Sei sulla pagina 1di 90

CONGAR DANILOU DAVIS LINDBECH

DE LUBAC METZ RAHNER SCHILLEBEECKX


SCHMEMANN SITTLER

La parola nella storia

a cura di T. PATRICK BURKE


Traduzione dallinglese di ANITA SORSAJA

Titolo originale
THE WORD IN HISTORY
Sheed and Ward, Inc., New York
1966 SHEED AND WARD, New York
1968 by QUERINIANA, Brescia, Via Piamarta 6
Stampato dalla Tipografia Queriniana nel 1969

PRESENTAZIONE
La prospettiva in cui sono stati pensati e in cui vanno letti i vari capitoli di questo libro molto
netta e di grande utilit al nostro orientamento intellettuale. Essa fu disegnata dagli organizzatori
del simposio svoltosi al Saint Xavier College di Chicago, dal 31 marzo al 3 aprile 1966. I
partecipanti dovevano svolgere il loro tema in modo da rispondere, secondo le personali
convinzioni, all'interrogativo: quali sono i principali problemi che la Chiesa d'oggi deve
affrontare? I teologi interpellati e convenuti al simposio erano, fra gli altri: Karl Rahner, Henry de
Lubac, Edward Schillebeeckx, Joseph Sittler (protestante), J.-Baptist Metz, ]ean Danilou, George
Lindbeck (protestante), A. Schmemann (ortodosso), Yves Congar, Charles Davis (il teologo inglese
che dopo doveva lasciare la Chiesa cattolica). Possiamo dire, dunque, che si trovarono insieme
alcuni dei maggiori esponenti del pensiero cristiano. Ciascuno rispose senza previ accordi con gli
altri. Ne risultato un panorama dell'attuale problematica teologica quanto mai affascinante e,
soprattutto, quanto mai attendibile. L'impressione prima e certo la pi ricca di senso che, al
livello della riflessione pi specializzata, le prospettive di ricerca delle varie Chiese si sono gi
unificate e che, dunque, i teologi di ogni confessione gi si trovano uniti non solo nell'intenzione di
un medesimo risultato ma nella stessa verifica dei problemi da affrontare.
Oltre a questa consolante lezione, il libro ci fornisce una specie di inventario, dei grandi temi della
teologia attuale e quindi offre, a chi abbia la volont di un approfondimento teologico, delle sicure
indicazioni di massima. Eccone alcune: la teologia deve farsi da teocentrica, com' nella
tradizione, antropocentrica, senza con questo perdere di fedelt alla rivelazione (Rahner): i
rapporti tra natura e soprannatura vanno ricondotti, dalla loro astratta distinzione, alla loro
concreta coincidenza nell'unit del disegno di Dio e quindi della vocazione umana: il fine della
storia uno solo (de Lubac); in conformit alle leggi che governano il linguaggio dell'uomo e lo
stesso destino salvifico della rivelazione, il depositum fidei va ripensato secondo le forme del
pensiero moderno (Schillebeeckx); la dottrina della grazia fu, nella controversia aperta dalla
Riforma, veduta prevalentemente in funzione redentiva, secondo lo schema agostiniano: essa va
ripensata in rapporto alla creazione, dunque nelle sue virtualit cosmiche (Sittler); la teologia
della salvezza, che giustamente il moderno personalismo ha ricomposto entro le misure dell'uomo
nella sua storicit operativa, va ripensata secondo la 'spinta verso il futuro' che caratterizza l'uomo
attuale, e quindi come teologia delle promesse messianiche (Metz); il cristianesimo si presta
ancora ad essere inteso come la religione dell'occidente: esso deve disporsi a salvare dal rischio
della totale secolarizzazione i valori delle grandi religioni pagane (Danilou); la rinascita dell'
escatologia biblica, in connessione con il senso moderno del carattere storico dell'esistenza,
fornisce la nuova struttura comune al pensiero protestante e a quello cattolico e segna la fine della
teologia controversistica (Lindbeck); la tradizionale contrapposizione tra libert e autorit nella
Chiesa rivela il suo vizio formale non appena i due termini vengano pensati e vissuti in un senso
autentico della Chiesa come comunit, quale testimoniato dalla tradizione ortodossa
(Schmemann); l'istituzionalismo cattolico deve ritrovare la propria autenticit sviluppando la
dottrina della comunione delle persone nello Spirito santo: l'istituzione niente di pi che lo
strumento che dispone la persona all'azione dello Spirito (Congar); a tale scopo necessaria una
pi profonda comprensione del mistero eucaristico, il quale non si esaurisce nella presenza
sostanziale del Cristo nel pane e nel vino, ma realizza una presenza interpersonale e dinamica che
coinvolge l'assemblea e la congiunge al mistero pasquale (Davis).
Questo rapido schema del 'discorso' teologico svolto, con discorde concordia, dai teologi del
simposio americano vorrebbe anche raccomandare una certezza quanto mai, purtroppo, inattuale:
il rinnovamento della Chiesa, anzi delle Chiese, non pu essere appena un problema pratico: esso

condizionato totalmente alla risoluzione di questioni dottrinali, ha prassi pu acuirle e chiarirne i


termini, ma solo la riflessione le pu risolvere.
Ernesto Balducci

Karl Rahner
TEOLOGIA ED ANTROPOLOGIA
intenzione di questo saggio mostrare che la teologia dogmatica oggi deve essere antropologia
teologica, e che un siffatto orientamento antropocentrico della teologia non meno necessario che
fecondo. Cio, la questione dell'uomo, e la risposta a tale questione, non va considerata come una
area separata, distinta dalle altre aree di ricerca teologica, deve essere considerata, invece, come la
totalit della teologia dogmatica. Una tesi del genere non implica alcuna contraddizione con la
natura teocentrica di ogni teologia, per esempio con la dottrina di s. Tommaso che Dio l'oggetto
formale della teologia. Non appena l'uomo viene concepito come quell'essere che ha assoluta
trascendenza verso Dio (ed senza dubbio evidente che egli tale), allora la antropocentricit e la
teocentricit nella teologia sono non gi contraddittorie, bens strettamente una sola e medesima
cosa, vista sotto due differenti aspetti, ciascuno dei quali inintelligibile senza l'altro. Che la
teologia debba essere antropocentrica non contraddice il suo essere, con il massimo rigore,
teocentrica; si oppone, comunque, alla concezione secondo la quale l'uomo, in teologia,
semplicemente un argomento particolare fra altri, per esempio gli angeli o il mondo materiale;
contro l'opinione che dice sia possibile parlare teologicamente di Dio senza al tempo stesso dire
qualcosa dell'uomo, e viceversa. Il discorso su Dio e il discorso sull'uomo sono connessi, non solo
dal punto di vista del contenuto, ma dal punto di vista della conoscenza stessa. Non possibile
spiegare pi precisamente, qui, la ragione per cui una siffatta teologia centrata sull'uomo non in
opposizione ad una teologia centrata su Cristo. Diciamo solo questo: nella teologia dogmatica
cristiana vi una reciproca e necessaria relazione tra antropologia e cristologia, se entrambe sono
rettamente intese. L'antropologia cristiana raggiunge il suo pieno significato soltanto se concepisce
l'uomo come la potenza obbedienziale per l'unione ipostatica. E, d'altra parte, oggi possiamo
sviluppare una cristologia unicamente a partire da una siffatta antropologia trascendentale. Se, per
esempio, vogliamo parlare dell'unione ipostatica senza incorrere nel sospetto di star proponendo
miti irrilevanti, dobbiamo render ben chiaro che vi nella stessa natura toccata dalla grazia,
dell'uomo e della sua storia, un orizzonte trascendentale (1) per l'idea di un Dio-uomo. Una
cristologia che sia sviluppata esclusivamente a posteriori non pu essere integrata in una
concezione evolutiva e comprensiva del mondo, e non pu sfuggire al sospetto di essere mitologia.
I
Una siffatta antropologia deve, naturalmente, essere un'antropologia trascendentale. Una ricerca
trascendentale pone le domande intorno ad una cosa dal punto di vista delle condizioni necessarie
nel soggetto stesso che rendono possibile che quella cosa sia conosciuta o fatta dal soggetto in
questione. Un tale modo di porre le domande presuppone che il soggetto conoscente non sia
semplicemente una cosa fra altre cose, in modo tale che se ne possa s, parlare quando si voglia, ma
che in altre affermazioni circa altre cose esso non sia minimamente implicato. Se io faccio una
affermazione riguardo all'Australia, non ho detto niente riguardo a Giava, nemmeno implicitamente;
implicitamente, per, in questa affermazione, ho detto qualcosa, sia nel contenuto dell'affermazione,
sia nell'atto stesso dell'enunciarla, riguardo all'uomo in quanto soggetto conoscente, in quanto
persona che fa l'affermazione. Perch l'affermazione sia possibile, si presuppongono nell'uomo
stesso certe condizioni necessarie, le quali vengono perci implicitamente affermate
nell'affermazione.
Se volete portare avanti la teologia dogmatica come antropologia trascendentale, in ogni questione
dogmatica che esaminate voi dovete cercare di scoprire nell'uomo stesso, cio nel soggetto
conoscente, le condizioni che rendono possibile a lui di arrivare alla conoscenza dell'argomento in
questione: dovete provare che vi sono siffatte condizioni a priori per la conoscenza di quest'oggetto,

e dovete poi dimostrare che queste stesse condizioni sono tali da implicare ed affermare gi qualche
cosa circa l'oggetto, il suo carattere, i suoi limiti ed il metodo mediante il quale conosciuto. La
ricerca trascendentale non presume che la realt totale dell'oggetto esaminato possa essere dedotta
dalle condizioni trascendentali esistenti nel soggetto per la conoscenza di esse, n presume che
quell'aspetto dell'oggetto che conosciuto a posteriori sia privo d'importanza per il soggetto
conoscente, per la sua esistenza (la sua 'salvezza'), e per la verit della sua conoscenza. Lo stesso
vale in teologia; per esempio, in cristologia non importante solo vedere l'uomo come una creatura
intimamente diretta dal suo stesso essere (che stato soprannaturalmente elevato ed orientato dalla
grazia) verso un Salvatore assoluto. precisamente altrettanto importante per la sua salvezza che
egli effettivamente incontri Ges di Nazareth come tale salvatore, il che, naturalmente, non pu
essere 'dedotto trascendentalmente'.
L'interpretazione della teologia dogmatica come antropologica trascendentale esige, comunque, che
ogni questione teologica debba essere anche considerata da un punto di vista trascendentale. Uno
deve dunque porsi anche la questione di che cosa questa struttura, implicitamente affermata, del
soggetto teologico stesso riveli circa l'oggetto conosciuto a posteriori (mediante la storia della
salvezza e la rivelazione). Naturalmente, il problema del rapporto tra una teologia trascendente a
priori, ed una storica o a posteriori non si risolve con queste affermazioni. Di fatto, il problema
visto in tutta la sua reale profondit ed intensit solo se si considera che in teologia la suprema
condizione a priori di conoscenza teologica, nel soggetto, cio la grazia (che in ultima analisi Dio
stesso che liberamente agisce nella storia e comunica se stesso all'uomo), questa suprema
condizione a priori anche il contenuto reale, la base oggettiva di ci che storico ed conosciuto
a posteriori. Quindi in teologia l'elemento a priori nel soggetto conoscente e l'elemento storico a
posteriori nell'oggetto conosciuto hanno un rapporto che assolutamente unico. Ma su questo
ritorneremo di nuovo pi tardi.
Cerchiamo di chiarire ci che abbiamo or ora espresso in concetti cos astratti, con pochi semplici
esempi scelti a caso. La teologia fa delle affermazioni riguardo agli angeli, basandosi sull'Antico e
sul Nuovo Testamento. La teologia tradizionale delle scuole parla di questi angeli come fa di ogni
altro argomento. Qualcosa stato rivelato riguardo ad essi nelle Scritture, quindi gli angeli esistono.
E cos, raccogliendo e sistematizzando i dati delle Scritture, possiamo arrivare a parlare degli angeli
proprio come parliamo di qualsiasi altra cosa che conosciamo. Se, per caso, Dio non avesse rivelato
ci, non vi sarebbe teologia riguardo agli angeli. Ma Dio si compiaciuto di rivelarlo, come invece
avrebbe potuto rivelare innumerevoli altri fatti che ancora ci rimangono celati. Poteva, per esempio,
aver rivelato se vi sono esseri corporei e spirituali, con la grazia 'santificante', su altri pianeti, ma
non lo ha fatto. Per questa ragione, noi abbiamo ora una teologia riguardo agli angeli, ma non
abbiamo una teologia circa esseri extraterrestri corporei e muniti d'intelligenza. L'uomo d'oggi si
domander per prima cosa perch queste strane notizie intorno agli angeli dovrebbero avere qualche
interesse per lui, dal momento che in realt egli non incontra mai esseri siffatti nella sfera della sua
esperienza scientifica, perch Dio dovrebbe aver dato un'informazione del genere, e se una cosa
simile realmente credibile. La stranezza del messaggio lo spinger a ricercare in che modo
l'asserita rivelazione ha avuto luogo. Egli sar allora tentato di dimostrare che le affermazioni
dell'Antico Testamento riguardo agli angeli (dalle quali dipendono le affermazioni del Nuovo
Testamento) non sembrano esserci state comunicate dal cielo, ma sembrano piuttosto aver avuto
origine nelle teste dei teologi dell'Antico Testamento, sotto l'influenza del loro milieu spirituale e
religioso. In questa situazione di tensione tra la teologia tradizionale degli angeli ed un
atteggiamento di scetticismo e di dubbio intorno ad essi, deve ora farsi avanti un'antropologia
teologica trascendentale. Vale a dire, noi dobbiamo porci la domanda: fino a che punto, nella
comprensione teologica che l'uomo ha di se stesso, pu essere pertinente qualcosa di simile alla
teologia degli angeli? In altre parole, che specie di comprensione teologica di se medesimo l'uomo
rivela quando parla degli angeli? Se facciamo l'ipotesi euristica che la rivelazione dica all'uomo ci
che egli , nella sua origine, nella sua condizione presente e nel suo destino, che gli dica questo e
realmente solo questo, allora come possiamo spiegare perch una rivelazione del genere dovrebbe

avere qualcosa a che vedere con gli angeli? Potrebbe darsi che la cosa realmente significativa nella
rivelazione sia non gi l'esistenza e la natura degli angeli in quanto tali, ma piuttosto il rapporto
dell'uomo con essi come creature la cui esistenza semplicemente data per scontata? E qui pu
rimanere aperta la questione se in una rivelazione orientata verso l'uomo l'esistenza degli angeli
affermata specificamente o se vi appare semplicemente come un'ipotesi. Noi non stiamo qui
tentando di chiarire se e in che misura una dottrina degli angeli possa essere sviluppata da un tale
punto di partenza. L'esempio precedente aveva solo lo scopo di mostrare che cosa intendiamo per
una teologia dogmatica che sia orientata verso l'uomo e centrata nell'uomo.
Facciamo un altro esempio. La dottrina della Trinit non sembra potersi facilmente dedurre dalla
Scrittura di per s, in una esatta teologia biblica. Pi ancora, quando essa viene proposta in forma
puramente oggettiva, la persona che l'ascolta molto spesso si domanda che cosa significhi, in che
modo egli possa comprenderne qualche cosa, perch essa sia stata rivelata per la sua salvezza.
Perch essa lo colpisce come un sottile, dialettico gioco d'idee, nel quale ciascuna affermazione
sembra annullare la successiva, lasciando soltanto parole, a meno che nel fare un'affermazione uno
non dimentichi che cosa dicesse l'altra, dando cos alla prima affermazione un significato che
l'opposizione dialettica che vi coinvolta non consente. Penso di non aver bisogno di spiegare
ulteriormente quest'impressione. Non possiamo tirarci fuori dalla difficolt semplicemente
alludendo al fatto che abbiamo a che fare con un mistero e dicendo che la dottrina della Trinit
necessaria perch si possa parlare del Cristo. Perch, anche trattandosi di un mistero, si deve
comprendere per quale motivo qui sia in gioco qualcosa di pi del semplice sacrificio del nostro
intelletto ad una formula di apparentemente inintelligibile verbalismo. N convincente il ricorso
alla sola cristologia, se si riflette che la teologia delle scuole, da Agostino in poi, ha sostenuto senza
esitazione che ciascuna delle persone divine potrebbe entrare in un'unione ipostatica con la natura
umana. Per la stessa ragione, quindi, non sembra che la teologia abbia detto gran cosa, dal punto di
vista del contenuto, anche quando mette in rilievo che la divina incarnazione si realizza
precisamente per opera del Logos. Infatti, in base a quei presupposti, la funzione ipostatica del
Logos non distinta in alcun modo da una possibile simile funzione di una delle altre persone
divine. Ma, se intendiamo la dottrina della Trinit in senso antropocentrico, molti aspetti ne
divengono pi chiari, bench, naturalmente, il mistero tuttora permanga. Questo del tutto
possibile. Non dobbiamo fare altro che porre l'ipotesi, del tutto legittima, che, poich Dio si
comunica a noi assolutamente per mezzo della grazia increata, quella che chiamiamo la Trinit
immanente strettamente identica alla trinit di funzioni che troviamo nella storia della salvezza (la
Trinit economica), e viceversa; dunque interamente possibile per noi comprendere la Trinit
'antropologicamente', senza svisarla. Ci risulta se facciamo le seguenti ipotesi, cio: che la diretta
relazione a Dio che ci data mediante la grazia (compresa la manifestazione di essa nella storia
della salvezza) ha una struttura trinitaria; che questa relazione sempre una relazione al Dio
incomprensibile; che questa ci trasmessa attraverso lo storico, e insieme assoluto, consegnarsi di
Dio all'uomo in Ges; che questa consegna di s, senza che niente vada perduto della sua divinit,
penetra proprio nel cuore del nostro essere, sotto la forma dell'amore. E se supponiamo, come si
detto, che la struttura trinitaria di questa relazione immediata a Dio nella grazia appartiene essa pure
a 'Dio in s (perch Dio d realmente se stesso all'uomo), se facciamo queste ipotesi, allora
possibile una comprensione del permanente mistero della vita interiore della Trinit che non dia pi
l'impressione di essere un mero gioco di parole, e diviene possibile per noi comprendere perch
questo mistero doveva essere rivelato nel preciso momento in cui la storia della rivelazione era
arrivata al punto in cui divenne evidente che il supremo dono di salvezza non soltanto un dono che
Dio fa, ma Dio stesso. E non vi nemmeno detrimento nel fatto che una tale concezione della
Trinit implica altres che la nostra relazione alle tre persone divine in virt della grazia non mera
appropriazione; che la divinizzazione dell'uomo per grazia connessa con l'incarnazione pi
chiaramente di quanto non insegni di solito la teologia delle scuole. E se in una siffatta concezione
assolutamente impossibile che sia data l'impressione una impressione che la dottrina scolastica
della Trinit difficilmente riesce ad evitare, nonostante che esplicitamente la rifiuti

(l'impressione, cio, che ciascuna persona divina abbia il suo centro di consapevolezza nella
conoscenza e nella libert e che questo sia il reale significato del termine 'persona' anche nella
dottrina della Trinit), se questa impressione nella nostra proposta non pu essere data, questo pu
tornare solo a lode dell'approccio suggerito. Ripeto che non sto tentando di svolgere qui una
dottrina della Trinit. Sto semplicemente servendomi di un esempio per suggerire l'idea di ci che
l'approccio dell'antropologia trascendentale potrebbe significare per tutti gli argomenti della
teologia dogmatica.
II
Per mancanza di tempo dobbiamo contentarci di questi due esempi scelti a caso. Ora dobbiamo
porci la domanda fondamentale: perch necessario un siffatto approccio antropologico alla
teologia? Vi sono ragioni basate sulla natura della teologia e del suo oggetto, e vi sono ragioni
derivanti dalla teologia fondamentale e dall'apologetica.
1. In primo luogo, consideriamo le ragioni che derivano dalla stessa natura della ricerca. proprio
dell'essenza di ogni conoscenza (compresa, quindi, la conoscenza teologica) che una ricerca
riguardante un oggetto di conoscenza sia anche una ricerca riguardante l'essere del soggetto
conoscente. La connessione inevitabile tra l'aspetto oggettivo e quello soggettivo della conoscenza
non va trattata esplicitamente in ogni scienza, si capisce. La scienza naturale, per esempio, in
quanto tale, non deve portare avanti una filosofia naturale, che , o implica, una ricerca relativa
all'essere del soggetto che pu e deve portare avanti la scienza naturale. Ma l dove un particolare
ramo della scienza diviene realmente filosofico (e la teologia deve per sua stessa natura essere tale),
ogni questione relativa a ciascuno dei suoi oggetti implica formalmente una questione relativa al
soggetto conoscente. Infatti, una questione filosofica se indaga formalmente circa un particolare
oggetto con riguardo al suo posto nell'insieme della realt e della verit, perch solo una ricerca
siffatta una ricerca delle cause ultime, e, quindi, una ricerca filosofica. Se si compie una simile
ricerca, allora l'indagine intorno al soggetto conoscente non appena implicita, dovuta al fatto che
esso si trova ad essere una parte materiale del tutto: l'indagine intorno al soggetto conoscente deve
essere compiuta, perch solo nel soggetto stesso in quanto tale, a causa della sua propria
individualit soggettiva, il tutto trova significato, come ci verso cui la sua trascendentalit
diretta. Un'indagine filosofica concernente un particolare oggetto necessariamente un'indagine
concernente il soggetto conoscente, perch il soggetto che deve fornire a priori l'orizzonte per la
possibilit di una siffatta conoscenza. E per questo stesso fatto la struttura 'trascendentale'
dell'oggetto gi implicita a priori. Ora, una questione teologica pu essere posta solo se al tempo
stesso intesa come questione filosofica in questo senso, perch una questione teologica solo se
vede l'oggetto individuale nella sua origine e nel suo destino in Dio. Ma Dio non semplicemente
un oggetto fra gli altri nell'esperienza a posteriori dell'uomo. Egli il fondamento originario e il
futuro assoluto dell'uomo. In quanto tale, comunque, pu essere considerato solo come l'assoluta
mta verso cui diretta la trascendentalit dell'uomo: ogni teologia del genere, perci,
necessariamente antropologia trascendentale. Ogni onto-logia onto-logia. Se non si vuol cadere in
un eretico fideismo positivistico, la stessa cosa deve valere per la teologia: poich l'illimitato
orizzonte trascendentale dello spirito umano, che solo rende possibile un'idea come quella di Dio,
un elemento interiore della teologia stessa ed la condizione che la rende possibile. La teologia
'naturale' , da cima a fondo, non gi uno studio svolto parallelamente alla teologia basata sulla
rivelazione, come se esse potessero essere svolte indipendentemente l'una dall'altra: la teologia
naturale un elemento interiore alla stessa teologia della rivelazione.
La tesi che qui si discute, comunque, pu essere sostenuta pi direttamente con argomenti teologici.
In primo luogo, rivelazione rivelazione per la salvezza, e quindi teologia essenzialmente teologia
per la salvezza. Non qualsiasi cosa venga rivelata e poi considerata nella teologia, ma solo quel
che serve alla salvezza dell'uomo. Quest'affermazione non un principio che ci permetta di

escludere automaticamente certi oggetti dall'ambito di una possibile rivelazione (come pretende un
certo tipo di fondamentalismo), poich solo dalla rivelazione stessa scopriamo che cosa costituisce
la salvezza. Ci nondimeno, l'affermazione deve essere presa sul serio. Appartiene alla salvezza
soltanto ci la cui assenza danneggerebbe l'essere dell'uomo e quindi distruggerebbe l'uomo stesso.
Questo non significa razionalistica o astorica riduzione dell'uomo, in quanto essere teologico, ad un
essere trascendentale astratto, come se ci che storico e concreto e sperimentato a posteriori non
avesse significato per la sua salvezza. Significa invece che ogni cosa che ha significato per la
salvezza dell'uomo deve esser messa in relazione con il suo essere trascendentale, il che non lo
stesso che dire che possa essere dedotta da esso. Forse un esempio render la cosa pi chiara. La
persona concreta che amata da me, attraverso la quale il mio amore si realizza e senza la quale
esso non pu esistere, non pu assolutamente essere dedotta dalla possibilit a priori dell'uomo. Al
contrario, tale persona un evento storico che non pu esser ridotto ad alcun fattore antecedente.
Ma, ci nondimeno, l'amore per questa persona concreta pu essere propriamente compreso solo
quando l'uomo compreso come quell'essere che deve necessariamente realizzare se stesso
nell'amore, per corrispondere al suo proprio essere. Anche il pi imprevedibile amore, il pi
concreto e storico, deve essere inteso come trascendentale in questo senso, al fine di essere ci che
deve essere. Le cose stanno tanto pi cos quando si tratta della salvezza, perch, se questa salvezza
essa stessa un evento storico, concerne per precisamente l'essere reale dell'uomo: precisamente
questo, infatti, che si compie, sia a salvezza, sia a distruzione. Se, dunque, rivelazione e teologia
sono connesse essenzialmente con la salvezza, allora questa stessa natura della rivelazione e della
teologia richiede che si faccia una ricerca sull'essere dell'uomo, qualunque possa essere il
particolare oggetto in esame, poich precisamente quest'essere dell'uomo che deve poter ricevere
l'azione di questo oggetto ai fini della salvezza. In altre parole, il significato di una questione
teologica per la salvezza dell'uomo, che un elemento necessario di ogni questione teologica, pu
essere indagato solo nella misura in cui si indaga sulla recettivit dell'uomo verso quest'oggetto dal
punto di vista della salvezza. Comunque, non possiamo indagare sulla recettivit dell'uomo verso un
oggetto dal punto di vista della salvezza semplicemente in astratto e in generale: dobbiamo svolgere
quest'indagine con riferimento all'oggetto concreto di cui la teologia si occupa in ciascun caso.
Perch, proprio come la recettivit dell'uomo verso l'oggetto a dare a questo il suo significato
teologico, cos anche l'oggetto, in un certo senso, specifica questa stessa recettivit. In aggiunta a
queste considerazioni, comunque, c' un'altra considerazione che pu benissimo essere decisiva. Il
decreto conciliare sull'ecumenismo mette in rilievo il fatto che non tutti i dogmi, nella gerarchia
delle verit, sono ugualmente vicini ai 'fondamenti' della fede cristiana. Vi dunque, secondo il
concilio, un fondamento, un intimo nucleo della realt della fede, a cui si riferiscono tutte le altre
realt e proposizioni. Data la natura della questione, tale nucleo pu essere solo Dio stesso, in
quanto egli stesso la nostra salvezza, attraverso l'assoluto dono di s a noi, ed , quindi, ci che in
teologia si usa chiamare 'grazia increata'. Con il possesso di questa grazia, data la salvezza, senza
di essa non c' salvezza. Come minimo, dunque, questo deve appartenere alle pi intime realt della
rivelazione. Se consideriamo poi che la realt del Dio trino in quanto tale data con questa grazia,
se essa e la Trinit sono rettamente comprese; e se, inoltre, diamo per scontato che questa grazia la
grazia del Cristo e che il Cristo non soltanto una causa meritoria della grazia, rimanendone
estrinseco (e questo include anche la grazia data prima del peccato originale): allora, nella storia di
tale grazia come comunicazione che Dio fa di s all'uomo, la storia dell'umanit raggiunge il suo
climax escatologico e diviene irrevocabile precisamente nel Cristo. Cos, la Trinit e l'incarnazione
sono entrambe implicate nel mistero della grazia. In tal modo diviene evidente che la grazia non
soltanto appartiene alla pi intima realt della rivelazione e della salvezza, ma questo stesso
intimo nucleo: il che, naturalmente, potrebbe anche dirsi della Trinit, dal punto di vista della storia
della salvezza, e potrebbe anche esser detto del Cristo quale climax della comunicazione che Dio fa
di s al mondo, precisamente perch queste tre realt si implicano reciprocamente. Comunque,
assolutamente impossibile parlare di questa grazia in maniera comprensibile al di fuori di
un'antropologia trascendentale. Perch, a parte il fatto che questa grazia Dio stesso che comunica

s all'uomo, vi in ogni evento non una cosa, ma, precisamente come grazia comunicata, una
condizione del soggetto personale che lo pone in immediata relazione con Dio. Questa realt di
salvezza, che la pi oggettiva, necessariamente al tempo stesso la pi soggettiva, la relazione
immediata del soggetto personale con Dio, attraverso Dio stesso. Se quel che la grazia non si pu
esprimere con un verbalismo che sa di mitologia, e non ha relazione con l'esperienza, lo si potr
comprendere solo dal punto di vista del soggetto, la sua trascendentalit e la sua esperienza di
questa trascendentalit, come un esser rapiti nella realt della verit assoluta, come un amore reso
capace di infinita e assoluta validit, come una relazione immediata con l'assoluto mistero di Dio, in
breve, come un assoluto adempimento della trascendentalit dell'uomo stesso, reso possibile
dall'atto di Dio di comunicare se stesso all'uomo, di modo che l'uomo possa essere unito a lui.
Senza un'ontologia del soggetto trascendentale, la teologia della grazia, e quindi la teologia stessa,
rimane ad uno stadio di immaginazione pre-teologica e non pu raccogliere l'approccio offerto
dall'esperienza trascendentale, un approccio che non pu essere sostituito, se la teologia deve
affrontare fermamente gli interrogativi dell'uomo moderno: quello, per esempio, con cui ci si chiede
se tutto questo parlare di divinizzazione dell'uomo, della sua condizione di figlio di Dio, della
presenza di Dio in lui non soltanto poesia e indimostrabile mitologia. Mi sia permesso di far
rilevare ancora una volta che un siffatto approccio trascendentale alla teologia della grazia implica
un approccio trascendentale all'intera teologia. Specialmente perch oggi la cristologia ontica,
nonostante il suo valore permanente, ha urgente bisogno di essere tradotta in cristologia ontologica,
cio, una cristologia che fin dall'inizio intende che la natura assunta dal Figlio di Dio non come
una cosa, ma come una personalit trascendentale, cosicch la sua sostanziale unit con il Logos
pu, in via di principio, essere espressa con i concetti di auto-possesso e trascendenza, poich in
questo caso l'essere e la natura in questione non soltanto hanno, ma sono auto-possesso e
trascendenza. Se quel che si intende per unione ipostatica deve essere chiaramente e
sufficientemente protetto dall'accusa di mitologia, necessario tradurlo in questi concetti. Tutta la
teologia ha bisogno di quest'approccio di antropologia trascendentale, perch tutta la teologia
determinata dalle dottrine di Trinit, grazia e incarnazione, che si condizionano a vicenda, e queste
tre dottrine fondamentali del cristianesimo devono essere trattate trascendentalmente, sia perch il
tempo attuale lo richiede, sia per una questione di principio.
2. Ora, contro ci che si detto si potrebbe sollevare la seguente obiezione: se questa antropologia
trascendentale fosse veramente necessaria, come metodo di approccio, per tutta la teologia, allora
essa sarebbe sempre dovuta esistere, poich c' sempre stata la buona teologia. Siccome, per,
evidente che essa non sempre esistita, l'esigenza non pu essere legittima. In risposta a ci, si deve
mettere in rilievo che c' una differenza essenziale tra predicazione e teologia, sebbene la
predicazione, in concreto, abbia sempre in s un elemento di riflessione teologica, e la teologia, in
concreto, non esaurisca mai la proclamazione della Chiesa (anche oggi, l'escatologia teologica, per
esempio, ancora quasi interamente in uno stadio pre-teologico di proclamazione, ed anche
l'ecclesiologia del Vaticano II , per larga palle, poco pi che un adattamento sistematico di
immagini bibliche, fatta eccezione forse di alcune sezioni attinenti alla struttura giuridica della
Chiesa). Da questo punto di vista, non affatto impossibile a priori che una teologia autenticamente
scientifica, cio svolta con riflessione trascendentale, forse non esista ancora, sotto molti aspetti.
Perch questo non sarebbe possibile? Il fatto che molto si sia pensato, discusso e scritto in teologia e
sia stato sistematizzato in una forma o nell'altra, e si tratti di cose buone e pregevoli, non ancora
una prova che quello stadio di riflessione e concettualit che pu effettivamente distinguere la
teologia dalla proclamazione sia stato raggiunto. Ma questo stadio stato realmente raggiunto
laddove, e nella misura in cui, la riflessione espressamente svolta in forma trascendentale, cio,
dove si tiene esplicitamente conto delle condizioni a priori della conoscenza di un particolare
oggetto di fede, e dove i concetti usati per descrivere questi oggetti teologici sono determinati da
questa riflessione. Inoltre, io, naturalmente, non intendo affatto asserire che questo metodo di
antropologia trascendentale sia fino ad oggi interamente mancato nella teologia. Non ci pu essere

dubbio a questo riguardo. Non c' tempo adesso per mostrare con esempi che questo metodo
trascendentale, anche se non stato applicato esplicitamente e in via di principio, ci nonostante,
per lo meno da Tommaso in poi, stato dappertutto operante nella teologia, sia pure, bisogna
immetterlo, con varia intensit. Finalmente, qualunque possa essere la situazione riguardo a questa
questione storica, bisogna dire che oggi il metodo dell'antropologia trascendentale richiesto dalla
situazione attuale. Platone, Aristotele, Tommaso rimarranno sempre filosofi vivi, dai quali
dobbiamo imparare. Questo, tuttavia, non cambia il fatto (anche se la filosofia cattolica ha
cominciato a prenderne nozione solo negli ultimi quarant'anni) che la filosofia e, quindi, la teologia
oggi non possono e non debbono tornare indietro, al tempo anteriore all'antropologia trascendentale
della moderna filosofia, al tempo anteriore a Cartesio, a Kant, all'idealismo tedesco e alla filosofia
dell'esistenza. Tutta quanta questa filosofia moderna , se volete, profondamente non-cristiana, nella
misura in cui svolge una filosofia trascendentale del soggetto personale autonomo (con poche
eccezioni, come Blondel), un soggetto personale autonomo che si chiuso all'esperienza
trascendentale. Ma questa filosofia anche profondissimamente cristiana (pi di quanto i suoi
tradizionali critici neo-scolastici abbiano compreso), perch nella concezione cristiana l'uomo non
un elemento in un cosmo di cose, soggetto ad un sistema coordinato di concetti ontici costruito a
partire dalle cose: l'uomo il soggetto personale dalla cui libert in quanto soggetto dipende il fato
dell'intero cosmo. Altrimenti, la storia della salvezza o dannazione non potrebbe avere significato
cosmologico. Altrimenti, una cosmologia rotante attorno al Cristo sarebbe un infantile gioco di
parole. Questa divisione interiore, il simul justus et peccator, il contrassegno non solo della
filosofia moderna, ma di ogni opera umana, e quindi della filosofia in ogni epoca. Ci non dovrebbe
impedirci di vedere quel che c' di cristiano negli sforzi e nelle conquiste intellettuali dei tempi
moderni. Non ci dovrebbe impedire di accettare questa situazione nel suo carattere fondamentale
come qualcosa di cui da ora in poi non si pu fare a meno in una moderna filosofia e teologia
cristiana. Si potrebbe forse dire che quest'et moderna, a cui questa antropologia trascendentale
particolarmente adatta, gi passata o in declino, e con essa quindi anche questa filosofia. Vi pu
essere, in ci, un elemento di verit, ma le filosofie non cambiano come le mode. Piuttosto,
vengono assimilate nella nuova filosofia di una nuova epoca storica, conservando cos quel che vi
in esse di pi caratteristico. Se la filosofia cristiana neo-scolastica, e con essa la teologia, ha
sonnecchiato durante l'era moderna, esse non possono ritenersi esonerate dal compito che la
filosofia moderna ha loro imposto, semplicemente perch questa filosofia, nella sua forma attuale,
pu eventualmente essere in declino. Quel compito va affrontato, se la teologia dovr rendere
giustizia al periodo che sta per succedere all'era moderna. Ci specialmente vero perch quella che
presumibilmente sar la filosofia di domani, una filosofia, cio, corrispondente all'accresciuta
realizzazione sul piano sociale che caratterizzer l'immediato futuro, avr le sue radici
nell'idealismo tedesco, forse nella sinistra hegeliana e nella sua critica delle ideologie, ecc. Se i temi
di questa filosofia di domani saranno speranza, societ, critica dell'ideologia, una nuova forma di
libert in una nuova struttura sociale, l'esperienza di Dio nell'esperienza dell'uomo che pianifica se
stesso e il proprio futuro, allora l'uomo diviene ancora una volta l'indispensabile materiale
soggettivo della filosofia. E cos, anche dal punto di vista della filosofia di domani, l'applicazione di
una antropologia trascendentale richiesta dalla teologia di oggi e di domani.
3. Finalmente, il bisogno, per la teologia, di essere trascendentale pu essere stabilito in un terzo
modo, cio, dal punto di vista della teologia ed apologetica fondamentale. La tendenza, nella
teologia protestante, ed anche fuori di essa, verso la 'demitizzazione' ha radice in una
preoccupazione seria: rappresenta, nonostante tutto ci che vi in essa di precipitato, di eretico, di
inaccettabile, l'aspirazione ad un tipo di teologia che dovremo avere in futuro, ma che non esiste
ancora in grado sufficiente, se l'antico e permanente vangelo deve essere predicato in maniera
attendibile. Si pu dire, e con qualche giustificazione, che la teologia della demitizzazione una
nuova edizione del vecchio liberalismo e razionalismo. Questo pu ben essere. Ma abbiamo noi
sufficientemente apprezzato le ansie genuine e gli autentici problemi che hanno dato origine a

questa teologia razionalistica liberale? Questa ancora la questione. La teologia protestante


ortodossa e parimenti la teologia cattolica si sono troppo presto confortate con il pensiero che la
scuola di Barth ha sconfitto l'antica scuola liberale nella teologia protestante. Ammesso senz'altro
che una gran parte di Barth e delle sue realizzazioni rimarr, il fatto che in realt Bultmann ha
riportato la vittoria su Barth nella teologia protestante europea nel suo insieme. E questo non
appena un crudele e ingiusto caso nella storia delle idee. Per l'uomo moderno vi sono migliaia di
proposizioni teologiche che sanno di mitologia e che egli non si considera pi seriamente capace di
credere. In ultima analisi, il suo atteggiamento , senza dubbio, sbagliato. Ma vi sono motivi reali
della sua impressione, ed essi non vanno trovati solo nel suo orgoglio e nella sua stupidit
personale, e nemmeno nel carattere misterioso della fede e delle realt di fede. Questo
specialmente vero se pensiamo alle espressioni teologiche nel modo in cui esse giungono
all'orecchio dell'uomo medio di oggi e nel modo in cui esse sono quasi inevitabilmente intese da lui.
Guardiamo onestamente la situazione intellettuale di oggi. Quando un uomo che non stato educato
da cristiano ode l'affermazione 'Ges Dio fatto uomo', la sua prima reazione sar di respingere
quest'affermazione come un mito, che egli non pu assolutamente prendere sul serio e che non vale
nemmeno la pena di discutere, proprio come facciamo quando sentiamo che il Dalai Lama
considera se stesso come una reincarnazione di Budda. Quando, di due persone (simili per qualit e
attitudini personali) che stanno morendo, sente dire che una va diritta in cielo, perch ha ricevuto
per caso l'indulgenza papale nell'ora della morte, mentre l'altra dovr passare diversi anni in
purgatorio perch il papa, quale custode delle chiavi del cielo, non gliene ha aperto le porte, questo
non-cristiano considerer le indulgenze, spiegate in tal modo, come un'invenzione clericale contro
cui la sua idea di Dio protesta violentemente. N sar facile convincerlo che Dio desidera la
salvezza di tutti gli uomini, anche dei fanciulli prima che abbiano raggiunto l'et della ragione, e
anche dopo la caduta, ma, al tempo stesso, che egli non pu ammettere i bambini morti senza
battesimo alla sua visione perch non pu eludere la sua propria legge circa la necessit del
battesimo. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Io non riesco a vincere l'impressione che la teologia
non ha ancora affrontato sufficientemente tutte queste innumerevoli difficolt, specialmente ai fini
di un efficace insegnamento della religione. Ripetiamolo, dal punto di vista dell'apologetica, non ha
molto valore richiamarsi al fatto che questo un mistero che Dio ha rivelato. Se il fatto della
rivelazione fosse psicologicamente cos obbligante e cos chiaro da non lasciai possibilit di dubbio,
allora il suo contenuto potrebbe essere imposto positivisticamente come un mistero da non
discutere. Ma se, per colpa della teologia, l'uomo moderno trova incredibile il contenuto della
rivelazione, allora, non del tutto senza logica, egli si considerer giustificato di dubitare ancor pi
fortemente del fatto della rivelazione. Questa osservazione mostra, incidentalmente, che dobbiamo
sforzarci di raggiungere una sintesi o unione tra teologia fondamentale e teologia dogmatica molto
maggiore di quanto non l'abbiamo attualmente.
Io credo che tutte le difficolt che gli uomini d'oggi sperimentano, abbiano una base comune: le
espressioni teologiche non sono formulate in modo tale che essi possano vedere che ci che in esse
viene detto ha una qualche connessione con la comprensione di s che essi hanno derivata
dall'esperienza. Non si pu pretendere e sarebbe modernismo eretico il tentarlo di dedurre
tutte le proposizioni teologiche da questa esperienza che l'uomo ha di se stesso. Non questo che si
vuol dire qui, sebbene questo problema sia pi difficile di quanto credano, per lo pi, i tradizionali
nemici del modernismo: per esempio, se ci si ricorda che vi anche una cosa come l'esperienza
della grazia, e che questa grazia la prima e fondamentale realt del cristianesimo stesso. Ma,
anche se prescindiamo da tale questione, la connessione tra l'esperienza che l'uomo ha di s stesso e
il contenuto delle proposizioni dogmatiche pu essere considerata altrimenti che come semplice
deduzione o esplicazione logica.
Vi una connessione per corrispondenza, e specialmente vi una connessione per il fatto che
'natura', intesa come personale e trascendente, un elemento costitutivo e necessario non certo della
grazia in quanto tale in astratto, ma della realt e del processo in cui la grazia data effettivamente.
Se si scoprissero tali connessioni e vi si riflettesse su, e specialmente se esse fossero considerate

come richieste dal contenuto delle affermazioni dogmatiche, allora non soltanto queste proposizioni
apparirebbero pi credibili dal punto di vista catechistico: l'elaborazione di queste connessioni ci
renderebbe capaci di penetrare il senso di queste affermazioni molto pi profondamente, per evitare
possibili fraintendimenti, modi inadatti di rappresentazione e conclusioni ingiustificate. La scoperta
di tali connessioni tra il contenuto delle asserzioni dogmatiche e l'esperienza che l'uomo ha di s ,
comunque, di fatto, nient'altro che il lato opposto di un metodo antropologico trascendentale in
teologia. Perci, questo necessario per ragioni derivanti dalla teologia fondamentale e
dall'apologetica.
III
Quali saranno le conseguenze per la teologia, se questi bisogni di un'antropologia trascendentale
troveranno soddisfazione? Risponderemo a questa domanda a titolo di conclusione, con alcuni
esempi. Innanzi tutto, questo metodo ci renderebbe capaci per la prima volta di render conto in
maniera credibile del processo della rivelazione nel portatore stesso della rivelazione. curioso
quanto poco la nostra consueta teologia fondamentale sia in grado di fornire una chiara descrizione
del processo attraverso il quale la rivelazione si compie nel profeta stesso, in modo che ci non
appaia semplicemente come un incomprensibile 'miracolo', o di spiegare perch questo processo
presenti tanti parallelismi con fenomeni analoghi nella storia delle religioni. I metodi suggeriti a
questo riguardo potrebbero essere molto fecondi per arrivare ad una conoscenza abbastanza
approfondita. Potremmo, per esempio, concepire l'uomo, mediante questo metodo di deduzione
trascendentale, come l'essere che ascolta Dio nella storia. Potremmo arrivare a renderci conto e a
comprendere che la parola di Dio pu esistere solo nella misura in cui essa udita e creduta, e
rimane tuttavia la parola di Dio. A partire di qui, potremmo indagare come l'uomo sia costituito nel
suo essere come portatore della parola di Dio mediante la grazia di Dio, che il dono che Dio fa di
se stesso all'uomo; e, di qui, potremmo arrivare a comprendere che la storia della salvezza, che
grazia, e la storia trascendentale della rivelazione sono coestensive, e che quest'ultima non si
identifica con la storia ufficiale della rivelazione in quanto conosciuta a posteriori dalla storiografia
e confinata in una particolare localit geografica (anche se in aggiunta si postula l'esistenza di una
'rivelazione primitiva').
Tutti questi problemi implicano una ricerca trascendentale. Un'esatta comprensione della natura dei
miracoli potrebbe essere promossa se, con questo metodo trascendentale, si sollevasse la questione
del perch l'uomo, per il suo stesso essere, debba fare assegnamento su una cosa come i miracoli, e
quindi perch i veri miracoli fin dall'inizio possano aver luogo soltanto in un contesto dove si tratta
della salvezza dell'uomo intero. Se vi una cosa come la storia della salvezza, che essa stessa
necessaria per la salvezza, allora la teologia deve trattare l'argomento della storicit trascendentale a
priori della salvezza dell'uomo, proprio come la storia esige una filosofia della storicit (e questa
filosofia anche un elemento di quella storia). Fino a questo momento, comunque, nella teologia
scolastica esiste a malapena qualcosa che si possa chiamare una teologia della storicit della
salvezza dell'uomo. La storia della salvezza narrata, ma vi ben poca riflessione sulle sue
strutture formali e specialmente sulla sua necessit trascendentale. All'importanza di questo metodo
per la dottrina della Trinit e della cristologia si accennato poc'anzi e non necessario insistervi
qui ulteriormente.
Poich manca in massima parte una teologia della storia della salvezza e della trascendentale
storicit della salvezza dell'uomo, mancano anche molti presupposti per un'adeguata ecclesiologia.
La fondazione della Chiesa nella sua autorit e struttura formale di solito trattata in modo tale che
Dio avrebbe potuto fondare una Chiesa siffatta, se avesse voluto, in qualsiasi momento. Il posto
della Chiesa nell'escatologia e nella storia della salvezza, che assolutamente vitale per la sua intera
essenza, viene a malapena considerato, nella nostra normale ecclesiologia. La comprensione di una
tale fase escatologica della storia della salvezza manca, comunque, perch mancata la riflessione
trascendentale sulla storicit della salvezza e sulle fasi della storia della salvezza che sono

condizionate da questa storicit. Ma allora come possiamo rendere credibile la pretesa che vi sia ora
un papa infallibile, mentre l'umanit e Dio, nella loro comune sollecitudine per la salvezza di tutti
gli uomini, sono dovuti andare avanti senza una tale infallibile fonte di verit per forse due milioni
di anni? Certe modificazioni nella storia, che sono importanti per la salvezza, divengono credibili
solo se mostrano espressamente che l'uomo, per la sua stessa natura, deve avere una storia della
salvezza. Perci, anche per quanto riguarda la sua salvezza, non si tratta solo dei valori di struttura
eterna del suo essere in quanto tale, ma del fatto che anche in questo campo si deve fare
assegnamento sulla storia concreta, con le sue fasi successive. Con un approccio del genere, la vera
natura dell'infallibilit della Chiesa potrebbe, probabilmente, anche essere pi chiaramente distinta
dagli aspetti negativi che inevitabilmente l'accompagnano, come accompagnano ogni realt umana.
Non necessario spiegare pi ampiamente perch una buona ecclesiologia abbia bisogno di tutti
quei concetti che noi possiamo derivare soltanto da una analisi trascendentale della natura e della
necessit dell'intercomunicazione umana.
Il metodo che abbiamo suggerito ha un ampio ed importante campo di applicazione anche nella
trattazione teologica dei sacramenti. Quale altro modo abbiamo per elaborare adeguatamente la
natura dei simboli, la capacit e il bisogno che l'uomo ha dei simboli, il concetto fondamentale di
causalit simbolica e la funzione del simbolo nell'intercomunicazione umana? Tutte queste cose
sono presupposti importanti della dottrina dei sacramenti e della sua corretta comprensione. Se
fosse chiaro che la grazia non una cosa, ma ha carattere onto-logico, che essa la condizione degli
atti personali diretti immediatamente verso Dio, dono essa stessa di Dio, allora si vedrebbe molto
pi chiaramente di quanto non si faccia di solito che il battesimo dei bambini non dovrebbe essere
preso come modello fondamentale di un sacramento. Un sacramento dovrebbe essere inteso come la
trasmissione, per mezzo di un simbolo inter-personale storico, dell'offerta permanente che Dio fa di
s all'individuo umano libero nel momento decisivo della sua vita: un'offerta diretta all'essere
trascendentale dell'uomo. Se avessimo compreso ci, non correremmo il rischio di confondere i
sacramenti con la magia. Allora saremmo in grado di formulare principi comprensibili riguardo alla
frequenza nel ricevere i sacramenti, e il numero dei sacramenti potrebbe essere pi facilmente
spiegato, cosa che non affatto facile a farsi se si procede in maniera puramente positivistica,
storica. Allora sarebbe molto pi chiaro, per esempio, che l'effetto di un'indulgenza non pu essere
inteso altrimenti che come un approfondimento e un'intensificazione dell'amore, che gradualmente
avvolge l'intero essere dell'uomo. La maggior parte della teologia morale, se prescindiamo sia dalla
fede, speranza e carit, sia dalle leggi positive della Chiesa, ha a che fare e, in verit, deve avere
a che fare con ci che siamo abituati a chiamare 'legge naturale'. Prescindendo completamente,
quindi, dalla questione di come si possa definire la relazione tra questa 'legge naturale' e la grazia,
dobbiamo renderci conto che, in ogni caso, una giustificazione soddisfacente di una siffatta 'legge
naturale' possibile solo mediante una deduzione trascendentale della natura dell'uomo e, inoltre,
del suo essere fondamentalmente coinvolto in una situazione storica che lo colloca sotto un ordine
morale. Non riusciremo a comprenderlo, comunque, mediante una raccolta puramente a posteriori
di peculiarit e caratteristiche fattuali dell'individuo umano o dell'esistenza sociale, anche se queste
ricorrono con costante frequenza. Perch non tutto ci che , nemmeno tutto ci che o appare
generalmente vero, , perci stesso, qualcosa che deve essere. Precisamente nella teologia morale
l'uso dell'antropologia trascendentale potrebbe ottenere risultati di notevole importanza pratica,
specialmente (non soltanto!) nel senso di screditare pretese che sono state ingiustificatamente
sollevate come aventi fondamento nella legge naturale.
Un'escatologia che voglia essere all'altezza delle moderne esigenze ha bisogno, come base, di
un'antropologia trascendentale, in cui l'uomo appare come l'essere che si proietta verso il futuro in
espansione, come l'essere caratterizzato dalla speranza e che stato reso da Dio capace di un
assoluto futuro. Solo alla luce di una siffatta antropologia, che ha una forma trascendentale e
antropocentrica, possiamo scoprire quei principi ermeneutici necessari per l'interpretazione di
affermazioni escatologiche. Questi principi sono necessari, oggi, se si vuole che le affermazioni
stesse possano apparire credibili. Mi sembra che l'escatologia scolastica sia tuttora non lontana dalla

mentalit di quel professore di teologia dogmatica che dichiarava di non aver mai sostenuto che la
tromba finale dell'arcangelo Michele fosse una tromba materiale, ma, ci nondimeno, di difendere
risolutamente la tesi che il suono di essa fosse un suono materiale. Invece di sviluppare una teologia
reale, che implichi un'interpretazione critica di un linguaggio letterario figurato, l'escatologia
scolastica si contentata di produrre una specie di gioco di pazienza volto ad adattare insieme le
immagini della Bibbia in un unico quadro globale, anche se quelle immagini non potranno mai
essere coordinate insieme in un quadro coerente, n erano mai state destinate ad esser messe
insieme in tal modo. Un fondamento trascendentale per la trattazione delle cose ultime renderebbe
chiaro che l'escatologia non pretende di essere una specie di resoconto anticipato datoci da Dio (il
quale realmente gi li vede) di come effettivamente si presenteranno gli eventi futuri. Invece, una
tale escatologia dovrebbe apparire come la necessaria interpretazione dell'esistenza escatologica
presente dell'uomo, dal punto di vista del suo futuro assoluto, un'interpretazione, questa, che
appartiene all'essere stesso dell'uomo.
1) La parola 'orizzonte' usata qui non nel comune senso di qualche cosa che noi possiamo
ampliare o espandere o oltrepassare, bens un senso heideggeriano di una struttura o punto di vista
che fornisce i limiti di certe attivit che si svolgono nel suo interno (cf. M. Heidegger, Essere e
tempo).

