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Domande per esame:

- Riconoscere i concili
- Estrazione di un capitolo per ognuna delle 4 parti del programma
- Commento di un’icona
- Due domande sugli exurcus

FONDAMENTI VETEROTESTAMENTARI AL MISTERO DI CRISTO

Il mediatore legale
La profezia di Nathan Davide
Sarà grande chiamato figlio dell'altissimo il signore Dio in elettronica, padre e regnerà per sempre sulla casa
di Giacobbe e il suo regno non avrà fine Cristo viene presentato con i lineamenti di un personaggio regale,
figlio di Davide e figlio di Dio. La promessa adamitica c'è stata riferita in due Sam 7,8-16. La protezione
divina sulla casa di Davide e sul suo regno che avrà perpetua stabilità. Nello stesso periodo, sotto il regno di
Salomone, lo scrittore gli a vista e legge la sera di Israele dalla creazione al possesso della terra promessa,
con lo scopo di radicare il regno Davigo sulla tradizione precedente. Il proprio Vangelo di genesi 3,15
rappresenta il punto di partenza. Il secondo evento è la vocazione di Abramo e costituisce il punto di
partenza della storia di Israele nelle promesse di Giacobbe ai suoi figli, a Giuda viene assegnato un posto di
preminenza tra i suoi fratelli. Il quarto riferimento è dato dagli oracoli di Balaam. Esso è un indovino delle
sponde dell'Eufrate, che riconosce JHWH come suo Dio e benedice Israele. Nell'antico testamento è così
irrintracciabile un orientamento che parte dallo zero cioè semi, discendenza della donna, passa attraverso il
seme di Abramo, arriva al seme di Davide, per sfociare definitivamente in Gesù, figlio di Giuseppe, di
Davide, di Giuda, di Giacobbe, Isacco, di Abramo, di Adamo.

I salmi legali
L’amplissimo salmo 78 considera l'elezione di Davide come il coronamento della lunga storia del popolo
eletto, guidato da Dio mediante il re suo servo in questi salmi ci si riferisce al re Davico concreto e
contemporaneo al salmista. Il loro ambiente vitale sembra essere la cerimonia liturgica dell'intronizzazione
regale o la sua commemorazione annuale. Gli elementi essenziali sono: l'unzione del re, la sua
intronizzazione e incoronazione, la consegna dello scettro con il decreto di legittimazione, la lettura della
promessa di Davide. Sebbene questi salmi presi singolarmente si riferiscono a barre concreti, nel loro
insieme hanno trasmesso nella storia la speranza di un Messia regale.

Il ciclo delle Emmanuele in Isaia

1. Isaia 7,10-17
Il re a Acaz si trova implicato nella guerra siro-efraimita, che minacciava il regno di Giuda e quindi
l'esistenza della casa Davidica regnante. Invece di mostrare fiducia nell'aiuto efficace di Dio, egli rifiuta la
protezione divina e accetta il vassallaggio del re assiro Tiglat-Pilezer.
Si può rilevare la volontà di Dio di continuare a essere fedele alla promessa di Davide. Dio, però, interrompe
la linea dei re con un nuovo inizio. Io stesso interverrà dando un segno mediante la nascita da una vergine
dell'Emanuele, e cioè del Dio con noi. Dal nuovo testamento sappiamo che l'adempimento di questa
promessa sia nella concezione verginale di Gesù.
2. Isaia 9,1-6
Si tratta della nascita fisica di un bambino oppure dell'intronizzazione regale, espressa metaforicamente
come una nuova nascita? Sono possibili entrambe le interpretazioni. Ci si riferisce ad Ezechia, figlio di
Acaz, oppure a un re Davico ideale? Sembra, però, improbabile riferimento ad Ezechia, dopo quanto detto in
Isaia 7,10-17, in cui si parla di una rottura con l'infedele Acaz.

3. Isaia 11,1-9
In piena invasione assira al profeta non resta che appellarsi autore futuro e ideale, che spunterà dalla casa di
Davide. Questo nuovo re sarà arricchito di spirito profetico e farà regnare sulla terra la giustizia, riflesso
terreno della santità. Michea, contemporaneo di Isaia, coglie questa speranza messianica intravedendo il
nuovo Davide nella piccola e sconosciuta Betlemme.

Altre testimonianze
Una corrente di attesa salvifica attraversa, dunque, tutto l'antico testamento. È la speranza messianica
collegata al re mediatore di salvezza tra Dio e il popolo. Se prima questa speranza era riferita ore concreto e
storico appartenente alla casa di Davide, a causa dei fallimenti di tradimenti di questi re, essa diventa
escatologica, proiettandosi verso un Messia futuro, che corrisponderà in pieno alla promessa di Davide di
2Sam7.

Il mediatore sacerdotale
Nell’antico testamento è riscontrabile una corrente messianica sacerdotale che sfocerà in un mediatore
escatologico. A Levi " uomo fedele " e ai suoi figli " che custodiscono l'alleanza " vengono attribuite tre
funzioni: la trasmissione dell'oracolo divino, la tradizione e l'interpretazione della legge, il servizio all'altare.
Il re di Davide è quindi sacerdote secondo il sacerdozio pre Israelitico di Melchisedek.

Nei testi poste esili il sacerdote appare come il vero mediatore di salvezza. Significativa la visione dei due
olivi Zaccaria. I due olivi sono consacrati. Quello regale è Zorobabele mentre l'unto sacerdotale è Giosuè. Il
sommo sacerdote diventa l'unico autentico rappresentante del popolo. Nel secolo quinto la tradizione
sacerdotale " P" rilegge il pentateuco in chiave sacerdotale. La tradizione "P" è quella dei sacerdoti del
tempio di Gerusalemme. Questa tradizione assolutizza il ministero sacerdotale come unica mediazione
salvifica, incentrata sul culto sacrificale questa mediazione sacerdotale salvifica è presente anche gracile,
che ricorda l'alleanza di Dio non solo con Aronne, ma anche con Pincas.

Come non parla sia del Messia regale, che di quello sacerdotale. Il Messia sacerdotale viene considerato
superiore a quello di Davide e sarà portatore di pace e di felicità eterna. Il compimento avverrà in Gesù
Cristo, il quale, pur essendo figlio di Davide, è anche sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedek.
Il mediatore profetico
La funzione profetica è storicamente anteriore a quella regale sacerdotale. Si tratta di una funzione
carismatica costitutiva di Israele, dal momento che ne esprime la natura della missione, radicata com'è su un
particolarissimo rapporto di dialogo con Dio.
Il profeta è infatti colui che manifesta la volontà di Dio e non la propria. Israele è stato sempre
accompagnato dal ministero profetico, che costituisce il ministero per eccellenza. Attraverso il profeta, Dio
dialoga col popolo eletto manifestandogli la sua volontà. Anche il popolo è il rapporto vitale immediato con
Dio Mosé resta sempre il prototipo del profeta. A due movimenti essenziali: Uno discendente di
manifestazione della volontà di Dio. L'altro ascendente di intercessione per il popolo presso Dio. Il profeta è
chiamato in modo personale e immediato da Dio.

Il contesto è quello susseguente alla distruzione di Gerusalemme e del tempio, con la scomparsa definitiva
del regno e quella temporanea nel sacerdozio. La figura del servo di Dio avrà un ruolo importante
nell'interpretazione cistologica neotestamentaria. I cantici sono opera di un odore, il cosiddetto DeuteroIsaia,
vissuto poco prima della fine dell'esilio babilonese gli esegeti distinguono quattro cantici: il primo, contiene
la presentazione del servo e l'oracolo a lui indirizzato, relativo alla sua missione. Il secondo cantico contiene
il discorso del servo con la vocazione da parte di Dio, la sua risposta alla chiamata e la sua missione
universale. Il terzo cantico contiene la lamentazione del servo per le sue persecuzioni e sofferenze. Il quarto
cantico è il più lungo e complesso ma anche il più importante. Lo possiamo suddividere in quattro parti nella
prima, Dio parla del successo dell'esaltazione del suo servo; nella seconda parte tutto il popolo si esprime
con una specie di salmo penitenziale davanti le sofferenze del servo; nella terza parte è il profeta parlare
delle sofferenze del servo; nell'ultima parte è Dio a parlare del suo servo.

Al problema dell'identità e della missione del servo di JHWH, il nuovo testamento ha già dato la risposta
definitiva, rileggendo il mistero pasquale di Gesù Cristo alla luce di questi cantici. Qual è la lettura più
adeguate cantici del servo, quella storica o quella escatologica? La profezia però si riferiva in prima istanza
le circostanze concrete della missione del profeta. Le integrazioni relative all'identità del servo di JHWH si
possono suddividere in due grandi gruppi: un primo gruppo considera il servo come una collettività; un
secondo gruppo lo ritiene una persona singola. L'interpretazione collettiva identifica il servo o col popolo
ebraico o con la parte sana di esso o con un gruppo di profeti con Israele ideale. Non poche volte il servo
viene esplicitamente identificato con Israele o con una parte del popolo. Contro questa ipotesi ci sono dei
motivi di contrasto tra l'atteggiamento del popolo è quello del servo. Il servo è sempre pieno di fiducia in
Dio anche nei momenti di delusione, è innocente fedele al messaggio di Dio, sarà il liberatore del popolo
schiavo, soffierà unicamente per i peccati altrui. L'interpretazione individuale cerca anzitutto di indicare il
personaggio storico concreto corrispondente al servo di JWHW ci si chiede come sia stata possibile da parte
del profeta la descrizione particolareggiata della sua fine, delle sue sofferenze, del valore esoterico logico ed
universale della sua persona della sua missione è emersa l'interpretazione messianica escatologica del servo
anche nella tradizione cristiana che ha visto nel deuteroisaia a l'evangelista della passione, morte e
resurrezione di Cristo.
Il servo di JHWH
Il servo è presentato come un profeta predestinato fin dal seno materno e costituito nel suo ministero
mediante una solenne programmazione da parte di JHWH. E ciò in vista di una missione i destinatari di
questa missione sono così identificati. Si parla di coloro che sono affaticati, di ciechi e di prigionieri, e più
ampiamente di "molti". L'orizzonte della missione amplissimo la funzione universale del servo è l'annuncio
della parola e dell'insegnamento. La missione è segnata da un'intima sofferenza, dal timore dell'insuccesso e
dell'insignificanza, dalla sensazione di abbandono da parte dei fratelli di Dio e anche da una sofferenza
esterna il servo, infatti, viene vilipeso, condannato, umiliato, battuto, colpito. La sofferenza fisica culminerà
nella morte violenta il suo atteggiamento molto in comune con quello degli altri profeti: pazienza,
remissività, mitezza, fiducia in Dio. Il quarto cantico delinea anche il significato teologico della passione
morte del servo la sofferenza è anzitutto voluta da Dio, come parte integrante della sua missione. Il servo
soffre per i peccati nostri o dei molti.

IL mediatore celeste
Si può individuare una corrente discendente di mediazione salvifica. Essa è rintracciabile in quelle
figure di mediatori celesti, metà storici trascendenti, che infrangono ogni barriera di spazio di
tempo.

L'angelo
Nell’antico testamento l'angelo diJHWH parla e agisce nella storia come un uomo. Si possono
distinguere in tre gruppi:
In un primo gruppo l'angelo di JHWH non sembra sostanzialmente distinguersi dallo stesso
JHWH. È il signor trascendenti
In un secondo gruppo l'angelo agisce in nome di Dio distinto da lui. Il cosiddetto angelo dell'esodo
è un rappresentante stretto di Dio, che accompagna il popolo nel suo pellegrinare e che agisce in
nome di JHWH.
In un terzo gruppo si parla di un angelo di JHWH, che spesso ha un nome ben preciso: Michele,
Raffaele. La funzione dell'angelo, però, non è quella di punire o distruggere, ma di manifestare il
volere divino. Il suo compito anzitutto comunicare la volontà di Dio. Egli si impegna nella
liberazione di Giacobbe da ogni male soprattutto dall'Egitto, accompagnando lungo il deserto fino
alla terra promessa. Oltre alla funzione livellatrice e soteologica, c'è anche una funzione di tipo
ascendente che integra le prime due. Si tratta dell'intercessione presso Dio esercitata dai suoi
angeli a favore del popolo.

Per quanto riguarda la sapienza di Dio possiamo articolava in tre parti:

La sapienza di Dio
La sapienza è in Dio, da Dio, con Dio. Nell'antico testamento solo Dio alla pienezza della
sapienza. Solo Dio è la fonte della sapienza. Più che creata, essa è stata generata prima della
creazione, da sempre per sempre. La si può considerare un alter ego di Dio.

La sapienza e la creazione
La sapienza fu presente alla creazione del mondo. Essa è all'opera nella creazione come
strumento, come ispiratrice e come artefici. La sapienza, inoltre, presente operante a tutti i livelli
dell'essere: in cielo, sulla terra, negli abissi. È presente nella globalità dell'opera creatrice di Dio.
Presente come architetto, come norma operante, come proprio prototipo.

La sapienza e l'umanità
L’interesse salvifico della sapienza rivolto a tutta l'umanità. La sua benevolenza soprattutto rivolta
Israele. Pur non avendo un volto umano, la sapienza parla attraverso la torah e si identifica con
essa. La legge trabocca di sapienza, dice Siracide. La sapienza non è lettera morta, la parola
vivente. Essa esercita pure una funzione regale. Accogliere la sapienza e accogliere la vita.
Respingerla e avviarsi verso la morte. Davanti alla sapienza si fa un'opzione decisiva come
davanti a Dio.
L'EVENTO CRISTO NEL NUOVO TESTAMENTO

La predicazione di Gesù
La predicazione, l'annuncio, l'ammaestramento è la caratteristica più rilevante dell'attività di Gesù
prima del mistero pasquale. Egli si presentò come un maestro (didàskalos). Nel nuovo testamento
designa 41 volte Gesù è 29 volte viene usato come titolo diretto.. Gesù ha parlato e agito come un
maestro del suo tempo, dirimendo dubbi giuridici, questioni dottrinali e raccogliendo attorno a sé i
discepoli. Una caratteristica originale di Gesù fu la sua straordinaria autorità. Il suo insegnamento
era fatto con autorità. Mentre gli scribi erano gli interpreti della tradizione dei padri, Gesù insegna
con un'autorità che appartiene solo Dio. Per questo sia la folla, come anche i discepoli lo
considerarono un profeta. Gesù, però, si ritiene superiore profeti a Giona e a Salomone. Questo
più, ha valore assoluto. In lui c'è un salto qualitativo assoluto. È il profeta ultimo, definitivo,
superiore agli altri. Il contenuto essenziale della sua predicazione alla giunta è l'annuncio del
regno. La venuta del regno non può essere umanamente accelerata nei mediante la lotta contro
nemici di Dio, né mediante l'osservanza meticolosa della legge. Né può essere riservata solo a
una ristretta cerca di perfetti, identificabili, ad esempio, con la comunità essena di Qumran.
L'attesa del regno deve essere paziente fiduciosa. Il regno di Dio non indica un territorio
particolare, ma la reale sovranità di Dio sull'umanità. Il regno di Dio è presente laddove è presente
la vita, la riconciliazione, la gioia, la lode di Dio. Il regno si attuerà dove e quando venga compiuta
la volontà di Dio, sia santificato il suo nome, ci si abbondanza di beni materiali spirituali, si attui la
liberazione del male. La realtà del regno è sommamente misteriosa. Mediante le parabole Gesù
sottolinea la presenza del regno nella realtà quotidiana concreta: nel granello di senape, nel
lievito, nel semi. Allo stesso tempo, però, il regno della realtà ultima, escatologica, che metterà
fine alla storia e che si situa al di là della storia stessa. Il suo compimento sarà assegnato dalla
parodia del figlio che verrà nel suo regno per parodia si intende la seconda venuta. Il regno è
inoltre un dono esclusivo di Dio. L'uomo non se lo può auto donare, né politicamente, né
socialmente, né eticamente. Il regno ha un intrinseco carattere soteriologico. È offerta salvifica per
l'uomo. Il regno ha cioè una dimensione cristologico. Si identifica con la persona stessa di Gesù è
con la sua presenza. Gesù cioè si autodefinisce come regno di Dio. La sua presenza la presenza
del regno. La sua dottrina, le sue azioni, il suo comportamento costituiscono riduzione del regno di
Dio sulla terra.

