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INTRODUZIONE GENERALE
ALLA SACRA SCRITTURA
EDUSC
JUAN CARLOS OSSANDÓN WIDOW
INTRODUZIONE GENERALE
ALLA SACRA SCRITTURA
EDUSC 2018
© 2018 – Edizioni Santa Croce s.r.l.
Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma
Tel. (39) 06 45493637
info@edusc.it
www.edizionisantacroce.it
ISBN 978-88-8333-729-1
Indice 5
Indice
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ .......................................................................................................17
1. I NᴏᴍI ᴅᴇᴌᴌᴀ BIBBIᴀ......................................................................................18
2. ANᴀᴌᴏGIᴀ FRᴀ ᴌᴀ SᴄRIᴛᴛᴜRᴀ ᴇ ᴌ'INᴄᴀRNᴀᴢIᴏNᴇ........................................21
3. CᴏRNIᴄᴇ SᴛᴏRIᴄᴀ .........................................................................................23
4. I ᴌIBRI Nᴇᴌᴌ'ᴀNᴛIᴄHIᴛÀ ................................................................................27
4.1. Materiale ...............................................................................................27
4.1.1. Papiro ..........................................................................................28
4.1.2. Pelle ............................................................................................29
4.2. Formato.................................................................................................30
4.2.1. Rotoli...........................................................................................31
4.2.2. Codici ........................................................................................34
5. L'ᴇᴌᴇNᴄᴏ ᴅᴇI ᴌIBRI BIBᴌIᴄI............................................................................35
5.1. La Bibbia Ebraica .....................................................................................35
5.2. L'Antico Testamento................................................................................37
5.3. I ventisette libri del Nuovo Testamento .....................................................39
5.4. Capitoli e versetti....................................................................................40
6. Lᴇ ᴌINGᴜᴇ ᴅᴇI ᴌIBRI BIBᴌIᴄI ..........................................................................41
6.1. Introduzione ...........................................................................................41
6.2. Antico Testamento .................................................................................42
6.2.1. L'ebraico e l'aramaico................................................................42
6.2.2. I libri scritti in greco e quelli conservati soltanto in greco......43
6.2.3. Due casi speciali: Daniele ed Ester ...........................................44
6.3. Nuovo Testamento..................................................................................46
Indice 6
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro considerazione come parola di Dio
266
29. Lᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴅᴇᴌᴌᴀ TᴏRᴀH.........................................................................267
29.1. Riferimenti alla Torah scritta nel Pentateuco.........................................268
29.1.1. Il racconto dell'Esodo .............................................................268
29.1.2. I riferimenti alla Torah scritta nel Deuteronomio ...............270
29.1.3. Il libro della Torah ed il Pentateuco ......................................271
29.2. Testimonianze fuori del Pentateuco .....................................................272
29.2.1. Nel libro di Giosuè ................................................................272
29.2.2. La riforma di Giosia (2 Re 22-23).........................................275
29.2.3. Esdra e la proclamazione della Torah...................................276
29.2.4. Valore del libro della Torah nel periodo del secondo Tempio277
30. Lᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴘRᴏFᴇᴛIᴄᴀ...............................................................................278
Indice 10
Abbreviazioni e sigle
TM Testo Masoretico
TOB Traduction Œcuménique de la Bible
Vg Vulgata
Vg Weber R. Weber - R. Gryson (eds.), Biblia Sacra iuxta Vulgatam versionem,
Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 52007.
WA M. Luther, Werke: Kritische Gesamtausbage, Weimarer Ausgabe.
I libri biblici
Ab Abacuc Gd Giuda
Abd Abdia Gdc Giudici
Ag Aggeo Gdt Giuditta
Am Amos Ger Geremia
Ap Apocalisse Gio Giona
At Atti degli Apostoli Gl Gioele
Bar Baruc Gn Genesi
Ct Cantico dei cantici Gs Giosuè
Col Colossesi Gv Giovanni
1 Cor 1 Corinzi 1 Gv 1 Giovanni
2 Cor 2 Corinzi 2 Gv 2 Giovanni
1 Cr 1 Cronache 3 Gv 3 Giovanni
2 Cr 2 Cronache Is Isaia
Dn Daniele Lam Lamentazioni
Dt Deuteronomio Lc Luca
Eb Ebrei Lv Levitico
Ef Efesini 1 Mac 1 Maccabei
Es Esodo 2 Mac 2 Maccabei
Esd Esdra Mc Marco
Est Ester Mic Michea
Ez Ezechiele Ml Malachia
Fil Filippesi Mt Matteo
Flm Filemone Na Naum
Gal Galati Ne Neemia
Gb Giobbe Nm Numeri
Gc Giacomo Os Osea
Abbreviazioni e sigle 13
Indicazioni bibliografiche
Queste pagine sono nate per offrire un punto di riferimento nello studio perso-
nale agli studenti di Introduzione generale alla sacra Scrittura, corso semestrale di 32
ore alla Pontificia Università della Santa Croce. Esse hanno quindi uno stile voluta-
mente pedagogico, mentre il contenuto è di carattere provvisorio specialmente nelle
parti dedicate al testo e all'ispirazione.
Non esiste un unico manuale di riferimento per la materia. Occorre seguire le le-
zioni e studiare questa dispensa, nella quale si offre bibliografia specifica per ogni ar-
gomento. Per approfondire, si possono consultare i seguenti documenti e libri.
Manuali
P. GRᴇᴌᴏᴛ, La Bible, Parole de Dieu. Introduction théologique à l'étude de l'Écri-
ture Sainte, Desclée & Co, Paris 1965. Ottimo manuale, ma ormai un po' datato. Tra-
duzione in inglese: The Bible, Word of God: A Theological Introduction to the Study of
Scripture, Desclée, New York 1968. In spagnolo: La Biblia, palabra de Dios. Introduc-
ción teológica al estudio de la Sagrada Escritura, Herder, Barcelona 1968. Purtroppo
non esiste in italiano.
G. DᴇIᴀNᴀ, Introduzione alla Sacra Scrittura alla luce della "Dei Verbum", Urba-
niana University Press, Città del Vaticano 2009. Esiste traduzione in inglese: Intro-
duction to the Sacred Scripture in the Light of «Dei Verbum», 2014. Utile per un primo
approccio.
V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione gene-
rale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016. Buon manuale, utile come com-
plemento per alcuni punti.
M. PRIᴏᴛᴛᴏ, Il libro della Parola: introduzione alla Scrittura, Elledici, Torino
2016.
Indicazioni bibliografiche 15
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ
Le scienze, diceva Aristotele (Metaphysica V,1), si distinguono fra esse per il loro
oggetto, cioè per quella parte o aspetto della realtà che studiano. Nel caso dell'Intro-
duzione generale alla Sacra Scrittura (IGSS), è chiaro che l'oggetto da studiare è la
Bibbia. Ma bisogna precisare quest'affermazione, perché lo stesso oggetto può essere
studiato da diverse scienze, ognuna dal suo punto di vista.
Con terminologia scolastica, possiamo dire che l'oggetto materiale di questa
scienza è il gruppo di libri chiamati “Bibbia”, mentre il suo “oggetto formale”, cioè il
punto di vista dal quale si studia l'oggetto materiale, è la Bibbia nella Chiesa. Non si
tratta quindi di studiare i libri biblici, ma di studiare la sacra Scrittura teologica-
mente. La nostra materia può essere definita come “la parte della teologia che esami-
na tutte le questioni necessarie per la retta comprensione dei libri sacri”1. Più infor-
male, ma forse più didattica, è la definizione che propongono Artola e Sánchez Caro
nel loro manuale. Lo scopo di questa materia consiste nel rispondere alla seguente
domanda: cos'è la Bibbia per il cristiano cattolico?2
Agli inizi del corso, queste definizioni sembrano senz'altro generiche e prive di
una speciale rilevanza. Per questa ragione non ci soffermeremo sui problemi connessi
con la definizione della materia3. Eppure, conviene non dimenticare che la domanda
su cosa sia la sacra Scrittura nella Chiesa è il nostro oggetto di studio. Infatti, ognuna
delle parti del programma può essere capita come un tentativo di risposta a tale
domanda.
Il corso si struttura in quattro grandi parti:
1. M. Tábet, Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 15.
2. Cf. A. M. Artola - J. M. Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella 41995, 16.
3. Per chi volesse approfondire, cf. J. M. Sánchez Caro, «De la "introducción general a la Biblia" a la
"teología de la Biblia": una propuesta metodológica», Salmanticensis 56 (2009) 5-48.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 18
I Bibbia e rivelazione.
II Testo.
III Canone.
IV Interpretazione.
Che cosa è la sacra Scrittura? Nella prima parte, vedremo che essa è una testimo-
nianza scritta della rivelazione divina, ma non solo: in virtù dell'ispirazione la si può
chiamare anche rivelazione di Dio, cioè parola di Dio. La seconda e terza parte defini-
scono la Bibbia in una maniera più concreta, ma fondamentale: quali parole (testo) e
quali libri (canone) la compongono. Per quanto riguarda la quarta parte, si può avere
l'impressione che non si tratta più di definire la sacra Scrittura, ma di comprendere il
suo messaggio. Ma, siccome la ‘essenza’ di un libro sta nel suo contenuto, lo studio
dell'interpretazione biblica costituisce anch'esso una risposta alla domanda sull'iden-
tità della Scrittura.
In questa dispensa segue un’appendice dove si approfondiranno alcune questioni
relative alla natura del carisma dell'ispirazione. Questa sezione completa la prima
parte, dove si parla dell'ispirazione in rapporto alla rivelazione. Infine, si offrono
cinque excursus per approfondire in alcuni argomenti puntuali.
Prima di cominciare a spiegare la prima parte, è utile fornire — a modo di intro-
duzione a tutto il corso — alcune informazioni di base: i diversi nomi della Bibbia,
l’analogia fra la Bibbia ed il mistero dell’Incarnazione, alcuni elementi di cornice sto-
rica, caratteristiche dei libri nell’antichità, la lista dei libri che compongono la Bibbia e
le lingue in cui essi sono stati scritti.
Nell'AT, le allusioni alla “Bibbia” come raccolta di diversi libri sono pochissime.
In 2 Mac 8,23, leggiamo che Giuda Maccabeo, prima di una battaglia, incoraggiò i
suoi uomini affinché fossero pronti a morire per le leggi e per la patria e “lesse poi in
pubblico il libro sacro (παραναγνοὺς τὴν ἱερὰν βίβλον)”1. In questo caso, il “libro sa-
cro” non si riferisce a tutti i libri dell'AT, ma probabilmente solo al libro della Legge,
cioè la Torah o Pentateuco (cf. 1 Mac 1,56-57; 3,48). In 1 Mac 12,9 troviamo un'espres-
sione simile: “i libri sacri” (τὰ βιβλία τὰ ἅγια), ma non si dice quali sono.
Un riferimento all'insieme dei libri esistenti presso gli ebrei appare nel prologo
del Siracide, in cui si parla degli insegnamenti contenuti “nella Legge, nei profeti e
negli altri scritti”. Non si dice che questi libri siano santi o sacri e non si impiega un
termine unico, ma si parla di tre gruppi.
In uno scritto giudaico non biblico, datato attorno al II secolo a.C., la cosiddetta
Lettera di Aristea, appare per la prima volta l'espressione “la Scrittura” in senso gene-
rico (cf. n. 155 e n. 168). Ma si tratta di un riferimento alla Torah, non a tutta la
Bibbia2.
I libri del NT assomigliano a quelli dell'Antico per il fatto che non presentano sé
stessi come libri sacri, con l'eccezione dell'Apocalisse. Ma fra gli autori del NT invece
troviamo numerosi riferimenti alla loro “Bibbia”, cioè ai libri che oggi chiamiamo AT.
Per riferirsi alle Scritture di Israele, gli autori del NT usano le seguenti
espressioni:
• “libro” (βίβλος o βιβλίον, letteralmente “rotolo”) si impiega sempre in riferi-
mento a un libro concreto: “libro del profeta Isaia”, “libro dei salmi”;
• “lettera” (γράμμα) appare una sola volta nel NT per designare la Scrittura, che è
anche l'unica ricorrenza in cui questa è accompagnata dall'aggettivo “sacro”
(ἱερός): “le lettere sacre” (τὰ ἱερὰ γράμματα, 2 Tm 3,15)3.
• L'espressione più abituale è “le Scritture” (αἱ γραφαί); compare anche al singo-
lare: “la Scrittura” (ἡ γραφή).
La differenza fra il plurale e il singolare merita un commento. Nei vangeli sinotti-
ci e negli Atti, l’espressione “la Scrittura” si riferisce sempre a un brano concreto, non
all'insieme delle scritture. Per esempio, in Mc 12,10, dopo la parabola dei vignaioli,
Gesù cita il Sal 118,22-23:
1. Le citazioni bibliche in italiano, salvo diversa indicazione, provengono dalla versione della CEI
(2008).
2. Nella versione greca dell'AT, talvolta si usa il singolare “scrittura”, ma non ha il senso globale di
“insieme di libri”: cf. 1 Cr 15,15; 2 Cr 30,5; Esd 6,18.
3. Nel NT, una sola volta si applica agli scritti l'aggettivo “santo” (ἅγιος): san Paolo parla delle “scrit-
ture sante” (γραφαὶ ἅγιαι, Rm 1,2).
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 20
Invece, nel vangelo di Giovanni, nelle lettere di Paolo e nella 2 Pietro si impiega
sia il plurale che il singolare per riferirsi all’insieme di libri che oggi chiamiamo “la
Bibbia”. Per esempio, in Gv 10,35 Gesù afferma che “la Scrittura non può essere annul-
lata”. E in Gv 20,9 l'evangelista dice che i discepoli “non avevano ancora compreso la
Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. In entrambi i casi, non sembra che
si parli di un testo concreto, ma delle Scritture di Israele in genere.
Questa terminologia diventa più rilevante se viene paragonata con i riferimenti
alla Bibbia di un autore ebreo dell'epoca, Flavio Giuseppe (ca. 37-100 d.C.). Giuseppe
non impiega mai un termine al singolare. Tutte le denominazioni che impiega sono al
plurale: “Scritture” (γραφαί), “registri” (ἀναγραφαί), “libri” (βίβλοι, βιβλία) o “lettere”
(γράμματα), qualificandoli spesso como “sacri”1.
Non è irrilevante il passaggio da “Scritture” a “Scrittura”, cioè dal plurale al singo-
lare, che si riscontra in alcuni autori del NT. Il cambio sembra riflettere una conce-
zione teologica nuova: le Scritture di Israele cominciano a venir considerate non solo
come un insieme unitario di libri, ma in qualche modo come un unico libro.
La nostra parola “Bibbia” nasconde in se questo passaggio dal plurale al singo-
lare. Essa procede dal greco βιβλία — che è il plurale di βιβλίον, “rotolo”, “libro” —
passato poi al latino cristiano per parlare delle sacre Scritture come biblia, -orum, che
è un plurale tantum, cioè una parola che si usa solo al plurale. In epoca medievale la
parola diventa gradualmente un sostantivo singolare femminile, biblia, -ae, e così è
rimasto in italiano (“la Bibbia”) e nelle altre lingue moderne, nelle quali diventa
anche il termine più popolare per parlare della sacra Scrittura.
Da un lato, è un fatto innegabile che i libri biblici siano fra essi molto diversi per
autore umano, epoca, lingua, stile letterario, messaggio, e un lungo eccetera. Dall'al-
tro, la Bibbia può considerarsi un unico libro, non solo perché ha uno stesso autore,
Dio, ma anche perché racconta una storia unitaria, dalla Genesi fino all'Apocalisse,
che culmina in Cristo. Ugo di San Vittore (1096-1141) ha espresso con singolare chia-
rezza questa convinzione:
1. Curiosamente, Giuseppe non usa mai “santo” (ἅγιος) in riferimento ai libri, ma sempre “sacro”
(ἱερός), forse in riferimento al tempio (τὸ ἱερόν) di Gerusalemme, dove si conservava una copia
delle scritture. Cf. C. Gerber, «Die Heiligen Schriften des Judentums nach Flavius Josephus» in M.
Hengel - H. Löhr (eds.), Schriftauslegung im antiken Judentum und im Urchristentum, Mohr Sie-
beck, Tübingen 1994, 91-113.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 21
Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest'unico libro è Cristo, parla
di Cristo e trova in Cristo il suo compimento (De arca Noe, 2, 8: PL 176, 642 C-D).
Il nome “Bibbia” racchiude in sé il carattere divino e umano dei libri sacri. Di tale
mistero parleremo in queste lezioni.
In primo luogo, il paragone della Scrittura con l'Incarnazione del Verbo ricorda
che l'origine divina dei libri biblici è un mistero di fede. Se infatti nessun cristiano
può dire che comprende il mistero dell'unione delle due nature, umana e divina, nella
persona di Cristo, così nessuno potrà mai pretendere di capire fino in fondo l'ispira-
zione della Bibbia.
Inoltre, questa analogia permette di evitare due estremi opposti nella compren-
sione della sacra Scrittura, ugualmente sbagliati2.
• Da una parte, la Bibbia non è “caduta dal cielo” come i musulmani dicono del
Corano; non è cioè una Parola divina atemporale di valore assoluto, che non si
è contaminata con le limitazioni umane. Comprendere la sacra Scrittura in
questo modo implicherebbe incorrere in un errore simile al docetismo, che ne-
gava che Gesù fosse veramente uomo, o al monofisismo, secondo il quale la di-
vinità di Cristo ne assorbe l'umanità. Non si può negare la vera umanità delle
parole bibliche, che come tali sono legate necessariamente a circostanze sto-
riche, culturali, linguistiche, ecc. La Bibbia è umana nella sua origine, nelle sue
parole, nei suoi modi di esprimersi e anche nel suo contenuto.
• D'altra parte, sarebbe altrettanto sbagliato trascurare, ridurre o negare la divini-
tà della Scrittura, cioè il suo valore di rivelazione di Dio alla Chiesa. Per conti-
nuare con l'analogia con le eresie cristologiche, cercare di separare il messaggio
divino dagli elementi umani che lo contengono sarebbe un errore simile al ne-
storianesimo, secondo il quale Gesù era un uomo in cui era presente il Figlio di
Dio. Invece, la negazione del valore di parola di Dio alla Bibbia si può parago-
nare a fenomeni più moderni, come l'ateismo, l'agnosticismo o semplicemente
qualsiasi visione sprovvista di fede. La vera umanità delle parole bibliche non
deve far dimenticare che, tramite esse, Dio ha parlato nel passato e ci parla an-
cora oggi. Una comprensione meramente umana della Bibbia è sempre possi-
bile, ma non ne coglie tutta la profondità, né può percepire la sua profonda uni-
tà. Analogamente, cercare di capire Gesù lasciando da parte la dimensione
soprannaturale produce una visione parziale — e deformata — della sua perso-
na e della sua vita.
Come dicevamo, anche san Giovanni Paolo II ha fatto riferimento all’analogia fra
l’Incarnazione e la Scrittura. Con termini precisi ha spiegato alcune delle conse-
guenze del carattere divino e umano della Bibbia, soprattutto per quanto riguarda
l'interpretazione della sacra Scrittura, a proposito dell'importanza di conoscere i ge-
neri letterari. Ecco le sue parole:
La Divino afflante Spiritu, come è noto, ha particolarmente raccomandato agli ese-
geti lo studio dei generi letterari utilizzati nei libri sacri (…). Questa raccomanda-
zione si basa sulla preoccupazione di comprendere il senso dei testi con tutta l'esat-
tezza e la precisione possibili e, dunque, nel loro contesto culturale storico. Una
falsa idea di Dio e dell'Incarnazione spinge un certo numero di cristiani a prendere
un orientamento opposto. Essi hanno tendenza a credere che, essendo Dio l'Essere
assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i
condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è quindi spazio, secondo costoro,
per studiare questi condizionamenti al fine di operare delle distinzioni che relativiz-
zerebbero la portata delle parole. Ma questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i
misteri dell'ispirazione scritturale e dell'Incarnazione, rifacendosi ad una falsa no-
zione dell'Assoluto. Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando
tutto quello che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. È al
contrario il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri «ognuno
secondo la propria specie», come afferma e riporta il racconto della Genesi (cf. Gn,
cap. 1). Lungi dall'annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cf. 1 Cor
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 23
3. Cornice storica
In ciò che segue, ricordo a scopo pedagogico alcuni eventi storici, senza analisi
critiche né indicazioni bibliografiche, così come vengono riportati nella Scrittura e in
altre fonti. Ometto i racconti del Pentateuco (origini del cielo e della terra, patriarchi,
esodo) ed i racconti dell'ingresso e stabilimento delle dodici tribù nella Terra promes-
sa (libri di Giosuè e dei Giudici), perché si suppongono conosciuti almeno nelle loro
linee essenziali. Parto dunque dall’epoca della monarchia. Mi soffermerò un po' di più
sui periodi ellenistico e romano, di solito meno noti fra gli studenti.
Degli inizi della monarchia in Israele si parla in 1 Samuele. L’ultimo dei giudici è
il profeta Samuele, che unge, come primo re, Saul, della tribù di Beniamino. Ma Saul
viene rifiutato dal Signore e sostituito da Davide, della tribù di Giuda, con cui comin-
1. San Giovanni Paolo II, Discorso nel centenario dell'enciclica «Providentissimus Deus» e del cinquan-
tenario dell'enciclica «Divino Afflante Spiritu» (23 aprile 1993), n. 8-9 (EB 1247-1248).
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 24
cia una dinastia, la “casa di Davide”, che durerà a lungo, con sede in Gerusalemme. La
datazione abituale per il regno davidico è attorno all'anno 1000 a.C.
Dopo il regno di Salomone, figlio di Davide, che costruisce il Tempio, avviene la
divisione del regno in due: il regno del Nord, chiamato anche Israele, con capitale Sa-
maria, e il piccolo regno del Sud, Giuda, sempre con Gerusalemme come capitale.
Il seguente evento da ricordare è la caduta di Samaria ad opera dell'esercito assiro
nel 722/721 a.C., con la conseguente deportazione. È la fine del regno del Nord.
Un secolo dopo cade l'impero assiro. Nel 612, la capitale degli assiri, Ninive, viene
distrutta. Nabucodonosor (605-562) fonda un nuovo impero, con Babilonia come ca-
pitale. Lo stesso Nabucodonosor distrugge Gerusalemme ed il Tempio nel 587 a.C.
Questa sconfitta è molto importante nella storia di Israele, perché porta con se la fine
della monarchia e dell'indipendenza politica e l'inizio dell'esilio in Babilonia. Molti
testi biblici se ne lamentano:
O Dio, nella tua eredità sono entrate le genti:
hanno profanato il tuo santo tempio,
hanno ridotto Gerusalemme in macerie (Sal 78,1).
Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! (Lam 1,1).
L'impero babilonese è di corta durata. A metà del VI secolo a.C. emerge la figura
di Ciro, re dei persiani, che conquista Babilonia nel 539 a.C. e riesce a stabilire una
delle più vaste organizzazioni politiche dell'antichità, l'impero persiano, che si
estende dall'Asia Minore fino all'India.
Ciro permette alla comunità ebraica in esilio di tornare a Gerusalemme e di rico-
struire le mura ed il Tempio, cosa che avviene in diverse tappe a partire dal 533 a.C.
(data del cosiddetto “editto di Ciro”). Fra mille difficoltà, a Gerusalemme si ricostrui-
sce il Tempio, che viene chiamato “secondo Tempio”, dopo quello fatto da Salomone.
In questo periodo svolgono la loro attività i profeti Aggeo, Zaccaria e Malachia, il sa-
cerdote e scriba Esdra e infine Neemia.
Due secoli dopo Ciro è il turno dei greci. Grazie alle rapide e spettacolari vittorie
di Alessandro Magno (356-323 a.C.), nasce un impero che prende il posto di quello
persiano. È l'impero ellenistico, che come unità politica durerà pochissimo, ma che
lascerà in eredità la diffusione della lingua e della cultura greca in tutta l’ecumene, la
terra da loro conosciuta.
Alla morte di Alessandro, l'impero viene diviso fra i suoi generali. La Giudea di-
venta parte dell'Egitto (capitale: Alessandria), dove governano i Tolomei, detti anche
Lagidi. Ma nel 200 a.C., dopo la battaglia di Panium (Cesarea di Filippo, l'attuale Ba-
nias), vinta da Antioco III, la Giudea passa a dipendere dalla Siria (capitale: Antio-
chia), governata dai Seleucidi.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 25
1. In epoca asmonea e romana si applica il termine “Giudea” (Ιουδαία, Iudea) non solo al territorio
della tribù di Giuda, ma a un’area più vasta. Erode il Grande sarà “re di Giudea”, includendo Sama-
ria, Galilea, Perea ed Idumea. Dopo la rivolta di Bar Kokhba (135 d.C.), l’imperatore Adriano cam-
bia il nome con quello di Syria Palaestina. A partire dal IV secolo d.C. il territorio verrà chiamato
semplicemente Palestina.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 26
Geroboamo II
745 Tiglat-Pilèser III
Acaz
704 Sennàcherib
Manasse 687
Impero babilonese 630
616 Necao Nabucodonosor Giosia (622, riforma)
612 Distruzione di Ninive 612
Eliakìm-Ioiakìm 605
Ioiachìn
Mattania-Sedecìa
587 Caduta di Gerusalemme 587
Esilio in Babilonia
550
Epoca Romana
63 Pompeo entra a Gerusalemme
4 a.C. Augusto Nascita di Gesù Erode il Grande
4. I libri nell'antichità
Per comprendere sia la storia della formazione del canone biblico e la critica te-
stuale, sia alcune caratteristiche del carisma dell'ispirazione, risulta indispensabile ri-
cordare quando è nata la scrittura e come erano fisicamente i libri nell'antichità.
La scrittura è una delle più grandi invenzioni di tutti i tempi, tanto da segnare il
confine fra la preistoria e la storia. La scrittura appare in Mesopotamia verso il 3200
a.C., ideata come procedura mnemotecnica per la contabilità. Tutto indica che gli au-
tori di questa invenzione siano stati i sumeri e che durante l'intero quarto millennio
la scrittura sia stata utilizzata soltanto per la lingua sumerica1.
Nella prima metà del secondo millennio, nella terra di Canaan, viene creato l'al-
fabeto, un'altra invenzione geniale, perché riduce centinaia di logogrammi e sillabo-
grammi a circa trenta segni, uno per ogni fonema. L'alfabeto è stato disegnato per la
lingua “proto-canaanita”, dalla quale nasceranno il fenicio, l'ebraico e l'aramaico2.
Nel mondo antico non esisteva né la carta, arrivata in Occidente dalla Cina nei
secoli VII-VIII d.C., né certamente la stampa, invenzione europea del XV secolo
(dell’importanza della stampa parleremo più avanti, a proposito della critica testuale:
pp. 108-110).
4.1. Materiale
Diversi materiali venivano utilizzati come superficie sulla quale scrivere. Esistono
iscrizioni su pietra, su metallo e su argilla (tali iscrizioni sono oggetto dell'epigrafia).
La pietra ed il metallo sono materiali difficili da trasportare e poco adatti per testi
lunghi, ma godono di una grande durabilità. Possiamo ricordare in proposito le ta-
vole di pietra sulle quali si dice che Dio (Es 31,18) o Mosè (Es 34,18) scrivono la legge
sul monte Sinai; ovvero le dodici pietre sulle quali più tardi Giosuè scriverà anche la
legge (Gs 8,32); oppure le parole di lamento di Giobbe, che vuole che la testimonianza
della sua innocenza davanti al tribunale di Dio non possa essere cancellata:
1. In origine, il sistema era costituito da circa mille segni “picto-ideografici”, cioè che suggerivano o
rappresentavano delle cose. Dopo uno o due secoli, si cominciarono a usare i segni per rappresen-
tare non solo le cose, ma anche i suoni dei nomi adoperati nella lingua parlata. Mezzo millennio
dopo la sua invenzione, la scrittura diventa un sistema sviluppato, capace di produrre documenti
scritti. Cf. J. Bottéro, La religión más antigua: Mesopotamia, Trotta, Madrid 2001, 32.
2. Cf. A. Demsky, «Writing in Ancient Israel and Early Judaism: The Biblical Period» in M. J. Mulder
- H. Sysling (eds.), Mikra: Text, Translation, Reading and Interpretation of the Hebrew Bible in An-
cient Judaism and Early Christianity, Van Gorcum, Assen 1988, 2-20, 2-9.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 28
Forse alcuni testi biblici sono stati scritti su tavolette di argilla, che era il mate-
riale di scrittura più comune in Mesopotamia. Ma i manoscritti conservati fino ad
oggi sono tutti di papiro o di pelle (oggetto della paleografia). Perciò ci concentriamo
in questi due tipi di materiale1.
4.1.1. Papiro
Il rotolo con gli oracoli di Geremia che viene lacerato dal re Ioiakìm con un
“temperino da scriba” (piccolo coltello) e bruciato nel braciere (cf. Ger 36) doveva es-
sere di papiro; altrimenti, non sarebbe stato facile né lacelarlo né bruciarlo2.
In 2 Gv 12, l'autore della lettera dice: “Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho
voluto farlo con carta e inchiostro [διὰ χάρτου καὶ μέλανος]; spero tuttavia di venire
da voi e di poter parlare a viva voce”. Il termine “carta” traduce qui la parola greca
chartês (χάρτης), che indica un foglio o rotolo di papiro.
Il papiro è una pianta (Cyperus papyrus) che cresce nelle paludi e presso i laghi
poco profondi. Specialmente esuberanti nella valle del Nilo, i papiri venivano utiliz-
1. Per quanto segue, cf. H. Y. Gamble, Libri e lettori nella Chiesa antica: storia dei primi testi cristiani,
Paideia, Brescia 2006, 71-100, specialmente 71-78. Originale inglese: Idem, Books and Readers in
the Early Church: A History of Early Christian Texts, Yale University Press, New Haven 1995 (Chap-
ter 2). Per questa sezione si può anche consultare J. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cri-
stiana: Introducción al estudio de la Biblia, Trotta, Madrid 31998, 94-113.
2. In Ger 36,23 la versione greca traduce “il rotolo” ()ה ְמּגִ ָלּה
ַ come “il papiro” (ὁ χάρτης).
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 29
zati per diversi fini, fra cui la produzione di materiale per scrivere, chiamato
anch'esso “papiro”. Dai fusti dei papiri si ottenevano fibre che, sovrapposte e incro-
ciate come una rete e pressate, formavano un foglio.
Un singolo foglio poteva essere largo da 10 a 29 cm e alto da 20 a 30, ma le dimen-
sioni ordinarie erano di 25 cm d'altezza e da 18 a 20 cm di larghezza. (…). Ogni fo-
glio aveva fibre che correvano in senso orizzontale su un lato e in senso verticale
sull'altro. I due lati sono di solito chiamati dai papirologi rispettivamente recto e
verso1.
4.1.2. Pelle
L'uso della pelle di animali (soprattutto vitello, capra o pecora) come materiale
per scrivere è molto antico. Esiste un manoscritto di pelle dell'anno 2000 a.C.
Gli ebrei cominciarono a usare la pelle per la trascrizione dei testi biblici nel per-
iodo persiano (V-IV sec. a.C.). A Qumran i rotoli di pelle sono molto più numerosi
rispetto a quelli di papiro2. Più tardi, i rabbini comanderanno che la Torah venga co-
piata su pelle, unico materiale considerato degno3.
In caso di necessità, era possibile cancellare il testo, raschiandolo, e riscrivere so-
pra. Tali manoscritti ricevono il nome tecnico di “palinsesti”, da πάλιν (“di nuovo”) e
ψάω (“raschiare, lavare”).
4.2. Formato
Come si è detto, col passare del tempo la pelle finì per sostituire il papiro come
materiale sul quale scrivere. Un transito simile è avvenuto per quanto riguarda il for-
mato dei libri: dal rotolo si passerà al codice.
1. “Il termine «pergamena» viene sovente impiegato per indicare tanto la pelle e il vellum quanto la
pergamena vera e propria, ma nonostante siano tutti ricavati dalla pelle di animali, vi sono diffe-
renze cospicue tra questi materiali. Non essendo conciata, la pergamena è più sottile, morbida e
chiara della pelle, ed era trattata in modo da consentire la scrittura sia sul lato pelo sia sul lato
carne. Il vellum è un tipo di pergamena più fine, di pelle di vitello o di capretto. La produzione del-
la pergamena sembra abbia avuto inizio intorno al III sec. a.C. Secondo il racconto tradizionale,
falso, l'invenzione risalirebbe alla città di Pergamo, nell'Asia Minore occidentale. Per il merito
forse di aver perfezionato il processo di lavorazione o per il ruolo di maggior produttore che la cit-
tà ebbe, Pergamo diede uno dei nomi attribuiti in antico a questo materiale, dato che i greci lo
chiamarono pergamênê e i romani pergamena. Questi nomi sono tuttavia piuttosto tardi; prima
del IV sec. d.C. i greci chiamavano la pergamena diphthera, i romani membrana, «pelle»”, Gamble,
Libri e lettori, 74.
2. Idem, Libri e lettori, 73-74.
3. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 97.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 31
4.2.1. Rotoli
La forma fondamentale dei libri antichi era il rotolo, chiamato měgillâ in ebraico,
biblos o biblion in greco e volumen in latino.
Nel caso fosse di papiro, il rotolo si fabbricava incollando i fogli1. Invece, nel caso
di rotoli di pelle, le giunture fra i fogli venivano fatte cucendo, con fibre, e non incol-
lando. Dunque non erano completamente lisce e non si poteva scrivere sopra.
È interessante sapere che l'autore di un libro non scriveva su un rotolo già prepa-
rato, ma su fogli sciolti, il che gli consentiva di intercalare nuovi materiali prima di
unire i diversi fogli, o di cambiare il loro ordine. Molto prima del computer, scrivere
un libro era un lavoro di “taglia e incolla”. In uno dei suoi dialoghi, Platone ci ha la-
sciato una testimonianza sul modo di comporre un libro/rotolo. Dopo aver definito il
filosofo, Socrate, protagonista del dialogo, rivolge a Fedro una domanda:
Colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha
composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una
parte con l'altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o composi-
tore o scrittore di leggi? (Fedro 278 d-e)2.
1. “Per comporre il rotolo i fogli venivano disposti col recto rivolto in alto e venivano uniti sovrap-
ponendo e incollando uno stretto bordo (di 1 o 2 cm) sul margine destro di ogni foglio col bordo
sinistro del successivo nella serie. (…) Le giunture venivano levigate e rese pressoché inavvertibili,
affinché, quando si scriveva sul rotolo, la penna non incontrasse ostacoli nel passarvi sopra. Un
rotolo di papiro così prodotto poteva in teoria raggiungere qualsiasi lunghezza, ma sembra che
quella normale fosse di venti fogli e toccasse i 3,5 m circa. La striscia di fogli incollati veniva poi
arrotolata tenendo all'interno il recto, ossia la faccia destinata alla scrittura, perché fosse protetta.
In forma di rotolo così confezionato, detto chartês (in latino charta o volumen), il papiro veniva
trasportato via mare, immagazzinato e commercializzato per la vendita al minuto. Era possibile
poi ottenere rotoli di qualunque lunghezza tagliando o congiungendo queste unità”, Gamble, Libri
e lettori, 72-73.
2. Traduzione presa da Platone, Fedro: a cura di Giovanni Reale, Arnoldo Mondadori, Milano 2001.
3. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 106-107. Trebolle aggiunge un esempio bi-
blico: “Este procedimiento editorial permitía sobre todo añadir materiales al comienzo y al final
de los libros. Los capítulos añadidos al final del libro de Jueces (caps. 17-18 y 19-21) y de 2 Samuel
(caps. 22-24) pueden haber sido introducidos mediante una técnica editorial parecida, aplicada a
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 32
Di solito, ogni rotolo conteneva una singola opera. Se il testo era troppo lungo, si
usavano due o più rotoli. Fra i libri biblici, i cinque libri della Torah venivano copiati
normalmente ognuno in un rotolo, da cui il nome “Pentateuco” (da πέντε, “cinque”, e
τεῦχος, “vaso, urna”, e poi “astuccio, volume”). H. Y. Gamble spiega come era letto un
rotolo e come da questo fatto pratico nascevano anche i limiti di estensione dei rotoli:
La lunghezza di un rotolo di papiro (…) andava in media dai 7 ai 10 m. Le opere
brevi richiedevano meno spazio, ma raramente il limite superiore veniva oltrepassa-
to. La lunghezza massima dipendeva non dalla lavorazione, dal momento che si po-
tevano produrre rotoli di qualsiasi lunghezza, ma dalla comodità del lettore. Un ro-
tolo di più di 10 o 11 m era troppo ingombrante da maneggiare per il lettore, che lo
prendeva con entrambe le mani, e con la sinistra avvolgeva via via la parte letta,
mentre con la destra svolgeva quella da leggere. Questo modo di procedere è illu-
strato in molte raffigurazioni antiche di lettori con libri a rotolo. La lunghezza nor-
male finì per essere strettamente prescritta dall'uso. Durante e dopo il periodo elle-
nistico la suddivisione in libri (tomoi, libri) di opere voluminose fu determinata
tanto dalla lunghezza convenzionale del rotolo quanto da considerazioni contenuti-
stiche. Alle opere più antiche di grandi dimensioni (come quelle di Erodoto, Tuci-
dide e Omero) furono imposte suddivisioni sulla base della lunghezza abituale dei
rotoli, della quale tennero conto gli autori di nuove opere corpose nel ripartirle. In
tal modo l'unità materiale del rotolo prese ad avere anche la funzione di unità
letteraria1.
È probabile che l'attuale divisione di alcuni libri sia dovuta non a motivi contenu-
tistici, ma alla capacità del rotolo. Concretamente, in ebraico 1-2 Sam riempiva un ro-
tolo e 1-2 Re un altro. Però, siccome la scrittura greca occupa più spazio di quella
ebraica, nel tradurre questi libri in greco sembra che sia stato necessario utilizzare
due rotoli per ognuno, donde l'attuale divisione in 1 e 2 Sam e in 1 e 2 Re. Lo stesso
può dirsi del libro delle Cronache2. Tuttavia, per diversi motivi, alcuni libri brevi sono
stati copiati sistematicamente in un unico rotolo, come i dodici profeti — a Nahal
Hever, in Egitto, è stato trovato un rotolo di papiro del I secolo d.C. con il testo dei
dodici profeti in greco —. Anche i cinque libri che vengono chiamati Měgillôt a par-
tire da un certo momento sono stati copiati in un singolo rotolo3.
la escritura en rollo”, ibid., 106. Possiamo ricordare anche i capitoli 13 e 14 di Daniele, e, nel NT, Gv
21 e Rm 16.
1. Gamble, Libri e lettori, 75-76. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 106.
2. Cf. Idem, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 107.
3. Gli ebrei danno il nome di Měgillôt a questi cinque libri: Cantico dei Cantici, Rut, Qoèlet, Lamen-
tazioni ed Ester. Formano una certa unità nella BH perché vengono letti in alcune feste: il Cantico
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 33
in Pasqua, Rut nella Festa delle Settimane — la nostra Pentecoste —, Qoèlet in quella delle Tende
o Sukkot, le Lamentazioni nel giorno in cui si ricorda la distruzione del primo Tempio ed Ester
nella festa di Purim.
1. Cf. E. G. Turner, The Typology of the Early Codex, University of Pennsylvania Press, Pennsylvania
1977, 45. I disegni sono opera di W. E. H. Cockle.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 34
Nel vangelo di Luca, si racconta un episodio della vita di Gesù che riflette l'uso
dei rotoli per la lettura sinagogale:
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella si-
nagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò
il passo dove era scritto: [segue citazione di Is 61,1-2]. Riavvolse il rotolo, lo riconse-
gnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. (Lc
4,16-20).
4.2.2. Codici
Molto lentamente, a partire dal I secolo d.C., il formato di rotolo cominciò ad es-
sere sostituito dal “codice” (in latino, codex), più simile ai libri moderni. Un codice
infatti è costituito da diversi quaderni, cioè da fogli piegati in quattro, che uniti for-
mano fascicoli. “I primissimi codici, cristiani o meno, furono tendenzialmente del
tipo a fascicolo unico, con una capacità massima di circa duecento pagine”1.
Poi, la tecnica riuscì ad aumentare enormemente la capacità dei codici, fino ad
arrivare ai grandi codici del IV secolo, i primi capaci di mettere insieme l'Antico e il
Nuovo Testamento.
La maggiore comodità del codice rispetto al rotolo spiega che nel IV secolo di-
ventasse la forma predominante. Ma questo passaggio non è stato uguale per tutti.
Curiosamente, i cristiani sono stati molto più rapidi a passare al codice rispetto ai
loro contemporanei, come mostrano i papiri del secolo II:
I dati comparativi sono istruttivi. Fra i libri greci posseduti risalenti a prima del III
sec. d.C., più del 98% sono rotoli, mentre nello stesso periodo i libri cristiani super-
stiti sono quasi tutti codici. Tra i libri greci il codice non compare in proporzioni si-
gnificative prima del III secolo (quando meno del 20% sono codici), e solo agli inizi
del IV secolo si comincia a usare il codice quasi quanto il rotolo (48%)2.
Gamble propone un'ipotesi suggestiva per spiegare la preferenza dei cristiani per
il codice: l’esempio fornito da san Paolo, che avrebbe scelto i codici per la loro facilità
di trasporto1. Ma qui a noi interessa conoscere solo le caratteristiche fisiche dei libri
antichi, per evitare una visione anacronistica della Bibbia.
Prima di studiare i libri dell'AT, vedremo quelli della Bibbia Ebraica (BH, dal
nome in latino, Biblia Hebraica), cioè della Bibbia degli ebrei moderni, la quale per
1. Idem, Libri e lettori, 89-100. Per approfondire, cf. R. A. Kraft, «The Codex and Canon Conscious-
ness» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation
of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 229-233; T. Bokedal, The Formation and Significance of
the Christian Biblical Canon: A Study in Text, Ritual and Interpretation, Bloomsbury, London 2014,
125-156.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 36
diverse ragioni — di cui avremo occasione di parlare più avanti, a proposito del ca-
none — non è identica all'AT.
La BH contiene ventiquattro libri, che si dividono in tre gruppi: la Legge, i Profeti
e gli Scritti. In ebraico si chiamano Torah ()תּוֹרה,
ָ Nebiim (יאים ִ )נְ ִבe Ketubim ()כּ ֻת ִבים.
ְ
Uno dei modi in cui gli ebrei si riferiscono alle loro Scritture è “Tanak”, un acronimo
(da ἄκρος, “estremo”, e ὄνομα,“nome”), cioè una parola formata dalla prima lettera di
ognuno di questi tre gruppi.
Non tutti i libri della Tanak hanno identico valore. Al centro si trova la Torah di
Mosè. I profeti spiegano o commentano la Torah, mentre gli Scritti commentano la
Torah ed i Profeti. Questo modo gerarchico di comprendere le Scritture si può rap-
presentare graficamente così:
La Legge o Torah è costi-
Scritti tuita da cinque libri: Gene-
si (Gn), Esodo (Es), Leviti-
Profeti co (Lv), Numeri (Nm), e
Deuteronomio (Dt).
La collezione dei Profeti
Torah della BH si divide in due
gruppi, ognuno con quat-
tro libri.
I “profeti anteriori” sono
Giosuè (Gs), Giudici
(Gdc), Samuele (1-2 Sam) e
Re (1-2 Re).
I “profeti posteriori” sono
Isaia (Is), Geremia (Ger), Ezechiele (Ez) e il Libro dei Dodici profeti (vedremo l'elen-
co dopo).
Il terzo gruppo, gli Scritti, contiene undici libri. Eccoli nel loro ordine:
1) Salmi (Sal)
2) Giobbe (Gb)
3) Proverbi (Prv)
4) Rut (Rt)
5) Cantico dei cantici (Ct)
6) Qoelet oppure Ecclesiaste (Qo, Eccl)
7) Lamentazioni (Lam)
8) Ester (Est)
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 37
9) Daniele (Dn)
10) Esdra (Esd) e Neemia (Ne)
11) Cronache (1-2 Cr)
Possiamo finire la presentazione della BH citando un brano del Talmud di Babi-
lonia (s. VI d.C.), che è il più antico testo conosciuto che contiene un elenco dei Pro-
feti e degli Scritti. Non si parla della Torah, perché su questi cinque libri ed il loro or-
dine non c'era alcuna discussione fra i rabbini. Il testo menziona tutti i libri che
formano i Profeti e gli Scritti nell'attuale BH, con qualche differenza nella sequenza
(da notare le posizioni di Isaia e di Rut). Dice anche coloro che ne erano ritenuti gli
autori:
Questo è l'ordine corretto dei profeti: Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Geremia, Eze-
chiele, Isaia, i dodici profeti. (…) Questo è l'ordine corretto degli scritti: Rut, Salmi,
Giobbe, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Daniele, il rotolo di
Ester, Esdra, Cronache. (…) Chi li scrisse? Mosè scrisse il suo libro e parte di Ba-
laam e Giobbe; Giosuè scrisse il libro che porta il suo nome e gli ultimi otto versetti
della Torah; Samuele scrisse il libro che porta il suo nome, Giudici e Rut. Davide
scrisse il libro dei Salmi, includendovi l'opera dei Dieci Anziani: Adamo, Melchise-
dec, Abramo, Mosè, Heman, Jeduthun, Asaf e i tre figli di Kore. Geremia scrisse il
libro che porta il suo nome, il libro dei Re e Lamentazioni; Ezechia e i suoi colleghi
scrissero Isaia, Proverbi, Cantico dei cantici e Qoèlet; gli uomini della Grande As-
semblea scrissero Ezechiele, i dodici profeti minori, Daniele e il rotolo di Ester.
Esdra scrisse il libro che porta il suo nome e la genealogia delle Cronache fino al
suo proprio tempo1.
Torneremo a parlare di questo testo del Talmud a proposito della storia della for-
mazione del canone (p. 173).
Per i cattolici, l'AT contiene quarantasei libri. Abitualmente vengono divisi in tre
gruppi: libri storici, libri poetici e sapienziali e libri profetici. Come si vede, non cor-
rispondono alla divisione tripartita della BH. È lo schema non è più circolare, attorno
alla Torah, ma lineare, in direzione di Cristo, annunziato specialmente dai profeti.
1. Baraita del trattato Baba Bathra 14b-15a. Ho tradotto in italiano a partire dalla versione inglese di
J. Neusner, The Talmud of Babilonia: An Accademic Commentary. XXII A: Bavli Tractate Baba Ba-
tra. Chapters I through VI, Scholars, Atlanta 1996, 54-55. È in progetto la traduzione integrale del
Talmud babilonese in italiano; finora (febbraio 2018) hanno pubblicato il trattato Rosh haShanà ed
il trattato Berakhòt (https://www.talmud.it).
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 38
I libri storici sono ventuno. I primi cinque formano il Pentateuco: Gn, Es, Lv, Nm
e Dt. I seguenti si presentano secondo la cronologia degli eventi raccontati:
6) Gs
7) Gdc
8) Rt. Si mette in questa posizione perché racconta una storia ambientata all'epo-
ca dei giudici e perché Rut è la bisnonna di Davide, di cui si parla nei libri di
Samuele.
9) 1 Sam
10) 2 Sam
11) 1 Re
12) 2 Re
13) 1 Cr
14) 2 Cr
15) Esd
16) Ne
17) Tobia (Tb)
18) Giuditta (Gdt)
19) Est
20)Primo libro dei Maccabei (1 Mac)
21) Secondo libro dei Maccabei (2 Mac)
Il numero dei libri poetici e sapienziali è facile da imparare: sette. La sequenza in
questo caso si basa sulla cronologia dei personaggi a cui i libri vengono attribuiti:
1) Gb. Giobbe occupa il primo posto probabilmente perché il racconto si situa
all'epoca dei patriarchi (o forse perché viene attribuito a Mosè).
2) Sal, tradizionalmente attribuiti al re Davide.
3) Prv, attribuiti al re Salomone.
4) Qo o Eccl, attribuito a Salomone.
5) Ct, attribuito a Salomone.
6) Sapienza (Sap), attribuito a Salomone.
7) Siracide o Ecclesiastico (Sir, Ecclo), scritto da Gesù Ben Sira verso il 180 a.C.
Per evitare confusioni risulta preferibile parlare di Qoèlet e di Siracide, invece che
di Ecclesiaste ed Ecclesiastico. Così faremo in ciò che segue.
I libri profetici sono diciotto e si dividono in profeti “maggiori” e profeti “mino-
ri”. I maggiori sono quattro (Is, Ger, Ez e Dn), più Lamentazioni e Baruc (Bar), che
seguono Geremia1. I profeti minori sono dodici, numero che ricorda le tribù di Is-
1. La lettera di Geremia (EpJer, abbreviazione latina per Epistula Jeremiae) è uno scritto biblico che
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 39
raele. L'ordine sembra essere in parte cronologico, perché il primo posto corrisponde
a Osea, il più antico. Ma non è un criterio assoluto, anche perché la cronologia di
questi profeti non è certa.
1) Osea (Os)
2) Gioele (Gl)
3) Amos (Am)
4) Abdia (Abd). In inglese: Obadiah.
5) Giona (Gio)
6) Michea (Mic)
7) Naum (Na)
8) Abacuc (Ab). In altre lingue con acca iniziale: Habacuc oppure Habakkuk.
9) Sofonia (Sof). In inglese: Zephaniah.
10) Aggeo (Ag)
11) Zaccaria (Zc)
12) Malachia (Ml). Per ricordare che l'ultimo dei dodici è Malachia, aiuta tener
presente che egli annuncia il ritorno di Elia e quindi si trova opportunamente
proprio prima dei vangeli.
Nel NT abbiamo quattro vangeli (Mt, Mc, Lc e Gv), il libro degli Atti degli Apo-
stoli (At), ventuno lettere e un'apocalisse (Ap). Le lettere vengono divise in due grup-
pi: le quattordici del corpus paulinum e le sette epistole cattoliche.
Le lettere del corpus paulinum si presentano in una sequenza che non è di tipo
cronologico, ma segue il criterio dell'estensione, ma non solo. In genere, si va dalle
lettere più lunghe a quelle più brevi. Ebrei si mette alla fine, perché è un caso speciale,
in quanto si presenta come un testo anonimo.
1) Lettera ai Romani (Rm)
2) Prima lettera ai Corinzi (1 Cor)
3) Seconda lettera ai Corinzi (2 Cor)
4) Lettera ai Galati (Gal)
5) Lettera agli Efesini (Ef)
6) Lettera ai Filippesi (Fil)
7) Lettera ai Colossesi (Col)
8) Prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts)
dalla Vulgata in poi è stato inserito alla fine del libro di Baruc, come capitolo 6, ma che in realtà è
un'opera indipendente.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 40
L'elenco dei 27 libri del NT è il seguente: Mt, Mc, Lc, Gv, At, Rm, 1 C0r, 2 Cor,
Gal, Ef, Fil, Col, 1 Ts, 2 Ts, 1 Tm, 2 Tm, Tt, Flm, Eb, Gc, 1 Pt, 2 Pt, 1 Gv, 2 Gv, 3 Gv, Gd
e Ap.
La divisione dei libri biblici in capitoli risale all'anno 1214. È stata opera dell'in-
glese Stephen Langton (ca. 1150-1228), mentre era cancelliere dell’Università di Parigi
(poi divenne cardinale e arcivescovo di Canterbury). Langton fece questa numera-
zione, che si è diffusa rapidamente, sulla Vulgata (la Bibbia in latino). Per ricordare
questa data, può aiutare sapere che uno dei primi autori che citano la Scrittura tenen-
do conto della divisione in capitoli è stato san Tommaso d'Aquino (1225-1274).
Successivamente, vi sono stati diversi tentativi di suddividere i capitoli in unità
minori. Per l'AT, si usano oggi i versetti proposti dal domenicano Sante Pagnini, nella
sua edizione della Bibbia latina del 1527. Invece, la sua divisione in versetti del NT
non ebbe successo. Un protestante chiamato Robert Estienne (1503-1559) — in latino,
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 41
Stephanus — fece a Ginevra la divisione dei capitoli in versetti che poi si impose. Pri-
ma lo fece sul NT, che pubblicò nel 1551. Poi, nel 1553 pubblicò una Bibbia completa in
francese, con la numerazione di tutti i versetti (prendendo per l'AT la numerazione di
Pagnini).
Questa divisione del testo si è imposta universalmente. Possiamo riportare in
proposito l'opinione, pienamente condivisibile, del Perrella:
Tale divisione in capitoli e versetti (…) ha le sue gravi imperfezioni, come quella di
tagliare qualche volta un po' meccanicamente senza tener conto dello sviluppo delle
idee o del racconto; tuttavia cambiare sarebbe un rimedio peggiore del male per il
grande sconvolgimento che porterebbe1.
Sul modo di citare, forse non è superfluo spiegare che, in italiano, si usa la virgola
per separare il capitolo dal versetto (Dt 1,1; Gv 3,16), mentre in altre lingue, come l'in-
glese, si usano i due punti (Deut 1:1; John 3:16).
Il trattino significa «dal versetto x al versetto y» (Dt 1,1-5) mentre il punto dopo
un versetto significa «il versetto x e poi quello y» (se dico Dt 1,1.5 escludo i vv. 2-4).
6.1. Introduzione
La Bibbia è stata scritta in tre lingue: ebraico, aramaico e greco. Questo dato di
fatto mette in rilievo la grande diversità esistente fra i libri biblici, scritti non solo in
epoche e luoghi diversi, ma anche in lingue differenti. Tale diversità linguistica non è
priva di conseguenze. Il trilinguismo delle Scritture cristiane impedisce la tentazione
di canonizzare una lingua, nel senso forte in cui in molte culture o religioni antiche si
attribuisce la propria lingua a Dio. Per i cristiani non è mai esistita e non può esistere
una “lingua sacra” in questo senso2.
Talvolta si parla di “lingua sacra” in riferimento alla lingua impiegata dalla litur-
gia. Anche in questo caso non c'è mai stata una sola lingua nella Chiesa: mentre in
Occidente la liturgia era in latino, in altri riti si utilizzavano — e si utilizzano anco-
ra — altre lingue, come il greco, il siriaco o il copto.
1. G. M. Perrella, Prelezioni bibliche: introduzione generale alla Sacra Bibbia, Marietti, Torino 31963,
239 (n. 242).
2. Cf. G. G. Stroumsa, «The Christian Hermeneutical Revolution and its Double Helix» in L. V. Rut-
gers (ed.), The Use of Sacred Books in the Ancient World, Peeters, Leuven 1998, 9-28, 21-24.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 42
In quanto mezzi per comunicare la parola di Dio, tutte le lingue umane possono
diventare “sacre”. La Bibbia è di fatto il libro più tradotto al mondo. Allo stesso tempo,
però, è importante conoscere e studiare le lingue originali per comprendere con pre-
cisione e profondità il significato dei libri. Trascurare questo sforzo sarebbe un se-
gnale di poco rispetto verso la Scrittura. È vero che non è possibile che tutti i cristiani
siano in grado di leggere la Bibbia nelle lingue originali. Ma sarebbe un grosso errore
pensare che allora non è necessario a nessuno conoscerle, perché bastano le traduzio-
ni. Con parole chiare e autorevoli, si è espresso in questo senso Pio XII nell'enciclica
Divino Afflante Spiritu (1943):
Si ha poi adesso tanta abbondanza di mezzi per imparare quelle lingue, che un in-
terprete della Bibbia, il quale col trascurarle si precluda da sé la via di giungere ai te-
sti originali, non può sfuggire alla taccia di leggerezza e di ignavia (EB 547).
Non è questo il momento di studiare l'ebraico o il greco. In ciò che segue, ci limi-
teremo a segnalarne alcune caratteristiche e faremo menzione della lingua originale
di ogni libro.
• la grande povertà di aggettivi, che si risolve con l'uso di sostantivi. Per esempio,
per indicare un re clemente si dice “re di clemenza”. Alcuni sostantivi diventano
semplice base per una costruzione aggettivale, come capita con “figlio” (בּן,ֵ
ben). Così un “figlio d'Israele” è un israelita, “figlio di vent'anni” vuol dire “ven-
tenne”, mentre “figlio di morte” (1 Sam 20,31; 26,16; 2 Sam 12,5) indica una per-
sona che merita la morte. Anche l'espressione “figlio dell’uomo”, a noi tanto fa-
miliare per l’uso che ne ha fatto Gesù, da se non indica altro che un essere
umano, come si vede da questo parallelismo sinonimico:
Che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi? (Sal 8,5).
co, che confermarono il valore dei testi provenienti dal Cairo. In totale, oggi abbiamo
circa due terzi del Siracide in ebraico1.
In www.bensira.org sono disponibili immagini dei manoscritti ebraici del Sira-
cide con traduzione in inglese.
Il testo greco che abbiamo di 1 Maccabei è una traduzione fatta a partire da un
originale ebraico, che poi è andato perduto. San Girolamo (IV-V secolo) dice che di
aver visto 1 Maccabei in ebraico2.
Qualcosa di simile si pensa di Baruc (con la lettera di Geremia) e di Giuditta3. Fi-
nora non è stato trovato nessun frammento di 1 Maccabei, Giuditta o Baruc in ebrai-
co o aramaico.
