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Pontificia Universitas Lateranensis

Facoltà di Sacra Teologia


Ciclo istituzionale: Triennio teologico

INTRODUZIONE ALLA SACRA SCRITTURA [11131]


PROF. GIUSEPPE PULCINELLI
Programma del corso

Introduzione generale alla Sacra Scrittura


 Ispirazione, Sacra Scrittura (e Tradizione) alla luce della Dei Verbum.
 Ermeneutica biblica (alla luce di: PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione
della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993).
 Il canone biblico (AT e NT) e la sua formazione storica; il ruolo del testo greco della LXX.
 Letteratura inter-testamentaria; i manoscritti di Qumran.

Introduzione all’Antico Testamento


 Quadro storico-geografico di Israele.
 Il testo dell’A.T.: formazione e trasmissione.
 Torah (Pentateuco): formazione e temi teologici.
 Profeti anteriori (Libri storici): l’opera storiografica deuteronomistica e temi teologici.
 Profeti posteriori (Libri profetici): il profeta, storia e generi profetici.
 Scritti (Libri sapienziali): tradizione sapienziale; il Libro dei Salmi.

Introduzione al Nuovo Testamento


 L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane.
 Il testo greco del N.T.
 Vangeli: genere, formazione, questione sinottica.
 Atti degli Apostoli.
 Corpus paolino e tradizione paolina.
 Altre lettere.
 Corpus giovanneo: Vangelo, Lettere, Apocalisse.

Bibliografia
 Schemi delle lezioni: http://www.bibbiaonline.it → Area riservata studenti [user: files;
password: studenti]
 V. Mannucci - L. Mazzinghi, Bibbia come Parola di Dio. Introduzione alla Sacra
Scrittura, Queriniana, 2016
oppure
Aa.Vv., Introduzione generale alla Bibbia, LDC, 2006 (Logos – Corso di Studi Biblici 1)
 E. Zenger, Introduzione all’Antico Testamento, Claudiana, 2005
 R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, 2001
 M. Cucca - G. Perego, Nuovo Atlante Biblico Interdisciplinare, San Paolo, 2012
 G. Pulcinelli, La Dei Verbum. Cenni storici, importazione metodologica, sfide attuali,
Lateranum 74 (2008) 237-244

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Tesario

Introduzione generale
1. Dei Verbum e Ispirazione dei testi biblici
2. Il Canone ebraico e quello cristiano: storia e considerazioni teologiche
3. Ermeneutica (cfr. IBC 1993), esegesi e metodo storico-critico
4. Il Testo dell’AT e del NT; princìpi di critica testuale
5. La LXX: storia e valenza per la Bibbia cristiana; le altre traduzioni antiche
6. Qumran: importanza dei testi del Mar Morto per lo studio della Bibbia e del giudaismo

Introduzione all’A.T.
7. Storia Israele - AT I: quale storia? Quali fonti? I Patriarchi. L’esodo
8. Storia Israele - AT II: dalla ‘conquista’ fino alla deportazione a Babilonia
9. Storia Israele - AT III: dall’esilio fino alla conquista romana (Pompeo, 63 a.C.)
10. Introduzione al Pentateuco e il contenuto dei singoli libri (Gen, Es, Lv, Nm, Dt)
11. Profeti anteriori - Libri storici: Gs, Gdc, 1-2 Sam, 1-2 Re; 1-2 Cr; Esd, Ne
12. Profetismo e Libri profetici: Is, Ger, Ez, i 12 profeti minori
13. Introduzione alla sapienza e Libri Sapienziali: Pr, Gb, Qoh, Ct, Sir, Sap
14. Libro dei Salmi e la poetica ebraica

Introduzione al N.T.
15. Ambiente storico-culturale delle origini cristiane: fonti / personaggi / elementi di giudaismo
16. Le fonti storiche su Gesù
17. Evangelo e Vangeli (loro formazione) - Questione sinottica
18. Marco: Caratteristiche principali del Vangelo sec. Marco (destinatari, temi, struttura, etc.)
19. Matteo: Caratteristiche principali del Vangelo sec. Matteo (destinatari, temi, struttura, etc.)
20. Luca: Caratteristiche principali del Vangelo sec. Luca (destinatari, temi, struttura, etc.)
21. Atti: Caratteristiche principali del libro degli Atti degli apostoli (intento, temi, struttura, etc.)
22. Paolo
23. Lettere di Paolo e altre lettere
24. Corpus Giovanneo: IV Vangelo e Lettere
25. Corpus Giovanneo: Apocalisse (cenni all’apocalittica giudaica)

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Parte prima:
Introduzione generale alla Sacra Scrittura

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1. Introduzione
Un viaggio nella Bibbia e nella sua interpretazione: dalle origini
fino a oggi, dalla lettura alla pratica

1. Premessa
1.1. Cosa significa interpretare la Bibbia?
1.2. Perché è necessario interpretare la Bibbia?
1.3. Come interpretare la Bibbia?
2. La prima parte del viaggio di questo messaggio (ieri): composizione e trasmissione della Bibbia
3. La seconda parte del viaggio (oggi): interpretazione e attualizzazione della Bibbia

1. Premessa

Filo conduttore nell’AT ma anche nel NT è quello dell’alleanza.


Oltre ad avere un valore culturale e laico, la Bibbia è da noi cristiani accolta come un testo sacro: è la
rivelazione con la parola scritta di un dialogo di vita e di amore tra Dio e l’uomo: inizia con Abramo,
si perfeziona con Mosè, si istituzionalizza con la monarchia, si compie con Gesù, si diffonde con gli
apostoli. Recita un aneddoto relativo ad una donna che portava la Bibbia sempre con sé sulla testa:
“porto la Bibbia sempre con me perché, mentre tutti gli altri libri sono io a leggerli, la Bibbia è il solo
libro che legge me”.
La Parola di Dio è il frutto di un lungo viaggio dalle sue origini fino a noi oggi: la Parola vuole
continuare a viaggiare attraverso la nostra capacità di ascolto, di comprensione e di pratica (cfr. Sal 1).
1.1. Cosa significa interpretare la Bibbia?
Interpretare la Bibbia significa “portare” il testo dalle sue origini all’oggi. La Bibbia stessa riflette uno
sviluppo e una gestazione che coprono un arco di 1000 anni (VIII secolo a.C. – II secolo d.C.), oltre a
raccontare vicende ancor più antiche che riportano alla creazione del mondo (scientificamente databile
13,5 miliardi di anni fa).
Esempi per comprendere cosa significa ‘interpretare’: l’oratore parla in inglese e il traduttore traduce
in italiano; il medico ci prescrive alcune medicine e scrive in modo illeggibile una ricetta.
Il processo di interpretazione è ben esemplificato dall’episodio di Filippo e dell’eunuco: At 8,26-40,
dove vediamo tale sequenza: lettura > interpretazione > comprensione > pratica. È il racconto di
un’ermeneutica (lettura di un passo della Scrittura alla luce dell’evento centrale della Pasqua).

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L’eunuco legge, comprende le parole e le frasi che legge (Is 53,7-8: Quarto carme del Servo di Jaweh),
ma non afferra il senso complessivo del brano, in particolare non capisce di chi sta parlando l’autore.
All’eunuco sfugge sia il senso generale nel quadro della storia della salvezza sia il senso messianico di
quel passo. “Filippo, prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura, annunciò a lui
Gesù.” (At 8,35).
1.2. Perché è necessario interpretare la Bibbia?
La Bibbia non è originariamente per noi: non si può comprendere la Scrittura se non nello stesso
spirito in cui è stata scritta (cfr. Dei Verbum, n. 12).
1.3. Come interpretare la Bibbia?
Come lo spartito musicale attende di essere eseguito, così la Scrittura attende di essere eseguita, di
diventare prassi di vita.

2. La prima parte del viaggio di questo messaggio (ieri): composizione e trasmissione


della Bibbia
1. I fatti storici dell’AT. I figli di Israele nella loro storia passarono attraverso una esperienza
fondamentale: degli schiavi tornarono liberi, degli stranieri e nomadi arrivarono ad avere una terra
dove abitare. Storicamente fatto centrale della storia di Israele è la liberazione dalla schiavitù. Gran
parte dell’AT è la narrazione della fissazione di leggi (inizialmente in forma orale e poi in forma
scritta per una esigenza di certezza del diritto) per regolare la convivenza all’interno del popolo di
Israele e con altri popoli.
 Es 12,37 [storia]: semplice descrizione di un fatto di cronaca.
 Es 12,51 [interpretazione alla luce della fede]: cambiamento del soggetto che non è più
Israele ma il Signore (HWHY - Kyrios). La Bibbia è una continua rilettura di se stessa: da
un fatto di cronaca all’interpretazione nella fede.
 Es 15,1.11.21 [celebrazione del fatto].
2. La trasmissione orale della memoria dei fatti storici, di padre in figlio, avverrà specialmente
nei momenti solenni delle feste. La festa è il momento di ricordo del passato il cui messaggio è
importante per l’oggi:
 Dt 6,20-25 (uno dei piccoli Credo di Israele):
“Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: “Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e
queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?”, tu risponderai a tuo figlio: “Eravamo schiavi
del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i
nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua
casa. Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il
Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da
essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà
per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore, nostro Dio, come ci ha
ordinato”.

Celebrare per ricordare - raccontare per comprendere: già qui inizia il viaggio dell’interpretazione.
Nella celebrazione si ricorda il fatto, se ne dà una interpretazione, fino a riviverlo! Nella cultura
ebraica non è solo un ricordo o memoria, ma è memoriale [zikkaròn]. Ogni volta che celebriamo
ritualmente ci rendiamo realmente presenti all’evento originario di salvezza oltre l’hic et nunc. → Cfr.

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l’Eucarestia: celebrare l’eucarestia contiene il concetto dello zikkaròn, che in quel momento avviene;
in quel momento tutto il mistero è concentrato, oltre lo spazio e il tempo.
3. Ad un certo punto e per motivi diversi alcuni avvertirono la necessità di mettere per iscritto
ciò che si doveva raccontare e tramandare: le leggi che regolavano la vita della comunità; la storia;
i testi liturgici. L’AT è stato tramandato originariamente in ebraico e in alcune parti in aramaico; il
NT, invece, interamente in greco. Molte storie nella Bibbia sono raccontate più di una volta in libri
diversi e finanche nello stesso libro: ciò esprime la necessità di riscrivere la stessa storia secondo la
sensibilità di un nuovo contesto storico per riportarlo al presente. → Rilettura e riscrittura di uno
stesso evento storico alla luce del presente: la Bibbia è la continua riscrittura di se stessa.
4. Ad un certo punto della storia della salvezza appare Gesù. Egli è:
 Il compimento dei tempi. Cfr. Eb 1,1-2: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte
volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha
parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del
quale ha fatto anche il mondo”. Dio ora parla per mezzo del Figlio, attraverso il quale ha
fatto tutte le cose; il Figlio è la mediazione per tutto ciò che esiste (cfr. Prologo di Gv; Inno
dei Colossesi).
 Il compimento delle Scritture. Cfr. Is 61 citato in Lc 4,16-30: “oggi si compie questa
scrittura che avete udito con i vostri orecchi”. Autoconsapevolezza di Gesù che in lui
“oggi” [il sèmeron di Luca] si compiono le Scritture scritte fino ad allora (“l’anno di grazia
del Signore”).
5. Dopo la resurrezione e ascensione di Gesù, gli apostoli annunciarono la sua storia come la
Buona Notizia di salvezza per tutti i popoli: Egli è il Messia annunciato dalle Scritture (cfr. At).
6. Per esigenze pastorali (cfr. Paolo) e a motivo della scomparsa dei testimoni oculari dopo tre o
quattro decenni dalla morte di Gesù nasce l’esigenza di mettere per iscritto la memoria
dell’incontro di fede con Gesù per poter continuare a portare questa Buona Novella in altri
tempi e luoghi. Cfr. Lc 1,1-4: “Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti
che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari
fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su
ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo
che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto”.
È interessante osservare come la letteratura cristiana non nasce con i Vangeli e nemmeno con un
trattato dottrinale, ma con una lettera dal tono colloquiale e amichevole. Dal punto di vista cronologico
(non canonico) i primi scritti sono le Lettere paoline (la primissima è 1 Ts - anno 50 d.C.); seguono
Mc, Mt, Lc, At, Gv, 2 Pt (agli inizi del II secolo d.C.).
La Chiesa nascente intuisce che l’evento fondamentale da tramandare era la parte finale della vita di
Gesù, che dunque costituisce il nucleo originario di ogni vangelo. Lc 1,1-4: Luca ammette di non
essere egli stesso un testimone oculare della vicenda di Gesù (questa ammissione può valere anche per
gli altri evangelisti, con l’eccezione di Giovanni: cfr. Gv 21,24-25: “Questi è il discepolo che
testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora
molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non
basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere”).
Il NT nasce poco a poco come rilettura dell’AT alla luce della vita, morte e risurrezione di Gesù.

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7. Passando il tempo i credenti migrano e desiderano trasmettere la loro religione a altri popoli,
che parlano lingue diverse. Il messaggio del Vangelo fu accolto non solo da comunità di lingua
ebraica ed aramaica, ma anche da una comunità di lingua greca detta “degli ellenisti” (cfr. At). Da
questa comunità partiranno i missionari destinati agli ebrei della diaspora. La lingua greca svilupperà
fuori di Israele molto più che in Israele: questo è il motivo per cui il NT sarà redatto direttamente in
greco, sebbene risenta dell’influenza dell’ebraico e dell’aramaico (dunque non paragonabile
all’eleganza del greco classico).
→ terza tappa: la Bibbia fu tradotta in molte lingue, per poter essere letta e compresa da altri popoli.
Il termine “Bibbia” deriva dal greco ta biblìa [i libri]: è dunque non un libro ma una biblioteca
composta di 46 volumi dell’AT e di 27 del NT (di cui ben 13 hanno come autore Paolo), scritta su un
arco temporale di 1000 → diversità di autori e contesti storici e geografici. La Bibbia è la biblioteca
nazionale di Israele. Tutta la Chiesa nascente è costituita da ebrei e nessuno della Chiesa nascente ha
mai smesso di essere e di sentirsi ebreo. Il passaggio sta nella comprensione del compimento delle
Scritture in Gesù.

3. La seconda parte del viaggio (oggi): interpretazione e attualizzazione della Bibbia


Per compiere questa seconda parte del viaggio della Bibbia c’è bisogno di persone (cfr. i
‘trasportatori’) ben preparati, che conoscono bene il proprio lavoro:
 devono conoscere bene il punto di partenza
 devono conoscere bene il punto di arrivo
 deve conoscere bene i ‘mezzi di trasporto’ e le strade più semplici (i metodi per interpretare
i testi della Bibbia).
I. Il primo passo della seconda parte del viaggio comincia ogni giorno, quando nella liturgia, i nostri
gruppi (catechesi, incontri di formazione, di pastorale, etc.) o personalmente ascoltiamo la lettura di un
testo biblico (dal testo scritto alle orecchie). Per arrivare a una buona interpretazione e
comprensione della Bibbia è necessario partire da una buona lettura.
II. Dalla lettura alla comprensione di ciò che il testo dice (dalle orecchie alla mente).
Il Vaticano II, nella costituzione sulla Rivelazione e sulla S. Scrittura (Dei Verbum), dà alcune
indicazioni preziose, alcuni principi interpretativi ma non stabilisce una metodologia (che fa oggetto di
un altro documento) per una corretta interpretazione della Scrittura. La base di partenza è
l’atteggiamento di fede.
La Bibbia contiene la Parola di Dio in parole umane: tante questioni che affronteremo sono
contenute in questa espressione.
 La Bibbia non è la Parola di Dio, ma contiene la Parola di Dio. Il concetto di Parola di Dio
è molto più ampio di quanto è scritto. Noi non crediamo nella Scrittura, ma nel Verbo
Parola di Dio fatta carne. Non siamo la religione del libro. La fede si esprime e si concentra
su una persona vivente.
 Ma Dio si esprime prima di tutto e in modo speciale mediante la parola di Dio scritta.
Questo avviene specialmente nel momento liturgico con la proclamazione della Parola di
Dio. Ma che si esprima in parole umane dice tutta la limitatezza dell’espressione e della
comprensione umana.

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Molte pagine della Bibbia (circa l’80%) sono facili da comprendere a chiunque abbia una cultura
media: a noi non resta che accogliere e mettere in pratica la Parola. In questo senso la lettura è
sufficiente a “traghettare” dalle origini a oggi. Es. il comandamento dell’amore per il prossimo in Gv
13,34-35 (“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così
amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli
uni per gli altri”); l’elogio della carità in 1 Cor 13.
Tuttavia, molte altre pagine ci rimangono oscure nel loro significato oppure non posso essere
semplicemente prese nel loro significato letterale (→ rischio di fraintendimento e di attribuzione a Dio
in modo strumentale di un pensiero o di un’interpretazione umana: “fondamentalismo”). Specialmente
il libro dell’Apocalisse è tra i più difficili da comprendere per via del suo simbolismo.
Perché sono oscure? Dio nella Bibbia non parla direttamente ma lo fa attraverso autori diversi che
parlano e scrivono in testi e contesti diversissimi.
 Il punto di partenza per comprendere il testo è di comprendere qual è l’intenzione
dell’autore, perché i destinatari di un libro biblico non siamo noi nell’oggi: questa è la
domanda principale dell’ermeneutica biblica. Occorre dunque conoscere il mondo
dell’autore, la sua figura, il contesto socio-culturale, i problemi della comunità destinataria
di uno scritto.
 Motivi culturali
 Motivi storici (la Bibbia contiene la memoria di comunità vissute in epoche storiche
diverse dalla nostra)
 Motivi geografici
 Motivi letterari (stile e generi): poiché la Bibbia è una biblioteca, in essa si ritrova una
gran varietà di generi letterari [es. genere legislativo (Torah), poetico (Salmi), etc.] e stili
letterari (lettere, bilanci, pagine di diario, racconti, parabole, storie di creazione, preghiere,
inni, etc.). Per interpretare correttamente un testo occorre comprendere che tipo di testo ho
davanti.
 Motivi religiosi (es. in Am 4,4-5 occorre comprendere il genere dell’ironia: “Venite a Betel
e peccate, a Gàlgala e moltiplicate il peccato! Offrite per il mattino i vostri sacrifici e per il
terzo giorno le vostre decime, offrite sacrifici di ringraziamento con lievito, e proclamate i
sacrifici volontari, fateli udire, poiché così piace a voi, figli d' Israele. Oracolo del Signore
Dio”).
 Prendere alla lettera un testo biblico (→ pericolo di fondamentalismo derivante da una
interpretazione non solo letterale ma letteralistica - ottusa).
Es. Mt 5,28-30: “chiunque guarda una donna per desiderarla, già ha commesso adulterio
con essa nel suo cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di inciampo, càvalo e gettalo via
da te; infatti è meglio per te che un tuo membro perisca, anziché tutto il tuo corpo venga
gettato nella Geenna. E se la tua mano destra ti è motivo d' inciampo, troncala e gettala via
da te; infatti è meglio per te che un tuo membro perisca, anziché tutto il tuo corpo vada a
finire nella Geenna”. → Iperbole (esagerazione tipica anche del mondo orientale).
Es. Lc 14,26: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i
fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo”. Probabilmente è
un modo di esprimersi ebraico-semitico che non ha il concetto di “preferire” e lo sostituisce
con “odiare”.

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Criteri di interpretazione biblica (DV n.12):
Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana,
l’interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve
ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio
è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi
letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo
storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque
che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la
condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso,
intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò
che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli
abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi
dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso
Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri
testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la
Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia
della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda
intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi,
in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui
detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della
Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la
parola di Dio.
III. Degli ulteriori passaggi, che sono i più decisivi sul piano esistenziale (attualizzazione della
Parola per la vita), non ci occuperemo noi qui, ma sono lasciati alla coscienza personale ed
ecclesiale: da ciò che la Bibbia dice in sé occorre infatti passare a ciò che la Bibbia dice per me, per la
mia comunità qui, oggi (dalla mente al cuore). Strumento fondamentale è la Lectio divina. È il suonare
la sinfonia. Noi siamo chiamati a scrivere la nostra pagina.
IV. Il passaggio finale è sempre lasciato alla discrezione del singolo e delle comunità: dal messaggio
accolto alla vita pratica (dal cuore alle mani e ai piedi).

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2. La Dei Verbum
Cenni storici, impostazione metodologica, sfide attuali1

1. Cenni storici
1.1. Il titolo
1.2. La finalità
2. La struttura
2.1. Capitolo I: La rivelazione
2.2. Capitolo II: La trasmissione della divina rivelazione
2.3. Capitolo III: L’ispirazione divina e l’interpretazione della Sacra Scrittura
2.4. Capitolo IV: Il vecchio testamento
2.5. Capitolo V: Il nuovo testamento
2.6. Capitolo VI: La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa
2.7. Sguardo di sintesi
3. Impostazione metodologica della DV: i punti essenziali di novità
4. Il cammino che resta da fare: le sfide attuali

1. Cenni storici
L’approvazione della Costituzione Dogmatica su “La Divina Rivelazione” (Dei Verbum) avvenne
durante l’ultima sessione del Concilio, il 18 novembre 1965, dopo un lungo e a tratti travagliato
percorso che ha segnato tutto l’evento assembleare. La DV è il reale filo conduttore di tutto il
Concilio, perché sebbene fu approvata tra gli ultimi documenti, la sua elaborazione fu concepita tra i
primi. Occorreva infatti mettere insieme elementi della tradizione ed elementi di nuova formazione in
materia. Dunque, l’elaborazione della DV ha finito per fecondare tutti gli altri documenti, per via
dell’importanza che i Padri conciliari attribuivano al tema della rivelazione.
Secondo l’opinione degli esperti la DV è probabilmente il testo meglio riuscito del Vaticano II non
solo per la densità dei contenuti e dei concetti ma anche per la precisione della formulazione e per la
semplicità e brevità della formulazione. Certamente è il documento conciliare più importante anche a
livello di magistero.
Inoltre, la DV si astiene dall’entrare troppo nei particolari. Paradossalmente, essa è importante proprio
per ciò che non dice, che lascia aperto o che non definisce. Si ferma ai principi, ai fondamenti. Si tratta
di una scelta feconda e importante.
1.1. Il titolo
Dei Verbum: la divina Rivelazione è una parola dall’alto, un Verbo che Dio rivolge agli uomini.
1.2. La finalità
Il tono solenne del Proemio (n.1) fa di fatto da introduzione a tutti i testi conciliari. In forma breve e in
modo chiaro e profondissimo, ne esprime la finalità:
“In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa
sue queste parole di san Giovanni: « Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si
manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in

1
Cfr. G. Pulcinelli, Lateranum 74 (2008), pp. 237-244.

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comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo » (1 Gv 1,2-
3). Perciò seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina
dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l'annunzio della salvezza
il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.”

Questa è la finalità di tutto il Concilio. Questa finalità è pienamente raggiunta sia nei temi affrontati in
ogni capitolo della DV sia nello stile di esposizione e di argomentazione: si sceglie di non mettere in
luce gli errori, le deviazioni o le eresie riguardanti la dottrina [tutti i Concili precedenti si
concludevano con gli anatema sit], bensì di ‘proporre’ (perché il Vangelo non si può mai imporre), di
mostrare la ricchezza e la potenzialità della Parola di Dio con apertura verso tutto ciò che è sano e
corretto ai fini dell’interpretazione della Scrittura alla luce della Tradizione.

2. La struttura
Il documento si articola in 6 capitoli.
2.1. Capitolo I: La rivelazione
Si comincia con il ricordare l’origine divina della Parola di Dio e l’iniziativa divina nel voler entrare
in comunicazione con gli uomini per instaurare con loro un rapporto di comunione. È Dio che prende
l’iniziativa e lo fa usando il modo di esprimersi proprio degli uomini e in amicizia. È Dio che parla
agli uomini come amici e li ammette alla comunione con sé. Alla auto-comunicazione di Dio l’uomo
risponde con la fede, ma solo in seconda battura: quella dell’uomo è solo una risposta. L’incipit [n.2,
“La rivelazione”] è un condensato di temi biblici: è una compiacenza di Dio e una sua iniziativa di
manifestare il mistero della sua volontà. Gli uomini hanno accesso al Padre (!) e si divinizzano.
“2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua
volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno
accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4).
Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla
agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per
invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi
e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole
proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa
Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è
insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione (2).”

2.2. Capitolo II: La trasmissione della divina rivelazione


La trasmissione della divina Rivelazione è avvenuta di generazione in generazione a partire dagli
apostoli e poi con i loro successori, nella sacra Tradizione e nella forma scritta dell’uno e dell’altro
Testamento; queste due (Tradizione e S. Scrittura) sono congiunte e scaturiscono dalla stessa divina
sorgente, sono parimenti accettate e venerate e costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio
affidato alla Chiesa, che con il suo magistero vivo la interpreta autenticamente. Dunque, la Parola di
Dio non è solo Sacra Scrittura ma anche Tradizione (prassi, liturgia, etc.). Inoltre, non si parla più di
due sorgenti (la Tradizione e la Scrittura) ma di un’unica sorgente: la Parola di Dio. La prima
stesura del documento parlava, invece, al plurale (“de fontibus revelationis”). Inoltre, si afferma che il
magistero non sta sopra la Parola di Dio ma al suo servizio.
2.3. Capitolo III: L’ispirazione divina e l’interpretazione della Sacra Scrittura

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L’ispirazione (e specificatamente l’interpretazione) delle S. Scritture consiste nel fatto che hanno Dio
come autore con la mediazione di veri autori umani che scrissero sotto l’azione dello Spirito Santo.
Dio è indubbiamente l’autore del testo sacro, ma anche l’uomo è agente attivo e non mero trascrittore,
anzi è “vero” autore del testo sacro: su questa accezione dell’uomo come vero autore del testo sacro si
gioca molta parte dell’interpretazione.
Qui si inserisce la necessità della retta interpretazione della Bibbia, che è Parola di Dio in
linguaggio umano che in sé è limitato e imperfetto. Al n.12 si forniscono i principi fondamentali
dell’ermeneutica biblica:
“12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana (22),
l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare
con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare
con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La
verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o
poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il
senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua
cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso
(23). Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere,
si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di
raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei
rapporti umani (24).
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il
quale è stata scritta (25), per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non
minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva
tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire,
seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra
Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della
Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima
istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e
interpretare la parola di Dio (26).”

Alla base di questi principi fondamentali c’è l’analogia tra la limitatezza delle parole umane
nell’esprimere la Parola di Dio e la stessa incarnazione del Verbo: come il Verbo increato presso
Dio (cfr. il Prologo di Gv) si è fatto carne assumendo una natura caduca e soggetta alla morte, così il
Verbo eterno si è fatto parole. La rivelazione di Dio si adatta e si restringe alla povertà del linguaggio
umano (es. tutto l’AT è scritto con l’uso di 5.200 vocaboli ebraici).
I principi fondamentali del n. 12 troveranno esplicazione attualizzante e nuova sintesi in PONTIFICIA
COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, 1993, che definisce i metodi
di interpretazione della Sacra Scrittura. Metodo indispensabile è quello storico-critico.
2.4. Capitolo IV: Il vecchio testamento
Il documento passa poi in rassegna il valore perenne e indispensabile dell’Antico Testamento per i
cristiani e il suo rapporto con il Nuovo, che è il suo compimento e manifesta in modo eminente la
Parola di Dio.
2.5. Capitolo V: Il nuovo testamento
La vita e il messaggio di Gesù sono contenuti specialmente nei quattro vangeli – di cui si sottolinea la
storicità – mentre gli altri scritti del NT testimoniano il cammino della Parola nelle comunità
apostoliche e offrono ulteriore spiegazione dell’autentica dottrina cristiana.

13
2.6. Capitolo VI: La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa
Il Capitolo VI è stato definito la magna charta della pastorale biblica (e si potrebbe dire la base
fondamentale della pastorale tout court). La parte finale del Capitolo, infatti, trae una serie di
implicazioni pratiche molto feconde inerenti la Sacra Scrittura e accenna alla Tradizione. Lo scopo
eminentemente pastorale del Concilio emerge in questa sede come mai altrove.
2.7. Sguardo di sintesi
Così come strutturata la DV presenta una nuova comprensione della Rivelazione rispetto a concezioni
non più adeguate. Tuttavia, essa è stata preparata da eventi previ:
1. L’Enciclica Providentissimus Deus (1893) di Leone XIII, che intendeva “spronare e
raccomandare questo studio altissimo delle sacre Lettere” (Enchiridium Biblicum 82); e
2. L’Enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) di Pio XII, che soprattutto attraverso
l’accoglienza dei generi letterari (EB 560), apriva per la prima volta molti campi di studio e
di comprensione del testo biblico che finora restavano chiusi all’esegesi cattolica (ciò
riguardava specialmente l’AT). La possibilità di studiare in modo storico l’AT, prima di
quella data motivo di condanna da parte del Santo Uffizio, è recepita al n.12 della DV sui
generi letterari della Sacra Scrittura.
3. Il movimento di riforma nella teologia che sorge agli inizi del Novecento, specie in
Francia. → Il Concilio recepisce le cose migliori di questa teologia, che invocava il ritorno
alle fonti.

3. Impostazione metodologica della DV: i punti essenziali di novità


I. Grazie alla DV per la prima volta è stato affrontato e sostanzialmente risolto il problema del
rapporto tra la S. Scrittura e la Tradizione (nn.8-9): la tensione era emersa a partire dalla Riforma
luterana che aveva escluso la Tradizione a favore della sola Scriptura. Questa tensione era emersa fin
dal titolo dello schema preparatorio (De fontibus Revelationis) come se fossero due fonti parallele e
non comunicanti; poi lo schema fu rifatto da capo e il titolo è quello attuale: la fonte è una e unica – il
Verbum Dei, la Parola di Dio, l’unica divina sorgente.
N.10 [Relazioni della Tradizione e della Scrittura con tutta la chiesa e con il magistero]:
“La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio
affidato alla Chiesa; nell'adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera
assiduamente nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane
e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede
trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una singolare unità di spirito (14).
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa (15), è affidato al
solo magistero vivo della Chiesa (16), la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale
magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve [non supra verbum Dei est sed
ab eo ministrat], insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e
con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone
quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come
rivelato da Dio.
È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per
sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di
queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un
solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.”

14
N.21 [Importanza della Sacra Scrittura per la Chiesa]:
“La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore”.

Nessun testo aveva mai affermato la sacralità del testo delle Scritture fino a renderne un vero e proprio
culto, affinché nessuna parola vada dispersa (cfr. Dn: “non lasciava cadere invano nessuna parola che
il Signore gli rivolgeva”), proprio come per le specie eucaristiche.
II. Aldilà dei singoli punti, la grande novità destinata ad avere una grande influenza sulla Chiesa post-
conciliare è il Capitolo VI [La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa], che può essere sintetizzato in
questa frase programmatica al n.22:
“È necessario che i fedeli cristiani abbiano largo accesso alla sacra Scrittura”.

Punto di grande svolta. Se oggi questa frase non ci fa nessun effetto è perché è uno dei punti del
Concilio che ha avuto maggiore ricezione e attuazione, ma fino al Concilio non era così. Dopo il
Concilio di Trento non solo non era favorito ma in alcuni casi era finanche vietato anche il solo
possesso e a maggior ragione l’interpretazione individuale della Scrittura. Quello che esisteva era una
Storia sacra, costituita da un’antologia di brani della Bibbia ritenuti dall’autorità ecclesiastica idonei
alla divulgazione.
A questo scopo tra l’altro per la prima volta veniva raccomandato di realizzare delle traduzioni
accurate preferibilmente dai testi originali (ebraico, aramaico, greco), possibilmente in
collaborazione con i fratelli di altre confessioni cristiane (n.22) – espressione dello spirito
ecumenico del Concilio. Un prodotto di questo invito è la traduzione interconfessionale (cristiana) in
lingua corrente.
III. La DV ha senza dubbio generato moltissimi frutti nella Chiesa, i più importanti sono stati:
 Il riconoscimento della S. Scrittura come anima della teologia: “lo studio della sacra
Pagina sia come l’anima della sacra teologia” (DV 24); in realtà, già nella Providentissimus
Deus di Leone XIII (EB 114) se ne parlava, ma nei termini di “uso”, richiamando la prassi
dell’utilizzo della Bibbia come dicta probanda (= uso strumentale della Scrittura a
sostegno di una data dottrina teologica in voga in molta parte della manualistica teologica
del tempo);
 Più ampiamente, il riconoscimento della centralità della Bibbia in tutta la vita della
Chiesa (nella liturgia, nella catechesi, nella preghiera, nella cultura cristiana, etc.).
Ne seguono:
 Lo stimolo per la teologia ad un rinnovamento degli studi biblici a livello accademico;
 L’accreditamento degli studi biblici non più solo per chierici ma anche per laici e
l’ampliamento dei curricula accademici. In Italia e altrove ci sono state molte iniziative
editoriali per diffondere la conoscenza della Bibbia: es. commentari.
 La diffusione del sapere biblico;
 La diffusione della pratica della Lectio divina: lettura orante della Sacra Scrittura di
origine e derivazione monastica ove la prima fase è l’interpretazione e l’esegesi del testo
(cosa dice il testo in sé), mentre solo in seconda battuta la domanda sarà “cosa dice questo
testo a me e come applicarlo nella pratica”;
 Riformulazione dei catechismi maggiormente fondata sulla Bibbia;

15
 Una predicazione più attinente alla fonte biblica: la SC (che si accoppia alla DV)
richiederò il rifacimento dei lezionari sulla base di un principio di maggiore varietà nella
scelta dei brani della Sacra Scrittura da proclamare nella liturgia;
 La presenza in casa della Bibbia in una delle varie traduzioni (il risultato tangibile della
DV);
 L’effetto positivo sul piano ecumenico: la collaborazione tra le differenti confessioni
cristiane nella traduzione dei testi sacri.

4. Il cammino che resta da fare: le sfide attuali


Cosa della DV è ancora un po’ indietro? Se si è instaurata una mentalità per cui risulta ovvio porre la
Parola di Dio al centro della spiritualità e dell’ispirazione dell’agire cristiano, ci sono alcune eccezioni
(sebbene minoritarie) in cui una sana prassi biblica fa fatica a affermarsi salvaguardando ancora spazi
per:
 Diffuso analfabetismo biblico (la Bibbia è presente in tutte le case ma non è letta);
 Se riguardo all’interpretazione della Scrittura ci può essere un rischio intellettualistico e
razionalistico, rimane tuttavia diffuso sia tra i fedeli laici sia tra il clero un senso di
diffidenza nei confronti dello studio rigoroso e scientifico della Bibbia. Questo
pregiudizio, specie nei confronti del metodo esegetico storico-critico, non consente né
l’approfondimento né la conoscenza del testo biblico, perché lo ritiene dannoso per la fede
e si accontenta di un “consumismo biblico a basso prezzo”, di letture moralistiche o
devozionistiche se non addirittura fondamentaliste e letteraliste, dove a prevalere non è
un rispetto vero e una devozione al testo biblico ma una pigrizia rispetto a quel lavoro di
confronto paziente e faticoso con il testo che alimenta il pensiero e la prassi cristiana.
L’esegesi storico-critica è un metodo e strumento indispensabile e rispecchia proprio
l’analogia dell’incarnazione.
 Altro punto dolens nell’applicazione della DV resta la lettura e studio dell’AT, pur
avendo la DV sottolineato il valore dell’AT per la vita del cristiano (si pensi, in particolare,
ai Salmi con cui lo stesso Gesù pregava). A questo proposito si segnala PONTIFICIA
COMMISSIONE BIBLICA, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana,
2001: presentazione di una nuova sintesi di come i cristiani possano superare
l’autosufficienza del NT e attingere con profitto non solo all’AT, ma anche all’apporto
dell’esegesi giudaica dell’AT [che per gli ebrei è la Tanak ovvero l’insieme delle Scritture:
Torah, Nebim e Ketubim]. La maggiore novità e riilevanza di questo documento sta nel
mettere in guardia da quei testi del NT che possono essere letti in chiave antigiudaica se
non finanche antisemita: es. Prologo di Gv (“[…] e le tenebre non l’hanno accolta”], 1 Ts
2, il Quarto Vangelo (la comprensione negativa del termine “giudeo”). La prospettiva
corretta per affrontare questi testi si rifà alla definizione della Bibbia come “biblioteca
nazionale di Israele”: coloro che scrivono passi che apparentemente sono antigiudaici non
lo fanno ponendosi fuori dal popolo ebraico, ma rimangono scritture degli ebrei; in quanto
appartenenti alla matrice ebraica alcuni autori denunciano l’errore di altri fratelli (cfr.
profeti). La critica rimane tutta intra-giudaica. D’altronde, nonostante la caratterizzazione
negativa in tutto il Quarto Vangelo del temine “giudeo”, alla fine del capitolo 4 lo stesso
afferma: “la salvezza viene dai giudei”.

16
 L’atteggiamento dei cristiani verso l’AT. Si assiste si fatto ad un diffuso marcionismo
sommerso. Marcione, cristiano del II secolo, rigetta tutto l’AT e fa una selezione finanche
nel NT (accettando solo Lc e 10 lettere paoline). Ancora oggi nella catechesi si evitano
molti brani dell’AT: gioca un certo ruolo il cliché di una immagine del Dio violento
(posizione marcionita). Questi passi si possono spiegare grazie ad un corretto concetto di
“ispirazione”. Certamente occorre fare uno sforzo per spiegare con sempre maggiore
chiarezza i passi più difficili e controversi della sacra Scrittura: onere che ricade su biblisti
e catecheti.
 Ma questa mancanza di conoscenza riguarda anche il NT: specie le lettere di Paolo e
l’Apocalisse rimangono libri chiusi all’interpretazione nella liturgia e della catechesi. Di
fronte alla diffusione straordinaria e smisurata di libri su Gesù, non pochi di queste
pubblicazioni sono problematiche. Si fa sempre più urgente la necessità di conoscere e
diffondere il giusto approccio al dato biblico proprio per mostrare la sostanziale fondatezza
storica dei vangeli – come il Concilio invita a fare – che sono praticamente l’unica fonte
che ci permette di accedere alla vita di Gesù. Anche negli studi teologici, spesso si nota
ancora un troppo debole ancoraggio delle tesi teologiche al dato biblico.
Nella catechesi lo sforzo deve essere continuo perché si realizzi l’auspicio della DV di un “largo
accesso dei fedeli alla Sacra Scrittura”, la Bibbia nella scuola.
L’esortazione post-sinodale VERBUM DOMINI di Benedetto XVI (2010, a seguito del Sinodo sulla
Parola del 2008) approfondisce il solo Capitolo VI della DV [La Sacra Scrittura nella vita della
Chiesa] e costituisce il punto di rifermento più attuale e completo sulla pastorale della Chiesa.

3. L’Ispirazione dei testi biblici

1. L’ispirazione
2. L’origine divina della Bibbia
3. La natura dell’Ispirazione
4. Il magistero: dalla «Provvidentissimus Deus» alla «Divino Afflante Spiritu»
5. L’Ispirazione di Dio
6. L’ispirazione nell’autore umano
7. L’estensione dell’Ispirazione dagli autori alle traduzioni
8. Contenuti dell’Ispirazione
9. Le parole
10. Le traduzioni
11. L’effetto dell’Ispirazione

1. L’ispirazione
Per gli ebrei e per i cristiani i libri della Bibbia non sono nati soltanto dall’iniziativa degli autori umani
(che sono degli «strumenti») ma anche da un’implicita intenzione e volontà di Dio. Lungi dall’essere
un resoconto dell’azione di Dio, la Scrittura è realmente «Parola di Dio» espressa in parole
umane. Su questa frase si gioca il dibattito teologico degli ultimi 500 anni circa la definizione di
questo rapporto. Dio è autore della Scrittura, come ne è autore – anzi, vero autore – l’uomo: tutto

17
l’insegnamento dei Padri della Chiesa si può riassumere in queste parole. La DV n.11 [“Ispirazione e
verità della Scrittura”] afferma che la Sacra Scrittura è Parola di Dio in quanto è scritta per
ispirazione dello Spirito Santo:
“Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra
Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo La santa madre Chiesa, per
fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo
Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr.
Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa
(17) per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle
loro facoltà e capacità (18), affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo (19),
scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte
(20).
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura
insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra
salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture (21). Pertanto «ogni Scrittura
divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per
educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera
buona».”
L’ispirazione divina della Scrittura fa riferimento ad uno speciale influsso esercitato da Dio nei
confronti degli scrittori sacri, definiti «agiografi» [aghios = santo/sacro; grafo = scrivo]. È un influsso
di tale entità e potenza che si può definire Dio l’autore sacro della Scrittura. Nello schema di
FRANCESCO LAMBIASI:
mente ← ILLUMINAZIONE

AGIOGRAFO volontà ← MOZIONE SPIRITO SANTO


sensi ← ASSISTENZA

Il Concilio Vaticano I (1870) ha definito in modo solenne il principio di questa ispirazione:


“La Chiesa li ritiene sacri e canonici perché, scritti per ispirazione dello Spirito Santo,
sono stati ispirati da Dio”.
L'ispirazione divina è un mistero, realtà soprannaturale di cui la mente umana non potrà mai coglierne
la reale e piena portata. L’origine dell’ispirazione è theopneustos [theos = Dio; pneu = soffio]: cfr. 2
Tm 3,16: “tutta la Bibbia è ispirata da Dio”. Passa nel latino con il termine inspiratio e poi alle altre
lingue. Al contrario del greco, nell’ebraico non troviamo un termine specifico ma troviamo ruah per
esprimere il soffio di Adonai: già in Gen 1 si legge che “lo spirito aleggiava sulle acque”. È
significativo sottolineare come in ebraico il termine è femminile (la ruah), in greco è neutro (to
pneuma), in latino è maschile (spiritus): progressiva mascolinizzazione della ruah.

2. L’origine divina della Bibbia


L’AT non contiene né un termine specifico né una dottrina esplicita dell’ispirazione della
Scrittura: si tratta di una dottrina implicita. L’AT fa chiari riferimenti a Dio che agisce
sull’intelligenza dei profeti o che dà loro comandi per riferire la sua parola al popolo: cfr. Ger 36,1-4:

18
«Prendi un rotolo da scrivere e scrivici tutte le cose che ti ho detto»
Tuttavia, non abbiamo riferimenti chiari al modo in cui l’ispirazione divina avviene. La dottrina
dell’ispirazione delle Scritture non è affermata esplicitamente ma neanche è negata.
Questa dottrina diviene esplicita nel NT: il riferimento ebraico ai libri dell’AT sottintende che
questo è vero in quanto «Parola di Dio» ispirata. Il NT afferma indirettamente che l’AT è ispirato:
 Gesù afferma: «sta scritto....» (cfr. Mt 4,4-7b);
 In c. 150 passi si trova la dicitura «dice la Scrittura»: Gesù e gli apostoli citano passi
dell’AT senza distinzione di valore tra i diversi libri, dunque dando loro autorità divina
(cfr. Mt 4,4-10; Gv 5,39; Gv 10,35; Gv 19,28). Il libro dell’AT più citato nel NT è Is;
seguono Sal, i profeti, Es e Dt; ma quasi tutti i libri dell’AT sono citati nel NT.
 In alcuni casi si ha un’identificazione tra l’autorità di Dio e quella della Scrittura, per cui si
afferma implicitamente l’autorità della Scrittura. Cfr. Rm 9,17: «Dice, infatti, la Scrittura al
faraone ...», dove Es 9,13ss. riportava: «Dice Dio al faraone ...» (probabilmente è una
ellisse per dire “come trovate nella Scrittura, Dio dice al faraone …”); Gal 3,8: «Le
Scritture, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani …» che ricorda Gen 12,3: «In
te saranno benedette tutte le genti …» dice Dio ad Abramo (anche qui una ellisse: è Dio
che prevede, mentre le Scritture attestano ciò che Dio prevede).
Accanto a modi impliciti di attribuire alle Scritture l’ispirazione divina, due testi del NT affermano
esplicitamente l'esistenza dell’ispirazione dell’AT:
-
2 Tm 3,16: «Tutta la Scrittura, infatti, è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere,
correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per
ogni opera buona» (non solo si dice che la Scrittura è ispirata ma si esplicita anche la
finalità dell’ispirazione che la DV riassume nella parola “salvezza”: la Bibbia serve alla
salvezza).
- 2 Pt 1,20-21: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata
spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito
Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio».
In questi due testi si afferma esplicitamente che la Scrittura intende null’altro che l’AT (le Scritture
ebraiche). Il termine tecnico greco graphè compare 51 volte nella Bibbia e può indicare o una parte o
tutta la Bibbia nel NT. 2 Tim 3,16 è l’unico passo in tutta la Bibbia dove troviamo questo termine
“ispirazione” che è applicato a tutte le Sacre Scritture.
L’insistenza sul tutto è importante: Dio non ha voluto scrivere una parte soltanto o la parte più elevata
della Bibbia, lasciando l’altra o la meno importante all’uomo. Come afferma la DV, non ci sono nella
Scrittura brani solo di Dio e brani solo dell’uomo, ma tutto è di Dio e tutto è dell’uomo: le due
parti non si possono scindere.

3. La natura dell’ispirazione
La natura dell’ispirazione non è stata mai oggetto di definizione dogmatica in un Concilio. La DV è
uno dei documenti più riusciti, apprezzati e importanti del Concilio anche perché non si addentra nella
definizione dogmatica dell’influsso di Dio sull’uomo.

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L’indagine sul come Dio abbia ispirato la Bibbia ha avuto inizio nel Cinquecento con il Rinascimento
e soprattutto con la RIFORMA PROTESTANTE: Lutero e gli altri riformatori insistevano sulla sola
Scriptura come unico luogo teologico della rivelazione.
Interpretazioni successive hanno insistito sull’«ispirazione verbale della Bibbia» o «attraverso
dettatura». Ciò vorrebbe dire che Dio detta e l’uomo è mero trascrittore: il contributo umano sarebbe
del tutto inattivo, passivo. Questa interpretazione non compare più già nella Divino Afflante Spiritu di
PIO XII e quindi nei Concili Vaticano I e Vaticano II. In questo la Bibbia differisce grandemente dal
Corano, che invece è stato scritto sotto dettatura dell’arcangelo Gabriele e perciò può solo essere letto
nell’arabo antico. Questo ha un importante risvolto ermeneutico, perché che sia stato dettato da Dio
limita in modo preponderante le possibilità di interpretazione. Questo è il problema del
fondamentalismo (parola che nasce in ambito cristiano a indicare in alcune chiese protestanti nel Nord
America i fondamenti della fede).
Una teoria che ha segnato un pezzo di storia di questa indagine è quella dell’ispirazione come
«approvazione e assistenza negativa». Alcuni TEOLOGI SCOLASTICI sostengono un’interpretazione
limitata ai contenuti della lettura, non estesa ai modi verbali dei medesimi. Lo Spirito Santo avrebbe
agito solo in senso negativo, impedendo che gli scrittori umani cadessero in errore.
Il CONCILIO VATICANO I, invece, sottolinea il ruolo positivo dello Spirito Santo nella composizione
dei libri sacri (cfr. la Costituzione dogmatica sulla fede cattolica, capitolo II).
Nello stesso 1870 il CARD. FRANZELIN, che partecipa al Concilio, scrive il suo Trattato della
ispirazione e tradizione divina, che avrà un forte influsso nel post-concilio. Egli parla di ispirazione
formale (e non materiale). Nella composizione di un testo si giocano due elementi: (i) l’elemento
formale (le idee, i concetti, le cose pensate); (ii) l’elemento materiale (le parole, le espressioni che
servono ad esprimere l’idea). Dio è solo l’autore letterario delle Sacre Scritture, cioè la sua ispirazione
riguarderebbe solo la parte formale; l’agiografo riceve da Dio solo l’elemento formale, mentre
l’espressione verbale (l’elemento materiale) è lasciato alle sue capacità.
Questa tesi inizialmente ebbe grande consenso. Ma una riflessione più approfondita la comprende
come deficitaria fino ad abbandonarla. È, ad esempio, l’obiezione di LAGRANGE odp (†1930), secondo
cui questa divisione è artificiale e solo teorica, mentre non esiste una divisione reale tra linguaggio e
pensiero: di fatto l’idea nasce già con un linguaggio che la esprime.
La posizione più equilibrata e completa è quella di LOUIS ALONSO SCHÖKEL sj (La parola ispirata,
1967): come Lagrange supera la posizione di Franzelin in quanto la divisione che questi propone è da
laboratorio. In più, egli concepisce l’ispirazione come un carisma che riguarda primariamente e
direttamente l’opera letteraria. La creazione di un’opera letteraria si può sintetizzare in tre momenti:
(1) l’esperienza dello scrittore: essendo comune a tutti, essa non cade ancora, necessariamente, sotto
l’ispirazione biblica; (2) l’intuizione: tutti gli uomini vivono delle esperienze, ma solo alcuni hanno il
dono dell’intuizione poetica (es. nella Bibbia solo il profesta Osea ha l’intuizione di comprendere nella
vicenda dolorosa del tradimento della moglie l’amore di Dio rinnegato nell’esperienza di infedeltà del
popolo di Israele); negli agiografi l’intuizione è già sotto l’influsso dello Spirito Santo; (3)
l’espressione: il livello del vero scrittore o poeta, quando i sentimenti o le esperienze si fanno
espressione in alcune forme significative; il processo di formulazione letteraria è un momento creativo
e avviene interamente sotto l’azione dello Spirito Santo. Completo superamento della distinzione
dualistica di idea e linguaggio.

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4. Il magistero: dalla «Provvidentissimus Deus» alla «Divino Afflante Spiritu»
La Provvidentissimus Deus (1893) di LEONE XIII è la prima enciclica che tematizza la questione
dell’ispirazione. Da una parte riprende lo schema di Franzelin: «Lo Spirito Santo illumina l’intelletto,
muove la volontà, assiste le facoltà esecutive dell’agiografo affinché non sbagli». Dall’altra è il
tentativo di definire sommariamente la natura della divina ispirazione.
Da citare en passant è la Spiritus Paraclitus (1920) di BENEDETTO XV, che supera il concetto di
ispirazione negativa. Si limita ad asserire che la storia biblica non è scritta secondo le apparenze e che
gli autori sacri non erano limitati a presentare le cose secondo le sensibilità del tempo.
L’enciclica che segna una volta, specie in ambito cattolico, è la Divino Afflante Spiritu (1943) di PIO
XII: prima di questo momento l’AT era libro chiuso che non poteva essere interpretato correttamente
perché l’uso dei generi letterari non era consentito (lo stesso Lagrange non poté pubblicare i suoi studi
di esegesi sull’AT perché pendeva sugli studi sui generi letterari la spada di Damocle del
Sant’Uffizio); solo con questa enciclica si apre la strada alla libera interpretazione dell’AT. Il primo
frutto sarà la Bibbia di Gerusalemme.2 L’enciclica sottolinea che le caratteristiche personali dell’autore
umano non vengono eliminate né ridotte dall’influsso dello Spirito Santo.
La DV (n. 11) usa l’espressione di “autore” applicata a Dio ma anche all’uomo. È un chiaro
riferimento e collegamento al Concilio Vaticano I che distingue tra Dio autore e azione (Dio è autore
perché ha ispirato la Sacra Scrittura), ma che conserva ancora l’idea di strumentalità applicata agli
agiografi. La DV scardina questa subordinazione. È indubbio che Dio è “autore”, ma anche l’uomo è
autore: anzi, se fino a TOMMASO si usa il termine e concetto di “strumento”, il magistero della Chiesa
sottolinea sempre più le caratteristiche di creatività e capacità che fanno dell’uomo un “vero autore”.

5. L’ispirazione di Dio
Il modo in cui Dio opera è qualcosa di misterioso. È un’azione intra-trinitaria, anche se è attribuita al
solo Spirito (cfr. 1 Pt 1,21) ma con operationes ad extra. L’ispirazione divina non è altro che Dio
stesso, che opera per produrre un determinato effetto, la Sacra Scrittura.
Si tratta comunque di un problema molto discusso, soprattutto perché la DV (n. 11) ha lasciato aperto
il campo di investigazione: il Concilio Vaticano II ha infatti preferito lasciare il campo della
riflessione teologica aperto senza spingersi oltre nella descrizione. È soprattutto a motivo degli
interventi dei pontefici – già Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, che toccando il tema hanno
invitato continuamente all’approfondimento – che negli ultimi 15 anni c’è stato grande fervore sul
tema:
 Simposio al Regina Apostolorum del 2002;
 G. ANGELINI (a cura di), La Rivelazione Attestata. La Bibbia fra Testo e teologia. Raccolta
di studi in onore del Card. C.M. Martini per il suo LXX compleanno, Glossa, Milano 1998;
 E. MANICARDI & A. PITTA, Spirito di Dio e Sacre Scritture nell’autotestimonianza della
Bibbia. XXXV Settimana Biblica Nazionale, in: Ricerche storico bibliche, 1-2 (2000);

2
Redatta dall’Ecole biblique et archéologique française de Jérusalem dei domenicani, la Bible de Jerusalem è
corroborata da un corposo apparato di note di traduzione e interpretazione e da un consistente sistema di
introduzioni ai singoli libri della Scrittura. La redazione italiana è un ibrido: la traduzione del testo biblico è
quella ufficiale della CEI, mentre le introduzioni e l’apparato delle note sono adattate dalla Bibbia di
Gerusalemme la cui edizione tipica è solo in francese.

21
 La Scrittura secondo le Scritture, numero monografico della rivista Parola Spirito e Vita n.
43;
 P. DUBOVSKY & J.P. SONNET, Ogni Scrittura è ispirata. Nuove prospettive sull’ispirazione
biblica, A. Paolo – GBP, Roma 2013;
 M.C. APARICIO VALLS, Ispirazione, Cittadella Editrice, Assisi 2014;
 PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Ispirazione e verità della S. Scrittura. La parola che
viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo, LEV, Città del Vaticano 2014.

6. L’ispirazione nell’autore umano


La questione si amplifica considerevolmente quando si parla dell’autore umano. Il problema consiste
nel cercare di considerare l’effetto che l’attività ispiratrice di Dio produce sulle facoltà dei
compositori della Scrittura. In passato – prima dello sviluppo della critica biblica – ogni libro della
Scrittura era visto come il prodotto finale che un singolo autore aveva composto sotto l’influenza
dell'azione divina. Per via dell’esito della ricerca biblica, oggi sappiamo che non è il singolo autore
che produce istantaneamente un libro, ma che questo è l’esito di un lungo processo di gestazione a
partire da secoli di tradizione orale (cfr. Pentateuco) e poi di riscrittura e quindi di redazione.
Anzi, in molti casi si assiste a più persone che hanno contribuito alla formazione di un determinato
libro: si può finanche distinguere una moltitudine di compositori e di redattori con la difficoltà di
distinguere l’uno dall’altro.
Dio dirige l’agiografo anche per far scegliere a questi le parole adatte; tuttavia, non possiamo
dire in che modo dirige l’agiografo: l’influsso di Dio non è solo di tipo interiore. Anche la
psicologia stessa dello scrittore umano sotto l’influenza dello Spirito Santo ci sfugge. È però chiaro lo
scrittore umano è creativamente attivo e tuttavia solo sotto l’influsso dell’ispirazione.
L'autore era consapevole di essere ispirato da Dio mentre scriveva?
Generalmente non è necessario che gli autori della Bibbia siano stati coscienti dell’ispirazione divina,
anche se in alcuni casi c’è questa consapevolezza: es. Ger, Ap. Tuttavia, in tanti altri casi no: es.
Lettere di Paolo (sebbene Paolo esprima una forte autoconsapevolezza dell’autorità apostolica che gli
è stata conferita da Gesù stesso – Paolo inizia le sue lettere dicendosi “apostolo di Gesù Cristo”). Cfr.
DV 11:
“[…] per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso
delle loro facoltà e capacità (18), affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo (19),
scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero
scritte (20).”
Che Dio sia autore della Scrittura è indubitabile. Per l’uomo non si usa più il termine “strumento” ma
“autore”; anzi, si aggiunge l’aggettivo “vero”: questa era una precisazione necessaria perché una parte
del magistero precedente affermava il contrario. → Influenza notevolissima sull’ermeneutica biblica:
la prima domanda dell’esegeta è relativa all’intenzione dell’autore intendendo sia Dio sia l’uomo (es.
nelle sue Lettere Paolo intende insegnare a o correggere una comunità: se c’è un motivo contingente
dietro alla redazione delle lettere paoline, è comunque l’autore divino che attraverso l’autore umano
intende insegnare a o correggere il suo popolo). Una cosa è l’ispirazione, altra è il canone.
L’agiografo è completamente attivo, per nulla passivo. È nello Spirito che lo scrittore sacro, con le sue
facoltà, concepisce, progetta e compone il documento.

22
L’ispirazione è legata solo alla fede e alla morale o anche ad altre considerazioni? È un interrogativo
che per ora rimane in sospeso.

7. L’estensione dell’ispirazione: dagli Autori alle traduzioni


Dietro molti libri biblici c’è una lunga storia tradizioni orali e scritte. In che modo l’ispirazione agisce
su tanti agenti? Ovvero, in che modi questi collaboratori sono caduti sotto l’influsso dell’ispirazione?
Quali dei vari collaboratori sono caduti sotto l’influsso dell’Ispirazione divina? Tutti coloro che
hanno dato un contributo positivo all’opera sono stati sotto l’influsso dello Spirito Santo. Ci sono
due tipi di contributo alla progettazione e alla stesura di un’opera, inclusi i libri biblici:
 Contributo puramente materiale: non è stato sotto l’influsso dell’Ispirazione;
 Contributo (creativo) al disegno dell’opera: è stato invece sotto l’impulso dell’Ispirazione.
Una distinzione analoga vale per la composizione dei libri biblici:
 Le tradizioni etiche, pagane (cultura babilonese, etc.) riportate in Gen 1-11 (es. il diluvio
universale, la torre di Babele) sono contributi materiali, con i singoli autori che hanno dato
un contributo creativo al disegno dell’opera.
 Il documento Jahvista (J) ha offerto un contributo creativo al disegno dell’opera.
Nel Pentateuco si distinguono fonti distinte tra loro che riprendono le fonti del Vicino Oriente antico e
li presentano in una veste nuova. In particolare, l’attuale Pentateuco è costituito da quattro tradizioni,
una ragnatela di testi che il grande biblista R. DE VAUX ha definito «i fili d’oro» della Legge:
A. Jahvista (X sec. a.C.) (J)
B. Elohista (IX-VIII sec. a.C.) (E)
C. Jehovista (722-622 a.C.) (fusione J+E)
D. Sacerdotale (P)
E. Deutoronomista (D)

8. Contenuti dell’Ispirazione
L’Ispirazione si estende a tutti i libri biblici canonici e ai loro contenuti. Alcuni teologi hanno
tentato di limitare l’estensione dell’ispirazione ad alcuni libri soltanto della Bibbia a causa della loro
difficile interpretazione oppure perché fin dall’antichità (cfr. AGOSTINO) sono apparse evidenti le
incoerenze, contraddizioni, discordanze e le erroneità esistenti in molti passi biblici: dunque, Dio si è
sbagliato?3
Le difficoltà connesse con l’idea della inerranza della Scrittura. Il Concilio di Trento, ripreso in
seguito dal Concilio Vaticano I, ha decretato che i libri della Bibbia vanno ritenuti sacri e canonici in
tutte le loro parti e quindi tutto è ispirato, non solo alcune parti. Questa era la risposta all’obiezione
mossa da alcuni teologi che limitavano l’ispirazione solo ad alcuni libri o ad alcune parti per far fronte
alle contraddizioni interne alla Scrittura.

3
Fare una ricerca su Google delle contraddizioni presenti nelle Sacre Scritture.

23
Es. Mc 16, 9-20: la parte finale di Marco fa parte delle Scritture ispirate ed è dunque ritenuta
canonica, sebbene non sia rintracciabile nei codici più antichi del Vangelo secondo Marco (si
tratta cioè di una parte aggiunta successivamente).
L’estensione dell’Ispirazione a tutte le Scritture è stata ratificata dalla Provvidentissimus Deus, nella
quale LEONE XIII afferma con insistenza che è erroneo restringere l’ispirazione solo al materiale di
fede e di morale (questa era la posizione dei teologi).
L’estensione dell’ispirazione all’intero contenuto delle Scritture è oggi un articolo di fede.

9. Le parole
Le singole espressioni verbali sono state sotto l’influsso dell’ispirazione oppure sono frutto di una
libera determinazione dell’agiografo? Si tratta di una assistenza unicamente negativa? Cfr. la
posizione di FRANZELIN che intendeva impedire che qualche errore si insinuasse nella Bibbia. Questa
posizione è oggi ormai messa da parte sia dai teologi sia dai biblisti: l’ispirazione si estende non solo
ai contenuti ma anche alle parole della Bibbia. Nella produzione di un’opera letteraria, pensiero e
parole sono intimamente connessi. Ciò spiega l’importanza della filologia e dell’esegesi
nell’interpretazione del testo biblico.
Cfr. la prima versione del San Matteo e l’Angelo del CARAVAGGIO.4 Fin dalle origini dell’arte cristiana
l’ispirazione divina è molto spesso rappresentata da un angelo (uno dei quattro esseri presentati in Ez 1, 4-9 e
richiamati in Ap 4, 7-8) che sta sopra gli evangelisti. La prima versione dell’opera del Caravaggio fu rifiutata dai
committenti perché l’angelo sembra guidare la mano dell’evangelista Matteo quasi a significare una dettatura; la
tela fu dunque distrutta e rifatta (oggi la tela è a San Luigi de’ Francesi). Questa seconda versione è certamente
più rispettosa dell’idea cristiana di ispirazione che non fa tanto riferimento ad una pretesa dettatura o
preesistenza divina del testo, quanto all’ispirazione divina dell’autore sacro che conserva integre le sue facoltà di
vero autore del “testo sacro” al punto che è possibile affermare che sia Dio sia l’uomo sono veri autori del testo
biblico.

10. Le traduzioni
Il Corano è letto solo nella lingua originale (arabo antico), mentre non sono ammesse traduzioni in
quanto il testo è ritenuto essere stato dettato direttamente dall’arcangelo Gabriele.
Per la Bibbia, al contrario, la questione è che, pur essendo tradotte in quasi 4000 idiomi, noi non
possediamo il testo autografo delle Scritture, né dell’AT né tantomeno del NT: disponiamo di copie
a loro volta copie di altre copie e così via.
Altra questione è quella della traduzione del testo biblico. Il NT è scritto tutto in greco: nasce già
come rielaborazione di qualcos’altro tramandato in ebraico e aramaico. La LXX (traduzione dell’AT
in greco) è a tutti gli effetti una traduzione, la cui parte più antica risale al II secolo a.C. (dunque ben
prima di alcuni testi ebraici di cui sono la traduzione!).
Gli apografi sono ispirati nella misura in cui riproducono fedelmente l’autografo. Le traduzioni,
quando riproducono in maniera fedele il contenuto dell’originario sono ispirate equivalentemente solo
nel contenuto, partecipando di fatto dell’ispirazione dell’autografo.

4
Cfr. www.gliscritti.it.

24
Iniziata nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto, la Traduzione della Settanta (LXX) è una
ispirazione diretta – estendendosi in questo modo l’ispirazione al testo greco dell’AT – per cinque
motivazioni addotte dagli studiosi:
1. È il primo tentativo di tradurre il testo ebraico in lingua greca, la lingua con cui poi
verrà composto il NT. Quando gli autori del NT citano spesso l’AT prendono a
riferimento il testo dalla LXX: ciò significa una canonizzazione implicita della LXX.
2. La LXX non è una semplice traduzione ma rappresenta un progresso e una
evoluzione nei confronti delle idee del testo ebraico. Questo è inevitabile se si considera
che dei concetti espressi in una lingua semitica sono trasposti in un’altra lingua espressione
di una differente cultura, dunque non sempre c’è esatta corrispondenza.
3. Nel NT la LXX è frequentemente citata (lo stesso Gesù di Nazareth cita secondo la
LXX), e a volte in appoggio a dottrine fondamentalmente cristiane.
4. Tutta la Chiesa dei primi secoli ha pacificamente accettato la LXX come opera
ispirata. In Occidente solo SAN GIROLAMO (IV secolo d.C.) ha respinto la traduzione della
LXX. Egli è il primo che ha l’intuizione della necessità di tornare alla veritas ebraica e di
risalire dunque all’originale ebraico (operazione che lo impegna per 30 anni a
Gerusalemme); inoltre, egli per primo fa anche un’opera di critica testuale (confronto con
la LXX). Ne risulta la Vulgata (per altro fortemente criticata da AGOSTINO).
5. La dottrina dell’Ispirazione della LXX è professata ancora oggi nelle Chiese orientali.
La liturgia ortodossa – in greco – ha ancora oggi nella LXX il suo testo di riferimento.

11. L’effetto dell’ispirazione sulla Scrittura


A. Rivelazione: l’aprirsi di Dio a quanti leggono la Scrittura. La rivelazione è
l’automanifestazione di Dio mediante la narrazione e non la definizione dogmatica o la
comunicazione di un complesso dottrinale (= non è un catechismo, il quale non ha
l’autorevolezza della Bibbia tanto da essere soggetto a periodiche revisioni e rifacimenti).
B. Unità: la Scrittura non è una collezione di scritti, ma è unità in quanto concentrata in
Cristo il cui mistero, nascosto dal principio, si è manifestato nella pienezza dei tempi.
C. Completezza: la Bibbia è unità completa che non manca di alcun elemento, in quanto è la
automanifestazione piena e definitiva di Dio: il canone è definito e chiuso (fine I - inizi II
secolo d.C.). Se anche si trovassero nuove Scritture non possono essere aggiunte al canone:
es. si conosce dell’esistenza di una lettera paolina ai laodicesi, così come di altre due lettere
paoline (II e IV) ai corinzi i cui riferimenti sono presenti nelle lettere canoniche;
egualmente è stato rinvenuto un Salmo 151 (il cui testo greco ha trovato conferma nel testo
ebraico ritrovato a Qumran). Non va cercata altra rivelazione.
D. Sacramentalità: la proclamazione della Scrittura nella liturgia, dove è Dio che parla
(“Parola di Dio”, “Parola del Signore”). È una questione approfondita per la prima volta nel
magistero nell’Esortazione apostolica Verbum Domini di BENEDETTO XVI.
E. Verità della Scrittura (ossia l’inerranza), qualità grazie alla quale la Bibbia è immune
dall'errore. È questo il punto più complesso e problematico. Cfr. DV n.11b:
«11. […] Tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi
asserito dallo Spirito Santo; è da ritenersi, per conseguenza, che i libri della

25
Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità
che Dio, a causa della nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre
Lettere».
Su questo tema si giocano molte dispute teologiche con conseguenze anche
drammatiche per l’esistenza dei fedeli. Il termine inerranza, da inerrans, significa
«che non vaga». Mentre il pensiero patristico lo intende come “esclusione di
inganno”, i teologi medievali lo intendono come “esclusione dell’errore”. La DV,
nella prospettiva di tutto il Concilio Vaticano II, non esalta la prospettiva negativa (il
fatto che non c’è errore) ma quella positiva, per cui preferisce parlare piuttosto di
verità.
Nessun altro concetto relativo all’Ispirazione ha causato tanti problemi quanto questo
dell’inerranza. Leggendo ragionevolmente il testo sacro si ravvisano:
1. «Auto-contraddizioni» della Bibbia
Es. Gn 6,19 (“Di quanto vive, di ogni carne, introdurrai nell’arca due di ogni specie, per
conservarli in vita con te: siano maschio e femmina”) con Gen 7,2-3 (“… prendine con te
sette paia, il maschio e la sua femmina”).

2. «Errori nelle scienze naturali» (concezione cosmologica, concetti di scienza e di


creato)
Per l’uomo semita l’universo è avvolto da una barriera a forma di “campana” chiamato
firmamento.

Resta celebre il c.d. «caso Galilei» ingenerato proprio da questa concezione. Grazie anche
alle osservazioni astronomiche rese possibile dall’invenzione del cannocchiale, Galilei
sposa la teoria copernicana (eliocentrismo) che supera la teoria aristotelico-tolemaica
(geocentrismo). Ma questo era in contraddizione con Gs 10,12 (la Bibbia dice che è il sole
a essere fermo): perciò dire il contrario significava dire contro la rivelazione e da
condannare come eresia.
In una lettera all’amico benedettino don Castelli, Galilei scriveva che l’obiettivo (la
“mira”) della Scrittura di insegnare cose che “essendo necessarie per la loro salvezza e
superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi
credibili, che per bocca dell’istesso Spirito Santo». Ancora, in una lettera a Cristina di
Lorena Galilei scrive emblematicamente: “l’intenzione dello Spirito Santo essere
d’insegnarci come si vadia al cielo, non come vadia il cielo”. In questo passo Galilei

26
fornisce la corretta chiave di lettura per superare il problema delle contraddizioni nella
Scrittura: la verità della Scrittura non è la verità scientifico-cosmologica (anche perché
l’uomo biblico non aveva il concetto di scienza) né la verità storica tout court, ma la verità
salvifica.
È la medesima chiave interpretativa presente in DV n. 11b: «Tutto ciò che gli autori ispirati
o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo; è da ritenersi, per
conseguenza, che i libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza
errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre
Lettere».5 Il caso Galilei è citato, sebbene non esplicitamente, nella GS n. 36, sebbene non
sia fatta menzione esplicita del caso, ma solo nella nota n. 7. Sul caso Galilei la Chiesa ha
riconosciuto il suo errore: cfr. il discorso di GIOVANNI PAOLO II alla Pontificia Accademia
delle Scienze nel 1979 con cui invita a riaprire il caso Galilei.
3. «Errori storici». La Scrittura non ci comunica altra verità che non quella che attiene alla
salvezza: cfr. PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Ispirazione e verità della S. Scrittura. La
parola che viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo, LEV, Città del Vaticano
2014.
Es. Dan 5 (il successore di Nabocodonor non fu Baldassar ma Evilmerodach); Mt 5, 6-7 (il discorso
del monte da Lc è ambientato in pianura).

4. «A livello morale»: è la più grande difficoltà presente nella Scrittura.


Nei libri storici si fa ordine di hèrem [sterminio], cioé la totale distruzione di un popolo nemico
considerata come esecuzione della volontà di Jwhw (cfr. Gs 6: la distruzione di Gerico).

DV n. 15 [Importanza del Vecchio Testamento per i cristiani]:


“15. L’economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad
annunziare profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1 Pt 1,10) e a significare con diverse
figure (cfr. 1 Cor 10,11) l’avvento di Cristo redentore dell’universo e del regno
messianico. I libri poi del Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere
umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e
chi è l’uomo e il modo con cui Dio giusto e misericordioso agisce con gli uomini. Questi
libri, sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera
pedagogia divina (28). Quindi i cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in
essi si esprime un vivo senso di Dio; in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio,
una sapienza salutare per la vita dell’uomo e mirabili tesori di preghiere; in essi infine è
nascosto il mistero della nostra salvezza.”
→ Dio si adatta al modo in cui il popolo poteva capire la sua rivelazione.
Fino alla DV i problemi erano consistenti, perché non si avevano strumenti adatti per spiegare in modo
consistente la inerranza. L’apologetica cattolica si difese ricorrendo spesso al concordismo: deriva di
stampo letteralista che cerca di forzare il testo per far rientrare a tutti i costi i dati discordanti.6 Ma con
risultati scarsi: es. con riferimento a Mt 5, 6-7 (il discorso del monte ambientato da Lc in pianura) i
concordisti dicono che Gesù si trovava su un altopiano.
Nel campo della ricerca storica, con il progresso della conoscenza della storia dell’Antico Oriente
rapportata poi ai dati biblici, molti dati della Scrittura si dichiararono inesatti. Nasceva la c.d.
«questione biblica» che ha occupato tanto spazio nella discussione teologica (non solo tra biblisti). In
5
Cfr. Manuale, p. 355.
6
Cfr. Vittorio Messori (quando agisce da esegeta).

27
realtà, il problema delle incongruenze si era già avvertito nel mondo giudaico: nella tradizione
rabbinica era attestata come extrema ratio che la venuta di Elia avrebbe risolto queste controversie e
tutti i punti oscuri della Scrittura. Elia diventa ermeneuta delle Scritture (Elia lo si crede non morto ma
assunto vivo al cielo, sicché se ne attende il ritorno – secondo MEIER Gesù incarna la figura del
profeta escatologico che richiama Elia).
Le discordanze della Bibbia sono state uno dei motivi più importanti per cui i primi scrittori cristiani
dal IV secolo fino alla Scolastica hanno fatto ricorso alle allegorie per l’interpretazione di alcuni passi
biblici (specie dei passi più difficili) quale soluzione a questo problema e per preservare in qualche
modo la verità divina che rischiava di essere compromessa. Giustamente si adotta la lettura patristica
classica che ha un fondamento cristologico, ma così è bypassata l’intenzione dell’autore.
Es. AGOSTINO interpreta la parabola del buon samaritano in questi termini: i malviventi sono le forze del
male; l’uomo ferito è l’umanità caduta a causa del peccato; il samaritano è Gesù; la locanda è la Chiesa; il
locandiere sono i sacerdoti; i denari sono i sacramenti; etc. Ma non era questa la reale intenzione di Gesù
nel raccontare quella parabola ai suoi destinatari.

