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INTRODUZIONE

È bene, prima di ogni altra cosa, iniziare con un’ammissione: questa antologia non
ha alcuna pretesa di completezza. Lo si dice sempre, per mettere le mani avanti;
questa volta lo si pensa pure. In mezzo a queste pagine c’è molta eccellenza, ma
nessuno pretende di dire che quello che è rimasto fuori sia peggio di quello che è
stato messo dentro. Il perché è semplicissimo: ogni giorno in Italia escono un
centinaio buono di giornali, più dozzine di settimanali e mensili; si occupano
dell’attualità corrente, che va da come si panificano le rosette agli intrighi per far
cadere il governo, o a quelli usati da un Presidente degli Stati Uniti per far scoppiare
una guerra all’altro capo del mondo. In tutto fanno migliaia di pagine, ogni giorno:
troppe, francamente, per leggerle tutte, anche ad avere a disposizione il tempo e la
pazienza di un certosino. Condizioni le quali, ad ogni modo, presuppongono la
conduzione di una vita casta e di contemplazione, lontano dai rumori del mondo.
Sulla mia castità preferisco non scrivere: fa parte del mio diritto alla privacy. Ma
per quel che riguarda la lontananza dai rumori del mondo e la disponibilità di tempo
si sappia pure che ho un mucchio di figli a casa, e che ho passato gran parte del mio
tempo a viaggiare e scrivere io, piuttosto che non a leggere la roba degli altri. La mia
raccolta non può che risultarne inevitabilmente parziale e incompleta, ma di questo
non mi vergogno. Perché il giornalismo, quello schietto e sincero, essendo basato
sull’assunto “ho visto, ora vi dico che cosa ho capito” è tutto meno che imparziale e
completo, necessariamente. Queste sono caratteristiche che al massimo si possono
pretendere dai resoconti dei quattro vangeli canonici. Tutto il resto è opinabile.
Nel mio lavoro di selezione, comunque, un paio di idee di fondo le ho tenute a
mente. Ho incominciato con lo scartare gli articoli sulle tecniche di panificazione, o
di interesse similare. Se la poesia è più facile farla con la luna che non con la
minestra, anche il giornalismo è meglio farlo raccontando il crollo del Muro di
Berlino piuttosto che non come si preparano le bruschette (argomento, quest’ultimo,
peraltro molto di moda nei telegiornali). Prima regola, quindi, una bella storia.
O anche – seconda regola – una storia scritta bene. Di grandi narratori, sulle
pagine dei giornali di tutto il mondo, se ne trovano francamente pochini, a parte gli
scrittori di mestiere ingaggiati per dare lustro alla testata (e non è detto che i loro
articoli siano in fin dei conti all’altezza della loro fama). Giornalismo e letteratura
sono cose diverse, anche nello stile. Ma tutto questo non significa che non ci siano
giornalisti incapaci di padroneggiare il non semplice stile richiesto dal loro mestiere.
Le cronache di Vittorio Zucconi dall’America profonda ne sono un bell’esempio.
Esistono quindi certi articoli che, anche a rileggerli dopo tanti anni, non puoi fare a
meno di dirti “caspita, che roba”. Non alludo al solo Montanelli, di cui ho incluso tre
articoli (ma avrebbero potuto essere di più). Alludo a tutta una serie di firme molto
meno conosciute alle quali ho tentato – e spero di esserci riuscito – in qualche modo
di rendere giustizia: se il giornale il giorno dopo essere uscito è buono solo ad
incartare il pesce, resta un peccato che certi bei pezzi non sopravvivano più di
ventiquattr’ore. Anche perché, se ci sono scrittori incapaci di scrivere sui giornali,
esistono però giornalisti che alla letteratura si avvicinano non poco, fino a sfiorarla.
La differenza tra le due cose è la medesima che corre tra l’arte e l’artigianato: la
prima sarà sicuramente superiore al secondo, ma il secondo può lambire la prima. In
una parola: di Caravaggi nemmeno uno; in compenso di Cellini parecchi.
C’è anche il rovescio della medaglia: i Caravaggi che sono in grado anche di
essere Cellini. Talvolta, infatti, capita di incontrare qualche pagina dei classici che è
talmente coinvolgente che ti pare di viverla mentre la leggi, e di toccare le cose e le
persone. Due esempi tra molti: il ritratto di San Filippo Neri dipinto da Goethe nel
suo “Viaggio in Italia”, e la descrizione tacitania dello sgomento delle legioni romane
di Druso nel raggiungere, anni dopo la grande strage, la foresta di Teutoburgo dove
Varo era stato scannato insieme a un terzo di tutto l’esercito di Augusto. E allora, nel
vivere quei racconti, ti sorprendi a dire a te stesso che quelle pagine così belle
meriterebbero qualcosa di più che non finire nella polvere di mille biblioteche:
meriterebbero di essere pubblicate su un giornale.
Nella regola uno e due rientrano praticamente tutti gli articoli pubblicati. Un terzo
criterio è quello cronologico. Il giornalismo è la descrizione, spesso involontaria e
inconsapevole, della storia in fieri. Ho scelto quindi alcuni articoli che
testimoniassero, magari da un punto di vista molto ridotto, o anche solo di tralice, i
grandi avvenimenti capitati in Italia e fuori d’Italia da quando nel nostro paese
leggere il giornale è divenuta una piacevole abitudine. Oppure che rappresentassero
dei veri e propri documenti storici (il che, talvolta, accade). Per questo ho selezionato
la cronaca – faziosissima, ma scritta con tutti i crismi – della traslazione della salma
di Pio IX da San Pietro a San Lorenzo al Verano: è l’immagine della fine del potere
temporale dei papi. Per lo stesso motivo accludo la cronaca del ritrovamento del
cadavere di Giacomo Matteotti nella campagna romana, fatto che segnò l’inizio della
dittatura, e l’uccisione di Vittorio Bachelet da parte delle Brigate Rosse; o l’attentato
a Giovanni Paolo II o la repressione della Rivolta d’Ungheria o la fine della
Primavera di Praga. Il fondo con cui Benito Mussolini chiedeva l’ingresso dell’Italia
nella prima guerra mondiale invece rientra nel canone dei documenti storici – oltre
che della rassegna degli stili giornalistici. Documenti storici devono essere
considerati anche l’articolo di Gabriele d’Annunzio dal Fronte della Marna ed il
secco, dignitosissimo commiato di Albertini dal Corriere della Sera nel 1925.
L’intervista di Alberto Cavallari a Paolo VI, poi, è uno scoop mondiale.

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Tra i generi, altro criterio seguito, la parte del leone la fa il reportage. Scrive Jon
E. Lewis, redattore dell’Independent: “il reportage è la più alta forma di
giornalismo”. Francamente, è un’iperbole. È vero, semmai, che i reportage degli
inviati riassumono in sé il nocciolo della professione, che per l’appunto è: vado,
osservo, scrivo. In questi anni, soprattutto in Italia (in altri paesi in cui gli editori
sanno fare il loro mestiere ci si guarda bene dal compiere simili leggerezze) è invalsa
l’abitudine di considerare gli articoli altrettanti prodotti, come le saponette ed il
lucido da scarpe, ed i giornali le scatole di cartone che li contengono. In una
atmosfera del genere, il lavoro degli inviati viene soffocando lentamente, eppure è
pensando a loro che tanti ragazzi si avvicinano a questa professione, e si iscrivono
alle scuole di giornalismo. Cosa trovano dopo esserne usciti li lascia spesso delusi.
Ma non è questo l’argomento del libro, quindi mi limito a dire che non so dare loro
torto.
Mi limito anche a dire che se la parte del leone la fanno i reportage, un motivo ci
sarà. Consiglio di leggere con attenzione, a questo punto, il primo articolo della
raccolta, quello scritto da Gian Battista Belzoni. Erano i tempi in cui Napoleone
languiva a Sant’Elena, e lui già andava in giro per l’Egitto: a sfondare le porte delle
camere sepolcrali dove da millenni dormivano i faraoni, in attesa della metempsicosi,
per portar via i loro tesori. Belzoni era uno che della vita aveva capito molto, e
moltissimo del giornalismo. Lo si vede da come padroneggia il genere della
corrispondenza. Lo stessa attenzione sia dedicata a quel bellissimo reportage, firmato
Marzio Breda, che descrive la lotta tra uomini e lupi sulle alture del Pollino: contiene
un altro elemento del giornalismo di razza, il racconto di una storia che sembra uscita
dal più profondo del tempo che ricorda al lettore l’esistenza di tanti mondi a parte dal
suo, ad appena due passi da casa.
La corrispondenza di Luigi Barzini dalla guerra russo-giapponese del 1905 segna
l’inizio del mestiere, in Italia, dell’inviato di guerra, ed al tempo stesso
l’istituzionalizzazione della firma del giornalista. Interessante, per capire certi
meccanismi sempre nuovi di quella fabbrica delle notizie che talvolta sono i mass-
media, la cronaca di Giuseppe Bevione dello sbarco a Tripoli dei primi italiani che
dovevano far la guerra alla Turchia.
Tra i reportage segnalo anche quello di Ettore Mo sulla strage di Marzabotto,
perché dimostra che anche ricordare è tenere informati, e che la memoria conta anche
in un mestiere che propende spesso all’effimero. Ma anche perché, indirettamente, il
pezzo di Mo mi permette di fare un’altra riflessione.

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Tra le altre cose, infatti, può colpire la scarsità di articoli riguardanti il Ventennio.
Eppure, è vero, di ottime firme in circolazione ce n’era più d’una: Montanelli,
Malaparte, Ojetti, Vergani, lo stesso Buzzati. Ci dispiace, ma a costo di sembrare
fuori moda, noi siamo ancora della Vecchia Guardia: non c’è giornalismo se non c’è
un minimo rispetto delle libertà democratiche. Se mancano queste sui giornali
compare solo propaganda. Nella quale, al massimo, si dibatte qualche articolo di
buona fattura, che proviene sempre o quasi – guardacaso – da qualche paese lontano
di cui si conosce, in fondo, molto poco; e di cui, in fondo, molto poco importa. In un
bel libro che mi sento di consigliare, “Le veline del Duce” di Riccardo Cassero, tutto
questo è spiegato molto bene. Se il Regime controllava direttamente, al suo Massimo
Livello, cosa ogni giorno dovesse apparire sui quotidiani (e alla radio), e poteva far
scrivere sotto dettatura le principali testate, quel lavoro ha tutto meno che del
giornalismo. In quegli anni Mussolini scriveva nelle sue direttive: “niente cronaca
nera, niente fatti che potrebbero creare tensioni o disturbo”; “vietato sfottere gli
arbitri di calcio, e riferirne”; niente politica, naturalmente. E niente inchieste, niente
commenti, niente di niente. Se le cose stanno così, cosa resta del giornalismo? Niente,
per l’appunto. Esempio: prima pagina de “La Stampa” del 30 ottobre 1929: crolla la
borsa di New York, ma l’apertura è “Il Partito è una milizia civile al servizio della
Nazione. Il suo obiettivo è realizzare la grandezza del popolo italiano”. Erano anni,
del resto, in cui neanche lo sport poteva salvarsi dalle parole d’ordine: il giorno della
sconfitta patita a Wembley con l’Inghilterra poco dopo la conquista del nostro primo
campionato del mondo, ci fu chi scrisse: “I nostri rappresentanti sono stati ammirati
non solo e non tanto come artisti della palla, ma come combattenti ed alfieri di
un’Idea e di un popolo che ne è pervaso. Questo voleva il Capo ed il suo ordine è
stato fascisticamente eseguito”. (Avrebbe aggiunto Giorgio Bracardi: “Che scarogna!
Viva l’Italia!!” – Bracardi viene citato in questo libro anche in un altro passo). Altro
che artisti della palla che incarnano l’Idea di un popolo al seguito di un capo: da quei
tempi un solo motto vale per tutte le curve del nostro campionato, e questo motto è
“Vincere!”.
Citiamo un ultimo esempio a riguardo, quello di un noto inviato che raccontava la
scomparsa di un altrettanto noto inviato su un fronte di guerra concludeva il suo
articolo: “è morto da eroe, da fascista, da giornalista”. Passi il morire da eroi, e
persino il morire da fascisti, ma il morir da giornalista è una categoria dello spirito
che non si riesce proprio a immaginare, o a comprendere.
Al momento di leggere le avventure degli inviati durante il fascismo, pertanto, si
diano pertanto per acquisite agli atti queste considerazioni, e si proceda.
Tenendo conto, magari, che le bugie di vent’anni non si cancellano in un giorno
nemmeno nel cuore di chi, pur in buona fede, le ha credute. È il caso di quell’inviato
in Etiopia negli anni della guerra vinta grazie ai gas di Graziani e di Badoglio. Lui i
gas non li vide mai, perché era sempre tenuto al seguito delle truppe italiane (primo
esempio di quel giornalismo embedded che ha furoreggiato anche nella guerra del
Golfo del 2003). Quando gli italiani tiravano il gas sul fronte del fiume Tacazzè,
quindi, lui era sempre da un’altra parte. Molti anni dopo, nel 1964, un altro inviato in
Etiopia (Angelo del Boca, de “L’Avvenire d’Italia”) tirò fuori la faccenda dei gas. Un
paio di stati maggiori lo querelarono, per difendere l’onore ed il prestigio delle forze
armate. Lui si intestardì, e trovò altre prove. A Berlino un giudice gli dette ragione.
Ma l’altro inviato, quello che all’epoca dei fatti era sul posto, disse: “io c’ero, e se li
avessero usati per davvero me ne sarei accorto”. Continuò tutta la vita a negare,
anche quando era rimasto solo a farlo, anche poco tempo prima di passare a miglior
vita, come Don Ferrante che aveva stabilito sulla base di un sillogismo aristotelico
che la peste non esisteva, e si mise a letto per morire prendendosela con le stelle.
Non sono tra quelli, comunque, che amano ragionare per schemi e si comportano
come le pecore nella fattoria di George Orwell, e per questo ti tengo a precisare
quanto segue: la libertà di stampa non è stata in pericolo solo sotto il regime. Uno
degli episodi più tristi nella storia del giornalismo italiano, infatti, risale a quell’età
umbertina e liberale che spesso si vuole additare a momento lontano e felice di una
Italia seria e laboriosa, tutta intenta a portare a piena realizzazione il sogno del
Risorgimento. Nel maggio del 1898, in quell’Italia seria e laboriosa in cui
prevalevano i sani valori della borghesia, la gente di Milano scese in piazza per
protestare contro l’aumento del prezzo del pane, aumento che segnava il discrimine
tra la povertà e l’indigenza per migliaia di persone. Un generale chiamato Bava
Beccaris sparò col cannone sulla folla. Un gruppo di giornali, tra cui il socialista
“Avanti!” e persino “Il Secolo”, che all’epoca era il principale giornale indipendente
milanese, si permisero di esprimere le loro critiche. I direttori finirono tutti dentro, e
anche parecchi redattori. Finì dentro persino un prete, Davide Albertario, che dirigeva
il settimanale “l’Osservatore Cattolico”: anche lui non era d’accordo, quando si
trattava di sparare col cannone sulla folla. Quell’articolo de “Il Secolo” io l’ho
ricercato per inserirlo in questa antologia, perché dir quel che si pensa, con il rispetto
dovuto e con la coscienza di pestare più di un callo, rappresenta l’onore di ogni
giornalista. Purtroppo la raccolta di quel giornale conservata presso la Biblioteca
Nazionale di Roma (dove ho svolto quasi tutto il mio lavoro) risulta danneggiata, e
non consultabile. Vorrei non solo che venisse restaurata, ma che il testo di
quell’articolo divenisse materia obbligatoria d’insegnamento in tutte le scuole di
giornalismo della Repubblica: formerebbe le coscienze molto più di tante ore passate
ad ascoltare dissertazioni fumose e teoriche sull’indipendenza del Quarto Potere.
Neanche in tempi più recenti, comunque, le minacce al buon giornalismo sono
venute a mancare. La prima è la tendenza di tanti miei colleghi a vedere le cose
attraverso il prisma dei loro pregudizi, ideologici o semplicemente dovuti a poca
cultura. Ho ancora nelle orecchie l’ammissione di un inviato di un giornale di sinistra
che ammetteva di essere entrato, durante la Guerra del Vietnam, in un villaggio la cui
popolazione era stata sterminata dai Vietcong. Lui scrisse che erano stati gli
americani, il campione, perché per i suoi colleghi e lettori gli assassini dovevano stare
da una parte sola. Più impalpabile, ma forse ancor più pericoloso, il pregiudizio di chi
pensa che l’unico scopo del giornalismo sia vendere le notizie, così che il giornale è
equiparato ad una scatola di cartone, da piazzare sul mercato ad ogni costo, e
l’informazione a semplice comunicazione commerciale. È la cultura che si respira in
tante redazioni, ed in quasi tutte le facoltà di scienza della comunicazione, ed è una
cosa pericolosissima: se il giornalismo è un prodotto commerciale, la fine della
libertà d’informazione e della trasmissione delle idee è lontana solamente un passo.
Siamo, anche qui, della Vecchia Guardia: il giornalismo non è solo questione di
battere sulla tastiera del computer. Il giornalismo è riflessione nel momento della
scrittura.
Sempre per non sentirmi troppo allineato al comune giudizio della mia categoria,
ho preferito non inserire alcuni articoli che, se pur hanno contribuito a scrivere la
storia del Paese, non sono additabili ad esempi di sano giornalismo. Alludo
all’articolo con cui Giovanni Guareschi accusò De Gasperi di aver sollecitato gli
americani a bombardare Roma, e per questo venne condannato (la lettera su cui si
basava lo “scoop” era un falso bello e buono). Alludo anche al famosissimo articolo
di Camilla Cederna sui tre figli di Giovanni Leone: l’immagine del Presidente della
Repubblica ne uscì distrutta, ma lei in tribunale ammise di aver scritto sulla base di
materiale di seconda mano (alias per sentito dire) e si beccò anche lei una condanna.
Tanto Guareschi quanto Camilla Cederna hanno fatto di meglio nella loro carriera, e
noi gliene rendiamo atto volentieri.
***

Tra gli altri generi qui rappresentati i profili, le interviste, le inchieste e gli
editoriali. Tra i primi quello, veramente bello, di Mussolini ad opera di Piero Gobetti:
si può essere ottimi giornalisti anche da filosofi. Tra le interviste segnalo quella di
Biagi a Berlusconi (inutile spiegare il perché). Tra gli editoriali Arrigo Levi che
commenta gli errori della politica estera di Menachem Begin e, ascrivibile anche alla
categoria “documenti”, quello di Mario Pannunzio datato Aprile 1945. Il migliore, a
mio avviso, è quello di Eugenio Scalfari scritto dopo l’appello di Paolo VI per la
liberazione di Aldo Moro. Diverse le inchieste: quella – storica – di Besozzi sulla
strana morte del Bandito Giuliano e l’altra, meno nota ma altrettanto interessante, di
Alfredo Pieroni sul figlio segreto di Mussolini. Notevole per scrittura anche
l’inchiesta di Natalia Aspesi su Seveso. L’intervista più interessante, forse, è quella di
Alberto Bevilacqua a Mussolini nelle ore convulse della Marcia su Roma. La più
divertente quella di Gian Antonio Stella alla Edificatrice Abusiva di Via Appia
Antica, ma la migliore in assoluto è quella di Giampaolo Dossena al silenziosissimo
Gustavo Thoeni.
L’intervista a Thoeni fa parte, per ovvie ragioni, della parte sportiva, come anche
il profilo di Fausto Coppi ad opera di Gianni Brera, la descrizione della morte di von
Trips fatta da Gian Paolo Ormezzano, la descrizione del Giro d’Italia del 1909, il
grido di dolore di Giancarlo Summonte perche un tal Eddie Merckx rischiava di
ammazzare il ciclismo. Anche la notte dell’Heysel rientra nella categoria, ma ancor di
più rientra nel genere cronaca nera. La cronaca giudiziaria vede gli articoli di Fabio
Felicetti e Vincenzo Vasile, la cronaca rosa si riassume in due matrimoni: Grace
Kelly e Ranieri di Monaco, Carlo d’Inghilterra e Diana Spencer. La bianca nei pezzi
di Beppe Errani e Massimiliano Scafi, o nella descrizione di Gregoretti delle vacanze
d’alto bordo sull’Argentario della nobiltà degli anni ’60; la cultura nelle riflessioni di
Beniamino Placido; la società nel bel ritratto dell’eterno precario di Miriam Mafai.
Spettacolo e profilo si fondono nel ritratto di Marilyn Monroe il giorno della morte,
tracciato da Giacomo Grazzini. Pura critica cinematografica, e di quella buona, è il
lungo articolo di Antonio Monda su Troy. La politica è trattata in forma di analisi con
Vittorio Gorresio, di cronaca con Gian Paolo Pansa, di spettacolo con Paolo
Guzzanti.
Il grosso del materiale è preso dai quotidiani, perché è il genere di stampa più
vicina al grande pubblico. Ma il ruolo dei settimanali è ben riconosciuto. Un discorso
a parte meritano le agenzie.
Le agenzie sono il giornale dei giornalisti: la maggior parte delle notizie che i
giornalisti dei quotidiani sbattono in pagina nascono dalle agenzie. Sono, le agenzie,
le miniere da cui si estrae gran parte del materiale grezzo grazie al quale arrivano, sul
mercato, i brillanti delle prime pagine. Ma questo non vuol dire che il materiale
qualche volta non esca già allo stato di brillante. È il caso del racconto, in presa
diretta, di Stefano Polli dell’Ansa a bordo di un aereo che sta precipitando, e quello di
Gianfranco Coppola, dell’Agi, sul processo ai tre che ruppero una statua del Bernini
per fare il bagno nella fontana centrale di Piazza Navona. Sono due piccoli gioielli
nel loro genere, perché usciti dai terminali già pronti per essere messi in pagina. Ma
questo non vuol dire che il resto dei notiziari di agenzia non sia altro che noia scritta
in burocratese.
Al contrario: un pezzo di agenzia cesellato nel rispetto di tutte le norme che
regolano questo particolarissimo tipo di giornalismo è per me, che sono del mestiere,
buono quanto una strepitosa cronaca di guerra. Lo disse anche Chesterton: “Tenetevi
pure per voi il vostro Byron che parla delle disfatte dell’uomo, io verserò lacrime
d’orgoglio sull’orario ferroviario”.
Dietro la varietà delle testate si nasconde anche un altro criterio portante di questo
libro. Non ci avevo pensato prima di iniziare la raccolta, è una regola che è venuta
fuori da sé. Si tratta di riconoscere la pluralità di voci che, in questi cent’anni e più di
giornalismo, hanno informato e fatto riflettere gli italiani. Mi spiego: a guardar bene,
si nota che del buon giornalismo, o almeno del giornalismo efficace, lo hanno fatto in
molti. Tutti, o quasi: i cattolici e i laici, i riformisti e i conservatori; la destra, la
sinistra, il centro. Tutti: ebrei e gentili, atei e credenti, rivoluzionari e reazionari.
Buon segno: vuol dire che tutti sono stati in grado di produrre cultura e di arricchire i
propri lettori, e magari anche i lettori degli altri. Quasi una produzione sinfonica di
idee e di pensieri, anche se non possiamo nasconderci che da coro polifonico l’Italia è
stata più volte sull’orlo di tramutarsi in una prova d’orchestra felliniana.

***
Ora, dopo aver spiegato il perché ed il percome di tante scelte, mi permetto un
giudizio personale, personalissimo. Non impegnativo per nessuno, se non per me.
D’Annunzio, lo ammetto, mi è sembrato un po’ tronfio. Spadolini un po’ troppo
didascalico. Mussolini tanto efficace quanto violento. Cavallari un po’ ingessato (e
chi non lo sarebbe stato, di fronte al Papa nel lontano 1965?); Ormezzano discorsivo;
Oriana Fallaci troppo partecipe; Brera a momenti più ricercato che scorrevole;
Zavattini frivolo; Portelli sentenzioso. Tutti hanno almeno un difetto intero, ma ce n’è
uno che di difetti ne ha solo in frazioni decimali.
Il mio intende essere un atto d’omaggio al Migliore. Il Migliore (anche se la
definizione togliattiana gli farebbe persino dispetto) era, e resta, uno solo: quell’Indro
Montanelli al quale – unico – nel ricopiare pazientemente gli articoli non ho mai
avuto nemmeno per un attimo l’impulso a criticare la forma. Sono cosciente della
bravura di tutte le firme di questo libro, per carità. Ma se ogni giornalista nasconde in
sé, scriveva Jerome K. Jerome, un fanciullino che amava giocare alla scuola solo per
poter fare lui il maestro, si ammetta che siamo tutti bravi, nella mia categoria, a farci
le bucce a vicenda. A ritenerci, ognuno per sé, gli unici in grado di tenere in mano la
penna. Tutti gli altri fanno il giornalista solo perché hanno imbroccato un mestiere al
di sopra delle loro possibilità.
Ebbene, anch’io sono di questa pasta, e se qualcuno dei miei colleghi sente in
piena coscienza di poter dire di sé “sono un modesto, mi ritengo alla pari del mio
dirimpettaio di redazione” mi scriva pure una e-mail all’indirizzo
ngraziani@hotmail.com per dirmi che mi sbaglio. Aspetto fiducioso: nessuno si
salva, la mattina in redazione, quando si leggono gli articoli scritti dai colleghi.
Di fronte al Migliore, però, tanto di cappello. Non capita se non di rado di trovare
una tale maestria di scrittura, una tale padronanza del lessico, della grammatica, della
punteggiatura e dell’ortografia e poi anche di quella tecnica semplice ed essenziale,
quanto negletta, che consiste nel lasciare che le persone, i documenti, gli episodi
parlino da soli. Nelle sue corrispondenze era lui che aveva visto e scritto, ma le cose
viste e scritte da lui parlavano con una voce propria, come in certe favole toscane i
morti della Battaglia di Campaldino o le streghe delle Apuane sembrano usare il
narratore per raccontare direttamente la loro storia ai bambini che ascoltano. Ritengo
che la cronaca dalla Finlandia sui sovietici che non sapevano di essere comunisti, e
quella – irriguardosa e dissacrante – del nonnino che pensa bene di tirare le cuoia
mentre l’Arno entra in casa della figlia, siano due esempi di pura arte impressionista,
in cui l’insieme si ricostruisce perfettamente attraverso una serie di pennellate che, a
vederle da vicino, sembrano accostamenti di colore senza una logica recisa. I
virgolettati dei condomini di Nonnino che finisce in Arno sono degni di un coro del
teatro greco. La storia del soldato morto raccontata attraverso le lettere della moglie
costituisce da sola un breve, affascinante, romanzo epistolare.
Peccato solo che, di solito, i migliori non lascino molti eredi.

VERSO I SEPOLCRI DEI RE D’EGITTO

di Gian Battista Belzoni

“La Gazzetta di Parma”, 25 aprile 1818

Nonostante il mestiere di inviato non fosse stato ancora inventato, Belzoni già ne
aveva capito l’essenza: raccontare di avventure e di cronache da paesi lontani, il
cui profumo doveva arrivare al lettore insieme all’odore della carta stampata.
Non senza un tocco di narcisistico autocompiacimento, magari. All’inizio
dell’Ottocento, poi, l’esotico per eccellenza era l’Egitto, proprio dove Belzoni era
impegnato ad inventare anche un altro mestiere che avrebbe fatto furore presso
le generazioni successive, quello dell’archeologo.

IL CAIRO – Sono di ritorno dall’Alto Egitto, e mi dispongo a recarmi per la terza


volta nella Nubia. Nella prima visita da me fatta a Tebe, nell’anno 1816, ebbi la sorte
di poter imbarcare sul Nilo la parte superiore della famosa statua di Memnone.
Questo enorme avanzo, che da tanti secoli giaceva tra le ruine del palazzo distrutto da
Cambise, è ora in viaggio per il museo britannico. Esso è un busto colossale di un sol
pezzo di granito, alto dieci piedi dal petto all’estremità superiore della testa, e pesa
dodici tonnellate. Altri viaggiatori avevano formato prima di me il progetto di
trasportarlo in Europa, ma tutti dovettero rinunciare a questa impresa perché non
seppero immaginare il modo onde eseguirla. La grande difficoltà consisteva a
muovere questa massa per lo spazio di due miglia sino alle acque del Nilo, che sole
potevano trasportarla ad Alessandria. Io pervenni a farlo senza l’aiuto di alcuna
macchina, ed impegnando le sole braccia degli Arabi. Per conseguenza il trasporto fu
l’opera di sei mesi d lavoro.
Da Tebe rimontai verso la Nubia, per riconoscere il gran tempio d’Ibsambul, che
trovasi sepolto, per più di due terzi della sua altezza nella sabbia presso la seconda
cataratta. Là trovai gli abitanti assai mal disposti per il mio progetto, e che mi
opponevano molte difficoltà da superare. Ciò non di meno la stagione troppo
avanzata fu il solo motivo che mi fece differire ad altr’epoca questa impresa.
Frattanto ritornai a Tebe, ove mi occupai in nuovi scavi presso il tempio di
Karnak: ivi trovai alla profondità di molti piedi una fila di sfingi circondate da un
muro. Queste sfingi, con teste di leone e busti di donna, sono di granito nero, di
grandezza ordinaria e per la maggior parte ben lavorate. Nello stesso luogo trovossi
pure una statua di Giove Ammone in marmo bianco.
Non fu che in occasione del mio secondo viaggio, nel 1817, ch’io scopersi la testa
di un colosso assai più grande di quello di Memnone: essa è alta dieci piedi dal collo
all’estremità della mitra da cui è coperto. Non si può vedere un pezzo più conservato
di questo, il cui pulimento è tale che sembra venire dall’officina dello scultore.
Ripresi poscia il cammino per la Nubia, ove mi esponeva a più duri cimenti. I
popoli di quel paese sono affatto selvaggi, e non alcuno alcuna idea dell’ospitalità.
Essi ci ricusavano le cose più necessarie, e a nulla montavano presso di loro le
preghiere e le promesse. Noi ci trovammo ridotti a viver di farina di gran turco
stemprata nell’acqua. Finalmente, a forza di pazienza e di coraggio, dopo ventidue
giorni d’ostinato lavoro ebbi il contento di trovarmi nel tempio di Ibsambul, nel quale
niun europeo aveva ancora messo piede e che offre il più grande scavo della Nubia e
dell’Egitto, eccettuando però le sepolture da me scoperte in seguito a Tebe.
Il tempio d’Ibsambul è lungo centosessanta piedi, e contiene quattordici camere
con un vasto cortile nel quale veggonsi otto colossi di trenta piedi d’altezza. Le
colonne ed i muri sono coperti di gieroglifici e di figure benissimo conservate.
Questo tempi sarà dunque stato rispettato da Cambise e dagli altri predatori venuti
dopo di lui. Io ne levai alcuni pezzi, tra i quali due leoni con teste d’avvoltojo ed una
piccola statua di Giove Ammone.
Ritornato di nuovo a Tebe, m’applicai all’indagine di ciò che da tempo
immemorabile è l’oggetto delle ricerche de’ viaggiatori d’ogni nazione: voglio dire le
sepolture dei re d’Egitto.
Sapevasi che oltre a quei sepolcri che ora sono aperti, ne esistevano di molti altri
sotto terra: ma nessuno aveva potuto ancora scoprire in qual luogo essi fossero.
A forza di riflettere sulla situazione di Tebe, ne trovai le traccie, ed infatti dopo
alcuni scavi giunsi a scoprire sei di questi sepolcri, uno de’ quali è quello d’Api,
come pare sia mostrato dalla mummia di un bue rinvenuta dentro il medesimo.
Questa mummia era piena d’asfalto. Io non trovo parole atte a dare una giusta idea
della grandezza e della magnificenza di questo sepolcro che certamente è la cosa più
curiosa e più sorprendente che trovasi in Egitto, e quella che dà una più grande idea
de’ suoi antichi abitanti. L’interno ha da un’estremità all’altra 309 piedi di lunghezza,
e contiene gran numero di camere e di corridoi. I muri sono da per tutto coperti di
gieroglifici e di bassi rilievi coloriti a fresco. Questi colori sono d’una vivacità, a cui
nulla tra noi può essere messo a confronto, e sì ben conservati che sembrano applicati
pur ora. Ma il più bel pezzo d’antichità è, nella prima camera, un sarcofago d’un solo
pezzo d’alabastro, di nove piedi e sette pollici di lunghezza, e tre piedi e nove pollici
largo. Tanto la parte esterna quanto l’interna sono coperte da gieroglici e di figure
scavate nell’alabastro. Questa grande conca dà un suono argentino, ed è trasparente
quanto un cristallo. Io son d’avviso, che se mi riesce, come spero, di trasportarla in
Inghilterra essa sarà uno dei più graziosi articoli de’ nostri musei d’Europa.

I FUNERALI DI PIO IX

di Bracco
PAGINA 1
“Il Messaggero”, 14 luglio 1881

In una calda notte romana si compie l’ultimo atto della millenaria storia del
potere papalino: la traslazione – su un carro destinato ad altro uso – del feretro
di Pio IX da San Pietro alla chiesa di San Lorenzo al Verano. La parte cattolica
della città e quella anticlericale, che attacca briga, si scontrano lungo il percorso
del feretro. Questa è la cronaca di un testimone oculare, non al di sopra delle
parti.

ROMA – Si sapeva che il trasporto della salma di Pio IX dalla basilica vaticana a S.
Lorenzo si sarebbe compiuto in forma privatissima, e così è avvenuto. Tuttavia,
divulgatasi per tempo in città la notizia, era naturale che in gran folla accorresse la
popolazione ad assistervi – e credo che in ben poche occasioni si sia vista Roma tanto
animata di notte: appena appena il gran concorso solito ad avverarsi la notte di San
Giovanni potrebbe darvene un’idea.
Verso le cinque di pomeriggio si notava già un insolito via vai di gente nei
dintorni della basilica: le vie di borgo erano assai più popolate che non lo fossero
domenica, dopo il triduo di riparazione al noto sacrilegio della madonna.
Sulla piazza di San Pietro si vedevano in gran numero i soliti gruppi di curiosi,
portatisi lì per assistere alla chiusura del tempio: parecchi si erano anche spinti
all’interno, e sappiamo di quattro o cinque che furono trovati dentro ai confessionali,
o in altri punti più remoti.
Un giovane studente, tal Salvetti, più audace degli altri, era penetrato nella
sagrestia cercando di confondersi con i chierici per potere in segreto assistere alle
funzioni.
Ma prima di chiudere le porte i sampietrini praticarono una diligente ispezione, ed
il tentativo andò a vuoto, e tutti furono messi fuori senza misericordia.
Le porte della basilica vennero chiuse alle sei in punto, e subito dopo ebbero inizio
le cerimonie relative all’esumazione della salma.
Tutto intorno alla cappella del coro, dove si trovava i feretro, ardevano in gran
numero i ceri fissati a grossi candelabri dorati, e disposti in circolo.
Alle sei me mezza scendevano nel tempio i membri del Sacro Collegio, quelli della
Curia pontificia e l’intero capitolo di San Pietro: fra monsignori, cardinali e prelati
saranno stati oltre un trecento, e vestivano tutti gli abiti di gala, come avviene
soltanto nelle grandi occasioni.
Seguiva poi una moltitudine di canonici in cotta e rocchetto, di preti e di abati, ed
in coda ad essi i rappresentanti delle società cattoliche cittadine in abito nero e guanti.
Dinanzi alla cappella del coro erano stati collocati due argani giganteschi, che
dovevano servire per tirar giù il feretro dal luogo dove era deposto.
Tutti i presenti, nell’ordine descritto, si disposero a semicerchio, e mentre gli abati
recitavano ad alta voce le salmodie dei morti, venivano dati dall’arcivescovo
Folicaldi gli ordini perché si procedesse al sollevamento del feretro.
A mezzo di scale fissate alla parete del coro, gli operai del Vaticano salirono fino
a quell’altezza, e tolsero il coperchio del deposito.
Non appena la doppia cassa di zinco apparve alla vista dei presenti tutti si
inginocchiarono, e si fece silenzio.
In pochi minuti, imbragato il feretro con grosse corde e messi in movimento gli
argani, gli operai lo calarono grado grado fino a terra, adagiandolo su quattro curri, o
pezzi di trave rotondi, per facilitarne il trasporto.
Collocato che fu il feretro su quei travi, monsignor Folicaldi gli impartì la prima
assoluzione e poi, alla presenza di due notai del Vaticano, si passò alla ricognizione
dei sigilli e si finì per stendere il verbale d’uso, dichiarando che tutto era proceduto in
piena regola.
Compiute così le formalità di rito, incominciarono le preci in suffragio del
defunto, che si protrassero per varie ore, e solo verso le undici monsignor Folicaldi,
incaricato dell’alta direzione del cerimoniale, ordinò agli operai di trasportare la cassa
fino alla porta di Santa Marta.
Il trasportò si effettuò sempre con quei rulli, e seguivano lentamente i sacerdoti e
le rappresentanze. Alla porta di Santa Marta si fece sosta, e qui monsignor Folicaldi
impartì per la seconda volta l’assoluzione. Dopo di che gli operai rialzarono il feretro
per deporlo nel carro funebre che attendeva lì accanto.

Il corteo

Il carro scelto dal Vaticano per il trasporto è uscito dalle officine del Casalini, e
dicono che fosse desinato a tutt’altro uso: infatti è un carro ordinario, e forse più
modesto dei carri ordinari di terza classe. Lo si provvide di quattro lampade agli
angoli, e lo si spalmò di vernice nera perché potesse servire con meno indecenza per
la solenne occasione.
Deposto il feretro sul carro, lo si coprì con una coltre color cremisi, che recava gli
stemmi pontifici, e vi si collocò un cuscino con in mezzo le insegne del papa defunto.
Il carro era tirato da quattro cavalli, bardati in nero, ma senza le abituali
gualdrappe di gramaglie. A fianco di ciascun cavallo si tenevano i palafrenieri della
corte pontificia nei loro costumi.
Dall’arco di Costantino fino alla scalinata si trovavano schierati i rappresentanti
delle società cattoliche, ciascuno dei quali recava una torcia, e saranno stati in tutto
cinque o seicento. Il corteo si mosse in mezzo a loro, non appena dalla porta d Santa
Marta si diè il segnale di partenza, con un bengala rosso, che rischiarò per qualche
tempo la contrada assiepata di gente.
Ecco l’ordine nel quale seguì la marcia: davanti il carro, preceduto da due
delegati di polizia e da molte guardie, sia di città, sia di questura. Subito dopo il carro
i componenti le società cattoliche, con le rispettive torce, e guardati ai fianchi da
agenti di polizia, la maggior parte dei quali non indossava la divisa.
Seguivano ultime sedici carrozze, alcune del Vaticano, altre di monsignori e
patrizi. Negl’intervalli si notavano gruppi di canonici e preti a piedi, e anco parecchie
donne provviste di candelette.
Chiudevano altri delegati, guardie, e carabinieri, i quali non riuscivano a tenere
indietro la fitta colonna di popolo che formava la coda.

Il tumulto

Disposto in quest’ordine, il corteo sfilò a lungo sulla Piazza San Pietro, tutta
quanta occupata dal popolo. Ci volle un buon quarto d’ora prima che la
attraversassero tutti, e quando si fece l’estremo limite di Piazza Rusticucci, alcuni
giovani che si trovavano verso la Trattoria della Sora Rosa intonarono una canzone
popolare in modo da essere uditi all’intorno. Una dozzina tra guardie e carabinieri si
spinsero solleciti a quella volta intimando loro di tacersi: ne nacquero vivacissime
proteste da parte di quei giovani, ma poi per l’intervento di altri la cosa non ebbe
seguito.
La sfilata continuò senza inconvenienti per Piazza Scossacavalli, Borgo Pio e
Piazza Sant’Angelo, da dove proseguì verso i Banchi, fino in Piazza dell’Orologio,
dove la ressa di gente assunse tali proporzioni da chiudere il passo.
Fu allora che, mentre gli agenti della pubblica forza tentavano di sgombrare il
popolo sul dinanzi, dal fondo del corteo si levarono alla prima dei sibili, e poi fischi,
e poi grida di: Viva l’Italia! Abbasso i preti! Abbasso i commedianti!.
A queste grida se ne aggiunsero altre, ed in breve la gran massa dio popolazione
che si trovava alla coda vi fece eco ripetendo in coro: è ora di finirla! I caccialepri
stiano in chiesa! Abbasso il governo!.
I delegati di questura, il capitano dei carabinieri Silva ed il tenente Arduini diedero
pronti il segnale per richiamare i loro agenti verso l’estremo limite del corteo, dove
già si era impegnata la baruffa fra i clericali e i nostri. Queste e simili grida furono
altrettante scintille, dalle quali divampò minaccioso e imponente l’incendio: in pochi
secondi il tumulto si fece gigante, e dai più inferiti si tentò di sfondare le file.
Guardie e carabinieri in massa si partirono la via in mezzo a loro, ricacciandoli
verso il muro ed intimando il silenzio: ma d’ambo le parti non si cessò dalle invettive
e dalle violenze – e corsero botte parecchie, mentre la folla persisteva a spingersi
oltre.
Nel frattempo i corteo proseguiva non molestato per via Papale, e poi oltre verso
Sant’Andrea della Valle.
E i dimostranti della coda si trascinavano anch’essi verso quella pare, travolgendo
delegati ed agenti, che non riuscivano a contenerli.
Giunti di fronte al ministero dell’interno, in piazza Pasquino, si fecero più alti e
rumorosi gli abbasso al governo, ond’è che guardie e carabinieri impugnarono il
revolver collocandosi dinanzi al palazzo per far barriera alla folla.
Ma a questo punto i dimostranti si allontanarono senza far resistenza, prendendo
su di corsa per piazza del Paradiso, da dove si diressero per piazza Venezia per
ripetere davanti alla prefettura le loro proteste. Accortisi di ciò, guardie e carabinieri
accorrevano anch’essi a quella volta, abbandonando il corteo, dove taluni dei nostri si
accapigliarono con i più furenti delle società cattoliche, che si valsero delle torce
come di bastoni.
In piazza del Gesù uno dei tumultuanti ne riceveva un tal colpo alla testa da
rimanerne gravemente ferito. Anche in piazza Venezia s’impegnò violento un
parapiglia tra i clericali armati di torce e i nostri: qui pure due cittadini rimasero feriti.
Le grida si succedevano sempre più clamorose e sempre più aspre, provocando feroce
il conflitto. La dimostrazione davanti la prefettura riuscì generale e solenne così da
render vani gli sforzi della polizia, che non seppe né poteva soffocarla, senza valersi
delle armi.
Riconosciamole il merito di non averle usate, e aggiungiamo anzi che due guardie
di città le quali avevano tratto le sciabole dovettero rimetterle nel fodero, e vennero
dichiarate in arresto. Tuttavia, né il carro funebre, né il seguito di carrozze soffrirono
molestia alcuna fino via Nazionale, benché il tumulto continuasse anche lì con grida e
fischi.
Di case illuminate avemmo a notarne in piazza San Pietro, e due o tre di Borgo:
nessuna altra lungo il tragitto fino in via San Lorenzo, dove ce n’era una che aveva
messo fuori i lampioncini, ma furono ritirati appena gli inquilini avvertirono il
chiasso.
Arrivavano intanto due compagnie di soldati e furono accolte dai dimostranti con
grida di Viva il Re! Viva l’esercito!
Qualcuno si spinge oltre, verso la casa che era stata vista illuminata, per strappare
il sacro cuore di Gesù e lo stemma papale attaccati sulla porta, ,ma i carabinieri e le
guardie si schierano in cordone e riescono a respingere l’assalto.
Si strepita, si fischia, si urla, e qualche sasso vola per l’aria. Si ripetono gli squilli
di tromba; i delegati, cinti delle sciarpe, si slanciano nel fitto della calca e agguantano
i primi che loro capitano sotto mano.
Uno di essi viene colpito da un sasso alla testa, la folla come fiumana rovescia gli
altri e anche il capitano Silva, infaticabile nel lavorar di mano, viene trasportato lungi
dai suoi militi.
Finalmente la truppa chiude il varco ai cittadini e il carro, seguito da molte
carrozze, prosegue al trotto verso Campo Verano.
A San Lorenzo

Trovata la strada sbarrata alle Marmorelle, e non essendovi possibilità di superare


il doppio cordone di truppa, uscimmo da Porta Pia e prendemmo la via lungo le mura,
fino a Porta San Lorenzo.
Il corteo era arrivato senza gravi inconvenienti sino alla porta, accompagnato
sempre dai soliti fischi. Vicino al cimitero lo aspettava una folla di circa 1500, 2000
persone: i fischi e l grida ebbero allora un crescendo. Nuova confusione, nuovo
correre di soldati e carabinieri. Poi tre squilli di tromba e la folla si sparpaglia
tumultuosa per il vasto piazzale.
Intanto il corteo si era fermato dinanzi alla chiesa, protetto da un cordone di
truppa. L’interno della chiesa appariva tutto illuminato.
Dopo pochi minuti la quiete non era più turbata che dai lugubri rintocchi della
campana. La funzione era incominciata.
Il feretro venne calato nella fossa alla presenza dei dignitari della corte pontificia e
del sacerdozio che l’avevano accompagnata. Poi la buca del sepolcro venne coperta
con dadi di marmo – e dell’estremo asilo di Pio IX non resta ormai altro indizio
all’infuori dell’urna, che si eleva verso il centro dell’arcata.
Alle tre la folla si era diradata e sul piazzale di San Lorenzo non rimanevano che
poche centinaia di curiosi ed una cinquantina di carrozze.

La statua di Pio IX

È noto che il defunto pontefice lasciò detto nel suo testamento di voler essere
sepolto in San Lorenzo fuori le mura, senz’altra spesa che 2000 lire per una modesta
pietra. Se il defunto pontefice ha provveduto assai modestamente agli onori funebri
da rendersi alla sua memoria, ciò non ha impedito ai cardinali di fare qualche cosa in
più, erigendogli a proprie spese un monumento a Santa Maria Maggiore.
Questo monumento consiste in una statua di grandi proporzioni che ritrae Pio IX
mentre sta pregando. La statua è già compiuta, e fra poco la metteranno a posto
scegliendo il punto della basilica che si trova al di sotto dell’altare della Confessione,
dove Pio IX aveva altre volte manifestato il desiderio di essere sepolto.
L’inaugurazione del monumento sarà fatta con solenni cerimonie religiose.
I feriti ed i contusi sono dodici, fra i quali una signorina, che ebbe un colpo di
torcia sul viso. Gli arrestati quattordici, in maggioranza clericali.

UNA NOTTE SUGLI AVAMPOSTI


PAGINA 2
di Luigi Barzini

“Il Corriere della Sera”, 31 maggio 1905


Le corrispondenze di Luigi Barzini dal fronte della guerra russo-giapponese
del 1905 sono considerate ad un tempo la nascita, in Italia, del giornalismo di
guerra e della figura dell’inviato speciale. L’articolo più famoso della missione
di Barzini è quello sulla battaglia di Tsushima, lo scontro navale che segnò
l’esito del conflitto. Questa è una corrispondenza in prima persona, più
profonda, in cui il primo inviato storico del “Corriere” coglie appieno la cifra
dello scontro a nord di Port Arthur, in cui gli eserciti si contendono stancamente
pochi metri di terra di un cimitero – ed anticipa quella che sarà la prima guerra
mondiale.

DAL QUARTIERGENERALE DELLA SECONDA ARMATA GIAPPONESE –


Lungo il muro fortificato che è l’ultimo baluardo dell’occupazione giapponese, le
vedette, appoggiate sui sacchi di terra dei parapetti, o curve dietro le feritoie,
guardano attentamente con i binocoli. Intorno al loro centinaia di fucili sono
appoggiati al muro, pronti, le giberne piene attaccate alle canne; casse di munizioni
s’allineano in terra ad intervalli regolari. Alcuni fucili sono addirittura infilati nelle
feritoie, lasciati così, carichi ed in mira, e pare quasi che vigilino anche loro e
debbano sparare da sé al primo allarme.
Lontano, nella pianura luminosa, è un movimento confuso di uomini vestiti di
grigio. Sono russi.
La mattinata è calma, limpida, fredda, e attraverso l’aria cristallina le cose più
distanti si rivelano allo sguardo, un po’ violastre, un po’ tremule, ma nitide. Al di là
degli avamposti, verso il nemico, la campagna ha un aspetto selvaggio. Le case sono
diroccate, le mesi non raccolte coprono la terra d’una aggrovigliata capigliatura
d’erba morta, gli sterpi non più scacciati dall’uomo sono venuti su dai fossati
invadendo i campi come un’armata nemica che l’inverno, alla sua volta vincitore, ha
arrestato e spogliato. Qua e là le radure biancheggianti di gelo. Nei boschetti, ai quali
nessuno s’è attentato di chiedere legna per i bivacchi, intrecciano i grandi rami nudi
che il freddo ha ornato di superbe fioriture di ghiaccio. A mille metri da noi un altro
muro come il nostro, bucato da feritoie, come il nostro. È il limite russo. Laggiù altre
sentinelle guardano dalla nostra parte, altri fucili volgono la mira verso di noi, altre
munizioni sono pronte.
Ma si vedono dei russi, fuori delle difese, aggirarsi nella zona neutra. Una colonna
di zappatori scava a settecento metri da noi, e scintillano al sole gli attrezzi forbiti dal
lavoro. Costruiscono una trincea avanzata. Dietro alla fila degli uomini al piccone,
vanno e vengono la carriole che trasportano terra; poco a poco sorge un nuovo
baluardo scuro. Gli ufficiali russi passeggiano avanti e indietro, facilmente
riconoscibili dal cappotto azzurro (simile a quello dei nostri ufficiali d’artiglieria).
I giapponesi guardano.
È uno spettacolo singolare.
Chiedo all’ufficiale che comanda il posto, e che di tanto in tanto osserva
attentamente il lavoro russo:
“Queste nuove fortificazioni non vi danno noia?”
“Un po’!” risponde sorridendo mentre aggiusta con cura un cannocchiale che pare
un cannoncino e si dispone a guardarci dentro.
“E non si possono impedire?”
L’ufficiale guarda lungamente in silenzio, poi si ritrae con aria sommamente
soddisfatta, richiude il cannoncino, se lo mette sotto il braccio, e si decide a
rispondermi.
“Impedire? Subito! Due shrapnel. Lavoro sospeso”.
Io non ho il minimo desiderio che i due shrapnel siano mandati ad interrompere il
lavoro di quei bravi giovanotti, ma non posso fare a meno di domandare:
“Perché lo permette, allora?”
“Perché se non lavorassero di giorno, allora lavorerebbero di notte, e noi non
vedremmo più niente. I russi non ci hanno mai permesso di lavorare di giorno, e
allora abbiamo lavorato di notte, salvo casi di urgenza. E voi avete visto che le nostre
fortificazioni sono complete. Inoltre quello che fanno ora è ingenuo; essi lavorano per
noi. Fare delle trincee avanzate in quelle posizioni è un errore”.
Detto questo l’ufficiale abbozza un sorriso d’intelligenza e mi lascia a meditare
sull’errore – ma, lo confesso, senza troppo profitto.

Le fortificazioni giapponesi sono complete; è vero. Questa parte della linea


d’avamposti è a ponente della strada ferrata e dello Sha-ho, dei villaggi di Chiaoliapu
e Sanjatsu. Ciò che vedo qui è su tutte le postazioni avanzate dell’esercito, dall’Hun-
ho all’estremo limite della Prima Armata sull’alto Sha-ho, per ottanta chilometri.
Ottanta chilometri di ridotti, trincee casamattate, fossati, reti di fil di ferro, gallerie.
Si arriva alle posizioni di avamposto attraverso chilometri e chilometri di trincee
d’approccio, si lascia il livello del suolo per non camminare più che sotto terra. La
pianura da lungi pare deserta, mentre invisibili battaglioni forse si muovono nei
solchi giganteschi.
La trincea sbocca fra le rovine di un villaggio. Si è arrivati. Del villaggio non c’è
più niente; dei ruderi pencolanti anneriti dal fumo degl’incendi, delle macerie
irriconoscibili tra le quali si levano vecchi alberi spezzati e cincischiati dalle
esplosioni, delle travi bruciacchiate fra i rottami di stoviglie e di mobili: ecco
Chiaoliapu. I villaggi vicini non si trovano in migliori condizioni. Non un tetto sotto
il quale ricoverarsi, non una tenda. Eppure da quattro mesi un battaglione è
accampato tra questa rovina. Per essere più esatti bisogna dire: sotto a questa rovina.
Il battaglione è sepolto.
Il sottosuolo è tutto traforato, corso da cunicoli, passaggi protetti, trincee. È una
vera città sotterranea con le sue vie, i suoi crocicchi, le sue abitazioni. Le strade
scendono nell’ombra, si precipitano in fenditure profonde per scalinate tagliate col
piccone, risalgono alla luce, si biforcano in tutti i versi, formano un curioso labirinto
nel quale delle scritture su tabelle servono da guida.
Le dimore dei soldati hanno ingressi da catacomba. I loro camini fumiganti
spuntano al livello del suolo. Quando gli occhi si sono abituati all’oscurità di queste
tane, si rimane sorpresi di vedere un interno che ha pretese d’eleganza con le sue
pitture attaccate alle pareti, con i suoi mazzi di fiori di carta agli angoli, col suo
tatami. I fucili si allineano su rastrelliere improvvisate; tutto è in ordine, tutto è netto.
Si direbbe che questa gente non sia mai vissuta in altro modo che sotto terra.
In alcuni punti la strada scende come l’ingresso di una miniera, e conduce in
caverne buie e basse, ma ampie, le cui volte sono sorrette da travature. In questi antri
si rifugiano i soldati quando il nemico bombarda con le grosse artiglierie – poiché ora
le grosse artiglierie sono entrate in azione. Alcune di queste spelonche contengono le
munizioni ed i viveri – ogni villaggio ne possiede per una settimana.
In questo enorme formicaio umano i soldati vivono lietamente.
Il contatto col nemico è diventato così abituale che non preoccupa più. Nelle
trincee si vede l’affaccendamento regolare e sereno di una folla tranquilla. Chi
pulisce le armi, chi lava i panni, chi prepara il rancio. Quest’ultima occupazione attira
una certa folla; la cucina seduce; la trasformazione quotidiana di una decina di
infelici galline in decalitri di stufato è seguita con attenzione compiacente da un
circolo di amateurs. Agli avamposti i soldati ingrassano. Le autorità giapponesi sanno
che la massima fondamentale della guerra, il segreto della vittoria, s’immedesimano
in questa verità: che l’eroismo si sviluppa in uno stomaco ben nutrito, come il vapore
nella caldaia accesa. Il combustibile è ben mantenuto negli stomachi dell’esercito
giapponese; l’eroismo è sotto pressione.
Non lontano dalle gigantesche caldaie delle cucine fumano le caldaie del bagno,
all’aria aperta, presso alle quali i soldati si spogliano – con alcuni gradi sotto zero – e
aspettano il loro turno abbandonandosi ad una violenta ginnastica, e ad uno
scambievole massaggio che sembra un pugilato, allo scopo di mantenere il corpo a
quei misteriosi 37 gradi di temperatura della cui invariabilità la natura è
estremamente gelosa.
Gli sfaccendati vanno intorno, bighellonando; scherzano, ridono, cantano. Qualche
volta da sotto terra vien su l’accordo dolce e lamentoso di un mi-sen ed una voce
modula i melanconici canti di patrie Ciaiyà.

All’improvviso, spesso, ecco un sibilo profondo nell’aria, un ronzare lamentoso, e


segue uno scoppio vicino; la terra sussulta. E altri sibili, altre esplosioni succedono,
nuvole di fumo acre e di polvere si trascinano rasente al suolo. I russi bombardano.
Un clamore si leva. I soldati corrono vocianti, ridono, si gridano degli scherzi mentre
raggiungono precipitosamente le loro tane. In pochi istanti sono scomparsi.
Spesso le bombe sfondano le casematte e massacrano. Giorni or sono una granata
da 15 centimetri ha ammazzato così nove soldati e ferito quattro. Il bombardamento è
una cosa terribile, Nella battaglia l’istinto di conservazione è sopraffatto dalle ardenti
emozioni della lotta, dal fascino indicibile della grandiosa visione, da una specie di
stupore che dà un non so che di irreale, l’apparenza d’un sogno, alla verità tremenda;
nella battaglia si sente che uno non s’appartiene più interamente, che delle altre
volontà, delle altre forze, imperscrutabili e possenti, trascinano via come paglia in un
turbine, vi è un’ebrezza che ha la sua voluttà, l’anima è accesa e la mente confusa.
Ma nel bombardamento non c’è che il pericolo. Un pericolo che non si vede e non si
para, ma del quale si ha piena coscienza, un pericolo che sovrasta nel sonno e nella
veglia, che si sente vagamente come un agguato misterioso, vigilante, pronto ad
accoppare l’uomo nella sua tranquilla e banale vita di tutti i giorni.
Talvolta alla notte, quando all’improvviso il kang sobbalza per il vicino scoppio
fragoroso d’una granata, nel tumultuoso affanno d’un subitaneo risveglio, che
somiglia a un incubo, si aspettano i colpi successivi, e si pensa che forse non si hanno
che pochi secondi di vita e non ci si può nulla. Sotto il bombardamento si rimane
perché non si può fuggire, come non si può fuggire il freddo e il caldo; il
bombardamento appare quasi una fatale condizione meteorologica: piove a bombe.
L’inevitabilità del pericolo conferisce una specie di tranquillità, che può sembrare
abitudine, ma che non è che rassegnazione. I giapponesi però non si direbbero mai
turbati da queste sensazioni. Cercano un rifugio se c’è un rifugio, ma se essi ridono o
parlano, lo scoppio di un proiettile vicino non tronca sulle loro labbra il riso o la
parola.
In fondo non è vero che essi disprezzino l’esistenza. Se v’è un popolo che ami
profondamente la vita, che ne sappia gustare tutti i piaceri, è il giapponese. È la
Morte che essi vedono sotto un aspetto diverso; essa non è il grande enigma. Da noi il
credente la teme perché sarà giudicato, il miscredente la teme perché sarà annientato;
il giapponese sa che dopo morto avrà onori e gioie, che tornerà nella casa dove
l’aspettano, e che un giorno rivivrà al mondo sotto un’altra forma. La morte non è più
che un piacevole periodo di transizione.
Ciò conferisce ai soldati giapponesi un’irresistibile forza. Ma è certo che l’eroismo
dei nostri eserciti, il sublime sacrificio della vita fatto alla patria da uomini che non
sperano nulla dopo la morte, e che credono a pene atroci e tremende di una
inesorabile vendetta divina, appare tanto più grande e più bello.

La città sotterranea comunica per numerosi passaggi con i ramparti e i muri e i


parapetti delle fortificazioni. Le esperienze di un anno di guerra e gli insegnamenti
dell’assedio di Porto Arturo, hanno suggerito, nella costruzione di queste opere,
infiniti tranelli, infinite sorprese. Tutte le diaboliche invenzioni che la guerra ha fatto
germogliare nella mente dell’uomo sono qui riunite.
Al di qua del muro o del parapetto vi è un gran fossato, all’estremità del quale si
annidano caponiere dalle cui feritoie, mascherate di sterpi, la fucileria può spazzare il
fosso. Ma prima di giungere qui, gli assalitori dovrebbero passare una barriera di fili
di ferro larga dieci metri, e poi una barriera d’alberi abbattuti. Si entra alle caponiere
per gallerie sotterranee, le quali proseguono fin presso alle barriere, per altre feritoie,
risalenti il suolo, si possono da qui fucilare a bruciapelo il nemici arrestati dagli
ostacoli. Di queste gallerie scure, basse e strette – così strette che percorrendole si
prova la sinistra impressione di non poterne più uscire, e di poter restare incastrati tra
le loro pareti da sepoltura – ve ne sono un po’ per tutto. Decine di mitragliatrici sono
disposte agli angoli morti delle fortificazioni, o in punti dai quali si possano prendere
d’infilata le linee delle barriere, e si nascondono dietro baluardi di sacchi. All’aperto,
nella zona neutra, si vedono dei segni rossi a distanze eguali, sono termini di
misurazione per regolare il tiro, pietre miliari della morte. Tra un villaggio e l’altro,
per la campagna, si distendono trincee e barriere che formano una linea quasi
ininterrotta. Se la linea è spezzata, ogni villaggio può rimanere indipendente, come
una cittadella, e difendersi da solo. Le fortificazioni girano da ogni lato; può subire
un assedio. Tutto il fronte è così organizzato; un attacco diretto appare oggi
impossibile tanto ai russi quanto ai giapponesi. Sarebbe un macello immenso e forse
inutile. Le ostilità saranno quasi certamente iniziate con larghi movimenti avvolgenti
sui fianchi in modo da minacciare il nemico alle spalle e costringerlo a ritirarsi, A
meno che non si proceda razionalmente e non si ponga un assedio regolare contro ad
ottanta chilometri di fortificazioni. Un assedio fantastico!
Le linee di avamposti non sonno più le linee mobili, oscillanti con le quali si
mantiene il contatto col nemico, non sono più i tentacoli delle armate, i quali si
allungano furtivamente, esplorano, si ritraggono. Sono linee di formidabili difese,
spalti da fortezza sui quali hanno lavorato per quattro mesi, ogni notte, al freddo
polare, schiere di zappatori. E si lavora ancora qua e là, ad erigere ripari per grossi
obici, appostamenti di batterie, a rinforzare punti giudicati deboli, a scavare nuovi
passaggi nella campagna desolata e nuda.
Nel mezzo di ogni forte c’è una specie di capanna costruita con tronchi d’albero e
sepolta da secchi di terra, la quale ha verso il nemico una sottile feritoia. È
l’osservatorio del Comando. Gli ufficiali vi si danno il cambio, notte e giorno, come
gli ufficiali “di quarto” sulla passerella di una nave. Qui fanno capo le informazioni
delle vedette.
Di tanto in tanto sei distaccamenti russi si avvicinano alle fortificazioni per
riconoscerne da presso la natura, per carpirne il segreto. Sono spesso pochi uomini
arditi che strisciano carponi tra gli sterpi, che profittano d’ogni asperità del terreno
per nascondersi e compiere inosservati la loro esplorazione. Ma le vedette giapponesi
conoscono tutti i sentieri e tutti i passaggi: vi si sono inoltrate sovente per avvicinarsi
a loro volta alle postazioni nemiche. Sanno quali sono i punti da tener d’occhio e non
si lasciano sorprendere. Ecco, i nemici che si apprestano sono scorti, le vedette si
volgono e si dicono a bassa voce di star pronti.
La parola passa subitamente di bocca in bocca. I soldati in servizio sulla prima
linea in silenzio si affibbiano le giberne sulla pelliccia, balzano sui ramparti, ai loro
posti, guardano dalle feritoie apprestando i fucili. Si ode uno scattare di caricatori
lungo la fila. Le canne passano attraverso i buchi del muro. Fra l’ufficiale di servizio
e le vedette a luogo un breve scambio di parole.
Di fronte alla linea giapponese a Chiaoliapu v’è un piccolo cimitero cinese
ombreggiato da un antico salice che reclina la sua lunga criniera sulle tombe
abbandonate. Al di qua del salice, nel kaofang, si scorgono a momenti delle cose
scure che si muovono. La distanza non appare più di duecentocinquanta metri. I
tiratori hanno visto. Tutte le teste si piegano a terra sulla mira e rimangono immobili.
Passano alcuni istanti. La voce dell’ufficiale comanda: “Utè!”, “Fuoco!”. Echeggia
una scarica. Laggiù nel kanliang non si scorge più nulla. Altre fucilate si susseguono;
ad ogni colpo i soldati manovrano gli otturatori con calma – mentre i bossoli delle
cartucce saltano via ancora caldi – si rimettono in mira, sparano e ricominciano
tranquillamente come ad un tiro d’esercizio.
Intanto, all’improvviso, dalle postazioni nemiche risponde un fuoco d’inferno,
una fucileria serrata e rabbiosa. Delle palle battono sull’esterno del muro, o
s’affondano nei sacchi che lo coronano sollevando nuvolette di polvere, o passano in
alto con sibili sottili e brevi, i quali fanno prendere all’estraneo la fulminea (anche se
non eroica) decisione di sedersi per terra, e di aspettare la fine di questo colloquio
d’avamposti. In certi momenti la propria statura appare eccessiva e pericolosa come
all’altezza di una vetta alpina, e si prova un irresistibile desiderio di scendere un po’.
La pattuglia di esploratori nemici s’è ritirata; i russi ricompaiono lontano,
correndo. Allora si ode un comando: “Tetemarè!”, “Basta!”. I giapponesi cessano il
fuoco, scendono dai ramparti e si sparpagliano nelle vicinanze senza fare più caso
alle fucilate dei russi. E lungo il muro rimangono le sole vedette, imperterrite con i
loro binocoli. Dopo pochi minuti anche il fuoco nemico rallenta e finisce. Silenzio di
nuovo.

È ben raro che le azioni d’avamposti assumano ora proporzioni più gravi di
queste. Alla notte le ricognizioni sono spesso meno utili perché nell’oscurità si può
giungere sulle fortificazioni nemiche senza comprendervi nulla. Ma esse servono a
constatare la vigilanza del nemico; si fanno delle ricognizioni in forza che sono delle
vere e proprie prove generale di attacco: si vuol vedere fino a che punto si può
giungere inosservati, oppure quale opposizione il nemico può concentrare in un punto
minacciato, ed in quale tempo. Nell’oscurità poi piccole pattuglie ardimentose si
prefiggono un altro compito: quello di ricercare i passaggi liberi nelle barriere e
lasciarvi segni di riconoscimento. Gli intrighi di fil di ferro, le zeribe, i cavalli di
frisia nascondono delle aperture che i difensori conoscono molto bene, per le quali
essi all’occorrenza possono rapidamente uscire e divenire assalitori; trovare queste
aperture è un capolavoro di audacia, di pazienza e di cautela. La notte serve pure alla
ricerca di mine nemiche. È quasi sempre un uomo solo che si assume il terribile
incarico, un uomo del mestiere, un soldato del genio che si offre volontario. Egli deve
immedesimarsi nella terra; coperto di fango, deve rimanere immobile per ore a pochi
passi dalle sentinelle nemiche, avanzare centimetro per centimetro nei luoghi sospetti
d’esser minati, frugare con la mano, cercare i fili elettrici della mina, tagliarli,
riassestarli ingannevolmente al loro posto, ritirarsi con le stesse precauzioni. Le ore
della notte sono ore di attività e di lavoro agli avamposti.
La vigilanza delle sentinelle disseminate lungo le linee fortificate non è più
sufficiente a prevenire o sorprendere gli agguati che le tenebre proteggono, e bisogna
avanzare altre sentinelle nella zona neutra, bisogna disseminare uomini davanti alle
difese. Questa operazione si fa al tramonto, quando la terra si immerge nella prima
ombra gelida della notte.
Nel mezzo al piccolo cimitero c’è una trincea, tra le tombe. L’hanno scavata un
po’ i russi, un po’ i giapponesi. È la più avanzata posizione notturna dei due eserciti,
che la occupano ora gli uni, ora gli altri. A poco a poco si è ampliata, è stata resa più
comoda, adatta a lunghe permanenze. I giapponesi vi hanno scavato dei gradini, i
russi dei ripiani per sedersi. I giapponesi poi vi hanno portato del kanliang secco per
rivestire le pareti; ogni notte la trincea migliora. Tutte le sere la conquista di questa
postazione provoca una piccola battaglia. In fondo, più che un combattimento, è una
corsa ad ostacoli – con molti ostacoli.
Allorché il giorno declina, sette od otto giapponesi lasciano le fortificazioni per
passaggi nascosti, e cercano di avvicinarsi cautamente alla trincea. I russi fanno
altrettanto, dalla parte opposta. Se le due pattuglie si scorgono, si mettono a correre, e
correndo sparano. Chi arriva per primo alla trincea ne è il padrone; essa, difesa dalle
tombe, è imprendibile. Talvolta viene occupata senza contrasto perché il nemico è in
ritardo, e quando compare da una scarica. Dalle postazioni giapponesi e russe i
soldati, affollati sui parapetti, seguono le fasi di questo straordinario spettacolo. Se
arrivano primi i giapponesi, i soldati agitano i berretti e gridano un tremendo
“banzai!” … Se sono i russi che rimangono vincitori, si ode echeggiare sulla piana un
interminabile “urrah!”.. Tutto ciò ha l’aria di un gioco. Eppure, quando la notte è
profonda, spesso di laggiù portano indietro dei feriti e dei morti.
Alla notte i soldati di servizio alla prima linea rimangono dietro i parapetti, al
freddo intenso, avvolti nelle pellicce e nelle coperte da campo. Le sentinelle sono
raddoppiate. Nel buio passano gruppi di soldati diretti chi sa dove; si ode uno
scambio di parole d’ordine fatto a bassa voce; delle ombre si aggirano in silenzio
scompaiono nelle trincee, si inabissano nei meandri tenebrosi della città sotterranea.
Da lontano arriva un misterioso battere di picconi, un rumore continuo di lavoro
furtivo nella gran calma della notte.
Qualche volta ad un tratto risuona un colpo di fucile dai posti avanzati; due, tre,
dieci fucilate rispondono. Pochi momenti ancora e la moschetteria scroscia assordante
da tutte le parti tra il lampeggiare violastro dei colpi. Un razzo sale serpeggiando
verso il cielo stellato, lasciando cadere una lenta pioggia di scintille e scoppia in alto
illuminando per un istante la pianura con un bianco chiarore come di luna. È un
segnale che significa: della fanteria russa avanza all’attacco! Le sentinelle che erano
al largo rientrano di corsa, gridando per farsi riconoscere. Il tumulto cresce. Delle
voci imperiose comandano. Centinaia di soldati escono dalle tane, in ordine; si
formano piccoli plotoni che corrono nelle trincee e vanno a prendere il loro posto ai
muri e ai parapetti. Il fragore del fuoco sempre più intenso. Altri razzi più lontani
solcano il buio; l’allarme si propaga a tutte le posizioni. È impossibile comprendere
ciò che avviene. Il cannone non tarda a scagliare le sue folgori, lo scoppio delle
granate è abbagliante e somiglia veramente ad uno scoppio di saetta.
Un profano ha l’impressione di trovarsi in una grande battaglia, forse nella
battaglia tanto attesa. Ma dopo un quarto d’ora il frastuono si placa, il fuoco langue,
vi sono momenti di silenzio sempre più lunghi le cannonate cessano; poi si possono
contare le fucilate. Due, tre, quattro, un’altra ancora. È finito. All’alba si viene a
sapere che non vi sono che tre feriti, che i russi avevano tentato una ricognizione
contro una compagnia protetta dal fuoco delle loro posizioni, che la compagnia si è
ritirata subito con perdite che s’immaginano gravi. Le perdite del nemico sono
sempre tanto più gravi quanto meno si conoscono.
Al mattino i russi tornano ad aggirarsi fuori delle loro difese, a lavorare alle loro
nuove trincee, tranquillamente, e i giapponesi ricominciano a guardarli.

Avanzando un po’ dalla linea giapponese, attraverso ai passaggi protetti che le


pattuglie serali percorrono, e inoltrandosi nella zona neutra, si è sorpresi da questa
singolarità: mentre le posizioni giapponesi sembrano assolutamente deserte e
silenziose, sulle posizioni russe si agita una folla che fa i propri comodi e non
dimostra la più lontana preoccupazione per il pericolo. Si direbbe che da una parte vi
sia gente di coraggio, dall’altra gente che ha paura. Questo atteggiamento cosi
diverso dei due nemici è caratteristico, e rileva molto di più di quel che sembri a
prima vista.
I russi hanno del valore un concetto che in fondo è anche nostro. Per noi l’eroismo
è una virtù individuale. Chi la possiede è un uomo che sfida i pericoli, e per questo è
ammirato. Non si può essere arditi oggi e scappare come un coniglio domani senza
perdere ogni diritto al glorioso titolo d’eroe. Noi amiamo l’eroismo per l’eroismo. Ci
piace in se stesso l’atto del rischiare la vita, poco importa il perché. Ci seduce il bel
gesto. Infatti noi ammiriamo sinceramente questo contegno dei russi, che lasciano le
loro difese per passeggiare allo scoperto di fronte al nemico.
Il coraggio giapponese è diverso. È un coraggio utilitario. Il giapponese non si
espone al pericolo, se non è necessario. Conserva la sua vita come una preziosa
moneta che bisogna spendere bene e a tempo. Farsi uccidere inutilmente è un delitto
verso la patria. Egli non teme di menomarsi nascondendosi, non sente il bisogno di
provare che è un valoroso. Vuole essere utile. Il soldato che va a tagliare i fili di una
mina sa che il suo nome non sarà ricordato: si offre non per una ragione di amor
proprio, non va per conquistare gloria, ma semplicemente e solamente per tagliare i
fili di una mina, perché è utile che siano tagliati. L’eroismo non si palesa che
nell’esecuzione del dovere. Veder fuggire e rintanarsi al primo scoppio di shrapnel
quegli stessi soldati che in altri momenti danno assalti sopra assalti sotto la grandine
dei proiettili nemici ci appare un fenomeno incomprensibile, una contraddizione
assolutamente orientale. Ma in verità è logico. Un soldato è una macchina di guerra,
una specie di mitragliatrice che non deve essere inutilmente esposta a danni; ogni
giapponese sente lo stretto dovere della self-protection.
Questa speciale concezione del dovere e del coraggio costituisce certo una grande
superiorità per un esercito così micidiale. Infatti, di fronte ad un morto giapponese ve
ne sono sempre due russi. L’eroismo slavo è provato dalle cifre delle perdite: ad ogni
azione è un’ecatombe. L’onore del popolo russo è salvo, ma la battaglia è perduta.
L’ERUZIONE DEL VESUVIO
(La bufera vesuviana – l’enorme panico di Napoli, pag. 1)
“La Stampa”, 12 aprile 1906

Una scena che a Napoli si è ripetuta, sempre diversa e sempre uguale, per molti
secoli, qui fissata dall’occhio dell’inviato di un giornale del Nord.

NAPOLI – Il cielo stamane è stato coperto da una fitta cenere. Solo ad intervalli
appare un cielo scialbo; l’aria è afosa; il vento solleva di continuo la cenere ed
avvolge la città in una nube d densa nebbia. Da Napoli non si scorge il Vesuvio che è
avvolto da una caligine fitta.
La tranvia da Portici a Napoli a stento raggiunge la scuderia di San Giovanni a
Teuccio, mediante l’opera di squadre di operai che lavorano attivamente da stanotte
per tenere sgombri i binari. Per l’enorme resistenza delle rotaie le tranvie procedono
lentamente sprigionando grosse scintille elettriche.
Ogni via di comunicazione con Torre del Greco è interrotta. Dal ponte Maddalena
cala un velario denso ed asfissiante di cenere fino alla villa di Caserta.
A Portici una compagnia del 19° Fanteria comincia a sgomberare le rotaie. Più su
sono dislocate altre compagnie di fanteria e due compagnie di bersaglieri. Gli
zappatori accumulano una grande quantità di sacchi di sabbia e lapilli in mezzo alla
via.
Altra sabbia però piove continuamente dai tetti e la circolazione per le vie di
alcuni punti è addirittura impossibile.

LA FAME A PORTICI

A Portici la cenere raggiunge quasi l’altezza degli archi di piazza Municipio. Alla
stazione una folla di quasi un migliaio di persone affamate chiede pane e aiuto. Il
generale De Chauran, comandante la zona, impiantò il suo quartiere nel palazzo degli
Asili ed è accorso con le autorità locali in mezzo alla folla per calmarla. I soccorsi
sono insufficienti. Molta gente che nella notte fuggì da Napoli, di giorno torna a
Portici per controllare la propria abitazione.
Vennero distribuiti ieri, come anche a Torre del Greco, cento razioni di pane: si
attendono per poggi, a Portici, 1500 razioni. Il tenente commissario Masulli dispose
per l’invio di 1000 razioni di pane e di biscotto in ogni comune. Alcuni tetti
minacciano sempre di crollare.
Ieri mattina, verso le 16, il cielo si oscurò, diventando nero e rossiccio. Ad un
tratto si scatenò una pioggia di lapilli, prima più grossi, poi più piccoli. Oggi il buio è
intenso. I lumi son tutti accesi. Gli ufficiali fanno sforzi grandissimi, ma non riescono
a calmare il panico che ha invaso la popolazione. Tutti abbandonano le case e
fuggono a San Giovanni di Napoli. Circa trecento persone ieri sera si ricoveravano a
bordo delle navi.
Lungo la via da Portici a Resina è un continuo accorrere di gente affamata verso la
sede del comandante della zona militare. Dalla Scuola Superiore di Agricoltura in poi
la via diventa impossibile: bisogna continuamente scendere dalla carrozza.
Al Municipio si procede alla distribuzione dell’esigua quantità di pane inviata
dalla Prefettura. La popolazione, che invase già a viva forza il Municipio, tumultua a
causa della piccolezza delle razioni. Il sindaco, Scognamiglio, in previsione di
violenze telefonò a Napoli chiedendo soccorsi, ma finora invano. Alcune donne, con
numerosa prole, gettano sul volto del sindaco e delle guardie il pane avuto. Si temono
scoppi di gran violenza, e che avvengano saccheggi. Il sindaco è alle prese con gli
abitanti affamati, che lo insultano. I 53 bersaglieri che sono colà non bastano a
mantenere l’ordine pubblico, e sono vani gli sforzi del capitano Castaldi e dei tenenti
Tronel e Piscopo. Una compagnia di zappatori procede febbrilmente alle operazioni
di sgombero.

UN ENORME PANICO A NAPOLI

Alle ore 9 di stamane si diffusero per Napoli le voci più allarmanti ed inverosimili.
Si parlava di numerosi crollamenti avvenuti durante la notte. Si dicevano caduti il
monastero di Sant’Eligio, il carcere di San Francesco, la fabbrica dei tabacchi.
Specialmente la voce del crollamento della fabbrica era ripetuta con insistenza. I
telefoni dei giornali furono presi d’assalto, non si domandava se le notizie erano vere,
ma quale era il numero delle vittime.
Queste voci e l’incessante caduta della cenere che avvolse come un grande nembo
tutta la città, e specialmente i quartieri popolari di Vasto e dell’Arenaccia, destarono
un panico enorme. Molta gente scappò dalle case, formando degli assembramenti.
Malgrado la proibizione recente dell’arcivescovo, furono staccati dalle pareti
domestiche le immagini dei santi e portati in processione per i vicoletti oscuri e luridi
di Napoli gettando l’allarme anche tra e poche persone che erano rimaste nelle case.
Al Rione Vasto l’assembramento delle donne e degli sfaccendati assunse le
proporzioni di una vera sommossa. Parecchie migliaia di persone emettevano grida
disperate percorrendo tutte le strade. Esse protestavano di non voler più restare nelle
case perché sarebbero crollate sotto il peso della cenere. Tumultuando, le processioni
si diressero verso il carcere di San Francesco. Le grida giunsero naturalmente ai
detenuti, che si ammutinarono. Gridavano: “liberateci!”, “Non fateci morire!”, e
tentarono di abbattere le porte con spranghe di ferro.
Intanto le grida interne giungevano anche di fuori e molta folla si radunava
innanzi al carcere domandando la liberazione dei detenuti. Il direttore delle carceri,
riuscite inutili le esortazioni, telefonò in Questura, al prefetto e al procuratore del re
chiedendo provvedimenti, mentre dava ordini che la poca truppa disponibile
proteggesse il carcere dall’invasione della folla. Intanto dalla vicina caserma di San
Carlo all’Arena accorreva un battaglione di truppe, disperdendo gli assembramenti.
Mentre ciò avveniva alle carceri, gli operai della Fabbrica Tabacchi, ai Santi
Apostoli, ritenendo poco solide le condizioni dell’edificio, domandavano di poter
abbandonare il lavoro. Il direttore, visto l’allarme, non credette di accondiscendere a
questo desiderio e dispose la chiusura dei cancelli. Le operaie allora iniziarono una
vera e propria opera di distruzione. Intervenne nuovamente l direttore il quale, presi
gli ordini dal prefetto, dispose per la chiusura della fabbrica.

LA FOLLA INVADE LA CATTEDRALE DI NAPOLI

Frattanto, verso le 10, la caligine aumentava; il panico prese delle proporzioni


enormi, specialmente nei quartieri popolari dove le botteghe, le scuole, gli opifici
venivano chiusi. Circolavano intanto con insistenza le voci di altri crolli. Questa voce
era dovuta alla caduta di un pezzo di cornicione. Intanto migliaia di popolani e di
donne muovevano verso la via del Duomo. Le grida divennero laceranti. La folla
domandava che si facesse uscire la statua di San Gennaro, che in Duomo è custodita,
nella Cappella detta del Tesoro. Soltanto questo poteva, secondo il pregiudizio
popolare, calmare l’infuriare della sciagura immensa che ha colpito i comuni
vesuviani e Napoli stessa per l’eruzione del Vesuvio.
La folla, nelle ore successive, è venuta a mano a mano ingrossando, specialmente
per opera degli scalmanati, che si erano teatri al Palazzo della Prefettura chiedendo
calorosamente la processione. La situazione ha cominciato a prendere proporzioni
allarmanti. Da ogni parte si udivano grida: “Vogliamo San Gennaro!”, “Fuori San
Gennaro!”. Ma la chiesa rimaneva chiusa, malgrado le grida e le proteste.
Ad un certo punto si cercò di irrompere contro la porta del tempio. Nacquero
colluttazioni con la forza pubblica e le guardie furono sopraffatte. Tutta quella massa
enorme del popolo penetrò a viva forza nel tempio, ne invase le navate, giunse fino
alla statua di San Gennaro e, sollevatala, come un fuscello sulle spalle di parecchie
centinaia di fanatici venne trasportata fuori, tra le acclamazioni frenetiche del popolo
genuflesso.
Frattanto un altro gruppo di persone era riuscito a penetrare nel “Tesoro” attiguo
alla chiesa, impadronendosi di tutti i gioielli, della mitria carica di pietre preziose e
degli oggetti di oro massiccio, dono dei fedeli. I carabinieri sono accorsi prontamente
sul posto per evitare le ruberie, ma ancora non si sa se nel trambusto una parte del
tesoro di San Gennaro sia scomparsa.
Appena la statua del Santo è apparsa sulla porta della chiesa, un raggio di sole ha
illuminato la scena. La popolazione con una voce sola ha comunicato a gridare
insistentemente: “Ecco il miracolo! Ecco il miracolo!”.
Parecchie migliaia di persone gremiscono le strade; molte di esse sono
inginocchiate; abbiamo scene d’altri tempi! Intanto la statua viene trasportata dal
Duomo per la via. Molti popolani obbligano i presenti a levarsi il cappello e le
carrozze a fermarsi. La processione gira per i vicoli e si avvia verso la strada
Maddalena.
Dalle finestre stiate di gente si vedono migliaia di ceri accesi. Le edicole dei
giornali, per la circostanza, sono tramutate in cappelle: dinanzi ad esse sono state
accese delle candele.
La processione è sempre più imponente . Continua attraverso le vie del quartiere.
La folla grida: “ Viva San Gennaro, viva il nostro santo protettore!”.
GLI SCALPELLINI SI RIVOLGONO AL RE!
(Lo sciopero degli scalpellini, pag. 1)
“La Stampa”, 8 gennaio 1908

Nell’Italia sabauda che anni prima aveva visto i cannoni del generale Bava
Beccaris sparare sulla folla di Milano, un gruppo di scalpellini che lavorano al
futuro Altare della Patria osano l’impensabile: portare le loro proteste per
mantenere il posto di lavoro di fronte a Vittorio Emanuele III. Scandalo tra i
benpensanti, curiosità tra la notoriamente curiosa folla di Roma. Tra le righe di
questo resoconto si intravedono però anche strane pratiche nell’esecuzione degli
appalti e gravi disfunzioni organizzative. Terminati i lavori, il Re volle che sul
Vittoriano fosse scritto a caratteri cubitali “Concordia Civium et Unitate
Nationis”. Forse sarebbe stato più consono “Nihil novi sub Soli”.

ROMA – L’eterno sciopero degli scalpellini del monumento a Vittorio Emanuele


rimonta, in questa fase, al settembre scorso, e da quel mese i comizi si sono succeduti
ai comizi. Le commissioni, nominate in seno alla classe per espletare le pratiche
presso il ministero dei lavori pubblici al fine di porre termine alla disoccupazione
degli scalpellini, hanno studiato e discusso senza risultato. L’ultimo comizio fu tenuto
la sera del 4 gennaio, alle ore 7 del mattino, nella sala dell’Unione Marmisti. Gli
intervenuti erano più di 200.
Cardarelli, segretario dell’Unione, illustrò le pratiche espletate. I presenti si
inasprirono nel sentir dire che il ministro non intendeva chiamare la commissione
degli operai e farla discutere con la commissione creata dall’ufficio tecnico. Si rilevò
che per molti gruppi di scalpellini mancava la pietra dei lotti appaltati, la quale non
sarà pronta prima di due mesi. Al deposito di Porta Maggiore invece rigurgita la
pietra grezza per i lotti che dovranno essere dati in appalto, e per i quali ancora non
sono pronti né i disegni, né i modelli. La discussione fu molto animata, a motivo di
taluni che volevano che l’agitazione fosse subito iniziata. Infine si venne
all’approvazione del seguente ordine del giorno, presentato da Romolo Galloni: “gli
scalpellini, occupati e disoccupati, riuniti in assemblea, deliberano di invitare l’intera
classe per martedì mattina, alle ore 8,30, alla sede dell’Unione Marmisti, per iniziare
una seria agitazione”.
Nel momento in cui aveva luogo il comizio degli scalpellini nella Sala
dell’Unione, il Re si recava a visitare il monumento a Vittorio Emanuele. Erano a
riceverlo il ministro Bertolini coi tre direttori Piacentini, Cok e Manfredi, l’ispettore
del genio civile Rocco, gli ingegneri capi Collini e Crimini.
Il Re ha fatto una intera ispezione del monumento, compresa la parte alta, salendo
le scale sino al piano del capitello. Ha voluto precise e particolareggiate informazioni
su tutto, mostrandosi soddisfatto tanto dell’avanzamento dei lavori quanto del modo
con cui sono stati eseguiti. In ispecial modo si è mostrato soddisfatto dei lavori del
grande portico tra il propileo ed il porticato, facendo l’elogio della direzione ed anche
del costruttore Novella. Ha voluto esaminare tutti gli studi, i progetti ed i modelli che
stanno in preparazione nel monumento stesso, e quindi si è recato ad esaminare la
collezione dei marmi antichi che decorano l’interno del monumento, visitando anche
la segheria dei marmi.
Durante la visita del Re, stavano dunque adunati circa 150 operai. Al momento in
cui stavano per cominciare la discussione giunse al comizio in bicicletta uno
scalpellino, ed avvicinatosi al Cardarelli gli disse: “Un momento, bisogna sospendere
la discussione. Il Re sta visitando il monumento. Bisogna recarsi tutti laggiù e fare
una protesta della nostra disoccupazione a Sua Maestà”.
Il Cardarelli propose all’assemblea di recarsi al monumento. I convenuti si sono
subito trovato in accordo ed in gruppi di cinque, sei , otto e per diverse strade si sono
diretti al monumento. Intanto la Questura, che aveva saputo della decisione degli
scalpellini, dispose un servizio di agenti. Appena in piazza delle Carrette sono
comparsi i primi gruppi di operai i funzionari e gli agenti hanno loro sbarrato il passo
e li hanno invitati a seguirli alla Questura. Ne sono nate vivaci proteste da parte degli
scalpellini, parecchi dei quali furono arrestati.
In Piazza Foro Traiano gli agenti di pubblica sicurezza hanno accerchiato alcune
decine di scalpellini ed hanno loro ingiunto di marciare verso la Questura Centrale.
Ma vi erano altri operai, in tutto una ventina, che passando per vie diverse a due a
due, si erano trovati ai piedi del monumento a Vittorio Emanuele.
Alle 10,30 precise il cancello del cantiere venne aperto: nella folla si vedevano
persone che attendevano sulla piazza. Si è fatto un silenzio profondo, ad un tratto la
folla si è riversata verso il cancello. I funzionari di pubblica sicurezza con i rispettivi
agenti respingevano verso il Campidoglio i molti curiosi.
- “Indietro, signori, si tengano indietro; altrimenti li arresto”.
- “Signor delegato, questa è strada pubblica”.
- “Silenzio! Ho detto indietro!”.
La folle non voleva sentire ragione: urla, spintoni e maledizioni volavano da un
centinaio di persone.
- “Ecco il Re! Esce il Re!” gridano moltissimi.
Poi ad un tratto si è sentito un clamore altissimo, come di cento voci in una sola.
- “Maestà, siamo gli eterni scalpellini del monumento a Vittorio Emanuele. Siamo
disoccupati da settembre! Domandiamo pane e lavoro: Maestà, pane e lavoro!”
Il Re era salito, insieme al seguito, nella carrozza scoperta, che giungeva a
mettersi in moto scortata da alcuni corazzieri, da sei carabinieri ciclisti e da molti
agenti di pubblica sicurezza.
Allora è avvenuta una baraonda mai veduta in simili circostanze. Gli operai,
malgrado le intimazioni dei funzionari, si precipitarono verso la carrozza del Re,,
continuando a gridare Pane e lavoro!
Poi una tempesta di urla, schiamazzi, fischi, spintoni, bestemmie ecc.. La carrozza
reale proseguiva e la baraonda continuava: la folla si mise a correre dietro la carrozza
e la seguì fino a Piazza Venezia. Intanto i funzionari di pubblica sicurezza
procedevano all’arresto degli scalpellini che erano arrivati al cospetto del Re. La folla
di curiosi, che si era riversata da ogni parte, era ingrossata si pigiava dietro agli ultimi
arrestati, i quali attraversavano Piazza Venezia e Piazza Santi Apostoli, fermandosi a
San Marcello per essere internati in caserma.
Piazza Santi Apostoli e Via di San Marcello rigurgitavano di una folla immensa
di curiosi, tra cui molti scalpellini. Gli arrestato sono trattenuti per circa tre quarti
d’ora, durante i quali sono stati interrogati e redarguiti. Poi si è stabiliti che una
commissione di essi fosse messa in comunicazione con il ministro dei lavori pubblici
per opera del commissario di Trevi, affinché potessero esprimere una buona volta i
loro desiderata con una forma corretta e non con indecenti manifestazioni. Quindi il
questore ha ordinato che gli arrestati fossero rilasciati. Infatti lo sono stati verso
mezzogiorno.
Ben pochi deputati sono presenti attualmente a Roma, ma l’impressione per
l’incidente spiacevole è stata vivissima. Verso mezzogiorno, in farmacia a
Montecitorio, si commentava con aspre parole la disgustosa situazione provocata
dagli scalpellini. Qualche deputato nota l’imperizia della Questura.

ARRIVA IL GIRO D’ITALIA


(Arrivo a Napoli del Giro d’Italia, pag. 1)
“Il Mattino”, 19 maggio 1909

L’Italietta belle epoque scopre lo sport. A Napoli arrivano i gagliardi atleti che si
battono per il primato e per una maglia che è già rosa.

NAPOLI – Alle ore sedici, l’allarme è giustificato: dalla rotonda di Capodichino un


filo di polvere, levata in aria, annuncia la velocità dei pedalatori. La folla vince i
cordoni delle guardie, occupa la via, ma apre un discreto varco a Galetti, a Canepari e
a Rossignoli, che vengono in grande volata. Galetti e Rossignli si competono gli
ultimi dieci metri, animosamente, ma Rossignoli con un vigoroso scatto vince
nettamente per una macchina, alle 16,05: Galetti è secondo. Dopo due minuti giunge
Canepari, seguito da vicino da Celli.
Tutti sono acclamatissimi: dai membri del comitato, dall’assessore Piscicelli, dal
capitano Arborelli del 9° Bersaglieri, sono festeggiati, salutati e condotti in una sala
della Direzione dei Trams provinciali ov’è l’ufficio di controllo per la punzonatura
(com’è noto, questo Giro d’Italia vien disputato con le macchine punzonate: non sono
punzonati, e perciò possono essere cambiati durante la corsa, manubri, ruote, raggi,
gomme pedali e pedivelle, le altre parti portano un contrassegno segreto).
Tutto è perfettamente all’ordine, in queste biciclette. I corridori sono relativamente
in buone condizioni.
Gerbiè annunziato da un calorosissimo applauso: egli taglia il traguardo alle
16,10. È freschissimo. Numerosi suoi compatrioti s’affollano attorno a lui per
felicitarlo.
Ma dov’è Trousselier? Ma dov’è Ganna? Sono ormai questi i corridori che si
competono con maggior speranze la vittoria, poiché Gerbi non ha più chances, dopo
l’avventura toccatagli alla partenza da Milano.
Alle 16,23 un altro corridore è avvistato alla rotonda di Capodichino. Si spera sia
Ganna; ma è Trousselier, che arriva velocissimo, non ostante abbia la ruota anteriore
priva di pneumatico, con la camera d’aria sfasciata. Trousselier non appare per nulla
affaticato e con passo sicuro porta egli stesso la sua macchina al controllo della
punzonatura.
Arrivano poi quasi in gruppo Michelotto, il milanese Enrico Sala, Carlo Oriani di
Sesto San Giovanni; quindi a qualche minuto Pietro Lampaggi di Genova, il quale ha
le gambe fasciate per numerose contusioni riportate cadendo.
Infine, giunge Luigi Gianna, di Varese, alle 16,55, cioè dopo Rossignoli: anch’egli
è molto festeggiato; racconta di avere avuto numerose panne ma spera di rifarsi nelle
altre tappe, se sarà ancora in tempo, con la classifica di Napoli.
Con l’arrivo di Ganna, che era assai favorito, dopo l’eccellente prova data sulla
Bologna-Chieti, l’interesse della folla può considerarsi svanito: il pubblico
s’allontana dal traguardo, che è successivamente tagliato da Azzini Ernesto di Milano
(12); Mario Gaioni di Milano (13); Battista Pratesi di Milano (14), Andrè Pottier di
Parigi (15) ed altri per giungere a Erba Ambrogio di Milano (39). Fino a ieri sera alle
otto e trenta sono giunti altri corridori, dei quali la classifica non ha importanza.

SBARCO SUL SUOL D’AMORE


(Dall’alto delle corazzate il Tricolore annuncia l’Italia a Tripoli, pag. 1)
di Giuseppe Bevione

“La Stampa”, 30 settembre 1911

Reclamando la loro parte d’Africa, gli italiani dichiarano guerra alla Turchia ed
invadono la Libia. Questa è la cronaca dell’arrivo del primo italiano della
spedizione: un giornalista ufficialmente al seguito, in realtà in anticipo rispetto
alle truppe. Sarà del resto, quello di mandare prima i giornalisti e poi i soldati,
uno schema che seguiranno anche gli americani nel 1992 in Somalia, con
l’operazione “Restore Hope”.

TRIPOLI – Sono disceso sul suolo libico senza alcuna difficoltà. Una grande folla di
arabi adunata sulla marina aspettava l’arrivo del piroscafo con curiosità, che era stata
esasperata la mattina dalla strana tappa mattutina della nostra nave a dieci miglia
dalla rada di Tripoli, accanto alla grande corazzata fumigante. Da Tripoli
l’avvenimento insolito era stato osservato e, poiché nessuna spiegazione era stata
trovata, le voci più assurde e più gravi si erano diramate fulmineamente per la città
destando un senso ansioso di aspettativa, di speranza, di allarme.
Le cose erano andate così: alle ore quattro il nostro piroscafo “Adria” navigava
alla sua velocità di dieci miglia sul mare scuro davanti a Prunta: a lunghi intervalli
splendeva il faro di Tripoli. Improvvisamente un’onda piena di luce batte contro la
nave ed una gigantesca massa tenebrosa si profila intorno al punto vibrante, donde si
parte la luce. Era una nave da guerra italiana, che incrociava davanti a Tripoli. La
nave ci riconobbe, poiché la grossa voce del megafono pronunciò nelle tenebre queste
parole:
- Procedete lentamente fino a otto miglia da Tripoli, poi attendete ordini.
Dal ponte di comando il capitano rispose:
- Va bene.
Il megafono riprese:
- Avete avuto notizia che le ostilità sono iniziate?
Il capitano rispose:
- No!
- Avete veduto navi ottomane?
- No!
- Muovete, vi scorteremo.
Grandi nuvole nere pendevano immote nell’aria turchina piena di stelle. Verso
levante una prima luce debolissima erompeva dal mare; una brezza tiepida veniva
dalla costa africana increspando leggermente l’onde, recando profumi effusi. Il
proiettore ci colpiva sempre in fronte, inondando il ponte e il mare della sua luce
stellare. Ascoltavamo quei dialoghi tra voci invisibili con il cuore sospeso. Per un
momento mi premo il petto: avevo paura di essere tenuto ancora nel sonno, che
alcune voci selvagge e quella luce accecante avevano pure interrotto; temevo di
sognare quello che ardentemente avevo troppo desiderato. Il discorso tra le due
navi, sotto le stelle, sul mare tenebroso, fra i tremiti ed il riverbero terribile,
pareva il colloquio tra due divinità …
Dopo pochi minuti il proiettore si spense e sul pennone si accese una piccola
altissima luce, che palpitò lungamente, dolorosamente, come una stella in agonia.
La nave parlava con il telegrafo luminoso con un’altra nave lontana, invisibile.
Partimmo alla velocità di quattro nodi; la nave ci seguì. La luce cresceva
introno rilevando le forme poderose e i lungi cannoni protesi e lo sperone
piombante acuminato sull’onda e la poppa bassa su cui sventolava la bandiera
d’Italia: era la “Napoli” in pieno assetto di guerra, senza parapetti, nuda, scarna,
tutta concentrata per ferire e distruggere.
Quel breve corteo della nave inerme e della corazzata irta d’artiglieria in quella
dolce alba, in faccia a Tripoli candida, che si destava alla prima luce, fu cosa
meravigliosa.
Alle nove un ufficiale della “Napoli” salì a bordo e disse che potevano sbarcare
a Tripoli. Riprendemmo la nostra velocità, e la bandiera a poppa salutò
religiosamente la sorella guerriera. La corazzata ci scortò fino al tiro dei forti, poi
dileguò verso il nord, lentamente, lasciando nel cielo una traccia di fumo.
Nella rada, fra il popolo dei velieri, stavano ancorati una grigia, minuscola
cannoniera turca e tre piroscafi, un vapore mercantile inglese perfettamente
indifferente, il grosso “Hercules” formicolante di persone vocianti, ed uno strano,
svelto trasporto con altissime ciminiere che scaricava numerose casse tra lo
stridere delle gru. Questo misterioso visitatore era il “Derna” arrivato la mattina
precedente dopo venti giorni di navigazione.
Qualcuno dice che il blocco non ci fu, che il “Derna” fu fermato da due nostre
navi che poi lo rilasciarono perché non avevano ordine di arrestarlo, altri
affermano che il “Derna” arrivò perché navigava con falsa bandiera germanica.
Comunque ora è a Tripoli e la casse che scarica sono piene di pallottole per fucili
Mauser.
In queste poche ore passate a Tripoli mi sono fatto un’idea generale della
situazione. I turchi sono preoccupati di non creare, con un atto irreparabile, un
titolo all’Italia per intervenire; sanno che siamo risoluti e preparati e si preparano a
loro volta a resistere con tutte le forze. Gli arabi sono calmi, indifferenti
all’apparenza, in realtà acutamente appassionati agli avvenimenti e nel fondo
desiderosi di una nostra pronta vittoria.
Venni dalla marina all’albergo, solo coi facchini. Le vie erano piene di
indigeni. Tutti mi guadavano con curiosità, ma non sorpresi uno sguardo ostile e
non intesi parola di minaccia. Gli italiani sono partiti quasi tutti.
L’“Hercules” è salpato mentre entravamo in porto e se ne portò via seicento,
quasi tutti ebrei. Restiamo un centinaio, calmi e sereni. Il nostro console ha
consigliato la partenza sopra tutto delle donne, dei bambini, dei vecchi, perché
forse gli risulta l’avvicinarsi degli avvenimenti decisivi. Gli altri consoli giudicano
la situazione seria, ma si fidano della protezione nazionale. Si ha fede nelle forze
italiane.
Oggi nel pomeriggio, nella grande baia di Tripoli, ho assistito ad uno
spettacolo nuovo, indimenticabile. Dodici navi da guerra in ordinamento da
battaglia sono comparse all’orizzonte, si sono avvicinate alla rada hanno sfilato
lentamente, solenni, nell’estremo orizzonte, sparendo in alto mare quando il sole
calò al tramonto. Erano le nostre navi, che venivano a mostrarsi cavallerescamente
ai forti duchi prima di iniziare il cimento. Dieci grandi unità, probabilmente la
“Napoli”, la “Roma”, l’“Amalfi”, la “Varese”, la “Sicilia”, la “Sardegna” e sei
cacciatorpediniere. Perché nessun dubbio restasse sulla nazionalità della squadra,
tutte le navi avevano issato in cima ai pennoni, tra i sartiame, sulla poppa, enormi
tricolori. In un baleno tutte le terrazze di Tripoli e il porto e le strade della marina
si popolarono di fez, di selamma, di mantelli d’oro e gialli: tutta la gaia policromia
di questa scintillante città.
Oggi a Tripoli è apparsa così la forza d’Italia e si è compreso quali nuovi tempi
si avvicinino. I nostri cuori furono riconfortati fino al profondo e riempiti di un
entusiasmo nuovo e di adorazione per la Patria. Sembra che per domani maturino
avvenimenti gravi.

GUERRA!
(pag. 1)
di Benito Mussolini
“Il Popolo d’Italia”, 15 novembre 1914

Conosciuto ai più per ben altri motivi, Benito Mussolini fu prima di molte
altre cose un giornalista di razza. Era, ad esempio, un inviato di qualità ai tempi
in cui, prima di mettersi in proprio, aderiva al Partito Socialista – ala
massimalista – e scriveva per l’“Avanti!”. Il suo stile lapidario ed incisivo
lasciava il segno nell’immaginario dei lettori e delle lettrici, sia che descrivesse
un’escursione in montagna, sia che parlasse di agitazioni sindacali. Lui lo sapeva
benissimo, ed una volta rotti i rapporti con i socialisti divenne, grazie all’abile
uso della penna, il primo fondista moderno del giornalismo italiano,
costruendoci sopra una buona parte della sua fortuna politica. Questo è il fondo,
per l’appunto, con cui avviò le pubblicazioni del “Popolo d’Italia”, da lui
fondato nei giorni successivi all’espulsione dal Psi (lui era per l’intervento nella
Prima Guerra Mondiale, il resto del partito voleva la neutralità).

All’indomani della famosa riunione ecumenica di Bologna, nella quale – per dirla
con una frase alquanto solenne – fui “bruciato” ma non “confutato”, io posi a me
stesso il quesito che oggi ho risolto creando questo giornale di idee e di battaglia. Io
mi sono dimandato: debbo parlare o tacere? Conviene che mi ritiri sotto la tenda
come un soldato stanco e deluso, o non è invece necessario che io riprenda – con
un’altra arma – il mio posto di combattimento? Vivere o morire, sia pure
inghirlandato di molti elogi … postumi, alcuni dei quali avevano la deliziosa
insincerità delle epigrafi per i defunti? Sicuro come sono che il tempo mi darà
ragione e frantumerà il dogma stolto della neutralità assoluta, come ha spezzato molti
altri non meno venerabili dogmi di tutte le chiese e di tutti i partiti, superbo di questa
certezza ch’è in me, io potevo aspettare con coscienza tranquilla. Certo, il tempo è
galantuomo, ma qualche volta è necessario andargli incontro.
In un’epoca di liquidazione generale come la presente, non solo i morti vanno in
fretta come pretendeva il poeta, ma i vivi vanno ancora più in fretta dei morti.
Attendere può significare giungere in ritardo e trovarsi dinnanzi all’inesorabile fatto
compiuto, che lamentazioni inutili non valgono a cancellare. Se si fosse trattato e si
trattasse di una questione di secondaria importanza, non avrei sentito il bisogno,
meglio, il “dovere” di creare un giornale: ma, ora, checché si dica dai neutralisti del
socialismo conservatore, una questione formidabile sta per essere risolta: i destini del
socialismo europeo sono in relazione strettissima coi possibili risultati di questa
guerra; disinteressarsene significa staccarsi dalla storia e dalla vita, lavorare per la
reazione e non per la Rivoluzione Sociale. Ah no! I socialisti rivoluzionari italiani –
sian essi guidati dal raziocinio o sospinti da oscure, ma infallibili intuizioni
sentimentali, sanno qual è il grido che conviene lanciare al proletariato italiano. La
neutralità non può essere un dogma del socialismo. Esisterebbero dunque solo nel
socialismo e per giunta nel socialismo italiano delle verità “assolute” che possono
sfidare impunemente le ingiurie del tempo e le limitazioni dello spazio, come le
verità indiscutibili ed eterne della rivelazione divina? Ma la verità assoluta attorno
alla quale non si può più discutere, che non si può più negare o rinnegare, è la verità
morta; peggio, è la verità che uccide. Noi non siamo, noi non vogliamo esser
mummie perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte, o
rinchiuderci tra le siepi anguste della benignità sovversiva, dove si biascicano
meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate; ma
siamo uomini e uomini vivi, che vogliono dare il loro contributo, sia pure modesto,
alla creazione della storia. Incoerenza? Apostasia? Diserzione? Mai più. Resta a
vedersi da quale parte stiano gli incoerenti, gli apostati, i disertori. Lo dirà la storia di
domani, ma la previsione rientra nell’ambito delle nostre possibilità divinatorie. Se
domani ci sarà un po’ più di libertà in Europa, un ambiente, quindi, politicamente più
adatto allo sviluppo del socialismo, alla formazione delle capacità di classe del
proletariato, disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che al momento in cui si
trattava di agire si sono neghittosamente tratti in disparte. Se domani – invece – la
reazione prussiana trionferà sull’Europa e – dopo la distruzione del Belgio – col
progettato annientamento della Francia abbasserà il livello della civiltà umana,
disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che nulla hanno tentato per impedire la
catastrofe.
Da questo ferreo dilemma non si esce, ricorrendo alle sottili elucubrazioni degli
avvocati d’ufficio della neutralità assoluta o ripetendo un grido di “abbasso” che
prima della guerra poteva avere un contenuto e un significato, ma oggi non lo ha più.
Oggi – io lo grido forte – la propaganda antiguerresca è la propaganda della
vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed esaspera l’istinto della conservazione
individuale. Ma per ciò stesso è una propaganda antirivoluzionaria. La facciano i
preti temporalisti e i gesuiti che hanno un interesse materiale e spirituale alla
conservazione dell’impero austriaco; la facciano i borghesi, contrabbandieri o meno,
che – specie in Italia – dimostrano la loro pietosa insufficienza politica e morale; la
facciano i monarchici che, specie se insigniti del laticlavio, non sanno rassegnarsi a
stracciare il trattato della Triplice che garantiva – oltre alla pace (nel modo che
abbiamo visto) – l’esistenza dei troni; codesta coalizione di pacifisti sa bene quello
che vuole, e noi ci spieghiamo ormai facilmente i motivi che ispirano il suo
atteggiamento. Ma noi, socialisti, abbiamo rappresentato – salvo nelle epoche basse
del riformismo mercatore e giolittiano – una delle forze “vive” della nuova Italia:
vogliamo ora legare il nostro destino a queste forze “morte” in nome di una “pace”
che non ci salva oggi dai disastri della guerra e non ci salverà domani da pericoli
infinitamente maggiori, e in ogni caso non ci salverà dalla vergogna e dallo scherno
universale dei popoli che hanno vissuto questa grande tragedia della storia? Vogliamo
trascinare la nostra miserabile esistenza alla giornata – beati nello statu quo
monarchico e borghese – o vogliamo invece spezzare questa compagine sorda e
torbida di intrighi e di viltà? Non potrebbe essere questa la nostra ora? Invece di
prepararci a “subire” gli avvenimenti preordinando un alibi scandaloso, non è meglio
invece tentare di dominarli? Il compito dei socialisti rivoluzionari non potrebbe
essere quello di svegliare le coscienze addormentate delle moltitudini e di gettare
palate di calce viva nella faccia ai morti – e son tanti in Italia! – che si ostinano
nell’illusione di vivere? Gridare: noi vogliamo la guerra! non potrebbe essere – allo
stato dei fatti – molto più rivoluzionario che gridare “abbasso”? Questi interrogativi
inquietanti, ai quali, per conto mio, ho risposto, spiegano l’origine e gli scopi del
giornale. Questo ch’io compio è un atto di audacia e non mi nascondo le difficoltà
dell’impresa. Sono molte e complesse, ma ho la ferma fiducia di superarle. Non sono
solo. Non tutti i miei amici di ieri mi seguiranno; ma molti altri spiriti ribelli si
raccoglieranno attorno a me. Farò un giornale indipendente, liberissimo, personale,
mio. Ne risponderò solo alla mia coscienza e a nessun altro. Non ho intenzioni
aggressive contro il Partito Socialista, o contro gli organi del Partito nel quale intendo
di restare, ma sono disposto a battermi contro chiunque tentasse di impedirmi la
libera critica di un atteggiamento che ritengo per varie ragioni esiziale agli interessi
nazionali ed internazionali del Proletariato.
Dei malvagi e degli idioti non mi curo. Restino nel loro fango i primi, crepino
nella loro nullità intellettuali gli ultimi. Io cammino! E riprendendo la marcia – dopo
la sosta che fu breve – è a voi, giovani d’Italia; giovani delle officine e degli atenei;
giovani d’anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il
destino ha commesso di “fare” la storia; è a voi che io lancio il mio grido augurale,
sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e simpatie.
Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che
innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede: una parola
paurosa e fascinatrice: guerra!

LA CANZONE DI SAUCOURT
(Le impressioni di Gabriele D’Annunzio alle linee della grande battaglia, pag. 3)
di Gabriele d’Annunzio

“Il Corriere della Sera”, 24 settembre 1914

L’Europa è in guerra da un mese e mezzo, l’Italia invece nicchia. Gabriele


d’Annunzio, a Parigi in quello che lui definisce esilio, preme e freme per un
intervento immediato. Sotto la forma di una lettera ad un immaginario amico
d’Oltralpe dà alle stampe, prima sul Gaulois e poi sul Corriere della Sera, un
articolo sulla sua esperienza al fronte della Marna. Il Gaulois lo pubblica con il
titolo scelto dal Vate, “La canzone di Saucourt”, che evoca ricordi crociati e
atmosfere carolinge. Il Corriere sceglie il più sobrio “Le impressioni di Gabriele
d’Annunzio alle linee della grande battaglia”: sono i tempi dell’anglofilo Luigi
Albertini.

PARIGI – Caro amico, torno dalle linee di battaglia ove sembra avanzare in rilievi
d’ossa e di carne la figura espressiva del più maschio destino fra i riapparsi valori del
vostro suolo e del vostro cielo; e sento innanzi a ogni altra cosa di dovervi dire tutto il
fervore della mia ammirazione pei vostri soldati, che non conoscevo ancora così da
presso. Ho potuto passare insieme ad essi alcune ore che sono le più belle e le più
piene della mia vita d’esilio: in quella regale terra di Soissons tutta snelli tronchi e
robusti campanili, acque lente e grandi ricordi in cui l’anima della vecchia Francia
sembra più pura che in qualsivoglia altra contrada. La forza nuova della Francia,
questa fusione rapida di sangui e di pensieri, sembra ritrovarvi le impronte gloriose e
foggiarvisi a immagine dei compiuti esemplari.
Non so se abbiate osservato il volto de’ vostri combattenti, i caratteri antichi di
quella bellezza subitanea creata, di dentro in fuori, dall’energia e dall’amore.
L’apparizione è così straordinaria che non mi sovviene d’aver avuto innanzi ad altri
spettacoli umani una più forte commozione. Una volta di più, come in alcune ore
della vostra storia, il rapporto ideale è perfetto tra l’aspetto della terra e la struttura di
coloro che si sacrificano per salvarla. Mi pareva l’altro giorno, in quel paese di
martiri e di re, che tutte le sue linee fossero come tese verso una suprema espressione
virile. E pensavo piamente alla mia triste Italia e a’ suoi grandi periodi, quando in lei
l’armonia tra la sostanza e la genitura apparve mirabilmente piena, per modo che le
sue virtù naturali e le opere viventi de’ suoi figli si composero in un equilibrio quasi
divino. L’asprezza dei monti, il corso de’ fiumi, la forma delle valli si riconoscono,
sembra, nelle pulsazioni della vita civile. Tale è oggi il miracolo francese.
In ciascuno dei vostri soldati tutta la Francia si esprime con tutti gli eroi vigilanti.
Le ferite recenti non sono le più profonde cicatrici della razza, che si riaprono nella
loro carne e risplendono novellamente come segni svelati? Io vi penso quando vedo
una barella illuminata da un sorriso che somiglia a quello che in un giorno di
primavera fu veduto nascere nelle statue delle vostre cattedrali … Un coraggio
ardente ma perspicace; una forza di resistenza tranquilla e sempre sveglia; una
sobrietà che ricorda le tre olive e il sorso degli elleni, una prontezza naturale in
adoperare lo stratagemma in tentar l’azione singolare, in far il dono silenzioso di se
stesso, in immolarsi senza pompa; uno spirito ingegnoso e robusto nell’arte
d’accamparsi; una gaiezza aguzzata come un’arma da lancio; una fraternità
caritatevole e quella bella gentilezza, la “gentilezza” nel senso che davano a questa
parola i vostri antenati del Dugento, e i miei.
L’altra sera, dinnanzi alle rovine d’una abbazia cistercense che ospitò San Luigi e
sua madre Bianca di Castiglia, in un gruppo di cacciatori e di zuavi i racconti si
seguivano come nelle rudi lasse d’una canzone di gesta e le ombre dei fratelli eroici
stavano dietro a noi al cadere della notte. Cavalli si abbeveravano all’acqua nera di un
laghetto signorile ove alcuni cigni immobili parevano serbar, soli, tutta la bianchezza
e tutto il silenzio del mondo. Si udiva, a settentrione, la cannonata sulla montagna
tenuta dal nemico; si udivano soffiar come bufali i carri di ferro impantanati nei
cattivi sentieri, si udiva in alto il battito di un velivolo francese che segnava il ritmo
stesso del coraggio solitario, e il cielo laurato a oriente aveva il colore del tendine,
che è pallido come perla quando è scoperto, vivo, nudo, nella ferita. Potrò io scordare
quell’ora sublime? Non mi guardavano, dal fondo di quegli occhi giovenili, gli zuavi
di Palestro e i cacciatori di Solferino? Non brontolava, alla mia sinistra, fra il cimitero
e il ponte, il cannone di Melegnano? Era potenza d’amore quella che mescolava
anche una volta nel mio sogno i due sangui fraterni.
L’altra mattina, domenica, assistetti a una messa funebre in un’angusta cappella
fatta di quattro travate: una scala dalla volta ogivale, ch’era stata per lungo tempo
luogo di passeggio ai monaci cistercensi.
I soldati avevano empito di rosso tutti i banchi di quercia ma, contenendone
l’oratorio soltanto un numero esiguo, gli altri s’accalcavano verso la soglia, a capo
scoperto, e occupavano là presso il rustico sagrato. All’ombra delle rovine dell’altar
maggiore scintillante di reliquiarii, il curato noverò a gran voce i morti, poi il
sacrificio del corpo e del sangue di Nostro Signore fu celebrato, e un canto si levò nel
crepuscolo delle vetrate, un grande coro di voci femminili e puerili, un coro vacillante
cui s’aggiunsero poco a poco le voci rauche degli uomini sino ad ampliarlo in una
invocazione possente.
Kyrie eleison! Tutti i soldati cantavano nella cappella e sul sagrato, prima di
tornare alla battaglia …
Kyrie eleison! Quelli stessi che bardavano i grossi cavalli da tiro. E quelli che
sellavano le loro cavalcature riferrate, e quelli che spegnevano i fuochi del bivacco, e
quelli che caricavano i lunghi carri di sei ruote, tutti intitolarono il cantico santo…
Il medesimo soffio epico mi pareva cacciar le nubi arruffate contro i pilastri della
chiesa morta, agitar l’erbe selvatiche contro i contrafforti ridotti a non più reggere che
la propria fierezza. Vedevo tremar gli spiriti del vento nella grande rosa vuota come
la bocca d’una maschera che più non risuona. Ali di muri erano come minacce
incombenti; blocchi informi crollati nel transetto parevano pronti ad essere tagliati in
severe arche sepolcrali; e subitamente nel rosone tutto aperto, come in uno spazio
mistico, si scolpì la faccia della morte: non l’orribile femminina, ma il bel genio
virile…
I soldati non cessavano di cantare, prosternati nel rosso come nella propria strage:
e, come il tuono degli organi accompagnava l’inno, così udivasi la cannonata
implacabile lassù, contro la cava profonda cui forse tutte quelle pietre erano uscite
per congiungersi a gloria di Dio. Pareva anche di uscire a quando a quando l’ansito
della belva accerchiata, il franamento della montagna al fondo dei burroni.
Ed ecco, fratel mio, che come le vostre vetrate d’ogiva i vostri secoli si
congiungono alla chiave della morte o alla chiave della risurrezione. Ed ecco che
oggi la dolce Francia prende il corpo orizzontale dell’uomo come misura unica per
misurare il suo più vasto destino, e intravvede già nel vapore del sangue i primi
lineamenti dell’Essere che è sul punto di formarsi, figlio della sua meravigliosa
angoscia e del mito più divino.