Il libro di Tobia si trovava nella stessa categoria fino alle scoperte di Qumran:
l'originale è senza dubbio semitico, ma si era conservato soltanto in greco. Oggi lo
possiamo distinguere dagli altri casi, perché fra i manoscritti trovati a Qumran ne
sono apparsi quattro che contenevano Tobia in aramaico e uno con Tobia in ebraico4.
1. Per questi dati, cf. M. Gilbert, «Methodological and Hermeneutical Trends in Modern Exegesis on
the Book of Ben Sira» in A. Passaro - G. Bellia (eds.), The Wisdom of Ben Sira: Studies on Tradi-
tion, Redaction, and Theology, de Gruyter, Berlin 2008, 1-17.
2. “Machabaeorum primum librum hebraicum repperi”. Vedi il testo completo a p. 178.
3. Nel caso di Giuditta, alcuni autori ritengono probabile, con buone ragioni, che il libro sia stato
scritto direttamente in un greco “ebraizzante”, come se fosse una traduzione. Cf. J. Corley, «Septua-
gintalisms, Semitic Interference, and the Original Language of the Book of Judith» in J. Corley - V.
Skemp (eds.), Studies in the Greek Bible: Essays in Honor of Francis T. Gignac, S.J, Catholic Biblical
Association of America, Washington (DC) 2008, 65-96; J. Joosten, «The Original Language and
Historical Milieu of the Book of Judith», Meghillot 5-6 (2008) *159-*176.
4. Sembra che la lingua originale sia l’aramaico. Cf. G. Toloni, L'originale del Libro di Tobia: studio fi-
lologico-linguistico, CSIC, Instituto de Filología, Departamento de Filología Bíblica y de Oriente
Antiguo, Madrid 2004.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 45
questi testi siano traduzioni in greco di un originale semitico, che è andato perduto.
La causa della loro assenza nel testo ebraico-aramaico non si conosce.
La situazione del libro di Ester è più complessa. Le cosiddette “aggiunte” greche
di Ester in realtà non sono tali: la versione greca di Ester è diversa dal testo ebraico in
molti punti, non solo nell'aggiungere alcuni brani. Per esempio, nel testo ebraico di
Ester, Dio non viene mai menzionato, mentre una delle caratteristiche della versione
greca sono le preghiere dei principali personaggi, Mardocheo ed Ester. Queste diffe-
renze hanno portato a che nella Bibbia della CEI (2008) vengano presentate in paral-
lelo due traduzioni di Ester in italiano, una tradotta a partire dall'ebraico e l'altra a
partire dal greco. In effetti, le differenze sono talmente significative che si può parlare
di due storie e dunque di due opere letterarie diverse. Per aiutare a percepire la diffe-
renza, possiamo citare l'inizio di entrambi i libri:
Al tempo di Assuero, di quell'Assuero che regnava dall'India fino all'Etiopia sopra
centoventisette province, in quel tempo, dunque, il re Assuero, che sedeva sul trono
del suo regno nella cittadella di Susa, l'anno terzo del suo regno fece un banchetto a
tutti i suoi prìncipi e ai suoi ministri (Est ebraico 1,1-3).
Nel secondo anno di regno del grande re Artaserse, il giorno primo di Nisan, Mar-
docheo, figlio di Giàiro, figlio di Simei, figlio di Kis, della tribù di Beniamino, ebbe
in sogno una visione (Est greco 1,1a).
Nella Vulgata, san Girolamo ha complicato le cose ancora di più, perché ha tra-
dotto in latino il testo ebraico di Ester e poi ha messo alla fine del libro, dopo Est 10,3
(Est 10,4-16,24) tutte le parti di Ester greco assenti dal testo ebraico. La maggior parte
delle Bibbie moderne inserisce queste parti nel luogo che avevano nel testo greco, di-
stribuite all'interno del libro (così la NVg, la BibJer, le precedenti edizioni della Bibbia
CEI, ecc.), distinguendo i versetti con delle lettere, per non cambiare la numerazione
abituale. Così, risulta una mescolanza fra la storia del testo ebraico con elementi presi
dalla storia del testo greco, con alcune incoerenze1. Per questo motivo appare più giu-
sta la decisione presa dall'ultima edizione della Bibbia della CEI.
1. “It is a serious mistake to read the Additions out of context, i.e., either after reading the canonical
portion (as in the Vulgate) or without any canonical text at all (as in most ‘Protestant’ Bibles, e.g.
KJ, RSV, NEB, et alia)”, C. A. Moore, Daniel, Esther and Jeremiah: The Additions: A New Transla-
tion with Introduction and Commentary, Doubleday, Garden City 1977. Cf. D. Candido, I testi del
libro di Ester: il caso dell'Introitus: TM 1,1-22 - LXX A1-17; 1,1-22-Tα A1-18; 1,1-21, Pontificio Istituto
Biblico, Roma 2005, 349.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 46
Nel caso del NT, alla domanda sulla lingua originale si può rispondere in modo
assai semplice: tutti i ventisette libri si conservano in greco e sono stati scritti origina-
riamente in greco.
L'unica possibile eccezione in realtà non è tale. Secondo la testimonianza di Papia
di Gerapoli (s. II d.C.), citata da Eusebio di Cesarea (HE 3.39.16), il vangelo di Matteo
sarebbe stato scritto prima “nella lingua degli ebrei” e poi tradotto in greco:
Riguardo poi a Matteo, è detto [da Papia] quanto segue: «Matteo dunque ha compo-
sto una raccolta degli oracoli in lingua ebraica, e ciascuno li ha interpretati secondo
le sue capacità»1
1. Traduzione presa da E. Norelli, Papia di Hierapolis: Esposizione degli oracoli del Signore: i fram-
menti, Paoline editoriale libri, Milano 2005, frammento 5.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 47
sale e missionario dei primi discepoli di Gesù, nonché la loro apertura verso la cultu-
ra greca e romana, senza negare la fedeltà alle loro origini e alla loro identità.
Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di
inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio pale-
stinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un
ambiente culturale unico1.
*
La lingua del NT è il greco detto koinè (da κοινὴ διάλεκτος, “lingua comune”),
un po' diverso dal greco “classico”, quello di Sofocle e Platone, per capirci.
Una delle caratteristiche generali del greco del NT è che contiene molti semitis-
mi, cioè parole ed espressioni che provengono dalle lingue semitiche: l'ebraico e l'ara-
maico. Per esempio, Gesù conclude la parabola delle nozze del figlio del re dicendo:
“molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). La frase si comprende meglio alla
luce della sintassi semitica, nella quale il confronto fra “molti” e “pochi” è un modo
per esprimere una comparazione fra tutti e non tutti. Gesù vuol dire che non tutti i
chiamati saranno eletti, senza specificare se la differenza in numero è grande o meno.
Il messaggio è che la chiamata iniziale non garantisce la salvezza finale2.
Ecco altre espressioni del NT che costituiscono esempi di semitismi:
• giri linguistici come “egli rispose dicendo” o “e avvenne che”, frequenti nei
vangeli.
• La creazione di termini nuovi, come ἀντίχριστος, “anticristo” (1 Gv 2,18.22; 4,3;
2 Gv 1,7).
• L'uso della preposizione ἐν con valore strumentale, per influsso della preposi-
zione ebraica ( ְבּbe). Per esempio, in Mt 3,11, Giovanni Battista dichiara: Ἐγὼ
μὲν ὑμᾶς βαπτίζω ἐν ὕδατι, cioè “io vi battezzo in acqua”, nel senso di “con
acqua”. In Eb 1,1-2 si dice che Dio parlò ai padri “nei profeti” e che adesso ha
parlato “nel Figlio”, cioè “per mezzo dei profeti” e “per mezzo del Figlio”.
• L'uso di parole con un senso diverso da quello greco abituale. Per esempio, il
termine hodos (ὁδός), che vuol dire “cammino”, si impiega col senso di “modo
di vivere” oppure “dottrina” (cf. At 18,25; 19,23; 22,4; 24,14.22; Gc 1,8; 2 Pt
2,2.15.21; Gd 11). La parola doxa (δόξα), “apparenza” o “opinione”, viene usata
per parlare della “gloria”; la parola sarx (σάρξ) che vuol dire “carne” si usa nel
1. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), EB
1524.
2. Cf. B. F. Meyer, «Many (=all) are called, but few (=not all) are chosen», New Testament Studies 36
(1990) 89-97.
INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ 48
senso del termine ebraico bashar ()בּ ָשׂר, ָ cioè “uomo”. Così, l'espressione “ogni
carne” vuol dire “l'intera umanità” (Mt 24,22; Mc 13,20; Lc 3,6; Gv 17,2; At 2,17;
Rm 3,20; 1 Cor 1,29; 15,39; Gal 2,16; 1 Pt 1,24); un'espressione simile è “la carne e
il sangue” (Mt 16,17; 1 Cor 15,50; Gal 1,16; Ef 6,12).
Pur condividendo il greco koinè, ogni autore ha il suo proprio stile. Il greco più
elegante del NT si trova senz'altro nel prologo di Luca (Lc 1,1-4), mentre all'estremo
opposto possiamo collocare il greco dell’Apocalisse, un po' strano e che presenta ad-
dirittura frequenti errori di sintassi.
Per saperne di più sulle lingue della Bibbia, si consigliano i primi due paragrafi
del capitolo 6 di Mannucci-Mazzinghi1.
1. Si può vedere anche la presentazione di J. Trebolle in L. Alonso Schökel et al., La Bibbia nel suo
contesto, Paideia, Brescia 1994, 376-383.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 49
1. Cf. A. M. Artola, «La Biblia como Palabra de Dios en el Vaticano I y en el Vaticano II», Alpha
Omega 7 (2004) 3-16, 5-8.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 51
1. P. Basta - P. Bovati, 'Ci ha parlato per mezzo dei profeti': ermeneutica biblica, San Paolo, Cinisello
Balsamo, 2012, 36-37. “Concezione greca” della divinità: sarebbe più preciso dire “concezione ari-
stotelica”. La maggioranza dei greci, da Omero in poi, aveva un’immagine antropomorfica degli
dèi.
2. Sulla storia della redazione del documento, cf. V. Balaguer, «La Constitución dogmática Dei Ver-
bum», Annuarium Historiae Conciliorum 43 (2011) 271-310, 271-278.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 52
rapporti fra la Scrittura e la rivelazione nella Bibbia stessa, nei Padri, nella teologia,
eccetera, risulterebbe un percorso difficile e troppo lungo per queste lezioni. Invece la
Dei Verbum ha il merito di aver sintetizzato circa duemila anni di riflessione teologica
in una presentazione comprensibile, autorevole e — secondo molti autori — vera-
mente geniale.
Infatti, contrariamente a quanto accadeva ai tempi del Concilio Vaticano I, il Va-
ticano II non doveva preoccuparsi troppo di fare apologetica, e quindi ha potuto pre-
sentare i contenuti della fede “per se stessi”, o, più precisamente, secondo l'auto-com-
prensione della Chiesa1. Cioè, nella Dei Verbum si cerca di spiegare la rivelazione non
come risposta al razionalismo, ma assumendo, per così dire, il “punto di vista di Dio”.
Inoltre, nel Vaticano II si è fatto tesoro dei grandi passi avanti compiuti dalla teologia
nella prima metà del XX secolo. Per questo motivo, come vedremo, nella Dei Verbum
la rivelazione — e la Bibbia — è molto di più che una raccolta di verità. Si presenta la
rivelazione come avvenimento: Dio viene incontro agli uomini.
La Dei Verbum parla della Bibbia, ma non è questo l'argomento principale. La co-
stituzione infatti tratta della Scrittura all'interno di un’esposizione sulla rivelazione e
la sua trasmissione, come appare chiaro sia dal titolo del documento — “Costituzione
dogmatica sulla divina rivelazione” — che dalle belle parole del proemio (DV1):
In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo
Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna,
che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto
e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col
Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3). Perciò seguendo le orme dei Concili
Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivela-
zione e la sua trasmissione, affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero
ascoltando creda, credendo speri, sperando ami (cf. S. Agostino, De catechizandis
rudibus. 4,8: PL 40, 316).
Ecco il testo di DV2, diviso in due paragrafi, a) e b), per facilitarne il commento:
a) Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mi-
stero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi
della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisi-
bile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici
(cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e am-
metterli alla comunione con sé.
b) Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente
connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manife-
stano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole
proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità,
poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende
per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rive-
lazione (cfr. Mt 11,27; Gv 1,14.17; 14,6; 17,1-3; 2 Cor 3,16; 4,6; Ef 1,3-14).
In primo luogo, va notata una significativa omissione: DV2 espone cos'è la rivela-
zione senza fare alcun riferimento alla sua messa per iscritto. Ci sono riferimenti bi-
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 54
blici, ma la Scrittura come tale apparirà solamente nel capitolo 2, dove si parla della
trasmissione della rivelazione.
Sinteticamente, DV2 presenta:
a) gli elementi essenziali della rivelazione divina (già descritta, in nuce, tramite la
bella citazione della 1 Giovanni nel proemio). La sua origine è la bontà e la sa-
pienza di Dio; il suo contenuto non è altro che Dio stesso e il suo disegno sal-
vifico in Cristo; i suoi destinatari sono gli uomini in genere; la sua finalità con-
siste nella comunione di vita con Dio; e finalmente la sua modalità: Dio parla
agli uomini come ad amici1.
b) il piano divino della rivelazione. La rivelazione non è caotica, frammentata o
dispersa, ma segue un piano strutturato (oeconomia) che si realizza:
1. “nella storia della salvezza”, identificandosi con essa,
2. tramite eventi e parole “intimamente connessi” fra loro,
3. e culmina in Cristo, suo “mediatore e pienezza”.
Parleremo più avanti del ruolo di Gesù Cristo, a proposito di DV3-4. Adesso in-
vece dobbiamo commentare brevemente la strutturazione della rivelazione in opere e
parole ed il suo carattere storico.
1. La novità e il valore di questi elementi appaiono più chiaramente quando si mettono in paragone
con le affermazioni sulla rivelazione della Dei Filius del Vaticano I. Cf. S. Lyonnet, «La nozione di
rivelazione (Cap. 1 della «Dei Verbum»)» in S. Lyonnet (ed.), La Bibbia nella Chiesa dopo la "Dei
Verbum": studi sulla costituzione conciliare, Edizioni Paoline, Roma 1969, 9-49; V. Mannucci - L.
Mazzinghi, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Bre-
scia 212016, 39-44 (capitolo 2, prima sezione).
2. C. Pesch, Institutiones propaedeuticae ad sacram theologiam: de Christo legato divino, de Ecclesia
Christi, de locis theologicis, Herder, Freiburg im Breisgau 1924, 113, paragr. 151.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 55
1. “Penso che Platone abbia avuto una felice intuizione allorché nel Cratilo sostiene che il linguaggio
è uno strumento con cui due interlocutori comunicano fra loro sulle cose. Non c'è dubbio che tali
comunicazioni avvengano, e il vantaggio di prender le mosse da esse risiede nel fatto che tutti o la
maggior parte degli altri casi sono derivabili per riduzione da questo caso principale”, K. Bühler,
Teoria del linguaggio: la funzione rappresentativa del linguaggio, A. Armando, Roma 1983, 77.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 56
Dire che Gesù viene da Dio non basta per conoscere pienamente la sua identità,
ma è valido come primo approccio. Invece, interpretare la cacciata dei demoni come
opera compiuta in virtù del potere del loro principe è contraddittorio (cf. Mt 12,22ss.;
Mc 3,20ss.; Lc 11,14ss.).
Le opere dunque hanno un certo significato, non del tutto chiaro. Qui appare
l'importanza del linguaggio: normalmente, il senso degli eventi ha bisogno di una
spiegazione verbale. In un certo senso, la morte di Gesù parla “da sola”. Ma allo stesso
tempo ha bisogno di un'interpretazione e perciò Gesù stesso l'annuncia e la spiega in
diversi modi — per esempio come un “dare la vita in riscatto per molti” (Mt 20,28;
Mc 10,45) o attraverso la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37)—.
La descrizione della rivelazione divina nel capitolo 1 della Dei Verbum avanza più
per ondate successive che seguendo un percorso lineare. Nel n.1 infatti appariva già
l'essenziale della rivelazione divina. Il n. 2 sviluppa il concetto, spiegando in che con-
siste e parlando della sua organizzazione o economia.
Come vedremo, i nn. 3-4 espongono di nuovo il contenuto della rivelazione, mo-
strando più in dettaglio le tappe del piano menzionato al n. 2. Si sta parlando, lo si ri-
cordi, de ipsa revelatione: non si menziona ancora la sua messa per iscritto.
1. Cf. V. Balaguer, «La economía de la Palabra de Dios: A los 40 años de la Constitución Dogmática
Dei Verbum», Scripta Theologica 37 (2005) 407-439, 430.
2. “La historia sagrada no puede considerarse un mero marco de la revelación, sino que forma parte
de ella”, Idem, «La economía», 430; cf. P. Grelot, La Bible, Parole de Dieu: Introduction théologique
à l'étude de l'Écriture Sainte, Desclée, Paris 1965, 4-8.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 59
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli
uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre,
volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso
ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò
alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano,
per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza
nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui
un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mez-
zo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre
provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in
tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.
Per la teologia fondamentale, è rilevante notare che le prime parole di DV3 si ri-
feriscono alla rivelazione “naturale” o “cosmica”. Si adopera un verbo al presente —
Dio “offre” — per indicare che tale manifestazione non fa parte della storia della
salvezza1.
Gli altri verbi del paragrafo, tutti al passato, si riferiscono ad avvenimenti singola-
ri, storici, il cui soggetto, in tutti i casi, è Dio. Vi sono destinatari individuali della ri-
velazione divina (i primi genitori, Abramo, Mosè, i profeti) e collettivi (il popolo). Fra
questi individui alcuni fungono come mediatori: attraverso loro (per Moysen et Pro-
phetas) Dio ha istruito il popolo.
Altri elementi presenti nel n.3 sono i seguenti:
(1) Ci sono tappe diverse nella storia della salvezza.
(2) Ogni tappa ha una propria sostantività, perché ha un fine in se stessa. Almeno
la formazione del popolo viene presentata con una finalità specifica: “affinché lo rico-
noscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice”.
(3) Ma allo stesso tempo la finalità di questa tappa — e si intende anche delle
altre — è aperta al futuro: “e stesse in attesa del Salvatore promesso”.
Come è facile notare, questa descrizione contiene in nuce una teologia circa la ri-
velazione divina prima di Cristo, che si poggia sull'equilibrio fra due punti: il valore
che ha in sé e la sua ordinazione verso Cristo. La Dei Verbum torna a parlare di que-
sto argomento a proposito del valore che la Chiesa conferisce all'AT (capitolo IV, nn.
14-16).
1. Uno degli argomenti sui quali il Concilio non ha voluto entrare in discussioni teologiche è quello
del rapporto fra il naturale e il soprannaturale (e la subordinazione fra l'una e l'altra rivelazione).
Cf. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 326.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 60
Per capire meglio l'importanza di quanto segue, risulta illustrativo ricordare i di-
battiti sulla “essenza” del cristianesimo suscitati fra il XIX e il XX secolo. Si cercava di
identificare quale fosse l'idea propria della religione cristiana, cioè l'elemento che la
distingue da tutte le altre. Alcuni ritenevano che la fraternità universale o l'amore
verso il prossimo costituissero l'essenza del cristianesimo; per altri invece si trattava
della sua purezza etica, o infine del suo sublime concetto di Dio. Lo storico Adolf von
Harnack (1851-1930) considerava che l'essenza del cristianesimo si potesse riassumere
in tre grandi valori: la paternità di Dio, la fraternità fra gli uomini e il valore infinito
della persona umana. Non di rado questi tentativi avevano l'intenzione di reinventare
la religione cristiana, per adeguarla ai parametri del razionalismo.
Fra tutti questi intellettuali, Romano Guardini (1885-1968) ha fornito la risposta
giusta:
Da ultimo il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della
vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo
è costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal
suo destino — cioè da una personalità storica1.
Quest'idea è cara al Papa emerito Benedetto XVI, che l’ha spiegata diverse volte.
Nel n. 11 della Verbum Domini dice:
La Parola eterna che si esprime nella creazione e che si comunica nella storia della
salvezza è diventata in Cristo un uomo, “nato da donna” (Gal 4,4). La Parola qui
non si esprime innanzitutto in un discorso, in concetti o regole. Qui siamo posti di
fronte alla persona stessa di Gesù. La sua storia unica e singolare è la Parola definiti-
va che Dio dice all'umanità. Da qui si capisce perché «all'inizio dell'essere cristiano
non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento,
con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisi-
va» (Deus caritas est, 1).
In un contesto diverso, il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 108) difende una
tesi analoga:
La fede cristiana tuttavia non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la reli-
gione della “Parola” di Dio, di una Parola cioè che non è “una parola scritta e muta,
ma il Verbo incarnato e vivente” (San Bernardo di Chiaravalle, Homilia super “Mis-
sus est”, 4, 11: Opera, ed. J Leclercq-H. Rochais, v. 4 [Roma 1966] p. 57).
L'espressione “religione del Libro” procede dal Corano, che parla di “popolo della
Scrittura” come descrizione per gli ebrei, per i cristiani e per l’Islam. Ma, come dice il
Catechismo, non è giusto descrivere la fede cristiana in questo modo1.
Alla fine di DV2, il rapporto fra Gesù Cristo e la rivelazione veniva espresso con
due titoli: “mediatore” e “pienezza”. DV4 se ne può considerare una spiegazione:
Dopo aver a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine,
nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti
suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra
gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Ver-
bo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini» (Epist. ad Diognetum, 7,4: FᴜNᴋ,
Patres Apostolici, I, p.403), «parla le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a compimento
l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il
quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la
manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli,
e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'in-
vio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la te-
stimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e
della morte e risuscitarci per la vita eterna.
L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà
mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifesta-
zione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).
1. Anche dal punto di vista della storia delle religioni si notano differenze rispetto all'ebraismo e
all'Islam per quanto riguarda il modo in cui i primi cristiani hanno utilizzato i testi. Cf. G. G.
Stroumsa, «Early Christianity: A Religion of the Book?» in M. Finkelberg - G. G. Stroumsa (eds.),
Homer, the Bible, and Beyond: Literary and Religious Canons in the Ancient World, Brill, Leiden
2003, 153-173.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 62
Per spiegare la rivelazione, il Catechismo della Chiesa Cattolica segue molto da vi-
cino Dei Verbum. Sotto il titolo “Gesù Cristo, Mediatore e Pienezza della rivelazione”,
nel n.65 cita un testo di san Giovanni della Croce, che commenta così Eb 1,1-2:
Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola,
ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire…
Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto nel suo
Figlio, donandoci questo tutto che è il suo Figlio. Perciò chi volesse ancora interro-
gare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stol-
tezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e
va cercando cose diverse e novità [san Giovanni della Croce, Salita al monte Carme-
lo, 2, 22, cf. Liturgia delle Ore, I, Ufficio delle letture del lunedì della seconda setti-
mana di Avvento]1.
1. Ecco il testo completo di san Giovanni in spagnolo: «Porque en darnos, como nos dio, a su Hijo —
que es una Palabra suya, que no tiene otra—, todo nos lo habló junto y de una vez en esta sola Pa-
labra, y no tiene más que hablar. Y éste es el sentido de aquella autoridad, con que san Pablo
quiere inducir a los hebreos a que se aparten de aquellos modos primeros y tratos con Dios de la
ley de Moisés, y pongan los ojos en Cristo solamente, diciendo: ‘Lo que antiguamente habló Dios
en los profetas a nuestros padres de muchos modos y maneras, ahora a la postre, en estos días, nos
lo ha hablado en el Hijo todo de una vez’. En lo cual da a entender el Apóstol, que Dios ha queda-
do ya como mudo, y no tiene más que hablar, porque lo que hablaba antes en partes a los profetas
ya lo ha hablado en él todo, dándonos el todo, que es su Hijo. Por lo cual, el que ahora quisiese
preguntar a Dios o querer alguna visión o revelación, no sólo haría una necedad, sino haría agra-
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 63
In sintesi, a partire da DV4 e dal n.65 del Catechismo, si possono indicare quattro
punti significativi:
1) La rivelazione tramite i profeti si può qualificare come incompleta o parziale
(“en partes” dice Giovanni della Croce). Dei Verbum non lo dice chiaramente,
ma si trova implicito nella citazione di Eb 1,1-2 e nel dire che Cristo compie,
completa e corrobora la rivelazione.
2) La rivelazione tende verso Cristo. Dunque, oltre a dire che essa ha forma stori-
ca, come abbiamo visto, si può anche parlare del suo carattere progressivo.
3) La rivelazione in Cristo è completa in se stessa: Dio non ha altro da dirci, per-
ché suo Figlio è la sua unica Parola. La rivelazione in Cristo è completa anche
nei riguardi dei destinatari: l'uomo non ha bisogno di altro, né può aspirare a
qualcosa di superiore a Cristo.
4) La rivelazione non è fatta solo di parole, ma soprattutto si trova in una perso-
na: il Figlio, Parola unica di Dio.
Infine dobbiamo commentare il paragrafo finale di DV4, sul carattere definitivo
della rivelazione cristiana. Un'espressione comune per riferirsi al limite del processo
di costituzione del deposito della rivelazione consiste nel dire che la rivelazione si è
chiusa “con la morte dell'ultimo apostolo” (di solito identificato con Giovanni figlio di
Zebedeo, scomparso verso l’anno 100). La formula si impiega abitualmente per se-
gnare la differenza fra la generazione apostolica e quella post-apostolica1.
Tuttavia, il Concilio non ha voluto utilizzare questi termini. Uno dei Padri conci-
liari, il Cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, aveva suggerito di includere la frase.
Ma la commissione non accettò “che si dica espressamente che la rivelazione si è
chiusa con la morte degli apostoli. Infatti, la proposta si trova già dove si dice che Cri-
sto completa la rivelazione; inoltre, la formula non è esente da problemi, per diverse
ragioni”2.
vio a Dios, no poniendo los ojos totalmente en Cristo, sin querer otra cosa o novedad. Porque le
podría responder Dios de esta manera: ‘Si te tengo ya hablado todas las cosas en mi Palabra, que
es mi Hijo, y no tengo otra cosa que te pueda revelar o responder que sea más que eso, pon los
ojos sólo en él; porque en él te lo tengo puesto todo y dicho y revelado, y hallarás en él aún más de
lo que pides y deseas’» (Subida al Monte Carmelo 2,22).
1. Per esempio, l’ha utilizzata Benedetto XVI nel suo messaggio alla PCB del 18 aprile 2012: “Se, in-
fatti, l'atto della Rivelazione si è concluso con la morte dell'ultimo Apostolo, la Parola rivelata ha
continuato ad essere annunciata e interpretata dalla viva Tradizione della Chiesa”.
2. “Quod expresse dicatur, revelationem clausam esse cum morte apostolorum. Nam res intenta iam
habetur, quando dicitur quod Christus revelationem complet; formula autem non caret difficulta-
tibus, et quidem propter rationes divergentes”, F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis in ordi-
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Non si dice quali sono questi problemi, ma possiamo pensare che uno di essi è
che l'espressione risulta troppo precisa, come se si potesse stabilire una data esatta in
cui la rivelazione si chiude. Inoltre, non sappiamo chi sia stato l'ultimo apostolo né
quando è morto: per questo non è molto rilevante se si parla o meno in questi termi-
ni. (Dovremo tornare a questo punto a proposito della formazione del canone. La
chiusura del canone biblico infatti è conseguenza della convinzione che Dio non ha
altro da dire).
Si deve finalmente notare che DV4 lascia uno spazio aperto per la possibilità di
rivelazioni private.
*
Quali conseguenze ha il ruolo così unico di Gesù Cristo all'interno della rivela-
zione, per comprendere questa nel suo insieme? Qui possiamo andare un po' aldilà di
quanto afferma la Dei Verbum. Come abbiamo visto a proposito di DV2, la rivela-
zione non solo è storica, ma è una storia. Abbiamo detto che in ogni storia l'elemento
decisivo è lo snodo del racconto, perché a partire da esso si spiegano gli altri elementi
della trama. Gesù costituisce lo snodo della rivelazione, il punto finale della storia. Le
tappe anteriori, pur essendo veramente una rivelazione di Dio, devono essere intese
in riferimento a lui, come preparazione per il vangelo, come dice l'ultima frase di
DV31.
A questo punto sorge inevitabilmente un problema, vecchio quanto il cristianesi-
mo: il valore dell'AT. Se in Cristo abbiamo il discorso completo, perché non prescin-
dere dell'AT? Se in Gesù Cristo si trova la pienezza della rivelazione, a che serve con-
servare adesso una rivelazione parziale?
La risposta non è semplice, ma quanto abbiamo appena detto sul carattere narra-
tivo della rivelazione cristiana aiuta a comprendere che Gesù Cristo sarebbe incom-
prensibile senza conoscere le tappe previe. Lo stesso titolo di “Cristo” non si capisce
se non si legge l'AT. Invece, se la rivelazione fosse un corpo di verità atemporali e la
storia semplicemente il loro involto, risulterebbe logico preferire la formulazione per-
nem redigens schemata cum relationibus necnon patrum orationes atque animadversiones: Constitu-
tio Dogmatica de Divina Revelatione Dei Verbum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1993, 34. L'intervento del card. Ruffini può vedersi alle pp. 558-560.
1. Commenta un autore: “Como punto final de la historia de la revelación, Jesucristo hace que los
acontecimientos que le preceden tengan una doble dimensión: por una parte, tienen valor revela-
dor por sí mismos; por otra, su valor es relativo, en cuanto son peripecias que tienen su sentido en
Jesucristo. (…) Es decir, las acciones por las que Dios se manifiesta al pueblo son revelación, son
palabra de Dios, pero son también parte del discurso completo que sólo se da en Cristo, único di-
scurso de Dios en la revelación. Sólo en Cristo, el discurso es completo”, Balaguer, «La economía»,
432.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 65
In DV7 si presenta la messa per iscritto della rivelazione. Prima però di leggere
DV7, conviene inserire una riflessione sulle differenze fra la comunicazione orale e
quella scritta, anche se non è un argomento frequente nei manuali d'IGSS. Perché
trattare questo tema? La rivelazione è comunicazione di Dio agli uomini con opere e
parole intimamente connesse fra loro. La Bibbia invece è un testo (una collezione di
testi), e quindi da sola non può né agire né parlare. Ciononostante, la sacra Scrittura è
rivelazione. Per questo motivo dobbiamo chiederci se e in quale misura possono es-
sere identiche una parola detta oralmente e una parola scritta.
Priorità
La scrittura è un codice secondario riguardo al linguaggio orale. Gli uomini han-
no parlato da tempo immemorabile. La scrittura, invece, è stata inventata in un mo-
mento concreto (verso il 3200 a.C., come detto a p. 27).
Inoltre, ogni essere umano prima impara a parlare e poi a scrivere. La scrittura
infatti è secondaria non solo cronologicamente, ma anche costitutivamente, in quan-
to si costruisce con segni (grafemi) che si riferiscono a suoni (fonemi), almeno nel
nostro alfabeto. Anche altri sistemi di scrittura, come quello cinese, cercano di ripro-
durre graficamente dei suoni, benché in maniera diversa. È impensabile invertire l'or-
dine, immaginare cioè una lingua orale che nasce da una scritta.
Più profondamente ancora, possiamo dire — con terminologia aristotelica — che
la oralità ha una priorità ontologica rispetto alla scrittura: cioè, può esistere linguag-
gio orale senza linguaggio scritto, ma non potrebbe darsi un linguaggio scritto senza
l'esistenza di un linguaggio orale.
Nella rivelazione divina questa priorità viene rispettata: la comunicazione origi-
naria è orale. Il Dio di Israele non si manifesta al popolo scrivendo, ma soprattutto
parlando attraverso i profeti; Gesù predica e fa miracoli, ma non ha scritto nulla, e
poi non invia gli apostoli a scrivere, ma a predicare. I libri arrivano in un secondo
momento.
Situazione
L'oralità e la scrittura comportano una diversa situazione di comunicazione1.
L'oralità suppone la compresenza di mittente e destinatario e quindi la simultaneità
degli atti di emissione e ricezione. La scrittura invece suppone l'assenza del mittente e
la duplicità di atti: uno di scrittura e un altro di lettura. La comunicazione avviene
solo con la seconda operazione: un libro mai letto non comunica niente.
Per la comunicazione orale, risulta valido lo schema presentato a p. 50. Invece,
vale la pena di rappresentare la comunicazione scritta, perché lo schema presenta
qualche differenza:
scrittore → messaggio ‖ messaggio → lettore
La comunicazione scritta via internet ha creato dei casi intermedi. Risulta possi-
bile una comunicazione scritta con la presenza simultanea di mittente e destinatario.
Ma tali casi non invalidano la descrizione fatta sopra.
1. Per ciò che segue, cf. C. Segre, Avviamento all'analisi del testo letterario, G. Einaudi, Torino 1999,
5-15.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 67
Allo stesso tempo dobbiamo notare che, per criticare le lettere, Platone ha dovuto
farne uso per scrivere il Fedro. Senza la scrittura, non avremmo mai saputo cosa egli
ne pensava!
Contesto e autonomia
La comunicazione orale, necessariamente presenziale, di solito è accompagnata
da altri codici, non verbali, che servono a contestualizzare il linguaggio verbale. Per
esempio: il codice musicale (canto), il codice paralinguistico (vocalizzazione, tono,
risa), il codice chinesico (gesti e movimenti corporali) e altri1.
Contrariamente a quanto accade nella comunicazione orale, un testo scritto ha
praticamente un solo codice per comunicare, quello verbale. Basta pensare alla diffe-
renza fra un esame orale e uno scritto. Nel primo, lo studente può gesticolare, stare
attento all'espressione del volto del professore, ripetere una frase con diverse intona-
zioni, eccetera. Tutte queste risorse spariscono nel caso di un esame scritto, nel quale
al massimo lo studente potrà sottolineare una parola o scriverla con maiuscole.
Come conseguenza di questa povertà di risorse, un testo scritto deve includere
elementi che contribuiscano ad evitare l'ambiguità. Per dirla in termini più esatti: nel-
la comunicazione scritta si deve introiettare il contesto dentro il testo. Nel linguaggio
orale, basta che qualcuno dica, per esempio, “chiudi la porta, per favore” perché si ca-
pisca ciò che vuole dire: a chi si rivolge e a quale porta si riferisce. In un testo scritto,
invece, si deve indicare esplicitamente chi parla, quando, dove, a chi, ecc. Sostanzial-
mente, un testo scritto deve avere un'organizzazione discorsiva coerente per poter co-
municare efficacemente. Questo è uno dei principali motivi per cui un testo scritto
non può o non deve essere concepito come una semplice traslitterazione di un di-
scorso orale. Il giornalista che deve mettere per iscritto la registrazione di un’intervi-
sta conosce bene questa necessità: non basta riprodurre le parole pronunciate dall'in-
tervistato, ma deve introdurle e commentarle.
Grazie in buona misura a questa esigenza di esplicitare il contesto del messaggio,
il testo scritto è, in certa maniera, autonomo. Tale autonomia ha una conseguenza
importante: il testo scritto può vivere lungo tempo ed essere attualizzato in contesti
diversi, che possono variare leggermente il significato del messaggio, di solito
arricchendolo.
Funzione sociale
Finora abbiamo descritto i principali aspetti comunicativi di oralità e scrittura.
Adesso possiamo aggiungere qualche breve osservazione sulla loro funzione sociale
all'interno delle culture.
La scrittura, allo stesso modo delle tradizioni orali, trasmette conoscenze ed
esperienze. Entrambe sono un veicolo della memoria, che a sua volta manifesta e de-
finisce l'identità di una comunità. In genere, nello sviluppo dei popoli, arriva un mo-
mento in cui le tradizioni del gruppo vengono messe per iscritto. In questo modo
passano dall’ambito familiare a quello sociale e politico. Così perdono vivacità, ma
guadagnano stabilità e autorevolezza. Il testo acquista un valore canonico e normati-
vo: bisogna attenersi a ciò che è scritto. Il testo scritto consente inoltre un “sapere
controllato”. Nei popoli antichi, in cui poche persone sapevano leggere e scrivere, la
messa per iscritto delle tradizioni implicava anche che queste passavano sotto il
controllo degli scribi, di solito funzionari al servizio del re ed incaricati dell'educa-
zione nella corte1.
A modo di sintesi, possiamo elencare sei differenze fra la comunicazione orale e
quella scritta:
1) la scrittura è secondaria rispetto all'oralità;
2) l'oralità presuppone la presenza simultanea di mittente e destinatario, mentre
la comunicazione per iscritto ha bisogno di due atti diversi e la comunicazione
avviene solo nel secondo, l'atto di ricezione (lettura);
3) l'oralità consente la chiarificazione immediata di un malinteso;
4) la scrittura fissa il messaggio e gli conferisce una certa perennità;
5) l'oralità funziona sempre dentro uno spazio e un tempo determinati e può es-
sere accompagnata da molti codici non verbali. Tutto questo dà il contesto del
messaggio, mentre la scrittura deve introiettare il contesto nel testo per evitare
l'ambiguità.
6) la scrittura fissa le tradizioni orali, conferendo loro una forma che diventa
normativa, se viene socialmente accettata.
1. Su questi temi in rapporto con l'origine dei testi biblici esiste abbondante bibliografia. Cf. D. M.
Carr, Writing on the Tablet of the Heart: Origins of Scripture and Literature, Oxford University
Press, Oxford 2005; L. D. Morenz - S. Schorch (eds.), Was ist ein Text?: Alttestamentliche, ägyptolo-
gische und altorientalistische Perspektiven, de Gruyter, Berlin 2007; K. van der Toorn, Scribal
Culture and the Making of the Hebrew Bible, Harvard University Press, Cambridge 2007.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 70
Riprenderemo questa descrizione quando parleremo della messa per iscritto del-
la predicazione apostolica, a proposito di DV8-9.
8.1.2. Perché Gesù non ha lasciato testi? (STh III q.42, a.4)
Per comprendere meglio la differenza fra scrittura e oralità, leggeremo un breve
testo di san Tommaso d'Aquino. In STh III, q.42, a.4, Tommaso si chiede se Cristo
non avrebbe dovuto scrivere il suo messaggio, giacché i suoi insegnamenti dovevano
durare per sempre e la scrittura fu creata proprio per conservare la memoria lungo il
tempo1. Inoltre, secondo Es 24, Dio aveva scritto le tavole della legge. Se Cristo ci
avesse lasciato un testo scritto, avrebbe garantito che nessuno potesse fraintendere o
travisare la sua dottrina.
Eppure, questi ragionamenti entrano in conflitto con il fatto che nella Bibbia non
abbiamo nessun libro scritto da Gesù (sed contra est quod nulli libri ab eo scripti ha-
bentur in canone scripturae).
Nella risposta, Tommaso propone tre motivi per cui risultava conveniente che
Cristo non abbia scritto nulla. Ci interessano i primi due:
1) Cristo è il maestro più eccellente e gli corrisponde dunque il miglior modo di
insegnamento, che consiste nel fissare la dottrina nei cuori2. Tommaso concor-
da con Platone: l'insegnamento deve restare nell'anima, non fuori di essa, e a
questo scopo la parola orale è più efficace di quella scritta. Il ragionamento
sembra valido, ma insufficiente: Cristo poteva prima insegnare oralmente e
poi scrivere.
2) “A causa dell'eccellenza della dottrina del Cristo, che non può essere contenuta
dalle lettere (…). Se Cristo avesse trasmesso la sua dottrina per iscritto, gli uo-
mini avrebbero considerato che questa dottrina non contiene niente di più
profondo di quanto è scritto”3.
1. “Videtur quod Christus doctrinam suam debuerit scripto tradere. Scriptura enim inventa est ad
hoc quod doctrina commendetur memoriae in futurum. Sed doctrina Christi duratura erat in
aeternum”.
2. “Primo quidem, propter dignitatem ipsius. Excellentiori enim doctori excellentior modus doctri-
nae debetur. Et ideo Christo, tanquam excellentissimo doctori, hic modus competebat, ut doctri-
nam suam auditorum cordibus imprimeret. Propter quod dicitur matth. vii, quod erat docens eos
sicut potestatem habens. Unde etiam apud gentiles Pythagoras et Socrates, qui fuerunt excellentis-
simi doctores, nihil scribere voluerunt. Scripta enim ordinantur ad impressionem doctrinae in
cordibus auditorum sicut ad finem”.
3. In questo caso, la traduzione è mia. “Secundo, propter excellentiam doctrinae Christi, quae litteris
comprehendi non potest, secundum illud ioan. ult., sunt et alia multa quae fecit Iesus, quae si scri-
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 71
Quest’ultima frase merita un commento. San Tommaso sembra dire che conviene
a noi uomini avere come testimonianze della predicazione di Cristo i vangeli, che non
sono identici ad essa, perché così la dottrina di Cristo rimane al di là della configura-
zione testuale che riceve. In questo modo, cioè, diventa impossibile la tentazione di
ridurre l'insegnamento di Gesù Cristo ad una formula fissa e unica. Le parole di Gesù
in ogni singolo vangelo appaiono infatti necessariamente come una versione di ciò
che ha detto, semplicemente per la distinzione fra oralità e scrittura.
Nell'argomentazione di Tommaso sono apparse alcune delle differenze fra oralità
e scrittura. La scrittura è necessaria affinché la dottrina rimanga nel tempo, ma prima
bisognava immetterla nei cuori. Inoltre san Tommaso lascia uno spazio per distin-
guere fra la Bibbia e la rivelazione: la Bibbia è rivelazione, ma questa non si può ri-
durre alla Bibbia, non si esaurisce nella sua espressione scritta.
bantur per singula, nec ipsum arbitror mundum capere eos qui scribendi sunt libros. Quos, sicut
Augustinus dicit, non spatio locorum credendum est mundum capere non posse, sed capacitate
legentium comprehendi non posse. Si autem Christus scripto suam doctrinam mandasset, nihil
altius de eius doctrina homines existimarent quam quod scriptura contineret”.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 72
tridentino sulle Scritture per rendersi conto che lo schema delle due fonti ne è una
semplificazione1. Nella Dei Verbum, tale schema è stato abbandonato, perché:
Gli studi biblici e la riflessione teologica hanno fatto prendere coscienza a tutti, pro-
testanti compresi, che Scrittura e tradizione non sono due realtà dissociabili fra
loro: la tradizione precede la Scrittura; la stessa Scrittura è frutto dell’elaborazione
della tradizione, anzi il suo momento privilegiato; la tradizione continua anche
dopo la Scrittura; la Scrittura — quale momento privilegiato della tradizione — co-
stituisce il primo criterio di validità per giudicare lo sviluppo successivo della
tradizione2.
Il punto di partenza per parlare della rivelazione diventa unitario e non più dop-
pio, perché la Dei Verbum comincia da Gesù Cristo3. In effetti, se nel descrivere la ri-
velazione in sé (capitolo I) si metteva Cristo al centro, altrettanto succederà nel capi-
tolo II, ma adesso si parlerà non della vita di Gesù, ma di Gesù predicato, del
“vangelo”.
*
All'interno del capitolo II, è possibile distinguere due parti, anche se non vi è una
divisione netta. Da un lato, in DV7 si parla del vangelo ricevuto dagli apostoli e che
essi a loro volta trasmettono, mentre in DV8-10 si parla piuttosto della tappa se-
guente, cioè della trasmissione di quanto predicarono gli apostoli.
La prima tappa viene chiamata da alcuni autori tradizione “costitutiva” oppure
“fondante”, perché, nonostante la rivelazione sia completa con Cristo, durante l'attivi-
tà degli apostoli essa sta ancora, per così dire, prendendo forma. Questa forma diven-
terà normativa per il futuro: nella fase seguente, che si può denominare tradizione
“ecclesiastica” oppure “dipendente” si trasmette la rivelazione sempre in riferimento
alla fede apostolica, al modo cioè in cui è stata predicata dagli apostoli4.
1. Cf. J. Dupont, «Écriture et Tradition», Nouvelle revue théologique 85 (1963) 337-356, 449-468,. Il te-
sto del Concilio di Trento si può vedere in EB 57.
2. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, 332.
3. “La tradición es anterior a la distinción Escritura-tradición porque no se plantea desde la Iglesia
sino desde Cristo. Como ha sucedido con otras cuestiones, también en la teología de la tradición
ha tenido lugar un centramiento cristológico y trinitario, y, correlativamente, un «descentramien-
to» eclesial”, C. Izquierdo, «Función de los textos en la tradición» in V. Balaguer - J. L. Caballero
(eds.), Palabra de Dios, Sagrada Escritura, Iglesia, Eunsa, Pamplona 2008, 75-82, 75-76.
4. “Par rapport à la Parole de Dieu, règle suprême de la foi, la tradition apostolique et la tradition ec-
clésiastique se trouvent dans deux situations très différentes : la première est le moyen par lequel
cette Parole parvient aux hommes et prend forme de parole humaine; la seconde est le milieu vi-
vant qui la reçoit, la conserve et la fait fructifier. Le passage de l'une à l'autre ne s'opère pas à un
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 73
moment chronologique déterminé, par exemple du vivant même des apôtres, par le fait que ceux-
ci confient le soin de l'Évangile et la charge des églises à des mandataires qui ne sont plus comme
eux les témoins directs du Christ”, Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 22.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 74
per comprendere la trasmissione della rivelazione si trova nel disegno di Dio, che ha
come orizzonte l'universalità della salvezza (riappare la finalità salvifica della rivela-
zione descritta in DV2).
Il testo insiste notevolmente sulla totalità: Dio vuole che ciò che ha rivelato per
salvare tutti i popoli (non solo Israele) giunga integro (senza subire diminuzione o
corruzione) a tutte le generazioni lungo il tempo. Nessun contenuto deve restare fuori
della trasmissione della rivelazione, che deve arrivare a tutti gli uomini.
Benché possa sembrare ovvio, questo principio teologico ha una importanza ca-
pitale per comprendere il lungo e difficile processo grazie al quale la rivelazione arri-
va fino a noi. Senza un impegno positivo della provvidenza divina, sarebbe certa-
mente impossibile garantire la trasmissione fedele del deposito della rivelazione,
senza deformazioni né riduzioni. In altre parole, la trasmissione della rivelazione non
è un processo meramente umano, come se l'intervento di Dio nella storia fosse termi-
nato con la generazione apostolica.
1. Sulla tradizione nell'AT, cf. Idem, La Bible, Parole de Dieu, 10-12; Mannucci - Mazzinghi, Bibbia,
capitolo 4, sezione 2 e sezione 4 (paragone fra entrambe le tradizioni).
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 75
c) Il Vangelo
Se la rivelazione culmina in Cristo, il contenuto della predicazione apostolica è,
logicamente, Cristo stesso, morto e risuscitato, come dice san Paolo con chiarezza:
Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo
Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che
sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio (1
Cor 1,22-24).
Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore (2 Cor 4,5).
Possiamo chiederci allora perché la Dei Verbum — che in questo punto segue
Trento — impiega la parola “vangelo” per riferirsi a ciò che Cristo comanda che ven-
ga predicato dagli apostoli. Evidentemente, il “vangelo”, la buona novella, non è altro
che Cristo stesso (cf. Mc 8,35; 10,29). Il contenuto della predicazione apostolica è il
vangelo di Cristo (cf. Rm 1,9; Ga 1,6-7.11).
Ma vale la pena notare che Gesù annunciato, proclamato o predicato non è iden-
tico a Gesù “in carne e ossa”, per così dire, alla presenza di Gesù fra gli uomini fino
alla sua ascensione in cielo. Il vangelo è un annuncio, una proclamazione, e quindi un
discorso. La rivelazione storica può venir trasmessa a tutti gli uomini di tutti i tempi,
ma non tutti possono essere i suoi testimoni diretti, perché le opere e le persone sono
singolari e irripetibili. Chi ascolta la predicazione non gode dell’esperienza diretta —
come gli apostoli — della rivelazione nella storia, composta da opere e parole, ma la
riceve attraverso il discorso umano — soprattutto verbale — che la significa1.
Il testo afferma, con una frase presa dal Concilio di Trento, che il vangelo deve
essere predicato “come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale”. Così si
1. “Cuando hablamos de la proclamación apostólica, hablamos de un mensaje, del Evangelio: allí las
acciones de los apóstoles están al servicio del mensaje. Cuando hablamos de la revelación enten-
demos que estamos ante un lenguaje de Dios que podemos comprender los hombres, aunque es
claro que este lenguaje de Dios no lo conocemos con anterioridad, se manifiesta sólo en las ac-
ciones de su discurso. Cuando hablamos de la proclamación apostólica estamos en un lenguaje
humano, construido y conocido por los hombres, pero que no expresa un mensaje humano sino
un mensaje de Dios. Sin embargo, si es importante subrayar las diferencias, lo es, sobre todo, para
señalar después la coincidencia fundamental: la proclamación apostólica es también parte de la
revelación histórica. Dicho de otro modo, la revelación de Dios en la historia —palabra de Dios en
lenguaje de Dios— tiene dentro de sí misma una articulación en lenguaje humano, que expresa la
palabra de Dios”, Balaguer, «La economía», 436.
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Questo punto viene confermato da 3), dove si menziona l'attività degli apostoli
nella nomina di vescovi come successori per conservare l'integrità e vitalità del
vangelo.
Per quanto riguarda il punto 2), si parla, insieme agli apostoli, di viri apostolici,
per includere autori ispirati come Marco o Luca, che non sono propriamente apostoli.
Un Padre conciliare manifestò il suo timore che la menzione di tali “uomini apostoli-
1. Cf. L. Buch, «Spiritus est veritas (1Jn 5,6): La revelación según el Espíritu Santo en los escritos de
san Juan», Annales Theologici 27 (2013) 51-83.
2. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 336.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 77
ci” potesse estendere troppo il tempo della rivelazione pubblica. La commissione ri-
spose così: “il timore sembra infondato: infatti tutti sanno che si tratta di Marco,
Luca, ecc.”1.
e) Schema
Per sintetizzare la descrizione fatta da DV7, conviene fare un piccolo schema, pur
sapendo che, come tutti gli schemi, comporta inevitabilmente un certo grado di
semplificazione.
La rivelazione è verticale (da Dio agli uomini), mentre la sua trasmissione è oriz-
zontale (da uomini a uomini). All'interno del movimento orizzontale, bisogna distin-
guere il primo momento (tradizione costitutiva) dal secondo (tradizione
ecclesiastica).
1. “Timor videtur infundatus: omnes enim norunt agi de Marco, Luca, etc.” Cf. Gil Hellín, Concilii
Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 56-57.
2. Traduzione mia. “Si se puede decir que en todo mensaje la forma es parte de su contenido, en el
proceso de la revelación cristiana se puede decir que el receptor humano forma parte también del
mensaje. Se ha señalado a veces que la fe es una revelación a la que se ha dado respuesta; si se apli-
ca esta lógica a la forma de la revelación tendremos que concluir que los receptores de la revela-
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Gli apostoli non si trovano “prima” della Chiesa, ma in essa. Con essi si garanti-
sce la continuità fra Cristo e la Chiesa di tutti i tempi1.
*
Per capire quanto seguirà, è importante aggiungere che alla predicazione aposto-
lica si può applicare la categoria di “parola di Dio”. Benché Dei Verbum non lo dica
mai esplicitamente, l'afferma san Paolo, quando ricorda ai tessalonicesi la loro acco-
glienza del vangelo predicato da lui:
Rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi
abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è vera-
mente, come parola di Dio, che opera in voi credenti (1 Ts 2,13).
ción forman de alguna manera parte de ella. Esto tiene un carácter más intenso todavía en el caso
de los apóstoles: son ellos los que —testigos de Cristo resucitado— reciben el discurso completo
de la revelación de Dios y lo expresan en lenguaje humano”, Balaguer, «La economía», 437.
1. “La precisión del lugar de los Apóstoles en la Iglesia es aquí importante, pues la proclamación
apostólica señala la continuidad, ya que está en cierta manera en dos lugares al mismo tiempo: en
el plan de la revelación de Dios y en la Iglesia”, Idem, «La economía», 437.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 79
alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella
sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazio-
ni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza
dello Spirito Santo (cf. Conc. Vat. I, Const. dogm. de fide catholica, Dei Filius, cap.
4): cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia
con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc
2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spi-
rituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno
ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende inces-
santemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le
parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le
cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che
prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri
sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrotta-
mente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato
non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per
mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di que-
sta nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di
Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).
“In modo speciale”: è la prima allusione a una distinzione della Bibbia rispetto
alle altre forme di trasmissione della rivelazione. In che cosa consista questo carattere
speciale verrà esposto in DV9.
“Ciò che fu trasmesso dagli apostoli comprende tutto (…)”. La predicazione apo-
stolica è completa per la vita della Chiesa. Si parla qui della tradizione in senso passi-
vo o, in altri termini, del deposito della rivelazione.
“È questa Tradizione che (…)”. La priorità della tradizione non è una caratteristi-
ca esclusiva della tradizione costitutiva, nel senso ovvio in cui la predicazione è ante-
riore alla messa per iscritto, ma è una caratteristica valida anche per la tradizione ec-
clesiastica, all'interno della quale si riconosce quali sono i libri ispirati. Grazie alla
tradizione non solo si conosce il canone, ma la stessa Scrittura vive, agisce, è ope-
rante, non perde attualità. Come dice il testo con una frase bellissima: “Dio, il quale
ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto”. Non è al-
tro il senso dell'espressione “parola di Dio”, che apparirà al n.9.
La Dei Verbum ha molta cura di non separare mai Scrittura e Tradizione. Tale
preoccupazione è al centro del prossimo paragrafo.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 80
*
DV9, più breve rispetto al numero anteriore, è invece più rilevante per noi:
La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e co-
municanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse
formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra
Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello
Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola
di Dio - affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli - ai loro succes-
sori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente
la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la
certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e
l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza
(cf. Conc. Trid., Decr. De canonicis Scripturis)1.
Si afferma — per la prima volta nel documento — che la sacra Scrittura è parola
di Dio. Della sacra Tradizione si afferma invece che trasmette la parola di Dio, ma
non che lo sia2.
Non tutto quello che è stato scritto nei primi tempi della Chiesa fa parte delle
sacre Scritture, benché in alcuni casi contenga la predicazione apostolica senza defor-
mazioni. Per esempio, la Didaché — opera scritta attorno al 90/100 d.C. — intende
presentare gli insegnamenti degli apostoli. E non è uno scritto eretico; cioè alla luce
della dottrina della Chiesa, non contiene deviazioni o errori dottrinali. Altrettanto si
potrebbe dire di altri scritti che appartengono cronologicamente all'epoca apostolica
(i cosiddetti Padri Apostolici), come la prima lettera del papa san Clemente Romano
1. Ecco il testo latino: “Sacra Traditio ergo et Sacra Scriptura arcte inter se connectuntur atque com-
municant. Nam ambae, ex eadem divina scaturigine promanantes, in unum quodammodo coale-
scunt et in eundem finem tendunt. Etenim Sacra Scriptura est locutio Dei quatenus divino afflante
Spiritu scripto consignatur; Sacra autem Traditio verbum Dei, a Christo Domino et a Spiritu Sanc-
to Apostolis concreditum, successoribus eorum integre transmittit, ut illud, praelucente Spiritu ve-
ritatis, praeconio suo fideliter servent, exponant atque diffundant; quo fit ut Ecclesia certitudinem
suam de omnibus revelatis non per solam Sacram Scripturam hauriat. Quapropter utraque pari
pietatis affectu ac reverentia suscipienda et veneranda est (cf. Conc. Trid., Decr. De canonicis
Scripturis)”.
2. “It is important to note that only Scripture is defined in terms of what it is: it is stated that Scrip-
ture is the Word of God consigned to writing. Tradition, however, is described only functionally,
in terms of what it does: it hands on the word of God, but is not the Word of God”, J. Ratzinger,
«Dogmatic Constitution on Divine Revelation, Chapter II: The Transmission of Divine Revela-
tion» in H. Vorgrimler (ed.), Commentary on the Documents of Vatican II: Volumen 3, Burns &
Oates, London 1968, 181-198.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 81
Queste tre espressioni dell'unica parola di Dio, che è Cristo, non si possono
separare1.
All'inizio di questa parte (p. 50), ci chiedevamo come mai il Concilio Vaticano I
non ha voluto dire che i libri sacri continent vere et propie Verbum Dei scriptum. La ri-
sposta in parte dipende da un problema terminologico: il verbo “contengono” poteva
indicare che i libri sono parola di Dio solo in quanto al contenuto e non in quanto
alla forma2.
Ma dietro a queste sfumature si celava una problematica più profonda. Infatti,
fuori dalla cornice della rivelazione e della sua trasmissione, la frase stabiliva troppo
rapidamente un'identità forte fra la rivelazione e la Bibbia.
Invece nella Dei Verbum la frase omessa nel 1870 si riprende quasi negli stessi
termini:
Sacrae autem Scripturae verbum Dei continent et, quia inspiratae, vere verbum Dei
sunt. (DV24) [Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono
veramente parola di Dio].
