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“Donnaregina”
Napoli
CORSO DI
TEOLOGIA FONDAMENTALE
(TES 0402)
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INTRODUZIONE
Oggi potremmo dire che la teologia fondamentale è una teologia molto utile nel
mondo attuale, soprattutto per chi ricopre un ruolo in ambito pastorale, o
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Questo tipo di distinzione e la nomenclatura corrispondente è di S. Pié-Ninot nel suo manuale di teologia
fondamentale (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 62 e 67).
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In altri termini, chi ha aderito a Gesù Cristo, chi conosce il suo messaggio e si sforza di conoscerlo sempre di più, chi
cerca, nonostante i limiti della sua persona, di incarnare il Suo messaggio nella propria quotidianità, come può rendere
credibile la propria fede cristiana nei confronti di chi non crede o vive un’esperienza religiosa diversa o ancora nei
confronti dei cosiddetti credenti non praticanti o cristiani della soglia, che stanno lì, sull’uscio della porta, ascoltando
ma senza uscire, né entrare? Come si può rendere credibile, appetibile, gustoso, il messaggio cristiano, nei confronti di
queste categorie di persone? Oppure, come rispondere alle domande e alle provocazioni che provengono da coloro che
non vivono un’esperienza di fede o che vivono un’esperienza di fede diversa dalla nostra, o frammentaria, che cioè
condividono solo alcuni principi della fede cristiana e non altri? La cosiddetta fede da supermercato, relativa ai gusti e
ai bisogni del singolo, o ancora la cosiddetta fede compensatoria, che compensa un vuoto esistenziale o alcuni bisogni
fondamentali.
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nell’insegnamento, poiché il contesto culturale del nostro tempo presenta una
peculiarità storica, è un contesto infatti che si sta progressivamente scristianizzando,
secolarizzando, cioè la fede si sta riducendo sempre di più ad essere un fatto privato,
una questione individuale che perde la sua incidenza all’interno del vissuto sociale.
Ci chiediamo, ad esempio, oggi quale risonanza abbiano i pronunciamenti del
Magistero sull’immaginario collettivo, soprattutto in ambito morale: hanno la stessa
ripercussione di 40-50 anni fa nell’opinione pubblica? Oppure, guardando alle nostre
realtà parrocchiali: quale rilevanza ha un intervento del parroco sulla vita della
comunità e del territorio? Pensiamo alle tante denunce che i sacerdoti ricevono per
disturbo della quiete pubblica a causa del suono delle campane! È cambiato
l’immaginario collettivo, non c’è più quella forma culturale che abitava e strutturava
il vivere comune dell’occidente: la “cristianità”.
Non bisogna però confondere il “cristianesimo” con la “cristianità”, cioè la
nostra fede religiosa (appunto il cristianesimo) con una sua produzione culturale (la
cristianità) che si basava su principi e su valori cristiani e dettava anche una sorta di
organizzazione pubblica (Quanti paesi sorgono intorno al campanile … il centro del
paese era la parrocchia e l’edificio comunale … adesso non più). Quindi noi viviamo
in una società che si sta scristianizzando, che lancia sfide e provocazioni, che fa
domande alla nostra appartenenza religiosa, e noi in quanto cristiani siamo chiamati a
rispondere a queste sfide e a giustificare e ad argomentare la nostra appartenenza.
Diciamo che la teologia fondamentale ha questo compito: a differenza della teologia
dogmatica, è una teologia che non riguarda soltanto i primi principi, staccati dalla
vita. La teologia fondamentale è una teologia contestuale, che ha un orecchio teso
verso l’interno della Chiesa, quindi ascolta ciò che la Chiesa è nel suo essere Chiesa
in quegli elementi che la costituiscono in quanto tale (auditus fidei), e nello stesso
tempo porge l’orecchio anche all’esterno, per ascoltare le provocazioni che i contesti
pongono alla fede ecclesiale (auditus temporis). La teologia fondamentale quindi si
presenta come una teologia di frontiera, di confine tra l’interno dell’appartenenza
ecclesiale e l’esterno dei contesti culturali in cui la fede ecclesiale è chiamata ad
incarnarsi e ad inculturare il messaggio evangelico (auditus temporis et alterius).
La teologia fondamentale si presenta pertanto come una teologia molto attuale
e indispensabile, non soltanto per chi vive il proprio impegno pastorale, ma per
ciascun credente, in quanto questi, in virtù del proprio battesimo e della propria
appartenenza ecclesiale, è chiamato a rendere credibile e a giustificare la propria fede
nei contesti in cui vive ed è inserito.
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2. Uno sguardo più profondo sui compiti di questa disciplina
Abbiamo appena esplicitato che tale disciplina consta di due obiettivi o compiti
fondamentali: il primo compito è quello “fondamentale – ermeneutico”, il cui scopo è
quello di rintracciare i fondamenti su cui poggia l’esperienza di fede cristiana e la sua
origine. Vedremo che la fede ha il suo fondamento nella Rivelazione e la sua
condizione di possibilità nella capacità dell’uomo di accogliere questa
autocomunicazione che Dio fa di Sé. Quindi la fede poggia su due coordinate: il
fondamento è posto nella Rivelazione e la sua condizione di possibilità è inscritta
nella capacità dell’uomo, in quanto essere religioso, teso alla ricerca del senso della
propria vita e della realtà che lo circonda, aperto all’assoluto e all’infinito, di
accogliere questa rivelazione, cioè di conoscere e di amare Dio.
Che cos’è la Rivelazione? È l’autocomunicazione che Dio fa di Se stesso. Dio
si rivela, cioè si manifesta, comunica ciò che è all’umanità. La persona non può avere
fede in Dio, non può aderire a Lui, se prima non lo conosce. La fede implica
un’adesione, richiama ad un atteggiamento di fiducia, ti sprona ad un impegno di
fedeltà, che presuppone quindi una conoscenza non esclusivamente intellettiva, ma di
tipo “esperienziale”. Essa coinvolge tutto l’essere della persona, tale da suscitare
credibilità e fiducia, per cui la persona si affida e rimane fedele al rapporto di
amicizia che ne scaturisce, assumendosi anche gli impegni che questo tipo di
relazione comporta. L’uomo dunque, non può aderire a Dio se Dio non si fa prima
conoscere a lui. E Dio si fa conoscere rivelandosi e ponendosi nelle condizioni di
farsi conoscere. Altrimenti saremo dinanzi all’assurdo di una adesione ad una persona
che non si conosce. Quindi, il fondamento della fede è posto nella Rivelazione, cioè
in questo movimento di Dio che desidera farsi conoscere all’intera umanità.
Dio si è rivelato, si è fatto conoscere, nell’Antico Testamento, attraverso i
profeti, che erano dei mediatori tra Dio e il popolo, e poi attraverso eventi storici
significativi del popolo d’Israele (Ad esempio si pensi all’evento dell’esodo). Poi
Dio, ad un certo punto, ha scelto di rivelarsi attraverso il suo Figlio unigenito,
assumendo in Lui, tale rivelarsi, i caratteri della “pienezza” e della “definitività”.
Che significa che la Rivelazione ha raggiunto in Cristo la sua pienezza e
definitività? E come questa rivelazione di Dio, che è avvenuta mediante il popolo di
Israele e la persona di Gesù, viene oggi comunicata a noi, che non facciamo
un’esperienza diretta di Gesù, come quella che hanno fatto invece i primi discepoli?
Come cioè possiamo avere accesso a questo pensiero di Dio sull’umanità? Vedremo
che tutto questo avviene attraverso la Tradizione viva della Chiesa nelle sue
molteplici esplicitazioni.
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Il secondo compito della teologia fondamentale è quello dialogale –
contestuale. Mentre il primo compito potremmo definirlo ad intra, ricercare i principi
che dicono il nostro essere cristiani, il secondo compito invece ad extra: io in quanto
cristiano, in quanto mi sforzo di conoscermi nella mia identità di cristiano, in che
modo mi pongo in dialogo con chi non lo è, o con chi lo è, ma non è convinto di
esserlo al 100%?
Il dialogo è contestuale, cioè occorre saper discernere il contesto nel quale
questo avviene (es: scuola, ambiente di lavoro, amicizie, comunità parrocchiale,
luoghi pubblici, …). Occorre conoscere il contesto con il quale i cristiani si vanno a
confrontare, per valutare l’efficacia comunicativa del messaggio evangelico, come
renderlo incisivo, efficace, gradevole all’interlocutore. Quindi prima di comunicare la
fede, di incarnarla, dobbiamo conoscere i contesti nei quali la comunichiamo. Se non
abbiamo una conoscenza previa, abbastanza soddisfacente del contesto, quel
messaggio cristiano che noi argomentiamo, anche in maniera perfetta, può risultare
alla fine inefficace.
L’itinerario inizia con una Premessa: “la teologia fondamentale come teologia
della credibilità della Rivelazione cristiana”, quindi sarà presentata brevemente la
storia di questa disciplina, quando è nata, perché è nata, come si è evoluta lungo il
tempo, come è arrivata ai nostri giorni, come si presenta oggi ai nostri occhi.
Poi affronteremo il tema della sua identità (Lo statuto epistemologico), cioè
specificheremo che cos’è questa disciplina teologica, quali sono i suoi obiettivi, i suoi
compiti, i suoi modelli3, il suo metodo, quale metodo ha il modello che prenderemo
in considerazione e come si articola la disciplina in questo specifico modello.
Dopo questa parte introduttiva, l’itinerario si divide in due parti: la prima parte,
La Rivelazione e la sua trasmissione nella Chiesa e la seconda, che riguarda La
credibilità della Rivelazione. Ad ogni parte corrisponde un compito specifico della
teologia fondamentale già evidenziato in precedenza.
Nella prima parte cercheremo di capire che cos’è la Rivelazione, cosa significa
Rivelazione di Dio, a partire dalla fonti che ce la rendono evidente, e anche in che
modo questa Rivelazione di Dio, questo pensiero di Dio, giunge a noi fino ad oggi.
Questo è il primo compito della teologia fondamentale che si chiama fondamentale –
ermeneutico.4 Questa parte si articola nei seguenti punti:
3
Attualmente non abbiamo un modello unico di teologia fondamentale, ce ne sono diversi, e noi seguiremo il modello
più diffuso in Italia, quello della credibilità.
4
“Fondamentale” nel senso che riguarda i fondamenti della fede, “ermeneutico”, perché si riferisce a tutto ciò che
riguarda l’interpretazione: quindi rintracciare il fondamento della fede a partire da una sana e corretta interpretazione
delle fonti della Rivelazione.
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1) Economia della Rivelazione
Questo secondo punto risponde alla domanda su che cosa intendiamo per
Rivelazione a partire dalle fonti bibliche. Attraverso un’analisi dei testi dell’AT e
poi del NT, quali sono gli elementi che da un punto di vista fenomenologico-
ermeneutico, nella loro reciproca correlazione, costituiscono l’evento rivelativo in
quanto tale? Vedremo poi la continuità che intercorre tra AT e NT, cioè ciò che si
riferisce alla rivelazione nell’AT, si ripresenta nel NT, ma anche la discontinuità,
ovvero, cosa di diverso c’è nella rivelazione cristologica, rispetto alla rivelazione
storica e profetica che è presente nell’AT.
