della stessa Legge. Con l'evento
Cristo, la Legge non è abrogata ma relativizzata e negativizzata perché non può
conferire la salvezza che proviene soltanto da Cristo. In rari casi, come Rm 2,14;
7,21-26; 8,2, il sostantivo nomos equivale a principio, norma in senso generale e
senza connessioni con la Legge mosaica: sono eccezioni, dovute a ripercussione
retorica o antanaclasi, che confermano la regola.
Midrash
Termine diffìcile da definire che, nella sua attuazione, può essere descritto co-
me particolare tipo di esegesi giudaica al Primo Testamento. Questaricerca(dall'e-
braico dàras, cercare) ha comefinalitàla spiegazione di un testo biblico in vista del-
le applicazioni di fede ed etica. Per questo il midrash si distingue inricercacon pro-
spettiva narrativa (haggadico) o in vista della condotta morale (halakica).
Mistero
Disegno divino rivelato a coloro che Dio sceglie per spiegare il senso e gli
orientamenti della storia della salvezza. Il mistero paolino non ha alcuna relazio-
ne con il fato o il destino della storia, con i suoi risvolti positivi e negativi, ma
esprime il disegno positivo dell'amore elettivo di Dio verso tutti.
Nomismo del patto
Definizione che caratterizza gran parte del comune giudaismo (E.P. Sanders),
con la quale si pone l'accento sulla relazione tra la Legge mosaica e l'alleanza tra
Dio e il suo popolo. Il comune giudaismo non considera la Legge come condizio-
ne per la giustificazione ma come espressione della salvezza promessa a quanti
entrano in relazione di alleanza con Dio.
Obbedienza della fede
Ascolto obbediente della Parola di Dio, qualificato dalla fede in Cristo. A
volte, Paolo sintetizza l'espressione parlando della semplice obbedienza (cfr. Rm
15,18). L'obbedienza della fede corrisponde all'ascolto qualificato dalla fede,
che a sua volta si oppone alle opere della Legge.
Opere della Legge
Genitivo di qualificazione con il quale si intendono le norme caratterizzate
dalla Legge mosaica per accedere alla salvezza. A causa del Legalismo che espri-
mono, le opere della Legge sono intese sempre in modo negativo perché hanno la
565 Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico)
pretesa di essere via parallela alla salvezza realizzata da Dio con la giustificazio-
ne, per mezzo della fede in Cristo.
Paràclesi
Esortazione morale che nasce dall'azione di Cristo, mediante lo Spirito, nel-
la vita cristiana. La paràclesi non siriducealla parenesi o all'esortazione ma coin-
volge la consolazione e il ministero di colui che esorta nella comunità cristiana.
Parodia
Imitazione di un personaggio, di una categoria o di un carattere, con la qua-
le ci si propone diridicolizzarnel'importanza. Questa forma di controcanto è uti-
lizzata da Paolo in Rm 2 non per desacralizzare l'identità ebraica, in contesto an-
tisemitico, ma per ridicolizzare chiunque fondi la propria giustizia sulla Legge
mosaica e sull'osservanza della circoncisione.
Peroratio
Epilogo argomentativo che sintetizza gli aspetti e le tematiche più importanti
delle sezioni di appartenenza. La peroratio è fondamentale per cogliere le finalità
delle dimostrazioni paoline che spesso sono intricate e non hanno un orientamen-
to chiaro. A volte, soprattutto per la Lettera ai Romani è necessario partire dalla pe-
roratio per comprendere le posizioni radicali e parziali che Paolo assume nel cor-
so dell'argomentazione. In tal senso sono decisive le perorazioni di Rm 8,31-39 e
11,25-36 dedicate al disegno-mistero divino.
Potenza
Sostantivo che rimanda all'azione dello Spirito nella vita cristiana. Lo
Spirito, in quanto potenza, si trova all'origine della costituzione di Gesù Cristo co-
me Figlio di Dio, dallarisurrezionedei morti, e del passaggio dalla condizione di
schiavi a quella difiglidi Dio chericevonoi credenti con l'inserimento in Cristo.
Propositio
Tesi retorica che annuncia le parti tematiche e argomentative che Paolo in-
tende dimostrare nel corso della lettera. Generalmente la propositio ha carattere
generale e non spiega tutte le tematiche successive ma introduce gli aspetti più
importanti della dimostrazione successiva. Da non confondere con la transitio
retorica.
Qal wahomer
Argomentazione a fortiori che procede dal minore al maggiore. Nel con-
fronto tra persone, realtà o valori, l'accento cade sempre sul maggiore che sopra-
vanza di gran lunga il minore. L'esempio più importante di questo tipo di argo-
mentazione si trova nel confronto tra Adamo (il minore) e Cristo (il maggiore).
566 Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico)
Resto
Porzione d'Israele che ha aderito, per la fede, in Gesù Cristo. A causa della
scelta di un resto, permane l'elezione per tutto Israele, anche se non ha creduto al
vangelo. Sulla categoria del resto eletto Paolo fonda la fedeltà della Parola di Dio
che non è venuta meno.
Transitio
Sentenza conclusiva di un paragrafo che sintetizza i contenuti precedenti o
introduce quelli seguenti: è una frase gancio che collega il concatenamento argo-
mentativo delle dimostrazioni paoline. Tipici esempi di transitio retorica sono
Rm 4,25; 5,20-21; 8,17: da non confondere con la propositio.
Vangelo
Sostantivo onnicomprensivo che caratterizza la Lettera ai Romani. Il termi-
ne non si limita alla narrazione di quanto Gesù ha detto e fatto ma rimanda e ca-
ratterizza la predicazione della bella notizia incentrata sulla salvezza universale,
compiuta da Dio in Cristo. Il cuore del vangelo nella Lettera ai Romani si trova
nella giustizia salvifica e nella partecipazione universale per chiunque crede.
Vanto
Relazione con alcuni valori che permette di esprimere la propria condizione
umana. Il vanto attraversa praticamente tutta la Lettera ai Romani in una tensio-
ne tra la sua negazione (Rm 1,18 - 4,25) e la sua affermazione (Rm 5,1 - 8,39). In
questione non è se ci si può o no vantare ma se si hanno le ragioni per farlo. Dopo
aver escluso qualsiasi motivo di vanto, Paolo dimostra la paradossale consisten-
za del vanto cristiano, fondata unicamente sulla giustificazione gratuita di Dio. Il
paradossale vanto cristiano perviene alla sua massima espressione nelle tribola-
zioni per il vangelo.
BIBLIOGRAFIA

A motivo del peso storico della Lettera ai Romani la sezione della Bibliografìa
scelta e ragionata è statafatta rientrare nel capitolo della Storia dell'interpretazione.

