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LETTURA DEI PROFETI MINORI

A CURA DEL GRUPPO BIBBIA E LAVORO


ACLI-MILANO

PREMESSA e INTRODUZIONE RELATIVE A GRIGLIA DI LETTURA, METODO DI LAVORO E MOTIVAZIONI


VEDERE IL PROFETA ISAIA.

PROFETI MINORI
A. Premessa
1.Generalità sui profeti
2. Profeti scrittori
B. Il Libro dei 12 profeti
1. Cronologia e contesto
2. Analisi dei singoli libri
2.1 - OSEA
2.2 - GIOELE
2.3 - AMOS
2.4 –ABDIA
2.5 – GIONA
2.6 – MICHEA
2.7 – NAUM
2.8 - ABACUC
2.9 - SOFONIA
2.10- AGGEO
2.11- ZACCARIA
2.12- MALACHIA
C. Una considerazione generale sui profeti scrittori
D. Appendice: Antologia di brani dai contributi individuali

GRUPPO BIBBIA E LAVORO


Coordinatore: don Raffaello Ciccone
Partecipanti del Gruppo al lavoro relativo ai Profeti Minori: don Raffaello Ciccone, Mirto Boni, Teresa
Ciccolini, Lorenzo Cantù, Giorgio e Silvana Canesi, Vittorio e MariellaVilla, Ricotti Giancarlo, Martinelli Rina,
Sebastiano Gilardi.

Testo a cura di Mirto Boni

Impaginazione e grafica: Giorgio e Silvana Canesi


Nov.2012

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I Profeti Minori ( Terè asar )

A. PREMESSA

1. GENERALITA’ SUI PROFETI

Il termine “ profeta” significa “ colui che parla a nome di ( Dio )”; dunque non si tratta di uno che
“ prevede il futuro”, o che fa gli oroscopi, come è inteso sovente nel linguaggio familiare o
giornalistico. Il profeta biblico (che può essere sia maschio che femmina) riceve in qualche modo
un’ ispirazione dallo Spirito che lo induce a parlare, a volte anche ad agire, sia ai capi, sia al popolo.
Il contenuto della sua predicazione è sempre riferito a fatti o situazioni specifiche, attuali e concrete
( guerre, carestie, epidemie, problemi sociali, momenti di crisi, o altro). La sua parola può essere di
rimprovero e di accusa, ma anche di incoraggiamento e di proposta, a seconda dei casi.
Naturalmente la sua analisi critica gli permette di fare anche delle previsioni su quel che arriverà
dopo, sia castighi che occasioni di salvezza e benedizioni; sono comunque previsioni che
discendono logicamente dalla fede in Dio e dall’ascolto attento della Sua Parola.
Molte religioni antiche hanno avuto profeti, e una attività di tipo profetico è continuata col
Cristianesimo (anche se ora li chiamiamo “ santi” piuttosto che profeti): del resto il “dono” della
profezia è parte del corredo che ogni cristiano riceve col Battesimo. Qui restringeremo il nostro
interesse ai profeti che appaiono nel Primo Testamento.
L’ ispirazione profetica giunge improvvisa, per scelta imperscrutabile del Signore, e può riguardare
uomini e donne di ogni età, popolo e condizione. Generalmente è una dote personale e non
trasmissibile, ma ci sono delle eccezioni a questa regola. Si parla anche nei libri storici di “dinastie
profetiche” , anche se non è chiaro la loro effettiva funzione. Inoltre i maggiori profeti hanno
comunque avuto dei seguaci, anche dopo la morte, che hanno costituito delle vere e proprie
“tradizioni profetiche” intitolate al maestro. Ciò è particolarmente importante per i profeti scrittori,
i cui testi sono stati spesso redatti o integrati dalle tradizioni successive.
Per quanto detto sopra, il profeta è generalmente – ma non esclusivamente - un laico, che non ha
specifichi incarichi religiosi al di fuori della predicazione o del consiglio ai capi del popolo.

Il primo profeta citato nella Bibbia è Mosè, che ricevette da Dio l’ordine di richiedere a Faraone la
liberazione del popolo. Anche i successivi capi di Israele sono stati considerati “profeti”dalla
tradizione ebraica, perché si riteneva che il “ giudice” o il “re” avesse comunque uno specifico
mandato da parte del Signore. Tuttavia, con l’avvento della monarchia (circa 1000 a. C.), le
funzioni si separano. Personaggio chiave è Samuele, che, per un certo tempo ha ricoperto funzioni

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anche politiche (è l’ultimo giudice), ma dopo l’unzione a re di Saul, continua a fare il profeta per
(o contro) il re.

Da quel momento i re saranno “accompagnati” da uno o più profeti (non tutti sono nominati
esplicitamente nei testi canonici), che possono o consigliare il re sulle scelte da prendere, o
rimproverarlo per l’aver fatto scelte sbagliate. Un caso particolare sarà costituito da David, che, pur
essendo re ed avendo come controparti dei profeti (tra cui il più importante è Nathan), è
considerato egli stesso un profeta, soprattutto in qualità di autore dei Salmi.
Occorre notare che col passare del tempo, presso la corte dei vari re, c’è la tendenza a servirsi dei
cosiddetti “profeti di corte”, cioè di personaggi accomodanti che modulano i loro oracoli e responsi
a misura dei desideri del sovrano. Sono dei veri e propri “yes-men” del re, che ovviamente non
riferiscono più la parola di Dio, bensì supportano le aspettative del sovrano, dando loro una
parvenza di origine celeste. Spesso ci sarà lotta tra i profeti autentici e questi fantocci, che
ovviamente hanno dalla loro la forza repressiva del palazzo.
Sono molti i profeti nominati – o anche solo menzionati senza il nome – nei testi storici; i più
importanti sono Elia (metà del IX° secolo), che è il vero fondatore della dottrina dello “Jahvismo”,
e il suo discepolo e successore Eliseo.

2. PROFETI SCRITTORI

Fin verso la metà dell’VIII° secolo a. C. le gesta dei vari profeti vengono raccontate dagli autori dei
libri “storici” della Bibbia (da Giosuè a 2Re). Da quel momento in poi, gli oracoli di alcuni tra i
profeti sono stati raccolti e riportati per iscritto in libri intestati al rispettivo nome. Questi libri fanno
parte del blocco dei Libri Profetici (nella Bibbia ebraica: Profeti Posteriori). Nel nostro canone
troviamo prima i 4 profeti “maggiori”, e cioè Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele ( quest’ultimo è
uno scritto più di carattere apocalittico che profetico, e infatti, nel canone ebraico, è inserito fra gli
“agiografi”). Seguono i 12 profeti minori, così chiamati per la minore lunghezza dei loro scritti
(nel canone ebraico sono contati per un libro solo).
I più antichi profeti scrittori risalgono, come si è gia detto, a circa la metà dell’VIII° secolo, sotto il
regno di Ozia in Giuda e di Geroboamo II° in Israele. Gli ultimi profeti, entrati nel Canone, sono
situabili al IV° secolo, o forse inizio III°. E’ da notare che, in molti casi, gli scritti profetici hanno
avuto delle aggiunte di scuola anche in periodi successivi alla esistenza in vita del profeta, a cui il
libro è intestato.

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B. IL LIBRO DEI 12 PROFETI

1. CRONOLOGIA E CONTESTO

1.1. Prima di iniziare un percorso analitico sui 12 ”profeti minori” della Bibbia, è opportuna qualche
considerazione di carattere generale. Cominciamo col precisare che la definizione di “minori”non si
riferisce alla loro qualità e all’importanza delle loro profezie: significa semplicemente che i singoli
testi sono più brevi, tant’è che nella Bibbia ebraica sono stati contati come un unico libro. Si tratta
di dodici personaggi, attivi nell’arco di oltre 4 secoli e molto diversi per ambiente di vita, livello
sociale e contesto storico e religioso. Sono comunque profeti a pieno titolo, e profeti “scrittori”.
Anch’essi (come è il caso dei “profeti maggiori”) sono personaggi controcorrente. In modo più o
meno duro e diretto, la loro predicazione si scontra sia con la politica dei capi (civili e religiosi), sia
molto spesso anche con l’opinione e le aspettative della maggioranza del popolo. A mo’ di battuta si
può dire che i profeti “predicono disgrazie e castighi quando le cose sembrano andar bene, e
promettono salvezza e ripresa quando tutto sembrerebbe perduto”. Per questo i profeti biblici hanno
quasi sempre subito persecuzioni e repressioni dalle autorità, in certi casi fino all’assassinio, e
incassano rifiuto o contumelie da parte della gente.

1.2. Per valutare in modo organico l’evoluzione della dottrina dei profeti è bene seguire l’ordine
cronologico (che sovente non corrisponde all’ordine in cui appaiono nel Canone), anche se non è
sempre facile determinarlo: per alcuni infatti ci sono riferimenti biografici precisi e incontestabili,
per altri invece esiste disaccordo fra i maggiori esegeti sulla collocazione temporale.
L’elemento costante nella loro teologia consiste nel collegare i successi e gli insuccessi del popolo
di Israele alla maggiore o minore conformità dei comportamenti – pubblici e privati - con gli
insegnamenti della Torah. Le varie situazioni di peccato sono definite come infedeltà al Signore o
meglio come idolatria. L’idolatria non consiste esclusivamente nell’esplicita adorazione di idoli,
ma si verifica ogniqualvolta viene stravolto o invertito il corretto ordine dei valori e delle priorità,
che deve risultare dallo studio della Parola di Dio. Per i profeti insomma c’è e ci sarà sempre una
corrispondenza diretta tra il comportamento personale e collettivo del popolo (il popolo è
responsabile delle colpe del sovrano, e viceversa) e il buono o cattivo esito dell’attività politica,
economica, sociale e familiare. Può semmai oscillare nel tempo il momento del castigo o del premio
(i tempi di Dio non sono i nostri tempi), ma prima o poi si verificherà.
Varia invece, nel corso della storia, il tipo di infedeltà più stridente, e di riscontro, il corretto
modello di comportamento da seguire. Per i profeti più antichi, attivi tra l’VIII° e inizio VII° secolo,
cioè Amos, Osea, Michea, le colpe più gravi sono di carattere sociale: l’eccessiva disuguaglianza
di proprietà e di reddito, l’oppressione del povero, l’ingiustizia legalizzata, la mancanza di
solidarietà con i più deboli. Il Signore è visto da questi profeti come il mallevadore (goèl) dei
poveri e degli sventurati, che interviene per liberarli e vendicarli. E’ evidente il parallelismo con la
parte più antica del libro di Isaia e con la legislazione sociale deuteronomista. La misericordia
verso i deboli e la giustizia hanno la precedenza anche sul culto (soprattutto in Osea, che, per questo
insegnamento, è esplicitamente citato dai Vangeli).
Un gruppo successivo, Sofonia, Naum, Abacuc, Abdia, pur non trascurando le colpe di carattere
sociale, vede comunque il rischio maggiore di infedeltà nella commistione con i popoli vicini, che
porta facilmente al relativismo religioso e al traviamento etico. Per questo essi prevedono il castigo
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del Signore sia per i fedeli Israeliti che per le “nazioni”, cioè i pagani. Siamo nel periodo storico
compreso tra la caduta del regno del Nord (721 a. C.) e quella del regno di Giuda (587 a. C.). Sono
contemporanei, o di poco più anziani, del grande Geremia. Alcuni tra i paesi confinanti sembrano
spesso più forti militarmente e più prosperi economicamente, e da ciò nasce la tentazione di
considerare i loro “dei” ( i Baalim ) come più potenti e più generosi del Signore. E’ da notare che
oracoli contro le nazioni si trovavano anche in profeti più antichi, ma la condanna senza attenuanti,
che spesso oltrepassa i limiti della xenofobia, raggiunge l’acme nei testi di questi autori.
Nel 587 a. C. Nabucodonosor riconquista Gerusalemme e distrugge la città e il Tempio. Gran parte
della popolazione è deportata in Babilonia. In questo periodo si leverà la voce profetica di
Ezechiele e del Deutero-Isaia. Ma, alcuni decenni dopo, tocca a Babilonia di essere a sua volta
conquistata e devastata da Ciro; inizia il predominio persiano, che per gli Ebrei corrisponde a un
risorgere delle speranze. Ciro infatti permette il ritorno degli esuli, e l’amministrazione persiana è
tollerante verso la religione di Israele. Tuttavia le cose non sono così facili per chi ritorna: la terra è
devastata e inselvatichita, le città diroccate, sul territorio si sono stanziate popolazioni ostili o
almeno diffidenti. Di queste difficoltà si fanno interpreti i profeti del post-esilio, Aggeo, Zaccaria,
e un po’ più tardi Gioele, Malachia, sia pure con diverse sottolineature.
In alcuni testi il compito prioritario è quello di ricostruire il Tempio (Aggeo, Zaccaria 1-8) e
ristabilire il culto secondo le regole. Per altri è più importante realizzare il rispetto delle norme di
purità: purità liturgica, con gravi accuse ai sacerdoti che non rispettano i precetti, e purità etnica,
con la proibizione dei matrimoni misti. Troviamo quindi una recrudescenza della polemica con le
nazioni, che però non riguarda più il problema dell’indipendenza politica (generalmente non c’è
malanimo contro l’amministrazione persiana) ma quello dell’identità religiosa e culturale. Spesso si
nota attinenza e parallelismo con la teologia dell’opera storica del Cronista.
Si fa inoltre sempre più strada l’attesa di un evento straordinario, il Giorno del Signore, in cui
dovrebbe manifestarsi in modo improvviso e catastrofico la resa dei conti con i malvagi e gli
impuri, contemporaneamente al trionfo del “resto” fedele a JHWH, sotto la guida di un “unto dal
Signore” (Messia=Cristo). Siamo ormai alle soglie della “letteratura apocalittica”, di cui già
troviamo esempi in questi ultimi profeti scrittori, soprattutto nel cosiddetto Deutero-Zaccaria (Zc
9 – 14).
Un caso a parte resta il libro di Giona. Pur se il riferimento letterario è a un personaggio dell’VIII
secolo a.C. (cfr. 2Re 14,2), il libro a lui intestato è tra i più recenti (tra fine IV e fine III sec.,
secondo i vari esegeti). Esso non contiene oracoli profetici, ma piuttosto un racconto sapienziale, a
mo’ di parabola, con protagonista questo Giona. Il testo, ricco di ironia, si distingue per la sottile
critica all’intolleranza e ai pregiudizi religiosi ed etnici. Per questo, assieme al Deutero-Zaccaria,
sarà molto apprezzato e citato nel NT.
Con gli ultimi tra i “dodici” termina la letteratura profetica. Si apre il periodo della letteratura
“apocalittica”, alla quale appartiene – per lo stile e per il periodo di composizione – il libro di
Daniele. Così è nel canone ebraico, che lo inserisce fra gli “agiografi”. La versione greca dei LXX
lo pone invece dopo Ezechiele, e così pure la versione latina di Gerolamo. Perciò anche il canone
cattolico inserisce Daniele come quarto dei “ Profeti Maggiori”.