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facevano riferimento5? Quali dei suoi caratteri assolutizzavano? Nella loro
presentazione del tema, quali sono stati i punti di forza e quali di debolezza?
5
La filosofia è ancella della teologia. La teologia, per argomentare il suo discorso, ha bisogno di categorie filosofiche.
Si pensi alle categorie aristoteliche e platoniche per quanto riguarda la teologia del passato, e, ai giorni nostri, al
personalismo, all’esistenzialismo, alla fenomenologia, all’ermeneutica filosofica.
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1) La credibilità della Rivelazione
Quindi parleremo dell’atto di fede, cioè quali sono gli elementi che nella loro
reciproca implicazione fanno scaturire nella persona questa adesione a Gesù; perché
uno aderisce a Cristo e un altro no? Che cosa dovrebbe accadere nel soggetto affinché
lui abbia la fede? Vedremo anche quali sono quegli aspetti che nella persona
inibiscono questa adesione. Analizzeremo anche che non sempre un’adesione di fede
si presenta in maniera autentica; inoltre indagheremo su un altro fenomeno: perché,
nonostante una fede vissuta nel rispetto e nell’osservanza dei precetti, la nostra
adesione a Gesù non sempre è così pulita come dovrebbe essere? Constateremo che
molte volte questo non avviene consapevolmente, e abbiamo bisogno di qualcun altro
che ci aiuti a vedere le inconsistenze della fede presenti dentro di noi: può capitare
infatti che non amiamo Dio in Se stesso, ma che possiamo strumentalizzarlo per il
nostro ego o per colmare alcuni bisogni dissonanti con la vocazione battesimale. Da
questo ne trarremo che la fede è un cammino di purificazione continua. La
conversione non è un fatto esclusivamente puntuale, cioè non avviene soltanto in
quella determinata occasione in cui il Signore in maniera forte ha parlato alla nostra
vita, ma essa è un evento costante.
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PREMESSA
7
Cfr. R. LATOURELLE, «Assenza e presenza della fondamentale al concilio Vaticano II» , in ID. (ed.), Vaticano II:
bilancio e prospettive, 1388-1395.
8
Nel Vaticano II sono presenti due costituzioni ecclesiologiche: Lumen Gentium e Gaudium et Spes: la prima è una
costituzione dogmatica, la seconda di natura pastorale. Entrambe ci parlano della Chiesa. La Lumen Gentium ci parla
della Chiesa ad intra e presenta gli elementi che identificano la Chiesa in quanto tale. La Gaudium et Spes ci parla della
Chiesa ad extra, cioè di come la Chiesa dialoga con il mondo contemporaneo e risponde alle sfide provenienti da esso.
9
L’intenzione iniziale era quella di elaborare un documento più sulle questioni morali. Poi il progetto fu abbandonato.
Essa nasce quasi alla fine del concilio ed è uno degli ultimi documenti promulgati.
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Cfr. M. P. GALLAGHER, Fede e cultura, 57.
14
Questi due documenti sono fondamentali per la TF, perché mentre la DV11
riguarda tutto l’aspetto dei fondamenti della nostra fede, la GS12 ci dice in che modo
questa fede deve far fronte e porsi in dialogo con i problemi del mondo
contemporaneo.
Se pur vero che la TF è nata di recente, e che ha un’identità che si sta ancora
definendo, bisogna anche ammettere che essa non è sorta come un fungo, infatti è
figlia di un’altra disciplina che l’ha preceduta, l’Apologetica. Lo scopo
dell’Apologetica era quello di difendere la fede cristiana dagli attacchi provenienti da
correnti di pensiero che si pronunciavano in maniera ad essa contraria: il deismo, le
diverse forme di ateismo, il razionalismo, il kantismo, l’idealismo, il positivismo,
l’empirismo, ecc. Queste criticavano fortemente in negativo i fondamenti della fede e
screditavano l’importanza del Magistero e in generale della mediazione ecclesiastica
nella indicazione e trasmissione della verità.
Mentre in precedenza c’era un pensiero unico, che era l’autorità magisteriale e la
filosofia cristiana, con l’avvio della Modernità, spuntano pensatori che iniziano ad
impostare il loro discorso su questioni fondamentali della vita in maniera diversa;
iniziano a nascere le scienze empiriche che screditano mediante delle vere e proprie
argomentazioni, la veridicità delle verità di fede e introducono un nuovo modo di
intendere la scienza tale da mettere in discussione la stessa scientificità della teologia.
La conversione dell’Apologetica in TF, è il frutto di un mutamento del contesto
storico-culturale: nella sua elaborazione, l’Apologetica presentava degli elementi che
la rendevano ormai inadeguata, non più rispondente alle sfide del contesto attuale.
Era nata per rispondere ad un contesto culturale specifico, e proprio per i
cambiamenti storici avvenuti nella metà del XX sec., si presentava ormai inadeguata
alle nuove sfide culturali.
11
D’ora in poi useremo la sigla DV per indicare Dei Verbum.
12
D’ora in poi useremo la sigla GS per indicare la Gaudium et spes.
13
1Pt 3, 13-17
15
e di nuovo ritornando al paganesimo. Ora, quello che Pietro chiede, vale a dire questo
dare ragione della propria speranza, cioè della propria fede, non è un dare ragione
esclusivamente argomentativo, ma è un modo di rendere conto della propria fede, di
rendere credibile la propria appartenenza a Gesù Cristo, attraverso un vissuto
cristiano o una testimonianza cristiana che si esplicita nel rispondere al male con il
bene, con rispetto, con retta coscienza, soffrendo per Cristo, e vivendo lo stesso patire
di Cristo, che non ha contraccambiato il male con il male ma con il bene.
La lettera di Pietro ci mostra in che modo dovrebbe articolarsi la credibilità
della fede, cioè: quando io devo argomentare le ragioni della mia fede, non devo
ridurre tutto questo a delle parole, ma la parola deve essere accompagnata da un gesto
che rende credibile quella parola pronunciata (parola e vita). Ciò che rende credibile
la fede del credente non è esclusivamente la questione che egli sappia rispondere e
argomentare verbalmente alle provocazioni dell’altro, ma a tali argomentazioni
intellettuali deve seguire una prassi di vita ad esse coerente.
Una differenza che intercorre tra la vecchia Apologetica e la nuova TF sta
proprio in questo, ovvero, mentre nella vecchia Apologetica abbiamo una
legittimazione della credibilità della fede soltanto a livello argomentativo, la nuova
impostazione della TF cerca di mettere in forte risalto nell’ambito della credibilità il
vissuto del singolo credente sotto l’aspetto della testimonianza.
R. Fisichella e S. Pié-Ninot14 presentano un modo di argomentare la fede di
carattere “sacramentale” o “semiologico”15, cioè il vissuto cristiano deve rendere
14
Pié-Ninot presenta il tema della credibilità nei termini di una “µαρτυρία (martyrìa) significativa della speranza
cristiana”, cioè di una testimonianza radicata nella speranza (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 62); invece
Fisichella, partendo dalla premessa che i segni di credibilità debbano essere inseriti, letti e interpretati nell’unico segno
di credibilità per eccellenza che è la persona di Gesù, presenta il cristiano ideale come segno di credibilità, cioè il
cristiano è colui che, oltre a saper argomentare i fondamenti e le ragioni della propria fede, nel vivere tutto questo
diventa lui stesso uno strumento di credibilità, un segno di credibilità; avviene così una sorta di “personalizzazione dei
segni” (Cfr. R. FISICHELLA, La Rivelazione: evento e credibilità, 29). Ora, secondo un nostro punto di vista, il termine
giusto per esprimere tutto questo, non dovrebbe essere segno ma simbolo. Per esempio quando noi parliamo degli stessi
sacramenti, noi diciamo “segni sacramentali”, “segni significativi della presenza di Dio”, perché attraverso i sacramenti
opera la grazia di Dio, ma in realtà dovremmo intenderli, in relazione a questa loro funzione, più come simboli che
come segni. Il segno infatti, è un qualcosa che rimanda a un qualcos’altro. Il simbolo invece, non solo rimanda a un
qualcos’altro, ma in sé rende presente ciò a cui rinvia. I sacramenti non solo rimandano alla realtà di Gesù Cristo, ma
attraverso l’azione sacramentale si rende presente Cristo stesso nell’oggi della comunità. Quindi il cristiano è chiamato
ad essere un simbolo (Ricordiamo l’espressione di san Paolo in Gal 2,20: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me”; la connotazione dei santi come alter Christus, come se la vita di Gesù fosse ripresentata all’interno della vita e del
vissuto del singolo santo). Quindi ciascuno di noi può essere un simbolo di credibilità, cioè uno strumento di cui Dio si
serve per parlare al cuore degli altri uomini e per comunicare la sua grazia agli altri. Noi quindi siamo simboli, siamo
sacramenti, cioè il nostro vissuto cristiano non solo deve richiamare l’altro a Dio, ma ad essere contemporaneamente
uno strumento attraverso il quale potrebbe passare la presenza di Dio, attraverso il quale la persona potrebbe fare
esperienza e conoscere Gesù Cristo, come del resto lo è stato per noi mediante coloro che ci hanno preceduto nella fede.
Infatti, a differenza dei discepoli, non abbiamo avuto il grande dono di fare un’esperienza diretta di Gesù, ma il nostro
modo di conoscere Gesù è sempre stato un modo mediato, trasmesso da coloro che ci hanno preceduto nella fede.
Ciascuno di noi, se guarda al proprio passato, può trovare una o più persone che lo hanno generato alla fede. Quindi se
noi oggi siamo cristiani, lo dobbiamo a tanti uomini e donne che attraverso la loro testimonianza cristiana, la loro vita di
fede, anche semplice, ma ricca dell’umanità di nostro Signore Gesù Cristo, ci hanno trasmesso la bellezza di questa
16
credibile la nostra appartenenza ecclesiale16. Pié-Ninot dice che questo modo di
argomentare la fede potrebbe andare incontro a due derive, dove in ognuna viene
assolutizzato uno dei due termini della credibilità (o parola, o gesto):
Essi sono due modi estremi di argomentare la fede. Il primo troppo ancorato su
un’argomentazione teorica, razionale, di tipo speculativo, che si limita
esclusivamente alle parole, con uno scarso contatto con il vissuto personale e del
contesto nel quale il credente vive. Si tratta cioè di un modo di argomentare la propria
fede in maniera fredda, analitica, distaccata da un vissuto concreto con il mondo e
immersione profonda in esso. Il secondo, all’opposto, riguarda più il vissuto: quindi
c’è un assenso solo formale al dato rivelato, senza comprenderne il contenuto e senza
coglierne il valore per la vita del credente. La persona vive una pratica della fede per
abitudine o per tradizione, però senza aver compreso il contenuto della propria fede e
senza aver preso coscienza delle ragioni che la spingono a credere. Quindi, l’uno
troppo sul razionale, troppo staccato dalla vita, l’altro invece, inserito nella vita ma
senza una riflessione sulle cause, sulle motivazioni che hanno spinto la persona ad
aderire alla proposta evangelica, in altri termini, senza una presa di coscienza delle
ragioni della propria fede o di comprensione delle autentiche ragioni della fede.