L'atteggiamento di Gesù

1.. Nei confronti della legge del tempio


Gesù conferma la sua adesione alla legge. Egli dichiara di non essere venuto per abolire la legge
o i profeti, non esita a trascurarne alcune prescrizioni, come, ad esempio, il sabato, il digiuno,
l'impurità nel mangiare. Gesù si considera libero di fronte alla legge. Il suo atteggiamento fu così
originale nei confronti delle leggi, da lui ritenuta superata dal suo evento, che in Giovanni egli
afferma: "se credereste infatti a Mosé, crederesti anche in; perché di me egli ha scritto". Gesù
uscirà un importante indizio del fatto che sia stato storico. Egli dice " avete inteso… Ma io vi dico".
Si pone sullo stesso piano del legislatore, di Dio stesso, non per superare la legge voluta e data
da Dio, ma per rivelarne il vero contenuto e il significato inteso da Dio.

2. Nei confronti del tempio


Gesù ha anzitutto un atteggiamento di rispetto. Egli insegna nel tempio e lo considera la casa di
Dio, la casa del padre, la casa della preghiera. Non manca però un gesto di purificazione riportato
da tutti e quattro gli evangelisti. Due affermazioni: l'annuncio della rovina del tempio e la sua
sostituzione nella persona stessa di Gesù. La morte di Gesù: " il velo del tempio si squarciò in
due". Il suo sacrificio pone termine al tempio del culto antico. Per incontrare Dio la sua presenza
privilegiata è unica sulla terra è ora sufficiente incontrarsi con Gesù.

3. Nei confronti dei peccatori degli emarginati


nei messaggi di Gesù la vicinanza del regno significa finanza salvifica di Dio nei confronti di
repubblicani, prostituti, samaritani, rossi, vedove, bambini, ignorati, pagati, malati. Gesù partecipa
alla mensa dei peccatori. Non si tratta qui di un atteggiamento di semplice tolleranza, proprio della
bontà della misericordia di un uomo peccatore perciò comprensivo nei confronti del peccato altrui.
Si tratta, invece, di un gesto di bontà assoluta di Gesù, innocente, nei confronti dei poveri dei
peccatori, messi nella stessa possibilità di conversione e di perdono davanti a Dio. Sono, infatti, gli
emarginati gli smarriti l'oggetto della predicazione di Gesù. Il suo atteggiamento nei confronti del
peccato risultò ancora più provocatorio egli costò l'accusa di bestemmiatori. Gesù non solo
guarivano avanzava la pretesa di mente i peccati. Ciò suscitò stupore ma anche incomprensioni.
Gesù affronta significative indizio del fatto che la misericordia perdono di Dio nei confronti
dell'uomo passano attraverso il suo gesto, la sua parola, la situazione.

4. Nei confronti degli ammalati dei sofferenti


l'attività guaritrice di Gesù copre l'intero arco del suo apostolato: sono innumerevoli le guarigioni
operate da Gesù. Gesù prende l'iniziativa: " vuoi guarire?". In questo paralitico l'umanità di ieri Dio
e di ogni tempo è colta nell'estrema emarginazione della malattia della solita Gesù vince non solo
il peccato e le malattie, ma anche Satana. Egli libera gli uomini posseduti dal maligno.

5. Nei confronti delle donne


nei confronti delle donne Gesù ebbe un atteggiamento di serena accoglienza di grande rispetto,
stimandole e valorizzandole. Egli viveva in una società e cultura andricentrica e discriminatrice.
Gesù oggi senza animosità per tale coraggio. Avvicina le donne, la guarisce, non discrimina le
straniere, supera i tabù della loro impunità legale, riporta come esempio la vedova di coltiva
l'amicizia con Marta e Maria. Una novità inconsueta è data dall'atteggiamento misericordioso di
Gesù verso quelle donne, che erano disprezzati perché peccatrici o adulteri, come la pubblica
peccatrice entra nella casa del fariseo per ungere i piedi di ogni profumato. Per Gesù la donna era
ugualmente capace come l'uomo di penetrare le grandi verità religiose, di accettarli, dividerle di
annunciarle a sua volta. Le donne con Gesù ridiventano maggiorenni e vincono l'apartheid della
loro cultura. Furono essere accompagnato fino la croce senza tradirlo. Per questa fedeltà Gesù
diede loro la gioia di essere la prima annunciatrice della sua risurrezione. Il comportamento di
Gesù è l'atteggiamento di un uomo equilibrato e straordinariamente armonico. La fonte di tale
atteggiamento non è nella cultura del tempo nella semplice opposizione a tale cultura. Gesù
obbedisce, infatti, la legge della creazione della redenzione. Il suo criterio di valutazione è la realtà
dell'inizio, quella della pari dignità e nobiltà dell'uomo della donna. Non solo l'uomo manca la
donna immagine di Dio.

6 nei confronti dei piccoli dei deboli.


Il più grande è il più piccolo, il primo all'ultimo, il padrone è il servo di tutti, il vero adulto nel regno
dei cieli è il bambino. Non sono i bambini che devono diventare come gli adulti, ma gli adulti come
bambini: " lasciate i bambini vengano a me, perché di questi regno dei cieli". Il bambino diventa
l'immagine di Gesù. I piccoli devono essere accolti e protetti, non umiliati, scandalizzati o uccisi.
Gesù ha vissuto in prima persona l'esperienza di essere infante, senza parola, lui che era la
parola; debole, lui era il forte. Sa che essere bambini vuol dire abbandonarsi interamente agli altri;
dipendere dagli altri; apprendere dagli altri. Egli è il figlio del padre. Anche crescendo, egli resta
per l'eternità il figlio.

7. Nei confronti dei nemici


egli perdona l'apostolo Pietro che lo aveva rinnegato, i discepoli che lo avevano abbandonato, i
suoi stessi carnefici. Con l'esempio la parola egli educa la misericordia perdono. Con la parabola
del figliol prodigo egli mostra come sia grande il cuore misericordioso di Dio padre né perdonare le
colpe dei figli ingrati. Gesù si oppone alla vendetta supera la giustizia umana con l'atteggiamento
del perdono dell'amore del nemico. Perdonare amare i nemici opera divina: " siate misericordiosi
come misericordioso il padre vostro".

8. Nei confronti di Dio


Anche il suo peculiare atteggiamento nei confronti di Dio, chiamato Abbà, è uno dei tratti più
qualificanti del Gesù pre-Pasquale. L'orizzonte della vita terrena di Gesù non fu tanto la pianura di
Galilea o la regione montuosa della Giudea, quanto l'abbraccio del padre. Le tappe più
significative dell'apostolato terreno di Gesù sono segnate dalla presenza dalla parola di amore del
padre verso il figlio. Al battesimo del giordano, sentì una voce dal cielo: tu sei figlio mio prediletto,
in te mi sono compiaciuto alla trasfigurazione di Gesù: su un alto monte. Alla fine della vita, sulla
croce del suo martirio, Gesù si abbandona con confidenza la carità del padre.

9. nei confronti dei discepoli


un ulteriore dato significativo del Gesù che Pasquale è rappresentato dall'invito dalla sequela
rivolte discepoli di fronte a Gesù si sceglie provo contro il regno. La sua parola di vocazione è
infatti una parola creatrice essa trasforma i chiamati in discepoli. È una sequela incondizionata,
che include una vera professione di fede in lui, anche se non è compiutamente tematizzata, come
avverrà dopo la risurrezione.

I miracoli di Gesù

1. La loro storicità
Un elemento decisivo che attraversa l'intera cristologia prepasquale è costituito dai miracoli di
Gesù, chiamati meglio segni, gesti di potenza, opere la ricerca esegetica contemporanea sembra
confermare l'origine del pasquale non sono del fatto di Gesù taumaturgo, ma anche del significato
da lui attribuite miracoli. Lautorelle ci dice che la tradizione non ha fatto che prolungare, spiegare,
approfondire tale senso prepasquale che risale Gesù senza i miracoli non si spiegherebbe
nell'entusiasmo della folla e dei discepoli, né l'odio dei nemici nei suoi confronti. In Marco
costituiscono quasi 1/3 del Vangelo (31% del testo, 209 versetti su 666). I miracoli, inoltre, sono
strettamente legati alla predicazione del regno e alla decifrazione del mistero di Gesù. Nessuno
negò la qualifica di Gesù nel fare i miracoli ma li contestarono solo l'autorità in nome la quale egli
compiva i miracoli.

2. Realtà e significato di miracoli di Gesù


i miracoli di ritirarsi primariamente la natura viene potenziata in modo tale da essere restituita
all'integrità che viene proprio: essa, infatti, rivive, guarisce, riprende il suo equilibrio psicologico, è
sottratta al potere del maligno. È quasi un ritorno dell'uomo quando la sua natura non era stata
ancora segnata dalla malattia dalla morte. Il miracolo è sempre al servizio della parola sia come
elemento della rivelazione, sia come attestazione della sua autenticità e della sua efficacia. I
miracoli, essi sono le opere del figlio e si collegano strettamente alla coscienza che gli ha della
sua filiazione divina.

Alcuni titoli di Gesù

1. Messia
Al tempio di Gesù termine Messia, era aperto a molte determinazioni (capo rivoluzionario per gli
zeloti, maestro della legge per i farisei, Messia sacerdotale in Qumran). È prevalente chiamato
figlio di Davide. Il titolo Messia non si trova mai sulla bocca di Gesù, ma gli viene riferito sempre
dall'esterno solo una volta sembra accettarlo: nel colloquio con la samaritana. In altri due passi lo
accetta: la confessione diverrà Cesarea di Filippo; e con il sommo sacerdote che gli chiedeva se
fosse il Cristo dove rispose "io lo sono". La formulazione della domanda del sommo sacerdote si
può considerare come la sua ipsissima Vox, riportata da un testimone oculare.

2. Figlio dell'uomo
è un titolo molto usato dal Gesù prepasquale. Una prima serie contiene detti che si riferiscono alla
vita eterna del figlio dell'uomo. Una seconda serie di detti concerne la sua passione. Nel loro con
contenuto generale i detti rimandano al Gesù prepasquale, il quale ricollega la sua passione alla
tradizione anticotestamentaria del servo di JHWH deuteroisaiano. Gesù si presenta come il giusto
sofferente che salverà il mondo mediante la sua passione la sua esaltazione una terza serie di
Rieti riguarda il figlio dell'uomo che verrà sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria Gesù
allude alla sua dimensione divina trascendente per questo motivo l'espressione diventa titolo
cristologico con un'implicita allusione a Deuteronomio 7,13-14.

3. Figlio di Dio
qui diciamo solo che Gesù si rivolse a Dio chiamandolo Abbà e fate, distinguendolo dal padre
vostro. Questa distinzione già presente Luca e Matteo risale al Gesù storico e trova la sua
formulazione classica in Giovanni: "il padre mio e padre vostro". L'ignoranza del figlio difficilmente
poteva essere accettata dopo la Pasqua. Per cui anche questo passo sembra manifestare
l'ipsissima vox Jesu. L'appellativo, manifesta la coscienza di Gesù di essere totalmente riferita al
padre in una vicinanza e obbedienza filiale assoluta. Vediamo solo una significativa evoluzione di
questi due ultimi titoli. Di per sé figlio di Dio, era un titolo che nell'antico testamento indicava
semplicemente un uomo con una speciale vocazione di elezione e di adozione da parte di Dio, del
quale diventava figlio prediletto. In Gesù questo titolo indica più l'adozione, ma la relazione intima,
ontologica del figlio nei confronti del proprio padre. Per cui figlio di Dio, da titolo umano è
funzionale, diventa indicazione ontologica della dignità di Gesù. Anche l'altro titolo biblico, figlio
dell'uomo, da appellativo semplicemente umano, diventa in Deuteronomio e nel linguaggio di
Gesù un titolo aperto ad esprimere la trascendenza di Gesù, pur nella sua umanità.

La fede cristologica della comunità cristiana primitiva (cristologia postpasquale)

1. La liturgia
La liturgia era interamente incentrata sul mistero di Cristo. Accenniamo qui solo alle omologie, che
sono brevi formule di fede cristologico, e agli inni, composizioni poetiche e articolate. Entrambe
hanno un duplice scopo: credere, e cioè esprimere la fede in Gesù Cristo, e confessar. All' inizio
l'evento onnicomprensivo della fede e della susseguente confessione fu solo la risurrezione.

I. L'omologia
omologia azione di fede presenta due forme: l'acclamazione e la formula-Pistis. L'acclamazione è
una formula nominale che contiene e programma uno o più titoli cristologico. Nell'antichità le
acclamazioni sono grida del popolo fatte in pubblico in comune formulate ritmicamente.
La formula-Pistis, invece, è un'omologia verbale, formata da una breve frase predica di. In atti
degli apostoli 8,37 troviamo la sintetica confessione battesimale del funzionario di corte: "io credo
che Gesù Cristo è il figlio di Dio". Ci sono formule-Pistis di risurrezione, di morte, di abnegazione.
In quest'ultime c'è il riferimento salvifico per noi. Tra i vari titoli cristologico ne privilegiano tre:
Cristo, signore, figlio di Dio. Possiamo aggiungere subito gli sviluppi ulteriore delle omologie
verbali. Anzitutto il nucleo morte-risurrezione fu ampliato sia a ritroso che in avanti. In tal modo
esse diventarono la base della redazione dei Vangeli, che sono ampliamenti di questo credo
essenziale e si appoggiano continuamente adesso come un testo normativo. Le omologie, infine,
costituirono i modelli di affermazioni centrali (la regula fidei) dei successivi simboli di fede,
soprattutto battesimale.

II. Gli inni


gli anni sono ampliamenti delle formule di fede e rappresentano il dramma dell'incarnazione e
dell'umiliazione del figlio di Dio per la redenzione dell'umanità. Se ne contano nove e sono
riconoscibili sia per il loro stile poetico sia perché preceduti dal pronome relativo " il quale", che li
introduce nel nuovo contesto di una epistola. Gli inni manifestano con efficacia l'entusiastica
programmazione di Gesù Cristo, signore Salvatore universale dell'umanità e del cosmo. Il loro
contenuto essenziale è dato dall'affermazione che il redentore è uguale a Dio, è mediatore della
creazione della salvezza universale, discende dal cielo per abitare presso gli uomini, muore
resuscita per realizzare la riconciliazione universale, viene esaltato al di sopra delle potenze
celesti cosmiche. Pur appartenendo la più antica tradizione cristiana, essi contengono già una
cristologia molto sviluppata.
2. Il Kerygma
Un primo sommario di Kerygma apostolico viene ritenuto il brano 1Cor 15,2-5, in cui si menziona
la morte, la sepoltura, la risurrezione e le apparizioni di Gesù. Charles H. Dodd ha ricavato sa s.
Paolo gli elementi essenziali del primo kerygma cristiano.
La sua ricostruzione:
- Le profezie si sono avverate e la nuova età ha avuto inizio con la venuta di Cristo
- Egli è nato dalla stirpe di Davide
- Morì secondo le Scritture per liberarci dal male dell’età presente
- Fu sepolto
- Risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture
- È esaltato alla destra di Dio, come Figlio di Dio e Signore dei vivi e dei morti
- Verrà di nuovo come giudice e salvatore dell’umanità
La redazione che sembra più completa è quella di At 2,14-39, che contiene le seguenti
affermazioni:
 Quanto accade è ciò che fu predetto del profeta
 (Davide) sapeva che Dio, con giuramento, gli aveva promesso che uno della sua stirpe
doveva sedere sopra il suo trono.
 Gesù di Nazaret è l’uomo cui Dio ha reso testimonianza di fronte a voi con miracoli e segni
operati da Dio per mezzo di lui fra voi;
 Quest’uomo, dopo essere stato tradito, secondo l’immutabile disegno e prescienza di Dio,
voi lo avete crocifisso e l’avete messo a morte.
 Quest’uomo, Dio l’ha risuscitato, liberandolo dai lacci della morte
 Dio ha reso Signore e Cristo questo Gesù che voi avete crocifisso.