Henri De Lubac
NATURA E GRAZIA
Non necessario che un concilio si occupi di tutto. Anche ci di cui si occupa non deve
necessariamente basarsi su teorie teologiche elaborate in anticipo ed esaminate dal punto di vista
della coerenza razionale. Esso non ricerca, non dimostra: insegna e dichiara la fede. Anche se esso
non pronuncia una definizione ed anche se esprime opinioni che non tulle riguardano il mistero
della fede, il suo insegnamento costituisce per noi piuttosto premesse maggiori che conclusioni. A
partire di l, entra nell'esercizio del magisterium un elemento profetico. compito dei teologi
discernere questo elemento, impadronirsene, per cos dire, al fine di sottoporre ad esso il proprio
pensiero, e successivamente lavorare con esso, in vista di una migliore comprensione della fede.
La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno non fa eccezione a questa regola
generale. Negli anni avvenire essa ispirer pi di un tentativo verso una teoria che giustifichi
razionalmente ci che essa ha da dire riguardo siile relazioni tra la Chiesa e il mondo. I principi che
essa espone, specialmente nella prima parte, stimoleranno la riflessione teologica. Senza dubbio, ci
accelerer lo sviluppo di quella 'antropologia cristiana' di cui c' tanto bisogno nel nostro tempo.
Non quindi allo scopo di compensare qualche difetto da parte del concilio, per spiegare ci che
esso avrebbe dovuto dire e non ha detto, ma piuttosto con l'intenzione di continuare nella scia del
concilio e di accettarlo nell'obbedienza di fede', che noi dobbiamo riprendere oggi certi problemi,
allo scopo di render conto sia dei suoi insegnamenti sia del tipo di mentalit che esso intende
promuovere presso di noi. Si tratta, se volete, di un tentativo di teologia prospettica, interamente
prospettica, nel senso che non pretendo di presentare una teoria gi pronta, o nemmeno di proporre
una conclusione definitiva, ma semplicemente di additare una direzione per la ricerca. Ma, da un
altro punto di vista, si tratter di teologia retrospettiva, perch niente di solido pu essere realizzato
in teologia senza materiali collaudati. Ogni ricerca dev'essere prima di tutto una ripresa, attraverso
la tradizione. Ogni rinnovamento presuppone una continuit. Questa una verit perenne, che si
potrebbe anche giustamente definire banale, ma che forse opportuno ricordare. In breve, mi
limiter a suggerire un certo numero di idee, antiche o moderne, senza metter fuori niente di
veramente nuovo.
I.
Ho parlato di antropologia cristiana. Questa frase riassume benissimo il principale oggetto della
nostra costituzione. La prima parte, infatti, ci dice che cosa sia l'uomo, individuale e sociale,
secondo la fede cristiana. E lo fa allo scopo di dedurre da questa descrizione 'la regola dell'attivit
umana' esposta nella seconda parte. Da notare che lo scopo di questa doppia descrizione non
qualcosa di generale e di fuori del tempo. L'idea cristiana dell'uomo, insieme con la regola di azione
che ne consegue, sono entrambe messe a confronto con il mondo contemporaneo in mezzo al quale
il cristiano deve agire.
Ma, attraverso una gran parte della sua popolazione e della sua lite intellettuale, il mondo
contemporaneo oppone alla nostra fede una concezione dell'uomo radicalmente diversa, da cui
bandita ogni considerazione di Dio, sotto innumerevoli forme. Negazione di Dio: questo il fattore
comune in molti punti di vista e atteggiamenti in cui il cristiano oggi si imbatte da tutte le parti.
Perci il paragrafo sull'ateismo stato giustamente considerato il punctum saliens dell'intera
costituzione.
Ci significa che il principale compito dottrinale a cui la costituzione Gaudium et spes ci esorta e ci
stimola un confronto con l'ateismo contemporaneo. Dico esattamente: confronto. E tuttavia non
dimentico che lo spirito che questo testo, come pure tutta l'opera del concilio, ci raccomanda con

insistenza uno spirito di dialogo e di comprensione. Tanto richiede da noi l'enciclica Ecclesiam
suam, e nello stesso senso il papa ha parlato nel suo discorso alla chiusura del concilio:
L'umanesimo anticlericale e profano si presentava in proporzioni allarmanti e, in certo modo,
sfidava il concilio. La religione del Dio che si fatto uomo incontrava la religione dell'uomo che fa
di se stesso un dio, se questa si pu chiamare una religione. Che cosa accaduto? Una collisione,
una lotta, un anatema? Questo sarebbe potuto accadere, ma non accaduto. L'antica parabola del
buon samaritano ha fornito il modello per la spiritualit del concilio. Un sentimento di illimitata
simpatia lo ha pervaso dal principio alla fine. La scoperta dei bisogni umani, che crescono sempre
pi via via che i figli della terra maturano, ha assorbito l'attenzione del nostro sinodo....
In altre parole, noi cristiani vogliamo mostrare in una specie di competizione pacifica, con i fatti e
con le parole, che anche noi, noi cristiani, noi pi di ogni altro, abbiamo il culto dell'uomo. E
qualunque sia il tipo di ateismo che l'uomo che ci sta dinanzi rappresenta, noi accettiamo lui come
un fratello. Sappiamo di avere da fare delle ricerche in comune con lui. Ci sforziamo di
comprenderlo, di penetrare nelle sue ragioni, nelle sue difficolt, e anche di comprendere quelle che
sono vere incomprensioni da parte sua, o il suo bisogno di pace dello spirito, allo scopo di parlargli,
se possibile, in maniera da convincerlo.
Il dialogo deve essere portato avanti non solo con l'ateo ma anche con l'ateismo. Dobbiamo quindi
mostrarci capaci di comprendere l'ateismo stesso. Qui, il significato di queste due parole: dialogo e
comprensione, assume un'importanza diversa, ma non minore. Nella misura in cui noi rispettiamo
l'uomo che parla con noi e prendiamo sul serio le sue idee, il dialogo, una volta cominciato, diviene
presto un confronto: la nostra parte non pu consistere semplicemente nell'ascoltare senza
rispondere, n nel perderci nelle tortuosit di un inconsistente relativismo. La verit una e, a
dispetto delle sottigliezze inventate pi o meno felicemente da fertili intelletti diffidenti di una
posizione nettamente definita, il rischio del dialogo la risposta inevitabile alla domanda se Dio
esiste o no. Per chiarire idee ingenue o distorte della fede o per indicare all'altro la disgraziata
ambiguit di certe sue apparenti negazioni, pu essere molto utile riferirsi all'idea di 'teologia
negativa', o suggerire le mistiche 'notti' di s. Giovanni della Croce. Ma non possiamo prenderle
come un rifugio dall'urgenza della decisione.
Il dialogo, dunque, un confronto, e ci equivale ad ammettere che una lotta. Non dobbiamo aver
paura di ammettere che combattiamo contro l'ateismo. Come se la lotta potesse essere eliminata
dalla vita, come se la vita di un credente che si imbatte nell'ateismo potesse essere altro che una
lotta per Dio! Si tratta solo di decidere come combattere, di decidere quali armi usare. Siccome la
guerra spirituale, le armi possono essere solo spirituali, le armi della luce. E siccome questa guerra
deve essere combattuta contemporaneamente su due fronti, cio, nella vita interiore e nell'azione
esterna, le armi spirituali usate non avranno possibilit di essere efficaci a meno che noi non le
usiamo in pari tempo contro noi stessi. Solo a questo prezzo si pu superare il fariseismo; e solo a
questo prezzo la lotta pu essere condotta a un duplice esito felice contro l'ateismo, a beneficio di
entrambi, sia del non-credente che del credente. Perch la fede non un valore umano che noi
possediamo come un solido capitale, n si mescola con altri valori per costituire il nostro essere
naturale, e neppure siamo liberi di uscirne in vista di un pi amichevole approccio all'uomo che non
la possiede. una relazione essenzialmente vitale con una realt che ci governa e ci giudica anche
mentre ci illumina. Una realt della quale siamo sempre indegni, nella nostra vita, anche per quanto
concerne la sua comprensione, e verso la quale siamo sempre pi o meno infedeli. Ogni situazione
una possibilit di purificarla, di rafforzarla, di approfondirla, ma nessuna pi dell'incontro con
l'ateismo. Non il piegarsi della fede, nemmeno soltanto in via di metodo, ci pu aiutare a
comprendere meglio il fatto dell'ateismo. Anzi, solo la luce della fede pu illuminarci questo fatto e
rivelarcene il pieno significato.
Il mondo contemporaneo non ci permette di sfuggire a questo confronto. Ogni credente deve dare
questa testimonianza di fede. Ma quelli il cui ufficio o la cui competenza implica riflessione
intellettuale sono sfidati a render conto in termini intellettuali della fede di tutti i loro fratelli.

Ed essi lo fanno, innanzitutto, facendo uno sforzo per comprendere. Il termine 'comprensione' deve
esser preso in un senso tecnico. Quando due correnti di pensiero si confrontano, ciascuna si sforza
di comprendere l'altra. In ogni modo, questa stata la strategia dell'ateismo contemporaneo.
Difficilmente qualcuno oggi farebbe un attacco diretto contro le prove dell'esistenza di Dio al fine
di rifiutarle con i metodi della logica classica; n alcuno negherebbe ogni frammento di verit nei
misteri cristiani. Si tratta piuttosto di comprenderli e di spiegarli. Viene proposta un'ermeneutica che
si sforza di andare oltre il senso primario (che solo esiste per il semplice credente nell'esistenza di
Dio o nella divinit del Cristo), al fine di scoprire un secondo significato, che pi vero e che in
definitiva si rivela come il solo vero significato. E questo secondo significato puramente umano.
Gli attributi di Dio non sono necessariamente negati, ma, come disse Feuerbach, sono trasferiti al
loro vero possessore. La morte e la resurrezione del Cristo divengono simboli sublimi di quel che vi
di pi profondo nell'uomo. Poich i processi storici devono essere graduali, i non-credenti danno
per scontato che la credenza nel senso primario di questi misteri stata uno stadio necessario nello
sviluppo della consapevolezza umana. Ma oggi, si proclama, i tempi sono cambiati. Proprio come il
Nuovo Testamento rivel il significato nascosto dell'Antico Testamento, ma abbandonandolo come
vecchio e come appartenente ad un passato ormai morto, cos fa l'umanesimo contemporaneo con la
sua comprensione del teismo cristiano: crede di comprenderlo, di fargli giustizia e di sollevarlo in se
stesso ad una nuova vita, che pi vera e che realmente l'unica verit. Ma, con questo semplice
fatto, esso relega il teismo cristiano nel suo primo senso nel cimitero dei miti. Se il passato lotta per
sopravvivere o per rivivere, allora esso diventa una cattiva influenza. L'abbraccio della
comprensione, dunque, stringe allo scopo di soffocare.
Oggi, questa la consueta pretesa dell'ateismo, la forma generale della sua strategia, sia esso
trionfante, disperato o placido: sia che inclini al collettivismo o all'anarchia; sia che derivi da
rinuncia metafisica o da ambizione terrena; sia infine che, nel suo imperialismo totalitario, esso
parli nel nome della sociologia o della psicanalisi. Quindi, allo scopo di non essere 'compresi' in
questo senso, un'unica via rimane aperta: quella di compiere uno sforzo di comprensione. Perci il
cristiano deve comprendere l'ateismo. Deve scoprire, di l dalla sua illusoria ermeneutica, le fonti
reali da cui esso deriva: il loro vuoto. Deve diffidare di ogni mediocre e superficiale 'comprensione'
basata sul desiderio di conciliazione, poich questa lo lascer sconfitto prima di cominciare. Deve
essere specialmente attento a rifiutare le formule di compromesso, facilmente accettate,
consapevolmente o inconsapevolmente, che questa ermeneutica atea mette fuori come esca, poich
attraverso di esse egli pu scivolare nell'apostasia. Contro la spiegazione che tenta di mostrargli
come la religione del Dio fatto uomo, porta, per inevitabile dialettica, ad un'antropologia, e come
essa stata l'espressione simbolica del processo sociale ed umano che solo reale, egli deve esser
capace di fornire una spiegazione pi penetrante. Il suo contro-argomento deve mostrare che
un'antropologia rettamente intesa suppone una teologia, a cui conduce attraverso un'inevitabile
dialettica: e deve mostrare che il processo sociale umano trova il suo significato ed il suo
adempimento non nell'uomo ma in Ges Cristo, il Dio-uomo. E deve mostrare che 'la religione del
Padre' deve rimanere, affinch il Padre possa essere 'interamente con noi' e non sia assorbito in noi,
lasciandoci cos del tutto a noi stessi. E non esiti a dire che l'assenza di Dio la miseria dell'uomo, e
proclami la sua fede come la forza interiore che restituisce all'uomo la sua dignit e al mondo la
speranza.
Questo il primo compito impostoci dalla costituzione Gaudium et spes. Ed cos fondamentale e
cos illimitato che questa relazione non pu fare altro che metterlo in rilievo.
II.
Riprendiamo ora in esame la nostra costituzione e notiamo la connessione delle sue due parti. A
prima vista, la seconda parte appare come un'applicazione a problemi particolari di principi generali
esposti nella prima parte. Ci non falso e lo si pu dedurre dal paragrafo di transizione all'inizio
della seconda parte. Ma la reciproca relazione tra le due parli pu anche essere intesa diversamente,

il titolo della prima parte in certo modo ambiguo, e senza dubbio tale ambiguit era necessaria per
permettere di abbracciare l'intera materia: La Chiesa e la vocazione umana. Vocazione umana
significa la chiamata dell'uomo; e tutta la trattazione successiva mostra che questa chiamata non
semplicemente umana, ma divina. L'uomo, creato a immagine di Dio, chiamato alla vita eterna; e
cos, ciascuno dei quattro capitoli, seguendo una specie di rotta ascendente, culmina nel ricordo del
ritorno del Signore e del regno futuro. Per contrasto, la seconda parte, partendo da principi cristiani
e con l'ausilio dei medesimi, ridiscende a questioni dell'ordine temporale, e le affronta nella loro
veste pi contemporanea, allo scopo di trovare soluzioni adatte.
Le due parti della costituzione hanno quindi dato origine a due grandi problemi, connessi ma
opposti, che provocheranno la ricerca teologica degli anni a venire. I teologi dovranno cercare,
quando possibile, giustificazioni razionali per le dottrine che il concilio, secondo la sua funzione, ha
promulgato come semplici affermazioni, con un atto di autorit.
Per un verso, cominciando con l'uomo, si tratter di stabilire il suo dovere di muoversi, nella libert
della sua vita personale, verso quel destino divino che Ges Cristo gli assegna e gli promette
attraverso la Chiesa. Per altro canto, supponendo risolto il primo problema, la prospettiva inversa
esige che noi stabiliamo l'attaccamento del cristiano alle realt di questo mondo e il dovere a lui
imposto di lavorare per lo sviluppo temporale dell'umanit in ogni campo. Evidentemente i due
problemi si incrociano. Ma per il teologo i compiti sono molto diversi. Visti sotto il loro profilo
logico, il primo il problema di convincere il non-credente che egli dovrebbe essere pronto ad
ascoltare la buona novella; il secondo il problema di cercare di convincere il credente del legittimo
valore delle cose della terra e del tempo, precisamente dal punto di vista di quell'ordine
soprannaturale in cui Dio lo ha introdotto e di quella vita eterna a cui egli aspira. In realt, il
secondo argomento deve andare molto oltre e dimostrare altres che la vocazione cristiana , in
ultima analisi, il solo motivo soddisfacente della lotta per promuovere il progresso naturale.
Comunque, di fatto, il pensiero non si muove su linee cos diritte. Astrattamente considerati, i due
problemi possono essere distinti e volgersi in direzioni opposte, ma di fatto essi interferiscono
continuamente e si sovrappongono a vicenda, e solo per amore di chiarezza, con un processo di
semplificazione, li tratteremo separatamente.
Il primo di questi due problemi non sorto ieri. A seconda della differenza di tempo e di luogo, e
sotto differenti aspetti, il problema sempre stato quello di comprendere la relazione che esiste tra i
due elementi fondamentali che la tradizione teologica ha canonizzato sotto i nomi di natura (umana)
e soprannaturale.
Negli ultimi secoli, ha guadagnato consensi una teoria secondo la quale natura e soprannatura
costituiscono ciascuna un ordine completo. Il secondo di questi due ordini era aggiunto al primo in
modo tale che tra essi non rimaneva altro legame se non quello che l'ordine naturale aveva una vaga
e generica 'potenza obbedienziale' di essere 'elevato', secondo la terminologia della teoria. Non c'
bisogno di mettere in evidenza il carattere dualistico di questa concezione, giacch esso ben noto a
tutti i teologi. Esso sembr necessario per garantire l'assoluta gratuit del dono divino contro una
serie di gravi errori cominciata con il laicismo del secolo XVI e continuato fino all'immanentismo
modernista del XX secolo. Di fatto, i suoi presupposti derivavano da una rottura della tradizionale
sintesi teologica, quale era stata elaborata infine dalla grande scolastica, e particolarmente da s.
Tommaso d'Aquino. I suoi svantaggi sono del tutto evidenti e sono stati denunziati spesso. Il dono
soprannaturale apparve, da allora in poi, come una realt sovrapposta, come una sovrastruttura
artificiale ed arbitraria. Il non-credente trov facile ritirarsi nella sua indifferenza proprio in nome di
ci che la teologia gli diceva: se la mia stessa natura di uomo ha realmente il proprio fine in se
stessa, che cosa dovrebbe obbligarmi, o anche stimolarmi, ad esaminare a fondo la storia in cerca di
qualche altra vocazione che vi si potesse eventualmente trovare? Perch dovrei dare ascolto ad una
Chiesa portatrice di un messaggio che non ha relazione con le aspirazioni della mia natura? Non
dovrebbe anzi l'intrusione di un soprannaturale esterno essere respinta come una specie di violenza?
Durante gli ultimi ottant'anni, la situazione a questo riguardo grandemente mutata. Gradualmente,
e sotto la influenza di diversi fattori, la maggioranza dei teologi ritornata a concezioni pi

tradizionali, pur tentando di aggiornare i suoi modi di esprimersi. Ma, al tempo stesso in cui veniva
rifiutato nelle scuole teologiche, questo dualismo otteneva nuova fortuna nel dominio dell'azione
pratica. Mentre i teologi si sforzavano di proteggere il soprannaturale da ogni contaminazione,
questo venne a trovarsi isolato sia dalla vita dello spirito che dalla vita sociale, e il campo rimase
libero per l'invasione del secolarismo. Oggi, questo secolarismo, avanzando sempre, sta tentando di
invadere la coscienza degli stessi cristiani. Si cerca a volte un accordo generale sulla base di un'idea
di natura che sia accettabile sia per il teista che per l'ateo. Tutto ci che viene dal Cristo o porta a lui
allora relegato fra le ombre 'in un centro appartato' della mente , dove pu benissimo
scomparire per sempre. Il climax del progresso cristiano e dell'accesso all'et adulta sembrerebbe
allora consistere in una totale 'secolarizzazione', che bandirebbe Dio non solo dalla vita sociale ma
dalla cultura e perfino dai rapporti della vita privata. In seguito, non sono pi possibili conflitti, non
si devono pi temere tragedie, non devono pi presentarsi tensioni in seno alla nostra societ a
causa della divisione circa la questione del significato ultimo della vita. sufficiente distinguere
adeguatamente da una parte 'le speranze umane', che attuano un'idea interamente umana dell'uomo,
e dall'altra parte la 'speranza soprannaturale'.
Il cristiano potrebbe ricongiungersi senza scrupoli alle prime speranze rispettando l'uomo naturale e
terreno, pur conservando fermamente le seconde speranze nelle profondit del suo cuore. Potrebbe
facilmente giungere alla comprensione con il non-credente circa la valutazione e lo sviluppo dei
'valori umani', pur tenendosi lontano dalla diversit di opzioni religiose e filosofiche. Perch,
sebbene l'uomo sia destinato a vedere Dio e sebbene l'abbraccio di Dio debba essere il
coronamento dell'avventura umana, non si dovrebbe mai dimenticare che questo fine
'interamente gratuito'. E, in buona logica, la conclusione che, nella realt umana, nelle condizioni
storiche esistenti, il riconoscimento della 'dimensione religiosa' non assolutamente necessario
'alla pienezza umana'. 'Un atteggiamento ateo' completamente legittimo. La tesi deve essere spinta
pi oltre; si deve riconoscere senza paura che quest'atteggiamento l'unico legittimo: la grazia non
una soluzione dell'enigma della vita, n rivale dell'autonomia creativa dell'uomo. Ogni
desiderio di farla interferire, per qualsiasi ragione, nel dinamismo intramondano dell'evoluzione
umana, significherebbe farne un elemento di alienazione e farla maledire come un intruso che
minaccia di eclissare lo splendore morale di Prometeo. La soluzione semplice. Ma tiene in poco
conto quella unit che, abbracciando distinzioni ed anche le pi profonde discordanze, dovrebbe
essere il contrassegno di ogni umano pensiero e di ogni vita umana degna di questo nome. facile;
ma, dal momento che esclude il Vangelo dalla vita, disposta ad ogni resa, anzi essa stessa gi
una resa. Se questa teoria fosse vera, la maggior parte della costituzione Gaudium et spes sarebbe
senza alcun risultato. Il suo stesso fondamento sarebbe ridotto in frantumi. La Chiesa non potrebbe
dirci niente circa le cose di questo mondo, dal momento che il corso degli eventi umani non
potrebbe ricevere luce dal Vangelo. E quindi, poich gli anni avvenire vedranno la Chiesa sempre
pi assorbita nei problemi sollevati dalla nostra costituzione, sar sempre pi doveroso per la
teologia penetrare in questo problema fondamentale delle relazioni tra la natura umana e l'ordine
soprannaturale.
Naturalmente, ci implica la ricerca teologica, una cosa che presuppone la fede e si compie alla luce
della fede. Non va, comunque, confuso con quel tipo di apologetica che diretto a convincere
l'uomo che ancora non crede, e che prima cercava di portarlo a riconoscere in se stesso un 'desiderio
naturale' e poi a credere che questo desiderio naturale lo avrebbe condotto al 'mondo soprannaturale'
rivelato in Ges Cristo. Poich l'analisi di un siffatto desiderio naturale non appartiene n ad
un'osservazione meramente psicologica n alla riflessione razionale lasciata a se stessa. Quando
l'analisi penetra in certi tipi di comportamento umano, vi trova qualcosa di ambiguo il cui
significato non pu essere ottenuto se non per mezzo della fede. Al tempo stesso che il Dio-uomo
Ges Cristo ci rivela Dio, egli rivela noi a noi stessi. Senza Dio, i recessi ultimi del nostro essere
rimangono un enigma. La situazione, qui, simile a quella che si verifica per le prove dell'esistenza
di Dio: esse divengono oscure proprio nel momento in cui sono pi necessarie. Similmente, in un
clima di ateismo, la dottrina del 'desiderio naturale' manca di una necessaria, presupposta idea

comune di 'natura'. Il pensiero cristiano dovrebbe, come minimo, essere coerente, non solo per la
soddisfazione intellettuale del credente, ma perch la sua testimonianza al mondo lo esige. E, di
fronte a qualsiasi apparenza contraria, noi dobbiamo mantenere la nostra fede nell'uomo e nel
messaggio che abbiamo ricevuto dal Cristo, poich sappiamo che essi sono fatti l'uno per l'altro.
Ricordare all'uomo il suo fine ultimo non significa dirgli qualcosa che non di fondamentale
interesse per lui, a dispetto degli ostacoli che, qui ed ora, gli impediscono di riconoscerlo. Significa,
invece, aiutarlo a scoprire, e poi a decifrare, l'iscrizione impressa in lui dal suo creatore. Significa
sottrarlo all'angoscia, alla disperazione ed alle disgraziate illusioni. Significa esaltare la sua statura:
Celsa creatura, in capacitate Majestatis (s. Bernardo). Il fine dell'uomo, infatti, cos sublime
che egli ha bisogno di Dio per raggiungerlo, ma cos egli non vilificatur, sed dignificatur (Scoto).
Noi non pretendiamo che verit di questo genere trovino facile consenso. Ma esse sono
immensamente pi significative e potenti che non una posizione pi timida, basata sul predetto
dualismo, che si limita alle cosiddette verit di ordine naturale.
III.
Siamo gi, in qualche modo, penetrati nel territorio in cui si presenta il secondo problema. Date le
circostanze, i due problemi non possono essere interamente separati. Abbiamo gi detto che la frase
'la vocazione umana', nel titolo della prima parte della Gaudium et spes, contiene in pari tempo la
vocazione cristiana dell'uomo e la vocazione umana del cristiano: una vocazione duplice, che
abbraccia sia il tempo che l'eternit, sia la terra che il cielo. E la seconda parte della costituzione ci
dice, per mezzo di numerosi esempi, sia che la vocazione eterna ha ripercussioni nell'ordine
temporale, sia che l'azione temporale, a sua volta, ha ripercussioni nell'eternit. O meglio, questo
secondo aspetto trattato solo rapidamente e costituisce precisamente il problema: come
giustificare l'interesse che la Chiesa mostra per la sua azione temporale.
Alla fine della costituzione i Padri conciliari dicono di essersi impegnati su molti argomenti,
fondandosi sulla parola di Dio e sullo spirito del Vangelo, allo scopo di recare a tutti gli uomini,
cristiani o no, efficace assistenza nell'enorme lavoro che l'uomo deve compiere: la costruzione del
mondo nella pace.
L'analisi precedente ha mostrato che la luce che la rivelazione diffonde sul mondo temporale ha
grande valore a questo scopo, o almeno ha mostrato la direzione in cui dobbiamo muovere per
vedere ci. Ma ora il problema l'inverso: in che modo la costruzione del mondo una materia che
interessa per la vita eterna?
Consideriamo brevemente due cose, che hanno la loro importanza, ma che non ci portano ancora al
cuore del problema.
Il cristiano sa, senza guardare tanto oltre, di dover esser fedele al Vangelo, e per conseguenza
considera la pratica della giustizia e della carit come il primo dei suoi doveri. Questo un
programma che ha molte ed ampie applicazioni, che lo impegnano a sforzi sempre rinnovati e che
lo renderanno presente dovunque nelle faccende di questo mondo. Il cristiano sa che il mondo
stato creato da Dio e che la creazione di un Dio buono buona. Il mondo degno di ammirazione e
di amore, merita il disturbo che la ricerca e la sollecitudine comportano. E, poich l'uomo un
essere attivo non meno che contemplativo, egli potrebbe fare il miglior uso possibile delle grandi
risorse del mondo, non solo per le necessit della vita, ma al fine che, assaporando tutti i sapori del
mondo, l'uomo stesso possa raggiungere l'adempimento umano. In realt, il cristiano sa che una
casa preparata per lui nell'altro mondo; e che nella sua stessa natura vi una specie di macchia che
lo costringe a diffidare di s nell'uso di questo mondo; sa di non dover permettere a se stesso di
lasciarsene sommergere. Ma ci non abolisce la fondamentale bont della creazione. Il nostro
atteggiamento essenziale verso il mondo e verso i grandi sforzi dell'uomo per farne l'uso migliore
deve essere positivo, e appunto cos l'atteggiamento della nostra costituzione.
La Chiesa si sarebbe potuta limitare alla prima di queste due considerazioni, e avrebbe tuttavia
adempiuto il suo dovere centrale. Se, al contrario, avesse trattato soltanto la seconda, avrebbe

trascurato la sua propria missione. Ma, nella seconda parte della Gaudium et spes, essa compie altri
due passi, e questo ci porta a riconoscere un duplice problema. Essa afferma, o meglio, presuppone
continuamente, una certa corrispondenza tra la bont delle cose appartenenti all'ordine naturale (e
ci include l'acquisizione di cultura e di civilt), la bont delle realt umane e terrene, e il destino
soprannaturale, divino a cui ogni uomo chiamato nel mistero del Cristo. Pi ancora, adottando una
prospettiva che abitualmente collettiva e dinamica, essa ritiene per scontato, o almeno sembra che
lo prenda per scontato, l'idea di un futuro progresso della umanit, un progresso che deve esso
stesso esser messo in qualche rapporto con il destino soprannaturale dell'uomo.
Dei due problemi che in tal modo si impongono alla riflessione teologica, il primo gi stato risolto
in via di principio dalla teologia tradizionale. Gratia supponit naturam: bisogna soltanto liberare le
migliaia di applicazioni concrete che questo principio tomistico contiene. Pi un uomo uomo,
ricco di umanit, sia per le qualit innate, sia per la sua cultura, pi la grazia trover in lui un
terreno privilegiato in cui svolgere la sua funzione. Senza dubbio, i capricci della vita soggettiva
non devono essere sottovalutati. Si sa bene che un brillante bilancio di doti
naturali pu favorire un ideale puramente umano di saggezza che costituisce un ostacolo alla
penetrazione dello Spirito di Dio. Viene in mente il ben noto epigramma di Pguy, su certe persone
che sono troppo morali perch le acque della grazia le bagnino. Ma, oggettivamente parlando e a
parit di tutte le altre condizioni, bisogna riconoscere che una maggiore lucidit mentale ed una
volont pi forte consentono un pi libero e pi profondo impegno nella risposta dell'uomo alla
chiamata di Dio. Non evidente che, per quanto trascendenti siano l'amore e lo zelo di Dio, essi
non possono arrivare se non ad un cuore che sia umano, vale a dire, a un cuore plasmato (da lungo
tempo o anche da poco) da tutti i succhi della terra?. Per esempio, chi pu dire di quanto la nostra
pi soprannaturale vita mistica sia debitrice a un Platone, a un Leibniz, a un Pascal, a un Newton ed
a molti altri, anche pi inattesi, che ciascuno di noi potrebbe nominare nel suo cuore?. L'ordine
della carit eleva e trasfigura tutto ci che umano, ma trae dall'umano il suo materiale. Un s.
Gregorio di Nissa ha notato questo fatto ed ha mostrato la funzione positiva, anche se preparatoria,
da assegnare alla 'passione' naturale nello sviluppo della vita spirituale. Senza questa passione, egli
dice, che cosa nel mondo potrebbe stimolarci a ricercare le cose celesti?. E per questa stessa
ragione il progresso materiale e il progresso tecnico non sono senza interesse per l'ordine
soprannaturale, se vero che essi hanno delle ripercussioni sul progresso della coscienza umana.
Come minimo, questo ci indica la materia per future ricerche. E qui ci troviamo di fronte ad un
problema veramente nuovo, che viene posto innanzi al teologo dalla costituzione Gaudium et spes.
Perch questo progresso della coscienza che in correlazione con il progresso tecnico non una
questione della vita dell'individuo, ma piuttosto della vita dell'intera specie umana.
La costituzione d per scontato che tale progresso della umanit un fatto, e che questo progresso
riguarda il regno di Dio. Questo stato di cose affermato e riaffermato, ma il compito di spiegarlo
lasciato a noi. fatta una dovuta distinzione tra il 'progresso terreno' e la 'crescita del regno di
Cristo'; ma al tempo stesso si dichiara che il primo ha grande importanza per la seconda, perch pu
contribuire ad una migliore organizzazione della societ umana e costituisce cos quasi un
adombramento del mondo futuro. Prima di essere 'trasformato', il cosmo deve essere portato alla
sua 'pienezza' (n. 39). Le affermazioni sono abbastanza chiare, ma le indicazioni sulla direzione che
il pensiero dovr prendere in futuro sono vaghe. I problemi sono immensi, e una breve riflessione
mostra che essi si diramano in tutte le direzioni.
C' stato un uomo, nel nostro tempo, che li ha affrontati. Quell'uomo non era un teologo di
professione; le sue intuizioni erano troppo parziali e spesso non troppo sicure. E, tuttavia, forse non
temerario scorgere una certa indiretta e diffusa sua influenza in alcuni atteggiamenti del concilio.
Quell'uomo era il padre Teilhard de Chardin. Per quanto riguarda la nostra questione, si deve dare
atto al padre Teilhard di aver fatto del problema della fine del mondo un problema attuale per noi.
Guidata dalla fede, la sua meditazione culmina in un'attesa della parusia, quell'unico e supremo
evento in cui ci che storico si congiunge al trascendente. Ma, secondo lui, lo sforzo umano di
promuovere il progresso tecnico, sociale ed anche mentale (uno sforzo che ha luogo come risultato

di un processo che per larga parte sfugge alla libert dell'individuo), produrr le condizioni naturali
di maturazione che renderanno possibile il ritorno del Signore. Queste condizioni sono necessarie,
ma, naturalmente, 'non sufficienti'! Per spiegare la sua posizione, egli indica la prima venuta del
Cristo. L'incarnazione dovette essere preparata da tutta la storia di Israele. E quella storia
presupponeva lunghi e complessi sviluppi precedenti. E cos s. Paolo pot affermare che la venuta
del Cristo avvenne nella pienezza dei tempi. Ma non per questo l'incarnazione fu meno gratuita,
libera e trascendente, rispetto a tutto ci che l'aveva preparata. E cos deve essere, conclude
Teilhard, anche per quanto riguarda la seconda venuta. Lo sviluppo umano sar una condizione
necessaria ma non sufficiente del suo compiersi.
Sembra che niente di ci possa essere rifiutato in nome della fede cristiana. Ma quante questioni
sorgono dinanzi a noi! Questioni circa il fatto di questo sviluppo umano, e circa la sua natura;
questioni circa la funzione assegnata al progresso tecnico nel progresso della coscienza; questioni
circa le ramificazioni di questa concezione dinamica del mondo nel campo della morale; questioni
circa il rapporto di questa escatologia collettiva con l'escatologia individuale; questioni circa la
necessit di condizioni naturali per l'evento soprannaturale della parusia; questioni circa la funzione
comparativa dello sviluppo umano e della speranza cristiana nella preparazione e nella venuta
dell'ultimo giorno, ecc. ecc. Non abbiamo intenzione di trattare le particolarit del sistema
teilhardiano; ci non appartiene al nostro argomento. Quasi le stesse questioni vengono alla ribalta
dal testo della costituzione conciliare. In ogni caso, la costituzione lascia aperte tali questioni. Altre
importanti questioni sorgono da s. Com' possibile comprendere l'integrazione finale di questo
mondo temporale nel regno eterno? Come si pu comprendere l'integrazione della natura nel
soprannaturale? Come si pu esprimere il ritmo che dovrebbe regolare questa integrazione in modo
da riprodurre il ritmo del mistero di Cristo, che un mistero di incarnazione, morte e risurrezione?
Ha la tradizione qualche luce, finora trascurata, da effondere su questo argomento? Negli anni
avvenire come si dovrebbe procedere per attenersi alla Gaudium et spes con una pi esplicita e
rigorosa escatologia? Infine e questo essenzialmente lo stesso problema come possiamo
completare gli insegnamenti morali del concilio con quelle prospettive mistiche che sono
indispensabili per la consumazione della fede?

