Anche Mosè rientra nel genere “personaggio amato”, amico di Dio, amante di
lui. È il suo speciale rapporto con Dio che ne fa uno speciale personaggio.
Eccezionale per la sua nascita (Es 2,1-10), eccezionale per la sua morte (Dt 34,5-
7). Tra la nascita e la morte, Mosè sarà raccontato in una lunga parabola
narrativa, la più lunga di tutto l’AT per una sola persona umana. Essa inizia in
Esodo e va avanti fino alla fine del Deuteronomio, quando il protagonista muore,
impiegando così addirittura 4 libri della Bibbia, anzi dell’inizio (e fondamento)
della Bibbia, la Torah o Pentateuco. Questo dice la particolarità e lo spessore
davanti ai quali il lettore o l’ascoltatore viene a trovarsi.
Come? Non guardando (più) alle tradizioni del periodo statale (giacché la
monarchia e il real Tempio avevano tragicamente fallito), ma risalendo agli
inizi di Israele (“da Abramo a Mosè”).
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Mosè era sempre di più visto come:
l’elemento coagulante delle sensibilità differenti
il perno attorno a cui tutto girava e doveva girare
il mediatore per eccellenza, poiché massimo rappresentante di Dio sulla
terra.
Egli non poteva essere appannaggio esclusivo di alcuno. Nessuno dei gruppi
doveva ritenersi suo erede assoluto o suo successore a scapito di un altro. Non
è un caso che, nella trama pentateucale, i figli di Mosè non hanno alcun rilievo
né seguito. Invece, non è così per i figli di Aronne, i quali dovranno esercitare
il sacerdozio.
Tutto questo, secondo i redattori del Pentateuco, poteva avvenire a una sola
condizione: il suo particolarissimo rapporto con Dio. Bisognava raccontare il
suo speciale legame con lui.
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Sostanzialmente la tradizione ne ha fatto una sorta di eroe popolare, quali se ne
ritrovano in altri testi leggendari delle letterature dell’AVO. Tuttavia il testo
biblico sottolinea a più riprese che Mosè è e resta un “uomo”.
A volte ne evidenzia la grandezza: “l’uomo (ha’ish) Mosè era molto grande (gadol
me’od) nel paese d’Egitto” (Es 11,3), ed è chiamato “il mio signore (’adoni)” (Nm
32,25). Altre volte, al contrario, il testo ribadisce che si tratta pur sempre di un
uomo ordinario, come tutti gli altri. Infatti, non tace sul suo peccato (cf Nm
20,1-13), anche se non si capisce chiaramente in cosa consista (disobbedienza?).
Vi occupa da solo quasi tutti i ruoli che saranno poi assolti da differenti autorità
in Israele e prefigura i grandi uomini del suo futuro.
è a “capo” (sar) del popolo (Es 2,14), sia quale capo militare che
quale liberatore e conquistatore
Mosè è giudice (shophet) del suo popolo (Es 2,14; 18,13; Nm 25,4-5;
32,6)
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verso il Sinai (Es 15,25). Ma pure intercede per placare la collera di
Dio contro il popolo dopo il Sinai (Nm 11,2)
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La tradizione ha manifestatamente sottolineato che Mosè è il grande legislatore
d’Israele → (E).
Questo aspetto mosaico è talmente importante da trovarsi al centro dello
schema e al cuore del Pentateuco, occupando un numero impressionante di
testi:
la seconda parte dell’Esodo
tutto il Levitico
la prima parte di Numeri.
Mosè non è soltanto il liberatore del suo popolo (C), ma è pure il conquistatore
della terra (la Transgiordania) (C’), dove si insedia una parte di Israele.
Per recarsi dall’Egitto al Sinai, Mosè guida il popolo nel deserto come un pastore
con il suo gregge (D), mentre per recarsi dal Sinai ai confini della terra
promessa guida di nuovo il popolo attraverso il deserto (D’) per 40 anni.