La cristologia dei sinottici


A metà strada tra il kerygma orale e i Vangeli sinottici gli studiosi pongo la cosiddetta fonte “Q”,
una ipotetica raccolta di «loghia», considerati la base della tradizione comune a Matteo e Luca. La
cristologia della fonte “Q” avrebbe i seguenti punti caratteristici: l’enfasi dell’appellativo «figlio
dell’uomo», quale titolo principale di Gesù, che in tal modo viene identificato col giudice
escatologico; la presentazione della passione e morte di Gesù nella linea profetica e sapienziale
della persecuzione dei profeti e dei sapienti; il rilievo dato alla figura del Battista come precursore
del giudizio di Dio realizzatosi in Gesù.

1. La cristologia di Marco
Il vangelo di Marco intende motivare la realtà di «Gesù Cristo, Figlio di Dio». Nella pericope
centrale vengono precisati i tre titoli principali di Gesù: Cristo, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio.
Quest’ultimo sembra essere il più importante perché compare in passi importanti del Vangelo:
prologo, battesimo, confessioni dei demoni, trasfigurazione, confessione del centurione ai piedi
della croce.

2. La cristologia di Matteo
Il titolo cristologico prevalente in Matteo è quello di «Signore». La chiave interpretativa propria di
Matteo sembra essere il compimento delle scritture in Gesù di Nazaret, che per questo è il
Salvatore promesso. La genealogia iniziale intende affermare che egli è quindi il vero Messia
atteso, il vero Israele obbediente alla volontà del Padre. Insistente il rilievo dato alla relazione di
Gesù col Padre, del quale è Figlio diletto. Solo Gesù ha conoscenza del Padre. È anche di Matteo
il racconto della concezione verginale ad opera dello Spirito Santo e l’accenno alla preesistenza.

3. La cristologia di Luca
Cristo per Luca è «il centro del tempo» e della storia della salvezza.

La cristologia sviluppata da Paolo e Giovanni

A. La cristologia paolina
La sua cristologia è in funzione eminente soteriologica. Il primo livello, arcaico, è incentrato sulla
parusia (seconda venuta) e sulla risurrezione di Gesù, come primizia della nostra.
Il secondo livello ha il suo centro d’interesse nell’efficacia attuale della risurrezione e della morte di
Cristo. E ciò che sia in antitesi col giudaismo, per cui Cristo ha messo fine all’economia della
legge; sia in antitesi con la filosofia greca, per cui il cristianesimo è accettazione dell’efficacia
dell’opera salvifica di Cristo e non un culto misterico o una teoria filosofica.
Il terzo livello offre una visione cristologia più completa, rielaborando in modo nuovo i risultati dei
due livelli precedenti. I più importanti titoli cristologici paolini sono «Cristo» e «Signore».

B. L’inno cristologico di Filippesi 2, 6-11


Si tratta di un inno prepaolino, che serve a s. Paolo come base per raccomandare il retto sentire
alla comunità di Filippi.
La straordinaria kenosis ontologico-obbedienziale di Cristo rappresenta per Paolo il cristerio
fondamentale del comportamento morale di concordia della comunità di Filippi. L’apostolo
propone la globalità del suo mistero d’incarnazione, e cioè l’accettazione della condizione umana
e dell’obbedienza al Padre fino alla morte e alla morte di Croce.
Il contenuto cristologico sembra presentare quattro fasi:
- Preesistenza e la spoliazione volontaria: Cristo sussiste nella «forma» o nella «condizione»
divina e che, pur trovandosi in quella condizione «spogliò se stesso». Questa kenosis
indica sia l’incarnazione sia il modo con cui essa è stata voluta e compiuta dal Figlio.

- La condizione umana del Cristo caratterizzata dalla sua obbedienza assoluta

- Terza e quarta: esaltazione del Cristo e il suo trionfo sull’universo. Essendo l’esaltazione
del Cristo non un atteggiamento ma una condizione ontologica, essa dà compimento
adeguato alla kenosis ontologica.

L’inno può essere considerato come una testimonianza antichissima di cristologia completa, dal
momento che fa riferimento alle tre condizioni di Cristo, prima, durante e dopo l’incarnazione.
Esso fu alla base della dottrina patristica dello «scambio»: il Figlio di Dio, senza perdere le sue
prerogative divine, divenne ciò che noi siamo, perché noi potessimo divenire ciò egli è.

C. La cristologia cosmica di Col 1,15-20


In questo contesto, «primogenito» non indica la prima di una lunga serie di creature, ma
l’unigenito Figlio di Dio, in quanto Sapienza redentrice e quindi anche creatrice dell’uomo e del
cosmo. Cristo viene presentato anche come fine dell’universo, come principio di coesione del
cosmo.

D. La cristologia del prologo Giovanneo


Questa riflessione unisce armonicamente cristologia e soteriologia, eternità e storia, Gesù storico
e Cristo pasquale. Senza alcun preambolo si viene introdotti nell’intimità della vita divina. Se i
sinottici iniziano i loro Vangeli dalla storia di Gesù, Giovanni comincia dalla vicenda eterna del
Verbo. Aggiungiamo subito, però, che se nel Prologo il movimento è dall’alto verso il basso, nel
resto del Vangelo il movimento è dal basso verso l’alto. Mentre nel prologo dal Verbo che è Dio si
arriva alla sua incarnazione, nel reso del Vangelo si sale da Gesù di Nazaret alla confessione
della sua divinità. Il tutto si riferisce all’intera opera «ad extra» di Dio, e quindi non solo alla
creazione, ma anche alla storia della salvezza.
INTRODUZIONE ALLA CRISTOLOGIA
PATRISTICA E CONCILIARE

1. Dalla Scrittura ai Padri


Partendo dal dato biblico fondante, la Chiesa ha letto e interpretato la Scrittura «nello stesso
Spirito nel quale è stata scritta». Infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole
trasmesse, cresce, sia con la riflessione e e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro,
sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di
coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità.
Le tappe significative:
- Patristica
- Medievale
- Moderna
- Contemporanea

2. La cristologia patristica
La cristologia dei padri della Chiesa è nutrita si s. Scrittura. Anzi è proprio l’esegesi biblica a
costituire la sua qualifica più rilevante. Molteplici fattori determinarono lo sviluppo. Innanzitutto la
prodigiosa «fides quaerens intellectum» degli scrittori ecclesiastici, orientali e occidentali. Poi il
dialogo serrato con la filosofia del tempo, con le correnti stoiche e platoniche e con la loro radicale
opposizione alla dottrina della creazione dell’uomo e dell’incarnazione di Dio.
Un terzo fattore di approfondimento e di progresso fu il confronto spesso estremamente polemico
e conflittuale, tra le diverse scuole teologiche, come quella alessandrina con la cristologia del
Logos-sarx e quella antiochena con la cristologia del Logos-antrophos. Un ultimo elemento è dato,
infine, della lotta contro gli eretici, che negavano di volta in volta la vera divinità o la vera umanità
o la realtà stessa di Gesù Cristo.
Il grande dibattito della cristologia patristica si concentrò sulla risposta alla contestazione
metafisica della divinità di Cristo da parte dell’ellenismo. La teologia patristica fu un periodo vitale
di difesa e di purificazione del kerygma cristologico contro il continuo e multiforme pericolo della
sua degradazione.
In questo laborioso passaggio dalla cristologia biblica a quella patristica si assiste a un triplice
processo. Anzitutto si ha una selezione nella tradizione relativa a Gesù, per cui, ad esempio, la
questione della sua origine e della sua essenza acquista una posizione sempre più centrale nel
dibattito teologico, come fondamento sicuro della sua funzione soteriologica. In secondo luogo si
attua la trasformazione del dato biblico che porta dal kerygma al dogma. Il dogma si può a ragione
definire come «kerygma maggiormente riflesso, chiarito mediante la teologia e sorretto da una
coscienza ecclesiale approfondita».
Questo triplice processo porta alla «ontologizzazione» del kerygma e cioè a far emergere, al di là
degli eventi, la struttura metafisica del Cristo; alla sua «deescatologizzazione», nel senso che si
manifesta una tendenza a spostare il centro della cristologia della risurrezione all’incarnazione e
alla preesistenza del Verbo.
[Passaggio da “perché egli è morto e risorto” a “chi è Cristo nella sua essenza”]
3. Le eresie cristologiche dei primi secoli
L’arcipelago delle eresie cristologiche anteriori a Nicea è di difficile presentazione, perché non
ancora del tutto esplorato. Queste, comunque, sono accomunate da un pregiudizio di fondo: far
prevalere la loro precomprensione religiosa o filosofica sulla verità del kerygma dell’incarnazione
del Figlio di Dio e della sua passiona e morte redentrice. Per cui l’inevitabile conflittualità tra dato
biblico e visione culturale viene sempre risolta a spese del kerygma, che subisce mutilazioni,
riduzioni, trasformazioni e indebite accomodazioni a concezioni non cristiane di Dio, dell’uomo e
del cosmo.

Gli ebioniti
Essi consideravano Gesù come semplice uomo. Negavano la sua preesistenza e la sua figliolanza
divina. Gesù quindi, sarebbe stato un semplice uomo, trasformato poi in Cristo al battesimo. La
divinità di Gesù fu negata anche dall’adozionismo.
Gli adozionisti
Essi ritenevano che il Dio unipersonale non aveva un figlio naturale.
Gli gnostici
Essi costituiscono un fenomeno molto articolato, in cui convergono influssi orientali e speculazioni
cosmologiche di matrice cristiana, giudaica e pagana. Gli elementi centrali dei sistemi gnostici
sono il mito caduta-redenzione e il dualismo molto spinto che disprezza la materia e distingue gli
uomini in diverse categorie. Il più importante gruppo gnostico fu quello dei valentiniani.
Lo gnosticismo è dominato da una fantasia sfrenata e da un linguaggio mitologico tanto ricco
quanto sibillino. «Cristo», «Spirito Santo», «Salvatore», «Gesù» possono avere significati diversi a
seconda che si riferiscano alla dimensione alta, intermedia, acontica o terrena della complessa
cosmologica gnostica.

Gli ofiti
Essi, pur accettando il concepimento verginale, per opera dello Spirito Santo, consideravano Gesù
come semplice uomo. A lui si sarebbe unito, al battesimo nel Giordano, il Cristo, Figlio di Dio.
L’incarnazione sarebbe quindi la discesa del Cristo sull’uomo Gesù al battesimo per la salvezza
dell’umanità.

Valentiniani
Tre affermazioni centrali:
- La considerazione di Gesù come semplice uomo
- Unione temporanea di Gesù col Cristo al battesimo del Giordano
- Separazione del Cristo da Gesù prima della passione
Il docetismo
Costituisce una tendenza a sminuire la realtà umana di Gesù, affermndo che il suo corpo sarebbe
appartenente, celeste, angelico, spirituale e negando le azioni indegne della sua divinità, come, ad
esempio, la sofferenza.

I monarchiani
Essi mantengono l’unicità di natura e di persona del Dio veterotestamentario. Essi negano una
personalità distinta in Gesù Cristo, le cui azioni, comprese passione e morte, vengono attribuite al
Padre. Per i monarchiani Padre e Figlio sono nomi correlativi di Dio e la loro distinzione sarebbe
terminologica.

Le eresie furono adeguatamente combattute e superate dagli scritti ecclesiastici dei primi secoli
del cristianesimo, sia orientali che occidentali. Essi fecero prelevare la novità e l’originalità del
kerygma neotestamentario sulla visione filosofico-religiosa della cultura del tempo, la quale, pur
diventando strumento espressivo del cristianesimo, subì un vero e proprio processo di
purificazione e di conversione. La cristologia patristica costituisce la cerniera e l’autentica base di
continuità tra il Cristo biblico e il Cristo della riflessione teologica del dogma.

4. La cristologia conciliare
Significativo al riguardo è il loro esplicito e mutuo richiamarsi prima di procedere a nuovi
pronunciamenti. Siamo prima dei grandi scismi d’oriente e d’occidente.

5. Linee di ermeneutica conciliare


Le definizioni dogmatiche dei primi concili ecumenici sono pur sempre formulazioni umane,
necessariamente inserite e condizionate dal loro involucro linguistico e dal loro ambiente storico-
teologico. Come per il linguaggio biblico, anche per quello dogmatico è necessaria una adeguata
metodologia ermeneutica.

A. Linguaggio e formula dogmatica


Linguisticamente un pronunciamento conciliare consiste in un tentativo ufficiale di trasposizione
del linguaggio biblico, piuttosto evocativo e narrativo, a quello tecnico della teologia, nello sforzo di
rispettare in enunciati e proposizioni un determinato messaggio di fede. Il compito
dell'interpretazione conciliare è quello di riscattare sia l'avvenimento che si narra nella formula, sia
il mistero che l'avvenimento riflette, evitando ulteriori emorragie di significato e senza restituendo
alla formula tutta la vitalità che essa aveva nel suo contesto. È importante la determinazione
dell'intenzione comunicativa del concilio, individuata nelle fasi che la formula da alla dimensione di
semplice informazione, o a quella di auto manifestazioni, o a quella più impegnativa di appello
all'adesione di fede.

B. Storicità e formula dogmatica


come la vita della Chiesa, anche i suoi pronunciamenti dogmatici sono inseriti nel continuo
processo di assimilazione della verità, che si attua con categorie diverse non solo
diacronicamente lungo la storia, ma anche sincronicamente nelle varie zone o scuole ecclesiali.
Questa storicità non indica limite o errore, bensì progresso nella conoscenza sempre più profonda
e consapevole del mistero. Ci sono, infatti, precisi criteri regolatori. Le definizioni devono essere
conformi all'intenzione di Cristo e alla lettera del kerygma neotestamentario; in secondo luogo
sono essere accettate vissute dall'intera comunità ecclesiale; infine devono essere in
corrispondenza e in conformità con la missione stessa della Chiesa.

C. Principi ermeneutici
Abbiamo tre principi ermeneutici in primo luogo una diligente analisi storico-filologica e letteraria
del testo, che permetta di attingere il significato, per quanto è possibile, esatto della formula nel
contesto linguistico del tempo. In secondo luogo una ricerca di eventuali generi letterari
riscontrabili nel testo, dell'ambiente vitale delle dichiarazioni stesse, e dalla storia della loro
redazione. Dall'applicazione di questi principi si ricava la formula cristologica che deve essere
vista non tanto in modo assoluto, ma in relazione alla dottrina deviante cioè l'eresia, alla quale si
riferisce e alla quale risponde in modo solenne definitivo. Perciò essa non può essere considerata
come unica e più perfetta espressione di quel determinato mistero, sia perché non era questa
l'intenzione espressa del concilio, sia perché la forza polemica tende ad accentuare alcuni
elementi a scapito di altri né, d'altra parte, si può pretendere che la formula, così inserita nel suo
contesto, dia una risposta diretta problematiche che esulavano completamente dall'orizzonte di
quella determinata mentalità epocale. Il terzo principio: l'interpretazione delle formule dogmatiche
deve tendere essenzialmente a cogliere in modo sempre più profondo la realtà del mistero divino
rivelato, sia con la comprensione del passato nella prospettiva del presente, sia con l'apertura del
passato del presente all'orizzonte della promessa futura. Il fine dell'itinerario ermeneutico non è
archeologico, ma vitale. Questa importante delicata fase interpretativa consta di due momenti.
Con il primo, il passato viene interrogato alla luce della presente situazione di fede ecclesiale, per
cui tale confronto evidenzia necessariamente aspetti nuovi originali della verità divina rivelata,
facendo emergere virtualità ancora inespresse il secondo, passato e presente nella prospettiva del
futuro, è una conseguenza, da una parte, della storicità dell'uomo, che sposta continuamente in
avanti i suoi orizzonti, protendendosi verso una comprensione futura sempre più adeguata nel
mistero divino rivelato. Non potendo esprimere una volta per sempre la ricchezza totale della
realtà divina, in essa solo tensionalmente indicata
più che compiutamente manifestata, essa resta radicalmente aperta al futuro. L'interpretazione del
dogma può essere completamente azzerata mediante una cristologia meta dogmatica, che punti
esclusivamente sul dato fondante della scrittura. Nella chiesa contemporanea il dato biblico deve
essere necessariamente eletto nell'ambito dell'intera tradizione ecclesiale, che è vita e
comprensione autentica di Cristo nello spirito.
NICEA I (325):
AFFERMAZIONE DELLA VERA
DIVINITA’ DI CRISTO

1. La controversia ariana
Verso il 320, ad Alessandria, il presbitero Mario, cominciò a diffondere un proprio modo di
concepire l'assoluta trascendenza di Dio e la relazione esistente tra il padre il figlio della trinità. Il
documento più antico sulla controversia ariana è una breve lettera a Eusebio di Nicomedia: " il
figlio non è ingenerato né in alcun modo è parte dell'ingenerato, ne deriva da un sostrato; ma per
volere decisione del padre è venuto all'esistenza prima dei tempi e dei secoli, pienamente Dio,
unigenito, inalterabile. E prima di essere stato sia generato sia creato sia definito sia fondato, non
esisteva. Infatti non era ingenerato. Veniamo perseguitati perché abbiamo detto: "il figlio ha
principio, mentre per questo siamo perseguitati perché abbiamo detto: deriva dal nulla". Così
abbiamo detto, in quanto non è né parte di Dio, ne deriva da un sostrato". Erario solo il padre
all'ingenerato. Il figlio è creato a un principio e deriva dal nulla. Sulla scia della tradizione
alessandrina e origini Ana, che considerava il padre, il figlio e lo spirito tre ipostasi, cioè tre realtà
individuali sussistenti, partecipanti dell'unica natura divina, ma distinte tra loro e subordinate l'una
all'altra, a vario accentua in modo esagerato tale subordinazionismo. Ignorando la di tra la
generazione eterna del figlio dal padre e la creazione nel tempo di tutte cose, Arion pose il figlio
dalla parte delle creature.