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INDICI
INDICE DEGLI AUTORI

Aageson J.W. 243, 339, 353, 363-364 Barth K. 202,345, 382,444,543,557-


AbeggM. 151 559
Agamben G. 72, 544, 559 Barthes R. 20
Agostino 115, 120,134, 180, 202, 224, Bassler J.M. 85, 99,111,542
233, 302, 308,441,460,556 Baumert N. 427
Aletti J-N. 17, 34, 62, 82, 86, 100-101, Baxter A.G. 387
107-108, 116, 120-121, 128, 131- Beare F.W. 257,475
132, 134-135, 138, 142, 146, 149, Beauchamp P. 378
156,161,170,172,177,181,183- Bechtler S.R. 355-356,358-360
184, 188, 199, 203-204, 215-216, Becker J. 466
218-219, 231, 235-236, 239, 261, Beker J.C. 542-543
267, 269-271, 274-275, 277, 279- Bell R.H. 24, 26, 82, 86, 334-335, 353,
280, 284, 311, 329-332, 339, 348, 360, 363, 368, 372-375, 382-383,
351, 354-355, 360, 362-364, 368- 385-386, 395-410
369, 371-372, 375, 378, 381, 383, Bencze L. 449
387-388, 393, 396-397, 405, 544, Berger K. 35,43, 98,318
559 Bergmeier R. 113
Allison D.C. 437 Betz H.D. 280, 365
Alonso Schökel L. 441 Bindemann W. 305
Althaus P. 555, 558 Blach D.A. 431
Ambrosiaster 27 Bloch R. 181
Aune D.A. 35 Boccaccini G. 125
Aus R.D.510 Boers H. 84, 138, 164,487
Boismard M.-E. 49
Badenas R. 355, 361-362 Bornkamm G. 21,526
BaeleG.K. 313 Botha J. 442
Baldanza G. 264, 353 Bouttier M. 255, 257
Banks R. 282 Bouwman G. 85
Barbaglio G. 358,421,423,454, 459, Bovati P. 67, 204
540 Brändle-Ekkehard R. 25
Barbiere G. 439 Breytenbach C. 164, 228
Barclay J.M.G. 133,417,463,466,472 Brodeur S. 216, 284, 292-293
BarrJ.298 Brooke G.J. 151
Barrett C.K. 45, 236, 356, 558 Bruce F.F. 231, 271, 378, 558
604 Indice degli autori
Bultmann R. 119, 153, 205, 257, 271, Crafton J.A. 22
283,355, 371, 493 Cranfield C.E.B. 45, 56, 60, 62, 69,
Burchard C. 266, 448, 481 87, 95, 100-101, 115, 137, 146,
Byrne B. 20, 24, 35, 84, 95, 101-103, 151,155,170,200,202-203,356,
105, 109,112,118,120, 128,131, 482, 558
134, 137, 144, 146, 150, 155-156, Cranford M. 184
160, 163-164, 168, 170, 173-174, Cruz H. 416
177, 182-183, 191-193, 195-196, Culmann O. 47
203, 215, 220, 222, 226-227, 232-
233, 243, 245, 250, 253-254, 258, Dabourne W. 27, 82
260-262, 264-265, 269-270, 276- Dal Covolo E. 442
277, 285-286, 288-289, 292, 294, Davies W.D. 34,45, 113, 182, 240
296, 299-304, 308, 310-311, 332, De la Potterie I. 286, 295
334, 338-340, 342, 345, 347, 350- Debenedetti C. 20
351, 355, 373, 407, 418-419, 423, Deidun T.J. 264, 284, 286-287
431, 434-435, 438, 440, 442-443, Deissmann A. 30
448-450, 452-453, 455, 458, 460- Del Agua Perez A. 181, 183
462, 465-467, 470, 472, 474, 477, Del Verme M. 54
479-480, 485, 491, 499, 501, 503, Denton D.R. 303
505, 508, 513-515, 519, 522, 525, Derrett J.D.M. 127
526,534, 558 Diaz Rodelas J.M. 268, 270,275
Byrskog S. 73 Dibelius M. 417,493
Dillon R.J. 287, 304
Cacciari M. 559 Dinter P.E. 331
Calvino G. 557 Dodd B. 69, 267
Cambier J.-M. 267, 277 Doeve J. 137
Campbell D.A. 69, 71, 108, 127, 168, Donaldson T.L. 381, 383, 390,503
170, 172 Donfried K.P. 17, 19, 20, 22-26, 35,
Canales I.J., 143 108,417,475,515,519, 526
Carbone S.P. 331, 362, 392-394, 400- Dunn J.D.G. 19, 24,26,46,54,57,66,
401,406,419 69, 86, 115, 130, 137, 145, 151-
Carras G.P. 121, 132 154, 175-176, 182, 196, 202, 219,
Castelli E.A. 515, 522 231, 246-247, 250, 257, 262, 276,
Cervin R.S. 522 280,286,310,344,357,359,360,
Childs B.S. 552 366,368,376,378,380,385,432,
Christiansen E.J. 335-336,406 436,438,440,448,452,458,463,
Cipriani S. 17-18,21,56,442,555-556 472,474,485,489,491,506, 510,
Clarke A.D. 532 512, 530, 534, 546, 558
Clements R.E. 378 Dupuis J. 406,410
Cocchini F. 37,441, 555-556
Coleman T.M. 447 Earnshaw J.D. 261, 263-264
Conzelmann H. 69 Eckert J. 459
Cook J.G. 88 Eckstein H.-J. 118
Cosby M.R. 231 Elliott J.K. 533
Cosgrove C.H. 331,405 Engberg-Pedersen T. 36
605 Indice degli autori
Englezakis B. 232-233 Garcia Martinez F. 68, 70, 151, 159
Erasmo 557 Garlington D.B. 52, 127, 231
Ernst M. 517 Gaston L. 113,154,170-171,358,362
Evans C. 418-419 Ghiberti G. 17, 552
Giblin C.H. 233-234
Fabris R. 49, 70, 373, 427 Gielen M. 520
Fauconnet J.J. 98 Gieniusz A. 216-217, 220, 243, 255,
Feldman L.H. 125,463 261, 263-264, 285, 300-305, 307
Feuillet A. 146, 232 Giglioli A. 302
Finamore S. 86 Giovanni Crisostomo 202, 304, 333,
Finsterbusch K. 450 441,522, 555
Fitzgerald J.T. 319 Givone S. 322
Fitzmyer J.A. 20, 24-25, 27, 36,46-48, Glad C.E. 461
51, 53-54, 62, 68, 71, 83-89, 95, Grabner-Haider A. 422
100-101, 109, 112, 118-121, 128- GrasserE. 154, 179, 266
129, 134, 137-142, 144-148, 150- Grech P. 50
151,154,156,158,160,163,165, GrelotP. 151,436
166,168, 170,173, 180, 182, 188, GrenholmC. 17
191-192, 200-203, 217, 220, 224- Guerra A.J. 35, 340-341
225, 231, 233-234, 240, 243-244, Gundry Volf J.M. 479-480
246-248, 251, 257, 261-262, 277,
280, 285-286, 288, 294-296, 298, Haacker K. 20, 330, 450, 458, 536,
300-302, 304, 307-308, 311, 313, 558
315, 318-319, 329, 332, 334, 338- Hall D.R. 134
340, 345, 348, 350-351, 355-356, Hansen G.W. 181
358, 360, 362, 364-368,371, 375- Hanson T. 182
376, 385-386, 392, 402, 407, 418, Harrisville R.A. 170
423-425, 430-431, 434-435, 439, Hartung M. 386, 388, 392
442-444, 448-450, 452-453, 461, Harvey G. 408
469-470, 472-474, 477, 479-480, Haufe G. 475
485,489,499,501, 503,506,508, Hawthorne G.F. 22
511-512, 515-516, 522-523, 525- Heckel T.K. 268
526, 529-530, 531, 534, 545, 550, Heidegger M. 559
558 Heikki S. 518
FlusserD. 358 Heil C. 472
Forte B. 317,406,410, 536 Heiligenthal R. 153
Franco E. 436 Hellholm D. 261
Frid B. 247 Hengel M. 30, 35, 44, 47
Fryer N.S.L. 166 Hills J.V. 360
Fusco V. 47, 312,472 Hofius O. 196, 231, 313
Holland G.S. 270
G. Mara 441, 556-557 Hollander H.W. 235
Gagnon R.A.J. 257, 474 Holloway O. 457
Garchia G. 38 Hooker M.D. 86, 170, 288
Garcia Cordero M. 240 Horn F.W. 47
606 Indice degli autori
Horst P.W. 396 Kundert L. 360
Howard G. 170 Kuss O. 558
Hübner H. 28, 113, 154, 175, 189,
195,270-271, 286, 329, 360-361, Lagrange J.M. 558
450 Lambrecht J. 258, 269, 276, 354, 488
Hünermann P. 477 Lampe P. 22, 515, 519-522, 529, 539
Hurtado L. 534 Lane W. 23
Le DéautR. 181
Jeffers J.S. 26 Légasse S. 245, 247, 249, 436, 442-
Jeremias J. 140, 236 443, 448
Jervell J. 22, 35 Lémonon J.P. 18,42
Jervis L.A. 21, 499 Levison J.R. 240
Jewett R. 36, 68, 510, 526 Lichtenberger H. 283
Johnson E.E. 68, 331 Lietzmann H. 558
Johnson G. 475 Lincoln A.T. 82
Johnson L.T. 170 Lindemann A. 360, 362
Jones ES. 258 Little J.A. 261
Jossa G. 442-443, 445 Lohfink N. 179, 408
Lohse E. 286
Kanjuparambil P. 433 Longenecker B.W. 330
Karlberg M.W. 270 Lutero M. 36, 64, 169, 176, 556
Karris R. 417 Lyall F. 297
Käsemann E. 67-68, 132, 153, 170, Lyonnet S. 68, 85, 167, 176, 202, 234,
182,200,202,221,226,285-286, 270, 286-287,313,448, 558
307, 448, 465, 493, 558
Keck L.E. 145, 486 Maartens P.J. 219
Keesmat S.C. 295 MacDonald M.Y. 515, 518-519, 522
Kendali D. 201 MacRae G.W. 308
Kennedy G.A. 18, 231 Malherbe A.J. 139, 416
Kertelge K. 67-68,233,257,259,304, Manson T.W. 20
359, 436 Marcheselli-Casale C. 409
KiefferR. 154 Martens J.W. 116
KimS. 228,315,436, 472 Martin B.L. 113, 175, 269-270, 286,
Kirby J.T. 232 356, 360-361,452
Kitamori K. 317 Martin R.P. 22, 228
Klassen W. 524 Martinez E.R. 48
Klein W.W. 52 Mattlock R.B. 111, 170
Klumbies P.-G. 165 Mayer G. 181
Koch D.-A. 70, 397 Mazzeo M. 421
Kotansky R.D. 340 McDonald P.M. 218
Krasovec J. 67 McEleny N.J. 98
Kraus W. 490 McHugh J. 50
Kruger M.A. 60 McNamara M. 364-365
Kruse C.G. 113 Meeks W.A. 515, 519, 521-522, 532,
Kümmel W.G. 154, 267, 405 540
607 Indice degli autori
Meggitt J.J. 531 NebeG. 221, 306
Meissen S. 315 Neirynck F. 436
Melantone F. 541, 557 Neusner J. 181,510
Merklein H. 442 Newton M. 167
Miller J.E. 95 Nietzsche F. 322
Milne DJ.W. 272 Nikopoulos B.E. 447
Moir I.A. 220 Nissen A. 452
Moltmann J. 317 North J.L. 525
Montagnini F. 233, 345
Moo DJ. 20, 24, 27, 43, 45-46, 49-52, O' Brien P.T. 54, 66, 393
54,57,61-62,68,70-72,82-83,85, Obeng E.A. 307
87-89, 91, 94-96, 100-103, 107, Ohler M. 377
109, 111-115, 118, 128, 131, 134, Ollrog W.-H. 526
136, 138, 140-142, 144, 147-148, Olson S.N. 500-501
150, 153, 156, 158, 160, 163, 165- Origene 37,52,93,118,134,240,312,
170, 173-175, 179-182, 184, 188, 386,441, 524, 530, 555
190-192, 194-195, 197-200, 202- Oss D.A. 358
203, 205, 215, 217, 219, 220, 225- Osten-Sacken P. 175,286
227, 232-251, 253-254, 256, 259, Ottone R. 268, 283, 322
261-262, 266, 269-270, 277, 280,
285-286, 288-289, 292, 294-296, Pastor Ramos F. 256
298, 300-304, 311, 315, 318, 330, Patte D. 17
332, 334-340, 342, 344-346, 349- Penna R. 18, 20-22, 25, 30, 34, 47-50,
352, 355-356, 358-360, 366, 370, 66, 70-71,85, 108, 111, 113, 134-
378, 385, 396, 407, 418, 422-424, 135, 140, 142-145, 151-153, 159,
430-431, 434-435, 437, 439-440, 165-166, 170, 172, 177-178, 185,
442-443, 445-450, 452-455, 461, 201, 204, 229, 236, 242, 243-246,
464-470, 472-473, 479-480, 482- 249-250,258,274, 280,284,286-
483, 485, 487-488, 491, 499, 501, 287, 289-290, 292, 294, 298, 315,
503-505, 508-509, 511-517, 519- 338, 393,394,403,420,454,467,
520, 522-526, 528, 530, 534, 537, 483,492,494,544,549,559
558 Pérez Fernandez M. 315
Morenz S. 441 Pickett R.W. 217
Mosetto F. 17, 552 Piper J. 141, 169,410
Moule C.F.D. 286 Pitta A. 17, 28, 42-43, 46, 48, 52, 55,
Moyise S. 145 57, 98, 117, 132, 154, 172, 176,
Mullins T.Y. 43 182-183, 194, 200-201, 203, 219,
Murray J. 84, 101 228, 233, 237, 240, 248, 263, 282,
Mussner F. 384,406, 506 288-289, 294-295, 298, 300, 316,
318, 341, 346, 363, 382, 396,416,
N.T. Wright 34, 113, 115, 130, 133, 420, 449-450, 455, 457, 466, 472,
269, 278, 286,289, 329, 338, 358, 477, 487, 492-493, 498, 503, 506,
360, 382, 396,485, 533 508, 514, 555
Nanos M.D. 25,471-472 Plisch U.K. 522
Natoli S. 322 Poirier J.C. 234
608 Indice degli autori
Ponsot H. 396 Sanna I. 240
Ponthot J. 503 Sass G. 485
PopkesW. 298 Sauer J. 436
Porter C.L. 84,102 Schatzmann S. 427
Porter S.E. 18, 30, 218, 228, 232, 247- Schlier H. 47, 84, 146, 150, 156, 158,
248, 442 160,165-170,179,217,243,246,
PuechE. 151 249, 251, 256-257, 260-261, 269,
Pulcinelli G. 66, 141, 156, 158-160, 271-272, 277, 285-286, 298, 300,
170, 204 302, 304, 332,334, 338-339,351,
365, 368, 370, 375, 392, 453,
QuekS.-H. 231 465, 470, 474, 477, 480, 483,
485,499,501,508,511-512,514,
Räisänen H. 113, 115-117, 131, 134, 558
153-154, 174-175, 177, 194, 264- Schnabel E.J. 124, 286
265, 270, 286-287, 344, 355-356, Schneider F. 43
360,449,451 Schräge W. 319
Ramarason L. 441 Schreiben S. 521
Reasoner M. 22, 35 Schreiner T.R. 20,42,54,100,111,128,
ReedJ.T. 18, 30 130, 144, 153-154, 156, 170, 355,
Refoulé E 331,354,356,360,393-399, 356, 358-360, 362-368, 370-378,
406,408 380-382, 384-387, 391-392, 394,
Reid M.L. 35,64,71 396-398, 402-403, 431, 442-445,
Rese M. 362 448-449, 451-455, 461, 465, 468,
Reynier C. 393 470, 472-474, 479-480, 482-483,
Rhyne C.T. 175, 356, 360 485-486, 488, 491, 499, 508-512,
Richardson P. 17,23,25-26,475,499, 514-516,519-526,534-535,558
515 Schüssler Fiorenza E. 515
Riesner R. 505 Schwartz D.R. 313
Robinson D.W.B. 170 Schweitzer A. 66
Röhser G. 244 Schwemer A.M. 30
Romanello S. 216, 219, 268-279, 281, Scippa V. 428, 431
283-284, 292,548 Scott J.M. 295, 296,505
Romaniuk K. 517 Scroggs R. 34, 97
Rossé G. 24, 430 Segal A.F. 273, 343
Rossi B. 300, 302 Segaila G. 417
Russo A. 410 Segert S. 441
Seifrid M.A. 276-277
Sacchi A. 174, 442-443, 446, 559 Siegelt F. 334, 339, 354, 360
Sacchi P. 241 Sievers J. 400
Sanchez Bosch J. 63,423, 430 Siotis M.A. 105
Sanders E.P. 68,72,113,151-153,174, Sloan R.B. 113
261, 269, 271, 286, 341, 358, 360, Smiga G. 417
405,450-451, 547, 564 Snodgrass K.R. 108, 113
Sanders J.A. 552 Snyman A.H. 311
Sandnes K.O. 44 Söding T. 416,449-452, 493
609 Indice degli autori
Spicq C. 228-229 Vitiello V. 559
Stanley C.D. 28, 128, 185, 319, 342, Vögtle A. 448, 459
347, 352-353, 357-358, 397,451, Vorster J.N. 24-25
469, 482, 489-490
Stegemann E.W. 515, 518 Wagner J.R. 487, 489
Stein R.H. 442, 446 Walker W.O. Jr. 28
Stendhal K. 68, 153, 546 Wallis I.G. 170
Stenger W. 43, 384, 506 Walter N. 155, 304, 437
Stern M. 463 Walters J.C. 24
Stowasser M. 95 Watson D.F. 17, 231
Stowers S.K. 31, 35, 100, 114, 120- WatsonF. 101,119, 121, 153,174-175,
121, 128, 131, 133-134, 138, 145, 191, 290, 330, 360, 363, 368,405,
175, 179,184, 257, 267, 277, 329, 410,417,461
349, 362,416,461 Webster J.B. 483
Strelan G. 270 Wedderburn A.J.M. 246, 252
Stuhlmacher R 67-68, 368, 516 Weima J.A.D. 499, 534
SwetnamJ. 191,305,315 Weiss H., 466
Synge F.C. 145 Westerholm S. 113,174-175, 356, 360
Whelan C.F. 517
Taatz 1.43 White J.L. 43
Talbert C.H. 431,433 Whiteley D.E.H. 302
Tarocchi S. 105,350-351 Whitsett C.G. 48
Taubes J. 559 Williams S.K. 137
Teodoreto di Cirro 441, 556 Wilckens U. 100-101, 134, 165, 170,
Testa E. 428 175, 182, 188, 191-192, 200, 202,
ThielmanF. Ili, 113,215 231, 286, 300, 304, 339, 351, 366,
Thiessen G. 532 368, 378, 385-386, 405, 453-454,
Thompson I.H. 231 461, 465, 474, 485, 506, 524, 558
Thompson M. 453 Wilson W.T. 432-433
Thompson R.W. 174, 290 WingerM. 113,280
Thurén L. 276 Winter B.W. 446
TobinT.H. 184 Wire A.C. 36, 62
Tommaso d'Aquino 441,556 Wolter M. 221,223,299
Tomson PJ. 248, 457 Wuellner W. 35
Torrance T.F. 170
Torti G. 62, 559 Yinger K.L. 102,432, 437-438
Tremolada P. 313
ZagerW. 166
Valentini A. 174,179-180 Zahn T. 558
Vallami E. 307 Zappella M. 516
Vanhoye A. 165, 172, 409, 427, 436, Zeller D. 217, 221, 257-258, 261-262,
553 264-265, 277, 286, 344, 432, 461,
Vanni U. 118, 235,249,288-289,303- 485
304 Zerbe G.M. 437
Varillon F. 317 Ziesler J.A. 270, 387
INDICE DEI NOMI E DELLE COSE