Dobbiamo ancora parlare della tradizione. Come definirla? È difficile dire qual-
cosa di più preciso che “trasmissione viva della rivelazione”. In qualche misura, la tra-
dizione si identifica con la Chiesa stessa, come insinua DV8: “la Chiesa nella sua dot-
trina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto
ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”.
Rimando alle definizioni della tradizione proposte da Benedetto XVI nell'udien-
za generale del 26 aprile 2006, che porta come titolo: “La comunione nel tempo: la
Tradizione”. Corrisponde alla teologia fondamentale il compito di descrivere i conte-
nuti della tradizione, i suoi documenti e monumenti, i criteri per discernere fra la
tradizione apostolica e le tradizioni ecclesiali, e così via3.
1. “Los tres objetos de los que predicamos que son palabra de Dios tienen una relación entre ellos,
que podemos precisar bajo las categorías de signo y referencia. La Sagrada Escritura es signo de
un objeto, la referencia, que es la proclamación apostólica. Es evidente que, de la misma manera
que un signo no agota la referencia pero sí señala su sentido, la Sagrada Escritura no agota la pala-
bra de Dios de la proclamación apostólica, pero sí señala correctamente su sentido. En una segun-
da instancia, la palabra de Dios de la proclamación apostólica es signo de una realidad mayor, que
es la revelación de Dios en la historia. También aquí, la proclamación apostólica no agota la refe-
rencia, ni siquiera agota su significado, pero sí señala su sentido correctamente”, Balaguer, «La
economía», 439.
2. Cf. Artola, «La Biblia como Palabra de Dios», 5-8.
3. Cf. T. Citrini, «Tradizione» in F. Ardusso (ed.), Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti, Ca-
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DV10, l'ultimo numero del capitolo II della Dei Verbum, descrive le relazioni fra
Scrittura, Tradizione e Magistero. Lo studieremo più avanti, a proposito del ruolo del
Magistero nell'interpretazione della Bibbia (cf. pp. 209-212).
sale Monferrato 1977, 3:448-463; V. Proaño Gil, «Tradición (teología)» in Gran Enciclopedia Rialp,
Rialp, Madrid 1991, 22:661-670; G. Tanzella-Nitti, Lezioni di teologia fondamentale, Aracne, Roma
2007.
1. Cf. O. Cullmann, Heil als Geschichte: heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament, Mohr Sie-
beck, Tübingen 1965, parte quinta.
2. Questa frase aiutò un pastore protestante nel suo cammino verso la Chiesa cattolica: cf. S. Hahn -
K. Hahn, Rome Sweet Home: Our Journey to Catholicism, Ignatius Press, San Francisco 1993, 52-53
e 75.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 84
dell'ispirazione per alcuni testi dell'AT dove è presente la convinzione circa l'effica-
cia della parola in quanto proveniente da Dio. Tale efficacia si riflette nel documen-
to scritto da Dio — come sono le tavole dell'alleanza — o per ordine di Dio. Ma in
questo processo che va dalla parola profetica alla stesura del testo scritto non si
menziona né lo Spirito di Dio né una particolare azione di Dio che abiliti lo scrit-
tore a scrivere quello e solo quello che Dio intende comunicare agli uomini per la
loro salvezza1.
1. R. Fabris, «In che senso la Sacra Scrittura è testimonianza dell'ispirazione?» in A. Izquierdo (ed.),
Scrittura ispirata: atti del Simposio internazionale sull'ispirazione promosso dall'Ateneo pontificio
"Regina Apostolorum", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 41-60, 56.59. Artola ar-
riva alla conclusione: “La doctrina de la inspiración bíblica en el AT se encuentra implícita y nun-
ca se expresa la fe en el carácter sagrado de la Escritura por su procedencia inspirada”, Artola -
Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, 176. Per contrasto, in Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capi-
tolo 8, sezione 1.4, si fanno grandi sforzi per mostrare come tutti i libri dell'AT fossero considerati
in qualche modo parola di Dio nel giudaismo prima di Cristo. Ma questo tentativo entra in crisi di
fronte al gruppo degli Scritti, come si riconosce nella nota 16 (p. 181) dello stesso libro.
2. “La novedad cristiana no está tanto en la terminología empleada para designar los libros, y ni
siquiera en la amplitud del canon, sino en el nuevo significado que, a la luz de la nueva y definitiva
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 86
Gesù, da buon ebreo, prima di iniziare il suo ministero pubblico, andava ogni sa-
bato alla sinagoga di Nàzaret e lì ascoltava la lettura della Torah e dei Profeti1.
Eppure, quando comincia a predicare, Gesù manifesta una posizione profonda-
mente originale nell’interpretare le Scritture (cf. Lc 4,16-21). Ciò che desta sorpresa
nel suo auditorio è soprattutto l'autorità insolita con cui egli si presenta di fronte alla
Legge, situandosi al di sopra non solo dei rabbini dell'epoca, ma dello stesso Mosè (cf.
Mc 1,22; 10,2-8; Mt 5,21-48).
All'inizio del discorso della montagna (Mt 5-7), Gesù fa un proclama program-
matico, in cui definisce qual è il suo atteggiamento verso la Torah e i Profeti:
Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad
abolire, ma a dare pieno compimento [οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι]. In
verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota
o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto (Mt 5,17-18).
Gesù difende la perennità della rivelazione ricevuta da Israele e allo stesso tempo
lascia intendere che la Torah è imperfetta, poiché egli è venuto per compierla, nel
senso di portarla alla pienezza (πληρῶσαι, letteralmente “riempire”).
La continuazione del discorso chiarisce di quale pienezza o compimento sta par-
lando Gesù. Egli, infatti, offre un'interpretazione “piena” della Torah non solo in
quanto al contenuto, ma soprattutto perché, con audacia inaudita, si mette al di sopra
di essa:
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere
sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà
essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sotto-
posto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna (Mt
5,21-22).
revelación de Dios en Cristo, se reconoce al conjunto de los escritos ya existentes”, G. Aranda Pé-
rez, «Función de la Escritura en la Revelación divina» in C. Izquierdo (ed.), Dios en la palabra y en
la historia. XIII Simposio internacional de teología de la Universidad de Navarra, Eunsa, Pamplona
1993, 491-502, 498.
1. Sulla lettura sinagogale della Torah e dei Profeti all'epoca di Gesù, cf. L. I. Levine, La sinagoga an-
tica. 1: Lo sviluppo storico, Paideia, Brescia 2005, 157-165.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 87
La pienezza della Torah che Gesù realizza non consiste nell’esigenza di una osser-
vanza dettagliata delle norme mosaiche, ma in un approfondimento nell’insegnamen-
to della Torah e dei Profeti che va più in là rispetto a una rigida osservanza dei pre-
cetti presi alla lettera.
Soprattutto nei vangeli di Matteo e di Marco, troviamo diversi episodi nei quali
Gesù interpreta i testi in maniera autorevole e spesso nuova, con indipendenza dalle
tradizioni, specialmente nelle controversie con scribi e farisei.
Fin dal tempo del suo ministero pubblico, Gesù aveva preso una posizione perso-
nale originale, diversa dall'interpretazione ricevuta al suo tempo, che era quella «de-
gli scribi e dei farisei» (Mt 5,20). Numerose ne sono le testimonianze: le antitesi del
discorso della montagna (Mt 5,21-48), la libertà sovrana di Gesù nell'osservanza del
sabato (Mc 2,27-28 e par.), il suo modo di relativizzare i precetti di purezza rituale
(Mc 7,1-23 e par.), la sua esigenza radicale, al contrario, in altri campi (Mt 10,2-12;
10,17-27 e par.) e soprattutto il suo atteggiamento di accoglienza verso «i pubblicani
e i peccatori» (Mc 2,15-17 e par.). Non si trattava da parte sua di capriccio da conte-
statore, ma, al contrario, di fedeltà più profonda alla volontà di Dio espressa nelle
Scritture (cf. Mt 5,17; 9, 13; Mc 7,8-13 e par.; 10,5-9 e par.)1.
Gesù si presenta dunque come un rabbino che porta a pienezza la Torah e i Pro-
feti con un’interpretazione originale. Ma egli si spinge ancora più in là. Gesù procla-
ma in più occasioni, dai primi momenti del suo ministero pubblico (cf. Lc 4,21), che
nella sua vita — specialmente nella sua passione, morte e risurrezione — si adempi-
ranno le profezie delle Scritture. Cioè egli sostiene che gli oracoli profetici conservati
per iscritto e che dovevano ancora compiersi troveranno la loro realizzazione in lui.
Per esempio, Gesù fa un riferimento esplicito al compimento delle Scritture nel terzo
annuncio della sua morte e risurrezione:
«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti
riguardo al Figlio dell'uomo: verrà infatti consegnato ai pagani, verrà deriso e insul-
tato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno
risorgerà» (Lc 18,31-33; cf. Mt 20,18-19; Mc 10,33-34).
Quando si avvicina l'ora della passione, Gesù diventa più insistente. Secondo
Luca, le ultime parole di Gesù prima di uscire dal cenacolo si riferiscono proprio al
compimento delle Scritture nella sua passione, identificandosi con la misteriosa figu-
ra del Servo del Signore descritta da Isaia:
Arrivati all'orto, davanti a coloro che stanno per prenderlo, Gesù spiega che tutto
è previsto nel piano di Dio manifestato nelle Scritture:
In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Come se fossi un ladro siete venuti
a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare, e non
mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei
profeti». Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono (Mt 26,55-56; cf. Mc
14,48-49).
La citazione proviene da Sal 118,22-23. Peraltro è chiaro dal contesto che la pietra
scartata è Gesù stesso, che sta annunciando la propria morte3.
1. Matteo e Marco riportano un detto simile di Gesù mentre cammina insieme ai discepoli verso il
monte degli Ulivi (cf. Mt 26,31-32; Mc 14,27; citazione di Za 13,7).
2. Nell'ultima citazione, dove Mt 26,56 dice “le Scritture dei profeti”, Mc 14,49 riporta semplicemente
“le Scritture”. Nell’episodio della cattura, Mt 26,53-54 trasmette un'affermazione di Gesù dove parla
delle Scritture in genere.
3. In ebraico, c’è un gioco di parole. Gesù parla del figlio (in ebraico בּן,ֵ bēn), ucciso dai vignaioli, e
ֶ ’eben) scartata dagli architetti.
poi della pietra (א ֶבן,
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 89
In Gv 5,39 Gesù esorta i giudei a scrutare le Scritture, perché “sono proprio esse
che danno testimonianza di me”.
Per Gesù, dunque, le Scritture in genere — senza ulteriori specificazioni — offro-
no una profezia della sua missione.
Dopo la risurrezione, Gesù insiste nel compimento delle Scritture in lui come
requisito per comprendere tutto quanto è successo. I discepoli di Emmaus non solo
vengono rimproverati per la loro mancanza di fede, ma ricevono anche una lezione di
esegesi che copre l'intera Bibbia:
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti!
Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».
E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si
riferiva a lui (Lc 24,25-27).
Questo brano fa vedere come “tutte le Scritture” (Lc 24,27) equivalgono a “la
Legge di Mosè, i Profeti e i Salmi” (Lc 24,44), il che corrisponderebbe alla divisione in
tre gruppi della BH (testimoniata dal prologo del Siracide) nel caso in cui si prendano
i Salmi come equivalenti a “gli altri scritti”: vi torneremo a proposito del canone.
L'importante è che Gesù non pone dei limiti, non dice che solo una parte degli scritti
d'Israele si adempie in lui, ma tutti, senza distinzioni. Poi, la Chiesa ha dovuto deter-
minare quali sono i limiti precisi di “tutte le Scritture”, cioè ha dovuto definire il
canone.
In sintesi, a partire dalle parole di Gesù che raccolgono i quattro vangeli, si può
dire che:
a) Gesù considera le Scritture come unitarie soprattutto in quanto profezia, e lo
fa probabilmente pensando ai libri interi, non solo agli oracoli.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 90
Così come viene descritta nei vangeli, l'identità di Gesù presuppone la conoscen-
za e l'accettazione delle Scritture d'Israele. Egli è il Figlio di Dio, non di qualsiasi divi-
nità, ma del Dio rivelatosi a Israele; egli è il Cristo, cioè il Messia, il Re di Israele. In
lui trovano compimento le promesse fatte ai patriarchi e la salvezza annunciata dai
profeti.
1. “Ce que «accomplit» le récit, c'est son dénouement et nous rejoindrons une expression courante
en disant que l'acte de Jésus Christ accomplit les «figures» de l'Ancien Testament. Ce faisant, il
«dénoue» le récit de l'Ancien Testament en même temps que le récit de sa propre vie”, P. Beau-
champ, L'un et l'autre testament. II, Accomplir les Écritures, Seuil, Paris 1990, 220.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 91
2) Marco parla esplicitamente del compimento delle Scritture in Gesù una volta
sola, ma in un momento molto significativo, l'inizio della Passione (cf. Mc
14,49).
3) Di Luca abbiamo già citato i testi più significativi, che sono il terzo annuncio
della passione (Lc 18,31-33) e quelli della catechesi di Gesù risorto (Lc 24).
4) Nel vangelo di Giovanni troviamo l'idea del compimento delle Scritture
espressa in maniera simile a Matteo. Ma Giovanni aggiunge che i discepoli,
mentre Gesù era in mezzo a loro, spesso non hanno capito i gesti e le parole
del Maestro. Però, dopo la risurrezione, riconoscono chi era Gesù e lo com-
prendono alla luce delle Scritture. Ad esempio, quando Gesù parla di distrug-
gere il tempio riferendosi al proprio corpo, l'evangelista commenta:
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto
questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù (Gv 2,22).
anche molto difficile1. Ma non è così che hanno ragionato i primi cristiani. La predi-
cazione apostolica intendeva annunciare la buona novella della venuta del Messia, più
che dimostrare razionalmente che Gesù deve essere il Messia.
Come abbiamo appena visto, Gesù e poi gli autori del NT parlano delle “Scrit-
ture” riferendosi agli scritti ricevuti dalla tradizione d'Israele, senza speciali distinzio-
ni o specificazioni.
Tuttavia, in un processo quasi inavvertito, le Scritture acquistano fra i cristiani
uno status nuovo, più sublime rispetto alla venerazione che i diversi gruppi giudaici
nutrivano verso i loro scritti sacri2.
Per descrivere la natura di questo cambiamento, alcuni hanno usato un'espres-
sione felice: con Cristo è avvenuta una trasformazione o mutazione delle Scritture
(mutatio scripturarum)3. Per esempio, così si esprime Origene nel suo commento al
vangelo di Giovanni:
La Parola di Dio, che era in principio presso Dio, non è, nella sua pienezza, una
molteplicità di parole; essa non è molte parole, ma una sola Parola che abbraccia un
gran numero di idee di cui ciascuna idea è una parte della Parola nella sua totalità
(…). E se il Cristo ci rimanda alle ‘Scritture’, come quelle che gli rendono testimo-
nianza, considera i libri della Scrittura un unico rotolo, perché tutto ciò che è stato
scritto di lui è ricapitolato in un solo tutto4.
Nel dire che tutte le Scritture parlano di Gesù e si compiono in lui, gli autori del
NT conferiscono ad esse, oltre all'unità, un valore più profondo di quello di cui gode-
1. Sulla profezia come argomento di credibilità, cf. R. Fisichella, «Profezia» in R. Latourelle - R. Fisi-
chella (eds.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 866-878, specialmente
866-868; C. Izquierdo, Teología Fundamental, Eunsa, Pamplona 32009, 381-384.
2. Cf. Farkasfalvy, Inspiration & Interpretation, 21-23.
3. Cf. P. Grelot, Sens chrétien de l'Ancien Testament: esquisse d'un traité dogmatique, Desclée, Tournai
2
1962, 403.
4. In Ioannem V, 5-6 (SC 120, 380-384), testo citato nel n.9 dei Lineamenta del Sinodo sulla Parola di
Dio. Nel n. 18 della Verbum Domini appare il riferimento al testo, ma senza citarlo.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 94
vano prima di Cristo. “Gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono che le Scritture
del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina”, dice la PCB1.
Ma si tratta di un valore — possiamo aggiungere noi — che prima non era attribuito
alle Scritture in genere, ma solo alla Torah e in parte ai libri profetici (cf. l'Excursus 3,
pp. 266-285).
Infatti, se nel NT l'intero AT viene considerato come rivelazione di Dio, ciò è do-
vuto al fatto che previamente Gesù aveva dichiarato che tutte le Scritture parlano di
lui. Oltre ai testi già citati, possiamo ricordare le parole di Gesù in Gv 5:
Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè,
nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a
me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete cre-
dere alle mie parole? (Gv 5,45-47).
Per credere a Gesù, prima bisogna credere a Mosè, cioè credere in ciò che ha
scritto: la Torah2.
Ma credere davvero a Mosè vuol dire riconoscere che egli ha scritto di Gesù.
Gesù invoca l'autorità di Mosè, ma l'autorità di Mosè alla fine si appoggia su quella di
Gesù, grazie al quale sappiamo che Mosè ha scritto profeticamente, e allora acquista
un valore nuovo: Mosè non solo ha trasmesso la Torah di Dio, ma ha annunciato
anche i giorni del Messia. Così, Mosè appare non solo come il legislatore d'Israele, ma
soprattutto come profeta del Messia. Certamente Mosè era già considerato profeta
(cf. Dt 18,15-18; 34,10), ma Gesù sottolinea questa caratteristica al di sopra di quella di
legislatore, che lo rendeva una figura unica. Invece, come profeta di Cristo, Mosè non
si trova più al centro della rivelazione, ma fa parte di una linea che continua con gli
altri profeti fino a Giovanni Battista.
La mutatio scripturarum infatti risulta specialmente chiara nel caso del Pentateu-
co, che dai cristiani comincia ad essere considerato più come profezia che come legge.
Gesù dice: “tutti i Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni” (Mt
11,13). Non vale più lo schema circolare della Tanak, ma adesso si impone quello li-
neare (cf. p. 37). Anche san Paolo arriva a una valutazione simile del Pentateuco:
1. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24
maggio 2001), n. 8.
2. Un insegnamento simile, espresso in modo più drammatico, lo troviamo nella conclusione della
parabola del povero Lazaro, nel dialogo fra Abramo e l'uomo ricco: “Abramo rispose: «Hanno
Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno an-
drà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno
persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»” (Lc 16,29-31).
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La categoria più audace con cui è stato espresso il nuovo valore delle Scritture
giudaiche è l'applicazione ad esse del concetto di “parola di Dio”, già sviluppato
nell'AT, ma non in riferimento ai testi. Per gli antichi ebrei, i libri come tali non erano
ritenuti parola del Signore, benché alcuni la contenessero, specialmente la Torah. Ciò
che ha dato origine alla loro valutazione come parola ispirata da Dio e in definitiva
come parola dello stesso Dio è la convinzione che le Scritture nel loro insieme sono
profezia, perché annunciano il mistero di Cristo.
In questo processo di sacralizzazione del testo, un ruolo fondamentale corri-
sponde alla sua assimilazione all'autorità delle parole di Gesù. Le parole pronunciate
da Gesù sono divine, la sua predicazione è parola di Dio (cf. Lc 5,1), perché egli è la
Parola fattasi carne.
In secondo luogo, anche il Vangelo, la predicazione apostolica, viene considerata
“parola di Dio” (cf. At 4,13; 6,2.7; 1 Ts 2,13; 1 Pt 1,23-25) o “parola del Signore” (cf. At
8,25; 13,44; 15,35-36; 2 Ts 3,1), e questo per due motivi: innanzitutto perché il suo
contenuto non è altro che Cristo, ma poi anche perché l'autorità di Cristo è vera-
mente presente nei suoi inviati2.
Per illustrare questo processo, possiamo ricordare le parole della 1 Pietro, citate
parzialmente all'inizio di questa prima parte:
Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla
vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo,
agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fonda-
zione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua
credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la
vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio. Dopo aver purificato le vostre
anime con l'obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi
intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, rigenerati non da un seme corruttibile
ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché “ogni carne è
come l'erba e tutta la sua gloria come un fiore di campo. L'erba inaridisce, i fiori ca-
dono, ma la parola del Signore rimane in eterno” (Is 40,6-8). E questa è la parola del
Vangelo che vi è stato annunciato (1 Pt 1,18-25).
Artola dimostra quest'affermazione a partire dal modo in cui gli autori del NT ci-
tano le Scritture. A volte, è citato un testo come “Parola di Dio” (cf. Gv 10,35) o viene
introdotto così: “dice lo Spirito Santo” (cf. Eb 3,7). E non si citano così unicamente
oracoli o precetti legali, ma anche salmi o passaggi redazionali, soprattutto in Ebrei
(cf. 1,5-13; 3,7-11, ecc.; ma si veda pure At 4,25). Artola conclude:
Per il N.T. la Scrittura dell'A.T. è nell'insieme parola di Dio in modo globale, ma
effettivo. L'atto empirico della trascrizione, della sua totalizzazione grazie al concet-
to di Scrittura e del suo impiego liturgico e kerygmatico spinse, quindi, il cristiane-
simo nascente a considerare in modo complessivo tutto l'A.T. come parola di Dio2.
1. A. M. Artola - J. M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 42. Cf. anche Basta
- Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 75-77.
2. Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 43.
3. Traduzione mia. “Es desde la fe en Jesucristo como revelación definitiva de Dios, desde donde la
generación apostólica percibe la función de la «Escritura» y, consecuentemente, su carácter de in-
spirada por Dios como tal conjunto de libros (…). Se descubre una función nueva a toda la
«Escritura»: mostrar el designio de Dios que se ha cumplido en la muerte y resurrección de Cristo.
Mediación por tanto de la revelación divina no son ya únicamente los textos legales o los oráculos
proféticos, sino los libros como tales con todo su contenido”, Aranda Pérez, «Función de la Escri-
tura en la Revelación divina», 499.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 98
L'ultimo passo in questo processo sarà il più semplice: gli scritti che raccontano
la vita di Gesù e le lettere e altri scritti che contengono la predicazione degli apostoli
cominceranno ad assimilarsi alle Scritture dell'AT. Della nascita del NT come sacra
Scrittura parleremo più avanti, nella spiegazione della formazione del canone (cf. pp.
139-154).
Prima di concludere questa sezione, rimane ancora un punto da chiarire. Se i te-
sti biblici sono stati ispirati dallo Spirito Santo nel momento della loro composizione,
come mai possiamo dire che l'AT non era considerato parola di Dio nel suo insieme
prima di Cristo? Possono i testi acquistare un valore di rivelazione dopo la loro
composizione?
Per rispondere, conviene riprendere lo schema fondamentale della
comunicazione:
mittente → messaggio → ricevente o destinatario
Finché il messaggio non è ricevuto dal destinatario, non si produce la comunica-
zione. Nel caso delle Scritture d'Israele, esse includevano diversi elementi: oracoli,
precetti, racconti, preghiere, ecc. Prima della venuta di Cristo, buona parte di questi
testi non erano visti come parola di Dio al suo popolo. L'ispirazione era senz'altro
presente, ma, per così dire, non del tutto operativa. La pienezza della rivelazione av-
venuta in Cristo ha aperto il senso profetico di tutte le Scritture e allora Dio ha potuto
stabilire una comunicazione tramite tutti quei testi.
Se si ha una comprensione troppo “ontologica” della parola di Dio, come se essa
fosse una cosa completamente oggettiva, cioè indipendente dalla sua ricezione, può
risultare sconcertante dire che alcuni testi siano diventati parola di Dio.
Possiamo trovare un certo sostegno per quest’affermazione in un testo — un po’
enigmatico — della 2 Corinzi. San Paolo sostiene che gli ebrei che non conoscono o
non accettano Cristo leggono la Torah come se fossero coperti da un velo:
Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come
Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d'Israele non vedessero la fine
di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi
quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l'Antico Testamento, per-
ché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un
velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà
tolto. Il Signore è lo Spirito e, dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. E noi tutti, a
viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo tras-
formati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello
Spirito del Signore (2 Cor 3,12-18).
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 99
1. Cf. per esempio Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 9, sezione 3; Tábet, Introduzione generale
alla Bibbia, B, capitolo I,3b). Per un commento più esteso, cf. R. Fabris, «Lo Spirito Santo e le Scrit-
ture in 2Tm e 2Pt», Ricerche storico bibliche 12 (2000) 297-319.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 100
Pietro allude alla manifestazione della gloria di Cristo nella trasfigurazione (cf.
vv. 17-18), come argomento in favore della speranza nella sua venuta gloriosa. Subito
dopo propone la parola dei profeti come secondo motivo che rafforza la speranza nel
giorno del Signore:
E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti [τὸν προφητικὸν λόγον], alla
quale fate bene a volgere l'attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro,
finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino (2 Pt
1,19).
Finché non arriva la piena luce del sole — cioè il Signore glorioso —, ci si deve
orientare con la lampada di questa parola. Di quale parola e di quali profeti si tratta?
Della predicazione orale dei profeti o dei loro scritti? Lo si chiarisce subito:
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 101
Dio, sia in senso passivo, la Scrittura è stata ispirata da Dio. Gli esegeti concordano
nel dire che in questo caso la parola va capita in senso passivo1.
Il testo non menziona lo Spirito Santo, né spiega cosa si intende per “ispirata”. Ma
mette questa caratteristica delle Scritture in rapporto con la loro utilità. Esse non ser-
vono a produrre la salvezza, che viene dalla fede in Gesù, ma hanno la capacità di
dare la saggezza che porta a questa salvezza. E servono anche per insegnare, convin-
cere, eccetera. Senza le Scritture, l'uomo di Dio non è completo. Questo valore delle
sacre lettere deriva dal loro carattere ispirato, dal “soffio divino” — cioè lo Spirito
Santo — presente in esse.
*
Conviene chiarire che, sebbene gli autori in questi brani parlino dell'ispirazione
dei profeti o delle scritture come se fosse una dottrina tradizionale, in realtà si tratta
di un concetto nuovo nel mondo giudaico sotto alcuni aspetti.
Per quanto sappiamo, né l'AT, né il giudaismo palestinese dell'epoca di Gesù ave-
vano riflettuto sullo status dei libri sacri. Solo in ambito ellenistico si arriva ad abboz-
zare una spiegazione teoretica con Filone d'Alessandria, soprattutto in riferimento
alla composizione, traduzione e interpretazione della Torah2.
Ma le descrizioni di Filone, benché contengano degli elementi che i Padri della
Chiesa utilizzeranno, sono diverse dal concetto cristiano di ispirazione, che nasce so-
prattutto per giustificare il riferimento a Cristo dei testi anteriori a lui e che poi si
estenderà per analogia anche ai libri del NT.
1. Minore consenso esiste per un altro problema: se l'aggettivo in questo caso funga da attributo,
come fa intendere la versione CEI citata sopra, oppure da predicato: “tutta la Scrittura è ispirata da
Dio ed è anche utile (…)”. Lo stesso avviene riguardo al valore dell'aggettivo πᾶσα, che può tra-
dursi come “tutta la Scrittura” oppure “ogni Scrittura”. Tali differenze, pur essendo significative,
non hanno conseguenze decisive sull'interpretazione del brano. Per queste discussioni, cf. C. Mar-
cheselli Casale, Le lettere pastorali: le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, EDB, Bologna 1995,
775-777.
2. Cf. H. Burkhardt, Die Inspiration heiliger Schriften bei Philo von Alexandrien, Brunnen, Giessen
1988; D. Winston, «Two Types of Mosaic Prophecy according to Philo», Journal for the Study of the
Pseudepigrapha 4 (1989) 49-67; C. Termini, «Spirito e Scrittura in Filone di Alessandria», Ricerche
storico bibliche 12 (2000) 157-187. Per un paragone fra Filone e 2 Tim, cf. F. Siegert, «Die Inspira-
tion der Heiligen Schriften: Ein philonisches Votum zu 2Tim 3,16» in R. Deines - K.-W. Niebuhr
(eds.), Philo und das Neue Testament: Wechselseitige Wahrnehmungen; I. Internationales Sympo-
sium zum Corpus Judaeo-Hellenisticum 1.-4 Mai 2003, Eisenach/Jena, Mohr Siebeck, Tübingen
2004, 205-222; J. Herzer, «„Von Gottes Geist durchweht“: Die Inspiration der Schrift nach 2Tim
3,16 und bei Philo von Alexandrien» in R. Deines - K.-W. Niebuhr (eds.), Philo und das Neue Te-
stament: Wechselseitige Wahrnehmungen; I. Internationales Symposium zum Corpus Judaeo-Helle-
nisticum 1.-4 Mai 2003, Eisenach/Jena, Mohr Siebeck, Tübingen 2004, 223-240.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 103
Qualcosa di simile si deve dire circa la nozione di Dio come “autore” della sacra
Scrittura — che apparirà nel II secolo, nella polemica di sant'Ireneo contro lo gnosti-
cismo e più tardi contro le diverse forme di dualismo manicheo —. Scopo fondamen-
tale di quest'idea era difendere l'unità fra AT e NT, che lo gnosticismo voleva rom-
pere, attribuendo l'AT a un dio diverso dal Padre di Gesù. Più tardi diventerà un
complemento dell'idea di ispirazione: Dio è l'autore principale della Bibbia, mentre
gli agiografi ne sono gli autori strumentali (spiegheremo questi concetti nelle pp. 235-
241).
Seguendo i primi due capitoli della Dei Verbum, abbiamo visto il posto che occu-
pa la Scrittura nell'economia della rivelazione e della sua trasmissione. Poi abbiamo
completato la presentazione della Dei Verbum guardando a ciò che hanno detto Gesù
e gli apostoli riguardo alle Scritture. Adesso ci conviene tornare alla Dei Verbum cer-
cando dove si menziona l’ispirazione.
Il primo capitolo della Dei Verbum descrive la rivelazione divina in se stessa,
come manifestazione di Dio tramite opere e parole che si intrecciano in una storia, la
storia della salvezza. Questa storia arriva al suo culmine con Gesù Cristo. In questo
capitolo (DV2-6), non si trova alcun riferimento né ai libri sacri né pertanto alla loro
ispirazione.
È opportuno chiedersi se non si dovrebbe parlare di ispirazione nella descrizione
della rivelazione storica. Infatti, nel Credo diciamo che lo Spirito Santo “ha parlato
per mezzo dei profeti” e dunque potremmo dire che di conseguenza li ha ispirati.
Certamente, sarebbe lecito parlare dell'azione dello Spirito su tutti mediatori della ri-
velazione in termini di “ispirazione”. Ma non si deve identificare tale intervento so-
prannaturale con l'ispirazione dei libri, benché si tratti di due realtà connesse. Per
motivi di chiarezza, conviene riservare il termine «ispirazione» al carisma vincolato
ai libri biblici. Così ha fatto la teologia e così fa la Dei Verbum, anche se, come vedre-
mo, uno dei pregi di questo documento consiste proprio nel non isolare l'ispirazione
dei libri, ma presentarla in rapporto con la rivelazione e la sua trasmissione: l'ispira-
zione è subordinata alla rivelazione1.
1. Per questo motivo, da un punto di vista teologico non ha senso parlare di ispirazione a proposito
dei libri sacri di altre religioni. Cf. Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le reli-
gioni, 1997, n.92; B. Forte, «La Parola di Dio nella Sacra Scrittura e nei libri sacri delle altre religio-
ni» in L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione
per la Dottrina della Fede. Roma, settembre 1999, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, 106-120.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 104
Il secondo capitolo della Dei Verbum (DV7-10) espone la trasmissione della rive-
lazione. In DV 7 si menziona la redazione di libri come uno dei mezzi utilizzati dagli
apostoli per diffondere il vangelo. E si parla subito dell’ispirazione: si dice infatti che
alcuni apostoli e uomini vicini a loro “per ispirazione [sub inspiratione] dello Spirito
Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza”. Si riconosce dunque l'esistenza
dell'ispirazione nel momento della composizione dei libri (in questo contesto, quelli
del NT) e la si attribuisce allo Spirito. Entrambe sono affermazioni tradizionali, ma
una certa novità procede dalla struttura di Dei Verbum: l'ispirazione, come la Scrittu-
ra, appare dentro la trasmissione della rivelazione, e non dentro la rivelazione in se
stessa1.
All'inizio del n.8 appare una seconda menzione dell'ispirazione. Parlando della
predicazione apostolica, la Dei Verbum dice che questa si trova “espressa in modo
speciale nei libri ispirati [in inspiratis libris]”. L'ispirazione non si limita dunque al
momento della composizione dei libri, ma costituisce una caratteristica inerente ai li-
bri stessi, che rimane in loro. Questa è ancora un'affermazione tradizionale.
Al n.9 si trova una terza menzione dell'ispirazione, più importante delle due pre-
cedenti. Si afferma — per la prima volta nella Dei Verbum — che le Sacre Scritture
sono parola di Dio e qui appare la funzione o l'effetto dell'ispirazione:
La sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispira-
zione dello Spirito divino. [Sacra Scriptura est locutio Dei quatenus divino afflante
Spiritu scripto consignatur].
Dobbiamo ricordare che, come si vede già nel titolo del documento — “Costitu-
zione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum” — si può stabilire una equiva-
lenza fra “parola di Dio” e “divina rivelazione”. Dunque, possiamo sostituire i termini
nella frase appena citata:
La sacra Scrittura è la rivelazione divina in quanto consegnata per iscritto per ispi-
razione dello Spirito divino.
Grazie all'ispirazione, la Scrittura non è solo una testimonianza scritta della pre-
dicazione apostolica o della rivelazione a Israele, cioè non sono semplicemente libri
che trasmettono la rivelazione, ma è un testo del quale possiamo dire che è parola di-
vina, fino al punto che, come dice DV8, “Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa
di parlare con la sposa del suo Figlio diletto”.
1. Come abbiamo visto, DV7 omette un riferimento alla trasmissione della rivelazione prima di Cri-
sto, dove non è possibile distinguere fra la rivelazione e la sua trasmissione.
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 105
La rivelazione in quanto storia non è più presente. Per poter essere trasmessa ha
preso diverse forme: predicazione orale (il “Vangelo” come buona novella), sacra-
menti, esempi di vita e anche discorso scritto, il quale, in virtù di un'azione speciale
dello Spirito Santo, può considerarsi anch'esso rivelazione, pur essendo diverso dalla
rivelazione storica in opere e parole che culmina in Cristo.
Nel terzo capitolo, la Dei Verbum dedica un numero completo a spiegare in che
consiste l'ispirazione (DV11), del quale parleremo più avanti (pp. 235-241). Tuttavia,
gli elementi più importanti per definire l'ispirazione appaiono nel capitolo 2, soprat-
tutto in DV9, come abbiamo appena sottolineato. Infatti, più avanti, nel n.24, la Dei
Verbum insiste sul rapporto fra l'ispirazione della Bibbia e il suo carattere di parola di
Dio, con una formulazione assai chiara:
Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente
parola di Dio. [Sacrae autem Scripturae verbum Dei continent et, quia inspiratae,
vere verbum Dei sunt].
La Dei Verbum presenta così l'ispirazione in rapporto sia con la rivelazione che
con la sua trasmissione: l'ispirazione fa sì che i libri sacri trasmettano la rivelazione
essendo essi stessi rivelazione, parola di Dio. Come spiega il cardinale Scheffczyk:
La dottrina dell'ispirazione intende stabilire che la Bibbia, anche con la collabora-
zione dell'autore umano, è e rimane parola di Dio, nonostante sia stata espressa in
parole umane e contenuta nella parola della Chiesa1.
L'ispirazione appartiene alla trasmissione della rivelazione, più che al suo dive-
nire storico almeno nel caso del NT, dove si può fare questa distinzione. Ma questo
carisma dello Spirito fa sì che la trasmissione conservi, per così dire, la stessa forza e
normatività che la rivelazione originaria:
La novità dell'affermazione conciliare consiste nel suggerire che l'ispirazione non va
intesa come un'azione di Dio volta a fare della Scrittura un avvenimento nuovo di
rivelazione — com'è nuovo l'intervento del profeta ispirato oppure dell'apostolo
quando propongono la parola di Dio —, ma che comunque bisogna capire la Scrit-
tura come rivelazione2.
1. “La doctrina de la inspiración pretende dejar sentado que la Biblia, también con la colaboración
del autor humano, es, y puede seguir siendo, palabra de Dios, a pesar de que ésta ha sido recogida
en palabras humanas y en la palabra de la Iglesia”, Scheffczyk, «La Sagrada Escritura, palabra de
Dios y de la Iglesia», 163 (p. 37 nella versione in inglese).
2. Traduzione mia. “La novedad de la afirmación conciliar es que sugiere que la inspiración no debe
entenderse como una acción de Dios dirigida a hacer de la Escritura un acontecimiento novedoso
de la revelación —como es novedosa la intervención del profeta inspirado o del apóstol al propo-
PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ 106
In sintesi, nella Dei Verbum la Scrittura appare in primo luogo come testimo-
nianza e trasmissione della rivelazione più che come avvenimento di rivelazione. Ma,
in virtù dell'ispirazione, la Scrittura è rivelazione di Dio. Così, la Dei Verbum riesce a
mettere in salvo due affermazioni fondamentali: da una parte, la rivelazione cristiana
non si può identificare con la Bibbia, in quanto storica e personale; dall'altra, la Bib-
bia è veramente parola di Dio, che parla oggi al suo popolo, la Chiesa, tramite i testi
sacri.
La Bibbia ha da una parte una relazione immediata con la parola profetica ed apo-
stolica d’Israele e della chiesa primitiva, e dall’altra con Cristo e con il Padre, me-
diante lo Spirito che la ispira. Ed è per questo che la parola della Bibbia rappresenta
un momento privilegiato della rivelazione. Se essa fosse soltanto una trascrizione
storica degli oracoli profetici avrebbe valore come libro delle origini, come docu-
mento della fede delle antiche generazioni, senza contenere necessariamente e
sempre una parola normativa per le generazioni future. Invece la relazione che ha
con il Verbo per mezzo dello Spirito fa di questa parola una forza viva e permanente
di manifestazione di Dio per tutti i tempi1.
ner la palabra de Dios—, pero sí debe entenderse la Escritura como revelación”, V. Balaguer, «La
'economía' de la Sagrada Escritura en Dei Verbum», Scripta Theologica 38 (2006) 893-939, 897.
1. C. M. Martini, «Parola di Dio e parola umana. Il problema dell’ispirazione e della verità biblica in
prospettiva pastorale» in G. Zevini (ed.), Incontro con la Bibbia: Leggere, pregare, annunciare, LAS,
Roma 1978, 41-53, 46.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 107
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ
11.1. Introduzione
1. Cf. E. L. Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change: Communications and Cultural Trans-
formations in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge 1979; A. Grafton - E.
L. Eisenstein - A. Johns, «AHR Forum: How Revolutionary Was the Print Revolution», American
Historical Review 107 (2002) 84-128; H.-J. Martin, Storia e potere della scrittura, Laterza, Bari 2009,
specialmente Capitolo 5.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 109
1. “Autografo”, in questo ambito, indica il manoscritto originale di un'opera, il testo scritto dall'autore
stesso e consegnato da lui per la pubblicazione.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 110
breve rispetto del testo ebraico che abbiamo, il che si può spiegare se il traduttore si è
basato su un testo ebraico più antico, che in seguito ha ricevuto delle aggiunte.
Un caso ancora più complicato è quello del libro del Siracide. Abbiamo il testo
completo in greco, ma i manoscritti greci presentano importanti differenze e fanno
pensare all'esistenza di due versioni greche del libro, una lunga e una breve. Quando
poi si prendono in considerazione i frammenti ebraici del libro, scoperti in tempi re-
centi, anch'essi presentano due forme diverse. Qual è dunque il testo originale del Si-
racide? Il testo scritto dal primo autore o il risultato finale? La domanda presenta
anche un interesse teologico: qual’è il testo ispirato? Ne parleremo più avanti (cf. pp.
124-125).
Le differenze nel testo fra le copie di uno stesso libro, le varianti testuali, possono
avere diverse cause. Secondo il tipo di causa, possiamo dividere le varianti in due
grandi gruppi: errori involontari e cambiamenti voluti.
esatta del testo ebraico (che fra l'altro è un bell’esempio della fedeltà a volte estrema
con cui san Girolamo ha cercato di tradurre). Dice infatti:
Saul aveva un anno quando cominciò a regnare. [Filius unius anni Saul, cum re-
gnare coepisset]
È così evidente che si tratta di un errore, che molte versioni moderne hanno ten-
tato di correggere il testo. Ecco alcuni esempi di emendamento, in ordine
cronologico:
Luther Bibel (1545): Saul war ein Jahr König gewesen.
KJV (1611): Saul reigned one year.
American Standard Version (1901): Saul was forty years old when he began to reign.
CEI (1974): Saul aveva trent'anni quando cominciò a regnare.
Nova Vulgata (1979): Filius annorum Saul, cum regnare coepisset.
CEI (2008): Saul era nel pieno degli anni quando cominciò a regnare.
Altri traduttori hanno preferito non emendare il testo, ma segnalare che manca
una parola:
RSV (1952) e NRSV (1989): Saul was … years old when he began to reign. [Molto si-
mile in The New American Bible (2002)].
Bible de Jérusalem (1973): Saül était âgé de … ans lorsqu'il devint roi.
Einheitsübersetzung (1980): Saul war … Jahre alt, als er König wurde.
TOB (1988): Saül avait … ans lorsqu'il devint roi.
El libro del Pueblo de Dios (1990) Saúl tenía … años cuando comenzó a reinar.
Ne costituì Dodici — che chiamò apostoli —, perché stessero con lui e per mandarli
a predicare
1. Finora — febbraio 2018 — sono apparsi i seguenti volumi (in ordine secondo la data di pubblica-
zione): BHQ 18. General Introduction and Megilloth (gen. ed. A. Schenker, 2004); D. Marcus, BHQ
20. Ezra and Nehemiah (2006); C. McCarthy, BHQ 5. Deuteronomy (2007); J. de Waard, BHQ 17.
Proverbs (2007); A. Gelston, BHQ 13. The Twelve Prophets (2010); N. Fernández Marcos - D. Mar-
cus, BHQ 7. Judges (2011); A. Tal, BHQ 1. Genesis (2016). Cf. www.academic-bible.com.
2. Nei secoli XVI e XVII, c'è stato un dibattito molto vivace sul valore delle vocali nel testo ebraico.
Per alcuni, erano di origine divina; per altri invece erano state aggiunte dopo la composizione dei
libri. Oggi siamo certi che la seconda era la risposta giusta. Cf. R. A. Muller, «The Debate over the
Vowel Points and the Crisis in Orthodox Hermeneutics», Journal of Medieval and Renaissance Stu-
dies 10 (1980) 53-72.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 114
1. Per saperne di più, cf. M. Segal, «The Hebrew University Bible Project», HeBai 2 (2013) 38-62.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 116
un’edizione nuova, ma che hanno operato una selezione di manoscritti del testo
ebraico, fra i diversi che esistevano, dalla quale dipendono tutte le copie posteriori1.
Questa ipotesi si poggia sul fatto che i manoscritti della BH anteriori al 70 d.C.
presentano importanti varianti testuali fra loro. Infatti, fra i testi ebraici trovati a
Qumran, sebbene molti abbiano un testo simile al TM, altri presentano testi più vici-
ni alla versione dei Settanta o ad altri testi antichi, come il Pentateuco Samaritano. In-
vece, i manoscritti trovati a Wadi Muraba‘at e Nahal Hever, che sono tutti posteriori
all'anno 70, presentano un tipo di testo quasi identico a quello del futuro TM2.
Altri autori parlano più genericamente di una fissazione del testo nel primo seco-
lo, cioè, non necessariamente dopo il 703.
I manoscritti della BH più antichi che si conservano sono stati trovati a Qumran
e risalgono ai secoli II-I a.C. Prima di Qumran e delle altre scoperte del XX secolo, i
manoscritti più antichi della BH che si conoscevano erano tutti medievali. Grazie
dunque ai manoscritti del Mar Morto, si è potuto andare indietro di un millennio!
Le conseguenze per la critica testuale dell'analisi di questi manoscritti possono
essere sintetizzate in due punti:
1) da una parte, molti testi biblici di Qumran sono praticamente identici al testo
consonantico del TM, il che ha confermato la fedeltà con cui questo testo è
stato trasmesso dai rabbini per dieci secoli;
2) dall'altra, come abbiamo detto, altri testi biblici ebraici presenti a Qumran
hanno permesso di conoscere che prima del 70 esistevano diverse “famiglie”
testuali. Questa scoperta ha portato, fra altre cose, ad una rivalorizzazione del-
la versione greca dei LXX.
Sulla trasmissione del testo della BH prima di Cristo, non sappiamo praticamente
nulla. Come informazione piuttosto aneddotica, si può segnalare che in una tomba a
Ketef Hinnom (Gerusalemme) sono stati trovati due rotoli d'argento, risalenti al VII
o VI secolo a.C. con delle iscrizioni. In entrambi si legge la cosiddetta “benedizione
1. Cf. F. M. Cross, From Epic to Canon: History and Literature in Ancient Israel, John Hopkins Uni-
versity Press, Baltimore 1998, 213 e 216; Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 304.
2. Durante la seconda guerra contro Roma (132-135 d.C.), il capo della rivolta, Bar Kokhba, si è rifu-
giato con i suoi uomini in alcune grotte vicine al Mar Morto (Nahal Hever e Wadi Muraba‘at). Ne-
gli anni 60 del XX secolo vi si scoprirono alcuni manoscritti, contenenti lettere dello stesso Bar
Kokhba, testi biblici e altri documenti. Per saperne di più, cf. C. Martone, Lettere di Bar Kokhba,
Paideia, Brescia 2012.
3. Cf. I. Young, «The Stabilization of the Biblical Text in the Light of Qumran and Masada: A Chal-
lenge for Conventional Qumran Chronology?», Dead Sea Discoveries 9 (2002) 364-390; E. Tov,
Textual Criticism of the Hebrew Bible, Fortress, Minneapolis 32012, 174-180 (“The Myth of the Sta-
bilization of the Text of Hebrew Scriptures”).
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 117
In seguito alcuni Padri della Chiesa hanno ripetuto questa storia, arricchendola
ulteriormente con interventi soprannaturali. Per questo motivo, o per altri, molti cri-
stiani ritenevano — anche in tempi recenti — che la traduzione greca dell'AT fosse
stata davvero ispirata da Dio. Ma questo argomento ci porterebbe molto lontano dal
tema che ci occupa3.
Ora dobbiamo menzionare i principali manoscritti che contengono i libri dell'AT
in greco.
1. Sull'origine della versione dei Settanta, cf. N. Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta: introdu-
zione alle versioni greche della Bibbia, Paideia, Brescia 2000, capitolo 3. Per un'analisi letteraria e
storica della Lettera di Aristea, cf. S. Honigman, The Septuagint and Homeric Scholarship in
Alexandria: A Study in the Narrative of the Letter of Aristeas, Routledge, London 2003.
2. Vita Mosis II, 37, traduzione presa da Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta, 60-61.
3. Per approfondire, cf. J. M. Dines, The Septuagint, T&T Clark, London 2004; A. Wasserstein - D. J.
Wasserstein, The Legend of the Septuagint: From Classical Antiquity to Today, Cambridge Universi-
ty Press, New York 2006.
4. Prima di questa data, alcuni ebrei avevano tentato di fare traduzioni greche più “fedeli” al testo
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 119
ebraico: la più famosa è quella di Aquila. Più tardi, nel Talmud si dirà che il giorno in cui fu tra-
dotta la Torah è stato così duro per Israele, come il giorno in cui si commesse il peccato del vitello
d'oro (cf. Sôferim 1,7-8).
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 120
1. Il testo biblico cancellato è stato decifrato dal Tischendorf, lo stesso che ha scoperto il Codice Si-
naitico. Su questo personaggio, cf. S. E. Porter, Constantine Tischendorf: The Life and Work of a
19th Century Bible Hunter: Including Constantine Tischendorf ’s When Were Our Gospels Written?,
Bloomsbury, London 2015.
2. Vocabolario Treccani, s.v. “onciale” (www.treccani.it/vocabolario/onciale/).
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 121
2006 ne è stata pubblicata una seconda: A. RᴀHᴌFS (ed.), Septuaginta: Id est Vetus Te-
stamentum Graece iuxta LXX interpretes, quam recognovit et emendavit Robert Han-
hart, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2006.
L'edizione di Cambridge riproduce il testo di B, segnalando nell'apparato critico
le principali varianti apportate da altri testimoni. Purtroppo non è completa; include
soltanto il Pentateuco e i libri storici, tranne i Maccabei. Il lavoro si è interrotto nel
1940 a causa della guerra mondiale. Il titolo dell'opera dice così: A. E. BRᴏᴏᴋᴇ - N.
MᴄLᴇᴀN (eds.), The Old Testament in Greek: According to the Text of Codex Vatica-
nus, Supplemented from Other Uncial Manuscripts, with a Critical Apparatus Contai-
ning the Variants of the Chief Ancient Authorities for the Text of the Septuagint, Cam-
bridge University Press, Cambridge 1906-1940.
Infine esiste l'edizione di Göttingen: J. ZIᴇGᴌᴇR - J. W. WᴇᴠᴇRS - ᴇᴛ ᴀᴌ. (eds.),
Septuaginta: Vetus Testamentum Graecum auctoritate Academiae Scientiarum Gottin-
gensis editum, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1974-. Usa un gran numero di
manoscritti e quindi ha un apparato critico molto ricco. Ma soprattutto si caratterizza
perché tenta di ricostruire il testo originale di ogni singolo libro. Per maggiori infor-
mazioni, si veda www.adw-goe.de. Finora (febbraio 2018) mancano dieci libri per
completare quest'opera monumentale: Gs, Gdc, 1-2 Sam, 1-2 Re, 1 Cr, Prv, Ct e Qo.
Gli ultimi tre mancano anche nell'edizione di Cambridge e dunque bisogna consul-
tarli nel Rahlfs.
La copia fatta da non professionisti sembra la spiegazione più probabile per il fat-
to che ci siano più di duecentomila varianti per il testo greco del NT (anche se quelle
veramente rilevanti sono soltanto duecento circa).
Possiamo offrire una presentazione schematica dei tipi di testimoni testuali del
NT, che possono essere diretti o indiretti:
a) Diretti sono quelli che riproducono direttamente il testo del Nuovo Testamento
in lingua originale (greco). Ne esistono quattro tipi:
-Papiri. Sono importanti soprattutto per la loro antichità (…). A causa del tipo di
materiale, di solito hanno un carattere frammentario e la qualità del testo è
variabile.
-Codici onciali. Chiamati così per il tipo di scrittura utilizzata fino al IX secolo ap-
prossimativamente (solo maiuscole e senza spazio fra le parole). La buona qualità
del testo che trasmettono lo ha fatto diventare la base delle edizioni critiche. Fra i
più significativi si annoverano il codice Vaticano, il Sinaitico e l'Alessandrino (secoli
IV-V). Questi tre contengono tutta la Bibbia in greco, Antico e Nuovo Testamento.
-Manoscritti minuscoli. Cominciano nel IX secolo e giungono fino all'invenzione
della stampa.
-Lezionari.
b) Indiretti. Sono quelli ai quali manca qualcuna delle caratteristiche dei testimoni
diretti:
-Citazioni bibliche in autori dell'antichità cristiana. Hanno come vantaggio la possi-
bilità di datare l'origine del testo in collegamento con la vita del rispettivo autore.
Presentano i limiti derivati dall'adeguamento delle citazioni al testo in cui si inseri-
scono, oltre al fatto che si tratta di opere che richiedono anche un lavoro di critica
testuale.
-Traduzioni antiche. La loro importanza dipende dal fatto che i traduttori hanno
avuto accesso a manoscritti in lingua originale più antichi di quelli oggi conservati.
Fra di esse spiccano le versioni latine (Vetus Latina e Vulgata), siriache (Vetus Syra,
Peshitta, Filoxeniana e Harklensis), copte (in diversi dialetti) e armena1.
1. C. Jódar, «Biblia: Texto» in C. Izquierdo (ed.), Diccionario de teología, Eunsa, Pamplona 2006,
83-87, 87 (traduzione mia).
2. Il titolo completo menziona i diversi autori: Novum Testamentum Graece: Based on the work of
Eberhard Nestle and Erwin Nestle. Edited by Barbara and Kurt Aland, Johannes Karavidopoulos,
Carlo M. Martini, Bruce M. Metzger: 28th. Revised Edition. Edited by Institute for New Testament
Textual Research, Münster/Westphalia under the direction of Holger Strutwolf. Sul NA28, cf. A. J.
Forte, «Observations on the 28th revised edition of Nestle-Aland's Novum Testamentum Graece»,
Biblica 94 (2013) 268-292.
3. Uno degli editori spiega alcune delle scelte fatte dal comitato in: B. M. Metzger, A Textual Com-
mentary on the Greek New Testament, Deutsche Bibelgesellschaft United Bible Societies, Stuttgart
2
2000.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 124
1. Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 174-178 (“Les deutérocanoniques dont l'original sémitique est
perdu”).
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 125
1. Per una spiegazione di questa soluzione applicata al caso del Siracide, cf. M. Gilbert, «L'Ecclésia-
stique: Quel texte? Quelle autorité?», Revue biblique 94 (1987) 233-250. Per il vangelo di Marco, cf.
C. Focant, «La canonicité de la finale longue (Mc 16,9-20): vers la reconnaissance d'un double
texte canonique?» in J.-M. Auwers - H.-J. de Jonge (eds.), The Biblical Canons, Leuven University
Press, Leuven 2003, 587-597.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 126
In genere, le versioni antiche delle Scritture sono di grande valore per la critica
testuale in primo luogo per la loro antichità, ma anche perché in genere tendono a
tradurre in maniera letterale e dunque consentono di ricostruire il testo dal quale
provengono.
La più antica delle versioni è la traduzione della Torah — e poi di altri libri — in
greco, detta dei Settanta (LXX), di cui abbiamo parlato sopra (pp. 117-121). Anche di
origine non cristiana è il cosiddetto Targum. I targumin sono traduzioni della Torah,
dei Profeti e di quasi tutti gli Scritti (non ci sono targumin di Esdra, di Neemia e di
Daniele) in aramaico. Hanno uno stile molto libero, sono più simili a delle parafrasi
che a una traduzione letterale.
In ambito cristiano, i testi biblici — soprattutto i vangeli — sono stati tradotti
nelle lingue dei diversi posti dove arrivavano i missionari, quasi sempre prendendo
come punto di partenza il greco. Le principali traduzioni cristiane antiche della Bib-
bia sono le versioni siriache (fra cui spicca la Peshitta), la versione armena — chiama-
ta la “regina delle versioni” per la sua qualità e bellezza —, le versioni copte, la ver-
sione gotica, la versione georgiana, la versione etiopica e le versioni latine, la Vetus
Latina e la Vulgata, sulle quali ci soffermeremo brevemente1.
Si dà il nome di Vetus Latina alle traduzioni latine della Bibbia che esistevano pri-
ma della diffusione della versione fatta da san Girolamo e che si sono basate sul testo
greco, che cercavano di rendere pedissequamente2.
Per spiegare che cosa è la versione latina detta Vulgata (Vg), dobbiamo raccon-
tare brevemente la vita del suo autore, san Girolamo. Nato a Stridone (Dalmazia) ver-
so il 347, Girolamo viene a studiare a Roma, dove riceve il battesimo nel 366. Si trasfe-
risce ad Aquileia e poi a Siria, dove vive da eremita. Qui può perfezionare il suo greco
e comincia a imparare l’ebraico. Dal 380 al 382 è a Costantinopoli, dove conosce Gre-
gorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Nel 382, accompagnando il vescovo Paulino di
Antiochia, che lo aveva ordinato sacerdote, Girolamo torna a Roma. Resta
nell’Urbe — forse abitava dove oggi si alza la chiesa di San Girolamo della Carità —
1. Per sapere di più circa queste versioni, cf. S. P. Brock, The Bible in the Syriac tradition, Gorgias
Press, Piscataway 22006; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia: Traduzioni, tradizioni e interpre-
tazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Metzger - Ehrman, Il testo del Nuovo Testamento,
88-114.
2. Cf. Rizzi, Le antiche versioni, 42-44.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 127
per lavorare come segretario e consulente del papa Damaso. San Damaso gli chiede
di migliorare la traduzione in latino del NT, confrontando quelle esistenti con l’origi-
nale greco. Tuttavia, il Papa muore nel 384 e Girolamo — che nel frattempo si aveva
creato alcuni nemici — deve lasciare Roma. Nel 386 si stabilisce a Betlemme, dove
muore nel 419 o 4201.
A partire dal 390, Girolamo comincia a fare una traduzione dell’AT partendo dai
testi originali, in ebraico e aramaico, e non dalla versione greca (LXX), come avevano
fatti i precedenti traduttori della Bibbia in latino. Come gli piaceva dire, Girolamo
segue la hebraica veritas. Questa traduzione, finita verso il 405, ebbe una grande
diffusione in occidente: per questo in epoca moderna finì col ricevere l'appellativo di
Vulgata2.
Nella Chiesa antica, infatti, l'AT veniva letto in greco, non in ebraico. Dopo il I
secolo, l'ebraico e l’aramaico erano diventati praticamente lingue sconosciute fra i cri-
stiani, il che non deve destare sorpresa vista la rapida diffusione del vangelo fra i pa-
gani e tenendo conto anche del fatto che, purtroppo, i rapporti fra cristiani ed ebrei
non erano ottimi3.