DIARIO DELLA RIVOLUZIONE


PAGINA 1
di V. L.

“Il Corriere della Sera”, 15 marzo 1917


La Rivoluzione liberale che portò alla caduta dello Zar, e fece da prologo ai
“dieci giorni che sconvolsero il mondo”, nella versione di un inviato italiano.

PIETROGRADO – Mi risulta ora che la censura del regime ha trattenuto negli ultimi
tempi tutti i telegrammi e parti di telegrammi che tentavano di delineare i vaghi
elementi iniziali del solenne movimento che si è formato e compiuto a Pietrogrado
fulmineamente in pochi giorni. L’opinione pubblica non poteva essere dunque
preparata a questo improvviso colpo della storia russa. Bisogna riprendere
rapidamente la cronaca e l’analisi degli avvenimenti delle ultime settimane.

Le accuse al governo

In un telegramma speditovi alla vigila dell’apertura della Duma fissavo le linee


generali dello stato del paese. La maggioranza della Duma avversa il governo, si
presenta con l’attitudine più di battaglia che di attesa. Le accuse fatte al governo di
Golitzin, e più che ad esso al regime politico che rappresentava, erano odi varia
specie: nel campo della politica militare, la lentezza sospetta nello sviluppo
dell’industria di guerra e delle operazioni belliche; nel campo della politica interna, la
persecuzione dell’idea liberale nelle sue più elementari espressioni e l’opposizione
della burocrazia alle diverse organizzazioni sociali sorte per sistemare i bisogni della
guerra, come quello dei viveri, degli ospedali, della mobilitazione dell’industria, che
rappresentavano una partecipazione della società ai lavori dello Stato; inoltre il
dominio universale della polizia che reprimeva sopra tutto il movimento degli operai;
nel campo della politica dei viveri, si accusava il governo di imprevidenza e di
disordine nell’organizzazione dei trasporti e dei rifornimenti ed un’interessata
tolleranza verso gli accaparramenti dei grossi speculatori che ammassavano, come si
è ora dimostrato, colossali riserve di prodotti giuocando al rialzo mentre talvolta i
fornai dei quartieri popolari dovevano chiudere i loro magazzini per mancanza di
farina.
Insieme a ciò vi era la vaga esasperazione di ogni stratificazione sociale contro i
sistemi di un governo irresponsabile che si teneva imperturbato di fronte alle
condanne ed alle agitazioni della Duma e del popolo, e si dimostrava sensibile solo a
tutti gli intrighi, i favoritismi, i giuochi personali che si tramavano in piccoli ed
altissimi circoli irresponsabili, e che furono ancora crudelmente rivelato
dall’assassinio di Rasputin e del processo contro Manuilof-Manasevic, segretario
particolare dell’ex primo ministro Sturmer, arrestato per ricatto tentato contro una
grande banca di Mosca.

La protesta degli operai

Questa confusa corrente non rappresentava, però, ancora una determinante diretta
fatale della rivolta. Bastava solo che un governo, conscio della gravità del momento,
temperasse la sua politica e pensasse seriamente a soddisfare i più elementari desideri
del popolo. Ancora dieci giorni fa il governo avrebbe potuto senza difficoltà
dominare e pacificare la situazione. Lo riconoscono tutti i più autorevoli uomini
politici. Il governo invece volle forzare il momento accentuando la sua politica di
repressione.
Alla vigilia dell’apertura della Duma arrivarono nuovi rinforzi di truppe, sopra
tutto di cosacchi, ritenuti fedeli. Si attendevano grandi dimostrazioni di piazza. In
realtà un segreto Comitato Rivoluzionario, che anche oggi si agita senza avere, però,
largo seguito, aveva fatto qualche propaganda di agitazione tra la massa operaia.
Invece il giorno della apertura della Duma vi fu solo un pacifico sciopero generale
politico, per manifestare la protesta degli operai contro la politica del governo. Non si
registrarono eccessi. Schiere di operai che tentarono di avvicinarsi alla Duma,
respinte dai cordoni militari, si ritirarono pacificamente senza provocare incidenti.
Occorre intanto ben precisare che il movimento esprimeva solo il malcontento contro
la politica del governo, non contro la guerra.
Nella prima seduta della nuova sessione parlamentare il discorso di Rittich,
ministro dell’agricoltura, riuscì ancora, come già rilevai, ad assicurare al governo un
piccolo successo tattico parlamentare. Il governo non seppe profittarne. Dimostrò
invece una cecità ed un’incoscienza del momento, come si ritrova in tutti i governi
della reazione sul limite del loro tramonto. Urgeva provvedere a qualsiasi prezzo la
capitale di viveri, soprattutto il pane, che cominciava a mancare in parecchi forni.
Nonostante la pressione della Duma e l’agitazione operaia, il governo non prese però
nessuna seria misura.
Mercoledì 7 marzo cominciarono nei quartieri operai i primi scioperi di protesta
per mancanza del pane. Qualche deposito di farina fu saccheggiato. Era il primo
segno. La polizia nella notte operò molti arresti. Giovedì lo sciopero si estese a quasi
tutte le fabbriche. Fu mandata la truppa per le strade. Sul Bolscici Prospekt uno
squadrone di cosacchi, incontrandosi con la folla levò i berretti gridando: “Salute,
fratelli!”. Invece in altri punti della città pattuglie di gendarmi fecero fuoco sui
dimostranti, uccidendo qualche operaio.
Venerdì il movimento conquistava tutta la massa operaia. Esso conservava ancora
solo il carattere economico. La Duma votava quasi all’unanimità un ordine del giorno
di Miliukoff che esigeva dal governo una energica politica annonaria con la
partecipazione delle amministrazioni comunali.
La sera stessa il presidente del Consiglio, Golitzin, impressionato, convocò
d’urgenza un Consiglio straordinario a cui parteciparono oltre parecchi ministri, i
presidenti del Senato e della Camera, e il sindaco di Pietrogrado. Il ministro
dell’Interno Protopopoff non si presentò. Il Consiglio decise solo mezze misure. Si
cominciò allora a vedere chiara la singolare incapacità del governo a comprendere e a
fronteggiare la situazione.
Sabato, nonostante le promesse del governo, Pietrogrado era quasi senza pane.
Questo fatto resta ancora misterioso, perché in città si trovano nascoste enormi
quantità di farina. La sommossa si estese per tutte le strade. Vi furono vittime.
Cominciarono a risuonare gli scoppiettii della fucileria in parecchi punti. Dalle altre
città russe giungevano invece notizie di assoluta tranquillità, ciò che prova ancora una
volta il limitato carattere economico iniziale del movimento.
Battaglia nelle vie

Domenica mattina, 11 marzo, il generale Habalof, comandante la circoscrizione


militare di Pietrogrado, pubblicò un manifesto laconico e severo dove avvertiva che
aveva dato ordine alle truppe di fare uso delle armi per ristabilire l’ordine. Il
proclama esasperò gli animi. Si accesero battaglie per le vie. Le truppe però quasi
ovunque si rifiutarono di sparare sulla folla. Si scorgevano già i segni limpidi della
sedizione dei soldati alla causa popolare. Manifesti, lanciati da piccoli circoli
socialisti irresponsabili, contro la guerra venivano sdegnosamente respinti dalla folla
e dalla truppa. Passarono colonne serrate di migliaia di operai con bandiere rosse,
dove era scritto “Abbasso l governo”. Il movimento spontaneamente veniva
prendendo il carattere di agitazione politica.
Nel pomeriggi, mentre il fuoco di fucileria crepitava per la città, i partiti della
Duma si raccolsero per deliberare sulla situazione. Fu deciso di domandare, per il
lunedì successivo, l’allontanamento del governo ed un mutamento di regime politico.
Qualche rappresentante del governo ebbe ancora un incontro con autorevoli deputato
del blocco progressista. Il principe Golitzin fece anche sapere che avrebbe fatto
dichiarazioni alla Duma.
Alla notte tornò la quieta. Attraversando la città notai la strana scomparsa di quasi
tutti gli agenti della polizia. Si seppe poi che il ministro Protopopoff aveva fatto
venire d’urgenza dai dintorni nuovi reggimenti, mentre la polizia veniva distribuita
con mitragliatrici in tutta la città a occupare posizioni dominanti sui campanili delle
chiese e sui tetti dei palazzi governativi.
Il decreto di scioglimento della Duma fu comunicato il lunedì mattina alle 11 da
Rodzianko, all’apertura della seduta, mentre una folla enorme di operai si addensava
attorno al palazzo del Parlamento. La Duma decise di rimanere al suo posto. La
notizia so diffuse fulmineamente. In questo momento esplose la rivoluzione politica.
Uno dopo l’altro i reggimenti della guarnigione di Pietrogrado si sollevarono,
dichiarandosi pronti a seguire gli ordini della Duma. Cominciò il reggimento dei
Preobrajenski. I soldati del reggimento Volinski si unirono ad essi, uccidendo il
colonnello che tentava di arringarli. Le truppe senza ufficiali si sbandarono per le
strade con vessilli rossi sulle baionette, riversandosi verso la Duma. Solo il
reggimento Pavloski, pare per un equivoco provocato dalle vecchie autorità, rimase
tutta la giornata fedele all’antico governo, arrendendosi poi a gruppi durante la notte.
Esso e compagnie di gendarmi travestiti da soldati del reggimento Volinski, e gruppi
di poliziotti che dirigevano le mitragliatrici postate sui tetti, spararono sulle truppe
sollevate ingaggiando una viva battaglia. Tutto i giorno e la notte passarono su
Pietrogrado ininterrottamente raffiche di fucileria e di mitragliatrici.

La deposizione del ministro

Alla Duma intanto il movimento politico si delineava rapidamente. La guardia


governativa ebbe il comandante ucciso; fu allontanata e sostituita dalla nuova guardia
volontaria scelta tra gli ammutinati, che disposero attorno al Parlamento una fitta
schiera di armati con qualche cannone.
Nelle prime ore del pomeriggio i delegati di sei reggimenti della guardia, ritenuti
trai più fedeli, si presentarono al presidente della Duma Rodzianko dichiarando di
essere pronti a mettersi ai suoi ordini. Fu mandato un telegramma allo Zar: “È
suonata l’ora estrema, in cui si decide il destino della nazione e della vostra dinastia.
Tutta la responsabilità degli ulteriori avvenimenti ricadrà sul Capo dello Stato che
giuoca con i destini della Patria”.
Poco tempo dopo veniva costituito il Comitato Esecutivo Provvisorio sotto la
presidenza di Rodzianko, con la rappresentanza di tutti i partiti del Centro e di
Sinistra della Duma. Esso dichiarò decaduto l vecchio governo, e lanciò telegrammi e
proclami per tutta la Russia. Nella sera cominciarono gli arresti dei ministri e dei
personaggi più rappresentativi del vecchio regime. Per primo fu condotto alla Duma
il presidente del Senato Stceglovitof, ex ministro di giustizia, che era tra i più
battaglieri e sospettosi agitatori reazionari, ed è ritenuto autore di un memoriale
segreto giunto allo Zar dove si parla della necessità di concludere la pace separata
con la Germania. Bande di insorti occupavano le stazioni, gli uffici telefonici e
telegrafici, tagliando le comunicazioni. Nella notte i poteva già dire che la
Rivoluzione aveva conquistato tutta la capitale.
La sua fulminea ed inattesa vittoria si spiega prima di tutto con l’eccezionale
debolezza ed incapacità degli uomini del governo e del vecchio regime. La reazione
vecchia, corrotta, debilitata non aveva più uomini. Cedette il potere e si scompaginò
al primo urto. Il suo crollo inatteso dette forza e ispirò nuovi propositi al mvimento
popolare che si trasformò in una vera rivoluzione politica.

Le mitragliatrici sui tetti

Martedì e mercoledì è durato il battagliare per le strade contro gli ultimi nuclei di
gendarmi nelle chiese, negli uffici pubblici e sui tetti delle case, che si difendevano
con scariche di mitragliatrice. Vi sono state parecchie vittime. Gli arsenali, occupati
fin da lunedì dai ribelli, fornirono armi e munizioni che vennero distribuite per le
strade a operai studenti. Automobili con mitragliatrici blindate e bandiere rosse, e
camion carichi di soldati e studenti armati portavano rapidamente rinforzi. Plotoni di
gendarmi reazionari venivano rapidamente giustiziati. Continuava intanto la caccia ai
generali e agli alti personaggi. Qualche generale che volle opporre resistenza venne
ucciso. L’Albero del Nord e l’Hotel Astoria, donde partirono dei colpi, furono invasi
dai rivoluzionari che forzarono le porte e incendiarono i mobili, serbando però un
contegno corretto e riguardoso verso gli stranieri, fra i quali si trovavano molte
notabilità italiane. Altre bande di ribelli incendiarono il Palazzo di Giustizia, la
prigione politica preventiva, l’ufficio di polizia giudiziaria, tutti i commissariati di
polizia, i palazzi dei ministri Golitzin, Protopopoff e di Fredericksz gran cerimoniere
di corte. Da ogni angolo della città si levavano nere colonne di fumo.
A ROMA! A ROMA!
(Intervista con Mussolini alla sua partenza per Roma, pag. 1)
di Giuseppe Bevilacqua

“La Stampa”, 30 ottobre 1922

Intervista programmatica a Benito Mussolini, invitato ufficialmente a Corte per


riceve l’incarico di formare il nuovo governo.

MILANO – Unico tra i giornali d’Italia la Stampa pubblica stamane la notizia che
Mussolini non solo non voleva ascendere a compromissioni con la destra, e accettare
la collaborazione dell’onorevole Salandra, ma intendeva avere l’incarico dal Re senza
muoversi da Milano. Di questa sua volontà si rese interprete a Roma il prefetto
Lusignoli, e stamane perveniva all’onorevole Mussolini il seguente telegramma del
primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele: “On. Mussolini – Milano – Sua
Maestà il Re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l’incarico di
formare il Ministero. Ossequi – F.to Gen. Cittadini”.
Immediatamente l’on. Mussolini faceva sapere al Sovrano che accettava l’incarico
affidatogli e che in giornata sarebbe partito per Roma. Nel pomeriggio ha ricevuto il
nostro collega Giuseppe Bevilacqua, nel suo studio, una stanza appartata ove
giungono solo echi lontani di quanto sta avvenendo all’esterno. Il Bevilacqua, che già
aveva avuto occasione di rivolgergli alcune domande sulla Confederazione Generale
del Lavoro, chiese se il movimento iniziato avrebbe potuto sboccare in una
insurrezione contro la massa dei lavoratori. Categoricamente l’onorevole Mussolini
gli dichiarò che qualunque sbocco stesse per avere il movimento, non si sarebbe
rivolto contro gi operai.
“Il nostro movimento – ha detto l’onorevole Mussolini – non è anti operaio. Non è
contro le masse. I diritti del lavoro, oggi che passiamo al governo dello Stato, saranno
i più rispettati ed ascoltati. Il movimento operaio è rientrato nell’alveo nazionale; non
dispero che la politica operata abbia anche in Italia da avere una coscienza, un’azione
ed una forza laburista. Io auspico e voglio un sindacalismo concepito come gerarchia
di selezione. Un sindacalismo che non limito la sua azione ad un’opera di
livellamento, ma consenta il pieno sviluppo dell’intelligenza e la manifestazione delle
volontà. Le masse devono guardare a noi con simpatia. Noi abbiamo risolto i
problemi che il socialismo enunciò, ma non seppe risolvere.”.
E il Bevilacqua: “il fascismo ha sempre insegnato ai partiti che è necessaria
l’azione”. Al che l’on. Mussolini ha aggiunto: “l’azione ha seppellito la filosofia”.
Dal tema che particolarmente preoccupava il Bevilacqua Mussolini è passato a
commentare la sua convocazione a Roma.
“Oggi il Re – ha detto – ha dimostrato di avere compreso la nazione. Il legami che
burocrazia e tradizioni avevano teso sono stati rotti dalla volontà del fascismo, sicuro
interprete della volontà nazionale. Oggi uno Stato c’è, uno Stato sarà o io mi spezzi.
È il primo esempio, non solo italiano, ma anche europeo, di una rivoluzione senza
rivolta. Guardiamo con orgoglio all’opera nostra”.
“È stato intanto spazzato via – ha interloquito l’intervistatore – l’equivoco del
conservatorismo italiano …”.
“Esso rappresentava – ha esclamato con vivacità l’on. Mussolini – un equivoco ed
un compromesso contro l’Italia nella sua coscienza di nazione. Doveva essere
eliminato!”.
“Uno dei punti del programma da lei esposto a Napoli darà indubbiamente motivo
a non poche osservazioni da parte dei suoi avversari – ha ripreso l’intervistatore – ed
è la politica estera. La questione dalmata verrà affacciata?”.
“La politica estera italiana – ha risposto l’on. Mussolini – sarà finalmente una
politica di dignità, senza tentennamenti e senza minacce. L’ambasciatore inglese a
Roma ha già chiesto di vedermi. Chi ciancia di un pericolo dalmata è un sobillatore.
La questione dalmata è già risolta in atto. Anche con la stessa Jugoslavia nessuno
sgombro è stato pattuito. Quel che importa in questo momento è dire chiaro e forte
che oggi in Italia c’è uno Stato e lo faremo rispettare. Colle leggi se è possibile, e se
occorre con le mitragliatrici”.
“Se occorre …”, ha esclamato l’intervistatore.
“Naturalmente. Se occorre, e se lo Stato lo esige. Da oggi gli italiani devono
sapere che si incomincia ad operare. Da oggi incominciamo a realizzare il nostro
programma che comprende: lavoro, economia, pace. Gli urti devono cessare.
Confidiamo di poter fare ed abbiamo ottimi affidamenti a riguardo, anche
dall’estero”.
E quindi, dopo essere restato qualche momento ad ascoltare gli echi di una
manifestazione svolgentesi nella strada tra il suono dell’inno fascista e grida di “Viva
Mussolini presidente del Consiglio!”, il nuovo presidente ha detto: “Sino ad oggi
Roma non era congiunta all’Italia se non dalla ferrovia. Da oggi sarà finalmente
l’Italia”.

MUSSOLINI? L’OSTETRICO DELLA STORIA


(Ritratto di Benito Mussolini, pag. 7)
di Pietro Gobetti

“La Rivoluzione Liberale”, 28 maggio 1924

Gobetti, il più raffinato intellettuale espresso dalla cultura liberale italiana


all’indomani della Grande Guerra, osteggiava il nascente movimento fascista
per un’avversione che andava anche oltre i semplici steccati ideologici, di per sé
già molto alti. La sua era un’opposizione basata anche su una sorta di indagine
psicologica del personaggio, come se il fascismo – ed il suo Capo - fosse per lui la
negazione di quanto di meglio esista nell’uomo: la razionalità, il progresso civile,
il dubbio da cui nascono le idee ma anche le ragionevoli certezze. Le idee stesse,
alla cui mancanza Mussolini, scriveva Gobetti, supplisce con i miti. Giunto al
potere, Mussolini lo fece randellare a mo’ di esempio per altri “crani refrattari”.
Gobetti morì per le conseguenze di quel pestaggio, un anno dopo, nel suo esilio
di Parigi.

Io non riesco ad immaginarmi Mussolini, altrimenti che sotto le spoglie del più
audace e torbido condottiero di compagnie di ventura; o talora meglio come il capo
primitivo di una selvaggia banda posseduta da un dogmatico terrore che non consenta
riflessioni. La sua più caratteristica figura si riassume in un anacronismo.
Gli manca il senso squisitamente moderno dell’ironia, non arriva alla
comprensione della storia se non per miti, gli sfugge la finezza critica dell’attività
creativa che è dote centrale del grande politico. La sua professione di relativismo non
riuscì neppure a sembrare un’agile mistificazione: troppo dominante vi avvertì
ognuno la sconcertata ricerca ingenua di un riparo che eludesse l’infantile incertezza
e coprisse le malefatte. Coerenza e contraddizioni sono in Mussolini due diversi
aspetti di una mentalità politica che non può liberarsi dai vecchi schemi di un
moralismo troppo disprezzato per poter essere veramente sostituito. Egli rimane
perciò diviso ed indeciso tra momenti di una coerenza troppo dogmatica per non
riuscire goffa e sfoghi di esuberanza anarchicamente ingiustificati. Ha bisogno di un
mondo in cui al condottiero non si chieda di essere un politico.
Lottare per un’idea, elaborare nella lotta un pensiero, è un lusso ed una seccatura:
Mussolini è abbastanza intelligente per piegarvisi, ma gli basterebbe la lotta pura e
semplice, senza i tormenti della critica moderna.
Solo gli ingenui si possono stupire per i suoi recenti amori con la Chiesa cattolica.
Nessuno più lontano di Mussolini dallo spirito dello Stato laico e dalla vecchia Destra
degli Spaventa. Egli non ha nulla di religioso, sdegna il problema come tale, non
sopporta la lotta con il dubbio: ha bisogno di una fede per non doverci più pensare,
per essere il braccio temporale di una idea trascendente. Avrebbe potuto riuscire il
duce di una Compagnia di Gesù, l’arma di un Pontefice persecutore di eretici; - con
una sola idea in testa da ripetere e da far entrare “a suon di randellate” nei “crani
refrattari”. Gli articoli del “Popolo d’Italia” sono così: ripetizioni di un ordine, dogmi
e spesso stereotipie di un monotono disegno: letterariamente hanno qualcosa di
militare e molto del catechismo – anche qui si deduce l’opera del boia (o la
pugnalata) dalle verità assolute, trascendenti, e cristallizzate. Infatti i tre momenti
centrali della vita di Mussolini hanno coinciso con tre momenti risolutivi, entusiastici,
dogmatici della storia italiana: il messianesimo socialista, l’apocalissi antitedesca, la
palingenesi fascista. Chi vorrà essere così ottuso da ricercare in questi episodi uno
sviluppo, e delle ragioni ideali di progresso! Perché vedere un problema politico dove
si tratta di un fenomeno di psicologia del successo e di nuova arte economica delle
idee? Sarà legittimo studiare la filosofia politica di Corrado Wolfort, di Giovanni
Hakwood o di Francesco Bussone?
La storia giudicherà con indulgenza l’anacronismo di Mussolini che, nonostante il
suo orgoglio chiuso di signorotto incompiuto, è stato tanto umile da inchinarlesi.
Garibaldino in ritardo come Crispi, ma forse meno cocciuto di lui e per il suo
convinto arrivismo più duttile. Rozzo, povero di idee è riuscito talvolta, per la
robustezza e la disinvoltura, l'ostetrico della storia.

UNA FOSSA NELLA MACCHIA DI RIANO


(Nella macchia di Riano, pag. 1)
“La Stampa”, 17 agosto 1924

Il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti, deputato socialista ucciso


per volere del fascismo, nella macchia vicino Roma.

RIANO (Roma), 16 notte – Dopo più di due mesi di attivissime indagini e ricerche,
dopo che la campagna intorno a Roma era stata battuta quasi in ogni verso, dopo le
esplorazioni diboschi, caverne, grotte e catacombe, del Campo del Verano e di piccoli
cimiteri abbandonati attorno all’Urbe, e i sondaggi nel Lago di Vico e le
perlustrazioni nella Macchia Grossa di Ronciglione e gli scavi nei pressi di
Monterotondo, dopo la somma enorme di sforzi e di fatiche, quando ormai prevaleva
la convinzione che il cadavere di Giacomo Matteotti non sarebbe più stato ritrovato,
esso oggi è stato riportato alla luce; e il ritrovamento è un po’ opera degli uomini, e
un po’ anche opera del caso, come spesso avviene in queste circostanze.
Probabilmente la cosa è dovuta a qualche volpe che scavò di notte la poca terra che
ricopriva quei resti e ne trasse fuori qualche ossa, sicché il cane di un cacciatore, che
al tempo stesso si era dato per proprio conto a qualche ricerca vagando per i boschi,
vi corse sopra e li indicò al padrone che lo seguiva. Viene da pensare alla giustizia di
Dio, ad un filo sovrumano che guida gli uomini e le cose, e che secondo la legge
infallibile fa sì che al giusto momento si compia ciò che deve compiersi per i fini
della giustizia umana.
LA PRIMA VOCE
Stamane verso le 11 si spargeva a Roma la voce che il cadavere dell’Onorevole
Matteotti era stato ritrovato in un bosco tra Sacrofano e Riano. Donde e come questa
voce fosse giunta nessuno sapeva, ma essa si diffuse in pochi momenti in tutta la
Capitale, suscitando in tutti la più profonda impressione. Il ritrovamento della giacca
dell’onorevole Matteotti, del resto, avvenuto ieri l’altro aveva dato buone speranze
che il cadavere non fosse troppo lontano. Anche le autorità furono di questo parere, in
quanto attivarono tutta una serie di ricerche nella zona.
Riguardo alla giacca si può aggiungere, rispetto a quanto detto nei giorni scorsi,
che esaminata dalla scuola di polizia scientifica del prof. Falco, fu riconosciuta la
macchia di sangue. Questa appariva a grumi sul risvolto del colletto e su vari altri
punti della fodera. La giacca non presentava né lacerazioni né strappi: sulla manica
strappata invece era un lungo taglio e la manica stessa si vedeva non strappata dal
resto del vestito, ma tagliata tutta intorno a giro della spalla in piccoli tratti
successivi, come se coloro che avevano compiuto l’operazione si fossero serviti di un
temperino o di una forbicetta. Quindi la giacca, di lana grigia a piccole righe rosse,
confrontata con i pezzi di calzoni rinvenuti nella valigia di Amerigo Dumini, e con il
panciotto che Matteotti non portava nel giorno del delitto e che fu consegnato
appunto per il riconoscimento dell’abito dalla vedova alla Sezione di accusa, apparve
inconfutabilmente quella del povero deputato. La Sezione d’accusa convocò la
vedova, che era assente dalla città presso parenti in Abruzzo, affinché la riconoscesse,
e quasi alla stessa ora in cui ella scendeva dal treno a Roma veniva ritrovato il corpo.
All’atto che ella rientrava in casa, dove tutto le ricordava del marito, scoppiò in un
pianto dirotto e tra i singhiozzi chiamava Dio, Dio, e la sua disperata preghiera che le
si concedesse di dargli almeno onorata sepoltura in terra consacrata era già stata
esaudita.
PASSAGGIO EVOCATORE DI TRAGICHE MEMORIE
Corriamo in automobile fuori Porta del Popolo, per la Via Flaminia. Non
sappiamo altro, due colleghi giornalisti ed io, se non la prima voce sparsasi a Roma, e
non abbiamo atteso conferme o smentite perché la conferma o la smentita l’avremmo
avuta sul posto. Ma anche noi abbiamo il senso che la voce corrisponda a verità.
Di tempo in tempo i piccoli cippi a lato della strada, segnanti in rosso il numero
dei chilometri, ci appaiono veramente come altrettante stazioni di una Via Crucis.
Abbiamo passato Ponte Milvio, poi Tor di Quinto. Ecco la Grotta Rossa, il luogo
dove in una caverna, che si trova in fondo nella roccia che si apre nella via, il corpo
dell’Onorevole Matteotti fu deposto provvisoriamente, dopo essere però già stato
portato a Ronciglione e al Lago di Vico, quando gli assassini, con nella macchina un
cadavere che non sapevano dove buttare, ornavano atterriti e disperati verso Roma. È
allora che lo depositarono nella caverna a Grotta Rossa, dove l’on. Zaniboni doveva
ritrovare le tracce del sangue e un pezzo stracciato di giornale. Ma quando poi gli
assassini tornarono a riprendere la misera salma per portarla dove oggi è stata
ritrovata? Ed erano gli assassini stessi con la stessa automobile o altre persone con
un’altra macchina? Con la scoperta di oggi si apre indubbiamente tutto un nuovo
sviluppo all’istruttoria, uno sviluppo di cui nessuno può misurare né la portata né le
conseguenze.
Procedendo sulla Via Flaminia, ecco il luogo dove, sotto il chiavicozzo e nel
corrispondente tombino del fossato della strada, fu rinvenuta la giacca con la manica
tagliata. Ed ecco il luogo dove ieri sera si svolsero le ricerche dei carabinieri al
comando del capitano Pallavicini e del tenente Campagnone, coadiuvati dal
commissario Cadolino e dal vicecommissario Errico. Tre cani della scuola tecnica di
polizia, odorati gli abiti della vittima, si diressero al chiavicozzo sbucando nel fossato
dall’altra parte. Le indagini continuarono nei campi adiacenti alla strada, nei fossi che
l’intersecano ed in alcune grotte che si aprono a sinistra della Flaminia. Poi gli
ufficiali vollero fare delle esplorazioni in un pozzo naturale, profondo trenta metri.
Per questo furono chiamati dei vigili del fuoco, che non trovarono altro che la
carogna putrefatta di un caprone.
Contemporaneamente alcune pattuglie di carabinieri e giornalisti si internavano al
lume delle torce nei cunicoli della catacomba di Santa Teodora, presso Rignano, ma
non vi si scoprì nulla. Cadendo la sera ogni indagine fu sospesa, pattuglie di
carabinieri continuarono però tutta la notte a perlustrare la Via Flaminia fermando
ogni automobile che vi transitasse per controllare i passeggeri.
IL BRIGADIERE CACCIATORE
Ma mentre ieri proseguivano così le ricerche delle autorità, un’altra persona
esplorava per proprio conto la campagna, e particolarmente concentrava le sue
indagini sulla macchia della Quartarella, alto e fitto bosco, un luogo impervio e
selvaggio in altri tempi già asilo di briganti.
La persona che si era dedicata a queste ricerche è il brigadiere dei carabinieri
Ovidio Caratelli. Egli, che appartiene alla compagnia dei carabinieri dislocata ad
Orte, si trova ora a Riano in licenza presso la famiglia, in una cascina chiamata
“L’Osteriola”. Tutte le terre intorno e la stessa macchia sono proprietà della famiglia
del principe Francesco Ludovisi Boncompagni, presso cui il padre del Caratelli,
Vincenzo, è a servizio da vent’anni.
L’Ovidio Caratelli, che conosce il posto come nessun altro, si ripropose di
compiere due cose insieme: andare a caccia e perlustrare i posti iniziando dalla
macchia della Quartarella. Prese con sé il fratello Dante, di 22 anni, ed il suo cane da
caccia a nome “Trapani”, e tutto ieri batté infaticabilmente i boschi. Il primo giorno
fece buon raccolto di selvaggina, ma non ritrovò nessuna traccia del cadavere.
Quando noi, dunque, i due colleghi giornalisti ed io, giungiamo al ventitreesimo
chilometro da Roma, a circa un chilometro dalla stazione di Rignano, dove la
macchia della Quartarella costeggia a 50 metri la Flaminia, troviamo fermi alcuni
autocarri militari ed il luogo piantonato dai carabinieri.
SUL LUOGO
Chiediamo:
- Dov’è il cadavere? È proprio quello di Matteotti?
Il capitano Pallavicino ci indica il bordo della macchia.
- A pochi metri più in là, all’interno del bosco.
Il luogo si presenta con un aspetto inospitale e triste; accanto alla strada è una
vasta radura di cardoni e spini, con al centro un solitario albero centenario. La radura
è separata dalla strada da un’alta staccionata di costituita da pali di legno e fili di
ferro. Il terreno verso l’interno della macchia precipita in un burrone profondo una
cinquantina di metri. Il luogo dove sono stati trovati i resti dell’onorevole Matteotti è
una piccola radura di una carbonaia abbandonata. Il capitano Pallavicino ed il tenente
Amodio ci forniscono i primi particolari.
- Stamane – ci dice il capitano – verso le nove il brigadiere Caratelli veniva ad
avvertirmi che poco prima aveva trovato nella macchia della Quartarella ossa umane
ricoperte da un piccolo tumulo. Scavato il suolo, aiutato dai suoi parenti accorsi sul
posto, e dal capostazione di Riano, aveva messo alla luce la parte anteriore del
teschio ed alcune altre ossa. Allora è subito venuto alla mia ricerca. Giunto e
constatato il fatto, ho disposto per il servizio di vigilanza, facendo telefonare a Roma.
- Ma si tratta veramente del cadavere dell’onorevole Matteotti?
- Non saprei di chi altro potrebbe trattarsi.
- Ma non ha esaminato il cadavere?
- Io ho lasciato tutto precisamente come ho trovato al mio sopraggiungere.
Uno di noi ricorda che Matteotti aveva un dente d’oro. Il comandante ci conferma
che tra i denti del teschio, dritti, bianchi ed eguali, ve n’è uno d’oro. Ogni ulteriore
dubbio è fugato dal tenente Amodio che ci dice che, poco prima del nostro arrivo,
egli, portati i cani, ha fatto annusare il cappello ed il pigiama dell’Onorevole e li ha
sciolti. Tutti e tre sono andati verso il piccolo tumulo.
LO STATO DEL CADAVERE
Non è possibile infrangere la consegna rigorosa che vieta di accostarsi al luogo
dove è il cadavere. Ma tra la gente attorno si trova qualcuno che di coloro che sono
accorsi prima che giungessero i carabinieri. I parenti stessi del brigadiere Caratelli mi
descrivono com’è il tumulo. In mezzo alla radura il terreno è molle, bruciato. Da un
lato sorgeva il tronco di un albero tagliato e steso al suolo, le cui radici si sono
sollevate lasciando un vuoto. In questa sorta di fosso, non più lungo di un metro e
venti centimetri, e della profondità di trenta, il cadavere fu premuto a forza e poi
ricoperto di terriccio, con pezzi di scorza d’albero e con frasche. Le volpi,
evidentemente, attratte da lezzo vennero di notte a scavare il tumulo e lasciarono in
qualche parte le ossa. Nessuno sa spiegarmi con precisione in che postura fosse il
cadavere. La testa è volta di tre quarti ed inclinata verso destra. Ma il resto del corpo
non si capisce come possa entrare in una fossetta così corta, mentre dal lato della
testa emergono dal terriccio delle ossa che appaiono essere quelle dei piedi. Nel dito
di una delle mani le stesse persone hanno notato una fede matrimoniale. Nel terriccio
fu anche trovato un fazzoletto imbrattato di sangue e di terra e poi un ferro di lima
lungo una ventina di centimetri, di quelle che si trovano di solito nella cassetta degli
attrezzi delle automobili. . Esso appare conficcato nel torace della vittima sul lato
destro, all’altezza della spalla.
Ovidio Caratelli veste alla cacciatora, sopra i calzoni grigio-verdi chiusi da
gambali. Parla semplice: “Mi ero messo in testa che se il cadavere dell’onorevole
Matteotti era in questi dintorni avrei dovuto essere io il primo a scoprirlo. Con mio
fratello Dante mi sono messo alla ricerca. Intanto andavo a caccia. Iersera, mentre
tornavo da una battuta, passando di qua notai che il mio cane era sparito. Lo chiamai
a più riprese e lo sentii abbaiare. All’alba di stamane ero già fuori. Non appena tornai
alla Quartarella ‘Trapani’ entrò nel fitto della boscaglia. Lo seguii subito e al
medesimo posto della sera prima, cominciò ad annaspare di nuovo. Vidi allora
biancheggiare alcune ossa. Ne raccolsi una: era una tibia. Contemporaneamente
sentivo il terreno molle che cedeva sotto i miei piedi mentre usciva un puzzo
nauseabondo di putrefazione. Attorno c’era uno schifoso brulicare di vermi bianchi.
Tolta un po’ di terra, ci apparve la parte anteriore di un teschio. I denti
biancheggiavano, le occhiaie erano due punti oscuri e purulenti. Il naso era tutto roso.
Pochi capelli erano ancora appiccicati alle tempie”.
Sono le 13. In autocarro da Roma giungono i giudici inquirenti, Del Giudice e
Tancredi. Passano, chinandosi tra i fili della staccionata. Giunge in automobile la
domestica di casa Matteotti, Assunta Lucci. Ma la salma non viene mostrata
nemmeno a lei, che pare turbatissima. Si sa però che le informazioni da lei riportate
corrispondono alle caratteristiche del cadavere . Poco dopo le 14 giunge da Roma in
autocarro il commissario della Polizia Giudiziaria, Pennetta. Dallo stesso autocarro
viene calata una cassa, in cui saranno deposti i resti mortali dell’onorevole Matteotti.
È una rozza cassa di legno, quattro assi veramente inchiodate assieme. Ricorda le
casse dei morti poveri degli ospedali e degli ospizi di carità.

COMMIATO
PAGINA 1
di Alberto Albertini

“Il Corriere della Sera”, 28 novembre 1925

Meno noto del fratello Luigi, Alberto Albertini ha con lui rifondato i “Corriere
della Sera”, rendendolo uno dei quotidiano più moderni d’Europa per
quell’epoca. Ma cambiano i tempi, e la modernità del 1925 non fa rima con
libertà di stampa. I due lasciano il posto, costretti, con grande dignità.

Lascio questo giornale dopo avergli consacrato oltre ventisette anni di vita,
interrotti soltanto dal servizio di guerra, ed averne tenuto la direzione dall’autunno
del 1921, durante uno dei periodi più drammatici della storia italiana. Darà l’avvenire
il suo giudizio sulle vicende del nostro paese in questo tempo e sulla parte che
ciascuno vi avrà avuto; ma so di poter affermare con onesta coscienza che il Corriere
della Sera sotto la guida indissolubilmente solidale di mio fratello e mia ha tenuto il
suo posto e adempiuto quello che stimava suo dovere con fermo coraggio; e se oggi
passa in altre mani non è perché noi abbiamo disertato.
Costretti – per le note vie – ad uscirne, abbiamo considerato obbligo nazionale ed
insieme obbligo verso i nostri lettori e verso le tradizioni di questo foglio e gli uomini
che vi lavorano, far sì che sopravvivesse la miglior sistemazione consentita dalle
circostanze, e per questo abbiamo pregato ognuno di rimanere al suo posto.
Consegnamo dunque a chi ci subentra un’organizzazione in efficienza, un corpo di
redattori e corrispondenti in funzione vaste iniziative avviate per l’anno prossimo.
Consegnamo insieme un patrimonio più vitale ancora che la diffusione e la potenza, il
patrimonio morale costituito dal nome stesso e dalle tradizioni del Corriere della
Sera, dei valori ideali che esso rappresenta, dell’alta considerazione che lo circonda
in Italia e fuori.
Deponiamo la penna e l’opera con un saluto di commossa gratitudine per quanti ci
furono compagni di lavoro. Tra le fortune e le bufere che si sono addensate attorno a
questo giornale, tutti qui dentro sono stati uniti in un solo sentimento, in una volontà
compatta, ed è per questa perfetta consonanza di spiriti che il Corriere ha avuto
veramente una personalità, un’anima, un volto. Ognuno si sentiva un po’
combattente, votato ad una causa sacra, e un alto senso di responsabilità nobilitava
ogni fatica. Dura vIta, spesso vita di posto avanzato, con la sua muta tensione e i suoi
rischi e i suoi sacrifici; vita d’onore. E non c’è nessuno, credo, fra noi, che vorrebbe
non averla vissuta.

LA TRATTORIA DI VIA BAGUTTA


PAGINA 1
di Cesare Zavattini

“La Gazzetta di Parma”, 23 dicembre 1927

In un articolo da terza pagina, Zavattini rievoca in un’atmosfera da telefoni


bianchi il clima un po’ bohemienne, un po’ autoreferenziale, magari provinciale,
della cultura durante il Ventennio. E descrive uno dei tanti episodi dell’eterna
lotta tra chi pensa all’arte e chi è pronto a usare, invece della penna, le mani.

Nella trattoria toscana di via Bagutta ognuno sa che si radunano i meglio letterati
di Milano o che di Milano passano. Li vedete intorno ad una tavola immensa che ne
occupa le prime tre stanze. Chi non è artista e si intrufola, viene ucciso con
l’indifferenza. Gli amici degli artisti però hanno diritto di assidersi tra le grandi firme,
e magari anche gli amici degli amici.
C’è molta cordialità: solamente Gallian mangia come un canarino e le porzioni
gliele finisce spesso il roseo Bacchelli.
Un mezzogiorno di novembre c’era nessuno dei soliti. La ragione non si è mai
potuta sapere.
Verso l’una di quella memorabile giornata, entrò nella trattoria il Signor Rami,
dattilografo in una libreria di via Broletto, amico di un lontano conoscente del pittore
Santambrogio. Il padrone, in buona fede, lasciò che il Sig. Rami prendesse posto alla
grande mensa e con lui una dozzina di giovanotti suoi amici.
Il padrone pensava: qui in mezzo ci sarà Comisso, Aniante, Caramella, Longanesi
… E siccome il padrone la psicologia degli scrittori la conosceva ormai a fondo, capì
quanto sarebbe stato inopportuno e colpevole mostrare d’ignorare la fisionomia di
tanti emeriti letterati.
Ergo, si fece in quattro per imbonirseli.
I commensali erano chiassosi, con una sete ed una fame badiali; qualcuno intonò
“Giovinezza, giovinezza” e bastò perché il personale della trattoria si convincesse che
gli ospiti erano delle cape spugnose e selvatiche di Strapaese o giù di lì.
I fiaschi si moltiplicavano con insolita celerità: nessuno se ne stupiva dato che
anche i lavapiatti sapevano a memoria la teoria di Maccari e compagni.
Guarda caso, quel giorno a Milano, Vincenzo Gerace, Mario Puccini, Luigi
Tonelli, Francesco Flora s’erano trovati in galleria, al tocco, davanti alle vetrine
Treves e s’erano fatti franchi amiconi.
Gerace disse, come se non ci avesse premeditato per niente durante le ventotto ore
di viaggio:
- Andiamo da Bagutta?
Flora accondiscese sì, ma a stento. Luigi Tonelli domandò arrubinandosi:
“Bagutta? Prima andiamo a pranzo”. Italio Svevo spiegò a Tonelli che da Bagutta ci
si andava a mangiare.
Si avvicinavano e ciascuno pensava e non lo diceva: me, almeno, riconosceranno!
Camminavano i quattro, silenziosi, cercando una frase di spirito per dirla in pronta
risposta alle acclamazioni ai complimenti delle domande dei baguttiani.
Flora, il più svelto a trovarne una, negli ultimi trenta metri di strada sfregava la
punta della scarpa destra contro il calzone sinistro e viceversa, con tale fretta che le
scarpe divennero lucide all’insaputa degli altri.
Gerace si guardava in tutte le vetrine e Tonelli si rodeva inseguendo un motto che
fosse fulminante.
Giunsero.
“S’accomodino” disse il padrone.
“Passi lei, caro Puccini”.
“Ah no, Gerace”.
Sostarono davanti alla soglia della prima saletta almeno cinque minuti, nessuno
volendo entrare per primo.
Per fortuna un cameriere passando con una pila di piatti alta come un grattacielo
costrinse involontariamente Tonelli a varcare l’illustre soglia. Il critico tenne tuttavia
il volto rivolto agli amici esitanti, poiché non osava affrontare la situazione.
Flora, rimasto indietro, gridò: “avanti, accidenti”, ma gli tremava la voce. Il terzo
spinse sensibilmente il compagno davanti e finalmente entrarono.
Quei giovanotti avevano intonato proprio allora: giovinezza, che bellezza.
I quattro si levarono il cappello e sorrisero arrossendo: ma i loro occhi non
vedevano, tanto forte era il loro batticuore. Intuirono che il canto era una
manifestazione di simpatia e si avvicinarono di due passi alla celebre tavola facendo
degli inchini assai graziosi.
Nessuno badò a loro.
Il canto continuava.
I quattro si guardarono come risvegliati dal sogno; poi si sedettero a un tavolo
mingherlino, accanto alla grande mensa. Volevano fare gli indifferenti; Puccini
chiese una sigaretta a Tonelli e Tonelli rispose: - ah, sì? Floro, per darsi un’aria,
mangiò in due bocconi un filoncino di pane e Gerace beveva bicchieri di acqua
minerale.
Pensavano a tristi cose, ma non lo dicevano. Anzi Gerace saltò su: perché siamo
venuti qui, che c’è così poco spazio?
“L’hai detto tu, Vincenzo” insinuò Flora.
“Qui o là …” concluse Puccini.
I giovanotti erano brilli da un pezzo. Due giuocavano alla morra. Tonelli che
sapeva a mente un articolo scritto da Enzo Boriani sopra quelli di Via Bagutta, nel
quale si legge che Ramperti giuoca durante i pasti a scassaquindici, si chinò verso
Puccini e indicando il più smilzo dei due giocatori gli mormorò all’orecchio: “quello
è Ramperti”.
“Ah, mangia qui Ramperti?” domandò candidamente Flora.
Come fu, come non fu, Puccini, che ama le situazioni nette, prese il coraggio a due
mani, si alzò, si avvicinò come un ispirato allo pseudo Ramperti e si presentò:
permette, Mario Puccini.
Quello, che brillo era e impermalito perché gli andavano male le partite, rispose
secco: cosa c’entra lei? Nel giuoco gli estranei non devono intromettersi.
Intanto il vincitore rideva sguaiatamente.
Puccini sentì il terreno mancargli sotto i piedi. Tornò al suo posto e disse ai tre:
“gli ho chiesto che ore sono, ma ha l’orologio fermo”.
Due degli allegri commensali presero a sfottere i quattro.
Qualcuno tirò anche delle molliche di pane.
Allora Tonelli si alzò ed avrebbe pronunciato un breve discorso se Flora non
l’avesse interrotto: “altro che arte, qui è un problema di educazione”.
“Questa è barbarie”, urlò Gerace alzandosi in piedi.
Accorse il padrone con gli occhi fuori dalla testa, gridando: ma la smettano, badino
ai fatti loro. Sa chi sono quei signori? Mica è un ambiente di scalzacani, questo!
Allora Flora sbottò: “e allora noi chi siamo? Sa chi è il signore? Gerace! Questi è
Tonelli e questi Mario Puccini”. E con la coda dell’occhio intanto sbirciava la grande
mensa.
I tredici scoppiarono a ridere fragorosamente. Uno solo, un pezzo di sacripante alto
due metri, minacciò: “Senta, padrone, ci penso io a sloggiarli se non la piantano”.
I quattro pagarono il conto. Flora indossò il soprabito di Tonelli, Svevo, che
intanto aveva fatto in tempo a raggiungerli, quello di Flora e così di seguito, poi
uscirono. Appena in strada Tonelli esclamò “domani faccio un articolo”.
“Anch’io” borbottò Flora.
Si separarono in Piazza del Duomo. Avevano nel cuore una grande tristezza.
Si consolavano tuttavia un poco ripensando a quello che aveva detto Puccini al
momento della separazione: “tutta invidia”.

MA QUEL DIRIGIBILE E’ UNA PROFEZIA

“Il Becco Giallo”, 15 luglio 1928

La spedizione del Dirigibile Italia, che avrebbe sovuto segnare l’apoteosi delle
esplorazioni volute dal governo italiano ai poli, si trasforma in tragedia.
Costretti all’esilio, i redattori del “Becco Giallo” – un foglio satirico giudicato
una particolare seccatura dal regime – vi scorgono la profezia della cadutadi
Mussolini.
PARIGI – L’impresa “fascista” della spedizione artica si è conclusa in un terribile
disastro: aggravato dal terribile sacrificio di alcuni eroici salvatori, tra i quali
Amundsen, che un anno fa la stampa fascista aveva ingiuriato e schernito. Di fronte
all’impressione suscitata dalla catastrofe in tutto il mondo civile e ai commenti dei
giornali esteri (dei quali il pubblico ignora la giusta gravità, condannato com’è a non
sentire altro verbo italiano e straniero che quello autorizzato dal governo) appare
evidente il disegno mussoliniano di addossare su Nobile tutta la responsabilità
dell’immane insuccesso. Nello stile si riconosce l’uomo. Il quale ripete oggi ciò che
fece dopo l’assassinio di Matteotti verso i suoi complici, esecutori della sua volontà
criminosa. Se l’impresa fosse riuscita, egli avrebbe preso per sé e per il suo regime la
maggior parte della gloria; ma poiché è stato un disastro, il colpevole non indugia nel
tentativo di mutarsi in giudice. Noi non vogliamo certo diminuire le responsabilità di
Nobile; ma la vera, la massima responsabilità risale a Mussolini ed al degno suo
Balbo – bollato come delinquente da una sentenza di tribunale in pieno regime
fascista! – che vollero, per ragioni di “bluff” interno ed internazionale, la spedizione
polare in tempo non adatto (e tale pubblicamente giudicato dai più noti esperti), con
mezzi assolutamente inadeguati, con una mancanza di preparazione che documenta lo
spirito d’avventura, il falso orgoglio improvvisatore, la spaventosa stolidità del mito
volontaristico. Il 24 maggio, Nobile doveva gettare sul Polo il gagliardetto fascista.
Questo era il “comandamento” del duce. Da tale presunzione di onnipotenza che si
tradusse nel rifiuto di consigli autorevoli e dei primi soccorsi e che crede di piegare
alla volontà di un tiranno le leggi della natura come il suo terrorismo si illude di aver
piegato le resistenze dei liberi; dalla abominevole montatura di una stampa
ignomignosamente servile, che aveva dato fiato a tutte le trombe della sua retorica
per esaltare l’impresa che, essendo una impresa del regime, non poteva non essere
consacrata al trionfo, la catastrofe è derivata come dalla causa l’effetto. Questa è la
verità. Nel dramma polare è il crollo di tutto ciò che costituisce l’essenza profonda
del fascismo: l’avventura, l’irresponsabilità, la sfida tracontante alle leggi
dell’umanità e della natura; e dopo la catastrofe, lo sforzo di crearsi un alibi per
sfuggire alla sanzione.
Il dirigibile fu battezzato “Italia” perché il fascismo voleva che nel nome fosse
simboleggiato il destino del paese. E il fascismo ha ragione, perché se il paese non si
salverà liberandosi, la sua sorta sarà di umiliazione e di rovina.

I COMUNISTI CHE NON SAPEVANO DI ESSERLO

di Indro Montanelli

“Il Corriere della Sera”, 11 gennaio 1940

Spedito a seguire la guerra d’aggressione mossa dalla Russia alla Finlandia,


Montanelli riesce in questa corrispondenza in un piccolo capolavoro: lasciare
che sia la storia – minore, secondaria – di tre protagonisti inconsapevoli a
raccontare se stessa.
VIIPURI (Finlandia sudorientale) – Unico cimelio di guerra sul triste campo di
Tolvajaervi raccogliemmo in tre – due italiani ed un americano – un pacchetto di
lettere uscite da uno zaino sbuzzato, accanto a un grappolo di morti presso un
autocarro. A uno di quei morti le lettere appartenevano, ma chissà a quale. Erano su
carta ordinaria, alcune su fogli di quaderno dentro buste vergate da una calligrafia
grossa e imprecisa. Non portavano francobollo meno una, una raccomandata, che di
francobolli ne aveva due con l’effigie di una testa d’aviatore e nello sfondo una prora
di aeroplano. Alcune macchie di sangue rappreso dal freddo le inceralaccavano. Un
collega disse di malumore: “Butta via codesta roba”. Ma io non la buttai via.
Quel giorno vidi molti prigionieri, sia dei settecento superstiti di Tolvajaeri sia a
Viipuri, dove tornai. Invece di fare, come al solito, una collezione di interviste
superficiali, preferii stavolta scegliere un uomo, uno solo, e cercare di scrutarlo più a
fondo. Entrando nella prigione mi aveva colpito un ragazzo che stava seduto sul
margine del letto con un libro in mano. Mi avvicinai. Lui s’alzò, e senza diffidenza
mi porse il libro: era il Nuovo Testamento, un’edizione finnica in lingua russa del
1881. La pagina piegata segnava un passaggio del Vangelo di Giovanni. Chiesi al
ragazzo chi gli avesse dato quel libro. Mi rispose che era stato il guardiano.
“T’interessa?”. “Sì, molto”. Gli chiesi se era la prima volta che lo leggeva, e lui mi
rispose che era la prima volta, ma che ne aveva sentito parlare da suo padre in
Ucraina.
“In Ucraina credono in Dio?” chiesi. “Certo” disse lui, con una certa meraviglia
per una tale domanda. “E lo pregano?” aggiunsi; e lui mi rispose allo stesso modo
con la stessa meraviglia. Sedetti sulla branda e gli offersi un pacchetto di sigarette che
lu prese con piacere. Anche l’interprete sedette, e io non volli fare più domande, e
preferii che il ragazzo parlasse da solo.
Aveva ventidue anni, era contadino, aveva fatto quattro classi, cioè quattro anni di
scuola. Aveva sposato l’anno prima, e un figlio gli era nato quando lui era già in
guerra. Spiegò che in Ucraina quando i contadini sposano è per sempre, non è come
nelle città del Nord, e che per il matrimonio prima si mettono d’accordo i padri degli
sposi. I matrimoni vanno sempre bene, aggiunse, quando la sposa è sottomessa, come
appunto era la sua, e la vita laggiù è dura, ma è anche dolce secondo gli anni e la
stagione. Disse che la sua famiglia era proprietaria di molta terra e anche di un colle
dove crescevano grandi alberi. “Proprietaria?” chiesi. “Certo” disse lui, ed era
sinceramente stupito del mio stupore.
Mi spiegò che la sua famiglia era stata sempre proprietaria di quella terra, che
passava di padre in figlio, e che per lavorarla venivano anche altri braccianti specie al
tempo della mietitura e della semina. “Questo l’ho sentito dire da mio padre, e tutti
quei braccianti mangiavano in cucina con la famiglia poi tutti insieme cantavano. Ora
non succede più. Mio padre dice che era molto bello d’estate e che quelli erano tempi
migliori dei nostri”. Poi riprese a parlare del colle dove crescevano i grandi alberi. Un
suo zio, che da giovane aveva viaggiato e che tutti consideravano un po’ matto perché
non aveva voluto prender moglie, aveva incastrato sui rami degli alberi gabbiuzze di
legno dove gli storni venivano a covare. Anche per questo passava per matto, e lui
stesso, il nipote, faceva arrabbiare il suo zio matto rubando gli storni di nido per
cuocerli e mangiarli.
Il ragazzo parlava parlava, le parole che diceva gli davano eguale piacere delle
sigarette che fumava. Disse un sacco di cose prive d’interesse che l’interprete non
faceva in tempo a tradurre. E io vedevo un angolo di Ucraina con un colle pieno
d’alberi e gli stornelli che guizzavano sui rami. Vedevo mucche al pascolo oltre lo
steccato della tanca, e un’altra mucca morire nella stalla non si sa bene di che.
Vedevo un’antichissima casa di antichissimi contadini, eguali nei secoli, eguale la
madia, eguale il focarile, il buratto; vedevo un vecchio padre che parlava di Dio;
vedevo una giovane madre con un giovane figlio che pregavano Dio, che pregavano
Dio per questo ragazzo di 22 anni, scalzo e lacero che non sapeva, lo giuro, non
sapeva, di essere un comunista.
E neanche Sima sapeva di essere un comunista. Voi non conoscete Sima e
neanch’io lo conosco. Era il destinatario di quelle lettere macchiate di sangue che
avevo raccolto sul campo di Tolvajaervi, uno dei morti di quel grappolo di morti
presso l’autocarro. Passai tutta la notte di Capodanno intorno a quelle lettere e così
seppi che Sima era Efim Pavlovic, e che aveva 24 anni. Era un operaio di Leningrado
e lo avevano mobilitato in settembre e destinato al 115° Fanteria sulla frontiera
estone. Poi il reggimento era stato trasferito alla fine d’ottobre a Toksovo, sul confine
finlandese. Ma per evitare che si sapesse all’interno che ci si preparava alla guerra, il
comando vietava ai soldati di scrivere alle famiglie. Solo alla fine d’ottobre Sima
riuscì a mandare, per mezzo di un compagno che tornava in licenza a Leningrado,
notizie a sua moglie la quale si chiamava Marussia ed era l’autrice delle lettere che
trovammo. Alcune di queste lettere dicevano: “15 ottobre – Caro Sima, i migliori
auguri saluti dalla tua devota moglie Mariussa, e da tuo figlio Lionia. Prego
scrivermi se ti hanno iscritto per un lungo periodo di servizio. Fin dall’inizio io ho
presentito che si trattava di una cosa seria, mentre tu dicevi sempre che saresti tornato
presto. Scrivimi se ti hanno dato dei vestiti da inverno. Io non so ancora come finirà
questa faccenda, e se ci rivedremo ancora, Sima. Viviamo in pessime condizioni,
perché hanno rifiutato di darmi il sussidio per il bambino e riceviamo solo, per tutti e
due, settanta rubli. Certuni dicono che voi tornerete a casa presto, altri dicono che non
tornerete prima della pace. Prova a farti dare un congedo che ti permetta di venire
almeno un giorno qui a vedere tua moglie e tuo figlio. Io ho già perduto il conto delle
lettere che ti ho scritto. Volevo venirti a trovare il 12, ma Pietro mi disse che non
avrei potuto trovarti all’indirizzo postale perché il luogo dove sei segreto e quindi
sono rimasta a casa. Se almeno tu mi scrivessi quando potrei venire, e se tu potessi
venire a incontrarmi. Ti ho comprato un paio di pantofole per venti rubli, ed alcune
camicie. Spero che la misura sia giusta. Ma ti prego di tornare a casa. Lionia dice tutti
giorni: ‘se il mio babbo Sima torna a casa mentre io dormo, mamma, ti prego di
svegliarmi’. Pietro è tornato dalla Polonia per tre giorni. Se gli altri possono
congedarsi, anche tu potresti farlo. Marussia”.
“29 ottobre – Caro Sima, saluti dalla tua bene amata Marussia e da tuo figlio
Lionia. Prima di tutto voglio dirti che ho ricevuto tue notizie, per le quali ti ringrazio.
Sima, tu mi dici di lavorare, e di guadagnare qualcosa. Ma prima di ricevere tue
notizie io mi ero già iscritta come donna di servizio in una cucina operaia. Lavorai
per un giorno e poi non tornai. La zia Vera era molto incollerita perché avevo lasciato
il posto, ma ti dico sinceramente che era orribile, con tutti gli uomini che mi
molestavano. Ho appena potuto sopportarlo per un giorno e adesso cercherò di
trovare un altro lavoro, al primo del mese, ma non so ancora dove. Tu dici nella tua
lettera: ‘Trova lavoro, io torno a casa presto’. Ma io lo so che non dici la verità.
Marussia”.
“3 novembre – Caro Sima, perché non scrivi? Sono inquieta per la tu sorte. La
mamma scrive che parte il 5 e che io dovrei andare a incontrarla alla stazione. Ma io
sto pensando che quando viene lei mangeremo i nostri ultimi copeki e poi cosa
faremo io e Lionia? Scrivimi prima della festa del 7. Questa volta per me la festa non
sarà molto allegra senza di te, Sima. Sono tornata a lavorare alla fabbrica, ma il guaio
è che manca spesso la corrente, e quindi il lavoro è molto irregolare. Io non ho
nessuna idea di quanto riceviamo di compenso. Ti prego di scrivere. Marussia”.
“24 novembre – Caro Sima, ho mandato la mia ultima lettera raccomandata. Se
non torna indietro vuol dire che l’avrai ricevuta. Ma se torna, vuol dire che io non
avrò nessuna idea di dove ti trovi. Ieri sono andata a chiedere dove sei e perché non
avevo tue lettere. Mi hanno detto insomma che tu non avevi il permesso di scrivere
perché ti trovi in servizio segreto. La lettera raccomandata che ti spedii a Ostrov con
la fotografia di Lionia e dieci rubli è tornata indietro, ma i soldi non c’erano più.
Temo che altri 20 rubli abbiano fatto la stessa fine. Sima, è un gran guaio se non ti
permettono di scrivere. Qui non c’è niente di nuovo oltre che la vodka è aumentata a
20 rubli al litro. Ieri ho ricevuto la paga per il primo mese, 101 rubli, siccome spesso
mancava la corrente. Io non so quando riceverò la tua paga, ma i soldi non contano se
non puoi tornare a casa. Marussia”.
Con le lettere di Marussia c’era anche, senza fotografia, la tessera di iscrizione di
Sima al Komsomol, organizzazione giovanile del partito comunista.

CRONACA DELLA LIBERAZIONE DI MILANO


(cronaca di ore memorabili, pag. 1)

“Il Nuovo Corriere”, 26 aprile 1945

La fine della guerra di liberazione nel racconto, anonimo, di un giornale che


torna ad esprimersi liberamente.

Senza osare ancora crederlo, Milano si è risvegliata ieri mattina all’ultima giornata
della sua interminabile attesa. Da alcuni giorni la grande speranza aveva acquistato
verosimiglianza, via via che sulle carte della Germania appese ai tinelli ed agli uffici
le bandierine si spostavano da una parte e dall’altra, serrando sempre più la città. Per
vie misteriose, voci che dapprima parevano strane o pazzesche si spandevano in città,
accrescendo l’ansia della liberazione.
Sintomi decisivi
I molti scioperi in città e in provincia dei giorni scorsi, eseguiti con disciplina e
per lo più senza reazioni o repressioni, già dicevano che molte cose erano cambiate, e
stavano felicemente sovvertendosi. Migliaia di partigiani – era ormai voce comune –
erano concentrati in Milano e si disponevano a far sentire il peso delle loro armi. Il
febbrile trambusto dinanzi alle sedi dei comandi tedeschi, tutti quegli autocarri
carichi delle più strane cose che si lanciavano verso la periferia, quelle finestre che
rimanevano sprangate, quei cavalli di frisia che le sentinelle più non vigilavano erano
altrettanti segnali promettenti. Poi dicerie in senso opposto. Mussolini – dicevano –
era in città, in via Conservatorio, nell’antica sede dell’Opera Balilla, e stava
organizzzando la resistenza a oltranza.
Sì – confermava un altro – anche i tedeschi stanno rinforzando le difese: poco fa
avevano cominciato a costruire un nuovo ridottino in cemento armato in via Santa
Margherita presso il famigerato Albergo Regina, sede di tante fosche verità e truci
leggende. Meno male che un altro aveva visto poi gli stessi muratori abbandonare il
lavoro, anzi livellare frettolosamente la buca aperta nel selciato.
Un vento quasi freddo ha svegliato ieri mattina la città. Si era detto la sera prima
che i tram avrebbero fatto sciopero. Sarebbe stato questo un segno ancor più
eloquente della crisi. Per i milanesile rotaie delle strade deserte hanno sempre avuto
un significato decisivo. Voleva dire dunque che gli ottimisti avevano ragione. Ma alle
orecchie ancora insonnolite saliva dalla via il caratteristico rotolio di metallo. E le
stesse sirene del piccolo allarme scandite con l’usata frequenza sembravano voler dire
che niente era cambiato. Cominciava dunque ancora una giornata di guerra uguale a
troppe altre, patite in una insofferenza crescente e quasi miseramente sprecate nel
conto complessivo della vita?
Ma i volti degli armati fascisti – quanto più rari del solito – apparivano diversi,
come svuotati. I loro mitra, pur branditi con accentuata ostentazione con la canna
orizzontale per rispondere a qualsiasi sorpresa, anziché forza dicevano smarrimento e
incertezza.
E passavano rombando autocarri e autocarri tedeschi: cumuli di casse, di pacchi,
di mobili, persino di materassi con in cima la scorta armata. Sopra la cabina del
conducente un soldato dalla faccia impenetrabile brandeggiava la mitragliatrice
lentamente da sinistra a destra e da desra a sinistra, a titolo di avvertimento; ma era
già lontano, scomparso in fondo alla via, una trista ombra dispersa. E di chi erano
quelle belle automobili zeppe di valige e valigette, dal cui finestrino spuntava il nero
becco di un’arma? A quale lungo viaggio si accingevano?
I tram andavano ancora, ma si capiva che Milano aveva interrotto il lavoro: con il
fiato sospeso, essa sentiva il destino, accumulata nei lunghi mesi una carica immensa,
mettersi in moto alla fine e incalzare con ritmo sempre più precipitoso.
L’organizzazione della riscossa, maturata nell’ombra, rivelava all’improvviso le sue
innumerevoli ramificazioni e la solidità della sua estesissima rete. Le parole d’ordine
passate segretamente di bocca in bocca, di comitato in comitato, di azienda in azenda,
trovavano immediata esecuzione.
Il movimento è cominciato a mezzogiorno. Le maggiori industrie sono in
sciopero. Ovunque sono presenti i partigiani che spesso prendono la parola,
festeggiatissimi, annunciando alle maestranze che l’ora della liberazione è venuta, e
incitandole a insorgere. Manifestazioni di solidarietà patriottica riuniscono così gli
operai della Caproni, della Magnaghi, dell’Allocchio-Bacchini, dell’Isotta-Fraschini,
della Galileo, della Salmoiraghi, della Salva e di moltissime altre fabbriche. Anche
donne “fuorilegge” partecipano a queste adunate, con l’intrepidezza dimostrata del
resto altre volte, in giornate e in occasioni ben più rischiose. Tra esse è la madre di
due partigiani caduti, che parecchi giorni fa, quando le maglie della vigilanza fascista
non si erano per nulla allentate, non aveva esitato ad accompagnare un gruppo di
partigiani in vari stabilimenti, all’ora della mensa, e a rivolgere ai lavoratori parole
animatrici.
I partiti sulla breccia
Questi scioperi, queste manifestazioni, non sono un segreto. I tedeschi ma,
impotenti di fronte ad una così vasta insurrezione, si trovano paralizzati. Anche i
fascisti lo sanno, e vorrebbero intervenire. Ma come? Non è più un patriota isolato o
un gruppo di generosi. Oggi è l’intero popolo che si risveglia. Echeggia qualche
sparo, ma la compattezza delle maestranze ben presto scoraggia i “tutori dell’ordine”,
costringendoli alla ritirata. Alla Compagnia Generale d’Elettricità, dove un discorso
del socialista Repossi, ex deputato, suscita l’entusiasmo delle maestranze, perfino un
dirigente tedesco dell’azienda – il cui padre fu ucciso per antinazismo a Berlino – si
sente preso dal prorompere dell comune sentimento e in atto di civile solidarietà è tra
i primi ad affrontare e ad imporsi ai militi della “Resega” che tentavano un
intervento.
Entrano, intanto, non più clandestinamente, in azione i partiti del Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia. In va Podgora, mentre ancora tedeschi e fascisti
girano per la città, comincia a funzionare la sede del partito socialista.
Anche i comunisti, i democristiani, i liberali, gli uomini del partito d’azione, con
le loro varie forze sono presenti in tutti i principali stabilimenti della periferia; i
fiduciari delle diverse organizzazioni politiche incitano le masse lavoratrici a
riprendere, ormai aviso aperto, la lotta liberatrice. Purtroppo ancora una volta, benchè
non attaccati, i fascisti non esitano a versare nuovo sangue innocente. In uno
stabilimento un ufficiale di una banda di Mussolini, fatta irruzione con un drappello
armato là dove erano riuniti gli operai, fredda con una scarica di mitra un giovane e
un altro che, rimasto ferito, gli si rivolgeaprendo le braccia in un atto fiero, abbatte
con una seconda raffica. Diversi operai sono rimasti pure feriti alla Miani-Silvestri,
nel corso di un vero e proprio assedio intrapreso da una brigata nera; e sangue è pure
versato alla Pirelli, in via Filzi, in uno scontro tra operai e camicie nere accorse con
pezzi di artiglieria.
I segni del disfacimento delle forze tedesche e fasciste si moltiplicano. Autocarri
germanici lanciati ormai in evidente fuga si fermano per le vie per raccogliere
all’ultimo momento soldati sparsi, i quali se ne vanno così senza neppure lo zaino e
gli effetti personali. Nembi di acre fumo si sprigionano dalle sedi più tristemente
famose. I tedeschi dell’Albergo Regina si affannano a incenerire carte troppo
compromettenti; il loro esempio è seguito dai comandi di Porta Magenta e dagli uffici
di Foro Bonaparte, all’ultimo atto della finale liquidazione. Pure i fascisti si
preoccupano di non lasciare dietro di sé prove eccessivamente eloquenti delle loro
prodezze. Archivi vengono incendiati in Prefettura e in numerose sedii di gruppi
rionali e di bande armate.
Attacco ai capisaldi
I tram ora sono fermi. Le vie si fanno a poco a poco sempre più deserte. E cresce il
silenzio delle grandi attese. Dinanzi alle saracinesche semiabbassate, ai portono
mezzo chiusi, si formano gruppetti di persone, dall’aria un po’ stranita, che si
guardano intorno. Una fucilata suona secca e solitaria nel pomeriggio già estivo. Poi
una lunga scarica di mitra. Comincia la battaglia? Si apre l’ultimo sanguinoso atto del
dramma? Ma il silenzio ritorna. Con un crescente sollievo la città vede passare le ore
senza che si scateni la lotta. La partita non si deciderà dunque a Milano? No, la
partita è già stata decisa, e non solo sui fiammeggianti campi di battaglia tra i biondi
guerrieri del Nord e d’Oltreatlantico, non solo sul fronte della Russia e su quello
italiano; ma anche qui, a Milano, nell’eterno anno e mezzo di attesa la sorte è stata
decisa per opera del popolo stesso, unanime nel desiderio e nell’ansia, attraverso
l’ancora oscuro travaglio e sacrificio di molte migliaia di cittadini che, a rischio di
carcere, di deportazione, di supplizi e di morte non si sono stancati di spandere la
semente.
Scese le ombre della sera, le sparatorie si sono riaccese. Armati fascisti sparsi qua
e là, prima di riguadagnare i rispettivi rifugi, vanno sprecando le munizioni in
inconsulte raffiche, lo smarrimento e i loro timori facendo loro apparire immagini
minacciose ciò che in genere altro non erano se non pacifici cittadini attardatisi fuori
di casa. Parecchie decine di persone, colpite all’improvviso e senza motivo da questo
spari, hanno dovuto così essere trasportate ai vari ospedali cittadini.
Ma intanto le forze della Liberazione passavano decisamente all’azione,
attaccando prima che sorgesse l’alba i capisaldi fascisti che nei vari quartieri
dimostravano velleità di resistenza. Mentre andiamo in macchina i combattimenti
continuano.
Nelle primissime ore di stamane i reparti partigiani hanno già occupato la
Prefettura, la sede dell’Eiar, l’ufficio della questura centrale e i commissariati di
polizia.

HANNO FUCILATO MUSSOLINI

di Mario Pannunzio
“Risorgimento Liberale”, 30 aprile 1945

All’indomani della fine del fascismo, torna alla luce del sole la stampa rimasta in
clandestinità per molti anni. Rinasce anche il genere dell’editoriale.

Mussolini è stato fucilato. L’Italia del nord ritrova nell’insurrezione la sua libertà. La
Germania è sul punto di crollare. Ecco le notizie di queste ultime straordinarie
giornate. Esse appaiono così enormi, inaudite ed istantanee che il nostro animo
sembra impreparato ad accoglierle. Il mondo dunque si è messo a girare più in fretta,
come mosso da una mano precipitosa? Se non pesasse ancora nell’aria la minaccia di
oscuri avvenimenti, parrebbe che finalmente gli uomini siano vicini a svegliarsi dal
loro lungo, faticoso sogno.
Mussolini è stato giustiziato. Fermiamoci su questo fatale avvenimento, che per
noi ha un significato che oltrepassa l’episodio dell’espiazione di un uomo colpevole e
dannato. La fine materiale di quest’uomo non è tale da cambiare nemmeno di un
attimo la sorte del mondo. Quando il 25 luglio le folle di tutta Italia avevano esultato
alla caduta del regime, già la sua condanna era stata pronunciata, e la sentenza
idealmente eseguita. I diciotto mesi di miserabile dominio, la sua smaniosa volontà di
conquistare con la violenza e con la frode un consenso che nessuno poteva dargli,
hanno servito, se era possibile, a togliere a quest’uomo quel po’ di prestigio che molti
seguaci ancora gli riconoscevano, la fedeltà non umana, ma piuttosto bestiale, di
pochi forsennati era quel che ancora gli restava per opprimere e avvilire sempre di
più gli italiani.
Insieme a quei “fedeli”, a quei personaggi inetti e sinistri, ossessi di dominio, tra
piccoli attori e donne eccitate e crudeli, egli è finito come il protagonista di un
dramma truce, recitato sul palcoscenico di una piazza. Non resta agli italiani che
allontanare in fretta la mente da questo triste spettacolo e toglier via lo sguardo da
quei corpi esanimi, stesi perle strade a testimoniare che la giustizia è scesa
implacabile a punire il delitto. Neppure un sentimento di pietà per queste morti
riusciamo a trovare nel fondo del nostro cuore, tanto grave è il ricordo di quel che
questi uomini hanno rappresentato di malvagio e di oppressivo.
Che cosa significa oggi la fine di Mussolini e degli ultimi fascisti nel nord? È
quello che più c’importa, nel momento in cui tutti aspettiamo ansiosi di vedere l’Italia
completamente libera, e la rivolta popolare va stroncando con moto fulmineo le
ultime speranze di resistenza dei tedeschi e dei fascisti. È dunque questo vento del
nord un vento di sangue e di vendetta? Tutti coloro che hanno sempre deprecato la
violenza possono oggi in qualche modo essere turbati dalle notizie che giungono
attraverso la fievole voce delle radio libere?
Non lo crediamo. Che un certo numero di individui sia spazzato via e paghi con la
vita un infernale passato, è il segno che il fascismo è veramente morto in Italia. Non
c’è popolo che non abbia, in un certo momento della sua storia, bruciato come in una
grande fiamma le proprie immagini viventi, i responsabili delle proprie colpe. Non è
vendetta, questa, né volontà di sangue, ma semmai bisogno di giustizia, di purezza di
vita. Quegli uomini miserabili stavano ancora a segnare con la loro offensiva
presenza che tutti i peccati non erano scontati e che il male poteva ancora trovare un
terreno propizio al contagio.
Con Mussolini scompare la più vistosa incarnazione di un male del secolo, che
sembrò capace di infettare tanta parte dell’umanità, e che anche oggi può minacciare i
popoli non prevenuti. Mussolini è stato il maestro di terribili insegnamenti. Mussolini
ha risuscitato nell’epoca moderna e con metodi moderni la non mai dimenticata
dottrina che la violenza può essere strumento esclusivo di governo,
indipendentemente da qualsiasi fine da raggiungere. Fu il primo a praticare, in un
paese mite e civile come l’Italia, la metodica distruzione di ogni forza avversaria, fu
il più pervicace nell’infondere sapientemente la corruzione negli animi, sotto
l’inganno degli ideali. Dinanzi a lui non un proposito nobile, ma soltanto la smodata
volontà di dominio personale, obbligo ideale di tutto un popolo, ultimo fine di ogni
attività, formula politica e morale al di sopra di ogni diversa ispirazione. Quest’uomo,
che pur si vantava di provenire dal popolo, del popolo si servì solo come di un
congegno informe e senz’anima. Fece delle proprie mire, del proprio orgoglio, delle
proprie vendette un’arma dura e grossolana, una specie di casamatta entro la quale
soffocò l’intera nazione. Quante parole non furono dette per giustificare questo suo
governo, così comodo per lui solo, quanto antichi ed illustri ideali furono esaltati per
dar risonanza e prestigio ad una così meschina volontà di potenza. Egli parlò di
patria, di nazione, di giustizia sociale, di ordine e di concordia: volta a volta si
proclamò rivoluzionario e conservatore, pacifista e amante della guerra, a seconda del
momento e delle opportunità purché quelle parole valessero a conservare il suo
dominio.
Fu egli strumento di interessi altrui? Dovette servire altri uomini per asservirli a
sé? Era dunque egli espressione soltanto di un ordinamento sociale errato e corrotto?
È questa una spiegazione che non basta a giustificare il suo vario dominio, la sua a
lungo incontrastata potenza. In altri paesi, dove l’ordinamento sociale era simile al
nostro, prima dell’avvento del fascismo, nessuno ha sentito il bisogno di difendere e
conquistare privilegi assoggettandosi alla schiavitù. Il fascismo è soprattutto una
malattia morale su cui fece leva un uomo per conquistare il potere. È la tecnica di
ogni dittatura, di ogni tirannia che non ha indissolubili rapporti con le condizioni
sociali, né col tempo, né con i luoghi, ma è l’espressione della più grande tra le
passioni umane, l’ambizione, e insieme della più umiliante delle debolezze, la
volontà di servire.
Oggi, con la fine del fascismo, la macchina della dittatura è spezzata. Ma alcuni
ingranaggi sono ancora vitali, e qualcuno potrebbe esser tentato di impadronirsene.
L’epoca, purtroppo, non è ancora aliena dal ripetere gli esperimenti falliti. La tecnica
moderna ha messo a disposizione ritrovati di una perfezione che incanta ancora gli
ingenui e gli ambiziosi. I modi della conquista del potere e della sua violenta
conservazione fanno parte di un ramo delle moderne discipline politiche che hanno
tuttora dei fervidi cultori.
Ma se questi strumenti di dominio sono ancora idonei all’azione, nessuno
dimentichi che qualcosa ci sarà sempre più forte per frantumarli. La fine di
Mussolini, quella imminente di Hitler, sono un tremendo ammonimento per glia
spiranti a nuove dittature, di destra o di sinistra. Lo spirito dell’uomo è mutevole e
ansiose sempre di vita, e la schiavitù, che è simile alla morte, può essere soltanto un
breve sonno. Guerra, conquista, potenza, disciplina, orgoglio nazionalistico sono
parole che possono avere una eco labile e provvisoria. Seppure accettate per ignavia,
offendono il senso profondo della vita, i cristiano e pacifico sentimento della
solidarietà tra gli uomini. Altre parole, altri ideali spesso dimenticati ed irrisi, si
levano oggi da tutti cuori e, allontanando le orribili nebbie, proclamano che la libertà,
la carità, la tolleranza per chi ha peccato e poi si è pentito, la volontà di lavoro e di
benessere, la bontà infine, così umile e così conquistatrice, sono gli ideali più armati e
potenti, di fronte ai quali ogni altra passione finirà per cedere. Guai a chi crede di
poter mettere sugli altari altri idoli, chi accetta di imparare altri insegnamenti. “Noi
non facciamo che insegnare opere di sangue – diceva Macbeth prima del delitto – le
quali, appena insegnate, finiscono per punire il maestro”.

STRAGE A PORTELLA DELLA GINESTRA


(pag. 1)
“Avanti!”, 3 maggio 1947

In poche righe di grande efficacia giornalistica, la descrizione della prima strage


della storia repubblicana, quella di un gruppo di contadini che festeggiano il
Primo Maggio in un’Italia che dovrà ancora aspettare tre anni la riforma
agraria.

PALERMO – Ieri mattina folti gruppi di contadini si sono dati convegno a Portella
della Ginestra per ascoltare, in occasione della festa del lavoro, alcuni oratori della
C.D.L. e dei partiti di sinistra. Lasciati da un canto i cavalli bardato a festa, i
braccianti agricoli si erano ammassati, alle 10, sulla piana che circonda il paese.
Nel centro un podio di pietra. Quando sulla rudimentale tribuna salì il primo
oratore, il calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di Piana,
scoppietarono attorno battimani e, per un attimo ancora, canti festosi, gli inni dei
lavoratori. Poi fu silenzio. Distintamente si udirono le parole del discorso:
“compagni lavoratori, siamo qui riuniti per festeggiare il Primo Maggio, la festa dei
lavoratori …”. A questo punto il costone di Monte Pizzuto risuonò di raffiche ed i
primi proiettili fischiarono tra la folla. I primi morti caddero sulla pietraia, i gemiti
dei primi feriti sottolinearono le raffiche. Dall’alto gli assassini dominavano tutto il
paese. Urla e grida riempirono la piana; le bandiere rosse caddero coprendo gli alfieri
colpiti. Anche alle spalle, sul Monte Cometa, stavano allineati, nettamente visibili
contro il cielo, altri assassini intabarrati, con le armi al piede, pronti ad intervenire.
Dieci muniti di raffiche, dalle 10,30 alle 10,40. Quando le mit6ragliatrici tacquero, a
terra uomini e donne e bimbi e vecchi, sotto gli zoccoli dei cavalli impazziti. Sangue
sui massi grigi, sangue rosso e le bandiere del lavoro strappate e lacere. Gli assassini
scomparvero all’improvviso: forse dovevano recarsi immediatamente a riferire
dell’esito dell’eccidio, a chi li aveva mandati a commetterlo. Sulla piana rimanevano
i morti.

VIENNA, LA CITTA’ SENZA GIOIA

PAGINA 3
di Giovanni Spadolini

“Il Messaggero”, 15 gennaio 1949

Immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale Giovanni Spadolini


scrive sulla pagina culturale del “Messaggero”. Una pagina culturale povera di
eventi perché di soldi nel 1949 ce ne sono pochini, da spendere per la cultura.
Ma quando si trova a visitare Vienna la Splendida, Spadolini racconta di una
capitale, distrutta dalla guerra, in cui anche il cibo è un bene di lusso tanto
quanto una rappresentazione teatrale. Sembra, conclude, che l’Europa sia
veramente morta, a giudicare da come la guerra ha spento l’intelletto e
l’entusiasmo dei viennesi.

VIENNA – A salire sulla torre di Santo Stefano che si erge, miracolosamente


sopravvissuta, sulla chiesa semidistrutta dai bombardamenti, si domina con lo
sguardo tutta la città, anch’essa semidistrutta nelle sue strutture esterne e
completamente fiaccata e annientata nel su spirito interiore.
L’opera dei bombardamenti ne ha stravolto il volto, bellissimo, e l’opera
dell’occupazione ha isterilito ed inaridito le fonti di vita di quella che un tempo era
una delle più felici e prospere metropoli europee.
Solo dall’alto è possibile rendersi esattamente conto dell’immensa rovina
materiale di Vienna. Infatti una grandissima parte di quei suoi edifici sontuosi,
lussuosi e voluttuosi, quasi tutti costruiti tra il barocco, il rococò ed il neoclassico ha
mantenuto apparentemente intatta l’ossatura esterna, ma è stata quasi del tutto
sventrata e squarciata nell’interno. Terribile è la sensazione che uno riceve dalla
visione di questi poderosi complessi monumentali, che per una singolare ironia hanno
conservato la faccia e la facciata d’edifici, ma degli edifici non hanno più né il corpo,
né l’anima.
Qui a Vienna è una fuga di strade frantumate dai bombardamenti e dal passaggio
della guerra, che si inseguono e si confondono sin quasi a suscitare in certi punti
un’atmosfera di antiche rovine dove è tornata ad abitare una popolazione che
sembra, di fronte ad esse, distratta e distante.
La Cattedrale, le chiese più importanti, l’Accademia, l’Università, il Teatro
dell’Opera, i palazzi più belli dell’antica nobiltà austriaca molte delle costruzioni
migliori di quel particolare neoclassico viennese così pieno di suggestione e
d’incanto, tutto è ridotto a macerie informi ed uniformi.
Lo spettacolo è reso tanto più terribile dal fatto che le macerie si presentano
ancora oggi, a due anni di distanza dalla fine della guerra, nello stesso stato in cui si
dovevano trovare dopo l’immediata rovina.
Solo dal basso, però, solo girando per le strade della città, entrando in contatto con
la sua popolazione è possibile afferrare lo stato di paralisi sociale, morale e spirituale
di Vienna.
Vienna, la città morta. Non trovate quasi nessuna industria che lavori o produca.
Neppure e Neuer Wienerstadt, il centro industriale che sorge a sud dell’abitato, si
vede il fumo di una ciminiera. Tutto sembra sepolto sotto lo spesso strato delle
distruzioni, quando non si nota il vuoto lasciato dagli smontaggi degli impianti. I
negozi son chiusi per la maggior parte del giorno, spesso per tutto il giorno. I pochi
aperti sono quasi del tutto privi di generi di necessità o di voluttà, ed espongono solo
ridicole e pietose contraffazioni di prodotti da mangiare o di capi di vestiario.
Esiste naturalmente il mercato nero, ma sembra assai inferiore a quello di quasi
tutti gli altri paesi europei per l’intrinseca mancanza di oggetti da scambiare. Essendo
poi nullo o inesistente il mercato libero, chi arriva dall’estero e può godere di
eccellenti condizioni di cambio nn sa in che modo utilizzare il denaro a disposizione,
al di fuori delle minime spese ordinarie. Non si può acquistare niente, se non un po’
di birra quando non è stata requisita dagli occupanti.
Null’altro, non esiste una pasta o un dolce. Impossibile o quasi trovare un caffè
trangugiabile: imbevibili, disgustose le poche bibite offerte in bancarelle
improvvisate. Pochi i locali di lusso e, per quelli che abbiamo visto, scarsamente
frequentati. Vicino all'Opera, in un elegante caffè concerto, un’orchestrina suona con
ci suoi musicisti impeccabilmente acconciati in mezzo a tanti tavoli, tutti vuoti.
Scarsi i cinematografi. Il Teatro dell’Opera, in buona parte distrutto, è inattivo. Il
luminoso, spettacoloso Prater di un tempo ridotto a pochi numeri di un qualunque
baraccone di un a qualunque provincia.
Se si puntano gli occhi sul volto dei viennesi si notano squallore, stanchezza e
fiacchezza generale. Conservano ancora, i viennesi, qualcosa della loro cordialità e
gentilezza di un tempo, ma tutto in loro denuncia apatia ed abulia, Tutto in loro
ricorda il trauma, il collasso psichico da cui sono stati colpiti.
Quel quid di fierezza, di distinzione, di correttezza, di onestà, di bonomia proprio
degli austriaci non è scomparso, ma non opera più nel modo evidente di prima. Vi è,
ovunque si vada, un’atmosfera di sconsolazione, di depressione. Non depressione:
dalla depressione sempre fermenta qualcosa, ma piuttosto rassegnazione, rinuncia,
qualcosa che crea uno stato do stagnazione, quasi putrefazione.
Nulla o poco sopravvive della città all’avanguardia intellettuale o politica. Anche
la città intellettuale, in questa che fu per tanto tempo capitale delle idee e delle opere
della civiltà europea, par che ristagni nel suo complesso. Quasi nulla l’attività
editoriale, minima la produzione artistica e letteraria.
Nulla rimane della ricca vita politica dell’Austria dell’altro anteguerra, siamo
lontani persino dal livello delle lotte politiche del primo dopoguerra o della Vacanza,
quando l’Austria era mantenuta dall’Italia.
E quali strade, d’altronde, possono essere davanti agli austriaci sul piano politico?
Oggi nessuna. Internazionalmente impossibile e non desiderabile un’annessione alla
Germania (e poi, a quale Germania?). Sul piano interno non hanno prospettive di
successo né il comunismo, in cui gli austriaci non credono, né il liberalismo, che qui
fu sempre sentito poco. I segni esteriori, a caratteri spettacolari, incisi su alcuni
palazzi sopravvissuti (“Partito Popolare”, “Partito comunista”) non ingannano
nessuno. Alla loro azione – tranne, in parte, a quella dei popolari – non corrisponde
alcuna vera partecipazione delle masse. Il popolo è distaccato, disincantato,
disamorato. Nulla sembra più interessarlo; nulla lo scuote. Tutto lo preoccupa, ma ai
fini della vita di ogni giorno.
Irreale, fantastico, quasi assurdo, in mezzo a questa Vienna morente è il Castello
di Schoenbrunn. Sembra, questa stupenda villa neoclassica, col suo giardino ancor
tutto pettinato e riavviato, nonostante il senso di declino che l’avvolge tutto interno, il
simbolo di un’età quasi preistorica rispetto alla storia che l’Austria vive oggi.
Vienna, per molti lati, è una delle città che rappresenta, di fronte all’opinione dei
più, l’Europa tout court. Ebbene, sembra che l’Europa sia veramente morta, a
giudicare da Vienna.

RITRATTO BREVE DI FAUSTO COPPI

di Gianni Brera
“La Gazzetta dello Sport”, 27 luglio 1949

PAGINA 1

Tre giorni dopo aver trionfato al Tour de France sull’eterno rivale Gino
Bartali, Fausto Coppi riceve questo omaggio dalla penna di un giovanissimo
Gianni Brera, destinato a divenire il giornalista sportivo più famoso d’Italia
come lui è ormai il più famoso ciclista d’Europa. O quasi, viso che sulla sua
strada resiste ancora il vecchio Bartali. Una cosa di sicuro accomuna i due, e
Brera non manca di notarla tra le righe. Questa: sia Bartali, che sembra
fisicamente tagliato con l’accetta, sia Coppi, qui descritto come se fosse
un’eccezione antropomorfica – il perfetto contrario dell’atleta classico,
“esteticamente bello e possente” – riescono a far arrabbiare moltissimo i
francesi. Che gusto.
PARIGI – Così l’ha fatto il Buon Dio che se tu lo vedi all’impiedi, uomo come
tutti gli altri, costretto a mantenersi umilmente in equilibrio, la tua presunzione non se
ne adonta.
Su due spalle stranamente esili s’innesta il capo che i neri e lisci i capelli, quasi
mai pettinati, paiono rendere allungato a dismisura. E il collo, che pure è sottile, quasi
si perde nella secchezza della mandibola e della nuca folta di capelli. Il torace, per
un’anomalia che invece è funzionale e a tutta prima non ti spieghi, via via scende,
ingrandisce, lo sterno pare carenato come negli uccelli.
Ancora ogni normale linea anatomica viene smentita in lui da un improvviso
dilatarsi delle anche, dall’assenza totale di un ventre che minimamente sporga, da una
brevità del tronco allorché l’uomo è all’impiedi, che rende vistosa assai la solida
falcatura delle reni. E poi queste reni brevi e potenti non paiono terminare,
prosaicamente, in glutei, ma subito si continuano in cosce di inusitata lunghezza in
cui balzano evidenti muscoli sciolti ed affusolati. E sottili, nervose sono le ginocchia,
snelli i polpacci, agili le caviglie.
Come lo vedi camminare, quest’uomo, subito egli ti sembra goffo e
sproporzionato, non fatto, direi, per muoversi in terra, come tutti. Il suo passo, alla
ricerca di un equilibrio malagevole e difficoltoso è quasi stentato e sghembo. Le
braccia, assai gracili, spiovono inerti, impacciate dalle spalle non larghe. E la tua
presunzione non se ne adonta. Piccolo comune uomo quale sei, non ti entra al suo
cospetto nell’animo l’amaro dell’umiliazione fisica, quel senso di inferiorità che
subito t’intimidisce, e anzi talvolta annichila, di fronte all’atleta esteticamente bello e
possente.
Per questo, forse, l’istinto induce subito ad ammirarlo. Le sue imprese sportive,
quali che siano, acquistano sempre luce epica: perché l’uomo normale giustifica con
l’eroismo, cioè con doti morali non sue, le superiori prodezze di chi gli appare simile.
Tuttavia Coppi, fuori da ogni dubbio, uomo normale non è. E vi accorgete di questo
vedendolo non già camminare, come noi tutti, bensì quando è in sella e pedala.
Ora, per comprendere Coppi, bisogna assolutamente invertire i rapporti funzionali
della bicicletta nei confronti dell’uomo. In fondo, la bicicletta altro non è se non una
povera bonaria concessione alla nostra ansia di andare. Dunque uno strumento. Non
avesse avuto i gusti estetici che sappiamo, amando di conseguenza il cavallo come
miglior modello dopo l’uomo, forse Leonardo avrebbe concepito l’idea della
bicicletta dopo aver inventato il differenziale. La costruirono invece, utile ma certo
antiestetico complemento della loro natura comune, uomini che il genio non
innalzava. E rimase poi sempre com’era, nel suo concetto fondamentale; un aiuto alle
nostre povere gambe negate al moto veloce. Un strumento suppletivo. Sinché non
venne allo sport Fausto Coppi.
La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un’invenzione della
natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in
azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato
sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne ed ossa che stentiamo a
riconoscergli simile. Allora persino i suoi capelli, che il vento relativo scompiglia,
paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto.
Il volto affilato e nervoso è un completamento della dinamica meravigliosa cui
pure obbedisce il torace a catena. Le braccia sono due aleroni d’attacco. Non altro.
Dalle reni ampie e falcate, dalle anche robuste si partono i muscoli che conferiscono
alle gambe di Coppi quell’aspetto di leve disumane. Nel giro uniforme della pedalata,
questi muscoli schioccano come elastici or tesi or rilassati con arte sagace ed il
brillio dei raggi, nelle due ruote, entra per la sua parte a creare uno spettacolo di
meccanica facilità e di umana vigoria che conquista.
Allorché agile procede sul piano, l’abusata immagine della locomotiva che avanza
per alternarsi di bielle in rotazione ti viene imposta da Coppi. Allorché, dondolando
ritmicamente sui pedali, si attacca su una salita e tu vedi Coppi al di là di ogni umano
limite rinnovare l’antica bellezza dei miti, più non osi guardarlo se solo pensi che egli
è, come te, uomo. Più non osi se non per sentirti a petto suo troppo meschino. E allora
pensi spontaneo esaltarlo come un fenomeno unico dello sport: ed esaltarti tu in lui
che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano.

BENITO ALBINO, IL FIGLIO NASCOSTO DI MUSSOLINI

di Alfredo Pieroni

“La Settimana Incom”; 7,14,21,28 gennaio 1950

Nel dopoguerra, in particolare con la creazione dei settimanali, nasce il genere


delle grandi inchieste, con le quali si descrive l’attualità, e si ricerca nella Storia
che per vent’anni non è stato possibile raccontare. Questa è l’inchiesta in
quattro puntate che svela uno dei segreti più gelosamente mantenuti del
Fascismo.

I
Fu alcuni anni prima della Grande Guerra che la giovanissima Ida Dalser venne
chiamata dal piccolo paese di Sopramonte, in provincia di Trento, a Milano da una
vecchia zia, che la collocò prestissimo nella casa dei milionari Taveggia in qualità di
governante e di infermiera. Si trattò, più che di un lavoro, di una ospitalità cortese ed
affettuosa. La famiglia le riconosceva attitudini e diritto a migliorare la propria
posizione sociale e le permise di frequentare, presso l’Ospedale Maggiore, un corso
di massaggio. Quando al Signora Taveggia, che era stata inferma a lungo e l’aveva
benvoluta, morì, Ida Dalser rimase libera. La Taveggia l’aveva raccomandata ai
clinici dell’ospedale Maggiore, ai quali lasciò quasi un’eredità, con un lascito
favoloso, circa un milione del tempo.
L’Università di Parigi apriva in quel tempo la scuola di ortopedia e Massaggio. Ida
Dalser la frequentò, vi si formò e fece pratica subito dopo nel gabinetto, allora
famoso, di Madame Fatelle. La medicina estetica era ancora poco progredita, e meno
ancora praticata. La giovane diplomata si trasferì dunque nuovamente a Milano ed
aprì un suo gabinetto. Bella, robusta, proprietaria del “Salone di Igiene e bellezza
Madamoiselle Ida”, la Dalser aveva le qualità, positive e negative, che potevano
piacere – e piacquero – a Benito Mussolini, che in quei tempi dirigeva l’“Avanti!”.
Era il 1914, il periodo interventista, forse il più difficile per Mussolini. Gli capitò
una donna che lo equivaleva e gli conveniva, tenera e ardita, capace d’affetto e
d’indipendenza, entusiasta e non più grossolana di lui.
Se, invece di avere l’occupazione e il fascino di una professione quasi segreta si
fosse occupata di politica, Ida Dalser l’avrebbe probabilmente abbandonato come
Angelica Balabanoff, quando improvvisamente, nel giro di due anni, Mussolini trescò
con Pippo Naldi (che in seguito l’aiutò a fondare “Il Popolo d’Italia”) e si votò,
contro il credo socialista e i suoi stessi propositi, all’intervento. Oppure, come
Margherita Sarfatti, avrebbe conosciuto le sue paure quando, per rincasare la sera,
chiedeva la sua compagnia confessando apertamente di aver paura del buio, degli
alberi e della stessa propria ombra. Dopo molte profferte e preghiere, invece, Ida
Dalser lo accolse in casa e, poiché lui era disordinato e trascurato nel vestire, è
probabile che anche da questo punto di vista lei sia stata a lui molto utile. Nei primi
tempi (come lei riferì, molti anni dopo, in una lettera scritta e mai inviata dal
manicomio di Pergine al Santo Padre), molti conoscenti cercarono di dissuaderla dal
portare avanti una relazione con quell’uomo “sospetto in tutto”. Ma lei lo amava, e
Mussolini ribatteva: “Ti ho nel sangue, mi hai nel sangue”. Ed aggiungeva, a quanto
pare, promesse di matrimonio.
Queste proteste, che finirono per convincerla e che furono riportate al Santo Padre
nella lettera, dovettero deporre sfavorevolmente, a suo tempo, con altre circostanze
naturalmente, presso i medici dell’ospedale psichiatrico che la assistevano. Ma
l’impressione di verità che se ne riceve è profondissima, se si confronta quello che
Mussolini disse, nello stesso periodo, con la stessa fraseologia altrimenti adattata la
sera del 14 novembre 1914 davanti all’assemblea della sezione milanese del Partito
Socialista nel Teatro del Popolo di Milano.
Pallido, quella sera Mussolini gridò quasi la stessa frase che in quei giorni aveva
usato nell’intimità, e che sarebbe stata riportata due giorni dopo dal “Popolo d’Italia”:
“Quella gente che mi ha espulso mi ha nel sangue e mi ama”. Durante il dibattito
l’attenzione di molti, improvvisamente, fu attirata da una donna che schiaffeggiava di
santa ragione un troppo acceso detrattore di Mussolini. I biografi non hanno mai
saputo darle un nome, ma molti anni dopo, talvolta, gli infermieri del manicomio di
Pergine dovettero difendersi dagli stessi assalti.
In quel periodo all’incirca, o poco prima, Rachele che fuori del matrimonio gli
aveva già dato Edda, capitò improvvisamente dal suo Benito a Milano con la
bambina, e pretese “adesso che hai uno stipendio” di fermarcisi. Mussolini rispose,
sopraffatto, di sì, e la sistemò presso una certa vedova Agosti, una forlivese che i
giurati avevano assolto dall’assassinio del marito infedele.
Nella lettera che dal manicomio, dieci anni più tardi, scrisse al Santo Padre, Ida
Dalser parla del “colpevole” della sua reclusione, di Mussolini in quel periodo:
“L’uomo che ho adorato, difeso, curato quando era ammalato, seguito come
un’ombra nei comizi, nelle dimostrazioni, quando era battuto a ferro e fuoco sulle
piazze di Milano e dalle guardie di Giolitti; pregando ed implorando la fine dei duelli,
rendendolo padre di un’adorabile creatura che è il suo ritratto vivente. E tutto questo?
Non certo per le sue ricchezze! Se fosse stato in mezzo alle fiamme o a una grandine
di palle, sarei corsa in suo aiuto … Allora non era un iniquo, ma un vero angelo … un
genio abbandonato. L’ho accolto in casa mia contro le congiure di tutti, l’ho adorato,
m’ha adorata, prometteva di fare di me la più invidiata delle donne. Io non
domandavo altro che facesse di me la più amata …”.
Il 10 ottobre, due giorni dopo avere scritto un articolo sulla “neutralità attiva ed
cooperante”, Mussolini lasciò l’“Avanti!” e si proclamò interventista. Nello
sbalordimento generale qualcuno lo assaltò per la strada a mano armata ed Ida Dalser
gli si parò davanti per difenderlo. Gli aveva salvato la vita. Mussolini decretò, e glielo
disse, che gli sarebbe stata ancora accanto. Disgraziatamente per lui era un periodo
difficile. Senza giornale e senza mezzi doveva trovare il modo di procacciarsi l’uno e
gli altri. Si profilava all’orizzonte la possibilità di una vita coniugale. Ida Dalser non
ci pensò troppo: liquidò il salone e si preparò a fare la donna di casa. Mise a pegno i
gioielli, depositò presso un magazzino contro sovvenzione i mobili del suo
appartamento a Via Ugo Foscolo. Di questo periodo e di questi fatti, in seguito,
alcuni funzionari e particolarmente il console Tullio Tamburini ricercarono e
perquisirono i documenti nella casa paterna della Dalser a Sopramonte. Ma la sorella
Adele nascose lettere e foto nel pozzo dell’orto e sotto le mattonelle del pavimento,
riuscendo a salvarne una parte (oggi stesso non è ben sicuro che qualche documento
non sia stato dimenticato nel suo nascondiglio).
Confortato ed attivamente sostenuto dalla compagna, Mussolini andò prima in
Svizzera , a Ginevra, per trattare con l’agenzia di pubblicità Haasenstein e Vogler la
fondazione di un nuovo giornale quotidiano; ne scrisse e ne tornò sfiduciato. Ma
proprio questo scacco gli preparò la fortuna. Pippo Naldi, il proprietario de “Il Resto
del Carlino”, esponente dell’interventismo, lo presentò al dottor Jona, che aveva in
animo di fondare un’agenzia di pubblicità in concorrenza con la Haasenstein e
Vogler, e che ritenne vantaggioso lanciarla con il giornale di Mussolini, per il quale
regnava grande attesa. Si stipulò un reciproco impegno a sganciarsi dall’accordo
quando una delle parti lo volesse e Mussolini si tenne un solo diritto: quello di non
accettare gli inviti pubblicitari a trascorrere la stagione d’inverno a San Remo e altri
del genere. Questo per non offendere dalle colonne pubblicitarie, come faceva
l’“Avanti!”, la sensibilità del proletariato. O perché sperava di poter riuscire con la
sua campagna interventista a far trascorrere a tutti la stagione invernale in prima
linea.
Questo è davvero il periodo più febbrile della vita di Mussolini nell’anteguerra.
Nel frattempo la Dalser, con la quale viveva in intimità, impegnati i mobili di via
Foscolo, passò ad abitare all’Hotel Lario. Di questo periodo restano lettere e
telegrammi, testimoni di un’assidua relazione affettuosa, di legami e di abitudini
familiari insolite per Mussolini. Nel dicembre del ’14 da Parma, dove aveva
pronunciato un acceso discorso interventista nella palestra della scuola Mazza, le
telegrafò di venirlo a prendere alla stazione, un’usanza che non gli era familiare e che
gli divenne, per quel periodo, abituale.
Tra le lettere salvate dalla sorella Adele ce n’è una, scritta su carta intestata del
“Popolo d’Italia”, da Mussolini prima di partire per Verona, dove doveva pronunciare
una conferenza.
“Mia cara – scriveva Mussolini – sono venuto ben due volte e tu non c’eri. Ora
parto per Verona, da dove tornerò domattina. Nel pomeriggio di domani, domenica,
verrò a trovarti tra le cinque e le sette. Spero che ci sarai. Stammi bene e tranquilla.
Ti abbraccio. Be.”. Segue un post scriptum significativo: “Ti accludo un po’ di
mitraglia”. I mezzi di Ida Dalser, evidentemente, erano già finiti. Le prime nuvole
oscuravano la relazione, che viveva di appuntamenti della domenica pomeriggio, e
Mussolini era costretto ad aiutare la sua compagna.
Nel gennaio seguente (doveva essere accaduto qualcosa: Mussolini l’attendeva al
giornale per passare la notte o alcune ore con lei; si vide arrivare invece una lettera
disperata e piena di timori) gli scrisse rassicurandola. Erano le tre del mattino, e lui
aveva atteso inutilmente: “Carissima, a mezzanotte, mentre affrettavo il lavoro per
attenderti e passare con te qualche ora, non sei venuta, ed in vece tua hai mandato una
lettera. Grazie!”. La seconda parte della lettera è più dolce, quasi appassionata. “Io
comprendo il tuo stato d’animo ma ti prego, ardentemente ti prego, di non precipitare
le cose. In questi giorni trovati un appartamento, ed io troverò il denaro per pagarlo”.
Si lascia andare ad immaginare la loro esistenza insieme: “… sarai ancora bella,
felice, adorabile. La tua lettera mi ha molto turbato. T’inganni quando dici quello che
non è. Tu sai come stanno le cose. Perché questi atteggiamenti, queste disperazioni?”.
Appunto: perché questi atteggiamenti, queste disperazioni? E perché Mussolini
volle insistere contro una decisione che la Dalser sembrava avesse già presa? Perché
le faceva pensare alla possibilità di una vita felicemente vissuta in comune? Era
sincero? Probabilmente no. Comunque così fu: l’appartamento venne trovato, e si può
anche credere che la fiducia della Dalser si dovette anche rafforzare, se nove mesi
dopo nacque il loro bambino.
Tutto andò bene, probabilmente benissimo, per molti mesi, finché il 31 agosto (era
scoppiata frattanto la guerra) Mussolini, che non aveva pensato a presentarsi
volontario, venne richiamato con la classe dell’’84 e assegnato all’11.mo Bersaglieri,
5.a compagnia. Partì sapendo che aspettavano un bambino ed il 26 ottobre 1915, in
una lettera piena di tristezza e di passione, commosso e ben disposto dall’aver
incontrato in treno una coppia di sposi, scrisse di prove solenni d’amore che avrebbe
dato, e si lasciò andare a prevedere quale sarebbe stato il loro viaggio di nozze.
A poco a poco la vita in trincea lo prese, non gli lasciò che pochissimo tempo per
le effusioni sentimentali. Non trovò neppur lo spazio per rispondere quando gli venne
comunicato che era nato, il 15 novembre, suo figlio, e che se avesse voluto il ragazzo
avrebbe avuto il suo nome, Benito, e quello del nonno materno, Albino.
La guerra verosimilmente l’aveva indurito, o le lettere non gli giunsero. Nella sua
stessa squadra un commilitone aveva ricevuto un’altra lettera, dal segretario della
sezione socialista del suo paese: “Siamo venuti a conoscenza che stai combattendo al
fronte con il rinnegato e ben noto Mussolini. Mi faresti un vero favore personale, e
renderesti un servizio a tutti i compagni, se giungessi alla determinazione di uccidere
quel traditore”. Onestamente e sorridendo, quel suo compagno gli mostrò la lettera.
La prova d’affetto non lo commosse. Pochi giorni dopo, “una memorabile sera”, vide
due puntini rossi di sigaretta accesa dall’altra parte, nel buio. Prese la mira con uno
spezzone e lanciò. Un gran fracasso, addio puntini rossi. Il giorno dopo, quando si
seppe che in quel punto c’erano diversi soldati morti o feriti, il capitano convocò
Mussolini. “Perché far questo, figliolo?”, gli chiede, “Erano in crocchio, non
facevano niente, forse parlavano delle fidanzate”. “Signor capitano, allora andiamo
tutti a spasso in Galleria a Milano, che è meglio!”.
Fatto sta che all’annuncio del lieto evento Ida Dalser non ebbe risposta. Pensò ad
un trasferimento di compagnia, a qualcosa di peggio, e chiese informazioni al
comando militare.
Aspettò, sfinita ed ansiosa, nel suo letto degli “Istituti Clinici” finché il Dottor
Bezzolà, direttore dell’Ospedale di Riserva di Treviglio, comunicò per telegramma:
“Bersagliere Mussolini Benito qui ricoverato per ittero catarrale”. Per due giorni
ancora i medici le impedirono di muoversi. Il 18 finalmente si alzò. Prese il neonato
in braccio e partì per Treviglio. Qui Mussolini la ricevette a letto, le disse che la
guerra sarebbe continuata ma che le loro faccende presto avrebbero trovato indubbia
sistemazione per sempre, e che nel frattempo se ne stesse calma, tranquilla e
fiduciosa. Con queste promesse generiche ma non equivocabili la congedò.
Il giorno prima, il 17 dicembre, in quello stesso ospedale Mussolini aveva
contratto matrimonio civile con Rachele. Ancora inferma, debole, licenziata
dall’ospedale, senza casa e senza mezzi, Ida Dalser tornò a Milano, giusto in tempo
per pensare al primo Natale di guerra, al primo Natale del suo bambino.

II

L’11 gennaio 1916 Ida Dalser riscì a far comparire Mussolini nello studio
dell’Avvocato Guido Gatti, in via Passerella 20, davanti al notaio Vittorio Buffoli.
Qui, davanti ai testi Carlo Olivini di Brescia e Irma Marcosanti di Viareggio, enne
verbalizzata e sottoscritta una dichiarazione nella quale Mussolini riconosceva “per
ogni conseguente fatto di legge che il bambino attualmente chiamato Benito Dalser”
era suo figlio. “Dichiaro inoltre che al momento della nascita di tale mio figlio io non
avevo alcun vincolo matrimoniale con nessuna donna e che la madre signora Ida
Irene Dalser non ha con me nessun rapporto di affinità o parentela. Sicché nessun
ostacolo sussiste al riconoscimento di tale mio figlio. Il presente atto di
riconoscimento dovrà essere usato dallo stesso quando crederà di farlo. Però, in caso
di mi morte prima che mio figlio sia in età di poterne usare direttamente, il presente
atto potrà essere usato da sua madre o da chiunque altro ritenga che ciò possa essere
utile al bambino. Nel caso però di morte della madre prima che il riconosciuto abbia
l’età per poter decidere quanto sopra, provvederò io stesso a far scrivere questo mio
riconoscimento negli atti di Stato Civile ove la madre non avesse dichiarato di
opporsi o non avesse altrimenti provveduto ai mezzi di sussistenza e di allevamento
del bambino”.
Da quel giorno in poi, tornato Mussolini al fronte, i suoi rapporti con la Dalser
virtualmente finirono. Ci fu uno scambio di lettere, poche e sempre più dure, e la
Dalser dovette conoscere pressappoco la verità. Dell’esistenza di Rachele era
informata, ma non si sa se come e quando seppe dell’importanza che aveva per
Mussolini. Nelle sue lettere riferisce di averla incontrata persino a Treviglio, proprio
nell’ospedale. Aveva saputo pure della sua esistenza a Milano e le sue lettere
disperate, alle quali Mussolini rispondeva rassicurando smentendo e promettendo,
dovevano riferirsi a queste scoperte. Rachele stessa scrive nelle memorie di essersela
vista arrivare a casa (“una strana donna, molto più anziana di me, dalla figura
allampanata e dai modi esagitati. Disse che voleva parlare con Benito e cominciò con
il voler visitare la casa, poi chiese a Edda se il babbo mi voleva bene”). Ma quando
seppe la verità? In una biografia il matrimonio con Rachele è segnato nel dicembre
1909, ma Rachele stessa smentisce: “Il primo settembre 1910 nacque la nostra
primogenita, Edda, che Benito non poté denunziare come mia figlia perché non
eravamo ancora regolarmente sposati. Di qui la stupida insinuazione che Benito
l’avesse avuta dall’agitatrice Angelica Balabanoff”. Più avanti nelle sue memorie,
Rachele conferma che il matrimonio civile fu celebrato a Treviglio, testimoni
Alimenti e Mario Morganti.
Il 19 maggio 1916, “su richiesta della signora Dalser Ida Irene domiciliata in
Milano, Via Santa Maria Valle n. 7 presso l’avvocato Bortolo Federici”, il Tribunale
di Milano citò Mussolini Benito perché ottemperasse agli impegni presi e sottoscritti
alla presenza di un notaio, e mantenesse il figlio, Inoltre la Dalser chiedeva che si
riconoscesse a lei la tutela legale del figlio (la legge stabiliva che automaticamente la
preferenza spetta al padre) e che si obbligasse Mussolini a pagarle i danni morali e
materiali”. L’avvocato Bortolli si era lasciato convincere a patrocinare la causa dallo
stato di estrema povertà della sua cliente, ed aveva aggiunto in calce all’istanza: “La
causa di cui al presente atto presenta la massima urgenza, date le miserrime
condizioni dell’istante, la quale domanda gli alimenti indispensabili al proprio
bambino”. Dopo il riconoscimento, infatti, Mussolini aveva fatto trasferire Ida Dalser
all’Hotel Grande Bretagna, dove l’aveva iscritta come sua moglie. Trascorso un certo
periodo l’albergo presentò il conto ed incaricò l’Avvocato Rigone di riscuoterlo. La
questione era doppiamente difficile, perché la Dalser era caduta in uno stato di
completa miseria ed aveva la famiglia a Sopramonte, in provincia di Trento, oltre le
linee, e perché non risultava ufficialmente coniugata con Mussolini, che s’era reso
garante dell’albergo pur essendo al fronte. In considerazione di questi fatti il questore
di Milano in persona si interessò della cosa, e la sistemò. Poco dopo, non risultando
altre mogli di Mussolini, il 21 ottobre 1916 il comune di Milano rilasciò questa
dichiarazione: “Il sindaco del suddetto comune attesta che la famiglia del militare
Mussolini è composta dalla moglie Dalser Ida e di numero 1 figli, ed ha diritto per il
primo lunedì al soccorso complessivo di L. 7,70 e per ogni lunedì successivo di L.
2,45”. È evidente che Rachele non godeva dello stesso beneficio. Manlio Morgagni,
che dirigeva “Il Popolo d’Italia”, doveva passarle 500 lire al mese.
La causa Mussolini-Dalser venne discussa il 31 luglio 1916 e si concluse in favore
della Dalser nel senso che la sentenza le riconosceva il diritto agli alimenti per la
somma di 200 lire mensili. Non riconobbe, invece, i termini della “seduzione” che
erano stati invocati. Si parlò molto, nell’aula di tribunale, di questa seduzione, che la
legge definisce in termini necessariamente imprecisi. Il tribunale finì dunque con il
concludere che per quanto sorpresa nella sua buona fede e privata dei beni e della sua
attività, la Dalser aveva riportato da Parigi e dalla sua professione troppo vasta
esperienza di vita per poter restare vittima di una “coazione morale” e dichiararsi
sedotta. In quanto alla promessa di matrimonio, essa non era stata causa determinante
la seduzione. Mancavano, insomma, i presupposti giuridici, se non morali, alla
seduzione. Per la tutela legale, il tribunale concluse che né la vita separata, né altre
nozze, né la vita intensa ed agitata potevano disconoscere al padre la preferenza nella
tutela del figlio, ma che la legge, data la tenera età del diretto interessato, non poteva
opporsi a che egli restasse con la madre. Nessuno essendosi opposto, Mussolini si
vide obbligato a versare alla Dasler 200 lire mensili (che iniziò a versare più tardi, e
disordinatamente) e gli arretrati. Non essendo ancora registrata la sentenza, Ida
Dalser spiccò una tratta per gli arretrati, che non risultarono mai pagati. Un primo
protesto per il mancato pagamento venne inoltrato due anni dopo, il 22 luglio 1918.
Passarono ancora gli anni, Nel 1921 un ufficiale giudiziario si presentò a
Montecitorio.
“Io Tito Vespasiani – scrisse l’ufficiale giudiziario nel protesto che rimase in
mano alla Dalser – mi sono recato un piazza Montecitorio alla Camera dei Deputati
dal Signor Benito Mussolini per ivi interpellarlo circa il pagamento della qui appresso
trascritta tratta. Ivi giunto, il portiere del palazzo al quale ho fatto nota la mia
qualifica, mi ha risposto che l’Onorevole Mussolini non si trovava al momento nella
Camera, che non aveva lasciato a lui fondi per pagare e che lasciassi per lui il mio
biglietto a stampa presso l’ufficio postale del Parlamento, cosa che feci lasciandolo
effettivamente a suo nome, in una busta chiusa”.
Ida Dalser rimase staccata dai suoi tutta la guerra, che passò a Firenze e a Napoli.
Conquistata Trento, tornò a Sopramonte dove fu ospite della sorella Adele e del
cognato, Riccardo Paicher, direttore di una banca, che le furono al fianco e la difesero
in seguito, per tutto il resto della vita. Tutti in paese vennero a sapere che aveva
amato ed era stata amata da Mussolini, che in quel periodo divenne capo del governo,
e che questi l’aveva abbandonata. Non tutti dovettero considerare con
commiserazione la sua storia. Il 7 luglio 1923 l’On. Conci, oggi senatore, scriveva
alla giunta provinciale: “Viene qui partecipato che in codesto Comune di Sopramonte
sono state fatte varie manifestazioni ostili alla signora ed al figlio dell’On. Mussolini,
costì dimorante, e che oltre ad ingiurie ed offese verbali sono stati commessi contro il
bambino maltrattamenti con il gettare sassi, e percosse anche tali da lasciare durevoli
tracce … Si aggiunge poi che le provocazioni contro la Signora ed il figlio dell’On.
Mussolini potrebbero avere delle ben spiacevoli ripercussioni”. L’onorevole Conci,
una delle poche persone chiaramente oneste che appaiano in questa vicenda, si
sbagliava se pensava, come probabilmente pensava, che da Roma avrebbe potuto
giungere una protesta. I pochi rapporti intrattenuti tra la Dalser e Mussolini erano
tutt’altro che amichevoli. Riccardo Paicher, che in seguito assunse la tutela del
nipote, decise di inviare una lettera gentile e chiara ad Arnaldo Mussolini, nel quale si
decantava la bontà di cuore e la dirittura morale del fratello. Ricevette, il 16 febbraio
1923, questa risposta: “Respingo la simpatia che lei dice di avere per mio fratello. Lo
scandalo non deriva da noi, deriva da quella ‘elettissima donna’ di sua cognata e dai
compari volgari che le tengono bordone. Nessuna convivenza è mai esistita tra sua
cognata e mio fratello. Nessun eroismo, da parte di due cognata, ma solo volgare
ricatto, riconosciuto anche da una sentenza di tribunale. L’innocente che le sta tanto a
cuore troverà tutela conveniente all’infuori delle sue preoccupazioni e delle due
possibilità. Ma tutto ciò a suo tempo, secondo il corso della giustizia che sarà
inesorabile. E riguardo alla vendetta, anche quella a suo tempo; riguardo poi alla
stampa, dica pure che scriva ciò che vuole, perché Mussolini non ha niente di cui
rimproverarsi”.
Tra le tante domande che nel ricostruire la vicenda vien fatto di porsi, qualcuna
riguarda proprio Arnaldo. Come poteva asserire che non c’era stata alcuna
convivenza? Non era informato? Di nulla? La domanda più importante dell’intera
faccenda, quella che la Dalser si pose per tutta la sua clausura negli ospedali di
Pergine e di San clemente, fu proprio questa: Mussolini sa? È lui che mi ha fatto
chiudere qua dentro? O non è colpa di chi lo circonda? L’incarico di seguire l’intera
faccenda venne infatti affidato ad Arnaldo, che ne incaricò il segretario Alberto
Pianca. Più l’autorità di Mussolini nel Paese cresceva, più la presenza della Dalser,
che era considerata uno scandalo vivente, danneggiava lui ed il regime, e più le
autorità locali si facevano parte diligente. Ci fu che per primo, constatata
l’incompatibilità dello spettacolo quotidiano della donna e del figlio (che, a quanto
pare, non faceva nulla per celarsi agli occhi degli estranei) pensò e decise di levarli di
mezzo? L’ordine venne da Roma, o la decisione fu presa a Trento? Eventuali
responsabilità delle autorità locali sono difficili da stabilire. L’incartamento Dalser
della Questura, che andò ingrossandosi di anno in anno di fascicoli riservatissimi,
venne aperto il 31 gennaio del 1927 con il documento che la interdiceva per infermità
mentale. Ma chi voglia consultare oggi la pratica, troverà i documenti dal 7 giugno
1933, da quando per la prima volta dopo molti anni di internamento i parenti ebbero
il permesso di visitare la Dalser. Sono proprio i documenti dai quali non può risultare
alcuna responsabilità.
Dato che questi documenti sono sempre stati sottratti alla distruzione, il loro
smarrimento potrebbe essere significativo. Un fatto, però, può far pensare che
l’ordine sia giunto da Roma. Un anno che non si riesce a precisare (doveva essere il
’24) Ida Dalser riuscì a raggiungere Roma. Qui le assicurarono che l’avrebbero fatta
incontrare privatamente con Mussolini. Due funzionari di Palazzo Chigi la fecero
salire su un’automobile e la condussero alla Casa di Salute Carlo Alberto, imponendo
al direttore di ricoverarla. Il primario la visitò il giorno seguente, e si rifiutò di
internarla. La Dalser venne allora accompagnata al treno e rispedita a Sopramonte.