1.3.Volendo tirare alcune conclusioni da lettore-lavoratore, si potrebbe ragionare così. Anche nei
“profeti minori” permane il fondamentale concetto biblico, esposto in Gen 1-3, per cui il lavoro
dell’uomo è attività basilare per conseguire dignità umana e collaborare al progetto di Dio, nella
storia così come nella creazione. Pertanto l’uso perverso dell’attività lavorativa – come lo
sfruttamento, l’ingiustizia, la mancanza di rispetto verso tutte le creature, la fabbricazione di “idoli”,
è un’offesa al Creatore e diventa peccato di “idolatria”.
Tuttavia non tutti gli autori considerati dimostrano in modo esplicito e ben marcato questa
attenzione; in alcuni è appena accennata, in altri addirittura assente. Andando a vedere più in
dettaglio, troviamo che la scarsa sensibilità sociale corrisponde a due particolari circostanze: o a
momenti di grave pericolo per cause esterne, in cui la stessa esistenza del popolo come tale è
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minacciata, e in tali casi è comprensibile che certi problemi - pur importanti - passino
momentaneamente in seconda linea . Oppure ci si trova in un contesto di arroccamento clericale,
fondato su una religiosità che si esplica soprattutto nel ritualismo ossessivo e nella rigida
separazione tra “osservanti” e “non-osservanti”.
Queste considerazioni trovano riscontro nella critica evangelica al “fariseismo” e nella
raccomandazione di saper “leggere i segni dei tempi”. Resta in particolare confermato che la
giustizia sociale e il rispetto della dignità dei lavoratori hanno assolutamente bisogno di una
situazione di pace; altrimenti corrono il rischio di essere rimessi in questione e deteriorati in nome
di “interessi superiori della patria”, spesso molto discutibili e pretestuosi. E’ una considerazione
valida anche per i nostri tempi.

2. ANALISI DEI SINGOLI LIBRI

Per l’ analisi seguiremo l’ ordine adottato dal Canone cattolico, che non è cronologico.

2.1 OSEA

“Ti farò mia sposa per sempre… e tu conoscerai il Signore” (2, 21-22)

Il libro di Osea è il più lungo tra i “Profeti minori”.


Dell’ autore (che è l’unico profeta scrittore nativo del regno di Samaria) sappiamo ben poco, al di
fuori del suo anomalo matrimonio, imposto dal Signore stesso. Doveva comunque trattarsi di un
rappresentante della classe media, relativamente benestante e ben istruito. E’ stato attivo come
profeta negli ultimi decenni di vita del regno del Nord (detto anche “di Israele” o “di Efraim”);
non sappiamo se era ancora in vita al momento del tracollo finale (721 a. C). Il testo è uno dei più
corrotti dell’ intero AT, ed è probabilmente stato riveduto a Gerusalemme, quando vi fu portato dai
rifugiati a seguito della caduta di Samaria. Il libro si può dividere in due parti: la prima consiste
nella storia del matrimonio con una prostituta (forse sacerdotessa di un culto cananeo che prevedeva
la prostituzione sacra), che il profeta subisce per rispetto al Signore, ma che alla fine riesce a
rimettere in sesto (cc. 1-3). La seconda parte (cc. 4-14) contiene una serie di oracoli,
apparentemente senza un ordine particolare. In tutto il libro si susseguono, in alternanza, testi di
accusa e di rimprovero, per i peccati e le infedeltà dei connazionali, con le relative minacce di
castigo, e testi consolatori, con la previsione di futuri pentimenti e conversioni, e il conseguente
ripristino dell’Alleanza con il Signore.
La prima parte descrive lo scandaloso comportamento della moglie Gomer, che pure gli partorisce
tre figli, chiamati per volere di Dio con nomi malauguranti. Ma ancora più inusuale (e in un certo
senso “scandalosa”), è la tolleranza e la definitiva riconciliazione dimostrata dal profeta stesso. Si
tratta chiaramente di un testo simbolico, che vuol dare la misura dell’illimitata pazienza e
misericordia del Signore. Dal punto di vista letterario questo brano si può ben definire uno dei più
bei canti di amore di tutta la letteratura biblica, e non solo biblica. Dio, comunque, garantirà la
riconciliazione finale, facendo addirittura cambiare nome ai tre figli (procedimento non raro nel
Primo Testamento, e di cui c’è qualche esempio nel Nuovo).

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Nella seconda sezione del libro l’elemento predominante in tutti gli oracoli, ricchi di immagini e
poeticamente notevoli, è la violenta accusa alla classe dirigente di Samaria – re, consiglieri di corte,
sacerdoti e profeti, maggiorenti vari – di aver tradito e profanato l’Alleanza col Signore. Il popolo è
anch’esso colpevole, ma in misura meno grave. Dagli esempi forniti si deduce anche che ogni
strappo alla Torah viene considerato come un atto di idolatria, ed equivale a un “adulterio
spirituale”.
Tuttavia qua e là, tra gli oracoli di denuncia e di condanna, si trovano, come si è già detto, dei testi
che fanno riferimento a un futuro, non si sa quanto lontano, in cui il popolo si ravvedrà e Dio lo
riempirà di doni e di felicità senza fine. E’ da sottolineare che fanno parte di questo gruppo anche i
versetti finali del libro.
In tutto il testo l’ autore si dimostra buon conoscitore della storia passata di Israele, così come è
raccontata dai libri storici. Si può ancora notare che il profeta, riferendosi all’Alleanza , si riferisce
soprattutto all’alleanza di Abramo e Giacobbe, piuttosto che a quella di Mosè. Vi si potrebbe quindi
leggere una maggior larghezza di vedute rispetto alla possibile salvezza non solo di Israele ma
anche delle Nazioni. Anche per questo Osea, oltreché per l’ efficace descrizione della misericordia
del Signore, è stato apprezzato e citato in vari testi neotestamentari.

Nel libro di Osea non troviamo grandi riferimenti all’ attività lavorativa, ma soltanto rapidissimi
accenni ad alcune attività manuali tipiche dell’epoca e del luogo. Tuttavia dal contesto si può notare
come il profeta abbia ben chiara la situazione politica e sociale dello stato di cui è cittadino. Un
regno in cui è preponderante l’arroganza dei potenti e dei ricchi e l’ipocrisia della classe
sacerdotale, mentre scarseggia la fiducia nel Dio dell’Alleanza. Le sue critiche sono in buon
accordo con quelle dei profeti suoi contemporanei (Isaia 1-39. Amos, Michea), ed anche di profeti
successivi (ad esempio Geremia) e della tradizione storica detta “deuteronomista”.

2.2. GIOELE

“ Lacerate i vostri cuori, non le vostre vesti…” ( 2,13)

Questo profeta, messo al secondo posto nella schiera dei “Dodici” e il cui nome significa “JHWH
è Dio”, non riporta nel suo libro alcun elemento biografico (salvo la paternità), e alcun dato
cronologico. Non c’è accordo unanime tra gli esperti, ma la maggioranza situa il suo ministero nel
periodo del dominio persiano, verso la fine del quinto o l’inizio del quarto secolo. A questo
riguardo è significativa l’osservazione che nel testo non si nomina mai un re, ma soltanto i
“Sacerdoti” e gli “anziani” .
Il libro si può chiaramente dividere in due sezioni, la prima comprendente i primi due capitoli e la
seconda gli ultimi due. Alcuni esegeti hanno anche supposto che le due sezioni fossero opera di due
autori diversi, ma resta il fatto che esiste un concetto base, l’attesa del “Giorno del Signore”, che
attraversa tutti i capitoli.

La prima parte, come di regola nei libri profetici, alterna brani di minaccia e di desolazione con
appelli al pentimento e promesse di perdono da parte di Dio. Dal testo appare la descrizione di un
periodo di grossa crisi, sia nelle condizioni di vita della gente che nel rapporto col Signore. L’acme
della crisi viene raggiunto con una invasione straordinaria di cavallette devastatrici. E’ una
descrizione particolarmente drammatica, che raffigura le orde di insetti predatori come un vero e
proprio esercito nemico; inviato col consenso del Signore per punire i delitti di Giuda.
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La seconda parte osserva la medesima alternanza di minacce-castighi e conversioni-perdono; il
tutto però non riguarda più la situazione del paese contemporanea alla predicazione del profeta,
bensì è spostata verso un futuro non precisato nel quale arriverà il già citato “giorno del Signore”,
che riporterà definitivamente la giustizia e la santità, in Israele. Questa liberazione sarà disponibile
anche alle genti, con l’eliminazione del male e del dolore. Purché accettino di riconoscere il Dio di
Israele.
Il testo, quasi interamente in poesia, è fortemente drammatico e ricco di particolari terrificanti. E’
anche molto violento e severo nei confronti dei “cattivi”, sia Israeliti che pagani, tanto da creare un
po’ di disagio in certi punti al lettore moderno. Salta particolarmente agli occhi del lettore attuale il
ribaltamento del grande auspicio di pace dei profeti più antichi: per infervorare gli agricoltori di
Giuda a prendere le armi contro gli stranieri oppressori, Gioele scrive “Con i vostri vomeri fatevi
spade, e lance con le vostre falci; anche il più debole dica: io sono un guerriero” (4,10; invece cfr.
Is 2,4; Mi 4,3 ).
Nel finale si prevede la restaurazione del regno unito di Israele e la rovina dei popoli che hanno
oppresso i suoi cittadini.
Sono molto belli ed efficaci i brani dedicati al pentimento e alla inesausta misericordia del Signore,
come ad esempio “Laceratevi il cuore, non le vesti, ritornate al vostro Dio …perché si dovrebbe
dire fra i popoli . Dov’ è il loro Dio? …” (2,13,17). In particolare l’ispirato poema del cap.3
sull’effusione dello Spirito, ancor oggi è utilizzato nelle liturgie di Pentecoste.

Non ostante la relativa brevità, il testo di Gioele è stato molto ascoltato e citato dagli autori del
Nuovo Testamento. La maggior parte delle citazioni e allusioni si trova nell’Apocalisse di
Giovanni, data l’insistenza sui temi “escatologici”. Tuttavia se ne trovano anche nei Vangeli e negli
Atti degli Apostoli. Particolarmente significativo il riferimento di Paolo all’affermazione
“Chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvato” (3,5), che l’Apostolo interpreta
giustamente come rivolto non solo ai figli di Israele ma a tutti i figli di Adam (Rm 10, 13). E’
interessante anche la descrizione del giudizio universale nella valle di Giosafat (o della
“Decisione”). Per molto tempo si è identificato questo luogo con la valle del Cedron, nella parte
sud-est di Gerusalemme. Oggi i commentatori preferiscono interpretarla come un mero simbolo
(4,2.12-14).
Venendo in modo più specifico al tema lavoro, è facile constatare che il profeta ha un’evidente
esperienza riguardo al lavoro agricolo, che del resto, a quei tempi, era l’attività più importante in
Palestina. Il duro lavoro dei contadini era periodicamente minacciato da due tipi di catastrofi: le
calamità naturali, in particolare la siccità e le invasioni di parassiti; le guerre, con le conseguenti
ruberie di risorse e devastazioni di impianti e di raccolti. In questo libro entrambe le minacce sono
fuse insieme nella sconvolgente descrizione dell’imminente castigo di Dio. Anche per Gioele c’è
una connessione diretta fra il peccato dell’uomo (idolatria, ingiustizia, mancanza di solidarietà coi
fratelli..,), e l’equilibrio del suolo e il successo delle culture (cfr. Gen 3,17-19; 4,11-12). Senza
giustizia e solidarietà il lavoro umano è sterile e inutile e la terra, che produceva latte e miele,
diventa un’ arida steppa inospitale. Solo la riconciliazione con Dio porta alla vera pace (Shalom), e
quindi permette alla terra di offrire in abbondanza ottimi raccolti.
E’ interessante meditare questi versetti con un occhio attento alle pressanti preoccupazioni degli
ecologi e dei climatologi odierni sul rapporto tra cattiva volontà e scarsa giustizia, nei governi e nei
popoli, e il degrado ambientale e climatico della Terra. Le conclusioni, dedotte con scienza laica e
senza supporre alcun tipo di intervento divino, portano tuttavia a conclusioni che non sono poi così
lontane – a parte il linguaggio – da quelle raggiunte dai sapienti biblici, capaci di ascoltare le voci
profetiche!