Allorché la traduzione di Girolamo cominciò a diffondersi, molti si stupirono
della sua scelta di tradurre dall'ebraico invece che dal greco, com'era abituale. Fra
questi spicca sant'Agostino, che nell'anno 394 o 395 (prima del 396, anno in cui diven-
ta vescovo) scrisse una lettera a Girolamo manifestandogli la sua perplessità. Così è
nato uno scambio epistolare fra i due, su questo e su altri argomenti, di grande valore
storico e dottrinale. A noi adesso interessa sapere soltanto che Agostino alla fine rico-
nobbe la validità della scelta di Girolamo di tradurre a partire dall'ebraico4.
Insieme a questa scelta della hebraica veritas, assai meritoria, san Girolamo ha
fatto un'altra molto discutibile; anzi — lo possiamo dire alla luce della storia poste-
riore — certamente sbagliata: ha considerato come canonici solo i libri che gli ebrei
accettavano. Di questo parleremo dopo, nella parte dedicata al canone (cf. pp. 177-
180).
Dal punto di vista testuale, la Vulgata è un testimone importante soprattutto del
testo ebraico ed aramaico dell'AT, perché Girolamo ha tradotto quasi tutti i libri vete-
rotestamentari a partire da manoscritti che contenevano un testo praticamente iden-
tico al futuro TM. La grande eccezione è il Salterio, che Girolamo ha tradotto tre
volte. In primo luogo, ha fatto una revisione dell'antica versione latina (il cosiddetto
“Salterio Romano”). La versione latina dei salmi che si trova nella Vulgata (e che san
Pio V introdusse nel Breviario Romano) corrisponde al “Salterio Gallicano”, che non
è la traduzione dei salmi a partire dall'ebraico, ma a partire dal greco delle Esapla. Più
tardi, san Girolamo fece una nuova traduzione del salterio, questa volta a partire
dall'ebraico1.
Tranne che per i salmi, dunque, la Vulgata si basa su un testo ebraico molto si-
mile al TM, tradotto quasi sempre in maniera piuttosto letterale (come in 1 Sam 13,1,
citato a p. 111). Per questo, se in un caso la Vulgata coincide con i LXX e non con il
TM, è possibile pensare che è nell'attuale TM che il testo è cambiato, mentre che Vul-
gata e LXX testimoniano indipendentemente una variante più antica e dunque più vi-
cina all’originale.
1. “On sait que le psautier latin couramment utilisé en Occident est le psautier hexaplaire appelé aus-
si gallican (…). A partir d’Alcuin et des Bibles de Tours, ce psautier utilisé dans la liturgie franque
s’est introduit dans les Bibles et a supplanté dans la Vulgate la traduction de Jérôme sur l’hébreu”,
P.-M. Bogaert, «Les frontières du canon de l’Ancien Testament dans l’Occident latin» in R. Gou-
nelle - J. Joosten (eds.), La Bible juive dans l’Antiquité, Zèbre, Lausanne 2014, 41-95, 50. Cf. anche
Rebenich, Jerome, 53-54.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 129
stati i protestanti a partire dal XVI secolo. È storicamente più preciso dire che essi
sono stati i primi a diffondere massivamente la Bibbia tradotta in lingue moderne a
partire dalle lingue originali. Nei secoli precedenti ci sono state alcune traduzioni im-
portanti, come quella in bulgaro antico (chiamato anche slavo antico o paleoslavo)
fatta nel IX secolo da san Cirillo e san Metodio, quella in francese del XII secolo o,
più vicina a Lutero, quella in inglese realizzata da Wyclif1.
La traduzione della Bibbia in tedesco realizzata da Lutero (1545) ha avuto un'en-
orme importanza dal punto di vista religioso e culturale. In inglese, altrettanto im-
portante è stata la King James Version (KJV) del 1611, realizzata prendendo come mo-
dello la Luther Bibel. Sia la Bibbia di Lutero che la KJV sono state per secoli “la”
Bibbia nelle rispettive lingue e hanno contribuito notevolmente allo sviluppo lettera-
rio del tedesco e dell'inglese.
In ambito cattolico, il Concilio di Trento ha consigliato la Vulgata come testo da
preferire fra le diverse versioni in latino che esistevano all'epoca (cf. EB 61). Per quan-
to riguarda le traduzioni, Trento non ha vietato di farle a partire dai testi originali, ma
nemmeno le ha incoraggiate. Se si studiano gli atti delle discussioni conciliari, si
scopre che questo silenzio non è stato casuale. Infatti alcuni Padri conciliari volevano
che fossero proibite tutte le versioni, tranne la Vulgata. Altri invece pensavano più
conveniente favorire la divulgazione della Bibbia fra i fedeli e per questo spingevano
perché si facessero delle traduzioni in diverse lingue. Alla fine, pro bono pacis, il
Concilio ha preferito non dire nulla al riguardo2.
Allo stesso tempo, Trento ha consigliato la Vulgata come testo sicuro dal punto di
vista dottrinale. Ecco le parole del Concilio, nel secondo decreto sulle Scritture (8
aprile 1546):
Lo stesso sacrosanto sinodo, considerando che non sarà di poca utilità per la chiesa
di Dio sapere chiaramente fra tutte le edizioni in circolazione quale è l'edizione au-
tentica dei libri sacri, stabilisce e dichiara che l'antica edizione della Volgata, appro-
vata dalla stessa chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle
1. Cf. P. Chiesa, «Le traduzioni» in G. Cremascoli - C. Leonardi (eds.), La Bibbia nel Medioevo, EDB,
Bologna 1996, 15-27; M. Dove, «Scripture and Reform» in R. Marsden - E. A. Matter (eds.), The
New Cambridge History of the Bible: 2: From 600 to 1450, Cambridge University Press, Cambridge
2012, 579-595.
2. Cf. R. E. McNally, «The Council of Trent and Vernacular Bibles», Theological Studies 27 (1966)
204-227; G. Bedouelle, «Le débat catholique sur la traduction de la Bible en langue vulgaire» in I.
Backus - F. Higman (eds.), Théorie et pratique de l'exégèse: Actes du troisième colloque international
sur l'histoire de l'exégèse biblique au Xvie siècle (Genève, 31 août - 2 septembre 1988), Droz, Genève
1990, 39-59; C. Buzzetti, «La traduzione della Bibbia e il Concilio di Trento: decisioni e/o conse-
guenze», Salesianum 71 (2009) 473-490.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 130
lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione e che nessuno, per
nessuna ragione, può avere l'audacia di respingerla (EB 61).
1. La grande eccezione sono le traduzioni in arabo, armeno e altre lingue pubblicate nel Seicento a
scopo missionario, che sono state fatte a partire dalle lingue originali. Cf. G. Rizzi, Edizioni della
Bibbia nel contesto di Propaganda Fide: uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca
della Pontificia Università Urbaniana, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 131
1. R. Fabris (ed.), La Bibbia nell'epoca moderna e contemporanea, EDB, Bologna 1992, 47.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 132
stata una seconda edizione, con leggeri ritocchi. Nel 1988 cominciò la preparazione
della terza edizione, pubblicata nel 2008, che presenta importanti cambiamenti1.
Fra le versioni moderne in altre lingue, spicca la Bible de Jérusalem (BJer), tradu-
zione in francese fatta negli anni quaranta e cinquanta da un gruppo di studiosi coor-
dinati dai domenicani di Les Éditions du Cerf e dell'École Biblique et Archéologique
Française di Gerusalemme. La prima edizione della BJer è stata completata nel 1956.
La seconda edizione risale al 1973. C'è una terza edizione, con modifiche importanti,
del 19982. Non ci sarà una quarta edizione, perché adesso i domenicani dell'École
stanno lavorando ad un progetto sotto un nuovo titolo: La Bibbia nelle sue tradizioni.
Per saperne di più, si può vedere www.bibest.org.
Esiste un’edizione della BJer in spagnolo, la Biblia de Jerusalén, che riproduce le
introduzioni e le note dell'edizione francese, ma che contiene una traduzione fatta a
partire dalle lingue originali (che segue in linea di massima le scelte dei traduttori
francesi) . Qualcosa di simile vale per la versione inglese, The Jerusalem Bible e poi
The New Jerusalem Bible. In italiano, invece, si dà il nome di Bibbia di Gerusalemme a
un’edizione che contiene il testo della CEI, con le note in calce della Bible de
Jérusalem.
Ancora in lingua francese, è da menzionare la Bibbia TOB (Traduction Œcumé-
nique de la Bible), frutto della collaborazione fra cattolici e protestanti, pubblicata nel
1975-1976 dalla Société biblique française e da Éditions du Cerf. Nella nuova edizione
del 2010, hanno partecipato anche esegeti ortodossi.
Le principali Bibbie moderne in lingua inglese sono la RSV e la NRSV:
The Revised Standard Version (1952) is the result of discussions begun in 1928, as a
result of which a Standard Bible Committee was appointed by the International
Council on Religious Education. The committee decided to revise the poorly recei-
ved American Standard Version within the tradition of the King James Version.
Work began in 1936. The New Testament was published in 1946, and the complete
Bible on September 30, 1952 (the feast of St. Jerome!). That evening, 3,418 Protestant
communities held observances to honor the new translation, and more than half a
million people participated.
1. Per vedere degli esempi, cf. F. Serafini, Come e perché cambiano i Salmi: le principali modifiche del-
la nuova traduzione italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; L. Mazzinghi, «La nuova revi-
sione della Bibbia CEI (2008): una valutazione» in M. Mülke - L. Vogel (eds.), Bibelübersetzungen
und (Kirchen-)Politik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2015, 157-173.
2. Per sapere di più, cf. O.-T. Venard, «The Cultural Backgrounds and Challenges of La Bible de Jéru-
salem» in P. McCosker (ed.), What is it that the Scripture Says?: Essays in Biblical Interpretation,
Translation and Reception in Honour of Henry Wansbrough OSB, T&T Clark, London 2006,
111-134.
PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ 134
New Revised Standard Version (1990). Work began on a revision of the RSV in
1974 and was finished in 1990. It strove for greater accuracy, improved clarity, more
intelligible or more natural English, elimination of ambiguity1, elimination of ambi-
guity in oral reading2, better euphony3, and elimination of some masculine
references4.
1. Ps 50:9, “I will accept no bull from your house,” became “I will not accept a bull from your house.”
2. Lk 22:35 had read: “'Did you lack anything?' They said, 'Nothing.'” This phrase could be misheard
as “They said nothing.” It was changed to “They said, 'No, not a thing.'”
3. Is 22:16: for “You have hewn here a tomb for yourself, you who hew a tomb on the height,” the re-
vision read: “You have cut a tomb here for yourself, cutting a tomb on the height,” to avoid “you
who hew.”
4. Joseph Lienhard, appunti di un corso di greco al Pontificio Istituto Biblico, anno accademico
2006/2007. Per altri esempi, cf. B. M. Metzger, The Bible in Translation: Ancient and English Ver-
sions, Baker Academic, Grand Rapids 2001, 157-161.
5. Per saperne di più, cf. S. Silva Retamales, «'¿Entiendes lo que estás leyendo?' (Hch 8,30): Acerca de
la traducción de la Biblia de la Iglesia en América», Veritas 27 (2012) 165-191.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 135
Bibliografia
PCB, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio
2001), nn. 16-18 (riassunto della formazione del canone dell'AT, utile per un primo
approccio).
A.M. ARᴛᴏᴌᴀ - J.M. SÁNᴄHᴇᴢ CᴀRᴏ, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino,
Estella (Navarra) 1995, parte seconda.
R. E. BRᴏᴡN - R. F. CᴏᴌᴌINS, «Canonicity», NJBC, 1034-1054.
V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione gene-
rale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitoli 12, 13 e 14.
Per approfondire:
G. ARᴀNᴅᴀ, «Il problema teologico del canone biblico» in M. TÁBᴇᴛ (a cura di),
La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Fa-
coltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1999, 13-35.
sono i libri biblici, ma anche approfondire le ragioni che hanno portato la Chiesa a
fissare il canone, cioè a distinguere fra libri canonici e non canonici.
Canone e canonico. La parola “canone” indica una misura normativa, una rego-
la. L'applicazione di questo termine all'elenco dei libri biblici comincia nel IV secolo
d.C., quando si vogliono distinguere i libri normativi o “canonici”, nel senso che cor-
rispondono alla regola o canone della fede, da quelli che non lo sono1.
È utile distinguere fra “canone” in senso attivo (regola alla quale adeguarsi) e “ca-
none” in senso passivo (le cose che concordano con la regola e dunque sono “cano-
niche”). A noi interessa il canone in entrambi i sensi, attivo e passivo, perché la sacra
Scrittura non è soltanto una lista di libri ortodossi, ma in quanto parola di Dio è re-
gola della fede per la Chiesa. In questa parte del corso ci concentreremo sul canone in
senso passivo, come la lista dei libri riconosciuti come sacri e ispirati dalla Chiesa. Ma
è opportune tenere presente che questo senso è derivato dal senso attivo del canone,
molto più importante di un semplice elenco2.
Protocanonico e deuterocanonico. Sono termini correlativi. Nella sua Bibliothe-
ca Sancta (1566), Sisto da Siena chiamò “deuterocanonici” i libri che, secondo lui, en-
trarono nel canone dopo alcuni dubbi, mentre invece sarebbero “protocanonici”
(questa parola però non è usata da Sisto) quelli che sono stati accettati sempre e dap-
pertutto da tutti3.
1. Per l'etimologia, cf. H. Ohme, «Kanon I (Begriff)», Reallexikon für Antike und Christentum 20
(2004) 1-28; Bokedal, Formation and Significance, 55-80.
2. Cf. J. Chapa, «La Biblia en la formulación y la comprensión de la fe» in G. Aranda - J. L. Caballero
(eds.), La Sagrada Escritura, palabra actual: XXV Simposio Internacional de Teología, Servicio de
publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 2005, 263-294; O.-T. Venard, «Del canon
bíblico a la vida cristiana» in V. Balaguer - J. L. Caballero (eds.), Palabra de Dios, Sagrada Escritu-
ra, Iglesia, Eunsa, Pamplona 2008, 213-236.
3. Secondo Sisto da Siena, i libri deuterocanonici dell'AT sono Ester, Tobia, Giuditta, Baruc, la lettera
di Geremia (=Bar 6), Sapienza, Siracide, 1-2 Maccabei e le parti greche di Daniele. Del NT, Sisto
considera deuterocanonici Ebrei, Giacomo, 2 Pietro, 2-3 Giovanni, Giuda e Apocalisse, più alcuni
versetti di Marco (Mc 16,9-20), di Luca (Lc 22,43-44) e di Giovanni (Gv 7,53-8,11). Sulla terminolo-
gia di Sisto da Siena, cf. G. Bedouelle, «Le canon de l'Ancien Testament dans la perspective du
concile de Trente» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa for-
mation et son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 253-274, 269-273; più ampiamente in M. Tábet,
Le trattazioni teologiche sulla Bibbia: Un approccio alla storia dell'esegesi, San Paolo, Cinisello Bal-
samo 2003, 194-199.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 137
Fra gli argomenti appartenenti al corso d'IGSS, quello su cui più si scrive e si di-
scute oggi è il canone. Sia a causa delle scoperte di alcuni libri antichi, sia a causa di
motivazioni teologiche o ideologiche, alcuni autori hanno proposto di cambiare il ca-
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 138
none biblico, cioè di togliere alcuni libri o di aggiungerne altri, o di rinunciare alla
nozione stessa di canone. Altri studiosi — più moderati — ritengono che si debbano
ammorbidire le differenze fra libri canonici e non canonici, perché pensano che la
determinazione del canone biblico ubbidisca a fattori più o meno arbitrari o contin-
genti. Il dibattito è specialmente vivo fra gli autori di ambito protestante, ma interessa
anche i cattolici1.
Prima di studiare la storia della formazione del canone, è utile conoscere i fattori
che spiegano perché oggi viene messo in discussione il concetto stesso di canone.
Possiamo menzionare i seguenti motivi:
◦ la scoperta (o riscoperta) di libri apocrifi nel XIX e nel XX secolo ha stimolato
la riflessione circa la legittimità del canone ricevuto. Nell’Ottocento, sono stati
portati dall’Etiopia in Europa alcuni manoscritti del Libro dei Giubilei e di 1
Enoch, libri apocrifi di cui si conosceva l’esistenza, ma di cui si era persa quasi
ogni traccia. Nel ventesimo secolo, manoscritti di questi libri e di altri ancora
sono stati trovati attorno al Mar Morto (Qumran, cf. n. 2, p. 29) e a Nag Ham-
madi, in Egitto2. Fra questi ultimi, spicca il Vangelo di Tommaso, considerati
da alcuni come il “quinto vangelo” per il suo valore per ricostruire le parole
autentiche di Gesù (di questo vangelo parleremo a pp. 286-290).
◦ nel caso del canone del NT, si deve tener conto del forte influsso di alcuni au-
tori, specialmente di Walter Bauer ed il suo libro sulle origini del cristianesi-
mo: Ortodossia ed eresia nel cristianesimo delle origini, del 19343. In sintesi,
Bauer propone che nei primi due secoli coesistevano diversi correnti all’inter-
no del cristianesimo, delle quali una ha avuto posteriormente la prevalenza,
rivendicando per sé il carattere di unica ortodossa. L’attuale canone biblico sa-
rebbe conseguenza dell’imporsi di un gruppo sugli altri. Negli anni settanta, le
1. Cf. B. S. Childs, «The Canon in Recent Biblical Studies: Reflections on an Era», Pro Ecclesia 14
(2005) 26-45; J. C. Ossandón Widow, «On the Formation of the Biblical Canon: An Extended Re-
view of L. M. McDonald's Book», Annales Theologici 24 (2010) 437-452.
2. Un esame critico della storia del ritrovamento della biblioteca di Nag Hammadi si può vedere in
M. Goodacre, «How Reliable is the Story of the Nag Hammadi Discovery?», Journal for the Study
of the New Testament 35 (2013) 303-322.
3. W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Mohr Siebeck, Tübingen 1934. In
inglese: Idem, Orthodoxy and Heresy in Earliest Christianity, SCM, London 1972. Nel 2009 è ap-
parsa una nuova edizione in francese: Orthodoxie et hérésie aux débuts du Christianisme, Cerf, Pa-
ris 2009. Per una risposta, cf. A. J. Köstenberger - M. J. Kruger, The Heresy of Orthodoxy: How
Contemporary Culture's Fascination with Diversity Has Reshaped Our Understanding of Early Chri-
stianity, Crossway, Wheaton 2010.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 139
tesi di Bauer sono state diffuse negli Stati Uniti da autori importanti, come Ro-
bert Kraft (traduttore del libro in inglese), James Robinson e Helmut Koester.
◦ infine, nella sensibilità postmoderna si mette in dubbio il canone come lista
chiusa e definitiva di libri, perché ogni autorità è vista con sospetto e in genere
si preferisce la pluralità all’uniformità. Perciò, ricostruzioni storiche come
quella di Bauer hanno avuto successo a livello accademico e diffusione a livel-
lo popolare. Per esempio, nel romanzo Da Vinci Code si afferma che il canone
biblico è stato frutto di un’imposizione autoritaria e arbitraria dell’imperatore
Constantino (quindi, è suscettibile di revisione).
In ciò che segue, dobbiamo ripercorrere la storia della formazione del canone,
per poter rispondere a queste sfide, che riguardano soprattutto il NT. Perciò parlere-
mo prima della formazione del canone del NT e poi di quella del canone dell’AT. In
realtà, la determinazione del canone nella Chiesa non ha seguito due strade parallele,
una per ogni testamento, ma si è trattato di un solo processo. Eppure, studieremo se-
paratamente la conformazione del canone dell'AT e del NT per motivi didattici.
A grandi linee, possiamo dire che i libri che formano il NT sono stati scritti in un
periodo di circa cento anni, più meno fra il 50 e il 150 d.C. Il processo di composi-
zione del NT occupa dunque uno spazio di tempo molto più breve di quello dell'AT,
durato parecchi secoli.
D'altra parte, si deve tener presente la grande e rapida espansione geografica della
Chiesa. Il vangelo di Marco è stato scritto probabilmente a Roma e quello di Matteo
forse ad Antiochia (Siria); Paolo è un missionario itinerante e scrive le sue lettere da
diversi posti. I destinatari erano diversi: alcuni scritti si rivolgono a persone indivi-
duali (Luca-Atti, Filemone, le lettere pastorali); molte lettere sono indirizzate a chiese
locali: ai romani, ai corinzi, ecc. Per contrasto, sono pochi gli scritti che hanno avuto
sin dall'inizio una destinazione volutamente ed esplicitamente universale, come la let-
tera di Giacomo, che si rivolge “alle dodici tribù disperse nel mondo” (1,1).
Allo stesso tempo, è logico che gli scritti apostolici cominciassero ben presto a
diffondersi. I primi destinatari erano consapevoli del valore dei testi in loro possesso.
In questo senso, è interessante ricordare il saluto finale della lettera ai Colossesi:
Salutate i fratelli di Laodicèa, Ninfa e la Chiesa che si raduna nella sua casa. E quan-
do questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei
Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi (Col 4,15-16)1.
Il testo mostra come già Paolo prevedesse una diffusione dei suoi scritti al di là
dei loro destinatari immediati. È l'inizio di un processo che si concluderà nei secoli
IV e V col riconoscimento praticamente universale dei ventisette libri che formano
oggi il NT. Per sommi capi, possiamo supporre che nei primi decenni di vita della
Chiesa fosse fisicamente impossibile che tutte le comunità avessero gli stessi libri.
Ogni chiesa locale ne aveva alcuni, sia perché erano stati scritti per essa, sia perché li
aveva ricevuti da altre comunità. Nei primi due secoli, non si può parlare di un “Nuo-
vo Testamento” come lo conosciamo oggi.
1. Non è giunta a noi questa lettera di san Paolo ai Laodicesi, che dunque è andata persa. Si può ipo-
tizzare che l'attuale lettera agli Efesini sia il risultato della fusione della lettera inviata a Laodicea
con Colossesi. Molto più tardi, si è diffusa una lettera di Paolo ai Laodicesi, ma si tratta di una
composizione tardiva e certamente apocrifa.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 141
La seconda frase appare con identiche parole soltanto in Lc 10,7, in bocca a Gesù1.
Nel testo della 1 Tm manca l'attribuzione della frase a Gesù. Ma se si trattasse sempli-
cemente di un proverbio popolare, non avrebbe senso metterlo alla pari di una cita-
zione della Torah. Non sappiamo se san Paolo stia citando il vangelo di Luca oppure
se abbia preso la frase da una raccolta scritta di detti di Gesù. Ma è chiaro che non
può provenire da una tradizione orale, perché in tal caso non la si chiamerebbe
“Scrittura”. Un testo con parole di Gesù viene considerato come “Scrittura”, alla pari
di un testo della Torah. È una testimonianza del fatto che un testo della nuova allean-
za viene trattato allo stesso modo di uno dell'antica.
In 2 Pt 3,15-16, appare una equiparazione delle lettere di Paolo alle altre Scritture:
La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto
anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data,
come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni
punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle
altre Scritture, per loro propria rovina.
1. Nel luogo parallelo di Mt 10,10, Gesù dice: “chi lavora ha diritto al suo nutrimento” [ἄξιος ὁ
ἐργάτης τῆς τροφῆς αὐτοῦ].
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 142
17.1.2. Marcione
Arrivato a Roma dal Ponto verso il 140 d.C., Marcione predicava fra i cristiani
una dottrina che distingueva fra il Dio dell'AT, crudele e cattivo, ed il Dio buono, il
Padre di Gesù Cristo. Di conseguenza, Marcione rifiutava l'intero AT, mentre del NT
accettava soltanto dieci lettere di Paolo e il vangelo di Luca senza i racconti dell'infan-
zia di Gesù. Non sappiamo esattamente se Marcione conoscesse gli altri scritti del
NT1.
L'importanza di Marcione per la storia del canone consiste soprattutto nel fatto
che la sua “Bibbia” ha prodotto una reazione della Chiesa (prima con sant'Ireneo, poi
con Tertulliano), che ha dovuto chiarire la sua posizione nei riguardi delle Scritture
respinte da Marcione.
Tuttavia, oggi siamo lontani dalla tesi dello Harnack, che vedeva nella posizione
di Marcione il fattore decisivo nella formazione del canone: secondo lui, la Chiesa
l'avrebbe definito soltanto come reazione al canone marcionita2. In realtà, né Mar-
cione è stato tanto decisivo, né la Chiesa ha definito il canone del NT nel II secolo,
ma più tardi, come vedremo.
1. Probabilmente conosceva almeno il vangelo di Matteo, visto che i suoi seguaci lo citano. Cf. L. M.
McDonald, The Formation of the Biblical Canon: Volume II: The New Testament: Its Authority and
Canonicity, Bloomsbury, London 2017, 148-149. Come accade con molti autori antichi, conoscia-
mo le idee di Marcione indirettamente, tramite le opere di coloro che lo hanno combattuto: in
questo caso, tramite l'Adversus Haereses di sant'Ireneo e l'Adversus Marcionem di Tertulliano.
2. A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott: eine Monographie zur Geschichte der
Grundlegung der katholischen Kirche: neue Studien zu Marcion, Wissenschaftliche Buchgesell-
schaft, Darmstadt 1996 (ed. or. 1924). L'opinione di Harnack in questo punto è condivisa da H. F.
von Campenhausen, Die Entstehung der christlichen Bibel, Mohr Siebeck, Tübingen 1968.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 143
E nel giorno detto del sole, riunendoci tutti in un solo luogo dalla città e dalla cam-
pagna, costituiamo un'assemblea e si leggono le memorie degli Apostoli1 o gli scritti
dei profeti, fino a quando vi è tempo; poi, quando colui che legge ha terminato, il
presidente con un discorso ammonisce ed esorta all'imitazione di queste buone cose
(I Apol, n. 67).
Dal testo si evince l'equiparazione pratica fra i vangeli e le antiche scritture, letti
entrambi in un contesto pubblico e sacro (nell'eucarestia domenicale) e a partire dai
quali si estraggono insegnamenti per la vita (omelia).
Un altro punto d'interesse è sapere di quali vangeli parli Giustino. Non dà nomi,
né dice quanti sono, ma il plurale — “le memorie degli Apostoli” — sembra indicare
che ne conoscesse più di uno. Infatti, esaminando l'insieme delle sue opere, risulta
chiaro che Giustino conosceva i vangeli sinottici, almeno Matteo e Luca2. Si discute se
conoscesse Giovanni o meno.
Infine, dobbiamo aggiungere altri due dati a proposito di san Giustino e i libri del
NT:
• Sorprende che, nelle sue opere, Giustino non faccia mai riferimenti alle lettere
paoline. Vuol dire che non le conosceva? O semplicemente non gli servivano?
• Nella I Apologia, parla dell'Apocalisse come uno dei “nostri scritti” e le attribui-
sce l'autorità di Cristo stesso3. Questa testimonianza è importante, perché più
tardi l'Apocalisse sarà uno dei libri la cui canonicità sarà discussa.
1. Giustino ha spiegato prima che queste “memorie degli Apostoli” sono i vangeli: “Gli apostoli infat-
ti, nelle memorie da loro lasciate e che si chiamano vangeli (…)” n. 66. Prendo la traduzione da
Giustino, Le apologie: introduzione, traduzione e note a cura di Clara Burini, Città nuova, Roma
2001.
2. Nel Dialogo con Trifone cita parole che si trovano soltanto in Matteo: “nel vangelo è scritto che egli
ha detto: Tutto mi è stato dato dal Padre mio, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, né il Figlio
se non il Padre e coloro ai quali il Figlio lo voglia rivelare”, Trif. 100,1; cf. Mt 11,22. Nello stesso libro,
menziona un dato esclusivo di Lc: “Infatti, nelle memorie che ho detto essere state composte dagli
apostoli e dai loro discepoli, è scritto che lo copriva un sudore come di gocce di sangue mentre
pregava (…)”, Trif. 103,8, cf. Lc 22,44. Traduzione presa da: Idem, Dialogo con Trifone: introdu-
zione, traduzione e note di Giuseppe Visonà, Paoline, Milano 1988.
3. “Presso di noi il principe dei demoni malvagi è chiamato serpente, satana e diavolo, come potete
imparare anche dai nostri scritti dopo averli esaminati; Cristo ci ha fatto sapere che quello sarà
gettato nel fuoco con il suo esercito e con gli uomini suoi seguaci, affinché siano castigati per un
tempo senza fine”, I Apol, n. 28 (cf. Ap 20,2.9-10). Cf. anche Trif. 81,4, dove parla della rivelazione
ricevuta da Giovanni apostolo, secondo la quale i santi vivranno mille anni in Gerusalemme (cf.
Ap 20,4-6).
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 144
Di passaggio, Ireneo si riferisce anche all'autorità degli scritti di san Paolo (cf.
Adv. haer. III,11,9). Ma né qui né altrove menziona un numero esatto di lettere
dell'Apostolo. Poi Ireneo riprende il suo discorso sui vangeli diversi dai quattro:
Per quanto poi riguarda i discepoli di Valentino, essi ponendosi al di fuori di ogni
timore, pubblicano scritti propri e si vantano di possedere più vangeli di quelli che
esistono. Essi, infatti, sono arrivati a tal punto di audacia da intitolare «Vangelo di
verità» il Vangelo scritto da loro non molto tempo fa, un Vangelo che non concorda
affatto con i Vangeli degli apostoli: per cui presso di lui neppure il Vangelo è essente
da bestemmia. Infatti, se il «Vangelo di verità» da loro pubblicato è diverso da quelli
che ci sono stati tramandati dagli apostoli, può apprendere chi vuole che, come si
dimostra in base alle stesse Scritture, il Vangelo di verità non è quello che ci è stato
trasmesso dagli apostoli. Ma che solo quelli sono veri e solidi, e che i Vangeli non
possono essere né più né meno di quelli che abbiamo detto, lo abbiamo dimostrato
diffusamente (…) (Adv. haer. III,11,9).
È ovvio che gli argomenti di Ireneo a favore del numero quattro — i venti, i che-
rubini, gli animali — non hanno alcun peso come dimostrazione. Il valore storico
della sua testimonianza radica nel mostrare la convinzione ferma che non tutti gli
scritti che parlano di Gesù hanno lo stesso status nella Chiesa, benché portino il
nome di “vangeli”, ma soltanto quattro di essi. Infatti, sant'Ireneo non dice solo che i
quattro vangeli devono essere accettati, ma anche che non ne esistono altri autentici.
Non a torto si dice che con Ireneo comincia il processo di costituzione di un canone
chiuso degli scritti del NT. La norma suprema è Cristo secondo la predicazione degli
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 146
apostoli, ma a questa è unita il fatto che la Chiesa possiede quattro e soltanto quattro
vangeli.
Negli scritti di sant'Ireneo si trovano riferimenti e citazioni di altri libri del NT,
come accade in altri autori dell'epoca. Ci siamo limitati a riportare la sua testimo-
nianza sui quattro vangeli, perché di singolare valore per conoscere il progressivo ri-
conoscimento dei libri che formano il NT. Pur con dei limiti, si può fare un paragone
fra il primo e principale gruppo degli scritti ebraici, i cinque libri della Torah, e il pri-
mo corpo di scritti cristiani che si chiude, il Vangelo quadriforme.
1. Cf. B. M. Metzger, The Canon of the New Testament: Its Origin, Development, and Significance, Cla-
rendon, Oxford 1987, 119-120.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 147
nuova alleanza “molti” hanno voluto scrivere i vangeli, ma “i banchieri esperti” non
accettarono tutti, ma scelsero alcuni di essi. Quello che si dice subito dopo, “hanno
cercato”, è un'accusa contro quelli che si mettono a scrivere vangeli senza il dono.
Infatti, Matteo non “ha cercato”, ma ha scritto da parte dello Spirito Santo. Simil-
mente anche Marco e Giovanni, e in modo equivalente anche Luca. Invece coloro
che hanno scritto il cosiddetto vangelo secondo gli egizi ed il cosiddetto vangelo dei
Dodici “hanno cercato”. Adesso anche Basilide ha osato scrivere un vangelo secon-
do Basilide. “Molti hanno cercato”; infatti si tramanda anche il vangelo secondo
Tommaso e quello secondo Mattia e molti altri. Questi sono di coloro che hanno
cercato. Invece, la Chiesa di Dio seleziona soltanto i quattro1.
1. Origene, Homiliae in Lucam 1.3-1.4 (PG 17,312), traduzione mia. Sui “banchieri esperti”, cf. G. Baz-
zana, «“Be Good Moneychangers”: The Role of an Agraphon in a Discursive Fight for the Canon
of Scripture» in J. Ulrich - A.-C. Jacobsen - D. Brakke (eds.), Invention, Rewriting, Usurpation: Di-
scursive Fights over Religious Traditions in Antiquity, Lang, Frankfurt am Main 2012, 297-311.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 148
Ma verso il 200 il presbitero Gaio, a Roma, rifiutava sia il vangelo di Giovanni che
l'Apocalisse, dicendo che erano opera non di Giovanni, ma di un autore gnostico,
chiamato Cerinto. Anche il gruppo degli “alogi”, nemici dei montanisti, rifiutavano
Giovanni, l’Apocalisse e altri libri.
Gaio e gli alogi erano gruppi minoritari. Dubbi più diffusi ha creato l'opinione di
san Dionigi, vescovo di Alessandria a metà del III secolo. Dionigi scrive che secondo
lui l’Apocalisse non è stata scritta da Giovanni apostolo. Si poggia su argomenti inter-
ni, di stile e di composizione. È interessante riprodurre le sue parole:
Non nego che l'autore si chiami Giovanni e che questo scritto sia di Giovanni, come
pure che sia di un uomo santo, ispirato da Dio. Tuttavia non posso facilmente
concedere che questi sia lo Apostolo, il figlio di Zebedeo, il fratello di Giacomo, a
cui si devono il Vangelo intitolato appunto di Giovanni e l'epistola cattolica.
Congetturo dal carattere dei due scritti, dalla forma della dizione e dal piano di ese-
cuzione, come si dice, dell'opera, che non si tratta di un autore medesimo (…). Dai
pensieri, dalle parole come pure dalla maniera di periodare ben a ragione si deduce
che si tratta di autori diversi1.
Come si vede, Dionigi non rifiuta l'ispirazione né la canonicità del libro, ma altri
si poggeranno su di lui per farlo, legando l'apostolicità del libro all'identità dell'autore.
(Un fenomeno parallelo si verificò con la lettera agli Ebrei).
Altri dubbi circa la canonicità dell'Apocalisse dipesero dalla diffusione del
millenarismo, dottrina che si fondava su un'interpretazione letterale di Ap 20 e che
diede origini alla setta dei chiliasti.
Sia per rifiuto del millenarismo, sia per i dubbi circa l'identità dell'autore, l'Apo-
calisse si trova fuori da alcune liste dei libri del NT del IV secolo. Eusebio di Cesarea
dubita sulla sua canonicità; san Cirillo di Gerusalemme (350) e san Gregorio di Na-
zianzo (390) non lo includono nelle loro liste. Nell’Occidente latino, invece, è stato
accettato senza difficoltà.
Più tardi, tre concili provinciali daranno la lista completa sia dell’Antico che del
Nuovo Testamento: il Concilio di Ippona del 393, il terzo di Cartagine (397) e il quar-
to di Cartagine (419). A quello di Ippona era presente sant'Agostino come presbitero
di quella chiesa; agli altri due prese parte come vescovo.
Da parte dei Papi di Roma, l'unico documento certamente autentico è la lettera
di Innocenzo I al vescovo Esuperio, dell'anno 405. Contiene lo stesso canone dei
concili africani (cf. EB 21). Il cosiddetto “decreto gelasiano”, che contiene un elenco di
libri, attribuito per molto tempo al papa san Gelasio I (492-496), oggi è considerato
unanimemente come non autentico. Si tratta di un testo composto probabilmente nel
VI secolo da un autore privato (cf. EB 26-27).
Altrettanto bisogna dire dell'autenticità del canone 60 del Concilio di Laodicea
(dell'anno 360). Alcuni autori ritengono che veramente risalga a quell'epoca, ma che
1. Un’eccezione è la lettera di Melitone, di cui parleremo a proposito del canone dell'AT. Un'altra ec-
cezione potrebbe essere il frammento muratoriano, chiamato anche “canone di Muratori”, una li-
sta di libri che secondo molti studiosi risale alla fine del II secolo. Ma altri autori pensano con
buone ragioni che in realtà è un’opera del IV secolo. Il testo si può vedere in EB 1-7. Sulle discus-
sioni, cf. E. J. Schnabel, «The Muratorian Fragment: The State of Research», Journal of the Evange-
lical Theological Society 57 (2014) 231-264.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 150
si tratti di una lista privata inserita più tardi negli atti del concilio. Si offre un elenco
di libri in cui manca l’Apocalisse per il NT, mentre per l'AT coincide con la lettera 67
di sant'Atanasio1. Comunque, sia frutto di un concilio o meno, questo canone di Lao-
dicea è storicamente importante, perché è stato assunto più tardi dal Concilio Trulla-
no o Quinisesto dell'anno 692 a Costantinopoli. Questo concilio ha cercato di chia-
rire i libri che fanno parte del canone biblico. Ma invece di emanare un decreto
proprio, ha rimandato a diversi cataloghi antichi, fra cui quello di Laodicea, ma
anche la lista del terzo Concilio di Cartagine e altre. Se si combinano tutte le liste
menzionate dal sinodo Trullano, si ottiene il canone attuale, più 3 Maccabei. Tuttavia,
questo concilio, considerato ecumenico dalla Chiesa ortodossa, non è stato mai com-
pletamente accettato in Occidente2.
Le chiese ortodosse non hanno definito il canone biblico come verità di fede,
come fece la Chiesa Cattolica nel concilio di Trento, e fra essi sussistono ancora alcu-
ni dubbi circa la canonicità di alcuni libri. Ma in sostanza il loro canone è pratica-
mente identico al nostro. Nella liturgia la Chiesa Ortodossa greca legge gli stessi libri
del canone cattolico, più 1 Esdra, 3 Maccabei, la preghiera di Manasse ed il salmo 1513.
Torneremo ad alcune di queste liste parlando del canone dell'AT. E alla fine di
questa parte studieremo la definizione solenne del canone come verità di fede nel
Concilio di Trento (1546).
1. Su questo concilio e l'autenticità della lista di libri ad esso attribuita, cf. B. F. Westcott, A General
Survey of the History of the Canon of the New Testament, Macmillan, London 71896, 439-447; Metz-
ger, Canon of the New Testament, 210.
2. Sull'accettazione “con riserve” di questo concilio da parte di alcuni Papi, cf. G. Nedungatt, «The
Council of Trullo Revisited: Ecumenism and the Canon of the Councils», Theological Studies 71
(2010) 651-676.
3. Cf. D. J. Constantelos, «The Bible in the Orthodox Church» in J. E. Bowley (ed.), Living Traditions
of the Bible: Scripture in Jewish, Christian, and Muslim Practice, Chalice Press, St. Louis 1999,
133-144, 140-141.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 151
La polemica attuale, nella quale ci si chiede se includere o meno nel NT altri testi
antichi riscoperti negli ultimi decenni, come il Vangelo di Tommaso o quello di Giu-
da, è artificiale, perché non tiene conto della storia, almeno della storia trasmessaci
dalle fonti. Nella Grande Chiesa non si è mai posto questo problema, perché il conte-
nuto di questi vangeli e di altri simili è palesemente eterodosso, cioè non concorda
con la regola di fede. Un testo come il Vangelo di Tommaso non è andato perso per
motivi fortuiti o per decisioni arbitrarie delle autorità, ma perché i cristiani si sono
resi conto della sua incompatibilità con la tradizione proveniente dagli apostoli (per
alcuni testi del Vangelo di Tommaso, cf. pp. 286-290).
Invece, più oscuro resta il caso di alcuni scritti minori, di dottrina ortodossa e
molto antichi, dei quali alcuni sono dentro il canone, come Filemone, Giuda o 3 Gio-
vanni, probabilmente perché attribuiti ad apostoli, ed altri fuori, come 1 Clemente, la
Didaché o il Pastore di Erma. Resta in piedi, dunque, la domanda circa quali criteri ha
usato la Chiesa per distinguere i libri, per decidere quali erano sacri e canonici e quali
no1. Ebbene, come osserva Pasquale Basta, si deve tener conto che:
Non esiste una singola regola di giudizio veramente esaustiva; emerge piuttosto una
serie di criteri, che insieme servono per fornire una qualche ragionevolezza all'atto
della scelta e dell'assunzione di un preciso corpus letterario utilizzato nella vita di
una Chiesa. I criteri in questione non sono mai stati stabiliti a tavolino o posti a
fondamento di un sistema in maniera estrinseca, ma sono deducibili sulla base delle
affermazioni maggiormente ricorrenti all'interno di quei documenti ecclesiali che in
una certa misura si sono pronunciati sul Canone biblico2.
1. Sui criteri di canonicità, cf. K.-H. Ohlig, Woher nimmt die Bibel ihre Autorität?: zum Verhaltnis von
Schriftkanon, Kirche und Jesus, Patmos, Düsseldorf 1970; Artola - Sánchez Caro, Biblia y Palabra
de Dios, 108-116; Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 14, sezione 2.
2. Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 231.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 152
• antichità,
• ortodossia,
• concordanza con altri libri già accettati,
• comprensibilità,
• carattere edificante,
• utilità al di là delle circostanze concrete di un momento (non occasionalità).
A questi criteri se ne aggiungono altri, provenienti non dai libri stessi, ma dal
loro uso ecclesiale. Bisogna vedere se un libro:
• viene letto in altre chiese, specialmente in quelle di origine apostolica,
• viene usato nella liturgia,
• è citato come Scrittura,
• le autorità ecclesiastiche l'hanno riconosciuto.
Come si vede, si tratta di criteri molto diversi fra loro. Alcuni — soprattutto quel-
li del secondo gruppo — si potevano accertare facilmente; altri invece no, come l'an-
tichità o la comprensibilità. E non tutti i criteri si possono applicare a tutti i libri. Per
esempio, la possibilità di concordare con altri libri già accettati serve soltanto quando
questi ultimi esistono.
Se si vuole sintetizzare in un solo concetto l'insieme di questi criteri, si deve par-
lare della tradizione della Chiesa. La Dei Verbum afferma con semplicità, ma con pro-
fondità, che è la Tradizione “che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sa-
cri” (DV8). La Chiesa non ha determinato il canone attraverso una complicata ricerca
storica, ma lo ha “scoperto”, per così dire, guardando la propria vita, vedendo ciò che
crede e discernendo così quali libri corrispondono alla tradizione ricevuta dagli apo-
stoli. E in questo compito crediamo che la Chiesa non può sbagliare, perché è assistita
dallo Spirito Santo, come afferma lo stesso documento conciliare (cf. DV8; sul ruolo
del magistero nella formazione del canone, si veda anche sotto, pp. 188-189).
In questo senso, si deve aggiungere che, fra i criteri sopra menzionati, alcuni
sono più importanti di altri. Nel caso del NT, il criterio decisivo, che in qualche ma-
niera include tutti gli altri, consiste nell'apostolicità. Tutti gli autori cristiani antichi in
un modo o nell’altro affermano la equivalenza fra credere nell'origine apostolica di un
libro e credere nel suo valore normativo per la Chiesa, nella sua ispirazione e
canonicità.
Infatti, non è casuale che quasi tutti gli scritti apocrifi prendano il nome di un
apostolo, per cercare di guadagnare autorità: abbiamo il Vangelo di Tommaso, l'Apo-
calisse di Pietro, gli Atti di Andrea, ecc. La Chiesa ne ha saputo discernere la non-
apostolicità soprattutto perché il loro contenuto non corrispondeva alla regola della
fede. Questi casi mostrano che il fatto di essere apostolico non è qualcosa che si limi-
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 153
ta all’autore a cui un libro viene attribuito. Infatti, la Lettera agli Ebrei presenta il caso
contrario. Il testo si presenta come anonimo, come accade anche con i quattro vange-
li. Già Origene riconosceva che Ebrei ha uno stile diverso da quello di Paolo e che
nessuno sa chi l'abbia scritta:
Io da parte mia sono di questa opinione che i pensieri siano dell'Apostolo, lo stile
invece e la composizione di qualcuno che ricordava i detti dell'Apostolo o che illu-
strò gli insegnamenti del maestro. Perciò, se qualche Chiesa ritiene l'epistola come
paolina, le sia ciò a titolo di onore, poiché non infondatamente gli antichi l'hanno
tramandata come tale. Ma chi fu a comporre la lettera? Dio solo lo sa1.
1. Origene, Hom. in Hebr, citato da Eusebio, Hist. Eccl. 6,25,13-14 (traduzione di Del Ton).
2. Cf. A.-M. la Bonnardière, «L'Epître aux Hébreux dans l'oeuvre de saint Augustin», REAug 3 (1957)
137-162.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 154
canonici del NT in un senso analogico della parola e senza troppo specificare la ma-
niera esatta in cui si può verificare l'origine apostolica di un documento particolare1.
Per capire ciò che seguirà, occorre alludere grosso modo alla considerazione di al-
cuni libri come sacri prima di Gesù. La Torah di Mosè è un testo sacro e normativo,
perché contiene le parole che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai. Gli oracoli di Geremia
vengono trasmessi per iscritto e letti, perché sono considerati parole divine sempre
attuali (cf. Dn 9). Lo stesso vale per gli oracoli di altri profeti, come Isaia, Ezechiele e i
Dodici. Ma probabilmente non si pensava esattamente così rispetto ad altri testi,
como Cronache, Ester o il Cantico dei cantici (cf. pp. 93-99 e Excursus 3, pp. 266-
285).
In ciò che segue, daremo uno sguardo ai principali documenti storici che posso-
no aiutare a comprendere come gli ebrei sono arrivati alla fissazione della loro attuale
Bibbia di ventiquattro libri.
1. Traduzione mia. “The apostolicity of the New Testament canon is a «theologoumenon,» that is, a
theological construct with a conceptual kernel that is theological, but is, at the same time, super-
imposed upon the rudimentary facts of historical tradition. The theological concept in itself is not
justified without reference to some factual historical foundation. Yet the exact way in which the hi-
storical basis of an apostolic origin may be verified for one book or another is not defined with au-
thority. Nor is it required that in each case the apostolic character of a book be defined in a univo-
cally identical way. The Magisterium of the Church, up to and including Dei Verbum at Vatican II,
has always found it sufficient to affirm the apostolicity of the canonical books of the New Testa-
ment in some analogous sense of the word and without close specification of the exact way in
which the apostolic origin of a particular document is actually verified”, Farkasfalvy, Inspiration &
Interpretation, 48 (corsivo nell'originale).
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 155
È un indizio che fa pensare che ormai si trovassero tutti nello stesso rotolo1.
All'epoca di Ben Sira, dunque, oltre alla Torah, esisteva probabilmente anche una
collezione di libri simile alla seconda parte dell'attuale BH, i “Profeti” (Gdc, Gs, Sam,
1. Sulla formazione del libro dei dodici profeti, cf. B. A. Jones, The Formation of the Book of the
Twelve: A Study in Text and Canon, Scholars Press, Atlanta 1995.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 156
Re, Is, Ger, Ez e i 12). Ben Sira conosce anche il libro dei Proverbi, perché l'elogio del-
la sapienza in Sir 24 è chiaramente costruito a partire da Prv 8-9.
Tuttavia, nel libro del Siracide non si riscontrano quasi mai vere e proprie citazio-
ni1. E, tranne il libro della Torah (cf. Sir 24,23) non si menzionano “libri” come tali.
Ben Sira ha usato libri, ma non è ancora un commentatore delle Scritture, che si limi-
ta a citarle e spiegarle come testi ritenuti superiori o normativi. Ben Sira considera se
stesso come facente parte della stessa linea degli autori precedenti (cf. Sir 24,28-34;
33,16-19; 51). La propria stesura del libro sembra manifestare che non esiste ancora
l'idea di un canone chiuso definitivamente. Questa impressione sembra confermato
dal prologo, che presenta il libro in paragone con gli altri scritti di Israele.
1. I casi più vicini ad una citazione letterale sono due: in 48,10, Ben Sira sembra citare Mal 3,24; e in
49,7 cita con certa libertà Ger 1,5.10.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 157
Questo testo è assai importante, perché si tratta della testimonianza più antica
che abbiamo dell'esistenza di una organizzazione di scritti in tre gruppi (che vale an-
cora oggi per gli ebrei).
Il primo gruppo è la Torah; il secondo viene chiamato “i profeti”, che dovrebbero
corrispondere più meno a quelli che nella BH si chiameranno profeti anteriori e pro-
feti posteriori. Il terzo gruppo, invece, non ha un nome proprio, il che fa pensare che
non si tratti di una collezione chiusa (anche perché vi dovrebbe rientrare lo stesso li-
bro del Siracide). E poi il testo non dice nulla sul contenuto concreto di questi tre
gruppi, né sulla loro sacralità (Dio non viene menzionato esplicitamente).
Inoltre, il testo è una testimonianza del fatto che esisteva già una traduzione in
greco non solo della Torah, ma anche di libri degli altri due gruppi. Grazie al prologo
del Siracide sappiamo che nella seconda metà del II secolo a.C. circolavano in Egitto
traduzioni in greco non solo della Legge, ma anche dei Profeti e “degli altri scritti”.
1. Per un riassunto di ciò che si può sapere circa le traduzioni dopo quella del Pentateuco, cf. E. Tov,
«Reflections on the Septuagint with Special Attention Paid to the Post-Pentateuchal Translations»
in W. Kraus - M. Karrer - M. Meiser (eds.), Die Septuaginta - Texte, Theologien, Einflüsse: 2. Inter-
nationale Fachtagung veranstaltet von Septuaginta Deutsch (LXX.D), Wuppertal 23.-27.7.2008, Mohr
Siebeck, Tübingen 2010, 3-22.
2. Una tavola con il contenuto di questi tre codici in parallelo può vedersi in E. L. Gallagher - J. D.
Meade, The Biblical Canon Lists from Early Christianity: Texts and Analysis, Oxford University
Press, Oxford 2017, 246-249.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 158
o ispirato. Dunque, da sola, la versione dei Settanta non ci aiuta a sapere esattamente
quali libri si consideravano sacri prima di Cristo, oltre ai cinque della Torah di Mosè.
1. Sul canone a Qumran esiste molta bibliografia. Una presentazione completa e aggiornata si può
vedere in T. H. Lim, The Formation of the Jewish Canon, Yale University Press, New Haven 2013,
119-147.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 159
Infine, a Qumran leggevano anche alcuni libri propri della comunità, cioè testi
che parlano delle loro regole di vita (Documento di Damasco, Regola della Comuni-
tà) o che interpretano altri libri applicandoli alla loro situazione (i cosiddetti
pesharim).
La domanda rilevante è se gli utenti di questa biblioteca distinguessero fra i libri
e come. Ad esempio, è notevole il fatto che alcuni libri si trovano scritti in caratteri
diversi, il cosiddetto paleo-ebraico, forse come segnale di una venerazione speciale. È
il caso di alcuni esemplari dei cinque libri della Torah e di Giobbe. Ma non possiamo
dedurre che solo questi libri fossero considerati sacri. Più interessante è vedere quali
libri fossero oggetto di commentario. A Qumran sono stati trovati commenti (pesha-
rim) di Isaia, di Osea, di Michea, di Abacuc, di Sofonia e di alcuni salmi. Ovviamente,
questo criterio non permette di stabilire l'elenco completo dei libri ritenuti sacri, ma
riflette il fatto che almeno alcuni di essi erano considerati come profezie del tempo
futuro e dunque come parola di Dio.
Un altro criterio di distinzione procede dalle citazioni di libri negli scritti propri
della comunità. Vengono citati come scrittura la Torah, Isaia, Geremia, Ezechiele, Da-
niele, i profeti minori ed i Salmi1. Pertanto, almeno i libri sicuramente considerati sa-
cri non risultano molto diversi dal futuro canone ebraico. Tuttavia, non è improbabile
che a Qumran considerassero sacri alcuni libri propri del gruppo, come il Rotolo del
Tempio.
Inoltre si deve tener presente che la biblioteca apparteneva ad una comunità che
si era separata dal sacerdozio e dal Tempio di Gerusalemme. Quindi si discute fino a
che punto Qumran possa essere considerato come rappresentativo dell'opinione co-
mune degli ebrei dell’epoca. In sintesi, non è chiaro se esistesse una “coscienza cano-
nica” nella comunità che abitava a Qumran. La seguente tabella descrive la situazione
dei libri della Bibbia Ebraica e altri simili secondo i ritrovamenti2. Lo scopo non è im-
parare questi numeri a memoria, ma farsi un'idea di quanto appena detto:
1. “La Torah, Isaïe, Jérémie, Ézéchiel, les Petits Prophètes, ainsi que les Psaumes et Daniel se trouvent
aussi rapprochés les uns des autres à Qumrân par le fait que ce sont les seuls livres qui sont cités
dans les autres écrits avec la formule introductive caractéristique: «il est écrit (...)».” D. Barthélemy,
«L'état de la Bible juive depuis le début de notre ère jusqu'à la deuxième révolte contre Rome
(131-135)» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa formation et
son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 9-45, 37.
2. I numeri provengono da E. Ulrich, «Qumran and the Canon of the Old Testament» in J.-M. Au-
wers - H.-J. de Jonge (eds.), The Biblical Canons, Leuven University Press, Leuven 2003, 66-80, ag-
giornati secondo la tabella presentata da Idem, The Dead Sea Scrolls and the Developmental Com-
position of the Bible, Brill, Leiden 2015, 321.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 160
Giosuè - 2
Giudici - 3
Samuele 1 4
Re - 3
Profeti posteriori
Isaia 9 21
Geremia 1 6
Ezechiele 4 6
I dodici profeti 9 9
Scritti
Salmi 2 36
Giobbe - 6
Proverbi 1 4
Rut - 4
Cantico - 4
Qoèlet - 2
Lamentazioni - 4
Ester - -
Daniele 2 8
Esdra - 1
Neemia - 1
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 161
Cronache - 1
Totale 236
Altri libri
1 Enoc - 12 (+9?)
Giubilei 1? 14 (+3?)
Tobia - 5
Ben Sira - 2
Lettera di Geremia - 1
Come abbiamo visto (pp. 86-90), i vangeli ci tramandano che Gesù ha fatto rife-
rimenti sia alle “Scritture” in genere che a passi concreti. Da Lc 24,44, sembra che
Gesù conoscesse una divisione tripartita delle Scritture di Israele (Legge di Mosè,
Profeti e Salmi) simile a quella testimoniata dal prologo del Siracide.
Se si mettono insieme i quattro vangeli, si vede che Gesù fa citazioni di tutti e
cinque i libri della Torah (soprattutto del Deuteronomio), della maggioranza dei Pro-
feti (specialmente di Isaia) e di alcuni degli Scritti (soprattutto dei Salmi)1.
Oltre ai riferimenti alle Scritture che i vangeli attribuiscono direttamente a Gesù,
ci sono quelli fatti dagli autori del NT. Facendo una somma di tutte le citazioni espli-
cite dell'AT nel NT, si ottiene il seguente risultato2.
• Vi sono citazioni dei cinque libri del Pentateuco: Gn (19 volte), Es (24), Lv (14),
Nm (1) e Dt (42).
• Di quelli che noi chiamiamo libri storici, vengono citati esplicitamente soltanto
Gs (1), Sam (5) e Re (1).
1. Cf. C. A. Evans, «The Scriptures of Jesus and His Earliest Followers» in L. M. McDonald - J. A.
Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabo-
dy 2002, 185-195.
2. Ho preso i dati da Barthélemy, «L'état», 15. Se, oltre alle citazioni esplicite, si considerano anche le
allusioni, la lista cambia completamente: cf. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 12, sezione 3.1.
Non sempre risulta facile determinare se c'è davvero un'allusione o se si tratta di una semplice
coincidenza di idee. Per esempio, in Rm 1,19-23, san Paolo sostiene una tesi che appare anche in
Sap 13,1-9, ma per alcuni autori questa somiglianza non basta per affermare che Paolo conoscesse
direttamente il libro della Sapienza.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 162
• Dei libri poetici e sapienziali, vi sono citazioni esplicite soltanto di Gb (1), Sal
(54), e Prv (4).
• Dei libri profetici, non manca nessuno dei profeti maggiori: Is (48), Ger (9), Ez
(2), Dn (2). I profeti minori vengono citati 22 volte in tutto; presi separatamente
vengono citati Os, Gl, Am, Gio, Mic, Ab, Ag, Zc e Ml. Mancano cioè citazioni
esplicite di Abd, Na e Sof, ma siccome all'epoca i profeti minori formavano or-
mai un solo libro — il rotolo dei Dodici —, la loro assenza non è significativa.
• Nel NT mancano citazioni esplicite di Gdc, Rt, 1-2 Cr, Esd-Ne, Tb, Gdt, Est, 1-2
Mac, Qo, Sap, Sir, Lam e Bar.