III
Il 19 giugno 1923 venne a Trento il Ministro Fedele. Ida Dalser l’aveva
conosciuto a Milano, sapeva che era stato testimone dell’amore e delle promesse di
Mussolini. Gli mandò un biglietto e gli fissò un appuntamento. Alle sedici il ministro
l’aspettava in automobile nelle vicinanze dell’Hotel Bristol. Ida Dalser non fece in
tempo ad avvicinarsi che alcuni poliziotti l’afferrarono. Lei stessa descrisse la scena
in una lettera a Pio XI. Val la pena di notare, a proposito di queste lettere, di come
sono scritte e di quello che contengono. Se la Dalser fosse stata una donna riservata,
che avesse chiuso il proprio dolore in sé e nella solitudine di un paesetto ed all’estero,
probabilmente nessuno si sarebbe curato di lei. Lei invece era di sicuro una donna dal
temperamento eccessivo, forse turbolenta, che le tristi vicende esacerbarono. Dalle
lettere risulta indubbiamente il suo carattere impetuoso ed una certa esaltazione
mentale, proprio quel che dovette piacere a Mussolini. Ma in una donna di limitata
cultura e bassa origine, non sono forse cose normali?
“Il prefetto Guadagnini – scrisse dunque la Dalser al Papa – il questore Panini, il
direttore del manicomio di Pergine Giuseppe Stefenelli di Trento, avevano tutto
disposto per farmi uccidere. Al mio apparire fui presa, picchiata, narcotizzata
beffeggiata buttata nell’auto col bavaglio in bocca fino in questura. Colà, dopo
avermi perquisita e torturata nei modi più volgari mi hanno gettata in terra stretta con
una camicia di forza, coprendomi di ecchimosi. Angelo Consiglio mi strappò la
borsetta di foca contenente dei valori, le chiavi della villa, due cappelli, un paio di
guanti che più non ebbi … Giulio Bernardi,, commissario prefettizio di Sopramonte,
che in seguito venne dichiarato tutore del bambino, raccoglieva da tempo coi suoi
abili detective tutti i miei passi per poi impossessarsi della mia creatura, del mio
bene, l’unico che avessi al mondo. All’alba di quel fatale sabato 19 giugno 1926 egli
aveva messo a fare da palo alla nostra villa paterna una sua spia, Giulio Vardelli, il
quale vistami uscire dal cancello diede l’allarme al Bernardi che mi pedinò fino alla
Villa di mia sorella”.
La cosa si svolse per grandi linee come descritto. Della violenza fa fede la cartella
clinica dell’ospedale psichiatrico di Pergine, nel quale viene internata la sera stessa,
che dice “Ad un esame fisico esterno (il giorno seguente) si rilevarono molte
ecchimosi localizzate, al terzo inferiore braccio destro lati interno della lunghezza di
circa 4 centimetri, altro terzo medio alto esterno braccio sinistro della grandezza di
una moneta da due lire. Altre due ecchimosi alle regioni surali di entrambi i lati”.
L’internamento era stato deciso la sera seguente in questura dal dottor Tullio
Banfichi, specialisti orecchio naso e gola, centurione della milizia, e dal dotto
Stenico. Il giorno seguente, conosciuta la verità, il dottor Stenico dichiarò al questore
che era stato ingannato dalla crisi di pianto, dall’orgasmo e dallo stato di
sovreccitazione della paziente, e che pertanto ritirava la sua diagnosi. Ma la Dalser
era ormai entrata in ospedale. È ancora viva parte dei medici e delle suore infermiere
che la sorella e il cognato accusano di aver trattenuto la loro parente per quanto sana
di mente.
Ida Dalser venne ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Pergine in provincia di
Trento, all’età di 43 anni, la notte tra il 19 ed il 20 giugno del 196 per ordine della
Questura di Trento. Era inferma di mente e pericolosa, come assicurarono i medici
che l’avevano in cura? O non venne piuttosto rinchiusa come disturbatrice dell’ordine
pubblico per il danno che arrecava alla buona nomea dei Mussolini, come assicurano
i parenti?
Nel carteggio conservato nell’archivio dell’ospedale di Pergine c’è ancora la lettera
del Dottor Giovanni Conti, al quale la direzione dell’ospedale chiede informazioni
sulle condizioni di salute della Dalser e della famiglia. Il dottor Centi, che dovette
essere il medio curante della famiglia, rispose che la madre era un’ottima massaia di
perfetta salute, il padre, bevitore, era morto all’età di 45 anni (ma nei paesi come
Sopramonte bere, soprattutto la domenica, era un’abitudine come andare a messa); un
fratello, intelligente ma di debole volontà, bevitore anche lui, era morto di polmonite.
“Malattie nervose, mentali o luetiche allo scrivente non risultano”. In quanto alla
Dalser, gli dava l’impressione di essere persona assai intelligente, che voleva brillare
ed era assai infelice di vedersi e sentirsi tenuta in poco conto, “Viveva miseramente,
in paese dicono che beveva, ma non potrebbe lo scrivente affermarlo. Non fu mai in
cura medica dallo scrivente, il quale ritiene ella in quel tempo godeva di buona salute.
Ma era attaccabrighe”,
Tutti gli elementi negativi sono di questo genere: moti assicurano che era
attaccabrighe, desiderosa di mettersi in vista, chiassosa. A Trento e a Sopramonte
decine di persone riferiscono di averla sentita raccontare le sue vicende per la strada
senza ritegno, pronta ad offendersi ala minima smentita. Ma ci sono al mondo, libere
e rispettate, milioni di persone che hanno questi difetti marcatissimi. Ida Dalser aveva
all’incirca tutti i difetti che aveva Benito Mussolini, senza averne le qualità.
Premetteva al suo nome, come lui, un Prof. al quale nessuno dei due aveva diritto. Se
si considera che le sue lettere furono scritte dalla cella di un manicomio, alcune
posando la carta sul pavimento, tra le urla dei ricoverati, giudicata lei stessa una
pazza e curata come tale, non si ha che l’impressione di una persona piuttosto rozza
ed incolta, esacerbata ed irruente. Il dottor Dossi, uno specialista giovane e stimato
che oggi dirige l’ospedale di Pergine e che conobbe la Dalser, assicura che era
“marcia”, “malata quanto voleva”. Ma il dottor Bernardi che l’ebbe in cura per primo,
che oggi è vecchio e vicino ad andarsene in pensione, parlando malvolentieri della
Dalser usa espressioni molto meno categoriche; assicura, con parole che userebbe un
profano, che “in fondo, certamente un po’ matta lo era”.
“Un po’ matta”: sono parole di un medico, queste? Il dubbio è dunque legittimo,
tanto più che pochi giorni dopo il ricovero a Pergine il direttore dell’ospedale, il
dottor Alberti, chiese un consulto e volle che venisse ricoverata, almeno per un breve
periodo, in un altro manicomio.
Nell’ospedale di Pergine è conservato un diario clinico riguardante Ida Dalser. Alla
prima giornata di internamento, 20 giugno 1926, c’è scritto tra l’altro; “Parla
continuamente senza tregua, saltando spesso di palo in frasca, se non si interviene a
tempo a ricondurla all’argomento. Si rinvia l’esame a domani. La ricoverata è
ordinata, pulita, propria, abbastanza tranquilla, orientata nel tempo nello spazio e
nell’ambiente. Memoria integra per i fatti recenti quanto per i remoti, affettività
presente”.
Il giorno seguente il dottor Satta venne accolto “con fare altezzoso”, ma subito
dopo la Dalser si tranquillizzò e riferì ancora una vota che il questore, il prefetto ed il
commendator Stefenelli avevano congiurarono tutti contro di lei. E aggiunse, come
altre colte in seguito, la sua convinzione che Mussolini fosse all’oscuro di tutto. È
un’affermazione della quale non si può conoscere la verità. Nel diario clinico il dottor
Satta riferì: “Tutto ciò succede perché il Capo del Governo non sa nulla, ma non
dubita che appena saprà farà giustizia. Il Capo del Governo è buono ma ingenuo, è
vittima di tutta la marmaglia e di tutti i delinquenti che lo circondano e che hanno
interesse a che lei non possa parlare con Mussolini e denunciare tutte le infamie che
commettono, tutti i soprusi che fanno senza che Mussolini ne sappia nulla. Con lei
questa gente vuole usare gli stessi metodi della vecchia compagnia del Viminale,
vogliono ammazzarla come hanno fatto con Matteotti, però hanno fatti i conti senza
di lei e senza Mussolini, il quale è troppo buono e non pensa che dei maligni possano
tradirlo. Lei era sempre al corrente di tutte le malefatte della canaglia e non cessava
di avvertire il suo Benito di quanto accadeva intorno a lui, di dargli dei consigli, di
prevedere quanto doveva accadere”.
Nel pomeriggio insistette per abbandonare il letto. Aveva bisogno di muoversi, di
lavorare come faceva a casa. Raccontò che anni prima era venuto qualcuno da Roma
a proporle di lasciare Sopramonte per andare alla Capitale. In quell’occasione si
rifiutò, ma un giorno che si decise di andare da Mussolini a Roma venne ricevuta
dall’on. Tittoni, da sua eccellenza De Stefani e da Federzoni. Nel tardo pomeriggio
uscì a passeggiare nel camerone: “si sofferma volentieri a parlare e a osservare le
altre ricoverate, subito familiarizza con la più lucida e tranquilla”.
Il giorno 22 viene sottoposta ad esame: “Donna di media statura, di costituzione
robusta, in ottimo stati di nutrizione e di sanguinificazione. Non si notano anomalie
grossolane congenite o di sviluppo”. Nel frattempo, i parenti ricorrevano invano al
prefetto ed al questore. Seppero in questura quanto fosse accaduto, ma non ebbero il
permesso di visitare la Dalser in ospedale, né di fare nulla in suo favore. Il 25 giugno
arrivò al manicomio di Pergine una busta vergata a lutto. Conteneva una viola del
pensiero ed un biglietto firmato Benito Mussolini. Il direttore in persona lo portò alla
ricoverata, che lo lesse: “Carissima mamma, stai tranquilla e non pensare a me, che
sono con la zia, e sappi che tutto il male non viene per nuocere. Io prego per te e
spero di vederti presto a casa. Baci. Tuo figlio”. Un post scriptum, in un’altra grafia,
aggiungeva: “Tua sorella veglia su di te”. Sul retro del foglio Ida Dalser scrisse con la
matita copiativa rossa: “Dopo il 25 giugno non ebbi più notizie del mio adorato figlio,
né di mia sorella Adelina e dei congiunti”.
La sera del 17 agosto 1926 il dottor Francesco Donini avvertì la Dalser che
sarebbe stata trasferita nell’Ospedale psichiatrico San Clemente di Venezia. Al suo
rifiuto, aiutato da suor Giacomina e suor Concetta, le fece un’iniezione al braccio
sinistro, le mise la camicia di forza e la fece trasportare a Venezia la notte. Qui
l’accolse il direttore, il dottor Cappelletti, che fu sempre comprensivo e buono. Per
quanto fosse abbattuta e stanca, la fece parlare. Conobbe anche lui la storia, con un
particolare nuovo: dopo il delitto Matteotti qualcuno aveva offerto invano alla Dalser
una grossa cifra perché accettasse di aderire alla Lega dei Nemici di Mussolini.
La prima notte passò tranquilla. Riferì di aver fatto un bel sogno: il “suo Benito”
la veniva a prendere e la portava a Roma. La diagnosi dell’ospedale di Venezia fu:
paranoia, caratterizzata da un delirio di natura, persecutiva e grandiosa, tipica di
soggetto nevropatico. Dalle note psichiche del 7 settembre risulta che la Dalser “è
donna d’intelligenza e cultura media, con percezione pronta, orientamento normale,
memoria ben conservata degli avvenimenti sia prossimi sia lontani. Il contegno è, qui
in manicomio, finora tranquillo. Risulterebbe però da fonte attendibile che in passato
ebbe degli scatti di violenta agitazione con minaccia a mano armata (…). È diffidente
e sospettosa, rivela un delirio sistematizzato persecutivo che si è originato parecchi
anni or sono e che perdura vivacissimo”.
Il 17 dicembre la ricoverata ebbe una grave emorragia e perse dal naso moltissimo
sangue. Sembra che in quell’occasione il direttore decidesse di non assumersi oltre la
responsabilità di ricoverarla. Essendogli stato proibito di rivolgersi ai parenti, che
erano stati costretti al confino a Sopramonte, il dottor Cappelletti scrisse ad Arnaldo
Mussolini. Il 24 dicembre del ’26 si trovarono a Venezia il segretario di Arnaldo,
Alberto Pianca, il dottor Dionini ed il direttore del manicomio di Pergine. Le note
psichiche di quei giorni dicono: “Le condizioni della Dalser rimangono immutate. Lo
stato fisico è ottimo. Può essere trasferita”.
Venne trasferita a forza a Pergine. Pochi giorni dopo scrisse una lettera a
Mussolini: “Alle cinque del mattino sono arrivata a Pergine, cadaverica svenuta.
M’hanno piombata in una puzzolentissima cella, chiusa a catenaccio senza aria, che
chiedevo per pietà; tra i pazzi furiosi, fra urla demoniache, rubate le vesti, con la pura
camicia. La neve scendeva, il Santo Natale del 1927 baciava il mio volto lagrimoso,
disperato, consumato da singhiozzi laceranti. Mio figlio, la mia santa divina creatura,
dov’è?”.
Era il Natale 1927. Se Mussolini avesse scorto quella lettera, avrebbe letto parole
commoventi e premonitrici. “Vedo proprio che nessuno ti ama, e certi giorni provo
per te una grande pietà … Ti circondano visi falsi, obliqui, sei costretto ad ascoltare
tutti i giorni proteste vivaci di zelo, di devozione, le une più menzognere delle altre.
Non farti prendere dalla tua posizione, domani potrebbe suonare l’ora dell’espiazione
terribile ed implacabile. Gli agenti pubblicitari, i giornalisti non gioveranno più a
zero, tutti ti abbandoneranno … non farti illusioni fantastiche, i troppo padroni delle
situazioni cadranno macchiati di infamie, rimproverati di colpe e di delitti. Ma tu?
Non mi dicevi un giorno che non si può vivere sulle lacrime degli innocenti? Che
accade ora nel tuo cervello? Ciò che ti chiedo è poco: mio figlio, e l’uscita immediata
da questo putridissimo manicomio, da questo orrendo turbecolosario, dove non hai
alcun diritto di farmi seppellire … cessa di far insultare la madre di tuo figlio, almeno
per la pace della tua coscienza, e il fantasma tenebroso che verrà a visitarti ogni notte.
Ascolta, Benito, il grido della mia coscienza: ci siamo amati, appassionatamente
adorati, siamo uniti con il vincolo del sangue, e per te mi dibatto in un mondo di guai.
Hai spento la mia bella e robusta giovinezza … e ti perdono … solo perché dei padre
di mio figlio, Non fingere, sai? Sai benissimo che le mie facoltà psichiche sono in
perfetto ordine, come furono sempre … Dio mio, come avevano ragione quando mi
dicevano di lasciarti, che in tutto eri sospetto. Ma tu mi intimavi di tacere con le tue
spiegazioni … Hai sofferto, lo so, hai pianto, ma poi ti riafferra qualche nuova
diavoleria … nn bisogna attingere dalla menzogna la forza di lottare, tutti gli uomini
non sono imbecilli, e chissà se anche tu un giorno finirai lacerato pià delle tue
vittime. Che il cielo ti salvi dal mercato infame che hanno fato di noi due poveri
innocenti. Ah, morire senza poter riabbracciare mio figlio .. Va là, Duce, che sei un
pover’uomo!”.
Questo capolavoro di drammaticità, di sincerità e di straordinaria ed efficacissima
previsione è superato soltanto dalla dolcissima semplicità di questo biglietto, che è
del 24 luglio 1927: Mio caro Benito, tu non sai nulla, tu non hai dato alcun ordine e
con questo certissimo pensiero sfiderò tutti. Tua disperatissima Ida”.
Inquieto modo passarono gli anni. “Da qui – scriveva all’amministratore
dell’Ospedale Carlo Fattorsi – non uscirò viva, perché mi sopprimeranno. Ho prove a
dovizia. Vogliono far scomparire un’accusatrice troppo compromettente. Da un anno
gemo senza che mi si lasci fare un passo, una piccola passeggiata, il mio stomaco è
sconvolto, tutto mi fa schifo. Cibi, bevande, biancheria fetente, da cinque mesi non
prendo un bagno perché il disordine e la sporcizia sono al completo”.

IV

Soltanto nel ’33, settimo anno di segregazione, i parenti ricevettero i permesso di


vedere la Dalser in manicomio. Una mattina, il 16 luglio del ’35, suor Serapia vide un
lenzuolo pendere dalla finestra dell’internata. (Suor Serapia è ancora viva, come altre
suore che ricordano bene la Dalser. Quando parlano di lei, le suore dicono: “Non si
può dire nulla. Con noi era certo piuttosto cattiva, ci trattava male”. Ma neppure le
suore che le furono accanto per molti anni possono dire che fosse pazza,
indubitabilmente pazza). Quella notte era scoppiato un temporale. Ida Dalser aveva
rimosso una sbarra, legato due lenzuoli tra di loro e con questi si era calata dalla
finestra. È ancora oggi inconcepibile e quasi miracoloso che abbia superato incolume
i fili ad alta tensione che passavano tra un piano e l’altro. La strada che va da Pergine
a Trento è tutta in discesa. Tra rupi e un burrone nel quale passa un torrente, il
Fersina. La Dalser la percorse tutta a piedi correndo sotto l’infuriare dell’acqua. Alle
tre di notte arrivò a Trento, dove venne ospitata da amici. Nel pomeriggio arrivò a
Sopramonte. Nella mattinata erano già arrivate due donne del paese con la scusa di
chiedere del filo e della lana, e avevano chiamato la cameriera perché al comune
dovevano parlarle. Erano emissari della polizia mandati ad informarsi. Quando la
Dalser arrivò la casa era già circondata. Il nuovo questore bussò alla porta,
accompagnato dal funzionario Scripilliti. Ida Dalser in persona lo accolse con la
grazia di una buona padrona di casa e lo invitò a sedere. Il questore Montanari era
nuovo, e quasi all’oscuro di tutto. Ascoltò il racconto, fatto con molta calma. Alla
fine era commosso e perfettamente convinto. I testimoni assicurano che,
avvicinandosi ad un grande crocifisso, giurò spontaneamente che avrebbe fatto tutto
quanto era in suo potere per risolvere la faccenda. Ma per ora era esecutore di ordini,
e la pregava di seguirlo. Parlava con un tono di voce tanto sincero che la Dalser gli
credette. Chiese solo che la ricoverassero non a Pergine, che considerava un inferno,
ma a Venezia, dove era stata assistita amorevolmente. Restò in casa fino all’alba.
Alle prime luci si fece sulla soglia. Quaranta agenti di polizia circondavano la casa ed
attendevano attorno alla fontana, dove la strada si allargava ad angolo. Guardò per
l’ultima volta la parete piena di ritratti suoi e del figlio, poi camminò fino al cancello.
Qui l’aspettavano gli infermieri dell’ospedale e i poliziotti. Lei si rivolse a
quest’ultimi: “Contro ogni legge ed ogni diritto mi si vuole rinchiudere nuovamente
in manicomio. Maledico l’autore di quest’ordine. In quanto a voi che l’eseguite,
interrogate la vostra coscienza”.
Aveva 52 anni e la vita dell’ospedale aveva finito per indebolirla. Ricoverata a
Venezia, la sua salute peggiorò costantemente. I parenti, ostacolati in ogni modo, si
occupavano per quanto possibile di Benito Albino. Nell’aprile del ’37 i tre nipoti
Ester, Giuseppe ed Alda Cimadon, chiamati da un telegramma arrivato alle dieci di
notte, si recarono a Venezia. La zia era distesa quasi immobile su un letto, assistita da
due infermiere ed un medico. Il direttore era disperato: pochi giorni prima Ida Dalser
aveva gettato dalla finestra una lettera indirizzata a Mussolini, e la cosa era stata
risaputa dalle autorità. Ma né i tre nipoti, né la sorella né il cognato seppero mai di
che male fosse malata. Il primo dicembre del ’37 furono chiamati di nuovo
urgentemente. Arrivarono a San Clemente con il motoscafo dei dottori. Restarono
immobili a fianco del suo letto tutta la notte, finché al mattino un’infermiera portò
una tazza di caffè. Chiamarono inutilmente “zia, zia” ogni volta che i rantolii si
facevano più forti. Non parlava più, non vedeva più, loro non sapevano se ripeteva
quel che aveva scritto tante volte nelle lettere: “Tu non sai nulla, ti perdono”. Verso le
dieci del mattino, senza riprendere conoscenza, spirò.
Restano ora da narrare e da considerare le vicende del figlio, Benito Albino
Mussolini, ed è bene farlo a parte. Se, per scrupolo, si vuole ammettere che la
responsabilità di Mussolini nella file della Dalser sia dubbia, si deve ricercare la
soluzione dell’intera faccenda nella sorte del figlio, altrettanto misteriosa e sospetta.
Albino Benito visse ella casa del nonno materno a Sopramonte finché Riccardo
Paicher nel 1921 non si sposò con Adele Dalser, sorella di Ida. Era l’unico uomo
della famiglia e decise di assumere la protezione della cognata e del nipote. Quando
Mussolini salì al potere, gi scrisse descrivendogli le misere condizioni nelle quali si
trovavano i suoi protetti. In quell’occasione Mussolini mostrò di voler sistemare la
faccenda. Si consigliò con l’unico amico che avesse, il fratello Arnaldo, che da allora
in poi si interessò direttamente di tutto, ed il 19 gennaio 1925, con un rogito del
notaio Bortolotti di Trento, l’Avvocato Stefenelli senior depositò alla locale Cassa di
Risparmio un capitale di lire centomila in consolidato cinque percento in favore del
minorenne Benito Mussolini, disponibile alla sua maggiore età. Il ragionier Riccardo
Paicher assunse la tutela del bambino con l’obbligo di utilizzare la rendita del capitale
per la sua educazione.
Qui ci troviamo di fronte al primo interrogativo: dov’è finito quel capitale di
centomila lire? Pochi giorni dopo l’internamento della Dalser in manicomio, Paicher
venne chiamato telefonicamente dal questore di Trento. Lasciata la banca, Paicher
andò in questura, dove il questore Panini Finotti gli presentò, togliendolo di mano al
cancelliere della pretura di Vezzano, una bozza d documento con la quale egli
dichiarava di voler rinunciare alla tutela del “minore Dalser, figlio di ignoti”. Tutela
che avrebbe dovuto essere affidata ad un certo Giulio Bernardi, già commissario
prefettizio a Sopramonte e poi a Levico, successivamente economo al sanatorio di
Mesiano e poi di Vialba. Riccardo Paicher rifiutò sdegnosamente di firmare. Osservò
innanzitutto che non esisteva alcun minore Dalser, figlio di ignoti, ma un Benito
Albino Mussolini, figlio di Benito Mussolini, capo del governo; che la tutela gli era
stata affidata da Mussolini stesso e che per esonerarlo dall’incarico si sarebbe dovuta
dimostrare la sua incapacità ed indegnità.
Finito in tal modo il colloquio, il questore chiamò il commissario Amato ed il
maresciallo di questura Miramonti. Questi si recarono con il cavalier Bernardi a casa
del Paicher. Dalla signora Paicher, allora sola in casa, pretesero che venisse
consegnato loro il bambino. Al suo rifiuto, i due funzionari afferrarono il ragazzo
sbalordito, lo narcotizzarono e difendendosi dagli assalti della zia lo trascinarono per
le scale. Alle urla della donna accorsero i vicini. Il capitano degli alpini Staudacher,
che abitava in una villetta accanto, supponendo di assistere ad un rapimento di
minore afferrò la pistola e corse a portare aiuto. Intanto la Signora Paicher era riuscita
ad afferrare Benito Albino, ormai senza conoscenza, per un piede, ma l’automobile
della questura si era messa in moto, e partì.
Così il ragazzo passò sotto la tutela dei Bernardi e venne rinchiuso nel “Ricovero
dei derelitti” di Sant’Ilario, nei pressi di Rovereto. Di qui fuggì dopo pochissimo
giorni per raggiungere la famiglia. Riacciuffato nelle campagne circostanti, venne
deciso di fargli frequentare un collegio dignitoso e distante, quello di Moncalieri. Nel
novembre del ’26 scrisse, sotto dettatura, una letterina firmata Dalser al suo nuovo
tutore: “Egregio Signor Bernardi, sono contento di poterle dire che la mia salute è
ottima e così mi auguro di lei. In quanto agli studi, faccio tutto quello che posso e
cerco anche di essere buono per corrispondere alle affettuose Sue cure e dei miei
superiori. Spero, in avvenire, di poterle dare notizie migliori. In collegio mi trovo
bene e sono sempre contento. Attendo la sua cara visita, la ricordo con riconoscenza e
con affetto. Mi creda, sempre suo aff.mo Benito Dalser”.
La forma e le iniziali maiuscole dicono bene che la lettera non gli veniva dal
cuore. Più tardi, non si sa come, probabilmente per tranquillizzarla, questa lettera finì
nelle mani della madre, che vi fece una nota: “Mio figlio non si chiama Benito
Dalser, ma egli fu legalmente registrato dai suoi genitori con il nome di Benito
Mussolini, come risulta dall’atto di nascita e dagli atti dello stato civile di Milano”.
Nello stesso periodo, Adele e Riccardo Paicher furono convocati alla pretura di
Vezzano per procedere all’interdizione ufficiale di Ida Dalser, ricoverata in
manicomio. All’apparire del segretario di Arnaldo Mussolini, Pianca, Paicher
protestò che si trattava di persona estranea. Gli assicurarono che era stato inviato da
Mussolini, e che si sarebbe proceduto con l’interdizione indipendentemente dal
parere dei congiunti. Il Pianca precisò che l’interdizione era una formalità revocabile,
e che in tal modo i congiunti potevano formare un consiglio, e visitare la Dalser. La
prima visita ebbe luogo, infatti, sette anni dopo.
Per mesi e per anni i coniugi Paicher non seppero nulla della ricoverata, né di suoi
figlio. Di vota in volta dovevano chiedere notizie al Pianca, che abitava a Milano.
Rimane una sua lettera del 5 agosto 1930, VIII dell’Era Fascista, in cui si rivolgeva a
Riccardo Paicher in tono molto secco: “Egregio Signore, la signora Dalser, in base
agli ultimi rapporti pervenutimi, sta fisicamente benissimo, soltanto le sue condizioni
mentali non consentono che si possa parlare di visite. Almeno per ora. Tranquillizzi
pure i suoi familiari, e, se vuole, anche i vociferatori di cui mi scrive e che mi
stupisco molto che possano ancora esistere. La prego, anzi, se ha elementi in
proposito, di volermeli comunicare al più presto. Ella sa che nella mia veste di tutore
io non ho mai mancato ai doveri e sono sempre pronto ad intervenire con ogni
energia qualora se ne manifesti la necessità, allora vedrà che il ‘disagio morale’ di cui
mi parla scomparirà d’incanto. Il ragazzo sta ottimamente, io gli prodigo
un’assistenza vigile e continuata, progredisce negli studi, nell’educazione e nello
sviluppo. In collegio sono soddisfatti di lui ed io coltivo sempre più la speranza che
un giorno potremo essere orgogliosi di quanto abbiamo fatto per il suo avvenire. Ed
ora una raccomandazione: quando Ella mi scrive per le note questioni, la prego di
usare termini più equi e meno allarmistici. Le espressioni ‘rinchiusa’, ‘internata’,
‘logiche preoccupazioni dei membri del consiglio’ ecc. stridono all’orecchio e voglio
consigliarle di mitigarle. Ella ricorda che in occasione dell’ultima adunanza in sede di
prefettura io trattai loro con infinita bontà e spirito di comprensione. Ciò è stato
messo in rilievo anche da Giudice. Mi spiacerebbe, quindi, essere condotto a
dimenticare delle promesse che mi ero proposto di mantenere e per le quali mi ero
riservato un certo periodo di tempo che oggi non posso considerare ancora maturato”.
In questa atmosfera di gelide minacce, di “consigli”, di “raccomandazioni”, di
promesse di far “sparire d’incanto” le proteste col suo pronto intervento, il ragionier
Alberto Pianca provvedeva al suo incarico. Ma evidentemente educare il piccolo
Benito, insofferente ed indocile, in un collegio frequentato dai rampolli di tante
buone famiglie italiane, era correre il rischio di uno scandalo. Senza che i parenti ne
fossero preavvisati, Benito tornò dunque nella casa dei Berardi a Trento, e frequentò
il locale istituto tecnico. Ma anche questo era un rischio: Benito si faceva già grande
e i coetanei, che avevano saputo, parlavano e lo prendevano in giro. La
preoccupazione delle autorità doveva essere notevole. Tolta di mezzo la madre si
stava allevando un pericolo maggiore. Si cercò di ridurlo al minimo. Mercoledì 20
luglio 1932, il Foglio Annunzi Legali della prefettura di Trento riportava questo
annuncio: “Con decreto in data 14.7.32 il Ministero della Giustizia ha autorizzato la
pubblicazione della domanda con la quale si chiede che Benito Albino Mussolini,
nato a Milano il 16 novembre 1915 residente in Trento possa cambiare il cognome in
quello di ‘Bernardi’. Si invitano gli eventuali interessati a notificare la loro
opposizione a norma dell’art. 122 Ordinamento Stato Civile”. Quando gli “eventuali
interessati” protestarono, vennero subito chiamati in prefettura. Il prefetto Vaccari
investì Riccardo Paicher ricordandogli il divieto di interessarsi del nipote; minacciò
di arrestarlo e di fargli perdere i posto di direttore di banca. Per l’occasione era stato
mobilitato un “terribile” del fascismo, il famigerato console della milizia Tullio
Tamburini, che accompagnò il Paicher a Sopramonte, entrò a forza in casa della
Dalser, scassinò ogni cassetto e asportò tutti i documenti comprovanti le
responsabilità di Mussolini nei confronti della Dalser e del figlio. Erano persuasi di
aver fatto il massimo possibile (salvo far fuori il bambino, cosa alla quale pensarono
in seguito), ma parte dei documenti erano stati nascosti.
Il 7 novembre del ’32 Benito venne iscritto alla scuola di agraria di San Michele
all’Adige. Alcuni insegnanti lo ricordano ancora preciso in tutto al padre, sveglio, con
gli occhi spiritati. Nel primo scrutinio risultava Dalser, al secondo Bernardi. Ma
anche qui la situazione divenne insostenibile. La zia non rinunciava a vederlo. San
Michele è vicino a Trento, la domenica lo raggiungeva in macchina, nel periodo di
libera uscita, e lo incontrava. Si intrattenevano spesso in un’osteria nella quale Benito
Mussolini aveva lasciato dei debiti. Era amico intimo di Benito un certo Bruno
Lazzeri, che in seguito venne trasferito a Firenze nella Scuola Superiore di Agraria.
Poco dopo, i genitori del Lazzeri ebbero notizia che il figlio era morto di peritonite o
di meningite, ma nessun parente ha mai visto la salma, ed anche a questo proposito si
dice, forse esagerando, che le cose non siano troppo chiare.
Certamente in quel periodo Benito era già padrone della situazione, e dei suoi
compagni più intimi cercava di fare dei complici per una vendetta o per una protesta
che covava in mente. I aprenti non seppero quasi più nulla di lui e non ebbero il
coraggio di fare gesti temerari. Si era già all’apice del regime. Benito venne trasferito
a La Spezia alla scuola Crem (Corpo Reale Equipaggi Marittimi). Qui l’aiutante di
prima classe Giuseppe Di Blasio ebbe l’incarico di sorvegliarlo. Ma, poiché era
troppo difficile controllarlo in mezzo alla massa degli allievi, lo invitò spesso a casa,
a mangiare e a dormire. Il figlio del Di Biasio, oggi attore di varietà a Torino, lo
ricorda ancora. Benito fu dapprima allievo radiotelegrafista, più tardi allievo
torpediniere. Nella villetta di via della Rossa 6 a La Spezia Benito ed Enrico Di
Blasio, che era più giovane di lui, giocavano a pallavolo. Enrico fu geloso nel maggio
del 1935 di una bicicletta che era stata comperata a Benito. Il padre ne dovette
comprare una anche a lui, più piccola, e i due ragazzi fecero spesso delle gite nei
dintorni: Sarzana, Aulla, Marina di Carrara. Il tutore Bernardi veniva qualche volta a
trovarlo. Conobbe anche Enrico, che aveva 12 anni, e gli regalò una pistola a salve a
cinque colpi. Benito aveva con sé un cugino di nome Giacomino (del quale i parenti
non hanno mai sentito parlare) e che aveva avuto incarico dal Bernardi di sorvegliare
il sorvegliatore Di Blasio. Tra Benito ed il suo sorvegliatore s’era stabilito un certo
affetto. “Benito – gli diceva ‘aiutante di prima classe – se tu vuoi che noi si vada
d’accordo e che io ti faccia da padre, tu non devi mai parlare di tuo padre”. Allora
Benito cominciò a confidarsi con Enrico, che aveva sospettato la cosa da certi
discorsi della sorella. “Un giorno – gli confidava e prometteva Benito – prenderò una
rivoltella, partirò ed andrò ad ucciderlo”.
Benito s’innamorò a vent’anni, di una certa Raffaella Fiore, di Arezzo,
diciottenne, bella, maestra elementare e, impetuoso com’era, decise di sposarla.
Giacomino lo seppe e, considerando che quello era lo scandalo più pericoloso che
potesse sopraggiungere, ne informò il tutore Bernardi. In ventiquattr’ore arrivò per
Benito l’ordine di partire in crociera per la Cina.
Da allora nessuno seppe più nulla di preciso del giovane Benito. I parenti seppero
indirettamente che al ritorno dall’Oriente, divenuto evidentemente troppo pericoloso,
fu rinchiuso nel manicomio di Mombello, dove morì nel 1942; ma nessuno comunicò
mai ufficialmente loro né la natura del ricovero, né quella del decesso. Rimasero
sempre all’oscuro di tutto. Noi stessi, per incarico e col permesso degli unici parenti,
che Benito avesse, a parte il padre, abbiano chiesto al direttore dell’ospedale
psichiatrico di Mombello (che è vicino a Milano), il professor Bozzi, il permesso di
consultare la cartella clinica del ricoverato Benito Albino Bernardi Dalser. Il direttore
ci ha risposto che il permesso dipendeva dalla deputazione provinciale di Milano.
Gentilissimamente il presidente della deputazione ci ha dimostrato, legge alla mano,
che la cosa non dipendeva da lui, ma dal professor Bozzi. A questo punto il direttore
dell’ospedale ci ha mandato dal procuratore della Repubblica di Milano, che ci ha
assicurato che ci avrebbe dato certamente il permesso se avessimo trovato una
disposizione di legge che desse incarico a lui invece che al direttore dell’ospedale, e
ci ha messo a disposizione anche, per le ricerche, l’intera biblioteca del Palazzo di
Giustizia. A questo punto il direttore, Bozzi, ci ha risposto che la cosa dipendeva dal
presidente del Tribunale di Milano. Questi, interpellato, ha chiesto i parere di alcuni
giudici anziani. La risposta è stata che la cosa non dipendeva da lui, ma dal direttore
dell’ospedale. Per scrupolo, abbiamo infine interpellato – con lo stesso risultato – il
prefetto ed il questore. Il ministro Scelba, per mezzo del capo della segreteria Villani,
ci ha comunicato che la cosa non poteva dipendere da nessuna autorità del suo
ministero, ma esclusivamente dalla direzione dell’ospedale psichiatrico. Abbiamo
allora inviato una lettera conclusiva al professor Bozzi. Dopo tre mesi d’attesa,
abbiamo sollecitato telefonicamente il direttore. Il 17 gennaio scorso abbiamo
ricevuto una risposta che porta la sua firma: “Oggetto: consultazione cartella clinica
presunto ricoverato Benito Bernardi. Con riferimento alla richiesta telefonica fatta
dalla S. V. il 14 corr., Le comunico che per ogni informazione Ella dovrà rivolgersi
alla Deputazione provinciale”. Questa espressione, “presunto ricoverato”, è
equivalente ad una menzogna: il direttore del manicomio di Mombello sa benissimo
che non si presume, il ricovero è certo. La sua condotta, piuttosto, fra presumere che
quanto i parenti di Benito Mussolini junior pensano della sua fine sia altrettanto certo.

DI SICURO C’E’ SOLO CHE E’ MORTO


di Tommaso Besozzi
“L’Europeo”, 12 luglio 1950

Questo articolo viene citato in tutti i manuali di storia del giornalismo: è il


reportage con cui un grande inviato smonta, pezzo per pezzo, la versione
ufficiale della morte del Bandito Giuliano, il terrore delle campagne siciliane la
cui irresistibile ascesa qualcuno aiutò, ma non si è mai capito chi. La sua vita e la
sua morte sono il primo dei grandi misteri della storia recente d’Italia.
CASTELVETRANO – Chi è stato a tradirlo? Dove è stato ucciso? Come? E quando?
La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto a
fuoco nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo
confessare di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di
quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a
pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l'epilogo dei dramma o è
stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse cercare il pelo
nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei dubbi che
inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato sul posto di ricostruire la
scena non cesserà per questo di essere interessante.
A Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere
Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida (dice la relazione ufficiale) hanno
riconosciuto da lontano il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini
percorreva la via Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni
diverse e il gregario è riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece è stato
inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco ripetutamente,
un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha risposto a sua volta con la
pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il brigante ha sperato di trovare scampo
entrando in un cortile e là, mentre tentava di dare la scalata al muro di cinta oltre il
quale c’è un piccolo orto e poi la campagna, è stato freddato con una raffica di mitra
dal capitano. Dunque nessuno poteva immaginare in anticipo che Salvatore Giuliano
sarebbe entrato in quel cortile. Eppure parecchi civili delle case confinanti affermano
d’aver inteso fin dalla mezzanotte un rumore di tegole smosse e un bisbigliare come
se vi fosse gente sui tetti. Stettero un poco in ascolto, ma quello strano trambusto
dopo un quarto d’ora si chetò. Nessuno diede peso alla cosa e di lì a poco in via
Mannone tutti ripresero a dormire, eccetto tre uomini che per le esigenze del loro
mestiere dovevano già essere a bottega: il proprietario e i due garzoni del forno Lo
Bello, che è sullo stesso lato della strada, a venti metri dall’ingresso del cortile. Era
una notte afosa, e nell’interno del panificio il caldo era insopportabile. I due garzoni
che avevano finito di impastare il pane e aspettavano che lievitasse erano usciti sulla
via e stavano chiacchierando accovacciati sul marciapiede, con le schiene nude
appoggiate agli stipiti. Ma la prima sigaretta che essi avevano acceso non era ancora
finita quando due carabinieri, spuntando dall'ombra, si avvicinarono e intimarono
loro di ritirarsi e di sprangare porta. L’ingiunzione era stata fatta con il tono di chi
non ammette repliche. Ci furono invece discussioni e proteste, ma non valsero a
nulla. Di fronte al dilemma o chiusi in bottega o in guardina non era certo il caso di
indugiare troppo nella scelta. I garzoni obbedirono.
È molto probabile tuttavia che il mattino seguente le clienti del fornaio Lo Bello
abbiano trovato da ridire sulla confezione del pane. La curiosità di sapere quello che
stava per accadere sulla strada non poteva certo permettere al panettieri di attendere
con diligenza al consueto lavoro. Avevano lasciato i battenti un pochino socchiusi e
di tanto in tanto andavano ad origliare. Così non sarà esagerato dire che l’aria lacerata
dal primo sparo vibrava ancora quando gli occhi dei fornai erano già incollati alla
fessura. Sembrò loro che la via fosse deserta. Questa impressione però è di scarsa
importanza perché durante la notte l’illuminazione della periferia di Castelvetrano
viene ridotta e le poche e fioche lampadine che restano accese riescono a proiettare
solo un piccolo cerchio di luce al centro della strada. Non videro dunque entrare
nessuno nel cortile. Scorsero invece un uomo che ne usciva, che passò correndo sotto
un lampione. Lo videro di spalle per un attimo e tutto quello che seppero dire di lui è
che si trattava di un uomo forse giovane, tarchiato, che camminava a piedi nudi. Ma
vedremo dopo quale parte attribuisca la fantasia popolare a questo personaggio. La
via Mannone parte dalla piazza del mercato, taglia in linea retta il rione orientale del
paese e finisce nella campagna. Nel tratto che va dal mercato al cortile non ci sono
trasversali. Da che parte ci arrivò Giuliano fuggendo da via Gagini? Dal mercato
dopo aver attraversato la piazza della torre dove sono ininterrottamente di fazione due
agenti, dal corso dove a qualunque ora c’è sempre gente scamiciata che passeggia, dal
verziere dove c’è un grande negozio di fruttivendolo che resta aperto tutta la notte
con le luci accese e dove attorno ai banchi e ai cumuli di ceste che non vengono mai
rimossi passeggiano continuamente i guardiani? Evidentemente no, perché nessuno
ha visto né lui né gli inseguitori. Allora è venuto dalla via Gioberti, che è dalla parte
opposta, e, giunto al crocicchio di dove poteva scorgere davanti a sé le prime siepi e i
primi alberi della campagna, ha piegato invece in via Mannone verso il centro del
paese. L’illogicità di questa decisione stupisce molti. Il lettore tuttavia non ci faccia
troppo caso perché sono tante le ragioni che possono avere spinto il fuggitivo ad
abbandonare la via più facile per quella più rischiosa. È stato detto piuttosto che la
sparatoria era cominciata in via Gagini ed era continuata da una parte e dall'altra
lungo tutto il percorso. Ma per quanto si siano interrogati molti abitanti di quella
zona, non si è trovato nessuno che ricordasse di aver udito un solo sparo. Eppure le
finestre erano spalancate per il caldo opprimente. La notte in quel rione è silenziosa.
Una pistolettata o una scarica di mitra avrebbero dovuto destare anche chi ha il sonno
più duro. Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza
però è in contrasto con la versione ufficiale.
Questa dice che il brigante esplose 52 colpi col moschetto mitragliatore, che al
cinquantatreesimo si inceppò. Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile
e impugnò la pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso
per primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero
dovuto susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane (Giuliano
che spara sulla strada), altra raffica dopo una pausa di silenzio (Perenze che fa fuoco
all’ingresso del cortile); subito dopo forse qualche colpo di pistola (Giuliano che,
prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa), forse il Thompson che risponde
ancora (Perenze che ha innestato il caricatore nuovo). Invece gli abitanti di via
Mannone (trascureremo i nomi della gente minuta facile ad accettare ed a ripetere
come esperienza propria il racconto altrui e citeremo soltanto il pretore di
Castelvetrano, avvocato Giovanni De Simone, e il colonnello a riposo Santorre
Vizzinisi) sono unanimi nel ripetere che si sentirono prima cinque o sei colpi di
pistola sparati sotto l’arco di ingresso o nel cortile, poi due raffiche di mitra
distanziate da un breve intervallo. Subito dopo si udì la voce dei capitano che gridava
a qualcuno di portare un po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare col calcio del
moschetto alla porta dell’unica abitazione che si apre sul cortile. Parleremo in seguito
dell’interpretazione che la fantasia dei diffidenti siciliani dà a questo particolare. Sarà
bene tuttavia citare sin d'ora l’obiezione più comune: che i feriti siano tormentati
dalla sete è una di quelle nozioni elementari che anche il più rozzo dei pastori
possiede. È tra l'altro un vecchio motivo della retorica popolare. Ma questa arsura
viene immediatamente, appena uno è colpito, oppure è conseguenza del
dissanguamento, della febbre provocata dalle ferite e sopraggiunge dopo un certo
periodo di tempo? E perché Giuliano non aveva un soldo addosso? Perché portava
una semplice canottiera, lui così ambizioso e, a suo modo, elegante? Perché non
aveva l’orologio al polso, quel grosso cronometro d'oro per il quale aveva una
bambinesca affezione e, lo hanno testimoniato molti, era l’ultima cosa che si togliesse
coricandosi, la prima che cercasse al risveglio? C’erano poi altri particolari che
alimentavano il dubbio e, apparentemente, con maggior evidenza: alcune ferite,
specie quella sotto l'ascella destra, sembravano tumefatte come se risalissero a
qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche. Due o tre
pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a
contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne
lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera
appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa
macchia (aveva oltre due palmi di diametro) non c'erano ferite. Era logico pensare
che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in
posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto
l’ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su.
***
Da Trapani a Sciacca, a Santa Ninfa, a Partanna non c’è uno che non sorrida
quando gli si parla del famoso furgone sul quale gli uomini del colonnello Luca
travestiti da cinematografari percorrevano le campagne e sostavano nei paesi
fingendo di girare un documentario, perché Salvatore Giuliano, tradito
dall’ambizione e dalla smania di pubblicità, lasciasse le sue montagne e cadesse nella
trappola.
Per quanto avesse incollate su una fiancata due grosse strisce con le scritte:
“Gazzetta dello Sport”, “Il Paese”, e su una terza striscia di carta dipinta a mano che
attraversava di sbieco il lato opposto si leggesse: “Le avventure di Paperino”, tutti,
anche i ragazzini, sapevano che si trattava di una radiotrasmittente mobile della
polizia capace di collegare Trapani a Palermo. Cosa che tra l’altro era dimostrata con
evidenza dall’antenna molto alta che non si poteva certo né sopprimere né camuffare.
Proprio Giuliano avrebbe dovuto lasciarsi ingannare da un trucco così grossolano? E
allora? È forse possibile rispondere alle domande che sono state poste al principio del
discorso? Si può tentare. Per un buon tratto di strada anzi cammineremo su terreno
sicuro e, quando usciremo dalla realtà della cronaca per riferire le congetture che
molti fanno, avvertiremo onestamente il lettore. È certo che non si manca affatto di
rispetto al colonnello Luca né a chi sulla scala gerarchica sta più in alto o più in basso
di lui dicendo che la relazione ufficiale sulla morte di Salvatore Giuliano è camuffata,
reticente su certi punti, su altri imprecisa. Poco o molto, tutti i rapporti che la polizia
rende noti al pubblico devono essere necessariamente così. Vi sono circostanze che
non possono essere rivelate, promesse che è giusto mantenere, uomini che bisogna
salvare dalla vendetta. Perfino davanti al giudice e nei casi più gravi la legge concede
al funzionario di polizia il diritto di tacere la verità: quando gli si chiede il nome del
confidente, di chi lo ha messo sulle tracce, lo ha aiutato a formulare l'accusa, ad
arrestare il colpevole.
Il furgone con l’etichetta “Le avventure di Paperino” non ha nessuna parte nel
dramma. Il più grande aiuto allo sterminio della banda di Montelepre e del suo capo è
venuto dalla mafia, ed è chiaro che ciò non significa affatto che la polizia abbia
sollecitato o anche soltanto incoraggiato quell’aiuto. Un’alleanza tra Giuliano e i
mafiosi era nata naturalmente al principio della carriera del brigante. Turiddu aveva
bisogno dell’appoggio dell’“onorata società” e a quegli altri era comodo speculare
sulla paura che il nome del brigante incuteva. Ma poi i capimafia, che erano stati i
primi esattori della banda, esagerarono. Imposero riscatti che erano cinque volte
superiori a quelli che il bandito intendeva richiedere e intascarono la differenza.
Cominciarono a molestare, sempre trincerandosi dietro quel terribile nome, alcuni
che avevano resi grossi servigi a Giuliano e che ne avevano avuto promesse di
protezione. Il contrasto si aggravò al punto che Turiddu, assieme a pochi dei suoi
uomini, tra i più fedeli, scese sulla piana di Partinico e in pieno giorno vi uccise a
pistolettate i più alti capi dell'associazione criminosa e segreta. Le vittime non
avevano però un grosso prestigio oltre l’ambito del loro paese, perché oggi non esiste
più una mafia unica che abbia giurisdizione su tutta l'isola, ma tante mafie locali
autonome e spesso nemiche. Il brigante sperava di giocare su queste rivalità
territoriali e in parte ci riuscì: infatti fu condannato a morte dalla sola mafia di
Partinico, mentre sembrò che le altre continuassero ad essergli amiche; e invece era
soltanto una maniera di temporeggiare aspettando il momento opportuno per liberarsi
di lui. Per cinque anni i rapporti tra le due della delinquenza siciliana seguirono così
alterne vicende: Giuliano, per tenersi buoni quei pericolosi vicini, si buttò talvolta in
imprese rischiose dalle quali non avrebbe potuto trarre un utile diretto (tra le altre si
dice l’eccidio di Portella della Ginestra); la mafia gli guardò le spalle, lo garantì dalle
delazioni. Ma è difficile che due galli nello stesso pollaio possano vivere l’uno
accanto all’altro senza cavarsi gli occhi. L’equilibrio era mantenuto soltanto dalla
straordinaria potenza di Giuliano. Il giorno che questa decadde, la sentenza di
Partinico fu omologata e sottoscritta da tutte le mafie.
Si voleva perdere Giuliano, ma era sempre rischioso mandargli un sicario secondo
il classico sistema. Per farlo cadere cominciarono a togliere la protezione ai suoi
rompendo la legge dell’omertà. Imposero che quelli della banda, ovunque fossero,
dovessero essere segnalati alla polizia. Così a uno a uno furono arrestati molti dei
fuorilegge, i più sicuri scherani della banda di Montelepre. Quasi sempre chi si
lasciava scappare una preziosa confidenza non era affiliato alla mafia, ma era
costretto dalla mafia ad ingoiare la paura e a farsi delatore. Il 27 giugno scorso, poco
prima di mezzogiorno, un carrettiere mafioso che percorreva la provinciale per
Trapani con un carico di pomodori, giunto in località Lozucco, a pochi chilometri da
Partinico, vide sbucare da un cespuglio due uomini che gli mossero incontro e gli
intimarono di fermarsi. Erano Frank Mannino e Nunzio Badalamenti,
l’amministratore e il più spietato sicario della banda Giuliano che ormai poteva
disporre di non più di sette od otto gregari. I tre si conoscevano da tempo, perché il
carrettiere aveva avuto modo in passato di rendere qualche servigio ai briganti.
Mannino e Badalamenti erano usciti dal nascondiglio avendo appunto ravvisato in lui
un amico. Domandarono: “Va verso Castelvetrano vossia?”. L’uomo rispose di sì. I
briganti gli chiesero allora di nasconderli sul carro e di portarli fino alle porte del
paese. Così furono vuotate due ceste (quelle che si usano in Sicilia per il trasporto dei
pomodori sono molto grandi, a trono di cono, alte un metro e cinquanta e larghe
altrettanto). I banditi vi si accovacciarono dentro e furono coperti con pomodori. Là
sotto è chiaro che riuscivano a respirare ma non potevano certo vedere. E di lì a poco,
quando sentirono il cavallo fermarsi, accettarono per vere le rassicuranti spiegazioni
del carrettiere. Il veicolo invece si trovava in quel momento davanti alla caserma dei
carabinieri di Alcamo e non è necessario dire come finisse la storia. La polizia tenne
segreto l’accaduto. Giuliano non seppe che altri due dei suoi uomini erano caduti in
trappola.
***
Ora bisognerà passare sul terreno delle congetture. Mannino e Badalamenti
andavano a Castelvetrano. A fare che cosa? Conoscendo l’epilogo di questa storia, è
facile arguire che ci andassero convocati dal loro capo e quindi che sapessero dove
questi si teneva nascosto. In carcere possono essere stati indotti a cantare. Uno dei
due (Mannino?) può essersi lasciato convincere a tradire il suo capo, a consegnarlo
vivo o morto. Ecco chi era il compagno di Giuliano la notte del 5 luglio; e che si sia
parlato di quella sua misteriosa scomparsa subito dopo l’avvistamento della pattuglia,
è cosa ovvia. Può darsi invece che la verità sia un’altra. Il traditore non si sarebbe
affatto allontanato dal suo capo, ma gli sarebbe stato al fianco facendogli da guida.
Lo ha portato in trappola nel luogo prestabilito, dove i carabinieri lo attendevano in
agguato. Giunti i due sulla soglia del cortile, la situazione si faceva oltremodo
difficile e pericolosa: se la guida continuava a stare vicino al capo, c’era modo di
finire sotto le pallottole degli agenti; se proprio in quel momento tentava di sganciarsi
da lui, c’era il caso che, intuendo il tradimento, Giuliano facesse fuoco su di lui. Il
modo migliore di cavarsela per un’anima perversa era di sparare a bruciapelo con la
pistola sul capo.
Ecco così spiegata la sequenza dei colpi, le ferite più grosse, slabbrate, al fianco,
l’ombra che esce di corsa dal cortile e si avvia verso la campagna, dove l’attende
un’auto della polizia: è comprensibile la sua fretta di tornare in carcere. Ma la grossa
macchia di sangue sulla schiena, la tumefazione di alcune ferite e la freschezza di
altre, l’essere Giuliano in maglietta, senza denaro e senza orologio, sono circostanze
che non si spiegano affatto con questa storia. Allora facciamo un passo più in là e
ascoltiamo le congetture di qualcuno a cui non piace di mettere il morso alla propria
fantasia. Mannino o Badalamenti, o chiunque sia stato il traditore, entrò nella camera
dove era nascosto Salvatore Giuliano, ma gli mancò il coraggio di svegliarlo e di
condurlo fuori. Preferì sparargli a bruciapelo nel sonno. Poi, si sa: a nessuno poteva
far piacere che si venisse a conoscere un così brutto episodio. Forse anche colui che
ospitava il brigante era a parte del primitivo progetto, aveva aderito a facilitare la
cattura e non si poteva ripagarlo lasciandogli in casa il cadavere (quel cadavere) fino
al momento in cui sarebbero venuti il giudice, i fotografi, i becchini. Allora lo
portarono nel cortile di via Mannone. Spararono. Il capitano andò a bussare alla porta
e gridò che gli portassero acqua per un ferito, perché tutti sentissero che Giuliano non
era morto ancora. Queste storie si sentono raccontare a ogni ora dei giorno e della
notte per le strade della Sicilia. È difficile accettarle. Però uno che sia stato sul luogo,
che si sia chinato a guardare il corpo di Salvatore Giuliano steso bocconi in mezzo al
cortile, che abbia chiacchierato un poco con la gente di via Mannone, è costretto, di
tanto in tanto, a pensarci.

ADDIO “RIGA”, TI SALUTO CON LA MOTO


(pag. 3)
di Piero Novelli
“L’Unità”, 8 novembre 1950

Nel primo anniversario della tragedia del Grande Torino, schiantatosi sulla
collina di Superga di ritorno da un incontro internazionale, cessata l’emozione –
e la retorica – suscitata dall’evento, un cronista si reca con i parenti e gli amici
alla tomba di Mario Rigamonti, il “portiere matto” della squadra più forte del
mondo.

CAPRIOLO BRESCIANO – Avevamo lasciato da poco più di mezz’ora le ultime


case di Brescia ed il grosso pullman scivolava sull’asfalto nero della strada tagliata in
mezzo alla campagna. Non si vedeva nulla, guardando attraverso il finestrino, solo
campi immensi ed una striscia di luci lontane.
Il pullman di fermò di scatto e le ruote, bloccate dai freni, stridettero a contatto
con la strada. Eravamo in aperta campagna, e se ne sentivano forti il silenzio e gli
odori.
“Siamo arrivati”, disse il segretario del Torino, Giusti, ai ragazzi della squadra che
guardavano con occhi interrogativi, senza parlare, “siamo a Capriolo, il paese dov’è
sepolto il Riga”.
Capriolo: un paese che forse non esiste, perché io non l’ho nemmeno visto. Nulla,
solo un piccolo camposanto circondato da una cancellata di ferro battuto. Un
fazzoletto di terra con tante croci di pietra.
Sul sagrato ci attendeva il guardiano di quel paesino di morti che salutò senza far
parola, portando la mano destra alla falda del cappello. Poi infilò la chiave nella
toppa del cancello di ferro, che si aprì cigolando.
Entrammo, con gli occhi fissi sulle tombe come si fa in questi casi. Non ero mai
stato in un cimitero di notte, ed ora posso assicurare che non c’è nulla, nell’atmosfera,
di tetro o triste. Su ogni tomba brillava la fiammella di un lumino acceso, ed il
riverbero della luce ingrandiva le lapidi; nell’aria c’era quell’odore acre dei
crisantemi che ricorda il fieno tagliato di fresco.
C’incamminammo per il vialetto, verso la tomba di Rigamonti, facendo
scricchiolare con le scarpe la ghiaia minuta.
Vedevo dinanzi a me i parenti del povero Riga: la madre, il fratello minore che
gioca a calcio di nascosto per rispetto alla mamma, il fratello maggiore che è medico
condotto a Capriolo e campione di lotta greco-romana; la fidanzata, una ragazza alta
e ben fatta, asciutta e silenziosa, impacciata con il suo mazzo di fiori tra le braccia.
La cappella di famiglia del Riga è la più grande di tutte: immensa addirittura, a
confronto delle altre tombe minuscole. Mario è sepolto qui con suo padre, ed è stato
portato a Capriolo per volere dei compaesani, che lo avevano conosciuto da bambino
e sapevano delle sue scorribande per la campagna.
La cappella fu aperta e Giusti, con un pezzo di candela colta da una tomba, fece
luce e fissò lo sguardo su un disco di bronzo su cui era impresso il ritratto di Mario
Rigamonti. Mormorò: “Mario … l’è propri chiel …”.
Restammo un minuto in silenzio, poi mi sentii toccare un braccio. Era Gege,
l’amico di Mario con cui avevo parlato la mattina, a farmi raccontare la sua infanzia.
“Venga, venga con me”, mi soffiò all’orecchio, “usciamo, le devo dire una cosa”.
Accennai alla cappella, come per dire: “non si può, si manca di rispetto”, ma Gege
scrollò la testa in un modo tanto strano che non potei oppormi, e lo seguii.
Uscimmo dal recinto del camposanto e ci sedemmo sulla riva d’un fosso. Gege
accese una sigaretta, gettò con nervosismo il fiammifero e si mise a parlare.
“Io non voglio far commenti … non ce l’ho con nessuno, ma son sicuro che Mario
non è mica contento di tutte queste commemorazioni. No … io lo conoscevo meglio
di tutti. Eravamo amici per la pelle, andavamo tutte le sere in moto per le campagne a
ballare, a trovare le ragazze. Gli piaceva vivere: scorrazzare in motocicletta, capitare
nelle feste di paese, fare il gallo con le donne. Ricorda quando fuggì a Messina e
Novo, Giusti, Levesley, tutti lo cercavano? Fui io a portarlo in moto fino in Sicilia”.
“Leggeva i giornali in quell’albergo sul mare e mi diceva ‘Gege, mi cercano.
T’immagini che faccia faranno? C’è da ridere’. Ma non lo diceva mica per malignità.
Lo diceva perché era un ragazzo che godeva delle sue burle Era fatto così, Mario.
Quando fuggimmo a Messina voleva imbarcarsi per fare il giro del mondo in
motocicletta e far fracasso su tutte le strade e far voltare le ragazze di tutto l’universo.
Qualcuno diceva ‘è matto’, ma bisognava capirlo, viverci insieme una vita come ho
fatto io. Ecco perché dico che non bisogna commemorarlo così, come si fa con tutti”.
“Mi ricordo una sera d’estate: eravamo tutti a ballare fuori Brescia ed al ritorno ci
fermammo a fumare sulla riva di un fosso, vicino alle nostre motociclette. Mi disse
‘Gege, alla mia morte non voglio pianti e lamentele. Voglio che la Squadra del
Formaggio – era la nostra cricca – segua il mio funerale in moto, facendo fracasso,
come piace a me. Sarà il mio inno funebre, l’unico che mi piacerà sentire’”.
Gege, a questo punto, smise di parlare. Gettò via il mozzicone e prestò orecchio al
borbottio di preghiere che venivano dal muro del cimitero. Poi si alzò, s’avvicinò alla
moto, schiacciò con il piede l’avviamento e sollevò un fracasso terribile.
“Io, però, lo commemorerò così”, aggiunse. E partì.
Rimasi in mezzo alla strada a guardarlo, fin quando non venne ingoiato dal buio
pesto. Dal cimitero non si sentiva più recitare il de profundis, si udiva soltanto lo
scricchiolio della ghiaia, provocato dalla gente che usciva e batteva i piedi per il
freddo.

IL TRISTE ESILIO DEL RE DI MAGGIO

di Giovanni Mosca, dal libro “Il Re in un angolo” del 1950

Luogotenente del Regno tra l’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III e la
celebrazione del referendum che fa nascere la Repubblica Italiana, ad Umberto
II di Savoia tocca l’ingrato compito di ammettere che tutto è perduto, per la sua
casata. Lui cerca in qualche modo di salvarne almeno l’onore, nel suo triste esilio
in Portogallo.

CASCAIS – L’Atlantico è in tempesta. Da stanotte si avventa senza un attimo di


tregua contro la scogliera che protegge la dimora dell’esule. L’onda, respinta,
torna indietro, e con fragore di tuono si scontra con la sopravveniente, levandosi
come una parete liquida a 20 metri d’altezza; poi ricade scrosciando e
imbiancando si spuma le cupe acque per un gran raggio intorno.
Il cielo, basso, del colore del piombo, con le nuvole anch’esse rincorrentisi a
ondate, sembra n altro mare in tempesta. Il molo di Cascais è completamente
sommerso. La lanterna del faro si vede solo a tratti, quando il vento disperde i
neri vapori che l’avvolgono. Dalla vicina “Boca do Inferno” giungono assordanti
i boati dell’immensa caverna invasa dalle acque. Villa Italia è illuminata, sembra
una nave in mezzo all’uragano, e come intorno a una nave volano e gridano
intorno ad essa le procellarie.
La piccola finestra del salotto nel quale mi trovo in attesa dell’ospite dà l’idea
di un oblò; ogni tanto la luce dei lampi rompe il buio di questa mattina che non
ha visto sorgere il sole. Qui dentro si sta bene, come in una grande, sicura nave.
Osservo un ritratto appeso alla parete, un bellissimo profilo della regina
Margherita tracciato di getto con una linea unica e leggera su un cartone che il
tempo ha lievemente ingiallito, e tutt’intorno gli fa da cornice un irregolare
segno scuro simile alla traccia che l’onda, ritirandosi dalla spiaggia, lascia per
un attimo sulla sabbia. Accanto, un Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore,
fiduciosamente addormentato sull’erba sotto un romantico cielo turchino con
una bella luna risplendente nel mezzo. Lo veglia un suo fedele, il cappellaccio e
la barba irsuta che pare un brigante, e in una mano lo schioppo, ma con l’altra
gli ripara gli occhi dai raggi lunari.
Sulla parete di fronte il grande ritratto incorniciato d’oro di un antico principe di
Casa Savoia, del sedicesimo secolo, tutto vestito di nero su fondo nero, neri gli occhi,
alto, pallido, il viso lungo, sembra di veder, più giovane, Umberto II in costume di
altri tempi. E intorno al viso, sfiorandolo, quello stesso segno scuro che circonda il
profilo della regina Margherita e che nel quadro del re addormentato quasi tocca il
disco della luna. Poi un vecchio Garibaldi seduto su una panca, e vicino un Giuseppe
Mazzini, un Giuseppe Mazzini che il re non ha epurato. E anch’essi quel segno scuro,
come li avesse corrosi l'acqua marina.
Ora, accanto al quadro dell’antico principe, appare, entrato silenziosamente
Umberto di Savoia. Si scusa del ritardo. L’udienza era per le dieci e mezzo, sono
le dieci e trentacinque. Si scusa del ritardo che gli sembra gravissimo, ma una
difficile ricerca di carattere numismatico l’ha trattenuto oltre il termine
stabilito. Sta completando la monumentale opera paterna e conta di poter dare
alle stampe fra un anno il ventiduesimo volume, l’ultimo, cui farà seguire quello
degli indici.

Un editore italiano?
L’opera, sino ad ora è stata reputata degna d'attenzione soltanto dagli americani
e dai tedeschi.
In Italia corre voce che la preziosa collezione di monete lasciata da Vittorio
Emanuele III allo Stato Italiano non sia stata ancora tolta dalle casse perché si teme di
trovarla manomessa.
La voce è giunta anche qui. Ma mi rifiuto di crederla attendibile.
Non può darsi allora, che lo straordinario indugio a portar la raccolta dal buio di
una cantina alla luce di un’esposizione dipenda dal troppo difficile lavoro che
l’impresa richiede?
Lo studioso che ha aiutato mio padre a catalogare le monete e a riporle nelle
casse vive a Roma, e con un lavoro di pochi giorni metterebbe lo Stato Italiano
nella condizione di fare onore agli obblighi che gli vengono dall'aver accettato la
donazione di Vittorio Emanuele III.
È vero che l'onorevole De Gasperi ritenne superflue non soltanto due sole righe di
ringraziamento, ma anche una semplice ricevuta?
“La tempesta” dice a questo punto Umberto guardando fuori attraverso l'oblò,
“non accenna a placarsi. Vedo che la nave vedetta, sempre al largo qui di fronte
per indicare la rotta ai piroscafi in arrivo, va a cercare rifugio nel porto di
Lisbona. Guardi”. M’indica, alla continua luce dei lampi che rigano il cielo come
una pioggia di fuoco, una nave sballottata dai flutti con la prua rivolta verso la
foce del Tago. Una piccola nave incandescente.“Non è precisamente questo
l’esilio che immaginava lei?”, mi chiede sorridendo, “Il classico esilio. La casa
sulla scogliera , la tempesta, il mare che s’accanisce intorno all'esule e sempre di
più lo stringe e lo incalza quasi volesse cancellarlo da questa terra, così come
queste macchie scure d’acqua marina le immagini della regina Margherita e del
mio lontano antenato”.
Fisso a lungo il ritratto dell’antico pallido principe vestito di nero, e lui se ne
accorge: “Dicono che attraverso di esso si riveli la mia somiglianza con Carlo
Alberto”.
Gli domando allora se tra le ragioni che l’hanno indotto a scegliere come luogo
d’esilio il Portogallo ci sia quella sentimentale dell’aver già qui trovato ospitalità
Re Carlo Alberto. Risponde: “No. Benché io abbia, come forse lei saprà, un vero e
proprio culto per la sua memoria, e benché il Portogallo sia pieno di ricordi
Italiani e particolarmente della mia famiglia. Ma nel chieder ricovero a questo
Paese che mi onora della sua ospitalità ho obbedito, fuori di ogni
sentimentalismo soltanto a ragioni pratiche, prima fra le quali l’assenza, di
fronte alla mia richiesta, di quelle difficoltà che altri pur cortesissimi Paesi
sarebbero stati costretti ad oppormi come, ad esempio, la Francia e la Svizzera,
confinanti con la repubblica italiana. Senza dir poi degli altri che forse
m’avrebbero ospitato ma ai quali avevo io le mie ragioni di non chieder rifugio”.
Molti dopo il 2 giugno del 1946, pensavano all’America. Ma forse era troppo
lontana.
Non esiste una tecnica dell'esilio. Ad ogni modo, lei vuol dire che lontani si finisce
con l'esser dimenticati, e troppo vicini non sembra nemmeno che si sia in esilio, non è
vero?
Intanto s’erano aperte le cateratte del cielo, ed una pioggia quale io non avevo
mai veduto cominciò a flagellare le acque e gli scogli del litorale. Ma all'orizzonte,
improvvisamente, le tenebre si ruppero e la linea del mare s'illuminò debolmente
dei primi segni di una schiarita.
Nel vedere il re assorto in un pensiero lontano, proseguii: “Che cosa le vien di
ricordare?”. Rispose: “Il giorno che dovetti abbandonare l’Italia, nel cielo del
mediterraneo non trovai un tempo migliore di questo. L’apparecchio faticava a
mantenere la rotta, e giunti che fummo sulla Sardegna venne ad un tratto preso come
una foglia in mezzo all'uragano. Più volte ci credemmo sul punto di precipitare.
M’accompagnavano pochi fedeli. Ad un certo punto il pilota, reputando impossibile
proseguire il viaggio verso il Portogallo, gridò non rimanerci che tentare il ritorno.
Finsi di non udirlo. Gridò nuovamente che l’unica probabilità di salvezza era nel
virar di bordo e nel tentare un atterraggio di fortuna sulle coste della Sardegna che
avevamo da poco oltrepassata. E mi fissava negli occhi, quasi per strapparmi l'ordine
di virare. Gli chiesi se la Sardegna non facesse ancora parte dell’Italia. Rispose di sì.
Ma non capiva ancora. ‘Capitano’, gridai a mia volta, ‘lei ha la sfortuna di avere a
bordo il passeggero più scomodo di questo mondo: un passeggero che non può
tornare in Italia, che può solo andare avanti’. ‘Anche a rischio di finire tutti in
mare?’. ‘Anche a rischio di finire tutti in mare. Chi è con me, segue non soltanto la
mia persona, ma la mia sorte’. ‘Che Iddio ce la mandi buona’ disse il pilota, e fattosi
il segno della croce s’avventò diritto in mezzo all’uragano che raddoppiava di
violenza. Perché non dirlo? Più volte durante quel viaggio invocai la morte. Ma essa
non mi volle. Atterrammo verso sera a Barcellona, l’aeroporto pareva abbandonato,
poi sentimmo qualcuno che ci intimava di rimanere a bordo ed un soldato con la
baionetta inastata si mise di sentinella al fianco dell’apparecchio, in attesa di ordini.
Rimanemmo prigionieri per un paio d’ore, sino all’arrivo delle autorità spagnole le
quali furono di una cortesia squisita. Pronunciarono dei discorsi, non potei non
rispondere. Dopo di che dovetti accettare l’invito ad un banchetto, durante il quale
credo di non essere stato particolarmente brillante. Il giorno dopo proseguimmo per
il Portogallo, dove dapprima mi stabilii a Cintra, di qui passai ad una villa
nell’interno di Cascais, ma avevo messo gli occhi su questa che mi piace in
particolar modo, vicina al mare com’è e solitaria”.
L’ha comperata?
L’ho presa in affitto. Qui in Portogallo non possediamo nulla, tranne ad Oporto, una
cappella fatta innalzare alla memoria di Carlo Alberto.
Ma i quadri, ma i mobili che arredano la villa son di Casa Savoia.
“Vuol sapere la storia di questi quadri? La storia di questo profilo della regina
Margherita, di questo Vittorio Emanuele addormentato sull’erba? E degli altri
quadri, e di tutte le miniature, le stampe, le statue che ha visto in casa mia?
Torino al tempo dell’assedio francese, Vittorio Amedeo II incoronato a Palermo
Re di Sicilia, questa miniatura di Carlo Felice, questa antichissima Croce di
Savoia, d’argento in campo rosso, ricamata nel 1310, al tempo di Amedeo V?
Vuol sapere la storia di questi quadri corrosi in parte dall’acqua di mare?
(Umberto s’è animato, parla in fretta, quasi volesse dirmi nello stesso momento il
principio e la fine della curiosa storia che ha preso a narrarmi) Tutto quello che
lei vede qui intorno era a Napoli, nella villa Maria Pia. Pochi giorni prima che
arrivassero i tedeschi, vi furono delle anime fedeli (e qui mi dice alcuni nomi
ch’io mi guardo bene, naturalmente, dal sottoporre all’attenzione della repubblica),
le quali pensando forse che per i Savoia sarebbero venuti tempi assai più tristi,
misero in salvo quanto più di cose poterono. Vennero i tedeschi e trovarono
vuota Villa Maria Pia. Partiti i tedeschi quelle anime fedeli continuarono a tener
nascosto il tesoro anche agli italiani, sino a quando partii io per l’esilio, non
giudicarono venuto il tempo per riconsegnarmelo. Ma occorreva una nave.
Allora si rivolsero a un’altra anima fedele, un piccolo armatore di Trani, che
una notte caricò il tesoro su uno dei suoi velieri e coraggiosamente, con un pugno
di marinai che seppero custodire il segreto, affrontò il viaggio da Trani a
Lisbona. La tempesta non li risparmiò, l’acqua penetrò nelle casse ove erano
custoditi quadri, molti ne rovinò completamente, altri, come questi che lei vede,
guastò soltanto in parte. Una mattina, mentre sono nel mio studio, m’avvertono
che un pescatore italiano desidera di vedermi. Discendo, il pescatore è il piccolo
armatore di Trani che con rispettosa semplicità mi si presenta e, dettomi
‘Maestà, c’è nel porto qualcosa per lei’, m’invita a seguirlo. Questo qualche cosa
era una fila di cento casse contenenti tutto quel che può sognare un uomo che
abbia dovuto abbandonare il proprio paese senza portarsi dietro un pacchetto.
Non mi fu possibile far accettare a quegli uomini altro segno di gratitudine che
la mia fotografia firmata. Partendo mi dissero ‘ Maestà, quando sarà venuto il
giorno del ritorno, non ci vorrà fare il torto di non chiamarci. La nave è a sua
disposizione. Tiene magnificamente il mare’. E sino a che fummo
reciprocamente in vista, continuammo a salutarci.
Un breve silenzio. Poi: “Ecco la ragione del segno scuro intorno al viso della
regina Margherita e del principe che mi somiglia. Ma vede? Non li ha toccati ,
sono salvi. Il mare non ne ha cancellate le immagini. Così come, almeno per
questa volta , non cancellerà me. Guardi”.
Aprì la finestra, non pioveva più. La tempesta andava placandosi, Qua e là, tra la
nuvolaglia, si vedevano lembi di sereno. Di lì a poco il sole avrebbe illuminato ogni
cosa. E Vittorio Emanuele II, vestito da cacciatore, dormiva placido sull'erba del
prato, il braccio che gli faceva da cuscino, sotto la gran luna risplendente nel più
sereno dei cieli.

LA PRIMA ELEZIONE IN DIRETTA TV

(“Seguo alla televisione lo svolgersi degli avvenimenti”, pag. 1)

di Paolo Monelli
“La Stampa”, 6 novembre 1952

Ike Eisenhower, generalissimo vittorioso in Europa nel 1945, vince in patria la


corsa per la Casa Bianca del 1952. La sua campagna elettorale viene ricordata
perché è lui il primo ad usare gli spot pubblicitari (gli piaceva Dumbo, ed il suo
spot preferito era un cartone animato con un elefantino che agitava la bandiera
americana. Del resto era il candidato dei repubblicani). In realtà la sua fu anche
la prima elezione in diretta tv. Paolo Monelli capì subito che qualcosa stava
cambiando, nel giornalismo, e se ne restò comodo in poltrona, nel salotto di
alcuni amici americani.

NEW YORK – Alle due meno un quarto della notte scorsa ho veduto Stevenson
nell’atrio dell’Albergo Leland, a Springfield capitale dell’Illinois, leggere il testo di
un telegramma che aveva inviato allora al suo competitore Eisenhower
concedendogli la vittoria, come ha detto con cavallersesca espressione un
commentatore dell’avvenimento. “No, no”, gli si stringeva attorno una ressa
commossa di sostenitori che gridavano “Non è vero, non può essere vero”.
Stevenson aveva tra le pieghe fonse delle guance un sorriso che voleva essere
sereno, ma era molto triste. Il sorriso dell’uomo che sa perdere, che sa che milioni di
occhi scrutano in quel momento le reazioni del suo viso. E dice: “Vedete, anche
Lincoln perse una volta una grossa battaglia politica, e allora comentò ‘sono come un
ragazzo che si è fatto male inciampando nel buio, ed è troppo grande per piangere,
ma il piede gli fa troppo male per ridere’”.
Pochi minuti dopo ho visto Eisenhower nell’atrio dell’Albergo Commodore di
Nuova York, davanti ad un tumulto di gente impazzita, che sventolava fazzoletti e
cantava e piangeva e si abbracciava, chiuso dentro uno stuolo di poliziotti che a
stento lo salvavano dall’essere travolto, vestito di uno smocking che pareva essere
preso a nolo. Ed un sorriso beato sotto il naso piccolo, che mi ricordava stranamente
il sorriso di Badoglio dopo la presa di Addis Abeba. Quando riuscì a dominare con la
voce quel fracasso lesse il telegramma di Stevenson, poi la sua risposta, e gli tremava
la voce dicendo quelle parole.
Due scene quasi contemporanee, ma lontane nello spazio milletrecento chilometri
in linea retta. Una cerimonia che mi dicono usuale, lo scambio di telegrammi. Scene e
cerimonie alle quali ho potuto assistere nell’attimo in cui si svolgevano, riassunte nel
breve schermo di uh apparecchio televisivo, con una immediatezza che vorrei
chiamare miracolosa se non fossimo orami troppo assuefatti ai continui progressi
della tecnica.
In tutta la mia carriera di cronista non mi è mai capitato di fare un servizio così
comodo, sprofondato in poltrona, in un accogliente studio fasciato di libri, luci
discrete, il caminetto acceso. Un bicchiere di wisky sul tavolino accanto. Pochi amici
attorno, con cui commentare pacatamene cifre e fatti. Altro che spintoni e poliziotti:
stevenson se ne va via da solo, per dare spazio alla cerimonia successiva.
Stanotte faticano per me, fanno ressa e tumulto per me fotografi e operatori. Ne
seguo la fatica rannicchiato nella poltrona come gli eroi del Giusti. Mi aveva detto un
amico nel pomeriggio: “Se vuoi partecupare davvero alla vigilia elettorale, vieni con
me a Times Square. Le altre voolte c’erano anche centomila persone. Un urlo
continuo, battibecchi e peggio, fischi della polizia”. Sono andato con lui verso le
nove e mezzo, ma non trovai un granchè di diverso dalla solita baraonda di quella
piazza, che è il luogo di ritrovo di migliaia di provinciali, militari e avventurieri. Le
macchine addirittura scorrevano nel traffico. Forse erano tutti a casa a vedere la
televisione: tra poco avrebbero parlato Eisenhower e Stevenson. Molto meglio così.

IL CAUDILLO ABBANDONATO
(Abbandonato dai capi all’ultimo momento, pag 1)
di Paolo Pavolini

“La Stampa”, 20 settembre 1955


Le ultime ore della dittatura del Generale Juan Domingo Peròn, sconfitto da un
pronunciamento militare. Una pagina di storia che si ripete spesso nella vita
dell’Argentina del XX Secolo.

BUENOS AIRES – La fine di questa pagina di storia argentina è stata imprevedibile:


una rivoluzione che non è stata simile a nessun’altra, svolta in provincia, guidata da
elementi militari di secondo piano, non realmente combattuta con vigore, con toni
mediocri sia militari che politici dopo che tutto avrebbe fatto prevedere una fine lenta
del regime.
Possiamo assicurare che le supreme gerarchie militari sono rimaste fedeli al
governo fino all’ultimo e che fino alla mattina di ieri pareva assicurato il pieno
controllo ella situazione da parte di Peròn. Naturalmente ogni resistenza cessata
quando è parsa prevalente la forza dei ribelli. Solo nel pomeriggio di ieri lo stato
generale delle operazioni è parso aggravarsi: anche se le radi governative tacevano e
perciò non ci era possibile trasmettere in Italia le notizie per via della censura, si
sapeva con certezza che le città del nordovest Mendoza, San Luis e San Juan erano
passate ai ribelli senza alcuna opposizione insieme ad importanti corpi di truppe.
Da Mendoza si segnalava che tutto era calmo nel senso che il nuovo governo locae
garantiva ordine, disciplina, lavoro e commercio: si annunciava anche che in quella
città splendeva un sole sfavillante in netto contrasto con quanto accadeva a Buenos
Aires, investita ieri sera da un cupo temporale, frustata dalla pioggia, illuminata dai
lampi scambiati dal popolo terrorizzato, nel corso della notte, per colpi dei cannoni
della marina.
Fino a stamane le radio governative parlavano solo delle ultime operazioni di
rastrellamento a Cordoba, dove sembra che i peronisti abbiamo per un certo tempo
realmente prevalso: sempre più grave appariva perciò la situazione perché si sapeva
che tutta la zona di Mendoza e quella orientale di Puerto Belgrano all’imboccatura
del Rio de la Plata era in mano ai ribelli: la foce del Rio era bloccata dalla Squadra
Navale. La città di Mar del Plata, dove Peròn si recava l’estate a fare i bagni, è caduta
nelle prime ore di questa mattina, pare dopo lievi combattimenti.
La manovra militare dei ribelli è stata semplice e ben congegnata. La città di
Cordoba, posta al centro dell’insurrezione, si sollevò per prima tirando subito su di sé
i corpi mobili dell’esercito lealista. Cordoba ha funzionato da trappola: le forze del
governo si sono avventate su di essa mentre le altre zone della rivolta rimanevano
calme. Dopo che l’armata governativa avrebbe mosso da Cordoba, le altre città si
sarebbero sollevate senza subire alcuna molestia. Frattanto in piena tranquillità si
riuniva la Squadra Navale a Puetro Madryn nel Sud e si dirigeva velocemente verso
l’imboccatura del fiume dove si incontrava con le unità fluviali già stazionate vicino
alle acque uruguayane. Insieme hanno costituito l’elemento decisivo della rivoluzione
trionfante.
Non si sa dove si trovi in questo momento il generale Peròn. Da due giorni il suo
aereo personale era pronto a muoversi dal piccolo aero posto del Parco di Palermo.
Da tempo a Montevideo si diceva di lui: “Pobrecito, uno de estos dias lo vemos dar
una vuelta a Carrasco”. Carrasco è un aeroporto di Montevideo, e un centro di
villeggiatura balneare. Sembra che questa profezia stia per avverarsi: Montevideo è a
soli 20 minuti di volo da Buenos Aires e rifugio tradizionale degli emigrati politici
argentini. Oggi si sta svuotando dei rifugiati antiperonisti cui stanno dando il cambio
i sostenitori del dittatore caduto.
Altra profezia avveratasi è quella attribuita a Don Orione, che durante un breve
soggiorno a Buenos Aires affermò che la salvezza di questo paese dopo i turbinosi
avvenimenti sarebbe venuta dal centro della Repubblica, dove si trova appunto
Cordoba.
Presto potremo dare le prime informazioni sulla fisionomia politica argentina. La
rivoluzione si è svolta e conclusa in modo paradossale e le conclusioni possono
essere le più svariate ed impensabili. Sembra difficile però che possa
immediatamente alzarsi su questo paese la bandiera della libertà e della democrazia.

LA FAVOLA BELLA DI GRACE E RANIERI


(Pag. 1)
di Luigi Barzini jr.

“Il Corriere della Sera”, 20 aprile 1956

Ebbene sì: il sogno della ragazza di umili origini ma di innegabili virtù che sposa
un principe azzurro si può avverare. È successo, per l’appunto, in una bella
mattina d’aprile di tanti anni fa, protagonista Grace Kelly, diva di Hollywood.
Lei è una splendida ragazza senza una goccia di sangue blu nelle vene, borghese
figlia di borghesi e americana figlia di irlandesi (insomma, niente di più lontano
da una testa coronata della Vecchia Europa). Nonostante questo viene
impalmata per amore da Ranieri Grimaldi, giovane e solitario principe della
Rocca di Monaco. È il matrimonio del secolo.

MONTECARLO – Ciò che attirava inevitabilmente gli occhi nella cattedrale di


Monaco era il volto pallido di Grace Patricia. Una coiffe di perle e fiori d’arancio le
lasciava libera la fronte candida. Il velo che, entrando in chiesa al braccio del padre,
commosso, ella aveva abbassato sul viso, era rialzato. Gli occhi, con una tenue
velatura azzurra sulle palpebre, erano spalancati, persi nel vuoto. L’espressione era
quella di ieri, intensa di emozione compressa, un’espressione giovane, di bambina
devota che deve fare la Comunione. Seguiva attentamente tutto, ascoltava ogni
parola, anche quelle dette in francese, lingua che ancora non conosce bene e non
capisce perfettamente.
Non vi fu nessun mutamento quando il suo parroco, padre John Cardin, di
Filadelfia, pronunciò il breve sermone nuziale, dopo le parole del vescovo Giles
Barthe di Monaco, quando il nunzio apostolico in Francia, rappresentante del
Pontefice al matrimonio, monsignor Paolo Marella, dopo aver fatto un breve indirizzo
in francese, ne lesse uno in inglese. Non vi fu nessun mutamento, nemmeno quando
si parlava dell’amore, della fedeltà coniugale, dei figli che una buona madre cristiana
deve allevare del sostegno che i due coniugi si devono reciprocamente. Non un
baleno negli occhi che rivelasse il pensiero, non un’ombra che facesse supporre che
la bella sposa immaginasse segretamente il suo futuro, il futuro del marito che le
stava accanto il futuro del palazzo dove aveva abitato negli ultimi giorni e dove
avrebbe abitato per il resto della sua esistenza.

Un gesto gentile

Vi fu solo un mutamento, non appena pronunciati gli “Oui” sacramentali, passati


gli anelli, ricevuta la benedizione, quando cominciò la Messa, Grace Patricia si mise
a seguire il rito su un suo vecchio libro di operazioni, portato dall’America, quello
abituale di tutte le messe, ed allora la tempesta del suo animo si placò. Pregava,
seguendo le orazioni del vescovo, pronunciava interamente parole note, faceva i gesti
richiesti dalla liturgia o dalla tradizione, sempre lei prima del marito (gli uomini sono
sempre più distratti, e si dimenticano queste cose). Si fece i tre piccoli segni della
croce col pollice sulla fronte, sulla bocca, sul petto sempre continuando a pregare con
gli occhi sul suo libro, e il viso era un altro.
Come dopo vorticose rapide un fiume trova la pace serena della piana, così Grace
Patricia aveva trovato, nell’abitudine della liturgia, nella messa che a Monaco il
giorno delle nozze di una principessa era la stessa che da bambina aveva ascoltato in
America tante volte, una tranquillità che nessuno le aveva visto in viso in una
settimana. La vita ricominciava, senza spezzature.
Credo che nessuno dimenticherà il visetto affilato, incorniciato dal velo chela
faceva assomigliare a qualche santa primitiva, chino sul libro che teneva tra le mani
insieme a un mazzo di mughetti, attento, in pace, sicuro del futuro. Nessuno
dimenticherà neppure la brevissima cerimonia degli anelli. Il vescovo gli aveva
benedetti con l’acqua santa ed aveva detto: “Ora che avete sigillato un matrimonio
veramente cristiano, date l’uno all’altro questi anelli, ripetendo con me ‘In nome del
Padre, del Figlio, dello Spirito Santo prendi e porta quest’anello come pegno della
mia fedeltà’”. Ranieri infilò l’anello nel dito magro della sua sposa, incontrò la nocca,
non osò andare oltre, forse per non farle male: allora Grace Patricia se lo spinse più
avanti, muovendolo da destra a sinistra col gesto che le donne fanno inconsciamente,
un gesto abile e rapido. Ma si fermò. Non accompagnò, lei stessa, l’anello in fondo.
Aveva soltanto aiutato lui a superare una difficoltà. Il compito non era di lei, ma di
lui. E gli porse la mano perché egli continuasse, finisse il rito, per il significato pio e
tradizionale che poteva avere. Vi era, in quel piccolissimo incidente, visto da pochi,
quelli che erano a qualche metro da loro, e non dalle centinaia di invitati, un
significato? La moglie, la principessa, sottomessa al marito la cui guida lei accetta,
ma non rinuncia a intervenire per aiutarlo a superare una difficoltà, una di quelle
difficoltà per le quali le donne sono meglio preparate, e subito dopo torna al suo
posto di moglie, lasciandogli continuare quel che aveva interrotto.
Poi lei gli passò l’anello al dito, rapida, senza intoppi, e gli strinse un poco la
mano, che ricadde al fianco dell’uomo, lungo la banda dei pantaloni. Questi i due
momenti memorabili: il rasserenarsi del volto di lei, dopo il matrimonio,
nell’ascoltare la Messa, e il piccolo incidente degli anelli. Ma vi fu anche un altro
momento indimenticabile, che solo poteva avvenie in questo matrimonio e non in
altri, non un matrimonio di principi qualunque, non in un matrimonio di ricchi
cattolici irlandesi d’America. Fu quando i genitori s’inginocchoarno al fianco dei figli
per fare la Comunione con loro. Da una parte, a destra, d’inginocchiò la madre di
Ranieri, la principessa Charlotte di Monaco, vestita di blu scuro; dall’altra parte, a
sinistra, si inginocchiarono il signore e la signora Kelly. I due americani erano
turbati, commossi, chiaramente devoti, raccolti nella preghiera come la figlia. Il
padre, dignitoso, alto, dritto con gli occhi chiaramente socchiusi; la mare, che
somiglia a Grace Patricia, modesta, raccolta. Non era un rito obbligatorio (non esiste
questa abitudine, se non nelle famiglie molto legate e molto religiose) e appunto
perché non era un rito obbligatorio, ma un’idea che era venuta chiaramente ai Kelly (i
cattolici in terra d’eretici sono più fedeli degli altri) fece venire le lacrime agli occhi
di molti, anche fra i preti che officiavano. La Comunione venne data in ordine di
gerarchia, prima al principe, poi a sua madre e poi a sua moglie, poi alla Signora e
poi al Signor Kelly.

Naturale paura

La cerimonia fu dignitosa, ordinata, impeccabile, come deve avvenire quando un


protocollo di Corte principesca s’incontra con l’immutabile liturgia della Chiesa.
Fuori della cattedrale erano i picchetti armati delle navi straniere, venuti in porto a
rendere omaggio a Monaco, francesi, inglesi e americani, e gli italiani della corvetta
Airone. Scattarono sul presentat’arm quando la sposa, al braccio del padre, entrò per
la prima, seguita dalle sue damigelle d’onore, le sue compagne di scuola più care, e
sia sorella vestita di giallo. Poi presentarono di nuovo le armi quando arrivò il
principe, seguito dal suo attendente e dal cappellano Padre Tucker. Il principe era
vestito di panno nero con paramani ricamati e pantaloni azzurri con banda d’argento,
con tutte le sue decorazioni. Portava una sciabola al fianco e, sul braccio piegato,
l’elmo di carabiniere monegasco, coperto da piumetto rosso e bianco. Ricordava,
nella sua uniforme, certi ritratti di Umberto I giovane, del tempo in cui anche
l’uniforme italiana era di due colori, azzurro cupo la giacca e azzurro chiaro i
pantaloni, e i generali portavano un elmo copoerto da piume ed aigrettes che si
teneva, come faceva Ranieri, nel braccio curvo.
Il principe si mise a fianco della sposa, consegnò l’elmo a qualcuno ed attese. Fra i
due giovani non passò un’occhiata, erano impassibili. La loro impassibilità, in questo
e nei giorni precedenti, è stata notata dai giornalisti. Tuttava, non è indifferenza né
impaccio. Io sono ruscito a vederli un momento, dopo il matrimonio, quando salivano
nell’auto aperta, e quando si sono trovati seduti vicini, senza testimoni: hanno
cominciato a chiaccierare sorridendo, teneri, amabili, felici. Per cui, in loro, forse è
solo la paura di non essere a sufficienza personaggi ufficiali, così come Elisabetta il
giorno dell’incoronazione restò impassibile quando suo marito, primo duca del
Regno, l’abbracciò in segno di sottomissione ed omaggio (a dire il vero, le scappò
malgrado tutto un piccolissimo sorriso).
È una paura naturale in lei, che non è nata con le abitudini della Corte, ma anche
in lui che fin dall’infanzia, odia la folla, la pompa, gli obblighi di rappresentanza che
la sua posizione ed il suo rango gli impongono.
Parlò dapprima il vescvo di Monaco, in francese, un discorso aulico e religioso al
tempo stesso. Poi parlò Padre Cartin, il parroco dei Kelly, e forse ripetè in parte
quello che dice ogni qual volta si sposano i suoi parrocchiani: le difficoltà, i doveri, le
gioie del matrimonio fra due giovani che si vogliono bene e che vogliono fondare una
solida famiglia. In questo egli era d’accordo con la liturgia, perché la Chiesa, nella
cerimonia, non distingue tra regnanti e comuni mortali, non vi è una sola parola di
differenza nelle ammonizioni ai coniugi.

Uno sguardo amoroso

Alla fine, il vescovo iniziò il rito. Rivolse le due domande sacramentali (quelle
due domande che vengono subito, di sopresa, quando ci si attende un’orazione o
qualche versetto con risposta dei chierici, che inizino il rito). Ranieri e Grace Patricia
risposero “oui”. Dissero qualche altra cosa; da dov’ero, nella cattedrale, vidi le labbra
muoversi e non sentii nessun suono. In Francia, probabilmente, si dice “oui, mon
père”, oppure “oui, je le veux”. I due “oui” furono fermi, senza esitazioni, senza
incertezza, commossi. Poi vi fu la benedizione. Le note parole, nell’insolito latino dei
francesi, risuonarono chiare nel silenzio: “Preghiamo. Dio potente ed eterno che, con
il tuo potere, creasti Adamo ed Eva, i nostri primi genitori, e li hai uniti nella sacra
unione, santifica i cuori ed i corpi di questi tuoi servitori e benedicili e falli una cosa
sola, nella loro unione e nel loro amore”. In poche, antichissime righe, era compresa
la vita di un uomo e della sua donna. “Che il desiderio dei possessi terreni non vi
faccia deviare …” disse il vescovo di Monaco al suo principe.
Per la prima volta, dopo la benedizione, Ranieri e Grace si scambiarono
un’occhiata senza sorridere. Un’occhiata chiaramente d’amore. Poi vi fu la Messa.
Dalla porta aperta entrava la luce del Mediterraneo, azzurro nel sole. Il sole filtrava
dalle finestre di veri colorati. Ad intervalli lampade fortissime, per le riprese in
colore, venivano accese, e si sentiva sopra le belle musiche liturgiche il ronzio della
macchina da presa. (Ava Gardner mi disse che quelle macchine erano antiquate,
perché facevano rumore, e che era indecoroso portarle in una chesa, e che una cosa
simile non si fa in America).
Alla fine della Messa, monsignor Paolo Marella lesse il messaggio del Papa, parlò
brevemente in francese e poi in inglese, e alla fine impartì cantando solennemente
con una bella voce da baritono, l’apostolica benedizione.
La cerimonia era finita. Ranieri e Grace, preceduti dal ciambellano di corte, si
avviarono per uscire. La mano di Grace cercò il braccio del marito; lo trattenne,
facendolo camminare più adagio, al passo di lei, a tempo con la musica lenta e
trionfale. Lo trattenne un poco (lui era avanti a lei di un mezzo passo) poi Ranieri
cedette e si mise al fianco, camminando insieme alla moglie. Così uscirono di chiesa,
nel sole, negli squilli di tromba nelle acclamazioni della folla, davanti alle armi
luccicanti dei soldati che le presentavano.
Non li vidi più che per un minuto, quando salivano in macchina, la bella donna
affinata dal tormento di questi mesi, con gli occhi azzurri radiosi, serena, conscia
delle difficoltà e del peso della sua nuova condizione, che salutava con la mano i
monegaschi che gridavano il suo nome, e il giovane marito, grave, dignitoso,
paziente. Il ricordo che mi resterà della loro uscta dalla chiesa sarà quello della
manina bianca che trattiene il braccio di lui. E anche questa, forse, ha un significato.

LA BREVE SPERANZA DEL POPOLO UNGHERESE


(pag. 1)
di Nicola Adelfi
“La Stampa”, 1 novembre 1956

La rivolta d’Ungheria è il primo tentativo, a parte gli scioperi di Berlino Est del
1953, compiuto da un paese dell’Europa Orientale di scrollarsi di dosso il
socialismo reale. Per un paio di giorni russi e comunisti abbandonano Budapest.
Torneranno con i carri armati, e la rivolta verrà repressa nel sangue. Nicola
Adelfi è tra i primi giornalisti occidentali a raggiungere la città, e descrive le
poche ore in cui gli ungheresi credevano di essere tornati liberi.

BUDAPEST – Oggi ho visto che cos’è un popolo felice. L’ho incontrato ovunque, in
Ungheria, ma è qui a Budapest che l’esultanza dei cuori, le emozioni della gente è la
più intesa. I russi non ci sono più, la libertà è tornata a splendere anche da queste parti
dopo una notte interminabile, buia, che appariva senza speranza.
La commozione e la lietezza spingono ora nelle strade tutti gli abitanti della città,
si intrecciano cori e danzi nei parchi e nelle vie, a volte sconosciuti si abbracciano fra
di oro, a volte piangono. E tutte le volte che un martello o una fiamma ossidrica
abbatte i simboli del cessato regime la folla applaude in delirio ed i frantumi sono
calpestati con un senso di furiosa allegria.
Eppure stamani, quando ho messo piede nella capitale ungherese, l’atmosfera era
molto confusa. Già nella periferia, dopo aver superato innumerevoli posti di blocco e
sbarramenti di carri armati – presidiati da civili, armati fino ai denti – ho udito il
crepitare affannoso delle armi automatiche. In una povera casa a due piani, da una
finestra squinternata dalle pallottole, tentava l’ultima difesa un uomo; mi dissero che
era un ufficiale della Avio, la polizia segreta comunista, quella polizia che seminò il
terrore per dodici anni fra gli ungheresi servendo con zelo fanatico le autorità
sovietiche.
L’assediato sparava ancora, ma a tratti, disordinatamente, e si capiva subito che
era allo stremo: sparava e gridava, chiedendo misericordia. Diceva, con parole
angosciate, che lui non era tra i più cattivi, che lui non aveva fatto altro che ubbidire
agli ordini superiori, e sempre ripeteva che non voleva morire. Erano parole rotte
dall’orgasmo e dal crepitare affannoso, petulante del mitra. Lo stavano braccando tre
uomini con la fascia tricolore al braccio; uno teneva di mira la finestra con un
parabellum, gli altri due sfondavano la porta d’ingresso dell’edificio. Mi dissero che
tutti e tre quei vendicatori avevano un grosso conto da saldare con l’uomo che
implorava pietà, perché le famiglie di tutti e tre erano state distrutte per colpa sua.
Proseguendo per la città, in ogni canto di strada mi dicevano di stare attento ai
russi. Ma in tutta la giornata ne ho incontrati pochi, una trentina forse, e vi assicuro
che non avevano affatto un aspetto minaccioso, ma piuttosto l’aria di raccomandarsi
al buon senso ed alla simpatia dei civili con grandi sorrisi. E si capisce: erano piccoli
gruppi isolati in un mare di gente armata.
Raramente ho visto tante armi quante oggi a Budapest, e di tutte le specie: vecchie
pistole a tamburo, moschetti antiquati, carri armati e mitra. Nessun vi fa caso, come
nessuno fa caso alle sparatorie improvvise, sempre circoscritte a singole vie o singoli
edifici e tutte con lo scopo di dare al caccia ai superstiti gruppi della polizia segreta:
poteva accadere di sentire, insieme, canti di gioia e rumore di mitra.
Arrivando davanti alla Piazza del Parlamento ci si rende conto per a prima volta di
quanto lunga, aspra e violenta sia stata la battaglia tra gli insorti ed i russi. Il selciato
è divelto, le verghe dei tram contorte per terra, viali ed aiuole cancellati dai
combattimenti. I muri degli edifici, anneriti dalle fiammate, sono pieni di fori grandi
e piccoli. Vi sono adunate, ora, migliaia di persone per il comizio di un nuovo partito.
Un giovane mi viene incontro, e d’improvviso tira fuori dal petto una pistola lunga e
nera. Non punta a me, ma al mio vicino, forse qualcuno che si è compromesso troppo
con i sovietici. Lui, senza reagire, alza le mani e poi si lascia perquisire. Arrivano
altri giovani, con elmetto e mitra. Un breve colloquio e lo portano via.
Alla Rakokzi Ulca, una delle arterie più importanti della capitale, capisco quanto
esemplare ed onesta sia stata questa rivoluzione. È qui che è divampata più dura la
battaglia. Ad un certo punto gli insorti si impossessarono di un immobile che ospita
un grande magazzino. Avevano nello stabile di fronte, a venti metri, un covo di russi
e di uomini della polizia segreta asserragliati. I combattenti si sparavano guardandosi
negli occhi. Oggi il marciapiede è ingombro di manichini, scaffali,, porte, ma la
merce è stata tutta riposta nelle vetrine, a mucchi, e nessuno ha rubato. Qui la
canaglia che viene fuori in tutte le rivolte è stata tenuta a bada. Un fatto meraviglioso,
se si considera quanto grande sia la miseria degli ungheresi, quanto sentito il bisogno
di viveri ed indumenti.
Più oltre, sulla stessa strada, però la folla saccheggia un grande negozio. Una
libreria russa, cui anche i muri vengono abbattuti. Il libri di propaganda comunista
finiscono in un falò, a bracciate, tra le acclamazioni dei presenti. Ad un certo punto
finiscono nel fuoco anche alcuni pezzi di metallo. Sono, mi dicono, le schegge di un
grande monumento a Stalin. Strappata dal piedistallo, la statua era stata trascinata per
un paio di chilometri, e poi fatta a pezzi dalla gente.
Il viale più bello della città, quello che conduce dal centro al parco civico, ha
cambiato nome: fino a stamane era intitolato a Stalin, ora si chiama “Viale della
Rivoluzione Magiara”. La targa la stanno scalpellando, ed ogni lettera che cade se la
contendono a centinaia, per frantumarla con i piedi.
Ma lo spettacolo più interessante è lo sguardo dei soldati russi, durante questa
festa di popolo. Ridevano con gli occhi ed anche con la bocca di fronte allo scempio
di Stalin. Sembravano i più felici di tutti. Non fanno, poi, più paura a nessuno. Con il
loro atteggiamento dimesso sembrano adeguarsi agli umori della folla. Tutti gli
ungheresi che hanno incontrato i reparti russi in ripiego concordano nel descriverli
allegri ed eccitati. Si direbbe che hanno vinto loro. La verità è che hanno visto un
popolo sorgere in piedi e gettati in una lotta impari, armato solo dall’amore per la
libertà. Non possono non esserne rimati scossi.
Il ministro Franco, il capo della legazione italiana in Ungheria, mi ha raccontato di
aver visto con i propri occhi una battaglia fra carri armati russi. Si stava combattendo
tra insorti tra una parte, polizia segreta e russi dall’altra. I primi stavano perdendo
terreno. Dieci carri armati si erano schierati per dare il colpo di grazia. Neppure
cinque minuti ne apparvero altri sette dall’altra parte del campo. Sembrava essere
pronto il massacro dei patrioti, invece i secondi aprirono il fuoco sui primi. Per
questo non mi sorprendo oltremodo se un interprete mi legge un manifesto scritto in
russo ed ungherese, e che pare stampato da una sorta di società segreta sorta tra i
militari russi: “Ungheresi, la vostra lotta è anche la nostra. Il vostro esempio non
andrà perduto. Dal vostro sangue germoglieranno pace e libertà. Torniamo a casa con
il cuore gonfio di commozione”.

RITORNO A MANNHEIM
(pag. 3)
di Giovanni Giovannini
“La Stampa”, 12 dicembre 1956

Mentre il mondo è alle prese con una delle più pericolose crisi internazionali
della guerra fredda (l’invasione dell’Ungheria, la crisi di Suez), Giovanni
Giovannini compie un viaggio nel passato. Va in Germania, affitta la miglior
Mercedes che trova e torna nel lager di Mannheim dove lo avevano internato i
nazisti dopo l’Otto Settembre, reo di essere un militare italiano che non voleva
farsi arruolare nell’esercito mussoliniano della Repubblica Sociale. Il lager, nel
frattempo, è tornato all’originaria destinazione d’uso: una scuola media. Qui
l’ex internato incontra la nuova Germania, che per certi versi resta quella di
sempre.
MANNHEIM – Fra le città tedesche, Mannheim con i suoi trecentomila abitanti non
è né grande né piccola; con i suoi 350 anni non è né vecchia né nuova; non è del tutto
distrutta né del tutto ricostruita; è ricca di cose belle ma è soprattutto un grosso centro
industriale, con fabbriche allineate per decine di chilometri lungo il Reno ed il
Neckar che con la loro confluenza ne fanno un attivissimo porto fluviale. Ma proprio
per queste sue caratteristiche, Mannheim può prestarsi bene per un colpo d’occhio
sulla vita di una città tedesca.
Premessa questa considerazione, ci sembra gusto confessare subito che sulla nostra
decisione di una sosta a Mannheim ha influito un motivo sentimentale, il desiderio di
tornare in un posto dove eravamo stati in altri tempi, non tanto lontani, quando
centinaia di migliaia di italiani vennero trasportati in Germania a scontare la pena
dell’abbandono del vecchio alleato, e a lavorare per l’assurda resistenza del nuovo
nemico. Un giorno, quando il pericolo della retorica sarà meno forte, qualcuno dirà di
quell’esercito di straccioni affamati congelati sporchi ma indomabili nel respingere
ogni offerta tedesca di libertà e di ritorno in patria a condizione di un’adesione al
nazismo. Oggi, modestamente, invitiamo loro – e gli altri, s’intende – a compiere con
noi questo sentimentale “ritorno al Lager”.
Il nostro Lager era alla periferia della città, in una vecchia scuola, un edificio d’un
rosso cupo come tutte le case vecchie di qua. Eccola, la Luzenberg Schule, tornata
alla sua naturale funzione con centinaia di ragazzi che fra clamori sciamano
all’uscita; sembrano, giocando, di riconsacrarla ai nostri occhi, loro che dodici anni fa
non c’erano, che sono cresciuti in un altro mondo. In questo mondo c’era invece
l’Herr Direktor Doktor Schandt il quale, stupitissimo per la visita di un giornalista
italiano, impallidisce quando sente di che si tratta. Come se gravasse su di lui la
responsabilità della nostra prigionia, ci dice subito che nel ’43 era da tutt’altra parte;
si confonde, chiama altri insegnanti, persino degli allievi: in un minuto la stanza
risuona d’un coro misto di condoglianze scuse racconti di dolori tedeschi,
deprecazioni di quella guerra e di ogni altra.
La confusa scena diventa alla fine imbarazzante: siamo noi a dover rassicurare
quella brava gente, a dire di non emozionarsi troppo, a cercare di salutarli ed
andarsene. Niente da fare. Il Dottor Schandt ha deciso di portarci a colazione: e il
guaio è che al ristorante si mette ad ordinare quantità inverosimili di piatti, come se
volesse rimediare lui oggi alle nostre astinenze di quel paio d’anni. Come dire al
povero Herr Doktor, che sorveglia implacabile il nostro supernutrimento, come la sua
massiccia cortesia cominci a sollevare in noi un certo senso di ribellione?
Grazie al cielo il senso di colpa del nostro ospite sembra cominciare a placarsi
dopo un paio d’ore e finalmente, sorridendo sereno dietro i suoi occhiali cerchiati
d’oro, ci rimette in libertà dopo una serie di reciprochi inchini riverenze e scappellate.
Saliamo pesantemente in un tassì, verso la seconda tappa del nostro pellegrinaggio: il
Rhenania Muehle, un gigantesco silo sul fiume che le bombe avevano semidistrutto e
dove andavamo nell’inverso del ’43 a sgombrar macerie e buttare in acqua tonnellate
di grano che continuava a bruciare da settimane. Stentiamo a ritrovare il posto:
l’edificio è tutto rifatto nuovo, più grande e più efficiente di prima. Spieghiamo a
qualche dipendente il perché della nostra visita, chiediamo se è rimasto qualcosa
degli operai e degli impiegai tedeschi di allora: no – rispondono un po’ stupiti ma
molto cortesi – o forse uno soltanto, che vanno a chiamare. Hermann Mueller ci
riconosce da lontano: “Herr Doktor!” grida, e sghignazza felice battendoci grandi
manate sulla spalla.
Cominciano le rievocazioni davanti ad un gruppo di persone, viene sospeso il
lavoro. Mueller racconta in un dialetto incomprensibile, e gli altri ridono a crepapelle.
“Dico – mi spiega in un tedesco più chiaro – che voialtri italiani non cera verso di
farvi lavorare, e specie la vostra squadra, liebe Herr Doktor!”. Sorridiamo anche noi,
pensando che dal suo punto di vista tutti i torti non li aveva: la tenace volontà di non
collaborare in nessun modo coincideva perfettamente con l’altrettanto tenace
apolitica repulsione per il maneggio del piccone o della pala, ricorrendo ad ogni
atavica astuzia pur di ridurre al minimo il lavoro. Era sicuramente un atteggiamento
comune a tutti i seicentomila italiani allora in Germania; certo però la nostra squadra
(se ci leggeranno: un bancario di Torino, Del Ponte, due novaresi, Barisonzo e
Silvestri, un commerciante d’agrumi siciliano, Sciortino) aveva raggiunto in questo
senso un’eccellenza tale da giustificare le furie del nostro capo d’allora, ed il suo
vivido ricordo.
Certo, aggiunge Mueller, questi poveracci erano così stracciati e denutriti che
anche volendo non avrebbero potuto fare di più. È vero, ma lo guardiamo sospettoso
dopo l’esperienza con il direttore scolastico: e difatti eccolo illuminarsi, gridare che
bisogna andare subito allo spaccio a bere e mangiarci su. Questa volta siamo pronti
ad inventare un appuntamento col borgomastro di Mannheim e ad abbandonare il
capo-operaio commosso e triste, e tutta la compagnia che si sbraccia in saluti ed
auguri.
Torniamo a piedi per riassaporare l’atmosfera di allora, ma sotto questo punto di
vista la lunga passeggiata di chilometri e chilometri attraverso una delle tante zone
industriale della città è perfettamente inutile; più che irriconoscibile, è un’altra zona
con centinaia si fabbriche nuove, in piena attività. Ora, si noti – cifre più o meno
analoghe valgono per qualsiasi parte della Germania – in 158 bombardamenti a
tappeto (ci voleva la meticolosità tedesca per distinguerli: in pratica gli aerei erano
sempre sopra a centinaia, di giorno gli americani, di notte gli inglesi), tutti gli edifici
di Mannheim erano stati in un modo o nell’altro danneggiati, più del 50 percento
delle case d’abitazione distrutte, il 95 percento delle industrie raso al suolo. Bene,
girate quanto volete, non riuscirete a scoprire una fabbrica vecchia o in rovina o
abbandonata o soltanto con un muro un po’ sbrecciato.
Così han fatto i tedeschi – e ciò rimane il motivo principale della loro stupefacente
ripresa –, prima hanno costruito gli strumenti per produrre i beni, poi le case i cinema
gli stadi e tutto il resto. Per questo le loro città, o meglio il centro delle loro città –
Colonia come Mannheim o Monaco – danno l’impressione di essere indietro come
ricostruzione anche in confronto alle più bombardate d’Italia. Uscendo dalla stazione
di Mannheim, ad esempio, lo spettacolo è ancora desolante: frequenti scheletri
anneriti di case, spiazzi dove l’erba cresce tra gli scantinati, mura puntellate; e il
colpo d’occhio si ripete spesso non appena ci si allontani dalle vie principali. È vero
che dopo le fabbriche ora è la volta degli edifici, ma ci vorranno ancora degli anni
(soprattutto per la scarsità di mano d’opera).
Si profilano singolari aspetti urbanistici. Dato che dei vecchi edifici si
ricostruiscono identici solo quelli antichi, dell’epoca aurea di Mannheim, la città
sembra aver saltato sue secoli, senza transizione dal barocco e dal rococò al
Novecento, o al Duemila: nel nuovo infatti gli architetti si stanno scatenando con
ogni forma di cubi e prismi dove il cemento ed il ferro possono apparire tollerabili
per la quantità del vetro e la ricerca degli effetti di luce naturale o artificiale. Di sera
le vie principali non hanno in Germania niente da invidiare a Broadway o Piccadilly.
Forse, proprio quei frequenti vuoti dovuti alle distruzioni contribuiscono a fare del
tedesco ‘oggi un uomo tranquillo, senza inquietudini, desideroso soltanto ed
effettivamente di continuare a lavorare in pace. Senza l’incubo della disoccupazione
che gravò sull’altro dopoguerra, egli si gode per la prima volta – e apprezza – il civile
vivere democratico, la quiete familiare con l’automobile (“Non se n’erano mai viste
tante – dice Mueller – ai tempi di Hitler”) o la moto, con i buoni brutti vestiti e il
proposito di un viaggetto (in Italia, s’intende). La vita costa come da noi (ma è in
aumento); salari e stipendi sono un po’ superiori, e ne godono tutti in quanto non c’è
un problema né di una disoccupazione reale, né di un’area depressa pari, come in
Italia, ad un terzo del territorio nazionale.
Così questa gente è quella che meno vuol sentir parlare di preoccupazioni
internazionali (tanto che, ad un certo punto, la cosa potrebbe diventare a sua volta
preoccupante): in questi giorni l’unico pensiero comune è quello di combinare “il più
bel Natale della nostra vita”. È tutt’un invito a prenotarsi per pranzi feste gite: alberi
illuminati sorgono in ogni piazza, in ogni angolo, in ogni parte della Germania. Ne
abbiamo visto di colossali, ma l’unico che ci ha intenerito è stato un piccolo abete che
decine di ragazzi stavano adornando nel fosco cortile dove insieme a tanti altri italiani
passammo un Natale lontano, nella Luzenberg Schule. Non vuol rispolverare affatto
niente di triste o tanto meno di astioso questo confronto: è solo un semplice
commosso ricordo al termine d’un breve “ritorno a Mannheim”. Buon Natale, ragazzi
della Luzenberg Schule.

