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Mmn~z10N1

BIBLICHE
Collana BIBLICA

J.-1. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco.


Chiavi per l'interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia

J.-L. SKA, La strada e la casa.


Itinerari biblici

L. MAZZINGHl, «Ho cercato e ho esplorato».


Studi sul Qohelet

I volti di· Giobbe.


Percorsi interdisciplinari, a cura di G. MARCONI - C. TERMlNI
R. MEYNET, Morto e risorto secondo le Scritture

J.-1. SKA, Abramo e i suoi ospiti.


Il patriarca e i credenti nel Dio unico
Chiesa e ministeri in Paolo
acura di G. DE VIRGILIO

C. D'ANGELO, Il libro di Rut.


La forza delle donne. Commento teologico e letterario

E. BoRGHI, Giustizia e amore nelle Lettere di Paolo.


Dall'esegesi alla cultura contemporanea

G. VANHOOMISSEN, Cominciando da Mosè.


Dall'Egitto alla Terra Promessa

J.-L. SKA, Il libro sigillato e il libro aperto


R. MEYNET, Leggere la Bibbia.
Un'introduzione all'esegesi

Y. SrMOENS, Il libro della pienezza.


Il Cantico dei Cantici. Una lettura antropologica e teologica

X. Lt:.ON-DUFOUR, Un biblista cerca Dio

J.-L. SKA, I volti insoliti di Dio.


Meditazioni bibliche
Jean-Louis Ska

I VOLTI
INSOLITI
DI DIO
MEDITAZIONI BIBLICHE
«-'> 2006 Centro editoriale dehoniano
via Nosadella 6 - 40123 Bologna
EDB (marchio depositato)

ISBN 88-10-22128-1

Stampa: G rafiche Dehoniane, Bologna 2006


INTRODUZIONE:
IL Dro·DELLA BIBBIA E IL PADRE DI GESÙ CRISTO

«lo sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe»


(Es 3,6). «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall'Egit-
to, dalla casa di servitù» (Es 20,2). «Sono Dio e non un uomo, sono
il Santo in mezzo a te che non ama distruggere!» (Os 11,9). «Vi darò
il mio spirito e vivrete, vi farò stare tranquilli nel vostro paese e rico-
noscerete che io, il Signore, ho parlato e così farò» (Ez 37,14). «lo so-
no il Signore e non vi è altri. Io formo la luce e creo le tenebre, fac-
cio il benessere e provoco la sciagura; io, il Signore, faccio tutto que-
sto» (Is 45,6-7). Queste autodefinizioni di Dio pongono in risalto una
costante della Bibbia: Dio si rivela quando agisce nella storia umana.
Non è un Dio delle speculazioni, delle lunghe ricerche filosofiche o
un Dio che si raggiunge dopo faticosi esercizi mentali. Se gli uomini
non raggiungono Dio, lui li raggiunge nella loro storia quotidiana.
A questo primo aspetto se ne aggiunge un secondo: il Dio d'I-
sraele si rivela come il Dio di qualcuno: Abramo, Isacco e Giacobbe
prima, il popolo d'Israele dopo. Infine, sarà il Dio di Gesù Cristo. Il
luogo della rivelazione è la vita di queste persone, con le loro espe-
rienze felici e infelici, le loro vittorie e le loro sconfitte. Dio non si ri-
vela a persone già perfette, in situazioni ideali, quanto nel travaglio di
ogni giorno, nella povera e ardua ricerca del bene, nello sforzo, non
sempre coronato da successo, di creare un mondo più umano, nella
marcia gioiosa o stanca di un popolo verso la lontana «terra promes~
sa». Dio è presente nella nostra fedeltà e nei nostri tradimenti, è co-
lui che mantiene il suo popolo sui sentieri della giustizia e va a ricer-
carlo quando si smarrisce nei vicoli ciechi delle sue erranze. La Bib-
6 I volti insoliti di Dio

bia ci insegna che non vi è alcuna esperienza umana dalla quale Dio
possa essere assente. Nemmeno il peccato ci separa da Dio. Il Nuo-
vo Testamento ce ne darà una prova splendida. Il Dio della Bibbia è
un Dio pellegrino, che vive sotto la tenda e accompagna il suo popo-
lo in tutti i suoi esili, che lo segue in tutti gli Egitti e le Babeli della
sua storia e lo guida in tutti i suoi deserti. Infine, «ha piantato la sua
tenda fra noi e abbiamo visto la sua gloria» quando il Verbo si è fat-
to carne (Gv 1,14). Ormai è la stessa umanità che diventa il luogo
della rivelazione. Ci spetta ora di fare nostra questa esperienza e di
entrare nella storia dove Dio, il Dio dei patriarchi, il Dio dell'esodo
e il Dio di Gesù Cristo ci precede e ci guida.
«Quando potrò venire a contemplare il volto di Dio?», dice il
salmista (Sal 42,3). Mosè dirà qualcosa di simile in Es 33,18: «Fam-
mi vedere la tua gloria» e uno dei discepoli di Gesù, Filippo, farà eco
alla stessa richiesta durante i discorsi di Gesù dopo l'ultima cena:
«Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Il desiderio.umano di vede-
re Dio pervade la Bibbia, la storia del cristianesimo e la storia delle
religioni. Le risposte sono molte, sono variegate e spesso sorpren-
denti. Il titolo di questo libro vuole esprimere la sorpresa che ci
aspetta quando percorriamo la Bibbia in cerca di una risposta a que-
sta lancinante domanda. Mi permetto, in conclusione di questo bre-
ve «invito al viaggio», di riprendere un aneddoto che fa parte della
tradizione dei Chassidim, i pii ebrei. Un giovane discepolo si avvici-
na una mattina al suo vecchio maestro e gli dice: «Come mai, nei tem-
pi antichi, Dio appariva spesso ai nostri padri, ad Abramo, ad Isac-
co, a Giacobbe, a Mosè e a tanti altri? Oggi, invece, nessuno lo vede
più». Il vecchio rabbino rifletté a lungo, lisciandosi la barba con la
mano, poi rispose: «Perché noi, non possiamo più chinarci abba-
stanza in basso».
Il significato della storiella non è del tutto chiaro. Il rabbino in-
tendeva dire che non possiamo vedere Dio perché non vogliamo più
inchinarci davanti alla sua gloria e alla sua maestà ? Vale a dire perché
manchiamo dell'umiltà necessaria? O pensava forse che non siamo
più capaci di rispettarlo e venerarlo come si deve? In un tal senso sa-
rebbe dunque un invito a ritrovare quello che la Bibbia chiama «il ti-
more di Dio» senza il quale nessuno può «vedere la faccia di Dio».
Potremo cioè vederlo solo quando ritroveremo il senso dell'adora-
Introduzione: il Dio della Bibbia e il Padre dz· Gesù Cristo 7

zione. O forse voleva dire che Dio non si deve cercare nelle alture,
nelle esperienze sublimi e straordinarie, bensì nella semplicità delle
cose «terra terra»? Guardiamo troppo in alto, mentre Dio si rivela
«in basso». Si dovrebbe parlare allora, alla stregua di François Varil-
lon, dell'umiltà di Dio e, forse, proprio nel senso etimologico della
parola, vale a dire di un Dio «vicino al suolo». Umiltà, infatti, viene
dalla parola latina humus, che significa «suolo». Per questo motivo,
chi si piega, si china, si abbassa verso il suolo, potrà scoprire il volto
di Dio; ma non ci riuscirà «se il suo cuore s'inorgoglisce, se sono bo-
riosi i suoi occhi, e si muove fra cose troppo grandi, superiori alle sue
forze» (cf. Sal 131,1). Deus semper maior («Dio è sempre più gran-
de»), così si intitola una celebre opera sugli esercizi di s. Ignazio di
Loyola, scritta in tedesco da un gesuita di origine polacca, Erich
Przywara. Alla fine della sua vita, però, lo stesso Przywara avrebbe
preferito rovesciare la formula per dire: Deus semper minor («Dio è
sempre più piccolo»). 1 Aveva ragione? Le pagine che seguono vor-
rebbero non offrire una risposta completa a queste domande, quan-
to piuttosto segnalare, al limitare dei boschi biblici, i sentieri che si
inoltrano qua nella fustaia, là nel bosco ceduo, là ancora nella mac-
chia mediterranea, per ritrovare le orme che il nostro Dio ha lasciato
al suo passaggio quando & venuto a visitarci alla brezza dell'alba (cf.
Es 34,2; lRe 19,12).

]EAN-LOUIS SKA
Giugno 2005

Avvertenza. Gran parte delle meditazioni proposte in questo


volume fanno parte di un piano di lavoro scritto per il Movimento
Rinascita Cristiana nell'anno 1998. Ho ripreso e riveduto i testi, poi
ho aggiunto una serie di nuove meditazioni per completare il quadro.
Le meditazioni seguono, nella maggioranza dei casi, un piano fisso:
una breve introduzione sulla natura del brano e sulle sue principali
caratteristiche, uno studio della sua struttura letteraria e, infine, qual-

1 E. PRZYWARA, Deus semper maior. Theologie der Exerzitien, 3 voll., Herder,


Freiburg im Breisgau, 21964.
8 I volti insoliti di Dio

che spunto per la meditazione personale o collettiva. Altre medita-


zioni, specialmente quelle aggiunte in seguito, adottano uno schema
più libero e più idoneo ali' argomento trattato. I testi scelti proven-
gono dall'Antico e dal Nuovo Testamento, sebbene l'Antico, meno
conosciuto, sia stato privilegiato. Ringrazio di cuore la signora Fran-
cesca Sacchi e don Federico Giuntoli per le correzioni e gli utili sug-
gerimenti.
IL DIO CREATORE CHE ABITA
IL TEMPO E LA STORIA
(Gen 1,1-2,3)

1. INTRODUZIONE

La prima pagina della Bibbia presenta una riflessione molto ela-


borata del popolo d'Israele durante e dopo l'esilio in Babilonia (587-
538 a.C.). Questa esperienza e il confronto con la religione e la cul-
tura mesopotamiche hanno obbligato gli israeliti a ripensare la loro
fede. Era diventato necessario riformularla in un linguaggio nuovo
per rispondere alle sfide del presente. I problemi principali erano
due. Primo, la presa di Gerusalemme, la distruzione del tempio e la
fine della monarchia potevano apparire, secondo la mentalità dell'e-
poca, come una sconfitta del Dio d'Israele, incapace di difendere il
suo popolo e la sua città santa. Se gli dei di Babilonia sono più po-
tenti del Dio d'Israele, perché non adottare la religione dei vincitori?
Israele non ha ceduto a questa tentazione perché è riuscito a dimo-
strare che il suo Dio era di gran lunga superiore agli altri dei. Gen
1,1-2,3 è uno dei testi che serve a questa dimostrazione. Secondo,
Israele aveva perso alcune istituzioni essenziali ali' esistenza di un po-
polo in quel tempo: la monarchia, vale a dire l'autonomia politica, e
il tempio, che era il simbolo della propria identità religiosa. Il rac-
conto della creazione apre una via che permetterà a Israele di fare a
meno di questi due elementi senza perdere niente delle sue antiche
tradizioni religiose.
L'idea essenziale di questo testo è che il Dio d'Israele, quello che
poi parlerà ai patriarchi e a Mosè, il Dio che farà uscire il suo popo-
lo dall'Egitto e lo condurrà nella terra promessa, è nientemeno che il
10 I volti insoliti di Dio

creatore dell'universo. Non è pertanto una divinità locale o naziona-


le, ma il Dio dell'universo e, quindi, anche il Dio della Mesopotamia,
di Babilonia o della Persia. È il Dio di tutte le nazioni. Per mostrar-
lo, l'autore del brano spiega per esempio che Dio - il Dio d'Israele -
ha creato gli astri, vale a dire il sole, la luna e le stelle. Il testo prefe-
risce non pronunciare questi nomi, forse anche per non alludere alle
divinità della Mesopotamia che erano quasi tutte identificate con gli
astri. In altre parole, il Dio d'Israele ha creato quello che i potenti po-
poli della Mesopotamia consideravano come loro divinità. Se è così,
il Signore d'Israele è molto superiore a queste divinità. Infine, il ra-
gionamento poggia su un principio essenziale del pensiero antico:
quello che era prima è sempre più importante di quello che segue. In
Gen 1, il Dio d'Israele esisteva prima di tutto il creato - lui e lui so-
lo esisteva «all'inizio» (Gen 1,1) - e quindi è «più importante» di tut-
to l'universo. In parole più teologiche, egli trascende tutto il creàto.
La conseguenza è chiara: se il Dio d'Israele è tale, non vi è alcuna ra-
gione di abbandonarlo per onorare divinità inferiori.
L'ambiente nel quale il brano è stato redatto ne spiega un ulte-
riore tratto. Le immagini usate per descrivere la creazione, special-
mente il suo inizio, riecheggiano testi e rappresentazioni mesopota-
mici in cui il creato emerge dalle acque e dalle tenebre come una pia-
nura emerge lentamente dalle acque dopo un allagamento. Questo
fenomeno si osservava nelle grandi pianure della Mesopotamia pres-
soché ogni anno. Le piogge dell'inverno e lo scioglimento della neve
sulle montagne provocavano ogni primavera grosse piene e allaga-
menti. Poi l'acqua si ritirava, le terre riapparivano e si poteva semi-
nare. In Israele, invece, le immagini sono diverse: la creazione asso-
miglia piuttosto alla trasformazione di una steppa desertica in un'oa-
si irrigata e fertile (vedi Gen 2,4b-25).

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

L'architettura del brano ne rivela il significato profondo. Chi ca-


pisce l'architettura di un edificio capisce anche quale ne è lo scopo.
Basti segnalare qualche elemento di più grande rilievo in Gen 1.
Dio crea il mondo in sette giorni e dieci parole. Vi sono quindi
dieci «opere» distribuite in sette giorni. Tre fra i giorni sono più im-
Il Dio creatore che abita il tempo e la storia (Gen 1, 1-2,3) 11

portanti: il primo, il quarto e il settimo, vale a dire i due giorni che si


trovano alle «estremità>> della settimana e quello che sta proprio in
mezzo a essa. Nel primo giorno Dio crea la luce, nel quarto gli astri,
vale a dire il calendario e l'orologio dell'universo, e nel settimo si ri-
posa. Questi tre giorni hanno un elemento in comune: sono in stret-
ta relazione con il tempo. La creazione della luce inaugura l'alter-
nanza del giorno e della notte, che è il ritmo basilare del tempo. Gli
astri hanno come funzione di segnalare «le feste, i giorni e gli anni».
Come detto, Dio crea un «calendario cosmico». Infine, nell'ultimo
giorno della settimana, il settimo, Dio si riposa. Entriamo nel tempo
allo stato puro, in un tempo «vuoto». In questo giorno Dio solo «è»
perché non fa più nulla. E il testo non dice che ci fu una sera per il
settimo giorno!
In tutto il brano predomina in ogni caso la dimensione tempo-
rale. Il tempo è più importante dello spazio. È significativo, per
esempio, che il brano si concluda con la celebrazione di un tempo
sacro, il sabato, e non, come in diversi racconti antichi dello stesso
genere, con la costruzione di un tempio o di un palazzo per il dio
creatore. Il Dio d'Israele non ha un tempio, ma un tempo sacro. Il
primo santuario sarà costruito molto dopo, nel deserto (Es 35-40).
Mosè riceverà le istruzioni per questa costruzione che, in ogni mo-
do, non è statica ma si sposta con il popolo. Anche qui prevale la di-
mensione temporale: la presenza di Dio è dinamica perché accom-
pagna il popolo nelle sue peregrinazioni nel deserto, verso la meta fi-
nale che è la terra promessa. Il Dio d'Israele abita la storia del suo
popolo. Per tornare al nostro brano, il popolo che non ha più san-
tuario può nondimeno venerare il suo Dio perché può contemplare
la sua attività durante la settimana e celebrarlo durante il «tempo sa-
cro» del sabato.

3. PISTE DI RIFLESSIONI PER LA MEDITAZIONE

1. Il brano descrive l'attività creatrice di Dio secondo un piano


ben definito. Osservare per esempio la progressione nitida che inizia
con il «caos iniziale» (Gen 1,2) e si conclude con il sabato (Gen 2,1-
3 ). Vale la pena fare una lista di queste opere per vedere meglio que-
sta successione. Si passa progressivamente da elementi cosmici ina-
12 I volti insoliti di Dio

nimati (luce, cielo, terra, mare, astri) alla vegetazione, poi a forme più
elaborate di vita, vale a dire a esseri viventi sempre più «intelligenti»
(pesci, uccelli, animali, uomini). Si può anche vedere nel brano una
corrispondenza fra creazione del mondo e risveglio della coscienza
umana. Nel seno materno, l'embrione vive in un mondo di tenebre e
di «acqua» (liquido amniotico). La prima esperienza del neonato, al-
la nascita, è quella della luce - perciò «dare alla luce» è sinonimo di
«partorire». Il neonato fa successivamente l'esperienza del tempo
(giorno-notte), poi dello spazio, con le sue dimensioni verticali e oriz-
zontali. La vita di un essere umano passa in seguito per diverse fasi:
vegetativa, animale, poi sempre più «umana», fino al matrimonio.
L'ultima tappa è il sabato dove l'essere umano sperimenta l'infinito
dell'eternità divina.
2. Quali sono le prime opere di Dio? Vedi per esempio l'uso del
verbo «separare» e «chiamare» nella prima parte della settimana.
Quanti «scompartimenti» vi sono nell'universo?
3. Dopo la creazione delle piante (Gen 1,11-12), ci si aspette-
rebbe la creazione degli animali. Le piante serviranno, infatti, a nu-
trire tutti gli esseri viventi. Però non è così e Dio crea gli astri nel
quarto giorno (Gen 1,14-19). Ciò dimostra l'importanza di questa
opera che si trova in mezzo alla settimana. Inoltre Dio affida agli astri
un «dominio» sul ritmo dei giorni e delle notti, sulla divisione fra lu-
ce e tenebre (Gen 1,16.18). Come esprimere tale dominio in un lin-
guaggio moderno? Gli uomini che saranno creati dopo possiedono
questo potere o vi sono subordinati? Quali conseguenze possiamo
trarre da questo fatto a proposito della condizione umana secondo il
presente brano? I «tempi fissi» di cui parla Gen 1,14 («stagioni» o
«feste» secondo le traduzioni) sono in realtà le feste liturgiche, i mo-
menti in cui si raduna il popolo per celebrare il suo Dio. Perché il te-
sto dà tanta importanza al «tempo liturgico»? Perché fare del tempo
e della storia un «tempo sacro»?
4. Nella seconda parte della settimana, Dio crea gli esseri viven-
ti: pesci, uccelli, animali ed esseri umani. Ogni specie riempie una
parte dell'universo: gli uccelli riempiono il cielo, i pesci le acque e gli
uomini la terra. In questa parte dominano due verbi importanti: il
verbo «creare» e il verbo «benedire». La benedizione è legata alla fe-
condità. Per la prima coppia di esseri umani, essa significa anche
Il Dio creatore che abita il tempo e la storia (Gen 1,1-2,3) 13

«dominio». Questo «dominio» degli uomini sulla terra corrisponde


al «governo» degli astri sul tempo. Come interpretare il «dominio»
degli esseri umani sulla terra e sugli anima]i? Chi è «responsabile»
della terra e degli animali? Chi «regna» sul creato? Solo i re, i diri-
genti, o tutti gli uomini come tali? Perché?
5. Dio crea le piante e tutti gli animali «secondo le loro specie».
L'essere umano, tuttavia, è creato «a immagine di Dio, secondo la sua
somiglianza». Non esistono quindi per questo testo diverse «specie
umane» o «razze umane». Tutti sono creati «all'immagine di Dio, se-
condo la sua somiglianza». Quali potrebbero essere le conseguenze di
questo fatto? Si potrebbe dire, come in un testo mesopotamico, che il
re è l'immagine degli dei e gli altri uomini (liberi) sono l'immagine del
re? E lo schiavo, allora, sarebbe l'immagine dell'uomo libero?
6. Quante volte si ripete la frase: «e Dio vide che era buono»?
Che cosa dice il testo esattamente l'ultima volta che appare questa
frase? Vi è una sola negazione in questo brano? Una sola nota nega-
tiva? Perché?
7. Alla fine del sesto giorno, Dio stabilisce quale sarà il cibo di
tutti gli esseri viventi (Gen 1,29-30). Sarà possibile mangiare carne?
Perché? Cf. Gen 9,1-3. Il mondo è pacifico e non vi è traccia di vio-
lenza. Si spargerà sangue in questo mondo? Perché immaginare un
mondo ideale e irreale di questo tipo? In quale mondo viviamo oggi?
Che cos'è cambiato? Paragonare con Gen 6,5-12; 9,1-7.
8. Il riposo del sabato. Dio crea un mondo autonomo e ben re-
golato. Gli astri governano l'universo e gli uomini sono incaricati del-
la terra. Come interpretare il «riposo» divino? Dio, secondo la tradi-
zione rabbinica, si riposa non perché non ha più niente da fare, ma
perché lascia al mondo lo spazio necessario per «funzionare» e agli
uomini lo spazio indispensabile per esercitare la loro libertà e la loro
responsabilità. Quali sono le conseguenze di questo «riposo divino»
per l'umanità? Qual è la responsabilità degli uomini verso l'universo
creato da Dio e verso lo stesso Dio creatore?
DIO E LA SAPIENZA - LA CREAZIONE COME
«GIOCO»
(Pr 8,22-30)

1. INTRODUZIONE

Pr 8,22-30 è un testo in cui la Sapienza fa il proprio elogio. In


poche parole, essa afferma di essere più antica di tutte le altre crea-
ture e di essere stata presente quando Dio ha creato il mondo. Ritro-
viamo in queste affermazioni l'idea che ciò che precede nel tempo è
più importante: la Sapienza è superiore a tutte le creature perché è
stata generata prima di esse (Pr 8,22). È un altro modo per dire che
la Sapienza vale più di tutte le cose di questo mondo.
Nella Bibbia, la Sapienza è anzitutto un «saper fare» e corri-
sponde raramente a un sapere meramente intellettuale. Alla corte del
re, i «saggi» sono i consiglieri che sanno spiegare al re quale politica
adottare e quali decisioni prendere. Giuseppe è uno di questi «sag-
gi» perché riesce ad interpretare i sogni di Faraone e a proporre la
soluzione adeguata al problema della carestia che si annuncia (Gen
41, spec. 41 ,3.3 .3 9-40). Anche gli artigiani sono «saggi» secondo la
Bibbia quando sono «abili» nel loro mestiere e «sanno fare» (Es
35,31-36,1).

2. LA STRUTTURA DEL BRANO

Vi sono due parti principali in Pr 8,22-30. Dopo l'affermazione


iniziale (8,22-23), la Sapienza mostra che esisteva prima di tutte le
creature (8,24-26), poiché era presente quando Dio ha creato l'uni-
verso (8,27 -31).
16 1 volti insoliti di Dio

L'universo cli Pr 8 è simile a quello cli Gen 1. Ritroviamo per


esempio le acque e la terra (8,24 e 8,25-26); il cielo (8,27a), le acque e
il mare (8,27b-29ab), e la rerra (8,29c). L'ultima parte del brano rias-
sume l'insieme in un'immagine: la Sapienza è sempre alla presenza di
Dio, si diverte davanti a lui e trova le sue delizie con gli uomini.

3. QUALCHE PISTA DI RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. «E io mi divertivo davanti a lui tutto il tempo, mi divertivo


nell'universo» (Pr 8,30-31). La Sapienza si presenta anche come l'ar-
chitetto dell'universo. La traduzione del termine è discussa, però vi
sono buoni motivi per pensare che questo sia il significato più adat-
to al contesto. La Sapienza avrebbe quindi partecipato attivamente
alla creazione. Per esempio ne avrebbe tracciato la pianta e concepi-
to l'organizzazione. Dio ha creato l'universo «con Sapienza». Come
si manifesta questa «Sapienza» nell'universo? Come ritrovarla? Essa
afferma che «trova le sue delizie fra gli uomini». Sarà dunque pre-
sente nel nostro mondo. Dove si trova questa abilità nell'arte cli vi-
vere?
2. Un punto interessante per un'ulteriore riflessione è l'immagi-
ne della Sapienza che «si diverte» davanti a Dio e in tutto l'universo.
L'idea è probabilmente di origine egiziana. In Egitto, infatti, la Sa-
pienza (Maat) è una divinità che presiede all'ordine dell'universo.
Ogni mattina, quando si alza, si presenta in tutta la sua bellezza da-
vanti al dio creatore dell'universo. Costui la vede, l'ammira e trae la
sua ispirazione da questa visione per creare o governare l'universo.
In Pr 8, questa Sapienza «si diverte» davanti a Dio. Il verbo usa-
to in ebraico si ritrova - con una leggera variante - nel nome Isacco
(«egli ride») e significa «ridere», «divertirsi», «giocare». Ciò vuol di-
re che la Sapienza che ispira Dio nella sua opera creatrice si diverte
e trova piacere in questa attività. La creazione è frutto non di uno
sforzo, di un bisogno, ma di un piacere, di un divertimento. Dio non
crea l'universo perché ne ha bisogno, perché era necessario. Lo crea
«gratuitamente», per pura generosità. Non lo crea perché deve servi-
re, essere utile o giovare a qualcuno, un valore in se stesso. In gene-
re, dividiamo le nostre attività in due categorie: facciamo cose utili e
cose inutili. Il brano ci insegna che esiste una terza categoria, più fon-
Dio e la sapienza - La creazione come «gioco» (Pr 8,22-30) 17

damentale: cose che non sono immediatamente utili, ma neanche


inutili. Sono gratuite e hanno valore in se stesse. Si fanno perché uno
trova piacere nel farle. Come ritrovare questa dimensione nella vita
quotidiana? Dove si vive questa dimensione? Che cosa si potrebbe
fare per permettere al nostro mondo di riscoprire questa dimensione
del piacere e della gioia di vivere, perfino nel chiaroscuro di tante
giornate?
IL DIO DI CAINO O IL DIO CUSTODE DELLA VITA
(Gen 4,1-16)

1. I NTRODUZIONE

Caino e Abele sono i primi due «fratelli» della storia umana. Se-
condo Gen 4,1-2, sono i figli di Adamo ed Eva. Tuttavia, i genitori
spariscono rapidamente dal racconto e non intervengono più sino al-
la conclusione (Gen 4,25 ). Per esempio, il brano non menziona nes-
suna reazione da parte loro dopo la morte violenta di Abele. Conta-
no solo i due fratelli. Il conflitto che sorge è paradigmatico perché
oppone un agricoltore a un pastore. La storia è pertanto emblemati-
ca perché mette in scena due «tipi». Il racconto descrive anche il pri-
mo omicidio, che è un fratricidio. In questo modo, suggerisce che
ogni omicidio potrebbe essere un fratricidio.

2. C OSTRUZIONE DEL BRANO

Gen 4,1-16 dipinge le diverse fasi di un caso giuridico. Dopo


l'introduzione e la presentazione dei personaggi (4,1 -2), abbiamo il
reato (4,.3-8), l'indagine e l'interrogatorio (4,9-10), la sentenza di con-
danna (4,11-12), il ricorso del condannato (4,13-14) e l'aggiunta di
una clausola alla sentenza (4,15). Segue una breve conclusione (4,16).

3. Q UALCHE DOMANDA PER LA RIFLESSIONE

1. Una domanda fondamentale e molto difficile riguarda il sa-


crificio di Caino. Perché Dio non l'ha «guardato», «considerato»?
20 I volti insoliti di Dio

Questo vuol dire che lui non era ben accetto ai suoi occhi? Dio è cer-
to libero nelle sue scelte e nelle sue preferenze. Però in questo caso
la scelta sembra di primo acchito arbitraria e avrà inoltre delle con-
seguenze fatali per Abele.
Fra le diverse spiegazioni, due sono più interessanti. La prima si
fonda su studi di psicologia religiosa (René Girard).1 Secondo questo
studioso, la differenza fondamentale fra il sacrificio di Abele e quel-
lo di Caino è che il primo offre animali e il secondo vegetali. Abele
deve esercitare una certa violenza - ammazza animali e sparge sangue
- per offrire i suoi sacrifici. Caino invece non è «violento». In ogni
essere umano, tuttavia, si nasconde una carica di violenza che deve
trovare una «via di uscita». Nel caso di Abele, questa violenza trova
uno sbocco accettabile e costruttivo: il sacrificio di animali a Dio. Nel
caso di Caino, invece, la violenza non si scarica poiché le sue offerte
sono vegetali e così ritorna alla fine contro Abele, suo fratello. Que-
sto modo di agire è evidentemente inaccettabile. Dio aveva chiesto
invano a Caino di «dominare» la violenza che è in agguato come un
animale ed è pronta a colpire (Gen 4,6-7). La domanda quindi è di
sapere come «addomesticare» o «incanalare» la violenza e raggressi-
vità che si nasconde in ogni individuo e in ogni società.
La seconda spiegazione si basa sulle riflessioni dei rabbini. Per
loro, il sacrificio di Caino non è stato accettato perché non corri-
spondeva alle esigenze riguardo alle offerte vegetali: bisogna offrire
le primizie e non qualsiasi offerta. Abele, dal canto suo, rispetta que-
ste esigenze poiché offre i primogeniti del suo gregge. L'uno non sce-
glie, mentre l'altro lo fa. Caino, infine, non è capace neanche di «sce-
gliere» la sua condotta e si lascia dominare dalla gelosia (Gen 4,6-7).
In questo caso, si può riflettere sull'importanza della libertà di scelta
nelle azioni umane e sul legame fra la relazione corretta con Dio e la
relazione corretta con «il fratello».
2. Perché Dio interviene per castigare Caino? Nel mondo bibli-
co, il sangue è sacro e appartiene solo a Dio, perché <<la vita è nel san-
gue» (Lv 17,14). Chi sparge il sangue infrange una legge divina. Nes-

1 Si veda in particolare la sua opera ormai classica, La violence et le sacré, Gras-


set, Paris 1972; tr. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.
Il Dio di Caino o il Dio custode della vita (Gen 4,1-1 6) 21

sun essere umano ha diritto sul «sangue» di un'altra persona. Persi-


no il sangue degli animali è s.acro e perciò non può essere consuma-
to (Gen 9,4-6; Lv 17 ,11). La sacralità del sangue nella Bibbia ci ri-
corda la sacralità della vita come tale e il rispetto dovuto ad ogni es-
sere vivente, persino agli animali.
3. La condanna di Caino (Gen 4,11-12). Caino è la sola persona
in tutta la Bibbia che Dio maledice concretamente. Come capire il le-
game fra l'omicidio e la condanna? Perché Caino diventa «ramingo
e fuggiasco sulla terra»? Perché il suolo diventerà sterile? Caino sarà
escluso dalla società - «scomunicato» nel senso proprio della parola
- e vivrà in un mondo improduttivo. Non sarebbe l'immagine della
vita alla quale si condanna chiunque attenta alla vita di un «fratello»?
4. Il «segno di Caino». Dopo il breve ricorso di Caino che chie-
de grazia per la sua vita (4,13-14), Dio introduce una clausola nella
sentenza per impedire che sia ucciso (4,15a). Per assicurare che sia ri-
spettata questa decisione, Dio «pose un segno su Caino, cosicché
chiunque l'avesse trovato non l'avrebbe ucciso» (4,15b). Il «segno di
Caino» è dunque un segno di protezione, non di infamia.
Innanzitutto occorre «staccare» il brano dal suo contesto attua-
le. Il racconto esce dallo stretto quadro dei primi capitoli della Ge-
nesi per diventare «emblematico». Caino è il <<tipo» dell'omicida, di
ogni omicida, in qualsiasi società del Medio Oriente antico. Perciò il
brano non tiene conto del fatto che, nel suo contesto attuale, Caino
è solo sulla terra con i suoi genitori e il lettore critico potrebbe chie-
dersi chi può essere il potenziale giustiziere di Caino. Così si capisce
anche che Caino possa trovare una moglie (4,17). Il racconto non si
pone la domanda di sapere da dove possa provenire.
Il punto essenziale di questo brano è che la vita di una persona
rimane sacra, anche quella di un criminale. La violenza non può sca-
tenarsi mai in modo sregolato, nemmeno contro chi è stato violento
e assassino. Inoltre, il racconto è ambientato in un mondo dove la po-
polazione è molto scarsa. Un caso simile è descritto in 2Sam 14,1-8
dove una madre chiede al re la grazia per un figlio fratricida perché
ha solo due figli. Quale conclusione possiamo trarre dal paragone fra
i due testi? Quali sono i valori in gioco? È possibile difendere questi
valori nel mondo odierno? Come?
LA «TORRE DI BABELE» (Gen 11,1-9)
E IL DIO ANTI-TOTALITARIO

1. INTRODUZIONE

Il famoso racconto della «torre di Babele» ha ispirato molti pit-


tori e scrittori. Nell'immaginario popolare, la storia spiega perché vi
sono tante lingue (e tanta confusione) in questo mondo. All'inizio,
tutti parlavano la stessa lingua in un mondo armonioso mentre la
molteplicità delle lingue sarebbe un castigo divino. Il peccato che
provoca la reazione divina non è difficile da definire: gli uomini han -
no cercato di costruire una torre che potesse raggiungere il cielo.
Perciò si tratta sicuramente di un peccato di orgoglio (hybris) com-
messo dagli uomini che hanno voluto «diventare uguali a Dio» (cf.
Gen 3,5.22).
Questa spiegazione tradizionale non si giustifica completamente.
Il testo usa in 11,1 un'espressione idiomatica che significa esatta-
mente «essere concordi», «essere unanimi» e una seconda che signi-
fica «avere lo stesso piano», «collaborare alle stesse imprese». Nella
spiegazione tradizionale, si parla molto della torre e si dimentica la
città, importante anch'essa.
Il racconto, tutto sommato, rispecchia la reazione ironica, anzi
satirica, di un ebreo che visita la Mesopotamia e vede le grandi città
con le loro cittadelle (la «torre») e popolazioni enormi concentrate in
poco spazio che parlano lingue e dialetti diversi. Si stupisce anche di
vedere come costruiscono le città: con mattoni e con bitume, perché
non c'erano cave di pietra in Mesopotamia. Forse questo ebreo avrà
anche visto una città incompiuta.
24 I volti insoliti di Dio

La costruzione di una città con una torre e il desiderio di farsi un


«nome» (11,4) erano cose comuni in Mesopotamia. Un grande re dove-
va conquistare un impero, unificarlo e pacificarlo sotto una legge ferrea
e costruirsi una nuova capitale per immortalare la sua fama. Le immagi-
ni presenti in questo racconto descrivono quindi il sogno imperialistico
e totalitario dei re della Mesopotamia. Con sottile ironia, l'autore di Geo
11,1-9 mostra come questo sogno sia stato vanificato dallo stesso Dio.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

Il brano comporta due movimenti inversi (11,1-4 e 11,5-9). Pri-


mo, gli uomini si radunano per edificare una città e una torre. Al mo-
vimento «orizzontale» delle nazioni verso la pianura di Sennaar (Ba-
bilonia) succede un movimento «verticale», vale a dire la costruzio-
ne della città e della torre che deve «toccare il cielo». Nella seconda
parte della storia, questo movimento si rovescia: Dio «scende» (mo-
vimento verticale verso il basso) per vanificare il desiderio degli uo-
mini di «edificare» e di «salire» (11,4 e 11,5.7.8b); poi decide di di-
sperdere le nazioni e in questo modo disfa il primo movimento oriz-
zontale di concentrazione in un solo luogo (11,2 e ll,8a).

