Alberto Cozzi
TESI 1
La memoria Iesu
Prova ad articolare le dimensioni fondamentali di una «memoria Iesu» capace di mettere in luce la qualità
teologica dell’agire di Gesù e l’importanza costitutiva della sua storia per la sua verità cristologica.
Sommario
Introduzione: di cosa si occupa la Cristologia. Un’idea e tre esercizi
I. Il funzionamento testimoniale della fede in Gesù
I.1. I termini
I.2. Il funzionamento
I.2.1. La teologia pluralista delle religioni
I.2.2. La ricerca sul Gesù storico
a) Old Quest
b) No Quest
c) New Quest
d) Third Quest
I.2.3. La questione delle origini
a) La scoperta della discontinuità tra noi e Gesù
b) L’affermazione di una discontinuità per principio (Bultmann)
c) Il giudizio di fede che interpreta la discontinuità (Käsemann)
II. L’identità narrativa (ovvero il funzionamento del polo narrativo)
II.1. Il polo confessante
II.2. La necessità della narrazione
II.3. Il funzionamento della narrazione
III. La questione sul Gesù storico
III.1. Il rinnovato paradigma giudaico della Terza Ricerca
III.2. Una rinnovata fiducia nella tradizione orale: il Gesù ricordato e testimoniato (2003)
III.3. Una ricostruzione biografica della vicenda di Gesù
III.4. Cose da chiarire sulla storia di Gesù
III.5. A. PUIG I TÀRRECH, Gesù. La risposta agli enigmi
IV. La struttura della memoria Iesu
IV.1. Colpo d’occhio
IV.1.1. Predicatore itinerante
IV.1.2. Carismatico
IV.1.3. Taumaturgo
IV.2. Tensioni costitutive della vita pubblica di Gesù
IV.2.1. La prassi
a) autorità
b) provvisorietà/povertà
c) missione
IV.2.2. L’annuncio
a) Regno: definizione nozionale, definizione a partire dai destinatari,
definizione cristologica, convergenza delle definizioni
b) Figlio dell’uomo: presente, futuro, sofferente
IV.2.3. La preghiera
a) verticale/orizzontale
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Stefano Chiarolla Tesi di Cristologia Prof. Alberto Cozzi
a) La Cristologia perciò non si occupa semplicemente di Gesù, non è il procedimento critico metodico che
vuole ricostruire il vero Gesù al di là della fede dei discepoli: non cerca il vero Gesù al di là della fede dei
discepoli oppure al di là delle varie determinazioni culturali che la fede della Chiesa ha creato. Il vero Gesù
non è la storia di Gesù, i fatti, il fondatore della religione.
b) Non è neppure lo studio dei significati o la dimensione simbolica di Gesù: il solo Cristo, le variazioni dei
titoli cristologici (Cristo, Messia, Figlio di Dio, Kyrios…) cercando di verificare la plausibilità di questa
variazione. Nel giudaismo Gesù è il Messia, nel cristianesimo ellenistico è una divina incarnata, nel
cristianesimo buddista è il bodisadva (l’illuminato che ci porta all’incontro con Dio).
c) Per evitare questo duplice rischio, noi assumiamo la sfida a studiare per quale logos Gesù è il Cristo.
Di sicuro il logos per cui Gesù è il Cristo è un avvenimento inatteso: quell’ “è” in “Gesù è il Cristo” non è
infatti una copula che crea un’identificazione tra Gesù e il Cristo, ma è un evento inatteso, almeno (direbbe
Ratzinger) un evento escatologico (cioè: non inquadrabile nell’esperienza ordinaria, in termini cristiani
l’incontro col Risorto).
L’avvenimento inatteso perciò:
- è frutto di un incontro inatteso (solo incontrando il Risorto il discepolo può esclamare: “Veramente Gesù è
il Cristo”);
- decreta il superamento di una crisi radicale (lo scandalo della croce);
- decreta anche un “nuovo inizio”: cioè qualcosa che Gesù aveva anticipato, che era stato smentito dalla
croce e che invece ha ripreso (cfr kerygma: “non era possibile” che la morte lo tenesse in suo potere1). Il
“nuovo inizio” è perciò la ripresa di qualcosa che Gesù aveva anticipato.
I.1. I termini: il problema è che questo “è” (avvenimento escatologico) non unisce un fatto (Gesù) e un
significato (il Cristo): la storia (un ebreo del passato) e il senso (il Cristo per tutti). L’ “è” unisce una res con
un’altra res, ovvero unisce due realtà/due condizioni: la realtà “uomo di Nazareth” con la realtà “il vivente
glorificato da Dio”. In altri termini, l’ossessione del Corso sarà quella di dire che Cristo indica il Risorto: se
non lo fa, non stiamo facendo cristologia, perché non parliamo della fede della Chiesa.
Il termine Cristo e i suoi equivalenti kerygmatici Kyrios e Figlio indicano a titolo diverso il Risorto:
- Cristo: il Risorto compie le attese messianiche;
- Kyrios: il Risorto è il luogo dell’automanifestarsi di Dio;
- Figlio: il Risorto realizza l’intimità col Padre che Gesù aveva manifestato.
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Alcuni esegeti attribuiscono questo “non era possibile” alla fedeltà di Dio, ma più probabilmente è una logica di già
presente nel ministero di Gesù: Gesù anticipava la potenza di Dio che resuscitava i morti, perciò la morte non poteva
avere l’ultima parola su di lui).
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Tuttavia, di per sé tutti e tre identificano il Risorto: Il Vivente presente nella storia dopo e nonostante la
morte di Croce2.
Allora quel verbo “essere”, che collega due realtà che sarebbero di per sé incompatibili o comunque
inusuali, ha un funzionamento metaforico paradossale che svela un processo di trasformazione della realtà
(cioè: per comprendere la realtà devo ridescrivere il reale in modo che si crea una contaminazione dei
termini che si illuminano reciprocamente). La logica di questa trasformazione, dice il Vangelo, è quella del
seme più piccolo che porta il centuplo di frutto (o il lievito che fermenta tutta la pasta)3. Ciò significa che
tale trasformazione della realtà l’ha già seminata Gesù.
Il problema posto dall’ “è” è la continuità nella novità (o discontinuità) tra Gesù e il Cristo: e il logos per cui
“Gesù è il Cristo” è un avvenimento che ti fa cogliere la novità nella differenza.
La Chiesa afferma che la continuità nella discontinuità è l’ipostasi del Figlio: il legame sostanziale che si
chiama persona. Ecco il giudizio di fede di Calcedonia, che tiene insieme umano-divino senza confonderli,
ma stabilendo un’intimità nuova che si chiama “ipostasi” (tant’è che Maria è θεοτόκος).
I.2.Il funzionamento: si tratta di fare una “verifica” in tre “esercizi” che mostrano che qualunque approccio
a Gesù deve decidere sulla continuità nella discontinuità, indeducibile dalla somma dei fatti della storia
(come voleva Loisy, Sabatier, il Modernismo in genere): è necessario un giudizio di fede sulla storia.
Raccontando la storia, non si incontrano risorti: devi permettere al Risorto di ridescrivere la realtà (come
quando incontra una donna che perdeva sangue o un lebbroso o un cieco e li sana).
I.2.1. Confronto con la cosiddetta Teologia pluralista delle religioni; (P. F. Kniter, J. Hick, per certi versi
Panikkar): la sua tesi fallisce il tema della cristologia, fraintendendo l’oggetto totale di “Gesù è il Cristo”.
Essa sostiene che per dialogare con le religioni dobbiamo abbassare la nostra pretesa di fede, cioè
rinunciare alla pretesa per cui Gesù è Dio e, come tale, unico mediatore salvifico. A prova di ciò, i teologi
pluralisti ricordano la trasformazione della formula di fede: all’inizio la formula “Gesù è Figlio di Dio” aveva
un significato metaforico (Gesù è il luogo di accesso a Dio, il nostro «traghettatore verso Dio» [Theobald]);
sono stati i Greci a Calcedonia che hanno ellenizzato il cristianesimo a dare alla formula un significato
metafisico (Gesù è Dio Figlio Incarnato).
Ma allora, dicono i teologi pluralisti, continuiamo la trasformazione: diamo alla formula un significato
interreligioso, per cui è possibile affermare che Gesù è una re-incarnazione del Buddha, o uno yogin
(maestro di sapienza induista), è il Profeta venuto prima di Maometto.
L’errore dei teologi pluralisti è quello di trasformare i significati dati a Gesù: ma “Cristo” non è un
significato, bensì il riconoscimento di Gesù crocifisso come il Risorto vivente. La traduzione non è
traduzione di un significato, ma di una presenza. Allora la questione è: bodisadva o yogin è una traduzione
del Risorto?
I.2.2. La ricerca su Gesù storico (Leben-Jesu-Forschung4): è un luogo strategico, perché tutti gli storici hanno
il problema di continuità nella discontinuità.
La ricerca nasce dalla percezione di una discontinuità (ovvero di una distanza) che chiede di studiare quale
continuità è possibile ricostruire nella storia: ciò che però non convince è che esclude la tesi della
risurrezione, nella convinzione che la tesi non può rientrare nella storia.
La ricostruzione storica convenzionale della Leben-Iesu-Forschung è legata alle quattro fasi:
a) Old Quest o Vecchia Ricerca o Prima Ricerca: inizia convenzionalmente dal 1778 (pubblicazione postuma
dei frammenti di Reimarus da parte di Lessing) e termina nel 1906 (libro tranchant di Albert Schweitzer,
Storia della ricerca sulla vita di Gesù).
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Gesù è stato riconosciuto prima come Cristo perché Il Risorto è il compimento di ciò che aveva anticipato: che in lui,
l’azione di Dio è più forte della morte.
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La Chiesa non fa altro che applicare questo fermento della realtà a tutte le realtà storiche: laddove l’uomo spirituale
loda Dio, sulla società…
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Letteralmente: «Indagine sulla vita di Gesù». Così la ricerca venne chiamata dai suoi iniziatori.
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La Old Quest corrisponde alla scoperta della discontinuità: usando i termini di Reimarus, possiamo dire che
c’è:
- un «primo sistema» (la predicazione di Gesù: ovvero la liberazione politica di Israele);
- il fallimento del primo sistema (la croce);
- e un «secondo sistema» (i discepoli, ovvero l’annuncio del Risorto).
Quale continuità tra i due sistemi?
- per Reimarus è la menzogna (Piafraus): frode pia inventata dai discepoli, che hanno nascosto il cadavere e
dopo 40 giorni, quando era decomposto in una fossa comune, hanno annunciato il Risorto (Mt 27-28 è la
testimonianza che tutti sapevano di questa menzogna).
- per il filosofo Friedrich Strauss è la mitologizzazione operata dalla cultura popolare: essa ha infatti una
capacità mitopoietica che le ha permesso di fare di Gesù Dio a furia di raccontarlo.
- per la teologia liberale (Harnack, Ritschl) sono le verità di ragione: ovvero quelle verità ragionevoli che
Gesù ci ha comunicato (“Dio è un padre buono”, “se fate i bravi andate in paradiso”, “siete tutti fratelli non
litigate”…). Lo slogan è: “non è vero perché lo ha detto Gesù: Gesù lo ha detto perché è vero
razionalmente”.
- Queiruga (ultimo dei modernisti) direbbe: la risurrezione è il fatto che Gesù vive in Dio, come i nostri
defunti; ma non è risorto veramente, queste cose non accadono. Se però Gesù non è risorto, significa che
non ha fatto nemmeno miracoli, cioè: Gesù non è un seme che sta trasformando la realtà.
In tutti questi casi la continuità è data da forze storiche, non trascendenti (la fedeltà di Dio, la
trasfigurazione della realtà…).
Ecco perché interviene Schweitzer: con il suo libro dimostra il fallimento di tale ricerca sul Gesù storico.
La ricerca sul Gesù storico ha slegato Gesù dal dogma della Chiesa per ridargli vita, ma di fatto lo ha
imprigionato nel suo tempo, cioè nel passato: nell’apocalittica giudaica. Per di più: Gesù ha fallito la sua
missione apocalittica, perché la fine del mondo che annunciava non è venuta.
Secondo Schweitzer l’unica possibilità per lo storico di evitare il fallimento è rivestire Gesù degli abiti della
sua cultura: allora è possibile riattualizzarlo.
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Qui si inseriscono gli autori di riferimento di Papa Benedetto XVI: Snackenburg, Gnilka e altri.
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La iniziò il discepolo di Bultmann che ha rinnegato il maestro, Ernst Käsemann, il quale afferma che proprio
la fede nel Risorto sente il bisogno della memoria del Nazareno. Il Risorto, infatti, non è un mito o un
fantasma, ma un uomo reale: se vuoi conoscerlo, devi fare memoria della sua storia.
La fede nel Risorto non parte dal kerygma, tant’è che una volta scritto il kerygma (san Paolo), la Chiesa
sente il bisogno di scrivere i Vangeli, e ciò perché la Chiesa ha la percezione del Kyrios e sente il bisogno di
raccontare la storia di Gesù, perché il Kyrios non è un mito o un semidio, ma proprio Gesù di Nazareth
crocifisso vivente tra i suoi.
La preoccupazione di Käsemann è quella di cogliere la continuità tra il Kyrios e Gesù sapendo che la novità è
già in Gesù: il Risorto non implica una novità così radicale da non dover richiedere il recupero del Gesù
storico, ma implica una novità che richiama, spiega, manifesta e realizza la novità anticipata dal Gesù
storico. Il Risorto è una novità non assoluta, ma presuppone una continuità6.
Qui si inseriscono i cosiddetti post-bultmanniani:
- per Ernst Fuchs la risurrezione è la conferma della novità di Gesù: si ha una cristologia implicita e una
cristologia esplicita, e il criterio di separazione sta nella Risurrezione.
La novità di Gesù sta nel fatto che Gesù è anticipo (o realizzazione anticipata) della vicinanza sanante di Dio
(la βασιλεία τοῦ θεοῦ). Dio è talmente vicino che gli storpi camminano, i ciechi vedono… Il Regno, in effetti,
è la profondità teologica dell’agire di Gesù: Gesù tocca e parla perché Dio vuole perdonare e farsi vicino agli
uomini.
- per Gerhard Ebeling la novità di Gesù è l’evento della fede come partecipazione all’onnipotenza di Dio. Di
qui Sequeri e D’Alessio e la fede di Gesù: Gesù chiede di partecipare alla sua fede, ovvero al suo
affidamento al Padre7.
La New Quest è ossessionata dalla novità di Gesù: l’obiezione dei più grandi dei grandi sistematici
protestanti (Pannenberg, Moltmann) è se la risurrezione implichi una novità reale della condizione di Gesù
oppure è solo la conferma di ciò che Gesù già realizzava. Käsemann intuisce che per capire il Risorto è
necessario capire Gesù; ma non riprende il Gesù di Palestina, ma il Gesù quale umanità già trasfigurata8. La
risurrezione allora è solo la conferma della novità già inscritta nella storia di Gesù: non è risuscitato un
ebreo, ma un uomo nuovo (che non è né ebreo, né greco, né napoletano)9.
