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sono storie, nei Vangeli, che a distanza di duemila anni sanno ancora sorprenderci e provocarci, perché
sono capaci di farci osservare la realtà da una prospettiva inattesa. Le parabole sono racconti di uomini e
donne come noi – padri, figli, lavoratori – e hanno in Gesù il loro narratore d’eccezione. L’eredità che
lasciano a chi le ascolta o a chi, come noi oggi, le legge, è rivoluzionaria e scardina i pregiudizi e la
concezione tradizionale di giustizia, mantenendo intatto lo sguardo umanissimo di Gesù sul quotidiano:
famiglie in crisi, poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, lavoratori stanchi e modi diversi di
amare e vivere la preghiera.
Tra le parabole evangeliche, Enzo Bianchi ne ha scelte quattro tra le più note e, muovendosi con agilità tra
passato e presente, ci consegna un’appassionata rilettura di quelle che restano ancora oggi pagine aperte dei
Vangeli. In esse la parola si fa rivelazione del volto di Dio, guidandoci in profondità, fino al centro del suo
cuore colmo di misericordia, che significa amare in grande. Per ricordarci che è attraverso la parola di
Cristo che l’amore di Dio si trasferisce all’umanità, trasformandone per sempre l’esistenza.
ENZO BIANCHI (Castel Boglione 1943), fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose, collabora
con “La Stampa”, “Avvenire”, “la Repubblica” e importanti testate internazionali. Nel 2014 Papa Francesco
lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. È autore di
numerosi libri, tra i quali Il pane di ieri (2008), Perché pregare, come pregare? (2009) e Dono e perdono
(2014). Per Rizzoli ha pubblicato, tra gli altri, Ero straniero e mi avete ospitato (2006), Dio, dove sei?
(2008) e Le vie della felicità (2010).
Enzo Bianchi
Raccontare l’amore
Parabole di uomini e donne
Proprietà letteraria riservata
© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-67977-7
Prima edizione digitale 2015 da edizione maggio 2015
Le traduzioni dei testi classici, patristici e, ove necessario, di quelli biblici sono a cura dell’autore.
www.rizzoli.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Raccontare l’amore
Dedico questa lettura del Vangelo
a papa Francesco,
venuto dalle periferie del mondo
ma soprattutto dalle interiora ecclesiae.
Introduzione:
come Gesù guardava, pensava, raccontava
Enzo Bianchi
Priore di Bose
9 aprile 2015,
memoria del martirio di Dietrich Bonhoeffer
I
Il samaritano
(Lc 10,30-37)
Diventando il prossimo degli altri, portiamo a compimento la Legge, quindi la volontà di Dio, e
riprendiamo facendoli nostri l’intenzione e l’atteggiamento del Cristo. Questi sono il dinamismo del
movimento verso l’altro e il realismo di un gesto alla nostra portata che vanifica il fantasma
dell’onnipotenza caritativa1.
Introduzione: l’arte dell’ascoltare
Più volte Gesù nel suo insegnamento ha invitato i suoi interlocutori a prestare
molta attenzione all’ascolto, ad esercitarsi in quest’arte così decisiva per il
credente. Chi diventa credente, chi ha fiducia, chi riceve il dono della fede, lo
deve all’ascolto: la fede e la fiducia nascono dall’ascolto (fides ex auditu: Rm
10,17), sono generate da parole affidabili, parole di chi può ricevere fiducia ed
essere creduto. “Shema’ Jisra’el”, “Ascolta, Israele!” (Dt 6,4) è un invito che
Dio fa al suo popolo e che il popolo accoglie come il grande comandamento. Per
questo il credente ripete più volte al giorno questo comando, per ricordare a se
stesso la propria vocazione e il proprio impegno a restare fedele all’alleanza con
il suo Dio, uno e unico Signore.
Gesù, che annunciava la Parola da parte di Dio, il quale lo aveva inviato
all’umanità, spesso ha esortato all’ascolto. Nei Vangeli sono registrati numerosi
inviti da parte sua, quasi grida, avvertimenti urgenti, imperativi ad ascoltare:
Ascoltate! (Mc 4,3)
Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti! (Mc 4,23)
Fate attenzione a quello che ascoltate! (Mc 4,24; “a come ascoltate”: Lc 8,18)
Ascoltatemi tutti e comprendete! (Mc 7,14; cfr. Mt 15,10)
Sono inoltre attestate anche delle beatitudini: Gesù definisce “beati”, dunque
felici, capaci di camminare con convinzione e gioia, “quelli che ascoltano la
parola di Dio e la osservano” (Lc 11,28). Nei Vangeli secondo Matteo e Luca,
nel primo caso all’interno della spiegazione di una parabola, nel secondo subito
prima del brano oggetto del nostro interesse, vengono testimoniate queste sue
parole rivolte ai discepoli:
Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere
ciò che voi vedete, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono (Lc
10,23-24; cfr. Mt 13,16-17).
Gesù mette in scena un uomo che va per la strada, scendendo dalla città santa
di Gerusalemme verso la città di Gerico, posta sulla riva del Mar Morto, là dove
il Giordano sfocia nel lago salato. È “un uomo” (ánthropos tis), un individuo
anonimo che ha una sola determinazione: appartiene all’umanità. Gesù non dice
né la sua nazionalità, né la sua religione, né la sua età, né la sua professione. Non
sappiamo nulla di lui, se non che è un umano (al limite, potrebbe trattarsi sia di
un maschio sia di un femmina!) nel quale ognuno potrà riconoscere un uguale a
sé nella dignità e nella finitezza di tutte le creature umane. Il tragitto che egli
percorre è situato in una regione non abitata, deserta, dunque particolarmente
propizia per tendere agguati. Così quest’uomo viene assalito dai banditi, che lo
derubano, lo malmenano e lo lasciano in condizioni pietose: “mezzo morto”
(hemithanés) sulla strada. È un uomo sofferente, nel bisogno estremo, e senza
l’aiuto di qualcuno è destinato alla morte per i colpi ricevuti. Vittima della
violenza, preda della sofferenza, non riesce neppure a gridare, a chiedere aiuto…
Ed ecco che un sacerdote passa sulla stessa strada dove costui giace a terra.
Anche lui scende dalla città santa, dove ha svolto il suo compito, quello di
officiare nel tempio il culto al Signore Dio di Israele. Quando vede il disgraziato
a terra, si sposta sull’altro lato e va oltre. Non si ferma, continua per la sua
strada. Lo stesso fa un levita che passa per quel luogo: vede ma prosegue il suo
cammino. Gesù non specifica nulla sulle motivazioni legali o psicologiche che li
spingono ad agire in quel modo: dice semplicemente che, “avendo visto”
quell’uomo sanguinante e abbandonato, sono andati oltre, passando dall’altra
parte della strada.
Il sacerdote e il levita sono riconosciuti pubblicamente come servi del Signore
e di fatto sono giudicati esemplari per i figli di Israele credenti: sono il “clero”,
la porzione eccellente del popolo di Dio, sono esperti della Legge. Eppure,
nonostante abbiano visto e dunque siano diventati consapevoli del pericolo di
vita corso dall’uomo che hanno incontrato sul loro cammino, non si sono
avvicinati a lui ma, anzi, si sono allontanati, andando oltre. Osservanti nel
compiere i sacrifici prescritti dalla Legge al tempio, non ricordano però le parole
del Signore espresse dal profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio,
conoscenza di Dio piuttosto che olocausti” (Os 6,6). Proprio loro non conoscono
quel Dio che credono di servire, quel Dio che chiede di soccorrere l’oppresso, di
fare il bene agli altri, perché a lui non importano i sacrifici né le liturgie del
tempio, se non c’è questa prassi di giustizia e carità (cfr. Is 1,11-17). Dobbiamo
riconoscere che nella descrizione fornita da Gesù non c’è una polemica anti-
clericale manifesta ma, pur nella laconicità delle sue parole, viene espresso un
giudizio netto: sono passati oltre e non hanno usato misericordia come la volontà
di Dio espressa nella Legge e nei Profeti richiede. Uomini del culto, del servizio
di Dio, sono incapaci di compiere il servizio dell’uomo: offrono in sacrificio a
Dio vino e olio, ma non sanno usarli a servizio dei fratelli… Forse la loro etica è
quella espressa nel libro del Siracide:
Se fai il bene, sappi a chi lo fai;
così avrai una ricompensa per i tuoi benefici.
Fa’ il bene all’uomo religioso e avrai la ricompensa […]
Condividi con l’uomo religioso ma non dare aiuto al peccatore.
Fa’ il bene all’umile ma non donare all’empio,
rifiutagli il pane e non dargliene […]
Dona all’uomo buono ma non dare aiuto al peccatore (Sir 12,1-2.4-5.7).
Ecco chi erano i samaritani per l’uditorio di Gesù, e anche per Gesù non erano
certo amici, avendogli negato l’accoglienza, come testimonia Luca nel capitolo
precedente (cfr. Lc 9,52-53). Proprio allora Giacomo e Giovanni avevano reagito
chiedendo a Gesù di poterli bruciare con un fuoco dal cielo, ma egli li aveva
aspramente rimproverati, sconfessando l’immagine di Dio proposta dai suoi due
discepoli. Eppure egli fa entrare in scena uno di loro, sceglie l’uomo più
disprezzato, uno scarto agli occhi dei giudei, opponendolo al sacerdote e al levita
di cui ha narrato il comportamento e presentandolo come un salvatore: dunque
proprio un eretico salva un uomo!
“Invece un samaritano, che era in viaggio, passando accanto all’uomo mezzo
morto e avendolo visto, fu preso da viscerale compassione.” Quel samaritano
identificato solo dall’appartenenza a un gruppo disprezzato, passando accanto
all’uomo gravemente ferito, che non chiede aiuto né grida, potrebbe anche lui
andare oltre. Tuttavia gli si fa prossimo, perché nel vederlo è commosso, “è
preso da viscerale compassione” (verbo splanchnízomai). Lui, solo lui, trasforma
la sua “visione” in un atteggiamento di compassione. Il racconto di Gesù qui si
fa molto preciso, quasi al rallentatore: il samaritano
è preso da viscerale compassione per quest’uomo,
si fa prossimo a lui, gli si avvicina,
gli fascia le ferite,
vi versa sopra olio e vino,
lo carica sul suo giumento,
lo porta a una locanda,
si prende cura di lui.
Compie sette azioni – dice Gesù – cioè fa un’azione completa. Colui che era
stato abbandonato dal sacerdote e dal levita ora è visto da un altro uomo, che
prova compassione viscerale per lui. All’origine del comportamento del
samaritano vi è la prossimità, l’essersi fatto vicino al malcapitato, e in quella
vicinanza del faccia a faccia si manifesta la compassione viscerale, che è
partecipazione alla sofferenza altrui, com-passione, soffrire insieme. La
prossimità permette la compassione e la compassione a sua volta genera il
comportamento responsabile, che risponde al grido di dolore dell’uomo. È stato
decisivo il guardare, il vedere l’altro, l’avvicinarsi a lui, rendendolo, da
sconosciuto e lontano, prossimo. E quando l’altro è talmente vicino da poterlo
guardare in volto, ecco allora la compassione.
Insomma, il samaritano che fa éleos, misericordia – “qui fecit misericordiam”,
espressione parallela a quella usata per Dio nel Benedictus: Dio è intervenuto
“per fare misericordia” (poiêsai éleos, ad faciendam misericordiam: Lc 1,72) –
non è più buono del sacerdote o del levita, ma a differenza degli altri due si è
fatto prossimo e nella prossimità non si è chiesto se l’uomo malmenato fosse il
suo prossimo; no, ha agito, si è avvicinato a un uomo e ha scoperto che era nel
bisogno e che lo commuoveva profondamente. Se si fosse posto le domande:
“Chi è il mio prossimo? Può esserlo quest’uomo sconosciuto?”, avrebbe avuto
ragioni per non fermarsi e per proseguire il suo viaggio. Avrebbe potuto pensare:
“Forse quest’uomo non è il mio prossimo, perché è un giudeo, un nemico, un
eretico che mi disprezza e che io devo disprezzare”. E i maestri con la loro
dottrina, ma persino la stessa Torah, gli avrebbero ispirato di lasciare il mezzo
morto al suo destino, magari affidandolo a Dio.