Abramo 29, 32, 71, 79-80, 82-83, 119, 394, 407-409, 453-456, 473, 493,
141, 160, 171, 173, 178, 181-199, 509,535,550,562-564
206-207, 221, 228, 235, 237, 270, apostolo 25, 27, 34, 37, 41, 44-46, 51,
273, 289, 307, 312-317, 323, 327, 118-119, 165, 177, 229, 280, 286,
336-337, 340-343, 354, 362, 376, 315, 327, 369, 383-384,492, 511,
437, 462, 466, 479, 483, 487-488, 520,526,560,562
535, 544, 546, 554, 564 Aquila 23, 24, 496, 517-519, 521, 529,
abrogazione 123, 139, 144, 160, 174, 537,557-558
180,194,264,284,360-361, 364, argomentazione a fortiori 150, 229,
373,451,549, 551 231, 236-237,239, 293, 372, 382-
accreditamento 32, 80, 83, 131, 182- 383,486
183,186-191,198-199,206,342,
acrasia 276-278, 280-281, 296, 316, battesimo 190,210,245-250,253,257,
322 264, 321-322,459
Adamo 29, 32, 37, 86, 162-163, 193, benedizione 33, 53, 55, 94, 193, 224,
208-209, 216-217, 230-242, 255, 289,337,340,436,487,496-498,
266, 270-273, 285, 303, 320-322, 511,523,526
382,427, 566
alleanza 189,406 caduta 201, 209, 236, 256, 321, 327,
amore 32-33, 37, 95, 108, 162, 169, 356-357, 380-383, 387, 395, 401
178, 208, 215, 224-226, 229, Caino 266, 278
230,260,290, 309-312, 318-321, carismi 31, 58, 275, 411, 423-431,
332-334, 345, 353, 359, 374, 492, 551
403,411-414,423,431-433,436, carne 29,41,47-48,57,60,77-90,127,
438-439, 441-442,448-454, 473- 129-133, 151, 155-156, 171, 179-
474,477,481-484,491-492,496, 180, 183-184, 190-192, 211-214,
501,510-512, 544, 547-548,552, 216, 231, 236, 248, 250-251,258-
565 259, 265, 276-277, 279, 284-285,
antanaclasi 69, 160,280-281, 286-287, 287-294, 296, 301, 306, 316-317,
340,562,565 319, 322-323, 327, 334, 337-343,
apocalittica 65-66,69,86,88,106,109, 349, 361, 384, 386-387, 410, 413,
111, 113, 117, 159, 162-163, 177- 415,427,456, 460,463-464, 471,
178, 204-205, 222, 224, 233, 235, 478-480,490, 510, 545, 548, 551-
242, 285, 301, 303-306, 342, 350, 552, 554
Indice dei nomi e delle cose 611
Cenere 21,496, 514-517, 529, 563 croce 38,42, 44,49, 62, 64-65, 67, 91,
chiasmo 107-108, 110, 150, 223, 245, 123, 158, 162, 166-168, 170, 219,
247, 281, 309, 311, 333, 348, 366, 222-223, 226, 228, 239, 247, 249-
369, 375, 378, 391, 400, 425, 469 251, 314-317, 366, 389, 399, 402,
circoncisione 32, 61, 77, 79-80, 83, 433,438,482, 522, 546
118, 120, 128-133, 136, 144, 152, culto 25, 33, 42, 45, 56-57, 74, 92-94,
155, 179, 182, 185, 188-192, 194- 220, 246, 256, 323, 335, 337,411,
195, 197, 204, 206-207, 266, 272, 418-422, 432, 499, 502-503, 536
321, 344, 357, 378,415,429,451, cuore 29, 74-75, 77, 88, 90-91, 93, 99,
453, 466, 487-488, 526, 545, 554, 102, 104-106, 117, 119, 129-133,
566 141, 148, 168, 189, 204-205, 210,
Claudio 22-24, 435, 443, 464, 509, 224, 234, 241, 253, 257, 280-281,
517-518, 521 287, 308, 323, 325-326, 333, 345,
climax 48, 148, 222, 309, 369, 455 347-348, 364-366, 369, 379, 420-
colletta 21-22, 47, 60, 429, 431, 436, 421, 460, 507, 514, 525, 564, 567
502, 506-507, 509-512, 536
comandamento 37,212,266-275,290, Davide 29, 41, 47-49, 79, 183, 187,
364,413,440,448-452,454,473, 312-313, 327, 336, 338, 379, 441,
481-482, 484 489-490, 545
comune giudaismo 27, 81, 115-116, debole 88, 134, 143, 163-165, 169,
122,125,153,167,178,181, 184- 171, 201, 204,213, 223, 239,250,
185, 187-188, 193-194, 197-198, 272, 280,285, 298, 305, 340, 377,
301, 359, 378, 384,410,445,466, 383, 396,413,462-465,470,472-
550, 565 474,478-480
condanna 21,77, 82-83, 85, 95-96, 99- debolezza 214, 225, 258, 276, 287,
100, 103-105, 113-116, 130, 144, 307, 322,460,462,464,473,478,
149, 168-169, 187, 204, 209, 213, 481, 552
221, 224-225, 233, 237, 239, 241, destinatari 18, 21-22, 24, 26-29, 31,
254, 263, 267, 271, 285, 288-290, 35, 37, 43, 49, 51-55, 57-60, 63-
296, 300,311, 317, 347,403,412, 64, 69-70, 72, 84, 90, 102, 115,
440,444-446,479, 542 122-124,138,140,143,150,152,
consolazione 54, 59, 128, 415, 417, 164,175,181-182, 195,197,199,
420,430,480,483-484,489,491, 201, 218, 243-246, 249, 251-252,
512,566 255, 257-262, 275, 285, 291, 293,
Corinto 20-21, 23, 58, 144, 178, 246, 296, 302, 312, 320, 331, 341-342,
318,423,443,463,466,473,478, 352,355,368, 370-372,376, 383-
482, 492, 508-509, 514-518, 522, 384, 393, 397, 401-402, 416-417,
524-525, 527-530, 536, 538 419-420, 424-425, 429, 434-436,
corpo mortale 210, 213, 253, 283, 293 438-439, 442, 444, 449-450, 456,
coscienza 68, 76, 117-118, 132, 204, 460,468-469,471,474,478,480-
222,278, 323, 332,406,413,446- 481,489,491-492,499-502, 506-
447,466,478,503,511 508, 510-512, 515-516, 518-519,
creazione 74, 85, 88, 90, 92-94, 196, 521-528, 533, 536-538, 548, 560,
214,242,250,300-305,307,316, 563
320-322, 349, 404-405 diatriba 19, 31, 36, 82, 100-102, 116,
612 Indice dei nomi e delle cose 612
120-121, 128, 172-173, 178, 183, evangelizzare 42, 62, 495, 499, 505
185, 188, 216, 243-244, 255, 261, evemerismo 92
267,295, 299, 311,331, 323, 325,
327, 335, 337-338, 340-343, 352, faraone 324, 345, 347-348, 350, 379,
354, 368,376,403,443,446,461, 437,444
465,471,563 Febe 19, 21, 27, 496, 498, 513-517,
discendenza 50, 80, 83,181, 186,191- 529, 536-537, 554, 563
193, 195, 197,488, 545 fede 32-33,37,42-43,47-51,54-55,58-
disegno divino 58, 300-301, 304, SOS- 59, 67, 69-73, 78-83, 93-94, 108,
SIO, 343-344, 346-347, 351, 374, 111, 114-115, 122, 131, 139, 153-
377, 379, 382, 394, 396,403,405, 158, 161, 166, 169-201, 206-208,
407,409,454, 544 215, 218-223, 238, 244-246, 249-
disobbedienza 109,137,209,238,270- 251, 255-258, 261, 264, 286-287,
271, 328-329, 400-401, 405, 440, 293, 306, 311-312, 317, 321, 325-
489 326, 328, 334, 336, 342, 344, 354-
disposizione 24, 31-33, 36, 65, 67, 88, 369, 371-373, 376, 379-380, 382,
98, 104, 185, 201, 293, 329-330, 384, 389-392, 398, 401, 406, 408-
336, 344-345, 393, 407, 412, 424, 410,413, 416,419,423, 425,428-
456,461,470,498,516,518,521- 429, 433-434, 436-438, 445-446,
522, 526, 529,531, 533-536, 538, 449, 453-456, 461-467, 470, 472-
541,553-554 475, 477-482, 484, 486, 488, 491-
dossologia 27, 34, 53, 216, 229, 239, 493, 504-505, 512, 515, 524-526,
260, 311, 320, 332, 338-340,404- 533-535, 537-538, 544, 546, 549-
405,480,498, 516, 530-533, 535- 550,553-556, 563-567
536 fedeltà 32,34,69-71,77,87,135,137-
139, 157-158, 161, 170-172, 179,
elenco dei carismi 428 238, 323, 329-330, 334, 339, 354,
elezione 33, 37, 46-47, 112, 178, 186, 404,425, 428, 487-488, 546, 548,
196, 295-297, 308-310, 323, 327- 555, 564, 567,
328, 330-331, 335-336, 339-347, Figlio 37, 41-43, 46-50, 57, 64, 72-73,
352-354, 374, 376, 378-379, 382, 166,169, 171, 174,201,208, 213,
390, 397, 399-400, 406-408, 542, 215, 225-230, 254, 287-289, 292,
544,555,558, 560,563, 567 294, 296-299, 309-310, 312-318,
Elia 327, 375, 377-378 320, 322, 336, 338, 364, 390,451,
endiadi 51, 87, 110,434 485,487,491,499,534,545,551,
epanortosi 59 566
Erasto 21, 497, 527, 529-530, 538 figliolanza 32, 50,57,67,71,130,181,
eredità 32, 80, 83, 191-195, 206, 294- 184, 191, 198-199, 207, 214, 288-
295, 297-299,475 289, 291, 294-300, 305-306, 309-
Esaù 324, 339, 343-345, 350, 398 310,314,317,320,323,332,335-
escatologia 111, 113, 159, 280, 301, 337, 342, 353,487,544, 564
306,309,408,454,456,550,562- florilegio 148-150, 352,485, 490
564
espiazione 79, 158, 166-169, 545-546 gelosia 33,327,373-374,380-382,413,
estetica paolina 36-38 457-458, 555
Indice dei nomi e delle cose 613
genere epistolare 35-36 giustizia 32-34, 37, 42-44, 49, 65-74,
gentili, 21, 24, 26-27, 32-34, 37, 41- 77-83, 86, 100, 106, 115, 119,
45, 50-54, 60-61, 65-66, 68, 71- 122, 131, 135, 139-142, 145, 147,