LA MACCHINA DEI CONSENSI


(pag. 1)
di Vittorio Gorresio
“La Stampa”, 23 aprile 1958

Considerato come l’antesignano del moderno giornalismo politico, Vittorio


Gorresio in realtà andava un forse po’ più a fondo delle cose rispetto al
giornalismo per battute, e per insulti, che si fa adesso a Montecitorio e dintorni.
Questa è un’analisi della macchina elettorale della Democrazia Cristiana, il
partito che Fanfani aveva reso pesante, pesantissimo, in grado di macinare
consensi come nessuno è riuscito a fare più, nemmeno al giorno d’oggi.
ROMA – Una rassegna delle grandi macchine elettorali che agiscono in Italia si deve
aprire con un capitolo interamente dedicato alla Dc. Non è la consistenza del suo
elettorato a suggerire questa priorità, ma la stessa natura della macchina. A differenza
delle altre, essa ha più di un motore, e tra i vari motori il più potente non è quello del
partito in quanto tale, bensì altri che sono alimentati da altre forze organizzate,
clericali o laiche, e sottoposte a gerarchie diverse.
Il rapporto esistente tra gli iscritti al partito e gli elettori democristiani è calcolato
da uno a dieci, mentre, per vare il caso di un altro partito di massa, in campo
comunista è presso a poco uno a quattro. Nessuno pensa di attribuire al militante
democristiano la capacità di attirare alla propria lista un numero di consensi tanto
maggiore di quelli che ottiene il militante comunista, pur attivissimo. La causa della
grande sproporzione è che i partito politico Dc non è che uno, e neppure il maggiore,
degli organi cattolici: fruisce dell’appoggio di tutti gli altri, e di quanto profitta in
assistenza di tanto perde in autonomia.
Anche De Gasperi sentiva la soggezione del suo partito nei riguardi dell’Azione
Cattolica, organizzata tanto meglio fin dai primi anni della ripresa politica in Italia.
Nel 1946, al tempo delle prime elezioni amministrative al Comune di Roma, quando
al governo stavano ancora i comunisti e i socialisti, De Gasperi dovette scontare
amaramente quella “scandalosa compromissione” in atto con le sinistre: l’Azione
Cattolica tolse l’appoggio ai candidati democristiani riversando i propri suffragi su
quelli dell’Uomo Qualunque. E la Dc, a Roma, fu largamente battuta dall’Uomo
Qualunque.
Fu un terribile monito, ed i segretari della Dc che si susseguirono a Palazzo del
Gesù non mancarono di adoperarsi in ogni modo per risalire la condizione di
svantaggio che teneva il partito in così dura soggezione verso organismi al di fuori di
esso. I maggiori successi, com’è noto, sono stati ottenuti da Fanfani, che oggi può
vantarsi di disporre di un apparato di notevole efficienza, quale De Gasperi non ebbe
mai. Sicuro della propria organizzazione, tenuto conto della generale evoluzione
della politica in Italia, Fanfani anzi ha creduto di essere riuscito a conquistarsi un
largo margine di autonomia dall’Azione Cattolica e dalle gerarchie ecclesiastiche.
L’autunno scorso la rivista francese La Table Ronde in un numero speciale
dedicato all’Italia faceva a riguardo questa spregiudicata considerazione: “ È vero che
i preti dispongono dei voti cattolici in Italia, ma è pure vero che non possono darli
che a Fanfani, quindi è vero che Fanfani è padrone dei voti di cui dispongono i preti
in Italia”. Il sillogismo era apparente: in tempo di elezioni non Fanfani soltanto, ma
uno ad uno tutti i singoli candidati democristiani sanno perfettamente che i voti
preferenziali restano chiusi nella borsa degli attivisti dell’Azione Cattolica che sono
all’immediate dipendenze della gerarchia ecclesiastica. Di qui la gara tra le correnti,
le professioni di obbedienza al clero, gli atti d’ossequio ai cardinali e agli arcivescovi.
Ministri e senatori, sottosegretari e deputati frequentano le diocesi, assistono alle
conferenze degli ecclesiastici, li invitano ad assistere alle proprie, organizzano
riunioni di dipendenti civili e militari perché un cardinale possa tenere lezione al loro
cospetto, e così grande è ritenuta l’importanza di un porporato che tutte le volte che
un ministro è stato vivacemente attaccato per la sua politica, o dalla Confindustria o
da altri gruppi considerati potenti, puntualmente il ministro si è recato a visitare il
proprio arcivescovo, facendone dare notizia in un comunicato alla stampa cattolica.
Che non si tratti di un semplice quanto solenne atto di omaggio che un buon
cattolico ha il dovere di tributare al proprio pastore è dimostrato dall’episodio
milanese di Luigi Granelli. Nessuno, tra i profani, avrebbe avuto motivo di trarre
illazioni dalla visita dal giovane candidato a Monsignor Montini, ma non appena sui
giornali comparve il rituale comunicato, proprio la stampa cattolica si è affrettata che
l’udienza non aveva alcun significato elettorale.
Di fronte all’impressione suscitata dalla singolare precisazione, l’Osservatore
Romano di stasera pubblica una affermazione che, in un certo senso, è ancora più
singolare: ribadisce, cioè, che la visita di Granelli non ha avuto un significato
politico, ma se lo avesse avuto non ci sarebbe stato da obiettare nulla, “perché sino a
prova contraria l’Arcivescovo di Milano è un cittadino italiano ed elettore per giunta,
e di cittadini ed elettori si compone tutto quel complesso di ufficiali che costituiscono
la Curia milanese”.
L’organo vaticano non ha dunque alcuna esitazione a rivendicare al clero il diritto
di occuparsi di politica, e non è questa la prima volta che ne dà una tanto chiara
affermazione. Ha scritto sabato scorso che, “quando si parla di democrazia cristiana
l’opinione pubblica pensa ai cattolici, pensa al clero, parla di parrocchie e di fedeli” e
pertanto non può essere lecito che in buona o in cattiva fede venga dato corso ad
interpretazioni errate che finirebbero per coinvolgere “i fedeli ed il clero, cioè i
cattolici d’azione ed i loro consiglieri morali”.
Nel suo numero di ieri, in modo altrettanto esplicito, ha rivendicato il diritto anche
ad occuparsi della formulazione dei programmi e delle correnti all’interno della Dc:
“non ci riteniamo affatto estranei, come si pretende dagli avversari, e tanto meno
estromessi da simili questioni”. E ancora: “simili nostri interventi non sono
puramente e semplicemente politici nella vita politica italiana, ma sono religiosi e
morali per quanto di religioso e morale il movimento politico, la contingenza
elettorale chiama in causa”.
Non si può negare la chiarezza di simili proposizioni, che L’Osservatore ha da
tempo accompagnato con l’asserzione che lo stesso Concordato riconosce all’Azione
Cattolica il diritto di adoperarsi “per l’attuazione e la diffusione dei principi cattolici”
in qualsivoglia campo, a condizione che ciò avvenga “al di fuori di qualsiasi partito
politico e sotto l’immediata dipendenza dalla gerarchia della Chiesa”. Sono
chiarissime anche queste affermazioni, ed è il partito democratico cristiano che ne
deve comprendere per primo li significato ammonitore.
L’Azione Cattolica, cioè, non deve essere subordinata alla Dc, ma attenersi
rigidamente all’obbedienza del clero, come prescrive lo stesso Concordato. Se
pertanto i candidati democristiani aspirano ad ottenere i voti degli attivisti cattolici,
non dimentichino la strada che è loro necessario seguire per ottenere che la macchina
elettorale giri a loro favore.

LA DOLCE VITA? NON ABITA A ROMA


(pag. 3)
di Nino Longobardi,
“Il Messaggero” 8 maggio 1960

Negli anni in cui Faruk dell’Egitto prende a pugni i paparazzi, in cui Anita
Eckberg fa il bagno nella Fontana di Trevi, in cui Ennio Flaiano scrive “Un
marziano a Roma”, a Roma arriva un americano. Che, come un marziano, a
Roma non si raccapezza per nulla.

L’altra sera mi è piombato tra capo e collo un giornalista americano, amico mio,
giunto fresco fresco dagli Stati Uniti con l’incarico dei suoi, abituati a tirare tante
copie tutti i giorni, di scrivere una serie di articoli sulla presunta vita notturna
romana. Ho dei motivi di gratitudine nei confronti di questo collega: anni fa lo
incontrai in Spagna, a Madrid, e mentre facevamo insieme anticamera per vedere
Franco, che all’ultimo momento non volle ricevere né me, né lui, mi fornì delle
informazioni a quell’epoca di un certo interesse riguardo le prime installazioni
militari che gli americani stavano portando nella Penisola Iberica, segnando così la
fine dell’isolamento militare spagnolo. Dovevo quindi ricambiargli il favore,
segnalandogli i primi locali notturni che a Roma praticano lo spogliarello. Locali che,
come è noto, a Roma non esistono.
I collega si aspettava da me notizie molto interessanti. Pretendeva rivelazioni. Mi
chiese anche di un ristorante dove le portate verrebbero servite a tavola da graziose
ragazze (lui disse: vestali) coperte di leggeri pepli. Gli risposi subito che un ristorante
così non esiste, ma che in compenso ne conoscevo uno dove si veniva serviti da
camerieri travestiti da antichi romani. Gli aggiunsi che l’unico momento eccitante che
si vive il quel locale è il momento del conto, perché lì ti trattano indifferentemente da
cartaginese.
Rimase un poco male. Si capiva che era venuto a Roma con un suo schema
mentale ben definito e che fargli cambiare idea sulla vita notturna della capitale non
sarebbe stata impresa facile. Ma la colpa non è tutta sua. Il film di Fellini sulla dolce
vita romana gira anche all’estero, e sono già giunti da noi i primi turisti che, a
differenza degli altri anni, non si li limitano a lanciare una monetina nella Fontana di
Trevi, ma che sperano di trovarci dentro anche la Eckberg, e se non lei almeno un suo
buon surrogato in succinti abbigliamenti.
Inutile dire che, con l’aria sacrestana che tira, con i tempi che corrono, siano più
che mai impreparati ad affrontare un’ondata turistica di questo tipo: inutile dire che
Roma resta la città meno indicata ad assecondare certe peccaminose aspettative.
Figuriamoci: il mio amico americano farneticava di una Roma che starebbe facendo
la concorrenza a Parigi. E poiché, come ho detto, devo essergli riconoscente ho
cercato di dargli una prima scrollatina.
Gli dissi: “Amico mio, non puoi giudicare questa città e la sua vita notturna sul
metro di Fellini, Non nego che qui si accettino cose che con il carattere sacro della
Roma papale hanno poco a che vedere. Mi hai mostrato dei ritagli di giornale su fatti
che abbiamo letto tutti, è vero, come quella conferenza stampa di quel giovanotto che
ha ereditato tanti bei dollaroni in maniera diciamo indiretta. Ma si tratta, credimi, di
episodi isolati e clandestini che potrebbero verificarsi ovunque. La città non è
cambiata in peggio come ritieni e come Fellini ti ha fatto credere. Se ti aspetti che,
uscendo insieme stasera, ci troviamo di fronte ai tentacoli di una vita notturna di tipo
parigino o quasi, fai bene a disilluderti subito”.
A questo punto tentai di dargli un’immagine sintetica, a partire dal Colosseo. “Tu
lo conosci il Colosseo? Fai conto che sul Colosseo ci sia un superattico dove abitano
tutti i personaggi di Fellini: la Roma sopraelevata. C’è la straniera che si spoglia a ore
fisse, c’è il romanziere che ha scoperto per i sui libri il nuovo stile delle parolacce,
c’è qualche numero di spogliarello privato, c’è lo straniero che si porta in crociera il
giovanotto romano e via discorrendo. Ma, come ti ho detto, si tratta di una
sovrastruttura che non puoi identificare con la città, una sopraelevazione di cui a
Roma non c’è alcuna traccia, sicché ogni generalizzazione sarebbe un arbitrio.
Insomma, prenderesti delle cantonate”.
Ma i collega americano non mollava: quando vogliono hanno la testa più dura dei
calabresi. Quando da Cape Canaveral un razzo finisce in mare, quelli masticano la
gomma e ne iniziano a costruire subito un altro, e fondano una società che promette
un villino sulla Via Lattea a pochi soldi. Non c’è niente di peggio di un puritano che
si decida per le orge, come di un quacchero che imbracci il fucile. Continuava a dirsi
certo che a Roma una vita notturna deve essersi, anzi c’era.
Cercai di essere più persuasivo. “Senti – cominciai – mi spiace proprio per gli
articoli che non scriverai, ma ci sono delle cosette che devi sapere ed io te le dico
perché tu a Madrid fosti gentile con me. Questa è una città santa o che crede di essere
tale con tanta convinzione che riesce ad apparirlo, e questo è quel che conta. Qui si va
a letto alle nove di sera, oppure si guarda la televisione che è come dormire. A notte
alta per la strada circolano dei dignitosi signori che, metro alla mano, misurano la
scollatura delle attrici sui manifesti murali. Credimi, non esagero. Sono padri di
famiglia, gli stessi che guardano la Tv solo per accertarsi che Abbe Lane non
ancheggi troppo. Amico mio, di quale Parigi vai cianciando? Qui si rischia la galera
anche accompagnando una donnina a Frosinone. Inoltre abbiamo la Signora Merlin
per lo stesso curioso fenomeno per cui viviamo in una democrazia a carattere
moderno con un sistema legislativo che per molti aspetti è la codificazione del
Medioevo. Vedi bene che ti sbagli a credere che questa sia una città dove si folleggia.
Hai sbagliato treno: prendi quello per Parigi e tanti auguri”.
L’americano sorrideva, con la superiorità di Alan Ladd quando alla fine del film fa
fuori lo sceriffo cattivo. Disse: “voi italiani siete sempre pronti alla polemica. Si sente
che avete avuto Machiavelli in famiglia. Ho capito tutto. Tu vuoi difendere Roma e il
suo carattere sacro. Ti capisco, ma dimmi: quando Soraya lasciò lo Scià non venne a
Roma di corsa? Non è forse vero che qui vivono principi pronti a tutto? Non è forse
vero che la Eckberg si toglie le scarpe in Via Veneto? Puoi negare anche questo?”. E
io a rispondere: “Il motivo per cui una donna che si toglie le scarpe ferma il traffico è
esattamente che questa è una città, come dire, molto castigata”. E la sotria dello
spogliarello al “Rugantino”? Un accenno di spogliarello, quanto basta a farti
riaccompagnare alla frontiera con decreto di espulsione.
Niente da fare: “Lo sai come abbiamo definito Fellini, in America?
L’iconoclasta!”. Era raggiante, lo disse in italiano. La facile risposta sarebbe stata che
a Roma gli iconoclasti sono tutti cresimati, ma sarebbe stato troppo lungo. Per fortuna
restava da fare una ricerca sul campo, per le vie di Roma. La notte vivemmo
intensamente. Prendemmo un bus turistico, e prima ci portarono a bere una non
meglio identificata “acqua dei sette dolori”, poi a visitare una catacomba illuminata
dalle fiaccole, a seguire lunga sosta in Piazza San Pietro. Un opuscolo sul Bernini
venne distribuito a 250 lire.
A questo punto l’americano decise che la vera Roma notturna dovevamo scoprirla
da soli e che quella era solo “roba ufficiale”. Allora io lo portai all’ingresso di un
teatro che sui giornali della sera prometteva: “Per la prima volta a Roma veri numeri
di spogliarello”. “Lo vedi – ricomincò lui – lo vedi che gli spogliarelli ci sono?”.
Aspetta a dirlo, pensavo io. Il teatro, intanto, era pattugliato da tanti agenti della
polizia quanto se ne possono trovare in una caserma siciliana. Un cartello alla cassa
avvertiva che “per trattative intercorse con la Questura”, la Gina si sarebbe spogliata
solo fino a un certo punto, e la Rosina non si sarebbe fatta vedere per nulla. Per il mio
amico era Pearl Harbour. Accese un sigaro, disse: “voglio un night-club”. Ce lo
portai. Ne uscimmo con difficoltà: eravamo gli unici clienti e le entreneuses avevano
fiutato l’americano. “In via Veneto, lì forse ci capiterà qualcosa di strano”, ma ormai
stava per crollare.
Io sapevo già cosa avremmo trovato, a mezzanotte a Via Veneto: i radicali, gli
unici che ancora gradiscano far tardi in tutta la politica italiana. Al massimo Faruk
d’Egitto e, ad avere proprio fortuna, una scazzottata tra lui e i fotografi. Un po’ poco,
per un’inchiesta.
Finì come doveva finire: al Colosseo, che la notte, illuminato com’è da sapienti
riflettori, resta sempre un gran bello spettacolo.

LA MORTE DEL CONTE ROSSO


(pag. 1)
di Gian Paolo Ormezzano
“Tuttosport”, 11 settembre 1961

Wolfgang Von Trips, nobile tedesco di antica casata Junker, correva per la
Ferrari. La sua auto, in un gran premio d’Italia, finì sulla folla e poi si ribaltò,
schacciandolo dopo aver ucciso undici spettatori. Nota di cronaca: quel giorno la
Ferrari vinse la corsa, con Hill.
MONZA – Erano le quindici, sei minuti e trenta secondi quando Wolfgagn Von
Trips, conte tedesco di casata antica e di terre ricche, morì sulla pista di Monza, e
prima di morire mandò fuori di questa vita undici persone ferendone altre
venticinque. Il senso della tragedia, tuttavia, ci arrivò un quarto d’ora dopo, in tribuna
stampa, trasmesso da una specie di tam-tam.
Non so più chi per primo si accorse che Von Trips non passava più. Era forse il
quarto giro, forse il quinto. Le auto erano legate l’una all’altra, la corsa era – come
suol dirsi – affascinante. Le Ferrari di Rodriguez, di Hill, di Ginher erano in trenta
metri, e in mezzo c’era posto per la Cooper di Brabham. Barghetti era subito dopo,
con Brooks e Moss. Nessuno si era accorto che Von Trips non era passato.
Qualcuno disse d’un tratto: “Ma il tedesco, dov’è il tedesco?”. E una donna molto
bella, dietro di me, puntò il cannocchiale e disse: “Vedo molta gente che corre,
laggiù”. “Sì, prima della curva parabolica”, disse un altro. Intanto qualche
inserviente stava sventolando bandiere bianche con la croce rossa, che significano
“ambulanza in pista”.
Mezz’ora dopo ero laggiù, duecento metri prima della curva parabolica. C’erano
ancora nove cadaveri da ricomporre, erano coperti con teloni e plaid colorati, quei
plaid che si mettono sui sedili delle vetture. Spuntavano i piedi e le mani.
Non c’era assembramento intorno. Non più di cinquanta persone guardavano
quelle forme stese per terra. Tutti gli altri continuavano a guardare la pista, incollati a
quella rete su cui, poco prima, si era scagliata l’auto di Von Trips. Prima di quel
momento però erano accadute moltissime cose, moltissime cose accadute in una
mezz’ora tragica e pazza.
Dalla tribuna stampa ai box della Ferrari ci sono due minuti di strada. Due brutti
minuti, erano stati. Il sottopassaggio vibrava dei rumori delle auto, e appoggiandoti al
muro di cemento sentivi le vibrazioni correrti lungo il corpo, facevi materia con il
muro, con la strada sopra di te, con le auto sulla strada. In cinquanta metri, cinquanta
persone avevano raccontato storie diverse su Von Trips e su cosa fosse accaduto. Ma
quel giovane che diceva: “Ho contato otto morti, li ho contati con i miei occhi” non
era preso sul serio da nessuno.
Ai box della Ferrari c’era la moglie del costruttore, che mi fece entrare. Proprio in
quel momento Chiti, l’ingegnere progettista, le disse: “Signora, forse Von Trips si è
ferito leggermente”. Pochi minuti dopo si fermò Baghetti e si fermò anche
Rodriguez. Guasti irreparabili. Baghetti disse alla Signora Ferrari: “Mi dispiace”, si
tolse il casco e scoprì a fronte insanguinata, una striscia di sangue come se avesse
portato una corona di spine, proprio dove il casco finiva e la pelle era martoriata dai
sassolini sputati indietro dalle auto.
In quel momento uno della Ferrari portò alla signora una lettera. Era del marito,
che stava a Modena non potendo reggere alla sofferenza ai bordi della pista. Era una
lettera da recapitare a mano, e dentro c’erano gli auguri. “È il mio compleanno –
disse la Signora Ferrari – ma non è una bella giornata: Von Trips non è più passato,
Rodriguez e Baghetti si sono fermati. Non è una bella giornata”. Mi disse: “Sia
gentile, si informi su Von Trips, mi dia notizie”. Prima che me ne andassi mi presentò
una donna, assai bella: “Era la compagna di Musso. Lei sa chi era Luigi Musso?”.
Baghetti non volle dir nulla di Von Trips: “Scusatemi, ma vado a lavarmi”.
Aveva una faccia molto strana.
Avevo visto Wolfgang Von Trips poco prima del via. Aveva una camicia di
lanetta rossa aperta sul collo, e rideva di gusto, e parlava con tutti, un po’ in tedesco,
un po’ in francese, un po’ in italiano, un po’ in inglese. Lo ricordo benissimo e giuro
che sul suo volto il destino non aveva ancora stampato nessun segno. Il conte tedesco
Von Trips era felice e ci teneva a mostrarlo.
Dieci minuti dopo aver lasciato Baghetti, stavo a guardare il casco di Von Trips,
che, sull’erba, si muoveva per un po’ di vento, appoggiato com’era sulla parete
sferica.
L’auto era cinquanta metri più avanti, sull’erba ai lati della pista, schiacciata e
contorta come di chi muore soffrendo. Il cofano era dall’altra parte della pista.
Davanti all’auto di Von Trips c’era l’auto di Clark, solo un po’ ammaccata.
Per strada, un collega mi aveva detto: “Trips è morto”. Avevo creduto a quella
notizia, e solo adesso, ripensandoci, so che ci avevo creduto perché aveva detto Trips,
e non Von Trips.
Trips era morto alle quindici, sei minuti e trenta secondi. Almeno duemila persone
avevano visto lui morire, e con lui gli altri. Ma guardavano di nuovo la corsa,
nessuno parlava.
La pista, lì, è larga e diritta. Duecento metri dopo c’è la curva parabolica, chiamata
così perché ricorda la parabola di un mortaio, che porta quasi subito al traguardo.
Ai lati della posta c’è una specie di corsia erbosa, larga quattro metri. Poi la
scarpata, che è circa due metri. La gente si appoggia su una rete, che dà sulla
scarpata. Molta gente, in due o tre file, quelli dietro stanno in punta di piedi o ritti sui
seggiolini pieghevoli.
Nessuno ricorda tutto intero l’accaduto. Ho dovuto cucire le testimonianze,
scartarne qualcuna, tenerne altre come perno. Un lavoro paziente, sotto l’assillo della
tristezza più cruda. Su un “canovaccio” offertomi da Gerino Gerini, anch’egli pilota,
spettatore della sciagura, innesto i racconti di quelli che hanno voluto parlare. Ma
qualcuno mi ha detto soltanto: “Io ho visto l’auto rossa arrivare su a zig-zag e sono
scappato”. Un altro ha detto: “L’auto rossa è passata ad un metro da me, mi ha
gettato in faccia la benzina ma non ho visto nulla”. E chi aveva visto solo un gran
polverone, chi il corpo di Trips volare per aria, chi era rimasto lì fermo, ma aveva
chiuso gli occhi.
Molta gente restò così, inebetita. E ai cadaveri mancò per molto tempo anche
l’attenzione. Ci fu poi uno che si tolse la camicia e la lasciò calare sul viso i una
donna. Me lo ha raccontato un agente della polizia. Dopo aver coperto quel viso che
aveva i lineamenti in pace, fuggì via piangendo.
Ecco dunque come Trips e undici spettatori sono morti. Dopo il primo giro, Trips
non era riuscito a scrollarsi Clark, che lo seguiva a un palmo, ma un palmo davvero.
Le auto erano troppo vicine. Anche Mc Laren braccava Trips. Ed al primo giro un
pilota non troppo conosciuto, Gerald Ashmore, era uscito di pista alla curva
parabolica, praticamente tirando dritto invece di curvare, e si era fermato sul prato
dove non c’erano spettatori. Ciò aveva attirato sul posto i fotografi, tra cui l’amico
Walfredo Chiarini, cui debbo la ricostruzione più precisa.
Al secondo giro Trips, sempre un palmo davanti a Clark, “preparò” la curva. Forse
vide Mc Laren all’interno, forse pensò ad una tecnica nuova, e tentò di curvare
diversamente da come aveva fatto prima, cioè allargando un po’ di più (ciò che sto
scrivendo è tutt’altro che rigorosamente tecnico, ma cerco di rendere l’idea nel modo
più semplice possibile). Clark, che gli era dietro, stava anch’egli allargando. La ruota
posteriore sinistra di Trips fu urtata dalla ruota anteriore destra di Clark. E si dice che
pure Mc Laren l’abbia urtato.
Ai duecento all’ora la tragedia stagna nell’aria insieme ai gas che sanno di ricino.
Trips, che oltretutto stava frenando, perse il controllo della vettura.
Sin qui il racconto mi è stato fatto da Jim Clark, il pilota scozzese che ha perso
oggi, nel momento in cui si salvava la pelle, dieci anni di vita e che in sala stampa
stava su una sedia afflosciato come se la spina dorsale fosse diventata un immondo
canale pieno soltanto di aria e di terrore.
Clark, dopo aver toccato Trips, vagabondò per la pista ma, naturalmente, per una
specie di miracolo si fermò sulla corsia d’erba, con pochi danni e senza venire urtato
da chi sopraggiungeva.
Intanto Von Trips stava arrampicandosi, con la sua auto ruggente, su per la piccola
scarpata. Contro la rete undici persone aspettavano di essere uccise. L’auto di Trips
non urtò la rete, ma soltanto vi si appoggiò, strisciandovi contro. Ho visto la rete: è un
fil di ferro sottile, eppure non s’è sfatta. È solo sformata, coricata verso l’esterno.
L’auto toccò, spaccò, sventrò undici persone, appoggiandosi alla rete. Poi tornò
verso la pista. Rotolando giù dalla scarpata, si capovolse. Una volta, due volte. Il
casco di Trips volò lontano. Trips morì schiacciato sotto l’auto.
Così morì il conte Wolfgang Von Trips, tedesco, ricco, bello, un uomo che fino ad
un decimo di secondo prima aveva avuto tutto dalla vita.
La sua auto si squarciò cadendo in mezzo alla pista. Un pezzo del cofano finì
lontano. Altri bolidi intanto zigzagavano come impazziti. C’è chi dice che Trips,
sbalzato fuori dalla vettura, sia stato poi scaraventato in alto da un’altra auto. Ma non
c’è conferma, e d’altronde il particolare ha solo un valore grandguignolesco, che
ripugna. Baghetti scansò l’auto di Trips per pochi centimetri (ecco perché aveva la
faccia strana, e non voleva parlar d’altro che del carburatore che non funzionava).
Esistono dell’incidente alcune versioni, ma la nostra è nata da un’insieme di
testimonianze, e ci pare anche spietatamente logica. Clark, Gerini, Chiarini, quella
gente che stava ancora lì, dove gli altri erano morti, mentre le sirene delle ambulanze
con gli ultimi cadaveri si udivano ancora, e vedevano passare la corsa quelle gente mi
ha dato mozziconi di frasi, spaurite ed attonite e gelate.

ARRIVO’ LA “GOERING” E MURARONO LE PORTE


(pagina 7)
di Giorgio Bocca
“Il Giorno”, 21 gennaio 1962

Per l’Italia arrivano gli anni del boom economico, inimmaginabile appena un
lustro prima. Giorgio Bocca compie un viaggio nella provincia italiana che del
miracolo è protagonista. A due passi dalla redazione del suo giornale, a
Vigevano, descrive con un incipit fulminante la via padana al benessere: “Soldi
per fare soldi per fare soldi”. Poi scende di qualche centinaio di chilometri, e
trova che nell’antica terra dei comuni qualcuno è riuscito a mettere insieme
Marx, Mammona e Santa Caterina. Il massimo del cambiamento per riuscire a
non cambiare per nulla.

SIENA – Dormo in una stanza del Dugento, pranzo in un salone del


Dugentocinquanta, cammino su un selciato, nuovo nuovo, del Trecento e mi informo
sui fiorini d’oro incassati dalla Salimeni e figli commerciando sete lungo la Via
Francigena e raccogliendo le decime per conto di Onorio IV. È colpa mia se qui il
miracolo economico è avvenuto sette secoli or sono?
Un senatore comunista mi intrattene sul boom edilizio – forniture di argilla e di
querce – che arricchì la città ai tempi di Santa Caterina; il segretario del partito
liberale, messo alle strette, riconosce che la Torre del Mangia fu un ottimo
investimento pubblico; l’amico Paolo Cesarini, proprio perché è un amico, mi confida
che le mura sono lunghe esattamente sette chilometri e centodieci metri e lo trovo
piuttosto indiscreto sulla dolce vita della Brigata senese.
Il cielo è di un azzurro tenue e l’aria di cristallo. Adagiata su tre colli Siena offre
tentazioni aristocratiche. L’Italia dei parvenue si è fermata a Poggibonsi. Laggiù
vivono dei tangheri sul calibro dei milanesi. Capaci di trafficare in materie plastiche.
Capaci di entrare in un bar gridando: “la mi dia un caffè idrocompresso corretto
Jamaica”. Frenetici, chiassosi e triviali come il loro miracolo contemporaneo.
È inverno, sul Campo non si vedono turisti e in bottega non capita il forestiero
lagnoso. Si è fra amici, fra contradaioli. Fra senesi. Finalmente ci si può calunniare,
detestare, guardare con sospetto e invidia, tagliare i panni addosso, ridicolizzare e
ingannare l’un l’altro, in santa pace.
Chi li conosce bee dice: “Non si sono ancora rassegnati alla fine della loro
Repubblica”. Può essere: solo negli ebrei ho trovato un rimpianto mitologico più
struggente. A Siena non c’è i Muro del Pianto, ma si avverte la melanconia di una
città che si è lasciata alle spalle una grandezza irripetibile. Non c’è stata la diaspora,
ma per chi se ne allontana anche questa è una città di sogno, a cui si sale con
nostalgia, come Gerusalemme.
Maria Vergine regna, i comunisti governano
Ce l’hanno con i treni che sono troppo lenti e con le strade, così strette, che se
trovi un camion “te lo ciucci per ore”. Ce l’hanno con il ministro Segni per via di
certe carrozze pullman sparite da queste parti, pare, e trasferite in Sardegna. Ce
l’hanno con Fanfani che gli ha dirottato l’Autostrada del Sole. Ce l’hanno con questo
maledetto benessere che gli passa accanto e incolpano la terra, il cielo ed il resto degli
uomini per l’isolamento in cui si trovano. Ignorando o fingendo di ignorare che
l’isolamento è una condizione del loro spirito, il prezzo che pagano per vivere in una
simile città.
La nobile Siena è ancora circondata dalle mura. Quando la Goering sfilò sulla
Cassia, durante l’ultima guerra, inseguita dalle bombe alleate, i senesi ne impedirono
il passaggio in città murandone le porte. Naturalmente lo fecero con il consenso di un
alto ufficiale tedesco amante del bello, ma comunque furono le vecchie mura a
salvarli. Quali altre città al mondo posson vantare anacronismi altrettanto eleganti?
Città isolata, città piena di pretese. Altrovi si è soddisfatti se il comune provvede a
ricoprire d’asfalto le strade in disordine. Qui sarebbe un sacrilegio: i cittadini
pretendono i lastricati in pietra Serena tratta da una cava che altrimenti sarebbe chiusa
da un pezzo. La pavimentazione costa diecimila lire al metro quadro.
Per rendere abitabile il Palazzo Spannocchia si rifannio gli interni, ma
l’intoccabile facciata è salva, fasciata da altissime impalcature metalliche. Niente di
più doverso, ma costa caro. Così dicasi per l’illuminazione, più costosa tre volte che
in qualsiasi altra città, lampioni del Trecenti e luci diffuse dai tetti.
Bella forza! È una città che vive di turismo.
Io non so in che misura ci viva, so che questo flusso di denaro forestiero viene
accettato con un’ombra di rancore. Siena e le cose di Siena devono piacere prima ai
senesi, e poi ai forestieri.
L’anno scorso, per fare un esempio, si doveva organizzare un palio eccezionale,
per il centenario dell’Unità d’Italia. Dapprima fu scelta la metà di giugno, poi
qualcuno parlò di settembre, anche per la festa del gemellaggio con Avignone. Non ci
fu verso di spostare la data. “Il Palio si fa per noi senesi”, risposero i contradaioli, “e
noi lo si preferisce in giugno”. L’amministrazione comunale si arrese: tutti
socialcomunisti, ma, sotto sotto, tutti contradaioli e dugenteschi.
Nel giorno si luglio in cui la città si consegna, come in antico, a Maria Vergine,
regina celeste di questa rissosa repubblica terrestre, il sindaco socialista per nulla al
mondo rinuncerebbe all’onore di reggere il cero grande nella processione; e il 22
settembre, nella cappella del palazzo comunale, c’è una messa storica a cui la giunta
assiste al gran completo.
Siena, la città esemplare di una certa Italia scettica e narcisista, che non crede
fingendo di credere e crede soltanto nella sua finzione. Ma fermamente.
Il miracolo c’è perché c’è stato
Trovandomi a Foggia dicevo: “Qui il miracolo c’è prima di esserci”. Ora a Siena
dico: “Qui il miracolo c’è perché c’è stato”. È un miracolo così modesto,
intendiamoci, che la parola ha quasi un sapore ironico. Ma non si parlerebbe neppure
di questo modesto miglioramento se la città non avesse posseduto la tradizione e le
strutture dell’altro miracolo, quello vero, di sette secoli fa:la banca, l’univrsità,
l’eccellenza urbanisticae architettonica. Ecco, l’onda di piena del benessere italiano è
appena arrivata sui tre colli, ma ha trovato i recipienti pronti ad accoglierla; una
università che ha mille e duecento studenti, un Monte dei Paschi che conosce un
periodo florido, un turismo in continuo sviluppo.
Fuori delle antiche strutture pochi o punti miglioramenti. L’occupazione operaia è
aumentata del trenta percento, ma siamo sempre ad una cifra modesta, tremila
persone occupate in un centinaio di aziende medie e piccole. C’è una discreta impresa
edilizia che ha favvricato le case per i diecimila inurbati degli ultimi dieci anni. Fuori
le mura, si capisce, perché qui il piano regolatore esiste e viene rispettato. Il reddito
medio procapite è sulle duecenicinquantamila lire annue, con le quali non si sciala,
ma si campa decentemente.
Però difetta lo spirito associativo, nella città. “Certo, certo, fuori le mura!” devono
ancora sorgere un grande magazzino ed un supermercato. Fra le industrie dolciarie
esiste una rivalità biliosa ed autolesionista. Lo stesso Monte dei Paschi, per quanto
ricco, non ha mai preso iniziative coraggiose, suscitato energie, tentato grandi
imprese.
Stabdo in città si avverte subito un vuoto di potere. I socialcomunisti che reggono
il comune e la provincia non hanno voce nei ministeri romani e non sono riusciti a
stringere patti con la borghesia. Manca quell’ambigua alleanza, diciamo pure quel
pasticcio di tortellini, che affratella a Bologna stalinisti e miliardari, teorici marxisti e
fabbricanti di Hatù Velo.
Ma non c’è neppure una lotta spietata di fazioni, Guelfi e Ghibellini, rossi contro
neri. Fra i socialcomunisti e la democrazia cristiana esiste una specie di armistizio
che si interrompe solo quando bisogna nominare la delegazione comunale al Monte
dei Paschi. Allora un volgare desiderio di fiorini e di grossi si risveglia in questo
coltivatissimi spiriti: se una civilità secolare non li avesse estenuati darebbero di
mano ai coltelli.
Nominata la delegazione, tutto riprende come prima con reciproche cortesie e
reciproche menzogne. Ma che fa intanto l’alta borghesia conservatrice? Che cosa
tramano gli agrari aristocratici? Niente o quasi niente. Da alcuni anni le grandi
famiglie hanno rinunciato alla lotta in campo aperto, si limitano, quando possono, a
fare da freno, a impedire con il loro peso ogni mutamento. Sono decadenti e perciò
eleganti. Meritano un discorso a parte.
La geniale politica delle palle nere
“Io, per non sbagliare, voto sempre palla nera”.
“Sarebbe a dire, signor conte?”.
“Sarebbe che voto sempre palla nera. Così evito il rischio di appoggiare una
candidatura indegna”.
Si parlava delle ammissioni al Casino dei nobili o circolo dei Riuniti, il club che
ha la più bella sede del mondo: la loggia dei mercanti per ingresso, i balconi e le
finestre sul Campo.
“Proprio così: per non sbagliare voto sempre palla nera”.
E io mi dicevo:l’immobilismo conservatore non poteva trovare un’espressione più
perfetta.
Questa è la politica si molti illustri agrari del Senese: votare palla nera contro la
Storia, opporsi con unapalla nera ai mutamenti sgraditi della vita, stare nel Casino dei
nobili – nel cuore dell’antica Siena, socio d’onore sua maestà Umberto II, uscieri in
panno blu con spalline dorate, trofei di cacce in Maremma – e votare palla nera
controi mezzadri stanchi di servire, i braccianti poveri e collerici, i sindacalisti onesti
e i demagoghi irrresponsabili.
“Lei non può immaginare che cosasono diventati i nostri contadini.neppure un
pollo a Pasqua, neppure una focaccia a Natale, come era nei patti”. E gli sembra
incredibile che i contadini siano stanchi di rispettare patti medievali e di vivere in
case coloniche prive di luce, acqua e fognature.
Naturlamente cel’hanno a mort con i comunisti, e potrei anche ammettere che i
comunisti di qui hanno fatto spesso, nelle campagne, una politica di terra bruciata,
una azione prerivoluzionaria per una rivoluzione inesistente. Ionon escluderei che
questa politica abbia aggiunto miseria alla miseria, paralizzando i tentativi di colro
che erano disposti a rinnovare le colture e i metodi. Ma vorrei chedere ai signori che
passano la sera al Casino dei nobili: “E voi che avete fatto?”
Loro tacciono, ma la risposta è evidente. Ancora nel 1920 l’aristocrazia terriera
del Senese era despota della città e del contado: i Piccolomini, i Chigi-Saracini, i
Sergrandi, i Ghieri Delci Pannocchieschi e così via controllavano il Monte dei Paschi,
gli ospedali, il comune, la provincia, le contrade. In pochi decenni si sono lasciati
mettere alla porta quasi dappertutto. Ci sono delle eccezioni, si capisce, ma i più
vivono appartati, melanconici, talponi. Se capita da queste parti l’onorevole
Malagodi, che ha una villetta, gli confermano la loro fede liberale, ma sottovoce, che
nessuno li senta.
Uno solo ha tentato di inserirsi nell’industria e gli è andata male. A fare gli
agricoltori sul serio sono in pochi, gli altri aspettabo che la manna gli piova dal cielo
e usano il loro nome per scroccare indegnamente allo Stato: costruiscono finti laghetti
collinari per avere milioni di sussidi, passano dal grano al bosco e dal bosco al grano
tanto per avere finanziamenti pubblici.
Tutti vanno a caccia, viaggiano e sanno fare i signori, con molto stile del resto. La
Magda Sergardi ha creato nel suo palazzo un Piccolo teatro per i giovani: una fila di
sale e saloni in penombra, mobili antichi e preziosi dimenticati in un angolo, gli
antenati impassibili alle pareti, materiale scenico negli armadi e lei la gran signora,
diafana, sottile, pallida come una Madonna di Duccio. E un po’ immemore, direi.
Al Chigi-Saracini, quello della famosa Academia, venne riferito anni fa che un suo
fattore rubava per comprarsi terre nere nella pianura del Po. Lui da gran signore finse
di non udire la delazione e ne evitò l’autore. Oggi l’Accademia Chigiana deve essere
finanziata, in parte, dagli enti pubblici. È bello comportarsi da gran signori, alla
maniera antica, ma a questo modo nel Senese non si campa più. Qui cio si batte con
le unghie e con i denti o si scompare.e infatti molti aristocratici scompaiono, si
ritirano nell’ultima villa, chiusono o affittano i palazzi. Un medico milanese ha
trovato alloggio in quello Sergardi: centoventimila mensili per trentatrè stanze in
parte ammobiliate e affrescate. Intanto il partito comunista controlla trentacinque
comuni sui trentasei della provincia.
Insomma, l’Italia dei beceri che fanno soldi per fare soldi non è giunta quassù: si è
fermata, a sentire i senesi, a Poggibonsi. “Ma lo sa che erano contenti si essere
bombardati solo per sentire alla radio: oggi sono state bombardate Torino, Amburgo e
Poggibonsi?”; “Oh, le ha mai viste le loro villette al mare? Sembrano un Diurno e
loro lo chiamano il loro Paradiso”; “Ma li ha visti quei capannoni orribili che hanno
alzato lungo la strada per Firenze? Sa, l’è tutto un giro di cambiali, di luci al neon e di
bar nichelati. Ma, Dio bono, chi li fa vivere a codestamaniera?”
È inverno. Adagiata sui tre colli Siena è ferma nel tempo e nello spazio, come
sotto una campana di vetro. Abbiano ragione noi attivissimi beceri, o hanno ragione
loro civilissimi indolenti? Ma porre la questione in termini di torto e di ragione è
sciocco. Sono nati in questa città e sanno viverci. Tutto ciò è bellissimo. Tutto ciò si
paga. Non c’è altro da dire.

TERRORISMO DELL’OAS AD ALGERI

di Carlo Tasca
“Il Popolo”, 3 maggio 1962

Gli ultimi giorni della “Battaglia di Algeri”, raccontati da un testimone diretto


della fine del Grande Impero coloniane francese.

ALGERI – Alle 6,15 della mattina, davanti all’ufficio di reclutamento del porto
d’Algeri, 1500 musulmani aspettavano l’apertura degli sportelli. Un’automobile in
sosta è esplosa, falciando gli uomini a decine. Secondo un bilancio non ancora
ufficiale si conterebbero 110 morti e più di 300 feriti.
Sui feriti e su coloro che si erano dati alla fuga alcuni individui appostati sui tetti
vicini hanno aperto il fuoco. Un automobilista europeo, che circolava nei pressi del
luogo dell’attentato, è stato circondato dai portuali impazziti ed è stato linciato.
Nella Casbah, appena giunta la notizia, si è scatenata la collera ed il Fronte di
Liberazione Nazionale è stato praticamente sopraffatto. Fortunatamente la forza
locale algerina ed elementi dell’esercito francese hanno potuto contenere la folla che
si preparava a riversarsi sui quartieri del centro. Attorno al porto sono stati istituiti
posti di soccorso e delle infermerie per i feriti. Il peggio, al momento, sembra evitato,
ma ci si chiede fino a quando.
Per la prima volta, anzi, occorre chiedersi se gli accordi di Evian non saranno
rimessi in discussione. All’attentato si aggiungono altri elementi di inquietudine
come la recrudescenza di sequestri di europei. Fino a quando nelle città riusciranno a
resistere i quadri del Fln che, dal cessate il fuoco, hanno inquadrato le masse? Nei
grandi centri le forze francesi procedono con lo sgretolamento più o meno efficace
dell’Oas, ma a Parigi come a Tunisi si sembra ormai d’accordo nel pensare che il
periodo di transizione – immaginato per preparare la vera pace – rischia di preparare
invece un aggravamento del marasma che potrebbe addirittura portare alla rottura.
A Tunisi gli uomini del Fln cominciano a dichiarare che la situazione in Algeria
minaccia di distruggere lo “spirito di Evian”, e l’agenzia del Fronte afferma: “Le
autorità francesi sono responsabili quando, constatato da parte dei loro funzionari il
sabotaggio della normale amministrazione, non prendono misure serie per mettervi
fine. Sono responsabili quando, constatando l’inettitudine dio alcune forze di
sicurezza del loro paese, la mancanza di effettivi militari nelle città, la complicità
aperta ed attiva d alcuni elementi militari con l’Oas persistono ad ostacolare l’azione
del governo provvisorio e a non fornirgli i mezzi necessari a compiere la sua
missione”.
Il Fln fa quindi ricadere la responsabilità del disordine, che sta travolgendo tutte
le strutture dell’Algeria, sulla Francia: l’accusa è almeno in parte sostenibile, ma non
va dimenticato che in Algeria l’esecutivo provvisorio purtroppo non riesce, di fatto, a
governare, a causa della presenza di altre forze. L’Oas, innanzitutto, la cui forza è
importante soprattutto nella misura in cui immobilizza nelle città circa 100 mila
soldati francesi. Ma non è solo essa a far da contrappeso: bisogna tener conto delle
posizioni molto dure di altri movimenti di liberazione, i cui vertici politici hanno
acettato gli accordi di Evian coscienti dell’immenso compito economico che attende
l’Algeria indipendente, ma i cui vertici militari chiedono che tutti gli europei – e tutti
i capitali europei – lascino il paese.
È molto probabile che in seno all’esecutivo provvisorio i delegati del Fln
incontrino sempre più difficoltà a far prevalere il loro punto di vista rispetto a quello
del Grpa. Abderrahamane Fares, il presidente de governo provvisorio, prosegue i suoi
colloqui con le autorità politiche francesi e in particolare con i ministri che
partecipano all’attuazione degli accordi economici: nonostante quanto sta accadendo
si dichiara certo che l’ordine verrà ristabilito e che le conseguenze di sette ani di
guerra finiranno con lo scomparire. Ha annunciato anche la creazione di un ufficio di
corrispondenza parigino del suo esecutivo, destinato a fare da “antenna” riguardo gli
uomini del Rocher Noir.
Compito fondamentale dell’esecutivo provvisorio, ci dicevano in queste ore alcuni
dei collaboratori di Fares, è quello di preparare l’autodeterminazione: perché il
referendum possa svolgersi in condizioni normali è necessario che sia risolto il
problema del mantenimento dell’ordine. Fares si dichiara pronto a ricorrere ad ogni
mezzo per raggiungere lo scopo. Intende nei prossimi giorni recarsi ad Orano, dove
oggi si trovano gli uomini dell’Alto Commissario Fouchet ed i comandante delle
forze francesi Fourquet. Se ne deduce che la “riconquista” della città da parte delle
forze dell’ordine sia imminente.

È TORNATA AD ESSERE UNA DONNA


(pag. 1)
di Giovanni Grazzini
“Il Corriere della Sera”, 6 agosto 1962

Marilyn Monroe viene trovata morta, in circostanze mai del tutto chiarite, in
una casetta nella periferia anonima di una grande città americana. È la terribile
fine di una donna affascinante e triste, la cui vita è stata piena di successo, di
uomini, di miserie e di solitudine in una Hollyood in cui si producevano film dai
titoli come “E Dio creò la donna”. Più che un’attrice, lei era Eva, l’epitome
quintessenziale della bellezza. Troppo per una ragazza dall’infanzia infelice,
dalla madre pazza e cresciuta senza padre.

Distesa nel sonno della morte, Marilyn sorride. Al prezzo più alto, ha vinto la sua
ultima battaglia. Ha tenuto fino all’ultimo di non farcela, di non trovare il coraggio.
Poi si è guardata allo specchio, si è passata le mani fra i capelli. “Ecco – si è detta –
questo è il momento”. Da quanti anni ci pensava? Forse dal giorno in cui, bambina,
seppe che i nonni e la madre erano morti pazzi, il padre in un incidente stradale, uno
zio suicida. Ci pensava da sveglia, quando recitava, si ubriacava, faceva l’amore. Ci
pensava nel sonno, quando si sognava, nuda, sopra un altare, in mezzo ad una folla
adorante. Quando i sonniferi la strappavano ai paradisi artificiali nei quali l’avevano
costretta a vivere, e la riconducevano al purgatorio dell’infanzia. “Finirai male,
brucerai tra le fiamme dell’inferno”, le avevano detto da bambina. E Marilyn
sorrideva. Nessun inferno avrebbe potuto farle più male della vita.
Un idolo, Marilyn non era più una donna. È tornata donna il giorno in cui la follia
le ha armato la mano contro se stessa. Allora è tornata una povera donna, che nessuna
clinica per malattie mentali era riuscita a guarire, e che terrorizzata di finire come a
madre si è imposta di calare il sipario quando ancora il suo corpo colpevole meritava
di essere straziato. Chissà quante spiegazioni ci daranno gli psicanalisti. Diciamo,
semplicemente, che Marilyn ha votuto insieme punire e esaltare la parte di se stessa
che ceredeva più responsabile della propria solitudine. Punirla, devastandola, di
essere stata il smbolo di una mostruosa eccitazione collettiva dalla quale a lei non
venne alcuna felicità; esaltarla perché il simbolo si perpetuasse, perché nel momento
in cui il mito stava declinando il mistero della morte lo rinverdisse e lo consegnasse
ai secoli.
Marilyn, vittima di un’età di nevrotici, ha vinto il terrore della morte con la stessa
facilità con cui aveva vinto, per trentasei anni, la paura della vita. Tutta la sua
esistenza è stata decisa dagli altri. Oggi è stata lei a dire qualcosa. È assurdo
pretendere che la sua parola non fosse un amaro sorriso, una macabra strizzata
d’occhio. Non è questo che il mondo le chiedeva? Incarnare fino in fondo l’idea del
capriccio, spogliarsi di ogni sfumatura psicologica o morale, esporsi nuda, su un
calendario o su un tavolo anatomico alla frenesia di un’umanità che non ammette
intimità segrete, che vuole assorbire, sfruttare, consumare nei miti che si è creatata la
propria impotenza.
Marilyn ha detto sì. Ha sempre detto sì, come una schiava. L’abbiamo voluta nelle
nostre case, nei nostri pensieri, dalle caserme e dai camion l’abbiamo portata sulle
nostre scrivanie, l’abbiamo spogliata, rivestita come una bambola, è stata la nostra
amante, siamo fuggiti con lei nella giungla, in un’isola deserta, sulla Luna, l’abbiamo
tradita con Brigitte, e ce ne siamo pentiti. Guardando nostra moglie si pensava a lei,
dicevamo che Marilyn è come una forza della natura, irruente, spontanea, autentica;
dicevamo che la sua aggressività ci riscattava dalle nostre viltà di uomini civilizzati,
che la sua provocazione ci eccitava la fantasia spenta dall’abitudine. Ecco, risponde
oggi Marilyn, la natura ha un volto anche tragico. Guardatemi: se non inorridite, ora
sono tutta per voi, tutta per tutti voi. Non ho più mariti, non ho più amici. Il mio abito
succinto fascia uno scheletro, non vedete la camicetta come aderisce, come la gonna
mi stringe?
“Prendo qualcosa da tutti come una carta assorbente”, disse. Una donna che se ne
rende conto non è una donna stupida. Marilyn non era stupida. Era un corpo cresciuto
a propria insaputa, amministrato dalla pubblicità, piegato dal desiderio degli uomini e
dalla gelosia delle donne. Dentro c’era una ragazza americana del nostro secolo,
ferita dall’infanzia e dal successo. Un’intelligenza violentata e deviata, ma
un’ossessionata sensibilità. C’era la disperazione, ora che gli anni marciavano in
fretta, di vedersi correre il tempo sul volto, forse persino di sentirsi sulle spalle la
colpa dei peccati degli altri, l’incubo di milioni di occhi e di pensieri, accumulati in
quattordici anni di cinema. Il tentativo di Marilyn di avvicinarsi al mondo della
cultura, il suo matrimonio con Miller, l’amicizia con le “teste d’uovo” di Nuova
York, cosa altro erano stati se non il tentativo di spezzare questa catena di sguardi?
Non ci riuscì. Come una schiava, legata alla propria carne, Marilyn ha continuato a
divincolarsi. E più si agitava, più si contorceva, e più il mondo aguzzava gli occhi.
Riversa sul letto di una clinica, disperata, il mondo guardava il suo corpo. Marilyn
piangeva, e il suo mondo le cercava nello sguardo il fremito della voluttà.
Brancolava, annaspava, nel buio delle depressioni psichiche, e il mondo pensava alla
sua anca lussata. Era convinto che, soprattutto, a lei piacesser essere guardata. Era
vero, è vero.
Perché Marilyn era l’unica donna di questo secolo che, toccandosi, potesse
chiedersi se era già morta , se non fosse, anziché di una creatura di carne e ossa, uno
stemma araldico, un’impresa d’amore e di guerra, l’emblema di una speranza in cui
finzione e realtà si confondono. Ieri inciso sullo scudo, dipinto su uno stendardo,
disegnato in un romanzo di cavalleria, oggi impresso nella celluloide e nella carta
patinata, il suo volto – perché bastava il suo volto riverso nel riso – era lo stesso per il
quale generazioni sono partite, hanno combattuto, sopportato la pena del vivere.
L’eterno femminino, edizione XX Secolo.
Ora Marilyn è muta. Non c’è un bambino che ha ereditato il suo sorriso. Ci sono
degli uomini che l’hanno conosciuta, delle donne che l’hanno invidiata. C’è un
mondo che si compiaceva di esserne scandalizzato. C’è un’immensa organizzazione
di mercanti che forse non l’ha aiutata. Ma non c’è lo stupore della morte, il male che
tocca le creature di ogni giorno, quelle che incontriamo per la strada. La morte non
tocca i miti, non spegne le illusioni. Aiuta la fantasia. Dove sarà, ora, Marilyn? Chi
turberà? I diavoli, gli angeli, i marziani? Ora, forse, tocca a loro credere che il
meraviglioso, incarnato da una psicosi collettiva, è anche di questo mondo. Gli
antichi lo sapevano. Anche Marilyn lo sapeva. È perciò che questa volta, lei che
arivava sempre in ritardo, è stata puntuale.

COM’ERA BELLA LA MIA VALLE


(pag. 3)
di Dino Buzzati
“Il Corriere della Sera”, 11 ottobre 1963
“NATURA CRUDELE”

Convinto che la diga del Vajont fosse realizzata a regola d’arte nel posto più
adatto (le inchieste giudiziarie racconteranno una storia diversa), Dino Buzzati
descrive a caldo quella che deve essere stata la sera della tragedia della notte in
cui un costone di montagna precipitò su una diga, e l’acqua spazzò va tre paesi, e
la sua valle.

Stavolta per il giornalista che commenta non c’è compito da risolvere, se si può,
con il mestiere e con la fantasia e col cuore. Stavolta per me è una faccenda
personale, perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne,
quella la mia gente. E scriverne è difficile.
Un po’ come se a uno muore un fratello, e gli dicono che a fare il necrologio deve
essere proprio lui.
Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia, forse migliaia di
volte, che da lontano posso immaginare tutto quanto, come se fossi stato presente. Per
gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il
Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla
pianura e le montagne per l’ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una
bellissima sera d’ottobre.
In questa stagione l’aria lassù è limpida e pura e i tramonti hanno delle luci
meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara,
rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti comincia a soffiare un
vento freddo, qua e là si accendono e si spengono i lumi, i buoi si assopiscono nelle
stalle, gruppetti di operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa,
un’eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con
annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di
Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la valle
del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio delle rupi,
un selvaggio burrone. Mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando la
vidi per la prima volta da bambino: a un certo punto la strada attraversava l’abisso, da
una parte dall’altra spaventose pareti a picco.
Qualcuno mi disse che era il ponte più alto d’Italia, con un vuoto sotto di oltre
cento metri. Ci fermammo e guardai giù col batticuore.
Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e
lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di
cemento. Non solo: il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri
centocinquanta metri sopra il ponticello ed adesso giganteggiava più vertiginoso delle
rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita
misteriosa. Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell’acqua
del lago artificiale si specchia una gelida fascetta di luna, ronzii nei fili, giù nel
tenebroso botro lo scrosciare dello scarico di fondo, a Longarone.
Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c’è ancora qualcuno che contempla il video,
qualcuno nell’osteria intento all’ultimo scopone. In quanto alle montagne, esse se ne
stavano immobili, nere e silenziose come al solito. No, a questo punto
l’immaginazione non è più capace di proseguire. La valle, i monti, i paesi, le case, gli
uomini, tutto riesco a immaginare nella notte tranquilla, poiché li conosco bene, ma
adesso non bastano le consuetudini ed i ricordi. Come ricostruire ciò che è accaduto,
la frana, lo schianto delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E
l’onda spaventosa, da cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come … Sì,
come un immenso dorso di balena ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a
picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi
addormentati. E il tonfo nel lago, lo scrole dell’acqua impazzita, il frastuono della
rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli,
invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando
l’irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c’è nelle tombe?
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l’acqua è traboccata sulla
tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era
grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature
umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si
può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era
fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano.
La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico.
Mi ricordo che mentre la facevano l’ingegnere Gildosperti della S.A.D.E. mi portò
alla vicina centrale di Soverzene dove c’era un grande modello in ottone dello
sbarramento in costruzione ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero
stati orgogliosi.
Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza,
dell'ingegneria, della tecnica, del lavoro.
Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato
da maestri, la montagna, sotto ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una
profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non
potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, oppure apparecchiature
sensibilissime registravano le più lievi regolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma
non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta
che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata
attaccando il vincitore alla spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste
tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà.
Intatto, e giustamente, è il prestigio dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del
tecnico, dell’operaio, giù fino all'ultimo manovale che ha sgobbato per la diga del
Vajont, ma la diga, non per colpa sua è costata diecimila morti. I quali morti non sono
della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me,
avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la
mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si è rotto e ha fatto lo
sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e mi
rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le
parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà,
costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.

LE CONTESSE SUL PROMONTORIO


(Il promontorio delle contesse, pag. 5)
di Carlo Gregoretti

“L’Espresso”, 16 agosto 1964

Nell’Italia del boom economico i nuovi ricchi riprendono il cammino degli


antichi, e si costruiscono meravigliose, lussuose, ricercatissime ville al mare dove
una volta le avevano volute i grandi mercanti ed i patrizi della Roma Imperiale.
In sé non è speculazione selvaggia ma, per tante bellezze naturali, è l’inizio della
fine.

PORTO SANTO STEFANO – C’erano lo cernie, dieci anni fa, nelle insenature
segrete dell'Argentario. E non si vedevano neppure quelle, perché se ne stavano
all’ombra delle rocce o affacciate sulla soglia della tana, o sospese a mezz’acqua con
la testa rivolta verso l’alto, il colore del dorso confuso con quello delle alghe del
fondo, immobili, come rispettose del paesaggio. Oggi c’è il cane nero della contessa
Nina Benini, un piccolo schnauzer, autostoppista e subacqueo, che scende a
Calapiccola chiedendo un passaggio alla corriera dell’albergo, si tuffa dagli scogli,
nuota a collo dritto, come un cormorano, per non mandarsi il sale negli occhi; poi
torna a casa e fa la doccia.
C’erano i gabbiani, a centinaia, sull’Argentario, o sull’Isola Rossa, e le loro grida
quasi umane (qui i gabbiani li chiamano “i parlanti”) erano l’unico suono che,
rimbalzando sui dirupi verso il tramonto, interrompeva i lunghi silenzi del
promontorio, tra punta Avvoltore e Punta Lividonia. Oggi ci sono i clacson delle
Maserati e delle Volkswagen che si incrociano sui tornanti della nuova strada
panoramica. C’erano le punte dei corbezzoli, i cespugli di lentisco o quelli di
ginestra, che fiorivano a maggio, quando atterravano le quaglie. Oggi le quaglie non
atterrano più e, insieme alla ginestra, ai corbezzoli, al lentisco, ci sono piante più alte
e più preziose, per dare ombra alle ville costruite dagli architetti alla moda.
Sul mare, chiuso verso nord dall’Isola d’Elba e, a ponente, da Pianosa,
Montecristo e dal Giglio, c’erano le tracce bianche del Maestrale, le piccole bave di
spuma che si inseguono rabbiose fino a Calagrande. Oggi ci sono le tracce bianche
dei Super-Florida, quelle dei cabinati a carena Hunt o dei fuoribordo pneumatici, che
squarciano l’azzurro intenso dell’acqua e si inseguono ben più veloci del vento. C’era
la spiaggia di Port’Ercole e c’erano i “maestri calafati”, che lavoravano di stoppa e di
pece intorno alle fiancate d’un peschereccio sdraiato; c’era la banchina di Porto Santo
Stefano, con altri pescherecci agli ormeggi e le reti stese ad asciugare. Oggi Santo
Stefano e Port’Ercole sono le basi navali della Grande Flotta delle Vacanze, i
posteggi marini del “Milagros”, o del “Gioina III” o dello “Shu-shu”, cioè del ketch o
del cruiser, del motopanfilo o dello yawl, in mezzo ai quali il vecchio barcone da
pesca, con il suo bravo nome (“Santissimo Redentore” o “Giuseppe Garibaldi” o
“Madonna Bonina”) dipinto a grosse pennellate sulla poppa, sembra un intruso.
L’Argentario, insomma, è cambiato. Mostra i segni, definitivi ed inconfondibili,
della grande rivoluzione economica che negli ultimi dieci anni ha spinto gli italiani
verso li mare; che ha portato il cemento sulle spiagge dove non c’era altro che sabbia;
i geometri ed i picchetti sulle rive più inaccessibili e rocciose; la nafta ed i gas di
scarico sulle acque più trasparenti. Di ferragosto in ferragosto neppure un metro delle
nostre coste e’ riuscito a mantenersi segreto. Abbiamo invaso la Sardegna, la
Calabria, l’Arcipelago Toscano, ma anche le Eolie e le Tremiti; abbiamo costretto i
vecchi pescatori di Ponza o i vecchi marittimi in pensione di Bogliasco o di Recco a
cederci le loro stanze verniciate a calce, con i grandi letti di ferro, le finestrelle sul
porto e la statua di Sant’Antonio sul comò.
E, tuttavia, basta venire qui almeno una volta, fermarsi un giorno su questa
montagna tutta allungata nel mare, per accorgersi che la trasformazione
dell’Argentario ha seguito strade molto diverse dalle altre. Geograficamente è ancora
un promontorio, sia pure legato al continente da tre fettucce di terra ma socialmente
e’ un’isola. L’isola dei grandi nomi e dei grandi stemmi, dei grandi soldi e delle
grandi ville.
Ci si può sbarcare per caso, si può restare a bocca aperta di fronte a paesaggi
incredibili che spuntano al di là d’ogni angolo di strada, di fronte al colore delle rocce
(breccia silicea con squame di mica e venature di diaspro che luccicano al sole ed alla
luna) o dei fiori (la passiflora azzurra o la boungavillea arancione, fatta venire
apposta dal Mozambico per tappezzare le pietre di Calapiccola), del mare o delle
vele. Poi si resterà di nuovo a bocca aperta scoprendo che quel maturo signore che
balla il surf intorno ad una bionda signora inglese in pantaloni (la stessa che, subito
dopo, tornerà a servire i clienti) è il Principe Bernardo di Lippe, marito della regina
Giuliana d’Olanda. O che la ragazza, in bikini blu sabaudo, che si tuffa a candela
dalla tuga d’un “XPilot”, stringendosi il naso con due dita, è Maria Pia
Karageorgevich, figlia dell’ex re Umberto e madre di quattro bambini tutti biondi;
mentre l’altra in costume nero che, seduta su uno scoglio, succhia Coca Cola da una
cannuccia di plastica, è la principessa ereditaria Beatrice, a Port’Ercole insieme ai
genitori e alle sorelle.
All’Argentario la nobiltà è di casa, e bisogna farci l’abitudine. Sempre alle
“Streghe”, per esempio, c’è la Principessa Soraya seduta al tavolo del Conte Arturo
Osio, un banchiere ricchissimo che ha la sua villa a Calagande, (“vie’, principessa,
vie’, facciamo un ballo”, dice Osio a Soraya. “Oui, mais je suis pas vieille princesse.
Je n’ai que ving huit ans!”, risponde Soraya ad Osio); c’è la principessa di Liegi che
balla scalza con il marito Alberto, anche quando Alberto ha ormai sonno e vorrebbe
andare in barca a dormire (“Ha l’argento vivo, quella ragazza”, dicono le mature
contesse del Promontorio che vanno ogni sera alle “Streghe”).
A guardarsi intorno, specie nelle sere di sabato, quando sulla pista non c’è più
posto per il surf, e bisogna adattarsi a tremolare tra gli ulivi, un cronista mondano
potrebbe anche impazzire. Ci sono almeno venti pagine di Gotha concentrate in pochi
metri di terrazza, titoli antichi e recenti, profili aristocratici illuminati dalle stelle, e
nomi famosi già incisi sulle targhe delle strade o delle piazze di Roma o di Firenze.
Vestono in calzoni e magliette le nobildonne (lo shantung di seta è la stoffa più
ricercata purché abbia colori soavi, quasi in dissolvenza. Niente modelli “a schiena
aperta”, per carità, “quelli ormai si trovano anche da Upim, se ne vedono anche nella
piazza di Frascati o nelle trattorie di Torvajanica addosso a ciccione grandi cosi’”, e
vestono in calzoni e maglietta i nobiluomini. Si chiamano Boncompagni o Borghese,
Corsini o Guglielmi, Gerini o Ruspoli e hanno tutti le ville sulle rocce. Ville da ricchi
illuminati, culturalmente aggiornati, capaci di conciliare comodità e stile, lusso e
difesa del paesaggio.
“Non e’ vero che i ricchi siano diversi”, dice la contessa Maria Monti Arduini,
citando Scott Fitzgerald per smentirlo: “l’Argentario è bello per questo, perché siamo
tutti amici e tutti uguali, tutti innamorati di questo posto e tutti pronti a far qualcosa
per difenderlo”. E porta le “Streghe” come esempio. Dietro il banco del bar, insieme
alle ragazze venute dall’Inghilterra per servire un whisky con il sorriso sulle labbra,
c’è il padrone del locale, quello che alle quattro di notte deve fare le somme degli
incassi e chiudere tutto prima di andare a dormire. Ma il padrone non è uno
qualunque, e’ il conte Leonardo Bedini, cioè un amico della sua clientela e anche un
amico del promontorio. Oppure l’albergo di Calapiccola, una costruzione tutta di
sassi e di tegole, abbracciata alla vecchi torre saracena. Anche lì, chi fa tutto non è un
albergatore qualunque, “non sarebbe possibile”, spiegano le contesse del
promontorio, “non sarebbe mai così bello, così elegante, così ben frequentato. C’è
voluta la mano di Nina, la contessa Benini di Firenze, un’altra patita dell’Argentario,
proprio come l o siamo noi, ma forse più meritevole di noi, se l’Argentario non è
diventato un altro Circeo ...”.
C’è promontorio e promontorio, dunque. Uno cento chilometri a sud di Roma, ma
ormai irrimediabilmente borghese, invaso dalle 600, dai transistors e dai ristoranti sul
mare, avvolto nel profumo dei calamai fritti delle pizze; l’altro a centocinquanta
verso nord, ma aristocratico e sauvage, d’una sauvagerie da miliardari.
Per capire quali sono state le tappe attraverso le quali s’è costruito il destino
dell’Argentario bisogna rifarsi a qualche anno addietro, quando le fortezze volanti
avevano appena smesso di far piover bombe su Orbetello e, in riva al mare di Porto
Santo Stefano, qualche tonnellata di cemento era tutto ciò che restava del siluripedio.
Maria Monti Arduini era già lì a fare i bagni. E c’era anche un’altra contessa (Sofia
Giglio, moglie di Goffredo Lizzani, l’architetto dei principi, quello che ha rifatto Via
Giulia, che ha rimesso in piedi dalle fondamenta gli antichi castelli delle grandi
famiglie romane, e che allora pescava saraghi sott’acqua), una marchesa (Lily Gerini,
appena tornata dall’America con una bandiera a stelle e strisce da piantare sulle
rovine della vecchia torre di Santa Liberata che era già appartenuta al duca Aimone
d’Aosta e che i tedeschi avevano fatto saltare con le mine), due giovani conti, i
fratelli Baschiero Salvadori (uno dei quali, Cecco, è oggi un biologo di buon nome e
direttore del giardino zoologico di Roma) e un’altra nobildonna toscana (Gigliola
Maltini, vedova di un ex gerarca e proprietaria di un po’ di terra sul versante nord del
promontorio, sopra punta Lividonia).
Fu l’architetto Lizzani a dare il via, costruendo una villa sulla parte alta di Santo
Stefano, un casale toscano di linee semplici e classiche (“qui siamo in Toscana”, dice,
“e le ville tipo caprese, con le mammelle bianche e gli archetti lasciamole fare alle
attrici. E poi miniamole”), affacciato ad est sulla laguna d’Orbetello e a nord su punta
Talamone. Poi ne costruì un’altra per se stesso a Punta Lividonia ed un’altra ancora
per il Conte Osio a Calagrande, sul versante nord-ovest del promontorio:
l’Argentario, dopo aver passato molti secoli come rifugio per le lucertole e i cinghiali,
o come avamposto per le scolte contro i pirati provenienti dal mare, era praticamente
rinato: cominciava a rivivere la sua storia, a riprendere il carattere di località preferita
dai ricchi, dai banchieri della Roma antica, quella che la “gens domitia” chiamava
“argentarii”.
A quasi duemila anni di distanza i nuovi argentari si danno da fare alla svelta,
riscoprono le bellezze del promontorio, la trasparenza del suo mare, il colore dei suoi
tramonti. A torre Santa Liberata, accanto alle rovine di una villa d’età neroniana, la
marchesa Gerini mette in piedi una grande villa a due piani, con le arcate del
soggiorno a picco sugli scogli, circondata da un giardino che si allunga sulla costa e
che nasconde, tra i roseti ed i viali di bosco, altre due ville per gli ospiti. Allo
Sbarcatello, sul versante opposto del promontorio, tra l’Isolotto e Punta Avvoltore, i
fratelli Borghese Alessandro detto Tinti e Pierfrancesco detto Memè) lottizzano le
loro terre e costruiscono altre ville, che vendono o affittano. A Cala dei Piatti, ora
ribattezzata Calapiccola, due architetti fiorentini, Guido Morozzi e Massimo Baldini-
Lilli, lottizzano altri scogli (quelli della contessa Benini) per realizzare un complesso
di cui faranno parte un albergo ed altre ville. L’albergo, quello abbracciato alla
vecchia torre saracena, viene inaugurato nel ’59 da una pattuglia di ospiti (il duca
Russel di Bedford, il duca Pietro Salvati di Migliarina, la baronessa Emily
Delagrange, il barone Prosper Poswick) che, tanto per sottolineare subito un
programma, hanno il sangue azzurro come il mare su cui s affacciano le finestre delle
loro stanze.
“L’ombra del fico fa bene ai nervi”, dice la contessa Nina Benini mostrandomi un
fico alto almeno tre metri che ha lasciato vivere in mezzo alla sua bellissima casa, tra
la stanza da letto e lo studio. È appena tornata da Firenze (“sa, il funerale del povero
Frescobaldi, che tragedia, e poi tutte le visite di condoglianze, e poi il caldo,
insopportabile …”) e deve darsi subito da fare perché Calapiccola senza di lei non
esiste. È lei che va a “fare i fiori” tutte le sere, lei che tiene i contatti con la clientela
(tutta sceltissima e per lo più inglese) lei che controlla i menù, che istruisce il
personale (“i miei schiavi”, li chiama sorridendo; “schiavi di lusso, molto ben
preparati che oggi si fanno sempre più rari e che bisogna pagare molto bene perché il
successo di Calapiccola dipende anche da loro. Sa che a luglio a San Remo si
piangeva aspettando l’arrivo dei tedeschi? E che a Rapallo molti alberghi erano
vuoti? E che Punta Ala aveva solo il trenta percento? Qui no, eravamo pieni, grazie a
Dio!”).
Tanto pieni che, tornando da Firenze, stanca ed accaldata per aver seguito le
spoglie del povero marchese Frescobaldi, la contessa Benini ha corso il rischio di
trovar occupata anche la sua casa, Ci avrebbe pensato il marito, Carlo Bettuzzi (un ex
ufficiale di marina che gli amici chiamano Carlos, forse perché ha un profilo che
ricorda quello d’un Borbone) rispondendo di sì ad un funzionario della ambasciata
americana che gli aveva chiesto se c’era posto a Calapiccola per la principessa Lee
Radzwill e, chissà, anche per sua sorella, Jackie Kennedy. Poi per fortuna (“io alla
Kennedy non avrei potuto certo dire di no, ma avrei dovuto andare a dormire in una
cabina, forse con il bagnino”) il problema si è risolto da solo. La Radzwill ha preso in
affitto una casa del Borghese, quella di Tinti, allo Sbarcatello. E la Kennedy non c’è,
almeno per ora.
C’è stata invece Greta Garbo, ospite fino a qualche giorno fa, nella villa di Lily
Gerini a Santa Liberata; ma nessuno se n’è accorto perché Greta Garbo non è mai
andata alle “Streghe”, né ai grandi pranzi a lume di torcia.
“Greta è sempre stata qui”, dice la marchesa Gerini, “si tuffava nuda da questi
scogli poi risaliva, si tuffava ancora ed era sempre nuda. Io i primi giorni mi
preoccupavo un po’ per i camerieri, poi ci abbiamo fatto tutti l’abitudine. È una
donna splendida, piena di nobleness, di nobiltà, come si dice? E io ho pianto, quando
è partita …”. Ora, dal mare dove si tuffava Greta Garbo, salgono una decina di
giovanotti che il cameriere introduce nel soggiorno. Sono il figlio del beccaio di
Santo Stefano, il figlio del falegname, o del pescaiolo, o del giardiniere della villa, e
vengono a misurarsi i costumi che la marchesa gli ha fatto preparare per il Palio (“Sì,
il Palio di mezz’agosto, saranno dieci anni che offro i costumi per l mio rione e
questi non vincono mai ...”).
È una tradizione che dura ormai da cinque secoli. È una gara di barche a remi,
condotte da ragazzi in costume, che si svolge in una grande festa di paese davanti ai
moli del vecchio porto del Valle. Ed è anche l’unica tradizione che ancora sopravviva
alla trasformazione dell’Argentario, l’unico ricordo dei tempi in cui una buffa
locomotiva (la stessa che, colpita da una bomba, dorme da vent’anni sul binario della
vecchia stazione di Orbetello con i fumaioli pieni d’edera) trascinava i vagoni che
collegavano il continente al promontorio. A ferragosto, la gente di Orbetello li
prendeva d’assalto e veniva a Santo Stefano per assistere al Palio. Gli uomini
facevano il tifo, bestemmiando. Le donne cantavano stornelli come questo:
“Emmettitelo ‘iccappello/ di chelli più migliori/ così quand’eschi fori/ e ti
s’osserva!”.

PAOLO VI M’HA DETTO


(Interivista a Paolo VI, pag 1)
di Alberto Cavallari

“Il Corriere della Sera”, 3 ottobre 1965


Per la prima volta nella storia della Chiesa e, più modestamente, del
giornalismo, un Papa accetta un colloquio con l’inviato di un quotidiano. Nel
“silenzio della sera” nasce un “diario laico” in cui due diversi respiri del Paese
sembrano trovare per un attimo il medesimo ritmo. Soprattutto quando il
Pontefice ammette, senza esserne sollecitato, che “decidere non è facile come
studiare” e conclude: “bisogna proprio che Dio ci illumini …”. Debolezza?
Incertezza? No, lo difende a sorpresa il giornalista, non certo un cattolico
bigotto: è “un realismo quasi drammatico”.

ROMA – Papa Paolo VI mi ha parlato del Vaticano d’oggi, della Chiesa, del
Concilio, del suo viaggio a Nuova York, alle Nazioni Unite, dell’Italia, dei rapporti
Chiesa-Stato. Mi ha ricevuto nella sua biblioteca privata, di sera, alla vigilia della
partenza per l’America, conversando poi lentamente e con molta franchezza. I papi
non concedono, è noto, interviste; non ne concedono da duemila anni, ma un
colloquio com’è stato questo so di poterlo riferire. Esso nasce da una visita al Papa
mentre sto completando, da mesi, un “viaggio in Vaticano”. Nasce dall’occasione
semplice e non dall’ufficialità. Per giorni ho frequentato i palazzi apostolici, il
Concilio i ministeri; di qui è scaturito l’incontro tanto raro quanto occasionale con
Paolo VI, come un episodio “privato” umano. Ed esso mi fornisce il “prologo” per
queste cronache. Un prologo che porta subito al cuore del Vaticano stesso e mi
consente di scrivere davvero dal “di dentro” una realtà altrimenti difficile da
rappresentare.
Lo scopo di queste mie note è infatti molto semplice. Un Concilio si chiude, una
Papa va all’Onu e la Chiesa conosce discussioni e trasformazioni che non conosceva
da secoli. Milioni di persone guardano al Vaticano degli anni Sessanta, per chiedersi
se cambia, come cambia, mente il Concilio s’avvia alla conclusione. Nessuna capitale
del mondo, civile o religiosa, Washington, Mosca o Calcutta, è infatti come il
Vaticano sotto i riflettori: perché nessuna capitale vive anni di così grande trapasso.
Mas cogliere il significato di ciò che accade non è facile se non si cerca di vedere il
Vaticano “dentro”, con un rovesciamento d’ottica.
Il Vaticano d’oggi infatti è qualcosa di mobile e di fluido; una immagine che
appena si sta mettendo a fuoco e richiede continui aggiustamenti. Lo stesso Paolo VI
è la prova di come sia rischioso stabilire “dall’esterno” qualcosa di vero, poiché gli
stessi che nel ’64 lo definirono un soffocatore del Concilio ora lo esaltano come un
intrepido sostenitore della libertà religiosa, facendone un personaggio continuamente
deformato. Guardare dall’interno sarà quindi un filo conduttore di queste note, e
voglio subito dire che intendo solo tenere un diari, scritto proprio con il tono del
diario, immediato, semplice, incurante d’architetture, e non un’inchiesta. Come
voglio anche aggiungere che questo diario sarà “laico”, nel senso che non pretende di
discutere di questioni religiose, parteggiare per la Chiesa “progressiva” o per la
Chiesa “conservatrice”, o giudicare se certe decisioni siano un bene o un male per la
Chiesa stessa. Ciò che intendo descrivere è il Vaticano, non la Chiesa; cercando di
capire com’è mutato dentro la “svolta conciliare”, e quali nuovi organismi nascono,
come si trasformano i vecchi all’ombra di San Pietro; e sempre facendo parlare gli
uomini che governano la Santa Sede. Ma veniamo alla prima pagina di questo diario.
Papa Paolo VI mi ha ricevuto, dicevo, di sera. Sono andato alla seconda Loggia
verso le sette, all’ora in cui finiscono le udienze, mentre si spengono le luci dei
palazzi apostolici. Il colloquio è durato quasi un’ora, e riferirne i dettagli, le stesse
cadenze del “parlato” è certamente essenziale per conoscere lo stile di un pontificato.
Il Papa si è mosso verso la porta della biblioteca semiaperta., con modi semplici,
sveltamente, da uomo moderno capace di chiari rapporti umani. Sullo sfondo dei
libri, dentro la luce viva d’un salone privo d’ori e di baldacchini, il Papa ha poi steso
la mano senza imporre né sollecitare il bacio dell’anello. Infine ha cominciato a
scegliere con lo sguardo tra le poltrone che fanno circolo alla sua scrivania, finché gli
è sembrato di trovare la più comoda e la più vicina per l’interlocutore. “Venga, venga
– ha detto il Papa – si metta a sedere lì, parleremo meglio”. Né m’è sembrato un gesto
di mera cortesia: ma piuttosto un preciso rifiuto del classico monologo dei papi.
Oltre lo scrittoio la sua figura bianca ha disegnato un’immagine inedita.
Fisicamente ho trovato Paolo VI disteso, spontaneo, poco somigliante al Papa teso,
scarno, nervoso, oppure introverso, oppure diplomatico che solitamente si descrive.
Ma di questo dirò poi. “Ci fa piacere, sa, parlare del Vaticano – ha detto il Papa
affabilmente, con espressione arguta – oggi molti cercano di capirci e di studiarci. Ci
sono tanti libri sulla Santa Sede e il Concilio. E alcuni sono anche ben fatti, vede. Ma
molti assicurano che la Chiesa pensa certe cose senza aver mai chiesto alla Chiesa
cosa pensa. Mentre, dopo tutto, anche il nostro parere dovrebbe contare qualcosa in
tema di religione. Qui il Papa ha fatto una pausa, una parentesi divertita. Poi ha
continuato, spegnendo il sorriso: “Ma ci rendiamo conto che non è facile intendere
ciò che viene fatto e viene discusso nel mondo della Chiesa. Anche il Papa, sa, certe
volte fatica per capire il mondo d’oggi”.
Dopo questo preambolo senza formalità,, così francamente umano, Paolo VI ha
toccato gli argomenti più importanti del suo pontificato. Nel silenzio della sera, nella
sala senza segretari, ha affrontato anche i temi più difficili e critici, e l’ha fatto da
uomo del nostro tempo, che non intende eludere nulla, scopertamente deciso ad una
sincerità che rifiuta i rapporti facili, la simbolica simpatia o la simbolica solennità.
Senza scrivere (non si può scrivere davanti ai Papi), ho fissato nella memoria parola
per parola le sue frasi, quando Paolo VI m’ha parlato, con realismo persino doloroso,
della Chiesa e del mondo, del dialogo, della sua successione a Giovanni XXIII.
“Bisogna essere semplici ed avveduti – m’ha detto – nel cogliere il senso degli
anni che stiamo vivendo. La Chiesa vuole diventare poliedrica per riflettere meglio il
mondo contemporaneo. Per diventarlo ha deciso di affondare l’aratro nei terreni
inerti, anche i più duri, per smuovere, vivificare, portare alla luce ciò che restava
sepolto. Questa aratura provoca scosse, sforzi, problemi. Al nostro predecessore
toccò il compito di affondare l’aratro. Ora il compito di condurlo avanti è caduto
nelle nostre povere mani”. E a questo punto Paolo VI si è fermato, portando le mani
sopra la scrivania, guardandole per un attimo come sconcertato dalla loro fragilità.
Ma poi le ha nascoste, subito, quasi per un improvviso pudore, ed è passato, col
realismo che dicevo, alle frasi più illuminanti del suo personaggio di papa moderno,
incapace d’illusioni.
“Molti si chiedono perché la Chiesa compia queste fatiche. Molti si chiedono il
perché del dialogo. Ma se lo chiedono perché non hanno coscienza del vero
problema. Il problema vero è che la Chiesa si apre al mondo e trova un mondo che in
gran parte non crede. San Carlo, a Milano, agiva in condizioni ben diverse, ad
esempio. Quando ero a Milano (Paolo VI si è dimenticato un attimo di noi), ho visto
le carte della diocesi ai tempi del Borromeo. I problemi erano l’acquisto di un
confessionale, una chiesa da riparare, la presenza di tre ubriaconi in una parrocchia,
la questione di una fattucchiera. Ma com’è tutto diverso, oggi. Oggi non si tratta più
di una fattucchiera che imbroglia la gente. Si tratta che milioni di persone non hanno
più fede religiosa. Di qui nasce la necessità per la Chiesa di aprirsi. Dobbiamo
affrontare chi non crede più e chi non crede in noi dicendo: noi siamo fatti così, diteci
perché non credete, perché ci combattete”. Ed ora il Papa s’è interrotto. Ha come
cercato di nascondere la tristezza che una visione così poco trionfalistica delle cose
gli disegnava sul volto. Ha trovato aiuto nella sua stessa semplicità. “Ecco il dialogo
– ha concluso tornando al sorriso – È propri tutto qui, vede”.
Parlare, spiegarsi, desiderare che l’interlocutore non si senta “isolato”, saper
ascoltare, cercare continuamente di distruggere i diaframmo che si creano tra un
uomo e un Papa, non abbandonarsi a una parte facile, con preoccupazione continua ,
commovente, m’è sembrata una parte fondamentale del carattere di Paolo VI. La
coscienza che un Papa moderno debba affrontare l rischio del discorso diretto,
mobile, umanamente vero, m’è sembrata un dato preciso della sua figura, che pare
difficile perché continuamente sfuggente all’oleografia. Ma ciò risulterà bene dal
resto della conversazione, mai “recitata”, sempre tesa nella franchezza. Il Papa è
passato infatti agli argomenti delicati che spesso suscitano critiche al suo pontificato:
il Concilio, i conflitto tra i progressisti e i conservatori, il suo atteggiamento verso la
curia, la cosiddetta fase di stanchezza dell’ecumenismo.
Palo VI m’ha detto: “Questo dialogo e questo nuovo atteggiamento della Chiesa
comportano discussioni dentro la Chiesa, certo. E il Vaticano per questo si trova al
centro dell’attenzione mondiale. Ma il problema vero resta ciò che dicevamo: la
Chiesa in un mondo che in gran parte perde la fede. Le altre cose, sa, bisogna vederle
nelle loro proporzioni reali. Dopotutto, proprio il Concilio sta dimostrando che
accanto a una crisi della fede nel mondo non c’è per fortuna una crisi della Chiesa.
Anche i temi più gravi, più nuovi come la libertà religiosa, sono dibattuti per amore
della Chiesa. E lei capisce cosa questo problema significhi”.
Il Papa ha fatto una pausa, sottolineando con silenzio questo problema “liberale”
del suo pontificato. Ha quasi desiderato che dicessi qualcosa e m’ha lasciato dire. Poi
ha continuato: “Lo stesso formarsi di due parti, progressisti e non progressisti, come
si dice, non implica mai il problema della fedeltà. Tutti discutono per il bene della
Chiesa, e non emergono né defezioni né preoccupanti segni di lotte interne. Se ci
fossero, come dicono molti, il Papa se ne preoccuperebbe, sa, e lo direbbe chiaro. Il
Papa è qui per questo!”.
Nel dire ciò Paolo VI ha avuto un’espressione di humour indicando la poltrona su
cui siede, ed è andato avanti così, dentro questa vena d’umore spontaneo. Criticato
come difensore della curia, il Papa ha persino affrontato questo tema. Non vi è
arrivato, si capisce, intenzionalmente, ma trasportato dall’humour che dicevo. “Molti
problemi – m’ha detto – vengono deformati da chi sta lontano. Ma è stato bene
discuterli, perché discutendo si sono semplificati. Prenda tutte le discussioni che si
sono fatte sulla curia, per esempio. Lei conosce tutte quelle accuse di centralismo, di
romanesimo. Ma ora il problema sta prendendo le sue dimensioni reali. È bastato
venire a Roma per vedere che la Chiesa sta molto meglio in salute che in passato, e
che serti suoi difetti non sono drammatici”.
Paolo VI m’è sembrato, in questo passaggio, stimolato dalla sua esperienza dio ex
sostituto alla segretaria di Stato, di “tecnico” della Chiesa. S’è messo a raccontare
volentieri, rapidamente. “In passato la Chiesa era dominata da re e imperatori, mentre
adesso è libera, e il Papa ragiona come gli pare. In passato c’era il nepotismo. E
adesso non c’è più. In passato c’erano casi di simonia, e adesso proprio non se ne può
più parlare. Anche alcune persone della curia, lei lo sa, peccavano talvolta di simonia.
E sa perché? Accadeva che la curia per autofinanziarsi facesse pagare i documenti
degli atti che le venivano richiesti. Mentre oggi la curia riceve i suoi compensi regola
ri, come ogni buona amministrazione del mondo. Questo stesso argomento è quindi
da sdrammatizzare. Sono necessarie riforme tecniche, certo, per lavorare meglio. Ci
saranno attriti personali da accomodare. Ma gravi problemi non sono emersi. Fosse il
contrario, sarebbe nostra cura risolverli. Lei pensa che il Papa negherebbe i mali del
governo vaticano, se ce ne fossero? Li elencherebbe, li studierebbe, poi li
eliminerebbe.
Paolo VI ha di nuovo sorriso, nel piacere di un discorso obiettivo: come un tecnico
che parla di un meccanismo che conosce; ma anche come un Papa che non difende la
linea curiale per partito preso, e solo intende essere interprete di una
drammatizzazione dei fatti, provocata dal Concilio stesso. Preso da questo stato
d’animo ha continuato in questa chiave umana anche parlando dell’ecumenismo. “Il
Concilio serve a semplificare molte cose – ha detto ancora – anche considerato come
incontro tra gli uomini di diverse chiese. Lei ha visto gli osservatori al Concilio? Li
veda, li veda. Mancano quelli di Atenagora, per le ragioni che si sanno. Ma gli altri
vengono, ci conoscono. Nessuno ha fatto ancora un passo decisivo, sa. Non bisogna
illudersi. Ma intanto l’atmosfera è cambiata. Un giorno, per esempio, è venuto a
trovarci, con gli osservatori, un valdese. S’è affacciato all’uscio, ci è venuto incontro
e, stendendo la mano, ha esclamato: ‘Buongiorno, sono cinquecento anni che non ci
vediamo’. E raccontando questa storia il Papa ha riso apertamente.
Paolo VI ha lasciato passare un po’ di secondi, quasi per consentire una domanda,
e così il discorso si è spostato sul viaggio all’Onu. Ma anche qui la sua parola è stata
come colorita dall’humour e dal sorriso. Il viaggio all’Onu del Papa ha infatti aperto
numerose discussioni sul suo “attivismo” e sul significato dei suoi interventi nella
politica internazionale. Ma sul viaggio in America Paolo VI (primo Papa che passa
l’Atlantico) s’è intrattenuto ancora con semplicità. Il discorso s’è fatto, anzi, tanto
immediato che il Papa ora parlava con chiare inflessioni lombarde.
Sul viagigo all’Onu ha detto: “Già, già, ora faremo anche questo viaggio. Ci hanno
chiesto di andare per celebrare il ventesimo anno dell’Onu e noi abbiamo risposto di
sì. Il Papa non può mica rispondere ‘Grazie tante, ma non ho tempo’. Fosse per noi, si
potrebbe anche risparmiare fatica e quattrini. Ma per la prima volta i capi di tutto il
mondo riuniti vogliono ascoltare la parola del rappresentante di Cristo, e noi non
possiamo fare questo viaggio. Così mettiamo il mantello del pellegrino, che poi è il
mantello di San Rocco, e proprio come San Rocco andiamo laggiù”.
Così dicendo, il Papa ha scosso la testa; m’è sembrato l’uomo giunto quasi a
settantun anni che rammenta la fatica umana di certe cose; ma anche stavolta
discrezione e pudore hanno immediatamente rovesciato l’espressione assorta, un po’
triste che gli si annunciava negli occhi. Ha rifiutato questa immagine patetica con
prontezza e subito l’ha corretta con un sorriso: “Dovremo dire come dice il salmo, sa,
Loquebar in conspectu regum et non confundebar, parlerai davanti ai re e non ti
confonderai. Ma chissà se anche noi riusciremo a cavarcela bene o male davanti a
tanta gente importante”.
L’orologio dorato che si trova sul tavolo del Papa ha nuovamente suonato. Ma
Paolo VI non s’è alzato. Ha raccolto l’inizio di una domanda sull’Italia e l’ha portata
avanti senza frasi di circostanza e abili retoriche, fino al terreno spinoso dei rapporti
Stato-Chiesa: “Spesso ci chiedono una parola sull’Italia, ma è così difficile dirla. Se
la diciamo, osservano che il Papa interviene nelle cose italiane. Se non la diciamo,
commentano che il Papa non ha il coraggio di dichiarare il suo pensiero. D quando in
quando, certo, siamo intervenuti. Ma lo facciamo solo perché problemi religiosi e
morali comportano il nostro insegnamento. Ma ciò non significa che il Papa sia per
l’intervento e voglia trattare i cattolici italiani diversamente dagli altri cattolici. Non è
certo qui che si consiglia un’operazione politica o un’altra”.
Paolo VI ha posato la mano sul tavolo dicendo “qui” con decisione. Poi, ha voluto
andare oltre, fuori d’ogni ambiguità. “L’Italia, l’Italia – ha detto come emozionato.
Ma, nel timore della retorica ha represso anche il sentimento affettuoso che stava
affiorando, e ha scelto ancora la strada difficile del discorso vero. – Molte cose non
sono facili, ma forse la buona volontà aiuterà gli italiani. Il cammino è faticoso, ma
non bisogna perdersi d’animo. Vede, il problema di fondo è morale. Si sono fatti
progressi, costruito strade eccetera. Ma forse nel cuore degli italiani non c’è stata
un’uguale ripresa e, come dire?, sotto la superficie c’è qualcosa d’inquieto che
corrode e che divide. Ma non vorrei continuare. È così facile fraintendere la parola
del Papa sull’Italia”.
Paolo VI però non s’è fermato. Il problema dei rapporti Stato-Chiesa costituiva un
nodo, ora, del suo stesso discorso e i Papa ha voluto tagliare anche questo difficile
nodo. L’ha fatto con la tristezza del suo realismo, con l’umiltà dell’intellettuale che
no elude il problema. “Noi siamo in una posizione delicata. Stato e Chiesa, Chiesa e
Stato: ecco un rapporto reso difficile dall’essere noi in Italia. Sappiamo che, per
questo aspetto, significhiamo un problema per la vita italiana. Lo sappiamo, sa? Certe
volte siamo scomodi, anche per coloro che ci vogliono bene”. E il Papa è rimasto a
pensare, mettendo nell’annoso discorso politico quest’accento di umanità sincera.
“Ma bisgona – ha continuato – trovare una soluzione. Bisogna giungere ad un rispetto
reciproco. Ognuno deve restare nel proprio campo. Noi desideriamo che gli italiani
facciano la loro esperienza liberamente. Noi ripetiamo continuamente ai nostri preti:
non mescolatevi, non chiedete, non bazzicate per sentieri indebiti”. Allargando le
braccia, come per accompagnare meglio una rassegnazione, il Papa ha allora
concluso: “Ma viviamo sullo stesso suolo e l’intrecciarsi della vita quotidiana spesso
contraddice le nostre linee generali. Spesso per la Chiesa è scomodo avere i piedi
sulla terra”.
Paolo VI s’è preparato, a questo punto, per il congedo. Ma poi s’è come pentito:
ha preferito un’ultima riflessine che, sfiorando il problema del controllo delle nascite,
ha come riassunto con lucida semplicità ciò che direi la sua posizione storica. “Quanti
problemi! – ha detto come parlando a se stesso – come sono numerosi e come sono
numerose le risposte che dobbiamo dare. Vogliamo aprirci sul mondo e dobbiamo
decidere giorno per giorno cose che avranno conseguenze nei secoli. Dobbiamo
rispondere alle domande dell’uomo d’oggi, del cristiano d’oggi, e ci sono domande
particolarmente difficili per noi, come quelle legate ai problemi della famiglia
cristiana”. Poi il realismo del Papa è stato immediato. “Prenda il birth control, per
esempio. Il mondo chiede cosa ne pensiamo e noi ci troviamo a dare una risposta. Ma
quale? Tacere non possiamo. Parlare è un bel problema. La Chiesa non ha mai dovuto
affrontare, nei secoli, cose simili. E si tratta di materia diciamo strana per gli uomini
della Chiesa, anche umanamente imbarazzante. Così le commissioni si riuniscono,
crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca
a noi decidere. E nel decidere, siamo soli. Decidere non è così facile come studiare.
Ma dobbiamo dire qualcosa. Che cosa? … Bisogna proprio che Dio ci illumini”.
Il mio colloquio con Paolo VI è finito così. E ora dirò l’impressione che mi ha
lasciato. Anzitutto vedrei in questa conversazione quasi un “autoritratto” che
modifica parecchio certe immagini correnti. La successione a Giovanni XXIII ha
infatti cristallizzato intorno a Paolo VI dei contrasti e i difetti dello psicologismo. Di
qui la contrapposizione simpatia-rigore, allegria-amletismo, estroversione-angoscia e
il fatale derivarne di certe deduzioni sui metodi di governo, pure incentrate su
formule fisse, come apertura-chiusura, dialogo aperto-dialogo controllato, progresso-
involuzione, mentre da questo colloquio risulta solo l’inesattezza e l’inutilità delle
interpretazioni psicologiste.
Paolo VI è in buona salute; abbronzato; persino addolcito nei tratti fisici dagli
anni: dimostrazione palese di come siano infedeli certi mezzi di propaganda televisivi
che lo mostrano freddo, teso e pallido. Come umore non mi è parso posseduto da
incubi o nevrosi; ciò che pre angoscia m’è sembrata riflessività. Ciò che si definisce
amletismo m’è parso realismo, con la flessibilità che il realismo comporta; e ciò che
si descrive come indecisione forse corrisponde a gentilezza di modi, prudenza,
gradualismo. Infine diei Paolo VI uomo del suo tempo, non desideroso del gesto
facile, ma del discorso privo d’effetti; cosciente che il suo tempo comporta solitudine,
dubbio, contraddizione e il coraggio impopolare di esprimerli; un Papa, insomma, che
conosce la situazione storica in cui si muove e la vive con una emozione segreta.
Ma queste sono solo impressioni e non desidero fare della psicologia a mia volta.
Mi pare che dalla conversazione risulti piuttosto come Paolo VI vada affrontato col
metodo delle personalità rappresentative. Egli interpreta un momento storico che
continua ma non è più quello di Giovanni XXIII. Le sue affermazioni sullo Stato e
sulla Chiesa lo ripropongono un Papa “liberale”; paiono persino anticipare un diverso
modo d’intendere la politica concordataria. La sua posizione di continuità rispetto a
Giovanni XXIII non è certamente oscura; il rifiuto di ogni “trionfalismo” nella
visione dei problemi vaticani è d’un realismo quasi drammatico. Il suo “curialismo” è
certamente vero, ma di natura tecnica e non politica; il suo “efficientismo” è, certo,
adesione alla necessità di un’epoca oltre che il risultato di un carattere nuovo. Ma in
un punto del colloquio c’è forse la chiave vera del suo ruolo. E mi riferisco all’ultimo
discorso sulle “decisioni solitarie”.
Passatigli anni Cinquanta, gli anni delle annunciazioni gloriose, corrono ora i
difficili anni Sessanta. Il papato di Paolo VI è il primo che viene caratterizzato da un
Concilio. La Chiesa ne ha accolto il “pluralismo dei problemi” del mondo moderno,
ora deve interpretare questo pluralismo e scegliere una “pluralità di strumenti”. Ecco
il destino di Paolo VI, ed ecco il Vaticano che cambia. Mentre dura il Concilio, e
sotto la Cupola di San Pietro dura la fase della “creazione” dottrinaria, spetta a Paolo
VI tradurre in “azione” gli orientamenti nuovi. È l’epoca della gioia delle decisioni.
Paolo VI interpreta quest’epoca nuova, che non può essere giudicata giorno per
giorno.

NONNINO IN ARNO
(Cronache dal diluvio, pag. 3)
di Indro Montanelli
“Il Corriere della Sera”, 22 novembre 1966

Pochi giorni dopo l’alluvione che ha ucciso in tutta Italia oltre cento persone, e
che a Firenze ha distrutto libri antichi e capolavori della pittura mondiale, Indro
Montanelli smette di polemizzare con Gronchi, il governo Moro e la Rai e da
Milano scende a casa, a trovare amici e parenti. Scopre che ce n’è uno che ha
ulteriormente complicato le cose.

FIRENZE – Tra le tante storie del diluvio che ho raccattato in un rapido sopralluogo
a Firenze, forse questa dispiacerà ai lettori abituati a piangere, quando piangono, con
tutti e due gli occhi. La troveranno poco meno che sacrilega. E un po’ lo è. Ma è
anche la più fiorentina di tutte, la più rappresentativa di quegli umori di una
popolazione che invece piange con un occhio solo e, colpita dalla tragedia, entra in
polemica con essa e non ha pace finché non l’ha precipitata dal suo aulico piedistallo,
spogliata dai suoi solenni paludamenti e ridotta a grottesco. La scena che sto per
descrivervi è appunto un tipico grottesco fiorentino, un ghigno alla catastrofe, alla
distruzione, alla paura e financo alla morte, perché ha per protagonista un cadavere.
La riferisco pari pari come me l’ha raccontata l’amico d’infanzia – e un po’ mezzo
parente – che l’ha vissuta.
“Tutto per me cominciò verso le sei del mattino, con un urlo ‘Acqua! … Acqua!’.
Mi girai dall’altra parte, convinto che quella citrulla della mi’ moglie avesse, come al
solito, lasciato un rubinetto aperto, ma sentii un rombo che non poteva essere quello
della cannella, tanto pareva venire dalle viscere della terra. Forse era il terremoto, ma
non ebbi il tempo per pensarci, perché in quel momento entra la mi’ figliola in
camicia e con gli occhi di fori della testa, berciando: ‘babbo, s’affoga!’. ‘S’affoga,
dico, come s’affoga?’ e schizzo giù dal letto in pigiama, cioè in giacca di pigiama
perché io i pantaloni non li porto, e solo dopo due ore me n’accorsi dal freddo e
l’infilai”.
“Ormai potevo farlo perché, tanto, non avevo più pensieri. Il mio magazzino al
pianterreno, lo sai, è più basso delle spallette dell’Arno. Non ti dico altro. Della bella
roba che ci avevo accumulato non solo con i soldi, ma con la passione, la pazienza di
tutta una vita – e c’erano, mi puoi credere, dei gran bei pezzi – l’unica cosa che
affiorava su quel mare di melma era il tetto di una bella stufa tirolese alta due metri e
mezzo. L’acqua, dopo aver divelto porta e finestre, arrivava fin lì, cioè a mezza scala,
e girava, girava, figlia d’un cane, portandosi via cassetti, seggiole, consolle,
candelieri e quattro angoliere del Settecento, quattro chicche ch’erano il mio
orgoglio. Tutto perso, tutto andato. E noi lì, bocconi sulla botola del primo piano, a
guardare impotenti ed in silenzio, ti giuro senza neanche pensare che, se l’acqua
saliva ancora, portava via anche noi, e forse era meglio, tanto che ci si sta a fare.
Finché la mi’ moglie fa, picchiandosi la testa ‘Oddio, e nonnino?’”.
“Nonnino era il su’ babbo, ma lo chiamava nonnino anche lei, tanto era vecchio,
aveva quasi novant’anni, e stava con noi, ma da due giorni era a letto con la
bronchite. Ci si precipita da lui, e lo si trova paonazzo in viso per la febbre, come una
melanzana, e con un respiro che faceva concorrenza al rombo dell’Arno. Oh nonnino,
cominciano a mugulare le due citrulle – voglio dire la mi’ moglie e la mi’ figliola –
nonnino more, oh povero nonnino. Allora vedo rosso, e impongo silenzio con un
cazzotto sul comò, mi metto davanti al vecchio col dito teso e gli fo: eh no, eh no,
perdio, ora no, eh? Hai avuto a disposizione, per morire, quasi novant’anni, e vorresti
scegliere proprio questo momento che siamo chiusi come topi in trappola e non si
saprebbe neanche dove metterti? Eh no, nonnino, questo è dispetto, questa è
ingratitudine, e non ce lo devi fare. Ma lui duro a rantolare, con un febbrone da
cavalli, e le due citrulle in camicia e bigudì a piagnucolare: oh nonnino, povero
nonnino, l’aveva sempre detto che l’umido gli faceva male e ora, hai visto, con tutta
quest’acqua … ”.
“Ti risparmio i particolari. Io sul letto con gli altri inquilini dello stabile a vedere
se arrivava qualche aiuto e ad invocare agitando in aria lenzuoli, mutande, camicie, e
anche sugli altri tetti era tutto uno sventolio che Firenze sembrava il Carosello
pubblicitario di un detersivo. La mi’ figliola, che fa la comunista e in chiesa non ci va
mai, in ginocchio davanti ad un quadro della Vergine – un fondo oro, intendiamoci –
a biascicare come una pinzochera: o Madonnina, o Madonnina, salvaci. La mi’
moglie, col dottore del piano di sopra, a dar le gocce a nonnino per vedere di tenerlo
su fino all’arrivo di qualche barca o di un elicottero. Ma lui, nulla. Aveva deciso di
morire, e alle undici era lì, stecchito”.
“Che si doveva fare, dimmelo te. Vengono gli altri inquilini, ci si consulta con
loro e specialmente col dottore, e si dice ‘beh, per il momento aspettiamo, forse
qualcuno prima o poi arriverà a darci una mano, ma certo che se l’attesa si prolunga,
tenersi un cadavere in casa, con la radio che già avverte di non usare l’acqua è
inquinata e attenti alle epidemie, diventa un pericolo per il casamento’”.
“Insomma, per quel giorno non si fece nulla anche perché qualcosa, di fuori,
sembrava si muovesse. Il ronzio degli elicottero sovrastava il rombo dell’Arno, e
questo voleva dire almeno che avevano cominciato ad accorgersi di cosa succedeva
perché dapprincipio non se n’aveva avuta l’impressione. Non che s’avesse una gran
fiducia nell’organizzazione dei soccorsi. Anzi, da quando la radio aveva annunziato
che il governo s’era riunito per decidere le misure eccetera s’era detto: ‘addio, siamo
del gatto’. Ma sui fiorentini ci si contava, e siccome non potevano essere tutti
sott’acqua come noi, si pensava che prima o poi si sarebbero fatti vivi. Però intanto
aveva cominciato a diffondersi un puzzo, un puzzo e tutti a chiedersi: ‘o di dove verrà
questo puzzo, finché uno disse che doveva venire da nonnino. Noi si disse che era
impossibile, dopo neanche dodici ore dal decesso, anche il dottore ci dette ragione e
difatti dopo ci si accorse che il puzzo veniva dalle fogne scoppiate, ma gli altri ad
insistere che i morti più sono vecchi e più presto si decompongono. E insomma, sai,
nel nervosismo di quella notte buia, in quella casa allagata, nel rombo dell’acqua,
nell’incertezza del domani, per prevenire la psicosi del cadavere, si decise di metterlo
in una bara d’emergenza costruita alla meglio con le assi di tutte le cassette a
disposizione, e poi, dalla botola che dall’appartamento dà sul negozio, di calarlo con
una fune nell’unico posto ancora asciutto, cioè sul tetto della stufa tirolese. Gli altri
inquilini, povera gente, dettero una mano senza dir nulla, ma in fondo ai loro occhi
leggevo quello che sotto sotto si pensava anche noi, e cioè che l’espediente valeva
fino a un certo punto perché una botola non bastava a difenderci dal puzzo del marcio
e dal pericolo dell’infezione, e che se l’acqua, che aveva portato via tanta roba,
avesse portato via anche lui ….”.
“Ora io, lo sai, a certe buggerate della trasmissione del pensiero, della fede che
provoca il miracolo eccetera non ci credo. Ma qualcosa deve esserci, perché non s’era
finito di posare la cassa sul tetto che l’acqua, come sospinta o risucchiata dalle nostre
paure o dalle nostre speranze, chiamale come vuoi, si gonfia in un’ondata da libeccio
e si porta via il nonnino. Non ti dico la mi’ moglie e la mi’ figliola. Mi s’attaccano al
collo, e tutt’e tre a piangere e lamentarci: o nonnino, povero nonnino, guarda come
finisce, lui che aveva tanta paura dell’umido. E gli altri inquilini a far coro con noi: o
nonnino, povero nonnino, era tanto una brava persona, così gentile, così discreta, e
giù tutti ad abbracciarci e a dirci: ‘suvvia, fatevi coraggio, non è mica colpa vostra,
chi poteva prevedere che l’acqua crescesse ancora, eppoi tanto l’anima non si bagna,
a quest’ora è già in paradiso e sta meglio di noi, finché questo bel coro di prèfiche
viene interrotto da un urlo del dottore: ‘Rieccolo!’”.
“Era vero. La corrente faceva mulinello intorno alla casa e, dopo aver trascinato
via il nonnino dalla saracinesca sfondata, lo riportava dentro dalla finestra divelta.
Allora persi proprio la pazienza ed urlai: ‘eh no, eh no, adesso esageri. Noi per te s’è
fatto tutto quello che si poteva malgrado l’emergenza, ti s’è dato le gocce, ti s’è
assistito fino all’ultimo, ti s’è fatta la cassa, ci siamo messi in venti a piangerti fino
all’ultima lacrima nel dirti addio, che colpa abbiamo se l’Arno ti porta via, vacci e
rassegnati”.
“Come dire al muro. Per sei volte nonnino uscì e per sei volte tornò ballonzolando
in mezzo gli altri detriti, dentro e fuori, fuori e dentro, pareva proprio che ce lo
facesse apposta, tanto che alla fine anche la su’ figliola – cioè la mi’ moglie –
cominciò a urlare con me: ‘bella ricompensa, nonnino, bella ricompensa per noi che ti
s’è trattato con tanto amore. Non c’è un nonnino in tutta Firenze che sia stato trattato
come te, e ora guarda come ci ricambi’. E tutti gli altri inquilini in coro: ‘ma
insomma, che vuole? Si può sapere? Gli s’è fatto un funerale, date le circostanze, di
prima classe, se ne vada ora, quest’ingrato, questo seccatore, quest’importuno, già è
sempre stato un rompiscatole, se ne vada, perdio, se ne vada”.
“Per fortuna se ne andò, altrimenti, te lo dico io, finiva a sassate per buttarlo a
fondo, e povero nonnino non se lo meritava, era tanto un bon òmo … Anche lui m’ha
preso, maiale d’un Arno!”.

LA NOTA STONATA
di Lietta Tornabuoni

“L’Europeo”, 16 marzo 1967

Una sera, in albergo di Sanremo, si uccide Luigi Tenco. Era considerato


qualcosa di più di un talento promettente: era il cantautore che proponeva una
nuova filosofia della musica. Lo avevano eliminato prima della serata finale del
Festival. Sul comodino pare lasci un biglietto in cui si dice incapace di stare in
un mondo in cui cuore deve continuare per forza a far rima con fiore. Il mondo,
ancora oggi, continua a far rimare cuore e fiore, e lui già il giorno dopo viene
rimosso anche dalla memoria. E non è questo l’unico tradimento.

SANREMO – Alle tre del mattino Lucio Dalla piangeva senza accorgersi di essere
nudo (nello smarrimento e nella fretta s’era gettato addosso solo un corto giaccone di
pelliccia bianca e nera). Nico Fidenco invocava la sospensione del Festival, cantanti
melodici e protestatari gridavano “Assassini, lo avete ucciso voi” e volevano
picchiare Zatterin. A mezzogiorno, arrivando puntuali alle prove, dichiaravano: “Era
troppo puro, un idealista, un poeta” ai microfoni della radio bulgara o di radio
Montecarlo, le uniche che volessero ascoltarli; dalla Rai-Tv era venuto invece
l’ordine di far finta di nulla, a risolvere il caso spinoso avrebbe pensato come sempre
Sergio Zavoli. Nei discorsi delle tre del pomeriggio l’idealista tendeva a mutarsi in
esaltato, il poeta in visionario; alle cinque si faceva strada la certezza di
un’inevitabile fatalità, “prima o poi l’avrebbe fatto comunque, tutto impasticcato
com’era”; alle sette serpeggiava l’impazienza, “anche lui, benedetto figlio, che
diamine andava cercando non lo so”. Alle nove, sulle labbra di Mike Bongiorno
abituate all’allegria fioriva inconsueta ma sbrigativa la parola mestizia; a mezzanotte
il morto diventava un debole nevrotico, forse un vile. All’una tutti a letto e non se ne
parla più. La fine di Luigi Tenco è stata per la gente del Festival un episodio
imbarazzante e inopportuno, più che penoso. Una nota stonata: certo non l’unica di
Sanremo, ma la più stridente. Il cantatutore suicida si confermava quel che era
sempre stato, un guastafeste. Non se n’è parlato più: il cadavere ingombrante è stato
chiuso nell’armadio, circondato dallo stesso silenzio ritroso e spietato con cui nelle
famiglie si soffoca l’esistenza di figlie degeneri o cognati pazzi. Ad assolvere tutti, a
liberare dagli scrupoli eventuali ostinati, ad alibi o giustificazione c’era sempre poi la
molto citata e ovviamente ferrea legge del teatro: lo spettacolo deve continuare.
Così sul luogo del delitto lo spettacolo è andato avanti. I cantanti stranieri hanno
continuato ad abbandonarsi ai loro deliri linguistici: “Pochi anni son passati”, cantava
Gene Pitney; “Tornerò da tei kuando avrai besogno de mei”, promettevano i
Bachelors; mentre Sonny & Cher volevano solamente “podamò”; Goldsboro si
rammaricava “no mi viene vollia di uschire” e i Rockes ammonivano “bisogna
sapeppèdlere”. I cantanti italiani ripetevano allo specchio la mimica studiata per
quest’anno: prediletto dalle donne il gioco mano-coscia sia nella accezione Caselli
(mano battuta sulla coscia a segnare il tempo) che nella accezione Vanoni (mani
risalenti dalla coscia in lenta carezza); preferito invece dagli uomini quell’improvviso
e violento scatto in avanti del bacino in cui è maestro Little Tony. L’“aquila di
Ligonchio”, Iva Zanicchi, soppiantava senz’altro “la pantera di Goro”, Milva.
Negli alberghi sul mare, lontane da queste misere beghe provinciali, le star invitate
per dare prestigio alla manifestazione non si preoccupavano di nulla. Distratta
Marianne Faithfull, che aveva approfittato delle spese pagate per farsi raggiungere in
weekend amoroso da Mick Jagger, il fabulous cantante dei Rolling Stones.
Addirittura insolenti Sonny & Cher, lui bruttissimo e lei molto bella, spesso vestiti di
identici e sfolgoranti pigiami di raso rosso: a Sanremo erano venuti per soldi, 30
milioni dicono, invece dei 15 mila dollari, nove milioni, che sono abituati a prendere
in una serata. Magrissimo Antoine, camicia di raso giallo, cinturone d’argento, capelli
accorciati di dodici centimetri e discorsi snob: “Festival molto, molto meridionale.
Molto. Entri in sala e vedi un bruno con occhiali neri che canta una canzone; subito te
ne vai, torni dopo mezz’ora e c’è ancora un bruno con occhiali neri che canta una
canzone … poi tragedie, pianti, suicidi. Per le canzoni, che sciocchezza”.
Nelle sale del Casinò si affollavano le anomalie della natura, a questo festival
numerosissime: i non più giovani nani del complesso I Surfs, Orietta Berti che è
astemia ma ricava dal cibo una forma assai rara di ubriachezza esaltante, Gene Pitney
dritto ma con la voce da gobbo, il capellone Ricki Maiocchi tanto brufoloso da aver
bisogno di quattro starti di fondotinta di diverso colore per rendersi presentabile.
Risuonavano discussioni in gergo, si imparava così che dire “canzone” è fuori luogo,
molto più giusto dire “il pezzo”: dato che più importante delle parole e della melodia
è il “sound”, l’atmosfera musicale, l’arrangiamento, le trovate sonore e vocali.
Sciocco anche dire “canzone di successo”, l’espressione esatta è “pezzo che fa Siae”,
cioè che viene frequentemente eseguito e permette di incassare sostanziose
percentuali attraverso la Società Autori ed Editori. Più incontrollato il capocomplesso
dei Giganti, un giovanotto con la barba: “Delle nostre canzoni sono entusiasta da
morire, il fatto di venire a Sanremo con un pezzo da cabaret mi fa impazzire, per me
la musica è soltanto un supporto per le parole, dato che oggi come oggi la canzone è
messaggio. Quale messaggio? In generale direi un mondo migliore. La nostra
canzone Proposta però ce l’hanno censurata, la parola protesta abbiamo dovuto
toglierla da tutte le strofe"”
Del tutto ingannevole quindi la rivoluzione dei giovani, la ribellione della
generazione non compromessa, la cosiddetta “linea verde” che avrebbe dovuto avere
a Sanremo la sua definitiva affermazione. “Green Wave”, ondata verde, è il nome
dato a suo tempo dai critici americani allo stile ed ai contenuti delle canzoni di
protesta di Joan Baez e Bob Dylan; la linea verde italiana lanciata da Giulio Rapetti
in arte Mogol (paroliere tra l’altro dell’indimenticabile successo di Tajoli Al di là:
“Al di là dei limiti del mondo, al di là della volta infinita, al di là della vita, al di là
delle stelle ci sei tu, amor”) si distingue per un atteggiamento di ottimismo e
speranza, per un accomodante qualunquismo che consente l’esibizione televisiva e
non irrita nessuno. Un vero tradimento.
Lo ha sottolineato con forza Mondo Beat, organo ciclostilato dei capelloni
milanesi ed interessante pubblicazione: l’editoriale sfida “costruite pure i vostri
Polaris, ci orineremo sopra e Lord Russel riderà con noi”; succosi argomenti quali
l’esistenza di Dio, l’introduzione al buddismo e l’espansione linguistica dell’erotico
vengono sobriamente trattati in diciannove righe da autori di nome Agor o Lorenzo.
L’esperto musicale Adriano Mazzoletti trova invece naturale questo tradimento, si
irrita anche: perché un cantante da palcoscenico o addirittura da stadio come Gianni
Morandi deve mettersi a cantare di Vietnam e vietcong, che c’entra? Perché invocare
fiori in cannoni che in Italia non sparano affatto, perché non occuparsi dei fatti nostri?
D’accordo però che la costruzione della burocrazia o la crisi dell’istituto familiare
sono difficilmente musicabili; e il povero Tenco, che ha provato a trattare nella sua
canzone il problema assai italiano della fuga dalle campagne e dello straniamento del
contadino inurbato, si è visto come è andato a finire. Ma tutto il resto, false prove
comprese, è malafede, è truffa. “Tutte canzoni costruite per prendere in giro la gente,
per indurre i ragazzini a comprare i dischi”, conferma vivacemente Renzo Arbore,
autore di Bandiera Gialla, la trasmissione radiofonica di maggior successo tra i
giovani. “I ragazzi è così facile abbagliarli: basta che in una canzone sentano le
parole pace libertà un mondo migliore, sono tutti contenti e comprano. Però è una
operazione immorale”. Entrambi concordi in ogni caso nel sostenere che il pubblico
italiano, salvo circa 100 mila ragazzini, è ancora quello di Granada, del patetismo
facile, della mamma, di Claudio Villa: ancora e sempre.
Qualche centinaio di quei 100 mila ragazzini aspettava Claudio Villa all’uscita del
Casinò la sera della sua vittoria. Gli hanno gridato “Bidone, bidone, grandissimo
bidone”, lo hanno fischiato ed aggredito, travolto e malmenato. Hanno tempestato di
pugni esasperati la sua macchina, la sua mamma e la sua guardia del corpo. È volato
anche qualche sasso. Sono intervenuti anche i carabinieri, affannati e spaventati. Lui,
niente. Duro. Vittorioso ed imperturbabile, neppure mezz’ora dopo dice: “Nella mia
felicità non c’è niente del ‘tie’, becchete questo, t’ho fregato anche stavolta’. Io in
palcoscenico non sono modesto, tu mi conosci, la graffiata se la devo dare la do, ma
dopo divento umilissimo. No, sono felice soprattutto perché la vittoria me l’hanno
data giurie composte prevalentemente di giovani. Questo significa che i giovani non
sono poi sempre cretini, che certi valori esistono e che quando la gara è veramente
canora tutti li riconoscono”.
A parte i valori canori, qualcosa lo accomuna ai cantanti preferiti dai giovani, ed è
lo spreco generosa di energia atletica, al mancanza di avarizia nel darsi al pubblico.
Esattamente come i complessi beat più sfrenati, Villa grida, si ammazza di fatica, si
sgola, produce moltissimo rumore, offre una performance fisica totale, estrema. Assai
soddisfacente per un pubblico che assiste agli spettacoli con il desiderio crudele di
vedere qualcosa di definitivo e che di un cantante o di un attore, come di un calciatore
o di un pugile, vorrebbero vedere il sangue o almeno l’umiliazione morale. Non è
certo una novità che l’atteggiamento del pubblico popolare sia sempre sadico, ma nel
caso di Villa il rapporto diventa addirittura sadomasochistico: lo ascoltano per
vederlo morire, per proclamarlo finalmente sconfitto, per essere presenti alla caduta
del suo lungo regno. “Gianni Morandi è il Claudio Villa degli Anni Sessanta, il
cantante che dura”, dice il direttore generale della Fonit-Cetra, Zanoletti. Ma Claudio
Villa è sempre qui e non ha alcuna intenzione di fare testamento.
Arrivano i Rockes, quattro giovanotti inglesi in capelli lunghi e tailleurini di
tweed, incidono Che colpa abbiamo noi? e ne vendono 490 mila copie. Ovviamente è
il momento dei complessi: e invece no, i complessi in genere non vendono granché.
Gli imprevisti sono tanti, ma la pubblicità non fallisce mai: in tre giorni i dischi di
Ciao Amore, ciao di Tenco sono andati esauriti non solo a Sanremo, ma anche a
Roma, a Milano, a Genova, a Torino. È proprio indispensabile per avere successo
portare parrucche bionde o divise da SS, sposarsi o ammazzarsi? “Il pubblico chiede
il personaggio, non c’è niente da fare, e il personaggio, se è ben centrato, funziona;
chi compra la Caselli è suggestionato dal casco d’oro”. Ma il grande venditore non è
Gianni Morandi, il ragazzo qualunque? Sì, ma che c’entra? Morandi è uno di loro”.
Loro sono ovviamente i ragazzi dai dodici ai quindici anni, non di più. Gli unici
che comperino i dischi.
Quanti cadaveri, al XXVII Festival di Sanremo. I giovani sconfitti, la canzone di
protesta nata morta, la via italiana al beat fallita, lo yè-yè finito, il disco condannato.
Per non parlare del cadavere orribilmente sfigurato di Tenco, portato via in segreto
con fretta indecente, seppellito in solitudine. Subito dimenticato. Persino irriso da
certi colleghi cantanti con battute atroci come “adesso ha finito di protestare”.
Definitivamente liquidato dal capellone milanese che alla domanda “E Tenco?”
squaderna pollice ed indice, prende la mira, ride e spara intonando “bang bang”.