Dal numero di citazioni si può dedurre l'importanza attribuita ad alcuni libri,
come i Salmi, Isaia e Deuteronomio. Inversamente però non è lecito dedurre che un
libro non citato fosse sconosciuto dagli scrittori del NT oppure che non fosse ritenuto
sacro. Il NT non permette di ricostruire l'elenco di libri che i suoi autori ritenevano
sacri, per il semplice fatto che essi citano diverse scritture in maniera occasionale,
senza intenzioni di fornire un catalogo completo.
Inoltre, bisogna aggiungere che il NT contiene alcune sorprese. Ci sono allusioni
a libri che non fanno parte del nostro AT. Il caso più chiaro si trova nella lettera di
Giuda. Dopo aver alluso a un episodio narrato in un libro chiamato L'assunzione di
Mosè, l'autore della lettera cita esplicitamente un brano di altro libro extra-canonico, 1
Enoc:
Profetò anche per loro Enoc, settimo dopo Adamo, dicendo: «Ecco, il Signore è ve-
nuto con migliaia e migliaia dei suoi angeli per sottoporre tutti a giudizio, e per di-
mostrare la colpa di tutti riguardo a tutte le opere malvagie che hanno commesso e
a tutti gli insulti che, da empi peccatori, hanno lanciato contro di lui» (Gd 14-15; la
citazione corrisponde a 1 Enoc 1,9).
Che cosa si può dire davanti a questo caso? Evidentemente, se fra i primi cristiani
esisteva un canone di Scritture corrispondente a quello odierno, l'autore di Giuda
non lo conosce oppure se ne distacca. Tuttavia, sembra più ragionevole pensare che
non si debba parlare di un “canone” biblico nel I secolo d.C., perché a quell'epoca non
esisteva ancora una lista ufficiale di libri o una collezione chiusa di Scritture. Per l’au-
tore della lettera di Giuda, 1 Enoc contiene una profezia valida per illustrare un inse-
gnamento1. Più tardi, la Chiesa universale non accetterà questo libro come ispirato e
1. Più tardi, poggiandosi sull'autorità della lettera di Giuda, Tertulliano difenderà l'ispirazione di 1
Enoc: cf. De cultu feminarum 1,3. Il libro di 1 Enoc verrà usato dalla Chiesa in Etiopia per diversi
secoli, fino ad arrivare alla Chiesa Etiopica Ortodossa di oggi: cf. R. W. Cowley, «The Biblical Ca-
non of the Ethiopian Orthodox Church Today», Ostkirchliche Studien 23 (1974) 318-323; L. Baynes,
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 163
canonico. Senza negare una certa tensione, si deve riconoscere che si tratta di due
questioni diverse1.
La citazione esplicita di 1 Enoc nella lettera di Giuda deve servire come avverten-
za, per non applicare al resto del NT una semplice equivalenza fra la citazione di un
libro e il riconoscimento della sua canonicità.
Oggi la maggioranza degli studiosi afferma che la formazione del canone dell'AT
è durata molto tempo e che al tempo di Gesù non esisteva ancora, oltre alla Torah di
Mosè, un canone di libri comune a tutti. Infatti, quando parliamo del “giudaismo” al
tempo di Gesù, stiamo facendo una semplificazione, perché a quell'epoca ne esisteva-
no diversi gruppi. Abbiamo già menzionato i sadducei e i membri della comunità di
Qumran. Ve ne erano altri: farisei, esseni, erodiani, zeloti, gruppi di tipo apocalittico,
eccetera. E per quanto ne sappiamo, sembra che non tutti usassero o riconoscessero
le stesse Scritture.
Comunque sia, la diversità non era totale. Infatti, tutti i giudei e perfino i samari-
tani accettavano i cinque libri della Torah di Mosè (più meno nella forma che cono-
sciamo oggi). I libri dei “Profeti” — cioè Gs, Gdc, Sam, Re, Is, Ger, Ez e i Dodici Pro-
feti — godevano anch'essi di una grande accettazione (invece il libro di Daniele ha
una storia a parte; nell’attuale canone ebraico non si trova fra i Profeti, ma fra gli
Scritti). Anche altri libri come Salmi, Giobbe e Proverbi erano riconosciuti da tutti.
Ma accettare alcuni libri non è la stessa cosa che avere un elenco definitivo (e quindi
chiuso) di libri sacri.
Come visione d'insieme, possiamo prendere queste parole della PCB:
Oggi sembra più probabile che al tempo della nascita del cristianesimo, le raccolte
chiuse dei libri della Legge e dei profeti esistessero in una forma testuale sostanzial-
mente identica a quella del nostro Antico Testamento attuale. La raccolta degli
«Scritti», invece, non era così ben definita, in Palestina e nella diaspora ebraica, sia
nel numero dei libri che nella forma del loro testo2.
«Enoch and Jubilees in the Canon of the Ethiopian Orthodox Church» in E. F. Mason (ed.), A Tea-
cher for All Generations: Essays in Honor of James C. VanderKam, Brill, Leiden 2012, 799-818.
1. Per approfondire, cf. J. Hultin, «Jude's Citation of 1 Enoch» in J. H. Charlesworth - L. M. McDo-
nald (eds.), Jewish and Christian Scriptures: The Function of "Canonical" and "Non-Canonical" Reli-
gious Texts, T&T Clark, New York 2010, 113-128; N. J. Moore, «Is Enoch Also among the Prophets?
The Impact of Jude’s Citation of 1 Enoch on the Reception of Both Texts in the Early Church»,
Journal of Theological Studies 64 (2013) 498-515.
2. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico, n. 16.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 164
Gli avvenimenti dell'anno 70 dopo Cristo segnano un prima e un dopo nella sto-
ria del popolo ebraico. Dopo la sconfitta nella prima guerra contro Roma (66-73), al-
cuni gruppi giudaici spariscono dalla storia: i sadducei, la comunità di Qumran, ecc.
Altri, come gli zeloti o alcuni gruppi di tendenza apocalittica sopravvivono ancora
per un poco, ma a quanto pare si estingueranno definitivamente dopo la seconda
guerra giudaica (132-135). Dei diversi gruppi giudaici esistenti lungo il primo secolo,
soltanto due sussisteranno nei secoli successivi: il cosiddetto giudaismo rabbinico (o
“rabbinismo”) ed il cristianesimo, che si apre ai gentili, si universalizza e alla fine di-
venta un movimento separato dalla sinagoga.
Dopo il 70, il popolo giudaico, ormai privato del Tempio, senza sacerdozio e
culto, ma ancora in possesso dei libri sacri, deve riorganizzarsi. La base per definire
1. G. Aranda Pérez, «Il problema teologico del canone biblico» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura
anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Univer-
sità della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 13-35, 21.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 165
no adesso alcuni che osano scrivere su fatti nei quali né sono stati presenti né si
sforzano di informarsi presso coloro che ci sono stati1.
Il testo, come si vede, è di grande interesse non solo per la storia del canone, ma
anche per il concetto di ispirazione. Si tratta dell'unica volta in tutte le opere di Giu-
seppe in cui appare il termine “ispirazione” (ἐπίπνοια). Tale ispirazione divina non è
una caratteristica dei ventidue libri, ma la si presenta soltanto come la fonte della co-
noscenza di alcuni fatti (quelli “lontani e antichi”) da parte dei profeti.
Ma soprattutto questo testo costituisce la prima testimonianza storica in cui si
parla di un numero esatto di Scritture in Israele.
La prima domanda da porsi riguarda l'affidabilità della testimonianza di Giu-
seppe. Fino a che punto riporta fatti reali? Non sta esagerando per motivi retorici? In
questo senso, bisogna anche chiedersi se manifesta davvero una credenza di tutti i
giudei o soltanto una sua opinione personale. In effetti, alcune delle sue affermazioni
sembrano dettate dalla necessità dell'argomentazione. Per esempio, l'insistenza sulla
perfetta armonia esistente fra i ventidue libri sembra rispondere più alla retorica che
alla realtà dei fatti. Inoltre, dire che tutti i giudei sono disposti a morire per i loro libri
è un'inesattezza. In realtà, d'accordo con diverse fonti storiche, si riscontra un simile
atteggiamento dei giudei soltanto per il libro della Torah2.
Nonostante questi problemi, si deve notare che a Flavio Giuseppe sarebbe risulta-
to molto più logico dire che tutti i libri giudaici meritano la stessa fiducia, anche quel-
li più recenti (fra i quali si trova il suo racconto della guerra giudaica contro Roma).
Invece, egli mette una barriera fra i ventidue libri e quelli scritti dopo, probabilmente
perché tale differenza era reale.
Nello stesso senso, la menzione di quattro libri non storici non si adatta bene
all'argomentazione e quindi sembra riflettere il fatto che esistesse davvero un gruppo
definito di ventidue libri.
1. Contra Apionem I,37-45. Traduzione presa, per i nn. 37-44, da Perrella, Introduzione generale, 1*.
Per il n. 45, la traduzione è mia. Per un commento più esteso di questo testo, cf. S. Mason, «Jose-
phus and His Twenty-Two Book Canon» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon De-
bate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 110-127; J. C. Os-
sandón Widow, «Flavio Josefo y los veintidós libros: Nuevas preguntas en torno a Contra Apionem
I,37-45», Estudios bíblicos 67 (2009) 653-694.
2. “The Judean martyr-tradition on which Josephus draws was familiar with dying for the laws (or
for God), but not with dying for the scriptures—and, indeed, with death for the laws as textual
phenomena only inasmuch as they contained the rules and customs obeyed by Judeans, not as
written (historical) records in themselves. Josephus, however, needs this addendum to create the
following artificial contrast with the attitude of Greeks to their historiography”, J. M. G. Barclay,
Flavius Josephus: Against Apion, Brill, Leiden 2007, ad loc, nota 179.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 167
Possiamo chiederci quali sono i ventidue libri di cui parla Flavio Giuseppe. “I li-
bri di Mosè, in numero di cinque” corrispondono senz'altro al Pentateuco. Per il re-
sto, l'identificazione diventa molto più incerta. Alcuni autori partono dall'idea che i
ventidue libri devono essere gli stessi che formano l'attuale BH, che ne ha ventiquat-
tro. La differenza viene risolta dicendo que Giuseppe conta Giudici e Rut come un
solo libro e fa lo stesso con Geremia e Lamentazioni (infatti tale equivalenza fra ven-
tidue e ventiquattro libri era conosciuta da san Girolamo, vedi p. 178). Così, i tredici
libri dovrebbero essere Gs, Gdc + Rt, Sam, Re, Cron, Esd-Ne, Is, Ger + Lam, Ez, i Do-
dici profeti, Dn, Est e Gb. Infine, gli altri quattro libri sarebbero Sal, Prv, Qo e Ct.
In realtà questa identificazione è un po’ forzata. O almeno possiamo dire che si
tratta di una ipotesi indimostrabile. Per esempio, per quanto riguarda i quattro libri
che “contengono degli inni a Dio e dei precetti morali per gli uomini”, sembra logico
pensare al libro dei Salmi (che in ebraico si chiamano appunto tehilim, “inni”) e al li-
bro dei Proverbi, che contiene fondamentalmente istruzioni di vita. Ma il Qoèlet e so-
prattutto il Cantico dei cantici non si aggiustano a questa descrizione.
Veramente, non sappiamo quali siano i ventidue libri di cui parla Flavio Giu-
seppe, anche se, com'è logico, è probabile che si trattasse di un gruppo molto simile,
se non identico, ai ventiquattro libri dell'attuale BH.
Un altro discorso merita la giustificazione che propone Giuseppe per fondare la
distinzione fra i ventidue libri e quelli scritti dopo, cioè la fine della successione dei
profeti. Alcuni testi rabbinici posteriori parleranno del silenzio di Dio a partire
dall'esilio in Babilonia oppure dell'estinzione della profezia dopo la morte dei profeti
Aggeo, Malachia e Zaccaria1.
Senza entrare nell'argomento — che è complesso — bisogna dire che questo tipo
di affermazioni sembrano spiegazioni costruite a posteriori. Cioè, una volta che si ha
una collezione fissa di libri, si deve tentare di fornirne una giustificazione. Allora, sic-
come si crede che tutti i libri siano antichi, si deduce che non ci sono stati più libri
perché la profezia è finita in un passato lontano. In questa linea, molti secoli più tardi,
alcuni autori ebrei avanzeranno l'ipotesi che la costituzione del canone è stata opera
di Esdra nel momento del ritorno del popolo dopo l'esilio a Babilonia.
1. Per una raccolta dei testi antichi collegati a questa tematica, cf. L. S. Cook, On the Question of the
"Cessation of Prophecy" in Ancient Judaism, Mohr Siebeck, Tübingen 2011.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 168
Una parentesi: perché si chiama “quarto libro di Esdra” se nelle nostre Bibbie ce
n'è solo uno? La risposta è un po' complicata. Nella tradizione della Bibbia greca, i li-
bri canonici di Esdra e Neemia vengono considerati un solo libro, che si chiama 2
Esdra o Esdra β, perché prima di essi si mette un libro extra-canonico, chiamato 1
Esdra o Esdra α (che è una raccolta di brani di altri libri: consiste nei due ultimi capi-
toli di 2 Cronache e nella ripetizione del libro di Esdra, più alcuni brani di Neemia:
l'unica parte originale si trova in 3,1-5,6, la storia dei tre paggi). Invece, nei manoscrit-
ti della Vulgata si separano Esdra e Neemia, che diventano 1 e 2 Esdra, e si aggiunge
poi Esdra α, che diventa 3 Esdra. Questo è il motivo per cui nella tradizione latina
l'apocrifo di cui ci occupiamo adesso viene chiamato 4 Esdra, mentre in altre tradi-
zioni lo chiamano 2 Esdra. Ecco un quadro riassuntivo di questi nomi:
Parafrasi di 2 Cron
Libro di Esdra Libro di Neemia 35-36 + Esdra + Ne Apocalisse
7,38-8,12 + storia dei
tre paggi
BH Esdra Neemia non c'è non c'è
LX 2 Esdra (Esdra 2 Esdra (Esdra 1 Esdra (Esdra α) non c'è
X β) β)
Vg 1 Esdra 2 Esdra 3 Esdra 4 Esdra
Le prime parole di 4 Esdra ci forniscono il contesto narrativo del libro: Esdra, che
parla in prima persona, dice di trovarsi a Babilonia trent'anni dopo la caduta di Geru-
salemme (cf. 4 Esdra 3,1). Rivolge una preghiera a Dio, chiedendogli come mai ha
consegnato il suo popolo nelle mani dei babilonesi. Il Signore gli risponde, prima at-
traverso le parole di un angelo, poi con delle visioni. Alla fine, Esdra tiene un ultimo
dialogo con il Signore, prima di essere rapito in cielo. Riproduco un testo lungo per
fornire il contesto. Parla Esdra:
[1] Il terzo giorno accadde che io sedessi sotto una quercia, ed ecco che una voce
uscì da un rovo di fronte a me, e disse: "Ezra, Ezra!" (…) [19] Risposi e dissi: "Che io
possa parlare davanti a Te, o Signore! [20] Ecco, io me ne andrò come Tu mi hai
prescritto, e rimprovererò il popolo presente; ma quelli che verranno poi, chi li am-
monirà? Il mondo infatti giace nell'oscurità, e coloro che lo abitano sono senza luce,
[21] perché la Legge è stata bruciata, e perciò nessuno conosce le opere che hai com-
piuto, o che cosa Tu dovrai compiere. [22] Infatti, se ho trovato favore di fronte a Te,
immetti in me il santo spirito, ed io scriverò tutto quello che è stato fatto nel mondo
dall'inizio, le cose che erano scritte nella Tua Legge, in modo che gli uomini possa-
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 169
no trovare il sentiero, e vivano coloro che vorranno vivere negli ultimi giorni". [23]
Mi rispose e disse: "Va', raduna il popolo, e di' loro di non cercarti per quaranta
giorni; [24] tu invece preparati molte tavolette per scrivere, e prendi con te Saria,
Dabria, Selemia, Ethan e Asihel, questi cinque perché sono capaci di scrivere rapi-
damente; [25] verrai qui, ed io accenderò in cuor tuo la lampada dell'intelletto, che
non si spegnerà finché non avrà termine quel che dovrai scrivere. (…)
[37] Presi i cinque uomini, come mi aveva ordinato; partimmo per la campagna e
rimanemmo là. [38] Il giorno dopo mi accadde che, ecco, una voce mi chiamò di-
cendo: "Ezra, apri la bocca e bevi quel che io ti somministro". [39] Aprii la bocca ed
ecco, mi veniva offerto un calice colmo: lo era come se lo fosse d'acqua, ma il suo
colore era simile al fuoco. [40] Io lo presi e bevvi e, mentre ne bevevo, il mio animo
faceva sgorgare fuori intelligenza e nel mio petto cresceva la sapienza, perché il mio
spirito conservava la memoria; [41] la mia bocca si aprì, e non si chiuse più. [42]
L'Altissimo però dette intelligenza (anche) ai cinque uomini, e quel che veniva loro
detto via via lo scrissero in caratteri che non conoscevano, restando colà per qua-
ranta giorni, scrivendo durante il giorno, e mangiando pane durante la notte, [43]
mentre io durante il giorno parlavo, ma durante la notte non tacevo.
[44] Furono scritti in questi quaranta giorni novantaquattro libri. [45] Accadde che,
quando si furono compiuti i quaranta giorni, l'Altissimo mi parlò dicendo: "I ven-
tiquattro libri che hai scritto prima rendili pubblici, che li legga sia chi è degno sia
chi è indegno; [46] ma i settanta scritti da ultimo conservali, per consegnarli ai sa-
pienti del tuo popolo, [47] perché in essi c'è la sorgente dell'intelligenza, la fonte del-
la sapienza, e il fiume della conoscenza!". [48] Ed io così feci, nell'anno settimo, nel-
la sesta settimana, dopo cinquemila anni dalla creazione, tre mesi e dodici giorni. In
questi giorni Ezra fu rapito e condotto nel luogo dove sono quelli come lui, dopo
che ebbe scritto tutte queste cose; e fu chiamato scriba della conoscenza dell'Altissi-
mo, per i secoli dei secoli1.
Con queste parole finisce 4 Esdra. Il lettore capisce allora che questo stesso libro
fa parte di quei settanta che Dio ha comandato a Esdra di non pubblicare, diversi da-
gli altri ventiquattro libri già pubblicati e disponibili per tutti, degni e indegni. È
anche da notare come tutti questi libri vengano considerati come parte dell’unica To-
rah di Dio (“Legge”).
L'autore di 4 Esdra sembra essere in disaccordo con quelli che accettano soltanto
ventiquattro libri. O almeno sta cercando di fondare l'autorità del proprio libro e di
altri simili, non riconosciuti da tutti.
1. Traduzione di Paolo Marrassini in P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell'Antico Testamento: Volume secondo,
UTET, Torino 1989.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 170
Nonostante le differenze esistenti fra 4 Esdra e Flavio Giuseppe, si vede una certa
coincidenza. In primo luogo, appare una vicinanza per quanto riguarda la data in cui
si colloca la scrittura finale dei libri (sia che si parli della redazione degli ultimi libri
come nel caso di Giuseppe, sia che si descriva la riscrittura di tutti come in 4 Esdra).
Infatti, Giuseppe parla dell'epoca di Artaserse, mentre la visione di cui si parla in 4
Esdra avviene trent'anni dopo la distruzione del Tempio. Cioè, in un caso si parla del
V sec. a.C. e nell'altro del VI sec. a.C.
Entrambi menzionano un numero di libri: ventidue in un caso, novantaquattro
nell'altro. Il numero dei libri pubblicamente conosciuti è quasi identico: ventidue e
ventiquattro. Queste due cifre hanno una caratteristica che le accomuna: entrambe
corrispondono al numero di lettere di un alfabeto: di quello ebraico (22) o di quello
greco (24). Probabilmente non è una semplice coincidenza. Forse ambedue hanno ri-
cevuto come informazione che fra i giudei si accetta un numero di libri uguale alle
lettere dell’alfabeto e ciascuno l'ha inteso in riferimento a un alfabeto diverso1.
Diverse volte Gesù viene chiamato “Rabbi” (Mt 26,25, 49; Mc 9,5; 11,21; 14,45; Gv
1,38.49; 3,2; 4,31; 6,25; 9,2; 11,8). Spesso gli viene chiesta un'interpretazione di natura
1. Sulla concezione dei libri in 4 Esdra e l'importanza di questo testo per la storia della formazione
del canone, cf. J.-D. Kaestli, «Le récit de IV Esdras 14 et sa valeur pour l'histoire du canon de l'An-
cien Testament» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa forma-
tion et son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 71-102; J. M. Sánchez Caro, «Inspiración y canon
en 4 Esd 14, 1-50: Intento de revisión», Estudios bíblicos 64 (2006) 671-697; K. M. Hogan, «The
Meanings of tôrâ in 4 Ezra», Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic, and Roman
Period 38 (2007) 530-552; M. Becker, «Grenzziehungen des Kanons im frühen Judentum und die
Neuschrift der Bibel nach dem 4. Buch Esra» in M. Becker - J. Frey (eds.), Qumran und der bi-
blische Kanon, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 2009, 195-253.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 171
Il più antico di questi scritti, la Mishna, raccoglie detti di rabbini, alcuni dell'epo-
ca di Cristo o addirittura anteriori, fino all'anno 200 d.C., data approssimata della
pubblicazione di questa compilazione, scritta in ebraico.
Rabbi Simone dice: Qoèlet appartiene ai libri leggeri secondo la scuola di Shammai,
e ai libri pesanti secondo la scuola di Hillel.
Rabbi Simone Ben Zakkai disse: Io ho sentito una tradizione dei settantadue anzia-
ni, quando essi elessero R. Eleazaro Ben Azaria (capo) del collegio dei saggi, secon-
do cui il Cantico dei cantici e Qoèlet sporcano le mani.
Rabbi Aqiba disse: Dio ne scampi! Nessuno in Israele ha mai contestato che il Can-
tico dei cantici sporchi le mani, perché il mondo intero non vale il giorno in cui il
Cantico dei cantici è stato donato ad Israele, perché tutti i Ketubim sono santi, ma il
Cantico dei cantici è il santo dei santi. Se c'è stata una discussione, essa ha riguarda-
to soltanto il Qoèlet.
Rabbi Johanan ben Joshua disse: Si è discusso e si è deciso come ha detto ben
Zakkai1.
Come si vede dal testo, le discussioni su alcuni libri sono durate a lungo, prolun-
gandosi almeno fino alla redazione della Mishna. E se ne continuò a discutere anche
dopo l'anno 200 d.C. Infatti, in testi posteriori alla compilazione della Mishna, si
vede che, oltre Qoèlet e il Cantico dei cantici, i rabbini hanno discusso sulla sacralità
di Ester e di Ezechiele (accettandola) e del Siracide (rifiutandola)2.
Quando nel testo citato si menzionano i settantadue anziani che elessero come
capo Eleazaro Ben Azaria, si sta parlando di un'assemblea tenutasi a Jamnia (Jamnia
o Jabneh è una località sul Mediterraneo, vicina all'attuale Tel Aviv). Johanan Ben
Zakkai — rabbino che secondo la leggenda riuscì a scappare da Gerusalemme du-
rante l'assedio dei romani nascosto in una bara — ottenne dai romani l'autorizza-
zione per formare a Jamnia una scuola, che è diventata uno dei centri della riorganiz-
zazione del popolo ebraico.
È utile sapere che l'ipotesi — ormai abbandonata — secondo la quale gli ebrei
avrebbero stabilito il canone in un “concilio” o “sinodo” tenutosi attorno all'anno 90
d.C. a Jamnia si poggiava fondamentalmente su questo testo della Mishnah. Ma,
come si può vedere dal testo, non è vero che durante questa assemblea sia stato stabi-
1. mYadayim 3,5b, traduzione presa da G. Barbiero, Cantico dei cantici, Paoline, Milano 2004, 18.
2. Per approfondire, cf. D. Stern, «On Canonization in Rabbinic Judaism» in M. Finkelberg - G. G.
Stroumsa (eds.), Homer, the Bible, and Beyond: Literary and Religious Canons in the Ancient World,
Brill, Leiden 2003, 227-252; G. Stemberger, «La formation et la conception du canon dans la pen-
sée rabbinique» in E. Norelli (ed.), Recueils normatifs et canons dans l'Antiquité: Perspectives nou-
velles sur la formation des canons juif et chrétien dans leur contexte culturel: Actes du colloque orga-
nisé dans le cadre du programme plurifacultaire La Bible à la croisée des savoirs de l'Université de
Genève: 11-12 avril 2002, Zèbre, Prahins 2004, 113-131.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 173
lito un “canone”, cioè un elenco completo e chiuso di libri sacri. Secondo il testo, a
Jamnia si è discusso soltanto sulla sacralità di Qoèlet e del Cantico dei cantici. Altri-
menti, non si comprende perché le discussioni fra i rabbini siano continuate durante
il secondo secolo1.
18.6. La formazione del canone dell'AT nella Chiesa dei primi secoli
Fra i primi autori cristiani vediamo un uso delle Scritture d'Israele molto simile a
quello testimoniato dal NT. Citano cioè diversi libri secondo l’occasione, talvolta
anche apocrifi, senza mai darne una lista. Per esempio, lo stesso libro citato nella let-
tera di Giuda, 1 Enoc, è citato come Scrittura da Tertulliano e da Clemente
d'Alessandria.
Siccome risulterebbe troppo lungo presentare adesso tutte le testimonianze dei
Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici riguardo al canone dell'AT, ci limitere-
mo a fornire alcuni dati essenziali. Come punto di partenza, si può dire che coesisto-
no nella Chiesa, fra i secoli II e V, due tendenze:
1. Cf. D. E. Aune, «On the Origins of the 'Council of Javneh' Myth», Journal of Biblical Literature 110
(1991) 491-493; J. P. Lewis, «Jamnia Revisited» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon
Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 146-162.
2. Cf. L. M. McDonald, The Biblical Canon: Its Origin, Transmission, and Authority, Hendrickson,
Peabody 2007, 163-165.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 174
• Da una parte, l'influsso del canone ebraico, che prende forma in questi anni,
porta alcuni a preferire un canone “corto”, cioè senza Tobia, Giuditta, 1-2 Mac-
cabei, Sapienza, Siracide e Baruc.
• Dall'altra, la prassi ecclesiale, benché diversa secondo i diversi luoghi e tempi,
in genere non esclude questi libri.
Poco dopo la metà del II secolo, in un tono aspramente polemico, san Giustino
accusa gli ebrei di avere tolto alcuni passi dalla versione greca delle scritture, perché
si riferiscono a Gesù (cf. Dialogo con Trifone, nn. 71 e 120).
Origene (III secolo) sa che gli ebrei non accettano alcuni libri. Lo dice con più
chiarezza e anche con più serenità di Giustino, ma condividendo il suo approccio
fondamentale: Origene non attribuisce alla prassi della sinagoga un valore normativo
per la Chiesa. Qui occorre soffermarsi un po', perché alcuni autori hanno voluto pre-
sentare Origene come un difensore del canone ebraico, il che non è vero.
In un testo riportato da Eusebio, Origene dice che l'AT contiene soltanto venti-
due libri “secondo gli ebrei”1. Invece, nelle sue opere non si trova mai un elenco dei li-
bri “secondo i cristiani”. Pensava forse che ci si dovesse attenere al canone ebraico?
Nel suo trattato sulla preghiera, il De Oratione, Origene appoggia un insegna-
mento in Dn 3,24 e in Tb 3,1-2. Poi si ricorda che questi testi non sono accettati dagli
ebrei e perciò aggiunge un terzo testo, 1 Sam 1,10-11. Ecco la sua giustificazione:
Ma siccome quelli della circoncisione hanno messo un obelo nel testo citato di Da-
niele, come non esistente in ebraico, e rifiutano il libro di Tobit, come non apparte-
nente al Testamento, aggiungerò quello di Anna del primo dei Regni2.
Questo brano non significa che Origene fosse a favore del canone ebraico, perché
nel medesimo libro utilizza spesso Sapienza, Tobia e Giuditta, citandoli come Scrittu-
ra senza alcun rimorso. Cita una volta anche 2 Maccabei. Invece, se si tiene conto che
il De oratione non è un'opera indirizzata a ebrei, ma a cristiani, il brano appena citato
1. Comm. in Ps. I. Il testo lo riporta Eusebio di Cesarea in Hist. Eccl. 6.24.1-2. Origene osserva che
ventidue è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico e poi presenta l'elenco: Gn, Es, Lv, Nm, Dt,
Gs, Gdc e Rt come un solo libro, Sam, Re, Cron, 1-2 Esd come un solo libro, Sal, Prv, Qo, Ct, is,
Ger con Lam e la lettera di Geremia, Dn, Ez, Gb, Est e 1 Mac. L'assenza dei Dodici profeti e la
menzione di 1 Maccabei sono strane.
2. 14,4, traduzione mia. ἐπεὶ δὲ τὸ μὲν ἐν τῷ Δανιὴλ ῥητὸν ὠβέλισαν, ὡς μὴ κείμενον ἐν τῷ Ἑβραϊκῷ,
τῇ δὲ τοῦ Τωβὴτ βίβλῳ ἀντιλέγουσιν οἱ ἐκ περιτομῆς, ὡς μὴ ἐνδιαθήκῳ, παραθήσομαι ἐκ τῆς
πρώτης τῶν Βασιλειῶν τὸ τῆς Ἄννης·
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 175
fa vedere come alcuni cristiani potevano avere dei dubbi sull'autorità di quei libri,
proprio perché non erano accettati dalle comunità ebraiche1.
C'è un testo più esplicito sulla posizione di Origene riguardo all’estensione del ca-
none dell'AT. In una lettera a Giulio Africano (PG 11,48-85), parla della legittimità di
leggere la storia di Susanna (Dn 13), nonostante gli ebrei non la riconoscano. Origene
dunque difende l'uso che si fa nella Chiesa di alcuni libri o, più esattamente, difende
l'indipendenza della Chiesa dalla sinagoga nella determinazione del canone2.
Parallelamente alla linea di Giustino e Origene, nella Chiesa esistono alcuni auto-
ri che pensano che si debbano accettare soltanto i libri riconosciuti dagli ebrei. Il caso
più antico che conosciamo è quello di Melitone, vescovo di Sardi alla fine del II seco-
lo, che scrive una lettera ad un altro vescovo, Onesimo, dicendogli quali sono i libri
dell'AT, secondo quanto ha indagato “in oriente” (Gerusalemme?). Il testo della lette-
ra lo riporta Eusebio di Cesarea:
Melitone saluta il fratello Onesimo. Poiché, per l'amore che porti alla dottrina [della
fede] mi chiedesti spesse volte di comporre degli Estratti di passi della Legge e dei
Profeti, riguardanti il Salvatore nostro, e, in succinto, l'oggetto della nostra fede; ed
esprimesti il desiderio di conoscere con precisione il numero dei libri del Vecchio
Testamento, e il loro ordine, mi son messo con lena alla opera. (…) Recatomi
dunque in oriente, ho veduto i luoghi dove fu annunziato e si compì ciò che
contiene la Scrittura, ed ho appreso con esattezza quali sono i libri del Vecchio Te-
stamento. Ne ho fatto l'elenco e te lo invio. Ecco i titoli dei cinque libri di Mosè; la
Genesi, l'Esodo, i Numeri, il Levitico, il Deuteronomio; Gesù [figlio di] Nave [Gio-
suè], i Giudici, Rut, i quattro libri dei Re; i due dei Paralipomeni; i Salmi di Davide,
i Proverbi di Salomone ovvero la Sapienza [Σολομῶνος Παροιμίαι ἢ καὶ Σοφία];
l'Ecclesiaste; il Cantico dei Cantici; Giobbe; i Profeti: Isaia, Geremia; i dodici profeti
in un sol libro; Daniele, Ezechiele, Esdra. Da queste fonti ricavai i miei Estratti che
ho diviso in sei libri3.
1. Cf. J. Ruwet, «Duo textus Origenis de canone Antiqui Testamenti», Biblica 2 (1921) 57-60.
2. Sulla posizione di Origine riguardo al canone, cf. E. R. Kalin, «Re-examining New Testament Ca-
non History, 1: The Canon of Origen», Currents in Theology and Mission 17 (1990) 274-282; sulla
lettera a Giulio Africano, G. Buzási, «An Ancient Debate on Canonicity: Julius Africanus and Ori-
gen on Susanna» in K. D. Dobos - M. Köszeghy (eds.), With Wisdom as a Robe: Qumran and other
Jewish Studies in Honour of Ida Fröhlich, Sheffield Phoenix Press, Sheffield 2009, 438-450; E. L.
Gallagher, Hebrew Scripture in Patristic Biblical Theory: Canon, Language, Text, Brill, Leiden 2012,
63-85.
3. Hist. Eccl. 4.26.12-14. Traduzione italiana presa da: Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica e I mar-
tiri della Palestina: Testo greco con traduzione e note di Giuseppe Del Ton, Desclée, Roma 1964.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 176
Come si vede, la lista di Melitone non è identica alla BH: manca Ester, forse man-
ca pure Neemia se non è incluso con Esdra, e mancano le Lamentazioni se non sono
incluse con Geremia. Non si menziona il numero totale di libri: ne risultano 25 (o
26); è da notare che Melitone conta 1-2 Sam e 1-2 Re come “quattro libri dei Re”, il che
corrisponde alla tradizione greca, non a quella ebraica. Inoltre Melitone sembra
confondere Sapienza e Proverbi. Infine, Melitone non fa menzione degli ebrei, forse
perché non ha voluto farlo o forse perché ha appreso questa lista non da loro, ma da
cristiani che abitavano in Palestina.
Altre testimonianze simili provengono da alcuni Padri della Chiesa del IV secolo,
quando il problema del canone si pone esplicitamente. In questo momento, come ab-
biamo visto, un solo codice può contenere tutta la Bibbia. È anche il secolo in cui la
Chiesa gode per la prima volta di un lungo periodo di pace in tutto l'Impero romano,
quasi senza persecuzioni.
Verso il 350, san Cirillo di Gerusalemme insegna ai catecumeni che i libri dell'AT
tramandati dagli apostoli sono ventidue e offre la lista secondo il modo di contare de-
gli ebrei (παρ' Ἐβραίοις). Egli presenta Rut unito a Giudici e, come opere unite a Ge-
remia, non solo le Lamentazioni, ma anche Baruc e la lettera di Geremia, cioè, due
scritti assenti nell'attuale BH (Catechesis IV, 33-36). E sant'Atanasio, vescovo di Ales-
sandria, dottore della Chiesa, nella Lettera 39 dell'anno 367 (testo in EB 14-15) dice:
Il totale dei libri dell'Antico Testamento è dunque di ventidue. Ho sentito infatti che
questo è il numero dei testi tramandato presso gli Ebrei. Eccoli nel loro ordine e col
loro nome.
Segue l'elenco, che non coincide completamente con la BH: manca Ester e ci
sono Baruc e la Lettera di Geremia, contati come un solo libro insieme a Geremia, al
quale si uniscono anche le Lamentazioni. Alla fine della lettera, Atanasio aggiunge
che Sapienza, Siracide, Ester, Giuditta, Tobia, la Didaché e il Pastore non sono canoni-
ci, ma raccomandabili per la lettura.
Nella linea di Cirillo di Gerusalemme e di Atanasio va messo anche san Girola-
mo, di cui parleremo dopo (cf. pp. 177-180).
Dall'altra parte, sant'Agostino è da situare nella linea di Giustino ed Origene. Le
Scritture canoniche si devono determinare secondo l'uso che se ne fa nelle diverse
chiese, specialmente in quelle più autorevoli:
[Il lettore] seguirà l'autorità della maggioranza delle chiese cattoliche, soprattutto di
quelle che hanno avuto il privilegio di essere sedi degli apostoli e di riceverne le let-
tere. Osserverà a questo proposito la norma di anteporre le Scritture canoniche ac-
cettate da tutte le chiese cattoliche a quelle che alcune non accettano. Tra quelle poi
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 177
che non sono accettate da tutte, anteporrà quelle accettate dalle chiese più nume-
rose e autorevoli a quelle che sono state accolte da chiese in minor numero e di mi-
nore autorità. Se poi avrà trovato che alcune sono accettate da più chiese, altre da
chiese più autorevoli — ma non dovrebbe darsi un caso del genere —, ritengo che
egli dovrà considerare queste Scritture dotate di pari autorità1.
Dopo aver presentato questi criteri, non può sorprendere che l'elenco proposto
da Agostino nel paragrafo seguente sia quello “lungo”, cioè, quello che include i libri
non accettati dagli ebrei (cf. De doctrina christiana II, 8, 13).
Proprio nell'epoca di Agostino appaiono alcune decisioni ufficiali del magistero
della Chiesa riguardo al canone biblico, come già menzionato a proposito del NT. I
concili provinciali di Ippona (anno 393, cf. EB 16) e di Cartagine (397), la lettera del
papa Innocenzo I dell'anno 405 (cf. EB 21) e un terzo concilio a Cartagine (419) pro-
pongono l'elenco completo dei libri dell'AT, che sarà poi ripreso dal Concilio di Fi-
renze. Per una decisione universale con carattere di definizione di fede, bisogna at-
tendere fino al Concilio di Trento (cf. pp. 184-188).
Nella storia del canone dell’AT, un ruolo fondamentale corrisponde a san Girola-
2
mo . Come abbiamo visto a proposito della Vulgata (pp. 126-134), Girolamo non ha
tradotto l’AT a partire dal greco, ma dall’originale ebraico, contro la tendenza del suo
tempo.
Questo principio di seguire la hebraica veritas non si limitava alla lingua origi-
nale dei libri, ma anche al canone. Girolamo pensa che la Chiesa doveva accettare sol-
tanto i ventiquattro libri della Bibbia degli ebrei. Il testo più importante al riguardo è
il prefazio alla sua traduzione dei libri di Samuele e dei Re — conosciuto come prolo-
gus galeatus — che funziona come una introduzione per l’intero progetto di tradu-
zione3. Girolamo spiega che gli ebrei hanno soltanto ventidue libri, numero che corri-
1. De doctrina christiana, II, 8, 12. Traduzione presa da S. Agostino, L'istruzione cristiana; a cura di
Manlio Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla: A. Mondadori, Milano 1994.
2. Sulla posizione di Girolamo riguardo al canone, cf. Perrella, Introduzione generale, 138-142 (nn.
128-131); F. F. Bruce, The Canon of Scripture, IVP Academic, Downers Grove 1988, 87-93; E. L. Gal-
lagher, «The Old Testament "Apocrypha" in Jerome's Canonical Theory», Journal of Early Chri-
stian Studies 20 (2012) 213-233.
3. Su questo prologo, cf. I. Cecchetti, «San Girolamo e il suo "Prologus Galeatus" (Alle origini della
Volgata)» in Miscellanea Antonio Piolanti, Facultas Theologiae Pontificiae Universitatis Lateranen-
sis, Romae 1964, 2:77-114; Gallagher, «OT "Apocrypha" in Jerome»; Idem, «Jerome’s Prologus Ga-
leatus and the OT Canon of North Africa» in M. Vinzent (ed.), Papers Presented at the Sixteenth
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 178
sponde alle lettere dell'alfabeto ebraico. Aggiunge che questo numero equivale a
ventiquattro, perché quando si contano come ventidue si includono Rut nel libro dei
Giudici e le Lamentazioni dentro Geremia (cf. Prologus in libro Regum, Vg Weber
364-365, nn. 23-47). A continuazione, san Girolamo dichiara:
Questo prologo delle Scritture può servire come elmo per tutti i libri che abbiamo
tradotto in latino dall'ebraico, affinché possiamo sapere che i libri che stanno al di
fuori devono essere ritenuti apocrifi. Perciò la Sapienza che volgarmente si dice di
Salomone, il libro di Gesù figlio di Sirac, Giuditta, Tobia e il Pastore non sono nel
canone. Ho trovato in ebraico anche il primo libro dei Maccabei; il secondo invece è
greco, come si può dedurre anche dallo stesso stile1.
La menzione del Pastore di Erma, opera cristiana del II secolo, è fuori luogo, per-
ché non c'entra col canone dell'AT, ma con quello del NT. Inoltre, manca un riferi-
mento al libro di Baruc e alla lettera di Geremia. Il criterio però risulta chiaro: per Gi-
rolamo i libri autentici sono quelli del canone ebraico; il resto va considerato
“apocrifo”, cioè non canonico.
Alcuni anni dopo, nel prologo a Proverbi, Cantico e Qoèlet, san Girolamo ribadi-
sce questa opinione. Dopo aver detto che Sapienza e Siracide non si trovano presso
gli ebrei, spiega:
Così come i libri di Giuditta, di Tobia e dei Maccabei la Chiesa certamente li legge,
ma non li riceve tra gli scritti canonici; così anche può leggere questi due volumi
[Sap e Sir] per edificazione del popolo, ma non per confermare l'autorità dei dogmi
ecclesiastici2.
Stupisce che Girolamo presenti come posizione della Chiesa ciò che in realtà era
la sua opinione, peraltro meno chiara in altri testi. Infatti, talvolta san Girolamo si di-
mentica dell’hebraica veritas e cita alcuni di questi libri come Scrittura. Per esempio,
commentando Is 3,12, dopo la formula dicente Scriptura sacra segue una citazione del
International Conference on Patristic Studies Held in Oxford 2011: Volume 17: Latin Writers Nachle-
ben, Peeters, Leuven 2013, 99-106.
1. Traduzione mia. “Hic prologus Scripturarum, quasi galeatum principium, omnibus libris, quos de
hebraeo vertimus in latinum, convenire potest, ut scire valeamus, quidquid extra hos est, inter
apocrypha seponendum. Igitur Sapientia, quae vulgo Salomonis inscribitur, et Iesu filii Sirach li-
ber et Iudith et Tobias et Pastor non sunt in canone. Machabaeorum primum librum hebraicum
repperi. Secundus graecus est, quod et ex ipsa φρασιν probari potest” (Vg Weber 365, nn. 52-57).
2. “Sicut ergo Iudith et Tobi et Machabaeorum libros legit quidem Ecclesia, sed inter canonicas
scripturas non recipit, sic et haec duo volumina legat ad aedificationem plebis, non ad auctorita-
tem ecclesiasticorum dogmatum confirmandam”, Prologus in libris Salomonis (Vg Weber 957, nn.
19-21).
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 179
Siracide1. E a proposito di Ger 1,7, cita un testo del libro della Sapienza come alio pro-
pheta loquente2.
Nonostante la sua opinione sul canone, Girolamo non è un luterano ante litte-
ram, perché non mette in discussione l'autorità della Chiesa. La sua attenzione al te-
sto e al canone degli ebrei vanno insieme con una interpretazione delle Scritture che
vuole rimanere sempre cristiana ed ecclesiale:
A noi incombe la necessità di interpretare le Scritture come si leggono nella Chiesa,
e tuttavia non omettere la verità ebraica3.
Si deve tener conto del fatto che all'epoca di Girolamo la Chiesa non aveva anco-
ra definito il canone. Forse egli è stato un po’ imprudente nel proporre un'opinione
personale come se fosse dottrina comune, ma di sicuro non è un eretico!
Per concludere, bisogna segnalare che, dopo alcune resistenze iniziali, la tradu-
zione gerominiana fu ricevuta con grande stima nei secoli successivi. Invece l'aspetto
canonico della hebraica veritas non ha avuto un successo analogo, come si vede
dall'inclusione nella Vulgata dei libri che Girolamo non accettava. Paradossalmente, i
principali codici della Vulgata latina contengono i libri che Girolamo non riteneva
canonici! Tobia e Giuditta li tradusse lo stesso Girolamo, per richiesta di due vescovi
e forse anche perché apprezzava questi due libri4. Egli ha tradotto anche le “parti
greche” di Daniele e di Ester. Invece, gli altri cinque libri (1-2 Mac, Sir, Sap, Bar) sono
stati presi da traduzioni latine anteriori e inseriti nella Vulgata geronimiana. Il desi-
derio di utilizzare quei libri è prevalso sull'opinione del grande traduttore5.
Eppure, l'opinione di Girolamo sul canone continuò a influire su alcuni intellet-
tuali cristiani — pochi ma importanti — fino al Concilio di Trento. Ugo di San Vit-
tore (†1141), Giovanni di Salisbury (†1180), Ugo di San Caro, O.P. (†1263), Nicola di
Lira, O.F.M. (†1340), sant’Antonino di Firenze, O.P. (†1459) e, poco prima di Trento,
1. “Nec praeuenit sententiam iudicis sui, dicente scriptura sancta: ne beatum dicas quemquam ho-
minum ante mortem”, Comm. in Isaiam 3,12 (PL 24,67). La citazione corrisponde a Sir 11,3o.
2. “Ne aetatem, inquit, consideres - alio enim propheta loquente didicisti: cani hominis sapientia
eius -”. In Hier. prophetam libri vi (PL 24,683). Cf. Sap 4,8.
3. “Nobis autem (…) incumbit necessitas ita interpretari scripturas quomodo leguntur in ecclesia, et
nihilominus Hebraicam non omittere veritatem”, Comm. in prophetas minores, lib. 1 (CCSL 76,517).
4. Cf. Idem, «Why did Jerome Translate Tobit and Judith?», Harvard Theological Review 108 (2015)
356-375.
5. Per quanto riguarda il Siracide, sappiamo che esisteva una versione latina nel II secolo (la cita
spesso san Cipriano, III secolo), ma che arrivava soltanto fino al capitolo 43. Dopo Girolamo, si in-
trodusse questa versione nella Vulgata e si aggiunsero i capitoli mancanti. Sant’Isidoro di Siviglia è
il primo che cita Sir 44-50 in latino. Cf. M. Gilbert, «Siracide», DBS 12 (1996) 1389-1437, 1398.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 180
Tommaso De Vio Gaetano, O.P. (†1534) distinguono fra i ventidue libri degli ebrei e
gli altri, che sarebbero “utili” o “edificanti” ma non propriamente canonici1.
Come si vede, i libri dell'AT che Lutero qualificherà come “apocrifi” avevano alle
spalle una lunga storia di discussioni e dubbi sulla loro canonicità, che spiegano per-
ché l'opinione di Lutero al riguardo abbia avuto un certo successo.
1. Su questi e altri autori, cf. Perrella, Introduzione generale, 144-145 (n. 135). Sull'opinione del cardi-
nale Gaetano e il suo influsso a Trento, cf. J. Wicks, «Catholic Old Testament Interpretation in the
Reformation and Early Confessional Eras» in M. Sæbø (ed.), Hebrew Bible / Old Testament: The
History of Its Interpretation, II: From the Renaissance to the Enlightenment, Vandenhoeck & Ru-
precht, Göttingen 2008, 617-648.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 181
Il principio della sola Scriptura esige per forza che si trovi nella stessa Scrittura un
nucleo dottrinale che consenta di giudicare il resto degli insegnamenti biblici, e
adempia così il ruolo dell'autorità esterna rifiutata. Lutero individua tale criterio in
Gesù Cristo, in quanto egli salva per la fede. Esiste un centro della Scrittura: Gesù
crocifisso e risorto. Egli è la norma, il “canone”.
La ricerca di un nucleo della Scrittura che abbia più autorità del resto, offrendone
la chiave interpretativa, ha delle conseguenze sulla determinazione del canone bibli-
co. Lutero afferma che la vera sostanza e midollo di tutti i libri biblici si trova nel van-
gelo di Giovanni e nella sua prima epistola, nelle lettere paoline — specialmente Ro-
mani, Galati ed Efesini —, e nella 1 Pietro2.
Invece, altri libri del NT, come Ebrei, Apocalisse, Giacomo e Giuda, sono di se-
conda categoria. Nella prefazione alle epistole di Giacomo e Giuda, per la sua tradu-
zione in tedesco, Lutero si esprime con chiarezza:
In ciò concordano tutti i veri libri sacri, che sempre predicano e insegnano Cristo.
Questa è anche la vera pietra di paragone per valutare tutti i libri: vedere se essi in-
segnano Cristo o no, giacché tutta la Scrittura mostra Cristo (Rm 3), e S. Paolo non
vuol sapere di altro che di Cristo, cfr. 1 Cor 2(2). Ciò che non insegna Cristo non è
apostolico, anche se lo dicessero S. Pietro o S. Paolo. Al contrario, ciò che predica
Cristo, è apostolico, anche se lo facessero Giuda, Anna, Pilato e Erode. Ma questo
Giacomo non fa altro che insistere sulla legge e sulle opere3.
La lettera di Giacomo non può essere apostolica — sostiene Lutero — perché non
insegna Cristo. Il criterio di canonicità non dipende dall'autorità della Chiesa, né
dall'uso liturgico, né dalla tradizione apostolica, ma dal contenuto del testo, interpre-
1. Traduzione mia. Testo originale latino in Assertio omnium articulorum M. Lutheri per Bullam Leo-
nis X novissimam damnatorum [1520], WA 7, 97; cf. 7, 99.
2. Cf. Das Neue Testament [1522], Vorrede, WA DB 6,10.
3. Traduzione presa da M. Lutero, Prefazioni alla Bibbia: a cura e con un saggio di Marco Vannini,
Marietti, Genova 1987, 178-179. Testo originale tedesco in Das Neue Testament [1522]. Vorrede auf
die Episteln Sanct Iacobi und Judas, WA DB 7, 384-387.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 182
tato secondo il principio della giustificazione in Cristo per la sola fede. Alla fin fine,
l'autorità viene trasferita all'interprete individuale.
*
Questa gerarchizzazione dei libri ha delle conseguenze sul canone biblico e, più
radicalmente, sull'unità di tutta la Bibbia. Quando la Scrittura viene separata dalla
tradizione della Chiesa, si finisce, dopo un processo più o meno lungo e articolato,
ma inevitabile, per distruggere l'unità della Scrittura stessa1.
Alcuni secoli dopo Lutero, il problema apparirà a proposito del valore dell'AT.
Alla fine del Settecento, J. S. Semler (†1791) rifiuterà i “grossolani pregiudizi giudaici”
di gran parte dell'AT e proporrà di farne un estratto2.
Non stupisce che, più tardi, il protestantesimo liberale arrivi a richiedere che si
prescinda completamente dell'AT, come esigenza dell'evoluzione dello spirito cristia-
no. Lo ha affermato nettamente Adolf von Harnack (1851-1930):
La tesi che verrà argomentata in seguito suona così: rigettare l'Antico Testamento nel
II secolo era un errore che la Grande Chiesa giustamente ha evitato. Conservarlo nel
XVI secolo fu una fatalità a cui il Riformatore non è stato capace di sottrarsi. Ma
continuare a conservarlo ancora nel XIX secolo come documento canonico nel Prote-
stantesimo è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica3.
Come avverrà in molti seguaci di Lutero, il principio della sola Scriptura porta a
negare quello della tota Scriptura, e questo non solo nei riguardi dell'AT, ma anche
del Nuovo. Lo stesso Harnack è stato il primo autore a richiamare l'attenzione sul cat-
tolicesimo primitivo presente in molti testi del NT. La stessa constatazione riappare
in Rudolph Bultmann (1884-1976). Rendersene conto portò ad alcuni luterani, come
Max Thurian e Heinrich Schlier, a entrare nella Chiesa cattolica. Invece, un discepolo
di Bultmann, Ernst Käsemann, propose esplicitamente, seguendo un'idea di Schleier-
1. Per ciò che segue, cf. P. O'Callaghan, «Sola Scriptura o tota Scriptura?: Una riflessione sul princi-
pio formale della teologia protestante» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura anima della teologia.
Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 147-168, 155ss.; più ampiamente, cf. i capitoli 14
e 15 di Mannucci - Mazzinghi, Bibbia.
2. Cf. C. Theobald, «Sens de l’Écriture. Le sens de l’Écriture du XVIIIe siècle au XXe siècle», DBS XII
(1992) 470-514, 476.
3. A. von Harnack, Marcione: il Vangelo del Dio straniero: una monografia sulla storia dei fondamenti
della Chiesa cattolica, Marietti 1820, Genova 2007, 315 (corsivo nell'originale). Per un commento
circa l'opinione di Harnack sull'AT, si consiglia la presentazione del Card. Ratzinger a: Pontificia
Commissione Biblica, Il popolo ebraico. Cf. anche Grelot, Sens chrétien, 75-77.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 183
Nella sua traduzione del NT in tedesco, Lutero ha messo Ebrei, Giacomo, Giuda
e Apocalisse in appendice. La scarsa considerazione di Lutero per questi quattro libri
si spiega per l'idea luterana della centralità della fede in Cristo, di cui abbiamo parlato
sopra. In questo punto, però, l'opinione di Lutero non ha avuto alcun successo: tutte
le Bibbie protestanti presentano i ventisette libri del NT nell'ordine abituale1.
Per quanto riguarda l'AT, Lutero ha separato alcuni libri, mettendoli in un’appen-
dice sotto il titolo di “apocrifi”. Secondo lui questi libri non sono ispirati, ma risultano
utili per l'edificazione. Nell'indice degli apocrifi menziona Tobia, Giuditta, 1 e 2 Mac,
Sapienza, Siracide e Baruc (con la lettera di Geremia), più le parti greche di Daniele e
di Ester. Invece include nei testi anche la Preghiera di Manasse, curiosamente man-
cante nell'indice.
Tutte le confessioni protestanti hanno seguito Lutero in questa scelta, o lasciando
tali libri in appendice sotto il titolo di “apocrifi” (la decisione più frequente), o esclu-
dendoli totalmente dalle loro Bibbie.
La domanda da porsi è perché Lutero e gli altri riformatori hanno negato la cano-
nicità e dunque l'ispirazione di quei libri e di quelle parti dell'AT. Non è possibile ad-
durre il principio della giustificazione per la fede in Cristo senza le opere della legge,
che serviva a declassare Ebrei, Giacomo, Giuda e l’Apocalisse, perché allora i libri ve-
terotestamentari da escludere sarebbero tutti!
1. Sull'influsso — diretto o indiretto — di Lutero in tutte le edizioni moderne della Bibbia, cf. W.
Walden, «Luther: The One Who Shaped the Canon», Restoration Quarterly 49 (2007) 1-10.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 184
Nella quarta sessione del Concilio di Trento, l'8 aprile 1546, i Padri conciliari ap-
provarono due decreti sulla Bibbia. Il primo di essi (citato più di una volta dalla Dei
Verbum) parla delle scritture canoniche e ne offre l'elenco1.
19.3.1. La lista
Nella parte sul canone, il decreto presenta la lista dei libri con queste parole:
Per evitare dubbi circa i libri riconosciuti da questo concilio, esso ha creduto oppor-
tuno aggiungerne l'elenco a questo decreto (EB 57).
Poi segue l'enumerazione dei libri. Riporto il testo nell'originale latino, facile da
capire:
Sunt vero infrascripti. Testamenti veteris: quinque Moisis, id est, Genesis, Exodus,
Leviticus, Numeri, Deuteronomium; Iosuæ, Iudicum, Ruth, quatuor Regum, duo
Paralipomenon, Esdræ primus et secundus, qui dicitur Nehemias, Tobias, Iudith,
1. Sulla definizione tridentina del canone biblico, cf. Perrella, Introduzione generale, 159-163 (nn.
146-152); per maggiori dettagli cf. A. Maichle, Der Kanon der biblischen Bücher und das Konzil von
Trient: eine Quellenmässige Darstellung, Herder, Freiburg 1929; P. G. Duncker, «De singulis S.
Scripturae libris controversis in Concilio Tridentino» in A. Metzinger (ed.), Miscellanea biblica et
orientalia Athanasio Miller completis LXX annis oblata, Herder, Romae 1951, 66-93; Idem, «The Ca-
non of the Old Testament at the Council of Trent», Catholic Biblical Quarterly 15 (1953) 277-299;
Bedouelle, «Le canon». Gli atti del concilio ed altri documenti si possono consultare nella edizione
detta “goerresiana”: Concilium Tridentinum: diarorum, actorum, epistularum, tractatuum nova col-
lectio, edidit Societas Goerresiana promovendis inter Germanos Catholicos Litterarum Studiis,
Friburgi Brisgoviae, Herder, 1901 e ss., rieditata a partire dal 1964. Di solito si indica con la sigla
CT, a volte anche CTG.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 185
1. “Alios esse libros qui ut authentici et canonici et est a quibus fides nostra dependeat, alii ut canoni-
ci tantum quique ad docendum idonei et ad legendum in ecclesiis utiles sunt” CT V, p.7, l.11-14, ci-
tato da Idem, «Le canon», 264-265.
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 186
19.3.2. L'anatema
Dopo aver elencato i libri, il decreto tridentino aggiunge una condanna o
anatema:
Se qualcuno poi non accetterà come sacri e canonici questi libri, nella loro integrità
e con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e come si tro-
vano nell'antica edizione della volgata latina e disprezzerà consapevolmente le pre-
dette tradizioni: sia anatema (EB 60)1.
Con questi termini, il canone biblico diventa oggetto di una definizione dogmati-
ca. Per essere in comunione con la Chiesa, bisogna accettare tutti i libri elencati come
sacri e canonici.