73, 76-77, 79, 82, 84-85, 88-89, 149, 151-152, 156-163, 165, 169,
92, 94, 97, 99, 105, 110-112, 170, 172-174, 179, 181-182, 185-
114-121, 125, 128-129, 131-132, 195, 198-207, 209-211, 213, 217-
136, 141, 143, 145-146, 153-154, 220, 231, 237-239, 244, 253, 255-
161, 171,174-175, 178-179, 184, 259, 261, 276, 286, 289-290,292-
188, 190-191, 195-196, 203, 206, 293, 306, 312, 324-326, 331, 339,
215, 221, 227, 234-235, 262, 342, 345-346, 348-349, 352-368,
273, 280, 324-325,327-329,334- 370, 373-374, 379, 382, 390, 392,
337, 339, 341, 343, 348, 351- 408, 412, 414, 419,425,439-440,
353,355-357,360,368,370-376, 442,456, 459, 469,475-476, 488,
378-389, 392-393, 395-397, 399- 491-492, 508, 534-535, 542, 544-
403, 405, 407-410, 461, 464, 545, 558-560,564,566-567
466, 472-473, 485-491, 495-496, gloria 50, 74-75, 77-78, 81, 84, 90-92,
498-499, 501-506, 509-510, 512, 108-109, 139, 143, 163, 190, 197-
518, 534-537, 547-548, 554, 559, 198,208,210,214,217,219,221-
563 222, 234, 248, 284-285, 295-296,
gezerah shawah 183, 353-354, 357, 299-310, 312, 314, 318, 321-324,
367, 380, 397, 489, 564 329, 332, 335-337, 350-351, 372,
Giacobbe 137,324,328,335-336,339, 384,402-405,415, 445, 459,463,
343-344,397-398,511 484-489, 498, 531, 533, 535-536,
Giacomo 114, 176-178, 185-186,458, 538
473 glorificazione 48,50,90,208-211,216-
Giobbe 112, 222-223, 349 217, 219-222, 224-225, 227, 230-
giudizio 67-68, 75, 77, 85, 100-104, 232, 235-237, 239, 242-245, 252,
106-108, 112-114, 117, 119, 131, 254-257, 259-261, 263, 265-266,
139-142, 147, 149, 156, 177, 209, 268, 276, 285-286, 309-310, 314,
233, 237, 319,366,403,408,445, 320-321,544
465,468-471,480, 555, 563 grazia 32,41,51,53,58,68,78,80,83,
Giunia 45, 496, 514, 519-521, 537, 105-106,115,142,144,153,163-
554, 562 164, 176, 186-187, 195, 205-206,
giustificazione 32, 66-67, 71, 78, 81- 327, 345, 376, 378, 390,400,404,
83, 100, 103, 106, 108, 110-111, 411, 424, 428-429, 495, 497, 499,
115, 147,152, 155-158, 160, 163- 501-502, 524, 526, 530, 557-558,
164, 168, 175-180, 184-186, 188, 564
196, 198-200, 202, 205-209, 215-
222, 226-227, 230, 232, 237-239, Illiria 61,495, 500, 504-505, 507, 536
242, 252-253, 260,279, 286, 291, imparzialità 32, 37, 75, 82, 100-102,
292, 306,309-310, 312,347,357- 107-108, 111-113, 118-119, 121,
359, 361, 368, 373, 401, 410, 128-131, 133-135, 138, 141-142,
445-446,454,462,475,491, 501, 145,147, 149,155, 158, 162, 173,
542, 544-550, 554-555, 558-559, 177, 179, 204-205, 344, 367, 542,
562-567 544
614 Indice dei nomi e delle cose 614
impuro 27, 414, 460, 462, 471-472, Izate di Adiabene 130
474, 478
incirconcisione 77, 79-80, 112, 128- legge della carne 115
131, 134, 144, 149, 156,173, 179, Legge della fede 79, 174-175, 206,
188-189, 192,453 286,357
inclusione 25, 43, 217, 229, 243, 254, legge dello Spirito 32, 115, 175, 213,
303, 311, 321, 348, 351, 353-354, 216, 284-287, 296, 301, 320, 551
371, 373-374, 383, 402, 430-431, legge naturale 116
436, 438, 440, 449, 534, 547-548 Legge 27, 30, 32-33, 37-38, 53,64, 70,
indurimento 106, 328, 345, 348, 375, 71, 76-80, 82-83, 89, 97-98, 101-
378-380, 395-399,401, 403, 406, 134, 136-137, 143-144, 149-156,
409, 534 159, 160, 162, 168-169, 172-175,
ingiustizia 74-75, 77, 81, 83-84, 86-87, 177-185, 188-189, 191-197, 199,
98-99, 109, 135, 140-141, 210, 204, 206-207, 209-213, 216-221,
227, 253, 324, 345-348, 453, 456 225, 231-232, 234-235, 239, 241-
interlocutorefittizio21,31, 82-83, 102- 243, 252, 254-255, 257-258, 261-
103, 126, 130, 134, 139, 141, 143, 292, 295-296, 316, 320, 322, 325,
173, 188, 206, 243, 274, 339, 345, 330, 337, 340-341, 344, 354-364,
348-349,390-391,394,563 373, 377-378, 382, 387, 399,407-
ira 32,34,62,74-75,77,80- 88,93,96- 410,413,418,444,449-453,460,
97, 99, 100, 102, 105-107, log- 463-464, 472-474, 479, 481, 487,
li 1, 113, 119, 121, 130, 133-135, 492, 526, 542, 544, 546-551, 554,
137, 140-141, 147, 149, 151-152, 562-563,565-566
154-155, 157-158, 161-162, 168- lettera 17-24, 26-38, 43-44, 47, 51-54,
169, 194, 203-208, 217, 219-220, 56-62, 65, 67-68, 70-73, 77, 81,
224-227, 229, 234, 282, 314, 324, 84-85,92,102,115,119,122,127,
347, 350-351, 399, 412-413, 439- 129-130, 132-136, 143-144, 146,
442, 445-447,485, 542, 544, 555, 150-151, 154, 162, 175-177, 181-
564 182, 201, 211, 217-220, 230, 237,
Isacco 185,187,196-197,228,313-316, 243-245, 251, 253-254, 258, 260-
323, 336-337, 339-344,420 262, 265-267, 269, 275, 291, 293,
Isaia 128,148,203,297,313,315,324- 296, 302, 305, 320, 329, 331, 335,
326, 331, 340, 353, 370, 374,416, 338, 341, 350, 355, 358, 360, 367,
490, 508 369, 376-377, 382-383, 387, 397,
Iside 246,459, 515 401, 406, 416-419, 432, 439, 441-
Israele 17, 32-34,37-38,44-46,51,53, 443,452,456,460,465,468,470-
58, 66, 93, 101, 104, 109, 119, 473,477,483,485,486,488,490-
122, 124, 127-128, 137-139, 142, 491, 493, 497-501, 503-507, 510,
166, 178,180,189, 266,270-271, 513, 515-516, 518-519, 521-528,
273, 278, 295-296, 308, 310,319, 530-531, 536, 538, 541, 544-549,
322-337, 339-343, 345, 347-349, 551,554-560,563,566
352-362, 366, 370-391, 394-401, liberazione 65, 90, 128, 164, 168, 216,
403-410,444,458,470,473,490, 237, 252-253, 257, 259, 274, 282-
503,505, 534,544, 547-548, 551, 283, 286-288, 295, 297, 303, 322,
554-555, 560, 563, 567 398,440, 562
Indice dei nomi e delle cose 615
libertà 44, 118, 143, 178, 189, 214, opere della Legge 78-79,114-115,117,
255-259, 263-264, 274, 285, 295- 131, 151-156, 160, 174-178, 182,
297, 300-301, 303-304, 320, 330, 185, 187-188, 206, 219, 290, 310,
345-346, 348-349, 352, 366, 390- 359-360, 378-379, 382, 390, 455,
391, 407, 471-472, 474, 477, 479, 477, 548-550, 559, 565
481, 484, 509-510, 544, 550-551,
563 pace 21, 24-25, 28, 32, 41, 46-48, 50,
litote 63,127,173,223, 340, 389, 393, 53, 65, 71, 75, 78, 96, 99, 110-
453, 500 111, 115, 141, 148, 161, 171-172,
longanimità 75, 104-105, 168, 324, 183, 190, 208, 213, 217-220, 222,
350,475 225, 230, 232, 239, 243-245, 255,
260, 270-271, 277-278, 280-281,
Medea 268, 277, 282 285,287,291,295,298,301,303-
messia 26, 48, 50, 338, 357 304,308, 311,318, 334, 341,356,
metonimia 48, 152, 189, 379, 457 358-360, 362-363, 365, 368, 370,
midrash 181, 565 374,382, 395,407,410,412,414-
mimesi 120 416,435,437,439-440,443,445-
ministeri 423,425,427-430, 514, 551 446,450,455,462,466,470,473-
misericordia 33, 53, 68, 86, 100, 104, 477, 484, 486-488, 491-492, 496-
120, 140,155,159,163,168,277- 497, 506, 508, 510, 512-515, 518,
278, 324, 328-329, 331, 339, 345- 524,526,528,531, 545
348, 350-353, 394, 400-401, 405, paràclesi 33, 417-418, 430, 448, 485,
411, 415, 417, 419-420, 428, 431, 493, 566
439, 459, 469, 475-476, 488-489, paradosso 42, 89, 159, 218, 226, 288-
492,542,564 289, 310, 316-317, 355, 389, 392,
mistero 33-34, 38, 158, 165-166, 305- 407,449
306,310, 328-331,334,339,392- parodia 19, 31-32, 76, 106, 119-128,
409,436,498,532-536,538,565- 131, 134,269, 279,406,451,548
566 parola di Dio 34, 137, 142,340
mistica 66 parole di Dio 77, 137-138, 144, 180,
Mitra 246 340, 372,425
mittente 20, 22, 28, 31, 37, 43, 53-54, paura, 214, 294, 296,445, 448
57, 71, 135, 181, 218, 244, 251, peccato originale 230, 233-234, 237,
416-417, 423-424, 498, 506, 536, 239-240, 242, 321
562 peccato 32, 37, 44, 65, 67-68, 76-79,
Mosè 45, 92,98,489 86, 90, 95-96, 98-99, 107, 109,
113-114, 120, 122, 127,142, 145-
obbedienza della fede 41, 43, 50-53, 150, 152-157, 162-163, 169, 180,
384,498-499, 524-526, 532, 535, 187, 194, 201, 204, 208-213, 216,