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2.3 AMOS

“ Il Signore Dio ha parlato, chi non profeterà?” (3, 8)

Amos di Teqoa è probabilmente il più antico tra i profeti scrittori, ed è stato attivo nella prima metà
dell’ VIII° secolo. Era allevatore di bestiame e agricoltore. Pur essendo nato nel regno di Giuda
(Teqoa è un villaggio a sud-est di Gerusalemme), improvvisamente ricevette la vocazione profetica
ed esercitò il suo ministero nel regno del Nord, al tempo del re Geroboamo II°. La sua predicazione
non piacque ai funzionari della corte, che, dopo poco tempo lo fecero espellere. Non abbiamo
notizie di un suo eventuale successivo ministero in patria.
Il libro di Amos, dopo un brevissimo prologo ( 1, 1-2 ), si può dividere in 3 sezioni:
1. Oracoli contro le nazioni ( 1,3-2,16 )
2. Oracoli contro il regno di Israele ( 3,1-6,14 )
3. Visioni profetiche ed espulsione ( 7,1-9,15 )
La prima sezione è tipica di molti tra i profeti, prima dell’esilio, o durante. Le nazioni pagane, oltre
al fatto di praticare l’idolatria religiosa, erano colpevoli di ruberie e violenze contro il popolo di
Israele. Pur riconoscendo che le loro prevaricazioni erano permesse dal Signore per castigare i
peccati del Suo popolo, il profeta denuncia comunque il comportamento ingiusto dei nemici. Nel
finale però aggiunge alla lista dei “cattivi” anche i due regni degli Israeliti, che a loro volta
meritano il castigo di Dio.
La seconda sezione, più lunga, dopo una giustificazione iniziale del suo ruolo profetico, si articola
in una durissima requisitoria contro il regno di Israele che, come sappiamo dai libri dei Re, è
colpevole non soltanto di una secessione politica, ma anche di scisma religioso e di culto non
ortodosso. La denuncia del profeta, però, non si limita alle colpe religiose e liturgiche, ma fustiga
aspramente la corruzione delle classi dominanti e le profonde ingiustizie sociali, altrettanto degne
dell’accusa onnicomprensiva di idolatria. Accuse del genere si ritrovano anche in altri profeti attivi
in quel periodo, tuttavia raramente eguagliano la veemenza del nostro autore. Citiamo, tra i molti, i
brani in cui insulta i maggiorenti di Sion e di Samaria (6,1 sgg.) e le loro signore (4,1-3). Del resto
questa disparità di reddito e condizioni di vita è resa ancora più scandalosa dal fatto che in quel
periodo il paese era in pace e la situazione economica complessiva era buona.
La terza sezione tratta ancora i temi di quella precedente, ma in un’altra forma letteraria,
consistente in 5 “visioni profetiche” sui castighi che toccheranno a Israele (ma ogni tanto anche
Giuda viene inserito nel banco degli accusati). In questa sezione troviamo anche un brano narrativo,
che racconta la vocazione del profeta e il suo diverbio col sacerdote di Betel, Amasia, che, alla fine
lo farà espellere (7, 10-17). Anche Amos tuttavia inserisce nel brano finale la previsione di una
futura conversione, riconciliazione con Dio e benessere (9, 11-15), completando così altre brevi
parole di speranza già presenti qua e là nei testi precedenti .

In conclusione si possono fare alcune considerazioni generali:


1. La vocazione profetica giunge improvvisa e può toccare a chiunque, indipendentemente dal suo
censo, dalla posizione sociale, dalla genealogia. In questo caso investe un uomo di media o
bassa condizione sociale ( non è chiaro dal testo se fosse o meno proprietario del fondo in cui
lavorava ), tra l’altro esposto come pastore al rischio di contrarre di frequente l’impurità rituale.
Pur non essendo l’unico a condannare l’ingiustizia sociale e le prevaricazioni della classe
dirigente, Amos è particolarmente dettagliato nel descrivere e stigmatizzare le varie forme di
oppressione, dalla sopraffazione violenta alla corruzione dei giudici, dal caro-affitti ai salari di

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fame e alle truffe a danno dei poveri. E’ specialmente duro nel rimarcare il contrasto tra la vita
raffinata e gaudente dei ricchi e dei maggiorenti e la miseria del popolo.

2. La predicazione profetica provoca la dura reazione dei personaggi presi di mira. Questa è una
costante per tutti i profeti ( non solo biblici ). Amos da un certo punto di vista è più fortunato di
altri , perché se la cava con il “foglio di via” obbligatorio . E’ interessante l’analogia con
quanto sta succedendo da noi proprio in questi giorni: come un personaggio scomodo si possa
togliere di mezzo per il solo fatto che sia uno straniero (allora non esisteva la qualifica di
“extracomunitario”).

3. Un’altra particolarità notevole è la critica al clericalismo. Contro le verità brucianti del


profeta si crea un’ alleanza “trono-altare” tra Geroboamo e il sacerdote Amasia, apertamente
denunciata dal testo. Con indignata ironia si riporta la definizione data da Amasia del
Santuario di Bet-El come “Santuario del re” (Am7,12), in evidente contraddizione con il
nome stesso ( = Casa di Dio) del luogo.

4. E’ interessante rilevare come tra le accuse a Israele e le minacce di castigo proferite dal profeta
si ritrovino molti spunti che ricorrono nel libro del Deuteronomio, in particolare dalle
“maledizioni” di Dt 28. E’ una delle prove dell’ influenza decisiva dei profeti scrittori ( fino a
Geremia) nella stesura di quel libro. Sempre riguardo alla Parola del Signore, è notevole la
profezia di Am 8,11-12: “Arriverà, ma troppo tardi, la fame di ascoltare la Parola”. E’ un
oracolo di una terribile attualità ancor oggi.

5. Amos di Tekoa è un profeta che non può non piacere a un aclista e a un lavoratore: lavoratore
egli stesso, parla con estrema schiettezza, polemizza senza peli sulla lingua, si occupa dei
problemi della vita di tutti i giorni, di ciò che angustia il ”cittadino qualunque” dello stato di
Israele nell’ottavo secolo a.C.: dal salario misero, o a volte addirittura negato, all’abitazione,
dai debiti all’umiliazione nei confronti dei familiari. Nel rileggere il testo il pensiero corre
facilmente ai “miti” sindacali della nostra giovinezza, come Achille Grandi, il fondatore delle
ACLI, o anche Giuseppe Di Vittorio, formatosi proprio tra i braccianti agricoli di Cerignola.

2.4 ABDIA

“…e il Regno sarà del Signore” (2,1)

Il libro di Abdia è il più breve di tutto il Primo Testamento, e non abbiamo nessuna notizia del
profeta a cui è intestato. Ci sono discussioni sull’ epoca della composizione, ma la maggioranza dei
commentatori lo situa tra la fine del VII° e l’ inizio del VI° secolo a. C.
Pur nella sua brevità si possono distinguere, dopo l’ introduzione, due parti.
La prima ( 2-14 ) è un oracolo molto duro contro Edom. Rinfaccia agli Edomiti la “pugnalata alle
spalle” fatta al regno di Giuda al momento dell’attacco finale dei Caldei. Ne puntualizza la slealtà
e perfidia, e ne predice la rovina imminente (Edom sarà poi distrutta dai Persiani). E’ da notare che
la descrizione dell’annientamento di Edom ha molti punti di somiglianza con l’“oracolo contro
Edom” del libro di Geremia (cfr. Ger 49, 7 sgg.).

10
La seconda parte ( 15-21 ) allarga l’orizzonte della vicenda al “Giorno del Signore”, che in Abdia
coincide con il trionfo di Israele su tutti i vicini e gli aggressori, sotto la guida diretta del Signore. Si
tornerà a un unico stato esteso nei confini in tutte le direzioni.
Il breve testo, nel suo nazionalismo rancoroso e spietato, è un indice dei sentimenti del popolo,
anche nei componenti più fedeli ai precetti della Torah, durante il periodo delle scorrerie e delle
stragi contro il regno di Giuda, ormai destinato alla fine. Altri profeti hanno auspicato una
successiva pace e conciliazione; il messaggio di Abdia si ferma prima (un sentimento analogo lo si
troverà nel libro di Naum, stavolta nei confronti di Ninive).

2.5 GIONA

“ Ti sembra giusto essere sdegnato così ?” (Gn 4,4)

Il libro di Giona si distingue nettamente dagli altri testi dei Profeti scrittori, costituendo un
interessante problema esegetico. C’è innanzitutto una differenza formale, di genere letterario. A
differenza di tutti gli altri profeti, Giona non parla in prima persona, proclamando e interpretando
per i suoi contemporanei la Parola di Dio; viene invece raccontata in terza persona una sua singolare
– e anche piuttosto improbabile - esperienza di missione profetica all’estero.
Ancora più inusuale è però il contenuto del testo. Innanzitutto il profeta viene descritto come
assolutamente renitente al comando del Signore. Che la vocazione profetica facesse problema non è
una novità: anche il grande Isaia si sentiva impuro e indegno ( Is 6, 5), mentre Geremia si sfoga
violentemente contro il Signore che lo ha “sedotto” (Ger 20, 7 sgg)… Giona invece non replica
nulla allo strano comando di andare a convertire Ninive, ma semplicemente fugge verso l’opposta
estremità della terra. (Il nostro eroe dimentica evidentemente che anche di là del mare Dio può
arrivare a prenderlo, come canta il Salmo 139).
Continuando ad analizzare le stranezze del testo, vediamo che tutti i personaggi descritti sono
fondamentalmente positivi, escluso proprio il profeta! I marinai della nave (cap. 1) si dimostrano
pii, pazienti e preoccupati della sorte di un passeggero che pure era causa della loro disavventura; i
cittadini di Ninive, dal re ai più piccoli, credono alla Parola e si convertono (3, 5-9); persino il
mostruoso (e non meglio identificato) pesce obbedisce ai comandi dell’Altissimo, rinunciando a
digerire una preda già catturata (cfr. 2,11). L’unico che recalcitra fino alla fine è appunto lui,
l’Inviato ( nonostante le accorate pressioni del Signore, all’ultimo versetto non sappiamo ancora se
Giona si sia convertito o meno).
Un altro paradosso è che, in tutta la letteratura biblica, l’unico caso descritto di successo pieno ed
evidente della predicazione profetica è proprio questo, ottenuto in una città pagana (storicamente la
più ostile nemica del regno di Israele), da parte di un recalcitrante profeta, che tutto desiderava
tranne che ottenere il perdono di Dio sui Niniviti. Questo aspetto della narrazione potrebbe tra
l’altro suscitare interessanti riflessioni sull’efficacia “intrinseca” della vocazione profetica.
L’insieme di queste considerazioni fa acquisire al piccolo libro di Giona (appena 48 versetti)
un’importanza eccezionale nell’ambito delle Scritture. Nella atipica vicenda di Giona sono spazzati
via alcuni luoghi comuni della sensibilità religiosa (anche desumibili da una lettura letterale di altri
testi biblici) del tempo: l’esclusività etnica e confessionale della salvezza, riservata solo agli
appartenenti a un dato popolo, a una data religione, a una data cultura; la giustizia di Dio intesa
come misura bilanciata di meriti e colpe; l’Alleanza col Signore intesa come supporto politico-
militare ai discendenti di Israele.
Una particolare finezza che possiamo rilevare nel testo riguarda l’episodio del “ricino”, la cui
immatura fine tanto deprime Giona, suscitando l’ironica commiserazione di Dio (4, 6-11).
11
Oggigiorno, con la complicità dei media, è diventata prassi comune il depistaggio dell’attenzione
dell’opinione pubblica su problemi futili o fantasiosi, per evitare la corretta percezione degli
scandali e degli orrori più gravi, che riguardano sia il potere politico che quello economico.
Giustamente nel Nuovo Testamento il libro di Giona è citato in più occasioni da Gesù per dare
un’idea della inaudita novità del Suo messaggio e mettere in guardia i suoi ascoltatori dal porre
eccessiva fiducia nell’ essere “figli di Abramo”(cfr. Mt 12, 38-42 e par.; 16, 4).

Se poi cerchiamo spunti sul tema del lavoro, possiamo notare in Giona la rappresentazione positiva
di un gruppo di lavoratori generalmente poco considerati nella Bibbia: si tratta dei marinai della
nave che dovrebbe trasportare Giona all’estremo Occidente. Questi lavoratori sono stranieri e
pagani (gli Ebrei non hanno mai avuto dimestichezza col mare e con la navigazione), eppure fanno
del loro meglio sia dal punto di vista professionale (1,5.13), sia dal punto di vista religioso, visto
che ognuno di loro prega, e invitano alla preghiera anche i passeggeri. Quando poi il responso del
sorteggio e le parole stesse del profeta indicano chiaramente la causa del loro pericolo, cercano
comunque fino all’ultimo di non sacrificare la vita del colpevole confesso, dimostrandosi così molto
più rispettosi della Torah che non la mentalità vendicativa dello stesso Giona. Sarebbe bene tener
conto anche di questo brano quando trattiamo con diffidenza e a volte con timore e repulsione i
lavoratori stranieri che vivono ed operano fra noi.
Per concludere, si può dire che il messaggio del libro di Giona sia un chiaro invito all’ecumenismo
in teologia e all’internazionalismo in campo politico e sociale. C’è inoltre un chiaro invito a non
tirarsi indietro se le circostanze e le nostre scelte di vita ci portano a manifestare la nostra
testimonianza profetica di credenti in ambienti e situazioni apparentemente del tutto impermeabili al
soffio dello Spirito. Questa conclusione induce a datare il libro verso la fine del periodo di
dominazione persiana ( fine V° e prima metà IV° sec. a. C. ). Non c’è dunque nessuna relazione con
l’omonimo profeta, più o meno contemporaneo di Osea, citato in 2Re 14, 25.
Una piccola provocazione finale: come mai questo libro è stato inserito nel novero dei profeti,
anziché fra gli “agiografi”? Forse perché può contribuire alla formazione di chi si sentisse
chiamato alla missione di “profeta”; il testo infatti elenca tutto quello che un buon profeta non
deve fare per rispondere correttamente alla sua vocazione.

