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JOSEPH

RATZINGER
INTRODUZIONE
AL CRISTIANESIMO
3.
Il Dio della fede e il Dio dei filosofi

1. L’opzione della Chiesa prim itiva per la filosofia

La scelta fatta a proposito dell’immagine biblica di Dio do-


vette essere ripetuta agli inizi del cristianesimo e della chiesa,
come in fondo va rifatta di nuovo in ogni situazione spirituale,
perché rappresenta sempre tanto un dono quanto un impegno.
La predicazione e la fede del cristianesimo primitivo erano ve-
nute a trovarsi nuovamente in un ambiente rigurgitante di dèi e
quindi, ancora una volta, di fronte al problema che si era posto
a Israele nella sua situazione di origine e nello scontro diretto
con le grandi potenze del tempo dell’esilio e dopo l’esilio. Biso-
gnava dire di nuovo, senza mezzi termini, quale Dio intendesse
propriamente la fede cristiana. Nel fare questo la decisione cri-
stiana primitiva potè senz’altro ricollegarsi alla lunga serie di
lotte precedenti, specialmente alle loro ultime manifestazioni,
all’opera del Deutero-Isaia e ai libri sapienziali, al passo in avan-
ti compiuto con la traduzione dell’Antico Testamento in greco,
e infine agli scritti del Nuovo Testamento, particolarmente al
vangelo di Giovanni.
Seguendo la linea tracciata da questa lunga vicenda storica, il
cristianesimo primitivo ha operato con coraggio la sua scelta e
compiuto la sua purificazione, optando per il Dio dei filosofi,
contro gli dèi delle religioni. Q uando la gente incominciò a chie-
Il Dio della fede e il Dio dei filosofi 129

dere a quale dio corrispondesse il Dio cristiano - se a Zeus, o a


Ermes, o a Dioniso, o a qualche altro ancora - la risposta fu la
seguente: a nessuno di essi. Il cristianesimo non adora nessuno
degli dèi che voi pregate, ma quell’Unico e solo che voi non pre-
gate: quell’Altissimo di cui parlano anche i vostri filosofi. Così
facendo, la chiesa primitiva ha messo decisamente da parte l’in-
tero cosmo delle antiche religioni, considerandole complessiva-
mente un imbroglio e un abbaglio, e ha spiegato la sua fede di-
cendo: quando noi diciamo Dio, non intendiamo e non veneria-
mo nulla di tutto questo, ma unicamente l’Essere stesso, quello
che i filosofi hanno posto come il fondamento di tutto l’essere,
come il Dio sopra tutte le potenze: solo questo è il nostro Dio.
Ora, questo passo implica una scelta, un’opzione, che non è
meno fatidica e determinante per il futuro di quanto non lo sia
stata, a suo tempo, l’opzione in favore di ’El e jäh contro Mo-
loch e ba al, e in seguito l’evoluzione di ambedue in >el5hìm e
Jahwè, ossia nel pensiero dell’essere. La scelta così compiuta
comportò l’opzione per il lògos contro ogni sorta di mythos, la
definitiva demitizzazione del mondo e della religione.
Questa decisione per il lògos contro il mito era davvero la via
giusta? Per trovare una risposta a tale quesito dobbiamo tenere
dinnanzi agli occhi tutte le considerazioni fatte circa l’evoluzio-
ne interna del concetto biblico di Dio, tramite i cui ultimi passi
si era coerentemente già stabilita in questo senso la posizione
dello specifico cristiano nel mondo ellenistico. D’altra parte, bi-
sogna anche tener presente che già il mondo antico conosceva
in forma assai acuta il dilemma fra il Dio della fede e il Dio dei
filosofi. Tra gli dèi della mitologia religiosa e il Dio della cono-
scenza filosofica si era andato sviluppando, nel corso della sto-
ria, un rapporto di sempre maggior tensione, che si era manife-
stato nella critica ai miti da parte dei filosofi, da Senofane a Pla-
tone; quest’ultimo aveva addirittura intrapreso il tentativo di
demolire il mito classico di origine omerica, per sostituirvi un
nuovo mito più adeguato al lògos. La ricerca odierna è sempre
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più dell’idea che ci sia un sorprendente parallelismo, temporale