3. PISTE DI RIFLESSIONI PER LA MEDITAZIONE

Il linguaggio del brano è molto ironico. Per esempio, le nazioni


vogliono costruire una torre che possa raggiungere il cielo. Per ve-
derla, però, Dio deve «scendere» (11,5.7) ! Il narratore gioca anche
sul nome Babele che fa derivare dal verbo ebraico balal, «confonde-
re». Il brano contiene quindi una forte satira dell'imperialismo e dcl
totalitarismo mesopotamico. Si ribella contro il mondo uniforme e
contro le grandi concentrazioni di popolazioni di questi imperi. Di-
fende, al contrario, la diversità delle culture e delle lingue, e l'occu-
pazione di tutta la terra.
Nella Bibbia, quando Dio vanifica un progetto, significa che è
impossibile realizzarlo. Quindi il sogno di Babele è impossibile. Per-
ché? Quali sono i valori fondamentali che sarebbero cancellati? Qua-
li lezioni possiamo trarre da questo racconto per la «costruzione» di
una comunità cristiana o di una Chiesa cristiana?
L'OSPITE DIVINO
(G en 18,1-8)

1. I NTRODUZIONE

Gen 18,1-16 descrive una scena molto conosciuta che ha avuto


grande successo nell'iconografia cristiana perché è servita spesso a
rappresentare la Trinità. Già i padri della Chiesa avevano visto nei tre
«uomini» che si fermano davanti alla tenda di Abramo (18,2) una pre-
figurazione della Trinità. Fra le rappresentazioni più conosciute oc-
corre annoverare quella di Rublev che si trova alla galleria Tretriakov
di Mosca. In questa icona sono visibili gli elementi essenziali della sce-
na: l'albero, sulla destra del personaggio centrale (18,1.4.8); le costru-
zioni dietro al personaggio a sinistra che sono una rappresentazione
della tenda; i tre personaggi che portano sandali e tengono un basto-
ne in mano perché sono pellegrini (18,3.5 .16); sulla tavola si vede un
vaso o calice nel quale si può indovinare il piatto preparato da Abra-
mo, il vitello grasso (18,7). Fra i mosaici che si ispirano a questa sce-
na, possiamo menzionare quello di S. Vitale a Ravenna.
In questa meditazione vorrei evidenziare un aspetto spesso mi-
sconosciuto dei racconti biblici, in particolare di quelli del libro del-
la Genesi. In un opuscolo anonimo 1 che ebbe grande successo du-

1 L'opera fu attribuita erroneamence a Cassio Longino, un grande intellettuale

del III secolo d.C., celebre e famoso personaggio della corte di Zenobia, regina di
Palmira in Siria, giustiziato dall'imperatore Aureliano nel 273 d.C. Si deve collocare
questo scritto più probabilmente entro la fine del I secolo a.C. e la prima metà del I
secolo d.C. ·
26 I volti insoliti di Dio

rante l'antichità, Il Sublime, troviamo diversi criteri che permettono


di distinguere quello che è sublime da quello che non lo è. Fra gli
esempi proposti, l'autore cita un passo scritto da un certo Teopom-
po di Chio, storico ellenistico del IV secolo a.C. , passo che descrive
i preparativi di una spedizione militare contro l'Egitto intrapresa dal
re di Persia Artaserse Ochos.2 Teopompo è criticato dall'autore del
nostro opuscolo perché «la meravigliosa descrizione della spedizione
[è stata] guastata da alcune parolette triviali [. .. ]. Dal sublime preci-
pita al meschino, mentre doveva fare il contrario, amplificando; me-
scolando otri, spezie e sacchi alla meravigliosa descrizione di tutto
l'apparato, sembra quasi che descriva una cucina!». In effetti, nella
lunga descrizione delle offerte portate dai tributari e dagli ambascia-
tori, Teopompo elenca una serie di vivande, di spezie e di «carni sa-
late di animali di ogni tipo che formavano mucchi così alti che chi
giungeva da lontano pensava che fossero ponticelli e colline». 3
Parlare di vivande e di cucina era, secondo l'autore de Il Subli-
me, cosa grossolana, rozza, triviale e indegna di un autore che si ri-
spetti. L'inizio della descrizione, nell,opera di Teopompo, è invece
più nel gusto dell,epoca perché si menzionano oggetti d'oro e d'ar-
gento, armi di grande pregio, tappeti sontuosi e vestiti sfarzosi. Ri-
conosciamo in questo esempio una distinzione fondamentale per
tutta l'antichità classica: la distinzione fra stile umile e stile elevato o
sublime.4 Parlare di faccende o mansioni domestiche, di lavori ma-
nuali, di banalità della vita quotidiana era poco consono alla lettera-
tura «sublime», quella dell'epopea e della tragedia. Per questo mo-
tivo il trattato Il Sublime critica Teopompo, così come critica Ome-
ro perché descrive scene troppo familiari nell'Odùsea.5 Quest' ulti-
ma opera di Omero è inferiore perché, secondo l'anonimo autore
del trattato, sarebbe stata scritta in età avanzata e quindi tradirebbe

2 Cito la traduzione di G. Gumoruzz1 (ed.), IL Sublime, Mondadori, Milano


1991.
3 IL Sublime, 43 (p. 127).
4 Cf. l'introduzione di G. Guidorizzi al trattato Il Sublime, 10-11. La distin-
zione risale, almeno in parte, ad Aristotele (Retorica 1413b-1414) ed è stata svilup-
pata da Teofrasto, un discepolo di Platone e poi di Aristotele (372-287 a.C.).
5 Il Sublime, 9 (pp. 61-63).
L'ospite divino (Gen 18,1-8) 27

un gusto pronunciato per il racconto, mentre l'Iliade, opera scritta


nel vigore della gioventù, predilige il dialogo e l'azione, e <<l'elemen-
to drammatico prevale su quello narrativo». 6 Si aggiunge poi in con-
clusione: «Così la descrizione della vita familiare nella casa d'Odis-
seo ricorda quasi una commedia di costume».7 Il trattato non cita
esempi, ma possiamo certamente pensare alla scena dove la vecchia
nutrice Euriclea lava i piedi di Ulisse quando questi arriva in inco-
gnito nel suo palazzo di Itaca ed è accolto da Penelope, sua moglie. 8
Citiamo almeno alcuni versetti prima di paragonare il passo con
quello di Gen 18,1-8:

«[. .. ] la vecchia prese il bacile lucente,


in cui lavava i piedi, vi versò molta acqua
fredda e aggiunse poi quella calda. Odissee
sedeva discosto dal focolare [. .. ]».9

La descrizione di Omero è semplice, anche se precisa e detta-


gliata. Possiamo facilmente rappresentarci la scena: la vecchia balia,
il bacile e la preparazione dell'acqua tiepida versando prima molta
acqua fredda, poi quella calda - particolare davvero molto ben os-
servato - per ottenere la temperatura giusta. Il racconto è sobrio, es-
senziale, però altrettanto preciso, quasi tecnico. Ed è certamente
quello che l'autore del trattato Il Sublime rimprovera ad Omero: que-
sta descrizione è troppo attenta alle minuzie di un atto banale e non
«eleva l'anima», non suscita sentimenti esaltanti e «non trascina al-
1' estasi». io Un lettore moderno, più incline a percepire le qualità
umane di Omero, sarà sensibile alla densità di questa scena nella qua-
le la vecchia balia riconosce Ulisse quando scopre una cicatrice sulla

6 Il Sublime, 9 (p. 63).


7 Il Sublz'me, 9 (p. 63).
8 Odissea, XIX, 350-504. La scena è stata descritta e paragonata al racconto
del sacrificio di Isacco (Gen 22,1-18) nello studio ormai classico di E. AuERBACH, Mi-
mesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 2000, 3-29 («La cica-
trice d'Ulisse»). L'edizione originale in tedesco è del 1946 (Francke, Berna).
9 Odissea, XIX, 386-389. Cito la traduzione di G. AURELIO PRJVITERA (OMERO,
Odissea, Mondadori, Milano 1981, 591).
10 Il Sublime, l (p. 43 ).
28 I volti insolùi di Dio

gamba del suo padrone tornato a casa· dopo venti anni di peregrina-
zioni. Omero descrive con accuratezza la premurosa preparazione
dell'acqua tiepida per la lavanda dei piedi perché l'ospite ha appena
parlato di Ulisse - vale a dire di se stesso - a Penelope, mentre Euri-
clea era presente. Il lettore sa, evidentemente, che Ulisse parla di se
stesso e aspetta il tempo che occorrerà prima che Penelope lo ricò-
nosca. D'altronde, la preparazione dell'acqua è fatta con cura per
onorare qualcuno che ha parlato molto bene di Ulisse e ha commos-
so Penelope ed Euriclea. La breve scena ha quindi un doppio scopo:
mostrare quanto affetto può suscitare il solo ricordo di Ulisse nelle
persone che lo aspettano e dare abbastanza tempo al lettore per pre-
pararsi psicologicamente alla scena del riconoscimento. In altre pa-
role, occorre descrivere la miscela dell'acqua fredda con l'acqua cal-
da affinché la tensione <lrammatica della scena raggiunga il punto
giusto. In questo passo Omero, forse, non rispetta le regole care al
trattato Il Sublìme, ma perviene a un livello di profondità poco co-
mune perché riesce a concentrare tutta la densità di un momento al-
tamente drammatico nella descrizione di un gesto del tutto comune.

2. C OSTRUZIONE DEL BRANO

La scena biblica di Gen 18,1 -8 è un altro esempio di questo ti-


po. Lo stile è diverso, il contesto è diverso, i personaggi sono diver-
si. Una stretta parentela umana e spirituale, però, unisce Omero e
l'autore sconosciuto del testo biblico, nonostante la distanza cultura-
le che separa i due testi. Il racconto di Gen 18 descrive una teofania
(cf. 18,1), vale a dire un' apparizione di Dio ad Abramo, che si con-
clude con l'annunzio della nascita di Isacco. Il momento è solenne e
occorre, in qualche modo, convincere il lettore dell'importanza uni-
ca di questo momento nella vita del patriarca e di sua moglie Sara.
L'autore doveva creare un'atmosfera particolare, anzi unica, perché
Dio in persona si manifesta ad Abramo, l'antenato del popolo d'I-
sraele, per promettergli di dare un figlio alla vecchia coppia avanza-
ta negli anni e ancora senza prole. Quali sono i mezzi scelti dal nar-
ratore per creare quest'atmosfera? Sono davvero molto diversi da
quelli preconizzati dal trattato Il Sublime. Non troviamo dialoghi
drammatici, sentimenti molto elevati, gesti particolarmente raffinati
L'ospite divino (Gen 18,1-8) 29

o un linguaggio scelto. Il narratore descrive con grande semplicità


una scena di ospitalità per mostrare con quanta diligenza e premura
il patriarca riceva ospiti di c~i non conosce l'identità. Tutto ~i tradu-
ce in parole e gesti semplici che manifestano, con esemplare sobrietà,
l'atteggiamento di Abramo. Il patriarca «corre» per salutare i tre
ospiti (18,2), poi si «affretta» ad andare a trovare Sara nella tenda per
chiederle di preparare «in fretta» delle focacce (18,6), «corre» di
nuovo verso l'armento per scegliere un vitello grasso e lo fa prepara-
re «in fretta» (18,7). Un anziano non corre volentieri, certo, e questa
corsa, inoltre, ha luogo «all'ora calda della giornata» (18,1). Il letto-
re fa fatica a seguire l'arzillo anziano che corre da una parte all'altra
della scena per imbandire al più presto il pasto che vuol servire ai
suoi ospiti. Non abbiamo molti dettagli, anche perché tutto deve es-
sere pronto in poco tempo. E davvero, già al v. 8, Abramo può alle-
stire il pranzo: la carne è servita con latte e formaggio. Tranne la bre-
ve conversazione di Abramo con i suoi ospiti (18,3-4), in cui non si
può non notare lo spiccato tono garbato di Abramo, la scena sugge-
risce molto più di quanto descrive. Abramo corre alla tenda, da Sa-
ra, e le chiede di impastare tre misure di farina. Ma non abbiamo né
la risposta di Sara né la descrizione della lunga preparazione del pa-
ne. Tre misure di farina fanno più o meno quarantacinque litri ... Al-
trettanto vale per la preparazione del vitello: Abramo corre verso la
mandria, prende un vitello grasso e lo affida al servitore (18,7). Il nar-
ratore, però, non si sofferma sullo svolgimento delle operazioni con-
crete, dalla macellazione ali' arrostimento della carne sul fuoco. Al
narratore importa solo mostrare le disposizioni di Abramo che vuo-
le offrire ai suoi ospiti un pasto raffinato e molto abbondante. Non si
può dire che il patriarca abbia lesinato né sulla qualità né sull' ab-
bondanza di vivande.
Un punto merita però di essere rilevato: si tratta di una scena fa-
miliare in cui nessun gesto è eccezionale. Si tratta dei riti di ospitalità
ben conosciuti: Abramo saluta, offre acqua per la lavanda dei piedi,
poi invita a un pasto. La solennità della scena traspare soltanto nel to-
no cortese di Abramo, nella fretta dei preparativi e nella qualità del
pasto offerto. Ancora una volta il racconto coniuga la densità del
contenuto con la descrizione di gesti ordinari. Anche gli elementi so-
no ben diversi da ciò che potremmo aspettarci da un'esperienza mi-
30 I volti insoliti di Dio

stica senza precedenti: si parla di acqua per la lavanda dei piedi


(18,4), di mangiare un «boccone» (18,5), di farina e di focacce (18,6),
di un vitello tenero e gustoso (18,7) e infine di formaggio e di latte
(18,8). Non si tratta di una visione mistica, non siamo rapiti al setti-
mo cielo: siamo «in una cucina», per adoperare il vocabolario del
trattato Il Sublime. 11 E nondimeno il lettore difficilmente può non
percepire nel modo di descrivere questa scena che si tratta di un mo-
mento di singolare importanza per Abramo e Sara. Vi è una tensione
drammatica particolare che traspare nel tono adottato da Abramo,
nella sua corsa sfrenata dagli ospiti verso la tenda, poi verso la man-
dria, e nel servire un pasto tanto raffinato. E solo il lettore «sa» che
Dio si nasconde negli ospiti che Abramo riceve, così come, nell' O-
dissea, solo il lettore «Sa» per chi Penelope chiede ad Euriclea di pre-
parare acqua per una lavanda dei piedi. Il «sublime» del libro della
Genesi si nasconde - o si rivela - nei gesti quotidiani. Omero, nel-
1' Odissea, si awicina molto a questo stile biblico che riesce a mostra-
re lo straordinario nell'ordinario.
La costruzione della scena è molto semplice. Dopo il «titolo» del
v. 1 con alcuni dettagli sul «quadro della scena», troviamo successi-
vamente: 1. L'invito di Abramo rivolto agli ospiti e la loro accettazio-
ne (w. 2-5); 2. La preparazione del pasto in due fasi: le focacce (v. 6)
e il vitello (v. 7); 3. Il pasto sotto l'albero (v. 8). Vi è un contrasto vo-
luto fra l'inizio della scena in cui scopriamo Abramo seduto e son-
necchiante all'entrata della sua tenda verso mezzogiorno (18,lb) e lo
stesso Abramo in piedi che serve i suoi ospiti sotto l'albero (18,8). La
scena si conclude su un piccolo «quadro campestre»: gli ospiti man-
giano sotto l'albero, serviti da Abramo. Chi direbbe che Dio si ma-
nifesta proprio così, durante una colazione sull'erba?

3. SPUN11 PER LA MEDITAZIONE

I promessi sposi di A. Manzoni contiene, fra le tante scene com-


moventi, quella in cui Lucia, dopo numerose vicende mozzafiato,
viene finalmente liberata dall'Innominato nel c. XXIV. Come cele-

11 Il Sublime, 43 (p. 127).


L'ospite divino (Gen 18,1-8) 31

brare in modo dignitoso questa liberazione? Accompagnata dall'In-


nominato, da don Abbondio e dalla moglie di un sarto, arriva nella
casa di quest'ultima, dove le viene preparata una cena frugale:
«Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove nota-
va un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una
scodella già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a
Lucia. E nel vedere la poverina riaversi a ogni cucchiaiata si congra-
tulava ad alta voce con sé stessa che la cosa fosse accaduta in un gior-
no in cui, com' essa diceva, non c'era il gatto nel fuoco». 12 Alessandro
Manzoni riesce, come Omero, a tradurre l'intensità di un momento
forte in una descrizione semplice: Lucia si accorge di essere libera e
gusta la libertà appena riacquistata mentre beve, cucchiaio dopo cuc-
chiaio, un brodo di pollo preparato in fretta da una brava sarta dal
cuore generoso. La libertà ha il gusto di un brodo caldo e di qualche
fetta di pane che si consumano in una casa tranquilla in cui una ma-
dre di famiglia si dà da fare prima del ritorno dei figli e del marito. Ba-
stano alcune parole e due pennellate per dipingere una scena in cui,
in realtà, l'eroina del romanzo si risveglia dalla sua disperazione e può
ricominciare a sperare. Finisce un incubo e si può riprendere a sogna-
re, il tutto davanti a una tavola dove fuma una scodella di brodo. 13
Il Dio della Bibbia può anch'egli manifestarsi nella quotidianità
e non necessariamente nella fantasmagoria di una teofania come
quella del monte Sinai (Es 19). Questo è uno dei messaggi più im-
portanti che possiamo ricavare dalla nostra lettura di testi come Gen
18. E, su questo punto, il Nuovo Testamento non si discosta dal-
1'Antico, ma lo approfondisce. Gesù, per esempio, laverà lui stesso i
piedi dei suoi discepoli nell'avvicinarsi del momento più importante
della sua vita (Gv 13). La gravità del momento non solo non esclu-

12 A. MANZONI, I promessi" sposi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI)

1986, 408. «Non c'era il gatto nel fuoco» significa che il fuoco era acceso e si cuci-
nava. C'era quindi da mangiare per tutti.
n Nella scena seguente Lucia si assetta con grande semplicità, «per un'abitu-
dine, per un istinto di pulizia e di verecondia». Si «rifà rapidamente il trucco», co-
me si direbbe oggi. Quel gesto istintivo e molto femminile è un altro segno che la vi-
ta normale riprende il suo corso. In questo caso, Manzoni riesce a mostrare quale sia
lo stato d'animo del suo personaggio in una breve descrizione di gesti spontanei e,
in realtà, molto comuni.
32 I volti insoliti di Dio

de un gesto umile come quello della lavanda dei piedi; al contrario,


è la gravità del momento che si manifesta in modo incomparabile
nell'atteggiamento semplice di un «maestro» che si mette al servizio
dei suoi «servi». «Sono in mezzo a voi come colui che serve», dice
Gesù Cristo nel Vangelo di Luca, durante l'ultima cena (Le 22,27).
Questa frase riassume meglio di lunghi discorsi un messaggio cen-
trale della Bibbia: la sublimità di un'esperienza o di un momento si
rivela anche nell'umiltà di mansioni quotidiane e di gesti consueti.
O, per dirla con Charles Péguy (1873-1914): «Lo spirituale è an-
ch'esso carnale». 14

14 Nel poema intitolato Ève («Eva») scritto nel 1913, un anno prima della tra-
gica morte durante la prima guerra mondiale.
IL CESPUGLIO, LA ROSA SELVATICA E IL DIO
DEI PARIA E DEGLI SVENTURATI
(Gen 21,8-20)

1. lL CESPUGLIO DI AGAR

Il racconto di Gen 21,8-20 è fra i brani meno conosciuti del li-


bro della Genesi, anche se nell'iconografia è stato talvolta rappre-
sentato. In questo racconto, Agar, serva di Sara data in moglie ad
Abramo da cui ha avuto un figlio, Ismaele, è espulsa per la seconda
volta, e definitivamente, per volere di Sara. Il primo racconto, molto
simile, si trova in Gen 16,1-16, ed è probabile che si tratti di due ver-
sioni dello stesso episodio. Assistiamo in questi due episodi a una
delle numerose scene di liti familiari dove dominano l'ostilità, il ran-
core, l'astio e il desiderio di prendersi una rivincita. Gen 21,8-20
propone quindi un'altra scena «poco edificante», una scena che spes-
so lascia il lettore in cerca di testi idonei a favorire la sua meditazio-
ne piuttosto perplesso e sbigottito. Quale insegnamento trarre da
questa storia dove vincono i più forti e perdono i più deboli? E per-
ché Dio non difende Agar, ma prende invece parte per Sara e con-
vince Abramo ad obbedire a sua moglie (21,12)? Ecco alcune do-
mande che sorgono dopo una prima lettura di questa pagina.
Vi sono risposte a queste domande, certo, e ne parleremo subi-
to. Occorre, però, fare una prima osservazione più generica. È vero
che la Scrittura è stata interamente ispirata e serve alla nostra edifi-
cazione. D'altronde è anche vero che la Bibbia non è stata scritta per
fornire testi di meditazione come intendiamo oggi questo esercizio. Il
primo scopo dell'Antico Testamento era di fornire al popolo d'Israe-
le una sorta di «carta d'identità» a partire da riflessioni sul suo pas-
34 I volti insoHti di Dio

sato perché, nel mondo biblico, era il modo normale di spiegare qua-
li fossero le caratteristiche di una nazione. Si spiega e si giustifica rac-
contando. Il nostro brano fa parte di questo tipo di testi e intende
pertanto chiarire la parentela di Isacco (Israele) con Ismaele>ma an-
che la rivalità fra i loro discendenti che vivono in territori contigui
oppure che si incrociano nelle stesse regioni desertiche. Le relazioni
fra i due popoli che discendono da Isacco e da Ismaele sono com-
plesse come tante relazioni fra fratelli, da Caino e Abele (Gen 4) fino
al primogenito e al figliol prodigo della celebre parabola di Luca (Le
15). Occorre dire, tuttavia, che i due fratellastri, ambedue figli di
Abramo, non si parlano mai. Il conflitto è monopolizzato, per così di-
re, dalle due madri. Lo stesso Abramo si separa da suo figlio a ma-
lincuore (21,11). Sara, e la sola Sara, vuole e ottiene l'espulsione di
Agar e di suo figlio. «Quel che donna vuole, il cielo lo vuole>» dice la
vecchia saggezza popolare. Il detto si applica perfettamente al nostro
racconto perché Dio, assente all'inizio della narrazione, interviene
solo per schierarsi dalla parte di Sara, assecondarla nella sua decisio-
ne e chiedere ad Abramo di accontentarla (2 1,12).
Agar, cacciata via con suo figlio, s'inoltra nel deserto portandolo
sulle sue spalle. Abramo, in un ultimo gesto di commiserazione, le
fornisce acqua e pane per il viaggio (21,12). 1 Un otre d 'acqua non du-
ra a lungo, tuttavia, e ben presto Agar si accorge di trovarsi in una
brutta situazione. Secondo il testo, «Essa partì, sviandosi per il de-
serto di Bersabea, finché fu esaurita l'acqua dell'otre. Allora essa ab-
bandonò il ragazzo sotto un arbusto e andò a sedersi dirimpetto, al-
la distanza di un tiro d'arco, perché diceva: "Non voglio vedere
quando il ragazzo morrà!". E quand>essa si fu seduta dirimpetto, te-
nendosi lontana, ella alzò la sua voce e pianse» (2 1,14-16).2

1 Il testo ebraico del versetto è alquanto difficile da tradurre. Con ogni proba·
bilirà è stato ritoccato perché, secondo la cronologia dei racconti precedenti, lsmae·
le dovrebbe avere fra i quattordici e i sedici anni (cf. Gen 17,25). Nel racconto, tut·
tavia, è ancora un neonato incapace di camminare e perciò la madre Io porta sulle
sue spalle.
2 Alcuni cambiano il testo sulla base della traduzione greca (LXX) e leggono:

«egli alzò la voce e pianse» perché l'angelo di Dio, nel v. 17, sente la voce del ragaz-
zo, non quella della madre. Il testo ebraico, tuttavia, non porta alcuna traccia di cor·
Il cespuglio, la rosa selvatica e il Dio dei paria... (Gen 21,8-20) 35

Un solo elemento spicca in questo deserto dove stanno per mo-


rire madre e figlio: un cespuglio (21,15). Lì, nell'ombra avara della
sterpaglia, Agar depone il suo caro fardello. È l'unico luogo trovato
dalla madre per riparare il bambino e prolungare la sua vita di qual-
che ora. Il cespuglio o pruno di cui parla il testo è certamente un ar-
busto tipico del deserto e della steppa. Lo ritroviamo in Gen 2,5, nel-
la descrizione del mondo prima della creazione, un mondo dove non
è ancora piovuto e dove «non vi era ancora alcun cespuglio della
steppa». La stessa voce riappare in una descrizione di Giobbe che va-
le la pena citare per intero:
3 Disfatti per la miseria e la fame, andavano brucando l'arido deserto,
lugubre e vasta solitudine; 4 raccoglìevano l'erba salsa accanto ai cespu-
gli, alimentandosi delle radici di ginestra. 5 Cacciati via dal consorzio
umano, si urlava dietro a loro, come a ladri. 6 Abitavano nei dirupi del-
le valli, nelle caverne del suolo e nelle rocce. 7 Gridavano fra gli arbu-
sti, accalcandosi sotto i roveti. 8 Razza di stolti e gente senza nome, cac-
ciati dal paese (Gb .30,3-8).

Giobbe, in questo passo, descrive la sorte dei paria che devono


vivere ai margini della società, nel deserto appunto, letteralmente
«scomunicati», esclusi dal consorzio umano, proprio come Agar, e
condannati a vivere come bestie selvatiche. In questa descrizione ap-
pare due volte la parola «cespuglio» (vv. 4 e 7). Si tratta quindi di uno
degli elementi tipici di questo tipo di paesaggio desolato.
Torniamo al nostro racconto, però, e vediamo qual è il ruolo
esatto del cespuglio nella vicenda di Agar e di suo figlio Ismaele.
Dettagli di questo genere non sono frequenti nei racconti biblici e
vale la pena, perciò, interrogarsi un attimo sulla sua presenza nel no-
stro brano. A mio parere, il cespuglio introduce un elemento nuovo
in una vicenda che, finora, si è rivelata piuttosto crudele. In un bra-
no dove, in effetti, tutti gli esseri umani si mostrano spietati e persi-

rezìonì. Si deve supporre, quindi, una lacuna nel racconto, fatto non raro nelle nar-
razioni bibliche: la madre piange perché il bambino piange. Dio sente il pianto del
bambino perché, come vedremo, lui, così come la madre, si preoccupa solo della sua
sorte.
36 I volti insoliti di Dio

no Dio, in un primo momento, sembra partecipare a questa congiu-


ra contro Agar e Ismaele, alcuni oggetti sono gli unici elementi che
introducono nella trama tratti di benevolenza e di umanità: prima
l'otre d'acqua e il pane, poveri sostituti dell'amore paterno di Abra-
mo, e adesso il cespuglio che offre nel deserto una protezione parsi-
moniosa nell'attesa del momento ineluttabile e che incarna tutto
quello che l'amore materno riesce a inventare per salvare il figlio. Il
racconto non si ferma a lungo sul cespuglio, certo, ma lo menziona
in ogni modo alla fine della frase, prima di seguire la madre che va a
sedersi dirimpetto a una distanza sufficiente per non vedere il bam-
bino agonizzare.
Dio, allora, si impietosisce, come se si fosse pentito di quello che
aveva chiesto ad Abramo, e chiama Agar dal cielo. Quello che lo spi-
neto cercava a malapena di dare, adesso Dio in persona lo fornisce in
modo migliore: «Ma Dio udì la voce del ragazzo e l'angelo di Dio
chiamò Agar dal cielo e le disse: "Che hai tu, Agar? Non temere, per-
ché Dio ha ascoltato la voce del ragazzo là dove si trova. Alzati! Solle-
va il ragazzo e stringi con la tua mano la sua, perché io ne farò una
grande nazione! ". Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d'acqua.
Allora andò a riempire d'acqua l'otre e fece bere il ragazzo» (21 ,17-19).
Notiamo innanzitutto che le parole di Dio sono le prime rivolte
direttamente ad Agar in tutto il racconto. Né Sara né Abramo parla-
no direttamente ad Agar. Parlano di lei, ma non le parlano mai. Per
di più, Dio chiama Agar per nome, mentre Sara parla solo della «ser-
va» (21,10), e persino Dio, quando si rivolge ad Abramo, parla anche
lui della «serva» (21,12). Una volta nel deserto, tuttavia, la situazione
cambia completamente.
In secondo luogo, l'intervento di Dio dimostra che lo sforzo del-
la madre non è stato vano poiché Dio lo prolunga ed esaudisce il suo
desiderio più caro. Il testo suppone, com'è ben noto, un gioco di pa-
role sul nome «Ismaele», che significa per l'appunto «Dio ascolta»
(21 ,17). Il testo mostra quanta cura Dio prende per il bambino. Il suo
discorso esprime in modo particolareggiato e sotto forma di ordine
ciò che una madre farebbe spontaneamente in simili circostanze. È
uno dei tratti tipici dei racconti popolari in genere e dei racconti bi-
blici in particolare: i discorsi sono fra gli elementi essenziali dell' a-
zione. Inoltre, le azioni decisive sono spesso comandate da perso-
Il cespuglio, la rosa selvatica e il Dio dei paria... (Gen 21,8-20) 37

naggi importanti, per esempio da Dio, soprattutto quando si tratta di


situazioni estreme come nel nostro caso. Si deve salvare un lattante
indifeso in pericolo di vita. Per questo motivo, nientemeno che Dio
deve intervenire per salvarlo: ed è proprio quello che accade. La ma-
dre, quindi, obbedisce, anche se non tutto è descritto: va a riprende-
re il bambino sotto la sterpaglia, gli stringe la mano, dettaglio deli-
zioso in un racconto peraltro molto scarno e sobrio, poi Dio le apre
gli occhi, lei vede un pozzo e - ultimo particolare che dimostra l'in-
tenzione del narratore se ve ne fosse ancora bisogno - si affretta a fa-
re bere suo figlio. Il racconto non dice che ella abbia bevuto - seb-
bene tutto lo lasci supporre - perché una sola cosa importa in questa
seconda parte del racconto: la sorte del bambino, nell'immediato e
nel futuro più lontano (21,18: «io ne farò una grande nazione»). Tut-
ti condividono l'unica preoccupazione della madre: Dio, il narratore,
così come i lettori, tanto è vero che le ultime righe del racconto sono
di nuovo interamente dedicate al suo destino: «E Dio fu con il fan-
ciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d'arco.
Egli abitò nel deserto di Paran e sua madre gli prese una moglie del
paese d'Egitto» (21,20-21). La madre riappare sul palcoscenico in
un'ultima occasione decisiva per la sorte del bambino e dei suoi di-
scendenti: il suo matrimonio.
L'ombra del cespuglio, in conclusione, racchiude in un'immagi-
ne semplice lattenzione che il narratore ha per il destino di un bam-
bino in pericolo di vita. Aver introdotto questo cespuglio nel raccon-
to significava centrare lo sguardo sul personaggio che contava più
degli altri, il bambino, Ismaele, e fare nascere nel lettore una simpa-
tia e una pietà simili a quelle della madre per un essere inerme che
subisce, senza saperne il perché, una sentenza che lo esclude dall' e-
redità di Abramo.

