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SACERDOTI ANTICHI
E
NUOVO SACERDOTE
SECONDO IL NUOVO TESTAMENTO
EDITRICE ELLE DI CI
10096 LEUMANN (TORINO)
Titolo originale: Prètres anciens, Prètre nouveau selon le Nouveau Testament
© Editions du Seuil, 1980
Traduzione di MARIO BISSI
a cura del CENTRO CATECHISTICO SALESIANO di Leumann
5
A questo proposito, bisogna subito precisare che per i cristiani del I secolo
la questione del sacerdozio non si confondeva con quella dei ministeri nella Chie-
sa. L'ulteriore evoluzione del linguaggio cristiano ha unito intimamente le due no-
zioni, ma all'inizio non era così. Uno dei problemi che si pongono è precisamente
quello di distinguere le ragioni di tale evoluzione e di discuterne la legittimità.
Sono state già pubblicate opere serie sui ministeri nei primi tempi della Chie-
sa. Una delle più recenti e più significative ha preceduto il presente volume nella
collana «Parole de Dieu» sotto il titolo: Le Ministére et les ministéres selon le Nou-
veau Testament. * Lungi dal rendere superfluo uno studio sul sacerdozio, questo
libro sul ministero ne manifesta piuttosto l'utilità, perché si limita a una costata-
zione di assenza. «In tutta quest'opera non si è fatta praticamente questione di sa-
cerdoti e assai poco di sacerdozio» (p. 474). Perciò l'argomento resta da trattare.
È necessario ancora una volta ritornare al Nuovo Testamento per vedere quale
posto vi occupa la realtà del sacerdozio e da quale aspetto vi si contempla il sacer-
dote. Gli scritti del Nuovo Testamento parlano molto dei sacerdoti e del sacerdo-
zio o invece ne parlano soltanto raramente? E con simpatia, indifferenza, ostilità?
Si accontentano di riflettere le idee del tempo o elaborano una nuova concezione?
Come si delinea questa concezione? Tutti questi punti, e soprattutto i due ultimi,
esigono una ricerca precisa e metodica.
Una prima indagine rivela che il Nuovo Testamento contiene tre serie di testi
concernenti il sacerdozio. In una prima serie, il vocabolario sacerdotale non è uti-
lizzato che a proposito dei sacerdoti e dei sommi sacerdoti giudei o — in un solo
caso — a proposito dei sacerdoti pagani. Nella seconda serie, i cui testi si rag-
gruppano tutti in un unico scritto, l'epistola agli Ebrei, il Cristo stesso è procla-
mato sacerdote e sommo sacerdote con molta insistenza, e si istituisce un confron-
to fra il suo sacerdozio e il sacerdozio antico. In alcuni altri testi, infine, che costi-
tuiscono una terza serie, il sacerdozio viene attribuito ai cristiani.
Questa distribuzione regola il piano generale di questo volume, i cui undici
capitoli si dividono perciò in tre grandi parti. La prima spiega come il problema
del sacerdozio si è posto ai primi cristiani. La catechesi evangelica, che suscitava
e nutriva la loro fede, non trattava esplicitamente questa questione, ma metteva
in scena i sacerdoti e i sommi sacerdoti giudei e indicava il ruolo che essi avevano
assunto nello svolgimento dell'esistenza di Gesù, un ruolo di opposizione sempre
più accentuata. Un'altra sorgente di riflessione si imponeva alla meditazione dei
cristiani: l'Antico Testamento. Questo andava in un'altra direzione, perché atte-
stava che un posto primario spettava, nella vita del popolo di Dio, alle istituzioni
cultuali centrate sul tempio e, in particolare, al sacerdozio. Fra questi due elemen-
ti della rivelazione, ciò che a prima vista si avvertiva era dunque una discordanza
più che un accordo armonioso. Non ci si trovava di fronte a un ostacolo insormon-
tabile? Le difficoltà erano grandi, certamente, ma gli elementi di soluzione si af-
facciavano progressivamente, a mano a mano che si approfondivano certi dati del-
l'Antico Testamento, certi aspetti del mistero di Gesù e alcune realtà della vita
cristiana.
* Trad. it.: Il Ministero e i ministeri secondo il Nuovo Testamento, Ed. Paoline, Roma 1977 (N.d.E.).
6
Finalmente i cristiani giunsero a una scoperta che s'impose con la forza irresi-
stibile della luce: era nella stessa Persona del Cristo Gesù che l'antico sacerdozio
aveva trovato il suo compimento. Ormai non si doveva più cercare altrove. Que-
sta convinzione trionfante, che risuona nell'epistola agli Ebrei ed è sostenuta da
una dimostrazione in piena regola, fornisce la materia della seconda parte del pre-
sente lavoro, evidentemente la più importante. Gesù Cristo è Sommo Sacerdote.
Egli ha offerto un sacrificio. Come accogliere formulazioni di tal genere? Bisogna
forse contestarle aspramente, perché esprimono una «lettura sacrificale della pas-
sione» e denunciarvi, con René Girard, «il malinteso più paradossale e più colos-
sale di tutta la storia»? Prima di dare un simile giudizio, conviene, mediante una
buona metodologia, analizzare attentamente gli stessi testi e lasciarsi istruire da
essi, invece di proiettare frettolosamente su di essi idee preconcette.
Ci si accorge allora che, illuminato dal mistero di Cristo, l'autore dell'epistola
ha purificato i termini che ha usato dai loro elementi negativi o difettosi, e ha con-
ferito loro una nuova pienezza di senso. Il suo concetto sul sacerdozio e sul sacri-
ficio non può assolutamente ridursi agli antichi schemi. Al contrario, li trasforma
profondamente e li fa risplendere sotto ogni aspetto, aprendoli a tutta la ricchezza
umana e spirituale dell'esistenza di Cristo. Per questa ragione, getta una viva luce
sull'esistenza degli uomini nella sua realtà concreta, sia che si tratti dei loro rap-
porti personali con Dio, sia della solidarietà fra loro. Lungi dal costituire un de-
plorevole regresso, la proclamazione del sacerdozio di Cristo manifesta un pro-
gresso della fede e imprime un nuovo slancio alla vita cristiana. Esprimendo in
modo più chiaro i significati profondi dell'intervento di Cristo, favorisce lo svi-
luppo del dinamismo vitale che se ne sprigiona. Cristo sommo sacerdote guida
il cammino degli uomini verso la luce di Dio: egli solo può liberare l'esistenza
umana e darle tutte le sue vere dimensioni.
Quando espone la trasformazione cristiana dell'esistenza, l'epistola agli Ebrei
non dice che i credenti diventano sacerdoti. Essa riserva questo titolo a Cristo so-
lo. Ma altri due scritti del Nuovo Testamento, la prima lettera di Pietro e l'Apoca-
lisse, attribuiscono agli stessi cristiani la dignità sacerdotale. Essi esprimono così,
sulla realtà del sacerdozio, un altro punto di vista, al quale è dedicata la terza e
ultima parte di questo libro. Anche qui si rende necessario un discernimento fra
interpretazioni completamente divergenti. Bisogna forse intendere che ogni cre-
dente diviene sacerdote individualmente e fruisce di una specie di autarchia reli-
giosa o, al contrario, che il sacerdozio è esercitato comunitariamente da tutta la
Chiesa, grazie alla sua costituzione di popolo sacerdotale? È esatto forse afferma-
re, come si è fatto in un articolo recente, che il «significato di questo vocabolario»
sacerdotale «è negativo», perché il suo intento è solo di eliminare le distinzioni
fra cristiani a livello di sacerdozio, ovvero bisogna riconoscere che i testi non hanno
la minima intenzione negativa e cercano unicamente di dare una visione positiva
dell'ideale cristiano? Per poter decidere tra le tesi opposte o svincolarsi in un altro
modo dal dilemma, nulla può sostituire un lavoro di prima mano sui testi discussi.
Qui viene presentato il risultato di tale lavoro. Il metodo seguito è quello della
ricerca esegetica. Non si parte perciò da definizioni «a priori» né da posizioni pre-
stabilite. Neppure si pretende di trattare tutte le questioni. Ma ci si pone in ascolto
7
del Nuovo Testamento e ci si lascia guidare dai suoi testi verso una scoperta pro-
gressiva del senso profondo del sacerdozio.1 Invece di proporre direttamente so-
luzioni ai diversi problemi del momento, questo libro invita piuttosto a una rifles-
sione d'insieme, che potrebbe avere come risultato il mutamento del modo stesso
di impostare i problemi.
1
Il lettore che, leggendo il titolo, resta perplesso per l'uso del singolare: «nuovo sacerdote» ne troverà
la spiegazione nella seconda parte: «Gesù Cristo, nuovo sacerdote»; vedere a pag. 184 e 240.
8
PARTE PRIMA
SACERDOTI ANTICHI
E FEDE CRISTIANA
CAPITOLO I
IL SACERDOZIO ANTICO
NELLE PRIME TRADIZIONI CRISTIANE
Il modo più semplice di accostarsi al problema del sacerdozio nel Nuovo Te-
stamento consiste probabilmente nel percorrere i vangeli, osservando come le tra-
dizioni che vi sono riportate si esprimono riguardo ai sacerdoti. Ci si può così
rimettere a poco a poco nelle prospettive dei primi cristiani, che si lasciavano for-
mare da quelle tradizioni e contribuivano a fissarle e a trasmetterle. Non si tratta
qui di passare i vangeli al vaglio della critica storica, ma soltanto di raccogliere
la loro testimonianza per meglio comprendere, su un punto preciso, la situazione
della Chiesa nei tempi apostolici. Le costatazioni che si possono fare non vanno
tutte nella medesima direzione. La loro stessa diversità è istruttiva.
1
Si veda 1 Cr 24,7-18; 28,13.21; 2 Cr 31,2.
2
Questo testo è pieno di termini specifici del vocabolario sacerdotale e rituale: hiereús (sacerdote),
hierateía (funzione del sacerdote), hierateúein (esercitare le funzioni di sacerdote) e inoltre, naós (santua-
rio), thymiázein (bruciare l'incenso), thymíama (offerta dell'incenso), thysiastérion (altare).
11
In tutta la descrizione, non si avverte la minima intenzione di critica contro
l'istituzione sacerdotale. Al contrario, Luca riconosce che i sacerdoti giudei eser-
citano le loro funzioni «davanti a Dio», e presenta la cerimonia liturgica come oc-
casione d'una manifestazione divina: al sacerdote Zaccaria «apparve un angelo del
Signore ritto alla destra dell'altare dell'incenso»; Zaccaria «ebbe una visione nel
santuario» (1,11.22). Tutto ha sapore di apprezzamento positivo sul culto celebra-
to dai sacerdoti giudei nel tempio di Gerusalemme.
Tuttavia, l'episodio che segue immediatamente — quello dell'annuncio fatto
a Maria — impedisce di attribuire al culto del tempio un valore esclusivo per i
rapporti con Dio. Questo secondo episodio, infatti, non è situato in un luogo con-
sacrato, ma in una borgata ignorata, che nondimeno è scelta per una manifestazio-
ne divina più importante della prima. L'angelo non si rivolge a un sacerdote, ma
a una semplice ragazza, e questa si manifesta meglio disposta del sacerdote ad ac-
cogliere la Parola di Dio (si confrontino 1,45 e 1,20).
In seguito, nel vangelo dell'infanzia, non si fa più cenno dei sacerdoti. Il loro
intervento deve certamente esser supposto nell'episodio della presentazione del bam-
bino Gesù nel tempio di Gerusalemme, perché vi si parla di un sacrificio, e la
Legge precisa che è «al sacerdote» che si portano in offerta le tortore o i piccioni.3
Ma il racconto evangelico non si preoccupa di riportare questa precisazione. Non
nomina i sacerdoti neppure quando Gesù adolescente viene ritrovato nel tempio.
Ci si può chiedere se i «maestri» in mezzo ai quali Gesù si trovava erano dei sacer-
doti giudei. Secondo Malachia «le labbra del sacerdote devono custodire la scien-
za e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione».4 Al tempo di Gesù, tuttavia, sembra
che i sacerdoti avessero rinunciato a questa parte del loro compito. Il vangelo,
comunque, non dà alcuna indicazione riguardo a tale argomento.
Durante la vita pubblica di Gesù raramente si fa cenno ai sacerdoti. Il IV van-
gelo parla di loro una sola volta, ed è prima che Gesù entri in scena. Si tratta di
una commissione d'inchiesta mandata dalle autorità per informarsi sulla posizione
di Giovanni Battista. «I Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti
a interrogarlo: "Chi sei tu?"» (Gv 1,19). La predicazione di Giovanni Battista
riguardava la questione delle relazioni con Dio. Era normale che dei sacerdoti fossero
designati per verificare il suo accordo con la religione tradizionale. Giovanni Bat-
tista invitava i suoi uditori a farsi battezzare. In quanto rito di purificazione, il
battesimo riguardava la competenza dei sacerdoti giudei, incaricati di controllare
la purità rituale. Non c'è da meravigliarsi dunque nel sentirli domandare: «Perché
battezzi?» (Gv 1,25). L'evangelista riporta le risposte del battezzatore, perché co-
stituiscono un annuncio della venuta di Cristo, ma non si interessa della reazione
dei sacerdoti. In questo racconto, il loro solo ruolo consiste nel suscitare la testi-
monianza di Giovanni, che orienta l'attenzione di tutti verso «colui che viene dopo
di lui», Gesù (1,29-30).
3
Lc 2,24; cf L v 12,8; Nm 6,10.
4
Ml 2,7. La parola greca utilizzata in Lc 2,46 è didáskalos: «insegnante», «maestro». Nei vangeli que-
sto titolo è abitualmente riservato a Gesù. Sole eccezioni: Lc 2,46; 3,12 (Giovanni Battista); Gv 3,10
(Nicodemo).
12
Nei primi tre vangeli, Gesù stesso parla qualche volta dei sacerdoti. La tradi-
zione comune ai sinottici contiene due testi dove egli li nomina. La prima volta
è per ordinare a un lebbroso guarito di andare a presentarsi al sacerdote e di fare
l'offerta rituale.
«Gli disse: Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri
per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro» (Mc 1,44).
Gesù invita così il lebbroso a conformarsi alla Legge giudaica, che incaricava
i sacerdoti del controllo sanitario dei lebbrosi (Lv 13-14). Simile incarico, che
oggi sembra strano, si basava sul concetto che allora si aveva della lebbra: era
considerata come un'impurità più che una malattia. A tale proposito non si parla-
va di guarigione, ma di «purificazione».5 Poiché erano impuri, i lebbrosi non po-
tevano partecipare alle celebrazioni religiose, per le quali era richiesta la purità
rituale. Incaricato di celebrare il culto, il sacerdote doveva assicurarsi della purità
rituale dei partecipanti e controllare in particolare l'eventuale guarigione dei lebbrosi.
Nell'episodio evangelico, Gesù riconosce questa competenza del sacerdote giu-
deo, e ammette che si facciano le offerte rituali prescritte dalla Legge, offerte che
passavano per le mani del sacerdote. Tuttavia l'atteggiamento di Gesù non è di
semplice sottomissione: toccando il lebbroso, Gesù ha infranto esteriormente la
legge della purità, che proibiva tale contatto; ma nel medesimo tempo ha realizza-
to l'intenzione di questa legge, perché, attraverso quel gesto, ha restituito la puri-
tà al lebbroso. Con questo fatto, Gesù si è dichiarato superiore alla Legge, che
era incapace di porre rimedio alla lebbra, e superiore al sacerdote, il cui ruolo
si limitava a costatare lo stato del lebbroso.
Oltre a questo episodio, comune ai tre sinottici, Luca ne racconta un altro, di-
verso sotto più di un aspetto, ma che riporta un comando simile e permette acco-
stamenti interessanti. A dieci lebbrosi che implorano la sua misericordia Gesù or-
dina: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». I lebbrosi gli obbediscono, ed ecco che
mentre andavano furono «purificati».6 Qui la sottomissione di Gesù alla Legge ap-
pare, a prima vista, più grande: egli non tocca i lebbrosi, ma li rimanda subito
alla competenza dei sacerdoti. Il seguito del racconto, tuttavia, rovescia la pro-
spettiva, perché pone in risalto l'atteggiamento di un lebbroso guarito, che, costa-
tando la sua guarigione, ritorna sui suoi passi per glorificare Dio e ringraziare
Gesù. Una parola di Gesù sottolinea che effettivamente bisognava ritornare da lui
per rendere gloria a Dio. Nuovamente Gesù si dichiara superiore al sacerdote, non
soltanto rendendo la purità, ma ponendo anche in relazione con Dio. Mentre la
prassi normale per rendere gloria a Dio consisteva ordinariamente nel rivolgersi
al sacerdote, nel caso presente essa consiste nel ritornare verso Gesù.
Il secondo testo della tradizione comune, dove Gesù parla dei sacerdoti, si si-
tua in una controversia. Ai farisei che criticavano i suoi discepoli perché non ri-
5
Là dove il testo greco dice «purificarmi», «sia purificato» e «purificazione», alcune traduzioni moder-
ne mettono «guarirmi» «sia guarito» e «guarigione», impedendo così al lettore di percepire la logica interna
del racconto.
6
Lc 17,12-14.
13
spettavano alla perfezione il sabato, Gesù risponde richiamando l'esempio di Da-
vide. Costui, tormentato un giorno dalla fame, «entrò nella casa di Dio, sotto il
sommo sacerdote Abiatar, e mangiò i pani dell'offerta, che soltanto ai sacerdoti
è lecito mangiare».7 Gesù si serve dell'episodio, riportato in 1 Sam 21,2-7, per
insegnare che i precetti, o meglio gli interdetti, che riguardano il culto rituale non
hanno valore assoluto. La stessa Scrittura attesta che in alcune circostanze si pos-
sono trasgredire. I privilegi dei sacerdoti giudei non sono inviolabili.
A questa frase il vangelo di Matteo ne aggiunge subito un'altra, più significati-
va ancora. Gesù sostiene la sua argomentazione: «O non avete letto nella Legge
che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono
senza colpa?» (Mt 12,5). L'allusione si riferisce evidentemente all'attività dei sa-
cerdoti nel tempio nei giorni di sabato, attività che non si accorda con l'interdizio-
ne di ogni lavoro in quel giorno. Il Levitico, per esempio, ordina di portare i pani
della proposizione nel santuario precisamente nel giorno di sabato (Lv 24,8), e
il libro dei Numeri non solamente non esige di sospendere i lavori richiesti per
l'offerta dei sacrifici rituali, ma prescrive sacrifici supplementari (Nm 28,9-10).
La frase del vangelo prende argomento da questi fatti innegabili per esprimere
un'antitesi estremamente forte. Essa sottolinea che i sacerdoti, persone consacra-
te (hiereîs), nel tempio, luogo consacrato (hierón), «profanano» cioè violano il
carattere sacro del sabato, tempo sacro. Sarebbe difficile trovare termini più vi-
gorosi. Ma tutto ciò si compie in conformità alla Legge, e quindi non costituisce
reato. Parlando così, il vangelo relativizza il valore del «sacro», al cui servizio
si trovano i sacerdoti, o, per meglio dire, respinge il concetto tradizionale di «sa-
cro», perché il «sacro» si presenta normalmente come una realtà assolutamente in-
violabile, per nessun motivo. L'argomentazione è delle più abili, perché si basa
su ciò che fanno i sacerdoti stessi in obbedienza alla legge liturgica.
Per concludere la controversia, il vangelo cita la dichiarazione divina procla-
mata dal profeta Osea: «Poiché voglio la misericordia e non il sacrificio» (Os 6,6).
La parola «sacrificio» si riferisce qui alle immolazioni rituali praticate dai sacer-
doti nel tempio. A questo culto sacro Dio preferisce gli atti di misericordia; a una
religione formalista, un atteggiamento di apertura alle persone. È un'opzione evan-
gelica fondamentale, sopra la quale si può tuttavia osservare che non è interamen-
te nuova, poiché si situa esplicitamente nel prolungamento della predicazione dei
profeti.
Un solo altro testo, nei vangeli, mette in scena un sacerdote: la parabola del
buon samaritano. Questa tradizione propria di Luca (10,30-37) non pone certa-
mente il sacerdozio in onore. Il sacerdote che, per caso, passa per strada e vede
steso l'uomo ferito, si disinteressa completamente di lui. Il suo atteggiamento con-
trasta con quello del samaritano, che si lascia commuovere, si avvicina e lo cura
con sollecitudine. Nessuna riflessione polemica sottolinea tale contrasto, ma l'o-
rientamento del testo è sufficientemente chiaro e corrisponde esattamente a quello
che è stato costatato presso Matteo: il samaritano ha «praticato la misericordia»,
il sacerdote no. I commentatori osservano che l'atteggiamento del sacerdote era
7
Mc 2,26; cf Mt 12,4; Lc 6,4.
14
probabilmente suggerito dal desiderio di obbedire alla legge della purità, che gli
ingiungeva di non arrischiare il contatto con un uomo morto, a meno che si trat-
tasse di un parente stretto (Lv 21,1-2). Gesù rifiuta implicitamente di fermarsi a
questi limiti, e impegna ciascuno a farsi prossimo di chiunque sia nella necessità.
Le preoccupazioni rituali dei sacerdoti devono cedere il posto al dinamismo del-
l'amore generoso. È quanto riconosce anche uno scriba nel vangelo di Marco, senza
tuttavia nominare i sacerdoti. Esprimendo il suo consenso a una risposta di Gesù,
egli dichiara che effettivamente amare Dio con tutto il cuore e amare il prossimo
come se stessi «val di più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,33).
La prima tappa dell'inchiesta porta dunque a una duplice costatazione: da una
parte i vangeli riconoscono le attribuzioni dei sacerdoti giudei e non manifestano
verso di loro una opposizione sistematica; dall'altra, essi relativizzano la loro fun-
zione, rifiutando di attribuire al culto rituale una importanza assoluta. Nella sua
predicazione e nella sua maniera d'agire, Gesù insiste di più su altri aspetti.
8
Hiereús non appare che undici volte nei vangeli (Mt: 3; Mc: 2; Lc: 5; Gv: 1). Archiereús è usato
83 volte (Mt: 25; Mc: 22; Lc: 15; Gv: 21).
15
accaparrati, sembra, da quattro famiglie che formavano l'aristocrazia sacerdotale
di Gerusalemme.9
Se si esamina la tradizione comune ai tre sinottici, bisogna spingersi molto avanti
nei testi per incontrarvi un primo cenno sui sommi sacerdoti, ma il contesto è allo-
ra dei più significativi: si tratta del primo annuncio della passione. Dopo aver pro-
vocato a Cesarea di Filippo la professione di fede di Pietro,
«Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme
e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso
e risuscitare il terzo giorno».10
Oltre il verbo «soffrire» Marco e Luca hanno il verbo «essere scartato» o «ri-
provato», dove si riconosce un'allusione alla frase del Sal 118 citata più avanti
nei vangeli: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d'angolo».11
Il testo dell'annuncio della passione è evidentemente di primaria importanza
nello svolgimento del racconto evangelico. Esso richiama parecchie osservazioni,
la più impressionante delle quali è che i sommi sacerdoti vi sono presentati come
responsabili delle sofferenze di Gesù. Gesù dovrà molto «patire [in greco patheîn,
da cui viene il nome della passione, páthema] da parte dei sommi sacerdoti». È
in rapporto con la passione che i sommi sacerdoti entrano nella prospettiva evan-
gelica. Dopo questo primo annuncio delle sofferenze del Cristo, il loro nome riap-
parirà molto spesso nei vangeli sinottici e sarà sempre in rapporto con la passione.
Lo si ritroverà nel terzo annuncio della passione, poi nel corso di una interroga-
zione che anticipa il processo di Gesù, infine per un tentativo di arresto, per il
complotto contro Gesù e il mercato concluso con Giuda.12 Nel racconto della pas-
sione, i sommi sacerdoti sono ricordati non meno di quindici volte in Matteo e
in Marco. Più conciliante, Luca si accontenta di nominarli otto volte. Fra i sommi
sacerdoti e Gesù, i vangeli manifestano dunque una opposizione decisamente for-
te, un conflitto irriducibile.
Seconda osservazione: in questo conflitto, i sommi sacerdoti non si presentano
tanto come sacerdoti (hiereîs) quanto come autorità (arché). L'annuncio della pas-
sione non li nomina a parte, ma li pone in mezzo ad altri due gruppi che formava-
no con loro il sinedrio: è questo al gran completo, «anziani (presbýteroi), sommi
sacerdoti (archiereîs) e scribi (grammateîs)» che sottoporrà Gesù alla sofferenza.
Il verbo «riprovare», aggiunto in Marco e Luca, accentua l'aspetto di autorità. Con
una sentenza ufficiale, i «costruttori» decideranno che Gesù è una pietra di scarto,
inadatta alla costruzione della casa di Dio.
9
Per una maggiore informazione cf J. JEREMIAS, Jerusalem au temps de Jesus (1962), trad. fr., Cerf,
p. 209 e 225-282; o nel GLNT i termini hiéreus (t. IV, 1968, G. Schrenk, 838ss) e synedrion (t. XIII,
1981, E. Lohse, col. 167ss).
10
Mt 16,21; cf Mc 8,31; Lc 9,22. Nelle tradizioni proprie a ciascuno dei sinottici, il titolo di sommo
sacerdote non appare che una sola volta prima di questo primo accenno comune. In Mc 2,26 e Lc 3,2 si
tratta semplicemente di una precisazione cronologica. In Mt 2,4-6, il vangelo dell'infanzia, i sommi sacer-
doti appaiono una volta in compagnia degli scribi, in quanto conoscitori delle Scritture.
11
Sal 118,22; cf Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17.
12
Per questi diversi episodi, comuni ai tre sinottici, cf Mt 20,18; 21,23; 21,45; 26,3; 26,14, e testi paralleli.
16
La prospettiva di opposizione espressa nel primo annuncio della passione si
ritrova regolarmente negli altri passi dei vangeli che mettono in scena i «sommi
sacerdoti». Questi sono nominati parecchie volte in compagnia degli altri due gruppi
del sinedrio.13 In altri casi si trovano solamente i sommi sacerdoti e gli scribi, o
i sommi sacerdoti e gli anziani.14 È molto raro che gli altri due gruppi siano men-
zionati senza quello dei sommi sacerdoti (Mt 26,57). La regola generale è che questi
siano nominati e messi in evidenza: vengono quasi sempre in prima posizione.
In qualche caso, infine, sono nominati senza gli altri. 15
La presenza dei sommi sacerdoti al primo grado dei dirigenti della nazione giudea
manifesta certamente che, per essa, l'autorità non si situava solamente al livello
politico, ma, in maniera indissolubile, al livello politico e religioso. Il fatto che,
nel racconto della passione, i sommi sacerdoti sono qualche volta nominati senza
gli altri membri del sinedrio tende ad accentuare la loro parte di responsabilità
e a sottolineare la dimensione religiosa del processo.
È così che i sommi sacerdoti sono menzionati da soli da Matteo e da Marco
nell'episodio che dà inizio alla passione: il tradimento di Giuda. Giuda va a trova-
re i sommi sacerdoti e propone loro il suo ignobile mercato: «Quanto mi volete
dare perché io ve lo consegni?» (Mt 26,14). Essi si affrettano ad accettare. Il loro
ruolo è dunque decisivo per l'arresto di Gesù. Nel passo parallelo, Luca aggiunge
loro «i capi delle guardie» (strategoí), il che, in realtà, non esula dall'ambiente
sacerdotale, perché la guardia del tempio era affidata a sacerdoti e a leviti.
Dopo il processo giudaico, che si compie davanti al sinedrio al gran completo,
Matteo riporta un episodio che mette in rilievo la conclusione sinistra dell'affare
del tradimento (Mt 27,3-10), e i sommi sacerdoti sono di nuovo i protagonisti del-
la scena. Prima veramente gli «anziani» sono nominati insieme a loro, ma quando
Giuda si libera delle monete d'argento gettandole nel tempio, il racconto non par-
la che dei sommi sacerdoti. Essi raccolgono il denaro e decidono del suo uso. Questa
annotazione corrisponde alla logica della situazione, perché il racconto precisa che
Giuda aveva gettato il denaro «nel santuario» (naós) cioè non semplicemente nel-
l'atrio o nei portici del tempio (hierón), dove a tutti i fedeli era concesso di acce-
dere, ma nell'edificio sacro, il cui accesso era riservato ai sacerdoti. Si compren-
de quindi che gli «anziani» non intervengono più in questo momento del racconto
e lasciano il posto ai sommi sacerdoti. Il gesto di Giuda non manca di significato:
esso stabilisce un legame fra il santuario dell'antica alleanza e il denaro del tradi-
mento, legame logico, poiché il denaro era stato dato a Giuda dai sommi sacerdo-
ti, custodi del santuario. Altri testi evangelici hanno il medesimo significato: af-
fermano un rapporto fra il santuario fatto da mano d'uomo e la passione di Cristo.
I sommi sacerdoti, tuttavia, non vogliono vedere questo rapporto. Essi si rifiutano
13
In Mt 27,41; Mc 11,27; 14,43-53; 15,1; Lc 20,1; (22,66).
14
«Sommi sacerdoti e scribi»: Mt 2,4; 20,18; 21,15; Mc 10,33; 11,18; 14,1; 15,31; Lc 19,47; 20,19;
22,2; 23,10. In Lc 20,19 gli scribi sono nominati in primo luogo. «Sommi sacerdoti e anziani»: Mt 21,23;
26,3-47; 27,1.3.12.20; (28,12).
15
«Sommi sacerdoti»: Mt 26,14; 27,6; 28,11; Mc 14,10; 15,3.10.11; Lc 23,4; Gv 12,10; 18,35; 19,15.21.
Gli scribi sono talvolta nominati da soli nella prima parte dei sinottici; così pure gli anziani.
17
di porre il denaro del tradimento nel tesoro del tempio (Mt 27,6-7), e se ne servo-
no per comperare un campo, scrivendo così il loro delitto sulla terra d'Israele.