La lettera di Pietro quindi ci presenta un modello di credibilità completo, ci
mostra infatti una Chiesa primitiva già capace di affrontare il problema della
credibilità della fede in maniera integrale e globale. Da questo ne consegue che la TF
ritrova nella pericope citata dalla lettera di Pietro il fondamento del proprio
approccio, un’impostazione che non è soltanto valida per il contesto attuale in cui
viviamo, ma per ogni contesto storico e culturale.
Persona. Allo stesso modo oggi noi, che siamo innamorati di Gesù Cristo, siamo chiamati, come coloro che ci hanno
preceduto, attraverso le nostre vite, a trasmettere questa fede agli altri.
15
Quando parliamo di sacramento si intende un’interconnessione tra parole e azioni, parole e vita, parole e gesti.
Quando si dice sacramentale con riferimento alla fede, si vuole alludere alla credibilità della fede basata sulla capacità
di rispondere non solo in maniera argomentativa, ma soprattutto attraverso la testimonianza di vita.
16
Pié-Ninot dice che questa testimonianza è propria di tutta la Chiesa e che è vissuta nella Chiesa. Tale è resa possibile
dall’azione dello Spirito. È lo Spirito, che agendo dentro di noi, rende credibile la nostra appartenenza a Gesù Cristo
mediante un vissuto autenticamente cristiano (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 647-648).
17
3. Compiti e destinatari della TF
a rispondere:
ora, questa argomentazione e questa testimonianza della mia fede, può avvenire solo
se alla base io conosco i fondamenti della fede, altrimenti faccio passare il mio
pensiero personale per pensiero di Dio o come suo pensiero solo alcuni dei suoi
aspetti a me graditi. Quindi, questa legittimazione della fede, presuppone una
conoscenza dei “fondamenti” e delle “ragioni” della fede. È necessario dunque fare
una distinzione tra:
17
Cfr. J. BURGGRAF, Teologia fondamentale, 5-9.
18
Questa distinzione è molto importante all’interno del discernimento spirituale,
perché non sempre ciò che mi spinge a credere o che mi ha portato ad aderire, è così
autentico, pulito, e molte volte dentro di me ci possono stare della ragioni inconsce,
non buone, di cui io non ne sono nemmeno consapevole, le quali come afferma L. M.
Rulla, possono essere in dissonanza con la vocazione cristiana18. Su questo aspetto si
lavora molto a livello del discernimento vocazionale, per aiutare a vedere se le
ragioni di quella vocazione alla vita consacrata sono realmente pulite, o se c’è
qualche residuo, inconsistenza, incompatibile con detta vocazione. Questo, inoltre,
vale in generale a qualsiasi livello di discernimento di fede: per esempio non sempre
chi frequenta la parrocchia e presta ad essa un servizio è animato da intenzioni di fede
autentiche. Il compito di un buon parroco, di un buon catechista, non è soltanto quello
di comunicare in maniera corretta la dottrina cristiana, ma soprattutto di aiutare le
persone a purificare le ragioni della propria fede, affinché la propria scelta possa
essere quanto più libera, matura e responsabile.
a chiunque vi domandi:
il destinatario quindi è universale. Può essere il credente che si avvia a una
conoscenza di fede più approfondita, chi vive un’esperienza religiosa diversa dalla
nostra, il credente non praticante, il non credente o chi è indifferente a qualsiasi
esperienza di tipo religioso.
20
In questo contesto, l’apologetica cerca di fronteggiare il nemico non
chiudendosi a riccio, ma giocando sullo stesso campo di battaglia degli illuministi,
utilizzando gli stessi strumenti dell’avversario. Se l’avversario vuole annientare la
fede attraverso l’utilizzo della ragione, la Chiesa, partendo dalla ragione, e con la
stessa ragione utilizzata dagli illuministi, cerca di dimostrare la veridicità delle
proprie posizioni e la falsità delle argomentazioni contrarie.
Per certi aspetti la Chiesa difende la propria fede, per altri invece finisce di
rimanere vittima di questo nuovo modo di argomentarla, staccandosi
inconsapevolmente dal fondamento della fede stessa o dal segno di credibilità per
eccellenza: Gesù Cristo.
Possiamo annoverare come padri fondatori dell’apologetica, due autori che hanno
contribuito a rendere l’apologetica una disciplina teologica vera e propria e autonoma
da altre discipline teologiche:
1. Demonstratio religiosa
2. Demonstratio christiana
3. Demonstratio catholica
19
Ricordiamo Perrone non soltanto per aver dato all’apologia carattere di disciplina teologica autonoma, ma anche per
il suo contributo nella formulazione di alcuni documenti magisteriali di Pio IX, come il dogma dell’Immacolata
Concezione (1854), per il Sillabo (1864) e per il Vaticano I (1870).
20
Il teismo non è qualcosa che va contro la fede della Chiesa: il teismo riguarda Dio, come padre e come principio e
fondamento di tutte le cose, come creatore, provvidenza. Ateismo è la negazione di Dio e di tutto ciò che riguarda Dio.
21
asserivano che siccome la religione porta divisioni e conflitti tra gli uomini, bisogna
trovare un principio comune all’intera umanità, intorno al quale essi si possano
ritrovare e riconoscere, e questo principio è quello della ragione. Da questa premessa
gli illuministi fondarono una religione di tipo naturale, basata sul principio di ragione.
Il deismo quindi non nega l’esistenza di Dio, anche se questo Dio è un Dio
meccanico, principio di tutte le cose, ordinatore delle leggi del cosmo, ma che resta al
di fuori della storia dell’umanità, senza intervenire in essa. Quindi è un Dio che non
si rivela storicamente. L’unica rivelazione di Dio è nella natura, nel cosmo che ci
parla con le sue leggi e la sua armonia di questo principio e fondamento. D’altro
canto l’uomo può controllare il cosmo con l’aiuto della propria ragione conoscendo
quelle leggi che sono alla base del suo funzionamento. Tra quelli più importanti
annoveriamo B. Spinoza, E. Herbert di Cherbury, J. Toland, M. Tindal, J. A. Collins,
G. E. Lessing, H. S. Reimarus, Voltaire (F. M. Arouet), J. J. Rousseau e gli
enciclopedisti francesi.
Passiamo ora all’ateismo. I fondatori dell’ateismo vengono chiamati da P. Ricoeur
(filosofo ermeneuta) i cosiddetti “maestri del sospetto”21: L. Feuerbach, K. Marx, F.
Nietzsche, S. Freud. Per questi autori la religione è un’illusione o una forma di
alienazione. Dio è l’oggettivazione dell’infinito presente nell’essenza dell’uomo. È il
frutto di una costruzione inconscia dell’uomo, è la proiezione delle potenzialità
umane, la creazione di un uomo ideale che ci occorre per affrontare le difficoltà della
vita. Dio è l’ “oppio dei popoli”, un anestetico ai mali dell’esistenza e la religione è
una “malattia antropologica”, “una nevrosi collettiva”. L’uomo, per essere veramente
uomo, deve eliminare Dio e deve riappropriarsi di ciò che gli appartiene e vivere in
conformità e coerenza con esso: l’uomo ha proiettato fuori di se stesso, in Dio, le
potenzialità che gli appartengono e ciò che deve fare è riprendersi il suo per essere
pienamente uomo. Quindi il criterio di riferimento della vita dell’uomo non è al di
fuori di sé, ma in sé.
Nei dibattiti attuali della filosofia della religione è emerso che però nelle tesi di
questi autori c’è un qualcosa di buono che può purificare la nostra fede: questi autori
infatti hanno messo in luce un aspetto importante dell’esperienza religiosa, ovvero la
presenza in essa di determinate immaturità o patologie22: una persona può vivere
inconsapevolmente un’esperienza religiosa patologica, che invece di aiutarla a
crescere nella sua umanità, la fa regredire, e quindi all’interno di una fede vissuta
patologicamente, Dio non viene amato in sé e per sé, ma può essere
inconsapevolmente strumentalizzato dall’uomo, per colmare bisogni, vuoti e
21
Cfr. P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, 457.
22
Cfr. C. GRECO, L’esperienza religiosa, 132-134.
22
frustrazioni personali. Tra gli autori che si sono occupati dell’esperienza religiosa e
delle sue possibili patologie, annoveriamo: L. M. Rulla e G. Sovernigo23.
Passiamo ora all’oggetto da dimostrare. Gli argomenti erano questi:
- Il “fatto” della rivelazione cristiana, cioè non si voleva tanto dimostrare che cosa
dicesse la Rivelazione, il contenuto della Rivelazione, ma accertare con prove
evidenti che la Rivelazione fosse storicamente avvenuta, che c’era stata nella
storia dell’umanità una rivelazione di Dio; quindi bisognava provare che da un
punto di vista storico la Rivelazione fosse avvenuta. Questa sarà una delle critiche
che l’attuale TF farà alla vecchia apologetica, cioè la questione che essa avesse
dato più risalto al “fatto” della Rivelazione che al suo “contenuto”.
- Dimostrare, poi la “pienezza” e la “definitività”24 della rivelazione biblica nella
persona di Gesù di Nazareth. Tutto questo veniva dimostrato attraverso le
profezie e i miracoli: le profezie nell’AT trovano conferma e compimento nel
NT; i miracoli di Gesù, poi, sono delle prove che attestano concretamente la
sua divinità e la stessa risurrezione viene considerata come il miracolo per
eccellenza e la prova suprema della sua divinità.
23
Cfr. G. SOVERNIGO, Religione e persona.
24
Pienezza della rivelazione significa che tutto quello che Dio aveva da dirci in ordine alla nostra salvezza, è stato
rivelato pienamente nella persona di Gesù. Tutto questo poi è avvenuto in maniera definitiva: cioè dopo Gesù, dopo la
morte dell’ultimo apostolo, cioè dell’ultimo testimone diretto di Gesù, non abbiamo più Rivelazione, ma abbiamo
“rivelazioni private”, cioè rivelazioni che non aggiungono niente di più di ciò che Gesù ha detto, ma vogliono essere
una ripresa e una riconferma della rivelazione cristologica. A tali rivelazioni non si deve dare quindi necessariamente un
assenso di fede, nel senso che un individuo può credere o non credere a una rivelazione privata, per esempio alle
apparizioni di Lourdes, ciò non cambia niente ai fini della salvezza.
23
Concludiamo con la demonstratio catholica (De vera Ecclesia o De Ecclesia
Christi et de fide catholica): tale era rivolta ai cristiani delle altre confessioni. Si
voleva dimostrare l’unicità della Chiesa e la sua veridicità nella chiesa cattolica:
l’unica e vera Chiesa è la chiesa cattolica. Per conseguire a tale intento si utilizzavano
tre “vie”, tre tipi di dimostrazioni:
Nella via storica, o via del primato del romano pontefice, si partiva dall’ultimo
papa e andando a ritroso, si risaliva fino al primo. Quindi, attraverso la successione
storica dei papi si giungeva fino a Pietro e di conseguenza a Gesù Cristo, dimostrando
che i cattolici derivassero direttamente da quell’origine.
Nella via delle note (una, santa, cattolica, apostolica), si prendeva ogni nota, cioè
ogni proprietà della Chiesa e si faceva una dimostrazione sillogistica. In genere il
sillogismo era di tipo “barbara”.