Anche WILLI MARXSEN, Die Sache Jesu geht weiter (1976) ha questa intuizione: la novità che c’era già in Gesù
va avanti, non si dice che vive in un’esistenza nuova. Ma allora la risurrezione, chiederebbe Brambilla, è un
evento di Gesù o un evento della Chiesa?
I cattolici affermano l’esistenza di un eccedenza, prevista da Gesù e imprevedibile per i discepoli: il Risorto è
una condizione nuova trasfigurata. Perciò è necessario mantenere l’oggettività della condizione risorta.
Allora la continuità sta nella comunità dei discepoli (che è missionaria sia prima sia dopo Pasqua) e la
discontinuità nella nuova missionarietà ricevuta con la Pasqua (Gesù chiede di predicare solo agli ebrei, il
Risorto anche ai pagani)10.
d) la Third Quest o Terza ricerca: dal 1985 (cioè dagli studi di Sanders).
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Era interessante affermare una simile verità in un’epoca in cui trionfava la teologia dialettica di Barth: Dio inizia
quando finisce il mondo. E invece, proprio nel caso di Gesù, Dio inizia riprendendo la storia di Gesù e glorificandola.
7
Questa è una cosa vera: a parte nella scuola di Isaia, nell’AT la fede non è l’unica perfezione dell’Alleanza, forse non è
neanche la principale: è piuttosto il timore di YHWH, la giustizia, la pietà…
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Per cui, ad esempio, l’Ultima Cena non è un pasto ebraico: è già l’eucaristia dei cristiani. La tradizione pasquale
ebraica non serve per capire qualcosa dell’Ultima Cena, anzi probabilmente essa non era nemmeno una cena
pasquale: ma il testamento del fondatore di un gruppo ai suoi discepoli (e questo è ancora Bultmann,
paradossalmente!).
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E invece sembra che in Mc 7, 14-23 Gesù può dire che non c’è più cibo puro e impuro proprio perché alla luce della
vita nuova tutti i cibi sono puri. Esiste, direbbe Thyssen, una “purità aggressiva”: è Gesù che contamina i lebbrosi con
la novità della sua resurrezione.
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Qui si inserisce la cristologia che fece epoca di Walter Kasper: la cristologia studia la corrispondenza nella novità tra
Gesù crocifisso e Cristo glorificato.
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È l’istanza della continuità con il giudaismo nella pluralità delle fonti: è la pluralità delle fonti che fa
percepire la discontinuità di Gesù con qualunque contesto comunitario (gnostici, ebraismo, Qumran,
grande Chiesa).
Secondo Paul Gisel all’inizio del cristianesimo c’è il pluralismo, perché Gesù è un evento incontenibile, che
si riflette in tanti frammenti di senso. Rimane la continuità di Gesù con il giudaismo: tale continuità implica
che è sufficiente leggere il comportamento giudaico di Gesù (non le parole: non sappiamo se le ha
inventate la Chiesa oppure no!) senza la fede della Chiesa successiva mettendo al centro l’incidente della
purificazione del tempio. Posso spiegare cos’è successo a Gesù raccontando la sua storia come quella di un
pio ebreo che vuole rigenerare Israele ma che quando purifica il tempio si scontra con le autorità ebraiche
che lo consegnano ai Romani per farlo morire: questa è la storia di Gesù. Gesù sarebbe stato crocifisso per
un equivoco o per un incidente.
Il problema della Third Quest è che cerca la continuità di Gesù con il giudaismo, fin quasi a perdere la
continuità. Luogo strategico della nostra obiezione è il logion sul tempio (sia nella versione di Gv 2 sia nelle
accuse al processo secondo i sinottici). Esso stabilisce infatti uno scambio simbolico tra il corpo di Gesù e il
tempio come luogo della vicinanza di YHWH: Gesù aveva un rapporto con le istituzioni ebraiche nel quale
voleva realizzare uno scambio simbolico (“la Torah vi ha detto, ma io vi dico…”; “il tempio sarà distrutto, ma
il mio corpo rimarrà in eterno…”). Il comportamento giudaico di Gesù non è interpretabile se non alla luce
della sua pretesa di realizzare uno scambio simbolico che attualizzasse la presenza di YHWH tra i suoi: e
proprio in questa pretesa di Gesù sta la discontinuità. Una cosa detta bene da
- Ratzinger, Gesù (1): il rabbino Neuser deve scegliere tra l’io di Gesù e la Torah eterna, e sceglie la Torah
perché dell’io di Gesù che si pretende Figlio non si fida.
- Segalla: Gesù pretende di essere il rappresentante di Israele di fronte ad YHWH ma anche il
rappresentante di YHWH di fronte a Israele, ma Israele non lo ha mai accettato.
Dunque la questione della fede non può essere esclusa per il rapporto con la pretesa di Gesù: continuità
con l’ebraismo, discontinuità (logion) nella pretesa di Gesù che suscita la pretesa dei discepoli.
I.2.3. La questione delle origini, ovvero la ripresa della questione nella consapevolezza che la discontinuità
sta nell’origine: il problema della continuità nella discontinuità non è solo nel rapporto tra noi e lui, ma
nella storia di Gesù, nell’origine stessa della cristologia.
I passi qui sono fondamentalmente tre:
a) scoperta della discontinuità tra noi e Gesù: le strategie per cogliere la continuità sono:
- l’illuminismo della teologia liberale: la cerca nelle verità di ragione: Gesù ha detto cose che sono
sempre vere;
- la risposta romantica dello storicismo: la continuità è nell’impulso di qualcosa di nuovo che Gesù
ha messo nella storia e la discontinuità tra noi e Gesù rimane finché non entri nel Gefϋhl (sentimento) di
Gesù per scoprire tale impulso.
L’equivoco di queste due posizioni è che Gesù ha la forma di un primo dato per sé evidente e pacifico, che
scopre delle verità razionali e in sé è pacifico. Ma il problema è proprio Gesù! Lo studio storico su Gesù
mostra che Gesù stesso è il problema.
b) affermazione di una discontinuità per principio per lasciarsi provocare da Dio: è Bultmann. La
discontinuità tra fede e storia è di principio, non è legata a motivi storici: in Gesù c’è Dio che giudica il
mondo e lo interpella.
La continuità è invece la contemporaneità di Dio, che mi interpella oggi: Gesù è risorto per rendere
contemporaneo a noi il giudizio di Dio. La risurrezione è la contemporaneità di Dio che ci interpella come
interpellava Gesù.
E anche qui nella contemporaneità di Dio c’è dentro Gesù che è “compatto”, che non fa problema. Ma la
storia di Gesù è importante per la verità di Dio? Bultmann risponderebbe di no: l’appello di Dio ci raggiunge
a prescindere dalla storia di Gesù.
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c) Käsemann (riletto da Gisel): la continuità tra noi e Gesù sta nel giudizio di fede che interpreta la
discontinuità inscritta nella vicenda di Gesù, come rapporto tra Gesù crocifisso e Cristo risorto. La verità di
Dio non si dà dopo, accanto o nonostante la storia di Gesù, ma dentro di essa: la continuità non è solo
storica (illuminismo) o teologica (Bultmann), ma entrambe (la verità di Dio nella storia di Gesù). Fa la
continuità nella discontinuità la fede: il giudizio sulla storia di Gesù11.
La genialità di Käsemann sta nell’aver capito che Gesù non è un primo dato pacifico che ci raggiunge, ma
porta nella sua storia una discontinuità da interpretare sia per i primi discepoli sia per noi. I discepoli nei
Vangeli hanno scritto le buone ragioni del loro giudizio di fede su Gesù e ci invitano a rifare il loro giudizio di
fede per rientrare in quel processo di vita nuova che attraversa la discontinuità della storia di Gesù.
In termini metaforici: il rapporto tra storia di Gesù crocifisso e vita del Risorto è il seme che se muore porta
molto frutto (Gv 12). I due termini non vanno tolti, ma si deve entrare nella tensione tra di loro dal punto di
vista del seme gettato, cioè nel giudizio di fede che permette di entrare nella discontinuità tra crocifissione
e risurrezione con l’atteggiamento di Gesù stesso, cioè la libertà del Figlio che si dona.
Per questo non abbiamo paura di nessuna ricerca storica su Gesù: vi entriamo esibendo la nostra chiave
interpretativa, cioè: la libertà di Gesù si dona per generare un processo di trasfigurazione. Il linguaggio
tipico di Gesù che dice bene questo processo di trasfigurazione sono le parabole, che HANS WEDER in
Metafore del Regno definisce come anticipazione del mondo nuovo che prepara la novità del Risorto e
Ricoeur definisce come metafore narrative (cioè: racconti per capire i quali devi ridescrivere la realtà12).
Non è possibile interpretare le parabole al di fuori della fede cristologica: cioè al di fuori dell’anticipazione
dello Spirito di Gesù, cioè della vita nuova del Risorto, della sua libertà filiale che sta trasfigurando il mondo
vecchio.
L’approdo finale è: Gesù il Cristo è il Risorto vivente nella Chiesa generatore di processi di trasfigurazione.
La fede coglie precisamente la continuità nella differenza dei tempi (pre-pasquale e post-pasquale)
sintonizzandosi sul suo cuore, cioè sulla sua libertà filiale.
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Ne consegue che la verità dell’Abbà non è un’intuizione mistica, unεἶδος (realtà che struttura l’apparire della realtà)
che viene giù dal cielo, ma l’evidenza della storia di Gesù, così come esclamata dal centurione in Mc 15.
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Cfr le beatitudini: affermazione di una felicità per cogliere la quale devi immaginare un mondo nuovo. Per noi
cattolici l’Eucaristia è il simbolo più bello di quella trasformazione: è il seme seminato in noi che ci trasforma in lui.
13
C’è chi (Marcello Bordoni, Mario Serenthà) parte dai Vangeli: prima racconto la storia di Gesù, poi te lo faccio
riconoscere come Cristo. Noi facciamo il contrario: partiamo dalla relazione con il Risorto che riattiva la domanda di
Gesù.
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Prendiamo a esempio la confessione di fede di Cesarea (Mc 8, 27-33): la memoria Iesu deve essere abitata
dalla libertà di Gesù, cioè: è necessario ricordare Gesù rispettando come lui ha voluto essere e fare il Cristo.
È il senso del segreto messianico:
- dicendo «Tu sei il Cristo», Pietro identifica ciò che sta capitando ai discepoli da quando Gesù è tra loro (tra
un miracolo e l’altro si capisce che YHWH è fra noi);
- Gesù chiede di custodire il segreto messianico perché vuole che i suoi discepoli vedano come lui vuole fare
il Cristo;
- la tentazione del discepolo è di raccontare la storia di Gesù spiegando a Gesù come si fa il Cristo: il «Non
sia mai!» di Pietro;
- per questo Gesù chiede a Pietro di tornare dietro a lui (ὑπάγη ὁπίσω μου): per fargli vedere come si fa il
Cristo.
Si intuisce che il polo confessante è frutto dell’incontro col Risorto, il polo narrativo è strutturato sulla
sintonia con la libertà di Gesù (“lui sa come si fa a fare il Cristo”). Ecco perché polo confessante e polo
narrativo sono i due poli costitutivi della cristologia: confessiamo il Cristo come Vivente facendo memoria
della storia di Gesù con la sua libertà. Il Vangelo è quel genere letterario che non fa una biografia, ma
racconta la storia di Gesù dal punto di vista del Figlio14.
1) Il polo confessante ha la forma di un grido che coglie una presenza vivente: non un’ideologia, ma uno
stupore, una risposta alla presenza inattesa del Risorto.
2) Il polo confessante è centrato sul mistero pasquale: esso è il punto di esplosione, di dilatazione della
percezione della vicenda di Gesù. La pasqua funziona come fondamento della presenza.
3) contiene già una cristologia ricca: vi sono infatti già tutte le dimensioni della risurrezione:
- il Risorto non è un cadavere rivivificato, ma glorificazione, effusione dello Spirito, intronizzazione…;
- morte salvifica, in coerenza con la vicenda storica di Gesù;
- intuizione della preesistenza (presenza fin dall’origine), da legare da un lato alla Sapienza, dall’altro alle
dimensioni cosmiche della presenza del Risorto;
- la questione decisiva della libertà di Gesù.
Ma (ecco la domanda di Käsemann e Bultmann) se la Cristologia è già così ricca da sé, perché c’è bisogno
della narrazione? La Chiesa vuole dare materiale per capire lo stile di Gesù: non basta dire il che, ma il
“come”. Le risposte classiche:
III.2.1. Ce n’è bisogno per dire la legittimità e il senso dei titoli cristologici del polo narrativo (ciò che
Musner chiamava la “costrizione oggettiva”: se stai parlando di Gesù, quel Gesù è quello che pretendeva di
realizzare questi titoli), sostanzialmente tre:
- Kyrios autorità (exousia): nella sua vita Gesù ha realizzato l’autorità di YHWH;
- Cristo Regno: nei suoi gesti si realizzava non un regnare politico, ma il regnare di YHWH;
- Figlio, in particolare Figlio di Dio intimità col Padre.
“Rabbi”, “Maestro”, “Profeta”, “Figlio dell’uomo” sono tutti titoli che spariscono dal polo narrativo.
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Per questo, a livello del polo confessante, sono meravigliosi gli studi di Hurtado: i cristiani sono gli adoratori del
Kyrios, perché nell’adorazione del Kyrios YHWH si manifesta in maniera definitiva.
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Alla luce della prima domanda, viene la seconda: come funziona questa narrazione? Qui ci sono due
notazioni:
1) Anzitutto, la narrazione funziona come la risposta a ciò che ci ha chiesto Gesù: «Voi chi dite che io sia?»
(Mt 16,).
In questo senso la narrazione ha il funzionamento di un’identità narrativa: identifico Gesù raccontando la
sua storia con noi, così come identifico YHWH raccontando i luoghi della sua auto-presentazione. Gesù si
presenta come YHWH nell’AT, ovvero dicendo: “Ecco a voi il Regno di Dio”. È Giovanni che ne fa la rilettura
con l’ego eimi.
2) Funziona come la continua traduzione cristologica del teologico: Dio si fa vicino nei gesti di Gesù, e per
descrivere questo farsi vicino di Dio devo descrivere la storia di Gesù. L’importanza di questo elemento si ha
di fronte allo scandalo della croce: Dio viene come le tenebre a mezzogiorno.
3) Dio viene iscrivendo nel tempo dell’uomo la sua verità (è il fondamento antropologico del narrativo). Dio
non ci dà tutto subito in maniera chiara perché noi non siamo tutto subito in maniera chiara. Noi dobbiamo
diventare ciò che siamo. Il tempo è l’uomo che diventa se stesso, e il dono di Dio è l’offerta all’uomo di
entrare nel cammino in cui egli diventa se stesso. La sfida di Dio è di darci un dono che si inscriva nel
tempo.