Durante il processo davanti a Pilato, parecchi testi evangelici richiamano l'at-
tenzione sul ruolo sostenuto dai sommi sacerdoti. Sono essi che caricano Gesù di
accuse. Marco non nomina nessun altro, Matteo associa a loro gli «anziani» e Lu-
ca la «folla».16 Li ritroviamo davanti a Erode, appoggiati questa volta dagli scribi
(Lc 23,10). Secondo Marco, più preciso di Matteo su questo punto, Pilato si era
reso conto che «i sommi sacerdoti gli avevano consegnato Gesù per invidia». Quando
propone la liberazione del «re dei Giudei», sono «i sommi sacerdoti» che «sobilla-
no la folla perché egli rilasci loro piuttosto Barabba» (Mc 15,9-11). Matteo asso-
cia a loro di nuovo gli anziani (Mt 27,20). Ottenuta ed eseguita la condanna, ritro-
viamo i sommi sacerdoti al Calvario per mettere in ridicolo il Crocifisso. Neanche
la morte di Gesù li lascia tranquilli: essi si preoccupano di mantenerlo nella sua
tomba «sigillandone la pietra e mettendovi la guardia». Si sforzeranno di soffocare
con false dicerie l'annuncio della risurrezione.17 La tradizione evangelica, come si
vede, ha registrato un'opposizione implacabile delle autorità sacerdotali contro Gesù.
Per completare il quadro, bisogna considerare i casi dove la tradizione evange-
lica parla del sommo sacerdote al singolare. In questi testi non lo vediamo mai
presiedere alle celebrazioni del culto, ma sempre nell'esercizio delle sue funzioni
di autorità. La posizione d'autorità del sommo sacerdote appare subito nel raccon-
to di Matteo in occasione delle procedure iniziate contro Gesù: è in effetti «nel
palazzo del sommo sacerdote» che i membri del sinedrio si riuniscono, alcuni giorni
prima della Pasqua, con il fine di trovare i mezzi «per arrestare con un inganno
Gesù e farlo morire» (Mt 26,3). Ed è pure nel palazzo del sommo sacerdote che
Matteo e Marco situano la riunione notturna del sinedrio.18
L'atteggiamento assunto dal sommo sacerdote nel corso di questa riunione con-
ferma e aggrava le osservazioni già fatte sui rapporti fra il sacerdozio giudaico
e Gesù. È chiaramente lui che dirige lo svolgersi della procedura. Si alza dopo
le deposizioni dei testimoni e procede egli stesso all'interrogatorio.
L'opposizione allora raggiunge il suo parossismo. Il sommo sacerdote si erge
davanti a Gesù come un giudice. Più che gli altri sinottici, Matteo sottolinea la
drammatica solennità di questo confronto. Il sommo sacerdote si appella alla po-
tenza «del Dio vivente» per intimare a Gesù di rispondere. Gesù risponde ferma-
mente a tale ingiunzione; osserva che le stesse parole del sommo sacerdote hanno
espresso la sua dignità di Figlio di Dio, e predice la manifestazione decisiva di
questa dignità. L'opposizione allora diviene totale: il sommo sacerdote lacera le
sue vesti, grida alla bestemmia e provoca la condanna.19
La scena non si svolge in un contesto di celebrazione del culto, ma in un conte-
sto di esercizio del potere. Il sommo sacerdote non si trova nel tempio; è circon-
dato dai membri del sinedrio. Le sue attribuzioni non sono cultuali, ma giuridi-
che; egli ascolta i testimoni, interroga, giudica.
16
Mc 15,3; Mt 27,12; Lc 23,4s.
17
Mc 15,31; Mt 27,41.66; 28,11-15.
18
Mt 26,57; Mc 14,53; cf Lc 22,54.
19
Mt 26,63-66; Mc 14,61-64.
18
Tuttavia gli elementi considerati dalla tradizione evangelica fanno apparire la
fusione degli aspetti. L'interrogatorio avrebbe potuto riferirsi a delitti politici: ten-
tativo di ribellione, complotto per impadronirsi del potere. Invece verte sulla pre-
tesa messianica: «Sei tu il Messia?».20 Ora, per i Giudei, la dignità di Messia si
situava al livello religioso più ancora che politico. Non ci si meraviglia dunque
di vedere che il sommo sacerdote ne sottolinea l'aspetto religioso, cioè la relazio-
ne privilegiata del Messia con Dio. È solamente questo aspetto che sarà infine ri-
levato per l'accusa e la condanna: Gesù è riconosciuto colpevole di «bestemmia»;
tale è il capo di accusa che, dal punto di vista delle autorità giudaiche, comporta
la sua morte.21 Il sommo sacerdote e il sinedrio non si sono posti a garanti dell'or-
dine politico, ma a difensori della legge di Dio.
La testimonianza del IV vangelo non differisce molto da quella dei sinottici
sul punto che ci interessa. Come i sinottici, Giovanni attesta l'atteggiamento di
opposizione assunto dai sommi sacerdoti contro Gesù. La differenza è che questo
atteggiamento si manifesta molto prima della settimana precedente la passione.
Infatti Giovanni riferisce che durante una festa dei Tabernacoli, preoccupati del
successo di Gesù, «i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arre-
starlo» (Gv 7,32). Il tentativo non riuscì (7,45-46). La differenza cronologica in
rapporto ai sinottici è da spiegarsi con il fatto che il IV vangelo non segue la di-
sposizione schematica adottata da essi. I sinottici parlano di una sola ascesa di Ge-
sù a Gerusalemme, e la collocano poco prima degli avvenimenti della settimana
santa. Giovanni, invece, ne riporta parecchie, e questo gli permette di segnalare
che l'ostilità dei sommi sacerdoti contro Gesù era incominciata molto presto.
Il conflitto diviene più acuto all'approssimarsi dell'ultima Pasqua. Sommi sa-
cerdoti e farisei allora si accordano per far fronte al pericolo che Gesù costituisce.
Decidono di farlo morire. Danno ordini perché lo si denunci, allo scopo di poterlo
arrestare.22 Di fatto, prendono parte attiva all'arresto di Gesù: il gruppo guidato da
Giuda comprendeva «delle guardie fornite dai sommi sacerdoti e dai farisei» (18,3).
In tutti questi testi si rileva una particolarità della tradizione giovannea: i som-
mi sacerdoti sono regolarmente associati ai farisei.23 Nei sinottici, come abbiamo
visto, il raggruppamento è diverso: i sommi sacerdoti sono associati agli altri membri
del sinedrio, gli scribi e gli anziani, due categorie che la tradizione giovannea ignora
completamente.24 L'associazione dei sommi sacerdoti con i farisei fa risaltare an-
cor più la loro opposizione a Gesù, perché la tradizione evangelica presenta i fari-
sei come i nemici accaniti di Gesù.
Dopo l'arresto, tuttavia, i farisei non sono più menzionati dall'evangelista, di
modo che i sommi sacerdoti restano i soli protagonisti della lotta contro Gesù.
Essi svolgono un ruolo determinante nel corso del processo romano. Pilato stesso
20
Mt 26,63; Mc 14,61; Lc 22,67.
21
Mt 26,65; Mc 14,64.
22
Gv 11,47-53.57.
23
Nei sinottici, l'associazione «sommi sacerdoti e farisei» si trova solo in Mt 21,45 e 27,72.
24
II termine «scriba» (grammateús) è assente nel IV vangelo, salvo in 8,3 nel brano sulla donna adulte-
ra, che non appartiene alla tradizione giovannea. E non si legge la parola «anziano» (presbýteros), eccetto
che in Gv 8,9, dove ha però il senso non tecnico di «più anziano».
19
sottolinea questo fatto singolare in una dichiarazione rivolta a Gesù: «La tua gente
e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?» (Gv 18,35).
In seguito, quando Pilato cerca di discolpare il prigioniero, sono i sommi sacerdo-
ti che, con i loro servi, si mettono a gridare: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». A Pila-
to, che loro obbietta: «Metterò in croce il vostro re?», sono proprio essi che ri-
spondono: «Noi non abbiamo altro re che Cesare», e ottengono che Gesù sia loro
consegnato per essere crocifisso. E dopo la crocifissione, sono ancora loro che
si preoccupano di reclamare una rettifica del motivo di condanna affisso in cima
alla croce.25 L'ostilità dei sommi sacerdoti contro Gesù prende, dunque, nel IV
vangelo, un rilievo particolare.
In questo contesto, Giovanni non manca di porre in risalto anche la posizione
tenuta dal rappresentante più qualificato del gruppo, il sommo sacerdote al singo-
lare. Durante la riunione che finì con il decidere la morte di Gesù, l'evangelista
riporta che fu proprio «Caifa, sommo sacerdote di quell'anno» che impose la deci-
sione dicendo ai suoi colleghi:
«Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per
il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11,49-50).
Queste ciniche parole decidono il caso. La loro formulazione mette in eviden-
za la parte preponderante svolta dal sommo sacerdote nel complotto contro Gesù.
Gli altri «non capiscono niente». È lui che indica la direzione da prendere. Egli
dà prova di un realismo politico spoglio di ogni scrupolo. La sua responsabilità
appare schiacciante. Nel seguito del racconto alcuni particolari la richiameranno:
all'arresto di Gesù, Giovanni nota di passaggio la presenza «del servo del sommo
sacerdote» di cui precisa perfino il nome (18,10); poi, prima dell'inizio del pro-
cesso, menziona nuovamente la parola pronunciata da Caifa (18,13).
L'evangelista avrebbe potuto fermarsi a questo aspetto delle cose e, sottoli-
neando l'opposizione del sommo sacerdote contro Gesù, dedurne la rottura di ogni
relazione fra il sommo sacerdote e Dio. È significativo che questa conclusione non
sia stata tratta. Con un'audacia paradossale, Giovanni, al contrario, afferma la per-
sistenza di un aspetto positivo del sacerdozio. Alla dichiarazione machiavellica
di Caifa egli riconosce, malgrado tutto, un valore profetico, di cui vede il fonda-
mento nella dignità sacerdotale di colui che parlava. Caifa «non lo disse da se stes-
so, ma essendo sommo sacerdote di quell'anno profetizzò» (11,51). Le sue parole
erano gravide di due significati molto diversi: esprimevano contemporaneamente
un calcolo umano criminale e una prospettiva divina di redenzione. Per questa ra-
gione i rapporti fra il sommo sacerdote e il Cristo si rivelano di una sconcertante
complessità. Non bisogna dimenticarlo.
Una complessità di altro genere appare ancora nel racconto di Giovanni. Il ti-
tolo di «sommo sacerdote» al singolare pare si riferisca a due personaggi differen-
ti: ad Anna nel racconto dell'interrogatorio, e a Caifa in altri passi." Per elimina-
re questa apparente confusione, alcuni esegeti hanno avanzato diverse congetture,
25
Gv 19,6.15-17.21.
26
Gv 18,19.22 e 11,49-51; 18,13.24.
20
ma in realtà si può pensare che il testo del vangelo rifletta la situazione concreta:
Caifa era il sommo sacerdote in esercizio; ma Anna, l'ex-sommo sacerdote che
i Romani avevano deposto, aveva conservato prestigio e autorità, ed era anch'egli
chiamato «il sommo sacerdote».27 Però questo particolare storico non ha una gran-
de importanza per il nostro soggetto.
27
C f L c 3 , 2 ; At 4,6.
28
Cf At 23,8; Lc 20,27-40 e par.
21
la posizione del sommo sacerdote e dell'assemblea dei sommi sacerdoti sarà di
ostilità sempre più accentuata contro gli apostoli di Gesù e la comunità cristiana.29
Il sommo sacerdote fa arrestare e imprigionare gli apostoli, procede al loro inter-
rogatorio e rivolge loro violenti biasimi. È ancora «il sommo sacerdote» a interro-
gare Stefano prima del suo martirio (7,1). Quando Saulo vuol dedicarsi a perse-
guitare la Chiesa, si reca presso il sommo sacerdote per ottenere i poteri necessari.30
Quando parte per Damasco, il suo progetto è di arrestare colà i cristiani e «con-
durli in catene dai sommi sacerdoti» (9,21). Più tardi Saulo, divenuto l'apostolo
Paolo, subisce a sua volta l'ostilità del sommo sacerdote Anania e di tutto il grup-
po dei sommi sacerdoti, che, appoggiati dagli anziani, si sforzano di strappare al
governatore romano la condanna dell'apostolo.31
Al momento della comparizione di Paolo davanti al sinedrio, Luca racconta un
incidente rivelatore. Paolo, vittima di una vessazione, protesta con vigore e qualifica
di «muro imbiancato» colui che ha dato l'ordine di maltrattarlo. Gli si fa notare che
si tratta del «sommo sacerdote di Dio». Paolo allora si scusa dicendo: «Io non sapevo
che fosse il sommo sacerdote», e aggiunge: «Infatti sta scritto: non insulterai il capo
del tuo popolo» (At 23,1-5). Il punto interessante per la nostra ricerca è che invece
di considerare la consacrazione del sommo sacerdote come gli suggeriva l'accen-
tuazione degli assistenti («È il sommo sacerdote di Dio che tu insulti») Paolo sotto-
linea soltanto l'autorità del personaggio («il capo del tuo popolo») citando un pre-
cetto della Bibbia che concerne il rispetto dovuto ai «capi» (Es 22,27). È chiaro
il mutamento di prospettiva. Esso corrisponde sicuramente alla situazione del mo-
mento, che pone in evidenza più il potere del sommo sacerdote che il suo ruolo
sacerdotale, ma permette anche di intravedere una significativa presa di posizione.
Ciò concorda con quanto si è potuto costatare durante tutto questo capitolo:
gli scritti narrativi del Nuovo Testamento non presentano mai i sommi sacerdoti
giudei nell'esercizio delle loro funzioni cultuali.32 Mettono in rilievo la loro auto-
rità più che il loro sacerdozio; essi sono dei «sommi» più che dei «sacerdoti». Tut-
tavia non era possibile separare completamente i due aspetti, perché i sommi sa-
cerdoti intendevano essere i capi religiosi del popolo di Dio. Ne conseguiva per
i cristiani d'allora una situazione estremamente imbarazzante. I racconti evangeli-
ci, che poco parlano dei sacerdoti giudei e molto dei sommi sacerdoti, finiscono
necessariamente col dare del sacerdozio un'immagine sfavorevole. E tuttavia non
si poteva negare che il sacerdozio costituisse una delle istituzioni fondamentali del-
l'Antico Testamento. Come poteva la Chiesa cristiana pretendere di essere fedele
alla totalità della rivelazione biblica e possederne nel Cristo il compimento defini-
tivo, se essa si trovava in un rapporto negativo di fronte a questa fondamentale
istituzione del popolo di Dio?
29
Per il sommo sacerdote, cf 5,17.21.27-28; 9,1; 24,1; per i sommi sacerdoti cf 5,24; 9,14.21; 25,2.15.
30
At 9,lss; 22,5; 26,10.
31
Mt 23,2; 24,1; 25,2.15.
32
Il solo testo che parla delle funzioni sacerdotali nel tempio di Gerusalemme è quello a cui si è accennato
all'inizio di questo capitolo. Esso mette in scena un sacerdote e non un sommo sacerdote (Lc 1,8-10). Altro-
ve (At 14,11-18) Luca presenta un sacerdote che si appresta a offrire un sacrificio, ma si tratta di un sacer-
dote pagano.
22
CAPITOLO II
LA COMPLESSA REALTÀ
DEL SACERDOZIO ANTICO
1. IL NOME
La parola hiereús, che abbiamo trovato nei vangeli, è stata scelta dai traduttori
greci della Bibbia per tradurre l'ebraico kohén, termine molto frequente nei testi
dell'Antico Testamento. Esso indica personaggi incaricati delle funzioni religio-
se. Lo si usa tanto per i sacerdoti pagani quanto per i sacerdoti israeliti. Il primo
personaggio a cui la Bibbia attribuisce il titolo di kohén è Melchisedek, re di una
città di Palestina al tempo di Abramo; il secondo è un sacerdote egiziano al tempo
di Giuseppe. L'inizio del libro dell'Esodo parla di un sacerdote madianita, di cui
Mosè diviene il genero.2 Soltanto dopo l'uscita dall'Egitto la Bibbia mette in sce-
na sacerdoti israeliti, e questi allora prendono un posto di primo piano, soprattutto
nel Levitico, dove il titolo kohén è ripetuto ben 55 volte in un solo capitolo (Lv 13).
Il termine greco hiereús si collega per la sua origine alla nozione di «sacro»
(hierós). Il sacerdote è l'uomo del sacro. Il significato primitivo della parola ebraica
kohén è meno facile da interpretare. Alcuni la pongono in rapporto con un termine
accadico, kânu, che può prendere il senso di «inchinarsi». Il kohén sarebbe colui
che si inchina davanti alla divinità, colui che adora. Altri invece pensano a una
radice verbale che significa «tenersi ritto» (kun) e vedono nel kohén «colui che sta
alla presenza di Dio», come dice un testo del Deuteronomio (10,8) per la tribù
di Levi, utilizzando, in realtà, un altro verbo. A. Cody critica queste due ipotesi3
1
I lettori desiderosi di approfondire la questione hanno a loro disposizione eccellenti opere, in partico-
lare: R. DE V AUX , Le istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1964; A. C ODY , A History of
Old Testament Priesthood, Roma 1969. Queste due opere offrono una bibliografia del soggetto: R. de Vaux,
pp. 497-543; A. Cody, pp. XVI-XXVII.
2
Melchisedek: Gn 14,18; il sacerdote egiziano: Gn 41,45.50; 46,20; il sacerdote madianita: Es 2,16; 3,1.
3
A. CODY, History, p. 26-29.
23
e propone invece un'etimologia basata su una radice attestata in siriaco e che esprime
l'idea della prosperità. Il kohén, il sacerdote antico, è colui che procura la prospe-
rità: è l'uomo delle «benedizioni». Questa prospettiva assai positiva non manca
di fascino e bisogna riconoscere che è perfettamente biblica.4
4
Cf Nm 6,22-27; Dt 28,3-12.
5
A. CODY, History, p. 29; cf R. DE V AUX , Istituzioni, pp. 345s.
6
Dt 33,1.8.
24
dalle versioni antiche.7 Per conoscere la causa di un insuccesso, Saul interroga
Iahvè e gli dice:
«Se questa iniquità è in me o in Gionata mio figlio, Iahvè, Dio d'Israele, dà gli Urim;
se invece è in Israele tuo popolo, dà i Tummim» (1 Sam 14,41, testo greco).
Parecchie consultazioni simili sono raccontate nella storia di Davide. Perse-
guitato da Saul o alle prese con gli Amaleciti, Davide ricorre al sacerdote Ebiatar
per consultare Iahvè sulla tattica da adottare.8
Il meno che si possa dire è che simile pratica non ci sembra molto ragionevole.
Bisogna ammettere che essa corrisponde a un livello molto primitivo di religiosi-
tà, più vicina alla superstizione che a una vita spirituale autentica. Si avrebbe tut-
tavia torto a provare per essa soltanto disprezzo, perché, tutto ben considerato,
vi si trova l'abbozzo di un atteggiamento spirituale fondamentale: la ricerca della
volontà di Dio. Sottomettendosi alla mediazione del sacerdote per «consultare Iahvè»,
il fedele manifestava un desiderio sincero di «conoscere le vie del Signore» e di
seguirle. Alla base di questo desiderio si può discernere una profonda convinzio-
ne religiosa: si era persuasi che, senza un rapporto positivo con Dio, l'esistenza
umana non poteva trovare il suo giusto orientamento. La modalità della consulta-
zione è un aspetto secondario. Un elemento più significativo è che l'oracolo non
funzionava in modo automatico. La risposta poteva non giungere; è il caso dell'e-
pisodio della storia di Saul. Bisognava allora cercare il motivo di quel silenzio
ed esaminare se ci si trovava nelle disposizioni richieste per ottenere una risposta
di Dio.
La funzione oracolare dei sacerdoti antichi ebbe uno sviluppo, che manifesta
un progresso della coscienza religiosa. La redazione attuale della benedizione da-
ta a Levi ne è testimone. Dopo la frase su gli Urim e i Tummim, vi si scorge un'ag-
giunta posteriore (il testo passa inopinatamente dal singolare al plurale) e la fun-
zione dei sacerdoti non è più quella di tirare a sorte, ma d'insegnare:
«Sì, essi osservarono la tua parola e custodiscono la tua alleanza; insegnano i tuoi decreti
a Giacobbe e la tua legge a Israele» (Dt 33,9b-10).
Questo è un altro modo di manifestare la volontà di Dio e di mettere l'esisten-
za degli uomini in relazione con lui, un modo meno esteriore e più rispettoso della
persona umana. I sacerdoti erano incaricati di trasmettere «l'istruzione» che veni-
va da Dio; essi lo fecero all'inizio occasionalmente in alcuni casi particolari,9 so-
prattutto in materia di culto. In seguito lo fecero in modo più sistematico; l'insie-
me delle istruzioni divine fu affidato a loro: «Essi insegnano... la tua legge a Israele».
Secondo il Deuteronomio, Mosè aveva affidato ai leviti il rotolo della Legge per-
ché essi lo deponessero nell'arca dell'alleanza, e aveva ordinato ai sacerdoti e agli
anziani di «leggere questa Legge alle orecchie di tutto Israele».10 Dopo il ritorno
dall'esilio, una frase di Malachia ricorda che
7
La Bibbia ebraica presenta in questo passo un testo visibilmente incompleto.
8
1 Sam 23,9; 30,7.
9
Cf Ag 2,11-13; Zc 7,3.
10
Dt 31,9-13.26.
25
«le labbra del sacerdote devono custodire la scienza
e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione;
perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2,7).
A questa funzione si ricollega la competenza giuridica riconosciuta ai sacerdo-
ti. Il Deuteronomio afferma che spetta loro sentenziare su ogni contestazione e
su ogni via di fatto. Li si fa intervenire in particolare nei casi difficili da chiarire,
per esempio quando manca qualsiasi testimonio di un delitto grave.11
La loro posizione d'autorità era ancora ammessa al tempo di Cristo, almeno
in una certa misura. Se ne trova la conferma nei testi di Qumrân. In ogni comunità
della setta, lo Scritto di Damasco esige «che non manchi un uomo che sia sacerdo-
te, istruito nel Libro di Meditazione; ai suoi ordini tutti obbediranno».12 Si consi-
dera tuttavia il caso che il sacerdote non sia «esperto in tutte queste materie», e
allora si prevede una soluzione di sostituzione. Infatti nel tempo che seguì l'esilio,
l'insegnamento della Legge aveva cessato di essere il monopolio dei sacerdoti,
e la classe degli scribi e dottori della Legge, aperta ai laici, incominciava a sop-
piantarli in questo campo.13 I sacerdoti limitavano sempre più la loro attività alle
cerimonie del culto all'interno del Tempio.
b) Essi apparivano così in modo più esclusivo come gli uomini del santuario.
Il legame fra sacerdozio e santuario è attestato universalmente. «Il sacerdote è scelto
e stabilito per il servizio di un santuario»,14 e nessun altro è autorizzato ad assu-
mere quest'incarico. Al tempo dell'Esodo,
«Mosè, Aronne e i suoi figli avevano la custodia del santuario invece degli Israeliti; l'e-
straneo che vi si avvicinava sarebbe stato messo a morte» (Nm 3,38).
Quando si fonda un santuario, si consacra un sacerdote per assicurarne il cul-
to. Così fa Mika al tempo dei Giudici, così fanno gli abitanti di Kiriat-Iearim al
tempo di Samuele, così fa Geroboamo dopo la divisione del regno.15
A proposito dei santuari, l'Antico Testamento manifesta un'evoluzione storica
delle più chiare. Agli inizi si ammette senza problema una grande diversità di luo-
ghi santi. Le tradizioni che riguardano Abramo ne richiamano già parecchi: quel-
lo di Sichern, quello di Betel, quello di Bersabea,16 che si troveranno in altre pagi-
ne della Bibbia. Altre tradizioni parlano del santuario di Silo, di quello di Gabaon,
di quello di Dan.17 Dopo aver conquistato Gerusalemme, Davide vi fece traspor-
tare l'arca dell'alleanza, allo scopo di dare alla sua nuova capitale un prestigio
religioso (2 Sam 6). In seguito, durante un'epidemia, volendo ottenere la cessa-
zione del flagello, Davide costruì un altare su un terreno acquistato per questo
scopo (2 Sam 24,18-25). Veniva così costituito un nuovo luogo santo, che si ag-
giungeva a tutti gli altri. Proprio là Salomone edificò il Tempio di Gerusalem-
11
Dt 21,1-9; Nm 5,11-31.
12
CD XII, 2-7; cf 1 QS VI, 3-4; 1 QSa III, 22-25.
13
È l'osservazione di R. DE VAUX, Istituzioni, p. 350.
14
R. DE VAUX, ibid., p. 345.
15
Cf Gdc 17,5-13; 1 Sam 7,1; 1 Re 12,31s.
16
Gn 12,6-8; 13,3s; 21,33.
17
1 Sam 1,3; 2 Sam 21,6; 1 Re 3,4; Gdc 18,31; 1 Re 12,30.
26
me,18 santuario che prese subito una grande importanza perché la sua posizione
nella città del re gli assicurava un ruolo centrale nel culto ufficiale. Con l'andare
del tempo si manifestò la tendenza a rivendicare per esso non solo la preminenza,
ma l'esclusività. I re Ezechia e Giosia presero a cuore in questo senso la riforma
del culto israelitico. Giosia, in particolare, volle eliminare dal suo regno tutti gli
altri santuari: «Fece venire tutti i sacerdoti dalle città di Giuda, profanò le alture,
dove i sacerdoti offrivano incenso» (2 Re 23,8). Un testo del Deuteronomio so-
stiene questo orientamento:
«Ti guarderai bene dall'offrire i tuoi olocausti in qualunque luogo avrai visto; ma offrirai
19
i tuoi olocausti nel luogo che il Signore avrà scelto in una delle tue tribù» (12,13-14).
Così si fece dopo l'esilio. L'unicità del santuario era divenuta una profonda
esigenza del sentimento religioso.20 Era conveniente che il Dio unico avesse un
unico santuario.
c) Nel santuario, i sacerdoti compivano le cerimonie del culto, la più impor-
tante delle quali era il sacrificio. Parlando a Dio dei sacerdoti israeliti, la benedi-
zione di Mosè dichiara a loro riguardo:
«Pongono incenso sotto le tue narici e un sacrificio sul tuo altare» (Dt 33,10).
A questo proposito, si può notare una duplice evoluzione: da una parte, un'ac-
centuazione sempre più marcata del privilegio dei sacerdoti, e dall'altra un'insi-
stenza progressiva sull'aspetto espiatorio dei sacrifici.
Alle origini, il diritto di offrire i sacrifici non era esclusivo dei sacerdoti. Abramo,
che non era sacerdote, presentava a Dio olocausti; Giacobbe consacrava stele, e
lo si vede offrire un sacrificio e invitarvi la parentela.21 Nei tempi dei Giudici,
leggiamo che il padre di Sansone offre un capretto in olocausto (Gdc 13,19). Se-
condo i libri di Samuele e dei Re, Davide e Salomone offrivano sacrifici solenni.22
A poco a poco, tuttavia, l'offerta dei sacrifici fu riservata ai sacerdoti, e un testo
delle Cronache racconta che, per aver osato offrire egli stesso l'incenso sull'altare
dei profumi, il re Ozia era stato punito da Dio.23
Si può considerare il privilegio dei sacerdoti come un caso, fra gli altri, di spe-
cializzazione sociale. È bene tuttavia notare alcune differenze. Ciò che ha portato
a riservare al sacerdote il compito di offrire sacrifici, non è tanto la ricerca di una
organizzazione più vantaggiosa del lavoro, quanto il sentimento della santità di
Dio. Perché un'offerta presentata a Dio abbia qualche probabilità di essere gradi-
ta, è necessario che l'offerente non si trovi in opposizione con la santità divina,
18
19
Cf 1 Cr 22; 2 Cr 3,1.
Cf Dt 12,2-17.
20
Cf Gv 4,20. Al di fuori della Giudea, tuttavia, si conosce l'esistenza di due templi giudei, entrambi
in Egitto: quello di Elefantina, attestato da papiri aramei del V sec. a.C, e quello di Leontopoli, fondato
verso il 160 a.C. e distrutto dai Romani nel 73 d.C. Da parte loro, i Samaritani avevano un tempio sul
monte Garizim. Cf DE VAUX, Istituzioni, pp. 337-341.
21
Gn 22,13; 28,18; 31,54; 35,14.
22
23
2 Sam 6,13.17s; 24,25; 1 Re 3,4.15; 8,5.62-64; 9,25.
2 Cr 26,16-20.
27
ma al contrario sia ricolmo di questa santità, in pieno accordo con essa, in una
parola, consacrato. Poiché il sacerdote è appunto una persona consacrata a Dio
e ammessa a entrare in rapporto con Dio, sembrava molto opportuno offrire i sa-
crifici attraverso lui.
Un altro aspetto dell'evoluzione del culto sacrificale concerne l'importanza ac-
cordata ai sacrifici di espiazione, offerti per ottenere il perdono dei falli commes-
si. Prima dell'esilio, sembra che questi sacrifici non abbiano avuto molto spazio
nella religione israelitica. Qualche autore si domanda perfino se esistessero real-
mente. Si offrivano soprattutto olocausti e sacrifici di comunione. Ma con l'anda-
re del tempo i sacrifici d'espiazione acquistarono maggiore importanza, soprattut-
to quando «grandi calamità nazionali diedero al popolo un senso più vivo della
sua colpevolezza»24 e lo portarono a comprendere meglio l'esigenza di santità che
si impone a ogni servitore di Dio.
d) Incaricato di offrire sacrifici a nome della comunità, il sacerdote doveva
vigilare affinché nessuno partecipasse al culto senza essere in stato di purità ritua-
le. La presenza di un uomo «impuro» non poteva che offendere Dio e provocare
il rifiuto delle offerte. I sacerdoti dovevano dunque
«avvertire gli israeliti di ciò che potrebbe renderli immondi, perché non muoiano per la
loro immondezza quando contaminassero la mia Dimora che è in mezzo a loro» (Lv 15,31).