538,565 220-221, 230-237, 239-245, 247,
olivastro 33, 328, 387-389, 391-392, 250-263, 265-279, 281-282, 284-
410,510 292, 294-296, 301, 303, 305, 314,
omosessualità 95-97 316-317, 320-322, 334, 347, 359,
opera della Legge 76, 117-118, 132, 367, 382, 397,401,415,420,479-
151-152, 154, 187, 357, 550 480,484,488, 545, 549, 562
616 Indice dei nomi e delle cose 616
peccatore 77, 140, 142, 170, 176, 228, primizia 214, 305-306, 327, 380, 385-
238, 250, 290 387,496,519
periautologia 63 Prisca 496,517-519, 521,537
perorazione 32-33,78, 81-82,144,149- privilegi 81, 104, 112, 120, 122, 129,
150, 156, 198-199, 201, 207, 216- 134, 137-143, 145-147, 149, 180,
217, 261, 285, 311-312, 318, 330, 184, 204, 297, 332, 335-340, 342-
332, 372, 393, 395, 398-401, 407- 343, 361, 386-387, 399-400, 410,
408,415,461,485-486,498 488, 551,564
perseveranza 75, 208, 214, 222-223, promessa 32, 80-81, 83, 109, 137, 182,
305-308,311,391,415,435,447, 186, 188, 191-195, 197-198, 206-
480,483-484, 489, 491, 512 207, 228,235,295, 314, 323,337,
pneumatologia 284,293, 551 340-346, 352, 388, 398, 400-401,
popolo 24, 33, 38, 51, 53, 55, 66, 68, 406-407,484,488, 565
84, 101, 104, 113-114, 124, 129- prosopopea 231-232, 267, 389
130, 134, 136-137, 139, 151, 153, punizione 70, 96, 137, 241, 327, 380,
166-168, 171, 175-176, 178, 180, 445
184, 189, 194, 196,203-204, 228-
229, 241, 256, 266, 270, 273-274, radice 87,98, 109, 138,241, 271, 303-
279, 292, 295, 297-298, 309-310, 304, 327-328, 341, 380-381, 385-
313, 321, 324, 326-327, 330, 332- 389, 391-392, 395-396, 400, 408,
338, 343, 347, 352-353, 358, 373- 422,436,481,490, 503, 510, 548
377, 379, 382, 384-385, 387, 389, Rebecca 29, 323, 343-344
396, 399-400, 403, 406-407, 410, redenzione 37, 78, 161, 163-165, 168,
415, 440, 443, 445-446, 488-490, 214,219,229,242,276,296,305-
503, 505, 509-510, 520, 542, 544- 306,310,314,454
545, 547-548, 554, 559, 563-565 regno di Dio 396, 414, 455, 470, 474-
poscritto 33, 410, 416, 495, 498-499, 477,491-492
506, 513,516, 523-524, 530, 536, resto 33, 38, 325, 327, 331, 345, 352-
548,551 354, 357-358, 374-380, 383-387,
potenza 38, 41-42, 44, 47-50, 64-65, 396
72-74, 85, 89, 93, 115, 133, 159, retorica letteraria 17,19
162,196,200,233,235,244,249- retribuzione 107-111, 177, 222, 304,
250, 252-253, 256, 271, 274, 281, 312,346, 348,366,555
284, 286,291-293, 317, 324, 331, ricompensa 74, 85, 96, 110, 186, 255,
338,347,350,387,391,416,456, 260
459,489,491,495,499,503,532- risurrezione 41, 47-50, 64, 82, 106,
533,535,546,551-552,566 119,190,196,200-202,207,210,
predestinazione 309, 345, 347, 350, 247-249, 251-252,266, 282, 288,
352, 374, 407 292-294,299-301, 306, 309,318-
preghiera 55, 132, 298, 307, 334, 358, 319, 321, 347, 365-366, 371,
368, 412, 435, 447, 480, 484-485, 384-385,422,426,448,454,459,
491,498, 506,511,536 467-468, 472, 481-482,486, 491,
prescritto 26, 32-33, 41-44, 47-48, 52- 493, 533, 544-547, 550-552, 562,
54, 72-73,164,220,500,531,534, 566
536 rivelazione naturale 85, 111
Indice dei nomi e delle cose 617
salvezza 37-38, 42-43, 46-47, 58, 65, signoria 32,50,92,170,210,216,219-
67-69, 72-73, 86, 97, 107-108, 220, 237, 252,254,261, 263,276,
110-112, 114-115, 119, 121, 123, 318, 366-369, 461, 465, 467-469,
138, 147, 157-160, 162, 168-169, 473,485,490-491, 546-547
176, 181, 205, 217-218, 220, 225, sofferenze 214,222-223,248-249,265,
227-228, 234, 258, 266, 270, 282, 285, 295, 299-302, 305, 307-312,
285, 287-288, 302, 305-306, 308, 319, 321, 333
313-314, 316-317, 325-327, 329, soteriologia 164-165, 168, 200, 202,
331, 334, 336, 345-346, 355, 358, 219, 226-227, 229, 282, 285, 287,
360-363, 365-367, 370, 378, 380- 301, 305-306, 313, 315, 317, 396,
385, 391, 395-399, 404-410, 413, 454, 512, 560
419, 427, 439, 444, 453-455, 473- Spagna 21-22, 60, 372, 496, 506-508,
474, 481, 486, 488-489, 527, 542, 511,536
544-545, 547-550, 554-556, 559, spirito 42, 49, 56, 118, 214, 292, 295,
562-567 298-299, 308, 327, 379,421, 427,
sangue 56, 78-79, 148, 158, 161, 165- 430,434
169,206,208,224, 226-229,310, Spirito santo 48, 50, 56, 60, 64, 208,
489, 503, 545 224, 323, 332, 368, 385,414,416,
Sara 80, 196-197, 323, 341-342 434,476,491,495,503,551
scandalo 33, 317, 325, 357-358, 414, strumento di espiazione 57, 165-169,
441,461,470-471,525 174, 206, 221, 227,420
schiavitù 147, 214,250, 254-257,259-
260, 281, 295-296, 303-304, 551 Terzo 19,220, 384,497, 527-528,530,
seme 41,47,49, 192,237, 343,490 536,538
servo 41, 44, 61, 213, 241, 256, 276, tesi 32-35,42,54,62-73,81-84,86,107,
313, 414-415,429,465, 476,487, 110, 127, 135-138, 140, 146, 150,
488,511,545,554 155-161, 171, 173, 181, 183, 199,
sigillo 80, 189-190, 194,488, 510 205, 216-220, 222-223, 229-230,
Signore 41, 44, 47-48, 50, 52, 56, 64, 239, 243-244, 254-255, 269, 281,
70-71,79, 81-82,90,94,100,104, 284-285, 300-302, 305, 307, 311,
107, 109-110, 113, 119-120, 122- 320, 326, 330, 339-341, 345, 351,
123, 125, 128-129, 133-134, 137- 354-358, 360, 362, 367, 373, 376-
139,159,172,187,189, 192, 196, 377, 381, 387, 407, 418-422, 424,
198, 200, 203, 208-209, 211, 215, 431-433, 444, 449-450, 453, 462-
217, 220, 224, 228-229, 260, 263, 463, 466, 470-471, 476, 486, 522,
265, 295, 297-298, 306, 313, 320, 535,541-542, 547
325-327, 329, 333-336, 338, 340, timorati 27, 262,464
347, 353-354, 362-370, 373, 377- tradizione orale 132, 460
380, 386-388, 390, 397, 404, 410, tragico 19, 31-32, 268, 270, 275-280,
412-418, 420-421, 425-428, 433- 282-284, 306, 316-317, 322, 544,
434, 440, 445,452, 455-456, 458- 549, 552
461, 465-470, 472,479, 485, 489- trasgressione 37,76, 80, 123,127,129,
490, 492, 496-497, 511-512, 516, 194-195, 206, 209, 231, 233-237,
518, 520, 522, 524-526, 528, 530, 239-240, 242, 268, 270-271, 275,
533, 535, 541,545-546,556 382
618 Indice dei nomi e delle cose 618
tribolazione 110, 208, 215, 222-223, vantaggio 32,51,71,77,117,134-137,
307, 309, 318,412,417,435,483, 144,146, 149, 166,203,225, 247,
512 288-290, 334, 359, 390, 465, 467,
tribunale 89, 126, 307, 312, 317, 414, 473, 509, 546
468, 550 vanto 32-34, 63-64, 79, 81-83, 118,
tristezza 32,241,323,332-333,335,473 121, 123, 127, 129, 132-136, 145-
146, 154, 172-175, 178-180, 182,
ulivo 33, 328, 387-389, 392, 510 184-185, 188, 194, 199, 204-208,
uomo interiore 212,250-251,280,422, 216-219, 221-223, 229, 232, 285,
434 301, 320-321, 357, 387, 389-390,
uomo nuovo 456,459 394, 422, 446, 495, 499-500, 503,
uomo vecchio 249-250, 252-253, 456, 505, 567
546 vasaio 33, 324, 348-349, 404
vergognarsi, 63-64
vangelo 19,21-22,29,34-36,38,41-48, vita 17, 23, 37, 46, 55-56, 60, 71-73,
50-73, 76, 81-82, 85-89, 97, 99, 75, 92, 105, 109-110, 116, 123,
103-106, 111, 119, 126-127, 133, 126, 136,165, 170, 180, 196-197,
138, 141, 143-144, 148, 156-157, 206, 208-213, 215, 219-224, 226-
169, 173, 186, 196, 205, 207, 221- 229, 231-232, 236-239, 241, 243,
223, 227, 244, 248, 257, 263, 326, 245-246, 248-255, 259-261, 264-
328, 330, 332-334, 339-340, 347, 266, 271-273, 275, 277, 285-286,
349, 357-360, 365, 367-371, 373- 288,290-295,299,308,312,319-
374, 376-392, 394-396, 398-400, 321, 327, 347, 368, 377, 385,
406, 408, 410, 419-420, 425, 430, 420-422, 443, 451, 459, 465-468,
462, 466, 468, 471, 473-476, 481, 476,482-483,486,496,510,518,
486, 493-495, 498-500, 502-503, 521, 533, 546, 551-552, 555,562,
505, 507-508, 510-512, 514, 517, 566
519, 521-526, 528, 532-538, 541- vizi 31, 85, 91, 93, 97-100, 103, 107,
542, 544, 548, 550, 553-555, 558, 120,126,162,227,453,456-458,
562, 564, 567 460,492, 563
INDICE FILOLOGICO