La terza e ultima via, quella empirica, guarda alla realtà storica, quotidiana della
chiesa cattolica: questa Chiesa, nonostante gli scismi, le eresie, le difficoltà, la
corruzione, la fragilità, nonostante tutto ciò vive e sopravvive, anzi si rinvigorisce
sempre di più. Ciò significa che questa è la Chiesa voluta da Gesù Cristo. Questa tesi
fu fortemente supportata al Vaticano I dal cardinale V. Deschamps.
25
Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 69-72.
26
Cfr. ib; 266-282.
25
il rinnovamento degli studi teologici, di come dovevano essere impostati gli studi
teologici alla luce delle questioni emerse nel concilio stesso. Naturalmente, questo
non avviene in una maniera così imminente, ma ci sono voluti poi una serie di anni
per avviare un nuovo modo di argomentare la fede. Quindi fino a pochi anni dopo il
Vaticano II, si è continuato ad utilizzare ancora una teologia razionale di tipo
dimostrativo e il trattato di apologetica continuava a presentarsi attraverso queste tre
dimostrazioni. Gli autori più importanti della manualistica sono i seguenti: M.
Nicolau, I. Salaverri, T. Zapelena, A. Gardeil, R. Garrigou-Lagrange, S. Tromp.
Si partiva dunque dal Magistero. Il Magistero presentava un principio, per
provarne la veridicità, si andava a prendere un passo della Sacra Scrittura che potesse
dare sostegno a quella tesi; quindi si diceva: questo è vero perché è contenuto nella
Sacra Scrittura. Però, molte volte, il passo veniva estrapolato dal contesto
scritturistico in cui era inserito, privandolo del suo giusto senso e significato, dato
che, com'è noto, un passo della Sacra Scrittura viene compreso nel suo giusto
significato solo all'interno dell'insieme del brano scritturistico in cui è inserito. In
questo caso, si parla di un uso strumentale della Sacra Scrittura ai fini
dell'argomentazione magisteriale27. Attualmente, invece, è diverso: partendo dal
principio del Vaticano II, che dice che il Magistero non è al di sopra della Parola di
Dio, ma è servo della Parola, quindi la Sacra Scrittura non è al di sotto del Magistero,
noi abbiamo il procedimento inverso, cioè che il Magistero si pone in ascolto della
Parola da cui parte l'argomentazione magisteriale (DV 10).
Il modo di argomentare la fede da parte della manualistica viene definito di
tipo “estrinsecista”, nel senso che la “certezza della fede”, cioè quella realtà che fa
scattare l’assenso di fede, è un qualcosa previo alla fede stessa e inoltre si legittima la
credibilità della Rivelazione a partire da un qualcosa di esterno dal suo contenuto. In
questo caso rientra tutta la questione relativa ai cosiddetti preambula fidei.
A questo tipo di impostazione la riflessione teologica attuale relativa alla
credibilità, evidenzia quattro limiti:
1. un orizzonte di fondo troppo apologetico e difensivo;
2. l’assenza del ruolo centrale della persona di Gesù Cristo nel procedimento
dimostrativo;
3. carenza del fondamento biblico;
4. ci si concentra più sul fatto della Rivelazione che al suo contenuto.
27
Il più famoso dei teologi di impostazione manualistica è padre S. Tromp che presentò il primo schema della Dei
Verbum (De fontibus revelationis). Questo schema fu bocciato, perché risentiva proprio della teologia del Vaticano I,
della teologia manualistica, della vecchia scuola che presentava un modello parziale e superato di rivelazione e per
l’occasione fu chiamata una commissione di periti per preparare le bozze di nuovi schemi. In questa commissione di
periti troviamo K. Rahner, J. Ratzinger, U. Betti, Y.Congar, G. Colombo.
26
8. La nascita di un’impostazione intrinsecista di credibilità: apologetica
dell’immanenza e la sua evoluzione nella TF contemporanea
28
Cfr. B. PASCAL, Pensieri.
29
Cfr. F. D. E. SCHLEIRMACHER, Discorsi sulla religione. Lo stesso Schleirmacher parla di un a priori religiosus. Nella
filosofia kantiana l’ a priori è una cosa che fa parte proprio dell'uomo, è un suo costitutivo. Egli infatti dice che l'uomo
è per natura un essere religioso, cioè religiosi non si diventa, ma si nasce, l'uomo è per natura un essere aperto
all'infinito, aperto alla trascendenza, che ricerca un senso pieno alla propria vita. Noi leggendo l'a priori religiosus da
un punto di vista teologico, diciamo invece che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, cioè l'uomo per natura
è stato reso capace di Dio, di conoscerlo e di amarlo: questa è una lettura teologica che noi facciamo su di un dato
filosofico e antropologico.
30
Cfr. M. BLONDEL, L’azione; ID., Lettera sull’apologetica.
31
Cfr. J. H. NEWMAN, La grammatica dell’assenso.
32
Cfr. P. ROUSSELOT, Gli occhi della fede.
27
uomini, mentre nel secondo, la concretizzazione e l’effettivo inveramento di tutto
questo. Il filosofo francese giunge alla considerazione che non sempre ciò che
desideriamo si realizza o si realizza del tutto o nei modi di come avevamo prefissato e
che pur se si verificasse una traduzione di una volontà volente in volontà voluta, c’è
sempre un senso di insoddisfazione che accompagna il cuore dell’uomo, il quale
rimane continuamente, detto nei nostri termini, con un po’ di amaro in bocca. C’è
bisogno dunque di una realtà infinità capace di spegnere questa sete di assoluto che
sia consapevolmente che inconsapevolmente accompagna tutta l’esistenza umana, e
questa realtà l’autore la riconosce nella Rivelazione.
Newman invece, su un versante prettamente teologico dice che io posso fare
una perfetta presentazione teologica dei contenuti della fede, posso presentare il
mistero della vita cristiana in maniera perfetta, ma questo non significa che io porterò
necessariamente un ateo alla fede, perché la fede non è tanto in primo luogo una
questione dell'intelletto, ma è innanzitutto una realtà del cuore, una questione
dell'affettività, del nostro modo di percepire il dato rivelato e trasmesso33. Quando
infatti parla dell'assenso di fede, egli fa la distinzione fra:
- assenso “nozionale”;
- e assenso “reale” oppure assenso “immaginativo”.
Assenso nozionale significa un assenso che interpella soltanto una dimensione
della persona, quella intellettiva, il quale è il tipo di assenso che presenta e sollecita la
vecchia manualistica e che riguarda l'impostazione dell’apologetica tradizionale e
quella propria del Vaticano I. Nell'approccio nozionale, la rivelazione è una pura
autocomunicazione delle verità di fede e la fede non è altro che un assenso razionale
a queste verità. Invece Newman afferma che il vero assenso di fede non è soltanto
nozionale, ma è una realtà più ampia, che coinvolge tutte le dimensioni della persona,
e prima di coinvolgere la sfera intellettiva, deve implicare quella affettiva, in maniera
particolare la percezione. Quando infatti parla di assenso reale, egli afferma che è un
assenso che riguarda tutta la persona, quindi l'affetto, l'intelligenza e la volontà.
Come già è stato enunciato, a questo tipo di assenso dà due nomi: “reale” o
“immaginativo”: reale nel senso che coinvolge tutte le dimensioni della persona;
immaginativo perché interpella in primo luogo l’immaginazione, rendendo reale
l’assenso in quanto tale34. La scintilla verso l’adesione di fede scaturisce in primo
luogo non tanto dall’intelligenza nei confronti del dato che viene trasmesso, ma
dall'affetto o immaginazione, dove per immaginazione in questo caso non intendiamo
la capacità di fantasticare, quanto quella di percepire e la visione del mondo, di Dio e
33
Cfr. J. H. NEWMAN, La grammatica dell’assenso, 56.
34
All’inizio, nei suoi scritti utilizzava il termine “immaginazione”, poi optò per “reale”, per non essere frainteso e per
ragioni di prudenza (Cfr. M. P. GALLAGHER, Mappe della fede, 25).
28
delle cose che la persona ha in sé. Ciascuno di noi infatti si porta dentro un proprio
modo di vedere le cose, ciascuno di noi ha, per le esperienze che ha fatto in passato e
che nel presente vive, consciamente o inconsciamente, una sua visione delle cose.
Ognuno di noi ha un proprio modo di vedere le cose, le persone, e quindi anche di
vedere Dio. Ciascuno di noi quindi, si porta dentro, involontariamente, una propria
immagine di Dio. Per esempio si può parlare a livello conscio, in base alla recezione
di una certa trasmissione odierna della fede, di un Dio misericordioso, di un Dio
padre che perdona, ma poi alla fine tante persone di fatto inconsciamente si portano
dentro l'immagine di un Dio padre punitivo, l'immagine di Dio padre padrone che
quella determinata persona se l'è costruita nell'infanzia, mediante la percezione che
essa aveva dei suoi genitori. Ci sono studi interessanti (A. M. Rizzuto)35 sulla
costruzione anche inconsapevole dell'immagine e della rappresentazione di Dio che
l'uomo ha fin dalla sua infanzia, e di come se ne serve nel corso delle diverse fasi
evolutive della sua esistenza.
Altri studi (N. Dal Molin)36 si sono occupati delle diverse immagini false di Dio
che ci portiamo dentro, di come il tratto di personalità può influenzare sulla
costituzione di questo tipo di rappresentazione. Ora l'immagine di Dio che noi ci
portiamo dentro molto spesso si scontra con l'immagine di Dio che ci viene mediata
dalla Chiesa o che a noi per esempio viene proposta durante le catechesi. Dentro di
noi molte volte avviene un conflitto tra il Dio in cui noi crediamo e che la Chiesa ci
presenta, e il Dio che invece inconsapevolmente abbiamo elaborato dentro di noi, e
così viviamo la nostra fede, per esempio nella paura e nel timore della punizione, o
nella speranza di un possibile intervento benevolo di Dio nella nostra vita.
Ritornando al discorso fatto in precedenza, quando si parla di immaginazione, si
vuole indicare il nostro modo di percepire la realtà, il nostro modo di vedere le cose,
e molte volte questa capacità percettiva nei confronti della fede è chiusa, è
indifferente, apatica, oppure ci fa vedere le cose in maniera distorta, e non ci consente
di percepire la realtà nel suo giusto senso, nella sua oggettività: l'inconscio molte
volte incide sulla nostra capacità di vedere le cose, e di conseguenza anche sulla
nostra capacità di percepire la fede e di viverla in maniera sana e corretta.
Come già è stato esplicitato in precedenza va sicuramente dato al gesuita L. M.
Rulla, attraverso l’elaborazione di un abbozzo di un’antropologia interdisciplinare
della vocazione cristiana (teologia, filosofia, psicologia), il merito di aver
approfondito l’aspetto dell’influsso dell’inconscio sulla capacità percettiva della
persona, in maniera particolare l’aver messo in luce l’esistenza di un inconscio non
patologico o di una “seconda dimensione”, la quale condiziona fortemente le capacità
35
Cfr. A- M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente; ID., Perché Freud ha rifiutato Dio?.
36
Cfr. N. DAL MOLIN, Verso il blu.
29
cognitive e deliberative umane, ma in maniera particolare nel nostro caso, la scelta di
fede e il suo sviluppo umano e morale.