Questa preoccupazione si manifestava in modo particolarmente vivo a propo-
sito della lebbra, impurità delle più terribili. Appena ne appariva un possibile sin-
tomo, il presunto malato doveva presentarsi al sacerdote, perché esaminasse il male.
Il Levitico dà istruzioni molto particolareggiate a questo proposito (Lv 13). Dopo
un esame minuzioso, spettava al sacerdote pronunciare la diagnosi: secondo il ca-
so, egli dichiarava il paziente «impuro» o «puro» e, di conseguenza, gli interdice-
va o gli permetteva la partecipazione al culto di Iahvè. Se un lebbroso guariva,
spettava evidentemente al sacerdote compiere la costatazione necessaria — alcuni
racconti evangelici manifestano il rispetto di questa regola — e il sacerdote proce-
deva allora alle lunghe cerimonie di «purificazione» (Lv 14). Per altri casi d'impu-
rità rituale, ci si serviva di «acqua lustrale», preparata mescolandovi le ceneri di
una vacca immolata. Anche lì era il sacerdote ad effettuare i riti necessari.25
24
R. DE V AUX , Istituzioni, p. 439.
25
Nm 19,1-10; 31,23; Eb 9,13.
28
Porre su qualcuno il nome di Dio è stabilire una relazione personale fra Dio
e lui. La benedizione non è altra cosa, infatti, che un porre in relazione vivificante
con Dio. Il popolo d'Israele comprendeva che la benedizione divina è la condizio-
ne fondamentale da cui dipende la vera riuscita dell'esistenza. Senza un rapporto
armonioso con Dio, la vita umana non può trovare il suo giusto senso, né raggiun-
gere la sua piena realizzazione. Invece la benedizione divina mette dovunque la
pace e la fecondità, perché il rapporto con Dio è l'elemento più decisivo in ogni
situazione e in ogni realtà.
Quale evoluzione ha conosciuto la benedizione sacerdotale dell'Antico Testa-
mento? Sappiamo che gli Israeliti hanno provato un rispetto sempre più profondo
verso il Nome rivelato, e che il timore di profanarlo ha condotto alla fine all'inter-
dizione di pronunciarlo. Alcuni testi rabbinici testimoniano limitazioni imposte pro-
gressivamente alla benedizione dei sacerdoti. Precisano che, fuori del tempio, i
sacerdoti non erano autorizzati a pronunciare il Nome rivelato, ma dovevano so-
stituirlo con un'altra designazione di Dio;26 e che perfino nelle solenni cerimonie
del tempio il sommo sacerdote evitava di pronunciare il Nome a voce alta: lo mor-
morava appena, lo «inghiottiva». «Rabbi Tarphon diceva: io stavo al mio posto
fra i sacerdoti, miei fratelli; tendevo l'orecchio verso il sommo sacerdote e senti-
co che inghiottiva (il nome) in mezzo ai canti dei sacerdoti».27
Su questo punto come sui precedenti si manifesta una coscienza sempre più
viva della santità di Dio.
26
Cf J. BONSIRVEN, Textes rabbimques, Rome, 1954, n. 225 (a proposito di Nm 6,23).
27
Ivi, nn. 894 e 1583. La Bibbia di Gerusalemme in una nota a Sir 50,20 afferma che «la festa dell'e-
spiazione era l'unica circostanza in cui il nome ineffabile era pronunciato sul popolo, in forma di benedizio-
ne». Questa affermazione non è fondata. Si può d'altronde pensare che il testo stesso di Sir 50,20 non si
riferisca alla festa dell'Espiazione, ma alla liturgia dell'olocausto quotidiano; cf F. Ó FEARGHAIL, «Sir 50,5-21:
Yom kippur or The Daily Whole-Offering», Bib. 59 (1978) 301-316, n. 12.
29
presenza estremamente forte e impressionante, che suscita nell'uomo stupore e ter-
rore ad un tempo, riconoscenza commossa e desiderio di sparire. Fra l'erompere
della vita di Dio e la fragilità della propria esistenza, l'uomo avverte una tremen-
da differenza di qualità e si riconosce indegno di entrare in rapporto con il tre vol-
te Santo.
Una trasformazione radicale è necessaria, e tale trasformazione è concepita come
il passaggio dal livello profano dell'esistenza ordinaria al livello santo o sacro,
che è quello che corrisponde alla relazione con Dio. Per effettuarlo non si fa conto
anzitutto sullo sforzo morale, poiché questo lascia l'uomo nella sua realtà. Si fa
conto su un'azione divina di separazione e di elevazione, per cui la distanza fra
l'uomo e Dio sarà colmata, almeno in una certa misura, e la differenza qualitativa
sarà attenuata. È ciò che si chiama santificazione o consacrazione. Il problema
specifico dell'aspirazione religiosa è il problema della santificazione. Si tratta, in-
fatti, di entrare in comunicazione con Dio. Poiché Dio è santo, per potersi mettere
in rapporto con lui senza danno bisogna trovare un mezzo per essere santificato.
b) A questo problema il culto antico rispondeva proponendo una soluzione ri-
tuale; più precisamente, un sistema di separazioni rituali, il cui punto base era
l'istituzione del sacerdozio.
La moltitudine degli uomini non può certamente pretendere di possedere la santità
richiesta per presentarsi davanti a Dio. «Tutte le nazioni sono come un nulla da-
vanti a lui, come niente e vanità sono da lui ritenute» (Is 40,17). Un popolo è dun-
que «messo a parte»; viene «santificato» per entrare in relazione con Dio.
«Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto
per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6).
A questo popolo Dio promette la dignità sacerdotale:
«Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,6).
L'interpretazione esatta di questa promessa suscita discussioni,28 ma è certo
che essa si riferisce a una posizione privilegiata in rapporto alle altre nazioni. La
prospettiva è quella di un'appartenenza speciale a Dio, privilegio incomparabile:
«Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli» (Es 19,5). Nulla nel testo e nel
contesto richiama un ruolo di mediazione in favore di altri popoli. L'idea di una
mediazione d'Israele in favore delle «nazioni» si trova certamente nella Bibbia,
e ciò sin dal libro della Genesi il quale afferma che la benedizione verrà alle na-
zioni dalla posterità di Abramo (Gn 22,18). Il medesimo tema viene amplificato
dai profeti, che predicono per Israele un'irradiazione universale. Ma il legame fra
questa vocazione d'Israele e il sacerdozio del popolo non viene mai espresso nella
Bibbia. L'unico altro testo, che riprende la promessa sacerdotale dell'Esodo, si
pone nella stessa prospettiva in modo ancora più chiaro: lungi dal dire che Israele
eserciterà il sacerdozio al servizio delle nazioni, sottolinea il contrasto fra la posi-
zione gloriosa degli Israeliti, che saranno chiamati «sacerdoti di Iahvè», «ministri
del nostro Dio», e l'umiliazione degli stranieri, che si vedranno assoggettati e sfruttati
28
Questo punto sarà ripreso più avanti, cap. X, n. 1.
30
da Israele: «Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi, e figli di stranieri saran-
no vostri contadini e vignaioli... Vi godrete i beni delle nazioni, trarrete vanto
dalle loro ricchezze» (Is 61,5-6).
C'è da notare un altro limite di questi due testi: né l'uno né l'altro pretendono
di descrivere una situazione effettiva. Si presentano tutti e due come promesse che
prospettano un avvenire meraviglioso. Secondo l'Esodo, l'attuazione della pro-
messa aveva per condizione l'obbedienza di Israele verso Dio e la sua fedeltà al-
l'alleanza. Ma l'Antico Testamento costata a più riprese che questa condizione
non è mai stata adempiuta (Dt 9,7; Ger 7,25-26). Ne consegue, per logica dedu-
zione, che il sacerdozio promesso al popolo è rimasto, nell'Antico Testamento,
allo stato di ideale mai raggiunto.
Comunque sia, un primo passo almeno è stato compiuto in vista del compi-
mento del progetto divino. Dio «ha separato da tutte le nazioni» il popolo d'Israe-
le, che così si è trovato in obbligo di rispettare tale separazione. Israele non ha
più il diritto di confondersi con i pagani, ed è per questo che riceve tutta una serie
di precetti che costituiscono come una barriera intorno a lui, in particolare le leggi
sugli alimenti puri e impuri. Imponendole, Dio dice: «Santificatevi dunque e siate
santi, perché io sono santo; non contaminate le vostre persone» (Lv 11,44).
Nonostante questa prima santificazione, il popolo d'Israele, nel suo insieme,
non è in grado di affrontare la vicinanza immediata di Dio. Se si fosse avvicinato,
sarebbe stato annientato dal fuoco divorante della santità divina.29 Viene scelta una
tribù, quella di Levi, per essere consacrata più direttamente al servizio del santua-
rio. In questa tribù, una famiglia riceve una particolare consacrazione ed è incari-
cata del sacerdozio.30 I membri di questa famiglia sono separati dal popolo per
essere introdotti nella sfera del sacro e adibiti al culto. Essi saranno sacerdoti. La
loro «santificazione» è descritta nei particolari nella Legge di Mose (Es 29). Essa
si attua per mezzo di cerimonie simboliche: bagno rituale per purificare dai con-
tatti del mondo profano, unzione che impregna di santità, vesti sacre che esprimo-
no l'appartenenza a Dio, sacrifici di espiazione e di consacrazione. La santità ot-
tenuta in questo modo doveva essere poi conservata e preservata mediante l'osser-
vanza di precetti minuziosi: non toccare nulla d'impuro, non avvicinarsi a un ca-
davere, neppure portare lutto, ecc. (Lv 21). I sacerdoti dovevano guardarsi di ri-
cadere nel mondo profano, perché ciò li avrebbe resi inadatti a presentarsi davanti
a Dio.
L'incontro del sacerdote con Dio esige ancora altri riti di separazione. Non
si incontra Dio in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, in qualsiasi modo, ma
solamente in un luogo santo, in momenti determinati e compiendo gesti sacri. Il
luogo santo è il santuario, ambiente separato dallo spazio profano e riservato al
culto. Soltanto i sacerdoti vi hanno l'accesso ed essi stessi non possono penetrare
dovunque nel luogo santo; la parte più santa è loro interdetta; essa non si apre
che a un unico personaggio, il sommo sacerdote, e in un unico giorno, quello del-
l'Espiazione (Lv 16).
29
Cf Es 19,12; 33,3.
30
Cf Nm 3,12; 8,5-22; Es 28,1.
31
Come il luogo santo è separato dallo spazio profano, così i giorni santi sono
separati dai tempi delle occupazioni profane, e i riti liturgici sono separati dalle
attività ordinarie. Fra questi riti, l'abbiamo già detto, il sacrificio occupa un posto
di primo piano. Solo grazie al sacrificio il sommo sacerdote può avvicinarsi a Dio.
Sacrificare una vittima è — lo dice il termine — renderla sacra, «sacrum facere».
Ma perché i sacerdoti hanno bisogno di presentare sacrifici per arrivare fino
a Dio? La ragione è semplice e si situa nella più pura logica della santificazione
rituale. Il sacrificio è necessario come tappa finale della separazione dal mondo
profano. Il sacerdote stesso, infatti, non può attuare completamente nella sua per-
sona questa separazione. Nonostante tutte le cerimonie della sua consacrazione,
egli resta uomo terrestre e non passa nel mondo divino. Gli è necessario perciò
scegliere un altro essere, capace di effettuare il passaggio. Il rituale gli prescrive
di scegliere un animale di una determinata specie, facendo attenzione che sia sen-
za difetti. Questo animale sarà completamente sottratto al mondo profano, perché
sarà immolato e offerto sull'altare del tempio. Consumato dal fuoco sacro dell'al-
tare, salirà verso il cielo trasformandosi in «profumo soave»,31 oppure, altro sim-
bolo, il suo sangue sarà proiettato verso il «propiziatorio» come per essere lancia-
to fino a Dio.32
Il culto antico costituiva dunque un sistema di santificazione basato su una se-
rie di separazioni rituali. Per elevarsi fino al Dio tre volte santo, si edificava una
specie di piramide che, partendo dalla moltitudine delle nazioni e prendendo per
gradini successivi un popolo messo a parte, una tribù scelta, una famiglia privile-
giata, giungeva finalmente a un uomo consacrato, il sacerdote, e, al di sopra di
lui, a un animale offerto in sacrificio.
Dopo questo movimento ascendente di separazioni, si sperava evidentemente
un movimento discendente di benedizioni. Se il sacrificio era degno di Dio, dove-
va essere gradito. Il sacerdote che l'offriva otteneva allora il favore divino e il
popolo, rappresentato dal sacerdote, si trovava in buoni rapporti con Dio.
c) Grazie a questo schema dinamico assai semplice, si chiarisce il funziona-
mento del sacerdozio: diventa possibile porre un certo ordine nelle attribuzioni
dei sacerdoti, la cui molteplicità potrebbe altrimenti sembrare strana. L'elemento
centrale è l'accoglienza favorevole ottenuta presso Dio. Il sacerdote è soprattutto
l'uomo del santuario. Se non è gradito a Dio, è un personaggio inutile. Per ren-
dersi gradito a Dio, egli si sottopone a tutte le prescrizioni rituali che lo separano
dal mondo profano e vigila perché anche il popolo si ponga in stato di purità. Nel-
la serie degli elementi ascendenti che portano all'entrata del sacerdote nel santua-
rio, il ruolo decisivo spetta al sacrificio: esso stabilisce il contatto con Dio. Se
la relazione è stata rotta, la ripara. Negli altri casi l'attualizza nel modo richiesto
dalla situazione concreta, offerta quotidiana o celebrazione festiva, riconoscenza
gioiosa o intercessione supplichevole, ecc.
Le altre funzioni del sacerdote corrispondono al movimento discendente, e si
presentano come le conseguenze benefiche della relazione ottenuta: ammesso alla
31
Cf Gn 8,20s; Lv 1,9.17...
32
Lv 4,6.17; 16,14.15.
32
presenza di Dio, il sacerdote procura al popolo il perdono dei peccati e la fine
delle calamità, riceve i responsi divini che indicano la condotta da tenere per ri-
solvere i problemi dell'esistenza, infine può trasmettere le benedizioni, che assi-
curano a tutti successo, pace e fecondità.
d) E facile costatare che tutto questo insieme risponde a una profonda aspira-
zione: il desiderio di vivere in comunione. A ruolo del sacerdote è di aprire al
popolo la possibilità della comunione con Dio e della comunione con tutti, poiché
l'una non esiste senza l'altra. In altri termini, il sacerdozio si definisce come un'im-
presa di mediazione. Non ci si meraviglia perciò se R. de Vaux insiste su questo
punto, concludendo la sua esposizione sul sacerdozio dell'Antico Testamento.33
A dire il vero, si rende necessario uno sforzo di attenzione per discernere que-
sto aspetto e riconoscerne l'importanza. A prima vista, un altro aspetto impressio-
na di più e si trova, di conseguenza, espresso più direttamente e più frequente-
mente nei testi antichi. Ciò che anzitutto colpisce nel sacerdozio è il privilegio
di avvicinarsi a Dio. L'onore del sacerdote consiste nell'«esercitare il sacerdozio
per Dio» (Es 28,1-4). Gli ornamenti sacri fanno di lui un essere quasi celeste. Le
cerimonie del culto lo trasportano nel mondo divino. Per definire il sacerdote, ci
si ferma quindi spontaneamente al suo ruolo nel culto: il sacerdote è «un uomo
che serve la divinità all'altare».34
Ma così, in realtà, si lascia sfuggire l'elemento più specifico del sacerdozio,
che è l'esercizio della mediazione. La possibilità che il sacerdote possiede di avvi-
cinarsi a Dio non costituisce un privilegio del quale gli sia permesso di godere
egoisticamente; essa fa di lui l'intermediario autorizzato per i rapporti con Dio.
A lui si ricorre per presentare a Dio offerte e domande; egli poi è incaricato di
comunicare al popolo le risposte e le grazie divine. Egli così mette il popolo in
relazione personale con Dio. Nulla di più importante.
L'attenzione ai rapporti fra le persone costituisce, di fatto, l'apporto più carat-
teristico — e più prezioso — della rivelazione biblica. Da questo punto di vista
si può rilevare quanto essa differisca dalla filosofia greca. Per comprendere il mondo,
i primi pensatori greci hanno cercato un principio di spiegazione impersonale. Es-
si si sono interessati agli «elementi» della materia e alle «cause» degli esseri. La
Bibbia non si è impegnata in questa direzione, ma è sempre rimasta attenta alle
persone e alle loro relazioni. In ciò si accorda bene con una corrente importante
del pensiero moderno, che insiste sull'aspetto relazionale della realtà, e, in pri-
missimo luogo, dell'uomo stesso. La psicologia, la psicanalisi, la sociologia, l'et-
nologia, l'antropologia rivelano sempre più chiaramente che le relazioni interper-
sonali sono costitutive dell'essere umano. L'uomo isolato non esiste, perché ogni
individuo diviene persona umana solo grazie a tutto un intreccio di relazioni con
gli altri. La stessa conquista progressiva del mondo esteriore non è possibile che
per mezzo di multiformi rapporti interpersonali.
Nel loro sforzo per situarsi nel giusto posto nel mondo gli uomini sono orien-
33
Istituzioni, p. 352.
34
W.W. VON BAUDISSIN, Die Geschichte des alttestamentlichen Priesterthums, Leipzig, 1889, p. 269;
citato da A. C ODY , History, p. 11.
33
tati a prendere coscienza di una relazione più fondamentale, che si trova alla base
della loro esistenza e le dà tutto il suo slancio. Da essa dipendono tutte le altre
relazioni. La Bibbia non ha altro scopo che di mettere in piena luce questa relazio-
ne primaria e di portarla al suo sbocciare. Si tratta — lo si è capito — della relazio-
ne con Dio. L'uomo è un essere religioso e nulla è più importante nella sua esi-
stenza che l'incontro con Dio. Spesso la ricerca si fa «come a tentoni» (At 17,27)
e può prendere strade molto diverse. Ma quando arriva al termine, l'uomo si ren-
de conto che ha raggiunto la sorgente del suo essere e che, grazie alla sua relazio-
ne con Dio, ha trovato la sua vera dignità.
Questa relazione si distingue da tutte le altre per la sua apertura universale.
Non si può ridurla a un settore particolare dell'esistenza. Essa si presenta come
la base di tutto, e colui che si apre ad essa deve acconsentire ad esserne invaso
completamente, per essere vivificato interamente. Un'esigenza così radicale su-
scita evidentemente resistenze istintive, coscienti o incoscienti, di modo che si pos-
sono osservare schematicamente tre specie di atteggiamenti. Il primo, totalmente
negativo, consiste nel rifiutare assolutamente la prospettiva intravista. Il secondo,
in apparenza positivo, è in realtà un altro genere di rifiuto. Solo il terzo è vera-
mente coerente; esso si caratterizza attraverso l'istituzione del sacerdozio.
Il primo atteggiamento trova la sua espressione — e la sua condanna — nel
salmo 13: «Lo stolto pensa: non c'è Dio» (Sal 13,l).35 Per meglio sfuggire all'esi-
genza profonda della relazione con Dio, si mette dapprima in dubbio l'importanza
di questa relazione: «Iahvè non fa né bene né male» (Sof 1,12), poi si giunge fino
a negare la stessa esistenza di Dio. La dimensione religiosa dell'esistenza umana
si trova così violentemente repressa. Soluzione semplice, ma che si rivela deva-
statrice. Nella sua lettera ai Romani (1,18-32) Paolo descrive con realismo le con-
seguenze disastrose del rifiuto della relazione con Dio. Tutte le altre relazioni del-
l'uomo ne subiscono il contraccolpo; sono falsate e pervertite. La peggiore aliena-
zione per l'uomo consiste nel chiudersi nel suo mondo ristretto. Egli vi soffoca,
e si dibatte allora convulsamente. Per vivere in pienezza, l'uomo deve accettare
francamente la dimensione religiosa del suo essere e lasciare che la relazione con
Dio vivifichi tutte le altre sue relazioni.
Il secondo atteggiamento prende, a prima vista, un orientamento contrario al
primo. Mentre l'umanesimo ateo ha la pretesa di sviluppare tutte le relazioni uma-
ne rifiutando la più fondamentale, l'individualismo religioso — è il secondo atteg-
giamento — ammette espressamente la relazione fondamentale: l'uomo si apre al
rapporto con Dio. Tuttavia concepisce questo rapporto in modo riduttivo. Lo con-
fina nella vita psicologica individuale e non gli permette di interferire con le altre
relazioni. La religione diventa affare privato, segreta intimità fra l'anima e Dio.
Questo genere di orientamento si presenta sotto molteplici forme e si traduce con-
cretamente in molti ambiti. San Giovanni ne stigmatizza una manifestazione parti-
colarmente scandalosa, quella che consiste nel pretendere di amare Dio pur chiu-
dendo il proprio cuore agli altri. Il giudizio dell'apostolo è senza ambiguità: «Se
uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore» (1 Gv 4,20).
Dissociata dalle altre relazioni, la relazione con Dio non può essere autentica, perché
35
Cf Sal 9,4; 35,2.
34
in tal modo è allo stesso tempo accettata e rifiutata. Il suo carattere specifico infat-
ti, l'abbiamo detto, è di essere la relazione fondamentale, quella cioè che costitui-
sce la base di tutte le altre e che deve esercitare su di esse un'influenza decisiva.
Tagliarla dalle altre relazioni, è impedirle di essere se stessa.
Bisogna dunque cercare il mezzo di evitare sia «il dramma dell'umanesimo ateo»
che «la menzogna dell'individualismo religioso». Si tratta di aprire tutta l'esisten-
za degli uomini alla relazione vivificante con Dio, in modo da realizzare piena-
mente la vocazione umana. Tale è il terzo atteggiamento, che trova la sua espres-
sione nell'istituzione del sacerdozio. Chi adotta questa soluzione supera evidente-
mente l'ateismo, poiché il sacerdote è esplicitamente adibito a stabilire un rappor-
to con Dio. Ma supera anche l'individualismo religioso, perché il sacerdozio è
una funzione sociale. Il sacerdote rappresenta la comunità tutt'intera, ed è in no-
me della comunità che egli si mette in relazione con Dio. Le diverse funzioni che
gli attribuisce l'Antico Testamento mostrano bene che il rapporto con Dio è colti-
vato in tutta la sua estensione, come la base di tutta l'esistenza. Ponendo nelle ma-
ni del sacerdote offerte e sacrifici, il popolo riconosce che tutto gli viene da Dio,
che tutto deve ritornare a Dio.36 Chiedendo al sacerdote oracoli e istruzioni, il
popolo riconosce che la luce di Dio gli è necessaria per trovare il giusto cammino
nelle perplessità dell'esistenza, e si dispone a seguire le «vie del Signore». Rice-
vendo la benedizione sacerdotale, si apre all'irradiazione universale della relazio-
ne positiva con Dio e testimonia che nessuna realtà può trovare all'infuori di essa
la sua piena consistenza. E tutto ciò socialmente, costituendosi in comunità.
La mediazione del sacerdote appare perciò come una funzione della più alta
importanza per la realizzazione della vocazione umana.
e) Stadio finale dell'evoluzione dell'antico sacerdozio. In che modo la media-
zione del sacerdote era compresa e vissuta alla fine della lunga evoluzione com-
piutasi nell'Antico Testamento? Nella conclusione della sua opera, A. Cody sot-
tolinea l'attenzione sempre più grande prestata all'esigenza della «santità», «santi-
tà sacrale, rituale — egli precisa —, più che di ordine morale».37 Ne risultava una
più stretta limitazione della relazione con Dio.
Nei primi tempi si era permessa l'esistenza di numerosi santuari nel paese di
Israele e la validità di parecchie stirpi sacerdotali. Alla fine non si riconosceva più
che un solo santuario legittimo, il tempio di Gerusalemme; tutti gli altri erano in
abominio come i templi pagani. La soppressione delle «alture» aveva creato dei pro-
blemi per i sacerdoti che vi assicuravano il culto, ma poco importava: il sacerdozio
era stato unificato e gerarchizzato in funzione del suo rapporto con l'unico santuario.
Nel culto sacrificale, l'aspetto di espiazione, che corrispondeva più direttamente
alla preoccupazione di «santità», aveva preso un posto preponderante. Di tutti i
sacrifici, i più importanti erano quelli che si offrivano nel giorno del Kippur, gior-
no solenne dell'Espiazione. Essi formavano come l'apice delle celebrazioni litur-
giche dell'anno intero. La loro caratteristica era di presentare l'insieme più im-
pressionante di limitazioni e di separazioni rituali, che attestavano l'estrema diffi-
coltà dell'entrare in rapporto con il Dio tre volte santo.
36
Cf Dt 26,9-10.
37
History, p. 191.
35
La cerimonia della Grande Espiazione non aveva luogo che una volta all'anno
ed era l'unica occasione in cui il culto sacerdotale poteva ottenere, in certo modo,
un contatto diretto con Dio. Infatti, la parte più santa del tempio, luogo della pre-
senza divina, non era accessibile che nello svolgersi di quella liturgia. Bisogna
pure aggiungere che, anche in quel giorno, l'accesso ne restava rigorosamente li-
mitato. Una sola persona era qualificata per questo atto pericoloso: il sommo sa-
cerdote. Ed era prescritto che compisse molteplici riti preliminari, come altrettan-
te precauzioni necessarie.38 L'entrata nel Santo dei santi si effettuava portando il
sangue di animali immolati e gettandolo, per aspersione, sul propiziatorio, consi-
derato come il trono di Dio. Così il sacrificio della Grande Espiazione otteneva
il contatto con Dio. Nessun altro sacrificio, lungo tutto l'anno, godeva di questo
privilegio. Mai il sangue di altre vittime era introdotto nel Santo dei santi, né get-
tato sul propiziatorio. La liturgia del Kippur costituiva dunque il punto culminan-
te, unico e decisivo, del sistema sacerdotale antico: luogo sacro, tempo sacro, azione
sacra, tutto vi era precisato all'estremo.
Quest'ultimo stadio dell'evoluzione religiosa dell'Antico Testamento offre lo
spunto per parecchie osservazioni. In primo luogo ci si può meravigliare di tanta
insistenza sulle separazioni quando lo scopo da raggiungere era stabilire una me-
diazione. Ma è sufficiente analizzare la nozione di mediazione per accorgersi che
non vi è incoerenza. Al contrario, la mediazione comporta normalmente un aspet-
to di separazione. Una delle funzioni del mediatore è interporsi fra le due parti
per evitare un contatto diretto le cui conseguenze potrebbero essere nefaste. E co-
sì, per esempio, che Ioab serve da mediatore per Assalonne presso Davide, al mo-
mento in cui Assalonne, figlio colpevole, non può presentarsi personalmente da-
vanti a suo padre senza rischiare una condanna (2 Sam 14). Aver relazioni indiret-
te, ma buone, è certamente meglio che provocare l'irritazione, ostinandosi a vole-
re un contatto diretto non desiderato.
Nel caso del sacerdozio antico, tutta la questione sarà dunque di discernere
se il sistema di separazioni rituali otteneva un risultato positivo, cioè se facilitava
lo stabilirsi di buoni rapporti fra il popolo e Dio. E chiaro che l'esito della media-
zione sacerdotale dipendeva dal valore dell'unico contatto annuale che essa inten-
deva procurare con Dio. Se questo contatto era autentico e positivo, l'impresa era
riuscita bene e il suo successo giustificava tutto il grande apparato che l'aveva re-
sa possibile. Nel caso contrario, bisognava ammettere la sconfitta dell'insieme del
sistema. Non è dunque senza motivo che, per valutare il sacerdozio antico, l'epi-
stola agli Ebrei punta la sua attenzione sulla liturgia del Kippur.
Segnaliamo, infine, un'ulteriore conseguenza storica dell'evoluzione che ab-
biamo ricordato. Poiché il culto sacerdotale dell'Antico Testamento si era legato
in modo esclusivo a un unico santuario, la distruzione di questo santuario nell'an-
no 70 d.C. ha trascinato con sé la soppressione del culto sacerdotale. Dopo questa
data il popolo ebraico non ha più avuto né tempio, né altare, e ha cessato di offrire
i sacrifici prescritti dalla Legge di Mosè. La liturgia sacrificale del Kippur non
è più celebrata; essa è solamente commemorata. La mediazione del sommo sacer-
dote non si esercita più.
38
Lv 16,2.14.
36
CAPITOLO III
IL SACERDOZIO,
QUESTIONE SPINOSA PER I PRIMI CRISTIANI
L'indagine del primo capitolo sulla posizione dei sacerdoti e dei sommi sacer-
doti negli scritti narrativi del Nuovo Testamento ha portato a risultati ambigui:
da una parte, accettazione da parte di Gesù del ruolo rituale dei sacerdoti giudei,
dall'altra, costatazione di ostilità dichiarata dei sommi sacerdoti contro Gesù pri-
ma, contro i suoi discepoli dopo. Ma questa stessa ostilità era suscettibile di pa-
recchie interpretazioni: si doveva attribuirla al sacerdozio dei sommi sacerdoti o
alla loro posizione di autorità? D'altra parte, in qual modo i cristiani dovevano
rispondere a quella situazione di fatto? Come si definivano i loro rapporti con il
sacerdozio? Che cosa arrecava la loro fede in Cristo in questo ambito?
37
già da sé rivelatore dell'influsso allora acquistato da quegli ambienti. Vi si nota
l'importanza accordata alle istituzioni cultuali. Nel libro dell'Esodo, subito dopo
il breve racconto della conclusione dell'Alleanza (Es 24), il redattore sacerdotale
inserisce una lunghissima serie di prescrizioni concernenti il santuario e il sacer-
dozio (Es 25-31). Dopo il peccato d'Israele e il rinnovamento dell'Alleanza (Es
32-34), egli riprende una seconda volta tutto quell'abbondante materiale per rife-
rire nei dettagli l'esecuzione degli ordini dati (Es 35-40). Lo svolgimento si pro-
lunga oltre la fine del libro stesso, perché continua nel Levitico con le leggi sui
sacrifici, sulla purità rituale, sulla santità del sacerdozio, e sulle feste.1 Il libro
dei Numeri, a sua volta, dà un'importanza predominante ai leviti e ai sacerdoti,
e difende con estremo vigore i privilegi di Aronne.2 A dire il vero, fin dalla prima
pagina della Genesi è la tradizione sacerdotale che dà il tono, perché fornisce il
primo racconto della creazione3 e fa da cornice all'insieme del Pentateuco. Così
si manifesta l'autorità che si riconosceva al sacerdozio nei tempi che seguirono
l'esilio.