abba 30, 294, 297-298, 547 diakonia 429, 512


'abôdâ 256 diakonos 429, 442, 446, 515
adiaphoron 160 diathëkë 336, 409
adscriptio 43, 52 didachë 257
agape 54, 224, 319, 418, 423, 431- dikaiôma 67, 100, 131, 202, 237-238,
433, 442, 449, 482, 492 290
akrobystia 129 dikaiosynë 67, 355-356, 475, 534
anastasis 48, 200, 249, 385, 491 dikaioun 67, 115, 157, 251, 253, 311
aparchë 306, 385 dokimazein 97-98, 223, 422
aphorizein 46 domus ecclesiae 514, 522, 537
apistia 138, 192, 197-198 90, 221
apokalypsis 69, 106, 532, 534 doxazein 90
apokalyptein 69, 158, 393 dynamis 64, 391, 532, 550
apokaradokia 303
apolytròsis 164, 305 'ëèed 44
apostellein 369 268
apostolos 45, 520 48-49, 201, 454, 545
'aqêdâ 313-315 eirënë 53
areskein 480-481 dbfc/ësia 26, 410, 515, 518, 553
eklogë 341, 353, 399
baptizein 245-246 eleëmosynë 419
bar-miswâ 272 enduein 456, 458
basileuein 253 elpis 435
entolë 26%, 271
captatio benevolentiae 55, 262, 500- epaggelia 192
501, 526 epaischynomai 63, 223
charis 53, 164, 205, 221, 230, 236, epignôsis 85, 156
254, 424 epikalein 367-368
charisma 58, 230, 236-237, 254, 260, eiA/ww 52, 489-490, 532, 535
424, 427 étf/iøs 20
chrëstotês 105, 391 euaggelion 46
Christos 338, 544 euaggelizein 62
concessio 274, 278, 284 exagorazein 164
correctio 59, 226, 312 exordium 54
620 Indice filologico
exousia 4 4 4 lytron 1 6 4