E invece il samaritano fa tutto quello che può fare per quest’uomo,
semplicemente perché è un uomo come lui. E nel fare questo, compie le azioni
compassionevoli proprie di Dio. Dopo avergli prestato il primo soccorso sul
luogo dell’agguato, porta l’uomo sul suo giumento a una locanda, pensando al
suo bisogno di convalescenza. Anche qui, sette verbi raccontano con precisione
il “fare” del samaritano:
estrae due denari,
li dà all’albergatore,
gli dice
di prendersi cura di lui,
gli promette di rimborsarlo
di ciò che avrebbe speso in più,
quando sarebbe ritornato.
Il samaritano è stato mosso visceralmente a compassione e ha curato il ferito
con un pronto intervento, ma poi ha pensato con responsabilità a ciò che poteva
ancora fare per lui, e così ha operato la carità con intelligenza (da intus legere,
leggere dentro), discernendo il reale bisogno dell’uomo incontrato. Anche questa
seconda fase del prendersi cura è molto importante e resta un richiamo forte a un
amore che non sia solo frutto di commozione passeggera, ma sia intelligente,
cioè pensato e in qualche modo progettato per la sua realizzazione. L’azione di
amore richiede sempre una responsabilità pensata e una realizzazione scelta con
creatività, frutto di attento discernimento.
Ivan Illich, che ha sostato sovente sulla parabola del samaritano, leggendola
come il testo evangelico più rivoluzionario, mette in evidenza “la libertà,
svincolata da ogni condizionamento, con cui il samaritano agisce”, una libertà
che agli ascoltatori di Gesù appariva come “un’incredibile violazione dell’etica
convenzionale corrente […] L’aspetto straordinario di questa storia è il suo
asserto rivoluzionario che il prossimo potrebbe essere chiunque”, perché
“nessuna categoria, di legge o di costume, di lingua o di cultura, può definire in
anticipo chi possa essere il prossimo”. L’etica che esprimeva lo spirito di un
popolo aveva dei confini ben fissati, “ma Gesù trasgrediva continuamente quei
confini, non soltanto con il samaritano ma con ogni sorta di persone il cui status
andava dal marginale al tabù assoluto: esattori delle tasse, donne di dubbia
reputazione, pazzi, e così via. Violava le regole religiose e metteva in
discussione anche il primato della famiglia”. Per questo – conclude Illich – “il
gesto del samaritano è un inoltrarsi senza paura all’esterno di ciò che la sua
cultura ha santificato, per creare una relazione nuova e, potenzialmente, una
comunità nuova”9.
Per il samaritano la vita dell’altro ha determinato un mutamento del suo
progetto di viaggio: ha dovuto fermarsi, curare l’uomo, cedere al ferito la sua
cavalcatura, caricandolo sul suo giumento, camminare a piedi nel deserto per
portarlo alla locanda. Poi, una volta assicuratosi che l’albergatore si sarebbe
preso cura di lui, prosegue il suo viaggio, perché non si lega all’uomo aiutato e
neppure lo lega a sé. L’altro resta tale, anche se aiutato deve rimanere nello
spazio della libertà, e lo stesso samaritano deve essere libero per fare la propria
strada. Qui dovremmo specificare che il samaritano ama certamente l’altro, ma
lo ama amando il suo bene. Nessuna illusione di inabissarsi nell’aiuto dell’altro,
obbedendo più a un bisogno di protagonismo nel fare il bene che a una vera
carità, la quale richiede il decentramento da se stessi e l’assunzione di una
duplice libertà, quella di chi aiuta e quella di chi è aiutato.
In questo amore del samaritano ci viene dato un esempio di cosa significhi
“amare il prossimo come se stessi”: volendo il bene dell’altro e non
semplicemente volendogli bene. Questa è la vera azione di carità: uscire da se
stessi per diventare prossimo all’altro nell’assoluta gratuità, senza chiedersi se ci
sarà reciprocità, senza chiedersi se ci sarà riconoscenza o ringraziamento per
l’azione che si compie. Nella parabola raccontata da Gesù, l’uomo aiutato non
dice nulla e quindi non ci viene neppure detto se c’è stato un incontro, uno
scambio con il samaritano, perché questo sta nello spazio del dono, della grazia,
non è il motivo dell’azione caritatevole. Notando che il nome di Dio non appare
mai nella parabola e nemmeno la menzione del comandamento dell’amore,
potremmo addirittura sostenere che il samaritano ha agito “come se Dio non ci
fosse”, ma scosso alle viscere nel vedere che un uomo come lui era sofferente. E
tuttavia – come chiarirà meglio la conclusione di questa parabola e poi quella dei
due figli – nell’espressione “fu preso da viscerale compassione” è presente il
sentimento proprio di Gesù di fronte al male, nonché ciò che Dio prova per
l’umanità: la compassione propria di un padre o di una madre verso il figlio nella
sofferenza. Sì, nella compassione-commozione del samaritano ci sono la
compassione-commozione di Gesù e di Dio, perché l’uomo è stato creato a
immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26-27), e se c’è qualcosa che lo
testimonia è proprio la capacità di amare che l’uomo ha ricevuto dal Creatore.
Chi è il vero credente? Colui che conosce la Legge e le obbedisce, oppure chi
cerca di essere conforme a Dio, il Padre misericordioso, praticando un amore
come il suo?
Finalmente la vita eterna, il Regno di Dio venuto per sempre, la fine di ogni
sofferenza, pianto, morte (cfr. Ap 21,4). Ma perché questo dono, perché questa
grazia da parte del Signore? La motivazione è chiara, le parole sono come pietre:
Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero
straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete
venuti a trovarmi (Mt 25,35-36).
È una confessione che dice la sorpresa di questi “giusti” (Mt 25,46), i quali
non sono consapevoli di aver incontrato il Figlio dell’uomo, il Re durante la loro
vita. Sì, è vero, sono stati sensibili ai bisogni dei fratelli, sono usciti da se stessi
per approssimarsi a quelli che soffrono, ma non hanno mai visto o individuato
negli uomini come loro, negli ultimi, nei più piccoli né il Re, né il Figlio
dell’uomo, né il Cristo. In loro c’è grande meraviglia, non c’è nessun vanto per
azioni compiute, nessuna ostentazione e, soprattutto, nessuna pretesa di merito.
Ma il Giudice escatologico risponde loro:
Amen, io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi più piccoli che sono i miei fratelli,
l’avete fatto a me (Mt 25,40).
In verità Gesù stesso, che si è fatto fratello degli uomini, che, da Figlio di Dio
quale era, si è fatto carne (cfr. Gv 1,14), uomo tra gli uomini, è stato il
beneficiario delle azioni di carità. Ma questi uomini e queste donne non lo
sapevano: sono benedetti e introdotti nel Regno di Dio perché hanno realizzato
l’amore verso altri uomini e donne, non hanno solo pensato, saputo, conosciuto
l’amore. Hanno vissuto la prossimità, la vicinanza concreta, la solidarietà con chi
era nelle difficoltà. Hanno sostato di fronte al bisognoso, hanno provato il
sentimento della compassione viscerale, lo hanno accolto e vi hanno obbedito,
compiendo azioni di cura, di consolazione, di aiuto dell’altro. Con chi era
affamato hanno condiviso il cibo, a chi era assetato hanno dato da bere, allo
straniero hanno offerto accoglienza e ospitalità, a chi era nudo hanno fornito i
vestiti necessari per vivere dignitosamente, del malato si sono presi cura e al
prigioniero hanno fatto visita, donandogli la propria presenza. Non hanno
compiuto grandi azioni, non hanno praticato comportamenti eroici, ma sono stati
umanissimi, facendo all’altro ciò che avrebbero desiderato fosse fatto loro.
Nel mondo c’è tanta sofferenza, e lo sappiamo bene, ma non vogliamo vedere
da vicino i sofferenti; se li incontriamo, passiamo dall’altra parte della strada o
comunque andiamo oltre, soffochiamo facilmente sul nascere i sentimenti di
commozione e di compassione. Sappiamo, ma non vediamo e soprattutto non
facciamo. Arriviamo addirittura a pregare Dio per gli affamati, gli stranieri, i
prigionieri, ma non ci impegniamo a togliere la fame, ad accogliere chi è
sconosciuto e ci fa paura, a dare il tempo e la presenza a chi è solo e bisognoso
di cura. Nella nostra quotidianità accade così, ma in tal modo avviene già qui e
ora il giudizio di cui alla fine della Storia ci sarà solo la sentenza manifesta: lo
chiamiamo giudizio di Dio, ma in verità è un giudizio che siamo noi a dare su
noi stessi, sulla nostra umanizzazione, sulla nostra comunione con gli altri…
Il Re, il Giudice, non fa che ratificare la sentenza, per questo si vede in
qualche modo costretto a dire a quelli radunati alla sua sinistra:
Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché
ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero
straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete
visitato (Mt 25,41-43).
Dalla lettura di questa parabola vorrei ora trarre alcune attualizzazioni urgenti
per il nostro stare da cristiani nella compagnia degli uomini, per il nostro stare
nella Storia senza esenzioni ma vivendo la solidarietà, la comunicazione e la
comunione. Chiediamoci dunque: qual è l’essenziale, la novità
dell’insegnamento di Gesù?
LA COM-PASSIONE
Ciò che è messo particolarmente in evidenza nella parabola del samaritano è
che costui ha avuto compassione e ha fatto misericordia.
Ho meditato di recente in modo molto ampio su questo tema11 e, per dire solo
l’essenziale, com-passione significa pietà ed empatia compartecipe ma anche
dedizione misericordiosa di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei
confronti dell’altro uomo. La compassione non è un concetto a buon mercato
della tradizione cristiana e in realtà – come osserva Johann Baptist Metz –
racchiude “una memoria eversiva”12. Compassione è il ricordare la dedizione di
Dio verso il popolo schiavo e oppresso, il servizio di Gesù verso i sofferenti.
Certo, occorre pensare la compassione non solo in senso individualistico ma
anche a livello politico, perché la compassione costituisce l’unica risposta
adeguata dell’uomo alla sofferenza degli altri uomini. La compassione è pietà
per chi soffre, è partecipazione al suo dolore e, come tale, è un elemento centrale
dell’amore del prossimo. La compassione è risposta al muto grido di aiuto che si
leva dal viso dell’uomo sofferente, dagli occhi atterriti e inermi della persona
soverchiata dal dolore, vicina alla morte; è il no radicale all’indifferenza di
fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è
possibile, alla sofferenza dell’altro. La compassione, facendo della sofferenza
una sofferenza per l’altro, spezza l’isolamento in cui l’eccesso di sofferenza
rischia di rinchiudere l’uomo. Non posso non ricordare, in proposito, le
splendide parole di Emmanuel Lévinas: “Il dolore isola in maniera assoluta ed è
da questo isolamento assoluto che nasce l’appello rivolto ad altri […] Non è la
molteplicità umana che crea la socialità umana, ma quella relazione strana che
inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore
che mi turba, nel dolore dell’altro che non mi è indifferente. È l’amore per l’altro
o la compassione […] Soffrire non ha senso […] ma la sofferenza per ridurre la
sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande
dignità […] La compassione, cioè, etimologicamente, soffrire con l’altro, ha un
senso etico. È la cosa che ha più senso nell’ordine del mondo, nell’ordine
normale dell’essere13.