2. La convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea (325)


Costantino il grande convocò nel 325 il primo concilio ecumenico a Nicea. Il ruolo di Costantino e
degli altri imperatori nella convocazione, nella conduzione e nella recezione dei primi sette concili
ecumenici, tutti svoltisi in Oriente, non fu neutrale. Con Eusebio di cesarea si era delineata
un’originale teologia politica che vedeva un’unità provvidenziale tra cristianesimo e impero. La
divisione portata dal politeismo religioso e dalla poliarchia politica veniva considerata superata e
sanata dall’unità esistente tra cristianesimo e impero romano. L’imperatore, e concretamente
Costantino, riceve così una precisa connotazione politico-religiosa. In realtà egli non ebbe e non
esercitò tale pretesa dottrinale esorbitante. Il suo intervento in materia di fede è da considerarsi
piuttosto come una mediazione autorevole all’incontro, alla precisazione dottrinale, alla concordia.
Il suo scopo era quello di pacificare gli animi dei contendenti, soprattutto Ario, del suo vescovo
Alessandro e dei loro rispettivi sostenitori, consolidando così, mediante l’unità dottrinale, la
comunione ecclesiale. La pace della Chiesa rappresentava per l’imperatore la premessa
indispensabile per la prosperità dell’impero. Costantino è consapevole che in materia di fede la
norma suprema è costituita dalla tradizione ecclesiale. La convocazione del concilio sembra
pertanto rispondere alla sua personale convinzione di poter essere strumento di efficace
riconciliazione. I pronunciamenti conciliari niceni, in pratica il simbolo, sono quindi da considerarsi
come elaborati dai vescovi, sotto la guida dello Spirito Santo, alla ricerca della volontà di Dio. Il
loro criterio di verità e di validità non è la volontà estrinseca dell’imperatore, bensì a regola di fede
e la tradizione apostolica. Tali decisioni trovano a loro volta un vigile e potente custode e garante
nella persona dell’imperatore.
3. Il simbolo di Nicea
Non essendoci pervenuti gli atti dei primi due concili ecumenici, non si può operare una storia
della redazione del simbolo niceno. Resoconti e impressioni parziali sono contenuti in un
frammento di s. Eustazio di Antiochia, in alcuni scritti di s. Atanasio e nella lettera-relazione
mandata da Eusebio di Cesarea alla sua Chiesa. Non essendo attendibile l'ipotesi che i padri
abbiano creato una nuova formula di fede, è molto probabile, invece, che essi si siano serviti di
uno o più simboli-base, nei quali introdussero le opportune precisazioni antiariane. Resta ancora
aperto il problema del luogo di origine del simbolo o dei simboli usati. Il credo niceno, infatti, viene
considerato un'edizione riveduta di quello di Cesarea o di formule battesimali del gruppo di
Gerusalemme, o di formule del tipo Gerusalemme-Antiochia o, infine, dei due simboli di Cesarea e
di Gerusalemme.

Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente,14 creatore di tutte le cose visibili e in visibili. E in un
solo signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del
Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale al
Padre, per mezzo del quale sono state create tutte le cose in cielo e in terra. Egli per noi uomini e
per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo, ha patito ed è risorto il terzo
giorno, è risalito al cielo e verrà a giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.
Quelli che dicono: «C'è stato un tempo in cui non esisteva» o «Non esisteva prima di essere stato
generato» o «È stato creato dal nulla», o affermano che egli deriva da altra ipostasi o sostanza o
che il Figlio di Dio è o creato o mutevole o alterabile, tutti costoro condanna la chiesa cattolica e
apostolica.

4. Il suo contenuto teologico


Il simbolo niceno si articola in due parti nettamente distinte. La prima contiene il credo vero e
proprio. La seconda gli anatematismi di condanna. Nella prima parte le aggiunte antiariane più
significative sono: a) la clausola cioè dalla sostanza del Padre; b) la frase Dio vero da Dio vero,
generato, non creato, consustanziale al Padre.
1. Gesù Cristo viene confessato come Figlio di Dio, generato unigenito dal Padre. Il Figlio cioè
non è creato, ma generato dal Padre. Anzi è l’unigenito del Padre. Tutte le altre cose sono
create.
2. Cioè dalla sostanza del Padre. Stando ad Attanasio, il concilio avrebbe preferito usare una
frase biblica, come quella giovannea «da Dio». Rifacendosi, però, a 1Cor 8,6 e a 2Cor
5,18, gli ariani ribattevano che tutte le cose sono «da Dio». Per evitare fraintendimenti
interpretativi, si optò per una clausola esplicitamente antiariana.
3. Dio vero da Dio vero. È un’ulteriore aggiunta contro Ario, che riteneva vero Dio solo il
Padre, mentre il Figlio lo era o in senso figurato p per partecipazione di grazia.
4. Generato non creato. Il figlio è generato eternamente dal Padre. Sì che il Padre non è stato
mai altro che Padre e il Figlio non è mai stato altro che Figlio: «il Figlio e il Padre devono
allora essere coesistiti fin dall’eternità, con il Padre che eternamente generava il Figlio».
5. Consustanziale (homooùsios) al Padre. È l’affermazione che riassume il significato
perennemente antiariano di Nicea: il Figlio è vero Dio in quanto eternamente generato dal
Padre e a lui «consustanziale». Sono molteplici e non del tutto risolti i problemi concernenti
l’origine, il significato e la recezione del termine homooùsios. Il termine non è biblico, ma è
un aggetto greco derivante da oùsia, che a quel tempo manteneva ancora una plurità di
significati.
Usato in senso monarchiano da Paolo di Samosata nel III secolo, il termine fu esplicitamente
condannato dal sinodo di Antiochia del 268. Sembra che Paolo di Samosata affermasse che
Padre e Figlio formavano un unico essere indifferenziato.
Per Nicea la Trinità è concepita come interna alla divinità: si afferma l’unità originaria nell’essere
divino della Trinità immanente e della trinità economica. La triade ariana, invece, ha un’altra
struttura: in alto la monade del Padre, la divinità piena; al di fuori e più in basso vengono il Figlio e
lo Spirito Santo, entrambi appartenenti, pur con gradazioni diverse, all’ordine delle creature.
a) Il termine homooùsios pur non essendo biblico esprimeva adeguatamente il kerygma
apostolico della generazione eterna del Figlio dal Padre e della sua piena partecipazione
alla natura divina;
b) Pur essendo stato condannato ad Antiochia nel 268, non aveva lo stesso significato
«monarchiano» datogli da Paolo di Samosata;
c) Non veicolava una concezione materialistica della divinità: il Figlio non è parte del Padre,
essendo l'essenza divina naturalmente indivisibile e come tale pienamente posseduta
anche dal Figlio;

6. Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato…

5. Il significato di Nicea

A. IL DOGMA DI NICEA
COME INTERPRETAZIONE AUTENTICA DELLA SCRITTURA

I suoi interrogativi riguardano il significato di «Figlio» applicato a Cristo, il rapporto tra il Padre e il
Figlio, e il modo più adeguato di esprimere tale rapporto.
Dal momento che il linguaggio biblico non riusciva più a comunicare l'interpretazione autentica
dell'essere del Verbo, perché anche gli ariani ricorrevano alla Scrittura per le loro tesi erronee,
Nicea rinuncia alla ripetizione equivoca e adotta un nuovo linguaggio. Il nuovo linguaggio
dogmatico è prevalentemente speculativo. Esso tende a spostare l'accento dell'evento Cristo dalla
sua narrazione e proclamazione alla sua spiegazione. La perdita dell'immediatezza biblica viene,
tuttavia, compensata dalla precisione della nuova terminologia.

B. NICEA COME MOMENTO DI ESPRESSIONE «IN CONTESTO»


E «DEELLENIZZATA» DEL DOGMA CRISTOLOGICO
Il periodo che va dal Nuovo Testamento a Nicea è attraversato interamente dal dialogo tra la fede
cristiana e la cultura greca.
Nicea, data l'ambiguità del linguaggio tradizionale biblico, adottò il termine nuovo homooùsios.
Assegnò, poi, a questa parola il compito di trasmettere in modo inequivocabile la fede ecclesiale
nella divinità di Cristo «consustanziale» al Padre. Con tale scelta, infine, il concilio ripudiò lo
schema filosofico dell'emanazione e della gradualità nell'essere tra Dio e il mondo. Per Nicea tra
Dio e le creature non c'è un dio di secondo rango, un intermediario, un demiurgo.
Non fu la filosofia greca a ellenizzare Nicea, bensì Nicea a deellenizzare e superare
definitivamente i filosofi greci. Facendo ciò, Nicea non inventò un nuovo contenuto di fede.

C. L'ISTANZA SOTERIOLOGICA
Per Ario non era Cristo la vera fonte della salvezza, bensì solo ed esclusivamente il Padre. Cristo
per Aria è un personaggio straordinariamente buono e sapiente, che salva in quanto offre all'uomo
un modello perfetto di vita. Il vescovo Alessandro salvaguardò la sua fede biblica, secondo la
quale la rigenerazione dell'uomo operata dal battesimo presuppone in Cristo una potenza divina in
senso proprio. Solo in quanto figlio di Dio per natura, Cristo può rendere gli uomini figli di Dio per
adozione.
Atanasio: «Se il Figlio fosse creatura, l'uomo resterebbe puramente mortale, senza essere unito a
Dio […]. L'uomo non poteva essere divinizzato rimanendo unito a una creatura, se il Figlio non
fosse vero Dio».

COSTANTINOPOLI I (381)
AFFERMAZIONE DELLA COMPLETA
UMANITA’ DI CRISTO

1. La controversia apollinarista

A. La cristologia del «Lògos-sarx»


Sembra che la prima apparizione documentabile della cristologia del tipo logos-sarx sia avvenuta
nel sinodo di Antiochia del 268, quando alcuni véscov1 di area geografica siro-palestinese, ma di
formazione e mentalità origeniana, condannarono per monarchianismo adozionista il vescovo
locale Paolo di Samosata. Secondo questo schema cristologico, in Cristo il Logos divino
prenderebbe il posto dell'anima umana; per cui la natura umana di Gesù sarebbe priva della sua
anima umana.
Verso la metà del secolo IV fu Apollinare a spingere alle estreme conseguenze la cristologia del
logos-sarx.
La cristologia del l6gos-sarx di Apollinare è mossa da due preoccupazioni di fondo: l'affermazione
di una vera unità in Cristo e la salvaguardia della sua assoluta santità ontologica e morale.
Apollinare ritiene che il Logos divino assuma una natura umana, priva della sua anima razionale.
Sì che il Cristo risulta composto dal Logos divino e da un corpo umano. In quanto logos ensarkos
(Verbo incarnato) o «uomo celeste» il Cristo si serve dell'umanità, ridotta al solo corpo, come di
uno strumento inerte.

B. La «mia physis» di Cristo


Il Cristo, quindi, è un composto unitario, che trova nel Logos divino il suo unico principio di
decisione e di azione. Tutta l'azione vitale del Cristo dipende dal Logos.
2. Il primo concilio «ecumenico» di Costantinopoli (381)
L’imperatore Teodosio il Grande convocò nel 38.i' a Costantinopoli un concilio per i soli vescovi
orientali. Tra i circa centocinquanta partecipanti c'erano teologi eminenti come Gregorio di
Nazianzo, Gregorio di Nissa. Non essendoci pervenuti gli atti, attingiamo alcune informazioni agli
scritti degli storici Socrate, Sozomeno e Teodoreto.

3. Il simbolo «niceno-costantinopolitano»
Il simbolo poi si affermò come formula battesimale e fu introdotto nella liturgia eucaristica. Il testo
del simbolo di Costantinopoli apparve per la prima volta il 10 ottobre del 451, durante la seconda
sessione del concilio di Calcedonia, quando, su invito dei delegati imperiali, l'arcidiacono Aezio di
Costantinopoli lesse ad alta voce «la fede dei centocinquanta padri».
La soluzione fu fornita nel 1936 da J. Lebon. Nei secoli IV e V, le espressioni «fede di Nicea»,
«simbolo» o «ékthesis (=esposizione) dei 318 padri» più che a un preciso testo letterale, facevano
riferimento al contenuto teologico del simbolo e in particolare a espressioni-chiave della fede
nicena, come l’homooùsios.
In realtà non si dovrebbe parlare dei simboli di N e C, bensì del simbolo di N e C.38 Meglio
ancora, del simbolo niceno-costantinopolitano. Si tratta, infatti, della conferma sostanziale se non
letterale della fede nicena, mediante le necessarie e condivise precisazioni antiereticali, introdotte
in un simbolo di provata ortodossia.

Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutti gli esseri visibili
e invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di
tutti i tempi, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale al Padre, per
mezzo del quale sono state create tutte le cose. Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso
dal cielo, si è incarnato dallo Spirito santo e da Maria vergine e si è fatto uomo. E stato crocifisso
per noi sotto Ponzio Pilato, ha patito, è stato seppellito, è risorto il terzo giorno secondo le
Scritture, è risalito al cielo, siede alla destra del Padre, verrà di nuovo con gloria a giudicare i vivi
e i morti, e del suo regno non ci sarà fine. Crediamo nello Spirito santo, ch'è Signore e dà la vita,
procede dal Padre, è adorato e glorificato insieme con il Padre e il Figlio, ha parlato per mezzo dei
profeti. Crediamo in una sola chiesa, santa, cattolica, apostolica. Confessiamo un solo battesimo
in remissione dei peccati, attendiamo la risurrezione dei morti e la vita del tempo futuro. Amen

4. Il suo contenuto teologico


La prima aggiunta cristologica è la clausola: (si è incarnato) dallo Spirito Santo e da Maria vergine.