florilegium 148, 352 ma 'ášé hattóráh 1 5 1


metanoia 105-106, 205, 437
gar 19, 62 misein 3 4 4
gramma 1 3 2 mneia 5 7
mystěrion 393-394
hålakot 463-464
hamartia 146, 165, 201, 230, 233,480 nomos 113-114, 116, 122, 137, 149-
hilasterion 165-168 150, 152, 154, 160, 173-174, 180,
homoidma 9 2 , 2 3 5 , 2 4 7 , 2 4 9 , 2 8 9 206, 262, 268-281, 286-287, 340,
huios 48, 294, 299,313 354, 450, 460, 548, 561, 564
huiothesia 305-306, 335, 337 nomothesia 337
hyper 1 6 8 , 2 0 3 , 2 2 5 , 2 8 9 nous 437, 439
humanitas 276-279, 322
opsónion 260
ioudaios 4 0 6 orgě 205

kairos 1 5 8 , 1 6 9 , 2 2 5 , 4 5 4 pathos 20
kalein 52, 196, 341, 352-353 pantes 65, 219, 230, 236, 368
kalonkagathon 4 2 3 , 4 3 1 , 4 3 8 , 4 8 2 paradidómi 93, 201, 257, 313
kapporet 166-168 parakalein 417, 430
kardia 9 0 paraptóma 201, 230, 236-237, 381-
karpophorein 2 6 4 382
karpos 6 0 , 5 1 1 partitio 63, 72-73, 355, 418, 462, 541
katakrima 2 3 7 , 2 8 5 , 4 4 5 pater 30, 294, 297-298, 542
kauchesis 6 3 , 1 7 3 , 3 8 9 peripatein 191, 248, 290, 456-457,
katallassein 2 2 8 473
kérygma 1 2 6 , 1 9 9 , 2 0 1 , 2 0 6 , 2 1 7 , 2 5 1 , perisson 136
253, 290, 311,416,419,422,467, peritomě 129, 191
493,494, 531,533 phaneroun 88, 393, 532
keryssein 1 2 6 pheidesthai 312, 390
koinos 4 7 1 phronein 290,425,437-438,467, 484
krazein 2 9 7 pistis 138-139,157,161,170-173,192,
krima 1 0 1 , 1 0 3 , 2 3 7 , 4 0 3 , 4 4 5 197, 365,425, 479-480
ktisis 9 4 , 3 0 2 , 3 0 5 , 3 2 0 plěróma 382-383, 453
kyrieuein 220, 252-253, 262,461 pneuma 57, 133, 285-286, 292, 421
kyrios 5 0 , 4 3 4 , 4 6 1 , 4 6 5 , 4 8 9 , 5 4 2 pneumatikos 58, 275
poiein 101
latreia 9 4 , 3 3 7 pórósis 348, 395
latreuein 9 4 propositio 34, 62, 72, 216, 219, 231,
leimma 3 7 8 302, 305, 355, 376,418,431,449,
leitourgos 5 0 2 462, 565-566
logikon 4 2 1 proskyněma 54
logos 20, 27-28 prosópolěmpsia 112
Indice filologico 621

proton 55, 65, 367 sophia 402


prötotokos 309 sperma 237, 341, 354, 376
sphragis 189
räz 394 superscriptio 43
rtb 204-205 sygkrisis 183, 216, 230-231, 255, 284-
rűah haqqödes 48 285
rtómtf 363, 365, 371-372
syneidesis 118
sälöm 53
säliah 45 teknos 341, 376
söma 292, 420, 424 telos 132, 259, 355, 360-362,447
söphronein 423, 425 iMps/s 110, 222, 318
» / a 65, 382, 454 titulatio 43
sözein 229, 306, 366, 382, 454 transitio 216
sarkinos 276, 279 /ypoy 235, 257
sarx 265, 279, 285,292,510 zöopoiein 196, 293
INDICE DELLE CITAZIONI 1

Primo Testamento
Gn 2-3 232, 303-304
Gn 3,3 270
Gn 3,13 273
Gn 3,1-6 273
Gn 3,17 303
Gn 4,7 278
Gn 12,2 193, 488
Gn 13,14-17 193
Gn 15,6 28, 31,71,83,155,160,177,182-183,185-190,192,198-
199,342,563
Gn 15,18 336
Gn 16,15 183,341
Gn 17,1-27 130
Gn 17,5 28, 182, 192, 195
Gn 17,10-11 182, 188-189
Gn 18,10 342
Gn 18,14 28, 198, 342
Gn 18,25 141
Gn 19,1-28 96
Gn 21,2-3 341
Gn 22,12 29,312-314
Gn 22 29, 185, 197,228,312-316
Gn 25,19-28 29, 343
Gn 25,23 28, 344
Gn 31,26-54 68
Gn 32,28 335
Es 9,16 29, 347-348, 444
Es 20,17 263, 269-270, 273
1 In questo indice sono riportate soltanto le citazioni delle fonti più importanti rispetto all'argomen-
tazione paolina e sono escluse tutte le citazioni della Lettera ai Romani.
Indice delle citazioni 623
Es 25 166-167
Es 32 91,334
Es 32,32 334
Es 33,19 29, 346
Lv 7,20 93
Lv 16 166-167, 307
Lv 18,5 29, 362-364
Lv 18,22 95
Lv 19,18 29, 440, 450, 452
Nm 5,29 263
Nm 19,13 93
Dt 29,3 28, 379-380
Dt 30,12 28, 362-365, 373
Dt 30,13 364-365
Dt 30,14 28, 64, 365
Dt 32,12 295, 364
Dt 32,21 28,373, 382
Dt 32,35 28, 440-441
Gdc 5,2 335
Gdc 11,35 282
ISam 14,12-21 441
2Sam 3,6-11 68
2Sam 18,5 312-313
2Sam 22,50 469, 489
2Sam 23,5 336
IRe 12,28-31 93
IRe 19,1-18 377
Tb 1,10-12 464
Gdt 12,1-2 464
Est 14,17 464
IMac 2,52 186
2Mac 8,29 228
Gb 27,6 145
Gb 40,4 349
Gb 41,3 29, 404
Sai 5,10 28, 145, 148
Sai 9,28 28, 145, 148
Sai 13,1-3 28, 145, 147
Sai 13,3 147-148
Indice delle citazioni 624
Sai 17,50 28, 489
Sai 18,5 28,372
Sai 31,1-2 28, 182-183, 187-188, 479
Sai 43,23 28,319
Sai 51,10 388
Sai 51,14 68
Sai 68,23-24 28, 379
Sai 69,24 91
Sai 105,19-20 91
Sai 115,2 29, 140, 144
Sai 127,3 388
Sai 139,4 148
Sai 142,2 155,179
Pr 17,15 187
Pr 25,22 441
Qo 10,20 118
Qo 7,20 147
Sap 2,23 109, 309
Sap 9,10 289
Sap 13,5 89
Sap 13,6 89
Sap 13,8 89
Sap 15,1-3 104
Sap 17,11 118
Sir 7,34 437
Sir 42,18 118
Is 1,9 28, 352, 354
Is 10,22-23 28, 353-354
Is 27,9 28, 397
Is 28,16 28, 357-358, 362, 366-367, 389
Is 29,10 28,379
Is 29,16 28,349
Is 40,6-8 340
Is 45,1 347, 444, 446, 505
Is 46,13 68
Is 52,5 28, 120, 127-128
Is 52,7 28, 46, 65, 220, 369-370
Is 53,6 203, 313
Is 53,12 203, 313
Is 53,13 313
Is 59,7-8 28, 145, 148
Is 59,20-21 28, 397-398, 409
indice deile citazioni 625

Is 65,2 401,406
Ger 9,24-25 130
Ger 11,16 388
Ger 23,14 96
Ger 31,31-34 117,133,336,409
Lm 4,6 96
Ba 1,15-38 331
Ez 4,14 93
Ez 11,19-21 117
Ez 36,25-27 133
Dn 9,4-20 331
Os 2,1 29, 139, 266, 303, 352-354, 376
Os 2,25 29, 352-353, 406
Os 14,7 388
G12,28-32 224
G1 3,5 362-363, 367-368
Mic3.ll 122
Ab 2,4 29,43,47, 70-71, 150, 155,157, 160,172,179-180, 218-
219, 363,499, 563
Mİ 1,2-3 29, 344