e contenutistico, fra la critica filosofica dei miti in Grecia e la
critica profetica agli dèi in Israele. Le due critiche partono certo
da presupposti completamente diversi e perseguono finalità del
tutto differenti. Ma il movimento del lògos contro il mythos, co-
sì come si è sviluppato ad opera dello spirito greco neH’illumini-
smo filosofico, tanto da condurre alla fine necessariamente alla
caduta degli dèi, corre sostanzialmente parallelo aU’illuminismo
praticato dalla letteratura profetica e sapienziale nella sua demi-
tizzazione delle potenze divine a favore dell’unico Dio. Nono-
stante tutte le loro divergenze, ambedue i movimenti coincido-
no nello sforzo di tendere al lògos. L’illuminismo filosofico e la
sua visione ‘fisica’ dell’essere hanno ricacciato sempre più nel-
l’ombra l’apparenza mitica, senza peraltro eliminare la forma
religiosa di venerazione degli dèi. La religione antica, infatti, è
crollata anche per la frattura fra il Dio della fede e il Dio dei fi-
losofi, per la totale diastasi fra ragione e devozione. Il fatto che
non sia riuscita a unificare le due cose, ma che ragione e devo-
zione si siano sempre più dissociate, che il Dio della fede e il
Dio dei filosofi si siano separati, ha portato all’interna dissolu-
zione dell’antica religione. La religione cristiana non avrebbe
dovuto attendersi altra sorte, qualora avesse accettato un simile
distacco dalla ragione ritirandosi nel campo esclusivamente re-
ligioso, come più tardi avrebbe auspicato Schleiermacher e in
un certo senso, paradossalmente, anche Karl Barth, grande cri-
tico e avversario di Schleiermacher.
Dal punto di vista storico-spirituale, la sorte opposta di mito
e vangelo nel mondo antico, la fine del mito e la vittoria del van-
gelo vanno spiegate essenzialmente rifacendosi al rapporto op-
posto intrapreso appunto tra religione e filosofia, tra fede e ra-
gione. Il paradosso dell’antica filosofia consiste, dal punto di vi-
sta della storia delle religioni, nel fatto che essa ha distrutto il
mito a livello di pensiero, ma tentando al contempo di legitti-
marlo nuovamente nella sfera religiosa; ciò vuol dire che essa
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non è stata religiosamente rivoluzionaria, bensì tutt’al più evo-


luzionista, ha considerato la religione come una questione di or-
dinamento della vita, non come problema di verità. San Paolo,
richiamandosi alla letteratura sapienziale, ha descritto in manie-
ra perfettamente esatta questo processo in 1,18-31, adot-
tando il linguaggio della predicazione profetica (e rispettiva-
mente del discorso sapienziale veterotestamentario). Già in Sap
13-15 si trova un chiaro accenno a questo fatale destino della
religione antica e al paradosso presente nella dissociazione della
verità dalla pietà. Paolo riassume in pochi versetti tutto il mate-
riale là diffusamente esposto, nei quali descrive la sorte della re-
ligione antica sulla base di questo contesto di separazione fra lò-
gos e mito: «Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto;
Dio stesso lo ha loro manifestato... Essi dunque... pur cono-
scendo Dio, non gli hanno dato gloria, né gli hanno rese grazie
come a Dio, ma... hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile
Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli,
di quadrupedi e di rettili» ( Km 1,19-23).
La religione non batte la via del , ma si ostina a restare
attaccata al mito, pur riconosciuto privo di consistenza reale.
Perciò il suo tramonto era inevitabile; era la logica conseguenza
del distacco dalla verità, che conduceva a considerarla semplice
institutio ,vitae ossia come un puro orientamento e una mera
impostazione di vita. Di fronte a questa situazione Tertulliano
ha delineato la posizione cristiana con una frase grandiosa, au-
dace e incisiva: «Cristo ha affermato di essere la verità, non la
consuetudine»16. Penso che questa sia una delle affermazioni
veramente grandi della teologia patristica. Vi si trovano riuniti
in singolarissima sintesi la lotta della chiesa primitiva e il compi-