Anche la pastorale si è interrogata sul fenomeno delle chiusure o distorsioni nei
confronti della trasmissione della fede e ha cercato di trovare nuovi modi di
presentare i suoi contenuti, non basati più soltanto sull'indottrinamento di tipo
accademico, quanto ricorrendo a forme di comunicazione che possono coinvolgere
l'immaginazione e abbiano l’intento di fare un po' di breccia nel muro di indifferenza
di tante persone destinatarie dell’annuncio. Afferma M. P. Gallagher, il quale ha
elaborato la sua teologia dell’atto di fede a partire dalle intuizione di Newman, che
prima di fare un lavoro di indottrinamento o di presentazione dei contenuti,
dovremmo fare un lavoro invece di purificazione dell'immaginazione delle persone e
della loro capacità di percepire (un po’ come nella parabola del seminatore, Mc 4, 1-
20). Il nostro compito di educatori della fede dovrebbe prima essere quello di aiutare
le persone a crearsi un terreno capace di accogliere il seme della Parola. Dobbiamo
tener conto, dice Gallagher di un altro fattore: del fatto che la cultura in cui siamo
inseriti, l’ambiente nel quale viviamo, incidono fortemente sulla capacità percettiva
delle persone: dall’ambiente e dalla cultura nella quale viviamo, ciascuno di noi
assorbe un certo sistema di valori, una determinata visione della vita e di
conseguenza un tipo di sensibilità nel percepire le cose ed elaborare le proprie
esperienze. Nel processo di trasmissione della fede, non possiamo prescindere dalla
considerazione del contesto della comunicazione in cui una persona vive, quali sono
quelle realtà che condizionano inconsapevolmente la sua capacità percettiva, per poi
trovare delle forme di comunicazione delle fede, più coinvolgenti, più vicine
all'immaginario collettivo, per esempio prendendole dal mondo del cinema, della
fiction, dell’arte, della letteratura, utilizzando quindi più le immagini e non tanto un
linguaggio concettuale, ma sull’esempio di Gesù, ricorrere a un linguaggio di tipo
metaforico, come per esempio quello delle parabole.
Nella parabola o nel racconto, l'immagine arriva a coinvolgere l'intelligenza
intuitiva della persona, prima di quella riflessiva-concettuale. In conclusione, è
necessario utilizzare delle forme comunicative vicine alle persone, più corrispondenti
all'immaginario collettivo, come strumenti per incarnare in maniera efficace il
Vangelo.
Nel processo comunicativo c’è dunque una differenza tra il “concetto” e la
“metafora”. Mentre il concetto riguarda più la ragione, l’intelligenza, quindi restringe
e incapsula la realtà di una cosa, la ingabbia, la metafora invece coinvolge più la sfera
affettiva e ci aiuta a vedere quella realtà nella sua polivalenza. Infatti, su di una stessa
cosa, io posso usare diverse metafore, magari anche divergenti tra di loro. Gallagher
sottolinea l’importanza del linguaggio metaforico in teologia, che è stato un
30
linguaggio fortemente utilizzato da Gesù (le parabole) e anche dalla Chiesa del primo
millennio, e non solo, per esempio, quanta trasmissione della fede è stata fatta
attraverso l’arte, considerata come uno dei suoi canali privilegiati. Saper utilizzare
quindi anche ciò che non è propriamente del nostro ambito, e che però appartiene al
vivere comune delle persone, come strumento per veicolare la fede, prendere dal
mondo profano qualcosa che è vicino all’immaginario collettivo, senza banalizzare,
saper rintracciare in esso il buono che c’è, perché tutto può essere utilizzato per la
trasmissione dell’Evangelo.
C’è un altro autore contemporaneo, famoso anche per le sue composizioni
musicali, che imposta tutta la questione della credibilità della fede a partire
dall’affettività: P. Sequeri. Appartiene alla cosiddetta “scuola di Milano”, i cui intenti
sono soprattutto quelli di ricategorizzare il linguaggio teologico e di risolvere la
scissione tra fede e vita.
Per quanto riguarda l’aspetto della credibilità, Sequeri parla di un affectus fidei,
cioè di un’attrazione che la Rivelazione può esercitare sul cuore dell’uomo, come
stadio iniziale della genesi della fede. Infatti dice che l’inizio della fede nasce
innanzitutto da un’affezione del cuore, da un’attrazione, da un innamoramento nei
confronti della Parola di Dio37.
C’è un altro autore molto importante che anche lui imposta tutta la questione della
credibilità sulla dimensione interiore e percettiva della persona, il canadese B.
Lonergan38. Quando Lonergan ci parla della conversione afferma che prima di esserci
una conversione morale, cioè che riguarda la decisione di vita di una persona che
sceglie di orientare la propria esistenza e i propri comportamenti in un certo modo
(Nella scelta di fede cristiana, si traduce nell’impostare la propria decisione di vita
nella persona di Gesù, quindi la persona di Gesù deve essere la norma, il criterio di
riferimento etico), detto in altri termini, propri della teologia morale, “opzione
fondamentale”, ci deve essere una conversione affettiva, una conversione del cuore,
che nasce dall’azione dello Spirito Santo nell’intimo del credente. Lo Spirito Santo
infatti fa sentire nel cuore della persona, un’attrazione verso Dio che prima non
provava. Essa inizia a sentire che Dio ha un valore per la propria vita, avverte un
innamoramento, un’attrazione verso di Lui che precedentemente non sentiva, ed è
addirittura disposta, alla luce di quest’azione dello Spirito Santo, a fare quel bene che
prima non era disposta a fare (Es. sono disposto a perdonare quella persona che prima
non ero disposto a perdonare). Ora questa conversione affettiva comporta di
conseguenza un altro tipo di conversione che si chiama conversione intellettiva. Il
fatto che Dio sia diventato un valore per la vita di una persona, automaticamente,
37
Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, 465-471.
38
Cfr. B. LONERGAN, Il metodo in teologia; ID., Insight.
31
cambia il suo modo di pensare, cambia il suo modo di vedere le cose. I criteri che
animano il suo agire non sono più gli stessi, ma quelli che hanno animato la vita di
Gesù. Il modo di pensare che anima l’agire della persona non è più legato a criteri e a
logiche mondane, ma da quelli di nostro Signore Gesù Cristo. Cambia dunque
l’orizzonte e la gerarchia dei valori, dove Gesù Cristo inizia ad acquistare un posto
preminente se non principale nell’orientamento esistenziale della persona. L’insieme
di queste tipologie di conversione, prende il nome di “conversione religiosa” o
“conversione morale nella fede in Gesù Cristo”.
Può capitare che non necessariamente si passi da uno stadio all’altro della
conversione, e che l’assenso alla rivelazione si fermi o al primo o al secondo stadio.
L’esperienza comune di chi inizia ad affacciarsi nel mondo della fede e a viverne una
pratica, ce ne dà prova.
Questo modo di argomentare la fede viene definito di tipo “intrinsecista”, nel
senso che si legittima la credibilità della fede a partire dalla fede stessa e non da un
qualcosa di esterno dal suo contenuto e poi la certezza della fede è una realtà che si
dà all’interno dello stesso evento di fede, attraverso la convergenza tra le mediazioni
simboliche della Rivelazione e il lumen fidei, che consente di riconoscere in tali realtà
mediate l’azione stessa di Dio. Un teologo importante che ha fortemente sottolineato
tutto questo è stato P. Rousselot, gesuita, autore di Gli occhi della fede.
9. Apologetica dell’esodo e dell’avvento: la proposta di B. Forte
10. L’Apologetica come l’anima della teologia: sfide interne ed esterne alla fede
ecclesiale
41
Cfr. R. LATOURELLE, «Nuova immagine della fondamentale», in ID. – G. O’COLLINS (edd.), Problemi e prospettive di
teologia fondamentale, 79-84.
34
totalmente il mistero di Dio; la stessa ragione si muove all’interno dell’orizzonte
della fede e la fede è il terreno all’interno del quale la ragione si muove per conoscere
il mistero in essa racchiuso. Anche nell’aldilà la nostra conoscenza di Dio non sarà
mai piena; pur essendo una conoscenza data dalla visione, cioè senza più il velo della
fede, essa rimane sempre infinita, mai totalmente catturabile, ed è inscritta nell’amore
infinito di Dio42. Anche con la visione di Dio, il nostro rapporto con Lui sarà sempre
un rapporto asimmetrico, ovvero tra la creatura, finita, e il Creatore, infinito, in una
relazione di amore infinito, che la creatura non potrà mai comprendere, afferrare e
possedere completamente. Al contrario, in questa relazione di amore infinito saremo
noi, come creature, ad essere completamente possedute dall’oggetto del nostro amore.
La conoscenza di Dio che io posso avere qui sulla terra è una conoscenza
acquisita dalla fede in Lui e in essa è sempre presente l’oscurità, nel senso che,
siccome io non ho un’esperienza diretta dell’oggetto di fede, la mia conoscenza è una
conoscenza mediata e non diretta come quella che potrò avere invece con la visione
nell’aldilà. Inoltre si tratta di una conoscenza di tipo esperienziale, in cui l’intelletto
non viene escluso nel procedimento conoscitivo, ma subentra in un secondo
momento, come riflessione critica dell’esperienza che il soggetto conoscente fa
dell’oggetto mediato, e vedremo che questo oggetto di fede viene mediato sempre
simbolicamente. In poche parole, la conoscenza di fede non è una conoscenza
razionale-deduttiva, ne tanto meno empirico-induttiva, ma è una conoscenza di tipo
“simbolico”, che coinvolge in primo luogo l’intelligenza intuitiva, a cui segue, dopo,
un altro tipo di intelligenza, razionale e riflessiva, cioè l’oggetto della fede mi è
mediato simbolicamente, e il simbolo non è soltanto ciò che mi rinvia all’oggetto, ma
anche ciò che mi rende realmente presente l’oggetto della mia fede. Un importante
esempio di mediazione simbolica nella trasmissione del dato della fede, è la prassi
liturgica, i simboli liturgici, la celebrazione eucaristica, dove i credenti in Cristo,
fanno esperienza del Signore che si rende presente attraverso la mediazione simbolica
della Parola, che viene proclamata e spiegata, e poi attraverso la mediazione
simbolica per eccellenza che è l’eucaristia, dove il significato e il significante
coincidono nella sessa mediazione simbolica (il pane e il vino consacrato sono
realmente il corpo e il sangue di Gesù).
Ritornando al discorso fatto in precedenza, le diverse condizioni storiche hanno
posto e continuamente pongono alla Chiesa stimoli e sfide che la inducono a rivedere
criticamente ciò che essa è nel mondo e la sua comprensione del deposito della fede
che ha ricevuto.
42
Cfr. D. HERCSIK, Elementi di teologia fondamentale, 35; C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 243-244.
35
11. Temi della TF in Vaticano II
Abbiamo già avuto modo di dire che nel CEVII la TF non viene proprio
menzionata come disciplina teologica. Nonostante ciò, nel concilio compaiono già
molti temi che questa disciplina in seguito svilupperà. Essi sono:
1. la rivelazione;
2. la centralità assoluta di Gesù Cristo nell’economia della rivelazione;
3. la personalizzazione dei segni di credibilità nella persona di Gesù;
4. tutto l’aspetto della ricerca del senso dell’uomo (l’uomo che si pone domande
sul senso dell’esistenza);
5. il dialogo della Chiesa con il mondo.