La «Consustanzialità» divina del Figlio col Padre, non più separata dall'affermazione della divinità
dello Spirito Santo.
EFESO (431)
AFFERMAZIONE DELL’UNITA’ DI CRISTO
A. La cristologia del «logos-anthropos»
All'inizio del secolo quinto in oriente si fronteggiano due diverse tradizioni cristologiche. Quella del
logos sarx, di ambiente alessandrino. Cirillo d'Alessandria. E quella del logos-anthropos, di
ambiente antiocheno che ha i suoi rappresentanti più noti in Diodoro di Tarso, Teodoro di
Mopsuestia, Giovanni Crisostomo, Teodoreto di Ciro, Nestorio.
Teodoro di Mopsuestia in Siria, la cui dottrina du condannata postuma nel 553. In questo testo
emergono alcune caratteristiche della cristologia del logos-anthropos, che può essere anche
chiamata la dottrina del logos assumens a dell'homo assumptus. In essa è innegabile la presenza
in Cristo di due soggetti distinti, il Logos è l'uomo, strettamente associati «per congiunzione».
In conclusione la cristologia del logos-anthropos di Teodoro di Mopsuestia intende affermare:
- La perfezione delle due nature in Cristo e soprattutto l’integrità e l’autonomia della sua
natura umana, pregiudicata da Apollinare.
- La distinzione della natura divina dalla natura umana
- Allo stesso tempo la loro unità in Cristo, espressa con la categoria della «congiunzione»

B. Nestorio e il rifiuto del titolo «Theotókos»

1. Nestorio e l’oikonomia
Nestorio (381-451?) diventò nel 428 patriarca di Costantinopoli. Egli si mostro intollerante non solo
con gli eretici, ma anche con il clero, i monaci, il popolo, sopprimendo feste, teatri, danze e canti.
In questo contesto si inserisce la sua predicazione pastorale, concentrata sull’oikonomia, e cioè
sul mistero di Cristo. La sua predicazione era rivolta contro gli ariani e gli apollinaristi, numerosi
nella capitale dell’impero, per i quali Cristo era solo un essere intermedio e non mediatore
soteriologico. Per Nestorio Cristo, vero Dio ma anche vero uomo, esercita la sua mediazione in
quanto, da uomo perfetto, porta a compimento la vocazione di Adamo. Più che della problematica
cristologica delle due nature, Nestorio è interessato all’aspetto soteriologico dell’opera di Cristo.

2. La disputa sul titolo «Theotókos»


La storiografia teologica considera il titolo Theotókos, come causa dello «scandalo ecumenico»
provocato da Nestorio, il quale avrebbe contestato a Maria la qualifica di Theotókos (genitrice di
Dio), ormai tradizionale nella pietà popolare, nella liturgia e nel linguaggio teologico.
Per risolvere la disputa, suggerì di stare alla parola del vangelo e di chiamare Maria «Madre di
Cristo» (Christotókos), usando così un termine che eliminava ogni ambiguità.
Nell’omelia pasquale del 429 e in una successiva circolare a tutti i monaci dell’Egitto, il patriarca di
Alessandria, Cirillo, difese Maria come Theotókos: se nostro Signore Gesù Cristo è Dio, per quale
motivo la santa Vergine non può essere chiamata Theotókos?
C. La cristologia di Nestorio
La cristologia di Nestorio conterrebbe le seguenti fasi:
 Affermazione dei «due figli» in Cristo, il Logos divino e l’uomo Gesù
 Riproposizione dell’adozionismo di Paolo di Samosata, con la considerazione di Gesù
«semplice uomo» e tempio della divinità;
 Presentazione dell’unione del Logos con l’uomo Gesù come puramente estrinseca, morale,
per grazia.
Nestorio negò sempre e recisamente la fondatezza di queste accuse. Egli era, invece,
preoccupato di salvaguardare l’integrità della natura umana, compromessa dall’apollinarismo, e di
rivendicare la pienezza, contro gli alessandrini che la riducevano a un mero strumento passivo del
Logos. Poi egli ribadì sia la distinzione delle proprietà delle due nature, sia la loro unità, rifiutando
l’accusa di predicare due Cristi. Presentò poi l’unità delle due nature in Cristo non col termine
henosis ma con quello synàpheia (congiunzione), per evitare il pericolo della «mescolanza».
Parlando anche di «unione per compiacenza» non intendeva essere «adozionista», bensì
sottolineare la volontarietà dell’unione del Logos con la sua natura umana. Egli adoperò un
linguaggio tipico della scuola antiochena: uomo assunto dal Logos, che vi abita come in un
tempio. Nestorio non poteva accettare la formula cirilliana della mìa physis (insufficiente). Ritenne
l’unità ontologica della persona di Cristo, che esternamente si manifestava con un solo pròsopon
in cui confluivano le due nature.

D. La cristologia di Cirillo
Il grande oppositore e accusatore di Nestorio fu Cirillo. Fedele alla cristologia alessandrina del
logos-sarx, Cirillo, pur affermando l’integrità della natura umana, dà però l’assoluta precedenza al
Logos divino, l’unico centro di azione in Cristo. Nonostante la sua completezza, la natura umana,
infatti resta uno strumento passivo.
Nella seconda lettera a Nestorio, Cirillo esclama: «Affermiamo così che sono diverse le nature che
si sono unite in vera unità, ma da ambedue è risultato un solo Cristo e Figlio, non perché a causa
dell'unità sia stata eliminata la differenza delle natura, ma piuttosto perché divinità e umanità,
riunite in unione indicibile e inenarrabile, hanno prodotto per noi il solo Signore e Cristo e Figlio».

Il concilio di Efeso
Su richiesta forse di Nestorio, l’imperatore d’Oriente Teodosio II convoca un concilio a Efeso, per
la pentecoste del 431, con lo scopo dichiarato di ridare pace e tranquillità alla Chiesa, turbata dalla
controversia tra Cirillo e Nestorio. Furono invitati tutti i metropoliti dell’impero e, fra gli altri, anche
papa Celestino (422-432).
Iniziò il 22 giugno 431 (dopo il ritardo di alcuni) e la seduta iniziale potremmo dividerla in cinque
momenti:
3. Nestorio decide di non partecipare alle riunioni. Giovenale di Gerusalemme invita a dare
pubblica lettura del Credo di Nicea (Costantinopoli I viene ignorato)
4. Lettura II lettera di Cirillo a Nestorio
5. Lettura risposta Nestorio a Cirillo = anatemizzata da tutti
6. Altre testimonianze
7. Solenne deposizione di Nestorio dalla dignità episcopale, 200 vescovi sottoscrivono
 VALORE DOGMATICO: appartiene tutto e solo alla seconda lettera di Cirillo a Nestorio
 Proclamazione solenne di Maria come Theotókos.

Il suo contenuto teologico

A. La formula di unione del 433


Questa «idea dogmatica» cirilliana, che Efeso fece propria, ebbe un suo completamento nella
cosiddetta formula di unione del 433, in cui si raggiunse un maggiore equilibrio tra la cristologia
alessandrina e quella antiochena. Essa costituisce un vero e proprio «credo di Efeso».
La formula tiene conto degli elementi essenziali sia della cristologia alessandrina (unità del
soggetto; uso del termine henosis e non synàpheia per indicare l’unità delle due nature;
attribuzione dell'incarnazione al Logos; affermazione di Maria come Theotókos), sia di quella
antiochena (affermazione delle due nature; loro unione in un solo pròsopon). Le due correnti di
pensiero trovano un modo unitario di esprimere la coscienza di fede ecclesiale mediante un
linguaggio non strettamente di scuola.

Il suo significato
SI trattava di scegliere tra due distinte interpretazioni di scuola: quella «unitaria» e alessandrina di
Cirillo, e quella «divisiva» e antiochena di Nestorio. Nella rima ci si chiedeva in che modo il Logos
assumeva vera umanità. La risposta era data dalla formula: unione mediante l’ipostasi. Nella
seconda ci si chiedeva in che modo l’uomo era stato assunto dal Logos. La risposta era che
l’inabitazione del Logos nell’uomo o assunzione dell’uomo da parte del Logos e congiunzione
delle due nature perfette in un solo pròsopon.
Imprecisione di linguaggio:
«Il termine greco di natura (phfsis) non è chiaramente distinto da quello di ipostasi, cioè di
soggetto sussistente concreto, perché ha mantenuto della sua etimologia (phyo, nascere) una
connotazione esistenziale. Per questo Cirillo pensa "una sola ipostasi" ma dice volentieri "una
sola natura", il che è inaccettabile dal suo avversario; e da parte sua Nestorio dice "due nature" e
pensa volentieri "due ipostasi”».
Un linguaggio così sarà precisato nel 451 a Calcedonia.

A. Mariologico
Se in Cristo l’unione tra la natura divina e la natura umana avviene secondo la sussistenza, è
legittimo affermare che il Verbo è realmente nato dalla vergine Maria. I due passi «mariologiici»
più significativi sono entrambi relativi alla generazione del Verbo secondo la carne. Maria viene
considerata «il principio causale della generazione umana del Verbo, poiché è nel suo utero che
Questi unisce a sé la natura ed è da Lei che nasce come primogenito». Nel secondo passo il titolo
di Theotókos viene ancora precisato:
Perciò hanno avuto il coraggio di definire Madre di Dio (Theotókos) la santa Vergine, non perché
la natura del Logos, cioè la sua divinità, abbia cominciato ad esistere dalla santa Vergine, ma in
quanto è stato generato da lei il santo corpo razionalmente animato, unitosi al quale secondo
l'ipostasi, diciamo che il Logos è stato generato secondo la carne».

Theotókos qui significa genitrice del Verbo incarnato». E «generare significa l'intero processo
genetico della concezione e del parto» Con la precisazione, però, che la divinità del Verbo non ha
avuto inizio nel seno di Maria, ma «ha preso da Lei quella natura umana completa che in Lei ha
unita a sé secondo l'ipostasi».
Il concilio le diede il suo fondamento biblico-dogmatico che è il mistero stesso del Verbo incarnato.

CALCEDONIA (451)
AFFERMAZIONE DELL’UNITA’
NELLA DISTINZIONE DELLE DUE NATURE
IN CRISTO

1. La crisi monofisita: da Efeso (431) a Efeso (449)


Prima contro Ario a Nicea nel 325 per riaffermare la vera identità di Gesù Cristo; poi l’integrità
della sua natura umana contro Apollinare a Costantinopoli nel 381; e la sua perfetta unità, contro
pericoli della cristologia «divisiva» di Nestorio a Efeso nel 431. Con la formula di unione del 433,
l’«idea dogmatica» di Efeso stentò ad affermarsi e richieste ulteriori dispute e precisazioni. Essa
veniva contestata per le espressioni cirilliane: unica natura; unione secondo l’ipostasi, entrambe di
stampo monofisita. La prima espressione poteva anche essere interpretata come l’affermazione di
una solo «essenza» o «natura» in Cristo; e la seconda come una unione nella «sostanza» o
«natura», e non nella «sussistenza» o «persona».
Eutiche si era spinto, nella difesa della mìa physis, ad affermare la non consustanzialità di Cristo
con noi, appellandosi a: «Professo che il nostro Signore è stato di due nature prima dell’unione,
ma dopo l’unione professo una sola natura». Egli fu condannato nel cosiddetto synodos
endemousa del 448.

2. Il Tomus ad Flavianum di papa Leone I


Costituisce il documento cristologico più importante che la chiesa latina abbia prodotto (fino ad ora
solo documenti orientali).
Leone I si schiera a favore di Flaviano, patriarca di Costantinopoli, contro Eutiche. Leone afferma
la dottrina della «doppia consustanzialità». Il Verbo possiede una duplice natura ed è
consustanziale al Padre e a noi. Poi rileva l’integrità delle due nature in Cristo e la loro confluenza
nell’unità della persona usando la formula: «Poiché dunque restano integre le proprietà di
ambedue le nature e sostanze che confluiscono in una sola persona, dalla maestà è stata assunta
l'umiltà»). Per Leone l'unità della persona è il fondamento delle sue affermazioni «difisite» La
persona non è un terzo elemento che risulta dall'unione delle nature, ma è lo stesso Verbo
preesistente del Padre, che fin dall'eternità esisteva come persona. Al momento dell'assunzione
della natura umana non emerge un nuovo soggetto, ma è la stessa persona del Verbo, che
assume la natura umana e diviene veramente uomo. Ln terzo luogo ripropone l'insegnamento
della commimicatio idiomatum, per cui, pur nella distinzione, ciò che appartiene alla divinità si può
predicare dell'umanità e viceversa: «Perciò in forza dell'unità di persona da intendere nell'una e
nell'altra natura si legge [nella Scrittura] che il Figlio dell'uomo è disceso dal cielo, mentre il Figlio
di Dio ha assunto la carne da quella vergine dalla quale è nato; e di contro si dice che è stato
crocifisso e sepolto il Figlio di Dio, mentre tutto ciò egli ha patito non nella divinità per cui
l'Unigenito è coeterno e consustanziale al Padre, ma nella debolezza della natura umana».

3. Il concilio di Calcedonia (451)


Convocato a Nicea e poi trasferitosi a Calcedonia fu il quarto concilio ecumenico che vide la
partecipazione al solito massiccia dei vescovi orientali.

L’HOROS CALCEDONESE

ANALISI LETTERARIA
La definizione è costituita da un solo lungo periodo, dipendente da «insegniamo tutti
concordemente a confessare». Si presenta strutturalmente articolato in tre parti: la prima offre la
sintesi dei concili precedenti; la seconda costituisce l’apporto originale del concilio; la terza
propone il suo essenziale aggancio alla Scrittura e alla tradizione. Anzi il riferimento finale al
«simbolo dei padri» fa inclusione con l’affermazione iniziale «Seguendo pertanto i suoi padri».

Analisi del testo-contenuto teologico


• Hena kai ton auton: è ripetuto varie volte, una sorta di ritornello, insistenza tematica che
attraversa tutta la definizione
• UNICO E IDENTICO = affermazione della sua unità e della sua identità
• De Halleux: sembra che la definizione calcedonese sia una composizione originale di un vero e
proprio autore (piuttosto che un mosaico di citazioni messe insieme da uno o più redattori)
• Fonti:
a. Seconda lettera di Cirillo a Nestorio
b. Lettera di Cirillo a Giovanni d’Antiochia
c. Tomus ad Flavianum di Leone
• Prima parte: revisione della formula di unione del 433
• Seconda parte: emendamento «difisita» della quinta sessione
• Preoccupazione tutta cirilliana dell’affermazione dell’unità in Cristo, armonicamente composta
con l’esigenza antiochena e occidentale dell’integrità e della distinzione della perfetta divinità e
umanità in lui.

 Seguendo pertanto i santi padri: partecipanti di Nicea, Costantinopoli e Efeso


 Insegniamo tutti concordemente a confessare: homologein = non solo informare, ma
appello autoritativo
 Unico e identico: TEMA CENTRALE (anche vv. 16; 23-24) = affermazione del mistero
dell’unità del soggetto in Cristo
 Vv. 5-15: Mistero della dualità in Cristo, con 4 affermazioni perfettamente bilanciate
(evidenti i contenuti antiariani e antiapollinaristi, così come le affermazioni difisite risuonano
del contributo antiocheno, come il richiamo costante all’unità del Cristo risuona la tradizione
alessandrina):
a) Perfezione della divinità e dell’umanità
b) Verità di essere Dio ed essere uomo (anima e corpo)
c) Doppia consustanzialità
d) Doppia nascita
 Per noi e per la nostra salvezza: contesto soteriologico di questa accurata esposizione
ontologica del mistero di Cristo
 Da Maria la Vergine Madre di Dio: consacrazione ufficiale da parte del IV Concilio
Ecumenico, del titolo efesino Theotokos.

SECONDA PARTE DELL’HOROS


Considerato il vertice calcedonese. Calcedonia distingue il significato tra i concetti physis e
hypostasis. I termini non vengono definiti, comunque se ne fa un uso diverso da prima: la formula
afferma che in Cristo l’unità del soggetto è da ricondurre all’unica hypostasis e all’unico prosopon,
mentre la duplicità delle sue perfezioni divine e umane alle sue due physis. Cristo, quindi, è
un’unica persona e un’unica ipostasi in due nature. Si supera in modo definitivo, con la distinzione
tra hypostasis e physis, l’equivocità della formula cirilliana ed efesina della mia physis.
In due nature: risposta chiara alla formula ambigua «da due nature» (Eutiche)
Senza confusione e mutamento, senza divisione e separazione: vs Eutiche e vs Nestorio
Non essendo stata eliminata la differenza delle nature per l’unione, ma piuttosto essendo
stato salvaguardato ciò che è proprio di entrambe le nature: le due nature, unite ma distinte,
mantengono integre tutte le loro perfezioni e proprietà
Ed essendo confluito in un’unica persona e un’unica ipostasi: prosopon = hypostasis. In
Cristo abbiamo due tipi di azioni, riconducibili a fonti distinte, la natura divina e la natura umana,
ma sempre convergenti verso un unico soggetto, il Verbo di Dio incarnato
Egli non è spartito o diviso in due persone; Unico e identico egli è Figlio e Unigenito, Dio Verbo e
Signore Gesù Cristo
TERZA PARTE DELL’HOROS
Secondo quanto dapprima i profeti [ci hanno detto] di Lui: richiamo all’AT
E il medesimo Gesù Cristo ci ha insegnato: affermazione esplicita della continuità tra kerygma
neotestamentario e formula dogmatica
E il simbolo dei padri ci ha trasmesso: in linea anche con i Concili precedenti

4. Il significato di Calcedonia

a) La formula calcedonese fu un momento interpretativo ufficiale della Chiesa in risposta a


precise provocazioni erronee e, in primo luogo, a Eutiche, il quale «favoleggiava», che
dopo l’incarnazione c’era una sola natura in Cristo, con l’assorbimento completo della
natura umana da parte del Verbo. Calcedonia riconfermò la realtà e la perfezione
dell’umanità assunta in Cristo, esprimendo che la persona di Cristo è il modo sommo e
insuperabile dell’unione di Dio con l’uomo.

b) L’horos calcedonese è intenzionalmente «parziale». Non esprime e non intese esprimere


tutto il mistero di Cristo nella completezza della sua realtà ontologica e soteriologica. Al
tempo di Calcedonia non era ancora così marcata la dicotomia tra ontologia e soteriologia.