III.2. Una rinnovata fiducia nella tradizione orale: il Gesù ricordato e testimoniato (2003)
Nella sua opera monumentale James Dunn muove la tesi per cui non è vero che solo il kerygma ha influito
sui Vangeli: oltre ad esso, vi è anche l’impressione che Gesù aveva lasciato e che ha plasmato la tradizione
orale, informale ma controllata (se la passavano di padre in figlio, ma c’erano autorità che controllavano la
coerenza della narrazione). Nella tradizione, c’è l’impressione che Gesù aveva lasciato nei suoi uditori: il
Gesù ricordato. Cfr citazione di Dunn. Non è vero che noi abbiamo solo frammenti sparsi su Gesù.
Chi sono i suoi seguaci? I Dodici, i discepoli (itineranti, sedentari, donne, familiari), le folle
Compiva guarigioni? a) Sì: la concordanza e l’abbondanza delle fonti lo rende un dato storico
Come vanno intese? incontrovertibile
Faceva esorcismi? b) I miracoli sono segni del regno
c) Faceva esorcismi, anche in senso stretto
Chi o cosa vuole essere? a) il Regno di Dio
b) il Messia
c) il Figlio di Dio: chiama Dio “padre” e se stesso “Figlio dell’uomo”
d) non è solo un profeta apocalittico
Quali fasi e itinerario? Cinque fasi:
a) La regione del Giordano (fine 27 – metà 28 d.C.).
b) La Galilea (metà del 28 – Pasqua del 29 d.C.)
c) Gli spostamenti per la Galilea e i territori vicini (Pasqua del 29 – Tabernacoli
del 29 d.C.)
d) Perea, Giudea e Gerusalemme (Tabernacoli del 29 – prima di Pasqua del 30
d.C.)
e) Gli ultimi giorni a Gerusalemme (Pasqua del 30 d.C.)
Fine tragica Ingresso a Gerusalemme e purificazione del Tempio; Ultima cena; arresto e
processi; crocifissione e sepoltura; testimonianze pasquali e missione dei
discepoli
• Nato a Betlemme?
Sì:
a) la concordanza delle due uniche fonti in merito (vangeli canonici di Matteo e di Luca) non lascia dubbi, né
può essere il caso di una prova a posteriori della messianicità e della discendenza davidica di Gesù. «Perché
due fonti storiche, indipendenti e piuttosto divergenti tra loro, coincidono su una stessa notizia? Da dove è
giunta loro? Secondo alcuni la tradizione cristiana primitiva ha situato la nascita di Gesù a Betlemme per
giustificare e dimostrare, contro le obiezioni giudaiche, che Gesù è realmente il Messia d’Israele,
l’aspettato. Il Messia doveva infatti essere discendente di Davide e il paese di Davide è indubbiamente
Betlemme. Le affermazioni di Matteo (1,20; 2,6) e Luca (1,27; 1,32-33; 1,69; 2,4; 2,11) su Gesù come Messia
discendente di Davide, farebbero pensare che la scelta di Betlemme sia un dato più teologico che non
un’informazione strettamente storica. Se fosse però una notizia destinata a “provare” che Gesù è
discendente di Davide, creata per la comunità primitiva, perché non ci sono più affinità nei racconti
dell’infanzia di Matteo e di Luca e concretamente nei riferimenti che questi due vangeli fanno a
Betlemme?» (p. 173).
b) divergenza delle fonti sull’esatta ubicazione della nascita di Gesù: se in una casa betlemmita
appartenente a Giuseppe o a un suo parente (Matteo) o la stalla di un edificio pubblico destinato ad
accogliere carovane e dare alloggio ai viaggiatori (Luca).
• Quando è nato?
Tra il 1° ottobre del 7 a.C. e il 30 settembre del 6 a.C. Infatti:
a) Gesù nacque sotto Ottaviano Augusto (29 a.C. – 14 d.C.) e di Erode, re dei giudei (37 a.C. – 4 a.C.):
non si può andare più indietro del 4 a.C.
b) il censimento di Erode si situa tra il 7 e il 6 a.C. (pp. 176-180)
c) «Il fatto che Erode decidesse di far uccidere tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni “dai due anni
in giù” (Mt 2,16) indica che, secondo il Vangelo di Matteo, occorre situare la nascita di Gesù in un arco
temporale non superiore ai tre anni rispetto alla morte di Erode, che avviene quando la famiglia di Gesù è
già in Egitto, secondo Mt 2,19» (p. 181).
d) Per le considerazioni astronomiche circa la stella scorta dai Magi, cfr pp. 181-182.
• Discendente di Davide?
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Sì: «la comunità cristiana primitiva ha fatto in modo di inquadrare Gesù nella linea davidica, ricostruendo la
sua ascendenza e giustificando così, in modo significativo, la sua appartenenza alla stirpe di Davide e al
popolo di Abramo» (p. 192). Sei prove documentali e due prove storiche:
1) designazioni neotestamentarie: Mt 9,27; 12,23; 15,22; 20,30.31; 21,9.15; Mc 10,47.48; 11,10; Lc
1,32;1,69; 18,30.39; Rm 1,3; 2Tm 2,8; Eb 7,14; Ap 3,7; 5,5; 22,16.
2) designazioni in Didaché;
3) genealogie evangeliche di Mt 1,17 e Lc 3,23: la ricerca corre su vie diverse (quella reale, per Matteo;
Luca, la più antica e che Matteo deve aver ritoccato, più forzata in senso universalistico), ma comunque
sfociano in un risultato identico: Gesù, figlio di Giuseppe, è discendente di Zorobabele, figlio di Salatiel, e di
Davide, figlio di Iesse;
4) Egesippo (n. 180 d.C. ca), citato da EUSEBIO DI CESAREA, Storia Ecclesiastica: Simeone, successore di
Giacomo, “fratello del Signore”, fu denunciato sotto Traiano come successore di Davide e condannato alla
crocifissione;
5) EUSEBIO DI CESAREA, Storia Ecclesiastica 3,20,1-6: i due nipoti di Giuda, fratello di Gesù, sono chiamati a
testimoniare davanti a Domiziano per il fatto di appartenere alla famiglia di Davide;
6) Giulio africano, citato da EUSEBIO DI CESAREA, Storia Ecclesiastica 1,7,13: la famiglia di Gesù si vantava delle
sue origini davidiche;
7) Se Giuseppe, in occasione del censimento, si reca a Betlemme (quando avrebbe potuto benissimo
registrarsi a Nazareth), è perché Betlemme era il suo paese originario: «La scelta era comprensibile nel caso
di un uomo come lui, un giudeo osservante della stirpe di Davide, il grande re d’Israele. La famiglia di
Giuseppe infatti proveniva da Betlemme e da poche generazioni era immigrata in Galilea, dove,
evidentemente, le sue origini erano conosciute e rispettate» (p. 179).
8) Vedi lettera a) della domanda “Era falegname?”.
• Fratelli e sorelle?
Sì: quattro fratelli (Giacomo, il più importante; Giuseppe, Giuda e Simeone/Simone) e due sorelle (di cui
non sappiamo il nome, forse Maria e Salomè). Secondo l’ipotesi più antica (Protovangelo di Giacomo;
Vangelo dell’infanzia di Tommaso, Vangelo di Pietro; Origene, Clemente Alessandrino, Eusebio, Epifanio), i
fratelli di Gesù sono suoi fratellastri legali. Giuseppe sarebbe il padre legale comune a tutti loro, ma
sarebbe padre biologico solo dei figli di un primo matrimonio, con una prima moglie dal nome sconosciuto.
Per le altre ipotesi, cfr pp. 196-207.
• Conosceva le Scritture?
«Gesù […], come rabbino, conosce sufficientemente la lingua delle Scritture per proporre
un’interpretazione propria di alcuni passaggi biblici. Così si deduce dalla risposta che dà ai farisei che lo
interpellano sul fatto che i suoi discepoli raccolgano spighe di sabato: “Non avete mai letto ciò che fece il
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profeta Davide […]?” (Mc 2,25-26). […] Il fatto che egli predichi nelle sinagoghe galilee (cfr, per esempio, Lc
4,16-20) sarebbe difficilmente comprensibile senza la conoscenza delle Scritture e della lingua in cui sono
scritte. Egli, dunque, probabilmente legge l’ebraico e lo può utilizzare quando parla con altri rabbini su
questioni relative all’interpretazione delle Scritture […]» (p. 211). È infatti chiamato rabbino: «Il fatto che
sia chiamato “rabbino” indica […] che nel suo comportamento vi sono elementi che lo giustificano,
soprattutto una conoscenza sufficiente della Scrittura che gli permette di dialogare e discutere
interpretazione della Legge o Torah con altri rabbini» (p. 226). È tuttavia innegabile che nei «riferimenti ai
libri dell’Antico Testamento a lui attribuiti nei vangeli sinottici […] c’è la mano della tradizione cristiana
primitiva» (p. 227).
• Era falegname?
Sì: aveva infatti ereditato il mestiere di suo padre:
a) «Se gli antenati di Giuseppe erano già falegnami-fabbri, si comprenderebbe il fatto che siano
emigrati da Betlemme per installarsi a Nazaret, un paese vicino a Sefforis», divenuta capitale della Galilea
verso il 57-55 a.C.: «questa promozione politica ebbe indubbie conseguenze economiche e demografiche e
Nazaret dovette beneficiarne» (p. 214).
b) «L’agricoltura e, in forma minore, l’allevamento sono le occupazioni abituali della gente di
Nazaret. La maggior parte dei parenti di Gesù sono quindi contadini e lui stesso è membro di una società
agricola. […] Il mestiere di Gesù però non è la coltivazione della terra. […] La sua attività è la stessa di suo
padre, Giuseppe [cfr Mc 6,3], e, probabilmente, è l’unica famiglia che la esercita nel paese [cfr Mt 13,55]»
(p. 213).
c) «Gesù è, dunque, un artigiano del legno e del ferro […]. Il suo lavoro richiede intelligenza, abilità
e una certa robustezza fisica e presuppone un investimento in materiali e istallazioni, oltre che una casa con
uno spazio relativamente grande per lavorare il ferro (forgia, incudine) e il legno (banco e attrezzi di
falegnameria), forse con un cortile davanti. Una bottega con queste caratteristiche deve essere preparata
per lavori legati al mondo agricolo (modellare gli attrezzi necessari per coltivare la terra, costruire carri,
ferrare animali) o alle necessità domestiche (cocci per il fuoco a terra, madie per il pane, bauli per
conservare i vestiti e gli oggetti di valore, porte e finestre, perni e inferriate, assi e misure per solidi e
liquidi, serrature e chiavistelli)» (p. 214).
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• Era celibe?
Sì: lo ha fatto per scelta libera, «per il regno dei cieli» (Mt 19,12):
a) «Per regola generale, l’età di matrimonio degli uomini era intorno ai vent’anni e delle donne
sedici» (p. 209); «nel contesto di Nazareth la scelta era realmente singolare e inusuale e non poteva essere
vista di buon occhio dalla gente del suo paese. […] Gesù, un ragazzo buono e osservante, sano e lavoratore,
intelligente e capace, figlio di una famiglia rispettata nel paese per il fatto di essere discendenti di Davide,
non si sposava, e di questo fatto sorprendente nessuno conosceva i motivi» (pp. 230-231).
b) «Quando, una volta iniziata la sua attività, Gesù riceve a Cafarnao la visita dei suoi familiari più
stretti e quando lui stesso va a Nazaret e predica nella sinagoga, sono menzionati solo sua madre e i suoi
fratelli (cfr Mc 3,31-35 e 6,1-6). Se Gesù avesse avuto moglie e figli, la loro presenza non sarebbe stata
taciuta in queste due occasioni in cui la famiglia occupa una posizione di primo piano. Se invece avesse
agito un’ipotetica censura della tradizione cristiana posteriore, non si spiega perché questa censura non
dovrebbe aver agito allo stesso modo nei confronti delle numerose donne, nubili e sposate, che, con nomi e
cognomi, sono presentate come membri del gruppo più direttamente legato a Gesù» (p. 230).
c) La vocazione profetica di Gesù, «orientato fin dal primo momento a una relazione personale e di
grande immediatezza con Dio, il Padre, […] motiva la scelta volontaria del celibato. […] La spiegazione di
questo celibato la dà Gesù stesso in una frase molto enigmatica che è stata raccolta in Mt 19,12: […] Gesù
[…] ha deciso di non sposarsi “per il regno dei cieli”, ovvero si è fatto eunuco perché ha orientato la sua vita
a Dio e al suo Regno in maniera esclusiva e totale […]: ciò che configura la sua vita è Dio e il suo Regno» (pp.
229-231).
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Giovanni? […] Il battesimo che praticava Giovanni era […] un segno provvisorio che anticipava il battesimo
nello Spirito e che si indirizzava al perdono dei peccati che avrà luogo in un futuro immediato, non ancora
presente. Invece, Gesù ritiene che ora qui e Dio si manifesta con tutto il suo potere misericordioso e
guaritore e che si entra nel tempo del compimento delle profezie: i malati sono curati, i morti risuscitano, i
poveri ricevono l’annuncio della buona novella» (pp. 259-260).
f) Gesù non scomparirà mai dall’orizzonte di Giovanni, ma egli non arriverà a vedere nel suo seguace la
speranza d’Israele. Sarà la tradizione cristiana che gli metterà in bocca ciò che forse il Battista portava nel
cuore e che non osò mai esprimere chiaramente: “Ecco l’agnello di Dio […] il Figlio di Dio” (Gv 1,29.34.36).