2. LA ROSA SELVATICA DI NATI TANIEL HAWTHORNE

Nathaniel Hawthorne (1804-1864), uno dei grandi rappresen-


tanti del romanzo statunitense dell'ottocento, è conosciuto soprattut-
to per il suo romanzo La lettera scarlatta, pubblicato a Boston nel
1850. Racconta, in breve, le vicende di Hester Prynne, una donna
sposata con uno studioso, Chillingworth, che commette adulterio con
38 I volti insoliti di Dio

un pastore anglicano, Arthur Dimmesdale. Il fatto è scoperto quando


nasce Pearl, frutto di questa unione adulterina. Hester sarà arrestata,
imprigionata, poi messa alla gogna. Deve portare sul suo vestito, pro-
prio sul petto, una grande lettera scarlatta A che denuncia agli occhi
di tutti il suo reato. Da lì il titolo del romanzo. Hester, tuttavia, ha un
carattere forte e un cuore generoso. Non si arrende, provvede ai pro-
pri bisogni e a quelli di sua figlia, intercede presso il marito che cer-
ca in tutti i modi di ritrovare l'uomo con cui sua moglie l'ha tradito
per potersi vendicare, tenta anche, ma invano, di salvare il pastore,
Arthur Dimmesdale, torturato dai rimorsi. Il marito impazzisce, il pa-
store confessa pubblicamente la sua colpa sulla berlina dove muore
di crepacuore, e Hester, diventata un «angelo» per tutti quelli che
l'avvicinano - uno dei tanti significati della lettera scarlatta A nel ro-
manzo - sopravvive a tutti e si occupa del futuro di sua figlia che vuo-
le mandare in Europa, al di là dell'oceano, che avrebbe tanto voluto
attraversare lei stessa con Arthur Dimmesdale e sua figlia.
Il romanzo, proprio nel primo capitolo intitolato «La porta del-
la prigione», introduce un elemento simbolico carico di significati,
un cespo di rose selvatiche che cresce presso il carcere dove Hester
Prynne ha già trascorso circa tre mesi. Così lo descrive il narratore: 3
Ma accanto alla porta di quel triste edificio, radicato quasi nella soglia,
era un cespo di rose selvatiche, gremito tutto di petali delicati, i quali
avevano l'aria di offrire il loro profumo e la loro fragile venustà a] pri-
gioniero che entrava per quella porta o al condannato che ne usciva
verso il suo destino, come per attestar loro che il cuore profondo di ma-
dre natura è tuttavia benigno verso gli sventurati.
Corrono diverse leggende intorno a questo cespuglio, ma noi non pre-
sumiamo di stabilire se esso sia sopravvissuto alla selvaggia foresta pri-
mitiva, che un tempo spandeva su questo luogo un oceano d'ombra, o
sia germogliato improvviso sotto i passi della santa Ann Hutchinson,4

3 Cito la traduzione di FAUSTO MARIA MARTIN!, nella collana Oscar Mondado-


ri, Milano 1997, .33-34.
4 Ann Hutchinson (159 1-164.3) emigra con la sua famiglia dalla Gran Bretagna
in America, nel Massachusetts, nel 16.34. Appassionata di religione e soprattutto di
Bibbia, decise di formare piccoli gruppi ove si discuteva appunto di argomenti reli-
giosi. Si fece lavvocata di una «alleanza di grazia» contro una «alleanza delle ope-
re». Fu condannata, imprigionata, poi scomunicata ed esiliata. Andò a vivere più a
Il cespuglio, la rosa selvatica e il Dio dei paria... (Gen 21,8-20) 39

mentre ella varcava la soglia della prigione. Soltanto, poiché lo trovia-


mo di fronte alla tetra porta, che aprendosi, darà origine al nostro rac-
conto, il lettore ci consenta di cogliere una di quelle rose e di offrir-
gliela: valga essa - osiamo sperarlo - a simboleggiare qualche luce d ' a-
nima che addolcisca questa storia di dolore e di fragilità umana e ne ri-
schiari il tragico epilogo.

Hawthorne utilizza volentieri il simbolismo, ogni tanto anche in


modo smisurato, come hanno notato diversi critici.5 Il cespo di rose
selvatiche, in ogni modo, è visto dallo stesso Hawthorne come sim-
bolo di luce nel mondo cupo e tragico del suo romanzo. Qual è però
il significato esatto di questo cespo di rose selvatiche?
La mia riflessione parte da un paragone che si impone quasi da sé
quando si conosce il retroterra religioso di Hawthorne, cresciuto nel
mondo puritano degli Stati Uniti, mondo dal quale l'autore peraltro
prende le distanze. In questo universo dove fede e Scrittura erano le
referenze di ogni decisione importante, la storia di Hester Prynne evo-
ca immancabilmente quella di un'altra adultera, quella di Gv 8,1-11. 6
Ritroviamo senz'altro nel nostro ro~anzo 1' adultera e i suoi giudici.
La folla che aspetta Hester alla sua uscita dalla prigione (c. II) è da
equiparare al gruppo di scribi e farisei che interrogano Gesù sulla de-
cisione da prendere. La gente, ne La lettera scarlatta, invoca addirit-
tura il vangelo per chiedere una condanna più severa: «Questa donna
ha gettato la vergogna sopra di noi e dovrebbe dunque morire. Non
vuole così la legge? Tanto il vangelo che la nostra legge? I magistrati
non hanno voluto applicarla, e sarà colpa loro se le loro mogli e le lo-
ro figlie andranno in perdizione».7 La folla, per Hawthome, è più ri-

sud, nel Rhode Island, e finì massacrata dagli amerindi con tutta la sua famiglia, tran-
ne una figlia che gli aggressori portarono via con loro. La meniione di Ann Hut-
chinson - il cui nome inizia con la lettera A - è certamente intenzionale in questo
primo capitolo perché rappresenta un primo sforzo di emancipazione della donna
nella società puritana di quell'epoca.
' È celebre, per esempio, il saggio di HENRY JAMES in merito («Hawthorne: The
Scarlet Letten), c. V del suo libro Hawthorne [London 1879]).
6 ll brano è attribuito dagli specialisti a una fonte diversa da quelle del quarto

vangelo. Stile e contenuto sono, infatti, molto diversi da quelli di Giovanni.


7 N. 1-IAWTHORNE, La lettera scarlatta, Mondadori, Milano 1997, c. II: «La piaz-
za del mercato», 37.
40 I volti insoliti di Dio

gorosa degli stessi magistrati nel suo giudizio ed esige la pena capita-
le. Il vangelo del quale parla «una femmina, la più brutta e quindi la
più severa fra questi giudici improvvisati» seive in questo caso a con-
dannare a morte, non a «salvare e guarire» come si aspetterebbe un
fedele lettore del Nuovo Testamento. È tutto il contrario. Il vangelo è
tradito, secondo H awthorne, e usato come clava per colpire la donna
che, secondo lo stesso autore, si dovrebbe invece paragonare alla Ver-
gine Maria: «Se tra la folla di puritani fosse stato un cattolico, il qua-
dro di quella donna giovane e bella, che stringeva la sua bambina al
seno, gli avrebbe ricondotto il pensiero all'immagine della maternità
divina, quale tanti pittori famosi l'hanno riprodotta sulle loro tele, e
per ragioni di contrasto, avrebbe pensato al frutto di quella maternità,
destinato a redimere il mondo. Per ragione di contrasto: qui si tratta-
va di un'offesa fatta alla più sacra funzione della vita umana e la crea-
tura era nata dalla colpa [ .. .J».s La folla è pronta, per riprendere il lin-
guaggio del vangelo, a buttare subito la prima pietra senza nemmeno
chiedersi della propria colpevolezza.
Il vangelo, invece, mette in scena Gesù Cristo che salva la don-
na adultera dai suoi giudici e le riapre la via della vita: «Neppure io
ti condanno. Va' e d'ora in poi non peccare più» (Gv 8,1 1). S. Ago-
stino, in una frase meravigliosa per concisione e densità, descrive co-
sì il momento nel quale la donna si ritrova sola davanti a Gesù: «Eri-
masero solo loro due, la m isera e la misericordia». 9 Ne La lettera scar-
latta, tuttavia, troviamo la misera, ma dov'è la misericordia? Hester
Prynne si salva da sola, contro tutti quanti? Siamo in un mondo dal
quale Dio è assente e nessuno può redimere l'umanità ammalata ?
La risposta, penso, si trova proprio nella descrizione dettagliata
del cespo di rose selvatiche all'inizio del racconto. Il cespo ha un
messaggio da trasmettere a chiunque passa la porta della prigione, os-
sia «che il cuore profondo di madre natura è tuttavia benigno verso

8 HAWTHORNE, La lettera scarlatta, 40-41, sempre nella stessa edizione.


9 AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni, XXXIII,5: «Relicti sunt duo, mi-
sera et misericordia». Cf. Sermone 13,5: «Dopo la partenza degli scribi e dei farisei,
restarono solo l'ammalata e il medico, la misera e la misericordia». Agostino torna
spesso sull'argomento: cf. Sermone I6A,5; Enarrationes in Psal. 50,8; Sermone 302,
15,14; Epistola 158,4,11.
Il cespuglio, la rosa selvatica e zl Dio dei paria... (Gen 21,8-20) 41

gli sventurati». Vi è un cuore comprensivo in questo mondo, il cuore


di madre natura. Lì si può sempre trovare conforto e benevolenza,
una mano tesa e una porta aperta. Hawthorne è indubbiamente un
rappresentante del movimento romantico e la sua scelta attesta quan-
to deve a questo movimento. «Zuruck zur Natur!» - «Ritorno alla
natural» -, questo era il grido di battaglia dei romantici tedeschi.
Hawthorne si esprime in modo diverso, ma la sostanza è la stessa. La
cultura puritana era diventata una specie di gogna insopportabile e
una prigione dove l'aria era irrespirabile. Per Hawthorne la vera sal-
vezza era il ritorno alla natura selvaggia. E non a caso il cespo di ro-
se è un cespo selvatico. Hawthorne, così come Jean-Jacques Rous-
seau cresciuto nella sua Ginevra calvinista, esalta il «buon selvaggio»
e sogna di tornare a vivere in un mondo ove la società e la religione
non inceppano più i desideri di libertà e le profonde passioni dell' a-
nima umana. Il conflitto fra cultura oppressiva e natura liberatrice,
fra l'autenticità delle passioni del cuore umano e l'ipocrisia della so-
cietà fa da sfondo a tutto il racconto. Faccio un solo esempio: l'uni-
co incontro fra i due amanti ostracizzati dalla città ha luogo nella fo-
resta. Si siedono su un tronco, le mani nelle mani. «Nella foresta at-
torno a loro mormoravano appena gli alberelli investiti dal vento; ma
i grandi alberi, scuotendo le chiome frondose, sembravano raccon-
tarsi a gran voce la storia d'amore e di dolore della quale erano lì
presso i tristissimi eroi». 10 La natura è testimone di quell'amore proi-
bito dalla società e lo contempla con simpatia. La natura approva
quello che la società condanna. Un po' più avanti, quando il pastore
si lascia convincere a partire lontano per sfuggire al suo tormento,
sembra anche lui uscire dal carcere per gustare la libertà. E il narra-
tore aggiunge: «Egli già respirava, ebbro, l'aria pura, esaltante, di una
regione selvaggia, ma.ignara di leggi e di costrizioni [... ]». 11 Il mondo
selvaggio dove il pastore Arthur Dimmesdale va ad evangelizzare gli
indiani non conosce «leggi e costrizioni>> che impediscono di espri-

io HAWTHORNE, La lettera scarlatta, c. XVII, «li pastore e la par rocchiana», 154.


11 lbid. , c. XVIII , «Un'ondata di sole>}, 160. Cf. anche p. 161 : «Tanca vasca e
pronta era l'eco che la foresta - la foresta selvaggia e ignara di leggi - offriva alla fe-
licità dei due amanti!».
42 1 volti insoliti di Dio

mere e di vivere un amore genuino. Perché, per Hester, la passione


autentica riscatta se stessa, come dice ad Arthur: «La colpa di cui ci
macchiammo aveva in sé la sua redenzione! Noi lo sentimmo, ce lo
dicemmo insieme; lo hai dimenticato?». 12
Natura e passione, mondo selvatico e incontaminato e amore ve-
ro vanno di pari passo nel romanzo di Hawthorne ed è proprio lì che
gli amanti possono parlare liberamente di misericordia e di perdono:
«Il cielo avrà misericordia», dice Hester al pastore.13 E il pastore fa
1' esperienza della misericordia quando Hester riesce a destare in lui
una nuova speranza: «Hester, sei tu il mio angelo salvatore.14 Mi sem-
bra che il peccatore o il malato caduto su queste foglie morte, ne ri-
sorga ora, rinnovato e animato di una nuova forza per glorificare il
Dio di misericordia che gli si è rivelato. E questo è già un passo verso
la felicità». 15 L'abbinamento delle tre parole «misericordia», «pecca-
tore» e «malato» non può non rammentare le parole del vangelo:
«Non hanno bisogno del medico i sani, ma i malati. Andate e impa-
rate che cosa vuol dire: "misericordia voglio e non sacrificio". Non so-
no venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,12-13 e
parr.). La scelta del vocabolario da parte del romanziere sarà stata in-
tenzionale, spontanea o subliminale: nessuno lo sa. Mi pare abbastan-
za evidente, nondimeno, che la scena sia satura di richiami biblici e
che l'allusione al testo evangelico non sia del tutto involontaria. Nel
romanzo di Hawthorne, in ogni modo, il vangelo può essere citato e
vissuto non nel mondo degli uomini, bensì soltanto nella foresta, in
contatto diretto con la natura inviolata. Ed è anche lì che il pastore si
sente letteralmente «risuscitare» sulle foglie morte grazie a Hester.
Infine, la piccola Pearl appare nel bosco come una figura «mes-
sianica». Al termine del capitolo XVIII («Un'ondata di sole» - «A
Flood of Sunshine»), ella sta giocando presso il ruscello mentre sua
madre parla con il pastore. La scena descritta, se non fossimo negli
Stati Uniti puritani ma nell'Italia medievale, potrebbe appartenere ai

i2lbid., c. XVII, 153.


n Ibid., c. XVII, 155.
14 «Angelo» in italiano, così come «angel» in inglese, sono parole che iniziano
con una A.
xvm.
15 Ibid., c. 160.
Il cespuglio, la rosa selvatica e il Dio dei paria... (Gen .21,8-20) 43

Fioretti di san Francesco, perché Hawthorne ricrea attorno alla bam-


bina un mondo idilliaco dove natura e umanità vivono in un'armonia
completa.16 Gli animali della foresta, uccelli e piccoli mammiferi, non
si spaventano per la presenza della bambina, anzi le vengono incon-
tro: una starna con la sua nidiata, un piccione, uno scoiattolo che le
getta una noce dal suo buco, una volpe che, svegliata, si rimette tran-
quillamente a dormire e - a questo punto Hawthorne sente però che
sta per rasentare l'inverosimile e si ferma prima di far sorridere - un
lupo leggendario. Il testo recita: «Si racconta persino che un lupo
(ma qui si tratta di una leggenda) si fosse avanzato fino a Pearl, le
avesse fiutato le vesti e poi offerto il muso, per averne una carezza».
Hawthorne precisa che si tratta di una leggenda e che non siamo più
nello stesso tipo di racconto. Non ha resistito, tuttavia, ad aggiunge-
re alla sua serie di animali rabboniti o ammansiti dalla bambina un
lupo che potrebbe essere cugino di quello di Gubbio o ancora di
quello di Is 11,6 («Il lupo abiterà con l'agnello»). La scena vuole in-
dicare, indubbiamente, che la bambina appartiene a un mondo nuo-
vo, riconciliato e armonioso, dove la pace regna fra mondo umano e
mondo animale.17 Siamo nell'era messianica, almeno quella sognata
dai romantici. Se Hester ha potuto essere paragonata alla Vergine
Maria (c. II: «La piazza del mercato»), nessuno si stupirà che Pearl
sia rivestita di tratti messianici in questa scena bucolica dove i suoi
genitori godono pochi momenti di pace. Lei, la bambina nata da
un'unione giudicata illecita e immorale dal mondo puritano, porta la
speranza che un giorno il mondo intero possa vivere nell'armonia ri-
trovata con la «natura».
La società, invece, e i suoi rappresentanti sono spietati e incapaci
di curare il dolore. Il marito di Hester, ad esempio, è medico e passa
gran parte del suo tempo a raccogliere erbe medicinali. 18 Questo me-

16 Ibid., c. XVIII, 162-16.3.


17 Scene di questo tipo abbondano nella letteratura mondiale. Si può pensare
all'eroe Enkidu nell'epopea di Gilgamesh che viveva con gli animali (col. l,.35-50).
«In compagnia delle gazzelle, si nutriva di erba, con i branchi si dissetava alle sor-
genti, con le bestie selvatiche si dilettava di acqua pura» (col. I,.39-41).
18 Viene a visitare sua moglie nella prigione per offrire medicazioni alla madre
e alla figlia ammalata (c. IV: «Il colloquio»).
44 I volti insoliti di Dio

dico, però, che è riuscito ad andare a vivere con il pastore, non sana
le ferite e il senso di colpa del suo ospite. Lo avvelena lentamente, in-
vece, e non impedirà affatto la sua morte. La sua conoscenza delle
piante è inutile, anzi dannosa. 19 Il medico de La lettera scarlatta, Chil-
lingworth, fa esattamente I'opposto del medico evangelico che non è
venuto per i sani, ma per i malati. Non può perdonare, lo dirà espli-
citamente, e deve per forza assumere il suo destino di demone: «Non
posso perdonare, non ho questo potere, come tu credi [. .. ]. Voi che
mi avete offeso non avete peccato se non per una folle illusione: né io
ho peccato se mi sono assunto la funzione di un démone. È il destino
che vuole tutto questo. Lascia dunque che i suoi fiori oscuri germo-
glino come possono». 20 Si riconoscono qui echi della dottrina della
predestinazione nella quale Chillingworth si trova imprigionato e che
lo distruggerà. Alla rosa selvatica che appare all'inizio del racconto si
oppongono adesso, in una tragica antitesi, i «fiori oscuri» di un «de-
stino» che non lascia spazio alla libertà, alla pietà e al perdono.
E, per rimanere nello stesso tema «vegetale», aggiungiamo un ul-
timo tratto. Pearl, in una scena precedente, si era divertita a gettare
fiori a sua madre, prendendo come bersaglio proprio la lettera scar-
latta dell'infamia che questa aveva dovuto cucire sul suo petto.2 1 Il
mondo vegetale di Hawthorne ne La lettera scarlatta è fatto di fiori e
di erbe, di alberi e di cespi che esprimono l'antinomia fra una società
puritana chiusa e disumana e la natura selvaggia che porta in sé la
speranza di un mondo libero e riconciliato.

3. CONCLUSIONE

I due racconti che ho messo a confronto presentano due perso-


naggi di grande statura. Agar e Hester, in effetti, riescono a rovescia-

19 Cf. le finali parallele dei cc. XIII («L'altro volto di Hester») e XIV («Hester

e il medico»): «[Hesterl vide il vecchio medico che portava un cestello sotto il brac-
cio e, appoggiato a un bastone, andava raccogliendo erbe medicamentose» (p. 129)
e «Il vecchio agitò tristemente la mano e si l'imise alla ricerca delle erbe» (p. 135).
Raccoglie erbe, ma non può guarire.
20 C. XIV, «Hester e il medico», 135.
21 C. VI, «Pearl», 73.
Il cespuglio, la rosa selvatica e il Dio dei paria... (Gen 21,8-20) 45

re, almeno parzialmente, una sorte awersa. Agar ottiene il sostegno


divino in circostanze disperate e salva suo figlio. Hester nutre la spe-
ranza in un mondo riconciliato contro una mentalità puritana chiu-
sa. Sono due donne che lottano, anzi si ribellano contro un certo
«senso della storia» o il giudizio della società e non solo ottengono la
simpatia del lettore, bensì lo convincono che vale sempre la pena lot-
tare contro la fatalità. Sono due donne che conoscono e custodisco-
no il segreto di una vita nuova. Il nostro mondo è certo diverso da
quelli descritti in questi due racconti e ogni lettura richiede inevita-
bilmente una traduzione e qualche adattamento o correttivo.
Questo messaggio, tuttavia, può essere scoperto in mille modi
diversi e quello scelto in queste pagine è uno solo fra tanti. Nella mia
lettura ho preferito partire da un elemento molto simile, un arbusto
nel caso di Agar e un cespo di rose selvatiche nel romanzo di
Hawthorne. Nel secondo caso, vi è certamente un'intenzione da par-
te dell' autore di rivestire quell'elemento di significati precisi. Nel pri-
mo, invece, l'intenzione del narratore è meno esplicita perché il ge-
sto di Agar è istintivo e il tratto, nel racconto, appare spontaneo, non
ragionato. In entrambi i casi, tuttavia, l'atmosfera e il paesaggio cam-
biano. Il deserto di Bersabea non è più lo stesso perché ormai vi si
trova un cespuglio che ha riparato un bambino appena nato e già de-
stinato a lasciare per sempre il mondo dei vivi. E il cespo di rose sel-
vatiche trasforma la prigione di Hester in un luogo dove nasce e cre-
sce la speranza di un mondo nuovo dove non esistono più gogne e
carceri, e dove i medici sanno curare i mali del corpo e dell'anima.
Hawthorne decide di offrire al lettore una delle rose selvatiche di
questo cespuglio prima di iniziare il suo racconto per dargli una luce
prima di entrare nel mondo tetro che sta per percorrere. Certo, l'i-
deale romantico di Hawthome rimane un ideale e richiede probabil-
mente qualche rettifica. Chi sa però quante persone portano ancora
con sé oggi la rosa selvatica del signor Hawthorne-Biancospino? 22

22 Hawthorne, in inglese, significa proprio «Biancospino». Sarà un altro ele-


mento floreale del romanzo, legato proprio al nome dell'autore?
IL DIO VIANDANTE
(Gen 46,1-7)

1. INTRODUZIONE

«Scenderò con te in Egitto» (Gen 46,3 ): in questo breve brano


del libro della Genesi si rivela un aspetto peculiare del Dio della Bib-
bia, ossia la sua anima nomade. Il Dio dei patriarchi ama viaggiare e,
se così si può dire, deve essere strettamente apparentato ai beduini
del deserto. Egli rimarrà fedele alla sua vocazione di viandante e non
rinuncerà facilmente al suo bastone di pellegrino. Ad esempio, quan-
do Davide deciderà di costruirgli una bella casa, un tempio degno di
lui, egli invierà il profeta Natan al sovrano per dirgli: «Tu mi vuoi co-
struire una casa per farmi abitare lì? Dawero, non ho mai abitato in
una casa dal giorno che trassi i figli d'Israele dall'Egitto fino ad oggi,
ma sono andato vagando in una tenda e in un padiglione. E dovun-
que andai vagando con tutti i figli d'Israele, ho detto mai una parola
ad uno dei giudici d'Israele, cui avevo comandato di pascere il mio
popolo Israele: Perché non mi avete costruito una casa di cedro?»
(2Sam 7,5-7). Dio non sembra molto compiaciuto all'idea di dover ri-
nunciare alla sua tenda per traslocare in una «casa di cedro». Que-
st'ultima sarà più comoda, meglio attrezzata, più sontuosa e più adat-
ta a ospitare il Signore, Dio d'Israele. Dio, il D io dei patriarchi e del-
1' esodo, non può però rinnegare all'improwiso il suo «sangue bedui-
no» ed esprime con tutta la chiarezza dovuta il suo dispiacere. Lui
preferisce il suo padiglione e le scomodità del viaggio perché ci ha
preso gusto, sembra, e difficilmente cambierà abitudini. Certo, Salo-
mone costruirà il tempio, Dio ne prenderà possesso, e schiere di fe-
48 I volti insoliti di Dio

deli verranno a Gerusalemme a invocarlo e a cantarlo. Dio, tuttavia,


si è piegato di malavoglia a questo suo nuovo stile di vita. Il tempio
gli è un po' troppo stretto. Preferisce le distese sterminate dei suoi
viaggi con il suo popolo nel deserto alle pareti cieche della sua «ca-
sa». Lo riconosce lo stesso Salomone il giorno della dedica del tem-
pio: «Ma Dio abita veramente sulla terra? Ecco: i cieli e i cieli dei cie-
li non ti possono contenere; quanto meno lo potrà questo tempio che
ho costruito!» (lRe 8,27). Una nota simile risuona nel libro di Isaia:
«Così parla il Signore: Il cielo è il mio trono, e la terra è lo sgabello
dei miei piedi. Quale casa mi costruirete e quale sarà il luogo del mio
riposo?» (Is 66,1). Il Dio della Bibbia è per così dire, allergico alla
sedentarietà.
Il testo di Gen 46, per tornare al nostro argomento, illustra be-
ne questo tratto del carattere divino nella Bibbia. Giacobbe se ne va
in Egitto e Dio non resiste alla tentazione di accompagnarlo. Non
vuole mancare l'occasione: «Aspetta, ci vengo con te!». Detto fatto,
e Dio si unisce alla carovana di Giacobbe e dei suoi figli che scendo-
no in Egitto per ritrovarvi Giuseppe. Non vuol lasciar partire da so-
lo il patriarca che aveva già sostenuto durante il primo viaggio verso
Carran quando aveva detto: «Ed ecco, io sono con te e ti custodirò
dovunque andrai e poi ti farò ritornare in questo paese, perché non
ti abbandonerò se prima non avrò fatto tutto quello che ti ho detto»
(Gen 28,15). Adesso che il vecchio patriarca si prepara a intrapren-
dere un secondo e ultimo lungo viaggio, Dio non vuole essere da me-
no. Fa subito la sua valigia e prende la strada per accompagnare Gia-
cobbe sulla via dell'Egitto. Erano settanta in tutto, i membri della fa-
miglia di Giacobbe che scesero in Egitto, almeno secondo Gen 47 ,27
ed Es 1,5. C'era però qualcuno in più, qualcuno di importante che il
narratore dimentica di contare. O , forse, non l'ha proprio visto.
Il Dio della Genesi, il Dio dei patriarchi, è un viandante che non
è attaccato ai luoghi, bensì alle persone. Sarà il Dio di Abramo, di
Isacco e di Giacobbe (Es 3,6.15.16) e non di luoghi precisi. Non è il
Dio che si va a visitare in alcuni santuari famosi, nei luoghi di pelle-
grinaggio conosciuti. Lui, il Dio dei patriarchi, è il Dio pellegrino,
non il Dio dei pellegrinaggi. Si fa pellegrino perché i patriarchi sono
pellegrini e perché vuole accompagnarli sulle strade di questo mon-
do. Più profondamente, vuol far capire che il vero Dio è quello che
Il Dio viandante (Gen 46,1-7) 49

si incontra sulle strade, il Dio viaggiatore che «santifica» il viaggio e


i viandanti della verità. «Seguire Dio è vedere Dio», diceva Gregorio
di Nissa. Una verità essenziale che il breve testo di Gen 46,1-7 incul-
ca nei suoi lettori di ogni tempo.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

La costruzione del brano è molto semplice. L'oracolo divino


(46,2-4) è incorniciato nel breve resoconto del viaggio (46,1e46,5-7).
Lo stesso oracolo consta di due parti principali: un dialogo introdut-
tivo (46,2-3) che si conclude con l'autopresentazione di Dio («lo so-
no El, il Dio di tuo padre»). La seconda parte contiene alcune pro-
messe che riguardano il viaggio. Innanzitutto, Giacobbe non deve te-
mere di scendere in Egitto, mentre lo stesso Dio aveva proibito a Isac-
co di intraprendere questo viaggio (Gen 26,2). In Egitto, in effetti,
Dio farà di Giacobbe una grande nazione e questo elemento corri-
sponde alla promessa di una numerosa discendenza, frequente nei
racconti patriarcali. Poi, Dio promette a Giacobbe di accompagnarlo
nel suo viaggio e di farlo tornare dall'Egitto nella terra promessa.
Questa parte si capisce solo se si intende «Giacobbe» non solo come
il patriarca, ma anche come il popolo d'Israele. In altre parole Dio ac-
compagna il patriarca Giacobbe in Egitto e farà risalire i suoi discen-
denti dall'Egitto nella terra promessa. Infine, Dio dice che Giacobbe
rivedrà Giuseppe e che il suo figlio prediletto gli chiuderà gli occhi.
L'oracolo divino riprende in sostanza le due principali promesse
divine ai patriarchi, quella di una numerosa discendenza e quella del-
la terra. Era importante riproporre queste promesse in un momento
critico. Giacobbe lascia la terra di Canaan e non si sa se tornerà. E
chi sa che cosa può accadere quando si lascia la propria terra. L'ora-
colo divino rassicura G iacobbe - e il lettore - sull'avvenire del po-
polo eletto.

3. QUALCHE SUGGERIMENTO PER LA MEDITAZIONE

«E il Verbo si è fatto carne e ha piantato la sua tenda in mezzo a


noi» (Gv 1,14). Anche questo testo giovanneo palesa un aspetto es-
senziale della fede biblica e cristiana. Come ritrovare oggi il Dio vian-
50 I volti insoliti di Dio

dante, rivelato dal suo figlio che abita una tenda in mezzo a noi e ci
accompagna nei nostri viaggi? Quali sono gli aspetti della nostra re-
ligione che sono in accordo con questa fede? E quali richiedono di
essere corretti? Il cristiano di oggi è tentato di dimenticare che il suo
Dio è un Dio viandante? Perché? Come reagire?
«lo sono la via, la verità e la vita», dice Gesù Cristo in Gv 14,6.
In quale modo questa frase di Giovanni permette di capire un aspet-
to essenziale della rivelazione divina nell'Antico Testamento? Secon-
do questo testo di Giovanni, la verità biblica è una verità statica o una
verità dinamica? La verità biblica si può ridurre a una serie di defi-
nizioni o è piuttosto il frutto di un percorso? O forse si identifica con
l'autenticità del percorso? «Non mi cercheresti se non mi avessi già
trovato», dice Dio a Pascal. Si trova Dio perché e finché si cerca Dio.
LA VOCAZIONE DI MOSÈ O IL DIO DELLA LIBERTÀ
(Es 3,1-4,18)

1. INTRODUZIONE

La «scena del roveto ardente» è l'immagine più conosciuta di


questo brano. Il testo come tale è però più lungo e contiene elemen-
ti di varie epoche. Non è sempre facile trovare il «filo rosso» che po-
trebbe unire tutte le parti di questa lunga discussione fra il Signore e
Mosè. Due punti meritano di essere sottolineati prima di iniziare la
lettura. Primo, il testo fa di Mosè il primo e il più importante dei pro-
feti. La narrazione segue la falsariga dei «racconti di vocazione» (ve-
di sotto la «costruzione del brano»): lo scopo primario di questi rac-
conti era di legittimare l'autorità del profeta. Un vero profeta si di-
stingue da un falso profeta perché non agisce per ambizione o inte-
resse. Se Mosè resiste a Dio e fa ben cinque obiezioni, diventa sem-
pre più manifesto che è diventato il «fondatore» e il <<liberatore» d'I-
sraele non per motivi umani, ma a causa di una chiamata che veniva
da altrove, vale a dire da Dio stesso.
Secondo, il racconto segnala il passaggio fra due forme della fe-
de d'Israele. Dio non è più soltanto il Dio dei patriarchi, di famiglie,
piccoli clan o tribù come nel libro della Genesi. Dio diventa il Dio di
un popolo. Perciò non si parla esattamente del «Dio di Mosè» come
si parla del «Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (Es 3,6.15.16).
Questo Dio diventa il «Dio d'Israele». Per diventare il Dio del suo
popolo, Dio decide di intervenire a suo favore e di liberarlo. In pa-
role semplici, Dio cambia completamente la sorte degli ebrei che pas-
52 T volti insoliti di Dio

seranno dalla schiavitù alla libertà. La rivelazione del «nome di Dio»


(3,13-15) sarà quindi legata per sempre a questo momento della sto-
ria d'Israele.