Oggi più che mai abbiamo consapevolezza di un universalismo negativo,
quello della sofferenza del mondo, sofferenza dovuta a povertà, violenza,
ingiustizia strutturale, oppressione. Siamo coscienti che c’è un grido che sale a
Dio dalla miseria e dall’oppressione di milioni di uomini e donne. Sentiamo
quanto sia vero il grido di cui ci parla il libro dell’Esodo: “I figli di Israele
gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla
schiavitù salì a Dio” (2,23). Ecco, questo grido deve essere raccolto da noi:
occorre immedesimarsi nel dolore altrui, nel dolore dell’umanità, fino a fare
della compassione una scelta, una responsabilità.
Non si può dimenticare che “il primo sguardo di Gesù non si rivolgeva al
peccato degli altri, ma alla sofferenza degli altri. Il peccato per lui era anzitutto
rifiuto della partecipazione al dolore degli altri […] era, come l’ha definito
Agostino, ‘il ripiegamento del cuore su se stesso’”14. Noi cristiani dovremmo
coltivare questa sensibilità per il dolore altrui che ha caratterizzato il modo di
vivere di Gesù, e così narrare quell’unità inscindibile dell’amore di Dio e
dell’amore del prossimo. È cristiano chi mette a tema il dolore altrui, chi
denuncia responsabilità evase, solidarietà negate, chi sa mostrare éleos,
compassione. Non è forse questo il fondamento per una vera etica universale che
riguardi tutti gli esseri umani, qualunque sia la loro religione, la loro cultura?
Il Signore Gesù continua a dirci:
Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia [éleos] io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13; Os
6,6).
Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia [éleos] io voglio e non sacrificio” (Mt 12,7;
Os 6,6)!
Attualizzando le parole del profeta Osea, egli ci ha insegnato una volta per
tutte che la vera conoscenza di Dio è la compassione per l’altro, chiunque egli
sia.
Conclusione
Cristo si è mostrato più vicino agli uomini che la Legge e i Profeti, “facendo
misericordia a colui che era caduto nelle mani dei banditi”, e si è reso prossimo
non con le parole ma con gli atti. Ci è dunque possibile, seguendo ciò che è
detto: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1Cor 11,1), imitare
Cristo e avere compassione degli uomini “caduti nelle mani dei banditi”,
avvicinarci a loro, fasciare le loro ferite, versarvi olio e vino, caricarli sul nostro
giumento e portare i loro pesi. È per esortarci a questo che il Figlio di Dio non si
rivolge solo all’esperto della Legge ma a noi tutti: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
E se agiremo in questo modo, otterremo la vita eterna in Cristo Gesù16.
[Cristo] si fece prossimo a noi vivendo la compassione e si fece vicino a noi donandoci la sua
misericordia17.
Sì, è Gesù che con tutta la sua esistenza ci ha narrato “le viscere di
misericordia del nostro Dio” (splánchna eléous: Lc 1,78); è lui che ci ha
insegnato a farci prossimo a ogni essere umano, fino al nemico; è lui che ancora
oggi, dopo la sua morte e resurrezione, dice a ciascuno di noi: “Prenditi cura del
fratello, della sorella, e io ti ricompenserò al mio ritorno”.
Mi piace infine attualizzare la parabola di Gesù, raccontandola in un altro
modo. Non voglio essere irriverente né contraddire la parole del Vangelo, ma
credo che proprio esse mi autorizzino a mutare leggermente l’ultima parte del
racconto. “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei
banditi, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono,
lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). Passa un sacerdote, passa un levita e
vanno oltre, senza entrare in contatto con quell’uomo, senza farsi prossimi a lui
(cfr. Lc 10,31-32). Passa poi un samaritano (cfr. Lc 10,33), il quale è a piedi
come il malcapitato, non ha il giumento su cui cavalcare, né olio, né vino, né
bende, né soldi. Giunge sul posto, si ferma, vede costui, forse non riesce neanche
a parlargli, perché la loro lingua è diversa. Che fare dunque? Se se lo fosse
caricato sulle spalle, nel caldo del deserto, dopo poco sarebbero entrambi venuti
meno per la sete. Non ha altre possibilità, è privo di ogni bene. Allora decide per
una semplice cosa: gli prende la mano nella propria mano, senza dirgli nulla, e
gli sta vicino finché quello muore tra le sue braccia.
Questo samaritano fa misericordia, esattamente come quello della parabola
narrata da Gesù, che pure aveva mezzi e possibilità economiche. Non è vero –
come ebbe a sostenere Margaret Thatcher – che “nessuno ricorderebbe il buon
samaritano soltanto per le sue buone intenzioni, ma perché aveva anche i
soldi”18. No, diversi sono i modi di vivere la compassione, di agire con amore:
questo secondo samaritano fa il dono della prossimità, della presenza, che in
quel frangente è tutto ciò che ha. Anche questa è carità autentica, è vero amore
per l’altro, è un amore intelligente.
2
Le parabole della misericordia
(Lc 15,1-32)
Il “Figliuol prodigo” è una grande parabola, di fronte alla quale le “commedie” del genio sono come
la casa del cocomeraio. E che sforzo per dire quello che Gesù racconta come la più comune delle
avventure! L’uomo ha bisogno di molte cose e di molte parole per dir poco o nulla: Dio con nulla
dice tutto. Nella pagina del “Figliuol prodigo” c’è ben di più che non nei quattro o cinque capolavori
che sanno l’agonia più alta dell’umano intelletto: e in un modo che quelli non seppero né potevano
sapere, e con una conclusione che quelli potevano appena adombrare: la salvezza […] Ognuno si
sente volta per volta, o nello stesso momento, prodigo e maggiore: sulla strada che va o su quella del
ritorno: con davanti l’agonia o la gioia diffusa del Padre: con l’inferno nel cuore e le prime note della
festività che si canta perfino in Cielo, per colui che dapprima era morto ed ora è risuscitato1.
Introduzione: Gesù, l’uomo che racconta l’amore folle di Dio per l’umanità
Ci sono domande che abitano il cuore umano, domande decisive che possono
ricevere risposte diverse. Gesù si è posto queste domande da uomo qual era, e ha
saputo darvi risposte nuove, pronunciate – come attestano i Vangeli – con
exousía, con autorevolezza (cfr. Mc 1,22 e par.; 1,27; Lc 4,36). “Il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6 ecc.; Mc 12,26 e par.; At
3,13), il nostro Dio, è un Dio solo dei giusti o anche dei peccatori? Dio attende
che i peccatori si convertano e facciano ritorno a lui, oppure va lui stesso a
cercarli, nella situazione di peccato in cui si trovano? Il perdono che Dio
concede al peccatore richiede la volontà e il cammino della conversione oppure è
anteriore alla stessa conversione? E soprattutto, l’amore di Dio va meritato o è
amore gratuito che vuole raggiungere tutti? Queste non sono domande
periferiche, perché da esse dipende l’immagine, il volto del nostro Dio.
Ora, nell’Antico Testamento sta scritto come un adagio: “Non si può vedere il
volto di Dio, chi vede Dio muore” (cfr. Es 33,20), e nel Nuovo Testamento il
solenne prologo giovanneo si conclude sigillando tutta la rivelazione: “Dio,
nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è
lui che lo ha raccontato” (Gv 1,18). Sì, di quel volto mai visto né contemplato da
creatura umana (cfr. 1Tm 6,16; 1Gv 4,12) Gesù ci ha dato la spiegazione, ce lo
ha rivelato. La Parola di Dio che si è fatta carne (cfr. Gv 1,14), uomo come noi
in tutto eccetto che nel peccato (cfr. Eb 4,15), ha vissuto tra di noi narrandoci il
volto di Dio con la sua vita fatta di azioni, comportamenti, sentimenti, parole;
una vita nella quale sempre la misericordia, l’amore, il perdono di Dio
raggiungono l’uomo peccatore prima che lui inizi un cammino di conversione.
Questo è scandaloso, perché l’amore di Dio noi vorremmo meritarlo, e invece
l’amore di Dio è grazia, è gratuito, non va meritato.
Questa, in estrema sintesi, la rivelazione del volto di Dio da parte di Gesù:
“Dio è amore” (1Gv 4,8.16), un amore che ama non solo la debole creatura
umana ma ama il peccatore fino al dono di se stesso, al dono del Figlio suo.
Questo amore – rivela l’Apostolo Paolo in uno dei testi più vertiginosi nella sua
profondità – è un amore che Dio prova per l’uomo mentre l’uomo è peccatore,
mentre è suo nemico, mentre lo nega e lo bestemmia (cfr. Rm 5,6-11). È un
amore folle o una follia d’amore, potremmo dire; è un amore che non possiamo
nutrire in noi stessi; è un amore scandaloso, infatti l’unico nome che merita è
croce (“lo scandalo della croce”: Gal 5,11; cfr. 1Cor 1,17-25). Dio dà se stesso, il
Figlio, al mondo (cfr. 1Gv 4,9-10), perché ama il mondo nel medesimo momento
in cui il mondo odia Dio fino a rifiutare il Figlio e a metterlo in croce.
Gesù, figlio di Israele, chiamava Dio “Abinu”, “Padre nostro”, nella preghiera
liturgica cui era assiduo (si vedano, in particolare, tre delle “Diciotto
benedizioni”2), ma secondo la testimonianza evangelica lo chiamava anche
“Abba” (Mc 14,36), Papà, invocazione confidenziale. Per lui Dio era il Padre che
dà la vita, chiama, educa, guida con amore ogni figlio del popolo santo. Anche
per lui Dio era invisibile, ma il suo ascolto delle sante Scritture, la liturgia del
tempio e della sinagoga, la tradizione dei padri lo abilitavano a parlare di Dio,
con discrezione, in modo essenziale, e Gesù lo faceva soprattutto con
l’intenzione di dare un volto al Dio mai visto. Questa era la sua vocazione, la
chiamata del Padre che lo aveva voluto uomo e, donandolo all’umanità, lo aveva
voluto come un uomo che da lui solo poteva venire, che non poteva nascere da
“carne e sangue umani” (cfr. Gv 1,13).
Non si ripeterà mai abbastanza che Gesù era un uomo, uno di noi, un umano
in una folla umana, e che in questa sua vita umana di poco più di trent’anni egli
ha cercato in tutto, obbedendo alla sua vocazione, di alzare il velo sul volto di
Dio, di ri-velarlo. Egli, infatti, sapeva che il volto di Dio era stato non solo
deturpato ma pervertito dagli uomini, troppo inclini a fabbricarselo, a renderlo
un manufatto, proiettando su di lui le proprie aspirazioni e i propri progetti.
“L’idolatria non è innanzitutto un errore teologico ma è invece un errore
antropologico”3, perché l’idolo, cioè il falso dio, è altamente seducente per gli
uomini tutti. Così Dio era spesso caricaturato con il volto di un “Dio perverso”
da parte degli stessi uomini religiosi, proprio quelli che si sentivano in qualche
modo muniti della funzione di mediazione o addirittura di rappresentanza di Dio
nei confronti degli uomini.
Combattendo contro queste immagini perverse di Dio, Gesù ha meritato
l’accusa di “avere bestemmiato” (cfr. Mt 26,65; Mc 14,64). Ecco il conflitto che
ha portato Gesù “alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8), un conflitto sul volto
di Dio! Gesù in verità non predicava “un altro Dio”, il suo Dio era il Dio del suo
popolo, ma egli ne aveva un’altra conoscenza: un Dio che “non fa preferenza di
persone” (At 10,34), un Dio che non castiga mai l’uomo finché egli vive sulla
terra, un Dio che provoca alla libertà, un Dio che ha fiducia in ogni uomo, un
Dio che perdona anche chi non lo merita. In una parola, un Dio che sembra “un
Dio al contrario”: un servo, non un dominatore; un povero, non un ricco; un
infimo, non un altissimo; un Dio che ci prega mettendosi in ginocchio davanti a
noi. Gesù chiedeva dunque alle folle, a quanti lo ascoltavano, ai discepoli di
cambiare la loro immagine di Dio, per liberarli dalla paura e dall’angoscia della
morte, per far crescere in loro la fiducia, per spronarli con il suo amore ad amarsi
gli uni gli altri, reciprocamente (cfr. Gv 13,34; 15,12). Per Gesù l’amore verso
Dio si identificava con l’amore per il prossimo, la sua vita offerta a Dio
diventava vita spesa per gli uomini. Se il quarto Vangelo ha potuto mettere sulla
bocca di Gesù, in risposta a Filippo che gli chiedeva di vedere il Padre, Dio,
queste parole: “Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9), è perché
Gesù ha sempre voluto e saputo mostrare ciò che lui era, il Figlio di Dio nel
mondo.