1
Lv 1-7; 11-16; 21-22; 23.
2
Nm 1,48-53; 3-4; 8; 16-17.
3
Gn l,l-2,4a.
4
Ag 1,1.12.14; 2,1.4.21.23.
5
Ag 1,1.12; Zc 3,1.9; 6,11. La medesima espressione in Ne 3,1.20; 13,28; Gdt 4,6.8.14; 15,8 e Sir 50,1.
6
Istituzioni, pp. 371s, 390s.
38
litico, nella misura in cui esso apparteneva alla nazione giudaica. Facendo l'elo-
gio del sommo sacerdote del suo tempo, il Siracide lo loda non solo per aver re-
staurato il tempio e per aver celebrato magnifiche liturgie, ma anche per aver for-
tificato la città in modo che potesse resistere in caso di assedio (Sir 50,4). Questo
elogio si applica a Simone II, figlio di Onia II, che viveva alla fine del III secolo
a.C. Una trentina di anni più tardi, la persecuzione di Antioco Epifane minacciava
di rovinare la vita religiosa del popolo di Dio; fu allora che una famiglia sacerdo-
tale, quella degli Asmonei, organizzò la resistenza armata e condusse il popolo
alla vittoria. I Giudei ottennero l'autonomia politica e religiosa. In questa epoca,
come si sa, il loro sommo sacerdote ricevette il titolo di archiereús (1 Mac 10,20).
Dei due aspetti che questo titolo esprimeva, quello di autorità (arché) prende-
va un rilievo particolare nelle circostanze di allora. Non si trattava solamente di
autorità nell'ambito del culto e della vita religiosa, ma anche e soprattutto di pote-
re politico e militare. La frase che segue la menzione del nuovo titolo dice chiara-
mente che «Gionata indossò le vesti sacre», ma aggiunge subito che «arruolò sol-
dati e fece preparare molte armi» (1 Mac 10,21). Un po' più avanti, il racconto
riferisce che fu nominato «generale d'armata e governatore». Gionata ebbe per suc-
cessore suo fratello Simone, che riportò nuove vittorie militari e condusse il paese
all'indipendenza: «Nell'anno 170 fu tolto il giogo dei pagani da Israele e il popolo
cominciò a scrivere negli atti pubblici e nei contratti: "Anno primo di Simone
il grande, sommo sacerdote, stratega e capo dei Giudei"» (1 Mac 13,41-42).
La dinastia sacerdotale degli Asmonei si mantenne al potere, attraverso varie
peripezie, fino al tempo di Erode, il cui regno cominciò il 37 a.C. Il potere politico
del sommo sacerdote passò allora in secondo piano, ma non disparve. Perfino quando
l'impero romano fece della Giudea una delle sue province procuratoriali, il sommo
sacerdote continuò a essere la più alta autorità della nazione giudaica. Presiedeva
il sinedrio, al quale i Romani riconoscevano la competenza di un potere regionale.
c) Tale è dunque la situazione che si riflette nei racconti dei vangeli e degli
Atti degli apostoli. Parlando dei sommi sacerdoti, era impossibile allora separare
l'aspetto di autorità religiosa da quello di potere politico: erano congiunti inestri-
cabilmente. Questo amalgama complicava molto per i primi cristiani la questione
dei rapporti fra la loro fede in Cristo e il sacerdozio giudaico. Si era prodotta una
rottura, tragica rottura, che si era infine espressa con la condanna di Gesù e la
sua uccisione. Ma il problema era di discernere le conseguenze che si dovevano
trarre da questa rottura. I cristiani dovevano a loro volta romperla con l'istituzio-
ne sacerdotale? Dovevano introdurre una distinzione fra sacerdozio e autorità po-
litica, oppure rifiutare l'uno e l'altra? Era poi legittimo contestare un'istituzione
così importante nella vita del popolo di Dio? Si poteva dimenticare che, quali che
fossero gli errori dei suoi rappresentanti, questa istituzione era fondata sulla Paro-
la di Dio e garantita da un insieme impressionante di testi biblici?
39
provocate dalla condotta politica dei sommi sacerdoti7 non potevano monopoliz-
zare l'attenzione né condurre a verdetti senza appello. Esse non permettevano di
condannare l'istituzione del sacerdozio, ma dovevano piuttosto servire a ravviva-
re la speranza di un sacerdozio rinnovato, perché tale era la promessa di Dio.
a) I profeti d'Israele non avevano risparmiato critiche ai sacerdoti dei loro tempi
e al culto, troppo spesso formalista, che essi celebravano nel tempio.8 Ma, lungi
dal mettere in questione lo stesso sacerdozio, essi ne avevano proclamato la stabi-
lità perpetua e avevano annunciato, per gli ultimi tempi, il rinnovamento del culto
e del sacerdozio. Un oracolo profetico che si trova tanto in Isaia (2,1-5) quanto
in Michea (4,1-3) prediceva che «negli ultimi giorni» (così traducono i Settanta)
la montagna del Signore e la casa di Dio (cioè il tempio di Gerusalemme) si sareb-
bero innalzati sopra i colli e «i popoli vi affluiranno». Il libro di Ezechiele termina
con una visione grandiosa del tempio futuro, ed egli precisa i compiti e le attribu-
zioni dei sacerdoti. Geremia, che aveva spinto l'audacia fino a predire la distru-
zione del tempio, aveva nondimeno annunciato da parte di Dio che ai sacerdoti
levitici non sarebbero mai mancati i successori per offrire i sacrifici.9 Da parte
sua, il profeta Malachia, che fustiga aspramente la negligenza dei sacerdoti (Ml
2,1-9), non si ferma a questo stadio negativo, ma proclama che il Signore «entrerà
nel suo santuario» e che
«purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Si-
gnore un'oblazione secondo giustizia. Allora l'offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà
gradita al Signore come nei giorni antichi» (Ml 3,3-4).
Già nel primo libro di Samuele, un misterioso «uomo di Dio» aveva fatto in-
tendere una promessa di Dio alla quale era sempre possibile riferirsi:
«Farò sorgere al mio servizio un sacerdote fedele che agirà secondo il mio cuore e il
mio desiderio. Io gli darò una casa stabile e camminerà alla mia presenza, come mio
consacrato per sempre» (1 Sam 2,35).
Poco tempo prima dell'era cristiana, il Siracide richiamava con insistenza che
il sacerdozio di Aronne era garantito da un patto eterno.10
b) Quando si evocava il compimento del disegno di Dio, promesso per gli ulti-
mi tempi, vi si includeva dunque del tutto naturalmente un rinnovamento del sa-
cerdozio. È proprio questo che attestano parecchi scritti giudaici datati agli inizi
dell'era cristiana. Essi mostrano che le aspirazioni dei Giudei al tempo di Gesù
non si concentravano tutte sull'attesa di un Messia regale. Questo fatto era intuito
da molto tempo, ma è divenuto più evidente dopo la scoperta dei manoscritti di
Qumrân.
Infatti, nella regola della Comunità un testo si riferisce in modo esplicito alla
7
Queste delusioni hanno dato luogo a virulente polemiche, di cui il 2 Mac e i manoscritti di Qumrân
trasmettono gli echi.
s
Cf Os 5,1; 8,13; Am 5,21-25; Is 1,10-16; Ger 2,8; Ml 2,1-9.
9
Cf Ez 40-44; sui leviti e i sacerdoti 44,10-31; Ger 7,12-14; 33,18.
10
Sir 45,7.15.24s.
40
venuta di tre personaggi e non di uno solo. La Regola evoca «la venuta del profeta
e dei Messia di Aronne e di Israele». 11 Non è difficile trovare su che cosa si fonda-
va l'attesa di questi tre personaggi. Un passo del Deuteronomio prometteva che
Dio avrebbe suscitato, in mezzo ai figli di Israele, un profeta simile a Mose (Dt
18,18). Questa promessa era evidentemente suscettibile di parecchi livelli d'inter-
pretazione, come tante altre promesse divine. Si poteva vederne la realizzazione
lungo i secoli successivi, nella persona di grandi profeti come Elia, Eliseo, ecc.
Bisogna notare, tuttavia, che il redattore finale del Deuteronomio, che viveva do-
po Elia ed Eliseo, non era di questo parere, perché osserva concludendo il libro:
«Non è più sorto in Israele un profeta come Mose» (Dt 34,10).
La piena realizzazione della promessa espressa in Dt 18,18 era dunque ancora
da attendere. La stessa posizione si teneva a Qumrân, come d'altra parte a Geru-
salemme, secondo la testimonianza del IV vangelo (Gv 1,21).
Oltre il profeta, il testo della Regola evoca altri due personaggi, che vengono
designati con il nome di «messia» (in ebraico meshihé, plurale di mashiah davanti
a complemento). È vero che si può discutere questa traduzione, facendo notare
che la parola ebraica mashiah aveva un'apertura semantica più larga che il suo
derivato italiano messia. Il suo senso immediato, «unto», era percepito. Il termine
poteva dunque essere applicato bene sia a un sommo sacerdote giudeo che a un
re d'Israele, perché in un caso e nell'altro l'entrata in carica comportava una ceri-
monia d'unzione. Tuttavia, nel testo che ci interessa, i due «unti» di cui si tratta
erano personaggi attesi per gli ultimi tempi e ciò giustifica la traduzione con mes-
sia. Con piena evidenza, «l'unto di Israele» è qui il messia regale, la cui attesa
si fondava sull'oracolo rivolto dal profeta Natan al re Davide, così come su tutta
una serie di altri testi.12 «L'unto di Aronne» si presenta parallelamente come l'ere-
de supremo dell'istituzione sacerdotale. L'attesa della sua venuta si fondava sui
testi biblici che sono già stati citati, e sulla coscienza, assai viva a Qumrân, del-
l'importanza del sacerdozio.
Si può infatti osservare che nell'espressione della Regola non è il messia rega-
le che vien posto in primo luogo, ma l'unto di Aronne, il messia sacerdotale. Que-
st'ordine corrisponde all'ordine di precedenza nella setta. Alcune righe preceden-
ti nel testo della Regola prescrivono:
«In fatto di giudizio e di beni, comanderanno soltanto i figli di Aronne: dal loro parere
dipenderà la sorte per tutti gli uomini della comunità».13
Un altro documento, di cui abbiamo solo una parte, applica gli stessi principi
ai tempi messianici, «quando Dio avrà fatto nascere il messia in mezzo a loro».
Esso dà la preminenza al Sacerdote. È lui che per primo dovrà entrare, come «ca-
po di tutta l'Assemblea d'Israele», seguito dai capi dei sacerdoti. Poi entrerà il
Messia d'Israele.
11
1 QS IX, 10-11.
12
13
2 Sam 7,12-16; Is 11,1-9; Ger 33,15...
1 QS IX, 7 (I manoscritti di Qumrân, a cura di L. Moratti, UTET, Torino 1971, p. 162).
41
A tavola «nessuno stenderà la mano sulle primizie del pane e del vino dolce prima del
Sacerdote, perché è lui che benedirà le primizie del pane e del vino dolce e stenderà per
primo la sua mano sul pane. Poi, il Messia d'Israele stenderà le sue mani sul pane» (1
QSa II, 18-21, Moraldi p. 191).
Nel «Documento di Damasco», che proviene dalla stessa setta ma è stato sco-
perto in Egitto alla fine del sec. XIX, la prospettiva cambia. Il termine «messia»
non vi è più usato al plurale, ma al singolare, conservando però la duplice qualifi-
cazione espressa nei manoscritti di Qumrân. Il documento evoca a più riprese la
sperata venuta «del messia di Aronne e d'Israele».14 Annuncia che gli empi «sa-
ranno consegnati alla spada, quando verrà il messia di Aronne e d'Israele».15 Sembra
che in una certa epoca o in certe comunità l'attesa messianica si sia concentrata
su un unico personaggio, che doveva ricevere allo stesso tempo l'unzione sacer-
dotale e la regalità sacra.
Altri scritti, che non appartengono a Qumrân, attestano analoghe tradizioni.
È il caso specialmente dei «Testamenti dei dodici patriarchi», libro apocrifo che
utilizza testi di origine giudaica, in particolare un Testamento di Levi, scritto in
aramaico, di cui si son trovati due brani a II Cairo e qualche frammento a Qum-
rân. L'opera che abbiamo al completo è un adattamento greco; esiste anche una
versione armena.16 La sua prima redazione forse data dall'inizio del I secolo a.C.,
ma il testo che ci è pervenuto comporta delle aggiunte che sembrano essere inter-
polazioni cristiane. Comunque sia di questo punto controverso, i passi che ci inte-
ressano non provengono sicuramente da redattori cristiani, perché il messianismo
che essi esprimono si scosta dalle prospettive cristiane. Infatti, essi non danno la
preferenza alla tribù di Giuda, ma a quella di Levi.
Fin dal primo Testamento, che è quello di Ruben, primogenito dei figli di Gia-
cobbe, la priorità di Levi è affermata:
«A Levi il Signore ha dato il principato, e a Giuda» (Test. Ruben, VI, 7).
Ruben ordina ai suoi figli di ascoltare Levi,
«perché egli sacrificherà per tutto Israele fino al compimento dei tempi d'un sommo sa-
cerdote unto di cui il Signore ha parlato» (Test. Ruben, VI, 8).
Invece che con «sommo sacerdote unto» l'espressione greca si può tradurre con
«messia sommo sacerdote», o anche «Cristo sommo sacerdote», perché essa com-
porta la parola christos.
Il secondo Testamento, quello di Simeone, ingiunge di obbedire a Levi e a Giuda,
e continua:
14
CD XII, 23; XIX, 10; XX, 1.
15
CD XIX, 10.
16
I particolari del testo sono spesso incerti, perché i manoscritti presentano un gran numero di varianti;
cf l'edizione critica di R. H. CHARLES, The Greek Version ofthe Testaments ofthe Twelve Patriarchs, Ox-
ford, 1908; Darmstadt, 1966; e quella più recente di M. DE JONGE, The Testaments of the Twelve Patriarchs.
A Critical Edition of the Greek Text, Leyde, 1978. L'attesa di un «sacerdote-salvatore» è stata studiata spe-
cialmente da A. HULTGARD, L'Eschatologie des Testaments des Douze Patriarches, t. I, Interpretation des
textes, Uppsala, 1977, pp. 268-381. Si veda anche P. GRELOT, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Bor-
ia, Roma 1981, pp. 76-85.
42
«Non sollevatevi contro queste due tribù, perché da esse giungerà per voi la salvezza
di Dio. Perché il Signore susciterà da Levi un sommo sacerdote e da Giuda un re, Dio
e uomo, che salverà tutte le nazioni e la stirpe d'Israele» (Test. Simeone, VII, 1-2).
Nella precisazione a proposito del re uscito da Giuda, «Dio e uomo», si ricono-
sce un'aggiunta cristiana, ma il posto dato a Levi nel testo riflette una tradizione
anteriore.
Il Testamento di Levi è più esplicito ancora. Descrive la storia del sacerdozio
israelita e annuncia che alla fine, dopo innumerevoli abusi,
«il sacerdozio sparirà, e allora il Signore susciterà un nuovo sacerdote, al quale tutte le
parole di Dio saranno rivelate ed egli effettuerà un giudizio di verità sulla terra per una
moltitudine di giorni. E la sua stella si innalzerà nel cielo, come un re...» (Test. Levi,
XVIII, 1-3).
3. APPARENTE ASSENZA
DELLA DIMENSIONE SACERDOTALE IN GESÙ
Si poteva scoprire nella persona e nell'opera di Gesù una dimensione sacerdo-
tale? La domanda era delicata, perché poteva mettere in difficoltà la Chiesa. A
prima vista, infatti, la risposta rischiava seriamente di dover essere negativa e di
palesare una falla nel compimento cristiano. Abbiamo costatato, nel capitolo I,
che fra il sacerdozio giudaico e Gesù i rapporti non erano stati armoniosi. Bisogna
adesso completare questa ricerca esaminando più da vicino la posizione di Gesù
stesso.
a) La persona di Gesù aveva provocato molto stupore nel corso della sua vita
pubblica, e a suo riguardo si erano fatte molte domande. Chi era quell'uomo? In
43
quale categoria si poteva collocarlo? I vangeli presentano l'eco delle perplessità
di tutti e riportano le opinioni più diverse: Gesù eletto da Dio o ministro di Satana,
maestro di saggezza o seduttore pericoloso, Figlio di Davide o antico profeta ri-
tornato sulla terra, ecc. È significativo che fra tante ipotesi diverse non si trovi
mai espressa l'idea del sacerdozio. Sembra che nessuno si sia mai chiesto se Gesù
non fosse il sacerdote degli ultimi tempi, venuto per offrire a Dio il culto perfetto.
Che non si sia posto questo interrogativo può sembrare strano, ma è sufficiente
ricordare la concezione che si aveva allora del sacerdozio per trovarne la spiega-
zione. Era evidente per tutti che Gesù non era un sacerdote giudeo. Si sapeva che
non apparteneva a una famiglia sacerdotale e quindi non aveva alcun diritto a fun-
gere da sacerdote. Il sacerdozio era stato dato da Dio «ad Aronne e ai suoi figli».
Dio stesso aveva escluso gli altri pretendenti.17 Il comando della Legge era a que-
sto proposito di un'estrema severità: «Tu stabilirai Aronne e i suoi figli perché
custodiscano le funzioni del loro sacerdozio; l'estraneo, che vi si accosterà, sarà
messo a morte».18 Così si manifestava la «santità» del sacerdozio: una separazione
invalicabile era mantenuta fra le famiglie sacerdotali e le altre.
Gesù apparteneva, per nascita, alla tribù di Giuda, perciò non era sacerdote
secondo la Legge. Nessuno ebbe l'idea di attribuire a lui quel titolo, ed egli stesso
non manifestò mai la minima pretesa a questo riguardo.
b) La sua attività non aveva nulla di sacerdotale nel senso antico della parola,
ma lo situava piuttosto nella linea dei profeti. Egli si era messo a proclamare la
parola di Dio, come facevano un tempo i profeti, e ad annunciare la vicina instau-
razione del regno di Dio. Talvolta si esprimeva mediante azioni simboliche (Mt
21,18-22), imitando in ciò Geremia, Ezechiele e altri profeti.19 I suoi miracoli fa-
cevano pensare ai tempi di Eliseo: moltiplicazione dei pani, risurrezione del figlio
di una vedova, guarigione di lebbrosi.20 In un racconto di Luca, Gesù stesso invita
a fare l'accostamento; parecchie volte si pone implicitamente nel numero dei
profeti.21 Di fatto, molta gente riconosceva in lui un profeta, anzi, un grande pro-
feto, «il» profeta atteso.22 Dopo la risurrezione, l'apostolo Pietro proclama che Gesù
è il profeta simile a Mosè, promesso da Dio nel Deuteronomio.23
I profeti d'Israele, lo si sa, prendevano spesso le distanze dal sacerdozio. Essi
criticavano in modo violento il formalismo che corrompeva il culto rituale ed esi-
gevano, al contrario, una vera docilità a Dio nella realtà dell'esistenza. La predi-
cazione di Gesù prende il medesimo orientamento. I vangeli attestano che egli con-
dusse un'azione sistematica, non contro la persona dei sacerdoti, ma contro una
concezione rituale della religione. Rifiutando risolutamente di dare importanza al-
le regole della «purità» esteriore, non esitando ad anteporre la guarigione dei ma-
lati all'osservanza del sabato, Gesù respingeva il modo antico di intendere la san-
17
Cf Es 28,1; Lv 8,2; Nm 16-17; Sir 45,15.25.
18
Nm 3,10; cf 3.38.
19
C f. 1 Re 22,11; Ger 19,10; Ez 4,1-3.
20
Cf Mt 14,13-21 e 2 Re 4,42-44; Lc 7,11-17 e 1 Re 17,17-24; Mt 8,1-4 e 2 Re 5.
21
Cf Lc 4,24-27; Mt 13,57; Lc 13.33.
22
Lc 7,16.39; Mt 21,11.46; Gv 4,19; 6,14; 7,40; 9,17.
23
At 3,22, che cita Dt 18,18.
44
tificazione.24 Egli era contrario al sistema di separazione rituale, che culminava
nell'offerta sacerdotale delle vittime immolate, e sceglieva l'orientamento inver-
so: proponeva una santificazione, conseguita non separandosi dagli altri, ma ac-
cogliendoli. La parola thysia, che indica i sacrifici rituali e ritorna molto spesso
(circa 400 volte) nell'Antico Testamento, non si trova che due volte sulle labbra
di Gesù nei vangeli, ed entrambe le volte è per richiamare che Dio non ama questo
genere di culto.25 In Marco, thysía si legge una sola volta, in una frase pronuncia-
ta da uno scriba e approvata da Gesù, e la prospettiva è la stessa: l'amore di Dio
e del prossimo «vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».26 Senza usare la parola
thysía, un'altra parola di Gesù va nello stesso senso: essa prescrive di anteporre
la riconciliazione con un fratello all'offerta di un dono all'altare del tempio.27
I vangeli riportano d'altra parte un intervento vigoroso di Gesù all'interno del
tempio.28 Scagliandosi contro i venditori d'animali per l'immolazione Gesù attac-
ca tutta l'organizzazione del culto sacrificale. Giovanni precisa che Gesù «cacciò
dal tempio le pecore e i buoi», cioè gli animali che venivano offerti in sacrificio.
Marco osserva che i sommi sacerdoti presero assai male la cosa, e non è difficile
comprenderli.
Si può avvertire un rapporto tra questa iniziativa di Gesù e la profezia di Mala-
chia: «Subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate... Egli è come il
fuoco del fonditore... purificherà i figli di Levi...». Si vede realizzarsi la parte
negativa dell'oracolo, ma nulla indica come si realizzerà la parte positiva, quella
che annuncia lo stabilirsi di un culto gradito a Dio.29
c) Le speranze messianiche suscitate dalla persona e dall'attività di Gesù non
presero quindi un colore sacerdotale, ma si orientarono piuttosto nel senso del mes-
sianismo regale. Gli interrogativi e le discussioni sull'identità di Gesù si concen-
travano in definitiva attorno a questo punto: era proprio lui il Messia, figlio e suc-
cessore di Davide,30 il cui regno era stato annunciato da tutta una serie di profe-
zie? È la domanda posta a Gesù nell'interrogatorio davanti al sinedrio. Nella sua
risposta, Gesù si riferisce a un testo che appartiene alla tradizione davidica.31 Do-
po la risurrezione, un discorso di Pietro cita lo stesso testo e proclama che Dio
ha stabilito Gesù come «Signore e Messia».32 Tale è la prima espressione della
fede cristiana.
24
Cf Mt 9,10-13 par.; 12,1-13 par.; 15,1-20 par.; Gv 5,16-18; 9,16.
25
Mt 9,13; 12,7; le due volte cita Os 6,6.
26
Mc 12,33. Oltre questi tre casi (Mt 9,13; 12,7; Mc 12,33) thysía si trova solo altre due volte nei
vangeli: Lc 2,24; 13,1; nessuna in Gv.
27
Mt 5,23s. In greco, la parola «altare» (thysiastérion) apparentata a «sacrificio» (thysía) è pure assai
frequente nell'AT (circa 400 volte), e rara nei vangeli: 8 volte. Oltre che in Mt 5,23s, la si trova in Mt
23,18-20, — quando Gesù critica la casistica degli scribi e dei farisei —, in Mt 23,25, e in Lc 1,11 dove
serve per precisare un luogo.
28
Mt 21,12s par.; Gv 2,14-16.
29
Ml 3,1-4.
30
Mt 12,23; Mc 8,29; Gv 7,26.41; 12.34.
31
Mc 14,61 par.; cf Sal 109,1.
32
At 2,34-36.
45
d) Bisogna dunque riconoscere che né la persona di Gesù né la sua attività ave-
vano corrisposto a ciò che si attendeva allora da un sacerdote. Ma la situazione
non era forse cambiata con la sua morte? Saremmo portati a rispondere affermati-
vamente, perché abbiamo imparato a considerare la morte di Gesù come un sacri-
ficio, cioè come un'offerta sacerdotale. In realtà il problema è meno semplice di
quanto pare. Non era possibile dargli subito una risposta positiva. Dal punto di
vista del culto antico, la morte di Gesù non aveva minimamente l'apparenza di
un'offerta sacerdotale. Era piuttosto tutto il contrario di un sacrificio. Il sacrifi-
cio, infatti, non consisteva nel mettere a morte un essere vivente, ancor meno nel-
le sue sofferenze, ma in riti d'offerta compiuti dal sacerdote nel luogo santo. La
legge giudaica distingueva accuratamente macello e sacrificio rituale (Dt 12,13-16).
Ora, la morte di Gesù era avvenuta fuori dalla città santa. Non era stata accompa-
gnata da riti liturgici. Si era presentata come una pena legale, l'esecuzione di una
condanna a morte.
Fra l'esecuzione di un condannato e l'offerta di un sacrificio gli Israeliti —
e quindi anche i primi cristiani — avvertivano una completa opposizione. I riti
facevano del sacrificio un atto solenne glorificante, che univa a Dio e otteneva
le benedizioni divine. Offerta durante le cerimonie religiose, la vittima era elevata
simbolicamente verso Dio. Una pena legale, invece, era un atto giuridico e non
rituale, che nulla aveva di glorificante, anzi, copriva d'infamia il condannato. Lungi
dall'unire a Dio e attirare le sue benedizioni, costituiva una maledizione.33 Sem-
brava dunque che l'avvenimento del Calvario non facesse che aumentare la di-
stanza fra Gesù e il sacerdozio.
e) In queste condizioni, non ci si può meravigliare se costatiamo che la predi-
cazione cristiana primitiva non parlava di sacerdozio a proposito di Gesù. Nella
sua persona, nel suo ministero o nella sua morte, i primi cristiani non trovavano
alcun rapporto stretto fra lui e l'istituzione sacerdotale come essi la conoscevano.
Per indicare la persona di Gesù e definire la sua opera, essi quindi ricorsero
dapprima a un vocabolario messianico ed esistenziale. Gesù è il Messia, figlio di
Davide e figlio di Dio. «Egli è morto per noi» (1 Ts 5,10). Morire per qualcuno
non è un «sacrificio» nel senso rituale del termine, ma un atto di dedizione estre-
ma. Anche se si precisa, con la professione di fede di 1 Cor 15,3, che «Cristo
è morto per i nostri peccati», non si ottiene una formulazione sacerdotale. L'Anti-
co Testamento non dice mai che una vittima offerta in sacrificio «sia morta per
i peccati». La stupenda affermazione di san Paolo sul «Figlio di Dio, che mi ha
33
Cf Dt 21,22s. Tuttavia il libro della Sapienza abbozza un confronto fra il risultato delle pene subite
dai giusti e l'esito di un sacrificio rituale, prendendo come termine mediatore l'idea di prova purificatrice.
I giusti «agli occhi degli stolti parve che morissero» (3,2), «agli occhi degli uomini sono stati sottoposti a
una punizione» (3,4); in realtà «a) Dio li ha sottomessi alla prova e b) li ha trovati degni di sé; a') come
l'oro nel crogiuolo, egli li ha saggiati e b') li ha graditi come un sacrificio d'olocausto» (3,5). Le pene legali
subite dai martiri giudei durante la persecuzione di Antioco (167-164 a.C.) sono presentate in 2 Mac 7,32-38
come una espiazione che prepara la riconciliazione del popolo con Dio, ma il vocabolario utilizzato non
è sacrificale (cf anche 4 Mac 6,28s; 17,17-22). D'altra parte si nota un'enorme differenza, dal punto di
vista giudaico, fra quei martiri e Gesù. Essi erano stati condannati a morte da pagani a causa della loro
fedeltà alla Legge di Mosè; Gesù, invece, era stato condannato dalle autorità giudaiche per aver trasgredito
la Legge sul punto più grave (cf Gv 19,7; 5,18; Mt 27,65s; Mc 14,64).
46
amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20) non comporta la più piccola allusione
sacrificale; essa esprime il dono esistenziale di una persona in favore di un'altra.
È anche il caso del passo del vangelo che dichiara che il Figlio dell'uomo «non
è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti».34
La stessa osservazione vale ancora per il vocabolario di liberazione o di salvezza,
di riscatto o di redenzione, usato nel Nuovo Testamento per indicare l'opera di
Cristo.
Poiché non si pensava di utilizzare per Cristo il vocabolario sacrificale e sacer-
dotale, era naturale che meno ancora vi si pensasse per i suoi discepoli. Nessuna
delle funzioni esercitate nelle comunità cristiane corrispondeva alle attività speci-
fiche dei sacerdoti giudei. I dirigenti cristiani non presero perciò il titolo di kohén
o di hiereús. Essi ricevettero nomi che esprimevano l'idea di missione, o quella
di servizio, o una posizione di responsabilità e di autorità, come quelli di apósto-
los, in italiano «apostolo», che significa «inviato»; diákonos, «diacono», che signi-
fica «servitore»; epískopos, da cui viene «vescovo», e che significa «ispettore»;
presbýteros,35 da cui viene «presbitero» o «prete» e che significa «anziano»; hegú-
menos, che significa «dirigente».
4. ALCUNI CONTATTI
34
Mt 20,28; Mc 10,45.
35
Sull'evoluzione del senso di presbýteros, cf cap. X, 6.
36
Mt 24,ls e par.