2. C OSTRUZIONE DEL BRANO

Un racconto di vocazione comporta normalmente cinque mo-


menti: (1) un'introduzione, spesso un'apparizione di Dio (Es 3,1 -6);
(2) una missione (3,7 -1O); (3) una obiezione - nel caso di Mosè, ve ne
sono cinque e l'ultima è in realtà un rifiuto (3,11.13; 4,1. 10.13); (4) la
risposta all'obiezione (4,12.14-15; 4,2-9.11-12.14-17); (5) una con-
clusione (4,18).
L'inizio del racconto descrive anche la scoperta fortuita di un
«luogo sacro» (3,1-6). L'esperienza di Mosè è simile a quella di
Giacobbe in Gen 28,10-22 (la «scala di Giacobbe»), racconto che
mostra come il patriarca «scopre» il luogo sacro dove sarà costrui-
to il tempio di Betel {letteralmente: «casa di Dio»). Un terzo esem-
pio di questo tipo di racconto si trova in 2Sarn 24,18-25. In questo
brano Davide sceglie il luogo dove costruirà un altare per invoca-
re il suo Dio e chiedergli di risparmiare il suo popolo colpito dal-
la peste. 1

1 La statua dell'arcangelo in cima a Castel Sant'Angelo, a Roma, ricorda un


evento simile. Durante la peste che colpì Roma nel 590, il papa Gregorio Magno or-
ganizzò una processione penitenziale. Quando, tornando verso San Pietro, essa si
avvicinò ai ruderi del mausoleo di Adriano, il futuro Castel Sanr' Angelo, la folla vi-
de l'arcangelo Michele che rinfoderava la spada per significare la fine del flagello.
Una cappella fu costruita in cima al mausoleo per commemorare l'evento e da lì vie-
ne il nome Castel Sant'Angelo. A partire dalla fine dell'XI secolo una statua fu col-
locata in cima all'edificio. La statua attuale è la sesta ed è opera del fiammingo Pie-
tro Verschaffelt.
L'episodio dell'angelo che rinfodera la spada a1 termine di un'epidemia di pe-
ste si ispira a un passo biblico, ICr 21,26-27, dove Davide invoca il Signore per far
cessare la peste che decima la popolazione di Gerusalemme: «Quivi Davide eresse
un altare al Signore, vi offrì olocausti e sacrifici pacifici e invocò il Signore, il quale
rispose con il fuoco disceso dal cielo sull'altare dell'olocausto. Allora il Signore or-
dinò all'angelo e questi rimise la sua spada nel fodero» (cf. 2Sam 24,16-17).
La vocazione di Mosè o il Dio della libertà (Es 3,1- 4,18) 53

3. Q UALCHE PISTA DI RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. La scena del roveto ardente e la chiamata (Es 3,1 -lO). Vale la


pena rilevare tutti i verbi che descrivono la «visione» in questi ver-
setti. La scena mostra come a poco a poco Mosè scopra Dio che gli
appare e si rivela a lui, poi impara a «vedere» quello che Dio vede,
sente e capisce (3,7). Perché Mosè deve vedere, sentire e capire co-
me Dio? Che cosa significa questa trasformazione della sua sensibi-
lità verso il popolo d'Israele?
2. La chiamata di Mosè è infatti la risposta concreta di Dio al
grido d'Israele in Egitto (cf. Es 2,23-25; 3,7.9). Quando Dio rispon-
de, manda qualcuno. Come si concretizza la risposta di Dio nel caso
di Mosè? Possiamo rileggere il Nuovo Testamento nella stessa luce?
Gesù Cristo non potrebbe essere una «risposta»? A quale grido Dio
ha risposto?
3. Le obiezioni sono, come detto poc'anzi, segni dell'autenticità
di una vocazione profetica nella Bibbia. Si noti che le obiezioni di
Mosè sono tutte in relazione con il passaggio dalla sfera privata alla
sfera pubblica. Mosè si accorge delle difficoltà inerenti al fatto che
diventa «un uomo per gli altri», mentre gli «altri» non sono necessa-
riamente felici della vicenda! Quali sarebbero le obiezioni di Mosè
oggi? Che cosa distingue il vero profeta di oggi? Quali sono i segni
di una vera vocazione? P uò esistere una vocazione che non sia un ser-
vizio? Quale tipo di servizio?
4. La rivelazione di un nuovo nome corrisponde alla rivelazione
di un nuovo aspetto di Dio. In questo caso, il nome di Dio che si tra-
duce con «il Signore» (in ebraico: YHWH) significa la liberazione
d'Israele: «lo sono il Signore, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dall'E-
gitto, dalla casa di servitù» (Es 20,2). Dio si rivela nella storia d'I-
sraele e la storia d'Israele diventa la rivelazione del «nome» di Dio.
Dio «fa» la storia d'Israele, e Israele non esisterebbe senza questo in-
tervento divino. Il Dio della Bibbia è un Dio liberatore. Se non è li-
beratore, non è il vero Dio. Come tradurre questa verità nel mondo
di oggi? Dove si rivela il «Dio dell'esodo»? Come?
Si notino nel testo di Es 3,1-4,18 i momenti in cui Dio «scrive»
la storia del suo popolo, vale a dire prevede le varie tappe del suo in-
tervento. Vi sarà opposizione? Dio prevede l'opposizione? Saprà su-
perarla? Come?
IL PASSAGGIO DEL MARE E LA GLORIA DI DIO
(Es 14,1-31)

1. INTRODUZIONE

Il passaggio del mare è un episodio chiave della storia d'Israele


perché in questo momento Israele nasce come popolo di Dio. Prima,
nel libro della Genesi, esisteva solamente una fam iglia. In Egitto (Es
1,1-7), questa famiglia diventa un popo1o, ma Faraone ne fa rapida-
mente un popolo di schiavi (Es 1,8-14). I: esodo rende a Israele la li-
bertà senza la quale non poteva esistere come popolo. Il passaggio
del mare è per gli ebrei quello che il mistero della morte e risurre-
zione di Gesù Cristo significa per i cristiani. Per questa ragione, la li-
turgia ci fa leggere Es 14 durante la veglia pasquale.
Il testo di Es 14 raccoglie in un solo racconto diverse tradizioni
sull'evento centrale della fede d'Israele. Sarebbe come un vestito fat-
to con panni di varie epoche cuciti assieme. Per esempio, il racconto
unisce due versioni del «miracolo». La prima, più semplice, parla di
un forte vento dell'est che prosciuga il mare. Gli egiziani arrivano
verso sera su questa porzione del mare respinto dal vento, i loro car-
ri rimangono bloccati nel fango e il mare, tornando al mattino, rico-
pre l'esercito di Faraone. L'altra, invece, è più spettacolare ed è quel-
la che ha lasciato la sua impronta nella nostra memoria. Secondo
questa versione, più recente, su ordine di Dio Mosè stende la sua ma-
no col bastone sulle acque per dividerle e Israele attraversa il mare
fra due muraglie d'acqua. Le due versioni raccontano anche in un
modo diverso la morte degli egiziani. Nella prima, essi provano inva-
no a fuggire davanti al mare che torna al suo posto al mattino (14,25),
56 I volti insoliti di Dio

mentre, nell'altra, gli egiziani sono ricoperti dalle acque che «crolla-
no» su di loro quando Mosè vi stende la mano una seconda volta
(14,26). Nel racconto attuale, le due versioni sono state amalgamate
con grande arte e il lettore si accorge appena delle differenze. Domi-
nano in ogni modo le immagini della seconda versione ed è forse que-
sto aspetto che ha più importanza per la meditazione del brano.
L'affermazione principale del racconto è ]a sovranità del Dio d'I-
sraele sulla natura poiché egli comanda al vento e al mare e alle na-
zioni per salvare il suo popolo e sconfiggere gli egiziani. Questa sal-
vezza, però, è operata tramite Mosè (cf. 14,31). Il tutto significa che
l'esistenza d 'Israele dipende non da qualsiasi eroe, capo carismatico
o monarca, ma da Dio stesso e dal suo servitore, Mosè. Più impor-
tante ancora, forse, il testo afferma con forza che Israele è nato mol-
to tempo prima della monarchia. Mosè e non Davide è il vero fon-
datore d'Israele. Pertanto, Israele potrà anche soprawivere senza la
monarchia. Questo messaggio evidentemente si rivolge anzitutto al-
l'Israele che torna dall'esilio di Babilonia.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

Il brano consta di tre parti molto ben articolate: (1) l'insegui-


mento d'Israele da parte degli egiziani (14,1-14); (2) il passaggio del
mare (14,15 -25); (3) la salvezza d'Israele e la fine degli egiziani nel
mare (14,26-31). Ogni scena ha il suo quadro temporale e spaziale: il
deserto verso sera per la prima; il mare e la notte per la seconda; l'al-
tra riva del mare ali' alba per la terza.
La prima scena (14,1-14) descrive una crisi. Israele, appena usci-
to dall'Egitto, è raggiunto presso il mare dall'esercito di Faraone.
Sembra essere la fine di un grande sogno di libertà. Le due scene se-
guenti (14,15-25 e 14,26-31) mostrano come Dio, con l'aiuto di Mo-
sè, riesce a risolvere la crisi a favore del suo popolo.
Ogni scena inizia con un discorso di Dio rivolto a Mosè conte-
nente ordini da eseguire (14,1-4; 14,15-18; 14,25). La scena che se-
gue descrive in gran parte l'esecuzione di questi ordini con le loro
conseguenze. Inoltre, la conclusione della prima scena prepara le
conclusioni delle altre due. Nel breve discorso di Mosè in 14,13-14,
egli dice due cose importanti: (1) Dio salverà Israele dagli egiziani
1l passaggio del mare e la gloria di Dio (Es 14, 1-3 V 57

(14,13); (2) Dio combatterà per Israele contro gli egiziani (14,14).
Nella conclusione della seconda scena (14,25) ritroviamo quanto
Mosè aveva affermato nel v. 14: gli egiziani fuggono perché scopro-
no con sgomento che «il Signore combatte per Israele contro l'Egit-
to». Gli egiziani confermano pertanto ciò che Mosè aveva previsto.
Nei w. 30-31, il narratore descrive la morte degli egiziani e la sal-
vezza d'Israele in termini molto vicini a quelli del v. 13: il Signore
«salva» il suo popolo e Israele vede gli egiziani morti sulla sponda
del mare.
Infine, le tre scene si concludono con un atto di fede: quello di
Mosè in 14,13-14; quello degli egiziani in 14,15, quando devono ri-
conoscere che il Signore, vale a dire il Dio d'Israele e non qualsiasi
dio, combatte contro di loro; quello d'Israele in 14,31, quando crede
nel Signore e in Mosè, suo servitore.

3. Q UALCHE PUNTO DI RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. La gloria del Dio creatore. Più volte, Dio annunzia che «si
glorificherà contro Faraone e il suo esercito» (14,4.17 -18). Si potreb-
be tradurre: «si glorificherà a spese di Faraone e del suo esercito». La
«gloria» di Dio è, nella Bibbia, la manifestazione del suo potere nel-
la storia d'Israele. Es 14 descrive, infatti, la prima rivelazione di que-
sta gloria. Di quale gloria si tratta? Per annientare gli egiziani, Dio di-
vide le acque e fa apparire la «terra asciutta» nel loro mezzo
(14,16.21-22.29; 15,19). In questa maniera, Dio rinnova il gesto che
aveva compiuto il terzo giorno della creazione, quando fece apparire
per la prima volta la «terra asciutta» dalle acque primordiali (Gen
1,9-10). Chi è quindi il Dio che salva Israele? Quale potenza adope-
ra per salvarlo? Infine, qual è il legame fra la gloria di Dio e la sal-
vezza d'Israele?
2. La paura, il timore e la fede. Si notino i tre riferimenti al «ti-
more» o alla «paura» in Es 14,10.13.31. Vi è progressione fra questi
tre versetti? Perché Israele «teme» in Es 14,10? E chi Israele «teme»
in Es 14,31 ? Come spiegare il passaggio dall'uno all'altro? Il «timo-
re» di Es 14,31 è associato alla «fede». Come spiegare questo awici-
namento? Si veda Rm 8,15. Si può leggere questo versetto alla luce di
Es 14? Qual è il suo significato? Si veda anche Gal 5,1.
58 I volti insoliti di Dio

3. Il passaggio del mare e il battesimo. Vi sono parecchie somi-


glianze fra il racconto del diluvio e il passaggio del mare. In entram-
bi i casi, le acque espletano un ruolo chiave, specialmente perché ri-
coprono gli uomini perversi mentre salvano i «giusti», Noè e la sua
famiglia o gli israeliti. Le acque del mare rappresentano, nella Bibbia,
il mondo del caos primordiale, un mondo di violenza e di ambiva-
lenza. Spesso, è equiparato al mondo della morte.
La Prima lettera di Pietro utilizza l'immagine del diluvio per de-
scrivere il battesimo cristiano (lPt 3,18-22). Tutti i particolari del pa-
rallelismo non sono chiari; però, in ogni modo, il testo stabilisce
un'analogia fra le acque del diluvio e quelle del battesimo. Noè è sta-
to salvato nell'arca grazie alle acque e, nello stesso modo, i cristiani
sono salvati dalle acque del battesimo. I padri della Chiesa hanno
spesso utilizzato Es 14 nella catechesi battesimale perché Israele
«muore» alla schiavitù e «nasce» alla libertà quando attraversa il ma-
re di notte. Il testo di Rm 6, 1-11 descrive anch'esso il battesimo co-
me un «passaggio» dalla morte alla vita.
Se paragoniamo Es 14 con il battesimo, vi sono alcuni punti co-
muni. Che cosa deve «morire» nelle acque del battesimo? Che cosa
«esce» dalle acque? Come descrivere il passaggio? Per esempio, qual
era la situazione d'Israele in Egitto e cosa diventa dopo il passaggio
del mare? Chi era il sovrano d'Israele in Egitto e chi è il suo sovrano
dopo Es 14 (cf. Es 15,18)? Si applicano queste immagini al battesi-
mo cristiano? Un altro aspetto meriterebbe qualche attenzione: gli
israeliti attraversano il mare durante la notte (14,20-21) e arrivano
sull'altra riva sul far del mattino (14,24.27). All'alba di questo giorno
inizia la nuova vita d'Israele (14,30-31).
LE SPALLE DI DIO
(Es 33,18-23)

1. IL PRIMO MOTORE IMMOBILE DI ARISTOTELE

Una delle rappresentazioni più diffuse di Dio che l'antichità ci


ha lasciato in eredità è quella del primo motore immobile di Aristote-
le. S. Tommaso d'Aquino, ad esempio, parla di questo movens non
motum nella Summa Theologiae. Il «motore immobile» è «immobile»
perché, se fosse «moto», avrebbe bisogno di un altro «motore» per
essere mosso, non essendo dunque più così il «primo» motore. Il
pensiero greco aspirava alla stabilità e vedeva nel movimento, così
come nel cambiamento, un segno di imperfezione e di fragilità. L'i-
deale rappresentato dal primo motore è quindi l'immobilità e l'im-
mutabilità, sinonimi di eternità.
La rappresentazione del primo motore immobile si ritrova - e
non per caso - nella Divina Commedia di Dante Alighieri, e proprio,
a mo' di inclusione, nel primo e nell'ultimo verso della cantica del
Paradiso. 1 L'immagine presente nel primo verso: «La gloria di colui
che tutto move I per l'universo penetra, e risplende I in una parte
più e meno altrove» (I,1-3) riappare nelle famose ultime righe del
canto XXXIII: «A l'alta fantasia qui mancò possa; I ma già volgeva
il mio disio e 'l velle, I sì come rota ch'igualmente è mossa, / l'amor

1
I testi citati sono ripresi da G . PETROCCHI (ed.), La Commedia secondo l'an-
tica vulgata, Edizione Nazionale della Società Dantesca Italiana, Milano 1966-1967,
I-IV.
60 I volti insoliti di Dio

che move il sole e l'altre stelle» (XXXIII,142-145). L'idea di un Dio


che muove tutto l'universo, in particolare gli astri del cielo, idea ca-
ra alla filosofia greca e ripresa dalla scolastica medievale, è presente
in diverse parti della Divina Commedia. Un verso del Purgatorio con-
tiene la medesima idea: <<lo motor primo a lui si volge lieto»
(XXV,70), così come riappare, fra l'altro, nella confessione di fede di
Dante fatta davanti a s. Pietro (Paradiso XXIV,130-133): «E io ri-
spondo: Io credo in uno Dio I solo ed etterno, che tutto 'l ciel mo-
ve, I non moto, con amore e con disio». 2
Non sorprende, certo, scoprire una parentela stretta fra le rap-
presentazioni di Dio nella Divina Commedia e quelle della scolastica
medievale perché Dante è spesso considerato come uno dei massimi
araldi del pensiero del suo tempo. A questa idea, ereditata dalla filo-
sofia di Aristotele, Dante aggiunge però una sfumatura propriamente
biblica e cristiana, ossia il concetto di un Dio «amore» (cf. lGv 4,8).
La forza che muove tutto l'universo, dagli astri del cielo fino al cuore
del poeta, è quindi l'amore di Dio. Anche sotto questo aspetto, Dante
è l'erede di un pensiero sviluppato dai padri della Chiesa, in partico-
lare da s. Agostino, che permea tutta la teologia di quell'epoca. Vorrei
tuttavia tornare un attimo sull'immagine stessa del «motore» e sull'i-
dea di «movimento» per mostrare che l'inizio della Divina Commedia
contiene una profonda meditazione su un argomento che ritroveremo
in seguito nel pensiero biblico, in particolare nel libro dell'Esodo.
. Il problema principale che sorge proprio all'inizio della prima
cantica, l'Inferno, è l'incapacità del poeta a «muoversi». Gli ostacoli
sono numerosi e di natura diversa. Dante, innanzitutto, si è smarrito
in una «selva oscura» (I, 1-3) dove si sente come intrappolato e inca-
pace di ritrovare la <<Verace via» appena abbandonata (I,10-13 ). In se-
condo luogo, il poeta si accorge dell'errore e cerca di uscire dalla fo-
resta per salire sul colle che vede di fronte a lui.3 In questo momen-

2 I passi in cui appare tale immagine sono numerosi. Il nostro scopo, in questa

breve indagine, è solo di mettere in rilievo la parentela di Dante con il pensiero filo-
sofico greco, ripreso daUa scolastica medievale, e con il pensiero biblico sul Dio del-
l'Esodo.
3 La foresta oscura, come ben si sa, rappresenta il peccato, e il colle è quello
della virtù illwninato dalla grazia divina.
Le spalle di Dio (Es 33,18-23) 61

to, tuttavia, è assalito dalla paura perché trova davanti a sé tre belve,
una lonza, un leone e una lupa, che, tagliandogli la via, gli impedi-
scono di procedere (I,31-58).4 La paura che paralizza il poeta è più
volte menzionata in questo primo canto (I,44.53 .89; cf. II,63) e il pe-
ricolo è così grande che si vede quasi costretto a tornare nella «selva
oscura»: «tal mi fece la bestia sanza pace I che, venendomi 'ncontro,
a poco a poco I mi ripigneva là dove 'l sol tace» (I,58-60).
Vi sono in questi versi, nonostante l'atmosfera cupa e deprimen-
te, alcuni raggi di speranza. È il mattino (I,37), che ricorda probabil-
mente il mattino del quarto giorno della creazione, giorno nel quale
Dio crea gli astri (Gen 1,14-19). In questo contesto appare per la pri-
ma volta nella Divina Commedia I' amore divino che muove gli astri:
«Temp'era dal principio del mattino, I e 'l sol montava 'n sù con
quelle stelle I eh'eran con lui quando l'amor divino I mosse di prima
quelle cose belle» (I,3 7 -40). L'amore divino che dà movimento ai cie-
li («le cose belle») dà anche speranza al poeta: «sì ch'a bene sperar
m'era cagione» (I,41). Il poeta, nondimeno, non riesce a «muoversi»
a causa delle belve. Occorre pertanto trovare il mezzo che permetterà
ali' amore divino che «muove» i cieli di «muovere» anche il poeta
bloccato sulla strada che conduce alla cima del colle della virtù e del-
la grazia. Questo mezzo, come si sa, sarà Virgilio, la guida inviata da
Beatrice, che mostrerà al poeta la via da seguire (I,64-136). Dopo una
lunga conversazione fra i due, in cui Virgilio spiega a Dante, fra le al-
tre cose, qual è l'itinerario da seguire per uscire dalla foresta, itinera-
rio che attraversa l'Inferno e il Purgatorio per poi entrare nel cielo
(«A te convien tenere altro viaggio»: I,91 ), Dante si mette in moto e
segue la sua guida. L'ultimo verso del primo canto è da leggere at-
tentamente perché contiene il verbo chiave che ci interessa da vicino,
il verbo «muoversi»: «Allor si mosse, e io li tenni dietro» (I,136). Sarà
il primo importante passo verso la salvezza, il primo passo che farà
uscire Dante dalla «selva oscura» e lo condurrà, attraverso l'Inferno
e il Purgatorio, fino alla porta del Paradiso. Il primo passo, tuttavia,
lo fa Virgilio, mentre Dante inizia il suo lungo viaggio dietro al poe-

4 La lonza simboleggia la città di Firenze, il leone l'impero (Sacro Romano Im-


pero) e la lupa il papato di Roma.
62 I volti insoliti di Dio

ta («io li tenni dietro»). Dante può «muoversi» perché qualcuno, da-


vanti a lui, si muove e gli apre il cammino: il poeta Virgilio, che sim-
boleggia la ragione e l'umanesimo della cultura classica. Il lungo viag-
gio sarà una sequela , se si può usare in questo contesto una vecchia
parola della spiritualità benedettina.
Il secondo canto dell'Inferno contiene altri elementi che impedi-
scono al poeta di procedere nel suo viaggio, in particolare lo sgo-
mento davanti alla difficoltà dell'impresa (II,10-36): «Io cominciai:
"Poeta che mi guidi, I guarda la mia virtù s'ell' è possente, I prima
ch'a l'alto passo tu mi fidi"» (II,10-12). Virgilio cerca prima di risve-
gliare il senso dell'onore nel cuore di Dante (II,43-54), poi gli rivela
che è stato mandato su richiesta esplicita di tre donne, la Vergine Ma-
ria, s. Lucia e Beatrice (II,55-126). In questa parte del canto, il verbo
«muovere» è un termine chiave. Si vede chiaramente che tutto il can-
to, specialmente il discorso di Virgilio, intende convincere Dante a
«muoversi». Soffermiamoci sui passi più rilevanti.
Il primo di questi passi appartiene al discorso che Beatrice rivol-
ge a Virgilio, nel Limbo, per inviarlo in aiuto di Dante smarrito nel-
la foresta e che, per paura, è tornato indietro (II,58-66). Dopo aver
descritto la situazione pericolosa nella quale verte Dante, Beatrice in-
vita Virgilio ad agire con queste parole: «Or movi, e con la tua paro-
la ornata, I e con ciò c'ha mestieri al suo campare, I l'aiuta sì ch'i' ne
sia consolata» (II,67-69). Il primo verbo, «movi», è certamente il più
importante perché la salvezza di Dante dipende interamente dal-
1' aiuto di Virgilio. Beatrice invita quindi Virgilio a «muoversi» per
andare a salvare Dante. Perché Beatrice agisce in questo modo? Che
cosa «muove» Beatrice? Il canto risponde subito a questa domanda:
«I' son Beatrice che ti faccio andare; I vegno del loco ove tornar di-
sio; I amor mi mosse, che mi fa parlare» (II,70-72). «Amor mi mos-
se», dice Beatrice, ed è possibile interpretare questo verso in almeno
due modi. L'amore di cui ella parla è, di primo acchito, l'amore
«umano», amore ben noto che l'unisce a Dante. Beatrice, tuttavia, si
trova ormai nel Paradiso, vicina a Dio, l'amore che muove i mondi.
È lecito pensare, pertanto, che l'amore che muove Beatrice è in realtà
l'amore divino che vuol salvare il peccatore smarrito in difficoltà in-
sormontabili. Questo amore è un amore purificato e trasfigurato dal-
la luce divina: non potrebbe essere solo amore umano, altrimenti
Le spalle di Dio (Es 33, 18-23) 63

Beatrice non potrebbe trovarsi nella vicinanza di Dio. La conclusio-


ne di questa lettura appare inevitabile: Beatrice è «mossa» dall'amo-
re divino (II,72) e perciò chiede a Virgilio di muoversi («Or movi»;
II,67) per soccorrere Dante.
Una conferma dell'idea qui sviluppata si trova in II,100-101, ove
la stessa s. Lucia «si è mossa» per andare a trovare Beatrice e chie-
derle di intervenire in favore di Dante («il tuo fedele»: II,98): «Lucia,
nimica di ciascun crudele, I si mosse, e venne al loco dov'i' era [... ]».
Lucia era stata avvertita a sua volta dalla Vergine Maria (Il,94-99). In-
fine, anche l'ultimo verso del secondo canto riprende ancora una vol-
ta il verbo «muovere»: questa volta è lo stesso Dante che «è mosso»
e può iniziare il suo lungo viaggio (II, 141-142). La corrispondenza
con l'ultimo verso del primo canto non può passare inosservata:

«Alior si mosse, e io li tenni dietro» (I,136)

«[ .. .] e poi che mosso fue, in trai per lo cammino alto e silvestre»


(II,141-142 ).

Dante è «mosso» dalle parole di Virgilio (II,136-138) e, convin-


to, si mette a seguire la sua guida, «duca», «segnore» e «maestro»
(II,140). L'ultimo verso del secondo canto usa il passivo («mosso
fue») e non a caso. L'iniziativa non è di Dante, che aveva confessato
la sua incapacità di mettersi in moto e aveva implorato l'aiuto di Vir-
gilio. Nei discorsi seguenti, tuttavia, era apparso in modo lampante
che neanche Virgilio era venuto incontro al poeta di sua spente. L'i-
niziativa risaliva, di grado in grado, da Virgilio a Beatrice, da Beatri-
ce a s. Lucia, da s. Lucia alla Vergine Maria. E, in ultima analisi, la
prima «mossa» era partita dall'amore divino che è origine e fine di
ogni movimento nell'intero universo. L'inizio della Divina Commedia
mostra, in poche parole, che una prima «mossa» parte dall'amore di-
vino e, in un «movimento» discendente, raggiunge Dante nella «sel-
va oscura», quando Virgilio viene a trovarlo nella foresta del pecca-
to, convincendolo a riprendere la sua marcia verso Dio (Il,138: «[ ... ]
i' son tornato nel primo proposto»).
In questo momento comincia un movimento inverso di «risalita»
che si concluderà nell'ultimo canto del Paradiso, quando Dante con-
64 Tvolti insoliti di Dio

templerà «l'amor che move il sole e !'altre stelle» (:X:XXIII,145). «Lo


cammino alto e silvestro» (II,142), il cammino arduo, in regioni sel-
vagge, è pertanto una risposta a un primo movimento discendente
partito da Dio stesso. Virgilio, d'altronde, è una prima manifestazio-
ne dell'amore divino che si rivela a Dante per accompagnarlo duran-
te il suo viaggio verso i cieli. Virgilio, in verità, è in qualche modo
un'espressione personale dell'amore di Dio che viene a «muovere»
Dante, per guidarlo e fargli attraversare l'Inferno e il Purgatorio. Al-
le porte del Paradiso, Virgilio cederà il posto a Beatrice che incarna
una forma più alta della presenza divina, ovvero le tre virtù teologa-
li, fede, speranza e carità, e si sostituisce alla ragione simboleggiata da
Virgilio (Purgatorio, XXX). Quello che appare in modo abbastanza
chiaro, mi sembra, è il legame stretto fra, da un lato, le due guide di
Dante, Virgilio prima e Beatrice poi, e, dall'altro, l'amore divino che
muove ogni cosa. L'amore di Dio è quindi presente non solo alter-
mine del lungo cammino, ma raggiunge Dante fin dal limitare della
«selva oscura» per accompagnarlo durante tutto il suo viaggio. Per il
poeta, d'altronde, la salvezza è nel «moto» che risponde alla mossa
iniziale che lo libera dalla paura e dall'immobilismo. Come vedremo
adesso, il libro dell'Esodo esprime la stessa verità in maniera forse
meno lirica, ma certamente altrettanto sorprendente.

2. LA FENDITURA DELLA ROCCIA (Es 33,18-23)


18 [Mosè] disse [al Signore]: «Fammi dunque vedere la tua gloria».
•9Egli rispose: «lo farò passare tutto il mio splendore davanti a te e
pronuncerò davanti a te il nome del Signore. Farò grazia a chi farò gra-
zia e avrò pietà di chi avrò pietà». 20 E aggiunse: «Non puoi vedere il
mio volto, perché nessuno può vedermi e vivere». 21 Il Signore disse:
«Ecco un luogo vicino a me: ti terrai sulla roccia. 22 Quando passerà la
mia gloria, ti metterò nella fenditura della roccia e ti coprirò con la mia
palma fino a quando sarò passato; 2>poi ritirerò la mia palma e mi ve-
drai di spalle; ma il mio volto non si vedrà».

«Fammi vedere la tua gloria!» (Es 33,18). È raro sentire nella


Scrittura qualcuno esprimere con tanta audacia il desiderio di vede-
re Dio. Il Sal 42,3 è un altro esempio di questa audacia: «L'anima mia
ha sete di Dio, del Dio vivente. Quando potrò venire a contemplare
Le spalle di Dio (Es 33,18-23) 65

il volto di Dio?» In effetti, si potrebbe dire che la Bibbia non è mol-


to «mistica», e che lo è molto meno di altri scritti religiosi. La Bibbia
è «terrena» nel senso che cerca e trova Dio nelle vicende di questo
mondo. Non cerca di «elevarsi>> da questo mondo verso un mondo
spirituale, lontano dalle preoccupazioni dell'umanità, per trovare
presso Dio la pace che questo mondo non può dare. La spiritualità
biblica non è una spiritualità di evasione e non è apparentata alla fi-
losofia di Platone.
Le circostanze del brano dell'Esodo che stiamo leggendo sono
conosciute, ma vale la pena ricordarle perché sono essenziali alla
comprensione del passo. Dio ha liberato il suo popolo, l'ha condot-
to nel deserto, al monte Sinai (Es 19), dove Dio proclama la legge (Es
20-23) e stringe un'alleanza col suo popolo (Es 24,3-8). In questa al-
leanza, il popolo si impegna a osservare i comandamenti del suo Dio.
Mosè risale allora sulla montagna per ricevere le istruzioni divine sul-
la costruzione del santuario (Es 25-31). Durante questo tempo - un
tempo di quaranta giorni e quaranta notti·- , il popolo, impaziente,
chiede ad Aronne di costruirgli un vitello d'oro, perché vuol avere un
Dio più vicino e più «visibile» (Es 32). Dio, infuriato, decide di sop-
primere il popolo ribelle e incapace di una fedeltà che non duri nem-
meno qualche settimana. Mosè, tuttavia, intercede e Dio si mostra
conciliante. L'episodio di Es 33,18-23 si colloca proprio durante le
lunghe trattative di Mosè con Dio. Il significato esatto della scena in
gran parte ci sfugge: questi capitoli dell'Esodo sono fra i più difficili
di tutto il libro. In ogni modo, possiamo scartare una prima inter-
pretazione che vorrebbe vedere nella preghiera di Mosè un semplice
desiderio personale. Mosè, in effetti, non chiede un favore unica-
mente per sé. Chiede di vedere la «gloria» di Dio perché questa «glo-
ria» è la manifestazione della presenza di Dio nella storia del suo po-
polo. La gloria di Dio si è manifestata per la prima volta nel «mira-
colo del mare» (Es 14 ,4 .17 -18; cf. sopra), poi nel deserto, nel dono
della manna (Es 16,7.10), e sul monte Sinai (Es 24,16.17). La gloria
è il «peso» della presenza divina nella storia del suo popolo.5

5 In ebraico, la parola «gloria» (kabod) è della stessa radice del verbo «essere
pesante», «avere peso».
66 I volti insoliti di Dio

Mosè, quando chiede di vedere la «gloria» del Signore, chiede


pertanto di vedere il suo Dio presente in mezzo al suo popolo e vuo-
le assicurarsi che Dio sia ancora disposto ad accompagnarlo nel suo
cammino verso la terra promessa. La richiesta di Mosè si integra per-
fettamente nelle trattative di questi capitoli, in cui cerca di convince-
re Dio a non abbandonare Israele ancorché sia un popolo ribelle, un
popolo dalla «dura cervice» (Es 33,5; 34,9).
La risposta di Dio alla richiesta di Mosè è doppia. In un primo
momento, egli promette al profeta che esaudirà la sua supplica: «Io
farò passare tutta la mia bontà6 davanti a te e pronuncerò davanti a
te il nome del Signore. Farò grazia a chi farò grazia e avrò pietà di chi
avrò pietà» (33,20). È importante notare che, già in questa primari-
sposta, Dio usa il verbo «passare» per descrivere il modo in cui si ma-
nifesterà a Mosè. Dio non dice: «lo starò davanti a te» oppure «lo
farò stare tutta la mia bontà davanti a te». L'elemento dinamico è es-
senziale alla «visione» di Dio concessa a Mosè. Il testo esclude, per
converso, ogni possibilità di una visione meramente statica.
In un secondo momento, tuttavia, Dio aggiunge a quali condi-
zioni si farà <<Vedere» a Mosè. Il problema è il fatto ben conosciuto
che «non si può vedere Dio e vivere». 7 Mosè, per questa ragione, non
potrà vedere la faccia di Dio. Poi Dio specifica quali saranno le con-
dizioni dell'esperienza: egli collocherà Mosè nella fenditura della
roccia e, mentre passerà, coprirà il volto di Mosè con la sua mano in
modo che il profeta non lo possa vedere in faccia. Una volta passato,
però, ritirerà la mano e allora Mosè potrà vederlo, ma di spalle, per-
ché Dio si sarà già allontanato (33,21-22). Il breve discorso si con-
clude con una ripetizione del motivo più importante del brano: «ma
il mio volto non si può vedere» (33,22b).8
Il brano si presta a diverse interpretazioni. È abbastanza evidente,
per esempio, che questi versetti del libro dell'Esodo testimoniano una

6Alcuni traducono questa parola ebraica (tub) con «splendore» o «bellezza».


7Cf. Es 19,21; Lv 16,2; Nm 4,20. «Vedere Dio» è sempre un'esperienza fuori
dal comune, un'esperienza «tremenda e affascinante» per usare il vocabolario di
Rudolf Otto; cf. Gen 32,11; Es 3,6; Nm 12,7-8; Gdc 6,22-23; 13,22-23; lRe 19,13;
Is 6,5.
8 La storia della composizione di questo brano è molto complessa. Il testo por-
ta la traccia di diverse riletture; il significato dell'insieme però è abbastanza chiaro.
Le spalle dl Dio (Es 33, 18-23) 67

profonda riflessione sulla condizione umana e sulla nostra incapacità


di avere una visione completa ed esauriente del mistero di Dio. Inoltre,
come già detto, il brano insiste molto sul «passaggio» di Dio. Il Dio che
appare a Mosè è un Dio che «passa», quindi un Dio che si muove e si
sperimenta mentre si muove. Certo, sarebbe difficile per Aristotele o la
filosofia greca immaginare un Dio che si muove perché, secondo que-
sta filosofia, il primo motore è immoto e immobile. Nel mondo delle
rappresentazioni bibliche, invece, la cosa crea meno difficoltà.
Fra le tante interpretazioni del brano, ve n'è una che mi pare de-
gna di essere menzionata e presentata più a lungo. È un'interpreta-
zione antica, dovuta a Gregorio di Nissa, che la sviluppa nella sua
opera La Vita di Mosè. Quando egli commenta il nostro passo, si chie-
de perché Mosè possa vedere Dio solo di spalle e non faccia a faccia.
La sua risposta è nello stesso tempo molto semplice e molto illumi-
nante: si vede Dio di spalle perché passa davanti a Mosè per guidare
Israele nel deserto verso la terra promessa. Chi vuol vedere Dio deve
quindi seguire Dio. E Gregorio di Nissa riassume la sua spiegazione
con queste formule pregnanti: «Linsegnamento che Mosè, quando
cerca di vedere Dio, riceve sulla maniera di poterlo vedere è la se-
guente: seguire Dio ovunque vi conduce, questo è vedere Dio. In ef-
fetti, il suo "passaggio" significa che egli conduce colui che lo segue.
Non è possibile a colui che ignora la via di viaggiare in sicurezza sen-
za guida. La guida gli mostra Ja via mentre lo precede». 9
Il Dio della Divina Commedia invia Virgilio e Beatrice per
<<muovere» Dante e farlo arrivare fino al paradiso. Le guide di Dan-
te, in realtà, sono diverse manifestazioni della presenza e della grazia
divine. Il libro dell'Esodo identifica queste diverse manifestazioni
della presenza divina e Dio in persona diviene la guida del popolo,
accompagnandolo lui stesso nel suo cammino nel deserto verso la
terra promessa. 10 La salvezza, per Israele, consiste nel camminare.

9 Per il testo, si veda GREGORIO DI NISSA, Contemplation sur la vie de MoiSe ou


traité de la per/ection en matière de vertu. lntroduction et traduction de}EAN DANlÉ-
LOU (Sources chrétiennes 1), Le Ccrf, Paris 1941, 150.
10 In Es 23,20, Dio promette di mandare un «angelo» per condurre Israele al
luogo fissato. La Bibbia in genere e il libro dell'Esodo in particolare conoscono di-
verse forme della presenza divina. Si vedano anche Es 14,19; 33,2.
68 I volti insoliti di Dio

La perdizione, invece, è fermarsi o, peggio ancora, tornare indietro


verso l'Egitto.

