Sei sulla pagina 1di 77

Istituto Superiore di Scienze Religiose

“Donnaregina”
Napoli

CORSO DI
TEOLOGIA FONDAMENTALE
(TES 0402)

Dispense ad uso interno

Prof. Rev. Salvatore De Simone

Anno Accademico 2015-2016.

1
2
INTRODUZIONE

1. Un piccolo assaggio su cosa si intenda per Teologia Fondamentale: I compiti


della Teologia Fondamentale

La teologia fondamentale è una disciplina teologica sorta di recente. Essa intende


rispondere a due obiettivi o compiti fondamentali: 1. “fondamentale – ermeneutico” e
“dialogale – contestuale”1.
1. COMPITO FONDAMENTALE – ERMENEUTICO

È quello di individuare il fondamento della fede cristiana.


La teologia fondamentale deve anzitutto rintracciare i fondamenti
dell’esperienza di fede:
- Qual è l’origine dell’esperienza di fede (la Rivelazione);
- I luoghi della conoscenza teologica (Scrittura, Tradizione, Magistero,
sensus fidei, teologia);
- Le condizioni di possibilità e di accesso alla Rivelazione e quindi alla
costituzione dell’atto di fede (Azione interiore delle grazia e segni
esterni di credibilità).

2. COMPITO DIALOGALE – CONTESTUALE

Il secondo compito è quello di giustificare la credibilità della fede cristiana.2


Questa legittimazione della credibilità della fede avviene a partire dalla fede
stessa e non da un qualcosa di esterno al suo contenuto, raccogliendo le sfide e
rispondendo alle domande poste dalla molteplicità dei contesti culturali in cui
essa è chiamata a incarnarsi in ogni tempo.

Oggi potremmo dire che la teologia fondamentale è una teologia molto utile nel
mondo attuale, soprattutto per chi ricopre un ruolo in ambito pastorale, o
1
Questo tipo di distinzione e la nomenclatura corrispondente è di S. Pié-Ninot nel suo manuale di teologia
fondamentale (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 62 e 67).
2
In altri termini, chi ha aderito a Gesù Cristo, chi conosce il suo messaggio e si sforza di conoscerlo sempre di più, chi
cerca, nonostante i limiti della sua persona, di incarnare il Suo messaggio nella propria quotidianità, come può rendere
credibile la propria fede cristiana nei confronti di chi non crede o vive un’esperienza religiosa diversa o ancora nei
confronti dei cosiddetti credenti non praticanti o cristiani della soglia, che stanno lì, sull’uscio della porta, ascoltando
ma senza uscire, né entrare? Come si può rendere credibile, appetibile, gustoso, il messaggio cristiano, nei confronti di
queste categorie di persone? Oppure, come rispondere alle domande e alle provocazioni che provengono da coloro che
non vivono un’esperienza di fede o che vivono un’esperienza di fede diversa dalla nostra, o frammentaria, che cioè
condividono solo alcuni principi della fede cristiana e non altri? La cosiddetta fede da supermercato, relativa ai gusti e
ai bisogni del singolo, o ancora la cosiddetta fede compensatoria, che compensa un vuoto esistenziale o alcuni bisogni
fondamentali.
3
nell’insegnamento, poiché il contesto culturale del nostro tempo presenta una
peculiarità storica, è un contesto infatti che si sta progressivamente scristianizzando,
secolarizzando, cioè la fede si sta riducendo sempre di più ad essere un fatto privato,
una questione individuale che perde la sua incidenza all’interno del vissuto sociale.
Ci chiediamo, ad esempio, oggi quale risonanza abbiano i pronunciamenti del
Magistero sull’immaginario collettivo, soprattutto in ambito morale: hanno la stessa
ripercussione di 40-50 anni fa nell’opinione pubblica? Oppure, guardando alle nostre
realtà parrocchiali: quale rilevanza ha un intervento del parroco sulla vita della
comunità e del territorio? Pensiamo alle tante denunce che i sacerdoti ricevono per
disturbo della quiete pubblica a causa del suono delle campane! È cambiato
l’immaginario collettivo, non c’è più quella forma culturale che abitava e strutturava
il vivere comune dell’occidente: la “cristianità”.
Non bisogna però confondere il “cristianesimo” con la “cristianità”, cioè la
nostra fede religiosa (appunto il cristianesimo) con una sua produzione culturale (la
cristianità) che si basava su principi e su valori cristiani e dettava anche una sorta di
organizzazione pubblica (Quanti paesi sorgono intorno al campanile … il centro del
paese era la parrocchia e l’edificio comunale … adesso non più). Quindi noi viviamo
in una società che si sta scristianizzando, che lancia sfide e provocazioni, che fa
domande alla nostra appartenenza religiosa, e noi in quanto cristiani siamo chiamati a
rispondere a queste sfide e a giustificare e ad argomentare la nostra appartenenza.
Diciamo che la teologia fondamentale ha questo compito: a differenza della teologia
dogmatica, è una teologia che non riguarda soltanto i primi principi, staccati dalla
vita. La teologia fondamentale è una teologia contestuale, che ha un orecchio teso
verso l’interno della Chiesa, quindi ascolta ciò che la Chiesa è nel suo essere Chiesa
in quegli elementi che la costituiscono in quanto tale (auditus fidei), e nello stesso
tempo porge l’orecchio anche all’esterno, per ascoltare le provocazioni che i contesti
pongono alla fede ecclesiale (auditus temporis). La teologia fondamentale quindi si
presenta come una teologia di frontiera, di confine tra l’interno dell’appartenenza
ecclesiale e l’esterno dei contesti culturali in cui la fede ecclesiale è chiamata ad
incarnarsi e ad inculturare il messaggio evangelico (auditus temporis et alterius).
La teologia fondamentale si presenta pertanto come una teologia molto attuale
e indispensabile, non soltanto per chi vive il proprio impegno pastorale, ma per
ciascun credente, in quanto questi, in virtù del proprio battesimo e della propria
appartenenza ecclesiale, è chiamato a rendere credibile e a giustificare la propria fede
nei contesti in cui vive ed è inserito.

4
2. Uno sguardo più profondo sui compiti di questa disciplina

Abbiamo appena esplicitato che tale disciplina consta di due obiettivi o compiti
fondamentali: il primo compito è quello “fondamentale – ermeneutico”, il cui scopo è
quello di rintracciare i fondamenti su cui poggia l’esperienza di fede cristiana e la sua
origine. Vedremo che la fede ha il suo fondamento nella Rivelazione e la sua
condizione di possibilità nella capacità dell’uomo di accogliere questa
autocomunicazione che Dio fa di Sé. Quindi la fede poggia su due coordinate: il
fondamento è posto nella Rivelazione e la sua condizione di possibilità è inscritta
nella capacità dell’uomo, in quanto essere religioso, teso alla ricerca del senso della
propria vita e della realtà che lo circonda, aperto all’assoluto e all’infinito, di
accogliere questa rivelazione, cioè di conoscere e di amare Dio.
Che cos’è la Rivelazione? È l’autocomunicazione che Dio fa di Se stesso. Dio
si rivela, cioè si manifesta, comunica ciò che è all’umanità. La persona non può avere
fede in Dio, non può aderire a Lui, se prima non lo conosce. La fede implica
un’adesione, richiama ad un atteggiamento di fiducia, ti sprona ad un impegno di
fedeltà, che presuppone quindi una conoscenza non esclusivamente intellettiva, ma di
tipo “esperienziale”. Essa coinvolge tutto l’essere della persona, tale da suscitare
credibilità e fiducia, per cui la persona si affida e rimane fedele al rapporto di
amicizia che ne scaturisce, assumendosi anche gli impegni che questo tipo di
relazione comporta. L’uomo dunque, non può aderire a Dio se Dio non si fa prima
conoscere a lui. E Dio si fa conoscere rivelandosi e ponendosi nelle condizioni di
farsi conoscere. Altrimenti saremo dinanzi all’assurdo di una adesione ad una persona
che non si conosce. Quindi, il fondamento della fede è posto nella Rivelazione, cioè
in questo movimento di Dio che desidera farsi conoscere all’intera umanità.
Dio si è rivelato, si è fatto conoscere, nell’Antico Testamento, attraverso i
profeti, che erano dei mediatori tra Dio e il popolo, e poi attraverso eventi storici
significativi del popolo d’Israele (Ad esempio si pensi all’evento dell’esodo). Poi
Dio, ad un certo punto, ha scelto di rivelarsi attraverso il suo Figlio unigenito,
assumendo in Lui, tale rivelarsi, i caratteri della “pienezza” e della “definitività”.
Che significa che la Rivelazione ha raggiunto in Cristo la sua pienezza e
definitività? E come questa rivelazione di Dio, che è avvenuta mediante il popolo di
Israele e la persona di Gesù, viene oggi comunicata a noi, che non facciamo
un’esperienza diretta di Gesù, come quella che hanno fatto invece i primi discepoli?
Come cioè possiamo avere accesso a questo pensiero di Dio sull’umanità? Vedremo
che tutto questo avviene attraverso la Tradizione viva della Chiesa nelle sue
molteplici esplicitazioni.

5
Il secondo compito della teologia fondamentale è quello dialogale –
contestuale. Mentre il primo compito potremmo definirlo ad intra, ricercare i principi
che dicono il nostro essere cristiani, il secondo compito invece ad extra: io in quanto
cristiano, in quanto mi sforzo di conoscermi nella mia identità di cristiano, in che
modo mi pongo in dialogo con chi non lo è, o con chi lo è, ma non è convinto di
esserlo al 100%?
Il dialogo è contestuale, cioè occorre saper discernere il contesto nel quale
questo avviene (es: scuola, ambiente di lavoro, amicizie, comunità parrocchiale,
luoghi pubblici, …). Occorre conoscere il contesto con il quale i cristiani si vanno a
confrontare, per valutare l’efficacia comunicativa del messaggio evangelico, come
renderlo incisivo, efficace, gradevole all’interlocutore. Quindi prima di comunicare la
fede, di incarnarla, dobbiamo conoscere i contesti nei quali la comunichiamo. Se non
abbiamo una conoscenza previa, abbastanza soddisfacente del contesto, quel
messaggio cristiano che noi argomentiamo, anche in maniera perfetta, può risultare
alla fine inefficace.

3. Apriamo la finestra per ammirare il paesaggio che ci attende: presentazione


generale dell’itinerario da svolgere

Dopo una breve presentazione storica sulla nascita e sull’evoluzione della


teologia fondamentale (Quando è nata, perché è nata, quali sono state le cause che
hanno a un certo punto portato alcuni teologi a elaborare questa disciplina, come si è
evoluta nel tempo, come è cambiata, come si è arricchita), sull’individuazione del suo
oggetto e del suo metodo, presenteremo poi l’essenza della rivelazione divina, nella
Sacra Scrittura, nella Tradizione, nel Magistero e nella storia della riflessione
teologica. Cercheremo in poche parole di capire che cos’è la Rivelazione. A partire
da un’analisi delle fonti bibliche, magisteriali, della riflessione teologica (In maniera
particolare gli studi sull’argomento di alcuni teologi fondamentali), quali sono le
caratteristiche della rivelazione divina; quindi conosceremo la Rivelazione a partire
dalle fonti, per poi esplicitare la sua trasmissione autentica per mezzo del magistero
della Chiesa, assistito dall’azione dello Spirito Santo e normato dalla Sacra Scrittura.
In maniera specifica su questo punto, vedremo che questa trasmissione infatti,
non è priva di regole e di un controllo. Ci chiederemo infatti: il messaggio di Dio
all’umanità, dall’origine della fondazione della Chiesa a noi oggi, è stato alterato con
il tempo? Risponderemo di no, e il garante di questa integrità è il Magistero. A loro
volta i membri del Magistero cambiano, anche il Magistero ha bisogno di un punto di
riferimento per trasmettere il deposito della fede in maniera inalterata, e questo
fondamentale punto di riferimento è la Sacra Scrittura.
6
Affronteremo poi la seconda parte spingendoci fino a considerare alcune
questioni di frontiera della teologia fondamentale: sfide con le quali il cristiano è
chiamato al confronto e al dialogo: l’ateismo, la non credenza e la loro differenza, la
secolarizzazione, la postmodernità (Cioè l’attuale contesto culturale in cui noi
viviamo), il rapporto tra fede e cultura (Ovvero, come la fede dialoga con la cultura e
come la stessa cultura incida sull’esperienza di fede delle persone, in che modo la
fede può cambiare il contesto culturale e quanto il contesto culturale può cambiare il
nostro modo di vivere la fede rendendolo molte volte patologico), il rapporto tra fede
e scienza (Qual è la differenza tra teologia come scienza e scienze empiriche, se
possono entrare in dialogo, e qualora questo succeda, in che modo), il problema del
senso del male, ed infine il dialogo interreligioso e quello ecumenico.

4. Prendiamo il cannocchiale: una dettagliata descrizione del programma

L’itinerario inizia con una Premessa: “la teologia fondamentale come teologia
della credibilità della Rivelazione cristiana”, quindi sarà presentata brevemente la
storia di questa disciplina, quando è nata, perché è nata, come si è evoluta lungo il
tempo, come è arrivata ai nostri giorni, come si presenta oggi ai nostri occhi.
Poi affronteremo il tema della sua identità (Lo statuto epistemologico), cioè
specificheremo che cos’è questa disciplina teologica, quali sono i suoi obiettivi, i suoi
compiti, i suoi modelli3, il suo metodo, quale metodo ha il modello che prenderemo
in considerazione e come si articola la disciplina in questo specifico modello.
Dopo questa parte introduttiva, l’itinerario si divide in due parti: la prima parte,
La Rivelazione e la sua trasmissione nella Chiesa e la seconda, che riguarda La
credibilità della Rivelazione. Ad ogni parte corrisponde un compito specifico della
teologia fondamentale già evidenziato in precedenza.
Nella prima parte cercheremo di capire che cos’è la Rivelazione, cosa significa
Rivelazione di Dio, a partire dalla fonti che ce la rendono evidente, e anche in che
modo questa Rivelazione di Dio, questo pensiero di Dio, giunge a noi fino ad oggi.
Questo è il primo compito della teologia fondamentale che si chiama fondamentale –
ermeneutico.4 Questa parte si articola nei seguenti punti:

3
Attualmente non abbiamo un modello unico di teologia fondamentale, ce ne sono diversi, e noi seguiremo il modello
più diffuso in Italia, quello della credibilità.
4
“Fondamentale” nel senso che riguarda i fondamenti della fede, “ermeneutico”, perché si riferisce a tutto ciò che
riguarda l’interpretazione: quindi rintracciare il fondamento della fede a partire da una sana e corretta interpretazione
delle fonti della Rivelazione.
7
1) Economia della Rivelazione

Per Rivelazione noi intendiamo la manifestazione, l’auto-comunicazione che


Dio fa di Sé all’uomo. Ora, quando noi parliamo di “economia” della Rivelazione
noi intendiamo rispondere alla domanda: in che modo questa Rivelazione si è resa
evidente all’uomo? Quali sono le “forme”, quali gli strumenti di cui Dio si è
servito per narrarci il suo disegno di salvezza? Quali sono quei “caratteri” che
nella loro reciproca implicazione costituiscono l’evento rivelativo in quanto tale?

2) L’essenza della Rivelazione secondo le fonti bibliche

Questo secondo punto risponde alla domanda su che cosa intendiamo per
Rivelazione a partire dalle fonti bibliche. Attraverso un’analisi dei testi dell’AT e
poi del NT, quali sono gli elementi che da un punto di vista fenomenologico-
ermeneutico, nella loro reciproca correlazione, costituiscono l’evento rivelativo in
quanto tale? Vedremo poi la continuità che intercorre tra AT e NT, cioè ciò che si
riferisce alla rivelazione nell’AT, si ripresenta nel NT, ma anche la discontinuità,
ovvero, cosa di diverso c’è nella rivelazione cristologica, rispetto alla rivelazione
storica e profetica che è presente nell’AT.

3) L’essenza della Rivelazione nella storia della teologia e secondo il magistero


della Chiesa

Vedremo come la riflessione teologica ha poi affrontato il concetto di


Rivelazione, come è stata intesa la Rivelazione nel corso della storia della Chiesa,
soprattutto nel Magistero, quali sono stati i documenti magisteriali che in maniera
esplicita hanno trattato appunto dell’argomento della Rivelazione. Tra quelli più
importanti, annoveriamo: 1. Dei Filius del Concilio Ecumenico Vaticano I; e 2.
Dei Verbum del Concilio Ecumenico Vaticano II.

4) Modelli storici di comprensione della Rivelazione

Quando i teologi o scuole di pensiero, parlavano di Rivelazione, in che modo la


descrivevano? Quali categorie, quali immagini usavano, a quali sistemi filosofici

8
facevano riferimento5? Quali dei suoi caratteri assolutizzavano? Nella loro
presentazione del tema, quali sono stati i punti di forza e quali di debolezza?

5) Tradizione, Scrittura – Ispirazione, Magistero e loro reciproca implicazione

La Rivelazione si rende manifesta attraverso i due canali della Sacra Scrittura e


la Sacra Tradizione, che non sono separati l’uno dall’altro, ma sono tra di loro
strettamente congiunti nella trasmissione del depositum fidei. Vedremo che la
Scrittura nasce dalla Tradizione, e che poi la Scrittura a sua volta diventa il criterio
del corretto dispiegarsi della Tradizione. Ed infine, che in questa interconnessione
gioca un ruolo fondamentale il Magistero della Chiesa.
Per quanto riguarda il ruolo del Magistero, è quello di trasmettere il dato, cioè
il deposito della fede, in maniera inalterata, perché può succedere che nella
trasmissione del contenuto, tale possa essere cambiato. Quindi il Magistero della
Chiesa ha il compito di custodire il deposito della fede, di trasmetterlo in maniera
inalterata e autentica, di comunicarlo, ma anche di conoscerlo sempre di più e di
definirlo in alcuni dei suoi aspetti. In riferimento a quest’ultima questione, tutto
questo avviene con i “dogmi”, che sono formulazioni di verità di fede. In questo
caso la Chiesa definisce un qualcosa che già le apparteneva: non è qualcosa che si
è inventata e che ha aggiunto; ciò che la Chiesa riscopre lungo il corso della sua
storia è sempre una realtà che le appartiene fin dal principio dell’identità del suo
essere Chiesa.
Vedremo che la trasmissione della fede ha molti canali: non c’è solo il
Magistero. Quando parliamo di trasmissione della fede ci riferiamo al depositum
fidei, che è a livello figurativo, una sorta di scrigno che dice la nostra identità
ecclesiale, il quale va custodito e salvaguardato, e riscoperto sempre di più in tutti
i suoi aspetti e sfaccettature. In altri termini, è la rivelazione piena e definitiva di
Dio in Gesù, che si presenta inalterata nell’oggi di ogni storia ecclesiale e
personale. Tale Magistero nei suoi interventi ha livelli diversi, con corrispettive
qualificazioni teologiche.

Ora passiamo alla presentazione della seconda parte: La credibilità della


Rivelazione. Essa risponde al secondo obiettivo della teologia fondamentale, quello
dialogale – contestuale, il cui intento è di legittimare la veridicità del contenuto della
fede. Essa si articola nei seguenti punti.

5
La filosofia è ancella della teologia. La teologia, per argomentare il suo discorso, ha bisogno di categorie filosofiche.
Si pensi alle categorie aristoteliche e platoniche per quanto riguarda la teologia del passato, e, ai giorni nostri, al
personalismo, all’esistenzialismo, alla fenomenologia, all’ermeneutica filosofica.
9
1) La credibilità della Rivelazione

La credibilità è un tema costitutivo della teologia fondamentale. Diremo perché


la TF si presenta come teologia della credibilità e che cosa noi intendiamo per
credibilità, cioè che cosa fa rendere credibile l’evento rivelativo, o la persona di
Gesù. Se io aderisco a Gesù è perché Gesù è credibile per me, è degno della mia
fiducia e non allo stesso modo di altri personaggi storici come Maometto o
Buddha; è perché riconosco in Lui il fondamento di tutta la mia vita. Che cosa
dunque avviene in me nel processo della genesi della fede? Cosa mi consente di
riconoscere in Gesù il fondamento di tutta la mia esistenza?

2) La genesi della fede

Quindi parleremo dell’atto di fede, cioè quali sono gli elementi che nella loro
reciproca implicazione fanno scaturire nella persona questa adesione a Gesù; perché
uno aderisce a Cristo e un altro no? Che cosa dovrebbe accadere nel soggetto affinché
lui abbia la fede? Vedremo anche quali sono quegli aspetti che nella persona
inibiscono questa adesione. Analizzeremo anche che non sempre un’adesione di fede
si presenta in maniera autentica; inoltre indagheremo su un altro fenomeno: perché,
nonostante una fede vissuta nel rispetto e nell’osservanza dei precetti, la nostra
adesione a Gesù non sempre è così pulita come dovrebbe essere? Constateremo che
molte volte questo non avviene consapevolmente, e abbiamo bisogno di qualcun altro
che ci aiuti a vedere le inconsistenze della fede presenti dentro di noi: può capitare
infatti che non amiamo Dio in Se stesso, ma che possiamo strumentalizzarlo per il
nostro ego o per colmare alcuni bisogni dissonanti con la vocazione battesimale. Da
questo ne trarremo che la fede è un cammino di purificazione continua. La
conversione non è un fatto esclusivamente puntuale, cioè non avviene soltanto in
quella determinata occasione in cui il Signore in maniera forte ha parlato alla nostra
vita, ma essa è un evento costante.

3) Alcune questioni di frontiera

Da qui passeremo a trattare alcune questioni di frontiera della teologia


fondamentale. A partire da una rivisitazione delle tre demonstratio dell’apologetica
classica (religiosa, christiana, catholica) in chiave attuale. Le tre demonstratio sono
come tre cerchi concentrici che tendono a restringersi: il cerchio più largo,
demonstratio religiosa, riguarda il non credente o chi è indifferente a qualsiasi
10
esperienza di tipo religioso; la demonstratio christiana riguarda in particolare il
cristianesimo in dialogo con le altre religioni: quindi tratta del problema di come
rendere credibile la nostra appartenenza cristiana nei riguardi di un’altra persona che
appartiene ad un altro credo religioso; la demonstratio catholica affronta il problema
del dialogo dei cattolici con le altre confessioni cristiane. Come vediamo, il cerchio
tende a restringersi gradualmente.
Fatte queste premesse nella demonstratio religiosa rientrerebbero tre questioni
fondamentali: 1. il rapporto amicale-conflittuale tra fede e cultura, 2. quello relativo
tra la teologia e scienze empiriche, ed infine 3. le risposte alla presenza della
sofferenza e del male nel mondo. Nel primo caso, vedremo qual è la differenza tra
ateismo e indifferenza religiosa – concetti che non devono essere confusi in quanto
collegati, ma non identici; che cosa si intenda per “cultura”, le sue molteplici
definizioni; affronteremo la questione del rapporto di reciprocità amicale e
conflittuale che intercorre tra fede e cultura: constateremo infatti come la fede può
incidere sulla cultura e viceversa in che modo la cultura può incidere sulla fede. Nel
secondo caso: in che modo la teologia come scienza dialoga con gli altri saperi
scientifici, e in particolare con le scienze naturali che hanno un metodo diverso da
quello teologico? Molti sono coloro che non riconoscono la scientificità della
teologia, come dialogare con costoro? Qual è il paradigma nel quale si inscrive la
scientificità della teologia? Nel terzo ed ultimo caso, affronteremo la nascita di alcune
teologie nel dopo Auschwitz.
In riferimento invece alle rimanenti demonstratio (christiana e catholica), daremo
brevi accenni al dialogo ecumenico e interreligioso, dato che queste tematiche
vengono affrontate in maniera più approfondita nella teologia delle religioni e in
quella ecumenica.