44
Cfr. Mc 2, 1-12 (Guarigione del paralitico); Mt 8, 1-4 (Guarigione del lebbroso); Gv 9,1-12 (Guarigione di un uomo
cieco dalla nascita).
37
della conoscenza scientifica, un giorno anche quel fenomeno potrà essere spiegato.
D’altra parte va anche precisato, che sul versante della teologia del miracolo, questi,
non viene più compreso come stravolgimento delle leggi naturali, bensì come un loro
potenziamento45.
Frammentarietà
Allargamento
Si tratta di una tendenza che potremmo dire contraria alla precedente: la TF inizia
ad interessarsi di cose di cui non dovrebbe interessarsi, che non sono oggetto del suo
ambito: filosofia, sociologia, psicologia, politica, fenomenologia della religione, ecc.
La TF con queste discipline, più che un confronto, inizia essa stessa a trattare i loro
argomenti.
45
Cfr. C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 353-357.
46
Cfr. R. LATOURELLE, «Smembramento o rinnovamento della teologia fondamentale?», in Concilium 6 (1969) 48-60.
38
Fluidità o Ameba
L’apologetica quindi dopo il Vaticano II, da una parte, si vede smembrata in tante
parti che confluiscono in altre discipline teologiche, che se ne appropriano, dall’altra,
nello sforzo di rinnovamento dei suoi contenuti e dei suoi metodi e modelli, a sua
volta, comincia ad appropriarsi di argomenti propri di altre scienze, non riuscendo in
tal modo a definire un suo statuto epistemologico, assumendo di conseguenza un
carattere di continua fluidità.
47
Cfr. A. BENI, Teologia fondamentale.
48
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione: Mistero dell’epifania di Dio.
49
Cfr. H. BOUILLARD, Blondel e il cristianesimo; ID., La logica della fede.
39
4. TF come teologia formale. In questo orientamento c’è uno scopo prettamente
epistemologico, ovvero, quello di fornire l’identità all’intera teologia, ciò che
legittima la sua scientificità, una specie di introduzione alla teologia, atta a
fornire i principi base di tutto il sapere teologico. Il massimo esponente di
questa tendenza è J. Ratzinger50.
5. TF come analisi dell’uomo uditore della Parola. Per certi aspetti con questo
orientamento viene ripresa un po’ l’apologetica dell’ immanenza, ampliandola
di ulteriori cognizioni. Non si parte prima dal dato teologico, ma dall’uomo in
quanto per natura aperto all’infinito: l’essere umano in ogni suo comprendere,
decidere ed agire è sia atematicamente che tematicamente in continua tensione
verso Dio e la Rivelazione è quella realtà capace di rispondere e di
corrispondere autenticamente a tale tensione. I massimi esponenti di questo
orientamento sono K. Rahner51 e J. Alfaro52, il primo ricategorizza il pensiero
teologico con categorie kantiane, il secondo con quelle personalistiche.
6. TF come teologia pratica o teologia del mondo. Questo caso sottolinea di più
l’aspetto della prassi cristiana. È una credibilità che si basa molto sull’efficacia
pratica dell’agire cristiano. Quindi la fede è credibile nel momento in cui
diventa prassi di liberazione dai mali del mondo: è una credibilità basata più
sull’aspetto pratico che su quello argomentativo. Tra gli autori più importanti
ricordiamo sul versante cattolico J. B. Metz53, fondatore della teologia politica,
mentre su quello protestante, J. Moltmann54, fondatore della teologia della
speranza.
57
Nel vangelo di Giovanni troviamo questa distinzione tra la vita come bios (vita in senso fisico) e vita come zoe (vita
intesa come vita eterna). Già su questa terra io posso essere inserito nella vita di Dio e di conseguenza sperimentare in
maniera anticipata quei benefici di salvezza di cui un giorno potrei godere totalmente nell’aldilà.
43
17. Razionalità e ragionevolezza della fede
razionalità verità
ragionevolezza bontà
44
Quindi la credibilità non è soltanto un fatto di un’argomentazione logica, ma va
a richiamare un altro aspetto dell’esistenza umana, che è l’assiologia, il valore
oggettivo o soggettivo di una determinata realtà o situazione, il senso di ciò che mi
viene proposto: ciò che mi viene proposto è credibile per me nella misura in cui
risponde alle mie domande o attese di senso. Nella ragionevolezza può esserci un
qualcosa di più ampio rispetto al razionale che non va a coinvolgere nel recettore
esclusivamente la sfera razionale, ma anche e in primo luogo quella affettivo –
percettiva.
Per comprendere bene questa questione è opportuno porre una distinzione tra
valore oggettivo e soggettivo di una determinata realtà, cosa, persona, situazione. Per
valore oggettivo soliamo indicare il valore in sé di una cosa, ovvero il valore
oggettivo che quell’oggetto ha in se stesso, mentre per valore soggettivo, il valore per
la singola persona, cioè il valore che la persona attribuisce a quella determinata cosa.
Ora non sempre il valore in sé corrisponde al valore per sé, non sempre il valore che
una persona attribuisce ad un ente corrisponde al valore costitutivo di quell’ente. Il
valore per sé di una realtà è legato al vissuto e alla storia del singolo, in maniera
particolare, alla sua memoria cerebrale e a quella affettiva, dove nel primo caso
intendiamo la sede del sapere della persona, i criteri alla base del suo
autodeterminarsi, nel secondo invece il rimosso nella persona che molte volte in
maniera inconsapevole può incidere sul suo modo di percepire, le sue scelte, i suoi
comportamenti.
Il ragionevole dunque rientra nel valore per sé, cioè nel valore soggettivo di
una determinata realtà e richiama al grado di significatività che quella determinata
realtà riveste per la vita di una persona. Partendo da queste premesse, possiamo
dedurre nell’ambito specifico di cui noi stiamo trattando, che nel caso della
Rivelazione e di una sua possibile accoglienza, si potrebbe verificare una razionalità
del dato rivelato, ma non una sua ragionevolezza, in base ai criteri intellettivi e
affettivi del recettore che sono alla base delle proprie valutazioni.
45
PARTE PRIMA
46
47
CAPITOLO I
Passiamo ora alla prima parte del nostro itinerario di ricerca. Cominciamo nel
presentare l’essenza della Rivelazione. Parlare dell’essenza della Rivelazione
significa comprendere che cosa sia la Rivelazione. Con essenza vogliamo riferirci
alle peculiarità, alle caratteristiche principali della Rivelazione in quanto tale,
vogliamo cioè individuare quegli elementi che dicono lo specifico della Rivelazione.
1. Definizione di Rivelazione
Per quanto riguarda le forme della Rivelazione, cioè le modalità con cui la
Rivelazione si dispiega, la riflessione teologica pone una distinzione tra “rivelazione
generale” e “rivelazione particolare”. La distinzione tra le due consiste nel fatto che
mentre la seconda riguarda specificamente l’esperienza religiosa giudaico-cristiana,
la prima invece il rivelarsi di Dio a prescindere da una specifica determinazione
religiosa.
- La rivelazione generale è il rivelarsi di Dio attraverso
o la creazione (DV 3);
o l’esperienza interiore della coscienza, la voce della coscienza (GS 16);
o attraverso il buono che è presente in altre esperienze religiose o in altri
sistemi di pensiero: e queste esperienze religiose e questi sistemi di
pensiero, nei loro elementi di bontà sono una preparazione evangelica
all’evento cristologico (LG 16).
- La rivelazione particolare invece, è la Rivelazione propriamente detta, cioè la
Rivelazione biblica.
49
4. Economia della Rivelazione
58
Cfr. D. HERCSIK, Elementi di teologia fondamentale, 35.
59
Cfr. C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 243-244.
50
storia e infine la parusia, ma dal punto dell’elaborazione della comprensione del
fenomeno della Rivelazione, Israele ha prima concepito Dio come colui che si rivela
nella storia, e soltanto dopo, alla luce dell’insediamento nella terra promessa e nel
confronto con i popoli vicini, ha capito che quel Dio non è una delle tante divinità
accostate a quelle degli altri popoli, ma che è il Dio che ha creato anche il mondo,
anzi che è l’unico Dio che si rivela nella creazione, e che poi, si rivelerà
definitivamente alla fine dei tempi60.
60
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, 382-383.
61
Cfr. K. RAHNER, Il Dio trinitario come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza.
51
fa pensare che Dio si relazioni alla creatura perché ha bisogno della creatura, ma in
realtà Dio non ne ha bisogno, perché è già relazione in Se stesso mediante il
reciproco interscambio tra le tre Persone. Tutto questo quindi ci aiuta maggiormente a
comprendere che la Rivelazione non nasce da una ragione di necessità, ma da una
ragione di gratuità, di grazia, non nasce da un bisogno, ma da un dono, un valore.
Questi due aspetti della Trinità, immanente ed economica, sono strettamente
collegati, non sono due diverse Trinità, ma due modi diversi di agire dell’unica realtà
trinitaria. Da questo deduciamo che la Trinità immanente è la condizione di
possibilità della Trinità economica, nel senso che Dio non si può relazionare al di
fuori di Sé (Trinità economica) se prima non è in relazione in Se stesso (Trinità
immanente), e quindi la Trinità immanente è il motore dell’agire di Dio al di fuori di
Sé, dell’agire di Dio nella storia. Dall’altra parte la Trinità economica è la condizione
di conoscibilità della Trinità immanente, nel senso che io non posso conoscere Dio in
Sé, se non a partire dal Suo autocomunicarsi al di fuori di Sé.
La stessa teologia trinitaria nasce dalla cristologia, la riflessione sul mistero di
Dio uno e trino nasce a partire dall’esperienza di Gesù riconosciuto come Figlio di
Dio e Salvatore: cronologicamente viene prima la Trinità e poi il mistero
dell’incarnazione e della redenzione, però gnoseologicamente, cioè a livello di
conoscenza della natura di Dio, viene prima la cristologia, cioè viene prima la
conoscenza del mistero di Gesù Cristo, attraverso il quale, l’umanità ha accesso alla
comprensione del Padre e dello Spirito Santo62.
Quando Dio si comunica, non si identifica con il creato e con la storia: cioè,
Dio che è infinito, nel momento in cui si rivela e agisce nella storia, non si riduce a
storia, non diventa un ente creato, non annulla la Sua natura, ma rimane sempre
distinto dalla creatura. La coincidenza tra Dio e creato è presente nella corrente
filosofica del XV sec., nota come panteismo: ovvero, la natura e Dio sono la stessa
cosa.
Già abbiamo avuto modo di dire che l’autocomunicazione di Dio è di tipo
personale. Dio, quando si rivela, si rivela come persona. Il fondamento biblico
principale che supporta questa tesi lo riscontriamo in Es 3,14. È l’esperienza di Mosè
del roveto ardente, dove Dio rivela il suo nome: “Io sono Colui che sono”.
Nel corso della storia della Chiesa, questa espressione è stata interpretata in
chiave filosofica, o per essere più precisi, in chiave metafisica: “Io sono colui che
sono”, cioè io sono l’essere nel senso di “sostanza”, io sono il principio e fondamento
di tutte le cose. Questa traduzione e la conseguente interpretazione di queste parole
che nel corso della storia della Chiesa è stata fatta, in realtà non ci mostra il corretto
senso di quell’espressione che dovrebbe essere invece tradotta: “Io sono con”. Quindi
62
Cfr. P. GAMBERINI, Questo Gesù, 257-267.