3. A MO' DI CONCLUSIONE

Antoine de Saint-Exupéry, nel suo libro Terra degli uomini, 11


racconta l'avventura incredibile di un suo compagno, Henri Guillau-
met, 12 un altro pioniere dell'aviazione, che riuscì a salvarsi miracolo-
samente dopo lo schianto del suo aereo sulla cordigliera delle Ande.
Solo nella neve, senza alcuna possibilità di comunicare con nessuno,
senza cibo, Guillaumet si mise a camminare e, finalmente, raggiunse
un piccolo villaggio dopo cinque giorni e quattro notti di marcia este-
nuante. Voleva andare avanti per diversi motivi, fra l'altro affinché
sua moglie potesse essere risarcita in caso di decesso. Era necessario,
però, che il suo corpo fosse rinvenuto e bisognava quindi avvicinarsi
il più possibile alle zone abitate. Questo era uno dei pensieri che in
lui albergava durante quegli interminabili giorni. La terribile tenta-
zione, però, secondo il racconto che fece dopo essersi salvato, era di
fermarsi e di addormentarsi per sempre nel deserto bianco. Come re-
sistere alla tentazione? Ascoltiamo la risposta di Henri Guillaumet
nel racconto di Saint-Exupéry: «Quello che salva è di fare un passo.
Ancora un passo. È sempre con lo stesso passo che si ricomincia». 13
Un passo avanti, uno solo, poi ancora uno, e un terzo. L'essenziale, in
realtà, è di fare un passo avanti perché significa mettersi in moto.
Una volta in moto, si continua. Così si è salvato Guillaumet e ha ri-
trovato il mondo dei viventi. «Quello che ho fatto, lo giuro, nessun
animale l'avrebbe fatto», aggiunge nel finale del suo racconto lo stes-
so Guillaumet. 14 La forza di mettersi in moto e di continuare il mo-
vimento iniziato per salvare la propria vita è, secondo Guillaumet e
Saint-Exupéry, una caratteristica essenziale dell'umanità.

li Edizione originale in francese: H. GUILLAMET, Terre des hommes, Gallimard,


Paris 1939.
12 li libro di A. de Saint-Exupéry è dedicato al compagno Guillaumet.
13 Terre des hommes, 46. La traduzione è nostra.
14 Terre des hommes, 46.
Le spalle dì Dio (Es 33, 18-23) 69

Dante, Mosè, Guillaumet sono tre personaggi molto diversi e le


loro esperienze sono separate non solo dal tempo, bensì da un'enor-
me distanza culturale. Le tre opere citate, la Divina Commedia, il li-
bro dell'Esodo e Terra degli uomini appartengono a tre civiltà che so-
no apparentate da un aspetto essenziale: la spiritualità del cammino.
Per tutte e tre le opere, la salvezza è nel mettersi in moto e nel cam-
minare. Secondo le prime parole dell,antica saggezza cinese del Tao,
<<la via è la meta». 15 La vera meta della vita, in altre parole, è di tro-
vare la via della salvezza, e poi quella di cammfoare su questa via. La
meta non è quindi distinta dalla via che vi conduce, così come il Dio
dell'Esodo è lo scopo ultimo della marcia e la guida d'Israele nella
sua marcia. 16 Concludiamo con un'ultima citazione biblica, tratta an-
ch'essa dal libro dell'Esodo. Israele, quando è raggiunto dagli egi-
ziani presso il mare dei giunchi, si trova bloccato fra l'esercito nemi-
co e le acque e così grida verso il suo Signore (Es 14,9-10). Il primo
ordine che Dio dà a Mosè per salvare il suo popolo prende un signi-
ficato di una rara densità quando è letto alla luce dei testi preceden-
ti: «Perché gridi verso di me? Parla agli Israeliti e che si muovano!»
(Es 14,15). 17 .

15 Tao, in cinese, significa «via». Le prime parole della saggezza di Lao-Tsu


(570-490 circa), nella sua opera «li libro del tao», sono appunto tao tsu, vale a dire:
«la via è la meta».
!6 Ricordiamo, in questo contesto, che i primi cristiani erano chiamati «segua-
ci della via» (At 9,2).
11 Il verbo ebraico utilizzato in quesro versetto, ns', significa letteralmente <<le-

vare il campo», «spostare l'accampamento».


DIO, DAVIDE E IL PREZZO DI UN SORSO D'ACQUA
(2Sam 23,14-17)

14 Davide stava allora nella fortezza, mentre la guarnigione dei Filistei


era a Betlemme. l5 Davide ebbe un desiderio e disse: «Magari potessi
bere l'acqua del pozzo che sta alla porta di Betlemme!». 16 I tre prodi
[Is-baal, Eleazaro e Samma], sfondando il campo dei Filistei, attinsero
acqua dal pozzo che è alla porta di Betlemme, la presero e la portaro-
no a Davide. Egli non volle berla, ma la versò in libagione al Signore,
17 dicendo: «Mi guardi il Signore dal fare questo! Non è forse il sangue

degli uomini che sono andati con pericolo della loro vita?». E non vol-
le berla. Tali cose compirono i tre prodi.

La figura di Davide ha ispirato innumerevoli artisti, in particola-


re scrittori, pittori e scultori. Fra tutte le vicende di Davide, però,
quella che ha avuto un successo indiscusso è la vittoria del piccolo
Davide contro il gigante Golia (lSam 17). Il famoso Davide di Mi-
chelangelo (Firenze, Galleria dell'Accademia), in tutta la sua maestà
statica, o quello del Bernini, alla Galleria Borghese (Roma), che sta
per scagliare il sasso, rappresentano due modi quasi opposti di inter-
pretare la scena. Il Davide di Michelangelo incarna l'ideale classico e
la tranquillità imperturbabile dell'eroe vincitore che porta la sua fion-
da sulla sua spalla quasi con noncuranza. Il Davide del Bernini, inve-
ce, è stato rappresentato nel momento più intenso della scena, quan-
do prende di mira la fronte del suo avversario invisibile per colpirlo
con il sasso ( 1Sam 17 ,4 9a: <<Davide infilò la sua mano nella sacca, ne
trasse fuori un ciottolo, lo lanciò con la fionda [. .. ]»). Si legge sul vol-
to di Davide la concentrazione e la determinazione di qualcuno con-
vinto che la sua sorte e quella del suo popolo dipendono dalla preci-
72 I volti insoliti di Dio

sione del suo gesto. Il movimento è rappresentato con tanta maestria


che lo spettatore rimane poco tempo davanti alla statua perché teme
di essere sulla traiettoria del ciottolo che Davide sta per scaraventare
contro il suo avversario.
Altri, e sono abbastanza numerosi, hanno rappresentato Davide
subito dopo la vittoria, quando ha tagliato la testa a Golia (lSam
17 ,51 : «Davide corse e si fermò sul filisteo, afferrò la spada di lui, la
estrasse dal fodero e lo uccise troncandogli con essa la testa [. .. ]».).
Nel museo del Bargello, a Firenze, se ne possono ammirare due
esempi famosi, due statue di bronzo: il Davide di Donatello e quello
del Verrocchio. In entrambi i casi, il giovane Davide tiene ancora la
spada in mano e si vede la testa di Golia presso il suo piede destro.
L'opera d'arte ha più di un significato, ma vi si può certamente leg-
gere la volontà di affermare il trionfo dell'ideale rinascimentale sui
suoi denigratori e su tutte le forze dell'oscurantismo medievale. La
bellezza di Davide rappresenta lo spirito nuovo del rinascimento e la
testa tagliata di Golia tutto quello che, invano, si vuole opporre a
questo spirito. Fra queste opere, però, spicca una pittura del Cara-
vaggio, oggi nel Museo del Prado (Madrid). Il Caravaggio ha prefe-
rito dipingere un altro momento molto particolare della scena, quel-
lo in cui Davide prende la testa appena tagliata di Golia e la lega per
portarla via (lSam 17 ,54: «Davide prese la testa del filisteo e la portò
a Gerusalemme, mentre le sue armi le depose nella propria tenda») .1
Nel ritratto del Caravaggio, il giovane Davide lega con una cordicel-
la l'immensa testa per poterla trasportare. Si legge sul viso di Davide
una grande attenzione al gesto che sta compiendo e, nel suo sguardo
fissato sul volto del nemico ormai innocuo, un sentimento strano e
difficile da definire. Forse sente qualcosa, come della commiserazio-
ne, della pietà per quest'uomo appartenente ormai per sempre al
mondo dell'oblio. Il duello, fino a pochi istanti prima, poteva asso-

1 Si tratta certamente di un anacronismo perché Davide conquisterà Gerusa-

lemme solo in 2Sam 5,6-9. Il tratto appartiene ai racconti di battaglia: l'eroe porca a
casa, fra i trofei, la testa del nemico abbattuto. Cf. Gdt 13,15. Si veda anche lSam
.31,9, ove i Filistei portano in trionfo nelle loro città le teste di Saul e dei suoi tre fi-
gli, oppure 2Sam 20,22, racconto di un assedio che finisce quando, su consiglio di
una vecchia donna saggia, si getta a Gioab, generale di Davide, la testa di Seba, fi-
glio di Bicrì, il ribelle.
Dio, Davide e il prezzo di un sorso d'acqua (2Sam 23, 14-17) 73

migliare a un grande gioco, a una sfida tra adolescenti come se ne co-


noscono tante, e forse a qualcosa di non molto diverso da alcune
esperienze di battaglie contro animali raccontate dallo stesso Davide
per convincere Saul a lasciargli affrontare da solo il gigante Golia. In
effetti, Davide aveva raccontato al re Saul di non aver avuto paura di
affrontare leoni e orsi per difendere il suo gregge (lSam 17 ,34-36). Il
sangue di un leone o di un orso, tuttavia, non è il sangue di un uomo.
Davide ha appena ucciso un uomo, ed è la prima volta. Il gigante che
poco prima lo insultava è ormai silenzioso per sempre. Davide, nello
splendido quadro del Caravaggio, si trova per la prima volta davanti
a un uomo decapitato e si dipinge, sul volto serio dell'adolescente,
quello che un'anima giovane e semplice può avvertire davanti alla
morte che lei stessa ha procurato a un essere vivente.
Mi sono fermato un attimo davanti al quadro del Caravaggio per-
ché la scena che vorrei commentare ora mostra quanto l'artista sia sta-
to perspicace nella sua raffigurazione dei sentimenti che possono ani-
mare un eroe biblico quale Davide davanti alla morte. La breve scena
che troviamo alla fine del secondo libro di Samuele, in una serie di
«appendici», non è molto conosciuta. Come vedremo, si tratta però di
un tratto comune a diversi grandi personaggi della storia. Si racconta,
in effetti, un episodio simile nella vita di Alessandro Magno. 2
Torniamo però al nostro breve testo. Davide ha sete e chiede di
poter bere dell'acqua di un pozzo di Betlemme da lui conosciuto. I tre
prodi, di cui si raccontano diverse gesta memorabili in 2Sam 23, si ar-
rischiano da soli per andare ad attingere un po' d'acqua da questo
pozzo. Quando tornano, però, Davide rifiuta di berla perché hanno
rischiato la vita per portargliela e la versa in libagione al Signore. L' ac-
qua ha il gusto particolare del sangue di tre uomini che hanno fron-

2 L'episodio è riportato dallo storico QuINTUS CURTIUS Rurus nella sua Storia di
Alessandro Magno di Macedonia (7.5 .1 -1 6). lJ suo esercìto si trovava nell'attuale Af-
ghanistan e dovette attraversare un deserto per circa 75 chilometri prima di rag-
giungere il fiume Oxus (oggi chiamato Amu Daria). Il caldo era tanto intenso da ob-
bligare le truppe a camminare di notte. Tutti soffrivano la sete, ma quando due sol-
dati offrirono acqua al re, questi chiese loro per chi l'avessero portata. Essi rispose-
ro che era per i loro figli. li re rifiutò allora di berne e disse: «Non posso sopporta-
re di bere da solo e non c'è abbastanza acqua per condividerla con tutti. Andate su-
bito e date ai vostri figli quello che avete portato per loro».
74 I volti insoliti di Dio

teggiato da soli un intero esercito di filistei. Per Davide quest'acqua ha


pertanto un prezzo troppo alto: di conseguenza egli la versa in libagio-
ne al Signore della vita e della morte perché appartiene a Dio solo.
Tl,ltta la scena è focalizzata su un elemento di primo acchito in-
significante, ossia un sorso d'acqua fresca. Forse Davide ha davvero
sete, o forse vuole solo togliersi uno sfizio, forse è solo un capriccio,
uno dei capricci che può permettersi ogni tanto un grande capo, op-
pure è addirittura una sfida lanciata ai suoi prodi per mettere alla
prova la loro bravura. Il testo non dice nulla sulle vere intenzioni di
Davide. Esso riferisce solo l'espressione del suo desiderio: «Magari
potessi bere l'acqua del pozzo che sta alla porta di Betlemme!». Non
è nemmeno un ordine. I tre prodi, però, prendono questo desiderio
come un vero ordine e vanno ad attingere l'acqua. La conclusione
della scena rivela quale sia il vero costo di quest'acqua. Anche un sor-
so d'acqua merita di essere menzionato fra le vicende di Davide e le
im prese eroiche dei suoi prodi. Ma non perché sono riusciti a passa-
re fra i ranghi di un intero esercito e a tornare incolumi con l'acqua
desiderata. Il testo esalta appena la prodezza dei tre uomini di Davi-
de. Il testo evidenzia invece l'insigne rispetto di Davide per la vita,
più concretamente per il sangue dei suoi uomini. ·
«La vita dell'essere vivente è nel sangue», dice il libro del Levi-
tico (17,11). Davide, sebbene sia re d'Israele, testimonia anch'egli
che il sangue è sacro e appartiene solo a Dio. Nemmeno un re ha di-
ritto di chiedere ai suoi uomini di rischiare la vita solo per una sor-
sata d'acqua fresca.
Troviamo nel Nuovo Testamento un passo apparentato alla sce-
na appena commentata quando leggiamo nel Vangelo di Marco que-
sta frase conosciuta: «Chi avrà dissetato anche con un solo bicchiere
d'acqua fresca uno di questi piccoli, in quanto discepolo, in verità vi
dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42; cf. Mc 9,4 1). Un
bicchiere d'acqua può anch'esso avere un valore nel regno dei cieli
perché il vangelo conosce il vero prezzo delle cose, anche minime.
Non tutti rischiano la vita per procurare a chi ha sete un bicchiere
d'acqua. Una vita, però, può anche dipendere da un solo bicchiere
d'acqua. Il vangelo - e questa volta letto alla luce dell'Antico Testa-
mento - ci insegna che addirittura le cose in apparenza irrilevanti
possono acquistare un prezzo infinito.
LO SCUDO DI ACHILLE, LA FARINA DI ELISEO
E LA CIPOLLA DI DOSTOEVSKIJ

1. Lo SCUDO DI ACHILLE E IL RUOLO DEL RE

Omero, nel c. XVIII dell'Iliade, descrive a lungo come Efesro, il


fabbro degli dei, forgiasse su richiesta della nereide Teti, madre di
Achille, un nuovo scudo per l'eroe acheo. Le armi di Achille sono an-
date perdute perché Patroclo, che le aveva prese, è stato sconfitto e
spogliato da Ettore (c. XVI). La descrizione dello scudo è minuziosa
e conta ben centotrenta versi (XVIII, 478-608) .1 Il passo è noto per
diverse ragioni, in particolare perché è diventato un locus communis
del genere epico ed è stato spesso imitato. Molte sono le domande
che un lettore moderno può farsi alla lettura di questo celebre passo.
Per il nostro scopo, vale la pena, penso, soffermarci su un solo aspet-
to del brano: il legame fra un'arma imponente e una raffigurazione
del mondo. Omero, in realtà, offre ai suoi lettori un'imago mundi del
suo tempo nella quale racchiude ciò che considera più degno di es-
sere ricordato e trasmesso alle future generazioni. La descrizione è
lunga, pur se certamente non completa. È per questo motivo che ri-
sulta interessante vedere quello che l'autore del poema considera co-
me essenziale. Come dice lo stesso poeta, Efesto rappresenta sullo

1 Testo e traduzione di G10 VANNI C ERRI, BUR, Milano 200.3 , 985-995.


76 I volti insoliti di Dio

scudo l'universo: terra, cielo e mare (483 ). 2 Il poema inizia con una
descrizione del cielo (484-489) e termina con quella del fiume Ocea-
no (il mare, 606-608). La descrizione della terra - come prevedibile
- è molto più particolareggiata (490-605). Vi troviamo molti aspetti
della vita dell'epoca, aspetti spesso contrastanti o complementari. So-
no rappresentate scene della vita cittadina e della vita rurale, scene di
pace e scene di guerra, scene gioiose e scene serie, scene di vita agri-
cola e di vita pastorale, bestiame grosso e bestiame minuto, mietitu-
ra e vendemmia. Infine, ed è con ogni probabilità intenzionale, la
parte dedicata alla terra inizia con la descrizione di una città ove si
celebrano nozze, si allestiscono banchetti e si organizza un ballo
(491-496) e finisce con una descrizione simile: una pista di danza
(590-605). Lo «scudo di Achille», in altre parole, celebra anzitutto la
gioia di vivere: la musica, la danza, i banchetti, la giovinezza e l'amo-
re. Esso esalta anche l'abbondanza e la ricchezza economica che vie-
ne dai campi e dalle greggi. La lunga e precisa descrizione dei lavori
dei campi, della vita pastorale (con la lotta disuguale contro i leoni
che sbranano un toro) e della vendemmia testimonia l'importanza
che il mondo greco antico accordava a queste attività essenziali alla
sopravvivenza. Altri aspetti della società greca antica non potevano
mancare: il processo e la guerra.
Troviamo quindi sullo scudo di Achille una «scena speculare»
perché il poema, dedicato tutt'intero alla guerra, contiene al suo in-
terno una raffigurazione di una scena di battaglia, e, questa, proprio
su un'arma da guerra. L'ideale, certo, è la vita gioiosa e tranquilla del-
le feste, della danza e dei banchetti. Questa vita dipende, però, da
una parte dai guerrieri che difendono le città contro gli invasori che
hanno come primo scopo di arricchirsi saccheggiando e, dall'altra,
dal duro lavoro di mezzadri, pastori e vendemmiatori. L'Iliade, certo,

2 Per essere più precisi, ecco un breve riassunto del poema: terra, cielo e ma-

re (483); cielo (483-489); due città di uomini (490-540) - nella prima si descrivono
un matrimonio (491-496) e un processo (497-508), l'altra è assediata e assistiamo a
una battaglia (509-540); il lavoro dei campi: aratura (541-549); mietitura nella te-
nuta regale (550-556); pasto regale e minestra di farina per i braccianti (556-560);
vigneto e vendemmia (561-572); una mandria - un toro è attaccato da due leoni
(573-586); gregge di pecore (587-589); danza (590-605); fiume Oceano (606-608).
Lo scttdo di Achille, la farina di Eliseo e la cipolla di Dostoevskij 77

glorifica soprattutto la guerra. Un segno dell'importanza di quest'ul-


tima lo possiamo ricavare dal fatto che gli dei sono menzionati solo
in questa scena. Ares e Pallade Atena sono alla testa dei guerrieri del-
la città assediata che escono per preparare un'imboscata (516). Nel-
la stessa scena appaiono varie allegorie: la Furia, il Tumulto e la stes-
sa Morte funesta (535). Vita e morte, guerra e pace sono presenti, in-
dissociabili, sullo scudo di Achille così come nella visione del mondo
caratteristica dell'Iliade. Un'altra scena cruenta è quella della man-
dria attaccata da due leoni contro i quali i pastori aizzano invano i lo-
ro cani (579-584). La vita non è mai priva di pericoli. Fra le figure
rappresentate non poteva mancare neanche il re, personaggio cen-
trale nella società del tempo e nell'Iliade (555-556). Pure in questo
caso la figura è speculare: il re è rappresentato sullo scudo portato
dallo e destinato allo stesso monarca.
La raffigurazione dell'imago mundi sullo scudo di Achille sugge-
risce al lettore una cosa molto semplice: è dal valoroso guerriero, dal-
1'eroe, in fin dei conti dal re, che dipendono la sicurezza, la gioia di
vivere, la produzione dei beni e la ricchezza economica. La vita feli-
ce e prospera, insomma. Senza un re capace di governare il suo pae-
se e di difenderlo contro i suoi nemici, l'esistenza è impensabile. Sim-
bolo e strumento di questo potere del re è proprio lo scudo sul qua-
le è rappresentato il mondo. L'oggetto descritto con tanta cura da
Omero diventa, quindi, il «perno del mondo». È questo il messaggio
essenziale dello scudo di Achille, re dei mirmidoni.

2. LA FARl A DI ELISEO

I greci antichi sono famosi per essere audaci marinai e impavidi


guerrieri. Gli ebrei, invece, non hanno il piede marino e non posso-
no vantare imprese belliche paragonabili a quelle degli eroi achei. È
quindi inutile cercare nella Bibbia qualcosa di simile al giustamente
famoso brano dell'Iliade appena letto. Epopea e letteratura eroica so-
no pressoché completamente assenti dalle Scritture ebraiche e cri-
stiane. Al loro interno non troviamo affatto descrizioni dettagliate di
battaglie e ancora meno di armamenti. Una delle pochissime ecce-
zioni è la descrizione del gigante Golia in 1Sam 17,4-7:
78 I volti insoliti di Dio

4 Uscì dagli accampamenti dei Filistei un guerriero di nome Golia di


Gat, la cui altezza era di sei cubiti e un palmo. 5 Aveva sul capo un el-
mo di bronzo ed era rivestito di una corazza a scaglie; il peso della co-
razza era di cinquemila sicli di bronzo. 6 Aveva gambali di bronzo ai
suoi stinchi e un giavellotto di bronzo sulle spalle. 7 Il legno della sua
lancia era come il subbio del tessitore e la punta della sua lancia pesa-
va seicento sicli di ferro; il portatore dello scudo marciava davanti a lui.

La descrizione di Golia ha qualcosa di «omerico» e alcuni ese-


geti pensano, in effetti, che questo brano tradisca l'influsso della cul-
tura greca. Un elemento, in particolare, fa pensare a un armamento
tipicamente ellenico: i gambali. Nel Medi Oriente antico non sono
conosciuti prima dell'arrivo di Alessandro Magno. La descrizione di
Golia, tuttavia, ha qualcosa di smisurato. È alto più o meno due me-
tri; la sola punta della sua lancia pesa seicento sicli di ferro, ossia qua-
si sette chili; la corazza a scaglie pesa cinquemila sicli di bronzo, vale
a dire almeno sessanta chili. L'iperbole, come si sa, ha come funzio-
ne di creare un forte contrasto e, spesso, di generare l'ironia. Nel ca-
so di Golia, questa ironia è evidente perché tutto l'armamento del gi-
gante sarà inutile: un solo ciottolo, lanciato da una fionda, avrà ra-
gione di questa terribile massa di metallo. Una scena del genere è
inimmaginabile nell'Iliade di Omero, ma non nell'Odissea, proprio
perché Ulisse riesce a togliere di mezzo il gigante Polifemo con l'a-
stuzia e non con la forza.
La Bibbia, per tornare al nostro argomento, conosce oggetti si-
mili allo scudo di Achille? Come detto, è meglio non cercarvi la de-
scrizione di un'arma di grande bellezza e di grande prestigio. Si po-
trebbe pensare al «bastone di Mosè», segno della sua autorità e stru-
mento di alcuni portenti memorabili. 3 Si potrebbe anche menziona-
re il «libro della legge» scoperto nel tempio all'epoca del re Giosia
(2Re 22) e dal quale, secondo il testo, dipende la sorte del popolo: il
re Giosia invita per questo motivo tutti i suoi sudditi a conformare la

3 Cf. Es 4,1 -5.17.20; 7,9-12.15-20; 8,1.12-13; 9,23; 10,13; 14,16; 17,5.9; Nm

20,8-9. In Es 7,9-12.19-20; 8,1.12-1.3, il bastone si trova nelle mani di Aronne. Il


bastone è soprattutto presente in alcune piaghe d'Egitto e in alcuni miracoli nel
deserto.
Lo scudo dì Achìlle, la farìna dì Eliseo e la cìpolla dì Dostoevskij 79

loro vita al contenuto del misterioso libro per non cadere sotto la ma-
ledizione che, secondo lo stesso libro, è appesa sulla testa d i chiun-
que non obbedisce. L'esistenza, nell'antico Israele, non dipende dal-
la forza delle armi e dalle virtù eroiche dei sovrani, spesso molto de-
boli. L'esistenza dipende molto di più dalla conoscenza di un «libro»
e dalla disponibilità a far corrispondere la propria vita a quanto que-
sto libro detta. La salvezza, in altre parole, viene da una «sapienza di
vita» e non dalla forza. Per illustrare questo modo di pensare e per
meglio misurare la distanza che separa, su questo punto, la Bibbia
dall'Iliade di Omero, propongo di leggere un breve testo che appar-
tiene al cosiddetto «ciclo di Eliseo». Si tratta, nuovamente, di un te-
sto raramente citato (2Re 4,38-41):
38 Eliseo se ne tornò a Gàlgala mentre nel paese c'era la carestia e i di-
scepoli dei profeti erano seduti al suo cospetto. E gli disse al suo servo:
«Metti sul fuoco la pentola più grande e fa' cuocere una minestra per i
discepoli dei profeti». 39 Uno di essi, ch'era uscito in campagna in cer-
ca di verdura, trovò una vite selvatica da cui raccolse zucche selvatiche,
fino a riempirne la falda della veste. Ritornato, le tagliò a pezzi e le
gettò nella pentola, perché non sapeva che cosa fossero. 40 Ne versò poi
agli altri perché ne mangiassero. Appena questi ebbero gustato la mi-
nestra, gridarono: «C'è la morte nella pentola, uomo di Dio!», e non ne
poterono mangiare. 41 Il profeta ordinò: «Portatemi della farina»; la
gettò nella pentola, poi disse: «Versatene alla gente perché ne mangi».
E non ci fu più nulla di cattivo nella pentola.

Omero, nell'Iliade, vede la morte prima di tutto sui campi di bat-


taglia. La guerra è, anche nella Bibbia, una delle peggiori calamità,
anche se è spesso abbinata alla peste e alla fame. 4 Quest'ultima è cer-
tamente fra le calamità più frequenti in Israele a causa di un clima
che non garantisce una stagione di piogge regolari e abbondanti. La
siccità è un flagello molto temuto che colpisce non di rado la regio-
ne. Ricordiamo che almeno ognuno dei patriarchi ha conosciuto la

4 lRe 8,37 (= 2Cr 6,28); 2Cr 20,9; Ger 14,12; 21 ,7.9; 24,10; 27,8.13; 28,8;

29,17.18; 32,24.36; 34,17; 38,2; 42,17.22; 44,13; Ez 5,12.17; 6,11.12; 7,15; 12,16;
14,21; Bar 2,25; Ap 6,8. La triade tradizionale, frequente specialmente in Geremia
ed Ezechiele, è quella della spada, della peste e della fame.
80 I volti insoliti di Dio

carestia: Abramo (Gen 12,10), Isacco (Gen 26,1) e Giacobbe (Gen


42,1.5). Altrettanto famosa è la siccità che colpì il regno d'Israele sot-
to il regno di Acab, siccità annunziata dal profeta Elia e che provocò
logicamente una terribile carestia (lRe 17 ,1). Pure il nostro racconto
inizia con la menzione di una carestia (2Re 4,38).
Il brano segue una falsariga comune a diversi miracoli compiuti
dallo stesso profeta Eliseo. All'inizio si descrive brevemente il proble-
ma. Nel nostro caso occorre trovare cibo nel momento in cui scarseg-
gia (4,38). La soluzione, in questo caso, è di prendere qualche nutri-
mento della natura perché le prowiste sono probabilmente finite.
Uno dei giovani profeti, allora, va in cerca di verdura selvatica e pen-
sa di aver trovato qualcosa di commestibile (4,39). L'ignoranza del gio-
vane profeta trasforma rapidamente la possibile soluzione in un altro
problema, quasi più grave del primo: la minestra preparata è imman-
giabile tant'è che il cibo sembra persino awelenato (4,40). A questo
punto siamo di nuovo da capo perché, ancora una volta, non c'è nien-
te da mangiare. Il profeta, tuttavia, «inventa» una soluzione. Basta ag-
giungere un po' di farina e la minestra diventa subito commestibile.
Il nemico da sconfiggere, in questo breve racconto, non è solo la
fame, bensì, dietro alla fame, la stessa «morte», quella che si aggira
sui campi di battaglia dell'Iliade. I giovani profeti la riconoscono su-
bito quando assaggiano il brodo preparato dall'inesperto novizio che
si era improwisato apprendista cuoco: «C'è la morte nella pentola,
uomo di Dio!» (4,40). L'ebraico, nella sua caratteristica concisione, è
ancora più pregnante: «Morte nella pentola, uomo [di] Dio!». Sono
le uniche parole non pronunciate da Eliseo in tutto il racconto ed
esprimono il vero problema dei «figli dei profeti»: la morte sta in ag-
guato. Tutti gli altri discorsi diretti, in effetti, sono sulla bocca del
profeta (4,38-41).
L'elemento scelto dal profeta per risolvere il problema è, nel no-
stro caso, molto banale. In un altro racconto analogo, lo stesso Eliseo
aveva consigliato di buttare un pizzico di sale in una sorgente che
causava morte e sterilità (2Re 2,19-22). In un altro racconto ancora,
in cui una vedova doveva riscattare due figli che rischiavano di esse-
re presi come schiavi per saldare i debiti della famiglia, il profeta ave-
va «moltiplicato» l'olio della donna e quest'ultima, con il danaro del-
la vendita, aveva saldato i suoi debiti riuscendo così a campare (2Re
Lo scudo di AchillC', la farina di Eliseo e la cipolla di Dostoevskij 81

4,1-7). Farina, sale, olio: ecco gli strumenti della salvezza usati dal
profeta. Certamente, non abbiamo niente di paragonabile allo splen-
dente scudo di Achille. Siamo in un altro mondo, non quello aristo-
cratico e «sublime» dell'Iliade e dell'epopea in genere. Siamo nell'u-
niverso del popolino che combatte ogni giorno per la sua soprawi-
venza; vale a dire, letteralmente, per il suo «pane quotidiano». Que-
sta soprawivenza, in alcuni casi come quelli descritti nei racconti
summenzionati, ha del miracoloso. Occorre aggiungere subito, tutta-
via, che il miracoloso - lo straordinario che ricerca la letteratura di
tutti i tempi - si riduce a un gesto semplice ed è ottenuto grazie ad
elementi comuni. La farina, il sale o l'olio sono sempre a disposizio-
ne. Basta saperli utilizzare a buon fine, nel modo e nel momento giu-
sti. Il potere del profeta non consiste in una capacità soprannaturale
di trasformare tutto in oro, bensì nel saper utilizzare ingredienti re-
peribili in ogni casa in Israele. La sàlvezza, in altre parole, può di-
pendere da una bagattella che è alla portata di mano di chicchessia.
Non è necessario, come nel caso di Achille, ricorrere a un dio per
fabbricare un oggetto unico e impareggiabile.

3. LA CIPOLLA D1 DosroEVSKIJ5

«C'era una volta una donna cattiva cattiva che un giorno morì. E die-
tro di sé non lasciava nemmeno una buona azione. I diavoli la afferra-
rono e la lanciarono nel lago di fuoco. Ma ]'angelo custode della don-

5 FM. D OSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov (nuova tr. di M.R. FASANELLI), Gar-


zanti, Milano 1992, II, 489. Il racconto si trova nella terza parte, libro settimo, terzo
capitolo intitolato appunto: <<La cipolla». La storia è raccontata da Gruscenka, gio-
vane donna che ha una vita abbastanza tumultuosa e fa quindi parte delle numerose
«Marie Maddalenc» di Dostoevskij. È stata sedotta, poi abbandonata da un cosid-
detto ufficiale all'età di diciassette anni. Adesso è «mantenuta» e «protetta» da un
ricco mercante, molto più anziano di lei. Se ne invaghiscono il padre Karamazov, Fe-
dor Pavlovic, e il primo dei suoi figli, Dimitri fedorovic (Mitia). Racconta la storia
ad AJiocia, terzo dei fratelli Karamazov, e a Rakitine, un seminarista, figura abba-
stanza losca. In realtà, la scena non è affatto priva di ambiguità. Gruscenka, in effet-
ti, aveva scommesso con Rakitine di poter sedurre Aliocia. Questi, novizio nel vicino
monastero, è addolorato dal decesso dell'amato starets Sozima, scambia le «avances»
di Gruscenka per gesti di affetto e la chiama «Sua sorella». Sbalordita da questa rea-
zione, Gruscenka confessa la sua cattiveria e racconta la suddetta storia della cipolla.
82 I volti insoliti di Dio

na si mette a pensare: "Che buona azione posso ricordare per dirla a


Dio?" Se ne ricordò una e la riferì al Signore: "Una volta strappò una
cipollina dal suo orticello e la diede a una mendicante". Allora Dio gli
'rispose: "Prendi anche tu quella stessa cipollina, allungala verso di lei
nel lago, fa' in modo che lei ci si aggrappi per tirarla fuori: se riesci a
tirarla fuori dal lago, che vada pure in paradiso, ma se la cipolla si
strappa, che la donna rimanga lì dov'è". L'angelo corse dalla donna, le
allungò la cipollina e le disse: "Aggrappati e io ti tirerò fuori". E co-
minciò a tirarla piano piano e l'aveva tirata fuori quasi tutta, quando
gli altri peccatori che erano nel lago videro che la stavano tirando fuo-
ri e cominciarono tutti a tentare di afferrarla, in modo da essere tratti
in salvo anche loro. Ma la donna cattiva cattiva cominciò a scalciare:
"Stanno tirando me e non voi, la cipollina è mia, non vostra". Non
aveva ancora finito di dirlo che la cipollina si spezzò. La donna ricad-
de nel lago ed è ancora lì che brucia. E l'angelo scoppiò a piangere e
andò via».