11
12
PREMESSA

LA TEOLOGIA FONDAMENTALE COME TEOLOGIA DELLA


CREDIBILITÁ DELLA RIVELAZIONE CRISTIANA

1. Una disciplina sorta di recente

La teologia fondamentale è una disciplina teologica recente. Nasce subito dopo


il Concilio ecumenico Vaticano II. Tuttora non ha ancora uno statuto epistemologico
suo proprio, cioè una sua identità definita tale da conferirle una connotazione
specifica come disciplina teologica: vale a dire, che cos’è questa disciplina, qual è il
suo oggetto di indagine, quali sono i suoi obiettivi e qual è il metodo che utilizza.
Manca un’uniformità di intenti sulla sua identità. Ci troviamo infatti molte volte di
fronte a tanti manuali di TF6 con impostazioni diverse.
La TF ha avuto dei padri fondatori, ognuno dei quali nella propria ricerca
teologica ha approfondito determinate tematiche:

- R. Latourelle, che ha trattato molto l’aspetto della teologia della Rivelazione,


anche se non sono mancati studi relativi alla “credibilità”;
- G. O'Collins, gesuita, che ha trattato maggiormente le questioni di cristologia
fondamentale;
- J. Wicks, che si è occupato principalmente dei temi della Tradizione e
Scrittura-Ispirazione;
- J. Alfaro, che ha trattato soprattutto il tema della fede e della capacità
dell’uomo di accogliere la Rivelazione;
- R. Fisichella, che si è occupato maggiormente dell’aspetto della credibilità
della Rivelazione.

A questi si aggiungono quelli più recenti:

- S. Pié-Ninot sui temi di ecclesiologia fondamentale;


- M. P. Gallagher, sulla genesi della fede, la non credenza e il rapporto fede e
cultura;
- D. Hercsik, sui fondamenti della fede cristiana e i luoghi della conoscenza
teologica;
- C. Dotolo, sul rapporto tra cristianesimo e postmodernità, e il dialogo
interreligioso.
6
D’ora in poi utilizzeremo la sigla TF per indicare “teologia fondamentale”.
13
Appartengono tutti alla scuola romana o gregoriana. Sono stati infatti docenti
presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
Nel Vaticano II, tale disciplina non viene menzionata. Infatti, nel decreto sulla
formazione sacerdotale, Optatam totius, al n. 16, dove si tratta delle discipline
teologiche che dovrebbero essere oggetto di studio per la formazione dei canditati
all’ordine sacro, non c’è nessun riferimento alla TF. Possiamo quindi affermare che
nel Vaticano II, la TF non è contemplata esplicitamente come disciplina teologica
vera e propria.
Tuttavia, in un suo contributo :“Assenza e presenza della Teologia Fondamentale
nel Concilio Vaticano II”, R. Latourelle affronta questa questione esplicitando che,
pur non essendo nominata, implicitamente tale disciplina è contemplata, in quanto
numerosi sono i temi presenti nei diversi documenti conciliari che saranno trattati da
questa disciplina emergente come suoi temi specifici7.
La TF attuale, in particolare ha nel Vaticano II come punti di riferimento due
costituzioni conciliari, le quali ciascuna risponde ad uno specifico compito di questa
disciplina: la Dei Verbum, la costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione (Dove
troviamo i temi della Rivelazione, della Tradizione, della Sacra Scrittura, Ispirazione
e interpretazione e del Magistero – compito fondamentale - ermeneutico), e la
Gaudium et spes, la costituzione pastorale della Chiesa sul mondo contemporaneo
(Dove troviamo i temi relativi al rapporto Chiesa – mondo; compito dialogale –
contestuale)8.
La Gaudium et spes è stata definita un po’ come la figlia inattesa di questo
Concilio9, ed è la costituzione più lunga di tutta la storia della Chiesa. Si presenta
come una novità nella storia del Magistero, rappresenta infatti una costituzione unica
nel suo genere: è la prima costituzione di carattere pastorale10. Infatti, le costituzioni
della Chiesa sono state sempre di natura dogmatica, cioè sono state emanate con la
finalità di esplicitare un elemento dogmatico, fondante per la fede della Chiesa, con la
finalità di definire le verità di fede e/o condannare tutti coloro che non credevano in
esse. Essa rappresenta l’anima del concilio e le sue intenzioni, ovvero, di non definire
alcuni aspetti fondamentali della fede, bensì di trovare nuovi linguaggi e forme per la
trasmissione del depositum più inerenti ai tempi.

7
Cfr. R. LATOURELLE, «Assenza e presenza della fondamentale al concilio Vaticano II» , in ID. (ed.), Vaticano II:
bilancio e prospettive, 1388-1395.
8
Nel Vaticano II sono presenti due costituzioni ecclesiologiche: Lumen Gentium e Gaudium et Spes: la prima è una
costituzione dogmatica, la seconda di natura pastorale. Entrambe ci parlano della Chiesa. La Lumen Gentium ci parla
della Chiesa ad intra e presenta gli elementi che identificano la Chiesa in quanto tale. La Gaudium et Spes ci parla della
Chiesa ad extra, cioè di come la Chiesa dialoga con il mondo contemporaneo e risponde alle sfide provenienti da esso.
9
L’intenzione iniziale era quella di elaborare un documento più sulle questioni morali. Poi il progetto fu abbandonato.
Essa nasce quasi alla fine del concilio ed è uno degli ultimi documenti promulgati.
10
Cfr. M. P. GALLAGHER, Fede e cultura, 57.
14
Questi due documenti sono fondamentali per la TF, perché mentre la DV11
riguarda tutto l’aspetto dei fondamenti della nostra fede, la GS12 ci dice in che modo
questa fede deve far fronte e porsi in dialogo con i problemi del mondo
contemporaneo.
Se pur vero che la TF è nata di recente, e che ha un’identità che si sta ancora
definendo, bisogna anche ammettere che essa non è sorta come un fungo, infatti è
figlia di un’altra disciplina che l’ha preceduta, l’Apologetica. Lo scopo
dell’Apologetica era quello di difendere la fede cristiana dagli attacchi provenienti da
correnti di pensiero che si pronunciavano in maniera ad essa contraria: il deismo, le
diverse forme di ateismo, il razionalismo, il kantismo, l’idealismo, il positivismo,
l’empirismo, ecc. Queste criticavano fortemente in negativo i fondamenti della fede e
screditavano l’importanza del Magistero e in generale della mediazione ecclesiastica
nella indicazione e trasmissione della verità.
Mentre in precedenza c’era un pensiero unico, che era l’autorità magisteriale e la
filosofia cristiana, con l’avvio della Modernità, spuntano pensatori che iniziano ad
impostare il loro discorso su questioni fondamentali della vita in maniera diversa;
iniziano a nascere le scienze empiriche che screditano mediante delle vere e proprie
argomentazioni, la veridicità delle verità di fede e introducono un nuovo modo di
intendere la scienza tale da mettere in discussione la stessa scientificità della teologia.
La conversione dell’Apologetica in TF, è il frutto di un mutamento del contesto
storico-culturale: nella sua elaborazione, l’Apologetica presentava degli elementi che
la rendevano ormai inadeguata, non più rispondente alle sfide del contesto attuale.
Era nata per rispondere ad un contesto culturale specifico, e proprio per i
cambiamenti storici avvenuti nella metà del XX sec., si presentava ormai inadeguata
alle nuove sfide culturali.

2. La magna charta della TF: 1Pt 3,15

La magna charta della TF la troviamo in un testo biblico fondamentale, 1Pt 3,


15: «(siate) pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi». Per comprendere bene questa espressione dobbiamo
collocarla all’interno dell’intera pericope dalla quale è stata estrapolata13 e conoscere
il contesto storico-culturale della comunità alla quale Pietro scrive. Tale contesto
infatti, sta vivendo un momento di persecuzione da parte delle autorità pagane e
quindi molti che avevano aderito al cristianesimo stavano abiurando alla propria fede

11
D’ora in poi useremo la sigla DV per indicare Dei Verbum.
12
D’ora in poi useremo la sigla GS per indicare la Gaudium et spes.
13
1Pt 3, 13-17
15
e di nuovo ritornando al paganesimo. Ora, quello che Pietro chiede, vale a dire questo
dare ragione della propria speranza, cioè della propria fede, non è un dare ragione
esclusivamente argomentativo, ma è un modo di rendere conto della propria fede, di
rendere credibile la propria appartenenza a Gesù Cristo, attraverso un vissuto
cristiano o una testimonianza cristiana che si esplicita nel rispondere al male con il
bene, con rispetto, con retta coscienza, soffrendo per Cristo, e vivendo lo stesso patire
di Cristo, che non ha contraccambiato il male con il male ma con il bene.
La lettera di Pietro ci mostra in che modo dovrebbe articolarsi la credibilità
della fede, cioè: quando io devo argomentare le ragioni della mia fede, non devo
ridurre tutto questo a delle parole, ma la parola deve essere accompagnata da un gesto
che rende credibile quella parola pronunciata (parola e vita). Ciò che rende credibile
la fede del credente non è esclusivamente la questione che egli sappia rispondere e
argomentare verbalmente alle provocazioni dell’altro, ma a tali argomentazioni
intellettuali deve seguire una prassi di vita ad esse coerente.
Una differenza che intercorre tra la vecchia Apologetica e la nuova TF sta
proprio in questo, ovvero, mentre nella vecchia Apologetica abbiamo una
legittimazione della credibilità della fede soltanto a livello argomentativo, la nuova
impostazione della TF cerca di mettere in forte risalto nell’ambito della credibilità il
vissuto del singolo credente sotto l’aspetto della testimonianza.
R. Fisichella e S. Pié-Ninot14 presentano un modo di argomentare la fede di
carattere “sacramentale” o “semiologico”15, cioè il vissuto cristiano deve rendere

14
Pié-Ninot presenta il tema della credibilità nei termini di una “µαρτυρία (martyrìa) significativa della speranza
cristiana”, cioè di una testimonianza radicata nella speranza (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 62); invece
Fisichella, partendo dalla premessa che i segni di credibilità debbano essere inseriti, letti e interpretati nell’unico segno
di credibilità per eccellenza che è la persona di Gesù, presenta il cristiano ideale come segno di credibilità, cioè il
cristiano è colui che, oltre a saper argomentare i fondamenti e le ragioni della propria fede, nel vivere tutto questo
diventa lui stesso uno strumento di credibilità, un segno di credibilità; avviene così una sorta di “personalizzazione dei
segni” (Cfr. R. FISICHELLA, La Rivelazione: evento e credibilità, 29). Ora, secondo un nostro punto di vista, il termine
giusto per esprimere tutto questo, non dovrebbe essere segno ma simbolo. Per esempio quando noi parliamo degli stessi
sacramenti, noi diciamo “segni sacramentali”, “segni significativi della presenza di Dio”, perché attraverso i sacramenti
opera la grazia di Dio, ma in realtà dovremmo intenderli, in relazione a questa loro funzione, più come simboli che
come segni. Il segno infatti, è un qualcosa che rimanda a un qualcos’altro. Il simbolo invece, non solo rimanda a un
qualcos’altro, ma in sé rende presente ciò a cui rinvia. I sacramenti non solo rimandano alla realtà di Gesù Cristo, ma
attraverso l’azione sacramentale si rende presente Cristo stesso nell’oggi della comunità. Quindi il cristiano è chiamato
ad essere un simbolo (Ricordiamo l’espressione di san Paolo in Gal 2,20: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me”; la connotazione dei santi come alter Christus, come se la vita di Gesù fosse ripresentata all’interno della vita e del
vissuto del singolo santo). Quindi ciascuno di noi può essere un simbolo di credibilità, cioè uno strumento di cui Dio si
serve per parlare al cuore degli altri uomini e per comunicare la sua grazia agli altri. Noi quindi siamo simboli, siamo
sacramenti, cioè il nostro vissuto cristiano non solo deve richiamare l’altro a Dio, ma ad essere contemporaneamente
uno strumento attraverso il quale potrebbe passare la presenza di Dio, attraverso il quale la persona potrebbe fare
esperienza e conoscere Gesù Cristo, come del resto lo è stato per noi mediante coloro che ci hanno preceduto nella fede.
Infatti, a differenza dei discepoli, non abbiamo avuto il grande dono di fare un’esperienza diretta di Gesù, ma il nostro
modo di conoscere Gesù è sempre stato un modo mediato, trasmesso da coloro che ci hanno preceduto nella fede.
Ciascuno di noi, se guarda al proprio passato, può trovare una o più persone che lo hanno generato alla fede. Quindi se
noi oggi siamo cristiani, lo dobbiamo a tanti uomini e donne che attraverso la loro testimonianza cristiana, la loro vita di
fede, anche semplice, ma ricca dell’umanità di nostro Signore Gesù Cristo, ci hanno trasmesso la bellezza di questa
16
credibile la nostra appartenenza ecclesiale16. Pié-Ninot dice che questo modo di
argomentare la fede potrebbe andare incontro a due derive, dove in ognuna viene
assolutizzato uno dei due termini della credibilità (o parola, o gesto):

1. quella di un “intellettualismo razionale”;


2. quella del “pragmatismo vitale”.

Essi sono due modi estremi di argomentare la fede. Il primo troppo ancorato su
un’argomentazione teorica, razionale, di tipo speculativo, che si limita
esclusivamente alle parole, con uno scarso contatto con il vissuto personale e del
contesto nel quale il credente vive. Si tratta cioè di un modo di argomentare la propria
fede in maniera fredda, analitica, distaccata da un vissuto concreto con il mondo e
immersione profonda in esso. Il secondo, all’opposto, riguarda più il vissuto: quindi
c’è un assenso solo formale al dato rivelato, senza comprenderne il contenuto e senza
coglierne il valore per la vita del credente. La persona vive una pratica della fede per
abitudine o per tradizione, però senza aver compreso il contenuto della propria fede e
senza aver preso coscienza delle ragioni che la spingono a credere. Quindi, l’uno
troppo sul razionale, troppo staccato dalla vita, l’altro invece, inserito nella vita ma
senza una riflessione sulle cause, sulle motivazioni che hanno spinto la persona ad
aderire alla proposta evangelica, in altri termini, senza una presa di coscienza delle
ragioni della propria fede o di comprensione delle autentiche ragioni della fede.
La lettera di Pietro quindi ci presenta un modello di credibilità completo, ci
mostra infatti una Chiesa primitiva già capace di affrontare il problema della
credibilità della fede in maniera integrale e globale. Da questo ne consegue che la TF
ritrova nella pericope citata dalla lettera di Pietro il fondamento del proprio
approccio, un’impostazione che non è soltanto valida per il contesto attuale in cui
viviamo, ma per ogni contesto storico e culturale.

Persona. Allo stesso modo oggi noi, che siamo innamorati di Gesù Cristo, siamo chiamati, come coloro che ci hanno
preceduto, attraverso le nostre vite, a trasmettere questa fede agli altri.
15
Quando parliamo di sacramento si intende un’interconnessione tra parole e azioni, parole e vita, parole e gesti.
Quando si dice sacramentale con riferimento alla fede, si vuole alludere alla credibilità della fede basata sulla capacità
di rispondere non solo in maniera argomentativa, ma soprattutto attraverso la testimonianza di vita.
16
Pié-Ninot dice che questa testimonianza è propria di tutta la Chiesa e che è vissuta nella Chiesa. Tale è resa possibile
dall’azione dello Spirito. È lo Spirito, che agendo dentro di noi, rende credibile la nostra appartenenza a Gesù Cristo
mediante un vissuto autenticamente cristiano (Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 647-648).
17
3. Compiti e destinatari della TF

Riprendiamo l’espressione di Pietro in 1Pt 3,15 e la analizziamo parola per


parola, in modo da far emergere i compiti e i destinatari della TF. Faremo tutto
questo, prendendo spunto dal manuale di TF di J. Burggraf17.

Siate sempre pronti:


quest’espressione dice che noi dobbiamo rendere credibile la nostra fede in ogni
luogo e in ogni situazione, sempre, non soltanto in parrocchia, ma per strada,
nell’ambiente di lavoro. Cioè, ciascuno di noi, ovunque si trovi, quando si richiede,
deve dar conto della propria fede agli altri.

a rispondere:
ora, questa argomentazione e questa testimonianza della mia fede, può avvenire solo
se alla base io conosco i fondamenti della fede, altrimenti faccio passare il mio
pensiero personale per pensiero di Dio o come suo pensiero solo alcuni dei suoi
aspetti a me graditi. Quindi, questa legittimazione della fede, presuppone una
conoscenza dei “fondamenti” e delle “ragioni” della fede. È necessario dunque fare
una distinzione tra:

I FONDAMENTI DELLA FEDE che riguardano l’OGGETTO MATERIALE


DELLA FEDE – fides quae crèditur – la fede che si crede
e
LE RAGIONI DELLA FEDE che riguardano l’OGGETTO FORMALE DELLA
FEDE - fides qua crèditur – la fede per la quale si crede

L’oggetto materiale della fede mi dice in cosa io credo: ad esempio, la divinità


di Gesù, il fenomeno della transustanziazione, la maternità verginale di Maria, ecc.,
cioè l’oggetto della fede, le verità della fede, cosa la Chiesa crede e professa, il
contenuto oggettivo della fede della Chiesa. Invece, l’oggetto formale indica la
prospettiva attraverso la quale io guardo l’oggetto e che cosa mi spinge ad aderire a
quell’oggetto, quali sono in me le cause che mi portano a credere a quell’oggetto: per
esempio, da una parte c’è l’oggetto materiale della fede rappresentato dalla maternità
verginale di Maria, dall’altra ci sono le mie ragioni di fede, per le quali io non ci
credo, perché, per esempio, per me hanno peso le ragioni di carattere scientifico che
mi dicono che questa cosa in natura non sia possibile.

17
Cfr. J. BURGGRAF, Teologia fondamentale, 5-9.
18
Questa distinzione è molto importante all’interno del discernimento spirituale,
perché non sempre ciò che mi spinge a credere o che mi ha portato ad aderire, è così
autentico, pulito, e molte volte dentro di me ci possono stare della ragioni inconsce,
non buone, di cui io non ne sono nemmeno consapevole, le quali come afferma L. M.
Rulla, possono essere in dissonanza con la vocazione cristiana18. Su questo aspetto si
lavora molto a livello del discernimento vocazionale, per aiutare a vedere se le
ragioni di quella vocazione alla vita consacrata sono realmente pulite, o se c’è
qualche residuo, inconsistenza, incompatibile con detta vocazione. Questo, inoltre,
vale in generale a qualsiasi livello di discernimento di fede: per esempio non sempre
chi frequenta la parrocchia e presta ad essa un servizio è animato da intenzioni di fede
autentiche. Il compito di un buon parroco, di un buon catechista, non è soltanto quello
di comunicare in maniera corretta la dottrina cristiana, ma soprattutto di aiutare le
persone a purificare le ragioni della propria fede, affinché la propria scelta possa
essere quanto più libera, matura e responsabile.

a chiunque vi domandi:
il destinatario quindi è universale. Può essere il credente che si avvia a una
conoscenza di fede più approfondita, chi vive un’esperienza religiosa diversa dalla
nostra, il credente non praticante, il non credente o chi è indifferente a qualsiasi
esperienza di tipo religioso.

della speranza che è in voi:


saper argomentare la propria fede non deve essere una prerogativa esclusiva dei
teologi, dei consacrati o di chi vive uno specifico ministero, ma di tutti cristiani. Cioè
tutti i cristiani devono essere capaci di fare questa operazione. Da questo ne consegue
che la conoscenza dei fondamenti della fede deve essere qualcosa che dovrebbe
appartenere a tutti.

4. L’Apologetica madre della TF

Ritorniamo di nuovo all’Apologetica. Il termine “apologetica” deriva da un


altro termine “apologia”, che ha due significati: uno di carattere filosofico, l’altro più
giudiziario-forense. In senso filosofico, apologia significa giustificare le proprie
argomentazioni, far valere le proprie ragioni su una determinata questione. Invece, da
un punto di vista giudiziario, significa giustificare la propria condotta.
In senso generale, significa dare spiegazioni a chi ti chiede conto di qualcuno o
di qualcosa, difendere una propria posizione, che può essere per esempio una propria
18
Cfr. L. M. RULLA, Antropologia della vocazione cristiana, I – II – III.
19
convinzione personale su una determinata questione, oppure una scelta o uno stile di
vita o un determinato comportamento. Se difendo un mio pensiero, sto in ambito più
filosofico, se difendo una mia condotta, sto invece più in ambito giudiziario.
Partendo da questi presupposti, cerchiamo ora di rispondere alla seguente
domanda: che cos’è l’apologia cristiana? Essa è il dare ragione del contenuto della
propria fede a chi te lo chiede. Di conseguenza, l’apologetica sarebbe la scienza che
studia l’apologia della fede.
Vediamo allora qual è il contesto storico in cui è nata l’apologia cristiana come
disciplina teologica. Il contesto storico è quello dell’illuminismo, dove si dà una forte
valenza al compito della ragione nella conoscenza della verità a discapito della fede.
Per gli illuministi la verità non è una realtà che ci viene data dall’alto, dalla
Rivelazione, da Dio, o che ci viene veicolata dall’autorità ecclesiastica, ma essa è una
realtà che l’uomo da solo può trovare in virtù della propria ragione e della sola
ragione; di conseguenza, tutto ciò che non rientra nel vaglio critico della ragione e
che non può essere spiegato razionalmente, non è vero. Le stesse verità dogmatiche,
che non sono verità di ragione ma di fede, non sono vere, perché non spiegabili
attraverso l’ausilio della sola ragione. Ad esempio, da un punto di vista razionale,
come riusciamo a spiegare l’unione ipostatica delle due nature, umana e divina nella
sola persona divina del Verbo incarnato, o la maternità verginale di Maria, o la
transustanziazione, o il peccato originale, la grazia, la realtà dei sacramenti e la loro
efficacia ex opere operato, ecc.? Tutto questo, siccome non è soggetto a spiegazione
razionale, non è vero.
Perché gli illuministi giungono a questa conclusione? Tutto questo nasce da
una situazione storica ben precisa. La fede cristiana ha l’obiettivo di condurre
l’umanità alla salvezza, cioè alla felicità. Però negli anni che precedono il sorgere
dell’illuminismo l’Europa è stata segnata da tante guerre, tra cui le cosiddette guerre
di religione o guerra dei trent’anni. C’è un grande spargimento di sangue in Europa,
tra stati diversi o negli stessi stati, causato da confessioni cristiane diverse. Gli stessi
sovrani strumentalizzavano le confessioni cristiane per creare un’unità politica nei
propri territori. Affermavano gli illuministi: se la religione porta scontro, violenza,
dobbiamo costruire un altro tipo di religione che non si fonda su un’autorità
ecclesiastica ben precisa, ma che si erge invece su un qualcosa che appartiene ed è
comune all’intera umanità; le religioni sono causa e motivo di discordia e di
divisione, possiamo ricostruire la pace e l’armonia soltanto partendo da un principio
che è comune all’intera umanità: la ragione. A questo si aggiunge anche la messa in
evidenza della corruzione delle autorità ecclesiastiche: quindi come può un’autorità
dirmi ciò che è buono o ciò che non è buono quando essa stessa è corrotta?