52
Dio si presenta come un essere il cui definirsi non è dato dalla sua differenza
ontologica con il mondo, ma è un essere la cui identità si dà a partire dal suo
relazionarsi con l’altro: questa definizione, “Io sono con” mette in luce il carattere
personale del rivelarsi di Dio. In antropologia filosofica e teologica viene fortemente
ribadito che la categoria fondante dell’essere persona, cioè ciò che dice la natura
costitutiva del nostro essere persone, è il fatto che noi siamo esseri relazionali. In
Aristotele la “relazione” veniva vista come una delle categorie di secondo ordine, con
l’antropologia filosofica del ‘900, in maniera particolare con il pensiero di M. Buber,
E. Mounier, E. Levinas, F. Rosenzweig, essa viene interpretata coma la categoria
fondante dell’essere persona: ciò che dice una persona è il fatto che è un’entità che si
pone in relazione con.
Durante il secondo millennio, noi abbiamo avuto in maniera dominante, un
concetto teoretico ed istruttivistico di rivelazione: cioè la Rivelazione veniva intesa
come una sorta di comunicazione che Dio faceva delle verità rivelate, dei principi
della fede cristiana, come una specie di insegnamento e di trasmissione di contenuti
di verità. Questo modello di rivelazione lo troviamo nel Vaticano I e nella teologia
manualistica.
Con il Vaticano II viene ripresa la teologia del primo millennio e riscoperta
l’importanza della Scrittura e dei Padri della Chiesa per la riflessione teologica. Il
Vaticano II quindi, andando alle fonti della Rivelazione, Scrittura e Patristica, elabora
un concetto diverso di rivelazione il quale mette molto in luce il carattere personale di
Dio, un concetto dunque dialogico – personalistico.
Mediante la sua adesione al comunicarsi di Dio, l’uomo prima comprende Dio,
e alla luce di questa comprensione di Dio in Sé, comprende anche le verità rivelate,
cioè quelle verità relative alla natura di Dio o ad essa connesse. Però, in questa
relazione con Dio, l’uomo non solo comprende Dio, ma anche se stesso, la verità di
sé (GS 22: alla luce del mistero del Verbo incarnato si comprende il mistero
dell’uomo): nel confronto con l’umanità di Gesù, l’uomo comprende la sua
vocazione, ciò a cui Dio lo chiama per essere pienamente uomo. Quindi,
sintetizzando in maniera schematica:
54
CAPITOLO II
L’ESSENZA DELLA RIVELAZIONE
SECONDO LE FONTI BIBLICHE
Secondo Latourelle, nella Sacra Scrittura non troviamo un termine tecnico che
corrisponda immediatamente al nostro concetto di rivelazione nella sua accezione
teologica. Lo stesso termine “rivelazione” (apokàlypsis) non ha nella Bibbia il senso
tecnico e l’ampiezza teologica con cui oggi viene usato. Quello che
approssimativamente si avvicina maggiormente a tale intento e che è il più frequente
e significativo per esprimere la comunicazione divina e il termine “parola” (dabàr,
logos), “parola di Jahvé63. A questo va aggiunto che tra le due categorie di evento e
parola attraverso le quali la Rivelazione si dispiega, la più importante è la parola, nel
senso che questa precede l’evento, si fa evento e lo interpreta nella sua veridicità.
56
CAPITOLO III
MODELLI STORICI DI COMPRENSIONE DELLA RIVELAZIONE
1. Modello epifanico
2. Modello teoretico-istruttivo
3. Modello storicistico
4. Modello intimistico
64
La traduzione cattolica della teologia della storia la troviamo nel pensiero del teologo napoletano Bruno Forte, il
quale incentra tutto il suo lavoro teologico intorno alla categoria “storia”.
58
l’azione della grazia di Dio nel proprio cuore, è l’esperienza della consolazione
spirituale e l’acquisizione per via interiore di nuove cognizioni sul mistero di Dio.
Tale moto interiore, tale esperienza soprannaturale che la persona vive dentro di sé, la
conduce poi a elaborare le verità di fede. Da queste premesse i modernisti elaborano
un concetto errato di sviluppo del dogma, dove la realtà della rivelazione continua nel
tempo attraverso queste esperienze interiori dell’umanità e in base a questo il
bagaglio delle verità rivelate si arricchisce sempre di più. Diverso è invece quello
ufficiale della Chiesa, dove la Rivelazione si è compiuta pienamente e
definitivamente nella persona di Gesù e lo sviluppo del dogma consiste in un
processo di maggior approfondimento di quelle verità di cui la Chiesa ha definito
come irreformabili.
Il limite di questa impostazione è il seguente: come può Dio, che è infinito,
essere contenuto in una realtà finita, limitata? Potremmo dire che i modernisti
identificano la Rivelazione con la “grazia”, inoltre tale impostazione finisce per
cancellare tutto l’aspetto delle mediazioni della Rivelazione, cristologica, ecclesiale,
magisteriale, testimoniale, ecc.
5. Modello dialettico
59
6. Modello critico-pratico
Tale modello è proprio della teologia politica e della teologia della liberazione.
La Rivelazione in questo caso, viene intesa come nuova coscienza. Essa è un’istanza
critica nei confronti della società, una luce che ci offre i criteri per discernere la bontà
e la negatività presente del mondo al fine di mobilitare il credente ad una prassi di
liberazione dei mali dell’umana società. All'interno di questo modello la Rivelazione
viene vista come una realtà che può favorire non solo il miglioramento del singolo
credente ma anche quello dell'intera società.
Il limite di questo modello è il seguente: come può un qualcosa che è fonte di
liberazione in un determinato contesto culturale, essere anche fonte di liberazione in
un contesto culturale diverso?
7. Modello dialogico-personalistico
60
CAPITOLO IV
TRADIZIONE, SCRITTURA, MAGISTERO E LORO RECIPROCA
IMPLICAZIONE
1. La Tradizione
61
Il Vaticano II, per ragioni ecumeniche, non dibatte su questo argomento,
elaborando concretamente una teologia relativa all’et.
Ma come avviene questa trasmissione del deposito? Mentre in Trento e in
Vaticano I quando si parlava di tradizioni si intendevano le tradizioni ecclesiastiche,
intese come pratiche della fede e dottrina, quindi si restringeva il concetto di
Tradizione e si limitava il suo ruolo, il Vaticano II allarga il concetto di Tradizione,
dicendo che la trasmissione della fede non è soltanto la comunicazione delle verità
rivelate mediante il Magistero, non sono solo i pronunciamenti magisteriali, ma è
anche la riflessione teologica, liturgia, catechesi, la testimonianza di vita, soprattutto
le vite dei santi, che nella loro corporeità hanno sottolineato ciascuno un aspetto
particolare della vita cristiana (DV 8).
Tradizione e Scrittura sono fortemente correlate tra di loro. È vero che la Parola di
Dio si rende presente sia nella Sacra Scrittura che nella Sacra Tradizione, ma questo
non significa che Tradizione e Sacra Scrittura non siano realtà tra di loro
interconnesse.
1. Infatti la stessa Sacra Scrittura nasce da una tradizione precedente, che si
presenta come tradizione orale (DV 7).
2. Inoltre, attraverso la Sacra Tradizione noi conosciamo l’intero canone dei libri
ispirati (DV 8).
3. Altra cosa molto importante è che la corretta e autentica interpretazione della
Sacra Scrittura è solo all’interno della Tradizione e non al di fuori di essa (DV
8)65.
4. La Sacra Scrittura va interpretata a partire da una prospettiva di fede, cioè va
letta con lo stesso spirito con la quale fu scritta: io credente devo leggere il
passo scritturistico non solamente da un punto di vista storico, scientifico,
letterario, ma a partire dalla mia fede e dall’assistenza dello Spirito Santo, che
mi consente di leggere quel passo nella sua autenticità (DV 12).
5. Abbiamo detto che le Sacra Scrittura è figlia della Tradizione, ma allo stesso
tempo è il criterio, regula fidei, a cui il Magistero fa di continuo riferimento
65
Nel primo dei tre volumi dell’opera Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, nella premessa il pontefice emerito, pur non
negando al metodo storico-critico la sua importanza e validità nell’interpretazione della Sacra Scrittura, tuttavia
ribadisce che quell’approccio interpretativo non va assolutizzato come l’unico, e che i diversi approcci vanno utilizzati
nella loro complementarietà. Tra di questi, uno che assume una funzione fondamentale è quello “canonico”, che
consiste nel vedere come quel passo della Scrittura è stato interpretato dalla Chiesa dalla sua origine fino ai nostri
giorni, detto in altri termini, vedere come la tradizione della Chiesa, non solo il Magistero, ma anche tutta la riflessione
dei Padri e la riflessione teologica successiva si è espressa su quel passo (cfr J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di
Nazareth, vol. I, 7-20).
62
per il corretto dispiegamento della trasmissione della fede. Il Magistero della
Chiesa che ha il compito di custodire e trasmettere fedelmente il depositum
fidei, ha come criterio di riferimento la Sacra Scrittura ed è allo stesso tempo
assistito dallo Spirito Santo, godendo di un carisma certo di verità (DV 10).
6. Un’ultima questione importante da sottolineare è il concetto di “inerranza della
Sacra Scrittura”, dove Vaticano II sottolinea che essa non è di natura storico-
scientifica, bensì salvifica. La sacra Scrittura infatti non ha errori in ordine a
tutto ciò che riguarda la salvezza (DV 11).
3. Il magistero
Organi del Magistero ordinario sono sia il papa che i vescovi: il papa attraverso
determinati documenti magisteriali quali le encicliche, i viaggi apostolici, ecc; poi
abbiamo i pronunciamenti dei dicasteri della curia romana; mentre per quanto
riguarda i vescovi il loro magistero ordinario si esercita attraverso le azioni pastorali,
le lettere pastorali, le visite pastorali, i sinodi diocesani, ecc. Questo magistero
riguarda tutto ciò che la Chiesa ha già definito, e vuole essere il garante della sua
trasmissione. Inoltre, rientra nel Magistero ordinario tutto ciò che riguarda questioni
63
di fede o di morale di cui per ragioni di prudenza non si dà ancora un pronunciamento
irreformabile, ma che comunque sono tenute da credersi.
64
genere tale pronunciamento viene fatto o con una bolla o con una costituzione
apostolica.
Passiamo ora alle dottrine di secondo grado, che pure sono da ritenersi definitive:
anche in questo caso ci troviamo di fronte a verità irreformabili, che non possono
essere cambiate, pur non presentando una formulazione dogmatica. Sono verità che
pur non essendo contenute esplicitamente nella Sacra Scrittura e nella Sacra
Tradizione, sono il frutto di una derivazione, o di tipo logico o storico, da quelle
divinamente rivelate (es. l’eutanasia, ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto
agli uomini,ecc.)66.
Nei pronunciamenti di terzo grado, troviamo dottrine autentiche, perché
riguardano il magistero autentico, cioè il magistero in quanto tale, ma non definitive.