16 «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem cogno-


minavit», De virginibus velandis 1,1; CChr II, 1209 [trad, it., De virginibus ve-
landis. La concezione femminile nelle prime comunità cristiane. Boria, Roma
1984,220].
132 Dio

to perenne che si pone alla fede cristiana se vuole rimanere se


stessa. All’idolatrica venerazione della consuetudo Romana, del-
la ‘tradizione’ dell’urbe, che imponeva le sue abitudini come re-
gola autosufficiente di condotta, si contrappone ora la pretesa
esclusiva della verità. Il cristianesimo veniva così a porsi risolu-
tamente dalla parte della verità, abbandonando l’idea di una re-
ligione che si accontenta di essere una forma cerimoniale, alla
quale in definitiva, lungo la strada dell’interpretazione, si può
anche dare un qualunque senso.
Un ulteriore riferimento può chiarire quanto detto. L’antichi-
tà aveva finito per concretizzare il dilemma della sua religione,
della sua dissociazione dalla verità conosciuta per via filosofica,
nell’idea delle tre teologie che c’erano: la teologia fisica, quella
politica e quella mitica. Aveva giustificato la frattura tra lògos e
mito richiamandosi alla sensibilità del popolo e all’utilità dello
Stato, in quanto la teologia mitica rendeva possibile anche la
teologia politica. In altri termini, aveva in pratica opposto verità
a consuetudine, utilità a verità. I seguaci della filosofia neopla-
tonica erano andati un passo oltre, interpretando il mito ontolo-
gicamente, spiegandolo come teologia ‘simbolica’, e tentando
così di utilizzarlo come strumento interpretativo per giungere
alla verità. Ma tutto ciò che può esistere unicamente grazie al-
l’interpretazione, in realtà ha cessato di esistere. Lo spirito uma-
no si volge a buon diritto alla verità stessa e non a ciò che, ricor-
rendo ai funambolismi del metodo interpretativo, può ancora
essere dichiarato conciliabile con la verità, ma in sé non ha più
verità.
Ambedue i processi rivestono un carattere d ’impellente at-
tualità. In una situazione come la nostra, in cui la verità del mes-
saggio cristiano sembra scomparire, nella lotta attorno al cri-
stianesimo si profilano oggi di nuovo proprio i due metodi con
cui un giorno l’antico politeismo ha scatenato, ma non vinto, la
sua battaglia mortale. Da un lato sta la ritirata dalla verità della
ragione per rifugiarsi nell’ambito della pura devozione, della
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pura fede, della sola rivelazione; una ritirata che in realtà, volu-
ta o non voluta, ammessa o meno, assomiglia fatalmente alla ri-
tirata della religione antica di fronte al , alla fuga dalla veri-
tà per rifugiarsi nella comoda consuetudine, dalla alla
politica. Dall’altro sta un procedimento, che io chiamerei sbri-
gativamente cristianesimo interpretativo. In esso, mediante il
metodo dell’interpretazione, si elimina lo scandalo del messag-
gio cristiano e, mentre se ne attenua in questo modo il carattere
di scandalo, si trasforma al contempo anche la sua sostanza in
frasi a cui si può rinunciare, in un giro di parole nient’affatto
necessario per esprimere ciò che è semplice, che qui viene spie-
gato nel suo significato ricorrendo a complicati artifici interpre-
tativi.
L’opzione cristiana originaria è, invece, completamente di-
versa. Come già abbiamo visto, la fede cristiana ha fatto la sua
scelta: contro gli dèi delle religioni per il Dio dei filosofi, vale a
dire contro il mito della sola consuetudine per la verità dell’es-
sere. A partire da questo, alla chiesa primitiva si rinfacciava che
i suoi seguaci fossero degli atei. Questo rimprovero scaturiva
dal fatto che, in pratica, la chiesa primitiva respingeva in blocco
il mondo dell’antica odichiarandolo
relig , totalmente inaccetta-
bile e rifiutando tutto come vuota consuetudine convenzionale
in contraddizione con la verità.
Il Dio dei filosofi, che si lasciava al suo posto, appariva però
agli antichi come religiosamente non significativo, bensì una
mera realtà accademica, extra-religiosa. Ora, il lasciarlo al suo
posto e il professare di credere unicamente ed esclusivamente
in lui dava tutta l’impressione di una irreligiosità, sembrava un
rinnegamento della o,e quindi ateismo. Nel sospetto di
relig
ateismo, col quale dovette battersi il cristianesimo primitivo, si
riconosce chiaramente il suo orientamento spirituale, la sua op-
zione unicamente per la verità dell’essere, contro la religio e la
sua consuetudine priva di verità.
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2. Latrasformazione del Dio dei filosofi