20
In questo contesto, l’apologetica cerca di fronteggiare il nemico non
chiudendosi a riccio, ma giocando sullo stesso campo di battaglia degli illuministi,
utilizzando gli stessi strumenti dell’avversario. Se l’avversario vuole annientare la
fede attraverso l’utilizzo della ragione, la Chiesa, partendo dalla ragione, e con la
stessa ragione utilizzata dagli illuministi, cerca di dimostrare la veridicità delle
proprie posizioni e la falsità delle argomentazioni contrarie.
Per certi aspetti la Chiesa difende la propria fede, per altri invece finisce di
rimanere vittima di questo nuovo modo di argomentarla, staccandosi
inconsapevolmente dal fondamento della fede stessa o dal segno di credibilità per
eccellenza: Gesù Cristo.

5. I fondatori dell’apologetica e il trattato delle tre demonstrationes

Possiamo annoverare come padri fondatori dell’apologetica, due autori che hanno
contribuito a rendere l’apologetica una disciplina teologica vera e propria e autonoma
da altre discipline teologiche:

1. J. S. Drey (1777-1853) – Tubinga;


2. G. Perrone19 (1794-1876) – Roma.
In questo contesto, un altro teologo di rilievo è stato L. J. Hook, autore di un testo
molto importante: Religionis naturalis et revelatae principia (1754). Da questo testo
partirà lo schema base di tutti i successivi trattati di apologetica, in quanto il suo
schema di apologetica diventerà modello di riferimento per tutti i trattati di
apologetica successivi.
Lo schema si articola in tre tipi di dimostrazioni:

1. Demonstratio religiosa
2. Demonstratio christiana
3. Demonstratio catholica

Ogni dimostrazione ha dei determinati argomenti e un destinatario specifico a cui


intende rispondere.
Per la demonstratio religiosa (De religione naturali) i destinatari erano due: il
deismo e l’ateismo20. Il deismo è la religione creata dagli illuministi. Infatti essi

19
Ricordiamo Perrone non soltanto per aver dato all’apologia carattere di disciplina teologica autonoma, ma anche per
il suo contributo nella formulazione di alcuni documenti magisteriali di Pio IX, come il dogma dell’Immacolata
Concezione (1854), per il Sillabo (1864) e per il Vaticano I (1870).
20
Il teismo non è qualcosa che va contro la fede della Chiesa: il teismo riguarda Dio, come padre e come principio e
fondamento di tutte le cose, come creatore, provvidenza. Ateismo è la negazione di Dio e di tutto ciò che riguarda Dio.
21
asserivano che siccome la religione porta divisioni e conflitti tra gli uomini, bisogna
trovare un principio comune all’intera umanità, intorno al quale essi si possano
ritrovare e riconoscere, e questo principio è quello della ragione. Da questa premessa
gli illuministi fondarono una religione di tipo naturale, basata sul principio di ragione.
Il deismo quindi non nega l’esistenza di Dio, anche se questo Dio è un Dio
meccanico, principio di tutte le cose, ordinatore delle leggi del cosmo, ma che resta al
di fuori della storia dell’umanità, senza intervenire in essa. Quindi è un Dio che non
si rivela storicamente. L’unica rivelazione di Dio è nella natura, nel cosmo che ci
parla con le sue leggi e la sua armonia di questo principio e fondamento. D’altro
canto l’uomo può controllare il cosmo con l’aiuto della propria ragione conoscendo
quelle leggi che sono alla base del suo funzionamento. Tra quelli più importanti
annoveriamo B. Spinoza, E. Herbert di Cherbury, J. Toland, M. Tindal, J. A. Collins,
G. E. Lessing, H. S. Reimarus, Voltaire (F. M. Arouet), J. J. Rousseau e gli
enciclopedisti francesi.
Passiamo ora all’ateismo. I fondatori dell’ateismo vengono chiamati da P. Ricoeur
(filosofo ermeneuta) i cosiddetti “maestri del sospetto”21: L. Feuerbach, K. Marx, F.
Nietzsche, S. Freud. Per questi autori la religione è un’illusione o una forma di
alienazione. Dio è l’oggettivazione dell’infinito presente nell’essenza dell’uomo. È il
frutto di una costruzione inconscia dell’uomo, è la proiezione delle potenzialità
umane, la creazione di un uomo ideale che ci occorre per affrontare le difficoltà della
vita. Dio è l’ “oppio dei popoli”, un anestetico ai mali dell’esistenza e la religione è
una “malattia antropologica”, “una nevrosi collettiva”. L’uomo, per essere veramente
uomo, deve eliminare Dio e deve riappropriarsi di ciò che gli appartiene e vivere in
conformità e coerenza con esso: l’uomo ha proiettato fuori di se stesso, in Dio, le
potenzialità che gli appartengono e ciò che deve fare è riprendersi il suo per essere
pienamente uomo. Quindi il criterio di riferimento della vita dell’uomo non è al di
fuori di sé, ma in sé.
Nei dibattiti attuali della filosofia della religione è emerso che però nelle tesi di
questi autori c’è un qualcosa di buono che può purificare la nostra fede: questi autori
infatti hanno messo in luce un aspetto importante dell’esperienza religiosa, ovvero la
presenza in essa di determinate immaturità o patologie22: una persona può vivere
inconsapevolmente un’esperienza religiosa patologica, che invece di aiutarla a
crescere nella sua umanità, la fa regredire, e quindi all’interno di una fede vissuta
patologicamente, Dio non viene amato in sé e per sé, ma può essere
inconsapevolmente strumentalizzato dall’uomo, per colmare bisogni, vuoti e

21
Cfr. P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, 457.
22
Cfr. C. GRECO, L’esperienza religiosa, 132-134.
22
frustrazioni personali. Tra gli autori che si sono occupati dell’esperienza religiosa e
delle sue possibili patologie, annoveriamo: L. M. Rulla e G. Sovernigo23.
Passiamo ora all’oggetto da dimostrare. Gli argomenti erano questi:

- provare l’esistenza di Dio (Venivano ripresi Agostino, Anselmo e Tommaso);


- provare l’esistenza dell’anima;
- provare la necessità, l’importanza della religione ai fini della salvezza
dell’uomo.

Passiamo adesso alla seconda dimostrazione: la demonstratio christiana (De vera


religione o De religione revelata). Mentre nel primo caso i destinatari della
demonstratio erano coloro che non credevano o che credevano in un certo modo, nel
secondo sono coloro che credono in una religione diversa dalla nostra. A quei tempi,
in modo particolare, i destinatari erano i giudei e gli islamici. Il tutto rimaneva
nell’ambito del monoteismo.
Oggetto di dimostrazione, erano:

- Il “fatto” della rivelazione cristiana, cioè non si voleva tanto dimostrare che cosa
dicesse la Rivelazione, il contenuto della Rivelazione, ma accertare con prove
evidenti che la Rivelazione fosse storicamente avvenuta, che c’era stata nella
storia dell’umanità una rivelazione di Dio; quindi bisognava provare che da un
punto di vista storico la Rivelazione fosse avvenuta. Questa sarà una delle critiche
che l’attuale TF farà alla vecchia apologetica, cioè la questione che essa avesse
dato più risalto al “fatto” della Rivelazione che al suo “contenuto”.
- Dimostrare, poi la “pienezza” e la “definitività”24 della rivelazione biblica nella
persona di Gesù di Nazareth. Tutto questo veniva dimostrato attraverso le
profezie e i miracoli: le profezie nell’AT trovano conferma e compimento nel
NT; i miracoli di Gesù, poi, sono delle prove che attestano concretamente la
sua divinità e la stessa risurrezione viene considerata come il miracolo per
eccellenza e la prova suprema della sua divinità.

23
Cfr. G. SOVERNIGO, Religione e persona.
24
Pienezza della rivelazione significa che tutto quello che Dio aveva da dirci in ordine alla nostra salvezza, è stato
rivelato pienamente nella persona di Gesù. Tutto questo poi è avvenuto in maniera definitiva: cioè dopo Gesù, dopo la
morte dell’ultimo apostolo, cioè dell’ultimo testimone diretto di Gesù, non abbiamo più Rivelazione, ma abbiamo
“rivelazioni private”, cioè rivelazioni che non aggiungono niente di più di ciò che Gesù ha detto, ma vogliono essere
una ripresa e una riconferma della rivelazione cristologica. A tali rivelazioni non si deve dare quindi necessariamente un
assenso di fede, nel senso che un individuo può credere o non credere a una rivelazione privata, per esempio alle
apparizioni di Lourdes, ciò non cambia niente ai fini della salvezza.
23
Concludiamo con la demonstratio catholica (De vera Ecclesia o De Ecclesia
Christi et de fide catholica): tale era rivolta ai cristiani delle altre confessioni. Si
voleva dimostrare l’unicità della Chiesa e la sua veridicità nella chiesa cattolica:
l’unica e vera Chiesa è la chiesa cattolica. Per conseguire a tale intento si utilizzavano
tre “vie”, tre tipi di dimostrazioni:

1. la via storica o del primato;


2. la via delle note;
3. la via empirica.

Nella via storica, o via del primato del romano pontefice, si partiva dall’ultimo
papa e andando a ritroso, si risaliva fino al primo. Quindi, attraverso la successione
storica dei papi si giungeva fino a Pietro e di conseguenza a Gesù Cristo, dimostrando
che i cattolici derivassero direttamente da quell’origine.
Nella via delle note (una, santa, cattolica, apostolica), si prendeva ogni nota, cioè
ogni proprietà della Chiesa e si faceva una dimostrazione sillogistica. In genere il
sillogismo era di tipo “barbara”.
La terza e ultima via, quella empirica, guarda alla realtà storica, quotidiana della
chiesa cattolica: questa Chiesa, nonostante gli scismi, le eresie, le difficoltà, la
corruzione, la fragilità, nonostante tutto ciò vive e sopravvive, anzi si rinvigorisce
sempre di più. Ciò significa che questa è la Chiesa voluta da Gesù Cristo. Questa tesi
fu fortemente supportata al Vaticano I dal cardinale V. Deschamps.

6. Un’attualizzazione del trattato delle tre demonstrationes

Anche la teologia fondamentale continua ad occuparsi delle tre dimostrazioni,


religiosa, cristiana e cattolica, ma secondo un metodo più attuale, dato che è cambiato
il panorama culturale a cui le tre dimostrazioni fanno riferimento. Vedremo, per
esempio, che per quanto riguarda la demonstratio religiosa, oggi non c'è più soltanto
l'ateismo critico, ma un fenomeno molto più insidioso, che è quello dell'indifferenza
religiosa, cosa che all'epoca di Hook non era così imperante. Poi per quanto riguarda
la demonstratio christiana è importante sottolineare tutto lo sviluppo della teologia
delle religioni, quindi il confronto che il cristianesimo ha non soltanto con le altre
religioni monoteistiche, ma con un ventaglio di religioni molto più ampio. Poi per
quanto riguarda la demonstratio catholica, viene messo in evidenza tutto il tema del
dialogo ecumenico, gli sviluppi che ci sono a livello magisteriale sul campo
dell’ecclesiologia fondamentale a partire dalla Lumen gentium e Unitatis
redintegratio in poi.
24
Cambiando lo scenario culturale in cui la fede è chiamata a confrontarsi e ad
incarnarsi, cambia di conseguenza anche lo stile della teologia: quando ci si va a
confrontare teologicamente con queste realtà, vedremo che non c’è più un
atteggiamento di difesa o di guerra, non c’è più una Chiesa che si arrocca sulle sue
posizioni, ma ai nostri occhi compare una realtà ecclesiale che scende in dialogo, che
si interessa di conoscere la posizione dell'altro e si pone dal suo stesso punto di vista,
dichiara apertamente anche la sua posizione ed inizia ad aprire un confronto sulle
questioni comuni, cerca di trovare delle convergenze, mantenendo però un
atteggiamento di reciproco rispetto per quanto riguarda le divergenze, fino a cercare,
nel rispetto delle proprie posizioni, delle soluzioni comuni per delle finalità più
ampie.
Proprio su questa questione, è importante sottolineare l’impostazione generale
del manuale di TF di S. Pié-Ninot, il quale si articola secondo il modello classico
tripartito, però riformulato: 1. la questione della “epistemologia teologica” non viene
più sistemata alla fine del trattato, bensì all’inizio come introduttiva; 2. ciascuno dei
tre ambiti viene visualizzato a partire dalla duplice prospettiva che richiama i due
compiti della disciplina (fondazionale e apologetico); 3. presenta una rivoluzione
dell’impostazione apologetica, applicata a ciascuno dei tre ambiti, non più intesa
come un “dimostrare”, bensì, un “mostrare” la proposta di senso di ciascun ambito,
strutturata nei suoi tre assi specifici (teologico, storico, antropologico), in modo tale
che questi possano mostrare la loro “convenienza”: (monstratio: religiosa, christiana
e catholica)25. L’intento dell’autore è quello di rispondere alle tre grandi domande
teologico fondamentali: “perché esiste un’economia storica della rivelazione?”
(monstratio religiosa); “perché un Dio fatto uomo?” (monstratio christiana) e
“perché la Chiesa è sacramento universale di salvezza?” (monstratio catholica)”. La
risposta a questi tre quesiti la troviamo nel carattere soteriologico della rivelazione
stessa, ovvero il suo fine è la salvezza dell’uomo, salvezza che si presenta come la
piena divinizzazione dell’uomo (che è in realtà la sua piena umanizzazione), per
mezzo della fede in Gesù, attraverso la certezza della mediazione sacramentale della
Chiesa26.

7. La teologia manualistica e l’impostazione estrinsecista di credibilità:


apologetica dell’oggettività

L’impianto di Hook è stato quello adottato dalla cosiddetta teologia


manualistica, cioè la teologia che si utilizzava nei manuali, ed è stata quella che è
andata in voga fino quasi un po' dopo il Vaticano II, dato che con il concilio abbiamo

25
Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 69-72.
26
Cfr. ib; 266-282.
25
il rinnovamento degli studi teologici, di come dovevano essere impostati gli studi
teologici alla luce delle questioni emerse nel concilio stesso. Naturalmente, questo
non avviene in una maniera così imminente, ma ci sono voluti poi una serie di anni
per avviare un nuovo modo di argomentare la fede. Quindi fino a pochi anni dopo il
Vaticano II, si è continuato ad utilizzare ancora una teologia razionale di tipo
dimostrativo e il trattato di apologetica continuava a presentarsi attraverso queste tre
dimostrazioni. Gli autori più importanti della manualistica sono i seguenti: M.
Nicolau, I. Salaverri, T. Zapelena, A. Gardeil, R. Garrigou-Lagrange, S. Tromp.
Si partiva dunque dal Magistero. Il Magistero presentava un principio, per
provarne la veridicità, si andava a prendere un passo della Sacra Scrittura che potesse
dare sostegno a quella tesi; quindi si diceva: questo è vero perché è contenuto nella
Sacra Scrittura. Però, molte volte, il passo veniva estrapolato dal contesto
scritturistico in cui era inserito, privandolo del suo giusto senso e significato, dato
che, com'è noto, un passo della Sacra Scrittura viene compreso nel suo giusto
significato solo all'interno dell'insieme del brano scritturistico in cui è inserito. In
questo caso, si parla di un uso strumentale della Sacra Scrittura ai fini
dell'argomentazione magisteriale27. Attualmente, invece, è diverso: partendo dal
principio del Vaticano II, che dice che il Magistero non è al di sopra della Parola di
Dio, ma è servo della Parola, quindi la Sacra Scrittura non è al di sotto del Magistero,
noi abbiamo il procedimento inverso, cioè che il Magistero si pone in ascolto della
Parola da cui parte l'argomentazione magisteriale (DV 10).
Il modo di argomentare la fede da parte della manualistica viene definito di
tipo “estrinsecista”, nel senso che la “certezza della fede”, cioè quella realtà che fa
scattare l’assenso di fede, è un qualcosa previo alla fede stessa e inoltre si legittima la
credibilità della Rivelazione a partire da un qualcosa di esterno dal suo contenuto. In
questo caso rientra tutta la questione relativa ai cosiddetti preambula fidei.
A questo tipo di impostazione la riflessione teologica attuale relativa alla
credibilità, evidenzia quattro limiti:
1. un orizzonte di fondo troppo apologetico e difensivo;
2. l’assenza del ruolo centrale della persona di Gesù Cristo nel procedimento
dimostrativo;
3. carenza del fondamento biblico;
4. ci si concentra più sul fatto della Rivelazione che al suo contenuto.

27
Il più famoso dei teologi di impostazione manualistica è padre S. Tromp che presentò il primo schema della Dei
Verbum (De fontibus revelationis). Questo schema fu bocciato, perché risentiva proprio della teologia del Vaticano I,
della teologia manualistica, della vecchia scuola che presentava un modello parziale e superato di rivelazione e per
l’occasione fu chiamata una commissione di periti per preparare le bozze di nuovi schemi. In questa commissione di
periti troviamo K. Rahner, J. Ratzinger, U. Betti, Y.Congar, G. Colombo.
26
8. La nascita di un’impostazione intrinsecista di credibilità: apologetica
dell’immanenza e la sua evoluzione nella TF contemporanea

Contemporaneamente alla teologia manualistica, sorse un altro movimento


teologico di credibilità o di presentazione della credibilità della Rivelazione, che
faceva leva sulle intuizioni teologiche di due autori del passato: B. Pascal28 e F. D. E.
Schleiermacher29. Quindi, accanto allo schema tradizionale tripartito, troviamo anche
l'impostazione di alcuni teologi che dai contemporanei furono presi poco in
considerazione e addirittura screditati: uno più sul versante filosofico, M. Blondel30,
gli altri più su quello teologico, J. H. Newman31 e P. Rousselot32. All'epoca contestati
ed emarginati, nel post Vaticano II sono stati recuperati, perché ai loro tempi sono
stati dei grandi innovatori e hanno presentato un modo diverso di argomentare la
credibilità della fede, concentrando fortemente la loro attenzione non tanto
sull'aspetto razionale, intellettivo della fede, quanto invece su quello affettivo. Il
discorso di credibilità verteva più sull'affettività, sulla capacità percettiva e recettiva
del dato di fede, più sull'aspetto dell'interiorità, dell'uomo in quanto aperto all'infinito,
all'assoluto, e capace per natura di accogliere la Rivelazione.
Mentre nella scuola di stampo tradizionale gli autori erano più legati ad una
credibilità basata sull'oggetto della fede e su un approccio razionale, che, partendo da
un'affermazione dei principi di verità, si sviluppava con un'argomentazione logico-
deduttiva, questi autori davano al contrario più risalto al soggetto credente: l’uomo
che percepisce il dato rivelato, i sentimenti di reazione della persona alla trasmissione
del contenuto.
Blondel, il padre e fondatore della filosofia dell’azione, mediante
un’argomentazione di carattere puramente filosofico, giunge alla conclusione della
necessità di Dio per la vita dell’uomo, attribuendogli la qualifica di “unico
necessario”, cioè di quell’unica realtà capace di corrispondere pienamente al vuoto
esistenziale inscritto in ogni persona. Lui parla di una dialettica che è costitutiva del
dinamismo esistenziale di ogni uomo, tra una “volontà volente” e una “volontà
voluta”, dove nel primo caso si intende il mondo dei desideri e delle aspirazioni degli

28
Cfr. B. PASCAL, Pensieri.
29
Cfr. F. D. E. SCHLEIRMACHER, Discorsi sulla religione. Lo stesso Schleirmacher parla di un a priori religiosus. Nella
filosofia kantiana l’ a priori è una cosa che fa parte proprio dell'uomo, è un suo costitutivo. Egli infatti dice che l'uomo
è per natura un essere religioso, cioè religiosi non si diventa, ma si nasce, l'uomo è per natura un essere aperto
all'infinito, aperto alla trascendenza, che ricerca un senso pieno alla propria vita. Noi leggendo l'a priori religiosus da
un punto di vista teologico, diciamo invece che l'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, cioè l'uomo per natura
è stato reso capace di Dio, di conoscerlo e di amarlo: questa è una lettura teologica che noi facciamo su di un dato
filosofico e antropologico.
30
Cfr. M. BLONDEL, L’azione; ID., Lettera sull’apologetica.
31
Cfr. J. H. NEWMAN, La grammatica dell’assenso.
32
Cfr. P. ROUSSELOT, Gli occhi della fede.
27
uomini, mentre nel secondo, la concretizzazione e l’effettivo inveramento di tutto
questo. Il filosofo francese giunge alla considerazione che non sempre ciò che
desideriamo si realizza o si realizza del tutto o nei modi di come avevamo prefissato e
che pur se si verificasse una traduzione di una volontà volente in volontà voluta, c’è
sempre un senso di insoddisfazione che accompagna il cuore dell’uomo, il quale
rimane continuamente, detto nei nostri termini, con un po’ di amaro in bocca. C’è
bisogno dunque di una realtà infinità capace di spegnere questa sete di assoluto che
sia consapevolmente che inconsapevolmente accompagna tutta l’esistenza umana, e
questa realtà l’autore la riconosce nella Rivelazione.
Newman invece, su un versante prettamente teologico dice che io posso fare
una perfetta presentazione teologica dei contenuti della fede, posso presentare il
mistero della vita cristiana in maniera perfetta, ma questo non significa che io porterò
necessariamente un ateo alla fede, perché la fede non è tanto in primo luogo una
questione dell'intelletto, ma è innanzitutto una realtà del cuore, una questione
dell'affettività, del nostro modo di percepire il dato rivelato e trasmesso33. Quando
infatti parla dell'assenso di fede, egli fa la distinzione fra:
- assenso “nozionale”;
- e assenso “reale” oppure assenso “immaginativo”.
Assenso nozionale significa un assenso che interpella soltanto una dimensione
della persona, quella intellettiva, il quale è il tipo di assenso che presenta e sollecita la
vecchia manualistica e che riguarda l'impostazione dell’apologetica tradizionale e
quella propria del Vaticano I. Nell'approccio nozionale, la rivelazione è una pura
autocomunicazione delle verità di fede e la fede non è altro che un assenso razionale
a queste verità. Invece Newman afferma che il vero assenso di fede non è soltanto
nozionale, ma è una realtà più ampia, che coinvolge tutte le dimensioni della persona,
e prima di coinvolgere la sfera intellettiva, deve implicare quella affettiva, in maniera
particolare la percezione. Quando infatti parla di assenso reale, egli afferma che è un
assenso che riguarda tutta la persona, quindi l'affetto, l'intelligenza e la volontà.
Come già è stato enunciato, a questo tipo di assenso dà due nomi: “reale” o
“immaginativo”: reale nel senso che coinvolge tutte le dimensioni della persona;
immaginativo perché interpella in primo luogo l’immaginazione, rendendo reale
l’assenso in quanto tale34. La scintilla verso l’adesione di fede scaturisce in primo
luogo non tanto dall’intelligenza nei confronti del dato che viene trasmesso, ma
dall'affetto o immaginazione, dove per immaginazione in questo caso non intendiamo
la capacità di fantasticare, quanto quella di percepire e la visione del mondo, di Dio e