2.6 MICHEA

“ Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te:praticare la
giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con i tuo Dio” ( Mi 6, 8 )

Il profeta Michea (= Chi è come Adonai?) proviene, come Amos, dal mondo agricolo, ed è
particolarmente severo con gli eccessi e le prepotenze dei potenti, e in particolare dei “cittadini”.
Ha operato nella seconda metà dell’VIII° secolo, ed è quindi contemporaneo di Osea e di Isaia. Di
lui abbiamo il luogo di nascita, Moreset, e i dati cronologici, mentre non abbiamo notizie della sua
vocazione e predicazione. All’inizio il suo bersaglio è Samaria, la superba e ricca capitale del
Regno di Israele; dopo la caduta e la distruzione di questa città, ad opera degli Assiri, se la prenderà
con Gerusalemme.
Il libro si può suddividere in 4 sezioni.
La prima (1, 3-3, 12) è un vero e proprio processo a tutto Israele, Nord e Sud, specificando anche i
nomi di varie città. Le colpe sono quelle già denunciate dagli altri profeti coevi: idolatria come
sintesi di tutte le malvagità dei capi e del popolo; nello specifico soprattutto l’ingordigia di
ricchezze e possessi, che induce a calpestare i diritti dei poveri e dei deboli. Il processo si chiude
12
con severe condanne, descritte con toni brutali: Il profeta, nel corso della sua vita, ha potuto
assistere sia alla catastrofe di Samaria che alle devastazioni perpetrate dagli Assiri nei dintorni di
Gerusalemme, descritte nel II° libro dei Re. Nel testo tutti sono considerati responsabili, tuttavia le
colpe più gravi sono addebitate alle classi dominanti i (“cattivi pastori”) e ai “falsi profeti”, quelli
che profetizzano solo quel che piace sentire ai capi. Queste raffigurazioni dei pastori mercenari e
incapaci saranno riprese – e ribaltate – da Gesù nel IV° Vangelo. C’è poi anche un breve momento
di promessa di conversione e perdono (che anticipa il classico finale dei testi profetici). Forse è
un’aggiunta successiva al testo (2, 12-13).
La seconda sezione (4, 1-5, 15) capovolge il tono e il contenuto. Si descrive “la fine dei giorni”,
quando il monte di Sion sarà il centro spirituale e autorevole non solo di Israele ma di tutte le
nazioni. Ci sarà la vera pace per tutti e il diritto non sarà più violato, e sarà annunciato a tutti i
popoli (4, 1-4; cfr Is 2, 2-5). Questo risultato sarà gestito da un Messia ( = Unto) che nascerà a
Betlemme di Efrata, il che significa che sarà della stirpe di David (5, 1), che prima sbaraglierà le
grandi potenze nemiche e poi instaurerà il regno di pace. Questo accenno a Betlemme sarà ripreso
dall’Evangelista Matteo per confermare la nascita di Gesù a Betlemme (Mt 2, 6).
Dopo questa sezione consolatoria e rassicurante si torna però alla dura realtà del momento nella
terza parte (6, 1-7, 7). Siamo di nuovo al processo, e questa volta l’accusatore è Dio in persona,
che rinfaccia al Suo popolo l’ingratitudine e la depravazione. Il fedele accusato cerca delle scusanti
e promette un culto più assiduo e impeccabile, una generosa immolazione di vittime sacrificali. Ma
non questo è richiesto dal Giudice, quanto il ristabilimento della giustizia, della misericordia verso i
miseri e il ritorno alla fedeltà all’Alleanza del Sinai. Il Signore ha buon gioco nel dimostrare che il
comportamento pratico di coloro che si proclamano Suoi fedeli è ben lontano da quanto richiesto.
Perciò replica descrivendo i comportamenti deviati delle varie categorie di responsabili. Ci sono gli
imbroglioni e i falsari, gli accaparratori, e tutte le forme di disonestà e sopraffazione. Erano i vizi
tipici del regno del Nord, ma anche Giuda li ha adottati.
L’ultima sezione, più breve, è piuttosto composita (7, 8-20). Vi sono mescolate la parole di
pentimento e riconciliazione col Signore assieme alle minacce contro nazioni nemiche (non sempre
chiaramente definite). Probabilmente ci sono dei versetti aggiunti più tardi, perché alcune delle
situazioni descritte si adattano meglio al periodo del ritorno dall’esilio. Comunque anche questo
libro, come è la norma per i testi profetici canonici, si chiude nel segno della speranza nella
misericordia di Dio.
Per concludere, Michea ha le idee molto chiare sulla storia di Israele e sul rapporto tra il
comportamento generale e lo svolgersi degli eventi. Una sintesi esemplare risulta il versetto 6,8. che
mette insieme i punti focali dei profeti a lui contemporanei, Amos, Osea e Isaia 1-39. Come già
accennato, i primi apostoli Cristiani sono rimasti colpiti dalla profezia su Betlemme, che ha ispirato
i “ Vangeli dell’ Infanzia” (ma non è stata invece utilizzata dal IV° Vangelo, nella disputa narrata
in Gv 7,40 sgg.). La dura requisitoria di 6,3-5 è entrata nella liturgia del Venerdì Santo.
Per quanto riguarda il lavoro, anche Michea ricorda che l’attività lavorativa è utile e porta frutto
solo se rispetta la giustizia, l’attenzione per i precetti della Torah; soprattutto i garbugli delle classi
superiori non piacciono al nostro autore, piccolo agricoltore di provincia.

2.7. NAUM

“ Ninive è distrutta: chi la compiangerà?” ( 3, 7 )

Il breve libro di Naum fa eccezione alla regola generale dei testi profetici: i brani che esaltano la
misericordia del Signore e la Sua salvezza sono all’ inizio e non alla fine. Un’altra sua particolarità
13
è che la quasi totalità del testo non riguarda il peccato - e la relativa punizione – di Israele, bensì è
riferito a Ninive. Non abbiamo notizie personali sull’autore, salvo il luogo d’origine. Dal testo si
può arguire che sia vissuto al tempo della caduta dell’impero Assiro ad opera dei Caldei. Forse era
originario del Nord, scampato alla furia degli invasori Assiri.
Si comincia con un salmo, parzialmente alfabetico, che descrive in termini generali l’ira di Dio, e i
suoi effetti su chi trama contro di Lui o contro gli innocenti. Poco a poco si comprende che il
bersaglio del castigo sarà Ninive, la superba città che si ritiene invincibile. Questa prima parte si
conclude con l’assicurazione a Gerusalemme che i suoi guai sono finiti (2, 1).
La seconda parte (2, 2-3, 19) è tutta dedicata all’esecrazione per Ninive e alla descrizione della
sua rovina irreparabile e senza prospettive di una futura rinascita. Il testo infierisce sul destino del re
di Assur e dei suoi sudditi, alternando toni indignati a toni irridenti. Si ritrova il compiacimento
vendicativo degli oracoli “contro le nazioni” di Isaia, senza però le aperture a un futuro riscatto e a
una convivenza pacifica con gli ex nemici.
La lettura di Naum, come già quella di Abdia, lascia un po’ disorientati, a causa dell’assoluta
mancanza di ogni segno di pietà e di perdono. Certamente essi interpretano l’indignazione e
l’esasperazione di un popolo perseguitato e reso schiavo dall’ingordigia e l’arroganza superba di un
forte, privo di rispetto per Dio e per gli uomini. Il Signore ha pazienza (cfr. 1, 3), ma il male non
può avere via libera per sempre. Questo messaggio è sincero ma incompleto, e andrà dunque
confrontato e integrato con quello di altri profeti e altri scritti biblici; pensiamo per esempio a come
vien descritta Ninive nel libro di Giona.

2.8 ABACUC

“ ..mentre il Giusto vivrà per la sua Fedeltà…” ( 2, 4 )

Di questo profeta non abbiamo notizie, né dal testo né altrove; il riferimento che si trova
nell’appendice del libro di Daniele (Dn 14, 33-39) non ha carattere storico. Dal racconto si arguisce
che operava in Giudea negli ultimi anni del VII° secolo a. C., più o meno in contemporanea con
Naum e Geremia. Il suo breve libro si può schematizzare in tre momenti.
1. Un dialogo rispettoso ma anche un po’ polemico col Signore (1,2-2, 4) ; è il genere letterario
del “ riv”, frequente nella Bibbia: il Dio di Israele accetta questo tipo di approccio e non si offende.
Sono due i motivi di sgomento del profeta, e cioè l’assoluto e impunito disprezzo per la Legge e la
giustizia da parte dei dominatori ( sia stranieri che compatrioti ) da un lato, il ritardo dell’intervento
di Dio per castigare i violenti e ridare pace e giustizia al popolo dall’altro. A queste obiezioni il
Signore risponde con due oracoli: il flagello costituito dalle razzie dei Caldei è da Lui permesso per
castigare i peccati di Giuda; ma ci sarà un termine, e gli attuali vincitori saranno a loro volta
distrutti; quanto al tempo, la scadenza è vicina “se indugia attendila, perché certo verrà” (2, 3).
2. Una forte imprecazione contro gli oppressori ( 2, 5-20). Essa si articola in 5 “Guai”: ne sono
colpiti gli accumulatori di beni estorti con la violenza o l’inganno; gli avidi che costruiscono fuori
dalle regole; i violenti che si impadroniscono delle città altrui a prezzo di sangue; i beffardi che
avviliscono e umiliano le vittime della loro soperchieria; i fabbricanti di idoli, che brillano per l’oro
e l’argento ma non hanno il soffio vitale. Su tutti costoro si abbatterà sicuramente il castigo del
Signore.
3. Un salmo di supplica (3, 1-19) che, esaltando la potenza del Signore, auspica l’impotenza e la
rovina dei superbi e dei prepotenti; i due versetti finali ribadiscono la fiducia nell’intervento del
Signore per riportare giustizia e gioia ai Suoi fedeli.

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Interessante l’osservazione del profeta riguardo all’attività lavorativa: essa è feconda e apportatrice
di bene quando è svolta nel rispetto della giustizia e della fedeltà al Dio Creatore. E’ invece sterile e
vana quando si esercita in un clima di violenza e di iniquità, o , ancor peggio, quando il lavoro serve
a costruire idoli. A questo proposito occorre pensare al lavoro impiegato oggigiorno per costruire
ricchezza finanziaria di puro carattere speculativo, che è il vero e seducente idolo adorato da molti
nei nostri tempi.
Il libro di Abacuc ha trovato riscontro in Paolo, che ha costruito la sua teologia sul versetto “ ..Il
giusto vivrà per la sua Fede..” (2,4 nella versione LXX); così pure in Luca, che inserisce parte
dell’inno finale nel “ Magnificat” (3,18b = Lc 1,47).

2.9 SOFONIA

“ Giorno d’ ira quel giorno …” ( So 1, 15 )

Sofonia si unisce all’elenco di profeti che vedono nell’ idolatria “pratica” del popolo la causa della
rovina del Paese. L’idolatria accomuna Giuda alle nazioni che lo circondano e che vi esercitano una
certa tutela politica e culturale (siamo agli ultimi anni del predominio assiro, poi verrà Babilonia, in
competizione con l’Egitto). La pazienza del Signore è colma e si approssima il Suo giorno, visto dal
profeta come un evento rapido e catastrofico. I versetti 1,14 sgg. hanno trovato eco nel più tardo
profeta Gioele, e non solo. Sono diventati, soprattutto nel Medioevo, ispirazione per una letteratura
(ad es. il mottetto “ Dies irae”) e un’iconografia apocalittica diffusa in tutta Europa; e ancor oggi
trova i suoi epigoni in un particolare filone di films e sceneggiati televisivi.
Prima di tutto vengono sviscerate la malvagità del popolo di Giuda (il regno del Nord è stato già
da tempo conquistato, devastato e assorbito dagli Assiri), che riguarda tutti i ceti e le categorie. Ma
il castigo di Dio colpirà tutte le nazioni circostanti (tema già trattato dai profeti del secolo
precedente); però ancora più forte si abbatterà su Gerusalemme, che avendo già sperimentato la
gloria del Signore e i suoi benefici è ancora più colpevole dei suoi vicini.
Nella seconda parte del terzo capitolo il tono e il contenuto cambia bruscamente. Il Signore
perdonerà e cancellerà i peccati del Suo popolo, che vivrà nella gioia e nell’abbondanza in piena
comunione col suo Dio, osservando la Legge e la giustizia. Forse ha contribuito a questo finale il
tentativo di riforma religiosa avviato proprio in quegli anni dal re Giosia, prima della sua tragica
fine in battaglia. Un’altra possibilità è che alcune aggiunte siano state inserite nel testo originale,
durante o appena dopo l’esilio,

Anche Sofonia è attento alla questione sociale, anzi è soprattutto l’arroganza e la prepotenza della
classe privilegiata a costituire la spia dello stato di idolatria del regno. Come già per Amos,
l’ateismo pratico di chi non pensa che ad accumulare ricchezze e a divertirsi sarà il primo bersaglio
del “giorno dell’ira”. Viceversa saranno gli umili e i poveri a sperimentare la consolazione del
perdono di Dio e a godere i frutti di un regno di giustizia. La stessa attività lavorativa sarà
fruttuosa, oppure vana e stentata, a seconda del grado di fedeltà alla religione dei padri ( vedere ad
es. 1,10-13 contrapposto a 3,12). Naturalmente per Sofonia, come per la maggioranza dei profeti
scrittori, la redenzione sociale è connessa al ritorno della supremazia politica e militare di Israele
sulle altre nazioni. Vivevano in tempi di ferro, non era facile in quegli anni superare l’avversione
per gli stranieri con idee di redenzione universale; comunque verrà presto il tempo della grande
profezia ecumenica, con Geremia, Ezechiele, il Deutero-Isaia.