Edward Schillebeeckx
LA FUNZIONE DELLA FEDE
NELL'AUTOCONSAPEVOLEZZA UMANA
Ai nostri giorni, la questione aperta dalla controversia modernistica ancora dinanzi a noi. Una
risposta conclusiva alla reale problematica del modernismo non mai stata data; il problema stato
solo messo a tacere. In definitiva, la posizione assunta dalla gerarchia ecclesiastica in opposizione al
modernismo fu unicamente, e giustamente, quella di chiudere le vie che in nessun caso avrebbero
portato ad una soluzione. Ma i teologi si opposero al modernismo con elaborati punti di vista
scolastici che rispondevano ad un problema del tutto diverso e passavano sotto silenzio la nuova
questione. La veemente reazione antimodernistica ebbe come risultato che per lungo tempo nessuno
os nemmeno considerare il problema. L'intera problematica era cominciata, diciamolo pure, con
Schleiermacher, per non parlare di Feuerbach. Fu successivamente sviluppata, in altra maniera, dal
modernismo. Da allora in poi, il problema stato pi chiaramente e radicalmente posto, in forme
varie, da Bultmann, Ebeling, P. Tillich, H. Braun, Th. Altizer, J. Robinson, P. van Buren e H. Cox,
pur con diverse distinzioni fra loro. L'intera questione deve ancora trovare una risposta conclusiva
da parte cattolica. I teologi cattolici, nell'insieme, hanno evitato il problema, con il risultato che la
questione della re-interpretazione del dogma sta diffondendo fermento nei circoli cattolici. Questo
perch noi siamo stati abituati a considerare la comprensione della verit in maniera puramente
concettualistica.
Non mia intenzione analizzare l'essenza di tale questione, n esaminare come le premesse
dell'intero problema si trovino gi nell'illuminismo e nel pensiero riformato del diciannovesimo
secolo. Voglio soltanto sgombrare il campo e tracciare poche linee fondamentali e i limiti entro i
quali il pensiero cattolico si pu aprire a nuove prospettive.
I. - L'UOMO STESSO UNA RICERCA RELIGIOSA
Attraverso l'assoluta e gratuita comunicazione di s che Dio fa all'uomo, l'uomo perviene ad un
nuovo, rinnovato rapporto con Dio. La grazia dunque, in quanto comunione interpersonale con Dio,
una immeritata e tuttavia reale qualificazione dell'essere umano. Ci implica che rivelazione e
grazia presuppongono la persona umana come condizione della loro stessa possibilit. Il concetto
teologico di 'natura', come distinto da quello di 'soprannatura', non si riferisce alla categoria
aristotelica, ma un'intrinseca implicazione della rivelazione. La libera accettazione della
rivelazione sarebbe intrinsecamente assurda, se questa rivelazione non presupponesse come
condizione della sua stessa possibilit un soggetto capace di risposta. Questo soggetto pu dunque
accettare e assimilare consapevolmente, nella propria vita personale, la salvezza che gli offerta
come libero dono di Dio. Dio vuol fare dono di s, vuole essere liberamente e personalmente
accettato dall'uomo. Ci significa che noi possiamo dire allo stesso modo sia gratia supponit
naturam, sia natura supponit gratiam. Tenendo conto della problematica precedente, possiamo
considerare tre aspetti di quella 'natura', vista teologicamente, cio, come la condizione presupposta
nella e dalla grazia stessa come requisito indispensabile per la sua stessa possibilit.
1) Auto-consapevolezza umana come condizione intrinseca per la possibilit della rivelazione, e
quindi come dimensione interiore della fede.
La persona umana il soggetto presupposto nella grazia e dalla grazia stessa. Comunque, questa
persona umana non una realt interiore che, gi completa in se stessa, si incarni successivamente
nel mondo attraverso un corpo. essenzialmente uno spirito-nel-mondo, veramente spirito o
persona, ma in auto-comunicazione con un corpo fisico che , in tal modo, umanizzato e fino a un

certo punto, e con varie gradazioni, 'soggettivizzato'. Precisamente perch l'uomo non puro io,
non puro spirito, ma uno spirito che deve attuare se stesso in un corpo, egli diviene presente a se
stesso solo uscendo fuori di s. L'io umano essenzialmente negli oggetti e con gli oggetti di
questo mondo. Quindi, l'uomo vede la sua realt interiore solo quando volge lo sguardo fuori, al
mondo degli uomini e degli oggetti, per conseguenza, solo in associazione con gli uomini nel
mondo. Egli presente a se stesso, persona, solo quando con qualcos'altro, e specialmente con
un'altra persona. Auto-coscienza dunque la consapevolezza di un io-che--nel-mondo, una
coscienza di essere con altre cose, e in primo luogo con i propri simili. Psicologia e fenomenologia
hanno chiarito che un uomo conosce il mondo conoscendo i propri simili. In altre parole, il
rapporto verso i propri simili , sotto un certo aspetto, primario nei confronti del rapporto con il
mondo. Sotto un certo aspetto, ho detto: poich essere-nel-mondo rende possibile, in quanto spirito
nella materia che esprime e rivela se stesso nella corporeit e nella temporalit, di dirigersi verso
l'altro, verso il suo simile. Per conseguenza, l'uomo diviene presente a se stesso solo in un mondo
umanizzato, vale a dire, in un mondo che , e nella misura in cui , caratterizzato dai segni della
presenza umana. L'essere-nel-mondo dell'io attraverso la rivelazione di s nella materia
inevitabilmente congiunto con il dirigersi verso il proprio simile, e l'uomo diviene presente a se
stesso nel confronto con questo duplice orientamento. 'Natura', ossia il soggetto della grazia,
dunque concretamente la persona umana che diviene persona per s dando se stessa ad un'altra
persona. Per quanto riguarda la conoscenza e la coscienza, ci significa: la coscienza umana la
condizione intrinseca della possibilit della rivelazione una auto-consapevolezza che
raggiunta nella consapevolezza e attraverso la consapevolezza dei propri simili in questo mondo.
Questa auto-consapevolezza presente anzitutto sotto forma di una auto-comprensione preriflessiva o atematica, anteriore alla riflessione che vi si fa sopra. Questa esperienza pre-riflessiva,
pur essendo indistinta, gi una percezione comprensiva e chiarificante, dal momento che la
presenza consapevole con i propri simili nel mondo significa interpretazione di s nel mondo.
Perci, sebbene la coscienza umana sia inizialmente indistinta e pre-riflessiva, come autoconsapevolezza nella e attraverso la consapevolezza dei propri simili, essa gi, in quanto autocomprensione, una concezione del mondo ed una concezione etica della vita, e tutto ci ad un
determinato momento di una storia che gi piena di significato umano. La riflessione,
specialmente la filosofia, non fa altro che chiarire continuamente l'esistenza umana nelle nuove
situazioni. Per conseguenza, presupponendo il soggetto umano, la rivelazione, deve implicare
l'uomo in questa situazione: come un essere in cerca di se stesso, un essere che cerca di arrivare alla
comprensione di s. Fides non potest universaliter praecedere intellectum: non enim posset homo
assentire credendo aliquibus propositis, nisi ea aliqualiter intelligeret (Sum. theol., II-II, q. 8, a. 8,
ad 2).
2) Il mondo dell'esperienza umana, unico accesso alla rivelazione.
Considerata la struttura antropologica dell'uomo, in cui la corporeit il necessario punto di
riferimento di ogni attivit personale dell'uomo dunque anche, e primariamente, della sua
coscienza , oppure, in altre parole: poich la percezione la base di ogni consapevolezza umana,
la consapevole 'presenza con gli altri nel mondo' dell'uomo il suo unico accesso all'esplicita ed
effettiva conoscenza di tutte le altre realt possibili. In questo senso, l'uomo conosce in primo
luogo solo il mondo tangibile e, cos, tutto ci che connesso e nella misura in cui connesso
con questo mondo tangibile. Vale a dire, in primo luogo, egli conosce se stesso e il suo simile
precisamente come esseri-nel-mondo. Successivamente, egli conosce Dio come creatore di questo
mondo e, eventualmente, Dio come egli si manifesta, in un'unica e benigna forma, in questo
mondo.
Ci significa che il mondo dell'esperienza umana l'unico accesso alla realt salvifica della
rivelazione e della fede. A questo riguardo, come potremmo noi dare ascolto ad una rivelazione di
Dio, come vi potrebbe essere una rivelazione per l'uomo, se questa rimanesse al di fuori della

nostra esperienza? impossibile per l'uomo conoscere o essere consapevole di realt che egli non
sperimenta, in un modo o nell'altro.
3) Auto-comprensione umana e ricerca religiosa dell'uomo.
Se consideriamo il pi profondo significato dell'essere creaturale dell'uomo, dobbiamo dire, altres,
che Dio stesso appartiene alla piena definizione dell'uomo. Ci vero per lo meno nel senso che
l'uomo, precisamente in quanto, come essere, vive attraverso la propria corporeit in un inondo di
suoi simili e di oggetti, una relazione trascendentale con Dio. Relazione trascendentale: vale a
dire, l'essenza stessa dell'essere relativo di per s una relazione. Poich tutto quanto il suo essere
una partecipazione di Dio, e proprio questa partecipazione ci che fa di lui un uomo, ne consegue
che la pre-riflessiva autocoscienza dell'uomo, evocata nella sua coscienza del mondo e degli altri
uomini, e attraverso di essa, per sua stessa natura una auto-coscienza religiosa. Essere presenti a
se stessi, l'intimo centro di un essere conoscente, cum ipsa anima naturaliter sit sibi
praesens (In I Sent., d. 3, q. 4, a. 4) significa stare per propria natura dinanzi a Dio, per quanto
inespressa possa essere questa presenza. L'io un essere che, in assoluta relazione a Dio, addita e
tende verso il mondo e gli altri uomini, e in quanto tale presente a se stesso.
Ogni auto-coscienza umana nel mondo e attraverso il mondo quindi fondata su di una
concomitante coscienza di Dio e da essa costituita. Potremmo dunque definire l'uomo in questo
modo: come un essere-con-Dio-in-questo-mondo-di-uomini-e-di-cose. L'umanizzazione di s nella
e attraverso la umanizzazione del mondo, insieme con gli altri uomini, quindi ancorata nel mistero
di Dio, che il fondamento di ogni cosa. Tutto ci implica che l'assoluta ed unica relazione con Dio
l'orizzonte fondamentale e con-consapevole delle e nelle nostre molteplici relazioni coscienti con
il mondo: questa relazione assoluta entra nella auto-coscienza umana attraverso le relazioni
riguardo ai nostri simili e al mondo. Per conseguenza, non possiamo separare questa relazione
assoluta con Dio dalle nostre relazioni storicamente condizionate, intra-mondane, con questo
mondo e con questi nostri simili. Quindi non possiamo formalizzare questa relazione con Dio e
astrarla dall'ordito e dalla trama storica della nostra esistenza. Rispetto a me stesso, Dio, il
trascendente, non ha altro fondamento se non la contingenza e gratuit della nostra esistenza storica.
Eliminare dal mio pensiero la mia esistenza contingente in questo mondo significherebbe eliminare
la base della mia affermazione del mistero di Dio, e quindi eliminare razionalmente l'affermazione
di Dio stesso. Da una parte, , naturalmente, del tutto chiaro che, per definizione, il Dio
assolutamente trascendente elude ogni diretta esperienza da parte dell'uomo; se non fosse cos,
allora, per definizione, egli sarebbe un non-Dio. D'altra parte, l'affermazione dell'esistenza di Dio
non pu essere la conclusione logica da una premessa che dapprima era in se stessa 'atea'. Da una
premessa atea non potremo mai trarre una conclusione teistica. Se Dio esiste, noi possiamo saperlo
solo attraverso la mediazione del mondo dell'esperienza umana, che per noi l'unica porta che dia
accesso alla realt. Non che ci sia nell'uomo una particolare e separata capacit, uno speciale
sentimento di Dio, attraverso il quale egli possa sperimentare Dio in qualche modo particolare, al di
fuori della generale esperienza umana dell'essere. Questa esperienza dell'essere presente nella
auto-coscienza umana, sulla base dell'incontro vivo dell'uomo con il mondo e con i suoi simili. In
questa esperienza vi un'implicita consapevolezza di qualcosa che sorpassa ogni umana esperienza.
Per conseguenza, ci che effettivamente percepito il dinamismo della realt contingente
sperimentata nel suo oggettivo riferimento al mistero costitutivo assoluto di Dio. La cosiddetta
'prova di Dio' solo l'esplicitazione riflessa di questo contenuto di esperienza. La realt stessa si
rivela all'uomo come realt-che-rimanda-a-Dio. Lo spirito umano non fa altro che seguire in un atto
proiettivo, per cos dire, le orme di questo dinamismo obiettivo come lo si trova nella realt stessa.
Facendo ci, lo spirito portato, non originariamente dalla sua propria proiezione, ma dal
dinamismo ontico, oggettivo della realt sperimentata, verso l'esistenza personale di Dio come il
mistero senza del quale il mio mondo di esperienza sarebbe intrinsecamente contraddittorio.
L'affermazione naturale di Dio dunque nient'altro che un'affermazione criticamente fondata sulla

base dell'umana esperienza che la nostra vita al sicuro nel mistero personale di Dio. Basandoci
unicamente su questo mondo, noi non possiamo, naturalmente, incontrare Dio in un autentico
rapporto interpersonale. Ma, poich, per definizione, il mistero pu essere posseduto solo in una
resa, l'interpretazione che l'uomo fa di se stesso nell'umana esperienza la radice di ogni religiosit,
vale a dire, l'apertura umana che pu essere sollevata, dalla grazia di Dio, ad una comunione
teocentrica, 'teologale', con il Dio vivente. (1)
La relazione di assoluta dipendenza dell'uomo rispetto a Dio permea tutte le sue relazioni con il
mondo e tutti i suoi incontri con gli altri uomini. Il suo essere, relazionale in tutte le direzioni, ha
anche una dimensione di profondit relazionale, un rapporto assoluto, e cio la relazione con Dio.
Per conseguenza, l'uomo relazionale sia assolutamente che relativamente, e di fatto in modo tale
che la relazione assoluta fonda e costituisce tutte le sue relazioni relative. Tutto ci presente
nell'esperienza umana pre-riflessiva, (2) anche se in gradi diversi (a volte anche in forma di rifiuto,
sia di Dio, sia del mondo, sia dei propri simili). Il nucleo di ogni esperienza umana questo:
mistero quale orizzonte della consapevolezza; un'auto-consapevolezza religiosa in questo mondo
storico di uomini e di cose, e attraverso di esso. L'uomo dunque un essere la cui vita, a tutti i suoi
livelli e nella sua intera esistenza storica, ha una dimensione religiosa di profondit. Ogni
interpretazione umana e, quindi, ogni rapporto relativo dell'uomo scaturisce da una relazione
assoluta che tutto comprende e che il fondamento di ogni significato umano. Questa relazione
fondamentale, assoluta non ci fornisce in alcun senso delle soluzioni a priori dei problemi
temporali, ma ci spinge a cercare le soluzioni e, al tempo stesso, ci d la garanzia che la nostra
ricerca di un significato relativo in questo mondo non in s priva di senso, anche se gradualmente
dilegua nel mistero.
Con queste osservazioni non intendiamo creare qualcosa di simile alla 'religiosit naturale' del
diciottesimo secolo, n vogliamo astrarre da tutte le religioni esistenti una specie di 'eidos religioso'
generale. La profondit religiosa della esperienza umana prende forma solo nelle situazioni storiche
del nostro mondo e dei nostri simili: non pu essere astratta da questo senza distruggersi.
L'accettare una specie di 'sostrato minimo' religioso generalmente valido mi sembra precisamente
un fraintendimento della vera struttura dell'uomo. Nell'uomo la dimensione religiosa solo una
dimensione di profondit della concreta condizione storica del suo essere situato nel-mondo-con-isuoi-simili. Ci naturalmente implica che ogni concreta immagine di Dio adempie alla sua funzione
in una determinata concezione del mondo. Dalla storia umana, da ogni storia umana in divenire, la
dimensione religiosa di profondit della coscienza umana prende la sua forma concreta. Comunque,
questa auto-consapevolezza religiosa pre-riflessa non pu mai essere adeguatamente 'colta' dalla
riflessione: essa continua ad eludere ogni auto-chiarificazione umana riflessa. Vale a dire: l'esistenza
umana non pu essere totalmente 'sottoposta ai raggi x' dal pensiero; non pu essere interamente
oggettivata. L'uomo, quindi, rimane un assoluto mistero per se stesso, cio, non semplicemente un
mistero provvisorio che, con il tempo, pu essere completamente chiarito. L'assoluto mistero di Dio
si riverbera e fluisce nell'intimo essere dell'uomo, il quale, in quanto partecipazione di Dio, potrebbe
essere spiegato pienamente solo se uno si potesse basare sul mistero di Dio. Perci, l'uomo non pu
spiegare adeguatamente la propria esistenza: egli sottratto e nascosto a se stesso. Il riferimento
all'assoluto mistero di Dio appartiene all'essere stesso dell'uomo. L'essere presenti a se stessi, l'autoconsapevolezza dunque, in ultima analisi, inevitabilmente un atto religioso. L'esistenza umana,
quindi, non lascia all'uomo la scelta di essere non-religioso: egli costretto dal suo proprio essere
ad essere religioso o irreligioso, ad amare o a rinnegare il proprio essere: e in entrambi i casi si tratta
di un'azione religiosamente rilevante. Stare di fronte a se stessi significa stare di fronte a Dio. Ma,
se stabilito che un uomo diviene presente a se stesso solo nel dono di s ai suoi simili, allora
dobbiamo concludere che questa positiva auto-consapevolezza religiosa concerne concretamente e
primariamente la profondit trascendentale dell'amicizia umana o dell'amore fraterno. Nella realt
della vita effettiva, l'affermazione pre-riflessiva di Dio la dimensione profonda di ogni
accettazione del proprio simile. Dio, realmente, che rende possibili i nostri rapporti interumani e
terreni. Perci questi rapporti umani hanno gi una rilevante e significativa relazione con la ricerca

religiosa dell'uomo, positivamente o negativamente. Dunque, 'natura' quale 'soggetto di grazia',


significa, di fatto: la persona umana, che per la sua stessa natura una ricerca religiosa esistenziale,
perch una creatura, e non pu dar ragione del mistero del proprio essere. La 'consapevolezza
naturale di Dio' espressa tematicamente nella cosiddetta 'prova di Dio' , e precisamente in
quanto immeritata realt che pu essere accostata in modo umanamente libero, cio, accettata o
rifiutata, per la vita o per la morte, una condizione intrinseca di ogni possibilit di rivelazione.
L'esigenza dell'abbandono al mistero della realt implicita nella natura stessa dell'essere umano.
Per conseguenza, la problematica religiosa non pu essere elusa, per lo meno nella coscienza preriflessiva dell'uomo.
II - IL NUOVO ORIZZONTE DELLA VITA E LA SUA ESPRESSIONE ESPLICITA
Logicamente, prima della rivelazione della fede, l'esistenza umana un mistero che non pu essere
pienamente spiegato, e quindi fondamentalmente una ricerca religiosa. E poich, come l'uomo
stesso, l'auto-comprensione si sviluppa entro la storia, la dimensione futura svolge una funzione
molto importante nella ricerca che l'uomo fa di se stesso. Abbiamo gi detto che l'assoluta relazione
con Dio una dimensione di profondit nelle relazioni umane storiche con i propri simili e con il
mondo. L'assoluto contiene una promessa per l'uomo che vive nella storia, e questa promessa
appare, sul piano dell'esistenza umana, come aspettativa o apertura verso il futuro, anche in
riferimento alla ricerca religiosa che l'uomo , e a cui non pu dare risposta da s.
Se ora, all'interno della storia umana una realt relativa appaiono non soltanto significati
relativi, ma, nel Ges storico, nel Cristo, appare e pu essere colto storicamente anche un
significato assoluto, allora questa , per sua stessa natura, una qualificazione interamente nuova
della trascendentale dimensione di profondit della nostra esperienza umana; allora, l'orizzonte
trascendentale della vita si sottrae, per cos dire, alla sua indistinta anonimit: allora, la relazione
trascendentale, per cos dire, lascia scorgere il suo volto: apre con violenza un orizzonte teologale
della vita. Questo nuovo orizzonte si fonda sulla attiva e universale volont salvifica di Dio, che
offre se stesso a tutti gli uomini, come dono gratuito. L'elemento dell'esperienza teologale, in cui il
Dio della salvezza quantunque indistintamente si offre come grazia, si manifesta dunque
fondato sulla 'grazia santificante', nella forma o dell'accettazione interiorizzante o del rifiuto
alienante. Quel che Tommaso chiama interna vocatio ad credendum (3) l'instinctus interior
invitans nos ad credendum e che in forma atematica traspone l'orizzonte trascendentale della
nostra vita in un orizzonte teologale, espresso tematicamente nella vita religiosa dell'uomo in
varie brancolanti e balbettanti confessioni di fede, e anche pi esplicitamente, per speciale
ispirazione di Dio, nella storia ebraico-cristiana della salvezza, di modo che nella Scrittura e nella
Chiesa del Cristo noi abbiamo una divina garanzia della veracit di questa espressione tematica. La
predicazione della Chiesa, la confessione di fede della Chiesa e il dogma cristiano sono il contenuto
esplicito della esperienza teologale, tutto questo sotto la guida di Dio, che lo ha portato ad
espressione tematica per mezzo dei profeti e specialmente per opera dell'uomo Ges. Teologale,
allora, significa che l'orizzonte trascendentale implicito della vita chiarito esso stesso nelle e
attraverso le realt categoriali, cio realt che esistono nella storia. (4) Il categoriale nella vita
creata, con il suo proprio significato mondano, fondato e costituito dalla relazione trascendentale
implicita con Dio. Comunque, nella vita teologale, cio, nella religione della rivelazione, le realt
categoriali manifestano immediatamente il mistero implicito di Dio, di fronte al quale l'autocomprensione dell'uomo si trovata impotente. Il categoriale diviene quindi la forma visibile che
interpreta il mistero di Dio. In altre parole: nella gratuita, assoluta comunicazione di s che Dio fa,
l'assoluto come mistero ci dato direttamente come orizzonte della nostra esperienza, tuttavia esso
pu ancora essere esplicitato solo in forme categoriali, e quindi solo indirettamente. Nella nostra
coscienza naturale l'interamente assoluto non ci mai dato direttamente; esso rimane una quo
coscienza, non una quod coscienza; in altre parole: esso rimane un orizzonte illuminante della
nostra coscienza-nel-e-attraverso-il-mondo-degli-uornini-e-degli-oggetti, e quindi l'incompreso e

incomprensibile sfondo del nostro dialogo con i nostri simili e con il mondo. Nell'auto-rivelazione
di Dio, al contrario, e dunque nella vita di fede, l'assoluto, pur rimanendo mistero, ci nondimeno ci
si accosta immediatamente: si d a noi direttamente come una dimensione di realt sperimentata,
sebbene ancora possa essere esplicitato solo indirettamente. In altre parole, nella fede, l'assoluto
non pi solamente 'sfondo', ma primo piano, anche se pu essere sperimentato solo nella fede e
quindi in una presenza velata da un'espressione tematica indiretta: una forma teologale di esistenza
o comunione con Dio, tematicamente espressa, comunque, attraverso fattori categoriali (concetti,
immagini e realt terrene). L'uomo pu divenire presente a se stesso persino in quella profondit
dove egli pu giungere alla esplicita affermazione naturale di Dio solo attraverso un mondo
profano di relazioni inter-umane sulla terra. Parimenti, l'uomo pu divenire presente a se stesso, a
quella profondit in cui gli viene interiormente rivolta l'offerta di grazia da Dio, solo se esce da s
per entrare in un mondo che non soltanto un mondo umanizzato o una storia umana, ma anche
una storia di salvezza. Solo in una storia di salvezza l'uomo diviene presente a se stesso in
comunione teologale con il Dio vivente.
Comunque, il mutamento dall'orizzonte trascendentale all'orizzonte teologale di vita ha modificato
intrinsecamente questa espressione indiretta: l'assoluto dato allora direttamente nel suo intrinseco
mistero. Cristo il Figlio di Dio. In virt di questo fatto, la religiosit non pi ristretta al carattere
religioso dell'esperienza della stessa realt terrena, ma trova anche il suo proprio campo di
esperienza: nella predicazione, nelle riunioni liturgiche, e cos via.
Il fatto della rivelazione significa che Dio stesso rivela, apre all'uomo la profondit religiosa
dell'uomo stesso. Significa che egli rivela l'uomo a se stesso, definisce, per cos dire, ci che
l'essere umano dovrebbe essere. Ma egli fa questo precisamente rivelando il fondamento assoluto
dell'essere dell'uomo, cio se stesso, Dio. E si rivela spalancando, rivelando all'uomo la dimensione
di profondit dell'uomo stesso. Per conseguenza, la rivelazione raggiunge l'uomo proprio
nell'intimo centro della sua auto-comprensione. Rivelazione della salvezza e divina chiarificazione
dell'umana auto-conoscenza sono correlative: Dio delinea la 'teo-logia' rivelando una 'antropologia'; rivela l'antropologia delineando la teologia.
Quindi in un solo e medesimo soggetto l'uomo si compiono l'auto-conoscenza storica e la
rivelazione divina dell'uomo a se stesso, mediante l'assoluta comunicazione di s da parte di Dio.
Ci avviene in modo tale che la rivelazione presuppone, come condizione del proprio significato, la
ricerca di s da parte dell'uomo. L'esplicitazione e l'espressione tematica degli elementi
dell'esperienza teologale prendono immediatamente forma in proposizioni, espressioni ed
immagini, tratte dalla comune concezione e visione del mondo che l'uomo ha. L'auto-conoscenza
umana , in tal modo, una dimensione interiore della rivelazione stessa. Una volta ricevuta
dall'uomo la rivelazione si trasforma naturalmente in teologia pre-riflessa, riflessa, o teologia
metodica e scientifica. E questo passaggio un elemento intrinseco della stessa fede dell'uomo. Per
conseguenza, la dogmatica teologica deve tenere il passo con l'auto-conoscenza storicamente
condizionata dell'uomo, per lo meno se la predicazione della fede cristiana vuol dare risposte
esistenzialmente rilevanti ai problemi dell'esistenza umana. Ma c' di pi. Per virt della volont
salvifica universalmente attiva di Dio, non c' pi una vita umana puramente naturale: dovunque si
trovano degli uomini, la loro vita determinata da un orizzonte-di-vita teologale che essi hanno (sia
pure implicitamente) accettato o rifiutato. Di conseguenza, l'esperienza concreta dell'esistenza
realmente un locus theologicus, perch quell'esperienza inevitabilmente implica una prospettiva
cristiana della vita, sebbene forse atematica. Perci, anche l'auto-conoscenza filosofica anche se
interpretata in una prospettiva ateistica , di fatto, un locus theologicus per il credente, e non
soltanto un estrinseco usus philosophiae in S. Doctrina. Ci nondimeno, resta vero che l'esistenza
umana che Ges, il Cristo un'esistenza che deriva dal popolo di Dio dell'Antico Testamento,
modellato dalla piet biblica, e dalla sua auto-consapevolezza che interpreta l'esperienza umana
attraverso l'incondizionato abbandono a Dio e ai propri simili , quell'esistenza umana del Cristo
l'unico locus theologicus autorizzato. Quindi, l'esperienza umana dell'esistenza come locus
theologicus legittima e valida solo fintanto che essa commisurata alla norma non normanda,

cio, all'esistenza umana del Cristo, il Figlio di Dio, in conformit con la testimonianza apostolica
della sacra Scrittura.
Tutto ci indica come profondamente l'immagine dell'uomo, storicamente condizionata e quindi in
evoluzione, il mondo e l'auto-conoscenza umana invadono l'esplicita fede cristiana quale
espressione tematica del contenuto di un elemento di esperienza teologale che, in s, rimane
irrevocabilmente atematico. Vi un buon detto tomistico che afferma che la confessione di fede non
termina nell'espressione dogmatica del contenuto di fede, bens nella stessa realt di salvezza:
Actus credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem. (5) In risposta alle due tendenze che
stava considerando una delle quali sosteneva che la fede si riferisce direttamente alla
formulazione, all'espressione intelligibile della fede, mentre l'altra diceva che l'affermazione di fede
raggiunge la stessa realt di salvezza (6) , Tommaso ha detto, per lo meno nella sua sintesi
definitiva quale si trova nella Summa, che vi della verit in entrambe queste tendenze. (7) Il
giudizio umano raggiunge la realt stessa, ma in modo tale che questo contatto intellettuale con la
realt rimane implicito nel giudizio: reso esplicito concettualmente, ma in questo modo
l'esperienza concreta della realt espressa solo fino a un certo punto e inadeguatamente. Bisogna
dire che i nostri concetti di fede, e la nostra esplicita confessione di fede, possono afferrare la realt
solo nell'elemento di esperienza teologale che realmente ma inadeguatamente espresso nella
confessione di fede. La verit, quindi, contenuta non soltanto nell'esperienza pre-riflessiva
implicita: se colta in quell'elemento, la verit raggiunta anche nei dati della fede formulati dalla
riflessione. Comunque, questa formulazione non pu mai afferrare n esaurire completamente il
contenuto pre-riflessivo della fede. La storia ebraico-cristiana della salvezza precisamente la
storia, compiutasi sotto la direzione di Dio, dell'esplicitazione dell'esperienza teologale che in s
implicita e atematica. A questo livello, Dio come assoluto dono di s sperimentato nella fede.
Comunque, la distinzione tra 'natura' e 'soprannatura', tra l'orizzonte di vita trascendentale e quello
teologale, non mai esplicitamente percepita nell'esperienza; questa distinzione diviene
riflessamente esplicita solo attraverso la rivelazione e l'auto-conoscenza cristiana riflessa.
III. - CONTINUA REINTERPRETAZIONE DEL DOGMA NELLA FEDELE OBBEDIENZA
AGLI ATTI SALVIFICI E ALLA PAROLA DI DIO
A causa della situazione storica dell'auto-conoscenza umana e del contenuto storico della
rivelazione cristiana, la confessione cristiana di fede e la sua espressione tematica nella teologia
esistono anch'esse nella storia. Perci, la primissima questione della riflessione teologica rimane
questa: che cosa ci dice la parola rivelata di Dio in quanto vive nella Chiesa ed autenticamente
interpretata dal magistero ufficiale della Chiesa? Ma ci inganneremmo malamente se
concludessimo, dunque, che il teologo dovrebbe prima 'mettere tra parentesi' il pensiero
contemporaneo allo scopo di determinare in anticipo che cosa precisamente rivelato e solo poi, in
un secondo stadio, tradurre ci in linguaggio contemporaneo. Questo semplicemente impossibile.
Il pensiero contemporaneo procede di pari passo con l'esame, per esempio, di ci che il dogma
tridentino della grazia della giustificazione o il dogma della transustanziazione significano per noi.
Ogni tentativo di 'mettere tra parentesi' questa moderna problematica esclude a priori una precisa
interpretazione, per esempio, di questi dogmi tridentini. La traduzione medioevale del mistero della
fede non fu un problema per l'uomo del medioevo: un problema per me, poich io vivo in un altro
clima intellettuale e la mia auto-conoscenza diversa da quella di chiunque nel medioevo. Io non
posso valutare correttamente il significato dogmatico degli antichi concili, se agisco come se la
storia si fosse fermata dopo Calcedonia o Trento: come se io, un cattolico credente ma anche un
uomo del ventesimo secolo, non fossi diverso dall'uomo dell'antichit o da quello del medioevo,
diverso anche nel mio credere; come se la fede cattolica rimanendo identica a se stessa attraverso
la storia non fosse coinvolta nella storia. Se cos fosse, la mia fede sarebbe un preoccuparsi solo
di documenti e monumenti, e non dell'opera escatologica della salvezza di Dio che si rivelato a

noi precisamente nella storia dell'umanit in cerca di se stessa; si rivelato a noi come Theos pros
hemas, come Dio-per-noi, nell'uomo Ges, il Cristo: Figlio di Dio.
La storia della teologia ci insegna che la ripetizione puramente materiale di una formulazione della
fede che fu elaborata in un altro clima intellettuale sempre pericolosa; in ogni caso, difficilmente
possiamo allora parlare di una vivente ed esistenzialmente rilevante affermazione di fede. D'altra
parte, non troviamo mai la parola di Dio l'tat pur. Espressioni quali 'il rivestimento del dogma',
per quanto corrette se si riflette sulle primitive formulazioni, sono per ingannevoli, in ultima
analisi. Danno l'impressione che si possa 'vestire' e 'spogliare' un dogma con la facilit con cui le
bambine giocano a vestire le bambole. Ci che per noi ora una mentalit antiquata, un'antiquata
immagine dell'uomo e del mondo, tanto che noi possiamo fare una distinzione, nella fede del
passato, tra ci che era effettivamente affermato e ci che era solo la forma dell'espressione, il
rivestimento di quella fede, fu, nei secoli passati, una questione di vita o di morte, una questione di
'essere o non essere' nell'affermazione della fede stessa. Sebbene ogni pensatore debba essere
costantemente consapevole dell'insufficienza e dell'inadeguatezza del proprio pensiero, non
possiamo aspettarci da un uomo, che esiste in un determinato clima di pensiero e di autointerpretazione, che egli metta da parte il suo proprio pensiero (la sua stessa carne e il suo stesso
sangue) ed anticipi la storia. Mettere da parte il proprio modo di pensare equivarrebbe a rifiutare di
considerare significativo il mistero della fede. In passato, nessuno avrebbe potuto pensare la fede o
esprimerla in modo diverso da come fecero: con le loro maniere di esprimerlo, il dogma rimaneva
in piedi o cadeva... per loro. Essi non erano esplicitamente consapevoli di questo aspetto di
'rivestimento', e non avrebbero potuto esserlo. Non erano nelle condizioni adatte.
Solo quando il clima intellettuale comincia a cambiare e l'uomo perviene ad una diversa autoconoscenza in questo mondo, solo allora ha senso sollevare la questione dell''aspetto di
rivestimento' della pi antica formulazione di dogmi, che nel loro nucleo centrale rimangono
immutabili. Via via che la storia umana procede, i testi del passato raggiungono una nuova
pienezza. Per questa ragione, ogni generazione pu cominciare di nuovo a studiare, per esempio,
Platone o Agostino: il passato continua a vivere in un modo nuovo, e in modo tale che il senso e il
significato platonico o agostiniano originale delle loro opere raggiunge veramente una nuova
pienezza interiore. quindi una questione di esegesi, non di inegesi. Perci, la rilettura e
reinterpretazione della Bibbia parimenti non mai finita. La sacra Scrittura, riletta in ogni
generazione della Chiesa, ormai da duemila anni, rivela in tal modo il suo significato solo a poco a
poco, grazie all'illuminazione che avviene quando il passato e il presente si incontrano, aperti verso
il futuro.
Poich la fede adempie le sue funzioni nell'auto-conoscenza umana, e poich sia la riflessione che
l'auto-conoscenza del credente si incontrano, per cos dire, nella stessa storia, noi non possiamo
cogliere il preciso contenuto della fede, per esempio, di un dogma tridentino, se, da una parte,
volessimo 'ricostruire' il pensiero tridentino escludendo le antiche (nel caso: le tridentine) categorie
essenziali in cui allora la fede era significativamente considerata, e se, d'altro lato, volessimo
'lasciar da parte' la nostra nuova, attuale, auto-conoscenza. Una esposizione del ventesimo secolo
del contenuto della fede come esso fu espresso, per esempio, nel concilio di Trento, implica quindi
che uno identifichi se stesso e rivaluti il particolare contenuto di fede, perch anche questo non
possiamo mai afferrarlo l'tat pur.
Questi principi ermeneutici sembrano essere particolarmente importanti per l'ecumenismo. Un
dogma irrevocabile e non se ne pu disporre. Ma pu essere assimilato in una nuova autoconoscenza, acquistando in tal modo anche una nuova e diversa funzione nell'insieme della totalit
della fede. E nessuno pu vedere in anticipo quali conseguenze ci potr avere. Presupporre la
possibilit di tener conto anticipatamente degli sviluppi culturali nella auto-conoscenza
implicherebbe la negazione della genuina storicit all'interno dell'identit dinamica del dogma. Il
concilio Vaticano II ci ha gi mostrato come l'irrevocabile dogma cattolico, assunto in una nuova
auto-conoscenza e in nuove categorie formali di pensiero, ha realmente avvicinato i cristiani gli uni
agli altri. Gli uomini stanno ora giustamente cominciando a cercare i fattori non-teologici che

hanno accresciuto l'abisso tra cristiani e reso pi difficile il ristabilimento dell'unit. Giustamente.
Ma, a mio parere, anche pi urgentemente necessario reinterpretare l'irrevocabile dogma
cattolico, di modo che il suo originale, irrefutabile significato cominci ad operare esistenzialmente
nella nuova auto-comprensione contemporanea. Una 'riscrittura', per esempio, dell'intero dogma
tridentino alla luce dell'auto-espressione umana contemporanea significherebbe, a mio parere, un
enorme passo in avanti nel senso ecumenico. Personalmente, avevo sperato che ci sarebbe stato
fatto dal concilio, ma evidentemente il tempo non era maturo per questo.
Anche prescindendo dall'importanza ecumenica, urgente che, all'interno della Chiesa, noi
cattolici permettiamo alla fede di svolgere la sua funzione in questa nuova auto-conoscenza. Un
dubbio manifesto circa le rappresentazioni della fede che non sono state risolte nella confessione
di fede proporzionata ad una conveniente immagine dell'uomo e del mondo, pu, a lungo andare,
cominciare a corrodere la stessa confessione di fede della Chiesa: proprio come ora vediamo
accadere dappertutto intorno a noi, nelle difficolt di fede con cui specialmente i giovani stanno
lottando.
Ho stabilito qui soltanto dei principi generali. Possano essi essere sufficienti a stimolare tutti i
teologi a lavorare pi sodo che mai, affrettando cos il processo di ricerca di risposte
esistenzialmente valide, nella fede, ai problemi reali.
1) II termine 'teologale' un neologismo che si riferisce alla comunione con il Dio vivente. Questa
comunione sorpassa le capacit 'naturali' dell'uomo ed possibile solo mediante la gratuita autocomunicazione di Dio. Per conseguenza, esso equivalente al termine tradizionale 'soprannaturale'
che, d'altronde, si riferisce esplicitamente solo al superamento dei poteri umani. Preferisco quindi il
termine 'teologale' per esprimere questa reciproca comunione o intersoggettivit tra Dio e l'uomo.
L'uso di 'teologale' distinto qui da quello di 'trascendentale', che si riferisce alla dimensione di
profondit implicita nella 'natura' (come spiegato nel testo), cio la natura dell'uomo di per s
una relazione trascendentale con Dio.
2) Esperienza 'atematica' si riferisce ad una esperienza primaria del profondo, a cui ci si riferisce
nel testo come 'pre-riflessa' e/o 'atematica', intendendo che questa esperienza e la realt che
sperimentata non possono essere adeguatamente espresse o 'oggettivate' in ci che chiamiamo
espressione 'tematica'. Questa espressione 'tematica', a sua volta, significa l'esplicitazione riflessa,
in concetti, immagini e realt storiche, di quella esperienza primaria del profondo.
3) Sum. theol. II-II, q. 2, a. 9, ad 3; Quodl. II, q. 4, a. 6, ad/et 3.
4) Il neologismo 'categoriale' si riferisce in generale alle esistenti realt create di questo mondo e
della storia. usato qui come distinto da 'teologale', che stato spiegato sopra (cf. n. 1).
5) Sum. theol. II-II, q. 1, a. 2, ad 2.
6) L. c. in c.
7) Et ideo utrumque vere opinatum fuit apud antiquos (II-II, q. 7, a. 2, c).

Joseph Sittler
IL PROBLEMA PRINCIPALE
PER LA TEOLOGIA PROTESTANTE OGGI
Il titolo di questo breve saggio, 'Il problema principale per la teologia protestante oggi', contiene
certe ipotesi che dovrebbero essere esaminate fin da principio. Il termine 'teologia protestante', se
considerato come designativo della teologia che i protestanti effettivamente producono, abbraccia
un arco che si estende dal continuo lavoro, biblicamente orientato, di natura molto seria e
rispettabile, da una parte, fino a formulazioni teologiche biblicamente centrate ma radicalmente
critiche dall'altra, queste ultime derivanti principalmente da riflessioni suscitate dalla forza del
problema ermeneutico al centro dell'interpretazione biblica. Chiunque voglia fare un rapporto sulla
teologia protestante deve pronunciare un giudizio; e questo giudizio sarebbe inevitabilmente
attaccato dall'interno della famiglia protestante.
La seconda ipotesi, che, cio, si possa fiduciosamente specificare che cosa, all'interno dell'arco a cui
si alludeva, si rivolga alla mente del teologo protestante con tale urgenza da richiedere che la sua
ricerca costituisca per lui il compito principale, anch'essa un'ipotesi pericolosa. Chiunque
proponga un giudizio sull'argomento sar costretto a difendere il proprio giudizio. Questo
pericoloso modo di vivere fra i teologi protestanti, pur privandoli della serenit che il loro cuore
desidera, stato, ci nondimeno, e in maniera curiosa, una delle componenti pi vivaci nel lavoro
teologico protestante, da Schleiermacher in poi. La fede cristiana (1823), per esempio, consegna il
suo messaggio nel corso della difesa, che fa, della proposta che il giudizio adottato circa il metodo
sia, in effetti, quello giusto. Basta soltanto studiare i magnifici saggi di Karl Barth sulla Teologia
protestante nel diciannovesimo secolo per rendersi conto di quanto profondamente il problema della
metodologia teologica abbia dominato, nell'ultimo secolo e mezzo, lo sforzo teologico protestante.
Ma, dopo aver richiamato alla nostra mente la difficolt dell'empio termine teologia protestante, e
dopo aver visto che la ricerca metodologica cos a lungo affrontata dai pensatori protestanti una
specie di ammissione che la designazione del compito concreto per la teologia oggi ugualmente
difficile, non per questo si esentati dalla necessit di compiere un giudizio: si soltanto pi cauti e
pi perplessi nei propri sforzi per farlo. Mi propongo, fra un momento, di dire chiaramente quale
penso che sia questo compito. Ma alcune considerazioni devono precedere tale affermazione. La
prima considerazione questa: nonostante la gamma e la veracit del pensiero protestante nei
quattrocentocinquant'anni dalla Riforma, persiste in esso un centro che non pu essere sostituito,
perch questo centro non stato scelto arbitrariamente: stato costituito come centro precisamente
in virt di quello sforzo di riformare la Chiesa riguardo a ci che si affermava essere il nucleo e la
sostanza del Vangelo. Quando, dunque, un teologo protestante riflette sul compito della teologia in
ogni epoca, egli ha l'obbligo di stare criticamente in questo centro, di indagare e reindagare nella
Scrittura, nella storia, e nell'effettiva vita di fede, per essere sicuro che quel punto di partenza sia di
fatto quello giusto, e, con una convinzione e un'obbedienza rinnovate di continuo, elaborare per le
generazioni che passano, e con tutta la profondit, urgenza e pertinenza possibili, un'interpretazione
della fede cristiana. E inoltre, quando un teologo protestante sta nella corrente principale della
Riforma, egli ricorda se realmente deve ricordarlo! che le comunit ecclesiali della Riforma
sono nate attraverso l'azione di uomini che erano figli della Chiesa. Questi uomini erano
riformatori, non ribelli; la loro intenzione come figli della Chiesa era di celebrare, nel nome della
Chiesa e per amore della Chiesa, la verit del Vangelo per la retta obbedienza e la pi piena verit
della Chiesa cattolica.
Questo ricordo non solo un ricordo! un fatto teologico che oggi complica ulteriormente lo
sforzo di specificare in termini strettamente protestanti, e da un punto di vista strettamente
protestante, il compito attuale. Perch se l'idea di una tradizione teologica consapevolmente in
polemica con il cattolicesimo romano deve essere modificata da tale ricordo, e da tale pratica, gli

eventi degli ultimi cento anni hanno ulteriormente qualificato la legittimit di un compito teologico
radicalmente protestante. In questa affermazione sto pensando semplicemente ad eventi che sono
penetrati in entrambe le tradizioni a tale profondit e con tale forza di trasformazione da metterle
entrambe di fronte a compiti teologici cos nuovi ed urgenti da indurli ad un lavoro comune che pu
essere forse pi determinante di quanto il loro passato diviso si sia cristallizzato nella divergenza, o
di quanto le loro diverse conclusioni di un remoto dibattito siano ancora pertinenti. Tali eventi, in
quanto hanno permeato entrambe le tradizioni possono essere chiaramente visti e precisamente
affermati: un notevole allentamento nelle antiche alleanze del metodo teologico con questa o quella
tradizione filosofica; la grande incidenza che hanno avuto nella formazione di idee fondamentali e
di termini teologici, il mondo del pensiero cos vivace, cos illuminante e cos ricco di succhi
biblici, il mondo del linguaggio, il mondo dell'esperienza del rapporto tra Dio e l'uomo, il mondo
delle relazioni di solidariet umana, il mondo-come-storia, il mondo-come-natura; il graduale ma
inesorabile riflesso che ha avuto sul metodo teologico la mutata situazione in cui la Chiesa e il
mondo si affrontano; l'attuale situazione apologetica che obbliga il teologo (e il predicatoretestimone) a proporre al mondo la verit della fede cristiana nel contesto criticamente rigoroso delle
varie discipline sperimentali.
In che misura il modo di intendere il compito teologico protestante, che ho cercato di descrivere, sia
caratteristico della vita comune delle comunit 'ecclesiali' non-romane questione a s stante. Ma io
penso che, nell'insieme, nei teologi pi responsabili esso sia proprio come l'ho descritto. Un
giudizio, dunque, cos qualificato, circa il compito peculiare della teologia protestante oggi. Ma con
quanta riluttanza si pronuncia un simile giudizio! Riflettete un momento sulla parola: giudizio! Tale
riflessione non osa essere eccessiva per paura...
di lasciarsi contaminare dal pallido colore del pensiero e di perdere il nome di azione!
Un giudizio un annunzio alla fine di una riflessione. Se uno ricorda gli elementi pazzamente vari,
accidentali, non-consecutivi che costituiscono la riflessione, riceve una salutare lezione di umilt
teologica! Perch in ogni giudizio pronunciato intorno a fatti e forze storico-religiosi uno mette in
evidenza alcune cose e ne lascia indietro altre. Lo fa, non perch sia tentato di far congetture in virt
di qualche celestiale elevazione al di sopra degli accidenti di tempo, luogo, circostanze, esperienza
personale, natura e disposizione, affinit personali, ma in funzione di questi. Non intratur in
veritatem nisi per caritatem. In un semplice senso di concretezza quotidiana questo vero,
sebbene in un contesto diverso da quello che Agostino intendeva nel suo epigramma. Perch c' un
mistero che deve richiamare l'attenzione della mente. Noi amiamo, ci dedichiamo all'amore, siamo
mossi dall'amore, le nostre risorse emozionali sono agitate da mali, bisogni, alterazioni, e da
particolari minacce alla salute della vita umana. E la pratica della discussione teologica sarebbe uno
scambio pi sereno, pi umano, se, in una pi conveniente umilt, noi avessimo costantemente
riconosciuto tutto questo. Il principale compito della teologia protestante oggi di imparare a
proporre la grazia a una mentalit che eccessivamente modellata da transazioni sempre pi
profonde e pi ampie con il mondo-come-natura. Come le menti degli uomini tendono a seguire le
sorti dei loro corpi con una assoluta seriet, cos l'arco delle possibilit, la serie delle riflessioni,
l'agenda delle relazioni vitali, e la sufficienza delle antiche forme del conoscere, tutto questo
soggetto ad ampliamento o a restrizione in un tempo in cui i programmi intellettuali pi interessanti
e pi creativi sono connessi agli atti dell'uomo-natura.
Un saggio recente parla della nostra 'cultura' come 'ageric' (dal latino agere, agire), indicando cos
una cultura che fa una distinzione tra passivit e attivit, ed insiste sull'azione come sul modo di
comprendere il tempo. Questo modo di vedere la realt soprattutto caratteristico del nord-America
e dell'Europa settentrionale. In altre culture non si fa distinzione tra essere passivi ed essere attivi. Il
tempo passa in ogni caso, e non fa differenza se si fa qualche cosa o no. Ma gli americani e gli altri
moderni 'ageric' sono differenti. Noi dobbiamo lavorare per farci strada. Non andiamo avanti
automaticamente (Sellers James, The Almost Chosen People, Journal of Religion, The University of
Chicago, vol. XLV, n. 4, 1965).

Fino a che punto la riflessione intorno alla natura, alla struttura, ai bisogni, alle possibilit dell'io
permeata da questo postulato generalmente acritico, si fa evidente, per esempio, nel crescente
dibattito sulla proposta di un salario annuo garantito a tutti i cittadini adulti negli Stati Uniti. Il
dibattito non si accentrato sugli aspetti economici, sociali o legali della proposta ma sull'aspetto,
che si afferma essere una minaccia alla vita morale, inerente alla proposta. Il postulato, ritenuto cos
chiaro e forte da non essere discutibile, che il pi profondo significato dell'uomo, un riflesso
dell'Imago Dei, si trova e insieme si realizza nelle sue relazioni operazionali con le potenzialit del
mondo-come-natura. Gli uomini contemporanei, in una societ tecnologica, hanno cos
assolutamente fuso ci che i teologi chiamano antropologia con l'identit operazionale che problemi
di essenza non si possono nemmeno porre in termini diversi da quelli che determinano l'essere come
fare.
Della genesi e dello sviluppo di questa modalit culturale non possibile parlare in questo
momento; non solo possibile ma necessario indagate quali critiche del tradizionale insegnamento
cristiano siano in essa implicite, quali compiti essa proponga alla riformulazione teologica, ed anche
per pensare gi alla sua pi ampia implicazione quale reinterpretazione dell'escatologia essa
possa esigere. Non sembra casuale il fatto che nessuna tradizione nella teologia cristiana abbia
preso in esame la massiccia dose di modificazioni nell'antropologia provocata dall'uomo 'ageric'; e
gli studi teologici che cercano di affrontare questo compito rimangono concettualmente rinchiusi in
una terminologia di tempi passati, e spesso degli uomini occupati in sforzi congiunti, come quello di
modificare profondamente le nozioni convenzionali di vita privata, individualit, lavoro, comunit.
Il documento conciliare La Chiesa nel mondo contemporaneo giustamente designato come
costituzione pastorale. precisamente questo: il suo scopo di articolare la consapevolezza della
Chiesa circa le realt della vita comune,
alla quale la Chiesa, dal punto di vista pastorale, desidera e deve imparare a riferirsi. La costituzione
saggia e generosa, a volte penetrantemente diagnostica nella sua indagine. Ma rimane, come forse
richiedevano le limitazioni che si imposta, quasi completamente descrittiva. Questa definizione
non intesa come una critica: una chiara visione la condizione preliminare di un'appropriata
formulazione teologica.*
Ma formulazione e riformulazione teologica vi devono essere; e se l'impegno descrittivo inteso
come prolegomeno e di per s sollecita una pi profonda analisi teologica, il pi vasto compito del
rinnovamento ben servito. Se, dunque, si cerca di stabilire il principale compito teologico che ne
deriva ispirato, stimolato da una siffatta costituzione , quale rubrica ampia abbastanza da
ordinare e contenere i nuovi concetti che esso implica? Non un caso che la dottrina della
creazione, negli sforzi teologici degli studiosi sia cattolici romani sia cattolici non romani, sia
proprio al centro dell'attenzione. Un tale movimento significa chiaramente che i rapporti dell'uomo
con il mondo-come-natura non sono adeguatamente governati dalla fede cristiana quando la
gratuit, il significato, il finalismo e il destino della creazione sono elaborati sotto il capitolo della
redenzione. Il mutamento di ordine verificatosi riguardo agli argomenti teologici durante la storia
della teologia sempre ricco di significato. La decisione del concilio per esempio, di collocare la
sua dottrina riguardo a Maria nella costituzione sulla Chiesa qualcosa di pi di un vantaggio
nell'indice dei contenuti o di un espediente per ridurre il numero degli schemi.
L'attuale interesse per la dottrina della creazione pu essere facilmente spiegato. Con una singolare
e sorprendente velocit, la penetrazione nella natura e nel processo del mondo fisico arrivata di
corsa, dai brancolanti sforzi del tardo medioevo fino all'attuale metodo scientifico, in virt del quale
il macrocosmo ha svelato le sue profondit allo sguardo dell'uomo. Il cosmo, dall'infinitamente
lontano e immenso all'incredibilmente piccolo, si rivela ancor pi complicato, cos pieno di mistero
che si concepiscono seri dubbi quanto ad una corrispondenza intellettuale tra la mente e la realt
spazio-tempo. Ma esempi di coerenza sono nondimeno visibili; e la scienza, producendo una
enorme tecnologia, ora progredita al punto in cui operazioni pratiche sulla natura, costruite su
modelli prossimi di una possibile realt, hanno trasformato le condizioni della vita umana sulla
terra.