Ma questo conflitto sull’immagine di Dio che si è consumato nel processo e
nella condanna a morte di Gesù da parte delle autorità religiose, che lo
giudicarono un bestemmiatore, e da parte dell’autorità politica, convinta del suo
essere nocivo al bene della società dell’impero romano, si mostrò più volte
durante la sua predicazione. I Vangeli ce lo testimoniano a più riprese, in diverse
occasioni originate dai gesti o dalle parole di Gesù. È soprattutto il Vangelo
secondo Luca che mette in luce un comportamento di Gesù scandaloso per gli
uomini religiosi, gli osservanti che si sentono collocati tra i giusti e quindi
distinti dai peccatori (cfr. Lc 18,9). I Vangeli li identificano: gli scribi, cioè gli
esperti della Legge, gli esegeti e i teologi, diremmo oggi; i sacerdoti che erano
l’autorità del tempio, i ministri del Signore; i farisei, adepti di un movimento
altamente qualificato, zelanti della Legge, gelosi della loro fede, artefici della
missione tra le genti, autorità morali rigorose. In particolare, nel capitolo 15 del
Vangelo secondo Luca, alcune parole di Gesù, raccolte in tre parabole, vogliono
certamente ricordarci il conflitto di Gesù con questi mormoratori, ma anche
spiegarci il suo agire a immagine del Padre.
Gesù aveva chiamato e annoverato tra i suoi discepoli Levi, un pubblicano
(cfr. Lc 5,27-28 e par.), un peccatore manifesto, riconosciuto tale da tutti perché
collaborazionista con gli occupanti romani, esattore di tasse per l’impero e con
una vita non segnata dalla giustizia. Già allora c’era stata mormorazione da parte
di scribi e farisei, soprattutto perché Gesù, dopo aver chiamato Levi, aveva preso
parte a un banchetto a casa sua, con lui e i suoi amici, anch’essi pubblicani (cfr.
Lc 5,29-30 e par.). La risposta di Gesù era stata chiara, lapidaria: “Non sono i
sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i
giusti, ma i peccatori alla conversione” (Lc 5,31-32 e par.; quest’ultima è
un’aggiunta unicamente lucana). Non si era trattato solo di un episodio tra gli
altri: era coinciso con l’inaugurazione dell’attività pubblica di Gesù, segnando
cioè l’assunzione del suo stile proprio, al quale egli resterà fedele “fino alla fine”
(Gv 13,1), quando sarò ucciso in compagnia di malfattori (cfr. Lc 23,32),
“annoverato tra gli empi” (Lc 22,37; Is 53,12).
Ed ecco che nel capitolo 15 lo scandalo si ripresenta.
1. “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”
Ora, si avvicinavano a lui [Gesù] tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi
mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ed egli disse loro questa
parabola […] (Lc 15,1-3).
Questo padre invece divide l’eredità, pur non essendo obbligato dalla Legge,
ma lo fa secondo la Legge: due terzi al figlio maggiore, un terzo al figlio minore
(cfr. Dt 21,17), sicché i due fratelli entrano in possesso dell’intero patrimonio
paterno. È però altamente significativo che il testo chiami “patrimonio, sostanze”
(ousía) ciò che viene chiesto dal figlio, ma poi, alla lettera, dice che il padre
divide tra i figli “la vita” (ho bíos), che da quel momento è vita lacerata.
L’azione del figlio minore verso il padre è certamente sfrontata. È come se ne
avesse chiesto la morte, come se gli avesse detto: “Non ho tempo di aspettare
che tu muoia. Dammi la parte che mi spetta, perché voglio essere autonomo e
libero”. In questo modo il figlio nega il legame con il padre, lo sconfessa e lo
rigetta. Possiamo essere stupiti che il padre abbia acconsentito senza nemmeno
fare domande al figlio, senza metterlo in guardia sulla strada mortifera che stava
per imboccare. Potremmo anche concludere che, dal punto di vista umano,
questo padre è poco saggio: possibile che fosse così debole da non ammonire il
figlio, da lasciarlo andare via in quel modo? Un padre così sarebbe un non padre,
uno che non sa essere padre o nega la sua paternità, perché è suo dovere assoluto
dire qualcosa e non semplicemente lasciar fare…
Stiamo però attenti ad applicare questo atteggiamento ai padri umani o alle
diverse forme di paternità vissute qui sulla terra: in realtà questo agire, o meglio
questo non agire, riguarda la paternità di Dio. Effettivamente Dio non ci impone
nulla, non ci impedisce di percorrere cammini errati: nella sua “assenza”, nel suo
nascondimento (cfr. Is 45,15), nella sua debolezza voluta, ci lascia liberi, non ci
ferma né ci minaccia. È il grande mistero della sua presenza-assenza, della sua
presenza invisibile, elusiva, che non ci impedisce di compiere il male né di
perderci. D’altronde, da Padre pedagogo Dio ci ha detto tutto nelle sante
Scritture, ci “ha parlato per mezzo dei profeti” – come recitiamo nella
professione di fede (cfr. Eb 1,1) – ci parla ancora nella coscienza; ma di fronte
alle nostre scelte ci lascia liberi e riserva a noi di ascoltare la sua parola oppure
di non ascoltarla, rifugiandoci nella scusa che lui non ci parla e che al momento
della scelta abbiamo conosciuto solo il suo silenzio.
Questa prima scena del racconto, inoltre, ci presenta un paradigma che ci
riguarda da vicino, il paradigma della nostra esistenza. Ognuno di noi a un certo
momento della propria vita, soprattutto nell’adolescenza, ha sentito come
ingombrante la presenza del padre. Forse abbiamo addirittura desiderato di
respingere chi ci ha generato e abbiamo desiderato di essere lontani da lui. Il
legame con il padre può essere vissuto come schiavitù, come realtà umiliante per
la propria libertà, che all’inizio della giovinezza pulsa in noi con prepotenza.
Anche la casa in cui viviamo diventa allora una prigione: occorre andare via e
farlo presto, occorre andare altrove per sperimentare l’indipendenza e
l’autonomia. Ognuno di noi nella sua ricerca di libertà ha conosciuto questi
conflitti, queste fatiche, queste visioni distorte, ma le uniche possibili in quel
momento. Tutti abbiamo un padre, anzi questo forse è l’unico destino che ci
sovrasta, e proprio perché è una necessità (anánke), vorremmo essere “senza
padre”. È invece quasi impossibile per un padre pensarsi e desiderarsi “senza
figlio”…
Se questo accade nella vita familiare, accade anche – lo sappiamo o no – nel
nostro vissuto con Dio, perché da sempre sentiamo in noi la difficoltà di
riconoscerlo con fiducia come padre. Colui che “ci ha formato nel segreto
tessuto dell’utero di nostra madre, i cui occhi vedevano il nostro embrione” (cfr.
Sal 139,13.15), può essere sentito da ciascuno di noi come una presenza nella
quale facciamo fatica a mettere piena fiducia. Con la nostra crescita, poi, Dio ci
appare come un limite anche per il solo fatto che si fa chiamare “nostro”: non è
solo il mio Dio, è il Dio di mio fratello, di mia sorella, di mio padre, di mia
madre, il Dio degli altri prima di essere il Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe. E se è il Dio dell’altro, l’altro è mio fratello, ma è anche un limite per
me. A volte Dio diventa una presenza ossessiva, e va riconosciuto che di ciò
sono particolarmente responsabili quanti si appellano a lui e magari si dicono
investiti dell’autorità e della missione di parlare di lui: quante immagini
perverse, quanti vitelli d’oro (cfr. Es 32) hanno fabbricato e fabbricano con
l’intenzione di “fare il bene”, di “educare”, di radicare la religione… Fabbricano
e distribuiscono immagini di un Dio che ama finché uno fa il bene, ma che non
ama più chi fa il male; immagini di un Dio “spione” (“Dio ti vede!”), che vìola
la nostra stessa intimità; si spingono fino a tracciare veri e propri sgorbi di un
Dio che castiga ed è pronto a farcela pagare se non lo compiacciamo in tutto.
Eccoci allora assaliti da domande, dubbi, sospetti che ci predispongono ad
andarcene, a fuggire lontano da lui. Perché proprio nell’adolescenza molti
battezzati e catechizzati cominciano a disertare le chiese, le liturgie, e vivono
ormai come generazioni senza Dio7? Dovremmo chiedercelo più seriamente. E
dovremmo ricordare che quando uno ha un’immagine perversa di Dio,
un’immagine del Padre nei cieli peggiore di quella del padre umano che, pur
insufficiente, ha conosciuto, allora diventa ateo, cioè preferisce fare a meno di
Dio. Perché un Padre-Padrone, un Padre che chiede prestazioni non è
sopportabile.
Il bisogno, la sofferenza, la crisi non sono sempre buoni maestri, anzi a volte
sono cattivi maestri che spingono l’uomo a discendere sempre di più, a restare
tra le ombre di morte del fondo toccato. Ma è vero che talvolta pongono
domande, spingono a rileggere la situazione, se stessi e il cammino fatto. In ogni
caso, il disagio viene facilmente percepito e letto come psicologico: c’è stato un
fallimento, e il senso di colpa può invadere il cuore di chi si è perduto.
Vi è però anche la possibilità di percorrere una strada che giustifica tutto, e
quindi non chiede nessun tentativo di leggere altrimenti la realtà. In particolare, è
facile rimuovere le colpe da sé, cioè non sentirsi responsabili ma attribuire le
responsabilità ad altri. Al padre: perché non ha impedito la fuga? Perché non ha
dato segni di voler trattenere il figlio? Perché, con il suo stile e il suo
atteggiamento, lo ha costretto a fuggirlo e a rinnegarlo? Ma vi è anche la
presenza di quel fratello primogenito, che era più forte, più stimato, era quello
che, essendo il primo, attirava su di sé maggiori attenzioni. Gli amici, dal canto
loro, lo sono tutti per interesse, non c’è nessuno che ami gratuitamente. E poi la
vita è così: un fallire continuo… Il giovane avrebbe potuto ragionare in questo
modo, chiudendosi nel suo inferno per non risorgere più. Non succede così a
tanti ragazzi, preda della droga, della delinquenza, della dissipazione, dell’abulia
e del non senso? Vengono a trovarsi in una situazione veramente cattiva, ma chi
può giudicarli e assegnare loro la responsabilità di non desiderare salvezza? Ciò
che avviene nella malattia dell’anoressia, nel rifiuto del cibo, può avvenire anche
a livello spirituale, di vita dell’anima, di vita interiore in cui si decide di morire;
anzi, si è attratti dalla morte.
Questo giovane, comunque, “rientrò in se stesso” (eis heautòn dè elthón; lett.:
“rientrato in se stesso”). Di quale rientro si tratta? Rientro della libertà in se
stessa? Rientro del figlio nella relazione paterna? Rientro come conversione?