33
Cfr. J. H. NEWMAN, La grammatica dell’assenso, 56.
34
All’inizio, nei suoi scritti utilizzava il termine “immaginazione”, poi optò per “reale”, per non essere frainteso e per
ragioni di prudenza (Cfr. M. P. GALLAGHER, Mappe della fede, 25).
28
delle cose che la persona ha in sé. Ciascuno di noi infatti si porta dentro un proprio
modo di vedere le cose, ciascuno di noi ha, per le esperienze che ha fatto in passato e
che nel presente vive, consciamente o inconsciamente, una sua visione delle cose.
Ognuno di noi ha un proprio modo di vedere le cose, le persone, e quindi anche di
vedere Dio. Ciascuno di noi quindi, si porta dentro, involontariamente, una propria
immagine di Dio. Per esempio si può parlare a livello conscio, in base alla recezione
di una certa trasmissione odierna della fede, di un Dio misericordioso, di un Dio
padre che perdona, ma poi alla fine tante persone di fatto inconsciamente si portano
dentro l'immagine di un Dio padre punitivo, l'immagine di Dio padre padrone che
quella determinata persona se l'è costruita nell'infanzia, mediante la percezione che
essa aveva dei suoi genitori. Ci sono studi interessanti (A. M. Rizzuto)35 sulla
costruzione anche inconsapevole dell'immagine e della rappresentazione di Dio che
l'uomo ha fin dalla sua infanzia, e di come se ne serve nel corso delle diverse fasi
evolutive della sua esistenza.
Altri studi (N. Dal Molin)36 si sono occupati delle diverse immagini false di Dio
che ci portiamo dentro, di come il tratto di personalità può influenzare sulla
costituzione di questo tipo di rappresentazione. Ora l'immagine di Dio che noi ci
portiamo dentro molto spesso si scontra con l'immagine di Dio che ci viene mediata
dalla Chiesa o che a noi per esempio viene proposta durante le catechesi. Dentro di
noi molte volte avviene un conflitto tra il Dio in cui noi crediamo e che la Chiesa ci
presenta, e il Dio che invece inconsapevolmente abbiamo elaborato dentro di noi, e
così viviamo la nostra fede, per esempio nella paura e nel timore della punizione, o
nella speranza di un possibile intervento benevolo di Dio nella nostra vita.
Ritornando al discorso fatto in precedenza, quando si parla di immaginazione, si
vuole indicare il nostro modo di percepire la realtà, il nostro modo di vedere le cose,
e molte volte questa capacità percettiva nei confronti della fede è chiusa, è
indifferente, apatica, oppure ci fa vedere le cose in maniera distorta, e non ci consente
di percepire la realtà nel suo giusto senso, nella sua oggettività: l'inconscio molte
volte incide sulla nostra capacità di vedere le cose, e di conseguenza anche sulla
nostra capacità di percepire la fede e di viverla in maniera sana e corretta.
Come già è stato esplicitato in precedenza va sicuramente dato al gesuita L. M.
Rulla, attraverso l’elaborazione di un abbozzo di un’antropologia interdisciplinare
della vocazione cristiana (teologia, filosofia, psicologia), il merito di aver
approfondito l’aspetto dell’influsso dell’inconscio sulla capacità percettiva della
persona, in maniera particolare l’aver messo in luce l’esistenza di un inconscio non
patologico o di una “seconda dimensione”, la quale condiziona fortemente le capacità

35
Cfr. A- M. RIZZUTO, La nascita del Dio vivente; ID., Perché Freud ha rifiutato Dio?.
36
Cfr. N. DAL MOLIN, Verso il blu.
29
cognitive e deliberative umane, ma in maniera particolare nel nostro caso, la scelta di
fede e il suo sviluppo umano e morale.
Anche la pastorale si è interrogata sul fenomeno delle chiusure o distorsioni nei
confronti della trasmissione della fede e ha cercato di trovare nuovi modi di
presentare i suoi contenuti, non basati più soltanto sull'indottrinamento di tipo
accademico, quanto ricorrendo a forme di comunicazione che possono coinvolgere
l'immaginazione e abbiano l’intento di fare un po' di breccia nel muro di indifferenza
di tante persone destinatarie dell’annuncio. Afferma M. P. Gallagher, il quale ha
elaborato la sua teologia dell’atto di fede a partire dalle intuizione di Newman, che
prima di fare un lavoro di indottrinamento o di presentazione dei contenuti,
dovremmo fare un lavoro invece di purificazione dell'immaginazione delle persone e
della loro capacità di percepire (un po’ come nella parabola del seminatore, Mc 4, 1-
20). Il nostro compito di educatori della fede dovrebbe prima essere quello di aiutare
le persone a crearsi un terreno capace di accogliere il seme della Parola. Dobbiamo
tener conto, dice Gallagher di un altro fattore: del fatto che la cultura in cui siamo
inseriti, l’ambiente nel quale viviamo, incidono fortemente sulla capacità percettiva
delle persone: dall’ambiente e dalla cultura nella quale viviamo, ciascuno di noi
assorbe un certo sistema di valori, una determinata visione della vita e di
conseguenza un tipo di sensibilità nel percepire le cose ed elaborare le proprie
esperienze. Nel processo di trasmissione della fede, non possiamo prescindere dalla
considerazione del contesto della comunicazione in cui una persona vive, quali sono
quelle realtà che condizionano inconsapevolmente la sua capacità percettiva, per poi
trovare delle forme di comunicazione delle fede, più coinvolgenti, più vicine
all'immaginario collettivo, per esempio prendendole dal mondo del cinema, della
fiction, dell’arte, della letteratura, utilizzando quindi più le immagini e non tanto un
linguaggio concettuale, ma sull’esempio di Gesù, ricorrere a un linguaggio di tipo
metaforico, come per esempio quello delle parabole.
Nella parabola o nel racconto, l'immagine arriva a coinvolgere l'intelligenza
intuitiva della persona, prima di quella riflessiva-concettuale. In conclusione, è
necessario utilizzare delle forme comunicative vicine alle persone, più corrispondenti
all'immaginario collettivo, come strumenti per incarnare in maniera efficace il
Vangelo.
Nel processo comunicativo c’è dunque una differenza tra il “concetto” e la
“metafora”. Mentre il concetto riguarda più la ragione, l’intelligenza, quindi restringe
e incapsula la realtà di una cosa, la ingabbia, la metafora invece coinvolge più la sfera
affettiva e ci aiuta a vedere quella realtà nella sua polivalenza. Infatti, su di una stessa
cosa, io posso usare diverse metafore, magari anche divergenti tra di loro. Gallagher
sottolinea l’importanza del linguaggio metaforico in teologia, che è stato un
30
linguaggio fortemente utilizzato da Gesù (le parabole) e anche dalla Chiesa del primo
millennio, e non solo, per esempio, quanta trasmissione della fede è stata fatta
attraverso l’arte, considerata come uno dei suoi canali privilegiati. Saper utilizzare
quindi anche ciò che non è propriamente del nostro ambito, e che però appartiene al
vivere comune delle persone, come strumento per veicolare la fede, prendere dal
mondo profano qualcosa che è vicino all’immaginario collettivo, senza banalizzare,
saper rintracciare in esso il buono che c’è, perché tutto può essere utilizzato per la
trasmissione dell’Evangelo.
C’è un altro autore contemporaneo, famoso anche per le sue composizioni
musicali, che imposta tutta la questione della credibilità della fede a partire
dall’affettività: P. Sequeri. Appartiene alla cosiddetta “scuola di Milano”, i cui intenti
sono soprattutto quelli di ricategorizzare il linguaggio teologico e di risolvere la
scissione tra fede e vita.
Per quanto riguarda l’aspetto della credibilità, Sequeri parla di un affectus fidei,
cioè di un’attrazione che la Rivelazione può esercitare sul cuore dell’uomo, come
stadio iniziale della genesi della fede. Infatti dice che l’inizio della fede nasce
innanzitutto da un’affezione del cuore, da un’attrazione, da un innamoramento nei
confronti della Parola di Dio37.
C’è un altro autore molto importante che anche lui imposta tutta la questione della
credibilità sulla dimensione interiore e percettiva della persona, il canadese B.
Lonergan38. Quando Lonergan ci parla della conversione afferma che prima di esserci
una conversione morale, cioè che riguarda la decisione di vita di una persona che
sceglie di orientare la propria esistenza e i propri comportamenti in un certo modo
(Nella scelta di fede cristiana, si traduce nell’impostare la propria decisione di vita
nella persona di Gesù, quindi la persona di Gesù deve essere la norma, il criterio di
riferimento etico), detto in altri termini, propri della teologia morale, “opzione
fondamentale”, ci deve essere una conversione affettiva, una conversione del cuore,
che nasce dall’azione dello Spirito Santo nell’intimo del credente. Lo Spirito Santo
infatti fa sentire nel cuore della persona, un’attrazione verso Dio che prima non
provava. Essa inizia a sentire che Dio ha un valore per la propria vita, avverte un
innamoramento, un’attrazione verso di Lui che precedentemente non sentiva, ed è
addirittura disposta, alla luce di quest’azione dello Spirito Santo, a fare quel bene che
prima non era disposta a fare (Es. sono disposto a perdonare quella persona che prima
non ero disposto a perdonare). Ora questa conversione affettiva comporta di
conseguenza un altro tipo di conversione che si chiama conversione intellettiva. Il
fatto che Dio sia diventato un valore per la vita di una persona, automaticamente,

37
Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, 465-471.
38
Cfr. B. LONERGAN, Il metodo in teologia; ID., Insight.
31
cambia il suo modo di pensare, cambia il suo modo di vedere le cose. I criteri che
animano il suo agire non sono più gli stessi, ma quelli che hanno animato la vita di
Gesù. Il modo di pensare che anima l’agire della persona non è più legato a criteri e a
logiche mondane, ma da quelli di nostro Signore Gesù Cristo. Cambia dunque
l’orizzonte e la gerarchia dei valori, dove Gesù Cristo inizia ad acquistare un posto
preminente se non principale nell’orientamento esistenziale della persona. L’insieme
di queste tipologie di conversione, prende il nome di “conversione religiosa” o
“conversione morale nella fede in Gesù Cristo”.
Può capitare che non necessariamente si passi da uno stadio all’altro della
conversione, e che l’assenso alla rivelazione si fermi o al primo o al secondo stadio.
L’esperienza comune di chi inizia ad affacciarsi nel mondo della fede e a viverne una
pratica, ce ne dà prova.
Questo modo di argomentare la fede viene definito di tipo “intrinsecista”, nel
senso che si legittima la credibilità della fede a partire dalla fede stessa e non da un
qualcosa di esterno dal suo contenuto e poi la certezza della fede è una realtà che si
dà all’interno dello stesso evento di fede, attraverso la convergenza tra le mediazioni
simboliche della Rivelazione e il lumen fidei, che consente di riconoscere in tali realtà
mediate l’azione stessa di Dio. Un teologo importante che ha fortemente sottolineato
tutto questo è stato P. Rousselot, gesuita, autore di Gli occhi della fede.
9. Apologetica dell’esodo e dell’avvento: la proposta di B. Forte

È senz’altro importante il contributo di B. Forte39, il quale dà la nomenclatura


alle due tipologie di apologetica presentate, la prima, più ancorata all’oggetto della
fede (apologetica dell’oggettività), l’altra più sul soggetto destinatario del dato
(apologetica dell’immanenza). Dopo aver fatto una sintetica presentazione di
entrambe, il teologo napoletano ne evidenzia anche i limiti. Nel primo caso, il
concentrarsi esclusivamente su di una corretta argomentazione del dato, senza
considerarne il suo destinatario, comporterebbe ad una presentazione astratta della
fede, senza valutare il suo risvolto nella prassi, la sua significatività e valenza nella
storia e nel vissuto concreto delle persone. Nel secondo invece, pur concentrandosi
sul soggetto e sulla sua costitutiva apertura alla grazia, tuttavia risulta questa
impostazione anch’essa astratta, in quanto lo stesso soggetto destinatario
dell’annuncio, viene analizzato in maniera teorica, senza calarlo nella storia e senza
considerare quei fattori personali e ambientali che possono favorire o ostacolare la
sua capacità di accogliere la Parola.
Forte, offre una sua risoluzione alla questione, mediante una proposta sintetica
e convergente tra gli estremismi di entrambe le impostazioni apologetiche. Egli
39
Cfr. B. FORTE, La teologia come compagnia, memoria e profezia, 11-14.
32
infatti, presenta la proposta di un’apologetica dell’esodo e dell’avvento, dove la
categoria biblica di “esodo”, ci presenta la costituiva condizione di uscita della
persona umana come motore del suo divenire esistenziale, l’uomo che di continuo
esce al di fuori di sé nel suo autoprogettarsi nella vita e nella sua tensione alla
pienezza di senso della propria esistenza attraverso le scelte concrete che pone
(l’essenza è nell’esistenza), mentre quella di “avvento”, il continuo accadere della
verità di Dio e dell’uomo, nella storia concreta dell’umanità, attraverso la mediazione
della Chiesa e dei testimoni della fede.
In questo lui è molto vicino alla proposta apologetica sequeriana, dove la
credibilità della Rivelazione è il frutto della convergenza tra una libertà che si
predispone ad accogliere il dato rivelato (esodo) e la verità rivelata che si pone al
destinatario della fede (avvento)40.

10. L’Apologetica come l’anima della teologia: sfide interne ed esterne alla fede
ecclesiale

Abbiamo precisato che l’Apologetica come disciplina teologica nasce in


reazione all’Illuminismo, ma se noi andiamo a guardare la storia della Chiesa
vediamo che l’apologetica è stata sempre presente fin dagli inizi del cristianesimo.
Potremmo dire che l’apologetica è proprio l’anima della teologia e la stessa teologia
dogmatica, che riflette sui fondamenti della fede, nasce proprio dall’apologetica.
Infatti, anche gli stessi dogmi di fede, le formulazioni delle verità di fede, sorgono a
partire da un confronto, sia all’interno che all’esterno della comunità ecclesiale, con
chi la pensava diversamente al pensiero ufficiale della Chiesa su determinate
questioni. Il confronto con il diversamente pensante, ci aiutava a vedere ciò che noi
dall’interno forse non riuscivamo a vedere. Questo confronto con l’altro sia a livello
intra ecclesiale che extra ecclesiale, ha consentito alla Chiesa di acquisire una
progressiva consapevolezza di se stessa e della sua missione. La rivelazione ci
consegna un depositum fidei, che noi, all’interno della storia, siamo chiamati a
conoscere e approfondire sempre di più. Gli stessi dogmi e le stesse verità di fede
sono il frutto di un processo conoscitivo di ciò che si è: sono la conclusione di
un’evoluzione del pensiero su determinati aspetti della fede cristiana, ma
quell’evoluzione è stata possibile, perché alla base c’è stato un dibattito su quegli
aspetti che ha consentito di vedere e di approfondire maggiormente qualcosa che già
era presente in essa. Fin dal principio, ad un certo punto, nelle diverse fasi della sua
evoluzione storica, la Chiesa ha ritenuto opportuno dover fissare determinati dogmi,
40
Cfr. P. SEQUERI, Il Dio affidabile, 390-391.
33
precisare determinate verità di fede come fondamento e orientamento della sua vita e
questa elaborazione è avvenuta a partire da un confronto con gli altri, sia a livello
interno, che esterno.
Ora, a livello interno, per esempio, abbiamo le eresie, gli scismi, i movimenti
di riforma intraecclesiali, cioè che emergono in armonia con l’autorità magisteriale.
Per quanto riguarda invece le sfide di carattere esterno, abbiamo per esempio
tutto lo sviluppo nel XVI sec. del metodo empirico delle scienze naturali, la nascita
delle scienze empiriche che mettono in risalto un nuovo modo di concepire la
scienza, oppure la nascita di dottrine filosofiche contrarie alla dottrina della Chiesa: il
deismo, l’ateismo, il panteismo, l’idealismo, il razionalismo, il kantismo, il
positivismo, l’evoluzionismo, ecc. Mentre precedentemente abbiamo questi due
colossi, da una parte san Tommaso, che ricategorizza il sapere teologico con
categorie aristoteliche e dall’altra parte san Bonaventura che ricategorizza tutta la
teologia con le categorie platoniche, ad un certo punto iniziano a sorgere altri sistemi
di pensiero che vanno a screditare il fondamento delle verità di fede: si nega
l’esistenza di Dio, o si ritiene che Dio sia una realtà presente nella natura. In
riferimento a quest’ultima questione si ha una sorta di coincidenza tra Dio e il mondo
e nel momento in cui il soggetto conosce il mondo, conosce anche Dio e quelle leggi
che sono alla base dell’armonia del cosmo. L’uomo può essere il padrone del mondo,
il suo creatore e manipolatore nel momento in cui conosce quelle leggi che sono alla
base del suo funzionamento. Quindi l’apologetica è stata ed è tutt’ora l’anima di tutta
la teologia, dal momento che la teologia approfondisce maggiormente il suo
contenuto a partire dalle sfide presenti nella storia e dalle diverse epoche in cui la
Chiesa vive ed è chiamata a confrontarsi.
R. Latourelle, per indicare maggiormente lo specifico della TF e la non sua
identificazione con la dogmatica, fa questa distinzione: mentre la TF studia il mistero
in generale, la teologia dogmatica studia invece i singoli misteri della fede; inoltre
mentre la dogmatica studia esclusivamente i fondamenti della fede, la TF studia
l’aspetto della credibilità come oggetto principale del proprio ambito teologico:
dogmaticamente del mistero e apologeticamente dell’evento. In poche parole la TF,
oltre ai contenuti della fede, mira ad un approfondimento relativo ai loci theologici,
ovvero, ai contenitori dove possiamo rintracciare i fondamenti della fede, per poi
legittimarne la credibilità41.
Con la categoria di “mistero” in teologia si vuole intendere qualcosa che è
conoscibile, ma che non potrà mai essere conosciuto del tutto: per questo la fede da
un punto di vista conoscitivo è una realtà inesaustiva: non riusciremo mai a conoscere

41
Cfr. R. LATOURELLE, «Nuova immagine della fondamentale», in ID. – G. O’COLLINS (edd.), Problemi e prospettive di
teologia fondamentale, 79-84.
34
totalmente il mistero di Dio; la stessa ragione si muove all’interno dell’orizzonte
della fede e la fede è il terreno all’interno del quale la ragione si muove per conoscere
il mistero in essa racchiuso. Anche nell’aldilà la nostra conoscenza di Dio non sarà
mai piena; pur essendo una conoscenza data dalla visione, cioè senza più il velo della
fede, essa rimane sempre infinita, mai totalmente catturabile, ed è inscritta nell’amore
infinito di Dio42. Anche con la visione di Dio, il nostro rapporto con Lui sarà sempre
un rapporto asimmetrico, ovvero tra la creatura, finita, e il Creatore, infinito, in una
relazione di amore infinito, che la creatura non potrà mai comprendere, afferrare e
possedere completamente. Al contrario, in questa relazione di amore infinito saremo
noi, come creature, ad essere completamente possedute dall’oggetto del nostro amore.
La conoscenza di Dio che io posso avere qui sulla terra è una conoscenza
acquisita dalla fede in Lui e in essa è sempre presente l’oscurità, nel senso che,
siccome io non ho un’esperienza diretta dell’oggetto di fede, la mia conoscenza è una
conoscenza mediata e non diretta come quella che potrò avere invece con la visione
nell’aldilà. Inoltre si tratta di una conoscenza di tipo esperienziale, in cui l’intelletto
non viene escluso nel procedimento conoscitivo, ma subentra in un secondo
momento, come riflessione critica dell’esperienza che il soggetto conoscente fa
dell’oggetto mediato, e vedremo che questo oggetto di fede viene mediato sempre
simbolicamente. In poche parole, la conoscenza di fede non è una conoscenza
razionale-deduttiva, ne tanto meno empirico-induttiva, ma è una conoscenza di tipo
“simbolico”, che coinvolge in primo luogo l’intelligenza intuitiva, a cui segue, dopo,
un altro tipo di intelligenza, razionale e riflessiva, cioè l’oggetto della fede mi è
mediato simbolicamente, e il simbolo non è soltanto ciò che mi rinvia all’oggetto, ma
anche ciò che mi rende realmente presente l’oggetto della mia fede. Un importante
esempio di mediazione simbolica nella trasmissione del dato della fede, è la prassi
liturgica, i simboli liturgici, la celebrazione eucaristica, dove i credenti in Cristo,
fanno esperienza del Signore che si rende presente attraverso la mediazione simbolica
della Parola, che viene proclamata e spiegata, e poi attraverso la mediazione
simbolica per eccellenza che è l’eucaristia, dove il significato e il significante
coincidono nella sessa mediazione simbolica (il pane e il vino consacrato sono
realmente il corpo e il sangue di Gesù).
Ritornando al discorso fatto in precedenza, le diverse condizioni storiche hanno
posto e continuamente pongono alla Chiesa stimoli e sfide che la inducono a rivedere
criticamente ciò che essa è nel mondo e la sua comprensione del deposito della fede
che ha ricevuto.

42
Cfr. D. HERCSIK, Elementi di teologia fondamentale, 35; C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 243-244.
35
11. Temi della TF in Vaticano II

Abbiamo già avuto modo di dire che nel CEVII la TF non viene proprio
menzionata come disciplina teologica. Nonostante ciò, nel concilio compaiono già
molti temi che questa disciplina in seguito svilupperà. Essi sono:
1. la rivelazione;
2. la centralità assoluta di Gesù Cristo nell’economia della rivelazione;
3. la personalizzazione dei segni di credibilità nella persona di Gesù;
4. tutto l’aspetto della ricerca del senso dell’uomo (l’uomo che si pone domande
sul senso dell’esistenza);
5. il dialogo della Chiesa con il mondo.