Il testo parla dei “libri integri con tutte le loro parti”. Occorre spiegare a cosa si ri-
feriscono queste parole. Grazie agli atti del concilio, sappiamo che i Padri hanno di-
scusso su alcune “parti” del NT: il finale di Marco (Mc 16,9-20), l'angelo che conforta
Gesù e il sudore di sangue (Lc 22,43-44) e l'episodio della donna adultera in Gv
7,53-8,11. Questi versetti suscitavano dubbi sulla loro canonicità, non per il loro conte-
nuto, ma per motivi di critica testuale: sono assenti infatti in molti manoscritti anti-
chi. I Padri conciliari non hanno voluto menzionare esplicitamente questi brani nel
decreto, per non provocare confusione o scandalo fra i semplici fedeli. Ma è chiaro
che si riferiscono ad essi2.
Detto questo, conviene chiarire che la dichiarazione tridentina non vale a priori
per tutti i passi su cui esistono dei dubbi, come Gv 5,4 (l'angelo che discendeva per
agitare le acque della piscina di Betzatà), 1 Gv 5,7 (i tre testimoni in cielo) o il prologo
del Siracide (si può discutere se faccia parte del libro o meno, e dunque se sia ispira-
to). Trento vuole difendere l'integrità della Bibbia, ma poi bisogna studiare caso per
caso per sapere se un determinato testo ne fa veramente parte.
Per offrire un criterio sull'integrità di cui si parla, il testo parla dei libri “come si è
soliti leggerli nella Chiesa cattolica e come si trovano nell'antica edizione della Volga-
ta latina”. Commenta Perrella:
1. “Si quis autem libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, prout in ecclesia catholica legi
consueverunt et in veteri Vulgata Latina editione habentur, pro sacris et canonicis non susceperit,
et traditiones prædictas sciens et prudens contempserit: anathema sit”.
2. Inoltre, nelle discussioni si allude una sola volta ai frammenti greci di Daniele, respinti dai prote-
stanti, mentre di Ester non si è parlato: cf. Duncker, «De singulis».
PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ 187
le due frasi non vanno prese in senso disgiuntivo, quasi fossero due diversi criteri,
ma congiuntivo. Ambedue infatti esprimono in forma concreta la medesima realtà,
cioè la prassi della Chiesa, ossia l'uso che la Chiesa fa del tal libro (o brano)1.
In fondo, prendere come criterio la prassi della Chiesa (cioè l'uso universale dei
libri) è un modo di riferirsi alla tradizione viva. Trento non vuole fare altro che pro-
clamare la fede di tutti i tempi. L'unica vera novità del concilio — che non è poco —
consiste nell'autorità solenne e definitiva con cui presenta il canone biblico.
Infatti, se ci si chiede in base a quali criteri Trento arrivi a proporre la lista dei li-
bri, il criterio fondamentale non è altro che la tradizione della Chiesa, espressa nella
sua prassi (specialmente nella liturgia, ma non solo) e formulata dal suo magistero.
Negli atti di Trento non si vede alcuna discussione di tipo storico o teologico, attorno
alla canonicità di questo o quel libro. In effetti, non si trattava di risolvere un proble-
ma tecnico, proprio di specialisti, ma di chiarire un aspetto fondamentale della vita
della Chiesa. Come capita sempre con le dichiarazioni del magistero, Trento non vo-
leva innovare, non pretendeva cioè di definire il canone ex novo, ma di confermare la
pratica abituale della Chiesa, per evitare dubbi.
Per questo motivo, la lista è volutamente identica a quella proposta un secolo pri-
ma dal Concilio di Firenze (o, più precisamente, di Basilea-Ferrara-Firenze,
1438-1445), che a sua volta ripete dichiarazioni previe del Magistero2.
A proposito di queste dichiarazioni magisteriali pre-tridentine, può sorgere una
domanda abbastanza ragionevole circa il contesto del decreto tridentino sul canone.
Come mai c'erano ancora dubbi all'interno della Chiesa circa la canonicità di alcuni
libri, se un concilio ecumenico aveva già definito il canone? Il Concilio di Firenze
aveva menzionato i libri biblici nella professione di fede, dentro il decreto di unione
con i cosiddetti “giacobiti” (copti), perché questi avevano più libri (cf. EB 47). Tutta-
via, questa professione di fede è stata fatta dopo la partenza dei greci che avevano
preso parte al concilio. Perciò, alcuni mettevano in dubbio l'appartenenza del testo al
concilio ecumenico. Inoltre, la definizione di Firenze non dice nulla su una possibile
distinzione fra due classi di libri canonici. Ecco perché il canone di Firenze non era
riuscito a cancellare tutti i dubbi fra i cattolici.
1. Nel percorso storico che abbiamo appena presentato, non è stato possibile parlare di un argomen-
to molto bello e interessante: la testimonianza dei monumenti. Per esempio, è frequente trovare
nelle catacombe e nei cimiteri cristiani dei primi secoli rappresentazioni della storia di Susanna
(Dn 13) o di Tobia. Per saperne di più, cf. Perrella, Introduzione generale, 133-134 (n. 125).
2. Aranda Pérez, «Il problema teologico del canone biblico», 31-32.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 190
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ
Una volta descritta la sacra Scrittura in rapporto alla rivelazione, come parola di
Dio ispirata, e nella sua materialità (canone e testo), manca ancora il compito più im-
portante, ma anche il più difficile: leggerla e comprendere cosa vuol dire. Questa
parte del corso intende offrire alcuni principi e alcune riflessioni sull’interpretazione
in genere e sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa.
Come si deve comprendere la Bibbia? Che conseguenze ha il carattere ispirato dei
testi sulla loro interpretazione? È la Scrittura un libro come tutti gli altri, in quanto
oggetto dell'interpretazione? Con quali disposizioni ci si deve avvicinare al testo sa-
cro? Bisogna essere credenti per comprendere correttamente i libri biblici? È giusto
interpretare alcuni brani simbolicamente, come delle allegorie, o si deve prendere tut-
to letteralmente? E cosa vuol dire «letteralmente»? Insieme a queste domande fonda-
mentali, altri argomenti dell'ermeneutica biblica sono i diversi metodi e approcci, la
definizione e classificazione dei sensi della Scrittura (senso letterale e senso spiri-
tuale), l'importanza della tradizione e del magistero per l'interpretazione della Bibbia
nella Chiesa e infine la storia dell'esegesi.
Di tali argomenti si dovrebbe occupare questa parte. Tuttavia, il tempo disponi-
bile non permette una presentazione sistematica e completa di tutti, ma solo di alcuni
principi generali. Il professore si conforta, pensando che l'interpretazione della Scrit-
tura si comprende davvero quando viene messa in pratica. Vi saranno occasioni di
approfondimento nei corsi biblici previsti nel Baccellierato in Teologia.
Il principio fondamentale nell’affrontare questa parte è, ancora una volta, l'analo-
gia della Bibbia con il mistero del Verbo incarnato. La Scrittura è parola di Dio e
dunque richiede un'interpretazione di tipo teologico. Ma i libri biblici sono opere let-
terarie, soggette alle limitazioni e ai condizionamenti culturali propri del linguaggio e
della cultura del momento, e vanno compresi come tali. In questo senso, vale la pena
tornare indietro e rileggere le parole di san Giovanni Paolo II, citate a p. 22, a propo-
sito dell'analogia fra la Scrittura ed il mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo.
Infine, conviene segnalare che l'interpretazione della Scrittura ha molti collega-
menti con problematiche attuali assai concrete. Basta pensare a tante interpretazioni
di tipo letteralista da parte delle sette o gruppi affini, come i Testimoni di Jehova, o
alle letture di tipo ideologico, come quelle ispirate al femminismo radicale o al
materialismo.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 192
Dietro questa diversità di significati, si cela un’unità di fondo. In poche parole, in-
terpretare è comprendere e comunicare. Infatti, in tutti i casi 'interpretare' implica
comprendere qualcosa in profondità — un testo, un comportamento, uno spartito,
una legge — fino al punto di poter spiegarla ad un altro o applicarla correttamente.
Interpretare è assimilare una cosa “strana” fino a farla propria.
In un certo senso, si può dire che l'interpretazione è presente in tutta l'esistenza
umana, in quanto l'uomo è un essere spirituale, capace di conoscere se stesso e il
mondo che lo circonda e che regola la propria attività secondo l’idea che ha di se e
degli altri. Tuttavia si parla di interpretazione soprattutto in riferimento alla lettura e
comprensione di testi scritti. Questo è il senso che interessa specialmente qui, perché
la Scrittura è un insieme di testi o, più precisamente, una collezione di opere letterarie
vincolate fra di loro. Per questo, sarà fondamentale precisare l'oggetto dell'interpreta-
zione (nozione di testo) e quali sono i mezzi per portarla a termine (principi generali,
metodi esegetici).
Come abbiamo visto nella prima parte del corso, nella Chiesa la Scrittura è rice-
vuta come parola di Dio. Dunque, nei diversi testi cerchiamo che cosa Dio vuole co-
municarci. Per questo, l'interpretazione della Bibbia deve tener conto sia dei principi
dell'interpretazione di testi letterari, sia di quelli della comunicazione. Ricordiamo lo
schema fondamentale della comunicazione:
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 193
ars interpretandi nasce in due contesti ben determinati: quello giuridico e quello bi-
blico. Infatti sia i testi legali che quelli biblici sono normativi, la loro interpretazione
cioè ha delle conseguenze pratiche immediate. Dall'interpretazione di una legge di-
pende se una persona è ritenuta colpevole o innocente, se va in carcere o meno.
Dall'interpretazione di un brano biblico può dipendere la fondatezza di una determi-
nata dottrina o pratica cristiana, la distinzione fra una dottrina ortodossa ed una ere-
tica, o la scelta di una forma di vita.
Sullo sfondo della nascita di questa ars interpretandi si trova il principio luterano
della sola Scriptura (vedi sopra, pp. 180-183). Lutero e gli altri riformatori avevano
messo in crisi la fiducia nella tradizione, fino ad allora considerata il criterio fonda-
mentale dell'interpretazione. Occorrevano dunque dei criteri oggettivi per determi-
nare con precisione il significato dei testi normativi.
Scopo principale dell'ars interpretandi è quello di aiutare l'interprete a risolvere i
casi difficili. La difficoltà può provenire da diverse cause. Per offrire alcuni esempi,
possiamo usare lo schema proposto da sant'Agostino (De doctrina christiana II,15),
che divide i testi difficili in due gruppi: i passi oscuri (cioè che non si capiscono) e i
passi ambigui, che si possono capire in diversi modi. Ecco un esempio di un passo bi-
blico ambiguo:
Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi
discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, per-
ché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-3).
L'ambiguità del testo si riferisce ai destinatari. A chi si rivolge Gesù nel discorso
della montagna? Soltanto ai discepoli? Possiamo tentare di rispondere con argomenti
teologici, ma non ve n'è bisogno, perché, se si continua a leggere, il testo stesso elimi-
na l'ambiguità:
Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegna-
mento (Mt 7,28).
È chiaro allora che Gesù non era salito sul monte per allontanarsi dalle folle e che
ha parlato alla moltitudine sin dall'inizio. L'esempio aiuta a capire una delle regole
fondamentali dell'interpretazione di qualsiasi testo: per risolvere una difficoltà di
lettore di avvicinarsi al testo con fede e umiltà (disposizioni soggettive); poi aggiunge diverse re-
gole pratiche: per esempio, conoscere bene le lingue e le loro espressioni (competenza filologica),
conoscere le realtà di cui parla il testo (erudizione, conoscenza delle cosiddette scienze ausiliari,
come la storia, l'archeologia, la geografia, ecc.), comprendere i passi oscuri grazie a quelli più chia-
ri, prima all'interno dello stesso libro, poi in tutta la Scrittura.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 195
comprensione, la prima istanza alla quale si deve ricorrere è il testo stesso (dei criteri
per determinare che cosa è un testo parleremo a pp. 203-205).
Vediamo adesso un esempio di un passo oscuro, di difficile comprensione. All’in-
izio della lettera ai Romani, dice san Paolo:
In esso [nel vangelo] infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede (ἐκ πίστεως εἰς
πίστιν), come sta scritto: «Il giusto per fede vivrà» (Rm 1,17, la citazione proviene da
Ab 2,4).
Il testo non ha problemi di critica testuale né grammaticali. Ma cosa vuol dire “da
fede a fede”? Dalla fede degli ebrei a quella dei gentili (cf. Rm 1,16)? Dalla fede di
Abramo a quella del vangelo (interpretazione di Tertulliano)? Dalla fede del predica-
tore a quella degli ascoltatori (sant'Agostino)? Dalla fede del neofita a quella del cre-
dente maturo (Lutero)? Dalla fede di Dio alla fede dell'uomo (Karl Barth)?
L'analisi della struttura retorica della lettera mostra che Rm 1,16-17 costituisce la
propositio, cioè la tesi che si vuole difendere. All'epoca di Paolo, era abituale l'impiego
di un linguaggio ellittico nell'enunciazione della propositio, con lo scopo di sollevare
quesiti nel lettore. Possiamo quindi dire che in questo caso l'ambiguità è voluta e deve
rimanere tale almeno in questo momento della lettura della lettera.
Se vogliamo dedurre una regola da questo esempio, possiamo parlare della neces-
sità di conoscere le convenzioni letterarie. Paolo conosceva le regole della retorica
classica e, con una certa libertà, le seguiva. Lo sviluppo dell'argomentazione in Roma-
ni ne è un chiaro esempio. Di queste convenzioni e dei generi letterari parleremo a
proposito di DV12 (pp. 202-203).
zione artistica, delle leggende e tradizioni popolari, insomma di tutto ciò che non ap-
partiene alla sfera del razionale, ridotto alla scienza fisico-matematica1.
Dalla mentalità romantica nasce un rinnovamento dell'interesse verso il passato
umano — che era stato disprezzato dal mito del progresso — che sta dietro allo svi-
luppo dell'archeologia e della storia nell'Ottocento. E dal romanticismo nasce pure
l'ermeneutica filosofica. Infatti, uno dei rappresentati del romanticismo, F. Schleier-
macher (1768-1834), pastore protestante e traduttore di Platone, è considerato il padre
o fondatore dell'ermeneutica filosofica. Egli estende l'arte dell'ermeneutica a tutti i te-
sti (cioè non solo a quelli difficili), perché cercava una scienza della comprensione in
generale.
Le idee di Schleiermacher sono state sviluppate da W. Dilthey (1833-1911). Ma l'er-
meneutica filosofica si associa soprattutto al pensiero di un discepolo di Heidegger,
H. G. Gadamer (1900-2002). Con lui giunge al culmine l'universalizzazione dell'er-
meneutica progettata da Schleiermacher, in quanto essa non è più una tecnica nor-
mativa su come interpretare, ma diventa una riflessione filosofica su che cosa sia il
comprendere, perché interpretare e comprendere non sono due operazioni diverse,
ma una sola.
Gadamer sottolinea l'implicazione del soggetto e del suo punto di vista in ogni
atto interpretativo. Questo lo porta a riscoprire il valore della tradizione e a ricono-
scere l’inevitabile presenza dei pregiudizi. Ogni conoscenza umana — che è un’inter-
pretazione — implica un interprete, il quale occupa una posizione non scelta da lui,
anche se può assumerla coscientemente. Non esiste un punto zero su cui si possa fon-
dare tutta la conoscenza, come voleva Cartesio (Descartes). Gadamer è molto critico
rispetto alla modernità ed al suo ideale di oggettività scientifica.
Una conseguenza del pensiero di Gadamer è che per capire meglio un testo
conviene studiare come è stato compreso da altri, in altre epoche. Da Gadamer nasce
la Wirkungsgeschichte o “storia degli effetti del testo”, che in ambito biblico ha portato
ad una rivalorizzazione della storia dell'esegesi. È anche condivisibile sostenere che
un’interpretazione non è mai definitiva, non perché la verità sia irraggiungibile, ma
perché ogni generazione torna ai testi con nuove domande.
D’altra parte, la filosofia di Gadamer ha come limite quello di lasciare poco spa-
zio ai metodi, cioè alla possibilità di interpretare secondo regole oggettive. Non è poi
casuale che da lui provengano anche derivazioni meno positive, come il cosiddetto
“pensiero debole” di Gianni Vattimo o le diverse forme di relativismo postmoderno.
Al riguardo, vale la pena citare quanto affermava san Giovanni Paolo II nel n. 84
dell’enciclica Fides et Ratio (1998):
La fede (…) presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di espri-
mere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per questo meno
significativi — la realtà divina e trascendente (cfr. Conc. Ecum. Lateranense IV, De
errore abbatis Ioachim, II: DS 806). Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre
parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio.
L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a
interpretazione, senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente
vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di
concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi.
Conviene chiudere questa sezione con la presentazione di uno dei principi più
illuminanti sviluppati dall’ermeneutica filosofica, quello della “distanza”. Per spiegarlo,
l'etimologia della parola “ermeneutica” ci offre un buon punto di partenza.
Nella mitologia greca, il dio Ermes o Ermete (Ἑρμῆς, in latino Mercurius) era il
messaggero degli dei. Il suo compito era scendere sulla terra per far conoscere agli
uomini mortali i desideri degli abitanti dell'Olimpo, specialmente la volontà di Zeus,
suo padre. A quanto pare, dal nome proprio 'Ermes' proviene il sostantivo ἑρμηνεύς
(hermêneus), che si applicava soprattutto a colui che faceva il lavoro di traduttore. Da
ἑρμηνεύς nasce il verbo ἑρμηνεύω (hermêneuô), che in primo luogo vuol dire 'tra-
durre', ma assume anche il senso di 'esprimere', 'spiegare', 'interpretare'.
Il verbo ἑρμηνεύω designa dunque l'atto di prendere una cosa che non si capisce
e renderla comprensibile. Ciò accade in modo specialmente nitido nel caso di chi
legge un testo scritto in una lingua che non conosce: è innegabile la necessità di
un'interpretazione/traduzione. Ma i testi in una lingua sconosciuta non sono l'unico
caso in cui occorre un'operazione ermeneutica. In realtà, non solo i testi difficili, ma
tutti i messaggi hanno bisogno di essere interpretati, perché tutti hanno bisogno di
essere compresi. Non è quindi casuale che in greco classico lo stesso verbo significhi
sia 'tradurre' che 'interpretare'. La necessità di un lavoro interpretativo appare più evi-
dente davanti ai testi oscuri, ma questo fatto non deve far dimenticare che l'opera-
zione di interpretazione è presente in ogni atto di comprensione.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 198
Possiamo citare ancora queste parole della seconda parte del libro di Isaia, che
sono anch'esse una preghiera al Signore:
Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza,
o braccio del Signore.
Svégliati come nei giorni antichi,
come tra le generazioni passate.
Non sei tu che hai fatto a pezzi Raab,
che hai trafitto il drago?
Non sei tu che hai prosciugato il mare,
le acque del grande abisso,
e hai fatto delle profondità del mare una strada,
perché vi passassero i redenti? (Is 51,9-10)
Per capire questi due testi, bisogna sapere che cosa è “Raab”. Dal salmo possiamo
dedurre che Raab è un nemico di Dio. Dal testo di Isaia si ricava che Raab è un drago
o qualcosa di simile. In entrambi i casi, si parla di una vittoria del Signore contro
Raab, dopo un combattimento. Nel salmo si parla di ferire e calpestare, in Isaia di fare
a pezzi e trafiggere.
Nei miti mesopotamici sull'origine del mondo, Raab o Tiamat è il nome di un
mostro marino (un drago) di genere femminile, personificazione del caos primor-
diale. Più specificamente, Raab rappresenta l'acqua salata, l'acqua del mare. Nel poe-
ma Enûma eliš, si racconta che Marduk, il dio di Babilonia, dopo una dura battaglia,
riesce a sconfiggere questo mostro (che qui compare sotto il nome di Tiamat). Poi
Marduk utilizza il cadavere di Tiamat per fare il mondo: con una metà fissa la volta
celeste, mentre con l'altra costruisce la superficie della terra. Così, la terra e il cielo
sono uno spazio in mezzo alle acque. Nella cultura mediorientale antica, le acque del
mare sono sinonimo di oscurità, di caos e di morte.
Nei testi biblici citati sopra (Sal 89,10-12; Is 51,9-10; cf. Gb 26,12), si dà per sconta-
ta una conoscenza di questo racconto mitico sull'origine del mondo, che viene appli-
cato al Signore (come fra l'altro si fa anche in Gn 1 e Gb 38). È il Dio d’Israele e non
Marduk colui che ha sconfitto il mare, ha messo ordine in mezzo al caos e ha portato
la luce in mezzo alle tenebre.
Prendendo in considerazione questo sfondo, si capiscono meglio un bel numero
di testi biblici. Il diluvio universale (Gn 6-9) non è una semplice inondazione, ma un
processo di distruzione esattamente inverso all'azione creatrice di Dio raccontata in
Gn 1, che consiste nell’aprire uno spazio abitabile fra le acque di sopra e le acque di
sotto.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 200
L'episodio del passaggio del mare (Es 14-15) come pure il brano evangelico della
tempesta sedata (Mc 4,35-41 e par.) vanno compresi come manifestazioni della poten-
za divina sulle forze più ostili del mondo. Anche i riferimenti al Leviathan (Is 27,1; Sal
74,13-14; 104,26; Gb 3,8; 41,1) vanno capiti in questa cornice. Il Leviathan è un mostro
marino, simile — se non identico — a Raab.
In molti salmi si parla in parallelo delle acque e dei nemici (cf. Sal 18, Sal 46, Sal
65, ecc.). Possiamo anche ricordare la paura di fronte alle acque nella storia di Giona,
che pur di fuggire Dio è disposto a salire su una nave (gli ebrei non sono mai stati
marinai) e alla fine deve buttarsi in mare, dove viene inghiottito da un grande pesce.
Cioè, a causa della sua disobbedienza a Dio, Giona sperimenta di persona il maggiore
incubo di un israelita. Il racconto intende mostrare come la potenza del Signore arri-
va fino agli abissi del mare e alle creature che vi dimorano.
L'enumerazione di testi biblici dove si riflette la cosmogonia mesopotamica po-
trebbe allungarsi quasi indefinitamente. Per finire possiamo ricordare che la teologia
del battesimo cristiano tiene conto del significato negativo associato all'acqua.
L'acqua non è soltanto simbolo della vita, ma anche della morte. Per questo san Paolo
dice che nel battesimo siamo stati sepolti con Cristo (cf. Rm 6,4; Col 2,12).
D'altra parte, la stessa tradizione che ci fa arrivare quei testi da un passato lonta-
no ci aiuta, nonostante la distanza culturale, a comprenderli e perfino a vivere d'ac-
cordo con essi. Negli esempi proposti (Sal 89 e Is 51), il significato fondamentale dei
versetti si può capire anche senza conoscere la mitologia babilonica, perché sappiamo
chi è il Dio di cui si parla e conosciamo la sua superiorità sul creato. Svilupperemo
questo punto a proposito della Chiesa come luogo originario dell'ermeneutica biblica.
e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel
processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica.
Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante;
non è in grado di darci, nell'interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere
e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che
non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa
viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei
tempi (Omelia nella Basilica di San Giovanni in Laterano, 7 maggio 2005).
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei ge-
neri letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in va-
rio modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È ne-
cessario dunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate
circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei
generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per com-
prendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere,
si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimer-
si e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi era-
no allora in uso nei rapporti umani.
Il salmista esprime la convinzione che il sacrificio più gradito a Dio è quello inte-
riore e per rafforzare tale messaggio usa termini antitetici. Siamo davanti a un testo
poetico e la poesia non può essere giudicata con criteri strettamente logici. Perciò sa-
bíblica» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazio-
nale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1999, 248-260.
1. Con maggiore precisione, un testo è un “discorso scritto”, dove “discorso” indica l'unità minima di
comunicazione. Cf. de Aguiar e Silva, Teoria da Literatura, 561-574; Segre, Avviamento, 28-40 (te-
sto) e 175-213 (discorso).
2. Idem, Avviamento, 40-42.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 205
La categoria di macrotesto offre un modello di analisi utile non solo per alcuni li-
bri biblici, come il Salterio, il Pentateuco o il libro dei Dodici profeti, ma anche per
l'intera Bibbia, come collezione articolata di libri1.
1. Cf. C. Jódar, «La relación Antiguo-Nuevo Testamento y la configuración de la Biblia como texto»
in I. Carbajosa - L. Sánchez Navarro (eds.), Entrar en lo antiguo. Acerca de la relación entre Anti-
guo y Nuevo Testamento, Publicaciones de la Facultad de Teología "San Dámaso", Madrid 2007,
69-84.
2. Cf. R. Bieringer, «Biblical Revelation and Exegetical Interpretation according to Dei Verbum 12»
in L. Kenis - M. Lamberigts (eds.), Vatican II and its Legacy, Peeters, Leuven 2002, 25-58, 43; Bala-
guer, «La Dei Verbum», 298-299.
3. In un primo approccio, la Bibbia cristiana gode di una certa unità culturale: i libri non ci sono ar-
rivati isolati, trasmessi indipendentemente gli uni dagli altri. In questo senso, anche per chi si tro-
va fuori dalla tradizione della Chiesa è ragionevole che l'interpretazione di un libro biblico prenda
in considerazione il resto dei libri. Ma all'unità della Bibbia si arriva anche “dall’alto”, cioè, dall'au-
torità di Cristo, che ha detto che tutte le Scritture parlano di lui, e dalla vita della Chiesa, che ha ri-
conosciuto quali libri fanno parte delle Scritture (canone).
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 206
Nella Verbum Domini, dopo aver citato la frase di DV12 che dice di tener conto
dell'unità della Scrittura, si aggiunge: “questo oggi si chiama esegesi canonica”. La
Verbum Domini non dice di più, anche se nel n.39 torna a parlare dell'unità della
Scrittura. In realtà, siccome la Bibbia è canone, qualsiasi esegesi “biblica” sarà per for-
za “canonica”. Ma in pratica questa equivalenza non sempre ha funzionato. Come ab-
biamo accennato a proposito della nozione di testo, l'esegesi storico-critica studia
ogni libro separatamente e tende a frammentare i testi, nel tentativo di ritrovare le di-
verse tappe di composizione.
Come reazione, alcuni esegeti hanno proposto di interpretare la Bibbia tenendo
conto non solo dell’unità di ogni libro, ma anche dell’unità dei diversi libri dentro il
canone. Il documento della PCB del 1993 sintetizza così la loro proposta:
Partendo dalla constatazione che il metodo storico-critico incontra talvolta delle
difficoltà a raggiungere, nelle sue conclusioni, il livello teologico, l'approccio “cano-
nico” (…) intende portare proprio al compito teologico dell'interpretazione, parten-
do dalla cornice esplicita della fede: la Bibbia nel suo insieme. Per fare ciò interpreta
ogni testo biblico alla luce del canone delle Scritture, cioè della Bibbia ricevuta
come norma di fede da una comunità di credenti. Cerca di situare ogni testo all'in-
terno dell'unico disegno di Dio, allo scopo di arrivare a un'attualizzazione della
Scrittura per il nostro tempo1.
Tuttavia, dire che i testi biblici vanno interpretati tenendo conto dell'unità di tut-
ta la Scrittura è un’affermazione semplice a livello teorico, ma difficile da tradurre in
modo convincente nell'esegesi3.
Il ruolo ermeneutico della analogia fidei corrisponde a quello svolto dalla “regola
della fede” di cui hanno parlato sant'Ireneo, Origene, sant'Agostino e altri Padri della
Chiesa. Nel dire “analogia”, si sottolinea il collegamento delle diverse verità trasmesse
dagli apostoli. Nel dire “regola” si rimarca invece il nucleo normativo di questa tradi-
zione, cioè le verità fondamentali, dalle quali dipendono le altre.
Uno dei primi autori che hanno parlato di “analogia della fede” in tal senso è sta-
to il beato John Henry Newman1. Più tardi, nell’enciclica Providentissimus Deus
(1893), il papa Leone XIII prende questa nozione e la applica all'esegesi biblica.
Nell'interpretazione dei passi biblici di cui il senso non è stato definito:
(…) si deve seguire l'analogia della fede e attenersi, come a norma suprema, alla
dottrina cattolica, quale la si riceve dall'autorità della chiesa. Essendo infatti lo stes-
so Dio autore dei sacri Libri come della dottrina, la cui depositaria è la chiesa, non è
certamente possibile che provenga da legittima interpretazione il senso di un
qualche passo scritturale che sia in qualche modo discordante dalla chiesa (EB
109)2.
È facile capire come l’analogia della fede funziona come criterio ermeneutico. Se
l'interpretazione di un passo contraddice una verità di fede, è logico pensare che tale
interpretazione sia sbagliata. Ma il principio opera anche in senso inverso. Può darsi
Estella 2009, 21-49 (Brevard S. Childs), 50-52 (Rolf Rendtorff) e 52-65 (James A. Sanders).
1. In un discorso tenuto nel 1849 si esprimeva così: “Speaking of prophesying, or the exposition of
what is latent in Divine truth, he [Paul] bids his brethren exercise the gift «according to the analo-
gy or rule of faith»; that is, so that the doctrine preached may correspond and fit into what is al-
ready received. Thus, you see, it is a great evidence of truth, in the case of revealed teaching, that it
is so consistent, that it so hangs together, that one thing springs out of another, that each part
requires and is required by the rest”, J. H. Newman, Discourses Addressed to Mixed Congregations,
Longmans, Green and Co., London 1892, 360-361 (“Discourse XVIII. On the Fitness of the Glories
of Mary”).
2. Questa è la prima volta che il magistero parla dell'analogia della fede. L'espressione riapparirà nel
1950 nell’enciclica Humani Generis (EB 612) e nel 1965 nella Dei Verbum.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 208
cioè che lo studio della Scrittura aiuti a precisare la formulazione di alcune verità di
fede. Per esempio, l’esegesi biblica ha contribuito a chiarire che la dottrina del limbo
non fa parte della rivelazione: cf. CTI, La speranza della salvezza per i bambini che
muoiono senza Battesimo (19 aprile 2007).
Infine è importante comprendere che le verità di fede non sono semplicemente
delle proposizioni o affermazioni verbali, che si possono scrivere in un libro e così
funzionano come guida per l'interpretazione. Le verità di fede (fides quae) sono inse-
parabili dalla loro assimilazione vitale da parte dei credenti (fides qua), che comincia
con la ricezione del battesimo.
Torneremo a parlare del positivismo e dei problemi collegati con la storicità degli
interventi divini nella storia a proposito della verità della Bibbia (cf. pp. 217-225).
Come abbiamo visto (pp. 65-84), il secondo capitolo della Dei Verbum descrive la
trasmissione della rivelazione divina. Nei nn. 7-9, la Scrittura appare all'interno della
tradizione in senso ampio. Nel n. 10, si aggiunge un altro elemento, inseparabile dagli
altri: il magistero vivo della Chiesa, ossia, i pastori in quanto esercitano la funzione di
insegnare, come successori degli apostoli:
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è
affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di
Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve,
insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con
l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedel-
mente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò
che propone a credere come rivelato da Dio. (DV10)
1. Cf. W. Brandmüller, «Die Lehre der Konzilien über die rechte Schriftinterpretation bis zum 1. Va-
ticanum», Annuarium Historiae Conciliorum 19 (1987) 13-61.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 210
ecclesiastico. È importante chiarire che la Dei Verbum non parla di interpretare “au-
tenticamente” in contrapposizione a “erroneamente” o “falsamente”. In questo conte-
sto, “autentico” significa “con l’autorità di Cristo” (cf. LG 25)1. Cioè, tutti i membri del-
la Chiesa possono interpretare la Scrittura, ma soltanto alcuni hanno la funzione e la
potestà di farlo in modo autorevole e normativo, un ministero per il quale godono
dell'assistenza dello Spirito Santo.
Se si percorre la storia dell’insegnamento dei Papi e dei concili ecumenici, si
scopre che il magistero non ha quasi mai messo in atto questa potestà, nel senso di
offrire l'interpretazione di un brano biblico specifico. Invece sono stati molto più
frequenti l'esercizio indiretto — il ricorso a testi in appoggio di alcune verità di
fede — oppure l’esercizio negativo — l'indicazione di errori nell'interpretazione di al-
cuni passi biblici, non per motivi esegetici, ma perché una determinata interpreta-
zione contraddice la regola della fede2 —.
Infatti, il magistero della Chiesa non è un esegeta né vuole esserlo. Più avanti, nel
n. 12, la Dei Verbum distingue fra il lavoro dei biblisti e quello dei pastori:
È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intel-
ligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi,
in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato
qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giu-
dizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e
interpretare la parola di Dio (DV 12).
1. Cf. S. Pié-Ninot, La teología fundamental: "dar razón de la esperanza" (1 Pe 3, 15), Secretariado Tri-
nitario, Salamanca 2001, 608.
2. Cf. M. Gilbert, «Textes bibliques dont l'Église a défini le sens» in J.-M. Poffet (ed.), L'autorité de
l'Écriture, Cerf, Paris 2002, 71-94, 75-76.
3. F. Dreyfus - F. Refoulé, Quale esegesi oggi nella Chiesa?, Edizioni san Lorenzo, Reggio Emilia 1993,
281.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 211
Quando il canone del concilio di Trento afferma che il sacramento dell'estrema un-
zione istituito da Gesù è stato promulgato da Giacomo, non afferma che l'autore
della epistola avesse la chiara nozione della differenza tra l'ordine sacramentale pro-
priamente detto (i sette sacramenti) e l'insieme delle attività sacramentali della
Chiesa in ciò che più tardi saranno chiamati i «sacramentali». Quello che il concilio
afferma è che la realtà di cui parla Giacomo è identica a quella che la Chiesa desi-
gnerà sotto il nome di sacramento dell'estrema unzione1.
Breve excursus sulla portata dei decreti della PCB degli inizi del ventesimo
secolo
Fra il 1905 ed il 1939, la PCB diede una serie di risposte circa alcune questioni
esegetiche, come l'autenticità mosaica del Pentateuco o l'autenticità paolina di Ebrei.
1. Idem, Quale esegesi?, 282. Altri esempi di testi di cui il magistero ha definito il senso si possono ve-
dere in Gilbert, «Textes bibliques», 78-91.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 212
Quando si parla della verità che ci trasmette la Bibbia, conviene cominciare il di-
scorso cercando di precisare di quale tipo di verità si tratta, perché “verità” è un
concetto ampio e con diverse applicazioni. La verità della sacra Scrittura è innanzitut-
to la verità propria della parola del Signore, per la quale furono fatti i cieli e la terra
(cf. Gn 1; Sal 33,6; Gdt 16,14); parola che nutre il popolo e i profeti (Dt 8,3; Ger 15,16),
parola che, per contrasto con le promesse umane, rimane per sempre (cf. Is 40,8) e
che quando scende sulla terra non può restare senza frutto (cf. Is 55,10-11), perché è
1. Cf. discorso del card. Ratzinger nella presentazione dell’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del
teologo, Donum veritatis (L'Osservatore Romano, 27-VI-1990, p. 6). Per una spiegazione più detta-
gliata, cf. J. L. Caballero, «Autobalance de una época: Las «respuestas» de la Pontificia Comisión
Bíblica (1905-1939)», Anuario de Historia de la Iglesia 16 (2007) 77-88.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 213
viva ed efficace (Eb 4,12). “La mia parola non è forse come il fuoco (…) e come un
martello che spacca la roccia?” (Ger 23,29)1.
Perciò, quando si parla della verità della Bibbia, si deve pensare prima di tutto a
Gesù Cristo, Parola eterna di Dio fattasi uomo (cf. Gv 1,1-18). Nel cenacolo, Gesù dice
a Tommaso che egli è la via, la verità e la vita (cf. Gv 14,6). Poi dichiara davanti a Pila-
to che è venuto per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37). Non si tratta
dunque di una verità in primo luogo universale e astratta, come potrebbe essere quel-
la propria di una scienza o di una dottrina politica, filosofica o teologica, ma della
manifestazione di un Dio personale, che attraverso l'umanità di Cristo viene incontro
all'uomo per portarlo alla comunione con sé. In quanto parlano di Cristo e in quanto
Cristo parla attraverso di esse, le sacre Scritture contengono, esprimono e trasmetto-
no la verità più profonda che si possa trovare in un libro.
Nel secondo paragrafo di DV11 si offre una descrizione della verità contenuta
nelle Scritture che ci offre un buon punto di partenza per spiegare questo argomento:
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrit-
tura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la no-
stra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture (Cf. S. Agostino, De Gen.
ad litt., 2,9, 20: PL 34,270-271; CSEL 28, 1,46-47, e Epist. 82,3: PL 33,277: CSEL
34,2,354. - S. Tommaso, De Ver., q. 12, a. 2, C. - Conc. di Trento, decr. De canonicis
Scripturis: Dz 1501. - Leone XIII, Encicl. Providentissimus Deus: EB 121, 124, 126-127
[Dz 3291ss]. - Pio XII, Encicl. Divino afflante: EB 539).
Pertanto «ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per
convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia
perfetto, addestrato ad ogni opera buona» (2 Tm 3,16-17).
1. Cf. R. Virgili, «Parola» in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 955-962.
2. Sul riferimento a san Tommaso, cf. G. Aranda Pérez, «Acerca de la verdad contenida en la Sagrada
Escritura (Una «quaestio» de Santo Tomás citada por la Const. «Dei Verbum»)», Scripta Theologi-
ca 9 (1977) 393-424. Per una esposizione completa, cf. P. T. Gadenz, «Magisterial Teaching on the
Inspiration and Truth of Scripture: Precedents and Prospects», Letter and Spirit 6 (2010) 67-91; C.
Alves, Ispirazione e verità: genesi, sintesi e prospettive della dottrina sull'ispirazione biblica del
Concilio Vaticano II (DV11), A. Armando, Roma 2012.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 214
Facendo una rapida sintesi, possiamo dire che la Chiesa ha sempre difeso con de-
cisione la verità della Scrittura. Allo stesso tempo, la storia ha mostrato che questa
proprietà si può intendere in diversi modi, non tutti ugualmente adeguati. Per difen-
dere i racconti biblici dagli attacchi della critica razionalista, fra i cattolici prevaleva
fino al Vaticano II la tendenza a parlare della “inerranza assoluta” della Bibbia, cioè
della sua immunità da ogni tipo di errore, come conseguenza diretta e necessaria
dell'ispirazione. In questo senso, alcuni ritenevano che perfino il più piccolo dettaglio
affermato nella Scrittura godesse dell'autorità di una definizione dogmatica1.
Oggi possiamo dire senza mezzi termini che questa posizione non è più sosteni-
bile, non solo perché dipendeva dal contesto polemico in cui era nata, ma soprattutto
perché non rispetta fino in fondo l'aspetto umano dei libri biblici, che non sono una
esposizione sistematica delle verità di fede. “Infatti, non ogni pagina della Bibbia ha
carattere assertivo, così da essere giudicabile su un’elementare alternativa di vero e di
falso”2.
Nel testo che abbiamo citato, la Dei Verbum segnala una strada diversa e più fe-
conda per comprendere la verità contenuta nella Bibbia. In primo luogo, il Vaticano
II ha cambiato la terminologia, passando dall'assenza di errori (inerranza) all'affer-
mazione positiva della verità della Bibbia. E soprattutto ha aggiunto una descrizione
della verità contenuta nelle sacre pagine che la collega con l’intenzione divina: è una
verità voluta da Dio per la salvezza degli uomini. La citazione di 2 Tm 3 alla fine di
DV11 aiuta a capire l'inseparabilità dell'ispirazione dalla finalità per la quale Dio ha
voluto la Bibbia.
Come si può facilmente intuire, un principio fondamentale per comprendere
questo argomento è che la verità della Scrittura è analoga alla verità della rivelazione
divina. Non a caso, la Dei Verbum prima descrive la rivelazione e poi parla della Scrit-
tura e della sua ispirazione e verità. Come abbiamo detto nella prima parte, la rivela-
zione è storica e giunge alla sua pienezza in una persona, Gesù Cristo. Dunque, la ve-
rità che intende trasmettere la Bibbia non è da intendere in termini astratti e assoluti,
come se fosse un trattato sistematico di teologia, costituito da enunciati logici indi-
pendenti, ognuno dei quali esprimerebbe una verità atemporale3. Tanto meno si tratta
1. “Some Catholic theologians such as Cardinal Lépicier have held that the minutest factual state-
ment in the Bible is necessarily infallible and possesses the authority of a dogmatic pronounce-
ment of the Church”, H. J. T. Johnson, «Leo XIII, Cardinal Newman and the Inerrancy of Scrip-
ture», Downside Review 69 (1951) 411-427, 421. Si riferisce al cardinale francese Alexis-Henri-
Marie Lépicier OSM (1863-1936).
2. T. Citrini, «Canone e ispirazione» in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della
Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 144-149, 149.
3. Cf. F. Lambiasi, La Bibbia: introduzione generale, Piemme, Casale Monferrato 1991, 79; Farkasfalvy,
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 215
di perfezione artistica o letteraria, come se i libri sacri fossero le pagine più belle mai
scritte nella storia dell'umanità. Infatti ci sono autori biblici più dotati di altri; basti
ricordare che nell'Apocalisse compaiono con frequenza errori di sintassi.
Ciò che vuole sottolineare DV11 è che la verità propria della Bibbia risulta insepa-
rabile dalla finalità con cui Dio l'ha ispirata: un punto già sottolineato da Origene e
Agostino, cf. pp. 247-251. (È interessante ricordare che in DV7 si diceva del vangelo
che è “la fonte di ogni verità salutare”). Per questa ragione, come spiega Farkasfalvy,
l'ispirazione divina non implica che ogni brano o frase del testo biblico devono es-
sere esenti da errore da ogni possibile punto di vista. Il grammatico, lo scienziato, lo
psicologo, il filosofo, lo storico e altri possono segnalare un brano particolare che, se
esaminato da un certo punto di vista limitato (…), può essere trovato difettoso. Ma
un tale accertamento non dimostra che la parola di Dio affermi un errore. Piuttosto
significa che il messaggio di Dio viene espresso, in un determinato punto della sto-
ria della salvezza, con le imperfezioni proprie dell'esistenza umana. Tuttavia, nella
misura in cui serve sia allo scopo concreto dell'autore umano, sia allo scopo salvifi-
co divino, ogni brano esprime la verità che deve esprimere secondo la volontà salvi-
fica di Dio1.
Possiamo sintetizzare l'insegnamento della Chiesa sulla verità della sacra Scrittu-
ra nei seguenti quattro punti:
1) questa verità è una proprietà di ogni unità testuale, ossia non di frasi o versetti
isolati, e soprattutto dell'insieme di Antico e Nuovo Testamento, la cui unità si
poggia su Cristo, pienezza della verità. Come abbiamo visto in DV12, uno dei
criteri per interpretare i testi biblici è tenere conto del contenuto e unità di tut-
ta la Scrittura; la verità di ogni singolo libro va giudicata in relazione con l’in-
sieme della rivelazione;
2) la sacra Scrittura, testimonianza della rivelazione, insegna come è Dio, come
ha agito e come hanno risposto gli uomini. Tenendo conto del carattere pro-
gressivo della rivelazione e della condiscendenza di Dio, non è difficile parlare
di verità della Bibbia in questo senso, sapendo che, come dice DV15, i libri
dell'AT contengono “cose imperfette e caduche”;
3) è chiaro che la Bibbia non intende insegnare dottrine scientifiche, di fisica,
biologia o astronomia, come è stato chiarito da Leone XIII con parole di
sant'Agostino: lo Spirito Santo “non intendeva ammaestrare gli uomini su
queste cose, che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna”1. La
Scrittura non vuole farci sapere come vanno i cieli, ma come ci si va, scrisse
Galileo2. Gli sforzi compiuti da alcuni per trovare un'armonia fra le descrizio-
ni dei primi capitoli della Genesi e le scoperte scientifiche (ad esempio, nel li-
bro La Bibbia aveva ragione di Werner Keller, famoso negli anni cinquanta e
sessanta) sono quanto meno una perdita di tempo. Questi concordismi incor-
rono anche nel pericolo di creare dei falsi problemi per la fede, nei casi in cui
una tale armonizzazione si riveli impossibile.
1. S. Agostino, De Gen. ad litt., 2,9,20; citato da Leone XIII nella Providentissimus Deus (EB 121). En-
trambi testi sono menzionati da DV11. Il brano completo di Agostino dice: “sed quia de fide agitur
scripturarum, propter illam causam, quam non semel commemoraui, ne quisquam eloquia diuina
non intellegens, cum de his rebus tale aliquid uel inuenerit in libris nostris uel ex illis audierit,
quod perceptis a se rationibus aduersari uideatur, nullo modo eis cetera utilia monentibus uel nar-
rantibus uel praenuntiantibus credat, breuiter dicendum est de figura caeli hoc scisse auctores no-
stros, quod ueritas habet; sed spiritum dei, qui per eos loquebatur, noluisse ista docere homines
nulli saluti profutura”.
2. “Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è
l'intenzione delle Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”,
︎Lettera a madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana (1615) in G. Galilei, Le opere, Bar-
bera, Firenze 1895, 5:319. L’espressione “da persona ecclesiastica” è quasi certamente un riferimento
al cardinale Cesare Baronio.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 217
4) il rapporto più complesso rimane quello fra la verità della Bibbia e la verità
storica, del quale parleremo a continuazione. Infatti, il rapporto fra la verità
della Bibbia e la verità propria della storia non si può risolvere con una sem-
plice separazione degli ambiti, come nel caso delle scienze naturali. Siamo di
fronte ad un problema più delicato.
Come abbiamo visto nella prima parte del corso, la rivelazione cristiana non è
mitica, ma storica. Non si può separare il messaggio biblico dalla storia, perché Dio si
è rivelato verbis gestisque, con parole e con opere, che si presentano in forma narrati-
va come storia della salvezza. Più concretamente, non è possibile presentare la dottri-
na di Gesù come se fosse indipendente dalla sua vita: “se Cristo non è risorto, vuota
allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Cor 15,14). Per questo la
Chiesa afferma con decisione la storicità dei quattro vangeli (cf. DV19).
Tuttavia, che la fede cristiana abbia un vincolo essenziale con alcuni avvenimenti
storici non vuol dire che tutti i testi biblici siano ugualmente storici. Molte pagine bi-
bliche non contengono alcun racconto, come i libri poetici e sapienziali. Inoltre, non
tutti gli eventi menzionati nei libri biblici appartengono propriamente alla storia della
salvezza.
Alcuni apologeti cattolici, con l’intenzione di difendere la verità della Bibbia, cer-
carono di dimostrare l'esattezza di ogni dettaglio menzionato nei racconti biblici, per-
ché molti degli attacchi dei razionalisti ottocenteschi contro la storicità dei racconti
biblici partivano da una concezione positivistica della storia. Ma tale strada si è rive-
lata un vicolo cieco.
In primo luogo, bisogna tener conto del fatto che la storicità dei testi è collegata
alle proprie caratteristiche letterarie, come vedremo. Tuttavia, il problema della stori-
cità va risolto ad un livello più profondo, cioè, con una riflessione filosofica sui modi
e sui limiti della conoscenza umana del passato e con una riflessione teologica sul
rapporto fra la storia ricostruibile e la storia della salvezza, tenendo conto dei punti
essenziali della nostra fede.
vista letterario. Si tratta di un tema collegato ai diversi generi letterari, di cui si parla
in DV12.
Per motivi di questo tipo, non è ragionevole difendere la storicità di libri come
Giuditta o Tobia, che si comprendono meglio come storie esemplari. Lo stesso av-
viene con un libro profetico, quello di Giona. Forse sarebbe più preciso parlare gene-
ricamente di libri “narrativi” invece che storici. Vale la pena chiarire subito che com-
prendere un racconto come non-storico non significa che sia “falso”. La verità della
Bibbia è molto più ampia della verità storica.
Tener conto del genere letterario, per esempio, porta a leggere il libro di Giobbe
come un libro sapienziale ed i salmi come preghiere, senza cercare di trovarvi diretta-
mente informazioni di tipo storico. È vero che talvolta appaiono all'inizio dei salmi
delle allusioni ad una situazione della vita del re Davide. Per esempio, in Sal 3,1 si
legge: “Salmo. Di Davide. Quando fuggiva davanti al figlio Assalonne”. Tali riferimen-
ti possono aiutare a percepire meglio la drammaticità espressa in un determinato sal-
mo. Ma sarebbe fuorviante prendere tali salmi come se contenessero una narrazione
storica della vita del re Davide o di altri personaggi.
D'altra parte, possiamo trovare informazioni di valore storico in libri che non in-
tendono raccontare la storia. Per esempio, il libro delle Lamentazioni e alcuni salmi
riflettono le conseguenze della distruzione di Gerusalemme. Da altri salmi possiamo
ricavare dati circa la liturgia nel Tempio, la figura del re d'Israele, i pellegrinaggi a Ge-
rusalemme o semplicemente la struttura della preghiera in Israele. Infatti, la storicità
non è riducibile ad una caratteristica formale o letteraria dei testi. La forma più adatta
per parlare di avvenimenti storici è la narrazione. Ma si può scrivere la storia anche
attraverso salmi o proverbi.
Un problema collegato alla storicità è quello della categoria del “mito” e la sua ap-
plicabilità ad alcune pagine della Bibbia, specialmente ai primi capitoli della Genesi.
Nella catechesi del 19 settembre 1979, san Giovanni Paolo II ha parlato del “primitivo
carattere mitico” del racconto della creazione dell'uomo in Gn 2. Nella pubblicazione
ufficiale in Insegnamenti II/2 (1979), 323-324, è stata inserita una lunga nota per spie-
gare le diverse accezioni del termine “mito”, per chiarire che non è sinonimo di falso,
irreale o irrazionale. Riproduco una parte di questa nota, per percepire la complessità
del termine:
Se nel linguaggio del razionalismo del XIX secolo il termine «mito» indicava ciò che
non si conteneva nella realtà, il prodotto di immaginazione [Wundt], o ciò che è ir-
razionale [Lévy-Bruhl], il secolo XX ha modificato la concezione del mito. L. Walk
vede nel mito la filosofia naturale, primitiva e areligiosa; R. Otto lo considera stru-
mento di conoscenza religiosa; per C. G. Jung invece il mito è manifestazione degli
archetipi e l’espressione dell’«inconscio collettivo», simbolo dei processi interiori.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 219
M. Eliade scopre nel mito la struttura della realtà che è inaccessibile all’indagine ra-
zionale ed empirica: il mito infatti trasforma l’evento in categoria e rende capaci di
percepire la realtà trascendente; non è soltanto simbolo dei processi interiori [come
afferma Jung], ma un atto autonomo e creativo dello spirito umano, mediante il
quale si attua la rivelazione [cf. Traité d’histoire des religiones, Paris 1949, p. 363;
Images et symboles, Paris 1952, pp. 199-235]1.
1. La nota continua con riferimenti a P. Tillich, H. Schlier e P. Ricoeur. Il testo si può vedere su vati-
can.va oppure in Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò: catechesi sull'amore umano, Città nuo-
va, Roma 1985, 36-37.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 220
1. G. Deiana, Introduzione alla Sacra Scrittura alla luce della "Dei Verbum", Urbaniana University
Press, Città del Vaticano 2009, 47-48. Cf. F. Varo, Moisés y Elías hablan con Jesús: Pentateuco y li-
bros históricos: de su composición a su recepción, Verbo Divino, Estella 2016, 83-103.
2. “La question essentielle est de savoir pourquoi la Bible recueille une tradition patriarcale. Mettre
en doute l'existence des patriarches offre peu d'intérêt ; en fait, nos auteurs sont enclins à y voir «
des êtres vivants ». Mais le plus important est de découvrir que les patriarches sont porteurs d'une
promesse qui continue à valoir, au long de l'histoire du peuple, ce qui n'est pas sans signification.
Seule la lecture du texte permet de découvrir cette fonction et l'archéologie n'est ici d'aucun se-
cours”, J. Briend, recensione di I. Finkelstein; N. A, Silberman, La Bible dévoilée: Les nouvelles révé-
lations de l'archéologie, Esprit et Vie 67 (2002) 3-6.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 221
Ciò che Briend dice in riferimento ai patriarchi si potrebbe applicare a quasi tutti
i racconti biblici. I racconti dell'AT ci offrono una spiegazione dell'origine di Israele e
della sua fede in un unico Dio che va presa sul serio. Lo studio della storia non si può
ridurre a verificare, ma deve anche tentare di spiegare i testi e le idee in essi conte-
nute. Conviene evitare il pericolo di identificare vero e verificabile, come vedremo.
1. Classico al riguardo è H.-I. Marrou, La conoscenza storica, Il mulino, Bologna 1966 (originale
francese: 1955; tradotto in diverse lingue). Si può leggere con profitto V. Balaguer, «Paul Ricoeur,
Premio Internacional Pablo VI de 2003: Una teoría de la Historia», Anuario de Historia de la Igle-
sia 13 (2004) 257-282. Per una panoramica delle teorie della storiografia nel ventesimo secolo, cf.
G. G. Iggers, Geschichtswissenschaft im 20. Jahrhundert: ein kritischer Überblick im internationalen
Zusammenhang, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 22007 (esistono traduzioni in diverse
lingue).
2. Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 112-120.
3. Marrou, La conoscenza storica, 133.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 222
anche meno solidi ed esatti di quanto si pretendeva. Ed è così perché, per sua propria
natura, lo studio della storia non può essere una scienza esatta, semplicemente perché
il suo oggetto — il passato umano — non è esatto.
Infatti il passato umano non è costituito solo da “cose” fisiche, ma da esperienze
personali, irriducibili alle loro manifestazioni esterne e misurabili. È evidente che
molti avvenimenti non hanno lasciato documentazioni indelebili ed inequivocabili,
ma solo deboli tracce, e dunque non sono per noi strettamente verificabili. Ma questo
non deve portare a negare la loro realtà.
Per esempio, la conversione di sant'Agostino non è un fatto esterno, ma a partire
dalle sue conseguenze — non solo il racconto che ne fa nelle Confessioni, ma tutta la
sua vita ed opera — possiamo dire che è stato uno degli avvenimenti più rilevanti
nella storia della Chiesa antica.
La non esattezza è parte essenziale della storia in genere — non solo di quella
raccontata dalla Bibbia! —, perché quanto fanno gli uomini non è mai esatto. Un
giorno della vita di Gesù si potrebbe raccontare con molti particolari: l'ora in cui si è
alzato, che cosa ha preso per colazione, come era vestito, eccetera. Ma tale racconto
sarebbe storicamente irrilevante, perché ci direbbe ben poco sulla portata delle azioni
di Gesù. Invece, un racconto più teologico può essere senz'altro molto più vero, per-
ché può rispecchiare meglio l’identità di Gesù1.
Inoltre, nella conoscenza del passato non si può ignorare la posizione dello stori-
co, che cerca di interpretare i dati secondo il proprio punto di vista. Come abbiamo
detto parlando dell'ermeneutica filosofica, la conoscenza umana è sempre condizio-
nata dai pregiudizi o preconcetti del soggetto che conosce. L'analisi dei documenti di-
pende dalle domande che si rivolgono loro, dagli interessi dello storico che li studia.
Questo fatto pone dei limiti invalicabili alla pretesa di oggettività totale e di traspa-
renza completa. Riconoscere la propria posizione è una condizione essenziale per ar-
rivare ad una ricostruzione del passato che sia credibile.
Lo spirito critico, necessario nello studio dei testi antichi, non deve diventare
diffidenza programmatica. Lo storico non dovrebbe partire da un pregiudizio che
purtroppo è frequente: sospettare di tutto e tutti, cercare dietro ogni racconto qualche
tipo di propaganda ideologica, che tenta di giustificare i privilegi di un gruppo sociale
o politico. Senza un minimo di cortesia o meglio ancora di simpatia verso i testi (non
solo quelli biblici), non si riesce a capirli in profondità2.
1. Cf. le riflessioni sulla storicità di Giovanni in J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret: Dal
Battesimo alla Trasfigurazione, Rizzoli, Milano 2007, 257-279 («La questione giovannea»), special-
mente 266-275.
2. Cf. Marrou, La conoscenza storica, 96-98; G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, Milano 1992 135-219
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 223
Il compito dello storico non si può limitare a ricostruire “ciò che è successo”
(come se questo fosse semplice), ma consiste anche nel tentare di comprendere il pas-
sato, nel cercare le cause degli avvenimenti per offrire una sintesi intelligibile, il che di
solito richiede di andare al di là di quanto si può strettamente dimostrare.
Come affrontare dunque il problema della verità storica dell'AT? Possiamo dire
che l’AT racconta in un modo fedele le linee essenziali di una storia, la storia della sal-
vezza. Ma nella maggioranza dei casi tale storia non è raccontata in maniera verifica-
bile. La non verificabilità di alcuni racconti storici dell'AT dipende in parte da motivi
fortuiti (l'assenza di documenti e monumenti indipendenti che li confermino), ma
anche da una causa più profonda: l'agire di Dio e l'esperienza che ne hanno gli uomi-
ni di per sé non possono essere verificati scientificamente. Benché possa sembrare
ovvio, è importante ricordare che per studiare la storia biblica ci vuole un minimo di
sensibilità religiosa e di apertura ai valori spirituali. Pretendere il contrario in nome
della scienza sarebbe come voler studiare la storia dell'arte senza sensibilità estetica1.