Lo stile del breve racconto è certamente molto diverso da quel-


lo dell'Iliade. Non c'è paragone fra la profusione di particolari e il lin-
guaggio raffinato di Omero da una parte e l'estrema povertà formale
riscontrata in questo brano dall'altra. Dostoevskij cerca intenzional-
mente di imitare lo stile spoglio e grezzo di una persona poco colta,
riuscendovi benissimo. L'introduzione (o esposizione) del racconto è
tipica di questo genere perché riassume in tre parole la vita, il carat-
tere e la morte di una persona senza il minimo coinvolgimento emo-
zionale. Abbiamo solo l'essenziale: un personaggio anonimo, una
qualità morale, la cattiveria, e un evento, la morte. Il tutto è detto da
Gruscenka, la narratrice, con lo stesso tono col quale potrebbe dire:
«Oggi fa bel tempo». Lo stesso vale per la breve frase: «l diavoli la
afferrarono e la lanciarono nel lago di fuoco». L'espressione, priva di
ogni ornamento, è il riflesso di una sensibilità ancora grezza come
mostrerà, peraltro, il resto del racconto. Gruscenka non sembra rea-
lizzare che cosa sta dicendo né che cosa possano rappresentare nel
mondo dei suoi ascoltatori i tormenti eterni dell'inferno.
Il racconto stesso si suddivide in due piccole scene. La prima si
svolge in cielo e ha come attori Dio e l'angelo. L'oggetto della scena
è di trovare un mezzo per salvare la vecchia donna dall'inferno. La
seconda scena ha come quadro il bordo dell'inferno e come prota-
Lo scudo di Achille, la farina di Eliseo e la cipolla di Dostoevskij 83

gonisti l'angelo e la vecchia. Il tutto finisce con il fallimento del ten-


tativo di salvare la donna e le lacrime dell'angelo.
Sentimenti e processi mentali sono ridotti al minimo in questo
breve apologo. n mondo interiore dei personaggi traspare solo nelle
loro parole o nelle loro azioni. L'angelo vuole salvare la vecchia, Dio
acconsente e spiega come fare. La vecchia è cattiva e quindi non può
tollerare che altri possano sfruttarla per essere anch'essi salvati. Non
si dice niente, tuttavia, sul rapido ragionamento della vecchia che,
forse, potrebbe aver pensato che lo stelo della cipolla non avrebbe
mai potuto resistere al peso di una folla immensa appesa a questo
fragile sostegno. Il racconto le fa dire quattro parole - le uniche pa-
role della donna nel racconto, e perciò tanto più rivelatrici del suo
carattere - e poi passa immediatamente alla reazione logica: lei inizia
a dar calci a quanti si appigliano ai suoi piedi. Il finale è anch'esso
raccontato con un tono imperturbabile, mentre la vecchia ricade nel-
lo stagno di fuoco con tutti gli altri dannati nel morire per sempre
della speranza. L'unico tocco di sensibilità appare nell'ultima frase
dove l'angelo scoppia in lacrime. Queste lacrime angeliche suggella-
no il dramma inesorabile della donna e di chi sta con lei nelle fiam-
me inestinguibili.
La descrizione dello scudo di Achille, invece, è talmente vivace
e accurata che il lettore spesso dimentica che si tratta della descri-
zione di un'opera di bronzo e non di scene reali. Per esempio, nella
descrizione dell'agguato presso la città leggiamo questo tratto: «Pre-
sto [gli uomini] arrivarono, e due pastori venivano dietro I che si
svagavano con le zampogne: non sospettavano inganno». Il lettore
ha il tempo necessario per immaginare gli uomini che preparano
l'agguato e di vedere, nello stesso tempo, i pastori incuranti che suo-
nano le zampogne. Bastano due pennellate, in particolare la menzio-
ne delle zampogne, per creare l'atmosfera e la tensione drammatica
del momento.
La storiella di Gruscenka, dal canto suo, parla di salvezza e di
dannazione eterna, ma l'impressione è quella di stare davanti a un ab-
bozzo, quasi a un disegno di bambino. Il significato vero della sto-
riella proviene, in realtà, non dal racconto stesso, bensì dal suo con-
testo. Diversi personaggi, nel celebre romanzo di Dostoevskij, si tro-
vano in una situazione simile a quella della vecchia. Gruscenka, per
84 I volti insoliti di Dio

esempio, si identificherà esplicitamente con lei: «Sono io questa cat-


tiva vecchietta». E tocca a ciascuno trovare la cipolla per tirarsi fuo-
ri da una situazione inestricabile dove si rischia di distruggere se stes-
si e di trascinare nella propria perdizione tutte le persone che stanno
attorno.
La storia, tipica della filosofia religiosa di Dostoevskij, può esse-
re tuttavia interpretata in almeno due sensi opposti. In un senso po-
sitivo - ed è in questo senso che il romanzo l'interpreta - basta ben
poco per salvarsi. Basta, in realtà, aver dato almeno «una cipolla» du-
rante tutta la vita. Una sola azione generosa e meritevole è sufficien-
te per salvare una persona dalla perdizione e quell'unica azione può
riscattare un'intera vita immersa nella miseria. In un altro senso, più
sfumato, il racconto mette in risalto un fatto essenziale del vangelo.
È vero che basta una cipolla per sfuggire all'inferno. Nessuno, però,
si può salvare da solo. La vecchietta, proprio nel momento in cui si
mette a dare calci a coloro che si sono aggrappati ai suoi piedi per
uscire dallo stagno di fuoco, in quello stesso momento rompe lo ste-
lo e tutti, la vecchietta con gli altri dannati, ricadono nella bolgia.
«Sono io che si ritira dall'inferno, non voi; è la mia cipolla, non lavo-
stra»: la frase rivela, con la doppia insistenza sulla propria persona
(«Sono io ... »; «la mia cipolla») e la doppia esclusione («non voi»,
«non la vostra cipolla»), il mondo nel quale l' anziana si è rinchiusa
per sempre, un mondo dal quale non riesce ad uscire perché vuole
uscirne da sola. «L'inferno è di non amare più», dice il curato di
campagna immaginato da Georges Bernanos.6 La storiella di Do-
stoevskij illustra questa verità in un modo eccezionale.

4. CONCLUSIONE

Uno scudo, una manciata di farina, una cipolla: tre elementi che,
in tre situazioni molto diverse, divengono decisivi. Lo scudo di Achil-
le è di origine divina e manifesta, in questo modo, che non può ap-

6 G. B ERNl\NOS, Le journal d'un curé de campagne, Plon, Paris 1936, 141-142


(tr. it. IL diario di un curato di campagna, Mondadori, Milano 2002).
Lo scudo di Achille, la farina di Eliseo e la dpolla di Dostoevskij 85

partenere a tutti. Solo il figlio di una dea, un essere che è anch'esso


di origine divina, può disporre di un tale potere. La farina di Eliseo
è, per contro, un elemento comune. Occorre, però, il sapere del pro-
feta per usarne nel modo appropriato. La cipolla di Dostoevskij, in-
fine, cresce in ciascuno dei nostri orti e non ci vogliono né poteri so-
vrumani né sapienza straordinaria per strapparla e tenderla a chi ne
ha bisogno. Tre situazioni, tre elementi, tre mondi. La salvezza con-
siste nel trovare l'elemento giusto nel momento giusto e nell'usarlo
nel modo giusto. A volte è difficile come trovare il bandolo della ma-
tassa, a volte è semplice come l'uovo di Colombo.
IL DIO SAPIENTE E IL DIO CAMPAGNOLO
(Is 28,23 -29)

1. LA SAPIENZA DELLE MANI E LA SAPIENZA DELL'INTELLETTO

«Se volete ottenere buoni risultati in agricoltura, non dovete mai


ascoltare gli agronomi. Anzi, otterrete i migliori risultati quando fare-
te proprio l'opposto di quanto vi dicono. Perché gli agronomi cono-
scono solo i libri e non conoscono la terra». Questa riflessione, con-
dita di un pizzico di insofferenza, la faceva un vecchio agricoltore che
aveva lavorato tutta la vita con le sue mani e che sapeva appena leg-
gere e scrivere. Trapela dal suo discorso l'eterno conflitto fra teoria e
erassi, fra città e campagna, fra ricerca intellettuale e lavoro manuale.
E difficile dire·chi ha ragione e chi ha torto perché, come capita spes-
so, c'è del vero nell'uno e nell'altro. Una cosa però rimane vera e il
nostro anziano mezzadro ne era ben consapevole: esiste una «sapien-
za delle mani>>, trasmessa dai genitori ai loro figli, dj generazione in
generazione, fatta di dimestichezza quotidiana con le cose e gli ele-
menti. Il falegname riconosce ogni tipo di legno solo al tatto, il sarto
vede, poi sfiora con le dita un tessuto e ne valuta immediatamente la
qualità, il calzolaio prende una scarpa in mano e intuisce subito come
ripararla, con quale tipo di cuoio e con quale sorta di colla. Q uesto
modo sperimentale di conoscere si fa più raro nel nostro mondo tec-
nico, dove gli artigiani tendono a sparire e la produzione di massa
estende i suoi tentacoli fino alle più piccole frazioni di campagna.
Questa sapienza, tuttavia, non è ancora completamente sparita.
Era diverso, indubbiamente, nel mondo biblico, perché pochis-
sime persone sapevano leggere e scrivere. Era per lo più un lusso ri-
88 I volti insoliti di Dio

servato alla classe diri.gente. Secondo le stime degli esperti in mate-


ria, l'uno o il due per cento della popolazione dell'antico Egitto e del-
l'antica Mesopotamia conosceva i segreti della scrittura. Secondo gli
stessi esperti, il numero poteva crescere fino al cinque per cento nel-
l'antica Grecia, che aveva sviluppato un alfabeto, in realtà mutuato
dai fenici, e quindi un sistema di scrittura più semplice dei geroglifi-
ci egizi e dei caratteri cuneiformi della Mesopotamia. Qual era la per-
centuale nell'antico Israele? Non doveva essere molto più elevata di
quella dell'Egitto o della Mesopotamia. In ogni modo, questo signi-
fica che gran parte del «sapere» si trasmetteva in modo orale e che,
d'altronde, la stragrande parte della popolazione, più del novanta per
cento, viveva del lavoro delle proprie mani. In un tale contesto si può
capire meglio perché la Bibbia loda spesso l'artigiano. Un esempio
caratteristico si incontra nel libro dell'Esodo. Mosè, quando riceve
l'incarico di costruire il santuario nel deserto con tutte le sue suppel-
lettili, ricorre ai servizi di diversi artigiani, uomini e donne, che sono
chiamati «sapienti». Fra questi «sapienti», il testo menziona «ogni
donna saggia di cuore [che] filò con le proprie mani e [le donne che]
portarono del filato, porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso;
tutte le donne [che] portate dal proprio cuore filarono con saggezza
i peli di capra» (Es 35,25-26). Fra gli uomini «sapienti di cuore»
(35,1 O), il testo cita in particolar modo «Besaleel, figlio di Uri, figlio
di Cur, della tribù di Giuda. Lo spirito di Dio lo ha riempito di sa-
pienza, intelligenza, scienza per ogni opera, per progettare artistica-
mente ed eseguire in oro, argento e bronzo; per scolpire la pietra da
incastonare, per intagliare il legno, per fare ogni opera ad arte. Ha
posto nel suo cuore la facoltà di insegnare, in lui e in Ooliab, figlio di
Akisamac, della tribù di Dan. Li ha riempiti della sapienza del cuore
per fare ogni opera di intagliatore, di disegnatore, di ricamatore con
porpora viola, porpora rossa, scarlatto, bisso e di tessitore: capaci di
compiere ogni opera e progettarla artisticamente» (35,30-35). Oc-
corre notare una cosa abbastanza importante: questi artigiani che
sanno lavorare i metalli preziosi, la pietra, il legno e i tessuti, sono an-
che dotati di un altro talento prezioso: sanno «insegnare» e quindi
sono capaci di trasmettere il loro «sapere» e la loro abilità. Infine, no-
tiamo che il libro dell'Esodo annovera fra i sapienti le donne che fi-
lano, fatto abbastanza raro e che merita di essere rilevato.
Il Dio sapiente e il Dio campagnolo (Is 28,23-29) 89

Solo in epoca tardiva, nel libro del Siracide, incontriamo un giu-


dizio di valore più negativo nei confronti dei lavoratori manuali:

La sapienza dello scriba viene dal tempo speso nella riflessione, si di-
venta sapienti trascurando l'attività pratica. Come penserà alla sapien-
za chi tiene l'aratro? La sua preoccupazione è quella di un buon pun-
golo, conduce i buoi e pensa al loro lavoro, i suoi discorsi riguardano i
figli delle vacche. Applìca il suo cuore a far solchi, rimane insonne per
il fieno delle giovenche. Così è per ogni artigiano e costruttore, sempre
occupato, di giorno e di notte: chi esegue l'intaglio dei sigilli mette tan-
ta pazienza nel cambiare le forme; applica il suo cuore per raffigurare
le immagini, finirà la sua opera perdendo il sonno. Così il fabbro, po-
sto vicino all'incudine, è intento al lavoro del ferro. Il vapore del fuoco
liquefà le sue carni, mentre egli si accanisce al caldo del camino. Il col-
po del martello ribatte nel suo orecchio, i suoi occhi sono fissi sul mo-
dello; applicherà il suo cuore per finire le sue opere, sarà insonne per
realizzare un ornamento perfetto. Così il ceramista, seduto al suo lavo-
ro, gira con i suoi piedi la ruota, si trova sempre preoccupato per la sua
opera, perché tutto il suo lavoro è soggetto al calcolo. Col suo braccio
modella l'argilla e con i piedi ne rammollisce la durezza, applica il suo
cuore per finire la lucidatura e perde il sonno per pulire il forno. Tutti
costoro confidano nelle loro mani e ciascuno è abile nel suo mestiere.
Senza di loro la città non può essere costruita, nessuno può abitarvi o
circolarvi. Ma essi non sono ricercati per il consiglio del popolo, e nel-
1' assemblea non emergono; sul seggio del giudice non siedono e la di-
sposizione della legge non comprendono. Non dimostrano né cultura
né conoscenza della legge, e non sono perspicaci nei proverbi. Ma essi
assicurano il funzionamento del mondo e nell'esercizio della loro arte
c'è la loro preghiera (Sir 38,24-34).

La superiorità dello «scriba» è evidente per il Siracide. Egli con-


cede, certo, che la vita nella città sarebbe impossibile senza gli arti-
giani (38,32). Ma loro non conoscono la legge, non possono giudica-
re e non possono governare (38,33 ). Ritroveremo qualcosa di simile
nel Vangelo di Giovanni dove i farisei emettono un giudizio sferzan-
te contro la folla che crede in Gesù di Nazaret: «Questa gentaglia che
non conosce la legge è maledetta» (Gv 7,49). Il Siracide, però, ter-
mina la sua arringa sulla superiorità degli scribi sugli artigiani rico-
noscendo i loro veri meriti: senza di loro il mondo non può «funzio-
90 I volti insoliti di Dio

nate» e la loro arte è una vera preghiera. Un modo fra i tanti di con-
ciliare - anzi, di identificare - contemplazione e azione, Marta con
Maria (Le 10,38-42).
Il giudizio complessivo del Siradde nei confronti degli artigiani
è tuttavia negativo. Siamo, come detto, in un'epoca tardiva della tra-
dizione biblica, e si percepisce forse l'influsso di una certa mentalità
greca e della filosofia di Platone. Il Siracide ha poca stima in parti-
colare per 1' aratore, il cui universo mentale si misura con il raggio del
suo pungolo, che può pensare solo in termini di buoi e ha una con-
versazione limitata ai «figli delle vacche» (38,25). Era difficile essere
più pungente e più sprezzante: in questi versetti si riconosce il tono
consueto dei commenti fatti dai cittadini nei confronti dei contadini.
La Bibbia, però, contiene altre considerazioni sul mondo agricolo,
come ad esempio in un testo di Isaia spesso trascurato.

2. LA SAGGEZZA DEL COLTJVATORE 1

23 Fate attenzione e udite la mia voce, siate attenti e udite la mia paro-
la! 24 Ara forse l'aratore tutto il giorno per seminare? Non scinde egli
ed erpica il terreno? 25 Non spiana egli la superficie, non vi semina
l'anèto, e non vi sparge il comino? Non mette il grano e l'orzo e la spel-
ta lungo i confini? 26 Il suo Dio gli ha inculcato questa regola, lo ha
ammaestrato. 27 Certo, l'anèto non si trebbia con la trebbiatrice né si fa
girare il rullo sul comino, ma l'anèto si batte con il bastone e il comino
con la verga. 28 Si schiaccia forse il frumento? Certo, non si pesta inde-
finitamente; vi si fanno passare sopra la ruota del carro e i suoi cavalli,
ma non si schiaccia. 29 Anche ciò proviene dal Signore degli eserciti,
che è meraviglioso nel suo consiglio e grande in sapienza (Is 28,23-29).

Il brano si compone di due parti distinte, segnalate da due con-


clusioni simili: «Il suo Dio gli ha inculcato questa regola, lo ha am-
maestrato» (v. 26) e «Anche ciò proviene dal Signore degli eserciti,
che è meraviglioso nel suo consiglio e grande in sapienza» (v. 29). Il

1 La traduzione è quella di S. VrRGlJLIN nella Nuovissima Versione della Bibbia,


Edizioni Paobne, Roma 1995, con qualche leggero ritocco. Il testo contiene alcune
parole rare, difficili da tradurre.
Il Dio sapiente e il Dio campagnolo (Is 28,23-29) 91

v. 23 («Fate attenzione ... ») funge da introduzione a tutta la riflessio-


ne. La prima parte parla dei lavori della semina in tardo autunno: l' a-
ratura, la preparazione del suolo che deve essere prima .dissodato
(letteralmente «aperto») ed erpicato, poi spianato. Dopo si semina
l'aneto, il grano, l'orzo e la spelta o farro. La seconda parte descrive
l'ultima operazione della stagione agricola, dopo la mietitura, d'esta-
te: la trebbiatura. Le due operazioni, la semina e la trebbiatura, sono
scelte perché segnalano l'inizio e la fine della coltivazione dei campi
e ne formano un riassunto a mo' di merismo.2
Lo scopo del breve poema è però di lasciar intuire che tutte le
operazioni della vita agricola sono manifestazioni di una genuina sag-
gezza che ha la sua origine in Dio stesso. Non sono operazioni ca-
suali, senza ordine, condotte senza intelligenza. Al contrario, ci vuo-
le una profonda conoscenza degli elementi e delle stagioni per saper
coltivare il suolo, seminare i cereali e poi raccogliere il frutto del pro-
prio lavoro. Si tratta soprattutto di un sapere differenziato. La pre-
parazione del terreno richiede diverse operazioni da eseguire nell' or-
dine giusto e al momento giusto. Anche la trebbiatura richiede una
perizia particolare perché ogni cereale deve essere trattato in un mo-
do diverso. Infine, il brano insiste su un elemento essenziale della vi-
ta agricola, in particolare nel trattamento della terra e dei cereali: oc-
corre saper dedicare il tempo giusto ad ogni operazione. Si ara per
un tempo determinato (Is 28,24) e non si pesta il frumento indefini-
tamente (28,28). È essenziale conoscere la misura giusta e il tempo
giusto per condurre l'impresa a buon fine.
Il significato della parabola non è facile da determinare con pre-
cisione e gli specialisti hanno proposto diverse soluzioni. Una para-
bola, in ogni modo, difficilmente può essere ridotta a una sola «le-
zione»; il suo fascino è proprio nella sua capacità di suggerire diver-
se applicazioni e diversi significati. Alcuni elementi della parabola,

2 Il merismo è una figura di stile che consiste nel descrivere una totalità citan-
done due elementi opposti o complementari, oppure due estremi. Esempi: creare il
cielo e la terra significa creare l'universo; conoscere il bene e il male significa cono-
scere tutto quello che è necessario per comportarsi secondo le regole della morale;
da Dan a Beersheva significa tutto il territorio d'Israele; dai più grandi ai più picco-
li significa tutta la popolazione.
92 I volti insoliti dì Dio

tuttavia, ci indicano chiaramente quale sia la direzione da seguire per


interpretarla nel modo giusto. Due volte il brano insiste sulla saggez-
za del coltivatore (Is 28,26.29) e due volte si dice che alcune opera-
zioni non devono durare più del necessario (28,24.28). Altri testi pa-
ragonano inoltre aratura e trebbiatura, le due operazioni descritte
dalla parabola, alle prove inflitte da Dio al suo popolo. Citiamo al-
cuni testi più espliciti in merito. Per quanto riguarda laratura, il Sal
129,3 è molto chiaro: «Hanno arato sul mio dorso gli aratori, hanno
fatto lunghi solchi». Così parla Israele per dire che è stato messo a
dura prova dal suo Dio (cf. 129,1).
La trebbiatura era un'altra immagine della prova. Il grano, in ge-
nere, era sparso sull'aia e triturato da una slitta munita di punte di
ferro e trainata da buoi o somari. Un testo di Isaia paragona il popo-
lo durante il periodo del dominio babilonese al grano calpestato sul-
1'aia: «0 popolo mio, che ho trebbiato e calpestato nella mia aia, ciò
che ho appreso dal Signore degli eserciti, dal Dio d'Israele, io te lo
annunzio!» (Is 21,10). L'immagine è anche utilizzata per descrivere
l'oppressione o la vendetta spietata contro i nemici.3
La parabola suggerisce, se la capiamo bene, che il castigo divino
ha i suoi limiti. Dio non castiga il suo popolo senza fine, così come il
coltivatore non ara per tutto il tempo e sa trebbiare per il tempo giu-
sto. Inoltre, ed è forse il punto più importante, il castigo divino o la
prova hanno un loro significato: si ara per preparare il terreno prima
della semina e si trebbia per raccogliere il grano che serve poi al nu-
trimento. Ogni fase dell'attività descritta ha la sua finalità: seminare
e raccogliere diversi tipi di cereali. Nello stesso modo, Dio può ca-
stigare il suo popolo e sottometterlo a una dura prova. Lo scopo fi-
nale, tuttavia, è di fargli «produrre frutto».
Infine, occorre evidenziare un ultimo aspetto della parabola che
ha una sua importanza. Il coltivatore della nostra parabola semina di-
versi tipi di cereali secondo un piano ben determinato. Il testo origi-
nale è forse difficile, anche se è chiaro che il coltivatore non semina
«a caso». Sceglie, ad esempio, di seminare grano, orzo e spelta sui
confini del terreno (Is 28,25). Per la trebbiatura, la cosa è ancora più

3 Is 41,15; Ger 51,33; Am 1,3; Mi 4,13; cf. Ab 3,12.


IL Dio sapiente e il Dio campagnolo (Is 28,23-29) 93

evidente. Ogni cereale esige un trattamento speciale per non essere


sciupato o distrutto. Aneto e cumino sono trebbiati con il bastone o
la verga. Il grano è trebbiato con la slitta e i buoi, ma solo p.e r un tem-
po limitato. La differenziazione nelle operazioni è evidenziata dalla
parabola per suggerire che anche Dio agisce in modo differenziato
con il suo popolo. Non tutti sono trattati nello stesso modo. Non sap-
piamo con esattezza a quale situazione il profeta poteva pensare. For-
se crede che non tutti i membri del popolo e tutte le parti della po-
polazione sono stati colpiti dal castigo divino in modo uniforme, per
esempio durante l'invasione di Sennacherib (701 a.C.). Non è consi-
gliabile, penso, cercare di identificare con più precisione chi potesse
essere rappresentato, ad esempio, dall'aneto o dal cumino, cereali
trattati con meno severità perché trebbiati con una verga o un basto-
ne, e non con la slitta. Possiamo dire solo che il profeta voleva radi-
care nella mente dei suoi destinatari una cosa essenziale: anche le dif-
ferenze nel giudizio e il castigo divino hanno una loro giustificazione.
Dio, in fin dei conti, non vuole distruggere, ma correggere. Il suo
scopo finale è di ottenere un bel raccolto e di riempire il suo granaio
con ogni tipo di cereale.
Il Nuovo Testamento, quando introduce l'immagine del semina-
tore dicendo «Il regno dei cieli è simile ad un seminatore che esce per
seminare la semente... » (Mt 13,1 e par.), è più vicino ad Isaia che al
Siracide. Gesù Cristo, così come il grande profeta di Gerusalemme,
aveva certamente potuto ammirare «il gesto augusto del seminatore»
e scoprirvi un riflesso della sapienza divina. 4

4 «Il gesto augusto del seminatore»: si veda V. Huco, poema «Le soir», nella
raccolta Les chansons des rues et des bois. Il poema finisce in questo modo: Et je mé-
dite, obscur témoin, I Pendant que, déployant ses voiles, I I.:ombre où se mele une ru-
meur, I Semble élargir jusqu'aux étoiles, I Le geste auguste du semeur. «E medito,
oscuro testimone, I Mentre, spiegando le sue vele, I I: ombra alla quale si mescola
un rumore, I Sembra allargare fino alle stelle, I Il gesto augusto del seminatore».
«SONO FORSE UN DIO DA VICINO,
E NON UN DIO DA LONTANO?»
(Ger 23,23)

«La sola cosa che chiedo al Signore, quella che cerco per dawe-
ro, è abitare nella casa del Signore per tutti i giorni della mia vita, per
contemplare la soavità del Signore e ammirare il suo tempio» (Sal
27,4). Questo versetto del Salmo 27 traduce in termini poetici una
certezza diffusa nella cultura dell'antico Israele così come in tutto il
mondo antico, e forse non solo in quello. Questa certezza può esse-
re riassunta in parole semplici: si vive bene solo a casa, fra la propria
gente, nel proprio paese. Nel linguaggio più religioso e più teologico
della Bibbia, questa consapevolezza si esprime spesso in un linguag-
gio cultuale. L'orante del Salmo 27, ad esempio, brama una sola co-
sa: poter passare tutta la vita nel tempio del suo Dio perché lì e solo
lì trova l'incolumità che ricerca con tanta premura. Il Signore è buo-
no e generoso nella sua terra, la terra d'Israele, ed è una vera male-
dizione doverla lasciare per vivere in esilio in un altro paese.
Davide, quando è costretto da Saul a vivere nel deserto, si la-
menta amaramente di essere stato allontanato «dall'eredità del Si-
gnore», come se dovesse «servire dei stranieri» (lSam 26,19). Ora
Davide si trova nel deserto di Giuda, a poca distanza dalla sua città,
Betlemme, in una regione conosciuta. Pur ammettendo che vi sia una
parte di esagerazione nel suo discorso, esso testimonia la mentalità
dell'epoca: essere fuori di casa e dover vivere come un ramingo si-
gnifica essere lontano da Dio. Il deserto non è la terra data da Dio in
eredità al suo popolo: vivere fuori della terra, in definitiva, significa
dover «servire altri dei» perché il Signore regna solo nella sua terra.
Non dobbiamo dimenticare che l'idea di un Dio creatore dell'uni-
96 I volti insoliti di Dio

verso e Signore di tutti i popoli emerge soltanto tardi nella coscienza


religiosa d'Israele. Per molto tempo - in realtà fino all'esilio babilo-
'nese - dominava al contrario la coscienza che il Dio d'Israele fosse
Dio del solo popolo d'Israele e della sola terra d'Israele.
Il tempio, secondo questa mentalità, è la dimora o il «palazzo»
di un Dio sovrano che regna sul suo territorio e lo protegge dai suoi
nemici. La vita è quindi possibile solo in un ambiente conosciuto, fra
la propria gente e dentro le frontiere della propria patria, il più vici-
no possibile al tempio del proprio Dio perché, come dice un altro sal-
mista, «in te è la sorgente della vita e nella tua luce vediamo la luce»
(Sai 36,10).

1. ESILIO DELL'INDIVIDUO ED ESILIO DEL POPOLO

L'esilio, in questo contesto, è un'esperienza drammatica perché


equivale a perdere tutto quello che rende la vita possibile: la casa, il
sostegno di una famiglia o di un clan e la protezione del Dio presen-
te nel tempio. L'orante del Salmo 42, un esule che si trova nella val-
lata del Giordano, presso il monte Ermon (42,6), e quindi non mol-
to lontano da Gerusalemme, soffre perché la gente gli dice incessan-
temente: «Dov'è il tuo Dio?» (42,4.11). Il suo Dio non può essere che
nel santuario dove può vederlo «faccia a faccia» (42,3; cf. Dt 31,11;
Sai 27 ,8). La distanza può essere minima, almeno ai nostri occhi, ma
bastevole per fare sì che uno si senta come una cerva assetata che
anela verso le «acque vive» (Sai 42,2).
Quello che vale per l'individuo vale a fortiori per il popolo. La
più terribile maledizione che minaccia il popolo infedele è proprio
l'esilio in una terra straniera così come lo descrive il libro del Deute-
ronomio: «Il Signore ti disperderà fra tutti i popoli, da una estremità
della terra fino all'altra; e là servirai altri dèi, che né tu né i tuoi pa-
dri avete mai conosciuto, il legno e la pietra. Fra quelle nazioni non
avrai alcun momento di tranquillità e non vi sarà luogo dove i tuoi
piedi possano trovare riposo; là il Signore ti darà un cuore tremante,
occhi spenti e un'anima languente. La tua vita ti starà davanti come
una fatica; tremerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua esi-
stenza. La mattina dirai: "Fosse pur sera!" e la sera dirai: "Fosse pur
mattina! " a causa dello spavento che ti struggerà il cuore e a causa di
«Sono forse un Dio da vicino, e non un Dio da lontano?» (Ger 23,23) 97

ciò che vedrai con i tuoi occhi. Il Signore ti farà tornare in Egitto su
delle navi, ripercorrendo la via della quale ti avevo detto: "Non la ri-
vedrai più! ". Là vi offrirete in vendita ai vostri nemici com~ schiavi e
come schiave, ma senza trovare compratore!» (Dt 28,64-68).
Il testo contiene tutti gli elementi elencati sopra: I' esilio significa
dover servire altri dei, perdere ogni sicurezza e addirittura la voglia di
vivere, albergare solo sentimenti di ansia e di disperazione. Si potreb-
bero aggiungere altri testi, come il famoso Salmo 13 7, il canto degli
esuli in Babilonia: «Presso i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piange-
vamo, ricordandoci di Sion; ai pioppi di quella terra avevamo appeso
le nostre cetre ... Se mi dimenticassi di te, Gerusalemme, s'inaridisca la
mia destra; s'attacchi al palato la mia lingua, se non mi ricordassi di
te; se non ponessi Gerusalemme sopra di ogni mia gioia ... » (Sal 1.37,1-
2.5-6). A questo canto sconfortato ne risponde un altro che esprime
l'incredibile gioia del ritorno: <<Quando il Signore ricondusse i prigio-
nieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì
di riso, la nostra lingua di canti di gioia» (Sal 126,1-2).

2. IL PROFETA EZECHIELE E IL Dro CHE SI MUOVE «SU RUOTE»

Questi testi permettono di cogliere meglio quale sia la mentalità


che permea gran parte della Bibbia. Occorre aggiungere però che l' e-
sperienza dell'esilio ha avuto un effetto diverso su alcune grandi per-
sonalità della storia d'Israele. Penso in particolare ai profeti Geremia
ed Ezechiele. Il loro messaggio, come vedremo, segna una svolta nel-
la fede d'Israele perché permette di superare i limiti della mentalità
appena descritta, secondo la quale Dio vive solo entro i confini di un
territorio ben circoscritto e in mezzo al suo popolo.
Il profeta Ezechiele faceva parte del primo gruppo degli esuli che
sono partiti verso Babilonia con il re Ioiakim nel 596 a.C., dopo il pri-
mo assedio di Gerusalemme e la resa della città. Stava già in esilio
quando la città, sotto l'ultimo re di Giuda, Sedecia, fu assediata una
seconda volta, conquistata e saccheggiata, e il tempio fu incendiato
dall'esercito babilonese nel 586 a.C. Secondo gli schemi abituali del-
la cultura del tempo, la distruzione del santuario e la fine del regno di
Giuda equivalevano a un «finimondo». Israele non aveva più territo-
rio, non aveva più sovrano e non aveva più tempio. Tutti i simboli es-
98 I volti insoliti di Dio

senziali della sua esistenza e della sua sicurezza erano spariti di colpo.
Se Dio non ha più tempio, è come un sovrano che non possiede più
alcun palazzo: non può più regnare. La conquista di Gerusalemme si-
gnificava inoltre che il Dio d'Israele non era stato capace di difende-
re la propria città dagli dei babilonesi che l'avevano sconfitto e quin-
di regnavano al suo posto nella città santa e nella terra di Giuda.
Ma il Dio d'Israele non cedette il suo posto agli dei babilonesi e
se le cose presero un'altra piega, lo dobbiamo in gran parte a Eze-
chiele. La domanda che si pone in quel momento è di sapere dov'è
Dio se il tempio è distrutto. Dio avrà un'altra «dimora»? Per arrivare
a formulare una risposta a questa difficile domanda, Ezechiele fa un
enorme sforzo d'immaginazione. Molto probabilmente aiutato da
modelli e rappresentazioni mesopotamici, Ezechiele afferma che il
Dio d'Israele non ha aspettato che la sua dimora fosse profanata dai
babilonesi: se n'è andato prima. In una visione sobria, ma nello stes-
so tempo densa di conseguenze per il modo di rappresentarsi la pre-
senza di Dio in Israele, egli descrive la partenza della gloria del Si-
gnore dal tempio di Gerusalemme: «I cherubini allargarono quindi le
ali e con loro si mossero le ruote e la gloria del Dio d'Israele sopra di
loro. La gloria del Signore si sollevò di mezzo alla città e si fermò sul
monte, a oriente di essa. Poi uno spirito mi alzò e mi trasportò in Cal-
dea presso gli esuli, in visione, nello spirito di Dio, e la visione che
avevo visto scomparve allontanandosi in alto. Io riferii agli esuli tutte
le cose alle quali il Signore mi aveva fatto assistere» (Ez 11,22-24). In
parole molto semplici, Ezechiele afferma che il Dio d'Israele può
muoversi. Non è una divinità statica, legata a un luogo particolare, a
un santuario, bensì una divinità capace di spostarsi. Per questa ragio-
ne, i cherubini che trasportano il trono divino sono alati e sono mu-
niti di ruote. Sarà forse difficile rappresentarsi graficamente questi
cherubini, soprattutto perché muniti di ali e di ruote. L'essenziale,
però, è di capire la loro funzione nella profezia di Ezechiele.