Ciò valeva per l’AT ma anche per il NT, soprattutto per le discordanze concernenti i Sinottici (Mt-Mc-
Lc) e Giovanni e nell’ambito stesso dei Sinottici.
I Padri della Chiesa conoscevano a memoria i testi biblici, pur non avendo quasi nessuno i testi
materialmente a disposizione; eppure i loro testi sono pieni di citazioni bibliche. SAN GIUSTINO, nel
Dialogus cum Triphone, afferma che la Scrittura non si può contraddire; IRENEO DI LIONE che le
Scritture sono perfette; gli SCOLASTICI che è eretico dire che nella Scrittura ci possa essere qualcosa di
errato.
In epoca moderna il problema emerge con il “caso Galilei”. In epoca moderna il problema diventa
più acuto in ragione del progresso della scienza e della scienza storica, dell’archeologia, della
conoscenza delle culture antiche. È contestato alla radice il valore della Bibbia come fonte storica. Il
CARD. NEWMANN escludeva che l’inerranza si potesse applicare ad alcuni detti e ad alcune vicende
meno importanti, mentre insisteva sull’importanza di ciò che la Bibbia dice in materia di fede e di
morale: è la c.d. limitazione materiale dell’ispirazione. Questa posizione è stata respinta.
Altre risposte inadeguate sono state date successivamente all’intervento di LEONE XIII, come la teoria
della «verità relativa» che ammetteva errori nella Bibbia per le cose scientifiche e storiche, ma anche
questa teoria è stata condannata da PIO X nella Pascendi.
Segue la teoria delle «apparenze storiche», formulata da LAGRANGE.
È la Divino Afflante Spiritu ad aprire una strada nuova per il problema della verità biblica,
riconoscendo nella Bibbia una varietà nel genere letterario storico.
Il testo della Dei Verbum assume un atteggiamento positivo sul problema e fornisce la chiave di
lettura corretta dell’interpretazione nei suoi principi:
 L’angolazione dalla quale vanno considerate tutte le affermazioni contenute nella Bibbia è
il progetto salvifico di Dio: tutte le Scritture devono servire alla nostra salvezza. Questa
è l’unica verità in cui la Bibbia non sbaglia; gli altri tipi di verità cadono sotto
l’inerranza (cfr. DV n.11). Con questo criterio devono risolversi tutte le controversie della
Bibbia. La Bibbia è la guida alla salvezza (cfr. Galilei). Negli anni Sessanta e Settanta studi
specie in ambito americano (es. KELLER, Perché la Bibbia ha ragione) intendono
dimostrare che tutti i miracoli e prodigi raccontati nell’AT sono oggetto di spiegazione
materiale e naturalistica e dunque rispondenti a verità. Questo però è un altro tipo di
fondamentalismo (“il fondamentalismo è come il suicidio del pensiero”).

28
 «Per ricavare l’intenzione degli agiografi si deve tenere conto tra l’altro anche dei
generi letterari». Tuttavia si deve tenere presente il carattere progressivo della
rivelazione biblica.
 Nessun testo dell’AT e del NT presenta una dottrina completa su qualsiasi punto della
fede e della morale: occorre riconoscere che su tutti i libri cade la luce dell’ispirazione per
una corretta comprensione globale; la luce di Cristo è proiettata su tutti i 73 testi.
 I libri dell’AT «contengono cose imperfette e temporanee» (non errori però, ma
«imperfette», perché saranno perfezionate con la venuta di Cristo: «I quali libri, sebbene
contengano cose imperfette e temporanee, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina»,
DV n.15).
 «Per ricavare il senso dei sacri testi si deve badare al contenuto e all’unità di tutta la
Scrittura» (DV 12). Bisogna quindi leggere l’AT alla luce del NT.
 Nella Bibbia non c’è la verità scientifica. S. AGOSTINO si rende conto di queste
controversie e anticipa ciò che avrebbe detto Galilei: «Dio voleva farci cristiani, non
scienziati».

→ PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura, 2014 (si tratta del
documento più aggiornato in materia di ispirazione che però non aggiunge molto rispetto alla DV).

4. Il canone ebraico e il canone cristiano

1. Definizione di “canone”
2. Sviluppo storico della terminologia
3. Scritti protocanonici e deuterocanonici
3.1. Protocanonici
3.2. Deuterocanonici (distinti a partire dalla Riforma)
4. Formazione del canone ebraico
4.1. Torah
4.2. Nebihim: Profeti anteriori (Libri storici)
4.3. Nebihim: Profeti posteriori (I Profeti)
4.4. Ketubim (Gli Scritti)
4.5. Nuova raccolta di Scritti
4.6. Conclusione
5. Formazione del canone del NT
5.1. Criteri di canonicità
5.2. Storia
5.2.1. Primo periodo: fino al 170 ca.
Il caso delle lettere paoline (il canone paolino)
5.2.2. Secondo periodo: dal 170 d.C.
5.3. Lista dei libri dell’AT
5.4. Lista dei libri del NT
5.5. L’AT dei cristiani
6. L’origine dell’idea di canone
6.1. Nella Bibbia

29
6.2. Egitto
6.3. Ittiti
6.4. Assiria e Babilonia
6.5. Fenicia
6.6. Grecia e Roma
7. Riflessioni conclusive sul canone
7.1. Punti salienti
7.2. Norme ermeneutiche
7.2.1. Legge scritta e legge orale
7.2.2. I concetti di “canonizzazione” e “ispirazione” presso gli ebrei e i cristiani
7.2.3. Fattori di controllo
7.3. La massora

1. Definizione di “canone”
Canone significa “lista dei libri della Sacra Scrittura riconosciuti dalla autorità della Chiesa, i
quali a causa dell’Ispirazione sono direttiva, norma per la fede e per la morale”.
A stabilire che il canone sia composto di quei libri e non di altri non è la firma di Dio in calce ma la
Chiesa, comunità dei credenti, che si riconosce in questi testi come norma per la vita e la morale.

2. Sviluppo storico della terminologia


Canone è la traslitterazione dell’originale greco ma anche dell’ebraico. Κανών deriva da καννά
(ebraico qanæh) = «canna», da cui nel mondo antico si identificava la canna per misurare e infine
l’«unità di misura» cui far riferimento. Negli scritti di FILONE ALESSANDRINO – coetaneo di Gesù (10
a.C. - 50 d.C.) – significa «norma, regola, legge» nello stesso senso del greco νομος.
Negli scrittori pagani canone significa, in senso tecnico, «norma» nei vari aspetti della vita. Es.
secondo EPICURO ed EPITTETO canone significa «i criteri logici per valutare la verità di una
affermazione».
Nel NT significa «norma» secondo cui agire o secondo cui giudicare l’azione di un altro (Gal 6,16 =
norma, regola, principio; 2 Cor 10,13 = norma, direttiva).
Nella nascente Chiesa cristiana si sono stabilite delle norme – essenzialmente basate sulla Sacra
Scrittura e sul culto – per verificare ciò che era autenticamente cristiano da ciò che non lo era: dunque,
nella Chiesa antica questo termine dice ciò che era normativo da credere:
Ο κανών τής αληθείας = verità normativa della chiesa
Ο κανών τής πίστεως = regula fidei
Ο κανών τής εκκλεσίας = norma della chiesa
Solo al volgere del secolo IV d.C. l’insieme dei libri che formano la Bibbia fu chiamato κανών
(CONCILIO DI LAODICEA 360 ca., canone nr.59). Ma già ATANASIO (350 ca. d.C.) riguardo al Pastor
Hermae dice: non è έκ τού κανώνος [non fa parte del canone], sebbene ciò non voglia dire che non
abbia alcun valore.
Pian piano nella Chiesa dei Padri si formarono nuovi concetti e termini: così contrario di κανώνικος
fu απόκρυφος.

30
Secondo la dottrina cattolica gli Apocrifi non hanno mai fatto parte di una lista normativa/canonica né
per gli Ebrei né per i Cristiani (i Protestanti chiamano questi libri pseudografoi). Ma apocrifo di per se
significa “nascosto”. Eppure va ad indicare pian piano i testi esclusi dal canone.
L’uso di aprocrifo per dire “eretico” viene dallo gnosticismo. Il titolo βιβλιοί αποκρυφοί è anche una
raccolta di libri misterici riconosciuti dallo gnosticismo. I Padri della Chiesa all’inizio l’intendono
come gli gnostici, ma poi danno all’espressione un senso fortemente negativo. In TERTULLIANO
απόκρυφος e falso sono concetti interscambiabili. Nella lotta contro l’eresia apocrifo vuol dire
“falsato”. Ci sono una settantina di aprocrifi dell’AT (risalenti agli ultimi secoli a.C. e ai primi secoli
d.C.: da alcuni è definita come letteratura intertestamentaria ed include es. III e IV Mac, Testamento
di Mosè, Libro di Enoch, la dottrina dei Dodici apostoli). Gli scritti apocrifi riportano anche fatti e
contenuti biblici, ma rielaborati secondo i generi: (i) leggendario; (ii) fiabesco; (iii) o considerato
tendenzioso nella divulgazione di una dottrina falsa.
Dopo la riforma protestante la parola apocrifo sarà applicata per indicare nell’AT i libri aggiunti dai
cristiani rispetto alla Bibbia ebraica: i Protestanti riferiscono il termine apocrifo ai 7 libri che i cattolici
chiamano Deuterocanonici [canonici secondi], che si trovano in più nella LXX rispetto alla Bibbia
ebraica. (Il canone protestante è più ristretto e coincide con quello ebraico.)
3. Scritti protocanonici e deuterocanonici
Questa terminologia – protocanonici (i libri contenuti nella Bibbia ebraica) e deuterocanonici (i 7 libri
in greco) – risale a SISTO DA SIENA odp († 1569); costui ha lavorato per il Concilio tridentino sulla
introduzione alla Bibbia. È una terminologia infelice perché ingenera il pensiero dell’esistenza di una
graduatoria tra i libri sacri: invece, la DV riflette il concetto cristiano e cattolico che tutti i libri hanno
lo stesso livello di ispirazione e di verità.
3.1. Protocanonici
Sono i libri della Sacra Scrittura (AT) riconosciuti come normativi, cioè canonici sia dagli Ebrei sia
dai Cristiani:
 Torah (nel canone cristiano: Pentateuco): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.
 Nebihim:
 Profeti anteriori (nel canone cristiano: Libri storici): Giosuè, Giudici, Samuele, Re.
 Profeti posteriori: 3 Profeti Maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele) e XII Profeti
Minori.
 Ketubim: gli Scritti.
 Secondo l’ordine babilonese bBB 14b: Ruth, Salmi, Giobbe, Proverbi, Ecclesiaste,
Cantico, Lamentazioni, Daniele, Ester, Esdra, Cronache.
 Secondo l’ordine palestinese: Cronache, Salmi, Giobbe, Proverbi, Ruth, Cantico,
Ecclesiaste, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra.
3.2. Deuterocanonici (distinti a partire dalla Riforma)
Per i Cristiani sono quei libri dell’AT entrati a far parte del canone in un secondo tempo; gli stessi non
sono riconosciuti dagli Ebrei come libri normativi, canonici (sebbene da loro letti). Per la Chiesa
cristiana invece questi libri sono ritenuti canonici alla stessa maniera dei protocanonici. Dopo la
riforma di Lutero non sono stati accettati come canonici nemmeno dai Protestanti; anche se ritenuti
utili essi affermano che non è possibile fondare su di essi alcun articolo di fede. Uno dei motivi

31
principali è che sono testi scritti in greco e non in ebraico (con eccezioni: es. Sir, scritto in ebraico ma
tradotto in greco).
I libri deuterocanonici sono 7: Tobia, Giuditta, Sapienza, Baruch, Siracide (o Ecclesiastico),Ester
(aggiunte 10,4-16,24), Daniele (aggiunte 3,24-90; 13; 14), 1 e 2 Maccabei.

4. Formazione del canone ebraico


Nella Bibbia stessa ci sono delle indicazioni sparse.
4.1. Torah
Non v’è alcun richiamo all’autorità di un testo prima del re Giosia (640-608 a.C.), sotto il cui regno
(supposto che il brano risalga all’epoca di Giosia) fu trovato il “Libro della Legge” (2 Re 22,1-10;
23,1-3). Ma non conosciamo il contenuto di quel Libro: forse è il contenuto principale del
Deuteronomio.
Nel tempo della restaurazione (post-esilio tra il V e IV secolo), sotto Neemia (Esdra 7,11-26; Ne 8) si
ha la notizia della lettura pubblica della “Legge”, testi quindi ufficialmente accettati.
I Samaritani, quando si separarono (ca. 400 a.C.) dai Giudei, portarono con sé i “libri di Mosé” come
codice sacro. In quell’epoca esisteva già un corpus ma di cui non conosciamo l’estensione. Ancora
oggi per i samaritani il testo sacro è il Pentateuco.
4.2. Nebihim: Profeti anteriori (Libri storici)
Secondo un genere storico sono: Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re.
4.3. Nebihim: Profeti posteriori (I Profeti)
Secondo il genere tipicamente profetico sono: Isaia Geremia, Ezechiele (chiamati Maggiori per
l’estensione dei libri); XII Profeti Minori (chiamato così perché i loro scritti sono molto più limitati di
quelli dei Maggiori). Le figure profetiche sono:
 Zelanti predicatori dello jahwismo (fede in Adonai);
 Predicatori ispirati, essi parlano in nome di Dio;
 Garanti del diritto;
 Giudici anche degli atteggiamenti del re, anche denunciando il male;
 Ministri di Dio fra il popolo eletto.
4.4. Ketubim (o gli Scritti)
Verso la metà del III sec. a.C. (2 Macc 2,13; Dan 9,2) si parla di una partizione degli scritti: Torah,
Profeti e altri Scritti, secondo l’ordine che sarà poi accettato nel canone ebraico dopo Jamnia (90 d.C.
ca.). Nel prologo di Ben Sirac questa espressione Ketubim indica in modo tecnico la raccolta del terzo
gruppo di libri ritenuti sacri dai Giudei. Fra questi anche la raccolta dei Salmi (Salterio) gode di un
particolare senso di venerazione per l’antichità di alcuni Salmi, per la tradizione davidica con la quale
sono stati tramandati e soprattutto per l’uso liturgico.
Prologo del Siracide. Il Prologo del traduttore greco non fa parte del Libro del Siracide propriamente
detto: è ispirato ma non parte del canone. L’autore Ben Sirac scrive nel 132 a.C. per presentare l’opera
del nonno Gesù [Yesus Sira = figlio di Sira], scritta nel 190 a.C., traducendola dall’ebraico al greco.
Quasi mai nella Bibbia troviamo l’esatta indicazione del periodo storico e l’indicazione dell’autore

32
(solitamente i testi sono anonimi o pseudoepigrafi). Lo stile letterario è quello di una prefazione
moderna. Emerge per la prima volta nella storia la tripartizione in Legge, Profeti e Scritti.7
Molti e profondi insegnamenti ci sono stati dati nella legge, nei
profeti e negli altri scritti successivi e per essi si deve lodare Israele
come popolo istruito e sapiente.
Poiché è necessario che i lettori non si accontentino di divenire
competenti solo per se stessi, ma che anche ai profani possano gli
studiosi rendersi utili con la parola e con gli scritti, anche mio nonno
Gesù, dedicatosi lungamente alla lettura della legge, dei profeti e
degli altri libri dei nostri padri e avendovi conseguito una notevole
competenza, fu spinto a scrivere qualche cosa riguardo
all’insegnamento e alla sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato
anche questo, possano progredire sempre più in una condotta
secondo la legge.
Siete dunque invitati a farne la lettura con benevolenza e attenzione
e a perdonare se nonostante l'impegno posto nella traduzione,
sembrerà che non siamo riusciti a render la forza di cene espressioni.
Difatti le cose dette in ebraico non hanno la medesima forza quando
sono tradotte in altra lingua. E non solamente questa opera, ma
anche la stessa legge, i profeti e il resto dei libri conservano
un vantaggio non piccolo nel testo originale.
Nell'anno trentottesimo del re Evergete, venuto in Egitto e
fermatomi ivi alquanto, dopo aver scoperto che lo scritto è di grande
valore educativo, anch'io ritenni necessario adoperarmi
con diligenza e fatica per tradurlo. Dopo avervi dedicato molte veglie e
studi in tutto quel tempo, ho condotto a termine questo libro, che
pubblico per coloro che all'estero intendano istruirsi conformando
i propri costumi per vivere secondo la legge.

I cinque rotoli [megillôt] servivano per la lettura rituale in alcune feste:


 Cantico: Pasqua (Nisan = marzo/aprile);
 Ruth: Pentecoste (fine di Siwan = maggio/giugno);
 Lamentazioni: ricordo della caduta di Gerusalemme (587 a.C.; fine di Ab = luglio/agosto);
 Ecclesiaste: festa delle Capanne (15-23 di Tishri = settembre/ottobre); secondo il
calendario ebraico siamo nell’anno 5777 dalla creazione del mondo;
 Ester: festa dell'Espiazione (10 di Tishri).
Esdra, Neemia e Cronache devono aver costituito ad un certo punto una grande raccolta.
4.5. Nuova raccolta di Scritti
1 Macc 1,57ss; 2 Macc 2,14.
Nel Prologo del Siracide, Ben Sirac comprende anche l’opera di suo nonno come appartenente ai
Ketubim. Questi scritti si identificherebbero con i deuterocanonici di cui sopra.
7
Nell’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-53) Gesù istruisce i due discepoli “e cominciando da Mosè e
da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v.27): alla fine del NT l’evangelista
Luca richiama tutta la storia salvifica rileggendo la Scrittura.
Allo stesso modo Filippo annunciò Gesù all’eunuco (At 26, 8-40): “Filippo, prendendo a parlare e partendo da
quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù” (v.35).

33
4.6. Conclusione
Nessuna delle tre raccolte e nessun libro furono ufficialmente dichiarati canonici prima di Jamnia (90
d.C. ca.), sorta di sinodo/convegno/simposio tra alcuni rabbini scappati dopo la caduta di
Gerusalemme (70 d.C.) e la conseguente occupazione romana per dire quali libri erano sacri e
“sporcavano le mani”. Dunque, la Bibbia ebraica come conosciuta oggi è stabilizzata alla fine del I
secolo d.C., in parallelo con il canone neotestamentario.
Tappe della formazione:
1. I libri della Torah furono accettati come sacri dai profeti e dai sacerdoti e dagli scribi;
2. Dal tempo della restaurazione (fine V sec. a.C.) si ha la lettura pubblica dei libri della
Torah;
3. Al ‘Sinodo rabbinico’ di Jamnia (ca. 90 d.C.) si dichiarano sacri il Cantico dei Cantici e
l’Ecclesiaste. Se se ne discusse evidentemente erano libri problematici: il Cantico infatti è
un libro dell’amore umano dove non è mai nominato Dio; tuttavia, per alcuni rabbini era il
più “santo dei santi”, perché la più alta interpretazione spirituale.
A quel tempo dovevano già ritenere sacri i testi della tradizione che risaliva fino al II sec.
a.C: Torah, Profeti (anteriori e posteri), Ketuvim.
4. In realtà, Jamnia è un punto di riferimento ma con alcune incertezze tanto da apparire quasi un
evento simbolico. Dopo Jamnia la raccolta dei libri canonici verrà tramandata con
scrupolosa venerazione. Data importante è il 70 d.C.: con la distruzione del Tempio e
l’ostracismo imposto dai romani a tutti gli ebrei, i giudei si dispersero, specie nel nord della
Galilea (Tiberiade). Tra i gruppi sociali (farisei, sadducei, ma anche zeloti, battisti, mandisti,
etc.) solo i farisei sopravviveranno alla distruzione di Gerusalemme, trasformandosi sempre
più nel rabbinismo moderno e incaricandosi di trasmettere il testo sacro scritto. La religione
giudaica diventa sempre più la religione del libro. Solo in questa fase si va per necessità verso
la fissazione di un canone ebraico; ma la strada della canonizzazione proseguirà fino al III
secolo.
A questi si affiancherà la tradizione dei masoreti (facenti parte dei rabbini e quindi derivanti
dai farisei), che si preoccuperanno di trasmettere nel modo più scrupoloso e affidabile
possibile il testo scritto della Bibbia ebraica: prima solo in consonanti (trilitterismo - radice
trilitterale), poi tra VIII-X secolo introducendo la vocalizzazione, fissando in modo definitivo
il testo ebraico e dunque la sua interpretazione. Oggi i testi masoretici costituiscono la base
dell’edizione critica dei testi ebraici.

5. Formazione del canone del NT


Quando possiamo dire che si sia arrivati a una lista definitiva di scritti considerati ispirati e normativi?
Il canone è un atto di fede della Chiesa: è la Chiesa che stabilisce il canone. Il Canone del NT è esito
di una tradizione.
5.1. Criteri di canonicità (stabiliti a posteriori dalla teologia e dal magistero):
Tre gruppi di criteri:
1. Criteri ‘esterni’: l’apostolicità (origine e derivazione dalla cerchia degli apostoli e dalla
loro epoca; l’ortodossia (la retta fede); la concordanza e unità con tutta la Scrittura; il loro
valore non circostanziato.

34
2. Criteri ‘interni’ (non verificabili esternamente) che fondano il valore teologico-spirituale
e la normatività della Scrittura, cioè la convinzione ecclesiale che questi scritti siano
‘ispirati’, a partire dall’esperienza di ordine spirituale che la Chiesa fa al loro contatto.
3. Criteri ‘ecclesiali’: il riconoscimento dei libri come scritti canonici dalla maggior parte
delle chiese antiche; il fatto che questi testi siano citati come S.Scrittura – quindi
autorevole – da parte di autorità riconosciute.
5.2. Storia
Nei primi secoli ci fu una certa oscillazione nel canone: alcune comunità riconoscevano una parte
della lista, mentre altre ne riconoscevano un’altra; tuttavia, per i Vangeli e le lettere paoline c’era
comune accettazione.
5.2.1. Primo periodo: fino al 170 ca.
Fino al 170 ca. non si possiedono ancora cataloghi, ma eccetto la terza lettera di Gv i Padri citano
quasi tutti i libri che compongono il NT attuale: i libri protocanonici (tutto il NT tranne Eb, Gc, 2-3
Gv, Gd, Ap) erano conosciuti.
In Clemente Romano (autore di alcune lettere ai Corinzi – 96 ca.), nell’Epistola di Barnaba (70-100
ca.), nella Didaché e negli scritti di Ignazio di Antiochia (35-107) si considera normativo non solo ciò
che si crede detto da Gesú direttamente, ma anche la predicazione degli apostoli (es. lettere di Paolo).
Il caso delle lettere paoline (il canone paolino)8
Come si è arrivati alla raccolta attuale nel canone del NT di ben 13 lettere (su 27 libri) che
rivendicano esplicitamente la paternità dell’Apostolo?
[Un caso a parte è la Lettera agli Ebrei, in passato attribuita a Paolo: in realtà non è di Paolo (non si
nomina il mittente); non è diretta agli Ebrei bensì a dei credenti in Gesù, forse appartenenti ai giudeo-
cristiani (non si nominano i destinatari); non è una lettera, ma un sermone/omelia di alta cristologia
dove emerge la figura di Cristo archielèos – “sommo sacerdote” appartenente non alla casta dei
sacerdoti ma all’ordine di Melchisedek)].
Problematiche dei primi secoli. È una domanda che resta ancora oggi senza una risposta completa e in
cui bisognerebbe comunque distinguere due aspetti: quello della raccolta e quello della
canonizzazione. Questi due aspetti sebbene distinti sono connessi strettamente; d’altronde, anche se la
raccolta iniziale delle lettere indica già un processo che culminerà con la loro canonizzazione,
all’inizio essa non ha certamente questa finalità come intento primario. Infatti, è comunemente
accettato che si stabilisce la fissazione del canone soltanto alla fine del secolo IV (CONCILIO DI
CARTAGINE nel 397, can. 47: “Pauli Apostoli epistolae tredecim, eiusdem ad Hebraeos una”).
Tuttavia, la raccolta delle lettere avviene molto prima di quella data: se ne trova una traccia iniziale
nello stesso NT, quando al suo interno si attesta che esse venivano scambiate tra le varie comunità
(cfr. Col 4,16 – riferimento ad una non pervenuta Lettera ai Laodicesi; Gal 1,1; per Ef 1,1 nei codici
più antichi manca la dicitura “in Efeso”, segno che probabilmente lo scritto veniva inviato anche ad

8
Bibliografia di riferimento: G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 2002, pp.
315-423; B.M. METZGER, Il canone del Nuovo Testamento: Origine, sviluppo e significato, Paideia, Brescia
1997; A.G. PATZIA, “Canone”, in Hawthorne G.F. - Martin R.P. - Reid D.G. (edd.), Dizionario di Paolo e
delle sue lettere (ed. ital. a cura di R. Penna), San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano (1999) 172-182; R. PENNA,
L’origine del corpus epistolare Paolino: problemi, analogie, ipotesi, in Id., Vangelo e inculturazione: Studi sul
rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano (2001) 612-641;
D. TROBISCH, Die Entstehung der Paulusbriefsammlung: Studien zu den Anfängen christlicher Publizistik,
Universitätsverlag, Freiburg 1989.

35
altre comunità come una lettera circolare che trattava temi generali e non questioni specifiche di una
data comunità), e quindi quasi certamente man mano ricopiate e conservate insieme, laddove
risiedevano le varie comunità (Corinto, Efeso, Roma, etc.); evidentemente ben presto ci si era resi
conto che la validità e l’importanza di questi scritti superava la loro occasionalità.
La più importante testimonianza interna al NT la troviamo nella seconda Lettera di Pietro (databile
tra il 100 e il 140 d.C.): è tra gli scritti più recenti del NT che in realtà non risale a Pietro ma ad una
pseudoepigrafia di una comunità che si richiama a Pietro apostolo.
“La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo
fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in
cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli
instabili le travisano, al pari delle altre Scritture [γραφή], per loro propria rovina.” (2 Pt 3,15-16).

L’autore della 2 Pt – ponendo questo scritto sotto l’autorità petrina – menziona le lettere di Paolo,
dando quindi per scontato che la comunità a cui si rivolge già le conosca e ne possegga un certo
numero (bisogna supporne almeno più di due); nel mettere in guardia da una loro falsa interpretazione
(qui si tratta in particolare del tema della parusìa), implicitamente riconosce a questi scritti un grande
valore, anche perché in qualche modo li paragona nientemeno che alle Scritture ebraiche (l’AT).
Con questa menzione di Paolo l’autore intende accomunare i due grandi apostoli nella stessa
autorevolezza nei confronti di tutte le chiese, rivendicando l’ortodossia paolina che evidentemente
nelle chiese del II-III secolo era stata messa in questione da tendenze ereticali di stampo giudeo-
cristiano:
 Ci fu infatti tutto un movimento giudeo-cristiano (che guardava indietro) che considerava
Paolo non un apostolo ma un apostata
Già Paolo in Gal e 2 Cor insiste sul fatto che queste comunità di stampo gentile che
hanno aderito al vangelo hanno ricevuto la visita di altri apostoli di tradizione giudaico-
cristiana che li volevano reiniziare alla legge mosaica.
Queste tendenze opposte si sono cristallizzate nel II secolo nelle Pseudoclementine, che
esaltavano Giacomo (giustificazione per le opere) a discapito di Paolo (giustificazione
per fede/grazia).
 All’estremo opposto c’era chi esaltava talmente Paolo da distorcere il resto
Marcione esaltava Paolo fino a rigettare l’eredità giudaica e con essa tutto l’AT.
Marcione, la cui posizione ci è nota grazie agli scritti di Giustino e di Ireneo, è una
figura di spicco in questo primo periodo e una delle cause della riflessione sulla e della
fissazione del canone, che avviene proprio in reazione al canone marcionita che
rifiutava tutto l’AT, riducendo così il canone al Vangelo di Luca e a una decina di lettere
di Paolo. Marcione riteneva che l’AT contenesse la presentazione di un Dio violento cui
contrappoeva il Dio buono del NT: questa impostazione, presente ancora oggi in molti
cristiani, getta alle ortiche le Scritture di Israele e così anche lo stesso Gesù che è il
compimento delle Scritture ebraiche.
Mentre all’interno del NT c’è un riconoscimento dell’altissimo valore delle lettere di Paolo, le prime
testimonianze di una raccolta almeno incipiente all’esterno del NT possono comunque essere
fatte risalire a fine del I secolo – inizi II secolo.
 Nel contesto della comunità di Roma, già credente in Gesù prima di Paolo, nata nel
giudaismo cristiano (nella sinagoga romana) e dunque di stampo giudaico, Clemente
Romano nella sua lettera del 96 d.C. – sebbene presenti un’impronta più giudeo-cristiana

36
che paolina – dimostra di conoscere 1 Cor, Rm, probabilmente Ef ed Eb; Ignazio
d’Antiochia nel 110 testimonia l’esistenza almeno di Rm, 1 Cor, Ef. Già questo induce a
pensare che molte delle lettere paoline (che si situano tra il 50 e il 58) (i) dovessero essere
ben conosciute sia in Oriente che in Occidente già a cavallo del I secolo e (ii) formassero
già delle raccolte all’inizio del II secolo.
 È inoltre testimoniato indirettamente da Marcione, che nel suo Apostolikon del 140 d.C.
elenca ben dieci lettere dell’Apostolo (Gal, 1-2 Cor, Rm 1-2 Ts, Laodicesi [per alcuni si
tratta di Ef], Col, Fil, Fm), cioè tutte tranne le tre lettere c.d. pastorali (1-2 Tm, Tt).
Dunque, nel 140 abbiamo quasi tutto il canone paolino.
 Una raccolta sempre di dieci lettere è attestata dal papiro Chester Beatty (P46) datato
intorno al 200 (tra i papiri più antichi): rispetto alla lista di Marcione, include anche Eb,
mentre non riporta 2 Ts (che però poteva essere in alcuni fogli dello stesso papiro che
risultano mancanti).
 Il primo documento a riportare l’epistolario paolino completo è il Canone di Muratori (il
nome dallo storico Ludovico Antonio Muratori che lo scoprì nel 1740), che risale con
buona probabilità alla fine del II secolo (la recente ipotesi di una sua collocazione nel IV
secolo è stata sufficientemente confutata); oltre a riportare le lettere paoline secondo lo stile
settenario (rivolte a sette chiese, probabilmente sullo schema di Ap 2-3 – 7 è il numero
della completezza), l’importanza straordinaria di questo documento sta nel fatto che non
riporta soltanto la lista, ma fornisce anche alcuni criteri sottostanti alla formazione del
canone del NT.
 Ulteriori precisazioni su tali criteri, insieme ad una classificazione dei vari scritti canonici e
a preziose informazioni sugli scritti apostolici, la troviamo in Eusebio di Cesarea (di fatto
lo storico di Costantino) nella sua Storia ecclesiastica (340 d.C.).
Un’ultima nota riguardante il canone attuale della Bibbia. L’ordine e la sequenza delle lettere
paoline varia nella maggior parte delle liste antiche. La successione delle lettere così come le troviamo
ora nel NT segue un ordine basato sulla lunghezza: dalla più estesa Rm (è la lettera più recente, che
segna il culmine del pensiero teologico e cristologico di Paolo tanto da essere detta “il vangelo di
Paolo”) alla più breve Fm (il “biglietto” a Filemone). Se si fosse seguita la classificazione
cronologico-temporale si sarebbe avuta questa sequenza: 1Ts (50 d.C.), 1 Cor, 2 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm
(probabilmente 56-58).9
5.2.2. Secondo periodo: dal 170 d.C.
Nel primo periodo ancora non si parla di canone esplicitamente, ma viene usato il titolo di “Scritture
ispirate e normative” con riferimento esclusivo all’AT.
Nel secondo periodo le chiese locali incominciano a discutere sul tema e a redigere degli elenchi
propri. Tuttavia, se i protocanonici (non nel senso di cui sopra) sono accettati (i 4 vangeli; At; Paolo;
1 Pt, 1 Gv), ci sono dei dubbi quanto agli scritti deuterocanonici (Eb, Gc, II-III Gv, Gd, Ap) che
divengono oggetto di discussione:
 Canone muratoriano (scoperto da Muratori nel 1740, redatto alla fine del II secolo d.C.):
non riporta nell’elenco Eb, Gc e 2 Pt.

9
Stesso discorso vale per i Vangeli: Mt (28 capitoli), Mc (poco più di 15 capitoli), Lc (24 capitoli), Gv (20+1
capitoli); seguono gli At (in realtà Lc e At andrebbero letti di seguito: l’episodio dell’ascensione al cielo di Gesù
è raccontato da entrambi i testi – a chiusura del primo e in apertura del secondo – e ne fa da gancio).

37
 Canone Claromontano (IV secolo): non elenca Eb.
 Canone Africano (360 d.C. ca.): non elenca Eb, Gc e Gd.
 Sinodo di Laodicea (360): nel canone nr. 59 si parla della lettura dei soli libri canonici, la
cui lista è data nel canone nr. 60:
AT (22 libri come le lettere dell’alfabeto): Gn, Es, Lv, Nm, Dt, Gs, Gd+Ruth, Ester, 1-
2 Re, 3-4 Re, 1-2 Chr, 1-2 Esdra, Sal, Pro, Qo, Cant, Gb, XII profeti (considerati un
unico libro), Is, Gr+Baruch+Lam+Lettera, Ez, Dan.
NT: 4 Vangeli, At, 14 scritti di Paolo (inclusa Eb), Gc, 1-2 Pt, 1-3 Gv, Gda. Manca
Ap.
Esistono poi varie liste:
 Atanasio (Lettera Pasquale, molto importante, 367 d.C.): include 22 libri dell’AT e la lista
completa dei 27 testi del NT.
 Gregorio di Nazianzo († 390 d.C.): le sue opere in versi consentono di ricostruire tutto il
NT.
 Concilio plenario di Ippona (393): lista dell’AT e del NT.
 Anfiloco, vescovo di Iconio (396 ca.): lista dell’AT e del NT.
 Chiesa siriaca: nel 508 riconosce tutti i 27 libri del NT.
 Chiesa antiochena.
I libri apocrifi, cioè non riconosciuti come normativi né canonici:
 Per l’AT sono 71: es. Salmi di Salomone, gli Scritti sibillini; 3-4 Macc.
 Per il NT se ne contano 57: fra questi interessanti sono il Vangelo di Tommaso (di impronta
gnostica, riporta per lo più detti di Gesù), l’Apocalisse di Pietro, gli Atti di Pilato (secondo
la chiesa copta si sarebbe convertito al punto da essere stato canonizzato), il Vangelo di
Nicodemo, il Vangelo di Mattia, il Protovangelo di Giacomo (alcuni elementi sono
considerati come affidabili, tanto da fare oggetto dell’espressione artistica: es. nascita di
Maria, la sua presentazione al Tempio, il suo sposalizio con Giuseppe, i primi miracoli
compiuti da Gesù bambino), il Vangelo degli ebioniti (scritto di impronta giudeo-cristiano),
etc.
Gli apocrifi nascono soprattutto nel peiodo tra fine II secolo - inizi IV secolo (almeno un secolo dopo
la fissazione dei vangeli canonici) per colmare – sebbene in un’ottica di fede – la curiosità di
conoscere ciò che i vangeli canonici non riportavano circa la vita di Gesù. Ma essi lo fanno con toni
favolistici, miracolistici, e con una finalità ben altra rispetto ai libri canonici: i libri canonici intendono
raccontare non la vita di Gesù, ma la sua passione e morte, sicché tutto ciò che precede quei racconti è
propedeutico ad accogliere lo scandalo del Messia crocifisso (questo è molto ben evidente in Mc, che
inizia con il battesimo di Gesù; tutto ciò che è prima non era nell’interesse dell’evangelista e della
chiesa nascente → Mc diventerà il modello del genere ευαγγέλλιον).
La riforma protestante segue il canone ebraico per l’AT e per il NT dà un valore inferiore agli scritti:
Eb, Gc, Gda e Ap.
Nella chiesa cattolica già dalla fine del IV secolo (Concilio di Laodicea) le comunità condividono lo
stesso canone. Tuttavia, la definizione dogmatica del canone si avrà solo con il Concilio di Trento

38
(1546 d.C.), che fissa in modo definitivo l’elenco del canone delle Scritture, segnando la conclusione
del processo di canonizzazione.
5.3. Lista dei libri dell’AT

TaNaK AT greco
(in 3 parti) (in 4 parti)
Torah (5 libri) Pentateuco (5 libri)
Nebiim (21 libri) Libri storici (16 libri)
Gs, Gd, 1-2Sm, 1-2Re, Is, Gr, Ez, XII profeti Gs, Gd, Ruth, 1-2Sm, 1-2Re, 1-2Chr, Esd, Ne, Tob,
Giud, Ester, 1-2Mc
Ketubim (13 libri) Libri sapienziali (23 libri)
Sal, Gb, Pro, Ruth, Cant, Qo, Lam, Ester, Dan, Gb, Sal, Pro, Qo, Cant, Sap, Sir
Esd, Ne, 1-2Chr
Libri profetici (18 libri)
Is, Gr, Lam, Baruch, Ez, Dan, XII profeti
Tot. 39 libri Tot. 46 libri
[Deuterocanonici:
Tob, Giud, 1-2Mc, Sap, Sir, Baruch e parti di Dan e
di Ester]

La differente collocazione dei libri profetici nella Tanak e nell’AT cristiano rispecchia un
importantissimo aspetto teologico: nel canone cristiano i profeti sono spostati in avanti prima del NT
perché guardano al futuro e profetizzano l’avvento del Messia; nell’ottica ebraica i profeti sono posti
subito dopo la Torah perché guardano indietro e sono l’attualizzazione della Torah.
5.4. Lista dei libri del NT
Protocanonici (20 scritti): Mt, Mc, Lc, Gv, At, Rm, 1-2 Cor, Gal, Ef, Fl, Col, 1-2 Ts, 1-2 Tim,
Tit, Fil, 1 Pt, 1 Gv
Deuterocanonici (7 scritti): Eb, Gc, 2 Pt, 2-3 Gv, Gda, Ap.
5.5. L’AT dei cristiani
I cristiani aggiunsero all’AT il NT. Implicitamente si canonizza l’AT semplicemente citandolo nel NT. È
importante rilevare come i cristiani aggiunsero man mano come Scrittura sacra accanto alle Scritture
ebraiche gli scritti apostolici, pieni di citazioni dell’AT.
Le citazioni dell’AT nel NT offrono un ricorso alle Scritture simile a quello che si ha negli scritti di
Qumran: Sal al primo posto, segue Is, Dt e quindi gli altri libri della Torah.
Quando il cristianesimo esce dalla Palestina, l’annuncio di Gesù Messia è anzitutto fatto ad altri giudei di
lingua greca residenti fuori dalla Palestina. Essi prendono in modo naturale le Scritture disponibili durante
la diaspora, ovvero la traduzione greca dell’AT. Per i cristiani la Scrittura è in modo spontaneo la
LXX; e saranno i cristiani a copiare e tramandare la Bibbia greca.
Nel II secolo d.C., per la chiesa cristiana il concetto di canone era ancora aperto non solo per il NT, ma
anche per l’AT. Il problema del canone riguarda la seconda-terza generazione cristiana. Il fatto di

39
Marcione († 160 d.C.), che riduceva il canone al Vangelo di Luca e a una decina di lettere di Paolo, spinse
la chiesa a prendere posizione. Si suppone che lo sviluppo del canone sia da porre fra l’epoca di Marcione
e il canone muratoriano.
Da notare, però, che tra l’AT e il NT c’è solo la comunità cristiana che celebra Cristo. Nei 30-40 anni
tra la morte di Gesù la chiesa esiste e celebra sebbene in assenza ancora di una lista ben fissata del NT (ma
solo alcune tradizioni scritte): le comunità diffuse dalla diaspora leggono la Scrittura ebraica, ne fanno una
interpretazione cristologica (compimento della Scrittura antica nella passione e morte di Gesù),
interpretano la morte di Gesù come l’evento salvifico per eccellenza (la morte come avente valore
redentivo e salvifico) – dire che la morte di Gesù ottiene il perdono dei peccati suscita immediatamente
l’opposizione con la legge giudaica, perché immediatamente sconfessa il ruolo del Tempio (fino al 70
ancora in piedi) e con esso tutta la ritualità ebraica; si inizia a pensare che tutto questo non aveva più
valore. Solo dopo verrà la necessità di mettere per iscritto quanto era già celebrato, inziando proprio dal
racconto dell’istituzione dell’Eucarestia. Dunque, è la chiesa che produce il NT, fino al punto che questi
scritti aiuteranno la chiesa a perpetuarsi: una accoglienza credente degli scritti aiuterà la chiesa nella
evangelizzazione.
Inoltre, occorre osservare il pluralismo teologico esistente nella prima comunità cristiana, che si
riflette nel pluralismo di posizioni all’interno del canone. Non abbiamo un solo Vangelo, ma ben 4: il
ritratto di Gesù in Mc non coincide con il ritratto di Gesù di Mt né in Lc; è lo stesso Gesù ma con ritratti
originali che interpretano accentuazioni particolari. Il ritratto del IV Vangelo è molto diverso, ma non
meno autentico: mentre i tre sinottici sono rappresentazioni realiste, il IV Vangelo è più un’icona. Cfr.
anche la diversità di posizioni di Matteo e Paolo sulla Legge.
Il cristianesimo nasce pluriforme e questo trova testimonianza nel NT: questo pluralismo e pluformità di
teologie, cristologie, pneumatologie, ecclesiologie etc. che riflette la ricchezza straordinaria della
cristianità, viene canonizzata dogmaticamente! Questa diversità crea tensioni e problemi: chi dice la
verità? Ma è una ricchezza che suscita creatività. Con al fondo Gesù Cristo quale fattore di unità.

6. L’origine dell’idea di canone


6.1. Nella Bibbia
In Dt 13,1 fa capolino l’idea di canonizzazione e segna il passaggio incipiente verso la canonizzazione
di un testo:
“Vi preoccuperete di mettere in pratica tutto ciò che vi comando; non vi aggiungerai
nulla e nulla ne toglierai.”
Implicitamente c’è l’indicazione a non modificare qualcosa che è da considerarsi inalterabile e da
conservarsi. Nella Bibbia questa formula, con lievi varianti, s’incontra per altre 4 volte:
Dt 4,2:
“Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non toglierete nulla; ma osserverete i
comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.”
Qo 3,14 (completa):
“Ció che Dio fa è eterno e non si deve nulla aggiungere e nulla togliere, in questo modo si
ha timore di Dio.”
Ger 26,2 (proibizione di cancellare):

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“Non devi cancellare alcuna parola.” (Il profeta deve riportare tutto senza tralasciare
nulla).
Pro 30,5-6 (proibizione di aggiungere):
“Non aggiungere nulla alle sue parole, altrimenti egli (Dio) ti cita in giudizio e dimostra
che sei un bugiardo.”
Ma la formula si ritrova anche nel NT:
Mt 5,18:
“Il cielo e la terra passeranno, ma neppure uno jota o un apice della legge si perderanno.”
Ap 22,18-19:
“Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà
qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà
qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città
santa, descritti in questo libro.” [Ap è il libro più controverso nell’accettazione nel
canone, perché sin dall’inizio è il libro che più si presta ad essere usato dalle sette e dalle
eresie.]
Tuttavia, l’idea di canone non è esclusiva della fede ebraico-cristiana. Essa è presente parallelamente
anche in moltissime altre religioni e culture. La formula sopra riportata, benché non sempre in maniera
esplicita, ricorrono anche nelle letterature geograficamente limitrofe a Israele. Anche fuori di Israele,
infatti, in tempi piú arcaici, si sviluppa un processo di formazione del canone, nel senso di garanzia e
sicurezza nei rapporti umani (in caso di dispute), nella letteratura e nello scritto sacro.
6.2. Egitto
Kaghemni [2500 a.C.], sovrano della IV dinastia, nel dettare insegnamenti e norme etiche a
consigliare la moderazione per il figlio (visir), afferma:
“[…] Tutto ció che è scritto in questo libro, ascoltate come ho detto, non trasgredire ció
che è stato ordinato […].”
Ptahhotep [2300 a.C.]:
“Non togliere alcuna parola, né aggiungerla, non mettere alcunché al posto di qualche
altra cosa.”
Kheti [2100 a.C.], governatore di Assiut (IX-X dinastia), stabilisce:
“Se un funzionario ti invia a portare un’ambasciata, tu comportati in modo tale da non
lasciare nulla e da non aggiungere nulla.”
Amenemope [700 a.C. ca.]:
“Osserva questi 30 capitoli […] riempiti di loro (le parole) e mettile nel tuo cuore; sii un
uomo capace di interpretarle.”
6.3. Ittiti
Mursilis [1300 a.C. ca]:
“Su questa tavoletta io non vi aggiungo nulla e non tolgo nulla. Non so quali re prima
abbiano aggiunto o tolto qualche cosa.” Si aggiunge che la peste era scoppiata a causa del
fatto che non era stata rispettata l’integrità della formula.

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Suppiluliumas II [1200 a.C.]:
“Poiché non ho lasciato cadere nulla, non ho piegato nulla (ai miei interessi)”.
6.4. Assiria e Babilonia
Assurbanipal [669-631 a.C.]:
“Colui che cancella la mia iscrizione e vi mette il suo nome, Nabû, lo scriba di tutto,
voglia eliminarlo […].”
“Colui che modifica il giudizio o lo dimentica o lo cancella […] voglia Assur (divinitá)
stabilire per lui una cattiva sorte.”
Merodach-Baladan [722-711 a.C.]:
“Colui che anche in futuro questa stele toglie via, la versa nell’acqua, la seppellisce sotto
terra o la brucia nel fuoco […] vogliano gli dèi colpirlo con una maledizione”.
Il Codice di Hammurabi (scolpito su di una stele in basalto nero o diorite alta 204 cm, rinvenuta alla
fine dell’Ottocento nella città di Susa, ora conservata al Louvre), stilato durante il regno del re
babilonese Hammu-Rapi [regnante tra il 1792 e il 1750 a.C.], è una raccolta di 282 leggi e sentenze,
contenente anche la legge del taglione (cfr. Lv e Dt). Nell’epilogo del Codice sta scritto:
“Se questo uomo ha osservato le mie leggi che ho scritto in questa stele, se non ha
manomesso la mia legislazione, né ha revocato i miei decreti, questo uomo sará come me
un re del diritto […].”
6.5. Fenicia (attuale Libano)
Kilamuwa [840 a.C.] nella sua iscrizione dice:
“Colui che distrugge questa iscrizione (seper), voglia Baal la sua testa distruggere.” [Baal,
dio della fertilità, è un dio con cui si scontreranno i profeti di Israele: cfr. Elia e i
sacerdoti di Baal sul monte Carmelo.]
Iscrizione di Karatepe [720 a.C.]:
“Ma se qualcuno stabilisce di voler cancellare il nome ‘ZTWD da questa figura divina e
(stabilisce) di volerci scrivere un altro nome […] solo il nome ‘ZTWD voglia restare in
eterno come il sole e la luna.”
6.6. Grecia e Roma
Nell’ambito greco-romano si trova questa formula canonica nel foedus cassianum [493 a.C.]. Inoltre,
nei contratti di alleanza fra Roma e le città latine si trova esattamente questa formula:
“Non togliere nulla, non aggiungere nulla.”
Aristotele [384-322 a.C.], nella sua Etica a Nicomaco II, 5.10 scrive:
“Siamo soliti dire per le opere ben riuscite: non vi è nulla da togliere e nulla da
aggiungere, supponendo che eccesso e difetto rovinino la perfezione.” [I verbi usati sono
αφαιρέω [non togliere] e προστίθημι [non aggiungere], ovvero gli stessi verbi che la LXX
usa nella formula canonica in Dt 13,1).

7. Riflessioni conclusive sul canone


7.1. Punti salienti

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La differenza fra l’origine del canone e la costruzione di una teoria esplicita sul canone.
Man mano che cresce l’idea di una lista chiusa di alcuni libri e non di altri si produce una
riflessione sulla formazione del canone (“perché alcuni libri sono canonici e altri no?”). La lista
dei libri canonici come oggi appaiono è storicamente definitiva a partire dalla fine del IV secolo
(Calcedonia), sebbene la lista del NT è costruita con poche oscillazioni già alla fine del II
secolo; altra cosa rispetto a questo processo è la riflessione che si produce su di esso. Alcuni
argomenti – es. l’origine apostolica (es. Vangelo di Pietro) – sono espressi dai Padri della
Chiesa.
La differenza tra il fatto della formazione del canone e la recezione di questo canone.
Il canone non è stato accolto sempre da tutte le chiese contemporaneamente: la pluriformità del
NT riflette la pluriformità della chiesa primitiva, con lingue e culture, modi rituali, cristologie-
ecclesiologie-escatologie diversi → l’idea di universalità della Chiesa era ancora molto in
germe. L’oscillazione è ancora oggi percebile nelle chiese cristiane diverse dalla cattolica: la
formulazione dogmatica del canone del 1546 non è stata riconosciuta dalle chiese protestanti
come anche da quelle chiese orientali che hanno mantenuto la lingua greca (e che non hanno
sentito l’esigenza di traduzioni dalla LXX).
La differenza tra la scelta e l’ordine degli scritti e la fissazione nelle edizioni critiche della forma
testuale.
La formazione del canone e sua chiusura.
Il canone non è una regola o una determinazione posteriore della Chiesa a riguardo del
complesso degli scritti normativi (lista), cioè canonizzazione. Al contrario, il canone è un
fenomeno degli scritti, una coscienza profonda all’interno della formazione degli scritti stessi;
esso risente dell’atteggiamento della comunità di fede rispetto alla autorità intrinseca agli scritti.
7.2. Norme ermeneutiche
La canonizzazione opera un passaggio dal molteplice all’unità. La Bibbia non è un libro ma una
biblioteca: sono state canonizzate anche le diversità, dovute alla realtà storica nella quale e per la quale
ogni singolo libro e lettera sono stati scritti. D’altra parte, la molteplicità è anche unità.
Questo vale – ben prima della nascita del canone del NT – già per la Bibbia ebraica. La stabilizzazione
di scritti come canonici rende necessaria l’interpretazione di quei testi in situazioni storiche diverse:
ciò ha indotto la ricerca di norme ermeneutiche per adattare l’interpretazione dei testi ai nuovi
problemi e bisogni:
 Il principio dell’unità della Scrittura. Sebbene i libri ispirati siano stati scritti da autori
diversi, in tempi e contesti diversi, secondo generi diversi, essi insieme costituiscono la
Scrittura.
 Il principio secondo cui la Scrittura va letta con la Scrittura.
7.2.1. Legge scritta e legge orale
Il testo sacro per gli ebrei non è limitato alla Scrittura [Tanak], ma include il Talmud (scritto in ebraico
e aramaico) che è pienamente parte della fede ebraica anche dal punto di vista normativo.
Infatti, accanto alla “legge scritta” [Tanak] donata da Dio mediante Mosè, nell’ambito ebraico si è
fatta strada l’idea che Dio abbia donato sempre mediante Mosè anche una “legge orale” [torah šebecal
peh] – cioè che non fu messa per iscritto – avente un suo proprio contenuto e la stessa normatività
della legge scritta. Ancora oggi per gli ebrei è normativo non solo il Tanak ma anche altre leggi non

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scritte che furono tramandate oralmente attraverso Giosuè, i profeti e i saggi e infine anch’esse
codificate nella mišna e infine raccolti nel Talmud (esistente in due versioni: palestinese e babilonese).
Quando la legge scritta non era in grado di interpretare un fatto nuovo si faceva ricorso alla legge
orale, tipico procedimento farisaico e del giudaismo rabbinico.
7.2.2. I concetti di “canonizzazione” e “ispirazione” presso gli ebrei e i cristiani
Per gli ebrei la parte del canone più importante al più alto livello è la Torah, scritta obbligatoriamente
a mano e senza vocalizzazione e custodita ancora oggi in tutte le sinagoghe nell’arca santa, dove sono
conservati solo i 5 rotoli su pergamena della Torah (poiché non possono essere toccati, questi rotoli
sono aperti e letti usando uno yad [dito] d’argento). I profeti hanno una rilevanza minore, poiché sono
già visti come un invito alla osservanza della Torah: essi servono a spiegare e riaffermare la Torah.
Al contrario, per i cristiani tutti gli scritti dell’AT e del NT hanno lo stesso livello di normatività e di
ispirazione (cfr. DV 11 e 12).
7.2.3. Fattori di controllo
Per mettere degli argini all’arbitrarietà delle interpretazioni si introdussero dei fattori di controllo (es.
il rabbino HILLEL introdusse 7 regole di interpretazione), alcune delle quali coincidono con quelle
usate dai cristiani. In particolare:
1. Osservanza delle regole dell’interpretazione tradizionale [middôt];
2. Sviluppo della credenza nel carattere sacro di ogni parola.
7.3. La massora
Il fenomeno della massora [tradizione] non è che il risultato finale di questo cammino. A seguito delle
guerre giudaiche e della distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., nonché della seconda insurrezione
giudaica nel 130 d.C., tutti i movimenti in seno al popolo giudeo scomparvero, ad eccezione del
movimento farisaico-rabbinico insediantosi nell’alta Galilea. Qui essi conservarono queste tradizioni,
non solo copiando fedelmente il testo biblico ma anche fissandone il testo e l’interpretazione
(aggiungendo vocali e segni di pronuncia). Nasce il testo masoretico: il testo che oggi è usato come
fonte è il Codice di Leningrado (1007 d.C.).

5. L’ermeneutica

1. Premessa
2. Per uno studio scientifico della Bibbia: il metodo storico-critico [MSC]
2.1. L’interpretazione cristiana della Scrittura nel tempo
2.2. Cautela nell’uso delle traduzioni
2.2.1. Il ricorso ai testi originali
2.2.2. Il ricorso alle edizioni critiche
2.3. Inquadramento storico, culturale e critico dei testi
2.4. La pratica dell’esegesi
2.4.1. “Storia delle fonti” o “Storia delle tradizioni”
2.4.2. “Storia delle forme” o “Storia dei generi letterari”
2.4.3. “Storia della redazione”
3. I metodi sincronici

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4. Alcuni consigli metodologici e osservazioni generali

Teoria dell’ermeneutica e sviluppo del pensiero (filosofico, teologico e sp. biblico) sull’ermeneutica:
cfr. il manuale (in particolare, PAREYSON: noi non abbiamo accesso alla verità se non attraverso una
sua interpretazione)
Testi normativi:
 DV 12: presenta i principi fondamentali;
 PCB (1993): descrive i singoli metodi e approcci (iniziando dal metodo storico-critico) di
cui sono messi in luce punti di forza e di debolezza.

1. Premessa
Già nella fissazione del canone era emerso il problema dell’ermeneutica (cfr. le 7 o 13 regole
rabbiniche). “La Bibbia rilegge se stessa”: non solo nel senso della narrazione più di una volta di uno
stesso episodio (es. i vari racconti dell’Esodo, che caratterizza la storia civile e religiosa del popolo di
Israele), ma anche nel senso riattualizzazione del valore della Parola in una data situazione di una
comunità. La rilettura della Bibbia è già interpretazione: di fatto ciò costituisce l’ermeneutica biblica
che è intrinseca alla Bibbia.
→ Primo principio ermeneutico (valido per gli ebrei e i cristiani): la Bibbia va interpretata con la
Bibbia.
Nella sua etimologia la parola ‘ermeneutica’ viene dal dio Hermes, messaggero tra dio e gli uomini.
Da qui hermeneuein [interpretare] e hermeneia [interpretazione], con cui fu indicata l’interpretazione
dei testi antichi.

2. Per uno studio scientifico della Bibbia: il metodo storico-critico [MSC]


A livello scientifico è oggi considerato fondamentale – o comunque importante – dagli studiosi, dagli
esegeti e dai teologi, il MSC. È il primo metodo ad essere descritto nel documento IBC (1993). L’uso
di questo metodo è giustificato in base al principio dell’incarnazione: si deve usare il MSC in
analogia al fatto che il Verbo divino si è abbassato ad assumere la natura e la condizione umana e si
esprime con parole umane nelle Scritture. L’elemento storico e l’elemento critico sono giustificati
in base al principio analogico.
In realtà, il MSC è un complesso di metodi costituitosi soprattutto negli ultimi due secoli, organici e
complementari tra loro, ma alcuni procedimenti erano già applicati nell’antichità e continuano ad
applicarsi agli altri scritti antichi. Infatti, in assenza dei testi autografi un elemento chiave per
avvicinarsi all’ipotetico originale che non possediamo è la critica textus, che appartiene a tempi
antichissimi: cfr. ORIGENE, GIROLAMO; la midraš [draš = interpretazione] ebraica.
Dal punto di vista teorico il MSC risponde all’esigenza di leggere la Bibbia in modo “ragionevole”.
Il MSC ha ricevuto molte critiche anche all’interno della gerarchia ecclesiastica, perché è considerato
mettere in dubbio la verità della Scrittura. Ma di fatto il MSC analizza il testo dal punto di vista storico
e si pone delle domande.
Es. Per comprendere la strage degli innocenti in Mt occorre comprendere cosa l’evangelista abbia voluto
dire. Il Vangelo di Matteo presenta Gesù come il nuovo Mosè – il nuovo legislatore (cfr. la descrizione di
Gesù nel “Discorso del monte”, presentato come il nuovo statuto del cristiano). Dunque, l’intenzione del

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testo è di mettere in relazione la vicenda di Gesù bambino con la vicenda già vissuta di Mosè bambino:
Gesù è stato salvato al pari di Mosè per la sua missione.

Più di ogni altro metodo il MSC è un antidoto molto forte contro le letture soggettive
(fondamentaliste o letterali/letteraliste o spiritualistiche). Esegesi [dal greco ago (condurre, guidare) e
ek (fuori da)] significa estrarre il significato, dunque spiegare. Il rischio è di operare, esattamente al
contrario, una eisegesi [dal greco eis-ago], cioé l’introduzione nella Bibbia di un senso che essa non
ha.
 Il termine “critico” fa riferimento alla verificazione dei dati con criteri oggettivi vista
l’esigenza di leggere il testo in modo scientifico, senza asservimento ad elementi extra-
testuali (autorità, etc.).
 Il termine “storico” fa riferimento all’esigenza di collocare il testo nel suo tempo di
composizione per comprenderne le intenzioni e i significati originari (mediante la
comprensione dell’autore – personalità, intenzioni, fonti – e del Sitz im Leben – il contesto
vitale, la situazione storica e comunitaria in cui il testo si è originato). La domanda
sull’intenzione dell’autore è fondamentale: il primo contatto che si ha leggendo un testo è
quello con l’uomo che ne è autore, il quale in molti casi è reale, ma in altri casi è implicito
(es. Salmi). Dunque, il MSC è un metodo diacronico [dia: attraverso; chronos: tempo],
perché pone la domanda sul processo costitutivo del testo.
2.1. L’interpretazione cristiana della Scrittura nel tempo
Prima dell’avvento del MSC i cristiani hanno interpretato la Bibbia per allegoria. La lettura allegorica
era già presente nei commenti che FILONE D’ALESSANDRIA, influenzato dalla civiltà ellenistica, aveva
fatto delle Scritture ebraiche. Questo metodo passa quindi nella comunità cristiana con ORIGENE. Oltre
il primo passo dell’interpretazione letterale, il metodo allegorico è stata la via di uscita dal rischio di
una eisegesi del testo, rispondendo alle difficoltà che l’interpretazione dei passi più complessi poneva
basandosi soprattutto su un’interpretazione in chiave cristologica (cfr. AGOSTINO).
Questo è andato avanti fino alla scolastica. Fino a tutto il medioevo la lettura della Bibbia era riservata
ai soli ambienti monastici: solo i monaci facevano la lectio divina, mettendo in pratica il distico littera
gesta docet … [i gesti li mostrano i segno letterali, ciò che è da credere lo mostra l’allegoria, ciò che è
da fare lo mostra la morale].
Già prima della Chiesa cattolica, a fare per primo uso del MSC per interpretare la Bibbia è stata
l’esegesi protestante. Così, fino a prima del Concilio Vaticano II il MSC sarà visto con sospetto,
perché poneva come principio ermeneutico il Sola Scriptura (non più considerando la Tradizione
come elemento costitutivo della rivelazione) e sottolineava il senso letterale del testo.
La reazione avviene con il Concilio di Trento: è la Chiesa che deve interpretare la Bibbia,
sottolineando così il valore della Tradizione.
Sin dal suo sorgere il MSC è debitore di certe istanze che sono emerse a partire dall’illuminismo, per
quanto riguarda specialmente lo studio e la riscoperta dei testi dell’antichità.
Il MSC fu molto avversato e ha incontrato difficoltà in ambienti di fede cattolica: era in apparente
contrasto con una certa idea di ispirazione e di profezia; sembrava mettere in dubbio la paternità dei
libri della Scrittura (es. Mosè come autore materiale del Pentateuco); sembrava intaccare il valore dei
miracoli, la credenza nella verginità perpetua di Maria, etc.
Ma nel corso del Novecento una serie di documenti del magistero ha favorito l’accettazione del MSC:

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1. Divino afflante Spiritu (1943) di PIO XII: “semaforo verde” per leggere la Bibbia usando i
generi letterari.
2. Dei Verbum (1965) del CONCILIO VATICANO II.
3. L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) della PONTIFICIA COMMISSIONE
BIBLICA. Qui il MSC è considerato il cardine dell’esegesi come “metodo indispensabile per
lo studio scientifico dei testi della Parola di Dio” (p. 30). Un tale metodo è conforme al
principio stesso dell’incarnazione, mettendo in rilevo i caratteri propri della produzione
umana. Almeno a livello di magistero non è più sentito in contrasto con una lettura di fede,
ma propedeutico ad una lettura di fede: infatti, riposando sul metodo scientifico questo
metodo di per sé e considerato isolatamente potrebbe astrarre da una lettura di fede.
2.2. Cautela nell’uso delle traduzioni
Occorre servirsi delle traduzioni dall’originale, ma sempre con precauzione controllandole e
confrontandole col testo originale: ogni traduzione è già un’interpretazione, infedele rispetto al
testo originale. Le divergenze sulle traduzioni dicono di difficoltà incontrate dal traduttore. → “Qual è
la migliore traduzione?” è una domanda insufficiente: piuttosto “qual è la migliore traduzione per lo
scopo prefisso?”
 La TILC (Traduzione interconfessionale in lingua corrente) si distacca dal testo letterale
quasi a mo’ di parafrasi per semplificare il testo e darne un’interpretazione.
 NVP, CEI, Diodati sono traduzioni maggiormente letterali.
 CEI 2008: la nuova traduzione curata dalla CEI ha in molti casi notevolmente migliorato la
traduzione precedente (CEI 1971), avvicinandosi maggiormente al senso letterale del testo
originale e correggendo anche significativi errori precedenti di traduzione. Tuttavia, è un
compromesso tra le tre finalità perseguite, che sono tra loro in contrasto: (1) maggiore
fedeltà possibile al testo originale; (2) maggiore comprensibilità possibile per l’uomo
contemporaneo; (3) eleganza per una traduzione musicalmente adatta alla proclamazione e
al canto (salmi).
Esempi:
Mc 8,33: ύπαγε οπίσω μου σατανά (traslitt.: hypaghe opìso mu, satanâ)
CEI 1971: “Lungi da me, satana!”
Vulgata: “Vade retro me, satana!”
CEI 2008: “Va’ dietro a me, satana!” [cfr. Mt 4,10: hypaghe opìso, satanâ – “Vattene, satana”]

Mt 28,17: “Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; οι δέ έδίστασαν”


CEI 1971: “alcuni però dubitavano”
CEI 2008: “essi però dubitarono”.

1 Cor 11,10 (crux interpretum): “Per questo la donna deve portare sul capo un (segno di)
εξουσία (traslitt.: exusìa) a motivo degli angeli”
CEI 1971: “un segno della sua dipendenza” (traduzione condizionata dal pregiudizio della
subordinazione della donna all’uomo da cui Paolo non si sottrae).
CEI 2008: “un segno dell'autorità”.

2.2.1. Il ricorso ai testi originali

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Il MSC pone come prima domanda quella sul testo originale. Il modo più corretto di comprendere un
testo è di leggerlo nella lingua in cui è scritto: ebraico e aramaico per l’AT; greco per il NT e alcuni
libri dell’AT. Con l’eccezione di alcuni passi di Luca e della Lettera agli Ebrei, il greco del NT è
quello del I secolo (koiné), di molto semplificato rispetto al greco classico.
2.2.2. Il ricorso alle edizioni critiche
In particolare, per il NT si arriva a edizioni critiche, non possedendo più gli originali dei testi antichi
ma solo copie di copie. Qual è la copia più antica? La filologia (critica textus) fornisce gli strumenti
per tentare di ricostruire nel modo più fedele possibile la copia più prossima all’inesistente originale.
Esistono molteplici copie dell’originale NT, ponendo così un problema di ricostruzione:
 Gli errori apportati dai copisti
 Le informazioni essenziali sulle varianti (un’edizione critica consente di essere avvertiti
della situazione reale)
Cfr. la finale del Vangelo di Marco: Mc 16, 9-20. Molti manoscritti tra i più autorevoli e
antichi non hanno questa integrazione, fermandosi al v.8. Al contrario, i manoscritti più
recenti riportano la finale. Tuttavia, togliendo questi versetti il vangelo apparirebbe tronco,
terminandosi con la scena della tomba vuota da cui le donne scappano spaventate.
L’integrazione è stata dunque introdotta come canonica e ispirata (c.d. “finale canonica”),
ma non fa parte dell’originale di Marco. Non va pertanto presa in considerazione, qualora
si cerchi di interpretare questo Vangelo in sé e per sé (tutte le edizioni critiche del NT
segnalano almeno in nota questo fatto).
Cfr. l’episodio dell'adultera, che si legge normalmente in Gv 7,53-8,11. C’è una grande
discordanza nella tradizione manoscritta: non tutti riportano questo passo, mentre chi lo
riporta lo fa in posizioni diverse, collocandolo alcune volte in Luca (dopo il cap. 21).
Questo episodio ha valore genuino, ma ha un’autorità molto più lucana (trattando i temi
della misericordia e del perdono) che non giovannea; dunque, con molta probabilità non
appartiene al Vangelo di Giovanni. Pertanto non va preso in considerazione qualora si
cerchi di interpretare questo Vangelo in sé e per sé.
L’edizione critica più importante è il NESTLE-ALAND (giunto alla XXIX ed. nel 2012). Cfr. Nuovo
Testamento Greco-Italiano, a cura di B. Corsani & C. Buzzetti, Roma, Società Biblica Britannica &
Forestiera, 1996.

2.3. Inquadramento storico, culturale e critico dei testi


Per leggere e comprendere un testo del NT (ma anche dell’AT) occorre inoltre possedere anche
nozioni storiche e culturali su aspetti che erano famigliari ai lettori contemporanei e che pertanto i testi
dànno per scontati, mentre a noi possono risultare oscuri. Questo concerne specialmente:
La conoscenza dei gruppi sociali e religiosi al tempo di Gesù
I pubblicani (cfr. Lc 18, 9-14) furono istituiti al tempo di Erode il Grande per la riscossione delle imposte
presso il popolo in nome del re; essi non chiedevano solo quanto era dovuto, potendo aggiungere un
surplus; anzi, ne approfittavano al punto da fare delle vere e proprie ruberie. Erano dunque persone
detestate dal punto di vista sociale e considerate condannate dal punto di vista religioso. Il solo fatto che il
pubblicano fosse entrato nel Tempio suscitava scandalo.
I farisei [upokritès = persone che portano una maschera] erano persone profondamente e chiaramente
religiose: ringraziano il Signore, digiunano due volte la settimana, pagano la decima al Tempio su tutto

48
quanto possiedono. In Lc 18, 9-14 tutti guardavano con grandissima ammirazione al fariseo: perciò la
conclusione di Gesù (“Questi tornò a casa giustificato; l’altro invece no”) destò grande rabbia. →
Parabola nella direzione della polemica con il fariseismo.
I samaritani al tempo di Gesù erano considerati dai giudei come degli eretici. Eppure dei dieci lebbrosi
guariti da Gesù solo uno torna indietro a ringraziare, e quegli era un samaritano.
La normativa relativa ai lebbrosi secondo il Levitico (cfr. Mc 1,40-45 e paralleli).

La conoscenza della geografia dei luoghi cui i testi fanno riferimento: valore simbolico e teologico
Il valore di Gerusalemme per Lc-At (valore simbolico e teologico del viaggio di Gesù verso
Gerusalemme e del viaggio della Chiesa da Gerusalemme verso il mondo).
Il ruolo della Samaria ai tempi di Gesù; il rapporto tra Galilea e Giudea.

Questioni storiche: identificazione degli autori, datazione delle opere, unità o carattere composito
delle opere, etc.
Per l’AT: l’intero Pentateuco non ha come autore Mosè come vuole la tradizione; l’autore dei Salmi non è
Davide; il libro di Daniele non è stato scritto dal profeta del VI secolo a.C., ma risale probabilmente al
III-II secolo a.C. (caso di pseudonimia o pseudepigrafia per dare autorevolezza allo scritto); il libro di
Isaia non appartiene ad un unico autore, ma almeno a tre diversi autori.
Per il NT: alcune delle lettere attribuite a Paolo non sono dell’apostolo ma di suoi discepoli e riflettono
situazioni ecclesiali successive a Paolo.

2.4. La pratica dell’esegesi


Gli studi filologici e storici aiutano ad avvicinarsi al testo, ma restano in qualche modo alla periferia. È
l’esegesi complessiva che cerca e offre i mezzi per interpretare/spiegare i testi. Ciò avviene anzitutto
rintracciando l’intentio auctoris, ovvero le intenzioni e i significati originari voluti dall’autore e
recepiti dai diretti destinatari: questo fa capolino già nella Divino afflante Spiritu di PIO XII (1943),
poi ribadita nel documento sulla storicità dei Vangeli (1964) e infine nella Dei Verbum (n.12).
Termini tecnici. L’esegesi dell’AT e del NT si basa su un insieme di metodi storico-critici e tende a
elaborare la ricostruzione del testo a partire dalle sue fonti fino alla redazione finale:
2.4.1. “Storia delle fonti” o “Storia delle tradizioni”
Consiste nella ricerca delle tradizioni orali o scritte precedenti il testo. Analizza le caratteristiche del
testo partendo da alcuni indizi letterari (incoerenze, ripetizioni, doppioni, variazioni linguistiche e
stilistiche); procede al confronto con documenti simili, anche di altre culture religiose; e tenta di
individuare quale possa essere l’ambiente di origine. Esempi:
Per l’AT: l’ipotesi documentaria per il Pentateuco (nei 5 libri sono presenti delle fonti che rinviano a
tradizioni diverse); riconoscimento dell’esistenza di due racconti della creazione in Gen 1-2
(derivazione da fonti diverse?).
Per il NT: la “questione sinottica” (in che rapporto sono Mc-Mt-Lc? Quali le fonti a loro disposizione?);
confronto di versioni parallele di un brano (accertamento degli elementi comuni e delle differenze:
dipendenza da fonti indipendenti → molteplice attestazione?).

2.4.2. “Storia delle forme” o “Storia dei generi letterari”


Consiste nell’individuare nel testo parti che corrispondono a generi letterari. Esamina i caratteri e le
strutture formali, comparandoli con generi e forme corrispondenti di altre letterature e culture
religiose; ricerca i modelli ed eventuali dipendenze.

49
Saper identificare il genere letterario di un testo è necessario per non incorrere nel fraintendimento del
testo. Anche perché questi modelli hanno avuto un influsso sul modo di raccontare le cose. Il metodo
della “Storia delle forme” è un aspetto importante dello studio della Bibbia: spinge a lavorare sui testi,
a capire la funzione letteraria svolta dai vari elementi, a confrontare brani simili interni al medesimo
scritto o di altri scritti.
La “Storia delle forme” ha dato risultati importanti nell’esegesi dell’AT. Es. il riconoscere che i racconti
iniziali della Genesi appartengono al genere epico o mitico porta a ridimensionare le questioni storiche
relative alla creazione del mondo, al diluvio (ben prima della Bibbia l’Epopea di Gilgamesh narra di un
diluvio), etc.
Per il NT la “Storia delle forme” si è concentrata sui Vangeli e ha cercato di ricostruire la storia e le
origini delle varie “forme” letterarie di parole – “detti di Gesù”, “parabole” (seguono uno schema
espositivo specifico) – e racconti – miracoli, dispute, chiamata, annunciazione, etc. i Vangeli nascono da
raccolte a parte (è probabile che circolassero libelli delle parabole, libelli dei miracoli), poi inserite nel
racconto organico dagli evangelisti. I Vangeli non possono essere assorbiti nel genere delle biografie
antiche dei personaggi importanti (cfr. Mc 1: il Vangelo inizia con il battesimo di Gesù tralasciando la sua
infanzia).
Pone difficoltà la definizione del genere apocalittico e il rapporto tra i vari testi classificabili come
apocalittici: Apocalisse di Gv, il Libro di Daniele (definito a ragione come l’“apocalisse dell’AT” e che a
avuto una forte influenza su Gv), le apocalissi apocrife. Si trattava di un genere molto ben conosciuto
all’epoca.

2.4.3. “Storia della redazione”


Essa integra la “Storia delle forme”, perché si occupa di individuare e valutare il lavoro del redattore
finale (l’“evangelista”), cui vanno addebitate le scelte redazionali circa l’uso delle fonti e il modo in
cui sono cucite insieme. La lecita domanda circa l’intento dell’evangelista? Trova risposta nell’analisi
del modo in cui egli compone la narrazione, le inserzioni bibliche, etc.
La “Storia della redazione” porta a delineare la prospettiva teologica secondo cui ogni libro biblico è
stato redatto.
 Aiuta a leggere i libri dell’AT innanzitutto nella loro prospettiva giudaica originaria, senza
subito riportarli e appiattirli sulla prospettiva cristiana (cfr. PCB 2001).
 Porta a leggere i Vangeli non solo come resoconti di fatti ma già come interpretazioni
dettate e guidate da una specifica prospettiva di fede. I Vangeli non rappresentano un
accesso immediato a Gesù ma mediato, dove la mediazione è sì una deviazione ma
inevitabile (perché ogni redazione è già un’interpretazione sulla base delle categorie di chi
scrive) e necessaria (affinché il messaggio di Gesù sia attualizzato adattandolo alla
comunità cristiana nascente).
L’intervento del redattore è molto ben evidente in Lc 18, 9-14. L’introduzione (v.9) e la conclusione
(v.14b) della parabola sono quasi certamente dell’evangelista, che definisce la motivazione per cui
la parabola è raccontata e fornisce la “sua” chiave di lettura e il “suo” commento per la comunità cui
scrive, senza che questo coincida necessariamente con l’intenzione che Gesù aveva quando raccontò
quella parabola.

In questo modo le incongruenze storiche tra i Vangeli possono essere meglio spiegate e diventa meno
importante il cercare di comporre quelle incoerenze.