RECEZIONE DI CALCEDONIA
Grande difensore fu sempre Leone Magno: Epistula 165 è il suo testamento cristologico dopo
Calcedonia

Abbozzo di teologia del concilio:


 Ispirazione dello Spirito Santo
 Unanimità dei vescovi presenti

RIASSUNTO FINALE
Schematizzando molto, si potrebbe dire che la teologia alessandrina, ponendo una sola ipostasi,
ne inferiva una sola natura (physis), e che la teologia nestoriana, affermando due nature, ne
deduceva anche due persone (prosopa). Superando queste due teologie e liberando da ogni
equivoco il vocabolario da esse adoperato, il dogma di Calcedonia afferma una persona o una
ipostasi in due nature: il Figlio di Dio è, egli stesso, figlio di Maria; il Verbo incarnato è insieme Dio
e uomo» (Camelot, 140).
COSTANTINOPOLI III (680)
AFFERMAZIONE DELLA VOLONTA UMANA
DI GESU’ CRISTO

1. Il «monotelismo bizantino»

A. Sergio di Costantinopoli
In Cristo unica energeia (operazione) = viene non dalle sue due nature, ma dalla sua unica
persona. Scrive nello psephos (=voto, del 663): «L’espressione «due operazioni» scandalizza
molti, in quanto non è stata pronunciata da neppure uno dei santi ed eletti maestri della Chiesa.
Ne deriverebbe infatti l’affermazione di due volontà che si oppongono l’una all’altra, quasi che il
Dio Logos voglia realizzare la passione redentrice e invece la sua umanità ostacoli e contrasti la
sua volontà, sì che di qui sarebbero introdotti in lui due che vogliono cose contrastanti, il che è
empio, infatti è impossibile che in un unico e medesimo soggetto due volontà contrarie sussistano
allo stesso tempo l’una accanto all’altra. La dottrina salutare dei santi padri insegna apertamente
che in nessuna occasione la sua carne razionalmente animata ha fatto sentire la sua inclinazione
naturale separatamente e per proprio impulso in contrasto con la decisione del Dio Logos unito a
lei secondo l’ipostasi, ma solo quando come e quanto ha voluto il Dio Logos».
Ipotesi delle due volontà al momento dell’agonia, per cui il rifiuto del calice viene visto come
espressione della sua volontà umana. Ma l’ipotesi di due volontà contrastanti nel Cristo
renderebbe impossibile la sua unità ipostatica da cui emerge la negazione delle due volontà e
quindi della volontà umana. Il rifiuto della Passione da dove viene allora? È solamente inclinazione
naturale della carne. Sergio, cioè, non riesce a vedere nel Cristo una volontà umana non contraria
alla volontà divina e, nel caso preciso dell’agonia, una volontà umana che intenda compiere la
passione redentrice. Per lui, il rifiuto della passione non è manifestazione di una volontà umana,
ma solo «inclinazione naturale» della carne.

B. La risposta di Papa Onorio


Sergio invia ad Onorio lo psephos, chiedendo di proibire l’uso dei termini «una o due energie» in
Cristo. Onorio risponde nel 634: «per cui professiamo un solo volere del Signore Gesù Cristo» (poi
verrà detta non eretica questa frase). Ma in realtà, un unico thelema (volere) non deve essere
visto come la negazione della sua volontà umana, bensì come la constatazione che in Cristo non
c’è opposizione nel volere tra umanità e la sua divinità, per cui in pratica si dà un unico volere. Il
papa, cioè, scarta l’ipotesi di un volere umano del Cristo che sia opposto al volere divino: per
questo gli attribuisce una sola volontà. Ma questa unità è da intendersi come conformità essendo
la natura umana del Figlio di Dio una natura sana, di conseguenza si è avuto in Cristo un unico
volere pratico, risultante dalla convergente concordia delle due volontà.
C. L’Ékthesis dell’imperatore Eraclio (638)
L’Ékthesis è una rielaborazione dello psephos di Sergio per tutto l’impero. In essa si vieta di
insegnare «una o due operazioni» in Cristo. Motivando il tutto con le motivazioni dello psephos.
«Perciò, seguendo in tutto e anche in questo i santi padri, affermiamo una sola volontà (hen
thelema) del signore nostro Gesù Cristo, il vero Dio, nel senso che in nessuna occasione la sua
carne razionalmente animata ha fatto sentire la sua inclinazione naturale e separatamente e per
proprio impulso in contrasto con la decisione del Dio Logos unito a lei secondo l’ipostasi, ma solo
quando come e quanto ha voluto il Dio Logos»

2. La dottrina di s. Massimo il Confessore


Egli matura una sua soluzione antimonotelita, con l’affermazione della volontà umana di Cristo. Il
fondamento ontologico della sua posizione è dato dalla distinzione tra natura e ipostasi sia a livello
trinitario, sia a livello cristologico.
L’unica persona del Cristo è le sue due nature. Egli scrive:
«Il Cristo […] possiede per natura ciò che è proprio a ciascuna natura: la volontà e
l’operazione divine così come la volontà e l’operazione umane, e non una sola con
l’esclusione di due operazioni naturali, né un’altra in più delle due che esistono per
natura, ciò che farebbe tre operazioni e tre volontà»

Come spiega Massimo il Getsemani:


Gesù nel Getsemani  Sergio interpretava che il rifiuto del calice era proveniente dalla volontà
umana di Gesù contraria alla volontà divina oppure come inclinazione naturale della carne.
Massimo sottolinea invece l’importanza del volere umano di Gesù nel compiere la passione:
mentre prima il rifiuto della passione veniva attribuito alla volontà umana e il fiat alla volontà
divina, Massimo riconduce l’accettazione della passione alla volontà umana del Cristo. Se nella
preghiera del Getsemani, i monoteliti vedono il fondamento per la negazione della volontà umana,
Massimo invece vi scorge l’atto supremo di questa volontà in Cristo, come assenso completo e
perfetto alla volontà divina, che è allo stesso tempo «sua» e del Padre.
Ciò che il Padre vuole è che il Figlio beva il calice della sua passione per salvarci. Questo risultato
il Figlio lo vuole per la stessa e unica volontà divina comune; inoltre lo vuole anche per la volontà
umana che gli è propria.
«è per questo che, secondo le due nature a partire dalle quali, nelle quali e
delle quali egli era l’ipostasi, egli ha operato naturalmente la nostra salvezza»
La formula mette in luce:
- L’unità del soggetto che vuole
- La dualità delle volontà
- L’unità del soggetto voluto
- «naturalmente» significa «con la natura divina e con la natura umana».
Per Massimo l’opera della salvezza non proviene solo dalla volontà divina, ma anche da quella
umana del Cristo. Il primo tempo della kenosi e dell’incarnazione procede dalla volontà divina,
comune alla tre persone divine. Il secondo tempo dell’obbedienza e della morte procede dalla
volontà umana propria del Figlio. Per cui obbedienza al Padre significa l’accordo delle due volontà
in Cristo non tanto tra se stesse e in se stesse, ma in relazione al Padre.
Anche in quanto uomo il Figlio obbedisce al Padre. L’obbedienza umana di Cristo al Padre non è
altro che il risvolto esistenziale umano del suo essere divino, ontologicamente sempre rivolto al
Padre in un sì eterno.

L’asse ontologico, riguardante l’essere di Gesù Cristo, l’affermazione cioè della sua persona e
delle sue due nature e volontà, è tutto in funzione dell’asse storico- soteriologico della redenzione
dell’uomo, attuata attraverso il mistero della sua passione e morte. Mistero accettato liberamente
e in somma obbedienza dalla volontà umana del Cristo.

3. L’horos di Costantinopoli III


Convocato da Costantino IV durò dal 7 novembre 680 al 16 settembre 681.
L’introducione sottolinea la continuità con i precedenti.
La prima riprende l’horos calcedonese;
la seconda parte:
«Ugualmente secondo l’insegnamento dei santi padri proclamiamo che ci sono in lui
due volontà naturali e due operazioni naturali senza divisione, senza mutamento,
senza partizione, senza confusione. E le due volontà naturali non sono opposte fra
loro – non sia mai! – come hanno detto gli empi eretici, ma la sua volontà umana
segue, e non contraddice né ostacola, anzi è sottomessa alla sua volontà divina e
onnipotente».
La terza parte:
«Glorifichiamo anche le due operazioni naturali senza separazione, senza
mutamento, senza partizione, sena confusione nello stesso signore Gesù Cristo, il
vero Dio nostro, cioè l’operazione divina e l’operazione umana, secondo Leone
dall’eloquio divino, che dice nel modo più chiaro: «Opera infatti ogni forma in
comunione con l’altra ciò che le è proprio, perché il Logos opera ciò ch’è proprio del
Logos e il corpo compie ciò ch’è proprio del corpo»

La quarta parte:
[…] sono due le sue nature che rifulgono nella sua unica ipostasi, nella quale non in
apparenza ma in verità egli ha fatto vedere sia i miracoli sia i patimenti durante tutto
il tempo della vita terrena […] glorifichiamo due volontà e operazioni naturali che
concorrono l’una con l’altra alla salvezza del genere umano.

Mettendo a frutto l’approfondimento di Massimo, il concilio rileva che in Gesù la volontà umana è
in perfetto accordo con quella divina, dal momento che come uomo Gesù accetta e compie la
volontà del Padre, che è anche sua in quanto Verbo.
In unico soggetto ci sono due operazioni naturali:
- I miracoli (natura divina)
- Le sofferenze (natura umana)
Lo scopo soteriologico è che insieme concorrono alla salvezza del genere umano.
L’INCARNAZIONE
COME EVENTO CRISTOLOGICO

1. Il fine dell’incarnazione
Due tesi:
- Tesi redentiva o soteriologica (Tommaso):
«È meglio dire che l’opera dell’incarnazione è stata disposta da Dio a rimedio del peccato,
di modo che, non esistendo il peccato, non ci sarebbe stata l’incarnazione». La potenza di
Dio non è però coartata entro questi termini: Dio infatti avrebbe potuto incarnarsi, anche se
non ci fosse stato il peccato».
- Tesi perfettiva o cristologica (Duns Scoto):
«Sembra molto irragionevole che Dio tralasci di fare un’opera così eccelsa [l’incarnazione]
a causa della buona condotta di Adamo, e cioè se Adamo non avesse peccato. E non si
può ammettere che un bene così elevato sia occasionato nelle creature unicamente a
causa di un bene minore».
L’evento Cristo ha in se stesso, indipendentemente dalla caduta iniziale, il compito di condurre
dinamicamente al suo compimento la storia dell’uomo e del cosmo.
«Libera scelta divina (fatta prima della creazione del mondo) di chiamare l’uomo ad
una comunione con lui in Cristo. Per questo la creazione porta con sé un’intenzione
soteriologica che incomincia a realizzarsi all’inizio della storia umana, la quale fin dal
primo momento è storia salvifica».

Teilhard de Chardin: graduale unificazione di tutte le cose in Cristo. Il suo Cristo Cosmico-
Universale, polo di attrazione di tutto il processo evolutivo e fine ultimo della storia e del mondo,
ha le sue radici in:
 Col 1,15-20 = primato cosmico di Cristo
 Ef 1,10 = ricapitolazione di tutto in Cristo
 Rm 8,17-23 = redenzione dell’universo, conseguenza della redenzione dell’uomo

Moltmann: sovrabbondanza di grazia: il Figlio con la sua incarnazione realizza la vera umanità, la
vera icona dell’uomo conforme al piano di Dio. Il Figlio di Dio si fa uomo «per portare a
compimento la creazione. Per cui il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo anche se il genere umano
fosse rimasto senza peccato».

Galot: «Dio non ha voluto né creazione né universo che nell’unità del Cristo. Da prima della
creazione, Dio premeditava un’umanità redenta dal Cristo, posta sotto il suo potere vivificante».
2. La preesistenza del Verbo
La preesistenza del Verbo, dato originale del NT, è evocata dalle seguenti
affermazioni:
1. Elezione e predestinazione eterna di Gesù (Eb 1,3-7,10s; 1Pt 1,20)
2. Missione del Figlio nel mondo (Gal 4,4; Rm 8,3s; 1Tm 3,16; Gv 3,16s)
3. Sua kenosi nell’incarnazione-morte-esaltazione (Fil 2,6-11)
4. Presenza e opera nascosta di Cristo nella storia del popolo eletto (1Cor 10,1-4; Gv 1,30;
8,14.58)
5. Mediazione nella creazione e nella conservazione del mondo (1Cor 8,6; Col1,15ss; Gv 1,1-
3; 17; Eb 1,2s)
6. Primato cosmico e universalità della redenzione come nuova creazione (Col1,15s; 1Cor
8,6; Eb 1,2s; Gv 1,2)
7. Esaltazione come sottomissione delle potestà malefiche (Fil 2,10; Col1,16.20)

Spesso contesto innico = autenticità, carattere dossologico e soteriologico

Due stati di esistenza del Cristo:


- PROTOLOGICO:
- STORICO
Il primo è punto di partenza del secondo e il secondo è la via per la conoscenza del primo.
L’essere del Logos dal Padre e presso il Padre è indissolubilmente associato alla sua funzione sia
nella prima creazione, sia nella nuova creazione. Per cui non solo tutto è stato creato nel Verbo
eterno, «ma tutto è stato creato «in Lui» in funzione di quella nuova creazione che si sarebbe
compiuta attraverso la sua incarnazione redentrice». Sia l’origine creaturale dell’uomo, sia la sua
redenzione, sia il suo pieno compimento si innestano su questa parola di amore eterna e
personale del Padre.
La nascita (generazione) eterna del Figlio non solo è il fondamento della sua nascita storica, ma
anche la radice della prima creazione e della nuova creazione. Per questo l’uomo è creatura
«logocentrica» e «verbificata», perché porta in sé l’impronta ontologica del Verbo.
3. La coscienza di Gesù Cristo
Chiariamo subito che non parliamo qui di coscienza divina di Gesù, ma solo della sua coscienza
umana. E per «coscienza umana» intendiamo la «conoscenza interiore psicologica che una
persona ha di se stessa». Nei Vangeli si possono attingere solo le manifestazioni della coscienza·
umana di Gesù Cristo. Si evita qui l'uso del termine «coscienza divina» per indicare la «coscienza
umana che Gesù aveva di essere Figlio di Dio». Anche in questo caso, infatti, si tratta di
«coscienza umana» di Gesù.

A. La coscienza filiale di Gesù


L'esistenza terrena di Gesù Cristo manifesta anzitutto la coscienza che egli aveva di essere in
relazione filiale col Padre. Gesù fu cosciente di essere il Figlio del Padre, di essere· l'inviato del
Padre, con un potere simile a quello del Padre. L'autorità di Gesù è quella propria di Dio, dal
momento che si presenta come il nuovo legislatore, al di sopra di tutti i profeti e i re.
Attraverso la sua coscienza umana, Gesù manifesta quindi la sua relazione unica con Dio, suo
Padre. Questa sua coscienza filiale non è che l'espressione psicologica della sua figliolanza divina
dal Padre. In Gesù si dà una certezza tranquilla di questa sua identità.