Gli effetti di questa trasformazione, sempre pi esponenziale, sull'io personale considerato in se


stesso e nella matrice delle relazioni sociali, e nelle nuove forme di auto-realizzazione imposte dalla
gestione associata dell'esistenza economica e civile, rendono assolutamente necessaria
un'antropologia attenta a tutto ci. Questa stessa trasformazione impone alla teologia cristiana il
compito di riesaminare ogni termine fondamentale del suo vocabolario, scoprendo questi termini in
uno scambio contrappuntistico tra la parola di Dio, le ricchezze del pensiero cristiano delle origini,
e i bisogni, i pensieri, lo spazio operativo di uomini per i quali una struttura geocentrica di pensiero
non pi possibile, e le cui nozioni di storia sono complicate da ci che Carl von Weiszcher,
Teilhard de Chardin ed altri hanno spiegato come una simbiosi natura-storia di incredibile
ricchezza. Mentre le menti degli uomini seguono lo sguardo dei loro occhi nello spazio inter-stellare
e sub-atomico, non ci si pu aspettare che problemi di fini, processo, significato e individualit
possano essere affrontati da energie teologiche proposte in categorie adatte a un tempo pi
primitivo, in un universo pi semplice.
Su uno sfondo del genere, sarebbe ridicolo supporre che qualsiasi programma suggerito per il
lavoro teologico richiesto da mutamenti di tale portata possa esser chiamato 'protestante'! In realt,
pu accadere che l'unit della Chiesa di Cristo si compia, non cos, direttamente per i nostri sforzi di
ritrovare un comune passato in un nucleo comune, ma piuttosto sia concessa come un dono alla
nostra obbedienza intellettuale, morale e missionaria, mentre noi facciamo insieme la nostra strada
verso l'indistinto futuro, come un pellegrinaggio assistito dalla grazia.
Vi , comunque, in un dato senso, un compito particolare dei teologi protestanti: esso pesa con una
particolare urgenza sulla loro comunit teologica. La dottrina della grazia, quale dottrina elaborata
dai riformatori del sedicesimo secolo, fu caratterizzata da un fuoco cristologico, da una vitalit e da
una libert che incessantemente premono ai margini di ogni altra dottrina: rivelazione,
ecclesiologia, sacramenti. precisamente la concentrazione del pensiero protestante sulla divina
libert della grazia che ha reso creativamente difficile per il cristianesimo protestante raggiungere
quella chiara definizione nelle affermazioni dottrinali, la cui mancanza la teologia cattolica romana
ha notato, e spesso deplorato. un interessante campo di riflessione quale relazione sussista tra
l'estesa teologia sacramentale cattolica romana, gli sviluppi della mariologia, e gli sforzi della
teologia cattolica romana per contenere entro la dottrina sistematica il potere, la presenza, le energie
continuamente creative della grazia.
La sostanza e la portata di ci che io considero come il nostro compito comune, e forse, in un senso
limitato, peculiarmente protestante, pu essere riepilogato in una serie di domande.
1. Che relazione c' tra l'impegno dell'uomo contemporaneo nel mondo e nella natura e la dottrina
della grazia classicamente elaborata, nella sua forma occidentale, che questa dottrina ricevette da
Agostino?
2. Quali sono le dimensioni bibliche del significato e del potere della grazia di Dio che 'venne in
Ges Cristo'? e sono state queste dimensioni rivelate in misura adatta ad un tempo in cui problemi e
bisogni trascendono l'interpretazione della grazia come perdono, restaurazione, azione divina per
una colpa morale?
3. Se la dottrina della creazione, nel corso dei rapporti d'Israele con il suo Dio, segu la dottrina
della divina redenzione divenne, per cos dire, una celebrazione religiosa, in termini assoluti,
della potenza e della divinit di Dio , non possibile che la realt di grazia che cristianamente noi
conosciamo come centrata in Ges Cristo debba ora essere elaborata ad una portata cosmica, e
riconosciuta inerente, come potenza, presenza, divinit di Dio, nella creazione, particolarmente
nella creazione trasformata tecnologicamente?
4. Se alle pi antiche designazioni dell'uomo come homo sapiens, homo politicus, homo ludens,
ecc., dobbiamo ora aggiungere il termine homo operator per riconoscere in che misura la
personalit e l'identit sono specificate dai nuovi impegni con la natura e dalle nuove trasformazioni
della natura, non urgente che la suprema ricchezza della cristologia, il fine che egli manifest in
Cristo come un disegno per la pienezza dei tempi, di unire tutte le cose in lui, le cose nel cielo e le
cose sulla terra (Ef. 1,10), sia ora nuovamente e pi ampiamente dichiarata all'uomo

amministratore del mondo, affinch la conoscenza e le operazioni secolari possano essere


'cristologicamente' interpretate ed eticizzate, e alla fine questo potere che si moltiplica possa essere
protetto contro la catastrofe e quel potere e quella promessa possano essere riconosciuti come un
immenso teatro per la lode della sua grazia gloriosa (Ef. 1,16)?
* Cf. Schillebeeckx, Rahner, Chenu..., La Chiesa nel mondo contemporaneo, Queriniana, Brescia
19672.

Johannes Baptist Metz


LA CHIESA E IL MONDO
Perch il preciso punto di vista, da cui questo argomento sar trattato, sia chiaro, sono necessarie
alcune osservazioni preliminari.
Primo: per il teologo i concili non sono mai un compimento, di cui egli possa contentarsi, ma
piuttosto un inizio. Essi mettono in luce nuovi compiti e, per conseguenza, non diminuiscono ma
accrescono la responsabilit teologica. Perci, sebbene possiamo ammirare il progresso fatto dal
concilio Vaticano II, non ci devono sfuggire i suoi limiti e il suo carattere contingente. Per esempio,
non ha la Chiesa in questo concilio parlato troppo esclusivamente di s, in maniera narcisistica,
guardando in uno specchio, piuttosto che, attraverso una finestra aperta, nel mondo, per trovare la
sua vera espressione? Pi ancora, poich la Chiesa evidentemente non ha parlato di tutto ci di cui
avrebbe potuto e dovuto parlare, sarebbe falso e pericoloso se i teologi si limitassero, nei prossimi
cinquant'anni, ad un semplice commentario sulle varie costituzioni di questo concilio. Per questa
ragione, le mie considerazioni su 'La Chiesa e il mondo' si concentreranno non tanto su ci che il
concilio ha detto quanto su ci che non ha detto.
La seconda osservazione preliminare si riferisce direttamente al nostro argomento ed alla sua
portata. Poich la vasta portata di questo argomento pu facilmente condurre alla superficialit,
limiter la mia trattazione in due modi. La prima limitazione risulta dal fatto che io scrivo da
professore di teologia fondamentale. Questa disciplina serve la responsabilit della speranza
secondo la 1Pt. 3,15: Siate sempre preparati alla difesa contro chiunque vi chieda conto della
speranza che in voi.... Cos, la teologia fondamentale cerca di spiegare la fede in maniera
corrispondente ai modi storici della comprensione umana. Lo fa, non allo scopo di sottomettersi ai
modi dominanti del pensiero, ma allo scopo di entrare in fecondo conflitto con tali modi di pensiero.
Tratter quindi questo argomento de 'La Chiesa e il mondo' come un problema che appartiene alla
responsabilit della fede cristiana in quanto questa si trova di fronte alla presente situazione storica
ed ai suoi modi di pensiero. L'abituale conflitto tra il pensiero del tempo e il pensiero della fede
cristiana spesso costringe il singolo cristiano ad aggirarsi attraverso i testi cruciali della sua fede da
solo e senza l'aiuto della teologia adeguato alla sua situazione attuale.
La seconda limitazione della mia trattazione risulta dall'orizzonte (1) entro il quale vorrei spiegare e
sviluppare concretamente il rapporto della fede cristiana con il mondo. Quest'orizzonte il futuro. E
rivela il mondo come storia, la storia come storia finale (Endgeschichte), la fede come speranza, e la
teologia come escatologia. Quest'orizzonte caratterizza il tentativo della teologia di superare e
andare oltre la moderna teologia trascendentale, personalistica ed esistenziale senza trascurare le
intuizioni valide. Questa teologia trascendentale, personalistica ed esistenziale ha giustamente
messo in rilievo la funzione della persona umana, in contrasto con il punto di vista meramente
oggettivistico della teologia scolastica. Ha portato la fede cristiana ad un rapporto pi conveniente
con l'esistenza e la soggettivit umana. Comunque, questa teologia esposta a due pericoli. Da una
parte, questa teologia antropologica tende a limitare la fede, concentrandosi sul momento attuale
della decisione del credente. Il futuro, allora, quasi perduto: diviene solo un altro nome per
indicare i fattori inafferrabili della decisione presente. D'altra parte, questa teologia antropologica
tende a divenire privata e individualistica. Non riesce a mettere in sufficiente evidenza le
dimensioni sociale e politica della fede e dalla responsabilit del credente.
Dopo queste osservazioni preliminari, torniamo al nostro argomento, 'La Chiesa e il mondo'. Vorrei
svolgere tre tesi: primo, una tesi sulla moderna interpretazione del mondo, con la sua spinta verso il
futuro e il suo orientamento operazionale. Secondo, una tesi sulla fonte scritturistica della nostra
interpretazione del mondo, una interpretazione radicata nelle promesse di Dio. Terzo, una tesi sulla
risultante nozione di fede come rapporto creativo e militante con il mondo, inteso alla luce delle
promesse di Dio.

I
Prima tesi. L'interpretazione del mondo da parte dell'uomo moderno fondamentalmente orientata
verso il futuro. La sua mentalit, quindi, non in primo luogo contemplativa; ma operativa.
Prima di tutto, l'era moderna si sforza costantemente verso il nuovo. Quest'era cominciata con il
'nuovo' mondo e questo nuovo mondo ha stampato lo slogan del suo programma sulla banconota del
dollaro: Novus ordo seclorum. Questo sforzo verso il nuovo lo spirito predominante delle
rivoluzioni sociali, politiche e tecniche del nostro tempo. Gli uomini di questa era sono attratti ed
affascinati soltanto dal futuro, cio, da ci che non mai stato. Questa astrazione verso il futuro
trasforma la realt esistente e sussistente in una realt mutevole e provocante, cos che il reale di
questa realt emerge come possibilit per il futuro. (2) Poich la passione dell'uomo moderno
per il possibile (Kierkegaard), la forza diretta della tradizione declinata. Ci che antico diventa
rapidamente antiquato. I bei giorni antichi hanno perduto la loro attrattiva. L'et dell'oro sta non
gi dietro di noi, bens dinanzi a noi: non ricreata nelle memorie dei nostri sogni, ma creata nei
desideri della nostra immaginazione e del nostro cuore. Il rapporto dell'uomo con il passato diviene
sempre pi un interesse puramente estetico, romantico ed arcaico, e con la sua curiosit da archivio
per il passato egli riconosce il passato come qualche cosa di antiquato. In altre parole, la mentalit
attuale ha una relazione puramente storica con il passato, ma ha una relazione esistenziale con il
futuro.
In secondo luogo: nel suo sforzo verso il futuro, l'uomo moderno non sperimenta pi il mondo come
un destino imposto, o come una sacrosanta natura sovrana che lo tiene entro i suoi limiti, ma
piuttosto come una cava come il materiale grezzo con cui egli costruisce il suo proprio 'nuovo
mondo'. Egli non solo modifica il mondo e ne fa il palcoscenico adatto al suo proprio dramma
storico, ma domina il mondo mediante la tecnologia, e in tal modo lo secolarizza. (3)
In terzo luogo: in che rapporto deve porsi la teologia con questa nuova situazione del mondo? Certi
teologi fanno come lo struzzo e sperano che la situazione muti. Altri hanno preso la situazione sul
serio ed hanno usato varie forme di teologia dialettica per mettere in rapporto il cristianesimo e il
mondo (specialmente discepoli e amici di Karl Barth: per esempio, F. Gogarten e D. Bonhoeffer).
Poich la nuova interpretazione del mondo ha messo in discussione e anche scartato molte delle
provate e fidate forme di pensiero della fede cristiana, questi acuti teologi mettono in rilievo la
radicale alterit della fede, la sua radicale differenza da questo mondo. Ed in questa paradossale
interpretazione della fede cristiana da parte delle moderne teologie della secolarizzazione, la
teologia dialettica celebra una vittoria nella teologia della secolarizzazione. Per esempio, l'uso della
teologia dialettica di Barth, Gogarten e Bonhoeffer mette in evidenza il suo carattere ambiguo
nell'importante libro di Harvey Cox, La citt secolare. Egli tenta, nella prima parte di questo libro,
di accentuare la totale trascendenza ed alterit di Dio e della fede cristiana, e nella seconda parte di
unire escatologia e rivoluzione sociale. Ma, io mi domando, come pu il vangelo di Dio totalmentealtro confluire in un vangelo sociale? In altre parole, come pu Cox unire la prima e la seconda
parte del suo libro? (4) Allo scopo di dimostrare l'insufficienza di questa realizzazione della
'teologia dialettica', esamineremo in maniera pi precisa che cosa realmente accaduto nella nuova
interpretazione del mondo propria dell'era moderna. Il 'mondo-di-l' e il 'cielo su di noi', non solo si
sono nascosti, ma sembrano essere scomparsi. (Ci che nascosto pu, in realt, essere potente e
vicino!). Lentamente ma costantemente il mondo ha perduto il suo splendore di divinit. Esso non
pi considerato come il luminoso vestibolo del cielo. Noi non scopriamo pi nel mondo e sul
mondo le tracce di Dio, le vestigia Dei, ma vediamo soltanto le tracce dell'uomo, le vestigia
hominis, e le sue azioni di trasformazione del mondo. Apparentemente, incontriamo nel mondo
soltanto noi stessi e le nostre proprie possibilit. Il raggiante splendore del 'mondo lass' e del
'mondo di l' si offuscato. Sembra che esso non possa pi illuminare lo spirito dell'uomo e
accendere il suo entusiasmo. Ci che muove l'uomo d'oggi non l'impegno per il 'mondo lass', ma
l'impegno per costruire un nuovo mondo (o, se volete, per costruire una 'grande societ). Questo

impegno verso il futuro provoca e interessa l'uomo d'oggi, il quale altrimenti sembra cos
disincantato e cos a-religioso.
In quarto luogo: sia in occidente che in oriente, ogni Weltanschaung e ideologia umanistica di oggi
che faccia colpo orientata verso il futuro. Basta solo pensare al marxismo e alla sua teoria della
societ senza classi, secondo la quale l'uomo stesso produce il proprio futuro e la propria societ. La
desiderata perfezione di un'umanit felice non sta 'sopra di noi', bens 'dinanzi a noi'. Tutta quanta la
moderna critica della religione, cominciando dalla critica marxista, pu essere ridotta a questo
comune denominatore: il cristianesimo, come la religione in generale, impotente di fronte a questo
primato che il futuro occupa nella mentalit moderna. La nostra epoca attuale quindi concepita da
questi critici come il tempo della liquidazione della mentalit religiosa, come l'inizio di un'era postreligiosa, in cui ogni credenza in un Dio trascendente smascherata come una mera concezione
speculativa della mente, da respingere e sostituire con un orientamento attivo e operativo verso il
futuro.
In quinto luogo: che cosa dice o fa la fede cristiana di fronte a questa situazione? Come rende conto
il cristiano della sua speranza? Pu egli interpretare il mondo in un modo che non escluda
recisamente la sua fede, che non riduca la sua teologia ad un irrilevante e incomprensibile
paradosso? Pu forse la fede cristiana trovare di nuovo se stessa in questa situazione e crescere in
mezzo alla costruzione del mondo? Io credo di s, ma ad una condizione: solo se il teologo cristiano
si allarma per una perdita di escatologia, e solo se si preoccupa della negligenza e inconsapevolezza
del futuro nella sua teologia. Questa negligenza cos persistente che, per esempio, la cosiddetta
interpretazione esistenziale del Nuovo Testamento implica soltanto la ri-attualizzazione e la
ripresentazione del passato nel momento presente della decisione religiosa. Il presente solo domina.
Non c' reale futuro! Exempli gratia: Bultmann! Noi dobbiamo riunire ci che stato cos a lungo
disastrosamente separato: cio, trascendenza (Dio) e futuro, perch questo orientamento verso il
futuro richiesto dalla stessa fede e dallo stesso messaggio biblico. Solo allora la fede potr entrare
in fecondo conflitto e discussione con la passione per il futuro propria della nostra era moderna.
Solo una teologia che abbia riconquistato il suo orientamento verso il futuro pu seriamente
domandarsi: da dove viene questo primato del futuro, primato che impregna la mentalit moderna e
le rivoluzioni politiche, sociali e tecniche dei nostri tempi? Qual l'origine di questo primato del
futuro? Qual il suo fondamento? (5)
II
Seconda tesi. L'orientamento dell'era moderna verso il futuro e l'interpretazione del mondo come
storia, che risulta da questo orientamento, sono fondati sulla credenza biblica nelle promesse di Dio.
Questa fede biblica esige che la teologia sia escatologia.
Naturalmente, potr dare solo pochi commenti esplicativi di questa tesi. Il mio richiamo diretto alle
affermazioni della sacra Scrittura non arbitrario, ma si fonda sui risultati della recente ricerca
biblica in Germania che, nel suo periodo post-bultmanniano, sta riportando a fuoco l'Antico
Testamento e, secondariamente, sta usando l'Antico Testamento come mezzo d'interpretazione del
Nuovo Testamento.
Innanzitutto, recenti ricerche esegetiche indicano che le parole della rivelazione nell'Antico
Testamento non sono primariamente parole di affermazione o di informazione, n sono
principalmente parole di richiamo o di auto-comunicazione da parte di Dio, ma sono parole di
promessa. La loro affermazione annuncio, il loro annuncio proclamazione di ci che verr, e
quindi abrogazione di ci che . Questa proclamazione dominante e questa parola di promessa
iniziano il futuro: stabiliscono il patto come solidariet degli ebrei che sperano, e cos sperimentano
il mondo, per la prima volta, come una storia orientata verso il futuro. Questa esperienza e questo
pensiero ebraico in contrasto con il pensiero greco, che interpreta il mondo non come una storia
orientata verso il futuro, ma come un cosmo chiuso o come un sussistente mondo della natura.
Questo pensiero ebraico contenuto in quegli importanti passaggi dell'Antico Testamento che sono

impregnati di un pathos per il nuovo, per il nuovo tempo e per il nuovo mondo che viene, cio, per
il nuovo inteso come ci che non mai stato. Il pensiero greco, in contrasto con il pensiero ebraico,
(6) considera ci che non mai stato come intrinsecamente impossibile, poich per i greci non vi
nulla di nuovo sotto il sole. Tutto ci che sar in futuro solo una variazione del passato e una
realizzazione o ratificazione dell'anamnesis. La storia dunque solo l'indifferente ritorno delle
stesse cose entro il chiuso regno del cosmo eterno. Poich l'essenza della storia considerata qui
come ciclica, la storia vista come continuamente divoratrice dei propri figli, cosicch non vi
niente di nuovo nella storia, e l'essenza della storia si rivela come nihilistica. Noi accentuiamo
questo contrasto tra l'interpretazione ebraica e quella greca del mondo allo scopo di mostrare che il
punto di vista biblico considera il mondo come un mondo storico, un mondo che 'sorge verso' le
promesse di Dio sotto la responsabilit degli ebrei, che sperano in queste promesse.
Quest'interpretazione si riflette nelle narrazioni della creazione del Genesi, le quali furono
originariamente narrazioni delle promesse di Dio (cos che esprimono, perci, non semplicemente
una fede in una creazione passata, ma una fede nella nuova creazione delle promesse di Dio). La
rivelazione del nome di Dio in Esodo 3,14, indica anche che questo orizzonte escatologico
l'aspetto centrale della rivelazione di Dio. La espressione Io sono colui che sono tradotta molto
meglio come Io sar colui che sar. (Cos Gerhard von Rad e Martin Buber). Secondo questa
versione, Dio si rivel a Mos pi come il potere del futuro che come un essere dimorante di l da
tutta la storia e l'esperienza. Dio non 'sopra di noi' ma 'dinanzi a noi'. La sua trascendenza si rivela
come il nostro 'assoluto futuro'. Questo futuro fondato in se stesso e padrone di s. un futuro che
non costruito in base alle potenzialit della nostra umana libert e della nostra azione umana.
Anzi, fa venir fuori le nostre potenzialit, a rivelarsi nella storia. Solo un futuro siffatto un futuro
che qualcosa di pi della semplice proiezione delle nostre capacit pu chiamarci a realizzare
possibilit veramente nuove, a divenire ci che non mai esistito. Io sar colui che sar. Il futuro
proclamato qui non trae la sua potenza dai nostri desideri e dai nostri sforzi presenti. (7) No, il suo
potere deriva solo da esso: gli appartiene. Solo cos questo futuro pu esercitare, ed esercita, il suo
potere stimolante e liberatore su ogni presente umano, su ogni generazione.
In secondo luogo: il messaggio del Nuovo Testamento non abolisce l'orientamento della fede verso
il futuro o la speranza nel futuro quale struttura necessaria ed essenziale della fede. La ferma
credenza nella vicinanza del regno, che Ges proclam e a cui dette origine, diede luogo ad una tale
concentrazione e mobilitazione verso il futuro promesso, che ogni cosa che fosse solo del passato o
solo del presente perse importanza. (8) Sarebbe, d'altra parte, falso pensare che nell'evento del
Cristo il futuro sia interamente dietro di noi, come se il futuro della storia dopo Cristo non facesse
che esaurirsi, ma non si realizzasse. Al contrario, l'evento del Cristo intensifica questo orientamento
verso il futuro non ancora realizzato. La proclamazione della resurrezione di Ges, che non pu mai
essere separata dal messaggio della crocifissione, essenzialmente una proclamazione di promessa,
che d inizio alla missione cristiana. Questa missione realizza il suo futuro nella misura in cui il
cristiano modifica e 'rinnova' il mondo in vista di quel futuro di Dio che ci definitivamente
promesso nella resurrezione di Ges Cristo. Il Nuovo Testamento quindi centrato sulla speranza
un'aspettazione creativa come vera essenza dell'esistenza cristiana.
In terzo luogo: in considerazione di quanto sopra, il cristiano ha la responsabilit di sviluppare il
rapporto della sua fede con il mondo in un rapporto di speranza e di svolgere la sua teologia come
escatologia. Sebbene la teologia abbia una parte che escatologia, generalmente essa mette questa
escatologia in un angolo, ben lontano dal centro della teologia, nel trattato 'sulle cose ultime'.
L'escatologia manca di un rapporto vitale con l'insieme della teologia e perci manca di
connessione con la teologia del mondo. La escatologia cristiana deve venir fuori dal suo angolo, nel
quale stata confinata da una teologia che ha dimenticato il valore della speranza e del futuro. Dal
momento che i cristiani sono definiti da Paolo semplicemente come quelli che hanno speranza,
non devono essi intendere la loro teologia, in ogni aspetto, come escatologia, e come la
responsabilit della speranza? L'escatologia non una disciplina a parte dalle altre discipline, ma
quella disciplina fondamentale che determina, forma e modella ogni affermazione teologica,

specialmente quelle che concernono il mondo. Il tentativo d'interpretare la teologia in modo


totalmente esistenziale o personalistico un'importante realizzazione della teologia. Io ho cercato,
nella mia Christliche Anthropozentrik, di fondare questa interpretazione su Tommaso d'Aquino.
Questa teologia antropologica-esistenziale, comunque, facilmente si isola dal mondo e dalla storia
quando l'escatologia non considerata come pi fondamentale della teologia. Solo nell'orizzonte
escatologico della speranza il mondo appare come storia. Solo nell'interpretazione del mondo come
storia la libera azione dell'uomo mantiene la sua posizione centrale. Solo questa posizione centrale
della libert umana d origine ad un legittimo antropocentrismo cristiano. L'universale punto di
vista antropologico-esistenziale nella teologia cristiana dipende dal punto di vista escatologico.
Questo vero perch solo nell'orizzonte escatologico della speranza il mondo appare come una
realt che sorge, il cui sviluppo o processo affidato alla libera azione dell'uomo. Inoltre, anche la
cristologia e l'ecclesiologia devono essere sviluppate in questo orizzonte di escatologia, cos da non
essere ridotte n a punti di vista meramente antropologico-esistenziali, n a punti di vista oggettivati
e cosmologici. A questo punto, possiamo soltanto menzionare queste considerazioni e questi aspetti.
Diremo comunque pi avanti una parola riguardo all'ecclesiologia.
In quarto luogo: sarebbe allettante, e anche importante, indicare come il processo della cosiddetta
secolarizzazione del mondo sia stato possibile solo perch il mondo stesso stato sperimentato e
inteso nell'orizzonte escatologico della speranza. Il mondo appare, in quest'orizzonte, non come una
realt fissa e sacralizzata in un'armonia prestabilita, ma come una realt che sorge, che pu essere
rinnovata in vista del suo futuro dall'azione storicamente libera degli uomini. Questa universale
modificazione e innovazione del mondo mediante l'offensiva della libert umana caratterizza quel
processo che chiamiamo secolarizzazione. Dobbiamo, comunque, sorvolare, qui, su tale questione e
procedere alla nostra prossima tesi.
III
Terza tesi. Il rapporto tra la fede cristiana e il mondo deve essere caratterizzato, da un punto di vista
teologico, come un'escatologia creativa e militante.
In primo luogo: nello spiegare e dimostrare questa tesi, vorremmo riferirci ad una massima di s.
Tommaso d'Aquino veramente degna di nota. Egli afferma, nella sua terminologia scolastica, che
l'uomo non ha un fine ultimo naturale (finis ultimus naturalis) e un fine ultimo soprannaturale (finis
ultimus supernaturalis), ma ha soltanto un fine ultimo, e precisamente il futuro promesso da Dio.
Dal punto di vista del futuro, la distinzione tra il naturale e il soprannaturale, cos spesso forse
troppo spesso usata, si ritira nello sfondo. Nel nostro rapporto con il futuro, noi non possiamo
contentarci di una distinzione che separa il futuro naturale del mondo dal futuro soprannaturale
della fede e della Chiesa. Entrambe le dimensioni convergono nel nostro rapporto con il futuro. In
altre parole, poich la speranza responsabile dell'unico futuro promesso, perci anche
responsabile del futuro del mondo. La fede cristiana spera non solo in se stessa, la Chiesa spera non
solo in se stessa, ma esse sperano nel mondo.
In secondo luogo: , comunque, la speranza biblica in realt cos radicalmente orientata verso
quest'unico e indiviso futuro? ancora valida la concezione vetero-testamentaria della speranza
come speranza nel mondo e nel suo futuro? Non esige il Nuovo Testamento che questa speranza sia
impegnata e accompagnata da una rinuncia al mondo? Sarebbe effettivamente una stoltezza e un
vuoto compromesso con lo spirito dei tempi, se sopprimessimo o minimizzassimo questo motivo
della concezione neo-testamentaria della speranza. Sono consapevole di questo motivo e lo
considero importante, anche per i nostri tempi. Comunque, tutto dipende da una corretta
interpretazione di ci che propriamente si intende per rinuncia ai mondo. Poich l'uomo non pu
mai vivere separato dal mondo o senza il mondo, questa rinuncia non pu mai essere una semplice
fuga dal mondo: una tale fuga sarebbe un'ingannevole ed illusoria fuga in un mondo artificialmente
isolato, quale de facto spesso la pi comoda situazione religiosa di ieri. Non una fuga fuori dal
mondo, ma una fuga con il mondo, 'in avanti', il dinamismo fondamentale della speranza cristiana

nella sua rinuncia al mondo. Questa rinuncia dunque una fuga soltanto fuori da quel mondo fattoda-s, che domina il proprio presente e vive unicamente del proprio presente, e il cui tempo
sempre qui (cf. Gv. 7,6). I cristiani dovrebbero ascoltare attentamente s. Paolo quando egli li esorta
a rinunciare al mondo e quando li sprona a non essere conformati a questo mondo (cf. Rom.
12,2). Paolo non critica la solidariet del cristiano con il mondo, ma la sua conformit con il mondo
esistente, estasiato della propria apparenza e preoccupato solo della propria glorificazione. Paolo
critica questo mondo nella misura in cui esso cerca di determinare il proprio futuro e di degradare
questo futuro ad una funzione del presente, potente e assetato di potere. L'apostolo non ci chiede un
rifiuto unilaterale (non-dialettico) del mondo o un rifiuto totale dell'impegno nel mondo: esorta,
invece, i cristiani ad essere preparati ad un penoso estraniamento dall'attuale situazione del mondo.
Li esorta a rinunciare alla vuota sapienza dei loro tempi (cf. anche Mt. 12,29 ss.), e ad astenersi
dalla superba vanagloria e vanit del mondo (cfr. 1Cor.1,29). Tutto ci, comunque, fatto per
amore di quel futuro promesso da Dio. Il cristiano portato a fuggire e a rinunciare al mondo non
perch disprezzi il mondo, ma perch spera nel futuro del mondo qual annunciato nelle promesse
di Dio. E questa speranza gli d una responsabilit verso il mondo e il suo futuro, un futuro dal
quale troppo spesso noi possiamo isolarci in forme di presunzione e di disperazione. Questa
rinuncia cristiana al mondo ha origine nello spirito della speranza biblica e serve alla speranza di
tutti. l'imitazione di Cristo nell'ora della sua crocifissione. Quell'ora rappresenta la singolare
affermazione del mondo e, a un tempo, il superamento del mondo. La rinuncia cristiana al mondo
assume l'umile forma di una speranza crocifissa per il mondo. Una fede guidata da una siffatta
speranza non primariamente una dottrina, ma un'iniziativa per l'appassionato rinnovamento e la
trasformazione del mondo in vista del regno di Dio.
In terzo luogo: in questa prospettiva possiamo definire pi adeguatamente il rapporto tra Chiesa e
mondo. A dispetto delle numerose discussioni circa la Chiesa e il mondo, non c' niente di meno
chiaro della natura del loro rapporto reciproco. Le solite affermazioni contemporanee riguardo al
volgersi della Chiesa verso il mondo ed alla positiva valutazione del mondo da parte della Chiesa,
spesso non fanno che accrescere la confusione e l'oscurit. la Chiesa, in realt, qualcosa di diverso
dal mondo? Non la Chiesa anche mondo? Non sono i cristiani cio, la Chiesa anche del
mondo? Per che cosa lavora la Chiesa nel suo movimento verso il mondo? La Chiesa del mondo:
in un certo senso, la Chiesa il mondo: la Chiesa non non-mondo: essa quel mondo che cerca di
vivere del futuro promesso da Dio e di mettere in discussione il mondo che intende se stesso
unicamente in termini del proprio essere e delle proprie possibilit. Il rapporto decisivo della Chiesa
con il mondo non spaziale ma temporale. La Chiesa la comunit escatologica e la comunit
dell'esodo. La sua vita istituzionale e sacramentale basata su questo carattere escatologico.
L'eucaristia il sacramento dell'esodo: la commemorazione della morte del Cristo come promessa
- donec Dominus veniat. La Chiesa non la meta dei suoi propri sforzi: quella meta il regno di
Dio. In un certo senso, la Chiesa vive sempre della proclamazione del suo carattere provvisorio e
del suo abbandono storicamente progressivo al regno di Dio che viene. (9) La Chiesa ha una
speranza e testimonia una speranza, ma la sua speranza non in se stessa: una speranza nel regno
di Dio come futuro del mondo. Ecclesia est universale sacramentum spei pro totius mundi salute.
In quarto luogo: come realizza la Chiesa la sua missione di lavorare per il futuro del mondo? Non
pu farlo con la pura contemplazione, poich la contemplazione, per definizione, ha attinenza con
ci che gi divenuto esistente e con ci che effettivamente esiste. Il futuro che la Chiesa spera non
c' ancora, ma emergente e insorgente. Perci la speranza che la Chiesa pone in se stessa e nel
mondo deve essere creativa e militante. In altre parole, la speranza cristiana deve realizzarsi in
un'escatologia creativa e militante. La nostra attesa escatologica non cerca la celeste e terrena
Gerusalemme come la citt promessa di Dio, gi fatta e gi esistente. Questa citt celeste non sta
avanti a noi come una meta distante e nascosta, che bisogna soltanto rivelare. La citt di Dio
escatologica sta nascendo ora, perch il nostro approccio pieno di speranza che costruisce questa
citt. Noi siamo operai che costruiscono quel futuro, e non solo interpreti di quel futuro. La potenza
delle promesse di Dio per il futuro ci muove a dare a questo mondo la forma della citt escatologica

di Dio. Il concilio, nella costituzione sulla Chiesa, dice: Renovatio mundi... in hoc saeculo reali
quodam modo anticipatur. Il cristiano un 'collaboratore' nell'apportare l'universale era di pace e
di giustizia, oggetto della promessa. L'ortodossia della fede di un cristiano deve continuamente
avverarsi nell' 'ortoprassia' delle sue azioni orientate verso il futuro finale, perch la verit promessa
una verit che deve essere fatta (cf. Gv. 3,21 ss.). L'escatologia cristiana, dunque, non
nonostante la sua popolarit fra i teologi esistenziali un'escatologia puramente presenziale o
attuale, in cui la passione per il futuro si esaurisce in un semplice 'render presente' l'eternit nel
momento attuale della decisione personale. N l'escatologia cristiana una mera attesa passiva, in
cui il mondo e il suo breve spazio di tempo appaiono come una sala di attesa, dove il cristiano
poltrisce in apatica noia, finch Dio apre la porta del suo ufficio e permette al cristiano di entrare.
L'escatologia cristiana , comunque, un'escatologia produttiva e militante, che si realizza
gradualmente. Una fede escatologica ed un impegno nel mondo non si escludono a vicenda. Perch
le parole di Paolo non conformatevi al mondo non significano soltanto che noi dobbiamo
cambiare noi stessi, ma anche che, in conflitto e in una aspettazione creativa, dobbiamo cambiare
il modello di questo mondo in cui crediamo, speriamo ed amiamo. La speranza del vangelo ha una
relazione polemica e liberatoria con la vita presente e pratica dell'uomo e con le condizioni (sociali)
in cui l'uomo vive la sua vita. (10)
In quinto luogo: una teologia del mondo che sia guidata da questa escatologia creativa-militante non
pu manifestarsi nello stile e nelle categorie della vecchia cosmologia teologica. Inoltre, non pu
adempiere il proprio compito con le categorie di una teologia puramente trascendentale, personale
ed esistenziale, perch queste sono troppo individualistiche ed isolate. Poich la teologia del mondo
non una semplice teologia del cosmo n una semplice teologia trascendentale della persona e
dell'esistenza umana, ma una teologia dell'ordine politico e sociale che sta sorgendo, questa teologia
del mondo deve essere una teologia politica. Una teologia orientata escatologicamente deve
mettersi in contatto con le utopie politiche, sociali e tecniche predominanti e con le promesse, che
contemporaneamente vengono a maturazione, di pace e di giustizia universale. La salvezza
cristiana che noi speriamo non soltanto la salvezza personale della propria anima o una semplice
liberazione dell'individuo dal mondo malvagio. N soltanto una consolazione per la coscienza
personale nella tentazione. anche l'adempimento di un ordine escatologico di giustizia,
l'umanizzazione dell'uomo e l'instaurazione di una pace universale. Questo 'aspetto' della nostra
riconciliazione con Dio non stato messo sufficientemente in rilievo nella storia del cristianesimo,
perch i cristiani non hanno pi considerato se stessi nel loro vero orizzonte escatologico, ma hanno
lasciato le attese escatologiche terrestri ai fanatici ed agli entusiasti. (11) In obbedienza alla sua
vocazione escatologica, il cristianesimo non deve costituirsi come una societ-ghetto o divenire il
guscio ideologico protettivo della societ esistente. Deve divenire, invece, la forza liberatrice e
critica di questa societ. Il cristianesimo non deve costituirsi come una 'micro-societ' accanto alla
'grande societ secolare. Ogni separazione tra Chiesa e Stato, che conduce ad un ghetto o ad una
micro-societ, fatale. Il terminus a quo della missione cristiana deve essere la societ secolare. Su
questa societ deve essere esercitata la 'pressione osmotica' della speranza cristiana. Le varie
istituzioni del cristianesimo trovano la loro legittimazione ed anche il loro criterio nella loro
missione escatologica. Dovunque queste istituzioni servono all'auto-pro-tezione del cristianesimo
pi che ai suoi sforzi verso il futuro, i bastioni di queste istituzioni vanno smantellati. E infine: la
speranza militante del cristiano non semplicemente un 'ottimismo militante'. N essa canonizza il
progresso proprio dell'uomo. La sua speranza , invece, una speranza contro ogni speranza da noi
riposta negli idoli costruiti dall'uomo della nostra citt secolare. La speranza cristiana non un
astuto espediente della ragione dell'uomo allo scopo di districare i misteri del futuro. La escatologia
cristiana non una ideologia onnisciente relativa al futuro, ma una teologia negativa del futuro.
Questa povert di conoscenza anzi la vera ricchezza del cristianesimo. Ci che distingue l'una
dall'altra l'ideologia cristiana del futuro e quella secolare non che i cristiani sanno di pi, ma che
sanno di meno circa 'il sospirato futuro dell'umanit e che fanno fronte a questa povert di
conoscenza: Per fede Abramo obbed quando gli fu comandato di recarsi in un luogo che doveva

ricevere come eredit: e and, senza sapere dove sarebbe andato (cf. Ebr. 11,8). Inoltre, la
speranza cristiana consapevole dei propri fatali pericoli: in breve, consapevole della morte.
Perch di fronte alla morte tutte le luminose promesse svaniscono. La speranza cristiana un
esercizio di anticipazione della morte. Ma anche questo aspetto della speranza non deve essere
limitato ad un atteggiamento individualistico e separato dal mondo. La speranza cristiana
essenzialmente diretta al mondo del nostro fratello, poich questa speranza si realizzi nell'amore per
l'altro, per il minimo dei nostri fratelli. Solo in questa kenosis d'amore la morte vinta. Noi
sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perch amiamo i fratelli (cf. 1Gv. 3,14). La
speranza cristiana entra nella passione della morte in questa kenosis d'amore per il minimo dei
nostri fratelli. Questa l'imitazione di Ges: egli non visse per s ma per noi. Speranza questo
vivere per 'l'altro'.
1) K. Rahner, Teologia e antropologia.
2) G. Ebeling, Wort und Glaube, Tbingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1962, 387.
3) Cf. J. B. Metz, Zukunft des Glaubens in einer hominisierten Welt, in Weltverstndnis im Glauben,
ed. Johannes Metz, Matthias Grunewald, Mainz 1965, 45-62.
4) Cf F. FIORENZA, Skularisation und die skularisierte Stadt, Stimmen der Zeit, maggio 1966.
5) Cf. J. B. Metz, Gott vor uns, in Ernst Bloch zu Ehren, Frankfurt, Suhrkamp Verlag, 1965, 227241.
6) Cf. J. B. Metz, Welt, in LThK, X, 1023-1026.
7) Cf. W. Pannenberg, Der Gott der Hoffnung, in Ernst Bloch zu Ehren, op. cit., 215.
8) Ibid., 212.
9) Cf. K. Rahner, Kirche und Parusie Christi, in Schriften zur Theologie, Einsiedeln, Benziger
Verlag, 1965, 351.
10) Cf. J. Moltmann, Theologie der Hoffnung, Mnchen, Ch. Kaiser Verlag, 1964, 2a ed., 304.
11) Ibid., 303. Cf. D. Bonhoeffer, L'ora della tentazione, Queriniana 1968; vedi pure: J. B. Metz, Il
problema di una teologia politica e la Chiesa come istituzione di libert critica nei confronti della
societ, in Concilium 6 (1968) 13-30.

Jean Danilou
CRISTIANESIMO E RELIGIONI NON-CRIST IANE
Un invito a considerare la natura delle religioni non-cristiane e il loro rapporto con la rivelazione
cristiana ci stato rivolto mediante l'istituzione del Segretariato per le religioni non-cristiane, e
mediante il richiamo al dialogo con tutti i gruppi religiosi risuonato nell'enciclica Ecclesiam suam,
come pure nella dichiarazione sulle religioni non-cristiane. Una dichiarazione preliminare per
chiarire la nostra posizione su questo argomento necessaria, se vogliamo evitare i due estremi: del
sincretismo, che classifica il cristianesimo semplicemente come parte del fenomeno generale della
religione, pur ammettendo la sua preminenza, e del settarismo, che non riconosce un contenuto
positivo nelle religiosi non-cristiane. Quest'argomento importante, oggi, sotto diversi aspetti, e
precisamente: presentare il messaggio cristiano, stabilire dialogo e cooperazione con i non-cristiani,
ed anche metterci in grado di discernere gli elementi pagani nel cristianesimo.
Intendo limitare la mia indagine alla sfera delle religioni pagane, e per 'religioni pagane' intendo
quelle che sono al di fuori del contesto della rivelazione storica. Per conseguenza, non considerer
la questione dell'islamismo, che un caso del tutto particolare, con i suoi prestiti giudaico-cristiani.
Inoltre, non intendo considerare il mondo non-religioso, che a volte designato inesattamente con il
termine 'pagano'. Il pagano essenzialmente un uomo religioso, e niente pi opposto al
paganesimo dell'ateismo.* Le religioni non-cristiane esprimono una dimensione della natura umana.
L'uomo fondamentalmente religioso, cio, capace di riconoscere con l'intelligenza e di ratificare
con l'amore la sua relazione con la divinit. Questo vero storicamente, dal momento che i riti
religiosi, insieme con gli utensili, sono considerati dall'etnologo come segni dell'avvento dell'uomo.
vero per lo psicologo, che riconosce nelle profondit dell'uomo una dimensione irriducibile alle
altre sfere di esperienza. specialmente vero per una sana filosofia che considera autentico
l'umanesimo solo quando esso descrive l'uomo nella sua triplice dimensione: il suo dominio
dell'universo attraverso la tecnologia, la sua comunione con gli altri attraverso l'amore, e la sua
conversione a Dio mediante l'adorazione.
In questo senso, l'atto religioso non si riferisce esclusivamente a un altro mondo: fondamentale a
questo mondo. Una dalle aberrazioni del secolarismo contemporaneo di pensare che si possa
formulare un umanesimo senza di esso. Un mondo senza Dio un mondo inumano. Dio parte
della civilt. Questo vero a un livello individuale, poich l'amore di Dio una condizione della
completa realizzazione dell'uomo, dalla sua felicit; ed vero anche a un livello collettivo, poich
l'atto religioso parte del bene comune temporale. Parlo dell'atto religioso, senza tener conto delle
forme usate per esprimerlo.
Sono stati fatti numerosi tentativi di dare all'atto religioso una spiegazione positivistica:
cosmologica: il mistero della natura, che semplicemente ci che tuttora inesplicato; psicologica:
la sublimazione della vita istintiva, specialmente dell'eros; sociologica: la trascendenza
semplicemente l'espressione della sottomissione di un individuo alla collettivit familiare e
nazionale. Tutte queste spiegazioni derivano da fatti particolari non esattamente interpretati. I segni
attraverso i quali il sacro si manifesta vengono confusi con la sua stessa sostanza.
, di fatto, caratteristica distintiva delle religioni che esse percepiscano il divino attraverso le sue
manifestazioni. Mircea Eliade chiama queste manifestazioni hierophanie. Esse possono essere
classificate in diversi modi. Possono essere fenomeni cosmici: un cielo stellato, una tempesta con
lampi e tuoni, una rupe immobile, immutabile, maestosa; un serpente, un'acqua tranquilla, e la luna
per suggerire il mistero della fertilit. Tutti questi sono segni attraverso cui gli uomini di tutti i
tempi hanno percepito una presenza divina. Quando un giovane sofisticato mette in ridicolo una
vecchia donna perch si fa il segno della croce durante un temporale, non c' bisogno di domandarsi
quale dei due intelligente!