3. l CHERUBINI E LA «MACCHINA CELESTE» DI EZECHIELE

I cherubini sono esseri soprannaturali conosciuti in Mesopota-


mia e rappresentati comunemente con corpo di leone, zampe di to-
ro, ali di aquila e una testa d'uomo per evidenziare la loro potenza
«Sono forse un Dio da vicino, e non un Dio da lontano?» (Ger 23,23) 99

che unisce le capacità di questi quattro esseri viventi, 1 che rappre-


sentano, secondo gli specialisti, i quattro venti che sorreggono il fir-
mamento (Ez 1,22-23). Ezechiele aggiunge le ruote per dare a questi
esseri la capacità di muoversi rapidamente. Il profeta descrive gli
stessi esseri più a lungo nella celebre visione inaugurale del libro (Ez
1). Non vale la pena entrare nei particolari della detta visione perché
il testo rimane ermetico su vari punti. In ogni modo, il profeta vede
quattro animali simili ai cherubini già menzionati, muniti di ali e ac-
compagnati da ruote. Sulla loro testa e sostenuta da loro, egli scorge
la volta celeste e, sopra la volta celeste, il trono divino. Solo in cima
a tutta questa costruzione, vede infine la gloria del Signore circonda-
ta da luce e da fuoco (Ez 1,27-28).
La descrizione assai complessa di tutta questa «meccanica cele-
ste» ha uno scopo evidente per chi la colloca nel suo ambiente stori-
co e culturale: la gloria del Signore d'Israele non risiede solo nel tem-
pio, il suo luogo tr~dizionale, e non è legata per sempre al santuario;
non risiede neanche nel cielo, perché il cielo è solo la piattaforma che
sopporta il suo trono. La gloria del Signore è quindi molto al di sopra
e al di là di tutto quello che possiamo vedere e immaginare.
La gloria del Signore, in secondo luogo, può spostarsi perché la
piattaforma celeste è trasportata dai «quattro esseri viventi» muniti
di ruote (Ez 1,15-23 ). La lunga e complessa spiegazione delle ruote e
del loro funzionamento dimostra quanta importanza Ezechiele con-
ferisca al movimento nella sua visione di Dio. Il Dio di Ezechiele, ed
è un'intuizione capitale del profeta, è un Dio capace di viaggiare. Per
questa ragione la gloria di Dio che risiedeva nel tempio viene a visi-
tarlo in Babilonia. In effetti, la visione ha luogo «nel paese dei Cal-
dei, presso il fiume Kebar» (Ez 1,3; 3,15),2 il che significa che Dio
non ha affatto abbandonato il suo popolo, bensì viene a ritrovarlo
con tutta la sua gloria in terra d'esilio. La scoperta di Ezechiele po-

I Il «Cherubino» unisce in Sé la potenza deJ più temuto fra gli animali selvati-
ci, il leone; del più possente animale domestico, il toro o il bue; del più grande uc-
cello, l'aquila, alla quale si aggiunge l'intelligenza dell'uomo (la testa). Questi esseri
si ritrovano nell'Apocalisse e diventeranno i simboli dei quattro evangelisti.
2 Il fiume Kebar è probabilmente un canale nelle vicinanze di Nippur, città a

sud-est di Babilonia.
100 I volti insoliti di Dio

trebbe essere riassunta con un oracolo lapidario che troviamo nel


profeta Geremia, suo contemporaneo: «Sono forse un Dio solamen-
te da vicino, oracolo del Signore, e non anche un Dio da lontano?»
(Ger 23,23).

4. LA GLORIA DI Dro CHE VIENE AD ABITARE IN UNA TENDA


IN MEZZO AL SUO POPOLO DI VIANDANTI

L'ultima tappa di questo cammino d'Israele nella sua ricerca di


un Dio presente in ogni situazione della sua storia è descritta nel li-
bro dell'Esodo. Dopo la teofania del Sinai (Es 19- 24) e dopo la crisi
provocata dall'episodio del vitello d'oro (Es 32-34), il libro dell'Eso-
do contiene alcuni capitoli che il lettore moderno trova abbastanza
ostici e uggiosi, i capitoli 35-40 che narrano la costruzione della ten-
da dell'incontro, ossia il santuario del deserto e la confezione di tut-
te le suppellettili del culto. Il testo è spesso minuzioso, ogni tanto ca-
villoso, e il lettore si chiede quale possa essere la ragione di tanta acri-
bia mentre l'argomento sembra, di primo acchito, del tutto seconda-
rio. Dopo diversi capitoli in cui la densità del messaggio si unisce a
uno stile sobrio e cesellato, ci imbattiamo all'improvviso in una serie
di noiosi resoconti da sagrestano scrupoloso. La ragione di questa
meticolosità è però semplice: occorre preparare il lettore a qualcosa
di inaudito. Il Dio onnipotente che rivelò la sua gloria quando fece
sparire gli egiziani nel mare (Es 14), colui che apparve in tutta la sua
maestà sul monte Sinai, questo stesso Dio viene ad abitare in mezzo
al suo popolo. Non sarà più lontano, non apparirà più a distanza o
soltanto in momenti particolari, sarà presente ogni giorno e accom-
pagnerà µpopolo durante tutto il suo cammino nel deserto. Occorre
quindi organizzare in tutti i particolari il momento di questa venuta
inaspettata così come si prepara l'arrivo di un ospite d'eccezione. Per
questa ragione, il racconto si fa più lento e più particolareggiato poi-
ché non si può trascurare niente nei preparativi di un evento tanto
importante.
L'entrata solenne del Signore nella tenda dell'incontro è descrit-
ta nel capitolo 40 del libro dell'Esodo, proprio alla fine del libro. L'e-
vento è fondamentale per capirne la teologia. Il Dio dell'Esodo, in ef-
fetti, non è soltanto presente alla fine del viaggio, nel tempio di Ge-
«Sono forse un Dio da vicino, e non un Dio da lontano?» (Ger 23,23) 101

rusalemme, che Israele raggiungerà dopo tanti anni. Dio non aspetta
il suo popolo nella terra. Egli viene a condividere la condizione pre-
caria di chiunque viaggia nel deserto, terra inospitale e pericolosa.
Dio quindi non è solo la meta da raggiungere alla fine del viaggio,
bensì «fa parte» del viaggio che diventa il luogo privilegiato della sua
presenza. Il Dio eterno accetta di abitare nell'effimero e nel transito-
rio, il Dio onnipotente non disdegna di tenere compagnia alla fragi-
lità umana, il Dio vivente estende il suo regno nel deserto, «paese ari-
do e di voragini, paese brullo e di ombra di morte, paese dove nes-
suno passa e dove nessuno abita» (cf. Ger 2,6). Il Nuovo Testamen-
to dirà l'ultima parola su questo mistero nel Vangelo di Giovanni, in
un testo ben noto che riprende due immagini essenziali dell'Esodo,
la tenda e la gloria: «Il Verbo si è fatto carne, ha piantato la sua ten-
da fra noi ed abbiamo visto la sua gloria» (Gv 1,14).
IL DIO DELLA FEDELE TENEREZZA
(Os 2,4-25)

1. INTRODUZIONE

Il profeta Osea predica nel regno del Nord (Samaria) verso il


750 a.C., in un momento drammatico per il suo paese perché nel 721
a.C. sarebbe stato invaso dall'esercito assiro e sarebbe diventato pro-
vincia dell'impero di Assur. Si può percepire nel libro di Osea l'im-
minenza di questa catastrofe nazionale.
Per Osea, la radice di tutti i mali è di origine religiosa. Con gran-
de passione, egli critica la religione di Baal che aveva molto successo
in quel periodo. Con ogni probabilità la religione di Baal e 1' antica
religione del Dio d'Israele coesistevano in una forma cli sincretismo
e non di opposizione. Sono i profeti come Elia, Eliseo, Osea e Gere-
mia che combatteranno contro questo sincretismo e mostreranno
l'incompatibilità delle due religioni.
Il dio Baal è il dio della fertilità dei campi e della fecondità del-
le greggi, il dio della pioggia e del ciclo delle stagioni. È pertanto il
dio della natura e della produzione economica che faceva la ricchez-
za delle classi dirigenti del paese. L'introduzione del culto di Baal
corrisponde, infatti, a cambiamenti economici e sociali del paese.
Grazie al commercio e alle relazioni internazionali, le classi dirigenti
si arricchirono. Baal era il dio di questa prosperità materiale. Il Dio
d'Israele, il Signore dell'esodo, è invece un Dio della storia più che
della natura, un Dio più «politico» che «economico». Egli difende
valori umani fondamentali per una società e non solo valori econo-
mici. Da lì sorge il conflitto.
104 I volti insoliti di Dio

Nella sua predicazione, Osea riprende molte immagini ed


espressioni dal culto di Baal, per esempio il vocabolario dell'amore e
della fecondità. È riuscito a esprimere in questo vocabolario nuovo il
contenuto dell'antica fede d'Israele. Un solo esempio basterà a far ca-
pire il modo di procedere del profeta. Baal, in ebraico, significa «pa-
drone», «marito». Osea pone la domanda: chi è il vero marito d'I-
sraele? Il nuovo venuto Baal o il Dio dell'esodo? Israele poteva ab-
bandonare il suo Signore per Baal? La risposta si trova in Os 2,4-25.

2. COSTRUZIONE DEL BRAN0 1

Il brano è un piccolo capolavoro di poesia ebraica che descrive


in realtà un'azione giudiziaria. Per esempio, nel primo versetto Dio
chiede ai figli di accusare la loro madre e decide di ripudiarla (2,4).
Segue una minaccia di castigo (2,5-6). L'accusa stessa arriva solo al v.
7 e sarà ripresa in parte al v. 10. Segue una triplice serie di sentenze
di condanna, ciascuna introdotta dalla particella «per questo» (vv.
8.11.16). La terza volta, però, Dio annunzia non un'ulteriore con-
danna, ma la riconciliazione e la salvezza. Il v. 16 è dunque un perno
del testo.
Un altro «filo rosso» è l'uso di due verbi importanti: «andare» e
«<lare». La sposa infedele «vuol andare dietro ai suoi amanti che le
danno pane, acqua, lana, lino, olio e vino» (2,7: i due capi d'accusa).
La prima tematica è sviluppata nei vv. 8-9 (la prima sentenza): Dio
impedirà a sua moglie di ritrovare i suoi amanti. Li cercherà, ma non
li troverà. Finalmente, la moglie infedele deciderà di andare e torna-
re dal suo primo marito (2,9). Si annuncia quindi una prima conver-
sione. La seconda tematica (il «dono») riappare nei vv. 10-15. Dio af-
ferma con veemenza che lui, e non Baal, ha dato frumento, mosto e
olio (2,10: ripresa dell'accusa del v. 7). Annuncia poi la condanna

1 Riprendo in gran parte le intuizioni di H. KRSZYNA, «Literarische Struktur

von Hos 2,4-27», in Biblische Zeitschrift 133(1969), 41-59. Per più particolari su que-
sto brano, si possono consultare H. SIMIAN-YOFRE, Il deserto degli dei. Teologia e sto-
ria nel libro di Osea, EDB, Bologna 1994, 22-42; A. WÉNIN, Osée et Gomer: parabo-
le de lafidélité de Dieu, Os 1-3 (Connaltre la Bible), Lumen Vitae, Bruxelles 1998.
Il Dio della fedele tenerezza (Os 2,4-25) 105

corrispondente: riprenderà quanto aveva dato (2, 11-15: seconda sen-


tenza). Il verbo «dare» appare anche nel v. 14: «Ella diceva: Questo
è il mio salario che mi hanno dato i miei amanti».
La terza sentenza (w. 16-17) adopera nuovamente questi due
verbi: «Per questo io la sedurrò e la condurrò (letteralmente: «la farò
andare») ... Allora le restituirò (letteralmente: <de darò») i suoi vigne-
ti ...». Dio prende l'iniziativa, conduce Israele di nuovo nel deserto e
lì ricomincia una nuova vita di fedeltà e di amore fecondo (2,16-25).
Si celebra un nuovo «sposalizio» (2,21). Come dote, la sposa riceve
giustizia, diritto, benevolenza, amore, fedeltà e conoscenza del Si-
gnore (2,21-22).

3. QUALCHE PISTA DI RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. Il dio Baal. Chi è il dio Baal? Dove si nasconde? Come sma-


scherarlo?
2. Il Dio d'Israele. Come si rivela il Dio d'Israele? Come rico-
noscerlo?
3. La tematica del deserto. Paragonare Os 2,5 e Os 2,16. Non si
tratta nei due casi di un castigo? Il deserto non è, nella Bibbia, un
luogo romantico e idilliaco, ma il luogo della morte (2,5). Perché al-
lora Dio conduce (fa andare) il suo popolo nel deserto? Quale Dio è
capace di creare vita nel deserto? Il Dio d'Israele o il dio Baal? A
quale esperienza del passato fa allusione questo passo (2,16)? Vedi
anche Ger 2,2.6. Vi è differenza fra il castigo e l'inizio di una nuova
relazione fra Dio e Israele? A che cosa serve il castigo?
4. L'amore di Baal. Perché questo amore è sterile? Quale siste-
ma sceglie Dio per rivelare a Israele la vanità di questo amore?
IL DIO DELLA SETE
(Sal 63)

1. INTRODUZIONE

Il libro dei Salmi assomiglia molto ai nostri libri di canti sacri,


con una differenza importante: esso non è provvisto di indici che
permettono di orientarsi facilmente nella raccolta. I compilatori del
salterio hanno voluto, in effetti, raccogliere in un libro (o un rotolo)
tutto quello che il popolo d'Israele aveva utilizzato nella sua pre-
ghiera. Le occasioni sono diverse, certamente, e gli studiosi conti-
nuano a interrogarsi in merito. In ogni modo, possiamo pensare a
cantici che accompagnavano certe celebrazioni liturgiche (Sal 134... ),
per esempio feste (Sal 81...), processioni (Sal 118 ... ), sacrifici (Sal
116... ). Altri salmi erano cantati dai pellegrini che andavano a Geru-
salemme (cf. Sal 84; 121; 122 ... ). Il Sal 45 è stato composto per noz-
ze regali. Altri salmi sono più meditativi e assomigliano alle riflessio-
ni dei saggi (Sal 34 ... ). In molti casi, però, non possiamo più indivi-
duare con certezza l'origine dei salmi e forse sfuggiva già a coloro che
hanno raccolto questi antichi cantici e compilato il salterio attuale.
Queste preghiere hanno continuato però a essere utilizzate in diver-
se circostanze, nelle sinagoghe e nelle chiese cristiane, da individui o
da comunità. Furono anche oggetto di studio e di commenti da par-
te dei rabbini e dei padri della Chiesa. Infine, diventarono la pre-
ghiera delle comunità monastiche a partire dai primi secoli. La rego-
la di s. Benedetto menziona esplicitamente che il monaco dovrebbe
pregare tutto il salterio ogni giorno. Non essendo possibile, si racco-
manda di pregare tutto il salterio ogni settimana.
108 I volti insoliti di Dio

Perché pregare il salterio? Non sono preghiere antiche che non


corrispondono più alla nostra sensibilità e alla nostra spiritualità? Le
difficoltà incontrate dai cristiani sono ben note: le maledizioni, le
grida di vendetta, le immagini troppo crude, un volto di Dio diffici-
le da conciliare con il Dio delle beatitudini e dell'amore per i nemi-
ci, la tracotanza di chi si afferma innocente ... Allora, perché preghia-
mo ancora i salmi oggi?
Prendo spunto, per rispondere a queste domande, da un antico
scritto di s. Atanasio di Alessandria, la Lettera a Marcellino. In que-
sto breve scritto, Atanasio spiega che il salterio contiene un riassun-
to, sotto forma di preghiera, di tutta la Bibbìa e, nello stesso tempo,
contiene anche espressioni di tutti i sentimenti umani. In altre paro-
le, il salterio è un riassunto della storia della salvezza e un riassunto
dell'anima umana. Si può anche dire che il salterio traduce nel lin-
guaggio della preghiera quello che il resto della Bibbia propone sot-
to forma di rivelazione. L'Antico Testamento ci propone quindi l' e-
sperienza di fede sotto diverse forme: sotto forma narrativa e giuri-
dica nei libri storici; sotto forma di oracoli pronunciati in diverse cir-
costanze nei libri profetici; sotto forma di riflessioni nei libri sapien-
ziali; e sotto forma di preghiere nei salmi...
Infine, è anche possibile presentare il salterio come la risposta
d'Israde alla parola di Dio proposta negli altri libri e dalle tradizioni
del popolo. Il Dio al quale si rivolgono tutte le preghiere, il Dio che
è al centro di tutte le meditazioni d'Israele è il creatore del mondo, il
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio che fece uscire il suo
popolo dall'Egitto. Ma è soprattutto il Dio che risiede nel suo tem-
pio.1 Si pensa, perciò, con buone ragioni, che si possa ritrovare in mi-
sura maggiore nel salterio l'espressione della «religione popolare»,
laddove altre parti della Bibbia sono state più rielaborate e riscritte
dalle autorità religiose del popolo. In parole semplici, il salterio cor-
risponde, per lo più, ai nostri libretti liturgici mentre altre parti del-
la Bibbia corrispondono ai nostri manuali di catechesi e di teologia.

l La parola «tempio» appare più volte nel salterio: Sal 5,7; 11,4; 18,6; 27,4;
29,9; 48,9; 65,4; 68,29; 78,69; 79,1; 138,2. La parola «santuario» è altrettanto fre-
quente: Sai 20,2; 60,6; 63,2; 68,17.24.35; 73,17; 74,3.7; 84,5; 96,6; 102,19; 108,7;
114,2; 134,2; 150,1.
Il Dio della sete (Sai 63) 109

Il salterio, per essere più precisi, è stato composto per l'uso del
popolo, delle assemblee liturgiche e degli individui. In realtà, i salmi
sono piuttosto dei «formulari» scritti da gente colta, probabilmente
dal personale dei santuari, per l'uso liturgico di tutti. Gli autori dei
salmi sono simili ai nostri liturgisti e ai nostri compositori di canti sa-
cri. Vi sono quindi molte convenzioni letterarie nei salmi e non dob-
biamo cercarvi tracce di situazioni precise, di sentimenti personali o
di esperienze molto concrete. Il linguaggio dei salmi rimane in gene-
re molto vago perché il «formulario» doveva essere utilizzato da per-
sone diverse in situazioni analoghe.

2. COSTRUZIONE DEL SALMO 63

Il Sal 63 è una preghiera che esprime il desiderio di Dio ed è in


genere classificato fra i salmi di supplica degli individui, vale a dire
preghiere nelle quali un individuo chiede a Dio il suo aiuto in una si-
tuazione di bisogno. Come detto poc'anzi, questa situazione non è
precisata in alcun modo.
Il linguaggio del salmo è tipico della poesia ebraica che è fatta di
immagini e procedimenti semplici. Si può constatare che un linguag-
gio sobrio e disadorno riesce a comunicare pensieri e sentimenti
profondi.
Il salmo si suddivide facilmente in tre parti principali. La prima
esprime il desiderio di Dio con immagini che sono quasi tutte legate
alla sete e alla fame (w. 2-6). La seconda parte inizia al v. 7 con
«quando penso a te sul mio giaciglio ...» e contiene una «meditazione
notturna» del salmista (w. 7-9). Infine, gli ultimi versetti (w. 10-12),2
in cui il salmista chiede a Dio protezione contro i suoi nemici. Que-
sta parte contiene anche una preghiera per il re (v. 12).

3. SPUNTI PER LA MEDITAZIONE

1. La prima parte (w. 2-6) esprime il desiderio di Dio in un lin-


guaggio che predilige immagini legate alla bocca. Si parla di «gola»

2 Questi versetti sono fra quelli che sono stati espunti dal breviario romano.
110 I volti insoliti di Dio

(v. 2.6) e di «labbra» (vv. 4.6). La parola ne/esh in ebraico significa,


in effetti, gola, anima, soffio, vita ... In alcuni salmi è la «gola» che de-
sidera, come nel caso nostro (cf. Sal 25,1; 42,1-2; 84,2; 86,2.4; 107,5;
119,20.81; 130,5-6; 143 ,6). Avere sete significa, come in italiano,
«avere la gola secca». Il primo versetto del Salmo (v. 2) descrive il de-
siderio come «sete» e l'orante si paragona a una terra arida che ha ur-
gente bisogno di acqua (v. 2; cf. Sal 84,2; 143,6). Lo stesso versetto
inizia con tre verbi che esprimono l'attesa: «cercare», «avere sete»,
<<languire», e si conclude con tre qualificativi che descrivono la terra
assetata: terra «arida», «spossata» e «senza acqua». Queste espres-
sioni di desiderio che si accumulano in poco spazio hanno però un
solo oggetto e questo è posto proprio all'inizio del versetto: «Dio,
mio Dio, è te che cerco [ .. .J».3 Era difficile descrivere con più forza
un desiderio tutto concentrato su un solo e unico oggetto, il suo Dio.
Infine, il v. 6 introduce un'altra immagine, ma sempre dello stes-
so registro: quella di una «gola>> sazia di cibo abbondante (v. 6: mi-
dollo e grasso). Queste immagini possono sorprendere, ma occorre
ricordarsi che la dieta in quei tempi era assai diversa dalla nostra e
che mangiare cibi grassi era molto raro. Un banchetto è perciò spes-
so sinonimo di abbondanza di carni grasse (cf. Is 25,6).
Il salmista passa quindi dalla mancanza più totale nel v. 2 all' ab-
bondanza appena immaginabile nel v. 6 e la stessa «gola» («anima»)
assetata è colma e satolla. Fra questi due estremi, nei vv. 3-5, il salmo
esprime l'incontro con Dio nel suo santuario e la riconoscenza che
scaturisce da questo incontro. Possiamo notare un fenomeno inte-
ressante in questa breve parte del salmo. Il desiderio di Dio era tale
che trovare il suo amore diventa più importante della vita stessa (v.
4). Il salmo cambia anche registro perché non si parla più di sete o di
fame, bensì di lode e di benedizione. Le labbra e la bocca, nei vv. 4 e
6, si dedicano alla lode di Dio: «le mie labbra ti osanneranno», «e con
labbra giubilanti la mia bocca ti loderà». Il salmo gioca, certo, sulla
doppia funzione della gola, della bocca e delle labbra. Sono organi
della locuzione e del canto così come servono ad assorbire cibi e be-

3 Il verbo contiene la radice «aurora» e perciò alcune traduzioni propongono:


«ti cerco all'aurora», «arrivo di mattino presso di te», ecc.
Il Dio della sete (Sal 63) 111

vande. Il v. 6, che unisce i due aspetti e le due funzioni appena de-


scritte, suggerisce, però, che lodare Dio è proprio quello che sazia e
disseta in profondità il desiderio più autentico dell'anima. Il lauto
banchetto della prima parte del v. 6, in effetti, è identificato, nella se-
conda parte, con la festosa e lieta celebrazione lodativa di Dio. In po-
che parole, l'anima del salmista ha sete di poter rendere grazie a Dio.
Quello che disseta l'anima non è tanto ricevere la grazia divina, quan-
to piuttosto rendere grazie a Dio. La prima parte del salmo propone,
in sostanza, un passaggio da una situazione di mancanza alla situa-
zione opposta di appagamento, passaggio che coincide con quello
che conduce dal desiderio di Dio alla lode dello stesso Dio.
2. La seconda parte del salmo (vv. 7-9) introduce una nuova se-
rie di immagini legate alla notte che è, nel mondo della Bibbia, un
tempo di ansia davanti ai pericoli. La notte diventa, in diverse occa-
sioni, sinonimo di morte (cf. Sal 88). Durante la notte le forze del ma-
le sono più attive e il giusto si sente minacciato perché, molto spes-
so, essa è il tempo dell'assenza di Dio. Il ricordo di Dio, tuttavia, ras-
sicura il salmista che esprime la sua fiducia con diverse espressioni.
Dio è stato il suo soccorso, l'ha riparato sotto le sue ali, l'ha sostenu-
to con la sua mano destra e il salmista ha potuto tenersi stretto al suo
sostenitore. L'idea essenziale è quella della vicinanza di Dio in un
tempo critico. Dio è presente e vicino mentre si potrebbe pensare
che sia assente perché si fa notte. Il Sal 23 ,4 esprime la stessa idea:
«Quand'anche passassi nella valle dell'ombra della morte, io non te-
merei alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga,
essi sono il mio sostegno».

3. L'ultima parte del salmo (vv. 10-12) specifica il pericolo in-


travisto nella seconda parte: i nemici che possono agire nell'oscurità
della notte e che rappresentano spesso le forze delle tenebre. L'oran-
te chiede a Dio di annientare coloro che vogliono attentare alla sua
vita: che scendano negli inferi, la dimora della morte (v. 10), che sia-
no preda della spada, strumento di morte, e siano divorati dagli scia-
calli, animali che si nutrono di cadaveri. Le espressioni molto forti di
questi versetti scandalizzano spesso i lettori moderni che non riesco-
no a riconciliare una tale preghiera con l'amore per i nemici predica-
to da Gesù Cristo (Mt 5,44). Occorre ricordarsi di tre cose, però,
112 I volti insoliti di Dio

prima di giudicare e di scartare queste invocazioni dal salterio. Pri-


mo, il salmista si trova in pericolo di vita. Troviamo anzi nel v. 10 una
parola ormai molto nota, shoah, che significa «rovina», «devastazio-
ne», «Sterminio» e che ricorda, come sappiamo, la terribile sorte del
popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale.4 Il salmista, in
altre parole, chiede a Dio di difenderlo da nemici spietati che hanno
pianificato un eccidio. Secondo, il salmista si rivolge a Dio e chiede
a lui di intervenire. Non cerca di vendicarsi, ma rimette la sua sorte
e quella dei suoi nemici nelle mani di Dio. Terzo, il salmo non fa an-
cora la differenza fra «male» e «malfattore». Quello che cerca il sal-
mista, però, non è esattamente la morte dei suoi nemici, bensì la fine
del pericolo. Egli vuole la fine del malfattore perché vuole in realtà
solo la fine della minaccia di morte che pesa su di lui.
La preghiera per il re (v. 12) si può interpretare in diversi modi.
Forse il re è proprio l'orante che parla di sé in terza persona. Oppu-
re l'orante si rivolge al re come strumento efficace del soccorso divi-
no. O, più semplicemente, si include nel salmo una preghiera per il
re, rappresentante della divinità nel Medio Oriente antico. «Si glo-
rierà chiunque giura per lui» è, infatti, un'espressione ambigua per-
ché «lui» può designare Dio o il re. In ogni modo, il salmo si con-
clude con un'ultima menzione della «bocca»: quella dell'orante è sa-
zia di gioia perché loda Dio, mentre la «bocca di falsità» sarà chiusa.
Il contrasto è forte ed è voluto.
Rimane un solo compito al lettore odierno: rileggere il salmo, ap-
propriarsi delle sue immagini, ripercorrere la via che conduce dal de-
siderio di Dio alla lode di Dio, far nascere la fiducia in Dio nel mon-
do del silenzio di Dio, prendere le giuste distanze dal mondo della
violenza e comprendere che, in fin dei conti, nel mondo riconciliato
con Dio la falsità avrà la bocca chiusa e si sentirà solo la lode di Dio.
Occorre infine tradurre questo percorso in immagini mutuate dal no-
stro mondo.

4 Per altri usi della stessa parola, si vedano Sal 35,8; Gb 30,3; Is 47,11.
IL DIO DI UN MONDO NUOVO
(Mt 5-7)

1. I NTRODUZIONE

Il «sermone della montagna» contiene alcuni degli insegnamen-


ti più importanti di Gesù sulla vita dei discepoli. Il quadro (Mt 5,1)
e il tono di alcune affermazioni riecheggiano la teofania del Sinai (Es
19-24). Gesù proclama la legge sulla montagna, come Mosè aveva ri-
cevuto la legge da Dio sulla montagna. Gesù, però, non si presenta
esattamente come un legislatore. Non proclama una «nuova>> legge,
vale a dire una legge che non era conosciuta. Si presenta piuttosto co-
me interprete autentico della legge (5,17 -48; 7,28-29). La sua inter-
pretazione è nuova, non la legge come tale. Ed è la novità di questa
interpretazione che è la vera novità del suo messaggio. Inoltre, Gesù
proclama le beatitudini nella terra promessa (cf. 5,3-4 ) e «dà» questa
terra ai poveri, agli umili, ecc. Come Giosuè, Gesù «fa entrare» nel-
la terra promessa, vale a dire il regno dei cieli. Mosè, invece, non è
mai entrato nella terra promessa e ha ricevuto la legge nel deserto.
Mt 5- 7 è il primo dei cinque grandi discorsi del Vangelo di Mat-
teo (vedi Mt 10; 13,1-52; 18; 24). Questo discorso inaugurale defini-
sce chi appartiene al «regno dei cieli» (le beatitudini: 5 ,2-12) e il
comportamento richiesto a chi vuol divenire «cittadino del Regno»
(5, 13-7,27).

2. CosmuzIONE DEL BRANO

La costruzione del brano è abbastanza semplice. Le beatitudini


(Mt 5 ,2-12) formano l'esordio e la pietra angolare dell'insieme. Se-
114 I volti insoliti di Dio

guono tre sezioni principali (5,13-48; 6,1-18; 6,19-7,27). La prima


(5,13 -48) tratta della «giustizia», vale a dire il comportamento di chi
rispetta le relazioni che lo uniscono nel regno dei cieli con Dio e con
gli altri membri dello stesso Regno. La parte introduttiva si conclude
con l'affermazione centrale: «Se la vostra giustizia non supera quella
degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (5,20). In
tutta la sezione introduttiva (5,13-20) Gesù descrive in termini gene-
rici chi è il discepolo del regno dei cieli. Egli illustra allora questa
«giustizia» con sei esempi: diritto penale, diritto civile e riconcilia-
zione (5,21-26); adulterio e scandalo (5,27-30); divorzio (5 ,31 -32);
giuramenti (5,33-37); la legge del taglione e la carità (5,38-42); l'a-
more degli amici e dei nemici (5,43-48). Questa prima parte è netta-
mente di stampo giuridico. Per ogni esempio, Gesù si esprime sotto
forma di antitesi: «Avete sentito dire ... , io vi dico».
La seconda sezione (6,1-18) tratta delle «opere della giustizia»:
l'elemosina (6,2-4), la preghiera (6,5-15) e il digiuno (6,16-18), tre
opere essenziali per gli ebrei di quell'epoca. Gesù enuncia la regola
generale (6,1) prima di passare agli esempi. Come nella sezione pre-
cedente, Gesù usa l'antitesi per sottolineare la differenza di compor-
tamento fra i discepoli e «gli ipocriti».
La terza sezione è meno unificata. Essa inizia con la proclama-
zione di tre principi di condotta: il tesoro nel cielo (7,19-21), l'oc-
chio, lampada del corpo (7 ,22-23 ), e i due padroni, Dio e Mammona
(7 ,24). In seguito, troviamo due ammonizioni («non preoccupatevi»:
6,25-34; «non giudicate»: 7,1 -6), tre esortazioni («chiedete, cercate,
bussate»: 7,7-12; «entrate dalla porta stretta»: 7,13 -14; «guardatevi
dai falsi profeti»: 7,15-20) e due descrizioni del <<Vero discepolo», la
prima negativa: «non chiunque mi dice ... » (7,21-23), la seconda sot-
to forma di antitesi: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette
in pratica... Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pra-
tica ... » (7 ,24-25 .26-27).

3. Q UALCHE RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. Le beatitudini (5,2-12) formano un testo base per capire l'i-


dentità cristiana. Gesù proclama che il Regno promesso e sperato è
finalmente arrivato. Alcuni profeti cieli'Antico Testamento avevano
Il Dio di un mondo nuovo (Mt 5-7) 115

annunziato un intervento di Dio a favore dei poveri e degli umili del-


la terra, vale a dire di coloro che non hanno alcun aiuto e alcun so-
stegno tranne Dio stesso (Sof 2,3; 3,11-13; Is 61,1-2; cf. Sal 12,6;
34,19; 35,10; 40,18). Gesù dichiara che questa promessa di Dio si
adempie ora.
La «beatitudine» biblica (cf. Sal 1,1) è un modo di congratular-
si con qualcuno per un dono ricevuto o per un successo ottenuto (Mt
13,16; 16,17) o ancora di proclamare «felici» una categoria partico-
lare di persone (Mt 11,6; Le 11,28). La «felicità» può essere futura
(Is 30,18; 32,20 ... ), presente (Sal 32,1-2; 33,12 ... ) o promessa a chi os-
serva certe regole o consigli (Sal 1,1; 2,12 ... ). In Mt 5,2-12, la felicità
è presente (5,3.10) o futura (5,4-9) e si tratta di un dono gratuito. Chi
sono i «poveri» a cui Gesù apre le porte del regno dei cieli? Dove li
troviamo oggi? Quali sono le altre categorie di cui parla Gesù?
2. Nelle beatitudini, Gesù traccia in gran parte il proprio ritrat-
to: lui è povero, mite, misericordioso, puro di cuore, operatore di pa-
ce, ha fame di giustizia ed è stato perseguitato. È possibile illustrare
questi aspetti con testi ed episodi del vangelo?
3. Più profondamente, nelle stesse beatitudini Gesù rivela il vol-
to di Dio. I poveri sono felici perché Gesù è povero, ma soprattutto
perché Dio è «povero», mite, misericordioso, ha fame e sete di giu-
stizia ... È quindi possibile contemplare il volto del Dio di Gesù Cri-
sto nelle beatitudini.
4. Il resto del sermone della montagna spiega nei particolari
qual è il comportamento del vero discepolo. Molti sono gli spunti di
riflessione per chi vuol fare una «revisione di vita» alla luce dell'in-
segnamento di Gesù. Importa ricordare però che la «morale» cristia-
na parte da un dono: chi è entrato nel regno dei cieli, chi ha speri-
mentato il regno dei cieli nella propria vita e vive questa grazia può
capire quali sono le sue esigenze. Uno non si converte per poter en-
trare nel Regno. Al contrario, uno si converte solo perché è già en-
trato nel Regno.
5. Il sermone della montagna insiste molto sulla vita interiore, ma
non dimentica aspetti importanti della «vita pubblica>>, come ad
esempio quando si parla del sale della terra e della luce del mondo
(5,13.14-16) e dei principi fondamentali della vita sociale (5,21-48).
Anche in questo campo, il sermone della montagna ci dà da riflettere.
IL DIO DELLA PARTECIPAZIONE
(Mt 20,1-16)

1. INTRODUZIONE

La parabola dei vignaioli o parabola degli operai dell'ultima ora


è, nel Vangelo di Matteo, una risposta a una domanda che tormenta-
va molti cristiani di origine ebraica nella Chiesa primitiva: perché ac-
cogliere i pagani nella Chiesa e soprattutto trattarli esattamente alla
pari degli ebrei convertiti al vangelo? Il popolo ebreaico perde tutti
i suoi privilegi nella Chiesa? Non vi è alcuna differenza fra il popolo
che «fatica» per il vero Dio da secoli e le nazioni che l'hanno sco-
perto solo di recente?