B. La coscienza messianica di Gesù


Gesù ha una sua intenzionalità salvifica. Egli è cosciente di essere il salvatore unico e definitivo.
Tutta la sua esistenza terrena testimonia questa sua «coscienza messianica». Essa si manifesta
nell'annuncio del regno già presente nella sua persona, nella sua predicazione, nei suoi
atteggiamenti, nelle sue azioni potenti, nella sua passione e morte, nella sua risurrezione.
Sono quindi due i contenuti essenziali della coscienza umana di Gesù: la sua coscienza «filiale»
nei confronti di Dio come Padre, e la sua coscienza «messianica» in relazione alla salvezza
dell'umanità. La prima fonda la seconda e quest'ultima presuppone la prima. È chiaro che si tratta
dell'unica coscienza umana di Gesù Cristo, il cui duplice contenuto manifesta la sua origine divina,
in quanto inviato dal Padre per manifestare le sue parole e adempierne la volontà salvifica.

C. Il soggetto della coscienza umana di Gesù

1. L’ipotesi dell’«io» umano accanto all’«Io» divino


E l'«Io» divino del Figlio ad essere il soggetto degli atti psichici della sua natura umana assunta. È
l'«lo» che riassume ed esprime l'unicità personale di Gesù. E nell' «Io» che si coglie la persona
nella sua indeducibile originalità e distinzione dalla natura. Pertanto in Cristo è l' «Io» personale
divino il soggetto degli atti psichici della sua natura umana.
Attribuendo un «io» umano alla sua natura umana, si sconvolgerebbe tale ontologia. In lui, quindi,
pur restando la natura umana principio naturale dell'attività umana, è la persona del Verbo a
costituire il principio personale dell'attività umana. È quindi l'unico «Io» personale del Verbo ad
essere anche soggetto dell'attività psicologia umana.

2. Il dato biblico sull’unico «Io» di Cristo


È L’unico «Io» personale del Verbo ad essere anche soggetto dell’attività psicologica umana:
«Secondo l’ontologia di Cristo, non ci può essere che un «io» nella sua psicologia: l’«io» del Figlio
di Dio. Dobbiamo escludere un secondo io, un secondo soggetto dell’attività cosciente e libera».
IO SONO (cfr. p. 471-472): manifestazione dell’IO DIVINO di Gesù attraverso la sua coscienza
umana.
Anche se immerso nel sepolcro della temporalità, l’«IO» DIVINO personale di Gesù si manifesta,
attraverso la coscienza filiale e messianica, in tutta la sua misteriosa decisività, inaugurando così
una nuova era della storia, quella interamente dipendente da lui e dalla sua persona.

4. La scienza di Gesù Cristo

A. Una pluralità di interpretazioni


Si è concordi nell’ammettere in lui una scienza sperimentale, acquisita, non onnicomprensiva, ma
limitata a quelle conoscenze (lingua, luoghi, storia, religiosità di Israele) necessarie e utili alla sua
esistenza autenticamente umana nel concreto contesto socio-culturale della Palestina del I secolo.
- Gesù cresceva in sapienza, età e grazia (Lc 2,52)
- Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 5,8)
L’apprendimento di Gesù non solo è autentico, ma è anche intrinsecamente salvifico. Le opinioni
invece divergono a proposito del MODO della conoscenza umana di Gesù e dell’origine di quei
dati non sperimentali, acquisiti non dall’esterno, ma dall’interno, anzi «dall’alto».
- La coscienza filiale e messianica, il contenuto della rivelazione, il piano della redenzione non
sono certo frutto della sua esperienza storica.
- È la sua profonda coscienza filiale a costituire la fonte e l’orizzonte di sviluppo della sua storia
terrena. Questo fin dall’inizio della sua VITA COSCIENTE. Gesù fanciullo, infatti, afferma: Perché
mi cercavate? Io devo occuparmi delle cose del Padre mio.
3 principali OPINIONI:
- La dottrina della triplice scienza umana (Tommaso):
Questa dottrina ammette nel Gesù prepasquale un triplice modo di conoscenza o una
triplice scienza umana. A proposito della scienza sperimentale, si precisa che essa viene
acquisita attraverso l'esperienza concreta. Essa è limitata e in progresso.
Non si tratta quindi di una «onniscienza sperimentale», ma. Di una scienza elaborata a
partire dall'esperienza del Gesù storico e commisurata alla cultura soprattutto religiosa del
suo ambiente. Trattandosi di un processo astrattivo, si ha un'autentica elaborazione
concettuale dell'esperienza esterna, che dà quindi adito al progresso e alla novità. Questa
scienza umana di Gesù provoca in lui quel suo caratteristico senso di meraviglia, di
scoperta e di spontaneità, che i Vangeli non poche volte testimoniano. Gesù si meraviglia di
fronte alla fede del centurione di Cafarnao (Mt 8,10; Le 7,9) e si stupisce di fronte
all'incredulità degli abitanti di Nazaret (Mc 6,6). Vedendo piangere Maria, la sorella di
Lazzaro; si commuove profondamente, si turba e scoppia a piangere (Gv 11,33). Al
Getsemani, invece, si impaurisce (Mc 14,33).
Si ammette poi in Gesù un secondo tipo di conoscenza umana; la scienza infusa.
Essa non deriva dall'esperienza esterna, ma viene comunicata alla sua intelligenza umana
direttamente dall'alto - così come avviene per la conoscenza degli angeli-, mediante
l'acquisizione di specie intelligibili. Diversamente dalla visione beatifica, che è immediata,
questa scienza infusa è concettuale.
La scienza dei beati o scienza di visione o visione beata o beatifica è la visione
immediata e perfettissima di Dio, che possiedono i beati in cielo. Si tratta di una
conoscenza sempre in atto e beatificante. Per gli uomini questa scienza di visione è la
partecipazione alla conoscenza delle persone divine. La conoscenza umana che Gesù ha
della propria divinità e del proprio essere filiale mediante la visione beatifica è la
ripercussione metafisicamente necessaria della presenza del Verbo nella natura umana da
lui assunta. È il risvolto psicologico della sua ontologia.

- Visione immediata non beatifica (Rahner)


- Unica scienza umana in Cristo (Galot)

1. Il dato biblico
1. Signore, tu sai tutto: conoscenza dall’alto in Gesù nei confronti del Padre e della sua
missione. Egli sa che l’ora è giunta, sa che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era
venuto da Dio e a Dio ritornava. Sulla croce esclama: tutto è compiuto. Questo drammatico
anticipo del tempo è indizio di una misteriosa ma reale padronanza che Gesù aveva della
sua vicenda storica, vista e letta interamente nella mente del Padre.
2. Il Figlio lo ha rivelato: Amen, Amen: in verità in verità vi dico. Questa espressione traduce la
certezza divina che egli ha dell’assoluta verità delle sue dichiarazioni, dal momento che
invece di muoversi nell’universo della fede egli ha l’evidenza di ciò che dice. Gesù è quindi
in persona l’Amen, il Testimone fedele e verace, l’affermazione ultima e definitiva del
Padre.
3. Conoscenza mutua tra il Padre e Figlio: Mt 11,27 = nessuno conosce il Padre se non il
Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.
4. La trasfigurazione: come luce egli manifesta il mistero di Dio. La luce che è Gesù non è
quella profetica ma quella stessa di Dio, che si manifesta anche nella sua umanità. La
categoria teologica della visione beatifica nel Cristo prepasquale non sembra quindi del
tutto inadeguata per la comprensione della coscienza che Gesù ha di essere nel Padre.

2. Cristo «viatore» e la visione beatifica


1. Gesù Sapienza: L’anima di Cristo è stata pienamente cosciente della sua assunzione nella
divinità? Fulgenzio da Ruspe (468-533): «Possiamo chiaramente affermare che l’anima di
Cristo ha piena conoscenza della sua divinità; non so però se dovremmo dire che essa
conosce la divinità come Dio conosce se stesso, o non dire invece che essa conosce tutto
quanto sa Dio, ma non come Dio sa».
2. V.B. e umanità di Gesù: La kenosi non cancella la visione del Padre, ma coesiste con essa,
dandole il suo valore redentivo. Per cui Cristo è allo stesso tempo «comprensore» e
«viatore», così come è simultaneamente «rivelatore» e servo, sacerdote e vittima, Figlio di
Dio e figlio dell’uomo. Egli è psicologicamente nel seno misericordioso del Padre e allo
stesso tempo nelle mani spietate dell’umanità peccatrice. Questa ineffabile compresenza
più che attenuare la sofferenza e il dolore, li rende più acuti perché maggiormente sentiti
nella loro profonda carica di lontananza dalla carità di Dio e di immersione nell’empietà del
peccato dell’uomo. Per cui il dolore in lui è tanto più profondo, quanto più intima e
beatificante è la sua unione con il Padre.
La visione beatifica di Gesù non è allora evasione dal dolore, ma immersione più convinta nella
carità che sostiene e feconda la sua passione e morte.

5. Aspetti dell’umanità di Gesù Cristo

A. Ignoranza in Gesù Cristo


Nel pensiero di Gesù l’importanza assoluta è data alla centralità del suo evento pasquale, che
segna la vittoria decisiva di Dio e il salto qualitativo dell’umanità salvata. È a partire da questo
evento che tutta la storia sarà giudicata. In questo contesto assume minore rilievo il tempo della
fine del mondo. Essa avverrà dopo la predicazione del vangelo a tutto il mondo. È forse questo il
significato della misteriosa «non conoscenza» o «non rivelazione» dell’ora della parusia da parte
di Gesù.

B. Gesù ebbe fede?


Gesù non ha la fede, ma suscita la fede. Se la nostra fede cristiana è fede in Gesù Cristo, Gesù
non ha potuto avere la fede: il Cristo non può credere in sé stesso. Se la fede è fondamento delle
cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono (Eb 11,1), Cristo non ha avuto questa
fede, dal momento che egli vede il Padre e vede in lui il misterioso piano di redenzione e di
salvezza. Ma anche Cristo si abbandona alle braccia del Padre, è il credere in Deum (fede come
consegna totale a Dio). Quest’ultimo aspetto, anche nella visione piena e beatificante di Dio, non
può venir meno, neanche nell’umanità glorificata di Cristo. Consiste in questo la sua eterna liturgia
celeste

C. Impeccabilità e libertà in Gesù


Cristo non può peccare, in virtù dell’unione ipostatica. Gesù è pienamente libero, offre liberamente
soprattutto la vita. Gesù pienamente libero, offre liberamente soprattutto la vita. La vera
definizione di libertà è autodeterminare la propria azione. È questa la libertà di Dio e di Cristo,
quella cioè di determinare autonomamente la propria azione e la propria scelta del bene. Nelle
tentazioni Gesù appare sommamente libero e scegliendo Dio enuncia il principio della sua libertà.
Poiché era impeccabile, Cristo aveva una facoltà più completa di determinarsi lui stesso nella sua
adesione alla volontà del Padre.

D. Il celibato
Gesù scelse la verginità non in nome di un ideale o come mezzo per realizzare qualcosa: egli
scelse semplicemente di essere se stesso.
Chi compie la volontà di Dio è mio fratello, sorella e madre: Gesù crea una nuova realtà, proclama
e crea una parentela non da un’unione carnale, ma dall’impegno nel compiere la volontà di Dio. Si
tratta di una nuova nascita spirituale. Ed è questo legame originale che il Cristo vergine instaura
con la sua incarnazione e con la sua obbedienza fino alla morte di croce alla volontà del Padre.
Valore escatologico: segno dell’autentico destino dell’uomo. Nella risurrezione il profondo anelito
alla relazione interpersonale intima e gratificante con gli altri - fine della sessualità umana – è
pienissimamente placato da Dio. Di qui viene ulteriormente illuminata la piena libertà di Gesù nei
confronti delle donne, il suo comportamento sereno, del tutto privo di tratti misogini, senza
atmosfere equivoche, ma in una limpidezza di relazione.
Cristo Sposo: richiamo al mistero della passione e morte. Il culmine della missione e del celibato
per il regno è il sacrificio, in cui si consuma la sua perfetta umanità e verginità. Il celibato di Gesù
trova il suo profondo significato.

L’INCARNAZIONE COME VENTO


SOTERIOLGICO

1. La passione e morte di Gesù


La croce è l’ineliminabile autocritica interna al cristianesimo. È il suo segno di contraddizione. Per
questo essa viene anche considerata come il criterio ultimo di ogni cristologia, secondo il detto di
Lutero: «Crux probat omnia». La risurrezione, che rappresenta il traguardo ultimo
dell’incarnazione, è la risurrezione del Crocifisso.

A. Realtà storica della morte di Gesù


Fonti cristiane e non cristiane (G. Flavio, Tacito,Talmud e Toledoth Jeshu).
Con l’esecuzione capitale ad opera delle autorità romane, Gesù entrò nella Weltgeschichte (=
storia universale): senza la sua morte Gesù non sarebbe diventato un personaggio storico.
Morte: evento STORICO ACCERTATO. Non è un mito.

B. Le motivazione della sua condanna a morte


Ci sono motivazioni:
- Religiose
- Politiche
- Soterioriologiche = il Figlio dell’Uomo doveva essere ucciso, per la salvezza delle
moltitudini
Politicamente Gesù fu considerato un ribelle dall’autorità imperiale romana, religiosamente un
bestemmiatore. Entrambe le prospettive non colgono la sua reale identità: il significato ultimo e
teologicamente vero della morte risiede nel PIANO PROVVIDENZIALE DI DIO.
C. Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture (Cor)
Natale è intrinsecamente orientato allapasqua (Lc 2,35)
Per noi uomini e per la nostra salvezza…si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi.
Gesù stesso fu conscio di questo approdo doloroso e salvifico della sua «pro-esistenza»:
consapevolezza
 Sia per contenuto
 Sia per significato della missione
 Sia per la MODALITÀ = «Il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli
scribi, condanneranno a morte […] e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risorgerà» (Mc
10,33-34…)
La libertà con la quale egli va incontro alla morte gli deriva dal desiderio di fare la volontà del
Padre. È infatti il Padre che consegna il Figlio per amore, e anche l’obbedienza di Gesù al Padre è
espressione di amore: «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il
Padre mi ha comandato» Gv 14,31.
La vera motivazione del sacrificio cruento della croce è l’amore del Padre e del Figlio per la
salvezza dell’umanità. «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha
mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta
l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati»

D. Interpretazioni teologiche della morte di Gesù

1. la croce evento di «carità» divina


Non è l’ira punitiva di Dio che si manifesta nella morte in croce di Gesù, ma la sua carità senza
limiti, che perdona e riconcilia a sé tutto il mondo. L’agonia e la morte in croce rappresentano due
significative circostanze di intimità filiale col Padre. «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»
«non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Luca fa iniziare e terminare le
parole del Gesù storico così. Addirittura potremmo dire che l’intera teologia neotestamentaria è
l’ispirata meditazione della morte in croce di Gesù, come manifestazione dell’amore e della
potenza di Dio.

2. La morte di Gesù come redenzione


Dio è il riscattatore del suo popolo, il suo riscatto è un atto di amore.
3. La morte di Gesù come «espiazione»
Nella lettera agli Ebrei si fa interpretazione cultuale. Gesù offre sé stesso come sacrificio unico ed
eterno: «Entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il
proprio sangue» Eb 9,11-12. Il sacerdozio di Gesù inizia con l’incarnazione e termina con
l’immolazione sulla croce. Vittima di espiazione per i nostri peccati = vero Agnello di Dio.
4. La dottrina Anselmiana della «soddisfazione»
L’uomo da solo non può compierla. Solo Dio può compiere un’adeguata soddisfazione, anche se è
l’uomo, però, che dovrebbe offrirla. È necessario che sia un Dio-uomo a compierla.