• A chi?
a) Israele: «Gesù si muove in maniera quasi esclusiva per Israele, il suo paese, la cornice e il destinatario
della sua attività. Una prova tangibile sono i riferimenti alla salvezza, ma anche al giudizio» (p. 399).
b) Tutti gli uomini: «Il mondo è basato sull’uguaglianza, davanti a Dio, degli esseri umani; anzi, su una bontà
che si distribuisce allo stesso modo tra tutti gli uomini e tutto il creato» (p. 413). «Il suo punto di partenza
però non p un’osservazione romantica e idilliaca della natura, ma la sua convinzione della sollecitudine di
Dio verso le cose create: Gesù vede la natura con gli occhi di Dio, il quale, nel creare il mondo, “vide che
quello che egli creava] era cosa buona” (Gn 1,10)» (p. 414).
c) I malati nel corpo e nello spirito: «Gesù è un guaritore e un esorcista. […] Le due azioni hanno, però, una
finalità identica: procurare la salute delle persone», dal momento che «la persona è un’unità, e una
malattia localizzata incide su tutto l’insieme» (pp. 446-447).
d) I peccatori: «Gesù non resta impassibile nei confronti di quelli che […] in maniera volontaria o
involontaria, possiedono una vita insoddisfacente e, spesso, insoddisfatta. Li va a trovare, non li respinge,
se li fa amici, offre loro il perdono e la pace» (p. 465). È interessante notare che «Gesù non esige la
conversione come condizione previa al perdono. Il cambiamento di vita arriva come conseguenza dell’invito
che si è ricevuto e del dono che si è diffuso nel cuore della persona. […] L’amicizia di Gesù con i peccatori è
del tutto gratuita, però trasmette una richiesta al tempo stesso dolce e interpellante» (p. 467).
e) I poveri e gli emarginati: «Si tratta in generale di gente senza possibilità né mezzi, senza potere o
influenza, che hanno fiducia in Gesù e vedono in lui la soluzione dei mali che li affliggono, dai quali non
possono sfuggire da soli. […] La povertà materiale non è affatto indizio di rifiuto da parte di Dio; bensì il
contrario, Dio si mostra prossimo a quelli che soffrono e li fa entrare nel suo Regno» (pp. 472-473).
f) I malvagi: «Dio agisce senza restrizioni né condizionamenti, senza misure né valutazioni anticipate. […]
Gesù afferma che anche i malvagi hanno diritto ad essere amati. Il ragionamento elementare del sole e
della pioggia serve per esprimere una verità profonda: Dio non fa distinzioni di persone» (p. 405).
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(se la maggior parte dei familiari di Nazaret, infatti, avversa Gesù, bisogna ritenere che alla fine della sua
vita le relazioni sembrano ricomporsi).
c) le folle: «La gente si sente bene a fianco di Gesù, perché il rabbino di Nazaret […] ha compassione di tutti
loro, “poiché erano come pecore che non hanno pastore” (Mc 6,34)» (p. 275). Tuttavia, «l’affetto delle
moltitudini per Gesù è volubile e di poca consistenza. Le guarigioni e i fatti straordinari che escono dalle sua
mani attraggono la gente, ma non si produce un cambiamento considerevole di vita e di comportamento»
(p. 277).
• Compiva guarigioni?
a) Le fonti (non solo cristiane: anche le fonti ebraiche avverse a lui citano episodi miracolosi) non lasciano
dubbi: il fatto che Gesù avesse poteri e li utilizzasse liberando coloro che erano oppressi da malattie del
corpo e dello spirito è un dato storicamente incontrovertibile. Nei vangeli si contano 27 narrazioni di
miracoli. L’accettazione della storicità dei miracoli di Gesù dipende dall’ammissione della possibilità che Dio
non sia estraneo al mondo che ha creato: «Se il mondo rimanesse chiuso ad ogni tipo di intervento divino e
la storia possedesse un’autonomi dalla quale Dio venisse positivamente escluso, il miracolo si
convertirebbe in una pretesa ridicola» (p. 436).
b) Come vanno intese? I miracoli sono segni del Regno: «Gesù parla del Regno con i suoi miracoli, perché il
linguaggio della guarigione e della liberazione, il linguaggio della salvezza della persona malata o
prigioniera, è universalmente comprensibile. […] Dietro al miracolo c’è una lotta, un confronto con una
forza del male, di malattia, in definitiva di morte, che distrugge e sottomette la persona. Per questo motivo
il miracolo è una liberazione, un avvenimento nel quale la persona è salvata da una prigione che sembra
impenetrabile. […] I miracoli sono segni inconfondibili che è arrivato un mondo nuovo, in cui c’è posto per
la felicità e la speranza» (pp. 436-438). Ma attenzione: «Egli tuttavia non predispone il miracolo in modo
meccanico, come se si realizzasse a prescindere dalla persona o dalle persone curate o liberate. Molto
spesso il miracolo arriva nell’ambito della fede di colui che vuole essere guarito e di coloro che
l’accompagnano, indotti dalla convinzione e dalla certezza della forza di Gesù» (p. 439).
c) Faceva esorcismi? «[Non] tutti i racconti di esorcismo siano guarigioni in cui si cerchi la causa della
malattia nel potere oppressore di Satana e degli spiriti maligni. In alcune – poche – occasioni si parla di una
possessione in senso stretto, ovvero di una persona dominata completamente da un soggetto estraneo che
ha “divorato” la sua umanità fino al punto che la volontà e le parole dello spirito maligno e del posseduto si
confondono […]. In entrambi i casi è chiaro che il male interno della persona è grave e profondo e che
l’azione di Gesù, distruggendo lo spirito maligno, restaura il posseduto nella sua identità di essere umano e
gli restituisce la sua consistenza fisica e spirituale» (p. 449).
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- chiama Dio “papà”: «Gesù è in effetti l’unico giudeo della sua epoca che invoca Dio con questo
nome, senza accompagnarlo con alcun altro epiteto. […] Se Gesù utilizza il nome di Padre per rivolgersi a
Dio è perché si sente e vive molto vicino a lui e vuole farne partecipi quelli che lo circondano» (p. 546).
- chiama se stesso “Figlio dell’uomo”, un’espressione il cui senso primo «è semplicemente “uomo”,
ovvero la persona umana, vista dal lato terreno della sua debolezza e precarietà» ma che, sulla base di Dn
7,13-14, è anche «un personaggio celestiale» che «viene sulle nubi del cielo e riceve “potere, forza e
dominio”»: per Gesù «il Figlio dell’uomo occupa un posto d’onore alla destra di Dio, pertanto possiede
un’autorità piena che lo rende capace di giudicare tutta l’umanità» (pp. 540-542).
d) Gesù non è un semplice profeta apocalittico: egli «non vuole entrare in speculazioni sul futuro, né sui
segni che annunciano la fine della storia o del frammento di storia che si sta vivendo. In altre parole, la fine
del mondo può aspettare». «Meglio, quindi, riconoscere la propria ignoranza rispetto a duna decisione che
Dio ha riservato a se stesso, sulla quale nessuno può influire (Mc 13,32; Mt 24,36)» (p. 384).
• La fine tragica:
Ingresso a Gerusalemme
Avviene domenica 2 aprile: è un gesto trionfale che fa esplodere l’entusiasmo popolare ma entro certi limiti
(altrimenti l’autorità romana avrebbe reagito)
Ultima cena
a) è il suo testamento spirituale, la cena dell’addio
b) vi parteciparono Gesù, i Dodici, probabilmente un servo; non è da escludere la presenza delle donne
c) è un pranzo festivo (preghiere di benedizione elargite su pane e vino; le parole sul banchetto del Regno),
ma non è propriamente la cena pasquale, pur essendo collocato in una cornice pasquale dai vangeli.
d) esibisce il significato della sua morte in croce: la donazione e la forza salvifica (pane), la nuova alleanza e
il sacrificio di comunione (il vino).
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e) culmina con la lavanda dei piedi, assolutamente verosimile anche se riportata solo dalla tradizione
giovannea (p. 586), il cui significato è il servizio
Arresto
Accade in un orto o terreno chiamato “Getsemani”, a un chilometro (!) dal cenacolo: è un luogo familiare
per Gesù e i suoi discepoli (Lc 22,39; Gv 18,2)
Colpo d’occhio: Gesù è un carismatico itinerante taumaturgo ecc. Come visto in Teologia Trinitaria, pone la
domanda sul luogo di Gesù: il venire di Dio cui Gesù dà forma, la basileia tou theou. Se vogliamo capire
Gesù, dobbiamo anticipare nei suoi gesti una nuova presenza di Dio con l’uomo.
IV.1.1.Storicamente, è innegabile che Gesù fu predicatore itinerante che annunciava qualcosa che non gli
permise di fondare una scuola, di avere un posto fisso, ma annunciava qualcosa che lo metteva in
movimento. Cfr Puig I Tàrrech: Gesù comincia col Battista, poi trova lo strumento insoddisfacente per
comunicare la grazia che lui sente, perciò si reca in Galilea a fare miracoli (al vertice: la moltiplicazione dei
pani e dei pesci), però intuisce che il passaggio ulteriore e ineludibile è Gerusalemme. Cfr vangelo di Marco
(Vignolo parla di “pretesa captativa”). Gesù è portato dal suo annuncio, il suo annuncio non crea strutture
in questo mondo.
IV.1.2. Gesù fu pure un carismatico, nel senso di Weber: un uomo che brilla di luce propria, non riceve
autorevolezza da nessuno. È quella che Bertuletti chiama l’autoevidenza dell’evento fondatore: qui c’è
qualcosa di originario. E qui che già il problema della memoria Iesu: non posso illuminare Gesù con la Torah,
ma devo chiedere a lui come funziona! Gesù si inserisce in una tradizione, eppure lui chiede di
reinterpretarla.
IV.1.3. Gesù fu infine taumaturgo: l’accusa della tradizione rabbinica è di aver sedotto Israele con opere di
magia. Ciò significa che il dato per cui Gesù operava guarigioni e faceva miracoli è un dato storico, contro il
razionalismo di molti storici (Blondel: è da preferirsi una concezione del reale più possibilista).
Queste tensioni sono offerte come principio euristico (servono per cercare altri autori).
IV.2.1. Laprassi: cfr Schurman: invece che cercare l’ipsissima vox Iesu (le parole di Gesù), cerchiamo lo stile
di Gesù rilevabile dal comportamento (che forse è un dato storico più oggettivo). Alcuni elementi
a) la sua enorme autorità, per la quale i discepoli sono fuori di sé, in una “condizione estatica” (S.
Fausti), perché non avevano mai sentito parlare così, né avevano visto scacciare i demoni così, né
soprattutto (Hengel) alcuno aveva azzardato, nei confronti dei discepoli, una chiamata così forte da
sequestrare la loro vita.
b) l’elemento paradossale sono la provvisorietà e la povertà di Gesù: il Figlio dell’uomo è Signore
del sabato, eppure non ha dove posare il capo; è venuto a sanare ciò che è malato, eppure sarà disprezzato
e crocifisso. Gesù non è preoccupato di istituire un sistema di potere per trasmettere.
c) la composizione di autorità e provvisorietà/povertà sta nella missione: Gesù è stato mandato a
fare qualcosa, si sente consegnato per qualcuno. «Chi accoglie voi accoglie me» (Mt 10,40): l’elemento di
sintesi è il dono del Figlio perché fa parte della coscienza di Gesù.
Questa missione non ha un programma o un’agenda, ma viene realizzata realizzando il suo destino.
La missione di Gesù è realizzare la sua condizione di Figlio nel nostro tempo, comunicando a chi incontra la
loro dignità di figli: non deve fare altro. Se vuoi capire quello che succede, devi capire un’identità.
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IV.2.2. L’annuncio: Gesù non annunciava se stesso, ma il Regno e il nesso tra il Regno e la sua persona con il
titolo misterioso Bar-nashà (Figlio dell’uomo), che scompare nella memoria pasquale ma resta strategico
nella memoria Iesu (cioè per il Gesù pre-pasquale). Il titolo “Figlio dell’uomo” è, per certi versi, il titolo di un
enigma e di una provocazione.
a) Il Regno (basileia) è stato studiato in tre percorsi:
- secondo una definizione nozionale: riguarda l’AT e la promessa di YHWH, che regnerà sul
suo popolo. I risultati degli studi di Snackenburg hanno messo in luce che “basileia” è un
nome di attività (il regnare di YHWH che viene), non uno Stato, è cioè quello spazio
temporale nel quale YHWH regna sulla creazione. Il concetto di basileia, in altri termini,
chiede una “percezione dinamica”.
Il rischio di questa definizione è però quello di non cogliere la novità di Gesù: io non deduco
le promesse di Dio a partire dall’AT.
- secondo una definizione a partire dai destinatari: è tipica della teologia della liberazione,
per la quale i destinatari sono i poveri e gli umiliati. Perciò, per capire il Regno devi partire
dall’anti-Regno. In effetti, nell’annuncio del Regno vi è una dinamica di capovolgimento
delle dinamiche mondane: il Regno non lo apprezzi coltivando le strutture di questo
mondo.
- secondo definizione cristologica: il Regno è la profondità teologica dell’agire di Gesù (cfr
Fuchs e le sue conferenze statunitensi). Qui si tratta di ciò che devi anticipare nei gesti di
Gesù per capire cosa sta donando. Gesù mangia coi peccatori perché Dio li sta perdonando.
La convergenza delle tre definizioni porta a dire che nel NT non interessa che cos’è il Regno,
ma interessa che il Regno viene nei gesti di Gesù. Da qui la grande questione temporale: il
Regno è già qui eppure preghiamo che venga. Il problema è duplice:
- il punto di vista: è il mio io o il cuore di Gesù Cristo? La temporalità è ormai
cristologicamente determinata;
- nella Bibbia, più che tempo cronologico c’è sempre un tempo qualitativo o
qualificato: cfr Qo 3. Non “tempo di”, ma “tempo per”. Gesù si assume la pretesa di
determinare il tempo che viviamo.
Trasformazione del mondo vecchio: le parabole.
L’elemento sintetico del Regno è dunque la qualità teologica dell’agire di Gesù: il tempo è il Regno in cui
essere pienamente figli, in cui sperimentare il nuovo essere insieme di Dio con l’uomo in Gesù di Nazareth.
I detti si compongono non differenziandosi, rispettivamente, in “detti della Chiesa”, “detti di Gesù” e “detti
post-pasquali”, ma cercano di identificare Gesù (chi è – cosa fa nella vita – come va a finire). La sintesi è’ la
libertà di Gesù che tiene insieme grandezza e solidarietà nella preoccupazione di servire i Figli.
- “presente”: realizzano la tensione tra prassi e provvisorietà.
- “futuro”: funzionano come i detti sul Regno futuro: il Regno è la conseguenza in Dio del
futuro, poiché figlio dell’uomo dice una presenza di Dio in Gesù incontenibile nelle
condizioni di esperienza attuali.
- “sofferente”: dice il destino misterioso e trasformante (ma il terzo giorno risusciterà), che
sono in fondo l’equivalente delle parabole (chicco di grano…).
La verifica etica: porgo l’altra guancia per essere figlio del Padre.
IV.2.3. La preghiera: come prega? Con il Padre nostro: c’è tensione tra
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a) verticale (teocentrismo: “che sei nei cieli”) e orizzontale (il futuro: “venga il tuo regno”). Cfr Schurman:
scopro Dio come Padre perché è arrivata la fine del mondo oppure arriva la fine del mondo perché il
teocentrismo di Gesù rivela Dio come Padre? L’alternativa si compone sempre nell’identità del Figlio:
perché il Figlio è tra noi, riscopriamo Dio come Padre (verticalità), ma per lo stesso motivo il tempo si
accorcia. Elemento prospettico del Padre nostro pertanto non è né il teocentrismo né la fine del mondo, ma
la percezione di sé come figli nel Figlio.
b) gloria di Dio (“sia fatta la tua volontà”) e bisogni dell’uomo (“dacci oggi il nostro pane quotidiano”): la
composizione è la sapienza per cui “la gloria di Dio è l’uomo vivente”, per cui non c’è culto a Dio che non
passi attraverso la carità e non posso amare fino in fondo i fratelli se non li ricevo nell’adorazione.