47
tempo in cui è stata «visitata»; in altri termini, essa non ha accolto come doveva
la persona e la predicazione di Gesù.37 Viene dunque affermato uno stretto legame
fra la sorte riservata a Gesù e la distruzione del Tempio. Lo stesso tema riappare
con insistenza nel racconto della Passione. Durante la comparizione di Gesù da-
vanti al sinedrio, la sola accusa che sia precisata contro di lui è di aver progettato
la distruzione del santuario. «Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò
questo santuario (naós) fatto da mani di uomo».38 L'accusa è presentata dagli evan-
gelisti come una «falsa testimonianza» e, di fatto, non si trova in nessun luogo che
Gesù abbia detto: «Io distruggerò...»; ma sotto la falsa testimonianza è facile rico-
noscere l'espressione di una indicazione esatta che viene evocata di nuovo in altri
due momenti del racconto39 e comporta un duplice aspetto, negativo e positivo.
Non si trattava soltanto di distruzione, ma anche e soprattutto di nuova costru-
zione: «in tre giorni» Gesù costruirà «un altro santuario, non fatto da mano d'uo-
mo». L'allusione alla risurrezione è trasparente. La distruzione dell'antico santua-
rio mette evidentemente fine al sacerdozio giudaico, perché il santuario era l'edi-
ficio nel quale i sacerdoti e il sommo sacerdote giudei praticavano il culto rituale,
prescritto dalla Legge di Mosè. La costruzione di un nuovo santuario è normal-
mente legata alla costituzione di un nuovo sacerdozio. Ma i sinottici non esprimo-
no questa conseguenza; si accontentano di rilevare fortemente il legame fra il san-
tuario e il mistero di Gesù. Da parte sua, Giovanni attesta lo stesso legame citando
una parola di Gesù sul santuario:
«Distruggete questo santuario e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19),
e precisando che quella parola riguardava «il santuario del suo corpo» (2,21). Nel
seguito del IV vangelo il tema del nuovo Tempio e del nuovo culto ritorna più
di una volta, sotto gli aspetti più vari.40 Tutto ciò si accorda perfettamente con
la tradizione del messianismo regale: la missione principale del Figlio di Davide
era di costruire la casa di Dio.41
b) Un'altra tradizione evangelica va più lontano. Essa suggerisce un rapporto
fra la morte di Gesù e un rito sacrificale. Si tratta del racconto della Cena, che
è stato trasmesso sia da san Paolo che dai tre sinottici.42 Anche in essi, i gesti di
Gesù che benedice Dio per il pane e per il vino, spezza il pane e fa passare la
coppa, non costituiscono un sacrificio rituale, ma appartengono allo svolgimento
normale di un convito. Anche il nuovo valore che Gesù conferisce a questi gesti
tradizionali non è necessariamente sacrificale. Offrire il proprio corpo, versare
il proprio sangue per salvare altre persone non è un sacrificio rituale, ma un atto
di donazione eroica.
Nelle parole di Gesù, tuttavia, un'espressione racchiude un senso sacrificale
innegabile, perché unisce la parola «sangue» alla parola «alleanza». L'accostamento
37
Lc 19,41-44; cf 1,68.78; 7,16.
38
Mc 14,58: cf Mt 26,61; At 6,14.
39
Mc 15,29.37-39; Mt 27,40.51-54.
40
Gv 4,20-24; 7,37-39; 11,48; 14,1-3; 17,24.
41
2 Sam 7,13; 1 Re 5,19; 8,13.19; 1 Cr 17,13, ecc.; Sap 9,8.
42
1 Cor 11,23-25; Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,19s.
48
si impone con la parola pronunciata da Mosè al momento del sacrificio effettuato
sul Sinai per sigillare l'alleanza fra il popolo israelita e Iahvè: «Ecco — disse Mo-
sè — il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi...» (Es 24,8). Il
rapporto è particolarmente evidente nella formulazione di Matteo e di Marco, do-
ve l'espressione «sangue dell'alleanza» è ripresa alla lettera, con la sola aggiunta
di un pronome possessivo per precisarla: «Questo è il mio (sangue) il sangue del-
l'alleanza...». Ma il rapporto è visibile anche nella formulazione di Luca e di Paolo
che dicono: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Si può inoltre
osservare che la data dell'avvenimento facilitava l'accostamento con la storia del-
l'Esodo: la passione di Gesù si è compiuta nel tempo della festa di Pasqua.43 Oltre
che al sacrificio di alleanza, si poteva pensare all'immolazione dell'agnello
pasquale.44
All'aspetto di sacrificio di alleanza il primo vangelo aggiunge quello di sacrifi-
cio di espiazione: il sangue di Gesù è un sangue «versato per molti, in remissione
dei peccati» (Mt 26,28). Senza appartenere testualmente al rituale dell'Antico Te-
stamento, l'espressione «in remissione dei peccati» è vicina alla frase che conclu-
de nel Levitico (4,20) la descrizione del sacrificio offerto per il peccato di tutta
la comunità d'Israele: «Il sacerdote farà il rito espiatorio per essi e il peccato loro
sarà rimesso». La stessa frase si ritrova per sacrifici individuali e, un po' modifi-
cata, è ripetuta come un ritornello.45
Molti esegeti credono di poter discernere un'attestazione supplementare del ca-
rattere sacrificale della morte di Gesù nelle parole «per molti» («il sangue... versa-
to per molti») ove essi vedono un'allusione alla profezia di Isaia sul Servo di Iah-
vè. Del Servo è scritto che «giustificherà molti» uomini e che «ha portato il pecca-
to di molti» (53,11-12). D'altra parte, secondo un'interpretazione corrente di un
versetto precedente, la profezia prevede che il Servo offrirà la sua vita in sacrifi-
cio: «Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza» (53,10). Su
questo versetto si basa l'interpretazione sacrificale di cui parliamo.46 In realtà, si
è lontani dalla certezza a questo proposito, perché il dubbio sussiste sul tenore
esatto della frase di Isaia. Né il testo ebraico, né la traduzione dei Settanta dicono:
«Quando offrirà se stesso...».
La formulazione delle versioni moderne è, su questo punto, quella della
Volgata.47 Non la si trova mai citata nel Nuovo Testamento. Gli altri passi della
stessa profezia che il Nuovo Testamento applica a Cristo non hanno, propriamen-
te parlando, un senso «sacrificale». Il versetto 7, in particolare, che si ritrova in
At 8,32, parla di macello e non di sacrificio; il parallelismo che questo testo espri-
me fra la tosatura delle pecore e il loro sgozzamento dimostra chiaramente che
l'autore non ha davanti a sé l'idea del culto sacrificale. Tutto ben considerato, non
43
Cf Mt 26,2.17-19; Mc 14,1.12-16; Lc 22,1.7-13.15; Gv 18,28.39; 19,14.
44
Cf 1 Cor 5,7.
45
Lv 5,6.10.13.16.18; 6,6; 19,22.
46
Cf A. F EUILLET , Le sacerdoce du Christ et de ses ministres, Ed. de Paris, 1972, pp. 22-23, 70-74.
47
In ebraico, il verbo è al femminile 3a persona singolare o — la forma è la stessa — al maschile 2ª
persona singolare; nei Settanta è alla 2a persona plurale. L'ebraico si traduce: «Se la sua anima offre un
sacrificio di riparazione, egli vedrà una posterità»; oppure: «Se tu fai della sua vita un sacrificio di riparazio-
ne, egli vedrà una posterità...», e il greco: «Se voi offrite per il peccato, la vostra anima vedrà una posterità...».
49
si può perciò dire che la tradizione evangelica stabilisca molti rapporti fra il mi-
stero di Gesù e il culto sacerdotale propriamente detto. È chiaro che la tendenza
non è di insistere su questa prospettiva.
c) Parecchi esegeti si sono sforzati tuttavia di moltiplicare i rapporti, cercando
nei testi tutti i punti di contatto possibili. G. Friedrich48 vede un'allusione al sa-
cerdozio nell'appellativo «il Santo di Dio» applicato a Gesù in Mc 1,24 e in Gv
6,69; egli pensa che il battesimo di Gesù e i titoli di Figlio di Dio e di Cristo siano
in rapporto con il sacerdozio; scorge manifestazioni di potere sacerdotale nelle
espulsioni di demoni effettuate da Gesù, nelle guarigioni di lebbrosi, nella benedi-
zione dei bambini e nel perdono accordato ai peccatori. Da parte sua, A. Feuillet
pensa che «ogni volta che nel Nuovo Testamento il ruolo del Cristo è richiamato
partendo dall'offerta che il servo di Iahvè fa di se stesso, Gesù ci è allora presenta-
to con parole velate come il sacerdote della nuova alleanza».49 Egli si sofferma
più particolarmente a dimostrare «il carattere sacerdotale della preghiera di Gv 17»
e dichiara a tale proposito: «L'indice più palese di questo carattere sacerdotale,
è il riferimento a Isaia 53». Un altro indice importante è fornito, secondo lui, dalla
divisione della preghiera di Gesù, che corrisponde al rituale sacerdotale dell'E-
spiazione: Gesù dapprima prega per se stesso e per i suoi apostoli, indi per tutti
gli altri credenti, come il sommo sacerdote doveva prima «fare l'espiazione per
sé e per la sua casa», quindi «per tutta l'assemblea d'Israele».30
Per quanto siano interessanti questi tentativi, restano tuttavia problematici.31
È necessario guardarsi dal confondere allusioni incerte con affermazioni esplicite.
D'altra parte, in una ricerca come questa, è importante distinguere con cura le
prospettive successive. Nella prospettiva iniziale, quella del tempo di Gesù e dei
primi anni successivi alla sua morte e risurrezione, le idee che si avevano sul sa-
cerdozio e sul sacrificio erano quelle dell'Antico Testamento. La luce del Cristo
ha provocato, lo si vedrà, una rielaborazione di queste idee, che ha portato a una
trasformazione radicale. Compiuta questa rielaborazione, alcuni elementi della tra-
dizione evangelica che, nella prospettiva iniziale, non avevano alcuna connotazio-
ne sacerdotale o sacrificale, si trovano ormai in rapporto diretto e stretto con il
sacerdozio e il sacrificio. È il caso, per esempio, di «morire per i peccati» o di
«offrire se stesso per ...». In questo momento della nostra ricerca possiamo sola-
mente costatare che le tradizioni evangeliche concernenti Gesù non descrivono mai
né la sua persona, né la sua attività, né la sua morte in termini esplicitamente sa-
cerdotali, e che utilizzano una sola volta una formula sacrificale.
48
«Beobachtungen zur messianischen Hohepriestererwartung in den Synoptikern», ZTK53 (1956) 265-311.
49
Le sacerdoce, p. 23.
50
Ivi, pp. 47-48; cf Lv 16,11-16.
51
Lo studio di G. Friedrich è stato criticato in particolare da J. GNILKA, «Die Erwartung des messiani-
schen Hohepriestertums in den Schriften von Qumran und im Neuen Testament», RQum 7 (1960) 395-426;
e da J. COPPENS, «Le messianisme sacerdotal dans les écrits du Nouveau Testament», in La Verme du Mes-
sie, Bruges, 1962, pp. 101-112. Lo studio di A. Feuillet è stato criticato da J. DELORME, «Sacerdoce du
Christ et ministères», RSR 62 (1974), 199-219. D'altra parte, nel suo articolo (sopra, cap. II, n. 27) a p.
306, n. 12, F. Ó Fearghail toglie a A. Feuillet (Le sacerdoce, p. 48) due argomenti, dimostrando che il
pronunciare il Nome divino non era limitato alla liturgia dell'Espiazione e che il testo del Siracide non si
riferisce a quella liturgia.
50
Nella redazione finale degli evangeli, il testo più suggestivo per la cristologia
sacerdotale è forse quello della conclusione di Luca. Gesù vi è presentato in un
atteggiamento tipicamente sacerdotale, quello di «alzare le mani» per «benedire».52
È l'ultima immagine che Luca ci offre di Gesù, quando egli lascia i suoi discepoli
al momento della sua ascensione:
«Alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso
il cielo» (Lc 24,50-51).
Nell'Antico Testamento non si presenta che due volte un personaggio che alza
le mani e benedice, e tutte e due le volte si tratta del sommo sacerdote alla conclu-
sione di un sacrificio. In Lv 9,22, alla fine del sacrificio della sua consacrazione
sacerdotale, Aronne «alzò le mani verso il popolo e lo benedisse»; in Sir 50,20
alla fine di una liturgia descritta con solennità, il sommo sacerdote Simone «alzò
le mani su tutta l'assemblea dei figli d'Israele per dare la benedizione del Signo-
re». In questi due testi, la benedizione è seguita da una prostrazione, gesto che
si ritrova nel racconto di Luca. Il Siracide conclude poi con un invito a benedire
Dio: è precisamente ciò che fanno i discepoli secondo l'ultimo versetto del vange-
lo. Si è dunque in diritto di pensare che Luca ha voluto suggerire, alla fine del
suo vangelo, una interpretazione sacerdotale del mistero di Gesù. Bisogna tuttavia
notare che questa presentazione resta implicita. Qui ancora, non si tratta di affer-
mazione, ma soltanto di allusione. Ci si ferma perciò alla costatazione già fatta:
i vangeli non parlano mai esplicitamente di sacerdozio a proposito di Gesù. Essi
portano parecchi elementi che aprono la via a una soluzione positiva del proble-
ma, ma di per sé non esprimono tale soluzione. Per trovarla, bisogna esplorare
gli altri scritti del Nuovo Testamento.
52
Questa osservazione è stata fatta da P. VAN STEMPVOORT, «The Interpretation of the Ascension in
Luke and Acts», NTS 5 (1958-1959) 34-35, poi da J. COPPENS, «Le messianisme sacerdotale p. 109; H.
SCHLIER, Essai sur le Nouveau Testament, Cerf, 1968, pp. 265-266; W. GRUNDMANN, Das Evangelium
des Lukas, Berlin 21961, pp. 453-454, e altri autori.
51
PARTE SECONDA
GESÙ CRISTO
NUOVO SACERDOTE
VOCABOLARIO SACERDOTALE
NEL NUOVO TESTAMENTO
Per orientare la seconda tappa della ricerca, si rende necessaria una rapida ri-
cerca di vocabolario. Nel corso dei capitoli precedenti si è già notato l'uso delle
parole «sacerdote» e «sommo sacerdote» negli scritti narrativi del Nuovo Testa-
mento. L'analisi di questi usi ha permesso di cogliere i problemi che si ponevano.
Conviene ora completare la ricerca, in due modi: da una parte, estendendola al-
l'insieme del Nuovo Testamento e, dall'altra, includendovi tutte le parole che so-
no in rapporto diretto con il tema del sacerdozio. Si ottiene allora il seguente qua-
dro (la sigla Pl indica tutte le lettere paoline, comprese quelle pastorali):
Mt Mc Lc Gv At Pl Eb 1 Pt Ap Totale LXX
1) Sacerdote, hiereús 3 2 5 1 3 14 3 31 800
2) Sommo sacerdote,
archiereús 25 22 15 21 22 17 122 40
3) Pontificale,
archieratikós 1 1 0
4) Sacerdozio,
hierosýne 3 3 9
5) Sacerdozio, hierateía 1 1 2 16
6) Sacerdozio,
hieráteuma 2 2 3
7) Esercitare
il sacerdozio,
hierateúein 1 1 26
8) Compiere
un'azione sacra,
hierurgeîn 1 1 [1]
In questo elenco si nota la presenza di tre parole diverse per indicare il sacer-
dozio, ma ciascuna ha la sua particolare sfumatura. Hierosýne (4) esprime la qua-
lità di chi è sacerdote; il suffisso syne indica in greco la qualità (per es. dikaiosý-
ne, giustizia). Hierateía (5) esprime la funzione sacerdotale, come strafela la fun-
zione militare. Hieráteuma (6), infine, è una parola rara il cui senso è da discutere;1
può significare «organismo sacerdotale» oppure «funzionamento sacerdotale». Un
1
Cf infra, «Il senso della parola hieráteuma», cap. X, 2.
55
altro termine si presta a discussione: il verbo hierurgeîn, che non appartiene al
vocabolario sacerdotale corrente; c'è da chiedersi se si applichi o no a un'attività
di sacerdote.2
Il confronto delle cifre dà luogo a osservazioni che sollecitano la curiosità: al-
l'infuori degli scritti narrativi, dove il titolo di sommo sacerdote appare spesso,
la densità del vocabolario sacerdotale è molto variabile. Assente o quasi in Paolo,
questa densità è assai forte nell'epistola agli Ebrei che, a differenza degli scritti
narrativi, usa spesso sia «sacerdote» che «sommo sacerdote»; debole nelle epistole
cattoliche, dove solo la prima epistola di Pietro l'utilizza, è un po' più marcata
nell'Apocalisse. La statistica, evidentemente, non dice tutto; usi rari possono es-
sere particolarmente significativi.
È interessante approfondire l'analisi degli usi e mettere in ordine da una parte
i casi dove il vocabolario sacerdotale si applica al sacerdozio giudaico (o anche
pagano) e dall'altra quelli dove esso si applica a Cristo o ai cristiani. Se si osserva
soltanto la seconda categoria, si ottiene un quadro tutto differente:
Mt Me Le Gv At PI Eb 1 Pt Ap Totale
1) Sacerdote, hiereús 0 0 0 0 0 7 3 10
2) Sommo sacerdote,
archiereús 0 0 0 0 0 10 10
4) Sacerdozio,
hierosýne 1 1
6) Sacerdozio,
hieráteuma 2 2
8) Compiere
un'azione sacra,
hierurgeîn 1 1
Questo quadro evidenzia la costatazione già fatta nel corso dei precedenti capi-
toli: i vangeli e gli Atti non applicano mai il vocabolario sacerdotale né a Gesù
né ai suoi discepoli. Ma anche un'altra costatazione attira l'attenzione: alcuni scritti
del Nuovo Testamento hanno operato il congiungimento fra la fede cristiana e il
tema del sacerdozio. Questo congiungimento appare molto chiaramente in tre scritti:
l'epistola agli Ebrei, la prima epistola di Pietro e l'Apocalisse. In un quarto caso,
quello di un testo di Paolo (Rm 15,16), il rapporto richiede di essere verificato.
Per essere più precisi, bisogna specificare che solo l'epistola agli Ebrei applica
a Cristo stesso i titoli di sacerdote e di sommo sacerdote e gli attribuisce la qualità
sacerdotale (hierosýne). Nel testo di Paolo, è il ministero dell'apostolo che viene
presentato come il compimento di un'azione sacra. Nella prima epistola di Pietro
e nell'Apocalisse, infine, è a proposito dei cristiani che si parla di «organismo sa-
cerdotale» o di «sacerdoti».
2
Cf infra, cap. X, 7.
56
Alla domanda che si poneva ai cristiani: «Il mistero di Cristo presenta una di-
mensione sacerdotale?», questi scritti danno una risposta positiva. Il fatto sorpren-
de perché, l'abbiamo visto, le indicazioni evangeliche andavano piuttosto in senso
contrario. Appoggiandosi sopra quanto si sapeva della persona, della vita e della
morte di Gesù, un predicatore della Buona Novella avrebbe potuto benissimo espri-
mere una risposta negativa e dichiarare che nella Nuova Alleanza il sacerdozio
era abolito. L'Antica Alleanza comportava un sacerdozio rituale che offriva sacri-
fici e celebrava diverse cerimonie; la Nuova non ne comporta più. Il Nuovo Te-
stamento stabilisce una religione desacralizzata, o, per meglio dire, una fede esi-
stenziale, una fede senza religione nel senso rituale del termine. È lecito pensare
che san Paolo, con il suo gusto pronunciato per le opposizioni, si sarebbe volen-
tieri espresso in questo modo. Basta richiamare le sue negazioni decise a proposi-
to della sottomissione alla Legge: «Voi non siete più sotto la Legge — scrive ai
Romani —, ma sotto la grazia»,3 ciò che non gli impedisce di proclamare in un
altro passo: «Togliamo dunque ogni valore alla Legge mediante la fede? Niente
affatto, anzi confermiamo la Legge!».4
A proposito del sacerdozio, una risposta negativa sembrava dunque possibile,
ma tale risposta non è formulata in nessuna parte nel Nuovo Testamento. Nessuno
dei suoi scritti dichiara che non vi è più sacerdozio. I pochi scritti che si pronun-
ciano a questo proposito danno una risposta positiva. In un certo senso, essi si
trovano isolati in rapporto agli altri, come evidenzia la statistica. Ma, in un altro
senso, essi si accordano con tutti, perché nessuno degli altri prende una posizione
contraria. Questa prima osservazione non manca d'importanza. Essa non dispen-
sa, tuttavia, dall'esaminare più da vicino i rapporti, per farsi un'idea esatta della
posizione del Nuovo Testamento in ciò che concerne il sacerdozio.
Il testo che deve per primo attirare l'attenzione è, con tutta evidenza, quello
dell'epistola agli Ebrei, perché è questa epistola che tratta il punto fondamentale,
quello dei rapporti fra il Cristo e il sacerdozio, e lo tratta in modo ampio e appro-
fondito. Essa fornisce la materia dei sei capitoli della nostra seconda parte. Poiché
trattano altri aspetti dell'argomento, i testi di Pietro, di Paolo e dell'Apocalisse
non saranno analizzati che dopo, in una terza e ultima parte.
L'epistola agli Ebrei, lo si sa, non ha minimamente il carattere di una lettera,
ma, ad eccezione di qualche frase aggiunta alla fine, si presenta come un discorso
mirabilmente composto.5 Per procedere con ordine nello studio del soggetto, ba-
sta dunque seguire lo svolgersi delle sue diverse sezioni.
Dopo una prima presentazione del Cristo sommo sacerdote (cap. 4) si è invita-
3
Rm 6,4; cf Gal 5,18.
4
Rm 3,31; cf 8,4; 13,8.10.
5
La tradizione antica ha posto l'epistola agli Ebrei nel novero delle epistole paoline, pur riconoscendo
che il suo testo greco non era dell'apostolo Paolo. La critica moderna non ha i mezzi per determinare con
certezza le circostanze della sua composizione ed è perplessa per la datazione fra la fine del regno di Clau-
dio (morto nel 54), gli ultimi anni di Nerone (morto nel 68) e il regno di Domiziano (81-96). La prima
posizione ha pochi partigiani. L'insieme dei dati favorisce piuttosto, a mio avviso, la seconda posizione:
l'epistola sembra essere stata composta da un compagno di Paolo qualche tempo prima che scoppiasse la
guerra giudaica degli anni 66-70, che portò alla distruzione del tempio di Gerusalemme.
57
ti a considerare in lui la duplice relazione sulla quale si fonda tutto il sacerdozio:
il sacerdote deve essere accreditato presso Dio (cap. 5) e legato agli uomini da
una solidarietà reale (cap. 6). Stabilita questa base, si è portati a discernere ciò
che vi è di inedito e di insuperabile nel sacerdozio del Cristo: sacerdote di un nuo-
vo genere (cap. 7), Cristo ha compiuto un'azione sacerdotale decisiva (cap. 9),
la cui efficacia ha completamente trasformato la situazione degli uomini (cap. 10).
Questo rapido abbozzo permette di intravedere la robustezza della costruzione e
l'importanza dei temi trattati. Una dottrina elaborata con tanta diligenza merita
sicuramente uno studio attento.
58
CAPITOLO IV
L'epistola agli Ebrei afferma con insistenza che noi cristiani abbiamo un sa-
cerdote, «un sacerdote eminente»,1 più ancora: «Noi abbiamo un sommo sacerdo-
te», «un sommo sacerdote eminente»,2 e lo designa chiaramente: è «Gesù, il Figlio
di Dio» (4,14), «l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, Ge-
sù» (3,1), «Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri» (9,11). La chia-
rezza e la forza dell'affermazione non lasciano il minimo posto al dubbio.
E tuttavia l'autore era perfettamente conscio della difficoltà della questione.
Sapeva molto bene che Gesù non apparteneva a una famiglia sacerdotale, e non
esita a ricordarlo:
«È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e che riferendosi a questa
tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (Eb 7,14).
Sapeva che non vi era posto per Gesù nell'organizzazione del sacerdozio se-
condo la Legge di Mosè:
«Se Gesù fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote» (Eb 8,4),
e quindi tanto meno sommo sacerdote,
«poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge» (Eb 8,4).
L'autore dell'epistola conosceva d'altra parte la catechesi cristiana tradiziona-
le, che non si esprimeva in categorie sacerdotali. Ma tutto ciò non gli impedì af-
fatto di dare senza esitazione una risposta affermativa alla domanda che si poneva.
1. PREPARAZIONE
Prima di lui, nessuno aveva affrontato direttamente il problema. Certo, si era
fatto qualche tentativo, che preparava una soluzione, ma si era rimasti lontani dal
raggiungerla. La riflessione cristiana aveva appena cominciato a usare termini cultuali
per esprimere il mistero di Gesù. Il testo più antico è forse quello in cui san Paolo
ha l'audacia di assimilare il Cristo a un sacrificio pasquale:
«Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (1 Cor 5,7).
Nella stessa epistola, Paolo stabilisce un rapporto fra la comunione eucaristica
e la partecipazione ai sacrifici pagani, e indica che l'uno esclude l'altro (1 Cor
1
Letteralmente «un sacerdote grande» (Eb 10,21).
2
Archiereús mégas (4,14); archiereús (4,15; 8,1).
59
10,14-22). Il suo ragionamento implica una interpretazione sacrificale della morte
e della risurrezione di Cristo. In Rm 3,25 si trova sotto la penna dell'apostolo un'altra
espressione che richiama l'antico culto: il Cristo è assimilato questa volta al «pro-
piziatorio» (hilastérion), oggetto sacro la cui importanza simbolica era capitale nei
sacrifici di espiazione (Lv 16,13-15). Da parte sua, san Giovanni usa un termine
analogo, dicendo che Gesù Cristo «è propiziazione (hilasmós) per i peccati» (1
Gv 2,2) e che Dio «ha manifestato il suo amore mandando il suo Figlio come pro-
piziazione dei nostri peccati» (4,10). In queste diverse espressioni, il mistero di
Cristo veniva avvicinato a poco a poco al mondo sacerdotale, ma non si parlava
ancora di sacerdozio di Cristo. Presentare Cristo come una vittima immolata o
come uno «strumento di propiziazione» non equivaleva assolutamente ad afferma-
re che egli fosse sacerdote.
La medesima osservazione vale anche per il testo nel quale san Pietro parla
della nostra redenzione per mezzo di Cristo (1 Pt 1,18-19). L'insieme della frase
non richiama un sacrificio, perché la metafora utilizzata è quella, ben diversa, della
liberazione per mezzo di un riscatto: i cristiani non sono stati ricomprati a prezzo
d'oro o d'argento, ma con un sangue prezioso. Una connotazione sacrificale si
può tuttavia discernere in seguito, quando l'apostolo precisa: «Il sangue prezioso
di Cristo come di un agnello senza difetto e senza macchia». L'espressione «agnel-
lo senza difetto» (amnòs ámomos) appartiene infatti al vocabolario rituale.3 Per
i sacrifici offerti a Dio era prescritto di scegliere animali che non presentavano
alcuna malformazione. Cristo, «agnello senza difetto», era degno di essere offer-
to. La sua integrità lo qualificava per essere vittima sacrificale. Ma un agnello
può essere sacerdote?
Una frase dell'epistola agli Efesini apre una nuova prospettiva, quando com-
pleta in termini sacrificali un'espressione paolina che parla dell'amore di Cristo.
Nella sua lettera ai Galati, Paolo dice del Figlio di Dio:
«Egli mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20).
Abbiamo già avuto occasione di notare che questa frase non stabilisce alcun
rapporto fra la morte del Cristo e il rituale antico, ma si situa nel piano delle rela-
zioni esistenziali fra le persone, ed esprime un atto di estrema generosità. L'epi-
stola agli Efesini riprende la stessa espressione, ma la prolunga dandole un senso
sacrificale:
«Cristo vi ha amato e ha consegnato se stesso per noi,
offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).
Il dono esistenziale del Cristo è così qualificato di «offerta e sacrificio a Dio».
In se stessi, questi termini non vanno al di là della qualificazione «vittimale» già
riscontrata. Essi non dicono esplicitamente che Cristo sia «sacerdote». Ma entrano
in una frase che, invece di presentare Cristo in un atteggiamento passivo di vitti-
ma, insiste fortemente sulla sua donazione personale volontaria: Cristo, per amo-
re, ha consegnato se stesso. Da ciò a dire che Cristo si è offerto in sacrificio, sem-
3
Cf Lv 14,10; 23,18; Nm 28,3.9.11...
60
bra che la distanza non sia enorme. E se Cristo si è offerto in sacrificio, non se
ne deve concludere che è sacerdote? Questo secondo punto è più problematico che
il primo, perché la Bibbia menziona più di un sacrificio offerto senza l'intervento
di un sacerdote. Anche l'epistola agli Efesini ci lascia quindi nell'oscurità in ciò
che concerne il sacerdozio di Cristo. Essa va più lontana dei testi precedenti, ma
non si pronuncia ancora in modo esplicito sulla questione.
Per porre chiaramente il problema e risolverlo, ci voleva uno spirito penetran-
te e intrepido, perché le difficoltà da superare erano grandi. Affermare che Cristo
era sacerdote, era correre il pericolo di indebolire la fede cristiana, favorendo il
ritorno a una mentalità rituale da Antico Testamento. Dare una risposta negativa,
era infirmare la proclamazione del compimento cristiano delle Scritture e provo-
care una rottura fra il Nuovo Testamento e l'Antico. Conscio della gravità della
posta, l'autore dell'epistola agli Ebrei si guardò da ogni semplicismo e si impegnò
in uno sforzo esigente di approfondimento della fede. Così è giunto a elaborare
una dottrina stimolante e sostanziale.
2. INNOVAZIONE
La prima osservazione che si può fare leggendo l'epistola agli Ebrei è che il
tema del sacerdozio non vi appare fin dagli inizi, ma solamente alla fine del capi-
tolo 2, dove si trova una prima menzione del titolo di «sommo sacerdote», appli-
cato a Gesù. Questa menzione merita di essere studiata da un duplice punto di vi-
sta, perché costituisce una duplice innovazione: anzitutto riguardo all'idea antica
del sacerdozio, poi riguardo alla catechesi cristiana primitiva.
«16Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura.
17
Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote
misericordioso e degno di fede per le cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i
peccati del popolo. 18Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto
personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,16-18).