Focalizziamo brevemente la nostra attenzione su uno dei punti menzionati, in


quanto rientra fortemente nella questione che stiamo trattando, ovvero la credibilità:
la “personalizzazione dei segni di credibilità nella persona di Gesù”. Mentre con la
vecchia apologetica si parlava di segni di credibilità, cioè di prove che attestavano la
credibilità della fede cristiana, con la nuova TF non si va tanto a guardare a queste
prove esterne (cioè io prima ho le prove e poi credo), ma si va più in profondità, alla
persona di Gesù Cristo come “segno di credibilità per eccellenza”.
Ora, nella prassi di Gesù, noi sappiamo che l’oggetto principale sul quale verteva
tutto il suo ministro pubblico era la categoria “Regno di Dio”, in poche parole tutto il
ministero pubblico di Gesù si strutturava intorno a questa specifica categoria
teologica, fino ad esserci in lui una piena identificazione tra le i valori del Regno e il
suo stile di vita. Gesù nella sua persona non solo rende presente ma inaugura il Regno
di Dio. Per Regno di Dio intendiamo la potenza salvifica del Padre, che in Gesù si
rende totalmente manifesta e che si attiva nella sua persona. Questo Regno, non è un
regno politico, ma è una realtà trascendente che agisce nella storia dell’umanità per
migliorarla in positivo: è un regno di liberazione dai mali della società. La stessa crisi
di fede dei discepoli nasce da un’idea distorta del Regno e del messia atteso, un
messia politico, che li avrebbe liberati dalla schiavitù e dall’oppressione romana.
Gesù invece propone un regno di giustizia e di pace che avrebbe potuto cambiare le
sorti dell’umanità attraverso un atteggiamento di vita e un modo di ragionare diverso.
Lo storia poi ci attesta che alla fine lo stesso impero romano si sgretolerà a partire
dalla logica cristiana che prenderà progressivamente il sopravvento nell’agire
personale e comunitario dell’impero43.
Ora, questo Regno si rendeva presente nella vita di Gesù attraverso la sua
predicazione (ad esempio nelle parabole) e attraverso i segni. Nella predicazione
43
Cfr. P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell’Impero romano.
36
troviamo l’aspetto della Rivelazione nella mediazione della “parola”, nei segni
invece, l’aspetto della Rivelazione nella mediazione della “storia”. I segni poi si
dividono in due categorie: i segni di potenza e i segni di misericordia.
Nei segni di potenza entrano i miracoli, e nei segni di misericordia da parte di
Gesù, la remissione dei peccati, la chiamata dei discepoli, la predilezione degli ultimi.
Questi segni sono l’attestazione che il Regno di Dio è venuto in Gesù, come
liberazione dalla malattia fisica, ma anche come liberazione dalla malattia del
peccato: il regno di Dio è un regno di liberazione e il fatto che Gesù libera viene
attestato da questi segni. A volte troviamo una sorta di sovrapposizione tra i segni di
potenza e i segni di misericordia, quando una persona affetta da una malattia fisica è
guarita e liberata dal peccato. Gli evangelisti infatti, utilizzano in certi casi
l’immagine della malattia per parlarci simbolicamente di alcuni aspetti del peccato, in
poche parole, la stessa malattia fisica diventa simbolica di un male interiore come
effetto del peccato44.
Personalizzazione dei segni dunque significa che queste realtà, o meglio i
miracoli, non sono trattati separatamente da Gesù, nella vecchia apologetica invece,
venivano trattati in questo modo, per attestare il “fatto” della Rivelazione, cioè per
attestare che la Rivelazione fosse avvenuta storicamente. Nella nuova TF i segni
vengono inseriti nella persona di Gesù, dove Gesù è il segno di credibilità per
eccellenza e non devono attestare tanto il fatto, quanto il “contenuto”, il messaggio
della Rivelazione. Quindi con la nuova TF non si va esclusivamente al fatto, ma si
verte più al messaggio e al contenuto della Rivelazione e a Cristo come segno di
credibilità per eccellenza: i segni di credibilità non sono trattati a prescindere da
Cristo, ma inseriti nella persona di Gesù, come attestazione che il Regno di Dio si
rende presente nella sua persona.
Va precisato che nella manualistica e nel Vaticano I, dove il miracolo veniva
presentato come attestazione del fatto della rivelazione, lo stesso miracolo in sé non
veniva visto come garanzia assoluta di un assenso di fede, ma come un preambolo
della fede: cioè, il miracolo non genera la fede sic et simpliciter, ma può predisporre a
credere, perché il motivo fondante della fede è posto nella grazia, nel lumen fidei che
muove la mente e il cuore a riconoscere in quel segno, l’avvento di Dio nella storia.
Tutto questo avviene per opera degli occhi della fede che ci consentono di
riconoscere determinati eventi, come segni rivelativi della presenza di Dio, dal
momento che, da un punto di vista scientifico potremmo solo dire che per adesso la
scienza non riesce a dimostrare questo fenomeno straordinario perché non ha ancora
tutti gli strumenti e le conoscenze per dimostrarlo e spiegarlo, forse, con l’evoluzione

44
Cfr. Mc 2, 1-12 (Guarigione del paralitico); Mt 8, 1-4 (Guarigione del lebbroso); Gv 9,1-12 (Guarigione di un uomo
cieco dalla nascita).
37
della conoscenza scientifica, un giorno anche quel fenomeno potrà essere spiegato.
D’altra parte va anche precisato, che sul versante della teologia del miracolo, questi,
non viene più compreso come stravolgimento delle leggi naturali, bensì come un loro
potenziamento45.

12. Una disciplina che fa fatica a definirsi nel post Vaticano II

Negli anni successivi al Vaticano II, l’apologetica è quasi totalmente estinta, ma la


nuova TF non riesce ancora del tutto a definirsi. Abbiamo in quegli anni tre tendenze,
che la nuova TF intraprende per cercare una sua nuova definizione:
1. frammentarietà;
2. allargamento;
3. fluidità.

Frammentarietà

C’è a proposito un contributo di R. Latourelle che presenta molto bene questa


questione, Smembramento e rinnovamento della Teologia Fondamentale46. Secondo
l’autore, alcuni argomenti di questa disciplina vengono trattati da altre discipline
teologiche, e questo fenomeno è tuttora presente. Per esempio, la divinità di Cristo
viene trattata nella cristologia, la storicità dei Vangeli dall’esegesi biblica, il dialogo
con l’ateismo e le altre religioni nella filosofia della religione e nella storia della
religione, la Tradizione e il Magistero nell’introduzione alla teologia, l’Ispirazione e
il canone della Sacra Scrittura nell’introduzione alla Sacra Scrittura, la stessa
Rivelazione veniva studiata nella dogmatica, il tema dei segni nella teologia del
miracolo, quello della fede nel trattato sulle virtù teologali, e infine i temi di
ecclesiologia fondamentale nell’ecclesiologia dogmatica.

Allargamento

Si tratta di una tendenza che potremmo dire contraria alla precedente: la TF inizia
ad interessarsi di cose di cui non dovrebbe interessarsi, che non sono oggetto del suo
ambito: filosofia, sociologia, psicologia, politica, fenomenologia della religione, ecc.
La TF con queste discipline, più che un confronto, inizia essa stessa a trattare i loro
argomenti.

45
Cfr. C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 353-357.
46
Cfr. R. LATOURELLE, «Smembramento o rinnovamento della teologia fondamentale?», in Concilium 6 (1969) 48-60.
38
Fluidità o Ameba

In questo caso la TF non aveva una sua compattezza identitaria, ma prendeva


forma in base alla disciplina con la quale entrava in dialogo.

L’apologetica quindi dopo il Vaticano II, da una parte, si vede smembrata in tante
parti che confluiscono in altre discipline teologiche, che se ne appropriano, dall’altra,
nello sforzo di rinnovamento dei suoi contenuti e dei suoi metodi e modelli, a sua
volta, comincia ad appropriarsi di argomenti propri di altre scienze, non riuscendo in
tal modo a definire un suo statuto epistemologico, assumendo di conseguenza un
carattere di continua fluidità.

13. Modelli teologici di giustificazione della fede nel post Vaticano II

Nonostante questi pericoli che stavano comportando alla scomparsa di questa


disciplina teologica, dopo pochi anni, sorgono alcuni orientamenti di delineazione,
ognuno, presentando un modo diverso di giustificazione della fede. Grosso modo,
siamo riusciti ad evidenziarne 6.
1. Continuità con l’apologetica classica. Viene ripreso di nuovo il trattato sulle tre
dimostrazioni. Tale orientamento vede la TF come previa alla dogmatica,
l’autore principale di questa impostazione è A. Beni47.
2. TF come teologia dogmatica della Rivelazione. Questa tendenza orienta la TF
maggiormente sugli aspetti dei fondamenti. Il suo grande esponente è R.
Latourelle con il suo famoso testo Teologia della Rivelazione: Mistero
dell’epifania di Dio48. L’autore infatti, in base alle sollecitazioni del
rinnovamento degli studi teologici, sviluppa il tema della Rivelazione da una
quadruplice prospettiva: biblica, storico-teologica, magisteriale, sistematica;
successivamente, egli svilupperà in modo esteso in altre opere anche tutta la
questione della credibilità.
3. TF come apologetica dell’immanenza. Come già abbiamo avuto modo di
constatare, questo orientamento non verte tanto sull’oggetto della fede, quanto
sul soggetto, sulle sue predisposizioni al dato di fede, l’uomo come aperto alla
trascendenza e all’assoluto. Si prendono come autori di riferimento Blondel,
Rousselot e Newman. Massimo esponente di questa corrente è H. Bouillard49.

47
Cfr. A. BENI, Teologia fondamentale.
48
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione: Mistero dell’epifania di Dio.
49
Cfr. H. BOUILLARD, Blondel e il cristianesimo; ID., La logica della fede.
39
4. TF come teologia formale. In questo orientamento c’è uno scopo prettamente
epistemologico, ovvero, quello di fornire l’identità all’intera teologia, ciò che
legittima la sua scientificità, una specie di introduzione alla teologia, atta a
fornire i principi base di tutto il sapere teologico. Il massimo esponente di
questa tendenza è J. Ratzinger50.
5. TF come analisi dell’uomo uditore della Parola. Per certi aspetti con questo
orientamento viene ripresa un po’ l’apologetica dell’ immanenza, ampliandola
di ulteriori cognizioni. Non si parte prima dal dato teologico, ma dall’uomo in
quanto per natura aperto all’infinito: l’essere umano in ogni suo comprendere,
decidere ed agire è sia atematicamente che tematicamente in continua tensione
verso Dio e la Rivelazione è quella realtà capace di rispondere e di
corrispondere autenticamente a tale tensione. I massimi esponenti di questo
orientamento sono K. Rahner51 e J. Alfaro52, il primo ricategorizza il pensiero
teologico con categorie kantiane, il secondo con quelle personalistiche.
6. TF come teologia pratica o teologia del mondo. Questo caso sottolinea di più
l’aspetto della prassi cristiana. È una credibilità che si basa molto sull’efficacia
pratica dell’agire cristiano. Quindi la fede è credibile nel momento in cui
diventa prassi di liberazione dai mali del mondo: è una credibilità basata più
sull’aspetto pratico che su quello argomentativo. Tra gli autori più importanti
ricordiamo sul versante cattolico J. B. Metz53, fondatore della teologia politica,
mentre su quello protestante, J. Moltmann54, fondatore della teologia della
speranza.

14. Le teologie del XX sec.

Abbiamo finora parlato di diversi orientamenti della teologia o modi alternativi


di parlare del mistero cristiano. Infatti, prima del Vaticano II avevamo un solo
modello di teologia, la “teologia scolastica”, che si presentava come l’unico modello
di teologia ufficiale riconosciuto dall’autorità ecclesiastica, anche se a cavallo tra il
XIX e il XX sec. iniziano a fiorire nuovi orientamenti teologici, scarsamente presi in
considerazione e rivalutati solo successivamente.
Già prima del Vaticano II molti teologi avevano elaborato un nuovo modo di
fare teologia, più contestuale: cioè una teologia che rispondeva al contesto storico e
culturale in cui la fede era chiamata ad incarnarsi. La scolastica era vista come una
50
Cfr. J. RATZINGER, Theologische Prinzipienlehre.
51
Cfr. K. RAHNER, Uditori della Parola; ID., Corso fondamentale sulla fede.
52
Cfr. J. ALFARO, Dal problema dell’uomo al problema di Dio. ID., Rivelazione cristiana, fede e teologia.
53
Cfr. J. B. METZ, La fede nella storia e nella società; ID., Comprensione del mondo nella fede: Id., Sulla teologia del
mondo.
54
Cfr. J. MOLTMANN, Teologia della speranza; ID., Il Dio crocifisso.
40
teologia fredda, che chiudeva la Chiesa in se stessa, e che non si poneva in una
relazione simpatetica con il mondo: una teologia non più rispondente ai tempi che
erano cambiati e che stavano cambiando sempre più velocemente. E così, già negli
anni che precedono il Vaticano II, cominciano a fiorire nuove teologie che si
connotano per lo sforzo di contestualizzare la fede in un mondo che è cambiato55.
Ogni autore - filone accentua un aspetto particolare del mistero cristiano, o una
problematica specifica cui il cristiano deve rispondere. Per esempio la teologia
estetica, sottolinea molto l’aspetto della Rivelazione intesa come manifestazione della
gloria di Dio (H. U. von Balthasar); la teologia trascendentale di Rahner, che al
contrario si muove invece dal soggetto, dalla sua capacità di aprirsi alla Rivelazione;
poi abbiamo la teologia politica di Metz, che ha l’intento di cambiare in positivo la
società, soprattutto quelle attanagliate da mali consistenti; poi abbiamo le teologie
della liberazione, che si svilupperanno in America Latina, le quali si presenteranno
come la traduzione e l’attualizzazione pratica della teologia politica di Metz (G.
Gutiérrez, J. Sobrino, L. Boff, J. L. Segundo); segue la teologia della storia, di W.
Pannenberg, che sottolinea molto l’aspetto della storia della salvezza, che la
Rivelazione avviene nella storia dell’umanità rendendo alcuni eventi storici salvifici,
e infine tante altre: la teologia liberale (A. von Harnack, H. Troeltsch), la teologia
dialettica (K. Barth), la teologia ermeneutica (E. Fuchs, G. Ebeling), la teologia
esistenziale (R. Bultmann), la teologia della speranza (J. Moltmann), la teologia
ecumenica (H. Küng), la teologia delle religioni (P. Knitter, J. Dupuis, J. Hick, R.
Panikkar, S. Samartha), la teologia della secolarizzazione (F. Gogarten), la teologia
nera (J. Washington), la teologia del terzo mondo (teologia africana, teologia
asiatica), la teologia femminista (E. Cady Stanton, L. Russell, M. Daly, ecc.), la
teologia della cultura (P. Tillich, R. Guardini). Molte di esse, sono un modo cristiano
di rispondere ad alcune questioni di cui si sono interessati anche i movimenti del 68.

15. Documenti magisteriali in cui compare per la prima volta la TF

A livello magisteriale, la TF compare come disciplina teologica vera e propria nel


1979, con la costituzione apostolica Sapientia Christiana, che riguarda
l’insegnamento della teologia nelle facoltà teologiche e nelle università
ecclesiastiche. In questo documento magisteriale, quando si parla della TF e le si
vuole dare una definizione, si dice che essa ha come scopo quello di entrare in
dialogo con tre realtà:
1. l’ateismo
2. l’ecumenismo
55
Per una maggior comprensione del tema si veda: R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo.
41
3. il pluralismo religioso
Questa triplice strutturazione richiama alle tre dimostrazioni di Hook.
Ricompare di nuovo nel 1998, nell’enciclica Fides et Ratio. È un’enciclica
importantissima, che tratta del rapporto tra fede e ragione. Al numero 67 viene
illustrata l’identità della TF su tre punti. La TF:
1. deve rendere ragione della fede;
2. giustificare ed esplicitare la relazione tra fede e riflessione filosofica;
3. deve studiare la Rivelazione e la sua credibilità con il corrispondente atto di
fede.

16. Lo statuto epistemologico della TF

Attualmente la TF manca di uno statuto epistemologico ben definito. Lo statuto


epistemologico è ciò che definisce l’identità di una disciplina, in questo caso,
teologica: cioè l’oggetto di studio (che cosa si prefigge di conoscere la TF come
disciplina teologica), la sua finalità e il metodo di indagine.
Abbiamo già constatato per esempio, che per quanto riguarda l’oggetto di
indagine, non c’è un’uniformità nei 6 orientamenti della TF. Attualmente, in
riferimento, allo statuto epistemologico della TF, troviamo due orientamenti che
vengono rappresentati da due scuole di pensiero:
1. la scuola tedesca;
2. la scuola romana o gregoriana PUG (Pontificia Università Gregoriana).
La scuola tedesca afferma che la TF è “teologia dei fondamenti della fede”.
Fondamento della fede è la Rivelazione e i luoghi teologici della sua conoscenza sono
la Sacra Scrittura e la Tradizione. Tale scuola a sua volta si suddivide in due
diramazioni:
a. scuola di Tubinga, cha ha come massimi esponenti: W. Kern, M. Seckler,
H. J. Pottmeyer, che sono stati i curatori dell’opera in 4 volumi, Corso di
teologia fondamentale, la quale è più incentrata sull’aspetto della “verità”;
b. scuola di Friburgo, che ha come rappresentante principale H. Verweyen (La
Parola definitiva di Dio), che è più incentrata sul “senso”56.
Mentre la prima scuola tratta più l’aspetto della razionalità della fede, ovvero
dei contenuti della fede, con la scuola di Friburgo la TF si orienta maggiormente
sull’aspetto del senso, della verità intesa come verità di senso, come verità non solo
conosciuta razionalmente, ma nella sua portata salvifica: i contenuti della Rivelazione
non sono un qualcosa di astratto, distaccati dal nostro vivere, ma sono in primo luogo
delle realtà che rispondono alle domande di senso presenti in ogni persona.
56
Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale, 35-37.
42
Le verità di fede infatti, non sono esclusivamente delle verità astratte, ma in
primo luogo, delle verità salvifiche, cioè se il Signore si è comunicato, lo ha fatto
affinché ciascuna persona, a partire dalla conoscenza di Lui, possa salvarsi. La
salvezza è la vita eterna, ma questa vita, non è in primo luogo o esclusivamente un
qualcosa che ci attenderà dopo la morte, bensì una realtà del nostro oggi, del nostro
presente: noi già da adesso possiamo accedere alla vita eterna, mediante la fede e alla
nostra adesione alla persona di Gesù Cristo57.
Fatte queste premesse, proseguiamo nel dire che quando il discorso sulla
credibilità si muove molto sull’aspetto del senso, si ha una concezione “significativa
di credibilità”. In questo modello di giustificazione della fede, la Rivelazione
risponde alle domande fondamentali di senso della vita, in parole povere, nel
momento in cui la Rivelazione risponde alle domande relative al senso della vita,
della morte, del male, del futuro, tale diventa credibile. Concludendo, questa
impostazione dunque, non si limita ad un’argomentazione razionale del dato, ma
anche sul valore che quel dato può avere per il bene oggettivo della persona.
Poi abbiamo la scuola romano-gregoriana, che ha avuto come iniziatori R.
Latourelle, G. O’Collins, J Wicks, J. Alfaro, R. Fisichella, e i suoi continuatori in S.
Piè-Ninot, M. P. Gallagher, C. Dotolo, C. Aparicio Walls, ecc.
Questa corrente della TF, afferma che la TF è teologia della credibilità della
Rivelazione. Quindi, mentre nella scuola tedesca, si parla di una teologia dei
fondamenti della fede, qui invece di una teologia della credibilità, la quale non
esclude un discorso previo relativo ai fondamenti. Ora i due compiti fondamentali
della TF, quello legato ai fondamenti e quello legato alla credibilità, sono
strettamente congiunti e si richiamano l’uno all’altro, nel senso che io non posso
rendere credibile un dato se prima non lo conosco, infatti, non posso rispondere
apologeticamente sulle ragioni della fede, se prima non conosco il fondamento della
fede. Contemporaneamente, quando io mi vado a confrontare con l’altro che mi
chiede le ragioni della mia fede, automaticamente il confronto mi spinge poi ad una
conoscenza più approfondita del fondamento. C’è dunque un rapporto circolare tra
credibilità e fondamento. Noi seguiremo quest’ultimo orientamento, il quale, anche se
con determinazioni diverse è quello più imperante nel panorama italiano.

57
Nel vangelo di Giovanni troviamo questa distinzione tra la vita come bios (vita in senso fisico) e vita come zoe (vita
intesa come vita eterna). Già su questa terra io posso essere inserito nella vita di Dio e di conseguenza sperimentare in
maniera anticipata quei benefici di salvezza di cui un giorno potrei godere totalmente nell’aldilà.
43
17. Razionalità e ragionevolezza della fede

Per quanto riguarda il discorso sulla credibilità, in TF troviamo questa distinzione


tra razionalità della fede (o razionalità della Rivelazione) e ragionevolezza della fede
(o ragionevolezza della Rivelazione).
Razionalità e ragionevolezza sono due realtà presenti nella TF, in maniera
specifica nella questione relativa alla dinamica dell’atto di fede, ma a volte c’è il
rischio di identificarle. Non sono due modi di dire la stessa cosa, sono realtà tra di
loro differenti, anche se strettamente compresenti per quanto riguarda tutto l’aspetto
della credibilità, cioè quando il dato di fede è reso credibile al recettore per essere da
questi accolto.
Razionale: si parte dai sensi per percepire il dato, per poi comprenderlo con
l’intelletto al fine di dare in seguito un giudizio su di esso per certificarne la
veridicità. Quindi razionale è tutto ciò che riguarda la logica, la conoscenza oggettiva
del dato. Di conseguenza, quando noi parliamo di razionalità della Rivelazione e
della fede, si indica la conoscenza razionale del dato di fede, dei suoi principi e la
loro presentazione sistematica.
La ragionevolezza della fede poggia sulla razionalità e vuole indicare la
capacità di convincere l’altro ad aderire alle proprie posizioni, cioè non solo saper
argomentare il discorso, non solo saper spiegare bene i principi, ma anche fare in
modo che l’argomentazione possa convincere il recettore.
La ragionevolezza impegna una facoltà in più nel recettore: non soltanto
l’aspetto dell’intelligenza, ma soprattutto quello della volontà, dell’agire, la prassi in
rapporto all’opportunità e alla convenienza di quel dato. La ragionevolezza implica
l’aspetto delle valutazioni che il soggetto fa in ordine alla decisione da farsi su di una
determinata cosa, avendo già accertata la razionalità di quell’agire. Si attiene al
convincimento e all’opportunità di un agire già valutato razionalmente, al momento
della decisione, al modo con il quale il soggetto decide se fare oppure no una
determinata cosa che ha già valutato razionalmente. Detto in altri termini, riguarda il
momento successivo alla valutazione della razionalità dell’agire, quando devo
decidere se quell’agire, già valutato razionalmente, è un agire buono-conveniente
oppure no per me. Possiamo fare questa associazione:

razionalità verità

ragionevolezza bontà
44
Quindi la credibilità non è soltanto un fatto di un’argomentazione logica, ma va
a richiamare un altro aspetto dell’esistenza umana, che è l’assiologia, il valore
oggettivo o soggettivo di una determinata realtà o situazione, il senso di ciò che mi
viene proposto: ciò che mi viene proposto è credibile per me nella misura in cui
risponde alle mie domande o attese di senso. Nella ragionevolezza può esserci un
qualcosa di più ampio rispetto al razionale che non va a coinvolgere nel recettore
esclusivamente la sfera razionale, ma anche e in primo luogo quella affettivo –
percettiva.
Per comprendere bene questa questione è opportuno porre una distinzione tra
valore oggettivo e soggettivo di una determinata realtà, cosa, persona, situazione. Per
valore oggettivo soliamo indicare il valore in sé di una cosa, ovvero il valore
oggettivo che quell’oggetto ha in se stesso, mentre per valore soggettivo, il valore per
la singola persona, cioè il valore che la persona attribuisce a quella determinata cosa.
Ora non sempre il valore in sé corrisponde al valore per sé, non sempre il valore che
una persona attribuisce ad un ente corrisponde al valore costitutivo di quell’ente. Il
valore per sé di una realtà è legato al vissuto e alla storia del singolo, in maniera
particolare, alla sua memoria cerebrale e a quella affettiva, dove nel primo caso
intendiamo la sede del sapere della persona, i criteri alla base del suo
autodeterminarsi, nel secondo invece il rimosso nella persona che molte volte in
maniera inconsapevole può incidere sul suo modo di percepire, le sue scelte, i suoi
comportamenti.
Il ragionevole dunque rientra nel valore per sé, cioè nel valore soggettivo di
una determinata realtà e richiama al grado di significatività che quella determinata
realtà riveste per la vita di una persona. Partendo da queste premesse, possiamo
dedurre nell’ambito specifico di cui noi stiamo trattando, che nel caso della
Rivelazione e di una sua possibile accoglienza, si potrebbe verificare una razionalità
del dato rivelato, ma non una sua ragionevolezza, in base ai criteri intellettivi e
affettivi del recettore che sono alla base delle proprie valutazioni.