Mosè non è un capo ordinario, come gli altri. Egli è chiamato direttamente da
Dio alla missione che deve compiere, non senza passare per il sospetto, la
calunnia, il malcontento, la ribellione del suo popolo. Egli diventa veramente
l’uomo di Dio, il suo servo (B). Questo però non gli impedisce di rimanere un
uomo debole e precario, un peccatore (B’).
Ogni popolo ama considerare le grandi figure del suo passato come degli “eroi
nazionali”, così Israele si comporta con Mosè. La tradizione ha fatto ricorso a
racconti leggendari e meravigliosi al fine di descrivere sia gli inizi di Mosè (A)
che la sua morte (A’). Egli è l’eroe di Israele.
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Voglio aggiungere:
(A) un’altra osservazione per sottolineare ulteriormente l’eccellenza del
personaggio Mosè
(B) e poi concludere sul suo rapporto intimo con Dio.
(A) Basta la ricorrenza del suo nome per convincersi di quale peso egli abbia
entro il Pentateuco.
Nella Bibbia ebraica il nome di persona Mosheh è presente almeno 770 volte e,
di queste, 650 si trovano nella Torah, più esattamente tra Esodo e Deuteronomio
(Es: 289 volte; Lv: 92 volte; Nm: 231 volte; Dt: 38 volte).
Tali cifre rivelano un chiaro squilibrio fra la Torah e il resto della Bibbia ebraica,
perché è soprattutto nella prima che Mosè “conta”.
Dopo Davide (1023), Mosè è la figura umana più nominata, di gran lunga più
di Aronne (374), Giacobbe (350), Levi (349) e Abramo (solo 175).
Il Pentateuco tende a presentare Mosè come massima autorità umana, cosa che
rifulge in molte sue pagine, ma che in modo ancor più vivido è detto attraverso
quei racconti di mormorazione a lui indirizzata e di contestazione da lui subita,
di cui sono disseminati i libri di Esodo e Numeri.
Essa dichiarerà che è stato proprio Dio a incaricarlo e non proviene dal “suo
cuore” (millibi [cf Nm 16,28]) l’iniziativa di condurre Israele verso la terra
promessa, come spesso lo accusano i malevoli.
Nel racconto della sua vocazione (Es 3-4), Mosè oppone a Dio 5 obiezioni,
quando in altri racconti di vocazione ve ne sono al massimo due. Esse
manifestano un’inesistente sete di potere in lui e la sua non-attitudine al
“carrierismo” a tutti i costi. Davvero Mosè risplende in tutta la sua autorevole
e apprezzabile statura di “amato/amico” di Dio.
→ Autorità e servizio!
→ Autorità del servizio!
→ Servizio dell’autorità!
A tal proposito, si trova spesso la forma “il servo del Signore” (‘eved-Yhwh)
riferita a Mosè e che addirittura sancisce la chiusura del Pentateuco (Dt 34,5).
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Altrove, al di fuori del Pentateuco, ricorre per lui la forma “il servo di Dio” (Dn
9,11; Ne 10,30; 1Cr 6,34; 2Cr 24,9).
Ci sono, poi, nella Bibbia ebraica occorrenze di Mosè con suffissi riferiti al
Signore come:
→ “il suo servo” (Es 14,31)
→ “il tuo servo” (Es 4,10)
→ “il mio servo” (Nm 12,7).
Chi, dunque, pensa che il “servire” sia di poco conto, deve ricredersi
nell’appurare che, lungo il Pentateuco e anche oltre, è proprio “servo” (‘eved)
il titolo onorifico più frequentemente (circa 30 volte) dato a Mosè con riguardo
a Dio. Mosè, pertanto, è e resta il servo esemplare del Signore, che è l’altro modo
biblico per dire “l’amico/ amato/amante di Dio”.
Il suo essere “servo”, infatti, mette in luce che Mosè sia interlocutore di Dio,
facendolo così ancor più autorevole agli occhi del lettore/ascoltatore.