50
3. I metodi sincronici
I metodi costitutivi il MSC – l’unico “indispensabile” secondo IBC – sono prevalentemente di tipo
diacronico [analisi dello sviluppo del testo nel tempo]. Negli ultimi 30-40 anni si sono aggiunti nuovi
metodi – altrettanto importanti – che invece fanno perno su letture sincroniche [syn: con; chronos:
tempo] dei testi, considerando un testo così come esso è nella forma in cui ci è pervenuto con
l’applicazione di criteri più propriamente letterari.
Tra questi il primo che IBC presenta è l’analisi narrativa: è il metodo sincronico più importante
perché è quello che rispetta il genere letterario biblico, essendo la Bibbia per una grande parte (90%)
racconto. D’altro canto, prima dell’analisi narrativa i migliori autori antepongono delle premesse
fondamentali che rimandano al MSC: dunque, il MSC pone i paletti necessari ad evitare
fraintendimenti del testo e pone al testo domande storico-critiche; l’analisi narrativa fa emergere tante
altre potenzialità del testo che il MSC nella sua “aridità” può non mettere in luce.
Altri metodi sono l’analisi retorica, l’analisi semiotica, l’analisi strutturalista, etc. Compaiono
anche approcci e letture (più che metodi) sociologici, antropologici, psicanalitici, liberazionisti,
femministi, etc. Ogni metodo e approccio può contribuire dal suo punto di vista a fare emergere in
modo equilibrato la potenzialità del testo biblico. Cfr. «Commenti dal Diatessaron» di SANT’EFREM
[La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita]:
Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più
ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono
ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro
che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la
scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori,
perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella
roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi
mangiarono, dice l’Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).
Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre
ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una
sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò
impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati
perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui
che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio
che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza
che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece
saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai
ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa
tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della
tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l’impudenza di voler
prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da
ciò che potresti ricevere solo un po’ alla volta.

Alcuni rischi: letture che si distaccano dal testo nel senso del soggettivismo, moralismo,
devozionismo. Sulla “lettura fondamentalista” cfr. IBC p. 62.

4. Alcuni consigli metodologici e osservazioni generali


 Non esiste un solo metodo valido: occorre di volta in volta applicare i suggerimenti dei
diversi metodi.

51
 Di fronte alla varietà di metodi e approcci il primo criterio da applicare è il rispetto del
testo: a seconda del testo che si analizza, bisogna scegliere il metodo che consente di
meglio leggerlo.
 Evitare di usare un solo metodo: ma integrare almeno due metodi (es. il MSC e l’analisi
narrativa) al fine di evitare letture unilaterali.
 È da escludersi ogni lettura letterale/letteralista e fondamentalista.
In particolare:
 Fare attenzione alle parole del testo stesso, per cogliere i punti su cui l’autore insiste.
 Collocare ogni passo nel suo contesto, evitando di estrapolare singole affermazioni.
 Cercare di cogliere gli indizi sugli obiettivi (catechetici, polemici, apologetici, etc.), sui
possibili destinatari (anche quando non è possibile identificarli in modo certo è una
domanda che ci pone sulla buona strada).
 Individuare i punti di riferimento: i modelli, i richiami, le citazioni, l’attenzione ai
riferimenti, espliciti o impliciti, a figure, immagini, episodi dell’AT.

6. Il Nuovo Testamento: formazione del testo e critica testuale10

1. I testimoni del testo del NT


1.1. Nelle edizioni critiche
1.1.1. I papiri
1.1.2. I manoscritti maiuscoli (o onciali)
1.1.3. I manoscritti minuscoli
1.1.4. I lezionari
1.1.5. Le traduzioni
1.1.6. Le citazioni dei Padri
2. La critica testuale (critica textus)
2.1. Princìpi di critica testuale
2.1.1. Le prove esterne
2.1.2. Le prove interne
2.2. Le congetture (divinationes)

1. I testimoni del testo del NT


Non abbiamo alcun manoscritto originale degli scritti che compongono il NT, ma solo delle copie che
spesso sono copie di altre copie. I testimoni del testo del NT sono tipologie molto distinte di
documenti:
 Papiri: sono i documenti più antichi (II secolo) e rari, di cui solo pochissimi sono giunti a
noi.

10
Bibliografia di riferimento: K. & B. Aland, Il testo del Nuovo Testamento, tr. it., Marietti, Genova 1987; A.
Passoni dell’Acqua, Il testo del Nuovo Testamento. Introduzione alla critica testuale, LDC, Torino 1994; B.M.
Metzger, Il testo del Nuovo Testamento. Trasmissione, corruzione e restituzione, ed. it., Introduzione allo studio
della Bibbia, Suppl. 1, Paideia, Brescia 1996 (orig. Oxford 1992).

52
 Manoscritti: scritti su pergamena11 (III-IV secolo) sia in maiuscolo (solitamente gli
esemplari più antichi) sia in minuscolo.
 Lezionari: antologia di brani copiati a parte ad uso liturgico (dal V secolo).
 Traduzioni nelle varie lingue antiche (latino, siriaco, copto, etc.) che conosciamo
mediante manoscritti ed edizioni relative a questo periodo.
 Citazioni bibliche riportate dagli autori cristiani antichi: i Padri apostolici o Padri della
Chiesa citano spesso da fonti che non abbiamo più.
Il numero dei testimoni della tradizione manoscritta è molto grande e continua ad arricchirsi grazie a
ricerche molto accurate. Oggi risultano oltre 5500 testimoni diversi così ripartiti all’aggiornamento del
2004: 115 papiri, 309 manoscritti maiuscoli, 2862 manoscritti minuscoli, 2412 lezionari. I libri del NT
furono copiati molto più di ogni altro testo a loro contemporaneo: es. per l’Iliade si contano 457
papiri, 2 manoscritti maiuscoli e 188 manoscritti minuscoli.
1.1. Nelle edizioni critiche
Questo numero così elevato di testimoni, unito al fatto che nessuno di essi contiene tutto il NT ma solo
parti o finanche solo frammenti, comporta un altissimo numero di varianti (testi che riportano lo stesso
brano con delle variazioni spesso su questioni veramente piccole). Di conseguenza, tante sono le scelte
da compiere, non sempre facili, nella scelta tra le varie versioni. Per un’edizione critica si devono
confrontare tutte queste fonti.
Nelle edizioni critiche (si veda in particolare quella del NESTLE-ALAND, ad oggi la più aggiornata (1a
ed. 1898, 28a ed. 2012) l’apparato critico posto a fondo pagina mira a fornire il maggior numero
possibile di informazioni sullo stato della questione intorno ai passi che presentano varianti tra i
testimoni. Per ogni variante indica i testimoni in ordine di importanza:
1. I papiri (per primi perché i più antichi e più rari). La sigla usata è P (talora – come nel
46 65
NESTLE-ALAND – scritta in carattere gotico) seguita da un numero in esponente P , P ,
etc.
2. I manoscritti maiuscoli. I manoscritti scoperti per primi vengono tuttora indicati con
lettere maiuscole o dell’alfabeto latino (A, B, C, D, etc.) o dell’alfabeto greco (Q, D, etc.).
Il Codice Sinaitico, scoperto da C. von Tischendorf nel 1859, fu da lui designato con la
prima lettera dell'alfabeto ebraico, ‫׳[ א‬alef ]. I manoscritti maiuscoli con numeri arabi
preceduti da uno zero (0233, 0250, ecc.); i primi manoscritti hanno una doppia sigla (es. A
è anche 02, B è anche 03, per il codice Vaticano etc.).
3. I manoscritti in minuscola. Sono indicati tutti con numeri arabi (fino al 2760).
4. I lezionari. Sono indicati con una l corsiva seguita dal numero d’ordine.
5. Le traduzioni. Sono indicate con abbreviazioni in lettere latine minuscole: it (= Itala,
antiche versioni latine anteriori alla Vulgata), vg (= Vulgata), latt (= tutte le versioni
latine), sy (= traduzioni siriache), co (= traduzioni copte), etc.
6. Infine i Padri. Le citazioni patristiche sono indicate con abbreviazioni dei nomi latini dei
Padri: Ir (= Ireneus), Or (= Origenes), etc.

11
Il nome deriva dalla città di Pergamo, dove fu inventata attorno al II secolo a.C., quando l’Egitto smise di
esportare il papiro, a causa della concorrenza culturale fra il sovrano egiziano Tolomeo V e il re di Pergamo
Eumene II [196-158 a.C.].

53
I testimoni sono classificati secondo l’ordine del loro ritrovamento. Nelle Bibbie da studio più
importanti sono riportate in nota le varianti più rilevanti.
Si veda come esempio la pagina del Prologo di Luca:

1.1.1. I papiri
L’importanza dei papiri è data dal fatto di essere le fonti testimoniali più antiche: sono databili ai primi
decenni del II secolo. Il primo criterio della critica testuale è: più una fonte è antica, più essa è
“pesante” (affidabile, rivelante).
52
In assoluto il testimone più antico del NT è il P (presso la John Rylands Library): è datato al 125
d.C. e contiene un frammento di Giovanni: Gv 18,31-33(recto).37-38 (verso). Questo è prova che nel

54
125 esisteva già il Vangelo di Giovanni, che la critica storica ci dice essere stato l’ultimo dei vangeli
ad essere scritto: è dunque un papiro molto vicino all’originale.

Recto Verso

Verso il 200 sono datati rispettivamente:


46
- il P (presso il Chester Beatty di Dublino) che contiene nove epistole paoline. In allegato l’incipit
della lettera agli Ebrei:

55
66
- il P , di ben 104 pagine, contenente alcune parti di Giovanni (Gv 1-6; 6-14). In allegato il Prologo
Gv 1,1-14:

56
1.1.2. I manoscritti maiuscoli (o onciali)
Sono quasi tutti databili tra il IV e il IX secolo. Infatti, nel IX secolo sarà introdotta la scrittura
minuscola e si smetterà del tutto di usare la maiuscola. Pochissimi sono gli onciali anteriori al IV
secolo (cinque in tutto).
I più importanti sono:

57
- (o S) o 01 o codice Sinaitico: è del IV secolo (presso il British Museum). Originariamente
conteneva tutta la Bibbia greca, oggi l’unica copia che ne abbiamo contiene tutto il NT in greco. È
uno dei codici più “pesanti” esistenti.12

- A o 02 o codice Alessandrino: è del V secolo e contiene AT e NT con alcune lacune (es. per il NT
manca del tutto il Vangelo secondo Matteo). La validità di questo manoscritto è varia: è importante
soprattutto per l’Apocalisse. È stato copiato da diverse mani.
- B o 03 o codice Vaticano: è del IV secolo e contiene AT e NT con alcune lacune (es. per NT
mancano alcune lettere paoline e l’Apocalisse). È il primo codice che contiene una suddivisine del
testo.

12
Cfr. http://www.codex-sinaiticus.net/en/manuscript.aspx?book=34&lid=en&side=r&zoomSlider=0.

58
- D o 05 o codice di Beza o Cantabrigiensis (Cambridge): è del V secolo ed è bilingue, con greco e
latino a fronte. Negli Atti degli apostoli D è più lungo di circa un decimo rispetto al testo
comunemente tramandato (quasi 3 capitoli in più rispetto ai 28 capitoli tramandati). Presenta i
vangeli in questo ordine: Matteo, Giovanni, Luca e Marco. Ha numerose varianti, omissioni e
aggiunte.

1.1.3. I manoscritti minuscoli


Sono molto più numerosi dei maiuscoli, ma anche più tardi (IX-XV secolo). I più antichi sono quelli
tra IX e XIII secolo: sono in genere i più corrotti, ma possono anche contenere lezioni (= versioni)
valide e interessanti. I più recenti arrivano fino al XV secolo.

1.1.4. I lezionari
Il lezionario più antico è l 1596, del V secolo. Non riportano mai i testi dell’Apocalisse: questo
significa che l’Apocalisse non veniva letta nella liturgia, a motivo della difficile accoglienza ricevuta
nel canone. Non sono anteriori al IX secolo. I due lezionari del IX secolo sono tra i pochi testimoni
della finale originale di Marco.

1.1.5. Le traduzioni
Traduzioni nelle varie lingue antiche (latine, siriache e copte, ma anche armene, georgiane, etiopiche,
gotiche, paleoslave, etc.) risalgono già al II secolo.
Traduzioni latine del NT. Fino al III secolo la liturgia usava il greco anche in occidente (es. Paolo
scrive la Lettera ai Romani in greco); tuttavia, perdendosi l’uso del greco si impone la necessità di

59
traduzioni in latino: inizialmente sono traduzioni molto letterali sul greco, preziose per la ricostruzione
del testo greco da cui provengono.
Il NT fu tradotto in latino già a partire dal II secolo nell’Africa del Nord, e poi in Italia, Gallia, etc.
- Vetus latina. Il più importante è il Codex Bobbiensis. Scritta in Africa nel V secolo, non
indica una singola traduzione, ma un complesso di traduzioni in latino anteriori alla Vulgata.
Non abbiamo ancora un’edizione critica completa della Vetus latina: si sta realizzando
un’edizione critica che però si basa essenzialmente sulle citazioni latine dei Padri e non su
manoscritti.
- Vulgata. Traduzione latina del NT databile attorno al 380. Mentre è certo che GIROLAMO
abbia tradotto in latino le Scritture ebraiche, il NT è solo attribuibile a lui: Girolamo, infatti,
non ha fatto ex novo una traduzione del NT in latino, ma si limita a mettere insieme e
revisionare traduzioni già esistenti. Nella tradizione romana la Vulgata si impone solo a
partire dal VII secolo, mentre fino a quel momento si faceva riferimento unicamente alla
LXX. Fu riconosciuta in modo ufficiale solo con il Concilio di Trento con le edizioni
promosse da SISTO V (1590) e CLEMENTE VIII (1592).
- La neo-Vulgata (1979) è il testo ufficiale della Chiesa latina e l’editio typica per le citazioni
nei documenti ufficiali.
Traduzioni siriache del NT. Sono molto importanti perché sono antiche (IV-V secolo), a parte la
versione siriaca del Diatessaron di TAZIANO (questi – ripreso poi da EFREM – ha realizzato una
operazione di fusione dei 4 vangeli in un solo testo).
 La Vetus syra – fine IV - V secolo (sy s)
 La Peschitta o Vulgata siriaca (sy p)
 La versione detta filosseniana (sy ph)
 La versione detta harclense (sy h)
 La versione siro-palestinese
Traduzioni copte. Ci sono almeno 6-7 versioni importanti. Ci sono 5/6 varietà dialettali del copto.

1.1.6. Le citazioni dei Padri


Sono fonti utili perché includono numerosissime citazioni bibliche, alcune delle quali anche molto
estese, al punto da consentire di ricostruire quasi tutto il NT! Questo significa che i Padri della Chiesa
conoscevano la Bibbia, in particolare il NT, a memoria: ogni singolo Padre aveva una tale familiarità
di memoria con e un tale amore per il testo biblico che potevano dire qualsiasi cosa di utilità teologica,
pastorale, etc. citando esclusivamente la Bibbia.
Particolarmente importanti sono le citazioni (letterali) dei Padri del II-IV secolo: Ireneo, Origene,
Cipriano, Eusebio di Cesarea, etc.

2. La critica testuale (critica textus)


La critica testuale è la base del MSC, perché riguarda l’accertamento dell’affidabilità dei testi
antichi, inclusi tutti i libri biblici. I filologi operano su tutto il materiale della tradizione manoscritta,

60
discutendo e valutando in modo specifico i problemi delle varianti presenti nei testimoni del testo, fino
alla redazione di un’edizione critica.
La critica testuale è una tecnica sofisticata esito di secoli di ricerca e di applicazione, che dunque
esisteva già nell’antichità: già ORIGENE e GIROLAMO avevano comparato le varianti a loro
disposizione.
A livello scientifico, quindi in senso moderno, la critica testuale è sorta nel 1800, ben 300 anni dopo
l’invenzione della stampa e la conseguente diffusione delle Bibbie stampate. La critical textus
moderna nasce (influenzata anche dall’illuminismo e dal positivismo) come critica al lavoro degli
editori per incrinare la rigidità del textus receptus, ossia della forma del testo più diffusa e autorevole
che si era imposta fino al Settecento (gli editori dell’epoca, infatti, avevano a disposizione uno,
massimi due, manoscritti da cui stampavano) e per contrastare le resistenze a modificarlo (introdurre
delle varianti ai testi già pronti per la stampa significava incrementare i costi di stampa).
La ricerca archeologica porta ad incrementare costantemente il numero dei testimoni fino ad arrivare
ai quasi 6000 esemplari oggi disponibili: es. la scoperta dei rotoli di Qumram nel 1947, che non
possono essere in alcun modo trascurati.
Nonostante i progressi, oggi non si è ancora arrivati a risultati definitivi su tutti i punti dubbi,
soprattutto perché alla luce dei nuovi studi taluni manoscritti acquisiscono maggior autorevolezza.

2.1. Princìpi di critica testuale


In quanto scienza la critica textus ha una sua epistemologia, con dei principi e dei criteri scientifici per
la scelta tra diverse lezioni (o varianti) di quella che più plausibilmente è quella originaria. Detti criteri
sono le c.d. “prove esterne” e le “prove interne”.
2.1.1. Le prove esterne
Le prove esterne consistono nella ricerca dei papiri e dei manoscritti e in un loro raggruppamento
secondo il testo che riportano. Bisogna vedere quali sono i testimoni più autorevoli.
1. Primo criterio è l’antichità. Sono generalmente ritenuti più importanti e affidabili i
testimoni più antichi. Ma non in senso assoluto.
2. Secondo criterio è la molteplice attestazione. Si tiene in considerazione il fatto che una
lezione sia attestata da più testimoni validi: più sono i testimoni, più è affidabile una
variante.
Per il NT si procede in questo modo:
I. Al primo posto si pone il cosiddetto testo bizantino o koiné, che è quello rappresentato
dalla grande maggioranza dei manoscritti (mss) antichi. Prevalse nella chiesa greca e fu il
più usato fino al XVI secolo; di fatto fu il textus receptus che fu stampato per primo dagli
editori. Bibbia Complutense.
II. Anteriore al testo bizantino è il cosiddetto testo occidentale (in realtà una famiglia di
manoscritti) rappresentato dai due mss. del V e VI secolo indicati con la sigla D. Per il
testo degli Atti il tipo occidentale ha un testo più lungo quasi del 10% rispetto a quello
riportato da altri tipi testuali.
III. Il tipo testuale più apprezzato è quello alessandrino, ritenuto il più genuino e indipendente,
rappresentato principalmente dai e attingente ai codici Sinaitico (Å) e Vaticano (B), del IV
secolo, ma anche da alcuni papiri molto antichi (P66 e P75 soprattutto).

61
IV. Nel Novecento è stato individuato il testo cesariense o palestinese. Famiglia di testi
appartenenti ad un unico ceppo.
In ogni caso le prove esterne vanno confermate dalle prove interne.
2.1.2. Le prove interne
Le prove interne al testo sono i criteri specifici che guidano a scegliere tra le varianti, sia tenendo
conto delle tendenze più comuni nei copisti sia tenendo conto dello stile dell'autore stesso.
Es. L’analisi della sintassi, del linguaggio, etc. all’interno di un singolo Vangelo può evidenziare come
un evangelista tenda ad utilizzare una data parola sempre con l’articolo: allora la prova interna è che,
sebbene in alcune varianti non compaia, quell’autore riporta quella parola con l’articolo.
Errori più comuni. Ci sono due tipologie di errori:
 Errori inconsci che sono dovuti alla limitatezza del copista:
 Aggiunte (dittografia)
 Omissioni (aplografia)
 Inversioni (in fine parola-inizio parola)
 Confusioni di lettere
 Altri errori sono invece imputabili a decisioni coscienti dei copisti, non per voluta infedeltà
ma per:
 Destinazione di una copia ad uso personale del copista
 Introduzione di eleganze stilistiche (irresistibile tentazione del copista di –)
 Introduzione di varianti per risolvere difficoltà di tipo teologico. Rendere quindi il
testo più semplice da capire. (Mc 13, 32: problema teologico, se Gesù è Dio come si
può dire che lui non sa? Alcuni manoscritti omettono la frase che fa problema).
I criteri testuali interni sono:
1. Lectio difficilior (prestat facilior): il testo originario è un testo di difficile comprensione,
che il copista tende a semplificare; dunque, è da preferirsi una versione più difficile rispetto
ad una più comprensibile.
2. Lectio brevior: la tendenza dei copisti è di armonizzare, spiegare, rendere stilisticamente
più elegante il testo; dunque, è da preferirsi una versione più breve rispetto a una più lunga.
3. Si sceglierà una versione che presenta discordanze rispetto ai paralleli e ai testi citati.
4. L’usus scribendi dell’autore.

2.2. Le congetture (divinationes)


La critica testuale è più un’arte che una scienza esatta e, anche se esistono delle regole utili, nessuna
va applicata in modo meccanico.
Tra le varianti va scelta quella che spiega meglio l’origine delle altre, che sta a monte e precede le
altre.
La congettura (o divinatio), cioè l’introduzione di testo che non figura in nessun testimone al fine di
rendere più agevole la lettura o la comprensione, è quasi sempre da evitare salvo sia una extrema ratio.

62
Es. Nell’edizione NESTLE-ALAND risultano in tutto circa 200 congetture individuate con le parentesi
quadre (le doppie parentesi quadre individuano, invece, es. la finale di Marco, stampata in ogni caso
con caratteri diversi in ogni Bibbia da studio).
Alcuni esempi (figurano in nota anche in alcune Bibbie di studio):
 Mt 27,16-17: Barabba o Gesù Barabba?
È un problema testuale ritenuto da Nestle-ALAND di difficile risoluzione e messo tra parentesi quadre.
Una parte dei testimoni, non tra i più pesanti (il codice maiuscolo Q, un gruppo di minuscoli, ossia f1 e
700
, una versione siriaca, ma anche alcuni codici noti a Origene) lo designa come Gesù Barabba:
“Avevano allora un prigioniero famoso detto [Gesù] Barabba. Mentre dunque erano
riuniti Pilato disse loro: Chi volete che vi liberi: [Gesù il] Barabba o Gesù detto il
Cristo?”
“Gesù Barabba” costituisce una lectio difficilior: il copista si trova davanti all’imbarazzo
dell’attribuzione del nome Gesù a Barabba. Se prove esterne sarebbero a favore dell’omissione,
secondo la lectio difficilior è dunque probabile che Barabba si chiamasse effettivamente Gesù.
Dunque, i copisti hanno omesso il nome di Gesù o perché faceva ombra a Gesù o perché creava
confusione (era un nome molto diffuso all’epoca).
 Mt 8,7: Una domanda o un’affermazione?
È in questione la punteggiatura da usare nella risposta di Gesù alla domanda del centurione di guarire
il suo servo. È un problema non della tradizione manoscritta (i manoscritti, infatti, non riportano la
punteggiatura), ma delle scelte editoriali degli editori moderni.
Secondo alcuni Gesù risponde: “Io verrò e lo guarirò” (espressione di disponibilità); secondo altri:
“Dovrei io venire e guarirlo?” (espressione di perplessità). Entrambe le soluzioni sono plausibili: nel
secondo caso emerge la difficoltà di Gesù e dei suoi discepoli di entrare in casa di un pagano.
L’edizione critica NESTLE-ALAND e la traduzione CEI adottano la forma affermativa; in nota alla
traduzione viene però segnalata la forma interrogativa.
 Mc 1,41: Un Gesù “impietosito” o “adirato”?
Gesù (traslitt.) splangniszèis [“mosso a compassione”], stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio,
sii purificato”.
In luogo di questa esiste anche la variante (traslitt.) orghiszèis [“incollerito”, “adirato”] (cfr. il codice
D e codici dell’antica versione latina).
Si tratta però di testimoni tutti del testo occidentale: dunque, la prova esterna è a favore della lezione
splangniszèis. La variante orghiszèis è stata forse introdotta per indicare una reazione negativa di Gesù
alla violazione della legge compiuta dal lebbroso nel momento in cui si avvicina a Gesù?
Un elemento per preferire orghiszèis è la lectio difficilior.
Marco attribuisce la collera a Gesù anche in un’altra situazione di miracolo in Mc 3,5: nell’episodio
della guarigione dell’uomo dalla mano inaridita, Gesù guarda i presenti (traslitt.) met’orghés [“con
collera”].
 1 Cor 13,3 [“Inno alla carità”]
καὶ ἐὰν ψωμίσω πάντα τὰ ὑπάρχοντά μου, καὶ ἐὰν παραδῶ τὸ σῶμά μου, ἵνα
καυχήσομαι, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐδὲν ὠφελοῦμαι.

63
CEI 2008: “E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per
averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.”
Critica testuale presente nel Nestle-Aland: Paolo ha scritto ἵνα καυχήσομαι [“che io possa vantarmi”]
oppure ἵνα καυθήσομαι [“che io sia bruciato”]? Per rispondere a questa domanda – dove è in dubbio
il significato stesso della parola e della proposizione – occorre valutare alcune considerazioni tutte
ugualmente importanti.
In sostegno alla lezione καυχήσομαι si possono richiamare:
- L’evidenza esterna che è sia antica che pesante: P46 (III-IV secolo), ‫ א‬A B 6 33 69 1739*
copsa.bo gothmg; inoltre, Clemente, Origene, Gerolamo, e mss grecisec.Gerolamo.
- Considerazioni sui processi (psicologici) di trascrizione: dei copisti, incerti del significato
inteso da Paolo legando l’idea di “gloria” o “vanto” alla precedente frase sul dono del
proprio corpo, può ben aver cercato di migliorare il senso sostituendovi la parola, simile
quanto al suono, καυθήσομαι.
- Ugualmente considerazioni di carattere intrinseco: il verbo ricorre frequentemente nelle
lettere tradizionalmente attribuite a Paolo (un totale di 35 volte) nel senso che ciò che è
vanto per il mondo è rigettato dal vangelo.
D’altro canto, a sostegno di καυθήσομαι / καυθήσωμαι in questo luogo intervengono:
- Un impressionante numero di testimoni anche importanti, inclusi onciali (C D F G K L
Y), molti minuscoli (it vg syrp.h gothtxt arm ethpp) e numerosi scrittori patristici (compresi
Tertulliano, Afraate, Cipriano, Origene, Basilio, Crisostomo, Cirillo, Teodoreto, Eutalio,
Massimo il Confessore, Damasceno).
- Si è pensato che nel contesto καυθήσομαι sia tanto appropriato quanto καυχήσομαι non lo
sia, per il riferimento al “bruciare”: infatti, sia il martirio (come i tre fanciulli ebrei in Dan
3,15ss.) sia un volontario consegnarsi alle fiamme è adatto come il più impressionante
esempio di sacrificio; inoltre, se il motivo di dare la vita è orgoglio e gloria propria, non ci
sarebbe bisogno di dichiarare che tale sacrificio è privo di valore, e pertanto l’affermazione
successiva di Paolo – ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω – diverrebbe superflua.
Una maggioranza del comitato Nestle-Aland ha preferito la variante καυχήσομαι per i motivi seguenti:
(a) Dopo che la Chiesa entrò nell’epoca del martirio, in cui la morte per rogo non era rara, è
più facile intendere come la variante καυθήσομαι per καυχήσομαι possa essersi introdotta
nel testo, che non il caso contrario. Ugualmente il passo di Dan 3,15ss. fu ben noto nella
Chiesa e può facilmente aver indotto un copista ad alterare καυχήσομαι in καυθήσομαι.
D’altro canto, se la seconda lezione fosse originale, non ci sarebbe una buona ragione per
spiegare la sua sostituzione nelle copie più antiche sulla base dell’altra lezione.
(b) L’espressione παραδῶ τὸ σῶμά μου, ἵνα καυθήσομαι, pur certamente tollerabile in sé, è
chiaramente ingombrante (“Io do il mio corpo, affinché io possa essere bruciato”); ci si
potrebbe aspettare, con un’espressione più naturale, ἵνα καυθή [“affinché esso sia
bruciato”]. Ma nel caso di καυχήσομαι questa difficoltà scompare.
(c) La lezione καυθήσομαι (= congiuntivo futuro!), sebbene appaia occasionalmente negli
scritti dell’età bizantina, è un monstrum grammaticale tale da non poter essere attribuito a
Paolo (cfr. BD §28; Moulton-Howard, p. 219); talvolta, dopo ἵνα ricorre il futuro indicativo
(cfr. Gal 2,4; Fil 2,10-11) ma non certamente il congiuntivo futuro.

64
(d) L’argomento per il quale la presenza dell’affermazione “che io mi possa gloriare” distrugge
il senso del passo, che allora perde un po’ della sua forza quando si osservi che per Paolo
“gloriarsi” non è invariabilmente reprensibile; talvolta lo considera giustificato (cfr. 2Cor
8,24; Fil 2,16; 1Ts 2,19; 2Ts 1,4).
In ogni caso si tratta della scelta del comitato NA, che spiega adeguatamente il perché della scelta di
una variante in luogo di un’altra.

7. L’Antico Testamento: formazione del testo e critica testuale13

1. L’edizione “critica” della Scrittura ebraica


1.1. I manoscritti più importanti dell’ebraico
1.2. Le edizioni del testo ebraico
1.3. Differenza tra il testo dell’AT e del NT
2. La masora e i masoreti
2.1. Il testo consonantico
3. Critica testuale dell’AT
3.1. Il confronto dei codici
3.2. Confronto delle lezioni: esempi
3.3. Ricostruzione del testo (congetture)

1. L’edizione “critica” della Scrittura ebraica


Per il NT ci sono diverse edizioni critiche che non corrispondono per intero ad alcun testimone (del
NT ci sono ben 250.000 varianti!). Invece, per l’AT una vera e propria edizione critica non esiste,
perché la Bibbia ebraica è pubblicata in edizioni che riproducono fedelmente il testo di un solo
manoscritto intero: il Codice di Leningrado (= la Bibbia masoretica, esito del lavoro dei masoreti dal
VI al X secolo d.C.). Si può chiamare “critica” solo perché non nel testo ma ai margini superiore e
inferiore o a lato e tra le colonne del testo o alla fine del manoscritto è eventualmente aggiunto un
apparato critico in cui sono raccolte una scelta di varianti tratte da altri manoscritti e dalle versioni
antiche, nonché le principali “congetture” avanzate dagli studiosi per sanare i passi che paiono corrotti.
1.1. I manoscritti più importanti dell’ebraico
 Il più antico conosciuto è il CODICE DEI PROFETI DEL CAIRO: scritto (vocalizzato) e
punteggiato da Moshe ben Asher (famiglia e discendenti) nel 895 d.C.; contiene l’opera
storica deuteronomistica e i libri profetici (ad eccezione di Daniele).
 Segue il CODICE DI ALEPPO: scritto da Shelomo ben Buja’a e punteggiato nel 925 d.C. da
Aaron ben Asher, conservato soltanto per ¾ a causa di un incendio (mancano la sezione di
Gen 1,1 - Dt 28,16; Ct [da 3,12]; Qo; Lam; Est; Dn; Esd).
 Il CODICE PETROPOLITANUS o DI LENINGRADO (B19a): risalente all’anno 1009, è molto
vicino al codice di Moshe ben Asher, e contiene la Bibbia ebraica completa. Da questo
codice sono tratti i testi oggi scritti della Bibbia ebraica.

13
Cfr. LOGOS 1, p. 401ss; ZENGER, p. 52s. http://www.gliscritti.it/approf/2009/web/tamani/tamani120209.htm.

65
Tutti tre i codici citati costituiscono il prodotto finale della tradizione masoretica c.d. “tiberiense”
(dal nome della città di Tiberiade in cui furono attivi alcuni esponenti della famiglia rabbinica ben
Asher).
1.2. Le edizioni del testo ebraico
Le edizioni più diffuse – “critiche” nel senso di cui sopra – del testo della Bibbia ebraica sono:
 Biblia Hebraica Stuttgartensia [= BHS]: diretta da K. Elliger e W. Rudolph (Stuttgart
1977), ha sostituito la Biblia Hebraica di R. Kittel (3a ed., ibid. 1937); si basa sul Codice
di Leningrado.
La prima parte dell’apparato critico a piè di pagina e l’insieme delle note accanto al testo
sono tutto lavoro dei masoreti; invece, la seconda parte dell’apparato critico è lavoro degli
studiosi moderni. Dopo il 1947 (sp. per i profeti e Isaia) si riporta il testo pre-masoretico
(non vocalizzato) ritrovato a Qumran.

66
 Biblia Hebraica Quinta [BHQ]: iniziata nel 2004 (dopo alcuni fascicoli apparsi dal 1998)
è pubblicata progressivamente (Dt 2007; Pr 2008; Rut, Ct, Qo, Lam, Est 2004; Esd, Ne
2006) a cura di A. Schenker ed altri; con un apparato critico più ampio e un commentario
accluso rispetto della BHS, anch’essa si basa fondamentalmente sul codice di Leningrado,
integrandolo con correzioni testuali provenienti da altri codici.
 Hebrew University Bible [HUB]: il progetto più ambizioso verso un vero e proprio testo
critico, pubblicata dal 1995 ma il cui lavoro procede a rilento (Is 1995, Ger 1997, Ez 2004);
ha come base il Codice di Aleppo, perché il testimone più antico della tradizione rabbinica
ben Asher.
1.3. Differenza tra il testo dell’AT e del NT
Dunque, se è solo intorno all’anno 1000 che si forma il testo completo della Bibbia ebraica, ciò
significa che è il testo del NT è molto più antico, in quanto basato su testimoni risalenti già al II secolo
d.C.
Naturalmente ciò non vuol dire che fino al 1007 d.C. non ci fosse nulla, ma c’erano frammenti nonché
citazioni nei testi della tradizione rabbinica (midrash, talmud, etc.) – nell’edizione oggi in uso si citano
i maestri ebrei che citano la Scrittura. Con la vocalizzazione tutti i testi non vocalizzati sono andati di
fatto perduti.
Risalta agli occhi la straordinaria fedeltà masoretica al testo. Con la caduta di Gerusalemme nel 70
d.C. e la nascita del rabbinismo, la continuazione della tradizione manoscritta avviene nell’estrema
fedeltà al testo. Si ha come una “ossessione” di tramandare un testo considerato sacro al punto da non
poter cambiare nulla (la sola aggiunta è stata l’inserzione delle vocali e poi dei segni di interpunzione
per cantillare la Bibbia).
Nella tradizione medievale di trasmissione del testo, fino alla fissazione del testo con la stampa, le
divergenze sono abbastanza ridotte. In altri termini, l’attività masoretica rappresenta un vero punto di
discrimine nella storia del testo biblico: da una parte, esso è il punto di arrivo di una tradizione molto
antica; dall’altra, è il punto di partenza per la costituzione del textus receptus (testo scelto per la
stampa) sia dagli ebrei sia dai cristiani (es. la BHS è stampata da cristiani ma accettata da ebrei).

2. La masora e i masoreti
Il termine ebraico masora significa “tradizione” e indica quell’insieme di note che accompagnano il
testo biblico e che sono poste o ai margini superiore e inferiore (masora magna) o a lato e tra le
colonne del testo (masora parva) o alla fine del manoscritto (masora finalis).
La BHS recepisce tutte le note masoretiche e vi aggiunge un lavoro moderno di critica testuale sulla
base delle scoperte fatte negli ultimi secoli fino a oggi.
Il contributo più importante dei masoreti è stata la fissazione della vocalizzazione del testo
consonantico.
2.1. Il testo consonantico

67
Non è facile fare una storia del testo biblico dal I all’VIII secolo (epoca masoretica), in quanto c’è
pochissima documentazione. Per i secoli a cavallo dell’era cristiana c’è infatti un salto di non facile
interpretazione.
Tra il 300 a.C. e il 70 d.C. è testimoniata una grande varietà di forme testuali (pluralismo testuale). Poi
l’AT è stato trasmesso da tre gruppi religiosi: (1) gli ebrei; (2) i samaritani (limitatamente al solo
Pentateuco); (3) i cristiani, per i quali però valeva il solo testo greco almeno fino a Girolamo (quando
il NT cita l’AT lo fa già nella sua traduzione greca, con pochissime eccezioni: sp. in Ap è evidente la
traduzione dall’ebraico).
Di tutta questa tradizione pre-masoretica non abbiamo quasi nulla. Così, se il Talmud risale al V
secolo, i manoscritti che lo attestano sono molto più recenti: non è escluso che quando gli scrittori
talmudici citano la Bibbia, abbiano già in mano il testo masoretico.
In questo quadro Qumran è di grande importanza perché segna il ritrovamento di versioni ebraiche e
anche greche di testi minori. È un tipo di testo tra i tanti allora in circolazione.

3. Critica testuale dell’AT


3.1. Il confronto dei codici
La consapevolezza di possedere il messaggio biblico nella sua originalità non ci esenta dal lavoro di
risalire all’ipotetico originale che non abbiamo. La copia più antica non sempre necessariamente
contiene la lezione più fedele o più vicina all’originale: essa, infatti, può essere più corrotta di testi più
recenti.
3.2. Confronto delle lezioni: esempi
 Is 21,8
Testo masoretico: “Allora un leone dice: Signore, al posto di osservazione sto tutto il giorno.”
Testo di Qumran (2 rotoli completi di Isaia più antichi del testo masoretico): “Allora il veggente
dice […]”
Il termine ro’eh [“veggente”], dal verbo ro’h [“vedere”], è diventato ’aryah [“leone”].
 Is 41,23
Testo masoretico: “Fate il bene oppure il male, perché noi lo possiamo ravvisare e vedere.”
Testo di Qumran: “Fate il bene oppure il male, perché noi possiamo sentire e vedere.”
In questo caso la frase attestata da Qumran (uso del verbo “sentire”) è di uso più comune. Ma
questa ovvietà può far sospettare un accomodamento del copista. Dunque, il testo masoretico
può riportare un testo da preferirsi a quello di Qumran.
3.3. Ricostruzione del testo (congetture)
Come per il NT il lavoro di ricostruzione non si ferma ai due criteri ora visti. Infatti, di fronte alle
difficoltà di interpretazione del testo si inseriscono – come ultima ratio – congetture da cui i masoreti
si sono sempre astenuti.

68
8. La traduzione greca dell’Antico Testamento nella versione
detta dei LXX14

Bibliografia:
- Mortari Luciana (a cura di), Bibbia dei LXX 1. Il Pentatuco, Ed. Dehoniane, Roma 1999.
- Cimosa, M., Guida allo studio della Bibbia greca, SBBF, Roma 1995
- Fernandez Marcos, N., La Bibbia dei Settanta. Guida alle versioni greche della Bibbia, Paideia,
Brescia 2000 (or. spagn. 1999)
- Dogniez, C., Bibliography of the LXX's Studies (1970-1993), Brill, Leiden 1995
- Harl, M. et. al., La Bible greque des Septante: Du Judaïsme hellénistique au christianisme ancien, du
Cerf, Paris 1988.
- Harl Marguerite - D'Hamonville David-Marc (edd.), La Bible d'Alexandrie / Traduction du texte grec
de la Septante, Introduction et Notes par Marguerite Harl (et al.), Cerf, Paris 1986-, vari volumi
pubblicati.

1. Ragioni dell’importanza della LXX


2. Com’è nata la LXX? La situazione del Giudaismo in Egitto
3. Testimonianze letterarie della traduzione dei LXX
4. Luogo della traduzione
5. Il numero dei traduttori
6. Datazione della traduzione
7. Come la traduzione è stata fatta?
8. Perché la traduzione è stata fatta?
9. La traduzione dei LXX attesta l’esistenza di un canone greco alessandrino?
10. La diffusione della traduzione dei LXX

1. Ragioni dell’importanza della LXX


 Accanto ai rotoli di Qumran è l’altro termine di confronto quando il testo ebraico appare di
difficile interpretazione oppure quando un testo appare corrotto.
 Operazione culturale straordinaria: sebbene il greco della LXX sia un greco spesso piegato
al modo di esprimersi semitico e che riporta molti semitismi, la parte più antica di questa
traduzione (Torah) risale al III secolo a.C.
 Importanza per la critica testuale della Bibbia ebraica: i traduttori avevano in mano un testo
ebraico che non abbiamo più, più antico del testo masoretico di ben 1000 anni.

14
Bibliografia di riferimento: L. Mortari (a cura di), Bibbia dei LXX 1. Il Pentateuco, Ed. Dehoniane, Roma
1999; M. Cimosa, Guida allo studio della Bibbia greca, SBBF, Roma 1995; N. Fernandez Marcos, La Bibbia
dei Settanta. Guida alle versioni greche della Bibbia, Paideia, Brescia 2000 (or. spagn. 1999); C. Dogniez,
Bibliography of the LXX’s Studies (1970-1993), Brill, Leiden 1995; M. Harl et. al., La Bible greque des
Septante: Du Judaïsme hellénistique au christianisme ancien, du Cerf, Paris 1988; M. Harl & D.M.
D’Hamonville (edd.), La Bible d’Alexandrie / Traduction du texte grec de la Septante, Introduction et Notes par
Marguerite Harl (et al.), Cerf, Paris 1986- (vari volumi pubblicati).

69
2. Com’è nata la LXX? La situazione del Giudaismo in Egitto
Alla morte di Alessandro Magno il regno fu diviso tra i figli: dal 280 in Egitto regnò la dinastia
macedone dei Tolomei (di cui ultimo rappresentante fu Cleopatra). Il regno si estendeva fino
all’attuale frontiera siro-libanese. I Tolomei si erano stabiliti in Alessandria, pur conservando stretti
rapporti con la Grecia.
La presenza dei giudei fuori dalla terra di Palestina – le origini del termine diaspora [disseminazione]
stanno proprio nella LXX – è legata a eventi del III-II secolo a.C. La storia dell’esodo (XII secolo
a.C.) non è storicamente documentata e la conosciamo solo attraverso la Bibbia (e pochissime altre
testimonianze extra-bibliche).
Le testimonianze della cultura ebraica in Egitto sono numerose. Storicamente la presenza del popolo
di Israele in Egitto risale al XII secolo a.C., quando era iniziato un processo di immigrazione per
paura dell’invasione babilonese: alcuni fuggirono in Egitto, tra i quali il profeta Geremia che fu
portato in Egitto contrariamente alla sua volontà (cfr. Ger 42-44).
In Egitto si formarono una o più comunità ebraiche, dapprima con insediamenti nella zona del delta,
nelle campagne, e poi con una concentrazione in Alessandria, dove con FILONE diventerà la comunità
più importante e uno delle espressioni più alte della cultura ebraica della diaspora.
Conferme ci vengono dagli scavi ad Elefantina (o Patròs: cfr. Ger 42,1), sito di cui si attesta la
fondazione nel VI secolo a.C.: la colonia ebraica vi ci si era rifugiata probabilmente nel 586 a.C., dopo
la presa di Gerusalemme da parte di Babilonia. L’importanza di tale colonia ci viene testimoniata dalla
richiesta dell’edificazione in quella zona di un tempio giudaico dedicato al dio Jawhù ed eretto dal
sacerdote Ananyà: dunque, ci sono tracce del culto giudaico del tempio anche fuori da Gerusalemme.
È il tempo del ritorno dall’esilio da Babilonia.
Sotto i Tolomei si ebbe un grande sviluppo del giudaismo a Leontòpoli, dove il sommo sacerdote
ONIA IV, cacciato da Gerusalemme, stabilì una colonia e un tempio, e ad Alessandria. Secondo
FILONE i giudei in Egitto sarebbero stati un milione: si tratta però senza dubbio di un’esagerazione; si
deve limitare la presenza ebraica ad un numero consistente in ca. 10.000 unità. Eccezione è
Alessandria, che quasi per metà era giudaica. Qui la comunità ebraica esercitava un forte influsso sulla
vita del paese e aveva un particolare stato giuridico quasi a costituire una città-stato dotata di un suo
diritto: gli ebrei erano, infatti, governati da un etnarca secondo la legge di Mosè.
Avviene così l’abbandono della lingua sacra e il passaggio in massa alla lingua greca: tipici
dell’ambiente alessandrino sono i due libri (canonici per i cristiani ma non per gli ebrei) dei Maccabei
e il libro della Sapienza di Salomone (non canonico per entrambe le tradizioni).
La vita religiosa che si svolgeva nelle sinagoghe era intensa: ogni villaggio aveva un edificio di culto.
Ma ad Alessandria non fu eretto nessun tempio, perché c’era un forte riferimento al Tempio di
Gerusalemme, cui era versata una tassa e verso cui ci si recava in pellegrinaggio. Ad Alessandria si
forma eccezionalmente un gruppo “missionario” di giudei dedito al proselitismo, come anche era
presente un gruppo di simpatizzanti non ebrei ma interessati alla religione giudaica (In Atti si legge
come intorno alle sinagoghe della diaspora gravitassero i c.d. “proseliti” o “timorati di Dio”, alcuni dei
quali arrivavano a farsi circoncidere). Il cristianesimo avrà successo soprattutto tra questi proseliti,
timorati di Dio che gravitavano intorno alla sinagoga.

3. Testimonianze letterarie della traduzione dei LXX

70
Traduzioni furono fatte anche nella stessa Palestina dall’ebraico all’aramaico: i targumìn non sono
propriamente delle traduzioni, quanto dei chiarimenti e/o spiegazioni da parte del traduttore o dello
scriba posto accanto al lettore che leggeva in ebraico (per questo sono utilissimi per comprendere
come il testo fosse interpretato e attualizzato all’epoca). Fuori dalla Palestina traduzioni in una lingua
corrente furono fatte nelle comunità della diaspora, nonché per motivi missionari e per rendere
possibile l’accesso al testo sacro da parte dei “proseliti” o “timorati di Dio”.
Oggi sappiamo veramente poco su chi, come, dove la traduzione greca della Bibbia ebraica sia stata
fatta. La fonte più importante cui possiamo attingere a questo riguardo è la Lettera di Aristea (o
Pseudo-Aristea) a Filocrate, un piccolo libro in greco la cui datazione oscilla tra la metà del II e gli
inizi del I secolo a.C.
L’autore si presenta come un cortigiano del re Tolomeo Filadelfo (283-247 a.C.) e racconta la storia
della traduzione della Bibbia in greco. Secondo questa “storia” (leggenda) Tolomeo per arricchire la
sua biblioteca di Alessandria (che conservava ben 400.000 libri di ogni cultura e tradizione cui si
dedicavano esperti, filologi, copisti e riferimento per i saggi e i filosofi del tempo), volle disporre della
legge ebraica e di altri libri sacri dei giudei. Così Tolomeo invia a Eleazaro, sommo sacerdote a
Gerusalemme, una petizione per avere copie delle Scritture (rotoli in ebraico) e traduttori (6 traduttori
per ognuna delle 12 tribù, e quindi 72 in tutto). Già da questo dato si comprende il perché del titolo –
la LXX – attribuito a questa traduzione dai cristiani a partire dal IV secolo d.C.
Ottenuto il consenso alla traduzione “ufficiale” (tutto avviene nell’ufficialità, sebbene è improbabile
che ci fosse stata l’approvazione da parte del sommo sacerdote alla traduzione), elegge il gruppo dei
70 o 72, che si trasferiscono ad Alessandria. Si dice che i rotoli furono scritti interamente in oro:
sicuramente FILONE attesterà più tardi che negli scritti (almeno) il tetragramma era scritto in oro.
Filone era un’esegesi platonica, fu usata dai primi padri della chiesa che hanno usato gli scritti di
Filone per fini apologetici, per questo motivo Filone non fu considerato un maestro dagli ebrei.
La traduzione fu fatta nell’isola di Faro in 72 giorni: realizzata separatamente da ognuno dei traduttori
per l’intera estensione del testo, viene poi confrontata tra i traduttori con la miracolosa constatazione
dell’identità del testo, che da questo momento diventa il testo ufficiale.
Considerazioni sulla Lettera di Aristea a Filocrate:
 La finalità e le motivazioni sono del tutto apologetiche: lo scritto intende attestare in tutti i
modi l’ispirazione della LXX e dunque che il risultato della traduzione è voluto da Dio
stesso al fine di darne maggiore credito, far sì che fosse conosciuta nel mondo greco, e
difendere la traduzione da ogni tentativo di successiva revisione.
 Essa va collocata nell’ambito della diaspora ellenistica: dal momento che FILONE sembra
conoscere questo scritto, se ne deve collocare la composizione verso la fine del II secolo.
 Il tempo di redazione è molto antico. I traduttori avevano in mano un testo pre-masoretico
non vocalizzato; dunque, la LXX risale certamente a prima dell’epoca cristiana ed è
precedente al testo proto-masoretico, che ancora non conosce la fissità del canone. Questo
testo proto-masoretico inizia a trasmettersi dal I d.C. in poi.
Altre significative testimonianze letterarie sono quelle di filosofi greci del II-I secolo a.C. che
dimostrano di conoscere qualcosa della Torah attingendo alla traduzione della LXX: es. il filosofo
giudeo-ellenistico ARISTOBULO DI ALESSANDRIA gli cita qualcosa dalla Torah; più fantasioso è che
Platone e Pitagora conoscessero la LXX.
Ulteriori testimoni della traduzione della LXX sono Filone alessandrino, che cita elementi della
Lettera di Aristea; Giuseppe Flavio (37-100 d.C.), che nel cap. XII delle Antiquitates Iudaicae ne

71
presenta una rielaborazione; e alcuni Padri della Chiesa. Non abbiamo materiale sufficiente per dire
che prima della LXX esistesse un’altra traduzione in greco dei libri sacri.

4. Luogo della traduzione


Quasi tutte le testimonianze, sia esterne che interne alla traduzione, sono per l’Egitto. Qualcosa della
LXX è stata forse tradotta a Gerusalemme, ma i papiri – sp. il papiro fuad (266) del II secolo a.C. (la
terminologia usata è quella tipica del greco egiziano; inoltre, ci sono numerosi riferimenti a luoghi
geografici) – confermano che essa deve essere stata fatta quasi interamente in Egitto.
La Lettera di Aristea parla poi dell’isola di Faro come luogo della traduzione: quest’isola si trova in un
lago a circa 100 km a nord del Cairo.

5. Il numero dei traduttori


Il numero di 70 o 72 sembra essere simbolico: dice 6 volte le 12 tribù di Israele. È un numero
importante nel Pentateuco:
- Es 24 parla di 70 anziani che salirono sul monte Sinai con Mosè: dunque, come la Legge è
stata data a Mosè e manifestata ai 70 anziani, allo stesso modo la LXX.
- Num 11 parla di un gruppo di personaggi – 70+2 successivi rimasti nell’accampamento –
con carisma profetico investiti dallo Spirito.

6. Datazione della traduzione


Nella Lettera Aristea afferma che la traduzione è stata fatta all’epoca del re Tolomeo di Filadelfo
(283-246). Tuttavia, secondo una diversa ricostruzione che passa per Demetrio di Falèro, archivista
della Biblioteca di Alessandria, la redazione sarebbe ancor più antica e risalirebbe al padre del
Filadelfo Tolomeo di Lagos (285 a.C.). Demetrio propone al re di acquisire tra i libri della biblioteca
anche i libri sacri degli ebrei.
 Verso il 285 fu comunque possibile la traduzione della sola Torah, che all’epoca era
probabilmente più ridotta del Pentateuco attuale, sp. ristretto alle leggi.
 Per i “Profeti” la traduzione non viene fatta subito, ma seguì probabilmente di diversi
decenni.
 Per “gli Scritti” la traduzione fu ancora più tardiva di 1 o 2 secoli più tardi: il processo di
formazione degli Scritti si è concluso nel I secolo d.C. (cfr. es. il prologo greco alla
traduzione del Siracide, composto in Egitto dal nipote).
In Palestina la traduzione della LXX sembra essere stata introdotta o comunque era conosciuta verso il
150 a.C. È documentata la presenza dei LXX a Qumran (i rotoli ritrovati sono databili tra il 150/100
a.C. e il 50 d.C.) dove si trovano frammenti della traduzione greca. Si trovano più tracce e frammenti a
Qumran che in Egitto, questo indica che questa traduzione era diffusa e accolta in Palestina.
La diffusione e il completamento di questa traduzione a cura dei cristiani non è uniforme: molti libri
sono stati certamente tradotti dall’ebraico, alcuni sono stati invece scritti originariamente in greco, altri
erano in aramaico e vennero tradotti in greco. Ci sono differenze relative sia a diverse versioni del

72
testo sia anche ad ampliamenti: es. il Libro di Daniele è scritto in parte in ebraico, in parte in aramaico,
in parte in greco.
Sapienza è libro scritto dierettamente in greco, il Siracide era scritto in ebraico, nella LXX inoltre ci
sono anche secondo e quarto Maccabei che sono apocrifi.
Per la traduzione dei “Profeti” possiamo ricorrere ad indicazioni da testimonianze esterne: es. il
papiro di Ossirinco allude al famoso processo a Salomone, cosa che indicherebbe che la traduzione
dei Profeti anteriori (Libri storici) sia avvenuta nel II secolo a.C.
Altre testimonianze interne al testo sembrano confermare questa conclusione: il prologo de Siracide
(132 a.C.); il libro dell’Ecclesiastico (ai cap. 44-49 si presentano i grandi personaggi della storia
d’Israele, ad eccezione di Re e Pr: ciò confermerebbe che prima del 200/150 a.C. erano stati tradotti
tutti i Profeti); nel colofone (piccola nota in calce al testo che ne indica la data) al libro di Ester si
indica che quella traduzione fu fatta a Gerusalemme intorno al 78-77 a.C.; 1Macc 7,17 (150 a.C. ca.)
cita il Salmo 78,2-3 nella versione della LXX (quindi a quell’epoca i salmi erano stati già tradotti).
In un’altra lettera, ARISTEA parla del libro di Giobbe (dunque, doveva essere già stato tradotto).
In conclusione: la LXX non riguarda tutta la Bibbia insieme, ma si è costituita in tre fasi:
1. La Torah fu tradotta nel III secolo (intorno al 285 a.C.);
2. I Profeti furono tradotti nel periodo 230-150 a.C.;
3. Gli “altri libri” furono tradotti nel periodo 150 a.C. - I secolo d.C.

7. Come la traduzione è stata fatta?


Non conosciamo molto del modo in cui la LXX è stata fatta.
Conserviamo il nome dato nella LXX ai singoli libri legato al loro contenuto e non più il nome ebraico
secondo la prima parola di ogni libro: es. ghenesis nella LXX vs bereshit nella Bibbia ebraica.
Solitamente la traduzione è di tipo letterale. La traduzione è molto importante per lo studio del greco
del NT, non soltanto per il fatto di attingere largamente da essa le citazioni bibliche (tranne poche
eccezioni tutte le citazioni nel NT sono tratte da questa versione), ma più in generale per il fatto di
introdurre una mediazione tra la lingua e cultura ebraica e la lingua e cultura greca in ambito
concettuale religioso-teologico per descrivere il mistero di Dio. Per la prima volta sono resi in greco
concetti e vocabolario tipici della ritualità e della tradizione religiosa ebraica: è un’operazione
culturale che ha avuto un influsso notevolissimo fino a noi.
Es. Doxa [nel greco classico “opinione”, “pensiero”] è usata nella LXX per tradurre l’ebraico
kabod [“pesantezza” (di Dio)].
La LXX è così via di accesso preferenziale al testo ebraico, risentendo della sintassi e della semantica
ebraica; ciò sottolinea moltissimo la fedeltà al testo ebraico.
D’altra parte il tipo di traduzione dei singoli libri varia notevolmente: a una traduzione molto
letterale fatta quasi parola per parola (soprattutto quando si ha l’impressione che il traduttore non
abbia capito bene il testo originale – ma quale testo?) si affiancano versioni compiute con una certa
libertà (ma da quale testo?). Bisogna in ogni caso tenere in conto che il testo della LXX che ci è
pervenuto può essere stato tradotto da una Vorlage ebraica precedente al testo masoretico che
possediamo. La Vorlage noi non la possediamo. Tutto sommato, le scelte dei traduttori del Pentateuco

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si rivelano equilibrate: pur restando fedeli al testo ebraico, non si sono ristrette in una resa pedissequa
dei singoli termini ebraici (che avrebbe deformato il greco).
Le differenze tra LXX e TM non si limitano a diverse parole o frasi, ma riguardano anche la
lunghezza di capitoli o interi libri biblici. Le differenze più grandi si hanno con il Libro di Giobbe
(più breve di 1/6 rispetto all’ebraico) e con il Libro di Geremia (che conta 2700 parole in meno
rispetto al testo ebraico): quale allora l’originale? Se il Vorlage era quello, la versione ebraica era più
breve del testo greco. Per rispondere a questa domanda sul Vorlage cruciale è stato il ritrovamento di
Qumran.

8. Perché la traduzione è stata fatta?


Ipotesi non necessariamente concorrenti tra loro sono:
 Ipotesi ufficiale (la più accettata): è stata un’iniziativa del re Tolomeo per arricchire la
biblioteca di Alessandria. Questa ipotesi si può ricavare dai dati offerti dalla Lettera di
Aristea e trova un confronto con i decreti di Dario I, tradotti dall’egiziano in greco, come
anche dai romani che traducono le leggi dal latino al greco.
Obiezione: la Torah non è solo una raccolta di leggi.
 Motivazione liturgica: nella sinagoga avveniva una lettura ciclica della Bibbia.
Dovendo leggere e commentare i brani a persone che non conoscevano più l’ebraico, si
rendeva necessaria una traduzione verso il greco.
Obiezione: il calendario del ciclo non era il medesimo ovunque (poteva essere annuale o
triennale); inoltre, è abbastanza improbabile che ci fosse stato un consenso e una
approvazione da Gerusalemme (sommo sacerdote) a questa traduzione; infine, non
abbiamo testimonianze della traduzione prima del II secolo a.C. In Babilonia la lettura era
annuale.
Scritti- stampati in aramaico chiamati Tagum-Targurim, spesso sono una prafrasi del testo
ebraico o commenti, hanno una prima interpretazione del testo ebraico. Quindi la
traduzione probabilmente doveva avvenire seduta stante.
 Traduzione per finalità personali o educative. Oltre al testo sinagogale (ufficiale,
intoccabile) esistevano delle copie personali che potevano servire a diverse necessità:
preghiera; meditazione personale, familiare o nella sinagoga; necessità apologetiche,
missionarie, etc.
Obiezione: è abbastanza improbabile che ci fosse stato un consenso e una approvazione da
Gerusalemme (sommo sacerdote) a questa traduzione; inoltre, non abbiamo testimonianze
della traduzione prima del II secolo a.C.
L’ipotesi più probabile è quella della lettera di Aristea; i Tolomei volevano un testo ufficiale garantito
delle leggi. C’è anche un parallelo storico, Dario aveva fatto tradurre alcune leggi in egiziano, però
nella Torah non ci sono solo norme legislative.

9. La traduzione dei LXX attesta l’esistenza di un canone greco alessandrino?


Prima del 1960-1964 si è affermato che al tempo della traduzione esistesse un canone greco
alessandrino (una lista alessandrina legata a questa traduzione). La ricerca moderna ha reso questa

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posizione infondata. Infatti, quando nel NT si citano brani dell’AT, lo si fa anche per passaggi non
canonici: si può difficilmente accettare l’esistenza di un canone se i cristiani citano testi non canonici.
La canonicità, invece, si è realizzata in un arco molto vasto e quella ebraica si distingue da quella
cristiana, che dal 100 d.C. ha accolto per canonici testi dei LXX che gli ebrei poi non hanno più
accolto come testi ispirati.

10. La diffusione della traduzione dei LXX


La canonizzazione del testo ebraico è stato forse il motivo più forte della resistenza alla
traduzione greca. Fino a quel momento si hanno testimonianze che la LXX fu diffusa e accolta con
entusiasmo a prova della sua affidabilità: FILONE parla di una festa per ricordare questa traduzione e
d’altra parte lui stesso ne fa un largo uso per l’esegesi allegorica; anche la liturgia ne fa uso, al punto
che ancora oggi le chiese orientali usano il testo della LXX nella liturgia.
Questo entusiasmo non fu duraturo a causa del contrasto crescente tra ebrei e cristiani, i quali facevano
entrambi riferimento alla LXX (cfr. Dialogus cum Tryphone di GIUSTINO MARTIRE): gli ebrei videro
la LXX come troppo favorevole all’apologetica cristiana. A causa di una progressiva cristianizzazione
del testo, questo viene pian piano rifiutato dagli ebrei, era diventata la Bibbia cristiana. Si promuovono
allora nuove traduzioni in sostituzione della LXX.
 Nel 130 si elabora la versione di Aquila, di cui abbiamo solo frammenti: è una traduzione
molto più letterale del testo ebraico, una riproduzione quasi servile (parola per parola) che
fa violenza al testo originale.
 Successivamente fu elaborata la versione di Simmaco (es. i Salmi in questa versione
confluiranno nella Vulgata).
 Verso il 160 si fece la versione di Teodozione, in cui il greco era più accettabile.
Non sappiamo nulla di queste traduzioni. Le conosciamo dal lavoro quadi trentennale di edizione di
ORIGENE – la Hexapla [“sestuplice”] – che ha messo in colonna le 6 versioni a lui a disposizione: (1)
testo ebraico, (2) traslitterazione in caratteri greci, (3) Aquila, (4) Simmaco, (5) LXX, (6) Teodozione.
Si deve ipotizzare un’opera di oltre 6500 pagine in folio. In alcuni casi le versioni sono 8,
aggiungendosi altri testimoni.
Di questo testo (andato perduto), emblematico per il lavoro di critica testuale fatto da Origene,
consociamo solo le citazioni e le indicazioni presenti in altri scritti di Padri. Di questo lavoro si
avvalse GIROLAMO nella stesura della Vulgata e fu di grande aiuto per i traduttori almeno fino al VII
secolo, mentre le note costituiscono ancora oggi un valido punto di riferimento.
Ricostruzione della Hexapla:

75
La traslitterazione in greco è andata perduta quasi completamente, ci resta solo qualche frammento di
salmo. Sarebbe stata di grande interesse per studiare la pronuncia antica, perché le vocali del TM sono
state aggiunte dopo il VII secolo.
Quando nel NT si trova il nome Kyrios [“Signore”] questo indica il tetragramma. Il riferimento di
questo titolo a Gesù Cristo è già un titolo di cristologia alta: cfr. Inno di Filippesi.
Edizioni critiche:
 Per il NT: NESTLE-ALAND, Novum Testamentum Graece, XXVIII ed. 2012.
 Per l’AT, per il quale non si è arrivati ancora ad una edizione veramente critica:
 BHS per il TM (Codice di Leningrado);
 A. RALPHS, Septuaginta editio altera, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2006
(che attinge a due codici onciali: Vaticano, Sinaitico) per la LXX.

9. I manoscritti del Mar Morto a Qumran15

1. Introduzione
2. Storia
3. Gli esseni in Giuseppe Flavio e in Plinio il Vecchio
3.1. Giuseppe Flavio

15
Bibliografia di riferimento: F. Garci Martinez, C. Martone (a cura di), Testi di Qumran, Paideia 1996; J.C.
Vanderkam, Manoscritti del Mar Morto. Il dibattito recente oltre le polemiche, Città Nuova 1995; S. Paganini,
Le rovine della luna. Il monastero e gli esseni: una certezza o un’ipotesi?, EDB 2011; G. Ibba, La biblioteca di
Qumran. Edizione bilingue, EDB 2013 (Gen); 2014 (Es, Lv, Nm); 2016 (Dt e Pentateuco).

76
3.2. Plinio il Vecchio
4. Obiezioni e difficoltà all’ipotesi essena
5. Ragioni in favore dell’identificazione dei qumraniani con gli esseni

1. Introduzione
Appendice alla sezione relativa all’analisi del testo.
Il titolo “la Settanta” (o “traduzione dei Settanta”) fu definito a partire dalle testimonianze di Aristea,
Giuseppe Flavio, dei filosofi greci e dei Padri della Chiesa.
Ma nelle zone desertiche attorno a Qumran (località sulle rive nord-occidentali del Mar Morto, a 3 km
dall’immissione del Giordano nel Mar Morto, uno dei luoghi dove Giovanni Battista battezzava, il che
direbbe una conoscenza reciproca tra la comunità ivi insediata e Giovanni) sono stati ritrovati
frammenti di Lv, Es, Ger, Profeti minori in greco. Il ritrovamento dei manoscritti di Qumran
rappresenta senza dubbio una delle maggiori scoperte archeologiche del secolo scorso: questi scritti
hanno dato un contributo straordinario inconcepibile fino allora circa la critica testuale e la storia del
testo dell’AT (mentre non è stata accertata l’esistenza di nessun manoscritto o frammento relativo al
NT: es. nessun frammento attesta il nome di Gesù).
È una scoperta importantissima, unica:
 Per il testo: è un testo ebraico pre-masoretico non vocalizzato precedente di circa 1000
anni rispetto al TM, che ci fa avanzare tantissimo sul piano della critica testuale.
 Per lo studio del NT: sebbene non figuri nulla circa Gesù, il cristianesimo, i testi del NT,
etc. offre uno strumento preziosissimo per la ricostruzione e la comprensione del contesto
storico-culturale su cui il cristianesimo si colloca. Ci fa conoscere un gruppo sì di religione
giudaica ma molto ben caratterizzato, un altro tipo di giudaismo a cavallo tra II secolo a.C.
e I secolo d.C. Chi ha scritto questi testi, infatti, parla della propria comunità, presentandoci
da vicino questo gruppo, distinto dagli altri gruppi, avente suoi propri pensiero, riti,
calendario (distinto da quello ufficiale del Tempio di Gerusalemme, es. assenza di
riferimenti ai sacrifici da offrire nel Tempio). Tuttavia, pur in assenza di un riferimento
diretto ci sono tanti possibili collegamenti e parallelismi.

2. Storia
Nel 1947 Mohamad ed-Dhib, un beduino della tribù Ta’amireh, cercava una capra sperduta quando il
tonfo di un sasso lanciato per spronare l’animale, lo avvertiva della presenza di una grotta. Tornato in
seguito sul posto con il cugino, si calò nella grotta e trovò diverse giare, alcune delle quali sigillate. In
una di queste c’erano tre rotoli manoscritti, che essi poi portarono ad un antiquario di Betlemme. Era
soltanto l’inizio di una serie di eccezionali ritrovamenti.
Fino al 1956 (quando già erano apparse le prime pubblicazioni dei testi ritrovati a partire dal 1947),
nel raggio di alcuni chilometri si scoprirono un totale di 11 grotte, ognuna contenente manoscritti su
papiro e soprattutto su pergamena che si sono conservati – alcuni di essi pressoché intatti – per circa
due millenni, complice il clima estremamente secco all’interno delle grotte. Questi manoscritti e altri
reperti archeologici testimoniano l’esistenza in quella zona di una comunità di stampo giudaico che
si considerava la sola erede delle promesse d’Israele (considerazione elitaria).
Le 11 grotte di Qumran ci hanno fornito i resti di circa 800 frammenti manoscritti (poi catalogati
con una cifra di cui il primo numero indica la grotta: es. 4Q = quarta grotta), datati tra il III secolo

77
a.C. e il I secolo d.C. Al momento della guerra giudaica (66-70 d.C.), con molta probabilità già
intorno al 68 d.C., questo sito è completamente distrutto. Esiste la certezza storica e archeologica che
le grotte di Qumran furono sigillate nel 68 d.C. a causa dell'invasione romana del territorio. I
frammenti sono stati scritti o copiati a Qumran oppure portati sulle rive del Mar Morto da altri luoghi.
Si impongono tantissime domande: da dove vengono? Chi li ha scritti o copiati? Chi li ha portati in
quelle grotte? Perché?
I manoscritti del Mar Morto sono scritti generalmente in ebraico, ma anche in aramaico, raramente
in greco. Sebbene molti siano frammentari, essi comprendono brani di tutti i libri della Bibbia
ebraica (“protocanonici”) tranne quello di Ester (anche se altri testi extra-biblici dimostrano che
esso non era sconosciuto), nonché molti altri testi apocrifi e soprattutto scritti riguardanti la dottrina
della setta di Qumran, il più famoso dei quali è la Regola della comunità, fondamentale per capire la
natura del gruppo di Qumran: identità, pensiero, attività. La comunità di Qumran rappresenta secondo
gli studiosi una variante del più ampio gruppo religioso degli Esseni, una delle principali sétte del
giudaismo di epoca neotestamentaria insieme a Sadducei e Farisei. Si tratta però di un’ipotesi (tratta da
GIUSEPPE FLAVIO), perché il nome di questa setta non figura mai in questi frammenti. Al tempo di
Gesù abbiamo un giudaismo variegato: Farisei, Sadducei, Erodiani, Sicari ci vengono testimoniati dai
vangeli. Alcuni dicono che non si può parlare di giudaismo ma di giudaismi. Bisogna parlare di un
giudaismo con una matrice fondamentale dove si situano varie correnti.
Le controversie più aspre sorte in seguito al ritrovamento dei testi del Mar Morto riguardano la loro
relazione con il NT e con il cristianesimo delle origini. Le ipotesi di chi ha voluto trovare
collegamenti diretti tra gli Esseni di Qumran e le prime comunità cristiane appaiono oggi pressoché
infondate (es. il nome e la figura di Gesù, fondamentale nel NT, non è mai presente nei manoscritti di
Qumran). La constatazione di differenze concrete, nonché considerazione generali di natura storico-
religiosa impediscono di ammettere una derivazione diretta del Cristianesimo dalla comunità di
Qumran o dalle altre sette ebraiche presenti in Palestina in epoca neotestamentaria.
Nel sito archeologico di Qumran non è stato ritrovato nessun frammento, ma sicuramente in questo
sito e attorno ad esso si scriveva: nella stanza 5 sono stati ritrovati tavoli e materiale scrittorio quasi
fosse una biblioteca. Circa l’identità del sito di Qumran, sono state avanzate tante ipotesi: un
monastero (così il domenicano dell’Ecole biblique che fece degli scavi negli anni Cinquanta; anche
perché nella stanza 7 – refettorio – sono state ritrovate 200 tazze e un forno per fabbricare la
terracotta); una casa editrice; un seminario-scuola centro della formazione degli esseni; un grande
bagno rituale; un fortino difeso dagli zeloti contro i romani; una villa rustica per la fabbricazione del
balsamo; una stazione di posta verso l’Arabia; un porto commerciale sul Mar Morto; etc. Suggestiva
ma possibile è infine l’ipotesi – legata al grandissimo numero dei frammenti – che sia ciò che rimane
dell’antica biblioteca del Tempio di Gerusalemme (distante 30 km).
In nessuno degli scritti del Mar Morto compare la parola Esseni per identificare la comunità che
operava a Qumran.

3. Gli esseni in Giuseppe Flavio e in Plinio il Vecchio


I testi di Giuseppe Flavio e di Plino il Vecchio sono i due capisaldi su cui si fonda l’ipotesi-teoria che
gli scritti ritrovati a Qumran siano di provenienza essena.
3.1. Giuseppe Flavio
La maggiore fonte sugli esseni è Giuseppe Flavio (37-38 d.C. – fine I secolo d.C.). In generale, dopo i
Vangeli Giuseppe Flavio è la fonte storica più importante per la storia di quel periodo.

78
Di famiglia aristocratica, da giovane Giuseppe conosce diverse sette che poi descrive; pur affascinato
dagli esseni, che probabilmente ha frequentato, aderisce poi soprattutto al fariseismo. Allo scoppio
della guerra giudaica è alla guida dell’esercito giudaico, prima di arrendersi ai romani. Catturato, per
la sua cultura e la sua conoscenza del greco (oltre all’ebraico) è in qualche modo “adottato” dai romani
acquisendo il nome di “Flavio” e diventando di fatto storico dei romani. In funzione di questo
l’affidabilità storica di quanto scrive pone un problema e va valutata di volta in volta (quando scrive
dei romani la sua posizione potrebbe essere viziata, mentre non lo sarebbe quando scrive dei giudei).
Scrive 4 opere maggiori, di cui particolarmente importanti ai nostri fini sono Antichità giudaiche e
Guerra giudaica.
In Guerra Giudaica II, 117-161 dedica molto spazio agli esseni, dopo aver elencato tre ‘filosofie’ tra
le sette giudaiche: farisei, sadducei ed esseni (parla di tre sétte, poi ne introduce una quarta; in
Antichità giudaiche XVIII, 18-22 parla di una quarta scuola filosofica, di Giuda e di Sadoc, più di
4000 in numero, dediti completamente all’agricoltura, e zelanti del Tempio inviandovi offerte).
Questo ci rivela come al tempo del NT ci fossero diversi gruppi: Un rabbino del II secolo parla di 24
sétte, alcuni Padri della Chiesa elencano otto sette. Non abbiamo informazioni su tutti i gruppi
esistenti. Dei sadducei sappiamo pochissimo; molto di più sappiamo dei farisei soprattutto grazie a
fonti esterne (con l’eccezione di Paolo, il solo caso di un fariseo che scrive di se stesso, sebbene
quando scrive non è più fariseo pur rimanendo giudeo); il NT parla ancora di zeloti, sicari, samaritani,
discepoli di Giovanni Battista, etc. Il giudaismo era variegato al punto che alcuni studiosi parlano di
“giudaismi”: comunque, questi gruppi non si pensavano esterni al giudaismo, ma tutti si sentivano
legati ad esso (comune a tutti era la centralità della Torah e l’osservanza di molte regole giudaiche),
sebbene lo vivessero in modi diversi.
Supponendo che gli esseni siano la comunità di Qumran, occorre confrontare ciò che scrive di essi
Giuseppe Flavio (ne emerge anche la psicologia dell’autore) con la Regola della comunità e gli altri
scritti extra-biblici ritrovati a Qumran.
Guerra Giudaica II, 117-161:
“Gli Esseni in particolare hanno fama di praticare la santità. Ebrei di nascita, sono più
degli altri legati da mutuo affetto.
Costoro respingono i piaceri come un male, mentre guardano come virtù la temperanza e
il non cedere alle passioni. Per se stessi disdegnano il matrimonio, ma adottano i figli
altrui, mentre sono ancora arrendevoli ai loro ammaestramenti: li considerano come
parenti e li modellano secondo i loro costumi.
Essi però non aboliscono il matrimonio e la propagazione della specie che ne deriva, ma
si guardano dalle donne lascive e sono persuasi che nessuna donna serbi fedeltà ad un
uomo solo.
Dispregiatori della ricchezza, presso di loro è ammirevole la vita comunitaria: invano si
cercherebbe tra di loro qualcuno che possieda più degli altri. C’è infatti una legge che
quelli che entrano nella setta cedano il patrimonio alla corporazione, così in tutti loro non
appare né l'umiliazione della miseria né l'alterigia della ricchezza, bensì essendo fusi
insieme gli averi di ciascuno, hanno tutti, come fratelli, un loro patrimonio. […] hanno
cura di vestire sempre di bianco.
Essi non abitano in una sola città, ma in varie città prendono domicilio in molti.