L’AVANZATA NEL DESERTO


(La travolgente avanzata nel deserto, pag. 1)
di Francesco Rosso
“La Stampa”, 8 giugno 1967

Nel giro di meno di una settimana, il mondo si accorge che in Medioriente è nata
una nuova e formidabile potenza regionale: lo Stato d’Israele. Con un’azione
preventiva, gli aerei con la Stella di David attaccano e distruggono a terra le
aviazione di tutti i paesi arabi vicini, che si stavano preparando a scatenare il
conflitto. Segue un’avanzata della fanteria che porta le truppe di terra quasi fino
a Suez, a poca distanza da dove le acque del Mar Rosso si divisero per far
passare Mosè ed il suo popolo.

DAL FRONTE DEL SINAI – I soldati israeliani, dalle alture del Sinai, vedono le
acque del Canale di Suez. Le colonne dell’armata di Tel Aviv stanno per concludere
la loro travolgente avanzata nella penisola: 100 ore nella campagna del ’56, ed ora
nemmeno 60. Gli egiziani sono in rotta, ovunque. I veloci e moderni carri armati
israeliani sondano le linee, li sopravanzano, li circondano. Dall’alto i ‘caccia’
scendono in picchiata, ed il deserto non offre riparo. I gruppi di commandos israeliani
si lanciano con i paracadute sulle retrovie, conquistano i capisaldi ed impediscono
agli egiziani di creare un secondo fronte. I solati di Nasser, dicono i bollettini di Tel
Aviv, “si tolgono le scarpe e le gettano nel deserto per fuggire più in fretta”.
Stasera alla radio il maggiore generale Itzhak Rabin, capo di stato maggiore
israeliano, ha annunciato la completa sconfitta delle forze di Nasser ed il controllo di
un ampio settore arabo, dalla riva occidentale del Giordano al Canale di Suez. “Gli
egiziani sono sconfitti – ha dichiarato – e tutti i loro sforzi sono diretti a ritirarsi di là
del Canale. L’intera zona è nelle nostre mani. Il principale sforzo degli egiziani
consiste nel salvare se stessi”. Il Generale Rabin ha così riassunto la situazione
militare: 1) gran parte della riva occidentale del Giordano è in mani israeliane,
compresa Gerico; 2) il Sinai “è preso” (l’intera penisola ha una superficie di 59.000
chilometri quadrati, quasi tre volte Israele); 3) in rapporto con quanto è stato fatto, le
perdite per gli israeliani sono state “non grandi”.
“Il nostro esercito – ha detto ancora – ha affrontato da solo Egitto, Siria, Giordania
ed Iraq, ha stroncato le loro forze aeree e messo in fuga le loro truppe ed i loro mezzi
corazzati”. Il Generale ha quindi presentato le condoglianze alle famiglie dei caduti,
dicendo: “ognuno si è battuto come un leone perché siamo ben coscienti che tutto
questo ci è imposto. Consolatevi con ciò che abbiamo raggiunto”.
Al tramonto questa la situazione sul Sinai: a nord è caduta Romana, a 40
chilometri da Porto Said ed appena 3 da Ismailiya, il cuore della difesa egiziana. Al
centro, dove le truppe nasseriane hanno opposto la resistenza più valida, la colonna
israeliana è attestata a 50 chilometri da Abbou Eguelia, uno dei centri strategici
nemici più importanti, conquistati ieri. A sud i paracadutisti con l’appoggio della
Marina hanno espugnato la roccaforte di Sharm el Sheik, che domina lo stretto di
Tiran.
Al primo sorgere del sole l’inseguimento delle sette divisioni di Moshè Dayan
(quattro di fanteria, due corazzate ed una meccanizzata) si è fatto più serrato,
martellando da vicino il nemico in fuga per impedirgli di attestarsi su una seconda
linea. Questo il tema strategico del terzo e decisivo giorno di guerra. Sul
Mediterraneo da segnalare un bombardamento delle forze egiziane contro la città di
Gaza, conquistata però poco dopo mezzogiorno. Si ignora se i cannoni di Nasser
abbiano fatto delle vittime. Nelle prime ore del mattino sono stati soffocati nella
fascia di Gaza gli ultimi focolai di resistenza delle “truppe di liberazione” palestinesi.
La manovra a ventaglio di Moshè Dayan, sulle stesse direttive del ’56, stava ormai
per chiudersi. Lungo il mare la prima colonna avanzava rapida quasi senza
combattere, sulla comoda strada verso Porto Said (qui la chiamano “autostrada”).
Nella fretta della fuga i genieri ed i guastatori arabi si sono “dimenticati” di minare e
far saltare le vie do comunicazione. Romana è caduta verso le 14,30. Verso Porto
Said si vedono scintillare le paludi che costellano la depressione verso il Canale: sono
l’ultimo valido ostacolo.
La colonna centrale, quella che ha conquistato Abbou Egueila, ha avanzato sulla
ruotabile che attraversa il deserto di Gafa, ad una novantina di chilometri dal mare.
Gli israeliani hanno occupato il villaggio di Gebel Libni ed El Hama, ma grazie al
terreno montagnoso gli egiziani hanno potuto abbozzare una forma di resistenza sul
massiccio centrale del Sinai, sulla direttiva di Bir Hasana e Um Kuteb.
I carri armati egiziani superstiti hanno potuto sferrare una violenta e breve
controffensiva. Mentre l’aviazione israeliana, del tutto indisturbata, mitragliava
dall’altro, i commando di Tel Avib sono stati paracadutati alle spalle di Um Kuteb. In
questa battaglia, la più feroce di oggi, si è dimostrata la perfetta organizzazione tattica
israeliana. Gli arabi, vistisi circondati, sono stati colti dal panico ed hanno
abbandonato il campo, Secondo alcune fonti continuano ad opporre resistenza mentre
si ritirano verso Ismailiya. La punta delle armate israeliane è giunta a Bir Gafgafa.
La terza colonna, quella meridionale, che ha dovuto vincere le resistenze egiziane
a Kuntilla, si è divisa in due. Il primo troncone si muove verso il Canale di Suez,
verso Porto Toufiq in appoggio alla colonna centrale di Abbou Egueila. Il secondo
avanza rapidamente (ma il terreno è scosceso e irregolare) verso l’estremità del Sinai,
su Sharm el Sheik conquistata dai paracadutisti. Questa è caduta alle 14,50. In
precedenza i commandos israeliani erano stati paracadutati nella vicina postazione
strategica di Ras Nasrani, mentre la base egiziana veniva martellata dal mare dalle
navi di Tel Aviv. L’azione combinata si è conclusa rapida e sicura. Gli egiziani, per
evitare di cadere prigionieri, si sono sganciati ed ora sono in rotta verso il Canale.
Israele domina lo stretto di Tiran, causa “ufficiale” della guerra.
I generali di Nasser hanno ripetuto lo stesso gravissimo errore strategico del ’56.
Nel Sinai disponevano di ben quattro divisioni di fanteria del deserto, specialmente
allenata per combattere nella penisola, e numericamente più forti delle divisioni di
Tel Aviv: due divisioni corazzate con circa mille carri armati (in gran parte di
costruzione sovietica, “Stalin” e “T34”), ed una divisione leggera blindata. Ma le
hanno scaglionate su un vasto fronte, con linee logistiche allungate. Le forze di
Nasser così non hanno retto l’urto della massa corazzata israeliana, manovrata con
maggiore rapidità dallo stato maggiore di Tel Aviv, che è riuscito sempre ad aggirare
il nemico.
Gli israeliani non si sono limitato ad avanzare, ma hanno organizzato con
tempestività ammirabile le retrovie, Il problema del momento sono i civili arabi delle
zone occupate: come sfamarli? Un alto funzionario del servizio approvvigionamento
ha dichiarato: “il nostro problema è di vedere come possiamo includere tutta questa
gente nei nostri programmi di vettovagliamento, ma non ci preoccupiamo. Eravamo
preparati anche a questo”.

IL MAGGIO FRANCESE
(pag. 1)
di Lorenzo Bocchi
“Il Corriere della Sera”, 12 maggio 1968

Scoppia il 1968: l’epoca delle contestazioni giovanili, in tutta Europa. In


Francia è anche l’inizio della fine della lunga stagione politica del Generale
Charles de Gaulle, che nei mesi successivi al “maggio francese” abbandonerà
sdegnosamente il potere. Tutto inizia con un brusca sveglia mattutina, dopo la
condanna di quattro studenti per resistenza a pubblico ufficiale ed una notte di
guerriglia urbana.

PARIGI – Parigi ha vissuto la notte più drammatica degli ultimi venti anni. Una notte
di violenze senza precedenti, di odio, di paura, di incredibili devastazioni.
Secondo una vecchia malignità, sulla porta della camera da letto di de Gaulle
all’Eliseo si troverebbe un cartello con la scritta “Non svegliate il Generale se non in
caso di guerra”. Ad ogni modo, alle sei del mattino, tre ministri hanno dovuto
svegliarlo, come non accadeva dai tempi burrascosi del dramma algerino: Joxe, che
assicurava l’interim di Pompidou in viaggio per il Medioriente, il mnistro degli
interni Fouchet e quello della difesa nazionale Messmer.

Notte in bianco

Il consiglio è durato un’ora e all’uscita dall’Eliseo i tre visitatori troppo mattinieri


non hanno fatto alcuna dichiarazione. Come altri colleghi avevano passato la notte in
bianco, sempre con la speranza di non dover svegliare il Generale. Alle loro riunioni
aveva reso parte il segretario generale dell’Eliseo, Tricot, uno dei più stretti
collaboratori di De Gaulle. Al termine di una di queste avevano dato ordine ai
gendarmi di riprendere il controllo del Quartiere Latino. E avevano pubblicato un
comunicato per giustificare la necessità e la lentezza delle operazioni, per confermare
la volontà del governo di riaprire le porte delle facoltà e di proseguire lo sforzo per il
rinnovamento dell’università.
Venerdì, ore diciotto e trenta: parecchie migliaia di manifestanti – studenti e
professori universitari quanto liceali – sono riuniti in piazza Denfert-Rochereau. Gli
oratori predicano lo sciopero ad oltranza fin alla liberazione dei compagni
condannato. Non si sa che seguito dare alla manifestazione. Viene proposto di andare
in massa all’altra riva della Senna, nei quartieri borghesi, nella zona dove si svolgono
i lavori della conferenza sul Vietnam o la Place Vandome, davanti al ministero della
giustizia, per reclamare l’amnistia. Ma è impossibile. Tutti i ponti sono presidiati dai
gendarmi, che lasciano passare solo le automobili. Viene deciso di spostarsi in corteo,
passando davanti al carcere della Santé, al Quartiere Latino, dove il presidio dei
gendarmi è stato triplicato.
Verso le ventitré i “duri” cominciano a disselciare una strada, tra il Pantheon e il
Giardino del Lussemburgo, per costruire una barricata. I dirigenti dell’associazione
studentesca contestano. Daniel Cohn-Bendit, il sempre presente capo degli
“arrabbiati”, assicura che si tratta di una semplice misura di difesa. Uno specialista ha
trovato un martello pneumatico in un cantiere e lo mette in azione, per costruire altre
barricate. Vengono sradicati i primi alberi, rovesciate le prime automobili, demolite
le prime cancellate.
Il rettore della Sorbona lancia un messaggio al microfono di una radio privata che
assicura la radiocronaca della manifestazione minuto per minuto. Si dichiara pronto a
ricevere i delegati dei manifestanti per esaminare le condizioni di riapertura
dell’università. Tre rappresentanti degli studenti e tre dei professori riescono a
passare attraverso gli spessi cordoni di gendarmi in tenuta da combattimento, con
elmetto, scudo e maschera di protezione, e anche con i nervi a fior di pelle per le
lunghe giornate di mobilitazione, di tensione, di raccomandazioni.
L’attesa psicologicamente è deleteria. La tensione aumenta rapidamente. Le
barricate si fanno sempre più alte, fino a tre metri, e si moltiplicano tutt’intorno al
perimetro presidiato dalle forze dell’ordine. Se ne conteranno una sessantina. Molti
giovani si fanno aprire i portoni delle case per salire ai piani superiori e persino sui
tetti. Fanno scorta di proiettili di ogni genere.
All’una tornano i sei delegati dalla Sorbona. Non è stato possibile raggiungere un
compromesso: il rettore non può garantire la scarcerazione immediata dei quattro
studenti condannati a causa dell’intangibilità del principio della “cosa giudicata”.
Comincia il bombardamento di pavés e di granate lacrimogene.
Alle due e quindici i genarmi ricevono l’ordine di “liberare il terreno”. Non sono
intervenuti prima perché pensavano chele trattative in corso avrebbero reso inutile
quei preparativi di battaglia. Quando diventa evidente che non si tratta più di sapere
se gli studenti possono ottenere soddisfazione oppure no, ma chi resterà padrone della
pubblica piazza, è già troppo tardi.

L’errore del governo

Il governo ha probabilmente compiuto un errore quando non ha fatto riaprire le


porte della Sorbona giovedì scorso. Avrebbe corso il rischio di una devastazione
dell’università, ma anche il tal caso sarebbe apparso evidente all’opinione pubblica in
quale campo si trovavano gli avversari di qualsiasi dialogo e di qualsiasi soluzione di
problemi che non possono essere affrontati con le barricate o con le bombe
lacrimogene.
I gendarmi lanciano in aria razzi rossi insegno di ultimo avvertimento. Gli ufficiali,
con gli altoparlanti, invitano gli studenti a disperdersi. Comincia la repressione,
spietata azione come un rullo compressore. È volutamente lenta, dirà il prefetto, per
evitare l’irreparabile. Lo è anche perché le barricate sono difficilmente superabili: a
quasi tutte viene appiccato il fuoco, per ritardare l’avanzata della gendarmeria.
L’atmosfera diviene irrespirabile. Ai vapori soffocanti delle granate lacrimogene
(di nuovo modello, preciserà il prefetto per rispondere all’accusa di avere utilizzato
gas a base di ammoniaca e cloro) si sono mescolati il fumo e l’aspro odore dei
pneumatici delle automobili incendiate. Pompieri e ambulanze non possono
intervenire. Gli appelli disperati sulle onde radio si susseguono – il transistor è ormai
indispensabile anche sulle barricate – perché i feriti sono spesso abbandonati sul
campo di battaglia. I manifestanti vengono inseguiti anche sui tetti, stanati nelle
cantine; alle 6, quando anche gli irriducibili se ne sono andati e quando i ministri
svegliano de Gaulle, lo spettacolo è desolante. Fa pensare a qualche quartiere di
Saigon o di Memphis dopo una sommossa.
Il primo bilancio presentato dal prefetto di polizia parla di 367 feriti (251
gendarmi, di cui 18 gravi, 102 studenti di cui 4 gravi e 14 non studenti), di 468
arrestati (tra loro 61 stranieri), di 63 denunciati (25 universitari, 3 liceali, 34 non
studenti), di 60 automobili incendiate, 128 danneggiate oltre a ingenti danni agli
impianti, alle vetrine e ai cantieri.
Per tutta la giornata successiva si sono accavallati i proclami, le decisioni, le
notizie preoccupanti dalla provincia (a Strasburgo gli studenti hanno occupato le aule
proclamando l’autonomia dell’università e negando ogni autorità al potere attuale;
manifestazioni e occupazioni a Lione, Grenoble, Lilla, Rennes, Nizza, Marsiglia)
mentre nel Quartiere Latino, fra gli operai occupati a cancellare alla meno peggio i
segni della battaglia notturna, moli giovani sono tornati a manifestare il loro
malcontento. Sono state lanciate bombe lacrimogene per disperderli.
L’associazione degli studenti e la federazione dell’insegnamento superiore da una
parte, le maggiori centrali sindacali operaie dall’altra hanno proclamato uno sciopero
per lunedì 13 maggio, giorno dell’effettivo inizio della conferenza sul Vietnam e del
decimo anniversario del “colpo di Algeri” che riportò al potere de Gaulle. In quel
giorno operai e studenti manifesteranno assieme, in tutta la Francia, per l’amnistia e
le libertà sindacali e politiche”.
Alle 17 de Gaulle ha convocato all’Eliseo il ministro degli interni e il prefetto di
polizia. Un’ora dopo sono arrivati il ministro dell’educazione nazionale e il rettore
dela Sorbona. Il Generale deve aver letto sui giornali – diverse edizioni con titoli a
caratteri cubitali per tutta la giornata – che per la prima volta era stato lanciato per le
strade di Parigi il grido di “De Gaulle assassin”.
Alle 23 il primo ministro Pompidou. Dopo aver conferito all’Eliseo con il
Generale de Gaulle, ha dichiarato alla televisione che la Sorbona sarà “liberamente
riaperta” a partire da lunedì. Il primo ministro era tornato nel tardo pomeriggio
dall’Afghanistan.
LA FINE DELLA PRIMAVERA DI PRAGA
(pag.1)
di Egisto Corradi
“Il Corriere della Sera”, 22 agosto 1968

Bloccato al confine con l’Austria, a pochi chilometri da Bratislava, Corradi


vede, sente e ricostruisce gli avvenimenti che portarono alla fine del sogno di
Dubcek di costruire un Socialismo dal volto umano. È, in qualche modo, la
descrizione di quello che è accaduto anche dodici anni prima, a Budapest.
BERG (frontiera Austro-Cecoslovacca) – Qui, a tre chilometri in linea d’aria da
Bratislava, le notizie arrivano come chicchi di grandine l’una dopo l’altra, come
fulmini durante un temporale. La portano i pochi stranieri che da oggi pomeriggio
escono dal territorio cecoslovacco, dopo aver attraversato il ponte sul Danubio, si
sentono dalle radioline tascabili, dalla gente che viene da Vienna ad aspettare parenti
o amici. Pressappoco come a Nickelsdorf, alla frontiera austro-ungherese, dodici anni
fa; la stessa ansia per una tragedia che si compie a quattro passi ma che non è dato di
vedere. Oppure, le notizie, addirittura si vedono: ogni tanto sul cielo grigio di
Bratislava contro il profilo del colle sul quale sorge l’antico castello, una squadriglia
di Mig passa sibilando. Si è gonfi di emozione, c’è chi piange. È confermato –
almeno fino a tarda sera – che Svoboda, il presidente della Repubblica cecoslovacca,
è virtualmente prigioniero neI castello di Hradcany, sede del suo ufficio. Una cerchia
di carri armati sovietici tiene i cannoni puntati verso il castello. Soldati sovietici
hanno arrestato il segretario del Pc cecoslovacco Alexandr Dubcek a altri quattro
membri del presidium: il presidente dell'assemblea nazionale Josef Smrkovsky, Josef
Spacek, Frantisek Kriegel e il primo ministro Oldrich Cernik. Si sono avuti vari morti
e feriti. Una radio controllata dai sovietici ha parlato stasera di due morti e
venticinque feriti. Ma le vittime di questa prima giornata di liberazione sono state
sicuramente parecchie di più, forse alcune decine. Vari testimoni usciti da questo
posto di frontiera oggi pomeriggio hanno dichiarato di aver visto quattro, cinque
morti davanti alla sede della facoltà di filosofia di Bratislava. Di un altro membro del
Praesidium, Cestmir Cisar, si ignora la sorte. Cisar è stato prelevato da alcuni
individui giunti a bordo di una macchina di fabbricazione russa e portato via, al
quartiere generale di polizia, secondo taluni. Per stasera, stando a quanto detto da una
delle stazioni radio ancora in mano cecoslovacca – Banska Bistrica, nella Slovacchia
orientale e Budweis, oltre alla stazione televisiva di Brno – sarebbe stato convocato il
plenum del Comitato centrale del partito. Ma convocato in quale luogo? E avranno, i
membri del Comitato, la possibilità fisica di partecipare alla riunione? A una di
queste emittenti non ancora in mano russa, il ministro della difesa Dzur ha gridato
stasera più volte: “L’esercito è tutto dietro Svoboda”. Secondo voci giunte a Berg
come portate dal vento, e quindi assolutamente incontrollabili, i sovietici avrebbero
cominciato a smobilitare alcuni reparti dell’esercito cecoslovacco e ingiunto ai
soldati, messi in abiti civili, di raggiungere le loro case. È invece certo che
paracadutisti sovietici oggi verso le sedici hanno occupato le due distinte sedi
dell’associazione dei giornalisti e dell’associazione degli scrittori. I due enti, come
ben noto, erano due incubatrici di idee antisovietiche. A Praga, stasera, sembra essere
tornata una relativa calma. Ma non tutto è andato secondo le raccomandazioni che il
presidente della Repubblica Svoboda aveva diffuso stamane per radio incitando tutti a
"non opporre resistenza, a recarsi regolarmente ai propri luoghi di lavoro e a
continuare le proprie normali occupazioni, allo scopo di evitare provocazioni".
Secondo le notizie frammentarie, ma abbastanza collimanti, pervenute finora, le
strade situate attorno alla stazione nazionale della radiotelevisione di Praga sono state
messe a ferro e a fuoco. La presa della stazione da parte sovietica ha avuto lunghi
momenti drammatici e ha fatto scorrere sangue. In piazza Venceslao – tutta la
popolazione di Praga era scesa nelle strade a manifestare all’inizio della mattinata
dopo essere stata svegliata nel cuore della notte dalle campane a martello delle chiese
– una folla compatta ha fatto barriera davanti a una dozzina di carri armati T-55 che
si accingevano a circondare il complesso degli edifici della stazione radio. Già ore
prima, alle 4 e alle 6, raffiche di armi automatiche erano state ripetutamente esplose
nelle strade vicine; alle 8 erano echeggiati colpi più forti, presumibilmente di cannoni
di carri. I conducenti dei carri hanno esitato un po’; poi hanno caricato. Una persona,
forse una donna, è rimasta schiacciata sotto i cingoli; un giovane che correva lungo
un marciapiede si è accasciato colpito alla schiena. Ma, percorso un centinaio di
metri, i carri si sono trovati davanti a due colossali gru di dieci tonnellate. I sovietici
hanno dovuto armeggiare non poco, poi sono passati. La folla, assiepata ai lati,
gridava: “Russi, domov! Russi, domov!” ,“Russi a casa!”. Volavano pietre, ingiurie,
si levavano canti, c’erano madri – la notizia è di più fronti – che alzavano piangendo i
loro piccoli in braccio e gridavano: “Ricorda questo giorno di ignominia e di
tradimento, figlio. Ricorda. È un triste giorno. È un giorno eguale a quello del 15
marzo 1939, quando entrarono i tedeschi”. La stazione radio cadde di lì a poco.
L'annunciatore disse due volte con voce molto ferma: “È finita, la stazione radio
viene ora occupata dai soldati sovietici”. Mancavano due minuti alle undici.
Testimoni oculari hanno riferito che soldati e ufficiali russi si accanirono a strappare
fili e cavi, a sfondare quadri, a infrangere delicati congegni. Dalle finestre della
stazione radio si vedevano varie nuvole di fumo nero oscurare il cielo della nobile
Praga. Sotto a un tiro di schioppo dell’edificio, una folla urlante si era serrata attorno
a un carro sovietico. Dal carro furono gettate alcune bombe lacrimogene e sparate
raffiche. Uno donna rimase esanime a terra. Un’ora dopo, il suo corpo venne avvolto
in una bandiera cecoslovacca e portato in giro per la città. Tassì e motociclette con
bandiere nazionali spiegate correvano all’impazzata. Dovunque si è udito gridare: “A
morte i russi! Viva Dubcek!”. I giornalisti stranieri scesi per le strade sentivano dirsi:
“Ora sono al governo le bestie; tornate a casa se volete avere la pelle salva”. Oppure,
ancora: “Andate a vedere il museo nazionale. I carri sovietici lo hanno
cannoneggiato. Era uscito dalla guerra senza danni”. Lunghe colonne di donne
trepidanti erano visibili in attesa davanti agli spacci di generi alimentari. Già fin poco
dopo l’alba, da aerei ed elicotteri erano stati lanciati sulla capitale – e la stessa cosa è
accaduta in parecchie altre città – migliaia di manifestini stampati in russo e il
cecoslovacco. Eccone il testo: “Membri del governo e del partito cecoslovacco hanno
richiesto urgente aiuto per il loro paese. Il governo dell’Urss e degli altri paesi del
patto di Varsavia hanno deciso di intervenire per salvare la Cecoslovacchia dalla
minaccia che si leva contro il paese socialista. L’Unione Sovietica e i paesi alleati
sono entrati in territorio cecoslovacco”. Esattamente come a Budapest, la stessa
ipocrita formula. Altri volantini scesi dal cielo recavano: “Novotny è stato destituito
illegalmente. Egli è tuttora presidente della Cecoslovacchia”. Nelle prime ore del
pomeriggio usciva un’edizione straordinaria del Rude Pravo, l’organo ufficiale del
partito comunista cecoslovacco: “Siamo convinti che i provvedimenti presi dagli
eserciti alleati sono il frutto di informazioni false sulla nostra vera situazione interna.
Preghiamo dunque i paesi alleati di revocare i provvedimenti”. Già dalle dieci,
intanto, il transito sui ponti della Moldava era stato bloccato dai russi e molta gente è
riuscita a raggiungere i posti di lavoro. Alle testate dei ponti la folla gridava,
scandendo parole incitanti alla rivolta verso i carri armati sovietici: “Pre-cio? Pre-
cio?” (“Perché? Perché?”). Via via che le stazioni radio statali cercavano in mano ai
sovietici, sorgevano nell’etere voci di radio clandestine incitanti alla calma e ad
evitare le provocazioni. Una di queste radio, abbastanza potente, suggerì che a
mezzogiorno in punto e per due minuti di seguito, suonassero insieme campane e
sirene degli stabilimenti e i clacson. Così è avvenuto. Per due lunghi minuti Praga è
stata un solo grido di protesta e un unico sventolare di bandiere al vento. Da metà
pomeriggio in poi, stazioni speciali russe hanno preso a disturbare tutte le emittenti
radio non sotto il loro controllo. Ecco sfilare qui, a questo posto di frontiera di Berg,
alcune bandiere. Il primo che scorgo è un italiano, solo, a bordo di una vettura targata
Padova. È sconvolto, piange: “Sparano, sparano”, grida quasi senza fermarsi, dopo
aver chiesto se qui, nei cinquanta metri che separano le sbarre austriache da quelle
cecoslovacche, sia ancora territorio cecoslovacco o no. Ma mezz’ora dopo è la volta
di un belga e di sua moglie. Il belga si chiama Paul Neulemann, ed era andato in giro
sui monti Tatra. “Ho visto maree di carri russi”, dice impressionato. Il Neulemann
racconta di aver visto carri sovietici con la svastica disegnata frettolosamente con il
gesso sulle corazze, lanci di pietra, una banca presa d’assalto, non sa dire dove,
manifestazioni sconvolgenti. A bordo di due vetture, un’ora più tardi, transita un
gruppo di studenti italiani di medicina. Sono in otto, ho i nomi di soli quattro. Sono
Giorgio Cesareo, dell’Università di Roma, Salvatore Pace, di Palermo, Alessandro Di
Felice, di Chieti, Francesco Melillo. Si trovavano a Praga per un corso di scambio di
chirurgia, alla clinica di Partizanska Ulica. Confermano la faccenda delle svastiche
sui carri armati russi. Dicono di aver visto due carri armati in fiamme in una Piazza di
Bratislava, dicono di avere attraversato una piazza disselciata, confermano di avere
assistito a tremende manifestazioni, di aver udito gridare e visto scritto: “Russi, a casa
vostra!”. Sono emozionati. Dicono che proprio alla clinica di via Partizanska, mentre
loro stavano per lasciarla, furono portati quattro cadaveri di insorti. “I medici
cecoslovacchi piangevano”, dicono. E poi via, in fretta verso Vienna. Le due guardie
confinarie cecoslovacche dicono cortesemente di no al mio passaporto: “Ne, ne”. Lo
dicono un po’ imbarazzate e vergognose, visibilmente dispiaciute. Tre Mig passano
fischiando in distanza. Le truppe serrate a bloccare la frontiera come una grande
saracinesca in questo angolo di Cecoslovacchia sono per metà sovietiche e per metà
ungheresi. Alle ore 20 i soldati russi hanno occupato il Parlamento di Praga mentre i
deputati erano in seduta. I deputati hanno continuato a discutere la situazione
nonostante il brutale intervento sovietico. Verso le 23 di stasera a Praga le truppe di
occupazione hanno aperto di nuovo il fuoco sulla piazza Venceslao, a quanto pare.
All’incirca alla stessa ora l’agenzia cecoslovacca Ctk, che per tutta la giornata aveva
trasmesso liberamente, ha annunciato che veniva anch’essa occupata e a Vienna le
telescriventi collegate con essa sono rimaste mute.

I MORTI DI PIAZZA FONTANA

di Camilla Cederna
“L’Espresso”, 21 dicembre 1969

Con la strage di piazza Fontana (dove sorge una filiale della Banca Nazionale
dell’Agricoltura all’interno della quale l’eversione di destra fa esplodere una
bomba, uccidendo 17 persone e ferendone 88) inizia l’epoca della strategia della
tensone. Inizia anche la stagione del terrorismo, e la fase migliore per due
distinti generi di girnalismo: quello “pistarolo”, di indagine sui misteri d’Italia, e
quello “impegnato”, spesso addirittura militante.

MILANO – Ad avvolgerli per l’ultima volta, calando spessa sulle bare, è stata la loro
grigia nebbia padana che fin dall’infanzia d’inverno li ha sempre accompagnati. Ad
avvolgerli è stato il silenzio, compatto, quasi monumentale, sulla piazza che a
mezzogiorno era quasi nera, non una luce all’ingiro, grappoli oscuri di gente alle
finestre e sui balconi, spento il grande albero di Natale, bassissimo il cielo. Tutta
diversa appariva Milano soltanto tre giorni prima, quando verso le cinque un amico
mi telefonò dicendomi di correre in piazza Fontana dove doveva essere scoppiato
qualcosa, si parlava di otto o nove morti. Il taxi è lentissimo: come sempre in queste
nervose giornate che precedono il Natale le strade sono intasate. È l’ora delle
commissioni e le vetrine di via Montenapoleone sono tutte arredate del colore
natalizio che è il rosso vivo, rossi i festoni, gli sfondi, le tovaglie, gli impermeabili, le
scatole dei dolci, le rose di carta, i pacchetti in mano alle signore. “Possibile però che
già a quest’ora ci sia un tale ingorgo?” si chiedono i miei compagni di fila mettendo
fuori la testa. “Che cosa sta succedendo?”
Capiranno prestissimo, perché di colpo cessano le nenie degli zampognari, non si
sentono nemmeno più i clacson che protestano isolati, e ogni rumore è coperto dai
latrati delle autoambulanze che chiedono via libera correndo disperatamente. Dirotta
anche la macchina del Questore che stava andando in ufficio, perché la sua radio ha
emesso l’ordine urgentissimo: tutti in piazza Fontana. Mentre quella delle
autoambulanze chiede già affannosamente che si facciano riserve di plasma, che si
radunino a decine i donatori di sangue. E chi è a casa con l’influenza stasera non
aspetti il dottore: sono tutti mobilitati negli ospedali.
C’è già molta gente intorno al grigio palazzo su cui spicca in lettere luminose la
gran scritta “Banca Nazionale dell’Agricoltura”; tutto affumicato, cioè grigio e nero il
pianoterra. Ma c’è molto rosso anche qui, sul grigio e sul nero, ché dal marciapiede,
lento e vischioso, cola giù il sangue. E ci son chiazze di sangue davanti all’ingresso
principale, c’è sangue sui mucchi di schegge e di vetro che si trovano ovunque, sulle
tuniche bianche e i guanti di gomma degli infermieri; c’è sangue sulla faccia dei feriti
più leggeri che nella farmacia accanto si fan fare le medicazioni d’urgenza. Colano
gocce scarlatte anche dalle ultime barelle che le autoambulanze inghiottono per poi
correre via a sirene spiegate.

Gente di campagna

Dalla banca portano fuori a braccia un giovane carabiniere svenuto. Esce stravolto
in sindaco, entrano i primi parenti a tentar di riconoscere le salme per tornar fuori
piegati in due e col viso tra le mani. Vanno e vengono i funzionari della scientifica,
della politica, gli artificieri. È stata una bomba, non c’è dubbio, e non la caldaia come
sulle prime si credeva. Così cominciano i febbrili racconti degli scampati, le cui facce
van deformandosi tutte nel parlare. La guerra, sì, come la guerra, i bombardamenti, il
caos, il massacro, il macello. In banca c’erano tutti gli habitués del giorno di mercato.
Erano sensali, proprietari o fittavoli di aziende agricole, bergamini o malghesi,
coltivatori diretti, commercianti in mangimi, granaglie, macchine agricole o
lubrificanti per trattori, che vengono dalla bassa e dal lodigiano, tutti quelli che
ancora qualche anno fa portavano il tabarro e, se erano mediatori di bestiame, la
frusta arrotolata sotto il braccio, ma ancora adesso hanno il portafogli a fisarmonica e
il contratto lo fanno schioccando forte le mani prima di stringersele.
Ancora dentro in molti, forse un centinaio nel salone che per tradizione e per
agevolazione degli agricoltori il venerdì resta aperto oltre il solito orario: seduti in sei
o sette intorno al gran tavolo ottagonale dove ci sono moduli da riempire (e le borse e
gli involti come al solito li avevano deposti lì sotto, tutti oggetti che il giorno 12 ne
costeggiavano uno diverso dagli altri, il più pesante di tutti).
Scrivevano gli impiegato dietro il loro bancone semicircolare che tiene tutta la
sala, siglavano ricevute, scontavano cambiali, davano e ritiravano soldi contandoli
velocemente, mentre da quest’altra parte i clienti contrattavano o firmavano le
distinte, uno stava presentando ad un impiegato l’amico che avrebbe gradito un
mutuo, un altro mostrava al fratello su una cartina dove voleva far crescere gli
asparagi e dove l’insalata. A un fittabile di Rozzano parve di scorgere un piccolo
fumo sotto il tavolo. Forse una cicca nel cestino? Una signora invece notò qualcosa
che lì sotto luccicava, quand’ecco, sono le quattro e trentasette minuti, quel rombo
immenso che scuote l’edificio.
Dopo lo paragoneranno al tuono o al maremoto: in quel preciso momento c’è chi
vede levarsi una gran fumata nera e chi vede alte le fiamme come una nuvola rossa
che tutto a un tratto l’acceca, chi è sbattuto per terra da una ventata calda, chi è
trasportato per aria, davvero vola e viene scagliato oltre la porta centrale, a un passo
dal tram n° 13 che nel suo percorso a pochi metri dalla banca viene investito da una
specie di brivido colossale, con un balzo si ferma e tra grida altissime si svuota di
colpo.
Contemporaneamente al rombo, dentro cadono tutti i vetri (il salone a cupola alto
almeno una quindicina di metri ne è interamente rivestito) e piovono a quintali i
calcinacci, si staccano e precipitano gli infissi, si disintegra il tavolo centrale, sono
per aria sedie, lastre di marmo, imposte che poi vanno ad abbattersi sui corpi a terra;
così ogni scheggia, mobile o frammento di mobile diventa un proiettile. Ed ecco che
qualcosa d’oscuro e pesante vien lanciato in un goffo volo disordinato sopra i
bancone degli impiegati e sul corridoio di sinistra: sono quattro corpi che come nel
giudizio universale volano sotto la cupola con lembi di vesti che pendono da tutte le
parti e sono corpi già mutilati e bruciacchiati che con un sordo e tremendo rumore
vanno ad abbattersi in opposte direzioni, tra fra scrivania e scrivania, e un altro fuori
dal salone, davanti all’ascensore. Mentre un odore strano riempie l’aria, odor di
guerra, dice chi l’ha fatta, di sangue caldo e di polvere da sparo, di carne bruciata e di
zolfo.

Il libretto nero

Al posto del tavolo c’è ora una voragine che ha inghiottito più di un corpo, di un
morto non si trova più la testa, c’è un giovane che non si è fatto niente ma tra la
giacca ed i pullover si è trovato pezzetti di carne altrui; per una strana forma di choc,
infine, senza accorgersi di essere magari senza un orecchio o senza una mano, alcuni
clienti sono accorsi di nuovo allo sportello per continuar la loro pratica con quella
maschera di sangue che era ormai l’impiegato.
Intanto nella folla vedo una barba rossa di conoscenza, quella di Mario Scialoja
della redazione romana dell’“Espresso” che, di passaggio a Milano, è capitato per
caso a piazza Fontana nemmeno cinque minuti dopo lo scoppio. Scialoja ha l’aria
stravolta. È, infatti, uno di quelli che sono entrati nella banca subito dopo
l’esplosione, che insieme agli impiegati, ai pompieri ed ai clienti rimasti incolumi ha
aiutato a soccorrere i meno gravi avviandoli in farmacia o sulle ambulanze. Tra mille
difficoltà, tanti erano gli ostacoli, almeno venti centimetri di detriti e di relitti, pezzi
di scarpe o di borse, frammenti di bastoni, di giacche bruciate e insanguinate,
cappelli, berretti e risme di carta sparpagliate ovunque, tra le scarpe qualcuna col
piede dentro, e non solo brandelli di vestiti ma brandelli di corpi che bisogna stare
bene attenti a non calpestare. Ha visto un pompiere raccogliere una mano, un prete
aiutare uno ad alzarsi prendendolo per il braccio (ma il braccio gli era venuto tutto
intero), lui stesso si è imbattuto in un tronco bruciacchiato con via le due gambe e un
braccio, ha aiutato a sollevarne un altro con una gamba soltanto, l’altra volata via e
un torrente di sangue giù dal moncone.
Quattordici i morti, novanta i feriti, molti dei quali rimarranno mutilati: un’altra
bomba per fortuna inesplosa alla Banca Commerciale. Quindi testa ed allarmata tutta
la città, ancora semideserte le strade alla sera, ad eccezione dei capannelli di solito
situati in quella specie di “esse” che comprende piazza Fontana, via Larga e la
Statale, gruppetti animati di cui però è cambiata la composizione.
Dove sono i tranquilli borghesi che appena due anni fa nelle discussioni davan
manforte ai qualunquisti ed ai fascisti, scagliandosi contro i filocinesi, marxisti-
leninisti e movimento studentesco, sostenendo che piuttosto che avere un figlio così
lo preferivano morto? I borghesi sposati con figli non si fermano più, son sempre in
maggior numero infatti quelli che oggi hanno un figlio universitario che viene
picchiato durante gli scioperi o una ragazzina del ginnasio che occupa la scuola e
anche lei sciopera per il caro-fitti. Adesso i padri conservatori sono perplessi e hanno
paura: qualcuno di essi all’insaputa del figlio, naturalmente, paga un “gorilla” che lo
protegga durante le manifestazioni; tremano le mamme e le sorelle che nei momenti
del pericolo (come la sera del 12) si recano in deputazione all’assemblea
dell’Università per comunicare ai loro congiunti i nomi degli arrestati e supplicarli di
sciogliersi al più presto.
Restano dunque a discutere in piazza quelle specie di tonanti imbecilli che
invocano la mano forte, il pungo di ferro, la pena di morte e l’intervento dei militari,
imbaldanziti inoltre da un clima per loro assolutamente benigno, anzi incoraggiante.
È una figura di loro conoscenza quella che ha aperto il corteo funebre dell’agente
Annarumma,, l’ex vicecomendante della Muti, Spadoni; è un luttuoso libretto quello
che pare si venda bene nelle librerie e che, guarda caso, è uscito proprio in questi
giorni, Mussolini l’autore. “Citazioni” il titolo, “Manuale delle guardie nere” il
sottotitolo. (Due citazioni? “Per i fascisti la violenza non è un capriccio o un
deliberato proposito. Non è l’arte per l’arte. Una necessità chirurgica, una dolorosa
necessità”, 1921; “Per me la violenza è profondamente morale, più morale del
compromesso della transazione”, 1925.

L’arma di Tom Ponzi

Sono i loro giornali preferiti inoltre a scrivere che “bisogna avere il coraggio
dell’azione, della lotta, del rischio”, e se uno chiede al direttore chi sono i cattolici di
sinistra, nella risposta può leggere: “Sono creature che odiano il prossimo nel nome
di Dio”. Ci sono manifesti sui muri che accusano il “Corriere della Sera”
d’incoraggiare col suo opportunismo i picchettaggi ed i blocchi stradali (firmato
“Gruppo spontaneo anticomunista”), mentre i volantini del comitato di difesa
pubblica dalla sinistra nazionale chiedono alle autorità “una ferma e decisa azione di
disinfestazione morale e materiale” e ai cittadini di rivolgersi al loro comitato che
siede in permanenza per qualsiasi informazione o notizia comunque attinenti “a
questo grave momento”, mentre sul giornale di Tom Ponzi, destinato ai detectives ma
spedito ai cittadini qualificati, si legge: “Al più piccolo assembramento dovrebbero
suonare le sirene come per gli allarmi aerei in tempo di guerra e la polizia dovrebbe
uscire a far piazza pulita. Questa è la vera democrazia. Può sembrare strano, ma il
coprifuoco è un’arma perfettamente legale e democratica che consente di tutelare
l’ordine e la sicurezza dei cittadini”.
Un brano declamato la sera dopo la strage da un padre diverso da quei tranquilli
borghesi cui s’è accennato prima: il 24 novembre suo figlio era stato a Fiesole alla
riunione del Fronte Nazionale, un’organizzazione paramilitare promossa dall’ex
comandante della Mas Valerio Borghese, che ha per scopo l’azione rischiosa in tempi
d’emergenza.

SCUSI, ME LA FAREBBE UNA DOMANDA INTELLIGENTE?

di Gian Maria Dossena


“L’Europeo”, 12 aprile 1971

Grande campione di poche parole, Gustavo Thoeni domina lo sci alpino per
quasi tutti gli anni ’70. Questa intervista risale alla sua prima vittoria in Coppa
del Mondo. Lui, oltre ad essere il più grande della sua generazione, va famoso
per non mancare di quel buon senso montanaro che gli ha insegnato, fin da
ragazzo, che chi vuole andare lontano deve tirare la carretta. E che lo rende
refrattario a tutto ciò che suona parolaio, celebrativo, scontato e soprattutto
inutile. Come certe domande dei giornalisti.

È stata una bella vittoria, pensava di vincere?


No, non pensavo di vincere.
Perché?
Perché non ci pensavo.
E dopo, quando ha vinto, cosa ha pensato?
Sono stato contento.
Niente altro?
No.
Niente, proprio niente?
No, niente.
I suoi avversari più forti erano i francesi. Le sue gare le ha calcolate su questi
suoi avversari, i francesi?
No, non mi sono regolato su niente.
Non si regola mai sugli avversari?
No.
E allora come ha affrontato le gare, come affronta le gare?
Eh, così.
Come?
Se arrivi, bene. Se non arrivi, pazienza.

Gustavo Thoeni è un personaggio decisamente disarmante. E non perché non


sappia o non voglia rispondere, non per povertà di spirito, ottusità, incapacità di
colloquiare. Direi anzi il contrario. È un ragazzo vivo che afferra subito, e parla e
risponde volentieri. Solo che non dice più di quanto non gli sembri necessario dire.
Perché per lui l’eccezionalità è normalità, non ha fatto nulla di straordinario. Fa delle
gare di sci, e le vince. Dicono che nella vicenda sportiva di Thoeni sia molto
importante la presenza del padre Giorgio.

Chi le ha insegnato a sciare?


Mio padre.
Ha fatto gare, suo padre?
Sì.
E poi, il maestro di sci?
Sì, il maestro di sci. Allo Stelvio.
Quando?
D’estate.
E d’inverno?
L’albergatore.
Dove?
A Trafoi.
Aiuta suo padre, all’albergo?
No.
Perché?
Ci sono le zie.
Come si chiama l’albergo?
Bella Vista.
L’albergo è aperto solo l’inverno?
No.
Inverno ed estate?
Sì.
Ha fratelli, sorelle?
No. Unico.
È severo, suo padre?
Abbastanza.
Molto?
No.
Allora è vero che da piccolo sciava da solo l’estate?
Sì.
Andava sullo Stelvio?
Sì.
Andava e tornava, ogni giorno?
Andavo e tornavo, ogni giorno.
Che studi ha fatto?
Sono perito commercialista.
Questo titolo cosa le permette di fare?
Il segretario d’azienda.
Cioè?
Lavorare nell’albergo di mio padre, ad esempio.
Ha fatto altri sport, oltre lo sci?
No.
Però so che corre bene, che agli allenamenti in pista è molto bravo.
Sì.
Sui 100 metri?
Sì, sui 100 metri.
Quanto?
11”9 con le scarpette da tennis.
E nel sollevamento pesi?
Alzo 200 chili.
Nuota?
Nuoto, ma non sono tanto buono.
Legge?
Poco.

Dicono che Gustavo Thoeni abbia una capacità di assimilazione straordinaria, che
sappia assorbire da tutto e da tutti: che sia in grado di riprodurre immediatamente
ogni movimento, ogni atteggiamento di stile che lo interessi, di appropriarsene e di
metterlo tutto al proprio servizio.
Cercano di identificarlo in qualche atro grande campione del passato prossimo e
remoto: Colò, Duvillard, Bonlieu, Killy. Come italiano, Thoeni viene soprattutto
confrontato con Colò. E in effetti ci sono molti punti che combaciano. Colò era un
istintivo, e Thoeni è evidentemente un istintivo. Colò era un solitario, e Thoeni
evidentemente è un solitario. Colò era un sostanziale, e altrettanto lo è Thoeni. Ma
Colò era un montanaro solitario ed arrabbiato. Vinceva per istinto e per rabbia.
Thoeni è un montanaro evoluto, un montanaro con la forza e l’istinto dei montanari
senza i problemi dei montanari. Nemmeno il problema di vincere.
Ecco la fine dell’intervista con Gustavo Thoeni di Trafoi.

Quando pensa alla gara, si preoccupa, prima di una gara?


Non troppo tempo prima.
Quando?
Direi che mi bastano cinque o dieci secondi si concentrazione prima della partenza.
Cinque, dieci secondi. E prima niente?
No, prima niente.
I giornalisti le hanno fatto festa, dopo la sua vittoria nella Coppa del Mondo?
Sì, certo.
Che cosa le hanno chiesto?
Oh, le solite cose.
Che cosa?
La stessa domanda.
Quale?
Quella a cui non rispondo mai.
Quale?
Che cosa si prova dopo una vittoria.
E perché non risponde?
Perché è una domanda stupida.

MA MERCKX CI HA TOLTO I GREGARI

di Giancarlo Summonte
“Il Popolo” 4 settembre 1971

Eddy Merckx detto il Cannibale non solo era un antropofago, ma un vero e


proprio robot, una macchina programmata per vincere e triturare. L’inizio
della disumanizzazione dello sport.

ROMA – Molte sono state le ere del ciclismo. Una delle prime fu quella di Lucien
Marzan detto Petit Breton, ucciso da una granata sulla Marna nella prima guerra
mondiale. Velocipedi barboni polvere invettive: si perde nella leggenda. L’ultima, per
il momento, è quella di Merckx. Dopo verrà un Supermerckx o torneremo indietro. Il
ciclismo risalirà alle origini come l’acqua alla fonte, respinto dal mito della velocità.
Eddy Merckx ha ucciso i gregari. Non ne avverte la necessità, lui che è abituato a
planare sopra gli altri al pari di un despota intrattabile. Forse per questo il belga, dopo
aver dominato negli ultimi anni, viene ora considerato un essere inumano, una
macchina. Non ho mai amato Merckx, la cui superiorità ha appiattito, annullato i
rapporti di forza.
Presente lui, tutto diventa troppo facile: il pronostico fatto, il destino di gara
segnato. La rassegnazione grava sul gruppo come una coltre spessa, impalpabile,
ovattandone i contorni e sfumando i comprimari: appunto, i gregari, che nel ciclismo
sono il sale della corsa.
L’era del ciclismo più umana è stata quella di Bartali e di Coppi: gli anni
Cinquanta. Era il tempo dei gregari. Grandi, immensi gregari, simili a cavalli
giganteschi, le mani nodose piene di calli, la voce ruvida, la risata omerica che, a
furia di tirare, correvano anche il rischio di finire in maglia gialla. Come Carrea.
Carrea era una quercia la cui riparo Coppi pedalava tranquillo. Allorché Fausto
decideva di vincere – e l’azione veniva concertata la sera prima con Tragella e i
fedelissimi – Carrea si faceva da parte: e da parte si faceva Milano. L’azione dei due
finiva in quel momento: il capo scattava con la rapidità di una fionda e il resto era
silenzio. Ma a levigargli la strada, a tirare il collo agli altri, erano stati i gregari: il
campionissimo si affacciava alla finestra, fiutava il vento e va, prendeva il volo.
L’azione si ripeté tante volte sul Tourmalet, sull’Izoard, sul Galibier, sul Pordoi. Nel
gran quadro della corsa tutto si collocava allora al posto giusto. Le vittorie di Coppi
laceravano un tessuto umano: quelle di Merckx sono esplosioni meccaniche, soliloqui
di un robot.
Quando soccombeva, Coppi era circondato da un gruppo di amici. L’anno che il
fratello Serse morì, Fausto perse il Tour: e sarebbe stato addirittura escluso a metà
corsa se Godet, un raffinato collezionista di giade orientali e di grandi campioni, non
lo avesse riammesso. Infatti il campionissimo era arrivato fuori tempo massimo nella
tappa di Montpellier. Vidi quella volta una cosa straordinaria: Coppi veniva avanti
sotto il sole torrido del Midi, in un afrore di meloni troppo maturi, il corpo scosso
dalla febbre, gli occhi allucinati, senza pedalare, quasi levitando sull’asfalto che si
scioglieva: pareva, Fausto, uno di quegli insetti nerissimi – il frammento di un
calabrone, un braccio una gamba un piede – portato avanti da un nugolo di formiche.
E ognuna di queste formiche, com’è nella loro costituita gerarchia, aveva un compito
preciso da assolvere: chi lo spingeva da tergo, chi lo affiancava prendendolo sotto
braccio, chi gli infilava delle foglie di lattuga sotto il berretto, chi andava a prendergli
l’acqua per poi alitargliela sul viso con una bravura estrema, vaporizzandola con la
bocca anziché spruzzarla, in modo che la doccia fosse finissima e l’acqua durasse
qualche secondo in più. Quella mesta e operosa processione andò avanti fino al
traguardo: il vincitore di tappa era già in albergo quando la sagoma ossuta
dell’italiano, o almeno quel che restava di lui, si profilò sotto gli alti platani. Quel
giorno capii che è giusto, qualche volta, trasgredire un regolamento.
Due anni prima Giovanni Vassallo, un caro e tumultuoso collega scomparso che
nella sua città, Porto Maurizio, chiamavano Tafferuglio, mi aveva dato l’opportunità
di seguire il primo dei miei moli Tour. Aveva convinto il cognato, Antonio Aprà,
proprietario di un negozio di salumeria al centro di Parigi, proprio due passi
dall’Opera, a lasciare per un mese gli affari per condurci attraverso la Francia con la
sua macchina, una berlinetta di legno. Sottoscrivemmo un patto con Coppi ed il suo
patron Zambrini: in caso di vittoria Fausto, anche lui al suo primo Tour, mi avrebbe
mandato una bicicletta ed io avrei partecipato al campionato dei giornalisti con la
maglia della Bianchi. Il giorno della crisi di St. Malo – risoltasi poi felicemente dopo
lunghe ore di conversari e grazie all’intelligente, sensibile mediazione di Gino Bartali
– Fausto, distaccato in classifica di quasi mezz’ora, non avrebbe certo pensato di
poter vincere quella corsa stregata; e invece il Tour del 1949 fu per lui l’avventura
più memorabile. Toccò poi a me vincere in autunno il campionato italiano.
Tanto straripanti erano i gregari di Coppi quanto silenziosi e dimessi quelli di
Bartali. Anzi, il gregario. Perché di fedelissimi Gino ne aveva allora uno soltanto:
Giovannino Corrieri, un siciliano con i capelli ricci e corvini e un’ombra di tristezza
sul largo viso africano. Corrieri sembrava un servitore muto e adorante. Infatti non
parlava mai: ma c’era Bartali che parlava anche per lui. Mai accoppiamento fu, credo,
meglio assortito. Ginettaccio sparava lazzi e berci in vernacolo toscano, aggrediva
tutti con la sua vitale e prorompente personalità. Corrieri era utilissimo a Bartali ma,
al contrario di Coppi, non per l’aiuto in corsa (con quel carattere Bartali, in realtà,
non aveva bisogno di nessuno). Giovannino diventava addirittura indispensabile non
appena la gara finiva, perché era allora che il suo capo poteva cominciare a investirlo
con un torrente di imprecazioni, si invettive: insomma, si sfogava. E questo diluvio
accomunava tutti, compagni, avversari, giornalisti, Goddet e Levitan, i quali venivano
inondati da un francese approssimativo ma virulentato nell’Arno. E Corrieri muto,
silenzioso, tranquillo ad ascoltare, facendo sì col capo. Ecco: Corrieri era la valvola
di sfogo di Bartali. Un umile, taciturno confessore.
A Bartali, come si sa, non andava bene niente. Per lui “gli era tutto sbagliato, tutto
da rifare”. Una sera a Pau lo trovammo fuori di sé. Gli organizzatori avevano
dirottato la squadra italiana in un pessimo albergo, lui e Corrieri erano finiti in una
cameretta praticamente priva di finestre. A Vassallo e a me invece era toccato un
sontuoso appartamento all’Hotel de France. Questa discriminazione ci sembrò
ingiusta, e li invitammo nella nostra stanza. Loro nei letti imbottiti, noi su due
brandine dietro un paravento All’alba fummo svegliati da un acuto ed intollerabile
odore di linimento. Per fortuna evitarono di venire a massaggiare pure noi. Fu il
nostro contributo alla vittoria di quel Tour trionfale.

I GHETTI DELLO ZIO TOM


(pag. 8)
di Sandro Portelli
“Il Manifesto”, 4 gennaio 1972

Nel periodo più caldo delle tensioni razziali negli Stati Uniti, Sandro Portelli,
uno dei migliori conoscitori in Italia della società americana, mette le mani su un
rapporto redatto per il Congresso. Argomento: come impedire che a situazione
peggiori. Lui commenta: “un antropologo spiega al governo Usa come tenere i
ratti in gabbia e i neri nei ghetti”, e mette in evidenza come la scienza senza
buon senso possa generare mostri.

Edward T. Hall è un antropologo americano il cui nome può non suonare del tutto
nuovo da noi, perché diversi suoi libri sono stati tradotti in Italia, ed uno di questo
(“La dimensione nascosta”) usato come testo per l’esame di antropologia
all’Università di Roma. Hall si e’ affermato istruendo i dipendenti del Dipartimento
di Stato americano su come comportarsi con gli indigeni all’estero. Il contenuto del
suo insegnamento è un relativismo culturale annacquato secondo cui gli stranieri si
comportano in modi assurdo ed incivile non perché siano di razza inferiore, ma
perché la loro cultura è diversa da quella americana. Con il corollario - non scritto,
naturalmente – che chiunque abbia una cultura diversa da quella americana è
destinato a comportarsi in modo assurdo ed incivile.
Il principale contributo scientifico di Hall sta nella sua teoria per cui e’ possibile
interpretare le relazioni spaziali e temporali come strumenti attraverso i quali passano
delle comunicazioni (la “dimensione nascosta”, appunto). Scoperta non travolgente,
dopo McLuhan, ma sufficiente ad assicurargli un grosso prestigio in America e fuori.
Recentemente, Hall e’ stato incaricato dal Sottocomitato per le Questioni Urbane
(eufemismo ufficiale con cui in America si indicano i ghetti) del Congresso Usa di
redigere un rapporto su “L’America Urbana: finalità e problemi”. L’iniziativa, per il
solo fatto di esistere, oltre che per la presenza nel Comitato della “colomba” J.W.
Fulbright, porta un segno decisamente progressista per l’America: il fatto di condurre
un’inchiesta significa ammettere che i problemi urbani non dipendono solo
dall’innata inferiorità e malvagità dei neri, e non li si risolvono solo con la Guardia
Nazionale,
Il rapporto ufficiale redatto da Hall è illuminante sia per approfondire la
“neutralità” di certa scienza, sia per capire il senso di certo liberalismo. Parti del
documento sono state ora diffuse da un gruppo di controinformazione nero, con un
glossario che traduce i termini “tecnici” con cui Hall cerca di mascherare i contenuti
politici.
Hall utilizza la sua tesi sulle relazioni spazio-temporali per ipotizzare che la causa
delle tensioni sia l’eccessivo affollamento nei ghetti. “Per aumentare la densità di una
popolazione di ratti e mantenerli sani si deve: a) metterli in scatole in modo che non
possano vedersi tra di loro; b) tenere pulite le scatole; c) dar loro abbastanza da
mangiare”, scrive, “ciò fatto, si possono ammucchiare l’una sull’altra quante scatole
si vuole. Nota: gli animali nelle scatole diventano stupidi per la noia o cadono in uno
stato confusionale. Questo rappresenta un rischio molto grande per il nostro sistema
di inscatolamento. Il problema è: fino a che punto di privazione sensoria possiamo
permetterci di arrivare nell’archiviare questa gente nelle case popolari?” Fino a che
punto, insomma, i neri accetteranno di farsi trattare cime topi?
Per rispondere, Hall osserva che la cultura dei neri delle classi inferiori dei ghetti è
diversa da quella dei bianchi della classe media. “Alcuni esponenti negri sono arrivati
a dire che nessun bianco può capire i negri. Hanno ragione, se si riferiscono ai negri
delle classi inferiori, Noi siamo in grado di capire solo quelli che abbiamo addestrato
noi stessi”. È a questi che bisogna ricorrere. Per fortuna, infatti, nei ghetti esistono
delle “enclaves”, dei territori meno affollati, popolati da persone fidate: “predicatori
disposti a cooperare, uomini politici, insegnanti, ecc.”. Si tratta di usare queste
“enclaves” (il glossario dei nostri compagni neri traduce il termine, seccamente, con
“Zii Tom”) per risolvere il problema.
Scrive infatti Hall che “i nostri studi dimostrano che la natura del rapporto
dell’uomo con la città sta nella necessità di leggi che vengano fatte rispettare e
sostituiscono i costumi tribali”. Le “enclaves” di Zii Tom addestrati dai bianchi
possono essere usate per coadiuvare “le agenzie di mantenimento dell’ordine e della
legge”. Per fare in modo che collaborino, bisogna però assicurarsi che lo spazio a
loro disposizione sia sempre maggiore di quello a disposizione dei poveri topi infilati
nelle case popolari.
Stabiliti quali principi scientifici permettono di tenere i topi in gabbia e chi sono i
guardiani migliori, Hall espone alcune conclusioni, in cui la civetteria di usare un
linguaggio “scientifico oggettivo” lo porta ad esprimersi come un mercante di
schiavi: “Per mezzo di un processo di addomesticamento, la maggior parte degli
organismi superiori, compresi gli uomini negri, può essere rinchiusa in condizioni di
affollamento in una data area ristretta, purché sia loro fornito costantemente un
quantitativo sufficiente di cibo e di sicurezza, e la loro aggressività sia tenuta sotto
controllo”. “Il nostro bisogno piu0 critico”, spiega, “ è quello di idee, principi per
progettare spazi che mantengano una sana identità. Un sano rapporto di interazione,
un adeguato livello di coinvolgimento, musei, posti di lavoro, piscine, cinema, ecc. E
un costante senso di identità etnica”. Altrimenti sono guai: “se gli uomini hanno
paure reciproche, la paura determina reazioni; la paura più il sovraffollamento
determina il panico, in tal modo creando una coscienza esplosiva della necessità di
avere più terra”. E lo scienziato conclude: “Non possiamo permetterci che questo
avvenga. La terra non gli verrà mai concessa, e noi sappiamo che questo è il valore
più prezioso di tutti. La nostra politica deve essere di distrarre, di compromettere, di
concedere il massimo controllo comunitario sui ghetti e sulle loro finanze, ma nessun
risveglio o coscienza dei veri valori”.
Ecco quindi l’importanza determinante dei “negro leaders”, dei notabili neri,. Hall
li descrive come un entomologo descrive un insetto: non hanno importanza di per sé
ma, solo perché servono. “La sola cauta importante da avere è di evitare il facile
errore di trattarli con superiorità. Mostrate straordinario interesse, rispetto e
cordialità. Fate domande senza apparire sospettosi, e ascoltate”. In presenza degli
specialisti neri “non parlate, ascoltate e lasciate che parlino loro. Ricordate che è
importante imparare il più possibile su di loro per perseguire gli obiettivi desiderati”.
Bisogna controllare costantemente, sia attraverso gli Zii Tom, sia attraverso le “molte
leggi che abbiamo a disposizione”, sia assegnando loro incarichi ufficiali. Questo
dunque il quadro del notabilato nero visto dal potere bianco; servi utili ma infidi e
spregevoli, attraverso i quali si stabilisce la “identificazione etnica” che deve dare ai
neri sottoprivilegiati l’illusione di un certo grado di “community control”
(espressione che può significare tanto “autodeterminazione della comunità quanto
“controllo sulla comunità”: in pratica il secondo mascherato da prima). In questo
modo, conclude il rapporto di Edward Hall al Congresso degli Stati Uniti, “si crea
l’autocontenimento”.
Questo è dunque l’obiettivo finale: fare in modo che i neri dei ghetti si controllino
da soli. A questo fine anche alcuni concetti espressi dal movimento di liberazione,
come il community control e la coscienza etnica, vengono riassorbiti e mistificati dl
potere bianco. La borghesia si serve della propria ala progressista per recepire vitali
esigenze di perfezionamento: e si serve, per realizzarle, di “scienziati” come Edward
Hall, che fanno testo per le nostre università, ma la cui dimensione, sempre meno
nascosta, sta nel diretto legame tra la loro scienza ed il potere capitalistico. Però la
mistificazione più grave il potere la fa ai suoi propri danni: perché tutto il Rapporto
Hall è costruito sulla convinzione che i neri dei ghetti siano ancora disposti a lasciarsi
dirigere dalle enclaves di Zii Tom della borghesia nera: ed è per questo che nessuna
indagine di questo genere potrà fornire al governo americano gli strumenti per
controllare questo incontrollabile movimento.

SIAMO TORNATI AI TEMPI DEL DOPOGUERRA


(pag. 1)
di Leonardo Vergani
“Il Corriere della Sera”, 2 dicembre 1973

Effetto notte: gli stati arabi, per protestare contro i paesi occidentali accusati di
“filosionismo” in occasione della Guerra del Kippur, tagliano agli Usa ed
all’Europa Occidentale i rifornimenti petroliferi. Scatta l’“austerity”, piano di
drastica riduzione del consumo energetico nazionale. Per le città italiane prese
dallo shopping natalizio è un salto all’indietro nel dopoguerra, ai tempi in cui
eravamo poveri ma belli – soprattutto poveri. È anche, racconta Leonardo
Vergani, un salto nel buio, nel significato letterale dell’espressione.

MILANO – Ad una ad una si spengono le luci della città. Già molto prima delle
ventuno, qyasi tutti i negoixi del centro di Milano hanno le vetrine buie. Lungo le
strade i traffico è rado e frettoloso. Nessuno vuol farsi cogliere lontano da casa all’ora
dell’austerità. Occorre parcheggiare, un’impresa non facile, perché il filo dei
marciapiedi non haun centimetro libero e perché ognuno vorrebbe avere la propria
macchina sottole finestre di casa, come una presdenza rassicurante. Milano perde i
colori poco a poco.

Davanti alla Tv

Le grandi insegne di piazza del Duomo si smorzano, l’omino del Lucido Brill, che
cissà da quanti anni si psecchia nell scarpa sinisra, svanisce nel nulla, smette di
funzionare anche l’orologio elettronicxo che dà i decimi di secondo. Migliaia di
commesse sono già davanti ai televisori. Hanno fatto fatuca a chiudere, come era
stato imposto, alle diciannove. Poco dopo le dieci la Galleria Vittorio Emanuele è
vuota e sonora. Al centro, una cabuina telefonica ed una buca delle lettere fanno
respirare una certa aria di Londra, o lameno dovrebbero.
Un sabato strano, un po’ festoso ed un po’ preoccupato. Negozi pieni, al bar si fa
la coda per il cappuccino o per l’aperitivo. Nel primo pomeriggio il centro era pieno
di una folla spensierata e curiosa di vedere quello che sarebbe acaduto. Comitive di
ragazzi, file di scolari che attendevano pazientemente di salire su un autobus a dje
piani fatto venire dal’Inghilterra per la Settimana Britannica. Molte le biciclette, per
un primo assaggio di quella che dovrebbe essere una domenica passata a pedalare.
Romanbo le ultime potentissime moto, quasi per una sfida. Passeggiate tranquillep er
le peersone anziane che, per una volta, non sono state abbandonate in casa mentre i
figli sono fuori città.
Poi,k sia pur lentamente, la città sembra presa da una strana fretta. Si comincia a
guardare l’orologio con preoccupazione, l’approssiarsi dell’ora fatidica
impensierisce. Non siamo più abuituai ad orari drastici, alle imposzioni, ad una
atmosfera quasi da coproifuoco. I grandi magazini di piazza del Duomo si svuotano
velocemente. L’altoparlante esorta ad affrettarsi. Il Comune ha già dato l’esempio. Il
Castello Sforzesco è diventato d’inchiostro. Garibaldi, in piazza Cairoli, caracolla sul
suo destriero ormai invisibile. È sempre più netta kl’angoscia di tornare a casa. Agli
ingressi della metropolitiana si accalca gente allegra, carica di pacchi. Ma si capisce
che con il passare dei minuti aumenta il senso di disagio. Nei ristoranti si mangiano
velocemente piatti pronti, pochi pretendono quelli da farsi. Le travole calde fanno
affari s’oro con i panini dell’austerity. Davanti alle edicole ancora aperte, c’è chi vuol
far provvista di giornali e riviste prima di andare a dormire. Un caldarrostaio di
piazza delDuomo smerciale ultime castagne quasi con rabbia. Ha un motorinmo, ma
deve avviarsi per tempo verso la periferia. Come hanno fatto questa notte i
nottambuli e gli insonni? A giudicare dall’affollamento delle farmacie, si sono
smerciate vagonate di pillole e tranquillanti. In Galleria del Corso i suonatori scozzesi
tirano fuori nenie melanconiche.
Fretta, sempre piùin fretta. A casa, a casa. Dopo le nove la città comincia ad
assumere un spetto ostile, un buio da tempi dell’oscuramento, un nero che fa sentire
ancor di più il freddo. Sono rimasti accesi gli orologi, sembrano ammonire che la
mezzanotte è vicina. Sarà sicuro rientrare a piedi? I semafori continuano a
funzionare, mentre sulla città pare inffitirsi la caligine. Escono le macchine bianche e
nere dei vigili, le pantere della polizia. I camerieri dei ristoranti sono impazienti. Nei
cinema – l’ultimo spettacolo è stato anticipato alle ventuno – il pubblico ogni tanto
guarda che ore sono e fa mentalmente il calcolo di quanto si impiegherà a tornare al
sicuro. Venerdì nei night club è stata festeggiata fino ad ore piccolissime l’ultima
notte di baldoria.

Il silenzio

Quando arriva la mezzanotte, Milano è vuota e spettrale. Non è uno spettacolo


lieto. È come ritornare indietro di anni ed anni, ai tempi del primissimo dopguerra,
perché l’illumoinazione è fioca, i passanti rarissimi. Alcune stade sembrano gole di
montagne dove fischia il vento. La città è diventata dura, quasi volesse respingere i
suoi abitanti. Per centinaia di migliaia di persone cè la nostalgia del solito fine
settimana caotico e faticoso. Non siamo più abituati al silenzio. Passa pedalando, sul
catenaccio arrugginito, un metronotte con il mazzo di chiavi in mano. Attorno non c’è
un’anima. Milano cerca faticosamente di prendere sonno e di scoprire cosa sarà,
all’indomani, una domenica a piedi, tutta in città.
“E’ STATO UN MASSACRO”
di Oriana Fallaci
“L’Europeo”, 21 novembre 1975
Una sera, sulla strada che porta all’idroscalo di Ostia, viene ucciso Pierpaolo
Pasolini, intellettuale fine e maledetto. Ad ucciderlo fu un “ragazzo di vita” di
quelli che lui aveva descritto nei suoi libri e nei suoi film. XDa solo? Oriana
Fallaci sostiene di no. E qui spiega perché.
Questa è, parola per parola, la ricostruzione del dialogo avvenuto a più riprese tra il
nostro collaboratore Mauro Volterra e il ragazzo che sa come morì Pasolini, o meglio
chi (oltre al Pelosi) uccise Pasolini. Ho ritenuto giusto lasciare le frasi del ragazzo
così come furono dette da lui, e cioè in dialetto romanesco, per non alterarne in
nessun modo la spontaneità e l'autenticità. Ho ritenuto opportuno rispettare
rigorosamente la successione cronologica dei colloqui avvenuti tra Volterra e il
ragazzo per non manipolare in nessun modo la loro importanza e la loro utilità. Le
notizie contenute dentro le parentesi che interrompono il dialogo spiegano come
avvennero i drammatici incontri e sino a che punto il ragazzo fosse terrorizzato dalla
paura d'essere ucciso.
“Te ne devi annà, capito? Te ne devi annà! lo so’ riuscito a uscinne da questa storia,
ne so’ uscito fori. Perché me voj rimette in mezzo ar casino? Perché me voj rovinà?
Va via, va via!”
E in quale modo sei riuscito a uscirne?
“Mo te lo vengo a dire a te! Perché te lo dovrei dire a te?”
Perché ci potresti guadagnare un po’ di soldi. Io te le pago queste informazioni.
“Nun li vojo li sordi tua! Che ci faccio con li sordi tua? Mannaggia, è facile parlà per
te che nun rischi gnente. Tu con questa storia ce fai carriera. Ma io me becco ’na
pistolettata in bocca, capito? La pelle è mia, mica è tua, capito?”
Ti assicuro che non dirò mai a nessuno d’avere avuto certe informazioni da te. C’è il
segreto professionale.
“E io come faccio a fidamme? E se poi lo racconti invece? Tu ormai me conosci
come faccia.”
Io, il viso tuo, dopo averti parlato lo dimentico.
“Ce credo proprio, ce credo. Tu quando l’hai dimenticato vieni a ricercamme per
ricordallo un’altra volta. E me fai la fotografia all’improvviso, de nascosto. Bel
guadagno ritrovamme con la fotografia sur giornale. E sotto la fotografia la scritta:
‘Ecco er testimone’. Aò! Mica so’ stronzo”.
Il primo incontro tra Mauro Volterra e il ragazzo è avvenuto in una via di Roma.
Anzi in una via frequentata da prostituti, ladri, ricettatori: l’ambiente che ha ucciso
Pasolini. Era notte. Il ragazzo, scoperto dopo una lunga e paziente ricerca, era
profondamente impaurito. Cercava di sottrarsi alle domande di Volterra
sgusciandogli via e camminando svelto lungo il muro. Sapeva la verità ma sapeva
anche che dirla avrebbe potuto costargli molto. Allo stesso tempo, sembrava
combattuto tra quella paura e la voglia di parlare, il bisogno di parlare per liberarsi
d’un peso. La schermaglia tra lui e Volterra durò circa mezz’ora, e cioè fino a quando
il nostro collaboratore si allontanò, deciso a ritrovarlo. Lo avrebbe ritrovato, infatti,
due giorni dopo. Il dialogo che segue si riferisce all’incontro di due giorni dopo.
“Ah, ma allora nun ce semo spiegati! Nun hai capito che nun te vojo vedé, che nun te
dico gnente! Ma perché sei tornato? Lé, hai fatto un viaggio a voto. Stai a perde
tempo”.
Una cosa soltanto. Lo sai dov’è la baracca di Pasolini all’Idroscalo?
“Sì che lo so. Te potrei pure dì andove sta con esattezza. Ma nun te dico gnente.
Capito? Gnente! - Ma chi sa gnente! Stavo a scherzà!”
Sai anche chi erano gli altri che l’hanno ammazzato?
“Ah! T'ho capito! È questo che voj sapé: chi so’ quell’altri”.
Sì, gli altri due.
«Chi t’ha detto solo due? Mannaggia, se te dicessi la verità fino alla fine, ce sarebbe
de fa’ un volume! Lé, io te saluto e me ne vado. Amici più di prima”.
Non andartene, via, stai calmo... Non avere paura. Camminiamo un
po’. Che t’importa se camminiamo insieme per un po’.
“Vabbé... In fondo mi sei pure simpatico”.
Di’, ma qui non si vedono più quelli che hanno la motocicletta? Chi ce l’ha la
motocicletta?
“Vuoi dire la Gilera 124? Quella ce l’ha il Roscio”.
Chi?
“Ma che me fai di’? Me fai di quello che nun vojo di’! Te ne voj andà? Mo vedi come
sono i giornalisti? Te fanno le moine davanti e appena te revorti te fregano. Te ne voi
andà? T’ho detto pure troppo. Anzi nun t’ho detto gnente, capito?”
Senti, io non voglio i nomi e i cognomi. Mica sono un poliziotto.
“Anche se nun sei un poliziotto, come faccio a sapé che nun me voj mette in mezzo,
che nun me voj denuncià, che nun ciai quarcun altro appresso? E sai che te dico?
Come faccio a esse certo che nun sei un poliziotto, che sei un giornalista
peddavvero?”
Ecco la mia tessera di giornalista. E, se non ci credi, vieni al giornale. Ci mettiamo
in una stanza e parliamo là.
“Manco pe’ gnente! Così da quella stanza nun esco più. Al giornale me vedono in
troppi. E tu... Ma tu me voj fa’ ammazzà! Me voj fa’ finì con ’na pistolettata in
bocca! Te lo voj mette en testa che se parlo m’ammazzeno?!? Ascoltame, lé: io te la
direi la verità. Te la direi tutta, perché me sta qui. Però se la dico me pijo la
pistolettata in bocca. E nun ce riesco! Nun ce riesco!”
Provaci.
«Ora ciò da fa’. Vedemoce domani.»
D’accordo.
«Però se parlo nun te dico tutto, t’avverto. Te dico mezza verità e basta, capito?
Perché se te dico tutta la verità intera, poi te devo sparà a te. Te devo sparà in bocca”.
Il secondo incontro è avvenuto in un punto diverso della città, cioè in un punto non
frequentato dai prostituti e dai ladri. È avvenuto anch’esso di notte e, stavolta, il
ragazzo era più che impaurito: era terrorizzato. Aveva ricevuto minacce da qualcuno,
forse? Qualcuno che lo aveva visto con Volterra o che lo aveva saputo?
L’impressione di Volterra è che il terrore non gli venisse dai compagni di vita ma da
persone più lontane e più forti. Contemporaneamente, v’era nel ragazzo una durezza
insospettata la prima volta. Diciamo la durezza che nasce nei deboli dalla paura. La
sua voce era fredda, decisa, quando ha esclamato: “Se te dico tutta la verità intera poi
te devo sparà a te, te devo sparà in bocca”. E su questa frase si sono lasciati per
ritrovarsi l’indomani, in una strada del centro.
Ciò che segue è il dialogo del terzo incontro, incominciato con scena muta.
L’appuntamento era infatti dinanzi a un negozio, ma quando è giunto Volterra il
ragazzo non stava dinanzi al negozio. Volterra l’ha visto in un portone, che si
nascondeva. Lo ha chiamato allora con un gesto della mano. Il ragazzo ha risposto
con un moto di stizza. Poi ha attraversato la strada, gli ha detto con ostilità:
“Aspettami qui”. Infine è andato dietro una colonna, ha tolto dalla tasca un foglietto
e, sveltissimo, gli ha dato fuoco con un fiammifero. Quando Volterra gli si è
avvicinato, per terra restava un mucchietto di cenere. E il ragazzo la calpestava, in
preda all’ira.
“Ecco, me l'hai fatto brucià! Ce avevo scritto mezza verità, in quel biglietto, e ce
l’avevo scritta per te... E tu me l'hai fatta brucià”.
Io?!?
“Sì, te, mannaggia a te. Perché m’ero preparato tutto, mannaggia a te. Te volevo
pedinà pe’ vedé se eri solo peddavvero o se ciavevi quarcuno dietro, e dopo, se ero
sicuro che nun ciavevi nessuno dietro, te davo er biglietto e scappavo. Così nun me
cercavi più. Hai rovinato tutto”.
Non importa, mi dici le stesse cose a voce. Tanto io le cose le so già: da te voglio una
conferma e basta. Hai letto l’articolo della Fallaci?
“Io i giornali nun li leggo mai”.
Allora andiamo a comprare il mio. Così leggi quello.
“Giurame su mamma tua che nun me fai uno scherzo”.
Lo giuro su mamma mia. Voglio solo che tu legga quell’articolo.
Si sono avviati verso un'edicola e hanno comprato L’Europeo. Il ragazzo ha voluto
pagarlo. Poi, con il giornale in mano, sono entrati in un bar, hanno chiesto due caffè,
si sono seduti a un tavolo. Anche i due caffè ha voluto pagarli il ragazzo. Il ragazzo
sfogliava le pagine su Pasolini con curiosità e diceva: “Ah, è questo L’Europeo?”
Quando Volterra gli ha indicato il mio pezzo a pagina 23 e il titolo “Ucciso da due
motociclisti?” s’è messo a leggerlo attentamente e annuendo con dondolii della testa.
A circa metà del pezzo, o poco prima, ha improvvisamente sbattuto il giornale sul
tavolo.
“Ma ce l’hai qui la verità! Ce l’hai qui nell’articolo! Che voj da me? È successo così!
Che voj da me?”
Una conferma.
«Te la dò, te l’ho data. Che me voj fà dì? Se parlo ancora finisce che si capisce chi
sono io. Lo fai capire insomma. Perché io da questo articolo l’ho già capito chi è
l’omo che ha visto. È quello che va a fare l’amore laggiù con... No, no, fa conto che
nun so gnente, che nun t’ho detto gnente.”
Va' avanti, finisci di leggere l'articolo e poi parliamo.
Il ragazzo ha ripreso la lettura ma, giunto alla seconda parte della seconda colonna,
ha assunto un’aria ironica e delusa.
“No, le catene no. Quelle nun ce stavano. Su quelle le hanno detto ’na bugia. E poi
chi le usa più le catene pe’ menà?”
Lo sappiamo. Lo sapevamo che probabilmente v'erano inesattezze nel racconto. Ma
dovevamo riferire quel che c 'era stato riferito, senza censure, sennò avremmo
rischiato di tagliare cose vere.
“Però a parte le catene... Mannaggia! Ma chi gliele è andate a dì queste cose? Chi è
stato?”
Se io te lo dico, ti dimostrerei che non rispettiamo il segreto professionale. E avresti
ragione a non fidarti di me quando ti assicuro che nessuno saprà chi è stato a darmi
la conferma. Leggi ancora. Leggi fino in fondo.
Ha letto fino in fondo, con attenzione quasi morbosa, e alle ultime righe ha avuto uno
scatto ai bordi dell’isteria.
“Sì! Questo è vero, sì! E vero!”
Cosa è vero?
”La storia dell’anello! Ce l’ha lasciato apposta. È vero che Pelosi l’ha lasciato
apposta! Lo so!”
Vuol dire che l’ha fatto per incriminare se stesso o qualcun altro?
“Lasciame stà! Lasciame andà! Nun dico gnente! Nun ho detto gnente! devo andà
via! Ciò un appuntamento!”
Il ragazzo s’è accorto troppo tardi d’essersi lasciato sfuggire qualcosa che giudicava
molto pericoloso. E ciò lo ha gettato in preda al panico, anzi alla disperazione.
Sconvolto da ciò che aveva detto s’è alzato, è uscito dal bar, s’è messo a correre
lungo il marciapiede. Volterra lo ha raggiunto, lo ha costretto a fermarsi, e con una
mano gli teneva il braccio destro, con l'altra gli mostrava il denaro respinto il giorno
prima.
Guarda, questi soldi sono davvero per te. E se non ti bastano te ne do ancora. Perché
non vuoi guadagnare un po’ di soldi senza rischiare nulla?
“Nun li vojo! Che ce faccio con li sordi se me pijo una pistolettata in bocca? Nun li
vojo!”
Ma di chi hai paura? Di chi? Prendili.
“No. Cerca de capì. Nun posso. Io con questi sordi me ce potrei divertì due settimane
e magari anche un mese. Ma se li piglio io nun ce arrivo a un mese, nun ce arrivo
nemmeno a due settimane. Ascortame, lé - tu te tieni li sordi tuoi, e io me tengo la
pelle mia”.
S’è divincolato, ha ripreso a scappare. Volterra lo ha inseguito e raggiunto,
costringendolo a rallentare il passo e a camminargli accanto. Hanno continuato così,
camminando l'uno accanto all'altro, per circa un’ora e mezzo. Hanno girato, a piedi,
mezza città. Alcuni tratti li facevano in silenzio completo, altri discutendo
sull’opportunità di fermarsi e parlare o no. Tutto il dialogo che segue va letto senza
dimenticare il panico e la disperazione che aveva preso il ragazzo. Ansimava,
tremava, si guardava alle spalle per convincersi di non esser seguito. Ogni tanto
sembrava anche cedere alla tentazione di guadagnarsi quei soldi e annunciava che al
prossimo bar si sarebbero fermati, ma poi il bar non gli andava bene e la marcia
riprendeva: come un incubo.
“Tu me devi capì, cerca de capì. Io la verità ce l’ho qua in bocca, lé. E me brucia.
Vorrei dirtela proprio, vorrei dirtela tutta. Ma nun ce la faccio. Ciò troppa paura. Ma
che ce guadagno a parlà? Ma che sono li sordi se m’ammazzeno? Quelli
m’ammazzeno!”
Via, calmati. Calmati.
“Senti come scotto. Senti come brucia la faccia mia. Nun lo vedi che so’ tutto rosso?
So’ un foco. Nun ce la faccio. Famme calmà. Quando me so’ calmato, provo a parlà.
Te giuro che ce provo perché n’ho voglia. Al primo bar con le sedie ce fermamo e te
dico tutto. No, tutto no: te dico mezzo. Ma te dico.”
Bene. Questo bar qui ti piace?
“No. C’è troppa gente.”
Allora questo. Questo è quasi vuoto, guarda.
“No, nun me piace. Meglio la chiesa. La scalinata della chiesa. Mettemose là.”
Mettiamoci qua.
“Mo aspetta, eh? Aspetta che me riposo un pochetto. No, nun me va bene neanche
qui. Ce vedeno in troppi.”
S’è rialzato. Si sono rialzati. Hanno ripreso a camminare. Si sono fermati a un
sottopassaggio. E qui, finalmente, ha incominciato a parlare.
“Quella sera... Guarda, quella sera... Ecco: Pasolini, è arrivato con er “GT”. È
arrivato lì, ai giardinetti davanti al bar. E arrivato e ha fatto montà subito uno che nun
era il Pelosi. Ed è partito con lui e hanno fatto un giro. Un giretto de cinque minuti,
diciamo, una cosa così. Poi è tornato e il ragazzo che aveva fatto montà è sceso. Il
ragazzo è sceso, è andato verso il Pelosi e l’ha preso da parte e se so’ parlati. Allora
Pelosi è montato lui sulla macchina de Pasolini. E sono andati via ma dopo un poco
sono tornati. Robba de poco tempo. E Pelosi è sceso. È venuto verso de noi. S’è
messo a parlà con noi. Si, c’ero pure io. Vabbé, c'ero pure io.”
E che vi ha detto il Pelosi?
“Tu me voi rovinà! Nun te lo dico che ha detto! Famme annà via!”
Calmati. Continua il racconto.
”Lo continuo perché me piaci. Dei sordi tua me ne frego. Però te devo ricordà che la
verità tutta intera nun te la posso dì, te ne posso dì mezza e basta, quell’altra mezza te
la devo raccontà con quarche bugia pe’ fà confusione. Sennò me riconoscono che so’
io che t’ho detto le cose. E la verità è che quando il Pelosi è risalito de novo sulla
“GT” de Pasolini... E Pasolini s’è allontanato de novo con lui a bordo... ecco...
l’hanno seguito. Dietro ce se so messe una Mini e una moto. Voglio dì una Vespa
125. No, una Vespa 50... Nun Io so che era. Nun te lo dico che era.”
Lo sai, ma qui dici la bugia. Neanche la Mini era una Mini, vero?
“Lo vedi che fai er pezzo de merda? Lo vedi che me voi imbroglià? E che, so’
fregnone io?”
E la Vespa non era una Vespa. Perlomeno, non era una Vespa 50. E magari era una
moto.
“Lasciame annà, lasciame annà. La cosa più importante te l’ho detta!”
No, ancora no. Vai avanti, ti prego.
“Bé... L’hanno seguito. L’hanno seguito prima al ristorante. E qui l’hanno aspettato
e...”
Su queste parole s’è alzato, di scatto, pentito, deciso a fuggire, e Volterra è riuscito a
trattenerlo. Il ragazzo si divincolava.
“Nun me toccà!... Metti giù le mani!... Lasciame andà!... Ce vedeno!”
Non ci vedono. E se mi prometti di non scappare ti lascio. Anzi guarda: o mi metto
tre scalini sotto, così non ti osservo nemmeno quando parli.
“Vabbé”
Ora dimmi: c’eri anche tu nel gruppo che l’ha seguito fino al ristorante? Ma quanti
eravate?
“Lasciame annà! Lo vedi che nun ce stai ai patti? Lo vedi che me voi fa’ ammazzà?
Nun me chiede niente!”
Cosa intendevi quando hai detto “io da questa storia son riuscito a uscire”?
Intendevi dire che l’hai seguito fino al ristorante e basta e che te la sei cavata
fuggendo dopo?
“Non me regge! Lasciame annà! Maledetto a me! Chi me l’ha fatto fà quella sera
d’andà ai giardinetti? Perché nun sono andato al Colosseo?”
È stato Pelosi, vero, a dirvi d’andargli appresso?
“Io nun so gnente, gnente. Nun te dico più gnente. Tu me voi rovinà.”
Senti, se mi dici di più ti faccio guadagnare davvero dei soldi.
“Te dico tutto ar telefono. Te chiamo io al numero tuo dell’ufficio tuo. Me l’hai dato
il numero dell'ufficio tuo. Te chiamo tra un’ora, anzi tra mezz’ora. Ma lasciame”.
Ti lascio se mi dici una cosa. Una cosa sola. Perché è morto Pasolini?
“Perché... Nun è che volevamo... Gli volevamo solà er portafoglio e...”
E qui è scappato. Con tanta decisione, con tanta rapidità che Volterra non ha tentato
nemmeno di raggiungerlo. È rimasto lì a vederlo entrare in una via secondaria e poi
sparire. Quando abbiamo visto il nostro collaboratore giungere al giornale, egli era
bianco per la tensione e per la stanchezza. Al giornale ci siamo messi tutti ad
aspettare la telefonata del ragazzo. Abbiamo aspettato mezz’ora e un’ora e un giorno
e due giorni e più. Ma la telefonata non è arrivata mai. Mentre aspettavamo chiedevo
a Volterra di interrogare la sua memoria per convincermi che la frase pronunciata dal
ragazzo era “Volevamo solà er portafoglio” e non “Volevano solà er portafoglio”. E
la memoria di Volterra ripeteva “Volevamo”. La speranza di sbagliarsi, invece, gli
diceva “Volevano”.
.

OTTOCENTO MILIONI FERMI SULL’ATTENTI

(La Repubblica. Dieci anni – 1976, pag. 65)

di Tiziano Terzani
“La Repubblica”, 19 settembre 1976
A Pechino muore il Grande Timoniere. Dieci giorni di lutto nazionale,
strettissimo e rigidamente osservato. Ma qualcosa sta già cambiando, e la
volontà di Mao non è più un ferreo dogma come quando lui era in vita. Il primo
atto di disobbedienza viene così mascherato da gesto di devozione e affetto.

PECHINO – La Cina si è fermata. Per tre commoventi minuti, ottocento milioni di


cinesi, un quartodell’umanità, sono rimasti immobili, sull’attenti, a testa china,
moltissimi in lacrime, a rendere l’ultimo omaggio a Mao Tse-tung. Il lavoro, il
traffico e tutte le attività si sono bloccate in ogni città, in ogni villaggio del paese.
L’immenso silenzio caduto sulla Cina, unita nel ricordo del suo Presidente, è stato
rotto dall’unisono, funereo ululare delle sirene dei treni, delle fabbriche, delle navi. A
Pechino un milione di persone, scelte dalle varie organizzazioni rivoluzionarie, hanno
assistito sulla Piazza della Pace Celeste alla cerimonia che ha concluso i dieci giorni
di lutto.
Sulla spianata di cemento al centro della capitale, coperta da uno sterminato
tappeto di teste immobili, spalla a spalla, soldati dell’esercito popolare nelle loro
uniformi verdi, lavoratori nelle tute blu, operaie con le cuffie bianche, studenti coi
fazzoletti rossi attorno al collo, hanno seguito le istruzioni di tacere ed inchinarsi date
dal giovane vicepresidente del Partito Comunista Wang Hung-wen che presiedeva il
rito, ed hanno ascoltato il discorso commemorativo pronunciato dal primo ministro e
e primo vicepresidente del Pcc, Hua Kuo-feng. Al loro fianco, su un rostro costruito
significativamente su un piano più basso rispetto a quello da cui parlava Mao, erano
allineati gli altri capi del Partito e dello Stato. In sesta posizione, uniforme e sciarpa
in testa, stava la vedova Ciang Cing.
Dal pennone sul quale Mao, nell’ottobre 1949, issò per la prima volta i colori della
Repubblica Popolare, sventolava a mezz’asta la bandiera rossa a cinque stelle, mentre
gli altoparlanti spandevano sull’intero paese le note della marcia funebre, dell’inno
nazionale e infine quelle dell’Internazionale.
Nelle ore precedenti la cerimonia il partito, l’esercito e la milizia popolare
avevano messo in guardia contro eventuali provocazioni ed incidenti. Non ce ne sono
stati. La leadership del paese ha dimostrato al momento la sua unità. È questo un
tema che Hua ha ripetuto nel suo discorso, durato venti minuti. Citando una vecchia
frase di Mao, l’attuale primo ministro e numero uno del paese ha detto: “dobbiamo
praticare il maxismo e non il revisionismo, dobbiamo unirci e non dividerci. Non
dobbiamo perderci in complotti e congiure”.
Hua Kuo-feng ha concluso il suo discorso con quello che pur in termini generali
sembra essere il programma politico della Cina dopo Mao. Tra questi la liberazione
di Taiwan, respingere il deviazionismo di destra e lavorare per un forte Stato
socialista.
Pur in questa fraseologia standard di ogni leader cinese sembra emergere una nota
di moderazione ed una indicazione di novità nei rapporti con l’Urss e i partiti
“revisionisti” occidentali. Si fa notare che Unione Sovietica e Stati Uniti sono indicati
come nemici dello stesso livello, e l’Urss non è più il “nemico numero uno”. Inoltre il
riferimento ad altre “organizzazioni”potrebbe indicare l’inizio di iun ripensamento
sul ruolo che possono svogere nel mondo occidentale i partiti che non sono, almeno
nella valutazione cinese, “genuinamente marxisti-leninisti”. Ed è presto per tirare
delle conclusioni. Dal discorso di Hua – che di certo è stato preventivamente
approvato dall’intero politburo nelle sue componenti “radicale” e “moderata” – per il
momento neppure il destino della salma di Mao è chiaro.
Sembra che il Presidente avesse espresso il desiderio si essere cremato, come è
stato fatto con tutti gli altri leader storici del paese che lo hanno preceduto nella
morte, compreso Chu En-lai. L’urna delle sue ceneri però non era oggi (come invece
era avvenuto per gli altri) sul rostro della Piazza della Pace Celeste, e ciò potrebbe
indicare che ci sono stati ripensamenti sull’esecuzione delle volontà di Mao. Con una
decisione che sarebbe facile giustificare con la “volontà del popolo”, la sua salma
potrebbe essere così come l’abbiamo vista nei giorni scorsi in una bara di vetro,
pronta per divenire la meta di future generazioni di pellegrini in un mausoleo eretto in
suo nome. Come è avvenuto per Lenin a Mosca e Ho Chi Min ad Hanoi.

IL PARADISO DEI VELENI


(La Repubblica. Dieci anni – 1977, pag. 30)

di Natalia Aspesi
“La Repubblica”, 9 luglio 1977

Un anno dopo la tragedia di Seveso, uno dei peggiori disastri ecologici mai
avvenuti in Italia (una fuga di diossina da un impianto industriale che
contamina quattro paesi della Brianza), la gente combatte ancora contro il
veleno, ma anche contro la paura e le divisioni.

SEVESO – L’erba di luglio non è mai stata così verde, i fiori così splendenti, gli
asparagi coltivati negli orti avvelenati così saporiti. Le ciliegie nutrite di diossina,
particolarmente sode, se le sono mangiate anche i militari che sorvegliano la
recinzione di filo spinato e di plastica gialla delle zone che un anno fa erano le più
inquinate. Peccato che adesso in certi quartieri di rispetto, o addirittura sicuri,
l’inquinamento sia anche più alto. Nei morti squarci di deserto grigio, da cui la
bonifica ha strappato 200 mila tonnellate di terra e 8.000 metri cubi di fogliame
contagiati, i conigli selvatici ed i gatti randagi si moltiplichino: sugli alberi infetti, ma
non abbastanza per essere subito abbattuti, cinguettano gli uccelli. I fiocchi rosa e
azzurri segnano i cancelli, i balconi delle case dove sono nati bambini attesi con
angoscia, o con rabbia, e che appaiono belli e intatti. Da gennaio a maggio a Seveso
ne sono nati settantuno, 114 a Meda, 138 a Cesano Maderno, 163 a Desio, gli altri
paesi su cui un anno fasi è abbattuta la nuvola di veleno.
Seveso e questa Brianza vivono così il conflitto desolato e umiliato contro il
mondo degli altri, i non inquinati: “io faccio il cuoco in una grande mensa a Cernusco
e tutto il giorno gli porto carne e verdura comprata qui, così vedono anche loro che
non c’è pericolo”. Con la rivalsa degli untori: “L’anno scorso in certe pensioni di
villeggiatura non ci volevano, ed adesso ci siamo comprati la roulotte, così non gli
diamo più i nostri soldi”. Con l’ansia di spezzare l’isolamento: “Domenica siamo
andati con la banda a Galdino. Abbiamo scelto i suonatori più giovani e belli, gli
abbiamo fatto la divisa nuova, e ci hanno fatto grandi feste”.
La gente combatte una guerra sempre più irrazionale e disperata contro le
“autorità”, che del resto hanno fatto molto per provocare la sfiducia e il rancore. Non
è con la Givaudan che ce l’hanno gli avvelenati: anche perché la ditta colpevole e
sprezzante è riuscita ad ottenere l’incarico di decontaminare la case più pericolose,
trasformandosi così in benefattrice. E perché, con furbizia, ha cominciato a pagare il
silenzio individuale della gente. I nemici odiati sono la Regione, il presidente Golfari,
l’assessore Rivolta, gli operatori sociali, i politici, gli scienziati e i giornalisti. I
perché dell’angoscia e dell’offesa sono tanti, giustificati da una mancata
informazione seria, dalle decisioni contraddittorie, prese dall’alto e imposte, da tutte
le notizie allarmanti o tranquillizzanti, gonfiate dall’inquietudine dalla fantasia da una
sensazione di abbandono.
“L’altra notte mi sveglio e vedo sotto casa della gente in tuta bianca che spruzza
dei fumi. Penso ‘adesso per eliminare il problema ci immergono nella diossina, ci
uccidono tutti’. Invece era una normale disinfestazione contro le zanzare. Non
potevano dircelo?”. “Questi mostri con gli occhialoni e gli stivali e le tute buttavano
senza dire niente nei tombini un liquido che fumava, un veleno contro i topi più
potente della diossina e i nostri bambini ci giocano!”.
La diossina non sta solo avvelenando un paese con patologie già in atto e con una
imprecisabile ma prevedibile catastrofe genetica. Lo sta del tutto disgregando. Dentro
l’invisibile fortezza del veleno, dietro le alte mura dell’incertezza quotidiana si
induriscono le divisioni, gli odii, le chiusure di una piccola società contadina e
artigiana. C’è divisione tra gli sfollati, considerati dei privilegiati, e la gente rimasta a
ingoiare diossina. C’è divisione tra gli operai, che pensano di trovare lavoro e casa
altrove, e gli artigiani, legati tenacemente all’orto, alla casa fatta da loro, alla “roba”.
C’è divisione tra chi è sospettato di aver avuto soldi dalla Regione o dalla Givaudan e
chi ha visto il suo negozietto incassare sempre meno. C’è divisione tra chi ancora
pensa all’inceneritore, e per questo è definito incongruamente un “rosso” e la
maggior parte, che lo teme come nuova fonte di veleno, come pretesto per
trasformare Seveso nella pattumiera della Brianza. C’è divisione tra Cesano
Madermo e Seveso, che rifiuta di spostare la terra inquinata del primo e tra una parte
di Cesano e l’altra, sempre per via di questa terra asportata e non voluta e che i
camion trasportano inutilmente da una zona all’altra.
Ma la divisione più grande è quella tra chi crede al pericolo della diossina, e sono
sempre meno, e chi non ci crede, e sono sempre più. “L’anno scorso mi hanno fatto
distruggere l’insalata e non mi hanno ripagato. Allora l’ho riseminata e ne mangio
quanta ne voglio”. “Io di bambini con la cloracne non ne ho visti, sono sempre quei
due che la televisione fa girare”. “Agli esami del sangue non vado più, non servono a
niente, non ti dicono niente, anche il mio medico mi ha detto che è una stupidata”.
“Come mai in certe case c’era la diossina e adesso non c’è più, e invece dove non
c’era adesso c’è?”.
L’angoscia della tragedia senza soluzione viene cancellata: e la diossina viene
indicata come il pretesto per una misteriosa manovra speculativa in cui misteriosi
personaggi per misteriose ragioni ne ricavano un misterioso profitto che i brianzoli
indicano, in silenzio rabbioso, sfregando pollice e indice. “Non ci serve nessuna
assistenza, tutta questa organizzazione disorganizzata porta solo discredito e
confusione. Che ci diano i soldi, che ci lascino in pace, ognuno qui vuole fare da sé”.
“Noi non siamo mai stati così bene come adesso, al massimo ci hanno innversotipo
con la paura”.
Per ora gli esami del sangue non sono così rassicuranti: al secondo prelievo, in
dicembre, hanno rivelato una diminuzione dei globuli bianchi e quindi del potere
immunitario e un aumento della necrosi delle cellule del fegato.
Intanto le donne delle zone contaminate continuano a restare gravide. Da gennaio a
maggio sono nati undici bambini con deformità gravi, nove con malformazioni
minori. Nel 1976 erano stati quattro. Contemporaneamente le nascite sono diminuite
rispetto all’anno scorso di quasi la metà. Sono aumentati neonati sottopeso: molti, e
questo è allarmante, presentano sin dai primi giorni di vita l’ingrossamento del
fegato. L’aborto terapeutico è stato duramente sconfitto. Dopo i 35 eseguiti alla
clinica Mangiagalli di Milano e i due all’ospedale di Desio, gli ospedali della Brianza
non hanno più accettato richieste. Gli operatori dei consultori hanno dichiarato di
essere stati costretti a mandare almeno 80 donne al Cisa.
Il professor Gianni Remotti, responsabile del settore ostetrico ginecologico dei
consorzi sanitari della zona, non ha nascosto che gli esami delle mappe
cromosomiche sono inquietanti. Tuttavia non si sa più se consigliare alle donne di
non fare figli, o di farli al più presto. La stessa confusione frastorna le madri dei
neonati. C’è chi consiglia di non allattare, chi dice che l’estate il latte artificiale è più
pericoloso di quello diossinato. Fino ad oggi, comunque, il latte materno non è stato
mai esaminato. Per ora l’unica decisione scura questa: consigliare alle gravide di
allontanarsi fino al parto: la Regione assicura un contributo, ma naturalmente sono
poche le donne che possono permettersi di abbandonare per mesi marito e figli.
Sotto il sole d’estate imputridiscono i grandi silos di sacchi di plastica con dentro
40 mila carogne sciolte nella soda caustica, fogliame, masserizie, terra: il pericoloso
monumento, chissà quando eliminabile, della tragedia. Seveso è ferma al 10 luglio
1976? Scrive Laura Conti, consigliere regionale per il Pci nel suo libro “Visto da
Seveso”: “Non siamo affatto al punto di partenza. Una istituzione nuova, la Regione,
si è dimostrata affetta dagli stessi mali di cui è affetto lo Stato: il burocratismo, il
verticismo, la disperante distanza tra le decisioni e le attuazioni. E il rapporto del
cittadino lombardo con la Regione si è deteriorato, ha acquistato le caratteristiche del
rapporto che ha il cittadino con gli aspetti più borbonici dello Stato centrale: è
diventato scettico, diffidente. Una comunità smarrita si chiude in se stessa in una
sorta di delirio di persecuzione che le impedisce di riconoscere il vero nemico ed il
vero pericolo, e la scaglia caparbia contro chi cerca di aiutarla”.

COSI’ PARLA UN PASTORE


(La Repubblica. Dieci anni – 1978, pag. 25)

di Eugenio Scalfari
“La Repubblica, 23 aprile 1978

Nel pieno del caso Moro, i 55 giorni che sconvolsero l’Italia e detterno un colpo
al cuore della Democrazia Cristiana, Paolo VI scrive una lettera agli “uomini
delle Brigate Rosse”, chiedendo la liberazione del segretario della Dc. Il massimo
esponente del giornalismo laico italiano comprende, e distingue tra essere laici e
laicisti.

Raramente, nel suo pur lungo pontificato, Paolo VI aveva saputo trovare accenti così
alti come quelli che abbiamo letto nella sua lettera alle Brigate Rosse. Gli accenti del
Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita sul monte, dove le pecore smarrite in
questo caso sono due: la vittima in pericolo di vita e i carnefici che stanno perdendo
nella ferocia la vita dello spirito. E com’è giusto per il Buon Pastore, la sua
sollecitudine di cristiano è più rivolta ai carnefici che non alla vittima, più ai
peccatori che non al condannato innocente.
C’è anche, nella lettera di Paolo VI, molta sapienza politica e diplomatica: laddove
chiede la liberazione del prigioniero “senza condizioni” – marcando con ciò la stretta
neutralità della Santa Sede rispetto al problema delle trattative che è tutto di
pertinenza italiana – e laddove accenna all’impossibilità per lui di mettersi in contatto
con i rapitori di Moro – che è un modo non equivoco per sollecitare una
comunicazione diretta.
Ma il tratto distintivo del documento pontificio sta nell’ispirazione morale, in quel
superbo “inginocchiarsi” del vicario di Cristo di fronte ai violenti in quella
dichiarazione di “amore” verso chi ha le mani lorde di sangue innocente e quindi, più
d’ogni altro, ha bisogno d’essere redento. Sia consentito dire a chi come noi non si
sente legato alla Chiesa e sovente anzi l’ha combattuta per il suo temporalismo, che il
Papa ci ha messo di fronte ad una grande pagina cristiana, di quelle che obbligano
tutti a pensare e consentono a tutti di sperare nel Figlio dell’Uomo.
Ma la lettera del Papa ha adempiuto anche ad un’altra funzione, non meno
preziosa: una funzione di paragone.
Sono molti, in questi giorni angosciosi, gli appelli ed anche, purtroppo, le lettere di
varia provenienza, di vario tono, di varia destinazione. Vi abbiamo letto, di volta in
volta, sincero dolore per la vicenda che tutti stiamo attraversando, accenti di pietà,
sdegnosi scoppi d’ira, sanguinosi propositi di distruzione dell’ordine sociale, spietati
ultimatum, imploranti richieste d’aiuto. Ma solo confrontando quei testi così diversi
tra loro al documento di Paolo VI abbiamo misurato sconsolatamente l’abisso che li
divide e l’incapacità di tutti i protagonisti e i comprimari di questo dramma di
sollevarsi al di sopra della propria parte e di parlare parole più alte, meno imbarbarite
e meno miserevoli.
Alcuni di coloro che in questi giorni hanno fatto del caso Moro lo strumento per
operazioni politiche tendenti a dividere la coscienza nazionale ed a seminare
incertezza e discordia quando era più necessaria l’unità e la fermezza, hanno avuto
ilpessimo gusto di iscrivere Paolo VI nel “partito delle trattative”. Misurino costoro il
loro furbesco pietismo ed imparino ciò che la loro tremolante coscienza di laici
dovrebbe conoscere da gran tempo: e cioè che Cesare deve amministrare con la legge
e Dio sa comandare con la preghiera.
Né Cesare, né Dio trattano con i peccatori, perché il primo li castiga, il secondo li
perdona e – se può – li salva.

LA BALLATA DELL’ETERNO PRECARIO


(La Repubblica. Dieci anni – 1978, pag. 83 “Quell’eterno vecchio studente”)

di Miriam Mafai
“La Repubblica”, 5 dicembre 1978

Come quasi tutti gli anni da un decennio, il 1978 vede la ripresa della
contestazione universitaria. Ma questa volta non sono gli studenti, sono
professori. Quelli che, significativamente, sono definiti per brevità “i precari”.

PADOVA – “Il mio professore mi telefona alle sette di mattina e mi dice: ‘caro,
devo accompagnare mia moglie dal dentista. Vuoi occuparti tu dei ragazzi?’. Io non
ho niente incontrario, ormai ci sono abituato, da anni. Ma vorrei anche essere pagato
per questo”. “Mi occupo di linguistica generativo-trasformazionale, seguo soprattutto
l’attività didattica e i seminari di filologia. Ho fatto esami, tesi. Vivo in famiglia: mio
padre è pensionato”. “Contrattista, dal 1973. Ecco la mia busta paga: ci sono 27.880
lire di trattenute tra Inp Enpdep Gescal. Me ne restano 208.335. Sposato? Ci
mancherebbe altro! Ho 33anni”. “Borsista di Fisica. No, forse qui non aleggia lo
spirito di Einstein, ma la ricerca m’interessa. Duecentoquarantanovemila lire al mese.
Mia moglie è ricercatrice al Cnr, in confronto a me è quasi ricca. Abbiamo due figli”.
Il precario è un personaggio patetico e irritante. È generalmente un vecchio
studente del ’68. Ha vinto una borsa di studio per giovane laureato, ha conosciuto
qualche università europea. Poi, grazie ai cosiddetti provvedimenti urgenti del 1973
ha fatto un concorso e si è guadagnato il diritto ad un assegno che è passato
progressivamente da 130.000 lire a 230.000 lire al mese in cambio del quale gli si
chiede di portare avanti ricerche, seguire esami, tesi, seminari.
Guadagna una cifra ridicola e la sua aggressività è quindi giustificata. Ha ormai
superato i trent’anni e ha l’aria di un adolescente invecchiato sui banchi di scuola.
Vive spesso nello stesso appartamento che aveva affittato da studente, con altri
precari spartendo le spese per il vitto e per l’alloggio. Mangia almeno un pasto alla
mensa universitaria e la sera cucina a casa. Ha imparato a rifarsi il letto e a lavare i
piatti. Anche quando ha una compagnia femminile non viene esonerato dai compiti
domestici. Vive insomma più o meno come uno studente fuori sede senza averne più
l’età. Come lo studente fuori sede è angosciato dalla mancanza degli alloggi, afflitto
per la pessima qualità dei pasti della mensa, perennemente alla ricerca di qualche
guadagno supplementare per arrivare fino alla fine del mese.
Le donne sono sempre ricercate come baby-sitter (ma in questo campo la
concorrenza delle studentesse è fortissima), in rapido declino la richiesta di
ripetizioni (“tremila lire l’ora? Mi sembra proprio esagerato se pensa che ne do
duemila alla cameriera. Lei dopotutto ha un altro lavoro fisso”, si è sentita rispondere
una studiosa di fisica).
Fortunatissimo invece il giovanotto che in cambio di un alloggio segue negli studi
un ragazzo ricco e ritardato. Un ingegnoso contrattista in farmacia ha organizzato nel
bagno un laboratorio dove produce creme di bellezza ecologiche. Un medico ha
ottenuto la rappresentanza di un paio di piccole ditte di oreficeria e vende a rate
collanine e spille. Un borsista che dicono un genio della fonetica si trasferisce nelle
ore libere in questura, dove ascolta e decifra le registrazioni della polizia.
Una ragazza di trent’anni, con specializzazione in medicina del lavoro, dopo aver
passato tutta la settimana in corsia sostituisce il sabato e la domenica qualche medico
che passa il fine settimana con la famiglia: compenso medio quarantamila lire per un
turno che va da sabato alle due a domenica alle otto (“adesso però c’è molta
concorrenza”, ammette preoccupata).
Così al precariato si aggiunge altro precariato o meglio lavoro nero, piccoli
mestieri oscuri in cima ai quali nella speranza del precario c’è sempre la correzione di
bozze, la revisione di testi, la traduzione, la compilazione di voci per qualche
enciclopedia, quel lavoro nero intellettuale che consente di restare vicini ai propri
interessi più autentici e reali.
Queste condizioni di vita sono più che sufficienti a spiegare l’irrequietezza dei
precari, i quali ritengono di avere maturato un diritto ad entrare in pianta stabile
all’università, sia in virtù del lavoro che già vi hanno svolto per anni, sia in virtù di un
lavoro di ricerca e di didattica che pensano di potervi svolgere ancora.
“Abbiamo fatto centinaia di migliaia di ore di lezione, di esercitazioni, migliaia di
esami. Di questa università non siamo stati parassiti, ne abbiamo impedito il crollo”.
Al fondo della frustrazione dei precari e della loro mobilitazione c’è però anche un
motivo politico. L’equiparazione “precari=università di massa” è fin troppo semplice
e infatti viene ripetuta ovunque. Insomma, chi è contro i precari, si dice, è in
definitiva contro l’università di massa e le altre cose alle quali la sinistra si era
impegnata negli anni scorsi. Il tempo pieno, la liberalizzazione degli accessi, i
dipartimenti, la nuova didattica, le centocinquanta ore, i corsi serali per i lavoratori.
Tutte cose per le quali occorrono migliaia e migliaia di docenti.
I precari hanno quindi l’impressione di difendere oggi una trincea che gli altri
stanno abbandonando sotto il grande riflusso moderato che raggiunge anche
l’università. E forse non hanno tutti i torti. Chi crede più, nella sinistra, ai grandi
ideali del ’68?

MORTE DI UN UOMO MITE


(La Repubblica. Dieci anni – 1980, pag. 27 “Da sotto il telo scorre il sangue”)
di Giampaolo Pansa
“La Repubblica”, 13 febbraio 1980

L’uccisione di Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della


Magistratura, descritta da Giampaolo Pansa. Non è solo il racconto di un
attentato, ma di un clima che ha avvelenato le università italiane fin dalla metà
degli anni Settanta.