No! La sua è una reazione utilitaristica di fronte alla morte ormai possibile: “Qui
muoio di fame!” (lett.: “sono perduto”). Spinto dalla necessità, comincia a
pensare, a fare un paragone tra la sua condizione e quella dei salariati in casa
sua, che hanno pane abbondante per sfamarsi. Che situazione è la sua? Assurda o
stupida. La rilettura della sua avventura, la riflessione sulla sua attuale
condizione, l’acquisizione della consapevolezza del fallimento lo inducono a
pensare a un eventuale ritorno a casa.
Ma che tipo di ritorno? Un ritorno che gli consenta di poter mangiare e vivere.
Ecco perché, in un monologo partorito dalla propria interiorità, progetta una
scena, completa delle parole esatte da pronunciare: “Mi alzerò, andrò da mio
padre e gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te; non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati’”. È un
comportamento molto sicuro di sé, che sembra avere già deciso tutto. Egli pensa
di tornare davanti al padre, di fare una confessione di colpa contro Dio, riguardo
al peccato nei confronti del quarto comandamento (“Onora tuo padre e tua
madre”: Es 20,12; Dt 5,16), e contro il padre, offeso e dichiarato come morto. Il
tutto si concluderà con un ordine impartito al padre: “Trattami come uno dei tuoi
salariati”. Nessuno spazio a una parola del padre, nessuna possibilità di ascolto
di ciò che potrebbe dirgli, ma delle frasi preparate e pronte da pronunciare, che
lo obblighino a dargli un posto in casa in cui poter mangiare, fosse anche quello
dei servi. La logica perseguita è lo scambio: chiede perdono ma ottiene un posto
in casa; fornisce il proprio servizio di garzone, ma vuole il pane. Non immagina
che il padre possa essere diverso da quelli umani, ma pensa a un padre giusto,
che dunque deve dargli la giusta punizione, annoverandolo tra i servi. Da figlio a
servo: questo il castigo meritato, che egli è pronto ad accettare, pur di mangiare e
uscire da quella situazione di morte. È un ritorno “fai da te”, tutto pensato e
deciso da lui, che il padre può solo accettare. D’altronde il giovane non è pentito
e non ha ragione di esserlo: gli è andata male, ma quello che ha vissuto valeva la
pena.
Anche per noi è così, sebbene non vogliamo ammetterlo, soprattutto se siamo
religiosi. In verità i nostri peccati ci piacciono, li abbiamo commessi perché ne
provavamo piacere e desideravamo potere, successo, ricchezza. E qualora
potessimo farli ancora, li rifaremmo. Noi giungiamo a detestare i peccati solo
quando ci fanno del male: male alla salute, male alla nostra immagine, alla
nostra identità ostentata. Ma se potessimo peccare senza danni per la salute e
senza la vergogna dovuta al giudizio altrui sugli effetti dei nostri peccati,
continueremmo a peccare. È la terribile perseveranza del vizio! Per questo la
conversione non è una nostra decisione, ma può avvenire solo con la grazia del
Signore. “Fammi ritornare e io ritornerò” (Ger 31,18), prega Geremia; “Facci
ritornare, Signore, e noi ritorneremo” (Lam 5,21), prega Israele.
Per ora, nel figlio che ritorna non c’è reale conversione, volontà di mutamento
di vita, desiderio del padre e del suo vero volto. La sua logica resta quella dello
schiavo, così come era vissuto da schiavo nella casa paterna prima del suo
allontanarsi. La giustizia retributiva che tante volte aveva sentito ricordare come
vera giustizia faceva ormai parte del suo pensare: non avrebbe mai potuto essere
reintegrato nel patrimonio familiare, non avrebbe potuto stare accanto al fratello
primogenito rimasto a casa e ora padrone dell’eredità paterna che lui aveva
dilapidato, e di conseguenza non avrebbe più potuto sentirsi in alleanza con Dio,
perché quest’ultimo lo aveva cancellato dal suo libro (cfr. Es 32,33).
9. “Questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato”
Ma il padre disse ai suoi servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e vestitelo, mettetegli l’anello
al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello, quello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo
festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E
cominciarono a fare festa (Lc 15,22-24).
La parabola si chiude con questa scena: un padre uscito fuori che prega un
figlio il quale non vuole entrare. Entrerà il figlio maggiore a fare festa? E il
padre è ancora là fuori a pregare il figlio, o sarà entrato perché la festa avvenga?
Certo, attenendoci al racconto come sta scritto, bisogna riconoscere che il quadro
finale è quello di una festa che non avviene, perché sia il padre sia il figlio
maggiore sono fuori e non vi prendono parte. La festa è possibile se è festa di
tutti e per tutti; se c’è qualcuno che resta fuori, non è festa. Dunque non finisce
bene questa parabola…
Ma proprio terminando così ci intriga: ci chiede di collocarci in essa, di
rispecchiarci nei personaggi e di osare un discernimento vero, profondo, sincero
sul nostro sentire e sul nostro agire. Intriga anche la Chiesa, nella quale ogni
giorno avvengono “storie” come quella descritta in questa parabola. Ci sono tanti
figli che se ne vanno, che non tollerano più di stare nella Chiesa come in una
prigione, come in un luogo di prestazioni a comando, figli che nella loro
debolezza non riescono più a vedere il volto amante del Padre, e forse talvolta se
ne vanno perché la Chiesa è matrigna e oscura persino questo volto. Lasciano
per periferie di peccato e di morte, ma a volte ritornano e sperano in
un’accoglienza come quella del padre della parabola.
E invece spesso trovano fratelli e sorelle non disposti a riaccoglierli al
banchetto festoso dell’eucaristia. Si sentono dire che hanno sbagliato
gravemente, hanno rotto l’alleanza, hanno fatto storie di vita e di amore che
contraddicevano la Legge e la volontà di Dio, perciò devono pagarla. Possono
ritornare a casa, entrare in casa ed essere nuovamente figli nella casa del Padre,
ma senza partecipare alla tavola, senza fare festa in un banchetto. Quelli che
sono sempre rimasti a casa, che hanno cercato di essere irreprensibili, fedeli a
ogni comando e precetto, non possono tollerare la festa, il banchetto in onore di
chi era perduto e ha fatto ritorno! Non gli basta che gli altri facciano un
cammino di pentimento, che chiedano perdono, né che siano sottoposti a
umilianti rituali per essere riammessi: vogliono che regni la giustizia come loro
la immaginano… Non sanno pensare a Dio come a colui che “chiude gli occhi
sui peccati degli uomini” (cfr. Sap 11,23), che “è buono verso gli ingrati e i
malvagi” (Lc 6,35), né immaginano suo Figlio come colui che è venuto per i
malati, non per i sani, per i peccatori, non per i giusti (cfr. Lc 5,31-32 e par.).
Siccome “non hanno mai trasgredito un solo comando” (cfr. Lc 15,29), pensano
che questo basti per confidare in se stessi (cfr. Lc 18,9) e non si chiedono mai se
hanno “la conoscenza di Dio” (da’at Elohim). Eppure Dio ha detto:
“Misericordia io voglio e non sacrificio, conoscenza di Dio piuttosto che
olocausti” (Os 6,6; cfr. Mt 9,13; 12,7)!
Sì, ci sono tanti nella Chiesa che non hanno conosciuto Dio eppure occupano
in essa molto spazio e non permettono ad altri di partecipare al suo banchetto.
Occorre dunque, per chi ha capito la parabola, sperare per tutti, sperare nel
banchetto escatologico, quando Dio solo giudicherà chi è degno di parteciparvi e
giudicherà ognuno di noi nella sua temibile e infinita misericordia.
3
Il ricco e il povero Lazzaro
(Lc 16,19-31)
Condivisione e attenzione ai poveri: non è proprio questo che manca al ricco? Il suo torto non è di
aver maltrattato, sfruttato o disprezzato Lazzaro. Il suo torto è di non aver fatto niente per lui, proprio
come nel racconto di Matteo dell’ultimo giudizio (cfr. Mt 25,42-43) […] È il peccato di omissione
che esclude dal Regno. Il torto del ricco è quello dell’autosufficienza e della chiusura agli altri1.
Introduzione: ricchi e poveri
La prima distinzione tra gli esseri umani, quella che emerge di continuo nei
giudizi quotidiani e che si manifesta più facilmente, è quella tra ricchi e poveri. I
ricchi si fanno vedere, ostentano la loro condizione, sono pochi e sono invidiati,
mentre i poveri, se non sono mendicanti, quasi non si vedono, eppure sono molti
in ogni società. Perché sono poveri? A volte per le vicende della vita che spesso
tolgono o fanno perdere quel poco che si possiede, a volte per l’ingiustizia che
regna e che crea disuguaglianze feroci soprattutto a livello economico, sicché
alcuni si arricchiscono sempre di più, mentre i poveri diventano sempre più
poveri, miseri, fino a conoscere la fame, la nudità, la malattia, senza possibilità
di cure né speranze di guarigione.
Siccome la vita degli uomini è una e una sola, il vivere in ricchezza o in
povertà cambia radicalmente la qualità dell’esistenza e lo statuto che uno ha
nella società. “I poveri li avete sempre con voi” (Mc 14,7; Mt 26,11), ha
ammonito Gesù, non per fatalismo, ma perché sapeva bene che tra gli uomini ci
saranno sempre quelli che cercano, riuscendoci, di essere primi, grandi, e quelli
che sono deboli. E quando manca la relazione, quando si rifiuta di guardare
all’altro, quando non si sente la responsabilità verso il prossimo e non c’è
solidarietà, communitas, allora la situazione dei poveri si fa drammatica e rende
la vita “perduta”. Basta dare un semplice sguardo alle condizioni del mondo: il
20% della popolazione mondiale si appropria dell’86% delle ricchezze prodotte
ogni anno sulla terra; il restante 80% si deve accontentare del 14% dei beni.
Inoltre, secondo un recente rapporto di alcune organizzazioni non governative,
nel 2016 più della metà della ricchezza globale sarà in mano all’1% della
popolazione del mondo: entro due anni la ricchezza detenuta dall’1% della
popolazione mondiale supererà quella del restante 99%.
Nei Vangeli i poveri sono i primi clienti per diritto, i primi destinatari della
buona notizia, e per loro Gesù ha avuto un’attenzione particolare, ha vissuto, per
così dire, “un’opzione preferenziale”, dichiarando fin dall’inizio del suo
ministero pubblico di avere una missione specialmente per loro (cfr. Lc 4,18; Is
61,1) e acclamandoli beati proprio perché a loro spetta il Regno di Dio (cfr. Lc
6,20)2. Attenzione però a un elemento che sembra una finezza e invece è
determinante: i poveri non sono beati in quanto poveri né perché sono disposti
meglio degli altri verso Dio, bensì perché Dio, perché Gesù è dalla loro parte3!
Sono stati i poveri, e si sono fatti poveri, quelli che hanno seguito Gesù
condividendone la vita; sono stati i poveri i primi cristiani nelle diverse comunità
in diaspora nel Mediterraneo. Sono soprattutto i poveri a vedere la loro
condizione illuminata dalla forma dell’incarnazione, dal farsi uomo di colui che
era nella condizione divina, Gesù (cfr. Fil 2,6-8): lui, che “da ricco che era, si è
fatto povero per noi” (cfr. 2Cor 8,9), che ha rifiutato l’offerta della ricchezza di
questo mondo da parte del diavolo, che è vissuto ed è morto come un povero
inerme, senza riconoscimenti, senza nessuno che lo difendesse, proprio come
accade ai poveri. Ecco perché la povertà, prima di essere una condizione etica,
morale, è cristologica, rivelativa dell’identità di Gesù e della forma della sua
missione tra gli uomini.