79
Ai membri della setta che giungono da fuori concedono libero uso di tutte le cose loro
come se fossero proprie di coloro i quali entrano in casa di quelli che in precedenza non
hanno mai visti come in casa di persone familiarissime.
Perciò anche quando compiono viaggi non portano con sé assolutamente nulla, sono però
armati a motivo dei briganti. Del resto in ogni città viene designato espressamente un
commissario della corporazione per gli ospiti che provvede ai vestiti e ai viveri.
Quanto al vestire e all’aspetto della persona essi assomigliano a giovani educati sotto
rigorosa disciplina; non cambiano né indumenti né sandali, se prima non sono del tutto
lacerati e consumati dal tempo.
Fra di loro non comprano né vendono alcunché, bensì ciascuno cede il suo a chi ne ha
bisogno, e ne riporta in cambio qualcosa che gli serve; del resto anche senza
contraccambio possono ricevere liberamente da chiunque vogliono.
La loro pietà verso la divinità ha una forma particolare: prima del sorgere del sole non
proferiscono alcunché di profano, ma recitano certe preghiere verso di esso, quasi a
supplicarlo di spuntare.
Dopo di ciò ognuno è invitato dai sovrintendenti al mestiere che sa: dopo aver lavorato
energicamente fino all’ora quinta, si radunano nuovamente in un solo posto e cintisi di un
indumento di lino si lavano il corpo con acqua fredda. Dopo questa purificazione, vanno
insieme in un edificio particolare dove a nessuno di altra fede è concesso entrare: loro
stessi non entrano nel refettorio che dopo essersi purificati, come in un recinto sacro.
Dopo che, in silenzio, si sono seduti, il panettiere serve i pani per ordine, e il cuciniere
serve a ciascuno una sola scodella con una sola vivanda.
Il sacerdote premette al pasto una preghiera [prokateu,cetai dV o` i`ereu.j
th/j trofh/j], e nessuno può gustare alcunché prima della preghiera; dopo che
hanno mangiato egli aggiunge una nuova preghiera; cosicché sia al principio che alla fine
venerano Dio come dispensatore della vita.
Dopo, deposte le vesti indossate per il pasto, dato che esse sono sacre, tornano
nuovamente ai lavori fino alla sera.
Allora ritornano e cenano nella stessa maniera in compagnia degli ospiti, se per caso ve
ne sono di passaggio fra di loro. Né clamore né tumulto contamina la casa: per parlare si
cedono la parola, gli uni agli altri, ordinatamente [...] Ogni cosa fanno secondo gli ordini
dei superiori, salvo due, in cui sono liberi di regolarsi da sé: l’assistenza e l’elemosina
[…] Sono equi dispensatori di ira, moderatori delle passioni, patroni della fedeltà,
promotori della pace [eivrh,nhj u`pourgoi,]. Ogni loro detto ha più forza di un
giuramento; ma si astengono dal giurare considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché
dicono che risulta già condannato colui che non è creduto se non prende Dio a testimone.
Hanno una cura straordinaria degli scritti antichi [spouda,zousi dV
evkto,pwj peri. ta. tw/n palaiw/n sunta,gmata], scegliendo
specialmente quelli che riguardano il profitto dell'anima e del corpo [ma,lista ta.
pro.j wvfe,leian yuch/j kai. sw,matoj evkle,gontej]. E qui
studiano come guarire le malattie, le radici che preservano da esse e le proprietà delle
pietre.

80
Coloro che desiderano entrare nella loro setta non ne ottengono l’accesso immediato. Al
postulante impongono per un anno la stessa norma di vita, benché ne rimanga fuori: gli
consegnano una piccola scure, la cintura sopra menzionata, e una veste bianca.
Dopoché egli in questo tempo avrà dato prova di temperanza, s’inoltra più addentro nella
norma di vita ed è fatto partecipe di acque di purificazione ancora più pure; ma non è
accolto nella vita comune. E, infatti, dopo la dimostrazione di costanza, per altri due anni
se ne mette a prova il carattere; e allora se appare degno è accolto nella società; ma prima
di toccare il cibo comune, egli presta a loro terribili giuramenti:
in primo luogo di venerare Dio, poi di osservare la giustizia verso gli uomini e di non far
danno ad alcuno né di propria volontà né per comando, e di combattere sempre gli
ingiusti e di aiutare i giusti [...] di non distinguersi da quelli a lui sottoposti per splendore
di vesti o per qualche altra insegna di superiorità; di amare sempre la verità […] di non
svelare ad altri nulla delle loro cose, anche se torturato fino alla morte. Inoltre egli giura
di non trasmettere ad alcuno le regole in forma diversa da come le ha ricevute, di
astenersi dal brigantaggio e di custodire i libri della loro setta [sunthrh,sein
o`moi,wj ta, te th/j ai`re,sewj auvtw/n bibli,a] con la stessa cura
che i nomi degli angeli. Tali sono i giuramenti con cui gli Esseni si garantiscono dei
proseliti.
[…]
Con più rigore di tutti gli altri giudei si astengono dal lavoro del settimo giorno; non solo
infatti si preparano da mangiare il giorno prima, per non accendere il fuoco quel giorno,
ma non ardiscono neppure muovere un arnese né andare di corpo. Invece, negli altri
giorni, scavano una buca della profondità di un piede con la zappetta – a questa, infatti,
assomiglia la piccola scure che viene consegnata da loro ai neofiti – e avvolgendosi nel
mantello, per non offendere i raggi di Dio, vi si siedono sopra. Poi gettano nella buca la
terra scavata, e ciò fanno scegliendo i luoghi più solitari. E sebbene l’espulsione degli
escrementi sia un fatto naturale, la regola impone di lavarsi subito dopo come per
purificarsi da una contaminazione.
[…]
Sono anche longevi, tanto che i più di essi oltrepassano i cento anni, a motivo della
semplicità del genere di vita, a quanto mi sembra, e della regolarità. Disprezzano i
pericoli. Superano i dolori con la riflessione. Quando giunge con gloria, giudicano la
morte come migliore della conservazione della vita.
I loro spiriti, del resto, furono sottoposti ad ogni genere di prove dalla guerra contro i
romani, nella quale furono stirati e contorti, bruciati e fratturati, fatti passare sotto ogni
strumento di tortura, affinché bestemmiassero il legislatore oppure mangiassero alcunché
di illecito, ma rifiutarono ambedue le cose: neppure adularono mai i loro tormentatori né
mai piansero.
Sorridendo, anzi, tra gli spasimi e trattando ironicamente coloro che eseguivano le torture,
rendevano lo spirito come persone che stiano per riceverlo nuovamente. [GF esprime
ammirazione per gli esseni e per la loro attesa di una vita ultra-terrena].
Infatti, è ben salda fra loro l’opinione che i corpi sono corruttibili e instabile la loro
materia, mentre le anime permangono per sempre [ta.j de. yuca.j

81
avqana,touj avei. diame,nein]. Venute dall’etere più sottile, restano
implicate nei corpi come dentro le carceri, attratte da un certo incantesimo naturale, ma
quando sono sciolte dai vincoli della carne, come liberate da una lunga schiavitù, allora
sono felici e volano verso l’alto; con una concezione simile a quella dei figli dei greci,
essi ritengono che alle anime buone è riservato di vivere al di là dell’oceano in un luogo
che non è molestato né dalla pioggia né dalla neve né dalla calura, ma ricreato da un
soave zefiro che spira sempre dall’oceano; invece alle anime cattive attribuiscono un
antro buio e tempestoso, pieno di supplizi senza fine […]
Queste sono dunque le credenze degli Esseni intorno all’anima, che rappresentano
un’attrazione irresistibile per tutti quelli che una volta abbiano assaporato la loro dottrina.
Vi sono poi tra di loro quelli che asseriscono di prevedere il futuro, esercitandosi fin
dalla fanciullezza nello studio dei libri sacri, degli scritti sacri, e delle sentenze dei
profeti [proginw,skein u`piscnou/ntai bi,bloij i`erai/j kai.
diafo,roij a`gnei,aij kai. profhtw/n avpofqe,gmasin]: ed è raro
che le loro predizioni falliscano.
Esiste pure un altro gruppo di esseni che per genere di vita, per costumanze e per
legislazione s’accordano con gli altri, ma ne dissentono sulla questione del matrimonio.
Ritengono, infatti, che coloro che non si sposano amputino una parte importantissima
della vita, e cioè la propagazione della specie, tanto che se tutti adottassero la stessa
opinione ben presto scomparirebbe il genere umano […]”.
Il celibato nella cultura giudaica era disprezzabile, va contro il comando di Dio. Questo carattere del
celibato troverà spazio nel gruppo di Gesù, ne ne trova un accenno in Matteo. Questo accenno riguarda
in primo luogo la sua persona, quella frase sull’eunochia per il regno è una risposta a un’obiezione che
lui si era sentito rivolgere. Gesù insegna qualcosa che già prima aveva maturato, prima del suo
ministero pubblico.
3.2. Plinio il Vecchio
Geografo romano, Plinio (23-79 d.C.) nella sua Storia Naturale V, 73 descrive la depressione del
Giordano e le usanze delle persone che la abitano: non hanno donne, hanno rinunciato interamente
all’amore (sessuale), vivono senza danaro, sono amici delle palme, affluiscono ad essi un gran
numero. Quindi, dà indicazioni geografiche: situati ad una certa distanza dalla riva maleodorante del
Mar Morto.
Finora non vi è altro ritrovamento archeologico se non quello di Qumran cui si adattano le sue
indicazioni.
Rispetto a Giuseppe Flavio, Plinio è autore pagano e dunque è meno coinvolto, maggiormente
disinteressato.

4. Obiezioni e difficoltà all’ipotesi essena


Primo. Ci sono discordanze tra gli scritti qumranici e Giuseppe Flavio circa le condizioni di
ammissioni (diverse le tappe e la durata), il matrimonio (1QS non ne parla, 1QSa parla di donne e
bambini), la proprietà privata (da CD emerge un altro tipo di comunità, dove si ammette la
proprietà).
Secondo. Il testo di Plinio parla di En-Gedi (sorgente sulla riva del Mar Morto) messa a confronto con
Gerusalemme (per fertilità e palmizi): forse si vuole intendere Gerico, anch’essa una oasi. Inoltre, il

82
testo descrive l’insediamento di Qumran usando il presente come se fosse ancora attivo, mentre
sappiamo che Qumran sarebbe finito nel 68 d.C.
Terzo. Il termine “esseno” non figura mai nel NT, né nei DSS. Non si sa quale fosse stato
l’equivalente (originale) ebraico: “pio”? “guaritore”? “colui che fa” la Torah? (queste sono le
espressioni che si trovano nei DSS).
Quarto. Una grande differenza è che il gruppo di Gesù è un gruppo aperto, inclusivo, non elitario,
mentre per gli esseni era molto forte il senso elitista della separazione tra loro e gli altri gruppi.

5. Ragioni in favore dell’identificazione dei qumraniani con gli esseni


Primo. Plinio scrive probabilmente nel 77 d.C. (conosce la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. e
forse anche la presa di Masada nel 73 d.C.) e dedica il libro a Tito prima che divenisse imperatore nel
79 d.C. Forse non era al corrente che Qumran fosse stato distrutto (non era così importante come
Gerusalemme e Masada) oppure riporta semplicemente le note che aveva preso quando l’aveva
visitata o forse ancora – come usava fare – si serve di altre fonti, il che spiegherebbe anche l’errore
Gerusalemme-Gerico; non avrebbe cioè visitato la zona di persona. Dunque, è molto probabile che la
Storia naturale parli degli abitanti di Qumran identificati con gli esseni.
Secondo. Dal confronto tra le fonti storiche (Giuseppe Flavio e Plinio) e ciò che gli esseni scrivono di
se stessi (cfr. Col. VI,13 I nuovi candidati) emergono molti punti di contatto e notevoli corrispondenze
tra credenze e usi (specialmente in 1QS). Nella teologia riguardano il determinismo (Ant. 13,171-173
e 1QS16 III, 15-16.21-23; 1QH17 I,7-8.18-20; CD II,6-10), l’aldilà (Bell. II, 154-155: immortalità e
ricompensa); negli usi riguardano il rifiuto dell’olio per ungere il corpo, la proprietà, la purità dei
pasti, il corpo e le sue funzioni, lo sputare.
Terzo. Rilevante per il NT è il fatto che ci siano testi molti simili a quelli neotestamentari: es. 4Q525
[“Makarios …”], il detto di Gesù sulla eunuchia. Quanto al celebre frammento 7Q518, il papirologo
O’Callaghan (anni Settanta) ritiene possibile identificare il frammento con il vangelo di Mc 6, 52-53:
“In realtà non avevano ben capito il fatto dei pani perché il loro cuore era indurito. E avendo
attraversato il lago verso terra giunsero a Genesaret e sbarcarono”. Se tale decifrazione risultasse
plausibile si tratterebbe del più antico reperto del NT. La ricerca scientifica su 7Q5 rimane aperta:
l’ipotesi di O’Callaghan non è teoreticamente impossibile, ma, sebbene non si sia trovato un testo
alternativo conosciuto che corrisponda al frammento, anche l’attribuzione a Marco risulta molto
precaria e dunque altamente improbabile. È una concentrazione di varianti, oltre a non essere
chiaramente leggibile.19

16
S = Scritti.
17
H = Canti [hodaiot].
18
La grotta 7Q conteneva soltanto frammenti in lingua greca. A questa particolarità si aggiunge il fatto che,
diversamente da tutte le altre grotte in cui i reperti sono pergamenacei, i testi sono su papiro, compilati solo da
un lato, quindi provenienti da rotoli e non da codici. Tutti i testi trovati sono precedenti al 68 d.C.: in particolare
secondo gli esperti di papirologia, lo stile “Zierstil” in cui sono scritti i papiri 7Q fissa la loro datazione tra il 50
a.C. e il 50 d.C.
19
Il piccolo frammento 7Q5 contiene in 5 righe solo 9 lettere sicure, le altre risultano di difficile interpretazione
offrendo diverse possibilità. A favore della tesi che il frammento appartenga al vangelo di Marco starebbe il fatto
che, nel contesto sticometrico, l’unico testo conosciuto che corrisponda, dato un numero di lettere più o meno
uguale per ogni riga, è Mc 6, 52-53; inoltre, nella quarta riga la rara successione delle lettere “ni ni eta sigma”
sarebbe identificabile con il nome Genesaret in Mc 6, 52-53.
Gli stessi difensori della tesi affermano, però, che, perché essa stia in piedi, in primo luogo una lettera dubbia
della seconda riga deve essere identificata come la lettera “ni”; in secondo luogo una lettera della terza riga deve
essere uno “iota”, anche se vi è una linea curva, dovuta, però, ad una sfilacciatura del papiro; in terzo luogo

83
Quarto. I manoscritti sono interessanti per comprendere l’humus culturale in cui nasce il cristianesimo
e che era comune a chi viveva il Palestina a quell’epoca: comuni infatti sono la concezione di Dio, la
centralità della Torah quale norma della fede, la frequenza della citazione dell’AT (Is, Sal), la fede
negli angeli e nei demoni, la promessa escatologica per i poveri, l’ambivalenza verso il Tempio, la
comunione dei beni, la posizione intransigente verso il divorzio (contro il permissivismo fariseo),
l’indicazione “figli della luce” e “figli delle tenebre”, l’uso cultuale nel prendere i pasti.
In sintesi, ci sono molti argomenti a favore, e pochi e deboli contro.
Oltre a Giuseppe Flavio c’è la testimonianza di Filone Alessandrino che in Ogni uomo onesto è libero,
descrive un gruppo che porterebbe l’identificazione della comunità Qumranica con gli Esseni.
A Qumran non ci sono elementi prorpi della comunità che iniziò a formarsi intorno a Gesù, solo alcuni
aspetti possono richiamare il modo di vivere della prima comunità cristiana.
A Qumran è stato trovato il salmo 151 ebraico che avevamo già nella LXX, questo salmo non si trova
nel testo masoretico. Questo salmo riguarda la figura di Davide pastore (11 Q5).
In questo sito non sono stato trovato nulla di scritto su papiro o pergamena, in una delle sale sono stati
trovati dei tavoli con calamai e penne, un posto dove venivano copiati i manoscritti. Inoltre sono state
trovate le vasche per la purificazione. Stoviglie e prodotti di ceramica, resti di profumi.
Il sito di Qumran cos’era? Centro dell’insegnamento esseno, grande bagno rituale, fortino difeso da
Zeloti contro i Romani, una villa rustica, una fattoria di produzone del balsamo, stazione di posta per il
vetro, porto commerciale sul Mar Morto. Vista la presenza ingente di manoscritti biblici e non, è atata
avanzata l’ipotesi che poco prima della distruzione di Gerusalemme, alcuni sacerdoti possano aver
preso dal tempio di Gerusalemme alcuni manoscritti per preservarli dalla distruzione.
1. Testi biblici e testi non biblici. Ci consente di avere un testo biblico precedente di mille anni rispetto
al codice di Leningrado.
2. ci fa conoscere dal di dentro cosa pensava questo gruppo di sé di Dio, della religione e della
salvezza.

bisogna supporre il cambio d’iniziale da “d” in “t” del verbo greco “attraversare”; in quarto luogo il testo deve
aver omesso, per mancanza di spazio, il complemento di direzione “verso terra”, espressione presente nel
frammento di Marco; infine, bisogna supporre uno spazio prima del “kai” che indicherebbe proprio l’inizio di un
nuovo paragrafo.
Gli argomenti contrari affermano che più il frammento è piccolo più l’identificazione deve basarsi almeno su di
un elemento indubitabile e senza supporre irregolarità nel testo. La sequenza delle quattro lettere “ni ni eta
sigma” è poco indicativa perché es. solo nel NT vi sono 116 combinazioni delle 4 lettere in tale successione ed
esse non riferiscono al nome “Genesaret”, ma al verbo molto più comune “generare”. Inoltre, contestano la
lettura della lettera “ni” alla seconda riga e della lettera “iota” nella terza. Infine, il cambio di “d” in “t” si
riscontrerebbe solo in pochi casi e sarebbe da dimostrare anche la scelta del copista dell’omissione di “verso
terra”. La conclusione di questi studiosi è che l’ipotesi non possieda prove fondanti.

84
Parte seconda:
Introduzione all’Antico Testamento

85
10. La storia biblica di Israele20 - I
I patriarchi e l’esodo

1. Introduzione: si può scrivere una storia dell’Israele biblico?


1.1. Il concetto moderno di “storia”
1.2. Le fonti
1.2.1. Archeologia biblica
1.2.2. Geografia palestinese
1.2.3. I popoli del Vicino Oriente biblico
2. Le storie dei patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe
2.1. Abramo (Gen 12-25)
2.1.1. La promessa di una discendenza
2.1.2. La promessa di una terra
2.2. Giacobbe (Gen 25-36) e Giuseppe (Gen 37-50): storia di un padre e di un figlio
2.2.1. Il rapporto dell’Israele dei patriarchi con l’Egitto
3. La storia biblica dell’esodo

1. Introduzione: si può scrivere una storia dell’Israele biblico?


Ci sono tanti modi di affrontare il tema della storia di Israele, tema molto controverso e discusso a
partire dalla domanda: si può scrivere una storia dell’Israele biblico? Si potrebbe pensare che è inutile
scrivere una storia di Israele, in quanto il testo biblico stesso ci fornisce una presentazione “storica”
degli eventi del popolo eletto: la Bibbia è, infatti, la memoria storica che Israele ci consegna del suo
passato, es. in quelli che nel canone cristiano chiamiamo i “Libri storici” dell’AT. Da Gen a 2Re con
l’aggiunta di 1-2 Cr, Esd-Nee, Est, Tb, Gdt, 1-2Mac sono la testimonianza del fatto che questa
biblioteca tratta principalmente della storia di Israele, cui si aggiunge l’appendice cristiana che è la
continuazione neotestamentaria di questa storia. Questi autori antichi che hanno intenzione di scrivere
storia, non hanno la nostra stessa idea di storia formatasi dopo l’illuminismo. In che senso allora i libri
della Bibbia sono storici?
Tuttavia, questo non ci dispensa da un lavoro storico in senso moderno:
 In primo luogo, nella Bibbia i testi storici provengono da un periodo e da una cultura in cui
la storia, nel senso moderno del termine, era sconosciuta: il concetto di storia che abbiamo
oggi è del tutto moderno e non coincide con quello che avevano gli autori sacri della
Bibbia.
Qual è la differenza fra il concetto di “storia” proprio degli autori sacri e quello
moderno?
 Inoltre, ci troviamo di fronte a racconti che utilizzano dei generi letterari specifici. Es. gli
autori biblici collocano il racconto delle origini (Gen 1-11) nel tempo e nello spazio reale

20
Bibliografia di riferimento: C. Balzaretti, La storia di Israele: dalle origini all’esilio Babilonese, in R. Fabris,
et alii, Introduzione generale alla Bibbia (Logos - Corso di studi biblici 1), LDC, Torino 20062, 49-124; L.
Mazzinghi, Storia d’Israele. Dalle origini al periodo romano, EDB, Bologna 2007; J.L. Ska, La Parola di Dio
nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 20032; M. Cucca & G. Perego, Nuovo Atlante biblico
interdisciplinare, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016; P. Merlo, Breve storia di Israele e di Giuda, San Paolo
2010; I. Finkelstein & N.A. Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, Carocci, Roma 2007; M.
Priotto, Il libro della Parola. Introduzione alla Scrittura, LDC, Torino 2016; A. Soggin, Storia di Israele,
Paideia, Brescia 2002.

86
ed è da essi percepito come “storico”; tuttavia, è escluso che le scienze storiografiche
moderne, a parte gli equilibrismi assurdi di chi pratica una lettura fondamentalista (e non
sono soltanto le sétte), potrebbero essere d’accordo con questa affermazione (es. il
calendario ebraico calcolato a partire dalla creazione del mondo secondo la narrazione
biblica non è scientificamente giustificato).
In che senso i libri biblici sono “storici”? È possibile oggi e in quale modo e con quali
vantaggi elaborare una “storia di Israele” secondo il concetto moderno?
Ne segue l’importanza di farsi le domande giuste riguardo al concetto di storicità e l’importanza di
comprendere il contesto storico di Israele.
Oggi si continua a ragionare sul concetto di storicità. Il concetto moderno di storia andrebbe
avvicinato al concetto di imparzialità di colui che la racconta, cosa impossibile da raggiungere. Gli
osservatori spesso sono interni, raccontano fatti già interpretati. Spesso più che è realmente accaduto,
si racconta ciò che suscita interesse, ciò che è ritenuto importante. Anche una storia deideologizzata è
difficile da perseguire.
La Bibbia non vuole informare ma formare, ha un intento pedagocigo, educativo. Israele ha raccontato
il passato non per fare una cronaca ma peché aveva significato, era qualcosa di significativo, aveva
un’importanza per il presente dello storico e dei suoi ascoltatori. Ogni fatto storico viene letto alla luce
del presente. Isralele e ogni società antica e modena che fa memoria della propria storia, lo fa perché
c’è questo racconto ha valore per il presente.
1.1. Il concetto moderno di “storia”
In senso moderno “storia” è la ricostruzione del passato sulla base di fonti: es. nella dibattito
gesuano possiamo conoscere il Gesù storico grazie alle fonti bibliche ed extra-bibliche, ma non il Gesù
reale che è esistito ma di cui non ci sono fonti che lo attestino.
Il concetto di “fatto storico” si definisce come ciò di cui è possibile trovare delle attestazioni e non
necessariamente come ciò che è realmente accaduto (concetto molto più ampio di ciò che è storico).
Non esistono fatti storici che si possono riferire in modo assolutamente oggettivo: esistono piuttosto
solo “fatti interpretati”, cioè letti con un determinato interesse ed una determinata ottica. La grande
maggioranza dei fatti che avvengono nella storia non sono “storici”, perché non viene riconosciuto
loro un significato o una rilevanza tale da tramandarli o doverli tramandare (quindi una cosa può
essere benissimo “reale”, cioè accaduta veramente, ma non “storica”). L’assoluta “imparzialità
storica” o “oggettività scientifica” di chi racconta non esiste, ma ciò che è rilevante è la ricerca
dell’obiettività da parte di chi scrive. Certamente, dall’illuminismo in poi si è fatto un grande lavoro
sulle fonti nella direzione di ottenere una storia ‘imparziale’, o come si preferisce dire, “de-ideologiz-
zata”, cioè non influenzata da ideologie.
Questo significa che non ho diretto accesso alla verità della storia, accedo alla realtà tramite un
mediatore, un testo scritto, un testimone.
Nella Bibbia è narrata una storia, quindi si può affermare che la Bibbia stessa contiene la storia
d’Israele.
Ora, nel mondo antico questo sforzo che potremmo definire di ricerca dell’“imparzialità storica” o
“oggettività scientifica” non esisteva. La storia antica che la Bibbia ci tramanda direttamente va letta
nell’ottica degli storiografi passati. Ciò non vuol dire che Israele non credesse o abbia dubitato nel
fatto tramandato, ma che non era sua preoccupazione primaria di verificare storicamente questo fatto.
Questa domanda è fuori dall’orizzonte dell’uomo biblico, il cui unico interesse era cogliere il
significato di un fatto. Per l’uomo biblico “storico” è un fatto “significativo” per comprendere

87
l’esistere presente e futuro: solo perché è significativo per il mio oggi allora un fatto è degno di
essere tramandato. La significatività del fatto veniva necessariamente letta alla luce di quanto era
accaduto dopo, alla luce del presente. Israele come società era consapevole del suo passato e che
questo costituiva la base della sua identità come nazione nel presente e proprio per questo lo racconta.
La Bibbia non vuole informare ma formare!
In questo racconto entra una certa interpretazione, es. per esaltare i fatti eroici del passato. E allora si
racconta la storia come un’epopea: in un racconto epico i fatti si mescolano, avvenimenti diversi
sono accostati, abbelliti, interpretati per costruire un racconto facilmente tramandabile e anche bello,
avvincente (è il “mito dell’età dell’oro”, di un bel tempo antico che non c’è più, che operava già al
tempo della Bibbia in tutte le storie nazionali). In questo passato il popolo scopre le sue origini, i suoi
valori, la sua identità, il suo presente.
Se, dunque, vogliamo giungere ad una conoscenza della storia di Israele, in senso moderno, non
possiamo accontentarci di riassumere in modo schematico i dati contenuti nella Bibbia. Se
accogliamo i dati biblici come storici in senso moderno senza un’analisi preliminare ci accorgiamo che
c’è una certa corrispondenza sostanziale ma anche molte contraddizioni nei dettagli (→ inerranza): es.
nel NT discorso della montagna, le apparizioni di Gesù, l’ora della crocifissione di Gesù, etc.; ancor
maggiori sono le contraddizioni nell’AT.

1.2. Le fonti
Per ricostruire la storia di Israele non sono sufficienti i libri biblici, ma occorre ricorrere alle fonti e
confrontare i dati biblici con le fonti:
 I rilevanti risultati dell’archeologia negli ultimi due secoli;
 Le tradizioni letterarie (della Bibbia) studiate in modo critico;
 Le fonti letterarie extra-bibliche (es. i racconti del Vicino Oriente antico: Egitto, le cui
attestazioni storiche arrivano indietro nel tempo fino al 2500 a.C.; Ittiti; Assiri; Babilonesi);
 La geografia di Israele.
1.2.1. Archeologia biblica
Negli ultimi due secoli è cresciuto esponenzialmente l’interesse scientifico (di pari passo con
l’avanzamento della tecnica di scavo) per queste testimonianze scritte sulla terra.
I luoghi di stanziamento venivano scelti secondo la disponibilità di acqua (es. Gerico nasce vicino a un
oasi) o di alture (nella sua storia la Palestina è stata continuamente teatro di battaglie). È possibile fare
una mappa dei luoghi dove ci sono stati antichi stanziamenti, così come delle direttrici delle grandi
carovaniere di quel tempo lungo le quali ci sono certamente tracce abitative. Le antiche città
palestinesi erano costruite con mattoni crudi: in caso di devastazioni e distruzione nemica si spianava e
si ricostruiva direttamente sulle macerie senza fondamenta. Ecco allora che i Tell sono strane
collinette a forma di cono con strutture regolari (il cui perimetro può anche raggiungere i 5 km)
risultato di progressive stratificazioni: i vari strati o livelli ci permettono di leggere l’evoluzione
storica dell’occupazione della città (es. nella città di Troia, Turchia, sono stati ritrovati fino a 11 strati
= 11 città).

88
Tell el-Husn – Pella (Giordania)

Tell es Sultan – Gerico

Lo scavo archeologico avviene prima fotografando lo strato più esterno. Ogni strato corrisponde a una
età diversa: l’età di uno strato è agevolmente stabilita (con altissima precisione, con una incertezza di
massimo 50 anni) confrontando i reperti ritrovati con la catalogazione di ogni tipologia di reperto:
preziose per datare gli strati più recenti sono le monete (che solitamente riportano l’indicazione della
data), mentre gli oggetti più importanti per le epoche più antiche sono i resti di ceramica; utili è anche
la presenza di oggetti stranieri (che dicono di rapporti commerciali o di occupazioni militari), del tipo
di edilizia, etc.
L’archeologia ci può fornire dati storici notevolmente probabili per quanto riguarda la datazione di
guerre, conquiste di città, incendi, contatti con le popolazioni straniere, ma anche per illustrare la vita
comune, quotidiana, di determinate epoche; è una mole di materiale estremamente interessante per
rendere ai testi biblici quella ambientazione storica che ne chiarisce ed approfondisce il significato ed
il valore.
1.2.2. GEOGRAFIA PALESTINESE
Il teatro geografico biblico è rappresentato dalle terre del Vicino Oriente che si estendono dall’Egitto
fino ai grandi fiumi Tigri ed Eufrate (sebbene non esclusivamente: riferimenti biblici anche ai greci,
ai romani, etc.). È possibile distinguere tra una gran parte di territorio desertico (steppa, pietraia, o
savana) e territori fertili per la presenza di sorgenti, pozzi e corsi di grandi fiumi (Tigri ed Eufrate in
Mesopotamia, Nilo in Egitto).

89
La Mezzaluna fertile identifica una serie di territori dalla forma di una mezzaluna rovescaiata che si
estendono da Babilonia fino alla foce del Nilo; è il tracciato obbligatorio dei collegamenti via terra
dall’Egitto verso la Mesopotamia e viceversa.
La terra di Canaan (Palestina), situata all’interno della mezzaluna, ha costituito per secoli uno dei
principali punti caldi dei rapporti bellici tra le due superpotenze – militari, politiche e commerciali –
dell’epoca: Babilonia e Egitto. Molto spesso il popolo cananeo sarà costretto a decidere con chi
allearsi: se con il nord (Siria e Babilonia) o con il sud (Egitto).
Questa situazione è ulteriormente aggravata da una indeterminatezza geografica della Palestina per
l’assenza di chiari confini: questa situazione olografica non rende facile mantenere una stabilità
politica e culturale. Si distinguono 4 strisce parallele e sostanzialmente omogenee che percorrono il
territorio di Israele da nord a sud:21
1. La fascia costiera. È una zona sabbiosa, ricca di dune, di conseguenza non adatta alla
coltivazione né all’attività portuale: il mare non è mai visto come mezzo di comunicazione,
ma sempre negativamente come un pericolo e un confine minaccioso, sede di mostri marini
(cfr. Gb) (solo con Erode il Grande nel 22 a.C. ca. i romani realizzarono il primo e l’unico
porto dell’area a Cesarea che però non resistette; il solo porto della regione oggi esistente è
quello di Haifa, nella baia sopra il Monte Carmelo).
2. La regione delle colline. Alte dai 600 ai 1000 m, si estendono dalla piana di Israel a nord
al Sinai a sud. È la parte più fertile del paese. Sul monte di Meghiddo (Armagheddon,
richiamato anche in Ap) sorgeva una fortezza che permetteva di avvistare l’arrivo degli

21
Cf. http://www.bible-history.com/geography/ancient-israel/baca.html.

90
eserciti nemici. È la zona del paese occupata più stabilmente dall’Israele storico.
3. La depressione giordana. È in graduale approfondimento: il Giordano nasce dalle pendici
del monte Ermon, si immette nel Lago di Tiberiade o Mare di Galilea (215 m s.l.m.) e
scendendo nella piana di Israel sfocia nel Mar Morto (430 m s.l.m., la più profonda
depressione della crosta terrestre e ad altissima salinità). Il Giordano è un piccolo fiume,
non navigabile, paludoso, non favorisce stanziamenti sulle sue sponde. È l’unica frontiera
naturale di Israele in questa depressione.
4. L’altopiano trans-giordanico. Si innalza fino a 1200 m di altitudine (è più alto della
Giudea).
Clima. Su questo insieme di territori la pioggia cade da novembre a marzo, l’estate è sempre secca.
Oltre al Giordano i pochi altri fiumi sono tutti torrenti stagionali (uadi), cioè nascono solo al momento
delle piogge e per questo sono molti insidiosi.
Complessivamente è una terra abbastanza povera: la carne è abbastanza rara, la selvaggina e la pesca
danno i loro frutti, sono presenti alberi da frutto. Il territorio si estende di fatto a macchie di leopardo,
con poche zone fertili coltivate, grandi aree di steppa e qualche oasi.

91
92
1.2.3. I popoli del Vicino Oriente biblico
La Palestina prende il suo nome dai Filistei, popolo che conosceva bene l’arte della navigazione e
molto insidioso (cfr. la lotta con Israele narrata nel libro dei Giudici). Sono chiamati anche “popoli del
mare”.
I Sumeri si sono stanziati in Mesopotamia prima del 3500 a.C.; hanno inventato la scrittura
cuneiforme; esercitarono una grande influenza nell’età del rame e del bronzo (il cui utilizzo fu dovuto
proprio a loro). Usavano tecniche sofisticatissime per lavorare questi metalli.
Gli Accadi erano una popolazione semitica la cui lingua e cultura esercitò una grande influenza tra il
2500 e il 500 a.C. Questa popolazione si unì agli antichi Sumeri. Avranno una lingua unificante,
l’accadico, scrittura cuneiforme.
Gli Amorrei erano una popolazione semitica di vita nomade che prese il potere dal 2000 a.C. fino a
diventare stabile e istituire nel 1700 la dinastia babilonese (cui si deve il Codice di Hammura’i), in
questo codice troviamo la legge del taglione che era un gande progresso nella regolazione della
giustizia, la vendetta doveva essere regolata.
Gli Hittiti erano una popolazione di matrice indoeuropea che occupava la Turchia nord-occidentale;
intorno al 2000 a.C. costituisce una cultura molto forte a nord della Mesopotamia (avranno poco a che
fare con Israele).
Gli Hurriti vissero verso il 1400-1300 a.C., all’epoca dei patriarchi di Israele. Intorno al 1600 a.C.
dalla loro unione con gli Amorrei sotto una classe dirigente indoariana si sarebbe formato il potente
stato di Imitanni. A est del Tigri sono state trovata migliaia di tavolette dalle quali capiamo i cstumi
che si avevano in epoca patriarcale.
Gli Egiziani sono una delle grandi culture con cui Israele si troverà a confrontarsi dal punto di vista
sia politico sia militare:
 Sorge intorno al 3000 a.C. L’antico impero con capitale Menfi è l’epoca cui risale la
costruzione delle piramidi.
 Il medio impero (fino al 1720 a.C.) è segnato dal controllo acquisito per due secoli della
costa siro-palestinese; nel periodo 1720-1522 a.C. gli Hyksos – popolazione di invasori
provenineti dal nord – stabiliscono la capitale a Avanis e diventano la nuova classe
dirigente anche sugli egiziani. Secondo alcuni storici questo periodo è la base storica dei
racconti di Giuseppe in Genesi: l’arrivo in Egitto avrebbe a che fare con i movimenti degli
Hyksos. Probabilmente gli Israeliti si sono spostati in Egitto a causa di questo popolo.
 Il nuovo impero (1552-1070 a.C., XVIII-XX dinastia) è il periodo di massimo splendore.
La capitale è Tebe, inizia periodo di espansione verso la Palestina.
- Tutmosi III (1468-1436 a.C.)
- Ramses II (1290-1224 a.C.): le basi storiche dell’Esodo (cfr. Es 1,11). Si costruisce
una città deposito, PI-Ramses, nome citato in Es.
- Ramses III (1175 c.a., 20a dinastia): vince i popoli del mare (compresi i filistei) che
allora occupano le zone costiere della Palestina. È il periodo del coinvolgimento di
Israele nella storia mondiale.

93
2. Le storie dei patriarchi: Abramo, Isacco e Giacobbe
Il primo problema che emerge nello scrivere una storia di Israele: quando ne va stabilito l’inizio in
senso scientifico?
Lo storico A. SOGGIN, nella prima edizione della sua Storia di Israele (1984), sulla base di fonti
esterne alla Bibbia, ne individua gli inizi con la monarchia davidico-salomonica. I dati precedenti
questo periodo è difficile collocarli nel senso moderno di storia. Tuttavia, nella sua ultima edizione
(2002), situa i regni di Davide e Salomone nella parte intitolata Tradizioni sulla preistoria del popolo,
dal momento che la storia biblica di questo impero “presenta più problemi di quanti ne potremo mai
risolvere […] Le fonti sono di origine tarda, riflettono problematiche posteriori, quando il popolo,
ormai ridotto al solo Giuda, stava passando per esperienze molto spiacevoli” (p. 56). Quando si
racconta la storia della massima espansione sotto Davide, la si racconta nel momento di massima crisi
del popolo ridotto al solo territorio di Giuda.

I primi testi biblici che ci riferiscono in modo “storico”, secondo la prospettiva di cui abbiamo detto,
sono i testi del libro della Genesi che si riferiscono ai patriarchi (Gen 12-37). La Bibbia ci presenta le
figure di Abramo, Isacco e Giacobbe come figure concrete, reali (il problema dell’eredità, della
gelosia tra fratelli, dell’adattamento ad una vita lontano dalla propria terra, etc.), che possono essere le
condizioni delle popolazioni nomadiche vissute nel 1800-1500 a.C. come attestate da fonti extra-
bibliche. La storia dei patriarchi è tradizionalmente collocata nel XVIII-XVI secolo a.C. (l’Esodo è
collocato nel XIII secolo a.C.), ma non abbiamo alcun riscontro storico.
Negli ultimi 100 anni però, la certezza e l’esattezza storica di questi racconti è stata messa in dubbio:
contraddizioni storiche; tradizioni letterarie diverse messe in parallelo e sovrapposte; sovrapposizione
con tradizioni esterne per giustificare alleanze e cantare le lodi dei capostipiti dei vari gruppi; etc. Il
racconto biblico che introduce un rapporto di parentela tra i tre patriarchi (Abramo, Isacco figlio di
Abramo, Giacobbe figlio di Isacco) sarebbe successivo e motivato dal desiderio di giustificare la
riunificazione di tribù indipendenti che si richiamavano a tre capostipiti diversi: appunto Abramo,
Isacco e Giacobbe.
Secondo PCB, Ispirazione e Verità (parr. 106-107), il racconto di Genesi sarebbe stato scritto dopo
l’esilio a Babilonia nel VI-V secolo a.C. (dopo la presa di Gerusalemme nel 590 a.C.) per rispondere
al bisogno proprio di ogni popolo di conoscere le proprie origini: è allora il racconto del proprio
passato riprendendo tradizioni antiche reinterpretate e valutate con l’aiuto della fede sia per
fare memoria sia per comprendere il presente. Israele rilegge eventi della sua storia alla luce di
eventi ancestrali: l’evento dell’esodo viene raccontato solo quando e alla luce del fatto che il popolo
viveva una nuova esperienza di esilio in Babilonia similmente a quella che i padri avevano vissuto in
Egitto: richiamo reciproco tra le due esperienze di esilio. È l’esperienza di fede che ha permesso di
scrivere come è stato scritto per indurre i connazionali a credere nella potenza di Dio così come
avvenuto nel passato. Più che fatti concreti è importante la loro interpretazione alla luce della fede
di norme di vita dettate da Dio. In altre parole, l’intenzionalità dei testi sacri non è cronachistica o
storica (nel senso moderno del termine) ma teologico-salvifica per il popolo di Israele.
Dunque, non abbiamo alcun elemento storico extra-biblico che avvalori l’esistenza storica dei
patriarchi. Tuttavia, degli elementi generici a favore di un riconoscimento di storicità del contesto
generale sono:
1. I nomi dei patriarchi: sebbene non siano attestati nelle fonti extra-bibliche, sono nomi
semiti (al contrario di Mosé).

94
2. La somiglianza delle consuetudini: nei testi dell’area siriaca – sp. nei testi di Nuzi – è
possibile rinvenire un parallelo tra le consuetudini (usi e costumi) semitiche e quelle delle
popolazioni nomadiche del XIX-XVII secolo a.C. Ciò che è entrato in crisi è un
accostamento assoluto tra queste.
3. La verosimiglianza degli spostamenti: le grandi direttrici dell’antichità sono punti di
riferimento logico anche nel caso di narrazioni ricostruite successivamente.
4. L’esistenza di testi che confermano movimenti di popolazioni aramee nel corso del
XIX secolo a.C. nella direzione oriente > occidente seguendo un percorso a forma di
mezzaluna.
5. L’invasione degli Hyksos alla fine del XVIII secolo: questa invasione si può collegare in
qualche modo (o può finanche essere lo stesso movimento) con la discesa dei patriarchi in
Egitto; il movimento verso il fiorente Egitto è ciclico nella storia della Palestina specie nei
periodi di carestia.
Rimane, tuttavia, difficile anche solo datare l’epoca dei patriarchi: la tradizione la fa risalire al
periodo 1800-1600 a.C., ma senza alcun aggancio storico. Infatti, secondo la narrazione biblica
avremmo tre generazioni patriarcali che coprirebbero un tempo di ca. 250 anni, ben maggiore rispetto
alla realtà; inoltre, i riferimenti all’uso dei cammelli creano difficoltà, perché il loro uso è attestato non
prima del 1300 a.C.
In ogni caso ci troviamo di fronte a delle opere di letteratura dall’intento prevalentemente
teologico e non a delle cronache. Dietro questi testi è presente un ampio e lungo lavoro di riflessione
umana e teologica e di limatura artistica, attuato da una lunga tradizione orale prima e da una
rilevante opera di redazione creativa successiva. Quanto di storico, almeno secondo i nostri canoni,
sia potuto passare attraverso questa lunga storia del testo è difficilmente dimostrabile. E tuttavia,
proprio la bellezza di una storia nata da almeno un minimo nucleo di fatti reali può aver garantito la
trasmissione di questa storia nei secoli.
Dunque, l’approccio migliore è un approccio prudentemente comparativo con gli usi delle varie
epoche di una probabile collocazione storica, di ricerca di utili chiarificazioni delle informazioni
forniteci dai testi, ed in vista anche di una migliore comprensione della loro armonia e ricchezza
stilistica. Una via certo non disprezzabile per raggiungere il loro significato.
Le storie dei patriarchi sono, infatti, un prologo alla storia della salvezza più che alla storia di
Israele, cioè ad una lettura della storia come una azione di salvezza da parte di Dio nei confronti del
suo popolo. → Cfr. P. Merlo, Breve storia di Israele e Giuda. Dal XIII sec. a.C. al II sec. d.C. (pp. 10-
11).
2.1. Abramo (Gen 12-25)
Situare la figura di Abramo in un’epoca storica ben definita è praticamente impossibile. La
collocazione tradizionale è intorno al 1850-1750 a.C.
È un’epoca nella quale buona parte del medio oriente si mette in movimento: tribù semite salgono
dal deserto d’Arabia o scendono dall’altopiano dell’odierno Iran, spingendo avanti a sè altre tribù; Ur
viene conquistata ed una nuova dinastia si installa a Babilonia; gli Hittiti si stanziano in Asia minore
(l’attuale Turchia) e gli Hurriti in Mesopotamia; questo spostamento mette in moto altri clan,
specialmente gli Hyksos che verso il 1730 a.C. si installano nella zona del delta.

95
In questi fatti si potrebbe collocare quello che la Bibbia narra di Abramo (in assenza di altre fonti).
Dopo i racconti della creazione (Gen 1-11) e la narrazione della creazione di tutti i popoli (cfr. la torre
di Babele), Gen 12-25 racchiude il c.d. ciclo di Abramo.
Gen 12,1-3: la duplice promessa di Adonai ad Abramo di farne una grande nazione e di introdurlo in
una nuova terra.
“Il Signore disse ad Abram: «Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso
il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome
e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno
maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»”.

2.1.1. La promessa di una discendenza


Sulla promessa di una discendenza si ha una anticipazione già in Gen 11,27-30: la genealogia di
Abramo e l’introduzione della complicazione della sterilità di Sarai.
“Questa è la posterità di Terach: Terach generò Abram, Nacor e Aran: Aran generò Lot. Aran poi
morì alla presenza di suo padre Terach nella sua terra natale, in Ur dei Caldei. Abram e Nacor si
presero delle mogli; la moglie di Abram si chiamava Sarai e la moglie di Nacor Milca, che era
figlia di Aran, padre di Milca e padre di Isca. Sarai era sterile e non aveva figli.”

Quando e come si risolve la complicazione della sterilità di Sarai data la promessa di Adonai?
 Gen 16: stanco dell’attesa Abramo si unisce alla schiava Agar da cui nasce Ismaele.
 Gen 18: l’incontro straordinario alle Querce di Mamre in cui Dio appare ad Abramo e
profetizza la nascita di un figlio da Sarai.
La nascita di Isacco [“riso”, spiegato con l’immagine di Sarai che dall’interno della tenda sorride alla
profezia della nascita di un figlio] non avrà un suo proprio ciclo: al ciclo di Abramo segue quello di
Giacobbe, i quali assorbono quello di Isacco.
2.1.2. La promessa di una terra
La promessa della “terra che io ti indicherò”, invece, si realizzerà solo dopo il Pentateuco con Giosué
che prende il posto di Mosé come condottiero e farà entrare il popolo nella terra promessa. D’altronde
Abramo è un pagano: è con lui che nasce il popolo di Israele. Gen 15 dice l’alleanza di Dio con
Abramo (cfr. rituale del patto di sangue dell’epoca); Gen 17 descrive il segno fisico di questa alleanza
su Abramo, la circoncisione (ben prima della Legge).
Il clan di Abramo partirebbe da Ur, in Mesopotamia, allo stesso modo di tanti altri clan e pastori
nomadi o di popoli stanziali spinti dall’onda migratoria dell’epoca (cfr. Gen 12,4 ss.). Come era tipico
per l’epoca, Abramo fece delle previsioni leggendo i segni della natura:
“Dopo questi fatti, la parola del Signore fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: «Non temere,
Abramo, io sono il tuo scudo, e la tua ricompensa sarà grandissima». Abramo disse: «Dio,
Signore, che mi darai? Poiché io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di
Damasco». E Abramo soggiunse: «Tu non mi hai dato discendenza; ecco, uno schiavo nato in casa
mia sarà mio erede». Allora la parola del Signore gli fu rivolta, dicendo: «Questi non sarà tuo
erede; ma colui che nascerà da te sarà tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda il
cielo e conta le stelle se le puoi contare». E soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli
credette al Signore, che gli contò questo (accreditò) come giustizia.”

[Gen 15,6 è un versetto fondamentale in San Paolo per la sua dottrina della giustificazione per fede:
cfr. Rm 4; Gal 3, 6-9].

96
Gen 15. Giunto a Canaan offre a Lui un sacrificio di fecondità. Questa era una caratteristica tipica dei
popoli dell’antichità. Era concezione arcaica e mitologica propria di tutte le culture antiche che ogni
regione abitata avesse una sua propria divinità: dunque, entrare in un paese straniero significava
confrontarsi con la divinità di quel paese. Allora entrando in una terra straniera sconosciuta e perciò
piena di pericoli i nomadi offrivano un sacrificio alla divinità del luogo per ottenere da lei dei benefici.
Da qui inizia quel rapporto speciale ed unico nella storia delle religioni che è l’alleanza-amicizia tra
Abramo ed il suo Dio, e che diverrà fondamento della fede dei suoi discendenti e poi da un certo punto
di Israele. D’ora in poi egli sarà il Dio di Abramo, e quindi Abramo sarà Suo, di Dio.
Con Gen 15 la storia profana diventa in qualche modo storia sacra con la prevalenza dell’elemento
religioso. Si intravvede una novità che, letta alla luce della fede, dice di un intervento di Dio e del suo
entrare in contatto con Abramo. Questo trasforma il sacrificio di fecondità in un sacrificio di alleanza.
La novità più chiara è che Dio non accetta di entrare in una relazione del tipo do ut des, in quanto solo
Dio si impegna in questo patto senza chiedere un contraccambio se non la fede, l’affidamento totale a
questo patto di amicizia. Il Dio che si dona in modo gratuito è il Dio tipico del resto della narrazione
biblica: è un Dio personale e dalle caratteristiche personalistiche, con cui si entra in una relazione a tu-
per-tu.
Su questa radice possiamo leggere il resto delle storie di Abramo, che se approfondiscono i concetti,
soprattutto alla luce della posteriore esperienza di Israele, non aggiungono però nulla di sostanziale a
questo nucleo.
In Gen 17 avviene la circoncisione di Isacco, questo fatto riletto alla luce di 15,6 ne è l’attestazione di
quella giustificazione per fede di Abramo senza alcun’opera, è lui ad impegnarsi. Come unico
elemento che chiede ad Abramo in cambio è appunto la fede.

2.2. Giacobbe (Gen 25-36) e Giuseppe (Gen 37-50): storia di un padre e di un figlio
Giacobbe è considerato dalla storia biblica “il padre speciale del popolo”: con lui la discendenza
naturale di Abramo e Isacco diventa germe di un popolo nella discendenza dei dodici fratelli, capi
delle dodici tribù. Dopo di lui il rapporto da 1:1 diventa 1:12. Dal suo secondo nome “Israele”, che
ottiene a seguito della battaglia sul fiume Yabbok con una figura misteriosa (cfr. Gen 32,23ss.), i
discendenti prenderanno il nome caratteristico di “Figli di Israele”.
Giacobbe-Israele appare come un tipico personaggio da racconto popolare: un uomo abile, che con la
scaltrezza e i suoi trucchi riesce a cavarsela in ogni situazione. Questa raffigurazione tocca anche la
descrizione del suo rapporto con la divinità (es. il diritto di primogenitura sottratto a Esaù per un piatto
di lenticchie), di minore potenza e dove manca la profondità che caratterizza il rapporto con Dio di
Abramo.
Dietro le storie di Giacobbe possiamo identificare innanzitutto un problema ricorrente nelle pagine
della Bibbia fino ai tempi di Gesù: il contrasto tra un popolo sedentario, coltivatore e magari
allevatore di bestiame (Giacobbe, ma già Abele) e un popolo nomade, prevalentemente cacciatore
(Esaù, ma già Caino). La Bibbia ricollega questo conflitto ad una situazione storica quando fa di Esaù
il progenitore del regno di Edom (con cui Israele, una volta costituitosi popolo, avrà contrasti
continui). La difficile dipendenza non equilibrata di Edom nei confronti di Israele raffigura la difficile
dipendenza di Esaù nei confronti di Giacobbe. Tradizioni molto antiche – che risalgono indietro fino al
2100 a.C. – collegano Giacobbe ad alcuni santuari (es. Betel).
Più che una improbabile ricostruzione storica unitaria, è utile notare nelle storie di Giacobbe la
presenza di echi storici legati ad ambiti geografici e cronologici diversi, riconosciuti o sovrapposti

97
in tempi diversi in queste storie. Uno di questi echi ricorrenti, che costituirà il legame tra la storia di
Giacobbe e quella di Giuseppe, è il rapporto dell’Israele dei patriarchi con l’Egitto.
2.2.1. Il rapporto dell’Israele dei patriarchi con l’Egitto
Da Abramo fino a Giuseppe il tema della ricerca dell’acqua indirizza l’attenzione dei patriarchi verso
l’Egitto (questo perché in Palestina vi erano delle carestie). Mentre nel resto della Bibbia l’Egitto
rappresenta sempre la terra simbolo di ogni oppressione, nei racconti patriarcali si conserva anche la
tradizione parallela dell’Egitto come terra di rifugio e di protezione terra della fertilità. Infatti, sin dal
2000 a.C. la Siria-Palestina rientra nella sfera di interesse e di influenza egiziana, anche per le
frequenti incursioni di asiatici e cananei che scendono in Egitto non solo verso le fertili terre del nord
ma anche verso le carovaniere del sud.
Le relazioni tra Palestina ed Egitto riguardano soprattutto l’area del delta: qui, nella terra di Goshen gli
Ebrei vissero come schiavi, separati dalle terre di origine dal deserto che solo le carovaniere potevano
attraversare. Queste strade erano di importanza fondamentale per l’Egitto: costituivano infatti l’unico
corridoio che rompeva l’accerchiamento desertico dei suoi confini, per questo erano costantemente
controllate dalle truppe del faraone; e l’esercito dei faraoni era spesso in Siria e Palestina.
Durante il Medio Regno, con la XII Dinastia (2000-1800 a.C.) gli egizi esercitavano un forte controllo
militare su Siria e Palestina. Dai ritrovamenti archeologici sappiamo che i loro commerci e prodotti
erano predominanti nella città fenicia di Ugarit come in tutto l’ambiente geografico. Come
testimoniano gli ostraka i rapporti diventano progressivamente sempre più tesi; nei testi che abbiamo
c’è anche la prima menzione di Gerusalemme, che apparteneva agli amorrei.
Nel periodo patriarcale l’Egitto subì l’invasione degli Hyksos: nel XVII secolo a.C. la Palestina era
ormai una parte dell’impero egizio sotto il controllo degli Hyksos. Questo popolo – o meglio, un
insieme di popoli coalizzati che ad ondate successive ha preso il controllo del potere egizio fino a
stabilire una propria capitale ad Avaris – costituisce un enigma: infatti, quando i faraoni seguenti
hanno ripreso il potere, hanno cercato in ogni modo di cancellare le tracce di questa poco gloriosa
parentesi nella storia dell’impero egizio. Gli studiosi si differenziano secondo due linee generali di
interpretazione:
 La prima considera gli Hyksos come popoli orientali, i primi indo-ariani a penetrare nella
regione;
 La seconda li identifica con i principi di Canaan maledetti dai testi sopra citati. Questa
seconda opinione, da molti ritenuta preminente, si basa anche sull’identificazione di una
particolare tecnica di costruzione delle fortificazioni delle città, ritrovata in cittadelle
cananee come Meghiddo, ma anche Ghezer, Azor, Lachiš, come tecnica tipica degli
Hyksos.
Oggi si è meno categorici in questa identificazione e si tende a parlare di varie invasioni dove la
componente semitica ed indoeuropea si possono essere mescolate con varie preminenze. Entro
questo quadro di invasioni si può situare la base storica della migrazione di Israele in Egitto. Si tratta
della penetrazione dei vari clan che si riconoscevano in personaggi come Abramo, Giacobbe o alcuni
dei suoi figli, e che possono aver dato luogo a fenomeni di carriera politico-amministrativa come
quella presentata nella storia di Giuseppe, che ha molti elementi che prefigurano la storia di Gesù.
A partire dal 1600 a.C., gli egiziani si rivoltarono contro gli Hyksos spingendoli in ca. 50 anni fuori
dai confini fino a Canaan. Un primo esodo-espulsione sarebbe avvenuto intorno al 1550 a.C. Altri
studiosi propongono una serie di migrazioni da Canaan verso l’Egitto. Il dato storico più probabile
riguardo alla discesa degli ebrei in Egitto resta quello che dal XVI secolo a.C. in poi un nucleo (o più

98
nuclei) tribale ebraico era stanziato nella “Terra di Goshen”, una fascia di territorio posta lungo la
frontiera orientale dell’impero egizio, adatta soprattutto alla pastorizia. Il papiro egiziano Anastasi
VI (XIII secolo a.C.) testimonia la prassi “liberale” dell’Egitto di assegnare questi territori a clan
seminomadi o a fuoriusciti politici che ricorrevano all’Egitto come ad una terra di rifugio. Quindi
possiamo parlare di più ingressi, alcuni fatti da liberi commercianti, altri da conquistatori al seguito
degli Hyksos, altri infine da prigionieri nelle varie guerre vinte da Tutmosi II fino a Ramses II.

Non ci aiuta per una datazione più precisa nemmeno la notazione dei lavori forzati (ai tempi di Mosé),
perché furono una costante del sistema economico egiziano. Quella che gli ebrei videro dal loro punto
di vista come un’oppressione inventata per loro, quasi una vendetta privata, era in realtà un
comportamento di routine per gli egiziani, che sicuramente non riuscivano a distinguere fra
discendenti di Abramo e cananei adoratori di Baal.
In questo ambiente la nostra storia sacra pone la figura di Mosè; nonostante i dubbi che si possono
sollevare, resta comunque più probabile credere all’esistenza di un personaggio storico all’origine
delle tradizioni su Mosè, che attribuire tutto ad una creazione artistico-fantastica completamente
posteriore.

99
3. La storia biblica dell’esodo
I racconti delle storie patriarcali terminano con la discesa in Egitto delle tribù di Israele. È
questo un fatto verosimile, giustificato dalle ricorrenti siccità e dalle carestie che colpiscono la terra di
Canaan ed affliggono soprattutto i gruppi nomadi, che non potendo contare su opere di irrigazione
sono costretti a trasferirsi in cerca di zone più adatte al pascolo. In Egitto il Nilo con le sue
esondazioni stagionali irrigava il terreno rendendolo fertile.
Con la cacciata degli Hyksos e la presa di potere in Egitto della XVIII dinastia, i rapporti con gli ex
collaboratori degli Hyksos si sarebbero fatti ostili, con provvedimenti credibilmente molto simili a
quelli notati da Es 1,8ss.: schiavitù, repressione armata di ogni protesta, sequestro di popolazioni per
lavorare nei cantieri delle grandi città che il nuovo regime edificava per rafforzare la propria presa di
potere.
Non è neppure inverosimile la storia di Mosè (anche di lui non esiste alcuna traccia extra-biblica). La
sua fuga nel deserto di Madian (probabilmente a sud dell’attuale Giordania) dopo un primo tentativo
di rivolta, lo avrebbe portato ad una forte esperienza religiosa soprattutto ad opera del suocero Jetro,
sacerdote di Madian (le prime figure di sacerdoti che incontriamo nella Bibbia non sono quelli israeliti
stabilite nel libro del Levitico), che lo educò ad un senso di profonda religiosità e di culto nei confronti
del Dio Jah. Es 3 narra l’esperienza mistica di Mosé che nel roveto ardente incontra Dio.
La sua figura carismatica – figura che avvia la religiosità istituzionale risalendo ad essa la Legge –
avrebbe avuto un ruolo rilevante in uno dei “due esodi” di cui è rimasta traccia abbastanza chiara nel
testo biblico. Questo, infatti, presenta il ricordo di almeno due tradizioni sull’Esodo, oggi mescolate
ma non totalmente amalgamate:
 Secondo alcuni studiosi l’Esodo come espulsione-cacciata si situerebbe attorno al 1550
a.C. Cacciati attorno al 1552, gli Hyksos insieme ad alcune tribù dei figli di Giacobbe si
sarebbero stanziati in Palestina. Questo giustifica il fatto che in alcuni testi l’esodo abbia
come direzione il nord. → Ramses II è il faraone dell’oppressione?
 Secondo altri studiosi l’Esodo come fuga si situerebbe più tardivamente attorno al 1250
a.C. Un altro gruppo di semiti sarebbe infatti rimasto in Egitto. → Mernephtah è il faraone
della fuga?
I fuggiaschi sono raggiunti presso il Sirbonis dalle truppe egiziane: l’attraversamento del Mare dei
giunchi (Es 14,15-31) è divenuto poi centrale nella memoria di Israele, narrato con i toni epici
prodotti da ampie letture e riletture del fatto originario. È un testo altamente simbolico con un
richiamo alla separazione delle acque primordiali e con la significazione della nascita a vita nuova; la
narrazione sembra dipingere quasi una processione liturgica piuttosto che non una fuga scomposta.
Come indicato nella Bibbia di Gerusalemme,22 il testo attuale presenta il miracolo in due modi:
1. Il racconto attribuito alla tradizione sacerdotale o eloista: Mosè brandisce il bastone
sopra il mare, che si fende formando due muraglie d’acqua tra le quali gli israeliti passano
a piede asciutto. Poi quando gli egiziani si sono gettati dietro di essi, le acque rifluiscono e
gli inghiottono.
2. Il racconto Jawista, che presenta la tradizione primitiva: Mosè rassicura gli israeliti
fuggitivi garantendo che non dovranno fare nulla. Allora Jahwe fa soffiare un vento che

22
Cfr. BJ nota a Es 14,15-31 (EDB 2009).

100
“dissecca” il mare, gli egiziani vi penetrano e sono inghiottiti dal suo riflusso. In questo
racconto tutto viene attribuito a Jahwe, non si parla di un passaggio del mare da parte degli
israeliti ma solamente della distruzione miracolosa degli egizi. Solo la distruzione degli
egizi sarebbe propria della tradizione più antica conservata dall’antichissimo canto di Es
15,21 sviluppato nel poema di 15,1-18. Non è possibile determinare con certezza il luogo e
il modo di questo avvenimento; ma è apparso agli occhi dei testimoni come un intervento
splendido di “Jahwe guerriero” (Es 15,3) ed è diventato un articolo fondamentale della fede
Jahwista (Dt 11,4; Gs 24,7; cf. Dt 1,30; 6,21-22; 26,7-8).
Non abbiamo nessuna notizia storica circa il tragitto seguito da questo popolo nomade nei 40 anni nel
deserto. Tutto è a livello di pura ipotesi: le tante località citate dal testo biblico non sono identificabili
nella geografia attuale.
A queste tradizioni dell’esodo si affiancano nel tempo tradizioni relative alla vita nel deserto,
centrate nell’esperienza del Sinai quale luogo della manifestazione di Dio a Mosè e dono della
Legge (Es 19s). Riguardo al solo Sinai, sulla cui esatta localizzazione gli archeologi contemporanei
disputano, abbiamo una tradizione molto complessa, che può essere esistita, per esempio come
tradizione di una singola tribù, anche per molto tempo in modo indipendente dalle altre tradizioni
sull’esodo: si estenderebbe da Es 19 a Nm 10. Nel testo attuale troviamo un racconto che contiene una
massa enorme di legislazioni: antiche leggi tribali (intrise di superstizione) insieme a leggi molto
evolute: es. le due versioni dei comandamenti in Dt e Nm ci sono giunte in due tradizioni molto
diverse tra loro. Sono incongruenze che dicono il tentativo di dare valore autoritativo ad una serie di
tradizioni: l’intento unificante riposa sull’autorevolezza del dato originario: le tavole della legge sul
Sinai. L’esodo e l’esilio babilonese vanno riletti una alla luce dell’altra.
Circa la storicità, possiamo solo affermare la verosimiglianza della storia di questi personaggi, nella
loro collocazione spazio-temporale; ma non possiamo affermare quasi nulla sul piano strettamente
storico quanto ai particolari.
La stele di Merneptah (o stele di Israele) risalente al 1209-1208 a.C. (ritrovata nel 1896) è il primo e
unico testo egizio che parli di Israele in questo periodo, nonché la prima testimoniainza storica
extra-biblica di Israele: se ne parla come di un gruppo non sedentario situato al nord nella regione
della Galilea; ma si tratta del gruppo che proviene dall’Egitto?

101
In questa stele si parla della vittoria conseguita in una battaglia nell’attuale Libia. Nelle ultime righe è
narrato l’esito vittorioso di una diversa spedizione militare condotta da Merenptah verso la terra di
Canaan. Tra i popoli e le città sconfitti viene elencato ysrỉr:

ysrỉr fk.t bn pr.t =f

ysrỉr (è) desolato non (c’è) seme suo

102
Per i più ysrỉr è identificato con Israele: nel geroglifico l’uomo e la donna (invece di tre monti) dicono
che si tratta di una popolazione nomade. Quasi sicuramente il numero delle persone che facevano parte
del gruppo guidato da Mosè era di gran lunga inferiore rispetto alle cifre di cui si parla nel testo
biblico (cioè 600.000 persone).
In ogni caso la storia conosciuta da queste fonti non si oppone alla narrazione biblica. È inverosimile
che un popolo che celebra le sue origini inventi di sana pianta tutta la sua storia: un piccolo nucleo di
verità storica può essere la schiavitù in Egitto.
Resta, quindi, la buona probabilità dell’origine della base storica tracciata, segnata dalla figura di
Mosè, che se anche non ha guidato tutti gli Ebrei fuori dall’Egitto, ne è stato considerato come
l’artefice, perché la parte più attiva di essi, dopo aver vissuto con lui l’esperienza dell’esodo, si facesse
lievito di una coscienza nazionale e religiosa che sui temi dell’alleanza e della terra promessa fondasse
tutta la fisionomia futura di Israele.

11. La storia biblica di Israele - II


Dalla ‘conquista’ fino alla deportazione a Babilonia

1. La conquista di Canaan e Giosuè


1.1. Il caso di Gerico e di Ai
1.2. Ipotesi per spiegare il sorgere di “Israele” in Palestina
2. Il tempo dei Giudici
3. Samuele
4. Saul
5. Davide
6. Salomone (961-922 a.C.)
7. I regni di Israele e Giuda (922-842 a.C.)
7.1. Il regno di Israele (931-721 a.C.)
7.2. Il regno di Giuda (922-587 a.C.)
7.3. L’esilio (587-539 a.C.)
Appendice: Tavola dei re

1. La conquista di Canaan e Giosuè


La storia biblica dopo l’esodo prosegue con la narrazione della peregrinazione del popolo nel
deserto per 40 anni (Lv, Nm, Dt).
Dt si chiude con la morte di Mosè, il condottiero e il legislatore (in quanto ha dato la legge del Sinai)
di questo popolo, che secondo il testo biblico avviene sul monte Nebo (lì si compie il pentateuco, ma
si conclude in modo monco; oggi Giordania), cioè ancora fuori della terra promessa di Israele (cfr. Dt
32-34: Dt 32,48s; 34,1s). Mosè non è un patriarca, né ha una discendenza.
Alla morte di Mosè il popolo trova un nuovo capo e guida in Giosuè di Nun (Dt 34,9). A lui si
attribuisce la conquista del territorio di Canaan e la sua suddivisione tra le tribù che risalgono ai
figli di Giacobbe. In realtà, la storia di Giosuè ha una composizione relativamente tarda: è, infatti,
un’opera di tradizione deuteronomista, corrente teologica riformista abbastanza recente all’interno
della Storia di Israele (alla base del Dt e dei Libri storici) la cui redazione fu ultimata al tempo
dell’esilio con l’intento di infondere speranza ai deportati e alla riconquista della terra confidando
nella potenza di Dio.

103
Il Libro di Giosuè (VI) è problematico per lo storico:
 La conquista è presentata come un’azione organica – una serie di guerre iniziata e
completata da Giosuè (cf. Gs 11,16-23; 12,1ss) – mentre la tradizione (successiva a
Giosuè) dei Giudici attesta che la conquista è stata tarda, problematica, limitata e costellata
di numerose sconfitte ad opera dei Filistei: es. la città di Gerusalemme non fu conquistata
che molto più tardi al tempo di David (1Sam 5,6s). Non è stata conquistata completamente.
 La Palestina centrale sarebbe stata conquistata dalla tribù di Beniamino, presso la zona del
santuario di Galgala (la cui ubicazione esatta non è stata ancora identificata) ed è questa la
parte di storia che più interessa i narratori del libro di Giosuè. I fatti narrati meritano una
più attenta analisi come modello del rapporto costante nella storia di Israele tra studio
critico dei dati biblici e archeologia.
1.1. Il caso di Gerico e di Ai
La storia dell’archeologia moderna in Palestina ha circa un secolo; in questo periodo lo scavo di gran
lunga più importante è quello della città di Gerico. Abbiamo una storia documentata di una serie
ricchissima di manufatti che rivelano una storia di circa. 10.000 anni (Gerico è una città tra le più
antichissime che risalirebbe al 8.000 a.C.). Dal punto di vista archeologico nel periodo di nostro
interesse (± 400 anni) c’è un vuoto che sembra sconfessare il racconto biblico.
Il testo biblico presenta 3 tradizioni distinte della c.d. conquista di Gerico:
 Gs 2: la conquista della città da parte del popolo ebraico guidato da Giosuè grazie alla
complicità della prostituta Rahab che abitava nella città.
 Gs 24,11: narrazione di una battaglia; forse il completamento della tradizione precedente.
 Gs 6: la celebre “presa di Gerico” – una conquista miracolosa, al suono delle trombe che
fanno crollare le possenti mura fortificate. Uno degli episodi più interessanti della storia
miracolosa della Bibbia dove appare tutta la potenza di Dio che abbatte le mura di Gerico.
Ora, le mura della città risalgono a epoche molto distanti: l’odierna Gerico risale al 600 d.C.; a ca. 2
km a sud-est c’è il Tell el Hayek di epoca romana; a 2 km a nord c’è il Tell el Sultan, con resti che
rimandano al tempo di Abramo e all’epoca di Cristo (con un salto di quasi 1500 anni). Nel Tell el
Sultan si è identificata la Gerico di Giosuè.

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Tell el Sultan: la Gerico dell’AT?

Dopo anni di scavi oggi abbiamo la chiara convinzione che non c’è alcun tipo di manufatti
appartenenti all’epoca di Giosuè, anche spostando la datazione dell’eventuale conquista di molto in
avanti o indietro. All’epoca della conquista Gerico non era abitata: probabilmente lì c’era un cumulo
di rovine. Le mura furono costruite e poi distrutte prima del 1600 a.C. La data tradizionalmente
accettata è del 1200 a.C.
Nel 1952, in una nuova campagna di scavi, l’archeologa Kathleen Kenyon datò l’ultima ricostruzione
attorno al 2000 a.C.: per cui, a causa del disfacimento naturale nulla delle grandi fortificazioni poteva
essere collegato al periodo biblico dal 1500 all’800 a.C.
Nel periodo interessato alla conquista Gerico non doveva essere più di un grosso villaggio che
aveva alle spalle una storia gloriosa di guerre, e che avrebbe ripreso importanza soltanto vari
secoli più tardi. Dunque, il narratore biblico si è basato su questa gloriosa tradizione passata per
esaltare la figura di Giosuè, della cui storicità non abbiamo motivo per dubitare.
Un esempio simile ci viene fornito da Ai. Secondo il testo biblico di Gs 7-8, dopo un tentativo fallito
viene persa con l’inganno e votata allo sterminio [herem], riducendola ad un cumulo di rovine.
Storicamente, Ai è stata un centro fiorente tra il 3000-2500 a.C.; ma ai tempi di Giosuè era un cumulo
di rovine [Ai = “rovine”].
Dunque, il racconto biblico ha accomunato le due distruzioni di Gerico e Ai in un solo condottiero,
Giosuè. Il libro di Giosuè menziona l’alleanza con il popolo dei Gabaoniti in Gs 9-10 (la città di
Gabaon aveva una certa forza a quel tempo); inoltre, l’archeologia conferma il saccheggio e l’incendio
della città di Lachiš tra il 1230-1220 e la presa della città di Azor (1250) operata da Zabulon e Neftali,
le tribù che controlleranno poi il territorio. Ma nulla di Gerico e di Ai.
1.2. Ipotesi per spiegare il sorgere di “Israele” in Palestina

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Constatata l’impossibilità di mantenere la plausibilità storica di una conquista così come narrata in
Giosuè (con strascichi in Giudici) – la finalità, infatti, è prevalentemente teologica e non storica – altre
ipotesi sono state avanzate dagli studiosi per spiegare il sorgere di “Israele” in Palestina. In particolare:
1. Infiltrazione pacifica. Antichi ebrei pastori semi-nomadi delle steppe si sarebbero insediati
pacificamente, salvo poi prendere via via il controllo di zone sempre più estese anche con
singole azioni belliche. Alcuni identificano questo primo nucleo con apiru nelle Lettere di
Amarna, altri con … nei testi egiziani del periodo: entrambe le ipotesi sono oggi respinte. È
stata l’ipotesi più seguita nel recente passato.
2. Conflitto sociale tra popolazioni urbane e i gruppi dei fuoriusciti dissidenti. I dissidenti
avrebbero fondato nuovi insediamenti fuori dalla città e avrebbero poi preso il potere con
rivolte pastorali. È un’ipotesi che riposa su un modello sociologico di impianto quasi
marxista, oggi non più seguita.
3. Sviluppo interno di una società mista. Gli antenati degli ebrei sarebbero sempre stati in
Palestina. Gli sviluppi degli scavi archeologici mostrano insediamenti nelle zone collinari
dopo la dissoluzione urbana nel 1200 a.C. La stele di Merneptah sembra smentire il
carattere forestiero di Israele, che sarebbe presente in Palestina già prima degli
sconvolgimenti del XII secolo a.C. e non come conseguenza di infiltrazioni pacifiche o di
conquiste. È l’ipotesi più recente.
L’archeologia attesta una certa continuità e non discontinuità legate al fatto che un popolo abbia
soppiantato un altro popolo. Specie nelle zone collinari (sp. Giudea) ciò è attestato dalle ceramiche e
dalla prevalenza di segni tipici di popolazioni sedentarie / stanziali (mura, terrazzamenti, produzione
di vino e olio le cui relative coltivazione richiedono anni); ciò non esclude, tuttavia, l’ingresso di
gruppi dall’esterno, ma di ciò non abbiamo notizie. Nelle zone costiere, nella valle di Israel (attuale
Galilea) è documentata la presenza permanente degli egiziani fino al 1130 a.C.: es. la città di Betshean
sotto il Lago di Tiberiade (dove sono evidenti le stratificazioni egiziana-ebrea-romana-bizantina) e
Meghiddo (data la sua importanza strategica).
Nel 1130 a.C. termina la presenza egiziana ed emerge la cultura materiale locale, che però è molto più
povera di quella egiziana e che di fatto non lascia tracce.
In conclusione, nei secoli XII-XI a.C. il territorio palestinese rimase ancora articolato in varie
regioni diverse tra di loro.
L’archeologia evidenzia una situazione complessa e soprattutto non omogenea, per cui a forti
caratteri di continuità si affiancano elementi di novità dovuti alla sedentarizzazione di tribù e popoli.
Nelle zone più floride si evidenzia una maggiore continuità (presenza egiziana). Sulle colline interne
(es. deserto di Giuda) emergono maggiori transizioni: qui si situano i progenitori dei regni di Giuda e
di Israele.

2. Il tempo dei Giudici


È l’epoca che separa la conquista di Canaan dal Regno. Indicazioni storiche su questo periodo ci
sono e ci giungono dall’omonimo libro storico dei Giudici, che ha a sua volta un’impostazione
teologica prima che storica, ossia dimostrare che la difficoltà di Israele di insediarsi e la
conseguente dispersione delle tribù e il loro asservimento alle popolazioni cananee –
particolarmente i Filistei – sono causate dal peccato di Israele (cfr. Gdc 2): l’infedeltà di Israele
al Signore e l’idolatria (tema incipiente nei Giudici, poi dominante nei Profeti).