ROMA – Nell’atrio della facoltà di Scienze Politiche, in quell’angolo, accanto alla


grande porta vetrata, c’è un lenzuolo di tela grossa, e sotto il lenzuolo qualcosa che da
lontano sembra un fagotto, o un animale abbattuto. Poi ti avvicini e vedi che il
lenzuolo ha lasciato scoperta la fronte di un uomo, e con la fronte un ciuffo di capelli
grigi e un paio d’occhiali dalle lenti spezzate. Da sotto il telo esce un rivolo di
sangue, un rivolo brillante nel sole, mentre la vetrata chiusa rimbomba per il tam-tam
dei fotografi che gridano furiosi: “Fatece entrà”.
È tutto ciò che resta di Vittorio Bachelet, 54 anni ancora da compiere, ucciso ieri
mattina dieci minuti prima di mezzogiorno nella città universitaria di Roma da quella
banda di macellai che si firmano Brigate Rosse. Bachelet insegnava in questo ateneo
Diritto Amministrativo, ma soprattutto era il vicepresidente del Consiglio Superiore
della Magistratura, che ha come presidente Pertini. Un uomo, dunque, di prima fila
della nostra democrazia, e anche un insegnante ed un padre di famiglia. Adesso di lui
rimane soltanto quel corpo sotto il lenzuolo, circondato dai bossoli dei proiettili che
gli hanno dato la morte. Sette proiettili calibro 32 Winchester per un altro assassinio
politico, il più grave dopo il delitto Moro.
Proprio dall’aula intitolata a Moro, l’aula 11 di Scienze Politiche, inizia l’ultima
giornata del professor Bachelet. Attorno a lui, vittima inconsapevole, c’è una
scenografia perfetta. Sembra costruita apposta per un film politico da concludere nel
sangue. Un sole splendido di primavera. I marmi fascisti dello Studium Urbis. Le
pompose scritte in latino: Iustitia omnium est domina et regina virtutum …
Bachelet varca i cancelli dell’ateneo poco dopo le 10 del mattino. Ha la sua solita
andatura tranquilla, da uomo alto, corpulento, le lenti da miope, l’espressione mite e
un po’ distratta. Per lui è un giorno di lavoro come un altro. La sera precedente è stato
all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede: ricevimento nell’anniversario dei Patti
Lateranensi, un quieto conversare con il Cardinal Casaroli e gli altri prelati. Adesso,
che sono le 10 e mezza, farà la sua solita lezione di diritto. Pochi studenti, in
quell’aula che ogni volta deve dargli tristezza perché gli ricorda il dramma di un caro,
grande amico ucciso.
La lezione non ha storia. Alle 11,30 tutto è finito e Bachelet se ne va. L’Aula
“Moro” è al pianterreno di Scienze Politiche. Il professore comincia a salire
lentamente lo scalone che lo porterà al grande atrio rialzato, quello della vetrata,
invaso da un bel sole caldo. Accanto a lui c’è la sua assistente, la professoressa Bindi.
Dietro un paio di allievo, poi altri giovani.
Sono le 11,50 e Bachelet mette il piede sull’ultimo gradino della scala. Conversa
con la Bindi e non fa caso ad una giovane donna. Costei sta proprio al centro della
vetrata, anzi la tiene socchiusa, per metà. Ad un tratto la sconosciuta si fa avanti,
raggiunge Bachelet alle spalle. Lo afferra con una mano e lo costringe a voltarsi.
Partono i primi tre colpi di postola, tutti al ventre del professore, a canna quasi
schiacciata contro la vittima.
La dottoressa Bindi urla, mentre la giovane donna arretra velocemente. Allora si fa
avanti un uomo. È giovanissimo, poco più di un ragazzo. Anch’egli impugna una
pistola. Il killer si china su Bachelet e gli spara ancora. Un proiettile è alla nuca, ed è
il colpo di grazia.
Da questo istante tutto si confonde. Bachelet rantola accanto alla vetrata. Attorno a
lui si agitano decine di studenti che renderanno poi testimonianze contraddittorie.
Qualcuno sostiene: “Il terrorista camminava alle spalle di Bachelet e aveva addirittura
seguito la lezione”. Un altro dirà di averlo sentito gridare: “Ci sono delle bombe,
scappate!”.
Nel cortile di Scienze politiche c’è il caos. Adesso molti fuggono davvero. I killer
invece ripiegano con calma e vengono raccolti da un’auto “A112” che se ne va dal
cancello di viale Regina Elena. È un’uscita secondaria protetta da una catena che poi
verrà scoperta tranciata.
Una cosa è certa: gli assassini hanno agito con straordinaria freddezza. Hanno
ucciso quasi sotto gli occhi degli agenti di polizia concentrati a cinquanta metri di
distanza, per sorvegliare un’assemblea all’aula 4 di Giurisprudenza.
Un incontro dedicato proprio al terrorismo. Due parlamentari, Stefano Rodotà
ordinario di Diritto Civile, e Luciano Violante, anch’egli docente universitario,
stanno dibattendo con gli studenti sulle “scelte della sinistra” dopo la votazione di un
decreto legge in Parlamento. È il turno di Rodotà, quando un ragazzo entra e grida:
“Hanno ammazzato Bachelet!”.
Suona il mezzogiorno. Il cadavere del professore è in quell’angolo accanto alla
vetrata, non ancora coperto dal lenzuolo. I cancelli della città universitaria vengono
chiusi, ma ormai è troppo taardi: chi doveva fuggire è fuggito. Lo Studium Urbis è
preso d’assalto dalle alfette blu in servisio di Stato. Per primo arriva Pertini e passa
impietrito al centro di quella marea di giovani che, ad un tratto, lo applaudono con
furia, commossi, quasi disperati.
Pertini aveva incontrato per l’ultima volta Vittorio Bachelet giovedì scorso.
S’erano visti durante la riunione del Consiglio Superiore della Magistratura dedicata
alla vicenda di dieci giudici accusati da Vitalone. Adesso Pertini è al centro dell’atrio
e fissa Bachelet a terra, nel sangue. Noi siamo nello scalone d’ingresso, dietro la
vetrata chiusa. Fotografi e cronisti tempestano per entrare. È un momento difficile da
dimenticare. Qualcuno piange. C’è chi dice, angosciato: “Questo è un avvertimento
diretto a Pertini, la risposta al discorso di Marghera”.
Passa il ministro dell’interno, Rognoni. Passa, stravolta, la figlia di Bachelet, Maria
Grazia. La moglie del professore, Maria Teresa, viene fatta entrare da un altro
ingresso. Si china sgomenta sul corpo. Accarezza il viso del marito ucciso. Poi c’è un
lungo parlare fra le due donne, un brusio sommesso e straziante nel grande silenzio
dell’atrio.
Fuori, tra la folla, accorrono i colleghi di Bachelet. C’è l’ordinario di Filosofia del
Diritto, Sergio Cotta. Mormora: “Bisogna sfoltire le categorie. Avanti, sotto a chi
tocca! Oggi è toccata a Bachelet. Era un uomo mite, adorato dagli studenti, sempre
pronto a mediare, a fare opera di convinzione. Adesso eccolo lì”.
Cotta, stravolto, fa un cenno verso la vetrata chiusa. Non passa più nessuno,
nemmeno la vicepresidente della Camera, Maria Eletta Martini. Non passa Franco
Salvi, deputato democristiano vecchio amico di Bachelet. Salvi cerca di parlare con il
ministro della giustizia, Morlino, ma Morlino, come infuriato, gli grida al di là della
vetrata: “no, stai indietro anche tu!”.
Poi, da una parte, si riesce a passare. Dentro ci sono la Jotti, Pecchioli ed il
sindaco di Roma Petroselli. Davanti a quel lenzuolo incontro Giuliano Amato, anche
egli insegnante in questa università. “Dovevano essere dei tiratori scelti – dice –
perché non hanno neppure scalfito l’assistente”.
Ma chi sono? Amato risponde: “Qualcuno parla di facce viste dentro più volte.
C’è però una cosa da dire: da due, tre settimane s’era avuto un salto di qualità nel
linguaggio dell’estremismo all’università. Un linguaggio che aveva preso tonalità
molto diverse da quelle dei pochi estremisti tradizionali, in genere quasi mansueti”.
Il professore ricorda un manifesto con tre nomi di docenti (il suo, quello di
Cosenza e quello di Monaco) e la promessa: “Con voi vogliamo fare i conti”.
Bachelet, invece, pare non fosse mai stato minacciato. Amato dice: “Era un uomo
tranquillo, e si sentiva tranquillo. Viaggiava senza scorta, veniva all’università
accompagnato solo dall’autista del Consiglio Superiore. Questo i suoi assassini certo
lo sapevano, così come è certo che lo hanno seguito per giorni e giorni”.
Un bersaglio persino troppo facile, nella babele dello Studium Urbis. E in questa
babele arriva anche Fanfani, vecchio amico di Bachelet. Sosta terreo di fronte al
cadavere, poi viene ospitato nell’Istituto di Studi Economici. Forse non si accorge
che la targa d’ingresso è stata corretta con la vernice in “stupri economici”. Dentro
pareti ricoperte di libri, i busti di Maffeo Pantaleoni e Alberto De Stefani, le stanze
dei docenti e un’aria dell’Italia perbene che ancora resiste.
Fanfani saluta una sorella di Bachelet, Francesca, e un fratello sacerdote, padre
Adolfo. Dall’alto dello scalone guardano all loro Vittorio ucciso: “Era così sereno …
questa violenza, quest’odio … ”. Lo sguardo della signora si fissa su Lama che viene
su con Marianetti, Trentin e Giovannini.
Ecco una vendetta della storia. Cacciato dai violenti nel febbraio del 1977, adesso
Lama torna in questa università davanti ad uno dei tanti, troppi, morti di violenza. Ed
è un Lama angosciato, che parla agli studenti raccolti nell’Aula 1 di Giurisprudenza:
“Entrando in questo palazzo ho visto un uomo vicino alla porta, un uomo ucciso.
Anche quest’uomo appartiene alla nostra famiglia!”. Poi un grido: “Basta! Dobbiamo
difendere la vita contro la morte. Dovete difenderla voi giovani. Cos’è la gioventù
senza la vita?”.
Nell’atrio i cronisti si indicano le scritte che sporcano le vecchie lapidi:
“Democristiano impara – la P38 spara”, “Dobbiamo liberarci del rettore Ruberti”,
“Mille Casalegno”. Ecco uno slogan più immediato e vistoso: “Viva le Brigate
Rosse”. “Un’ora fa questa scritta non c’era. L’hanno fatta dopo che è stato ucciso
Bachelet”.
I fotografi si scatenano a riprendere la parete. Poi la gara finisce perché due
inservienti dell’ateneo cancellano tutto con una vernice color mattone. Passa
mezz’ora e anche il corpo del professore scompare, trasferito all’istituto di Medicina
Legale. Centinaia di ragazzi adesso vogliono lasciare l’ateneo per tornarsene a casa,
ma i controlli ai cancelli provocano un ingorgo pauroso.
La scena ridiventa irreale. Il sole fa risplendere i marmi, passano ragazze che
ridono allegre. Poi qualcuno, col megafono, diffonde banalità in sinistrese: “Le
Brigate Rosse sono il braccio armato di chi tenta di normalizzare l’università. No al
decreto Valitutti!”.
Dieci minuti dopo, alle 1,33, un’altra voce da burocrate della morte detterà al
nostro giornale quest’annuncio: “Ascoltatemi bene. Qui Brigate Rosse. Bachelet
l’abbiamo giustiziato noi. Presto seguirà comunicato”.

“HANNO SPARATO AL PAPA!”


(La Repubblica. Dieci anni – 1981, pag. 44 “L’agguato al Papa di Ali Agca”)
di Luca Villoresi
“La Repubblica” 14 maggio 1981

Un pomeriggio di maggio il giovane Giovanni Paolo II esce tra la folla di Piazza


San Pietro, all’inizio di un’udienza generale. Tra i fedeli c’è un uomo chiamato
Ali Agca.

ROMA – “Hanno sparato al Papa! Hanno sparato al Papa!”: il grido s’è sparso in un
attimo tra la folla riunita in piazza San Pietro ed è rimbalzato nelle strade vicine.
Erano passate da pochi secondi le 17 e 17.
La campagnola bianca con la quale Giovanni Paolo II percorre di consueto la
piazza prima di dare inizio all’udienza generale del mercoledì era appena uscita
dall’arco delle Campane e, fendendo la massa delle persone in attesa di un gesto di
benedizione, era arrivata alla parte opposta della basilica, a una ventina di metri
dall’inizio del colonnato berniniano. Pochi passi più in là il portone di bronzo e
l’ufficio mobile delle poste vaticane.
Proprio lì, tra i fedeli raccolti dietro le transenne, un uomo bruno, abbastanza
giovane, il volto scavato e i capelli tagliati a frangetta, si era fatto largo spingendo a
destra e a sinistra fino alla rima fila.
Aveva anche avuto u alterco con una comitiva straniera che per vedere il papa da
vicino era arrivata sulla piazza da troppo tempo per lasciarsi scavalcare, era stato
ricacciato indietro di un paio di passi. Sembrava essersi accontentato di quel posto in
seconda fila. Ma all’ultimo momento, proprio quando la jeep bianca dalla quale Papa
Wojtyla sporgeva le braccia, è arrivata lì accanto, l’uomo bruno ha avuto un
soprassalto è si è rifatto avanti.
Giovanni Paolo II era in piedi sulla vettura. Qualche metro prima di arrivare
all’appuntamento con il suo attentatore si era anche fermato, aveva sollevato tra le
braccia un bambino, scambiato due battute con una suora, toccato le mani che si
protendevano verso di lui. Lungo le transenne un’intera scolaresca agitava in segno di
saluto i suoi palloncini colorati, sopra le teste della gente accalcata sventolavano le
bandierine bianche e gialle con i simboli vaticani. Un mercoledì come gli altri.
Accanto alla campagnola, più attenti ad evitare effusioni troppo accese che non
timorosi di un possibile attentato, una decina di agenti di polizia.
Improvvisamente il caos. “Il Papa stava dando la mano a una ragazza vestita di
bianco. In quell’attimo, da una distanza di circa tre metri, ho visto una mano tesa che
impugnava una pistola e ha sparato due colpi di seguito. Mi sono girato e ho visto una
persona farsi largo tra la folla. Gli sono saltato addosso, ho cercato di fermarlo.
Subito dopo altra gente mi ha aiutato” racconta uno dei testimoni, Paolo Volpicelli. E
la signora Caterina Damiani: “Ero a una decina di metri. Il Papa tendeva le mani tra
la folla quando si sono uditi due colpi. Ho visto due nuvolette. Il Papa è rimasto per
un attimo immobile, poi si è accasciato, è stato sorretto e adagiato sui sedili dell’auto
che è immediatamente ripartita”.
“Ero a un metro dalla jeep del Papa. Appena ho sentito il colpo di arma da fuoco,
non sapendo da dove venisse, sono balzato sull’auto e ho dato disposizioni perché si
muovesse in vari sensi. Il Papa si è accasciato e mentre lo sorreggevo mi diceva
‘grazie, grazie’. Ripeteva di non preoccuparmi”, ha raccontato Francesco Passanisi,
ispettore generale della polizia in Vaticano. Un altro testimone, Manuel Gutierrez,
missionario colombiano: “Ho sentito i colpi, ho visto il Papa che si piegava, mentre si
accasciava si è guardato le mani accorgendosi, probabilmente, che erano sporche di
sangue. Si sono visti i colombi alzarsi in volo, spaventati. Poi tutta la concitazione, la
gente che si muoveva disordinatamente, le sirene”.
L’attentatore, l’uomo bruno che fino alla serata non aveva nemmeno un nome e un
cognome, si chiama Mehmet Ali Agca, è turco, ha 23 anni ed è ricercato nel suo
paese perché condannato a morte per omicidio. È un militante neonazista iscritto al
Partito Nazionale d’Azione turco. Non appena il Pontefice è giusto a tiro l’uomo ha
estratto una Browning calibro nove semiautomatica, arma di notevole potenza e
precisione. Si è protesi in avanti, ha sparato. Un colpo, due colpi … Dalla pistola
mancano quattro cartucce. I proiettili, oltre al Pontefice, hanno raggiunto due ignare
fedeli: la sessantenne statunitense Ane Odre, ferita gravemente al seno sinistro, e la
ventunenne giamaicana Rose Hall, che ha avuto il braccio sinistro fratturato.
La veste candida del Papa si è macchiata di rosso all’altezza dell’addome. Wojtyla
ha barcollato, è crollato all’indietro tra le braccia del suo segretario particolare, Don
Stanislaw Dziwisz. Per un lungo attimo nessuno attorno è sembrato essersi reso conto
dell’accaduto. Poi il brivido, il sussulto delle persone più vicine si è sparso a macchia
d’olio per la piazza: “Hanno sparato al Papa! Hanno sparato al Papa!”. I bambini,
strattonati via dalle suore e dalle insegnanti, hanno abbandonato nell’aria i palloncini,
le bandierine hanno smesso di agitarsi, la jeep è ripartita veloce con Giovanni Paolo
II steso sui sedili posteriori, il corpo riverso all’indietro, un braccio abbandonato fuori
della vettura.
Nella confusione l’attentatore ha provato ad allontanarsi indisturbato. Forse, a
sentire le voci e le testimonianze confuse dei primi minuti, il turco aveva pure un
complice. Se è vero, il secondo uomo è riuscito a fuggire. La gente che gli era più
vicina lo ha stretto: lui, strattonato, ha sgomitato, ha guadagnato qualche metro. Ma la
folla non l’ha lasciato. Sono intervenuti due agenti. Per un po’, mentre la psicosi del
terrorista si diffondeva in San Pietro e in ogni punto della piazza si accendevano e si
spegnevano gli allarmi gridati ora da una suora, ora da un passante, sono circolate le
voci più disparate, compresa quella secondo la quale contro il Papa avrebbe fatto
fuoco un intero commando. La campagnola con a bordo il Pontefice, intanto, era
rientrata in Vaticano. Dopo una decina di minuti dall’Arco delle Campane è uscita a
sirene spiegate un’ambulanza. A bordo, come tutti hanno intuito, il Papa ferito.
Subito dietro un piccolo corteo di automobili con i segretari particolari di Giovanni
Paolo II, i prelati della Casa Pontificia, i maggiori dignitari vaticani. Mancava un
minuto alle 17 e 30. Alle 17 e 32, dallo stesso altoparlante che avrebbe dvuto
diffondere la voce di Wojtyla, un prelato, commosso, ha dato il primo annuncio
ufficilae, ripetuto in varie lingue: “Il Santo Padre è stato ferito. Preghiamo per lui
recitando assieme il Pater Noster e l’Ave Maria”.
La folla si è diradata. Migliaia di persone si sono sparse per le strade di Roma,
hanno annunciato agli automobilisti bloccati dagli ingorghi, ai capannelli fermi di
fronte ai bar la notizia che, di lì a poco, sarebbe arrivata in tutto il mondo: “Hanno
sparato al Papa!”.
Sulla piazza San Pietro sono rimaste altre centinaia di fedeli. Qua e là un pianto
dirotto, dappertutto, soffuso, il brusio delle preghiere che diventavano coro. Tutti in
attesa di qualche notizia. Le radioline, con il volume al minimo, le informazioni
passate di bocca in bocca. “È ferito allo stomaco … la situazione è seria … è in
rianimazione, lo stanno operando … non è più in pericolo di vita”. Notizie che si
accavallano, si smentiscono, si confermano, si rismentiscono. Sul tronetto vuoto di
Papa Giovanni Paolo II un mazzo di fiori. Per terra i volantini del Movimento per la
Vita.

ECCO LA LISTA, SI SALVI CHI PUO’


(La Repubblica. Dieci anni – 1981, pag. 78)
di Silvana Mazzocchi
“La Repubblica”, 21 maggio 1981

Nell’Italia dei misteri, il mistero della P2 è tra i più inquietanti: una loggia
supersegreta di antica creazione (tra i fondatori pare ci sia Giuseppe Garibaldi)
che si preparava a realizzare nel Paese un “piano di rinascita nazionale” il quale
contemplava la soppressione delle libertà democratiche e quella, anche fisica,
degli oppositori. Il caso, come spesso avviene, venne alla luce quasi per caso. La
pubblicazione degli elenchi degli iscritti alla “Propaganda 2” è uno dei momenti
più importanti dell’inchiesta, e non solo per motivi di carattere prettamente
giudiziario.

ROMA – La “Loggia P2” non è più segreta e la lista dei suoi affiliati è pubblica, o
almeno lo è l’elenco dei magistrati sequestrarono all’indirizzo del “maestro
venerabile” Licio Gelli. Dopo quarantotto ore di altalena tra la consegna del silenzio
ed il proposito di divulgare i 953 nomi degli aderenti alla “Propaganda 2” ieri notte è
stata presa la decisione. La Presidenza del Consiglio ha ricevuto il nulla osta di
giudici milanesi , tutori del segreto istruttorio dell’inchiesta sulla loggia di Gelli e gli
elenchi sono stati resi pubblici.
Per l’intera giornata la questione della pubblicizzazione delle liste era stata
dibattuta alla Commissione Sindona, in possesso del materiale da qualche giorno e
solo nel pomeriggio i commissari avevano potuto ascoltare la pubblica lettura delle
liste fatta dal vicepresidente Pastorino.
Ministri, deputati, senatori della Repubblica, ma anche funzionari di partito,
sindaci imprenditori, industriali, giornalisti, scrittori, sindacalisti, magistrati,
presidenti di tribunale, prefetti, questori, commissari di polizia, segretari di ministri,
della Presidenza della Repubblica, personaggi di società pubbliche, funzionari di
ministeri e una lunga lista d ufficiali delle forze armate: aeronautica, carabinieri,
servizi segreti. I documenti sequestrati a Gelli sono una miniera e il materiale è stato
definito di “attendibilità strepitosa” da un membro della Commissione Sindona.
I nomi sono 953, ma non tutti hanno “accanto” la stessa documentazione, sia in
qualità che in quantità. Abbiamo sotto gli occhi una scheda tipo: esaminiamola. A
sinistra è annotato il numero progressivo del “fratello affiliato”, segue il nominativo e
la città dove la persona vive ed opera. Nella casella successiva le cifre del numero di
codice assegnato, quindi quelle del numero di tessera. E ancora: la data di iscrizione e
la data di scadenza (le “impegnative” variano dai tre ai cinque anni). Di seguito le
caselle per annotare le quote sociali versate dal fratello. Le ultime schede riguardano
affiliazioni fatte a Roma e Pisa il 26 marzo 1981, due giorni dopo la data del
sequestro dei documenti. Evidentemente si trattava di cerimonie previste di
personaggi già accettati e ai quali era già stato assegnato il codice e la tessera.
L’ultimo nome annotato porta il numero 962 ma, evidentemente, nella lista degli
affiliati avevano il loro numero sociale anche le persone decedute.
Licio Gelli non lasciava scoperto alcun settore per legare alla sua loggia il
maggior numero di persone possibili: accanto ai ministri ci sono decine di
parlamentari, tra deputati e senatori, e i vertici dei servizi segreti e delle forze armate,
oltre a una rosa ben nutrita di giornalisti e funzionari della Rai. Tutti pagavano quote
associative, non sempre per la stessa somma: numerose sono quelle che vanno da
250.000 lire a oltre un milione, una tassa alta rispetto a quella pagata per altre logge
massoniche. C’è anche però il denaro lo riceveva, come ad esempio Domenico Pone,
magistrato a Roma. Da quanto risulta sulla base dei documenti in possesso del
Parlamento, accanto al suo nome è annotata la cifra di venti milioni che egli avrebbe
incassato dalla Loggia, chissà a quale titolo.
Il materiale inviato dalla magistratura milanese alla presidenza del Consiglio e alla
commissione parlamentare che lavora al caso Sindona è senza dubbio sensazionale,
anche se per ora fa parte di un’indagine in corso che non ha ancora accertato il grado
di “illegalità” della P2. I fascicoli erano coperti dal segreto istruttorio e dietro a
questo schermo si era nascosto martedì scorso Arnaldo Forlani, quando rispondendo
alla Camera a numerose interpellanze aveva dichiarato di non poter divulgare la lista,
rinviando la decisione alla magistratura. La scelta del presidente del Consiglio aveva
deluso molti, anche all’interno della stessa Democrazia Cristiana. Ieri, infine, il nodo
del “tacere o divulgare” era passato alla Commissione Sindona, la quale dieci giorni
fa aveva ricevuto dai giudici milanesi lo stesso materiale in possesso di Forlani.
Il compito dinanzi al quale si trovava la Commissione era arduo. Forlani aveva
incaricato “tre saggi” (Crisafulli, Sandulli e Levi-Sandri) di accertare se la Loggia P2
sia o no un’associazione segreta. La magistratura romana aveva aperto peraltro
un’indagine nella quale la “Propaganda 2” era inquisita per associazione a delinquere.
Non solo; nonostante le dimissioni dei ministri e dei politici coinvolti, nonché degli
ufficiali delle forze armate e dei servizi segreti nominati, fossero state sollecitate da
più parti, ad essere rimosso era stato il solo segretario della presidenza del Consiglio,
Semprini. Nel frattempo, alcuni settimanali avevano diffuso decine di nomi. Si
trattava quindi di por fine allo stillicidio delle indiscrezioni e al polverone che la fuga
di notizie provocava.
La mattina a Palazzo San Macuto si era aperta con questa preoccupazione. “Il
presidente del consiglio ha taciuto – si diceva la maggioranza – noi dobbiamo trovare
un modo per divulgare la lista”. Per ore si era discusso. Comunisti, radicali, missini e
Pdup si pronunciavano per la divulgazione e persino i democristiani, attraverso
l’intervento di Azzaro, si dichiaravano concordi con questa scelta. Più cauti, anche se
schierati anch’essi per la divulgazione, erano stati i socialisti, contrari i repubblicani.
Il presidente della commissione, Francesco De Martino, l’unico che già nei giorni
scorsi aveva preso visione del materiale acquisito, aveva preso atto dell’orientamento
della maggioranza e, nel pomeriggio, mentre i commissari in grande segretezza
davano lettura dei nomi e della documentazione e prendevano freneticamente
appunti, si era recato dai presidenti delle Camere per esporre la situazione. “Resta lo
scoglio del segreto istruttorio, ma domani lo risolveremo”, aveva detto De Martino al
termine dell’incontro.
Nel frattempo, però, alle otto di sera, i commissari uscivano da San Macuto e
cominciava il balletto dei nomi ed il flusso delle indiscrezioni incontrollabili.
Quando già nelle redazioni dei giornali si mettevano in piedi liste e appunti di
nomi ormai divulgati, giungeva la notizia che da Milano i magistrati avevano risolto
l’impasse. Non si sa se i giudici siano stati messi al corrente dell’intenzione della
commissione di dare oggi, attraverso una relazione-stralcio consegnata ai presidenti
delle Camere, notizia dei 953 nomi e della documentazione. Fatto sta che in serata
essi hanno dato il nulla osta al presidente del Consiglio per la divulgazione.
A Palazzo Chigi è iniziato allora un vero e proprio terremoto. Pressati dai cronisti
e da centinaia di telefonate, i funzionari della presidenza del Consiglio hanno prima
riferito che, fermo restando l’impegno di pubblicizzare gli elenchi, dati i tempi di
stampa essi sarebbero stati resi noti oggi. Infine, appreso che i maggiori quotidiani
sarebbero andati in macchina con il frutto delle mille indiscrezioni ormai diffuse, le
liste sono state divulgate in tarda notte.

I REALI IN RITARDO
(pag. 1)
di Renzo Cianfanelli
“Il Corriere della Sera”, 30 luglio 1981

Avrebbe dovuto essere il matrimonio dal quale la monarchia britannica, ancora


amatissima dal suo popolo ma troppo spesso preda della stampa scandalistica,
usciva rigenerata, rafforzata e al passo con i tempi. Tutti sanno come è andata a
finire, tra Carlo e Diana. Lei, dopo la morte, è divenuta un’icona del
politicamente corretto. Di lui, si dice abbia la grande colpa di continuare a
comportarsi con lo stessa regale indifferenza al giudizio altrui con cui i suoi
antenati si comportavano duecento anni fa. In realtà era già in ritardo sui tempi,
come anche Diana, fin dal giorno del matrimonio. Per l’esattezza di 11 minuti:
tanto quanto li dovette aspettare il treno che li portava in luna di miele.
Chi aveva intuito tutto, quel giorno, ammazzava il tempo in attesa del fatidico
“sì” leggendosi un pacco di carte portate dall’ufficio.

LONDRA – La monarchia più rispettata e celebrata del mondo ha rinnovato un’altra


volta la sua funzione istituzionale e costituzionale. Carlo d’Inghilterra, che un giorno
salirà sul trono di Elisabetta II, ha sposato Diana Spencer, prescelta per assicurare
continuità alla Corona e quindi allo Stato. Questo è il significato politico della
gradiosa cerimonia culminata nella Cattedrale di San Paolo, che il mezzo televisivo
ha posto sotto gli occhi di 750 milioni di persone.
A Londra il corteo è stato acclamato con stupefacente entusiasmo da una folla di
600.000 persone, giovani in maggioranza. In un clima di partecipazione esuberante,
la popolazione che si era accampata lungo le strade perfino da due giorni si è
trasformata da spettatrice in protagonista di un episodio della propria storia. Carlo e
Diana hanno accettato di diventare, come è stato osservato, “patrimonio collettivo”. Il
Nord Irlanda, la disoccupazione rampante, il declino economico, le devastazioni
urbane e sociali che anche ieri a Liverpool hanno causato la morte di un ragazzo non
sono riuscite a dissipare l’entusiasmo. La celebrazione delle nozze è vissuta dagli
inglesi coralmente, come un grande evento celebrativo nazionale.
Il cerimoniale si è svolto con quella superba orchestazione di ogni dettaglio, che in
Inghilterra è caratteristica di tutti i riti sociali e che ne rende tuttora insuperabile il
teatro. Solo alla fine della lunga giornata la cronometrica tabella di marcia ha
registrato qualche improvvisazione. Carlo e Diana, neoprincipessa di Galles, dopo il
matrimonio e il ricevimento di nozze hanno rischiato di “perdere” il treno reale che
doveva partire dalla Stazione di Waterloo alle 16,30, e li ha dovuti aspettare, invece,
per ben 11 minuti.
La grande festa per il “matrimonio del secolo” si è aperta su una nota di
nervosismo ben dissimulato in seguito alla scoperta di quello che sembrava essere un
nuovo “complotto delle polveri” che, quasi come quello del leggendario Guy Fawkes,
minacciava di volgere in tragedia le celebrazioni. Due palafrenieri di Buckingham
Palace sono stati arrestati: entrambi erano alle dirette dipendenze della Regina. Erano
in possesso di 80 candelotti esplosivi. Quale uso intendevano farne? Per non turbare
l’atmosfera festiva, il Palazzo è reticente e gira la domanda alla polizia, che si
trincera dietro il pretesto legale per cui la faccenda sarà tra poco sub judice. Il giallo
delle polveri, quindi, resta al momento inesplorato.
La lunga attesa, dopo una notte di veglie collettive sui marciapiedi e dentro i
sacchi a pelo decorati di bandiere, dopo l’alba di cori patrottici, è stata premiata da
un’insolita calura e dall’arrivo delle prime processioni.
Nella selva di personaggi illustri si distinguevano la Signora Reagan con vestito di
chiffon, la premier Thatcher abbigliata in blu elettrico con cappello a scatoletta di
eguale colore, l’ottuagenario ma sempre lucido Macmillan, già primo ministro. Nel
recinto dei politici c’erano anche Lord Carrington, attuale ministro degli esteri e
quindi colpevole ex officio della lite con la Spagna per la tappa di Carlo e Diana a
Gibilterra, nel loro viaggio di nozze.
Più indietro, con l’aria imbarazzata di chi si trova a passare per caso, il leader
storico della sinistra inglese Michael Foot, segretario dei laboristi, minimizzava
l’avvenimento leggendo un fascicolo di carte sopra le ginocchia, in completo color
lavagna chiaro assolutamene inadatto all’occasione.
Inconfondibile, nel riquadro “reali stranieri”, la mole king size del re di Tonga, per
cui qualche giorno fa hanno fabbricato una sedia apposita. Nelle sue vicinanze si
notavano Baldovino re dei belgi con la regina Fabiola e l’esule Costantino “re degli
Elleni”, come l’ha definito incautamente il Lord Ciambellano resposnabile
dell’uffixio inviti. L’appellativo ha infastidito molto la Grecia, che ne ha approfittato
per non mandare a Londra il già malandato Presidente Karamanlis.
A proposito di gaffes internazionali, alla lista degli offesi c’è da aggiungere ai
greci e agli spagnoli anche l’Aga Khan. Il capo degli ismaeliti progettava di invitare
Carlo e Diana in Sardegna, sulla Costa Smeralda, ma a Londra non l’ha invitato
nessuno e lui, per ritorsione, ha disdetto l’invito.
Colpevole, anche in questo caso, il solito Lord Ciambellano, che per finire ha
commesso un errore di etichetta imperdonabile invitando la regina Beatrice d’Olanda.
Le ha fatto sapere che “se necessario” avrebbe potuto essere ospitata a Buckingham
Palace, per un periodo massimo di tre giorni. Seccata per il trattamento, la regina è
ripartita subito dopo la colazione di nozze, lasciando come modesto regalo per gli
sposi due lampade da tavolo.
Questi retroscena minori, comunque, non hanno turbato l’euforia che ha
continuato ad aleggiare su Londra durante le sfilate, in chiesa, dovunque. È certo che
l’immagine del corteo, dove l’unica concessione alla modernità era il vetro
antiproiettili della carrozza della sposa.
Può sembrare tutta pompa, retorica, polveroso anacronismo. Resta il fatto che qui
la gente la pensa in modo diverso e considera la casa reale come la sua reliquia
vivente più importante. Il Financial Times ha scritto che un simile entusiasmo a
Londra non lo si vedeva dal giorno della Vittoria. Carlo d’Inghilterra ha definito l
proprio matrimonio “una meravigliosa esperienza emozionale e musicale”.
Nel patrimonio di un paese i riti e le istituzioni non sono tutto, certamente, ma in
Inghilterra si è convinti che eliminarli non significa costruire una società più
avanzata.

IL SOGNO SBAGLIATO DI BEGIN


(Begin, il sogno sbagliato, pag. 1)
di Arrigo Levi

“La Stampa”, 10 giugno 1982

Gli israeliani, mentre il mondo è concentrato sulla contemporanea crisi tra Gran
Bretagna e Argentina per il controllo delle isole Falklands, occupano
militarmente il Libano meridionale attestandosi sullan linea della periferia di
Beirut. Arrigo Levi, che ha giovane ha aiutato concretamente lo Stato d’Israele a
nascere dopo l’Olocausto, ammonisce chi spera che la risposta militare possa
sostituire la pace raggiunta con il dialogo politico.

La nuova guerra arabo-israeliana è stata intrapresa dal governo Begin per distruggere
l’organizzazione politico-militare dei palestinesi. L’Olp, che è un organismo
eterogeneo, mal controllato da Yassir Arafat, ha continuato a sua volta a proporsi
come fine istituzionale la distruzione dello stato d’Israele; alcune recenti indicazioni
di disponibilità ad accettarne di fatto l’esistenza non sono mai state né univoche, né
ufficiali, e non sono parse mai groppo convincenti.
Alla logica tradizionale dell’Olp, dello scontro frontale con Israele, Begin ha ora
risposto, pochi mesi dopo aver completato la pace con l’Egitto restituendo tutto il
Sinai, con una guerra ad oltranza che mira a smantellare le basi dell’Olp nel Libano:
il solo paese arabo dove i palestinesi, da tempo liquidati con la forza in Giordania da
Re Hussein e duramente controllati in Siria, godano ancora di autonomia e quasi di
sovranità.
La liquidazione dell’Olp, anche a costo di distruggere il Libano come Stato
unitario, è l’obiettivo che, una volta raggiunto, dovrebbe consentire a Begin di
imporre una “autonomia amministrativa” per i palestinesi dei territori occupati
contenuta entro certi limiti molto ristretti, tali che non impediscano nuove colonie
ebraiche e non chiudano, un giorno, la strada all’annessione dei territori nello Stato
d’Israele. Se i palestinesi vogliono una loro patria – dicono i beghiniani – se la creino
otre il fiume Giordano, in Giordania, dove hanno già la maggioranza della
popolazione in territori che facevano parte della Palestina storica.
Questa è la soluzione finale che Begin prepara per il conflitto mediorientale, dopo
avere assestato durissimi colpi agli organi locali dei palestinesi nei territori facendo
largo uso della forza, dopo aver proclamato l’annessione del Golan siriano e dopo
aver apparentemente “messo fuori gioco” l’Egitto con il trattato di pace.
Le divisioni degli arabi, il conflitto iracheno-iraniano e il gioco d’interessi della
superpotenza americana fanno ritenere a Begin di poter fare così il passo risolutivo
verso il traguardo della “Grande Israele” preparando una “pace” tra Israele e gli arabi
attraverso la distruzione del movimento palestinese. Non ci sono molti misteri sul
fatto che questo sia i grande disegno beghiniano, al quale hanno spianato la strada la
cieca intransigenza dell’Olp e l’incapacità di Arafat d’imporre il negoziato mediante
un riconoscimento a priori d’Israele, come fece Sadat. Gli estremisti arabi hanno
invece fatto il gioco degli estremisti israeliani, consolandosi d’ogni sconfitta con il
pensiero che, comunque, un giorno la grande nazione araba schiaccerà Israele e ridarà
ai palestinesi la loro patria.
Che probabilità ha il disegno di Begin di realizzarsi, e che situazione ne uscirà nel
Medioriente? Sulla carta, la Siria da sola non dovrebbe essere capace d’impedire al
governo israeliano di raggiungere i suoi obiettivi immediati, ridisegnando a proprio
piacere la mappa del Libano. Ma una vittoria del corpo di spedizione israeliano,
anche se sarà rapida e totale (ma a quale prezzo umano!) non potrà dare vera pace a
Israele.
Una “pace” fondata su regimi d’occupazione e sulla superiorità militare creerà una
situazione che è profondamente diversa da quella sognata dai più nobili ideali
sionisti: questi non prevedevano l’annientamento del movimento arabo, ma la
coesistenza dei due nuovi nazionalisti, l’arabo e l’ebraico, l’uno a fianco dell’altro.
Lo Stato ebraico ha tutto il diritto di vivere in pace e sicurezza. Ma il mondo non gli
riconoscerà mai il diritto di annientare un’altra nazionalità. Finché gli arabi negavano
a Israele il diritto di esistere, erano loro che si opponevano allo “spirito dei tempi”,
ora è l’Israele di Begin che nega lo “spirito dei tempi”, il quale vuole che sia
riconosciuto ad ogni nazione il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza.
Begin offre a Israele solo una precaria sicurezza militare, che richiede il
perpetuarsi di un odioso regime di occupazione su territori sempre più larghi, che
isoladoloramente Israele da quasi tutti suoi amici tradizionali e che non potrà non
turbare anche larghi strati dell’ebraismo internazionale. È pericoloso giocare tutta la
posta sui soli interessi strategici americani, e sull’inazione egiziana. E comunque
Israele non potrà far sparire dalla scena milioni di palestinesi, anche se potrà ridurre o
liquidare militarmente l’Olp per un certo periodo di tempo. I palestinesi potranno
contare sempre sull’appoggio del mondo arabo, con le sue immense risorse.
La sueriorità militare e le alleanze non potranno garantire per sempre la sicurezza
di Israele. Il sionismo ha realizzato il suo grande obiettivo strocio realizzando lo Stato
ebraico, ma deve costruire ancora condizioni di stabile sicurezza per la sua esistenza.
Allargare le frontiere di qualche decina di chilometri offre soltanto garanzie illusorie.
Il vero obiettivo storico da raggiungere è la pace tra palestinesi, arabi ed ebrei.
Purtroppo, tale obiettivo sarà reso più difficile e non più facile da questa quinta
guerra, la prima “vera guerra palestinese”, e dal tentativo di Begin di distruggere
l’identità nazionale di quel popolo.
La via da seguire era un’altra. Bisognava prendere le mosse da una dichiarazione
d’Israele di non voler esercitare dominii di sorta sulla Palestina araba, come
proponevano i leader laburisti israeliani, per poi avanzare gradualmente, attraverso
una fase di “piena autonomia” per i palestinesi controbilanciata da una garanzia di
sicurezza per Israele, verso il riconoscimento dell’autodeterminazione della nazione
araba palestinese.
Questa era e rimane la strada da percorrere per dare compimento al sogno sionista.
È invece prevalsa in Israele, siap ure di strettissima misura, una visione diversa del
sionismo, e questa anche un’amara colpa degli estremisti arabi. Tutto appare ora
enormemente più difficile e pericoloso: non se ne rende ancora conto l’America di
Reagan?

STRAGE SUL TRENO DI NATALE


(E’ pronto un identikit, trovate quest’uomo, pag. 1)

di Pierangelo Sapegno
“La Stampa, 25 dicembre 1984)

Il Rapido 904 viaggiava, alla vigilia di Natale, tra Firenze e Bologna. Qualcuno
mise una bomba, pronta a esplodere in galleria. È una delle pagine più prribili
della storia del terrorismo di destra in Italia.

SAN BENEDETTO VAL DI SAMBRO (Bologna) – Un’altra strage: 16 morti, 161


feriti. Ancora un treno che salta in aria, ancora una volta a San Benedetto Val di
Sambro, e di nuovo affiora l’ombra del terrorismo nero. Non si esclude, però, ancora
la pista internazionale. E c’è già un sospetto: oggi a Bologna verrà diffuso un
identikit di un giovane: l’hanno visto scendere alla stazione di Firenze con una borsa
sportiva, vuota. È alto 1,76, viso ovale corto capelli castano scuri, occhiali, indossava
un giaccone marinaro, camicia bianca calzoni grigi.
Il rapido 904 Napoli-Milano è stato fermato alle 19,14 da una bomba in una
galleria tra le più lunghe d’Europa, quella della Direttissima, che taglia in due gli
Appennini: 18 chilometri e 600 metri di buio. La bomba è esplosa nel corridoio
accanto al secondo scompartimento della sest’ultima carrozza, sei chilometri dopo
l’imboco del tunnel dalla parte di Vernio. Per 230 metri in territorio emiliano (così
l’nchiesta spetta a Bologna ed è stata affidata al sostituto procuratore della
Repubblica Nunziata, anche se un’altra indagine è stata avviata a Firenze perché a S.
Maria Novella è stata piazzata la bomba). La notte della vigilia di Natale è iniziata
così. Con la cronaca di un disastro.
Il treno era partito dalla stazione di Firenze alle 18,35, due minuti in ritardo
sull’orario. Qui, durante la fermata di un quarto d’ora, i terroristi hanno piazzato un
ordigno ad altissimo potenziale: su una reticella, dicono alcuni, o sotto un sedile
mobile del corridoio, sostengono alla polizia. “La bomba era stata programmata per
scoppiare in galleria”, ha fatto sapere Nunziata.
Quando imbocca il tunnel, il rapido 904 ha già recuperato il ritardo: è persino
passato in anticipo di un minuto alla stazione di Vernio. Alle 19,15 è arrivato al
chilometro 44,450 da Firenze, fra Cà Lendino e Castiglion de’ Pepoli. Viaggia a
velocità ridotta, a 90 all’ora in un tratto dove di solito si sfreccia a 140, perché ci sono
lavori in corso. Giuseppe Giordano esce dallo scompartimento, va verso il bagno. Per
questo si salverà la vita. Sul sest’ultimo vagone, quello della bomba, ci sono almeno
novanta passeggeri. Anna De Simone, 9 anni, gioca con la bambola. Il fratellino
Giovanni, di quattro, dorme abbracciato al padre. Luisella Materazzo, 25 anni, ha
appena accesola radio e s’è messa la cuffia. Quella cuffia oggi è ancora lì,
incredibilmente intatta sul pianale sventrato dallo scoppio.
Ecco il boato. Un lampo, un altro lampo. Poi un buio terribile e profondo, fra
lamenti ed agonie. Ci sono bagliori, luci che sembrano inquietanti. Brillano appena in
un inferno nero. Cinque passeggeri sono catapultati fuori. Brandelli di corpi nel
raggio di 800 metri, sparsi sui binari, fra una lamiera ed un pezzo di stoffa. La
sest’ultima carrozza si è aperta nella sua parte anteriore verso il soffitto della galleria.
Quattro scompartimenti sono spariti, disintegrati. Le poltrone non si trovano più. I
fianchi del vagone si sono allargati, a portafoglio. Adesso sembrano le labbra di una
bocca aperta sul vuoto.

CONSIGLI PER IL VOTO


(La Repubblica. Dieci anni – 1985, pag. 31 “Ferrini, Pazzaglia, per chi voterete?”)
di Paolo Guzzanti
“La Repubblica”, 11 maggio 1985

“Quelli della Notte” è rimasta nella storia della televisione italiana: trasmissione
nottambula in un’epoca in cui contava solo la prima serata, sgangherata e
surreale. Un mito generazionale. Alla vigilia delle elezioni, i suoi protagonisti
rompono l’ennesimo tabù, e accettano l’impensabile: parlare di politica. Ma a
modo loro.

ROMA – Lei, Frate Frassica, come vota domani? “Crucio ingruciato. Io dal 1906
voto sguto ingruciato, con la scritta ‘dic’ sulla cruge. E se alle elezioni vincerà lo
scudo ingrugiato al mio paese costruiremo un duomo antico a via Alessandro
Manzoni, per chi viene da sinistra, e via Manzoni Alessandro per chi viene da destra;
numero di telefono ventisei, ventisette, ventotto, ventinove, trenta e trentuno.
Abbiamo chiamato il miglior duomatore del mondo e lo faremo bellissimo, con le
pietre antiche, tutto quanto, l’angolo bar, il telefono già c’è …”.
Quanto a Ferrini, piazzista romagnolo di pedalò, nessun dubbio, vero? “Domani si
vota, è un bel problema. Ah, io il mio voto lo do al partito, naturalmente. Certo, il
partito ha un difetto: sono troppo buoni. Però … è successo che, via, sembra che
anche loro sbaglino … ma come? Fanno una rivolussione, màzzano dei milioni di
milioni di uomini per il bene tuo, suo e suo – faccio un esempio terra terra – e come?
Adesso sbagliano, scussa. Quello non l’ho capito, però mi adeguo. Se loro hanno
detto questo, ci sarà il suo motivo. Se loro han preso la decisione di dire la sua, quello
è già un problema. Bisogna avere l’autorizzazione, come, uno dice la sua? Se loro
sono lì, noi li abbiamo votati e allora c’è un motivo: allora loro avranno più
intelligenza di me e io non lo discuto. Non lo capisco ma mi adeguo, quello è un
ragionamento”.
Senta, Ferrini, ma lei è d’accordo con questi dirigenti italiani? “Ma quali italiani?
Non si capisce, noi non capiamo chi sono questi italiani. Abbiamo questa
documentazione sovietica dello Sputnik, ma le fotografie sotto Ancona vengono
annebbiate: chi sono questi meridionali? Perché noi parliamo italiano. E loro sanno
l’italiano, ma parlano il dialetto. Apposta lo fanno. Quello, quello è il problema.
Quella è anche maleducazione”.
Come la dobbiamo chiamare, la tana del leone? Il luogo più intelligentemente
imbecille d’Italia? Siamo qui, sul sofà di “Quelli della Notte”, la geniale trasmissione
inventata e imposta da Giovanni Minoli e condotta da quella intramontabile e
sorridente lenza che è Renzo Arbore, già creatore (con Bracardi, Boncompagni e
Marenco) di quell’altra benefica follia generazionale che fu “Alto Gradimento”.
Altro che meditate gente. Qui non c’è niente da meditare. Siamo nella camera di
compensazione dell'umorismo di puro valore aggiunto ed è forse l’unico posto dove
si possa parlare seriamente, cioè dementemente, di politica. Questa, signore e signori,
è un’intervista collettiva ad una banda di matti post-notturni. E non si capisce (non
l’ho capito io, non l’hanno capito loro, figuriamoci se lo capirete voi che leggete) se
alle domande, tutte fuori tema, rispondono i personaggi gli attori. Insomma, fate un
po’ voi. Questo è anche un pallido resoconto, e del tutto parziale, di quello che si è
detto.
Se non vedete, se non avete mai visto “Quelli della Notte” è quasi inutile che
andiate avanti: leggereste parole insulse e avreste l’impressione di un colpo di idiozia.
Se invece, come è sicuro, siete anche voi degli aficionados, dovete collaborare con la
memoria e metterci voi i suoni, le pause, gli sguardi roteati le amnesie (amnistie?) e
tutto quel che ci vuole. Insomma, c’è poco da aggiungere: questa è un’intervista
politica, lo dice il ragionamento stesso. Capire o adeguarsi.
Va detto che il conduttore-spalla del dibattito è stato Arbore, al solo vile scopo di
sottrarsi alla domanda brutale: tu come voti? Lo sappiamo tutti per chi vota Arbore,
ma non l’ha voluto dire. Ci ha propinato invece una sua idea di futuro possibile: “Io
sono un monarchico di sinistra. Sono anni che propugno la monarchia di Pertini. Io
dico questo: che il Presidente, invece di andarsene in giro in Argentina o per funerali,
se ne dovrebbe stare qualche sera solo con la signora Voltolina, che è sua moglie, per
darci un Pertinetto che potrebbe diventare l’Infante d’Italia. Questo Pertinetto
dovrebbe poi proseguire l’opera di tanto padre, quando il padre non se la sentisse più:
tanto abbiamo capito che sarà lui a decidere, quando sarà …”.
Se Arbore non vuole dire per chi vota lui, diventa però un tiranno con la Simona
Marchini, (che nella realtà, s’intende, è una signora snob e spietata, oltre che
simpatica) sciroccata e prona, con tutti i suoi “signor Arbore”. E dichiara: “Noi,
signor Arbore, siamo una famiglia molto moderata. Io e mio marito votiamo la
domenica mattina con i pupi, perché siamo più riposati, sa … E beh, sì, mi lascio
consigliare un po’ da mio marito, che mi dà anche i foglietti con le preferenze … ma
poi io voto di testa mia, sa signor Arbore, che si crede …”.
E il conduttore: “Ma lei ha mai votato di testa sua?”. La telefonista tentenna: “Io
…”. Arbore incrudelisce: “Dica la verità: ha mai votato di testa sua?”. Tremolio: “No
…”. E per chi ha votato? “Non posso, non posso …”. Glielo dico io per chi ha votato:
lei ha votato per il Psdi. “Ma, Signor Arbore, come fa? Ma lei è un mago … come ha
potuto indovinare …Siamo così moderati in famiglia, sapesse ..”.
Diamo la parola a Pazzaglia, questo iperpartenopeo aggrappato al sogno
dell’Illuminismo come un naufrago allo scoglio. “Dovevo fare una dichiarazione
drammatica e solenne. Io riconosco soltanto la Repubblica Napoletana del 1799. Non
ho riconosciuto il regno borbonico, non ho riconosciuto il regno savoiardo, e non ho
riconosciuto la Repubblica Italiana. Forse potrei riconoscere una seconda repubblica,
ma non è detto. Comunque lei vuole avere da me un’indicazione di voto utile per i
suoi lettori. Ebbene, io dico votate i belli: belle signore con un doppio filo di perle,
bei signori ben vestiti e ben rasati … basta con i brutti, perché i brutti passano la vita
a odiare gli altri che sono belli. Io comunque non voterò. Alla domanda per chi voti
io rispondo: non vado a votare”.
Ed ecco che prende fuoco la cosidetta cugina di Arbore, la bella e brava Marisa
Laurito. Anche lei non voterà, ma non per scelta. Non voterà per la sua condizione di
schiava dell’uomo. “Non posso andare a Napoli, aggia rimettere a posto tutt’e ccose,
tutto il disastro che mi combina questo disgraziato e i suoi amici, perché l’uomo è
sempre la rovina della donna”.
Marisa interverrà più tardi, ma intanto va ascoltato il trombettista Max Catalano,
che interpreta da solo un intero mondo: il play boy caprese degli anni Sessanta,
scemo, lapalissiano, virulento nella banalità. “Come per chi votare? Che razza di
dibattito idiota è questo? Te lo dice la scheda, no? Tu la apri e lì c’è il segno di un
partito, tu lo voti e hai votato. Se ti va quel partito, scegli quel partito. Se ti va
quell’altro, scegli quell’altro”.
Sì, ma per chi vota un manierato fichetto così? Catalano si lascia trascinare dal
personaggio e lo dice, ma poi mi prega di cancellare la risposta: “non vorrei che la
gente pensasse che quello è il mio vero voto”.
Qua, amici vicini e lontani, c’è un problema: Andy Luotto. Che ne facciamo di
lui? Avete visto com’è: travestito da sceicco, col suo naso ipersemitico (scusateci
questa frequentazione dell’‘iper’, ma l’aria di casa ci contamina)., lo sguardo
ottusamente immerso nella scollatura di Marisa Laurito, parla un linguaggio
grottescamente joyciano; finto arabo, come truciolato di base, misto spagnolo con
napoletanità non esenti da incursioni di inglese-americano. Alla domanda ‘per chi
voti’ risponde più o meno così: “Akh aharam, ankhrhahà … American passaport, ‘n
ge sta, af’akh’rà, izquierda y derrecha, well I cannot vote in Italy …”.
E insomma spiega che non gliene frega niente del voto, a lui, essendo cittadino
americano. E che se votasse in Italia prenderebbe la cittadinanza Usa, che gli sta
massimanente a cuore. Comunque, se proprio volete conoscere alcune sue personali
preferenze, eccole: “Agnelli .. akharbrà .. and Debenedetti …”.
Un uragano si abbatte su di noi: è il fascista Catenacci, nostalgico di “quando
c’era lui”, del maresciallo Graziani e dell’impero. Quello che vede una democrazia di
omuncoli pellancicosi, là dove una volta c’era una nazione sempre in parata. È,
manco a dirlo, il Bracardi Giorgio, asfissiante (con le bombolette di aria di Terracina)
animatore da villaggio Valtur.
Diamogli sinteticamente la parola: “Uè, caro signore, io l’unica resistenza che
conosco è quella elettrica, ha cappitto? Cca-ppi-tto? Oggi comandano tutti, comanda
questo, comanda quello, comanda quell’altro, è tutto un gran casino … Guarda la
donna: ci abbiamo dato un dito, si è presa un braccio. E l’uomo non comanda più un
casso: te credo che l’uomo non riesce più sul piano sessuale e cià la nevrosi, e cià
questo e cià quello: non è più come quando c’era lui. È diventato un pelagalline. Con
la democrazia sono tutti brutti, gobbi, piccoli, con gl occhiali. Invece guarda quando
c’era lui: tutti belli, tic-tac-tic-tac, te marciavano tutti in parata …”.
Telefonista Simona, soavemente: “Un saluto a mia zia che è l’unica a votare
monarchico in un paesino in cui votano tutti per il Pci. Ciao zia Silvia”.
Breve scontro fra opposte ideologie. Il fiolosovietico Ferrini (con la rivista
“Unione Sovietica” che gli esce dal borsello, nel quale alberga anche una grammatica
russa) contesta al partenopeo Pazzaglia la scelta astensionista: “Dunque, scusa, tu ti
astieni. E allora, per la spassatura e quell’altra roba lì, come pensate di fare? Ci
andresti da te soltanto o con i tuoi amici, a raccoglierla? Com’è che vi organizzate,
giù a Napoli? Se tu non voti, e tutti fanno come te, la spassatura resta per strada e
finisce che ci facciamo anche una brutta figura …”.
Pazzaglia vede con gli occhi le vele di Nelson, altro che l’immondizia: “Noi
illuministi non produciamo spazzatura. Il problema è risolto”. E Ferrini (che ha una
dialettica “entrista” che non passa mai al conflitto, ma apparentemente coglie le
stramberie avversarie per legarci sopra le proprie) si compiace: “Siete già al
progresso, noi invece poverini siamo ancora condannati che anche che alziamo
soltanto un libro, già sudiamo sangue. A Bologna già sudano meno, più vai al nord e
più sudano meno. Noi, solo a pensare, sudiamo. Però la nostra spazzatura la
ricicliamo interamente per i pedalò. La base è sempre il truciolato …”. E riparte con
la sua nota formula del materiale-base per la costruzione del pedalò della
Cesenautica: truciolato di legno, spazzatura compressa, poltiglia di pesce azzurro e
gelatina di pesce “che va in tirata che è qualcosa di bello”. Nessun problema per il
fetore: “È l’odore del mare ed è anche simpatico”.
Nino Frassica vuole aggiungere qualcosa: “io voto per Zaccagnigno, l’onesto Zac,
anche se non si presenta. Ma mi piacciono anche gli effimeri. Per questo c’è al mio
paese l’assessorato …”. Come? “L’assessorato allo spettacolo, pubblici divertimenti,
barzellette e tanghi, bella cultura e belle figure del Comune che organizza questi
musichi sciò-sciò, sempre con Daniele Piombi come presentatore”.
Marisa ha una botta di napoletanità pragmatica. Ecco come risolvere presto e bene
i mali di Napoli: “Da noi ci manca una cosa sola. Una fontanella in ogni vicolo.
Acqua, tanta acqua. Diciamoci la verità: il napoletano, quando ha bevuto l’acqua, di
che altro tiene bisogno? Anche se la città sprofonda, che fa? Pensate, con tanta acqua,
quanta bella pulizia, quanti bassi odorosi e quante belle bevute d’acqua. O no?”.
Il capriccio del delirio-dibattito vola verso i problemi del “sociale”, bambini, asili
nido. Naturalmente Bracardi-Catenacci è insofferente. “Con la democrassia s’è tutto
sparpagliato, c’è l’infanzia abbandonata che prima non c’era. Quando c’era lui, ai
bambini ci mettevi in mano libro e moschetto, e anche la pala e la sappa e la vanga, e
via: intere popolazioni prese nel Veneto e taratà, portate giù nel Lazio”.
Una domanda, Bracardi: ma lei voterebbe oggi per i successori di “lui”? “Ah bé, è
un altro discorso. Perché morto lui è morto tutto, non c’è più niente ..”.
Simona, impiegata romana trepida ed insulsa, reclama blandamente strutture per
liberarsi dei bambini, quotidianamente sbatacchiati e sciroccati a casa delle vicine
compiacenti: “Altrimenti, Signor Arbore, la vita è un inferno … Almeno il tempo per
rinfrescarsi, per cambiarsi: siamo donne …”.
Il modello sovietico in questo campo ci può illuminare. La parola, manco a dirlo,
spetta a Ferrini. “In Russia son già a sistemi avanzati: arrivano dei camion a due
piani, i maschi di sopra, le femmine di sotto, che sono più coperte. Poi li portano in
questi grandi stabilimenti, tutti allineati e divisi maschi di qua femmine di là, mentre
altri carri bestiame portano i grandi a lavorare. Ma lì sono già più avanzati,
guardiamo al futuro …”.
Ma l’effimero, l’effimero le piace, lo approva dal suo punto di vista ortodosso?
“Sono d’accordo. Però ci sono queste canzoni inglesi dei festival: non si capiscono le
parole, i giovani cadono preda della disperazione, non capiscono, si sentono
emarginati, non si adeguano e si danno all’eroina, alla droga. Anche questi sono
problemi”.
Padre Frassica? “…poi facciamo il complessi di padre Cionfi e il Benedettini
sound”. Bracardi: “Ma quale effimero! C’era il concerto per mitragliatrice e orchestra
...”. Ferrini: “Garda invece il Guccini: quello ti bonifica dentro”. Simona: “Mi creda,
Signor Arbore, io in ufficio da mezzogiorno alle due non rendo niente … ”. Arbore:
“Ma si sente il fetore dei pedalò”. Pazzaglia: “noi illuministi napoletani non
produciamo spazzatura”.

GUERRA ALLO STADIO


(La Repubblica. Dieci anni, 1985, pag. 20 “Tutto il massacro minuto per
minuto”)
di Mario Sconcerti

“La Repubblica”, 30 maggio 1985

Questa è la cronaca della strage dell’Heysel, in cui 39 tifosi italiani vengono


uccisi allo stadio prima che inizi la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e
Liverpool. La partita viene giocata ugualmente. La Juve vince 1-0.

BRUXELLES – Ho visto la scintilla di un massacro accendersi improvvisamente,


quasi per gioco, e allargarsi in modo incredibile, pauroso, fino a travolgere una vita
dopo l’altra. Mentre scrivo sono appena passate le 21, Juventus e Liverpool
avrebbero dovuto finire adesso il primo tempo. Dai sotterranei dello stadio invece
continuano a passare soltanto barellieri, infermieri, medici e poliziotti. Quello che è
diventato un improvviso bollettino di guerra parla adesso di trentotto morti, quasi tutti
italiani, moltissimi con la cassa toracica schiacciata contro i muri di recinzione, altri
con la gola aperta dalle grandi punte metalliche che chiudono le transenne.
C’è una grande confusione, indescrivibile. C’è soprattutto panico. Lo Stadio
Heysel è praticamente assediato dalla polizia. Ovunque piccoli ospedali da campo
improvvisati; gente sanguinante, gente che si cerca, gente che si chiama. La piccola
infermeria dello stadio è letteralmente scoppiata in pochi minuti. Vi hanno portato un
morto dopo l’altro, ed uno dopo l’altro i morti venivano fatti tutti sparire nelle
ambulanze che venivano dalla città. Assurdamente, con un atto di fede e
disperazione, molti sono stati portati via avvolti nelle bandiere bianconere della Juve.
Tutto è cominciato verso le 19. Lo stadio era già pieno di gente, presa dai soliti riti
di festa che precedono la grande cerimonia della partita. Non c’erano segnali di
paura. Nel pomeriggio c’era stata la notizia di un ferito, ma era sembrato quasi
normale, in circostanze di latente follia come questa.
Allo stadio colpivano subito i vasti spazi che si aprivano in una curva, una specie
di terra di nessuno che si allargava tra una parte dei tifosi juventini ed il settore dove
quasi tutti gli inglesi erano stati instradati dalla polizia belga.
C’era molta paura per questi tifosi inglesi molto rissosi per tradizione, spesso
ubriachi. I belgi li avevano affidati a milleduecento agenti fin dal loro arrivo ad
Ostenda, due giorni fa. Li avevano tutti relegati in un paese nei pressi di Bruxelles e
condotti allo stadio con linee speciali della metropolitana. Stipati nel loro settore, gli
inglesi hanno cominciato ad ondeggiare, poi hanno cercato il loro spazio vitale al di
là delle transenne. Non un poliziotto presidiava quell’ideale, fragilissima terra neutra.
Gli inglesi si sono immediatamente allargati a macchia d’olio, entrando in collisione
con gli italiani.
Sono subito volate le botte, ma per qualche istante e’ sembrata la solita rissa da
stadio. La gente indicava e quasi sorrideva: fa colore.
Poi è successo qualcosa di tremendo. Come lo sfondamento di un fronte, di colpo
la linea juventina ha ceduto e la gente ha iniziato a scappare. Gli inglesi lanciavano
mattoni e bottiglie, e venivano sempre più avanti. È scoppiato il panico, e gli italiani
sono precipitati gli uni sugli altri, travolgendosi, cercando scampo in spazi sempre
più stretti. Quattro, cinquemila persone in pochi istanti si sono accalcate contro il
muro di recinzione laterale, sbandando e continuando a precipitare dalle gradinare in
una fuga che si è trasformata in un assalto alle transenne: l’unica speranza era il
campo, il terreno di gioco, e tutti cercavano di superare la barriera metallica dalle
punte acuminate.
Sconvolti, imbottigliati, gli italiani hanno iniziato una tremenda corsa al suicidio
sotto la pressione degli inglesi, che continuavano a picchiare. Ho visto decine e
decine di persone cadere dall’alto delle transenne e stramazzare al suolo. Ho visto il
sangue che schizzava violentemente. Ho visto altri fuggire come impazziti.
È successo tutto in pochi minuti, e senza che la polizia belga muovesse un dito.
Quando è arrivata in forze ed ha finalmente caricato gli inglesi le tribune ed il campo
erano già un cimitero. Lo spettacolo ha finito di accendere gli animi degli atri tifosi
italiani, e per un attimo siamo stati ad un passo dalla battaglia generale. Dalla curva
opposta, infatti, gli italiani hanno sfondato le reti e si sono precipitati dall’altra parte.
Per fortuna in quel momento entrava la polizia a cavallo, che è riuscita a bloccare
almeno questo assalto.
Adesso sono le 21,40. Dentro allo stadio è tutto tornato così assurdamente normale
che le squadre stanno persino entrando in campo. Fuori tre grandi tende fanno da
ospedale ai feriti che arrivano. La verità è che nessuno sa come far uscire
cinquantamila nemici dallo stesso luogo senza scatenare ulteriori incidenti. La partita
sarebbe solo un grottesco tentativo per prendere tempo. Impossibile sapere se sarà
mai convalidata, ma c’è da sperare di no, se qualcosa di razionale resta in questa notte
di pazzia.
Mentre si gioca, all’altoparlante si leggono nomi su nomi di gente che si cerca,
gente che si dà appuntamento, gente che non sa se ritroverà vivi gli amici. Nella
curva del massacro solo ciò che resta della tragedia: sciarpe, documenti, bandiere,
vestiti stracciati. Intanto si gioca.
Nello stadio presidiato nessuno può muoversi dal proprio posto, in qualsiasi
settore. Fuori camion e cellulari continuano a scaricare agenti. Mentre Boniek cade in
area e Platini realizza il rigore, la radio annuncia che tra i morti ci sarebbero anche
undici bambini, tutta la squadra giovanile dell’Anderlecht. Avevano appena finito di
giocare, una sorta di avanspettacolo felice che avrebbe permesso poi di godersi la
partita stando sotto le tribune. Sarebbero rimasti schiacciati dai muretti in cemento
che facevano da base alle reti di recinzione e travolti al momento della grande fuga.
Quando la partita finisce si scatenano scene di entusiasmo. Fuori centinaia di feriti
vengono distribuiti in una decina di ospedali, tra Bruxelles e la provincia. Dentro il
dubbio è solo se la Coppa sarà valida o no.

TU LO SAI PERCHÉ GOVEREREMO FINO AL DUEMILA?


(pag. 1)
di Giampaolo Pansa

“La Repubblica”, 25 giugno 1985

Questo è uno dei pochi articoli, anzi pochissimi, che in questa raccolta possono
vantarsi di avere una morale. La stessa che indicava Paolo di Tarso invitando a
stare attenti a non cadere, quando ci si sente ben piazzati sulle gambe. Esempio
pratico: nel 1985 la Democrazia Cristiana di Ciriaco De Mita piazza al primo
colpo il proprio candidato alla Presidenza della Repubblica, Francesco Cossiga.
Un trionfo: chi l’aveva detto che la Dc era moribonda? Alla fine del settennato
cossighiano, invece, alla Dc mancheranno pochi mesi prima di scomparire, e lo
stesso Cossiga avrà contribuito non poco al suo abbattimento. Nonostante
Franco Evangelisti, all’epoca braccio destro di Giulio Andreotti, si faccia facile
indovino e profetizzi al suo partito una vita ben più lunga. C’è chi dice che una
bocca chiusa non prende moscerini. A ben vedere, questo articolo di morali ne
ha due.

ROMA – Sono le cinque della sera ed il tam-tam di Montecitorio trasmette un nome:


Ciriaco Cossiga. Sì, è Ciriaco Cossiga l’ottavo presidente della Repubbblica. Che
tam-tan irriguardoso, senza rispetto umano e anche un po’ volgare! Stiamo forse
eleggendo un Capo dello Stato che deciderà al Quirinale quello che è già stato deciso
a Piazza del Gesù? Avremo un Presidente dimezzato, succubo del suo partito, anzi
del capo del suo partito?
Per carità, niente di tutto questo. Il tam-tam trasmette il messaggio politico di una
giornata a suo modo storica. Indica che i vincitori del 24 Giugno sono due. Spiega
che il Metodo Demitiano ha tracciato il solco e Cossiga, per virtù sua, l’ha poi
percorso fino alla fine …
Caro De Mita, senti cosa dice il tam-tam? Il capo diccì sbarra gli occhi raggianti:
“E che dice?”. Parla di Ciriaco Cossiga. “Ciriaco Cossiga?”. Lo provoco: che
cattiveria! Ma Ciriaco il Vincitore alza le spalle tranquillo: “No, in fondo non è
sbagliato. Cossiga è Francesco, ma il metodo è mio”. Cronista: eppure Spadolini
giura d’essere lui l’inventore del metodo che ha sciolto in un amen il nodo del
Quirinale … De Mita non fa una piega. Sorride. Anzi, se la ride: “Lo so, Spadolini
sostiene di averlo già detto un mese e mezzo fa. Ma io lo dicevo già in campagna
elettorale che la strada giusta era questa”.
“Se oggi De Mita vince al primo colpo, gli crescono di nuovo i capelli”, prevede
l’Arisio di Torino, repubblicano, quello della marcia dei quarantamila. In attesa di
vincere, la pelata demitiana risplende nei bailamme del Transatlantico. Ciriaco lo si
aspettava tutti un po’ frementi, come sul terreno di una battaglia già decisa si attende
l’arrivo del Generalissimo, del Conquistatore, dello Stratega che ha sbaragliato il
campo avversario ed anche quello proprio. Ma De Mita fa la sua parte con stile, senza
spocchia, persino con humour. Tanto che vien da suggerire ad altri leader nostrani:
meditate, gente, ed imparate, perché s’avanza una strana Dc.
Chiedo a De Mita: che ne dici? E lui: “che ne dici tu?”. È il tuo trionfo personale.
“Macché, è il trionfo della ragione”. Poi, alla turba di cronisti: “Ho sentito una battuta
che mi piace: la Dc è in crisi perché è unita …”. E ancora: “È importante eleggere
Cossiga, ma è ancora più importante eleggerlo con questo metodo. Portarlo al
Quirinale nella confusione che senso avrebbe avuto?”.
Dico: adesso qualcuno giura che diventerai arrogante. De Mita sorride, dolce-
tagliente: “Non è vero, Non vedi come ti tratto? In altri momenti … beh, lasciamo
perdere”. Poi racconta: “stamattina mi sono svegliato alle sei e un quarto, prestissimo.
È come se avessi dormito due anni, sì, dal 1983”. Già, che pessima annata, per
Ciriaco, l’’83! Te la saresti immaginata, allora, una giornata come questa? “Mah,
anche allora interiormente ero sereno …”.
È davvero un vincitore sereno, anzi serafico. Proviamo a stanarlo con altre
domande? Proviamo: De Mita, quale partito esce peggio da questo 24 giugno? “I
radicali: hanno messo in mostra che sono degli ascari”. Ascari? E di chi? “Di
qualcosa. Di qualcuno. Di se stessi. Non lo so. Dico soltanto: ascari”. E il partito di
governo oggi meno felice? “Alla fine mi sono sembrati tutti contenti”.
Cronista: guarda che ti stiamo chiedendo se i socialisti sono scontenti … “No che
non lo sono. Perché dovrebbero esserlo?”, domanda finto ingenuo, e anche un po’
beffardo. Fulvio Damiani (Tg1): Mancini ha fatto sapere che voterà scheda bianca.
Cronista: quante schede bianche ci saranno? De Mita: “Ma non lo so! Sono
assolutamente incapace di comprendere questo tipo di vicende”. Chiedo: la prossima
tappa, la prossima vittoria? Forse è la presidenza del Consiglio da riprendere a Craxi?
Il Vincitore si divincola: “No, adesso basta!”.
E fugge a godersi lo spettacolo dell’Aula. Un’Aula che, tra poco, dirà coi voti che
ha davvero vinto Ciriaco Cossiga. Il vero Cossiga siede accanto alla Iotti, cereo, la
statua di se stesso, le mani abbandonate sul grembo, in un gesto quasi sacrificale. Il
vero Ciriaco, invece, senza saperlo è al centro di un tornado del tutto nuovo perché la
Dc, partito uso a pugnalare i suoi leader, oggi mostra una voglia inedita, prepotente,
gioiosa: quella del culto della personalità.
Vi soggiace persino quella lenza storica di Franco Evangelisti. Sentiamolo in presa
diretta: “Un successo colossale, quello di De Mita. Sembrava cotto, bollito, finito. E
invece vedete quel che ha fatto! Ha messo in luce doti di grande pazienza, cosa di cui
non lo ritenevo capace. La mia speranza, adesso, è che De Mita tiri fuori la parte
migliore di se stesso …”.
Perché, che parte di se stesso aveva messo in luce, prima? Evangelisti sospira: “Eh,
prima non si sentiva il numero uno del partito. Dava l’impressione di essere uomo di
conventicola, di corrente. Ma oggi Ciriaco svetta, sì, svetta! E la sua predilezione per
Andreotti è la prova che sta davvero tirando fuori il meglio di se stesso. E ci puoi
credere proprio perché te lo dico io. Noi andreottiani non siamo mai stati dei corifei
di De Mita, soltanto alleati fedeli ma indipendenti”.
Bello, no? Ma sentite un altro alleato fedele ma indipendente, Fanfani. Anche lui
batte e ribatte sul maxi-chiodo di questi giorni, il Metodo Demitiano. “In fatto di
metodo – dice – non si finisce mai d’imparare. Ricordo una lezione del mio insegnate
di filosofia al liceo su Cartesio. Anche qui è stato impostato un problema, lo si è
considerato razionalmente da tutti i lati e lo si è risolto”.
Cartesio? Ohibò, professor Fanfani, ci parli di questo Cartesio e di questo De Mita
… “Vedete, Cartesio rispetto a De Mita è di una natura, anzi, di una cultura
differente. Ma in De Mita, nella sua mentalità, nel suo modo di esporre, di ragionare,
ho sempre trovato qualcosa degli illuministi sia francesi, sia italiani, soprattutto degli
illuministi campani. Quando Agnelli gli ha dato dell’intellettuale della Magna Grecia,
non voleva offenderlo. Io infatti penso a Vico, a Galiani, a Genovesi. Credete a me,
che li conosco e li ho studiati”.
Caspita che nomi, senatore! Fanfani sorride felice. “E aggiungo che spesso,
ascoltando De Mita, mi sono chiesto, e gliel’ho domandato: tu saresti stato un grande
professore!”. Un professore di metodo, naturalmente. E un docente che avrebbe
insegnato alla Dc come risorgere dal coma. Fanfani adesso sogghigna puntuto: “Ma
no che la Dc non era in coma! La verità è un’altra: lo zufolo con cui si voleva farla
ballare non era adatto alle gambe democristiane”.
Sarà, ma la gioia che si legge su tante facce diccì racconta di una giornata davvero
storica anche perché segna la fine di un incubo: quello della morte della Balena, o
anche del suo declino. Ecco le facce oneste di due capi onesti: Rognoni e Bodrato.
Come sta oggi la Dc? Rognoni: “Meglio di così …”. Bodrato: “È serena, è serena
…”. Rognoni: “Veramente straordinario questo esito”. Bodrato: “La Dc è sorpresa.
Contenta, ma sorpresa”. Ecco un altro piemontese integro, il barbuto senatore Triglia,
uno che sa quale momento vivono i peones bianchi: “Siamo un po’ attoniti. La nostra
è una storia di divisioni e di lotte interne. Questa razionalità, che ci ha dato prima
l’unità e poi la vittoria, ci lascia sbaruà, un po’ sconvolti”.
Ancora Evangelisti: “Eh, ci avevate dati per morti troppo in fretta. Guarda me: ho
passato la bufera Caltagirone, dovevo essere distrutto ed invece eccomi qua, al
lavoro. Oggi siamo in netta ripresa. La Dc è un partito che vuole un fatturato
vincente. Ecco perché avevamo bisogno di questa consacrazione: il Capo dello Stato
torna a noi!”. E se ci fossero le elezioni politiche domani? “Magari!”, sbotta lui.
Ma sì, la Balena Bianca ha vinto un terno al lotto. I suoi numeri magici sono: 12
maggio (elezioni amministrative), 9 giugno (referendum), 24 giugno (capo dello
Stato). E oggi, incassato il terno, chiede di rivedere la nostra zoologia politica. Emilio
Colombo: “la Balena nuota bene. Le rotte sono ben scelte”. Pumilia: “Altro che
Balena! È un pesce molto più veloce!” Uno squalo, forse? “Ma sì! Lo squalo mi sta
bene”. D’Onofrio: “La Balena avverte fremiti di acque fresche. Speriamo riprenda la
navigazione”. Scotti (sardonico): “Come sta la Balena? È in condizioni di poter star
bene. Dimmi tu, invece, come stanno le tue analisi sulla Balena …”.
E Mastella? Chiede, ma senza arroganza: “Basta con questa Balena! Anzi,
cambiamo il nome. Chiamiamola l’Orca. Sì, perché l’orca è ancora più forte della
balena, tanto che se la mangia”. Carlo Luna (dell’Avvenire), “Attento, Clemente, che
l’orca si presta a giuochi di parole terrificanti: orca Dc!”. Ma Mastella è troppo felice,
e inventa l’immagine del 24 giugno: “il vero partito diverso è la Dc, non il Pci. La
diversità dell’unità democristiana: chi se la immaginava?”.
Non l’immaginava neppure De Mita. Che infatti, nel suo deambulare per il
Transatlantico, getta acqua sul fuoco: “Oggi è andata bene, ma non vedo le ragioni
per tutta questa euforia”. Davvero saggio, il Vincitore. Tanto da essere in curiosa
sintonia con quei due o tre oppositori che gli sono rimasti. Gerardo Bianco dice: “La
centralità della Dc non s’è stabilizzata. Gli equilibri sono incerti”. E Donat-Cattin: De
Mita ha condotto a buon fine una manovra furba. Ha usato i comunisti. Questo uso
avrà certamente un prezzo per noi. Quale?”.
Ma il più saggio di tutti è, come sempre, l’immortale Franco Evangelisti. Mentre
esplode il tripudio dei democristiani, mi batte una mano sulla spalla: “Vuoi sapere la
verità? La Dc governerà fino al Duemila, perché so’ stronzi gli altri”. Riflette un
istante, poi conclude: “No, non scrivere ‘stronzi’. Scrivi ‘inetti’. Così nessuno si
turerà il naso”.

GUERRA TRA I CLAN DI CAMORRA

di Giancarlo Siani
“Il Mattino”, 10 luglio 1985

Giancarlo Siani, giovane cronista non ancora assunto dal suo giornale, stava
indagando sulla camorra a Napoli. Qui descrive la vita e le opere di un boss di
Torre Annunziata. È il suo ultimo articolo: pochi giorni dopo la sua
pubblicazione Siani viene ucciso da un sicario incaricato di farlo tacere.

Potrebbe cambiare la geografia della camorra dopo l’arresto del superlatitante


Valentino Gionta. Già da tempo negli ambienti della mala organizzata e nello stesso
clan dei Valentini di Torre Annunziata si temeva che il boss venisse scaricato, ucciso
o arrestato. Il boss della Nuova Famiglia, che era riuscito a creare un vero e proprio
impero della camorra nell’area vesuviana, è stato trasferito al carcere di Poggioreale
subito dopo la cattura a Marano, l’altro pomeriggio. Verrà interrogato da più
magistrati in relazione ai diversi ordini e mandati di cattura che ha accumulato in
questi anni. I maggiori interrogativi dovranno essere chiariti, però, dal giudice
Guglielmo Palmeri, che si sta occupando dei retroscena della strage di
Sant’Alessandro.
Dopo il 26 agosto dell’anno scorso il boss di Torre Annunziata era diventato un
personaggio scomodo. La sua cattura potrebbe essere il prezzo pagato dagli stessi
Nuvoletta per mettere fine alla guerra con l’altro clan della “Nuova Famiglia”, i
Bardellino. I carabiniari erano da tempo sulle tracce del superlatitante che proprio
nella zona di Marano, area di influenza dei Nuvoletta, aveva creduto di trovare
rifugio.
Il boss di Torre Annunziata, negli ultimi anni, aveva voluto strafare.
La sua ascesa tra il 1981 ed il 1982: gli anni della lotta con la “Nuova Camorra
Organizzata” di Raffaele Cutolo. L’11 settembre 1981, a Torre Annunziata, vengono
eliminati gli ultimi due capizona di Cutolo nell’area vesuviana, Salvatore Montella e
Carlo Umberto Cirillo. Da boss indiscusso del contrabbando di sigarette (un affare di
miliardi e con la possibilità di avere a disposizione un elevato numero di gregari)
Gionta riesce a conquistare il controllo del mercato ittico. Con una cooperativa, la
D.Gi.Pesca (dove figura la moglie, Gema Donnarumma),mette le mani su interessi di
miliardi. È la prima pietra di una vera e propria holding che riuscirà ad ingrandire
negli anni successivi. Come “ambulante ittico” – con questa qualifica è iscritto alla
Camera di Commercio dal 1968 – compie diversi viaggi in Sicilia, dove stabilisce
contatti con la mafia. Per chi può disporre di alcune navi per il contrabbando di
sigarette (una viene sequestrata a giugno al largo della Grecia, un’altra nelle acque di
Capri) non è difficile controllare anche il mercato della droga. È proprio il traffico
dell’eroina uno degli elementi di conflitto con gli altri clan, in particolare con gli
uomini di Bardellino che a Torre Annunziata avevano conquistato una fetta di
mercato. I due ultimatum lanciati da Gionta (il secondo sarebbe scaduto il 26 agosto)
sono tra i motivi che hanno scatenato la strage.
Ma i clan dei Valentino tenta di allargarsi anche in altre zone. Il 20 maggio a
Torre Annunziata viene ucciso Leopoldo del Gaudio, boss di Ponte Persica, che
controllava il mercato dei fori a Pompei. A luglio Gionta acquista camion ed
attrezzature per rimettere in piedi anche il mercato della carne, un settore controllato
dai clan degli Alfieri di Boscoreale, a sua volta legato ai Bardellino. Troppi elementi
di contrasto con i rivali, che decidono di coalizzarsi per stroncare definitivamente il
boss di Torre Annunziata. Anche la sua città diventa una zona che scotta: Gionta
diviene un personaggio scomodo per i suoi stessi alleati. Un’ipotesi sulla quale stanno
indagando gli inquirenti, e che potrebbe segnare una svolta anche nelle alleanze della
Nuova Famiglia. Un accordo tra Bardellino e Nuvoletta avrebbe avuto come prezzo
proprio l’eliminazione di Gionta, ed una nuova distribuzione dei grossi interessi
economici dell’area vesuviana. Con la cattura di Valentino Gionta salgono a 28 i
presunti camorristi del clan arrestati da carabinieri e polizia dopo la strage. Ancora
latitanti il fratello del boss, Ernesto, ed il suocero, Pasquale Donnarumma.

IO, FELICIA BUSCETTA, SFIDO LA MAFIA


(pag. 1)
di Vincenzo Vasile

“L’Unità”, 9 febbraio 1986

La figlia del boss dei boss si rivolge alla magistratura per avere giustizia di chi le
ha ucciso il marito. Non si affida alla mafia: è una delle più profonde vittorie
dello Stato contro la Piovra.
PALERMO – Si chiama Buscetta. E sfida la mafia. Felicia, la figlia del “grande
mafioso pentito”, a sorpresa, all’ultimo momento, si costituirà parte civile nel
maxiprocesso che inizia proprio domani a Palermo contro gli assassini del clan
familiare Buscetta, letteralmente sterminato nel 1982. Le hanno ammazzato a catena
il marito, Giuseppe Genova, i fratelli Benedetto e Antonino, lo zio Vincenzo, i cugini
Benny Buscetta, Antonio e Orazio D’Amico. Per far “terra bruciata” – sostengono i
giudici istruttori – in tutta Palermo attorno alle possibili basi logistiche di “don”
Masino, nel caso avesse voluto tornare “in sede”, come Radio Mafia in quell’epoca
vociferava.
Feicia Buscetta, 36 anni, da quei giorni tragici vive in Ameirca. Dagli Usa, dove
vive accanto al padre, ha voluto dire la sua sul maxiprocesso firmando una “procura
speciale” in favore di due penalisti siciliani che fanno parte del collegio dei legali di
parte civile. Rappresenteranno i suoi interessi per l’assassinio del marito e dei due
fratelli. Il padre, dal canto suo, dopo aver stipulato con il governo e le autorità
giudiziarie americane un vero e proprio contratto che gli consentirà – una volta
definite le sue pendenze giudiziarie in Italia – di tornare in America e di cambiare
persino identità, si prepara anche lui a venire a Palermo. Ma a differenza del processo
sulla “Pizza Connecion” di New York, che lo ha visto comparire in qualità di
testimone sulla base dei trattamenti speciali che la legge americana assicura ai
turncoats, i “votagabbana”, a Palermo Buscetta non solo è il superteste, ma anche
uno dei 476 imputati.
Quando, agli inizi degli anni Sessanta, Buscetta andò via per la prima volta
latintate dalla città, lasciò dietro di sé la prima moglie, Melchiorra Cavallaro, e la
piccola Felicia. In quei giorni Buscetta gira l’Europa, poi emigra sulla rotta dei
traffici illegali negli Stati Uniti, poi ancora va in Messico. Intanto cambia almeno due
mogli e diversi nomi: Manuel Lopez Cadena, Roberto Cavallo, Adalberto Barbieri,
Thomas Robert Felici. Ma il ricordo in qualche modo resta, ed uno di questi
pseudonimi sarà, in tempi di magra, anche Roberto Cavallaro, quello della sua prima
compagna di vita.
Sia come sia, ogni volta che Buscetta torna al nido palermitano negli anni
Settanta, prima come latitante e poi all’Ucciardone, e infine di nuovo ospite dei
finanzieri Salvo ma ormai negli anni Ottanta, riprenderà gli antichi legami. Dalle
carte del maxiprocesso si ricava come parenti ed affini siciliani abbiano intrattenuto
per anni con il grande trafficante rapporti di reciproca assistenza.
L’unica foto di Felicia mai comparsa sui giornali, la ritrae mano nella mano con
suo marito, il giorno delle nozze. Abbigliamento modesto, una maglia a strisce,
capelli neri e fluenti sulle spalle, una borsa. Lui, vestito di scuro, guarda dritto
nell’obiettivo. Strano posto per sposarsi, l’Ucciardone. Ma papà nell’ottobre del 1978
lì si trovava (aveva appena ammazzato il giudice Cesare Terranova e l’agente di
scorta Lenin Mancuso) e padre Silvio Mazzei, cappellano del carcere, lì celebrò le
nozze.
Buscetta era in doppio petto blu. Dopo lo scambio degli anelli, torta e champagne
per tutti. Tutti? Sì, i presenti in cappella e quelli rimasti nelle celle. Totale: ottocento
persone. Altri tempi, quando i servizi segreti provvidenzialmente fecero sapere di in
progetto di spettacolare evasione, con tanto di elicottero e corde, che sarebbe servito a
sottrarre alla sua galera dorata Don Masino. Il quale di conseguenza, altrettanto
provvidenzialmente, venne trasferito nel carcere di massima sicurezza di Cuneo. Qui
altre nozze, questa volta dello stesso Buscetta, con Cristina Guimares, una bellissima
bionda conosciuta e già sposata, però sotto falso nome, in Brasile. Poi ecco
l’evasione, tanto comoda che i bene informati dipinsero il boss ormai al soldo dei
servizi d’informazione, e spiegarono l’impresa con il compito affidato a Buscetta di
catturare, latitante per il mondo, alcuni estremisti latitanti anche loro.
Altri tempi: Buscetta torna a girare per i continenti. Ma per prima cosa va a Roma
a trovare l’ambasciatore delle cosche, Pippo Calò, che lo vorrebbe far tornare a
Palermo. Lui ci pensa su, ma poi conclude che è meglio il Brasile, la cocaina, la
grande fazenda di Pinedo a 200 chilometri da Rio. Grandi affari, altri figli, altre
mogli. Ma con un occhio sempre a Palermo, dove Felicia e il marito mettono su dalle
parti di via dell’Artigliere una pizzeria chiamata “Il Girarrosto”. E Vincenzo, il
fratello più anziano di Masino, continua in grande l’antico mestiere di vetraio assieme
a suo figlio Benedetto, un ragazzo tranquillo che a Palermo è noto solamente per
passar la vita nell’ambiente dei night.
La guerra di mafia, come la riscrivono i giudici del maxiprocesso, esplode quel
qualche tradimento familiare nella grande Spa dell’eroina: Greco contro Greco,
Marchese contro Marchese, un intrico di cognomi, parentele, miliardi e droga,
assassinii falliti e consumati. Buscetta c’entrerebbe solo perché, dall’estero, è
l’affiliato più temibile del gruppo che alla fine risulterà perdente. Cercano, ad un
certo punto, di convincerlo a tornare il città. Lui resiste, ma la voce si sparge e così il
17 settembre 1982, come è scritto in un rapporto di polizia, “D’Amico Diane, moglie
di Buscetta Benedetto, classe 1948, accompagnata dalla cognata Buscetta Felicia, si
presentava agli uffici della squadra mobile per denunciare la scomparsa del marito il
quale, allontanatosi di casa il giorno 11 dello stesso mese verso le ore 9,30 non vi
aveva fatto più ritorno, né aveva dato notizie di sé”.
“Dichiarava la donna, esprimendosi in inglese e con l’ausilio della cognata, di
essere la convivente del Buscetta, che Benedetto si era allontanato a bordo della
automobile Volvo di colore amaranto targata ‘Sa’, e poiché non era la prima volta che
si allontanava, non si era sulle prime preoccupata”. Aggiungeva di avere appreso
“dalla suocera che anche Antonio Buscetta – fratello di Benedetto e di Felicia – era
partito casualmente da Palermo quello stesso giorno”. Il 20 settembre veniva sentita
De Almagro Jolanda “la quale dichiarava che Antonio Buscetta aveva lasciato la loro
abitazione di Villagrazia di Carini” a bordo della sua “Triumph”, e che lei poi aveva
trovato la stessa auto, vuota, parcheggiata sotto casa. “Aggiungeva che il marito
voleva far ritorno negli Usa”.
La polizia rivede Felicia, ancora più sconvolta, il 26 dicembre successivo, giorno
in cui a Palermo si contano cinque morti ammazzati. Tre di essi sono caduti proprio
sotto gli occhi della donna, nella sua pizzeria di via dell’Artigliere, che nel frattempo
non si chiama più “Il Girarrosto” ma “The New York Place”. Per terra, insanguinati,
sono rimasti Genova Giuseppe, D’Amico Orazio e D’Amico Antonio, e “Buscetta
Felicia, avendo assistito all’omicidio, dichiarava: 1) di essere la figlia del noto
Masino Buscetta; 2) che quel giorno verso le18,30, quando nel locale non c’erano più
avventori, due falsi clienti avevano chiesto due pizze; 3) di avere ricevuto una
banconota da Lire 100.000 in pagamento delle pizze, per le quali dava il resto,
notando contemporaneamente strani movimenti dei due avventori; 4) che infine c’era
stato un inferno di fuoco che aveva risparmiato solo lei ed un ragazzo di 12 anni,
lavapiatti, Cognato Giuseppe; 5) quale causale del triplice delitto Buscetta Felicia
indicava la parentela che avevano le vittime con il suo genitore”.
C’è appena il tempo per celebrare i funerali: tre giorni dopo, in viale delle Alpi,
nella sede della loro vetreria specializzata in cristalli antiproiettile, Buscetta Vincenzo
ed il figlio Benny stanno rifacendo i conti. “Ci fa vedere uno specchio da bagno?”,
chiedono i due unici clienti della mattinata. Cinque, dieci minuti per scegliere
l’articolo. Improvvisamente un altro inferno di spari, ed altri due morti.

LE MIE TV? SONO LA DEMOCRAZIA


di Enzo Biagi
“Spot”, 1986

Questa è un’intervista televisiva a Silvio Berlusconi, autore Enzo Biagi. La


trasmissione si chiamava “Spot”. Era il 1986: tre anni prima del crollo del Muro
di Berlino e della approvazione della Legge Mammì, sei prima di Tangentopoli,
sette prima della “discesa in campo” del Cavaliere. Che non si concesse, quella
volta, alle telecamere Rai: la troupe di Biagi sarebbe andata negli studi della
Fininvest, altrimenti niente intervista. Nel 2001, dopo la sua seconda vittoria
elettorale, Berlusconi avrebbe chiesto, ottenendolo, l’allontanamento di Biagi
dalla Rai, e la chiusura de “Il Fatto”: una trasmissione che il giornalista firmava
da anni, e che andava in onda ogni sera dopo il Tg1.

Enzo Biagi: Silvio Berlusconi, milanese, 49 anni, classico esempio di uomo che si è
fatto da solo. Comincia con l’edilizia negli anni del boom ma diventa un nome con
le tv private e l’editoria. Dice di dormire non più di quattro ore per notte, qualche
volta parla di sé anche in terza persona. Ha detto per esempio: il 92 percento degli
italiani adorano Berlusconi. È inutile accusarlo di aver creato un monopolio:
risponde che le sue sono le dimensioni giuste per una sana economia. Alcuni
esperti guardano con diffidenza al moltiplicarsi delle sue iniziative, ma lui
annuncia nuovi progetti. I critici hanno qualche obiezione sulla consistenza dei
suoi programmi, ma lui risponde che sta facendo cultura, e che la esporterà per far
felici francesi, spagnoli e tedeschi. Per il momento però ha importato, soprattutto
dalla tv americana. Berlusconi pensa a un Europa di Berlusconi, è la prima volta
che va in tv, e la condizione è stata andare nei suoi studi: qualcuno ha scritto che
siamo andati a Canossa. Va rettificato: siamo stati solo a Milano 2.

***

Come gli spettatori vedono, questo non è il solito studio di Spot ma è uno studio di
Canale 5, di cui sono ospite per questa intervista e ringrazio. Dottor Berlusconi,
sbaglio o è un momento difficile per lei: il Milan ha una situazione incerta, non c'è
decreto che si occupi delle televisioni private, in Francia questo Macaroni che è
arrivato per dare una televisione nuova non è gradito da tutti, allora vedo il giusto
o sbaglio?
C’è un poco di vero ma la situazione non è così preoccupante come dice lei.
Il Milan è un affare di cuore e lo lasciamo nella sfera dei sentimenti.

Un affare che costa miliardi.


Anche le belle donne costano molto. Ma anche il cuore non può spingere nessuno
ad entrare in una palude, anche se c’è bisogno di fare un po’ di bucato. Il gruppo si
muove in diverse direzioni. Per quanto riguarda i pretori mi pare che hanno
confermato quello che la giurisprudenza ha già dato per acquisito. C’è stato solo un
pretore che si è pronunciato contro la giurisprudenza, contro il diritto stesso che si è
consolidato sull’argomento, contro il governo che ha dichiarato di ritenere vigente il
decreto, contro il Parlamento che sta lavorando da un anno ad una nuova legge e
contro il buon senso e la gente. Non voglio dare giudizi, la gente sa dare i suoi
giudizi. In Francia stiamo facendo una cosa un po’ folle, fare una tv in due mesi. I
francesi certamente non possono soffrire che qualcuno vada a casa loro pretendendo
di fare meglio di loro.
Sa che durante una trasmissione il conduttore aveva sul tavolo un modellino di
tour Eiffel, stava interrogando un giapponese, e gli ha detto: “piuttosto che darla a
un italiano la do a lei”.
Ma non c’è disprezzo per gli italiani, è che loro si ritengono superiori, e anche
questo è un fatto di simpatia. Cambiano anche la storia per questo. I francesi sono
convinti che Giulio Cesare prendesse delle batoste sacrosante, non a caso Asterix
batte sempre il cattivone, che è Giulio.
In questo caso Asterix è lei. .
Io sono stato dipinto in mille modi, come il cattivone.
L’Evenement ha pubblicato un’inchiesta. Titolo: “Il rapporto che Mitterrand ci
nasconde”.
Non è proprio così, c'è stato un rapporto dell’ambasciatore di Francia che ha
detto delle cose giuste sul nostro gruppo, ma hanno ribattuto che non avevamo un
progetto culturale come la Francia si aspetta. Dicevano che facevamo solo la
televisione americana. Non è vero: il 54% del nostro budget lo spendiamo in
produzioni originali, abbiamo fatto vedere le cose alla stampa, che all’inizio ci ha
trattato malissimo e poi ci ha regalato una campagna straordinaria, nessuna
iniziativa ha avuto una campagna così continuata insistente e continuata, siamo stati
tutti i giorni per due mesi sui giornali. Quando ho presentato agli industriali e poi ai
giornalisti il palinsesto della Cinq siamo riusciti addirittura ad occupare la prima
pagina su un numero incredibile dei giornali, siamo passati in diretta su tutti i
telegiornali della tv di stato, abbiamo occupato tutte le radio, anche i giornali
avversi come Liberation, ci ha dedicato 3 pagine.
Lei è un simpatizzante di Craxi, dei socialisti o è un lib-lab? È meno
compromettente essere lib-lab?
Liberal-laburista.
O liberal-labile, anche.
Liberal-laburista: io ne conosco uno solo che è Enzo Bettiza, che per i giorni di
pioggia porta uno splendido impermeabile inglese che fa molto lib-lab. Io faccio
l’imprenditore, credo nell’Occidente, credo nel libero mercato, e simpatizzo nel
senso etimologico del termine con chi ha le mie stesse idee.
Ma lei vede più spesso Craxi o De Mita?
Sono amico di Craxi da lunga data anche in tempi non sospetti, e andando in giro
per l’Europa vedo e rilevo che è uno dei politici che ha maggiore statura
internazionale, il che fa piacere e sono anche amico di altri politici con cui come
editore ho spesso dei contatti.
Con De Mita ha contatti?
Sì, ho avuto anche dei contatti con De Mita.
Cordiali?
Diciamo che sono stati contatti che non sono sfociati in un amore
particolarissimo ma che non stati neppure negativi.
Lei crede che senza un governo Craxi ci sarebbero stati tanti decreti su Berlusconi,
almeno un paio?
Io credo che assolutamente ci sarebbero stati dei decreti per rimediare ad una
situazione che non era una situazione che la gente condivideva. Anzi il fatto di essere
amico di Craxi era una remora. Essendo nota la nostra amicizia, la mia per lui e la
sua per me, Craxi si è espresso con un atto che ritengo coraggioso, e con lui tutto il
governo, perché è stato un decreto votato all’unanimità da tutto il governo, e poi
tutte le indagini hanno dimostrato che era legittimo. Il 92 percento degli italiani ha
giudicato in quell'occasione giusto l'operato del governo.
Come fa ad avere tante attività che vanno tutte bene?
Che vuole che le dica, che siamo bravi? Lavoro in un gruppo particolarissimo,
con collaboratori formidabili, legati da una grande amicizia.
Quante colazioni di lavoro avrà fatte?
È un conto delle mie segretarie, più di 150 credo: terribili per la linea ma
producenti per il lavoro.
Mi scusi se mi cito, una volta ho scritto che se lei avesse un puntino di tette, farebbe
anche l’annunciatrice. Ora mi dice che ha fatto 150 colazioni di lavoro. Non le
viene mai mal di testa?
Mi viene eccome il mal di testa, ed anche l’influenza. Sente, ho una voce molto
arrochita, e bassa. Ma si lavora benissimo anche da malati, anzi viva l’influenza, si
sta a letto col telefono e si ha tempo per pensare.
Anche le malattie sono un’occasione per lavorare?
Se uno ha delle cose da fare non ha tempo di considerarsi malato.
Qual è il segreto del suo successo?
Segreti non ce ne sono; lavorare molto, ma anche il successo bisogna vedere,
come sa si danno gli esami tutti i giorni. Guardando indietro alle cose che tutti
insieme col mio gruppo di collaboratori siamo riusciti a fare, c’è il rischio di sentirsi
un po’ stanchi. Sono stati sei anni la prima realizzazione edilizia per quattromila
abitanti, dieci anni la seconda, dieci anni Milano 3 per quindicimila abitanti.
Ma quante cose fa: edilizia, televisione, editoria … vorrebbe anche fare i biscotti,
se non sbaglio.
Non ho una vocazione per i biscotti. Abbiamo quattro divisioni del gruppo,
quando un mercato va meno bene gli altri tengono il gruppo. Questo anno abbiamo
fatto un bel traguardo, chiudere con utili cospicui senza più debiti; i risultati ci
incoraggiano ad andare avanti.
Qual è il modello umano cui si ispira. Lei ha fatto un saggio su Tommaso
d’Aquino.
No, Tommaso Moro.
Sempre santi sono.
Ho fatto un saggio su Tommaso Moro perché al’'università ho lavorato sul suo
libro dell’Utopia. E poi facendo l'edilizia ho sempre pensato di lavorare ad un mio
modello di città. Senza auto, con tanto verde, senza colate di cemento, senza
falansteri: e ci sono riuscito.
Lei riesce a tradurre il martirio di Tommaso Moro in azioni…
No, non è il martirio. È che lui pensava che tutti dovessero fare il meglio per
migliorare il mondo.
Lei è un cattolico. Praticante?
Sì.

Le leggo questa frase: “la tv di Berlusconi ha contribuito a ridurre l’inflazione, ha


incentivato l’economia, promosso la democrazia”. Ne riconosce l'autore?
Ma, non so … queste parole vengono attribuite a me, i concetti sono concetti che
ritengo corretti. E che perciò sostengo. Per quanto riguarda il livello di vita basta
accendere la televisione e c’è un offerta di spettacoli enorme, anche la Rai è
migliorata molto, la concorrenza ha fatto bene a tutti. Per quanto riguarda
l’economia è innegabile che la tv ha sospinto le vendite di molte aziende. Per quanto
riguarda il tasso di democrazia del paese la presenza di molte voci è certamente un
aumento della democrazia stessa, basta ricordare che nelle ultime amministrative
oltre mille candidati sono passati sulle nostre reti. Credo che questo sia veramente
un portato positivo della tv commerciale.
Per concludere: io le ho fatto delle domande, ma c’è qualcosa che lei vuole dire e
che non le ho chiesto?
No. Io sono lieto di averla ospite nei miei studi. C’è una pianta dell’Europa dietro
di me, come vede, che è la nostra prossima avventura. Si fanno esami tutti i giorni.
Speriamo di andare a fare gli esami in tv, in Spagna, Francia, e una società di
programmi europei che possano reggere il confronto americano.
A quando l’America?
No, abbiamo ancora moltissimo da fare per la televisione in Europa che dice di
volersi dare una unità ma che è ancora molta lontana da questo. Lo sforzo che
stiamo facendo in Francia è importantissimo per l’Italia, è l'avvenimento più
rilevante sul piano delle esportazioni delle nostre idee, dei nostri talenti, della nostra
cultura, del nostro know how: e un reale sostegno alla nostra industria che in Europa
non trovano le televisioni commerciali a supportarle. Ma è un fatto importantissimo
nella via che porterà verso l’unione dell’Europa. Credo che la tv, come in Italia ha
fatto una unificazione del linguaggio, così potrà essere importante per una Europa
unita, per i paesi che si possono conoscere meglio; e ci piace essere tra i protagonisti
di questa avventura. Speriamo di farcela.
IL GRANDE GIALLO DEI LEGAMI MAFIA-MASSONERIA
(pag. 1)
di Adriano Baglivo
“Il Corriere della Sera”, 8 marzo 1986

È una delle inchieste più delicate del giudice Falcone, un campo dove si era
cimentato anche qualche altro magistrato d’assalto, in Sicilia, senza ottenere
risultati. La questione scotta: a Palermo è in corso il “maxisprocesso” alla mafia,
e nella lista dei massoni finita nelle mani del giudice istruttore ci sono i nomi di
diversi magistrati. Falcone presto andrà a Roma, al Ministero. Un giorno,
tornando a Palermo, salterà in aria con la moglie e la scorta.

PALERMO – Esplode l’ennesimo scandalo a Palermo. Giudice Falcone, c’è un


rapporto stretto tra mafia e massoneria? “Certamente, non c’è alcun dubbio. Gli
episodi sono sotto gli occhi di tutti, dal caso Sindona a quelli di cui ci stiamo
occupando in questi giorni”.
Il magistrato proprio ieri mattina ha ricevuto un grosso plico dalla procura della
Repubblica che riguarda un’inchiesta su un filone del traffico di droga tra Palermo,
Marsiglia e New York. Nel voluminoso fascicolo c’è un elenco di dumila nomi di
massoni affiliati ad una loggia che va sotto il nome di “Massoneria universale di rito
scozzese antico ed accettato”.
Chi sono i giudici, i professionisti, i mafiosi che fanno partedi questa loggia? Chi
ha consentito la fuga di notizie, coperte da segreto istruttorio?
Il procuratore generale, Ugo Viola, è tempestato dalle telefonate romane, i
ministeri di Giustizia ed Interno chiedono spiegazioni, vogliono conoscere la valenza
dell’episodio. Che cosa succede a Palermo, in un momento estremamente delicato,
che vede lo Stato impegnato nel “processone” alla Mafia?
Scandiamo i ritmi di questa giornata convulsa. Al primo piano del Palazzo di
giustizia ogni accesso è vigilato. Nei corridoi decine di agenti con giubbotto
antiproiettile. Viola chiama a rapporto il sostituto procuratore Alberto Di Pisa, titolare
dell’inchiesta su mafia e massoneria, e gli chiede spiegazioni. Vuol sapere chi abbia
informato i giornali della delicata indagine. Poi convoca il procuratore capo, Payno,
subito seguito dal giudice istruttore Giovanni Falcone.
Una porta si apre e quattro volti sorridenti accolgono il cronista. La tempesta forse
è alle spalle. Il quadro dei rapporti tra procura e ufficio istruzione è stato ricomposto.
Parla il procuratore generale: “la notizia della presenza di magistrati è totalmente da
ridimensionare. Di questa loggia non fa parte alcun giudice attualmente in servizio”.
Dopo questa affermazione il discorso potrebbe considerarsi già chiuso, ma non è
così: siamo solo al prologo. Interviene infatti Payno: “non ci sono in atto magistrati
iscritti, tanto meno quelli che si occupano di mafia o sono giudici del maxi processo”.
Però nell’elenco figurano nomi di ex magistrati. Chi sono? C’è un momento di
pesante imbarazzo, risolto da Viola con una battuta: “O sono morti, o sono in
pensione”. Nessun nome, quindi. Al massimo si può sapere che le schede anagrafiche
dei tre giudici massoni portano queste date di nascita: 1889, 1891, 1908. Ce ne
potrebbero essere altri? Risponde Falcone: “Il collega Di Pisa mi assicura che non ci
sono magistrati. Io non ho ancora visto gli atti”.
Il pìdubbio prende forma: forse ce ne potrebbero essere altri. I registri della loggia
sono stati sequestrati e – ripete Viola – qualche massone potrebbe averavuto interesse
a rendere pubblico questo fatto. “No – ripete Falcone – se proprio qualcuno aveva
interesse, certo non era la massoneria”.
Si innesca tra i quattro un vivace dibattito. Viola ribadisce: “ci sono seninaia di
persone che conoscevano l’intervento della procura”.
Potrebbero esserci magistrati “in sonno”? “Non sappiamo nulla. L’unico fatto vero
– riconferma Payno, quasi alzandosi di scatto – è che non ci sono in atto magistrati
iscritti”.
Ora è il momento dell’analisi politica, seppure sfumata. Una considerazione
comune può essere così riassunta: tutto quanto è accaduto getta fango sulla
magistratura, per disorientare l’opinione pubblica. Unaltro elemento portante dice che
a Palermo le cosche e le logge massoniche hanno sempre coabitato negli stessi
palazzi. Viola sovrasta ogni voce: “la notizia della presenza dei trafficanti di droga
accanto a quella di alcuni giudici è stata data in modo insidioso, se ci fossero stretti
collegamenti nonsaremmo qui a discuterne, avremmo già preso gli opportuni
provvedimenti”.
Di Pisa non parla, Payno è sulla linea di Viola, Falcone assicura: “Il processo
istruttorio comincia adesso, bisognerà vederci chiaro”.
Rimbalzano i nomi di Salvatore e Totò Greco, di Lo Cascio, noto trafficante di
eroina. Altri nomi di mafiosi o di terroristi? Nel lungo elenco comparirebbero Mino e
Alberto Savio e i nomi di un giornalista di un’emittente privata, di un ginecologo, di
un operatore turistico e di un editore. Nella loggia massonica erano affluiti molti
personaggi della Palermo-bene, imprenditoriale, senza che per questo si possa
affermare una connivenza con i trafficanti di droga.
L’inchiesta è alle prime battute, e si presenta lunga e difficile. Perché i Greco
accanto ai magistrati? Sino a qualche anno fa l’interrogativo avrebbe trovato una
risposta: frequentavano i salotti buoni della borghesia palermitana senza che nessuno
indagasse su di loro. Ora questo passato riemerge e sulla scia di quanto è accaduto
con il caso Sindona, il rapprto mafia-massoneria torna di prepotenza in primo piano.
Le vie del traffico di eroina potrebbero passare anche attraverso laloggia di corso
Roma, certo, inmodo occulto. Sono canali che i magistrati considerano “privilegiati”
perché hanno quella caratteristica di impenetrabilità, di omertà e di segretezza sui cui
vive e prospera Cosa Nostra.

PROCESSO AD “AVANGUARDIA OPERAIA”


di Fabio Felicetti
“Il Corriere della Sera”, 17 marzo 1987
Nel 1975 un giovane di estrema destra, Sergio Ramelli, viene sprangato a
morte da alcuni esponenti della sinistra extraparlamentare, e muore dopo 47
giorni di agonia. Dodici anni più tardi per quel delitto vengono posti sotto
processo dieci ex esponenti di Avanguardia Operaia, ormai ben inseriti in quella
società che promettevano di combattere. È un evento che segna la fine degli
“Anni di Piombo”.

MILANO - Agitati e aggressivi, i fotografi sgomitano e si fanno sotto per aprirsi un


varco. Sparano flash impietosi, e sembra il fuoco di un plotone d'esecuzione. Claudio
Colosio si raggomitola in un angolo della panca e abbassa il volto fino a sfiorare le
ginocchia. Walter Cavallari si stringe le guance nella morsa delle mani. Scazza è
immobile come una statua, coperto da un loden verde. Muto Giuseppe Ferrari Bravo,
che allora si chiamava “Aldo”. Pallido Marco Costa, dall’aspetto di un intellettuale
che si è consumato sui libri. Seminascosta Brunella Colombelli, biologa ricercatrice,
lunghi capelli neri e grandi occhiali che le incorniciano il viso.
Cupi, smarriti, non si scambiano sguardi, né sussurri. Nella stagione dell’odio e
del furore politico, delle spranghe e delle spedizioni punitive, portavano l'eskimo ed
erano i “soldati” del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia. Ora sono
professionisti, quasi tutti medici, e indossano abiti di buon taglio. Dieci alla sbarra,
dodici anni e tre giorni dopo un'aggressione e una morte. Pestarono lo studente Sergio
Ramelli, “nemico” aderente al Fronte della Gioventù: il 13 marzo del ’75, fra via
Paladini e via Amadeo. L’agonia del ragazzo durò quarantasette giorni, nel reparto di
rianimazione del Policlinico. Poi un respiro strozzato, e il buio eterno. Dopo tanti
inverni e tante primavere, un pezzo di storia crudele dì una Milano convulsa e rovente
è approdata ieri in corte d'assise.
Un’aula angusta, rumorosa e affollata al limite dell'assalto. L’aula numero 2 ha i
microfoni che non funzionano, e l’aula magna è occupata da un processo con
trentadue imputati. Il presidente, Antonino Cusumano, allarga le braccia sconsolato e
dice ai cronisti: “Se non trovate posto, vi autorizzo a sedere nel gabbiotto, sempre che
non vi offendiate”. I giornalisti rispondono “non ci formalizziamo”, e seguono il
dibattimento da dietro le sbarre. Qualche teste che non sa crede di avere sbagliato
indirizzo e mormora. “Ma gli imputati avevano facce diverse”.
Sono tutti in piedi, adesso, gli accusati. Il presidente, paziente e incline a
sdrammatizzare, richiama i tempi della scuola e dei banchi. “Immaginate di ritornare
in classe, e rispondete all'appello...”. Comincia con Montinari Luigi, e Montinari
dice: “Presente”. Così “Gioele” Di Domenico; così Franco Castelli; così Claudio
Scazza. Colosio, invece, fa fatica a pronunciare un “si, sono io ...” Ognuno indica il
difensore, o gli avvocati difensori. Si costituiscono le parti civili e sono convocati i
testimoni.
Cusumano, però, non sta bene e lo comunica senza solennità. “Ieri, purtroppo,
avevo febbre alta. Poi, gli antibiotici mi hanno fatto sentire un poco meglio. Ma le
mie condizioni mi impongono un immediato ritorno in posizione orizzontale”. Si
rivolge agli imputati: “Voi che siete medici, sapete che cosa è una nevrite febbrile”.
Il processo è incardinato, le udienze riprenderanno lunedì prossimo. “Alle nove in
punto e si andrà avanti a oltranza”.
Molto prima che la porta dell’Aula 3 si schiudesse, ieri mattina, al “palazzaccio”
c’era la folla delle occasioni importanti. Ex militanti di un’ultrasinistra che, allora,
riempiva le piazze; amici degli “ex” e tanto pubblico. Vagava sperduta Maria Teresa
Rossi, insegnante del “Parini” ai tempi della “Zanzara”. Giovani. Meno giovani.
Anziani. Curiosi. Politici. Toghe svolazzanti. Presente Democrazia Proletaria con
alcuni componenti della segreteria nazionale e con il deputato Massimo Goria.
Presenti “compagni”, che hanno abbandonato l'utopia della rivoluzione e il desiderio
di “cambiare l'esistente”.
L’avvocato D’Aiello, che difende Tuminelli, nota quanto quell’epoca sia lontana.
“Tuminelli era del Movimento Studentesco. Ora è professore associato all’università
di Pavia. Erano, quelli, i tempi della strage di piazza Fontana, dell’ltalicus, delle
bombe in Piazza della Loggia”. Antonio Belpiede, le mani insaccate nelle tasche
dell’impermeabile, parla dei suoi errori, che “sono stati tanti”, e della sua vita
sconvolta; “Ho fatto più carcere degli altri, e solo da venti giorni ho avuto il permesso
di riprendere il lavoro in ospedale”. È ginecologo a Canosa, ed è consigliere
comunale del Pci a Cerignola, il paese di Di Vittorio e delle sue battaglie. Dal partito,
naturalmente, è stato sospeso. Insieme con la Colombelli, è l’unico che non ha
confessato. “Ho un alibi e con l’affare Ramelli non c’entro”. La Colombelli nega dì
essere stata la staffetta del commando. Ma, nella sentenza di rinvio a giudizio, è
scritto: “Il suo ruolo è consistito nell’indicare a Costa il luogo dove Ramelli abitava e
il punto dove, parcheggiando il motorino, poteva essere più facilmente aggredito”.
C’era la madre del ragazzo assassinato. Anita non aveva gli occhi umidi, e non
si è guardata intorno. Non vuole vendetta, ma giustizia “per mio figlio”. Anche se è
una giustizia tardiva.

UOMINI E LUPI

di Marzio Breda

“Il Corriere della Sera”, 19 Aprile 1987

Un’eterna lotta tra due razze nemiche si ripete quotidianamente sui massicci ai
confini tra Basilicata e Calabria, dove paure e odi ancestrali si rinnovano
nutrendosi anche delle nuove idee che giungono dalla pianura.