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2.10 AGGEO

“Avete seminato molto, ma avete raccolto poco…” ( Ag 1, 6 )

Il profeta Aggeo (= nato in giorno festivo) è attivo nei primi anni del ritorno ( parziale) degli esuli a
seguito dell’editto di Ciro (538 a.C.). Un primo gruppo di Giudei è rientrato da Babilonia e si è di
nuovo stabilito in Gerusalemme e nel contado. Tuttavia la situazione è difficile, perché la terra
agricola è inselvatichita, la città non ha mura e molte infrastrutture sono in rovina. Peggiore di tutto
è lo stato di completo degrado in cui versa il tempio di Salomone. Verso il 515 a.C. il Signore
manda il Suo spirito sui profeti Aggeo e Zaccaria perché convincano le autorità e i rappresentanti
del popolo a mettere in priorità la ricostruzione del santuario. Infatti la scarsa produttività del lavoro
e le ristrettezze della vita dipendono dalla carenza di entusiasmo e di coscienza civica dovute
all’assenza del simbolo religioso della città.
Il libro, molto breve, si compone di quattro discorsi/oracoli rivolti dal Signore al profeta Aggeo,
perché a sua volta egli li trasmetta a Zorobabele, capo civile e discendente di David, a Giosuè
sommo sacerdote, e di riflesso ai sacerdoti e ai cittadini.
Il primo oracolo mette di fronte a una situazione disastrosa: il lavoro rende poco e male, gli
investimenti non fruttano, i salari non bastano a coprire i bisogni. Tutto questo è causato dalla
mancanza di uno scopo ben concreto e unificante, atto a generare entusiasmo e collaborazione.
Questo progetto deve essere la ricostruzione del Tempio.
Il secondo oracolo fa le stesse considerazioni in positivo, descrivendo come le cose cambieranno in
meglio, quando ci si metterà d’impegno, e coll’aiuto del Signore stesso, a realizzare il progetto.
Il terzo oracolo, rivolto in modo speciale ai sacerdoti, sottolinea che in assenza del Tempio anche il
loro culto e le loro offerte sono impuri e non ottengono ascolto. Ma ora il Signore è disposto, se si
porrà mano anche alla ricostruzione del Tempio, a favorire il buon esito delle attività del popolo, e
in particolare dei lavori agricoli.
L’ultimo oracolo, di nuovo in positivo, guarda più lontano, alla fine dei tempi e alla futura gloria di
Israele in mezzo a tutte le nazioni.
Il testo di Aggeo può dare l’impressione di essere un po’ troppo limitato – e clericale -, per il fatto
di subordinare tutto alla ricostruzione di un edificio, sia pure importante. Occorre superare la lettera,
ritenendo invece il principio che, senza una strategia chiara, condivisa e gratificante, non è possibile
superare le difficoltà del presente ed affrontare il futuro con buone probabilità di riuscita. Il testo
coevo di Zaccaria darà più spazio e apertura al programma, mettendo in particolare l’accento sulla
necessità di un ritorno alla giustizia sociale e alla politica non violenta.

2.11 ZACCARIA

“ Esulta grandemente, figlia di Sion…ecco a te viene il tuo Re” (Zc 9, 9 )

Sotto il nome di Zaccaria ( = Il Signore ricorda ) sono raccolti due testi di autori diversi: nei primi
otto capitoli è presente l’opera del profeta omonimo, menzionato nei libri storici del Cronista
(Esdra e Neemia), attivo (in parallelo col profeta Aggeo) nel penultimo decennio del VI° secolo

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a.C. Nei sei capitoli successivi si susseguono oracoli anonimi, probabilmente di vari autori,
risalenti comunque agli ultimi decenni del IV° secolo. Esamineremo le due parti separatamente.
1. Il testo “autentico” di Zaccaria si può, a sua volta, suddividere in due sezioni. La prima,
comprendente i capp 1-6, è articolata in 8 “visioni profetiche”, seguite da una breve conclusione.
Le visioni, che si corrispondono a due a due, hanno come chiave interpretativa la situazione al
termine dell’esilio babilonese. L’editto di Ciro ha lasciato liberi i deportati Ebrei di tornare a casa,
ma pochi lo hanno fatto; il tempio e la città di Gerusalemme sono ancora diroccati, nel popolo della
diaspora c’ è ancora timore, smarrimento, ignavia. Il Signore, tramite il profeta, spinge a prendere
una decisione positiva: sono indicati due leader che potranno organizzare la ricostruzione delle
opere e dello stato; sono il sacerdote Giosuè e il principe Zorobabele, discendente di David (per
questo viene chiamato “Germoglio” in Zc 3,8; 6,12 ). La Parola di Dio promette perdono per le
colpe pregresse e sostegno contro i nemici e contro i connazionali non convertiti.
La seconda parte (capp. 7-8) è aperta da una domanda di carattere cultuale, relativa al digiuno che
si faceva per ricordare la caduta di Gerusalemme. La risposta del Signore è che il digiuno non è
più necessario, anzi va sostituito con riti di festa e di gioia. Quello che invece è necessario, perché
la restaurazione sia completa, è la rinuncia all’ingiustizia e all’oppressione delle categorie più
deboli fra il popolo. Non la forza delle armi e la violenza difenderanno lo stato, ma la protezione
del Signore che dimenticherà i peccati e le infedeltà del passato.
La dottrina di Zaccaria è simile a quella di Aggeo (del resto i due profeti sono contemporanei, e
vengono citati assieme dai testi del Cronista). La preoccupazione immediata è costituita dal
problema della ricostruzione del Tempio, indispensabile per ridare a Gerusalemme la dignità di
capitale della “terra santa” (cfr. 2, 16). Tuttavia la ricostruzione non si esaurisce nell’impresa
edilizia, ma deve comportare una radicale e duratura riforma dei costumi, fondati sul diritto e la
giustizia e obbedienti ai precetti e agli insegnamenti della Torah. E’ interessante confrontare, pur
nella diversità del contesto, questa trattazione del digiuno con quella del Deutero-Isaia (cfr, Is 58,
3-12). Come sempre per i profeti autentici, il culto è importante, ma non può fare a meno di una
prassi giusta e ispirata alla Legge del Sinai. Svincolandosi dall’atmosfera chiusa e nazionalista di
molti testi di quel periodo, è’ da sottolineare, negli ultimi versetti del testo, un accenno alla
possibilità di salvezza delle nazioni pagane, mediata dal popolo stesso di Giuda ( 8, 20-23 ), che
avrebbe il ruolo di “sacerdote” nei confronti delle nazioni.

2. Il “Deutero-Zaccaria”, come viene chiamata la seconda sezione, comprende una serie di


oracoli, di autore o autori ignoti, che a loro volta possono essere divisi in due sotto-sezioni. Nella
prima (capp. 9-11) ci sono dei componimenti, in poesia e in prosa, di argomento vario, ma
riconducibili a due temi fondamentali:

I) Signore ha deciso di intervenire per la salvezza e la restaurazione di Israele, la Sua venuta è


imminente, la Sua vittoria definitiva, ma il Suo dominio sarà gestito con semplicità e mitezza.
II) Ci sono però ancora dei cattivi pastori ( = capi religiosi), che sfruttano le pecore anziché
proteggerle. Si dovrà riconoscere il pastore autentico, competente e zelante.

La seconda parte è un brano di carattere “apocalittico” che raffigura il trionfo di Gerusalemme,


che di nuovo sarà la sede del Signore della salvezza, e attirerà fedeli da tutte le nazioni. Il Tempio
sarà purificato e santificato per sempre, e sulla città dominerà incontrastata la pace del Signore.
Al contrario della prima, questa seconda sezione non ha riferimenti cronologici. Per lo stile
letterario e le possibili allusioni alla campagna militare di Alessandro Magno la maggioranza degli
esegeti la colloca tra la fine del IV° e l’inizio del III° secolo a.C.
Questi ultimi capitoli hanno trovato una grande risonanza non solo nell’Apocalisse di Giovanni, per
via della forma letteraria, ma anche nei Vangeli. La citazione più evidente è quella dell’ingresso del
Re seduto su un asino (9, 9-10), che è comune ai 4 Vangeli canonici, come pure l’espulsione dal

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Tempio dei mercanti (14,21); inoltre Matteo deduce qui il prezzo di “trenta denari” pagato per il
tradimento di Gesù; e ancora troviamo numerose altre citazioni (cfr 11, 12; 12, 10; 13, 1. 7 ecc.).

Nel testo di Zaccaria la questione sociale non è particolarmente sottolineata, anche se sono chiare le
accuse alla classe dirigente di governare male il popolo, sia dal punto di vista religioso che da
quello della qualità di vita (cfr. 7,9-12; 8,16-17). E’ particolarmente significativa la critica ai
“cattivi pastori “ (11, 4-17), che in parte si rifà all’oracolo di Ezechiele (cfr. Ez 34, 1 sgg ), e che
troverà la rilettura in positivo di Gesù (Gv 10, 1-18).

2.12 MALACHIA

“ Io manderò un mio Messaggero… “ ( Ml 3. 1 )

Il profeta Malachia chiude l’ elenco dei “profeti minori”, e nelle Bibbie cristiane chiude anche
l’intero Primo Testamento. Il nome del profeta è sconosciuto, e il libro è firmato da uno
pseudonimo (Messaggero del Signore) che si rifà al testo stesso (cfr 1,1; 3,1). L’epoca di
composizione dovrebbe risalire agli inizi del periodo del secondo Tempio, ma prima della riforma
di Esdra.
Il testo si compone di una serie di requisitorie contro il popolo di Giuda e più ancora contro la
classe sacerdotale (non si fa cenno a capi politici Ebrei). In queste requisitorie vengono anche citate
le scuse e le ragioni dei peccatori, ma ne viene subito dimostrata l’ infondatezza. Le colpe più citate
sono la sciattezza e nel culto e nelle offerte rituali, che dimostrano disprezzo nei confronti del
Signore. Un’altro punto dolente riguarda i matrimoni misti con donne pagane. Solo di sfuggita (3,5)
si accenna ad altri peccati, in particolare a quelli sociali. C’è anche la consueta maledizione per le
nazioni pagane, ma è limitata al solo popolo di Edom.
Già all’ inizio, e poi qua e là nei primi due capitoli, si accenna anche a possibilità di conversione, e
quindi di perdono da parte del Signore. Questo discorso verrà ripreso soprattutto nel terzo capitolo,
con la descrizione del “Giorno del Signore”, in cui vi sarà il castigo per i malvagi e la benedizione
per i fedeli. La descrizione è abbastanza simile a quella di molti profeti precedenti o contemporanei,
ma si distingue per la promessa della venuta di Elia, come preannuncio del giorno del giudizio. E’
poi particolarmente interessante l’accenno universalistico di 1,11, anche se molto vago. Secondo
molti esegeti è una glossa di epoca posteriore.
Come già accennato, il messaggio di Malachia dà molto spazio alla critica del culto di Israele, da
poco ripreso con la ricostruzione del Tempio, che non si adeguava alle regole prescritte dalla Torah.
Può darsi che effettivamente la precarietà di sistemazione e la scarsità di risorse dei primi gruppi di
esuli rientrati a Gerusalemme non permettessero un livello di culto adeguato, o comunque
paragonabile a quello che si celebrava prima della caduta di Gerusalemme. Ci sembra tuttavia che
l’insistenza e la durezza dei rimproveri alla classe sacerdotale nasconda qualcos’altro: forse una
polemica contro lo strapotere clericale, che si stava consolidando, anche per l’assenza di ogni
prospettiva di recuperare la piena indipendenza politica; forse una critica alle lotte intestine fra le
varie “famiglie” sacerdotali, più interessate a contendersi la supremazia e l’esclusiva per il servizio
al Tempio che non a dimostrarsi all’altezza del proprio compito.
Per concludere, Malachia riconosce e fustiga le varie colpe, rituali, sociali e teologiche dei figli di
Israele, ma ne descrive l’iniquità e la perversione nella figura di una grave mancanza di purezza e di
rigore nel culto. Anche il Messia venturo, descritto nel cap.3, non sarà tanto un rivoluzionario
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politico, pronto a riscattare le fortune del regno di Giuda, ma soprattutto un riformatore religioso, e
un costruttore di pace.
Il Nuovo testamento ha numerosi riferimenti, espliciti ed impliciti, a Malachia. In particolare il
precursore Elia (3, 23-24) è stato identificato dagli Evangelisti con Giovanni il Battista (cfr. Mt 17,
9-13; Mc 9,11-13). I Padri della Chiesa hanno poi letto nell’ “oblazione pura” di 1,11 un
riferimento al sacrificio Eucaristico.