IV.3.1. Mc 8 (Brambilla)
• La confessione di fede di Pietro è già frutto di un incontro con il Risorto che esige un’operazione di
riconoscimento, che identifica.
− Quest’ultimo ha la forma di una ripresa/ricomprensione di ciò che Gesù aveva anticipato.
− La confessione ha sempre la forma di una risposta ad un’iniziativa di Gesù che, al di là della morte,
si fa sempre presente.
• La memoria Iesu:
− Gesù chiede un giudizio su ciò che accade.
− Pietro riconosce che ciò che accade è la presenza del Messia.
− La grande questione della libertà filiale di Gesù.
Gesù ricaccia Pietro in fila tra i discepoli perché egli si lasci condurre alla realizzazione della
missione del Cristo così come Gesù intuisce debba fare.
Gesù fa il Cristo così come l’essere Figlio glielo indica, così come lo riceve dal Padre.
− Questo lui lo sa da sé; c’è una sorgività originaria che conduce il cammino di Gesù.
− Questo spazio della libertà filiale di Gesù è il cuore della memoria Iesu.
− Dopo la risurrezione c’è bisogno di raccontare la storia di Gesù per sorprendere vedendo in che
modo Gesù ha realizzato la sua persona e la sua missione.Il giudizio di fede è allora giudizio sulla
libertà filiale di Gesù.
− Lo Spirito ci è dato perché possiamo sintonizzarci sulla libertà filiale di Gesù e raccontando la sua
storia dal punto di vista del Figlio.
«Poiché l’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è
morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato
per loro».
È il brano più forte, che dice il coinvolgimento: siamo coinvolti perché è cambiato il rapporto con noi stessi.
Qui (appena 15 anni dopo la morte di Gesù!) è già contenuto tutto il polo narrativo (non posso raccontare
l’esperienza del Risorto se non facendo memoria di Gesù): noi non viviamo più per noi stessi, perché lui non
ha vissuto per se stesso (“è morto per tutti”, non aveva una casa, non ha fondato una scuola: era in giro a
fare un mondo di bene come se stesse buttando via tutto). L’intenzione di Gesù è il luogo strategico per
entrare nella sua libertà.
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TESI 2
Il polo confessante
Mostra il carattere di fondamento della fede pasquale, partendo dalla testimonianza originaria della fede
nel Risorto (omologie, kerigma, inni) e dall’articolazione dei suoi contenuti, fino al riconoscimento della
verità del Figlio nell’unità paradossale della Pasqua e nel rimando alla vicenda prepasquale, intesa come
mediazione salvifica definitiva dell’alleanza.
Sommario
I. Il fondamento pasquale della fede in Gesù e suo funzionamento
I.1. Tommaso d’Aquino
I.2. Martin Lutero
I.3. Paul Ricoeur
I.4. Conclusione
II. Le forme della fede pasquale
II.1. Omologia
II.1.1. Acclamazione (o invocazione)
a) Omologia nominale di acclamazione
b) Invocazione «marana-tha»
II.1.2. Omologia verbale
a) Omologia verbale semplice
- formule di risurrezione
- formule di morte
- Rm 1,3-4
II.2. Kerygma
II.2.1. Esperienza di qualcosa di inatteso e inspiegabile
II.2.2. La vera interpretazione di ciò che è accaduto (presenza del Kyrios)
II.2.3. La ricerca nelle Scritture del fondamento della presenza del Kyrios
II.2.4. Annuncio kerygmatico
II.3. Inno
II.3.1. Fil 2, 6-11
a) Formula di consegna
b) Omologia di acclamazione
II.3.2. Col 1, 15-20
III. Conclusioni. I contenuti cristologici già ricchi delle formule pasquali
III.1. Conclusioni sul polo confessante
III.2. La necessità della narrazione
III.2.1. La legittimità dei titoli cristologici
III.2.2. La concretezza del Risorto
III.3. Il funzionamento della narrazione
III.3.1. La risposta a ciò che ha chiesto Gesù
III.3.2. La continua traduzione cristologica del teologico
III.3.3. Il fondamento antropologico del narrativo
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Gesù è il Cristo: la domanda che tale affermazione pone al NT è: possiamo dire che Gesù corrisponde al
senso letterale del NT e Cristo al suo senso spirituale, cosicché nello studio di Gesù nel NT noi possiamo
studiare i fatti e la storia (Gesù) e i significati e la fede (Cristo)?
Evidentemente no: è nell’affermazione del senso letterale che noi dobbiamo riconoscere il giudizio di fede
su Gesù come il Cristo, ovvero la testimonianza su Gesù come il Cristo. Il senso letterale del NT è il giudizio
di fede che racconta Gesù come il Cristo. Il senso spirituale allora sono gli effetti nel tempo della Chiesa o
dei discepoli di quella esperienza (l’evento escatologico di Gesù Risorto).
Jean-Noël Aletti: scrive un libro (Gesù Cristo fa l’unità del nuovo testamento?) in cui afferma che il senso Il
NT ha un “senso gesucristologico”: ovvero quell’evento che noi cogliamo nell’affermazione di fede “Gesù è
il Cristo”.
Tre percorsi (facoltativi) che mostrano che questo funzionamento era inscritto nella Tradizione:
I.1. Tommaso d’Aquino (prime quaestiones della Summa): nella Scrittura il teologo deve lavorare sul senso
letterale, altrimenti la teologia non è una scienza, perché i termini rischiano di essere equivoci. Da qui la
regola: nella Scrittura non c’è un significato spirituale che altrove (cioè, nella Scrittura: prima) non abbia un
senso letterale.
Per Tommaso la lettera nella Scrittura indica sempre una res (guai se indicasse un significato intuitivo: per
es. “Gerusalemme” dice una res, la città di Davide): ma siccome quella res è agita da Dio, essa è signum
(simbolo) dal quale si ricava il significato spirituale (“Gerusalemme” è simbolo perché è agita da Dio, cioè
città eletta da Dio, terra promessa, anima in Cristo…). Il passaggio non è dalla lettera allo Spirito, ma dalla
lettera alla res in quanto agita da Dio (è già un giudizio di fede) che genera significati spirituali.
Nel nesso tra lettera e res (realtà agita da Dio) c’è già un giudizio di fede, che rende questa realtà segno da
cui ricavare i significati spirituali. La difficoltà nel leggere la Scrittura è che questa fede deve cogliere il
senso dell’azione storico-salvifica di Dio (cosa vuole fare Dio in Gerusalemme?). Interpretare la Bibbia vuol
dire leggere l’azione di Dio sulle realtà che ha scelto per dialogare con noi.
La regola stabilita da Tommaso è:
- solitamente le res sono indicate nell’AT (senso storico);
- esse, agite da Dio, assumono un valore allegorico (dal gr. ἂλλα ἀγορεύω = “dire altro”)
- e dicono il mistero del corpo di Cristo. L’allegoria realizza una anagogia (dal gr. ἀνὰ ἂγω= portare oltre): è
il significato escatologico.
- facendoci portare oltre, ti devi lasciare cambiare la vita: cioè convertire (senso morale o tropologico15).
Di qui l’adagio della scolastica «Litteras gesta docet, quid credas allegoria, quo tendas anagogia, quid agas
tropologia»: in ogni versetto della Bibbia vi è un gesto storico che contiene qualcosa di più grande da
credere che ti porta oltre e ti converte il cuore.
Questa struttura tomista dice che la lettera è un dato (storico!!! Gesù non è un mito) che realizza un’azione
incontenibile di Dio, cioè: realizza qualcosa che apre un cammino. Un fatto storico che contiene una
promessa debordante e chiede l’atteggiamento giusto per poter essere custodita.
Macroscopicamente, il significato letterale del NT è dunque Gesù (senso storico-letterale) che in quanto
realizza l’azione di Dio (giudizio di fede) permette di cogliere una presenza incontenibile che si fa allegoria
(Gesù è il Cristo), anagogia (Gesù è colui che conduce al compimento della terra promessa) e tropologia
(realizza un processo di trasfigurazione). La lettura della Scrittura rispetta così un processo storico-salvifico,
che parte dalla storia, cioè dai fatti. Gesù è il senso della Scrittura non perché dà un senso spirituale alla
lettera, ma perché il senso letterale rimanda ad un senso spirituale.
I.2.Martin Lutero: il suo grido dice che non c’è un senso letterale se non per la fede, perché qui non
intelligit res non potest ex verbis sensum elicere (= chi non capisce la realtà di cui si sta parlando non può
ricavare il significato dalla somma delle parole). Chi non ha la fede giusta (qui non intelligit res) che coglie la
realtà non può ricavarla dalle lettere (ex verbis).
15
Dal gr. τρόπος = “volgimento (verso altra via)”, da τρέπειν = “voltare”.
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Si capisce di cosa parla la Scrittura nella relazione con Cristo: ossia nella giustificazione per fede, nel dono di
Cristo. Tale dono rende la Scrittura facillima (sui ipsius interpres: interprete di se stessa), al punto che tu
puoi urgere Cristo contro le Scritture, semplificando la Scrittura (per questo può mettere in Appendice i
deuterocanonici e alcune lettere neotestamentarie). La lettera dà solo l’explicatio, la fede è l’applicatio:
non puoi spiegare la Scrittura se non sai chi è Dio. Certamente si parte dalla lettera, ma capendo ciò di cui si
parla solo grazie alla relazione con Cristo, cioè: grazie all’atto di fede.
Lutero semplifica molto l’impostazione della scolastica, ma in fondo Tommaso diceva una cosa analoga in
maniera molto più articolata: non puoi interpretare la lettera (la storia) se non con un giudizio di fede
coerente16.
16
Per uno storico questa è una bella sfida, valida anche per tutti gli altri personaggi storici: Hitler era così perché lo
picchiava il papà oppure perché è diventato un dittatore totalitario? Nella lettura della storia è sempre implicato un
giudizio.
17
È diversa la testimonianza di un testimone oculare dalla testimonianza di una telecamera.
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entrare nel cuore di Gesù, cioè nella libertà del Figlio. Entriamo nella testimonianza confessante di Gesù
Crocifisso Risorto dal punto di vista di Gesù18.
I.4. Conclusione
La lettera del NT è testimonianza di Gesù come il Cristo. Tale testimonianza è fatta da
- un polo confessante: un giudizio. Corrisponde al kerygma.
- un polo narrativo: il racconto credente. Corrisponde ai Vangeli. Alla luce della memoria Iesu.
Il polo narrativo ha la forma di una reazione ad un incontro inatteso (ovvero: le apparizioni del Risorto) che
riattiva la domanda di Gesù: «Chi dite che io sia?» (Mt 16, 15)19, chiedendo di identificare il Risorto alla luce
della «memoria Iesu» (Sequeri), ovvero l’immagine sinottica di Gesù interna presente nella tradizione della
Chiesa. Per riconoscere il Risorto, devi ricordare chi è e cosa ha fatto Gesù di Nazareth (polo narrativo); e
per capirne la storia, devi rileggerla a partire dalla fede nel Risorto (polo confessante).
Il rapporto tra i due è: incontro (polo confessante) e anticipazione (polo narrativo). Nel Risorto
riconosciamo ciò che Gesù aveva anticipato, capiamo ciò che Gesù aveva anticipato nei suoi gesti adesso
che abbiamo incontrato il Risorto.
In mezzo c’è il processo, ovvero la frattura: lo scandalo della croce. L’incontro col Risorto ti permette di
riconoscerlo se riesci a raccontare la sua storia dicendo il significato dello scandalo della croce. Cfr Lc 24:
“Tardi di cuore nel capire che così doveva essere…”, cioè c’è una necessità narrativa.
Prendiamo a esempio la confessione di fede di Cesarea (Mc 8, 27-33): la memoria Iesu deve essere abitata
dalla libertà di Gesù, cioè: è necessario ricordare Gesù rispettando come lui ha voluto essere e fare il Cristo.
È il senso del segreto messianico:
- dicendo «Tu sei il Cristo», Pietro identifica ciò che sta capitando ai discepoli da quando Gesù è tra loro (tra
un miracolo e l’altro si capisce che YHWH è fra noi);
- Gesù chiede di custodire il segreto messianico perché vuole che i suoi discepoli vedano come lui vuole fare
il Cristo;
- la tentazione del discepolo è di raccontare la storia di Gesù spiegando a Gesù come si fa il Cristo: il «Non
sia mai!» di Pietro;
- per questo Gesù chiede a Pietro di tornare dietro a lui (ὑπάγη ὁπίσω μου): per fargli vedere come si fa il
Cristo.
Si intuisce che il polo confessante è frutto dell’incontro col Risorto, il polo narrativo è strutturato sulla
sintonia con la libertà di Gesù (“lui sa come si fa a fare il Cristo”). Ecco perché polo confessante e polo
narrativo sono i due poli costitutivi della cristologia: confessiamo il Cristo come Vivente facendo memoria
della storia di Gesù con la sua libertà. Il Vangelo è quel genere letterario che non fa una biografia, ma
racconta la storia di Gesù dal punto di vista del Figlio20.
Le tre idee fondamentali del polo confessante dunque sono:
- è frutto dell’incontro con il Risorto: perciò ha una certa dinamica di sorpresa, non è un’operazione
inventata dai discepoli.
- riattiva la memoria della domanda di Gesù: «Voi chi dite che io sia?»;
- deve integrare lo scandalo della croce: la sfida è sintonizzarsi sul dono di Gesù (ultimamente: sulla libertà
filiale di Gesù).
18
È un contributo “fenomenologico” tipico della Teologia milanese: gli Apostoli nel Vangelo dicono di non aver capito
niente e invocano la necessità di mettersi dal punto di vista di Gesù. Il NT è, per questo, una continua presa di
distanza: «Abbiate in voi il φρονεῖν di Gesù» (cfr Fil 2,5).
19
C’è chi (Marcello Bordoni, Mario Serenthà) parte dai Vangeli: prima racconto la storia di Gesù, poi te lo faccio
riconoscere come Cristo. Noi facciamo il contrario: partiamo dalla relazione con il Risorto che riattiva la domanda di
Gesù.
20
Per questo, a livello del polo confessante, sono meravigliosi gli studi di Hurtado: i cristiani sono gli adoratori del
Kyrios, perché nell’adorazione del Kyrios YHWH si manifesta in maniera definitiva.
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Il polo confessante corrisponde a delle formulazioni della fede, che hanno fondamentalmente tre forme:
II.1. Omologia
L’omologia(dal gr. ὁμολογεῖν = “confessare”, “acclamare”). Ha due forme:
1Cor 12,3: «Ebbene, io vi dichiaro (γνωρίζω = rendo noto): come nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito
di Dio può dire “Gesù è anatema”, così nessuno può dire “Gesù è Signore” se non sotto l’azione dello
Spirito».