Per parlare di “storia della salvezza” dobbiamo però passare dal campo filosofico
a quello teologico. La storia della salvezza non può essere interpretata soltanto secon-
do i criteri moderni della ricostruzione della storia. Bisogna aprirsi anche a cogliere il
senso degli interventi di Dio nella storia di Israele.
22.2.4. A livello teologico: storia della salvezza e gerarchia delle verità di fede
Per affrontare i rapporti fra Bibbia e verità storica si deve tener conto in primo
luogo di un criterio che, in certa misura, è “esterno” ai testi, quello della gerarchia
delle verità di fede, che conosciamo — attraverso la tradizione della Chiesa — prima
di leggere e analizzare i testi.
Come abbiamo già detto, non si può negare la morte e risurrezione di Gesù di
Nàzaret, avvenute a Gerusalemme attorno all'anno 30 d.C. senza distruggere l'intero
messaggio cristiano (cf. 1 Cor 15,14).
L'opinione che la fede come tale non conosca assolutamente niente dei fatti storici e
debba lasciare tutto questo agli storici, è gnosticismo: tale opinione disincarna la
fede e la riduce a pura idea. Per la fede che si basa sulla Bibbia, è invece esigenza co-
stitutiva proprio il realismo dell'accadimento. Un Dio che non può intervenire nella
storia e mostrarsi in essa non è il Dio della Bibbia. Per cui la realtà della nascita di
Gesù dalla Vergine Maria, l'effettiva istituzione dell'Eucarestia da parte di Gesù
nell'Ultima Cena, la sua risurrezione corporale dai morti — è questo il significato
del sepolcro vuoto — sono elementi della fede in quanto tale, che essa può e deve
difendere contro una solo presunta miglior conoscenza storica. Che Gesù — in tut-
to ciò che è essenziale — sia stato effettivamente quello che ci mostrano i Vangeli
non è affatto una congettura storica, ma un dato di fede. Obiezioni che vogliano
convincerci del contrario non sono espressione di un'effettiva conoscenza scientifi-
ca, ma sono un'arbitraria sopravvalutazione del metodo1.
È interessante notare che tutti gli esempi di accadimenti storici che offre il cardi-
nale Ratzinger in questa citazione corrispondono al NT. Invece, considerare il libro di
Giona come un racconto esemplare (e dunque senza pretese di storicità) per motivi
di genere letterario non suscita nessun problema per la fede. Oppure, se si pensa che
il libro di Giosuè contiene un racconto fortemente idealizzato della conquista di Ca-
naan, nel quale la storia si mette al servizio di un contenuto teologico (la terra come
dono del Signore e non come frutto delle proprie forze), non si sta attaccando alcuna
verità di fede. Tali interpretazioni saranno discutibili a livello letterario, ma per i cre-
denti è importante delimitare il campo di ciò che appartiene al deposito della fede.
Sorge spontanea la domanda su quali avvenimenti dell'AT sono in tal modo collegati
alla fede cristiana che non possiamo rinunciarvi. E non è facile rispondere.
Nei diversi simboli di fede, per esempio, mentre si parla con chiarezza della stori-
cità del mistero dell'incarnazione e del mistero pasquale (il celebre “patì sotto Ponzio
Pilato” del Simbolo degli Apostoli), le menzioni delle tappe precedenti della storia
della salvezza sono molto generiche. Nel Credo niceno-costantinopolitano, si dice
solo che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti”. Come è logico, i simboli
sono fortemente sintetici e non intendono presentare tutte le verità di fede. Ma allo
stesso tempo è importante rilevare come la Chiesa, che da una parte ha difeso con
chiarezza il valore dell'AT (contro Marcione), dall'altra non ha voluto o non ha potu-
to precisare molto di più.
Dobbiamo credere che il Signore si è acquistato un popolo (Israele) al quale si è
rivelato come unico Dio, che ha stabilito una alleanza con essi e ha annunciato una
salvezza futura attraverso un suo intervento. Questa è — molto sinteticamente — la
coscienza che gli ebrei avevano della propria identità all'epoca di Gesù e nei secoli
immediatamente precedenti. Come tale, questa fede è una realtà storica.
In quale misura la fede cristiana richiede che i singoli elementi che compongono
la storia della salvezza vengano presi come avvenimenti accaduti resta — mi sem-
bra — un problema aperto.
1. J. Ratzinger, «Il rapporto fra Magistero della Chiesa ed esegesi: A 100 anni dalla costituzione della
Pontificia Commissione Biblica» in Atti della Giornata celebrativa per il 100° anniversario di fonda-
zione della Pontificia Commissione Biblica, Libreria Editrice Vaticana, 2003, 50-61.
PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ 225
In questo punto appare il valore conoscitivo della fede, senza la quale infatti tutti
gli aspetti soprannaturali della rivelazione diventano problematici. La fede non è un
sentimento, ma un dono di Dio che illumina l'intelligenza e assiste la volontà nell’as-
sentire alla rivelazione di Dio, che include anche verità storiche.
Come complemento al tema della verità, inserisco qui il n.42 della Verbum Domi-
ni, che si riferisce ai passi problematici dell'AT non dal punto di vista storico, ma mo-
rale o dottrinale, come la poligamia dei patriarchi, i sacrifici umani (cf. Gn 22, Gdc
11) e la violenza contro i nemici.
La Dei Verbum aveva accennato brevemente a questo problema, dicendo che i li-
bri veterotestamentari, “sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano
tuttavia una vera pedagogia divina” (DV15)2.
Ecco le parole di Benedetto XVI:
Nel contesto della relazione tra Antico e Nuovo Testamento, il Sinodo ha affrontato
anche il tema delle pagine della Bibbia, che risultano oscure e difficili per la violenza
e le immoralità in esse talvolta contenute. In relazione a ciò si deve tenere presente
innanzitutto che la rivelazione biblica è profondamente radicata nella storia. Il dise-
gno di Dio vi si manifesta progressivamente e si attua lentamente attraverso tappe
successive, malgrado la resistenza degli uomini. Dio sceglie un popolo e ne opera
pazientemente l'educazione. La rivelazione si adatta al livello culturale e morale di
epoche lontane e riferisce quindi fatti e usanze, ad esempio manovre fraudolente,
interventi violenti, sterminio di popolazioni, senza denunciarne esplicitamente l'im-
moralità; il che si spiega dal contesto storico, ma può sorprendere il lettore moder-
no, soprattutto quando si dimenticano i tanti comportamenti «oscuri» che gli uomi-
Come si vede, il Papa non risolve tutti i problemi che possono sorgere nella lettu-
ra dell'AT, ma segnala alcuni principi da tener presenti in questi casi.
Fra tali principi, due sono strettamente vincolati fra loro, e cioè la progressività
della rivelazione di Dio, che doveva tener conto di quanto gli uomini erano in grado
di comprendere (la pedagogia divina, unita alla sua condiscendenza), e la pienezza di
questa stessa rivelazione in Cristo. Infatti, molti dei racconti dell'AT ci risultano pro-
blematici proprio perché siamo cristiani, ovvero perché siamo già in possesso della
piena luce che Dio ha voluto comunicarci in Cristo e dunque siamo in grado di per-
cepire i punti oscuri delle tappe precedenti.
Inoltre, bisogna anche tener conto di un modo di esprimersi frequente nella Bib-
bia, per il quale si attribuiscono alcune azioni direttamente a Dio, senza menzionare
le cause seconde (umane o meno) che le hanno realizzate:
Spesso si nota che lo Spirito Santo, autore principale della Sacra Scrittura, attribui-
sce alcune azioni a Dio, senza far cenno a cause seconde. Non si tratta di « un modo
di parlare » primitivo, ma di una maniera profonda di richiamare il primato di Dio
e la sua signoria assoluta sulla storia e sul mondo (cf. Is 10,5-15; 45,5-7; Dt 32,39; Sir
11,14) educando così alla fiducia in lui. (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 304)1.
1. Per approfondire, cf. G. Tanzella-Nitti, «Una immagine credibile di Dio: La rilettura della violenza
nella Bibbia alla luce dell'evento di Gesù di Nazaret», Annales Theologici 28 (2014) 85-122.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 227
Bibliografia
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Estella (Navarra) 1995, parte III, specialmente capitoli VI, VII e VIII.
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P. GRᴇᴌᴏᴛ, La Bible, Parole de Dieu. Introduction théologique a l'étude de l'Écri-
ture Sainte, Desclée & Co, Paris 1965, capitolo II.
V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione gene-
rale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitoli 9, 10 e 11, specialmente 9 e
10.
Per approfondire:
G. ARᴀNᴅᴀ PÉRᴇᴢ, «Inspiración: autor, libro, lector-oyente como inspirados: im-
plicaciones teológicas», Estudios eclesiásticos 83 (2008) 271-304.
V. BᴀᴌᴀGᴜᴇR, «La "economía" de la Sagrada Escritura en Dei Verbum», Scripta
Theologica 38 (2006) 893-939.
L. SᴄHᴇFFᴄᴢYᴋ, «Die Heilige Schrift: Wort Gottes und der Kirche», Communio
30 (2001) 44-57. In inglese: «Sacred Scripture: God's Word and the Church's Word»,
Communio 28 (2001) 26-41. In spagnolo: «La Sagrada Escritura, palabra de Dios y de
la Iglesia», Communio (edición española) 23 (2001) 154-166.
W. VᴏGᴇᴌS, «Three Possible Models of Inspiration» in A. IᴢQᴜIᴇRᴅᴏ (a cura di),
Scrittura ispirata: atti del Simposio internazionale sull'ispirazione promosso dall'Ateneo
pontificio "Regina Apostolorum", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002,
61-79.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 228
Qualunque sia l'origine di questo termine, vedremo che non si deve applicare
senza discernimento alla Bibbia tutto ciò che nella cultura ellenistica si pensava ri-
guardo all'ispirazione di profeti, poeti e indovini. Qui poniamo un primo limite alla
nozione cristiana di ispirazione.
Per la mentalità greca classica, il profetizzare richiedeva la possessione da parte
di un dio, che faceva perdere all’indovino o profeta (μάντις) le sue facoltà. La persona
“ispirata” si trova fuori di sé, cioè in estasi (ἔκστασις, “stare fuori”). Il profeta non sa
quello che fa o dice mentre si trova sotto l'influsso di questa ispirazione. Si pensi agli
oracoli della pitonessa di Delfi oppure alla descrizione dell’entusiasmo dei poeti che
presenta Platone (cf. Ion 535c-536b)1.
La nozione estatica di ispirazione fa ormai parte dell'immaginario collettivo,
come si vede — chiedo scusa per l'esempio poco accademico — nel caso dell'inse-
gnante di divinazione nei romanzi di Harry Potter, la professoressa Trelauney. Questo
personaggio viene presentato come un’insegnante incompetente che però, in alcuni
momenti, cambia aspetto e parla del futuro con parole enigmatiche, delle quali non si
ricorda più quando esce dall'estasi.
Con l'intenzione di sottolineare l'origine soprannaturale delle profezie bibliche,
alcuni autori cristiani del II secolo si sono avvicinati a questo linguaggio. Per esem-
pio, san Giustino (†165), per spiegare ai pagani cosa è la profezia, va un po' oltre le
affermazioni parallele della 2 Pt. Ecco una sua frase:
Quando ascoltate le parole dei profeti proprio come dalla loro bocca, non dovete
credere che siano dette da essi stessi mentre sono ispirati, ma dal Verbo divino che
li muove (I Apol 36)2.
1. Cf. J. Sievers, «L'ispirazione nel pensiero ellenistico» in P. Dubovsky - J.-P. Sonnet (eds.), Ogni
Scrittura è ispirata: nuove prospettive sull'ispirazione biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013,
33-46.
2. Traduzione presa da Giustino, Le apologie.
3. Traduzione presa da Atenagora, Le opere: introduzione, traduzione e note a cura di Salvatore Di
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 230
Ancora riferendosi all'ambito musicale, Atenagora parla anche del profeta come
la citara suonata con il plettro, che è lo Spirito Santo (cf. Cohortatio ad Graecos, 8). Il
paragone col plettro si ritroverà in diversi Padri della Chiesa1.
Altri autori, per parlare del profeta come ispirato da Dio, ricorrono all'immagine
della penna in mano allo scriba a partire di Sal 45,22.
Tutte queste espressioni vanno viste come tentativi limitati ma legittimi di far
comprensibile l'origine soprannaturale delle profezie bibliche nella cultura ellenistica
del momento.
La situazione cambia con i montanisti, che concepivano la profezia in un modo
che negava esplicitamente la libertà e la coscienza dei profeti. Verso l'anno 170, Mon-
tano e due donne, Priscilla e Massimila, arrivano nella provincia di Frigia (Asia Mi-
nore) e dicono di essere ispirati dal Paraclito per annunciare l'arrivo imminente della
Parusia. La loro dottrina ebbe un notevole successo, soprattutto nelle comunità rurali.
Agli inizi del III secolo, i montanisti giunsero a convertire Tertulliano, attratto dal
loro rigorismo etico.
Origene è stato il primo autore che ha respinto con decisione la concezione mon-
tanista di profezia3. Dopo di lui, nella stessa linea, altri hanno ribadito il rifiuto di ap-
plicare la nozione estatica di ispirazione ai profeti biblici. San Girolamo, per esempio,
si esprime con innegabile chiarezza:
Non è vero, come sogna Montano con le sue stolte donne, che i profeti abbiano par-
lato in estasi, così da non sapere ciò che dicevano, e mentre istruivano gli altri, essi
stessi ignorassero quel che dicevano4.
Meglio, Cantagalli, Siena 1974. Per il testo greco, cf. D. Ruiz Bueno (ed.), Padres Apologistas Griegos
(s. II), Bac, Madrid 1954.
1. Un plettro è una “piccola lamina di osso, di avorio o di altro materiale, a forma di mandorla, con
cui si fanno vibrare le corde di certi strumenti (nel mondo greco-romano, la lira; oggi, la chitarra,
il mandolino ecc.)”, Dizionario Garzanti, s.v. “plettro”.
2. Un elenco molto completo dei riferimenti patristici all'ispirazione si può vedere in Perrella, Intro-
duzione generale, 33-35.
3. Cf. H. Crouzel, Origène, Lethielleux, Paris 1985, 104-105.“Orígenes apenas se interesa por el aspec-
to psicológico de la inspiración, si no es para resaltar, frente a los montanistas, la libertad y la
conciencia propia de los profetas”, J. Beumer, La inspiración de la Sagrada Escritura, Bac, Madrid
1973, 17 (originale tedesco: Idem, Die Inspiration der Heiligen Schrift, Herder, Freiburg im Breisgau
1968).
4. Traduzione mia: “Neque vero, ut Montanus cum insanis feminis somniat, prophetae in ecstasi
sunt locuti, ut nescirent quid loquerentur et cum alios erudirent, ipsi ignorarent quid dicerent”, In
Isaiam, prologus (CCL 73,2).
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 231
Basta leggere infatti la Scrittura, per accertare che il Signore non si manifesta mai
come faceva Apollo nel tempio di Delfi.
Il caso più simile al modello mantico di profeta nei racconti biblici è quello di Ba-
laam, una sorte di profeta a pagamento, che benedice Israele contro la volontà del re
di Moab, il quale voleva invece una maledizione. Nel racconto di Nm 22-24 Balaam
appare descritto in maniera piuttosto positiva, in contrasto con Balac, re di Moab.
Tuttavia, nonostante abbia trasmesso parole del Signore, Balaam viene presentato dal
resto della tradizione biblica in termini assai negativi (cf. Nm 31,16; Dt 23,5-6; Gs
13,22; 24,9-10; Mic 6,5; Ne 13,2; 1 Cr 6,55; 2 Pt 2,15; Gd 1,11; Ap 2,14)1.
*
Fin qui abbiamo parlato di ispirazione in senso ampio, non nel senso tecnico, ri-
ferito ai libri. Ma è evidente che il rifiuto del modello mantico di ispirazione vale
ugualmente per l'ispirazione scritturistica: sia il profeta che pronuncia un oracolo, sia
l'apostolo che predica Cristo, sia colui che mette per iscritto queste parole, tutti agi-
scono in maniera “normale”, cioè in possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali e
mossi dalla propria volontà libera.
1. Vale la pena menzionare che nel 1967 sono state trovate in Giordania delle iscrizioni risalenti al
700 a.C. nelle quali si menziona a “Balaam, figlio di Peor”, “veggente degli dei”. Cf. C. A. Rollston,
«Balaam» in D. N. Freedman (ed.), Eerdmans Dictionary of the Bible, Eerdmans, Grand Rapids
2000, 144-145.
2. “No hay en la actualidad ningún biblista católico que no admita la inspiración de las palabras de la
Escritura. Toda la obra del autor sagrado es de Dios y del colaborador carismático”, Artola - Sán-
chez Caro, Biblia y Palabra de Dios, 208.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 232
vino vanno respinti se con questi termini si nega l'attività libera e cosciente dell'au-
tore umano. Infatti alcuni discepoli del Báñez e soprattutto alcuni gruppi protestanti
svilupparono una concezione dell'ispirazione verbale come dettato meccanico: che
Dio ispiri le parole vuol dire allora che detta il testo parola per parola all'orecchio
dell'agiografo, il quale non è altro che un copista.
Questa nozione è presente ancor oggi, sostenuta dai gruppi “fondamentalisti” e
da altri simili. Sulla loro comprensione della Bibbia come parola di Dio, si esprime
con grande chiarezza il documento della PCB del 1993:
Il termine “fondamentalista” si ricollega direttamente al Congresso Biblico Ameri-
cano tenutosi a Niagara, nello stato di New York nel 1895. Gli esegeti protestanti
conservatori definirono allora «cinque punti del fondamentalismo»: l'inerranza ver-
bale della Scrittura, la divinità di Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina
dell'espiazione vicaria e la risurrezione corporale in occasione della seconda venuta
di Cristo. (…) Benché il fondamentalismo abbia ragione di insistere sull'ispirazione
divina della Bibbia, sull'inerranza della Parola di Dio e sulle altre verità bibliche in-
cluse nei cinque punti fondamentali, il suo modo di presentare queste verità si radi-
ca in una ideologia che non è biblica, checché ne dicano i suoi rappresentanti. (…)
Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che rifiutando di tener conto
del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare piena-
mente la verità della stessa Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta rela-
zione del divino e dell'umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Pa-
rola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto
l'ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per que-
sta ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per pa-
rola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in
un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca. Non accorda nes-
suna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi
biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi per-
iodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse1.
Nel secolo XIX, per difendere la Bibbia di fronte agli attacchi dei razionalisti, sor-
sero alcune teorie sull'ispirazione che possiamo chiamare “minimaliste”, nel senso che
cercavano di ridurre al minimo gli elementi soprannaturali.
1. Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione (EB 1382-1384). Cf. anche Basta - Bovati, "Ci ha
parlato per mezzo dei profeti", 55-57.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 233
1. Poi, il Concilio aggiunge una condanna corrispondente: “Se qualcuno non accetterà come sacri e
canonici i libri interi della sacra Scrittura, in tutte le loro parti, come li ha accreditati il santo
Concilio Tridentino, o negherà che siano divinamente ispirati: sia anatema” (EB 79).
2. Sulle teorie che limitano in diverse maniere l'estensione dell'ispirazione, cf. Perrella, Introduzione
generale, 66-67 (n.68); Collins, «Ispirazione», 1349-1350.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 234
fede l'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra. La Bibbia invece non è
semplicemente infallibile, come le dichiarazioni solenni del Magistero univer-
sale della Chiesa. La sacra Scrittura è molto più di un libro che contiene la rive-
lazione senza errori. Un documento che espone senza errori la dottrina cristia-
na può avere un grande valore, può essere usato per molti secoli, ma è sempre
sostituibile. Per esempio il Catechismo Romano, pubblicato dopo il Concilio di
Trento, in pratica oggi non si usa più come esposizione della dottrina cattolica.
E l'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica probabilmente diventerà obsoleto
fra alcuni secoli. La Bibbia invece è sempre attuale perché, come dirà il Vatica-
no II, è parola di Dio.
Nel contesto del Vaticano I, possiamo ricordare un'altra spiegazione insufficiente
dell'ispirazione, attribuita al cardinale J. H. Newman (1801-1890), anche se egli non la
formulò in maniera sistematica. È la cosiddetta teoria delle cose dette di passaggio
(obiter dicta), secondo la quale non bisogna credere che siano ispirate alcune frasi cir-
costanziali, come dire che il cane di Tobia muoveva la coda (Tb 11,9 nella Vulgata) o
che Paolo ha lasciato a Troade il suo mantello (2 Tm 4,13). Così, l'ispirazione non vale
per tutte le affermazioni della Bibbia, ma solo per quelle importanti, cioè, quelle che
includono insegnamenti di fede o di morale1.
Non è questa la fede della Chiesa. È vero che nelle Scritture si trovano alcune in-
formazioni che possono sembrare superflue o triviali, ma questa realtà non deve far
pensare che non siano ispirate. La distinzione fra ciò che è importante e ciò che non
lo è dipende dal criterio del lettore e non è esenta da una certa arbitrarietà. (Per que-
sta strada si arriva agli stessi problemi della determinazione di un canone dentro il
canone, di cui abbiamo parlato a pp. 180-183). Ma soprattutto si deve tener conto che
una frase non va mai presa isolatamente, bensì nel contesto del libro in cui si inseri-
sce, nel quale ha sempre una determinata funzione, sebbene non contenga insegna-
menti dottrinali. Come insegna Leone XIII nella Providentissimus Deus (cf. EB 124),
limitare l'ispirazione non è il modo per difenderla: tutta la Bibbia è ugualmente ispi-
rata, anche se non tutto il suo contenuto si trova allo stesso livello di rilevanza
teologica.
1. Cf. Johnson, «Leo XIII»; J. Seynaeve, Cardinal Newman's Doctrine on Holy Scripture According to
his Published Works and Previously Unedited Manuscripts, Publications universitaires, Louvain
1953, 153-194.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 235
1. Negli ultimi anni c'è stato un piccolo aumento dell'interesse sul tema dell'ispirazione: cf. Basta -
Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti"; J. J. García Morales, La inspiración bíblica a la luz del
principio católico de la tradición: convergencias entre la Dei Verbum y la teología de P. Benoit, O.P.,
Pontificia Università Gregoriana, Roma 2012; Alves, Ispirazione e verità; P. Dubovsky - J.-P. Sonnet
(eds.), Ogni Scrittura è ispirata: nuove prospettive sull'ispirazione biblica, San Paolo, Cinisello Bal-
samo 2013.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 236
1. I due testi sono: “Auctor principalis sacre Scripture est Spiritus sanctus (…) homo qui fuit auctor
instrumentalis sacre scripture”, Quodl. VII, q.6, a.14, ad 5; “in illa scriptura cuius Spiritus sanctus
est auctor, homo uero instrumentum tantum (…)”, ibid., a.16, in c.
2. Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 174; cf. B. Sesboüé, «La canonisation des Écritures et
la reconnaisance de leur inspiration: Une approche historico-théologique», Recherches de science
religieuse 92 (2004) 13-44, 31, n. 5.
3. Per quanto segue, cf. J. C. Ossandón Widow, «La interpretación bíblica según Santo Tomás», Isido-
rianum 34 (2008) 227-271, 243-244; più dettagliato in G. Aranda Pérez, «Una norma del magisterio
de la Iglesia para el estudio de la Sagrada Escritura: Santo Tomás de Aquino, maestro y guía»,
Scripta Theologica 6 (1974) 399-438, 420-425.
4. Cf. L. Clavell - M. Pérez de Laborda, Metafisica, EDUSC, Roma 2006, 280-281.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 237
1. Tommaso d'Aquino spiega: “Strumento è qualcosa che è mosso da un agente principale e che tut-
tavia può avere un'operazione propria dipendente dalla sua forma, come si è detto del fuoco. Per-
ciò l'azione dello strumento in quanto è strumento non si distingue dall'azione dell'agente princi-
pale, ma lo strumento può compiere un'operazione distinta in quanto è una realtà per sé stante
(S.Th. III, q.19, a.1, ad 2, traduzione di T. Centi e A. Belloni, disponibile su internet. Testo origi-
nale: “Instrumentum dicitur aliquid ex eo quod movetur a principali agente: quod tamen, praeter
hoc, potest habere propriam operationem secundum suam formam, ut de igne dictum est. Sic igi-
tur actio instrumenti inquantum est instrumentum non est alia ab actione principalis agentis: po-
test tamen habere aliam operationem prout est res quaedam”.
2. “Duplex est causa agens, principalis et instrumentalis. Principalis quidem operatur per virtutem
suae formae, cui assimilatur effectus: sicut ignis suo calore calefacit (...) Causa vero instrumentalis
non agit per virtutem suae formae, sed solum per motum quo movetur a principali agente. Unde
effectus non assimilatur instrumento, sed principali agenti”.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 238
1. Traduzione mia. “Ab instrumento non oportet quod omnino excludatur ratio libertatis, quia
aliquid potest esse ab alio motum, quod tamen seipsum movet; et ita est de mente humana”.
2. Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 40-41.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 239
Con queste parole, l'applicazione della nozione tomista di strumento, con l’espli-
citazione del carattere libero dell'agiografo, fa il suo ingresso, per così dire, nel magi-
stero ecclesiastico. È un esempio di come le riflessioni teologiche contribuiscano a far
maturare il giudizio della Chiesa (cf. DV 12).
Vent'anni dopo, questo brano della Divino Afflante Spiritu è citato nel paragrafo
che la Dei Verbum dedica all'ispirazione:
Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle
loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero
come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte (DV11)1.
1. Ecco il testo latino con le rispettive note: “In sacris vero libris conficiendis Deus homines elegit,
quos facultatibus ac viribus suis utentes adhibuit (Cf. PIUS XII, Litt. Encycl. Divino afflante, 30
sept. 1943: AAS 35 (1943), p. 314; EB 556), ut Ipso in illis et per illos agente (In et per hominem: cf.
Heb. 1, 1 et 4, 7 (in): 2 Sam. 23, 2; Mt. 1, 22 et passim (per); CONC. VAT. I: Schema de doctr. cath.,
nota 9: Coll. Lac. VII, 522. ), ea omnia eaque sola, quae Ipse vellet, ut veri auctores scripto tra-
derent (LEO XIII, Litt. Encycl. Providentissimus Deus, 18 nov. 1893: DENZ. 1952 (3293); EB 125)”.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 240
1. Cf. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 607 e 88.
2. “Tres Patres expungere volunt verba «ut veri auctores», quia hagiographi non sunt nisi instrumen-
ta (…) R.– Quia hagiographi veri auctores sunt, haec verba consulto apposita fuerunt”, Idem,
Concilii Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 89. La “R” sta per la risposta della commissione.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 241
porto l'origine divina dei testi con il fine per il quale egli ha voluto ispirare gli agio-
grafi, come vedremo adesso.
24.2. Autore - testo - lettore. Dio come autore e l'importanza della ricezione
Per parlare della Scrittura come parola di Dio, abbiamo usato l'analogia con l'In-
carnazione del Verbo. Adesso utilizzeremo uno schema diverso, ma altrettanto utile,
per capire altri aspetti che riguardano l'ispirazione biblica. Si tratta dello schema della
comunicazione, che abbiamo presentato nella prima parte:
emittente → messaggio → destinatario
Affinché la comunicazione si verifichi è indispensabile che il messaggio arrivi al
destinatario; altrimenti, non si può parlare di comunicazione. Abbiamo anche visto
che nel caso della comunicazione scritta lo schema deve cambiare:
autore → messaggio ‖ messaggio → lettore
La comunicazione in questo caso richiede una duplicazione degli atti; e accadde
propriamente soltanto nell'atto della lettura.
Adesso, possiamo tentare di inserire l'ispirazione nello schema della comunica-
zione scritta, giacché la Bibbia è un messaggio scritto destinato alla Chiesa. Possiamo
chiederci chi è ispirato: l'autore, il testo o il lettore? A questo punto, è chiaro che sia
l'autore che il testo devono considerarsi ispirati. Ma finora non abbiamo detto niente
sul lettore.
Questo è il momento per tornare al testo della Dei Filius che abbiamo citato so-
pra. Se togliamo la condanna degli errori, il testo dice:
Questi libri dell'Antico e del Nuovo Testamento (…) la Chiesa li considera sacri e
canonici (…) perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per
autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa (EB 77).
2) i libri hanno Dio per autore (Deum habent auctorem): l'affermazione si pre-
senta come conseguenza della precedente. Il frutto o l'effetto dell'ispirazione è
che i libri hanno Dio come autore: il verbo è al presente, si tratta dunque di
una caratteristica permanente.
3) ut tales ipsi Ecclesiae traditi sunt, sono stati consegnati, come libri sacri e cano-
nici, alla Chiesa.
Il Concilio Vaticano I ha lasciato ai teologi il compito di approfondire il concetto
di ispirazione a partire da questi tre elementi. Ma vanno fatte ancora due osservazioni
sul paragrafo della Dei Filius:
1) In latino il termine auctor è generico, vuol dire “causa”, “origine”, e non neces-
sariamente “autore” in senso letterario, cioè, scrittore. La parola dunque si può
intendere in diversi modi, che il Vaticano I non ha voluto specificare.
2) Alcuni hanno interpretato il testo della Dei Filius come una definizione riferi-
ta da una parte all'ispirazione (influsso dello Spirito, per cui Dio è autore) e
dall'altra al canone (ricezione nella Chiesa). Ma non era questa l'intenzione
del Vaticano I, che voleva chiarire soltanto la dottrina circa l'ispirazione. Non
è giusto quindi fondarsi su questo testo per limitare il carattere ispirato dei li-
bri alla loro composizione. Torneremo su questo punto1.
Nell'enciclica Providentissimus Deus (1893) Leone XIII cercò di continuare il di-
scorso sull'ispirazione biblica iniziato dal Vaticano I, mediante una descrizione
dell'azione di Dio sull'autore di ogni libro. Per difendere l'inerranza (l'assenza di erro-
ri) della Bibbia, il Papa si appella al fatto che Dio ne è l'autore:
Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come
strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente
all'autore principale, ma agli scrittori ispirati. Infatti egli stesso così li stimolò e li
mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di
modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente
con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in ma-
niera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l'autore di tutta
la sacra Scrittura (EB 125).
1. Per queste due osservazioni sulla Dei Filius, cf. N. I. Weyns, «De notione inspirationis biblicae iux-
ta Concilium Vaticanum», Angelicum 30 (1953) 315-336.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 243
Altri sviluppi in questa linea sono finiti in un vicolo cieco. Si cercava infatti di
precisare come abbia agito Dio sulla volontà dell'autore prima e durante la stesura del
libro, oppure in che maniera illuminasse il suo intelletto, e in genere come influisse
sulle sue diverse facoltà2. Ma così veniva dimenticato che ciò che importa è il testo
che abbiamo oggi, che può avere avuto decine di autori diversi. Inoltre, questo
concentrarsi sull'ispirazione dell'autore è entrato in crisi anche a causa degli sviluppi
della linguistica e dell'ermeneutica, che hanno insistito sull'importanza della rice-
zione nel processo di comunicazione.
È stato sempre chiaro che non solo gli autori, ma anche i testi biblici sono ispirati.
Infatti, secondo 2 Tm 3,16, l'ispirazione appartiene al testo. Possiamo chiederci cosa
vuol dire che un testo sia ispirato, oltre al fatto che il suo autore lo abbia composto
sotto un influsso speciale dello Spirito Santo.
Come abbiamo detto diverse volte, un testo agisce soltanto quando viene letto, al-
trimenti rimane in silenzio. Perciò l'attenzione attuale si è spostata sul rapporto fra
l’ispirazione e il lettore. Dobbiamo forse dire che ogni lettore della Scrittura riceve
un’ispirazione dello Spirito Santo?
Tale affermazione non sarebbe nuova. Infatti, Calvino (1509-1564), uno dei rifor-
matori protestanti, diceva che la Bibbia non solo è ispirata da Dio, ma che è anche
“ispirante Dio”. Chi legge le Scritture cioè rimane sconvolto ed edificato grazie allo
Spirito Santo. Calvino parlava perfino della Scrittura che ispira come criterio per ri-
conoscere quali sono i libri ispirati.
La Chiesa non ha mai accettato un'idea del genere, che d'altronde si può smentire
semplicemente per via sperimentale: si può leggere un brano biblico e non provare
nessun effetto attribuibile allo Spirito Santo.
Tuttavia, pur senza condividere la posizione calvinista, è ragionevole pensare che
lo Spirito Santo non sia intervenuto soltanto nella composizione dei libri, ma che agi-
sca anche nel momento della loro lettura1. Forse sarebbe desiderabile trovare un ter-
mine diverso da «ispirazione», ma è palese che il carisma dell'ispirazione rimarrebbe
inutile se nessuno fosse in grado di percepire i suoi effetti, di ascoltare cioè la voce di
Dio nella lettura.
È logico infatti pensare che lo Spirito Santo agisca nella lettura, sebbene non in
qualsiasi lettura, ossia non con ogni eventuale lettore delle pagine bibliche.
Qui possiamo tentare di ricuperare il ruolo della Chiesa come destinataria dei li-
bri sacri, come suggeriva il Vaticano I. È la Chiesa il soggetto che riceve i libri sacri e
quindi riconosce che hanno Dio per autore. È la Chiesa, specialmente nella liturgia,
colui che ascolta la voce divina nelle pagine sacre. “Dio, il quale ha parlato in passato
non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto” (DV 8)2.
La Dei Verbum non afferma mai che la Bibbia sia parola di Dio soltanto nella
Chiesa. Ma di fatto parla sempre della Scrittura all'interno della vita della Chiesa.
Oltre ai testi già citati, basterebbe leggere il capitolo VI della costituzione, intitolato
“La sacra Scrittura nella vita della Chiesa”. Per esempio, in DV 21 si dice:
(…) È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione
cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre
che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in
conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da
1. Cf. G. Aranda Pérez, «Inspiración: autor, libro, lector-oyente como inspirados: implicaciones
teológicas», Estudios eclesiásticos 83 (2008) 271-304.
2. Possiamo chiederci se, fuori dalla Chiesa, Dio parla tramite la Bibbia. In realtà la Chiesa non ha
mai risposto a domande di questo tipo. Non è facile farlo, da una parte perché non possiamo sta-
bilire con esattezza dove si trovano i limiti della Chiesa. Dall’altra perché sembra logico che, se
vuole, Dio può comunicare con qualsiasi uomo che legga la Bibbia per aiutarlo a convertirsi.
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 245
essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro
fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Per-
ciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed
efficace è la parola di Dio » (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità
con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).
Parlare della Chiesa è parlare della tradizione. Se si legge la Bibbia fuori dalla tra-
dizione, l’ispirazione perde almeno parte della sua efficacia. Detto in un altro modo,
non si può considerare il carisma dell'ispirazione isolandolo dal piano divino di con-
servazione della parola di Dio. Ciò è in accordo con la consapevolezza che lo Spirito
Santo agisce nella proclamazione e conservazione della parola di Dio, secondo i di-
versi carismi che strutturano la Chiesa.
Se ci si chiede in che cosa consista questa azione dello Spirito, bisogna stare attenti a
non ridurla all’illuminazione interiore dei cuori credenti; in realtà, essa accompa-
gna, anima, assiste con dei carismi l'esercizio stesso dei ministeri che danno una
struttura definita alla Tradizione. Tale è l'insieme dei mezzi concreti per i quali lo
Spirito assicura alla Chiesa l'indefettibilità nella fede1.
1. Traduzione mia. “Si l'on se demande en quoi consiste cette action de l’Esprit, il faut se garder de la
réduire à l'illumination intérieure des coeurs croyants; en réalité, elle accompagne, anime, assiste
par des charismes, l'exercice même des ministères qui donnent une structure définie à la Tradi-
tion. Tel est l'ensemble des moyens concrets par lesquels l'Esprit assure à l'Église l'indéfectibilité
dans la foi”, Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 25.
2. Traduzione di T. Centi e A. Belloni. “Gratiae gratis datae dantur ad utilitatem aliorum, ut supra
dictum est. Cognitio autem quam aliquis a Deo accipit, in utilitatem alterius converti non posset
nisi mediante locutione. Et quia spiritus sanctus non deficit in aliquo quod pertineat ad Ecclesiae
utilitatem, etiam providet membris Ecclesiae in locutione, non solum ut aliquis sic loquatur ut a
AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ 246
diversis possit intelligi, quod pertinet ad donum linguarum; sed etiam quod efficaciter loquatur,
quod pertinet ad gratiam sermonis”.
1. La seguente citazione avrebbe bisogno di alcuni chiarimenti, perché non abbiamo parlato del
concetto di profezia in san Tommaso, ma può aiutare: “Desde el punto de vista del hagiógrafo, el
carisma de inspiración será profético solo de modo imperfecto, porque normalmente carece de vi-
siones y sobre todo porque no siempre es consciente de la acción de Dios sobre él, ni percibe todo
el alcance de sus palabras. (…) En cambio, al considerar la recepción de la Escritura en la Iglesia,
se puede hablar de una profecía verdadera y propia, pues desaparecen los elementos que llevaban
a hablar de imperfección en algunos casos de la profecía. En primer lugar, la Iglesia tiene certeza
sobre el origen divino de los libros y por lo tanto es consciente de la acción reveladora de Dios
presente en los textos —sabe que tienen a Dios por autor, por eso los considera inspirados y canó-
nicos—. En segundo lugar, la Iglesia no lee sin entender, como profetizó Caifás, sino que com-
prende el contenido de la revelación, aunque no totalmente. Por último, la Iglesia recibe la revela-
ción apostólica, que según los grados descritos por Santo Tomás a propósito del progreso de la
revelación (II-II, q.174, a.6), corresponde al grado máximo de profecía”, J. C. Ossandón Widow,
«Los sentidos de la Escritura: Aproximación a una definición teológica del sentido literal», Excerp-
ta e Dissertationibus in Sacra Theologia 49 (2006) 9-103, 67-68.
Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla 247
sacra Scrittura
All'inizio del libro IV, Origene si propone di dimostrare dal punto di vista razio-
nale il carattere divinamente ispirato delle Scritture (IV,1). Espone due argomenti:
l'adempimento in Cristo delle antiche profezie e la diffusione del cristianesimo, an-
nunciata da Gesù. Il primo serve per mostrare l'ispirazione dell'AT, mentre il secondo
fa capire l'origine soprannaturale degli insegnamenti di Gesù, contenuti nel NT.
In modo coerente con la logica della sua argomentazione, Origene formula una
conclusione che vale la pena citare:
Bisogna però riconoscere che il carattere divino degli scritti profetici e il significato
spirituale della legge di Mosè si sono rivelati con la venuta di Cristo: infatti prima di
essa non era possibile addurre argomenti evidenti sull'ispirazione del vecchio testa-
mento. Invece la venuta di Gesù ha spinto quanti potevano dubitare del carattere di-
vino della legge e dei profeti a riconoscerli chiaramente come scritti per grazia cele-
ste (IV,1,6).
Non è che Origene neghi l'ispirazione dello Spirito Santo nel momento in cui si
compongono i libri. Ma ritarda la possibilità di riconoscere questa azione divina al
1. De principiis, Praef., n.8, traduzione presa da Origene, I principi; a cura di Manlio Simonetti,
UTET, Torino 1968.
Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla 249
sacra Scrittura
tempo della Chiesa. Dovremo tornare a studiare questo punto nella parte dedicata
all'ispirazione. In questo momento, interessa notare semplicemente che, per parlare
della Bibbia, Origene comincia con l'ispirazione, perché da essa dipende tutto il resto.
Origene dedica poi i due capitoli seguenti all'interpretazione biblica (IV,2-3).
Espone la famosa dottrina dei tre sensi del testo — somatico, psichico e spirituale —
che ha dato vita alla distinzione patristica e medievale fra senso letterale e senso spiri-
tuale. Adesso però ci interessano altre affermazioni dell'alessandrino, che aiutano a
definire la Bibbia.
In IV,2,7, Origene spiega che per interpretare correttamente la Scrittura, si deve
tener presente “lo scopo cui mirava lo Spirito” nell'illuminare profeti e apostoli, e
cioè: rivelare “primariamente gli ineffabili misteri della condizione umana”, affinché le
anime potessero attingere la perfezione. Siccome tale perfezione non è raggiungibile
senza una conoscenza profonda ed esatta di Dio, è stato disposto che Dio e il suo
Unigenito si manifestassero agli uomini. Dunque, il fine della rivelazione contenuta
nella Scrittura è far conoscere Iddio agli essere umani, affinché diventino perfetti.
Nell'ispirare la Bibbia, però, lo Spirito — ci dice ancora Origene in IV,2,8 — ha
avuto cura di non esporre le verità su Dio a persone indegne di riceverle, secondo il
comando di Gesù: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti
ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”
(Mt 7,6). Perciò nelle pagine sacre si descrivono i misteri simbolicamente, per mezzo
di racconti di guerre o di prescrizioni legali.
Per Origene, non tutti i lettori della Bibbia sono in grado di penetrare nel signifi-
cato spirituale nascosto dietro la lettera. Esiste una correlazione fra il grado di perfe-
zione di ogni singolo cristiano e la profondità di significato della Scrittura. I sensi
non si definiscono dunque in base a ciò che ha voluto dire l'autore della Scrittura, che
è Dio, perché si tratta di un significato infinito, ma in base a ciò che capisce il lettore,
secondo la sua capacità. Ci sono quindi tanti sensi quanti tipi di lettori. La Bibbia,
dunque, non è uguale per tutti!
Oggi la terminologia di Origene ci risulta strana (i misteri rivelati ai perfetti,
ecc.). Senza dubbio, la sua comprensione della Bibbia presenta alcuni aspetti discuti-
bili: se i sensi nascosti nel testo sono infiniti, diventa impossibile dire che un'interpre-
tazione è migliore di un'altra. Ma la cornice nella quale Origene comprende la Scrit-
tura è condivisibile: la sua origine è divina e il suo fine consiste nel far conoscere agli
uomini i “misteri” affinché raggiungano la pienezza spirituale.
Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla 250
sacra Scrittura
25.2. Il De doctrina christiana di sant'Agostino
Lo scopo ultimo della lettura è scoprire la volontà divina. Ma per arrivarci si deve
per forza passare attraverso (per) gli autori umani. Questo punto non era presente
nella presentazione di Origene, che non tiene conto degli agiografi. Si tratta di un
principio fondamentale dell'interpretazione biblica, come vedremo nella Parte IV.
Benché parta da uno schema diverso e utilizzi un linguaggio meno intellettuali-
sta, sant'Agostino coincide con Origene nell'incorniciare la Scrittura dentro il piano
salvifico di Dio. Ma la sua considerazione della natura delle parole come segni apre
uno spazio per la considerazione del linguaggio umano con cui Dio ci parla nella
Bibbia.
Chi sono gli apostoli? Di solito pensiamo ai Dodici e a san Paolo. Ma nel calen-
dario liturgico l'11 giugno si celebra la festa di “san Bàrnaba apostolo”. Oltre alla do-
manda su chi sono da identificare come apostoli, troviamo quella circa la definizione
del termine. Cosa vuol dire “apostolo”? Quali caratteristiche distinguono un
apostolo?
Vale la pena soffermarsi su questo tema, perché sin dalle origini del cristianesimo
ci si è appellati all'apostolicità — della rivelazione, dei libri, della Chiesa — come si-
nonimo di autenticità: la fede autentica è la fede degli apostoli, la vera Chiesa è quella
in cui si conserva la successione apostolica, ecc. San Tommaso d'Aquino ha sintetiz-
zato questo principio con chiarezza: “La nostra fede si poggia sulla rivelazione fatta ai
profeti e agli apostoli” (Innititur enim fides nostra revelationi apostolis et prophetis fac-
tae, S.Th., I, q. 1, a. 8, ad 2). L'importanza degli apostoli dipende dal fatto che essi,
come i profeti prima di Cristo, sono stati i primi destinatari della rivelazione.
In genere nei documenti del Magisterio della Chiesa i termini “apostolo” e altri
simili vengono impiegati spesso, ma senza precisarne il contenuto. La Dei Verbum
non dice nulla al riguardo, perché lo presume un dato conosciuto o forse perché pre-
ferisce non offrire una definizione troppo precisa. Neanche nel decreto di Trento cita-
to in DV7 si trova una definizione di “apostolo”1.
Un paragone fra l'uso della parola da parte della tradizione della Chiesa e quello
che appare nei libri del NT rivela alcune differenze. Più esattamente, il Magistero uti-
1. Anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica la definizione sembra darsi per scontata. La CTI ha
un documento titolato “L'apostolicità della Chiesa e la successione apostolica” (1973), ma non
spiega in che cosa consiste l’essere apostolo. Benedetto XVI ha dedicato alcune udienze agli apo-
stoli, ma si è limitato a spiegare il ruolo dei Dodici secondo i quattro vangeli (cf. Udienza Gene-
rale, 22 marzo 2006, “Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo”) o a commentare DV 7 e 8 (cf.
Udienza Generale, 3 maggio 2006, “La Tradizione Apostolica”).
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 254
lizza il termine in un senso più ristretto in confronto ai sensi che possiede “apostolo”
(ἀπόστολος) nel NT. In ciò che segue, menzioneremo tutti i testi dove appare il ter-
mine “apostolo”, ordinati secondo il significato che presentano in ogni caso1.
In greco, ἀπόστολος viene dal verbo ἀποστέλλω, che significa “inviare”. Etimolo-
gicamente “apostolo” vuol dire “inviato”. Ma prima del cristianesimo non era un ter-
mine di uso comune. Fuori dal NT ricorre molto di rado, quasi sempre in contesto
militare2. Invece, la parola percorre quasi tutto il NT — manca soltanto in 2 Tessalo-
nicesi, Giacomo e nelle lettere di Giovanni —, il che costituisce un segnale della sua
importanza nonché della sua diffusione fra i primi cristiani.
Molto probabilmente l'uso del termine “apostolo” nel NT ha un'origine semitica,
giacché corrisponde alla parola ebraica shalûah ()שׁלוַּ ח,
ַ che vuol dire appunto “invia-
to”, “ambasciatore”, come anche il termine aramaico corrispondente shelîah (יחַ )שׁ ִל.
ְ
Secondo il sostrato semitico il termine significa delegato, ambasciatore, che esercita
una missione di plenipotenziario in nome di qualcuno che ha autorità e che si rende
in qualche modo presente attraverso il delegato. L'apostolo rappresenta colui che gli
ha dato il mandato3.
1. Nella presentazione che segue mi baso su: P. Batiffol, L'Eglise naissante et le catholicisme, Cerf, Pa-
ris 1971, 46-68; J. Dupont, «Le nom d'apôtres a-t-il été donné aux Douze par Jésus?», Orient syrien
1 (1956) 267-290. 425-444; T. Citrini, «Apostolo-apostolicità della Chiesa» in F. Ardusso (ed.), Di-
zionario teologico interdisciplinare, Marietti, Casale Monferrato 1977, vol.1, 401-411; R. Latourelle,
«Apostolo» in R. Latourelle - R. Fisichella (eds.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella,
Assisi 1990, 81-82; R. E. Brown, «I Dodici e l'apostolato» in R. E. Brown - J. A. Fitzmyer - R. E.
Murphy (eds.), Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1811-1816 (contiene
una bibliografia assai completa dal punto di vista esegetico); J. Taylor, «Apostoli» in R. Penna - G.
Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 85-89; J.
Schlosser, «I Dodici: origini, ruolo, scomparsa», Ricerche storico bibliche 25 (2013) 15-36; R. Burnet,
«La notion d’apostolicité dans les premiers siècles», Recherches de science religieuse 103 (2015)
185-202. Si può consultare anche E. Pascual Calvo, «Apóstoles. I, Sagrada Escritura» in Gran Enci-
clopedia Rialp, Rialp, Madrid 1991, 2:517-520.
2. “Esso si riferisce a una flotta o a un esercito inviati in una spedizione; il comando di una spedi-
zione; un colonizzatore inviato a fondare una colonia; un conto o una fattura. Questi significati
non servono come sfondo per il concetto del NT”, Brown, «I Dodici e l'apostolato», 1815 (§149).
3. Latourelle, «Apostolo», 81.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 255
Possiamo accostare a questo senso l'uso del termine nel vangelo di Giovanni, in
cui ἀπόστολος appare una volta sola, sulla bocca di Gesù, che si rivolge ai suoi
discepoli:
In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un in-
viato [ἀπόστολος] è più grande di chi lo ha mandato (Gv 13,16).
D'altra parte, anche se il quarto vangelo parla spesso dei discepoli di Gesù e del
gruppo più specifico dei “Dodici”, scelti da lui (6,67.70.71; 20,24), non li chiama mai
“apostoli”.
In sintesi, in Gv “apostolo” viene usato nel senso etimologico-semitico di inviato,
con una carica teologica profonda, dentro la teologia della missione propria del quar-
to vangelo. È chiaro che questo senso non corrisponde esattamente all'uso del ter-
mine nella Dei Verbum che, quando dice “apostoli”, non parla di “inviati” in genere,
ma sempre degli apostoli di Gesù Cristo. In Giovanni questo concetto è presente, ma
senza un termine specifico.
1. Nelle lettere di Giovanni appare ancora l'affermazione che Dio ha inviato suo Figlio (cf. 1 Gv
4,9.10.14, sempre col verbo ἀποστέλλω), ma, come detto, non appare la parola “apostolo”.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 256
Lo stesso si può dire della lettera agli Ebrei, dove si usa la parola una sola volta
(Eb 3,1), che è inoltre l'unica volta in cui nel NT si applica a Gesù:
Perciò, fratelli santi, voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate atten-
zione a Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo.
Curiosamente però in questi due testi il mandato di Gesù si rivolge agli “Undici
discepoli” (Mt 28,16) o semplicemente agli “Undici” (Mc 16,14). Non appare la parola
“apostolo”!
Se ci fermassimo qui, gli apostoli a cui si riferirebbe DV7 sarebbero questi Undi-
ci, cioè, i Dodici meno Giuda Iscariota. Ma questa identificazione non è sufficiente;
infatti in DV8 c'è un riferimento a 2 Ts 2,15 che presuppone che san Paolo viene con-
siderato apostolo. Prima però di analizzare il caso di Paolo, bisogna completare i dati
sul gruppo degli Undici o Dodici.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 257
Durante il suo ministero pubblico, Gesù ha scelto “per mezzo dello Spirito Santo”
(At 1,2) dodici uomini fra i suoi discepoli “perché stessero con lui e per mandarli a
predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14-15). È notevole il fatto che i tre
vangeli sinottici si preoccupino di segnalare i loro nomi, sempre cominciando da Pie-
tro e finendo con Giuda Iscariota. Si vuole sottolineare così la singolarità di questo
gruppo e la sua importanza per i primi cristiani.
Perché dodici? L'unica spiegazione del numero menzionata nel NT manifesta
una dimensione escatologica: sedersi su dodici troni per giudicare le dodici tribù (cf.
Mt 19,28; Lc 22,30). La cifra non coincide con i settanta membri del Sinedrio — l'au-
torità religiosa in quel momento —, ma rinvia alle dodici tribù d'Israele. L'elezione di
dodici uomini vuole indicare la rinnovazione escatologica d'Israele progettata da
Gesù.
La funzione dei Dodici non si conclude quando Gesù ascende in cielo, benché
non possano più “stare con lui”. Anzi, a partire da quel momento il gruppo acquista
un'importanza centrale. Infatti, gli Atti degli Apostoli sono uno dei libri che più parla
1. In Matteo la parola “apostolo” appare una sola volta, applicata appunto ai Dodici (Mt 10,2). Anche
in Marco c'è una sola ricorrenza (Mc 6,30) che pure si applica ai Dodici. Ma in entrambi i casi si
tratta di un uso del termine molto vicino, se non identico, al senso etimologico-semitico di
“delegato”.
2. In Mc 3,13-14, la versione della CEI dice: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi
andarono da lui. Ne costituì Dodici — che chiamò apostoli —”. Ma le parole “che chiamò apostoli”
[οὓς καὶ ἀποστόλους ὠνόμασεν] mancano in alcuni manoscritti e sembrano un'armonizzazione
con Lc 6,13.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 258
dei Dodici. Quando dice “gli apostoli”, si tratta quasi sempre di un riferimento ai Do-
dici — o agli Undici, come in At 1,2 —: cf. At 1,2.26; 2,37.42-43; 4,33.35-37;
5,2.12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1; 14,4.14; 15,2.4.6.22-23; 16,4.
In At 1,13 si fanno i nomi degli Undici. Poco più avanti, uno dei primi racconti è
quello della ricostituzione del gruppo dei Dodici. Rivolgendosi ai circa centoventi
fratelli che lo ascoltano (cf. 1,15) san Pietro spiega la necessità di sostituire il traditore
(1,16-20) e poi mette in chiaro i requisiti dei “candidati”:
Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il
Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al
giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, in-
sieme a noi, della sua risurrezione [μάρτυρα τῆς ἀναστάσεως αὐτοῦ σὺν ἡμῖν
γενέσθαι] (At 1,21-22).
La scelta, fatta a sorte per indicare che non è frutto di una decisione umana, cade
su Mattia, “che fu associato agli undici apostoli” (1,26). Pertanto egli gode del titolo di
apostolo, anche se non è stato scelto direttamente da Gesù né era presente quando gli
Undici sono stati inviati a predicare a tutto il mondo. Ma san Mattia sarà presente nel
giorno di Pentecoste e riceverà lo Spirito Santo insieme agli altri (cf. At 2,1ss.).
Dalle parole di san Pietro appena citate si ricava che di uomini che adempivano
ai vari requisiti potevano essercene parecchi (oltre Mattia, c'era perlomeno “Giu-
seppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto”, At 1,23). Quindi, fra il gruppo dei
Dodici e il gruppo più ampio di discepoli che hanno accompagnato Gesù durante la
sua vita terrena e l'hanno visto dopo la sua risurrezione, la differenza non consiste nel
fatto che i primi hanno conosciuto Gesù e gli altri no. Nemmeno si può dire che solo
i Dodici abbiano visto Gesù risorto. Infatti, la funzione dei Dodici sembra quella di
testimoniare pubblicamente la risurrezione: così si spiega il fatto che Pietro parli di
diventare testimone della risurrezione (1,22). Molti hanno accompagnato Gesù e
l'hanno visto risorto, ma non corrisponde loro la funzione pubblica di esserne testi-
moni come i Dodici apostoli. Qui appare un vincolo fra l’essere apostolo e l’essere te-
stimone della risurrezione di Gesù (cf. pure At 4,33; 5,32), che troveremo anche nelle
lettere paoline.
È interessante osservare che, dopo che Erode Agrippa fa uccidere Giacomo, figlio
di Zebedeo (At 12,2), gli apostoli tornano ad essere undici, ma non sostituiscono Gia-
como. Se Giuda aveva lasciato vuoto il suo posto, era perché non era arrivato a com-
piere la sua missione di testimoniare la risurrezione di Gesù.
Come abbiamo detto, negli Atti si verifica quasi sempre l'equivalenza fra “gli apo-
stoli” e “i Dodici”. Il “quasi” è d'obbligo perché in At 14,4.14 Paolo e Bàrnaba vengono
chiamati “apostoli”, benché non facciano parte dei Dodici. Nelle sue lettere, san Paolo
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 259
si attribuisce il titolo di “apostolo” senza mezzi termini. Dobbiamo vedere che cosa
intende.
Nell'intestazione di quasi tutte le sue lettere Paolo si presenta col titolo di aposto-
lo di Cristo Gesù (Rm 1,1; 1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1; Ga 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1 Tm 1,1; 2 Tm 1,1;
Tt 1,1). Quando appare un altro mittente della lettera, rimane chiaro che il titolo ap-
partiene soltanto a Paolo, come nella prima ai Corinzi:
Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sò-
stene alla Chiesa di Dio che è a Corinto (1 Cor 1,1-2).
Secondo la stessa prima lettera ai Corinzi, l’essere apostolo è unito alla qualità di
testimone oculare del Risorto:
Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Si-
gnore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se non sono apostolo
per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato.
La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: non abbiamo forse il diritto di
mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente,
come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Oppure soltanto io
e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? (1 Cor 9,1-6).
Da questo testo, non è del tutto chiaro se l'aver visto Gesù basta per essere apo-
stolo. Non si può nemmeno dire con sicurezza se Paolo consideri Bàrnaba apostolo
come lui, benché sembri di sì. È interessante anche rilevare il fatto che alcuni non ri-
conoscevano Paolo come apostolo.
Più avanti, nella stessa lettera, troviamo ulteriori informazioni su chi era aposto-
lo. È l'elenco dei testimoni della risurrezione al capitolo 15, dove “tutti gli apostoli”
designa un gruppo più ampio dei “Dodici”:
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo
morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo
giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici1.
1. Perché dice “i Dodici” se erano soltanto undici al momento delle apparizioni di Gesù risorto? La
risposta più logica è che il nome “i Dodici” era ormai una formula. Da notare anche, qui e nel te-
sto citato di 1 Cor 9, la menzione singolarizzata di Cefa (Pietro), nonostante facesse parte dei
dodici.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 260
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di
essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a
tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti
sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo
perché ho perseguitato la Chiesa di Dio (1 Cor 15,3-9).