Nel Vangelo secondo Luca c’è un’attenzione particolare ai poveri4, che fin
dall’inizio di quest’opera appaiono come quelli che sanno accogliere e
riconoscere Gesù. Anche Maria di Nazaret, la madre di Gesù, cantando nel
Magnificat la lode a Dio, ricorda che lui, il Signore della Storia, “abbatte i
potenti dai troni, innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati, rimanda i ricchi a
mani vuote” (Lc 1,52-53). Ai poveri Gesù indirizza la prima beatitudine (“Beati
voi, poveri”: Lc 6,20), mentre lancia un “guai” ai ricchi (“Guai a voi, ricchi”: Lc
6,24), e spesso nel suo insegnamento indica come condizione sfavorevole alla
salvezza quella in cui si trovano i ricchi (cfr. Lc 12,15-21; 16,13; 18,24), fino ad
affermare: “È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per
un ricco entrare nel Regno di Dio” (Lc 18,25).
Nel terzo Vangelo chi è ricco e possiede molti beni è un amministratore di
Satana, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È il Vangelo stesso a
rivelarci questa terribile verità, quando il demonio, tentando Gesù nel deserto per
la seconda volta, dichiara: “Ti darò tutto questo potere e la gloria [di tutti i regni
della terra], perché a me è stata data” – passivo divino! – “e io la do a chi voglio.
Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo” (Lc 4,6-7). Ma
Gesù, per non diventare un amministratore di Satana, rifiuta, respinge la
tentazione della ricchezza (cfr. Lc 4,8; Dt 6,13), perché non poteva essere la
forma, lo stile del Messia Salvatore, del Figlio Dio. Vi è dunque un giudizio
duro, radicalmente negativo, sul possesso, sulla proprietà, sulla ricchezza. Tutto
ciò che è nel mondo, tutte le cose sono buone, ma l’avere troppo, l’accumulo è
diabolico. Per questo i poveri saranno accolti nelle dimore eterne (cfr. Lc 16,9),
entreranno nel Regno promesso loro da Gesù.
La parabola che ci apprestiamo a commentare non fa che ribadire e spiegare
anche in modo iconico questo insegnamento. Essa è preceduta dalla parabola del
ricco stolto che accumula e lavora per possedere in abbondanza, per poter dire a
se stesso: “Hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e
divertiti” (Lc 12,19), senza capire che la morte è inesorabilmente in agguato per
tutti (cfr. Lc 12,20), dunque anche per lui, che nel benessere è ottuso, non
capisce (cfr. Sal 49,13.21). A sua volta, la parabola del ricco e del povero
Lazzaro illustra il comportamento del ricco come negativo, da evitare,
descrivendolo anch’essa nella prospettiva della morte, a cui qui aggiunge però
anche quella del giudizio di Dio sulla vita ormai conclusa, trascorsa per sempre.
Accanto al ricco gaudente, festaiolo e mondano, alla sua porta, sta un altro
uomo, “gettato” (verbo bállo) là come una cosa, coperto di piaghe. Non è
neanche un mendicante che va a chiedere cibo, ma è abbandonato, derelitto,
lasciato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge
di lui, solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto
gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i
commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cfr. Mc
7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate e disgraziate che
possano capitare a quanti sono nella sofferenza: è malato, affamato, isolato,
ritenuto uno scarto, indegno di uno sguardo… Nella sua debolezza estrema è
impotente a compiere qualsiasi azione: non grida neppure, anzi nessuna parola
esce dalla sua bocca, né un’invocazione a Dio né una richiesta di aiuto agli
uomini né una bestemmia o una maledizione verso quelli che hanno ciò di cui lui
è privato. Gesù però dice che questo povero, a differenza del ricco, ha un nome:
’El’azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è
questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di Dio di liberarlo, di fargli
grazia.
In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per
cui per entrambi giunge l’ora della morte. C’è un Salmo, il 49, che è un profondo
insegnamento sapienziale per credenti e non credenti, e per questo è rivolto a
tutti gli abitanti del mondo, a tutti i figli di Adamo, ai ricchi e ai poveri (cfr. Sal
49,2-3). La domanda che il sapiente si pone è se l’uomo possa riscattare se
stesso, possa cioè salvarsi dalla morte (cfr. Sal 49,8-9). La risposta è negativa:
chi confida nelle proprie ricchezze e si vanta di possedere beni immensi, non
vivrà senza fine ma anche lui vedrà la fossa; anche i sapienti muoiono, così
come gli stupidi, e chi confida in se stesso e ama ascoltarsi, pure lui morirà (cfr.
Sal 49,10-11.14-15). La vita umana è una sola, non ce ne sono altre: eppure gli
uomini, quasi non credendo a questa realtà della morte6, del limite che definisce
l’esistenza, sognano, cercano di arricchirsi sempre di più, aumentano il lusso
della propria casa, danno il loro nome a proprietà e abitazioni, ma quando
muoiono non portano nulla con sé (cfr. Sal 49,17-18)! Proprio in quest’ora ricco
e povero si ritrovano nella medesima condizione… Per questo il Salmo ha come
ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari,
vanno verso il mattatoio” (Sal 49,13.21). Il ricco della parabola non ricordava
questo Salmo per trarne lezione e neppure le esigenze di giustizia contenute nella
Torah (cfr. Es 23,11; Lv,19,10.15.18 ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti
(cfr. Is 58,7; Ger 22,16 ecc.). Di conseguenza, il ricco è incapace di
responsabilità verso l’altro, è incapace di condivisione. Questo il suo vero
peccato, il suo peccato più grave, come ha compreso con intelligenza Gregorio
Magno:
Qui il ricco non è rimproverato perché si è impossessato dei beni altrui, ma perché non ha condiviso i
propri. Neppure risulta che abbia fatto violenza a qualcuno, ma solo che disponeva con orgoglio delle
proprie ricchezze7.
Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino
ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo
verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo
ricco non l’ha capito…
Conclusione
La parabola non afferma che il fariseo avrebbe dovuto vivere come il pubblicano. Le sue opere sono
buone, e tali restano. Non sono le sue opere a essere criticate, ma il modo di considerarle […]
L’errore sta nel guardare Dio alla luce delle proprie opere. Per Gesù invece lo sguardo deve sempre
andare dall’alto al basso, non dal basso all’alto: da Dio a noi, non da noi a Dio1.
Introduzione: cristianesimo e religione
1. Confidare in se stessi
[Gesù] disse poi anche questa parabola a certuni che confidavano in se stessi perché erano giusti e
disprezzavano gli altri (Lc 18,9).
Ancora una volta si parla di “uomini” (ánthropoi), di due esseri umani, che
salgono al tempio per pregare. Il tempio è il luogo della presenza di Dio, in cui si
contempla e si adora il Dio vivente, il luogo dell’incontro con lui, attraverso lodi,
preghiere, sacrifici, il culto stabilito dalla Torah. Entrambi entrano nello spazio
riservato ai figli di Israele, davanti al Santo, riservato ai sacerdoti, che precede il
santo dei santi, luogo della Shekinah. Entrambi invocano “Dio” (ho theós), cioè
il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio rivelato come Signore a Mosè,
il Dio che ha fissato la sua dimora nel tempio di Gerusalemme.
Ma le somiglianze finiscono qui. Uno dei due è un militante del movimento
dei farisei (in ebraico perushim, cioè “separati, puri”), l’altro un telónes, un
esattore delle tasse, uno che esercita un mestiere maledetto, disprezzato,
appartenente dunque a una categoria di corrotti, di ladri, si potrebbe dire
spregiativamente. Sia nel contesto sociale greco-romano sia in quello giudaico
gli esattori erano ritenuti avidi e collaborazionisti con il potere dominante.
Occorre forse anche ricordare che, come i pubblicani riscuotevano le tasse per
l’impero romano, i farisei riscuotevano tasse e offerte per il tempio, dunque
erano in concorrenza reciproca. L’esattore è detto “pubblicano” in quanto
“pubblicamente peccatore”, “corrotto manifesto”, perciò maledetto da Dio e
dagli uomini. Gesù mette a confronto l’atteggiamento e la preghiera dei due al
tempio, sapendo che la preghiera è la modalità decisiva per concepire l’esistenza
in rapporto a Dio, è rivelativa di qualcosa che va oltre la preghiera stessa, o
meglio, che la precede. È innanzitutto questione dello sguardo che si ha su se
stessi, sul Dio a cui ci si rivolge e sugli altri, che mai possono essere assenti dalla
nostra preghiera a Dio, il quale è sempre Padre nostro, Padre comune.
Non basta pregare, occorre pregare in un certo modo, avverte Gesù.
Il fariseo, ritenendosi conforme alle attese di Dio, sta in piedi, nella posizione
consueta dell’orante ebreo, e fa nel suo cuore una preghiera che vorrebbe essere
una lode, un ringraziamento a Dio. Luca usa l’espressione pròs heautón,
“davanti a sé” o “tra sé”, in modo volutamente ambiguo: può essere riferita alla
preghiera del fariseo, presentata come una sorta di monologo tra sé e sé, come un
rivolgersi a se stesso; oppure può connotare lo stare in piedi tra sé, il suo
restarsene solo in disparte, accentuando così la sua sdegnosa separazione dagli
altri. Egli è concentrato su di sé e, mentre vanta i suoi meriti si autocompiace, si
paragona agli altri, giudicandoli. Nessun dubbio in quest’uomo, ma uno stare in
piedi, sicuro nel suo presentarsi davanti a Dio, a fronte alta, ignaro del fatto che
può mettersi in piedi solo per grazia, perché fatto figlio di Dio. Il suo monologo
dichiara lontananza dagli altri uomini ma anche lontananza da Dio, non
conoscenza di lui, dal quale non aspetta nulla se non un “amen” alle sue parole.
In verità questa preghiera del fariseo può sembrare molto simile alla religiosità
espressa in alcuni Salmi, ma non a caso la Chiesa fa pregare quei Salmi a nome
di Cristo: solo Cristo può pregarli! Il cristiano che li proclama, se è
minimamente consapevole di ciò che egli stesso è, arrossisce nel pregarli.
Ripeto, in questi Salmi, di cui citiamo un esempio, il cantator, colui che li canta
e li prega, può essere solo Cristo:
Fammi giustizia, Signore,
ho camminato sulla via dell’integrità,
mi sono abbandonato al Signore,
perciò non potrò vacillare […]
Non siedo con chi è idolatra,
non vado con gente ipocrita,
ho in odio la compagnia degli empi,
non siedo insieme ai malvagi,
lavo nell’innocenza le mie mani (Sal 26,1.4-6).
Il fariseo della parabola può vantarsi di molte azioni buone e giuste, può
addirittura vantarsi di possedere uno zelo straordinario: “Digiuno due volte alla
settimana” – il secondo e il quinto giorno – “e pago le decime di tutto quello che
possiedo”. Egli dice la verità, sa di osservare scrupolosamente la Legge, anzi di
fare più del necessario. Per quanto concerne il digiuno, sappiamo che questa
pratica penitenziale era prevista dalla tradizione giudaica poche volte all’anno:
nel giorno di Jom Kippur (cfr. Lv 16,29-31), il 9 di Av, memoria della
distruzione del tempio, e forse in qualche altra occasione (cfr. Zc 8,18-19). Ben
meno di due volte alla settimana! Quanto al pagamento delle decime, era tenuto
a farlo solo il produttore e solo su certi prodotti, soprattutto grano, vino e olio
(cfr. Dt 14,22-27). Il fariseo, che sembra essere un consumatore, non avrebbe
questo obbligo; in ogni caso, non certamente di versare le decime su tutto!
Si faccia però attenzione: ciò che Gesù stigmatizza nel fariseo non è il suo
compiere opere buone (non facciamone una caricatura!), ma il fatto che egli,
nella sua sicura fiducia in se stesso, non attende nulla da Dio. È la sua
osservanza della Legge a determinare la sua coscienza, non la sua coscienza a
determinare la sua osservanza… Paolo legge così i meriti di questo agire
farisaico: “Queste cose […] hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa
religiosità, falsa umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun
valore se non quello di soddisfare il proprio io” (Col 2,22.23). La preghiera di
quest’uomo – lo ripeto – potrebbe essere parafrasata in tal modo: “O Dio, io ti
rendo grazie non per quello che tu hai fatto per me e in me, ma per quello che io
ho fatto e faccio per te”.