VALLE DEL MERCURE (Potenza) – Sono trenta uomini e trenta lupi. Vivono
insieme e lottano gli uni contro gli altri. I predatori, appena possono, azzannano
qualche pecora o qualche vitello. Per sfamarsi. I vaccari ed i pastori difendono a
fucilate i greggi e le mandrie e magari cucinano e mangiano i “nemici” che riescono
ad uccidere. Per vendicarsi. È sempre andata così, da quando, nelle loro foreste e
praterie, i due gruppi antagonisti erano molto più folti.
Così va ancora adesso, qui, mentre il calendario avverte che mancano solo tredici
anni alla fine del secondo millennio, e mentre nei depliant degli ambientalisti si
vagheggia di salvare quest’angolo d’Italia trasformandolo in un eco-museo. Salvare,
perché le due specie che si fronteggiano quassù sono entrambe a rischio di
scomparire.
Il rifugio di questi uomini e di questi lupi è il Pollino, l’ampia bastionata che
segna il confine tra Lucania e Calabria e precipita poi a picco sulla piana di Sibari e
sul mare. Gli antichi lo chiamavano il Monte di Apollo, per la sua suprema e
metafisica irraggiungibilità. Oggi è lambito dai viadotti dell’autostrada del Sole.
Ci arrivi e noti subito quanto sia implacabile, un rullo compressore che appiattisce
ogni cosa, l’omologazione del verbo elettronico: le vetrine dei bar tremano sotto le
onde della disco-music e in certe scuolette private si tengono corsi di informatica.
Come a Milano, Anversa, Hong Kong. Normale, insomma. Normale e fastidioso.
Ma scopri anche storie che sembrano medievali e che invece sono contemporanee.
Senti dire di una masseria attaccata in pieno giorno da un branco di lupi. Chiedi
quando è stato e ti rispondono, stupiti della curiosità: “La settimana scorsa”.
E allora uno parte e va, per capire il paradosso di una condizione di vita che la sera
impone ancora a qualcuno, su questa montagna, se la sera guarda un telefilm, di
tenere comunque l’orecchio pronto ai rumori dell’ovile. Uno o dieci secoli fa era lo
stesso.
Dopo un’ora di saliscendi in u paesaggio misterioso e senza gente, la macchina si
ferma di fronte alla casa di Antonio Ciancio, detto il Re. Una casa recente, di quelle
tirate su ai tempi del boom. Si affaccia un tipo sui trent’anni. Crede di avere di fronte
un funzionario mandato dalla Regione, per via dell’indennizzo che ha chiesto.
Speranza inutile, perché nessuno gli darà mai una lira a compensare ciò che gli è stato
rubato. Così, tira fuori da sotto una frasca una capra dal pelo scuro e indica le ferite di
due canini aguzzi, non ancora rimarginate, che ne segnano il collo. È l’unica
sopravvissuta di quattordici.
Com’è successo? “Come tante altre volte”, spiega Prospero Ciancio, figlio del Re,
giovane-vecchio dalla bocca sdentata e dalla fronte già piena di rughe. “Anzi no,
perché non ce n’hanno mai ammazzate tante in una volta sola, quei demoni. È stato
lunedì, alle due e mezzo del pomeriggio, lì dietro”, aggiunge puntando col braccio il
magro praticello dietro il muro.
I lupi erano quattro, comparsi dietro il margine del bosco di ontani senza che
neppure il cane li sentisse. Le capre pascolavano, distrattamente sorvegliate dal
padrone Antonio. In un attimo è stato il macello, e quando l’uomo ha tentato di
correre verso i suoi animali si è trovato di fronte il capobranco, fermo a dieci metri da
lui, le labbra scure sollevate a mostrare le zanne.
“Sono rimasti a guardarsi, mio padre e quella bestia di settanta chili che ringhiava.
Intanto le capre, tutto li nostro lavoro, tutto il nostro guadagno morivano sgozzate una
ad una”, racconta Prospero prendendo in mano il forcone. “Ci ha impiegato parecchio
a prendere la forza per urlare, e noi non l’abbiamo sentito: la televisione accesa in
cucina per le bambine, con i soliti cartoni animati, aveva coperto le sue grida”.
Proprio come riuscivano a fare nell’epoca della selce e dell’arcadia pagana, i lupi
vincono ancora, qualche volta, nell’era del silicio e dell’arcadia telematica. Anzi, nel
caso dell’agguato alla masseria del Re, con l’aiuto indiretto di questa nuova civiltà.
Un eterno duello.
Ma che fa, oggi, un pastore o un vaccaro quando i suoi armenti sono attaccati?
“Spara, se può. Se ha il fucile con sé. Però mi ascolti: qui spara senza colpire niente,
altrimenti finisce in galera e paga un milione di multa. Non è assurdo?”, predica
Salvatore Oliveto con l’aria di chi non capisce più il suo mondo.
È uno dei trenta uomini – censiti dagli etnologi – che per metà dell’anno dividono
con i trenta lupi – censiti dagli zoologi – le foreste e le prateria d’alta quota. Lo trovo
dopo un lungo giro fin sotto il versante calabrese in una casa circondata dagli
aranceti, a Thurio. È il posto dove viene a svernare, con la moglie ed i figli. Di lui sul
Pollino dicono che è l’ultimo vecchio della Montagna.
Vecchio non è poi monto: ha sessant’anni, ma li ha passati su quei larghi pianori
battuti dal vento. Sui lupi sa tutto, perché li ha incontrati tante volte. La prima quando
aveva ancora i pantaloni corti. Sa come si fa a prenderli, anche se non vuol dire se e
quanti ne ha fulminai con i pallettoni, e si limita a sorridere di questa fama. Forse ha
paura delle guardie, Forse teme multe retroattive. La sua sapienza di caccia,
conosciuta da chi siede attorno ai fuochi del bivacco, gli ha fatto guadagnare un
grande rispetto. È vista come una tecnica di sopravvivenza e perciò non gliene viene
alcuna riprovazione sociale.
Salvatore Oliveto si toglie la giacca di fustagno. Posa il cappello di feltro verde e
pulisce gli occhiali che da poco gli hanno imposto, prima di mettersi a raccontare.
“Sì, ogni estate ci vediamo, e ci conosciamo bene, ormai. Mi hanno portato via
dieci bravi cani. Sbranati, e non so quanti vitelli. Io fatico a farli crescere e loro mi
fanno tornare giù a mani vuote, l’autunno. Tra un po’ mi rimetto in cammino con i
miei cinquanta capi, quelle vacche nere nel recinto. Fino a ottobre, novembre vivrò
con i miei figli maschi in una baracca di legno, svegliandomi alle quattro. Uscendo
sui pascoli. Mungendo. Facendo il formaggio. Ogni tanto scendendo a Viggianello,
due ore di sella, per le provviste. Non dormo mai tranquillo, perché i lupi ci stanno
sempre intorno. Le nostre bestie sono anche il loro, di pane, perché la selvaggina è
diventata scarsa. Quando certe notti si chiamano ululando, e capisco che sono appena
fuori della porta e i cani cominciano ad impazzire, beh, ho paura anch’io”.
“ l’anno scorso, sa cosa è successo sul piano del Pollino? Erano i primi di luglio e
la nostra cavalla più bella doveva partorire. Per questo s’era allontanata dal recinto. Il
puledro era appena nato quando loro sono arrivati ed hanno attaccato. S’è difesa e ha
difeso il figlio, scalciando. Ma non ce l’ha fatta. Al puledro hanno spezzato il collo
con un unico morso. Noi eravamo lontani, non abbiamo potuto aiutarla. Due giorni
dopo è morta, aveva il ventre squarciato.
“Il guardiacaccia sa, ha visto, eppure non riceviamo un soldo. Amen. Ma ripete
che non dobbiamo prendere il fucile, che presto cambierà tutto, che arriveranno i
forestieri, che ci sarà da vivere meglio. Può darsi. Facciano pure, comunque noi tra
qualche anno molliamo e non torniamo più su. Diteglielo, a quelli di Rotonda che vi
hanno mandato. Così forse saranno contenti”.
Rotonda, 4000 anime sparse in una valletta della Basilicata, per Salvatore Oliveto
è la città. È la capitale di questo parco di cui sente parlare da tempo. Da così tanto
tempo che sembra una leggenda, come le cronache sui lupi. Ci abitano tre dei più
entusiasti fautori del progetto per difendere il massiccio del Sud. L’unico posto in
Italia dove regna ancora il pino loricato, un autentico fossile vegetale,
miracolosamente sopravvissuto alle remotissime glaciazioni ed ai recentissimi venti
di Chernobil. I tre sono il brigadiere della forestale, un giovane ambientalista, un
sindaco longevo in politica. Si chiamano Nicola Madormo, Giorgio Braschi,
Giovanni Pandolfi. Passeggiano sempre assieme, la sera, nella piazzetta selciata in
basalto, parlando del parco che non esiste.
Ma una prima battaglia, almeno, se la sono aggiudicata: quella che loro chiamano
della “cultura ecologica”. Adesso la gente gli va dietro, convinta. E a Potenza l’anno
scorso hanno detto sì, almeno, al parco regionale. Purtroppo, però, è un aborto di
parco. È una pia intenzione, perché è un decreto che riguarda solo mezzo Pollino, e
non include il versante che le mappe assegnano alla Calabria. Perché l’organico delle
guardie, fissato in 6 unità, dopo dodici mesi è ancora fermo alle 16 di prima. Perché è
stato ribadito i divieto – datato 1976 – a sparare sui lupi, ma non esistono fondi per
rimborsare gli allevatori danneggiati. È un vincolo senza contropartite o quasi, Per
cui tutti rimpiangono in coro l’occasione mancata col governo, la bozza già pronta
per un piano – nazionale, questa volta – che il ministro dell’Ambiente avrebbe dovuto
firmare. Dunque maledicono la crisi e sognano il dopo elezioni.
“Ma attenzione a certi sogni”, ammonisce da Arcavacata l’antropologo Lombardi
Satriani, “Attenzione, perché questa gente è in uno strano limbo, sospesa tra una
tradizione mitica ed un futuro incerto, in bilico tra due favole, il mondo dei lupi e
quello del turismo salvifico. Attenzione a non edulcorare e loro vere possibilità con
un universo di menzogne. Attenzione a non creare campane di vetro sterili, dove
mostrarli come ‘diversi’, come un popolo ancora allo stadio della semiferinità.
Attenzione ai generici slanci missionari, ai safari etnologici, alle escursioni per
yuppies neoromantici, all’esotismo italiota. C’è un unico modo leale per aiutare quelli
che sul Pollino sono rimasti: metterli in condizione di decidere autonomamente, da
soli, il proprio destino. Non hanno mai avuto niente, non si può espropriarli anche di
questo”.
“Ha ragione, certo. E chi vuole quelle cose? È questione di buon senso”,
commenta laconico il brigadiere Madorno, mentre la macchina corre verso San
Severino Lucano e sale e scende le pendici della montagna. Il discorso dello studioso
sale e scende, anche quello, lungo i tornanti. Un’ossessione. Così vengono i brividi a
pensare ai pastori “addomesticati”, magari dietro salario sindacale e convinti a
passare l’estate negli alpeggi come i navajos nelle riserve americane. Follie futuribili,
ma non tanto. Infatti altri brividi vengono a leggere i programma (vero) di un club di
vacanze della Calabria, che per i suoi ruspanti turisti-Livingstone organizza anche
“serate con i contadini”. E brividi vengono ancora, a ricordare che un paio d’anni fa,
in un’asta della Finarte a Milano, una “zappa autentica” è stata contesa da panciuti
commendatori (magari proprio alla zappa strappati) per essere esibita come un
prezioso reperto in salotto. No, non è troppo pessimista Lombardi Satriani.
Si accendono le luci della macchina e delle poche case che sfilano ai bordi della
strada. Mezzana è l’ultimo villaggio prima di imboccare le rampe che portano alla
Valle del Sinni e ai viadotti che hanno sottratto la Basilicata alla sua condizione di
terra marginale. Ma non tutta la Basilicata, finora. Ci abita, in questo borgo, Giacomo
Antonio Chiarelli, giovane commercialista figlio di un cacciatore famoso. Un giorno
di qualche anno fa, partito per una battuta alla lepre, se n’è tornato in piazza con un
lupo sulle spalle. L’aveva ucciso lui con un’unica fucilata che oggi non ricorda
volentieri.
“Era ottobre, stavo in un bosco di pioppi quando lui ha attaccato il mio segugio,
Ce n’erano altri due, di lupi, fermi poco distante. Ho corso più che potevo. Poi,
quando sono stato a venti o trenta metri, tutto è venuto d’istinto. Ho alzato il calibro
12 e sparato. Per salvare il cane. Ho preso il lupo sul petto, mentre si girava verso di
me. Mi sono avvicinato, rantolava ancora. Non l’ho toccato finché non è morto,
mentre i suoi compagni fuggivano. Poi me lo sono caricato sulle spalle: pesava ed
aveva un bel pelo grigio scuro. Sono arrivato in paese come facevano i lupari
vent’anni fa e ricevevano regali ed abbracci dai contadini e dai pastori. Anche a me
hanno fatto festa, poi l’abbiamo scuoiato, cucinato e mangiato, insieme. No, nessun
sapore strano. Aveva un gusto che non ricordava assolutamente niente. Adesso la
saluto, arrivederci. Se vado ancora a caccia? A poco a poco ho smesso. Non mi piace
più. Non è più come prima, per me”.

LA VOCE DEL SANGUE


(L’Europeo, giugno 2003, pag. 68)

di Gianni Brera
“L’Europeo, 14 settembre 1988)

Garrincha da ragazzo aveva avuto la poliomelite. Una condanna, per un


bambino che cresce in un poverissimo villaggio dell’interno del Brasile. Ma nel
suo villaggio, dove nessuno aveva la televisione e men che meno si andava al
cinema, l’unico passatempo era la partita di pallone, tutti contro tutti, che si
giocava in piazza verso le cinque. Fu così che Garrincha iniziò a giocare a calcio,
e divenne ala della nazionale brasiliana campione del mondo nel 1958 in Svezia.
A quei mondiali incantò per i suoi dribbling completamente imprevedibili
perché lui li impostava sulla gamba sinistra, proprio quella resa infelice dalla
poliomelite. In Svezia incantò tutti, non solo gli appassionati di calcio. Ci furono
delle conseguenze.

Nel ’58 io e gli altri giornalisti eravamo tutti in un albergo di Goeteborg, borgo di
Goti fondato nel ’600 dagli olandesi. La prestigiosa squadra brasiliana, tatticamente
risanata dal genio di Vicente Feola (un napoletano), stava acquartierata su un lago
fuori città. Un lucchese di Svezia, Dolfo Bernardi, ci portava spesso a trovare i
brasiliani. Erano in parte neri (da Pelè a Garrincha, ai due Santos) e per loro
muggivano spasimando le bionde. I brasiliani vinsero il mondiale. Passarono anni e
Garrincha tornò in Svezia con il Flamengo o il Vasco da Gama, non ricordo. Appena
atterrato, Garrincha venne avvertito dalla polizia che su di lui pendeva la denuncia
d’una ragazza madre. Garrincha non conosceva neanche il nome delle squadre che la
sua avrebbe incontrate. Era un selvaggio, e un poco minus habens. Al suo paese
aveva anche una casa e una compagna alla quale aveva fatto fare sei figlie. A questo
l’aveva inguaiato la corsa al maschio!
Quando Garrincha ebbe appreso, mi pare proprio a Goeteborg, che l’erede
maschio gliel’aveva scodellato una indigea bionda, ne fu lietissimo. I suoi dirigenti
invece erano molto preoccupati. Garrincha non se la prese neanche un po’: andò in
tribunale e vide il bambino, che la bionda attribuiva ad un felice colpo suo di lui, e gli
parve bellissimo.
Il processo venne sbrigato per direttissima. Domandò il giudice: “Ammette Lei,
signor Garrincha, che questo bambino è nato da una relazione da Lei intrattenuta con
la querelante, signorina Taledelletali?”. “Se debbo dire la verità”, incominciò
Garrincha con aria sorniona, “io non ricordo bene le circostanze, però il bambino mi
piace molto”. “Allora è fatta”, anticipò il giudice, fin troppo ottimista. “Certo”,
ammise Garrincha, “il bambino me lo prendo senz’altro; sarà felicissimo con le mie
altre sei figlie, sue sorelline illegittime. Dirò di più, prenderò anche la madre, se
vuole. Non sono sposato e potrei farlo tranquillamente con lei”. La bionda
Taledelletali, sua madre pure bionda e l’avvocato saltarono sulla panca: “Che va
dicendo questo nero, che è disposto a prendere con sé il bambino e anche la madre?”.
“È matto!”, esclamò l’avvocato della bionda. “Noi vogliamo unicamente un giusto
indennizzo: non abbiamo alcuna intenzione di cedergli il bambino e tanto meno di
fargli concessioni matrimoniali”.
“Peccato”, esclamò Garrincha sfiorando il singhiozzo. Il giudice fissò molto
severamente le sue connazionali e, ispirandosi al più umano senso della giustizia,
lodò il campione, così leale e affettuoso verso il piccino, rimproverò alle ragazze del
suo paese un eccesso di liberalità nei confronti degli ospiti, bianchi o neri che fossero,
poi enunciò la sentenza: il signor Garrincha era libero; le spese processuali toccavano
alle goffe presentatrici di una querela ingiustissima, tesa unicamente a spillar denaro;
se veramente la signorina madre voleva dare un padre legittimo a suo figlio,, ecco
l’occasione! Si udì un caloroso applauso: era dei compagni di Garrincha e dei loro
dirigenti. Il giudice li zittì accennando ad un sorriso. La bionda abbrancò il mulattino
e con uno strattone a sua madre si avviò furibonda verso l’uscita. Garrincha s’incupì a
vederli andare: “O che nignu belliscimu!”, esclamò in una lingua che somiglia molto
al dialetto ligure da me qui usato.
Poi domandò a che ora sarebbero andati a tavola. La partita era alle ore 17. Il
prodigioso Garrincha segnò due gol: entrambi li fece puntando sulla gamba sinistra,
quella che per la poliomelite sofferta nell’adolescenza era rimasta quasi secca.
“VIENI, TI PORTO A BALLARE A OVEST”
(pag 2)
di Massimo Nava
“Il Corriere della Sera”, 11 novembre 1989

Crolla il Muro di Berlino, finisce il comunismo, la Germania si riunifica. Tutto


accade in una sera. E per festeggiare esiste una sola maniera: tutti a Occidente.
Quasi un programma politico per gli anni successivi.

BERLINO EST – Uno sguardo distratto alla carta d’identità ed un sorriso. Dall’altra
notte il Check Point Charlie, la mitica frontiera della guerra fredda e dei film di
spionaggio è soltanto un banalissimo cancello che migliaia di tedeschi dell’Est
passano con gli occhi increduli e pieni di gioia.
Il sogno si è avverato. Una fresca notte stellata di festa, di balli per le strade, di
cori, di abbracci tra i giovani dell’Est e quelli dell’Ovest, che si è portata via 28 anni
di tensione e ferite, di drammi, di divisione degli affetti e delle famiglie.
“Vado a bere una birra in Ku’Damm”, urla un giovane che ha sempre visto
soltanto alla televisione la famosa strada dei divertimenti notturni e della
permissività. “Eravamo già a letto quando abbiamo sentito la radio. Ci siamo rivestite
ed adesso corriamo in discoteca, fino all’alba”, dicono abbracciate due ragazze
dall’altra parte del Muro.
“Oggi è il mio compleanno. Il mio ragazzo mi ha detto ‘vieni, ti faccio un regalo.
Ti porto a ballare a Ovest’. Mi sembrava impossibile che si potesse scherzare su
questo argomento …”. Un giovane punk, con i capelli rossi, viene fermato. Ha
dimenticato a casa i documenti. “Questo è troppo”, dice il poliziotto allargando le
braccia. “Stupendo: lavorare ad Est, divertirsi ad Ovest”, dicono due fidanzati.
“Vorrei che mio padre fosse qui: ha lottato per tanti anni e avrebbe dovuto non
perdersi questo giorno”.
Mentre altri undicimila connazionali nelle stesse ore lasciavano il paese attravrso i
confini con la Cecoslovacchia, i berlinesi dell’Est avevano solo voglia di una gita in
giostra e migliaia, all’alba, sono tornati indietro, e sono entrati a scuola o in ufficio
come se nulla fosse, con gli occhi pieni di sonno. Ma molti hanno atteso l’apertura
del KaDeWe, il più grande supermercato d’Europa, almeno per curiosare nella mecca
del consumismo già addobbata per Natale. Nelle banche i lmarco orientale è cambiato
1 a 10, ma i ragazzi dell’Est si giocano tutti i risparmi su quest’attimo di felicità.
La notizia, annunciata dal telegiornale della sera, si è subito sparsa in città e, come
in una notte di Capodanno, migliaia di berlinesi si erano riversati nelle strade. A piedi
e in autostop, la gente si è riversata ai vari passaggi del Muro.
I cancelli si aprono, come all’uscita di uno stadio. Migliaia di Trabant, le sbuffanti
auto a due tempi, passano attraverso l’altra Berlino. I ragazzi salutano con le dita in
segno di vittoria, corrono a salutare i parenti che non vedono da anni o che non hanno
mai conosciuto. Persino la Porta di Brandeburgo si è aperta per qualche minuto. La
ferita del viale più famoso della città, dove marciavano le truppe del Reich diventa il
palcoscenico di danze brasiliane. Sasha e Ann invece passano verso Est, tenendosi
per mano.
A Ovest intanto inizia la festa di benvenuto. La gente si ritrova a ridosso
dell’immeso “graffiti” che negli anni ha esorcizzato la frattura tra le dua parti della
metropoli. Fiori, casse di birra, applausi e getti d’acqua. I giovani delle due parti
portano i jeans, parlano la stessa lingua, vogliono le stesse cose, si confondono nei
cori. Ora a dividerli c’è soltano un Muro economico. Gli anziani piangono di una
gioia irrefrenabile, dopo anni di dolore.
Il sindaco Momper arriva poco dopo mezzanotte. Anche lui sembra sorpreso.
Sorride e applaude: “ È la più grande gioia per noi che abbiamo vissuto la notte dle
’61”. Poi usa termini che già cambiano la storia di questi incredibili giorni e lasciano
capire i primi imbarazzi di una Germania Federale invasa da duecentomila profughi. I
giovani di questa notte sono besucher, visitatori, turisti, non più profughi o
fuggiaschi. Primo efetto di una questione tedesca che non è più uno spettro, o
un’illusione.
Gruppi di giovani sono saliti a cavalcioni del Muro e ci restano tutto il giorno, alla
faccia del filo spinato. Altri, con lo spray, hanno scritto “Aprite le porte per sempre”.
Altri ancora picchiano con il martello, per distruggere il momumento al passato. E
l’organizzazione tedesca ha facilitato l’abbraccio collettivo con un servizio speciale
di autobus per collegare il Muro al centro.
Intere famiglie si sono fatte fotografare sotto i cartelli più famosi, scritti in quattro
lingue: “Attenzione, state lasciando il settore occidentale”. Gli anziani, gli unici che
fino adoggi potevano transitare ad Ovest, si sono fatti accompagnare dai nipotini che
vedevano per la prima volta l’altra Berlino. Ma la generazione cresciuta con il Muro
traduce la gioia in un ballo sfrenato, nelle birrerie del quartiere turco dove si
accettano anche i marchi dell’Est, nelle edicole notturne dove si comprano i gadget e
i giornali dell’Ovest, davanti ai grandi magazzini. Hanno visto l’altro mondo alla
televisione e sono entrati in questo mondo del futuro, della pace e della distensione.
Hanno vinto, travolgendo anche le ultime formalità burocratiche. L’annuncio di
Schabowski alla fine del Comitato Centrale della Sed, infatti, prevedeva il rilascio di
un permesso alle autorità di polizia. Ma l’altra notte i Vopos, abituati alle loro arcigne
perquisizioni, a guardare con gli specchi sotto le auto, hanno ceduto all’evidenza.
Hanno brindato anche loro, hanno parlato con i loro colleghi dell’Ovest, hanno
soncluso: “Ormai questo passaggio servirà solo ai diplomatici”.
Una ragazza bacia un gerndarme: “Poi posso tornare indietro?”. “Certo”, risponde
lui con una margherita all’occhiello. In tutta la Germania dell’Est si respira la fine di
un’incubo, ed il nuovo corse sembra inarrestabile. È stato scritto che Berlino è
condannata ad un eterno divenire, e mai ad essere. Da oggi Berlino “è”, ed il suo
cielo, incredibilmente soleggiato, splende su un’unica città.

DIECIMILA PROFUGHI ALL’ASSALTO


(pag. 1)
di Bruno Tucci e Giuliano Gallo

“Il Corriere della Sera”, 8 marzo 1991

Attratti da una certa idea dell’Italia, quella che può trasparire dalla pubblicità
che ogni giorno gli arrivava in casa grazie alla potenza delle nostre antenne
televisive, decine di migliaia di albanesi varcano il mare in cerca di fortuna. È la
prima di una serie di ondate migratorie che dureranno una decina d’anni
almeno. Ad accoglierli l’esercito e gli stadi dei mondiali del ’90, trasformati per
l’occorrenza in centri di raccolta.

BRINDISI – “Digli qualcosa”, implora il poliziotto stringendo il braccio di una


donna. “Digli di non fare così, digli di fermarsi, tu che parli l’italiano…”. Ma la
donna piange e resta lì, immobile. Sul molo Sant’Apollinare con il buio è arrivata la
guerra: dieci finanzieri ed una ventina di carabinieri fronteggiano almeno ottomila
disperati scesi da due navi. Dalla “Tirana” e dalla “Legend” migliaia e migliaia di
albanesi carichi di rabbia e di fame si scagliano come arieti contro il cancello,
dilagano nel deserto dei moli, piangono, urlano calpestando un mare di cartacce,
quello che resta del poco cibo che sono riusciti ad avere. Li hanno lasciati soli, hanno
lasciato soli tutti: i profughi, i finanzieri, i carabinieri. Chi doveva farlo non ha saputo
prevedere che cosa stava per succedere.
Un giovane tenente della finanza ha le lacrime agli occhi. Lacrime di rabbia.
“Stiamo cercando si salvare il salvabile, ma siamo solo venti. Ci vuole l’esercito, ci
vuole l’esercito …”. E l’esercito arriva, alle 23,30: due camion, uno con dei soldati e
l’altro con alcune fotoelettriche. Cucine da campo niente, viveri niente, acqua niente.
C’è gente in terra, ferita o solo contusa. La battaglia va avanti per ore, senza soste. I
finanzieri tengono sbarrato a forza i cancello, dall’altra parte migliaia premono per
spalancarlo. Si calpestano, si picchiano tra di loro. Poi qualcuno ogni tanto dà
l’ordine di spalancare, e i militari partono per una carica secca, improvvisa. Tanto per
cercare di fermarli.
Non ci sono agenti della celere, non c’è un funzionario in grado di dare ordini.
Roma è completamente assente, forse non si rende conto di quanto stia accadendo in
una città di almeno 100 mila anime invasa da oltre 15 mila disgraziati, scappati dal
loro paese in cerca della libertà. E altre navi, piccole e grandi, sono in arrivo.
Ieri mattina una grande nave ha forzato il blocco, speronando una motovedetta
italiana, poi sono arrivati ai moli altri cargo.
Il prefetto Antonio Barrel non sa più raccapezzarsi, perché gli uomini sono pochi,
i mezzi ancora meno, la ricettività ormai nulla. “Dobbiamo purtroppo mandarli via al
più presto”, esclama al telefono parlando con il ministero. Ma in che modo?
Sul molo Sant’Apollinare la folla continua a premere: ci sono bambini che
piangono, implorano il nome del padre o della madre. Ci sono donne incinte che si
sentono male, ci sono giovani feriti prima di fuggire che hanno bisogno di ricovero.
L’ospedale è pieno. “Guardate come siamo ridotti – dice un uomo severo, vestito di
stracci ma con una scintilla di dignità nello sguardo – ci vergogniamo a presentarci
così, ma dovete perdonarci, tutto questo l’ha fatto il nostro regime”.

IO, PRIGIONIERO DI SADDAM


(pag. 1)
di Lorenzo Bianchi

“Il Resto del Carlino”, 10 marzo 1991

Nel 1990 Saddam Hussein invade il Kuwait, reclamando il pagamento si alcuni


diritti petroliferi e rivendicando la sovranità sull’emirato in quanto storicamente
provincia dell’Iraq. Lorenzo Bianchi, sul finire della guerra mossa a Saddam da
una coalizione di 56 paesi sotto la bandiera dell’Onu, viene catturato dagli
iracheni in fuga. Questo è il racconto della sua prigionia.

AMMAN – La fine del tunnel è una tettoia bassa, verde e gialla, a tre archi,
casermette beige dove emiri giordani in maglia blu, con aplomb anglosassone,
sbrigano tranquille, pigre pratiche burocratiche per la concessione di un visto. Da una
vetrata sorridono in effigie Saddam Hussein ed Hussein di Giordania. È solo l’ultimo
brivido, l’ultimo brandello di paura. Il primo risale a domenica.
Sono le 15, quando siamo incappati in una colonna della Seconda Divisione di
fanteria meccanizzata, un reparto sbandato attestato alle porta di Bassora. Ci siamo
arrivati con una corsa facile e un po’ folle. Una lunga sosta ad un posto di blocco
americano prima di Safwan, al confine tra Kuwait ed Iraq, brevi trattative ai due
check point e poi via libera verso la città in rivolta. La prima notizia sui disordini ce
l’aveva data un tassista, un giovanotto sveglio che poi ha rivelato di avere partecipato
all’insurrezione. “Guardi qui – mi dice tirandomi per il braccio – tengo ancora la
prova sul cruscotto dell’auto”. Dal cassettino sbuca una fascia color verde smeraldo,
il colore dei seguaci di Alì, cugino di Maometto. Tremila sciiti, spiega, hanno assalito
i posti di polizia e si sono impadroniti di una buona scorta di fucili e di mitragliette
kalashnikov. I ribelli hanno ammazzato il governatore e sono riusciti a fare proseliti
anche tra le forze armate. I soldati dissidenti, assicura il tassista, hanno portato in dote
persino alcuni carri armati. Gli uomini di Saddam Hussein sembrano alle corde. I
posti di blocco americani, tre, si aprono come per incanto. La via è sgombra per il
folle convoglio. Io, Giovanni Porzio di “Panorama”, Gabriella Simoni di Canale 5
sediamo su una Toyota nuova di zecca. Per cinquanta chilometri nessuno ci ferma. I
soldati iracheni agitano le mani, alzano le dita a V, in segno di vittoria e ci sorridono
come se avessero improvvisamente deciso di saltare dall’altra parte della barricata. A
Zubair, un villaggio a dieci chilometri da Bassora, le bandiere verdi sciite sventolano
su un paio di casette basse.
Contadini cenciosi e cotti dal sole alzano le mani verso di noi. La corsa finisce
dopo pochi chilometri, alla periferia della città. Una colonna di blindati leggeri, di
quelli per il trasporto delle truppe, uno spezzone della Seconda Divisione, ci sbarra la
strada. Attorno c’è una gran confusione di camion, di jeep e di carri armati: il
marasma dell’esercito battuto che cerca disperatamente di trovare ordine, disciplina e
razionalità. Sodati sporchi e impolverati si avvicinano con le loro kalashnikov
spianate, e ci fanno segno di scendere dall’auto. Di fianco ai cingoli di un blindato
leggero hanno teso un telo di plastica blu. Ci fanno sedere, ed ordinano di consegnare
tutti i coltelli. Ombre furtive si avvicinano alle vetture. Un tenente sulla cinquantina
urla a più non posso di stare lontani. Esplode un colpo in aia per farsi obbedire. Da un
pezzo di artiglieria pesante, molto vicino, partono copi regolari, cadenzati. Non riesco
a capire a chi siano diretti. È possibile che sia stato rotto il cessate il fuoco?
I soldati ci fanno risalire sulle auto che però ora vengono guidate dai militari. La
mia chiude il convoglio. Al volante c’è un tenente della Guardia Repubblicana che
dice di chiamarsi Sinan. “Sono armeno, di religione cristiana”, racconta. Poi, di
colpo, mi intima: “Chiudi il becco”. Blindati leggeri sono schierati lungo il viale con
le mitragliere puntate sulle case di un povero sobborgo. Passiamo vicino ad un ponte
crollato. Ci portano all’università di Bassora. Sugli spartitraffìco sono ammassati
centinaia di civili. I militari li fanno sedere con le mani dietro la schiena, e li tengono
sotto tiro. I prigionieri lanciano disperate richieste d’aiuto.
La nostra prima cella è la guardiola dell’università. Lì troviamo altri tre giornalisti,
pizzicati in zona nelle prime ore della domenica. Ci sistemiamo alla meglio,
ammonticchiati, a strati. Un soldato alto e dinoccolato si passa un dito sulla gola e
sibila: “Bazoff, farete la stessa fine”. Il tenente Sinan fa lo spiritoso. Molti chiedono
una coperta, e lui sbotta felice: “Ma qui si soffoca dal caldo!”.
La battaglia di Bassora, intanto, passa sulle nostre teste. Le truppe fedeli al
governo sparano da molto vicino a noi, con mortai e cannoni. Di tanto in tanto si
sente anche il cupo rimbombo del proiettile di un carro armato. Anche dall’altra parte
non scherzano. Il fuoco dei mitra è continuo, e si sentono altri colpi di cannone. Una
granata piomba a pochi metri dalla nostra prigione. Mi butto contro il muro appena in
tempo per evitare la pioggia di schegge di selciato. Poco dopo le 17,30 i ribelli
sembrano a pochi metri dall’università. Decine di soldati terrorizzati si rifugiano
all’interno del recinto dell’ateneo. Di notte il cielo di Bassora si accende di bagliori. I
fedeli a Saddam Hussein sparano bengala e proiettili traccianti. Gradi ombrelli di luce
calano sulla città. Nel cuore della notte un secondo proiettile dei rivoltosi ci sveglia di
soprassalto. Cerchiamo di dormire su poltrone, su sedie accostate, per terra o
rinserrati nei sacchi a pelo, i pochi che hanno la fortuna di averne uno. Alla mattina ci
portano un tè. Un medico, Walid, riesce miracolosamente a procurare quattro
scatolette di funghi, melanzane, formaggio e tonno. In molti dividiamo due bottiglie
d’acqua. Dopo poche ore di pausa notturna la battaglia è ricominciata, accanita e
tenace. Ora gli insorti sembrano appostati anche alle spalle dell’università. Alle 5,30 i
fedeli al regime esplodono un missile anticarro che parte dritto e basso verso il centro
di Bassora.
Il generale Khalid ci spiega che siamo stati rinchiusi in quel posto “per garantire la
nostra sicurezza”. Giura e stragiura che la Croce Rosa Internazionale è stata avvisata
del nostro arresto. Alle 11,15 ci spostano in una base logistica di addestramento, a
sud-est della città. Davanti ai nostri occhi un gruppo di soldati affamati circonda un
ciclista e lo costringe a consegnare la frutta che porta nel cestino.
Veniamo trasferiti in quello che con ironia verrà ribattezzato “California Hotel”. È
un edificio basso, al centro di un acquitrino. Gli ufficiali fanno ressa attorno a noi.
Offrono sigarette, acqua minerale in bottiglia. Una cosa preziosa. Quando se ne
vanno scopro che la nostra nuova prigione è composta di due stanzette, una lunga
quindici metri e larga quattro e una due per quattro. La sindrome del prigioniero
inizia ad impadronirsi di noi, prima baldanzosi. Un francese che ha militato nella
Legione straniera, e che ora scrive per un settimanale di avventure e di armi, incide il
suo nome sul muro: Yves Debay. Arriva la cena: un quarto di pollo a testa, una forma
di pane integrale ed una bottiglia d’acqua ogni sei arrestati. Ma al “California Hotel”
l’atmosfera è più rilassata. Francois Camè, un collega di “Liberation”, riesce a
convicnere un sodato a giocare con lui. Si sfidano con due bocce che un tempo sono
state pomelli di attaccapanni. I soldati stanno peggio di noi, o quasi. Ne sorprendo
due che cercano a lungo acqua, tenendo in mano una bottiglia vuota. Ma di acqua non
se ne trova, e loro si allontanano con quello che hanno trovato, del liquidi giallastro,
in una pozzanghera. Un colonnello dell’aeronautica, Shalim Jassim Abu Ali, un
pilota appiedato di Mig 23, si dà un gran daffare per sostenerci. Spesso deve litigare
con i soldati che rumoreggiano, quando vedono entrare nella nostra stanza cibo e
bevande. Un vassoio di uova scatena una mezza rissa. Una distribuzione di coperte
provoca altri malumori. Di notte ce le tolgono quasi tutte.
I colpi della battaglia di Bassora sono un sottofondo che non si interrompe mai. I
cannoni sparano senza sosta. Il 6 mattina un camion ci riporta tutti all’università. La
scena è quella di tre giorni prima: un carro armato con il cannone puntato contro il
cuore di Bassora, una fila di donne in nero sedute davanti a un muro e due sodati che
e tengono sotto il tiro dei kalashnikov. Ancora colpi di cannone verso le case e
raffiche di katiuscia che stridono nell’aria. I soldati hanno ricevuto l’ordine di
portarci a Bagdad con una corriera della compagnia Tata. Il progetto è assolutamente
irrealizzabile: si sentono colpi di mitra vicinissimi. Una raffica viene dall’interno del
perimetro dell’università, che fino ad quel momento sembrava un santuario
inviolabile.
Torniamo mestamente al “California Hotel”. Ormai siamo diventati intimi del
colonnello Abu Ali. Mi mostra una lettera del figlio, che sta per compiere dieci anni.
Il ragazzo racconta al padre che il giorno prima gli aerei alleati hanno bombardato un
rifugio a Bagdad e che molte persone sono morte. “Dopo questo fatto abbiamo deciso
di andare a nord, perché qui è troppo pericoloso, aggiunge il piccolo Ali. Il colonnello
ha gli occhi che luccicano dall’emozione: “Questa lettera mi ha reso felice. Da mesi
non avevo più notizie della mia famiglia. È la prova che sono vivi. La nostra casa è
molto vicina al rifugio bombardato”.
Il 7 la mattina la solita corriera parcheggia davanti ala nostra prigione. A Bassora si
spara ancora con grande lena. Le raffiche di mitra sembrano addirittura più vicine alla
caserma. Dove andiamo? Per il detenuto ogni trasferimento è un trauma, un salto
verso l’ignoto. Il bus punta deciso verso l’università. Attraversiamo miseri sobborghi
allagati. Le donne raggiungono le case immergendosi fino alle ginocchia. I ribelli non
sono per nulla domati. La Guardia Repubblicana e l’esercito continuano a rovesciare
sulla città katiusce e razzi anticarro. Passiamo davanti a lunghe file di carri armati con
i pezzi puntati verso le case. Bassora è circondata da una cintura d’acciaio. Facendosi
largo tra le colonne di un esercito impazzito, l’autobus raggiunge il quartiergenerale.
Il comando delle Forze Armate si è trasferito nel centro di calcolo dell’università. Un
brigadiere generale ci annuncia che andremo a Bagdad con quattro elicotteri delle
Nazioni Unite. Ci fa vedere anche sei delle nostre undici macchine, che parevano
scomparse per sempre. “Volete aspettare qualche giorno per portarle via con voi, o
preferite partire subito?”. Per le macchine se la vedranno le assicurazioni.
I quattro elicotteri bianchi atterrano alle 17,30. Sono stati utilizzati dagli
osservatori dell’Onu per la pace tra Iran ed Iraq. Li guidano piloti iracheni. Si alzano
e ci rivelano una città sommersa dall’acqua – durante i combattimenti pare siano stati
danneggiati gli argini – e da colonne i mezzi militari che sembrano intrappolati in un
ingorgo colossale. Il governo si sente così poco sicuro sl fatto suo che ha dovuto
mobilitare gli elicotteri per farci saltare le zone controllate dagli insorti sciiti. Si
combatte anche molto a nord di Bassora. Dopo circa un’ora di volo vedo la striscia
rossastra di un proiettile tracciante alzarsi verso il cielo. Uno di noi, l’inviato del
giornale “El Observador”, mi racconta che la colonna militare che avrebbe dovuto
portarlo a Bagdad è caduta in un agguato a ottanta chilometri a nord.
La stessa Bagdad è irriconoscibile. Poche file di luci arancioni, rari fari d’auto,
sembra un villaggio. Al circolo ufficiali dell’aeroporto mi offrono un bicchiere di tè.
Saltiamo la cena. “Così vedrete quanto ci avete fatto soffrire voi occidentali”,
sogghigna un ufficiale. Alle tre ci scaricano all’Hotel Diana, una sola luce fioca nella
hall, stanze che hanno conosciuto tempi migliori. Uomini della polizia segreta, la
Mukhabarat, ci portano in camera e chiudono a chiave la porta. Comincio a
rimpiangere il “California Hotel”. Fino alle 11 della mattina mi lasciano sotto chiave.
Per farmi portare un bicchiere d’acqua devo tempestare la porta di pugni. Poi,
all’improvviso, la tensione si scioglie. Gli uomini del servizio segreto ci permettono
di riunirci nella sala da pranzo. Un tè, una mezza forma di pane, per cena un osso di
montone quasi completamente spolpato ed un pugno di riso. E la notte arriva una
pattuglia di corrispondenti americani e inglesi, poi il convoglio della Croce Rossa
Internazionale. È l’ultima notte in Iraq. Alle cinque bussano alla porta, ma prima di
partire dobbiamo aspettare altre due ore perché l’autista non ha fatto il pieno.
Attraversiamo Bagdad, assai meno distrutta di quello che si potrebbe pensare. I tre
ponti centrali sul Tigri sono ancora in piedi. Vicino all’Hotel Al Rasheed è stato
colpito il Palazzo dei Congressi.
Ancora un lungo viaggio, mille chilometri nel deserto. A Ruwaished c’è un muro
di fotografi che ci aspetta. Ancora trecento chilometri e le luci di Amman ci dicono
che l’incubo è veramente finito.

“ SIAMO STATI NOI A TIRARLO GIU’ ”


di Andrea Purgatori
“Il Corriere della Sera”, 17 aprile 1992

Il mistero di Ustica è uno dei pochi episodi della recente storia italiana in cui un
giornale è determinante nel giungere al ristabilimento della verità. Soprattutto
ad opera di un redattore, Andrea Purgatori, che fin dalla prima sera inizia ad
indagare sulle vere cause per cui un Dc9 di una compagnia privata esplode in
volo sul Tirreno, inabissandosi con tutti i passeggeri e l’equipaggio.

Roma – “Mi telefonò a casa un paio di giorni dopo la strage di Ustica: ‘Comandante,
si ricorda di me? Sono Dettori’. Lì per lì il nome non mi diceva niente. Allora lui mi
ricordò di un incontro che avevamo avuto nel 1978, con i sottufficiali della base di
Grosseto. Mi rammentò alcuni particolari della sala e di una uscita che aveva avuto il
comandante. Era agitatissimo: ‘Comandante, siamo stati noi a tirarlo giù, siamo stati
noi … ’. Lo bloccai subito ‘ma che stai dicendo?’. E lui ‘è una cosa terribile’. Era
sempre più agitato. Gli dissi: ‘Guarda, renditi conto che è una cosa enorme. Ci
vogliono le prove, dei riferimenti’. Lui: ‘Io non le posso dire nulla, perché qua ci
fanno la pelle’. Cercai di calmarlo, perché tanto era più agitato, tanto più pericoloso
poteva essere per lui”.
Mario Ciancarella, ex capitano dell’Aeronautica, in servizio alla base di Pisa fino
al 1980, imputato di insubordinazione perché tra i fondatori di un movimento dei
militari democratici, processato ed espulso dall’Arma Azzurra, oggi fa il libraio, ma
non ha mai dimenticato una virgola di quello che accadde intorno a lui ed agli altri
sottufficiali ed ufficiali investiti da una tempesta d’accuse per aver osato alzare la
testa di fronte agli stati maggiori. Adesso ha deciso di raccontare tutto, una
testimonianza che aggiunge tasselli importantissimi per ricostruire la vicenda d cui è
stato protagonista il maresciallo Mario Alberto Dettori, il radarista di Poggio Ballone
trovato impiccato nel 1987. Sul caso Dettori il giudice Rosario Priore vuol fare luce.
La questione è delicatissima e potrebbe forse chiarire il mistero sulle possibili
connessioni tra la base di Grosseto, il radar di Poggio Ballone e la strage del Dc9. Nei
giorni scorsi il magistrato avrebbe sequestrato un’agenda di Dettori, che si trovava in
servizio a Poggio Ballone proprio la sera del 27 giugno 1980.
Il fatto è che il giorno dopo la strage il maresciallo confidò alla cognata che “si era
stati ad un passo dalla guerra”. E che questa confidenza trova oggi una conferma
sostanziale nelle parole e nei ricordi del capitano Ciancarella. “Quando mi chiamò era
molto agitato, tanto che le cose che mi disse mi fecero uno strano effetto. Voglio dire
che mi preoccupai più di calmarlo che di capire effettivamente cosa fosse successo”.
E poi? Il maresciallo si rifece vivo con lei? “Sì, ai primi d’agosto. Mi telefonò una
seconda volta a casa, ma con un tono completamente diverso. Era freddissimo.
Accennò alla faccenda del Mig trovato sulla Sila, a cui devo dire che in quei giorni
non avevo dato troppa importanza. Poi mi ricordò che gli avevo che gli avevo chiesto
riferimenti precisi, prove”. Gliene fornì? “Mi disse ‘io le posso dare solo alcuni
suggerimenti, che poi lei deve verificare’. Gli chiesi: ‘ Scusa, ma in base a che cosa
mi dai questi suggerimenti?’. E lui ‘dopo questa puttanata del Mig … si guardi gli
orari degli atterraggi, i missili a guida radar e a testata inerte’. Gli risposi che lo avrei
fatto. Ci scambiammo gli auguri estivi. Da allora non lo sentii più”.
Ciancarella ricorda che per lui non ci fu più nemmeno il tempo di farli, quei
controlli suggeriti da Dettori. All’inizio di settembre iniziò la raffica di accuse contro
il movimento dei militari democratici, e prima della fine dell’anno arrivò anche
quella accusa di insubordinazione. “Avevo la testa da un’altra parte e nella mia stessa
situazione c’era anche un mio caro amico, Sandro Marcucci”, ricorda.
Marcucci, anche lui capitano pilota dell’Aeronautica, anche lui espulso dall’Arma
Azzurra, è precipitato a febbraio in Toscana con il suo aereo antincendio. Un
incidente discutibile e discusso, sostiene Ciancarella, avvenuto appena due giorni
dopo la pubblicazione sul Tirreno di una durissima lettera aperta che lui stesso aveva
scritto sui temi della libertà e della democrazia in Aeronautica. Anche Marcucci
sapeva delle confidenze di Dettori? “Sapeva altre cose. Ad esempio, sosteneva che
quel Mig precipitato sulla Sila era partito dalla base di Pratica di Mare. Lui a Pratica
di Mare c’era stato a lungo, per un corso sul G222. Me ne aveva parlato più volte”.
Ieri, in occasione della cerimonia di giuramento del corso ”Nibbio IV”
all’Accademia di Pozzuoli, il capo di stato maggiore dell’Aeronautica, generale
Stelio Nardini, ha detto: “Ciò che è avvenuto lunedì scorso a San Macuto
(l’approvazione della relazione finale che mette sotto accusa l’Arma Azzurra per le
omissioni sulla strage di Ustica, ndr) ha procurato ferite più laceranti di quelle che
hanno segnato i corpi, cinquantun anni orsono, dei nostri caduti. Ma noi non
smetteremo un solo attimo di lottare per la causa della verità. Perciò oggi, davanti a
questa bandiera e a tutti voi, dico: nessun uomo dell’aeronautica militare ha mai
tradito la loro memoria, il loro sacrificio il giuramento di fedeltà alle nostre
istituzioni”. Poi, di fronte ai giornalisti, Nardini ha voluto precisare che nelle sue
parole non vi era nessun intento polemico: “Non mi permetterei mai di essere
polemico con nessuno, noi però non ci sentiamo sotto accusa. Siamo solo
amareggiati. Ancora non so per quale motivo sia caduto il Dc9 dell’Itavia a Ustica. Ci
sentiamo parte di questa tragedia che ha colpito il Paese e riteniamo che in questo
stato di diritto la verità verrà fuori”.

MA È COME DORMIRE SENZA SOGNI

di Gianni Brera,

“La Repubblica”, 31 ottobre 1992

Il giorno successivo all’approvazione in Parlamento della prima legge che mette


al bando il fumo nei locali pubblici Gianni Brera, accanito fumatore addolorato
da tanto accanimento, affida queste riflessioni a quanti, tra contemporanei come
tra i posteri, non intendono cedere ad uno dei primi, indesiderati effetti della
globalizzazione culturale.

ROMA – Considero un onore squisito questo di mettermi alla testa dell’ideale armata
di fumatori che le rudezze di una legge conformista bigotta e crudele stanno per
conculcare, affliggere e disgustare fino all’irriducibile dispetto. Sapeva chi mi ha
comandato che ero e sono in possesso di ogni requisito.
Sicuramente ho vissuto una delle mie infinite esistenze scorrendo il rito del fumo
presso una vigorosa tribù di indiani del Nord America. Il calumet era considerato
sacro come la soave estasi che ti coglieva affumicando le mucose della bocca e le
papille con le ardue succhiate di aria carica di erba bruciata.
Un francese ficcanaso scopre e dà il nome ad una sostanza di cui avvertiamo
soltanto l’efficacia: la nicotina. Ha sicure virtù curative. Conferisce briosa leggerezza
nei casi in cui si riesca a sopportarla: sveglia la mente e sprona l’intelligenza. Se
ancora non sei pronto a dominarla, neanche la puoi godere, come è logico. È una
sottile sbornia che ti assale e intontisce con nausee ricorrenti. Madama Nicotina si
conquista come qualsiasi bella donna, come qualsiasi bevanda prelibata. Nulla riesce
facile che veramente giovi: nemmeno la poesia, non dico la matematica, la filosofia,
la musica.
Monsieur Nicot è il prezioso notaio di un vizio impalpabile e fino. Cosa avviene
nel sangue di un uomo come il respiro vi porta l’ossigeno? Avviene che l’emoglobina
si carica di ossigeno e diventa ossi-emoglobina; il sangue arterioso porta quella
manna ai tessuti. E che avviene se l’aria entra nei polmoni già arricchita degli azzurri
sbuffi del fumo della sigaretta? Chimicamente si induce che abbia luogo qualcosa di
importante. La chimica è troppo bambina, e così la biochimica, per individuare le
sottili delizie che si scatenano o semplicemente si determinano nell’ossi-emoglobina
pronta a venir prodigata in circolo con l’additivo del fumo.
Qui si inseguono ineffabili fantasmi. La mente se ne popola irrorandosi di fantasie
sublimi, stranamente propizia la poesia. Un vivace anelito aspira al mio calumet
giornaliero con la vita.
Il primo fiammifero è sacro come il fuoco tratto dal Tempio di Vesta. Per evitare
sacrilegi mi servirò da ora innanzi della cicca. Non so quante sigarette mi illuminano
la via dei giornali. Me ne portano otto-nove ogni mattina. Poi mi si impone la pausa
della doccia. Si avvicina il pranzo. Se riesce lungo, la sigaretta ne ritma i tempi
secondo pause insigni, riaccensioni sagge del misterioso focherello che arde nel
sangue con l’ossi-emoglobina.
Capita sempre che si offenda un cuoco. Mi scuso lusingandolo: la patina del fumo
serve da intercapedine tra il mio gusto troppo intenso e la sua arte troppo sopraffina.
E più non dimandare. Se il cuoco è un familiare, la giustificazione è prontissima
inconfutabile santa: e chi ti dice che non sia proprio la sigaretta il pretesto per una
sana ed indispensabile ginnastica polmonare? Si tace sugli stimoli mentali. Quelli, io
so tenermeli segreti. La sigaretta mi arde tra le dita come un afede. E non si offende
mai.
Più anni in giro per il mondo a battere furioso polpastrelli su atleti medio-
proporzionali tra gli arrotini e le aquile. I riti dell’arsione sigarettizia sono i più
spicci, quasi automatici. Almeno cento ossessi gomito a gomito spremono affaticate e
spesso corrose meningi. Quando le circonvoluzioni non ricevono sufficienti irrorate
di sangue, i polpastrelli in angoscia cercano diversivi. La prima risorsa è offerta da
sorella sigaretta. Si prende dal pacchetto, si accende il fiammifero, si incendia il
tabacco e intanto si aspira come una liberazione profonda (oh yes). Gli occhi
apprensivi si volgono a sogguardare se gli altri – i cani, i Nemici – si siano accorti
della panne, cioè della sospesa irrorazione sanguigna. Pensino quel che vogliono.
L’ultima cartella verrà. Le idee e gli argomenti ci sono: deve solo riattecchire il
motore. Il fumo disegna volute che paiono segnali. La nicotina trae il suo elegante
frustino di sadica e sferza le meningi: ecco riapparire pieno gremito lo schermo della
fantasia. I polpastrelli fremono. I tasti cantano ticchettando. Il tuo epos di poveri si va
ripopolando di eroi. Dell’umile e prodigiosa droga bruciata in un istante non ricordi
nemmeno.
Viene anche i tempo in cui la fuliggine si addensa sulle pareti dei bronchi come
succede nei camini a fuoco di legna o di carbone. Allora ti avventuri nella potente
foresta dei sigari. Sono autentiche sequoia in miniatura. Abbi cura di incendiare la
pelletica d’intorno, se non brucia. Il Toscano è un vulcanetto tascabile, di quelli che
eruttano fuoco alla minima scossa. Il magma lavico si sublima in spire da consiglio di
guerra aperto a tutto un popolo, non di una sola tribù. E spire azzurre e calde
invadono la bocca ed aggrediscono le mucose come un fiato demoniaco. Anche il
sigaro va conquistato. È una goduria greve e forte, del tutto priva di frivole moine. La
bocca si riveste di una gromma rugginosa sulla quale, sfregato, si accenderebbe anche
un fiammifero di legno. Il vantaggio pratico è dato dal fatto che il fumo della boccata
non lo si manda nei polmoni, resta in bocca: al più si espelle dal naso. Se reggi all e
fiammate di quell’inferno, puoi chiamarti beato. Ma può succedere che, a digiuno, ti
si accartocci lo stomaco, ti vengano gli stranguglioni come gli inciucchiti per sfregio
dalla cicca ficcatagli nel becco.
Resta la pipa, che ci riporta agli indiani. Di mezzo ci si sono messi gli inglesi, che
hanno inventato tutto, anche il succhiare da un fornello di radica. La pipa esige
calma, interiore livello filosofico, sublime pacatezza dell’anima. Le sue delizie sono
infinite e non tutti vi possono accedere senza adeguate risorse religiose. Bisogna
conquistare anche quel fumo ormai sapiente da secoli.
Non ho più spazio per esaltare degnamente un fenomeno di così alta civiltà. Io vi
ho solo accennato ai piaceri che ci vengono dal fumo reale di foglie accese dopo
preparazioni e conce di anni. Sono rimasto al rito plebeo e svelto della sigaretta,
misteriosa nelle sue aggiunte all’ossi-emoglobina. Ora, che il conformismo degli
igienisti ci gabelli per seta una crociata di spegnimoccoli mi disturba fino all’orrore,
non slo al dispetto. Sono anche sdegnato che il piacere degli altri si guardi sempre
con l’astiosa invidia di un fratacchioncello magro e denutrito che piacere non può né
deve avere. Allora, sapete, vi dico: peggio per lui e per tutti quelli che somigliano a
lui. Intendo fumare fino all’ultimo fiato. Poi, che si arrangi la mia emoglobina.
Vivere senza fumo sarebbe come dormire senza sogni.
A NOVE SECONDI DALL’IMPATTO

di Stefano Polli

Ansa, 10 settembre 1995

Afferrato ai braccioli di due sedili di un banalissimo volo Milano-Roma, Stefano


Polli vive l’incubo di ogni passeggero: andar giù, verso terra, come un ferro da
stiro. È un’esperienza di qualche decina di secondi e di diverse migliaia di metri
che si esaurisce, con profonda soddisfazione del diretto interessato, a distanza di
sicurezza dal suolo. Si è trattato di una manovra decisa dal comandante sul cielo
di Parma per evitare un altro impatto, questo sì reale e letale, con un secondo
aereo. A bordo, alla fine, i nervi non reggono a tutti. Lui scende dalla scaletta e
detta il pezzo.

ROMA - È stato come se l’aereo fosse attraversato da una scossa violenta. Poi è stato
come un ascensore in picchiata. Mi sono sentito prima sollevare e poi schiacciare sul
pavimento del corridoio, verso il lato sinistro del velivolo. L’aereo vibrava. L’unico
pensiero è stato di attaccarmi istintivamente ad una poltrona, a una cintura, di
accucciarmi sul pavimento, di salvarmi in qualche modo.
Io e gli altri 160 passeggeri non sapevamo che il comandante, Maurizio De
Martini, in realtà stava virando per evitare un altro velivolo. Abbiamo sentito
soltanto che il “Reggio Calabria”, il nostro Dc9 in volo da Milano a Roma, stava
perdendo rapidamente quota, sbandava improvvisamente e bruscamente verso
sinistra. Soprattutto, nessuno sapeva se tutto ciò fosse una manovra controllata
oppure no.
Il comandante aveva da poco dato il via libera ai passeggeri per slacciare le cinture
di sicurezza. È il momento in cui ci si rilassa, ci si alza, si va a chiacchierare con
qualcuno. Ci si lamenta: l’aereo era partito con un ritardo di cinque ore, passate a
bivaccare nei locali di Linate. L’imbarco era stato una liberazione.
Anch’io mi lamentavo, in piedi nel corridoio, con un collega. Fuori degli oblò
correva il cielo scuro sopra la Pianura Padana.
A quel punto è iniziato tutto. Una mano enorme e invisibile ha preso l’aereo come
fosse un giocattolo e lo ha portato giù. Come un ascensore senza controllo. Come un
incubo.
Era, invece, una virata improvvisa e veloce. Certo troppo veloce e troppo brusca per
essere una situazione normale. L’impressione è stata che la virata e la discesa siano
avvenuti in due tempi; il tutto in circa un minuto, un minuto e mezzo, anche se è
difficile essere precisi su questo particolare.
Ad un certo punto l’aereo ha sembrato riprendere stabilità. Ma è stato soltanto un
attimo. Ci siamo guardati in faccia. Poi, una nuova botta e di nuovo giù. Diversi
passeggeri sono riusciti a mantenere i nervi saldi, trattenendo il respiro, aspettando
che tutto passasse. Per altri è stato più difficile. Qualcuno piangeva, altri hanno
raccontato più tardi di essere stati a un passo dallo svenire.
Poi, di colpo come era cominciato, l’incubo è finito. L’aereo si è come fermato.
Tutto è tornato normale. Ero ancora accucciato a terra, attaccato ad una poltrona. Una
donna è passata accanto a me, trascinandosi sul pavimento, la faccia bianca. Di corsa
sono tornato al mio posto e mi sono cinturato. Sull’aereo silenzio completo, attesa e il
tentativo di capire cosa era accaduto. Quindi l’equipaggio si è alzato dai sedili e ha
ripreso a girare per l’aereo, fino a quando il comandante, attraverso l’altoparlante, ha
spiegato tutto: era stata una mancata collisione, c’era un aereo di fronte a noi, aveva
fatto l’unica cosa possibile per evitarlo.
Lentamente la tensione a bordo si è allentata, la paura si è pian piano dissolta. Con
alcuni colleghi della Rai abbiamo chiesto al comandante qualche particolare in più.
Con cortesia ci ha detto che non poteva rispondere alle nostre domande, ma ci ha
confermato che avrebbe presentato denuncia per evitata collisione.
L’equipaggio ha cercato di confortare i passeggeri, consolando i più allarmati.
L’atterraggio è arrivato senza la coda di ritardo prevista, in precedenza, sul cielo di
Fiumicino. Ritardo recuperato sul previsto, sottolinea il comandante strappando
qualche sorriso. Sorrisi che si sono fatti molto più larghi al momento in cui il “Reggio
Calabria” ha toccato terra ed è scoppiato, a bordo, un lungo applauso liberatorio.
Nessuno di noi sapeva quanto fossimo andati vicino alla collisione. La risposta
l’abbiamo avuta poco dopo: nove secondi.

SOR GIUDICE MIO, STAVO A FA’ ’N TUFFO

di Gianfranco Coppola

“Agenzia Giornalistica Italia”, 22 agosto 1997

In una afosa mattina di un agosto molto afoso, tre amici decidono di prendere il
fresco un po’ fuori, un po’ dentro la Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, uno
dei monumenti più famosi del barocco romano. Uno si arrampica su una statua
scolpita tre secoli prima dalle mani sapienti di Gian Lorenzo Bernini: un
delicato drago di marmo, che non regge il peso e finisce in pezzi nella vasca. Un
turista straniero, indignato, chiama la polizia. Al processo il Comune si
costituisce parte civile, e chiede i danni a tutti e tre. Il pretore, alla fine, ne
condanna uno solo, e senza infierire. Il peggio è evitato grazie alla testimonianza
che gli imputati rendono in aula, e ad una arringa di grande potenza oratoria
pronunciata dal loro difensore, l’avvocato Aldo Ceccarelli.
ROMA – Sebastiano Intili, Mario Giorgini e Giovanni Pisano si sono presentati
davanti al pretore per spiegare che non sono dei vandali, come sostiene invece la
maggior parte dell'opinione pubblica, e che quello che è successo martedì è solo
frutto di una "ragazzata" che non si ripeterà più. Intili è stato il primo degli imputati a
prender la parola. Zoccoli olandesi bianchi, camiciola e pantaloni a disegni esotici e
colori sgargianti, il più anziano dei tre ha preso il microfono e ha raccontato i fatti di
quel 19 Agosto. "Mentre stavo sulla piazza con gli amici, me volevo fa’ un panino,
ma in testa avevo la fissa de fa’ er bagno. Ce l'avevo da tre, quattro anni. Così ho
detto agli altri due, me faccio er bagno e me so’ levato le scarpe. So’ salito su, ho
poggiato il piede e il pezzo della statua mi si è franato sotto. Me so’ fatto male pure ar
piede. Io volevo fa’ solo una capriola e questa (la statua, ndr) è ita per terra. A
quell’ora non c’era nessuno, non c’erano vigili, non c’erano le guardie. So’ uscito
dalla fontana e me ne so’ andato in via della Cuccagna. Ero già bagnato, allora ho
strizzato la roba, e mentre cammino, me dico che il bagno nun me lo sono fatto pe’
gnente. Avevo ’sto sfizio de fa’ ’na capriola. E allora ce so riito (riandato, ndr) verso
la fontana pe’ famme un tuffo. Uno straniero me vede e me dice ‘ma che nun
t'abbasta che è caduta?’ ed io je risponno ‘ma fatte li cazzi tua, che questo è un affare
mio’”.
“È ita così, giudice, poi se ne semo annati. Er poliziotto che ha parlato pe’ primo è
buciardo".
Il pretore: “Stia calmo, per favore, non si esprima in questi termini”.
Intili: “Me scusi. Parlo così purtroppo. Ma si nun c’è verità de mezzo, io divento
inquisitore. I primi due poliziotti non hanno visto gnente. Dopo il fatto, me ne so’
annato in via della Scrofa, se semo comprati da magna’. Nun è vero che quanno er
poliziotto è salito su a casa de Giovanni (Pisano, ndr), ha visto che se stava ad
asciuga’. Nun è vero. Lo sostiene Adriano (uno degli agenti del commissariato Trevi,
ndr) che ce l’ha con me perché va sempre in bianco”.
Il pretore: “Lei in passato ha sempre fatto i tuffi in quel punto della fontana o in
altre parti?”.
Intili: “L’ho sempre fatti, ma mo’ nun me accollate i pezzi antichi, eh (non datemi
la colpa per cose passate, ndr). La verità è questa: Pisano è rimasto fori e poi quanno
ho fatto er tuffo, l’ho fracicato. Lui stava sur bordo e s’è bagnato tutto. Nun semo
scappati. E nun è vero nemmeno che c’era la pattuglia a Piazza Navona. I poliziotti
stavano a fette (a piedi, ndr). Quando loro so’ arrivati, era già finito tutto”.
Il pretore: “E lei se ne era già andato via?”.
Intili: "Me ne so’ annato, regolare. Potete pure chiama’ er primo poliziotto che ha
testimoniato. Stamo dentro a ’n tribunale, mica dentro a ’na chiesa”.
Il pretore: “Che ore erano quando ha deciso di farsi il tuffo?”.
Intili: “Prima delle due, due meno un quarto. Prima che chiudesse er pizzicarolo”.
Il pretore: “Ci faccia capire, lei alla statua si è appoggiato o no?”.
Intili: “Nun me so’ appoggiato. Dovevo fa’ ’na capriola. Erano due, tre anni che
volevo fa’ ’sta rivorta”.
Il pretore: "Ma lo sa che è pericoloso?”.
Intili: “Per uno che è bbono a falla, no...”.
Il pretore: “Lo sa che quel pezzo, la coda del drago, era già stato restaurato?”.
Intili, sorridendo: “Se devo esse’ sincero, che s’era rotto anni fa, me lo ricordavo.
Ma io so’ leggero, ce so’ annato sopra come ’na piuma. Mica ce so’ annato come un
somaro. È stata una disgrazia, me dovete capi’. So’ piu’ de dieci anni che nun me
facevo er bagno”.
Il pretore: “Lei non lo farà più?”.
Intili: “È regolare, lo posso assicurare. A me m’è dispiaciuto perché è normale ed
infatti eccoci qua. La cosa che m’ha dato più fastidio è che c’hanno chiamato
balordi”.
Il pretore: “Questa cosa dei tuffi, possiamo dimenticarla?”.
Intili: “E certo, è regolare”.
Dopo Intili, è stata la volta di Giovanni Pisano, 33 anni, posteggiatore abusivo.
Alcuni testimoni lo accusano di essersi fatto il bagno assieme all'amico. Lui si
protesta innocente. “Stavo fuori, sul bordo della fontana – ha detto al pretore,
parlando stavolta senza alcuna pesante inflessione romanesca – ho visto cascare il
pezzo. Quando Intili si è tuffato, mi ha schizzato tutto”.
Il pretore: "Lei non si è mai tuffato?”.
Pisano: “Mai, né la prima, né la seconda volta”.
Il pretore: “Questo tuffo era stato preordinato?”.
Pisano: “No, è stata una cosa improvvisa”.
A chiudere gli interrogatori è stato Mario Giorgini, anche lui 33 anni, di
professione “traslocatore con l’Ape”.
Il pretore: “Vuole rispondere?”.
Giorgini, con un sorriso stampato in faccia: “Come no, ce so’ venuto apposta”.
Il pretore: “Guardi che non c’è tanto da ridere. Questo è sempre un processo”.
Giorgini: “Me scusi”.
Il pretore: “Ci racconti com’è andata”.
Giorgini: “Stavo con loro due, quando Intili ha detto che se voleva fa’ er bagno”.
Il pretore: “Perché, lei non si è fatto il bagno?”.
Giorgini, indicando la fronte: “...E che, ciò scritto ‘Giocondo’?”.
A questo punto prende la parola l’Avvocato Ceccarelli: “Onorevole pretore, in
Italia la più grande parola del vocabolario è ‘libertà’. Questa libertà che solo voi
giudici potete consegnare ad un cittadino. E di questa libertà farà tesoro il mio
assistito. In verità, non solo la Roma città dei Papi e dei Cesari, ma anche tutta
l’Italia, l’Europa, il Mondo, attendono con trepidazione la vostra sentenza”.
“Il mio assistito, l’altro giorno, è stato portato qui, con le catene ai polsi come si
faceva nel Medioevo. Questo è il codice italiano. Il Comune di Roma si preoccupa di
costituirsi parte civile in questo procedimento, e non si preoccupa di chi lancia i sassi
dai cavalcavia contro dei poveri cittadini, non si preoccupa dei moschetti che
vengono messi alle macchine di chi va a lavorare la mattina”.
“Intili, oggi per te è nata un’altra alba. Nella tua mentalità non certo da scienziato,
da scrittore o da giornalista, non ti sei messo in mostra, ma sei stato colpito dagli
invidiosi. (Rivolto alla corte, Ndr) Intili ha voluto tuffarsi, con il caldo che sentiva
dalla gola scendere nei polmoni. Si parla di una fontana danneggiata. Ma quale
danno, se il pittore (uno dei testimoni dell'accusa, ndr), grande osservatore di uomini
e di cose, ha affermato che Intili stava solo nuotando? In una piazza grande, fascinosa
e oceanica come Piazza Navona, molti si tuffano sulle borsette degli stranieri, lui si è
tuffato in una fontana. Poteva sfasciarsi anche il cranio, per il fondo viscido; ma il
Signore, da lassù, caro Intili, ti ha protetto”.
“Nel carcere, dietro le sbarre, ci si entra da vivi e si esce cadavere. Intili non
ritornerà più sui suoi passi, non farà più il bagno, non farà più piangere il suo
bambino di cinque anni che per qualche notte non ha trovato il padre a casa. Quale
diritto hanno ’sti stranieri che vedendolo in acqua hanno chiamato la polizia?
Nessuno pensa che Intili, a 40 anni, poteva rischiare una polmonite, poteva spaccarsi
il cranio ... Noi, onorevole pretore, vogliamo dire che i poliziotti che hanno
testimoniato oggi non sono il Vangelo. Le loro parole fanno senso. Ma quale danno e
danno! Per esserci un danno, ci deve essere un dolo generico. Ma quale dolo
generico! Qui non c’è alcuna determinazione ad arrecare danni. Voi, signori
poliziotti, avete fatto i rebus! Per questo chiedo l'assoluzione di Intili. Chiedo la
libertà per Intili. È stato un momento e non succederà più, me lo ha promesso ...
(pausa di sospensione retorica) … Restituiamolo al Sole di Roma!”.

LA VITA SI E’ FERMATA A COLLECURTI

di Massimiliano Scafi
“Il Giornale”, 27 settembre 1997

La tragedia piomba di notte nella zona più serena d’Italia. Usando solo pochi
particolari, Massimiliano Scafi descrive il terremoto che investe Umbria e
Marche, il cui simbolo sono due anziani, marito e moglie, che scelgono di morire
abbracciati nella casa in cui hanno vissuto per una vita.

COLLECURTI (Macerata) – Una rete permaflex seminuova, una serranda


marroncina ed una scarpa emergono da una montagnetta di cocci indistinti, di pezzi
di legno, ferri, tubi, stracci e ringhiere contorte. E sopra le macerie, come appoggiato,
un grosso cilindro bianco: ‘eccola’, viene da dire, ‘la bomba che ha demolito il
paesino, ucciso i due vecchietti e ferito quindici persone’. Invece è solo lo
scaldabagno. “Questa è casa Ricci”, spiega il maresciallo dei carabinieri indicando
l’ammasso dei detriti. Casa si fa per dire: l’unica cosa rimasta in piedi è la porta della
cucina.
A Collecurti, diciassette abitanti, la vita si è fermata alle 2,33 dell’altra notte. Un
piccolo borgo dell’Appennino, ricamato su un poggio al confine tra Marche ed
Umbria e ignorato dalle carte geografiche. Quattro muri in croce, una minipiazzetta,
una decina di giardinetti a picco sulla Valle del Chienti.
Per arrivarci bisogna superare quattro posti di blocco, abbandonare per qualche
chilometro la provinciale e buttarsi per i campi, attraverso altri paesino devastati,
evitare i sassi caduti e qualche volta scendere dall’auto per liberare la carreggiata dai
cornicioni. Boschi di castagni e querce, piantagioni di girasoli appassiti, curve a
gomito tra colline a forma di cono. Qua e lè la vita continua come non fosse capitato
nulla: lungo la strada ci sono i banchetti dei contadini che continuano a vendere le
patate rosse ed il farro.
Collecurti appare all’improvviso, dopo un tornante. A una dozzina di ore dalla
prima scossa c’è ancora una specie di nuvola, un pulviscolo che quasi nasconde lo
scempio. C’è il cartello bianco, “Collecurti - 870 metri sul mare”, c’è un abbeveratoio
e poi basta. Alle 11,45 la seconda scarica fa crollare quel poco che è rimasto in piedi.
Adesso il paese non esiste più, non sarà necessario aggiornare le mappe. La rampa
che conduce al borgo è transennata: per sbarrare il passo i pompieri hanno usato un
lampione dell’Enel.
Francesco Ricci, 84 anni, e Maria Innocenzi, 85, dormivano il loro giusto sonno.
Li hanno trovati morti, abbracciati. “Erano sposati praticamente da sempre – racconta
Don Aldo, il parroco di Forcella – s’erano conosciuti sui campi che erano ancora
bambini, e da allora sono rimasti sempre insieme. Le loro nozze? Chi lo sa, nessuno
può ricordarle. Non avevano figli, vivevano l’uno per l’altra”. Li hanno trovati
abbracciati nel letto.
Dormiva, nella casa accanto, il fratello di Francesco, Erminio Ricci, 75 anni. Lo
hanno trovato vivo qualche ora più tardi. Era in bagno, sepolto dai calcinacci. “Aiuto,
aiuto” si lamentava. Ora è ricoverato all’ospedale di Macerata.
Al tramonto un vento gelido spazza l’Appennino. Gli abitanti di Collecurti si sono
riparati a Forcella, quattro chilometri più a est. Forcella è rimasta in piedi, ma tutte le
case sono state lesionate. La gente è accampata sulla piazzetta principale, Tre
panchine, qualche sedia, le auto messe a circolo. Su un tavolo dei panini e una
cassetta di acqua minerale.
Aminda Fedeli, una trentenne con i capelli biondo-paglia, abitava accanto ai Ricci.
S’è salvata per caso. “È dall’inizio del mese – racconta – che siamo sotto pressione,
che ci aspettavamo questo disastro. Così anche ieri sera sono andata a dormire il più
tardi possibile, solo quando proprio mi si chiudevano gli occhi. La scossa non l’ho
sentita, non ho sentito nulla. So solo che mi sono ritrovata con il materasso sulla testa
ed una trave appoggiata sul collo. Piano piano, con le mani, sono riuscita a scavare
tra i mattoni e i calcinacci e ad aprirmi una via di fuga. Mia madre Mira, invece, che
aveva la stanza da letto al piano di sopra, s’è ritrovata seduta in cucina con una
vertebra rotta”.
Altre storie, altre paure. Giuseppina Pacifici alle 2,23 era sveglia perché da
qualche giorno suo figlio è influenzato. Gli stava facendo prendere la tachipirina,
quando Collecurti è esplosa. E così la signora Pacifici è stata letteralmente inghiottita
dalla terra. Suo marito, Gianni Fedeli, medico l’ha tirata fuori da una bica di 80
centimetri, l’ha portata in ospedale, ha affidato il bambino ad alcuni parenti poi ha
cominciato a girare per i paesi della vallata per soccorrere altri feriti.
Autotreni con il loro carico di roulotte arrancano sulle stradine bianche. I cartelli
turistici che indicano le meraviglie del “Percorso del Ducato di Camerino” oggi
hanno un qualcosa di stonato, con tutta quella gente che piange lungo la provinciale,
tutte quelle sedie di plastica allineati sui campi verdi.
La strada per Cesi è interrotta, ci si può arrivare solo deviando per i prati,
superando il valico di Colfiorito e planando poi su un paese fantasma. Elicotteri,
qualche roulotte, volontari della Croce Rossa, cani lupo alla ricerca di superstiti.
Piazza Kennedy è sventrata, tra i mattoni e gli intonaci l’insegna di un ristorante che
promette “funghi freschi tutto l’anno”. A Colfiorito ci si prepara ad una notte di
terrore. Le roulotte non bastano, almeno 500 persone resteranno all’aperto, a mille
metri di quota. “Benvenuti nella terra dei tartufi e dell’uva” si legge su un manifesto,
mentre gli sfollati fanno la fila per le razioni di cibo e di acqua.

TRENT’ANNI DOPO
di Beniamino Placido

“La Repubblica”, 8 marzo 1998


Per anni la principale firma della pagina culturale del suo giornale, sul finire
della carriera Beniamino Placido affronta il dilemma che ha attanagliato, e
continua ad attanagliare, più di una generazione. Questo: ma cos’è stato, in
fondo, il ’68? La risposta, alla fine, non manca di una nota di delusione.
ROMA – Nel marzo del 1991 - non ricorreva nessun decennale, nessun ventennale -
il mensile francese Magazine Littéraire dedicò un numero monografico al filosofo
Jacques Derrida. Ed alla sua “déconstruction de la philosophie”. Non ricorreva
nessun decennale, nessun ventennale del ’68 (di cui ricorre oggi invece - lo ricordo -
il trentesimo anniversario): eppure, nell’intervista di apertura, la rivista chiese al
filosofo che cosa ne pensasse di quell’anno. Che del resto aveva vissuto dall’interno -
anche se con distacco – nell’Università parigina. Più precisamente, gli chiesero se il
maggio francese rappresentasse un evento filosofico (“un événement philosophique”).
Jacques Derida rispose che lui tanta simpatia per quel movimento - e per tutti i
movimenti euforici, spontanei, di massa di quel tipo - in realtà non ne provava (“Je ne
crois jamais à ces choses”...). E che tuttavia sì, un suo valore “filosofico” ce l'aveva,
ce l'aveva avuto.
Sembrava forse eccessivo (certamente lo era) però altrettanto eccessivo ci sembra
oggi l’atteggiamento di spocchiosa sicumera, di sprezzante indifferenza che da varie
parti investe quell’anno singolare. Quel singolare fenomeno che è esploso tutto
insieme, in tutto il mondo. E i cui effetti non si sono ancora esauriti. Non pare. Anche
se facciamo un’enorme, irritata fatica a vederci chiaro. Nelle sue motivazioni vere. Il
“Maggio francese”, continuava Derrida, è uno di quei momenti rari, irrefrenabili,
probabilmente inspiegabili in cui l’umanità si rende conto all’improvviso del
carattere convenzionale delle nostre istituzioni. Di tutte le nostre istituzioni.
Professori e studenti si danno del lei: ma è una convenzione, una convenzione
soltanto. Chirurghi e portantini si danno del lei anche loro, negli ospedali. Ma non è
una convenzione anche questa? Perché non cambiarla? Perché non cambiarle tutte le
nostre regole istituzionali: cosa stiamo aspettando? Salvo ad accorgersi, dopo aver
fatto anche un solo passo, che tutte (tutte) le nostre regole di condotta convenzionali
sono. Non possono mica essere altro. Dal cielo non vengono. E tuttavia siamo portati
a viverle come se avessero un valore assoluto. Proprio per poterle utilizzare con
tranquillità.
Perché si verificò proprio allora, la rottura? Ancora Derrida: queste rotture si
verificano quando le nostre cose, le nostre istituzioni - le nostre convenzioni, suvvia -
si inceppano, vanno in “panne”. Allora si scende dall’automobile, si guarda dentro il
cofano e si esclama: ma come è messa male questa molla. Come è sistemata male
questa leva. Qui bisogna fare (rifare) tutto daccapo.
Chi è capace di interrogare ancora la memoria di quegli anni (se ne ha una) si
sorprende a trovarvi una sensazione strana. Anche sfuggente. Ma incombente. Ma
ingombrante. Un’imperiosa, oltre che improvvisa ondata di giovinezza. Il mondo si
era rifatto giovane.
E offriva a tutti la possibilità di rifarsi giovani, a loro volta.
Che ci voleva? Bastava negare la “convenzione” che separava il destino di un
ventenne da quello di un venticinquenne, da quello di un quarantenne. Ed ecco il
burocrate, il manager quarantenne che d’improvviso ringiovaniva e si metteva a
suonare la chitarra. Ecco la madre di famiglia quarantenne che si scrollava di dosso –
d’un colpo - il peso delle faticose abitudini familiari e provava le minigonne. Con
quel che alle minigonne in quel periodo si accompagnava: in termini di
spregiudicatezza e di disinvoltura.
Se si guarda all’ossessione giovanilistica di oggi, che si avvale anche di espedienti
cosmetico-chirurgici, e ci si chiede di dove viene fuori, ci si deve rispondere che
viene fuori di lì - da quell’anno, da quel movimento - anche se non si ha nessuna
voglia di confessarselo. Se si va a spiare nel cinema americano di quegli anni si
scopre che c’era già sta to qualche segnale premonitore. Nel 1966 era uscito
Operazione diabolica di John Frankensheimer. Dove si incontra un uomo d'affari
newyorchese di mezz’età che si fa cambiare la faccia, si fa cambiare l’identità, si fa
passare per giovane (molto più giovane di quel che è) e va a vivere mescolandosi con
i giovani - già scatenati - del tempo. Con loro improvvisa orge al grido (grottesco,
invero) di “Bacco, Evohé!”. Un film non riuscitissimo, ma che è stato (e rimane) un
oggetto di culto per i consumatori della televisione notturna.
Chi fruga nella letteratura americana minore di quegli anni vi trova un romanzo
come The Arrangement di Elia Kazan (assai più noto come regista cinematografico)
che è un lungo, irrisolto, disperato spasimo messo sul dorso di un banale businessman
che però vuole, disperatamente vuole cambiare vita, città, donna. Affrontare
un’esistenza più nuova e più vera (chissà se poi c’è, da qualche parte).
Tanti tentativi, e poi la stanchezza. Nel 1981 esce in America Gli amici di Georgia
di Arthur Penn. Georgia è una tipica ragazza Anni ’60. Intorno a lei di continuo
riecheggia la canzone Georgia on my mind di Hoagy Carmichael (quello di Polvere
di stelle, per intenderci). Dopo tante tensioni, dopo tante emozioni è proprio lei
Georgia a dire: “Sono così stanca di essere giovane; tutti, tutti vogliono essere
giovani, oggi”.

UNA SPOSA PER ZACHARY

di Vittorio Zucconi

“D”, 26 maggio 1998

Ritratto di famiglia in un interno ad opera di una grande penna, conoscitrice di


quel mondo sonnacchioso e surreale che è l’immensa provincia americana, terra
di valori tradizionali, passioni violente e grande senso pratico. Regola aurea del
giornalismo: ogni nome è una storia, e anche la storia apparentemente più
banale può essere raccontata. Basta saperla scrivere.

Zachary Critcherson aveva avuto molto dalla vita. Aveva una casa, due cani, cinque
capre, sei gatti, nove galline e un cavallo bianco chiamato Zebulon. Un altro si
sarebbe accontentato. Non lui. Lui voleva tutto, dalla vita. Voleva – l’insaziabile –
anche una moglie. E neppure una moglie qualsiasi. Zachary la voleva disposta a
dividere con lui la sua piccola fattoria nella campagna del Connecticut, a lavorare nel
suo vivaio di piante e a dargli un figlio maschio. Aveva anche già scelto il nome: lo
avrebbe chiamato Zebedia. Il suo sogno era semplice, anche se un po’ sibilante:
Zebedia figlio di Zachary a cavallo di Zebulon nei campi del Connecticut. Per
realizzarlo non trovò di meglio che inchiodare un cartello di legno alla cassetta della
posta sul viottolo che portava a casa sua: “Cercasi moglie – per informazioni
rivolgersi al padrone di casa”.
Era più una speranza che una offerta matrimoniale: ben poche persone, e
pochissime donne “single”, passavano per la stradina di quel mesto e noioso paesetto
del Connecticut chiamato Voluttown, che si pronuncia più o meno come “voluttà” in
italiano. Mai fidarsi dei nomi. Rimase dunque, lui per primo, sorpreso quando una
donna bussò alla sua porta e gli disse, con forte accento straniero: “Sono venuta per
quell’annuncio”.
Zachary la fece accomodare tra i gatti, scacciò le galline dall’unica poltrona, le
chiese il suo nome, e quando lo sentì dovette vedere un segno del destino, come
Costantino a Ponte Milvio: in hoc signo ti sposi. “Mi chiamo Zina”, gli disse la donna
in un inglese ruvido ma comprensibile, “Zina Kravchuk”. E raccontò di essere una
contadina anche lei, immigrata dall’Ucraina e disperatamente alla ricerca del
matrimonio con un americano per avere il permesso di soggiorno permanente.
Un’altra “Zeta”. Il sogno si stava completando: Zina che porta a spasso Zebedia figlio
di Zakhary in groppa a Zebulon. Dicono i paesani di “Voluttà”, e il pastore che li
sposò, che il matrimonio era partito bene, senza illusioni e quindi senza delusioni. A
modo loro, dovettero anche essere felici per qualche tempo: Zachary aveva una solida
moglie di sangue contadino che lo aiutava nel vivaio, Zina aveva il suo permesso di
soggiorno in quel di Connecticut che ricorda tanto il panorama dell’Ucraina. Neppure
due mesi erano trascorsi dal loro primo incontro, che già Zina gli annunciò di essere
incinta. Il bambino nacque in casa, con l’aiuto di una mid-wife, una levatrice. Erano
passati solo otto mesi dal matrimonio, ma la moglie lo rassicurò: tutto sarebbe andato
bene. Un neonato di otto mesi, al giorno d’oggi, non è un problema. Durante il
travaglio ed il parto Zachary, che era un uomo all’antica, restò alla larga dalla stanza
dove Zina stava partorendo. Attese nella stalla, strigliando il suo cavallone bianco e
sognando il figlio in sella. Attese e strigliò. Attese. Attese. Poi si stancò di attendere.
Rientrò in casa, bussò alla porta della camera dove la moglie era sdraiata e, nella
fessura della porta dischiusa, gli apparve la faccia della levatrice. “È nato?”. “Sì, ma
aspetti …”. “Aspetti cosa?”, “Sto lavando …”. “È sano?”, “Sanissimo, stia
tranquillo”. “È maschio?”, “Maschio”. “Dio sia ringraziato. Come sta Zina?”, “Bene,
bene”. “Voglio vederlo subito”, “No. Un momento, aspetti …” . Resisteva la levatrice
premendo il corpo contro la porta. Ma Zachary era un omone. Diede una spallata,
fece volare via la levatrice, entrò in camera. Sul letto, sudata, pallida, i capelli biondi
appiccicati alla fronte, era sdraiata Zina, con il fagotto del figlio appena nato accanto.
Zachary si fiondò sul letto, prese il bambino dalle braccia di Zina che aveva
cominciato a piangere, e guardò il suo Zebedia.
Era nero. Inconfondibilmente, indubitabilmente nero. Poiché lui era bianco e la
moglie pure, non occorreva un Nobel della genetica per capire che il “suo” Zebedia
era figlio di un altro. “Ero già incinta quando ci siamo sposati”, singhiozzava intanto
lei, “ero disperata, ero sola, non sapevo come fare ad abortire, ho visto quel cartello,
avrei dovuto dirtelo …”. Ma a questo punto, è chiaro, la tragedia era inevitabile.
Zachary lasciò cadere il neonato, barcollò fuori della camera, corse nella stalla dove
teneva il fucile, lo caricò a pallettoni pesanti, da caccia all’orso, mormorò “Signore
perdonami”, puntò l’arma e ammazzò il cavallo.
“Scusi, ma che c’entrava il cavallo?” gli chiese il giudice di Voluttown al processo
per il cavallicidio, prima di condannarlo a sei mesi con la condizionale per sevizie su
animali. “Ero impazzito di vergogna e di dolore, su qualcuno dovevo sparare per
sfogarmi. Zebulon era come un figlio, per me. L’ho sacrificato per salvare Zebedia.
Ora posso continuare a vivere con Zina e a fare da padre a Zebedia”. Requiem per un
cavallo bianco, morto per salvare un bambino nero.
ADESSO IL DOPING È UN CASO DI COSCIENZA

di Gian Paolo Ormezzano

“Famiglia Cristiana”, 4 ottobre 1998

La morte di Florence Griffith Joyner, bruciata dagli anabolizzanti per


rincorrere una carriera bruciante nel 100 metri, impone secondo Ormezzano
una seria riflessione su uno sport in cui gli uomini sono sempre più trattati da
cavalli.

Il mondo onesto dello sport è incerto tra la tristezza, lo sdegno, la rivoluzione, la


rassegnazione. Le notizia dl fronte del doping sono tragiche e perentorie, pare che ci
sia poco da fare, se non assistere alla truffa quando non anche – il caso di Florence
Griffith Joyner, trasformata forse chimicamente in poco tempo da commessa di
magazzino in donna più veloce del mondo ad atleta sparita di scena – alla tragedia, un
cuore di neanche trentanove anni che si ferma per ipertrofia da anabolizzanti.
Poco da fare se non sorridere, da complici italioti nell’eterno rito della furbata,
quando si apprende che da sempre nel laboratorio del Coni i controlli sui calciatori
sono stati non effettuati o effettuati parzialmente o fatti sparire se imbarazzanti. E
questo in un mondo dove tutti sanno e nessuno viene ufficialmente informato, e dove
sta nascendo il sospetto che alla gente, allevata a pane (lo sport) e caviale (i primati,
lo spettacolo), di sapere che Cagliostro è il più ricercato allenatore non importa
proprio nulla.
Non sappiamo cosa fare, se non stare dietro alla cronaca, che potrebbe presentarci
uno sport italiano senza governo, evento subito storico se si pensa che il Coni è stato
sino ad ora un modello, un esempio un po’ per tutti i comitati olimpici nazionali, con
il so fritto misto di statalismo, parastatalismo e privatismo nella gestione anche
economica degli atleti. Da giornalisti sportivi praticanti, suggeriamo a noi stessi un
“s.d.”, cioè un “salvo doping”, alla fin e di ogni articolo che celebri un primato, un
grosso spettacolo di sport, che canti un’impresa o un uomo.
Non si può però scherzare. Non sappiano che cosa fare ma dobbiamo fare
qualcosa, se non altro per nn arrenderci alle voglie di pericolosa liberalizzazione:
chimica aperta ai professionisti, divieti ai dilettanti, come se gli esempi dall’alto non
inquinassero, da sempre, la base.
Da uomini e basta speriamo – ma non ci possono essere leggi, sportive e no, a
sostegno di questa speranza – che l’uomo, per un miracolo o un estremo rigurgito di
umanesimo, capisca la bellezza di espandersi dentro i propri limiti, come le proprie
forze fisiche e spirituali. Ci sono spazi immensi, e affascinanti. Credevamo che lo
sport per missione segnalasse ed esaltasse questo tipo di bellezza, ma pare che lo
sport dei tempi nuovi raccomandi altre attrattive, altre pratiche: con gli alibi
mostruosi del denaro, in fondo un altro doping, del profitto, dell’alta specializzazione
per la creazione dello spettacolo.
Si va verso uno sport di mostri costruiti per divertirci e renderci passivi e amorfi
bersagli della pubblicità? Ci sono ancora altre diaboliche vie per far uscire l’homo
sportivus dai confini umani: i trapianti magari di muscoli, i giocacci di ingegneria
genetica (si fanno già sui cavalli…). La chimica sta studiando tanti “viagra” dello
sport. Il messaggio della biomeccanica, l’ingegneria muscolare, tutta ancora da
studiare, che potrebbe dare più vantaggi di un doping, è stato respinto: troppa fatica.
O bisogna contare su altri morti, non tanto per scuotere le coscienze quanto per
mettere paura? A questo punto, una Griffith potrebbe essere assimilata ad una
protomartire. Quando si ritirò dall’agone per la seconda ed ultima volta disse che si
sarebbe messa a scrivere fiabe per bambini. Ma a cominciare da Biancaneve ci sono
fiabe, anche celebri, che contengono incubi.

L’ASSOLUZIONE
di Concita De Gregorio
“La Repubblica”, 15 gennaio 1999
(pag. 8)
Giulio Andreotti compie 80 anni. È ancora sotto processo per l’omicidio di un
giornalista. Avrebbe dovuto essere il tramonto della sua carriera. Invece è la
dimostrazione che la vita inizia a ottant’anni, soprattutto se ci si chiama Giulio
Andreotti.
ROMA - Ha compiuto ottant’anni e non centocinquanta, c’era già quando c’era il re e
c’è ancora: identico, il profilo è sulle monete dei giochi in scatola della politica,
magro e diritto, cravatta coi nodi da vela che nemmeno Marini si azzarda, da giovani
ci si veste da vecchi per sembrare autorevoli, Marini potrebbe con abbondanza essere
suo figlio e difatti è lì che dice: “Molto, mi ha insegnato Andreotti. Prima di tutto a
prestare attenzione a ciascuno, sempre...”. Tre cravatte di Hermes, gli ha regalato.
Nove e mezzo di mattina, al Senato. Quel che resta della Dc di allora è qui ad
aspettare Giulio Andreotti che nel frattempo è già stato a messa, è passato
dall’ufficio, ha parlato al telefono con D’Alema che lo chiamava per gli auguri
(“sapesse, presidente, quanto la penso adesso che sono dentro palazzo Chigi”), ha
ricevuto il telegramma del Papa, ha richiamato in Vaticano per ringraziare, ha
sbrigato la corrispondenza del giorno ed è arrivato a piedi, il telegramma del papa in
tasca perché va letto, scusate la mancanza di discrezione ma va letto, è una specie di
assoluzione plenaria che suona così: “Auspichiamo che le pene e le sofferenze su di
lei avversatesi possano rivelarsi fonte di bene per lei e per l' intera società italiana”.
Le sofferenze provocate da Caselli, che giusto in queste ore lima e rilegge la sua
imminente requisitoria al processo di Palermo, come viatico verso la gloria nell’alto
dei cieli. Gloria sua e dell’Italia tutta, parola di papa. Perciò nessuno stupore se
l’inaccessibile imperscrutabile custode della storia politica italiana qui si commuove,
e si schiarisce la voce un istante. Tutti gli auguri fanno piacere, ma quando il papa ti
scrive che le disgrazie (giudiziarie, si suppone: altre non sono rilevate, salvo una
sorella morta a diciott’anni ma Giovanni Paolo II scriveva testi di teatro, allora)
quando il papa dice che i processi ti procureranno il Paradiso c’è di che meditare un
momento, e proporre il tema alla collettività. I presenti sono infatti parecchio
impressionati, più d’uno (Nicola Mancino, Ombretta Carulli) annuisce. Andreotti
spiega il senso dell’assoluzione papale, caso mai non fosse chiaro: “Se fossi arrivato
alla seconda vita pieno di elogi e coi tappeti rossi forse la legge del contrappasso mi
avrebbe condotto a rischiare l’infelicità eterna”. Invece così, con tutte quelle faccende
che i giornali tedeschi, per dire, giusto oggi rielencano (l’omicidio di Pecorelli,
Sindona, “scandali di corruzione e mafia, un gigantesco indebitamento pubblico e la
paralisi burocratica, economia disastrosa eredità dell’epoca in cui era alla guida del
Paese”, i processi per mafia), così, dice Andreotti, “chissà che non mi riesca di
conquistarmi un posticino anche in Paradiso”. È possibile, significano gli applausi ora
di seguito. “Le auguro di uscire presto dalle sue vicende più amare”, si rallegra
Nicola Mancino. “La Procura di Palermo per fortuna non è lo Stato. Lo Stato è anche
questo che festeggia gli ottant’anni di un uomo di eccezione”, ragiona Francesco
Cossiga che tiene nel frattempo una privata sessione di interviste su Prodi e su
Marini, sul governo e sulla storia, su come siano buone le patate cotte nello strutto
che si cucinano a Bruxelles, Prodi che è un bongustaio emiliano ci pensi bene a
rinunciare all’Europa per una vana ripicca con palazzo Chigi, che tanto è già
occupato, sul senso di essere democristiani: “Siamo una razza, noi”. Della vecchia
razza però qui oggi sono in pochi. Magari gli altri partecipano ai festeggiamenti
privati a casa del senatore. Qui c’è Taviani, c’è Elia che ha portato in dono le Epistole
di Cicerone, ci sono piuttosto notabili di altri partiti: Salvi, Del Turco, Maceratini.
Qualcuno ricorda che anche la Tass, l’agenzia russa, celebra Andreotti: nessun cenno
alle vicende giudiziarie, un encomio per il fatto che in commissione Esteri è “tra i
componenti più disciplinati e presenti”. Disciplina, certo. Lui ascolta e dice che gli
pare di essere commemorato da vivo, che fa un certo effetto. Poi torna al tema
prediletto, il tema papale. “Anche Giulio Cesare commise degli errori: nominò
moltissimi senatori credendo di essersi circondato di amici, ma la mattina che non gli
andò bene in Senato non c’era nessuno: erano tutti in missione o in congedo”. La
mattina che neanche ad Andreotti andò bene non c’era la folla intorno. Poi sono
tornati tutti: a festeggiarlo, a dire vedrai che passa e porta bene, l’ha scritto anche il
papa.
MISERIA DEL NEOLIBERISMO

di Giorgio Bocca

“L’Espresso”, 18 marzo 1999

Il paradosso di un sistema economico che affianca operazioni colossali a


incapacità strutturali, grandi visioni a quotidiani fallimenti.

Nel giorno in cui veniva lanciata l’offerta pubblica d’acquisto Olivetti su Telecom è
apparsa sui giornali, con scarsissima evidenza, l’intervista a un sindacalista di Ivrea.
Si diceva sorpreso che un’azienda capace di investire oltre 100 mila miliardi
nell’operazione kolossal non avesse trovato i 130 sufficienti a tenere in funzione la
fabbrica di Scamargo dei personal computer, che aveva delle ordinazioni in corso ma
non i soldi per comprare i pezzi necessari alla fabbricazione. Quanto a dire che
un’azienda che non poteva o non voleva trovare i 130 miliardi per assicurare la vita di
un impianto e l’occupazione di centinaia di persone poteva lanciarsi alla conquista di
un colosso mondiale delle telecomunicazioni, apripista di una cordata finanziaria di
cui anche oggi non si sa molto di preciso.
In questi giorni, da un’altra notiziola apparsa sulle pagine interne dei giornali,
abbiamo saputo che la Marzotto sta spostando nei paesi dell’Est buona parte della sua
produzione tessile. Se contemporaneamente si legge sui nominati giornali che il
problema numero uno è la disoccupazione, e che i nostri governanti ne sono
angosciati, sembra lecito pensare che la confusione è grande sotto questo cielo neo-
liberista. Ma c’è dell’altro. Riuniti a Milano, i leader del socialismo europeo si sono
trovati d’accordo nel rifarsi al modello Clinton, quello della flessibilità selvaggia.
È forse compito della sinistra imitare la destra? Il neo-liberismo sarà, come
dicono, la nuova frontiera dell’economia mondiale, ma a noi tanto nuova non sembra.
La sua spregiudicatezza, il suo cinismo sociale fanno rimpiangere il fordismo dei
padroni del vapore e il loro capitalismo duro ma ancora sociale, ancora legato agli
uomini che producevano, ai loro diritti e garanzie, cioè a quanto patteggiato ed
ottenuto dai sindacati in un secolo di lotte. A ciò si dovevano aggiungere i diritti e le
garanzie rispettati dagli Stati-nazione in nome degli interessi generali del paese.
Oggi, con la caduta del comunismo e della sua minaccia incombente e con la
mondializzazione, il neo-liberismo rivendica al mercato piena e quasi insindacabile
libertà d’azione. Un mercato che dovrebbe in compenso essere trasparente, chiaro per
tutti coloro che vi partecipano, ma non lo è per niente.
Interrogandosi su “Repubblica” sulle ragioni che possono aver indotto Olivetti a
una sfida così impegnativa, Eugenio Scalfari ha immaginato tra i vari scenari anche la
conquista della maggioranza di Telecom e poi la vendita, con grossi guadagni, delle
azioni a questa maggioranza non necessarie: un’ardita manovra finanziaria, che però
nulla ha a che vedere con il bene dell’azienda e con i suoi progetti industriali.
Per quanto se ne sa, da un punto di vista nazionale l’operazione avrebbe questo
esito non esaltante: resterebbe in mani italiane Telecom, e se ne andrebbe in mano
tedesca la telefonia di Omnitel e di Infostrada. Ma, dicono i neo-liberisti: che
importanza ha ancora nel mercato mondiale che un’azienda appartenga ad un paese o
al mercato? Discorsi a pera. Il rapporto paese-economia è più forte che mai. Ci sono
industrie da cui i paesi meno forti sono tagliati fuori: noi per chissà quanto tempo non
metteremo più becco nella produzione aeronautica e nell’informatica, due settori
trainanti.
Le cecità dei nostri governi, il rifiuto di sostenere l’industria informatica peserà
per decenni sulle sorti del paese. Già oggi ci sono imprenditori italiani che non si
fidano più di investire in settori esposti alla concorrenza straniera, al famoso
provvidenziale mercato che segue la legge del più forte e non offre alcuna difesa ai
più deboli. Specialmente a chi dispone soltanto di una merce sempre meno
importante come il lavoro manuale.

LA RIVOLUZIONE HA TRIONFATO. SULLA CELLULITE

di Beppe Errani

“Il Resto del Carlino”, 15 agosto 1999

Triste fine di un sistema che voleva creare un uomo nuovo, e che invece ha finito
per creare una delle capitali del turismo proveniente da un mondo ricco e dalla
pancia piena che si diverte, senza preoccuparsi di altro.

L’AVANA– Ferragosto in cerca della dolce vita tropicale, o almeno della sua
illusione. Miti letterari pochi, memorie ideologiche sbiadite nonostante la faccia
angelica e feroce di Che Guevara spunti da ogni parte. Della “su querìda precencia”
importa nulla alla stragrande maggioranza dei vacanzieri italiani che sbarcano a
Cuba.
Il pensiero unico, debole ma eccitante, è rivolto al fondoschiena delle habanere,
modellato da calzoncini aderenti, come un’altra pelle, a lasciar credere che su
quest’isola la rivoluzione permanente abbia sconfitto, oltre al capitalismo, anche la
cellulite. Ombelichi e seni, mojitos e bolero, acque trasparenti e amori non sempre a
buon mercato, ma con la sensazione che possano anche essere veri. Nessuno, né
comunista, né anticastrista, né disincantato uomo qualunque alle prese con i difficile
esercizio di restare cubano può fingere di non avvertire il brivido che si respira sotto
il sole perforante dell’Avana.
A modo suo lo spiega un giovane coatto – categoria regina dei turisti di metà
agosto – imbarcato su un aereo da Roma all’Avana. Un Cicerone che viene da
Napoli, dove con padre e fratello ha una piccola impresa di abbigliamento. Dice di
chiamarsi Mauro, anche se il diamante al collo che fa da pendent con l’orecchino è a
forma di P. È al sesto viaggio in dodici mesi.
Racconta: “Facile, facilissimo. Ogni notte una ragazza diversa. Meglio se ti prendi
un appartamento privato, ma si può anche in albergo dove le cubane non potrebbero
entrare. Ti metti d’accordo con il portiere, trenta dollari di mancia. Attento alle
puttane di mestiere: con loro non c’è amore, neppure con quelle da cento dollari. Le
ragazze migliori le trovi all’università. Vacci verso le sei del pomeriggio, quando
escono. Vacci con una macchina a noleggio, fa impressione. Prendi un appuntamento,
le porti a cena e poi a letto. Ah, non ti dimenticare di fare un regalo”. Perché ti piace
Cuba? “Per l’allegria”. Ti porteresti una fidanzata cubana in Italia? “Sei matto.
Queste sono tutte prostitute, anche se si innamorano. Finché ci sei non ti lasciano un
secondo; poi ti accompagnano in aeroporto piangendo come fontane e dopo la tua
partenza scendono agli arrivi ad aspettare un altro amore eterno”.
Quando si atterra, dopo dieci ore di volo, è quasi buio. L’attesa in dogana per
entrare in paradiso è sfibrante. Fuori ci si immerge nell’umidità melmosa dei tropici.
La guida statale, in un autobus la cui aria condizionata potrebbe congelare un vitello,
legge il manuale del turista avvertito. Fuori, nel buio, passano poche auto, qualche
autobus che ad ogni cambio di marcia sbuffa fumo come cento carri armati, biciclette
senza fanali e ciclisti con una pila in bocca, ombre nere si intravvedono sui
marciapiedi. Cercano un passaggio. Dov’è finita la sensualità? Questa atmosfera
ricorda Bucarest prima della caduta di Ceausescu.
In città, a luci accese, la prima coda che si incontra è davanti a Coppelia, la
gelateria di “Fragole e cioccolato”. Nonostante i quaranta gusti, il gelato è pessimo.
La movida cubana comincia da qui, dalla Rampa, la Via Veneto dell’Avana, e
continua a cena in un paladar, i ristoranti privati che pagano fior di tasse e danno
ossigeno capitalista alla moribonda economia castrista. Con i dollari si compra
qualsiasi cosa e più si compra, più lo Stato, che qui non è padrone solo dell’aria,
ingrassa.
Le donne cubane sono allegre. Molto belle se belle, anonime o chiattone come in
tanti altri posti del mondo. Rari i cloni di Naomi Campbell o Natalia Estrada.
L’amore lo fanno senza complessi. Nei paladar c’è una scena ricorrente: un turista
italiano (ma forse è tedesco o spagnolo, messicano o francese) che cena con tre
ragazze. È la via cubana alla vita, spesso alla sopravvivenza, che neanche il
puritanesimo di Fidel Castro, Grande Rivoluzionario, Grande Fratello e Grande
Mezzano, ha mai intaccato.
Un copione già scritto: una ragazza incontra il turista e si offre come guida, amica,
compagna, amante. Non vende il suo corpo, offre allegria, affetto, comprensione,
devozione, ammirazione anche per chi è calvo, sovrappeso o artritico. Lui e lei si
scambiano reciproche illusioni: all’uomo quella di essere un amante irresistibile, alla
habanera il sapore di vivere una settimana con la possibilità di comprarsi sapone,
dentifricio o una medicina che serve a casa, qualche vestito ed un capriccio, di cenare
al ristorante e divertirsi. Lui presenterà i suoi amici alle sue amiche, e il domino
sessuale continuerà.
Dietro al versione leggera c’è però anche quella più cruda dove l’amore non è un
gioco di allegria, ma un mestiere. Attribuita a Fidel Castro circola una verosimile
battuta, questa: “Cuba ha le prostitute più istruite del mondo”. Prima della caduta del
Muro di Berlino l’amore con le cubane lo facevano solo i companeros di tutto il
mondo, attirati sull’isola dall’Idea, dalla Rivoluzione che avrebbe creato la società
perfetta. Ma con la fine degli aiuti dai paesi fratelli Cuba è diventata meta di turismo
sessuale con gli inevitabili annessi: droga e violenza. Tanto che mesi fa Castro si è
ricordato ch eil compito della Rivoluzione è formare nuovi uomini e nuove donne, ed
ha ordinato un giro di vite. Dicono le cifre ufficiali che settemila jineteras
(“cavallerizze”, è la definizione delle amanti) sono state arrestate: alcune rispedite ai
paesi di provenienza, che per legge non avrebbero mai potuto lasciare senza
permesso, altre mandate a coltivare canna da zucchero in campagna. Duecento
ruffiani sono sttai arrestati e quintali di cocaina sequestrati. Castro ha raddoppiato lo
stipendio ai poliziotti (quasi 40 dollari al mese contro un salario medio di 15) e
sguinzagliato i “Berretti neri”, le unità speciali, per reprimere la corruzione nella
polizia.
Questo d’inverno. A Pasqua, con le presenze italiane diminuite del trenta percento
solo perché erano scomparse le ragazze, il regime moralista s’è accorto che qualcosa
non funzionava. Senza sesso meno dollari per il popolo: anche questa prostituzione
“dolce” è un’industria di Stato. Così, come sempre, si è trovato il modo di
“solucionar el problema”: i divieti restano, ma la polizia spesso si volta dall’altra
parte. “E comunque tu stai tranquillo”, spiega il dongiovanni napoletano sull’aereo,
“perché anche se fermano la ragazza che ti accompagna tu non corri alcun rischio”.
Dicono qui che dieci italiani e dieci cubani messi insieme facciano trenta figli di
buona donna, ed in effetti il feeling esiste. Gli italiani vantano il record dei
matrimoni misti (sia uomini che donne). Duemila solo l’anno scorso e, a giudicare
dalla fila fuori dell’ambasciata, aumenteranno. Stanno in coda, sotto un sole che
cuocerebbe un uovo, per avere il permesso di matrimonio o il visto per l’Itaia,
qualcuna la cittadinanza. Niente di nuovo: quando svedesi e norvegesi, negli Anni
sessanta, cominciarono ad atterrare al sole di Rimini, la parte dei cubani la facevano i
romagnoli. Paolo, 42 anni, impossibile da scambiare per un divo dei fotoromanzi,
artigiano di Settimo Torinese, bestemmia in piemontese perché il matrimonio gli sta
costando quasi quattro milioni in carte e permessi. A Cuba si compra, legalmente,
tutto.
La moglie, mulatta dai fianchi matronali, lo avvolge di tenerezza: “Pablo,, Pablito,
amorcito, stai calmo”. Paolo è il quinto di un gruppo di amici che ha sposato cubane.
Al primo è andata male: in due mesi lei ha telefonato per quindici milioni e lui ha
divorziato (altri mille dollari alla Rivoluzione). Al secondo non è andata meglio: a
Settimo Torinese c’è molta nebbia e sole con il contagocce, mancano mare e
discoteche e lui, dopo una girnata in fabbrica, non era più brillante o principesco
come a Cuba. Se ne è andata lei. Anche una donna di Bergamo, che era ripartita con
al braccio la sua statua di ebano, ha scoperto una volta tornata a casa che per i cubani
il richiamo dell’amore è irresistibile. Ovunque. Altri mille dollari.
Ci sono tanti Paoli che aspettano le fresche spose. Sono soprattutto Paoli in città
del Nord, cui la via cubana al socialismo ha cambiato la vita. Cambierà anche per
altri sei italiani che adesso si trovano in carcere per aver avuto rapporti sessuali con
minorenni troppo minorenni. Stavolta la Rivoluzione non si vende. Il vecchio Castro
lo ha fatto scrivere su tanti muri dell’Avana: “I princìpi non sono trattabili”.

LO STATISTA LATITANTE
(pag 1)
di Indro Montanelli

“Il Corriere della Sera”, 20 gennaio 2000

Questo è l’ultimo dei grandi ritratti scritti da Indro Montanelli. È dedicato,


quasi a mettere la parola fine su un’intera epoca, ad una delle figure più
controverse della cosidetta Prima Repubblica: Bettino Craxi, segretario del Psi,
primo esponente socialista a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio,
premier tra i più longevi della storia patria, uomo tra i più potenti d’Italia e
politico tra i più capaci. Ma anche l’uomo che, per sfuggire all’obbligo di
comparire dinanzi ad un giudice italiano ai tempi di Tangentopoli, scelse di
vivere gli ultimi anni di vita ad Hammamet, borgo marinaro della Tunisia. In
esilio, lamentano i suoi. Da latitante, sostengono i detrattori.

Raccolgo alla svelta, e un po’ alla rinfusa (la notizia della morte ci coglie di
sorpresa, e a tarda ora), i miei ricordi su Craxi. Non ebbi con lui nessuna familiarità e
ci avrò parlato, sì e no, tre volte. Mi dette dapprincipio un’incoraggiante impressione
di energia, risolutezza, rapidità di riflessi. Solo più tardi mi parve di capire ch’egli
aveva anche una spiccata – e funesta – propensione a considerare nemici tutti coloro
che non si rassegnavano a fargli da servitore. Sono pochi, intendiamoci, i politici
immuni da questo vizio. Ma alcuni di essi sanno almeno mascherarlo. Craxi era di
quelli che l’ostentano fino ad esporsi all’accusa di “culto della personalità”: un culto
che, a quanto pare, dentro il partito gli riuscì di imporre, e molto forse gli giovò a
tenerlo in pugno; ma che, trasferito sul piano nazionale, avrebbe potuto procurargli
seri guai. Non perché a noi italiani certi atteggiamenti dispiacciano, anzi. Ma perché,
in fatto di guappi, siamo diventati, dopo Mussolini, molto esigenti: quelli di cartone li
annusiamo subito.
Ricordo la bagarre finale del Congresso del Midas di Roma (nel luglio del ’76),
che lo acclamò trionfatore. Fra le tante accuse che gli sconfitti lanciarono contro di
lui, c’era anche quella di “non essere un vero socialista”. Nel commento che gli
dedicai sul mio giornale scrissi che, al posto di Craxi, avrei adottato quella
definizione come slogan di propaganda elettorale: chissà, dicevo, quanti voti gli
avrebbe portato.
Da quel momento, a Milano, ci fu una moda-Craxi o una Craxi-moda. I salotti se
lo contendevano, le signore lo trovavano persino avvenente, o almeno sexy.
Purtroppo per lui il consenso non si tradusse mai in voti. I suoi sociologi (ne aveva tra
i piedi, poveraccio, anche lui) dicevano che quei mezzi insuccessi il Psi li doveva al
fatto che non riusciva a fare breccia nel “terziario avanzato”. Io non so cosa sia il
terziario avanzato. Ma ero convinto che la delusione elettorale fosse dovuta, prima
che su di lui si scatenasse la tempesta di Tangentopoli, al deterioramento della sua
immagine. Più che audace, l’uomo appariva spavaldo; più che efficiente
ingombrante; e più che autorevole, insolente. Insomma, come ho detto, in fatto di
guappi, dopo Mussolini, noi italiani abbiamo imparato a distinguere quelli di cartone.
E Craxi, anche se non lo era, nella tempesta lo apparve.
Nel merito delle accuse che gli piovvero addosso, non voglio entrare. Forse ci
furono delle esagerazioni, e degli accanimenti. Forse in ciò che ha detto sua figlia di
fronte al cadavere del padre – “Non è morto, lo hanno ammazzato” – c’è qualcosa, e
più di qualcosa, di vero. Ma dobbiamo ammettere che la sua battaglia di imputato
Craxi la condusse proprio da guappo di cartone, e ne sbagliò tutta la sceneggiatura.
Peccato, era la prima volta che il Partito Socialista Italiano aveva trovato un uomo, se
non di Stato, almeno di governo che lo aveva liberato dalla subalternanza al Pci, e
condotto su posizioni democratiche, europeiste ed atlantiche. Lo avrà anche fatto con
metodi spicciativi e disinvolti, più da padrino che non da leader. Ma mi chiedo se
avrebbe potuto usarne di diversi per avere ragione dei vecchi tromboni del
massimalismo populista e pizzaiolo con le loro clientele incrostate di decenni. E mi
chiedo anche quanto contribuirono alla sua crocefissione i rancori e le acredini che si
era lasciato dietro. Ma nellla difesa si perse non per mancanza, ma forse per eccesso
di coraggio.
Perché di coraggio ne aveva. Non ricordo in quale occasione, una volta seguii un
intervento di Craxi dal suo banco di governo alla Camera. Per due volte si interruppe
alla ricerca di un bicchier d’acqua. Per due volte Andreotti, che gli sedeva accanto,
glielo porse. E per due volte egli bevve.

TUTTI STRAPARLANO DI INTERNET


di Francesco Merlo
“Sette”, 9 marzo 2000
(pag. 194)
Elogio della scrittura, quella vera, su carta; elogio di uno dei mestieri più antichi
del mondo
Certamente creerà altra ricchezza, e probabilmente procurerà nuova occupazione, di
sicuro tante abitudini cambieranno. Ma l’informatica, Internet e la virtualità non
diventeranno mai quel che i loro sostenitori immaginano; non sostituiranno, come
predicano i profeti del web, l’editoria e la stampa, la lettura e la scrittura, la cui
scoperta è eterna come la scoperta dell’anima. Nessun sito e nessun portale, malgrado
quel che si sente dire saccentemente in giro, prenderanno mai completamente il posto
dell’informazione scritta, dei giornali della carta, dei libri, neppure delle
enciclopedie. Purtroppo, ancora una volta, soprattutto in Italia, una bella tecnica
innovativa è stata trasformata in ideologia da una schiera di sapienti fanatici del
“www”, infatuati della rapidità nella comunicazione, convinti che non ci saranno più
testi con le loro strutture grammaticali, ma solo messaggi on line, dove la scrittura è
scrittura destrutturata. Si è trasformata cioè in velocità, perché ha perso la sua
struttura grammaticale e sintattica, così come la materia di Einstein si trasforma in
energia perché perde la sua struttura atomica e subatomica.
In realtà il messaggio rapido è solo una delle tante funzioni della scrittura, una
funzione parvenue che mai eliminerà le altre funzioni della scrittura, la quale, nata in
Mesopotamia trentacinquemila anni avanti Cristo, prima ancora del linguaggio
parlato, non è stata nei secoli usata solo per comunicare ma anche, al contrario, per
nascondere, occultare, opacizzare, custodire segreti da iniziati... E difatti quanto più
difficile e inintellegibile risulta la scrittura, tanto più diventa “personale”, degna di
rispetto e di fascino, vicina cioè allo statuto impenetrabile dell’individuo. La scrittura
è autoreferenziale ed è fatta di grammatica e di sintassi, di metafisica persino, di
piacere sensuale, di tattilità, di tradizione, storia, simbolismo, fisiologia, psicologia...
E persino di una verità nera, che è ermetismo, lentezza, interpretazione: tutto il
contrario del messaggio in rete.
L’infatuazione fanatica per Internet, così perniciosamente diffusa, è tipica di un
rapporto barbaro e primitivo con il futuro, e vale quanto vale, dall’altra parte, la
demonizzazione e il rifiuto di Internet. È la reazione del selvaggio alla modernità
delle palline colorate e dei giocattoli di latta, quel selvaggio che fugge terrorizzato o
cade in ginocchio inebetito dall’idolatria, perché nella pallina o vede un dio o vede un
demone ma sempre gli sfugge la realtà della pallina. È sempre capitato così con le
tecniche innovative; ed è soprattutto nei Paesi arretrati che le tecniche si trasformano
in ideologia con il rischio, serio, che l'utilità diventi danno e che l’uso si muti in
abuso. Pensate alla tecnica del restauro, così importante e così utile. Ebbene, se fosse
assunta come ideologia diventerebbe orribile e terribile perché i restauratori, travestiti
da urbanisti, ci imporrebbero di vivere in strane città cimiteriali resuscitate. Succede
pure con certe tecniche mediche. Quando diventano ideologia, il medico le antepone
al malato, e dunque si accanisce terapeuticamente, dimentica e devasta il corpo
concreto, che utilizza, sperimenta e strazia “a fin di bene”.
Anche nel caso del “www” il problema non è dunque l’informatica in sé, ma
l’azzardo, l’oltranza, l’ingenuità primitiva con cui il “moderno” accetta il futuro
informatico. E fa davvero sorridere l’idea, così strombazzata sui giornali, che
l’informatica seppellirà la stampa, la scrittura, la lettura del testo che è “tessitura”,
manualità, nel senso della mano che aiuta il pensiero, la mano che impugna uno
strumento che può essere un punzone, un calamo, una penna e l’appoggia sulla
superficie - di carta, di legno, di cera - e vi avanza premendo o carezzando ma sempre
producendo forme regolari ricorrenti e ritmate. E nasce il testo che è struttura aperta,
carta che canta, nero su bianco, l’effetto di una fisicità che nessuna virtualità può
surrogare.
Pensate per esempio alla storiografia e alla ricostruzione informatica e virtuale del
passato, alla ricreazione di una giornata del Quattrocento fiorentino, con le strade, le
locande, le fattezze umane, i nomi, il parlare, il vestire. E immaginate di fare un
viaggio virtuale nel giurassico o di “partecipare” allo sbarco in Normandia...:
affascinante, bello, divertente, una specie di Disneyland della cultura. Ma anche in
questi casi è dal testo che si parte; è al testo che si ritorna; ed è solo il testo che dà
autorevolezza al “sito”. Altro che abolire e seppellire la stampa! Negli Usa il web non
ha sottratto né copie né autorevolezza al New York Times. Ed è buffo che in Italia si
straparli di www e di new economy, e si giuri che il futuro dell’informazione è tutto e
solo lì... Ma intanto, sotto sotto e come sempre, è al Corriere della Sera che si punta,
al controllo cioè del più vecchio, più autorevole e più diffuso quotidiano di carta, di
inchiostro, di scrittura e di lettura.

MARIA GRAZIA, COLPI DI PIETRA E RAFFICHE DI MITRA

di Mimmo Càndito

“La Stampa”, 21 novembre 2001

Maria Grazia Cutuli era l’inviata del Corriere della Sera sul fronte della guerra
contro i Talebani dell’Afghanistan. Forse perché occidentale, forse perché
donna, probabilemnte per entrambi i motivi, finì la sua vita su una collinetta
polverosa della strada che porta da Jalalabad a Kabul.