La presenza del sacro percepita ancor pi fortemente attraverso le azioni umane. La


sacralizzazione dei principali stadi dell'esistenza umana uno dei tratti fondamentali di tutte le
religioni. La nascita di un bambino, l'inizio dell'adolescenza, il matrimonio e la morte sono sempre
accompagnati dai riti religiosi. Il ritmo stagionale del lavoro celebrato in un ciclo liturgico. Le
azioni umane riproducono le azioni modello compiute dagli dei nel mondo degli archetipi. Cos, riti
e miti esprimono un'esperienza fondamentale, per mezzo della quale l'uomo entra in contatto con un
mondo che lo trascende.
Le spiegazioni positivistiche della religione errano nel tentare di identificare ci che
essenzialmente un segno con la sostanza stessa della religione. Eliade e Van der Leeuw hanno
giustamente osservato che non era il sole in quanto oggetto materiale che i discepoli di Mitra
adoravano, ma attraverso il sole adoravano il potere benefico che la fonte della luce e della vita. E
se la religione espressa attraverso strutture sociali, come Levy-Strauss ha giustamente messo in
evidenza, ci non perch essa sia riducibile a quelle strutture: invece, mediante i rapporti umani
fondamentali, l'uomo entra in contatto con una realt che egli non pu controllare e che lo mette in
presenza del trascendente.
Finalmente, sperimentando in pari tempo sia i propri limiti, sia ci che vi in lui di assoluto, l'uomo
percepisce la presenza di una realt divina nel suo io interiore, distinta da lui e che pure agisce
dentro di lui. L'uomo percepisce questa realt nei freni della sua coscienza, che lo rendono
consapevole dell'assoluto bene e dell'assoluto male; la percepisce nell'illuminazione della sua
mente, che lo mette in contatto con una verit che abita nel cuore del suo essere; la percepisce nei
richiami di un amore, che lo spingono a cercare, di l da tutto ci che finito, quel Dio che rende
veramente buona ogni cosa buona. Ritirandosi dentro di s, nelle profondit della sua vita
personale, un uomo a volte rimane abbagliato, in un certo senso, nel percepire un raggio che
proviene da un'altra fonte, ma trattenuto nello specchio della sua anima.
Il regno della religione una delle aree privilegiate dell'esperienza umana. Bench arricchita dalle
scoperte scientifiche e dagli sviluppi creativi della societ, l'esperienza umana non pu trovare
veicolo migliore della religione per esprimere il suo pi intimo contenuto. Le grandi religioni sono
l'espressione storica dell'atto religioso nell'umanit. Le grandi religioni sono, al tempo stesso, una
sola e diverse. Sono una, perch corrispondono allo stesso livello di esperienza: nel suo modo
particolare, ciascuna ci rende consapevoli dei modi in cui gli uomini hanno riconosciuto Dio
mediante il mondo e lo hanno cercato di l dal mondo. Al tempo stesso, la diversit parte
dell'essenza delle grandi religioni. Ciascuna l'espressione del peculiare genio religioso di un
popolo. Di fatto, niente caratterizza un popolo meglio della sua religione. In questo contesto,
l'antico assioma cujus regio, ejus religio del tutto esatto. La religione forma parte del
patrimonio di un popolo. E se la religione espressione caratteristica del genio religioso di una
razza, un uomo non pu cambiare la propria religione pi di quanto non possa cambiare la propria
razza. Le religioni sono uno degli aspetti pi notevoli della creazione e contribuiscono al suo
splendore. Come, dunque, potrebbe il cristianesimo distruggere queste religioni? Il cristianesimo,
con la sua missione di non distruggere ma di realizzare, di salvare ci che stato creato? Divenire
cristiano non significa cambiare la propria religione, ma passare dal piano della religione a quello
della fede. Ogni razza lo fa a modo proprio.
In questo senso, niente potrebbe essere pi falso che identificare il cristianesimo come la religione
dell'Occidente. Esso appartiene a un ordine del tutto differente. C' una religione d'Occidente, ed
l'antico paganesimo: greco o latino, celtico o germanico. Questa religione l'equivalente del
moderno induismo o taoismo, dell'animismo o delle religioni degli indiani d'America. Shankara pu
essere paragonato a Plotino, Confucio a Socrate. Questa forma di paganesimo valida quanto le
altre. E non troppo distante da noi, poich in realt noi siamo solo pagani convertiti. Fiunt, non
nascuntur Christiani, diceva Tertulliano, e noi potremmo tradurre quest'affermazione come segue:
Si nasce pagani, si diventa cristiani. Questo genio religioso dell'Occidente colora la maniera
occidentale di essere cristiani. Noi abbiamo il dovere di essere fedeli a questa maniera occidentale,
ma non di imporla agli altri. Ci sono vari tipi di anima pagana, e ciascuna ha la sua bellezza. Tutte

meritano di essere salvate e tutte, in realt, possono essere salvate. L'anima pagana dei semiti fu la
prima ad essere salvata, in Abramo. Segu poi l'anima pagana dell'Occidente: il cosiddetto battesimo
di Platone e di Virgilio. Forse nel ventesimo secolo sar l'anima pagana dell'Africa, e nel
ventunesimo secolo l'anima pagana dell'India. Le differenze nel cristianesimo riflettono, nell'unit
dell'unica fede che necessariamente una, i differenti tipi di mentalit religiosa che accolgono
questa fede, ciascuna a suo modo. Che diritto ho io di imporre agli altri la mia maniera di accogliere
Ges Cristo?
Specificare questi rapporti tra il cristianesimo e le altre religioni evidentemente essenziale per
stabilire il dialogo su una solida base. In questa materia, come nelle questioni ecumeniche, l'amore
deve essere accompagnato dalla chiarezza, perch niente pu essere fondato sulla confusione. Il
sincretismo erra nel mettere tutto sullo stesso piano, rendendo, cos, superfluo il dialogo. Ma c' un
errore equivalente, che deriva da atteggiamenti sentimentali e che consiste nell'evitare una chiara
enunciazione di problemi fondamentali per timore di creare delle barriere. Un chiarimento del
problema necessario.
Abbiamo dato una descrizione del fatto religioso in generale. Il fatto ebraico-cristiano ci presenta
qualcosa di assolutamente diverso. Non semplicemente un insieme di mezzi per adorare Dio. la
testimonianza di un evento, di un evento che costituisce la storia sacra. Il libro sacro dei cristiani
una storia che d testimonianza delle azioni di Dio, dell'invasione della storia da parte della Parola.
Non necessario essere cristiani per credere in Dio, ma necessario essere cristiani per credere che
Dio viene fra gli uomini. Le religioni sono un movimento dell'uomo verso Dio; la rivelazione d
testimonianza di un movimento di Dio verso l'uomo.
I risultati antitetici di questo fatto sono evidenti. L'oggetto di tutte le religioni di manifestare Dio
attraverso la ripetizione di cicli naturali ed umani. L'oggetto della rivelazione un evento unico,
designato come apax nella Lettera agli Ebrei. Se questo evento unico, la rivelazione deve
necessariamente essere unica. Essa consiste nel credere nella realt di quell'evento unico. Le
religioni, d'altra parte, sono normalmente diverse. Create dal genio umano, esse attestano il valore
di importanti figure religiose Budda, Zoroastro, Orfeo , ma sono segnate dai difetti di ci che
opera umana. La rivelazione opera di Dio solo. L'uomo non pu avanzare pretese su di essa,
poich essa non gli appartiene. un puro dono. Per questo stesso fatto, essa verit infallibile, in
un senso che si applica solo a Dio.
La religione riguarda soprattutto la vita presente. un aspetto dell'esistenza naturale dell'uomo; il
continuum di valori permanenti. La rivelazione escatologica, riguarda le cose ultime, che sono al
di l della portata dell'uomo. Essa volta verso il futuro, profetica. La religione esprime il
desiderio che l'uomo ha di Dio. La rivelazione attesta che Dio ha risposto a questo desiderio. La
religione non fornisce salvezza. Ges Cristo soltanto assicura la salvezza. D'altra parte, la
rivelazione non distrugge la religione, ma l'adempie.
La religione il territorio dell'esperienza spirituale. lo sforzo dell'uomo di sviluppare quella parte
di s che volta verso il divino. Per conseguenza, il valore di una religione varier in proporzione
alle doti spirituali dei suoi aderenti. La rivelazione, d'altra parte, il territorio della fede. Essa non
basata sull'esperienza personale: invece, chiede all'uomo di affidarsi all'esperienza di un altro, di
Uno che venne dall'alto e nacque nella gloria. Da allora in poi, la rivelazione offerta al povero.
Solo la fede importante, insieme con la grazia che opera nella debolezza umana.
Quindi, se c' opposizione tra il cristianesimo e le altre religioni, questa opposizione non
rappresenta realt incompatibili della stessa categoria: significa, invece, una connessione tra le due
realt. Se vi un pericolo nel sincretismo, c' un eguale pericolo in un radicalismo che, in nome
della fede, non riconosce l'atto religioso e la sua importanza. Un atteggiamento del genere molto
diffuso, oggi. Esso fa della distruzione della religione una condizione della fede, e si oppone
violentemente agli elementi di paganesimo che rimangono nel cristianesimo. Considera, perci, la
distruzione della religione da parte dell'ateismo come una preparazione della fede.
Sembra che l'enciclica Ecclesiam suam reagisca con successo contro un siffatto atteggiamento.
Respingendo l'ateismo come una perversione della natura umana, l'enciclica rivolge un fraterno

appello alle religioni non-bibliche, rendendo cos testimonianza sia alla loro vitalit sia ai valori che
esse continuano a custodire. L'enciclica Evangelii praecones di Pio XII specialmente importante
perch ha dato un'ammirevole descrizione dell'atteggiamento del cristianesimo verso i valori
religiosi pagani, dicendo che il cristianesimo ha assunto quei valori, li ha purificati e trasfigurati.
Questi tre aspetti sono della pi grande importanza. Innanzitutto, il cristianesimo assume i valori
delle religioni pagane e non li distrugge. Ci vero teologicamente, poich il Cristo, come abbiamo
detto, venuto per prender possesso di ogni uomo, e chi vale di pi l'uomo religioso. vero anche
storicamente. Infatti, sebbene il cristianesimo cominci sempre con l'identificarsi, in un paese
pagano, opponendosi agli errori del paganesimo, successivamente assume gli elementi validi del
paganesimo. L'evangelizzazione dell'Occidente fornisce una chiara prova di questo processo. Il
cristianesimo ricuper tutti i valori delle religioni greche e romane. La Vergine Maria sostitu le dee
pagane nei templi. Natale e la Candelora sostituirono il ritmo delle celebrazioni pagane.
Un altro aspetto di quest'assunzione cristiana di ci che pagano nella rivelazione riguarda le sue
diverse espressioni. Abbiamo detto che il genio religioso delle razze differente e che il
cristianesimo deve assumere questo genio peculiare in tutte le sue diversit. Comunque, fino ad ora
solo il mondo occidentale stato evangelizzato sia nella sua cultura che nel suo spirito religioso, e il
cristianesimo che il mondo occidentale ha diffuso stato un cristianesimo occidentale.
Qui sfioriamo problemi fondamentali. Un chiaro tratto della nostra situazione attuale il rifiuto del
cristianesimo da parte di razze del lontano e del medio Oriente in nome della loro propria religione.
Dobbiamo ammettere che questa reazione giustificata, in quanto la rivelazione cristiana ad essi
presentata si identifica con il tipo di cristianesimo praticato in Occidente. Ci che essi giustamente
rifiutano non il cristianesimo, ma la forma occidentale del cristianesimo. Questo un caso di
effettiva distruzione dei valori culturali a cui quelle razze hanno il diritto e il dovere di essere
attaccate.
A questo punto, si potrebbe introdurre giustamente una difficolt. Non troppo ottimistico il
giudizio che abbiamo dato del paganesimo? Il rapporto degli elementi pagani con il cristianesimo
solo quello di assunzione? L'uno non implica forse una frattura con l'altro? Questi interrogativi sono
del tutto giustificati. Se prendiamo l'atto religioso nella sua realt teoretica, esso un aspetto della
creazione, e quindi buono. Ma questo atto, cos come stato, di fatto, espresso nelle religioni
storiche, sempre, pi o meno, deformato. Le religioni dell'uomo, come tutte le cose umane,
appartengono a un mondo segnato dal peccato e ne portano le tracce. In questo senso, esse sono
ostacoli al tempo stesso in cui sono trampolini di lancio. Il secondo servizio che la rivelazione rende
alla religione ha a che fare con questo aspetto della questione. La rivelazione purifica il
paganesimo. il Dio invisibile che il pagano adora attraverso realt visibili, ma la sua adorazione
spesso si arresta alle realt visibili, e quindi degenera nell'idolatria. S. Paolo ce lo insegna nella
parte iniziale della sua Epistola ai Romani: Dalla creazione del mondo, gli uomini hanno intravisto
qualcosa della sua invisibile natura, del suo eterno potere e della sua divinit, quali si manifestano
attraverso le sue creature... ed essi hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con
rappresentazioni dell'uomo corruttibile, di uccelli, di bestie e di rettili (Rom. 1,20-23).
certamente un fatto che le religioni pagane si presentano piene di elementi conturbanti e sinistri. A
volte sembra che esse siano dominio privilegiato delle forze del male. I Padri della Chiesa non
avevano interamente torto nel riconoscere forze demoniache all'opera, per cercare di divergere su s
medesime il naturale movimento del cuore dell'uomo verso Dio. I riti religiosi sono degradati dalla
magia e ridotti a servire le passioni umane; la superstizione sostituisce la preghiera, il desiderio
dell'insolito sostituisce il senso del mistero. Straordinarie perversioni, prostituzioni consacrate,
sacrifici di bambini, mutilazioni sessuali: tutte queste cose sono il risultato, come osservava s.
Paolo, di una perversione dello spirito.
A un livello pi elevato, le pi profonde ricerche delle religioni rimangono tentativo. Le linee di
separazione tra il divino e il creato non sono mai chiaramente tracciate. Anche le pi grandi menti
non sono emerse da un panteismo che dissolve il divino nell'universo e non arriva all'idea di un Dio
trascendente e personale. L'esperienza spirituale diviene un fine in s: anche in quest'esperienza

l'uomo si arresta a se stesso, e la sua pi sublime dimensione diviene oggetto di auto-adorazione. Il


mistero del male viene, per cos dire, dislocato: concepito o come un peso che l'uomo deve
sopportare, o come il polo negativo dell'essere, eternamente opposto al bene in una terrificante
dialettica.
Anche al livello della religione, dunque, il cristianesimo fa sentire la sua influenza. Naturalmente,
sappiamo perfettamente bene che il cristianesimo collocato su un altro piano. Lo abbiamo
dimostrato descrivendo la sua specifica natura. Ci nondimeno, anche a questo livello, il
cristianesimo mostra un rapporto con i valori religiosi pagani. La salvezza portata dal Cristo non
consiste nel sostituire un'altra realt a quella della natura. l'uomo, la sua propria creatura, che il
Verbo viene a salvare, e l'uomo che egli ha creato un uomo religioso. Quindi, il Verbo venuto
anche per trasfigurare i valori religiosi.
facile dimostrare questa trasfigurazione ai diversi piani dove si trova l'atto religioso. A tutti questi
piani, la vita dello Spirito santo viene a prender possesso dell'uomo religioso, per condurlo nella
vita stessa di Dio. L'uomo pagano cerca Dio attraverso i segni naturali che manifestano la divinit;
come dire che egli separato da Dio da tutta la sua divina trascendenza. L'uomo non pu
attraversare l'abisso della trascendenza, ma Dio lo pu. Egli cerca l'uomo, piccolo com', e lo
innalza fino a se stesso, attirandolo nella propria intimit, cio nella vita stessa della santissima
Trinit.
Ma quest'uomo che attirato nell'intimit della vita di Dio lo stesso uomo che cercava Dio
attraverso i segni. E questi stessi segni queste hierophanie che riuscivano a rivelare
esteriormente la vita spirituale ora servono ad esprimerla interiormente. Se il fuoco esprimeva la
potenza purificatrice di Dio, l'acqua la sua forza unificante e il soffio la sua potenza creatrice, tutte
queste immagini possono ora designare le azioni delle persone divine. Lo Spirito il fuoco che il
Cristo venne ad accendere sulla terra, il soffio divino che ridest gli apostoli, l'acqua viva che
sgorgava dal trono di Dio e dell'Agnello.
Se gli atti religiosi dell'uomo sono stati il punto di inserimento del sacro, quegli stessi atti ora
significano l'adempimento del desiderio che hanno suscitato. Ci implica una nuova nascita, non
della carne ma dello spirito, che d origine ad una vita che l'incorruttibile vita di Dio e non la
fragile vita della carne. Ci implica nozze che sono una partecipazione allo sposalizio del Verbo con
l'umanit, che introducono l'anima alla partecipazione dei beni divini. Ci implica la morte, che non
pi una separazione dell'anima dal corpo, ma la deposizione della vita mortale allo scopo di
risorgere con il Cristo.
L'esperienza interiore, inoltre, parte di quella natura umana che raggiunta dalla grazia.
Naturalmente, se questa esperienza pretende di essere sufficiente a se stessa, specialmente se si
considera superiore alla fede, diviene la tentazione suprema. Per contrasto, comunque, se si apre
alla grazia, questa esperienza raggiunger il supremo adempimento. Ma se, come ha detto il Padre
de Lubac, il mistero non diviene mistica, se non si interiorizza, allora rimarr al livello di una fede
meramente esteriore e di una pratica formale.
Quest'ultima osservazione ci porta a due importanti questioni pastorali. Abbiamo detto poc'anzi che
il rapporto tra il cristianesimo e il paganesimo reciproco. Il cristianesimo necessario perch la
rivelazione sia adempiuta, ma la effettiva qualit di quest'adempimento dipende dalla qualit
dell'uomo religioso trasformato dalla rivelazione. Per conseguenza, il cristianesimo ha bisogno di
una religione naturale, proprio come ha bisogno di tutte le realt umane, poich la sua sola missione
di redimere ci che prima stato creato.
E qui ci troviamo di fronte al problema del sacro nel mondo contemporaneo. Se la grazia viene a
prender possesso dell'uomo che gi religioso, che accadr quando l'uomo non lo sar pi, quando
egli avr perduto il senso del sacro? Come pu la luce divenire il simbolo del sole di giustizia che
sorge a oriente per illuminare una nuova creazione, se il sole ha cessato di essere una hierophania
ed concepito come nient'altro che una colossale esplosione atomica?
Come pu un pasto divenire il segno e il sacramento della comunione dei cristiani con il Cristo e
degli uni con gli altri, se ha perduto la dignit e il carattere sacro che aveva una volta, ed

semplicemente la soddisfazione di un istinto e non pi un'attivit umana che esprime comunione?


Come pu l'amore umano, profanato dall'erotismo e svuotato del suo carattere sacro e del suo
mistero, essere ancora un simbolo dell'amore del Cristo per la sua Chiesa? Come pu la morte,
privata dall'eutanasia del suo significato di atto personale di totale abbandono a Dio, significare
ancora una transizione alla vita veramente autentica? Solo cose che hanno un significato possono
essere trasfigurate. Il dialogo della rivelazione con il mondo pagano attraversa il problema della
religione e dell'ateismo, cio, il problema dell'uomo religioso. La rivelazione, di fatto, soffre meno
della religione nel mondo d'oggi, ma quelli che pensano che la rivelazione possa andare avanti
senza religione sono in errore. l'errore di Bonhoeffer e di Tillich, e anche di Robinson che ripete
le loro questioni. Se rivolta all'uomo senza Dio, la rivelazione non significa niente di pi che attivit
umana, ha ragione, allora, Jeanson, di invitare i cristiani a liberare il cristianesimo dal peso di Dio, a
liberare la rivelazione dalla religione.
Ma il problema stato posto male, i suoi tratti caratteristici non sono stati chiariti. Il problema non
se la rivelazione pu andare avanti senza il sacro: il problema di conoscere i punti di contatto con
il sacro: meglio ancora, poich i punti di contatto con il sacro sono gli stessi, il problema di sapere
come possiamo esprimere nel linguaggio di oggi ci che troppo spesso continuiamo ad esprimere
nel linguaggio di ieri. Siamo prigionieri di parole, non veniamo alle prese con le cose.
Il sacro, in realt, c' sempre, ma noi non sappiamo come riconoscerlo, e per questa ragione non
riconosciamo pi l'uomo religioso che la fede deve raggiungere per salvarlo. Non si trova il sacro
nelle retroguardie del tradizionalismo, nel mondo d'oggi, ma nelle prime linee della ricerca viva.
Abbastanza stranamente, troviamo il sacro dov' sempre stato, ma dove il mondo d'oggi lo scoprir
solo mediante un incontro nuovo e vitale. Come vide il padre Teilhard, il bisogno dell'adorazione
torna a vivere nell'umanit in cammino.
Il sacro sorge ancora nel mondo della natura, precisamente nella misura in cui la scienza raggiunge
nuove dimensioni. Il sole diviene nuovamente un segno sacro, precisamente nella misura in cui si
scopre che esso una colossale esplosione atomica, carica di tutto il terrore che queste parole
suggeriscono agli uomini che sentono che questo fragile pianeta minacciato. L'uomo moderno
riscopre il sacro nelle profondit dello spazio e del tempo, immagini dell'infinito migliori di quel
cosmo cos limitato che suscitava sentimenti religiosi nell'uomo antico. Inoltre, al livello
dell'attivit umana che la tecnologia, raggiungendo i propri limiti, si scontra con un mondo che non
pu dominare, e ritorna al mistero di Dio attraverso il mistero dell'uomo, immagine di Dio. Quando
la tecnologia tenta di penetrare le pi profonde realt umane e sfiora le leggi della trasmissione della
vita, essa incontra nell'amore umano un elemento che scaturisce dal mistero della comunione delle
persone, un elemento che non pu essere ridotto a principi eugenici o demografici. Quando la
tecnologia incontra la morte si sente totalmente inadeguata, perch non ha risposta per spiegare il
significato personale della morte, che implica, evidente, il destino ultimo dell'uomo.
Il problema di domani non il problema dell'ateismo. il problema di un nuovo paganesimo che
in cerca di s. questa nuova fonte di dialogo che la Chiesa sta effettivamente cercando mentre
ascolta la voce di questa epoca e cerca di interpretare i segni dei tempi. Perch Dio parla attraverso i
segni dei tempi, nella natura umana. L'ateismo solo una transizione dal paganesimo di ieri
quello della civilt rurale al paganesimo di domani quello della civilt industriale. Il
paganesimo di domani il problema religioso per l'uomo moderno. questo problema che la
Chiesa deve affrontare, perch questo che essa deve assumere, purificare e trasfigurare, se deve
essere ancora vero che un cristiano non altro che un pagano in via di conversione.
Questo ci porta alla seconda questione, che concerne la presenza di elementi pagani nel
cristianesimo. Che vi siano elementi pagani nel cristianesimo non ci dovrebbe sorprendere.
Abbiamo visto che il cristianesimo ha bisogno dell'uomo pagano per salvarlo. Ugualmente, non c'
mai un cristiano in senso assoluto; ci sono soltanto dei pagani in vari gradi di conversione.
Comunque, pu accadere, e spesso accade, che l'elemento nettamente cristiano nel cristianesimo
sia, in ultima analisi, impoverito e l'elemento pagano predomini.

un fatto che molti cristiani vivono il cristianesimo non tanto secondo ci che costituisce il suo
contenuto specifico, ma piuttosto secondo il loro proprio modo di essere pagani, vivono, cio, il
cristianesimo come una religione. Poich sono nati in paesi cristiani, essi adempiono per mezzo di
riti cristiani il bisogno umano di consacrare gli atti principali della vita umana: nascita, matrimonio,
morte. Questo paganesimo superiore alle altre forme, perch un paganesimo purificato, ma
dobbiamo riconoscere il fatto che spesso non niente di pi di un paganesimo, privo di specifica
fede cristiana.
Comunque, deve essere condannato questo tipo di paganesimo? In un mondo minacciato
dall'ateismo, la sostanza del sacro dev'essere difesa dovunque si trovi. Il fatto che gli uomini non
siano contenti di dissociare Dio dagli atti principali della loro vita l'indicazione di una base
religiosa che fornisce il terreno dove la fede pu crescere. Inoltre, il cristianesimo richiede un
approccio personale. del tutto normale che, in un paese cristiano, molti vivano il cristianesimo
come religione prima di scoprirlo realmente come rivelazione.
La tensione tra paganesimo e cristianesimo completamente normale. Come abbiamo veduto, essa
esiste non solo tra cristianesimo e religioni non-cristiane, ma anche tra cristianesimo come
rivelazione e cristianesimo come religione, tra un cristianesimo personale e un cristianesimo
sociologico, tra un cristianesimo impegnato e un cristianesimo abitudinario. Sarebbe un serio errore
non riconoscere l'importanza di questa tensione, eliminare dal cristianesimo tutto ci che non
impegno personale, disdegnare il cristianesimo sociologico. Un errore del genere significherebbe
abbandonare all'ateismo un intero popolo che trova nel cristianesimo un mezzo per soddisfare il suo
naturale bisogno di Dio nella forma pi innocente, un popolo che trova disponibile nel cristianesimo
il seme di rivelazione che germoglier in qualcuno di loro.
Abbiamo detto che il cristianesimo non consiste nel conoscere Dio; per questo, sufficiente la
religione. Ma, in realt, senza il cristianesimo, le altre religioni non conoscono il vero Dio, o,
meglio ancora, non conoscono veramente Dio. una cosa tremenda conoscere Dio veramente. il
compimento della natura dell'uomo, il fondamento della sua moralit, il cuore della sua societ. La
Chiesa ha sempre affermato che la sua missione non era solo quella di illuminare con la luce del
Cristo il destino soprannaturale ed escatologico dell'uomo, ma anche di illuminare la vita naturale
dell'uomo, fornendogli le condizioni della sua felicit terrena. Questo qualcosa che non dobbiamo
dimenticare.** Da questo punto di vista si pu parlare di religione cristiana come si parla di
filosofia cristiana, di civilt cristiana, di usanze cristiane. Non che il cristianesimo possa essere
semplicemente una filosofia, una civilt, una religione, o un tipo di umanesimo, sia pure di
altissimo livello. Questa interpretazione sarebbe completamente sbagliata. Il cristianesimo pi di
questo: un'azione salvifica di Dio. Ma esso consente altres alle realt umane di trovare la loro
pienezza, anche prima di introdurre la trasfigurazione che le rende capaci di superare se stesse. In
questo senso il cristianesimo esercita un'influenza sulla religione, aiutandola a purificarsi e a
liberarsi dalle tenebre.
Ma anche vero che nel cuore stesso del cristianesimo l'elemento religioso soggetto a degradarsi.
Esiste quindi il problema non di purificare il cristianesimo dal suo elemento religioso, bens di
purificare questo elemento religioso stesso. Molti elementi di piet popolare devozione alla
vergine Maria e ai santi, processioni e pellegrinaggi, benedizioni ed esorcismi, medaglie e scapolari,
candele e offerte votive accrescono un elemento religioso che ha il suo posto nel cristianesimo e
che la Chiesa ha sempre difeso contro coloro che vorrebbero eliminarlo. Ci nondimeno, questi
elementi religiosi possono facilmente degenerare in superstizione, e quindi hanno continuamente
bisogno di essere purificati.
Da queste osservazioni possiamo trarre una conclusione circa l'attenzione che il cristianesimo deve
prestare al paganesimo. Da una parte, il problema complesso ed implica le religioni pagane
tradizionali, il neo-paganesimo della civilt industriale, ed anche il paganesimo all'interno della
Chiesa. Dall'altra parte, c' il valore del paganesimo. Preso come religione naturale, il paganesimo
sembra essere una dimensione dell'umanesimo. Allo stesso modo, il paganesimo un elemento del
bene comune temporale, al tempo stesso che presenta al cristianesimo ci che il cristianesimo

chiamato a salvare. Il paganesimo offre al cristianesimo i suoi punti di contatto con le religioni noncristiane e con i bisogni del mondo contemporaneo. Cominciando con il paganesimo ed il suo
orientamento verso il cristianesimo, diventa possibile un popolo veramente cristiano. Una falsa
concezione della purezza della rivelazione in rapporto al paganesimo contraddirebbe allo spirito del
mistero dell'incarnazione.
* Cf. J. Danilou, I santi pagani dell'Antico Testamento, Queriniana, Brescia 1964.
** Cf. M. Massard, Fede cristiana, verit dell'uomo?, Queriniana, Brescia 1968.

George A. Lindbeck
LA STRUTTURA DEL DISSENSO CATTOLICO-PROTESTANTE
Fu, credo, Talleyrand che osserv una volta che francesi e austriaci combatterono per Venezia non
perch fossero in disaccordo, ma perch erano d'accordo: entrambi la volevano. Se solo la comune
struttura, i presupposti, delle loro politiche nazionali fossero stati differenti, non ci sarebbe stata
guerra.
L'analogia non affatto perfetta, ma tuttavia qualcosa di simile si pu dire a proposito dei dissensi
tra cattolici romani e protestanti. Le dispute che infuriarono nel sedicesimo secolo dipesero in parte
da una comune struttura teologica. Quella struttura ora in corso di trasformazione. Tutti noi,
protestanti e cattolici romani allo stesso modo, sempre pi sperimentiamo ed interpretiamo le realt,
sia naturali che soprannaturali, in categorie molto differenti da quelle del passato. Con ci, alcune
delle nostre classiche differenze stanno scomparendo e ne stanno sorgendo delle nuove, che non
sempre seguono i vecchi confini tra le confessioni. Ci non perch l'una o l'altra parte abbia
abbandonato le sue posizioni tradizionali, ma perch queste sono ora sempre pi formulate in
maniera tale da non sembrar pi incompatibili, o almeno non incompatibili alla vecchia maniera.
Vorrei, innanzitutto, ricordare alcuni esempi di ci che molti considerano come conflitti che stanno
scomparendo, poi caratterizzare la nuova struttura, descrivere una divergenza che si sta sviluppando
all'interno di essa, e, infine, dire alcune parole circa le trasformazioni che alcuni degli antichi
dissensi subiscono entro la nuova struttura.
La nostra attenzione si limiter in larga misura ai problemi teologici nel pi stretto senso del
termine. Pochissimo si dir circa la novit radicale della situazione sociologica, culturale e politica,
del mondo in cui le Chiese si trovano. Questo concreto ambiente delle Chiese una delle cause che
maggiormente contribuiscono agli sviluppi che discuteremo. Ma dobbiamo, per amore di brevit e
di chiarezza, astrarre da questo problema dei rapporti tra la Chiesa e il mondo, anche se esso
fondamentale e onnicomprensivo, e concentrarci su una selezione dei problemi che esso ha
contribuito a generare. Anche cos, la nostra trattazione sar necessariamente schematica.
I
Noi tutti siamo consapevoli, in qualche misura, che un crescente numero di cattolici e di protestanti
considera molte delle maggiori dispute del passato come ormai cadute in disuso. Abbiamo sentito
dire, per esempio, che la versione di Karl Barth della dottrina riformata della giustificazione
considerata da Hans Kng come buona dottrina cattolica. Abbiamo udito che Karl Rahner dubita
che l'affermazione tridentina della transustanziazione differisca fondamentalmente da ci che molti
luterani (e, potremmo aggiungere, molti altri protestanti) intendono per presenza reale. Con
riferimento al sacrificio della messa, che molti protestanti del sedicesimo secolo consideravano
come il peggiore degli errori cattolici, qualche cosa di simile ad un accordo attraverso linee interconfessionali si sta sviluppando, in certi circoli. Se veniamo alla Scrittura ed alla tradizione,
scopriamo che ad alcuni cattolici piace usare la frase sola scriptura, anche se aggiungono in ore
ecclesiae, mentre una commissione protestante, della quale mi accaduto di essere membro, ha
proposto la formula sola traditione, alla conferenza Faith and Order del Consiglio Mondiale delle
Chiese, a Montreal, nel 1963. Sempre pi i nostri dissensi sembrano concentrarsi sulla dottrina della
Chiesa o derivare da essa, e anche qui molti teologi delle due parti pensano ormai per categorie
comuni, il che fa s che le nostre differenze sembrino variazioni su temi comuni, piuttosto che
sintesi totalmente discordanti, come apparivano una volta. Per parte mia, sto diventando sempre pi
scettico sulla possibilit di trovare una o due divergenze da cui tutte le altre derivino. La sola fide e
la sola scriptura, che cos bene riassumevano le differenze al tempo della Riforma, non servono pi
a questo scopo. Lo sforzo di Paul Tillich di scoprire il cuore della questione nel principio

protestante il principio che niente di finito pu essere assolutizzato sembra sempre meno
applicabile, data la crescente consapevolezza, da parte cattolica, che la Chiesa semper
reformanda, e il riconoscimento complementare, in molti circoli protestanti, che, come Tillich
stesso ha riconosciuto, la sostanza cattolica indispensabile. Il teologo cattolico Van de Pol ha
cercato di segnare lo spartiacque, mettendo in contrasto la rivelazione come parola e la rivelazione
come realt, e Congar ha fatto una distinzione su per gi simile in termini cristologia, ma ci sono
teologi protestanti che insistono sul bisogno dell'ontologia, e cattolici che non vedono nulla di
sbagliato nel fare della parola sistematicamente il centro, se lo si fa correttamente.
Si pu andare anche oltre. Vi sono indicazioni che noi stiamo avanzando verso un'era in cui
troveremo sistemi teologici strutturati in modo simile da entrambe le parti della divisione
confessionale. Un dogmatico protestante, che segua l'esegeta protestante francese Cullman,
modeller la sua dogmatica sulla Heilsgeschichte, sulla storia della salvezza, ma cos fa anche il
teologo cattolico svizzero Johannes Feiner.(1) Se Hans Kng alcuni anni fa (2) o forse anche ora
avesse scritto una dogmatica, questa probabilmente sarebbe stata di struttura barthiana, ed io
stesso non ritengo impossibile costruire una teologia sistematica protestante che sia
fondamentalmente rahneriana nello schema. Effettivamente, scambi di questo genere sono gi
comuni nelle discussioni ecumeniche. Troviamo istanze di partecipanti protestanti e cattolici che
usano principi sistematici, punti di partenza e metodi simili. Ci non significa, certamente, che i
loro dissensi dogmatici scompaiono, ma questi dissensi, in alcuni casi, diventano, per cos dire,
eccezionali. Su oltre il novanta per cento, o anche pi, del ciclo dogmatico, essi dicono per lo pi le
stesse cose, per lo pi negli stessi modi; ma poi spingono e tirano le loro costruzioni teologiche
simili, allo scopo di raggiungere conclusioni differenti su un numero relativamente piccolo di punti,
il cattolico, per esempio, affermando un certo tipo di autorit magisteriale che il protestante esclude.
Ci, per ora, in gran parte limitato a uomini il cui pensiero stato interamente influenzato dal
dialogo ecumenico, ma sembra probabile che continui a svilupparsi rapidamente e ad influenzare
sempre pi la normale letteratura dogmatica anche quando questa non abbia alcuno scopo
ecumenico formale.
Come ho gi detto, la mutata struttura della discussione ecumenica non solo porta alla
riconciliazione di antiche divergenze, ma pu anche provocare l'emergenza di nuove. Avremo, pi
avanti, molto da dire circa la disputa sull'esistenzialismo estremo, come esempio di questo.
Comunque, importante ricordare che un conflitto del genere non tra protestanti e cattolici in
quanto tali, ma taglia di traverso le frontiere confessionali. Alcuni cattolici, Gotthold Hasenhttl, (3)
per esempio, hanno molta pi simpatia per l'esistenzialismo di Rudolph Bultmann che non molti
protestanti; e coloro che si oppongono all'esistenzialismo estremo, a loro volta, siano protestanti o
cattolici, spesso formulano le loro obiezioni in termini molto simili.
II
Quali sono, dunque, le caratteristiche della struttura di pensiero contemporanea che portano al
rimaneggiamento delle linee teologiche? Sarebbe presuntuoso pretendere che una breve descrizione,
come io ne dar, possa essere adeguata. Pu darsi che essa tralasci i tratti realmente salienti, e
certamente sar incompleta. Ma la mia intenzione innanzitutto di stimolare il pensiero intorno ai
mutamenti in atto nel contesto dei nostri dissensi e intorno all'influenza che ci esercita sulle
discussioni ecumeniche. Questo, io spero, si pu fare anche con un'analisi inadeguata.
Sono d'accordo con quelli che suggeriscono che, almeno per quanto riguarda la teologia, la
maggiore differenza tra il nostro modo di vedere e quello del XVI secolo che noi siamo
immensamente pi consapevoli, sia sperimentalmente che in modo riflesso, delle dimensioni
storiche della realt, sia umana che non-umana. L'immagine classica, relativamente statica, del
mondo dalle due storie sta finalmente scomparendo. Essa cominci a influenzare il pensiero
cristiano nel periodo patristico, divenne pienamente articolata e dominante, in versioni
cristianizzate, durante il medioevo, e dur a lungo, sia nel protestantesimo che nel cattolicesimo, in

quelli che sono chiamati tempi moderni. In effetti, non divenne teologicamente insostenibile se non
dopo lo sviluppo della conoscenza storica e delle teorie evoluzionistiche nel XIX secolo, e la
demolizione, non completata fino al XX secolo, del mondo statico, non-storico, della fisica
newtoniana. Alcuni osservatori sarebbero inclini a considerare l'influenza di questa struttura
tradizionale come ancora visibile nel pensiero di giganti contemporanei, come Paul Tillich e Karl
Barth. Sia come sia, il teologo di oggi sa di essere collocato in un universo le cui dimensioni
temporali sono inconcepibilmente maggiori di quelle del XVI secolo. L'epoca cosmica in cui
viviamo ebbe inizio non seimila anni fa, ma molto pi di sei bilioni di anni fa, e andr avanti,
secondo le pi recenti indicazioni da parte degli astrofisici, o indefinitamente o per altri 70 bilioni di
anni ancora. Molto pi importante della semplice durata temporale, comunque, il fatto che noi
descriviamo il mondo come un processo unitario di sviluppo in cui il passato non affatto simile al
presente, n il presente simile al futuro. La vita cominciata dopo ere d'evoluzione stellare, durante
le quali questa terra, per lo meno, era senza vita. Le amebe furono seguite dall'uomo dopo 600
milioni di anni, e i discendenti dei primi trogloditi, dopo alcune centinaia di migliaia di anni, sono
diventati astronauti che cercano di arrivare alle stelle.
Ora l'immagine che noi ci rappresentiamo di questo universo in evoluzione non cos
ottimisticamente progressiva come era spesso, una o due generazioni fa. Ha acquistato tratti
apocalittici anche agli occhi di molti non-cristiani. La corruzione dell'ottimo il pessimo, quindi
ogni progresso, per quanto veramente meraviglioso, porta con s la possibilit di sempre maggiori
catastrofi. Per conseguenza, noi non possiamo mettere in contrasto la nostra visione con quella del
XVI secolo in termini di ottimismo e pessimismo, o di fiducia e sfiducia nel progresso. La
differenza pi radicale. Noi non condividiamo pi l'ipotesi di 400 anni fa che le strutture
fondamentali del mondo fisico, della vita umana e dell'esistenza religiosa sono sempre state e
sempre saranno pi o meno le stesse, fino alla fine dei tempi. Il mondo degli esseri umani si
trasforma con velocit sempre accelerata, non come un fluire indeterminato, ma in una direzione
definita, il cui fine ultimo insieme affascinante e terribile, perch sembra offrire la possibilit di
conquiste inimmaginabili e di inconcepibili disastri, ed , in ogni caso, al di l della possibilit di
una predizione empirica. Le implicazioni religiose di tutto ci sono immense. Si aggiunga,
semplicemente, che ci che trascende la realt che sperimentiamo e conosciamo non pi concepito
(come lo era in un universo non-storico, dalle due storie) come il regno dell'eterna verit, del valore
e dell'essere al di sopra di noi, o dove si accentua l'immanenza del divino dentro e alla base
dell'essere che fornisce le salde e permanenti strutture della vita. Invece, ci che trascende il
mondo della nostra esperienza sta avanti, nelle indecifrabili possibilit di bene e di male in cui ci
troviamo lanciati a velocit sempre crescente. Non probabile che i nostri contemporanei
incontrino la trascendenza come qualcosa di discontinuo dal mondo, come qualcosa in cui si pu
entrare fuggendo dal tempo nell'eternit. La incontrano, invece, come il futuro, che continuo,
anche se radicalmente diverso, al nostro mondo presente: la incontrano entro la realt della loro
esperienza, come anticipazioni o proiezioni del mondo avvenire.
Questa l'esperienza tipicamente moderna della trascendenza, ma, naturalmente, molti dei nostri
contemporanei non sembrano averla, o almeno non la articolano coscientemente. Siamo tutti
consapevoli della crescente secolarizzazione e dell'ateismo pratico, se non teoretico, del pensiero e
del sentimento dei nostri giorni. Il senso della trascendenza adatto ad una visione della duplice
storia sta scomparendo, e con esso l'importanza delle costruzioni teologiche e delle forme di piet
sviluppatesi all'interno di quella struttura. Questo, presumibilmente, il nocciolo di verit contenuto
nelle distorsioni delle teologie della morte di Dio. E' effettivamente vero che la nostra
consapevolezza della storicit del cosmo e dell'esistenza umana sta distruggendo molte delle idee
che i cristiani hanno spesso sostituito al Dio vivente del nostro Signore Ges Cristo e di Abramo, di
Isacco e di Giacobbe.
Se la nostra situazione vista in questi termini, allora la risposta teologica fondamentale alla nuova
problematica va trovata nella rinascita del pensiero biblico escatologico. A questo appartiene il
futuro teologico, se l'analisi che abbiamo suggerita sostanzialmente esatta. Certo, questa rinascita

stata in parte preparata dalla ricerca di studiosi moderni, in correlazione essa stessa con la
prospettiva storica, che ha reso evidente come fosse radicalmente non-biblica la struttura classica di
quasi duemila anni di pensiero cristiano. Ma l'escatologia biblica, come tutti sappiamo, non sta
guadagnando terreno solo perch i teologi pensano di dover esser fedeli alla testimonianza
scritturistica, anche se questo, per fortuna, vi ha una parte importante. Il suo successo, comunque,
va attribuito in massima parte al fatto che l'escatologia del Nuovo Testamento acquista significato,
nella struttura moderna, come non accadeva nella visione classica. Per conseguenza, essa non deve
pi esser confinata in una specie di post-scriptum nei manuali teologici e nella spiritualit cristiana.
Pu ritornare nuovamente al centro, cos che la speranza, l'anticipazione e l'apertura verso la futura
salvezza che Dio sta preparando per il mondo nel suo insieme possano divenire nuovamente
dimensione essenziale e movente principale della fede e dell'amore cristiano.
, dunque, questa rinascita dell'escatologia biblica, in connessione con il senso moderno del
carattere storico dell'esistenza che, a mio parere, fornisce la nuova struttura, la struttura comune, sia
per la teologia protestante che per quella cattolica, che sar probabilmente importante per le Chiese
in futuro.
III
Abbiamo detto che una modificazione nella struttura cambia i problemi passati e ne genera di nuovi.
Cominciamo ad illustrare i problemi nuovi, descrivendo due diversi modi contemporanei di
appropriarsi dell'escatologia biblica, che chiamer, per mancanza di termini migliori, il modo
'oggettivistico' e il 'non-oggettivistico'. Passeremo quindi, nell'ultima sezione di questo studio, a
qualche accenno di ci che accade alle antiche controversie cattolico-protestanti quando esse sono
viste entro la versione oggettivistica dell'escatologia.
In un certo senso, pu favorire fraintendimenti il contrapporre 'oggettivistico' a 'non-oggettivistico',
perch, all'interno della struttura storico-escatologica, n l'uno n l'altro di questi termini significa lo
stesso che nei contesti tradizionali. Entrambe queste posizioni concordano nell'accentuare le
dimensioni esistenziali e personali della fede. difficile, in effetti, immaginare un autentico
recupero dell'escatologia biblica che non lo faccia. Il Nuovo Testamento mette in rilievo che l'uomo
intero, nelle pi intime profondit del suo essere, deve affrontare la necessit di decidere per o
contro il futuro, per o contro la nuova et che cominciata nel Cristo e sar consumata al suo
ritorno. Il grido: Pentitevi, perch il regno di Dio vicino, sta proprio al centro del vangelo.
Comunque, quelli che io chiamo non-oggettivisti, anche se non sono formalmente e coscientemente
esistenzialisti, tendono ad escludere ogni cosa eccetto questa accentuazione esistenziale-personale.
Tendono ad ignorare o a demitizzare le oggettive immagini cosmiche attraverso le quali gli scrittori
biblici espressero la loro fede e la loro speranza nella trasformazione realisticamente futura da parte
di Dio di questo mondo, il mondo concreto in cui noi viviamo, in un nuovo cielo ed una nuova terra.
Gli oggettivisti, al contrario, mantengono questi temi e sono interessati a tentare di dimostrare come
attraverso di essi si possa dare un'interpretazione autenticamente cristiana, autenticamente biblica
della moderna concezione del mondo storico-evoluzionistica. Questo mondo, essi pensano, nella
sua stessa realt fisica, sar trasformato nel regno di Dio che cominciato in Ges Cristo. Tutto ci
che puro, degno di stima e di lode, sia che si sviluppi nella sfera esplicitamente cristiana o no, che
sia di carattere specificatamente religioso o apparentemente secolare, entrer nella consumazione
finale. Abbiamo tutti, io credo, una certa familiarit con i modi in cui certe versioni di questa
concezione insistono nel dire che, dunque, gli autentici progressi umani di ogni genere hanno valore
eterno: il corso della storia terrena e i compiti secolari che necessariamente occupano l'attenzione
della maggior parte degli uomini per la maggior parte del tempo non sono semplicemente lo sfondo
insignificante delle realt spirituali, ma fanno parte della loro stessa costituzione.
Ci non affatto la stessa cosa di un immanentismo che sostituisca l'evoluzione, creativa o di altro
genere, a Dio. La manifestazione finale del regno non sar un'impresa terrena; irromper
all'improvviso nella storia, dall'alto, proprio come cominci in Ges Cristo, non come una novit

emergente, ma come un atto trascendente di Dio. Ancora, secondo questa applicazione


dell'escatologia alla moderna concezione del mondo, Dio guida ora tutti i processi della natura e
della storia in preparazione dell'adempimento, proprio come tutta la storia prima di Cristo fu
preparazione della sua venuta nella pienezza dei tempi e come adempimento di tutti i tempi.
Questa fine della storia non pu, naturalmente, essere immaginata o descritta. Pu essere
rappresentata solo in immagini o simboli, siano quelli dell'Apocalisse di s. Giovanni, siano, ai nostri
giorni, le immaginazioni scientifiche, forse egualmente da non intendere alla lettera, di Teilhard de
Chardin. E tuttavia, quella fine e quell'adempimento sono reali. Le enunciazioni che lo asseriscono
sono affermate nella fede come proposizioni vere, nel senso empiricamente, bench
escatologicamente, verificabile che la moderna filosofia analitica ritiene condizione di un discorso
che abbia significato.
L'approccio che sto cercando di descrivere non stato ancora formulato in modo sintetico, ma il suo
inizio visibile dappertutto. Io stesso ne sono divenuto chiaramente consapevole, dapprima, come
di una possibile opzione teologica nell'opera di Karl Rahner, ma ora lo si pu trovare, in fase
incipiente, in un passo dopo l'altro dei documenti conciliari, specialmente nella costituzione sulla
Chiesa nel mondo moderno.
Esso ha, penso che si debba ammetterlo, pi affinit con l'accentuazione tradizionale cattolica che
con quella protestante, semplicemente perch non si limita alle categorie personalistiche ed
esistenziali, ma usa anche costruzioni oggettive, ontologiche. Pu essere enunciato in termini che lo
fanno sembrare una versione storicizzata di asserzioni quali, per esempio, quella che la grazia non
distrugge, ma perfeziona la natura, e che l'anima la forma del corpo. Pu essere presentato, anche
se non sempre molto plausibilmente, come, in fondo, una specie di posizione tomistica
convenientemente reinterpretata nel contesto di una concezione del mondo moderna e storica,
invece che statica e aristotelica.
Ci nondimeno, qualcosa di fondamentalmente diverso dallo scolasticismo del XVI secolo, a cui
si opposero i riformatori, e per conseguenza le antiche critiche semplicemente non sono pi
pertinenti. Rappresenta un tipo di approccio che i protestanti possono adottare e, di fatto, sotto la
spinta degli sviluppi moderni, un certo numero di loro stanno lavorando indipendentemente lungo
linee parallele. Esempi di tali pensatori sono i giovani teologi tedeschi, Wolfhart Pannenberg e, pi
particolarmente, Jrgen Moltmann.
Comunque, probabilmente vero che la maggior parte dei protestanti si oppongono nettamente a
questo genere di escatologia obiettiva e preferiscono versioni che, anche se non formalmente
esistenziali, sono pi esclusivamente interessate alla realt presente e personale dell'Eschaton. In
parte, senza dubbio, ci perch i teologi protestanti hanno penose memorie dell'ottimismo
evoluzionistico del liberalismo del XIX secolo e per conseguenza sono profondamente diffidenti
verso sforzi che si riconnettono ai concreti sviluppi sociali, politici e intellettuali della storia del
regno di Dio, anche se questi sforzi accentuano gli aspetti trascendenti ed anche apocalittici del
regno assai pi di quanto abbia mai fatto il vangelo sociale. Comunque, vi sono anche obiezioni
fondate sulla ragione, ed altre fondate sulla fede. Per quanto riguarda la ragione, apparentemente
impossibile, per molti teologi, pensare che l'uomo moderno possa concepire la storia come
terminante oggettivamente in qualsiasi altro modo che quello suggerito dagli scienziati quando
parlano dell'inevitabile estinzione della vita umana risultante dall'esplosione o dal morire del sole,
dalle operazioni della seconda legge della termodinamica, dal crollo di un universo oscillante, o da
qualche altra causa naturale. Comunque, se si pensa alle suggestioni delle invenzioni scientifiche,
dei miti dell'utopia marxista, o anche di Teilhard de Chardin, si diviene molto cauti nel pontificare
su ci che l'uomo moderno pu o non pu credere. indubbio, contrariamente a ci che molti
teologi accademici, intellettualistici sembrano credere, che noi ci stiamo movendo verso un periodo
in cui le descrizioni del mondo saranno meno indispensabili e meno mitiche (sebbene, senza
dubbio, i miti ora debbano essere connessi con la scienza) che in passato. Un'altra obiezione pi
specificamente teologica, e quindi pi seria per i nostri fini. Ed che ogni tipo di pensiero
obiettivante, compresa l'attribuzione di una dimensione oggettivamente futura all'escatologia,