Il problema è che egli si sente sano e non ha bisogno di un medico, si sente
giusto e non ha bisogno della santità di Dio, si sente senza peccato e non ha
bisogno della sua misericordia: ha dimenticato che la Scrittura afferma che lo
tzaddiq, il giusto, pecca sette volte al giorno (cfr. Pr 24,16), cioè infinite volte!
Nella sua predicazione Gesù aveva messo in guardia da questo atteggiamento,
con parole molto chiare, per chi voleva ascoltarle: “Non sono i sani che hanno
bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i
peccatori alla conversione” (Lc 5,31-32 e par.). Gesù aveva anche denunciato la
scrupolosità di quegli uomini religiosi che, nel loro zelo per le offerte al tempio,
strappavano dai vasi posti sui loro balconi la decima parte delle foglie del
rosmarino, della salvia, del basilico e della mentuccia… ma poi trascuravano la
giustizia e la misericordia (cfr. Lc 11,42; Mt 23,23). E poi tutte le azioni del
fariseo sono pratiche di pietà e ascetiche individuali, che non riguardano il
prossimo. Nulla di quello che fa sta nello spazio dell’amore e del bene a favore
degli altri: dunque compie un’azione buona ma monca, perché trascura ciò che è
decisivo per il prossimo.
Sì, quanti, essendo osservanti e dunque giusti, confidano in sé, ringraziano
Dio per ciò che sono e non pensano di dover chiedere a Dio misericordia, di
dover mutare qualcosa nella propria vita, ma sono trascinati
dall’autocompiacimento a ritenere gli altri nulla e a disprezzarli! Hanno una
religione che li fa sentire giusti e li ispira addirittura a pratiche supererogatorie
per compensare il male fatto dagli altri, per riparare colpe altrui. Sono convinti
di ciò che dicono a Gesù: “Sappiamo che Dio non esaudisce i peccatori” (Gv
9,31), mentre pensano che esaudisca loro, i giusti… Dicono che il mondo è
corrotto e che gli uomini sono inguaribilmente cattivi; sono pessimisti e si
esprimono come profeti di sventura, sempre riguardo agli altri; se la prendono
con la generazione in cui sono collocati, a loro dire peggiore di quelle
precedenti, senza comprendere che non esiste una generazione peggiore
dell’altra e che ognuna è perversa e malvagia, da quella di Mosè (cfr. Dt 32,5.20;
Sal 95,10) a quella di Gesù (cfr. Lc 9,41; 11,29 ecc.), fino alla nostra… ma è pur
sempre la generazione in cui si è nati e con cui si è solidali nel peccato. Vale per
loro ciò che ha annotato acutamente Charles Péguy: “Poiché non hanno il
coraggio di essere del loro tempo, credono di essere penetrati nell’eterno. Poiché
non hanno il coraggio di essere del mondo, credono di essere di Dio”11.
Il fariseo nel suo ringraziamento enumera i peccati degli altri, dai quali egli si
sente esente: “Sono ladri, ingiusti, adulteri”, per non parlare del pubblicano che è
insieme a lui nel tempio… È una lista che non ci è estranea e che forse è stata o è
sulle nostre labbra: “Che brutto mondo quello in cui viviamo! Tutti sono ladri,
corrotti, impuri!”. Questa enumerazione dei peccati può anche essere avvicinata
a liste di vizi che troviamo nella letteratura paolina (cfr. Rm 1,29-32; 1Cor 6,9-
11; Gal 5,9-21 ecc.). Purtroppo però, quando ascoltiamo questi testi, non
pensiamo di essere noi preda dei vizi elencati, ma li riferiamo sempre agli altri: i
buoni siamo noi e, insieme a noi, il nostro movimento; i cattivi sono gli altri,
dunque li riteniamo nulla (cfr. Lc 18,9)!
Nessuna illusione: le persone religiose, gli appartenenti al gruppo, i credenti
che pubblicamente professano la loro fede, soggiacciono alla tentazione di
separarsi dagli altri, di essere ministri di condanna del male commesso dagli
altri. Non si esercitano alla coscienza di essere peccatori né si aprono davanti a
Dio, chiedendogli di essere lui a scrutare il cuore degli esseri umani (cfr. Sal
7,10; 139,1) e di giudicare il loro comportamento. Inoltre, se uno è impegnato in
un ministero di santificazione, quale “soldato di Dio”, come può pensare di
essere un peccatore? Magari lo dice per (falsa) umiltà di fronte agli altri, ma tra
sé non lo pensa affatto.
Quella del fariseo è davvero la perversione della preghiera che riesce agli
uomini religiosi, perversione più grave della bestemmia contro Dio.
Ma ecco, di fronte alla preghiera del fariseo quella del pubblicano, del
peccatore pubblico. Come già si è visto12, all’inizio del Vangelo Gesù aveva
chiamato a essere suo discepolo proprio un pubblicano, Levi, e si era recato a un
banchetto nella sua casa, scandalizzando scribi e farisei (cfr. Lc 5,27-32); e alla
fine, subito prima del suo ingresso a Gerusalemme, sarà un altro pubblicano,
Zaccheo, ad accogliere Gesù nella sua casa, suscitando ancora la riprovazione
degli uomini religiosi (cfr. Lc 19,1-10). In tal modo l’annuncio del Battista
secondo cui “Dio può suscitare figli ad Abramo dalle pietre” (Lc 3,8) si fa
evento in Gesù; non chi dice di avere Abramo per padre è suo figlio (cfr. ibid.),
ma uno come Zaccheo, pubblicano, è dichiarato da Gesù “figlio di Abramo”,
raggiunto nella propria casa dalla salvezza (cfr. Lc 19,9).
Ma perché Gesù sceglieva di preferenza la compagnia di questi peccatori
pubblici, fino a dire agli uomini religiosi: “I pubblicani e le prostitute vi passano
avanti, vi precedono nel Regno di Dio” (Mt 21,31)? Non per stupire o
scandalizzare a basso prezzo ma per mostrare, in modo paradossale, che queste
persone emarginate e condannate sono nient’altro che il segno manifesto della
condizione di ogni essere umano. Tutti siamo peccatori – e pecchiamo finché ci è
possibile, in modo nascosto! – ma Gesù aveva compreso una cosa semplice:
quelli che sono peccatori pubblici sono esposti al giudizio e al biasimo altrui, e
perciò sono più facilmente indotti al desiderio di cambiare la loro condizione;
essi possono cioè vivere l’umiltà quale frutto delle umiliazioni patite, e di
conseguenza possono avere in sé quel cuore “contrito e spezzato” (Sal 51,19; cfr.
34,19; 147,3) in grado di spingerli a cambiare vita sia nel rapporto con Dio sia
nel rapporto con gli altri e con se stessi. In quell’occasione Gesù aveva anche
aggiunto che i farisei, non accettando il battesimo di Giovanni, “hanno reso vano
il disegno di Dio” (v. 33), mentre i pubblicani, facendosi battezzare come
manifestazione di conversione, “hanno riconosciuto la giustizia di Dio” (v. 34),
hanno riconosciuto che lui solo è giusto e può giustificare! Queste parole di
Gesù aiutano a comprendere in verità la nostra parabola.
Il pubblicano è un uomo non garantito da quello che fa, anzi i suoi peccati
manifesti lo rendono oggetto di diffidenza e di disprezzo da parte di tutti. Egli
sale al tempio nella consapevolezza, sempre rinnovata a causa del giudizio altrui,
di essere un peccatore, bisognoso e mendicante del perdono di Dio. Per questo
Luca descrive accuratamente il suo comportamento esteriore, opposto a quello
del fariseo. Egli “si ferma a distanza”, non osa avvicinarsi al Santo dei santi, là
dove dimora la presenza di Dio: alla lettera, “sta lontano” (makróthen), come il
figlio minore della parabola quando il padre lo vede e gli corre incontro
(makrán: Lc 15,20); come Pietro (makróthen: Lc 22,54) e gli altri discepoli e
discepole (makróthen: Lc 23,49) che seguono da lontano Gesù durante la sua
passione. “Non vuole nemmeno alzare gli occhi al cielo”, ma li tiene bassi,
provando vergogna della propria condizione, e “si batte il petto”, gesto tipico di
colui che fa lamenti, che vuole manifestare il suo pentimento, come le folle di
fronte allo “spettacolo” (theoría) della morte in croce di Gesù (cfr. Lc 23,48).
Su questa postura fisica, che esprime la coscienza della sua indegnità nei
confronti di Dio, Agostino indugia a lungo:
“Il pubblicano s’era fermato a distanza”, ma tuttavia era vicino a Dio. Lo teneva lontano il rimorso,
ma lo avvicinava la fede. “Il pubblicano s’era fermato a distanza”, ma il Signore lo guardava da
vicino. Poiché “eccelso è il Signore ma guarda alle cose umili, gli eccelsi invece”, com’era quel
fariseo, “li conosce da lontano” (Sal 138,6) […] Ma non bastava che stesse a distanza: “non alzava
nemmeno gli occhi al cielo” […] Lo opprimeva il rimorso, lo sollevava la speranza. Ascolta ancora:
“Si batteva il petto”. Sapeva di meritare il castigo, ma sperava di ricevere il perdono, in quanto
consapevole dei propri peccati13.
5. Il giudizio di Gesù
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà
umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato (Lc 18,14).
Conclusione
Il pubblicano della parabola, dunque, come modello del monaco; anzi – oserei
dire – modello del cristiano.
Conclusione: tanta pazienza con noi
Se il Salvatore è disceso sulla terra, è per compassione dell’umanità. Sì, ha pazientemente sofferto le
nostre sofferenze prima di soffrire la croce, prima di assumere la nostra carne. Se infatti prima non
avesse sofferto, non sarebbe venuto a condividere con noi la vita umana. Prima ha sofferto, poi è
disceso e si è manifestato. Ma qual è questa passione che ha sofferto per noi? La passione dell’amore.
E il Padre stesso, Dio dell’universo, “lento all’ira, molto compassionevole e misericordioso” (cfr. Sal
102 [103],8 ecc.), non è forse vero che anch’egli soffre in qualche modo? O non sai che quando si
occupa delle vicende umane egli prova una sofferenza umana? Infatti, “il Signore tuo Dio ha preso su
di sé il tuo modo di essere, come un uomo prende su di sé il proprio figlio” (cfr. Dt 1,31). Dio dunque
prende su di sé il nostro modo di essere, come il Figlio di Dio prende le nostre sofferenze. Il Padre
stesso non è impassibile. Se lo preghiamo, ha pietà, compatisce, prova una passione di carità, si pone
in una situazione incompatibile con la grandezza della sua natura e prende su di sé le passioni
umane1.
Abbiamo letto insieme, caro lettore e cara lettrice, alcune parabole create e
raccontate da Gesù, che Luca ha raccolto nel suo Vangelo. Alla fine della
meditazione di ciascuna è stato inevitabile per me prendere posizione, mettermi
in discussione, cercare di capire dove mi collocavo nella parabola e soprattutto
come mi faceva mutare modo di pensare, spingendomi a vivere e a comportarmi
diversamente. Di fronte al messaggio di Gesù ho sentito l’inadeguatezza mia e di
molti lettori credenti che devono constatare l’incapacità di realizzare il
messaggio delle parabole; l’inadempienza verso ciò che Dio e Gesù ci chiedono;
la nostra inconseguenza, che emerge ogni giorno, con modalità a volte
drammatiche, ben riassunte dall’Apostolo: “Non riesco a capire ciò che faccio.
Infatti, io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto […] In me non
abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo;
infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm
7,15.18-19).