45
PARTE PRIMA

LA RIVELAZIONE E LA SUA TRASMISSIONE


NELLA CHIESA

46
47
CAPITOLO I

FORME ED ECONOMIA DELLA RIVELAZIONE

Passiamo ora alla prima parte del nostro itinerario di ricerca. Cominciamo nel
presentare l’essenza della Rivelazione. Parlare dell’essenza della Rivelazione
significa comprendere che cosa sia la Rivelazione. Con essenza vogliamo riferirci
alle peculiarità, alle caratteristiche principali della Rivelazione in quanto tale,
vogliamo cioè individuare quegli elementi che dicono lo specifico della Rivelazione.

1. Definizione di Rivelazione

La Rivelazione è innanzitutto l’autocomunicazione che Dio fa di sé all’uomo.


Dio desidera entrare in relazione con l’uomo. E questo desiderio si esplicita nel fatto
che Dio nel rivelarsi comunica Se stesso. D’altra parte l’uomo è capace per natura di
accogliere questa autocomunicazione di Dio e risponde a tutto questo mediante la
fede. La fede quindi è la risposta che l’uomo dà al desiderio di Dio di relazionarsi con
lui. Essa non è esclusivamente un evento puntuale ma è una relazione costante che
intercorre fra Dio e l’uomo e viceversa.
Il fine del rivelarsi di Dio è la salvezza dell’uomo, l’uomo, attraverso la fede
accoglie questa salvezza di Dio dentro di sé: mediante la fede l’uomo si inserisce già
nella vita di Dio, che è la vita eterna. Essa, non è soltanto un qualcosa che verrà, ma è
soprattutto un qualcosa del nostro oggi, di cui noi già facciamo esperienza attraverso
la nostra adesione di fede e la nostra fedeltà al progetto di Dio su di noi. Ora, questa
salvezza terrena si esplicita nella crescita della nostra umanità; si concretizza, da un
punto di vista antropologico, nel fenomeno dell’umanizzazione, nel senso di una
crescita dell’uomo in una umanità autentica. Più la nostra umanità matura, più questo
è il segno che la nostra adesione di fede è sincera ed autentica. Per noi cristiani, il
modello di umanità autentica è la persona di Gesù, un’umanità esente dal peccato.
Quindi nel rapporto con Gesù vissuto nella fede, viene spiegato all’uomo l’ideale di
uomo a cui deve sempre tendere. L’umanità di Gesù è come se fosse una sorta di
specchio in cui noi ci riflettiamo e prendiamo coscienza in cosa dovremmo migliorare
per essere come Lui.

2. Significato del termine Rivelazione

Il termine “rivelazione” contiene in sé due significati che indicano due aspetti


compresenti nell’evento rivelativo: lo svelare e il velare. Nel momento in cui Dio si
48
rivela, si svela e nello stesso tempo si vela. Svelare significa esternare qualcosa che è
dentro: Dio nel rivelarsi svela ciò che è all’umanità, svela il suo pensiero, il suo modo
di agire, quelle verità e quelle caratteristiche che fanno parte della sua persona, e
svela anche ciò che vuole dall’uomo affinché questi possa essere santo, possa
sperimentare dentro di sé i benefici della redenzione.
Nello stesso momento in cui Dio si svela, si vela, nel senso che questo
contenuto di verità che Dio comunica è un contenuto che noi non riusciremo mai a
comprendere del tutto. La fede è l’orizzonte in cui la ragione si muove nel
comprendere il mistero di Dio, d’altro canto, la ragione nel muoversi, è guidata dalla
luce della fede. Però la ragione non riuscirà mai a comprendere del tutto il mistero di
Dio, c’è sempre un qualcosa che le sfugge: la conoscenza nella fede non sarà mai una
conoscenza esaustiva. Infatti, una delle caratteristiche della fede è l’oscurità. Noi
procediamo sempre in una conoscenza più profonda del mistero di Dio, ma non
potremmo mai catturarlo del tutto perché c’è sempre un qualcosa del mistero che
eccede la nostra comprensione.

3. Forme della Rivelazione

Per quanto riguarda le forme della Rivelazione, cioè le modalità con cui la
Rivelazione si dispiega, la riflessione teologica pone una distinzione tra “rivelazione
generale” e “rivelazione particolare”. La distinzione tra le due consiste nel fatto che
mentre la seconda riguarda specificamente l’esperienza religiosa giudaico-cristiana,
la prima invece il rivelarsi di Dio a prescindere da una specifica determinazione
religiosa.
- La rivelazione generale è il rivelarsi di Dio attraverso
o la creazione (DV 3);
o l’esperienza interiore della coscienza, la voce della coscienza (GS 16);
o attraverso il buono che è presente in altre esperienze religiose o in altri
sistemi di pensiero: e queste esperienze religiose e questi sistemi di
pensiero, nei loro elementi di bontà sono una preparazione evangelica
all’evento cristologico (LG 16).
- La rivelazione particolare invece, è la Rivelazione propriamente detta, cioè la
Rivelazione biblica.

49
4. Economia della Rivelazione

La rivelazione biblica o la Rivelazione, da un punto di vista cronologico, avviene


attraverso tre modi, e a ciascuna modalità corrisponde una specifica forma di
conoscenza.
1. La “creazione”: Dio si rivela attraverso il creato. A questa forma di
Rivelazione corrisponde una forma di conoscenza che può essere data anche
attraverso l’utilizzo della sola ragione: cioè il soggetto, mediante la
contemplazione del creato, con la sola ragione, senza l’ausilio della fede, può
comprendere Dio come principio e fondamento del mondo. Tutto questo non
necessita della fede anche se non la esclude. Infatti la fede in questo caso, non
offre nient’altro che una certezza morale di ciò che la ragione può aspirare con
le sole sue forze, si parla quindi nel processo conoscitivo di “luce della
ragione” o di una conoscenza naturale di Dio, nel senso che il soggetto da solo,
a partire dal creato, può comprendere Dio come creatore, fondamento,
principio originante e ordinatore del creato (Rivelazione naturale o cosmica →
luce della ragione).
2. La storia: Dio si rivela nella storia. In questo caso abbiamo bisogno della luce
della fede, ovvero di una conoscenza soprannaturale di Dio. Mentre nel primo
caso io posso soltanto giungere a capire che Dio è il principio del mondo, in
quest’altro invece, io ho bisogno della fede, ho bisogno della grazia di Dio, che
Lui si comunichi, per comprendere il Suo mistero (Rivelazione soprannaturale
→ luce della fede).
3. Attraverso la visione o la parusia: nella visione beatifica. La conoscenza di
questo tipo di Rivelazione è una conoscenza che si dà attraverso la luce della
gloria, cioè attraverso una visione diretta tra l’uomo e Dio nella realtà
ultraterrena o alla fine dei tempi nella condizione escatologica futura
(Rivelazione finale o escatologica → luce della gloria).
Ora, su questo ultimo punto, i manuali di TF sono un po’ divergenti: infatti,
secondo D. Hercsik, quando l’uomo sarà faccia a faccia con Dio capirà tutto,
quindi ci sarà una conoscenza esaustiva58; secondo C. Greco invece, anche se
la visione è diretta, ci sarà sempre un continuo conoscere il mistero che
contempleremo, essa sarà una conoscenza che nasce dall’amore, in cui la
differenza ontologica tra l’uomo e Dio resterà sempre incolmabile59 .
Al termine di queste distinzioni, dobbiamo fare un’altra considerazione molto
importante: da un punto di vista cronologico noi abbiamo prima la creazione, poi la

58
Cfr. D. HERCSIK, Elementi di teologia fondamentale, 35.
59
Cfr. C. GRECO, Rivelazione di Dio e ragioni della fede, 243-244.
50
storia e infine la parusia, ma dal punto dell’elaborazione della comprensione del
fenomeno della Rivelazione, Israele ha prima concepito Dio come colui che si rivela
nella storia, e soltanto dopo, alla luce dell’insediamento nella terra promessa e nel
confronto con i popoli vicini, ha capito che quel Dio non è una delle tante divinità
accostate a quelle degli altri popoli, ma che è il Dio che ha creato anche il mondo,
anzi che è l’unico Dio che si rivela nella creazione, e che poi, si rivelerà
definitivamente alla fine dei tempi60.

5. Caratteri della Rivelazione

Esplicitiamo adesso i caratteri della Rivelazione. In primo luogo bisogna dire


che l’autocomunicarsi di Dio non è il frutto di un atto necessario. Cioè Dio non è
costretto a comunicarsi. La sua autocomunicazione non è legata da alcuna ragione
necessaria o costrizione. Essa è libera, è il frutto di un atto gratuito e libero che Dio
fa di sé all’uomo. Invece nell’idealismo constatiamo che il comunicarsi di Dio nasce
da una necessità: secondo Hegel, Dio, nel suo comunicarsi e manifestarsi nella storia
dell’umanità, prende coscienza del suo essere Dio, quindi Dio necessariamente deve
autocomunicarsi, perché se non facesse ciò, all’interno di un processo dialettico (Idea
– Natura – Spirito), non comprenderebbe la sua vera identità.
Ora, questo autocomunicarsi di Dio è trinitario. Nel momento in cui Dio si
rivela, si rivelano tutte e tre le persone della Trinità, cioè vengono coinvolte tutte e tre
le persone divine: il Padre, attraverso la Parola, che in Gesù diventa carne, quindi il
Padre attraverso il Figlio, il Verbo Incarnato, nello Spirito Santo. Quindi il Figlio o la
Parola, è lo strumento di cui il Padre si serve per autocomunicarsi, e lo Spirito Santo
è quella realtà che ci consente di riconoscere quella determinata parola comunicata
come parola di Dio, che ci consente di riconoscere in Gesù di Nazareth, il Figlio di
Dio, la Parola incarnata, il bene oggettivo della nostra esistenza.
La teologia trinitaria, in maniera particolare K. Rahner61, in riferimento al tema
della Rivelazione, distingue due tipi di Trinità: la Trinità immanente e la Trinità
economica. La Trinità immanente è la Trinità in Sé, ovvero le relazioni intra
trinitarie, la Trinità ad intra. Invece, la Trinità economica è la Trinità che si dispiega
al di fuori si sé, che si apre e si comunica all’intera umanità ( Trinità ad extra).
Tutto questo ci aiuta a comprendere ancora di più il carattere libero e non
necessario dell’autocomunicarsi di Dio, perché il nostro relazionarci con gli altri (ed è
normale che sia così) non sempre è gratuito, ma è anche legato al bisogno che
abbiamo degli altri (cioè noi non possiamo vivere senza gli altri). Ora tutto questo ci

60
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, 382-383.
61
Cfr. K. RAHNER, Il Dio trinitario come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza.
51
fa pensare che Dio si relazioni alla creatura perché ha bisogno della creatura, ma in
realtà Dio non ne ha bisogno, perché è già relazione in Se stesso mediante il
reciproco interscambio tra le tre Persone. Tutto questo quindi ci aiuta maggiormente a
comprendere che la Rivelazione non nasce da una ragione di necessità, ma da una
ragione di gratuità, di grazia, non nasce da un bisogno, ma da un dono, un valore.
Questi due aspetti della Trinità, immanente ed economica, sono strettamente
collegati, non sono due diverse Trinità, ma due modi diversi di agire dell’unica realtà
trinitaria. Da questo deduciamo che la Trinità immanente è la condizione di
possibilità della Trinità economica, nel senso che Dio non si può relazionare al di
fuori di Sé (Trinità economica) se prima non è in relazione in Se stesso (Trinità
immanente), e quindi la Trinità immanente è il motore dell’agire di Dio al di fuori di
Sé, dell’agire di Dio nella storia. Dall’altra parte la Trinità economica è la condizione
di conoscibilità della Trinità immanente, nel senso che io non posso conoscere Dio in
Sé, se non a partire dal Suo autocomunicarsi al di fuori di Sé.
La stessa teologia trinitaria nasce dalla cristologia, la riflessione sul mistero di
Dio uno e trino nasce a partire dall’esperienza di Gesù riconosciuto come Figlio di
Dio e Salvatore: cronologicamente viene prima la Trinità e poi il mistero
dell’incarnazione e della redenzione, però gnoseologicamente, cioè a livello di
conoscenza della natura di Dio, viene prima la cristologia, cioè viene prima la
conoscenza del mistero di Gesù Cristo, attraverso il quale, l’umanità ha accesso alla
comprensione del Padre e dello Spirito Santo62.
Quando Dio si comunica, non si identifica con il creato e con la storia: cioè,
Dio che è infinito, nel momento in cui si rivela e agisce nella storia, non si riduce a
storia, non diventa un ente creato, non annulla la Sua natura, ma rimane sempre
distinto dalla creatura. La coincidenza tra Dio e creato è presente nella corrente
filosofica del XV sec., nota come panteismo: ovvero, la natura e Dio sono la stessa
cosa.
Già abbiamo avuto modo di dire che l’autocomunicazione di Dio è di tipo
personale. Dio, quando si rivela, si rivela come persona. Il fondamento biblico
principale che supporta questa tesi lo riscontriamo in Es 3,14. È l’esperienza di Mosè
del roveto ardente, dove Dio rivela il suo nome: “Io sono Colui che sono”.
Nel corso della storia della Chiesa, questa espressione è stata interpretata in
chiave filosofica, o per essere più precisi, in chiave metafisica: “Io sono colui che
sono”, cioè io sono l’essere nel senso di “sostanza”, io sono il principio e fondamento
di tutte le cose. Questa traduzione e la conseguente interpretazione di queste parole
che nel corso della storia della Chiesa è stata fatta, in realtà non ci mostra il corretto
senso di quell’espressione che dovrebbe essere invece tradotta: “Io sono con”. Quindi
62
Cfr. P. GAMBERINI, Questo Gesù, 257-267.
52
Dio si presenta come un essere il cui definirsi non è dato dalla sua differenza
ontologica con il mondo, ma è un essere la cui identità si dà a partire dal suo
relazionarsi con l’altro: questa definizione, “Io sono con” mette in luce il carattere
personale del rivelarsi di Dio. In antropologia filosofica e teologica viene fortemente
ribadito che la categoria fondante dell’essere persona, cioè ciò che dice la natura
costitutiva del nostro essere persone, è il fatto che noi siamo esseri relazionali. In
Aristotele la “relazione” veniva vista come una delle categorie di secondo ordine, con
l’antropologia filosofica del ‘900, in maniera particolare con il pensiero di M. Buber,
E. Mounier, E. Levinas, F. Rosenzweig, essa viene interpretata coma la categoria
fondante dell’essere persona: ciò che dice una persona è il fatto che è un’entità che si
pone in relazione con.
Durante il secondo millennio, noi abbiamo avuto in maniera dominante, un
concetto teoretico ed istruttivistico di rivelazione: cioè la Rivelazione veniva intesa
come una sorta di comunicazione che Dio faceva delle verità rivelate, dei principi
della fede cristiana, come una specie di insegnamento e di trasmissione di contenuti
di verità. Questo modello di rivelazione lo troviamo nel Vaticano I e nella teologia
manualistica.
Con il Vaticano II viene ripresa la teologia del primo millennio e riscoperta
l’importanza della Scrittura e dei Padri della Chiesa per la riflessione teologica. Il
Vaticano II quindi, andando alle fonti della Rivelazione, Scrittura e Patristica, elabora
un concetto diverso di rivelazione il quale mette molto in luce il carattere personale di
Dio, un concetto dunque dialogico – personalistico.
Mediante la sua adesione al comunicarsi di Dio, l’uomo prima comprende Dio,
e alla luce di questa comprensione di Dio in Sé, comprende anche le verità rivelate,
cioè quelle verità relative alla natura di Dio o ad essa connesse. Però, in questa
relazione con Dio, l’uomo non solo comprende Dio, ma anche se stesso, la verità di
sé (GS 22: alla luce del mistero del Verbo incarnato si comprende il mistero
dell’uomo): nel confronto con l’umanità di Gesù, l’uomo comprende la sua
vocazione, ciò a cui Dio lo chiama per essere pienamente uomo. Quindi,
sintetizzando in maniera schematica:

conoscenza di Dio conoscenza delle verità rivelate (DV 2) conoscenza


dell’uomo, a cosa è chiamato ad essere a partire dalla relazione con Dio (GS 22).

Un altro aspetto della Rivelazione è il suo carattere sacramentale: la


Rivelazione ha un carattere sacramentale, cioè si esplicita attraverso eventi e parole
tra loro intimamente connessi (DV 2). Ora l’evento certifica la credibilità della
parola, cioè l’evento attesta che quella parola pronunciata è una parola vera, non è
53
menzognera. D’altra parte la parola ci consente di riconoscere in quell’evento, un
evento teologico, cioè una realtà storica in cui Dio si è rivelato, un evento salvifico.
Ogni rivelarsi di Dio si presenta sempre sacramentalmente, dove sono
compresenti sia la parola che l’evento. In base ai casi, a volte si dà più accento alla
parola, in altri più all’evento, ma questo non significa che ciascun elemento sia
escluso nel processo rivelativo.
Nell’AT la Rivelazione nell’evento o nella storia avviene attraverso eventi
storici fondamentali del popolo d’Israele: per esempio, la vocazione di Abramo,
l’esperienza del Sinai, l’esodo, l’entrata nella terra promessa, la liberazione dalla
schiavitù babilonese, ecc.: si tratta di eventi storici fondamentali, letti da una
prospettiva teologica, perché alla luce della parola, vengono visti come eventi in cui
Dio è intervenuto salvificamente nella storia del popolo di Israele.
Per quanto riguarda invece la Rivelazione nella parola nell’AT, tale è espressa
in maniera emblematica attraverso l’esperienza profetica. I profeti infatti, sono i
mediatori di cui Dio si serve per veicolare il suo messaggio al popolo di Israele: un
messaggio che può essere o di condanna o di liberazione.
Nel NT invece, la Rivelazione avviene nella persona di Gesù. Anche in questo
caso, attraverso eventi e parole. Ora, la Rivelazione di Gesù nell’evento o negli
eventi, si concretizza attraverso i segni che Gesù compie. Abbiamo detto che questi
segni sono di due tipi: i segni di potenza e i segni di misericordia. Nei segni di
potenza rientrano i miracoli, nei segni di misericordia invece il perdono dei peccati, la
chiamata dei discepoli, e la predilezione per gli ultimi e i piccoli.
La rivelazione cristologica nella parola avviene invece attraverso la
predicazione di Gesù. Abbiamo detto che questa predicazione ruota intorno ad una
categoria teologica centrale, quella appunto di Regno di Dio, dove per Regno di Dio
si intende questa potenza salvifica del Padre che viene inaugurata nella persona di
Gesù e che si manifesta in tutta la sua vita terrena. La Chiesa è colei che perpetua
quest’opera di Gesù nella storia dell’umanità, nel senso che Essa è chiamata a rendere
presente il Regno di Dio. La Chiesa non si identifica con il Regno di Dio, ma ne è il
germe (LG 5), cioè è lo strumento di cui Dio si serve per rendere presente la sua
potenza salvifica all’uomo di ogni tempo.

54
CAPITOLO II
L’ESSENZA DELLA RIVELAZIONE
SECONDO LE FONTI BIBLICHE

1. Terminologia del concetto di rivelazione nella Sacra Scrittura: la parola di


Dio

Secondo Latourelle, nella Sacra Scrittura non troviamo un termine tecnico che
corrisponda immediatamente al nostro concetto di rivelazione nella sua accezione
teologica. Lo stesso termine “rivelazione” (apokàlypsis) non ha nella Bibbia il senso
tecnico e l’ampiezza teologica con cui oggi viene usato. Quello che
approssimativamente si avvicina maggiormente a tale intento e che è il più frequente
e significativo per esprimere la comunicazione divina e il termine “parola” (dabàr,
logos), “parola di Jahvé63. A questo va aggiunto che tra le due categorie di evento e
parola attraverso le quali la Rivelazione si dispiega, la più importante è la parola, nel
senso che questa precede l’evento, si fa evento e lo interpreta nella sua veridicità.

2. Carattere informativo e performativo della Parola

La parola di Dio, da un punto di vista biblico, ha due caratteristiche principali.


- La prima caratteristica è “informativa”, nel senso che essa ci informa su Dio, ci
dice chi è Dio, la sua natura, il Suo pensiero, agire, il Suo desiderio per
l’umanità, cioè cosa desidera Dio che l’uomo faccia per essere salvo. Questa
parola di Dio ci rivela anche il mistero dell’uomo, cosa l’uomo è chiamato ad
essere a partire da questa relazione con Dio, ma anche la realtà del peccato
presente in lui, cosa manca nell’uomo tale che non gli consente di vivere in
pienezza questa relazione con Dio.
- La seconda caratteristica è che la parola di Dio è “performativa”, cioè non è
semplice espressione verbale, ha un carattere dinamico, è fattuale, nel
momento in cui viene proferita essa crea immediatamente un effetto, si
concretizza, si fa storia. Per esempio la parola di Dio si fa creazione (Gn 1,3-
24), la parola si fa legge – le dieci parole - debarim (Es 20,1-17; Es 34,28; Dt
4,13; Dt 5,1-21), poi questa parola si fa profezia, attraverso l’esperienza dei
profeti (Emblematico è il passo Is 55,10-12, dove troviamo un po’ la sintesi di
tutta l’esperienza profetica, di come, attraverso la mediazione profetica la
parola crea un effetto nella storia del popolo di Israele), continuando la parola
63
Cfr. R. LATOURELLE, Teologia della Rivelazione, 14.
55
si fa sapienza (Sir 24,3-31; Sap 7,9) dove per sapienza non intendiamo soltanto
il decalogo, ma anche tutte quelle norme e precetti, tutte quelle indicazioni
buone che Israele ha assunto anche da altri popoli a partire dal confronto con
essi e che li ha letti in chiave di fede e li ha integrati nella propria esperienza
religiosa; infine la parola di Dio si fa carne nella persona di Gesù di Nazareth
(Gv 1,14).

3. Continuità e discontinuità tra la rivelazione nell’At e nel NT

Tra la rivelazione nella vecchia alleanza e nella nuova alleanza, troviamo


elementi di continuità e di discontinuità. La continuità si evince nel carattere
personale e sacramentale della rivelazione. La discontinuità invece è espressa in
maniera emblematica in Eb 1,1-2: da questi versetti riscontriamo la discontinuità su
tre punti.
1. Discontinuità legata al “tempo”: cioè mentre nell’AT, Dio si è
rivelato in diversi tempi, con Gesù si è rivelato in un unico evento
temporale che è stato la sua esistenza terrena.
2. Discontinuità legata ai “modi”: nell’AT abbiamo modi diversi in cui
Dio si è rivelato, legati alle diverse contingenze storiche. Nella
rivelazione cristologica al contrario abbiamo un solo modo, che è la
persona di Gesù e la sua prassi di vita.
3. Discontinuità legata alla “qualità del mediatore”: mentre nell’AT
abbiamo più mediatori, nel NT abbiamo un solo mediatore, che è
Gesù. Cambia anche la qualità della mediazione: mentre nell’AT la
mediazione è puramente umana, nel NT il mediatore è il Figlio di
Dio.