106
In Giudici si presenta un Israele ancora profondamente diviso, al punto che alla minaccia esterna dei
nemici si aggiungono le lotte intestine tra le tribù per la supremazia, come Efraim e Beniamino (questo
episodio si nasconde dietro ad un delitto di indole sessuale: cfr. Gdc 19 e il ratto di Elena di Troia in
Omero – topos letterario ricorrente).
Veramente poco di certo possiamo dire riguardo ad una chiara identificazione storica dei rapporti dei
giudici tra di loro, della loro successione nella cronologia assoluta, dell’eventualità di più giudici tra
loro contemporanei.
Una figura degna di nota ed estesamente presentata è Deborah (Gdc 4-5). In primo luogo perché è
una donna profetessa: un’eccezione nel panorama patriarcale e maschilista del tempo. E poi perché su
di lei c’è la testimonianza convergente di due tradizioni diverse che parlano della sua impresa: il testo
in prosa di Gdc 4 e il testo in poesia di Gcd 5 (uno dei più antichi esempi di letteratura ebraica ancora
esistenti). Queste due tradizioni concordano sull’essenziale necessario a certificare la storicità della
base unica e dunque non sono testimonianza di due tradizioni diverse. In questo racconto troviamo
come nemici i cananei ed è l’unica volta che compare.
Altre figure rilevanti sono quelle di Giaele – donna che ospita Sisera mentre fugge verso la sua terra e
poi lo uccide: manifestazione della potenza di Dio che agisce attraverso i deboli – e di Iefte (Gdc 11)
che sacrifica in voto a Dio la figlia.
Sansone è ricordato per una serie di gesti eroici compiuti personalmente ma legati al carisma di Dio e
narrati con un’enfasi e una serie di interessanti paralleli con la narrativa popolare es. greca (vedi i
molti punti in comune con i racconti mitologici su Ercole). Nazireo, Dalila estorce il suo segreto e
causa il suo arresto da parte dei Filistei, diventando una sorta di giullare di corte; cieco, uccise più
nemici con la sua morte che non quanti ne sconfisse in vita.

3. Samuele
Con la figura di Samuele la storia biblica ci presenta un personaggio dell’epoca dei giudici ma che si
colloca tra l’epoca dei Giudici e la monarchia perché mette in atto i primi esperimenti di
unificazione politica delle tribù che saranno l’origine del regno futuro e culmineranno nella
monarchia. Prima figura profetica.
Figlio di Anna, è portato al tempio perché sia educato dal sacerdote Eli. Nel tempio avviene la
chiamata da Dio e la sua risposta: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Samuele “non
lasciava cadere invano una sola parola che Dio gli rivolgeva”. Samuele diventa sia sacerdote sia
giudice. Abbiamo anche una rilettura posteriore di Samuele come profeta, con tutte le caratteristiche
dei profeti, quali le visioni e una evoluta e articolata polemica anti-regale (1Sam 8,1-22) che sembra
fuori luogo nel caso di Saul, il quale assumerà sempre un’importanza molto relativa come re.
In 1Sam egli assume a volte la posizione di giudice che assolve alle sue funzioni in una regione
soggetta al controllo di Efraim. Si descrive poi l’espansionismo dei Filistei: con la battaglia di Afak i
Filistei conquistano l’arca dell’alleanza espandendo il loro controllo nella regione delle colline.
(Questa è la prima volta che si fa menzione della preziosa arca che sin da Dt custodiva le tavole di
pietra con i comandamenti dati a Mosè, il bastone di Aronne e un’anfora contenente i resti della manna
– segno della presenza di Dio che cammina accanto al suo popolo.) La conquista dell’arca segna la
disfatta totale di Israele.
Pian piano Samuele ottiene dal Signore una vittoria che rimanda indietro i Filistei. Ma sussistendo il
problema della vicinanza del nemico e vedendo la forza dei popoli che li soppiantavano in battaglia
dove il re era motivo di unificazione, ecco che comincia a farsi sempre più forte nel popolo l’idea del

107
regno. A questo riguardo ci sono due tradizioni non conciliabili. Come profeta Samuele rifiuta questa
idea (1Sam 8), perché in Israele come in tutti i popoli circostanti il re era divinizzato come autorità
divina e collegato con il culto della religione; dal punto di vista teologico avere un re significava,
dunque, mettere un uomo al posto di Dio. Inoltre, il testo proietta indietro al tempo dei giudici anche
critiche e obiezioni al regno più di natura pratica che appartengono alla successiva epoca della
monarchia, ossia il fatto che il popolo avrebbe dovuto provvedere i soldati necessari alla guerra,
pagare il tributo per il mantenimento della monarchia, nonché offrire al re le terre, le concubine
dell’harem regale e tutti gli inservienti del palazzo.

4. Saul
Questi due generi di obiezioni – teologiche e pratiche – si riscontrano nel peccato di Saul, della tribù
di Beniamino, il primo re unto da Samuele. Ci sono diverse tradizioni circa la scelta di Saul, non tutte
armonizzabili. Saul regnerà fino a quando sarà costretto a tentare uno scontro con i Filistei in campo
aperto nella battaglia sul monte Gelboe (1000 a.C.), cadendo in battaglia insieme al figlio Gionata.

5. Davide
Nel frattempo si erano già concretizzate le caratteristiche del suo successore: Davide, infatti, era già
alla corte di Saul perché Samuele andava preparando la successione a questo che non mostrava
rettitudine di comportamento. Samuele sceglie il più giovane tra i figli di Iesse, mentre pascolava il
gregge del padre. Davide è appena un ragazzo privo di prestanza fisica.
Ci sono tradizioni diverse riguardanti l’ingresso di Davide alla corte di Saul: 1Sam 16,14-23; 17,1-
11.32-53 (cantore e suonatore di arpa per sollevare l’animo di Saul, nonché come aiutante militare del
re); 1Sam 17,12-30; 17,55-18,2 (il fratello giovane che porta rifornimenti al fronte).
Anche i capitoli seguenti che trattano della sua vita a corte e del periodo in cui fu “fuorilegge” sembra
contengano molti doppioni: per due volte David risparmia la vita di Saul; per due volte Saul tenta di
trafiggere David alla parete e entrambe le volte riesce a sfuggire aiutato dalla bella amicizia con
Gionata, figlio di Saul e legittimo successore al trono: cfr. 1Sam 31 - 2Sam 1, sp. 2Sam 1, 17-27
(Lamento di Davide per la morte di Saul e di Gionata). Queste tradizioni non offrono chiarezza
sufficiente per distinguere quale delle due sia l’originaria; forse sono ambedue amplificazioni
leggendarie di fatti con basi storiche credibili.
Davide ha acquisito il potere entrando di pieno diritto nella famiglia col diventare genero di Saul: egli
sposa Mical dopo aver portato 200 prepuzi dei nemici sconfitti in battaglia.
Secondo la Bibbia, una volta asceso al potere David diviene re di Giuda a Ebron (2Sam 2,1 ss.); estese
il suo regno a nord a spese degli Aramei; riportò vittorie su Ammon ed Edom in Transgiordania e un
re vassallo fu insediato in Moab. Mai in passato era stato costituito un impero simile in quest’area,
fino ad allora sempre sotto il dominio dell’Egitto.
2 Sam 5. Davide conquista Gerusalemme, che era in mano ai Gebusei, ne fa la sua città propria, vi fa
trasferire l’arca dell’alleanza e vi fissa la capitale del regno, per due ragioni: politicamente perché era
luogo neutrale, non appartenendo a nessuna delle dodici tribù e dunque risultando accettabile sia al
nord che al sud; militarmente perché era facilmente difendibile, essendo circondata a est, sud e ovest
da valli (con la sola eccezione del nord, che era di fatto il punto più vulnerabile della città). Ai tempi di
Davide Gerusalemme era molto limitata (pari all’Hofel, lo sperone meridionale della parte sud-est
della montagna su cui la città sorge).

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Il regno di Davide è il punto di contatto e di accentramento che supera il vecchio individualismo delle
tribù. Da 2Sam a 1Re si parla della successione di Davide: chi gli sarebbe succeduto? Come spiega la
“storia di corte” Ammon viene eliminato, la rivolta di Assalonne finisce con la sua morte, Adonia cede
a Salomone. Il tema della successione corre attraverso molte scene, dentro e fuori della corte, al di qua
e al di là del Giordano.
La figura di Davide ha un posto di tutto rilievo nella Bibbia: il suo nome figura più di 1000 volte
nell’AT, secondo solo al nome di Dio. Inoltre, ben 73 su 150 Salmi sono attribuiti al re Davide.
Inoltre, con Davide nasce una nuova idea di dinastia (la “casata di Davide”), mentre è retroproiettata
alla sua dinastia – sebbene in essa fosse solo incipiente – l’idea messianica, che si svilupperà a partire
dall’esilio babilonese quando si attendevano figure decisive per la liberazione e il futuro di Israele. Il
termine messia viene dall’ebraico mašàf [“ungere”] e mašhià [“unto”]. A essere unto era il re (già
Samuele con Saul e poi Davide): la consacrazione rendeva il re soggetto all’autorità di Dio, scelto per
una missione. Questo termine non è stato tradotta ma solo traslitterato in greco, mentre la sua
traduzione sarà Christòs (cfr. LXX). Da notare che questo titolo non viene dato per primo a un re di
Israele ma a Ciro (Is 45), cioè un re pagano ex nemico che consentirà a Israele, ancora esule in
Babilonia, di tornare in patria).
Sotto Davide Israele raggiunge la massima espansione del regno: agli occhi di Israele è un grande re,
fautore dell’unificazione e dell’espansione.
D’altra parte, la Bibbia non nasconde i suoi difetti. La sua storia è l’epopea della storia di corte:
inganni, intrighi, corruzioni, che coinvolgono anche i figli di Davide, sp. Assalonne. Ma ben in rilievo
è posto il grande peccato di Davide [l’omicidio e l’adulterio con Bersabea e la mancanza di fede nei
confronti di Dio ordinando il censimento del regno] e il grande oracolo profetico di Natan il profeta
che spinge Davide alla conversione.
Come abbiamo visto SOGGIN pone la monarchia davidica nella preistoria di Israele, perché
l’archeologia non offre nessuna conferma di un tale grandioso regno. La cultura materiale (ciò che si
può esaminare) di Giuda rimase molto modesta nell’XI-metà X secolo. Es. mentre nella Bibbia si parla
di grandi edifici pubblici, l’archeologia non ce ne dà alcuna attestazione; anche la popolazione doveva
essere molto ridotta. Se la Bibbia dice che Davide ha conquistato tutto, la storia non ci dà conferme.
Probabilmente, il territorio che Davide conquista è poco più grande della Giudea.
La Stele di Dan (841 a.C. ca.) consiste di tre frammenti di un’iscrizione aramaica rinvenuta presso
Dan (nel nord) e attribuibile al re arameo Cazaèl (IX secolo a.C. – cfr. 2Re 8,28):
« [io uccisi Io]ram figlio di [Acab] re d’Israele e uccisi [Acaz?]ia figlio di [Ioram? r]e?
della casa di Davide ».
Nonostante le molteplici questioni storiche ancora non chiare su tale iscrizione, è rilevante la curiosa
espressione «re della casa di Davide». Esso è l’unica testimonianza extra-biblica fuori di Israele
che menziona Davide e lo attesta come fondatore della dinastia giudaica. Ma figura al terzo posto,
ciò suggerendo la minore importanza di Giuda rispetto a Israele. Pertanto è probabile che la reale
estensione del regno di Davide fosse ben più modesta di quella celebrata dal racconto biblico,
limitandosi probabilmente alla sola regione montuosa della Giudea.

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Inoltre, intorno all’anno 1000 a.C. le due grandi superpotenze a nord (Assiria) e a sud (Egitto) erano in
decadenza; per cui Davide si è affermato non per forza propria ma per debolezza altrui.

6. Salomone (961-922 a.C.)


Successore di Davide, è dal punto di vista biblico altrettanto importante: se il regno di Davide durò 40
anni, altrettanti ne durò quello di Salomone. Nella tradizione israelita la gloria del regno di Salomone
divenne proverbiale. Nel racconto biblico la sua figura è largamente idealizzata come quella di un re
eccelso in sapienza.
Egli rafforzò la sua posizione con alleanze politiche, specie con matrimoni. Promosse una
riorganizzazione del regno (amministrazione, distretti, funzionari, etc.). Stabilì un fiorente
commercio (esportazioni verso Tiro, scambi con il Golfo di Aqaba con una flotta mercantile; la
Bibbia menziona rapporto con le regine di Saba e di Ofir (Somalia)).
Promosse la costruzione di palazzi e del tempio, sebbene non personalmente perché si è macchiato di
molti crimini, ma per opera del figlio. Infatti, come il successivo editore deuteronomista racconta in 1-
2Re circa il suo zelo nel culto ad Adonai ma anche verso altre divinità, il suo peccato è stato di far
entrare una mentalità sincretista e idolatrica. Le storie di Salomone e dei re successivi sono redatte e
valutate secondo il criterio del culto reso sulle alture (divinità della fertilità); ma si tratta di un criterio
anacronistico, perché rimanda a problemi relativi a epoche successive (sp. Giosia) ma retroproiettate
all’epoca di Salomone.
Tuttavia, diverse cose contribuiscono ad un ridimensionamento della proverbiale unità e grandezza
del regno di Salomone. Non se ne hanno, infatti, grandi conferme archeologiche: le grandi e
importanti porte ritrovate a Azor, Ghezer e Meghiddo, che inizialmente sono state attribuite a
Salomone, rimandano all’epoca del grande re Omri (IX secolo a.C.) quando il regno è già diviso.
Questi racconti appartengono alla tradizione deuteronomistica – il cui intento era di fondare la
memoria di un grande regno unitario che fosse compimento della promessa di Dio – i cui criteri sono
ancora una volta più teologici che storici: es. è simbolico che la costruzione del tempio avvenne 480
anni dopo l’esodo in Egitto (12 x 40) o che la durata dei regni sia di Davide sia di Salomone fosse per

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entrambi 40 anni. Appare molto più probabile che il governo di Davide e Salomone si limitasse alle
alture di Giuda.

7. I regni di Israele e Giuda (922-842 a.C.)


Alla morte di Salomone, collocata solitamente intorno al 930 a.C., la Bibbia descrive la
“separazione” del regno in due porzioni: il regno di Israele a nord e il regno di Giuda a sud,
ciascuno con un proprio sovrano. La separazione è presentata con motivazioni prettamente teologiche
che rinviano ad una intenzione didattica dell’autore sacro: è il castigo annunciato da Dio come
conseguenza dell’infedeltà di Salomone e l’ammonimento a Giuda per riflettere sulla sua realtà
di elezione divina. In realtà, la divisione dei regni era del tutto ordinaria per due regioni geografiche
che da sempre avevano presentato accentuate differenze di tipo storico-geografico-culturale.
7.1. Il regno di Israele (931-721 a.C.)
Il primo re di Israele è Geroboamo I (ca. 931-910 a.C.), ricordato come fortificatore di alcune città e
soprattutto come costruttore di due santuari regali a Betel e a Dan ( confine a nord della terra
promessa e a sud Bersabea). Qui si produsse il culto del vitello d’oro, che con una valutazione
teologica che rimanda a tempi successivi è ritenuto essere profondamente contrario alla legge di Mosè.
Alla sua morte gli successero Nadab e poi l’usurpatore Baasà, coinvolto in confitti dinastici e che
cercò di espandersi verso Giuda arrivando fino a Rama (attuale Ramalla), poco a nord di Gerusalemme
(cfr. 1Re 15,17), confermando così la superiorità d’Israele rispetto a Giuda.
Con varie congiure diventano re successivamente Ela, Zimrì e infine il comandante dell’esercito
Omri (ca. 885-874 a.C.). Nonostante il testo biblico si soffermi su Omri in modo molto coinciso e
mettendone in luce quasi esclusivamente i peccati (cfr. 1Re 16,21-28), questo sovrano acquisì notevole
rilevanza nel panorama politico del tempo. È probabile che durante il regno di Omri e dei suoi
successori, il regno d’Israele abbia raggiunto il suo massimo splendore. Egli edificò la nuova capitale
del regno – Samaria – che gli scavi archeologici hanno dimostrato essere stata una prominente città,
con un palazzo reale dalle pregevoli decorazioni architettoniche e con le botteghe artigiane capaci di
produrre preziosi intarsi d’avorio. Anche le grandi edificazioni di Azor, Ghezer e Meghiddo sono da
attribuirsi a Omri e al suo regno.
La fama di Omni riceve conferma dalle fonti epigrafiche assire. La Stele di Mesha (841 a.C. ca.,
ritrovata nel 1968 nell’attuale Giordania) riporta la seguente iscrizione (con riferimento a avvenimenti
accaduti negli anni 852-842):
« sono Mesha, figlio di Komosciat, re di Moab […] Omri era re di Israele e oppresse
Moab per molti giorni […] suo figlio gli successe e disse: ‘opprimerò Moab’[…] ma io
trionfai su di lui […] e Israele fu rovinato per sempre ».

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La stele direbbe dunque di un allargamento del territorio assiro anche a est del Giordano. Ma anche la
Bibbia parla di questo re in 2Re 1,1; 3,4-5; 3, 24 in termini ben diversi:
«Dopo la morte di Acab, Moab si ribellò a Israele. […] Il re di Moab, Mesa, era un
allevatore di pecore. Egli inviava come tributo al re d’Israele centomila agnelli e la lana
di centomila arieti. Ma alla morte di Acab il re di Moab si ribellò al re d’Israele. […]
Andarono dunque nell’accampamento di Israele. Ma gli Israeliti insorsero e sconfissero i
Moabiti, che fuggirono davanti a loro. Li inseguirono e sconfissero i Moabiti».
La Bibbia descrive il re Acab (874-853 a.C.), figlio di Omni, come un re peccatore, tra i peggiori
regnanti su Israele, che continua la politica di espansione del padre. Il matrimonio disastroso con la
principessa fenicia Getabele sembrerebbe storicamente plausibile; criticamente però risponde solo al
cliché biblico-letterario della principessa straniera che diviene occasione di peccato e di aberrazioni
cultuali (es. l’ordalia del profeta Elia sul Monte Carmelo). Nel IX secolo a.C. c’era una grande
tendenza al sincretismo, mentre non era ancora affatto vigente il concetto di monoteismo che risale
all’epoca dell’esilio babilonese e si sviluppa nelle epoche successive. I racconti dell’esilio trasportano
indietro questi problemi.
Durante questo periodo gli Assiri, con i re Assurnasirpal II (883-859 a.C.) e il suo successore
Salmanàssar III (858-824 a.C.), avevano iniziato a esercitare una forte pressione verso occidente,
desiderando lo sbocco verso il mare per raggiungere il Mediterraneo e ottenere la supremazia sulla
Siria e i regni a sud. L’obelisco nero di Salmanassar III (858-824 a.C.) è la glorificazione del re
assiro e delle sue vittorie e la conseguente sottomissione dei re nemici. Esso racconta figurativamente
la vittoria riportata in una battaglia contro una coalizione di re siriani appoggiata tra gli altri da Israele;
il re Ieu, figlio di Omri, è prostrato al re assiro Salmanassar III che offre una libagione alle due
divinità assire del sole alato e della stella della dea assira Ištar; quattro servitori accompagnano il re
assiro.

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Ad arrestare momentaneamente l’espansione assira verso il Mediterraneo fu la battaglia di Qarqar
(853 a.C.) (con quasi sicurezza nella regione del fiume Oronte, sopra l’attuale Aleppo). Quella
coalizione di re siriani appoggiata da Israele riesce nei suoi intenti. Ma la Bibbia tace su questi
avvenimenti. Racconta, invece, le battaglie del re Acab contro gli aramei. La Bibbia manifesta dunque
poco interesse ad una narrazione precisa degli eventi storici, e un maggiore interesse a presentare Acab
nella sua bassezza morale.
Se durante il governo di Omri e Acab il regno d’Israele acquisisce un ruolo di preminenza nelle
regioni interne della Palestina, la situazione politica si modificò bruscamente con i successori Acazia
(ca. 853-852 a.C.) e Ioram (ca. 852-841 a.C.).
La politica espansionistica di Ekarzael si protrasse per molto tempo. In Israele Ieu (ca. 841-814 a.C.)
assunse il potere con un cruento colpo di stato, attuando l’eliminazione di tutta la famiglia degli
Omridi (i discendenti del re Omri). Benché la Bibbia presenti la rivolta di Ieu come la rivincita dello
yahwismo (fedeltà al culto di Adonai), approvata dalla parola profetica di Eliseo e diretta contro il
culto di Baal praticato dagli Omridi (cfr. 2Re 9-10), è più probabile che la cospirazione di Ieu sia stata
ispirata da motivi politici, avendo egli accettato l’appoggio di una fazione “filo-assira”. (Cfr. Os 1,4 e
2Re 10,11: Ieu viene criticato proprio a causa della violenza operata durante il suo colpo di stato).
Questa ipotesi è suffragata dal ri-orientamento dei rapporti internazionali di Israele: se da una parte
Damasco continua ad opporsi all’Assiria, dall’altra Ieu vi si sottomette.
Ma quando gli assiri caddero presto a causa di una crisi interna, se Damasco si rialza e Israele
ricostruisce il regno con Ioacàz (814-798 a.C.), figlio di Ieu. Gli ultimi decenni del IX secolo a.C.
sono un momento di grande debolezza del regno: per il predominio di Damasco Israele perde tutti i
territori oltre il Giordano; anche gli aramei operarono vittoriosamente contro Israele e Giuda. Per
quanto concerne la religione, il IX secolo a.C. è presentato dalla Bibbia come un periodo di forte
culto baalistico nel regno di Israele. È probabile che la Bibbia riporti in modo affidabile l’espansione
del culto di Baal, come confermato dai ritrovamenti archeologici.
Con l’ascesa al trono di Geroboamo II (786-746 a.C.) iniziò una nuova era. Egli ricostruisce Israele
(cfr. 2Re 14, 25) e instaura un regno lungo (40 anni) e prospero. Tuttavia, il deterioramento della
situazione religiosa e sociale provocò le invettive dei profeti Amos e Osea (i primi profeti dell’VIII
secolo non appartenevano alle bande statiche come quelle che seguivano Elia e Eliseo, ma erano

113
vocazioni conferite dal Signore): alla luce delle antiche tradizioni israelite le loro invettive si scagliano
contro i regnanti per non aver preso le difese di vedove, orfani, stranieri, per la loro idolatria aperta e
per il loro falso culto. Le disgrazie coniugali di Osea che sposa una prostituita sono l’immagine
dell’infedeltà del popolo che si concede agli idoli.
Sebbene Geroboamo II ebbe un certo successo, la sua caduta fu repentina per due ragioni
fondamentali: l’apparizione di un nuovo condottiero assiro, Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), che guidò
una serie di campagne in occidente allo scopo di conquista; e l’anarchia politica che imperversò su
Israele nella decina d’anni che seguì la morte di Geroboamo II (cfr. Os 7,3-16).
Gli ultimi anni del regno di Israele [746-721 (caduta di Samaria) a.C.] vedono un susseguirsi di re:
Zaccaria fu assassinato da Sallùm; questi a sua volta fu assassinato da Menachem (745-738 a.C.);
questi a sua volta fu assassinato da Pekachia (738-737 a.C.); questi a sua volta fu assassinato da
Pekach (737-732 a.C.) [“figlio di Romelia” come lo chiama Isaia in Is 7,4]. Pekach tentò di sottrarsi al
potere assiro. Si unì a Rezin di Damasco per formare una coalizione contro Tiglat-Pileser. II loro
tentativo di spingere il regno di Giuda a entrare in questa coalizione portò alla cosiddetta guerra siro-
efraimitica. Giuda si rifiutò di aderire – era in difficoltà con Edom (2 Re 16,6) – e la lega lo aggredì
da settentrione minacciando di mettere sul trono davidico un certo Ben Tabeel. Secondo Is 7 il re Acaz
di Giuda rifiutò di appoggiarsi su YHWH (come consigliato da Isaia) e chiamò in aiuto gli Assiri; ma
Tiglat-Pileser organizzò una campagna e nel 734-732 a.C. distrusse Damasco e sottrasse a Israele una
gran parte del suo territorio (Galilea e Transgiordania).
Alla morte del re assiro il re Osea (732-724 a.C.) passa dalla parte dell’Egitto. La pressione della Siria
diventa sempre più forte: è il canto del cigno del regno del nord. Osea è imprigionato, ma la Bibbia
non ci racconta nulla di questo.
L’assedio di Samaria (724-721 a.C.). La città cadde davanti a Sargon II, nuovo imperatore assiro:
Negli Annali celebrativi si racconta la deportazione di quasi 30.000 abitanti. [Lo spostamento e lo
stanziamento dei prigionieri in altro posto era fine a sottometterli più facilmente e a vincere la loro
resistenza.] Gli assiri spostarono Israele e Giuda in Samaria, mentre lì vi insediarono altri popoli.
Questo spiega la configurazione etnica di Samaria e dei samaritani fino a Gesù: Giuda inizia a
guardare con sospetto a Samaria per la mancanza di purezza e la mescolanza con altre popolazioni.
7.2. Il regno di Giuda (922-587 a.C.)
La storia di Giuda è stata meno gloriosa di quella di Israele: Giuda fu poco più che uno stato vassallo
di Israele.
A Giosafat di Giuda (873-849 a.C.) si attribuisce una riforma giudiziaria (cfr. 2Cr); fu alleato di
Acab di Israele (cfr. 1Re 22).
I regni di Joram e Acazia di Giuda (842 a.C.) furono dominati dalla regina madre, Atalia, figlia di
Acab. In questo periodo ci fu una profonda decadenza religiosa.
Si succedono quindi: Atalia (842-837 a.C.), Joas (837-800 a.C.), Amazia (800-783 a.C.), Azaria
(Ozia) (783-742 a.C.).
Acaz (735-715 a.C.) fu responsabile in qualche modo della guerra siro-efreimita. Il libro biblico ripete
riguardo Acaz un modo usuale: il re Acaz sacrifica il proprio figlio a Moloch, divinità straniera (cfr.
2Re 16,3); quindi reagisce cinicamente a Isaia e si sottopone all’Assiria (tale sottomissione ebbe una
ricadenza sulla religione). Sia Isaia (cfr. Is 3,13-15; 5,8-13) sia Michea (Mic 2,1.10) descrivono
efficacemente le ingiustizie sociali esistenti durante il regno di Acaz.

114
Ezechia di Giuda (715-687 a.C.) fu importante per le sue riforme religiose che sottolineavano la
centralizzazione del culto. È tra i pochissimi molto elogiato dal testo biblico come positivo. Era mosso
da uno spirito nazionalistico: l’unità del culto era vista come mezzo per rafforzare l’unità sociale e
politica e dunque tendere alla pacificazione e alla riunificazione (cfr. 2Cr 30: invito a Gerusalemme
per celebrare la Pasqua). Non conosciamo il suo rapporto con l’Assiria: si racconta solo di una rivolta
insieme ad altri regni che – tutti – fanno affidamento all’Egitto. Di Ezechia sappiamo anche un grande
programma di costruzioni per il regno (cfr. 2Re 20,20: costruzione intorno al 700 a.C. di un tunnel
scavato nella roccia lungo oltre 540 m per provvedere acqua all’interno delle mura della città di
Gerusalemme durante gli assedi, poiché la fonte più importante – la sorgente di Ghicon – era esterna
alle mura).

115
L’iscrizione di Siloam (Siloe), rinvenuta all’interno della galleria, lunga ca. 72 cm, riporta:
«Ecco [?] la scavatura e così fu la storia della scavatura. Mentre i minatori [?]
maneggiavano il picco l'uno verso l'altro e mentre rimanevano solo tre cubiti [1,35 circa]
da scavare, si udì la voce di ciascuno che chiamava l'altro poiché nella roccia vi era
risonanza che veniva dal nord e dal sud. Nel giorno dell'apertura i minatori colpirono
l'uno andando incontro all'altro, picco contro picco. Allora le acque scorsero dalla
sorgente fino al serbatoio su mille duecento cubiti [540 metri circa] e l'altezza della roccia
sopra la testa dei minatori era di cento cubiti [45 metri circa]».
Dunque, c’è una piena coincidenza tra i ritrovamenti archeologici e il racconto biblico.
Durante il lungo regno di Manasse (687-642 a.C.) Giuda fu sottomessa politicamente all’Assiria: ciò
significava il pagamento di tributi, l’imprigionamento di alcuni re, etc. Ma la Bibbia rimprovera
sempre l’orientamento idolatra di Manasse: a lui si deve la c.d. “prostituzione sacra”, cioè la ripresa
dei culti della fertilità associati alle alture, e il culto alle divinità astrali.

116
Il figlio Amon (642-640 a.C.) non cambia la situazione.
La situazione, invece, cambia con Giosia (640-609 a.C.). Mentre altri popoli crescono, l’Assiria inizia
a indebolirsi. Nel 612 Ninive viene distrutta. Il regno di Giuda conquista l’indipendenza sia politica
che religiosa. La sua riforma religiosa fu completa ed è nota come riforma deuteronomista, perché il
re segue il programma del Deuteronomio. Il libro della Legge fu ritrovato nel tempio nel 621 a.C., il
quale deve avere contenuto almeno Dt 12-26, dove sono espressi gli ideali deuteronomisti di
centralizzazione del culto e di condanna dell’idolatria – quelli propri della riforma di Giosia. La
riforma fu un tentativo di rinnovare lo spirito dell’Alleanza all’interno del regno; l’insistente tono
parenetico (esortativo, teologico, spirituale) di Deuteronomio è in armonia con lo spirito di risveglio
spirituale che caratterizzò le attività di Giosia. Inoltre, egli rinnovò la festa di Pasqua invitando a
parteciparvi la popolazione del nord, mossa che aveva un significato politico oltre che religioso. Di
questo periodo è il profeta Geremia, che accusa il re del rischio di cadere in un formalismo religioso.
Occorreva ora fronteggiare sempre più la crescente minaccia di Babilonia: il faraone Neco II guida un
esercito dentro la Palestina per aiutare l’Assiria contro i Babilonesi. Giosia si oppone e fu ucciso
nella battaglia di Meghiddo del 609 a.C. Giuda diviene vassallo di Egitto.
Negli ultimi anni di Giuda (609-587 a.C.) con il re Ioiakim (609-598 a.C.) fu annullato tutto ciò che di
buono la riforma deuteronomista aveva compiuto (Ger 7,16-20; 36; Ez 8). Il suo regno si caratterizza
per grande inefficienza. Le cronache babilonesi raccontano l’ascesa di Babilonia al tempo del re
Nabucodonosor. Dopo la vittoria nella battaglia di Cachemish (606 a.C.), Nabucodonosor fu sconfitto
nel 601 a.C.; nella divisione interna tra un partito pro-babilonese e un partito pro-egiziano, Ioakim si
ribella a Babilonia, scatenandone la ritorsione e la presa di Gerusalemme nel 597 a.C.
Il re Ioiakim è citato in una delle tavolette Weidner (risalenti al 592 a.C., ritrovate presso la porta Istar
di Babilonia nel 1933, ora nel museo di Berlino), che testimonia il trattamento mite riservato ai
deportati – il re di Giuda insieme a cinque figli – nel loro esilio a Babilonia.

L’ultimo re di Giuda fu Sedecia (597-587 a.C.). Il suo comportamento incapace è stigmatizzato da


Geremia. Alla fine Sedecia si arrese al partito egiziano, innescando una ritorsione molto forte:
l’assedio di Nabucodonosor nel 589 a.C. porta alla caduta di Gerusalemme nel luglio 587 a.C. e la
conseguente distruzione (distruzione delle mura e incendio della città). Da questo momento in poi non
si saprà più nulla dell’arca dell’alleanza: probabilmente viene distrutta insieme al tempio. Inizia la
deportazione in massa verso Babilonia e il tempo dell’esilio. Ora Sedecia viene trattato molto
duramente (misure repressive).

117
7.3. L’esilio (587-539 a.C.)
Il cuore della nazione era ormai in esilio. Geremia calcola 4.600 esuli, probabilmente solo gli adulti
maschi (cfr. Ger 52,28-30). In Ezechiele troviamo dei passi che gettano luce sulla situazione dei
deportati a Tell-Abib, in Babilonia: erano in schiavitù ma avevano libertà di movimento, sicché inizia
ora la diaspora.
Pian piano i Giudei si adattarono alla loro situazione. La parte teologico-spirituale inizia ad avere
importanza per la ricostruzione dell’identità del popolo. Nonostante il colpo rovinoso inferto alla loro
fede nell’inviolabilità di Sion e nell’alleanza con YHWH, i Giudei rimasero tenacemente attaccati
alla loro fede. Iniziano le pratiche identitarie, quali pratiche religiose (es. la circoncisione e
l’osservanza del sabato), norme alimentari, etc. che divennero la loro fonte di unità. In questo
momento di sofferenza grande gli israeliti si dessero a un’intensa attività religiosa. Le tradizioni di
Israele furono raccolte e fissate per iscritto. La Torah ricevette forma dalla scuola P (sacerdotale)
che raccolse le antiche tradizioni del deserto e codificò la prassi del tempio di Gerusalemme.
Prendeva allora forma una legge definitiva che sarebbe stata la base della nuova comunità teocratica di
Giuda. La storia deuteronomista fu edita e gli scritti dei profeti furono raccolti. Ezechiele aveva
già accennato alla futura resurrezione della nazione (cfr. Ez 37); ma doveva essere un profeta
sconosciuto e anonimo con i suoi seguaci ad accendere quella scintilla che mosse Israele al ritorno: i
suoi oracoli sono contenuti in Is 40-66 (deutero-Isaia o triduo-Isaia).
La predicazione del “secondo Isaia” (o deutero-Isaia, da 40 a 55) è caratterizzata da una profonda
penetrazione teologica. Comprende che la punizione di Israele stava per finire e che Dio poteva
servirsi anche di un re straniero (pagano) per la liberazione del suo popolo: il re Ciro viene perfino
chiamato Messiah, l’“unto” strumento di Adonai che solo poteva salvare il suo popolo con un nuovo
esodo (cfr. Is 43,14-21; 48,20-21; 52,11-12). I due esodi si sovrappongono: l’esilio in Babilonia è letto
in parallelo con la schiavitù in Egitto, tanto che in questo periodo si afferma il titolo “Dio ha liberato il
suo popolo in Egitto”.
Ciro assunse nel 553 a.C. il controllo della Media (Ecbatana) e poi, nel 546 a.C., quello della Lidia,
patria di Creso, in Asia minore. Verso il 550 a.C. diventò una minaccia per Babilonia e un simbolo di
speranza per gli esuli. Finalmente, dopo avere distrutto l’esercito babilonese presso il fiume Tigri nel
539 a.C., prese Babilonia intatta dalle mani di Nabonide.
Nel 538 a.C. Ciro emise un decreto che permetteva agli esuli il ritorno in Palestina. La tolleranza di
Ciro è ben nota dal cosiddetto cilindro di Ciro (ritrovato nel 1879, 23x8 cm di diametro, con 35 linee
scritte in accadico).23

23
Conservato presso il Museo Britannico. Per il testo con traduzione inglese si veda:
http://www.sentircristiano.com/arqueologia/EdictoCiroBilingue.pdf.

118
Appendice: Tavola dei re
di Giuda e di Israele

Roboamo 922-915 922-901 Geroboamo I


Abia (Abiam) 915-913
901-900 Nadab
Asa 913-873 900-877 Baasa
877-876 Ela
876 Zimri
Giosafat 873-849 876-869 Omri
869-850 Acab
850-849 Acazia
Joram 849-842 849-842 Joram
Acazia 842
Atalia regina 842-837 842-815 Ieu
Joas (Joash) 837-800 815-801 Joacaz (Joahaz)
Amazia 800-783 801-786 Joas (Joash)
Ozia (Azaria) 783-742 786-746 Geroboamo II
(reggenza di Jotam) 750-742 746-745 Zaccaria
745 Sallum
745-738 Menachem
Jotam 742-735 738-737 Pekachia
Acaz (Joacaz I) 735-715 737-732 Pekach
732-724 Osea
721 Caduta di Samaria
Ezechia 715-687
Manasse 687-642
Amon 642-640
Giosia 640-609
Joacaz II (Sallum) 609
Ioiakim (Eliakim) 609-598
Ioiachin (Jekonia) 597
Sedecia (Mattania) 597-587
Caduta di Gerusalemme 587

119
12. La storia biblica di Israele - III
Dall’esilio alla conquista romana (Pompeo, 63 a.C.)

1. L’inizio del periodo post-esilico (539-333 a.C.)


1.1. Zorobabele
1.2. Neemia
1.3. Esdra
1.4. Le Cronache
1.5. L’era persiana (fino al 333 a.C.)
2. Il periodo greco (333-63 a.C.)
3. La rivolta maccabea (175-135 a.C.)
4. La conquista romana (63 a.C.)

1. L’inizio del periodo post-esilico (539-333 a.C.)


L’editto di Ciro (cfr. Esd 1,2-4; 6,3-5) segna una svolta: esso permise agli esuli di tornare in patria.
Sembra che gli esuli fossero in gran parte delle tribù di Giuda e Beniamino. Sembra, inoltre, che il
primo re del post-esilio sia stato Sezbasar, figlio di Ioakim.
Le tre figure più importanti di questo periodo sono Zorobabele, Esdra e Neemia.
1.1. Zorobabele
L’entusiasmo del ritorno in patria portò all’inizio della ricostruzione del tempio (le fondazioni), che
però iniziò seriamente solo nel 520 a.C. La costruzione del tempio fu completata nel 515 sotto
Zorobabele, mentre Giosuè era sommo sacerdote, dietro incitamento dei profeti Aggeo e Zaccaria. I
due profeti favorirono anche il rifiorire della speranza nel popolo con motivi messianici e con il
ricordo del re Davide (cfr. Ag 2,20-23; Zc 3,8; 6,9-15): la speranza messianica nella dinastia
davidica prende vigore proprio in questo periodo.
La ricostruzione del tempio veniva ritardata a causa di differenti visioni, di difficoltà economiche e di
contrasti con i samaritani, con i quali emergono questioni di antagonismo e di concorrenza. I
samaritani, che conservavano tracce della religione giudaica antica e un proprio Pentateuco
(Pentateuco samaritano) pensavano, infatti, di edificare un nuovo tempio a nord sul monte Garizim.
Quando Zorobabele rifiuta di accettare le offerte di aiuto dei samaritani per la ricostruzione del tempio
a Gerusalemme (cfr. Esd 4) quelle tracce di inimicizia che rimontavano al periodo esilico diventano
sempre più significative.
Zorobabele scompare rapidamente dalla scena, probabilmente perché era diventato avverso ai persiani.
Dario il Grande (522-486 a.C.) non fu duro con i Giudei.
Del periodo dal 515 al 450 a.C. sappiamo pochissimo. Dopo il 450 (con una serie di problemi di
datazione) ci sono altri due personaggi: Neemia e Esdra.
1.2. Neemia
Neemia, un eunuco giudeo, fu coppiere di Artaserse I alla corte persiana di Susa. Verso il 445 a.C. fu
informato della situazione deplorevole a Gerusalemme e riesce a farsi nominare governatore di Giuda.
Così si adoperò per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme (cfr. Nee 2-4). Neemia deve
superare lo scoraggiamento del popolo ma anche l’opposizione dei due governatori persiani che

120
ostacolavano la sua azione riformatrice. Riesce comunque a portare a termine i suoi piani (cfr. Nee
5).
Giuda in questo periodo è piccola e la situazione sarebbe stata disastrosa se non fosse intervenuto il
governo di Neemia. Nel 433 a.C. Neemia torna in Persia, ma poco dopo fu di nuovo a Gerusalemme,
ma non sappiamo molto di questo secondo periodo. In questo periodo si colloca la sua riforma
religiosa: regola il culto e il commercio e proibisce i matrimoni misti (cfr. Nee 10).
1.3. Esdra
La data di Esdra rimane un problema controverso. La Bibbia (cfr. Esd 7,7) pone la sua attività durante
il regno di un re persiano di nome Artaserse. Tuttavia, il settimo anno di Artaserse I sarebbe il 458
a.C., addirittura prima di Neemia che fu a Gerusalemme nel 455 a.C. Secondo un’altra datazione il
settimo anno di Artaserse I sarebbe il 398 a.C. Ma la datazione più probabile sarebbe il 428 a.C.
durante la seconda missione di Neemia a Gerusalemme: questo significa che i due erano insieme a
Gerusalemme, ma nessuna fonte li menziona mai tutti due insieme. Il problema cronologico rimane
dunque aperto.
Esdra era anzitutto un capo religioso: mentre Neemia si occupava più di politica, Esdra era sacerdote
e ricevette il titolo di “scriba della legge di Dio e del cielo”. Riporta in Palestina un gruppo di giudei e
il suo primo atto pubblico fu la lettura ad alta voce del Libro della Legge (una parte non sappiamo
quanto estesa del Pentateuco) nella festa dell’anno nuovo (cfr. Esd 7; Ne 8: in questo passo più volte
è eccezionalmente menzionata la presenza delle donne; del testo si dice che ne viene fatta la lettura in
ebraico, la traduzione orale in aramaico, quindi l’interpretazione).
In Nee 10 si racconta di una liturgia penitenziale, durante la quale si escludono i matrimoni misti con
i gentili e le infrazioni del sabato e non si doveva più trascurare il tempio.
La figura di Esdra fu magnificata nella leggenda posteriore e da diversi studiosi come quella di un
secondo Mosè, come l’uomo che determinò il canone ebraico, etc. È certamente una figura chiave e
certamente decisiva nella formazione del testo biblico come lo conosciamo oggi, ma non sappiamo
quanto estesamente. Egli caratterizzò il giudaismo fino ai tempi del NT.
1.4. Le Cronache
L’opera del Cronista è un’opera di riflessione abbastanza creativa che fornisce un punto di vista
particolare della storia di Israele, quello della teocrazia post-esilica della quale egli fu un membro
fedele. Il Cronista è mosso dalla preoccupazione di dimostrare la fedeltà alle figure del passato:
Mosè e Davide (del quale si tacciono i peccati).
La sua opera rimane utile come fonte storica per un periodo della storia giudaica – il IV secolo a.C. –
altrimenti oscuro per assenza di fonti extra-bibliche.
Allora Giuda e Gerusalemme si consideravano separate dalle nazioni, scelte da Dio per sopravvivere
al disastro dell’esilio e ricostituire il popolo di Dio. II regno di Dio si concentra in Giuda, sicura del
tempio ricostruito: Esd e Nee presentano il popolo di Dio che con zelo officia nel tempio, sicuro dietro
le mura ricostruite, separato da tutto ciò che è estraneo.
1.5. L’era persiana (fino al 333 a.C.)
Di questo periodo sappiamo poco. Sicuramente ci sono stati fatti importanti quali lo sviluppo della
devozione alla Torah: il culto fu continuato nel tempio sotto la guida dei sacerdoti e dei leviti, come
testimonia la storia del Cronista. Sono istituite in modo chiaro e solenne le tre feste tradizionali: la
pasqua, la festa delle Capanne (celebrazione del dono della Legge) e il capodanno [ros-ha-shanà],
insieme con il giorno dell’Espiazione [yom kippur] erano i momenti forti dell’anno. In questo periodo

121
Giuda era una teocrazia governata da un sommo sacerdote che era ritenuto discendente di Zadok
(sacerdote ricordato al tempo di Davide).
L’archeologia di questo periodo non ci dice nulla. Dal ritrovamento di monete ebraiche sappiamo che i
persiani permettono agli ebrei di battere moneta; è stato ritrovato un palazzo persiano a Lachiš del 400
a.C. Un documento importante sono i papiri di Elefantina (V secolo a.C.), scoperti all’inizio del
Novecento, che fanno luce su un certo tipo di yhawismo che fiorisce fuori dalla Palestina nella
comunità della diaspora (per la presenza di giudei in Egitto): hanno un loro proprio tempio dedicato a
Jahu, una propria forma di religione. Alcune lettere di Elefantina trattano degli sforzi fatti dai Giudei
per ottenere la ricostruzione del tempio centrale di Gerusalemme; la corrispondenza getta luce sugli
ultimi anni del V secolo a.C. altrimenti sconosciuti. Il contributo di Giuseppe Flavio (Antichità
giudaiche), infatti, è abbastanza limitato per questo periodo: anche lui ha a disposizione le medesime
fonti bibliche a noi a disposizione.

2. Il periodo greco (333-63 a.C.)


La storia di questo periodo ci viene dalle cronache di ERODOTO e LIVIO che non dalla Bibbia. Segna
l’unità greca con Filippo il Macedone e poi l’estensione del regno con il figlio Alessandro oltre
l’Ellesponto. Alessandro sconfisse i persiani presso Granico e prese l’Asia minore. Infine, la battaglia
di Isso (333 a.C.) – una delle più famose battaglie dell’antichità – diede ai Greci l’accesso alla Siria.
Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche 11.8,2 §304ss.) ricorda il passaggio di Alessandro da
Gerusalemme. Questa invasione segna una svolta notevole in quell’ambiente e cultura: Alessandro
conquista tutta la terra allora conosciuta.
Nel 331 a.C. Alessandro fondò la famosa città di Alessandria e tornò al nord per infliggere ai Persiani
la sconfitta finale ad Arbela, sull’altra sponda del Tigri. Continuò poi oltre l’Indo e tornò a Babilonia
nel 323 a.C. dopo avere edificato un impero vastissimo e grandioso.
Un tema che non è stato ancora risolto è: quando fu costruito il tempio dei Samaritani sul monte
Garizim? L’ostilità tra giudei e samaritani è precedente a questo periodo; probabilmente fu durante la
dominazione greca della Palestina che fu costruito il tempio e che fu accettato (solo) il Pentateuco
(Pentateuco samaritano). I samaritani riservarono un’accoglienza favorevole a Alessandro al punto da
stringere un’alleanza con gli invasori.
Alla morte di Alessandro l’impero persiano fu diviso in quattro parti. Due regni si contesero il
controllo della Palestina: il regno egiziano, fondato da Tolomeo figlio di Lagus (dinastia dei tolomei),
e il regno di Asia, governato da Seleuco (cfr. 1-2 Mac).
Dal 300 al 200 a.C. ca. i Giudei caddero sotto l’egida paternalistica della dinastia tolemaica; alcuni
eventi di questo periodo sono raccontati in Dan 11.
Ci fu un gran numero dei giudei della diaspora, cui si ricollega la redazione della traduzione dei LXX.
Invece, in Palestina la popolazione giudaica rimane più o meno immutata; in essa figurano i sacerdoti
e il consiglio degli anziani [gherousia]. I contatti con il resto della Palestina sono sporadici.
Con il regno di Alessandro e poi con i suoi successori avviene un fortissimo processo di
ellenizzazione, con influssi notevolissimi fino a Gesù e oltre. I costumi e comportamenti greci, che
dovevano poi penetrare nella città stessa di Gerusalemme – es. il teatro greco, la lingua greca, l’uso
della koiné poi usata per la redazione del NT (cfr. 1 Mac 1,13-15; 2 Mac 4,10-15) – cominciarono a
costituire una minaccia per il modo di vita giudaico e il monoteismo giudaico.

122
D’altronde i Giudei stessi erano divisi: se la maggior parte di loro divennero apertamente ellenisti, gli
Hasidim o Assidei (cfr. 1 Mac 2,42 ) rimanevano fanaticamente devoti alla Legge. Si acuisce così il
contrasto tra la cultura ormai dominante in Palestina e gli irriducibili che rivendicano la cultura
giudaica.
Nel 200 a.C. il re seleucida Antioco III sconfisse le truppe di Tolomeo V a Panion, vicino alle fonti del
Giordano, e la Palestina passò dall’egida dei Tolomei all’egida dei Seleucidi. Alla morte di Antioco
III (Elam, 187 a.C.), gli succedette Seleuco IV (187-175 a.C.) e a questo succedette Antioco IV.

3. La rivolta maccabea (175-135 a.C.)


Antioco IV depose Onia in favore di Giasone (174-171 a.C.). Menelao prosegui l’ellenizzazione e
cospirò per assassinare Onia III.
C’erano molti Giudei pronti a dare la vita per difendere la loro fede: l’episodio di Eleazaro e della
madre di sette figli (2 Mac 6,18-7,42) a Gerusalemme fece traboccare il vaso e portò alla rivolta
maccabaica.
La famiglia dei Maccabei di Modin nel 167 a.C. comincia a incitare alla rivolta contro la decadenza
della religione giudaica. Cfr. 1-2- Mac: Mattatia morì nel 166 a.C. e il comando passò a Giuda
Maccabeo che ottiene grandi successi: egli purificò il tempio dall’altare a Zeus; la festa di Hanukka
cancellò i tre anni di sacrilegio. Suo fratello Simone Maccabeo faceva lo stesso in Galilea. Dalla
resistenza giudaica si ottiene la ripresa del potere.
Sotto Antioco V, essendo Alcimo sommo sacerdote, il “giorno di Nicanore” divenne una solennità
celebrata ogni anno (1 Mac 7,49). Giuda fu ucciso; lo sostituì suo fratello Gionata (160-143 a.C.), che
alla fine appoggiò Alessandro, il quale trionfò su Demetrio e divenne re nel 150 a.C. Il terzo dei
fratelli maccabei, Simone (143-134 a.C.) fu riconosciuto sommo sacerdote, governatore e comandante
militare.
Questa lettura è istruttiva ha elementi importanti come ad esempio l’intercessione, la preghiera per i
morti e soprattutto nasce in questo periodo il concetto di martirio. Dare la vita perché Dio possa
diventare di nuovo clemente: concetti di espiazione, dare la vita, ecc…

4. La conquista romana (63 a.C.)


Seguono le vicende di Giovanni Ircano I (134-104 a.C.) e degli ‘Asmonei’. Nel 128 a.C. Antioco fu
ucciso in battaglia; sul trono salì Demetrio II. L’evoluzione più significativa all’interno del giudaismo
in questo periodo fu l’emergere dei due partiti dei Farisei e dei Sadducei.
Aristobulo (104-103 a.C.) estende il potere nella Galilea del nord che egli giudaizzò. Seguono i regni
di Alessandro Janneo (103-76 a.C.), di Salome Alessandra (76-69 a.C.), di Ircano II, e infine di
Aristobulo II (69-63 a.C.).
Ma tutto questo non poté durare a lungo a causa delle divisioni all’interno stesso della famiglia
maccabea che allora invocò l’intervento dei romani. Nel 63 a.C. Pompeo entra nel tempio curioso di
conoscere cosa ci fosse dentro: profana il Santo dei Santi e trova un luogo completamente vuoto
suscitandone la meraviglia per la differenza tra le religioni romana ed ellenistiche e la religione
giudaica).

123
13. Quadro geografico (mappe mute)

Paesi e mari confinanti attuali: Libano, Siria, Giordania, mar Morto, golfo di Aqaba, Egitto, mar Mediterraneo.
Isole: Cipro, Creta, Malta.
Regioni: Galilea, Samaria, Giudea, Gaulanitide, Perea, Decapoli, Iturea, Traconitide, Fenicia, Idumea, Nabatea;
Siria, Cilicia, Cappadocia, Galazia, Frigia, Asia, Pisidia, Bitinia, Pamfilia, Tracia, Macedonia, Acaia.
Città e villaggi: Sidone, Tiro, Damasco, Cesarea di Filippo, Tolemaide, Nazaret, Corazin, Cafarnao, Magdala,
Betsaida, Tiberiade, Gergesa (Gerasa), Cesarea Marittima, Tiro, Sidone, Samaria (Sebaste), Sicar (Sichem),
Gerasa, Giaffa, Lidda, Azoto, Gaza, Gerico, Qumran, Betania, Betfage, Gerusalemme, Betlemme, Ebron,
Masada, Macheronte, Bersabea; Alessandria, Antiochia (di Siria), Tarso, Efeso, Mileto, Pergamo, Tiatira, Sardi,
Filadelfia, Laodicea, Colossi, Iconio, Antiochia di Pisidia, Corinto, Atene, Tessalonica, Filippi, Troade, (cf. i
viaggi di Paolo).

124
Fiumi e laghi: sistema Giordano – lago di Gennesaret – mar Morto – Araba; affluenti del Giordano: Yarmuk,
Iabbok, Arnon; Cedron.
Montagne: di Galilea, di Samaria, di Giuda, la Shefela.
Monti: Ermon, Tabor, Ebal, Garizim, Carmelo, Nebo, Sinai.
Pianure: Izreel (Esdrelon), di Acco, Sharon, della Filistea.
Deserti: di Giuda, di Zin, del Negev.

125
126
14. Il Pentateuco – I24
Storia della critica

1. Introduzione
2. La Torah scritta da Mosè?
3. L’ipotesi dei “documenti”: i primi passi dell’“ipotesi documentaria”
4. L’ipotesi dei “frammenti”
5. L’“ipotesi documentaria” classica
5.1. J. Wellhausen e il successo della teoria documentaria
5.2. Gunkel (1862-1932)
6. Le obiezioni alla teoria documentaria
6.1. A. Alt (1883-1956): il ritorno alle origini
6.2. G. von Rad (1901-1971)
6.3. M. Noth (1902-1968): la Storia della trasmissione
6.4. Alcune altre espressioni della ricerca esegetica nel XX secolo
7. Un nuovo punto di partenza: R. Rendtorff (1925-)
8. Lo Jahwista: un breve status quaestionis sull’attuale dibattito
9. La sorte dell’Elohista e il rafforzamento del Sacerdotale
10. Due recenti teorie sulla formazione del Pentateuco
1. Introduzione
I primi cinque libri delle Scritture ebraiche portano anche il nome di ‘Pentateuco’ [dal greco pente +
teuchos = cinque teche-astucci, dal nome dei cinque rotoli messi ciascuno in un astuccio].
Essi costituiscono la Tôrāh, che noi traduciamo con “Legge” [dal greco nomos]: ora, certamente nel
Pentateuco ci sono molte legislazioni, specie in Levitico (contiene una sorta di rubrica liturgica, ma
anche narrazioni, cantici, poesie, etc.). Dunque, propriamente è da tradursi con “istruzione”,
“norma”: la Torah costituisce lo “statuto” normativo e fondante per tutto il popolo dell’elezione.
Per gli ebrei il Pentateuco è più ispirato e normativo degli altri libri, delle Scritture. Tutti gli altri libri
rimandano e incitano alla Torah. I profeti sono colocati subito dopo, ma guardano in dietro alla Legge.
È nel Pentateuco che emerge il più grande dei profeti, Mosè. Secondo l’antica tradizione giudaica ma
ancora il giudaismo conservativo odierno, Mosè fu del Pentateuco non solo il principale
protagonista, dunque il fondatore e legislatore (tranne Gen, tutti e quattro gli altri libri in fondo
parlano di lui dalla sua vocazione fino alla sua morte in Dt 34, sicché la sua vita è in gran parte
ricostruibile) ma anche e soprattutto l’autore.
Se Gen 1-11 (racconti della creazione) e Gen 12ss. (ciclo di Abramo) narrano la preistoria del mondo,
da Es a Dt si racconta la storia di Mosè: storia, gesta e parole di questo grande condottiero. La Tôrāh
viene anche designata come “Legge di Mosè” [Tôrāht Mošek] (cfr. Gs 8,31.32; 23,6; 1Re 2,3; 2Re
14,6; 23,25; 2Cr 23,18; 30,16; Esd 3,2; 7,6; Ne 8,1; Dn 9,11.13; Mal 3,22). Da questo si delinea quindi
il resto dei libri di cui la Tanak è composta: Nebi’îm (anteriori e posteriori) e Ketûbîm. Tutto ciò che

24
Bibliografia di riferimento: F. Giuntoli in P. Merlo (ed.), L’Antico Testamento, Introduzione storico-letteraria,
Carocci, Roma 2008, 99-127; F. Garcia Lopez, Il Pentateuco, Paideia, Brescia 2002; J. Blenkinsopp, Il
Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia (Biblioteca biblica), Queriniana, Brescia 1996; J.L.
Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia
(Collana biblica), Dehoniane, Roma 1998; G. Galvagno & F. Giuntoli, Dai frammenti alla storia. Introduzione
al Pentateuco, Collana Graphé, LDC, Torino, 2014; M. Settembrini, Nel Pentateuco, San Paolo, 2012.
Importante è leggere le introduzioni e le notazioni riportate dalle Bibbie da studio.

127
segue il Pentateuco è dal punto di vista giudaico solo spiegazioni, approfondimenti, commenti alla
Torah, ovvero guardano indietro. I Profeti, ad esempio, richiameranno il popolo alla fedeltà alla Torah
e rimprovereranno l’avvenuto allontanamento dalla Torah, la sostituzione attraverso l’idolatria.
2. La Torah scritta da Mosè?
Il Pentateuco è stato definito un “terreno alluvionale” o un “cantiere sempre aperto”. Alla base della
critica moderna sta la critica dell’assunzione di Mosè come autore della Torah.
Dal punto di vista giudaico, nel trattato mishnaico Pirqè Avot (Capitolo dei Padri, 1,1) si legge:
«Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè; e Giosuè agli anziani; e gli
anziani ai profeti; e i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Congregazione».
Alla base del giudaismo c’è la Torah e la sua trasmissione dalla sua promulgazione a oggi. C’è una
Torah scritta e una Torah orale. C’è una oralità / tradizione dei Padri oltre alla scrittura che ha la stessa
autorevolezza di quella. Ad un certo punto la Torah orale venne messa per iscritta: si compongono
così la Mishna (fine II secolo a.C.) e altri trattati fino a trovare cristallizzazione nel Talmud (nella sua
duplice versione babilonese e palestinese), la quale contiene tutta la Torah nella sua interpretazione e
casistica (quanto al culto, all’etica, etc.). La trasmissione della Torah garantita fino a oggi dagli
anziani, dai profeti, dalla comunità è garanzia della fedeltà e della continuità della trasmissione della
Legge uscita dalla mano di Mosè ritenuto autore del Pentateuco.
La trasmissione della Tôrāh è il prodotto di un processo lento, pluriforme ed elaborato, le cui
concatenazioni, implicazioni e articolazioni continuano per la maggior parte a sfuggirci.
Ora, gli ultimi capitoli di Deuteronomio parlano della morte di Mosè. La critica parte dalla
considerazione che il Talmud babilonese attribuisce ermeneuticamente la scrittura del racconto della
morte di Mosè a Giosuè (V secolo d.C.).
Già in epoca medievale l’attribuzione integrale a Mosè della Torah comincia a vacillare con il rabbino
ispanico Abraham IBN EZRA (1092-1167), il quale per primo evidenzia il problema di attribuire a
Mosè vari passi del Pentateuco: Gn 12,6; 22,14; Dt 1,1; 3,11; 27,1-8; 31,9.
Queste prime obiezioni furono riprese e analizzate in ambito giudaico. Baruch SPINOZA (1632-1677)
arriva fino a negare l’origine mosaica di tutto il Pentateuco, motivo per il quale fu considerato eretico
dagli ebrei del suo tempo; egli attribuisce l’estensione ultima del Pentateuco allo scriba Esdra.
Questa idea si fa spazio anche fuori dal giudaismo, nel cattolicesimo, con Thomas HOBBES (1588-
1679) in Inghilterra e Richard SIMON (1638-1712) in Francia. Alle obiezioni così mosse
all’autorialità mosaica del Pentateuco si opposero con tutte le forze le gerarchie delle rispettive chiese.
Il XVIII secolo è il tempo della riflessione critica anche dal punto di vista scientifico per risalire alla
storia della composizione del Pentateuco. Mettendo da parte i problemi canonici e di ortodossia che
venivano dalle Chiese, si elaborano plurime e diversificate teorie per tentare di risalire ad una possibile
“storia della composizione”. Sono elaborate tre principali ipotesi di studio circa i modelli di
interpretazione del Pentateuco → Cfr. Modelli di formazione del Pentateuco (Zenger):
 L’ipotesi c.d. dei “documenti”: WITTER, ASTRUC, EICHHORN. Essa ipotizza la nascita del
Pentateuco come fusione di tre documenti completi, indipendenti e paralleli [→ analogia
con i tre vangeli sinottici nel NT] si cui si arriva perfino a stabilire la datazione e il luogo di
composizione di ciascuno di essi. Dunque, non solo Mosè non è l’autore del Pentateuco,
ma ci sono varie fonti successivamente messe insieme.
 L’ipotesi c.d. dei “frammenti”: il cattolico Alexander GEDDES e i tedeschi protestanti

128
VATER e DE WETTE. Essa postula una serie di piccole unità letterarie, narrative e
legislative, composte in età molto posteriore a Mosè.
 L’ipotesi dei “complementi” (o “supplementi”): EWALD. Essa ipotizza l’esistenza di un
unico documento di base su cui si sono inseriti complementi disomogenei per origine e
datazione.

129
130
3. L’ipotesi dei “documenti”: i primi passi dell’“ipotesi documentaria”
Lo studioso tedesco luterano WITTER (1683-1715) individua per primo (anche sul piano scientifico)
due diversi modi di nominare Dio in Gen 1-3: il plurale maiestatico ’ĕlōhîm (cfr. la prima storia della
creazione in Gen 1,1 - 2,4a,) e Yhwh ’ĕlōhîm (cfr. Gen 2,4b - 3,24). Se ne deduce l’esistenza di più
“fonti” (per la prima volta entra in questo campo di studio la parola Quelle) alla base del
Pentateuco: Mosè, considerato autore unico dell’intero Pentateuco, si sarebbe così ispirato a due fonti
diverse. Questa di Witter è un’ipotesi di grande importanza nella formulazione dell’ipotesi
documentaria classica nel Novecento.
Il cattolico Jean ASTRUC (1684-1766), medico alla corte francese di Luigi XV e conoscitore
dell’ebraico, estende la ricerca di Witter a tutto il libro della Gen fino a Es 2 (prima, cioè, della
rivelazione del nome di Dio in Es 3,14). Egli postula la presenza di tre memoires, memorie o
canovacci letterari, pre-esistenti a Mosè e da lui disposti in una sorta di triplice sinossi: le memoires A
e B avrebbero fatto capo ai due modi di nominare di Dio in Gen 1-3; la memoire C sarebbe stata
indipendente dalle prime due e avrebbe contenuto del materiale disomogeneo non ricomprendibile
nelle altre due. Nel tramandarsi della memoria queste tre memorie sarebbero state fuse in un unico
documento.
Johann Gottfried EICHHORN (1752-1825), a Gottingen, si adopera per difendere un’origine non
mosaica del Pentateuco.
4. L’ipotesi dei “frammenti”
Punto di svolta dello studio critico è DE WETTE (1780-1849) che da uno studio storico-comparativo fra
i materiali narrativi dei libri di Samuele e dei Re e quelli paralleli dei libri delle Cronache (punti di
vista diversi sulla stessa storia), riuscì a evincere un’epoca di composizione assai recente per questi
ultimi, risalente al periodo persiano (precedente al 333 a.C.) se non addirittura ellenistico (dopo il 333
a.C.). Le Cronache presuppongono un corpus legislativo precedente alla monarchia: quanto contenuto
nelle Cronache doveva essere una retroproiezione all’epoca mosaica di quanto in realtà vissuto e
sperimentato in epoca persiana o ellenistica. Dunque, origine recente ma ambientamento in un
passato remoto.
Conferma di questa teoria è l’analogia con le tradizioni legislative disseminate nel Pentateuco.
Secondo de Wette il rotolo della legge ritrovato nel Tempio sotto Giosia (cfr. 2Re 22) doveva essere il
quinto libro della Torah, ovvero il Deuteronomio e con esso la legge deuteronomica e la politica
riformistica di Giosia del 622 a.C. (cfr. 2Re 23). Le riforme di Giosia rappresentano uno spartiacque
e il riferimento per la datazione. In questo modo de Wette data il Deuteronomio come la composizione
originaria di tutto il Pentateuco, specie dal punto di vista dei contenuti: e ancor più in particolare è Dt
12-26 (la legge deuteronomistica) ad essere il nucleo centrale del resto del libro e di tutto il
Pentateuco, che sarebbe influenzato dal modello deuteronomistico.
5. L’“ipotesi documentaria” classica
Nel XIX secolo l’avanzare delle ricerche storico-critiche portarono a considerare due principali
“fonti” letterarie [Quellen]: l’una “Jehowista” (dopo Es 3,14); l’altra “Elohista” (dal nome di Dio
in Gen 1-3), più antica e strutturata della prima.
Altri studiosi portano avanti questa teoria, deducendo gli elementi base di quattro fonti, che sono in
nuce i capisaldi delle quattro fonti fondamentali della “teoria documentaria” classica: due tipi di
“Elohista”, di cui quello più antico in seguito si trasformerà in “Sacerdotale” (P = Priester-codex);
uno “Jehowista” (poi chiamato Jahwista, “J”) e il “Deuteronomio” (“D”). Le fonti più antiche sono J
e E, segue P.

131
Per REUSS (1804-1891) il profetismo biblico pre-esilico non conosceva la legislazione mosaica (codici
rituali), invece presente nel tardivo libro di Ezechiele.
Per GRAF (1815-1869) la prima fonte Elohista non era quella più antica, ma quella più recente.
KUENEN (1828-1891) chiama questa fonte Priester-codex, ovvero “codice sacerdotale” (con sigla
“P”).
5.1. J. Wellhausen e il successo della teoria documentaria

Wellhausen (1844-1918) per primo sistematizza tutti gli studi precedenti con una sintesi che diventa la
teoria documentaria classica. 1877 (3 ed. 1899). Lui pensa all’esistenza di quattro documenti (fonti),
di cui definisce l’ordine cronologico e la loro collocazione geografica, teologica e stilistica:25
1. Jahwista (“J”), operante nel regno del Sud (Giuda) nel IX secolo a.C. (epoca di Salomone,
950 a.C. ca.).
2. Elohista (“E”), attivo nel regno del Nord (Israele) nell’VIII secolo a.C. (750 a.C. ca.).
3. Deuteronomio (“D”), il cui nucleo primigenio risalirebbe alla riforma di Giosia nel 622
a.C. e che sarebbe all’origine della storia e della teologia deuteronomistiche. Questo nucleo
originario fu successivamente ampliato con altri testi narrativi e legali assimilabili a J e E,
ma in ogni caso molto distinti da P.
4. Sacerdotale (“P”), presente durante l’esilio in Babilonia (538 a.C.) o, anche, dopo il
ritorno a Gerusalemme. È la fonte più recente, poiché implica un’analogia molto
sviluppata: essa è l’impalcatura entro cui inserire le parti migliori dei testi antichi
pervenuti.
Ulteriormente, Wellhausen parla di una fonte Jehovista (722-622 a.C.) che sarebbe nata dalla fusione
di J+E per armonizzare le due tradizioni.
Wellhausen parla anche di un Esateuco [“sei astucci”], perché il Pentateuco sarebbe da leggersi unitamente
al libro di Giosuè. Il programma narrativo annunciato con Abramo si realizza, infatti, solo con Giosuè
(compimento della promessa della terra). L’Esateuco sarebbe stato “edito” nel V secolo a.C., periodo
durante il quale fu operante Esdra, lo scriba.
La “teoria documentaria” è l’ipotesi che per molto tempo è stata la più accreditata. Essa ebbe molto
successo perché permise di mettere ordine: al suo seguito sorsero studi scientifici su ogni fonte e ogni
documento.
Le nuove teorie sulla composizione del Pentateuco si imposero in tutti i circoli accademici, nonostante
le resistenze delle varie gerarchie e chiese, senza nominare l’ebraismo (a tutt’oggi i conservatifs non
accettano la teoria documentaria, che mette in dubbio il postulato di fede che Mosè sia l’autore
dell’intero Pentateuco, e che costringerebbe finanche a pronunciare il tetragramma sacro). In
ambito cattolico, essendo Wellhausen ancora in vita, la PCB nel 1906 ribadisce la paternità mosaica
dell’intero Pentateuco, concedendo solo che Mosè si possa essere servito di fonti a lui preesistenti e
che non tutto il Pentateuco fosse stato scritto di sua mano ma in ogni caso sempre con la sua
approvazione. È ancora il momento in cui i pronunciamenti della Chiesa erano di tipo anatematico
[anatema sit] in cui è impossibile studiare in modo storico-critico l’AT. L’Ecole biblique di
Gerusalemme darà il suo frutto più maturo – la BJ – solo negli anni Cinquanta: p. LAGRANGE cessò le
sue ricerche per evitare di incorrere nella condanna del Sant’Uffizio e si dedicò allo studio del NT
(pubblicando un commentario della Lettera ai Romani). Solo nel 1943 si aprì nuovamente agli esegeti

25
Queste quattro tradizioni sono state definite dal grande biblista R. DE VAUX come «i fili d’oro» della Legge.

132
cattolici la possibilità di studiare l’AT attraverso i generi letterari (Divine Afflante Spiritu), mentre gli
esegeti protestanti erano avanti di almeno 50 anni in questo ambito (il gap iniziale è ora recuperato, al
punto che ora non si fa più alcuna distinzione tra l’esegesi cattolica e l’esegesi protestante →
ecumenismo).
Gli studi di Wellhausen saranno accompagnati dal nuovo interesse per il Vicino Oriente antico: in
particolare lo studio dei testi accadici ed egizi, ma anche lo studio del folklore, della letteratura
popolare e della storia delle religioni (religionsgeschichtliche Schule, molto importante in ambito
tedesco). Si scopre che molti testi che sembravano originali della Bibbia erano in realtà già conosciuti
in letterature e culture molto più antiche.
5.2. Gunkel (1862-1932)
Sempre in ambito tedesco Gunkel (1862-1932) è l’esponente principale di un nuovo metodo, quello
della Storia delle forme (Formgeschichte) o Storia dei generi letterari, applicato in specie allo
studio dei Salmi. Ponendosi la domanda: in quale situazione o contesto comunitario un dato testo si è
potuto originare?, Gunkel studia tutte le circostanze oltre il testo fino ad arrivare ad una oralità
precedente il testo scritto. Questo metodo studia il “genere letterario” (Gattung) e le “forme”
(Formen) a seconda del “contesto vitale” (Sitz im Leben), cioè la situazione di origine di un testo.
Analizza così l’importanza di stile, forma, estetica, sensibilità espresse dal testo scritto come testimoni
dei contesti vitali che lo hanno preceduto e quindi prodotto.
Con Gunkel lo studio dei testi della Torah si fa molto più capillare. Si inizia a parlare di “fonte”
(Quelle), ma è ancora un termine molto generico e ampio; iniziano perciò a isolarsi singoli racconti
(Sagen; difficilmente traducibile in italiano: “saghe”, ovvero “storie mitico-eroico-leggendarie”) per
risalire ai contesti vitali che li hanno prodotti; solo dopo si mettono insieme questi racconti in storie
più o meno articolate a costituire delle fonti.
6. Le obiezioni alla teoria documentaria
Se la teoria documentaria è stata fondamentale perché capace di dare soluzione a tantissime domande,
essa, tuttavia, non ha retto sotto i colpi di obiezioni consistenti. Tra le principali:

6.1. A. Alt (1883-1956): il ritorno alle origini


Come Albrecht Alt scrive in Il Dio dei Padri (1929), il Dio espresso dalle narrazioni patriarcali della
Genesi (un Dio che si presenta senza rivelarsi ancora completamente) è quello che si propone come
Dio della religione nomadica di Israele, non legato a un luogo ma ad un individuo (“il Dio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe”). I racconti patriarcali sarebbero portatori della genuina religione pre- e
proto-israelitica.

6.2. G. von Rad (1901-1971)


In consonanza con la preoccupazione di trovare nella Legge i segni della storia e dell’importanza di
Israele, Gerhard von Rad ipotizza che nella sua forma finale l’Esateuco sia un ampliamento di
piccoli nuclei primordiali che egli chiamò “credo storici” (geschichtliche Credos) e che ravvisò
primariamente in Dt 26,5b-9; 6,20-23; Gs 24,2b-13.
Es. Dt 26,5b-9, c.d. “piccolo credo storico” (kleine geschichtliche Credo). Esso è una sintesi del credo
di Israele che identifica le tappe principali: l’origine del popolo in Israele; come da piccolo sia
diventato grande; il suo grido in Egitto ascoltato da Dio. Sebbene sia successivo agli eventi narrati,
chi scrive si identifica pienamente con il popolo (“noi”). Il padre “arameo errante” (Dt 26,5) sarebbe il
patriarca Giacobbe-Israele che dà il nome a tutto il popolo. Dt 26,5b-9 avrebbe avuto origine per la

133
festa della settimana o festa della mietitura o pentecoste. L’apice si colloca in epoca pre-monarchica:
il dono della legge (Gs 24,25) viene celebrato a Sichem per la festa dei tabernacoli o festa delle
capanne [succot].
I “credo storici” costituiscono i piccoli nuclei di partenza da cui lo Jahwista avrebbe elaborato la
trama del suo Esateuco. Lo Jahwista è un teologo di forte carisma e personalità, attivo durante
l’epoca salomonica (ca. 1000 a.C.) e massimo esponente tra gli autori che avrebbero contribuito alla
stesura dell’attuale Esateuco. La sua narrazione è alla base del tema della discesa dei padri in Egitto,
dell’uscita dall’Egitto e dell’insediamento del popolo nella terra promessa. [La tradizione dei Sinai ha
anch’essa a che fare con la legge. “E” e poi “P” sono fonti minori di poca influenza.] Il “programma”
narrativo dell’Esateuco o kerigma dello Jahwista – cioè i punti fermi della fede – si ravvisa in Gen
12,1-3: la promessa di benedizione per tutte le nazioni segna la fine della maledizione legata al
peccato di Gen 1-11, prefigura la realizzazione della promessa sotto un grande re (Davide e Salomone)
– l’età della monarchia diventa l’età dell’oro e gioca un ruolo chiave nell’elaborazione dell’identità del
popolo.

6.3. M. Noth (1902-1968): la Storia della trasmissione


Studiando gli aspetti storici dei libri dell’AT, Martin Noth nota l’assenza delle fonti “J”, “E” e “P”
nel libro di Giosuè (narrazione della conquista della terra di Canaan). Come già von Rad notava,
l’entrata nella terra promessa è una conseguenza naturale di tutta la storia di Israele; in più ipotizza che
il racconto della conquista fu eliminato nel Pentateuco per sostituirlo con quanto veniva presentato nel
libro di Giosuè.
Con l’eccezione di Dt 34 e di altre piccole parti nei capitoli 31-33, l’intero libro del Deuteronomio è
il prologo e introduzione all’opera storica deuteronomistica (deuteronomistische Geschichtswerk
[DtrG]), attualmente presente dal libro di Giosuè fino a 2Re.
[Egli individua così non un Esateuco ma un Tetrateuco (da Genesi a Numeri). In esso figurano alcune
tematiche tra loro indipendenti, che in virtù della loro trasmissione (→ “storia della trasmissione”,
Überlieferungsgeschichte) sono state successivamente unite a formare l’attuale Tetrateuco. Queste
sono: (1) l’uscita dall’Egitto; (2) il soggiorno nel deserto; (3) l’ingresso nella Terra; (4) le promesse ai
Patriarchi; (5) la teofania al Sinai. Questi grandi temi avrebbero avuto un unico comune denominatore:
la concezione di Israele come “uno” ed “unico” (monoteismo e esclusività). Già a partire dagli stadi
orali precedenti a “J” e al suo periodo storico (la corte di Davide), Israele dovette esistere come entità
storica “giuridicamente” costituita. (“anfizionia dell’antico Israele” - altisraelitische Amphiktyonie -
“confederazione delle dodici tribù” già attiva in epoca pre-davidica)].