Da questo brano si ricava senza equivoci che san Paolo non identifica “gli aposto-
li” con “i Dodici”. Come spiega Benedetto XVI:
Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli,
intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell'inse-
gnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto,
che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. (…) Egli
aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo
dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infat-
ti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e
“tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle appari-
zioni del Risorto (cfr 15,5.7). (BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Udienza generale 10-09-08).
1. L'espressione è di solito attribuita a Ippolito Romano (Comm. in Canticum, ed. G. Nathanael Bon-
wetsch, n. 67). Cf. anche san Girolamo (Comm. in Sophoniam, prologus), san Bernardo (Sermones
super Cantica Canticorum, sermo 75, 8, in Bernardi opera, ed. J. Leclercq, C.H. Talbot et H.M. Ro-
chais, 1957-1958, vol. 2, p.251), e san Tommaso d’Aquino (In Ioannem Evangelistam Expositio c. 20,
l. 3, 6). Cf. Burnet, «La notion d’apostolicité», 188, n. 13.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 261
nella liturgia romana, come titolo del nuovo prefazio preparato per la festa della san-
ta, il 22 luglio. Ma alcuni appellano a questa tradizione per esigere l'ordinazione sa-
cerdotale delle donne, una proposta che non è stata accolta dalla Chiesa1.
Il testo di 1 Cor 15 citato sopra stabilisce da una parte che per Paolo non si posso-
no identificare “i Dodici” con “gli apostoli”, ma dall’altra non dice che per essere apo-
stolo sia sufficiente l'aver visto Gesù risorto. Benedetto XVI spiega il concetto paolino
di apostolato dicendo che, per essere apostoli, bisogna adempiere tre requisiti:
Cos'è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli
apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono
l'apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto
con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai
Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio
con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è
il Signore che costituisce nell'apostolato, non la propria presunzione. (…) La secon-
da caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa
appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli
deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo
che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo dele-
gato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cri-
sto” (Rm 1,1). (…) Il terzo requisito è l'esercizio dell'“annuncio del Vangelo”, con la
conseguente fondazione di Chiese (BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Udienza generale 10-09-08).
Seguendo la strada segnalata dal Pontefice, possiamo dire che non veniva chia-
mato apostolo soltanto chi aveva visto il Signore — come i cinquecento fratelli —, ma
chi aveva ricevuto anche da Gesù una “missione” o “invio” (ἀποστολή, cf. At 1,25; Rm
1,5; 1 Cor 9,2; Ga 2,8), una missione che consiste nell’annunzio del vangelo. Tale invio
avviene, per gli Undici, nel momento dell'Ascensione; per Paolo, sulla strada verso
Damasco. Negli Atti appare come compito principale dei Dodici la predicazione: que-
sta è la ragione per cui vengono nominati sette diaconi per altri servizi (At 6,1-7)2.
1. Sui fondamenti, nella tradizione apostolica, per rifiutare il sacerdozio femminile, cf. P. Grelot, La
tradition apostolique: règle de foi et de vie pour l’Église, Cerf, Paris 1995, 139-161 («Y aura-t-il des
“femmes-prêtres” dans l'Église?»).
2. Grelot offre una sintesi simile su chi sono gli apostoli: “(…) uomini chiamati da Gesù all'apostola-
to e costituiti da lui in testimoni della sua resurrezione (At 1,8.21-22). Un contatto immediato con
il Cristo risorto risulta loro pertanto essenziale. Ma fra coloro che ne hanno beneficiato (molto
numerosi secondo 1 Cor 15,6), che quindi potrebbero riferire le azioni e le parole di Gesù (…), non
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 262
Per completare il quadro, bisogna dire che, quando la Chiesa parla della fede de-
gli apostoli, sembra riferirsi a un gruppo gerarchico, che esercita una potestà. Negli
Atti e nel resto del NT, si menzionano diversi ministeri: maestri, profeti, dottori, ecc.
Spesso non è chiaro quali funzioni precise avessero, ma dagli scritti neotestamentari
risulta innegabile che nella prima comunità cristiana esisteva una gerarchia, come
manifesta per esempio il ruolo di Pietro, degli stessi Dodici e di Paolo; e come fa sup-
porre la menzione di presbiteri o vescovi nelle comunità cristiane fuori Gerusa-
lemme. In questa gerarchia, Pietro e i Dodici occupano il primo posto: ciò si manife-
sta specialmente negli Atti, dove si racconta come diversi problemi pratici o dottrinali
venissero sottoposti a loro. Le loro decisioni non erano semplicemente orientative,
ma vincolanti.
Paolo utilizza anche il titolo di apostolo come carica che implica la potestà di go-
verno (cf. Ga, 2 Cor 11-12). E nelle lettere paoline si menziona quello apostolico come
un ministero al quale corrisponde il primo posto. In 1 Cor 12,28 (e cf. Ef 4,11) si dice:
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo
luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il
dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.
Oltre alla potestà, possiamo segnalare un altro tratto, implicito nei testi, che risul-
ta fondamentale per distinguere i veri apostoli dai falsi. Si tratta della comunione de-
gli uni con gli altri e, più specificamente, con i Dodici e con Pietro. In questo senso, il
testo più significativo si trova all'inizio della lettera ai Galati, dove Paolo, dopo aver
difeso l'origine divina della propia vocazione all'apostolato (cf. Ga 1,1.11-19), si preoc-
cupa di chiarire che il suo vangelo è in conformità con quello di coloro che erano
apostoli prima di lui (cf. Ga 2,1-10).
tutti hanno ricevuto una missione propriamente apostolica. Essa corrisponde principalmente ai
Dodici, con i quali la Chiesa primitiva appare come un'organizzazione ben strutturata (At
1,13.21-26; 2,14; 5,9). Al contrario, chiamato direttamente da Cristo risorto senza averlo conosciuto
durante la sua vita terrena, Paolo è per questo titolo apostolo (Gal 1,2.12; Rm 1,4s.) e ministro del
Vangelo alla pari dei Dodici”. Traduzione mia, testo originale in francese: “(…) hommes appelés
par Jésus à l'apostolat et constitués par lui témoins de sa résurrection (Act 1,8.21-22). Un contact
immédiat avec le Christ ressuscité lui est donc essentiel. Mais parmi ceux mêmes qui en ont béné-
ficié (assez nombreux d'après 1 Cor 15,6), qui par conséquent pourraient rapporter les gestes et les
paroles de Jésus (…), tous n'ont pas reçu une mission proprement apostolique. Elle est essentielle-
ment le fait des Douze, grâce auxquels l'Église primitive apparaît comme un organisme solidement
structuré (Act 1,13.21-26; 2,14; 5,9). Par contre, appelé directement par le Christ ressuscité sans
l'avoir connu durant sa vie terrestre, Paul est à ce titre apôtre (Gal 1,2.12; Rom 1,4s.) et ministre de
l'Évangile à l'égal des Douze”, Idem, La Bible, Parole de Dieu, 15.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 263
Giuda fa appello alle parole degli apostoli del Signore come un'autorità ricono-
sciuta da tutti (cf. anche 2 Pt 3,2). Quanto più il tempo passerà e comincerà a scompa-
rire la generazione apostolica, tanto più frequenti diventeranno questi appelli a ricor-
darne gli insegnamenti. Emblematico è il caso di sant'Ireneo di Lione, col quale
prende forma l'idea della successione apostolica come garanzia di fedeltà a Cristo.
Perché è stata attribuita agli apostoli un'autorità così grande e unica? Grazie al
loro contatto con Cristo, essi sono stati i destinatari diretti della sua rivelazione, du-
rante la sua vita terrena e soprattutto nel periodo che va dalla sua morte alla sua
ascensione al cielo. Infatti, il mistero di Cristo:
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 264
non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato ri-
velato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito (Ef 3,5)1.
1. I “profeti” menzionati qui e in Ef 2,20 non sono quelli dell'AT, ma una categoria di testimoni di
Cristo dentro la prima generazione di cristiani, che occupava il secondo posto dopo gli apostoli,
come appare anche in Ef 4,11 e 1 Cor 12,28. Cf. anche Lc 11,49.
2. “L'expression «les douze apôtres» est une expression synthétique plutôt qu’une énumération ri-
goureuse : on a dit «les Douze» sans exclure pour autant Paul et Barnabé de l'apostolat, et sans
s’inquiéter que les Douze fussent quatorze”, Batiffol, L'Eglise naissante, 65.
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento 265
Sulla base della rassegna appena fatta di testi del NT, è palese che in effetti alcuni
venivano chiamati apostoli in un senso più ampio, difficile da precisare. Probabil-
mente non godevano della stessa autorità dei Dodici o di Paolo, autorità che fra l'altro
includeva la potestà di imporre le mani per stabilire successori.
Per il nostro discorso, la cosa più importante è comprendere in che senso si affer-
ma che la Scrittura è apostolica. Ebbene, l'apostolicità indica un rapporto con gli apo-
stoli, ma bisogna precisare di quale tipo. La Bibbia è apostolica, fondamentalmente,
perché contiene in maniera fedele — direttamente, nel caso del NT; indirettamente,
in quello dell'AT — la predicazione apostolica e come tale è stata ricevuta dalla
Chiesa.
I libri del NT non vengono dunque chiamati apostolici perché si pensi che siano
stati scritti direttamente e integramente dagli apostoli, nel senso dei Dodici e di Pao-
lo. Se non si distingue fra questi due sensi dell'aggettivo “apostolico”, si potrebbe pen-
sare che se lo scrittore non è un apostolo, il libro non è apostolico e quindi non è ca-
nonico. Fortunatamente, fin dai primissimi tempi, i casi di Marco e di Luca hanno
reso impossibile che tale semplificazione diventasse un criterio teologico. Infatti,
come abbiamo visto, in DV7 si parla di viri apostolici per evitare tale identificazione.
Inoltre, come noto, esistono molti libri dell’epoca iniziale della Chiesa che si pre-
sentano come scritti da un apostolo: il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Giacomo,
gli Atti di Andrea, l'Apocalisse di Pietro, ecc. La Chiesa non ha incluso questi libri nel
canone, perché è riuscita a discernere che il loro contenuto non corrispondeva fedel-
mente al deposito della predicazione apostolica, che essa custodisce. Abbiamo tratta-
to di questo argomento nella parte dedicata al canone biblico, perché uno dei criteri
decisivi per accettare o meno un libro è proprio l'apostolicità correttamente intesa (cf.
pp. 150-154).
Ad ogni modo, il ricorso quasi sistematico ai nomi degli apostoli nella letteratura
extracanonica è un segnale chiaro di come l'apostolicità fosse vista come sinonimo di
autenticità: chi voleva diffondere una dottrina lo faceva nascondendosi dietro il nome
di un apostolo.
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siderazione come parola di Dio
Bibliografia:
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————, «La «Sagrada Escritura» a la luz del Apocalipsis» in J. CHᴀᴘᴀ (a cura
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V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione gene-
rale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitolo 5 e soprattutto capitolo 8.
R. VIGNᴏᴌᴏ, «‘Scriptura secundum Scripturas’: Valenza narrativa e riflessiva del
Libro nella Tôrâ e nei Profeti anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico tra
poetica e teologia», Ricerche storico bibliche 12 (2001) 27-83.
In ciò che segue, ci chiederemo se la Bibbia, o alcuno dei libri che la compongo-
no, si presenti direttamente come parola di Dio o piuttosto come testimonianza di
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 267
siderazione come parola di Dio
una parola divina anteriore; se appare una distanza fra la rivelazione storica e la sua
messa per iscritto; e quale valore avevano i libri per il popolo d'Israele.
Sarebbe ingenuo tentare di ricostruire tutti i passi della rivelazione e della messa
per iscritto dei libri biblici. L'informazione disponibile è troppo scarsa. Tuttavia, nella
Bibbia si possono trovare alcune tracce, che conviene prendere in considerazione per
evitare una visione anacronistica. La Bibbia, infatti, non è esistita fin da subito, come
insieme di scritti che contengono la parola di Dio, benché esistesse già una rivela-
zione nella storia. Più che nel ricercare dati storici, lo scopo delle pagine che seguono
consiste nel mettere in luce le idee sulla rivelazione e la sua messa per iscritto impli-
cite o esplicite nei testi che abbiamo.
Lungo il cammino dovremo raccogliere i dati circa il processo di composizione
dei testi — chi li ha scritti, quando, per ordine di Dio o per iniziativa propria, se c'è
stato qualche intervento divino per la redazione, eccetera —. Ma più ancora ci inte-
resseranno le informazioni sulla ricezione dei testi, cioè sull'autorità che viene loro ri-
conosciuta, da chi e perché. Detto in altri termini: faremo un'indagine cercando indi-
zi circa la creazione e ricezione dei libri biblici, per stabilire il loro rapporto con la
rivelazione o parola di Dio. Si tratta di vedere come alcuni scritti, pur essendo ispirati
dall'inizio, diventarono libri sacri per l'antico Israele (e poi parola di Dio per la
Chiesa).
Sia infine chiaro che in quanto segue non si analizzeranno tutti i dati biblici sulla
parola di Dio in genere, ma solo quelli che si riferiscono alla sua redazione scritta. La
Bibbia non parla quasi mai di “rivelazione”, nel senso che questa parola possiede nella
teologia fondamentale, però parla — e molto — della “parola di Dio”, di come Dio si
manifesta agli uomini e stabilisce un contatto con loro.
Nell'AT si menzionano solo due tipi di messaggi divini che si scrivono: la parola
della Torah e la parola profetica. Invece, nel NT si applica il concetto di parola di Dio
a tutte le Scritture in un senso globale (come abbiamo visto a pp. 93-99).
Per gli ebrei moderni, al centro delle loro Scritture si trova la Torah. Noi cristiani
mettiamo il Pentateuco non al centro, ma all'inizio, perché racconta le prime tappe
della storia della salvezza. Per gli uni e per gli altri è un testo sacro; adesso dobbiamo
chiederci in quale senso e se sempre è stato considerato così.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 268
siderazione come parola di Dio
Non possiamo entrare qui nel merito del problema della composizione del Penta-
teuco, cioè del processo lungo il quale tradizioni orali e documenti scritti sono stati
riuniti fino a formare questi cinque libri come li conosciamo oggi. Come informa-
zione di partenza, ci basti dire che oggi si pensa che la Torah scritta abbia raggiunto
la sua disposizione in cinque libri e grosso modo l'attuale forma testuale in epoca
post-esilica, nel periodo persiano (V-IV secoli a.C.)1.
Di seguito, ci limiteremo a raccogliere le indicazioni fornite dal testo stesso circa
la sua composizione e la sua ricezione.
Nella Bibbia, il primo personaggio di cui si afferma che ha scritto le parole che
Dio gli ha comunicato è Mosè. Né nella Genesi né nel resto della Bibbia si parla di
un'attività di scrittura al tempo dei patriarchi. Né Abramo, né Isacco, né Giacobbe, né
i suoi dodici figli hanno scritto niente di cui si faccia menzione nelle Scritture
canoniche2.
1. Per un riassunto delle diverse ipotesi sulla composizione del Pentateuco, cf. M. Tábet, Introduzione
al Pentateuco e ai libri storici dell'Antico Testamento, Apollinare studi, Roma 2001, 19-67; F. Giun-
toli, «Il Pentateuco» in P. Merlo (ed.), L'Antico Testamento: introduzione storico-letteraria, Carocci,
Roma 2008, 99-127.
2. Fuori dai confini del canone, la situazione cambia. Nel libro di Enoc (1 Enoc) si attribuisce la mes-
sa per iscritto di rivelazioni ad Enoc, uno dei patriarchi antidiluviani, che “scomparve perché Dio
l'aveva preso” (Gn 5,24; cf. Sir 44,16; 49,14). Esiste pure un'opera chiamata Testamenti dei XII Pa-
triarchi, ossia le ultime parole di ognuno dei dodici figli di Giacobbe. Più tardivi sono l'Apocalisse
di Abramo, l'Apocalisse di Adamo e diversi scritti attribuiti a Set, figlio di Adamo.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 269
siderazione come parola di Dio
La prima volta che Mosè sale sul monte Sinai, Dio gli comunica diverse leggi, fra
cui il decalogo e una lunga serie di precetti, il cosiddetto “codice dell'alleanza” (Es
20-23). Mosè scende dal monte e trasmette queste parole al popolo. In Es 24 appare
per la prima volta il passaggio dalla parola divina orale a quella scritta. La Torah si
scrive affinché rimanga e viene subito letta pubblicamente:
Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il
popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha
dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon
mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù
d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare
giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del
sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro
dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Si-
gnore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il
popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi
sulla base di tutte queste parole!» (Es 24,3-8).
Da notare come prima Mosè riferisce al popolo oralmente quello che il Signore
ha detto e poi lo scrive e lo legge. La risposta è uguale in entrambi i casi.
Poi segue un racconto simile, con una seconda ascesa di Mosè al Sinai, accompa-
gnato da Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani d'Israele. Il Signore trasmette altre
leggi (Es 25-31), ma questa volta appare un'importante novità: dopo la comunicazione
orale delle leggi, si menziona la consegna di un testo scritto da Dio stesso!
Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due
tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio (Es 31,18; cf.
24,12).
Fin qui abbiamo due testi: il libro dell'alleanza, scritto da Mosè, e le tavole di pie-
tra, scritte da Dio. Se continuassimo a leggere il racconto dell'Esodo, vedremmo che
non è molto chiara la distinzione fra i due. Del libro dell'alleanza non si parlerà più.
Le tavole di pietra avranno una vita molto breve: Mosè le distrugge quando scende e
scopre che il popolo ha peccato con il vitello d'oro (cf. Es 32,15-19). Segue poi il per-
dono e una nuova teofania — Dio mostra a Mosè non il suo volto, ma le sue spalle
(cf. Es 33,23) — con la consegna di nuove tavole di pietra con le parole di Dio. Chi le
scrive? Il Signore promette che lo farà lui stesso (Es 34,1), ma poi si afferma che lo ha
fatto Mosè (cf. Es 34,28, dove si omette il soggetto, ma dal contesto sembra riferirsi a
Mosè).
Il lettore può rimanere alquanto confuso davanti alle ripetizioni e alle apparenti
incoerenze del racconto. Non possiamo fare ora un'analisi del libro dell'Esodo, in cui
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 270
siderazione come parola di Dio
confluiscono tradizioni diverse. Ma va notata la coerenza di fondo che sta dietro alle
varianti: in tutti i casi si presentano come contenuto dei testi le parole che Dio, attra-
verso Mosè, rivolge al suo popolo come esigenze dell'alleanza. L'origine delle parole è
sempre orale e divina. Cioè, prima Dio le pronuncia oralmente davanti a Mosè e poi
si mettono per iscritto. Perciò, non importa se sia Dio o Mosè colui che pronuncia o
scrive i comandamenti: si tratta in ogni caso di una parola di Dio.
In questo senso, è illuminante mettere assieme due testi paralleli dei vangeli, in
cui Gesù cita un precetto del decalogo (cf. Es 20,12 e Dt 5,16). Il comandamento viene
considerato parola di Dio, ma in un caso si mette in bocca a Mosè, nell'altro a Dio:
Mosè disse: Onora tuo padre e tua Dio disse: Onora il padre e la madre
madre, e: Chi maledice il padre o la e inoltre: Chi maledice il padre o la
madre sia messo a morte. Voi invece madre sia messo a morte. Voi invece
dite: “Se uno dichiara al padre o alla dite: “Chiunque dichiara al padre o
madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è alla madre: Ciò con cui dovrei aiu-
korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli tarti è un'offerta a Dio, non è più te-
consentite di fare più nulla per il nuto a onorare suo padre”.
padre o la madre.
Così avete annullato la parola di
Così annullate la parola di Dio con Dio con la vostra tradizione (Mt
la tradizione che avete tramandato 15,4-6).
voi. E di cose simili ne fate molte
(Mc 7,10-13).
L'identità dello scrittore è indifferente: che sia Mosè oppure Dio, i testi contengo-
no sempre parole di Dio che hanno un carattere normativo per il popolo in virtù
dell'alleanza. L'alleanza presuppone una rivelazione storica precedente, con opere e
parole. La Torah di Mosè non si presenta come un libro caduto dal cielo, come una
parola di Dio scritta indipendentemente da una storia, da una comunità e da una
tradizione.
Quando Mosè ebbe finito di scrivere su un libro tutte le parole di questa legge, or-
dinò ai leviti che portavano l'arca dell'alleanza del Signore: «Prendete questo libro
della legge e mettetelo a fianco dell'arca dell'alleanza del Signore, vostro Dio. Vi ri-
manga come testimone contro di te» (Dt 31,24-26; cf. anche 31,9-19).
L'identificazione fra la legge e “questo libro” appare spesso nel Deuteronomio: cf.
Dt 28,58.61; 29,19-21; 30,10. Da notare che il libro deve collocarsi a fianco e non all'in-
terno dell'arca: “il libro è dunque, per la storia a venire, e senza badare alle tribolazio-
ni future dell'arca (che di fatto scomparirà), il versante pubblico, in forma di testi-
mone, della rivelazione divina”1.
Non solo Mosè, però, ha il privilegio di poter scrivere il libro della Torah. In Dt
27,2-3, egli comanda che tutte le parole della legge vengano iscritte su pietra quando il
popolo entrerà nella terra promessa, il che sarà realizzato da Giosuè (cf. p. 273). In Dt
17,18-20 Mosè stabilisce che il re dovrà avere una copia personale della legge. E infine,
nel famoso testo della shemà, si comanda a ogni israelita di scrivere i precetti del Si-
gnore “sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (cf. Dt 6,9).
Il punto importante è che questi modi di parlare, più o meno metaforici — come
l’allusione al dito di Dio — manifestano un'idea chiara e distinta: tutte le leggi dell'al-
leanza sono parole del Signore, indipendentemente da chi le abbia messo per iscritto.
Vi è poi una seconda idea implicita nella precedente: la Torah non perde la sua
autorità originale quando viene messa per iscritto. Disobbedire alla legge scritta (cf.
Gs 7,10-26) equivale a disobbedire ad una parola del Signore (cf. 1 Sam 15,1-10).
Inoltre, una volta scritta, la Torah diventa durevole, in modo da poter essere at-
tualizzata da ogni generazione, proprio come l'alleanza (cf. Dt 5,2-3).
1. “Le livre est donc, pour l'histoire à venir, et quoi qu'il en soit des tribulations futures de l'arche
(qui, de fait, disparaîtra), le versant public, en forme de témoin à charge, de la révélation divine”,
J.-P. Sonnet, «'Lorsque Moïse eut achevé d’écrire' (Dt 31,24). Une 'théorie narrative' de l’écriture
dans le Pentateuque», Recherches de science religieuse 90 (2002) 509-524, 520.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 272
siderazione come parola di Dio
Né nel Levitico né nel libro dei Numeri si trovano riferimenti alla redazione scrit-
ta di parole del Signore. Ma in Nm 33,2 appare un ordine divino di scrivere che vale la
pena citare:
Mosè scrisse i loro punti di partenza, tappa per tappa, per ordine del Signore; queste
sono le loro tappe nell'ordine dei loro punti di partenza. Partirono da Ramses il pri-
mo mese (…)
Fuori del Pentateuco, troviamo diverse testimonianze del valore sacro riconosciu-
to alla Torah scritta.
1. “Congédiant les temps fondateurs (inaugurés avec la création et les patriarches, et culminant dans
la théophanie de l'Horeb), le Moïse du Deutéronome introduit le peuple des fils d'Israël dans l'exi-
stence «moderne», c'est-à-dire dans l'existence «terrestre» — sur la terre de la promesse, au-delà
du Jourdain et du désert «théologique». Moïse ne traverse pas le Jourdain, mais il ne meurt pas
sans passer un autre seuil, celui qui va de la communication orale à la communication écrite”,
Idem, «Le Deutéronome et la modernité du livre», Nouvelle revue théologique 118 (1996) 481-496,
482.
2. Per un commento di questo testo, cf. R. Vignolo, «‘Scriptura secundum Scripturas’: Valenza narra-
tiva e riflessiva del Libro nella Tôrâ e nei Profeti anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico
tra poetica e teologia», Ricerche storico bibliche 12 (2001) 27-83, 71-77.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 274
siderazione come parola di Dio
quanto Mosè aveva comandato, non ci fu parola che Giosuè non leggesse davanti a
tutta l'assemblea d'Israele (Gs 8,30-35).
Così, la stessa Bibbia testimonia che dopo la morte di Mosè si continuò ad ag-
giungere materiale alla Torah, per attualizzare il suo contenuto di fronte alle nuove
circostanze storiche (cf. anche 1 Sam 10,25). È da notare che così Giosuè sembra tras-
gredire il comando esplicito di Mosè di non aggiungere niente alla Torah (cf. Dt 4,2 e
13,1), se lo si intende letteralmente. In realtà, lo stesso Mosè scrive prima la legge (Dt
31,9) e poi finisce di scriverla (Dt 31,24), aggiungendo dunque Dt 31,14-231. Se si accet-
ta l’esistenza di un progresso della rivelazione a Israele (cf. sopra pp. 60-65), non è
problematico ammettere che anche i testi che la contengono crescano.
Se dopo aver letto Giosuè continuassimo con i libri successivi, dovremmo racco-
gliere tutti i riferimenti al libro della Torah (cf. per esempio 1 Re 2,3; 2 Re 14,6; 2 Cr
23,18; 30,16). Tale impresa richiederebbe troppo spazio. Ci limitiamo dunque a evi-
denziare che in questi libri si giudicano sempre gli eventi e i personaggi secondo la
loro fedeltà all'alleanza e alla Torah di Mosè.
Tuttavia, vale la pena soffermarsi su due momenti storicamente importanti, nei
quali appare esplicitamente il ruolo della Torah scritta. Il primo è la riforma del re
Giosia, che ebbe luogo verso la fine del VII secolo a.C., nel 622, una trentina di anni
prima della distruzione del tempio di Gerusalemme (587 a.C.). Il secondo momento
1. “Moïse, nous raconte le texte, a fait le premier ce que les scribes bibliques ont toujours fait : ajou-
ter. Le texte de la loi est donc traversé par une double dynamique : celle de la canonisation (…) et
celle de la « supplémentation ». (…) Ce sont donc ici aussi des pratiques et des techniques scri-
bales qui se trouvent projetées sur la scène du récit, mises en scènes dans l'événement fondateur,
sous la forme d'une dialectique faisant jouer à la fois la croissance d'un corpus révélé et sa clôture”,
Sonnet, «Lorsque Moïse», 521-522.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 275
siderazione come parola di Dio
corrisponde al lavoro di rifondazione e riorganizzazione intrapreso da Esdra e Nee-
mia dopo il ritorno dall'esilio babilonese.
Nel diciottesimo anno del suo regno (cioè, il 622 a.C.), si realizzano alcuni lavori
di restauro nel tempio di Gerusalemme. In quel momento, il sommo sacerdote Chel-
kia trova nel tempio il “libro della Torah”. Lo consegna nelle mani di Safan, segretario
del re, che lo legge e poi lo porta da Giosia e lo legge davanti a lui. “Udite le parole del
libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2 Re 22,11), segno di lutto e rammarico,
“perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro, mettendo in pra-
tica quanto è stato scritto per noi” (22,13).
Dopo aver consultato il Signore tramite la profetessa Culda, che annunzia la pu-
nizione di Gerusalemme a causa della sua infedeltà (cf. vv. 14-20), il re convoca tutto
il popolo nel tempio e legge loro il libro. Poi rinnovano l'alleanza:
Il re, in piedi presso la colonna, concluse l'alleanza davanti al Signore, per seguire il
Signore e osservare i suoi comandi, le istruzioni e le leggi con tutto il cuore e con
tutta l'anima, per attuare le parole dell'alleanza scritte in quel libro. Tutto il popolo
aderì all'alleanza (2 Re 23,3).
1. 2 Re 23,25; cf. 22,2. Un altro re lodato dall'agiografo, sempre in base al criterio della fedeltà alla To-
rah mosaica, è il padre di Manasse, Ezechia: cf. 2 Re 18,3-6.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 276
siderazione come parola di Dio
Giosia questa Pasqua fu celebrata in onore del Signore a Gerusalemme (2 Re
23,21-23).
Giosia s'ispira ai precetti del libro appena ritrovato, che, a partire dai dati che
emergono dal racconto di 2 Re, corrisponde per contenuto al Deuteronomio, proba-
bilmente in una edizione più breve di quella che abbiamo oggi. Comunque sia, fa im-
pressione l'autorità attribuita al contenuto del libro. È implicito nel racconto della ri-
forma di Giosia che il libro della Torah viene considerato come espressione della
volontà di Dio, come la sua parola, normativa per Israele in virtù dell'alleanza.
1. Altri brani dei libri di Esdra e Neemia contengono racconti simili, che mostrano come la lettura
della Torah abbia delle conseguenze pratiche per la vita della comunità (cf. Esd 3,2-4; 6,18; Ne 9,3;
10,34-36; 13,1). Sull'importanza della lettura pubblica della legge per comprendere la struttura reto-
rica del Pentateuco, cf. J. W. Watts, «Public Readings and Pentateuchal Law», Vetus Testamentum 4
(1995) 540-557.
2. In 2 Cr 34,18, testo parallelo a 2 Re 22,10, si dice che, dopo aver ricevuto il libro trovato nel tempio,
“Safan ne lesse una parte davanti al re”, mentre in 2 Re si diceva semplicemente che lo lesse. L'au-
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 277
siderazione come parola di Dio
Fin qui, abbiamo visto brevemente come era valutato il libro della Torah di Mosè
fino ai secoli V-IV a.C. Possiamo dire che alla legge scritta veniva attribuito lo stesso
valore della parola di Dio espressa in origine a Mosè, benché lungo il tempo il testo
abbia subito un continuo lavoro di arricchimento e attualizzazione1.
Tuttavia occorre chiedersi se, fra tutte le parole contenute in questo libro, fossero
ritenuti come parola di Dio soltanto i testi legali, oppure se si estendeva tale conside-
razione a tutto il libro, includendo i passaggi redazionali e i testi narrativi che inqua-
drano la parola della legge. Da quanto abbiamo visto, non emergono dati sufficienti
per rispondere affermativamente. Certamente per i cristiani tutto il Pentateuco è pa-
rola di Dio, ma dobbiamo vedere se era così anche prima di Cristo.
29.2.4. Valore del libro della Torah nel periodo del secondo Tempio
In molti testi è testimoniato che la denominazione di “Torah” veniva applicata
non solo alle leggi dell'alleanza, ma anche al libro (o libri) che la contengono (cf. 1
Mac 3,48; Sir Prol 2.8.24; Mt 6,17; 7,12; ecc.). In generale, si può rilevare che i cinque
libri della Torah erano ritenuti normativi non solo in quanto raccolgono leggi divine,
ma anche nel loro insieme, compresi i passaggi narrativi, che mostrano come agisce
Dio e come deve rispondere l'uomo.
Il libro come tale diventa un punto di riferimento per la condotta. In 1 Mac 3,48
(cf. pure 2 Mac 8,23) si racconta che, prima della battaglia, Giuda e i suoi soldati:
Digiunarono e si vestirono di sacco, si cosparsero di cenere il capo e si stracciarono
le vesti. Aprirono il libro della legge per scoprirvi quanto i pagani cercavano di sa-
pere dagli idoli dei loro dèi.
Giuda Maccabeo pensa che nel libro della Torah troverà indicazioni celesti che
potranno orientarlo nell'imminente battaglia: un atteggiamento religioso forse vicino
alla superstizione, ma che rivela la considerazione sacra che aveva del libro.
tore delle Cronache adatta l'antico racconto al libro della Torah che egli conosce, impossibile da
leggere in un tempo breve.
1. Un testo che rispecchia quanto fosse profonda la venerazione verso la Torah propria della reli-
gione d'Israele, in quanto manifestazione della volontà di Dio, è il Salmo 119, il più lungo del salte-
rio. Secondo Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 8, 1.1c, il salmo è una lode della Torah scritta,
perché è alfabetico, cioè, l'inizio di ogni strofa si costruisce seguendo l'alfabeto ebraico (come Lam
1-4 o Prv 31,10-31). Ma se si legge il salmo con attenzione, si comprova che non si menziona mai il
libro della legge, né si parla della lettura dei precetti, norme e comandamenti. Il carattere alfabeti-
co dunque non basta per considerare che tutto quello che il salmo dice della Torah si deva attri-
buire al libro che la contiene.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 278
siderazione come parola di Dio
Molto più profonda è la valutazione del Pentateuco che appare nel Siracide (o Ec-
clesiastico), libro sapienziale scritto verso il 180 a.C. Nel capitolo 24, la sapienza divi-
na fa un elogio di se stessa, ispirato al discorso della sapienza personificata in Prv 8.
In Sir 24, la sapienza dice che è uscita dalla bocca dell’Altissimo e che percorre tutta la
terra, cercando dove stabilirsi, finché Dio le dà l'ordine di piantare la sua tenda in Is-
raele. Allora la sapienza fissa la sua dimora nella terra santa, esercita il culto in Geru-
salemme, si sviluppa in tutto Israele e produce molti frutti. Alla fine del discorso della
sapienza, prende la parola l'autore del libro, che spiega:
Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, la legge che Mosè ci ha pre-
scritto, eredità per le assemblee di Giacobbe (Sir 24,23; cf. Bar 4,1).
La sapienza eterna di Dio, per cui furono creati i cieli, si è stabilita dentro i confi-
ni del popolo eletto e si è vincolata a un libro, che non è altro che il Pentateuco. Non è
una identificazione assoluta fra la sapienza divina e la legge mosaica. Piuttosto, Sir
24,23 vuole segnalare come nel libro della legge si manifesti in modo speciale la sa-
pienza di Dio. La Torah scritta, compresa come rivelazione storica e non solo come
corpo di precetti legali, viene considerata una partecipazione della sapienza divina1.
*
All'epoca di Gesù, il valore centrale della Torah era una convinzione condivisa
dalle diverse tendenze presenti nel momento (farisei, sadducei, esseni, gruppi apoca-
littici), pur esistendo tra loro notevoli differenze in altri campi:
Per tutte le correnti del giudaismo (…), la Legge occupava un posto centrale. In essa
infatti si trovano le istituzioni essenziali rivelate da Dio stesso e che hanno lo scopo
di governare la vita religiosa, morale, giuridica e politica della nazione ebraica dopo
l'esilio2.
1. “Il ne me semble donc pas qu'il y ait chez Ben Sira identification stricte entre Sagesse et Loi, mais
plutôt qu'il reconnaît dans la révélation biblique la meilleure expression de la Sagesse divine”, Gil-
bert, «Siracide», 1427. Per un'esegesi di Sir 24, cf. Idem, «L'éloge de la Sagesse (Siracide 24)», Revue
théologique de Louvain 5 (1974) 326-348.
2. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico, n. 11.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 279
siderazione come parola di Dio
rola di Dio, di solito preceduta dalla cosiddetta formula del messaggero: “così dice il
Signore”.
La parola profetica, dunque, non è sempre una profezia nel senso attuale del ter-
mine, equivalente a predizione. Il contenuto delle parole dei profeti biblici riguarda
sia il passato, concretamente l'alleanza e la Torah, che il futuro, il “giorno del Signore”.
Proprio guardando in queste due direzioni si conclude il libro di Malachia, l'ultimo
dei libri profetici (cf. Ml 3,22-24).
Benché il carattere divino della sua origine e del suo contenuto sia molto esplici-
to, la parola di Dio pronunciata dal profeta presenta una differenza importante rispet-
to a quella della Torah: non è destinata per sua natura a durare in forma scritta. Nor-
malmente il profeta trasmette oralmente una parola divina per cambiare la condotta
delle persone in determinate circostanze di luogo e di tempo. Infatti possiamo sup-
porre che un gran numero di oracoli profetici non siano stati mai messi per iscritto.
Non tutti i profeti hanno scritto dei libri1.
Alcuni oracoli profetici annunziavano castighi o promettevano la salvezza e
dunque si riferivano al futuro. Si è sentita la necessità di metterli per iscritto, affinché
quella parola rimanesse in attesa del suo compimento. È logico in tal caso che la si
voglia fissare; anzi, talvolta è Dio stesso che dà ordine al profeta di scrivere l'oracolo.
Come caso emblematico, possiamo ricordare quanto si racconta nel libro di
Geremia2.
Verso la fine della sua attività profetica in Gerusalemme, poco prima della distru-
zione e dell'esilio, Dio chiede a Geremia di scrivere tutto quanto gli ha detto:
«Prendi un rotolo e scrivici tutte le parole che ti ho detto riguardo a Gerusalemme,
a Giuda e a tutte le nazioni, dal tempo di Giosia fino ad oggi. Forse quelli della casa
di Giuda, sentendo tutto il male che mi propongo di fare loro, abbandoneranno la
propria condotta perversa e allora io perdonerò le loro iniquità e i loro peccati»
(Ger 36,1-3).
1. “Nella legge il contenuto normativo è fondamentale e richiede, per logica intrinseca, una perma-
nenza e stabilità che acquisisce normalmente con la trascrizione. Questa è la ragione per cui la
legge viene considerata, a partire dalla sua promulgazione, come parola di Dio precisamente in
quanto manifestazione del volere di Dio. La profezia è parola di Dio vera e propria nell'istante del-
la locuzione”, Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 34.
2. Oltre a Geremia, anche Isaia (Is 30,8-9), Ezechiele (Ez 24,2; 37,16.20; 43,11), Abacuc (Ab 2,2) e Da-
niele (Dn 12,4; cf. 8,26) ricevono da parte di Dio l'ordine di scrivere quanto hanno visto o ascolta-
to. Per un commento ad alcuni di questi testi e ad altri simili, cf. H. Najman, «The Symbolic Signi-
ficance of Writing in Ancient Judaism» in H. Najman - J. H. Newman (eds.), The Idea of Biblical
Interpretation: Essays in Honor of James L. Kugel, Brill, Leiden 2004, 139-173.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 280
siderazione come parola di Dio
Gli oracoli che Geremia aveva proclamato in maniera orale adesso devono essere
messi per iscritto. La circostanza che dà origine al libro è che Geremia si trova impe-
dito di andare al Tempio (cf. Ger 36,5) e dunque non può predicare oralmente. Ma
esiste una motivazione più profonda, di ordine salvifico: Dio continua a sperare che
le sue parole producano l'effetto voluto, la conversione del popolo e quindi il perdo-
no. Siccome la situazione non è cambiata, gli oracoli degli anni precedenti non hanno
perso la loro attualità1.
Geremia detta a Baruc le parole del Signore, che le scrive in un rotolo e lo legge
davanti al popolo nel tempio (Ger 36,4-8; cf. 30,1-2; 51,59-64). Poi, Baruc viene porta-
to al palazzo regale, dove legge di nuovo il rotolo, questa volta davanti ai capi, che si
spaventano. La storia continua così:
Poi chiesero a Baruc: «Raccontaci come hai fatto a scrivere tutte queste parole». Ba-
ruc rispose: «Geremia mi dettava personalmente tutte queste parole e io le scrivevo
nel rotolo con l'inchiostro». I capi dissero a Baruc: «Va' e nasconditi insieme con
Geremia; nessuno sappia dove siete». Essi poi si recarono dal re nell'appartamento
interno, dopo aver riposto il rotolo nella stanza di Elisamà, lo scriba, e riferirono al
re tutte queste parole.
Allora il re mandò Iudì a prendere il rotolo. Iudì lo prese dalla stanza di Elisamà, lo
scriba, e lo lesse davanti al re e a tutti i capi che stavano presso il re. Il re sedeva nel
palazzo d'inverno — si era al nono mese —, con un braciere acceso davanti. Ora,
quando Iudì aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava con il temperino da
scriba e le gettava nel fuoco sul braciere, finché l'intero rotolo non fu distrutto nel
fuoco del braciere. Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le ve-
sti all'udire tutte quelle parole (Ger 36,17-24).
In contrasto con suo padre Giosia, Ioiakìm non reagisce bene alla lettura. Non ri-
conosce in esso un'espressione normativa della volontà divina per il popolo. Anzi,
cerca di annullare la parola profetica attraverso la distruzione del testo che la
contiene. La storia continua:
Dopo che il re ebbe bruciato il rotolo con le parole che Baruc aveva scritto sotto det-
tatura di Geremia, la parola del Signore fu rivolta a Geremia: «Prendi un altro roto-
lo e scrivici tutte le parole che erano nel primo rotolo bruciato da Ioiakìm, re di
1. In Ger 29, Geremia spedisce una lettera a Babilonia per i deportati: in questo caso, lo scritto serve
a superare la distanza spaziale. In Ger 30-31, l'oracolo viene scritto perché si rivolge alla genera-
zione futura. Per un commento a questi testi, cf. Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profe-
ti", 151-167.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 281
siderazione come parola di Dio
Giuda. Contro Ioiakìm, re di Giuda, dirai: Dice il Signore: Tu hai bruciato quel roto-
lo, dicendo: “Perché hai scritto: verrà il re di Babilonia, devasterà questo paese e farà
scomparire uomini e bestie?”. Per questo dice il Signore contro Ioiakìm, re di Giuda:
Non avrà un erede sul trono di Davide; il suo cadavere sarà esposto al caldo del
giorno e al freddo della notte. Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per
le loro iniquità e manderò su di loro, sugli abitanti di Gerusalemme e sugli uomini
di Giuda, tutto il male che ho minacciato, senza che mi abbiano dato ascolto».
Geremia prese un altro rotolo e lo consegnò a Baruc, figlio di Neria, lo scriba, il
quale vi scrisse, sotto dettatura di Geremia, tutte le parole del rotolo che Ioiakìm, re
di Giuda, aveva bruciato nel fuoco; inoltre vi furono aggiunte molte parole simili a
quelle (Ger 36,27-32).
Il duro giudizio di Dio circa Ioiakìm mostra che rifiutare la sua parola scritta
equivale a rifiutare il Signore direttamente. Per essersi strappato le vesti, Giosia aveva
meritato il perdono di Dio, che gli annunzia una sepoltura in pace (cf. 2 Re 22,19-20).
Il contrasto con l'oracolo sul cadavere di Ioiakìm è forte1.
È interessante notare che Dio vuole ancora che gli oracoli vengano messi per
iscritto. L'esecuzione di quest'ordine offre un'informazione preziosa sulle origini
dell'attuale libro di Geremia (cf. Ger 25,13). Ma ciò che a noi interessa è che la Bibbia
mostra come alcuni oracoli profetici possono avere valore oltre il momento in cui
sono stati pronunciati e per questo Dio stesso vuole che si scrivano.
Sebbene abbiamo notizia esplicita di questa volontà divina soltanto nel caso
dell'insieme degli oracoli di Geremia, la semplice esistenza di libri profetici testimo-
nia che qualcosa di simile deve essere successo con altri profeti2.
L'oracolo scritto sembra godere della stessa autorità divina che aveva quando è
stato pronunciato oralmente. Per esempio, durante l'esilio di Babilonia, il profeta Da-
niele legge un annuncio di Geremia (cf. Ger 25,11-12; 29,10) e cerca di interpretarlo
(cf. Dn 9). In Tb 2,6, si trova una citazione esplicita di Amos (Am 8,10) e in Tb 14 si
parla delle profezie di Naum e di tutti i profeti.
In sintesi, i libri profetici mostrano la convinzione che l'oracolo scritto non perda
valore rispetto allo stesso oracolo nel momento della sua proclamazione orale. La
conservazione degli oracoli profetici in forma scritta avviene soprattutto in attesa del
loro compimento, ma anche perché diventino punto di riferimento per la condotta
1. Per un confronto fra Ger 36 e 2 Re 22, cf. J.-P. Sonnet, «Le livre «trouvé»: 2 Rois 22 dans sa finalité
narrative», Nouvelle revue théologique 116 (1994) 836-861, 853-856.
2. Da menzionare è il caso di Naum, unico libro profetico dell'AT “autocosciente”, nel senso che pre-
senta se stesso come testo scritto: “Oracolo su Ninive. Libro della visione di Naum da Elkos” (1,1).
Il titolo più abituale è “visione di” (Is 1,1; Abd 1,1), “parole di” (Ger 1,1) o formule simili.
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 282
siderazione come parola di Dio
del popolo. In ogni caso, la parola profetica originaria è sempre orale; la scrittura ap-
pare solo in alcuni casi come una risorsa per farla durare, e non nel momento origi-
nario, a differenza della Torah.
In linea di massima, la situazione dei libri profetici sembra simile a quella della
Torah o Pentateuco. Ma nel loro caso non si vedono motivi per considerare come pa-
rola di Dio i libri nella loro integrità, cioè includendo i passaggi narrativi. Tali brani
offrono soltanto il contesto degli oracoli.
Prendiamo un altro esempio, questa volta proveniente dal libro di Tobia. In 12,20,
l'angelo Raffaele chiede a Tobit e a suo figlio Tobia di scrivere tutto quello che è suc-
cesso grazie al suo intervento, che è stato frutto della preghiera. Ma il libro in nessun
modo si presenta come parola di Dio. Invece, parte importante del suo messaggio
consiste nel mostrare la fecondità dell’obbedienza ai precetti del libro della Torah di
Mosè, specialmente in riferimento alle buone opere: dare l’elemosina e seppellire i
morti. Di passaggio, nel libro si parla anche dell'efficacia della parola profetica.
Possiamo concludere che nell'AT si considerano come parola di Dio scritta sol-
tanto la parola della Torah e gli oracoli profetici:
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro con- 283
siderazione come parola di Dio
Un caso particolare è quello del libro dei Salmi. I salmi sono sempre preghiere;
cioè, per loro natura, appaiono come parole umane rivolte a Dio, e non come parola
di Dio agli uomini. Tuttavia, in questo caso abbiamo diverse testimonianze che ci in-
dicano come nel giudaismo i salmi davidici fossero stati assimilati alla parola profeti-
ca. A Qumran sono stati trovati scritti (i Pesharim) che commentano alcuni libri pro-
fetici, ma anche i salmi, come scritture profetiche. Da parte sua, Filone d'Alessandria
(ca. 20 a.C.-50 d.C.) cita i salmi con formule come “dice il profeta” o altre analoghe.
Alla fine, il libro parla ancora di sé, con un'avvertenza circa la necessità di rispet-
tare l'integrità del testo:
A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno
vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e
se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà
dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 22,18-19).
1. Cf. G. Aranda Pérez, «La «Sagrada Escritura» a la luz del Apocalipsis» in J. Chapa (ed.), Signum et
testimonium. Estudios ofrecidos al Profesor Antonio García-Moreno en su 70 cumpleaños, Eunsa,
Pamplona 2003, 201-216, 216.
Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso 286
Nello studio del canone del NT, abbiamo visto a grandi linee il processo storico
che ha portato alla formazione della collezione di ventisette libri, con speciale enfasi
nei quattro vangeli (pp. 140-150). Adesso prenderemo in esame uno dei libri che non
è stato incluso nel canone, il Vangelo di Tommaso, chiamato anche “Vangelo gnostico
di Tommaso” o “Vangelo copto di Tommaso”, per non confonderlo con il “Vangelo
dell’infanzia di Tommaso”, un altro apocrifo. L’opera è una collezione di frasi di Gesù
in dialogo con i suoi discepoli, senza una cornice narrativa. La lingua originale sem-
bra essere il greco. La data di composizione è oggetto di dibattito, ma in genere lo si
pone a metà del secondo secolo1.
Prima di affrontare la domanda circa il perché la Chiesa non ha accettato il Van-
gelo di Tommaso, conviene offrire alcune informazioni fondamentali circa questo te-
sto. Nel 1897 e nel 1903, alcuni frammenti in greco con frasi di Gesù sono stati sco-
perti ad Ossirinco, in Egitto. Questi frammenti sono stati identificati come
appartenenti al Vangelo di Tommaso quando, nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto, è
stato trovato il testo completo di questo vangelo in copto, insieme a molti altri mano-
scritti nella stessa lingua2. Fino a queste scoperte, conoscevamo l’esistenza di un “van-
gelo secondo Tommaso” soltanto per le allusioni ad esso di alcuni autori antichi,
come Origene e Cirillo di Gerusalemme (vedere i testi citati a p. 147 e a p. 149).
Si tratta senz’altro di uno dei vangeli apocrifi più interessanti, perché contiene
detti di Gesù simili o identici a quelli tramandati dai vangeli canonici, specialmente
dai sinottici3. Per esempio, al n. 10 leggiamo: “Ho gettato fuoco sul mondo e lo custo-
1. Cf. C. W. Skinner, What Are They Saying About the Gospel of Thomas?, Paulist, New York 2012, 3
(lingua) e 9-28 (data).
2. Cf. Idem, Gospel of Thomas, 4-7.
3. Cito seguendo la traduzione di L. Moraldi (ed.), Apocrifi del Nuovo Testamento: Volume 1: Vangeli,
Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1971, 483-501. Moraldi scrive sempre “Tomaso” invece
Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso 287
disco fino a che divampi”, frase simile a quella riportata in Lc 12,49. Al n. 54 leggiamo:
“Beati i poveri, poiché vostro è il regno dei cieli”, una beatitudine identica a Lc 6,20.
Ci sono anche alcune frasi che non sono presenti in nessuno dei vangeli canonici, ma
che potrebbero risalire veramente a Gesù, come quella del n. 25: “Ama tuo fratello
come l’anima tua. Custodiscilo come la pupilla del tuo occhio”.
Troviamo anche altre espressioni messe in bocca a Gesù che ci risultano profon-
damente sconcertanti, perché molto lontane dall’immagine di Gesù trasmessa dal NT,
come quella riportata nel n. 50:
Gesù disse: — Se vi domanderanno: Donde venite? Risponderete: Siamo venuti dal-
la luce, dal luogo ove la luce si fece da se stessa; stette e si manifestò nella loro im-
magine. Se vi domanderanno: Chi siete voi? Risponderete: Noi siamo suoi figli, noi
siamo gli eletti del Padre vivo. Se vi domanderanno: Qual è il segno del Padre vostro
che è in voi? Risponderete: È il movimento e il riposo.
di “Tommaso”.
1. Cf. C. A. Evans, Fabricating Jesus: How Modern Scholars Distort the Gospels, Inter-Varsity Press,
Nottingham 2007, 98-99.
Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso 288
Possiamo cominciare dal titolo, che recita così: “Queste sono le parole nascoste
dette da Gesù, il vivente, e scritte da Didimo Giuda Tommaso”. Oltre al nome dello
scrittore, desta curiosità l’aggettivo applicato alle parole di Gesù contenute nel testo:
sono “nascoste” o segrete. Al n. 13 troviamo una scena che aiuta a comprendere per-
ché questo vangelo si presenta come una collezione di parole nascoste di Gesù tra-
scritte da Tommaso:
Gesù disse ai suoi discepoli: — Fatemi un paragone, ditemi a chi rassomiglio. — Si-
mon Pietro gli rispose: — Sei simile ad un angelo giusto. Matteo gli rispose: —
Maestro, sei simile ad un filosofo. — Tomaso gli rispose: — Maestro, la mia bocca è
assolutamente incapace di dire a chi sei simile. — Gesù gli disse: — Io non sono il
tuo maestro giacché hai bevuto e ti sei inebriato alla fonte gorgogliante che io ho
misurato1. — E lo prese in disparte e gli disse tre parole. Allorché Tomaso ritornò
dai suoi compagni, gli domandarono: — Che cosa ti ha detto Gesù — Tomaso ri-
spose: — Se vi dicessi una delle parole dettemi da lui voi dareste mano alle pietre
per lapidarmi, e dalle pietre uscirebbe del fuoco e vi brucerebbe.
1. “Attraverso la metafora della fonte che Gesù ha misurato, si vuole indicare che Tommaso ha acqui-
sito la piena conoscenza di Gesù e per questo ha raggiunto uno statuto assimilabile al suo”, M.
Grosso, Vangelo secondo Tommaso: introduzione, traduzione e commento, Carocci, Roma 2011,
137-138.
Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso 289
Inoltre, in questo brano si segnala subito una netta distinzione di Tommaso ri-
spetto agli altri discepoli. Né Pietro né Matteo né gli altri hanno ricevuto lo stesso in-
segnamento di Tommaso. “Ogni fase di questa costruzione narrativa mira a far emer-
gere Tommaso su un piano distinto da quello degli altri discepoli”1. Quindi, se
diciamo che il Vangelo di Tommaso non è compatibile con la tradizione apostolica,
non stiamo proiettando nel testo un nostro pregiudizio, ma è il testo stesso che si
vuole legittimare come testimonianza di un insegnamento esclusivo, di una dottrina
di Gesù che soltanto Tommaso ha ricevuto. Non si può seguire Pietro e Tommaso in-
sieme; si deve scegliere o l’uno o l’altro. Nei vangeli canonici, invece, troviamo il rico-
noscimento di altre tradizioni, come accade in Gv 21 riguardo a Pietro o in Mc
16,9-20 riguardo agli altri tre vangeli.
Le differenze fra il Vangelo di Tommaso e le tradizioni accettate nella grande
Chiesa non si limitano all’esoterismo, ma si riferiscono anche ad alcuni contenuti
dottrinali, come il concetto di regno di Dio. In questo vangelo, il regno proclamato da
Gesù viene associato alla conoscenza di sé stessi (la gnosi), non è in tensione verso un
compimento escatologico, ma è immanente al mondo. Vediamo alcuni testi:
Gesù disse: — Se coloro che vi dirigono vi dicono: Ecco, il regno di Dio è in cielo!
Allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: È nel mare! Allora i pesci
del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi
conoscerete, allora sarete conosciuti, e saprete che voi siete i figli del Padre che vive.
Ma se voi non vi conoscerete, allora sarete nella povertà, e voi sarete la povertà
(n.3).
I discepoli gli domandarono: — In quale giorno verrà il regno? — (Gesù ri-
spose:) — Non verrà mentre lo si aspetta. Non diranno: Ecco, è qui! Oppure: Ecco, è
là! Bensì il regno del Padre è diffuso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono (n.
113).
Possiamo segnalare anche la presenza di una visione della vita collegata alla co-
noscenza e non alla risurrezione di Gesù (peraltro mai menzionata in questo
vangelo):
Egli disse: — Colui che scopre l’interpretazione di queste parole non gusterà la
morte (n. 1).
Colui che conosce tutto, ma non se stesso, ignora tutto (n. 67).
Colui che beve dalla mia bocca, diventerà come me, ed io stesso diverrò come lui, e
gli saranno rivelate le cose nascoste (n. 108).
Infine, altra differenza importante con la figura di Gesù trasmessaci dai vangeli
canonici è il valore della rivelazione ricevuta da Israele, che viene rifiutata dal Gesù
“tommasiano”:
I suoi discepoli gli domandarono: — In Israele parlarono ventiquattro profeti e tutti
parlarono per mezzo tuo [oppure “di te”]1. — Egli rispose loro: — Davanti a voi
avete il Vivente, e parlate di coloro che sono morti? (n. 52).
1. Cf. I. Miroshnikov, «‘In’ or ‘about’? Gospel of Thomas 52 and ‘Hebraizing’ Greek», Teologinen Ai-
kakauskirja 117 (2012) 179-185.
Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e 291
Neovulgata
Vulgata Neovulgata
Gn 3,15 Gn 3,15
Inimicitias ponam inter te et mulierem Inimicitias ponam inter te et mulierem
et semen tuum et semen illius; ipsa conteret et semen tuum et semen illius; ipsum conte-
caput tuum et tu insidiaberis calcaneo eius. ret caput tuum, et tu conteres calcaneum
eius.
Is 11 Is 11
1 Et egredietur virga de radice Iesse et 1 Et egredietur virga de stirpe Iesse, et
flos de radice eius ascendet 2 et requiescet flos de radice eius ascendet; 2 et requiescet
super eum spiritus Domini spiritus sapien- super eum spiritus Domini spiritus sapien-
tiae et intellectus spiritus consilii et fortitudi- tiae et intellectus, spiritus consilii et fortitu-
nis spiritus scientiae et pietatis 3 et replebit dinis, spiritus scientiae et timoris Domini; 3
eum spiritus timoris Domini (…) 10 In die et deliciae eius in timore Domini. (…) 10 In
illa radix Iesse qui stat in signum populorum die illa radix Iesse stat in signum populorum;
ipsum gentes deprecabuntur et erit se- ipsam gentes requirent, et erit sedes eius
pulchrum eius gloriosum. gloriosa.
Is 45,8 Is 45,8
Rorate caeli desuper et nubes pluant iu- Rorate, caeli, desuper, et nubes pluant
stum aperiatur terra et germinet salvatorem iustitiam; aperiatur terra et germinet salva-
et iustitia oriatur simul ego Dominus creavi tionem; et iustitia oriatur simul: ego Domi-
eum. nus creavi eam.
Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e 292
Neovulgata
Gb 19,25-26 Gb 19,25-26
Scio enim quod redemptor meus vivat et Scio enim quod redemptor meus vivit et
in novissimo de terra surrecturus sim; et rur- in novissimo super pulvere stabit; et post
sum circumdabor pelle mea et in carne pellem meam hanc, quam abstraxerunt, et
mea videbo Deum. de carne mea videbo Deum.
Gv 12,32 Gv 12,32
et ego si exaltatus fuero a terra omnia et ego si exaltatus fuero a terra omnes
traham ad me ipsum. traham ad me ipsum.
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