56
CAPITOLO III
MODELLI STORICI DI COMPRENSIONE DELLA RIVELAZIONE

Lo scopo di questo capitolo è quello di appurare come la Rivelazione è stata


compresa nella storia della teologia mediante alcuni modelli teologici in cui la
riflessione è confluita. Infatti, nel corso della storia della Chiesa e della storia della
teologia abbiamo avuto diversi modelli di Rivelazione, cioè diversi modi di intendere
la Rivelazione in quanto tale. Vedremo che ogni modello enfatizza un aspetto
particolare della Rivelazione e che contemporaneamente, proprio per questa
motivazione, ciascuno presenta anche dei limiti. Constateremo come questi modelli
non vadano presi isolatamente, ma nella loro giusta complementarietà. Soltanto in
questa prospettiva noi riusciremo a comprendere la Rivelazione nella sua interezza.

1. Modello epifanico

Il primo modello è quello “epifanico” che è proprio della teologia patristica: la


Rivelazione è quella realtà che manifesta la gloria di Dio, la Sua potenza salvifica.
Tale definizione non la troviamo esplicitamente nei Padri, ma è possibile dedurla
implicitamente mediante un’analisi delle loro opere.
In questo modello infatti, non si vuole tanto sottolineare in primo luogo il
contenuto, l’oggetto della Rivelazione, ma le ragioni e le motivazioni che spingono
Dio a rivelarsi. Quindi non l’oggetto ma l’origine del dato della Rivelazione. Ciò non
vuol dire che il dato non venga trattato, ma ciò che preme maggiormente ai Padri
quando parlano di Rivelazione è quello di sottolineare la causa da cui scaturiscono il
messaggio e l’oggetto della Rivelazione.
Ora, qual è il limite di questo modello? Esso non fa una distinzione fra la
Rivelazione biblica e la Rivelazione post-biblica. La rivelazione biblica è la
Rivelazione che noi riusciamo a comprendere a partire dalle fonti scritturistiche
dell’Antico e del Nuovo Testamento e che ha la sua pienezza e definitività nella
persona di Gesù, quindi la rivelazione propriamente detta. Invece, con l’espressione
rivelazione post-biblica, vogliamo riferirci alle manifestazioni di Dio nella storia
dell’umanità, le quali si sono compiute anche dopo la rivelazione cristologica. In tutto
questo rientrano: la rivelazioni private, esperienze mistiche, nuove cognizioni sul
mistero cristiano, ierofanie attraverso il creato, eventi, persone.

2. Modello teoretico-istruttivo

Un altro modello di Rivelazione è quello che troviamo fortemente nella


teologia medievale dalla scolastica fino al Vaticano I e alla teologia manualistica che
57
è stata in voga fino al Vaticano II. Tale intende la Rivelazione come dottrina. A
differenza della teologia patristica, dove si va a guardare più all’origine e alla causa
della Rivelazione, in questo caso maggiormente al messaggio: la Rivelazione viene
intesa maggiormente come un corpo di verità rivelate, e l’uomo per accedere alla
salvezza deve conoscere queste verità.
Qual è il limite di quest’altra impostazione? La Rivelazione appare come un
qualcosa di astratto, non rilevante rispetto alle condizioni storiche nelle quali l’uomo
si trova a vivere di volta in volta, che non interpella criticamente la coscienza del
singolo, come una realtà che è lontana dalla vita e che ha scarsa incidenza nel vissuto
delle persone.

3. Modello storicistico

Il terzo modello intende la Rivelazione come storia, tale sottolinea la


dimensione storica della rivelazione. La Rivelazione è tale in quanto agisce nella
storia, si rende accessibile e comunicabile soltanto attraverso categorie desumibile dai
contesti storici. Il credente è colui che deve discernere i segni della presenza di Dio
nella storia. A questo modello fanno riferimento alcuni teologi protestanti, in maniera
particolare O. Cullmann e W. Pannenberg64.
I limiti di questa impostazione sono due: il primo relativo alla questione della
contemporaneità della particolarità e universalità della Rivelazione, il secondo
relativo ai segni di plausibilità dell’evento rivelativo in quanto tale. Nel primo caso
sorge la seguente domanda: se Dio si è rivelato in quell’evento storico, in quel
determinato periodo, in quella specifica cultura, come può allora quel messaggio
particolare avere un valore universale, cioè avere un valore per gli uomini di tutti i
tempi, essere sempre attuale?
Un’altro limite fondamentale è legato a questa questione: quali sono i criteri
che ci consentono di discernere se quell’evento storico è un evento rivelativo? In base
a che cosa noi stabiliamo che quell’evento appartiene alla storia della salvezza o no?

4. Modello intimistico

In questo modello la Rivelazione viene intesa come un’esperienza interiore, un


evento intimistico della fede. Tale è fortemente utilizzato dai modernisti, i quali a
loro volta su questa questione si sono ispirati al pensiero di Schleirmacher. In questo
modello la Rivelazione è l’esperienza intima che l’uomo fa di Dio, è avvertire

64
La traduzione cattolica della teologia della storia la troviamo nel pensiero del teologo napoletano Bruno Forte, il
quale incentra tutto il suo lavoro teologico intorno alla categoria “storia”.
58
l’azione della grazia di Dio nel proprio cuore, è l’esperienza della consolazione
spirituale e l’acquisizione per via interiore di nuove cognizioni sul mistero di Dio.
Tale moto interiore, tale esperienza soprannaturale che la persona vive dentro di sé, la
conduce poi a elaborare le verità di fede. Da queste premesse i modernisti elaborano
un concetto errato di sviluppo del dogma, dove la realtà della rivelazione continua nel
tempo attraverso queste esperienze interiori dell’umanità e in base a questo il
bagaglio delle verità rivelate si arricchisce sempre di più. Diverso è invece quello
ufficiale della Chiesa, dove la Rivelazione si è compiuta pienamente e
definitivamente nella persona di Gesù e lo sviluppo del dogma consiste in un
processo di maggior approfondimento di quelle verità di cui la Chiesa ha definito
come irreformabili.
Il limite di questa impostazione è il seguente: come può Dio, che è infinito,
essere contenuto in una realtà finita, limitata? Potremmo dire che i modernisti
identificano la Rivelazione con la “grazia”, inoltre tale impostazione finisce per
cancellare tutto l’aspetto delle mediazioni della Rivelazione, cristologica, ecclesiale,
magisteriale, testimoniale, ecc.

5. Modello dialettico

Tale modello è proprio della teologia dialettica (K. Barth), presentando la


Rivelazione come presenza dialettica. In questo modello si sottolinea fortemente la
differenza e la distanza che intercorre tra Dio e l’uomo, distanza che la Parola di Dio
riduce ma non cancella del tutto. Il rivelarsi di Dio è uno svelarsi e nello stesso tempo
un velarsi, in quanto Egli resta il Trascendente, il totalmente Altro. L’uomo, poi,
attraverso questo rapporto con Dio, si scopre peccatore e nello stesso tempo
bisognoso della Sua misericordia.
Possiamo parlare di teologia dialettica anche in un altro senso, nel senso che
questa teologia si pone in un atteggiamento dialettico nei confronti di un’altra forma
di teologia che la precedeva, ovvero quella liberale (A. von Harnack, H. Troeltsch).
Quest’ultima, sottolineava fortemente l’utilizzo esclusivo della ragione nella
conoscenza teologica ed assolutizzava il metodo storico-critico. La posizione
barthiana invece non esclude la ragione nella ricerca teologica, anche se tale è inserita
nell’orizzonte più ampio della fede.
Il limite di questa impostazione sta proprio nell’aver creato un forte divario tra
il naturale e il soprannaturale.

59
6. Modello critico-pratico

Tale modello è proprio della teologia politica e della teologia della liberazione.
La Rivelazione in questo caso, viene intesa come nuova coscienza. Essa è un’istanza
critica nei confronti della società, una luce che ci offre i criteri per discernere la bontà
e la negatività presente del mondo al fine di mobilitare il credente ad una prassi di
liberazione dei mali dell’umana società. All'interno di questo modello la Rivelazione
viene vista come una realtà che può favorire non solo il miglioramento del singolo
credente ma anche quello dell'intera società.
Il limite di questo modello è il seguente: come può un qualcosa che è fonte di
liberazione in un determinato contesto culturale, essere anche fonte di liberazione in
un contesto culturale diverso?

7. Modello dialogico-personalistico

È il modello di Rivelazione presente nel Vaticano II. In questo modello Dio si


presenta come persona e lo scopo del suo comunicarsi è quello di intessere una
relazione di amicizia con l’umanità. Mediante la fede, il credente accede alla
conoscenza della realtà intima di Dio e di quelle verità che la costituiscono ed inoltre
ad una maggior comprensione di se stesso e di ciò che Dio lo chiama per essere
veramente ed autenticamente uomo. Tale modello non presenta limiti, anzi è la sintesi
di tutti gli altri, in quanto contiene ogni elemento di cui ciascun modello in
precedenza aveva enfatizzato.

60
CAPITOLO IV
TRADIZIONE, SCRITTURA, MAGISTERO E LORO RECIPROCA
IMPLICAZIONE

1. La Tradizione

Nella Dei Verbum per la prima volta non si parla di “tradizioni”, ma di


“Tradizione”, dove per Tradizione intendiamo la trasmissione della Rivelazione,
oppure, la trasmissione del deposito della fede. Per comprendere bene questa
questione, è necessario fare una premessa su una categoria teologica fondamentale
che è appunto quella di “Parola di Dio”.
Sempre in DV infatti, la Parola di Dio non si identifica tout court con la Sacra
Scrittura, bensì è un qualcosa che la precede anche se in essa è contenuta. Per Parola
di Dio la costituzione intende Gesù Cristo, la Parola che si è fatta carne, la pienezza e
la definitività della Rivelazione. A differenza del Vaticano I, dove si parla di “fonti”
della Rivelazione, inscritte nella Sacra Scrittura e nelle tradizioni non scritte (DH
3006), la DV invece ci presenta un’unica fonte, che è la Parola di Dio. E questa
Parola di Dio è la persona stessa di Gesù, che è appunto la pienezza e la definitività
della Rivelazione (DV 4). Su questa questione DV si richiama al concilio di Trento il
quale per delucidare la realtà della Rivelazione utilizza la categoria “Evangelo”
(Decreto sui Libri sacri e le tradizioni da accogliere; DH 1501).
Ora, questa Parola di Dio si rende presente a noi attraverso due modalità, due
canali o per essere più precisi, due mediazioni oggettivate: la Sacra Scrittura e la
Sacra Tradizione. La Sacra Scrittura è la Parola di Dio scritta sotto ispirazione dello
Spirito Santo, mentre la Sacra Tradizione è la Parola di Dio in quanto trasmessa (DV
9).
Quando si esplicita della comunicazione della Parola di Dio attraverso questi
due canali, la DV utilizza l’espressione tridentina et …. et ….: cioè, la Parola di Dio
viene resa accessibile a noi, sia attraverso la Sacra Scrittura, sia attraverso la Sacra
Tradizione. Va precisato che negli schemi preparatori i padri tridentini avevano
utilizzato l’espressione partim … partim …. dicendo che la Parola di Dio è parte
contenuta nella Sacra Scrittura, e parte contenuta nelle tradizioni non scritte. Tutto
questo aprì il dibattito relativo alla “insufficienza materiale della Sacra Scrittura”,
ovvero, in riferimento alla formulazione delle verità di fede, ciò che non è contenuto
esplicitamente nella Sacra Scrittura, lo troviamo nella Tradizione, quindi secondo
questa teoria, la Tradizione completerebbe ciò che manca nella Scrittura. Per tale
ragione i padri optarono per il termine et.

61
Il Vaticano II, per ragioni ecumeniche, non dibatte su questo argomento,
elaborando concretamente una teologia relativa all’et.
Ma come avviene questa trasmissione del deposito? Mentre in Trento e in
Vaticano I quando si parlava di tradizioni si intendevano le tradizioni ecclesiastiche,
intese come pratiche della fede e dottrina, quindi si restringeva il concetto di
Tradizione e si limitava il suo ruolo, il Vaticano II allarga il concetto di Tradizione,
dicendo che la trasmissione della fede non è soltanto la comunicazione delle verità
rivelate mediante il Magistero, non sono solo i pronunciamenti magisteriali, ma è
anche la riflessione teologica, liturgia, catechesi, la testimonianza di vita, soprattutto
le vite dei santi, che nella loro corporeità hanno sottolineato ciascuno un aspetto
particolare della vita cristiana (DV 8).

2. Rapporto tra Scrittura e Tradizione

Tradizione e Scrittura sono fortemente correlate tra di loro. È vero che la Parola di
Dio si rende presente sia nella Sacra Scrittura che nella Sacra Tradizione, ma questo
non significa che Tradizione e Sacra Scrittura non siano realtà tra di loro
interconnesse.
1. Infatti la stessa Sacra Scrittura nasce da una tradizione precedente, che si
presenta come tradizione orale (DV 7).
2. Inoltre, attraverso la Sacra Tradizione noi conosciamo l’intero canone dei libri
ispirati (DV 8).
3. Altra cosa molto importante è che la corretta e autentica interpretazione della
Sacra Scrittura è solo all’interno della Tradizione e non al di fuori di essa (DV
8)65.
4. La Sacra Scrittura va interpretata a partire da una prospettiva di fede, cioè va
letta con lo stesso spirito con la quale fu scritta: io credente devo leggere il
passo scritturistico non solamente da un punto di vista storico, scientifico,
letterario, ma a partire dalla mia fede e dall’assistenza dello Spirito Santo, che
mi consente di leggere quel passo nella sua autenticità (DV 12).
5. Abbiamo detto che le Sacra Scrittura è figlia della Tradizione, ma allo stesso
tempo è il criterio, regula fidei, a cui il Magistero fa di continuo riferimento

65
Nel primo dei tre volumi dell’opera Gesù di Nazareth di Benedetto XVI, nella premessa il pontefice emerito, pur non
negando al metodo storico-critico la sua importanza e validità nell’interpretazione della Sacra Scrittura, tuttavia
ribadisce che quell’approccio interpretativo non va assolutizzato come l’unico, e che i diversi approcci vanno utilizzati
nella loro complementarietà. Tra di questi, uno che assume una funzione fondamentale è quello “canonico”, che
consiste nel vedere come quel passo della Scrittura è stato interpretato dalla Chiesa dalla sua origine fino ai nostri
giorni, detto in altri termini, vedere come la tradizione della Chiesa, non solo il Magistero, ma anche tutta la riflessione
dei Padri e la riflessione teologica successiva si è espressa su quel passo (cfr J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di
Nazareth, vol. I, 7-20).
62
per il corretto dispiegamento della trasmissione della fede. Il Magistero della
Chiesa che ha il compito di custodire e trasmettere fedelmente il depositum
fidei, ha come criterio di riferimento la Sacra Scrittura ed è allo stesso tempo
assistito dallo Spirito Santo, godendo di un carisma certo di verità (DV 10).
6. Un’ultima questione importante da sottolineare è il concetto di “inerranza della
Sacra Scrittura”, dove Vaticano II sottolinea che essa non è di natura storico-
scientifica, bensì salvifica. La sacra Scrittura infatti non ha errori in ordine a
tutto ciò che riguarda la salvezza (DV 11).

3. Il magistero

Che cos’è il magistero? Il papa in comunione con i vescovi. Esso ha tre


compiti:
1. custodire il deposito;
2. interpretarlo “autenticamente” o “autorizzatamente”;
3. trasmetterlo.
La teologia ha il compito fondamentale di aiutare il Magistero a comprendere
maggiormente le verità già formulate, oppure in una loro possibile formulazione o
riformulazione, ma alla fine l’ultima parola spetta sempre al Magistero. Quindi chi
interpreta autenticamente il dato di fede è sempre il Magistero.

3.1 Le forme di magistero

Il magistero ha tre forme:


1. magistero ordinario
2. magistero ordinario e universale
3. magistero straordinario o solenne.

3.1.1 magistero ordinario

Organi del Magistero ordinario sono sia il papa che i vescovi: il papa attraverso
determinati documenti magisteriali quali le encicliche, i viaggi apostolici, ecc; poi
abbiamo i pronunciamenti dei dicasteri della curia romana; mentre per quanto
riguarda i vescovi il loro magistero ordinario si esercita attraverso le azioni pastorali,
le lettere pastorali, le visite pastorali, i sinodi diocesani, ecc. Questo magistero
riguarda tutto ciò che la Chiesa ha già definito, e vuole essere il garante della sua
trasmissione. Inoltre, rientra nel Magistero ordinario tutto ciò che riguarda questioni

63
di fede o di morale di cui per ragioni di prudenza non si dà ancora un pronunciamento
irreformabile, ma che comunque sono tenute da credersi.

3.1.2 magistero ordinario e universale

Il magistero ordinario e universale riguarda tutti i vescovi, in comunione con il


romano pontefice, non riuniti in un concilio, i quali hanno il compito di definire una
verità riguardante la fede e i costumi in maniera definitiva (es: Evangelium vitae,
l’illiceità dell’uccisione diretta e volontaria dell’innocente, n. 57; illiceità dell’aborto,
n. 62; l’illeicità dell’eutanasia, n. 65).

3.1.3 magistero straordinario o solenne

Riguarda pronunciamenti definitivi e irreformabili, che si presentano o in un


concilio o in un intervento esclusivo del papa ex cathedra. Per quanto riguarda
quest’ultimo caso, sono necessarie tre condizioni:
- il papa si pronuncia in quanto dottore e pastore della Chiesa universale;
- il papa attraverso il suo pronunciamento deve evidenziare fortemente la sua
autorità di capo della chiesa universale;
- deve trattare questioni che appartengono alla fede e ai costumi, sulle quali deve
pronunciarsi in maniera definitiva (es: quelli più recenti, il dogma
dell’Immacolata Concezione, Pio IX, 8/12/1854; e quello dell’Assunzione di
Maria, Pio XII, 1/11/1950).

3.2 Le qualificazioni teologiche o livelli di magistero

Ogni pronunciamento magisteriale ha un grado di importanza a cui si richiede


un assenso di un certo tipo. Quindi ad ogni consistenza del grado del pronunciamento
corrisponde una certa consistenza della risposta del credente. I gradi sono di tre tipi:
primo, secondo e terzo grado.
- Pronunciamenti di primo grado sono le “dottrine divinamente rivelate”.
- Pronunciamenti di secondo grado sono “dottrine da ritenersi definitive”.
- Pronunciamenti di terzo grado sono “dottrine autentiche ma non definitive”.
Primo grado: in questo grado rientrano tutti quei pronunciamenti magisteriali
definitivi: una volta promulgati sono irreformabili, non possono essere cambiati. Ne
fanno parte i dogmi. Un pronunciamento di primo grado infatti, è un pronunciamento
su un qualcosa che è contenuto nella Sacra Scrittura e nella Sacra Tradizione. In

64
genere tale pronunciamento viene fatto o con una bolla o con una costituzione
apostolica.
Passiamo ora alle dottrine di secondo grado, che pure sono da ritenersi definitive:
anche in questo caso ci troviamo di fronte a verità irreformabili, che non possono
essere cambiate, pur non presentando una formulazione dogmatica. Sono verità che
pur non essendo contenute esplicitamente nella Sacra Scrittura e nella Sacra
Tradizione, sono il frutto di una derivazione, o di tipo logico o storico, da quelle
divinamente rivelate (es. l’eutanasia, ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto
agli uomini,ecc.)66.
Nei pronunciamenti di terzo grado, troviamo dottrine autentiche, perché
riguardano il magistero autentico, cioè il magistero in quanto tale, ma non definitive.
Vi troviamo dunque alcuni pronunciamenti magisteriali che la Chiesa non ha ritenuto
opportuno definire in maniera assoluta, per questioni di prudenza, perché su
determinati temi si attende ancora un’ulteriore e maggiore comprensione. Essi
richiedono un grado di adesione differenziato, secondo la mente e la volontà
manifestata, la quale si palesa specialmente:
- sia dalla natura dei documenti;
- sia dal frequente riproporre la stessa dottrina;
- sia dal tenore dell’espressione verbale.
A questi tre tipi di pronunciamenti si richiedono tre tipi diversi di assenso.
- Nel primo caso abbiamo un assenso di fede teologale, e la dottrina che si pone
contro questa qualificazione teologica viene definita eretica.
- Nel secondo caso, abbiamo un assenso di fede ecclesiale, assenso fermo e
definitivo, e la dottrina contraria a questa qualificazione teologica viene
definita una dottrina che non mi consente di stare nella piena comunione con la
Chiesa.
- Nel terzo caso, l’assenso richiesto è un religioso ossequio dell’intelletto e della
volontà. In questo caso la dottrina contraria può definirsi erronea, temeraria,
oppure pericolosa.

66
Ciò avviene quando nelle diverse epoche storiche si possono presentare questioni di cui la Chiesa non ha mai
affrontato e che non sono presenti esplicitamente nella Scrittura e nella Tradizione.
65
66
PARTE SECONDA

LA CREDIBILITA’ DELLA RIVELAZIONE


CRISTIANA

67
68
CAPITOLO V
CREDIBILITA’ E FEDE

1.L’accesso dell’uomo alla rivelazione: dalla ricerca all’accoglimento della


parola di Dio

Per quanto riguarda l’aspetto della credibilità della Rivelazione e del suo
possibile accoglimento mediante la fede, ci serviremo del pensiero di S. Pié-Ninot, il
quale propone un modello significativo di credibilità. Nel ricercare un’identità alla
teologia fondamentale, S. Pié-Ninot, nel suo manuale di teologia fondamentale67,
presenta un modello di teologia fondamentale il cui scopo è quello di “fondare e
giustificare la pretesa di verità della rivelazione cristiana come proposta sensata di
credibilità”68; in poche parole, la sua funzione è quella di legittimare la credibilità
della fede, “rendere ragione della speranza”(1 Pt 3, 15) all’interno dell’esperienza
spirituale cristiana, attraverso una testimonianza di fede, il cui scopo è quello di
veicolare pienezza di senso al vivere umano69. Il modello di teologia fondamentale
proposto dall’autore, consterà quindi, di due dimensioni, le quali a loro volta,
corrispondono a due obiettivi o compiti fondamentali a cui tale disciplina intende
rispondere. Il primo, è un compito fondamentale-ermeneutico (teologia fondamentale
“dogmatico-fondamentale”), il cui scopo è quello di rintracciare i fondamenti
dell’esperienza di fede: l’origine dell’esperienza di fede (la Rivelazione), i luoghi
della conoscenza teologica (Scrittura, Tradizione, Magistero, sensus fidei, teologia),
nonché le condizioni di possibilità di accesso alla rivelazione e alla costituzione
dell’atto di fede (azione interiore della grazia e i segni esterni di credibilità)70. Il
secondo invece, è un compito dialogale-contestuale (teologia fondamentale
“apologetico-fondamentale”), il cui fine è quello di legittimare la credibilità della
fede, a partire dalla testimonianza cristiana, quale segno di senso pieno e di speranza
per il mondo: “martyría significativa” della speranza cristiana71:
«l’aggettivo dialogale-contestuale, che completa il compito apologetico, indica il suo carattere di
frontiera o di sentinella, per dirla con Heidegger, proprio a tutti gli ambiti nei quali si imposta e si

67
Cfr. S. PIÉ-NINOT, La teologia fondamentale.
68
Ib; 61.
69
Cfr. ib.
70
Cfr. ib; 62 e 67.
71
«In effetti, la formulazione “martyría significativa” vuole essere una parafrasi attualizzata del “rendere ragione della
speranza” (1 Pt 3, 15): in essa si propone la speranza cristiana a partire dalla “testimonianza”, intesa come esperienza di
“martyría” (cfr. FR 32) (…) L’esperienza concreta, dunque, di questa “testimonianza martiriale” attraverso la sua
comprensione teologica, renderà possibile superare tanto il puro pragmatismo vitale, quanto il puro intellettualismo
razionale, articolando così ambedue le dimensioni in chiave di una testimonianza piena di senso, che è quanto intende
designare questa innovativa espressione di “martyría significativa” che è, in definitiva, “la testimonianza radicata nella
speranza”» (Ib; 62).
69
realizza una dimensione di servizio, in chiave di “diaconia intellettuale”, sempre attenta all’auditus
temporis et alterius (…) In questa forma si può dire che il compito dialogale della teologia
fondamentale la trasforma in una “disciplina di frontiera e di mediazione”, che rende possibile la sua
interazione con i diversi ambiti e realtà del nostro mondo, in un’ottica di “assunzione, purificazione
72
ed elevazione”, secondo la precisa prospettiva conciliare sulla presenza del Vangelo nel mondo» .