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

La parabola si divide in due parti. Nella prima, il padrone assu-


me operai per la sua vendemmia dalla mattina alla sera (20,1-7). Nel-
la seconda, arriva l'ora della paga e sorge il conflitto in merito (20,8-
15). Questa seconda parte contiene il punto importante della para-
bola: il problema del salario.

3. QUALCHE RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. La parabola finisce con una domanda: «Non mi è lecito di-


sporre dei miei beni come voglio? O sei invidioso perché sono buo-
no?». La domanda rimane senza risposta e - evidentemente - spetta
al lettore rispondere. Significa, però, che il lettore si ritrova improv-
118 I voltì insolitì di Dio

visamente nei panni dell'operaio della prima ora che contesta il mo-
do di agire del padrone. Gesù racconta quindi questa parabola per
quelli che contestano Dio e il suo modo di agire nella storia della sal-
vezza. Come rispondere alla domanda del padrone?
2. Per poter capire il modo, l'atteggiamento del padrone quan-
do paga gli operai, occorre ricordarsi della prima parte della parabo-
la. Il padrone è infatti il suo personaggio principale. Perché va a cer-
care operai cosi spesso? Perché torna un'ultima volta, all'undicesima
ora (alle 5 del pomeriggio), un'ora prima del tramonto? Deve avere
le sue ragioni. La ragione più semplice del suo comportamento è l'ur-
genza: il padrone vuol finire al più presto la vendemmia. Possono ar-
rivare le prime piogge, o i ladruncoli, o più semplicemente l'uva è
matura e bisogna raccoglierla senza indugio prima che si guasti. C'è
molto da fare e mancano gli operai. Il padrone vuole quindi ingag-
giare il maggior numero di persone.
3. Perché allora pagare tutti nello stesso modo, iniziando dagli
ultimi? Che cosa rende tutti gli operai «uguali»? Una sola cosa: han-
no tutti partecipato alla vendemmia. Erano tutti nella vigna e nessu-
no è rimasto fuori. Solo quelli che non sono stati assunti non sono pa-
gati. La cosa importante e la sola che sembra importare al padrone è
questa: aver lavorato nella vigna. Il padrone ricompensa tutti nello
stesso modo perché tutti l'hanno aiutato a finire la vendemmia.
4. Forse si deve anche capire che lavoro e salario in questa pa-
rabola non sono separabili: il vero salario è il fatto di aver potuto par-
tecipare alla vendemmia. Il lavoro è il salario, perché questo tipo di
lavoro ha valore in sé. Certo, la parabola vuol far capire qual è l'eco-
nomia della salvezza. Come applicare allora la lezione della parabola
alla vita cristiana e ali'evangelizzazione? Come si rivela Dio in questa
parabola? Qual è la sua «felicità»?
IL DIO DEL POVERO LAZZARO
(Le 16,19-3 1)

1. INTRODUZIONE

Il capitolo 16 di Luca tratta in diversi modi il problema della ric-


chezza e della povertà, uno dei problemi cari a questo evangelista.
Anche negli Atti degli apostoli Luca tornerà sull'argomento. Nella
prima comunità cristiana, dice Luca, «non vi era alcun bisognoso
poiché quanti possedevano campi o case, li vendevano e portavano il
ricavato delle vendite mettendolo ai piedi degli apostoli. Era poi di-
stribuito a ciascuno secondo che ne aveva bisogno» (At 4,34-35). In
questa maniera, la prima comunità cristiana realizza la speranza
espressa nel libro del Deuteronomio: «Non ci sarà presso di te alcun
povero, perché il Signore ti benedirà nella terra che il Signore tuo
Dio ti dona in eredità» (Dt 15 ,4). La realtà però è diversa e lo stesso
capitolo aggiunge: «Poiché non mancheranno mai i poveri nel paese,
ti prescrivo: Apri generosamente la mano al tuo fratello, all'afflitto e
al povero nella tua terra» (Dt 15,11). L'idea essenziale è che nessuno
dovrebbe mancare di niente perché la terra è capace di nutrire tutti i
suoi abitanti. La ricchezza però non è sempre distribuita bene.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

La parabola si divide in due parti. Nella prima, più breve, il rac-


conto contrappone le sorti del ricco e del povero sulla terra (Le
16,19-21). La seconda, più lunga, si svolge nel cielo (16,22-31}. Co-
me in altre parabole, la seconda parte contiene un dialogo decisivo.
Il ricco fa due domande (16,24 e 16,27-28.30) e Abramo risponde
120 I volti insoliti di Dio

due volte in modo negativo (16,25-26 e 16,29.31). La seconda volta,


il ricco insiste (16,30), ma senza successo.
3. QUALCHE PISTA PER LA MEDITAZIONE

Un particolare inconsueto distingue questa parabola da tutte le


altre: un personaggio, Lazzaro, ha un nome. I personaggi delle para-
bole, al contrario, sono sempre anonimi. L'altro personaggio della
parabola, il ricco, è ogni tanto chiamato «il ricco epulone», anche se
questo nome non si trova nel testo del vangelo. Ad ogni modo, «epu-
lone» significa «banchettante», «mangione» (dal latino epulari, «ban-
chettare»). Non si tratta di un nome proprio. Lazzaro, invece, è un
nome vero che significa «Dio aiuta».
La parabola inizia con un contrasto fra un ricco che possiede tut-
to, tranne un nome, e un povero che non possiede niente, tranne un
nome. D'altronde, il nome, nella Bibbia, esprime la dignità della per-
sona. Pertanto, possiamo dire che al ricco manca una cosa davvero
essenziale, mentre il povero è, secondo il significato del suo nome,
sotto la protezione diretta di Dio.
D i primo acchito, la parabola descrive un capovolgimento cli si-
tuazione: chi era felice sulla terra è infelice dopo la morte e viceversa.
Il messaggio sarebbe un monito per i ricchi, che rischiano di finire
nell'inferno, e un'esortazione alla pazienza e alla speranza per i pove-
ri: «Siete infelici in questo mondo, ma tutto cambierà nel mondo che
verrà» (vedi Le 6,21-23). Ma è davvero così? Non è del tutto certo.
Che cosa fa il ricco, una volta nell'inferno? Vuol ritrovarsi con
Lazzaro? Si pente? I mpara finalmente l'altruismo? Che cosa si aspet-
ta da Lazzaro? Che cosa ha fatto durante tutta la sua vita? Che cos'è
cambiato, in fin dei conti? Non era «assetato» sulla terra? E non bru-
ciava già in lui il «fuoco» del desiderio? E il fuoco del desiderio con-
tinua a bruciare nell'inferno ...
Per quanto riguarda il povero Lazzaro, possiamo fare le stesse
domande. Che cosa possedeva sulla terra? Qual era la sua sola ric-
chezza? E qual è la sua ricchezza nel cielo? Non è la stessa cosa?
Qual è il messaggio finale di questa parabola, nel contesto del
Vangelo di Luca: bisogna aiutare i poveri a diventare ricchi o aiutare
i ricchi a diventare poveri? Perché?
Ultimo punto: perché Abramo rifiuta cli inviare Lazzaro sulla ter-
ra per avvertire i fratelli del ricco? Perché giudica l'impresa inutile?
IL DIO DELLE BENEDIZIONI
(Ef 2,3-14) 1

1. INTRODUZIONE

La Lettera agli Efesini fa parte delle cosiddette «lettere della cat-


tività di Paolo». Si tratta quindi di una lettera tardiva, scritta mentre
Paolo si trovava in carcere. Sebbene non sia sicuro che Paolo l'abbia
scritta di persona, il pensiero è certamente dell'apostolo. Fra i gran-
di temi della lettera, bisogna annoverare l'apostolato e la Chiesa, co-
munità fatta di ebrei e di pagani convertiti a Cristo.
L'inno di Ef 2,3-14 è una «benedizione», una forma di preghiera
comune nell'Antico Testamento e nella tradizione d'Israele, special-
mente nella liturgia. Esiste una differenza fra «benedizione» e «azio-
ne di grazia». Si rende grazie per un favore o un dono ricevuto. Si be-
nedice qualcuno per quello che ha fatto (Rm 15,5; 2Cor 1,3; lPt 1,3).
Se benediciamo Dio è perché Dio ci ha benedetti per primo. La
benedizione divina è in relazione con la forza della vita, la vittoria
contro i nemici e la capacità di dare la vita. Quando Dio benedice, dà
la vita in abbondanza, «moltiplica» (Gen 1,22.28) o libera dai nemi-
ci (Gen 12,2-3; cf. 27 ,27-29). Benedizione significa fecondità, fertilità
e vittoria contro le forze del male e della morte.
Benedire Dio significa riconoscere che la vita che abbonda nel
nostro mondo ha la sua sorgente in Dio. In parole semplici, significa

1 Ringrazio in modo particolare p. Jean-Noel Aletti che mi ha generosamente

aiutato nella composizione di questa medita:done.


122 I volti insoliti di Dio

vedere il donatore nel dono della vita. La benedizione di Ef 2,.3-14


rientra in questa dinamica quando mostra che l'abbondanza di gra-
zia che ci è stata accordata in Cristo ha la sua origine in Dio.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

L'mno è costruito secondo un modello poetico ed è sempre diffi-


cile - forse anche presuntuoso - voler dividerlo in parti o sezioni trop-
po chiare. Conta più il movimento che la sua «geometria». Questo mo-
vimento parte dal Padre (2,3). Il v. 3 contiene anche il tema di tutto
l'inno: Dio sia benedetto perché ci ha benedetti con tante benedizio-
ni. Il resto dell'inno descriverà con più particolari queste benedizioni.
In un primo tempo (2,4-10), l'inno descrive le due grandi bene-
dizioni di Dio: ci ha predestinati (2,5) e ci ha rivelato il mistero della
sua volontà (2,9). La predestinazione di Dio ha come oggetto la fi-
gliolanza: Dio ci ha predestinati a diventare i suoi figli adottivi. La ri-
velazione riguarda il «mistero» della sua volontà, vale a dire, nel lin-
guaggio paolino, gli aspetti inauditi e inaspettati della storia della sal-
vezza. Questo «piano divino» imprevedibile era di «ricapitolare» in
Cristo tutti gli esseri, terrestri e celesti: Cristo diventa salvezza per
tutti gli esseri dell'universo. In parole più semplici, Cristo ha un mes-
saggio di salvezza per tutta l'umanità e per l'universo intero.
Il secondo movimento (2,11-14) specifica chi sono i destinatari
di queste «benedizioni»: <<Iloi>> (2,11 -12) e «voi>> (2,1.3 -14). «Noi» de-
signa gli ebrei che hanno creduto in Cristo; <<Voi», i pagani che han-
no seguito il loro esempio.
Notiamo, infine, che l'inno ha una struttura trinitaria: inizia con
il Padre (1,3 ), per poi menzionare più volte Gesù Cristo (1,5.6.10.12)
e concludersi con lo Spirito Santo (1,13 ). L'inno riassume anche la
storia della salvezza. Parla del piano divino prima della creazione del
mondo (1,4), poi accenna alla redenzione in Gesù Cristo (1,7) e alla
salvezza finale (1, 10.14).

3. QUALCHE RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. La benedizione. L'inno di Ef 1,3-14 dà un bell'esempio di


meditazione sull'esistenza cristiana. Lo sguardo contemplativo parte
Il Dio delle benedizioni (E/ 2,3-14) 123

dall'esperienza per risalire verso Dio, origine della vita nella sua pie-
nezza. Legge la storia e vi scopre un «piano divino», più antico della
creazione del mondo e che si conclude con la «fine dei tempi». La
storia, anche la nostra storia quotidiana, ha un «senso» e questo sen-
so lo troviamo in Gesù Cristo e nel suo vangelo. Niente è assurdo, ba-
nale o indifferente nella nostra vita. Il vangelo «dà senso» a tutto. Co-
me riscoprire questa dimensione? Come imparare o imparare sempre
di nuovo a «benedire Dio» nella vita di ogni giorno?
2. Il piano di Dio abbraccia tutta la storia umana e tutto l'uni-
verso. È quindi più largo delle nostre preoccupazioni. Come allarga-
re i nostri orizzonti e interessi per farli coincidere con quelli di Dio?
Come evitare la tentazione di restringere la vita cristiana a un picco-
lo mondo rinchiuso in se stesso? A quale piano ci associa Dio?
3. Cristo, modello e salvatore dell'umanità. Per Paolo come per
i primi cristiani, questa verità era «nuova». Perciò la Lettera agli Efe-
sini parla di un «mistero» (qualcosa di imprevedibile). Dov'è questa
novità per noi? Che cosa Cristo può apportare al mondo d'oggi?
Quale speranza? Che «senso» può dare alla vita dell'umanità del ter-
zo millennio? Che cosa può annunziare alle generazioni di domani?
4. Pagani ed ebrei. La Chiesa è formata da ebrei e pagani, tutti
convertiti a Cristo. Si può ritrovare la stessa diversità nella Chiesa di
oggi? Vi sono tensioni? Come vivere forme concrete di vita ecclesia-
le senza far sparire le differenze?
IL DIO DELLA NUOVA CREAZIONE
(Ap 21,1-8; 21,9-22,5)

1. INTRODUZIONE

Il libro dell'Apocalisse è e rimane molto enigmatico. Per molto


tempo, la Chiesa ha esitato a integrarlo fra i libri canonici del Nuovo
Testamento a causa delle numerose speculazioni che suscitava, spe-
cialmente fra gruppi marginali del cristianesimo. 1 È uno degli scritti
più recenti del Nuovo Testamento (fine del I secolo d.C.), quando la
prima comunità cristiana conosce la persecuzione e l'opposizione da
parte dell'impero romano.
Vi sono «apocalissi» nell'Antico Testamento (Is 24-27; 34-35;
le visioni di Daniele e di Zaccaria; cf. Ez 40-48) così come nella let-
teratura giudaica. Le «apocalissi» sorgono in un tempo di forti ten-
sioni, soprattutto durante le persecuzioni. Sono un modo di colti-
vare la speranza. Quando la situazione diventa intollerabile, meglio
guardare verso il cielo e sperare in un intervento divino decisivo.
Le «rivelazioni» (questo è il significato della voce greca «apocalis-
se») del piano divino, le visioni celesti e i messaggi che vengono
dall'alto incoraggiano i fedeli a perseverare. Dio interverrà e sal-
verà i suoi. Molto spesso, queste visioni si rivestono di un colorito

1 Le Chiese orientali (Chiese di lingua greca) hanno esitato ancora più a lungo
delle Chiese occidentali (Chiese latine) a causa delle forti critiche del potere politi-
co contenute nel libro dell'Apocalisse. Le Chiese orientali erano, infatti, più legate
all'impero delle Chiese latine.
126 I volti insoliti di Dio

«escatologico», vale a dire annunziano la fine dei tempi e l'inter-


vento definitivo di Dio nella storia.
Le visioni di Ap 21-22 descrivono l'inaugurazione della nuova
creazione e l'arrivo della Gerusalemme celeste. Il «nuovo mondo» è
quello sperato dai cristiani perseguitati. In queste visioni vi sono molti
richiami alla prima creazione (Gen 1,1-2,4) e ad alcuni testi profetici.

2. COSTRUZIONE DEL BRANO

Ap 21 ,1-8 d escrive la nuova creazione e la fine dei tempi. Il bra-


no inizia con una visione della nuova creazione e della Gerusalemme
celeste (21,1-2). Seguono due messaggi divini, uno più lungo (21,3-4),
che spiega qual è la città che scende dal cielo e il suo significato; l'al-
tro più breve (21,5), che riassume in poche parole il precedente mes-
saggio di speranza: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». Poi, la stessa
voce divina ordina al veggente di scrivere (21,5b-8). Questo messag-
gio scritto annuncia la fine dei tempi: la sovranità di Dio (21,6), lari-
compensa per i fedeli (21,6b-7) e il castigo per varie categorie di con-
dannati (21,8).
Ap 21,9- 22,5: la nuova Gerusalemme. La seconda visione de-
scrive solo la Gerusalemme celeste già menzionata in precedenza (Ap
21,2). Dopo l'introduzione che annuncia il tema (21 ,9-11), inizia una
lunga descrizione della città, specialmente delle sue mura (21,12-21).
Poi si parla del tempio e della luce della città (21,22-23; notiamo due
frasi negative: «Ma tempio non vidi ... La città non ha bisogno... »). In
una terza parte, si spiega chi potrà entrare nella città (21,24-27). La
quarta parte (22,1-5) aggiunge alcuni particolari (vedi la ripresa del
verbo «mi mostrò» di 21,10 in 22,1): il fiume di acqua viva (22,1-2)
e la presenza di Dio (22,3-5 ).

3. QUALCHE RIFLESSIONE PER LA MEDITAZIONE

1. Creazione e nuova creazione. All'inizio della creazione, se-


condo Gen 1,2, esisteva un universo caotico, un mondo dove vi era-
no solo acque e tenebre. Dio inizia la creazione con la luce (Gen 1,3-
5); poi, dopo la creazione del firmamento (1,6), fa apparire la «ter-
ra asciutta», distinta dalle acque (1,9). Nell'Apocalisse, si dice che
Il Dio della nuova creazione (Ap 21,1-8,. 21,9-22,5) 127

nel mondo nuovo non vi è più né mare (Ap 21,1) né notte (Ap 21,25;
22,5; cf. Is 60,11) . Esiste solo la terra asciutta e il giorno non finisce
mai. È finita l'alternanza dei giorni e delle notti, della luce.e delle te-
nebre, così come sparisce la divisione fra la terra asciutta e le acque
e svaniscono la sofferenza· e addirittura la morte (Ap 21,4). Per la
Bibbia, il mare e la notte rappresentano residui del caos primordia-
le nel nostro mondo. Non sono esattamente simboli del male, quan-
to piuttosto dell'ambiguità e dell'indifferenziato. Es 14,1-31 utilizza
molto questi due simboli nella descrizione del passaggio del mare:
Israele rinasce mentre attraversa il mare di notte (vedi sopra). Altri
testi dell'Antico e del Nuovo Testamento alludono alla stessa tema-
tica. Vale in particolare per la risurrezione di Gesù. Perché, secon-
do tutti i vangeli, la risurrezione ha luogo <<il primo giorno della set-
timana»? Che cosa aveva creato Dio il primo giorno della settima-
na? Qual è allora il legame con la risurrezione? E chi sarà la luce de-
finitiva della nuova Gerusalemme (cf. Ap 21,23; 22,5)? Come tra-
durre questi simboli del mare e della notte in un linguaggio e in im-
magini più moderni?
2. La città nuova e la dimora di Dio. Il testo di Ap 21-22 insiste
molto sulla Gerusalemme celeste, simbolo del mondo nuovo. La città
non è mai chiusa e le nazioni vi verranno in un grande pellegrinaggio
(Ap 21,24-26; cf. ls 60,3.11; Zc 14,16-19). La città, però, sarà intera-
mente pura: «nulla d'impuro in essa entrerà» (Ap 21,27; cf. Is 35,8;
52,1; Zc 13,1 -2; 14,20-21). Non vi sarà tempio in questa città (Ap
21,22). Perché? La ragione è semplice: tutto è sacro nella Gerusa-
lemme celeste, non esiste più alcuno spazio «profano». Così come so-
no spariti notte, mare e morte, non esiste più alcun elemento profa-
no, non purificato e sconsacrato. Dio dimora con l'umanità e non vi
è più alcun ostacolo alla comunicazione fra Dio e il suo popolo.
Per l'Apocalisse, la liturgia terrestre rispecchia e prefigura la li-
turgia celeste. Che cosa significa la nostra liturgia se la viviamo alla
luce di quanto dice lApocalisse? La divisione fra «sacro» e «profa-
no» è destinata a permanere? La risurrezione di Gesù Cristo ha inau-
gurato gli ultimi tempi? Come? Secondo Gv 2,21 che cosa è il «tem-
pio» di Dio sulla terra (vedi anche Gv 1,14)? Dove possiamo adora-
re Dio? Che cosa rappresentano allora le nostre chiese? Qual è il cul-
to del Nuovo Testamento?
128 I volti insoliti di Dio

La città è anche un modello di vita sociale e comunitaria. Quale


ideale ci propone l'Apocalisse (cf. 21,4.8.27)? Come reahzarlo?
3. Il fiume di acqua viva (Ap 22,1). Vedi nell'Antico Testamen-
to Ez 47,1; Zc 14,8; Gl 4,18; nel Nuovo, vedi Gv 7,38; 19,34. L'im-
magine si trova anche nel secondo racconto della creazione (Gen
2,10-14). In Ap 22,1, il fiume non esce dal tempio. Perché? Il fiume
è simbolo di vita. Da dove viene la vita nella Gerusalemme celeste?
Questo fiume è simbolo di fecondità. Nel giardino di Gen 2, vi
erano molti alberi (2,9). Nella Gerusalemme celeste troviamo un so-
lo albero. Quale? Questo albero era accessibile nel paradiso? Vedi
Gen 3,22.24 e Ap 2,7. Che cosa può essere questo albero che nutre
la terra durante tutto l'anno? Vedi Gv 6,35; 10,10. Come tradurre
questi simboli in un linguaggio moderno, pur conservando anche la
concretezza del linguaggio biblico?
A MO' DI COMMIATO

È arrivato il momento di prendere congedo dai miei lettori. Ho


provato, in queste pagine, a svegliare il loro gusto di contemplare i
volti insoliti di Dio nascosti nelle pieghe della Scrittura e spero di
aver raggiunto questo scopo. Mi sento nei panni di una guida che,
dopo aver fatto visitare monumenti e musei, strade e viuzze di una
città d'arte, si ritrova sulla piazza ove saluta il gruppo che ha accom-
pagnato per qualche tempo. Stringendo le mani, sonda gli occhi e le
facce per indovinare quanto interesse è riuscita a destare. È un po'
ansiosa di sentire qualche commento positivo, rischia una domanda
o, più semplicemente, tenta di cogliere fra le reazioni e i commenti
un segno di entusiasmo per i monumenti e le opere d'arte appena vi-
sitati. Il successo in queste imprese è sempre aleatorio e ogni guida vi
racconterà le sue delusioni che, certo, non sono rare. E non è sempre
colpa del pubblico. Ma ogni guida che ama il suo mestiere vi dirà
un'altra cosa essenziale in merito: non dubita mai del valore dei ca-
polavori che cerca di spiegare. Una buona guida è anzi convinta di
questo valore e comunica prima di tutto la sua passione per le opere
davanti alle quali si ferma per dire una parola di presentazione. Poi,
qualora fosse tentata di dirne troppe, la guida si ferma perché sa che
l'opera parla da sé. Occorre stabilire un contatto, iniziare un dialogo
e favorire lo scambio diretto. Il resto è un segreto che si svolge fra in-
dividui o gruppi e opere d'arte. Così come Giovanni Battista (o il Vir-
gilio di Dante), la guida si fa discreta e sa scomparire al momento giu-
sto. Se ne va per conto suo, ma con un augurio nel cuore: che le per-
sone tornino a contemplare la bellezza intravista durante il viaggio e,
meglio ancora, che un giorno qualcuno dei visitatori senta il forte de-
siderio di diventare, a sua volta, guida nella stessa città.
INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE

ANTICO TESTAMENTO

Genesi 35,25-26 88
35,30-35 88
1,1 -2,3 9-13
35,31 - 36,1 15
2,4b-25 10
4,1-16 19-21 Levitico
11,1-9 23 -24
18,1-8 25 , 28-30 17, 11 74
21,8-20 33 -37 17,14 20-21
26,2 49
28,10-22 52 Deuteronomio
41,33.39-40 15 15,4 118
46,1-7 47-50 28,64-68 95-96
31,11 96
Esodo
lSamuele
3, 1 -4,18 51-53
3,6 5 17 71-73
14,1-31 55-58 17,4-7 77-78
14,15 69 17,51 72
15,18 58 26,19 95
20,2 5
33,18-23 64-69 2Samuele
33,18 5 7,5-7 47
35 - 40 100-101 23,14- 17 71-74
35,10 88 24,18-25 52
132 I volti insoliti di Dio

lRe Proverbi
8,27 48 8,22-30 15-17

Siracide
2 Re
38,24-34 89-90
2,19-22 80
4,1-7 80-81 Isaia
4,38-41 79-81 11,6 43
22 78 23,4 111
25,6 llO
lCronache 28,23-29 90-93
45,6-7 5
21,26-27 52 66,l 48

Giobbe Geremia
30,3-8 35 2,6 101
23,23 95
Salmi Ezechiele
27,4 95 1,1-28 98-100
27,8 96 3,15 99
42 96 11,22-24 98
42,3 6 37,14 5
63 107-112
126 97 Osea
131,1 6 2,4-25 103-105
137 97 11,9 5

Nuovo TESTAMENTO
Matteo 13,1 93
20,1-16 117-118
5-7 113 -115
5,44 111
Marco
9,12-13 42
10,42 74 9,41 74
Indice delle citazioni bibliche 133

Luca Romani
10,38-42 90 6,1-11 58
16,19-31 119-120
22,27 32 Calati
5,1 57
Giovanni
Efesini
1,14 6, 49, 101
7,49 89 2,3-14 121-123
8,1-11 39
8,11 40 lPietro
14,6 50 3,18-22 58
14,8 6
Apocalisse
Atti
21,1-8 125-128
4,34-35 119 21 ,9 -22,5 125-128
INDICE TEMATICO

Alessandro Magno 73, 7 8 Ironia 24, 78


Artigianato 88-90 Maat 16
Baal 103 Merismo 91
Babilonia 24 Mesopotamia 10, 23-24, 88, 98
Battesimo 58 Odissea 26-28, 78
Beatitudine 114-115 Omicidio 19, 21
Benedizione 12, 121 Puritanismo 39
Castel Sant' Angelo 52 Racconto di vocazione 52
Cibo 13 Racconti dei Chassidim 6-7
Coscienza umana 12 Riposo 13
Davide (Bernini) 71 Romanticismo 4 1
Davide (Caravaggio) 72-73 Rublev (icona della Trinità) 25
Davide (Donatello) 72 Sacrificio 20
Davide (Michelangelo) 7 1 Salterio 107 -109
Dominio 11-12 Sangue 20-21, 74
Dio pellegrino 6 S. Vitale (Ravenna) 25
Egitto 88 Sapienza 15-17, 88
Esilio 96-97 Scrittura 88
Fratricidio 19 Scriba 89
Gambali 78 Scudo di Achille 75-77
Gilgamesh 43 Segno di Caino 21
Gioco 16-17 Sublime (Il) 25 -27, 29, 30
Gloria (di Dio) 65 , 99-100 Tao 69
Imago mundi 75-77 Tempo 11
Iliade 27, 75-77, 78, 79, 80, 82, 83 Violenza 20
INDICE DEGLI AUTORI ANTICH I E MODERNI

AGOSTINO 40 OMERO 26-27, 30, 31, 75-77,


ARISTOTELE 26, 59-60 78, 82
ATANASIO Dl ALESSANDRIA 108
AUERBACH, E. 27 PÉGUY, c.32
PLATONE 26
CASSIO LONGINO 25
QurNrus CuRnus RuFus 73
DANTE, A. 59-64
DosTOEVSKJJ, FM. 81-84 ROUSSEAU, J.-J. 41

GIRARD, R. 20 SAINT-EXUPÉRY, A. 68-69


GREGORlO DI NISSA 67 SIMIAN-Y OFRE, H. 104

HAWTHORNE, N. 37-45 TEOFRASTO 26


HUGO, V. 93 TEOPOMPO 26
TOMMASO D'AQUINO 59
]AMES, H. 39 PRZYWARA, E. 7

KRSZNA, H. 104 VARILLON, F 7


VIRGULÌN, S. 90
MANZONI, A. 30-31
W ÉNIN, A. 104
INDICE GENERALE

INTRODUZIONE: IL DIO DELLA BIBBIA


E IL PADRE DI GESÙ CRISTO .................................. pag. 5

IL DIO CREATORE CHE ABITA IL TEMPO


E LA STORIA (Gen 1,1-2,3) ................ .......................... » 9
1. Introduzione .. ... .. ... .. .... . ... .. .. ... .. .. ... .. .. .. .. .. . . .. . .. .. ... .. » 9
2. Costruzione del brano ... .. ... ... .. .. .. . .. .. .. .. ... .. .. .. .. .. .. ... » 1O
3. Piste di riflessioni per la meditazione .. .. .. .. ... .. .. .. ... » 11

DIO E LA SAPIENZA - LA CREAZIONE


COME «GIOCO» (Pr 8,22-30) ..................................... . » 15
1. Introduzione ....................... ................................... >> 15
2. La struttura del brano ............................................ » 15
3. Qualche pista di riflessione per la meditazione .... » 16

IL DIO DI CAINO O IL DIO CUSTODE


DELLA VITA (Gen 4,1-16) ............................................ » 19
1. Introduzione ............................. ........................... .. » 19
2. Costruzione del brano ............................................ » 19
3. Qualche domanda per la riflessione .. .. ..... . ... ......... » 19

LA «TORRE DI BABELE» (Gen 11)-9)


E IL DIO ANTI-TOTALITARIO .................................. » 23
1. Introduzione . .. ... .... .. .. . .. .. . .... . .... . .. .. .. . ... .. ... .. .. .. .. .. ... » 23
2. Costruzione del brano ............................................ » 24
3. Piste di riflessioni per la meditazione . ......... ... .. .. ... » 24
140 Indice generale

L'OSPITE DIVINO (Gen 18,1-8) ........................... ....... » 25


1. Introduzione .......................................................... » 25
2. Costruzione del brano .. ....................................... .. . » 28
3. Spunti per la meditazione ...................................... » 30

IL CESPUGLIO, LA ROSA SELVATICA


E IL DIO DEI PARIA E DEGLI SVENTURATI
(Gen 21,8-20) .................................................................... » 33
1. Il cespuglio di Agar ................................................ » 33
2. La rosa selvatica di Nathaniel Hawthorne ............ » 37
3. Conclusione ............. ..... .... ... .............................. .. ... » 44

IL DIO VIANDANTE (Gen 46,1-7) .............................. » 47


1. Introduzione ..... .. .. ... .. ...... ... ................ ... .. .. ..... ....... » 47
2. Costruzione del brano ............................................ » 49
3. Qualche suggerimento per la meditazione .. ..... .. ... » 49

LA VOCAZIONE DI MOSÈ
O IL DIO DELLA LIBERTÀ (Es 3,1- 4,18) .................. » 51
1. Introduzione .............. .. ............. ............................. » 51
2. Costruzione del brano .... ........................ ................ » 52
3. Qualche pista di riflessione per la meditazione .... » 53

IL PASSAGGIO DEL MARE


E LA GLORIA DI DIO (Es 14,1-31) ...................... ...... » 55
1. Introduzione .......................................................... » 55
2. Costruzione del brano ............................................ » 56
3. Qualche punto di riflessione per la meditazione .. » 57

LE SPALLE DI DIO (Es 33,18-23) ................................ » 59


1. Il primo motore immobile di Aristotele .. ..... ... ... ... » 59
2. La fenditura della roccia (Es 33 ,18-23) ................ » 64
3. A mo' di conclusione ...... ...... ............................... ... » 68

DIO, DAVIDE E IL PREZZO DI UN SORSO


D'ACQUA (2Sam 23,14-17) ............................................ » 71
Indice generale 141

LO SCUDO DI ACHILLE, LA FARINA DI ELISEO


E LA CIPOLLA DI DOSTOEVSKIJ ............................ » 75
1. Lo scudo di Achille e il ruolo del re ...................... , » 75
2. La farina di Eliseo ............................ ...................... » 77
3. La cipolla di Dostoevskij ........................................ » 81
4. Conclusione ............................................................ » 84

IL DIO SAPIENTE E IL DIO CAMPAGNOLO


(Is 28,23-29) ..... ................................................................. » 87
1. La sapienza delle mani e la sapienza dell'intelletto » 87
2. La saggezza del coltivatore .................................... » 90

«SONO FORSE UN DIO DA VICINO,


E NON UN DIO DA LONTANO?» (Ger 23,23) » 95
1. Esilio dell'individuo ed esilio del popolo ............ .. » 96
2. Il profeta Ezechiele e il Dio che si muove «Su ruote» » 97
3. I cherubini e la «macchina celeste» di Ezechiele .. » 98
4. La gloria di Dio che viene ad abitare in una tenda
in mezzo al suo popolo di viandanti .................. .. » 100

IL DIO DELLA FEDELE TENEREZZA (Os 2,4-25) .. » 103


1. Introduzione ........................................ ................ .. » 103
2. Costruzione dcl brano .......................................... .. » 104
3. Qualche pista di riflessione per la meditazione .. .. » 105

IL DIO DELLA SETE (Sal 63) ..................................... . » 107


1. Introduzione ......................................................... . » 107
2. Costruzione del Salmo 63 .................................... .. » 109
3. Spunti per la meditazione ..................................... . » 109

IL DIO DI UN MONDO NUOVO (Mt 5-7) ........ ..... . » 113


1. Introduzione ......................................................... . » 113
2. Costruzione del brano ........................................... . » 113
3. Qualche riflessione per la meditazione ................ .. » 114

IL DIO DELLA PARTECIPAZIONE (Mt 20,1-16) ..... . » 117


1. Introduzione ......................................................... . » 117
142 Indice generale

2. Costruzione del brano .......................................... .. » 117


3. Qualche riflessione per la meditazione ................ .. » 117

IL DIO DEL POVERO LAZZARO (Le 16,19-31) .... .. » 119


1. Introduzione ................................. .'..... ................. .. » 119
2. Costruzione del brano ........................................... . » 119
3. Qualche pista per la meditazione ........................ .. » 120

IL DIO DELLE BENEDIZIONI (Ef 2,3-14) .............. .. » 121


l. Introduzione ........................................................ .. » 121
2. Costruzione del brano .......................................... .. » 122
3. Qualche riflessione per la meditazione ................ .. » 122

IL DIO DELLA NUOVA CREAZIONE


(Ap 21,1 -8; 21,9-22,5) ...................................................... » 121
1. Introduzione .......................................................... » 125
2. Costruzione del brano ............................... ............. » 126
3. Qualche riflessione per la meditazione .. .. .. .. .. .. .. .. .. » 126

A MO' DI COMMIATO ................................................ » 129

INDICE DELLE CITAZIONI BIBLICHE .................. » 131

INDICE TEMATICO ...................................................... » 135

INDICE DEGLI AUTORI ANTICHI E MODERNI .... » 137

INDICE GENERALE ....................... ......... .................... » 139


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