Questo testo dà al sacerdozio un'importanza capitale, perché lo presenta come
lo scopo assegnato a tutta l'esistenza di Gesù. «Capo che guida alla salvezza» (2,10),
Gesù «doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sommo sacerdo-
te...» (2,17). Il contesto fa chiaramente capire che questo scopo è stato raggiunto.
L'inizio del capitolo seguente lo conferma, perché l'autore invita a «fissare bene
la mente in Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (3,1).
a) In 2,17 è espressa direttamente la condizione che si imponeva a Cristo per
accedere al sacerdozio. E questa condizione sa di novità. Si tratta infatti di essere
«reso simile in tutto ai fratelli». Il verbo greco, che ha la forma passiva, può pren-
dere qui il senso di un verbo riflessivo come in Mt 6,8: «assimilarsi», «farsi simi-
le». Anche se si ritiene il senso passivo, la frase implica per lo meno che Gesù
doveva accettare di essere reso simile agli uomini. E ciò che conferma un altro
passo dell'epistola, che parla di obbedienza (5,7-8). Qui l'autore precisa che l'as-
similazione doveva essere totale: «in tutto».
61
b) Questo modo di vedere non si oppone soltanto alle deplorevoli pratiche che
disonoravano il sacerdozio in quell'epoca, ma — fatto più sorprendente — si di-
stacca anche dalla prospettiva giudaica tradizionale, fondata sulla Sacra Scrittura.
Infatti, invece di parlare di somiglianza, i testi dell'Antico Testamento insistono
sulla necessità di una separazione. Per divenire sommo sacerdote bisognava sotto-
mettersi a riti di consacrazione, che distinguevano nettamente da tutti gli altri uo-
mini colui che Dio riservava al suo servizio:7 il bagno rituale, che precedeva la
consacrazione sacerdotale, era un rito di purificazione e di separazione; il muta-
mento d'abiti e l'imposizione dei paramenti sacerdotali esprimevano una trasfor-
mazione e un'elevazione; l'unzione di olio profumato significava essere impre-
gnati di santità. Tutte queste cerimonie creavano una distanza insormontabile fra
l'eletto di Dio e i comuni mortali, e questa distanza doveva poi essere mantenuta
scrupolosamente, mediante l'osservanza di regole assai strette.
Fra le condizioni richieste per l'esercizio del sacerdozio, la Legge di Mosè pre-
scriveva in particolare l'assenza di ogni infermità o difetto fisico: «Nessun uomo
della stirpe del sacerdote Aronne, con qualche deformità, si accosterà ad offrire
i sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore» (Lv 21,21). Il Levitico diven-
ta particolarmente insistente su questo punto: fa un elenco di infermità e ripete
la proibizione non meno di cinque volte nello spazio di sette versetti (21,17-23).
Lo storico Giuseppe riferisce un incidente che illustra bene l'importanza data a
questa proibizione. Nel 40 a.C. Antigone, rivale del sommo sacerdote Ircano, in-
vitò i Parti a impadronirsi di Gerusalemme e a deporre Ircano. L'impresa riuscì,
e i Parti offrirono Ircano incatenato agli oltraggi del suo rivale. Antigone, scrive
Giuseppe, «quando Ircano si gettò ai suoi piedi, gli strappò egli stesso le orecchie
con i denti, per impedire che mai, anche se una rivoluzione gli avesse reso la li-
bertà, egli potesse ricuperare il supremo sacerdozio; perché nessuno può essere
sommo sacerdote se non è esente da ogni difetto corporale».8 L'ultima frase dello
storico si riferisce evidentemente alla prescrizione del Levitico che esclude dalle
funzioni sacerdotali ogni uomo «deforme o sfigurato» (21,18).
Nella stessa prospettiva, il Levitico mette pure in guardia contro ogni contatto
con la morte; il sommo sacerdote deve evitare assolutamente di avvicinarsi a un
cadavere, e non gli è neppure permesso di vestirsi a lutto, fosse anche per suo
padre o per sua madre. L'infermità fisica e la morte sembravano inconciliabili con
la santità del Dio vivente. Preoccupati di salvaguardare la santità del sacerdozio,
i Giudei ferventi attribuivano la più grande importanza al mantenimento rigoroso
di tutte queste separazioni legali. Esigere dal sommo sacerdote una somiglianza
completa con gli altri membri del popolo giudeo sarebbe stato per loro un impen-
sabile controsenso.
Invece l'autore dell'epistola agli Ebrei esprime precisamente questa esigenza
e nessun'altra. Egli non richiama alcun rito di consacrazione, alcuna cerimonia
di investitura, ma soltanto il «dovere» di «rendersi in tutto simile ai suoi fratelli».
Non pensa affatto di escludere le ferite fisiche o il contatto con la morte; al contra-
rio, le include nel cammino che conduce al sacerdozio: bisognava che Gesù sof-
7
Cf Es 28-29; 39; 40,13-15; Lv 8-9.
8
GIUSEPPE FLAVIO, Guerra giudaica, I, 13,9.
63
frisse, bisognava che subisse la morte. Quale rovesciamento di prospettive! È dif-
ficile immaginarne uno più radicale.
64
sviluppo precedente, che definiva la missione di Cristo. Il legame logico è espres-
so con l'avverbio greco óthen, il cui senso letterale è: «donde», e che indica una
deduzione: «da cui segue che...». La necessità della somiglianza con gli uomini
in vista del sacerdozio risulta dalla missione assunta da Cristo, tale quale essa è
stata definita in 2,16 e descritta in tutto il contesto anteriore: «Della stirpe di Abramo
egli si prende cura», al fine di aprire per ogni uomo il cammino della salvezza
e della gloria.9
Concludendo il paragrafo cominciato in 2,5, l'affermazione di 2,17 si applica
contemporaneamente alle due fasi opposte del mistero del Cristo — «sopportare
queste sofferenze» ed «entrare nella sua gloria» (Lc 24,26), — perché il paragrafo
intero (Eb 2,5-18) non ha altro tema fondamentale che la realizzazione di queste
due fasi. L'autore le ha presenti fin dall'inizio, quando cita il passo del salmo 8,
dove la condizione dell'uomo è espressa da un contrasto analogo fra un abbassa-
mento e una glorificazione:
«Di poco l'hai fatto inferiore agli angeli,
di gloria e di onore l'hai coronato» (Eb 2,7 = Sal 8,6).
Commentando questo testo, l'autore osserva subito che noi ne vediamo in Ge-
sù la realizzazione e che l'abbassamento è consistito per lui nel «soffrire» la sua
passione:
«Quel Gesù che fu fatto di poco inferiore agli angeli lo vediamo ora coronato di gloria
e di onore a causa della morte che ha sofferto» (Eb 2,9).
Sofferenza e gloria, ecco i due temi di Lc 24,26 e sono espressi in greco con
parole identiche o apparentate.10 Sviluppando sempre più il suo pensiero, l'autore
dell'epistola usa ancora altri termini. Egli non parla solo di sofferenza, ma anche
di abbassamento, come Paolo che insiste sull'umiliazione di Cristo (Fil 2,8), e precisa
che «sopportare queste sofferenze» (Lc 24,26) ha significato in realtà «sopportare
la morte» (Eb 2,9). D'altra parte, egli aggiunge a «gloria» le parole «onore» e «co-
ronato» che gli fornisce il salmo.11
Il versetto seguente (2,10) riprende, per esprimere la prima fase del mistero
del Cristo, la parola «sofferenze», questa volta al plurale. Per la fase gloriosa, l'autore
usa un termine nuovo, il verbo greco teleiûn, che significa «rendere perfetto». In-
vece di «sopportare queste sofferenze per entrare nella sua gloria» si ha «rendere
perfetto mediante la sofferenza» (con Dio per soggetto e Cristo per destinatario
dell'azione divina). È un altro modo di richiamare la glorificazione.
Un po' più avanti (2,14-15) nuova variazione: invece di parlare di gloria, l'au-
tore parla di vittoria o, più precisamente, di annientamento dell'avversario e di
liberazione degli oppressi: il Cristo doveva «ridurre all'impotenza, mediante la
morte, colui che dalla morte ha il potere, cioè il diavolo», e contemporaneamente
«liberare quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita».
9
Cf Eb 2,9-10.14-15.16.
10
Doxa (gloria) Eb 2,9 e Lc 24,26; pàthema (sofferenza) Eb 2,9 e patheîn (aver sofferto) Lc 24,26.
11
Questi confronti non vogliono affermare una relazione di dipendenza letteraria fra Eb 2,9 (o Eb 2,17)
e Lc 24,26. La frase di Luca è semplicemente presa come un esempio comodo. Anche altrove si incontra
una simile struttura, per es. in Fil 2,8s.
65
Attraverso la diversità di queste espressioni, non è difficile discernere ogni volta
la stessa coppia antitetica di temi fondamentali e si è così condotti a riconoscerla
ancora una volta alla fine, quando si presenta sotto una formulazione sacerdotale.
Dicendo che il Cristo «doveva rendersi in tutto simile ai fratelli», l'autore intende
riaffermare la necessità della Passione — «bisognava che il Cristo sopportasse queste
sofferenze»12 — e ponendo al termine di questa assimilazione totale con gli uomi-
ni il conseguimento del sacerdozio, egli vuole definire la gloria di Cristo risorto
e far comprendere che, nel caso di Cristo, «essere coronato di gloria e di onore»
(Eb 2,9) non significa altro che «diventare sommo sacerdote» (Eb 2,17).
La frase dell'epistola presenta un aspetto antitetico e perfino paradossale, che
costituisce una rassomiglianza di più con le formulazioni precedenti. «Rendersi
in tutto simile ai fratelli, per diventare sommo sacerdote» non è meno contraddit-
torio, a prima vista, che umiliarsi per entrare nella gloria o morire per trionfare
della morte.
I rapporti fra la formulazione sacerdotale di Eb 2,17 e l'espressione tradizio-
nale della fede cristiana sono dunque molto stretti. L'analisi del paragrafo 2,5-18
ce ne ha fornito la dimostrazione.
b) Ma si avrebbe torto a limitare la ricerca a questo solo paragrafo. Esso infatti
non costituisce un tutto completo: si integra in una esposizione dottrinale più am-
pia, che inizia subito dopo l'esordio dell'epistola e si svolge da 1,5 a 2,18. È l'in-
sieme di questa grande parte che trova in 2,17-18 la sua conclusione. Conviene
quindi prenderne una visione generale, se ci si vuol render conto del movimento
del pensiero che termina con l'affermazione del sacerdozio.
Il tema annunciato alla fine dell'esordio (1,4) è il «nome» ottenuto dal Figlio
a conclusione del suo intervento redentore. In altri termini, l'autore intende fare
un'esposizione sintetica di cristologia. È interessante vedere come procede: pre-
senta fedelmente i punti principali della predicazione cristiana, ricorrendo ai testi
dell'Antico Testamento che essa prendeva come base fin dagli inizi. La sua espo-
sizione dottrinale si divide in due paragrafi (1,5-14 e 2,5-18), separati da una bre-
ve esortazione (2,1-4). Il tema del primo è la gloria attuale del Cristo intronizzato
presso Dio e perciò stabilito in una posizione superiore a quella degli angeli stes-
si. Il tema del secondo paragrafo dottrinale concerne — l'abbiamo appena visto
— il modo con cui Cristo ha ottenuto questa glorificazione: soffrendo e morendo
per i suoi fratelli. L'ordine adottato è retrospettivo, parte dalla situazione presente
di Cristo e ne rende conto considerando gli avvenimenti anteriori. La stessa dispo-
sizione si riscontrava già, secondo il libro degli Atti, nelle prime proclamazioni
del messaggio pasquale.13
12
Lc 24,26; cf Mc 8,31; Mt 16,21; Gv 12,34.
13
At 2,36; 3,13; 5,30.
14
At 2,30-32; 13,22s; Rm 1,3.
66
Per esprimere la gloria di Cristo presso Dio, egli si serve degli oracoli davidici.
Il primo testo che cita:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato» (Eb 1,5a = Sal 2,7)
è desunto da un salmo regale applicato più volte a Gesù nel Nuovo Testamento.15
Il secondo testo:
«Io sarò per lui padre
ed egli sarà per me figlio» (Eb l,5b = 1 Cr 17,13)
è un brano dalla profezia di Natan riguardante il Figlio di Davide, testo messiani-
co per eccellenza.16 In seguito, l'autore utilizza un altro salmo regale, che i Tar-
gum applicano al Messia,17 e per concludere il suo primo paragrafo cita il salmo
109, salmo d'intronizzazione regale che più di ogni altro è stato sfruttato dalla
catechesi apostolica.18 L'applicazione di questo testo a Cristo Gesù era così fami-
liare ai cristiani che l'autore non ha neppure bisogno di esplicitarla e può omettere
le prime parole: «Il Signore ha detto al mio Signore», per citare subito la frase
decisiva:
«Siedi alla mia destra...» (Eb 1,13 = Sal 109,lb).
Tutti capivano subito che si trattava della glorificazione celeste di Gesù, il
Re-Messia.
Nella seconda metà della sua esposizione (2,5-16), l'autore manifesta la stessa
fedeltà verso la tradizione e continua a utilizzare i testi familiari. Infatti, comincia
col citare il Sal 8:
«Che cos'è l'uomo perché ti ricordi di lui?
...Hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi» (Eb 2,6-8 = Sal 8,5-6.7b).
È lo stesso salmo che Paolo applica a Cristo e mette in rapporto con il Sal 109. 19
In seguito, l'autore cita un verso del Sal 21:
«Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli...» (Eb 2,12 = Sal 21,23).
Il Sal 21 è il salmo della Passione; prima di predire il trionfale rendimento
di grazie di Gesù, esprime la sua derelizione sulla croce e le sue sofferenze.20 Infi-
ne l'autore utilizza altri due testi che si riferiscono al messianismo regale. L'uno
è tratto dal canto di vittoria di Davide, rievocato da Luca e citato da Paolo:21
«Io metterò la mia fiducia in lui» (Eb 2,13a = 2 Sam 22,3).
15
At 4,25s; 13,33; Lc 3,22.
16
17
2 Sam 7,14; 1 Cr 17,13; cf Lc l,32s; At 2,30; Rm 1,3.
Sal 44; Eb l,8s.
18
19
Mt 22,44 par.; 26,64 par.; At 2,34; 1 Cor 15,25; Col 3,1.
1 Cor 15,25-27; Ef 1,20-22.
20
Sal 21,2: Mt 27,46 par.; Sal 21,8: Mt 27,39 par.; Sal 21,9: Mt 27,43; Sal 21,19: Mt 27,35 par.
21
Cf Lc 1,69; Rm 15,9.
67
L'altro appartiene al «Libro dell'Emmanuele» (Is 6-12), ricco di oracoli mes-
sianici e per questo abbondantemente sfruttato nel Nuovo Testamento: 22
«Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13b = Is 8,18).
Si deve quindi riconoscere che, in questa prima parte della sua epistola
(1,5-2,16), l'autore riproduce fedelmente l'insegnamento tradizionale. L'originalità
della sua dottrina si manifesta solo alla fine, quando egli conclude la sua esposi-
zione (2,17-18), ed essa consiste allora nel far comprendere bruscamente che si
può passare senza la minima difficoltà dall 'espressione tradizionale del mistero
di Cristo a un'espressione sacerdotale, che non è meno valida. Difatti, procla-
mando che Gesù è il Messia glorioso, intronizzato come Figlio di Dio alla destra
del Padre, e che, d'altra parte, egli ha conseguito questa gloria celeste morendo
per noi sulla croce, la predicazione cristiana metteva in luce la duplice relazione
— con Dio da una parte, con gli uomini dall'altra — che fa di Gesù glorificato
il perfetto mediatore degli uomini presso Dio o, in altre parole, il perfetto sommo
sacerdote.
22
Cf Mt 1,23; 4,15s; Lc 1,79; Rm 9,33; 1 Pt 2,8; 3,14s.
23
La sola differenza è che l'autore dell'epistola adopera il verbo semplice hiláskesthai, invece del com-
posto exiláskesthai, usato con molta frequenza nelle leggi rituali del Levitico con «il sacerdote» per soggetto
(Lv 40,20.26.31.35; 5,10.13.16.18...).
68
tolineerà in seguito che la funzione specifica del sacerdote è effettivamente di eli-
minare l'ostacolo del peccato (Eb 5,1-3) in modo da ristabilire la comunicazione
fra gli uomini e Dio.
Se l'amore per la giustizia di cui parla il salmo si è manifestato con la «purifi-
cazione dei peccati», ne consegue che l'unzione ricordata in seguito24 potrebbe
essere compresa tanto come una consacrazione sacerdotale quanto come un rito
regale. Sarebbe l'unzione di un sacerdote-re. Ricordiamo a questo proposito che
la Legge di Mosè non conosce l'unzione regale, ma soltanto l'unzione sacerdota-
le, così come quella dell'altare e della dimora divina.
Già percettibile nel primo paragrafo (Eb 1,5-14), l'orientamento verso il sa-
cerdozio si afferma a poco a poco nell'altra metà dell'esposizione cristologica
(2,5-16). Dapprima resta discreto. Si può intravederlo nell'espressione «gloria e
onore» suscettibile di un significato sacerdotale. Infatti parecchi testi biblici cele-
brano «l'onore e la gloria» del sacerdozio.25 Il contesto del salmo, è vero, descrive
piuttosto una gloria regale, la gloria congiunta al potere: «Hai posto ogni cosa sot-
to i suoi piedi» (Sal 8,7; Eb 2,8). Ma l'applicazione che poi viene fatta a Cristo
aggiunge elementi inattesi: è «per aver sofferto la morte» che Gesù è stato «coro-
nato di gloria e di onore» (Eb 2,9). Una gloria ottenuta «per aver sofferto la mor-
te» è soltanto una gloria regale? Si può pensare di no, e in ogni caso si deve notare
l'approfondimento dottrinale costituito da questa precisazione. Essa ordina tutto
il seguito del paragrafo (2,10-18) e ogni sviluppo del tema sacerdotale.
4. APPROFONDIMENTO DOTTRINALE
Le prime formulazioni dell'avvenimento del Calvario si contentavano di espri-
mere il contrasto tra le sue fasi successive: morte e risurrezione, umiliazione e
glorificazione.26 È il caso anche del versetto di Luca 24,26 da cui siamo partiti:
esso afferma la necessità dei due aspetti opposti, sofferenza ed entrata nella glo-
ria. La loro giustapposizione suggerisce un rapporto fra loro, ma nulla nella frase
ne precisa la natura. Non è raro che le traduzioni aggiungano qualcosa al testo,
cominciando dalla Volgata che, dopo la congiunzione et inserisce un ita, e presen-
ta quindi la passione come il mezzo che il Cristo doveva accettare per entrare nel-
la sua gloria. La frase greca di Luca non dice tanto. Quella di Eb 2,9, invece,
definisce chiaramente il rapporto: è «a causa della passione» (dià topàthema) che
Gesù «è stato coronato». All'aspetto di contrasto fra sofferenza e gloria si aggiun-
ge un rapporto di causalità. Questa presentazione si accorda con quella dell'inno
cristologico di Filippesi, che unisce nello stesso modo la glorificazione di Cristo
con la sua umiliazione volontaria:
9
«8Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per que-
sto (diò) Dio l'ha esaltato...» (Fil 2,8-9).
24
Sal 44,8; Eb 1,9.
25
Es 28,2.40; cf Sir 45,7-13; 50,5-11.
26
Morte e risurrezione: 1 Ts 4,14; 1 Cor 15,3; At 2,23s; 2,36; 3,15. Umiliazione e glorificazione:
At 3,13; 4,11.
69
La risurrezione di Cristo non è solo l'annullamento della sua morte; ne è allo
stesso tempo la conseguenza. La morte di Cristo produce lo scaturire glorioso di
una nuova vita. L'inno di Filippesi chiarisce con una parola questo paradosso, in-
dicando che la morte di Cristo fu un atto di obbedienza: ecco perché gli ha merita-
to di essere glorificato da Dio. Il contesto generale (Fil 2,1-5) suggerisce una spie-
gazione complementare, situando l'avvenimento in una prospettiva di amore fra-
terno. Espressa in termini diversi, la stessa dottrina si ritrova nell'epistola agli
Ebrei e vi costituisce la base della cristologia sacerdotale: se la morte di Cristo
ha prodotto la sua glorificazione di sommo sacerdote è perché è stata un atto di
obbedienza filiale verso Dio e di solidarietà fraterna verso gli uomini. Questi due
aspetti sono inseparabili, il primo esige il secondo. L'epistola fornisce più di una
occasione di approfondire l'uno e l'altro.
Nel testo di cui ora ci occupiamo (Eb 2,5-18) la loro posizione reciproca è in-
versa rispetto a quella che abbiamo osservato nell'epistola ai Filippesi: l'aspetto
messo direttamente in valore è quello della solidarietà fraterna, mentre l'aspetto
di docilità filiale resta in secondo piano. Bisogna attendere ulteriori sviluppi27 perché
questo aspetto appaia in piena luce. Qui la docilità di Cristo è solamente implicata
nella prospettiva generale del testo, il quale nota chiaramente che l'iniziativa ap-
partiene a Dio. È Dio che si preoccupa della sorte dell'uomo e che interviene atti-
vamente nel suo abbassamento e nel suo incoronamento (Eb 2,6-7). È Dio che,
per compiere il suo disegno, sottomette Gesù a una trasformazione dolorosa e glo-
rificante; è Dio che affida a Cristo «i figli» che bisogna liberare (Eb 2,10.13). A
questa iniziativa divina l'autore fa vedere che Gesù ha pienamente corrisposto:
«Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13).
Gesù ha preso su di sé tutte le conseguenze della missione voluta da Dio, com-
presa la morte (2,14-15) e così ha fatto ciò che «egli doveva» (2,17) orientandosi
fin dall'inizio verso l'onore del Padre:
«Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
in mezzo all'assemblea canterò le tue lodi» (Eb 2,12).
In questo modo egli è divenuto «degno di fede per i rapporti con Dio» (2,17).
Lo si vede: benché l'autore non usi qui la parola obbedienza, è certo che in tutto
questo paragrafo attribuisce a Cristo un atteggiamento di adesione filiale alla vo-
lontà divina.
Ma il tema che egli sviluppa esplicitamente è quello della solidarietà di Gesù
con gli uomini, solidarietà che costituisce il tratto fondamentale del disegno di sal-
vezza. La sua affermazione è chiarissima:
«Poiché dunque i figli28 hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto
partecipe» (Eb 2,14).
27
Eb 5,7s e 10,5-10.
28
L'espressione «i figli» è desunta da Is 8,18, citato poco prima, e nel contesto di Eb designa gli uomini
affidati a Cristo da Dio.
70
Tracciata fin dal principio del paragrafo (2,5-9), questa prospettiva appare nel-
l'ordine stesso dello sviluppo. Prima di introdurre il nome di Gesù, infatti, l'auto-
re ha avuto cura di richiamare le linee essenziali del destino dell'uomo — di tutti
gli uomini — così come sono definite nel Sal 8. Delineandosi su questo sfondo
l'esistenza umana del Cristo, se ne rivela l'esatta realizzazione (2,9). Il Cristo ap-
pare pienamente uomo, il solo uomo in cui la vocazione umana si sia perfettamen-
te compiuta. E l'autore manifesta che questa riuscita esemplare è doppiamente se-
gnata dal principio di solidarietà: da una parte, Cristo non ha rigettato nulla della
condizione dell'uomo; egli ne ha accettato l'abbassamento prima di accoglierne
il coronamento; la sua solidarietà è stata totale. D'altra parte, essa è universale,
perché è a beneficio di tutti gli uomini che Cristo ha portato a termine il progetto
di Dio sull'uomo:
«A causa della morte che ha sofferto, egli è stato coronato di gloria e di onore, perché
per la grazia di Dio egli esperimentasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,9).
Ritornando subito su questo punto, l'autore scopre una profonda coerenza in
questa maniera di salvare l'uomo:
«Ed era ben giusto [conveniva] che Dio, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse
perfetto mediante la sofferenza il capo che guida alla salvezza» (Eb 2,10).
Non è facile tradurre questa frase estremamente densa. La versione italiana
non rispetta l'ordine delle parole della frase greca. Anche qui viene anzitutto ri-
chiamato il disegno di Dio riguardo alla moltitudine umana: Dio ha voluto portar-
la fino alla realizzazione gloriosa della sua vocazione.29 Il ruolo di Cristo è allora
definito in riferimento a questo disegno: egli deve mettersi alla testa della turba,
insieme capo e guida (archegós). Senza di lui, gli uomini non saprebbero quale
direzione prendere e sarebbero votati alla perdizione. Il suo ruolo è di aprire per
loro una via di salvezza, e non può farlo che raggiungendoli anzitutto là dove so-
no, cioè nella loro esistenza provata e dolorosa. Si tratta di trasformare questa
stessa esistenza in cammino di liberazione. Ecco perciò quello che conveniva a
Dio realizzare: servirsi della sofferenza, inerente alla condizione umana, per con-
durre il Cristo alla meta gloriosa assegnata all'uomo e aprire così a tutti gli uomini
un cammino di salvezza. Il principio di solidarietà agisce prima in un senso per
poter agire poi nell'altro. Il Cristo si fa solidale con gli uomini nella sofferenza
per poter comunicare loro la gloria che avrà acquistato a prezzo di questa stessa
solidarietà. Ottenuta in questo modo, la sua gloria è veramente la gloria dell'uo-
mo, di cui parla il Sal 8, ed è quindi comunicabile ad ogni uomo.
Si vede così che la gloria di Cristo è fondata sulla solidarietà e nello stesso
tempo sull'obbedienza filiale. Essa non è solo la gloria del Figlio pienamente gra-
dito a Dio, ma anche la gloria di colui che si è fatto simile ai suoi fratelli in con-
formità al disegno di amore del Padre. È chiaro che, insistendo su questo punto,
l'autore dell'epistola non si allontana in nulla dalla catechesi primitiva. Egli non
fa che sottolinearne un aspetto manifesto. Non si può, infatti, ricordare la passio-
ne di Gesù senza attestare che egli ha sofferto ed è morto come un uomo, e, d'al-
29
In greco, la sfumatura «volendo portare» è espressa con un participio.
71
tra parte, la predicazione della fede consiste nel proclamare che egli è morto «per
noi», «per la moltitudine», «per tutti»,30 e che così ha trionfato sulla morte.
La novità introdotta dall'autore consiste nel far notare che la posizione ottenu-
ta in questo modo dal Cristo corrisponde a ciò che si attendeva da un sommo sa-
cerdote: è una posizione di mediatore. Diciamo meglio: l'autore non parla solo
di posizione da raggiungere o di cammino da percorrere. Egli parla di trasforma-
zione profonda da subire. Attraverso la sua passione, Cristo è stato trasformato
ed è divenuto perfetto sommo sacerdote. Questa audace affermazione è già pre-
sente in 2,10, dove, a proposito del risultato della Passione, viene usato un verbo
greco ricco di connotazioni: teleiûn, il cui senso primo, «rendere perfetto», espri-
me una trasformazione. Nella traduzione greca del Pentateuco, questa si precisa
in un senso ben definito: teleiûn vi designa sempre la consacrazione sacerdotale.
Dicendo quindi che conveniva a Dio «rendere perfetto» attraverso le sofferenze
il capo e guida della salvezza degli uomini, l'autore lascia intendere che la passio-
ne di Cristo è stata una consacrazione sacerdotale di nuovo genere. Certamente
l'allusione è fuggevole, ma sarà ripresa e rinforzata in seguito,31 e avremo l'occa-
sione di ritornarvi. La frase seguente orienta il pensiero nella stessa direzione,
perché indica Cristo come «colui che santifica»:
«Colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da uno solo» (Eb 2,11).
Espresso in termini di santificazione, il principio di solidarietà è applicato im-
plicitamente alla mediazione sacerdotale. Ed è questo principio che regola tutta
la conclusione dell'esposizione. Poiché Cristo ha pienamente accettato, secondo
il piano di Dio, la solidarietà con i suoi fratelli ed è così arrivato alla sua introniz-
zazione presso Dio, Cristo glorificato deve essere riconosciuto come il mediatore
perfetto. Egli è intimamente unito a Dio nella gloria celeste e resta strettamente
unito a noi. In lui è quindi assicurata la comunicazione vivificante fra gli uomini
e Dio: egli è effettivamente sommo sacerdote. Spingendo più lontano la sua rifles-
sione, l'autore riconosce che il risultato ottenuto esigeva i mezzi impiegati. Per-
ché il Figlio di Dio potesse divenire nostro sommo sacerdote, il cammino necessa-
rio era quello di una totale solidarietà con noi:
«Egli doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote mise-
ricordioso e degno di fede per le cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati
del popolo» (Eb 2,17).
Lungi dall'arrivare senza preparazione alla fine di sviluppi che non direbbero nul-
la del sacerdozio, il titolo di sommo sacerdote si presenta quindi come la conclusio-
ne, abilmente preparata, di tutto ciò che precede. Ed è precisamente il legame stretto
con la cristologia tradizionale che spiega la distanza presa riguardo all'Antico Testa-
mento. L'autore ha fissato la sua attenzione sull'aspetto essenziale del sacerdozio sen-
za più attribuire importanza all'organizzazione rituale che ne sembrava inseparabile.
30
«Per noi»: 1 Ts 5,10; Rm 5,8. «Per la moltitudine»: Mc 10,45; 14,24; Mt 20,28; 26,28; cf At 5,19.
«Per tutti»: 2 Cor 5,15; cf Rm 5,18.
31
Cf Eb 5,9; 7,11.19.28; infra, pp. 108, 132-135.
72
L'insistenza sull'aspetto di solidarietà con gli uomini risulta da una considera-
zione attenta sulla situazione di Cristo. Nell'Antico Testamento questo aspetto ne-
cessario non era molto considerato, perché il grande problema allora era di assi-
curare l'altra relazione richiesta per l'esercizio della mediazione sacerdotale: la
comunicazione fra il sacerdote e Dio. Non c'era da preoccuparsi di legare il sacer-
dote agli altri uomini, perché egli era fin troppo unito a loro. Si temeva piuttosto
il pericolo dell'unione completa, della rassomiglianza troppo evidente su punti che
compromettessero la relazione del sacerdote con Dio. Bisognava in qualche modo
far dimenticare che il sacerdote non era che un uomo come gli altri, miserabile
e peccatore allo stesso titolo dei suoi fratelli, perché ciò lo rendeva indegno di
presentarsi davanti a Dio. Ecco perché si insisteva sui riti di separazione.