Non è lecito tuttavia trascurare neppure l’altro lato del pro-


cesso. La fede cristiana, optando decisamente solo per il Dio
dei filosofi e dichiarandolo di conseguenza come il Dio che è
possibile pregare e che parla all’uomo, ha attribuito a questo
Dio dei filosofi un significato del tutto nuovo, lo ha sottratto alla
sfera puramente accademica e lo ha profondamente trasforma-
to. Questo Dio, che prima si presenta come un essere neutro,
come il concetto supremo e ultimo, questo Dio inteso come
‘puro essere’ o ‘puro pensare’, che rimane eternamente chiuso
in se stesso e non si avvicina all’uomo né al suo piccolo mondo,
questo Dio dei filosofi, la cui assoluta eternità e immutabilità
esclude ogni rapporto con ciò che è mutevole e soggetto al dive-
nire, appare ora alla fede come il Dio di uomini, il quale non è
solo Pensiero di pensiero, eterna matematica dell’universo, ma
agape, potenza di amore creativo. In questo senso, nella fede
cristiana c’è allora davvero ciò che Pascal ha sperimentato quel-
la notte in cui scrisse su un bigliettino, che portò poi sempre cu-
cito nella fodera del suo vestito, le parole: «Fuoco. ‘Dio di
Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe’, non ‘Dio dei filosofi
e dei dotti’»17. Di fronte a un Dio che sembrava nuovamente
riaffondare nella sfera matematica, egli aveva rivissuto l’espe-
rienza del roveto ardente, comprendendo come il Dio che è
l’eterna geometria dell’universo possa esser tale unicamente

17 II testo del M émorial, com e questo bigliettino viene chiamato, è riporta-


to in R. G u a r d i n i , Christliches Bewusstsein, M ünchen 19502, 4 7 s . [trad, it.,
Pascal, Morcelliana, Brescia 1 9 7 2 ,41s.] e ivi pure, a p. 23, si trova una piccola
riproduzione d ell’originale; vedere l’acuta analisi che Guardini ne fa a pp. 27-
61 [trad. it. cit., 21-56]. Per quanto riguarda l’integrazione e la correzione del
pensiero pascaliano, cfr. H. VORGRIMLER, O sservazioni sulla devozione di Pa-
scal verso la Chiesa, in J. D a n i é LOU - H . VORGRIMLER (edd.), Sentire Eccle-
siam. La coscienza della Chiesa come forza plasm atrice della pietà I, Paoline,
Roma 1964,687-738.
Il Dio della fede e il Dio dei filosofi 135