Vi troviamo dunque alcuni pronunciamenti magisteriali che la Chiesa non ha ritenuto
opportuno definire in maniera assoluta, per questioni di prudenza, perché su
determinati temi si attende ancora un’ulteriore e maggiore comprensione. Essi
richiedono un grado di adesione differenziato, secondo la mente e la volontà
manifestata, la quale si palesa specialmente:
- sia dalla natura dei documenti;
- sia dal frequente riproporre la stessa dottrina;
- sia dal tenore dell’espressione verbale.
A questi tre tipi di pronunciamenti si richiedono tre tipi diversi di assenso.
- Nel primo caso abbiamo un assenso di fede teologale, e la dottrina che si pone
contro questa qualificazione teologica viene definita eretica.
- Nel secondo caso, abbiamo un assenso di fede ecclesiale, assenso fermo e
definitivo, e la dottrina contraria a questa qualificazione teologica viene
definita una dottrina che non mi consente di stare nella piena comunione con la
Chiesa.
- Nel terzo caso, l’assenso richiesto è un religioso ossequio dell’intelletto e della
volontà. In questo caso la dottrina contraria può definirsi erronea, temeraria,
oppure pericolosa.
66
Ciò avviene quando nelle diverse epoche storiche si possono presentare questioni di cui la Chiesa non ha mai
affrontato e che non sono presenti esplicitamente nella Scrittura e nella Tradizione.
65
66
PARTE SECONDA
67
68
CAPITOLO V
CREDIBILITA’ E FEDE
Per quanto riguarda l’aspetto della credibilità della Rivelazione e del suo
possibile accoglimento mediante la fede, ci serviremo del pensiero di S. Pié-Ninot, il
quale propone un modello significativo di credibilità. Nel ricercare un’identità alla
teologia fondamentale, S. Pié-Ninot, nel suo manuale di teologia fondamentale67,
presenta un modello di teologia fondamentale il cui scopo è quello di “fondare e
giustificare la pretesa di verità della rivelazione cristiana come proposta sensata di
credibilità”68; in poche parole, la sua funzione è quella di legittimare la credibilità
della fede, “rendere ragione della speranza”(1 Pt 3, 15) all’interno dell’esperienza
spirituale cristiana, attraverso una testimonianza di fede, il cui scopo è quello di
veicolare pienezza di senso al vivere umano69. Il modello di teologia fondamentale
proposto dall’autore, consterà quindi, di due dimensioni, le quali a loro volta,
corrispondono a due obiettivi o compiti fondamentali a cui tale disciplina intende
rispondere. Il primo, è un compito fondamentale-ermeneutico (teologia fondamentale
“dogmatico-fondamentale”), il cui scopo è quello di rintracciare i fondamenti
dell’esperienza di fede: l’origine dell’esperienza di fede (la Rivelazione), i luoghi
della conoscenza teologica (Scrittura, Tradizione, Magistero, sensus fidei, teologia),
nonché le condizioni di possibilità di accesso alla rivelazione e alla costituzione
dell’atto di fede (azione interiore della grazia e i segni esterni di credibilità)70. Il
secondo invece, è un compito dialogale-contestuale (teologia fondamentale
“apologetico-fondamentale”), il cui fine è quello di legittimare la credibilità della
fede, a partire dalla testimonianza cristiana, quale segno di senso pieno e di speranza
per il mondo: “martyría significativa” della speranza cristiana71:
«l’aggettivo dialogale-contestuale, che completa il compito apologetico, indica il suo carattere di
frontiera o di sentinella, per dirla con Heidegger, proprio a tutti gli ambiti nei quali si imposta e si
67
Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale.
68
Ib; 61.
69
Cfr. ib.
70
Cfr. ib; 62 e 67.
71
«In effetti, la formulazione “martyría significativa” vuole essere una parafrasi attualizzata del “rendere ragione della
speranza” (1 Pt 3, 15): in essa si propone la speranza cristiana a partire dalla “testimonianza”, intesa come esperienza di
“martyría” (cfr. FR 32) (…) L’esperienza concreta, dunque, di questa “testimonianza martiriale” attraverso la sua
comprensione teologica, renderà possibile superare tanto il puro pragmatismo vitale, quanto il puro intellettualismo
razionale, articolando così ambedue le dimensioni in chiave di una testimonianza piena di senso, che è quanto intende
designare questa innovativa espressione di “martyría significativa” che è, in definitiva, “la testimonianza radicata nella
speranza”» (Ib; 62).
69
realizza una dimensione di servizio, in chiave di “diaconia intellettuale”, sempre attenta all’auditus
temporis et alterius (…) In questa forma si può dire che il compito dialogale della teologia
fondamentale la trasforma in una “disciplina di frontiera e di mediazione”, che rende possibile la sua
interazione con i diversi ambiti e realtà del nostro mondo, in un’ottica di “assunzione, purificazione
72
ed elevazione”, secondo la precisa prospettiva conciliare sulla presenza del Vangelo nel mondo» .
76
Cfr. ib; 94-96.
77
Si applica l’immagine all’ “anima” (il Padre) che pensa (il Figlio) e che ama (lo Spirito Santo) (cf ib; 94-95).
78
Cfr. ib; 96-97.
79
Cfr. ib; 97-104. «In effetti l’uomo scopre che qualsiasi azione particolare, qualsiasi realizzazione concreta ha sempre
un significato che va al di là di ciò che è, e lo trascende. E questo significato che trascende qualsiasi realizzazione è
quello che rende possibile scoprire il senso pieno al quale mira ciascuna realizzazione concreta, perché implicitamente o
esplicitamente, ogni realizzazione è sempre orientata verso un orizzonte illimitato e assoluto. È proprio qui, in questo
orizzonte illimitato, che noi riconosciamo l’apertura decisiva dell’uomo e la sua capacità fondamentale per ricevere la
possibile rivelazione di Dio. La quale, quindi, non si presenta come qualcosa di estraneo o alieno all’uomo, bensì come
realizzazione piena e totale – teorico-pratica – della vita umana, come l’orizzonte verso il quale la persona umana tende
a tentoni (At 17, 27)» (ib; 153).
80
Cfr. ib; 155-158.
81
Cfr. ib; 159.
82
Ib.
71
La fede viene definita come “l’adesione totale – AMEN – dell’uomo alla
parola definitiva e salvatrice di Dio”83. Essendo dunque un atto che coinvolge la
persona nella totalità delle sue dimensioni costitutive, in esso possiamo scorgere tre
aspetti fondamentali: “1) la conoscenza e confessione dell’azione salvifica di Dio
nella storia; 2) la fiducia e sottomissione alla parola di Dio e ai suoi precetti, nonché
3) la comunione di vita con Dio, adesso e insieme orientata verso l’escatologia”84.
Per “analisi della fede” (analysis fidei) si suole indicare nella teologia classica,
lo studio della natura dell’atto di fede e dunque, l’armonizzazione dei suoi elementi
costitutivi (gratuità, ragionevolezza, libertà). Dal momento che l’atto di fede è
insieme atto umano e dono di Dio, in quanto atto umano ha bisogno di ragioni per
credere, ovvero, i cosiddetti “motivi di credibilità”88: “Il precisare, appunto, quale sia
la relazione tra i «motivi di credibilità» e il «motivo formale della fede» è la
questione entro la quale si muove quella che viene detta «analisi della fede»”89.
83
Ib; 160.
84
Ib.
85
Cfr. ib; 175.
86
Cfr. ib.
87
Ib; 178.
88
Cfr. ib; 179.
89
Ib.
72
L’autore invece, sulla base di una comprensione della fede, non più intesa in
senso intellettualistico, ma personalistico, propone una nuova formula che ne
permetta una più chiara esplicazione, ovvero, la “sintesi della fede”90. La “sintesi
della fede” indica l’atto del credere, il quale a sua volta implica la relazione tra la
fede come dono di Dio (la Rivelazione “creduta” mediante la fede: l’autofondazione
della fede) e la ragione come soggetto della fede (la Rivelazione “conosciuta”
mediante la ragione: la credibilità e i suoi segni).
Per quanto riguarda invece il polo “soggettivo” della fede (la Rivelazione
“conosciuta” mediante la ragione: la credibilità e i suoi segni), entrano in gioco tre
elementi fondamentali: 1. i preambula fidei (preamboli della fede); 2. ratio fidei
(ragione/giustificazione della fede); 3. la cognitio per connaturalitatem (conoscenza
sperimentale, frutto della fede).
90
«Orbene, dato che gli studi contemporanei, tanto biblici quanto storici e antropologici, sottolineano una comprensione
più globale e integrale dell’atto di fede, non potremmo provare ad introdurre nella trattazione della fede la formula
“sintesi della fede”, come superamento dell’ “analisi della fede”? In effetti, se riteniamo che l’atto di credere è un atto di
“sintesi” nella quale si trovano tutte le dimensioni della vita (vitali, intellettuali, morali, affettive, estetiche, sociali…)
mosse in ultima istanza dal dono di Dio, potremmo parlare della “sintesi della fede” intesa come genitivo soggettivo: la
sintesi, cioè, che la fede realizza. In questo modo si vuole indicare la sintesi dei diversi “saperi” e delle diverse
“esperienze” che la fede realizza» (Ib.).
91
«Dio attrae interiormente l’uomo alla comunione con lui, comunicandogli un dinamismo nuovo verso la visione
beatifica, vale a dire la pienezza dell’aspirazione “naturale” dell’uomo (…) ed è il dono di Dio, che proietta l’uomo
oltre il suo orizzonte “naturale”, portandolo verso Dio stesso» (Ib; 182).
92
Ib; 183-184.
93
Cfr. ib; 184.
73
In riferimento ai prambula fidei, con questi, si vuole indicare le condizioni di
possibilità, tanto esterne quanto interne, del fatto della rivelazione e come momento
della sua intelligibilità94. Questi presupposti sono: 1. la conoscenza naturale di Dio; 2.
la possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel
riconoscimento della sua credibilità; 3. la capacità del linguaggio umano di parlare in
forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana; 4. la
ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande
fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che
l’attende dopo la morte95.
Per ratio fidei intendiamo la ragione che illuminata e orientata dalla fede,
rende possibile una certa intelligenza e comprensione dei misteri della fede stessa.
Questa certa comprensione del dato di fede si articola attraverso tre punti sviluppati
dal Vaticano I: 1) l’analogia con ciò che si conosce naturalmente; 2) il nesso degli
stessi misteri tra loro; 3) il nesso di questi misteri con il fine ultimo dell’uomo96.
101
Cfr. ib; 200-201.
102
Cfr. ib; 202. L’autore presenta elementi nuovi per la comprensione della credibilità oggi come proposta di senso: una
proposta articolata come una “argomentazione retorica persuasiva” (cfr. ib; 203-205); offerta a partire da una
“argomentazione razionale sensata” (cf ib; 205); che ha “un’intenzionalità comunicativa” (cfr. ib; 206); che vuole
sottolineare la propria “rilevanza” (cf ib; 206); capace di essere “verificativa” (cfr. ib; 207); orientata alla “pratica” (cfr.
ib; 207).
103
Cfr. ib; 208.
104
Ib; 209.
105
Ib.
106
Cfr. ib; 209-210.
76
Dio dispiegandosi progressivamente nei singoli eventi storici dell’umanità, tende
verso il suo pieno compimento107.
107
Cfr. ib; 210-211.
108
Ib; 211-212.
77