C. UNA CONSIDERAZIONE GENERALE SUI PROFETI


SCRITTORI

In tutta la sua storia il cammino del popolo di Israele è sempre stato accompagnato da Profeti. I libri
della Bibbia ne elencano parecchi, un po’in tutte le epoche e le situazioni. Di molti altri si accenna
l’ esistenza senza nemmeno citarne il nome. Tutti questi personaggi hanno parlato, vuoi al popolo in
assemblea, vuoi ai capi politici e/o religiosi in qualità di consiglieri. Pochi tra essi hanno scritto, in
prima persona, il contenuto dei propri oracoli. Le nostre Bibbie ne elencano in tutto 16; da questo
elenco se ne dovrebbero ancora togliere 2, cioè Daniele e Giona, il cui genere letterario è piuttosto
anomalo. Se guardiamo alla cronologia dei 14 autori rimasti, troviamo che i loro scritti sono databili
tra la metà circa dell’ VIII° secolo e la fine del IV°: un arco di circa 450 anni sui i2 secoli (come
minimo), coperti dalla narrazione storica del primo Testamento.
Per cercare di spiegare la ragione di questi limiti, facciamo l’ipotesi seguente. Fino almeno al tempo
di David (X° secolo) la Torah originaria e le successive aggiunte venivano trasmesse praticamente
solo per diffusione orale, a cura della classe sacerdotale; lo stesso valeva per i contributi dei profeti,
che di regola facevano da contraltare, criticando spesso l’applicazione perversa che si faceva, sia dai
capi che dal popolo, della Torah. Con l’istituzione della monarchia, si è cominciato a organizzare un
minimo di apparato burocratico statale, cominciando a scrivere tramite gli scribi sia le cronache dei
fatti, sia i provvedimenti amministrativi e legislativi. A quel punto anche alcuni tra i profeti hanno
ritenuto di dover mettere per iscritto le loro osservazioni e i commenti più significativi nei confronti
dell’operato dei re e della classe sacerdotale.
Nel IV° secolo lo stato di Giuda non c’è più, mentre la maggioranza degli Israeliti vive ormai in
diaspora. Gerusalemme ha perso la sua importanza, se non come simbolo. A quel punto i profeti
perdono gran parte della efficacia comunicativa; la critica al sistema e ai maggiorenti sarà presa in
carico da altre categorie di autori: i Sapienti, e più tardi, a seguito delle provocazioni dei Seleucidi,
gli autori Apocalittici (di cui fa parte anche Daniele).
Nel Nuovo Testamento Gesù è contemporaneamente profeta e legislatore, ma non scrive di
persona; il commento sapienziale lo troviamo nelle Lettere.

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D. APPENDICE: ANTOLOGIA DI BRANI DAI CONTRIBUTI
INDIVIDUALI

OSEA

Nel libro del profeta Osea non si trova direttamente un discorso sul lavoro, perciò non risulta
semplice tenersi legati al tema che è interesse del nostro lavoro di gruppo.
Dall’insieme nel libro, mi è sembrato tuttavia di scorgere un ambiente vitale che è in disfacimento
perché Israele si è allontanato da Dio e quindi dal progetto di creazione che tendeva a fare
dell’uomo e della sua opera lavorativa, una collaborazione a Dio stesso.
L’argomento che sottende a tutto il testo è l’allontanamento di Israele dal suo Dio, fino alla scelta di
dei stranieri. Tutto questo porta alla decadenza del tessuto sociale, alla corruzione, addirittura alla
distruzione fisica di ciò che era stato costruito.
In questo contesto colgo alcuni spunti riguardanti il tema che ci interessa:
- IL LAVORO IDOLO:
gli idoli costruiti da Israele sono “opera di artigiano” (8,6) quindi fatti da mani che sanno
costruire, forse fatti anche con arte, sicuramente con dedizione di tempo e capacità; tuttavia “non
è dio: perciò sarà ridotto in frantumi” (8,6).
Si può qui cogliere la tentazione sempre attuale di assolutizzare il lavoro, di farne un assoluto al
quale si sacrifica il meglio di se stessi. Il profeta ci ricorda che questo tipo di idolatria “moderna”
è destinata a non portare frutto, anzi è consegnata alla distruzione.
L’uomo non può credere che tutto gli viene da ciò che costruisce, ma deve riconoscere che la
salvezza gli viene sempre e comunque da Dio, il quale solo è onnipotente.
- LAVORO E GIUSTIZIA:
Il lavoro non va staccato dai valori di giustizia e dignità: quindi di abolizione di ogni violenza,
schiavitù, servilismo, dominio, tutte negatività che anche oggi sono presenti, magari a livello
strisciante, verniciato di riformismo.
- COSTRUIRE/DISTRUGGERE:
sono due verbi che accostati danno drammaticità al testo.
La costruzione è opera del lavoro dell’uomo, contiene in sé tutto il positivo della capacità umana
fatta di progettazione, fantasia, studio, fatica, tempo e tante altre cose ancora. Vedere distrutto un
proprio lavoro è cosa sconfortante; pensiamo alle calamità naturali o a incidenti fatali o interventi
violenti più o meno terroristici. Sentire che Dio stesso dichiara la distruzione di ciò che l’uomo
ha voluto costruire lontano dal suo Creatore, è sicuramente un linguaggio forte che dovrebbe far
riflettere ancora una volta sulle motivazione e modalità dell’opera umana.
- LA PROSTITUZIONE:
senza entrare nel tema trattato da Osea (come da altri profeti) come sinonimo di idolatria, colgo
al versetto 4,14 un atteggiamento di misericordia e di non punibilità diretta delle donne che si
prostituiscono e che commettono adulterio, mentre viene colta la responsabilità degli uomini che
“si appartano con le prostitute”. Un chiaro monito alla coscienza personale di ognuno e forse
soprattutto di chi è più forte e non ci rimette nulla!

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“La attirerò a me ... mi chiamerai Marito mio ...”(2,16)
Osea parla dell’amore di Dio al suo popolo che ormai vive dimenticando il Signore e,
rincorrendo sogni di ricchezza e potenza, accetta spensierato le divinità straniere.
Per mostrare l’essenza del peccato in cui il popolo è immerso senza rendersene conto, il profeta
usa un linguaggio umano molto comprensibile: parla dell’amore di Dio per il suo popolo con
l’immagine di un patto nuziale in cui lo sposo amoroso e fedele viene tradito.
Più avanti altri profeti prenderanno questa icona che viene usata ancora per esprimere il rapporto
tra Gesù (lo sposo) e la Chiesa (la sposa).
L’immagine dell’amore sponsale è davvero significativa perché sottintende una relazione di
amore reciproco (non a senso unico), una relazione d’amore a cui non si può rispondere che con
l’amore: a cui non si può non rispondere.
Il peccato di Israele era il “dimenticarsi” del Signore e di conseguenza il girovagare in cerca di
altre relazioni. Per questo Osea parla dell’idolatria del popolo come prostituzione e come
adulterio. L’amore del Signore per il suo popolo resta sempre saldo e fonte di nuova vita. Quando
Israele esperimenterà la tristezza della lontananza dal suo Dio (“la spoglierò...”2,5), tutto, lavoro,
vita sociale e pubblica, risentirà di questo peccato. In quel momento doloroso però potrà ancora
sentire il Suo fascino potente “la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore
...”(2,16) e finalmente potrà riconoscere il Signore e tornare a vivere. “Ti fidanzerò con me nella
fedeltà e tu conoscerai il Signore”(2,22). E’ sempre l’amore del Signore che precede, sostiene,
rimette in cammino, rimette a nuovo la relazione così che Israele potrà rivolgersi al suo Dio con
amore nuovo, con un’intimità non conosciuta prima “mi chiamerai: Marito mio, e non mi
chiamerai più: Mio padrone.(2,18). L’amore sponsale è unico, non ammette “altri”; parte
dal riconoscere un amore grande rivolto a te per cui lo preferisci a tutto; niente vi si può
frapporre. Dio vuole essere preferito a tutto. Anche il lavoro rischia, a volte, di essere vissuto
come un idolo (né chiameremo più dio nostro l’opera delle nostre mani... 14,4), frapponendosi
nella relazione vitale tra il Signore e l’uomo, assume la gravità dell’adulterio. Nel suo tormentato
rapporto coniugale Osea ascolta il Signore, lo segue e trova senso alla sua vita. Esperimenta il
fascino della fedeltà e assapora la bellezza del perdono: trova che è bello rispondere con un amore
più forte all’indifferenza che angoscia; intuisce che questo è un modo di amare di Dio e non si
risparmia di raccontare le proprie disavventure pur di raccontare questo Amore. Gesù arriverà a
raccomandare di amare anche i nemici, lo farà con la sua vita e lo raccomanderà ai suoi discepoli.
Questa caratteristica dell’amore di Dio, fedele e misericordioso, illumina, purifica e sorregge ogni
nostra relazione quotidiana, con Dio, in famiglia, con gli amici, sul lavoro, nella Chiesa, nella
comunità sociale, e con speranza ci fa intravedere vie nuove.

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21
GIOELE

Dei tre temi fondamentali del libro di Gioele - il giorno di Jahveh, l’effusione dello Spirito e la valle
di Giosafat - mi sembra più attuale e più attinente al nostro tema il II°.
Saranno tutti profeti cioè: tutti coloro che crederanno in Dio ( “chiunque invocherà il nome del
Signore” Gl 3,5) avranno la capacità di leggere nella loro vita e nella storia i segni della presenza di
Dio e dare un senso più profondo e autentico alla vita.
Che cosa vuol dire essere profeti ?
a) riconoscere lo Spirito di Dio ( “il mio spirito” 3,11) nel proprio cuore come dono, iniziativa,
forza e presenza di Dio, quindi sentirsi visitati e abitati da questa presenza;
b) assumere l’ottica e la logica di Dio nel situarsi nella vita e nella storia, nelle varie vicende ed
esperienze e nell’interpretare secondo questa visuale tutto ciò che accade ( l’ottica e la logica di Dio
sono sulla linea della giustizia e della misericordia);
c) non fermarsi alle apparenze , ma andare sempre a fondo per capire e comprendere, pensare
criticamente e ciò che accade e a ciò che interpella le nostre responsabilità;
d) non lasciarsi mai prendere dalla meccanicità e dalla monotonia delle azioni e situazioni, ma
ravvivarle con un “surplus” di umanità e di relazionalità;
e) agire , anche quando siamo insoddisfatti e scontenti, con atteggiamento di iniziativa e di
presenza viva, perché lo Spirito che è in noi è spirito di salvezza e di resurrezione.
Che cosa vuol dire essere TUTTI profeti?
a) che non ci sono assolutamente discriminazioni né esclusioni, né di genere, né generazionali, né
sociali, né nazionalistiche: basta “invocare il nome del Signore”;
b) che al di là di ogni discorso ecumenico o di tolleranza religiosa, gli esseri umani sono nelle
mani e nel cuore di Dio in modo indiviso e garantito dalla stessa bontà di Dio;
c) che quindi è assurdo ogni proposito di guerra, di sopraffazione, di ingiustizia reciproca, di odio,
di vendetta;
d) essere tutti profeti significa che non ci sono barriere di nessun tipo e riconoscere che ovunque,
chi si lascia muovere interiormente da Dio, sarà interprete della sua parola e del suo progetto.
QUANDO ?
Nel “giorno del Signore” , che sarà un tempo futuro, l’ultimo ma che può essere ogni giorno che ci
è dato di vivere.