- contesto: Paolo sta polemizzando: nel culto cristiano non ci sono i fenomeni estatici pagani, perché
l’esperienza mistica cristiana è quella dello Spirito che grida in noi «Κύριος Ἰησοῦς»;
- Gesù di Nazareth non è il maledetto crocifisso, ma il Risorto presente e giustificato da Dio. Il culto cristiano
implica che nell’incontro di YHWH incontriamo necessariamente il Signore Risorto.
Rm 10, 9-1022: «Poiché se confesserai con la tua bocca [ean omologeses en stomati sou] che Gesù è il
Signore [kyrios iesous], e crederai [pisteusas] con il tuo cuore [en kardia sou] che Dio lo ha risuscitato dai
morti [o theos egeiren auton ek ton nekron], sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia
e con la bocca si fa la processione di fede per avere la salvezza».
- contiene anche un omologia verbale di risurrezione («Dio lo ha risuscitato dai morti»);
- differenza tra confessare (ὁμολογέω) = acclamazione/esclamazione del Risorto;
e credere (πιστέυω) = memoria del fondamento della sua presenza.
Se tieni presente questi due assi, sarai salvo: la fede è una relazione col Risorto che dà un giudizio sulla
storia di Gesù.
1Cor 8,6: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore
[Kyrios] Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui».
- interessante: la presenza del Risorto riempie tutto il cosmo fin dall’origine;
- ancor più interessante: si ha uno sdoppiamento dello Shema Israel: in Dt 6, 4 si diceva: «Ascolta, Israele: il
Signore è il nostro Dio, unico è il Signore», qui si dice: “Ricordati, discepolo di Gesù: YHWH è l’unico Dio e il
Kyrios è l’unico in cui abbiamo la forza dell’autopresentarsi di Dio”. Solo nel rapporto col Risorto scopri la
presenza di YHWH, creatore di tutte le cose.
- Contro Bultmann (secondo il quale prima c’è la cristologia apocalittica, poi il culto del Kyrios, poi la
cristologia gnostica che cerca il Kyrios all’origine), in 1Cor (ovvero nel 55-56 d.C) Paolo può già dire che il
Kyrios è fin dall’origine, è preesistente.
1Cor 16,22: «Se qualcuno non ama [ouk filei] il Signore sia anatema. Marana thà: vieni, o Signore!».
- philei: la relazione con il Risorto è una relazione affettiva. Paolo dice: colui che rifiuta Gesù come amico,
sia maledetto.
Ap 22,20: «Colui che attesta queste cose dice: “Sì, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù!».
- l’amore sponsale e pieno di nostalgia per il Risorto.
21
È qui che è interessante l’annotazione di Hurtado circa gli adoratori del Risorto.
22
Esempio da imparare a memoria.
23
Si vocalizza così (“Vieni, Signore!”) e non maran-athà (“Il Signore viene”).
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II.1.2.Omologia verbale: dice il fondamento della presenza del Risorto e rimanda alla Pasqua di Gesù:
1Cor 6,14: «Dio, poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza».
La risurrezione di Gesù ha qui tre caratteristiche:
- è operata da Dio;
- è una liberazione dal Regno dei morti (cioè: Dio può suscitare una cosa positiva da una negativa);
- è l’anticipazione di qualcosa che ci riguarda: la relazione col Kyrios è un’esperienza di coinvolgimento.
1Ts 1,10: «E attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, che ci libera dall’ira
ventura».
Tono un po’ più apocalittico/di liberazione: il Risorto è lo scudo che difende dal giudizio di Dio. Cfr Schefler:
Israele è un resto che se l’è cavata perché ha superato il giudizio di Dio e ci ha tenuto libero il posto
(l’agnello sgozzato) e Gesù realizza questo destino. Israele cade in schiavitù e perde le guerre perché è la
primizia del mondo nuovo che attraversa il giudizio di Dio: d’ora in poi entrerà nel Tempio solo l’uomo
nuovo-Israele purificato che è Gesù, il Figlio di Dio. Israele è salvato attraverso il fuoco dell’ira di Dio, per
tenere aperto il posto per tutti gli uomini.
Rm 5,8: «Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è
morto per noi éXristos apethanen uper emon».
- il “per noi” dice la morte dedicata. Alcuni teologi (Hengel) sostengono che nel mondo greco c’erano forme
di morte dedicata (Socrate); ma perché dobbiamo andare nel mondo pagano? Gesù aveva anticipato la sua
morte il giorno prima, nell’Ultima Cena. Inoltre, direbbe Schillebeeckx, l’incontro col Risorto è
un’esperienza di riconciliazione: gli apostoli sono scappati (uno lo ha addirittura rinnegato) ma Gesù è
tornato dicendo «Pace a voi!» (Gv).
1Cor 8,11: «Ed ecco, per la tua scienza va in rovina il debole, per il quale Cristo è morto [Cristos
apethanen]».
- contesto degli idolotiti: Paolo chiede di non umiliare il fratello per il quale Cristo è morto. La risurrezione
genera una solidarietà nuova.
2Cor 5,14-15: «Poiché l’amore di Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono
morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è
morto e risuscitato per loro».
- è il brano più forte, che dice il coinvolgimento: siamo coinvolti perché è cambiato il rapporto con noi
stessi. Qui (appena 15 anni dopo la morte di Gesù!) è già contenuto tutto il polo narrativo (non posso
raccontare l’esperienza del Risorto se non facendo memoria di Gesù): noi non viviamo più per noi stessi,
perché lui non ha vissuto per se stesso (“è morto per tutti”, non aveva una casa, non ha fondato una scuola:
era in giro a fare un mondo di bene come se stesse buttando via tutto). L’intenzione di Gesù è il luogo
strategico per entrare nella sua libertà.
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- formule di morte-risurrezione: permettono di meglio percepire la polarità del mistero pasquale (morte-
vita; luce-tenebre; umiliazione-esaltazione…). Per fare esperienza del Risorto, devi attraversare la polarità
pasquale.
1Ts 4,14: «Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li
radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui».
- la polarità funziona come un abbraccio: ci ha chiusi tutti nella morte per trascinarci tutti nella risurrezione.
La polarità dà un ritmo: morte e vita.
Rm 14,9: «Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere Signore dei morti e dei vivi».
- ancora più chiaro: la polarità (l’abbraccio) riguarda sia i morti sia i vivi.
«[Paolo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio…], riguardo al Figlio suo, nato
dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santificazione
mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore».
- la polarità viene ampliata nella polarità carne/spirito, in cui la continuità nella discontinuità è il
messianismo di Gesù, cioè Gesù Messia secondo la carne (nel seme di Davide), è costituito Messia come
Figlio di Dio per tutti gli uomini nella risurrezione dai morti (cfr il famoso “di più” messianico di Gesù: è il “di
più” filiale).
- carne e spirito non sono in contrapposizione, ma in climax.
- la risurrezione è il punto di trasformazione del messianismo: dalla carne allo spirito (cfr 1Cor15: Gesù è
“nuovo Adamo”, è in una nuova condizione).
II.2. Kerygma
Ovvero l’annuncio. È il punto di partenza da cui Bultmann partiva: l’annuncio rende presente il Kyrios, non
parla di un uomo del passato.
Esso è una specie di ampliamento argomentativo dell’omologia verbale: la riprende spiegando il
fondamento della presenza del Risorto tra noi con formule tecniche che ampliano l’esperienza pasquale.
Colui che è morto per i nostri peccati secondo le Scritture è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture.
Tale ampliamento è generato, dice Schlier, come un’esplosione vulcanica: dal nucleo pasquale si amplia il
mistero per cui il Kyrios non solo è risorto ma è asceso al cielo, per donarci lo Spirito, come avevano detto
le Scritture (cfr Sal 110,1: «Oracolo del Signore al mio Signore: “Siedi alla mia destra”»): la risurrezione è
un’intronizzazione di Gesù alla destra di YHWH.
In questo ampliamento inoltre si cerca di inglobare la vicenda totale di Gesù: cfr le formule di missione:
Gesù, morto risuscitato, è colui che il Padre ha inviato per riscattarci dalla morte. Questo tentativo coglie il
fatto che è possibile dire il fondamento della presenza del Risorto raccontando il senso di tutta la storia di
Gesù.
Per raccontare il senso della storia di Gesù devo entrare nella sua libertà: ovvero nel suo dono. Cfr Gal:
Colui che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Paolo legge la Pasqua con l’intenzione di Gesù: la Pasqua
è Gesù che mi ha amato. Qui si danno le formule di kenosi (svuotamento) che colgono la libertà di Gesù.
At 2,14-16: «Allora Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò loro così: “Uomini di Giudea, e voi
tutti abitanti di Gerusalemme, vi sia noto questo e fate attenzione alle mie parole. Questi uomini non sono
ubriachi, come voi supponete: sono infatti le nove del mattino; accade invece quello che fu detto per mezzo
del profeta Gioele”».
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II.2.2. La vera interpretazione di ciò che è accaduto (presenza del Kyrios). La lettura delle Scritture fa
percepire la profondità del kerygma: il Risorto è colui del quale Davide aveva detto: «“Siedi alla mia
destra”»). Ma Gesù viene intronizzato alla destra di Dio per effondere lo Spirito e coinvolgerci nella sua
resurrezione dai morti24.
Nel leggere la situazione, per Pietro è fondamentale leggere il presente con la Scrittura.
At 2, 17-23: «“Avverrà: negli ultimi giorni – dice Dio – su tutti effonderò il mio Spirito; i vostri figli e le vostre
figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni. E anche sui miei servi e
sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno. Farò prodigi lassù nel cielo e
segni quaggiù sulla terra, sangue, fuoco e nuvole di fumo. Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue,
prima che giunga il giorno del Signore, giorno grande e glorioso. E avverrà: chiunque invocherà il nome del
Signore sarà salvato.
Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth – uomo accreditato da Dio presso di voi per
mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –,
consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete
crocifisso e l’avete ucciso”».
At 2, 24: «”Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa
lo tenesse in suo potere”».
II.2.3. La ricerca nelle Scritture del fondamento di questa presenza del Kyrios. La Pasqua è il Dio delle
Scritture che ha mantenuto la promessa a Davide:
At 2,25-31: «“Dice infatti Davide a suo riguardo: Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; egli sta alla
mia destra, perché io non vacilli. Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua, e anche la mia
carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né permetterai che il tuo
Santo subisca la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza.
Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente [ἐν παρρησία], riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu
sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato
solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendete, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:
questi non fu abbandonato negli inferi, np la sua carne subì la corruzione”».
At 2,33-35: «“Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso,
lo ha effuso [ekkein], come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice:
Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi
piedi”».
Il dono dello Spirito è il dono delle lingue, che permette di farsi capire da tutti.
Conclusione:
24
Secondo Massimo il Confessore tale “divinizzazione” avviene in quest’ordine: prima risorge il νοῦς (l’intelletto), poi
la διάνοια (il modo di ragionare), poi l’αἴσθησις (la percezione estetica), poi il σῶμα (il corpo).
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At 2,36: «“Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù
che voi avete crocifisso”».
Kyrios e Christos sono sinonimi di “Risorto”, ma
- Kyrios indica il Risorto intronizzato alla destra di YHWH;
- Christos indica il compimento delle attese messianiche.
II.3. Inni
Secondo alcuni esegeti anche molto recenti sono la vera matrice della cristologia. Schlier.
II.3.1. Fil 2, 6-11: è la composizione di una formula omologica con una formula di morte alla luce della
libertà di Gesù che si svuota di sé per essere esaltato da Dio. L’’inno rilegge tutta la vicenda di Gesù con la
libertà del Gesù storico.
b) omologia di acclamazione, con tutta la cornice. Il cuore di questa seconda parte è quel nome gridato al di
sopra di ogni altro nome, Kyrios, a gloria di Dio Padre.
L’omologia di acclamazione sta a significare che la libertà (espressa dalla “scelta” di cui poc’anzi) ha una
forma di un’invocazione al Padre. Pregnante è il διό iniziale: «Perciò Dio lo ha sopra-esaltato…». Questo
capovolgimento teologico sta nel dono di un Nome che è al di sopra di ogni altro nome, quello di Kyrios. Ma
il volto di Dio (v.9) è quello di un Padre (v. 11): il volto di Dio sta nella presenza esaltata del Risorto a gloria
di Dio Padre, come Gesù aveva sempre detto.
Per i cristiani gridare Gesù Kyrios significa identificarsi con l’azione di Dio Padre che lo ha risuscitato dai
morti: se tu acclami Gesù come Kyrios fai una cosa che ha fatto Dio Padre, partecipando dell’energheia
divina della Risurrezione. Uno non può dire “Kyrios Gesù” se non ha in lui lo Spirito Santo.
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Questo inno mette in parallelo la riconciliazione pasquale di Gesù (primogenito dei risorti) e il suo contesto
originario (il primogenito di ogni creatura). Ciò che Gesù ha fatto abbraccia tutta la creazione e in qualche
modo gli dà consistenza.
25
C’è chi (Marcello Bordoni, Mario Serenthà) parte dai Vangeli: prima racconto la storia di Gesù, poi te lo faccio
riconoscere come Cristo. Noi facciamo il contrario: partiamo dalla relazione con il Risorto che riattiva la domanda di
Gesù.
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- Gesù chiede di custodire il segreto messianico perché vuole che i suoi discepoli vedano come lui vuole fare
il Cristo;
- la tentazione del discepolo è di raccontare la storia di Gesù spiegando a Gesù come si fa il Cristo: il «Non
sia mai!» di Pietro;
- per questo Gesù chiede a Pietro di tornare dietro a lui (ὑπάγη ὁπίσω μου): per fargli vedere come si fa il
Cristo.
Si intuisce che il polo confessante è frutto dell’incontro col Risorto, il polo narrativo è strutturato sulla
sintonia con la libertà di Gesù (“lui sa come si fa a fare il Cristo”). Ecco perché polo confessante e polo
narrativo sono i due poli costitutivi della cristologia: confessiamo il Cristo come Vivente facendo memoria
della storia di Gesù con la sua libertà. Il Vangelo è quel genere letterario che non fa una biografia, ma
racconta la storia di Gesù dal punto di vista del Figlio26.
1) Il polo confessante ha la forma di un grido che coglie una presenza vivente: non un’ideologia, ma uno
stupore, una risposta alla presenza inattesa del Risorto.
2) Il polo confessante è centrato sul mistero pasquale: esso è il punto di esplosione, di dilatazione della
percezione della vicenda di Gesù. La pasqua funziona come fondamento della presenza.
3) contiene già una cristologia ricca: vi sono infatti già tutte le dimensioni della risurrezione:
- il Risorto non è un cadavere rivivificato, ma glorificazione, effusione dello Spirito, intronizzazione…;
- morte salvifica, in coerenza con la vicenda storica di Gesù;
- intuizione della preesistenza (presenza fin dall’origine), da legare da un lato alla Sapienza, dall’altro alle
dimensioni cosmiche della presenza del Risorto;
- la questione decisiva della libertà di Gesù.