6.4. Alcune altre espressioni della ricerca esegetica nel XX secolo


La “scuola scandinava”, ispirandosi a Gunkel, è dedita allo studio e alla ricostruzione del sostrato
storico, orale e folklorico di alcuni racconti della Tôrāh.
La “scuola americana” (Albright, † 1971), Mendellal) lavora con i risultati e i reperti delle scoperte
della scienza archeologica ed epigrafica nel Vicino Oriente antico (Ugarit, etc.).
L’École Biblique di Gerusalemme (Lagrange, Abel, R. Devot – famoso pe gli studi sul sito di
Qumran e la sua pre-comprensione di esso come un “monastero”), il cui frutto maturo sarà la BJ (1a
ed. 1956).
I ricercatori ebrei contro la “teoria documentaria”, sebbene gli ebrei più aperti (progressifs) abbiano
accettato questa ipotesi.

134
Nel panorama esegetico contemporaneo sul Pentateuco una minoranza di seppur importanti autori è
ancora schierata a favore dell’ipotesi documentaria classica di Wellhausen.

7. Un nuovo punto di partenza: R. Rendtorff (1925-)


Successore di Von Rad a Heidelberg, Rolff Redentorff scrive una Teologia dell’Antico Testamento.
Egli nota una netta contraddizione nell’uso simultaneo di due metodologie esegetiche diverse che
dall’epoca di Gunkel molti autori hanno utilizzato in modo non attento: da una parte, la Storia della
tradizione (Traditionsgeschichte) o Storia della trasmissione (Überlieferungsgeschichte) di questa
tradizione; dall’altra la “teoria documentaria” (Urkundenhypothese) o “critica letteraria”
(Literarkritik). C’è contraddizione tra il postulare allo stesso tempo dei cicli narrativi isolati (prima
metodologia) e l’esistenza di fonti complete e parallele (seconda metodologia). Non è possibile che
esista uno Jahwista che abbia pianificato di suo pugno un’intera storia della salvezza (dalla creazione
alla conquista della terra di Canaan) e che si mettano insieme blocchi narrativi di epoche precedenti.
Caso esemplare: la promessa della Terra fatta da Yhwh ai patriarchi in Genesi e che scompare
completamente nel racconto dell’Esodo (ad eccezione di alcune poche e assai recenti inserzioni
redazionali: cfr. Es 32,13; 33,1; Nm 14,16).
Tra queste due metodologie esegetiche Rendtorff opta per la Storia della tradizione di Noth e come lui
postula l’esistenza (ma non a livello di stadio orale, come Noth) di sei unità letterarie maggiori: (1)
la storia delle origini (Gen 1-11); (2) le storie dei patriarchi (Gen 12-50); (3) l’uscita dall’Egitto; (4) la
marcia nel deserto; (5) la pericope del Sinai; (6) la conquista della Terra.
Per questa serie di motivi rigetta l’ipotesi di uno Jahwista come la critica letteraria precedente ha
voluto intendere. Insiste sui frammenti e solo in parte sui complementi per spiegare il Pentateuco.
Quella di Rendtorff è una ipotesi che ha avuto un largo consenso (non di tutti ma della maggior parte
degli studiosi).

8. Lo Jahwista: un breve status quaestionis sull’attuale dibattito


Fino agli studi di Rendtorff si è cercato di legittimare e rafforzare uno Jahwista il più antico possibile
(cfr. corte davidica).
L’esegesi contemporanea secondo la teoria che contraddice l’ipotesi documentaria classica tende
generalmente a trasferirlo in periodi assai recenti – l’esilio e il post-esilio – della storia di Israele: e
questo perché lo slittamento in avanti dello Jahwista inevitabilmente tutti i “documenti” precedenti
perdevano la loro base.
Nella “scuola canadese”, VAN SETERS (1935-) sostiene che lo Jahwista sarebbe un autore post-
esilico, successivo sia all’opera del Deuteronomio sia a quella della storia deuteronomistica,
impegnato a riorientare e a correggere quei materiali attraverso la sua opera di “storico” costruita per
creare ad Israele, a posteriori, delle comuni radici affondate in un remoto passato in cui riconoscersi e
su cui fondarsi. Altro rappresentante di questa scuola è VINNET.
A tutt’oggi non c’è ancora un consenso sul cosiddetto Jahwista. Alla base dell’attuale Pentateuco ci
deve essere stata una serie di cicli di racconti o di singoli racconti indipendenti e fra loro isolati.
È difficile ritenere che al tempo dell’Israele pre-esilico esistesse un autore – convenzionalmente
chiamato Jahwista – che abbia scritto una storia della salvezza, ben articolata e connessa, dalle
origini del mondo all’ingresso nella terra di Canaan.
Viene allora a recuperarsi l’antica teoria dei “frammenti”. Testi come i “piccoli credo storici” –
che mettono in comunicazione tematiche appartenenti a diversificati racconti (patriarchi, esodo e

135
conquista) – al contrario di quanto ritenuto da von Rad sono oggi più che altro considerati, con solide
argomentazioni, come testi databili in epoche assai recenti della storia di Israele.
9. La sorte dell’Elohista e il rafforzamento del Sacerdotale
Nel panorama dell’esegesi contemporanea sul Pentateuco, dopo che l’esistenza stessa della fonte
Elohista fu messa in dubbio (cfr. gli studi P. VOLZ e W. RUDOLPH), i sostenitori della teoria
documentaria, pur ammettendo in buona parte l’effettiva sfuggevolezza di questo documento, si
adoperano in vari modi per mantenerlo (cfr. A. GRAUPNER).
Invece, il ruolo del Sacerdotale si è andato sempre più rafforzando, non tanto per la quantità dei
materiali testuali, quanto per l’importanza e la dislocazione strategica all’interno delle narrazioni dei
suoi contenuti. Il Sacerdotale si tende a non leggerlo più come una “fonte” o un “documento” quanto
piuttosto come una redazione, che risalirebbe grosso modo all’epoca della fine dell’esilio.
10. Due recenti teorie sulla formazione del Pentateuco
Per Erhard BLUM (1950-) l’attuale Pentateuco sarebbe il risultato della fusione di due documenti
diversificati sulla storia d’Israele, espressioni di due correnti antagoniste: quella degli “anziani”
(zeqēnîm) e quella “sacerdotale” (kōhănîm). L’epoca di questa “fusione” risalirebbe al periodo
persiano e, quindi, a quello post-esilico del Secondo Tempio. Il documento-sintesi sarebbe stato
considerato dalle autorità persiane come la legge ufficiale per gli Israeliti della provincia di Giudea.
Un’altra teoria è quella di WEINBERG: il Pentateuco si andò strutturandosi e prendere la sua forma
attuale nel o attorno al Tempio, che fu ricostruito in Gerusalemme dopo il ritorno dall’esilio di
Babilonia come il centro gravitazionale attorno al quale si doveva organizzare tutta la vita civile,
politica, economica, culturale, cultuale e sociale del popolo di Israele, e approvato dall’impero di
Persia.

15. Il Pentateuco – II26


Introduzione ai singoli libri (Gen, Es, Lv, Nm, Dt): linee
teologiche portanti

1. Genesi
2. Esodo
3. Levitico
4. Numeri
5. Deuteronomio

26
Bibliografia di riferimento: F. Giuntoli in P.Merlo (ed.), L’Antico Testamento, Introduzione storico-letteraria,
Carocci, Roma 2008, 99-127; F. Garcia Lopez, Il Pentateuco, Paideia, Brescia 2002; J. Blenkinsopp, Il
Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia (Biblioteca biblica), Queriniana, Brescia 1996; J.L.
Ska, Introduzione alla lettura del Pentateuco. Chiavi per l’interpretazione dei primi cinque libri della Bibbia
(Collana biblica), Dehoniane, Roma 1998; G. Galvagno & F. Giuntoli, Dai frammenti alla storia. Introduzione
al Pentateuco, Collana Graphé, LDC, Torino, 2014; M. Settembrini, Nel Pentateuco, San Paolo, 2012.
Importante è leggere le introduzioni e le notazioni riportate dalle Bibbie da studio.

136
1. Genesi
Berē’šît [“in principio”] (cfr. 1,1a).
Genesi è strutturato in base all’uso della formula delle tôledô[ō]t, ovvero delle “generazioni”.
Questa formula, con o senza suffisso, si trova per ben 11 volte nell’intero libro: 2,4 (“Queste sono le
generazioni dei cieli e della terra quando Dio li creò”); 5,1; 6,9; 10,1; 11,10; 11,27; 25,12; 25,19;
36,1.9; 37,2. È usato sempre come formula introduttiva, alcune volte di una genealogia vera e
propria, altre volte di importanti narrazioni. Dice l’inizio dei cicli che continuano.
Gen 1-11. Sono narrate le origini dell’universo e dell’umanità: la creazione dell’uomo e della donna,
la causa di ciò che non funziona nel peccato e negli effetti del peccato (i crimini), la discendenza post-
diluviana e l’allargamento universalistico dell’orizzonte ad includere tutti i popoli. La genesi delle
nazioni è narrata dall’episodio della torre di Babele (è una eziologia: quali cause hanno originato la
storia o la situazione attuale?). Il racconto di Babele spiega il senso anche teologico del perché ci
siano tanti popoli e questi parlano lingue diverse.
Gen 12. Da una visione panoramica si passa ad una zoomata su una persona per raccontare l’origine di
un popolo: da questo momento la sorte di Israele si distacca da quella del resto delle nazioni. Da
una visione universalistica si passa a una visione personalistica e nazionalistica: la benedizione di
uno i cui benefici si estendono ad una nazione e poi a tutti i popoli. Si iniziano così a definire le linee e
le tematiche guida del resto della Genesi e di tutto il Pentateuco: il “programma narrativo” è nella
Parola di Dio data ad Abramo che segna le due questioni principali cui Genesi e tutto il Pentateuco
rispondono:
 L’acquisizione della terra promessa da Dio (Gn 12,1: « la terra che io ti mostrerò »);
 L’appartenenza alla giusta discendenza che dovrà fuoriuscire dai lombi di Abramo
(Gn 12,2: « farò di te una grande nazione »). Israele avrebbe anche potuto vivere senza il
possesso della terra: esso diviene popolo nell’esperienza dell’esodo; quindi conquista la
terra per poi riperderla; e proprio nell’esperienza dell’esilio l’identità di popolo si fa più
forte; il rischio durante l’esilio è quello di rompere la diretta linea genealogica, cosicché
ricordare tutta la genealogia degli antenati significa non voler dimenticare la storia
salvifica operata da Dio sin da Abramo e la sua benedizione sin dalla promessa (cfr. Mt
1; tuttavia, Lc 3 rimonta la genealogia di Gesù fino ad Adamo per mostrare l’universalismo
della salvezza e l’apertura a tutte le genti).
Gen 12-50. Sorte di Israele e dei popoli collaterali.
Ciclo di Abramo (11,27 - 25,11). 11,27 è l’inizio delle tôledōt. Il ciclo di Abram è preoccupato di
definire chi è il vero erede del patriarca; l’eredità è già qui insidiata prima da Eliazer di Damasco, poi
da Ismaele figlio di Agar, quindi dal nipote Lot, prima della nascita di Isacco.
Ciclo di Giacobbe (25,19 - 35,29): 25,19 è la tôledōt di Isacco. Il patriarca porta avanti la corretta
linea genealogica con continuità e senza interruzione. Attraverso i suoi 12 figli si impone in
opposizione al fratello Esau.
Tôledōt di Esaù (36).
Storia di Giuseppe (37,2 - 50,26). È la storia più lunga di Genesi. Nonostante le tensioni e i conflitti
famigliari tutti i dodici figli di Giacobbe saranno i veri eredi di Abramo e della promessa fatta a lui
(cfr. le “benedizioni” di Giacobbe al c. 49): i 12 saranno i soli a potersi definire il vero Israele. Tutti
gli altri saranno esclusi da questo privilegio: Esaù diviene il capostipite degli Edomiti; egualmente
Ismaele e Labano, che diviene il capostipite del popolo arameo.

137
La storia di Giuseppe ha precise prefigurazioni con la storia di Gesù di Nazareth: il tradimento,
l’essere venduto a un prezzo, il subire la sorte e il vedere un riscatto / la gloria, l’incontro con i fratelli
facendosi vedere vivo e mostrandosi capace di perdono.
2. Esodo
Šemôt [“Nomi”] (cfr. 1,1a).
L’Esodo è suddiviso in tre parti sulla base dei rispettivi contenuti, ognuna delle quali affronta
specifiche tematiche e risponde a specifiche domande:
1. 1,1 – 15,21: l’uscita di Israele dall’Egitto (la situazione del popolo in Egitto; la vocazione e
la vicenda di Mosè; la preparazione dell’esodo – fuga o cacciata?; il passaggio del mare; il
Cantico di Myriam, uno dei testi più arcaici della Bibbia ebraica).
In questa sezione si oppongono due distinti tipi di potenza: quella del faraone e quella di Adonai. Si
susseguono competizioni e prove di forze tra il faraone e Mosè-Aronne: le piaghe, il passaggio del
mare. Sempre la potenza di Adonai si riversa contro l’ottusità del faraone: Adonai avrà la meglio (es.
Es 14-15) per dire che solo lui Israele deve servire in quanto il solo Signore e sovrano dell’universo.
In due passi contigui si dice prima che “Dio indurì il cuore al faraone” e poi che “il faraone aveva
indurito il suo cuore”: questo modo semplificato di esprimersi proprio di una teologia arcaica deve
essere spiegato con il riferimento alle cause seconde: se Dio è senza distinzione causa prima, in una
causalità seconda è il faraone che indurisce il cuore. Infine, se in Es 5 il faraone dice di non conoscere
il Dio di Israele, in Es 15 il faraone paga con la sua vita l’acquisizione della conoscenza del Signore.
2. 15,22 – 18,27: l’itinerario di Israele dall’Egitto al Sinai [è la parte più breve].
Questa sezione funge da mediazione per spiegare come Israele si posta dall’Egitto alle pendici del
Sinai. Ma serve anche a mostrare da una parte gli interventi del Sovrano a favore di Israele (l’acqua
scaturita dalla roccia, la manna, le quaglie) che proprio in questo momento inizia a costituirsi come
popolo; dall’altra le ribellioni del popolo, di fronte alle quali Adonai si mostra sempre come sovrano
fedele e misericordioso.
3. 19,1 – 40,38: Israele al Sinai [è la parte più lunga suddivisa a sua volta in 4 sotto-parti]:
 19,1 – 24,11: la stipulazione dell’alleanza tra YHWH e il popolo con la mediazione
centrale di Mosè (le “dieci parole” sono espresse in Es 20 e in Dt 5)
Se la prima sezione si chiude con l’individuazione del solo Signore e sovrano dell’universo, ora si
afferma l’unicità e la definitività di Dio. Israele è costituito il solo servitore eletto di questo sovrano
che non dovrà mai abbandonare: predilezione e elezione del popolo che si distingue da tutte le altre
nazioni. Israele sarà e rimarrà “proprietà” esclusiva di YHWH (segullāh; cfr. 19,5), “regno
sacerdotale” (mamléket kōhănîm; cfr. 19,6) e “nazione santa” (gôy qādôš; cfr. 19,6).
Il “codice dell’alleanza” (cfr. 20,22 – 23,19) preceduto dalle “dieci parole” [in greco “decalogo”]
(20,1-17) saranno le condizioni mediante le quali tutto questo continuerà, nei secoli, a permanere in
essere.
 24,12 – 31,18: istruzioni divine per la costruzione di un santuario a YHWH nel deserto
Fino a Es 31 si parla del progetto di costruzione del santuario mobile rivelato a Mosè come maqom
dove Adonai dispiega la sua potenza. È il prodromo del Tempio, che inizialmente è mobile: una tenda
e poi l’arca.

138
 32,1 – 34,35: l’allontanamento di Israele dall’alleanza sancita (Mosè riceve la legge, ma
scendendo dal monte scopre il torello d’oro che dice non l’adorazione di un dio pagano ma il
farsi una immagine di Dio).
Fra il progetto e la realizzazione di questa casa Es 32-34 narra come Israele non corrisponda in modo
clamoroso all’alleanza scritta: rigetta il Signore, il Dio sovrano per preferirgli l’immagine (il vitello
d’oro) di questo dio. Con questo atto Israele mina le fondamenta dell’alleanza e di fatto la sua stessa
esistenza. Dio si mostra fermo e duro verso il popolo irriconoscente, ma anche capace di perdono e di
fedeltà grazie all’intercessione di Mosè. Dio e Mosè si scambiano spesso i ruoli in difesa del popolo.
L’alleanza è, infine, rinnovata in Es 34 e Dio prende possesso della tenda, insediandosi così in mezzo
al suo popolo.
 35,1 – 40,38: la costruzione del santuario secondo le istruzioni.
Ormai libero dalla schiavitù egiziana, a YHWH rimane ancora da regolare la vita del suo popolo
perché possa:
 Degnamente e costantemente stare alla sua presenza (regolazione del culto) → Levitico
 Guidarlo dall’intoccabilità della sua “tenda-santuario” fino ai confini della Terra promessa
→ Numeri.
3. Levitico
Wayyiqrā’ [“E chiamò”] (cfr. 1,1a).
Il Levitico è la continuazione dell’Esodo dal momento in cui la presenza del Dio sovrano si è legata in
modo permanente a Israele nella presenza del santuario mobile che segue la vita del popolo nel
deserto. Ora occorre darsi delle norme per entrare in rapporto con il Dio tre volte santo e così gestire la
santità / trascendenza / separatezza di Dio nel suo popolo. Il Levitico è allora una raccolta di norme e
di statuti etici, comportamentali e liturgici per stare alla presenza di YHWH e atti a disciplinare,
controllare e regolamentare l’intera vita del popolo sull’impronta di un’etica ispirata alla santità
e all’alterità di YHWH.
C’è un ampio consenso tra gli studiosi nel dividere il libro in quattro sezioni:
1. 1,1 – 7,38: le procedure liturgiche (le rubriche che regolano i riti dei sacrifici secondo la
loro tipologia).27
2. 8,1 – 10,20: i riti della consacrazione sacerdotale e del culto a YHWH.
3. 11,1 – 16,34: raccolta di legislazioni incentrate sul “puro” e sull’“impuro”. Quello
della purità è un concetto importantissimo tra gli ebrei fino al NT: es. la purità nella scelta
dei cibi (cfr. Lv 14 e Mc 7).
Lv 16 racconta pur senza nominarlo lo Yom Kippur [“Giorno dell’espiazione”]: uso di un
capro emissario (mandato nel deserto dopo avergli imposto le mani) e di un capro
espiatorio (il cui sangue, una volta sgozzato, veniva usato per l’aspersione del tempio e del
popolo); questa è l’unica volta in tutto l’anno in cui il Sommo Sacerdote entra nel Santo dei
Santi e in cui pronuncia nella formula di benedizione del popolo il nome di Dio (YHWH)
altrimenti sempre impronunciabile.
4. 17,1 – 26,46: il “codice di santità”, databile all’epoca del secondo tempio.28

27
Cfr. Cardellini, I sacrifici dell’Antico Testamento.

139
Liberato dall’Egitto e dichiarato proprietà del Dio sovrano, puro, santo e liberatore, Israele
non ha però ancora una terra. La separatezza dalle altre nazioni è fine a preservare la sua
santità. Se il codice di santità è successivo al secondo tempio, si tratta di sono regole
retroproiettate nel passato ma che servono anche a regolare il presente (all’epoca si trattava
di ricostruire il tempio senza l’arca).
Lv 27 (normative riguardanti tariffe e offerte per il culto nel santuario) è ritenuto un’appendice al
resto delle sezioni.
4. Numeri
Bemidbar [“Nel deserto”] (cfr. 1,1).
Numeri descrive alcune tappe importanti di Israele nel deserto in direzione della Terra promessa
(Sinai, Paran, Edom, Negeb, i territori degli Amorrei, Moab e le sue steppe) e i prodromi della
conquista di quella Terra (Nm 21,21-32 [il paese di Sichon, re degli Amorrei]; Nm 21,33-35 [il
paese di ‘Og, re di Bashan]; Nm 31,1-54 [il paese dei midianiti]) assieme a vari ed eterogenei
materiali legislativi, rubricistici ed annalistici.
La struttura di Numeri è una questione ancora abbastanza aperta. Per la maggior parte degli studiosi il
libro va tripartito, ma la bipartizione è ancora l’ipotesi maggiormente seguita dai maggiori
commentari:
1. 1,1 – 10,10: la preparazione della “campagna” di Israele nel deserto
Questa “campagna” ha caratteristiche duplici: essa è presentata in termini sia politico-militari-
strategici sia cultuale-liturgico-religiosi. Infatti, l’accampamento di Israele con al centro la tenda del
Dio sovrano assume connotati militari; al contempo il procedere nel deserto assume i caratteri di una
processione liturgica. Sono riportati alcuni concreti episodi di questo camminare alla presenza del Dio-
sovrano. In questa sezione sono presentati: la collocazione spaziale dell’accampamento attorno al
santuario; il lavoro dei figli di Levi in aiuto ai sacerdoti nel santuario; il loro censimento; norme
cultuali.
Svolta 10,10-11: Israele inizia la sua marcia nel deserto
È l’inizio della campagna che conduce Israele nel deserto del Sinai fino alle steppe di Moab.
2. 10,11 – 36,13: l’attuazione della “campagna”
Uno dei temi più importanti e che ritorna come un ritornello è la “ribellione di Israele”: centrale
diventa il tema della pedagogia divina nell’educare il suo popolo.
5. Deuteronomio
Debārîm [“Parole”] (cfr. 1,1a). In greco è reso come deúteros nómos [“seconda legge”], ripreso dal
latino deuteronomium, in riferimento alla richiesta di scrivere una “copia della legge” [mišnēh
hattôrāh] data da Dio a Mosè sul Sinai per l’uso personale del re (si tratta della futura monarchia di
Israele) (cfr. Dt 17,18).
Tutto il libro conclusivo del Pentateuco assume quasi la connotazione di “Testamento di Mosè”: un
resoconto delle “parole” che Mosè, sul limitare della Terra promessa nel paese di Moab
(Transgiordania), pronunziò nell’ultimo giorno della sua vita allo scadere dei 40 anni di
peregrinazione di Israele nel deserto.
28
Il primo tempio è quello di Salomone (1000 a.C. ca.); il secondo tempio è quello ricostruito dopo l’esilio da
Zorobabele in poi e poi ancora risistemato da Erode il Grande fino alla sua distruzione ad opera dei Romani (70
d.C.).

140
Lo stile di Deuteronomio è particolare rispetto ai precedenti libri: è lo stile deuteronomico, più
ampiamento un modo di leggere la storia e la teologia. Il linguaggio è parenetico, omiletico,
esortativo, spirituale (costante uso di ripetizioni e accenti intensi, toccanti ed emozionalmente
penetranti).
Figurano almeno quattro “titoli” o “sommari prolettici” (si anticipa nel titolo ciò che sarà descritto
subito dopo), affini sia per forma che per contenuto, che introducono quattro lunghi discorsi di
Mosè:
1. 1,1: debārîm, “parole”
Itinerario di Israele compiuto dal monte Sinai (îoreb) alla terra di Moab (cfr. 1,1 – 3,29) e
futuro soggiorno nella Terra della promessa (4,1-40).
2. 4,44: tôrāh, “legge”
4,44 – 28,68: secondo discorso di Mosè che include il “codice deuteronomico” (12,1 –
26,19), specie di revisione o di ampiamento post-esilico del codice dell’alleanza pre-esilico
in Es 20-23.
3. 28,69: dibrê habberît, “parole dell’alleanza”
28,69 – 32,52: terzo discorso relativo al tema dell’alleanza tra YHWH e il popolo e accento
sulla successione di Mosè alla guida del popolo dopo che egli si sarà riunito ai suoi padri
(spec. 31-32, dove si trova anche il c.d. “cantico di Mosè”).
4. 33,1: berākāh, “benedizione”
33,1 – 34,12: le “benedizioni di Mosè”; destino e sorte futura delle dodici tribù di Israele;
la morte e sepoltura di Mosè sul monte Nebo. → Parallelismo con le benedizioni di
Giacobbe ai 12 figli e la morte del patriarca in Gen 49-50.
Il susseguente libro di Giosuè continua la medesima trama narrativa che è qui interrotta senza avere
ancora una sua conclusione: il grande legislatore e condottiero del popolo è morto fuori dalla Terra
promessa.
Giosuè introduce il successore di Mosè per il compimento della promessa di Adonai con l’ingresso e
la relativa conquista della Terra promessa; allo steso tempo inaugura la nuova sezione delle Scritture,
quella relativa ai Nebî’îm [“Profeti”].

141
16. I Profeti anteriori (Libri storici)29
Gs, Gdc, 1-2Sam, 1-2Re [1-2Cr, Esd, Ne]
1. Storia “deuteronomistica” e Storia “cronistica”
2. La storia “deuteronomistica”
2.1. Giosuè
2.2. Giudici
2.3. 1-2 Samuele
2.4. 1-2 Re
3. La storia “cronistica”
3.1. 1-2 Cronache
3.2. Esdra e Neemia
3.3. Gli altri libri storici
4. La “storia” di Israele
4.1. Quale “storiografia”?
4.2. Elementi teologici
4.3. Le istituzioni

1. Storia “deuteronomistica” e Storia “cronistica”


Queste due etichette indicano due serie di libri e due opere storiche abbastanza distinte: entrambe
coprono in buona parte la stessa epoca e le stesse vicende, ma con due prospettive di lettura diverse a
ragione del diverso periodo storico di composizione.
 La storia deuteronomistica – più antica – copre Gs, Gdc, 1-2Sam, 1-2 Re (cinque libri se
a questi si premette Dt). Poiché sono libri che parlano delle storie di alcuni profeti –
incluso il più grande dei profeti, Elia (1-2Re) – nella tradizione masoretica sono
raggruppati come ‘Profeti anteriori’.
 La storia cronistica – più recente – include 1-2Cr, Esd-Ne. Nella tradizione ebraica il
libro delle Cronache fa parte della terza raccolta (gli “Scritti”).
Più che singoli autori il Deuteronomista e il Cronista sono propriamente due scuole di pensiero: il
primo si allinea al pensiero e al particolare stile del libro del Deuteronomio nel presentare e
commentare la storia di Israele; il secondo prende il nome dal libro delle Cronache.
La LXX sposta tutti questi libri nel gruppo dei Libri storici: subito dopo 2Re si trovano 1-2Cr, Esd-
Ne ed Est, con Rt dopo Gdc, creando così un’unica successione storica; inoltre, tra Cr ed Esd-Ne
inseriscono un apocrifo (Esdra Alfa o 3Esdra). [Questioni testuali del testo pervenutoci.]

2. La storia “deuteronomistica”
2.1. Giosuè

29
Bibliografia di riferimento: T. RÖMER, Dal Deuteronomio ai libri del Re. Introduzione storica, letteraria e
sociologica, Claudiana 2008; C. BALZARETTI, La storia deuteronomistica e cronistica, in P. Merlo (ed.),
L’Antico Testamento. Introduzione storico-letteraria, Carocci, Roma 2008, 129-161; P. MERLO, Il senso della
storia. Introduzione al libri storici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014.

142
Il Deuteronomio termina con la morte di Mosè sul monte Nebo, fuori dalla terra promessa. Ora Giosuè
(1200-1100 a.C.) ha il compito di guidare il popolo oltre il Giordano e di far osservare la Legge di
Mosè:
 Gs 1-12 racconta come Israele prenda possesso della terra promessa attraverso varie
operazioni militari (es. “conquista” delle città di Gerico e di Ai).
 Gs 13-22 è una sezione geografica: localizzazione delle tribù e delle città; liste di territori
(abbastanza vaghe per il nord, più precise quelle di Giuda e Beniamino → esistenza di due
fonti?).
 Gs 23-24 conclude con il discorso d’addio di Giosuè e con il rinnovamento dell’alleanza.
Il valore storico del libro di Giosuè è dubbio: cfr. le teorie della conquista o insediamento (sia una
ricostruzione); la difficoltà di dare risposte considerando il diverso punto di vista dell’archeologia; etc.
2.2. Giudici
La ripetizione della notizia della morte di Giosuè in Giudici esprime l’intento di collegare i due libri in
un’unica storia; ma se si scorre Giudici si scopre che è un libro molto diverso da Giosuè, rispetto al
quale si pone in discontinuità.
Anzitutto il tema è ben diverso: in Giudici è centrale il tema di chi assumerà la guida del popolo
dopo la morte di Giosuè e di chi ne prenderà l’eredità, questione che apre (Gdc 1,1-2) e chiude il
libro (Gdc 20,18).
Inoltre, mentre Giosuè presenta una conquista della terra promessa, Giudici presenta ancora una terra
che va conquistata.
Il paradigma della colpa di Israele che è causa della vittoria dei nemici percorre tutto il libro: Israele
compie ciò che è male agli occhi del Signore perché segue altri dei; perciò il Signore lo dà in mano
agli oppressori e poi suscita dei “giudici” (condottieri scelti temporaneamente da Dio per una
missione circostanziata nel tempo e nello spazio); tuttavia, Israele non obbedisce nemmeno ai giudici
finendo per unirsi alle popolazioni straniere che YHWH aveva lasciato in Canaan.
 Gdc 3-16. Il corpo centrale del libro presenta dodici giudici: i giudici minori e i giudici
‘carismatici’. Giudici è il libro biblico che presenta più figure femminili con un ruolo
chiave nella storia della nazione e della salvezza: in specie, Deborah, che uccide Sisara;
Giaele, la donna che rompe la testa di Abimelek; Gedeone, che sconfigge i Madianiti;
Iefte, che sconfigge gli Ammoniti e sacrifica la figlia per il voto fatto; Sansone, cui è
riservato uno spazio maggiore e che è presentato nel suo punto debole, cioè il lasciarsi
facilmente conquistare dalle donne, sua madre, sua moglie e la sua amante Dalila; la
concubina del levita uccisa e vendicata.
 Gdc 17-21 (Appendici): descrizione della vita quotidiana di Israele ormai già stanziato
nel paese (questioni o beghe interne alle tribù). Cfr. il tema dell’ospitalità (Gdc 19).
2.3. 1-2 Samuele
Sono tre le figure dominanti nei due libri di Samuele: Samuele, Saul e Davide (la monarchia).
 La vocazione di Samuele (= il Signore innalza gli umili). Il Cantico di Arianna, madre di
Samuele, ispirerà il Cantico di Maria [Magnificat].
 La nascita della monarchia: il problema teologico (il solo sovrano è Dio) e il problema
sociologico (le richieste del re al popolo).

143
 La scelta del primo re: Saul. Questa scelta è raccontata tre volte in 1Sam 8-12 seconde tre
versioni diverse che sono tradizioni legate a santuari diversi: Saul è scelto e unto (1Sam
9,1-10.16); Saul è sorteggiato (1Sam 10,17-27); Saul è riconosciuto come re dopo aver
condotto una guerra contro gli Ammoniti (1Sam 11).
 Saul combatte contro i Filistei, ma per non aver rispettato il voto di sterminio contro gli
Amaleciti, il Signore lo rigetta come re (1Sam 15).
 L’ascesa di Davide e il corrispettivo declino di Saul (1Sam 16 - 2Sam 5). Anche per
Davide ci sono più tradizioni sul suo ingresso a corte. Presentazione della figura di Davide
come benedetto (2Sam 2-7).
 La condanna di Davide e la “storia della successione” (2Sam 9-24 e 1Re 1-2). Il peccato
di Davide, la moglie Betsabea, la morte del figlio Assalonne dopo aver generato una guerra
civile, il pianto di Davide: una “storia di corte”?
 Appendice (2Sam 21-24): sezione che non ha legami con la storia precedente ma che ha un
ruolo chiave nell’interpretazione di questa storia. Il Cantico di Anna (2Sam 24) chiude il
ciclo davidico: Davide da essere l’ultimo figlio di Iesse – il piccolo e non considerato – è
divenuto il più grande.
2.4. 1-2 Re
I libri dei Re narrano la storia del regno dopo Davide. La narrazione copre quattro secoli di storia:
dal regno di Davide (X secolo a.C. secondo la cronologia di questi libri) alla caduta di Gerusalemme
nel 587 a.C. La struttura del libro (uno e unico nella versione ebraica) copre tre periodi della storia
della monarchia: Salomone, i due regni divisi, il regno di Giuda. Alla fine di questa storia Israele si
ritroverà esattamente allo stesso punto in cui era all’inizio di Giosuè, cioè fuori dalla terra promessa
nell’esilio babilonese. La struttura è concentrica:
a: 1Re 1-11 Il fondatore della dinastia: Salomone. Egli è presentato dapprima
favorevolmente: l’organizzazione del regno (1Re 1-8) e la costruzione del
Tempio e del palazzo (1Re 4-8). Poi è presentato in modo ostile (1Re 9-
11), colpevole di aver seguito gli dèi venerati dalle sue innumerevoli
mogli (peccato). Questo è il motivo per cui alla morte di Salomone il
regno sarà diviso in due.
b: 1Re 1-14 Nascita del regno del Nord. In Giuda la successione avviene per via
dinastica e non per unzione: ma Roboamo non guadagna il consenso delle
tribù del nord, che allora scelgono Geroboamo I.
c: 1Re 15-16 Relazioni tra i due regni.
d: 1Re 17 - 2Re 12 I profeti Eliseo ed Elia.
c’: 2Re 13-16 Relazioni tra i due regni.
b’: 2Re 17 Conquista del regno del Nord causa l’idolatria iniziata da Geroboamo I.
a’: 2Re 18-25 Il destino degli ultimi re.
Il Tempio ha un ruolo fondamentale nella narrazione.

3. La storia “cronistica”
3.1. 1-2 Cronache

144
Con i libri delle Cronache si esce dalla storia deuteronomista: essi hanno un altro autore e un’altra
impostazione. Si racconta nuovamente la storia da Saul alla caduta di Gerusalemme ma con alcune
variazioni.
Il titolo ebraico – dibrê hayyamîm [“i fatti dei giorni”] – fa allusione ad una conservazione di eventi
del passato. Invece, il titolo greco – Paralipómena [“le cose tralasciate”] – allude al fatto che in questi
libri si conserva documentazione omessa dai libri precedenti (Sam e Re) e confluita nella LXX.
Cronache è il titolo utilizzato da Lutero: «Cronaca [chronicón] di tutta la storia sacra» che riprende un
suggerimento di Gerolamo.
È introdotta una lunga serie di genealogie in tre epoche storiche:
1. 1Cr 1-10: verso l’unificazione di Israele. Da una panoramica su tutte le nazioni all’unità
con Saul.
2. 1Cr 11 - 2Cr 9: l’unità della nazione sotto Davide e Salomone. A differenza del libro dei
Re, Davide e Salomone presentati unicamente in chiave positiva. Non si parla del loro
peccato: al contrario, Davide è esaltato come l’organizzatore del culto e Salomone come il
costruttore del Tempio secondo la profezia del profeta Natan.
3. 2Cr 10-36: il ritorno alla dispersione. Fallimento di tutti i tentativi di ricomporre l’unità
prima politica e poi religiosa tra il Nord e il Sud.
È una rilettura della storia del solo regno di Giuda attribuita a un levita legato soprattutto agli
interessi del Tempio: presenta, infatti, una religione basata sull’osservanza fedele alla Legge che
rimonta al re Davide. Si propone così un ideale teocratico quando, tra il 528 a.C. (Editto di Ciro) e la
battaglia di Isso (333 a.C.) il regno di Giuda aveva cessato di esistere e la sua capitale era diventata
semplice città dell’impero persiano.
Per molto tempo questi testi son stati considerati midrash dallo scarso valore storico, perché l’autore
avrebbe interpretato con una certa libertà le sue fonti. Recentemente c’è stata, invece, una
rivalutazione di questi libri che danno una reinterpretazione anche teologica della storia
deuteronomista.
3.2. Esdra e Neemia
Esdra e Neemia riferiscono alcuni avvenimenti successivi al ritorno degli ebrei dall’esilio a
Babilonia (538 a.C.). La ricostruzione del Tempio avverrà solo dopo una quindicina d’anni (nel 520-
515 a.C.).
 Esdra, sacerdote e scriba, affronta il problema dei matrimoni misti contratti con donne
straniere (Esd 7-10) e li proibisce.
 Neemia riferisce la missione del protagonista della restaurazione delle mura di
Gerusalemme. Per sua iniziativa si ha la lettura pubblica del Libro della Legge ritrovato
nel Tempio sotto Giosia, che si conclude con il giuramento del popolo di osservare la legge
(Ne 8-10). Dopo la dedicazione del Tempio e delle mura si ha indicazione di una seconda
missione di Neemia a Gerusalemme (428 a.C.?).
Quale il valore storico di questi libri? Poiché le date sono collegate a nomi portati da più re persiani
non è possibile stabilire con precisione in quale anno arrivarono rispettivamente Esdra e Neemia a
Gerusalemme, così come sotto quale re furono ricostruite le mura (nel 515 a.C. sotto Dario I o nel 417
a.C. sotto Dario II). Inoltre, non sappiamo se siano autentiche le lettere dei re persiani e le parti
autobiografiche riportate, così come se la Legge portata a Babilonia fosse l’intero Pentateuco o solo
una parte. Infine, non conosciamo la natura dei Giudei ritornati in patria.

145
La sola altra fonte storica relativa a questo periodo è GIUSEPPE FLAVIO (Antichità giudaiche), che però
dice poche e sporadiche cose a riguardo.
Certamente siamo di fronte a una comunità cittadina alle dipendenze dei re persiani e fortemente
legata al Tempio anche dal punto di vista economico.
3.3. Gli altri libri storici
Con Esdra e Neemia cessano i riferimenti storici alla storia di Israele. A questo fine bisognerà
attendere le più consistenti fonti “storiche” di 1-2 Mac (deuterocanonici) e 3-4 Mac (non canonici),
che introducono temi teologici importanti quali il martirio (la fedeltà alla Torah fino a dare la vita per
essa), la vita oltre la morte e la preghiera per i defunti (temi che si trovano marginalmente nei testi
più recenti).
Testi di più recente composizione appartenenti al genere novellistico o apocalittico ma retroproiettati
nella loro ambientazione sono:
 Rut è ambientato all’epoca dei giudici;
 Tobia è ambientato nell’impero assiro;
 Giuditta è ambientato al tempo del re babilonese Nabucodonosor;
 Daniele è ambientato alla corte di Babilonia del VI secolo a.C. (scritto nel III-II secolo
a.C.);
 Ester è ambientato all’epoca persiana.

4. La “storia” di Israele
4.1. La “storiografia” di Israele
Storiografia come scrittura e riscrittura del proprio passato: si mettono per iscritto le tradizioni del
passato non solo per fare un archivio ma per spiegare il presente. Sono utili per la ricostruzione della
storia della monarchia. La Bibbia è una continua riscrittura di se stessa attualizzata e applicata a
contesti sempre nuovi.
I generi letterari sono diversi.
Le fonti consistono in: tradizioni orali [miti, leggende, saghe, eziologie (alla luce del presente si
ricerca nel passato le cause), biografie – es. Mosè in Es 2,1 - Dt 34,8 –]; narrazioni genealogiche,
geografiche o etnografiche; documenti extra-biblici (a partire dall’ VIII secolo può avvenire il
confronto).
4.2. Elementi teologici
Come già nel Pentateuco il tema teologico principale dei libri storici è la terra (promessa in Gen
12,1). Il territorio di Canaan, proprietà e eredità [nahalà] del Signore (cfr. Dt 4,21: la terra «che il
Signore Dio tuo ti dà in eredità»), ricorre ca. 50 volte in Giosuè. Con la presa di possesso della terra il
Signore concede riposo.
Dio dona la sua terra; tuttavia è il popolo che la deve conquistare, sebbene sia YHWH che combatte
per lui: cfr. le espressioni «esercito del Signore» [sib’ôt Yhwh - Es 12,41] e «guerra santa» (nelle
culture antiche tutte le guerre erano volute da Dio perché ordinate dal re, espressione della divinità,
dopo aver consultato i profeti di corte - cfr. 1Re 22) e la «legge dello sterminio» o «anatema» [herem]

146
(Israele è l’esercito del Signore e deve combattere secondo un rituale preciso). È evidentemente una
teologia ancora arcaica.
Israele è l’unione di dodici tribù: il popolo delle 12 tribù; le 12 pietre commemorative del passaggio
del Giordano (Gs 5); la divisione delle 12 regioni. Artificiosità del numero 12: questo è il numero delle
divisioni spazio-temporali, il numero del compimento. Anche altri popoli erano divisi in 12 (cfr. Gen
20,22-24).
Esigenza di sapere chi comanda le tribù. Alla morte di Mosè alla guida del popolo presiedono:
Giosuè (Dt 34,9); i giudici [“salvatore”], capi carismatici investiti dallo spirito ma solo per il tempo
necessario a esercitare la loro missione; i giudici hanno una missione temporanea (perché così si
mostrava il fatto che Dio governava), invece i re hanno un ruolo permanente; i re [masîah, “unto”] con
Saul (1Sam 24,7) e Davide.
Con il concetto di unzione si avvia l’idea di messianicità con l’istituzione regale, che però non può
essere retroproiettata a questo periodo. Centrale nella fede giudaica è il tema del messia che deve
venire, sebbene non sia chiara l’identità del messia: una figura messianica? Un popolo messianico?
Un’era messianica?
4.3. Le istituzioni
Il libro dei Giudici si chiude con il ritornello «in quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva
quel che gli pareva meglio» (Gdc 21,25 = 17,6; cfr. anche 18,1 e 19,1).
Nel passaggio dall’epoca dei giudici alla monarchia emergono correnti anti-monarchiche (cfr.
l’evoluta e articolata polemica anti-regale di Samuele contro Saul in 1Sam 8,1-22). La monarchia
unita costituisce solo un ideale più che una realtà.
Specie dopo la caduta del regno del Nord e la deportazione Israele assumerà un significato soprattutto
teologico e indica semplicemente il popolo di Dio. Cfr. la situazione della Giudea dopo la caduta di
Gerusalemme.
Da qui sorge il problema: chi è il vero Israele? Chi è stato in esilio o chi è rimasto in patria? A
prevalere sarà l’idea che il popolo vero di Dio è chi è stato in esilio, soprattutto in Babilonia dove ha
avuto ampio sviluppo la riflessione spirituale e teologica (deutero-Isaia, Geremia e altri profeti). Chi
non ha fatto esperienza dell’esilio non ha le caratteristiche per far parte del popolo di Giuda. Questo
tende ad escludere una parte del popolo di Giuda. Quando torna da Babilonia il popolo non ha più un
re. Avendo questo alla base si fa strada il concetto di messia.
Le ambiguità della monarchia.
Le due colonne del giudaismo:
1. La centralizzazione del culto nella rilevanza del Tempio, il cui ruolo nei libri storici è tale
da poter dividere la storia di Israele in due grandi epoche: l’epoca del Primo Tempio e
l’epoca del Secondo Tempio con nel mezzo l’esilio. Vi è un elemento di continuità con il
primo, cioè gli elementi trafugati con Nabucondosor ritornano nel tempio.
2. Con il post-esilio compare però una novità che caratterizzerà da quel momento in poi la
religione di Israele: la centralità della Tôrah che sarà messa per iscritto (gli esperti dello
scritto sacro nascono proprio durante l’esilio e fungono da giudici in base ad una legge ora
scritta).
Accanto ai re compaiono anche i profeti [nabî’]: Osea e Amos (VIII secolo a.C.), poi Isaia nel regno
del Nord. Già i libri storici conservano indizi sulla storia del profetismo prima dei profeti scrittori:

147
Elia, Eliseo, Giona, etc. Lì si intravedono già diverse tipologie dell’ufficio profetico: profetismo
estatico, che ha a che fare con Saul; i profeti di corte (es. Gad e Natan alla corte di Davide), che il re
consulta anche per decidere se andare in guerra; i discepoli di Eliseo, facenti parte di gruppi che
vivono anche in comunità e che ricevono incarichi (cfr. inizi di 2Re); le profetesse (Deborah, etc.).
Questi tipi di profeti sono comuni anche fuori di Israele: es. l’ordalia di Elia contro i 450 profeti di
Baal sul monte Carmelo o i 400 profeti della dea Ashera (presente in tutte le culture antiche).

17. I Profeti posteriori30 – I


Il profetismo in Israele
1. I libri profetici
2. Profeti e profetismo
2.1. Il profetismo nel Vicino Oriente Antico
2.2. L’identità del profeta biblico
2.3. Le modalità esterne dell’esperienza profetica
2.4. La comunicazione profetica in modalità gestuali
2.5. La comunicazione profetica in modalità letterarie
2.6. La coscienza e la natura dell’esperienza profetica
3. Il messaggio e i temi della predicazione profetica
3.1. Dio e il monoteismo
3.1.1. Il mono-yahwismo pre-esilico
3.1.2. Il monoteismo esilico
3.2. La dottrina morale dei profeti
3.3. «Il giorno del Signore»: l’attesa della salvezza
3.4. Il resto
3.5. Il ritorno nella terra dei padri
3.6. L’unto di Yhwh
3.7. I tempi del Signore
3.8. Un nuovo patto?
3.9. Il ruolo e la sorte delle nazioni pagane

1. I libri profetici
Oltre ai Profeti anteriori nella Bibbia ebraica c’è un corpo di libri chiamato Profeti posteriori. Sono i
profeti scrittori:
 Isaia, Geremia, Ezechiele: i c.d. profeti maggiori (per l’estensione dei libri: 66 capitoli per
Is; 52 per Ger, 48 per Ez)
 Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e
Malachia: i c.d. XII profeti minori (messi insieme fanno 67 capitoli). L’ordine è dato
dall’estensione dei libri (dal maggiore al minore). Nella Bibbia ebraica sono conteggiati

30
Bibliografia di riferimento: L. ALONSO SCHÖKEL - J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Borla, Roma 1989; J.
BLENKINSOPP, Storia della Profezia in Israele (Biblioteca biblica 22), Queriniana, Brescia 1997; J.L. SICRE
DÍAZ, Profetismo in Israele: Il Profeta - I Profeti - Il messaggio, Borla, Roma 1995; A. Spreafico, I profeti
(Lettura pastorale della Bibbia 27), EDB, Bologna 1993; G. RIZZI, I Profeti, in P. Merlo (ed.), L’Antico
Testamento. Introduzione storico-letteraria, Carocci, Roma 2008, 197-240.

148
come fossero un unico libro (sicché la Bibbia ebraica ha 22 libri come le lettere
dell’alfabeto ebraico).
Nel concetto ebraico di Tanak, l’ispirazione dei libri profetici non è la medesima della Torah. Nel
ciclo annuale delle letture sinagogali (uso liturgico delle Scritture) il posto centrale era quello della
Legge (c.d. “principio Tôrāh”), cui si aggiungevano brani scelti, in modo antologico, dai Profeti
Anteriori e Posteriori in funzione dei testi della Legge.
Nella Bibbia cristiana i profeti si sono ampliati a includere anche i libri di Daniele (posto dopo
Ezechiele), Lamentazioni, Baruc e la Lettera di Geremia, fino a formare un corpus geremiano. Nella
forma mentis cristiana c’è un concetto di profezia orientata verso il futuro: questo spiega lo
spostamento del corpo letterario dei Profeti al termine dell’AT per mostrare la connessione delle
profezie con Gesù messia (c.d. “principio Cristo”).

2. Profeti e profetismo
2.1. Il profetismo nel Vicino Oriente Antico
Tutte le religioni dell’antichità rivendicano un profetismo. La “profezia” presso le culture non bibliche
è una trasmissione umana di messaggi divini (es. oracoli di Delfi): dio si rivela attraverso degli
uomini – profeti, aruspici, osservatori del cielo o delle interiora degli animali, etc. – che agivano per
impulso di una diretta comunicazione verbale delle divinità. La profezia attraversa vari sviluppi.
Nelle terre vicino a Canaan tracce del profetismo si rinvengono dalla fine del III millennio a.C. al
periodo persiano (seconda metà del IV secolo a.C.), quando si ha la fine del fenomeno del
profetismo:
 Figure profetiche (“veggenti” e “profeti”) s’incontrano a Mari sull’Eufrate (XVIII secolo
a.C.), a Biblo in Libano (XI), a Hamath sull’Oronte (VIII);
 Figure con capacità divinatorie nell’area siro-palestinese sono menzionate nella stessa
Bibbia (es. i “veggenti” pagani come Balaam: cfr. Nm 22-24);
 Anche in Egitto varie figure sono state accostate al profetismo biblico;
 Nei testi profetici neo-assiri dei personaggi ispirati dalla divinità diventano messaggeri
rivolti al re per prendere decisioni o al popolo con scopo ammonitorio o esortatorio;
 Si incontrano, inoltre, indovini, astrologi, medici e altre figure di mediazione: la Bibbia
chiama la consultazione degli astri, delle interiora degli animali, etc. «divinazione» [qesem]
e la considera un peccato, tipico delle nazioni pagane.
2.2. L’identità del profeta biblico
Nel concetto esteso di profetismo rientrano tante denominazioni:
 “Colui che parla”, l’“araldo”, il “predicatore” [nābî’ (dall’accadico)].
 “Veggente” [rō’eh o úōzeh] nelle sue relazioni con Dio.
 “Uomo di Dio” [’îš hā’ĕlōhîm].
 “Uomo ispirato” [’îš hārûaú].
 “Messaggero del Signore” [mal’ak Yhwh].
 “Messaggero di Dio” [mal’ak hā’ĕlōhîm].
 “Servo del Signore” o anche “servo di Dio” [‘ebed Yhwh].

149
Il profeta biblico è colui che vede le cose come stanno davanti a Dio, giudica le cose secondo gli occhi
di Dio e rivela agli uomini questa situazione; solo in seconda battuta è colui che prevede le cose che
verranno.
Per la tradizione giudaica vi sarebbero stati profeti fino al periodo di Artaserse. Anche Abramo (cfr.
Gen 20,7), Mosè e Samuele sono chiamati “profeti”.
Nel NT Giovanni il battezzatore è chiamato “profeta” (Mt 11,9); anche Gesù è definito dalla gente
“profeta”. Il termine ricorre in At 13,1 e in 1Cor 12,28-29 e 14 (dove il profetismo primeggia
nell’elenco paolino dei carismi).
2.3. Le modalità esterne dell’esperienza profetica
L’esperienza profetica si manifesta in diversi modi (ogni profeta ha una modalità propria):
 Il profetismo estatico
 Il contesto del sogno (es. 1Sam 1-2: la vocazione di Samuele)
 Il contesto della liturgia (es. Is 6: la chiamata profetica di Isaia in una visione nel Tempio)
 Eventi ordinari interpretati nella chiave di manifestazione di un messaggio specifico: es.
(es. Ger 1,11: l’osservazione del mandorlo in fiore).
 Eventi straordinari di per sé insufficienti a innescare l’oracolo profetico (es. Am 7:
invasioni di cavallette durante la mietitura).
Di fonte alla chiamata di Dio il profeta sente tutta la sua incapacità: Mosè («non so parlare»),
Geremia («sono troppe giovane»), Isaia («le mie labbra sono impure»).
2.4. La comunicazione profetica in modalità gestuali
Le azioni simboliche dei profeti posteriori – cfr. Os 1,2 ss., Is 20,2-4, Ger 13,1 ss., Ez 12,3 ss. e Zc
6,9-15 – non hanno contatto diretto con la realtà ma esprimono in modo simbolico una realtà più
profonda. Quanto al genere letterario l’azione simbolica si esprime nell’ordine divino, nel racconto,
nell’interpretazione, spesso integrati dalla menzione di testimoni oculari dell’azione divina e del
rapporto tra simbolo e realtà simbolizzata.
2.5. La comunicazione profetica in modalità letterarie
Il materiale letterario profetico è stato classificato sulla base dei suoi contenuti e delle sue forme. Si
possono identificare tre generi di profezie:
1. Discorso profetico o oracolo (discorso divino in prima persona o presentato in terza
persona);
2. Racconti profetici;
3. Generi letterari non prettamente profetici.
Quanto ai contenuti si distinguono due generi principali di oracoli profetici:
 Oracoli di accusa con annuncio di sventura (es. Am 2,4-5) o senza (es. Am 1,2);
 Oracoli di salvezza, redazionalmente più tardivi rispetto alla predicazione profetica
originaria, includono anche oracoli escatologici ed eventualmente oracoli “messianici”
(es. Am 9,11-15).
Quanto ai destinatari si fa distinzione tra:

150
 Oracoli destinati a Israele (es. Am 2,6-15), includendovi tutte le tribù (es. Is 40,1-2),
singole persone (es. Is 7,10-17) o gruppi di persone (es. Am 4,1-3);
 Oracoli fuori di Israele destinati alle “nazioni” (es. Am 1,3-5), dove prevale l’elemento
universalista (cfr. pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme).
La letteratura dei profeti c.d. scrittori attinge sia dai vari ambiti della vita quotidiana sia dalle
esperienze più impegnative della vita del Vicino Oriente Antico. Le forme letterarie sono, perciò,
variegate, evidenziando una straordinaria versatilità stilistica:
 Poesia (es. Ger 2,1-3) o prosa (es. Ger 18,1 ss.);
 In parabola (es. Os 10,1 ss.) o direttamente fuori metafora (es. Am 5,10-13);
 Sotto forma di oracoli brevi come gli oracoli di rimprovero (es. Os 11,7), esortazioni (es.
Am 5,14-15), ammonizioni (es. Is 8,12), invettive (es. Am 5,18 ss.; Ab 2,6b-20), oracoli
di accusa con annuncio di sventura (es. Am 4,9-12), macarismo o maledizione (es. le
Beatitudini), lamentazione ostile e sapienziale, canto d’amore, oracoli di guerre;
 Tra gli oracoli di sventura si sviluppa progressivamente il genere letterario apocalittico (es.
Gl 2,1-2.3-9.10-11), che si sviluppa dal IV-III secolo a.C. e che ha speciale consacrazione
in Daniele.
Quanto alla scansione cronologica:
 Oracoli di accusa con o senza annuncio di sventura, oracoli di giudizio, ammonizioni,
esortazioni e lamenti sono decisamente prevalenti nella profezia pre-esilica;
 Oracoli di salvezza tendono a estendersi in numero e ampiezza nell’epoca postesilica.
2.6. La coscienza e la natura dell’esperienza profetica
Sembra che si possa dedurre per tutti i profeti una autocomprensione di essere i messaggeri del
Signore. Essi prendono anche in prestito il linguaggio usato presso le corti reali dell’epoca: cfr.
formule ricorrenti introduttive come «così dice il Signore […]» (cfr. Am 1,3 ss.) o di cornice e di
conclusione come «oracolo del Signore» (cfr. Am 2,11.16).
Questa autocomprensione di essere parte di un messaggio divino è confermata dall’esperienza di
predicazione nella quale si ritrovano tutti i generi letterari. Essi comunicano il giudizio su ciò che nel
bene e nel male sta avvenendo (natura pastorale del ministero profetico) in un impulso incoercibile
e irresistibile (cfr. Am 1,2; Ger 20,7-9 ss.). Il coinvolgimento della vita del profeta è totale, sia nei
confronti di Dio sia della gente. Qui possiamo cogliere il genere vocazione profetica.
Ma ci sono anche i falsi profeti: negli inni profetici diversi volte si trovano i criteri per fare
discernimento (in primis se quello che dice non si realizza).
Il profeta, in senso biblico, è vedere le cose di oggi come le vede Dio. La profezia non è annuncio del
futuro, ma ciò che può avvenire nel presente, denuncia la realtà. L’annuncio di sventura è l’ultima
risorsa di Dio per l’avvicinamento a Sé il popolo. Es. i 40 giorni di Ninive (ciò che il profeta Giona
non comprende perché pensava fosse distrutta, ma Dio non lo fa perché il popolo si converte).
La profezia nella Chiesa continua, come nel NT (Giovanni Battista, Gesù), come oggi.

151
3. Il messaggio e i temi della predicazione profetica
3.1. Dio e il monoteismo
Specie nella tradizione giudaico-rabbinica si insiste molto sul monoteismo: finanche Abramo sarebbe
già stato “monoteista” nel senso pieno e maturo del termine.
Tuttavia, gli studi hanno messo in rilievo come Israele sia approdato a questo concetto – religionistico
e teologico – lentamente e progressivamente, di fatto solo in epoca post-esilica con i profeti. Questa
comprensione è passata attraverso diverse fasi: da un politeismo diffuso alla considerazione di Adonai
come il dio più potente. Israele non avrebbe dovuto occuparsi delle altre divinità mantenute dagli altri
popoli (cfr. Mi 4,5), dovendosi invece riferire soltanto al suo Dio, che è conosciuto con diversi nomi e
titoli: el, Signore dei monti, ma è ricordato soprattutto come Yhwh.
3.1.1. Il mono-yahwismo pre-esilico
Il contesto storico-culturale pre-esilico ha favorito lo sviluppo di un linguaggio profetico che
enfatizzava il rischio del culto delle altre divinità. Nella religiosità reale e popolare lo yahwismo pre-
esilico (Amos e Osea) era di fatto una prassi cultuale politeistica che adorava divinità femminili (la
più famosa era Ashera, poi chiamata con diversi nomi nel VOA); era del tutto naturale il culto delle
alture, delle divinità protettrici di ogni regione, etc. Il peccato di Israele fu soprattutto l’idolatria, con
il rischio non solo di sincretismo ma propriamente di apostasia.
Un mono-yahwismo (non propriamente un monoteismo assoluto e universale) fu professato dai
profeti pre-esilici, che confessano la loro fede nel Dio Yhwh, signore di tutta la terra, che non lascia
spazio ad altre divinità. I profeti condannano i culti vani. Già Amos e Osea (VIII secolo a.C.)
considerano Dio come trascendente. Strettamente connessi con la separatezza di Dio sono alcuni
attributi e appellativi conferiti a Lui:
 Dio «santo»; separato, trascendente, che rimane inaccessibile (cfr. Os 11,9; Is 6,3; Ab
1,12.3,3; Ez 1).
 Dio Signore-sposo di Israele-sposa (cfr. Os 2,4 ss.; Ger 3,6-10). La metafora sponsale
avrà molto spazio nell’AT (molto meno nel NT) per spiegare l’infedeltà del popolo
attraverso la figura dell’adulterio vissuta in prima persona e sulla propria pelle da Osea che
sposa una prostituta. C’è un messaggio positivo di misericordia: Yhwh non ripudia la sua
sposa infedele e fa di tutto per riconquistarla.
 Yhwh è «padre» d’Israele (cfr. Os 11,1-4.8-9) e anche madre (cfr. Is 49,15-16): culmine
della rivelazione dell’AT (non presente nel NT). Sono tutte metafore dal significato
teologico straordinario. Da ciò comprendiamo che l’AT possiede una portata teologica che
non ha nulla da invideare al NT. Nella coscienza del popolo d’Israele vi è Dio come Padre
e Madre.
Nella coscienza profetica il Tempio di Gerusalemme è la dimora di Yhwh. Ma i profeti arrivano a
minacciare e predire la distruzione del Tempio, perché nulla fatto da mani d’uomo può essere la
sicurezza di Israele (diviene abuso della religione): questo è il tipico messaggio di Geremia che sarà
causa di condanna da parte dell’autorità e degli altri profeti di corte o di Ezechiele che vede la gloria
del Signore allontanarsi da Gerusalemme.
3.1.2. Il monoteismo esilico
La distruzione del Tempio e l’esilio acuiscono l’esperienza del fallimento della religione e il rischio
di una disintegrazione della fede di Israele che si percepisce come incapace di fronteggiare i popoli
vicini: come mai Dio non ci ha difesi? Forse è più debole delle altre divinità?

152
Il profetismo dell’esilio perviene alla formulazione del monoteismo assoluto e universale di Yhwh
come risposta a questa tentazione: le formulazioni più esplicite si trovano nel Deutero-Isaia (cfr. Is
43,10-11; 44,6.8; 45,5-7.14.18.21; 46,9). Di fronte alla disgregazione sociale e morale durante l’esilio
c’è un approfondimento teologico che perviene alla consapevolezza che non solo il Dio di Israele è
più grande di tutte le altre divinità, ma nega ogni altra divinità. → Polemica anti-idolatrica (cfr. Is
40,19-20; 41,6-7.21-24; 44,9-20; 46,1-7; Ger 10,1-16).
In generale, l’esilio è il culmine di certe tematiche teologiche di tutta la Bibbia (cfr. Canti del Servo
del Signore).
3.2. La dottrina morale dei profeti
Altro tema è la predicazione morale dei Profeti posteriori. La trasgressione del diritto divino
codificato anche nel Decalogo (cfr. Os 4,1-2; Ger 7,5-8) è occasione di una predicazione morale (cfr.
Os 4,4 ss.; Ger 7,1-15). Mi 6,8 è sintesi mirabile della predicazione morale dei profeti:
«Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono
e ciò che richiede il Signore da te:
praticare la giustizia,
amare la pietà,
camminare umilmente con il tuo Dio».
La predicazione profetica contiene vette della teologia per cui Dio non ha a che fare con il male ma è
il dio dell’Amore (cfr. Os 11) o il Dio della santità, di fronte alla quale l’uomo percepisce
acutamente la sua indegnità a motivo della propria situazione di peccato (ritenuta l’idolatria; cfr. Is
6,5: «sono un uomo dalle labbra impure»); d’altra parte è un Dio separato e trascendente. Ger 31
parla della necessità di una «nuova alleanza», nei termini di una legge scritta nei cuori
(«circoncisione dei cuori»; Il cuore è il centro della personalità della persona, dove si accoglie la
volontà di Dio. Ed è un punto centrale della predicazione profetica), da stringere con Dio (questo testo,
citato in Eb 8, sarà la più lunga citazione biblica del NT). Questo messaggio entra in tensione con il
concetto di Torah scritta cui si deve un’osservanza letterale e pedissequa. Proprio dei profeti è, infatti,
il rimprovero della pratica di riti volti a compensare le debolezze interiori e il richiamo alla fedeltà
interiore alla Legge. La religione non è solo prassi esteriore e riti di purificazione (= ritenersi a posto
con Dio con l’osservanza di certi riti) ma è religione dell’interiorità che coinvolge la mente e la
volontà: questa sintesi è espressa nell’antropologia biblica dall’elemento del cuore (“religione del
cuore”, centro della volontà, della decisione, del ragionamento, del discernimento, organo
dell’adesione dell’uomo a Dio).
Fino all’esilio prevale l’idea della responsabilità (personalità) collettiva: il peccato individuale (es. il
peccato del censimento di Davide in 2Sam 24) ha conseguenze per tutto il popolo. Ma è sviluppato
anche il tema della retribuzione divina individuale: Paolo riprenderà Ab 2,4 («il giusto vivrà per la
sua fedeltà [per fede vivrà]» nella Lettera ai Romani e nella Lettera ai Galati).
3.3. «Il giorno del Signore»: l’attesa della salvezza
Ricorre con una certa frequenza l’espressione «il giorno del Signore» (es. Am 5,18-20). Si guarda al
futuro come evento catastrofico, ma anche come attesa della salvezza: Es. eventi tragici della storia di
Israele come la deportazione assira (721 a.C.), le varie deportazioni babilonesi sotto Nabucodonosor
(597-587 a.C.) o la distruzione del Tempio gerosolimitano (cfr. Ez 24,15 ss.) provocano la riflessione
dei profeti non sul se ma sul come e quando Yhwh avrebbe operato la salvezza del popolo e adempiuto
concretamente alla promessa. L’Editto di Ciro e il conseguente ritorno in patria e la ricostruzione del
Tempio suscitano la speranza in Israele che il Signore stava realizzando la sua promessa.

153
3.4. Il resto
Di fronte al rifiuto della conversione e al conseguente castigo divino emerge storicamente nei Profeti
posteriori la speranza di un «resto» (cfr. Am 5,15). La speranza del profeta è che la sua gente accolga
l’invito alla conversione proposto sotto varie forme (cfr. Is 37); ma sembra svanire con la distruzione
del Tempio ad opera dei babilonesi.
L’idea di un resto si sviluppa e rimane nella tradizione anche successiva: cfr. Is 11,10 e Mi 4,7; 5,5-7
(dal tronco tagliato della dinastia davidica spunta il «germoglio di Iesse»). Questo segna l’inizio dello
sviluppo del pensiero messianico o dell’era messianica.
Nel NT questo tema sarà presente in Paolo.
3.5. Il ritorno nella terra dei padri
Un aspetto portante dell’attesa della salvezza è il ritorno nella terra dei Padri degli esiliati e dei
dispersi dei figli d’Israele e di Giuda.
Di fronte alla rinascita dell’ideale davidico, Geremia ripone la speranza della ripresa sia nella
ricostruzione dell’unità politica (riunificazione con il ritorno degli esiliati del nord e del sud dopo la
presa di Gerusalemme) sia soprattutto in quella dell’esperienza religiosa.
Anche Ezechiele si pone contro lo scetticismo tra i deportati (cfr. Ez 18,1-2 ss.); nella sua geografia
teologica assume centralità spaziale e spirituale il nuovo Tempio. In Ez 37 è presente il tema della
risurrezione, immagine che vuol dire la potenza di Dio capace di riportare in vita il suo popolo.
3.6. L’unto di Yhwh
L’«unto [māšîaú] del Signore» è un concetto che, sebbene compaia già in Ez 34 e 37, è presente
specie nel Deutero-Isaia, dove l’unto non è un discendente davidico ma un re pagano (Ciro) di cui Dio
si serve per la salvezza del popolo (Is 45,1).
Si parla anche di un «servo di Yhwh» (cfr. Is 42,1-7; 49, 1-9; 50,4-9; 52,13-53,12), figura misteriosa
per cui un uomo di Dio si addossa le colpe di molti (il popolo) operando l’espiazione delle colpe fino a
morire per loro ed essere sepolto tra gli empi (ma questo non si dice espressamente; sono state le
prime comunità cristiane che hanno riletto questi carmi in senso cristologico come prefigurazione di
Cristo). Dio che rialza il suo servo significa Dio che rialza il suo popolo.
La discendenza davidica, il “re” futuro sarebbe stato umile e pacifico (cfr. Zc 9,9-10).
I Profeti Posteriori, pur muovendo principalmente dal concetto di elezione davidica, non dimostrano di
aver maturato storicamente una visione né complessiva né univoca né chiara né completa circa
l’«unto di Yhwh». Nel periodo ellenistico e poi romano ci sarà un intreccio sempre più stretto del tema
messianico con le dottrine apocalittiche ed escatologiche, per cui nel tempo escatologico ritorneranno
figure prestigiose della storia sacra come Mosè ed Elia (cfr. Zaccaria). A cavallo dell’era cristiana (I
secolo a.C. e I secolo d.C.) ci saranno figure di tipo messianico legate al tema escatologico (cfr.
Giuseppe Flavio).
3.7. I tempi del Signore
Nei profeti postesilici il «giorno di Yhwh» fu inteso come un giorno atteso nel futuro: tipica è
l’espressione «in quel giorno» (cfr. la sintesi della corrente apocalittica che attende il Signore in Mc
13, e anche Mt e Lc).
Esso sarebbe stato portatore di giudizio e di disastro per le nazioni con immagini apocalittiche
(giorno di vendetta, giorno di caligine e di sventura), mentre per Gerusalemme avrebbe disposto

154
protezione (Zc 12,1 ss.), affinamento (Mal 3,2), purificazione (Zc 13,1 ss.), effusione dello spirito
(Gl 3; Zc 12,5), fecondità (Gl 4,18; Zc 14,8).
Accanto a questo emerge anche il tema del come si sarebbe realizzato quel giorno: sviluppo
escatologico-apocalittico (cfr. Gl e Zc 12-14) dove il «giorno del Signore» segna l’inizio di una
nuova era in senso escatologico dove sofferenza, rovina e salvezza riguardavano Israele e le nazioni
(cfr. Ez 38 ss.). Si tratta di un genere letterario che avrebbe avuto un notevole ruolo nel giudaismo
successivo.
3.8. Un nuovo patto?
Nella Bibbia ci sono diversi patti e alleanze:
I. Gen 9: patto noatico. Per l’ebraismo maggioritario è un patto con tutti gli uomini non ebrei
(universalismo) (cfr. i 7 precetti noatici).
II. Gen 15: alleanza abramitica (solo Dio si impegna).
III. Gen 32: patto con Giacobbe (legato alla benedizione).
IV. Es-Dt: patto sinaitico.
V. Gs 24: rinnovamento del patto sinaitico con Giosuè all’ingresso nella terra promessa.
Osea (Os 2,20) fa spazio al concetto di un futuro «patto» voluto dal Signore con tutta la creazione
a vantaggio di Israele, assicurando che la guerra cesserà nella terra d’Israele e che questi potrà vivere
tranquillo (cfr. Is 2: «le spade si trasformeranno in vomeri, le lance in falci, non si praticherà più l’arte
della guerra»).
Uno dei testi più forti è Geremia che parla di «nuovo patto» con Israele e con Giuda (Ger 31,31-34).
Questa è una formulazione unica che non si trova altrove nell’AT. La lettura cristiana di questo passo
(reinterpretazione cristologica delle Scritture) vedrà il nuovo patto nell’istituzione dell’Eucarestia
(Gesù adempie il nuovo patto con la sua morte e risurrezione, adempimento anticipato dalle sue parole
sul pane e sul vino); essa parla, inoltre, della necessità della «circoncisione dei cuori» perché
l’osservanza della Legge non basta; Paolo riprenderà questa immagine affermando che seguire la vera
circoncisione anche per i non circoncisi è seguire la Legge del cuore.
I profeti esilici e post-esilici preferirono parlare di un «patto eterno» (Is 61,8), quello del Sinai. Nel
giudaismo post-esilico non si parlò più di un «patto nuovo» se non nel senso di un rinnovamento di
un patto antico; la sola eccezione è Qumran, dove non s’intendeva altro se non il patto mosaico con
forti connotazioni legalistiche.
Anche nel NT si parla di patto, in particolare nella lettera agli Ebrei.
3.9. Il ruolo e la sorte delle nazioni pagane
Solitamente le altre nazioni erano considerate negativamente come nemiche di Israele e di Dio, contro
le quali si muove, perciò, la vendetta di Israele e di Dio. Invece, una visione positiva del ruolo delle
nazioni pagane emerge spesso nella visione dei profeti. Le nazioni rientrano nel disegno salvifico in
chiave escatologica anzitutto quali strumenti attraverso cui il Signore punisce il suo popolo (cfr.
Gdc; Os 8,10). Per questo anche le nazioni sono beneficiarie della salvezza e sottoposte al giudizio
del dio di Israele quando oltrepassano i limiti della loro funzione storica.
Giona è un unicum di profeta che predica alle nazioni straniere. In Isaia il ministero del «servo di
Yhwh» per «le isole» (cfr. Is 42,4.10) e «le nazioni» (cfr. Is 42,1.6) è quello di essere luce per le genti
e a portare il messaggio alle nazioni.

155
Diversi passi toccano la questione della salvezza escatologica delle nazioni. Un motivo è quello del
pellegrinaggio spontaneo dei popoli verso la città santa del Signore (Sion o Gerusalemme) per ricevere
istruzione e benedizione con il risultato della conversione delle nazioni al Signore (cfr. Is 2,1-5; Mi
4,1-5). In questo nuovo contesto – che si realizza senza alcuna iniziativa di Israele (cfr. Zc 8,23; Is 60)
– il santo Tempio sarà chiamato «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7); «Egitto mio popolo,
Assiria opera delle mie mani» (Is 19,25); Dio invita tutti i popoli a partecipare al suo «banchetto di
grasse vivande» (Is 25,6-8). Il concetto di missione è estraneo a Israele; comparirà solo con la diaspora
ma non nel senso pieno del termine (non sarà mai una vera e propria missione per la conversione dei
pagani).

18. I Profeti posteriori – II


Is, Ger, Ez, XII profeti minori
1. I Profeti maggiori
1.1. Isaia
1.1.1. Il Proto-Isaia (Is 1-39)
1.1.2. Il Deutero-Isaia (Is 40-55)
1.1.3. Il Trito-Isaia (Is 56-66)
1.2. Geremia e il corpus letterario a lui attribuito
1.2.1. Libro di Geremia
1.2.2. Libro delle Lamentazioni
1.2.3. Libro di Baruc
1.2.4. Lettera di Geremia
1.3. Ezechiele
2. I XII Profeti minori
2.1. Osea
2.2. Gioele
2.3. Amos
2.4. Abdia
2.5. Giona
2.6. Michea
2.7. Naum
2.8. Abacuc
2.9. Sofonia
2.10. Aggeo
2.11. Zaccaria
2.12. Malachia

1. I Profeti maggiori
1.1. Isaia31

31
Bibliografia di riferimento: B.S. CHILDS, Isaia, Queriniana, Brescia 2005; H. SIMIAN-YOFRE, Isaías. Texto y
Comentario, Verbo Divino, Madrid: Atenas - Salamanca: Sígueme - Estella [Navarra] 1995; J. BLENKINSOPP,
Opening the Sealed Book: Interpretations of the Book of Isaiah in Late Antiquity, Eerdmans, Grand Rapids 2006;
O. KAISER, I. Isaia (capp. 1-12). Traduzione e commento; II. Isaia (capp. 13-39). Traduzione e commento (AT
17-18), Paideia, Brescia 2002; C. WESTERMANN, Isaia. Capitoli 40-66, Paideia, Brescia 1978.