perché è amore creativo, perché è roveto ardente, da cui provie-


ne un nome tramite il quale egli entra nel mondo dell’uomo. In
questo senso, dunque, si fa l’esperienza che il Dio dei filosofi è
totalmente altro da come i filosofi l’hanno pensato, senza peral-
tro cessare di essere ciò che essi hanno trovato; si viene a capire
che lo si conosce realmente solo quando ci si rende conto che
egli è l’autentica verità e il fondamento di ogni essere e inscindi-
bilmente il Dio della fede, il Dio degli uomini.
Per cogliere la trasformazione subita dal concetto filosofico
di Dio mediante la sua identificazione col Dio della fede, basta
addurre qualche testo biblico in cui si parla di Dio. Scegliamo a
titolo di esemplificazione il passo di Le 15,1-10, la parabola del-
la pecora e della dramma smarrite. Il punto di partenza è costi-
tuito dallo scandalo di scribi e farisei nel vedere Gesù assidersi a
mensa con i peccatori. Per tutta risposta si vedono rinviati a un
uomo padrone di cento pecore, che ne ha perduta una e a que-
sta corre dietro, la cerca finché non l’ha trovata, e si rallegra più
per quell’unica che non per le novantanove al sicuro nel loro re-
cinto. La parabola della dramma perduta che, una volta ritrova-
ta, suscita più gioia di ciò che non è mai stato perduto, è pure
orientata nella stessa direzione: «Così, vi dico, ci sarà più gioia
in cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove
giusti che non hanno bisogno di conversione» (Le 15,7). In que-
sta parabola, in cui Gesù giustifica e illustra la sua opera e il suo
mandato di Inviato di Dio, assieme alla storia dei rapporti fra
Dio e l’uomo affiora anche la domanda di chi sia Dio stesso.
Se cerchiamo di desumere la risposta da questo testo, dovre-
mo dire: il Dio in cui qui c’imbattiamo, ci appare, come in mol-
tissimi altri testi dell’Antico Testamento, sotto un aspetto alta-
mente antropomorfo, altamente a-filosofico; egli prova passioni
come un essere umano, si rallegra, cerca, attende, muove incon-
tro. Non è affatto l’insensibile geometria dell’universo, né la
neutrale giustizia che sta al di sopra delle cose, senza provare i
turbamenti di un cuore e dei suoi affetti; possiede invece un
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cuore, è presente come uno che ama, con tutta la capacità di


stupire di chi ama. In questo testo appare evidente la trasforma-
zione del pensiero puramente filosofico e si vede anche sino a
qual punto, in fondo, noi rimaniamo pur sempre nello stadio
antecedente a quest’identificazione del Dio della fede col Dio
dei filosofi, senza riuscire a farla nostra, per , in fondo, l’idea
che ci facciamo di Dio e la nostra comprensione della realtà cri-
stiana falliscono.
In effetti, gran parte degli uomini d’oggi continua ad ammet-
tere, in qualche modo, che esista senz’altro qualcosa come «un
essere supremo». Ma trovano assurdo che questo Essere si deb-
ba occupare dell’uomo. Abbiamo la sensazione - e succede
continuamente anche a chi cerca di credere - che ciò sia espres-
sione di un ingenuo antropomorfismo, di una modalità primiti-
va del pensiero umano, comprensibile in tempi in cui l’uomo vi-
veva ancora in un piccolo mondo, quando il disco piatto della
terra costituiva il baricentro di tutte le cose e Dio non aveva al-
tro da fare che guardare dall’alto in basso a questo piccolo
mondo. Ora, però, così pensiamo noi, in un tempo in cui sap-
piamo come le cose stiano in modo infinitamente differente, co-
me la terra sia un corpuscolo insignificante in un universo gi-
gantesco e, di conseguenza, come di fronte alle dimensioni co-
smiche non abbia alcun peso neppure quel granello di polvere
che è l’uomo, in un tempo come il nostro ci sembra assurdo
pensare che l’essere supremo si debba impicciare dell’uomo,
del suo piccolo e miserabile mondo, delle sue preoccupazioni,
dei suoi peccati e di ciò che non è peccato. Ma mentre così pen-
siamo di parlare in maniera veramente divina di Dio, non ci ac-
corgiamo di pensare di lui realmente in maniera meschina e
troppo umana, come se egli debba fare una scelta per non man-
care l’insieme. Ce lo immaginiamo perciò come una coscienza
simile alla nostra, che ha dei limiti ben precisi, che è costretta
ad arrestarsi da qualche parte, senza mai essere in grado di ab-
bracciare il tutto.
Il Dio della fede e il Dio dei filosofi 137