Ma nel caso di Cristo il problema era esattamente l'inverso. La relazione con
Dio non presentava difficoltà, poiché Cristo era «Figlio di Dio» (Eb 4,14), «irra-
diazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (1,3). Ciò che si trattava
di stabilire, era la relazione con gli uomini. Da questo lato, la solidarietà non era
affatto già acquisita. Che cosa vi era di comune fra il Figlio di Dio e gli esseri
carnali, venduti al peccato?32 Bisognava piuttosto parlare di distanza e di opposi-
zione radicale. «O generazione incredula! Fino a quando dovrò sopportarvi?» esclama
Gesù nel vangelo.33 La solidarietà non era un dato primario, ma una relazione da
creare, in vista di una missione che non poteva realizzarsi senza di essa. «La guida
alla salvezza» non poteva, infatti, condurre a buon fine il suo progetto senza esse-
re legato con gli uomini in una stessa cordata. Egli doveva partecipare alla loro
natura di sangue e di carne (Eb 2,14) e camminare alla loro testa sulla loro strada
di sofferenza e di morte per giungere, attraverso questo stesso cammino, fin pres-
so a Dio e divenire così il loro vivente legame con Dio.
5. IL NOME DI CRISTO
Sui rapporti fra il titolo di sommo sacerdote e l'esposizione dottrinale che lo
precede, va fatta un'ultima osservazione che non è priva di importanza. Essa ri-
sulta da due costatazioni complementari. Da un lato, le ultime parole dell'esordio
(1,4) fanno comprendere che la prima parte dell'epistola ha per soggetto il «no-
me» ricevuto dal Figlio al termine del suo intervento redentore: «Dopo aver com-
piuto la purificazione dei peccati», il Figlio «ha ereditato un nome ben superiore
a quello degli angeli». D'altro lato, la conclusione di questa stessa parte (2,17)
che abbiamo riletto applica a Cristo il titolo di «sommo sacerdote». Non bisogna
forse dedurne che, per l'autore dell'epistola, il nome ricevuto da Cristo al mo-
mento della sua glorificazione si esprime meglio con il titolo di «sommo sacerdo-
te»? A giudicare dalla abilità insuperabile con la quale l'autore compone il suo
testo, s'impone la risposta affermativa. Essa è confermata dall'analisi strutturale
dell'epistola.
32
Cf Rm 7,14.
33
Mc 9,19 par.
73
Commentando le espressioni di Eb 1,4, gli esegeti si fermano spesso a inter-
pretazioni poco soddisfacenti. Non avendo percepito che la menzione finale del
«Nome» annuncia tutta la parte seguente, essi cercano di definirlo grazie al conte-
sto immediato, e credono di poter affermare che si tratta del nome di «Figlio».34
Ma il soggetto della frase è già il «Figlio» (1,2). Che senso ha dire che il Figlio
ha ereditato il nome di Figlio? Più perspicace, Westcott presentava come probabi-
le una interpretazione diversa: l'autore intende parlare del «Nome che riassume
tutto ciò che il Cristo è per i credenti», 35 ma per definire questo Nome, Westcott
limitava la sua ricerca al «resto del capitolo» e non raccoglieva quindi che i titoli
di «Figlio, Sovrano, Creatore e Signore». In realtà, la parte dell'epistola che tratta
del Nome del Cristo non termina alla fine del cap. 1, ma alla fine del cap. 2, come
dimostra uno studio metodico della struttura di questo testo.36 Il nome di Cristo
è definito da due generi di relazioni e non da uno solo. Alla sua unione privilegia-
ta con Dio, che lo ha stabilito presso di lui nella gloria celeste (1,5-14), Cristo
congiunge i suoi rapporti assai stretti con gli uomini, di cui egli si è reso solidale
per sempre (2,5-16). Considerare un aspetto senza l'altro, è troncare infelicemen-
te la dottrina cristologica dell'autore dell'epistola e travisare il suo insegnamento
sul «Nome» di Cristo, insegnamento che, lo si è visto, si conforma fedelmente
alla tradizione apostolica.
Posto a conclusione di tutto lo sviluppo che va da 1,5 a 2,18 il titolo di «som-
mo sacerdote» corrisponde contemporaneamente ai due aspetti fondamentali del
«Nome»: esprime nello stesso tempo la glorificazione presso Dio e la solidarietà
con gli uomini. Nessuno degli altri titoli attribuiti a Cristo nel primo (1,5-14) o
nel secondo paragrafo (2,5-16) dell'esposizione possiede questo valore di sintesi.
Gli uni dicono la relazione gloriosa di Cristo con Dio: egli è il «Figlio», «il primo-
genito», «Dio» e «Signore». Gli altri dicono la sua partecipazione al destino degli
uomini: egli è «uomo» e «figlio d'uomo», «Gesù», «l'iniziatore della loro salvez-
za», il loro «fratello». «Sommo sacerdote», invece, dà l'idea della duplice relazio-
ne con Dio e con gli uomini, e richiama insieme la Passione e la Gloria. Si può
dire che questo titolo riassume e completa tutti gli altri.
74
o liberare il suo popolo, un re ricorre alla forza delle armi. Egli si pone alla testa
delle sue truppe e parte in guerra. Il Sal 44, per esempio, invita il re a cingere
la spada e a sgominare i suoi nemici. Come accordare queste immagini bellicose
con la contemplazione di Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), che rifiuta aper-
tamente di prendere la spada37 e si lascia ricolmare di sofferenze e di umiliazioni?
Certo, non è impossibile presentare la Passione come un combattimento, ma tale
presentazione sa di paradosso e non esprime gli aspetti più profondi dell'avveni-
mento. Essa non permette di coglierne la coerenza interna. Perché Gesù potesse
essere proclamato Re-Messia, era veramente necessario che passasse attraverso
tante sofferenze? Non sembra evidente. La dignità regale esigeva, d'altra parte,
che egli fosse introdotto nell'intimità di Dio? Si può pensare di no. Bisogna alme-
no riconoscere che Cristo è re in un modo che si scosta di molto dall'immagine
ordinaria della regalità e che questo modo corrisponde piuttosto alla realtà del sa-
cerdozio. Il sacerdozio è una funzione di mediazione e richiede perciò una duplice
relazione, la più perfetta possibile, con Dio e con gli uomini. Questa esigenza si
realizza nel mistero di Cristo e permette di rendere conto di questo mistero molto
meglio che l'idea del Re-Messia. Le sofferenze del Cristo appaiono necessarie per
spingere fino al fondo la sua solidarietà con gli uomini. La sua glorificazione filia-
le, che l'introduce nell'intimità con il Padre, appare necessaria per dare alla sua
relazione con Dio tutta la perfezione possibile.
La presentazione sacerdotale del mistero di Cristo offre dunque grandi vantag-
gi per una migliore formulazione della fede cristiana. Il titolo di sommo sacerdote
(archiereús) era particolarmente indicato, perché permetteva di conservare gli ele-
menti validi del messianismo regale. Questo titolo, infatti, esprimeva insieme l'i-
dea di autorità (arche) e quella di sacerdozio (hiereús), ma insistendo sul sacerdo-
zio. Si comprende meglio così che l'autore l'abbia preferita ad ogni altro per defi-
nire il «Nome» ottenuto dal Cristo. Un altro passo dell'epistola conferma in segui-
to questo punto di vista. La fine della seconda parte (3,1-5,10) riprende in termini
solenni la conclusione suggerita dalla fine della prima (2,17); essa dichiara che
la glorificazione di Cristo dopo la sua passione è consistita per lui nell'essere «pro-
clamato da Dio sommo sacerdote» (5,10).
37
Mt 26,52 par.; Gv 18,36.
75
CAPITOLO V
Così come è espressa nella frase che abbiamo appena analizzato (Eb 2,17), l'af-
fermazione del sacerdozio del Cristo non fa evidentemente che introdurre l'argo-
mento. I cristiani del I secolo che sentirono questo testo per la prima volta ne pro-
varono certamente gioia e meraviglia, ma nello stesso tempo continuarono a porsi
molteplici domande.
Era proprio vero che Cristo aveva diritto al titolo di «sommo sacerdote»? Co-
me giustificare questo nuovo appellativo? In che senso bisognava intenderlo esat-
tamente? Usare quel linguaggio non significava cadere in pieno equivoco? Infatti,
quale rapporto poteva esserci fra il «sacerdozio» di Cristo e l'istituzione sacerdo-
tale che si conosceva? Tutti interrogativi che l'autore dell'epistola non poteva elu-
dere. Egli, d'altra parte, ne era perfettamente conscio e, se lui stesso li aveva su-
scitati, vuol dire che si sentiva in grado di rispondervi. Il tema principale della
sua predicazione — tutti i commentatori lo riconoscono — non è che la spiegazio-
ne approfondita del sacerdozio del Cristo.
77
Si ottiene uno schema di questo genere:3
I. La Parola di Dio 1,1-4,16
II. Il Sacerdozio di Cristo 5,1-10,18
1) Descrizione del sommo sacerdote applicata a Cristo 5,1-10
2) Digressione 5,11-6,20
3) Seguito dell'esposizione su Cristo sommo sacerdote 7,1-10,18.
Simile presentazione, lo si indovina, non è senza conseguenze per l'interpreta-
zione dell'epistola.4 Il testo di 5,1-10, che fa una descrizione del sommo sacerdo-
te, viene separato dagli sviluppi precedenti, che si ritiene non dicano nulla sul sa-
cerdozio. Ma viene pure separato dal seguito dell'esposizione sul sacerdozio
(7,1-10,18) da una lunga esortazione che non tocca questo tema. Resta quindi iso-
lato all'inizio della «seconda grande parte», come la vedono questi autori, e si pre-
senta come testo-programma. Si è indotti allora a pensare che esprima la conce-
zione di base dell'autore, dando una definizione del sacerdozio sufficiente ai suoi
occhi.
Ma allora appaiono diverse anomalie. La definizione, presunta completa, com-
porta strane omissioni. M. Dibelius osserva con meraviglia che essa non dice nul-
la dell'entrata del sommo sacerdote nel santuario.5 A dire il vero, essa non ricorda
nemmeno l'esistenza del santuario; il tema della casa di Dio è completamente as-
sente. Altro silenzio, non meno sorprendente: non viene richiamato «alcun mini-
stero di predicazione»;6 il sacerdozio sembra senza rapporto con la parola di Dio.
A giudicare dai titoli scelti, parola di Dio e sacerdozio appaiono nell'epistola co-
me due temi completamente distinti. Quando l'autore tratta della parola di Dio,
non parla del sacerdozio e quando definisce il sacerdozio, non menziona più la
parola di Dio. Questa impressione è forse giustificata? Se lo fosse, si tratterebbe
di lacune considerevoli, difficilmente spiegabili da parte dell'autore agli Ebrei,
che conosce così bene la sua Bibbia. Nell'Antico Testamento, lo si è visto, le fun-
zioni sacerdotali non si riducono assolutamente all'offerta dei sacrifici. Il sacer-
dote era pure l'uomo del santuario e l'uomo degli insegnamenti divini. Egli aveva
il privilegio di poter entrare nella casa di Dio7 e a lui ci si rivolgeva per conoscere
la volontà del Signore.8 L'autore dell'epistola ignorava forse questi aspetti impor-
tanti della mediazione sacerdotale? Aveva un'idea ristretta del sacerdozio? Era una
concezione carente quella che attribuiva al Cristo? Queste domande, di cui si per-
cepisce la gravità,9 restano senza risposta soddisfacente quando si fa cominciare
in Eb 5,1 o 4,14 l'esposizione sul sacerdozio e quando se ne escludono i capitoli
precedenti.
3
Cf R. GYLLENBERG, ibid., pp. 141 e 145-146.
4
L'ho dimostrato in «Situation et signification de Hébreux V. 1-10», NTS 23 (1976-1977) 445-456.
5
M. DIBELIUS, «Der himmlische Kultus nach dem Hebräerbrief», Theol. Blätter 21 (1942) 8 (= Bot-
schaft und Geschichte, Tübingen 1956, t. II, p. 171).
6
C. SPICQ, L'épître aux Hébreux, vol. 2, p. 129.
7
C f Nm 3,38; Lv 16.
8
Cf Dt 33,8a.9b-10a; Ger 18,18; Ml 2,7.
9
Fra le altre conseguenze, esse hanno ripercussioni dirette sulla concezione che ci si fa del sacerdozio
ministeriale. Si pensi ai dibattiti del Vaticano II sui rapporti fra predicazione e culto sacramentale.
78
Ma simile presentazione non corrisponde assolutamente al testo dell'epistola.
Essa falsa le prospettive delineate dall'autore ed è ottenuta soltanto mediante una
specie di censura esercitata contro la sua opera, una censura che sopprime arbitra-
riamente le prime menzioni del sacerdozio. Infatti, l'abbiamo già costatato, l'au-
tore introduce il tema del sacerdozio non alla fine del cap. 4, ma alla fine del cap.
2, terminando la sua esposizione sul nome del Cristo (1,5-2,18). E il titolo di sommo
sacerdote non capita là per caso; annuncia un'esposizione che inizia immediata-
mente e che costituisce una nuova parte dell'epistola (3,1-5,10). La frase iniziale
di questa parte riprende subito il nuovo titolo cristologico e invita solennemente
gli ascoltatori a «considerare» questo soggetto:
«Perciò, fratelli santi, partecipi di una vocazione celeste, fissate bene la mente in Gesù,
l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo...» (Eb 3,1).
10
F. T HIEN , «Analyse de l'épître aux Hébreux», RB (1902) 74-86; poi L. VAGANAY, «Le pian de l'épî-
tre aux Hébreux», in Memorial Lagrange, Gabalda, 1940, pp. 269-277. Cf C. SPICQ, L'Epître aux Hébreux,
2 vol., Gabalda, 1952-1953; M. M. BOURKE, «The Epistle to the Hebrews», in The Jerome Biblical Com-
mentary, Englewood Cliffs, 1968, t. II, pp. 381-403; A. CODY, «Hebrews», in A New Catholic Commenta-
ry on Holy Scripture, London, 1969, pp. 1220-1239; P. ANDRIESSEN - A. LENGLET, De Brief aan de He-
breeën, Roermond, 1971.
11
Cf La structure littéraire..., cit. (cap. IV, nota 36); Il messaggio della lettera agli Ebrei, Gribaudi,
Torino 1980.
79
III. Seconda esposizione sul sacerdozio del Cristo (aspetti spe-
cifici) 5,11-10,39
— Richiamo all'attenzione 5,11-6,20
1. Nuovo ordine sacerdotale 7,1-28
2. Nuova realizzazione sacerdotale 8,1-9,28
3. Definitiva efficacia sacerdotale 10,1-18
— Conseguenze per la vita cristiana 10,19-39
In questa struttura, il testo 5,1-10 trova il suo posto alla fine e non all'inizio
di una prima presentazione del sacerdozio. Questa posizione gli permette di com-
piere solo un ruolo limitato. Non si può, come si fa troppo spesso, isolarlo e dar-
gli un valore di definizione completa del sacerdozio. Si deve invece considerarlo
come una descrizione parziale, che viene a completare un'esposizione già comin-
ciata prima. Nel medesimo tempo, non ci si meraviglierà di trovarvi delle lacune,
poiché il suo limite corrisponde alla sua posizione. Prima di supporre che l'autore
sia rimasto a una concezione insufficiente, conviene rilevare con cura gli elementi
che ha presentato precedentemente.
La prima costatazione che balza quindi agli occhi, è che l'autore ha subito in-
dicato, nello stesso momento in cui introduceva il titolo di sommo sacerdote, due
aspetti differenti del sacerdozio, esprimendoli mediante due aggettivi. Non si è
accontentato di affermare che Cristo era dovuto diventare «sommo sacerdote», ma
ha precisato: eleémön haì pistòs archiereús, che letteralmente significa: «miseri-
cordioso e credibile sommo sacerdote» (2,17). Queste due qualificazioni meritano
la nostra attenzione, perché l'autore le riprende in seguito una dopo l'altra per
spiegarne la portata. L'aggettivo pistós che traduciamo con «credibile» riappare
immediatamente all'inizio della sezione seguente (3,2.5) e ne guida tutto lo svol-
gimento, che va fino a 4,14, come si costata osservando la frequenza delle parole
con la stessa radice o con senso apparentato.12 Quanto all'aggettivo eleémön, «mi-
sericordioso», esso è richiamato per mezzo del nome corrispondente, éleos, «mi-
sericordia», all'inizio di una seconda sezione, che si svolge da 4,15 a 5,10, ove
è commentato con tutta una serie di espressioni.13 Se ne deduce che, nel pensiero
dell'autore, i due aggettivi di 2,17 corrispondono a due aspetti fondamentali del
sacerdozio e che è importante perciò cogliere bene, da una parte, il significato
profondo di ciascuno dei due e, dall'altra, i motivi della loro unione.
12
Pístis, «fede»: 4,2; pisteúein, «crederò: 4,3; apistía, «incredulità»: 3,12.19; apeítheia, «indocilità»:
4,6.11; homología, «professione di fede»: 3,1; 4,14.
11
Cháris, «grazia»: 4,16; boétheia, «soccorso»: 4,16; sympatheîn, «compatire»: 4,15; metriopatheîn,
«essere comprensivo»: 5,2; sózein, «salvare»: 5,7; sotería, «salvezza»: 5,10.
80
fondamentali di Cristo sommo sacerdote, può avere vari significati: degno di fe-
de, fedele, credente. In che modo bisogna comprenderlo nel testo dell'epistola?
La frase di 2,17 non permette di dare a questa domanda una risposta certa, perché
utilizza il termine senza commentarlo. Ma nel paragrafo che segue (3,1-6) l'auto-
re lo riprende, e sviluppa il suo pensiero mettendo a confronto su questo punto
Gesù e Mosè. Secondo un buon metodo, gli esegeti dovrebbero dunque partire
da quel paragrafo per stabilire il senso dell'aggettivo. Ma ordinariamente non lo
fanno. Di solito essi scelgono un senso per pistós quando questa parola appare
per la prima volta, in 2,17, benché la frase non fornisca loro gli elementi suffi-
cienti per farlo, e mantengono poi quel senso in 3,1-6, senza rendersi conto che
non si accorda con l'orientamento di quei versetti.
Il significato abitualmente scelto è «fedele», senso possibile di pistós. Il Cristo,
dicono, è divenuto «sommo sacerdote misericordioso e fedele» (2,17). I cristiani
sono invitati a «fissare bene la mente in Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della
fede che noi professiamo, il quale è stato fedele a colui che l'ha costituito, così
come lo fu Mosè in tutta la sua casa» (3,1-2). O. Michel spiega che si tratta di
fedeltà attraverso le prove e le tribolazioni; C. Spicq parla di fedeltà nel compiere
una missione: «Gesù ha compiuto la sua missione esattamente secondo le prescri-
zioni divine». Poiché questa fedeltà si è esercitata nel passato, tale traduttore non
esita a introdurre nel testo un verbo al passato: «... Gesù, che fu fedele.. .», 14 men-
tre il greco ha un participio presente. E siccome il testo esprime un rapporto fra
Gesù e «Colui che l'ha costituito», si pensa alla fedeltà verso Dio.
È proprio questo che voleva dire l'autore? Un'analisi più rigorosa dimostra
di no e dà ragione alla traduzione della TOB che invece di intendere «fedele verso
Dio» ha inteso «accreditato presso Dio» (2,17). L'autore, infatti, non vuol parlare
qui di una virtù praticata da Gesù nel passato, ma di una posizione che egli possie-
de attualmente. Non prende pistós nel senso di «fedele» ma in quello di «degno
di fede». Egli invita i cristiani a contemplare Cristo glorioso, intronizzato presso
Dio e perciò pienamente «degno di fede». Soltanto questa interpretazione convie-
ne perfettamente all'insieme del testo e solo essa permette di definire esattamente
uno degli aspetti fondamentali del sacerdozio, che senza di esso scomparirebbe
dall'orizzonte.
Bisogna anzitutto notare che il senso primario di pistós non è «fedele» ma, co-
me attestano i dizionari, «degno di fede», «a cui si può credere».15 Quando l'auto-
re commenta pistós in 3,1-6, evidentemente pensa al suo significato primario. In-
fatti, per confrontare Gesù e Mosè, egli si serve di un passo della Bibbia greca
(Nm 12,7) dove la parola pistós significa chiarissimamente «degno di fede» e non
«fedele». Contro le contestazioni di Maria e di Aronne, Dio proclama che Mosè
14
S. ZEDDA, Lettera agli Ebrei, Roma 1967: «Gesù, il quale fu fedele a colui che lo fece».
15
Cf L. ROCCI, Vocabolario greco-italiano: «di cui ci si può fidare»; M. A. BAILLY, Dictionnaire grec-
francais: «qu'on peut croire, digne de foi»; LIDDELL - SCOTT - JONES, Greek-English Lexicon: «to be trasted
or believed»; W. BAUER, Wörterbuch zum NT: «Glauben oder Vertrauen weckend, glaubwürdig». Il suffis-
so -tos in greco corrisponde al suffisso -ibile in italiano: pistós significa «credibile», come horatós significa
«visibile». Per questo ci si serve spesso ài pistós per qualificare una parola: «Degna di fede è questa paro-
la...» (1 Tm 1,15; 3,1; 4,9; Ap 21,5; 22,6) o anche un testimonio (Ap 1,5; 2,13).
81
è in relazione privilegiata con lui e che egli è, per questo fatto, «degno di fede
in tutta la sua casa». Il nostro autore afferma che Cristo merita la stessa qualifica-
zione (3,2) a titolo ancora migliore, perché la sua posizione nella casa di Dio è
superiore a quella di Mosè.16
La correlazione fra Eb 3,1-6 e Nm 12,1-8 merita la nostra attenzione. Essa
non si limita, infatti, a una breve citazione, ma l'autore dell'epistola riprende esat-
tamente la prospettiva dell'episodio del Libro dei Numeri. Questa si caratterizza
per l'unione stretta di due temi: quello dell'autorità della parola e quello della po-
sizione nella casa di Dio. Questi due temi entrano nello schema della mediazione
sacerdotale che abbiamo precisato sopra 17 e ne costituiscono due elementi essen-
ziali. Il sacerdote è ammesso nella casa di Dio e, grazie al suo contatto privilegia-
to con Dio, è in grado di parlare a nome di Dio con piena autorità.
È proprio la problematica che appare in Nm 12,1-8. Il punto contestato da Ma-
ria e Aronne è l'autorità di Mosè, il suo ruolo di mediatore della parola di Dio.
«Dissero: Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato
anche per mezzo nostro?» (12,2). Il fatto decisivo che, subito dopo, riduce al si-
lenzio i contestatori è l'affermazione di Dio stesso di una relazione privilegiata
fra Mosè e lui, relazione che si esprime mediante la posizione concessa a Mosè
nella casa di Dio:
«Il Signore disse: Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore,
in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui. Non così per il mio servo Mosè:
egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa (in greco: pistós). A bocca a bocca parlo
con lui, in visione e non con enigmi, ed egli guarda l'immagine del Signore» (Nm 12,6-8).
L'autorità di Mosè è superiore a quella dei profeti, perché Dio lo onora di una
più grande fiducia, aprendogli tutta la sua casa.
Se l'autore dell'epistola si riferisce a questa tradizione, è proprio perché inten-
de fare una dimostrazione simile riguardo a Gesù. Egli vuole affermare l'autorità
sacerdotale del Cristo glorioso. Perciò lo presenta ai credenti come il sommo sa-
cerdote che trasmette la parola definitiva di Dio e che ha diritto a un'adesione sen-
za riserve. Che tale sia l'orientamento del testo, lo si può costatare fin dall'intro-
duzione di questo sviluppo (3,1), e se ne trova la conferma nell'esortazione che
segue (3,7-4,13) e nella conclusione della sezione (4,14).
Per introdurre il tema in 3,1, l'autore ci invita, infatti, a «fissar bene la mente
in Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo». Questa
espressione mette in rapporto il «sommo sacerdote» e «la professione di fede». Che
cosa significa esattamente? Non la si può tradurre semplicemente: «il sommo sa-
16
II dativo che segue pistós in Eb 3,2 non impone per nulla il senso di «fedele». Si tratta di un «dativo
di interesse». I rari esempi di dativo con pistós nella Bibbia greca vanno in questo senso: cf Sir 33,3: ho
nómos autô pistós, che la La Bible de Jérusalem traduce giustamente: «La legge è per lui degna di fede»;
1 Som 3,20: pistós Samuel... tô kýrio, «Samuele era accreditato presso il Signore»; in 1 Mac 7,8: pistós
tô basileî riprende 1 Mac 1,1 andrà hô pisteúeis, «un uomo che ha la tua fiducia», e si deve tradurre «uomo
di fiducia del re».
17
Cf cap. II, 3d.
82
cerdote, in cui noi crediamo», perché l'autore non parla solo di fede, ma dice «pro-
fessione di fede», che è molto di più (cf Rm 10,10). Alcuni esegeti propongono
di intendere: «Gesù, che noi dichiariamo nostro sommo sacerdote nella nostra for-
mula di professione della fede». Questa interpretazione sembra poco probabile perché
non si conosce nessuna formula antica di professione di fede che applichi a Gesù
il titolo di sommo sacerdote. Bisogna piuttosto vedere nell'espressione di 3,1 l'af-
fermazione di una funzione attiva del sommo sacerdote in rapporto alla professio-
ne di fede. Come sommo sacerdote, Cristo ci parla in nome di Dio e la sua parola
esige l'adesione di fede e la rende possibile. D'altra parte, come sommo sacerdote
Cristo fa giungere fino a Dio la nostra professione di fede; «per mezzo di lui»,
è veramente a Dio che noi siamo uniti nella fede (cf 13,15).
Per indicare meglio questo senso, l'autore ha fatto precedere il titolo di «som-
mo sacerdote» da un'altra parola, la cui attribuzione a Gesù dapprima sorprende,
ma poi si chiarisce, se vi si scopre un'allusione a una parola di Malachia (2,7).
In Eb 3,1 Gesù è chiamato «l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi pro-
fessiamo». Nessun altro testo del Nuovo Testamento attribuisce a Gesù il titolo
di apostolo. Nel nostro passo questo è unito strettamente a «sommo sacerdote»;
un solo articolo introduce le due parole. Per tale motivo, conviene spiegarlo con
l'aiuto del testo di Malachia che riguarda il sacerdote e lo chiama «messaggero
del Signore» al fine di sottolineare la sua funzione di insegnamento e l'autorità
della sua parola:
«Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istru-
zione, perché egli è il messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2,7).
Per tradurre la parola ebraica resa con «messaggero», la Bibbia greca ha scelto
ángelos, termine il cui senso primario è effettivamente «messaggero» ma che spesso,
nei testi biblici, ha il senso di «angelo». A causa di questa ambiguità, la traduzione
ángelos non conveniva al nostro autore, perché aveva appena dimostrato (in
1,5-2,18) che Cristo «ha ereditato un nome ben più eccellente di quello degli an-
geli» (1,4). Egli perciò ha scelto un altro termine, di senso equivalente: apostolos,
che non si presta a tale confusione.18
Mediante questo titolo, l'autore mette in maggiore evidenza, nel sacerdozio
del Cristo glorioso, l'aspetto di trasmissione della parola di Dio e l'aspetto di au-
torità. Cristo, come dirà più avanti, è «colui che parla dai cieli» (12,25). Divenuto
per la sua glorificazione «porta-parola e sommo sacerdote della fede che noi pro-
fessiamo» egli ci rivela la nostra «vocazione celeste» (cf 3,1) e ci invita a entrare
nel riposo di Dio (cf 3,7-4,11); chiede la nostra adesione di fede e la nostra pro-
fessione di fede. Egli ne ha il diritto, perché è «degno di fede», dichiarato tale
da Dio stesso.
L'orientamento definito dall'espressione iniziale (3,1) viene confermato dal-
l'esortazione di 3,7-4,13. L'autore vi riprende le parole del Sal 94 e le indirizza
alla comunità cristiana:
18
Apostolos significa «inviato», ed è perciò assai vicino a ángelos, «messaggero». Nel NT gli «apostoli»
sono incaricati di predicare il «Vangelo», o «buon messaggio» (eu-angélion).
83
«Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori...» (Eb 3,7-8,15; 4,7 = Sal 94,7-8).
Nel contesto del salmo, la voce di cui si tratta è quella di «Iahvè», «nostro Dio».19
Dal modo con cui introduce la sua citazione, l'autore impone un cambiamento si-
gnificativo d'interpretazione. Egli fa comprendere che la voce che bisogna acco-
gliere ora con una fede totale è quella di Cristo glorificato, stabilito «come Figlio
sulla casa» di Dio (3,6) e che parla perciò con la stessa autorità di Dio.
Facendo la sintesi dell'esposizione (3,1-6) con l'esortazione (3,7-4,13), la con-
clusione di tutta la sezione (4,14) esprime di nuovo con forza il legame che esiste
fra l'autorità della parola e il sacerdozio. L'autore richiama che «noi abbiamo un
sommo sacerdote» e definisce con tratti vigorosi la sua posizione elevata: egli è
«eminente», «ha attraversato i cieli» ed è «il Figlio di Dio». Così si trova fondata
l'autorità della sua parola sacerdotale, alla quale noi dobbiamo rispondere con un'a-
desione senza riserve «tenendo ferma la professione di fede». La prospettiva è estre-
mamente limpida: essa presenta il Cristo come «sommo sacerdote degno di fede».