pericolosa per la fede. Minaccia, infatti, di sostituire la credenza in ci che ha la pretesa di essere
dottrina oggettivamente vera a quel radicale rischio della decisione, a quella totale apertura al futuro
di Dio, a quella personale autenticit e impegno esistenziale che l'essenza dell'escatologia biblica e
della fede cristiana. Dopo tutto, cos prosegue l'argomento, il cuore del messaggio del Nuovo
Testamento riguarda la decisione dell'uomo, nel presente, per o contro la nuova et che cominciata
con il Cristo. Non si pu permettere che niente distragga da ci. Che giova la futura redenzione
dell'umanit, se gli esseri umani perdono le loro vite in ci che qui e ora?
La provenienza di questa obiezione dalla Riforma evidente. una trasposizione in linguaggio
moderno della sola fide. Comunque, ovvio, in pari tempo, che i riformatori del XVI secolo non
avevano l'avversione per l'oggettivit che hanno tanti dei loro moderni discepoli. Essi credevano
che la fede storica, l'assenso intellettuale alla verit oggettiva della resurrezione e del giudizio
futuro, per esempio, fosse implicita nella fede salvifica, nella fiducia. Per loro, come risulta del tutto
chiaro dagli scritti confessionali di Lutero, le accentuazioni peculiari della Riforma, come la
giustificazione sola fide, erano correttivi necessari delle distorsioni che si erano insinuate nella
tradizione cattolica, e non intendevano minimamente essere costitutive di una interpretazione
fondamentalmente nuova del cristianesimo, come molti protestanti contemporanei, esistenzialisti e
non-esistenzialisti, suppongono. Non vi pu essere dubbio, a mio parere, che, mentre quelli che
respingono l'oggettivit escatologica insistono maggiormente su ci che specificamente
protestante, quelli che l'accettano sono pi fedeli al pensiero globale dei riformatori, il quale, dopo
tutto, rimase fondamentalmente cattolico.
In breve, ci che ho chiamato la versione oggettiva della concezione storico-escatologica trascende i
limiti confessionali. Non n specificamente cattolica n protestante, e fornisce una nuova struttura
comune per la discussione delle divergenze tradizionali, come una teologia puramente esistenziale,
per esempio, non potrebbe fare.
IV
In conclusione, dunque, vorrei indicare, con ostinata brevit, quattro punti di rapprochement entro
questa nuova struttura, e poi fare qualche commento su una persistente, sebbene trasformata, area di
disaccordo.
Il primo punto di centrale importanza dal punto di vista protestante, ma gi stato menzionato e
quindi se ne pu trattare rapidamente. Quando si usano categorie escatologiche, specialmente se
queste sono combinate con un'intuizione personalistica ed esistenziale della storicit della vita
umana, gli antichi conflitti teologici sulla sola fide e la sola gratia, sulla volont libera e la
predestinazione, sul peccato e la concupiscenza, semplicemente scompaiono. Una gran quantit di
lavoro deve essere ancora fatta prima che ci sia chiaro in tutti i particolari, ma gli schemi generali
della riconciliazione sono gi visibili. Sia i cattolici che i protestanti stanno recuperando la
concezione biblica della salvezza come passaggio dall'antica et a quella futura, o come
affrancamento dalla schiavit del peccato alla libert dei figli di Dio, come liberazione da quella
soggezione al passato, che si accompagna a tentativi di autogiustificazione, all'apertura verso il
futuro di Dio. N dall'una n dall'altra parte possiamo dibattere le antiche questioni nei termini di
quell'individualismo che abbiamo ereditato da Agostino forse pi che da ogni altro e che solo dava
senso alle dispute, per esempio, sulla grazia infusa in contrapposizione all'imputazione esterna di
giustizia.
Il superamento dell'individualismo della tradizione occidentale richiama la nostra attenzione su una
seconda area di rapprochement, questa volta ecclesiale. Non solo la Bibbia, ma anche la storia e la
sociologia ci hanno reso pi consapevoli della natura sociale dell'uomo di quanto perfino Aristotele
lo fosse in passato. Abbastanza stranamente, su questo i teologi esistenzialisti pi spinti, con la loro
ignoranza delle strutture oggettive dell'esistenza umana, sono spesso individualisti alla maniera
classica, invece che autenticamente moderni. Sembra che essi trascurino il fatto che gli esseri umani
sono inalienabilmente condizionati dalle varie comunit a cui appartengono e con le quali stanno

nella storia. Le possibilit che si offrono ad un uomo per la decisione esistenziale-personale, per lo
sviluppo e per l'auto-conoscenza, sono derivate dal suo ambiente sociale e storico, anche se questo
ambiente non determina l'uso che egli fa di quelle possibilit. Ognuno, quindi, a cui interessi
l'autenticit personale dovrebbe interessarsi profondamente anche della sua matrice sociale. In
breve, per mettere questa verit di ragione in termini teologici, solo per mezzo di ci che stato
trasmesso nella comunit cristiana e attraverso di essa una persona diventa consapevolmente ed
articolatamente membro del corpo di Cristo. La Chiesa, non primariamente nel senso d'istituzione
autoritaria, ma come comunit, comunione, la madre la madrepatria di tutti noi, e quindi la
sua continuit vivente, la sua cattolicit e, per conseguenza, la sua unit sono della massima
importanza. Una consapevolezza di questi fatti aiuta, forse, a rendersi conto della forza del
movimento ecumenico anche fra quei gruppi protestanti le cui ecclesiologie attualistiche ed
occasionalistiche disintegrano la permanente realt della Chiesa in momenti visibili o invisibili di
pura grazia o santit.
In terzo luogo, quelli che credono che l'uomo un animale sociale nel senso profondamente
interiorizzato che stiamo ora descrivendo, lo concepiscono anche come insopprimibilmente
liturgico. Ogni societ che sia qualcosa di pi di un insieme di individui congiunti solo
esteriormente esprime e realizza la propria unit e trasmette la sua vita comunitaria non
principalmente attraverso l'organizzazione e l'istruzione (indispensabili, per in via secondaria), ma
con la massima vivacit attraverso riti comuni che celebrano gli oggetti supremi della sua
devozione. Questo vero, entro certi limiti, anche sul piano nazionale, con i riti di saluto-allabandiera, giuramenti di fedelt e inaugurazioni presidenziali. Questo fattore enormemente pi
importante nella sfera religiosa, e non meno per le fedi storiche, quali giudaismo o cristianesimo,
che vivono nella memoria degli atti e delle promesse di Dio, dell'esodo dall'Egitto e del nuovo
esodo verso la nuova era che si realizz nella morte e resurrezione del Cristo. precisamente
nell'adorazione, nella celebrazione liturgica di queste memorie e speranze, quando ci implica la
partecipazione attiva, in anima e corpo, dell'intera assemblea, che, anche al livello psicologico e
sociologico, la comunit esiste pi intensamente ed efficacemente. Per dirla in termini teologici,
nell'anamnesis, nel memoriale di ci che il Cristo ha fatto e far, che il nostro Signore pi
pienamente e sostanzialmente presente, con la sua carne e con il suo sangue, in mezzo a noi. Ed
perch cattolici e protestanti pensano ora in termini come questi i quali sono, a un tempo, pi
biblici e pi moderni che in passato che c' un cos sorprendente rapprochement nell'area della
teologia sacramentale e liturgica. Una quarta area di accordo emergente, sebbene parziale, sul
bisogno e sui limiti dello sviluppo nella dottrina e nella vita della Chiesa. Al tempo della Riforma, e
successivamente per secoli, n l'una n l'altra parte possedeva nemmeno una particella della nostra
attuale consapevolezza dell'immensit dei mutamenti che sono avvenuti e avverranno. Entrambe
pretendevano con quasi uguale mancanza di plausibilit, dalla nostra prospettiva attuale di
essere la riproduzione, solo esternamente e irrilevantemente modificata, del cristianesimo del
Nuovo Testamento. Cattolici romani del XIX secolo, quali Newman e Moehler, (4) furono i primi a
considerare il cambiamento come una virt invece che un vizio e a vantarsi del fatto dello sviluppo.
I protestanti si sono ora uniti ad essi nel riconoscere che sviluppi extra-scritturistici sono necessari,
perch sono semplicemente una funzione della storicit, del fatto che il vangelo deve essere
predicato e vissuto nelle epoche sociali e culturali in continuo mutamento. Di fatto, l'unico modo di
proclamare le stesse verit in situazioni nuove di cambiare le parole; rimanendo attaccati alle
vecchie formulazioni, in realt si tradisce ci che esse erano destinate a comunicare.
Ma anche i limiti dello sviluppo stanno divenendo pi evidenti che nel secolo passato. Nessun
aspetto di una comunit storica, compresa la Chiesa, cresce verso la perfezione come un organismo,
costantemente e globalmente, come il cardinale Newman, per esempio, suggerisce con molte delle
sue analogie. L'identit della Chiesa non minimamente organica, ma costituita al livello storico
dalla costanza pienamente manifesta delle sue memorie, speranze e fedelt, sia nelle loro
oggettivazioni nelle Scritture, nella liturgia, nella dottrina e nella disciplina, sia nella loro
interiorizzazione nella fede, nell'amore e nell'azione fedele. Quel che mantiene la Chiesa unica e

identica attraverso tutti i mutamenti, per quanto grandi, che essa ricorda sempre certi determinati
eventi storici culminati nel Cristo e continua a sperare non una qualsiasi specie di futuro, ma il
determinato futuro del ritorno del Signore. Per usare un linguaggio aristotelico, la sostanziale
identit della Chiesa non consiste nella sua causa formale qual espressa nei dogmi, nella
devozione o nell'organizzazione, e nella continuit dello sviluppo, ma nelle memorie e nelle
speranze, a volte vivide, a volte offuscate, della sua causa efficiente e della sua causa finale.
Quest'interpretazione storica della continuit della Chiesa chiarisce i limiti dello sviluppo, chiarisce
che la Scrittura deve rimanere per sempre la fonte e la norma, semplicemente perch la
testimonianza originaria delle memorie e delle speranze che fanno della comunit cristiana ci che
essa . Le tradizioni di teologia, di pratica e di organizzazione che si sono sviluppate nel corso del
tempo non vanno disprezzate n abbandonate alla leggera, ma sono per essenza transitorie. Sono le
successive e mutevoli traduzioni di quella insuperabile rivelazione di Dio che, essendo interamente
storica, non viene mai a noi indipendentemente dalle memorie bibliche, completamente storiche.
Nel contesto di questa comprensione della relativit storica di tutte le tradizioni, teologiche e di
altro genere, e del bisogno di un ritorno alla fonte continuamente rinnovato, abbastanza facile
vedere perch noi ormai pensiamo alle accentuazioni cattolico-romane e protestanti del XVI secolo
come spesso complementari, non contraddittorie. Punto per punto, a nostro parere, ciascuno si
impossessava di una parte della verit, ma, nella struttura non-storica e per larga parte nonescatologica in cui operavano, essi non erano in grado di vedere che quella era solo una parte. E
assolutizzavano ed universalizzavano le loro intuizioni, del tutto esatte, ma parziali ed inadeguate.
Noi, d'altronde, facciamo lo stesso, e questo ci conduce al nostro ultimo punto. I protestanti, per
cominciare da loro, spesso parlano ed agiscono come se la Riforma costituisse una specie di nuova
rivelazione, eternamente valida, del vero significato del vangelo. Sentimenti di gruppo, autoaffermazione istituzionale e quattrocento anni di gloriosa tradizione rendono difficile per noi
pensare la Riforma come la pensavano i riformatori stessi, semplicemente come un movimento di
riforma nella Chiesa universale, il cui destino era di scomparire come entit separata non appena
fosse possibile predicare l'intero vangelo all'interno del cristianesimo in generale. Ci piace pensare
il protestantesimo come coevo delle antiche Chiese, ortodossa e romana, come costituente una
specie di ramo separato ed uguale del cristianesimo. Allo scopo di giustificare un siffatto
atteggiamento, noi a volte parliamo come se Lutero avesse visto pi a fondo nel significato della
giustificazione per mezzo della fede di quanto non abbia fatto nemmeno s. Paolo. Il nostro desiderio
di assolutizzare le nostre tradizioni ci spinge in questa direzione, perch la ricerca storica ci ha
costretti a riconoscere che l'interpretazione che la Riforma ha dato di questa dottrina era
effettivamente diversa (sebbene non necessariamente contraddittoria) da quella paolina. Era essa
dunque storicamente relativa, un'enunciazione intelligibile e forse necessaria della fede in una
particolare situazione? Esitiamo a dirlo e cos la cosa va a finire in quella che in effetti, anche se
non formalmente, quanto mai simile all'affermazione di una nuova rivelazione.
Dal punto di vista protestante, sembra che un pericolo simile sia presente, da parte cattolica,
nell'assolutizzazione, pi specialmente, di certe tradizioni papali e mariologiche. Come noto,
alcuni protestanti sono disposti a discutere questi stessi sviluppi con almeno una certa dose di
apertura di mente. Sembra loro del tutto possibile, per esempio, che certi tipi di mariologia
ortodossa siano legittimi. Ma Roma ha dogmatizzato questi sviluppi, li ha resi de fide, e ai
protestanti sembra che questo equivalga a credere in una nuova rivelazione pubblica, per quanto i
cattolici lo neghino risolutamente. La Scrittura, sospetta il protestante, non pu essere
materialmente sufficiente, in modo storicamente specificabile, per il cattolico, non pu essere la
norma primaria, e per conseguenza la finalit della rivelazione in Ges Cristo messa in pericolo.
La mia conclusione personale di queste riflessioni che, nella struttura di pensiero storicoescatologica contemporanea, sta diventando sempre pi difficile sviluppare una giustificazione
teologica comprensiva e consistente, sia per il protestantesimo che per il cattolicesimo romano,
come essi attualmente esistono. Anche all'interno della storia, a prescindere interamente dalla
riconciliazione che noi speriamo alla fine dei tempi, e non solo per amore della testimonianza

cristiana unita che la nostra responsabilit di fronte al mondo, ma anche per amore dell'integrit
del nostro lavoro teologico, noi siamo spinti a desiderare e a pregare per una Chiesa che sia insieme
cattolica e riformata, e che manchi della presunzione dottrinale in cui entrambe le parti sono ora
avviluppate.
1) Cf. Mysterium salutis, voll. III, Queriniana Brescia.
2) Cf. la collana di Meditazioni teologiche (2a serie) da lui dirette, presso la Queriniana.
3) Cf. il suo libro Il Dio nascosto?, Queriniana Brescia 1967.
4) H. Savon, Introduzione a S. A. Moehler, Queriniana Brescia 1967.

Alexander Schmemann
LIBERT NELLA CHIESA
Quando mi fu rivolto l'invito a preparare una conferenza sul tema Libert nella Chiesa, la mia
prima reazione fu che di tutti i soggetti possibili questo in particolare avrebbe dovuto esser trattato
non da un ortodosso orientale, ma da un occidentale. Perch il grande dibattito su libert e autorit
stato, in realt, un dibattito specificamente occidentale, si potrebbe anche dire la vera crux dello
sviluppo spirituale e intellettuale dell'Occidente. L'Oriente ortodosso non vi ha preso parte attiva, un
po' perch al tempo del suo climax teologico, durante la Riforma e la Contro-Riforma, la
separazione tra l'Oriente e l'Occidente era gi completa, un po' perch, come vedremo, l'essenza
stessa di questo dibattito era aliena da tutta la tradizione spirituale ed intellettuale dell'ortodossia.
Perch dunque, pensavo, dovrei interferire nella discussione di un problema che veramente una
'specialit' occidentale? Ripensandoci, tuttavia, decisi di accettare l'invito, e precisamente per la
ragione che a tutta prima sembrava giustificare la mia astensione. Perch forse proprio la libert da
certe forme di pensiero e da certe posizioni occidentali poteva aiutare un ortodosso, se non a
risolvere il problema, per lo meno a domandarsi se altri approcci ad esso si aprano al pensiero
cristiano. Ed il risultato di questa indagine, di questo tentativo di guardare il problema della libert
nella Chiesa da un punto di vista diverso da quello modellato in Occidente, che io, con tutta umilt,
oso riassumere in questa relazione.
La mia prima domanda riguarda precisamente la formulazione del problema, e si riflette anche nel
titolo dato a questo studio: 'Libert nella Chiesa'. Si immediatamente colpiti dalla dicotomia
implicita in questa formulazione e indicata dalla preposizione nella, che suggerisce l'idea che libert
e Chiesa siano due concetti diversi, che vanno, se possibile, conciliati, ma che, anche se sono
coordinati e riconciliati, rimangono distinti l'uno dall'altro. I modi e i metodi di questo
'coordinamento' possono, a loro volta, differire, secondo che si metta l'accento su libert o su
Chiesa. Si pu, pur richiedendo maggiore libert, subordinarla tuttavia alla Chiesa, e si pu, pur
accettando la Chiesa, subordinarla tuttavia alla libert. In entrambi i casi, comunque, libert e
Chiesa sono concepite, e rimangono, come due concetti distinti, e il problema consiste nel trovare il
modo migliore della loro 'correlazione' e della loro 'azione reciproca'. E tale stata, almeno finora,
la formulazione occidentale del problema, nelle sue due principali espressioni religiose: quella
cattolica (accento sulla Chiesa) e quella protestante (accento sulla libert). Ma forse il primo
compito di una indagine teologica sulla libert nella Chiesa precisamente quello di ricusare e di
rivedere i presupposti stessi su cui si basa questa formulazione.
Non sono essi il risultato di uno sviluppo spirituale, teologico ed ecclesiastico, in cui la libert
giunta ad essere intesa e definita principalmente, se non esclusivamente, in termini di autorit, in
cui, in altri termini, libert e autorit sembrano 'fondersi' a vicenda, come due poli necessari di una
essenziale dicotomia? Libert, in questo caso, la relazione con un'autorit, e la sua definizione ed
anche la sua esperienza dipendono, in ultima analisi, dalla definizione di una correlativa autorit,
perch senza questa autorit la libert diventa un vacuum privo di significato. Data una specifica
'autorit', quanta 'libert' assegnata a coloro che sono ad essa sottoposti? Questa, in forma
ultrasemplificata, sembra essere la domanda definitiva. E se questa libert definita come libert da
(potere, controllo, guida, pronunciamenti autoritari) o come libert per (esprimersi, far teologia, ecc.
ecc.), anche questo dipende dal ed infine subordinato al concetto e alla definizione di autorit.
Ma proprio questa subordinazione, proprio questa dicotomia, che, a mio parere, deve essere messa
in discussione e rifiutata, se vogliamo vedere il reale problema di libert e Chiesa. E deve essere
rifiutata perch, di fatto, una dicotomia auto-distruttiva. Spinta alle sue conclusioni logiche, essa
annulla, semplicemente, i due concetti che pretende di 'fondare' e di definire. E se la Chiesa
istituzionale non se ne rende conto facilmente, e sogna ancora un ottimistico compromesso, in cui
una certa ragionevole libert non minaccer e non insidier una certa ragionevole autorit, purch la

sfera di ciascuna sia autoritativamente definita, la tragica dialettica della libert, che costituisce il
vero itinerario spirituale del cosiddetto mondo cristiano, e che ineluttabilmente radicata nella
tragedia della libert all'interno della Chiesa, qui a denunciare questo sogno e a condannarlo in
anticipo. Da Saint-Just, con la sua teoria del regicidio necessario, attraverso Nietzsche e
Dostojevski, fino a Berdiaev, Camus, Sartre e ai teologi della 'morte di Dio', si rivela una sola e
identica verit fondamentale: se la libert, come concetto e come esperienza, posta e determinata
dal concetto e dall'esperienza di autorit, una siffatta libert non pu essere soddisfatta e non pu
adempiersi altrimenti che con l''assassinio', con l'annientamento di quella stessa autorit.
Quest'uomo deve regnare o morire esclama Saint-Just, indicando il re, e Nietzsche con i suoi
seguaci, quando proclamano che Dio deve morire se l'uomo dev'essere libero, non fanno altro che
compiere il passo logico successivo e finale. Una volta intossicato di libert, l'uomo non pu
fermarsi a mezza strada, come Joseph de Maistre vide chiaramente, e, fintanto che l'autorit rimane,
non vi libert. In termini assoluti, la formula 'pi libert, meno autorit' non diversa da 'pi
autorit, meno libert'. Perch il principio stesso di autorit, e non la quantit di essa, che la libert
nega, poich, qualunque sia la quantit di autorit, questa in definitiva nega e distrugge la libert. E
cos il re benigno muore, e Nietzsche preferisce la notte e sempre pi notte futura di un mondo
senza Dio a questa fonte e sanzione di ogni autorit.
Eppure, l'ineluttabile logica dell'intera dicotomia 'libert-autorit' che quando la libert, allo scopo
di realizzarsi, annienta l'autorit, annienta anche se stessa. Perch non solo, senza la sua
opposizione e la sua rivolta contro l'autorit, essa diviene priva di significato, una forma vuota, ma,
di fatto, non si adempie fin tanto che rimane l'ultima 'autorit', che la morte. merito eterno di
Dostojevski averci mostrato in Kirillov, ne I demoni, l'ineluttabile interdipendenza tra suprema
libert e suicidio: colui che osa uccidere se stesso Dio. Ma allo scopo di divenire Dio uno deve
uccidersi! E mi sembra piuttosto significativo il fatto che Thomas Altizer, uno dei pi profondi e pi
coerenti rappresentanti del movimento della 'morte di Dio', accetti entusiasticamente Kirillov come
un eroe positivo e attribuisca a Dostojevski il merito di aver creato in lui la moderna immagine del
Cristo (Mircea Eliade and the Dialectic of the Sacred, p. 112). Che meravigliosa coincidenza,
egli scrive, che Dostojevski... abbia anticipato nel suo ritratto di Kirillov una interpretazione
radicalmente moderna di Ges stesso (ibid., p. 111). E con la stessa simpatia, quasi entusiasmo, il
medesimo Altizer cita uno scrittore per il quale la suprema vittoria della vita si manifester nella
'volont di morire'.
Questa , ripeto, l'ineluttabile logica della libert, finch e nella misura in cui essa definita con
riferimento alla autorit, cio, in termini di un limite. Non sarebbe reale libert, se non negasse, e in
definitiva annientasse, quel limite. Ma, precisamente a causa della sua dipendenza ontologica
dall'autorit, annientando quest'ultima, la libert annienta se stessa. C' una via d'uscita da questo
vicolo cieco? Quali sono i presupposti di una teologia cristiana della libert?
II
a questo punto, a mio parere, che la tradizione ortodossa orientale pu essere di qualche aiuto.
Non pretendo, naturalmente, che l'Oriente ortodosso sia stato sempre e coerentemente esente da
qualsiasi concessione alla dicotomia libert-autorit. Quelli che hanno dato un'occhiata alle poche
cose che ho scritto riguardo alla mia Chiesa sanno che non sono colpevole di alcuna idealizzazione
romantica del suo passato. Ma parlo qui non di deviazioni e di peccati storici, bens del 'principio
ortodosso' (nel senso in cui Paul Tillich parlava del 'principio protestante'), e non si pu negare che
uno dei suoi elementi fondamentali precisamente il rifiuto della libert intesa e definita in termini
di autorit. Questo rifiuto costituisce addirittura il centro della critica ortodossa dell'Occidente, sia
cattolico romano che protestante, e se menziono qui questa critica non per motivi di polemica
confessionale, ma perch essa pu aiutarci a comprendere i contenuti positivi della dottrina
ortodossa della libert nella Chiesa.

Nel suo saggio On the Western Confessions of Faith, il grande teologo laico russo A. S. Khomiakov
scriveva: La Chiesa un'autorit diceva Guizot in una delle sue notevoli opere, mentre uno dei
suoi avversari, per attaccarlo, si limitava semplicemente a ripetere le stesse parole. Parlando in tal
modo, nessuno dei due sospettava quanta menzogna e quanta bestemmia ci fosse in
quell'affermazione... La Chiesa non un'autorit, proprio come Dio non un'autorit e Cristo
non un'autorit, poich autorit qualcosa di esterno a noi (citato dal mio Ultimate Questions,
p. 50). Per Khomiakov, la tragedia iniziale dell'Occidente, che trascende il suo scisma interno, o
piuttosto lo provoca, stata l'identificazione della Chiesa con qualcosa di alieno alla sua natura:
un'autorit esterna ed oggettiva. Ci ha reso inevitabile una rivolta contro questa autorit, ma la
rivolta rimane necessariamente entro la struttura di ci che essa nega, e perci non ha avuto altro
risultato che la sostituzione di un'autorit esterna con un'altra. La Chiesa ispirata da Dio, egli
scrive, divenne, per i cristiani occidentali, qualcosa di esterno, una specie di autorit negativa, una
specie di autorit materiale. Essa fece dell'uomo il proprio schiavo, e, come risultato, acquist in lui
un giudice (ibid. p. 50). Ripeto ancora, cito queste parole severe solo perch esse possono condurci
alla reale dialettica della libert, e sono pienamente consapevole che la tentazione di un'autorit
esterna o materiale effettivamente una tentazione universale. Il punto importante, qui, che, nel
pensiero di Khomiakov (e si potrebbe dimostrare che egli veramente riflette e formula una
posizione comune a tutto l'Oriente ortodosso), questa specie di autorit derivata non dalla Chiesa,
non dalla sua natura teandrica, non dalla sua vita ispirata da Dio, ma da ci che nel Nuovo
Testamento e nella tradizione della Chiesa indicato come 'questo mondo', cio lo stato decaduto
dell'uomo. Il principio stesso di autorit come qualcosa di esterno all'uomo dunque il risultato
della caduta, il frutto dell'alienazione dell'uomo dalla vera vita. Ma allora la libert che
quell'autorit presuppone come il suo proprio punto di applicazione, come la sua necessaria
controparte, dunque una 'libert decaduta', una libert negativa, una libert di apposizione e di
rivolta, e non la libert ontologica in cui l'uomo fu creato e da cui si alien nella caduta. , di fatto,
una pseudo-libert, perch nella sua lotta contro una autorit esterna motivata e dominata da
un'altra autorit a cui, prima o poi, sar asservita. E non pu essere altrimenti, perch una libert
negativa, fatta di rivolta e di protesta, e che non ha un suo proprio contenuto positivo. Qualunque
'contenuto' essa possa trovare nella sua rivolta, diverr di nuovo e ineluttabilmente 'autorit' e
provocher lo stesso interminabile processo... Secondo Khomiakov, la tragedia centrale del
cristianesimo occidentale consistita nel fatto che esso ha accettato come suo fondamento, come
suo principio formativo, il principio di autorit, che il principio stesso del mondo decaduto, e
questa accettazione, per necessit, portava al principio opposto di 'libert decaduta'. Un principio,
non solo alieno alla natura della Chiesa ma radicalmente opposto ad essa, fu introdotto nel tessuto
stesso della sua vita. Tutto il problema della libert della Chiesa fu, in tal modo, viziato nel suo
stesso fondamento, e divenne impossibile dargli una giusta soluzione. Perch la Chiesa non una
combinazione di autorit e libert, di limitata autorit e limitata libert, una combinazione che, se
mantenuta, preserva da abusi da ambo le parti. La Chiesa non autorit, e perci non vi libert
nella Chiesa, ma la Chiesa stessa libert, e solo la Chiesa libert. Non vi pu essere continuit
tra la libert naturale dell'uomo e la Chiesa come libert, perch non c' reale libert al di fuori della
Chiesa, ma solo l'assurda lotta di 'autorit' che si annullano reciprocamente. Perci non si
comprende la libert nella Chiesa applicando alla Chiesa il concetto astratto e naturale di 'libert', la
si comprende penetrando nel mysterion della Chiesa, e allora la si comprende come il mistero della
libert. L'ecclesiologia in realt il punto di partenza di una teologia della libert.
III
Se l'ecclesiologia, in quanto disciplina teologica, in quanto trattazione sistematica, non finora
riuscita a rivelare la vita della Chiesa come il mistero e il dono della libert, ci stato dovuto ad
una delle sue maggiori deficienze: quella di trascurare lo Spirito santo nella sua relazione con la
Chiesa. Per ragioni che impossibile analizzare qui, sia pur brevemente (ma di cui per lo meno

alcune sono direttamente connesse con ci che abbiamo detto circa l'accettazione dell''autorit' nel
concetto della Chiesa), la dottrina dello Spirito santo stata in molti modi esclusa dalla dottrina
della Chiesa.
E nello Spirito santo, la Chiesa, questa la forma primitiva del terzo articolo del Credo, ed esso
unisce, si potrebbe quasi dire identifica, lo Spirito santo con la Chiesa. Ma, nel corso dei secoli,
questo articolo fu spostato. Se nella teologia sistematica si dava allo Spirito santo ogni onore ed
ogni attenzione nel De Deo Uno et Trino, nel De Ecclesia egli occupava quella che senza
esagerazione si potrebbe definire una posizione subordinata. Dall'essere inteso come la vera vita
della Chiesa, arriv ad essere visto come una sanzione ed una garanzia. Dove si accentuava
l'autorit come principio formativo della Chiesa, lo Spirito santo era presentato come la garanzia di
quell'autorit. Dove si accentuava la libert individuale contro l'autorit, diveniva la garanzia di tale
libert. E infine, avendo acquistato una 'funzione' chiaramente definita nella Chiesa, cominci ad
essere misurato, ma: Dio non dona lo Spirito con misura (Gv. 3,34). La teologia, comunque, ha
passato il suo tempo a misurare lo Spirito. Il vento della pentecoste fu debitamente depositato come
un capitale di grazia da essere usato con prudenza. Nessuna meraviglia che lo Spirito santo, non
solo come la sorgente ma come, in realt, il contenuto stesso di quella libert che la Chiesa, come
il dono e al tempo stesso l'adempimento della libert o per meglio dire come la libert stessa, sia
stato dimenticato.
Lo scopo di questi saggi solo di definire, se possibile, i futuri compiti della teologia. Ed
ovviamente impossibile sia pure di abbozzare adeguatamente, in questa breve relazione, i vari passi
che ci condurrebbero da una nuova analisi della dottrina dello Spirito santo ad una nuova visione
della Chiesa come libert. Posso solo affermare che, a mio parere, il primo passo qui dev'essere una
maggiore attenzione alla persona stessa dello Spirito santo, come ci stata rivelata nella sacra
Scrittura e nella tradizione spirituale della Chiesa. Noi dobbiamo ricuperare la concezione e
l'esperienza dello Spirito santo. La visione biblica di lui, innanzi tutto, come il ruah, il vento che
soffia dove vuole, e voi ne udite il suono, ma non sapete donde viene n dove va (Gv. 3,8), ed
anche come la vita ipostatica del Padre e, quindi, della stessa santissima Trinit. Scrive il professor
Verkhovsky:
Essere lo Spirito di qualche cosa significa essere la espressione vivente del suo contenuto, il suo
potere dinamico. Lo Spirito santo descritto spesso nella Scrittura come potenza, e le
manifestazioni dello Spirito sono sempre manifestazioni di un potere divino, vivente, creativo.
Troviamo la stessa idea in molti nomi dello Spirito santo. Egli luce, come la vivente e creativa
manifestazione della divina sapienza. Se il Figlio sapienza e verit, lo Spirito di quella sapienza
lo Spirito santo: in lui, o meglio da lui, si rivela come vita l'intera sapienza e l'intera verit del
Figlio (Dio e l'uomo, in russo, p. 367).
Ecco l'intuizione fondamentale, comune a tutta la tradizione ortodossa orientale relativa allo Spirito
santo: egli la vita di Dio, e ci significa, nei termini di questa relazione, la libert ipostatica di
Dio.
Nel contesto del problema che qui ci interessa, questa intuizione pu essere formulata nel modo
seguente: senza la manifestazione dello Spirito santo, senza la nostra comunione con lui, Dio
sarebbe effettivamente autorit, la autorit di tutte le autorit, e quindi non ci sarebbe altra libert
che quella della rivolta, la libert di Kirillov. E senza lo Spirito santo non solo Dio ma, di fatto,
anche l'intera realt, tutto l'essere, sarebbe 'autorit': un ordine esterno, oggettivo, obbligatorio, il
repulsivo 'mondo della oggettivit' di Berdiaev. La verit sarebbe autorit, come pure la giustizia,
l'ordine, l'eguaglianza, ecc., e, di fatto, tutti questi 'valori' sono autorit nel mondo decaduto,
compresa, in definitiva, la libert stessa: un vuoto e assurdo principio di scelta e di dissenso, un
'diritto' che non approda a nulla... Ma proprio la 'funzione' dello Spirito santo abolire l'autorit, o
meglio trascenderla, ed egli lo fa abolendo l'esteriorit che l'essenza dell'autorit e la essenza di
'questo mondo' come mondo decaduto. La funzione precipua dello Spirito santo di congiungere e
di unire, non con una specie di legame 'oggettivo', ma rivelando e manifestando l'interiorit di tutto
ci che esiste, reintegrando e trasformando l''oggetto' nel 'soggetto' (il ci nel tu, per dirla con

Martin Buber). Ed egli non lo fa dall'esterno, come 'sanzione' o 'garanzia', come 'autorit', ma dall'
'interno', perch egli stesso l' 'interiorit' di tutto ci che esiste, la vita della vita, il dono
dell'essere. Egli l'unicit, la 'fragranza' di ognuno e di ogni cosa, la luce dell'eternit in ogni
momento del tempo, il riflesso della divina bellezza sul pi brutto volto umano. Egli insieme la
libert e il 'contenuto' della libert, o meglio, in lui la tragica contraddizione tra, da una parte, la
libert come eterna possibilit di una eterna scelta, e quindi come eterno vacuum che si autoannienta, e, dall'altra parte, la libert come pienezza di possesso, come adempimento di vita,
contraddizione che ineluttabilmente fa s che una libert neghi l'altra, risolta. La libert libera.
libera non solo dal suo asservimento all'autorit, ma dal suo asservimento a se stessa. Ed libera
perch non una negazione, n un'affermazione di qualcosa di esterno, due cose che sono
ineluttabilmente 'autorit'. Essa la presenza: e non di un principio astratto o formale, ma di una
persona, che il vero significato, la vera gioia, la vera bellezza, la vera pienezza, la vera verit, la
vera vita di ogni vita. La persona che noi possediamo nella conoscenza, nell'amore e nella
comunione; che non 'esterna' a noi, ma in noi, come la luce, l'amore e la verit, come la nostra
comunione con ogni cosa.
Questa concezione dello Spirito santo anche l'esperienza della Chiesa. Una certa tradizione
teologica, sebbene naturalmente non neghi tale esperienza, le nega la condizione di 'fonte' della
teologia, quella di locus theologicus per eccellenza. Essa traccia una linea tra teologia come
struttura razionale, come scienza, e 'misticismo', e relega quest'ultimo in una speciale categoria o
fenomeno religioso, distinto dalla teologia. Ma nella tradizione orientale ogni autentica teologia ,
necessariamente e per definizione, mistica. Ci significa non che la teologia alla merc di 'visioni'
ed 'esperienze' individuali ed irrazionali, ma che essa radicata, resa effettivamente possibile,
nell'esperienza che la Chiesa ha di s come comunione dello Spirito santo. La famosa controversia
palamita circa la natura 'creata' o 'increata' della luce, vista nell'esperienza mistica degli 'esichiasti',
era, fra l'altro, una controversia circa la natura della teologia, o meglio, dell'oggetto della teologia,
che la verit. La verit della teologia una deduzione razionale dai 'dati' e dalle 'proposizioni'
delle fonti? , in altri termini, basata su un' 'autorit' esterna, proclamata a priori come tale, resa
una 'autorit'? O , primariamente, la descrizione di un'esperienza, della esperienza della Chiesa,
senza la quale tutti questi 'dati' e 'proposizioni', anche se 'oggettivamente' veri e coerenti, non sono
ancora la verit? Perch la verit la cui conoscenza, secondo il vangelo, ci fa liberi, certamente non
una 'verit oggettiva', certamente non un' 'autorit', poich in questo caso l'intera dialettica della
libert sarebbe nuovamente e ineluttabilmente rimessa in moto, nel suo moto senza speranza. Essa
la presenza dello Spirito santo, poich solo questa presenza crea in noi l''organo' della verit, e
quindi trasforma la verit da 'oggetto' in 'soggetto'. Chi non ha lo Spirito non conosce la verit ed
condannato a sostituirla con autorit e garanzia. Dove troveremo una garanzia contro l'errore?, si
domanda Khomiakov, e risponde: Chiunque cerca, al di l della speranza e della fede, una garanzia
dello Spirito gi un razionalista. Per lui anche la Chiesa impensabile, poich egli gi, con tutto
il suo spirito, immerso nel dubbio (Ultimate Questions, p. 54). E qui, perci, l'esperienza dei santi,
dei 'veggenti dello Spirito', per citare una bella espressione liturgica, decisiva. Quando Serafino di
Sarov, un santo russo del XIX secolo e uno degli ultimi grandi rappresentanti della tradizione
spirituale orientale, dice: Quando lo Spirito di Dio discende sull'uomo e lo ricopre con la pienezza
della sua effusione, allora l'anima umana trabocca di gioia indicibile, perch lo Spirito di Dio
trasforma in gioia tutto ci che tocca (cit. in G. Dedotov, Treasury of Russian Spirituality, p. 275),
noi abbiamo qui un riepilogo perfetto, bench esistenziale e non razionale, della dottrina dello
Spirito santo, della sua relazione con la Chiesa e della sua intima natura di libert. E solo questa
dottrina pu liberarci da tutte le false dicotomie e condurci alla giusta comprensione della Chiesa
come libert.
IV

Possiamo venire ora alle conclusioni pratiche. E credo nello Spirito santo, la Chiesa. La Chiesa
la presenza e l'azione dello Spirito santo. E ci significa che la Chiesa libert. La libert, in altre
parole, non una 'parte', un elemento nella Chiesa, coesistente e correlativo con un altro elemento,
l'autorit. La Chiesa, essendo la presenza, il tempio dello Spirito santo, quella realt in cui la
stessa dicotomia di autorit e libert abolita, o meglio, continuamente trascesa e superata, e
questa costante vittoria la vera vita della Chiesa, la vittoria della comunione sulla alienazione ed
esteriorit. Ma, e questo molto importante, la Chiesa libert precisamente perch totale
obbedienza a Dio. Quest'obbedienza, tuttavia, non il frutto di una resa della libert ad un'ultima e
definitiva autorit 'oggettiva', riconosciuta infine come invincibile ed incrollabile, come
effettivamente la 'fine' della libert. , per quanto ci possa suonare paradossale, l'adempimento
della libert. Perch, in ultima analisi, il dono dello Spirito non uno 'stato' n una 'gioia' o una
'pace' in s: , di nuovo, una persona: Ges Cristo. il mio possesso del Cristo e il mio essere
posseduto dal Cristo, il mio amore per Cristo e il suo amore per me, la mia fede nel Cristo e la
sua fede in me, 'Cristo in me' ed 'io in Cristo'. E Cristo obbedienza: obbediente fino alla morte,
alla morte di croce (Fil. 2,8). E la sua obbedienza l'espressione non di una subordinazione, non di
una resa della libert all'autorit, ma precisamente della sua totale unit con il Padre suo, della sua
stessa divinit! Perch non solo la sua obbedienza libera (perch ogni libert pu liberamente
arrendersi), ma la manifestazione stessa, l'essenza stessa della sua libert. E, se Cristo il dono
dello Spirito santo, se Cristo la vita della Chiesa, allora l'essenza di questa vita obbedienza, non
al Cristo, ma l'obbedienza del Cristo. veramente una divina obbedienza, perch un'obbedienza
al di l della dicotomia di libert e autorit, perch viene non dalla imperfezione ma dalla
perfezione della vita, rivelata in Cristo.
Tutto ci significa che nella Chiesa la libert si manifesta come obbedienza di tutti a tutti in Cristo,
perch Cristo l'unico che, per opera dello Spirito santo, vive in tutti e, con tutti, in comunione con
Dio. Nessuno superiore e nessuno inferiore. Colui che insegna non ha 'autorit', ma un dono
dello Spirito santo. E colui che riceve l'insegnamento lo riceve solo se ha il dono dello Spirito santo,
che gli rivela l'insegnamento non come 'autorit' ma come verit. E la preghiera della Chiesa non
chiede 'sanzioni' e 'garanzie', ma lo Spirito stesso: che egli venga e dimori in noi, trasformandoci in
quell'unit vivente in cui l'obbedienza di tutti a tutti si rivela incessantemente come l'unica libert.
A questo punto, naturalmente, potrebbe e dovrebbe cominciare lo studio della 'fenomenologia' della
libert nella Chiesa. Il mio compito era solo di delineare, e anche questo in modo molto preliminare,
una specie di prolegomena a uno studio del genere. Mostrare, in parole ovviamente inadeguate, che
il mistero della Chiesa come libert nascosto nel mistero di Dio come santissima Trinit: nella
grazia del nostro Signore Ges Cristo, nell'amore di Dio Padre, nella comunione dello Spirito santo.
E che questo mistero comincia ad esserci rivelato e comunicato quando il medesimo uomo dice di
se stesso doulos Iesou Christou schiavo di Ges Cristo e poi, l'un l'altro e a tutti noi:
State saldi nella libert in cui Cristo ci ha liberati (Gal. 5,1).