Rispetto a tali grette restrizioni la sentenza posta da Hölder-


lin nel frontespizio del suo Iperione, può richiamare l’idea cri-
stiana della vera grandezza di Dio: «Non coerceri maximo, conti-
neri tamen a minimo, divinum est - Non essere costretto da ciò
che è più grande, ma essere contenuto in ciò che è più piccolo,
questo è divino». Quello spirito senza confini, che porta in sé la
totalità dell’essere, supera ‘il più grande’, tanto che per lui è pic-
colo, e si abbassa nel più piccolo, perché nulla è per lui troppo
piccolo. Precisamente questo superamento del più grande e
l’abbassarsi nel più piccolo costituiscono la vera essenza dello
Spirito assoluto. Qui, però, si verifica al contempo un rovescia-
mento di valori, tra Massimo e Minimo, tra il più grande e il più
piccolo, che è caratteristico per la comprensione cristiana della
realtà. Per colui che, in quanto Spirito, sostiene e abbraccia
l’universo, uno spirito, il cuore di una persona capace di amare,
è più grande di tutti i sistemi delle galassie. I criteri quantitativi
saltano; appaiono altri ordini di grandezza, in base ai quali l’in-
finitamente piccolo è la vera realtà che abbraccia tutto e il vera-
mente grande18.
C’è poi un altro pregiudizio che viene smascherato come tale
da queste considerazioni. Continua in fondo ad apparirci ovvio
che l’infinitamente grande, lo Spirito assoluto, non possa esser
sentimento e passione, bensì solo pura matematica dell’univer-

18 La provenienza del cosiddetto Epitaffio di Loyola, citato da Hölderlin, ci


è stata spiegata da H . RAHNER, Die Grabscbrift des Loyola, in Stimmen der Zeit
72,139 (febbraio 1947) 321-337: la sentenza è stata desunta dalla voluminosa
opera Imago prim i saeculi Societatis Jesu a Provincia Flandro-Belgica eiusdem
Societatis repraesentata, Antwerpen 1640. Ivi, a pp. 280-282, vien riportato un
Elogium sepulcrale Sanci Ignatii, composto da un ignoto giovane gesuita fiam-
mingo, dal quale è stata tratta la massima; cfr. anche HÖLDERLIN, Iperione o
l’eremita in Grecia, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1989, 3. Lo stesso pen-
siero si trova espresso in una lunga serie di profondi e incisivi testi del tardo
ebraismo; cfr. al proposito P. KUHN, G ottes Selbsterniedrigung in der
gie der Rabbinen [L’auto-abbassamento di Dio nella teologia dei ], Mün-
chen 1968, specie 13-22.
138 Dio

so. Inconsciamente insinuiamo così che il semplice pensare sia


superiore all’amare, mentre il messaggio del vangelo e l’immagi-
ne cristiana di Dio su questo punto correggono la filosofia, fa-
cendoci conoscere che l’amore è superiore al puro pensiero. Il
pensare assoluto si identifica con l’amare, non è pensiero privo
di sentimenti, bensì pensiero creativo, perché è amore.
Riassumendo tutto quanto, possiamo affermare che dal con-
sapevole collegamento al Dio dei filosofi compiuto dalla fede
sono scaturiti due fondamentali superamenti del pensiero filo-
sofico:

a) IIDio filosofico fa essenzialmente riferimento solo a se


stesso, in quanto è pensiero esclusivamente auto-contemplante.
Il Dio della fede, invece, è definito fondamentalmente dalla ca-
tegoria della relazione. Egli è apertura creatrice, che abbraccia
il tutto. In questo modo sono posti un’immagine e un ordina-
mento del mondo completamente nuovi: quale suprema possi-
bilità dell’essere non appare più la libertà assoluta di uno che
basta a se stesso e vive per se stesso. La suprema modalità del-
l’essere include invece l’elemento ‘relazione’. Non c’è nemme-
no bisogno di dire quale rivoluzione comporti necessariamente,
per l’orientamento esistenziale dell’uomo, il fatto che l’Essere
supremo non appaia più come autarchia assoluta, chiusa in se
stessa, ma sia al contempo relazione, potenza creativa, che crea
dell’altro, lo sostiene e lo ama...

b) Il Dio filosofico è puro pensiero. L’idea madre che gli fa da


sfondo è questa: il pensare, e solo il pensare, è divino. Il Dio
della fede è, in quanto pensiero, amore. L’idea madre che gli fa
da sfondo è la seguente: amare è divino.
Il Lògos dell’universo, il pensiero originario creativo è al con-
tempo amore; anzi, questo pensiero è creativo perché in quanto
pensiero è amore, e in quanto amore è pensiero. E evidente
un’identità originaria fra verità e amore, che là dove si realizza-
Il Dio della fede e il Dio dei filosofi 139

no pienamente non costituiscono più due realtà una accanto al-


l’altra o addirittura contrapposte, bensì un tutto unico, vale a
dire l’Assoluto semplicemente. Qui si rende al contempo visibi-
le il punto di aggancio della professione di fede nel Dio uno e
trino. Su ciò dovremo tornare in seguito.