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1. La piccola comunità del popolo di Dio, rispetto al tempo di Osea, ora conduce una vita
relativamente tranquilla. Non ci sono pericoli d’invasione dall’esterno e nessun movimento disturba
la tradizione spirituale all’interno. All’improvviso sopraggiunge una calamità: un esercito di
cavallette distrugge i raccolti dei vini e dei cereali che vanno perduti. La furia delle cavallette ha
annientato completamente il paese. Tutti ne sono colpiti (contadini e sacerdoti) come indicano la
mancanza dei simboli della pace e della prosperità di ogni giorno tra i figli in Israele: la campagna
è devastata, piange la terra, la vite è seccata, il fico inaridito, sono scomparse offerta e libagioni
dalla casa del Signore.
2. Di fronte a tanta tragedia e alla tristezza di un popolo, tutti sono solidali in una grande liturgia
penitenziale. Il lutto, il digiuno, le preghiere dispongono alla vera conversione del cuore.
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Gioele dà però a questa calamità una interpretazione non solo punitiva, di castigo ma di presagio
della prossimità del “giorno del Signore”. Se oggi, in questo nostro tempo, non possiamo
riconoscere i castighi di Dio nei disastri naturali, nel pericolo incombente di distruzione planetaria,
nelle crescenti tensioni sociali che colpiscono l’umanità, rimangono comunque momenti di prova e
motivo di riflessione più seria sulla sostenibilità del nostro sviluppo, sul senso della nostra civiltà e
quindi della nostra vita.
3. In tutta la sua storia il popolo d’Israele ha conosciuto negli eventi la collera di Dio. Ma, come si è
visto, essi non sono più considerati l’ultima e definitiva parola di Dio. Anche per Gioele il giorno
del Signore non è più quello di castigo ma sarà quello della riconciliazione e della pace. Il Signore,
se è il Dio di castigo, è anche il Dio della misericordia e risponde al suo popolo, promettendogli
quello che le cavallette hanno distrutto:”Ecco, io vi mando il grano, il vino nuovo e l’olio e ne
avrete a sazietà. Vi compenserò delle annate che hanno divorato la locusta e il bruco, il grillo e le
cavallette che ho mandato contro di voi…e loderete il nome del Signore vostro Dio, che in mezzo a
voi ha fatto meraviglie”. Viene, in certo modo, stabilito un ordine nuovo di giustizia universale.
“Diffonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;...
anche sopra gli schiavi e sulle schiave effonderò il mio spirito. Chiunque invocherà il nome del
Signore sarà salvato”.
4. Ma ci sarà, da parte di Dio giudice, anche un “giudizio universale” per chi ha oppresso il popolo
d’Israele. Un luogo simbolico è fissato nella valle di Giosafat “poiché li siederò per giudicare tutte
le genti all’intorno”. Dopo tante vicissitudini e grandi prove giungono finalmente il trionfo
d’Israele e la certezza che “il Signore è un rifugio al suo popolo, un fortezza per gli Israeliti…il
luogo santo sarà Gerusalemme; per essa non passeranno più gli stranieri”. Al di là dello scenario
apocalittico, descritto dal profeta Gioele, quel che va richiamato alla nostra attenzione è l’idea della
presenza di Dio in un mondo definitivamente pacificato e riunito attorno a lui e la promessa di
speranza.
Anche oggi, se pur viviamo in pace, rivediamo le immagini di caos descritte dal testo biblico e ci
viene ricordato che: «Non c’è pace senza giustizia non c’è giustizia senza perdono».
5. Nel testo biblico, Gioele presenta con molta efficacia il disastro provocato dalle cavallette. Di
fronte alla desolante situazione i contadini piangono poiché il lavoro e le loro fatiche sono stati
vanificati. La distruzione di tutte le culture li pone in uno stato di paura e di apprensione per il
futuro. Tutti si dispongono al richiamo alla solidarietà non come rito esteriore, ma come movimento
collettivo.
Oggi il lavoro e la fatica umana sono continuamente minacciati da nuove calamità (idolo del
profitto, sete del potere, forme diverse di sfruttamento, egoismo e nuove “strutture di peccato” ) che
portano alla discriminazione e alla esclusione, alla precarietà della vita e alla emarginazione. Oggi,
di fronte alla complessità dei problemi presenti nel mondo del lavoro e ai nuovi scenari
dell’economia mondiale, non è fuori luogo parlare di “globalizzazione della solidarietà”.

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23
AMOS

I temi principali di Amos sono l’ingiustizia e l’idolatria: l’ingiustizia, come denuncia


dell’oppressione del popolo da parte dei potenti, come violenza, prevaricazione, come
maltrattamento.
L’idolatria come infedeltà, allontanamento dall’alleanza, culto formalistico e vuoto.
Il profeta si propone come coscienza del popolo e profeta della giustizia.
In questo contesto mi sembra siano questi i riferimenti e i connotati che dal profeta vengono dati al
lavoro:
- il lavoro come corruzione ( 5, 11 ss), come sfruttamento del povero per arricchimenti personali,
- il lavoro come esercizio di falsità e frode ( 8, 4 ss),
- il lusso sfrenato di pochi (gli spensierati di Sion ; 6, 1 ss) che si appoggia sul lavoro pesante dei
poveri,
- l’uso degli strumenti di lavoro per distruggere e annientare ( 1,3 ss),
- il lavoro come imbroglio.
Amos cerca le radici di questo male sociale che altera le relazioni umane, perché sfigurate dalla
violenza e le individua:
- nella libertà che sceglie il male anziché il bene (5,14),
- nell’infedeltà a Dio e quindi nell’idolatria,
- nell’ostentazione del formalismo (anche e soprattutto) del culto come copertura e sostituzione di
valori,
- nell’egoismo non soltanto dei singoli, ma del gruppo dei potenti ( i ricchi) che diventano
prevaricatori di ogni sorta
di giustizia anche elementare (anche il diritto è sovvertito),
- nello sviluppo dei conflitti.
Alcuni interrogativi emergenti da Amos:
- in che rapporto stanno il lavoro e il denaro ? Se prevale il denaro anche il lavoro viene stravolto,
- come far emergere la coerenza alla fondamentale fedeltà a Dio, come antidoto agli egoismi
degli oppressori?
- la perdita dell’idea della giustizia di Dio non fa perdere anche il senso della giustizia fra gli
uomini?
- basta la presenza di una voce profetica ( e come farla sorgere? ) per neutralizzare l’imperante
ingiustizia?

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La lettura e riflessione sul libro di Amos, anche per i costanti riferimenti campestri e la forte
espressività del linguaggio, sono stati un esempio chiarissimo della misteriosità dei piani del
Signore, della Sua forza, della Sua giustizia e della Sua compassione per i deboli e gli oppressi. E’
stata quindi una lettura particolarmente propizia in questi tempi in cui si susseguono segnali
negativi di oppressioni e preoccupazioni per il futuro, mi ha aperto il cuore alla speranza ed é stata
motivo di consolazione.
La semplicità, l’umiltà e la disponibilità con cui Amos obbedisce al Signore sono un modello
impegnativo, ma con tanti riferimenti nei quali possiamo ritrovarci. E’ un lavoratore della terra che
conosce bene la fatica del lavoro e che non ha particolari doti umane. Eppure non esita a
rispondere alla chiamata del Signore. Non ha paura a denunciare gli errori del popolo di Israele e
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delle nazioni vicine. Capisce che la verità non può essere mediata in alcun modo, per cui evita ogni
forma di compromesso, salvo la supplica a Dio di salvare almeno un resto di Israele, di non
lasciarlo perire del tutto. E di fronte all’intervento dei potenti che, infastiditi dalle denunce di
deviazione dalla strada indicata dal Signore ai Patriarchi ed ai Re, lo allontanano dalla città, Amos
torma alla sua vita di pastore, con la stessa umiltà con cui aveva risposto alla chiamata di Dio a
proclamare la verità.
Amos aiuta anche noi a vedere la strada indicata da Dio, senza lasciarci deviare dalle innumerevoli
tentazioni idolatriche del potere, delle ricchezze, del successo e del piacere. La denuncia dei peccati
e delle deviazioni idolatriche di Israele negli anni di prosperità del Regno di Geroboamo aiuta a
prendere coscienza dei nostri peccati e delle molteplici forme di idolatria, sopratutto di noi abitanti
del nord del mondo che, come i potenti della corte di Geroboamo usavano false bilance, ricorriamo
a criteri discriminanti di distribuzione del lavoro e delle risorse della natura, per accrescere
ulteriormente l’indigenza dei poveri. Compresi noi, che ci proclamiamo credenti ed ostentiamo il
rispetto delle norme dettate dai sacerdoti, dimentichiamo che esse sono state indicate come
strumenti di avvicinamento a Dio, come vie per conoscere la verità e vivere con giustizia, non
come segni distintivi di una identità di cui siamo fieri perché ci gratifica e ci fa comodo.
Anche noi abbiamo tanto bisogno delle sferzanti denunce di Amos e dei profeti e che anche oggi, il
Signore non fa mancare se siamo appena attenti a fare un po’ di silenzio attorno a noi per poterle
udire e considerare nella loro integralità.
Ed anche noi, che abbiamo la grazia della costante presenza attiva dello Spirito, abbiamo la
possibilità di aprirci alla speranza di salvezza che Dio, con la Sua grande compassione, dà a tutte
le persone che riconoscono di essere nel bisogno ed invocano con fiducia il Suo intervento.
Nel libro di Amos ho trovato molte anticipazione dell’insegnamento di Gesù; in particolare mi
hanno colpito alcuni passi:
- nel cap 5 i versetti 14 e 15 “Cercate il bene e non il male se volete vivere e così il Signore, Dio
degli eserciti, sia con voi come voi dite. Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali
il diritto, forse il Signore Dio degli eserciti avrà pietà del resto di Giuseppe”;
- nel cap 5 i versetti 21 e 22 “Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre
riunioni; anche se voi mi offrite olocausti non gradisco i vostri doni e le vostre vittime grasse
come pacificazione io non le guardo”;
- l’inizio del cap 6 in cui emerge, in modo nettissimo, il contrasto tra le raffinatezze della corte di
Geroboamo evidenziato con forza nei versetti 6 e 7 “ bevono vino in larghe coppe e si ungono
con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. Perciò
andranno in esilio in testa a deportati e cesserà l’orgia dei buontemponi”
Sono passi che mi hanno aiutato ad intravedere come siamo noi stessi, con i nostri comportamenti
idolatrici, a costruire le condizioni della punizione per le nostre nefandezze e come, cosa ancor più
importante, é solo rinunciando a ricercare il successo con le nostre forze ed affidandoci invece a
Dio, che ci predisponiamo a ricevere e comprendere le Sue comunicazioni di verità che ci mettono
in condizione di dare senso alla nostra esistenza in tutte le circostanze in cui ci troviamo a vivere.
Queste considerazioni mi hanno sollecitato in modo forte:
- dai versetti 11 e 12 del cap 8 “Ecco, verranno giorni – dice il Signore Dio- on cui manderò la
fame nel paese, non fame di pane né di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora
andranno errando da un mare all’altro, da settentrione a oriente per cercare la parola del
Signore, ma non la troveranno.”
- e da quelli 11,15 del capitolo 9 che, come sottolinea il titolo della Bibbia di Gerusalemme,
indicano prospettive di restaurazione e di fecondità paradisiaca.

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GIONA

A Giona, profeta vissuto al tempo di Geroboamo II (783-743 a.C.) Dio rivolge la richiesta di
andare a Ninive, la capitale assira, nemica del popolo di Israele, per annunciare ai suoi abitanti
l’imminente giudizio di Dio per il loro comportamento malvagio.
Giona però non vuole seguire i comandi di Dio e parte ma per andare a Tarsis con l’inevitabile
intervento di Dio che attraverso gli elementi naturali, il mare, il vento la tempesta, mette in
difficoltà i marinai ed in pericolo la nave. Giona viene gettato in mare e questo si calma.
Un grosso pesce inghiotte Giona e lo depone, dopo tre giorni sulla spiaggia . Qui c’è un richiamo
alla risurrezione di Gesù, dopo tre giorni (Mt 12,40).
Giona dal profondo del mare eleva la sua preghiera di lode a Dio “nella mia angoscia ho invocato
il Signore ed egli mi ha risposto” (2, 3 ) e vede la morte vicino e allora “quando la vita si
affievoliva in me, mi sono ricordato del Signore” ( 2, 8 )
Il Signore rinnova la richiesta a Giona “Su và nella grande città di Ninive e annunziale il
messaggio che io ti rivolgo” (3,2)
Giona proclama per la città di Ninive “ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (3,4) ma,
contrariamente a quanto pensa Giona, i niniviti si convertono, dal re a tutto il popolo, fanno
penitenza, si vestono di sacco , digiunano e il Signore risparmia Ninive “Dio vide le loro azioni ,
che cioè si erano convertiti….” (3,10).
In questi tre capitoli sono evidenziati :
- l’azione missionaria in quanto a Giona, l’ebreo viene chiesto da Dio di andare a Ninive in Assiria
in terra pagana, a proclamare la parola di Dio. C’è un chiaro riferimento alla futura missionarietà
della Chiesa;
- Dio non ha preferenze di pelle, popolo o religione, tutti sono chiamati a salvezza purché
riconoscano i loro mali e ritornino a sentieri di giustizia e quindi dopo le tenebre , come Giona nel
ventre del pesce, la luce , il sole la terra, la salvezza;
- l’uomo non può sfuggire alla volontà di Dio, Giona aveva provato, ma Dio ha posto ostacoli sul
suo cammino per farlo ritornare sui suoi passi.
Il capitolo 4 è intriso di misericordia e viene posto in grande evidenza l’amore di Dio per gli
uomini. Dio attraverso l’episodio del ricino che nasce e muore vuol far comprendere a Giona che se
lui si preoccupa del ricino e invoca la morte, perché mai Dio non dovrebbe preoccuparsi
dell’umanità tutta, quindi dei giusti e dei peccatori perché siano liberati dal male? E’ molto
toccante il dialogo riportato in questo capitolo tra Dio e Giona. La misericordia di Dio nei confronti
degli uomini è davvero grande, Dio è il padre di tutti, infatti noi siamo per Lui come dei bambini
“…che non distinguono la destra dalla sinistra” (4,11).

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26
MICHEA

Mi colpisce la veemenza con cui Michea - pur sulla scia di Amos - si scaglia contro l’ingiustizia,
che concretamente si attua nell’avidità incontenibile e nella usurpazione dei diritti degli altri, nella
esosità di chi pretende, là dove non c’è neanche il minimo per la sopravvivenza ( 2, 6 “ da chi è
senza mantello esigete una veste, dai passanti tranquilli un bottino di guerra…..” 2,1 “ per una
inezia esigete un pegno insopportabile” )
Il male è penetrato così a fondo nelle coscienze, la cattiveria esplode in così continue vessazioni
(3,1 ss) che i capi e i responsabili non riescono più a distinguere i confini del bene e del male e
osano persino appoggiarsi a Dio come garante della loro condotta (3,11)
La situazione mi sembra molto attuale: lo stravolgimento dei criteri morali elementari porta a
strumentalizzare le persone con ogni tipo di violenza.
Il profeta punta sulla memoria della fedeltà del Signore ( 6,3ss) e su un “piccolo resto fedele”
(5,6ss), e sul recupero di un itinerario semplice, di base di un cammino che possa dirsi “umano” e
che corrisponde al “bene”:
“ Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la
giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio”
La giustizia rinascerà solo se si dà valore ai piccoli, a ciò che non s’impone (appunto come la
piccola Betlemme di Efrata), a chi si appoggia e spera nell’aiuto del Signore, riconoscendone la
presenza e la guida nella storia.
Dio non è uno strumento dei potenti né tantomeno un prodotto da accaparrare (come tutto il resto),
ma è Qualcuno da riconoscere, passo dopo passo, nella fedeltà e nella fiducia.
Tutto questo può essere innestato in qualunque situazione e condizione che pone gli uomini l’uno
accanto all’altro (famiglia, lavoro, rapporti sociali, chiesa).