E. La morte di Gesù come riconciliazione perfetta dell’uomo con Dio


Il peccato è una ferita alla carità di Dio (Mc 3,5; Ef 4,30). Le ripercussioni di questa ferita in Dio,
però, non sono di tipo umano. Il peccato non provoca una reazione di amor proprio o di sterile
dolore, ma paradossalmente una maggiore disponibilità all’accoglienza misericordiosa. La ferita è
reale, ma è una ferita che manifesta unicamente il dolore e la passione di Dio per l’uomo, che col
peccato si perde, danneggiando se stesso. È questa la grande sofferenza che il peccato dell’uomo
causa a Dio.
Valore unico e universale della morte di Cristo «per noi»: perché il SUO sacrificio redentore ripara
i NOSTRI peccati?
 Dottrina della sostituzione (capro espiatorio)
 Ipotesi della solidarietà
 Rappresentanza universale dell’unico sacrificio redentore del Cristo: compiuto una volta per
sempre, è salvifico per tutti. Il mistero della volontà del Padre è quello di ricapitolare in
Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1,10). Il Figlio infatti è il
modello, l’archetipo e la causa esemplare dell’umanità.
Non è tanto lui che è diventato come noi uomini, siamo noi a essere stati creati e modellati su di
lui: Egli è il primogenito di ogni creatura; in lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e
quelle sulla terra (Col 1,15-16). FIGLIO FINE E COMPIMENTO DELL’UNIVERSO CREATO.
Pur essendo il suo gesto sacrificale un gesto umano individuale, il suo raggio di azione e la sua
influenza è infinita e universale, perché è il gesto sacrificale e redentore della persona divina del
Verbo. Cristo, in quanto ricapitolatole dell’umanità, rappresenta gli uomini di tutti i tempi.

2. La risurrezione
La risurrezione non è la conseguenza della fede dei discepoli, ma la CAUSA
 Erano tristi
 Scettici, increduli, duri di cuore
 Dubbiosi
 Spaventati
RISURREZIONE: FATTO DALL’ALTO, che ha RISVOLTI STORICI DECISIVI per la prima
comunità Cristiana
Non è realtà create dai discepoli per frode o per allucinazione o per conversione post-pasquale
agli insegnamenti del Cristo.
FATTO STORICO: in quanto solidamente e conformemente attestato dalle fonti neotestamentarie
È un AVVENIMENTO VERAMENTE ACCADUTO: anche se si tratta di un evento essenzialmente
trascendente e metastorico, essa mantiene un solido aggancio con la storia.
È un atto Gratuito  LASCIARSI VEDERE
FEDE DEI DISCEPOLI su un duplice fatto:
 Apparizioni del Risorto
 Tomba vuota

F. Cristo è risuscitato il terzo giorno secondo le scritture e apparve (1Cor)


Nella prima lettera ai Corinzi, redatta a poco più di vent'anni dalla morte di Gesù, s. Paolo
parlando del «vangelo» (lCor 15,1) da lui trasmesso ai fedeli di quella città, afferma:
I. Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch'io ho ricevuto: che cioè
II. Cristo MORÌ (apéthanen) per i nostri peccati secondo le Scritture,
III. FU SEPOLTO (etaphe)
IV. ED È RISUSCITATO (eg~gertai) il terzo giorno secondo le Scritture
V. e che APPARVE ( ophthe) a Cefa e quindi ai dodici.
VI. In seguito APPARVE a più di cinquecento fratelli in una sola volta.
VII. Inoltre APPARVE a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli.
VIII. Ultimo fra tutti APPARVE anche a me, come a un aborto»

La visione del risorto è DONO del risorto stesso.


 Cefa
 Dodici
 Più di 500 fratelli
 Giacomo
 Tutti gli apostoli
 Paolo

G. Le apparizioni nella tradizione evangelica


Privati:
- Donne
- Discepoli di Emmaus
Ufficiali:
- Apparizioni e saluto di Gesù
- Reazione di incredulità da parte degli apostoli
- Rimprovero di Gesù
- Rivelazione e prova delle realtà della propria identità
- Conferimento della missione
H. Il significato teologico della risurrezione
La risurrezione, cioè, fa scaturire dall' «in sé» dell'evento un «per noi» salvifico, con indicazioni
positive di questo suo innegabile risvolto «verso il basso».

Qual è l’«in sé» e il «per noi» dell’evento della risurrezione?


 ATTO ESCATOLOGICO DELLA POTENZA DI DIO: nel Cristo risorto l’éschaton è già
presente; esaltazione del Figlio di Dio, come conferma decisiva della sua persona e della
sua opera
 REALIZZAZIONE DELLA NUOVA UMANITÀ: Cristo è l’uomo nuovo, seme di nuova
umanità che, immesso nella vecchia umanità, la libera dalla schiavitù del peccato, della
legge e della morte
Campeggia, al centro del quadro, la figura del Cristo glorioso, così come emerge dall'aureola
splendente, dagli abiti luminosi, e dallo sfondo d'oro, che dà subito un'atmosfera di luce pasquale.
Il Cristo regge con la mano destra la croce, con la quale soggioga il collo di un vecchio, steso a
terra, immobilizzato da catene e calpestato anche dal piede destro di Gesù. Il vecchio simboleggia
la morte, che, incatenata, non può più nuocere all'uomo: la morte è stata vinta dalla croce e dalla
risurrezione di Gesù. Questa sconfitta è resa ancora più evidente dalle. macerie del regno dei
morti, il cui edificio con i relativi strumenti di tortura e di punizione è stato distrutto dalla potenza
vitale di Cristo, che icasticamente calpesta le porte abbattute dell'ade. La morte in tal modo è vinta
e può straripare Cristo che è vita e risurrezione.
All'interno di questo movimento di annientamento della morte; Gesù risorto, sempre tenendo la
croce con la mano destra - quasi ad attingere al suo sacrificio redentore la potenza della sua
vittoria sulla morte, con la sinistra solleva energicamente la mano di un altro vegliardo, che
raffigura Adamo, a sua volta rappresentante di tutto il genere umano, non solo per la sua natura
umana, ma anche per la sua condizione di morto.
È l'incontro dei due Adami: ormai essi non sono solo coinvolti nella kénosi dell'incarnazione e della
morte, ma nella gloria della risurrezione. Il Cristo «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15),
«irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3), s'incontra e salva l'umanità
intera, ricreando in Adamo la sua originale «immagine» e «somiglianza» (Gen 1,27) con Dio. La
potenza redentrice della croce non si esaurisce nella risurrezione di Cristo e nella sua personale
vittoria sulla morte, ma raggiunge in un perfetto circolo soteriologico anche la salvezza dell'uomo.
Preso in questa corrente salvifica, Adamo viene letteralmente tirato fuori dal sepolcro. In questa
orbita di risurrezione e di vita in Cristo è ancora da notare come nella mano del Risorto, che
stringe quella di Adamo, possiamo leggere la grande misericordia di Dio: la mano dell'uomo, che
si era staccata col peccato dalla mano creatrice di Dio, viene nuovamente riconquistata a Dio dalla
mano ri-creatrice di Cristo.
Questo flusso di risurrezione interessa anche Eva e gli altri giusti dell’AT che si intravvedono sullo
sfondo a sinistra: sono visibili i re e profeti Davide e Salomone. A destra appare Giovanni Battista
che secondo il vangelo apocrifo di Nicodemo, dopo la sua decollazione avrebbe predicato anche
nell’Ade la futura liberazione apportata da Cristo (per questo ha m mano un rotolo, simbolo
dell'annuncio evangelico).113
Per la tradizione iconografica e teologica orientale, insomma, la risurrezione di Gesù è la
celebrazione dell'incontro salvifico dell'umanità intera col nuovo Adamo, è la festa della liberazione
dell'uomo. La risurrezione di Gesù è anche la risurrezione dell'umanità.

3. L’ascensione

A. È risalito al cielo
Due precisazioni:
 La vita eterna di Dio non significa inerte «atemporalità», senza alcun influsso nel tempo.
Dio non può rimanere prigioniero della sua eternità. Per questo la vita divina del Cristo
risorto deve essere vista come «la forza creatrice e sostentatrice d’ogni tempo, la
componente che racchiude nel suo perenne ed unico presente il fluire del tempo,
rendendone possibile l’esistenza
 Il cielo di cui si parla nell’ascensione non è un luogo fisico: è la vita stessa, personale e
realissima della comunione trinitaria.

B. Il fondamento biblico
Estrema concisione teologica; precisi richiami all’assunzione di Elia (2Re 2,11) e
all’intronizzazione messianica (Sal 110,1). L’assunzione viene vista come l’ingresso definitivo di
Gesù con la sua umanità nell’onnipotenza divina. Il «sedere alla destra» è immagine
veterotestamentaria che indica la partecipazione del Cristo risorto alla potenza regale di Dio.
o LUCA: la sera stessa della risurrezione, dopo l’apparizione di Gesù nel cenacolo
o GIOVANNI: mattino della risurrezione: va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre
mio
o e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro
o ATTI: 40 giorni dopo la risurrezione

C. Significato teologico
Nessun evangelista dubita della realtà dell’evento: Luca lo presenta due volte in maniera diversa
per mettere in rilievo soprattutto il suo contenuto teologico:
INGRESSO DI GESÙ NELLA SUA DIMENSIONE DIVINA CON LA SUA UMANITÀ RISORTA:
l’ascensione è il ritorno al Padre. Fatto trascendente, non è un cammino visibile.
Il fatto dell’ascensione, collocandosi nell’ambito di una apparizione del Cristo risorto, è da
interpretare in riferimento alla risurrezione. Per questo, mentre la glorificazione di Cristo è un
evento unico trascendente e pienissimo, la sua manifestazione nel tempo è invece plurima. Pur
trattandosi della stessa complessa realtà, le sue espressioni storiche – apparizioni, ascensione,
pentecoste – sono diverse, parziali e complementari.

Anche il «silenzio» di Matteo sull'ascensione sembra avere un suo preciso significato. Per
l'evangelista l'ascensione fu un evento «invisibile per gli uomini, che si realizzò in rapporto alla
risurrezione”. Più che ignorarla o, ritenerla secondaria, egli intese affermare la presenza continua
di Gesù fra i discepoli anche dopo la risurrezione. Pur risorto, Gesù non diventa l’assente, ma
rimane sommamente presente tra i discepoli. Matteo (evangelista dell’attesa escatologica)
interpreta la vita del cristiano in attesa della parusia come una esistenza già in compagnia con lui.
In Marco, subito dopo l’ascensione, i discepoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il
Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che la accompagnavano»
(Mc 16,20).
L’ascensione è quindi un Mistero di trasformazione intima: fino allora Gesù si era mosso incontro
al mondo in forma visibile e sensibile; da quel momento misterioso egli si muoverà ancora
incontro, ma nella persona dei suoi credenti.
L’ascensione non è un perdersi di Gesù nell’immensità del cielo, ma una sua piena immersione
nella comunità dei suoi discepoli.
Ascensione come evento escatologico, ritorno al Padre e aspetto cosmico e sacerdotale.

5. La pentecoste
A. Mistero Pasquale e pentecoste
Nel NT abbiamo due grandi tradizioni relative alla promessa e al dono dello Spirito, quella
giovannea e quella lucana. Nel Quarto Vangelo, al preannuncio del Consolatore, fa seguito il dono
dello Spirito sia sulla morte, quando Gesù «rese lo spirito», sia durante la sua apparizione ai
discepoli il giorno stesso di Pasqua: «Ricevete lo Spirito Santo». In S. Luca, dopo la promessa, ci
sono cinque descrizioni della manifestazione e della discesa dello spirito santo.
• At 2,1-11
• 4,31-32
• 8,14-17
• 10,40-46
• 19,1-7
La pentecoste ha quindi come contenuto il mistero pasquale, ma in quanto rivelato e comunicato
pienamente nello Spirito.
B. Significato «pneumatologico» dell’evento Cristo
L’evento Cristo, dalla concezione alla pentecoste, è sotto il segno dello Spirito Santo. La
redenzione è un’unica opera quasi con due tempi di realizzazione: un tempo cristologico, dato
dall’unico e plenario sacrificio redentore di Cristo, e un tempo pneumatico, che consiste
nell’applicazione per noi della vitalità di questo sacrificio.

C. La pentecoste come riconoscimento supremo della divinità di Cristo

Pietro fa un quadro completo dell’evento Cristo:


o LA SUA VITA: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di
miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso
o LA SUA MORTE: consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio,
voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso
o LA SUA GLORIFICAZIONE (risurrezione, ascensione, pentecoste): Questo Gesù, Dio lo ha
risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. 33Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver
ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e
udire.
o CONFESSIONE: Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito
Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso».
La stessa confessione prepasquale di Pietro (Mt 16,17) non gli risparmiò il rinnegamento, perché
non sostenuta dalla forza dello Spirito Santo. È nello Spirito che si può rendere autentica
testimonianza e confessione di fede a Gesù.
L’autentica realtà dei titoli cristologici «Signore e Cristo» si ha proprio alla pentecoste.
La pentecoste, come ultimo mistero cristologico, è dunque la consumazione della pasqua nello
Spirito del Padre e del Figlio. È l’inizio dell’universalismo della salvezza cristiana nello spazio e nel
tempo, come opera dello Spirito del Cristo risorto.
Se nell’incarnazione, l’umanità del Verbo fu un dono dello Spirito Santo, alla pentecoste la discesa
dello Spirito è il dono di vita e di verità del Cristo glorioso a tutti i popoli della terra.
5. Cristo Salvatore: un ventaglio di modelli

A. Cristo salvatore «ESCLUSIVO»


Questo modello esprime l'atteggiamento di coloro che, da una parte, rigettano le religioni non
cristiane come idolatriche, erronee e non - salvifiche, e, dall'altra, riaffermano l'assolutezza del
cristianesimo. Gesù Cristo viene considerato come unico ed esclusivo mediatore di salvezza.

B. Cristo salvatore «COSTITUTIVO»


Gesù Cristo è considerato come il salvatore costitutivo di salvezza, per cui anche la salvezza
esistente fuori del cristianesimo attingerebbe tutto il suo valore dal riferimento a Cristo e al suo
evento salvifico.

C. Cristo salvatore «NORMATIVO»


Afferma invece l'intrinseco valore salvifico di tutte le religioni indipendentemente dal fondatore del
cristianesimo. Dio è presente sempre e dovunque senza soluzione di continuità.
La normatività di Cristo viene vista nel fatto che egli, essendo la rivelazione piena e finale,
corregge e porta a compimento le altre mediazioni, che però restano intrinsecamente vere e
salvifiche.

D. Cristo salvatore «RELATIVO»


Cristo sarebbe uno dei tanti salvatori, dal momento che ci sarebbe l'obiettiva impossibilità di
evidenziare storicamente l'unicità del suo evento.

E. Cristo salvatore «FACOLTATIVO»


Un quinto modello punta sull'uomo da liberare mediante una prassi adeguata. È l’uomo e non Dio
il luogo teologico di dialogo. Bisognerebbe passare da un superato ecclesiocentrismo,
cristocentrismo o teocentrismo a un regnocentrismo

7. REDEMPTORIS MISSIO (1990).


1. Gesù Cristo è l’unico salvatore dell’umanità
2. Esiste una indissolubile unità personale tra il Verbo eterno e il Gesù storico
3. Il regno di Dio si identifica con la persona stessa di Gesù Cristo

8. CTI 1996
Gesù, luce del mondo, illumina tutta l’umanità, per cui anche fuori della
Chiesa è presente la sua luce sotto forma dei «semina Verbi»:
1) L’intera umanità si salva solo in Gesù Cristo: chiara pretesa di universalità del cristianesimo
2) Unità personale del Logos con Gesù di Nazareth
3) Dottrina del Logos spermatikos
4) La salvezza è legata all’apparizione storica di Gesù
5) Ogni altra possibilità di mediazione salvifica ha la sua fonte costitutiva nel mistero
dell’incarnazione di Cristo: per cui le molteplici vie, spesso misteriose di salvezza dovute
alla volontà salvifica universale di Dio e all’azione dello Spirito Santo, non possono non
essere in relazione con il mistero di Gesù
6) Dal momento che Gesù è l’unico mediatore, la salvezza è unica ed è la stessa per tutti gli
uomini. Non ci possono essere vie per andare a Dio che non confluiscano nell’unica via che
è Cristo.

9. Vie segrete di Dio


1Tm 2,4: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della
verità.
«Per noi uomini e per la nostra salvezza».
Il Vaticano II suggerisce che anche a coloro che non conoscono Cristo e vivono in altri contesti
religiosi è offerta la salvezza mediante vie misteriose, conosciute solo a Dio.
«Benché Dio, attraverso vie a lui note, possa portare gli uomini, che senza loro colpa ignorano il
vangelo, alla fede…» AG 7
Quali sono queste vie?
- obbedienza alla propria retta coscienza
- operare il bene e evitare il male
- adesione alla verità
- coerenza fra fede e vita

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