Ma (ecco la domanda di Käsemann e Bultmann) se la Cristologia è già così ricca da sé, perché c’è bisogno
della narrazione? La Chiesa vuole dare materiale per capire lo stile di Gesù: non basta dire il che, ma il
“come”. Le risposte classiche:
III.2.1. Ce n’è bisogno per dire la legittimità e il senso dei titoli cristologici del polo narrativo (ciò che
Musner chiamava la “costrizione oggettiva”: se stai parlando di Gesù, quel Gesù è quello che pretendeva di
realizzare questi titoli), sostanzialmente tre:
- Kyrios autorità (exousia): nella sua vita Gesù ha realizzato l’autorità di YHWH;
- Cristo Regno: nei suoi gesti si realizzava non un regnare politico, ma il regnare di YHWH;
- Figlio, in particolare Figlio di Dio intimità col Padre.
“Rabbi”, “Maestro”, “Profeta”, “Figlio dell’uomo” sono tutti titoli che spariscono dal polo narrativo.
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Per questo, a livello del polo confessante, sono meravigliosi gli studi di Hurtado: i cristiani sono gli adoratori del
Kyrios, perché nell’adorazione del Kyrios YHWH si manifesta in maniera definitiva.
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Stefano Chiarolla Tesi di Cristologia Prof. Alberto Cozzi
Alla luce della prima domanda, viene la seconda: come funziona questa narrazione? Qui ci sono due
notazioni:
1) Anzitutto, la narrazione funziona come la risposta a ciò che ci ha chiesto Gesù: «Voi chi dite che io sia?»
(Mt 16,).
In questo senso la narrazione ha il funzionamento di un’identità narrativa: identifico Gesù raccontando la
sua storia con noi, così come identifico YHWH raccontando i luoghi della sua auto-presentazione. Gesù si
presenta come YHWH nell’AT, ovvero dicendo: “Ecco a voi il Regno di Dio”. È Giovanni che ne fa la rilettura
con l’ego eimi.
2) Funziona come la continua traduzione cristologica del teologico: Dio si fa vicino nei gesti di Gesù, e per
descrivere questo farsi vicino di Dio devo descrivere la storia di Gesù. L’importanza di questo elemento si ha
di fronte allo scandalo della croce: Dio viene come le tenebre a mezzogiorno.
3) Dio viene iscrivendo nel tempo dell’uomo la sua verità (è il fondamento antropologico del narrativo). Dio
non ci dà tutto subito in maniera chiara perché noi non siamo tutto subito in maniera chiara. Noi dobbiamo
diventare ciò che siamo. Il tempo è l’uomo che diventa se stesso, e il dono di Dio è l’offerta all’uomo di
entrare nel cammino in cui egli diventa se stesso. La sfida di Dio è di darci un dono che si inscriva nel
tempo.
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TESI 3
Patristica
La cristologia dei Padri, in relazione a un nuovo contesto culturale, si interroga sulle condizioni ultime della
salvezza dell’uomo in Cristo. In questo contesto emerge la domanda sull’unità di Gesù Cristo e sul suo ruolo
mediatore-non-intermediario tra il Dio eterno e immutabile e la realtà mutevole, nel campo di tensione tra
un modello cristologico alessandrino e antiocheno. Documenta i termini della questione cristologica fino a
Calcedonia oppure la permanenza dei due modelli cristologici nella riflessione cristologica recente.
Sommario
I. Contesto
II. Evoluzione della questione
III. Ellenizzazione del cristianesimo?
I. Contesto
• Il messaggio cristiano si è trasferito da un ambito giudaico ad un ambito ellenistico-greco e chiededi essere
tradotto in categorie culturali nuove. E’ il compito di riattualizzare il messaggioevangelico.
• Dalla formula «Gesù è il Cristo» si passa alla formula «vero uomo, vero Dio nell’unica ipostasi/persona del
Figlio (formula calcedonese, 451).
• Origine del mutamento dei termini:
− Sospetto di Pannenberg. Deriva dall’ellenizzazione dell’idea cristiana di verità, per cui si passa dalla
verità nel compimento alla verità nell’origine (la verità di Gesù non è più biblicamente nel Risorto,
ma ellenisticamente nel logos preesistente).
− Sospetto di Moltmann. Deriva dal passaggio da una cristologia messianica (quindi storico-salvifica)
alla cristologia del Verbo incarnato, cioè ad una cristologia mitologica.
• Si affrontano tre questioni:
− Prima questione. il mutamento dei termini implica una continuità del problema: cosa fa l’unità tra
Gesù e il Cristo?
Gesù Cristo fa l’unità dell’economia salvifica (Nicea).
Gesù Cristo fa l’unità singolare della persona (da Apollinare a Costantinopoli III).
− Seconda questione: la verità di Gesù che chiamiamo logos in che rapporto sta col Dio origine di
tutte le cose?
Crisi ariana.
Nicea apre lo spazio del pre-esistente.
Distinzione di due scuole: antiochena (logos-anthropos) e alessandrina (logos-sarx).
− Terza questione: unione in Gesù Cristo di umanità e divinità.
Efeso: unione sostanziale, non per contatto.
Calcedonia: unione senza confusione a livello sostanziale, ovvero nella persona.
Costantinopolitano II: la persona non è frutto dell’unione, ma è presupposta ad essa e la fonda.
− Tertulliano sviluppa la sua cristologia sulla base del trinitarismo economico. La prima intuizione è
legata alla verità del Figlio/Verbo che è unito al Padre per mezzo di un legame speciale. Tertulliano
arriva ad usare la formula “Gesù è Dio e uomo in una persona”, anche se manca la riflessione sul
termine persona.
• Origene: propone un nuovo schema storico-salvifico: economia salvifica che segue lo schema della caduta
delle anime.
− Le anime sono pre-esistenti e decadono (raffreddandosi) dalla contemplazione del logos che
scaldava con l’amore di Dio.
− Gesù è quell’unica anima che non era decaduta dalla contemplazione.
− Allora la salvezza è riportarci all’anima umana di Gesù, che è pienamente fusa con il logos.
− Il logos dunque deve attraversare tutte le condizioni della vita per recuperare le anime alla sua
contemplazione.
• Questa serie di padri ci ricordano che Gesù Cristo fa l’unità dell’economia: in principio non ci sonovarie
storie della salvezza, ma l’unica è quella del logos, che poi si incarna.
• La domanda allora diventa: il logos, che è pienamente Dio come il Padre, come è presente nell’economia
salvifica e nel corpo di Gesù? Ecco le due scuole: alessandrina e antiochena:
− Scuola alessandrina.
Modello logos-sarx: una natura, con rischio di confusione.
Il logos, appropriandosi una generazione umana, diviene il Verbo incarnato, un solo Cristo e
Figlio (sarà lo schema di Efeso).
Elementi positivi:
Rende conto dell’unità di Cristo, nel quale il logos si è autenticamenteumanizzato.
La comunicazione di Dio all’umanità passa per persona di Cristo.
Resta con il corpo la serie delle facoltà vitali.
Limiti:
Si fatica a trovare il linguaggio per rendere conto della distinzione delle due nature dopo
l’unione.
Tentazione monofisita (Apollinare, Eutiche...).
La salvezza passa attraverso una carne semi-divina trasfigurata, praticamente non umana.
− Scuola antiochena.
Modello logos-anthropos: due nature, con rischio della separazione.
Considera le due nature, divina ed umana, in parallelo e mostra come esse si trovano unite
nell’unica persona di Gesù Cristo, doppiamente consustanziale a Dio e agli uomini (sarà lo
schema di Calcedonia).
Elementi positivi:
Sottolinea la distinzione tra divinità e umanità.
Si tutela la trascendenza del logos (principio divino che abita nella carne come nel suo
tempio).
Si mette in rilievo la condizione umana di Cristo, la sua soggettività autonoma e libera.
Limiti:
L’unità del logos con Dio penalizza l’unità del logos con la carne.
Si fatica a rendere conto dell’unità concreta di Cristo.
Tentazione di porre due soggetti e rifiutare le appropriazioni (Nestorio).
• La crisi apollinarista.
− Apollinare:
Irrigidisce la cristologia alessandrina fino ad arrivare a negare l’anima di Cristo, e così
facendo gli fa perdere la sua umanità.
Apollinare ha il senso dell’unità singolare che è Gesù, solo che per questo tende a dire che
Gesù non è un uomo come noi, perché è trasfigurato.
− Principi erronei:
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La predominanza del più forte. In Gesù Cristo si uniscono due perfetti (lo Spirito e il Verbo)
nel senso che lo spirito umano è assorbito dalla perfezione del Verbo. Ècompenetrazione
fino a far sparire.
Il paragone antropologico. Se è vero che l’uomo concreto è unità singolare di anima e
corpo, Gesù Cristo, l’uomo concreto è unità singolare di logos e corpo; il logos fa la
funzione dell’anima. L’anima è inutile.
− Risposte:
Sinodo di Alessandria (362): il logos deve salvare tutto l’uomo, quindi Gesù non può essere
un uomo diminuito, senza anima o senza principio spirituale.
Lettera di papa Damaso (377): la salvezza passa attraverso ciò che viene assunto.
Gregorio di Nazianzo:
Per parlare di Gesù devo parlare sinteticamente del Figlio, cioè l’unico e medesimo
nato da Dio e nato da Maria. Dove ciò non implica che si tratta di due figli, perché
quell’unico Figlio è costituito da due nature, non da due persone diverse.
L’unione nell’unico Figlio ha la forma di una mixis crasis: compenetrazione reciproca
che rispetta la consistenza delle parti.
Argomento soteriologico: Gesù, il Figlio, non ci può salvare assumendo l’umanità come
strumento, ma ci salva assumendo l’umanità perfetta e sanandola.
• La tensione tra le due scuole diventa ancora più evidente con la contrapposizione che si sviluppa tra
Nestorio e Cirillo. La controversia viene risolta con il concilio di Efeso dove si definisce l’unità sostanziale.
− Nestorio:
Patriarca di Costantinopoli esponente della scuola antiochena.
Interviene nel dibattito del clero sulla Theotokos: per lui Maria è Christotokos.
Cristo sarebbe un prosopon di unione, il contatto perfetto (synapheia), tra il prosopon del logos
e il prosopon dell’uomo. Maria genera il prosopon di unione.
Problema: Cristo è il Figlio o il Figlio è un pezzo di Cristo?
− Cirillo:
Esponente della scuola alessandrina, vuole sottolineare maggiormente l’unità personale di
Cristo come unità della persona del verbo.
L’unità non è l’unione di persone ma un’unità “secondo l’ipostasi”. Cristo è quell’unità
sostanziale reale che si esprime come unione secondo l’ipostasi.
Maria ha veramente generato una carne che è la carne del Verbo
Sospettato di monofisismo perché parla di unità fisica.
− Concilio di Efeso (431): si definisce l’unità sostanziale.
Il magistero accetta la posizione di Cirillo: l’incarnazione non va vista come l’associazione di
due sostanze ma come un processo di assunzione dell’umanità da parte di Dio del suo verbo.
Gesù Cristo è l’ipostasi che unisce due nature. È il senso della duplicazione esplicativa: il logos
è unito sostanzialmente, non per contatto.
Maria, Madre di Dio. È talmente vero che l’uomo nato da Maria è sostanzialmente unito al
logos, che Maria ha generato il logos secondo la carne. È un dogma cristologico, non mariano.
Communicatio idiomatum: il logos possiede quell’umanità tanto da essere quell’umanità
(appropriazione ontologica). Da qui nasce l’obiezione se si possa parlare ancora di umanità...
Sì, perché quell’umanità è in via di trasfigurazione ed è una realtà dinamica, qualcosa che si
evolve.
− Tomus unionis (433):
Si ridice la fede di Efeso con una sensibilità antiochena.
Figlio consustanziale al Padre secondo la divinità, all’uomo secondo l’umanità.
Figlio generato dal Padre dall’eternità e da Maria nel concepimento.
È lo stesso soggetto.
• Concilio di Calcedonia (451): porta ad un chiarimento sull’unione sostanziale: l’unità non crea una nuova
natura confusa ma realizza il legame sostanziale che chiamiamo “persona” questo legame sostanziale che
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chiamiamo persona indica l’identità del soggetto divino. Gesù è vero uomo e veroDio nell’unica ipostasi del
Figlio.
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TESI 4
Calcedonia
Spiega il senso e la portata del “modello calcedonese”, quale interpretazione dogmatica della verità del
Figlio nel contesto del dibattito sull’ellenizzazione del cristianesimo o alla luce delle redenti proposte di una
ricomprensione più storico-salvifica dell’unità divino-umana di Gesù.
Sommario
I. Alle radici di Calcedonia: la crisi monofisita
II. La formula di Calcedonia (451)
III. Ermeneutica di Calcedonia
IV. Conclusioni. Attualità di Calcedonia
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− Si ritorna ancora alla distinzione, apportando l’elemento nuovo della definizione. Si tratta di
conciliare concettualmente l’unità e la distinzione. Si parla allora di unità “in” due nature, con
quattro avverbi:
«senza confusione e senza mutamento»: contro Eutiche e il monofisismo.
«senza separazione e senza divisione»: contro Nestorio (modello antiocheno).
• Si afferma l’unità per mezzo della menzione di ipostasi e persona.
• Si caratterizza finalmente in senso ontologicamente forte il termine prosopon.
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TESI 5
Soteriologia
Analizza le dimensioni ed il senso della mediazione definitiva della salvezza in Cristo a partire dall’esame di
alcune categorie soteriologiche classiche (sacrificio, riscatto, soddisfazione, merito) o in relazione alle
possibilità e al senso di una mediazione storico-definitiva di un dono escatologico ed universale di Dio.
Sommario
I. Premessa: l’orizzonte soteriologico
II. Categoria di sacrificio
III. Categoria di riscatto
IV. Categoria di soddisfazione
V. Categoria di merito
VI. Le categorie soteriologiche in relazione alla mediazione definitiva
V.1. Le dimensioni della mediazione
V.1.1. Mediazione discendente
V.1.2. Mediazione ascendente
V.2. Il compimento dell’alleanza
• L’immagine della redenzione come riscatto è la meglio radicata nei testi biblici (Mt 20,28: “…dare la vita in
riscatto per molti…”; Mc 10,45; Lc 1,68; Rm 3,24; 1 Cor 1,30; ecc.).
• L’idea che sta dietro è che le anime siano in una condizione di schiavitù, da cui devono essere riscattate,
liberate.
• Il Nuovo Testamento non si sofferma mai sulla metafora del riscatto in sé e per sé, ma la utilizza sempre e
solo per dire l’effetto della croce, ossia la liberazione dalla schiavitù.