Yves Congar
RELIGIONE ISTITUZIONALIZZATA
La nozione di religione 'istituita' o 'istituzionalizzata' implica, evidentemente, la nozione di
istituzione. Ora, poche parole, usate tanto frequentemente come 'istituzione', hanno un significato
cos impreciso. Sembra, comunque, che ci si conformi all'uso effettivo e generale del termine da
parte di sociologi e di giuristi se ci si attiene alla seguente nozione descrittiva: (1) una istituzione
una certa struttura relativamente permanente, anteriore agli individui che trovano in essa il modello
del loro comportamento e l'indicazione della loro funzione nel gruppo. Gli antichi canonisti e
giuristi, comunque, non sarebbero stati soddisfatti di questa definizione. Per lo meno, essi avrebbero
chiarito il significato delle parole 'anteriore agli individui', allo scopo di distinguere l'istituzione
dalla associazione o anche dalla fondazione. L'istituzione, secondo loro, caratterizzata
dall'intervento di un'autorit: sia all'origine, al livello dell'atto che la costituisce, sia anche attraverso
tutta la sua esistenza, che deve conformarsi alla volont che l'ha posta in essere. (2)
Nell'associazione, lo scopo e la volont comune vengono dai membri. Nella istituzione, essi
trascendono i membri e sono dati loro dall'alto. Poich questa nozione di istituzione, che si trova nei
decretalisti, abbraccia la nozione descrittiva dei sociologi, mi riferir principalmente ad essa. Si pu
certissimamente giustificare, in via generale e, per quanto riguarda il cristianesimo, in modo
specifico e profondo, l'attribuzione di un carattere istituzionale alla religione. Consideriamo la
religione a tre livelli: come religione in generale; come avente riferimento alla rivelazione;
finalmente, nella sua forma cristiana. Sebbene la parola religio non venga da (re)ligare, cio,
dall'idea di legame, ma da religere o relegere, (3) evidente che religione implica un legame tra
l'uomo e Dio e tra tutti quelli che onorano lo stesso Dio. Religione implica solidariet. Ecco perch
uno specialista nello studio delle istituzioni, J.O. Hertzler, scrive: l'idea di una religione
nonistituzionalizzata un assurdo sociologico. (4) Per parte mia, penso che ci si applica non solo
alle religioni storiche, ma parimenti alla religione naturale nella misura in cui essa concretamente
esistita.
La maggior parte delle religioni storiche, se non tutte, si presentano come derivanti da una
rivelazione, quindi come determinate dall'alto, se non nei particolari delle loro forme, per lo meno
in ci che pertiene alla credenza che, pi o meno direttamente, controlla il comportamento
religioso. A volte, la rivelazione iniziale le controlla fino nei particolari: questo il caso del
giudaismo e dell'islam, per non citare, a un altro livello, le religioni magiche. Per quanto riguarda il
cristianesimo, questa struttura fondamentale 'istituzione' ancor pi accentuata dal fatto che
il cristianesimo deriva interamente da una persona, il Cristo, attraverso la mediazione degli apostoli.
Il cristianesimo deriva radicalmente da una serie di eventi unici che, essendo prodotti una volta per
tutte in un determinato punto dello spazio e del tempo, sono validi e normativi per tutti gli uomini,
in tutti i tempi e in tutti i paesi. Si pensi all'alleanza con Abramo, alla rivelazione dei profeti, alla
venuta e pasqua di Ges Cristo, alla sua predicazione, al battesimo ed all'eucaristia. Il cristianesimo
non pu assolutamente essere, nella sua sostanza pi fondamentale, il libero movimento di una
coscienza verso Dio a partire da un principio completamente interiore e personale. Il cristianesimo
la partecipazione di tutti ai fatti particolari che lo hanno costituito: Koinonia, nel senso in cui questa
parola usata nel Nuovo Testamento, cio, non quello di un semplice legame associativo, ma quello
di una partecipazione verticale allo stesso bene, il Cristo, che crea una unit o comunione fra i
membri. (5) Il cristianesimo quindi non semplicemente 'essere insieme', , fondamentalmente,
conformit alla e nella forma di vita religiosa proveniente sostanzialmente da un'unica fonte, la
pasqua del Cristo, mediata attraverso i sacramenti, soprattutto il battesimo e l'eucaristia.
Naturalmente, ci lascia grandissima latitudine sia per la determinazione delle forme storiche di
questa mediazione, sia per le attivit interiori delle anime religiose. Ma non basta dire, con Ruskin:

Chi sa dove piacer a Dio calar gi la sua scala?, perch noi sappiamo dove l'ha calata, cio, in
quell'unico punto dove gli angeli salgono e scendono sul Figlio dell'uomo (cf. Gv. 1,51).
Dobbiamo dunque ritenere che, all'origine, la religione cristiana essenzialmente una religione
istituita, nel senso pi forte e pi ricco della parola. Ma ci lascia quasi intatte le questioni che
vengono sollevate dal sistema di istituzione al livello del concreto comportamento, riguardo a che
cosa religione, e in particolare la religione cristiana. Che cosa, infatti, sta succedendo? La storia e
i fatti dimostrano che le mediazioni non solo prendono le forme storiche necessariamente
determinate, ma tendono a svilupparsi in modo autonomo e ad occupare l'intera scena. Sebbene in
realt esse siano soltanto mezzi, c' il pericolo che anche le cose migliori si trasformino
concretamente in fini. Evidentemente, per esempio, necessario specificare in formule ortodosse il
contenuto di ci che uno crede. Ma si pu finire per curarsi ben poco di ogni altra cosa che non sia
l'esatta formula, l'esteriore conformit alla fede. Ancora, molte prediche pretendono alla corretta
ortodossia, e questo bene, ma niente accade in esse: esse non sono atti spirituali che coinvolgano
una fede personale e suscitino una personale risposta. Il mezzo (dogma o predicazione) trattato
come se fosse il termine dell'attivit della fede, mentre la fede dovrebbe avere come suo termine la
realt spirituale della quale si parla.
Troviamo lo stesso pericolo nel culto e nelle pratiche. Sant'Agostino, seguito da s. Tommaso
d'Aquino, dice che la religione cristiana impone, oltre alla legge naturale, solo un piccolo numero di
riti e di cerimonie, semplici ed accessibili a tutti. (6) Si ha l'impressione di sognare assistendo ad
una messa pontificale o alla consacrazione di una chiesa. La preghiera di ogni prete, di ogni
religioso fissata, fin nei minimi particolari, da un Ordo. Che condizionamento sociologico! Pu
l'istituzione avere una tale presa su quello che l'atto pi intimo e pi libero dell'anima? Se, dagli
argomenti liturgici, passiamo alle leggi imposte al comportamento del fedele cattolico, la nostra
inquietudine continua. Posso permettermi di citare questa terribile critica protestante del sistema
cattolico dell'obbligo legale? Ecco che cosa scrive Amiel: Il pensiero cattolico non riesce a
concepire la persona umana pienamente e coscientemente padrona di s. La sua audacia e la sua
debolezza provengono dalla stessa causa: non-responsabilit. Questa servit della coscienza che
conosce solo schiavit o anarchia, che proclama la legge ma non le obbedisce perch la legge
esterna.... (7) La diagnosi di Amiel severa, ma tocca un problema reale, quello
dell'interiorizzazione dell'obbligo, della personalizzazione dell'obbligo, della personalizzazione del
comportamento.
un fatto riconosciuto da studi psico-sociologici che, quando dei cattolici abbandonano la pratica
religiosa e, perci, si ritirano dal gruppo o dall'influenza dell'istituzione, essi si ritirano molto pi
completamente di quanto non si ritirino, nello stesso caso, i protestanti dalla fede che prima
professavano. (8) La ragione di ci che l'atteggiamento e le convinzioni religiose del protestante
erano molto meno condizionati dall'istituzione: erano molto pi i suoi, personalmente suoi, e meno
quelli dell'istituzione, che sono condivisi dall'individuo nella misura in cui questi e desidera
essere un membro.
Le osservazioni precedenti fanno sorgere serie difficolt circa il legame che abbiamo riconosciuto
tra religione, particolarmente cristianesimo cattolico, e istituzione. Tra le due cose esiste un
profondissimo legame al livello dogmatico. Ma al livello psicologico e morale sembra che esistano
in realt delle serie contraddizioni. Sembra che la religione costituita e istituzionalizzata si nutrisca
di ci che meno mio, della parte socializzata e, per cos dire, alienata del mio comportamento e
anche delle idee che io professo. Se mi lecito adottare qui la distinzione fatta da Jean Guitton tra
spirito (che personale) e mentalit (che si riceve da un ambiente), non si direbbe che la religione
istituzionalizzata coinvolga la mentalit, mentre la religione dovrebbe fare appello allo spirito?
Questa obiezione perenne, ma la si pu ancora rafforzare con una considerazione tratta dalle fonti
cristiane: Scrittura, teologia e pratica.
La prima fonte che incontriamo lo Spirito santo, colui di cui diciamo che Signore e che d la
vita. I fatti confermano quel che la Scrittura e la teologia ci insegnano: lo Spirito santo mantiene la
sua libert di iniziativa nelle anime. In realt, stato detto, con i Padri e con il Magisterium, che lo

Spirito santo l'anima dell'istituzione ecclesiastica, (9) o, con s. Tommaso d'Aquino, (10) che, se
vero che lo Spirito santo rimane superiore ad ogni legge umana, egli per non manca di ispirare agli
uomini spirituali l'obbedienza a quelle leggi. Tutto ci vero, e le vite dei santi confermano la
conclusione della teologia. Quanto pi, sembra, essi vivevano l'interiorit spirituale e il fervore
dell'amore, tanto pi potevano soffrire dalla parte umana, troppo umana, della Chiesa, ma tanto pi
anche le erano sottomessi e tanto meno si lamentavano del peso dell'istituzione. Pensiamo, per
esempio, a s. Francesco d'Assisi. anche vero che la legge canonica ha tentato di assorbire anche
gli aspetti carismatici e di prevedere anche i pi liberi interventi dello Spirito santo. Penso a
provvedimenti come quello che concerne l'elezione del papa per 'ispirazione', penso alla dottrina
sulla vocazione, penso all'idea di una sanior pars nelle elezioni, che d origine ad un diritto morale
al di sopra del diritto formale, al condizionamento dell'esercizio della potestas alla caritas, (11) ecc.
Ma questi fatti, per quanto interessanti, non controbilanciano il peso globale della religione
costituita sul fedele. La legge buona, ma diventa cos facilmente legalismo! Esiste legalismo,
disse il cardinale Cushing al congresso di diritto canonico tenuto a Boston nell'ottobre 1954,
quando si sostituisce la formula di s. Paolo, la pienezza della legge la carit (Rom. 13,10), con
l'altra massima: la pienezza della legge la legge stessa.
Noi dobbiamo, in realt, renderci strettamente conto non solo della grandezza e dei benefici
dell'oggettivismo cattolico, ma anche dei suoi limiti e dei suoi pericoli. I benefici e la grandezza
dell'oggettivismo cattolico derivano precisamente dal fatto che, grazie ad esso, ogni cosa mi
sempre trasmessa, presentata e resa accessibile. Grazie ad essa, la sostanza custodita e trasmessa
per intero, a dispetto delle variazioni dei tempi e della debolezza che affligge la mente degli
uomini. Che ne sarebbe stato di noi, se la liturgia fosse stata regolata secondo la comprensione che
ne aveva il popolo? Tutto sarebbe andato perduto, in nome del gusto delle devozioni sentimentali
che caratterizzava il quindicesimo secolo, o in nome della religione ragionevole e individualistica
nel diciottesimo secolo, o della critica della religione del diciannovesimo secolo e delle filosofie
soggettivistiche dell'epoca modernistica. Grazie a Dio, la liturgia, anche se non era n compresa n
messa in pratica, ha conservato e ci ha trasmesso intatto l'intero tesoro della tradizione, che oggi
noi possiamo riscoprire nella sua interezza.
Nell'epoca stessa in cui la Russia stava attraversando gravi disordini e una dinastia sostituiva l'altra,
il cerimoniale dell'incoronazione degli zar conserv l'autentica dottrina della rispettiva situazione
della Chiesa e dell'imperatore. (12) Potrei moltiplicare gli esempi. La forma custodisce lo spirito e
lo protegge contro la sua propria debolezza. Dom Anscar Vonier non molto tempo fa ha dimostrato
come, nella Chiesa in quanto un'istituzione e presenta una religione istituzionalizzata, siano
sempre disponibili i frutti dell'alleanza: dobbiamo solo entrar dentro, come siamo invitati a 'entrare
nel regno': esso l, tutto intero, alla nostra portata. (13) Io non voglio criticare nessuno, ma mi sia
permesso alludere ad un'osservazione fatta pi di una volta, e da altri che non Vonier: una forma
oggettiva di culto mi lascia una grande libert di anima. Io mi unisco ad essa secondo le mie
possibilit. Essa non mi vincola, come rischia di fare il culto protestante, alle idee e alla devozione
di un uomo che ha i suoi limiti e le sue peculiarit. (14) In realt, l'oggettivismo delle istituzioni
pu schiacciare ed alienare, se imposto come legge e al di sopra di tutto, in un clima legalistico.
Pu, d'altra parte, se si presenta come un gruppo di modelli che esige che uno li assuma e li viva
personalmente, promuovere la libert spirituale e il movimento creativo il cui soggetto, sotto
l'influenza dello Spirito santo, la persona.
Ma dobbiamo effettivamente ammettere che ci sono, qui, dei gravi rischi. Primo, quello di una
certa materializzazione, di una degradazione dello spirituale a 'cosa'. Poi, quello di dispensare
dall'impegno personale, e, quindi, della perdita di un elemento essenziale, connesso a ci che si
potrebbe chiamare il principio personale. Mi sembra che il problema possa essere formulato nel
modo seguente: gli atti religiosi, vita cattolica, devono essere gli atti di qualcuno. Le persone non
devono essere semplicemente occasioni anonime e interscambiabili di atti religiosi, devono esserne
il soggetto reale, cio il principio personale e responsabile. Mi sia consentito porre la questione
citando un passo di un discorso pronunziato dal cancelliere Bismarck: Le due Chiese, protestante

e cattolica hanno basi molto diverse. L'intero essere della Chiesa cattolica nel suo clero, essa
esiste e si realizza attraverso di esso; essa potrebbe andare avanti senza una comunit, la messa pu
essere celebrata senza un'assemblea; la comunit utile per l'affermazione della funzione cristiana
della Chiesa cattolica, ma non affatto necessaria per l'esistenza di quella Chiesa. Nella Chiesa
protestante, al contrario, la comunit costituisce tutto il fondamento dell'intera Chiesa: il culto
inconcepibile senza di essa, l'intera costituzione della Chiesa protestante poggia sulla comunit.
(15)
vero, la messa pu esser detta senza l'effettiva partecipazione di alcun fedele, sebbene la regola
sia che almeno un chierico rappresenti la comunit. L'enciclica Mediator Dei e i decreti del
Vaticano II giustificano questa pratica con ragioni che sono certamente valide al livello mistico e
teologico. (16) Ma ugualmente vero e questo il significato generale della costituzione
conciliare sulla liturgia che il vero soggetto dell'azione liturgica l'ecclesia, l'assemblea dei
fedeli, che offre il sacrificio attraverso il ministero dei preti, come ha gi detto il Concilio di
Trento. (17) In ci il fondamento della riforma liturgica che mira, da una parte, a restituire
significato alle celebrazioni liturgiche e, dall'altra, a promuovere la partecipazione attiva dei fedeli.
Sono essi, l'ecclesia stessa intesa, secondo la tradizione dei Padri e della Chiesa, come il 'noi' dei
cristiani. (18) Tutto il significato del rinnovamento liturgico del XX secolo nel far s che la
celebrazione liturgica non sia pura cerimonia, ma il culto di qualcuno. L'intero movimento attuale
mira a (re-)integrare il soggetto nell'oggettivismo dogmatico, sacramentale e disciplinare. In Vraie
et fausse reforme dans l'gli-se (1950), abbiamo mostrato che i movimenti di riforma che si sono
conclusi nel concilio e con il concilio provenivano da due grandi esigenze: 1) restituire l'autentico
significato al comportamento; 2 ) modificare e adattare le forme secondo le esigenze dell'attuale
situazione apostolica. Abbiamo poi mostrato come queste due esigenze corrispondevano alle due
grandi tentazioni a cui esposta la Chiesa nella sua situazione di pellegrina: prima, la tentazione di
fariseismo, che trionfa quando il formalismo impedisce alle strutture di servire realmente al loro
fine e di realizzare il loro significato; seconda, la tentazione di comportarsi come una sinagoga,
rifiutando di ascoltare i richiami del tempo e di attuare gli adattamenti o rinnovamenti richiesti dai
tempi. Occasionalmente, nella stessa opera (p. 223 s.), abbiamo spiegato perch s. Agostino nutr
cos costantemente aspirazioni riformistiche: fu perch egli afferm incessantemente l'ordinamento
di ogni sacramentum alla sua res, e quindi il superamento di tutte le forme e il primato del
significato delle cose nel servizio dell'uomo spirituale. Non necessario essere agostiniani nel
preciso senso della parola per pensare che la verit delle cose e delle azioni va al di l di ci che
sufficiente per assicurare la loro esistenza o la loro validit puramente formale e giuridica.
Contentarsi di questo livello di validit formale costituisce precisamente il legalismo, tanto
criticato nel Vaticano II. Ma, se questo livello ha il suo valore nel suo ordine esso sfugge alle
nostre critiche , ci non sufficiente a garantire significato ad una istituzione o ad un'azione.
Senza dubbio i Corinti celebravano un'eucaristia valida, eppure s. Paolo scrive loro che essi non
mangiavano la cena del Signore, perch lo facevano con uno spirito contrario al suo (1Cor. 11,20).
Altrove, ho fatto un'analisi della nozione di apostolicit e di successione apostolica. (19)
possibile che noi siamo giunti a concepire quest'ultima in modo puramente formale e giuridico, ma
non era questa l'idea n dell'antichit cristiana n del medioevo. Si pu isolare l'aspetto puramente
giuridico-istituzionale: esso ha una relativa autonomia contro ogni donatismo , ma questa pu
essere raggiunta solo al livello della validit formale e giuridica; che pi tardi inoltre implica gi la
dimensione spirituale, in primo luogo, l'ortodossia della fede. Fu l'errore di una certa teologia
contentarsi di questo livello e pensare che esso potesse essere sufficiente per un'ecclesiologia
teologica. Quest'ultima pu distinguere, ma non pu separare la missione giuridica e la grazia dello
Spirito santo, l'aspetto istituzionale e quello carismatico, le cose e le persone. Le considerazioni
precedenti e il soggetto stesso ci invitano a tentare, in questa seconda parte del nostro studio,
un'applicazione alla sfera del culto. Non che io voglia presentare una completa teologia del culto
cristiano, bench ci sia bisogno di una siffatta teologia: intendiamo affrontare la questione
rimanendo nel quadro del soggetto attuale, cio, religione istituzionalizzata e la persona come

principio. Il culto cristiano cattolico innanzitutto l'eucaristia, in cui al tempo stesso noi riceviamo
il dono di Dio e offriamo a lui, de tuis donis ac datis, l'offerta perfetta, Ges Cristo. Questo culto
costituito, nella sua forma suprema. Ma il Nuovo Testamento ci parla di un culto, e anche di un
sacrificio, che personale, di cui ogni individuo il sacerdote insostituibile. Questa verit,
successivamente trascurata in qualche misura, stata pienamente riconosciuta nell'ecclesiologia del
Vaticano II. (20) Parlo dell'offerta, da parte di ognuno, della sua intera vita, della sua persona
concreta, nella misura in cui essa svolge una funzione attiva del mondo. Niente escluso, eccetto il
peccato, che in quanto tale ovviamente non pu essere offerto a Dio. Ma, eccetto il peccato, ogni
cosa materia di offerta, anche il riposo fisico o spirituale, anche la vita coniugale e familiare, dice
la Lumen gentium. Cos, la materia del culto eminentemente personale: io offro le mie gioie ed i
miei dolori, il mio lavoro ed i miei affetti, non quelli di un altro. Abbiamo dunque qui, nel cuore
della religione, una forma di culto interamente personale, in cui tutto dipender da me, in contrasto
con ci che abbiamo visto sopra riguardo alla religione costituita e istituzionalizzata. Rimane
ancora la questione di quale relazione possa avere questo culto personale con il culto
istituzionalizzato e, in una parola, con la messa, che abbiamo veduto, strettamente parlando, poter
essere celebrata senza la presenza dei fedeli.
Prima di tutto, questo commento iniziale. Certamente questo sacrificio spirituale da parte di
ciascuno autentico. Personalmente, abbiamo fatto molto per diffonderne l'idea. Meglio: noi
possiamo testimoniare che la sua pratica costante ha introdotto nella nostra vita una serena e gioiosa
unit. Ma, per quanto autentico possa essere, quel sacrificio non pu essere sufficiente. Di fatto,
questa pratica potrebbe essere stabilita all'interno di una vita cristiana puramente individualistica,
che sarebbe assolutamente fuori di ogni armonia con il Nuovo Testamento. La rivelazione divina ci
parla di patto. Il beneficiario umano non questo o quell'individuo in quanto tale, ma un popolo,
che paragonato ad una casa, a un tempio, ad una vigna, e che, ci viene detto infine, un corpo, il
corpo del Cristo. Abbiamo qui delle realt essenzialmente collettive e organiche. Una casa
qualcosa di pi di una certa quantit di pietre accatastate: una quantit di pietre disposte
organicamente in vista di una certa finalit. Parimenti, un albero (una vigna) non una certa
quantit di legno tagliata e accatastata: ha una struttura organica. Lo stesso vale per un popolo.
Certo, un popolo consiste di persone, e Pascal ha detto proprio a proposito del corpo mistico:
Immaginiamo un corpo pieno di membra pensanti. (21) Il popolo di Dio non dunque una massa
dominata da un'autorit, la sua unit non quella di semplici subordinazioni sub uno: (22) la sua
unit quella di una comunione di persone, ma in una unit strutturata. L'idea kierkegaardiana di
coscienza solitaria altrettanto insufficiente, per parte sua, quanto l'idea puramente giuridica di
un'autorit che si esercita su una massa amorfa. N l'una n l'altra corrisponde alla verit del popolo
di Dio - corpo di Cristo.
Si potrebbe andare anche oltre. Non solo il puro individualismo escluso (la condizione del
cristiano essendo quella di una vita in comunione con altri in un corpo, un corpo strutturato), ma
questo corpo, che il corpo di Cristo, ha una tale realt che deve avere la sua propria forma di
culto. Perci, oltre ai sacrifici personali di cui ciascun individuo il sacerdote, necessario un
sacrificio del corpo in quanto tale. Offerto da quale sacerdozio? Da quello di Ges Cristo stesso, il
capo del corpo, rappresentato e, per cos dire, visibilmente attualizzato da sacerdoti ordinati in vista
di questa funzione pubblica e comunitaria, per offrire, cio, non soltanto il sacrificio personale della
loro vita il che, sicuramente, devono fare: sono cristiani, innanzitutto , ma anche il sacrificio
del Cristo e del suo corpo in quanto tale. La questione che abbiamo posto si riduce dunque a quella
di sapere come il sacrificio spirituale personale di ognuno si confonda con il sacrificio eucaristico,
il culto sacrificale costituito, celebrato dai preti di quel sacerdozio che ministeriale, gerarchico e
pubblico. A tale questione il concilio ha dato una precisa risposta. Ecco la risposta della Lumen
gentium: Partecipando, secondo il grado specifico del loro ministero, alla funzione del Cristo, il
solo mediatore (1Tim. 2,5), i sacerdoti annunciano a tutti la parola di Dio. Ma essi esercitano la loro
sacra funzione soprattutto nel culto e nell'assemblea eucaristica (synaxis): qui, agendo in persona
Christi (nel nome di Cristo e rappresentandolo), o proclamando il suo mistero, essi uniscono le

preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo, e nel sacrificio della messa rendono presente ed
applicano, fino alla venuta del Signore (cf. 1Cor. 11,26), l'unico sacrificio della nuova alleanza, vale
a dire, il sacrificio di Cristo, che offre se stesso una volta per tutte al Padre come una vittima
immacolata (cf. Ebr. 9,14-28) (n. 28). Ed ecco la risposta del decreto Presbyterorum ordinis, sui
preti: Partecipando, per parte loro, alla funzione degli apostoli, i sacerdoti ricevono da Dio la
grazia che li fa ministri di Cristo Ges alle nazioni, offrendo il sacro ministero del vangelo affinch
le nazioni possano divenire un'offerta accettabile, santificata dallo Spirito santo (cf. Rom. 15,16,
gr.). Infatti l'annuncio apostolico del vangelo convoca e raduna il popolo di Dio allo scopo che tutti
i membri di questo popolo, santificati dallo Spirito santo, possano offrire se stessi come una 'vittima
vivente, santa e accettabile a Dio' (Rom. 12,1). Ma attraverso il ministero dei preti che si consuma
il sacrificio spirituale dei cristiani, in unione con il sacrificio di Cristo, l'unico mediatore, che
offerto nel nome di tutta la Chiesa nell'eucaristia per le mani dei sacerdoti, in modo sacramentale e
incruento, fino alla venuta del Signore (cf. 1Cor. 11,26). Ecco lo scopo del loro ministero e la sua
piena realizzazione: cominciando con la proclamazione del vangelo, il ministero sacerdotale trae la
sua forza e il suo potere dal sacrificio di Cristo, e trova la sua pienezza quando tutta la citt redenta,
cio, la societ e l'assemblea dei santi, offerta a Dio come un sacrificio universale per mezzo del
Gran Sacerdote, che arriv a offrire se stesso per noi nella sua passione, per fare di noi il corpo di
un cos sublime capo (s. Agostino, De Civitate Dei 10, 6; PL 4, 284) (n. 2).
Questa dottrina perfettamente chiara, e sar, ne sono sicuro, di immensa importanza per un
aggiornamento in profondit del nostro culto. Essa dovr essere intesa e spiegata in connessione
con altri insegnamenti del concilio sulla sacra liturgia, sull'apostolato dei laici, sulle missioni, sulla
Chiesa nel mondo moderno. Soprattutto, questa dottrina dovr essere vissuta. In campi come il
culto, dottrina e pratica tali insegnamenti si illuminano e si fanno progredire a vicenda.
Ogni membro del popolo di Dio offre il sacrificio spirituale della propria vita. Cos, egli pone i suoi
talenti personali nel contesto giusto, talenti che, s'intende, egli deve anche usare a servizio dei
fratelli. Ma tutto ci deve avvenire per mezzo di Ges Cristo ed essere unito al sacrificio di Ges
Cristo per poter raggiungere il cuore di Dio ed essere accettabile a lui, come dice s. Pietro:
Prestatevi, come pietre viventi, all'edificazione di un tempio spirituale, per un sacerdozio santo,
allo scopo di offrire sacrifici spirituali accettabili a Dio per mezzo di Ges Cristo (1Pt. 2,6). Ora,
perfettamente vero che ognuno di noi pu unirsi mentalmente e spiritualmente al sacrificio di Ges
Cristo, ma chi non vede, in realt, i limiti di un modo d'agire cos puramente particolare e
personale? Questi limiti sono quelli che abbiamo gi indicati: l'individualismo dell'idea stessa e,
d'altra parte, il bisogno di un culto che sia precisamente quello del corpo di Cristo come tale.
Un'altra limitazione, naturalmente, potrebbe consistere nel carattere insufficiente e precario di un
movimento che deriva semplicemente da me ed soggetto alla mia mancanza di fervore ed alla mia
debolezza. Precisamente qui, dunque, possiamo situare la funzione del sacerdozio ministeriale e
gerarchico, che esercita il ministero della religione cristiana, in quanto tale religione stata
istituzionalizzata.
Il sacerdozio gerarchico , innanzitutto, al servizio del sacrificio spirituale degli altri. Il prete non
soltanto colui che, in quanto cristiano, offre il proprio sacrificio spirituale; anche, in quanto
ministro, il servo degli altri cristiani. Suo compito stimolarli al sacrificio spirituale e alimentare e
illuminare quel sacrificio. Questo egli fa nella sua funzione di educatore nella fede, perch il
sacrificio spirituale il sacrificio della fede, obbedienza filiale a Dio. S. Paolo ne parla in questi
termini: il sacrificio servizio della vostra fede, dice ai Filippesi (2,17), e altrove (Rom. 15,16),
come di un ministero sacro che sacerdotale di sua natura: La grazia che mi stata data da Dio,
egli dice, di essere un leitourgos, un ministro, un 'liturgista' di Cristo Ges ai gentili; prete del
vangelo di Dio (hierourgounta to Euangelion: questo l'unico passo nel Nuovo Testamento in cui il
termine 'prete', per lo meno nella sua forma verbale letterale, applicato al ministero gerarchico),
affinch i gentili divengano un'offerta accettabile, essendo sacrificati per opera dello Spirito santo.
Cos, il primo sacerdozio si esercita nel ministero della parola. Ce ne siamo un tantino dimenticati.
Il medioevo intese il nostro sacerdozio come fondato su Aronne, e quindi lo colleg con il

sacerdozio cultuale-ritualistico dell'Antico Testamento; poi, defin questo stesso sacerdozio dal
potere di celebrare l'eucaristia. Successivamente, la scuola francese del XVII secolo (Berulle,
Condren, Olier), che la fonte principale dell'insegnamento dato nei seminari e nelle congregazioni
religiose, defin il prete come un religioso e un adoratore di Dio. Da tutto ci risult una nozione
principalmente cultuale del sacerdozio: noi siamo preti per offrire la messa. Non questo che dice
l'ordinazione rituale?
Ma ora il posto della parola stato riscoperto. Il movimento di idee nel nostro tempo intendo
il ritorno alle fonti bibliche non meno degli urgenti compiti apostolici e missionari ha imposto la
riscoperta della parola. La costituzione sulla liturgia del Vaticano II ha reinserito la parola nella
celebrazione liturgica stessa. Inoltre, la costituzione dogmatica Lumen gentium ci insegna che
l'episcopato la pienezza del sacramento dell'ordine sacro. Quindi, proprio l dove il sacerdozio
pi pienamente se stesso, esso apostolico e pastorale. Il sacerdozio non pu essere definito
solamente con la sua funzione cultuale ed eucaristica, ma include anche la funzione profetica della
parola e la funzione pastorale di presiedere la comunit. assolutamente vero che il pi
fondamentale e il pi peculiare dei poteri e degli atti del sacerdozio gerarchico di consacrare
l'eucaristia, ma la nostra formulazione differirebbe alquanto da questa forma consueta. Noi
diremmo: noi siamo preti per offrire la messa, cio, per condurre gli uomini a prender parte nel
sacrificio di Ges Cristo. Questo dicono i due testi conciliari che ho citato. Naturalmente, ci
implica la consacrazione, ma la consacrazione abbraccia gli uomini, la loro fede, il loro sacrificio
spirituale. L'eucaristia innanzitutto la celebrazione sacramentale del sacrificio offerto una volta
per tutte da Ges Cristo per il mondo intero. Ma questo sacrificio offerto dalla Chiesa in modo
che essa pu farlo proprio e unirsi ad esso. Il culto cristiano prima di tutto la ricezione grata, nella
fede, del dono di Dio in Ges Cristo, ma anche rendimento di grazie per questo dono e offerta di
s medesimi in unione all'offerta di Ges Cristo. Perci, l'azione del sacerdote e la celebrazione
eucaristica devono essere tali da realizzare tutto questo. Non solo noi dobbiamo restituire alle
nostre offerte l'apparenza del rendimento di grazie, ma dobbiamo condurre i fedeli ad unire il
sacrificio della loro persona e della loro vita al sacrificio di Ges Cristo, offerto ora nella messa in
maniera reale e sacramentale. Abbiamo visto che il sacrificio spirituale di ciascuna persona
l'offerta della propria intera esistenza, della propria reale vita quotidiana, e intendo anche ci che si
chiama la sua vita quotidiana secolare, o, pi impropriamente, profana. Dobbiamo dunque far
avvenire un incontro, un'unione, tra la celebrazione del culto costituito e l'offerta della vita
quotidiana degli uomini. Il culto cristiano ha luogo solo quando la religione personale, includendo
tutta la nostra vita secolare, assunta nella religione societaria e costituita, anzi istituzionalizzata,
di cui il sacerdozio gerarchico incaricato. Indiscutibilmente, questa assunzione dell'aspetto
personale entro l'istituzione richiede un certo stile di celebrazione liturgica. Cos, un modo
completamente amministrativo di celebrazione liturgica, giuridicamente valido ma privo di
significato per gli uomini, precisamente il contrario dello stile richiesto: pure Messe in s, che
sono realmente una preghiera meno perfetta, quelle Messe stigmatizzate dal cardinale Manning nel
suo famoso esame di coscienza, come una delle ragioni dell'insuccesso nel convertire l'Inghilterra.
(23) Leggiamo alcune righe di Nine Hindrances to the Spread of Catholicism in England (Nove
ostacoli alla diffusione del cattolicesimo in Inghilterra):
a) Un quinto ostacolo ci che, in mancanza di un termine migliore, devo chiamare
sacramentalismo. I preti corrono il rischio di diventare preti della messa, o monaci del sacramento...
L'efficacia oggettiva dei sacramenti non era destinata ad esimere dalla disposizione soggettiva sia
del ministro che del ricevente.
b) Un sesto ostacolo ci che potrei chiamare ufficialismo, cio la dipendenza del nostro lavoro
non dalla nostra disposizione soggettiva, ma dai poteri ufficiali. certo che, quando l'aspetto
oggettivo sopravvalutato, quello soggettivo sottovalutato.
Noi dobbiamo comprendere che, come preti del Nuovo Testamento, come preti del vangelo, siamo
chiamati a qualcosa di molto diverso da una celebrazione giuridicamente valida del culto costituito.

Il culto cristiano non una 'cosa', sebbene abbia una realt oggettiva. Il culto cristiano deve essere
l'atto di uomini viventi.
Lo stile della celebrazione non il solo problema. La parola di Dio e, nella messa, l'omelia sono il
mezzo pi adatto e pi efficace con cui il ministro celebrante pu realizzare l'unione tra la vita
quotidiana o secolare dei fedeli e la celebrazione eucaristica. (E dovremmo anche notare che la
celebrazione eucaristica essa stessa un'unione in cui sono resi presenti, a un tempo, la pasqua del
Cristo ed anche l'uno o l'altro dei misteri dell'economia della salvezza, nel ciclo liturgico). Cos, la
parola di Dio il mezzo principale per far s che i fedeli introducano l'offerta di tutta la loro vita,
cos com' eccetto il peccato nel sacrificio e nel mistero del Cristo.
Questo lo scopo del sacerdozio dei preti ordinati. Il loro sacerdozio non cultuale, se questo
termine inteso nel suo senso ritualistico, lungo le linee di una consacrazione che separa uno dagli
altri, come era il caso nell'antica legge. Ma il sacerdozio cristiano pu esser detto 'cultuale' e
consacrato al culto, se la verit neo-testamentaria del culto viene reintegrata nella direzione che ho
cercato di indicare. questo, a mio parere, il compito importante per gli anni avvenire. Ed anche
il pensiero del concilio. Il ritorno all'autenticit del Nuovo Testamento nel culto sar la vera risposta
alla seria crisi attuale nel sacerdozio. Purtroppo, raramente noi affrontiamo le questioni pi
fondamentali. Le immaginiamo risolte, mentre di fatto non sono mai state sollevate. Senza
sottovalutare altri problemi, noi vediamo due questioni principali: chi il vostro Dio? Che cos' il
culto del vangelo?
Tutto ci, come il lavoro del concilio in generale, ci impegner in una progressiva, pacifica e
paziente revisione del carattere eccessivamente clericale della nostra Chiesa. E questo clericalismo
non solo un fatto, ma radicato nell'idea stessa che noi abbiamo della Chiesa. Noi non accettiamo
pi la nozione medioevale, esempi della quale ho dato altrove, e secondo la quale ecclesia
designava principalmente il clero: la Chiesa era il clero, per il quale il laicato era soltanto una
clientela o una zona d'influenza. (24) Grazie a Dio, non siamo pi a questo punto. Il capitolo II
della Lumen gentium sul popolo di Dio lo sviluppo progressivo delle conseguenze ed implicazioni
di questo fatto. Ma molto rimane ancora da fare, per ristabilire, teoricamente e praticamente, la vera
concezione della Chiesa. Intendo la concezione della Chiesa come comunione di persone che
partecipano tutte agli stessi beni del patto, e sono tutti cittadini di prima classe, con pieni diritti, di
questa citt santa, di questa famiglia di Dio. (25) Il canonico Moeller ha notato, molto acutamente,
che la Lumen gentium non fa menzione degli aspetti collegiali dei rapporti tra gerarchia e laicato.
(26) Una tale interpretazione non pu essere il risultato di semplici accomodamenti pratici.
Dobbiamo andare oltre, con J. Ratzinger, (27) al livello ontologico, alla contemplazione della vera
natura della fraterna comunione di persone che troviamo nella Chiesa. E allora, ugualmente vera ma
in secondo piano, troviamo nella Chiesa una societ strutturata e gerarchica. Dobbiamo arrivare alle
essenziali categorie agostiniane e tomistiche di sacramentum e res, alle formulazioni tradizionali e
rivoluzionarie di s. Tommaso d'Aquino: cio, che la legge evangelica la religione cristiana
consiste principalmente nella grazia dello Spirito santo, e secondariamente in ci che necessario o
utile per disporre gli uomini a questa grazia o all'uso di ci che ad essa pertiene. (28) Che
interiorit! Che personalismo! L'istituzione riferita interamente all'evento dello Spirito santo e
all'edificazione interiore delle persone.
Concludo con una citazione da Bernanos: La nostra Chiesa la Chiesa dei santi. Colui che si
avvicina ad essa con sfiducia pensa di vedere solo porte, cancelli e sportelli chiusi, una specie di
forza di polizia spirituale. Ma la nostra Chiesa la Chiesa dei santi. Per essere un santo quale
vescovo non darebbe il suo anello, la sua mitra, il suo pastorale, quale cardinale non darebbe la sua
porpora, quale pontefice non darebbe la sua veste bianca, i suoi ciambellani, le sue guardie svizzere
e tutto il suo potere temporale? Chi non vorrebbe avere la forza di correre questo mirabile rischio?
Perch la santit un'avventura, anzi l'unica avventura. Colui che ha compreso questo una volta
penetrato nel cuore della fede cattolica, ha sentito tremare nella sua carne mortale un altro terrore
che non quello della morte, una speranza sovrumana. La nostra Chiesa la Chiesa dei santi... Tutto
questo grande apparato di sapienza, di forza, di flessibile disciplina, di magnificenza e di maest

non niente, di per s, se la carit non lo anima. Ma la mediocrit vi cerca solo una solida
assicurazione contro i rischi del divino. Che importa! Il pi piccolo fanciullo nella classe di
catechismo sa che la benedizione di tutti gli uomini di Chiesa messi insieme non porter mai pace
se non a quelle anime gi preparate a riceverla, alle anime di buona volont. Nessun rito dispensa
dall'amore. La nostra Chiesa la Chiesa dei santi. (29)

1) Vedi, fra gli altri saggi, G. Renard, La thorie de l'institution, Paris 1930; Id., L'institution, Paris
1933; J. Fichter, Sociology, University of Chicago Press, 1961, cap. II; G. le Bras, in Fliche-Martin,
Histoire de l'glise, t. 12 (I-II), passim.
2) Vedi O. von Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, 3 vol., Leipzig 1868 (la cui
sistematizzazione un po' troppo rigida); P. Gillet, La personnalit juridique en droit ecclsiastique,
Malines 1927, 83, n. 3; 84, nn. 1, 2; 102; 110s; P. Caron, Il concetto di 'institutio' nel diritto della
Chiesa, Il diritto ecclesiastico 70 (1959) 328-367.
3) Cf. CICERO, De natura deorum, 28; s. AGOSTINO, De civitate Dei, 10, I PL (41) 277-278; S.
TOMMASO D'AQUINO, Sum. Theol, II-II, q. 81, a. I.
4) Religious Institutions, Annals of the Amer. Acad. of Pol. And Soc. Sc., 256 (1948) 1-13 (H.
CARRIER, Psycho-sociologie de l'appartenance religieuse, Roma 1960, 197).
5) Cf. F. HAUCK, in KITTEL, TbWbNt, t. III, 789-810; H. SEESE-MANN, Der Begriff Koinonia im N.
T., Giessen 1933; A.RAYMOND GEORGE, Communion with God in the N. T., London 1953.
6) Cf. s. AGOSTINO, Epist. 55, 19, 35, PL (33) 221; cmp. De Doctr. christ., 3, 9, 13, PL (34) 70-71;
Contra Faustum, 19, 13, PL (33) 221; S. TOMMASO, Sum. Theol., I-II, q. 107, a. 4.
7) Journal, Genves 1905, t. I, 87.
8) Cf. H. CARRIER, op.cit., 235 (con riferimento a D.C. BROWN e W.L. Low, Religious Beliefs and
Personality Characteristics of College Students, Journal of Social Psychol., 33 (1951) 103-129 e
193); con riferimento a R.L. SCHANCK, A Study of a Community and its Groups and Institutions
Conceived as Behaviors of Individuals, Psy-chologcal Monographs 43 (1932) 1-133.
9) Abbondanti testi in S. TROMP, De Spiritu Sancto, Anima Cor-poris mystici: I Test. e Patribus
graecis; II Test. e Patribus latinis, Roma, 2a ed. 1948 e 1952; s. TOMMASO, In Coloss. c. I, lect. 5;
LEONE XIII, enc. Divinum illud, 9, 5, AAS 29 (1896-97) 650; Pio XII, Mystici corporis, 29, 6, AAS
35 (1943) 219-220; DENZINGER, Ench. Symb., 228 (3807); VAT. II, Const. dogm. Lumen gentium,
n. 7, 7.
10) Sum. Theol, I-II, q. 96, a. 5, ad 2; comp. In II Sent., d. 44, q. 2, a, 2 ad I; In Mt. c. 20; In Rom.,
c. 13, lect. I; In 2 Cor., c. 3; lect. 3; In Tit., c. 2, lect. 2.
11) Su quest'ultimo punto, vedi L. BUISSON, Potestas und Caritas. Die papstliche Gewalt im
Sptmittelalter, Kln-Graz 1958. Ognuno dei punti menzionati qui potrebbe essere illustrato con
riferimenti ed esempi.
12) Vedi su questo punto G. OLVSR, La Chiesa e lo Stalo nel ceri moniale d'incoronazione degli zar
russi nel periodo dei torbidi (1598 -1613), Orientalia christ. period., 17 (1951) 395-434. Cf. il
nostro La Tradition et les traditiones, II Essai thologique, Paris 1963, 184 s.
13) A. VONIER, The New and Eternal Covenant, London 1950, spec. cap. 6.
14) Osservazione fatta, p. es., da P. VIELLE (membro della Resistenza, che mor durante la
deportazione), Scnes de la vie religieuse a Londres, in La Nouvelle Journe, maggio 10, 1923,
344-45.
15) Politische Reden, XII, 376, citato da E. SIEGMUND-SCHULTZE, in Die Einigung der christlichen
Kirchen, Basel 1942, 54. Cf. D.T. JENKINS, The Nature of Catholicity, London 1943, 114; e, dal
punto di vista della natura della messa, F. HEILER, in Prayer (trad. francese, 502).
16) Mediator Dei, ed. Roguet, nn. 49-51, 101, 107-109; Vat. II, Costituzione sulla liturgia, nn. 26,
27, AAS 56 (1964) 107; Decreto Presbyterorum ordinis, n. 13; PAOLO VI, enc. Mysterium fidei, 3.
9, AAS 57 (1965) 761-62.
17) Sess. XXII, cap. 1, Denz. 938 (1741).

18) Sul significato della Chiesa nei Padri, vedi K. DELAHAYE, Ecclesia Mater chez les Pres des
trois premiers sicles. Pour un renouvellement de la Pastorale d'aujourd'hui. Prefazione di Y. M. J.
CONGAR (Unam Sanctam 46), Paris 1964.
19) Vedi La Rforme et le conditionnement rigoureux de l'apostolicit de ministre par
l'apostolicit de doctrine, in Festgabe Joseph Hofer, Freiburg 1966.
20) Costituzione dogmatica Lumen gentium, nn. 10, 11; Decreto Apostolicam actuositatem, n. 3.
21) Penses, ed. L. Brunschvieg, n. 473.
22) Vedi CAJETANO, Comment. in II II. q. 39, a. I.
23) Vedi ed. S. Purcell, Life of Cardinal Manning, Archbishop of Westminster, London 1896, II,
774-796.
24) Vedi Lay People in the Church, London 1957, 42, n. 22.
25) Vedi, per esempio, ci che s. Tommaso d'Aquino diceva della Chiesa come famiglia e citt In
Ephes, c. 2, lect. 6.
26) Ch. Moeller, La constitution dogmatique Lumen gentium, Collectanea Mecliniensa (1965)
105-142, spec. 121.
27) Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialit dei vescovi, in Concilium I (1965)
44-73.
28) Sum Theol., I-II, q. 106, aa. I, 2. Vedi anche S. LYONNET, St. Paul, Liberty and Law, Roma,
Pont. Ist. Biblico, 1962.
29) G. BERNANOS, Jeanne relapse et sainte, Paris 1934, 61-62 e 64-65.

Charles Davis
COMPRENDERE LA PRESENZA REALE
Un mutamento nel pensiero e nella devozione eucaristica , insieme, necessario e inevitabile, nel
tempo attuale. Gli ultimi decenni hanno grandemente arricchito la comprensione dell'eucaristia e,
ci che anche pi importante, la comprensione della Chiesa, dei sacramenti e della grazia. Le
nuove intuizioni, tuttavia, non possono essere assimilate senza i necessari riaggiustamenti nella
comprensione della dottrina nel suo insieme, capaci di modificare la sua azione sulla vita e sulla
devozione cristiana. Aspetti anteriormente trascurati vengono alla ribalta, ed altri invece passano in
secondo piano. Cambia la prospettiva in cui tutto visto. Quando ci accade, la stessa dottrina
vissuta in modo diverso.
Un tale mutamento di prospettiva non si compie senza pericolo e difficolt. fin troppo facile
turbare il delicato equilibrio di verit e sana devozione esagerando il nuovo e trascurando l'antico.
Una preoccupazione che niente vada perduto, che le solide acquisizioni di sviluppi anteriori non
siano messe da parte, opportuna e salutare. Ma rifiutare ogni mutamento o accentuazione, non
veder ragione per cui il pensiero e la devozione eucaristica non debbano rimanere strutturati
esattamente come prima, significa, in effetti, rifiutare tutte le nuove intuizioni.
La dottrina cattolica non si sviluppa per semplice aggiunta di nuovi punti da accettare, ma mediante
una crescita di comprensione che modifica la maniera in cui noi vediamo il quadro globale e la
relazione reciproca degli elementi che lo compongono. Concepire il progresso del pensiero
eucaristico come un processo di addizione in cui nuovi elementi sono posti accanto ai vecchi, allo
stesso modo che il calendario dei santi si allunga continuamente e le pratiche devozionali si
moltiplicano assiduamente, non corrisponde ai fatti. Vi un mutamento di prospettiva
sull'eucaristia, in coloro che hanno veramente compreso e accettato le nuove intuizioni. Gli antichi
elementi ci sono ancora, ma ormai fanno parte di una nuova sintesi. Non tutti sono stati capaci di
raggiungere la coerenza in questo pensiero, ma una ristrutturazione di prospettiva finalmente
inevitabile, se l'aderenza ai recenti progressi non deve essere superficiale. A meno che il nostro
assenso al pensiero attuale rimanga puramente nozionale, noi dobbiamo considerare e vivere
l'eucaristia in modo diverso dalle generazioni passate.
Un minuzioso esame dei mutamenti nell'atteggiamento verso l'eucaristia sarebbe un'impresa
eccessivamente lunga. Comunque, la storia generale dei recenti sviluppi ben nota, e noi ne daremo
qui solo un breve accenno. S. Pio X, reintroducendo la comunione frequente, stabil un nuovo
approccio all'eucaristia. La gente subito diede per scontato che, per quanto meravigliosa, la
comunione era disponibile come loro cibo settimanale o anche quotidiano, e che essa non era una
ricompensa o un privilegio occasionale, bens il mezzo ordinario di sostentamento della vita
cristiana.
Un mutamento di pi ampia portata nella devozione eucaristica fu provocato dal ripristino di
un'attiva, intelligente partecipazione esterna alla messa. Questa fase di sviluppo ancora
incompleta. La partecipazione attiva stata ripristinata solo gradualmente, in varie fasi, e la riforma
della messa non ancora terminata. L'esperienza della messa come rito comunitario in cui tutti
prendono parte intelligentemente si diffuso in modo cos poco uniforme e cos imperfetto che la
nuova comprensione dell'eucaristia che essa evoca ancora per larga parte di l da venire, per molti
cattolici. Possiamo, tuttavia, discernere la direzione in cui la devozione eucaristica si muove. Un
primo effetto del movimento liturgico stato di rendere la gente pi consapevole della messa come
sacrificio. La messa non stata pi considerata appena come un procedimento per ottenere la
presenza reale. La gente ha saputo nozionalmente che la messa un sacrificio. Non l'ha vissuta,
per, come viveva la verit della presenza reale permanente e, pi tardi, quella della santa
comunione.