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“Praticare la giustizia, amare la pietà e camminare umilmente con il tuo Dio” (6,8)
Il profeta ha davanti a sé uno scenario squallido. Il popolo ormai ha dimenticato il Signore come
punto di riferimento nel suo agire, non tiene più conto delle sue leggi e ha dimenticato la sua storia:
come è stato salvato dall’Egitto e come é stato condotto in quella terra.
Le grandezze del paese mostrano il desiderio di grandezza dei suoi abitanti e nascondono i
soprusi e le prepotenze sui più deboli che hanno permesso la costruzione.
In questa situazione Michea deve portare la parola del Signore per aiutare Israele a vedere il suo
peccato, fonte dei suoi mali (3,8) e si rivolge particolarmente a chi nel paese ha il potere: ai capi, ai
sacerdoti, ai profeti, perché ... “in mano loro è il potere” (2,1) e lo usano a loro favore (3,11).
Il popolo non ha tanto potere ma aspira ad averlo, come i capi, e perciò tutto si contagia e il male
si diffonde... “non c’è più un giusto fra gli uomini”(7,1).
Michea denuncia questo male annunziando castighi dal Signore “in lite” con il suo popolo perché
non può sopportare il suo agire violento e prepotente e cerca di portarlo a considerare il suo
comportamento con parole accorate “Popolo mio, cosa ti ho fatto?”(6,3).
Poi dà una speranza nuova: da Betlemme uscirà un re che regnerà con la giustizia di Dio. Non
attraverso prepotenza e grandiosità, come popolo e capi stanno inseguendo, ma attraverso l’umiltà
e la piccolezza, significata dalla piccola Betlemme, il Signore libererà il suo popolo.

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Il potere e il desiderio del potere é sparso ovunque: nella vita privata, nel sociale, nel lavoro (false
bilance e misure scarse...6,10-11 )
Ognuno ha qualche piccolo potere che facilmente, come i capi d’Israele è molto tentato di tenersi
saldamente tra le mani o per servirsene all’occorrenza a suo vantaggio o, con la scusa, che sembra
molto valida, di usarlo a vantaggio degli altri, dei poveri.
Gesù ricorderà a Pilato che lui di suo non ha alcun potere e di se stesso dirà che “tutto ciò che ha lo
ha ricevuto dal Padre suo”, ne ha avuto cura e responsabilmente lo riconsegna.

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ABACUC

Il profeta Abacuc sopraffatto dalla visione globale della società del tempo dove vede il trionfo
dell’iniquità, dell’ingiustizia, della tirannia, si chiede “fino a quando, Signore, chiederò aiuto e tu
non darai ascolto?” (1,2).
Ma il giudizio di Dio è vicino e si compirà su tutti, sui potenti che comandano, sugli empi che
confidano nella propria forza, sugli uomini che pensano al loro interesse e il tutto avverrà attraverso
i Caldei-Babilonesi che “sono più scaltri dei lupi la sera” (1,8) e “si fa beffe dei re e dei principi”
(1,10) e il popolo di Giuda sarà da loro fatto prigioniero oppure ucciso.
Abacuc invoca il Signore “Il mio Dio, il mio Santo, l’Immortale” (1,12) a sottolineare l’eternità di
Dio, ma Dio non può restare indifferente di fronte all’ingiustizia, lasciando che i potenti possano
fare ogni genere di sopruso contro i poveri e i miseri che devono sempre subire e non può
permettere che anche i Caldei-Babilonesi, violenti e oppressori, possano fare quello che vogliono
del popolo di Israele, continuando a praticare il male e la violenza.
Abacuc attende quindi la risposta del Signore che gli chiede “Scrivi la visione, incidila su tavolette
perché si corra a leggerla” (2,2).
La parte più significativa, che ha ispirato anche S.Paolo (Rm 1,17 e Gal. 3,11) è “il giusto invece
sopravvive per la sua fedeltà” (2,4). Quindi anche se l’empio e il violento sembrano avere la meglio
nella vita rispetto al giusto, al buono, che magari deve soffrire e si sente abbandonato da Dio, chi ha
il cuore malvagio perirà, ma il giusto vivrà per sempre, non per la sua giustizia ma per la fede.
Qual è il significato profondo di questo annuncio? Bisogna vivere da giusti, chiedendo a Dio il dono
della fede, che è un dono gratuito, è grazia. Senza la fede non esiste alcuna nostra capacità umana
che ci porti alla salvezza. Nella nostra società basata su certezze visibili e sulla logica del mercato,
diventa difficile incontrare Dio, avere fede, credere, avere fiducia e non poter toccare con mano.
Bisogna uscire da tutti i «parametri» ed entrare nel mondo «gratuito del dono» che rende l’uomo
libero di amare e quindi di vivere con fede l’amore di Dio, anche quando c’è il buio assoluto e la
paura.
Abacuc elenca tutti gli idoli che l’uomo fedele deve rigettare:
- l’accumulo di denaro e di ricchezze fatto all’insegna dell’ingiustizia e del sopruso,
- l’imbroglio per depredare le persone più vicine,
- il costruire certezze nell’intento di assicurarsi un posto tranquillo, basandosi sulla violenza,
schiacciando gli altri,
- l’adorare i falsi dei, gli idoli che sono muti, anche se sono ben costruiti e coperti d’oro o d’argento,
perché sono vuoti e senza vita.
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Dio, continua Abacuc, verrà per salvare i giusti mentre gli invincibili, coloro che sembravano avere
la meglio nella società, cioè i prepotenti, i malvagi, i violenti saranno sconfitti e le loro ricchezze
distrutte “Io invece mi rallegrerò nel Signore, Dio, mio Signore, è la mia forza” (3,18-19).
Il lavoro viene citato nel libro di Abacuc dove dice che nessuna opera del lavoro umano è
pregevole, se costruita sulla violenza “Guai a chi costruisce una città sul sangue, una città sopra il
delitto” (2,12).
Dai profeti viene anche l’ammonimento a non considerare la “salvezza” nel lavoro e nel progresso
umano: la salvezza viene da Dio e non dal lavoro dell’uomo.

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SOFONIA

Sofonia ( colui che JHWH nasconde o protegge) esercitò il suo ministero profetico nel regno di
Giuda al tempo del re Giosia (640-609 a.C.). Il profeta Sofonia (3,14-18) partecipò alla vita politica
e sociale del piccolo regno di Giuda negli ultimi decenni del secolo VII e denunciò il bassissimo
livello etico raggiunto dal popolo sotto la guida del re Manasse (687-642) e sotto il re Amon (642-
640), ucciso da una congiura di corte.
Egli precedette di poco la comparsa di Geremia e prima della riforma del re Giosia nel 622 a.C.
incominciò la sua predicazione.
Il padre del re Giosia, Amon, aveva favorito il culto idolatrico. Anche al tempo del successore
Giosia, un bambino di otto anni, le cose non cambiarono poiché i precettori erano persone corrotte e
crudeli. La grande riforma religiosa venne iniziata da Giosia solo nel 622 mentre la grande
predicazione di Sofonia si svolse dal 640 al 630 a.C. dimostrando grande amicizia e comprensione
per gli strati poveri della popolazione: gli umili, probabilmente, anche i discendenti di quegli ebrei
del regno del Nord, sfuggiti alla distruzione Assira di Samaria (721 a.C.) ed accolti a Gerusalemme
dal re Ezechia in un nuovo quartiere “tra la porta di Efraim e quella dei pesci “ (1,10).
Nel paese, le invettive contro gli idolatri s’incrociano con l’ingiustizia, la violenza, i culti degli dei
stranieri, soprattutto assiri, le mode di altri paesi.
Il profeta nacque da padre etiope pur protestando una propria ascendenza giudaica. Fu uomo
schietto e franco e i suoi messaggi lo mostrano. Si passa dai testi drammatici sul “giorno del
Signore” alle parole della speranza e della gioia del “resto” del popolo di Dio che raccoglie
l’eredità e la fede e nella storia conduce un grande sogno regalato da Dio. “Cercate il Signore voi
tutti, poveri della terra che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi
al riparo nel giorno dell’ira del Signore” (2,3).
Il testo si divide in: oracoli contro Israele, contro i popoli e profezie di salvezza.
Pochi richiami al lavoro.
-“richiamo agli invitati che non vogliono venire:1,7: a somiglianza della parabola del Vangelo.
- Castigo per i commercianti fraudolenti 1,11.
- Hanno costruito case e piantato vigneti: sono due beni che indicano serenità e benessere e che qui
vengono negati per

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il castigo che Dio dà a chi non lo riconosce. Il primo castigo che attanaglia il mondo del lavoro è
vedere inutilizzate e
rovinate la propria operosità e la propria fatica. 1,13
- Il benessere e la pace sono frutto di giustizia, di umiltà e di rispetto della volontà di Dio. 2,3
- La pace restituirà la terra al “resto della casa di Giuda” e addirittura Dio regalerà la terra dei
nemici: la costa abitata
dai Filistei e finalmente il suo popolo avrà riposo. 2,7
-“Darò un labbro puro” ai popoli che invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti
sotto lo stesso giogo
(lett.”spalla a spalla”) in uno sforzo comune: il servizio e il lavoro grato al Signore si
sviluppano in un impegno
comune e non nella prospettiva dell’individualismo. 3,9
- Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti 3,13. Il lavoro ed il riposo dal
lavoro nella pace sono
la prospettiva più serena e il destino del “popolo umile e povero”. 3,12
- In conclusione, la sicurezza basata sul potere e sui beni materiali genera un senso di auto
sufficienza per cui Dio
viene considerato lontano e inoperoso, non disposto a interessarsi delle vicende degli uomini. 1,12
Il canto di Sofonia come annuncio di speranza e come gioia: è il testo che con tutta probabilità Luca
aveva davanti agli occhi quando scrisse il testo dell’annunciazione a Maria. 3,14

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AGGEO

Anche nella lettura di Aggeo, che ha profetato nel periodo successivo alla deportazione e che gli
esegeti indicano come il periodo della ricostruzione, ho ritrovato indicata la stessa motivazione di
convenienza per servire il Signore.
Già fin dal primo oracolo mi sono trovato davanti questa concezione, alla quale mi hanno indotto i
versetti 1,5-9 “Ora così dice il Signore Dio degli eserciti: riflettete bene al vostro comportamento.
Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame...
Facevate affidamento sul molto, e venne il poco; ciò che portavate in casa io lo disperdevo...
perché la mia casa é in rovina mentre ognuno di voi si dà premura per la propria casa”.
L’intento di Aggeo é chiaro: richiamare i reduci dalla deportazione a non pensare solo alla propria
casa, ma a ricordarsi che senza un rapporto diretto e costante con Dio le loro fatiche daranno pochi
frutti. Senza l’aiuto di Dio, le nostre capacità produttive ed espressive si riducono fortemente.
Ma le categorie con cui Aggeo richiama questa verità di fondo dell’esistenza umana in ogni fase
storica, sono quelle della convenienza. Se ti dimentichi del Signore, lui interviene a disperdere ciò
che tu raccogli.
Un altro passaggio che ho trovato interessante è quello del secondo oracolo.
In primo luogo perché l’invito del Signore ad Aggeo é di rivolgersi a Zorobabele, governatore
della Giudea, a Giosuè, sommo sacerdote, ed a tutto il resto del popolo. Il messaggio del Signore é
quindi rivolto direttamente a tutto il popolo che gli é rimasto fedele, non solo ai capi civili e
religiosi.
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In secondo luogo perché ritrovo anche qui un esplicito riferimento al “resto del popolo” a
conferma che il Signore si rivolge a tutti, ma é attento alle preghiere ed agli impegni anche di
piccoli gruppi di persone e fa affidamento su di loro per realizzare i suoi disegni.
Inoltre perché, come trovo espresso nei versetti 2,4-5, “... coraggio popolo tutto del paese, dice il
Signore: al lavoro, perché io sono con voi - oracolo del Signore degli eserciti – secondo la parola
dell’alleanza che ho stipulato con voi quando siete usciti dall’Egitto; il mio spirito sarà con voi,
non temete.” Mi piace molto questo linguaggio diretto, che dà fiducia e speranza al popolo e lo
sprona all’iniziativa. Sono parole che trovo pienamente rispondenti anche alla nostra condizione
all’inizio del terzo millennio. Anche se Aggeo fa riferimento al “Signore degli eserciti” e non della
misericordia, il modo in cui si rivolge agli israeliti é quello del Padre, attento a far crescere i figli ed
a renderli protagonisti nella costruzione del tempio.
Nel terzo oracolo, versetti 2,15-19 si esprime in poche righe l’efficacia della benedizione del
Signore sul suo popolo “dal giorno in cui si posero le fondamenta del tempio” con il netto cambio
di situazione tra la fase precedente all’inizio della costruzione del tempio “Si andava da un
mucchio da cui si attendevano venti misure di grano e ce n’erano dieci ....” e quella successiva.
“Considerate bene ... se il grano verrà a mancare nei granai, se la vite, il fico, il melograno, l’olivo
non daranno più i loro frutti. Da oggi in poi vi benedirò”.

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