Per questo desidero concludere commentando un’altra breve parabola, sempre
presente nel Vangelo secondo Luca, una parabola che ci può dare speranza,
perché ci mette davanti la pazienza di Gesù verso ciascuno di noi.
Gesù sta compiendo il suo viaggio dalla Galilea verso Gerusalemme, dove
vivrà le sue ultime ore prima della passione e della crocifissione. Stanno infatti
per giungere “i giorni in cui sarebbe stato tolto” (Lc 9,51) ai suoi, alla sua amata
gente, alla sua amatissima terra. Gesù sapeva bene che quello era un viaggio
terminale, perché stava per raccogliere l’esito della sua narrazione del volto di
Dio, il rifiuto da parte del potere religioso e di quello politico coalizzati tra loro.
Per questo la sua ferma decisione lo aveva spinto a “indurire il volto” (tò
prósopon estérisen: ibid.) e a consegnare ai suoi discepoli parole esigenti,
profezie della sua passione (cfr. Lc 9,22.43-45; 18,31-34), “guai” contro gli
uomini religiosi legalisti e ipocriti (cfr. Lc 11,37-54).
Durante questo viaggio Gesù è raggiunto da notizie di cronaca riguardo a fatti
accaduti in quei giorni. C’è stata una rivolta da parte di alcuni galilei, e la polizia
di Pilato l’ha repressa nel sangue; è caduta la torre di Siloe, e diciotto persone
che erano nelle vicinanze sono state uccise (cfr. Lc 13,1.4). Di fronte a queste
“disgrazie”, i religiosi di quel tempo (di ogni tempo?) pensavano subito al
castigo di Dio e dunque giudicavano le vittime di quegli eventi quali colpevoli di
peccato: al peccato deve corrispondere il castigo, il castigo è una pena e solo
così la giustizia di Dio può regnare. Sollecitato da queste notizie, Gesù
interviene per dire una semplice verità: non è vero che dietro un evento luttuoso
vi sia il peccato, la colpa di qualcuno. Dio non è perverso e “spione”, così da
scrutare e cercare chi pecca per castigarlo; Dio, qui sulla terra, non castiga né
condanna nessuno. Quanto a Gesù, nel suo comportamento attraverso il quale
vuole narrare Dio (cfr. Gv 1,18), non condanna (cfr. Gv 8,11) né tanto meno
castiga. Mai e poi mai. Se così avvenisse, l’uomo non sarebbe più nello spazio
della libertà e dell’obbedienza, ma sarebbe costretto con la violenza da Dio a
evitare il male. Certo, questa era un’immagine perversa di Dio, ma gli uomini
religiosi la custodivano e la predicavano, anche perché, sentendosi ministri di
Dio, si ritenevano in tal modo autorizzati a condannare e a castigare.
Gesù invece, venuto a consegnarci un altro volto di Dio, se condanna,
condanna il peccato, non il peccatore, e in ogni caso, come tutti i profeti,
rimanda la possibilità del castigo di Dio al giudizio finale, all’aldilà della morte.
Egli infatti sa bene che ogni peccato che l’uomo compie, essendo male, ha in sé
una potenza mortifera e già qui, nella vita, causa il male di chi lo compie. È una
verità elementare: chi sceglie di fare il male, vive nel male, e il male gli
impedisce di vedere e di beneficiare di tutto ciò che è bene. Dio non interviene
né deve intervenire. Gesù dunque avverte: le vittime della violenza di Pilato, le
persone schiacciate dal crollo della torre non erano più colpevoli di quelle che
sono sfuggite a tali disgrazie. Ma resta vero che, se non c’è conversione,
mutamento di mentalità e di vita, se non c’è un ritorno a Dio, allora nel giudizio
ci sarà perdizione per tutti (cfr. Lc 13,2-5). Qui sulla terra il male colpisce giusti
(se mai ci possono essere!) e ingiusti, innocenti e peccatori, ma ciò che è
decisivo è il giudizio di Dio, che guarderà alla conversione. Questo significa il
monito di Gesù, ripetuto due volte: “Se non vi convertite, perirete tutti allo
stesso modo” (Lc 13,3.5).
Occorre dunque decidersi qui e ora, è urgente fare ritorno al Signore, perché
nessuno sa quando incontrerà il Giudice che viene come un ladro nella notte,
senza farsi preannunciare (cfr. Lc 12,39-40).
Ma di fronte a tale urgenza, non ci sono avvertimenti, non c’è da parte di Dio
la capacità di dilazione, non c’è pazienza? Ecco allora che Gesù racconta una
breve parabola, che è un gioiello e che tanto ci consola. È la parabola del fico
che un uomo ha piantato nella sua vigna (cfr. Lc 13,6). Piantare un fico nella
propria vigna è un’azione straordinaria, è come mettere un anello al dito
dell’amata. Perché chi va nella vigna non vi trova sempre grappoli da gustare,
ma solo nell’ora della vendemmia. La stagione dei fichi, invece, è più lunga,
dura tutta l’estate e tutto l’autunno, e così raccogliere un fico e gustare la sua
dolcezza è una delle esperienze più straordinarie per la bocca e per il palato.
Un uomo, dunque, pianta un fico e poi lascia al contadino, al vignaiolo, di
prendersi cura del fico e della vigna. A un certo punto viene a cercare fichi e non
ne trova: quell’albero piantato con speranza, cura e amore, non produce… La
delusione è grande! Che fare? Questa la sua reazione, nelle parole da lui rivolte
al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma
non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?” (Lc 13,7). Ma il
vignaiolo, di fronte a questa decisione del padrone della vigna, si mette dalla
parte del fico e osa supplicare: “Padrone [kýrios], lascialo ancora quest’anno,
perché io possa zappargli attorno e mettergli il concime. Così vedremo se porterà
frutti per l’avvenire” (Lc 13,8-9).
Certo, c’è un’ora di decisione che giunge e si impone, come aveva annunciato
Giovanni il Battista: “Ormai la scure è pronta ad abbattersi sulle radici degli
alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel
fuoco” (Lc 3,9). Questo era l’annuncio del precursore di Gesù, ma Gesù sa che
in Dio può esserci pazienza, attesa, perché “il Signore pazienta, temporeggia, usa
pazienza [verbo makrothyméo] non volendo che alcuno perisca” (2Pt 3,9; cfr. 1Pt
3,20; Mt 18,26.29). In Dio c’è questa straordinaria qualità della makrothymía,
resa dalla versione italiana della Bibbia con “magnanimità”, parola che
probabilmente ai nostri orecchi suona debole; andrebbe invece resa con
“grandezza d’animo”, “pensare e sentire in grande”. Il nostro Dio, in verità,
sente in grande, e quindi ha su di noi uno sguardo altro da quello che noi
pensiamo. “Egli è Dio, non un uomo” (cfr. Os 11,9) – dice la Scrittura – e
giudica come Dio, con una giustizia che non è la nostra, ma alla quale è
immanente la misericordia, la makrothymía.
Per questo il vignaiolo della parabola dice con audacia al padrone: “Vedremo
se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai” (Lc 13,9). Ovvero: “Lo
taglierai tu, non io!”. Il padrone è paziente e il vignaiolo intercede perché lo sia
ancora di più. Il padrone dice: “Taglialo!”, il vignaiolo dice: “Aspetta, lasciagli
ancora una possibilità. Io farò il lavoro, lo curerò”. Una gara nella pazienza,
un’emulazione nella misericordia! E non dimentichiamo chi è colui che sta
narrando la parabola: Gesù. Egli sembra dire a Dio suo Padre: “Io, disceso da te
sulla terra e divenuto compagno degli uomini e delle donne, sto dalla loro parte,
e a te chiedo solo pazienza, misericordia, perdono per loro”. Anche in questa
parabola, dunque, Gesù “evangelizza Dio”, nel senso che svela che il suo Dio,
non quello fabbricato dalle religioni, è Vangelo, buona, bella, gioiosa notizia per
tutti, in particolare per i peccatori.
Sovente mi paragono a un fico, perché sosto di frequente nelle vigne e mi
siedo accanto a una vite. Devo confessarlo: quanti fichi ho piantato nella terra e
nella vigna che circonda il mio eremo; ho piantato ulivi e fichi, che mi ricordano
la mia vocazione… E quando mi sento come il fico della parabola – e avviene
spesso! – dico al Signore: “Ascolta tuo Figlio che ti chiede per me: ‘Abbi
pazienza, cercherò di curarlo ancora con il Vangelo, di dargli nutrimento con il
pane di vita, e darà frutto. Tu aspetta, e in ogni caso non io lo taglierò, lo
taglierai tu, perché io sono venuto a salvare chi era perduto (cfr. Lc 19,10)’”.
Note
5 Cfr. Jean Delorme, Jean-Yves Thériault, Pour lire les paraboles, Cerf –
Médiaspaul, Paris 2012, pp. 10-11.
6 Cfr. Denis McBride, Les paraboles de Jésus, Les Éditions de l’Atelier, Paris
8 Enzo Bianchi, Farsi prossimo con amore, in Id., Massimo Cacciari, Ama il
Qiqajon, Magnano 2014. Cfr. anche Luciano Manicardi, Povertà e ricchezza alla
luce dell’evangelo, Qiqajon, Magnano 2000.
3 Cfr. Michel Gourgues, Le parabole di Luca, cit., p. 180.
Spinetoli, Luca: il Vangelo dei poveri, Cittadella, Assisi 1982. Cfr. anche Gerard
Rossé, Il denaro e la ricchezza nell’evangelista Luca, in “Parola, Spirito e Vita”
42 (2000), pp. 119-130.
5 http://w2.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2015/documents/papa-
francesco-cotidie_20150305_senza-nome.html (da: “L’Osservatore Romano”,
ed. quotidiana, anno CLV, n. 53, venerdì 6 marzo 2015).
6 Famose, al riguardo, le parole di Sigmund Freud: “In fondo nessuno crede
3 Cfr. Marcel Gauchet, Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992, pp.
9 Ibid.
1935, p. 175.
12 Cfr. sopra, p. 66.
14 Ibid.
16 Cfr. Enzo Bianchi, Una lotta per la vita. Conoscere e combattere i peccati
capitali, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, pp. 229-231. Si veda anche l’aureo
libretto di André Louf, L’umiltà, Qiqajon, Magnano 2000 (sull’ambiguità di tale
virtù, in particolare pp. 13-24).
17 “Se vuoi essere umile, impara a sopportare con fortezza ciò che ti viene
dagli altri, e non gettare su di te vane parole” (Detti dei padri del deserto,
Collezione alfabetica, Serapione 4; PG 65,417).
18 Isacco il Siro, Prima collezione (versione greca) 34 (Deseille, 259).
Per andare oltre e rileggere queste parabole con occhi profetici consiglio:
Ap Apocalisse
At Atti degli Apostoli
Col Lettera ai Colossesi
1 Cor Prima lettera ai Corinzi
2 Cor Seconda lettera ai Corinzi
Dt Deuteronomio
Eb Lettera agli Ebrei
Es Esodo
Est Ester
Ez Ezechiele
Fil Lettera ai Filippesi
Fm Filemone
Gal Lettera ai Galati
Gb Giobbe
Gen Genesi
Ger Geremia
Gn Giona
Gv Giovanni
1 Gv Prima lettera di Giovanni
Is Isaia
Lam Lamentazioni
Lc Luca
Lv Levitico
Mc Marco
Mt Matteo
Os Osea
Pr Proverbi
1 Pt Prima lettera di Pietro
2 Pt Seconda lettera di Pietro
1 Re Primo libro dei Re
Rm Lettera ai Romani
Sal Salmi
1 Sam Primo libro di Samuele
Sap Sapienza
Sir Siracide
1 Tm Prima lettera a Timoteo
Zc Zaccaria
PG Patristica Graeca
PL Patristica Latina
SC Sources Créthiennes
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Note
Abbreviazioni