3 Riflessi del problema nel testo del Simbolo apostolico


.

Nel Simbolo apostolico, sulla cui scorta procedono le nostre


riflessioni, la paradossale unità fra il Dio della fede e il Dio dei
filosofi, sulla quale si basa l’immagine cristiana di Dio, viene
espressa dalla giustapposizione dei due attributi ‘Padre’ e ‘So-
vrano dell’universo’ (‘Signore dell’universo’). Il secondo di
questi titoli - Pantokrator in greco - si rifà all’anticotestamenta-
rio Jahwè Zebaoth (Sebhaôth), sul cui esatto significato non si
riesce più a far luce piena. Tradotto letteralmente, esso vuol di-
re ‘Dio degli eserciti’, ‘Dio delle potenze’; nella versione greca
della Bibbia viene talvolta reso con ‘Signore delle potenze’. No-
nostante tutte le incertezze circa la sua origine, è comunque as-
sodato che questo termine vuol indicare Dio come Signore del
cielo e della terra; in atteggiamento polemico contro la religione
astrale babilonese, si voleva soprattutto presentarlo come il Si-
gnore a cui appartengono anche le stelle, accanto al quale gli
astri non possono sussistere come potenze divine autonome: gli
astri non sono dèi, ma sono suoi strumenti, a sua disposizione
come le legioni di un esercito sono a disposizione di un signore
della guerra. Conseguentemente, l’appellativo Pantokrator ha in
primo luogo un significato cosmico, e più tardi anche un senso
politico; esso designa Dio come Signore di tutti i signori19.

19 K a tte n b u s c h II, 526; P. VAN Im sc h o o t, Schiere, in H . HAAG (ed.), Di-


zionario biblico, SEI, Torino 1963, 904s. Nella seconda edizione tedesca
(1968, p. 684), l’articolo è stato drasticamente abbreviato.
140 Dio

Chiamando Dio ‘Padre’ e al contempo ‘Sovrano dell’universo’,


il ‘Credo’ ha abbinato un concetto dal tenore familiare a uno
che esprime potenza cosmica, quali descrizione dell’unico Dio.
In tal modo esso mette in risalto con esattezza ciò di cui si tratta
nell’immagine cristiana di Dio: la tensione fra potenza assoluta
e amore assoluto, fra distanza assoluta e assoluta vicinanza, tra
essere semplicemente e diretto volgersi a ciò che è più umano
nell’uomo, la reciprocità di Massimo e Minimo, a cui si accen-
nava sopra.
Il termine ‘Padre’, che qui per quanto riguarda l’aspetto della
sua relazione rimane ancora completamente aperto, collega al
contempo il primo articolo di fede al secondo; esso dice ordine
alla cristologia, connettendo così le due parti una all’altra tanto
strettamente da far sì che quanto si dice di Dio risulti perfetta-
mente comprensibile solo guardando al contempo al Figlio.
Tanto per fare un esempio: che cosa significhi ‘onnipotenza’,
‘sovranità universale’, cristianamente lo si comprende solo da-
vanti al presepio ed alla croce. E proprio qui, dove Dio, ricono-
sciuto Signore dell’universo, è entrato nell’assoluta impotenza
dell’abbandono senza riserve alla sua infima creatura, che è re-
almente possibile formulare in verità il concetto cristiano della
signoria universale di Dio. Qui nascono al contempo un nuovo
concetto di potenza e una nuova idea di signoria e di sovranità.
Il supremo potere dimostra tutta la sua forza nell’abbassarsi al
punto di rinunciare totalmente alla sua potenza, nel fatto di es-
ser potente non attraverso la violenza, bensì unicamente grazie
alla libertà dell’amore, il quale persino nel venir respinto è più
forte di tutti gli spocchiosi poteri dei signori della terra. Qui
raggiunge definitivamente il suo scopo quella correzione di cri-
teri e di dimensioni, che sopra abbiamo visto delincarsi nella
tensione polare fra Massimo e Minimo.

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