156
Isaia ha un ruolo del tutto particolare nell’AT.
Etimologicamente il suo nome è teoforo: Yessaià o Yessaiaù significa «Yah è salvezza».
I 66 capitoli sono stati tradizionalmente considerati tutti opera di un Isaia profeta di corte. Ma già nel
medioevo Ibn Esdra rileva una notevole differenza di stile e di contenuti, specie dal cap. 40 in poi. La
distinzione didattica in tre parti è stata formalmente fatta solo con l’affermarsi della critica storica in
epoca moderna:
 Is 1-39: Proto-Isaia (VIII secolo a.C.). Sezione che ha la connessione più diretta con il
personaggio storico vissuto nell’VIII secolo.
 Is 40-55: Deutero-Isaia (VI secolo a.C.). Sezione messa in relazione specie alle vicende
dell’esilio (Ciro).
 Is 56-66: Trito-Isaia (fine VI - inizio IV secolo a.C.). Sezione che si occupa delle vicende
palestinesi in epoca persiana e forse anche ellenistica.
La suddivisione cronologica non è però così assoluta. Occorre, infatti, subito osservare una
complessità nei testi: già nel proto-Isaia c’è molto materiale anche abbastanza consistente che risulta
provenire da epoche successive; anche nel Deutero-Isaia si colgono influssi successivi. Gli
orientamenti più recenti, specie sincronici, colgono – nonostante le rilevanti cesure – l’esistenza di una
complessiva architettura redazionale dell’intero libro opera di un redattore finale.
1.1.1. Il Proto-Isaia (Is 1-39)
La prima cornice redazionale storica colloca l’epoca di Isaia sotto i re Uzia, Acaz e Ezechia. Sulla
base dei contenuti si possono individuare le seguenti sezioni:
 Is 1-6: oracoli di accusa con annuncio di sventura ma anche oracoli di salvezza su
Giuda (740-735 a.C.). Questi capitoli presentano ancora molto materiale risalente all’VIII
secolo. L’oracolo di salvezza (Is 2,1-4) è costruito attorno al tema di Gerusalemme sul
monte del Signore, in stretta relazione con Is 65-66 (capitoli post-esilici).
 Is 7-12: oracoli messianici sul discendente davidico (Is 7-11) e chiusa di un salmo (Is
12) (735 a.C., guerra siro-efraimita). Questi oracoli saranno ripresi in Mt 1 («la vergine
concepirà e partorirà un figlio […]»).
 Is 13-23: oracoli per le nazioni circostanti (redazione tardiva almeno post-esilica).
Oracoli su Babilonia, Assiria, Filistei, Moab, Damasco, Etiopia, Egitto, Ashdod (voluta da
Sargon II - Is 20,1), Idumea, Kedar e Tiro; anche un oracolo su Gerusalemme.
 Is 24-27: l’«apocalisse di Isaia» (redazione tardo-persiana). Conclusione della sezione
degli oracoli per le nazioni: lamento, guerra, fino al ritorno di tutti i popoli a Gerusalemme.
 Is 28-33: oracoli di accusa con annuncio di sventura per Giuda e per Israele.
 Is 34-35: la «piccola apocalisse di Isaia» (redazione post-esilica). Promessa del trionfo di
Gerusalemme.
 Is 36-39: profezia dell’esilio babilonese (redazione post-esilica di materiale esilico e post-
esilico). Narrazione in prosa, con alcune composizioni poetiche, riguardante due episodi
delle vicende del re Ezechia e di Isaia. Viene raccontata l’invasione di Sennacherib. .
1.1.2. Il Deutero-Isaia (Is 40-55)
È chiamato «il libro della consolazione» per il fatto di iniziare con le parole «Consolate, consolate il
mio popolo» (Is 40,1) e per la presenza di numerosi oracoli di salvezza.

157
L’autore è anonimo: appartiene ad una scuola ispirata al profeta dell’VIII secolo a.C., probabilmente
vissuto in terra palestinese che scrive durante la diaspora giudaica babilonese (fino a vedere l’ascesa di
Ciro chiamato «unto di Yhwh»).
Questa sezione si può dividere in quattro parti:
 Is 40,1-31: introduzione (la missione di consolazione affidata al profeta)
 Is 41,1-48,22: il compimento profetico del nuovo esodo
Is 42,1-9: primo carme (testi in poesia, canto) del Servo di Yhwh (che ascolta ed è
salvato. Ciro eletto come liberatore del popolo. Il messaggio di salvezza e la fine della
sofferenza).
 Is 49,1-54,17: la consolazione di Sion
Is 49,1-7: secondo carme del Servo di Yhwh
Is 50,4-11: terzo carme del Servo di Yhwh
Is 52,13-53,12: quarto carme del Servo di Yhwh (il servo che porta il peccato di molti).
Questo non viene utilizzato come ci aspettavamo dagli autori del NT, ma non viene
sfruttato di più.
 Is 55,1-13: conclusione
1.1.3. Il Trito-Isaia (Is 56-66)
È una sezione appartenente ad una scuola di ispirazione isaiana redattrice dell’intera opera con
interventi forse anche in epoca ellenistica (II secolo a.C, a Qumran è stato ritrovato l’intero rotolo). È
già ambientato nella terra dei padri.
Su questa suddivisione comunemente accettata resta aperta un’obiezione: è realmente necessario
separare la terza parte dalla seconda? A favore di questa ulteriore suddivisione interviene il contesto
degli ultimi 10 capitoli che, sebbene geograficamente sia ancora sicuramente la terra dei padri, riflette
una situazione difficile intorno al tempio gerosolimitano: presenta, infatti, le frustrazioni del popolo
attorno al tempio di Gerusalemme (si guarda alla diaspora); presenta, inoltre, tratti che introducono
e anticipano alcuni elementi dell’apocalittica («cieli nuovi e terra nuova» non attaccabili dalla morte
- cfr. Is 66).
1.2. Geremia e il corpus letterario a lui attribuito
Nella Bibbia ebraica ci sono due libri attribuiti al profeta Geremia: il Libro di Geremia e le
Lamentazioni. Dal punto di vista del genere letterario anche nel libro di Geremia compare il genere
della lamentazione, ma non se ne risconta mai una serie così ampia come nell’omonimo libro.
Nella LXX ci sono altre due brevi composizioni attribuite a Geremia: il Libro di Baruc e la Lettera di
Geremia. La chiesa cattolica e le chiese ortodossa e anglicana (a differenza delle altre chiese
riformate) considerano anche questi testi come ispirati.
L’attribuzione a Geremia di tutto un corpus letterario testimonia il forte influsso che Geremia ha avuto
sulla storia di Israele.
1.2.1. Libro di Geremia
Geremia è un nome teoforo: Yirmeyāh o Yirmeyāhû significa «Yah eleva [rûm]» oppure «Yah ha
stabilito [rāmâ]». Nato ad Anatot intorno al 650 a.C., fu attivo dall’epoca di Giosia fino a qualche
tempo dopo la distruzione di Gerusalemme (587 a.C.) e la seconda deportazione babilonese.

158
Si può distinguere un ministero iniziale di Geremia al nord (prima del 609 a.C.) tra la popolazione
israelitica rimasta al nord e un ministero al sud (dal 608 a.C.) in cui il profeta riprende il contenuto
del suo primo ministero.
Il libro di compone di 52 capitoli, in parte in prosa e in parte in poesia, la cui redazione è incompleta:
all’interno ci sono, infatti, diversi disordini sia nella cronologia sia nel mettere insieme testi affini. Si
individuano tre fonti:
 Gli oracoli del profeta (quelli in poesia quasi sicuramente non sono del profeta, ma della
sua scuola);
 I testi biografici in prosa, che parlano del profeta in terza persona;
 I discorsi del profeta in prosa, rielaborati con stile deuteronomistico.
Il testo della LXX, oltre ad una diversa disposizione del materiale dal cap. 26 in avanti, è più breve di
un sesto (quasi 10 capitoli). Questione: quale il Vorlage – il testo più antico – originale? Il contributo
delle fonti di Qumran dice che il testo originale che il traduttore greco aveva dinanzi era più breve.
Sebbene con una certa approssimazione è possibile intravvedere una suddivisione del libro in due
parti principali:
I. Ger 1-45: il ministero di Geremia per Israele e per Giuda
Suddivisione con larga approssimazione in 8 sezioni:
1. Ger 1,1-4,4: la vocazione del profeta e la predicazione iniziale. Non si distingue tra la
chiamata al ministero al nord e la successiva al sud; tematiche affini a Osea; accuse al
popolo, defezioni dalla schiavitù, invito alla conversione di Israele esteso anche a Giuda
dopo la morte del re Giosia (609 a.C.).
2. Ger 4,5-10,25: il pericolo proveniente dal nord. Composizioni più complesse relative
alla predicazione a sud sotto Ioiakim.
3. Ger 11,1-20,13: le «confessioni di Geremia». È la prima composizione a carattere
autobiografico nella Bibbia – del genere della satira anti-idolatrica di origine sicuramente
più tardiva ed esito di un’operazione redazionale – che dice la crisi del profeta sotto il
regno di Ioiakim (accusa e prigionia).
4. Ger 21,1-23,8: oracoli sulla dinastia regnante. Sono oracoli che riguardano Sedecia e
Gerusalemme all’epoca dell’invasione babilonese del 597 a.C.: invettiva contro i pastori
re che non provvedono a pascere il loro popolo; oracolo sul germoglio giusto di Davide;
oracolo sul ritorno degli esiliati in terra di Babilonia.
5. Ger 23,9-29,32: scontro con i falsi profeti. Discernimento sui veri e falsi profeti.
6. Ger 30,1-31,40 [LXX 37,1-38,40]: «libro della consolazione». Affinità di linguaggio e
di tema con Is 40-55 e con Osea. Esito di un lavoro redazionale che ricontestualizza la
predicazione di Geremia per i rimasti nel nord e la applica alla gente del sud di fronte a
Gerusalemme distrutta nel 587 a.C. È evidente l’intenzione di mettere insieme la
denominazione di Giuda con l’ex regno del nord.
7. Ger 32,1-33,26 [LXX 39,1-40,13]: «aggiunta al libro della consolazione». Entrambi
risentono di una rielaborazione in prosa di stampo deuteronomista.
8. Ger 34,1-45,5 [LXX 41,1-51,35]: gli ultimi eventi di Gerusalemme. Narrazione in
prosa in stile deuteronomista con materiale vario avente consistenti incongruenze

159
cronologiche: assedio di Gerusalemme, assassinio del governatore babilonese Godolia,
fuga di Geremia e oracolo di Geremia per Baruc che potrebbe essere anteriore a questi
fatti.
II. Ger 46-51: gli oracoli contro le nazioni
9. Ger 46,1-51,64 [LXX 25,14-31,44]: oracoli in poesia sulle nazioni circostanti.
App. Ger 52,1-34 [LXX 52,1-34]: riabilitazione del re Ioiakin alla corte di Babilonia.
Appendice in prosa.
1.2.2. Libro delle Lamentazioni
È un testo presente nella Scrittura ebraica: consiste di cinque composizioni introdotte dall’avv. interr.
Ekà [“come”], di cui quattro acrostiche.
I generi letterari presenti sono quelli della: lamentazione funebre (Lm 1-2 e 4), lamentazione collettiva
(Lm 5) o lamentazione individuale (Lm 3) sulla città di Gerusalemme ormai distrutta. È uno dei
megillot letti nella celebrazione del ricordo della caduta di Gerusalemme (fine di Ab = luglio/agosto).
È un genere letterario conosciuto nel VOA.
2Cr 35 considera queste lamentazioni composte da Geremia per la morte di Giosia (609 a.C.). la
traduzione greca propone: le Lamentazioni siano state ponunciate da Geremia per la caduta di
Gerusalemme.
Stile, contenuto e lessico potrebbero essere di un solo autore anonimo.
1.2.3. Libro di Baruc
Libro deuterocanonico che almeno per una parte (non pervenutaci) si può presumere sia stato
originariamente scritto in ebraico.
In Bar 1,2 si legge: «[Queste sono le parole che Baruc …] scrisse a Babilonia nell’anno quinto, il sette
del mese, al tempo in cui i Caldei presero Gerusalemme e la diedero alle fiamme.» Dunque, il libro
sarebbe stato composto cinque anni dopo la distruzione di Gerusalemme, cioè nel 582 a.C. Lo stile
profetico e la condizione permanente dell’esilio ha fatto pensare all’esistenza di un originale greco;
ma anche la redazione greca sposta la data in epoca ellenistica.
L’autore sarebbe Baruc, «figlio di Neria, figlio di Maasia, figlio di Sedecìa, figlio di Asadia, figlio di
Chelkia» (Bar 1,1), segretario di Geremia (Ger 36,4). In realtà è sicuramente uno pseudonimo. In
ebraico Baruc significa benedetto.
Struttura interna al libro:
1. Bar 1,1-14: introduzione narrativa
2. Bar 1,15-3,8: confessione di fede con la preghiera di Baruc
3. Bar 3,9-4,4: poema didattico sulla sapienza
4. Bar 4,5-5,9: discorso di Baruc in stile profetico
5. Bar 6: Lettera di Geremia.
1.2.4. Lettera di Geremia
La Lettera di Geremia è un libretto pseudo-epigrafico – scritto in greco – dell’epoca ellenistica. Nelle
traduzioni moderne sulla linea della Vg latina è messa insieme al Libro di Baruc a comporre un solo
libro (5+1).

160
Sarebbe stata inviata da Geremia stesso agli esuli, anche se non si specifica se nel 597 (prima
deportazione) o nel 587 (seconda deportazione).
Dopo l’introduzione storica l’autore si rivolge agli esuli di Babilonia annunciando la loro lunga
permanenza in esilio e il loro ritorno; li ammonisce a stare lontano dagli idoli di Babilonia di cui fa
una satira e li esorta a conservare la fede nel Signore.
1.3. Ezechiele
Libro in 48 capitoli, in prosa e in poesia, che riflette un’operazione ampiamente redazionale, riuscita
meglio rispetto a Geremia (le incongruenze cronologiche e di contenuti sono meno evidenti).
Ci sono molti contatti e affinità con il messaggio di Geremia (dovuti al fatto di essere contemporanei)
e con il Codice di santità (Lv 17-26). Il linguaggio propriamente apocalittico di Ez 38-39 (visioni,
segni, oracoli, azioni simboliche) è di redazione molto più recente. In generale i testi di stile
apocalittico appartengono a questo periodo.
Il profeta Ezechiele [Yeúezeqē’l significa «che Dio renda forte»], di famiglia sacerdotale, svolse il suo
ministero profetico negli anni 593-571 a.C. La sua attività si articola in due tempi:
I. 593-586 a.C. ca. (Sedecia sul trono di Giuda): Geremia si rivolge agli esiliati delle classi
sociali più qualificate nei campi di lavoro cui comunica l’inarrestabile caduta di
Gerusalemme e la fine del regno di Giuda;
II. 586-571 a.C.: dopo gli eventi del 587 a.C. Ezechiele si rivolse anche ai nuovi deportati; al
giudizio segue anche un messaggio di speranza fino a prospettare il ritorno nella terra dei
padri.
L’opera si suddivide agevolmente in tre sezioni principali:
1. Ez 1-24: oracoli di giudizio. Vocazione del profeta (Ez 1-3); accusa e condanna al popolo
e ai capi.
2. Ez 25-32: oracoli contro le nazioni.
3. Ez 33-48: oracoli di salvezza e di restaurazione.
Ez 40-48: cosidetta «tôrāh di Ezechiele», incentrata sul nuovo Tempio e sul nuovo culto.
Per la diversità di contenuto e stile rispetto a quanto precede ha fatto pensare ad una scuola
successiva in ogni caso legata a Ezechiele.

2. I XII Profeti minori


2.1. Osea
Tra i primissimi profeti, Osea [hôšēa‘, il cui nome significa «(Yah) salva»] fu verosimilmente
esponente della borghesia agricola del regno del nord.
La sua attività si colloca negli anni 750-732 a.C. ca. nel solo Regno del Nord. Prevede la caduta di
Samaria nel 721 a.C. ad opera degli assiri; tuttavia, i libri non attestano un Osea testimone oculare di
questo avvenimento. Profetizza una salvezza ma in assenza di una restaurazione politica del Regno del
Nord. Osea diventa profeta di entrambe le componenti del mondo ebraico, in quanto riletto ad
applicare la sua predicazione profetica al Regno del Sud.
Il libro, in 14 capitoli, è stato trasmesso in ebraico, con inflessioni dialettali del nord; alcune parole
sono difficili da comprendere per il cattivo stato di conservazione del testo (ricostruzione del testo

161
corrotto specie grazie alla vocalizzazione masoretica). Qualche discrepanza rimane nella scansione
della LXX rispetto al TM. Il libro si può suddividere in due parti:
1. Os 1-3: oracoli di accusa, sventura e salvezza. Al centro di questa parte e dell’intero libro
c’è la vicenda matrimoniale del profeta, riletta come metafora della relazione tra il Signore
e il suo popolo, prima Israele e poi Giuda. La metafora sponsale ebbe eco nella tradizione
profetica: cfr. Is 50,1; Ez 16; 23; Ger 2-3; 30-31.
2. Os 4-14: oracoli di accusa e di annuncio di sventura. È il corpo della predicazione.
L’opera si chiude con un aforisma di tipo sapienziale (Os 14,10): «Chi è saggio comprenda
queste cose, / chi ha intelligenza le comprenda; / poiché rette sono le vie del Signore, / i
giusti camminano in esse, / mentre i malvagi vi inciampano.»
Nella sua predicazione possiamo cogliere anche l’aspetto sociale.
2.2. Gioele
Gioele [nome teoforo yô’ēl, «Yô [Yah] è Dio»] non offre riferimenti biografici e contestualizzazioni
storiche: nessun riferimento alla monarchia; riferimento alla città di Tiro (distrutta nel 332 a.C. da
Alessandro Magno) e di Sidone (distrutta nel 343 a.C. da Artaserse III). Attenzione rivolta all’halakah
cultuale (norme cultuali e rituali) del Tempio di Gerusalemme (questo però non significa che il
profeta fosse un profeta cultuale).
La predicazione di Gioele si colloca tra seconda metà V - prima metà IV secolo a.C., probabilmente
prima di Abdia e dopo Malachia.
Il libro si divide due parti:
1. Gl 1,1-2,17: la piaga delle cavallette;
2. Gl 2,18-4,21: la sua interpretazione.
Ci sono discrepanze tra il testo greco e il TM.
2.3. Amos
Amos [‘āmôs, «portatore»] è uno dei più antichi profeti. Si definisce «pecoraio di Tekoa» (Am 1,1;
7,14), vicino a Betlemme di Giuda.
Fu attivo intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., durante il regno di Geroboamo II in Israele e
l’espansione degli assiri. Il ministero si svolge a Nord, ma ha anche a che fare col santuario di Betel
da cui fu scacciato dal sacerdote Amasia vietandogli di profetizzare nel santuario con l’accusa (anche
lui viene perseguitato) di sovversione contro la casa regnante di Israele.
Dal testo non si può dedurre che egli abbia assistito alla caduta del Regno del Nord, ma anche lui
l’aveva prevista.
Il testo, che nei suoi 9 capitoli raccoglie la predicazione del profeta, riflette un’opera redazionale
successiva alla caduta di Gerusalemme. Egli è tra i primi profeti scrittori. Agevole suddivisione in tre
parti principali: Am 1,1-2: introduzione e titolo programmatico
1. Am 1,3-2,16: oracoli contro le nazioni (già nei Profeti Maggiori, in Amos anche un oracolo
contro Israele e contro Giuda);
2. Am 3,1-6,14: oracoli di accusa con annuncio di sventura per Israele;
3. Am 7,1-9,10: cinque visioni con oracoli;
Am 9,11-15: conclusione editoriale con oracoli di salvezza;

162
Egli è famoso per le sue invettive sociali.
2.4. Abdia
Abdia [nome teoforo: ‘ôbadyâ significa «servitore di Yah»] è il più breve tra i Profeti Minori.
La collocazione è tra la caduta di Gerusalemme (587 a.C.) e la caduta di Edom sotto i Nabatei (312
a.C.). L’opera redazionale è di molto successiva a questo periodo.
Il solo capitolo è un oracolo su Edom in due momenti:
1. Abd 1,1-15: annuncio della sua distruzione motivato da accuse (grande affinità di Abd 1,1-
9 con Ger 39).
2. Abd 1,16-21: annuncio del giorno del Signore quale punizione per Edom; menzione della
diaspora giudaica di Sefarad (v.21).
2.5. Giona
Il libro di Giona [yônâ, «colomba»], in 4 capitoli in prosa (tranne il salmo della «preghiera di Giona» -
2,2-10) è un libro molto particolare. È una sorta di una leggenda profetica appartenente al periodo
ellenistico contenente un aspetto di ironia verso una corrente del giudaismo ostile alle nazioni
pagane.
L’autore ambienta la vicenda nell’VIII secolo a.C., secondo le indicazioni di 2Re 14,25 (cfr. Gn 1,1).
Alla chiamata del profeta (genere letterario tipico della letteratura profetica) non segue la consueta
obiezione di Giona a Dio, ma un’azione contraria a quella prescritta di Dio: Giona si imbarca in
direzione opposta a Ninive. Durante la navigazione si scatena una tempesta ma Giona dorme;
svegliato è costretto ad annunciare e pregare il suo Dio (immagine del profeta recalcitrante),
affermando che è Lui la causa della tempesta; buttato in mare la tempesta si calma; Giona trascorrerà
tre giorni e tre notti nel ventre di una balena, dove prega Dio ritrovando Dio e se stesso; infine, il pesce
lo vomita sulla spiaggia.
Una seconda volta la chiamata di Dio giunge a Giona ma questa volta, ancora senza rispondere, si reca
a Ninive. Capitale dell’Assiria prima e di Babilonia poi è il centro del nemico, il cuore del male di
Israele, al punto che l’attività profetica di Giona a Ninive doveva essere un pugno allo stomaco per
Israele. Il profeta predica un annuncio di sventura per la conversione di Ninive che non ammette via di
fuga: «40 giorni e la città sarà distrutta». I niniviti interpretano l’annuncio di Giona come incompleto:
c’è ancora la possibilità della conversione. Portatosi su un’altura Giona attende di vedere la
distruzione di Ninive, che però non avviene. Giona si arrabbia perché nel deserto c’è tanto caldo. Nel
dialogo tra Giona e Dio (Gn 4,8 ss.) ci sono solo domande, non risposte. → Stimolo al destinatario a
dare lui le sue risposte [cfr. la finale di Marco o la parabola del Padre misericordioso].
Quello di Giona è uno dei più alti testi di teologia dell’AT e uno dei libri più sconvolgenti, perché
riguarda non solo generalmente lo straniero ma il nemico giurato, il quale accoglie la predicazione del
profeta e si converte, al contrario di Israele che non accoglie la predicazione dei profeti in patria.
Nel giudaismo più tardivo si è cercato di spiegare che dopo la predicazione di Giona gli abitanti di
Ninive tornarono a peccare fino alla distruzione della città nel 612 a.C.
2.6. Michea
Michea [mîkâ, abbr. del nome teoforo «chi è come Yah»], originario di Moreset Gat nella Sefela (Mi
1,14), è un profeta dell’VIII secolo a.C., contemporaneo di Isaia. Fu attivo nel 740-687 a.C. all’epoca
dell’egemonia assira. Ha influito sulla riforma del re Ezechia.

163
Il testo ebraico, in 7 capitoli, rivela una storia redazionale abbastanza tarda (III-II secolo a.C.) e
complessa che risente di difficoltà analoghe a quello di Osea che neanche Qumran permette di
risolvere. Il libro può essere suddiviso in 5 parti principali (sebbene la discussione sia aperta):
1. Mi 1,2 - 2,13: oracolo di annuncio di sventura, lamento e oracolo di salvezza.
2. Mi 3,1 - 12: brevi oracoli di accusa con annuncio di sventura;
3. Mi 4,1 - 5,14: oracoli di salvezza;
4. Mi 6,1 - 7,7: processo a Israele, con accuse e minacce di sventura;
5. Mi 7,8 - 20: confessione del peccato e oracolo di salvezza con la certezza della salvezza da
parte di Dio (detta anche «liturgia di conversione»).
2.7. Naum
Naum [naúûm, «consolato»], nativo di Elcos, fu contemporaneo del re Giosia. Egli fu testimone della
caduta di Ninive nel 612 a.C. Nella rilettura tradizionale secondo il desiderio di Giona Ninive sarebbe
stata distrutta effettivamente per mano del re Assurbanipal.
Libro in 3 capitoli (a Qumran vi è una specie di commento, ma solo dei primi due capitoli, il terzo
circolava come un salmo poi aggiunto dai masoreti).
2.8. Abacuc
Abacuc [úăbaqqûq, forse «basilico»] considera l’ascesa dei Babilonesi all’epoca di Nabucodonosor
non solo come strumenti della punizione di Dio a Israele ma anche come enigma storico-teologico
difficile da interpretare.
Il libro si sviluppa in 3 capitoli. A Qumran è stato rinvenuto un commento [pescher abacuc] limitato ai
primi due capitoli; il terzo capitolo probabilmente circolava come una preghiera o un salmo
indipendente.
«Il giusto vivrà per la sua fedeltà» (Ab 2,4) riflette la dottrina della responsabilità personale e non
solo collettiva comune a Geremia ed Ezechiele e ripresa da Paolo nel NT (cfr. Rm 1,17 e Gal 3,11).
2.9. Sofonia
Sofonia [nome teoforo sephanyāh che significa «Yah protegge»] fu forse discendente del re Ezechia
(cfr. Sof 1,1). Fu attivo sotto Giosia (640-609 a.C.), di cui sarebbe stato interprete della riforma
religiosa del 622 a.C. (cfr. 2Cr 34,3-7), quando l’incubo degli assiri stava pian piano svanendo.
Il libro, in 3 capitoli, riprende la predicazione del profeta.
Gli oracoli finali di salvezza (Sof 3,9-20) risalgono certamente ad un’epoca successiva all’esilio
babilonese e dunque non sono di Sofonia.
2.10. Aggeo
Aggeo [úaggay che significa «nato in giorno di festa»] fu attivo all’inizio del regno di Dario I sul
trono di Persia (522-486 a.C.), in una fase piuttosto difficile del ritorno dei reduci dall’esilio di
Babilonia e della ricostruzione del tempio gerosolimitano (525-520 a.C.). Secondo la tradizione
biblica Aggeo incitò i reduci a riprendere la ricostruzione del Tempio. Non sappiamo se sia un
profeta legato al culto del Tempio.
Il libro, in 2 capitoli, è l’esito di una profonda attività redazionale che dà particolare risalto a
Zorobabele e al sacerdote Giosuè.

164
2.11. Zaccaria
Zaccaria fu attivo tra il 520 e l’inizio del V secolo a.C. (cfr. Ne 12,16): infatti, come riferisce Esd 5-
6, insieme al profeta Aggeo Zaccaria incitava il popolo alla ricostruzione del Tempio.
Il libro, in 14 capitoli, è esito della tradizione della scuola profetica ispirata al profeta Zaccaria.
Complessivamente la redazione potrebbe risalire all’epoca ellenistica, anche per la presenza in esso
del genere apocalittico (sp. Zc 12-14). Bisognerebbe ipotizzare un primo e un secondo Zaccaria:
I. Zc 1-8: Proto-Zaccaria
1. Zc 1,7 - 6,8: otto visioni notturne con oracoli interpretativi;
2. Zc 7,1 - 14: oracolo sul vero digiuno da praticare;
3. Zc 8,1-8.9-17c: due oracoli di salvezza per il futuro (trasformazione del digiuno in gioia
che implica anche la conversione delle nazioni).
II. Zc 9-14: Deutero-Zaccaria (raccolte di oracoli prob. redatte in epoca persiana e ellenistica):
4. Zc 9,1 - 11,17: prima raccolta di oracoli (oracolo di Davide, oracolo sul ritorno dei
prigionieri, oracolo sulla liberazione di Giuda, oracolo sulla casa di Giuseppe, etc.).
Questa parte si chiude con una allegoria che mette in guardia dai pastori inaffidabili.
5. Zc 12,1 - 14,21 (per alcuni un Trito-Zaccaria): seconda raccolta di oracoli (apertura
con la purificazione di Gerusalemme dai falsi idoli; chiusura con un lungo oracolo sul
giorno della battaglia per Gerusalemme e sul pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme
per ricevere la Legge).
2.12. Malachia
Malachia [mal’ākî che significa «angelo / messaggero mio»] è un profeta anonimo, pseudonimo di
epoca successiva alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. Il genere è l’oracolo.
È l’ultimo libro dell’AT (o immediatamente precedente il NT). Si articola in 3 capitoli che
racchiudono 6 oracoli:
1. Ml 1: l’amore del Signore per Israele (Ml 1,1 - oracolo apocalittico [massah] continuzione
dello stesso genere in Zc 12-14); requisitoria contro i sacerdoti (doveri rituali).
2. Ml 2: matrimoni misti (endogamici) e divorzi; il giorno del Signore.
3. Ml 3: le decime per il tempio; trionfo dei giusti nel giorno del Signore.
App. Ml 3,22-24: due appendici di epoca certamente ellenistica.
2.13.Il libro di Daniele
Il libro di Daniele, l’unico testo apocalittico accolto nel canone ebraico, venne compilato a partire da
materiali diversi – originariamente indipendenti – negli anni della persecuzione antiebraica di Antioco
IV Epifane.
Gli eventi storici cui il libro allude per simboli ci sono noti anche dai resoconti di 1-2Mac e di Flavio
Giuseppe.
La persecuzione si concluse con la vittoriosa ribellione guidata dalla famiglia sacerdotale dei
cosiddetti Maccabei e con la riconsacrazione del Tempio alla fine del 165 o all’inizio del 164.

165
Nelle diverse profezie incorporate in Daniele vi sono discrepanze intorno alla durata della
persecuzione (7,25; 8,14; 9,27; 12,17.11.12), poiché le date vennero evidentemente adattate di volta in
volta nel corso della redazione del libro.
Daniele è così il libro più recente nel canone ebraico e l’unico che si riferisce alla guerra maccabaica
(che invece nel canone cristiano è narrata anche in 1-2 Mac). Quanto alla collocazione nel canone, la
diffidenza dei rabbini verso l’apocalittica fece sì che in quello ebraico Daniele venisse situato fra gli
Scritti (Agiografi), mentre in quello cristiano fu accolto tra i Profeti, in una posizione di maggiore
rilievo.
Il contenuto del libro è così strutturato (4 parti):
1. cap. 1 (introduzione generale, in ebraico): Daniele e i suoi compagni Anania, Misaele e Azaria,
esiliati alla corte di Nabucodonosor.
2. capp. 2-6: cinque racconti (narrati in terza persona e scritti in aramaico d’impero) che hanno per
protagonista Daniele quale interprete di sogni e divinatore.
• cap. 2: Nabucodonosor sogna una statua di quattro materiali diversi: solo Daniele è in grado di
interpretarla come il simbolo di quattro regni successivi (Babilonia, Media, Persia e Grecia)
• cap. 3: i compagni di Daniele rifiutano di adorare una statua e vengono gettati in una fornace,
dove per intervento di una figura angelica rimangono illesi.
• cap. 4: Nabucodonosor sogna un grande albero abbattuto e mutato in animale: Daniele spiega
che si tratta del re stesso...
• cap. 5: al re Belsazzar, durante un banchetto orgiastico a corte in cui vengono usate e
profanate le suppellettili provenienti dal Tempio, appare una mano che traccia una scritta
misteriosa sul muro: Daniele interpreta il prodigio come predizione della conquista e
spartizione del regno tra greci e persiani, e il re muore la notte stessa;
• cap. 6: Daniele rifiuta di obbedire a un editto del re Dario che proibisce di pregare a chiunque
tranne che al re stesso; viene gettato nella fossa dei leoni, ma rimane incolume e al suo posto
sono puniti coloro che lo avevano denunciato.
3. 7-12: quattro visioni (narrate in prima persona e scritte in ebraico, tranne il cap. 7, che è in aramaico
d’impero) che Daniele riceve e che vengono spiegate da angeli:
• cap. 7: quattro bestie salgono dal mare, un vegliardo siede in trono e «uno simile a un figlio
d’uomo» viene sulle nubi e riceve un regno; un angelo spiega che quattro regni verranno
distrutti prima che Dio dia la sovranità ai «santi dell’Altissimo». “Figlio d’uomo” (7, 13-14 ) è
un idioma che significa semplicemente “essere umano” (cfr. 10,16), ed è ad esempio
l’espressione con cui Dio si rivolge a Ezechiele quando gli annuncia ciò che deve
profetizzare...
• cap. 8: un montone viene sopraffatto in combattimento da un capro, sulla cui fronte cresce un
piccolo corno che agisce con arroganza: un angelo spiega ciò che rappresentano.
• cap. 9: l’angelo Gabriele reinterpreta la profezia di Geremia (25,11 -12 e 29,10), secondo cui
la desolazione di Gerusalemme sarebbe durata settant’anni.
• cap. 10-12: dopo un rituale di contrizione e digiuno (vv. 2-3), Daniele riceve da un angelo la
rivelazione del contenuto del “libro della verità”, cioè la storia della persecuzione di Antioco
IV fino alla morte di questi (Durante l’epoca maccabaica). Troviamo il concetto di
resurrezione, che nell’AT è tardivo.
4. capp. 13-14: due aggiunte deuterocanoniche presenti solo nei testi greci:

166
• 13 (Susanna e i vecchioni): una giovane donna, falsamente accusata di adulterio da due
“anziani del popolo”, viene salvata da Daniele.
• 14 (Bel e il drago): due narrazioni popolari contro l’idolatria che risentono di testi sapienziali
tardivi (cfr. Ger 10,1 -16; Ab 2,18 -19; Is 44, 12-20; testi come Sap 13-15).
Dietro a tanta varietà di fonti, di modelli e di forme, il libro di Daniele è strutturato secondo
un’ideologia unitaria e precisa. Gli ebrei devono attenersi rigorosamente alla legge mosaica, rifiutando
ad esempio i cibi impuri e ogni concessione all’idolatria, ma devono pure sapersi adattare alla realtà
sociale e amministrativa dei regni non ebraici in cui vivono: tanto più che anche i re pagani possono
giungere a riconoscere la grandezza del Dio di Israele (cfr. 2; 3; 4; 6). A questo sottostà una visione
della storia, e del ruolo di Israele in essa, che corrisponde perfettamente alla teologia
deuteronomistica, secondo cui l’esilio è il giusto castigo per l’infedeltà di Israele alla legge.
Il libro – o almeno i capitoli scritti in prima persona – ottempera al criterio della pseudepigrafia, tipico
della letteratura apocalittica. Daniele viene presentato volta per volta secondo diversi modelli: come
ebreo della diaspora assolutamente fedele alla legge ma capace di una brillante carriera nella corte
pagana (secondo il modello di Giuseppe), come sapiente interprete dei sogni (ancora come Giuseppe,
ma anche come l’omonimo Dnil, figura-tipo di giudice saggio già nella Leggenda di Aqhat ugaritica,
XIV secolo a.C.), e infine come profeta che riceve la rivelazione attraverso visioni e la mette per
iscritto di persona.
Il fatto che Daniele è scritto in due lingue diverse è stato spiegato variamente. La ragione più
verosimile è che le storie dei capp. 1-6, originariamente composte in aramaico, siano state lasciate
nella lingua originale dal redattore/autore finale, che scelse invece di scrivere le altre parti in ebraico
in ottemperanza alla propria ideologia nazionalistica antiellenica. Ma anche accettando questa
ricostruzione, rimane da spiegare perché il cap. sia in aramaico, benché contenutisticamente faccia
parte del gruppo delle visioni scritte in ebraico.
A Qumran sono stati rinvenuti frammenti di ben otto diversi manoscritti di Daniele.
Di Daniele e delle sue parti deuterocanoniche esistono due distinte versioni greche, quella della LXX e
quella attribuita dalla tradizione a Teodozione. Quest’ultimo, più vicino a quello che sarebbe poi
diventato il testo masoretico, è il più usato nelle citazioni di Daniele presenti nella letteratura greca
cristiana già dal I secolo.
Oltre al genere letterario apocalittico, l’altro punto importante è le letture cristologiche che vi sono
all’interno.

167
19. I libri sapienziali32 - I
Gb, Pr, Qo
1. Introduzione
1.1. La terminologia
1.2. Le fonti della sapienza
1.3. La sapienza nella Bibbia
2. Il libro di Giobbe
2.1. Autore e datazione
2.2. Temi
2.3. Genere letterario
2.4. Struttura e contenuti
2.5. Messaggio
3. Il libro dei Proverbi
3.1. Titolo
3.2. Attribuzione e datazione
3.3. Struttura e contenuti
3.4. Messaggio
4. Il libro del Qohelet (Ecclesiaste)
4.1. Titolo
4.2. Attribuzione e datazione
4.3. Temi
4.4. Genere Letterario
4.5. Struttura e Contenuto
4.6. Messaggio

1. Introduzione
1.1. La terminologia
Sapienza indica l’insieme dei valori che pervadono la vita di ogni popolo, cultura, pensiero, fede e
morale. Testi sapienziali sono presenti presso ogni popolo.
L’italiano sapienza deriva dal latino sapere [“ciò che da gusto alla percezione”]. Diversamente dal
greco sophia, l’ebraico hokmāh e hākām ha un significato non legato all’aspetto puramente
intellettuale: nella tradizione giudaica la sapienza ha risvolti soprattutto pratici, capace cioè di
orientare la vita nella qualità dell’agire: si parla, perciò, di sapienza nei termini di un comportamento

32
Bibliografia di riferimento: S. PINTO, I segreti della Sapienza. Introduzione ai libri sapienziali e poetici, San
Paolo, 2013; L. ALONSO SCHOKEL - L. SICRE DIAZ, Proverbi, Borla, Roma 1986; E. BEAUCAMP, I sapienti
d’Israele o il problema dell’impegno, Paoline, Cinisello Balsamo 1991; A. BONORA - M. PRIOTTO, Libri
sapienziali e altri scritti, Logos. Corso di studi biblici, Elledici, Torinno 1997; M. GILBERT, Sapienza, in Nuovo
Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cinisello Balsamo 1998, 1427-1442; M. GILBERT, La sapienza del
cielo. Proverbi, Giobbe, Qohèlet, Siracide, Sapienza, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; L. MAZZINGHI,
Sapienza, in Teologia. Dizionari San Paolo, a cura di G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2002, 1473-1491; V. MORLA ASENSIO, Libri Sapienziali e altri scritti, Paideia, Brescia 1997; R.E.
MURPHY, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale biblica, Queriniana, Brescia 1993;
C. NICCACCI, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990; F.
ROSSI DE GASPERIS - A. CARFAGNA, Prendi il libro e mangia! 3.2. Dall’esilio alla nuova alleanza: pietà, poesia,
sapienza, Bibbia e spiritualità, EDB 2003; G. VON RAD, La sapienza in Israele, Marietti, Torino 1975; M.
MILANI, I libri sapienziali, in P. Merlo (ed.), L’antico Testamento, Introduzione storico-letteraria, Carocci,
Roma 2008, 163-196.

168
equilibrato circa l’esperienza quotidiana. Il saggio biblico si pone i grandi interrogativi sulla vita,
sulla morte, sulla sofferenza, sul destino ultimo dopo la morte; ma non manca di confrontarsi con la
realtà di tutti i giorni. Sapienza è la via per il raggiungimento di una vita equilibrata, armonica e
soddisfacente e mira allo sviluppo di tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni [Prv 1,1-7 e 2,1-22].
Tipico della sapienza è l’ambito dell’educazione e della scuola: si educa alla modestia e alla
moderazione, al controllo di sé [Prv 12,16.23] e alla laboriosità [Prv 10,4-5], ma anche alla giustizia,
onestà e sincerità [Prv 10,2-3.6-7.11] e ad avere un animo sgombro da odio [Prv 10,12].
La sapienza biblica è sempre legata a riferimenti etici e teologici. La sapienza comprende scelte
morali e mette in relazione l’aspetto sapienziale e quello tipicamente religioso: il saggio biblico è per
forza di cose anche giusto in riferimento ad un ordine garantito da Dio.
1.2. Le fonti della sapienza
1. L’esperienza, del singolo e della comunità, e la sua trasmissione.
2. L’interscambio con altri popoli, filtrando di volta in volta la sapienza che veniva da fuori
attraverso la propria cultura.
3. La tradizione: i maestri trasmettevano alle nuove generazioni quanto avevano ricevuto
dagli antenati.
4. La riflessione, che presuppone una maturità per riconoscere e discernere.
5. Il dialogo e la discussione.
6. La riflessione a partire dalla fede.
7. La rivelazione da parte di Dio: specialmente Ben Sira (ma non è parte del canone ebraico)
sviluppa il rapporto tra sapienza e rivelazione storica.
1.3. La sapienza nella Bibbia
Nell’AT i libri sapienziali sono: Proverbi, Giobbe, Qohelet (Ecclesiaste), Cantico dei Cantici e Salmi.
Nel canone cristiano ma non in quello ebraico figurano anche Siracide e il libro della Sapienza.
In realtà la sapienza è diffusa in tutta la Bibbia, a iniziare dai testi sulla creazione e dalla riflessione
sulla storia (es. la riflessione sul dio creatore e sull’esperienza dei progenitori di Gen 1-11 risente
moltissimo del genere sapienziale. Anche nei libri dei Re, in cui l’autore narra la storia inserendo dei
detti sapienziali. Nel NT lì troviamo nelle parabole, le lettre di Paolo 1Cor, Gesù è sapienza). Testi
sapienziali sono stati ritrovati anche a Qumran, nel popolo egiziano, greco, negli scritti rabbinici, dei
Padri della Chiesa.
Tre modelli della riflessione sapienziale nell’AT:
 Nei Proverbi il movimento tipico è quello dall’esperienza e dall’osservazione alla
formulazione delle regole per vivere bene; è questo l’insegnamento tradizionale.
 In Giobbe e Qohelet la sapienza lascia aperte molte domande sulla base di esperienze che
sembrano contraddire la sapienza codificata nei Proverbi, in primis la sofferenza del giusto.
 Siracide e Sapienza cercano delle soluzioni alle tensioni tra osservazione, riflessione e
confessione; in particolare, culmine della sapienza veterotestamentaria è l’introduzione in
Sapienza della dottrina della vita oltre la morte come chiave per risolvere il problema della
retribuzione (se non c’è vita oltre la morte come mai il giusto soffre e l’empio gode?).

169
Anche nel NT c’è un genere sapienziale sia nel linguaggio sia nei contenuti: es. nella predicazione di
Gesù le parabole (che assomigliano al genere profetico per lo scopo di scuotere l’ascoltatore) e i
proverbi (es. “medico, cura te stesso”). In alcuni testi si attribuisce a Gesù il ruolo stesso della
sapienza: es. Prologo di Gv (logos), 1Cor (la sapienza divina contrapposta alla sapienza umana),
Lettera di Gc (presenta alcuni caratteri tipici della sapienza tradizionale, es. dominio di sé).
Infine, anche i Padri apostolici e della Chiesa operano una mediazione tra il Vangelo e la cultura
greco-ellenistica chiamando in causa le categorie sapienziali.

2. Il libro di Giobbe
2.1. Autore e datazione
Il significato del nome “Giobbe” non è chiaro: per alcuni significa nemico dal modo in cui a volte
l’autore considera Dio. Oppure il pentico come ricorre negli ultimi capitoli. Il Prologo considera il
protagonista come il più grande dei figli di Oriente; orientali sono anche gli amici di Giobbe: Elifaz il
Temanita (nella zona di Edom), Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita.
Sulla datazione non c’è una tesi condivisa. La critica nei confronti della tradizione (tema della
retribuzione) fa propendere per il post-esilio (fino al III secolo a.C.) quando emerge un tentativo più
razionale di affrontare il problema sia nel senso della tradizione antica sia nel senso della sua critica.
In Giobbe mancano accenni alla sofferenza del popolo, altrimenti sarebbe stato più naturale pensare al
periodo dell’esilio.
Si riconosce un autore principale di fondo con alcuni ritocchi e inserzioni posteriori: per l’uso di
aramaismi Gb 32-37 forse è una inserzione da parte di un lettore o di un autore successivo; problema
di Gb 28 e del suo inserimento nel testo.
2.2. Temi
L’opera concerne una delle realtà più universali e comuni a tutti gli uomini: l’amara esperienza della
sofferenza (dolore e malattia) del giusto innocente con le conseguenze personali, sociali e
religiose. Questa esperienza spinge ad una riflessione profonda e critica sulle affermazioni della
dottrina classica circa la retribuzione (premio) del giusto e il castigo dell’empio. È un problema
radicale perché il dolore e la sofferenza interrogano anche sul mistero di Dio che può essere avvertito
come nemico e ostile: le parole e i silenzi centrate su questo tema.
All’inizio di tutto c’è la scommessa tra Dio e Satan: la fede e la giustizia di Giobbe sono davvero
disinteressate e gratuite? Maledirà Dio di fronte alle disgrazie che lo colpiranno?
Forse Israele prende le distanze dalle parole che Giobbe esasperato pronuncia nei confronti di Dio; ma
alla fine del libro le obiezioni di Giobbe sono considerate rette da Dio stesso.
2.3. Genere letterario
Il libro è:
 Un racconto didattico in prosa nel prologo (Gb 1-2) e nell’epilogo (Gb 42,10-17);
 Un dramma in poesia, articolato in discorsi e dialoghi;
 Nelle parole di Giobbe prevale la lamentazione che apre e chiude i dialoghi (es. Gb
3 e 29).
 Il libro potrebbe essere assimilato al genere giudiziario strutturato in dibattito e
processo dove protagonisti sono Giobbe e Dio stesso (che appare come il dio

170
misericordioso in cui Giobbe confida e spera) e concluso da una sentenza finale. Ma
questo genere non spiega tutto il libro: Dio svolge il duplice ruolo di accusato da
Giobbe e di giudice.
2.4. Struttura e contenuti
Struttura in tre parti:
I. Gb 1-2: Prologo o premessa-sfida che mette in moto tutta l’azione. Giobbe è presentato
come uomo giusto e ricolmato delle benedizioni (= benessere e prosperità) di Dio; la sfida
di Satan colpisce Giobbe dapprima nei beni, poi nei figli, quindi nella sua stessa persona (la
malattia dolorosa e vergognosa che spinge perfino la moglie a tenersi lontano da lui).
II. Gb 3-41: Azione con discussione e accusa
 Gb 4-14: atto I
 Gb 15-21: atto II
 Gb 22-27: atto III
 Gb 28: conclusione dei dialoghi (coro e solista che canta l’accessibile sapienza
divina e invita al timore del Signore, vera cifra della religione in quanto rispetto e
desiderio di voler corrispondere ai comandi di Dio)
 Gb 29-41: atto IV. Lamenti e apologia di Giobbe (Gb 29-31); intervento dell’amico
Eliu (Gb 32-37: inserzione successiva, perché non compare nel verdetto finale);
risposta di Dio (Gb 38-41).
III. Gb 42,10-17: Epilogo con il verdetto finale. Giobbe si sottomette; Dio lo benedice e gli
ridona tutto quello che aveva: le ricchezze, la famiglia e la salute, morendo infine «sazio di
giorni».
2.5. Messaggio
Il tema della sofferenza esige una ricerca di significato e pone domande all’uomo e specie a Dio.
Dietro vi è un narratore. Il libro è teatro di un vero dibattito teologico con il confronto tra le tesi
presentate dai personaggi protagonisti:
 Gli amici esprimono un dogma applicando la dottrina classica (comune ai teologi del post-
esilio) della retribuzione secondo cui Dio benedice e maledice: una data situazione è esito
di un male compiuto. [È una dottrina presente ancora oggi e che riflette una certa immagine
di Dio ben lontana dall’immagine del Dio evangelico.] Il primo silenzio nel libro è quello
degli amici che, conosciutane la disgrazia, si fermano accanto all’amico per tre giorni in
silenzio). Alla fine gli amici si rivelano gli avvocati di Dio fino a condannare l’uomo e
l’amico.
 Giobbe risponde non a livello intellettuale e teorico ma a livello esistenziale: partendo
dall’esperienza dimostra che essa contraddice il dogma. Se gli amici si pongono dalla parte
di Dio, Giobbe professa la sua innocenza e rivolge a Dio il suo lamento. In una prospettiva
giuridica Giobbe pone il problema della retribuzione e rischia all’opposto degli amici di
condannare Dio per salvare l’uomo. È un dialogo senza sbocchi perché ognuno è fermo
sulle sue posizioni. Alla fine, da uomo di fede riconosce che Dio è l’unico in cui riporre la
sua causa, anche se sa bene che è impossibile sostenerne il confronto data la sua
limitatezza creaturale.

171
 L’intervento di Dio respinge le accuse dell’assenza di un piano nella creazione stessa e
di un senso alla sofferenza, l’impostazione giuridica nel rapporto uomo-Dio, ma anche
le accuse a Giobbe da parte degli amici. A Giobbe sfuggono gli elementi dello spazio e
del tempo: «dove eri tu mentre io ponevo le fondamenta della terra?». Giobbe preferisce
inizialmente il silenzio, non risponde.
Si affronta il tema del male (Gb 40-41): se il caos continua a esistere nella creazione “buona”, tuttavia
non viene meno il suo progetto di bene.
 Giobbe riconosce nella creazione un piano, anche se resta incomprensibile (Gb 40,3):
chiede a Dio se le relazioni devono essere sempre importate in modo giuridico (Gb 40,9-
14).
 Dio stesso affronta il tema del male. Entrano in gioco le forze mitiche di be’emoth
[“ippopotamo”] e Leviatan [“coccodrillo”], entrambi animali del Nilo non presenti in
Palestina che spaventano l’uomo biblico ma che per il Signore non sono che sue creature
rispetto alle quali mantiene una superiorità.
 Allora Giobbe non spiega ma contempla: «I miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). È la sua
esperienza nuova, mistica: la contemplazione, la certezza di una presenza. Il mistero
persiste ma ora Giobbe ha il coraggio di affrontarlo e di entrare in un abisso di tenebre e
luce. Entra nel silenzio, ma un silenzio che dà pace perché è di Dio.
Il giudizio dirime la disputa: condanna per gli amici e assoluzione per Giobbe che è consolato
[nicham: cfr. Is 40,1a] e teme Dio nella gratuità; il Signore gli chiede di pregare gratuitamente per gli
amici e di offrire loro un sacrificio. La presenza di Dio è più grande della malattia e più consolante
della salute: la gratuità, il silenzio, la contemplazione permettono di entrare nel mistero.
Secondo alcuni la finale per cui Giobbe riottiene tutto (eliminazione dell’obiezione e ritorno alla
dottrina classica della retribuzione) è un’aggiunta. In realtà, la contemplazione del piano
incomprensibile di Dio segna il passaggio dall’osservanza della legge per cui si teme Dio per
ottenere un tornaconto a un rapporto con Dio fondato sulla gratuità per cui si teme Dio per se
stesso: amare non il dono ma il donatore.

3. Il libro dei Proverbi


3.1. Titolo
Sono chiamati mišlê šelōmōh [“Proverbi di Salomone”]: māšāl è “proverbio”, ma anche “detto”,
“sentenza”, “aforisma”, “paragone”. La LXX traduce quasi sempre con paroimiai (accentuando il
senso di “paragone”) ma anche con parabolé. La Vg traduce con Liber proverbiorum, da cui il titolo
italiano.
Il libro dei Proverbi raccoglie la sapienza antica. In esso confluiscono anche le sapienze di altri
popoli: es. Proverbi di Lagur e Lenuel (Pr 30-31) o di Amenepope (Pr 22-23).
È un testo composito la cui complessità riflette una pluri-secolare storia di composizione: solo alcune
sezioni sono unitarie per tematiche (es. proverbi numerici); inoltre, ci sono molti doppioni.
3.2. Attribuzione e datazione
La tradizione attribuisce tutto il libro a Salomone: non è raro nella Bibbia l’attribuzione di un libro a
personaggi celebri (cfr. 73 Salmi attribuiti a Davide, gli scritti profetici, etc.). In realtà si tratta di testi
scritti da sapienti di professione legati alla corte o alla scuola a partire dall’VIII secolo a.C., la cui

172
composizione e redazione finale avvenne nel VI-V secolo a.C. (periodo post-esilio). A favore di questa
datazione ci sono i seguenti dati: Pr 1-9 presenta una serie di istruzioni tematiche dove emerge
l’elemento pedagogico e sapienziale; Sir 47,17 sembra alludere ai Proverbi.
Il libro entra subito nel canone ebraico e poi cristiano, sebbene contestato da alcuni; è citato 20 volte
nel NT, dando così valore all’umanesimo credente.
3.3. Struttura e contenuti
 Prv 1-9: Prologo con dieci discorsi-istruzione dal chiaro intento didattico (il maestro
rivendica a sé l’autorità dei genitori), di cui tre sono discorsi della Sapienza personificata
che parla in prima persona (Pr 1,20-33; Pr 8,1-36; Pr 9,1-6). [La personificazione della
Sapienza è un tema ricorrente nell’AT fino al NT dove Cristo è la Sapienza personificata.]
 Prv 10,1-31,9: Sette collezioni di sentenze. Le sentenze più antiche sono riunite in modo
disparato; inoltre ci sono consigli su come comportarsi con il Signore, con il re, consigli dei
saggi, etc.
 Prv 31,10-31: Epilogo. È presente un elogio acrostico della “moglie perfetta” e
l’esortazione al figlio ad evitare le cortigiane e a scegliere piuttosto una moglie che gli sia
di aiuto (Sap 31,1-9).
3.4. Messaggio
Il messaggio è variegato dati i tantissimi temi toccati: il leitmotif del maestro che educa il discepolo; la
scelta del discepolo tra la duplice via / comportamento / cultura della vita e della morte; la
contrapposizione tra la donna straniera seducente ma mortifera e la sapienza fonte di vita; l’insistenza
del maestro sulla vigilanza e sull’ascolto (porta testimonianza di vita, mostra le conseguenze
dell’accettazione e del rifiuto); la parola di Dio all’uomo data nella voce stessa dell’esperienza umana,
del vivere quotidiano.
In ultima istanza i Proverbi sono un libro laico, che dà spazio alla sapienza umana. Essi costituiscono
l’itinerario di ogni uomo ricercatore di sapienza che intende diventare saggio e giusto (i due
aspetti non sono scindibili); in questo cammino la strada dell’empietà porta alla morte.

4. Il libro del Qohelet (Ecclesiaste)


4.1. Titolo
Qohelet è part. del verbo qāhal, “riunire in assemblea”, “convocare” [è la stessa radice del sostantivo
qāhāl, “assemblea”, “riunione”, donde il nostro “chiesa”]. Il nome è femminile ma non designa una
donna, perché in ebraico sono femminili i nomi che designano un ufficio o una professione: per questo
potrebbe tradursi con “maestro di scuola”; ma potrebbe anche essere un soprannome e per questo
tradursi con “fondatore di un circolo o scuola filosofica” o “colui che riunisce”. Nella LXX è tradotto
con eklesia mentre il libro è denominato ekklesiastes.
4.2. Attribuzione e datazione

173
Anche il libro del Qohelet è attribuito a Salomone: «Qohelet, figlio di Davide, re di Gerusalemme»
(Qo 1,1; cfr. Qo 1,12 e 1Re 1,11-40); lo stesso protagonista afferma di essere stato re di Gerusalemme.
Per questo motivo il libro è stato inserito nel canone ebraico.
In realtà l’autore è quasi certamente un filosofo ebreo della fine del III secolo a.C. di Gerusalemme o
comunque della Palestina che cerca un dialogo a volte difficile tra la fede e la cultura giudaica e la
filosofia greca.
Il libro è stato denominato «il libro più mediterraneo dell’AT» proprio perché subisce il fascino
dell’ellenismo e lo avvicina ai grandi autori letterari e filosofi della grecità.
4.3. Temi
È un libro che dà fastidio presentando temi spigolosi e non facilmente ricevibili. Ad una prima lettura
potrebbe apparire che nessuna impresa umana porti ad un esito soddisfacente. Cfr. Qo 1,1:
«Fumo/nebbia/vapore, tutto è fumo/nebbia/vapore» (VG traduce con vanitas [“vacuità”, “vuoto”]):
qualcosa che è nebuloso, ostacolo a riconoscere il senso. Nell’evanescenza della vita il grande tema
del libro è il mettersi in ricerca: non esiste una risposta, ma bisogna farsi le grandi domande.
L’autore è alla ricerca del senso della vita in modo onesto.
Rispetto a Giobbe che si faceva domande anche inquietanti ma in una situazione di dolore innocente e
di sofferenza non meritata secondo l’antica concezione di retribuzione, il Qohelet si presenta come un
intellettuale che senza avere problemi particolari giudica la realtà con un certo distacco, a mente
fredda, senza una vera passione. In realtà è un autore che si mette in gioco specie quando parla della
sua ricerca: «Ho cercato, esplorato per mezzo della sapienza tutto ciò che avviene sotto il cielo» (Qo
1,3). Egli guarda e critica la società di cui fa parte: da quanto scrive si rivela più suddito che re, più
uno che subisce la realtà che non uno che determina la realtà.
4.4. Genere letterario
Il genere letterario del Qohelet non è facilmente individuabile. Si concentra sul rapporto
dell’individuo con se stesso, con la società e con Dio (sebbene quest’ultimo sia poco presente).
Il Qohelet è stato definito: un libro dal carattere sapienziale; un «testamento regale» (VON RAD),
genere diffuso in Egitto; una «diatriba filosofica dei cinici» (N. LOHFINK che vede l’influsso della
filosofia popolare ellenistica e della cultura semitica) per una sapienza degli opposti che si esprime per
opposizione dialettica di antitesi e polarità nello stile della diatriba piuttosto che per argomentazione;
o ancora un «diario di riflessioni o pensieri» che avvicina il Qohelet a autori moderni come Pascal o
contemporanei come Camus o Leopardi (al punto da poter individuare un’influenza di Qohelet su
Leopardi).
4.5. Struttura e contenuti
La struttura è unitaria:
 Qo 1,1-3. Titolo e ritornello.
 Qo 1,4-11. I poema: il cosmo e l’uomo.
 Qo 3,1-8. II poema: il tempo / i tempi (il Qohelet è uno dei pochi libri biblici – insieme ad
alcuni Salmi – che presenta una riflessione biblica sul tempo);
Qo 3,16-6,9: ricerca di ciò che è bene.
Qo 4,17-5,6: critica della religione e il timore del Signore;
 Qo 7,1-9,6. III poema: ricerca di ciò che è meglio [tôb]

174
 Qo 9,7-12,7. IV poema: la vecchiaia e malattia o la morte.
 Qo 12,8-14. Epilogo: esaltazione della cultura sapienziale e della religiosità di Qohelet e
invito a prendere la distanza dalle cose fin dalla giovinezza.
La struttura può anche essere vista come bipartita, con ognuna delle due parti divisa in due sezioni:
I – Qo 1,4-6,9: ricerca di ciò che è bene per l’uomo e senso dell’agire
A. Qo 1,4 - 3,15: prevalenza dell’Io con le esperienze del protagonista alla ricerca
della gioia
B. Qo 3,16 - 6,9: ricerca di ciò che è bene [tōb] per l’uomo.
II – Qo 7,1-11,6: critica della sapienza tradizionale
B’. Qo 7,1 - 9,6 (Qo 7,1-8: “è bene/meglio”, tōb).
A’. Qo 9,7 - 11,6
Qo 11,7 - 12,7: vecchiaia e malattia
Due sono i temi dominanti del libro:
 Il senso dell’agire umano e del suo affaticarsi: leitmotiv del libro sono le domande: che
senso ha tutto? Che cosa è bene per l’uomo? Che giova, qual è il vantaggio dell’affannarsi
dell’uomo?
 Il valore della sapienza in sé (capacità di riflessione) e nella sua versione tradizionale.
4.6. Messaggio
Si danno tre possibili interpretazioni:
1. La visione pessimistica che potrebbe emergere da una prima lettura (VON RAD): poiché il
mondo è diventato muto, non bisogna perdere le piccole occasioni di soddisfazione e di
piacere.
2. L’esortazione all’aurea mediocritas, ossia una via (morale) di mezzo (SACCHI).
3. Ultimamente è stata enfatizzata una visione positiva del Qohelet (BONORA, WHYBRAY,
LOHFINK): tutto è vanità e tutto è grazia e gioia. Il Qohelet può essere visto come
predicatore della gioia che è dono di Dio da gustare con riconoscenza o come “catechesi
del piacere” quale dono di Dio («tutto è hebel» ma al contempo tutto può essere grazia e
gioia, sicché l’uomo deve allenarsi ad accettarne i tempi).
In ogni caso nel Qohelet manca del tutto la prospettiva escatologica: è ancora una teologia
incompleta per cui la morte annienta l’uomo. Ma in vita «è bene» vivere gioiosamente e ricavare
soddisfazione dal proprio lavoro operando secondo il timore del Signore e riconoscendone l’azione;
per questo l’uomo deve allenarsi ad accettare i «tempi».

175
20. I libri sapienziali – II
Ct, Sap, Sir
1. Il Cantico dei cantici
1.1. Canonicità e datazione
1.2. Esegesi e interpretazione
1.3. Struttura e contenuti
1.4. Messaggio
2. I libri deuterocanonici
2.1. Il libro della Sapienza
2.1.1. Tipologia e datazione
2.1.2. Genere letterario
2.1.3. Struttura e contenuti
2.1.4. Messaggio
2.2. Il libro di Ben Sira - Siracide (Ecclesiastico)
2.2.1. Autore e datazione
2.2.2. Struttura e contenuto
2.2.3. Messaggio
1. Il Cantico dei cantici33
1.1. Canonicità e datazione
Il nome ebraico [shir hashirim] esprime un superlativo: “il canto per eccellenza”, “il più bel canto”. In
realtà il libro raccoglie tanti poemi appartenenti a generi letterari diversi che interpretano e cantano
i molteplici volti dell’unico medesimo tema. Dopo la sofferenza, l’amore è un altro tema universale.
Protagonisti del libro sono due figure senza nome: «Lui e lei, senza un vero nome, sono tutte le
coppie della storia che ripetono il miracolo dell’amore» (L. ALONSO SCHÖKEL). «Il Cantico è un
enigma», scrive AGOSTINO (Sermone 46,35). È un mistero di cui l’iniziato non parlerà perché non
potrà farlo (mysterion da myein, “tenere le labbra serrate”) e di cui il profano parlerà ma non sapendo
di cosa parla.
Proprio perché i protagonisti sono due figure umane che cantano le bellezze e i piaceri dell’amore e
non si fa mai menzione di Dio la canonicità del Cantico fu oggetto di discussione al Sinodo di Jamnia
(90 d.C.) e non fu accolta pacificamente fino a che Rabbi Aqibah disse: «Il mondo intero non vale il
giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il
Cantico dei cantici è il Santo dei santi».34 Nel Cinquecento, il saggio protestante Sébastien Castellion
seguito poi da Herder, propose in polemica con Calvino di eliminare il Cantico dal canone dei testi
ispirati. Dubbi sulla canonicità del Cantico sono stati espressi ancora nel Novecento da insigni teologi
ed esegeti come Dietrich Bonhoeffer e Luis Alonso Schökel.
Il Cantico è il megillah che gli ebrei leggono in giorno di Pasqua.
1.2. Esegesi e interpretazione

33
Bibliografia di riferimento: AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici,
trad. it. del Cantico di Enzo Bianchi, Qiqajon, Comunità di Bose; ORIGENE, Sul Cantico dei cantici, a cura di V.
Limone e C. Moreschini, Bompiani.
34
Poiché secondo la tradizione rabbinica alcuni passi del Cantico erano cantati nelle taverne, sdegnandosi Rabbi
Aqiba affermò: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel
mondo futuro».

176
Poiché il Cantico è un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque
esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti, di esso sono state proposte diverse
letture e interpretazioni:
 Esegesi letterale: già il Talmud ammonisce a non sottovalutare la letteralità che nessun
testo biblico deve mai perdere. Tra i maggiori letteralisti (o naturalisti) figurano bizantini
come TEODORO DI MOPSUESTIA o ebrei come IBN EZRA.
 Esegesi spirituale e psicologica: l’amore di Dio si svela a partire dal disvelamento
dell’amore umano; occorre dunque partire dall’amore umano per poi penetrarne la valenza
simbolica.
 Esegesi allegorica o mistica o anagogica: il Cantico come celebrazione dell’alleanza
sponsale tra JHWH e Israele (secondo l’interpretazione giudaica) e come figura dell’amore
di Cristo per la Chiesa (secondo la Vulgata), dove l’amato è Dio o Cristo e la Sulamita è il
popolo di Israele o la Chiesa. Questa interpretazione si accorda con il linguaggio profetico:
cfr. la metafora sponsale in Os, Is, Ger, Ez e nel NT Ef 5 (Cristo sposo della Chiesa) e Gv
20 (Maria Maddalena davanti al sepolcro come l’amata che cerca lo sposo).35 Questa
interpretazione era diffusa nel giudaismo (esegesi midrashica) e fu protratta
nell’interpretazione cristiana con i Padri della Chiesa. In particolare, nel suo Commento al
Cantico l’ORIGENE della maturità raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la
sua contrapposizione fra anima e corpo, metafora e lettera, kerygma e esoterismo. Col
bisturi della filologia Origene neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al
loro puro spirito, così sottraendo al Cantico letteralità e realista fisicità per diventare
un’allegoria dell’eros mistico. La Sulamita che cerca lo sposo è in primo luogo l’anima,
che secondo la tradizione platonica cerca sempre – senza trovare – la perfezione del Logos
(quaesivi et non inveni).
 Esegesi cultuale: negli ultimi temi il Cantico è stato visto come trarre origine dagli antichi
racconti della fecondità e dell’unione erotica diffusi nel VOA (sarebbe perciò un patchwork
di canti e poemi attinti al patrimonio della tradizione non solo ebraica ma anche assiro-
babilonese ed egizia, con echi greco-ellenistici nello stile di Teocrito) che però Israele ha
demitizzato, desacralizzando in questo modo l’unione sessuale (i due amanti non sono più
due divinità).
La datazione è discussa: si va dall’attribuzione a Salomone all’epoca di Ezechia fino al periodo
ellenistico (per via di paralleli con i poemi erotici del tempo). Probabilmente per l’influsso egiziano il
Cantico risale all’epoca dei Tolomei (III secolo a.C.).
1.3. Struttura e contenuti
Sequenza bipartita:
Ct 1,1. Titolo: “Cantico dei Cantici”
Ct 1,2-5,1. I parte.
Ct 1,2-2,7: prologo - l’incontro tra i due ragazzi
Ct 2,8-3,5: nei due canti dell’amata e nell’alternanza di mattino (Ct 2,8-17) e notte (Ct
3,1-5) i due giovani si avvicinano

35
Altri sistemi allegorici minori spesso iniziatici – astrologici, cabalistici, filosofico-sapienziali – si diffusero
nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna.

177
Ct 3,6-11: corteo nuziale
Ct 4,1-5,1: due canti dell’amato esaltano la bellezza e l’incontro con la sua amata
Ct 5,2-8,4. II parte: i “canti del corpo”
Ct 5,2-6,3: l’amore perduto e ritrovato
Ct 6,4-7,11: il corpo femminile (la donna che dona se stessa)
Ct 7,12-8,4: epilogo - i luoghi dell’amore (ripetizione dei verbi “dare”, “dare se stessi”)
Ct 8,5-14. Conclusione: «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo
braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio». «Il mio amato
mio per me e io per lui» [Dodi lì va anì lo]. L’amore non si può comprare: la situazione
economica e la dote sono superate nella libertà.
1.4. Messaggio
Tutto il Cantico è centrato sul desiderio: i due prima considerati singolarmente diventano una coppia
in un desiderio che apre e mette tutto in movimento. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai
amato», scrive SAN BERNARDO. A differenza di Genesi dove Adamo tende a dominare la donna, nel
Cantico il dominio è superato perché i due appartengono l’uno all’altro. Si tratta di un amore che apre
e mette in moto, come Abramo e i profeti (“va’ - vattene - fuggi”).
L’ambiente del Cantico ricorda molto da vicino il paradiso: l’amore e la sessualità sono considerati del
tutto positivamente e vissuti non come qualcosa di peccaminoso ma in modo gioioso e sereno. Il
Cantico è stato definito un «manuale della rivelazione sull’amore e la sessualità» inseriti
nell’ordine della creazione per cui l’uomo realizza con la donna una sola carne (richiamo a Gen 2,4).
Il Cantico è anche visto come una «parabola dell’amore di Dio per il suo popolo»: luogo teologico
rivelatore del modo in cui Dio ama il suo popolo.
2. I libri deuterocanonici
Il libro di Ben Sira e il libro della Sapienza non sono stati accolti nel canone ebraico mentre sono
presenti nella LXX e nel canone cristiano. Sono testi usati sin dall’inizi del cristianesimo e poi
tramandati.
Con certezza il Siracide fu scritto in ebraico e poi tradotto in greco [cfr. Prologo]; egualmente con
certezza la Sapienza è stato scritta direttamente in greco. Entrambi i libri hanno le loro origini nelle
comunità della diaspora, sono testimonianza della presenza ebraica nel mondo ellenistico, ed
esprimono un confronto dialogico con la cultura ellenistica.
2.1. Il libro della Sapienza
2.1.1. Tipologia e datazione
Il Liber sapientiae non è mai stata recepita nel mondo giudaico; il suo inserimento nel canone della
Bibbia greca è stata opera del cristianesimo.
È uno scritto pseudoepigrafico il cui ambiente di origine forse è la scuola. Per acquisire autorità lo
scritto, di autore anonimo, è attribuito a Salomone che, ormai anziano, esorta alla ricerca della
sapienza; i discepoli sono figli di famiglie borghesi che intendevano inserirsi nella società del tempo.
La data più probabile di composizione è da porsi dopo il 30 a.C., all’epoca di Augusto. È uno scritto
giudeo-ellenistico dell’inizio della dominazione romana che si pone tra giudaismo ed ellenismo: in

178
esso sono chiari sia i concetti biblici relativi alla storia di Israele (midrash) sia alcuni concetti filosofici
ellenistici (es. vita immortale) espressione del mondo greco.
L’ambiente di origine è probabilmente la diaspora ebraica egiziana alessandrina dove si parlava
greco. Ne sono evidenza: la presenza di termini greci sconosciuti nelle epoche precedenti (es. sèbasma
o treschèia); una chiara parodia dell’epicureismo materialista; la cultura enciclopedica di Salomone
che ci offre un quadro delle scienze dei greci.
2.1.2. Genere letterario
Il genere è quello epidittico (encomio o elogio della Sapienza), che era molto conosciuto
nell’antichità: lo scopo è di far ammirare o mostrare una qualità.
2.1.3. Struttura e contenuti
Tema del libro: la ricerca e la pratica della sapienza.
Due principi guidano la narrazione: la legge del contrappasso (che presuppone esplicitamente
l’esistenza di una vita oltre la morte) e la clemenza e pedagogia nell’agire divino.
Stile del testo: una prosa ritmata vicina alla poesia. Il libro si struttura in quattro parti:
1. Sap 1,1-6,21. Esordio: il ruolo della sapienza nel destino umano.
2. Sap 6,22-9,18. Elogio vero e proprio della Sapienza:
 Sap 6,22-8,21: elogio della sapienza in sé
 Sap 9,1-18: elogio della sapienza in Salomone
3. Sap 10,1-19,22. Synkrisis [“paragone”]: la sapienza salvatrice nella storia. Confronto di
due elementi per farne emergere uno con esempi noti agli interlocutori (esempi vi sono
nella letteratura greca e latina, es. Plutarco). In particolare, sono identificabili sette scene
che separano tutti i paralleli descrittivi delle piaghe e delle benedizioni:
Intr. Sap 10,15-11,5
1: Sap 11,6-14: acqua del fiume / acqua dalla roccia
Sap 11,15-12,27 e Sap 13,1-15,19: due digressioni
2: Sap 16,1-4: rane-insetti / quaglie
3: Sap 15,5-14: mosche-cavallette / serpente di bronzo
4: Sap 16,15-29: tempesta e grandine(fuoco) / manna
5: Sap 17,1-18,4: tenebre / luce
6: Sap 18,5-25: morte dei primogeniti / Israele risparmiato
7: Sap 19,1-19: annegamento nel mare / passaggio
Concl. Sap 19,10-22
4. Conclusione che ricapitola e mostra la morale.
2.1.4. Messaggio
La sapienza è una realtà oggettiva, stabile, in massima relazione con Dio.

179
Lo sguardo è rivolto al futuro / aldilà senza perdere o trascurare lo sguardo sul presente: nella prima
parte prevale lo sguardo al futuro / aldilà; nella seconda parte lo sguardo è al presente; nella terza
parte lo sguardo è rivolto al passato.
In Sap 17,11 c’è la prima menzione nella Bibbia della “coscienza” [synèidēsis], sviluppata poi nel NT
da Paolo che è l’autore che meglio di tutti fa emergere chiaramente il concetto di coscienza.
Sono anche presenti influssi apocalittici: «i giusti nell’aldilà saranno come angeli al servizio del
Signore».
Molti capitoli saranno riletti in chiave cristiana: es. Sap 2 (“il giusto perseguitato”).

2.2. Il libro di Ben Sira - Siracide (Ecclesiastico)


2.2.1. Autore e datazione
Nella Bibbia non troviamo mai l’esatta indicazione né dell’autore (solitamente i testi sono anonimi o
pseudoepigrafi) né del periodo storico. Il Siracide è di fatto l’unico libro dell’AT di cui conosciamo
tanto l’una quanto l’altra.
Il nome dell’autore è Gesù [Yesus Sira = figlio di Sira]. Ben Sira è un appellativo che in greco viene
letto Sirach. La tradizione latina lo chiama Ecclesiastico, forse per la sua lettura in “comunità” (scuola
o comunità religiosa). Ben Sira operò quasi certamente in vari ambiti: istruzione (esercitò la sua
attività di maestro nella sua scuola [bet midrash, “casa dell’istruzione”]), governo, viaggi fuori di
Israele. Impersona il tipico saggio giudeo intellettuale dell’epoca. È un credente che esprime in modo
profondo il suo credo con riferimento costante alla Torah e alla preghiera. Parla in prima persona:
racconta della sapienza dopo averne fatto esperienza lui stesso e raccoglie il suo insegnamento in
quest’opera per le generazioni future. I 51 capitoli del Siracide costituiscono quasi il curriculum di
uno studente di sapienza.
Come si legge nel Prologo del traduttore greco – che pur ispirato non è canonico – il libro fu scritto
originalmente in ebraico a Gerusalemme (cfr. Sir 50,27) tra il 190-180 a.C., probabilmente in più
tappe. La data di composizione è confermata dal clima che traspare nel libro, che rimanda a prima del
conflitto con l’ellenismo all’epoca della rivolta maccabaica, di cui non c’è traccia. Cinquanta anni
dopo nel 132 a.C. – trentottesimo anno del re Evergete II (Tolomeo VIII - Fiscone, 170-116 a.C.) – in
Egitto il nipote intraprese la traduzione in greco dell’opera del nonno per gli ebrei della diaspora
ravvisando l’importanza pedagogica (cfr. Prologo vv.34-36).
Il testo ebraico ci è pervenuto per circa due terzi (dal 196) dalla genizah (il ripostiglio dove sono
riposti i rotoli usurati o poco leggibili a causa del passare del tempo) della sinagoga del Cairo con
manoscritti dell’X-XI secolo. L’edizione critica del testo ebraico è da confrontare con il testo ispirato e
canonico greco.
L’opera ebbe varie vicende. Stimata e letta nell’antichità, non fu però inserita nel canone ebraico,
mentre rimase in quello greco. Fu la tradizione cristiana a tramandarne il testo. In pratica, fu un libro
«alla frontiera del canone».
2.2.2. Struttura e contenuto
 Sir 1,1-4,10. Prologo: elogio della sapienza e del timore di Dio quali espressione della
religione e dell’attaccamento e della riverenza del giudeo praticante.
 Sir 4,11-23,17. I Parte: le pericopi sulla ricerca della sapienza.