Ma l'accentuazione della messa come offerta di un sacrificio andava di pari passo con l'insistenza
sul fatto che esso era offerto dall'intera Chiesa. Vi stato un cambiamento: dalla comprensione della
messa come azione vicaria compiuta dal prete in nome della Chiesa alla comprensione della messa
come azione di tutta la comunit, che tutti compiono insieme, come comunit, pur esercitando, il
sacerdote e il popolo, funzioni differenti. Le implicazioni di ci sono troppe e troppo profonde per
analizzarle qui.
Una linea di sviluppo, comunque, richiede la nostra attenzione. Insieme con il senso crescente
dell'eucaristia come azione comunitaria cresciuta la comprensione della struttura e dell'unit della
celebrazione eucaristica come un tutto. Messa e comunione non sono due azioni giustapposte, l'una
il sacrificio, l'altra il sacramento. L'intera eucaristia nell'ordine sacramentale; la messa un
sacrificio sacramentale. Al tempo stesso, la comunione sacrificale: la nostra partecipazione al
sacrificio. La rigida divisione che si faceva prima tra sacrificio e sacramento non rendeva giustizia
all'unit dell'eucaristia: la sacramentalit della messa e il significato sacrificale della santa
comunione.
La comprensione dell'unit di messa e comunione stata favorita dal riconoscimento del fatto che la
struttura della messa, vista come un tutto, quella di un pasto. Il pasto il sacrificio, non qualcosa
che segue ad esso. Il pasto, in realt, non limitato alle azioni del mangiare e del bere. Ma questo
parimenti vero di un pasto ordinario, quando esso ha la sua piena dimensione umana come evento
sociale. L'eucaristia come pasto include la grande preghiera eucaristica, che consacra gli elementi
presentati per mangiare e per bere e proclama il loro significato sacro. Questa preghiera, che
dichiara che gli elementi sono il corpo e il sangue di Cristo e richiama il mistero del Cristo in tutto il
suo significato, fornisce il legame essenziale tra il pasto commemorativo della Chiesa e il sacrificio
del Cristo. Ma il pasto sacro si completa solo obbedendo al comando del Cristo nel momento della
consacrazione: Prendete e mangiatene tutti, e: Prendete e bevetene tutti. La comunione parte
del rituale del sacrificio, non separata da esso.
La comunione, allora, la via per la quale penetriamo pi intimamente nel sacrificio del Cristo. Ci
uniamo gi al sacrificio del Cristo quando seguiamo la preghiera eucaristica con fede e devozione,
ma la comunione il climax della nostra partecipazione al sacrificio. il momento in cui il Cristo
agisce su di noi sacramentalmente per attirarci nella sua offerta sacrificale. Ci esige un
ripensamento del nostro atteggiamento nella comunione. Il compito principale, quando noi
riceviamo il Cristo, non di adorarlo, sebbene questo non sia certamente escluso, ma di lasciarci
raccogliere nella oblazione d'amore con la quale egli offr, e continua ad offrire, se stesso al Padre
per la redenzione del mondo. La comunione ci unisce al Cristo, non semplicemente in quanto
attingiamo ai frutti del suo sacrificio, ma in quanto penetriamo in quel sacrificio in modo tale che
esso ormai nostro. Cos, la morte del Signore che voi annunziate, ogni volta che mangiate
questo pane e bevete questo calice, finch egli venga (1Cor. 11,26). Unita alla messa ed alla
comunione nell'unit di un'unica celebrazione anche la liturgia della parola. Questa non pi
considerata come un extra incidentale, ma come un primo stadio importante nel processo per mezzo
del quale la comunit cristiana, unita e fatta presente in un particolare tempo e luogo, penetra nel
mistero del Cristo. Il sacramento dell'eucaristia, se considerato nella sua pienezza, include tutto il
processo e la stessa comunit in cui il mistero si fa presente.
Tutto questo sviluppo spiega perch l'eucaristia come azione, in ci che si chiama il suo aspetto
dinamico, considerata come primaria, e la presenza reale permanente, o aspetto statico, come
secondaria. Teologicamente, questa interpretazione impeccabile; ci che secondario non
necessariamente poco importante e tale da poter esser lasciato da parte. Ma sono sempre di pi
coloro per i quali l'eucaristia soprattutto un'azione, un evento, una celebrazione; la presenza reale
penetra nella loro vita come la realt del loro frequente incontro con il Cristo nell'azione
sacramentale. Ci d origine ad un duplice compito per il teologo. Primo, egli deve mostrare che il
significato della celebrazione eucaristica esige una trasformazione ontologica per cui il pane e il
vino divengono il corpo ed il sangue del Cristo, producendo cos una oggettiva e permanente
presenza reale. Secondo, egli deve esporre le ragioni per cui la devozione al ss. Sacramento ha

ancora un suo scopo ed un suo posto anche quando la devozione eucaristica centrata, come deve
essere, sulla messa e la comunione.
Ma il problema del mutato atteggiamento verso l'eucaristia va anche pi a fondo di quanto io abbia
finora indicato. Il punto di vista sull'eucaristia viene gradualmente modificato dalla migliore
comprensione della Chiesa come corpo di Cristo e dai progressi nella relativa dottrina della grazia.
Questa modificazione veramente fondamentale. Essa riguarda per ora soltanto pochi, ma
implicita in concezioni dottrinali ormai largamente diffuse. Si sta preparando la via per una futura
generale trasformazione della devozione cattolica.
Forse posso dar meglio l'idea di ci che ho in mente illustrandolo con la vita di s. Teresa di Lisieux.
Nell'atto di oblazione che Teresa fece nel 1895, il settimo anno della sua vita in religione, ella chiese
a nostro Signore, poich non le era permesso di ricevere la comunione cos spesso come avrebbe
desiderato, di compiere, nella sua onnipotenza, uno speciale miracolo e di rimanere, da una
comunione all'altra comunione, in me come nel tabernacolo, non abbandonando mai la vostra
piccola vittima. Nel suo studio sulla santa, The Hidden Face, Ida Grres ci dice: Pauline ha
esplicitamente testimoniato che Teresa concepiva queste parole alla lettera: ella desiderava che
nostro Signore rimanesse in lei, sotto le specie sacramentali, come nel tabernacolo.
Apparentemente, inoltre, la santa pensava che la sua richiesta era stata esaudita. (1)
La strana preghiera di s. Teresa esprimeva il suo soverchiante desiderio della presenza permanente
del Cristo. Con il discernimento della fede, ella era giustamente riluttante ad accettare che Cristo la
lasciasse nell'intervallo tra le comunioni, ma fu capace, a tastoni, di formulare la sua convinzione di
una presenza permanente solo supponendo la permanenza delle specie sacramentali dentro di s.
Questo un buon esempio di come la devozione cattolica ha proiettato sulla presenza sacramentale
la funzione, nella vita cristiana, che propriamente appartiene alla presenza del Cristo per grazia. Per
troppo lungo tempo la presenza del Cristo ha significato per i cattolici semplicemente la presenza
dentro al tabernacolo, che, per cos dire, trasferita per breve tempo in ciascuno di noi con la santa
comunione. L'intima e permanente presenza per grazia, a cui l'eucaristia stessa diretta, stata
dimenticata.
Un grande mutamento che si sta svolgendo nell'atteggiamento verso l'eucaristia il riconoscimento
che dobbiamo andare al di l dell'eucaristia come sacramento, al di l della stessa presenza
sacramentale, fino alla presenza per favorire la quale, e non per sostituirla, ci stata data la
eucaristia. Questo ci che avr probabilmente le maggiori ripercussioni sulla devozione
eucaristica. Il problema fondamentale per il pensiero eucaristico oggi di spiegare l'eucaristia alla
luce dell'unione con Cristo per grazia.
Recenti tentativi di ripensare la dottrina della transustanziazione sono stati motivati dal desiderio di
interpretare la transustanziazione nel contesto interpersonale a cui propriamente appartiene
l'eucaristia. L'eucaristia l'espressione e la causa della nostra personale unione con Cristo, che
una presenza personale permanente e reciproca. un incontro personale con Cristo, in cui egli una
volta ancora ci offre l'unione con se stesso e ci invita ad avvicinarci maggiormente a lui, e noi
accettiamo e ci avviciniamo a lui. La reciproca presenza personale di cui noi godiamo con lui per
grazia approfondita da un'azione sacramentale. Ci corrisponde al modo in cui una simile
presenza personale reciproca tra esseri umani cresce per mezzo della manifestazione fisica. Alla
luce di questa interpretazione dell'eucaristia, la transustanziazione deve essere vista come uno stadio
in un processo di comunicazione personale. Isolarla dal suo contesto e farne un fine in s, spiegarla
esclusivamente in termini impersonali e con analogie fisiche: ci significa distorcere, o per lo meno
impoverire, il suo significato. bene osservare che l'insoddisfazione verso l'antica teologia della
transustanziazione non dovuta primariamente a dubbi circa la filosofia aristotelica in quanto tale.
Ci che appare difettoso una spiegazione che attinge ad una filosofia della natura, senza fare
appello a categorie personali. Questo il motivo per cui, una volta che l'eucaristia era stata
ricollocata nel contesto interpersonale a cui appartiene e subordinata alla presenza personale
reciproca costituita per grazia, uno sguardo nuovo alla teologia della transustanziazione diveniva
inevitabile.

Lo sviluppo dell'indagine sulla presenza eucaristica e sulla transustanziazione richiede una


spiegazione preliminare della presenza interiore del Cristo per grazia. Solo poche brevi osservazioni
si possono fare qui. (2)
Presenza personale presenza di persona a persona o, pi esplicitamente, la presenza di una persona
in quanto persona ad un'altra persona in quanto persona. Questa presenza personale costituita
essenzialmente da conoscenza e amore reciproco.
Una persona diviene presente ad un'altra persona quando, in ci che essa , penetra nella
conoscenza e nell'amore dell'altra persona. In ci che essa . Essa deve rivelarsi. Deve farsi
conoscere come soggetto. Essa comunica non solo ci che sa o ci che fa, ma ci che . Rivela la
sua intima realt di persona. E deve essere conosciuta in ci che dall'altro. La sua comunicazione
di s deve essere riconosciuta ed accettata, in modo che essa sia conosciuta come un altro soggetto o
io. Non sembra possibile che ci avvenga senza amore. Solo sotto l'influenza dell'amore le persone
si aprono agli altri, e se per caso in quell'occasione esse sono tristemente illuse circa la presenza
dell'amore, la loro comunicazione di s non trova accesso: impossibile comprendere un'altra
persona senza amarla. Ma, se c' amore, la comunicazione di s sar reciproca. L'altra persona si
riveler a sua volta per ci che , si far conoscere come soggetto e riveler la sua intima realt di
persona. Ci, a sua volta, sar riconosciuto e accettato con amore: altrimenti, la comunicazione si
interromper da entrambe le parti. Ma, dove l'incontro riesce, ciascuno penetra nella conoscenza e
nell'amore dell'altro, rimanendovi presente con la sua realt personale.
Cos, l'amico presente all'amico come una persona conosciuta in uno che veramente la conosce e
che egli a sua volta conosce, e come una persona amata in uno che veramente l'ama e che egli a sua
volta ama.
La presenza personale reciproca che ho cercato di descrivere, in cui due persone comunicano se
stesse l'una all'altra, in cui l'amico si rivela all'amico ed entra nella sua vita, reale, effettivamente
reale al massimo. niente meno che la realt della nostra vita personale portata alla sua pienezza
nell'unione con l'altro. Una presenza di questo tipo l'unica via per la quale noi possiamo entrare, in
un senso reale, l'uno nella vita dell'altro, ed essere presenti l'uno all'altro come persone.
La questione, ora, di applicare questo concetto di presenza personale allo stato di grazia.
Lo stato di grazia spesso inteso come una qualit creata, cio la grazia santificante, inerente
all'anima. Ci significa prendere un elemento dello stato di grazia e farne il tutto, un errore che
rende inesplicabile l'elemento stesso. Forse il maggior danno prodotto da questa falsa
identificazione di una parte con il tutto di portare gli uomini a concepire la grazia come
impersonale. Lo stato di grazia , di fatto, una situazione interpersonale. Esso implica un certo
numero di persone e pu essere compreso solo al livello interpersonale.
A dirla in breve: lo stato di grazia una situazione interpersonale in cui le tre persone della Trinit,
il Figlio anche come uomo, e il giusto sono unite da rapporti di presenza personale.
Le tre persone della Trinit sono personalmente presenti l'una all'altra. Sviluppare questa
affermazione ci porterebbe troppo lontano nella teologia della Trinit. Baster notare che l'intera
realt di Dio conoscere e amare. Ci che, dunque, dobbiamo considerare in che modo noi siamo
introdotti per grazia entro questa reciproca presenza delle tre persone.
Nel loro conoscere ed amare come un unico Dio, le tre persone hanno una speciale conoscenza e
amore per gli uomini, e su questa base concepiscono e vogliono un piano per darsi agli uomini e
introdurre questi nella vita divina. L'uomo quindi presente, in un modo speciale, in una
conoscenza e in un amore comuni a tutt'e tre le persone, una conoscenza d'amore che la sorgente
attiva dell'auto-comunicazione di Dio agli uomini.
Presenti nella divina conoscenza e nel divino amore, noi siamo presenti in ciascuna delle tre
persone, perch la Trinit ha la sua origine nell'unica divina conoscenza e nell'unico divino amore.
Siamo presenti, in un modo speciale, nella conoscenza del Padre, per mezzo della quale egli genera
il Figlio. Siamo presenti anche nel Figlio, che procede come pensiero o parola che eternamente
esprime il contenuto della conoscenza del Padre. Padre e Figlio emettono lo Spirito come loro
amore. Amati da loro, noi siamo presenti nel loro amore, lo Spirito santo.

Noi siamo, dunque, presenti a Dio nella sua conoscenza e nel suo amore, presenti in ciascuna delle
tre persone, perch conosciuti ed amati da loro in un modo speciale e chiamati a condividere la loro
vita, in una comunione interpersonale con loro. Mediante questa presenza nelle tre persone, noi
siamo presenti in tutto ci che siamo stati, siamo e saremo, perch l'amorosa conoscenza di Dio la
sorgente e il fondamento del nostro essere e del nostro destino in quanto partecipi della vita divina.
Questa presenza che dimora nella Trinit il fondamento della nostra unione personale con le tre
persone; la causa che stabilisce quella unione come una realt permanente nelle nostre vite.
Il piano di introdurre gli uomini nella vita divina attuato nelle divine missioni. Sebbene il piano
che d loro origine sia comune alle tre persone, nelle divine missioni essi, Padre, Figlio e Spirito
santo, hanno ognuno una speciale funzione. Le divine missioni sono semplicemente la realt delle
tre persone in quanto comunicate, nella loro distinzione come persone, agli uomini. Esse sono
quindi l'effettiva costituzione di una comunione interpersonale.
La prima missione, l'invio del Figlio, l'incarnazione. Inviato dal Padre, l'eterno Figlio fu fatto
uomo. Attraverso il Figlio incarnato, il Padre che lo ha inviato offre agli uomini il suo amore, li
invita ad essere suoi figli. Il Figlio incarnato la parola d'amore del Padre emessa nella storia,
invitando gli uomini all'unione con se stesso. Ma l'incarnazione fu pi della assunzione di una
natura umana: fu l'assunzione di una storia redentiva. Tutta la storia del Cristo, dall'inizio alla fine,
con la morte e la risurrezione al centro, forma una parola efficace in cui si esprime l'amore del
Padre e mediante la quale egli agisce sugli uomini per la loro salvezza.
Cristo venne come capo del genere umano, e, in adempimento della sua missione, invita gli uomini
all'unione personale con lui. Come uomo, egli ci conosce e ci ama con un amore umano che il
correlativo dell'amore divino e che rende quell'invisibile amore divino pi accessibile a noi in
quanto uomini. Quelli che credono in lui e lo amano vivono non per se stessi ma per lui. La
conoscenza e l'amore diventano reciproci, e vi una reciproca presenza personale. Ma, poich
Cristo venuto come mediatore, egli ci unisce a s cos come ci unisce al Padre. Il suo scopo
riassunto nella sua preghiera: che essi tutti siano uno solo; e come anche tu, Padre sei in me, ed io
in te, anche essi siano in noi (Gv. 17,21).
Questo scopo della missione del Cristo, cio che noi abbiamo una comunione interpersonale con lui,
e attraverso di lui con il Padre, fu portato a compimento con il dono dello Spirito. Il disegno divino
era che la seconda missione continuasse la prima. Finch il Cristo non fu glorificato, lo Spirito non
fu inviato. Fu a causa dell'opera redentiva dal Figlio incarnato, a causa del suo sacrificio di amore al
Padre a favore degli uomini, che lo Spirito fu inviato come il dono dell'amore.
Il Padre, a causa del Figlio, ci ama in Cristo come ama il suo proprio Figlio. Ci significa che egli ci
ama come figli; in altre parole, con un amore che ci adotta come figli. E, se ci ama come ama il
proprio Figlio, egli ci ama mediante lo Spirito santo, dandoci lo Spirito come suo amore. Ma lo
Spirito anche l'amore del Figlio, emesso dal Padre attraverso il Figlio. Quindi, Padre e Figlio
inviano lo Spirito, dandolo come loro dono. Essi danno la persona che il loro stesso amore.
Dandolo, danno se stessi. Lo Spirito, una volta dato, sta con i giusti, abitando con loro, unito a loro.
Ma non solo: viene con il Padre e con il Figlio che lo hanno inviato. Cos, quando stato dato lo
Spirito, tutte le tre persone sono con noi; ma il Padre e il Figlio sono con noi in quanto danno il loro
amore, lo Spirito con noi come amore che essi danno.
Il Figlio, attraverso il quale il Padre invia lo Spirito e che invia egli stesso lo Spirito, la stessa
persona che si incarnata e che noi conosciamo ed amiamo come l'uomo Ges Cristo. Ed a causa
della sua opera in quanto uomo che lo Spirito inviato. Il Padre invia lo Spirito perch ci ama in
Cristo, il suo Figlio incarnato; il Figlio invia lo Spirito perch ci ama con un amore che umano
non meno che divino. Come uomo, egli ha affrontato la morte per amore per noi, per portarci il
dono dello Spirito, ed solo perch siamo presenti al Cristo risorto, presenti nella sua conoscenza e
nel suo amore, che ci viene dato lo Spirito. E quindi noi riceviamo lo Spirito dal Cristo glorificato
come il pegno e il suggello del suo amore. Questo il motivo per cui lo Spirito ci unisce al Cristo in
quanto uomo. Mediante lo Spirito, il Cristo con noi; noi dimoriamo in lui ed egli in noi. Egli ci ha

sottratto la sua presenza visibile allo scopo di venire a noi con una presenza permanente, invisibile
ed intima, mediante lo Spirito.
Con l'invio dello Spirito, noi riceviamo la grazia santificante e le altre grazie create, specialmente la
carit. Lo Spirito non sarebbe dato, se l'uomo non fosse mutato in un possessore dello Spirito. La
grazia creata la trasformazione dell'uomo che consegue al Dono dello Spirito. E la grazia creata,
come principio di conoscenza e di amore, rende l'uomo capace, a sua volta, di conoscere e di amare
il Cristo e, attraverso il Cristo, di conoscere e di amare il Padre. La presenza personale diviene
reciproca, e si stabilisce una comunione interpersonale tra gli uomini e il Cristo, tra gli uomini e la
Trinit. Il Padre, il Cristo e lo Spirito abitano in noi, presenti nella nostra conoscenza e nel nostro
amore.
Un tratto essenziale di questa comunione interpersonale una nuova comunit fra gli uomini. Cristo
mor per tutti gli uomini, e lo Spirito fu dato ai discepoli del Cristo come ad una comunit radunata
da lui per formare il nucleo di una nuova umanit. Lo Spirito il principio di una nuova unit fra gli
uomini, una unit pi intima di quella richiesta dalla loro comune umanit. Essi sono introdotti in
una unit che una autentica comunit di persone, una comunione interpersonale d'amore. Fede e
carit stabiliscono una reciproca presenza personale di tutti i giusti, che la realt della loro
comunione nel Cristo e che costituisce il livello pi profondo del corpo mistico.
Cos, lo stato di grazia significa la presenza personale reciproca tra il Cristo e il giusto, e, attraverso
il Cristo, per opera dello Spirito, tra il giusto e il Padre. Le tre persone della Trinit abitano in noi e
noi in loro; Cristo in noi e noi in lui; noi tutti diveniamo presenti l'uno all'altro nel Cristo. una
rete di comunicazioni fra persone, mediante conoscenza e amore al livello personale. Sorgente e
fondamento della sua realt sono conoscenza e amore che l'essere di Dio e la realt della Trinit.
Questa la presenza reale, che la realt della Trinit in quanto comunicata a noi nel Cristo, la
realt della vita eterna, lo scopo e il fine per cui esistono tutti i sacramenti. Questo ci che
costituisce la vita cristiana, che la Chiesa istituzionale e i sacramenti, compresa l'eucaristia,
promuovono.
I sacramenti, comunque, hanno una funzione pi importante, e appunto alla considerazione di
questa devo ora ritornare.
L'uomo non puro spirito, e la sua conoscenza e il suo amore si compiono soltanto nell'incontro
fisico e attraverso l'esperienza sensibile. A causa dell'unit dell'uomo, l'origine e lo sviluppo della
sua conoscenza e del suo amore spirituale non possono essere separati dal loro fondamento e dalla
loro espressione nell'attivit corporea. Dio non ha violalo la legge della formazione dell'uomo.
L'incarnazione e la sua estensione nei sacramenti della Chiesa rendono possibile che la presenza
personale reciproca, che grazia, sia incarnata od espressa in un incontro corporeo. L'incontro
corporeo avviene con il Cristo, e nel Cristo e attraverso il Cristo noi incontriamo Dio. Cristo il
sacramento del nostro incontro con Dio, e noi realizziamo il nostro incontro sacramentale con il
Cristo nella Chiesa, attraverso i sette sacramenti.
I sacramenti sono le azioni del Cristo. Egli li fa propri come azioni sue, cos che essi esprimono ed
incarnano la sua conoscenza ed il suo amore. Possono essere chiamati azioni simboliche del Cristo.
Ma qui simbolo non significa un segno che indica una realt del tutto separata da esso. I sacramenti
sono azioni simboliche nel senso in cui un gesto, una parola o una azione umana contiene, per cos
dire, o partecipa alla conoscenza o all'amore umano che in essa prende corpo. L'analogia del
linguaggio appropriata, in questo caso. Il linguaggio non pu essere separato dal pensiero che
emerge alla consapevolezza attraverso di esso, rimane una cosa sola con esso. Similmente, ogni
volta che una persona umana parla o agisce, noi ci troviamo di fronte alla sua conoscenza ed al suo
amore resi concreti e messi in relazione con noi. Anche durante la sua vita sulla terra, l'amore del
Cristo prendeva realt corporea nelle sue parole e nei suoi gesti di salvezza, cos pure l'amore
prende forma visibile nei sacramenti e si fa in tal modo accessibile a noi. Poich la conoscenza e
l'amore del Cristo, resi presenti a noi nei sacramenti, sono efficaci, i sacramenti sono cause.
Attraverso i sacramenti come azioni simboliche del Cristo noi incontriamo la realt della sua
conoscenza e del suo amore, che ci offrono comunione personale ed efficacemente la producono.

Al tempo stesso, i sacramenti sono altres azioni nostre. Sono professioni della nostra fede e
devozione che noi compiamo sia come facenti parte di una comunit sia come individui. La
conoscenza e l'amore secondo cui il Cristo presente dentro di noi con una presenza personale
trova espressione e incarnazione nei sacramenti in quanto azioni che noi compiamo.
Cos, entrambe le parti della presenza reciproca che grazia sono espresse, fatte concrete ed
assumono forma corporea, visibile, nei sacramenti. Un sacramento un punto d'incontro (3) in cui
la reciproca unione personale di grazia giunge alla pienezza in un abbraccio, e cos si intensifica.
Con i sacramenti che conferiscono la giustificazione un siffatto incontro corporeo d origine
all'unione di grazia, portando a compimento l'iniziale, imperfetto approccio verso l'unione.
Per conseguenza, in ogni celebrazione sacramentale il Cristo presente a noi e noi siamo presenti al
Cristo, in quanto la reciproca presenza personale, che la realt di grazia, viene incarnata ed
espressa nel sacramento. Questo la reale presenza di grazia, resa concreta nell'azione del Cristo e
nella nostra risposta. Notiamo che il Cristo in quanto persona, nella sua piena realt, che
presente a noi in ciascun sacramento. La questione relativa a ci che presente non deve essere
confusa con il modo della presenza. Noi non incontriamo appena l'azione del Cristo, ma Cristo nella
sua azione.
Cristo, dunque, presente a noi nei sacramenti. Questa la presenza a livello interpersonale. Ma
possiamo ora spostare la nostra attenzione a domandarci come Cristo sia presente nella azione
sacramentale stessa. Qui noi non indaghiamo sulla presenza come relazione interpersonale, ma sul
rapporto o unione tra il Cristo e l'azione sacramentale. Questa presenza del Cristo nel sacramento
subordinata alla presenza interpersonale, perch attraverso di esso l'offerta di una comunione
interpersonale resa concreta nell'azione.
La parola 'presenza' deve essere trattata attentamente, quando usata in un senso limitato per
designare la relazione del Cristo con il sacramento, prescindendo dalla presenza interpersonale
realizzata nel sacramento come suo effetto. L'immagine della presenza locale di un corpo domina la
mente di molti. Essi non riescono a sollevarsi al di sopra del concetto di presenza come
giustapposizione fisica. Di fatto, Cristo presente nei sacramenti perch essi sono azioni sue.
Io sono presente nella mia azione, non con una presenza locale, ma perch quella la mia azione. Io
sono il soggetto dell'azione. La presenza, qui, per identit: cio, l'identit dell'unico soggetto di
tutte le azioni che sono mie. Quando dico: Io sono presente nelle mie azioni, l'identit tra l''io' e
le 'mie'.
I sacramenti sono azioni del Cristo. Per comune ammissione, egli non il soggetto immediato delle
azioni sacramentali. Esse sono compiute da coloro che prendono parte alla celebrazione
sacramentale. Ma egli il loro soggetto principale perch nel sacramento egli l'agente principale e
gli altri che prendono parte sono suoi strumenti. Ci che compiuto da uno strumento appartiene
principalmente all'agente principale, perch le azioni dello strumento sono guidate e ordinate al loro
fine da lui. Sono azioni improntate o ispirate dalla sua intelligenza e volont. Divengono le sue
azioni. Il tratto di pennello pu venire immediatamente dal pennello, ma principalmente azione
del pittore. Bench non dobbiamo uguagliare coloro che prendono parte nei sacramenti a strumenti
inanimati rimane vero che essi portano a compimento le azioni del Cristo sotto la sua influenza
come agente principale. Cristo fa proprie le azioni sacramentali. La sua conoscenza e il suo amore
le improntano, le guidano, le ordinano e le dirigono al loro fine. Esse esprimono ed incarnano quella
conoscenza e quell'amore. E sono efficaci in quanto sue azioni simboliche.
Cos, Cristo presente nei sacramenti perch essi sono azioni sue. Notiamo che non sono sue solo
perch in passato egli ordin che fossero compiute, ma perch nella loro attuale esecuzione esse
dipendono dal Cristo vivente. Questa una presenza dinamica. Egli presente per identit con le
sue azioni in quanto loro soggetto. Quel che ho gi detto pu essere applicato all'eucaristia, prima di
esaminare la presenza unica che questo sacramento apporta.
Primo, nella celebrazione eucaristica Cristo realmente presente a noi nel pieno senso
interpersonale, perch questa celebrazione l'incarnazione e l'espressione della sua presenza a noi
per grazia. Tutti i sacramenti sono azioni simboliche che danno forma corporea alla realt che

effettuano. L'effetto dell'eucaristia la presenza personale reciproca tra Cristo e il giusto, una
comunione interpersonale con il Cristo per mezzo della quale noi prendiamo parte al suo sacrificio e
siamo uniti al Padre attraverso il Cristo, per opera dello Spirito. Questa la presenza personale
reciproca che costituisce lo stato di grazia ed la realt profonda della Chiesa come corpo di Cristo.
L'eucaristia ne la principale espressione, in cui essa resa concreta e visibile. Celebrando
l'eucaristia, la comunit e l'individuo cristiano sono in grado di dare la piena dimensione umana, in
un'azione corporea, alla loro comunione con Cristo. Ed entrambe le parti della presenza personale
reciproca sono espresse, perch l'eucaristia primariamente l'azione del Cristo.
Cristo, dunque, realmente presente a noi nell'eucaristia in una piena presenza interpersonale di
conoscenza e di amore, una presenza resa visibile ed espressa in forma corporea nella celebrazione,
e cos intensificata. Questa la pi profonda realt dell'eucaristia, o, in termini scolastici, la res
tantum. Per questo l'eucaristia esiste.
Poi, possiamo spostare la nostra attenzione e domandarci come Cristo presente nel sacramento
stesso. In altre parole, ci domandiamo non come il Cristo sia presente in noi attraverso il sacramento
o a noi nel sacramento, ma come sia presente nel sacramento stesso, considerato a parte dal suo
effetto di grazia. bene notare i limiti della questione. Qualunque cosa si dica in risposta, deve
essere ricollocata nel contesto del pieno significato dell'eucaristia, e non se ne deve fare un fine in
s.
Ci che troviamo per prima cosa una molteplice presenza dinamica nel senso gi spiegato. Cristo
presente nella celebrazione eucaristica come soggetto principale delle varie azioni sacramentali
che essa include. presente per identit con queste azioni in quanto le fa sue proprie. Egli agisce
attraverso il sacerdote nell'azione consacratoria ed il sacerdote principale nell'offerta sacramentale.
presente dinamicamente nella comunione, facendo del mangiare e del bere il conferimento della
sua grazia. Le parole proclamate nella liturgia della parola sono parole sue, non solo come ricordo
di ci che egli disse in passato, ma come parole che egli, il Cristo vivente, usa per parlare a noi qui e
ora, piene del suo potere di suscitare la risposta di fede. Egli presente nelle azioni dell'assemblea,
in quanto quelle azioni sono compiute nel suo nome, in virt del carattere battesimale e della grazia
corrispondente. Anch'esse sono azioni sue, formando una unit sacramentale con l'azione del
sacerdote, che in senso speciale incarna il suo potere.
C' dunque una presenza dinamica del Cristo in tutta la celebrazione eucaristica. Questa la sua
azione nel suo corpo, la Chiesa. Poich le varie azioni incluse nella celebrazione sono azioni sue,
non solo per una finzione legale, ma per una effettiva dipendenza da lui, la sua presenza dinamica
una presenza reale. Questa presenza reale subordinata alla presenza personale reciproca, che la
realt che questa promuove e intensifica.
L'eucaristia, comunque, implica inoltre una presenza distintiva, che non si trova negli altri
sacramenti. Conseguente alla consacrazione, in cui il Cristo presente dinamicamente, e
presupposta alla comunione in cui di nuovo il Cristo attivo, la presenza del Cristo per identit
con gli elementi consacrati.
Notiamo il senso limitato in cui usata qui la parola 'presenza'. La presenza reale nel senso stretto
una presenza nel sacramento per identit, che costituisce l'offerta di una presenza interpersonale, ma
non ancora quella presenza interpersonale in quanto realizzata. uno stadio preliminare nel
conseguimento di quella presenza personale reciproca con cui il Cristo presente a noi e noi a lui.
Ci che comunemente chiamiamo presenza reale ordinata in vista di una presenza reale nel senso
pi pieno di presenza interpersonale. Quest'ultima la presenza reale, che il frutto o res tantum
dell'eucaristia. La presenza reale nel senso stretto la res et sacramentum, ed ancora nell'ordine
dei mezzi, con riferimento alla presenza reale per grazia.
Ci nondimeno, Cristo presente nell'eucaristia per identit con il pane consacrato. (Applicher le
mie osservazioni al pane, ma ci che dir vero anche per il vino). La identit, qui, identit con
un oggetto: Cristo disse del pane: Questo il mio corpo. Questa non , dunque, identit con
un'azione, o presenza dinamica, anche se serve ad una siffatta presenza. Identit con un oggetto
una identit sostanziale, e questa quindi una presenza sostanziale. La designazione di questa

presenza come sostanziale non significa che il Cristo non sia interamente presente negli altri modi
della sua presenza. sempre l'intera persona del Cristo che noi incontriamo presente, qualunque sia
il modo della sua presenza. 'Sostanziale' indica che qui il modo della presenza per identit con un
oggetto, di modo che possiamo dire: Quest'oggetto, il pane consacrato, Cristo.
Una tale presenza sostanziale richiesta dalla struttura della eucaristia come sacramento. Questa
struttura quella di un pasto sacro in cui il Cristo ci d se stesso sotto forma di cibo. Se il pane
consacrato non fosse il Cristo, il significato espresso nel sacramento sarebbe falso.
La tradizione ha salvaguardato l'interpretazione di questa presenza. Considerata in s, essa non
consiste nella presenza del Cristo a noi attraverso la nostra fede e devozione, bench solo nel
contesto di tale presenza essa raggiunga il suo scopo e diventi propriamente intelligibile. Come ho
gi detto, non presenza del Cristo in un'azione, sebbene risulti da un'azione e conduca ad
un'azione del Cristo. Non , quindi, una presenza dinamica o virtuale, ma una presenza permanente.
Inoltre, non semplicemente che il pane sia usato come segno o simbolo del Cristo, che ce lo indica
e ci fa ricordare di lui. La presenza non semplicemente una presenza come in un segno o in una
immagine. In altre parole, l'eucaristia non semplicemente un simbolo nel senso limitato,
gnoseologico, di segno o segnale indicativo del Cristo. In quanto simbolica, essa incarna la realt
che manifesta. Ancora una volta, poich dopo la consacrazione l'oggetto s'identifica con il Cristo,
esso cessa di essere ci che era prima. Affermare con verit che quest'oggetto ora il Cristo
significa escludere l'affermazione che esso ancora pane. La risposta alla domanda: Che cos'
questo? sar differente prima o dopo la consacrazione. Il pane si cambiato nel corpo del Cristo. Vi
un mutamento nella realt dell'oggetto, che cessa di essere pane e diventa il corpo del Cristo. La
presenza dunque per transustanziazione, non per consustanziazione. Noi affermiamo che l'ostia
consacrata Cristo, non che egli si d con essa.
L'identit tra il pane consacrato e il Cristo, che significa la sua presenza sostanziale, stata la
dottrina costante della Chiesa. La storia dogmatica dell'eucaristia ne in larga parte la difesa.
Quella storia raggiunse un climax a Trento. La portata dogmatica dei decreti tridentini , come ha
dimostrato lo Schillebeeckx, (4) l'affermazione della realt della presenza del Cristo con l'insistenza
sulla reale trasformazione del pane e del vino. La presenza reale, dichiara il concilio di Trento, nel
senso che essa esige una trasformazione nella realt del pane e del vino. Il livello ontologico della
presenza del Cristo, cio che dopo la consacrazione Cristo la realt del pane e del vino consacrati,
il dogma di Trento. Questo , dunque un punto fondamentale della dottrina cattolica. Al tempo
stesso, come tutte le affermazioni dogmatiche, quelle di Trento furono condizionate storicamente. I
Padri tridentini furono capaci, a un tempo, di pensare sensatamente e di formulare questa realt
della presenza del Cristo soltanto in concetti aristotelici. Vi posto per uno sviluppo, purch la
verit che essi affermarono sia conservata intatta.
Si deve affermare, dunque, un'identit tra il pane consacrato e il Cristo. Al tempo stesso, questa non
una identit totale. Non vi cambiamento percettibile nel pane e, come si pensa comunemente,
ci che i nostri sensi percepiscono reale. Elementi del pane rimangono nell'ordine oggettivo. In
effetti, tutto ci che empiricamente accessibile rimane, il che spiega la continuit della nostra
esperienza e il fatto che la presenza del Cristo conoscibile solo per fede. La permanenza delle
cosiddette apparenze, che sono realt oggettive, non impressioni soggettive, di fatto necessaria per
la sacramentalit della presenza del Cristo. Esse sono la base della presenza del Cristo, la rendono
sacramentale e la localizzano per noi.
La scolastica spiegava tutto ci facendo appello alla teoria aristotelica della distinzione, in una cosa
fisica, tra la sua sostanza e i suoi accidenti. La sostanza del pane veniva mutata nel corpo del Cristo,
gli accidenti rimanevano. La presenza reale era costituita dal rapporto, che ne risultava, degli
accidenti con il Cristo.
Vi sono alcune difficolt in questa teologia. Primo, concepire un accidente come esistente a parte
dalla sua sostanza che fa da substrato, fa violenza alla filosofia. Ci sembrerebbe implicare una
contraddizione. S. Tommaso evit, entro certi limiti, la difficolt, concependo la quantit come un
accidente eccezionale. Ma nessuna filosofia della natura che tenga un qualche conto della scienza

moderna pu accettare l'interpretazione scolastica della quantit. Secondo, pane e vino al livello
della realt fisica, a cui la filosofia aristotelica della natura si applica, non hanno unit sostanziale.
Non sono sostanze, perch non hanno unit di essere e di attivit come entit di natura, e nemmeno
alcuna unit come entit artificiali prodotte da parte dell'uomo nell'ordine fisico per la
manipolazione delle leggi della natura. Come entit fisiche, sono semplici agglomerati di diverse
sostanze senza unit o attivit distintiva quale pane e vino. Considerati in s, prescindendo dalla
loro relazione con l'uomo e nel contesto della natura, non hanno una propria intelligibilit. Il
riconoscimento di ci esige per lo meno un'interpretazione pi sfumata della teologia scolastica
della transustanziazione. Sono stati fatti tentativi notevoli per portare la spiegazione scolastica ad
allinearsi con le scoperte della scienza moderna. Ma, a mio parere, il risultato principale di questi
tentativi stato di illuminare maggiormente il terzo fondamentale difetto della teologia scolastica. E
questo consiste nel fatto che la spiegazione scolastica considera la transustanziazione
semplicemente come un evento nel mondo fisico, anche se non al livello della percezione, senza
riferimento all'incontro interpersonale e sacramentale con il Cristo a cui essa propriamente
appartiene. La teologia della transustanziazione non dev'essere trasformata in uno studio di fisica
soprannaturale, ma deve servire a spiegare in che modo il Cristo offre una comunione
interpersonale identificandosi con il pane e con il vino. Non tanto l'impossibilit quanto
l'irrilevanza per la realt del sacramento che colpisce con pi forza, quando si legge, per esempio, la
spiegazione della transustanziazione data dal p. Selvaggi. (5)
Queste difficolt ci portano a domandarci di nuovo: che cos' il pane? pane che il Cristo prende
per l'offerta di s. pane in quanto pane che il Cristo trasforma nel suo corpo. Ci che cessa di
essere se stesso e diviene il corpo di Cristo precisamente pane. Ora, il pane ha una realt
ontologica in quanto pane. Ha unit e intelligibilit oggettiva. Non, per, come una sostanza fisica,
ma come un oggetto umano. L'unit e l'intelligibilit che esso possiede sono un'unit e
un'intelligibilit inseparabili dalla sua relazione con l'uomo. Considerato come separato dall'uomo e
dalla vita umana, pu esser visto solo come un mucchio di materiali diversi. L'uomo impone
modelli ed unit alla realt esterna; egli fa oggetti umani, che hanno realt e significato solo in
rapporto a lui: ai suoi bisogni, ai suoi scopi, alla sua espressione di s, alla sua comunicazione con
gli altri. Essi diventano una estensione della sua incarnazione nel mondo. Questi oggetti umani non
sono semplici oggetti del pensiero: appartengono alla realt esterna. Al tempo stesso, non sono
entit di natura, intelligibili nell'ordine fisico prescindendo dall'uomo. La loro precisa realt
ontologica esige ulteriore riflessione filosofica. Attualmente, basti notare che il pane un oggetto di
questo tipo: un oggetto umano. Il pane, dunque, materialmente parlando, la somma totale delle
sostanze che lo compongono, ma, formalmente parlando, l'unit o il modello imposto ad esse, che
ne fa un particolare oggetto umano, relativo all'uomo.
Con le parole della consacrazione, il Cristo d allo stesso insieme di sostanze fisiche una nuova
unit o struttura, e quindi un nuovo scopo e una nuova relazione con l'uomo. In virt delle sue
parole che lo identificano con l'oggetto, le componenti materiali manifestano ora la propria realt e
diventano i mezzi con cui quella realt mediata a noi. Egli ne fa l'incarnazione simbolica di s,
usando la parola 'simbolico' nel suo pieno significato. Questo altera la realt ontologica dell'oggetto.
La sua costituzione formale come pane cessa, e quindi esso non pi in relazione all'uomo come
pane. Le componenti materiali rimangono, con il loro potere di nutrire il corpo dell'uomo. La loro
permanenza richiesta perch vi sia un sacramento in cui il Cristo viene a noi come cibo. Ma esse
sono divenute parte di un nuovo tutto, di una nuova struttura o unit, con una nuova intelligibilit ed
una nuova relazione con l'uomo. Si prodotto un nuovo essere, cio il sacramento, nel quale la
realt del Cristo la costituente principale o formale la sostanza, per cos dire , con gli altri
elementi del tutto subordinati a quella realt come suo segno e mezzo attraverso il quale essa
sacramentalmente accessibile a noi. Il pane formalmente parlando, la realt del pane in quanto tale,
ha cessato di esistere. L'oggetto ora il sacramento del corpo di Cristo, il che significa la realt del
suo corpo manifestata e mediata attraverso il simbolo sacramentale.

Esprimo l'opinione che questa linea di pensiero, per comune ammissione provvisoria e non ancora
teoria elaborata, consente di ricollocare la transustanziazione nel contesto umano, religioso e
sacramentale a cui essa appartiene.
Concludendo, ritorniamo al tema principale di questa relazione.
La presenza sostanziale del Cristo, che significa la sua presenza per identit con gli elementi
consacrati, non lo scopo per cui l'eucaristia esiste. Questo scopo non la presenza di un Cristo
altrimenti assente da noi. Il Cristo presente a noi molto pi intimamente di quanto non sia quando
nel tabernacolo. La presenza reale per grazia il fine a cui l'eucaristia serve. La presenza reale per
identit con il pane e con il vino inferiore ad una piena presenza interpersonale. La persona del
Cristo, tutta intera, presente, ma come offerta di un incontro interpersonale che si realizza
prendendo parte alla celebrazione eucaristica, particolarmente per mezzo della santa comunione. La
presenza sostanziale uno stadio dell'espressione ed incarnazione sacramentale della presenza
personale reciproca che esiste tra il Cristo e noi.
La presenza sostanziale, permanente, del Cristo non la totalit del sacramento eucaristico. Essa
sorge nella celebrazione eucaristica, in cui il Cristo dinamicamente presente nel sacerdote e
nell'assemblea in quanto essi commemorano il suo mistero ed offrono il suo sacrificio. Ed diretta
alla santa comunione, in cui il Cristo di nuovo presente dinamicamente, agendo su di noi
attraverso gli elementi consacrati, per attirarci in una pi intima unione con lui, dandoci una
partecipazione al suo sacrificio. L'eucaristia non pu essere compresa senza una multiforme
presenza del Cristo.
Mediante l'eucaristia, vi un transitorio incontro sacramentale con il Cristo, in cui la nostra
presenza personale reciproca incarnata ed espressa. L'eucaristia, compresa la comunione, non
introduce una nuova unione con il Cristo. Ci che essa fa, di rendere sacramentale l'unione con il
Cristo per grazia, intensificandola. Il frutto della comunione l'approfondimento e il rafforzamento
della permanente presenza interiore del Cristo. La comunione non la momentanea visita di un
Cristo che poi si allontana da noi. Al tempo stesso, poich l'ostia consacrata Cristo per identit,
noi adoriamo il Cristo ivi presente. La permanenza degli elementi visibili come segno sacramentale
che manifesta il Cristo non ci impedisce di adorare il Cristo pi di quanto l'abito che un uomo
indossa ci impedisca di onorarlo. L'oggetto dinanzi a noi il Cristo, sia pure il Cristo reso visibile in
un sacramento.
La devozione al sacramento dell'altare prolunga la celebrazione eucaristica. Fornisce una secondaria
incarnazione visibile della nostra permanente unione con il Cristo. Il Cristo a cui noi siamo
personalmente presenti nella sua conoscenza e nel suo amore, il Cristo che personalmente
presente a noi nella nostra conoscenza e nel nostro amore, dinanzi a noi nell'ostia. Il sacramento
permanente un costante ricordo del Cristo e ci offre l'opportunit di esprimere la reciproca
presenza personale nelle azioni visibili che costituiscono la devozione del santissimo sacramento.
Questa devozione non l'incarnazione primaria della nostra unione; questa fatta sacramentale
primariamente nella stessa celebrazione eucaristica. Ma essa ci permette di collegare eucaristia a
eucaristia. Proprio come l'amplesso coniugale l'espressione primaria dell'amore tra un uomo e sua
moglie, ma il loro amore espresso secondariamente anche con sguardi, azioni e parole, cos anche
noi esprimiamo primariamente al nostro amore per il Cristo nella celebrazione eucaristica e nella
comunione, ma vi posto per l'espressione secondaria nella devozione del santissimo sacramento.
Ci che, comunque, va messo in rilievo che la realt incarnata nel sacramento, e per cui questo
esiste, la presenza personale reciproca tra il Cristo e noi. Questa la presenza reale, che la realt
dello stato di grazia, la realt della vita cristiana, la res tantum dell'eucaristia e la pi profonda realt
della Chiesa come comunione in Cristo. E questa presenza reale rimarr eternamente, quando i
sacramenti, compresa l'eucaristia, saranno passati.
1) Vedi The Hidden Face: A Study of St. Thrse de Lisieux, London 1959, 267-268.

2) Questo saggio delinea ci che intendo esporre pi completamente in un libro che sto scrivendo, e
che sar pubblicato, spero fra non molto, da Geoffrey Chapman, London, e da Sheed and Ward,
New York, sotto il titolo: The Presence of Christ: Reflections on the Eucharistic.
3) Cf. E. Schillebeeckx, I sacramenti, punti di incontro con Dio, Queriniana Brescia 19673.
4) Christus' tegenwoordigheid in de Eucharistie, in Tijdschrift voor theologie, 5 (1965) 136-73.
5) Il concetto di sostanza nel dogma eucaristico in relazione alla fisica moderna, in Gregorianum,
30 (1949) 7-45.

INDICE
Presentazione (Ernesto Balducci)
Teologia ed antropologia (Karl Rahner)

5
.

Natura e grazia (Henri de Lubac).


La funzione della fede nellautoconsapevolezza umana
(Edward Schillebeeckx)
1/ Luomo stesso una ricerca religiosa
2/ Il nuovo orizzonte della vita e la sua espressione esplicita
3/ Continua reinterpretazione del dogma nella fedele obbedienza agli atti
salvifici e alla parola di Dio

7
29
45
45
54
58

Il problema principale per la teologia protestante oggi (Joseph Sittler) ......

63

La Chiesa e il mondo (Johannes Baptist Metz)

73

Cristianesimo e religioni non-cristiane (Jean Danilou)

89

La struttura del dissenso cattolico-protestante (George Linbeck) .................................. 105


Libert nella Chiesa (Alexander Schmemann)

123

Religione istituzionalizzata (Yves Congar)

135

Comprendere la presenza reale (Charles Davis)

155

Potrebbero piacerti anche