• Nel funzionamento del riscatto occorre considerare la relazione tra colui che stabilisce il prezzo del riscatto
e colui che l’accetta.
− Si deve perciò evidenziare la libera offerta di Gesù, che offre se stesso in riscatto, stabilendo il suo
servizio come controfferta al perdono di Dio, offerta che il Padre gradisce sopra ogni altra cosa.
− E’ Gesù stesso che stabilisce il senso della sua vita come offerta a favore dell’uomo, il suo servizio
incondizionato come prezzo del riscatto.
− Dio accetta il dono di Gesù a nostro favore.
− Assume perciò valore strategico l’offerta che Gesù fa della sua stessa morte nell’Ultima Cena. Di
conseguenza l’elemento da valorizzare è perciò la libertà di Gesù: è lui che stabilisce il prezzo del
riscatto.
V. Categoria di merito
• Tommaso nel suo pensiero cerca un centro unificatore delle differenti categorie usate: tale centro è
l’azione umana di Gesù. Le diverse categorie sono tentativi di dire l’agire concreto di Gesù come fonte della
nostra salvezza.
• Partecipare al merito della passione di Cristo significa partecipare all’atto di Gesù Cristo (non partecipi a
qualcosa ma ad un rapporto con Qualcuno) che si realizza nel fine ultimo (la vita eterna, la beatitudine) a
titolo di giustizia, come realtà dovuta e quindi in qualche modo già presente.
• Il merito delle sofferenze di Cristo non vale in sé e per sé, né è efficace per sé e infinitamente, ma vale sul
presupposto dell’accettazione divina: Dio accetta il merito della croce come sufficiente ad ottenere la grazia
a tutti coloro che “devono” essere salvati.
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TESI 6
Gesù tra le religioni
Argomenta la relazione a di Cristo con le altre religioni, analizzando la sua posizione all’interno dei diversi
modelli (esclusivismo, inclusivismo, pluralismo), oppure mettendo in luce le ricadute sulla comprensione di
Cristo di alcune proposte recenti, tenendo conto delle raccomandazioni di Dominus Iesus.
Sommario
I. Introduzione generale ai tre paradigmi
II. La ricaduta cristologica dei tre paradigmi
III. Gesù Cristo nei tre modelli
III.1. Gesù contro le religioni
III.2. Gesù nelle religioni
III.2.1. Alleanza cosmica
III.2.2. Alleanza con Abramo
III.2.3. Alleanza con Mosè e Davide
III.2.4. Nuova alleanza in Gesù
III.3. Gesù tra le religioni
III.4. Gesù, forma della libertà del soggetto
IV. Discernimento del magistero (Dominus Iesus)
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TESI 7
Ripresa strategica del Corso di Cristologia
Mostra in che senso la croce rimane un elemento costitutivo della verità cristologica del Figlio e il culmine
della vita di Gesù, intesa quale presenza della vicinanza escatologica del Dio che salva.
Sommario
I. Introduzione
I.1. Tesi di fondo
I.2. Percorsi
II. Percorso soteriologico
II.1. Senso del percorso soteriologico
II.2. Il valore salvifico della croce
II.3. La croce, culmine della vita di Gesù
II.4. La croce, presenza della vicinanza escatologica del Dio che salva
III. Conclusione. La croce, elemento costitutivo della verità cristologica del Figlio
I. Introduzione
I.1. Tesi di fondo
La tesi è quella più strategica per riprendere tutto il problema della Cristologia. L’icona biblica di Emmaus
potrebbe ben aiutarci a comprendere la sua tesi di fondo: non posso riconoscere il Risorto se non ho capito
il significato della sua vita che culmina sulla croce. Per riconoscere il Risorto devo capire il problema
dell’intenzione che ha guidato la storia di Gesù, e contemporaneamente (circolarmente) posso parlare di
questa storia se ho incontrato il Risorto.
I.2. Percorsi
La tesi potrebbe essere condotta per più percorsi:
− Percorso biblico: nelle formule kerygmatiche c’è già un’interpretazione della libertà di Gesù (cfr Gal
2,20: «Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me»).
− Percorso soteriologico: di fronte alla possibilità di morire, Gesù non ha dissociato la sua verità (“io
rendo presente Dio”) dal destino tragico.
− Percorso propriamente sistematico: come funziona la mediazione definitiva dell’alleanza e della
salvezza in Gesù. La croce è un elemento essenziale della vita di Gesù, fa parte della sua libertà, ma
ciò non vuol dire che è venuto per morire: come raccordare queste due verità?
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Peraltro, esito del nostro è stata precisamente la conclusione la “migliore Cristologia possibile” è una “Cristologia
della singolarità di Gesù”, che sia animata dal principio fondamentale della libertà singolare di Gesù che realizza una
nuova presenza di Dio con l’uomo.
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La testimonianza biblica mette chiaramente in evidenza il significato salvifico della croce di Gesù:
− «Ma Dio dimostrò il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è
morto per noi» (Rm 5,8);
− «Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto!»
(1Cor8,11);
− «Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è
morto e risuscitato per loro» (2Cor5,14-15).
Da queste formule traspaionoalcuni elementi che individuano le dimensioni fondamentali della croce:
− Il legame istituitotra il titolo Christos e l’esperienza della morte: si tratta di un’unione
assolutamenteoriginale rispetto alle tradizioni precedenti;
− L’identificazione della morte come morte «per noi», espressione dalla quale emerge tutta la
pregnanza soteriologica della croce.
Entrambi gli elementi appaiono nella loro originalità e risultano difficilmente spiegabili se si cerca un’origine
in tradizioni già esistenti. Il riferimento unico e fondante sembra essere quello della vita di Gesù
(testimoniata nel polo narrativo).
Alla luce di questa considerazione, si dovrà ammettere che non è sufficiente trattare della croce e della sua
valenza salvifica: occorre parlare della croce di Gesù.
Già da questa breve ricognizione biblica e dalle conclusioni dedotte possiamo affermare che non è possibile
custodire la verità cristologica senza la storia di Gesù, proprio perché Egli stesso orienta il senso della
propria vicenda e consente il riconoscimento dell’esigenza iscritta in essa: la verità del Figlio.
La categoria di sostituzioneè relativa alla volontà di essere solidale con il destino dell’uomo:
tale volontà anima tutta la sua vita e, in maniera particolare, la sua lettura della propria morte
come dono radicale del Figlio di Dio.
La categoria di riscattoesprime la libertà di Gesù che sceglie la misura, il prezzo del
riscattonella sua vita, accettando e facendosi carico delle conseguenze del peccato e della
malvagità umani.
II.4. La croce, presenza della vicinanza escatologica del Dio che salva
La morte non è un semplice “incidente di percorso”: essa si lega indissolubilmente con la Risurrezione
nell’evento pasquale di rivelazione e salvezza.
• A questo proposito, bisogna anzitutto notare che nella morte di Gesù si manifesta quella vicinanza radicale
della salvezza di Dio che ha
− il suo compimento definitivo e universale nella Risurrezione di Gesù;
− e la sua anticipazione nella pretesa della vita di Gesù di identificare la sua persona con il Regno di
Dio, con la vicinanza di Dio all’uomo.
• Luogo proprio e strategico in cui verificare tale vicinanza è la libertà del mediatore: ovvero, la libertà di
Gesù che legge e interpreta la sua morte.
• Occorre dunque chiedersi se Gesù abbia realmente, durante la sua vita, previsto la sua fine e soprattutto se
abbia attribuito ad essa valenza salvifica per ogni uomo. Gli studi esegetici di Schurmann possono forse
aiutarci ad abbozzare una risposta:
− Anzitutto, la testimonianza biblica ci insegna che Gesù aveva certamente previsto la propria morte
in seguito ai diversi contrasti cheaffrontava ed in qualche misura provocava.
− Gesù era in possesso di categorie veterotestamentarie (il giusto perseguitato, il servo sofferente…)
che gli permettevano di interpretare ciò che stava vivendo.
− Proprio in virtùdell’identificazione, operata da Gesù, tra il Regno di Dio e la sua persona, e proprio
in virtù del ruolo attivo di tale identificazione nelle vicende della sua morte, pare proprio che Gesù
abbia dato alla sua morte un esplicito valore salvifico (cfr Ultima Cena).
Dobbiamo ammettere che tra i teologi c’è convergenza sulle prime due affermazioni (la previsione della
morte da parte di Gesù e l’accesso a categorie veterotestamentarie), mentre vi è dibattito acceso sulla
possibilità di una lettura redentiva applicata da Gesù stesso alla sua morte. La linea più “prudente”
ammette che Gesù intuì la possibilità di una fine violenta e sempre più chiaramente la mise in conto come
esito probabile della sua missione.
L’unità dei due momenti (vita e morte di Gesù) con le rispettive teorie redentive (escatologica e
staurologica) si attestadunquein quella pro-esistenza che Gesù applica ad ogni attimo della sua vita e in
modo particolare alla sua morte. Proprio questa appare essere la categoria fondamentale che ha animato
tutta la vicenda di Gesù e si è iscritta in modo particolare nel suo modo di affrontare la fine. Questa
categoria, anziché essere una categoria meramente umana, è invece propriamente teologica(testo di
riferimento è 1Pt 4).
• Sul versante della vita, la ragione del valore salvifico della morte di Gesù è la ragione del suo essere
portatore escatologico del Regno, il cui motivo ultimo rimanda alla sua relazione singolare con Dio-Abbà. A
questo proposito, sono doverose due precisazioni:
− Da un lato, tale ragione è tradotta nella pro-esistenza di Gesù intesacome attuazione libera, nella
condizione umiliata, della sua singolare esperienza della vicinanza assoluta di Dio come Padre suo.
− Dall’altro, il mantenimento di questo atteggiamento pro-esistente nella morte rende la croce un
gesto di risposta al venire di Dio nel destino di Gesù.
• Sul versante della risurrezione, la fede pasquale nel Risorto esprime il riconoscimento di questa
identificazione del Dio che viene col destino di Gesù crocifisso.
− È quindi proprio il riconoscimento e la confessione dell’identità filiale del mediatore definitivo di
salvezza a permettere l’accoglienza del dono incondizionato di Dio secondo la sua logica propria.
− Confessando Gesù come il Figlio di Dio l’uomo è salvato anzitutto in quanto è ricollocato nel suo
luogo proprio, nell’originario riceversi da Dio all’interno della scambio trinitario: l’uomo si riceve
come figlio nel Figlio, sintonizzandosi sul donarsi del Padre.
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III. Conclusione. La croce, elemento costitutivo della verità cristologica del Figlio
In conclusione, l’efficacia salvifica della morte di Gesù è rintracciabile in due ingredienti strategici e sintetici:
la coscienza dì Gesù di essere Salvatore definitivo e la conferma della risurrezione. Da questi elementi
promanano tre considerazioni conclusive:
1.La ragione del valore salvifico della croce di Gesù sta nel fatto che Gesù è il portatore della salvezza di Dio.
Tale mediazione salvifica definitiva si esprime propriamente nella libertà di Gesù, che ovviamente ha come
fondamento la relazione col Padre, ovvero il suo essere Figlio.
2. Per questo motivo,luogo proprio della salvezza è la confessione filiale, che ricolloca l’uomo nella sua
posizione originaria di fronte a Dio.
3. La croce diventa il momento di rottura rispetto ai nostri desideri e alle nostre attese, che permette al
dono di presentarsi con la sua propria logica della pro-esistenza: permette a Dio di entrare nella nostra vita
così come Lui vuole (non come noi vogliamo), per aprirci al dono immenso e inimmaginabile della sua
“dedizione” a noi.
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TESI 8
La coscienza di Gesù
Illustra l’importanza e le dimensioni della “coscienza di Gesù”, espressione dell’umanità singolare del Figlio
e anticipazione della verità cristologica espressa dai discepoli dopo Pasqua, e mostra in che senso Gesù ha
anticipato la sua fine tragica come dono incondizionato di Dio, legando il suo destino alla venuta salvifica
del Regno.
Sommario
I. L’importanza della coscienza di Gesù
II. Le dimensioni fondamentali della coscienza di Gesù
III. Gesù ha anticipato la sua fine tragica come dono incondizionato di Dio
IV. Conclusioni
2) Gesù ha liberamente accettato la volontà del Padre: dare la propria vita per il riscatto di tutti gli uomini.
− Gal 4,4-7.
− Sinottici: Gesù sa di essere inviato dal Padre per portare la buona notizia del Regno.
3) Gesù ha voluto fondare la Chiesa. Cristo aveva coscienza della sua missione salvifica. Essa comportava la
fondazione della sua ecclesia.
− Predicazione apostolica: inseparabilità della Chiesa da Cristo: la Chiesa si radica nell’atto supremo
di Gesù.
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− Sinottici: la predicazione del Regno è innanzitutto convocazione degli uomini nel Regno.
4) La pro-esistenza di Gesù.
− Predicazione apostolica: tutta la vita di Gesù è un solo e unico dono per l’uomo.
− Sinottici: tutta la vita di Gesù si configura come servizio e trova nell’ultima Cena il gesto
anticipatore del dono definitivo di sé.
− La ragione del valore salvifico della morte di Gesù non può che essere la ragione del suo essere
portatore escatologico del Regno, il cui motivo ultimo rimanda alla sua relazione singolare con Dio-
Abbà.
Questa ragione è tradotta nella pro-esistenza di Gesù, quale attuazione libera
nellacondizione umiliata della sua singolare esperienza della vicinanza assoluta di Diocome
Padre suo.
Il mantenimento di questo atteggiamento pro-esistente nella morte rende la croce ungesto
di risposta al venire di Dio nel destino di Gesù.
III. Gesù ha anticipato la sua fine tragica come dono incondizionato di Dio
1) La vita di Gesù si configura come pro-esistenza: la sua fine tragica non è un incidente di percorso ma è il
compimento di questo dono incondizionato di sé.
2) La radice dell’esistenza pro-esistente di Gesù è la sua speciale relazione con Dio: egli si riceve totalmente
da Dio; la sua morte si configura come dono incondizionato di Dio, che passa attraverso la libera
accettazione da parte di Gesù.
IV. Conclusioni
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TESI 9
La forma della Cristologia
Una cristologia che sia all’altezza di ciò che sa la fede in Gesù non può che essere una cristologia di Gesù,
ossia una cristologia della singolarità di Gesù Cristo.Spiega il senso di tale affermazione in relazione alla
problematica del rapporto storia-verità o a partire dalle istanze della cristologia filosofica o spiegando quale
reinterpretazione ne deriva per i termini chiave della cristologia tradizionale (preesistenza, incarnazione,
predestinazione in Cristo).
Sommario
I. Introduzione: il punto di partenza della fede
II. Una cristologia di Gesù
III. Conclusione: una cristologia della singolarità di Gesù Cristo
III.1. Pertinenza teologica della storicità di Gesù.
III.2. La profondità dell’evento: la verità del Figlio.
III.3. Conclusione
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