KABUL – Prima i colpi di pietra, quasi una lapidazione, poi la sventagliata di mitra
che li falcia e li ammazza. La storia di una morte non recupera mai quella verità
riservata, nascosta, intima che la ricostruzione dei fatti perde sempre nella opacità di
una cronaca quasi senza testimoni. Perché sono stati uccisi? E perché le pietre? E poi,
perché loro? Quei quattro cadaveri portati ieri all’ospedale di Jalalabad raccontavano
la fine di quattro reporter, assassinati l’altro ieri sulla strada di Kabul, ma non davano
risposte alle domande nate dalla vista dei loro corpi, le ferite, il sangue, la familiarità
stranita dei loro volti.
Era partito da Jalalabad di primo mattino, il convoglio di auto dei giornalisti.
C’era di tutto, italiani, inglesi, giapponesi, greci, spagnoli, australiani, una ventina di
auto. Anche giornalisti americani del “Washington Post”, del “Los Angeles Times”,
del “Baltimore Sun” e di altre testate. Alla partenza avevano chiamato con il telefono
satellitare i loro colleghi che erano già andati a Kabul. Volevano informazioni,
assicurazioni. La strada che da Jalalabad porta fino qui è un percorso infernale.
Centocinquanta chilometri di pietraia assolata e poi di gole a strapiombo, per un
viaggio che dura più di sei ore, quando va bene. In realtà, le informazioni, le
rassicurazioni, erano solo un affettuoso legame che amici di sempre si facevano da
una parte all’altra di quella dannata terra di nessuno: tutti – loro laggiù, ma anche noi
a Kabul – sapevamo bene che nessuno poteva garantire niente. Però chiusa l’antenna,
fatto un segnale di tranquillità a tutti, le auto partono.
Su un percorso accidentato, scabroso, avallato di fosse e buche continue, il
convoglio fatica presto a stare unito, e comincia a sfilacciarsi. Poco alla volta le auto
perdono contatto, la distanza tra di loro s’allunga, la sicurezza svanisce e nessuno se
ne rende conto. Sotto il sole feroce dell’altopiano, in un deserto di pietre dove l’unica
vita che si incontra sono le pecore che vagano custodite da cani macilenti. Tensione e
preoccupazione si sono allentate; dimenticando forse il timore (forse anche la paura)
qualcuno dormicchia, qualcuno si distrae nel paesaggio.
Il convoglio passa il confine tra la provincia di Laghman (nominalmente
controllata da una coalizione di comandanti locali) e quella di Kabul, controllata dalla
capitale dell’Alleanza del Nord. I sei uomini appaiono all’improvviso da dietro una
curva stretta, subito dopo un ponte chiamato Pul-i-Estikam, quando sono già passate
tre ore di viaggio e il panorama è adesso di gole serrate, strapiombi improvvisi,
tornanti che girano dietro la montagna come in certe tappe dannate del Tour. I sei
sono armati, hanno il turbante, la chemise che si una da queste parti, una lunga barba
nera. “Alt”, alzano la mano impugnando i kalashnikov.
L’autista della prima auto ha un attimo di incertezza, poi pigia sull’acceleratore e
prega Allah onnipotente e misericordioso. I sei non se l’aspettavano; in quel punto la
strada ha qualche metro d’asfalto, l’auto può prendere subito velocità, passa via. Non
spara nessuno, ma ora i sei hanno il mitra ben puntato contro la seconda auto del
convoglio: è un taxi, una Corolla ancora in buone condizioni, e dietro di lei c’è subito
una terza vettura. Sono rimaste a contatto, si fermano entrambe: non hanno scelta.
Sulla seconda auto ci sono Maria Grazia Cutuli, l’inviata del “Corriere della Sera”,
e l’inviato spagnolo de “El Mundo”, Julio Fuentes, con l’interprete, Muhammad
Farooq, e l’autista Turyali. Nella terza auto il cameraman australiano Harry Burton e
Aziz Haidari, il fotografo afghano della Reuters, l’interprete Houmayun e l’autista
Ashiqullah, tutti e due afghani.
La strada è vuota, le altre auto sono lontane, perdute. “scendete – dice in pashtun
uno dei sei, che si avvicina all’autista della seconda auto – dovete fermarvi perché qui
davanti c’è pericolo. Ci sono banditi, ci sono dei combattimenti, non potete
continuare”. L’autista è diffidente e a paura: lui e l’interprete sono stati scelti perché
parlano pashtun, una misura di sicurezza in quanto è la loro etnia che dovrebbe tenere
sotto controllo l’area. Maria Grazia Cutuli e Julio Fuentes si svegliano di soprassalto,
sorpresi. L’autista cerca di discutere, prendere tempo. E vede arrivare, di fronte, un
autobus che viene giù da Saroubi.
L’autobus rallenta, si ferma, il crocchio di gente è in mezzo alla strada. “Com’è
più avanti?”, chiede l’autista del taxi che è sceso a discutere con i sei. “Tutto ok,
strada libera”, gli risponde quello dell’autobus, che riparte subito mentre quelli con il
kalashnikov gli fanno segno di passare.
Nella terza auto, ferma a ridosso, osservano la scena. I sei circondano le due auto.
“Scendete, fuori”. Uno vede che nella prima c’è una donna. “Fuori”, grida, “anche
tu”. Scendono tutti. Julio è vicino a Maria Grazia.
I giornalisti cercano di protestare, chiedono spiegazioni. “Credevate che i taleban
fossero finiti? Siamo ancora qui”, dice uno dei sei. Un altro chiede all’autista di
recitare il primo precetto dell’Islam, per dimostrare di essere musulmano. “Allah è
l’unico Dio, e Maometto è il suo profeta”.
Nel frattempo i sei dicono ai giornalisti che dovranno seguirli su una collina
vicina. Loro fanno rispondere che non li seguiranno. E a questo punto gli aggressori li
spingono con forza con le canne del mitra, li prendono a sassate. La prima a essere
colpita è Maria Grazia Cutuli, forse proprio perché donna, forse perché non ha il velo.
I due autisti e gli interpreti lentamente risalgono sull’auto per tornare indietro.
Sentono i colpi e “tre o quattro” raffiche di mitra e vedono i corpi cadere.
Da lontano sta finalmente arrivando la quarta auto, un pulmino della televisione
catalana, Tv3. Eduardo Sanjuan, il producer, che siede accanto all’autista, vede la
scena, rimane agghiacciato. Ordina lo stop. Da laggiù, molto al di sotto delle auto
bloccate, osserva ora che i sei stanno spintonando via i giornalisti, nel piccolo slargo
sulla destra. E che uno dei sei si china a terra, prende delle pietre e le lancia contro
Maria Grazia che cerca di proteggersi. C’è uno scarto brusco del gruppo. Anche un
altro, forse in due, tirano pietre contro Maria Grazia, senza fermarsi.
Eduardo intanto ha ordinato all’autista di fare inversione, resta piegato sul
cruscotto, e mentre la sua visuale si riduce e cambia, ha il tempo di sentire la scarica
dei kalashnikov. Non si gira più a guardare, l’auto corre disperata verso Jalalabad.
Quelli lassù sono morti.
Un giornalista messicano, un giovanotto di origine italiana, Gustavo Sburlatti di
Radio Monitor, che no faceva parte del convoglio e passa da quella gola alcune ore
più tardi, viene fermato anche lui. Ma tirando fuori il registratore, e mettendolo sotto
il naso dei quattro (questa volta sono quattro) come se volesse intervistarli, riesce a
confonderli e scappa via. “Non ho visto i corpi, ho solo saputo avevano sparato a dei
giornalisti quando ero qualche chilometro più avanti”. I corpi saranno scoperti solo il
giorno dopo, dall’autista di un autobus, che guida in una posizione elevata e può
scorgere, in basso a terra, il sangue e la strage.
Il recupero lo fanno i mujaheddin di Haji Kadir, il governatore militare di
Jalalabad. “Sono stati i banditi”, spiega, “li cattureremo”. Un comandante taleban che
stava nascosto in questa zona e si è arreso, Sami Urza, racconta invece che “sono di
certo gli ‘arabi’ sbandati”, intendendo gli stranieri musulmani che combattevano con
i taleban. I corpi arrivano a Peshawar in quattro bare di legno povero. I nomi sono
scritti su fogli di carta e cui coperchi, con la matita.
LA VIOLENZA BRUCIA GENOVA
(pag. 3)
di Giulietto Chiesa

La Stampa, 27 luglio 2001

Per anni corrispondente da Mosca, Giulietto Chiesa torna nella sua città per
seguire il vertice del Gruppo dei Sette. La sua è una testimonianza, la più
equilibrata fra tante, di quella tragica giornata di scontri.

GENOVA – Quello che ho visto, ritornando a Genova, la mia vecchia città. Atto
primo. Alle 11,40 circa vado in Piazza Paolo da Novi. Ci sono duecento giovani,
quasi tutti in nero, che si stanno organizzando per un assalto, divelgono pali, scavano
nell’asfalto, sono coperti da passamontagna, parlano diverse lingue: italiano,
spagnolo, francese, tedesco. Cosa vogliano fare è chiarissimo. Dopo venti minuti lo
schieramento di polizia, che presidia la confluenza di Corso Buenos Aires con Viale
Brigate Partigiane, riceve l’ordine di passare all’offensiva. Attraversa la barriera che
blocca la strada all’altezza del Cinema Augustus, e carica.
Per due ore l’intero Corso Buenos Aires, Corso Torino, Piazza Savonarola fino a
Piazza Tommaseo sono un intero campo di battaglia. In Via Montevideo, ritirandosi, i
giovani vestiti di nero incendiano le auto. Quanti sono? Non più di cinquecento, a
occhio e croce. La polizia avanza lentamente tra nugoli di lacrimogeni.
Atto secondo. Vado incontro al corteo delle tute bianche, che muove lentissimo
dallo Stadio Carlini. Sono circa le 14,00. Si formano all’altezza dell’Ospedale San
Martino. Non sono armati. Hanno formato una testuggine di scudi di plastica legati
con catene. La testa avanza dietro gli scudi, che hanno ruote. Sui fianchi altri scudi,
con una doppia funzione: coprire le ali del corteo ed impedire l’uscita ai dimostranti.
Le parole d’ordine, gridate ai microfoni: calma e nessuna violenza, vogliamo arrivare
alla zona rossa. Centinaia di dimostranti portano scudi di plastica individuali, hanno
collo e spalle coperti di artigianali sistemi paraurti, la gran massa non ha niente. Non
vedo un solo bastone, non un solo oggetto contundente. Quanti saranno? Direi tra i
diecimila ed i quindicimila.
Avanzano fino all’incrocio tra Via Tolemaide e Corso Torino. Qui la polizia è
disposta lungo Via Cesaregis. E comincia a sparare bordate di lacrimogeni contro la
testa del corteo. Ad altezza d’uomo. Grosse granate con a testa di plastica ed il corpo
metallico. Una colpisce uno scudo con tanta violenza da rovesciarlo insieme a coloro
che lo sostengono. Il corteo non indietreggia e contrattacca. La testa, non più pacifica,
diviene belligerante. Gli scontri dilagano nelle vie laterali. Per quattro ore un
susseguirsi di offensive e controffensive.
Più volte polizia e carabinieri saranno costretti a ritirarsi sotto impressionanti e
violentissime sassaiole. L’ultima, verso le cinque e mezza, obbliga le forze
dell’ordine a fuggire fino Corso Torino, 600 metri all’indietro. L’attacco dei
dimostranti si riversa sulle vie laterali, dove piccoli distaccamenti militari chiudono i
varchi.
In uno di questi scontri, in Piazza Alimondi, c’è il morto. L’ho visto a terra, già
senza vita, pochi secondi dopo. Mi chiedo: era necessario attaccare un corteo di
diecimila persone, non armate? Un conto è prendere di sorpresa i violenti, un altro
dare una lezione a quelli che violenti non erano, e potevano non diventarlo.

LA CITTA’ TRA DUE MONDI


(pag. 9)
di Aldo Cazzullo
“La Stampa”, 5 novembre 2001

Paese tradizionalmente leader del fronte arabo moderato, l’Egitto dopo l’11
Settembre si trova tra l’incudine fondamentalista ed il martello americano. È il
momento in cui emergono ambiguità sopite da trent’anni. Il segnale più
rumoroso del cambiamento è il pianto di mille bambini, tanti quanti ne nascono
al Cairo ogni 24 ore.

IL CAIRO – Nati al Cairo venerdì 2 novembre: Mansour, Gamal, Abdellatif,


Mohammed, Michel … Nessun Osama, a prima vista. È che ci vorrebbe un giorno
intero a controllare tutti i nomi. I giornali non hanno spazio per pubblicarli. Se ne
occupa l’apposito ministero della Popolazione. Sono quasi mille: uno ogni cento
secondi.
Preghiera del venerdì ad al Ahzar, la mosche più grande, l’università più antica.
L’imam: “il nostro vero implacabile nemico sono gli americani e gli ebrei. O Dio,
maledici tutta la terra degli ebrei”. Coro di fedeli, migliaia di migliaia, piena la sala
della preghiera, pieni i cortili, piena la piazza: “Enim”, amen. “Che gli ebrei siano
disprezzati da tutto il mondo, che le loro case siano distrutte. Che siano sconfitti dal
popolo musulmano. O Dio, unisci tutti i fratelli musulmani, falli vincere dappertutto”.
Enim! “E comunque, o Dio, benedici i passi del nostro presidente Mubarak”. Enim!
Editoriale di Al Ahram, lo firma il direttore, Ibrahim Nafie, monumento del
giornalismo arabo. Logo della sua rubrica in prima pagina: “Bi-hodu”, “con calma”.
Titolo: “Cosa vuole il Washington Post?”. “I giornali americani continuano la loro
campagna di aggressione all’Egitto. Il Washington Post attacca i giornali egiziani
perché dicono che la cosidetta guerra al terrorismo si è mutata nella distruzione del
popolo afgano. Perché non scrive che gli americani lanciano i viveri sui campi
minati? Perché scrive che io sono vicino a Mubarak, mentre sono direttore dai tempi
di Sadat? Non sa che in Egitto non è il presidente a nominare i direttori?”.
Cominciamo da qui, dalla guerra tra i giornali. Segno di una guerra più profonda
tra l’Egitto e l’America, tra il paese guida del mondo arabo e il paese guida
dell’Occidente. E segno dell’ambiguità egiziana, chelo scomparso Lufty el-Khouly,
l’intellettuale nasseriano imprigionato da Nasser, sintetizzava così: “Su quattro
focacce che mangiamo, tre le paga l’America. Eppure gli egiziani odiano l’America”.
È più o meno quello che hanno scritto il Washington Post ed il Wall Street Journal.
Al Ahram, Le Piramidi, è il più grande ed autorevole quotidiano arabo. Il giornale
di Mahfouz. Oltre 600 redattori, un polo editoriale, un centro di ricerche e studi
strategici. Nell’atrio della sede c’è un mosaico, raffigura il volto del diretore Nafie.
Lingo le scale, le foto del direttore alternate a quelle di Mubarak. In redazione –
bellissima – molti giornalisti hanno sul desk la loro foto con il direttore. E la pensano
come lui. Anche se non si piegherebbero mai alle rozzezze dei quotidiani più
filogovernativi, che attribuiscono agli israeliani l’invenzione di una gomma da
masticare per rimbecillire gli arabi, o l’invio oltre Suez di maliarde sieropositive per
infettare il popolo egiziano.
L’icona del giornalismo liberal, Amina Shafik, postfemminista (“nel ’52 fui la
prima donna nella storia della mia famiglia ad andare a vivere con un uomo”),
scrittirce ed editorialista, si guarda bene dal parlare di lobby ebraica. “Gli ebrei sono
miei cugini. No, non è la lobby sionista a ispirare gli attacchi dei giornali americani
contro l’Egitto. È che l’America sta esagerando. Se sei davvero il più potente, non
puoi permetterti l’arroganza. Altrimenti non sei un padre, ma un gangster. Spero che
gli americani sconfiggano i taleban, ma escano dall’Afghanistan molto indeboliti”. E
Nabil Abdelnaffath, esperto di strategia, columnist, saggista: “Certo che la lobby
ebraica ha un ruolo in questa storia. Ma è l’America a enfatizzare di proposito i nostri
contrasti religiosi, i rischi di stabilità, per tagliare fuori glli egiziani, gli arabi, dalla
gestione della crisi”.
L’antiamericanismo non è esclusiva dei fondamentalisti, o del popolo. Ha
conquistato le elites; sempre che non provenga da lì. Ha saldato le nostalgie per
Nasser ed i fervori per Allah. Una canzone popolare dice: “odio Israle, amo Amr
Moussa”. Moussa è il ministro degli esteri antisraeliano. Siccome faceva ombra allo
stesso Mubarak, al quale la canzoncina non piacque, è stato sistemato alla Lega
Araba e sostituito nel cuore del presidente da Usama el-Baz, che quando parla inglese
parla di “Americans”, ma quando parla arabo dice “yankees”. E sono egiziani, spesso
membri dell’elite, i terroristi che fecero esplodere il cacciatorpediniere Uss Cole nel
porto di Aden. Mohammed Atta, capo dell’attacco a New York, Ayman al-Zawairi, il
medico braccio destro di bin Laden. È egiziana, ammonisce Abdelfattah, la mente del
terrorismo islamico internazionale: “Dopo gli attacchi ai turisti e la durissima
repressione di Mubarak, la Jihad ha cambiato tattica. Non colpisce più in Egitto, ma
fuori. Ha attinto ai petrodollari sauditi, ha ibridato Al Qaeda e altre organizzazioni.
L’obiettivo però è sempre lo stesso: far pressione sul regime del Cairo”.
Far pressione, in un regime, è l’unico modo di far politica. Lo sanno bene i Fratelli
Musulmani, ufficialmente fuorilegge, in realtà attivissimi tanto quanto il Partito
Nazionalista Democratico è morto, soffocato dalla corruzione. Il loro capo, Maamun
Hodibi, riceve al primo piano di una palazzina di periferia, offre caffè turco e Sprite,
ed è una buona metafora dellambiguità egiziana: imprigionato per sette anni da
Nasser, liberato, nominato presidente della corte d’appello del Cairo, perseguitato,
eletto in Parlamento, ora privato del passaporto. Assicura che i Fratelli Musulmani
“sono per la democrazia, il multipartitismo, la fine del regime, le elezioni libere”.
Giura: “rispettiamo la libertà della donna, compresa quella di scegliere il proprio
uomo, pure a diciotto anni se crede. Come? Prima del matrimonio? No,, da noi il
fidanzamento non esiste”. Trova che in effetti Mubarak è ambiguo, perché in patria
dice una cosa e all’estero un’altra, che l’Europa “invece dice sempre di sì
all’America”, che “il Congresso americano è dominato dagli ebrei” e che “Osama bin
Laden, che di per sé è un uomo qualunque, lasciato solo a combattere l’arroganza
americana sta diventando per la nostra gente un eroe”.
Ancora più ambigua è la predica dell’imam di Al Ahzar, però. Che elencando i
precetti per l’imminente Ramadan – “preparatevi, perché il giorno del giudizio è
vicino, l’anno è diventato un mese, il mese una settimana, la settimana un giorno ed il
giorno un’ora” – maledice “gli americani, gli ebrei, el beratanien, gli inglesi”, e
benedice appunto Mubarak, che va predicando ben altro. Di tutte le contraddizioni, i
bambini denutriti e i ristoranti italiani sul Nilo che hanno per nome un sinonimo di
bello (si varia da “Carino” a “Splendido”), le signore con pantaloni Cavalli e borsa
Gucci (autentica) e le vecchie che dormono nelle tombe della città dei morti –
spettacolo noto ma da non dimenticare – quella del Raiss è la più grande. Presidente
da ventisette regge, a Luxor, Alessandria, Assuan, unico superstite del ricambio
dinastico del Medioriente. Il primogenito Gamal può attendere. Lui è presidente da
vent’anni, vent’anni di legge marziale, di lager e di polizia segreta, che non getta via
nemmeno le schede dei morti. Presidente che, per quanti affermi Nafie, attraverso il
Consiglio per la Consultazione nomina anche i direttori dei giornali.
Per definire la politica di Mubarak, l’umorimo popolare sceglie l’espressione “ben
lakh”, espressione che rinvia per assonanza a bin Laden ma vuol dire “sì, ma”. Sì ai
due miliardi di dollari versati ogni anno dagli americani, ma no ai diritti civili, vietati
gli assembramenti, vietato l’ingresso alla moschea alle barbe degli integralisti, vietate
le manifestazioni antioccidentali. Tranne che all’università, unico luogo dove è
consentita la libera espressione del pensiero (che consiste essenzialmente nel rogo di
bandiere americane). Anche qui c’è qualcosa di ambiguo, le ragazze sono quasi tutte
velate, ma la devozione non esclude la seduzione, velo e telefonino, velo e occhiali
scuri, velo e Nike, velo e unghie laccate. Rari i chador, rari i capelli al vento. I
ragazzi portano le basette alla Del Piero; nessuno ha con sé un libro, tutti passano
correndo sullo scalone che un nano gobbo ha l’incarico dilustrare ad ogni passaggio.
Orario 7-14, stipendio 70 lire egiziane, 35.000 lire italiane al mese. Ed è dura, perché
il passaggio è continuo, l’università è strapiena come le moschee, l’aeroporto, gli
ospedali, le strade. L’Egitto scoppia, un lento brusio sale a qualsiasi ora del giorno e
della notte dalle viscere verso le finestre dei grandi alberghi, semivuoti e protettidai
metal detector; sono gli egiziani che si riprendono anche i luoghi del turismo. Veli
anche alle piramidi, davanti al Tesoro di Tutankhamon, e tra il verso del muezzin e
degli autobus ci deveessere anche il vagito dei mille bambini che nascono oggi al
Cairo.

A KANDAHAR, LA CITTA’ DEI MORTI

di Guido Rampoldi
“La Repubblica”, 12 dicembre 2001

Simbolo, nell’immaginario collettivo occidentale, dell’intolleranza e della


discriminazione contro le donne del regime fondamentalista dei Taliban, la città
di Kandahar viene espugnata dall’Alleanza del Nord che da anni combatte
contro gli “studenti islamici”. È l’ultimo atto della guerra scatenata dagli Usa e
dalla Nato dopo l’11 Settembre. Guido Rampolli è tra i primi ad arrivare.

KANDAHAR – Gli ultimi arabi li hanno ammazzati ieri mattina, all’ospedale cinese.
I mujahiddin del comandante Gul Agha non sanno esattamente quanti fossero, né se
fosse proprio indispensabile farli fuori. Ma nessuno si pone molte domande in questa
guerra ormai finita, e tra i mujahiddin sembra opinione comune che agli americani
non interessino i prigionieri arabi.
Comunque, li hanno ammazzati. Tre, dicono alcuni. Otto, dicono altri. Per quale
ragione si trovavano nell’ospedale? “Erano feriti, nei combattimenti del giorno
prima”. E perché li avete uccisi? “Tentavano di scappare”. I mujahiddin affollano il
buio di fronte al palazzo del governatore. Saranno trecento, una confusione d’armi e
d’armati. Hanno turbanti grigio-perla, azzurri, verdi, di tutti i colori eccetto il bianco,
il colore dei Taliban: ma anche a giudicare dalla lunghezza delle barbe alcuni di loro
Taliban lo sono stati, probabilmente, fino alla notte di giovedì, il momento della
capitolazione. Quanti arabi ci sono in città? “Nessuno. Fino all’altro giorno ne
restavano parecchi all’aeroporto. Tutti uccisi o prigionieri”. Quanti prigionieri?
“Nessuno”. Avete ucciso anche Taliban? “No., loro sono popolo, gente comune.
Afgani come noi”.
In un’anticamera, un giovane guerrierio seduto tra le bucce d’arancia che ha
sparso tutt’intorno, i resti della sua cena. Sotto le volte di un grande salone, una folla
vociante accovacciata su tappeti rossi. Sono i dignitari delle tribù locali, fino a ieri no
ostili ai Taliban. Gul Agha li ha convocati a palazzo perché gli rendano omaggio e
testimonino ai giornalisti stranieri l’ossequio di cui ora gode. Questo Gul Agha è un
uomo semplice, corpulento e grossolano. Ma s’è ripreso la poltrona di governatore
che aveva perso sette anni fa, quando i Taliban conquistarono Kandahar. Adesso Gul
Agha ha messo in chiaro che non mollerà il potere neppure se dovesse chiederglielo il
nuovo primo ministro afgano, Garzai. Ha una milizia agguerrita, alcuni tank
abbandonati dal nemico, persino un corpo di guardia con le giacche in tela mimetica e
i berretti di lana al posto del turbante.
Vengono portate poltrone di velluto rosso per i quarti possenti del neogovernatore.
Due dei suoi riveriti comandanti, un uomo d’affari e un ingegnere afgano-americano,
interprete ed ispiratore. Traducendo in inglese le risposte elementari di Gul Agha le
converte in discorsi articolati, persino astuti. I duecento dignitari seduti sui tappeti si
alzano in piedi con un ondeggiare di turbanti. Gul Agha racconta. L’emiro Omar si
troverebbe ad un centinaio di chilometri ad ovest della città, sul confine con la
provincia di Helmand. Gli arabi fuggiaschi sarebbero ancora nei villaggi intorno a
Kandahar. Sono i sopravvissuti della battaglia dell’aeroporto. Dai trecento ai
cinquecento di loro s’erano asserragliati lì, completamente esposti all’aviazione
americana. Hanno retto una settimana, poi il grosso sarebbe fuggito. Gul Agha
rivendica la vittoria finale, l’altra sera, contro i settanta rimasti nelle trincee: se
vogliamo credergli, i mujahiddin avrebbero persino risparmiato feriti e prigionieri,
una quindicina. Programma politico del neogovernatore: pace e prosperità. Intende
disarmare entro 48 ore ogni milizia attualmente presenti in città. Se questo
significasse disarmare le milizie del suo rivale, il comandante Naquib, Kandahar non
avrà né pace né stabilità.
Però la città ieri sera appariva straordinariamente tranquilla. Le botteghe aperte
alle sette di sera. Gli scheletri di bancarelle, forse bruciate dalle vampate di una
bomba, accanto a bancarelle che vendono frutta, alimentari, persino popcorn. Anche
la strada per il Pakistan, in realtà una pista nel deserto, racconta la vita che ricomincia
nel caos universale di ogni dopoguerra. Commerci, traffici, fornaci fumanti, camion
istoriati come carretti siciliani. Nei villaggi, mura di facce incuriosite. Le prime
ragazze con il volto scoperto, si direbbe nudo al confronto con lo spettacolo ancora
consueto dei burqa. Un mare di tede, profughi che il Pakistan ha respinto.
Avanziamo in un deserto di terra friabile sul quale il sole del tramonto disegna le
ombre nette e oblunghe di ricce laviche. Tutto (case, montagne, terra) ha la stesa
tonalità grigio-ocra, che volge al violetto nel momento del crepuscolo. Tra un
villaggio e l’altro non un albero, non un cespuglio. Un tempo era noto come il
Deserto della Morte.
Più avanti i segni della guerra. Carcasse di furgoni. Un ponte bucato dai razzi. I
Taliban avevano nascosto sotto il ponte una mitragliatrice contraerea, ma l’aviazione
americana l’ha centrata con precisione stupefacente. Da nuvole di polvere sbucano
convogli di furgoni con i cassone pieno di turbanti neri, mitragliatrici, bazooka. Nel
villaggio di Takta Pol incontriamo quei guerrieri, amichevoli e a modo loro pii.
Rispettano i divieti del ramadan, ma è sera e possono riprendere a fumare le loro
enormi sigarette di cartone. Nell’aria l’odore dolce dell’hashish.
Quando arriviamo nel palazzo del governatore, a Kandahar, è già notte.
L’inquilino precedente, Mullah Hasan, alto dignitario taliban, è sparito senza lasciar
traccia, fuggendo con la sua unica gamba. Il regime dei mullah sembra essersi
dissolto alla velocità “Non capisco perché voi occidentali vi stupiate del tracollo dei
Taliban”, dice Gul Agha, o forse lo dice il suo interprete, “da tempo il regime non
aveva più consenso né base popolare. Lo sorreggevano solo gli aiuti stranieri”.
Ma se questo è vero, allora Washington dovrebbe chiedersi se sia stato saggio
affrontare i Taliban come se fossero l’esercito iracheno. Erano tutt’altra cosa.
Trentamila miliziani, di cui almeno la metà mestieranti della guerra pronti a cambiare
bandiera per abitudine personale e perché così è scritto nel loro codice di guerra. Il
loro regime era così fratturato che all’inizio della guerra una parte s’è
immediatamente imboscata; il resto è capitolato appena la Conferenza di Bonn ha
instaurato un governo alternativo. Se quel governo d’unità nazionale fosse apparso
prima all’orizzonte i “moderati” avrebbero trovato una sponda, e le vittime tra i civili
sarebbero state assai minori, perché il regime si sarebbe squagliato in anticipo. Infatti
era chiaro che dopo aver proclamato la guerra santa, i Taliban potevano arrendersi
non agli infedeli, gli americani, ma ai musulmani, altri afgani. Forse sarebbe stato
meglio usare meno bombe e più intelligenza politica. Invece a Washington ha
prevalso una strategia tutta militare, per giunta incerta. E il Pentagono ha replicato la
guerra del Golfo contro una milizia che aveva perso la guerra nel momento stesso in
cui era cominciata.
Però i bombardamenti sono stati nel complesso precisi, danni collaterali a parte.
Da quel che abbiamo potuto vedere. Nella provincia più bombardata dell’Afghanistan
l’aviazione americana sembra aver colpito comandi, casermette, ponti. E le case dei
quadri alti di Al Qaeda. E poiché in genere quelli erano altrove, le bombe avrebbero
colpito principalmente le loro famiglie. Quella del medico egiziano al Zawairi,
considerato il principale consigliere ed ispiratore di bin Laden, è stata completamene
sterminata. La moglie, una ragazza della buona borghesia cairota, e i figli, incluso
l’ultimo, un neonato,. Gli americani a quanto pare avevano un’idea esatta. Trovare a
Kandahar uno disposto a farsi reclutare come spia è facile come trovare un asino o
una capra.

PROCESSO A MILOSEVIC, IL GRANDE DITTATORE

di Giuseppe Zaccaria
“La Stampa”, 15 febbraio 2002

Slobodan Milosevic, dittatore serbo e mandante della “pulizia etnica” in Bosnia


e Kosovo, viene finalmente arrestato dopo la guerra per il Kosovo persa con la
Nato. È il peggior criminale di guerra europeo dal 1945. Portato a rispondere
delle sue azioni di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, tenta di
trasformare il processo in un comizio. È, del resto, la stessa tattica che usò Hitler
dopo il putsch della birreria. Solo che a Milosevic il gioco non riesce.

L’AJA – “Spero che non mi interromperete”, esordisce Slobodan Milosevic. Non


succederà. Questa, al tribunale internazionale dell’Aja, è una giornata centrale: a sette
mesi dall’arresto l’imputato più famoso del mondo prende la parola per difendersi,
ma da consumato frequentatore di palcoscenici internazionali lo fa parlando della
Serbia, della Jugoslavia, del mondo più che di se stesso. È il solo modo per tentare di
rovesciare una prospettiva storica, e di conseguenza le accuse.
“Qualsiasi persona normale del mondo sa che questo è un processo politico, un
crimine contro la verità, anzi: la lotta tra la verità e la menzogna …”. “Ho contro di
me i più potenti apparati informativi del mondo e posso difendermi solo con un
telefono pubblico nel carcere di Scheveningen …”. “Non accetterò, presidente May,
di essere interrotto: mi appello all’Habeas Corpus, come ogni imputato in qualsiasi
legislazione del mondo”.
Come ci si aspettava, Slobodan Milosevic continua a calarsi nel ruolo dello
statista, anche se adesso è ristretto in carcere. Ancora più netta del previsto è però la
scelta di “saltare” la corte per rivolgersi all’esterno, al sistema mediatico, ed alla sua
gente. In Serbia le televisioni trasmettono l’udienza in modo integrale, come fa la
Bbc. La Cnn la spezza coi commenti di Cristiane Ammanpour.
Quel che s’inmaugura nelle telecamere del circuito interno è un confronto che
tenta di proiettare le vicende jugoslave – dunque serbe, bosniache, croate, della stessa
persona di Milosevic – in una dimensione rovesciata, in una lettura inversa della
Storia che parte da Oriente. Se tutto questo risulterà convincente lo dirà il futuro, o
almeno il futuro di questo tribunale.
Nel frattempo Milosevic cancella gli ultimi dubbi sul proprio atteggiamento: lui
continua a non considerare legittima questa Corte, a parlare ai media, a perseguire
una prospettiva storica. E, a tratti, a sfidare i giudici. L’imputato usa un tono neutro,
dalla borsa che ogni volta porta in aula tira fuori un pacco di documenti, e li scorre
con la pignoleria del notaio.
“Voi non avete alcuna prova contro di me. Volete convocare dei testimoni? Fatelo,
fate in modo che qui giungano tuti quelli che ardono dalla voglia di dimostrare al
mondo che gli albanesi del Kosovo scapparono per le violenze serbe, e non per le
bombe della Nato. Tentate pure di spiegare l’opposto di ciò che pensa ogni persona
sensata del mondo …”. Aveva preannunciato un filmato: è lunghissimo, greve,
disperato. Un’inchiesta televisiva tedesca ripresa dalla tv serba, un’antologia dei
massacri che anche la Jugoslavia ha subito durante gli attacchi dell’Alleanza
Atlantica (“una forza militare superiore di 676 volte a quella del mio paese”).

Sono foto e sequenze che riguardano Racak, il luogo del “massacro” scatenato
dall’intervento della Nato. La signora Ranta, finlandese, a capo di una commissione
medica dell’Onu dice che si trattò di uno scontro tra poliziotti serbi e guerriglieri, poi
manipolato per creare il “casus belli”. Un generale tedesco racconta che cercò di
avvertire il proprio governo della manovra.
“Un atomo di verità in un oceano di menzogne”, commenta l’imputato alla fine
del film. Ma il repertorio degli orrori non si esaurisce. Adesso tocca alle fotografie.
L’altro ieri uno dei procuratori aveva sentito il bisogno di avvertire il pubblico: per
sopportare certe immagini ci sarebbe stato il bisogno di uno stomaco forte. Deve
essere forte, se si vogliono scorrere le sequenze dei bombardamenti. Brandelli di
carne, corpi carbonizzati, bambini, civili, rifugiati, giornalisti, tutti uccisi a causa dei
“danni collaterali”.
Milosevic scorre le orribili foto quasi a tenere la contabilità dell’orrore rimosso.
Anch’egli recita: ogni tanto commenta un’immagine dicendo “questa era una
bambina”, “questi erano poveri vecchi che dormivano in casa”. Si avverte il pathos,
anche il presidente Richard May si concentra sulle immagini con l’aria smarrita.
La prima parte della controrequisitoria si conclude nel pomeriggio, dopo molte
interruzioni: Milosevic ha sfiancato anche gli interpreti. “Liberatemi – dice – sapete
bene che non fuggirò: a questo tribunale non interessa la verità, punta solo a
demonizzare ancora me e il popolo serbo”.
Ecco: il popolo serbo. Per quattro ore, ogni volta che gli è stato possibile,
Milosevic ha anteposto la Serbia, la nazione serba, il popolo serbo alla sua persona.
Ad esempio, quando parla di violenze: “l’esercito e la polizia serbi hanno sempre
considerato il prigioniero come sacro. Non dico che singoli o piccoli gruppi non
abbiano compiuto violenze, anche terribili o schifose, ma si trattava appunto di
singoli gruppi, come purtroppo accade in qualsiasi paese del mondo ...”.
O ancora: “Ho dati e documenti sufficienti per difendere la dignità del mio paese”.
Annuncia che vuol convocare come primo test Jacques Chirac. Cita la responsabile
dell’Onu per i rifugiati, la giapponese Ongono, per raccontare come i serbi trattino un
milione di profughi. L’ultimo guizzo ha ancora uno sfondo nazional-personalistico:
“Mi accusate di aver decorato alcuni militari? E cos’altro avrei dovuto fare con chi ha
abbattuto uno di quei cosiddetti ‘aerei invisibili’ che valeva milioni di dollari e veniva
bombardare i nostri bambini?”.

UN TETTO DI CARTA E CATRAME


di Antonio Maria Mira
“L’Avvenire”, 22 dicembre 2002

Alla vigilia del Natale successivo al crollo della scuola che li ha sepolti vivi con la
loro maestra, i bambini morti nel terremoto che ha raso al suolo San Giuliano di
Puglia riposano nel cimitero del paese. Ma anche le loro tombe sono state
realizzate male, come il tetto che li ha uccisi. Il costruttore, del resto, è lo stesso.

SAN GIULIANO DI PUGLIA – Neanche dopo la morte hanno pace, i bambini di


San Giuliano, neanche nella quiete di un cimitero. Con le prime piogge un po’ forti,
l’acqua ha incominciato a penetrare nei loculi dei ventisette piccoli e della loro
maestra. Goccia dopo goccia, l’acqua cola sulle foto dei momenti belli vissuti in
famiglia, bagna i tanti ricordi depositati da mamma e papà, ma anche dalle centinaia
di persone che ogni giorno giungono al cimitero. Scivola su un pallone da calcio,
inzuppa i peluche e le sciarpe delle squadre del cuore, le bambole e le letterine dei
bambini di ogni angolo d’Italia.
Si insinua sin dentro ai loculi, bagnando le piccole bare bianche, e lunghe chiazze
di muffa coprono il cemento. A girare dietro la costruzione si capisce il perché di
questo nuovo strazio. Sul tetto c’è come una piscina, dove l’acqua ristagna. Il tetto
non ha la pendenza giusta e l’acqua non trova sfogo nella grondaia, e resta a coprire i
fogli di carta catramata messi ad impermeabilizzare. Una impermeabilizzazione che
evidentemente non funziona, perché l’acqua si infiltra e scende al di sotto, fin nelle
tombe. I genitori sono infuriati. Anche perché “sa chi li ha costruiti, questi loculi?”,
chiedono guardandoti fisso negli occhi. “Sì, è proprio come lei pensa: Giovanni
Martino, proprio quello che ha costruito la sopraelevazione della scuola che è crollata
sui nostri figli”. “Dopo quello che ci hanno fatto, dovevano farci anche questo”,
dicono quando vengono ad accarezzare le foto dei figli, “da qualche giorno non si fa
più vedere in giro, meglio così”, “non sappiamo cosa potremmo fargli”.
“Guardi come hanno lavorato”, insiste uno di loro, che mestiere fa il manovale,
“guardi: avevano addirittura costruito i loculi troppo corti e hanno dovuto fare una
prolunga”. Il cemento aggiunto si vede benissimo: presenta molte crepe. Ora si corre
ai ripari.
“Ci pensano i nostri angeli”, dice un altro papà. E allude non ai figli, ma ai vigili
del fuoco, che qui considerano ancora una volta “gli angeli custodi” dei bambini di
San Giuliano. Prima hanno sistemato l’ingresso secondario del cimitero, quello che
porta direttamente al piccolo sacrario. Hanno piantato degli alberelli, hanno messo
una staccionata e la ghiaia sul vialetto. Hanno pensato anche alle panchine. Poi hanno
costruito una bella tettoia di legno davanti ai loculi per permettere i genitori di
fermarsi anche quando piove. Ora ne stanno costruendo una più grande, per coprire
tutta la struttura. Tutto in silenzio, come sempre. “Di loro ci fidiamo”, dicono i
genitori dei ventisette bambini di San Giuliano sepolti da un terremoto sotto un tetto
mal costruito, “loro non ci hanno mai traditi, non ci hanno mai abbandonato”.

LIMA, LA SPRINTER DI ALLAH

di Emanuela Audisio
“La Repubblica”, 23 agosto 2003

Lima Azimi, una ragazza piccola e poco attraente, va a Parigi e corre in batteria
ai campionati del mondo di atletica leggera. È musulmana, il suo paese è
l’Afghanistan appena uscito dal regime dei Talebani. È un simbolo, non solo
politico. Nessuno si ferma ad aspettarla: lo Sport non ha più spazio per chi sa
cos’è lo sport.

PARIGI - Stava lì, ferma. Ai blocchi dei cento metri. Le altre esibivano tute spaziali,
sguardi aggressivi, glutei d’acciaio. Lei invece era una tartarughina impacciata, che
non sapeva dove mettere piedi e mani. Aveva addosso i pantaloni della tuta, di quelli
vecchi, un po’ lanuginosi. Con una maglia grigia enorme. Senza sponsor, senza
scritte. La sola ad essere coperta, a non mostrare le gambe, a chinare gli occhi.
Un fagottino impaurito. Simbolo del futuro, della donna musulmana che si mette a
correre. Ma anche del passato, di quello che fa la guerra quando ti lascia vivo, ma
privo di mezzi, di cultura, d'informazione. Era una batteria importante la sua: con la
velocissima americana Kelli White e con una signora dell'atletica, Marlene Ottey, 43
anni. Ma per lei, Lima Azimi, in corsia numero 2, era la prima volta. Non le era mai
capitato in 22 anni di stare a braccia e a testa scoperta. In Afghanistan, se sei donna,
non usa. Anche se le cose sono cambiate. Ma solo un po’.
Lima non sapeva come ci si mette nei blocchi, non li aveva mai visti. Perché lei
gioca a pallavolo. E nemmeno uno stadio così pieno, aveva mai visto. “Durante il
regime dei Talebani non potevo uscire da sola, dovevo essere sempre accompagnata,
altrimenti erano guai. Così sono stata prigioniera in casa, a leggere sempre lo stesso
libro”.
Ma la corsa non poteva partire, se lei non si sistemava sui blocchi. Allora prima si
è mosso un giudice: “Cara, devi allargare le mani e metterle qui e dovresti anche
toglierti i pantaloni”. Ma niente da fare, lei insisteva nel non capire. Allora si è mosso
un altro giudice: “Cara, i piedi vanno qui, dai che ce la fai”. E lei che si sprofondava
nella vergogna, che non sapeva più dove guardare.
Figurarsi come ti senti, se non hai mai corso i cento metri, se ti hanno comprato
le scarpe la sera prima, “io avevo solo quelle dell’allenamento”, se non sei mai andata
all’estero, se tuo padre prima di lasciarti andare è andato a fare un sopralluogo nel
paese perché non si sa mai che razza di marziani trovi, se hai tutti gli occhi del
mondo addosso. ‘Chi è quell'imbranata?’, chiedevano intanto le altre.
Quelle che sanno mettere in fretta mani piedi e aghi nel posto giusto, quelle che
anche alle dieci di sera corrono con gli occhiali da sole per far piacere allo sponsor,
quelle che si fanno i capelli colorati strani per piacere allo spettatore, che non vivono
al villaggio perché nelle stanze non c’è la tv e l'aria condizionata, che si fanno i
tatuaggi in posti strani per avere un’altra inquadratura, che sbavano per avere l’ultimo
modello della scarpetta ultratecnologica.
Sarebbe stato bello se una vecchia signora dello sprint come la Ottey, che ha
partecipato a tutte le edizioni dei mondiali (tranne a Siviglia nel ’99, dove scontò una
squalifica per doping), avesse mosso il suo stupendo sedere per andare a dare un aiuto
a una ragazza musulmana che viene dall’Afghanistan e che crede che lo sport sia
ancora un gioco dove c’è il tempo per un abbraccio e per la solidarietà. Proprio lei,
Merlene, che è nera, che ha sofferto la discriminazione, la povertà, il disagio di chi si
sente sempre nella corsia sbagliata.
Sarebbe stato favoloso se anche le altre concorrenti avessero perso qualche
secondo con un’asina che non correrà mai veloce, ma che è stata costretta da un
governo fatto da uomini, a non partecipare in maniera indipendente alla vita. Avrebbe
voluto dire che quest’atletica è anche capace di ricordare i traumi, le difficoltà, la
disgrazie del mondo. E di farsene carico, almeno per un secondo. E invece ci hanno
pensato i giudici.
Perché la Ottey che ha lasciato il suo paese, la Giamaica, per correre con la maglia
della Slovenia era troppo preoccupata della sua disastrosa partenza, perché le altre
erano troppo concentrate su se stesse, sull’occasione da non perdere, sui contratti da
far fruttare. Non ci poteva essere tempo per spiegare a Lima, che non ha mai corso
all’aperto e che ha le unghie della mano sinistra colorate d'argento, “perché la
religione dice che la destra deve essere pulita” come si scatta ai blocchi.
Perché quest’atletica non sa più leggere le avversarie, non sa rispettarle, ma al
massimo deridere i somari che vengono da un altro mondo, quasi fossero animali in
via d’estinzione. Così le altre sono partite a razzo e lei trotterellando, con quella
vecchia tuta enorme che sapeva di baule e di film in bianco e nero. E faceva venire un
po’ in mente la portabandiera dell'Iran, Linda Fariman, che ai Giochi del ’96 ad
Atlanta aveva sfilato tutta incappucciata e invisibile. È arrivata Lima quando le altre
erano già negli spogliatoi. Ultima con 18''37. Nessuna delle concorrenti naturalmente
s’è fermata sul traguardo ad aspettarla.
Due anni fa ai mondiali di Edmonton tutti si erano messi a ridere davanti a un
ciccione samoamo di nome Trevor Misapeka. Anche lui, privo di sponsor, arrivato ai
mondiali in auto guidando dalla California. Doveva gareggiare nel peso, invece finì
nei cento. La ciccia di Trevor non entrava nei blocchi. Lui stesso non sapeva se
sarebbe riuscito ad alzarsi. “Mi domandavo se avessero sparato o urlato solo ‘Go’. La
mia più grande preoccupazione era quella di non finire subito a faccia in giù”.
Corse, per modo di dire, in 14''28. Suo padre che aveva un bar sulla West Coast
disse che l'ultima volta che Trevor è stato così rapido fu quando cercava qualcosa da
mettere sotto i denti. “Faccio il fornaio, mio figlio viene a trovarmi e mangia. Il suo
unico lavoro è quello d’ingoiarsi i profitti”.
Aveva fatto sorridere ai Giochi di Sydney anche l'africano Moussambani, che
quasi affogò nella piscina in un mare di schizzi, perché era la prima volta che finiva
in acqua per una gara. E come disse appena riuscì a sputare i litri di cloro che s’era
bevuto: “Da noi nell’acqua ci stanno i coccodrilli”. Sempre ad Edmonton nel 2001 la
tv regalò molti primi piani a una signora che marciava con un’andatura da vecchia
zia. Otto volte doppiata, la signora arrivò ultima, 40 minuti dopo tutte le altre. Si
chiamava Angela Keogh, aveva 39 anni e disse che non aveva fretta, perché dove
viveva lei, nelle isole Norfolk, 1800 abitanti, nel Pacifico del Sud, non c’è motivo di
correre.
Avevano invece fretta gli organizzatori che nello stadio avevano programmato le
finali e avevano bisogno della pista. Ma la signora non arrivava mai, sorrideva a tutti,
e non ne voleva proprio sapere né di un rush finale né d’abbandonare.
Lima Azimi, che ha un padre che lavora al ministero dell’Agricoltura, ora tornerà
a Kabul. Dice che lei ci tiene a studiare inglese e letteratura e a vivere nel suo paese.
E che quello che contava era riempire quella corsia. Non lasciarla vuota. Mai un
18''37 sui cento è stato così veloce di pensiero, di testa e di saggezza. Dispiace solo
che stavolta le lente siano state quelle che tagliano il traguardo con una fretta
miserabile.

IL PRETE SANTO NEL QUARTIERE DANNATO

di Bianca Stancanelli

“Panorama”, 11 Settembre 2003


Quel che resta del martirio di Don Pino Puglisi, dieci anni dopo, a Brancaccio e
nella Sicilia dove della mafia si parla sempre troppo poco.

PALERMO – “Caro padre Pino Puglisi, fai che non succede più il terremoto, il
vulcano e la guerra” si raccomanda la piccola Luana, tra cuoricini e un enorme
T.V.B. (acrostico per “ti voglio bene”). Milly chiede un’intercessione per avere in
dono “un peluche”, Antonio implora la salute per il nonno malato. Nella chiesetta di
San Gaetano, a Brancaccio, periferia est di Palermo, il libro che custodisce anni di
dediche in ricordo del parroco don Puglisi, ucciso dalla mafia, è una rassegna di
preghiere di bambini, implorazioni di adulti, frasi di ammirazione, di rimpianto. Dieci
anni dopo il suo assassinio, con una pallottola alla nuca, il 15 settembre 1993, don
Puglisi sembra diventato un’icona popolare. La Chiesa di Palermo lo ha proposto per
la beatificazione, il Comune progetta d'ingrandire il giardinetto creato un anno fa sul
luogo dell’assassinio, il Centro Padre Nostro, voluto da don Puglisi, moltiplica le
sedi, la circoscrizione Brancaccio-Settecannoli ha intitolato al parroco assassinato la
sala consiliare. E non è tutto. Il regista Roberto Faenza sta per cominciare le riprese
di un film su don Puglisi, ha reclutato come consulente un giornalista, Francesco
Deliziosi, allievo e biografo del sacerdote, ha dichiarato di aver scelto come
interprete Luca Zingaretti, la celebre pelata del commissario Montalbano.
Come se questo sacerdote schivo, umile, ignorato in vita, fosse diventato un
santino buono per tutti gli usi. Ma tra quelli che condivisero con don Puglisi, nel
silenzio e nell’oscurità, il faticoso impegno per rendere Brancaccio, “quartiere
senza”, un posto migliore, c’è un’aria di amarezza, di tristezza, di delusione. “Tolta la
lapide in chiesa, padre Puglisi ciao, ce lo siamo dimenticati” riassume Gregorio
Porcaro, 44 anni, che fu vice del parroco a Brancaccio e oggi, lasciato il sacerdozio, è
sposato e padre di due figli. Perché di tutte le battaglie civili combattute nel quartiere,
storico bastione di Cosa Nostra, una soltanto è stata vinta: quella per avere la scuola
media. Inaugurata il 13 gennaio del 2000, tenuta a battesimo dal capo dello Stato,
Carlo Azeglio Ciampi, la scuola è un grande edificio, con un allegro atrio, con i
pilastri decorati dai bambini, dove si studiano strumenti musicali, si stampa un
giornalino intelligente, si promuovono iniziative curiose come, per esempio,
“l'adozione” di un parlamentare (il primo è stato il diessino Giuseppe Lumia, allora
presidente della commissione parlamentare Antimafia), chiamato in classe a discutere
con gli studenti. “Quando siamo arrivati, la dispersione scolastica a Brancaccio era
del 27 per cento” ricorda il preside, Gaetano Pagano. “Dopo le elementari, cioè, più
di un bambino su quattro abbandonava la scuola. Oggi quel tasso si è ridotto al 6 per
cento”. Un successo. Da guardare senza illusioni. Dice Pagano: “C’è chi pensa che,
se si apre la scuola, la gente cambia. Non è vero: ci vogliono generazioni. La nostra
antimafia è fare il nostro dovere: si entra puntuali, si rispettano le regole”. A poche
decine di metri dalla scuola, sulla via Azolino Hazon, strada simbolo del degrado di
Brancaccio, una squallida cortina di mattoni giallastri chiude gli scantinati del
numero 18. Fino all’ultimo giorno della sua vita don Puglisi chiese alle istituzioni, dal
Comune alla prefettura, di requisire quei locali per stroncare i traffici che lì dentro si
svolgevano, dalla prostituzione minorile allo spaccio. “Dieci anni dopo, con gli
scantinati, siamo all'anno zero” protesta Pino Martinez, 50 anni, impiegato all'Italtel e
fondatore, a Brancaccio, di quell’Associazione intercondominiale che fu a fianco del
parroco Puglisi nelle sue battaglie contro il degrado e l’incuria pubblica. Un anno fa il
sindaco di Palermo, Diego Cammarata, annunciò che il Comune avrebbe acquistato
gli scantinati. Oggi l’amministrazione si prepara a presentare al consiglio comunale la
delibera d’acquisto (mezzo milione di euro la cifra pattuita con il curatore
fallimentare dell’impresa che costruì il palazzo). “I tempi delle istituzioni sono
lunghi” si lamenta Maurizio Artale, 40 anni, responsabile del Centro Padre nostro.
“La mafia non fa tutti questi ricami: se decide una cosa, la fa”. Così è stato con
l'assassinio di don Puglisi, l’ultimo dei grandi delitti palermitani, ordinato (dicono le
sentenze della magistratura) dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i dittatori
mafiosi di Brancaccio, prediletti da Totò Riina, fra i registi delle stragi del 1993. E
così è stato con gli attentati che, nella generale distrazione, precedettero
quell’esecuzione. Come l’incendio delle porte di tre componenti dell’Associazione
intercondominiale, il 29 giugno del 1993, un’intimidazione che ebbe per protagonisti
anche alcuni mafiosi impiegati poi nell’agguato al parroco, a cominciare dal killer
Salvatore Grigoli. Dieci anni dopo, la magistratura ha condannato mandanti ed
esecutori dell’assassinio di don Puglisi, ma celebra con gran lentezza il processo
contro gli autori dell’attentato. “Gli avvocati dei mafiosi dicono: fu una
‘abbruciatina’, una ragazzata, altro che attentato” racconta Martinez, che da anni non
vive più a Brancaccio. L’Associazione intercondominiale attende con pazienza il
verdetto di primo grado. “Siamo rimasti in pochi, le teste dure” scherza Martinez.
Confida: “Siamo bloccati. Che possibilità abbiamo di mostrare che vale la pena di
combattere con noi?”.
Non si vede una gran voglia di combattere a Brancaccio. In una stanzetta della
parrocchia, sotto un gran ventilatore, don Mario Golesano, il successore di don
Puglisi, dice di vedere un quartiere diviso in tre: “Un terzo, famiglie soprattutto, si è
riunito intorno alla parrocchia. Un terzo sono gli indifferenti. E un terzo i mafiosi.
L’anno scorso hanno messo a soqquadro il nostro archivio, quest’anno, una notte,
hanno costruito un muretto all'ingresso del Centro Padre Nostro. Ci ricordano che ci
sono anche loro. Come le campane, che suonano ogni giorno”. La mafia di
Brancaccio ha campane insidiose. L’ultimo capo del mandamento, secondo gli
investigatori, è un medico, Giuseppe Guttadauro, finito in carcere nel giugno scorso,
insieme con un ex assessore comunale, Domenico Miceli, Udc, con cui mostrava
grande intimità. Nella casa del boss, piena di microspie, si discuteva di politica e di
appalti e si vantavano conoscenze influenti. Tanto che l'inchiesta su Guttadauro ha
lambito anche la presidenza della regione: il governatore Totò Cuffaro ha ricevuto un
avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Don Golesano è
consulente di Cuffaro, a titolo gratuito. “Mi occupo di solidarietà, aiuto le famiglie ad
avere aiuti. E sono grato al presidente perché, grazie a quest'incarico, viaggio,
conosco associazioni, visito paesi della Sicilia di cui non conoscevo l’esistenza”.
Don Puglisi ebbe con le istituzioni rapporti ispidi, difficili: si batteva per la dignità
dei cittadini di una periferia ignorata e non trovava ascolto. “Oggi i nostri rapporti col
Centro Padre Nostro sono eccellenti” garantisce Sandro Terrani, 34 anni, presidente
della circoscrizione, azzurro di Forza Italia. “Ogni tanto vado a trovare padre Mario
in chiesa, lo trovo con cinquanta bollette dell'Enel in mano. ‘Come faccio a pagarle?’
si dispera. E spesso gli do una mano io”.
Nella palazzina di via Brancaccio 461, dove ha sede il Centro Padre Nostro,
ricevono assistenza almeno 600 persone delle 8 mila che abitano Brancaccio.
“Siamo diventati quasi un ministero” sospira Maurizio Artale. “Dal trovare
l’avvocato per i detenuti alla distribuzione del cibo, facciamo tutto noi. E le nostre
assistenti sociali fanno perfino l’istruttoria su chi chiede i contributi al Comune”. Il
Centro ha aperto sedi in due altri quartieri, l’ex Zen e Falsomiele, recluta 40
volontari, ha appena ottenuto un finanziamento dalla Regione per 75 mila euro per
impegno diretto del presidente Cuffaro. Sforna progetti che le amministrazioni
pubbliche finanziano. Con alterne fortune. Lo scorso agosto, per esempio,
l’assessorato regionale Enti locali ha accreditato al Centro 150 mila euro per
l’apertura di una casa d’accoglienza per barboni. Ci sono i soldi ma la casa no. “In
aprile avevamo chiesto di ottenere alcuni locali confiscati al costruttore Gianni Ienna.
Li gestisce l’Agenzia del demanio, come patrimoni frutto di riciclaggio. Non abbiamo
mai avuto risposta”. Al Centro Padre Nostro, oggi, i fedeli di don Puglisi
rimproverano di fare a gara per ottenere contributi pubblici usando il nome di un
sacerdote che non aveva mai voluto una lira, se non dai volontari. Artale si arrabbia:
“Ci dicono sempre: ah, don Puglisi questo non l’avrebbe fatto, don Puglisi questo non
l’avrebbe detto. Non se ne può più”. Sulla porta del Centro, una grande insegna
bianca ricorda don Pino “barbaramente ucciso”. La parola mafia non c’è. Come
epitaffio per un sacerdote che l’ha combattuta fino a morirne, si poteva fare di
meglio.

MA PERCHÉ CE L’AVETE CON NOI RICCHI?

(pag. 1)

di Gian Antonio Stella

“Il Corriere della Sera”, 14 settembre 2003

Nell’estate del 2003 il governo Berlusconi annuncia l’intenzione di varare un


nuovo condono edilizio, l’ennesimo nella storia della Repubblica. Un giornalista
affitta un elicottero e scopre che in una notte – una sola – nel pieno del Parco
Archeologico dell’Appia Antica è spuntato come un fungo un bel villone, con
tanto di tetto e fondamenta. Interviene la forza pubblica, che abbatte il mostro.
Non contento, il giornalista rintraccia la proprietaria del terreno. La trova che è
in gita culturale nientemeno che con il Fai (Fondo Ambiente Italiano), una delle
principali associazioni private impegnate nella tutela dei beni storici ed artistici
del Bel Paese. Messa alle strette, la signora ammette il fatto, ma sostiene: era per
dare una casa a chi non ce l’ha.

ROMA – “Dico: ’sti poveri romeni! Quello che mi dispiace è per questi poveri
romeni senza casa!”. Per loro, gorgheggia al telefono Annapia Greco, fece costruire
la villa abusiva sull’Appia Antica denunciata ieri mattina dal “Corriere” ed
abbattuta ieri sera dalle ruspe, sotto gli occhi del Sindaco Veltroni, tornato apposta
da un viaggio: “Che me ne facevo, io, di una villa laggiù?”.
“Ho una casa tanto bella in Piazza del Colosseo e ci vivo tanto felice! Tanto
serena! Tutta questa pubblicità! Tutte queste cattiverie sulla mia famiglia! E che ho
fatto mai? Ci ho provato, d’accordo, è andata male, pazienza. Me volete crocefigge’?
Chiedo: me volete crocefigge’? Che ho fatto mai: ho solo cercto di fare del bene a ’sti
romeni, di dar loro una casa. Vedesse i loro occhi … Poverini”.
Romana, 57 anni, soave rappresentante dei troppi italiani indifferenti alle leggi di
tutela, sorella di quel Roberto Greco che a metà degli anni Settanta intuì per primo
l’affarone di importare camicie e magliette dalla Cina, e creò con gli altri fratelli il
marchio con la mongolfiera “Balloon”, Annapia giura cheproprio non riesce a
capacitarsi di tutto questo fracasso intorno alla lussuuosa residenza fuorilegge tirata
su a settanta metri dalla Tomba di Cecilia Metella.
“Io l’avevo venduta, l’avevo …”.

E quando?
Da tantissimo tempo … tantissimo.

Quando?
Ma come posso ricordarlo? Tantissimo.

Eppure fu lei, un anno fa, a metter giù le fondamenta, lei ad essere denunciata,
lei ad essere nominata custode giudiziario …
Sì, ma … insomma … guardi: io tenevo quel terreno per fare la contadina …

La contadina …
Sì. Volevo fare l’orto, la frutta … Siccome che poi ho ospitato dei rumeni che non
sapevano dove andare a dormire … Mi facevano pena. Vedesse la moglie, il figlio …
li potevo lasciare senza una casa? Mi dica: li avrebbe lasciati, lei, senza una casa?

Non mi dirà che ha fatto costruire una villa sull’Appia Antica per …
Certo! Per questa povera gente. Erano i miei protetti. Comunque, per essere precisi,
io non ho costruito niente.

Solo perché l’hanno beccata.


D’accordo, ma non ho costruito io.
Sperava nel condono?
Casomai ci speravano quelli che l’hanno costruita.

Insiste? L’ha comprata lei, o no, quella casa? Ha fatto scavare lei, o no, le
fondamenta?
Fondamenta? Due buchi, erano. Profondi come un vaso di fiori.

Fatto sta …
Vabbene, gliel’ho detto: ci ho provato ed è andata male. Pazienza. Capita … mi sono
detta ‘vabbè, ora la vendo’.

Ma pensava davvero di farla franca?


Senta, io capisco le sue osservazioni. Sono d’accordo. Sa, ho fatto l’istituto d’arte …
La battaglia contro gli abusi è nobilissima. Ma perché tutto questo parlare di me?
Della mia famiglia? Vi rendete conto del danno fatto con questa pubblicità negativa
all’azienda dei miei fratelli? Perché ce l’avete con noi?

No, signora, anche suo fratello Roberto ha una villa sull’Appia, ma di lui le
autorità del Parco parlano solo bene. È lei la discola … Ma si rende conto? Una
villa abusiva a due passi da Cecilia Metella …
Lo so: me lo sono posto il problema. Sa dove sono, in questo momento? Nelle
Marche. Con il Fai, il Fondo Ambiente Italiano …

Scherza?
No, davvero. Quando hanno visto il giornale mi volevano buttar giù dal pullman:
‘Traditrice! Sei peggio di Giuda!’.

Ammetterà che …
Ma che ammetto? La casa l’hanno costruita quelli che hanno comprato il terreno …
Che c’entro io? Capisco, voi fate il vostro dovere, ma mi state rovinando i rapporti
con i miei fratelli. Metta che poi fanno un infarto …

Andiamo, signora: l’infarto!


Non capisco … Ce l’avete coi ricchi? Tutto questo guardare le nostre cose … Perché
ci fate del male?

Senta: fu lei a far tirare su la barriera di canne, lei a far stendere la rete verde
per nascondere i lavori agli ispettori del Parco ...
Ma no, ma no … L’hanno fatto dopo che l’avevo venduta.

Aveva l’ordine del magistrato di far rimuovere i pannelli e tutto il materiale


comprato per costruire la villa: perché l’avrebbe lasciato lì, se non per aspettare il
momento giusto per fare i lavori?
Con tutto quello che mi era costata! Dovevo pure fare un’altra spesa? Che ne sapevo
che poi quelli che hanno comprato …

Ma davvero non ricorda quando ha venduto?


Tanto tempo fa. All’inizio dell’estate, forse.

No: da quel che risulta lei ha fatto il preliminare il 22 agosto.


Ma no, ma no …

Esattamente il giorno prima di far montare la villa.


Ma no, c’è un errore …

E il passaggio di proprietà l’ha fatto davanti al notaio Renato Caraffa


addirittura il 5 settembre, quando la villa era già lì. Quindi l’ha fatta montare lei,
prima di vendere.
Ma no, c’è un errore!

L’atto ufficiale è lì: 5 settembre.


L’avrò registrato allora … Che ne so, io? Faccio come Berlusconi: giuro sulle mie
figlie che non ne sapevo niente, dell’abuso.

La visura camerale è chiara.


Ma per carità! Per carità! Io non so neanche cos’è una visura camerale! Ripeto: io
avevo venduto.

Per curiosità: a quanto?


A due lire. Giuro. Per colpa proprio del sequestro e di tutte quelle storie. Due lire. O
se vuole, facciamo euro.

Quanto?
Poco, pochissimo! Davvero! Guardi: quando l’ho vista in fotografia sul Corriere mi
sono detta: ‘Quant’è bella! Che peccato averla venduta …

Mica tanto: l’hanno buttata giù …


Non potevano: è proprietà privata.

Signora: una casa abusiva sull’Appia!


Non hanno avuto pietà, poveri rumeni …

Ancora? E su: mica l’ha venduta ai rumeni, la villa. L’ha ceduta a una signora
quasi ottantenne, Adele Gattoni Celli, che contestualmente ha girato la nuda
proprietà ad una certa Albertina Martinelli.
Ma non guardi le carte, non creda alle carte … Le dico che l’ho data ai rumeni.
E sa dove abita questa signora che ha comprato?
Mi dica.

Guarda caso, proprio al suo indirizzo: Piazza del Colosseo 9.


Ma davvero? Ah, le coincidenze della vita …

IL VELO USATO COME ARMA


di Luciano Scalettari
“Famiglia Cristiana”, 29 ottobre 2003

Nel 2003 l’opinione pubblica italiana si mobilita per salvare Amina, una donna
nigeriana violentata all’interno del proprio clan, e rimastane incinta.
Quantobasta per decretarne la lapidazione, secondo la locale interpretazione
della legge islamica. Dietro il caso, scopre Luciano Scalettari, esiste una realtà
molto complessa.

LAGOS, Nigeria – “Eccola, la bolgia di Lagos. Vedi come vive questa gente? Cosa
vuoi che gliene importi di Amina. Qui, nei sobborghi, ogni notte qualche decina di
persone viene uccisa, o muore per le ragioni più diverse. Ogni giorno ricomincia la
battaglia per la sopravvivenza, per la quale tutto è permesso. Questa gente fa fatica a
capire che una donna a rischio di lapidazione mobiliti il mondo intero. Loro, la
lapidazione, la rischiano ogni giorno”. La macchina avanza metro dopo metro,
imbottigliata nel serpentone di traffico della più popolosa città africana: 16 milioni
di abitanti, dei quali una dozzina vive sotto la soglia di povertà.
Il nostro interlocutore, un imprenditore italiano che da quasi 30 anni lavora in
Nigeria, cerca di spiegare questa città e questo Paese inspiegabili. Gli ingorghi
pazzeschi, che a volte costringono a fare code di tre o quattro ore per attraversare la
città, li chiamano go-slow, espressione inglese che forse si può tradurre con “andar
piano”. Non siamo su una viuzza, stiamo percorrendo una superstrada a quattro
corsie. Lagos è nata su tre isole, e poi si è estesa nell’entroterra. I pochi ponti che
collegano le varie zone della città sono altrettanti colli d’imbuto. Da sopra il ponte lo
sguardo abbraccia l’estendersi delle baraccopoli, a perdita d’occhio. Il traffico
perennemente bloccato è la fortuna degli innumerevoli venditori ambulanti, ragazzi
di strada, mendicanti. Decine di persone che vendono e chiedono, implorano e
gridano. Offrono patate e cellulari, fazzoletti e cd-rom, acqua e caschi di banane. Ma
soprattutto, ovunque, schede per la ricarica dei telefonini.
Telefonini nelle baraccopoli
In Nigeria, il Gsm è stato introdotto meno di due anni fa, ma si stima che le quattro
compagnie che hanno subito avviato il business abbiano già 40 milioni di utenti.
Cioè lo stesso numero di telefonini che circola in Italia. La Nigeria ha il doppio della
popolazione italiana, ma è anche vero che su 120 milioni di nigeriani, oltre 80
vivono in baracche, non hanno l’acqua potabile né la luce, e guadagnano meno di un
dollaro al giorno.
“La Nigeria è il gigante d’Africa, ma fatica a reggersi in piedi”, continua
l’imprenditore. “È il motore che alimenta tutti i Paesi vicini, ma la maggioranza dei
suoi abitanti non sa se mangerà il giorno dopo. Ha enormi potenzialità, ma combatte
con una miseria ingestibile”.
Il Paese dei paradossi. L’ultimo, modernissimo, centro commerciale aperto a
Lagos non sfigurerebbe a Milano o a Roma. E appena dopo l’ingresso vi si trovano
in mostra schermi televisivi al plasma di tre metri per due. Il più recente modello di
cellulare annunciato in Italia, qui è già in vendita. Ma di là della strada, appena i
clienti escono dallo shopping, devono farsi largo tra i venditori di strada e i
mendicanti.
Secondo le statistiche dell’Onu, il reddito medio dei nigeriani è di 300 dollari
l’anno. È la storia dei polli di Trilussa: il 95 per cento della ricchezza del Paese è
nelle mani di 6.000 nigeriani. Uno solo, Alinco Dangote, si trova a 41 anni a essere
produttore e importatore monopolista di tutto lo zucchero e il cemento del Paese.
Ora sta rivolgendo i propri interessi alla pasta. E deve avere ottime entrature, perché
nei mesi scorsi il Governo federale ha posto l’embargo proprio sulle importazioni di
pasta.
Abbiamo attraversato il Paese da Sud all’estremo Nord, dall’Oceano Atlantico
dove s’affaccia Lagos fino a Katsina, a 30 chilometri dal confine col Niger, dove
inizia il Sahel. Un percorso che passa attraverso Ibadan, Abuja (la capitale federale),
Kaduna, Zaira, Kano. Tutte città caotiche e sovrappopolate, abitate da 2, 4, e anche 7
milioni di persone (ma nessuno sa quante siano realmente, l’ultimo tentativo di
censimento è del 1991).
Un chilometro dopo l’altro cambia il paesaggio naturale e anche quello umano.
Dalla foresta tropicale alla savana, alle regioni semidesertiche settentrionali. Dal Sud
cristiano e occidentalizzato al profondo Nord, nel quale 80 ragazze su cento sono
analfabete e 99 su cento portano il velo.
“Perché in Europa vi interessate tanto di Amina Lawal?”, ci chiede Alhagi
Magagi, il nostro accompagnatore al Nord. Sarà la decima volta che ci sentiamo
ripetere la domanda. In effetti, nei giorni precedenti il processo, nessun giornale
nigeriano parlava del caso. Solo la sentenza è andata in prima pagina. Il giorno dopo
nemmeno una riga. Per i nigeriani «è una questione tutta politica», come dicono a
mo’ di ritornello, al Sud come al Nord. “In Nigeria, cristianesimo, religioni
tradizionali e islam convivono da secoli. E non ci sono mai stati problemi”, aggiunge
Magagi.
D’accordo. Ma, negli ultimi tre anni, gli scontri tra cristiani e musulmani hanno
fatto oltre 10.000 vittime. “Nel 2000, la città di Kaduna è stata messa a ferro e fuoco
per settimane nei raid compiuti nei quartieri islamici di là dal fiume e in quelli
cristiani a sud”, racconta suor Semira Carrozzo, missionaria delle Oblate, che
gestisce una scuoletta modello dove accoglie un migliaio di bambini, alcuni dei quali
musulmani.
Una nazione creata a tavolino

Ma dove nasce la guerra di religione? Chi la vuole? Chi la finanzia? Oggi, 12


Stati della federazione nigeriana su 36 hanno adottato la sharia, la legge islamica. I
governatori l’hanno imposta in pochi mesi, all’indomani della prima elezione
democratica, nel 1999, quando fu eletto l’attuale presidente Olusegun Obasanjo (nel
maggio scorso ha vinto per la seconda volta le elezioni).
Eppure la Nigeria non è nuova alla sharia. Nelle regioni musulmane quello era
l’unico codice utilizzato dal Cinquecento fino all’arrivo degli inglesi, che l’abolirono
sciogliendo le corti islamiche.
Il colonialismo non ha fatto solo questo. Ha creato una nazione a tavolino, perché
nel 1914 ha messo insieme in un’unica amministrazione tre regioni e tre popoli
diversi: il Nord, islamizzato, dedito all’agricoltura, composto prevalentemente delle
etnie hausa e fulani; l’Est degli ibo e l’Ovest degli yoruba, più ricchi, a maggioranza
cristiana.
Non c’è mai stato il problema degli scontri a carattere religioso. La Nigeria degli
anni ’70 è ricordata per la guerra dovuta al tentativo di secessione del Biafra (l’area
petrolifera ricca), e la terribile carneficina che ne seguì (un milione di vittime, forse
più). Dagli anni ’80, poi, l’equazione è stata Nigeria uguale petrolio. E infatti ne è
stato trovato tanto, di oro nero. Le compagnie petrolifere hanno fatto del Paese il
primo produttore africano e l’ottavo al mondo.
Adesso la Nigeria produce 2,3 milioni di barili quotidiani di greggio, e incassa
royalties per 30 milioni di dollari al giorno. Un fiume di denaro che ha reso il Paese
uno dei più corrotti al mondo, stando alle classifiche dell’associazione Trasparency
International.
“Non sono d’accordo”, dice monsignor John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja.
“Detto così, sembra che tutti i nigeriani siano corrotti. È giusto dire che gli uomini
che hanno gestito il potere nel paese sono dei corrotti e hanno accumulato smisurate
ricchezze personali”. La Chiesa cattolica, in Nigeria, non è tenera col potere politico.
Neanche con Obasanjo, primo presidente cristiano. “Ha fatto molte promesse”,
aggiunge Onaiyekan, “riguardo alla democrazia e alla trasparenza, ma finora ci sono
pochi atti concreti. La gente comincia a essere disillusa”.
Quindi, come nasce l’integralismo? La spiegazione forse viene dalla storia
recente. Per 30 anni il governo è stato in mano a dittatori militari, quasi tutti
provenienti dal Nord. Trent’anni di potere militare hanno significato anche la
costruzione dell’esercito più potente dell’Africa occidentale, al punto che è la spina
dorsale di tutte le missioni di pace africane. Questi stessi regimi dittatoriali per
decenni hanno potuto usare liberamente dei proventi del petrolio.
Capi di Stato e ministri si sono accaparrati vere e proprie fortune, depositate
all’estero. Si stima che il patrimonio personale del generale Babangida (al potere tra
il 1985 e il 1993) sia di 6-7 miliardi di dollari; quello della famiglia di Sani Abacha
(l’ultimo dittatore morto – forse avvelenato – nel 1999) tra i 3 e i 4 miliardi di
dollari. Il risultato è che in Nigeria non si muove foglia che l’apparato militare non
voglia, perché al potere delle armi si somma quello economico.
Per contro, questo Paese che galleggia sul petrolio importa dall’estero il 70 per
cento della benzina. Ha solo quattro raffinerie, e ne funziona una; spesso le pompe
sono vuote e la gente fa giornate intere in coda per non restare a piedi. I furti di
greggio denunciati dalle compagnie petrolifere si aggirano fra il 5 e l’8 per cento di
quello estratto, cioè l’incredibile totale di 150-200.000 barili al giorno. Dove finisce?
Nei Paesi confinanti, che senza questo petrolio si troverebbero in serie difficoltà.
In conclusione, Obasanjo ha riportato il Paese alla democrazia e gli ha dato
prestigio internazionale. Ma è stato eletto col placet dei militari e col voto del Nord.
Tuttavia è un uomo del Sud, e al Sud ha diretto subito le sue attenzioni. Così, in
pochi mesi le regioni islamiche della Nigeria si sono scoperte fondamentaliste, e in
breve hanno instaurato la sharia. Una riprova di ciò risiede nel fatto che la legge
islamica è stata voluta dai governatori, non dai capi religiosi.
Così, il Nord ha ottenuto una formidabile arma di ricatto. E se Obasanjo ha
chiuso i rubinetti dei finanziamenti, qualcun altro ha pensato a portare acqua: si dice
che siano arrivati in questi quattro anni 500 milioni di dollari da Al Qaida. È un ‘si
dice’, nulla più.
Il gigante africano, insomma, ha i piedi d’argilla: il suo petrolio è sempre più
importante, la sua povertà più scandalosi. Corteggiato da un lato dai Paesi ricchi e
dall’altro dai poteri forti dell’integralismo islamico, sembra sempre sul punto di
cadere. E il terremoto scuoterebbe l’intera Africa occidentale.
I casi di Amina, Safiya e le altre che verranno sono importanti. Ma non solo
perché si tratta di orribili violazioni dei diritti umani. Sono anche diventati strumento
della lotta politica del Paese.

BONSAI

di Sebastiano Messina
“La Repubblica”
Penna garbata, Sebastiano Messina ha tenuto per anni sul suo giornale una
rubrica di poche righe al giorno, dedicata alle vicende della politica. Qui
riproduciamo due esempi, dedicati uno al centrodestra, l’altro al centrosinistra.

LUI PURE

NON è vero, sostiene Silvio Berlusconi, che lui ha occupato i teleschermi italiani
quanto tutti gli altri leader messi insieme.
Per convincerci che lui non è un ospite fisso della televisione, ieri ha passato la
mattinata alla radio. E ci ha spiegato che, quand’anche fosse vero che lui abbia
avuto più tempo di tutti gli altri, una ragione ci sarebbe: “Io gioco quattro ruoli.
Dovrei avere lo stesso tempo di Amato, come leader dell’opposizione. Di Rutelli,
come suo competitor. Di D’Alema, perché lui è presidente dei Ds e io presidente di
Forza Italia. Di Veltroni, perché lui è segretario dei Ds e io segretario di Forza
Italia”.
Il ragionamento non fa una grinza. Anzi, se il Cavaliere mi consente, andrebbe
completato. Perché la teoria della par condicio berlusconiana non tiene conto —
immaginiamo per un eccesso di modestia — di altri necessari bilanciamenti.
All’oppositore di Amato, al competitor di Rutelli, al collega di D’Alema, al
concorrente di Veltroni spetta anche altro tempo. Quello di Prodi, perché è un ex
presidente del Consiglio, e lui pure. Di Di Pietro, perché si occupa dei processi a
Berlusconi, e lui pure. Di Agnelli, che è il presidente di un impero economico, e lui
pure.
Di Ciampi, che parla agli italiani da una reggia, e lui pure. E del Padreterno, che è il
re del cielo, è infallibile e ha fatto molti miracoli. E lui pure.
21 febbraio 2001

PARTITO IN PROVETTA
Questa fecondazione artificiale non riesce proprio, al centro-sinistra. Non parliamo
del ddl sugli embrioni - che ha separato le cellule laiche da quelle ortodosse, facendo
nascere un aborto di legge - ma del progetto per la nascita di una lista unica, ovvero
di un partito in provetta. L’esperimento era già a buon punto, con l’impianto di tre
embrioni politici nello stesso simbolo, quando sono cominciati i dubbi, le polemiche,
gli scontri. Così oggi ci si pone alcuni interrogativi laceranti. È giusto, è legittimo, è
ammissibile che vangano utilizzati anche partiti - come quello di Di Pietro - estranei
alla coppia Ds-Margherita? Può valere per lo Sdi l’eccezione per le liste sterili? In
quali casi è ammesso il ricorso alle cellule di partito nate fuori dal matrimonio
ulivista, per esempio quelle di Rifondazione?
Come al solito - siamo in Italia - prevale il compromesso. Non sarà permesso a Prodi
di creare più di tre liste uniche per volta, ma i partiti che da più di cinque anni non
riescono ad avere il quorum potranno adottare i candidati eccedenti e impiantarli nel
proprio simbolo. Resta il problema più delicato: cosa fare con i leader creati in
laboratorio ma non impiantati in una coalizione vincente. Si fa strada, sia pure in
mezzo a un conflitto di coscienze, l’ipotesi di consentirne il congelamento.

12 dicembre 2003

RICORDANDO I MORTI DI MARZABOTTO


(pag. 5)
di Ettore Mo
“Il Corriere della Sera”, 30 settembre 2004

La Storia è sempre contemporanea.

Marzabotto – È successo sessant’anni fa, a fine settembre del ’44: uno degli eccidi
più atroci della seconda guerra mondiale, che pure ne ha annoverati tanti, a
cominciare dallo sterminio degli ebrei. Anche alla luce di quello che sta avvenendo
oggi, le stragi, i sequestri, gli sgozzamenti e macellerie varie, scatenata dall’assalto
alle Due Torri, le barbarie commesse quell’autunno dai nazisti sull’Appennino
emiliano mantengono il loro triste primato nella galleria degli orrori.
Non sembrano esserci più zone d’ombra o angoli inesplorati della tragedia,
essendo stata raccolta e “sviscerata” per oltre mezzo secolo, anche se gli anziani, che
allora erano bambini, scuciono ancora dalla memoria qualche particolare. Pochissimi
i superstiti – cioè, gli scampati alla morte – che sono via via scomparsi oppure vivono
altrove. Comunque non più di una mezza dozzina. Passeggiando dentro a questo
paesaggio così verde e boscoso, e così pacifico, ne incontro tre: che rassegnati
ripetono il racconto già fatto cento, mille volte.
Anna Dainesi è ora una tranquilla signora di 68 anni; la incontro davanti al
sacrario di Marzabotto che custodisce le vittime della strage, tra cui 315 donne e 189
bambini. Racconta la strage del cimitero di Casaglia, dove gli uomini del Maggiore
Walter Reder – che comandava la Sedicesima Divisione dei panzergranatieri nella
zona dell’Appennino bolognese ed è chiamato “il monco” per un arto artificiale –
ammassano la mattina del 29 settembre 1944 centinaia di persone. “Io avevo 8 anni e
mezzo – dice con la fretta di chi ripete a memoria una vecchia cantilena – e con la
mamma mi ero rifugiata nel bosco, ma in tempo per vedere la fila di gente che le Ss
spingevano a calci nel recinto del camposanto. Tra di loro c’era mio fratello
Albertino, 15 anni, che non rividi più. Fu una mattanza. C’era anche il mio fratello
più piccolo, Alfredo, che aveva sette anni. Che rimase ferito e morì 40 giorni dopo.
Se ho visto Reder? Altro che, l’ho visto, il Monco. Veniva giù nello scantinato dove
c’erano i rifugiati e toccava le ragazze con quella sua mano di legno. Prendeva quelle
più giovani e le portava al piano di sopra, e le violentava insieme ai suoi uomini.
Ridiscendevano tra noi completamente nude, piene di lividi e ferite”.
Secondo gli storici, la gratuita feroce rappresaglia tedesca sulle popolazioni inermi
dei villaggi dell’altipiano raggruppati attorno a Marzabotto, Monzumo, Grizzana
viene intrapresa da Reder in un momento di frustrazione per lo scarso (quasi nullo)
successo delle operazioni militari fino ad allora tentate dalla sua divisione contro la
formazione partigiana “Stella Rossa”, che operava nella zona sotto il comando del
leggendario “Lupo”, al secolo Mauro Musolesi. I partigiani erano un grosso problema
per le Ss, perché temevano sotto controllo le due principali ferrovie – la Porrettana e l
Direttissima – attraverso cui l’Armata di Kesserling faceva arrivare sull’Appennino i
rifornimenti delle proprie truppe, attestate sulla Linea Gotica.
La “Stella Rossa” – così ragionavano i tedeschi – poteva sopravvivere nei boschi e
nelle forre soltanto grazie all’aiuto della popolazione locale, che sfamava e m
proteggeva i partigiani di Lupo nei loro spostamenti clandestini: quei contadini che
giravano con la zappa in spalla ed il tridente erano dunque dei “banditen” e dei
“comunisti” e, come tali, andavano puniti. La fase più bestiale della repressione
cominciò il 29 settembre e durò sette giorni. Vennero decimate famiglie intere. A San
Giovanni e a San Martino, due frazioncine, il plotone d’esecuzione cancellò dalla
faccia della terra in pochi minuti Pietro ed Anna Lorenzini e tutta la loro nidiata, dai
26 ai 3 anni, dieci in tutto: una “cellula” sovversiva di cui facevano parte partigiani e
partigiane di tre, quindici, ventidue e ventisei anni. È rimasta l’agghiacciante
testimonianza di un certo Giuseppe Lorenzini, scomparso da tempo, che raccontò
all’inviato dell’“Europeo”, Gian Franco Venè: “In realtà sono quattordici i miei
parenti ammazzati. Dei miei figli ho ascoltato le urla. Gli altri li ho visti quando
morivano. I nazisti li battevano con il calcio del fucile per metterli in riga, davanti a
casa mia. Sparavano con due mitragliatrici, poi con le rivoltelle, nel mucchio.
Rovesciarono infine il mio carro di fascine sui cadaveri. Nascosero così tutti i morti
sotto la legna , e bruciarono. Sotto la cenere, più tardi, trovammo ciò che restava dei
nostri morti e li seppellimmo nell’aia. Non trovai la testa di mio nipote, che aveva
cinque anni”.
Una delle tappe del pellegrinaggio è il cimitero di Casaglia, che si raggiunge
zigzagando lungo un strada che sale in alto tra boschi e attraverso la sommità del
Monte Sole. Ci accompagna la signora Cornelia Paselli, che è venuta da Bologna per
raccontarci la sua storia. Settantotto anni, ma ben portati, i capelli biondi vaporosi
senza tracce di neve, la camminata svelta. Questi luoghi li conosce molto bene e si è
rassegnata a vederli per offrirci la sua personale testimonianza di quei giorni, quando
di anni ne aveva 18. Ci fermiamo un attimo di fronte ai ruderi della chiesa di Santa
Maria Assunta, che ora è patrimonio dell’Unesco, perché “è qui che è cominciato
tutto”.
Quella mattina del 29 settembre – ricorda – ci siamo rifugiati nella chiesa per
paura dei tedeschi che pattugliavano la zona. Eravamo circa un centinaio. Sull’altare
il parroco, don Ubaldo Marchioni, stava per celebrare la messa. Ma ecco che di colpo
ti piombano in chiesa le Ss che intimano a noi tutti di uscire e di avviarci al cimitero.
La prima vittima fu una donna paralizzata, su una sedia a rotelle, che venne falciata in
due. Poi i soldati fanno fuoco su don Ubaldo, che stramazza ai piedi dell’altare.
Subito dopo comincia la nostra via crucis verso il cimitero, a poche centinaia di
metri…”.
Eccolo, il cimitero. Un muro di cinta basso, poche zolle erbose, qualche cespuglio,
qualche fiore, una dozzina di croci sbilenche. Tanta pace e tanto silenzio. “I soldati ci
spingono dietro a forza, come un gregge di capre destinate al macello, dopo aver
abbattuto il cancello di ferro. Ho visto un soldato inginocchiarsi, infilare il rotolo
delle munizioni nella mitragli a ed aprire il fuoco. Altri lanciavano bombe a mano.
Cadevamo uno sopra all’altro, urlando. Ho sentito mia mamma che diceva ‘Cornelia,
sei viva?’. I miei fratelli gemelli, Gigi e Maria, di dieci anni, erano già morti. Stavo
sotto un mucchio di cadaveri col sangue che mi zampillava addosso, in bocca, sugli
occhi. Mi chiedevo ‘e se questo sangue fosse il mio?’. ‘Dite l’atto di dolore’
suggeriva qualcuno. No, no! Io da quel giorno non l’ho più recitato, l’atto di dolore.
Ho perso la fede, neanche adesso riesco a dirlo. Ho sempre negli occhi quel tedesco
che sparava nel mucchio e io dicevo a me stessa: ‘no, non voglio morire a questa età’.
Hanno cominciato a sparare alle nove e mezzo del mattino ed hanno finito verso le
quattro del pomeriggio. La mia mamma era ferita ad una coscia, le ho fatto un laccio
per fermare l’emorragia, ma non ce l’ha fatta; è morta due giorni dopo. Io sono
riuscita a fuggire ed ora credo di aver ritrovato la fede. Ma l’atto di contrizione no.
No e poi no!”.
Da queste parti si cammina, annichiliti, da uno strazio all’altro, in compagnia di
fantasmi evocati via via, sul sentiero che livide targhe di pietra e lapidi consunte, che
forniscono freddamente l’elenco dei morti ammazzati. Così apprendiamo che a
Casaglia furono massacrate 95 persone, suddivise tra 28 famiglie, e che 50 bambini
volarono dritti in cielo con le alucce insanguinate. In questo nugolo di pargoletti
avrebbe dovuto esserci anche Fernando Piretti, che invece è qui con noie ci scorrazza
attorno con la sua jeep per straducole impervie, schizzose, dove l’infarto è garantito
per le nornmali autovetture. Ha 69 anni, è piuttosto basso ma asciutto e forte. Ha la
camminata svelta. Guida e ci racconta la sua infanzia, guida e ci porta proprio lassù,
nel posto dove perse la mamma, Cesarina, e la sorella Tersa, tredici anni appena, ma
uscì vivo e stremato sgusciando dotto il tappeto di cadaveri che per un giorno ed una
notte lo tennero nascosto, mentre le belve Ss bivaccavano intorno, vomitando vino e
canzoni. Un altro rudere una volta era l’oratorio delle suore orsoline nella frazioncina
di Cerpiano. “Noi abitavamo più sotto – racconta Fernando – ma quando a settembre
le Ss cominciarono a sparare per intimorire e snidare, presumibilmente, gli uomini
della ‘Stella Rossa’ ci consigliarono di spostarci in montagna. Sono arrivato a
Cerpiano con il papà, la mamma, la sorella Teresa di 13 anni. I miei fratelli più
grandi, tre, erano con i partigiani e non li avrei più visti. Kaputt. Con tanti altri, le
suore ci avevano sistemato in uno stanzone attiguo all’oratorio. Io facevo il
chierichetto. Poi venne la mattina del 29 settembre: arrivarono i tedeschi e ci spinsero
tutti dentro. Tre metri per quattro al massimo, ammucchiati alle pareti, il mitra
puntato da una testa all’altra. L’ufficiale diede l’ordine di sparare. Sarei morto se la
mia mamma non mi avesse coperto col suo corpo, così rimasi solo ferito ad una
spalla. La mamma e Teresa morirono così. C’era anche una bambina di sei-sette anni,
Paola Rossi, che aveva la faccia piena di sangue e si lamentava. Ma alla fine, come
me, ne è uscita viva. Ai feriti davano il colpo di grazia, ad un certo punto una mano
mi afferrò per il ciuffo e sollevò la mia faccia. La lasciò cadere, mi credevano morto.
Anche la maestra Benni era ancora viva e ci bisbigliava ‘Zitti bambini, zitti che
tornano e ci ammazzano’. I soldati rovistavano tra i cadaveri, arraffando tutto quanto
c’era da arraffare: anelli, catenine, spille, borse. Io facevo il morto, ma li vedevo,
quegli sciacalli”.
“Pietà per i morti di Cerpiano di Monzumo” c’è scritto sulla lastra di marmo,
appesa al rudere, con i nomi delle 56 vittime dell’Oratorio. Il ricordo del massacro
non potrà mai essere cancellato, ma quassù, adesso, di respira un’aria diversa,
depurata dall’angoscia del passato: “Un’aria vera di pace”, suggerisce uno dei monaci
della Piccola Famiglia dell’Annunziata, una comunità davvero minuscola, fondata da
Giuseppe Dossetti che vi mise piede intorno all’’85, e vive in francescana povertà.
Ora et labora, è la massima di sempre, e quindi nessuno si deve stupire se, per
sbarcare il lunario, i fraticelli hanno allestito un laboratorio per la produzione dei
tacchi a spillo.
Dossetti, che si fece monaco dopo essere stato capo partigiano a Reggio Emilia,
membro della Costituente e leader della sinistra Dc di De Gasperi, volle essere
sepolto sull’Appennino, alle pendici del Monte Sole; e dal dicembre del ’96 – anno
della sua morte – riposa nel cimitero di Casaglia. Per lui le piccole comunità tra i due
fiumi – il Reno e la Setta – erano ‘comunità di fede’ legate insieme dal filo di ferro
dei valori tradizionali (casa e chiesa) mentre per lo storico Luciano Gherardi le
parrocchie sulle due sponde sono “l’equivalente delle comunità ebraiche dell’Europa
orientale”: e questo spiega il particolare accanimento dei nazisti che agivano nel
nome dell’altra “fede”. Con Ubaldo Marchioni vennero trucidati altri quattro
sacerdoti e la stessa fine toccò ad una religiosa, Suor Maria Fiori, più nota con il
nome di Suor Ciclamino per la sua indole gentile. Qualche giorno dopo il massacro le
Ss tornarono al cimitero di Casaglia vestiti da prete e “impiccarono al cancello Cristo
e la Madonna”. Altrove abbatterono a raffiche di mitra le statue di legno dei santi.
Con tutto ciò la maestrina delle Orsoline, Antonietta Benni, sopravvissuta all’eccidio
dell’Oratorio, fu una delle quattro persone che accordarono il perdono al maggiore
Reder, quando lo chiese.
È l’aprile del 1967 quando, dalla sua cella nella fortezza borbonica di Gaeta, il
maggiore Walter Reder – condannato all’ergastolo nel ’51 dal tribunale di Bologna –
scrive una lettera al sindaco di Marzabotto supplicandolo di intercedere presso la
popolazione affinché “mi conceda il perdono per il sangue sparso e per i danni recati”
al paese. Ma non è il suo l’appello di un pentito macerato dai rimorsi: ci mette di
mezzo la madre, sua madre, “che ha già perso tre figli, e affranta dal dolore tende le
mani verso Marzabotto” perché le restituisca “l’unico figlio che le è rimasto”. Non
sorprende che, turbati da tanta filiale delicatezza, i parenti delle 1.836 vittime delle Ss
abbiano ignorato la supplica, lasciandolo invecchiare in carcere. Rimesso in libertà
nel gennaio del 1985, Reder il Monco tornò in patria, dove le associazioni
combattentistiche germaniche lo consideravano la “vittima innocente di una sudicia
congiura di comunisti italiani”. Sollevato da questo verdetto assolutorio, l’ex
comandante della Sedicesima Divisione di panzergranatieri si spense a Vienna il 26
aprile ’91. Certo, lassù erano in molti ad aspettarlo: specie nello sterminato asilo
infantile che il buon Dio aveva sistemato e di cui Reder, dopo Erode, è stato il più
solerte fornitore. In testa al comitato d’accoglienza avrebbero messo Anna Pardini,
che aveva solo 20 giorni quando, da Sant’Anna di Stazzema, fu sparata direttamente
in Paradiso.
Finita la guerra, Marzabotto e gli altri paesi arroccati tra il Reno ed il torrente
Setta avevano più morti da piangere che tutti gli altri; ma nel clima arroventato delle
contese politiche cominciarono subito, e durarono a lungo, le polemiche sulla
responsabilità e le dimensioni delle stragi. I partiti di centrodestra mettevano in
discussione il ruolo di “Stella Rossa” e di altri gruppi partigiani, accusati di aver
provocato la dura rappresaglia dei nazifascisti, che altrimenti sarebbero stati …buoni
buoni con la popolazione locale, impegnati com’erano ad affrontare gli Alleati sulla
Linea Gotica. C’era poi, tra la gente, un clima molto teso, di disagio e sospetto per
quei sette giorni di mattanza di fine settembre del ’44, anche perché ogni documento
ufficiale stava chiuso, anzi sigillato, negli archivi di Stato.
Infatti la storia di Marzabotto e di tante altre stragi naziste era nascosta tra le
pagine di 695 fascicoli, pigiati e custoditi i quello che sarebbe stato definito
“l’Armadio della Vergogna”. Un armadio tenuto per cinquant’anni in un palazzo
cinquecentesco di Roma, sede della Procura Generale militare. In 415 dei 695
fascicoli c’erano i nomi ed i cognomi dei responsabili dell’eccidio. Quella che
avrebbe dovuto essere una “archiviazione provvisoria” è durata in realtà mezzo
secolo. L’occultamento dei fascicoli fu deciso dai vertici dello Stato per assecondare
lo sviluppo dei nuovi equilibri internazionali ed europei nei giorni della Guerra
Fredda, ed era parso opportuno ai nostri ministri d’allora lasciar riposare nella
polvere di un armadio i fantasmi del passato, soprattutto quelli della Germania nazista
e dell’Italia fascista. Qualche anno dopo il crollo del Muro di Berlino è saltato il
lucchetto.

OMERO A HOLLYWOOD

di Antonio Monda
“La rivista dei libri”, 9 Settembre 2004

L’ultimo episodio dello scontro epico tra gli Studios californiani e la letteratura
è Troy, polpettone in costume che farebbe girare nella tomba lo stesso Omero.
Ma in fondo, sostiene Antonio Monda, non è così malaccio: basta dimenticarsi di
Omero, e ricordarsi che è Hollywood. È il cinema, bellezza, e non ci puoi far
niente. A questo punto rilassati, e goditi lo spettacolo: a vincere è sempre la
grande letteratura. Hollywood in fondo è grande – in altri campi.
NEW YORK – Nel finale di Troy, di Wolfgang Petersen, c’è un momento
assolutamente sublime: le mura della città di Priamo resistono ad ogni tentativo di
assalto da parte dell’esercito guidato da Agamennone, e nessuno tra gli Achei sembra
trovare la soluzione per vincere una guerra che ha portato infiniti lutti ad entrambi gli
schieramenti in campo. Peterson inquadra in primo piano Ulisse, pensoso: il regista
ha mostrato sin dall’inizio del film che e’ l’astuto re di Itaca l’unico in grado di
trovare la soluzione per espugnare le mura, ed indugia sul suo sguardo riflessivo
prima di panoramicare alla sua destra, dove un compagno sta scolpendo un cavallo di
legno. Il volto di Ulisse si illumina in un sorriso, e poco ci manca che sulla sua testa
appaia improvvisamente una lampadina. Uno stacco di montaggio ci mostra i
guerrieri che stanno utilizzando il legno delle navi per costruire il cavallo che
espugnerà Troia, e fortunatamente da quel momento l’azione prenderà il sopravvento
sulla narrazione. Tuttavia, il film, realizzato con grandi capitali da un regista tedesco
di qualche talento che ha scelto ormai la sua patria ad Hollywood, non è brutto. O
quanto meno non è così brutto. Troy semplifica e tradisce Omero ripetutamente, ma
riesce ad essere un grande spettacolo, con dei magnifici duelli ed alcune belle
sequenze di azione.
Probabilmente è ingiusto sottolineare gli infiniti stravolgimenti dell’Iliade, ridotto
a poco più che un canovaccio, a cui vengono aggiunti episodi di altri testi, ma nello
stesso tempo e’ impossibile non chiedersi che fine abbiano fatto gli dei che guidano
ogni momento della guerra (cancellati perché apparentemente ostici per il pubblico
americano), e come mai manchino personaggi determinanti come ad esempio Ecuba.
L’esigenza di concentrare l’intera guerra in un film di due ore e quarantacinque
minuti, trasforma il conflitto in una guerra lampo, e stravolge alcuni elementi
fondamentali: Agamennone non muore al ritorno a casa per mano di Clitennestra, ma
nella notte dell’incendio di Troia. Andromaca riesce a sfuggire insieme ad Astianatte,
in un’altra scena esilarante in cui compare anche Enea, che porta sulle spalle Anchise
e dichiara il suo nome a coloro che nel pubblico non lo hanno ancora riconosciuto.
Paride, che per tre quarti del film è stato descritto come un codardo pavone, nel finale
diviene l’unico guerriero che combatte per la propria città con il suo infallibile arco.
La motivazione ha poco a che fare con le esigenze drammaturgiche: l’attore chiamato
ad interpretarlo è il divo emergente Orlando Bloom, a cui non può essere attribuito un
ruolo totalmente negativo. La trasformazione repentina in un abile guerriero, e la
scelta dell’arma si dive anche alla ricercata assonanza con il ruolo più celebre
interpretato dal giovane attore: l’infallibile arciere Legolas del “Signore degli Anelli”.
Si potrebbe continuare a lungo, ma, ripetiamo, non è il modo più sereno di porsi nei
confronti di un film di intrattenimento. Petersen e il suo sceneggiatore David Bienoff
hanno mescolato miti differenti con l’intento di costruire un grande spettacolo, e non
si può affermare che il film fallisca in questo intento. Le scene di battaglia sono
molto ben coreografate, e l’esemplificazione politica (Agamennone usa la vicenda di
Elena per pura sete di conquista) ha una sua efficacia. Ma al di là di molte rozzezze, e
di una recitazione diseguale, ciò che funziona maggiormente è la caratterizzazione
dei personaggi. Ovviamente ciò è dovuto agli archetipi immortali creati da Omero,
ma è un merito indubbio il fatto che i differenti personaggi non perdano il fascino dei
rispettivi caratteri, anche quando tradiscono l’itinerario drammaturgico previsto dai
testi originali. Chi riesce a dimenticare le pagine omeriche potrà apprezzare anche il
momento in cui Priamo (Peter O’Toole) si reca nella tenda di Achille (Brad Pitt) per
chiedergli di rendergli il corpo di Ettore. L’anziano attore inglese dà una lezione di
recitazione al giovane collega americano, e la scena ha una sua armonica intensità.
L’invincibilità di Achille è anche la sua maledizione, ed è un peccato che Pitt risulti
più inerte e monocorde del solito: al di là dei pettorali costruiti con molte ore di
palestra, sono pochi gli sforzi compiuti da questa star che non ha mai eccelso in
profondità. Risulta alquanto curiosa l’abbondanza di attori irlandesi e inglesi, ma è
l’australiano Eric Bana che ha il ruolo privilegiato di Ettore, il più umano ed
affascinante dei personaggi di Omero. Purtroppo la sua interpretazione non è
particolarmente carismatica, e se è vero che si tratta di un passaggio in avanti rispetto
alla prova offerta in Hulk, è ancora più vero che la matrice originaria dei due
personaggi non e’ esattamente la stessa. La riscoperta dell’epica che avviene in
questo momento nel cinema americano è da mettere in relazione anche con i conflitti
che investono il paese e tutto il pianeta, ma è necessaria una riflessione più attenta sul
modo in cui la gioventù in cui vive tuttora questo grande paese si relaziona ad un
momento mitico – ma anche storico – nel quale la gioventù era patrimonio del
mondo intero. Il film parla ai giovani americani – che tuttavia gli hanno preferito al
botteghino sia Shreck 2 che The day after tomorrow – perché riflette una condizione
esistenziale di onore e conquista, virtù e sopraffazione che nega in maniera eloquente
che in America ci sia mai stata l’età dell’innocenza. E se questo film ridicolo sul
piano drammaturgico quanto avvincente su quello spettacolare riesce a conquistare
una platea lo si deve in primo luogo ad Omero, che è l’unico ad uscirne da
trionfatore.
Ma non è soltanto l’epica a dominare in questo scorcio di stagione: il film più
atteso dell’anno ha debuttato nelle sale americane dopo una serie di ritocchi di
montaggio voluti personalmente da Steven Spielberg per attutirne l’atmosfera
kafkiana e l’aggiunta nel titolo dell’articolo The prima di Terminal, per allontanare la
preoccupante assonanza con l’aggettivo che si usa per i mali incurabili. Se è vero che
sin dalla prima inquadratura si riconosce il tocco inconfondibile e la maestria
registica di Spielberg, è anche vero che il film appartiene almeno ad altre due
persone: l’uomo che ha ispirato l’incredibile vicenda, di nome Mehran Karini
Nasseri, e Andrew Niccol, lo sceneggiatore che per primo l’ha adattata per lo
schermo, dopo che la produzione ha ottenuto i diritti da Nasseri per 275 mila dollari.
The Terminal racconta di una persona di nome Viktor Navorsky (un magnifico Tom
Hanks), che rimane bloccato all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy quando scopre
che durante il suo viaggio aereo verso New York c’è stato un colpo di stato nel suo
paese di provenienza, un inesistente paese dell’Est Europa denominato Krakhozia.
Nasseri, un iraniano che vive da 16 anni all’interno dell’aeroporto Charles De Gaulle
di Parigi, è stato già protagonista di tre documentari, che ne hanno raccontato
l’esistenza paradossale e – allo stato attuale – priva di lieto fine. Uno spunto di
partenza di questo tipo non poteva che essere allettante per Andrew Niccol,
sceneggiatore di Truman Show e regista di Gattaca e Simone, il quale con Sacha
Gervasi e Jeff Nathanson ha rielaborato una nuova vicenda di un universo chiuso e
disumanizzante. Ma il tocco di Spielberg rivoluziona in chiave umanista l’intero
assunto, facendo del film una favola morale in stile Frank Capra ed una metafora di
cosa offra oggi il sogno americano. All’interno di un aeroporto che appare troppo
poco militarizzato rispetto alla realtà attuale, Spielberg fa di Navorsky un gemello
ideale di E.T.: una creatura sensibile ed intelligente intrappolata in un posto lontano
da casa, che scopre il calore e la durezza degli esseri umani. La premessa kafkiana
acquista a poco a poco i toni di una commedia di Gogol, e Spielberg minimizza gli
aspetti tragici e angoscianti a favore di un approccio gentile e quasi sempre ironico.
Non è un caso che la scena madre sia rappresentata da un momento di puro
romanticismo (una cena al lume di candela improvvisata in un inesistente ristorante
con vista sulla pista di decollo) bilanciato da una serie di effetti comici. The Terminal
propone tuttavia un evidente messaggio politico sull’America di oggi: se i personaggi
positivi sono rappresentati da un indiano, un messicano ed un afro-americano, l’eroe
negativo è un bianco (Stanley Tucci) che interpreta la legge senza alcuna
compassione e sostituisce la pietà con la ragione. Il pubblico si commuove quando
intuisce che nell’intimo nell’American Dream c’è l’idea di accoglienza nei confronti
di qualunque flusso immigratorio, ma rimane turbato quando si accorge che il
protagonista non ha alcuna intenzione di diventare un americano: nel momento in cui
Navorsky apprende con sconcerto che “l’America e’ chiusa”’ può solo accettare il
consiglio che ne consegue: “c’è solo una cosa che puoi fare: shopping”. La critica
statunitense non ha accolto con favore una pellicola segnata da un sotterraneo
patriottismo nostalgico (le esplicite critiche di Spielberg invitano a vedere come
l’America potrebbe essere, e, soprattutto, come è stata), ed un tono fiabesco che
riporta il regista ad un approccio precedente rispetto ai film della cosiddetta maturità:
alla stroncatura del “New York Post”, che rigetta il simbolismo politico e trova
debole la casta storia d’amore con Catherine Zeta-Jones, si alternano gli elogi del
“New York Observer” a firma di Rex Reed (“un film che ci fa sentire bene, pieno di
originalita’ e dolcezza”) e la delusione, sulle stesse pagine, di Andrew Sarris, il quale
lamenta la mancata riuscita di un film con tutte le premesse per divenire grande. È
quasi opposto il giudizio di A.O. Scott sul “New York Times”, che scrive “la
maestria di Spielberg trova la sua espressione in una forma di sublime giocosità” e,
“pur “avendo a disposizione degli ingredienti artificiali e saccarinosi riesce a servire
un soufflé gustoso e leggero”. In questo film pieno di simboli e sottintesi, è
interessante l’evoluzione del personaggio di Amelia, che sin dall’assonanza del nome
è stata scelta per rappresentare l’America: qualcosa di bello e pieno di potenzialità
che compie continuamente scelte stupide e si condanna all’infelicità. Da spirito
autenticamente religioso, Spielberg condanna l’aberrazione del summum ius summa
iniuria ed invoca la felicità prima della giustizia. Il film si presta per diversi gradi di
lettura: non esiste personaggio che non abbia debolezze o non si sia macchiato di
qualche colpa, eppure non c’è nulla di più disumanizzante dell’applicazione
meccanica e senza appello di una legge. Fa impressione vedere Hanks-Navorsy
costretto a radersi all’inizio del film in un piccolo quadrato improvvisato nella zona
del controllo doganale, e si rimane turbati quando si sente uno dei personaggi, che ha
trovato lavoro come uomo delle pulizie all’aeroporto, raccontare di essere ricercato
nel proprio paese per aver accoltellato un poliziotto. Ad uno sconcertato Navorsky,
l’uomo spiega: “A nessuno importa, fin quando tengo la testa abbassata e lavo il
pavimento”. È evidente come il Terminal divenga il limbo dal quale deve uscire non
solo il protagonista, ma tutti i personaggi che considerano l’America una promessa
che deve essere mantenuta. E la strada per uscire è alla portata di tutti, purché si sia
pronti ad una rivoluzione interiore.
Una scelta di distribuzione non troppo casuale ha fatto sì che la favola politica di
Spielberg sia uscita negli stati Uniti ad una settimana di distanza da Fahrenheit 911,
il nuovo film di Michael Moore che ha trionfato all’ultimo Festival di Cannes, ad un
anno di distanza dall’Oscar ottenuto dal regista per Bowling for Columbine. La
critica dei due autori nei confronti dell’America di oggi è per molti versi analogo, ma
l’approccio non potrebbe essere maggiormente differente: se Spielberg sceglie
simboli, metafore e toni fiabeschi, Moore utilizza il sarcasmo, lo sberleffo e tutti gli
strumenti della propaganda. È certamente un segno dei tempi il fatto che l’incasso del
film di Spielberg sul suolo americano (19 milioni nel primo week-end) sia stato
surclassato da quello del film di Moore (22 milioni). Come tutti i suoi film
precedenti, Fahrenheit 911 si distingue per una mescolanza di intelligenza e
cialtroneria, acume e volgarità, efficacia ed ottusità. Da un punto di vista prettamente
cinematografico, Moore ha creato certamente un proprio stile riconoscibilissimo, ma
nel suo linguaggio non c’è nulla di particolarmente interessante al di là della forza di
un messaggio esplicito e spesso manipolato. Il “New York Times” non ha torto
quando scrive che nei suoi film l’implicita esaltazione della libertà offerta dalla
“democrazia si fonde con la demagogia”, e c’è da chiedersi se specie quest’ultimo
lavoro, fortissimamente voluto per contribuire a “cacciare Bush dalla Casa Bianca”
non finisca per convertire in realtà soltanto chi è già convertito. Non mancano i
momenti di grande efficacia, di ilarità e perfino di commozione, ma l’impressione
complessiva è di perplessità rispetto ad un progetto ossessivamente unilaterale, che
nega spudoratamente alcuni elementi determinanti (non c’è alcuna traccia del
pericolo causato dal fondamentalismo islamico) e si fonda su tesi accusatorie che non
sono sempre chiaramente dimostrate, al punto che perfino Christopehr Hitchens ha
sentito il dovere di scrivere un articolo intitolato Unfahrenheit 911 - The lies of
Michael Moore. Il regista ritiene che George W. Bush sia non solo un incompetente,
ma anche e soprattutto un malvivente pericolosissimo per l’umanità. A supporto della
propria tesi, racconta la discussa elezione a presidente, i fallimentari dieci mesi che
hanno preceduto l’11 Settembre (secondo i dati offerti dal film, ha utilizzato il 42% di
quel periodo per andare in vacanza), la reazione agli attacchi terroristici con le guerre
in Afghanistan ed Iraq motivati in primo luogo da interessi economici che vanno
dall’appalto alla Halliburton a rapporti commerciali tenuti dalla sua famiglia con
imprenditori sauditi, e perfino con la famiglia Bin Laden. Alcune denunce colgono
nel segno e lasciano sconcertato lo spettatore (perché vennero fatti espatriare una
ventina di membri della famiglia Bin Laden subito dopo l’11 Settembre?), ed alcuni
documenti semisconosciuti hanno una nobile funzione sociale, come l’accorato
appello da parte di un gruppo di deputati di colore per un voto che avrebbe bloccato
la certificazione della Presidenza Bush a seguito del sospetto di brogli elettorali
(l’appello non ebbe alcun voto neanche dai democratici), ma altri collegamenti
appaiono vaghi e semplicemente indiziari: per gran parte dello sviluppo del film la
volontà del colpo ad effetto prevale sulla logica ed il rigore. Bush, immortalato quasi
sempre a sua insaputa, è descritto come un fantoccio incapace di prendere decisioni
per conto proprio, ma la ridicolizzazione ad ogni costo supera a volte il limite
dell’efficacia, e ciò che finisce per esserne svilito è proprio il messaggio. Sulle
colonne del “Philadelhia Weekly” Sean Burns ha scritto di trovate di regia di bassa
lega e di un film ”incredibilmente ottuso” a prescindere dal messaggio che si può
anche condividere, ma che “viene ripetuto in maniera ossessiva”. Si avverte qualcosa
di confuso nell’intera operazione: Bush appare come un semi-ritardato che tuttavia
ordisce dei geniali piani degni di Machiavelli, ed alcune sequenze sono dilatate senza
alcun motivo: il racconto delle degenerazioni del “Patriot Act” non ha nulla di
efficace nè di particolarmente inquietante, e non è troppo chiara la sequenza in cui dei
soldati americani arrestano dei civili durante le feste di Natale. Ma, peggio, nel film
c’è qualcosa di profondamente offensivo: la sovrapposizione di immagini di autentico
dolore con battute goliardiche crea un sentimento di disagio per tutti coloro che non
si accontentano di veder attaccato frontalmente un nemico giurato. Chi scrive ha
sempre ritenuto la correttezza politica come un limite pericoloso per l’espressione
artistica, ma proprio perché Fahrenheit 911 non ha alcuna ambizione in tal senso, la
giocosa scorrettezza di Moore ottiene ripetutamente degli effetti sgradevoli: per
deridere la “coalizione dei volenterosi”, il regista commenta i paesi che hanno aderito
al piano di Bush con delle immagini volutamente stereotipiche. Tuttavia non c’è nulla
di divertente nel rappresentare l’Olanda con una persona che aspira della droga o il
Marocco con un gruppo di scimmie. L’approccio scanzonato finisce infine per
inficiare la veridicità delle tesi propugnate: un senso costante di manipolazione,
accentuato dall’utilizzazione di immagini non girate dal regista, si avverte anche
quando si vorrebbe condividere quanto viene raccontato. Ed è un autentico peccato,
perchè il film ha numerosi momenti riusciti, a cominciare dall’inizio in cui si vedono
i festeggiamenti di Al Gore per una vittoria in Florida che non avvenne mai, con la
voce di Michael Moore che si chiede “e’ stato solo un sogno?”, o l’incontro con dei
soldati americani in Iraq che si preparano alla guerra cantando l’agghiacciante “burn
motherfucker!”. Non meno efficace il racconto dell’undici settembre, narrato con i
segni terribili degli schianti degli aerei su uno schermo nero, a cui fanno seguito
immagini di pianto e sgomento. Sono momenti in cui si avverte la potenzialità di una
qualità espressiva che purtroppo viene immediatamente negata. Nell’intimo del
regista c’è la costante tentazione del “cheap shot”, il colpo basso e volgare, che
strappa spesso la risata, ma non arrichisce a nessun livello la qualità di quanto egli
vuole proporre: le immagini di Paul Wolfowitz che si aggiusta i capelli utilizzando la
propria saliva appartengono ad una goliardia di bassa lega, e la sequenza in cui il
regista provoca in prima persona i membri del Congresso che hanno votato per la
guerra invitandoli a mandare i propri figli in Iraq, rimanda ad uno stile televisivo che
non ha nulla a che fare con il linguaggio della settima arte. Si potebbe discutere a
lungo sul fatto che il cinema debba avere un linguaggio specifico, ma è certo che
quanto proposto da Moore non perderebbe nulla della propria forza se venisse
raccontato sul piccolo schermo o attraverso un pamphlet. Non si può non rimanere
turbati di fronte ai dati che vengono denunciati, ma e’ proprio lo stile prescelto che
invita lo spettatore a metterli in dubbio: è vero ad esempio che oltre il sei per cento
dell’economia statunitense è nelle mani di uomini di affari sauditi vicino alla famiglia
Bush? La rabbia e la commozione che infondono alcune sequenze (i civili iraqeni che
urlano la propria disperazione ed invocano la giustizia divina) meritano molto di piu’
di trovate al limite della barzelletta (l’amministrazione Bush presentata come il cast
di Bonanza dopo la dichiarazione di guerra all’Iraq) e l’indignazione nei confronti di
un paese che a detta di Moore è diventato irriconoscibile trova un momento di
efficacia solo nell’individuazione di una “social worker” che ha perso il proprio figlio
in Iraq e ne legge tra le lacrime la sua ultima lettera. Pochi film degli ultimi anni
tradiscono in egual misura le aspettative che hanno creato grazie ai propri meriti, ed è
difficile resistere alla tentazione di ricordare ad una persona che vede complotti
ovunque come Moore, che in molti hanno pensato ad una combine che lo riguarda in
prima persona quando Fahrenheit 911 è stato premiato a Cannes da un presidente
della giuria sotto contratto con la casa di produzione del suo stesso film. Su una
coincidenza del genere Moore avrebbe costruito almeno la metà di un suo
documentario.

UN RIPOSO SENZA PACE


di Igor Man
“La Stampa”, 12 novembre 2004
Profilo di un uomo che in Medioriente ha fatto la pace e la guerra, scritto da un
uomo che lo conosceva bene.
Exit, Abu Ammar. Non c’è pace fra gli ulivi della Cis-giordania dove prefiche e
fanciulli, coetanei di Arafat segnati da intime cicatrici, musulmani e cristiani, pacifisti
e neonichilisti si accingono a dare al vecchio al Walid (il Padre) degna sepoltura in
terra di Palestina. Abu Ammar, il fedayn dalle sette vite ha consumato l’ultima ad
occhi aperti, recitando i versetti adeguati del Corano, lo sguardo fisso in quello d’una
giovine donna, la moglie Suha, che l’amò veramente rammaricandosi di non avergli
dato un figlio maschio, l’erede. (Ma al maschio sognato da Arafat tal quale un padre
del nostro profondo Sud, che altro avrebbe lasciato Mister Palestina se non una
immensa rovina?). Consumata la sua settima vita, egli è entrato nell’ottava, ahi
quanto buia, e amara e triste. Arafat aveva una eccessiva considerazione di se stesso,
si vedeva come un Saladino postmoderno e tuttavia sapeva praticare l’umiltà. Si
arrabbiava per un nonnulla (pel malvezzo dei suoi di non spengere la luce una volta
finito il lavoro) ma sapeva esser tenero con gli amici veri.
A Roma il “vice” della Delegazione palestinese fu a lungo Walid, sposato con una
italiana, figli bilingui e, quel che più conta, molto rispetto per gli “avversari”, cioè gli
israeliani. Ebbene, Walid fu aggredito da un cancro ed era allettato quando Arafat,
che compiva un viaggio in Europa assai importante, giunse a Roma. Alloggiava al
Grand Hotel, fece le debite visite ufficiali e poi sparì: dalle sette di sera all’alba
dell’indomani. Era andato a casa di Walid, aveva mangiato con lui nello stesso piatto
(segno d’alta amicizia) e infine aveva diviso il sonno del malato, dormendo su di un
divano, a piè del letto di Walid. Ma così come sapeva esser tenero, era senza
misericordia coi traditori: fu lui a condannare a morte Abu Nidal (“Ha ucciso più
palestinesi che il Mossad”) e l’ultimo “favore” che ottenne da Saddam fu appunto il
“suicidio” di Abu Nidal.
Non temeva la morte, Arafat, e questo si sa ma oso presumere che una morte al
rallentatore come la sua, sfregiata dal pericolo di svaccare in una soap televisiva fatta
al Cairo, una morte così lo umilierebbe se mai potesse rendersene conto. Ma qui va
detto che i ritardi, i bollettini medici ambigui, gli annunci e le smentite avevano una
ragione. Poiché l’islàm prescrive che il morto venga riconsegnato alla terra, coperto
da un semplice sudario, il corpo orientato in direzione della Mecca, nel volger di
poche ore dalla fine fisica, s’è dovuto prender tempo per combinare funzioni (al
Cairo, a Ramallah) che rispettassero l’islàm e insieme non privassero la gente della
liturgia della morte. Arafat sognava di riposare per sempre a Gerusalemme, al Quds,
la santa, ma era impossibile che l’eterno duellante, il generale Sharon, tanto gli
concedesse.
Rimanevano dunque due alternative: o Gaza, nella “tomba di famiglia”, ovvero
alla Muqata dove due anni e mezzo fa Sharon lo costrinse agli arresti domiciliari,
troncando il suo incessante rinascere dalle proprie ceneri. «Vado ma non ritorno /
vengo ma non arrivo»: il grande poeta palestinese Mahmoud Darwich con questi
versi ha scalpellato nel marmo della Storia Yasser Arafat, fedayn senza fissa dimora.
Abu Ammar, exit.

L’ISOLA CHE NON C’E’ PIU’


(Quel che resta di un’isola, pag. 1)
di Vittorio dell’Uva

“Il Mattino”, 2 gennaio 2005

Il paradiso delle vacanze di migliaia di occidentali viene sconvolto una mattina


dal più mostruoso dei cataclismi naturali. Quando le acque si ritirano, restano
più gravi di prima i problemi di sempre: guerra, povertà, malattia.
KINNIYA (SRI LANKA) – Abdul Fadel percorre lentamente con la sua moto ciò che
resta della strada costiera. Evita le macerie e le buche, non si lascia fermare da una
profonda voragine. Da giorni ripeto lo stesso percorso aspettando che il mare
restituisca il corpo della giovane moglie. Nell’ora dello tsunami era ricoverata nel
piccolo ospedale di Faisal Nagar, il quartiere dei musulmani. Aspettava le