84
a) Nell'Antico Testamento, la parola «casa» (ebraico beth; greco oîkos) è una
designazione abituale del tempio di Dio. Il suo uso in Nm 12,7 stabilisce un rap-
porto fra la posizione di Mosè e quella di un sacerdote. È quanto osserva H. Ca-
zelles a proposito di questo passo: «Forse questa frase riguardava dapprima la sta-
bilità del sacerdote addetto al santuario per comunicare le leggi del Signore».20
Ma aggiungendo la qualificazione «tutta» («degno di fede in tutta la sua casa»),
il testo del Libro dei Numeri suggerisce un'estensione di senso: non solo il santua-
rio stesso, ma tutti gli oggetti e tutte le persone che sono in qualche modo legate
al santuario. È ciò che ha compreso il Targum di Onkelos il quale, parafrasando
questo versetto, non esita a vedere nella «mia casa» l'equivalente di «mio popolo».
Ma il popolo, ricordiamolo, non può essere chiamato casa di Dio che nella misura
del suo rapporto con il santuario dove Dio abita. Il nostro autore, lo vedremo pre-
sto, è sensibile a queste armonie.
Prima di richiamarle, egli si dà premura di far vedere che la relazione fra Gesù
e Mosè non è solo di rassomiglianza — «Gesù degno di fede come Mosè» —; è
anche di superiorità. E la superiorità di Gesù si fonda su un rapporto diverso con
«la casa»:
«Infatti in confronto a Mosè, egli è stato giudicato degno di una gloria tanto maggiore,
quanto di un maggiore onore gode il costruttore in confronto alla casa stessa» (Eb 3,3).
Questa frase suggerisce evidentemente che, malgrado l'autorità che gli era con-
ferita nella casa di Dio, Mosè continuava a far parte di quella casa; non se ne di-
stingueva radicalmente. Il caso di Cristo è diverso. La sua autorità è un'autorità
da costruttore; vi è perciò un totale cambiamento di livello.
b) Su che cosa si fonda l'autore per avanzare questa affermazione? Non si fati-
ca a indovinarlo, se si ricordano i capitoli precedenti e in particolare una citazione
fatta all'inizio della prima parte (1,5) e che è tratta dall'oracolo del profeta Natan.21
Questo oracolo riguardava interamente la questione della «casa». A Davide, che
progettava di costruire una casa per Dio, Natan dice che sarà Dio a costruire una
casa per lui, dandogli un figlio che regnerà dopo di lui. Questo figlio dato da Dio
a Davide sarà nello stesso tempo Figlio di Davide e Figlio di Dio.22 L'oracolo
termina con un'ultima promessa divina, la cui formulazione nel primo Libro delle
Cronache presenta particolari interessanti. Ricordiamo di passaggio che le Crona-
che, di composizione più recente, accentuano i tratti messianici dell'oracolo e co-
stituiscono perciò una fonte preferibile per gli autori del Nuovo Testamento. Con
tutta verosimiglianza, non è a 2 Sam 7,14 che il nostro autore si riferisce in Eb
1,5 per esprimere la filiazione divina di Cristo, ma a 1 Cr 17,13 che dà del Messia
un'immagine più idealizzata. Il testo di 2 Sam 7,14 considera, infatti, l'eventuali-
tà di gravi mancanze da parte del figlio di Davide; il redattore delle Cronache ha
avuto cura di sopprimere questo tratto, che non si addice al Messia, Figlio di Dio.
Tale è anche la ferma convinzione dell'autore dell'epistola agli Ebrei.23
20
Nell'edizione a fascicoli de La Bible de Jérusalem, Libro dei Numeri, nota su Nm 12,7.
21
2 Sam 7; 1 Cr 17.
22
2 Sam 7,13; 1 Cr 17,12.
23
Cf Eb 4,15; 7,25; 9,14.
85
Nella promessa finale a cui abbiamo fatto allusione, la differenza di formula-
zione è meno importante in se stessa, ma ha un rapporto più diretto con il nostro
testo. Mentre in 2 Sam 7,16 Dio dice a Davide: «La tua casa e il tuo reame sussi-
steranno davanti a me», in 1 Cr 17,14 Dio s'interessa del Figlio promesso e di-
chiara a suo riguardo: «Io lo manterrò per sempre nella mia casa». In greco questa
promessa diviene: Pistóso autòn en tô oîko mu, frase in cui si riconoscono le espres-
sioni utilizzate in Eb 3,2 e che letteralmente significa: «Io lo renderò degno di fede
nella mia casa». È ragionevole pensare che il testo greco di 1 Cr 17,12-16 costi-
tuisca la base scritturistica sulla quale il nostro autore si appoggia per presentare
Gesù come «degno di fede per colui che l'ha costituito... nella sua casa»24 e per
ricongiungere immediatamente a questa affermazione il tema della costruzione e,
un po' più avanti, quello della filiazione,25 già richiamato esplicitamente in Eb 1,5.
Nello stesso tempo risulta effettuato il legame fra il messianismo davidico e la cri-
stologia sacerdotale: questa si rivela capace di riprendere tutta la sostanza della
dottrina tradizionale in una prospettiva d'insieme più illuminante.
24
In Eb 3,2 la tradizione testuale esita fra le due formulazioni: «nella sua casa» o «in tutta la sua casa».
Le testimonianze sono più numerose per la seconda formulazione che corrisponde a Nm 12,7 e a Eb 3,5.
Ma è da preferire la prima come lectio difficilior. Essa corrisponde a 1 Cr 17,14. Siccome era più difficile
percepire questa allusione, si aveva la tendenza a correggere il testo per ricondurlo a Nm 12,7.
25
Il tema della costruzione in Eb 3,3b-4 è in rapporto con 1 Cr 17,12; quello della filiazione in Eb
3,6 è in rapporto con 1 Cr 17,13.
86
Bisogna dire ancora di più: la casa di Dio che egli ha costruito non deve essere
immaginata come una semplice componente dell'universo creato — componente
che evidentemente sarebbe inferiore al tutto di cui farebbe parte 26 — ma costitui-
sce in realtà una nuova creazione, di maggior valore della prima. La prima crea-
zione, infatti, perirà,27 mentre la casa di Dio edificata da Cristo rimarrà in eterno;
essa è «l'eredità eterna» (9,15), «il regno incrollabile» (12,18), dove sono intro-
dotti i credenti.
L'autore non si attarda a sviluppare qui tale dottrina; si accontenta di orientare
le menti in quella direzione e ritorna subito al testo dei Numeri per dedurne un
altro argomento. Nel libro dei Numeri, Mosè è presentato da Dio come «suo
servitore»:
«Il mio servo Mosè è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa» (Nm 12,7).
In tale contesto, come in altri simili, l'appellativo di «servitore» non ha eviden-
temente nulla di umiliante. Esso costituisce, al contrario, un titolo di onore, per-
ché esprime un legame personale con Dio. La Bibbia greca si è data premura di
sottolineare questa sfumatura. Invece di usare la parola dûlos, «schiavo», ha scel-
to un termine più nobile, therápon, che qualificava l'uomo libero, ammesso al ser-
vizio di un personaggio importante. Mosè perciò occupava una posizione invidia-
bile nella casa di Dio. Il nostro autore lo costata e precisa lo scopo per cui tale
onore gli era stato accordato: si trattava di «garantire ciò che sarebbe stato detto».
La prospettiva, lo si vede, è proprio quella dell'autorità della parola. Passando
allora al caso di Cristo, l'autore non ha la minima difficoltà a dimostrare che la
sua posizione è ancor più gloriosa: infatti, è a titolo di «Figlio» e non di «servito-
re» che Cristo ha preso posto presso Dio e perciò il suo rapporto con la casa è diverso:
«In verità Mosè era degno di fede in tutta la casa di lui come servitore, per rendere testi-
monianza di ciò che doveva essere annunziato più tardi; Cristo, invece, lo è in qualità
di Figlio, costituito sopra la sua casa» (Eb 3,5-6a).
La sua autorità è dunque incomparabilmente superiore, e la sua parola merita
un'attenzione e un'adesione altrettanto più sollecite.
c) Giunti a questo punto, il tema della «casa» si arricchisce all'improvviso di
una nuova armonia. L'autore definisce la casa in termini inattesi. Egli proclama:
«E la sua casa siamo noi» (Eb 3,6b).
Ciò dicendo, egli passa chiaramente alla concezione cristiana del santuario.
La casa di Dio costruita da Cristo non è un edificio materiale simile al tempio
di Salomone. È una costruzione di «pietre viventi» (1 Pt 2,5). Aderendo a Cristo,
i credenti stessi diventano «il santuario di Dio». Questa dottrina è paolina,28 ma
il nostro autore la presenta qui sotto una luce più viva, ricollegandola al sacerdo-
zio di Cristo. In quanto sommo sacerdote, Cristo è «l'uomo del santuario», e lo
26
C f L c 66,1-2.
27
Eb 1,11s; 12,26s.
28
Cf 1 Cor 3,16s; 6,19; 2 Cor 6,16; Ef 2,21.
87
è con una pienezza di senso che nemmeno si immaginava precedentemente. La
sua vittoria sulla morte e la sua glorificazione significano che egli stesso è entrato
nell'intimità celeste di Dio; ma non solo: esse hanno pure trasformato radicalmen-
te la situazione religiosa di tutti gli uomini. Questi hanno ormai la possibilità di
divenire casa di Dio diventando casa di Cristo. È sufficiente, per questo, essere
docili alla voce del Cristo che li chiama alla speranza e mantenere la loro adesione
a lui:
«La sua casa siamo noi, a condizione che conserviamo la libertà e la speranza in cui ci
vantiamo» (Eb 3,6b).
Divenuti «partecipi di Cristo» come dice un po' più avanti l'autore (3,14), i
cristiani formano una comunità che è abitazione di Dio a molto miglior titolo che
qualsiasi edificio materiale. Questa trasformazione del tema della «casa» non mancava
di qualche preparazione nell'Antico Testamento e nella tradizione giudaica. Ri-
cordando l'Esodo, un salmo invita a lodare il Signore perché allora «Giuda diven-
ne il suo santuario» (Sal 113,2); verso l'inizio della nostra era, la comunità di
Qumrân aveva l'ambizione di divenire «la casa di santità per Israele, la società
di altissima santità per Aronne».29 Ma l'affermazione del Nuovo Testamento è più
netta e più forte, perché si fonda sulla glorificazione di Cristo. Essa si ritrova nel
testo sacerdotale della prima lettera di Pietro, che analizzeremo più avanti. Le con-
seguenze che ne risultano per il modo di concepire il culto e la vita cristiana hanno
una portata immensa.
Notiamo subito che l'insistenza posta sul tema della «casa» in questo paragrafo
che presenta Cristo come «sommo sacerdote degno di fede» sbarra la strada alle
concezioni individualistiche della fede. Essa fa vedere che l'adesione della fede
ha necessariamente due dimensioni: mette il credente in relazione personale con
Dio attraverso la mediazione di Cristo glorificato, ma, nello stesso tempo, lo fa
entrare in una casa, cioè in una comunità animata dalla fède. Le due dimensioni
non possono essere separate l'una dall'altra, perché la loro unione definisce la me-
diazione di Cristo, «sommo sacerdote degno di fede per i rapporti con Dio» (2,17),
«degno di fede... in tutta la casa» (3,2). Volersi chiudere nell'individualismo reli-
gioso significa escludersi dalla mediazione di Cristo. Si vede da ciò che il primo
aspetto del sacerdozio di Cristo espresso in 3,1-6 non è senza rapporto con il se-
condo, che riguarda la solidarietà fraterna (4,15-5,10).
29
1QS VIII,5-9.
88
possano costruire sulla terra una «casa» per Dio e fornirgli quaggiù un luogo di
riposo. Il vero riposo di Dio non è terrestre, ma celeste (Is 66,1). L'epistola agli
Ebrei adotta questa prospettiva e si serve del Sal 94 per ricordare ai cristiani la
loro «vocazione celeste» (Eb 3,1). Il rapporto dei credenti con la casa di Dio com-
porta perciò parecchi aspetti: in un senso, i credenti sono fin d' ora «casa di Dio»,
per il fatto della loro appartenenza a Cristo (3,6.14). In un altro senso, essi non
sono ancora introdotti pienamente nella casa di Dio, perché non fruiscono ancora
del «riposo di Dio». Cristo invece ne usufruisce (Eb 4,10); egli ha aperto per noi
la via che vi conduce (4,14) e proprio per questa ragione è «sommo sacerdote»
e «sommo sacerdote degno di fede». Noi dobbiamo «ascoltare la sua voce» quando
egli ci indica l'itinerario da seguire per entrare definitivamente nell'intimità di Dio.
In tutto ciò si vede quanto sarebbe falso pensare che l'autore avesse separato
parola di Dio e sacerdozio, e che avesse dimenticato, nel sacerdozio di Cristo,
la funzione sacerdotale d'insegnamento. È invece questo il primo punto sul quale
insiste. Cristo è «apostolo e sommo sacerdote della nostra professione di fede» (3,1).
L'aspetto di autorità della parola è sviluppato prima di ogni altro (3,1-4.14). L'a-
spetto di compassione sacerdotale e di offerta sacrificale viene soltanto in seguito
(4,15-5,10) e per di più la sua efficacia è subordinata a quella della parola, perché
l'autore, terminando questo secondo punto, sottolineerà la necessità di ascoltare
docilmente Cristo per poter ottenere la salvezza (5,9); il verbo utilizzato sarà hyp-
akúein, imparentato con akúein «ascoltare». Più immediatamente necessaria, la me-
diazione della parola presenta un rapporto più diretto con la situazione attuale di
Cristo, così come i cristiani la percepiscono nella fede. Mentre la Passione di Ge-
sù è un avvenimento del passato, che ha avuto luogo una volta per tutte (cf 9,25-28),
l'autorità di Cristo è una realtà presente. Cristo glorificato la possiede e l'esercita
attualmente. È adesso che egli parla ai credenti quale sommo sacerdote celeste.
Si comprende sempre meglio che l'autore abbia cominciato da questo aspetto la
sua esposizione.
e) Detto ciò, bisogna riconoscere che l'insistenza sul titolo di sommo sacerdo-
te è meno forte in questa sezione (3,1-4,14) che nella seconda (4,15-5,10). Que-
sta differenza non è difficile da spiegare. Essa è dovuta al fatto che il primo aspet-
to del sacerdozio è sviluppato partendo dalla figura di Mosè, e il secondo partendo
dalla figura di Aronne. Ora la Bibbia applica il titolo di «sacerdote» ad Aronne,
e non a Mosè. Non si poteva perciò insistere su questo titolo nella prima sezione.
Certamente Mosè non era senza rapporto con il sacerdozio. Egli apparteneva
alla tribù di Levi e lo si vede esercitare le più alte funzioni sacerdotali. E lui che,
ai piedi del Sinai, compie i riti del sacrificio che fonda la prima alleanza.30 Ancor
più: è lui che effettua la consacrazione sacerdotale di suo fratello Aronne (Lv 8).
Si può perciò dire che Mosè ha posseduto il sacerdozio prima di Aronne e più
pienamente di lui. Filone non esita a chiamarlo sommo sacerdote e a dimostrare
lungamente la legittimità di questo appellativo. Più fedele al testo della Bibbia,
il nostro autore si astiene dall'attribuire a Mosè la dignità sacerdotale, ed è sola-
mente sulla qualificazione «degno di fede nella casa di Dio» — attestata in Nm
30
Es 24,4-8; Eb 9,19-21.
89
12,7 — che porta il confronto fra Mosè e Gesù. Egli non dice: «Considerate Gesù
che è, come Mosè, sommo sacerdote degno di fede...», ma: «Considerate il nostro
sommo sacerdote Gesù che è degno di fede come Mosè...». Di conseguenza, egli
era indotto a non ripetere più in seguito il titolo di «sommo sacerdote».
Ma questo suo modo di procedere manifesta ancora più chiaramente la volontà
di trattare l'aspetto di autorità e di congiungerlo al sacerdozio. Se l'aspetto di au-
torità della parola gli fosse parso secondario, si sarebbe accontentato di richiama-
re la figura sacerdotale di Aronne che — il fatto è abbastanza strano — non com-
porta questo aspetto. Se, al contrario, avesse voluto rilevare l'autorità di Cristo
senza preoccuparsi del rapporto di questa autorità con il sacerdozio, avrebbe espresso
subito il punto di confronto con Mosè, senza attribuire a Cristo il titolo di sommo
sacerdote. In realtà, egli ha voluto mettere insieme i due elementi: «sommo sacer-
dote» e «degno di fede» già in 2,17 e poi di nuovo in 3,1-2, malgrado la difficoltà
suscitata dal confronto con Mosè. Egli dimostra così l'importanza che annette al
loro congiungimento.
Per sviluppare il tema della parola, egli certamente non poteva trovare nulla
di meglio che un confronto con Mosè. Infatti nell'Antico Testamento Mosè è il
più prestigioso mediatore della Parola di Dio, colui al quale si riconosce la più
alta autorità. Se una delle più importanti funzioni dei sacerdoti era di consultare
Dio a nome dei fedeli e di trasmettere loro le risposte divine, che permettono di
orientarsi nella vita, Mosè, da questo punto di vista, appare superiore a tutti. Egli
non ha ricevuto da Dio alcuni oracoli occasionali, alcune istruzioni di circostanza
(torà al plurale), ma la completa rivelazione delle «vie del Signore», l'Istruzione
(Torà al singolare) incomparabile che regola la totalità del culto divino e dell'esi-
stenza del popolo. Da lui dipendevano infine tutti i sacerdoti, perché è lui che,
secondo Dt 31,9-13, aveva affidato ai sacerdoti e agli anziani la Legge divina,
prescrivendo loro di farla conoscere. Per definire sotto questo rapporto la posizio-
ne di Cristo sommo sacerdote, era dunque non solo utile e chiarificatore ma real-
mente indispensabile confrontare la sua autorità sacerdotale con quella della pri-
ma guida del popolo di Dio. E ciò che il nostro autore non ha tralasciato di fare
in questa prima sezione, spesso male interpretata, dove egli presenta Cristo come
«sommo sacerdote degno di fede».
90
CAPITOLO VI
Per esercitare il sacerdozio, non basta occupare una posizione privilegiata presso
Dio e poter parlare a nome di Dio. È necessario essere congiunti strettamente agli
uomini. Il ruolo del sacerdote è, infatti, quello di realizzare una mediazione fra
gli uomini e Dio. Perciò il nostro autore non si accontenta di attirare l'attenzione
sull'autorità gloriosa di Cristo. Egli vi aggiunge subito la considerazione della sua
misericordia:
«15Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermi-
tà, ma uno che è stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato.
16
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia
e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,15-16).
Il modo piuttosto pesante con cui l'autore passa a questo secondo aspetto del
sacerdozio corrisponde a un'intenzione precisa, quella di respingere un possibile
errore. L'evocazione del sommo sacerdote compassionevole è introdotta da una
duplice negazione: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compati-
re...». Essa si presenta così come una smentita da opporre a una falsa idea che
ci si potrebbe fare della gloria del Cristo, e risponde pure alle obiezioni che ne
deriverebbero. Subito prima, l'autore ha preso argomento dalla posizione glorio-
sa del Cristo sacerdote per fondare un appello alla fede:
«Poiché abbiamo dunque un grande sommo sacerdote, che ha attraversato i cieli, Gesù,
Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede» (Eb 4,14).
In se stesso l'argomento è perfettamente valido; la glorificazione celeste con-
ferisce a Cristo l'autorità sacerdotale più alta che ci sia. Ma presso le povere crea-
ture che siamo noi, una posizione così elevata potrebbe provocare un effetto di
dissuasione. Cristo glorificato è veramente il sommo sacerdote che ci conviene?
Non è posto troppo in alto perché osiamo avvicinarci a lui? Come credere che
il «Figlio di Dio» possa accogliere noi, così miserabili? L'autore risponde a obie-
zioni di questo genere affermando che la qualificazione sacerdotale di Cristo com-
porta un secondo aspetto, quello, precisamente, di una straordinaria capacità di
accoglienza compassionevole.
Ciò che fa il sacerdote, non è il primo aspetto o il secondo; è l'unione dei due.
Un sacerdote accreditato presso Dio, ma al quale mancasse il legame di solidarie-
tà con gli uomini, non sarebbe in grado di venire in aiuto alla loro miseria. La
sua posizione elevata lo separerebbe da loro e sarebbe inutile. Viceversa, un sa-
cerdote colmo di compassione per i suoi simili, ma che non fosse gradito a Dio,
non potrebbe mai intervenire in modo efficace. La sua compassione sarebbe sterile.
91
Tutto il valore del sacerdozio di Cristo proviene dalla perfetta unione in lui delle
due qualità sacerdotali: Cristo è «sommo sacerdote misericordioso, e nello stesso
tempo accreditato presso Dio» (2,17). Ciò che assicura questa unione perfetta è
il modo stesso con cui Cristo ha acquistato la sua posizione gloriosa: non separan-
dosi dagli altri uomini, ma portando fino al fondo la sua solidarietà con loro. Cri-
sto è arrivato alla sua gloria attuale per il cammino della sua passione, cioè per
il cammino della sofferenza e della morte umana. La sua gloria non è affatto la
gloria dell'ambizione soddisfatta, è la gloria dell'amore generoso. Essa lo stabili-
sce perciò nella misericordia e gli dà i mezzi per venire in aiuto. Questo è il punto
che l'autore si dispone a dimostrare in questa seconda sezione della sua esposizio-
ne (4,15-5,10). Il testo non è lungo, ma è di una rara completezza.
1. MISERICORDIA SACERDOTALE
Delle due frasi d'introduzione già citate, la prima, all'indicativo, afferma la
capacità di compassione del Cristo sommo sacerdote; la seconda, all'imperativo,
invita i fedeli a trarre le conseguenze di questa situazione. Tanto è stimolante l'au-
torità sacerdotale del Cristo, quanto è attraente la sua misericordia sacerdotale.
L'autorità della sua parola assicura alla fede la sua saldezza; la certezza della sua
compassione suscita lo slancio della confidenza.
Si riconoscono in queste due frasi molti termini già usati in 2,17-18 per descri-
vere una prima volta il sacerdozio di Cristo. Ma si notano anche precisazioni sug-
gestive. L'invito ad avvicinarsi allora non era stato formulato. Esso costituisce
un progresso importante nella presa di coscienza della situazione cristiana e sarà
ripetuto a conclusione della grande esposizione centrale (10,22). Il sacerdozio è
fatto per servire. Il nostro autore ne è ben convinto; perciò non si limita a un'e-
sposizione teorica, ma congiunge costantemente fra loro esposizione ed esortazione.
La qualifica di «misericordioso» (2,17) è ripresa sotto un'altra forma: il nostro
sommo sacerdote è «capace di compatire le nostre infermità» (4,15). Ricordando
le «nostre infermità», l'autore fa capire quanto noi abbiamo bisogno di «misericor-
dia» e di «aiuto». Egli completa la prospettiva aggiungendo la parola «grazia»: la
misericordia e l'aiuto che riceviamo sono favori gratuiti, che ci giungono dalla
generosità divina. Ma essi hanno nello stesso tempo un'espressione e una base as-
sai umane. Ci vengono, infatti, dalla compassione di Gesù, fondata sull'esperien-
za diretta di tutte le nostre prove. «Egli è stato messo alla prova in ogni cosa, co-
me noi». Il verbo «esser messo alla prova» (peirázein), che in 2,18 è usato all'ao-
risto e designava perciò le prove subite da Gesù come avvenimenti del tempo pas-
sato, si ritrova adesso, in 4,15, al participio perfetto, che esprime il risultato dure-
vole dei fatti passati. Cristo possiede ormai l'esperienza delle difficoltà; è un uo-
mo provato; egli conosce, dal di dentro, la nostra condizione umana. Così ha ac-
quistato una profonda capacità di compassione. Per compatire veramente, bisogna
aver patito.
A proposito della rassomiglianza del Cristo con i suoi fratelli (2,17), l'autore
presenta qui una precisazione significativa. La rassomiglianza si estende a tutti
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gli aspetti, dice, «escluso il peccato» (4,15). Così si trovano distinti nettamente
la prova e l'errore, la tentazione e il peccato. L'uomo che passa per la prova è
tentato di ribellarsi e di scoraggiarsi, ma se non cede, è senza difetto e la prova
non fa che maturarlo. Gesù è stato provato e tentato, ma non ha peccato. Questo
punto è di primaria importanza ed era indispensabile specificarlo, se no alcune
menti potevano immaginarsi il contrario. Dalla necessità di somiglianza completa
di Cristo con i suoi fratelli, si poteva facilmente dedurre che il Cristo stesso do-
vette soccombere alla tentazione e commettere colpe. Ma sarebbe un grave equi-
voco. Il nostro autore non vi pensa affatto, e lo dice con tutta chiarezza. Egli lo
ripete più avanti: Cristo è un sommo sacerdote «santo, innocente, senza macchia»
(7,26), che «ha offerto se stesso a Dio come una vittima senza macchia» (9,14).
È proprio ciò che proclamano anche gli altri testimoni di Cristo.1
Questa assenza di peccato non diminuisce forse la solidarietà di Cristo con gli
uomini? A prima vista, si ha l'impressione che sia così, ma un po' di riflessione
fa capire che si tratta di un'illusione. Il peccato, infatti, non contribuisce per nulla
a stabilire una vera solidarietà. Al contrario, è sempre un fattore di divisione, per-
ché sprofonda ciascuno nel proprio egoismo. L'autentica solidarietà con i pecca-
tori non consiste nel rendersi complice delle loro colpe, ma nel portare con loro
tutti i pesi della pena che ne deriva. Gesù ha avuto questa generosità inaudita. Lui,
l'innocente, «ha portato i peccati della moltitudine».2 Egli ha preso su di sé la sor-
te degli uomini miserabili, più ancora: il supplizio infamante dei peggiori crimi-
nali (Eb 12,2). Ne consegue che ormai nessun uomo può essere oppresso da una
situazione dolorosa senza trovare per ciò stesso il Cristo al suo fianco. Lungi dal-
lo scavare un fossato tra Cristo e noi, le nostre prove e le nostre infermità sono
divenute il luogo privilegiato del nostro incontro con lui, e non solamente con lui,
ma, grazie a lui, con Dio stesso.
Sono, infatti, le prove dell'esistenza umana che hanno meritato a Cristo la sua
posizione attuale presso Dio: «È stato coronato di gloria e di onore a causa della
morte che ha sofferto» (2,9). È a causa della sua solidarietà con noi che è stato
posto in trono alla destra del Padre. Per questa ragione, il trono di Dio, il cui aspetto
dominante fino allora era la santità terribile, è divenuto per noi «il trono della gra-
zia» (4,16) e noi siamo invitati ad accostarci ad esso con «piena fiducia» (parre-
sía). La parola greca, si noti, non esprime soltanto un sentimento di confidenza,
ma un diritto riconosciuto, una situazione fondata solidamente. La presenza del
«nostro» sommo sacerdote alla destra di Dio ha trasformato effettivamente la no-
stra situazione religiosa in modo radicale.
1
Cf Gv 8,46; 1 Gv 3,5; 2 Cor 5,21; 1 Pt 1,19; 2,22; 3,18.
2
Eb 9,28; cf 1 Pt 2,22-24; Rm 5,6-8.
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mo sacerdote la somiglianza con i suoi fratelli, anzi, si preoccupava di separarlo
da loro. Ed è ancor più sorprendente costatare che, su un punto capitale, non era
affermata alcuna distinzione: mai un testo richiede che il sommo sacerdote sia esente
da ogni peccato. La Legge esigeva da lui una perfetta integrità fisica e la più rigo-
rosa purità rituale; precisava perfino che egli non poteva sposarsi che con una ver-
gine (Lv 21,13-15); ma non prescriveva l'assenza di peccato. Al contrario, preve-
deva esplicitamente il caso inverso, quello di un sommo sacerdote «che pecca e
rende così colpevole il popolo» (Lv 4,3). In tal caso, invece di decretare il suo
decadimento, la Legge prescriveva semplicemente di offrire animali immolati, per
rimediare a questa situazione paradossale, di un mediatore divenuto ostacolo fra
il popolo e Dio.3 La storia del sacerdozio attestava effettivamente, fin dal princi-
pio, la condizione peccatrice del sommo sacerdote: Aronne si era lasciato trasci-
nare nell'idolatria e aveva «gravato il popolo di un grande peccato».4
Si potrebbe pensare che, per il fatto stesso di questa comune debolezza, la ca-
pacità di compassione fosse spontaneamente inclusa nell'ideale sacerdotale del-
l'Antico Testamento. Ma non è così. Pur essendo complice del peccato del popo-
lo, Aronne non lo scusa, ma rigetta su di lui tutta la colpa (Es 32,22s), imitando
in ciò l'atteggiamento di Adamo dopo il primo peccato (Gn 3,12). È una chiara
dimostrazione che il peccato non stabilisce una corrente di solidarietà. Il seguito
della storia manifesta d'altra parte che, nell'Antico Testamento, un atteggiamento
di misericordia verso i peccatori sembrava inconciliabile con il sacerdozio. Infatti
è grazie a un intervento di assoluto rigore che la tribù di Levi si vide concedere
il sacerdozio.5 Accorsi all'appello di Mosè, i leviti avevano agito con severità contro
gli idolatri, massacrandoli senza pietà, e Mosè aveva allora dichiarato: «Avete ri-
cevuto oggi l'investitura come sacerdoti del Signore; ciascuno di voi è stato con-
tro suo figlio e contro suo fratello...» (Es 32,29). Un episodio simile è raccontato
da Pineas che, per aver trapassato con la sua lancia un israelita infedele e la sua
complice, aveva ottenuto la promessa di un sacerdozio perpetuo.6 Nella benedi-
zione data a Levi, il sacerdozio è fondato sulla rottura di ogni legame di famiglia:
«Egli dice del padre e della madre: io non li ho visti, non riconosce i suoi fratelli
e ignora i suoi figli» (Dt 33,9).
Queste tradizioni rendono evidente che, nell'antica concezione del sacerdozio,
tutta l'attenzione si portava sulla relazione fra il sacerdote e Dio.7 E si aveva l'im-
pressione che lo stabilirsi di questa relazione esigeva la rottura dei legami umani
e il rifiuto della misericordia. Al tempo di Cristo questo ideale sacerdotale antico
era ancora molto vivo. Anzi, si era imposto con nuovo vigore nella rivolta dei
Maccabei, che era cominciata proprio con un episodio simi