Nuovo Testamento

Mt 5,44-47 436
Mt 6,1-18 132
Mt 6,13 282
Mt 12,41 131
Mt 15,18-19 90
Mt 23,15 125
Mt 25,14-30 426
Mt 27,34 482
Mc 7,15-23 472
Mc 10,33 313
Mc 10,38-39 247
Mc 12,17 448
Mc 13,9-13 317
Mc 14,24 224
Mc 14,36 298, 544
626 indice deile citazioni
Mc 15,32 482
Mc 15,34 314
Lc 6,27-28 436
Lc 6,35 105
Lc 19,11-27 426
Gv 1,5 124
Gv 3,16-17 288
Gv 15,6 391
Gv 15,26 318
At 8,32-33 319
At 9,1-19 228,315
At 11,6 92
At 15,29 472, 498
At 18,2 23
lCor 1,9 51,139,172,239,310,436
lCor 1,13-17 245-247
lCor 1,18 63-65, 90-91, 306, 455, 473
lCor 1,19 56,61,379,440,469,532
lCor 1,31 123,128,221,229,319
lCor 3,1 59, 94,97,108,124,273,276,278, 306,420,424,477,502
lCor 4,5 119, 134, 158, 446, 455
lCor 5,7 56, 227, 250, 420
lCor 6,2 131,164,276,434
lCor 6,9 97, 475
lCor 6,11 219,246,291
lCor 6,12 144,178,264
lCor 6,14 201,293,347,366
lCor 7,10-15 318
lCor 7,19 130,179
lCor 7,39 263
lCor 8,6 404
lCor 9,20-21 273
lCor 9,22 478
lCor 9,23 389
lCor 10,16-17 427
lCor 11,7 92
lCor 11,30 301,440
lCor 12,3 102, 224, 275, 333, 366, 368, 431
lCor 14,14 57
lCor 14,31 59
lCor 15,2 196, 229, 233, 236-237, 240, 303, 306, 320, 338, 386,454
lCor 15,20 306, 386, 454
lCor 15,44 306
indice deile citazioni (ill
lCor 15,56 113,235,553
1 Cor 16,1 308, 498, 508, 510, 518-520, 528
2Cor 1,10 282-283,398,513
2Cor 1,22 306,511
2Cor 3,6-7 266
2Cor 3,17 434
2Cor 4,4 92, 309, 336, 339, 403
2Cor 4,5 50, 308, 366
2Cor 4,7 64, 106, 170, 222, 280, 349
2Cor 4,7-12 170,222
2Cor 4,11 201,319
2Cor 4,16 56,280,422
2Cor 5 94, 103, 142, 150, 168, 173, 201, 224-225, 227-228, 233,
250,271, 279, 288-289, 302, 315-318, 344,366, 385, 390,
396,420,425,456,468,470, 476-477, 506
2Cor 5,1 94, 103, 142, 150, 168, 173, 201, 224-225, 227-228, 250,
271,279,302,315,317-318,344,366,385,390,396,425,
468,470,476-477
2Cor 5,2 67,288-289,316,420,456
2Cor 5,10 317,344,468,470
2Cor 5,14 168, 224, 250, 315, 318
2Cor 5,18-21 315
2Cor 5,21 67, 288-289, 316,420
2Cor 6,2 225, 454, 503
2Cor 6,13 96
2Cor 8,9 289
2Cor 10,17 123, 221, 229, 372
2Cor 11,29 478
Gal 1,4 48, 123, 201, 265, 298, 312, 314, 422
Gal 1,13-14 120, 355, 359
Gal 1,14 132,458
Gal 2,16 29, 108, 117, 131, 151, 153, 155, 171-172, 176-177, 200,
356,454,477
Gal 2,19 159, 250, 252, 264, 272-273, 361,467
Gal 2,20 48, 168, 171, 201, 319,468
Gal 3,10-12 153
Gal 3,11 70-71,172
Gal 3,13-14 168,225,288,487
Gal 3,16-17 235
Gal 3,19 136,194-195,269
Gal 3,23-25 265
Gal 3,27-28 246, 493
Gal 4,1-7 297,388
Gal 4,4 50, 168-169, 289, 316, 364, 383, 453, 487, 491
628 indice deile citazioni

Gal 4,6 287, 292-298, 544


Gal 4,9 225, 309
Gal 5,2-12 144
Gal 5,5-6 108
Gal 5,13 151, 224, 271, 416, 448-450, 481, 493, 511
Gal 5,14 30, 132, 449-452, 482
Gal 5,17 268, 277
Gal 5,18 295
Gal 5,22 60, 105, 139, 260, 291, 475-476, 492, 501, 512
Gal 5,22-26 260
Gal 5,24 117, 251,265, 293, 301
Gal 6,1 58, 94, 123, 132, 201, 222, 250, 275, 283, 295, 302, 396,
476-477, 479,498, 501, 524-525, 527, 531, 538, 553
Gal 6,10 476-477, 479
Gal 6,14 222
Gal 6,15 94, 250, 302
Ef 1,14 193,305-306
Ef 2,5 229, 306, 366
Ef 2,18 220
Ef 5,25 168
Fil 1,7 389, 425
Fil 1,20 196, 303
Fil 1,23 93,271
Fil 2,6-11 50, 172, 200, 338
Fil 3,2-3 144
Fil 3,10-11 299
Fil 3,18 399
Fil 3,21 251,309
Fil 4,17 60, 470
Fil 4,18 56, 420-421,476
Col 1,13 282, 398, 455, 475
Col 1,15 89, 92, 94, 242, 309, 404
Col 1,26 158, 393, 535
Col 3,7 97,290,457
lTs 1,9-10 56, 85
lTs 1,10 49, 86, 200-201, 282, 398, 513
lTs 2,4 97, 291,308, 476, 481
lTs 2,17 55,93,271,454
lTs 4,15 455
lTs 5,1 105,225,356,431,435,439,454-455,477,501,506,517,
520
lTs 5,3 104, 291, 304
2Ts 3,2 282-283, 398
indice deile citazioni 629

lTm 1,10 97,140,483


lTm 1,17 89,91,109,405
lTm 6,11 223,356,475
2Tm 2,20 94, 350
2Tm 2,22 271,356,367,475
2Tm 3,5 125, 224, 526
Tt 3,15 224,528
Eb 2,17 172
Eb 9 100, 158,165-167, 237, 337, 409, 471,504
Eb 10,30 440
Eb 10,38 70
Gc 2,21 184-185
Gc 2,23 178,185-186
Gc 2,24 176-177
lPt 1,24-25 340
lPt 2,6-8 358
2Pt 2,18 96
lGv 2,1 318,340,417-418,441,526
lGv 2,2 167
lGv 4,9 288
Ap 3,17 282
Ap 16,15 96

Giudaistica

IQ 27 1,6, 159
1QH 1,21-23 277
HQmelch 119, 142, 370
4QMMT 151-152
lQpHab 7,5 - 8,3 70
1QS 5,21 151
705 6,18 151
1QS 11,11-15 67-68
8HevXIIgr 17,29-30 70

Ap Bar 81,4 394


Avot 6,5 98
2Bar 54,15-19 242
lEn 45,3-6 119
2En 22,8 459
4Esd 4,20-26 241
4Esdl,\\ 241, 270, 303
630 indice deile citazioni
4Esd 7,74 350
4Esdl,\\6-\l% 241
4Mac 9,22 109
4Mac 13,12 315
Qiddushin 1,1 262
Sal. Salom. 3,12 109
Sal. Salom. 15,8 104
Sal. Salom 17,37-38 49
Shabbat95 262, 452
Test. Abramo 13,5 119

Letteratura greco-romana

Catullo, Carmina 277


Corpus hermeticum 13,7 98
Dione Cassio, Historia romana 60,6.6 23
Epitteto, Dissertationes 102, 121, 139, 277, 280,
282,319, 421,426
Euripide, Medea 1078-1080 277, 282, 318
Filone Alessandrino, Congressu 97 280
Heres 232-233 421
Legatione 155 25
Flavio Giuseppe, Ant. giud. 20,17-48 130
Vita 3,13-14 464
Ignazio, Magnesi 8,2 179, 198, 534
Policarpo, Filippesi 6,2 468
Lettera di Aristea 132-133 89
138 92
152 96
Ovidio, Amores 277
Ovidio, Metamorphoseon 95, 277, 282
Pausania, Guida deila Grecia 2,2,3 515
Platone, Epistola 1
Protagora 277
Plauto, Miles gloriosus 121
Plutarco, Moralia 265, 277
Pseudo-Demetrio, Typoi epistolikoi 18
Pseudo-Filone, Liber Antiquitatum Biblicarum 18,5 315
Seneca, Medea 915 277
Svetonio, Claudius 25,4 23
Nero 6,10 24,443
16,2 27
Tacito, Annales 13,50,1-2 24
Teofrasto, Caratteri 121
Terenzio, Heautontimorumenos 276
INDICE GENERALE

Prefazione Pag. 7
Abbreviazioni e sigle » 9

Parte prima
SEZIONE INTRODUTTIVA » 15
Profilo storico e retorico-letterario » 17
1. Alcune precisazioni metodologiche » 17
2.1 tre vettori relazionali » 20
3. L'inventario » 28
4. La disposizione » 31
5. Quale genere epistolare? » 35
6. Un originale profilo estetico » 36

Parte seconda
TRADUZIONE E COMMENTO » 39
Introduzione epistolare (1,1-17) » 41
La rivelazione dell 'ira e della giustizia divina (1,18-4,25) » 74
Excursus: La « fede di Cristo » » 170
Excursus: La «giustificazione per fede» e l'incoeren-
za del Nuovo Testamento? » 177
Il paradossale vanto cristiano (5 l-8 39)
f f » 208
Excursus: Originale il peccato originale? » 239
Excursus: L' 'àqèdà di Isacco e Gesù Cristo » 314
La fedeltà della Parola di Dio (9,1-11,36) » 323
La paràclesi (12,1 -15,13) Pag. 411
Il poscritto epistolare (15,14 -16,27) » 495

Parte terza
IL MESSAGGIO TEOLOGICO » 539
Il messaggio della Lettera ai Romani » 541
1. Il vangelo e la giustizia di Dio » 542
2. Gesù Cristo e la fede » 543
3. Il giudeo, il greco e la salvezza per tutti » 546
4. La Legge in conflitto » 547
5. La legge dello Spirito » 550
La Lettera ai Romani e il canone della Scrittura » 552
Storia dell'interpretazione » 555

Lessico biblico-teologico (retorico-contenutistico) » 561


Bibliografìa » 567
Indice degli autori » 603
Indice dei nomi e delle cose » 611
Indice filologico » 621
Indice delle citazioni » 625
Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2009

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