In oltre 200 passi Mosè è menzionato con nome in qualità di destinatario di
comunicazioni divine
(il sintagma YHWH + verbo del discorso + Mosheh e locuzioni affini).
Egli appare pertanto come l’interlocutore di Dio e può essere considerato come
il suo “tu”.
È vero che il Signore si rivolge anche ad Aronne, ma di rado (gli unici casi sono
Lv 10,8-11 e Nm 18,1.8-20).
Perlopiù, i due fratelli agiscono di comune accordo.
Solamente nel caso di Nm 12,1s. Aronne si schiera dalla parte della sorella
Miriam. In quel caso, però, la reazione di Dio chiude la questione e non lascia
dubbi sulla superiorità di Mosè anche su fratelli e sorelle.
Ci sono poi, due formule che descrivono il particolarissimo legame tra Dio e
Mosè. Le troviamo in Es 33,12-13, sono di Dio, anche se entrambe le pronuncia
Mosè stesso mentre sta parlando con Dio per ricordargliele:
“trovasti (tu, Mosè) grazia ai miei (di Dio) occhi” (matsa’ta chen be‘nay), cosa
che l’AT in tutta la sua estensione afferma, oltre che di Mosè, soltanto di
Noè (Gen 6,8)
“ti (Mosè) conosco (il sogg. è Dio) per nome” (yeda‘ticha veshem), detta
invece solamente per Mosè.
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Inoltre, in Es 4,16 e poi ancora in Es 7,1 si legge che a Mosè, “il servo di Dio”, è
stato assegnato nientemeno che il ruolo/funzione di ’Elohim da parte di Dio
stesso nei confronti rispettivamente:
di Aronne
di faraone.
Es 4,16 → Mosè sta protestando con Dio: non vuole quell’incarico di liberatore, non
se la sente, sa di essere inadatto, è un balbuziente. E Dio gli risponde che:
“parlerà lui (Aronne) per te al popolo e (Aronne) sarà per te come bocca
e tu sarai per lui come Elohim (le’lohim)”.
Un’indubbia espressione forte: Mosè sarà per Aronne come Dio, cioè come
Dio Mosè parlerà ad Aronne e Aronne riferirà a nome di Mosè al popolo.
Es 7,1 → La stessa cosa si ripropone per il faraone. Mosè dovrà presentarsi al
cospetto suo per parlargli. Dio, con la stessa espressione pregna, dice a
Mosè:
“Guarda che ti ho fatto Elohim (e’lohim) per faraone, e Aronne, tuo
fratello, sarà tuo profeta”.
In certo qual modo, si può dire che in Mosè e nel suo servizio, gli uomini
incontrano Dio poiché Dio assume qualcosa di simile al compito del suo
rappresentante:
sia all’interno della comunità (posizione superiore rispetto ad Aronne)
sia verso l’esterno (nei confronti di faraone).
Che poi in Es 8,9.26 Dio stesso agisca “secondo la parola di Mosè” (kidvar Mosheh)
non fa altro che accrescerne agli occhi del lettore ulteriormente l’importanza.
Spesso Mosè si trova tanto vicino a Dio che le loro azioni si intrecciano o
combaciano (Es 14,21; ecc.), oppure il discorso contro l’uno coinvolge anche
l’altro e viceversa (Es 17,2-3.7; Nm 17,6.9s.; ecc.).
Tra gli esegeti c’è chi insiste sul fardello particolare che grava sulle spalle di
Mosè e traduce con “curvo” e anche “tormentato”.
Sulla base di questo passo qualche altro studioso vede in Mosè “il povero per
eccellenza” e il testimone dei poveri (‘anawim).
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(B) Ma il motivo di sostanza per cui Mosè è l’“amato” di Dio, lo proclamano 3
affermazioni che sono come piazzate in punti strategici del macro-racconto che
lo riguarda (in Esodo, in Numeri e in Deuteronomio).
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