Secondo l’autore, la fede è un processo che si articola in tre fasi principali,


attraverso un iter che parte dalla costitutiva apertura dell’uomo alla trascendenza e si
completa nell’accoglimento della parola di Dio per mezzo della fede e nella
testimonianza vissuta di tale parola nel proprio vivere quotidiano: 1. “L’uomo, capace
di ascoltare la parola di Dio”; 2. “L’uomo da uditore a credente: il processo integrale
dell’atto di credere”; 3. “La credibilità come proposta di senso teologica, storica e
antropologica”73.

2. L’uomo capace di ascoltare la parola di Dio

Per quanto riguarda la prima fase, “L’uomo, capace di ascoltare la parola di


Dio”:
«L’accesso dell’uomo alla rivelazione si realizza per mezzo della fede, dono di Dio e nel contempo
risposta dell’uomo. Ora, l’uomo è radicalmente preparato per questa risposta gratuita, perché è
aperto alla trascendenza e alla sua possibile manifestazione rivelatrice: in definitiva l’uomo è capace
di ascoltare la parola di Dio, vale a dire è uditore della rivelazione, secondo l’espressione di Rm 10,
74
17» .

L’atto di fede si costituisce a partire da due elementi fondamentali: da un


fondamento, identificabile nella rivelazione che Dio fa di se stesso all’uomo; da un
presupposto o condizione di possibilità, dato dall’assenso libero dell’uomo alla
rivelazione, che si innesta a sua volta, sulla costitutiva capacità dell’uomo di
accogliere la rivelazione, sulla sua costitutiva apertura alla trascendenza, su ciò che i
fenomenologi della religione denominano come “dimensione antropologica
dell’esperienza religiosa”.

Per giungere dunque, alla questione dell’ autoconsapevolezza del soggetto di


essere strutturalmente “capace di ascoltare la parola di Dio”, l’autore parte
dall’adagio delfico del “conosci te stesso”. Il processo di autoconsapevolezza che il
soggetto fa di sé, lo conduce a comprendersi come “capace di Dio” (capax Dei)75,
ovvero come ordinato immediatamente a Dio, radicalmente capace di vivere la
relazione con Lui, di partecipare alla Sua stessa natura, in quanto Sua immagine e
72
Ib; 67.
73
Cfr. ib; 70.
74
Ib; 77.
75
Questo processo di autocomprensione di sé, viene favorito dall’interrogazione sull’origine e senso dell’esistenza e del
male (cfr. ib; 80-94).
70
somiglianza76: addirittura, secondo la prospettiva di Agostino e Tommaso d’Aquino,
immagine e somiglianza della Trinità77. La capax Dei dell’uomo, può essere a sua
volta espressa come “potentia oboedientialis” (capacità recettiva, aperto alla
comunicazione con Dio)78, e come “desiderium naturale videndi Deum” (l’uomo
come desiderio di Dio, continua tensione in ogni atto del suo agire e conoscere, anche
a livello atematico-inconsapevole, verso Dio)79.

L’autoscoperta dell’uomo quale soggetto aperto alla trascendenza,


radicalmente aperto nella questione del senso, nasce a partire dall’ “esperienza” che
l’uomo fa con la realtà che lo circoscrive. In tal caso per “esperienza”, soliamo
intendere, quell’effetto prodotto nella coscienza umana, dovuto dall’impatto con la
realtà circoscrivente, un’effetto che coinvolge tutte le dimensioni della persona:
sensibilità, intelligenza, affettività, volontà, corporeità. Concludendo, l’esperienza
che l’uomo fa della realtà in tutte le sue sfaccettature, inevitabilmente lo conduce a
porsi la domanda sul senso dell’esistenza in generale80.

3. L’uomo da uditore a credente: il processo integrale dell’atto di credere

Dopo aver preso in considerazione l’uomo in quanto “capace di ascoltare la


parola di Dio”, tratteremo, ora invece, sul come si costituisce e quali sono gli
elementi che permettano l’atto di fede, dunque, che consentano il passaggio, nella
persona costitutivamente aperta alla trascendenza, dall’ “uditore” al “credente”:
“L’uomo da uditore a credente: il processo integrale dell’atto di credere”81. Bisogna
però premettere che “Questa riflessione sulla fede si colloca, pertanto, nell’ambito
della gnoseologia teologica che la teologia fondamentale attuale recupera come un
proprio momento interno”82.

76
Cfr. ib; 94-96.
77
Si applica l’immagine all’ “anima” (il Padre) che pensa (il Figlio) e che ama (lo Spirito Santo) (cf ib; 94-95).
78
Cfr. ib; 96-97.
79
Cfr. ib; 97-104. «In effetti l’uomo scopre che qualsiasi azione particolare, qualsiasi realizzazione concreta ha sempre
un significato che va al di là di ciò che è, e lo trascende. E questo significato che trascende qualsiasi realizzazione è
quello che rende possibile scoprire il senso pieno al quale mira ciascuna realizzazione concreta, perché implicitamente o
esplicitamente, ogni realizzazione è sempre orientata verso un orizzonte illimitato e assoluto. È proprio qui, in questo
orizzonte illimitato, che noi riconosciamo l’apertura decisiva dell’uomo e la sua capacità fondamentale per ricevere la
possibile rivelazione di Dio. La quale, quindi, non si presenta come qualcosa di estraneo o alieno all’uomo, bensì come
realizzazione piena e totale – teorico-pratica – della vita umana, come l’orizzonte verso il quale la persona umana tende
a tentoni (At 17, 27)» (ib; 153).
80
Cfr. ib; 155-158.
81
Cfr. ib; 159.
82
Ib.
71
La fede viene definita come “l’adesione totale – AMEN – dell’uomo alla
parola definitiva e salvatrice di Dio”83. Essendo dunque un atto che coinvolge la
persona nella totalità delle sue dimensioni costitutive, in esso possiamo scorgere tre
aspetti fondamentali: “1) la conoscenza e confessione dell’azione salvifica di Dio
nella storia; 2) la fiducia e sottomissione alla parola di Dio e ai suoi precetti, nonché
3) la comunione di vita con Dio, adesso e insieme orientata verso l’escatologia”84.

La fede, a partire da una sintesi teologica, viene definita con la formula


“credere Deum/credere Deo/credere in Deum”85. Questa formula, può essere utile per
esprimere adeguatamente i tre aspetti biblici della fede (conoscenza, fiducia e
comunione escatologica), il suo carattere personale, il suo centro, fondamento e fine,
in Dio per mezzo di Gesù Cristo86. Con “credere Deum” (credere in Dio), si esprime
l’aspetto conoscitivo della fede, dunque, si vuole indicare il suo oggetto o contenuto
specifico (fides quae); con “credere Deo” (credere a Dio), si indica l’aspetto formale
della fede, ovvero, il motivo per il quale si crede (fides qua); con “credere in Deum”
(credere “verso” Dio), si esplicita l’aspetto di comunione escatologica a cui l’atto di
fede tende (itinerarium fidei/fides ut via). Il “credere in Deum” si presenta in tal
modo come la sintesi tra il “credere Deum” e il “credere Deo”, dunque come quella
espressione che designa l’atto di fede nella sua interezza costitutiva:
«Il credere Deum, come fides quae, e il credere Deo, come fides qua, per essere compreso
pienamente ha bisogno di questo dinamismo del credere in Deum, che può essere qualificato come
itinerarium fidei (fides ut via) (…) È così che il credere in Deum è mediazione tra il credere Deum,
con la oggettività del contenuto che suppone, e il credere Deo, con la adesione personale che
implica. E questa relazione binaria si può impostare come non dualistica per il fatto che ambo i poli
sono legati dal movimento progressivo e itinerante della esperienza di cammino che a suo modo il
87
credere in Deum designa» .

Per “analisi della fede” (analysis fidei) si suole indicare nella teologia classica,
lo studio della natura dell’atto di fede e dunque, l’armonizzazione dei suoi elementi
costitutivi (gratuità, ragionevolezza, libertà). Dal momento che l’atto di fede è
insieme atto umano e dono di Dio, in quanto atto umano ha bisogno di ragioni per
credere, ovvero, i cosiddetti “motivi di credibilità”88: “Il precisare, appunto, quale sia
la relazione tra i «motivi di credibilità» e il «motivo formale della fede» è la
questione entro la quale si muove quella che viene detta «analisi della fede»”89.

83
Ib; 160.
84
Ib.
85
Cfr. ib; 175.
86
Cfr. ib.
87
Ib; 178.
88
Cfr. ib; 179.
89
Ib.
72
L’autore invece, sulla base di una comprensione della fede, non più intesa in
senso intellettualistico, ma personalistico, propone una nuova formula che ne
permetta una più chiara esplicazione, ovvero, la “sintesi della fede”90. La “sintesi
della fede” indica l’atto del credere, il quale a sua volta implica la relazione tra la
fede come dono di Dio (la Rivelazione “creduta” mediante la fede: l’autofondazione
della fede) e la ragione come soggetto della fede (la Rivelazione “conosciuta”
mediante la ragione: la credibilità e i suoi segni).

Nell’illustrare il polo “oggettivo” della fede (la Rivelazione “creduta”


mediante la fede), Pié-Ninot parla della fede in due modi: come “illuminazione” e
come “orientamento vissuto, personale e comunicativo”. Tali modi, si presentano
come due momenti consecutivi di uno stesso processo, frutto dell’azione della grazia
nell’interiorità dell’uomo. Nel primo caso, egli intende la chiamata interiore o
instinctus interior, l’illuminazione interiore per opera dello Spirito Santo e dunque
della grazia divina, che prepara, muove e sollecita il cuore ad accogliere la verità
rivelata per mezzo della predicazione cristiana “esterna”91. Nel secondo caso invece,
si vuole affermare che tale grazia “crea nell’uomo un orientamento interiore, vissuto,
implicito e non riflesso, verso la comunione di vita con Dio, adesso nella fede, dopo
nella visione”92. La tematizzazione e l’autoconsapevolezza del soggetto di questo
dinamismo implicito-interiore, avviene a partire da un riconoscimento della sua
costituiva apertura radicale alla trascendenza e da una presa di coscienza del carattere
trascendente (frutto dell’autocominicazione divina e intenta all’orientamento
dell’uomo alla comunione con Dio) e immanente della grazia (connaturale all’uomo,
agisce nella sua interiorità, suppone e perfeziona la sua natura)93.

Per quanto riguarda invece il polo “soggettivo” della fede (la Rivelazione
“conosciuta” mediante la ragione: la credibilità e i suoi segni), entrano in gioco tre
elementi fondamentali: 1. i preambula fidei (preamboli della fede); 2. ratio fidei
(ragione/giustificazione della fede); 3. la cognitio per connaturalitatem (conoscenza
sperimentale, frutto della fede).

90
«Orbene, dato che gli studi contemporanei, tanto biblici quanto storici e antropologici, sottolineano una comprensione
più globale e integrale dell’atto di fede, non potremmo provare ad introdurre nella trattazione della fede la formula
“sintesi della fede”, come superamento dell’ “analisi della fede”? In effetti, se riteniamo che l’atto di credere è un atto di
“sintesi” nella quale si trovano tutte le dimensioni della vita (vitali, intellettuali, morali, affettive, estetiche, sociali…)
mosse in ultima istanza dal dono di Dio, potremmo parlare della “sintesi della fede” intesa come genitivo soggettivo: la
sintesi, cioè, che la fede realizza. In questo modo si vuole indicare la sintesi dei diversi “saperi” e delle diverse
“esperienze” che la fede realizza» (Ib.).
91
«Dio attrae interiormente l’uomo alla comunione con lui, comunicandogli un dinamismo nuovo verso la visione
beatifica, vale a dire la pienezza dell’aspirazione “naturale” dell’uomo (…) ed è il dono di Dio, che proietta l’uomo
oltre il suo orizzonte “naturale”, portandolo verso Dio stesso» (Ib; 182).
92
Ib; 183-184.
93
Cfr. ib; 184.
73
In riferimento ai prambula fidei, con questi, si vuole indicare le condizioni di
possibilità, tanto esterne quanto interne, del fatto della rivelazione e come momento
della sua intelligibilità94. Questi presupposti sono: 1. la conoscenza naturale di Dio; 2.
la possibilità di distinguere la rivelazione divina dagli altri fenomeni, nel
riconoscimento della sua credibilità; 3. la capacità del linguaggio umano di parlare in
forma significativa e vera anche di ciò che supera qualsiasi esperienza umana; 4. la
ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande
fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che
l’attende dopo la morte95.

Per ratio fidei intendiamo la ragione che illuminata e orientata dalla fede,
rende possibile una certa intelligenza e comprensione dei misteri della fede stessa.
Questa certa comprensione del dato di fede si articola attraverso tre punti sviluppati
dal Vaticano I: 1) l’analogia con ciò che si conosce naturalmente; 2) il nesso degli
stessi misteri tra loro; 3) il nesso di questi misteri con il fine ultimo dell’uomo96.

Infine, per cognitio per connaturalitatem, indichiamo quella forma di


conoscenza che a differenza della conoscenza razionale, poggia sulle disposizioni
abituali-sperimentali del soggetto conoscente:
«In effetti, attraverso queste disposizioni l’uomo si apre, in certo qual modo, ad un oggetto in tale
maniera da cogliere quello che risulta più in accordo con la sua natura grazie ad un’inclinazione
sperimentale e desiderio quasi “spontaneo” (…) la cognitio per connaturaliter suscita un tipo di
conoscenza che può essere qualificata anche come affettiva, per contatto, per istinto o per semplice
intuizione, che genera una “sintonia comunicativa”, e ricorda la tradizione cristiana dell’esperienza
97
mistica» .

Operando dunque una sintesi tra polo oggettivo e soggettivo dell’esperienza di


fede, potremmo definire l’atto di fede come frutto dell’autocomunicazione che Dio fa
di sé all’uomo attraverso la Rivelazione, mediata dalla predicazione cristiana (fede
come dono di Dio) e l’accoglienza da parte dell’uomo di tale autocomunicazione (la
ragione come soggetto della fede). Questa accoglienza è un atto che coinvolge la
persona nella totalità delle sue dimensioni costitutive. L’assenso al dato di fede è
94
«Queste verità sono “presupposti” della rivelazione, non propriamente nel senso che la loro conoscenza debba
procedere “cronologicamente” l’atto di credere, bensì nel senso che la loro negazione comporterebbe logicamente la
falsità delle verità rivelate e senza di esse non sarebbe possibile una comprensione intellettuale interiore dei misteri
della fede. La loro funzione, quindi, non è quella di dimostrare il fatto della rivelazione divina, bensì di rendere
intelligibile il suo contenuto, nel quale queste verità sono implicite logicamente» (Ib; 186).
95
Cfr. ib; 186-187.
96
Cfr. ib; 188.
97
Ib; 189. Continuando la citazione: «Così dunque, l’accettazione della chiamata alla fede si potrà sperimentare come
una conoscenza “connaturale” della credibilità e dell’atto di credere grazie al dono di Dio nella cui “preparazione”
collaborano tanto la situazione naturale dell’uomo, con la sua educazione e il suo ambiente, quanto ciò che inculca il
Dio che viene incontro – come luce e stimolo – e quello che viene dalla cooperazione dell’uomo con la sua accettazione
libera» (Ib; 190).
74
dovuto: 1. dall’azione della grazia, che come luce interiore, innestandosi nel
costitutivo dinamismo dell’uomo verso la trascendenza, illumina la ragione nel
riconoscere le verità proposte come divinamente rivelate, predispone e sollecita il
cuore ad aprirsi alla parola di Dio; 2. dalla ragione, che illuminata e orientata da
questo dono interiore, può giungere ad una certa conoscenza di queste verità rivelate;
3. da una conoscenza sperimentale di tipo affettivo-intuitivo, frutto sia dell’azione
interiore della grazia, che della situazione naturale dell’uomo, condizionata
dall’ambiente in cui è cresciuto ed è inserito; 4. dalla libera volontà dell’uomo, che
pur avendo le sollecitazioni interiori da parte del “cuore”, i motivi per credere da
parte della “ragione”, può non accogliere tale parola di Dio98.

L’autore per argomentare il passaggio nell’uomo da uditore della rivelazione a


soggetto credente, utilizza, all’interno della sua proposta di teologia fondamentale,
l’argomento della “convergenza di senso”: “convergenza”, in quanto convergenza di
indizi capaci di mostrare la credibilità propria della rivelazione e dunque che
sollecitano il soggetto a credere in essa; di “senso”, dal momento che tale
convergenza, si concentra sul “senso”, inteso come ragion d’essere e orientamento
finale dell’esistenza umana 99.

4. La credibilità come proposta di senso teologica, storica e antropologica

Per “credibilità” si intende ciò che


«equivale a essere degno di fede o affidabile (…) atto ad essere creduto, ragionevole e capace di
attrarre la persona verso un impegno di vita anche totale. In effetti la parola credibilità è in rapporto
diretto con la verità che scaturisce dalla testimonianza (…) Con la parola credibilità, dunque, la
teologia fondamentale, anche se con diverse forme e in contesti differenziati, ha espresso e vuole
100
esprimere la mediazione esistente tra la rivelazione e il soggetto credente» .

La nuova proposta di “credibilità” della rivelazione, da parte della teologia


fondamentale contemporanea, si presenta secondo una prospettiva “sintetica”, capace
di superare sia una concezione “analitica” della credibilità (è propria dell’apologetica
classica cattolica, che vedeva la credibilità come previa alla fede), che “dialettica”
(tipica della tradizione luterana che vedeva la credibilità solo a partire dalla fede).
Una concezione “sintetica” della credibilità, esprime in maniera piena una visione
personalistica della fede e i presupposti che la rendono possibile: la funzione
illuminativa del dono di Dio e i segni o i motivi di credibilità. La credibilità si
presenta quindi come condizione di possibilità dell’atto di fede. La sintesi dunque
dell’esperienza di fede è data in primo luogo, come già detto, dall’azione interna
98
Cfr. ib; 190-196.
99
Cfr. ib; 197-198.
100
Ib; 198-199.
75
illuminativa del dono di Dio (causa principale), e in secondo luogo, dai motivi di
credibilità (causa strumentale o condizione di possibilità)101.

La credibilità sarà compresa, come abbiamo già precedentemente esplicitato,


come “proposta sensata o di senso”, ovvero come proposta capace di dispiegare il
senso della piena autorealizzazione dell’umano102. Tale credibilità poggia su due
istanze fondamentali da cui trae la sua ragion d’essere: l’istanza “teologica” (scaturita
dalla fede) e l’istanza “filosofica” (scaturita dalla ragione), quest’ultima a sua volta
articolata intorno alla sua duplice dimensione: quella “storica” e quella
“antropologica”103:
«In tal modo, questa triplice articolazione della credibilità che proponiamo permetterà, in primo
luogo, di partire dal senso teologico della rivelazione – l’istanza teologica -; in secondo luogo, di
analizzare il suo senso storico a partire dalla sua effettuazione e presenza nella storia – l’istanza
storica – e, in terzo luogo, di percepire il suo senso antropologico grazie alla interpellazione e alla
offerta di senso ultimo e definitivo che propone alla persona umana e al mondo – l’istanza
104
antropologica» .

L’istanza “teologica” della credibilità, si fonda sulla rivelazione quale criterio


di orientamento dell’esistenza umana. L’accesso alla comprensione del mistero
salvifico rivelato, lo si ha solo a partire dalla fede:
«Risulta dunque chiaro che l’uso della credibilità nell’attuale teologia fondamentale è un uso
strettamente intra-teologico, e non pre- o a- teologico, visto che parte chiaramente dalla
105
comprensione teologica della fede ecclesiale» .

L’istanza “storica” della credibilità, fa riferimento alla proposta di senso della


rivelazione che prende corpo nella storia. La storia include in sé una triplice forma:
“originaria” (i fatti storici accaduti), “riflessiva” (la narrazione dello storico sui fatti),
“filosofica” (la considerazione sul senso degli eventi storici e sul fine della storia
stessa)106. Un’interpretazione della storia in prospettiva teologica, ci permette di
leggere la storia in chiave teleologica, cioè orientata verso un télos che da senso e
compimento a tutta la storia stessa: il Cristo. L’escatologia dunque, dà il pieno
significato alla storia, interpretandola come “storia della salvezza”, dove il piano di

101
Cfr. ib; 200-201.
102
Cfr. ib; 202. L’autore presenta elementi nuovi per la comprensione della credibilità oggi come proposta di senso: una
proposta articolata come una “argomentazione retorica persuasiva” (cfr. ib; 203-205); offerta a partire da una
“argomentazione razionale sensata” (cf ib; 205); che ha “un’intenzionalità comunicativa” (cfr. ib; 206); che vuole
sottolineare la propria “rilevanza” (cf ib; 206); capace di essere “verificativa” (cfr. ib; 207); orientata alla “pratica” (cfr.
ib; 207).
103
Cfr. ib; 208.
104
Ib; 209.
105
Ib.
106
Cfr. ib; 209-210.
76
Dio dispiegandosi progressivamente nei singoli eventi storici dell’umanità, tende
verso il suo pieno compimento107.

Infine, l’istanza “antropologica” della credibilità, prende in considerazione la


rivelazione come realtà che offre pienezza e definitività di senso all’esistenza umana:
«In definitiva, la credibilità come proposta antropologica dovrà tenere presente la triplice
‘situazione’ della persona umana: come essere ‘storico’, vale a dire radicato essenzialmente nella
immanenza della sua storicità; come essere ‘indigente’, vale a dire bisognoso di un senso definitivo;
come essere ‘desideroso del futuro’, vale a dire, in ricerca del dono di una parola e di un senso
108
ultimo» .

107
Cfr. ib; 210-211.
108
Ib; 211-212.
77

Potrebbero piacerti anche