180
 Sir 24,1-42,14. II Parte: discernimento e comportamento dei singoli e della comunità
nella storia. Centro del libro è l’inno alla Sapienza che diventa quasi la legge.
 Sir 42,15-50,26. III Parte: le opere del Signore nella creazione e nella storia. Sguardo
universale di salvezza.
 Sir 51,1-30. Epilogo e nuovo elogio alla Sapienza: metafora coniugale con sposa questa
volta la Sapienza.
2.2.3. Messaggio
La ricerca e la sequela della Sapienza sono il tema centrale del libro.
Nel suo progetto pedagogico Ben Sira intende aiutare a riconoscere un ordine nascosto spesso
ambiguo e nascosto nelle contradizioni del mondo e si propone di insegnare la difficile arte del
discernimento consistente nel trovare e scegliere ogni volta il giusto aspetto. Come negli altri libri
sapienziali fonte della sapienza è l’esperienza.
Sapienza-Torah-timore del Signore sono strettamente legate: non c’è Sapienza senza timore di Dio
(uno dei temi centrali del libro - cfr. centralità data all’Inno alla sapienza posto al capitolo 24) e non
c’è timore di Dio senza l’osservanza della Legge.
L’ideale del saggio in Ben Sira è la sintesi tra fede e ragione, tra teologia e cultura. L’opera
dell’uomo e di Dio restano oscure: ma a differenza del Qohelet, il Siracide canta la fede nel Signore;
la sapienza è un dono che bisogna chiedere al Signore. Inoltre, la Sapienza è vista come rivelazione
storica: i grandi eventi o le opere di Dio arricchiscono le riflessioni del saggio in una specie di
filosofia della storia.

181
21. La poetica ebraica: i Salmi36
1. Introduzione
2. Generi letterari
2.1. Gli inni
2.2. Le suppliche
2.3. I canti di ringraziamento individuale
2.4. Salmi regali
3. Analisi poetica: alcuni procedimenti formali
3.1. Parallelismo
3.2. Ripetizioni basate sui suoni delle parole
3.3. Figure retoriche
3.4. Immagini e simboli
4. Lettura contestuale dei Salmi
4.1. Elementi organizzativi nel Salterio
4.2. Gruppi di Salmi
4.2.1. I Salmi imprecatori
4.3. I segni redazionali
5. La datazione
6. La numerazione dei Salmi
1. Introduzione
Il libro dei Salmi [gr. psalmos, da psallō = «cantare accompagnandosi con la cetra» - che traduce l’ebr.
mizmôr, «canto con accompagnamento») si colloca nell’ambito della poetica ebraica.
Nella TM e nella Bibbia siriaca i salmi sono 150; nella LXX e nella Vg si aggiunge il Salmo 151): a
Qumran è stato ritrovato il testo ebraico del Salmo 151 (relativo alla figura di Davide come pastore).
2. Generi letterari
Nel salterio sono presenti molti generi letterari in forma poetica. H. Gunkel individua dei generi
letterari [Gattung] e classifica i salmi sulla base di una griglia didattica di valutazione, sp. tre criteri:
1. Appartenenza ad una determinata situazione liturgica o derivazione diretta dalla liturgia;
2. Comune patrimonio di pensieri e stati d’animo originati da uno stesso Sitz im Leben (quale
la comunità o situazione – sociologica, storica, liturgica, etc. – generante un dato testo?);
3. Collegamento tra i singoli brani in virtù di un comune linguaggio formale.
La classificazione proposta da Gunkel, superata per molti versi al punto da essere stata continuata e
successivamente perfezionata, rimane comunque di riferimento:
 Generi maggiori: inni, suppliche collettive e individuali, canti di ringraziamento
individuale e salmi regali.

36
Bibliografia di riferimento: G. Ravasi, Il libro dei Salmi, I-II-III, EDB, Bologna 1981 (Nuova Edizione Vol.
I-II EDB, Bologna 2002); T. Lorenzin, I Salmi. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici, Primo
Testamento 14), Paoline, Milano 2000; K. Seybold, Poetica dei Salmi (Suppl. all’Introduzione allo studio
dell’Antico Testamento), Paideia, Brescia 2007; L. Alonso Schökel - C. Carniti, I Salmi, I-II, Borla, Roma 1992;
D. Kimchi, Commento ai Salmi, a cura di L. Cattani, 3 voll., Città Nuova, Roma 1991.1995.2001 (commento
della tradizione giudaica medievale); A. Wénin, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003; S. Bazyliński, I salmi in
P. Merlo (ed.), L’antico Testamento, Introduzione storico-letteraria, Carocci, Roma 2008, 241-257.

182
 Generi minori: salmi di pellegrinaggio, salmi sapienziali, canti di ringraziamento
nazionale, salmi collegati con la liturgia, salmi di fiducia, la liturgia della porta (canto che
al momento dell’ingresso nel santuario esprime la indegnità di chi entra), salmi misti.
2.1. Gli inni
Sono inni di lode a Dio che scaturisce da Dio stesso; si parla dell’azione di Dio in favore del suo
popolo e della creazione [Sal 8; 19; 29; 33; 65; 67; 68; 96; 98; 100; 103; 104; 105; 111; 113; 114; 117;
135; 136; 145; 146; 147; 148; 149; 150].
Ambientamento: la liturgia dell’offerta o delle feste.
Schema ricorrente:
 Introduzione: invito a lodare il Signore (i verbi utilizzati sono «lodate», «cantate»,
«inneggiate», «esultate», «suonate», etc.);
 Corpo dell’inno, introdotto ordinariamente da un «poiché» (ebr. kî): presentazione delle
motivazioni della lode;
 Conclusione: pur avendo caratteristiche differenti, riprende con qualche variazione l’invito
iniziale alla lode.
2.2. Le suppliche
Collettive [Sal 44; 58; 74; 79; 80; 83; 106; 125]: di fronte a un pericolo o una grave minaccia la
comunità fa appello a Dio manifestando il suo stato d’animo; invoca da Dio il suo intervento
rievocando le sue gesta del passato; infine, ringrazia Dio per la sua azione in suo favore.
Individuali [Sal 3; 5; 6; 7; 13; 17; 22; 25; 26; 27,7-14; 28; 31; 35; 38; 39; 42; 43; 51; 54; 55; 56; 57;
59; 61; 63; 64; 69; 70; 71; 86; 88; 102; 109; 120; 130; 140; 141; 142; 143]: condividono la sofferenza
dell’uomo che cerca appoggio nel Signore.
2.3. I canti di ringraziamento individuale
[Sal 18; 30; 32; 34; 40,2-12; 41; 66; 92; (100); (107); 116; 118; 138]. Sono molto ben individuabili
dalla parola iniziale «ringrazio» [’ôdēh]: sono salmi che esprimono una riconoscenza gioiosa al
Signore.
2.4. Salmi regali
I Salmi regali [Sal 2; 18; 20; 21; 45; 72; (89,47-52); 101; 110; 132; 144,1-11] sono associati alla vita
pubblica: fanno riferimento al re e ai cerimoniali di corte in un momento della storia di Israele in cui
l’istituzione regale era già importante. Con l’intronizzazione si instaurava un rapporto del tutto
speciale tra il re (l’unto e il consacrato) e il Signore che gli affidava l’amministrazione del governo e
della giustizia.
Motivi stilistici:
 L’oracolo che richiama il decreto divino rivolto al re [Sal 2,7-9; 110,1.3-4];
 La promessa divina nei confronti della dinastia di Davide [Sal 72,1-2; 132,1-2.10];
 La preghiera che invoca da Dio l’aiuto per il re [Sal 20; 45; 72].

183
3. Analisi poetica: alcuni procedimenti formali
3.1. Parallelismo
È la collocazione “in parallelo” di suoni, parole, forme grammaticali, strutture sintattiche, cadenze
ritmiche; ricomparsa o ripetizione particolare di uno dei componenti del discorso in un testo:
 P. sinonimico: il secondo membro di un insieme ripete con altre parole il concetto espresso
dal primo membro [es. Sal 51,4];
 P. antitetico: il secondo membro di un insieme esprime il pensiero opposto o contrastante a
quello espresso dal primo membro [es. Sal 27,10];
 P. sintetico: il contenuto espresso dal primo membro è completato dal secondo membro
[es. Sal 3,5].
3.2. Ripetizioni basate sui suoni delle parole
È un gioco poetico-retorico che facilita la memorizzazione dei Salmi (che erano letti a voce alta) e
aiuta a far risaltare il testo. Tutto questo vale per il testo originale ma si perde con le traduzioni.
 Allitterazione: ripetizione di segni fonetici uguali o simili all’inizio o alla fine di ogni
parola [es. Sal 127,1].
 Assonanza: flessione verbale derivante anche dalla formazione di alcuni nomi [es. Sal 22,
17-18].
 Paronomasia: accostamento di due parole dal suono simile per mettere in risalto
l’opposizione dei rispettivi significati [es. Sal 34,20 “mali” - “giusto”].
 Rima: ripetizione in fine parola di un emistichio o verso [es. Sal 34,15]. È abbastanza rara
nella poesia ebraica.
3.3. Figure retoriche
 Metafora: figura tipica della poetica ebraica consistente nell’attribuire ad un soggetto un
predicato nominale o verbale che non gli conviene del tutto ma solo per qualche
caratteristica; è una figura di sintesi che si attua mediante una serie di trasposizioni di
significati. Può essere esplicita (v. “essere”) o implicita (senza v. “essere”). [Es. Sal 55,22].
 Metonimìa (“scambio di vocaboli”): è l’identificazione di due termini che stanno fra loro in
qualche vicendevole rapporto (causa-effetto, contenente-contenuto, etc.). [Es. Sal 5,10].
 Similitudine: è un paragone o confronto che si stabilisce tra due soggetti medinate l’uso di
termini che denotano somiglianza (“come”) per cui un termine viene chiarito dall’altro.
[Es. Sal 144,12].
 Personificazione: è l’attribuzione di caratteristiche della persona umana ad una realtà o
concetto astratto (es. virtù o attributi di Dio) che diventano così soggetti personificati di
una frase. [Es. Sal 85].
 Prosopopea: figura in cui si concede la parola a persone assenti o defunte oppure a cose
inanimate o astratte come fossero vive. [Es. Sal 35,10].
 Sineddoche: figura in cui una parola riceve qualcosa del significato di un’altra [es. Sal
87,2].
3.4. Immagini e simboli

184
 Nella poesia prevale soprattutto l’immagine [es. Sal 34 – rappresentazione di Dio in forma
umana].
 I simboli sono universali a tutte le culture: luce, oscurità, strada, montagna, deserto, etc.
4. Lettura contestuale dei Salmi
Negli ultimi decenni si è individuata una lettura attenta sia al contesto immediato (il Salmo nel suo
contesto) sia al contesto più esteso dei Salmi (in relazione con gli altri Salmi vicini).
4.1. Elementi organizzativi nel Salterio
I Salmi sono un’opera letteraria organizzata: in virtù della loro efficacia espressiva, poetica e
religiosa, sono stati riutilizzati per circostanze nuove. Tracce di questo riuso sono riscontrabili nel
Salterio sp. nei doppioni [es. Sal 57 e 60], nelle parti di alcuni salmi riutilizzate in altri salmi [es. Sal
29,1-2 e 96,7-8] e nel passaggio dai Salmi più antichi a quelli più recenti [es. Sal 18 e 144].
4.2. Gruppi di Salmi
Dei 150 ben 73 sono attribuiti a Davide (Salmi di Davide) in base ai Titoli e alle Introduzioni (lamed
auctoris, indicazioni per il canto o indicazioni contestuali – momenti concreti della vita di Davide, es.
Sal 51).
Salmi regali [Sal 93-100] dedicati alla regalità di Yhwh.
Salmi ascensionali [Sal 120-134] che si rifanno alle feste di pellegrinaggio che gli ebrei compivano
andando verso Gerusalemme.
4.2.1. I Salmi imprecatori
 Sal 5,5-7
 Sal 35,8-26
 Sal 52,7-8
 Sal 58,7-11
 Sal 69,22
 Sal 109,6-20
 Sal 137,8-9
Questi salmi appartengono al genere letterario delle lamentazioni: il giusto nella ristrettezza o nella
sofferenza emette il proprio lamento e grido di dolore contro i nemici. Facendo parte della vita
dell’uomo sono preghiera. Con il progredire della rivelazione prevale la considerazione che l’AT
«contiene cose imperfette e caduche» (DV 15).
Nei PNLO si afferma che l’espunzione dei versetti imprecatori dalla liturgia è motivata dalla
difficoltà psicologica che essi pongono, ma in nessun modo essi intendono indurre all’imprecazione e
alla maledizione.
4.3. I segni redazionali
Il libro dei Salmi è suddiviso in cinque libri in virtù di formule dossologiche redazionali alla fine di
ogni gruppo:
I. 1-41
II. 42-72
III. 73-89
IV. 90-106
V. 107-150

185
Questa suddivisone è avvenuta in fasi diverse:
 Sal 1-89 sono i più antichi (come confermato dai manoscritti di Qumran);
 Sal 90-150 sono le raccolte più recenti e meno compatte e omogenee (prevalentemente
salmi di lode, molti dei quali anonimi).
5. La datazione
I Salmi sono stati composti dall’epoca del post-esilio fino al II-I secolo a.C. (cfr. trad. LXX).
6. La numerazione dei Salmi
La duplice numerazione risponde al duplice testo di riferimento – il testo ebraico (TM) e il testo greco
(LXX):
 1-8: testi paralleli;
 9-147: duplice numerazione (mentre nel TM ci sono i Sal 9 e 10, nella LXX c’è solo il 9);
 148-150: testi paralleli.
Nella CEI 1971 prevaleva la numerazione greca; nella CEI 2008 prevale la numerazione del TM.

186
Parte terza:
Introduzione al Nuovo Testamento
22. Il contesto storico del Nuovo Testamento37

1. Le fonti
1.1. Autori greci e latini
1.2. Autori e scritti giudaici
1.2.1. Giuseppe Flavio (37-104 d.C.)
1.2.2. Filone d’Alessandria (25 a.C. - 50 d.C.)
1.2.3. Gli apocrifi dell’AT
1.2.4. La letteratura rabbinica
1.2.5. I manoscritti di Qumran
2. Il contesto storico
2.1. La fine del regno di Giudea indipendente
2.2. Erode il Grande (73-4 a.C.)
2.2.1. Le relazioni di Erode con Roma
2.3. I successori di Erode
2.4. La prima amministrazione romana in Giudea (6-41 d.C.)
2.4.1. I procuratori precedenti a Pilato
2.4.2. Il procuratore Ponzio Pilato (26-36 d.C.)
2.4.3. Il regno di Erode Agrippa I (41-44 d.C.)
2.4.4. Agrippa II (49 - dopo il 92 d.C.)
2.5. La seconda amministrazione romana (44-66 d.C.)
2.6. La grande guerra giudaica (66-74 d.C.)
2.7. La seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.)
2.8. Le date principali del Nuovo Testamento
1. Le fonti
I principali documenti scritti di questo contesto, al di fuori del NT sono:
1.1. Autori greci e latini
Strabone di Amasia (64 a.C. - 19 d.C. ca.). Tratta della Palestina nella sua Geografia (XVI, 2, 25-48).
Giuseppe Flavio usa come fonte un suo scritto andato perduto.
Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). Descrive la Palestina aggiungendo alcune notizie storiche nella sua
Naturalis historia (V, 13-17); ha conosciuto la conquista romana di Gerusalemme e probabilmente ha
preso direttamente parte alla guerra giudaica del 66-70 d.C.

37
Bibliografia di riferimento: E. LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 19932 (approccio
storico); R. PENNA, L’ambiente storico-culturale della origini cristiane, EDB, Bologna 20004 (raccolta ragionata
di fonti); E. SCHÜRER - G. VERMES, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, 4 voll., tr. it., Paideia,
Brescia 1985-19972; R. FABRIS E ALTRI (a cura di), Logos. Corso di studi biblici, Vol. I, Introduzione generale
alla Bibbia, LDC, Leumann (Torino), 20062; J. JEREMIAS, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerche di storia
economica e sociale per il periodo neotestamentario, tr. it., Carocci, Roma 1989; J. MAIER, Il giudaismo del
secondo Tempio. Storia e religione, tr. it., Paideia, Brescia 1991; P. SACCHI, Storia del secondo Tempio: Israele
tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 1994. Cfr. anche A. NICOLOTTI in: http://www.christianismus.it.

187
Cornelio Tacito (54-119 d.C.). Parla spesso dei Giudei, anche se non sempre a proposito. Dei suoi
Annales abbiamo conservato solamente quanto riguarda gli anni 14-37 e 47-65 d.C.; le sue Storie
trattano dell’epoca che va dal 69 sino ai primi anni di Vespasiano (69-79 d.C.).
Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 d.C. ca.). Nella sua Vita dei dodici Cesari tratta di argomenti
giudaici; nelle fonti su Gesù ne tratta dal punto di vista pagano. Attinge specie da Giuseppe Flavio.
Plutarco di Cheronea (47-125 d.C. ca.). Scrisse le Vite parallele tra le quali la Vita di Antonio (inizi
del II secolo d.C.) è la più ricca di spunti giudaici.
Dione Cassio (155-235 d.C. ca.), senatore e governatore romano. Scrisse una monumentale opera
storica pervenutaci parzialmente o in epitome: di quanto è sopravvissuto è utile al nostro scopo
soprattutto il Cap. XXXVII, 15-18.
Giulio Solino (IV secolo d.C.). Compose un’opera geografica dal titolo Collectanea rerum
memorabilium [Raccolta di cose memorabili].
Giovanni Zonara (metà del secolo XII d.C.). Scrisse una Epitome di storia, servendosi di fonti oggi
perdute, tra cui Dione Cassio.

1.2. Autori e scritti giudaici


1.2.1. Giuseppe Flavio (37-104 d.C.)
Storico giudeo, è una figura importantissima per il NT specie perché non è una fonte cristiana. In
generale, dopo i Vangeli è la fonte storica più importante per la storia di quel periodo.
Giuseppe nacque intorno al 37 d.C. da famiglia sacerdotale. Da giovane conobbe diverse sette che poi
descrive; per un certo periodo fu discepolo dei farisei e fu affascinato dagli esseni, che quasi
certamente ha frequentato (come postulante?), come si evincerebbe dal suo parlarne con cognizione di
causa (cfr. Guerra Giudaica II, 117-161); fu discepolo di un certo eremita Banno.
Giuseppe conosceva Roma sin dall’età di 26 anni e fu inviato come governatore di Galilea; inviato a
domare la rivolta giudaica alla guida dell’esercito giudaico, è catturato e fatto prigioniero dai romani.
Tuttavia, per la sua cultura e la sua conoscenza del greco (oltre all’ebraico) gli viene fatta salva la vita;
è in qualche modo “adottato” dai romani acquisendo il nome romano di “Flavio” in onore di
Vespasiano (dinastia dei Flavi) e diventando di fatto storico dei romani. Tuttavia, rimane giudeo e
tende a esaltare tutte le glorie del popolo ebraico. Scrisse quattro opere maggiori:
 Il De bello Iudaico (scritto nel 75-79 d.C.) è il racconto in prima persona della guerra
giudaica del 66-70 d.C.
 Le Antiquitates iudaicae (scritte nel 93-94 d.C.) narrano la storia di Israele; per alcuni
periodi di essa – sp. IV-I sec a.C. – anche Giuseppe Flavio è scarso di fonti.
 Il Contra Apionem (scritto nel 97-98 d.C.).
 La Vita (autobiografia).
Solitamente le opere di Giuseppe Flavio sono degne di fede, perché disponevano di fonti che non ci
sono pervenute (sp. le opere dello storico Nicola di Damasco che operò alla corte di Erode il Grande).
Tuttavia, occorre sempre tenere a mente che era alle dipendenze dei romani: l’affidabilità storica di
quanto scrive pone un problema e va valutata di volta in volta (quando scrive dei romani la sua
posizione potrebbe essere viziata, mentre non lo sarebbe quando scrive dei giudei).
Giuseppe Flavio morì negli anni tra il 98 e il 104 d.C.

188
1.2.2. Filone d’Alessandria (25 a.C. - 50 d.C.)
Nacque intorno al 25-20 a.C. da una ricchissima famiglia ebrea trapiantatasi in Alessandria d’Egitto.
Fu un grande letterato e filosofo istruito sia nelle tradizioni giudaiche sia nelle lettere greche. Con lui
si rafforza e si stabilisce come metodo di interpretazione biblica l’esegesi allegorica della storia e
delle leggi dell’AT. Oltre ai commentari allegorici Filone scrive tra le altre In Flaccum e De legatione
ad Gaium, due apologie in difesa dei giudei di Alessandria.
Nei suoi scritti non nomina mai Gesù pur essendogli contemporaneo. Dunque, è una fonte per quanto
riguarda non la figura storica di Gesù ma il contesto e l’ambiente della sua predicazione, nonché
l’interpretazione biblica con metodo allegorico.
Filone morì probabilmente nel 50 d.C.
1.2.3. Gli apocrifi dell’AT
Sono scritti in ebraico o aramaico dall’epoca del secondo Tempio fino al 100 d.C. Ci sono pervenuti
soprattutto in traduzione. Trasmessi dai cristiani, sono scritti importanti per comprendere la storia
religiosa dell’epoca. Tra questi figurano, in particolare: i Salmi di Salomone (18 carmi contenuti nella
LXX che alludono alle imprese di Pompeo); gli Oracoli sibillini (poi trasmessi e integrati dai
cristiani); l’Assunzione o Testamento di Mosè (che tratta di Erode il Grande e Archelao); il
Testamento dei XII patriarchi (con richiami al periodo asmoneo e con interpolazioni cristiane).
1.2.4. La letteratura rabbinica
Risale alla tarda epoca del secondo Tempio ed include:
 La Mishnah: raccolta delle tradizioni orali risalenti ai dottori della Legge (Torah orale)
messe per iscritto.
 La Tosefta: raccolta risalente al 250 d.C. ca. che integra la Mishnah.
 I due Talmudim – Talmud di Babilonia e Talmud di Palestina o di Gerusalemme (IV-V
secolo d.C.): raccolta di commenti e discussioni sulla Mishnah; è un testo fondamentale
anche per i giudei di oggi.
 I Midrashim: commenti alle Scritture composti dalle varie scuole rabbiniche; i più antichi
riguardano la Torah.
 I Targumim: traduzioni in aramaico – successivamente messe per iscritto – delle Scritture
ebraiche quando non sono più comprensibili sia in Palestina sia nelle comunità della
diaspora ellenistica; non sono traduzioni letterali ma parafrasi e dunque interpretazioni,
come tali importanti per capire sia quale l’interpretazione di un testo in quel momento sia
le frequenti citazioni dell’AT nel NT.
1.2.5. I manoscritti di Qumran
Sui rotoli del Mar Morto cfr. § 9.

2. Storia
2.1. La fine del regno di Giudea indipendente
Dopo la rivolta maccabaica, nel 67 a.C. moriva a Gerusalemme la regina Alessandra Salome, moglie
del defunto re e sommo sacerdote Alessandro Janneo (103-76 a.C.), della dinastia degli Asmonei che
all’epoca divideva il potere con la dinastia dei Tolomei. Alla morte della madre il secondogenito

189
scalza il primogenito e legittimo erede al trono, scatenando una guerra civile che impone agli Asmonei
di chiamare in aiuto il luogotenente romano per risolvere le guerra fratricida. Nel 63 a.C. Pompeo
entra a Gerusalemme: profana il tempio entrando nel Sancta Sanctorum; il fatto di trovarlo vuoto desta
la sorpresa di Pompeo al confronto con i templi politeistici dei romani.
Dunque, il popolo ebraico perdeva l’indipendenza faticosamente acquisita dopo secoli di lotta. Da
questo momento la Palestina cade sotto l’influenza della Siria. Alla corte asmonea di Gerusalemme il
potere dell’etnarca fu limitato: Ircano fu costituito sommo sacerdote ed etnarca, ma senza il titolo di
re.

2.2. Erode il Grande (73-4 a.C.)


Dopo la morte di Pompeo e l’ascesa di Giulio Cesare, nel 47 a.C. Antipatro fu nominato procuratore
[epítropos] della Giudea e cittadino romano per i meriti acquisiti nell’aver aiutato i romani in Egitto.

190
Prima di morire avvelenato in un complotto di corte, designò i suoi figli Fasaele ed Erode – poi
soprannominato «il Grande» da Giuseppe Flavio – governatori [strategói] rispettivamente di
Gerusalemme e di Galilea. Quindi, Erode ottiene il titolo di governatore della Samaria. Nel 40 i Parti
occuparono la Siria romana e nominarono Antigono re di Giudea; tuttavia, con l’aiuto dell’esercito
romano Erode riprende il controllo della Giudea e nel 37 a.C. Antigono viene deposto e fatto
decapitare, mentre Erode ricevette il titolo di re di Giudea (molto significativo per un non romano). In
questo modo egli si ritrovò tutto il potere nelle sue mani. Dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) che
concluse la guerra civile tra Marco Antonio e Ottaviano a favore di quest’ultimo, Erode diviene amico
di Ottaviano Augusto, il quale gli concede ampia libertà di governo.
Il regno di Erode dura dal 37 al 4 a.C. [Poiché alla nascita di Gesù Erode è ancora vivo, Gesù deve
esser nato intorno al 7-6 a.C. (errore di calendarizzazione di un monaco)].
Erode è figura davvero importante, specie per le sue numerose opere monumentali fatte realizzare sia
in Palestina sia nelle regioni limitrofe:
 Ampliamento e abbellimento del (secondo) Tempio di Gerusalemme dal 20 a.C. al 63 d.C.
(cfr. Mc 13,1: i discepoli di Gesù erano meravigliati della grandezza del Tempio e ne
ammiravano gli imponenti basamenti).
 Costruzione di vere e proprie città: Cesarea marittima, con la residenza del procuratore
della Giudea, un teatro romano e un porto realizzato nel 22 a.C. (cfr. At 23,35); Antipatride
e Fasaelide (dedicata al fratello); Sebaste (dedicata all’imperatore Augusto - Sebastòs),
Tiro, Sidone, Damasco e Rodi.
 Edificazione e restauro delle fortificazioni-palazzo (per Erode e i suoi dignitari) di: Ircania,
Alexandreion, Macheronte (nelle cui prigioni fu ucciso Giovanni Battista) e Masada.
Diverse fonti descrivono Erode come un sovrano sanguinario: cfr. Antiquitates Iudaicae XVII, 191.
Tra gli altri fece assassinare: Antigono e 45 aristocratici del suo partito; Ircano II; nel 29 a.C. sua
moglie Marianne (per un pettegolezzo di corte) e sua suocera (a motivo di una congiura); nel 7 a.C. i
suoi figli Alessandro e Aristobulo che rientravano da Roma (lo storico Macrobio nel V secolo d.C.
racconta questa crudeltà e attribuisce a Erode il detto “melius est erodis porcum esse quam filium”);
nel 4 a.C., 5 giorni prima della morte il figlio Antipatro, legittimo successore al trono (con l’accusa di
volerlo avvelenare).
Mt 2,16 [Strage degli innocenti]: “Allora Erode, vistosi ingannato dai Magi, si adirò fortemente e
mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni, dai due anni in giù, in considerazione
del tempo preciso indicatogli dai Magi”. Macrobio accenna a qualcosa di simile (sebbene non si sappia
se lo faccia a partire da Matteo oppure da una fonte indipendente).
2.2.1. Le relazioni di Erode con Roma
Erode fu «amico e alleato» di Roma (cfr. Nicola di Damasco).
Con il tempo le limitazioni di potere dei romani su Erode si ridussero fino a sparire del tutto: gli fu
concessa piena fiducia e pienezza di poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. I romani torneranno in
Giudea solo alla morte di Erode. Tuttavia, Erode non poteva stampare moneta con il proprio nome, né
dichiarare da sé guerra senza il consenso dell’imperatore; inoltre, all’imperatore doveva sottoporre il
nome designato del suo successore, la sua volontà testamentaria, e prestare giuramento.
Nella sfera religiosa Erode fu generalmente rispettoso dei costumi e delle tradizioni giudaiche. Fu
scrupoloso nella costruzione del Tempio (impedendone l’accesso ai pagani e a se stesso, non
introducendovi trofei di guerra e altri oggetti pagani, etc.), cosa che gli accattivò il consenso dei

191
giudei. Inoltre, fese ricorso agli strumenti di condanna a morte dei giudei e non alla crocifissione
romana, che era particolarmente avversa ai giudei.
Tuttavia, specialmente negli ultimi anni del suo regno violò le consuetudini giudaiche. Introdusse a
corte greci; ebbe almeno 10 mogli; fece costruire templi pagani furi dalla Palestina; infine, contro la
legge ebraica fece porre un aquila d’oro sulla porta orientale del Tempio (“porta d’oro”).
Sotto il suo regno la situazione economica migliorò grandemente. Oltre al programma di costruzioni
edilizie fece molto per i poveri: diminuzione delle tasse, realizzazione di opere commerciali e agricole,
concessione del suo oro personale per sfamare il popolo in un periodo di carestia, etc.
A lui si deve l’organizzazione del sistema di riscossione fiscale affidata ai pubblicani.
Nell’autunno del 5 a.C. Erode cadde ammalato, morì a Gerico. L’Erodium – a un paio di km da
Betlemme – era una collinetta naturale su cui fece costruire un palazzo dove fu poi sepolto (ritrovato
negli scavi archeologici solo un paio di anni fa). Era l’anno 750 dalla fondazione di Roma …
2.3. I successori di Erode
Ai tre figli maggiori – tra coloro che sopravvissero all’indole sanguinaria del padre – il terzo e ultimo
testamento di Erode concede in eredità una parte del regno.
Archelao (4 a.C. - 6 d.C.): etnarca di Samaria e Idumea. Il testamento di Erode il Grande non
poteva essere applicato se non previa approvazione di Roma: scoppiano, perciò, disordini e sommosse
fino a costringere all’intervento Augusto. Questi conferma il testamento e la suddivisione del regno
ma non riconosce ad Archelao il titolo regale, ma solo quello di etnarca (il regno di Erode il Grande è
stato solo una partentesi in cui un asmoneo ha detenuto il titolo di re in Giudea). Del governo di
Archelao abbiamo poche notizie: se ne fa menzione in uno dei Vangeli dell’infanzia (Mt 2,22). Egli
depose il sommo sacerdote in carica e lo sostituì con suo fratello Eleazaro. Riedificò la città di Gerico.
Accusato davanti a Augusto di essere un governatore dispotico, fu da questi condannato all’esilio in
Gallia.
Erode Filippo (4 a.C. - 34 d.C.) (cfr. Lc 3,1): tetrarca di Traconitide, Gaulanitide, Batanea,
Auranitide e Iturea. Quello di Filippo fu il regno più tranquillo. Costruì Betsaida e soprattutto
Cesarea ‘di Filippo’ alle fonti del Giordano (attuale Panias). [Qui avviene la confessione di fede di
Pietro, sicché il primo riconoscimento della messianicità di Gesù da parte dei discepoli avviene fuori
dalla Palestina in terra pagana]. La moglie di Filippo fu Salome (fu la causa della decapitazione di
Giovanni Battista).
Erode Antipa (4 a.C. - 39 d.C.): tetrarca di Galilea e Perea. Da Giuseppe Flavio è chiamato
semplicemente Erode (cfr. Lc 3,19): fonte di confusione deplorata da San Girolamo. Erode Antipa si
scelse come capitale della tetrarchia Sefforis (città romana a 7-8 km da Nazareth)
contemporaneamente alla presenza della Sacra Famiglia a Nazareth; più tardi si trasferì a Tiberiade
(città da lui edificata e dedicata all’imperatore Tiberio - 14-37 d.C.). Sua moglie legittima era figlia del
re Areta IV; fu messa da parte per sposare Erodiade, incontrata a Roma forse nel 28 d.C. la quale finì
per essere causa della sua rovina politica. Erodiade, infatti, era sua nipote (figlia del defunto
fratellastro di lui Aristobulo) nonché sua cognata, in quanto già maritata al fratellastro Erode Filippo,
ancora vivo. Cfr. la denuncia di incesto da parte di Giovanni Battista (la legge giudaica non
permetteva il matrimonio di una cognata sposata e col fratello ancora vivo) e il suo martirio (cfr. Mt
14,1-12; Giuseppe Flavio riporta come luogo della prigionia e del martirio del Battista la fortezza di
Macheronte). Mentre tutte le fonti parlano di un processo di Gesù davanti a Ponzio Pilato, Lc 23,6-12
è l’unica fonte che parla di un processo davanti a Erode («Gesù fu mandato da Erode perché era

192
Galileo»). Sotto il regno di Caligola (37-41 d.C.) – successore di Tiberio, protettore di Erode – Erode
Antipa fu costretto all’esilio insieme alla moglie Erodiade.

193
2.4. La prima amministrazione romana in Giudea (6-41 d.C.)
Dalla destituzione di Archelao [6 d.C.], la Giudea, insieme alla Samaria e all’Idumea, era stata annessa
all’impero e affidata al governo di un procuratore o prefetto, subordinato al legato della provincia
imperiale di Siria Sulpicio Quirinio (citato dall’evangelista Luca a proposito di un censimento: Lc 2,2
→ cfr. La nascita di Gesù: questioni cronologiche). Questa subordinazione di poteri durò fino alla
prima guerra giudaica (66-70 d.C.).
2.4.1. I procuratori precedenti a Pilato
Coponio (6-9 d.C.). Assieme a Quirinio compì il consueto censimento (per porre la base della
riscossione delle tasse). Sotto il suo governo si verificò una rivolta in Galilea, a causa di un certo
Giuda di Gamala che scese a Gerusalemme, a cui fece seguito una repressione violenta. L’unica altra
notizia di questo periodo è la profanazione del Tempio da parte di alcuni samaritani che nel giorno di
Pasqua vi introdussero delle ossa umane (cfr. Giuseppe Flavio).
Marco Ambivio (9-12 d.C.); Annio Rufo (12-15 d.C.); Valerio Grato 15-26 (d.C.).

2.4.2. Il procuratore Ponzio Pilato (26-36 d.C.)


Il governo di Pilato è presentato sotto cattiva luce da GIUSEPPE FLAVIO (Bell. e Ant.):
 Profanò il Tempio con l’introduzione delle insegne imperiali e dell’effige dell’imperatore
(durante la notte sì da mettere i giudei di fronte al fatto compiuto); le face portar via a
seguito delle violente manifestazioni di protesta e impressionato dalla religiosità del popolo
giudeo.
 Fece attingere al tesoro del Tempio per finanziare un acquedotto (per reprimere le
manifestazioni di protesta egli fece travestire dei soldati da giudei e attraverso delle lotte li
misero a tacere).
Anche FILONE ALESSANDRINO pone Pilato sotto cattiva luce:
 È descritto come tiranno, violento, di carattere ostinato, inflessibile e crudele.
 È biasimato per «le innumerevoli e continue uccisioni».
 Fece mettere certi scudi dorati con il nome dell’imperatore nel palazzo di Erode a
Gerusalemme.
I VANGELI sono forse la fonte meno ostile a Pilato (malgrado Lc 13,1):
 Nel processo a Gesù Pilato appare riluttante a condannarlo (Mt 27,23-24), scaricandone la
responsabilità sui capi dei giudei e sulla folla → pilatismo [“lavarsene le mani”].
 Fece scrivere sulla croce il motivo della condanna e non permise che fosse
successivamente modificata (Gv 19,22: oi gegrafa gegrafa).
 Dopo la morte di Gesù (probabilmente il 7 aprile 30) su richiesta di Giuseppe di Arimatea
ne concesse il cadavere per la sepoltura (Mt 27,57-58).
Gli ATTI DI PILATO (probabilmente del IV secolo d.C.) gettano sui Giudei la responsabilità della
condanna di Gesù e minimizzano il ruolo di Pilato. Essi hanno influenzato la corrente che mirava a
riabilitare Pilato e che avrebbe condotto alla canonizzazione di Pilato nella Chiesa etiopica e della sua
sposa nella Chiesa greca (per la tradizione santa Procla avrebbe ricevuto in sogno l’ordine di non

194
uccidere il giusto Gesù). Negli Atti di Pilato viene dato il nome di Longino all’ufficiale romano che
trafigge il fianco di Gesù crocifisso.
Nel 35 d.C. fece trucidare un gran numero di samaritani sul monte Garizim seguaci di uno pseudo-
profeta della regione. I samaritani protestarono con Vitelio, superiore di Pilato, il quale ne accolse la
protesta (i samaritani erano sempre rimasti fedeli a Roma) e destituì Pilato, mandandolo a Roma a
discolparsi (36 d.C.).
Assenza di fonti storiche sulla morte di Pilato.

2.4.3. Il regno di Erode Agrippa I (41-44 d.C.)


Marco Giulio Agrippa, detto anche Erode Agrippa, nacque nel 10 a.C. Era nipote di Erode il Grande,
sua madre essendo Berenice figlia di Salome. Aveva studiato a Roma insieme al futuro imperatore
Claudio.
Caligola, divenuto imperatore (37-41 d.C.), nel 38 d.C. gli assegnò la tetrarchia di Erode Filippo e
quella di Lisania; successivamente ottenne anche la Galilea e la Perea. In questo modo nel 41 d.C. il
regno di Erode il Grande si ricompatta sia pure per breve tempo nelle mani di questo suo nipote.
Erode Agrippa seguì in modo zelante la religione giudaica: cercò soprattutto di compiacere la corrente
farisaica anche perseguitando la nascente comunità cristiana (cfr. arresto di Pietro e l’uccisione
dell’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni, in At 12,1-3).
D’altra parte fuori dalla Giudea non fu così osservante del giudaismo: fece erigere statue, istituire ludi
gladiatorii, etc.
La morte avvenne a Cesarea di Filippo nel 44 d.C.: essa ci è raccontata dall’evangelista Luca («perché
non aveva dato gloria a Dio, roso dai vermi morì» - Lc 12,19-23) e da Giuseppe Flavio (Ant.).

2.4.4. Agrippa II (49 - dopo il 92 d.C.)


Essendo il figlio di Erode Agrippa ancora troppo giovane al momento della morte del padre,
l’imperatore Claudio affidò il governo della regione ad un suo procuratore. Marco Giulio Agrippa II
detto il Giovane, figlio di Erode Agrippa, assunse il governo cinque anni dopo nel 49 d.C.
Cfr. l’incontro di Agrippa con l’apostolo Paolo a Cesarea (At 25-26), a cui era presente anche la
sorella Giulia Berenice.
Scoppiata la guerra giudaica, egli si schierò apertamente con i Romani.

2.5. La seconda amministrazione romana (44-66 d.C.)


La seconda amministrazione romana va dalla morte di Agrippa I all’inizio della grande guerra
giudaica. Le condizioni del governo erano sempre più difficili: il popolo era sempre più intollerante
del giogo straniero; si verificavano frequenti tensioni religiose e politiche.
Cuspio Fado (44-46 d.C.). Mandò a morte il predicatore Teuda (cfr. At 5,36).
Tiberio Alessandro (46-48 d.C.).
Ventidio Cumano (48-52 d.C.).

195
Antonio Felice (52-60 d.C.). Si trovò a fronteggiare il partito sempre più attivo degli Zeloti. Stroncò
ogni movimento messianico, uno dei quali fu quello dell’egiziano cui si riferisce il tribuno che aveva
arrestato Paolo pensando che fosse lui (At 21,38). Antonio Felice tenne Paolo in carcere a Cesarea di
Filippo a lungo (si pensa quasi due anni; At 23,35; 24,23), ma mostrava interesse per la dottrina
cristiana (24,24).
Porcio Festo (60-61/62 d.C.). Cesare sostituì Antonio Felice con Festo (probabilmente nel 60). Fu
equo con Paolo e lo inviò a Roma per l’appello a Cesare (At 25,12; 26,31-32).
Lucceio Albino (62-64 d.C.).
Gessio Floro (64-66 d.C.). Sotto il suo governo si acuiscono le tensioni. In particolare, la cessazione
del sacrificio quotidiano all’imperatore nel Tempio fu l’offesa che segnò l’inizio delle ostilità.

2.6. La grande guerra giudaica (66-74 d.C.)


In ottobre-novembre 66 d.C. Cestio Gallo alla guida della legione Fulminata scese in Palestina per
sedare una rivolta sorta per l’ostilità aperta verso l’imperatore.
A seguito della sconfitta di Cestio Gallo (morte di 6.000 soldati romani), nel 67 d.C. Nerone incaricò
Vespasiano, coadiuvato dal figlio Tito, per riportare la pax romana. Sbarcò in Galilea con 60.000
uomini. A Gerusalemme ci furono divisioni nel popolo, con gli zeloti che in particolare si opposero al
contrattacco.
Proclamato imperatore nel 69 d.C. (fino al 79), Vespasiano lasciò in Palestina il figlio Tito. Verso la
Pasqua del 70 questi raggiunse Gerusalemme; forse il 2 luglio la fortezza Antonia venne presa e
riconquistata e infine rasa al suolo (la parte nord era la meno difendibile della città). Probabilmente il 6
agosto contro la volontà di Tito, a causa di un tizzone ardente gettato in un’apertura il Tempio fu
incendiato e devastato. Giuseppe Flavio racconta che Tito fa in tempo a entrare nel Santo dei Santi,
come un secolo prima Pompeo (63 a.C.). Tito rientrò a Roma portando con sé prigionieri e trofei di
guerra, nonché gli ori del Tempio compresa la menorah (il candelabro a sette braccia tutto d’oro
raffigurato nel basso rilievo dell’Arco di Tito a Roma).

Tito succederà al padre alla guida dell’impero (79-81 d.C.). La Giudea venne nominata provincia
romana, sotto la gestione di Vespasiano.
La città di Gerusalemme fu totalmente distrutta e la Giudea divenne provincia imperiale. Furono
espugnati altri luoghi molto ben fortificati e difesi dagli Zeloti: ci vollero anni per conquistare

196
l’Erodium, Macheronte; per ultima nel 73 cade la fortezza di Masada. Degli Zeloti molti fuggirono a
Cirene (Egitto) ma furono messi a tacere nel giro di poco tempo.
2.7. La seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.)
Una seconda ribellione contro Roma dei Giudei (incitata da Bar Kokba sostenuto da Rabbi Aqiba) si
ebbe negli anni 132-135 al tempo dell’imperatore Adriano: questi aveva deciso di ricostruire
Gerusalemme con il nome di Aelia capitolina; tutti i luoghi sacri per i cristiani furono seppelliti sotto
cumuli di terra. Sarebbe stata la madre di Costantino nel IV secolo a riportare alla luce quei siti, a
iniziare dal luogo della crocifissione di Gesù e del sepolcro dove fece costruire il Martyrium.
I giudei furono cacciati. La provincia di Giudea divenne provincia di Siria-Palestina.

2.8. Le date principali del Nuovo Testamento


[a.C.] 6-7 Nascita di Gesù
4 Morte di Erode il Grande
4 - 6 d.C. Archelào etnarca di Giudea e Samarìa
4 - 37 d.C. Erode Antìpa tetrarca di Galiléa e Peréa
[d.C.] 6 Inizio del governo dei Procuratori romani
27-28 Probabile inizio della predicazione del Battista e della vita pubblica di Gesù
Ven 7.IV.30 Parascéve di Pasqua: la data più probabile della morte di Gesù
33-36 Martirio di Stefano. Conversione-chiamata di Saulo-Paolo
46-57 Viaggi missionari di Paolo
49 Concilio di Gerusalemme (i pagani convertiti non sono tenuti all’osservanza della
circoncisione e delle leggi e norme giudaiche)
58-60 Paolo prigioniero a Gerusalemme e a Cesaréa. “Appello a Cesare”. Naufragio a Malta.
Arrivo a Roma.
64-67 Persecuzione di Nerone; tradizione del martirio degli apostoli Pietro e Paolo
65-80 Redazione dei Vangeli sinottici (Mc, Mt, Lc) e degli Atti degli Apostoli
66-70 Guerra giudaica e distruzione di Gerusalemme
90-100 Redazione del Vangelo di Giovanni

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23. Il contesto sociale e religioso del Nuovo Testamento
1. La società giudaica
1.1. I sacerdoti
1.2. Gli scribi
1.3. Gli anziani
1.4. Il popolo (sp. donne, bambini e schiavi)
1.5. I proseliti e i timorati di Dio
2. Le istituzioni giudaiche
2.1. Il Tempio di Gerusalemme
2.1.1. Il culto del Tempio
2.1.2. La crisi del Tempio
2.2. La sinagoga
2.2.1. Il culto sinagogale
2.3. Il Sinedrio
3. Le feste giudaiche
3.1. Il sabato
3.2. Le feste di pellegrinaggio
3.3. Le altre due feste principali
4. Le pratiche giudaiche
5. I gruppi religiosi
5.1. Sadducei
5.2. Farisei
5.3. Esseni e la comunità di Qumran
5.4. Terapeuti
5.5. Samaritani
5.6. Movimenti rivoltosi antiromani
5.7. Erodiani
5.8. Movimenti battisti
5.9 Gentili

1. La società giudaica
1.1. I sacerdoti
La celebrazione dei riti sacri (pubblici e privati) spettava ai sacerdoti «della tribù di Levi, figli di
Sadoq» (Ez 44,15), la cui genealogia veniva fatta risalire ad Aronne. I sacerdoti erano divisi in
ventiquattro classi; tra essi figuravano i sadducei.
I leviti (‘clero inferiore’) erano addetti alla manutenzione del Tempio; anch’essi suddivisi in
ventiquattro classi.
Quando fu istituito il Sinedrio, il sommo sacerdote ne era il capo di diritto; inoltre, nel caso di
vacanza del potere civile egli lo assumeva su di sé: cfr. Anna (6-15 d.C.) e Caifa (18-36 d.C.),
menzionati dai Vangeli (cfr. Lc 3,2; Gv 18,13).
1.2. Gli scribi
Nel NT gr. grammatéus [“scrivente”]; altri termini sono nomikòs [“giurista”], didàskalos [“maestro”] e
nomodidàskalos [“dottore della legge”]. Assumevano il titolo di rabbi.

198
L’origine degli scribi si ricollega all’esilio babilonese. Erano dedicati allo studio della Scrittura.
Insegnavano la legge in scuole da loro fondate o nel cortile del Tempio o in case private. Affiancavano
anche i giudici durante i processi. Ciò di cui vengono accusati, è il legalismo.
Il giudizio di Vangeli e testi talmudici: gli scribi sono spesso associati ai farisei nella critica. È erroneo
identificarli anche se gli scribi sostengono alcune posizioni farisaiche.
1.3. Gli anziani
Sono i capi del popolo, i notabili, i nobili. Nei Vangeli sono menzionati in Mc 15,1; Mt 16,21; Lc
22,52.
1.4. Il popolo (sp. donne, bambini e schiavi)
La popolazione palestinese era in maggioranza composta da contadini, artigiani o addetti al
commercio. Alcune professioni erano oggetto di disprezzo sia in ragione delle impurità legali che
comportavano sia per il servizio che rendevano ai romani (es. i sadducei e i pubblicani collettori delle
imposte, che le fonti riportano frequentemente in compagnia dei ladri e dei peccatori. Coloro che
conciavano le pelli, in quanto erano a contatto degli animali morti).
Gesù manifesta un atteggiamento di significativa e sorprendente apertura, accoglienza e comprensione
per le classi sociali ultime, che non avevano ruoli all’interno del popolo, facendone anzi riferimenti
importanti della sua predicazione del regno.
In particolare, quanto alle donne, le ragazze di solito si sposavano molto giovani (fra i 12 e i 14 anni).
Il matrimonio era giuridicamente valido dal momento in cui il giovane aveva stipulato il contratto
ufficiale di fidanzamento con il padre della sposa. Nell’interpretazione del motivo valido per il
ripudio, i dottori discepoli del rabbino Hillel si accontentavano di ragioni di poco conto, mentre quelli
di Shammai esigevano una colpa grave contro il buon costume e un’infedeltà al marito. Gesù va
contro la concezione del divorzio di quel tempo. Questo è un criterio di discontinuità.
1.5. I proseliti e i timorati di Dio
Erano stranieri [gherìm] che vivevano in mezzo al popolo giudaico: erano “devoti” o “timorati di Dio”
che accettavano la fede giudaica ma non suggellavano la loro adesione con la circoncisione. Cfr. Atti
(presenza di “proseliti” o “timorati di Dio” intorno alle sinagoghe della diaspora).

2. Le istituzioni giudaiche
2.1. Il Tempio di Gerusalemme
Il primo Tempio fu concepito dal re Davide ma edificato dal figlio Salomone; fu distrutto nel 586
a.C. dal re babilonese Nabucodonosor.
Le sue fondamenta furono riedificate nel 538 a.C., mentre tutto il Tempio fu riedificato fra il 520 e il
515 a.C. Si tratta del c.d. secondo Tempio.
All’epoca di Gesù il Tempio fu completamente rifatto, ampliato e abbellito: i lavori di restauro e
ampliamento sotto Erode il Grande iniziarono nel 20-19 a.C.; nel giro di un anno e mezzo fu portato
a termine il Tempio vero e proprio rispettando il disegno tradizionale salomonico; i lavori sulle parti
restanti terminarono solo nel 64 d.C., pochi anni prima della sua definitiva distruzione da parte
dell’esercito del generale romano Tito.

199
2.1.1. Il culto del Tempio
 Al mattino e alla sera si offriva il “sacrificio perpetuo” [tamid];
 Imposta annuale per il Tempio (cfr. Mt 17,24);
 Pellegrinaggi, soprattutto per la Pasqua (cfr. Lc 2,41).

200
La posizione di Gesù nei riguardi del tempio era in linea con la predicazione profetica (cfr. Mt 21,13).
I cristiani per un certo periodo continuarono a frequentare il Tempio (cfr. At 2,46; 21,26).
La distruzione del Tempio nel 70 e l’ostracismo imposto dai romani ai giudei → il rabbinismo.
2.1.2. La crisi del Tempio
All’epoca di Gesù il tempio è il luogo della concentrazione e della espressione della fede yahwista
di Israele. Il tempio era ritenuto essere segno della presenza dello stesso Yhwh (dove vi avesse
almeno «lo sgabello dei suoi piedi»). In esso erano fatti i sacrifici per la purificazione legale
dell’israelita osservante per renderlo idoneo a compiere gli atti di culto.
Il tempio era anche luogo di unità e aggregazione sociale e nazionale con funzione civile e politica
(per questo motivo i samaritani si erano costruiti un altro tempio sul monte Garizim).
Tuttavia, al tempo di Gesù il tempio è in crisi nei confronti del sacrificio. Vi erano all’interno
dell’ebraismo dell’epoca due correnti di pensiero contrapposte:
1. Una più tradizionale secondo cui il sacrificio cruento e concreto (di animali) era il mezzo
voluto da Dio per realizzare la purificazione legale che rendeva gli israeliti idonei a
compiere gli atti di culto;
2. Un’altra secondo cui il sacrificio materiale non aveva più alcuna efficacia e l’unico
sacrificio doveva essere quello spirituale: cfr. Gv 4,21-24 (la polemica anti-samaritana di
Giovanni e la necessità del culto spirituale a Dio che è spirito); Rm 12,1 (presa di posizione
contro i sacrifici materiali e il favore al sacrificio spirituale).
Gesù prende posizione contro il Tempio: da una parte Gesù riconosce l’importanza del tempio tanto
che anch’Egli vi sale (nei sinottici una volta nel solo anno di vita pubblica narrato da Pasqua a Pasqua,
in Gv tre volte nei tre anni di vita pubblica narrati) come:
 Realtà simbolica perché fino allora il tempio ha svolto la sua funzione di presenza di Dio
in mezzo al popolo e in esso vi si compivano sacrifici.
 Realtà preparatorio ma sa superare nella transizione verso il culto spirituale. Si spiega
così Mc 11,15-17 dove il gesto della purificazione, variamente classificato, è da rileggere
storicamente alla luce della crisi del tempio. Il gesto di Gesù fu visto come rivoluzionario
dai farisei e dalle autorità del tempio: allontanare i mercanti significava creare una
situazione rischiosa di sommossa con conseguente intervento dei romani; inoltre,
significava per i sadducei perdere una fonte di guadagno (la vendita di animali e di quanto
necessario al culto, il cambio-valuta, l’affitto ai venditori degli spazi antistanti al tempio).
Sarà questo il motivo scatenante del contrasto con i sadducei e della sua condanna a morte.
Quel gesto è in realtà un segno escatologico: allontanare tutto ciò che c’è di materiale nel
tempio è segno che il materiale deve lasciare posto al culto spirituale del tempio della
passione e morte di Gesù.
Gv 4 mette bene in evidenza il profondo significato di rinnovamento cultuale introdotto da
Gesù.
2.2. La sinagoga
Le prime sinagoghe sorsero durante l’esilio a Babilonia. Poi specie della diaspora ogni comunità
giudaica certamente aveva la propria sinagoga. Era luogo di culto diffuso in Israele dove si pregava
ma non si facevano sacrifici; essa era sotto l’autorità e la gestione dei farisei, che coltivavano il culto
mediante la lettura e l’interpretazione della Torah e l’insegnamento mnemonico della stessa in

201
apposite scuole attinenti alla sinagoga ai bambini che si preparavano al passaggio all’età adulta (12
anni).
La sinagoga è il luogo della rivelazione di Gesù e della sintesi del suo vangelo: cfr. Lc 4,16-21, vero
portale di ingresso del vangelo di Luca («nel frammento il tutto» direbbe von Balthasar).
2.2.1. Il culto sinagogale
Il culto si caratterizza per la preghiera e lo studio della Legge. La celebrazione del culto sinagogale,
per la quale occorreva un minimo di dieci partecipanti, seguiva il seguente rito:
 Preghiere dello Shema (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41; cfr. Mc 12,29) e delle Shemone
‘esre [Diciotto benedizioni]
 Lettura della Torah seguita da un testo profetico (cfr. Lc 4; At 13,15)
 Targum
 Sermone
 Una benedizione sacerdotale (Nm 6,22-26) solitamente concludeva il rito (questo era
l’unico ruolo speciale dei sacerdoti; in loro assenza la preghiera di benedizione era
declamata a voce alta da tutti i presenti).
La sinagoga fu un punto fondamentale per la predicazione di Gesù e per la predicazione degli apostoli,
come risulta dai Vangeli (cfr. Mt 4,23; 9,35) e dagli Atti (9,20; 13,5.14; etc.).
2.3. Il Sinedrio

3. Le feste giudaiche
Oltre al giorno di sabato, ci sono cinque feste principali nel calendario delle festività ebraiche.
3.1. Il sabato
Come ogni giorno il sabato incominciava al tramonto del precedente (il venerdì) e durava fino al
tramonto successivo. In giorno di sabato vige l’astensione da ogni lavoro.
Il sabato (e la sinagoga) è il luogo della rivelazione di Gesù e della sintesi del suo vangelo: cfr. Lc
4,16-21, vero portale di ingresso del vangelo di Luca («nel frammento il tutto» direbbe von Balthasar).
Gesù manifesta la sua fedeltà al sabato. Ma nell’obbedienza al precetto del sabato ne cambia il
significato: nell’«oggi» (Lc 4,21) di Gesù il sabato diventa ricordo simbolico, rinnovato nella grazia
e spiritualizzato perché riportato al significato iniziale non di osservanza legale ma giorno del riposo
di Dio nella creazione. Se nel giorno del riposo c’è qualcosa per favorire l’uomo va fatto perché il
sabato è per l’uomo e non il contrario.
3.2. Le feste di pellegrinaggio
Le feste più importanti sono le tre c.d. “feste di pellegrinaggio”: la Pasqua, la Pentecoste e i
Tabernacoli, che furono istituite in modo chiaro e solenne in epoca persiana (fino al 333 a.C.).
La Pasqua [pésah] si celebrava e si celebra la sera del 14 del mese di Nisan (marzo/aprile):
 Lettura rituale del megillah del Cantico dei Cantici;
 Immolazione degli agnelli;
 Consumazione di pani azzimi e erbe amare → La festa degli azzimi era anticamente una
festa della comunità agricola;
 Arrosto sul fuoco della vittima pasquale (l’agnello).

202
La Pentecoste o Festa delle sette settimane [hag shâbû´ôt] è una trascrizione del termine greco che
indica il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. La festa di Pentecoste è celebrata alla fine del mese di
Siwan (maggio/giugno). Lettura rituale del megillah di Rut. In origine era la festa delle messi (cfr. Es
23,16); dal II secolo d.C. e forse più tardi nel giudaismo (come pure nella tradizione samaritana) la
Pentecoste divenne una celebrazione del dono della Torah sul Sinai.
La Festa dei tabernacoli o Festa delle tende o Festa delle capanne è celebrata nei giorni 15-23 del
mese di Tishri (settembre/ottobre). Lettura rituale del megillah dell’Ecclesiaste (Qoelet).
3.3. Le altre due feste principali
Il Giorno della purificazione [Jom kippur] è celebrato nel giorno 10 del mese di Tishri
(settembre/ottobre). Lettura rituale del megillah di Ester. Lv 16 racconta pur senza nominarlo lo Jom
kippur: uso di un capro emissario (mandato nel deserto dopo avergli imposto le mani) e di un capro
espiatorio (il cui sangue, una volta sgozzato, veniva usato per l’aspersione del tempio e del popolo).
Questo è il solo giorno di tutto l’anno in cui il sommo sacerdote entra nel Santo dei Santi e pronuncia
nella formula di benedizione del popolo il Nome di Dio (YHWH) altrimenti sempre impronunciabile.
La Festa di hanukkàh fu istituita da Giuda Maccabeo dopo la purificazione del Tempio dall’altare a
Zeus e la cancellazione dei tre precedenti anni di sacrilegio.

4. Le pratiche giudaiche
La circoncisione è il segno di appartenenza alla nazione giudaica. È praticata nell’ottavo giorno dalla
sua nascita (cfr. Lv 12,3).
Le norme di purità sono dettate in Lv 11-16. Il contatto fisico con determinati oggetti, nel pensiero
ebraico, produceva in chi li toccava una sorta di “macchia” che li rendeva impuri.
Altre pratiche riguardano la preghiera individuale, le pratiche di pietà del digiuno e dell’astinenza
molto diffuse all’epoca (cfr. Lc 18,12), e l’elemosina (cfr. Mt 6,2) soprattutto in occasione di feste
(cfr. Gv 13,29). Tutte queste pratiche – di derivazione farisaica – si trasmuteranno tal quali nel
giudeo-cristianesimo (cfr. le prescrizioni del digiuno in Paolo).

5. I gruppi religiosi38
Sadducei e Farisei sono i gruppi più importanti dal punto di vista dell’insegnamento della dottrina.
5.1. Sadducei
Il termine per alcuni è un patronimico di Zaddoch, sacerdote del Tempio di Salomone; per altri deriva
dall’ebraico zaddiq [“giusto”]. Dei sadducei abbiamo poche notizie e fra loro non armoniche. È uno
dei gruppi che spariscono con la distruzione del Tempio nel 70 d.C.
Gruppo sociale e politico con base a Gerusalemme, provenivano soprattutto dalla classe sacerdotale
ed erano perciò legati alla tradizione e al servizio del Tempio. Formavano la casta aristocratica di
Israele: ad essi appartenevano: sommi sacerdoti e i sacerdoti più in vista di Israele (chi gestiva il
Tempio e ne stabiliva le leggi e le loro interpretazioni); nobili per censo (grandi possidenti di beni
materiali, sp. terreni); capi militari (chi aveva il comando della Guardia del Tempio, cioè la guardia
militare interna al Tempio, al cui interno non potevano avere accesso i pagani, che si distingueva dal
potere militare gestito dai romani); gli scribi (necessari all’interpretazione della Torah).
38
Cfr. G. STEMBERGER, Farisei, Sadducei, Esseni, Paideia, Brescia 1993.

203
Inoltre, i sadducei gestivano il potere in Israele, anche partecipando al sinedrio dove i farisei e gli
scribi ne limitavano però l’influenza. Il suo stile di governo permette di capire come in Israele la
gestione del potere fosse duplice (es. Gesù subisce un processo che doveva essere ratificato da Roma
nella persona del procuratore Ponzio Pilato). Per questo motivo i sadducei erano piuttosto malvisti dal
popolo per il loro collaborare con il potere romano.
Quanto alla loro teologia e pensiero, i sadducei interpretavano restrittivamente l’insegnamento
della Torah, nel senso di apprezzare la sola Legge scritta a scapito della tradizione orale (Torah
orale o halakah) che Gesù stesso cita (es. nell’interpretazione dell’ammissione del divorzio da parte di
Mosè) e riproposta specialmente dai farisei e ravvivata dai rabbini con l’aggiunta di sentenze orali.
Per questo motivo nelle dispute con Gesù emerge il loro rifiuto dell’immortalità dell’anima, della
retribuzione personale e della risurrezione dai morti (cfr. Mt 22,23), attenendosi e limitandosi all’idea
tradizionale dell’aldilà [sheòl] dove riposano i morti. Cfr. At 23,8: Paolo sfrutta questo motivo per
confondere chi lo ascoltava dicendo di credere alla risurrezione come i farisei e non come i sadducei.
L’idea antica di Israele era che l’uomo realizzava la benedizione di Dio qui e ora in vita. Dagli strati più antichi
della Scrittura emerge la credenza che l’uomo era creato primariamente nella carne [basar] su cui Dio emetteva
poi il suo alito; ma mentre lo spirito era eterno, la carne era decadente. Dunque, l’uomo poteva realizzare se
stesso in vita attraverso l’estensione della sua carne, facendo fruttificare lo spirito nella relazione della carne con
gli altri e il mondo e ottenendo benedizione: la terra, i figli, la discendenza (che avrebbe continuato il compito
del capostipite). Con la morte tutto questo cessava: la carne si corrompeva, mentre lo spirito divino per i primi 3
giorni aleggiava sul corpo del defunto cercando di riprendervi possesso prima di cadere nello Sheol, profondo
luogo oscuro, privo di vita, polveroso, al centro della terra, in cui lo spirito divino sprofondava per l’eternità, non
potendo morire ma rimanendo del tutto privo di attività perché privo dell’estensione della carne.
Ma nella rivolta maccabaica contro i greci per evitare che Israele perdesse la fede in Yhwh e acquisisse il
sincretismo greco, nel IV-III secolo a.C. emerge il problema – poi stabilizzatosi in dottrina nel II secolo a.C. – di
come giovani maschi in Israele avrebbero potuto realizzare la benedizione di Dio andando a morire per il popolo
e dunque morire maledetti per l’assenza di terra, figli e discendenti. Inizia così a sorgere l’idea di una speranza di
vita ultra-terrena.
I sadducei eliminano gli strati più nuovi dell’AT e guardano alla teologia più antica (Torah, giudici, re, profeti).
Ci sarà una difficoltà anche per i pagani di comprendere il senso della risurrezione dei morti che è proprio e
tipico cristiano (cfr. Paolo all’areopago di Atene). D’altronde la realtà della risurrezione è complessa al punto
che nel NT ci sono cinque termini per dire risurrezione. Ad ogni modo la vita del risorto non è la vita terrena,
sebbene si ponga nella continuità del riconoscimento (tutta la sapienza e la difficoltà della fede cristiana di dire e
spiegare il Risorto).

Con questo gruppo sociale potente e capace di gestire il potere di buon vicinato con Roma Gesù non
avrà a che fare se non al termine della sua esistenza storica quando si recherà a Gerusalemme (cfr. il
gesto gesuano della purificazione al Tempio in Mc 11,15-18). Molto più coinvolgente sarà il rapporto
che ne avrà Paolo, dai quali sarà decretata la sua condanna a morte.
5.2. Farisei
Il nome deriva dalla parola ebraica perûshîm [prob. “separati”, “divisi”], in ossequio al loro ideale di
purità e di separazione da tutto ciò che era non giudaico e impuro – riconducibile al movimento
assideo (160-150 a.C.): si distinguevano perciò dalla gente comune disprezzata perché ignorante della
Legge. Compaiono per la prima volta ai tempi di Giovanni Ircano (134-104 a.C.).
Essi appartenevano alla classe media in Israele: erano coloro che avevano una buona formazione
culturale: sapevano leggere e scrivere (dato non comune e non richiesto che però permetteva di
leggere e trascrivere la Torah; probabilmente Gesù non sapeva scrivere, perché saper scrivere non era
ritenuto importante, anzi era un mestiere servile e prestato a pagamento).

204
Ci furono differenti scuole di pensiero nel fariseismo: Shammai e Hillel (cfr. la differente
interpretazione del motivo valido per il ripudio: i dottori discepoli di Hillel richiedevano ragioni di
poco conto, mentre quelli di Shammai esigevano una colpa grave contro il buon costume e
un’infedeltà al marito). Paolo fu fariseo.
I Farisei furono una presenza rilevante rispetto a tutti gli altri gruppi per diversi motivi. Primo, tra tutti
i gruppi fu quello più vicino all’insegnamento di Gesù. Erano fedeli conoscitori e interpreti e zelanti
osservanti della Torah sia scritta sia orale (halakah). Presentano una grande pietà religiosa
(vetero-testamentaria) che permetteva di sostenere le spese e l’attività missionaria all’interno di
Israele, inviando rabbini diffusamente sul territorio a costruire e gestire sinagoghe lontano da
Gerusalemme. La teologia farisaica crede nella retribuzione dopo la morte e nella risurrezione dei
giusti; nel grande valore della halakah; nella dottrina sugli angeli (per i sadducei gli angeli sono una
mediazione di Dio, la proiezione di Sé in altro da Sé che ne permette la comunicazione con l’uomo;
per i farisei hanno personalità propria, stabile e verticalmente strutturata nelle gerarche angeliche) e
sui santi; le pratiche di pietà (digiuni e astinenze). Tutto ciò si trasmuterà tal quale nel giudeo-
cristianesimo (cfr. le prescrizioni del digiuno in Paolo).
Secondo, il motivo per cui entrarono in serrata e aspra polemica con Gesù non era la differenza di
dottrina ma il legalismo farisaico e l’accusa da parte di questi a Gesù di rendersi impuro con la
frequentazione di pubblicani e peccatori (cfr. Lc 18) → Le parabole della misericordia in Luca sono
motivate proprio dal mormorio di farisei e scribi contro l’uso di Gesù di ricevere pubblicani e
peccatori e mangiare e bere con loro.
→ Dunque, attenzione a non cadere nel cliché del fariseismo. Nella nostra idea i farisei erano i
detrattori di Gesù al punto da partecipare alla sua condanna a morte. In realtà, Gesù aveva un
atteggiamento duplice verso di loro: ne esalta la fedeltà e la pietà e la volontà di voler servire Dio ma
ne prende le distanze specialmente quando l’interpretazione della Torah e della halakah è oppressiva
della persona (prevalenza dell’istituzione sull’uomo). I farisei erano molto stimati dal popolo per
l’osservanza della Legge e per un vero timore di Dio (cfr. Lc 18). Nel rapporto con Gesù si
contraddistinsero anche per un confronto amicale: Nicodemo (Gv 3), Giuseppe d’Arimatea, Simone il
Fariseo.
Fu il solo gruppo (assieme ai cristiani) che sopravvisse alla dispersione dei giudei dopo la distruzione
del Tempio nel 70 d.C., da cui il rabbinismo.
5.3. Esseni e la comunità di Qumran
Cfr. 9. I manoscritti del Mar Morto a Qumran.
5.4. Terapeuti
I Terapeuti furono una setta affermatasi nel I secolo d.C. ad Alessandria, secondo quanto riporta
FILONE nel De vita contemplativa. Erano vicini agli Esseni, pur differenziandosene sotto vari aspetti.
5.5. Samaritani
Avversione reciproca tra i Samaritani e i Giudei. Loro luogo di culto era il Monte Garizim (cfr. Gv 4).
5.6. Movimenti rivoltosi antiromani
Gli Zeloti [“zelanti”] erano coloro che avevano “zelo” per Dio e per la Torah. Per accelerare la
venuta del regno di Dio animavano insurrezioni popolari al fine di scacciare il potere romano e
favorire così il sorgere di mezzo al popolo del messia. Gesù incontra gli zeloti, prendendo le distanze
dal movimento ma non dalle persone: uno dei Dodici è Simone detto “il cananeo” o “lo zelota”. Il
messianismo di Gesù non è eroico e violento, ma martire.

205
I Sicari [lat. sica, “uomini dal pugnale”] erano la longa manus degli zeloti: nei grandi assembramenti
di persone iniziavano a uccidere anche ebrei per creare punti di tensioni e far scoppiare la rivolta.
5.7. Erodiani
Nel NT alcune persone, definite «erodiani», interrogano Gesù assieme ai farisei (cfr. Mc 3,6; 12,3; Mt
20,16). Non sappiamo esattamente chi fossero. Per i Padri della Chiesa erano esponenti di un
movimento messianico che vedevano in Erode il Grande il profeta atteso.
5.8. Movimenti battisti
In Palestina fiorirono molti movimenti popolari – sia contemporanei a Gesù sia successivi – di
risveglio religioso (con tensione escatologica), il più importante dei quali fu il movimento del Battista.
5.9. Gentili
I gentili erano chi veniva dalle gentes. Verso di essi Gesù avrà inizialmente un atteggiamento di
chiusura, rifiutando la predicazione del regno ai non israeliti; nel momento in cui cresce nell’auto-
comprensione Gesù darà una estensione e una valenza universalista al suo messaggio da diffondere
anche fuori di Israele (Mc 7,24-30). Questo passo è quello che Paolo assumerà a rifermento della sua
missione, divenendo così e rimanendo l’apostolo dei gentili.

24. La nascita di Gesù : questioni cronologiche39


1. Dionigi il Piccolo e l’uniformazione del calendario delle festività cristiane
1.1. La morte di Erode il Grande
1.2. Il censimento di Publio Sulpicio Quirinio
1.2.1. Un censimento sotto C. Senzio Saturnino? (Tertulliano)
1.2.2. Interpretazione filologica del termine πρωτος (Lagrange)
1.2.3. Impianto teologico secondo la profezia di Mi 5,1-4a (Cardellini)
Appendice. Cronologia ufficiale e cronologia reale
1. Dionigi il Piccolo e l’uniformazione del calendario delle festività cristiane
Attorno al 520-525 d.C. papa Giovanni I incaricò un monaco scita, Dionigi detto il Piccolo, perché
uniformasse il più possibile le feste della cristianità. Di fatto ogni patriarcato aveva un differente
computo, dovuto all’uso di diversi sistemi di calcolo. Dionigi doveva traspostare le date basate sul
computo romano (secondo cui il tempo si contava a partire dalla fondazione di Roma) nel nuovo
sistema nel quale si incomincia a computare il tempo a partire dalla nascita di Cristo. Dionigi pose la
nascita di Gesù nell’anno 754 dalla fondazione di Roma (per cui 754 = 0 dell’era cristiana).
1.1. La morte di Erode il Grande
L’errore di Dionigi si nota subito se si mettono a confronto le date della morte di Erode il Grande (73
a.C. - 4 d.C.).40 Secondo i Vangeli Gesù è nato sotto il regno di Erode il Grande (Mt 2,1; Lc 1,5.26), il
quale sarebbe così morto nell’anno 750 e non 754 dalla fondazione di Roma.

39
Bibliografia di riferimento: E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo (Biblioteca di
storia e storiografia dei tempi biblici 1), Paideia, Brescia 1985, pp. 489-523; G. FIRPO, Il problema cronologico
della nascita di Gesù (Biblioteca di cultura religiosa 42), Paideia, Brescia 1983; L. BOFFO, Iscrizioni greche e
latine per lo studio della Bibbia (Biblioteca di storia e storiografia dei tempi biblici 9), Paideia, Brescia 1994, pp.
182-203; E. GABBA, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia (Sintesi dell’Oriente e della Bibbia 3),
Marietti, Torino 1958.

206
Tenendo presente la fuga e il tempo di permanenza in Egitto della sacra famiglia prima della morte di
Erode, bisogna supporre che per almeno un paio d’anni (Mt 2,19 ss.) Gesù ed Erode siano vissuti
contemporaneamente: cioè nel 750 (data della morte di Erode) Gesù avrebbe dovuto avere ca. 2 anni.
Ciò significa che nell’anno 754 (data della nascita di Gesù secondo il computo di Dionigi il Piccolo)
Gesù di fatto avrebbe dovuto avere circa 6 anni.
1.2. Il censimento di Publio Sulpicio Quirinio
Quando Archelao fu deposto da Tetrarca della Giudea, questa regione passò direttamente sotto le
dipendenze dell’imperatore e divenne provincia imperiale. Nel frattempo Erode Antipa governava la
Galilea (ca. 4-39 d.C.). Per la preparazione del passaggio a provincia imperiale della Giudea fu
nominato nel 6 d.C., secondo un ordine di Augusto, Publio Sulpicio Quirinio, console a Roma nel 12
a.C. [6 a.C.]41. Un censimento è stata la prima cosa da fare per valutare i beni lasciati da Archelao e
per rendersi conto sia della situazione terriera sia della forza demografica. L’accertamento tributario
veniva indicato con il termine άποτιμήσις invece di απογράϕη, quest’ultimo utilizzato nel testo
evangelico nel senso di registrazioni per questioni di catasto e di terre. Giuseppe Flavio (Ant. 18 §§1-
2; cfr. Ant. 17 §355 e Bell. 2 §117) riporta che Coponio insieme a Quirinio furono inviati in Giudea da
Augusto nel 6 d.C. [ca. 12 d.C.].
Secondo i dati desunti dalla storia romana questo sarebbe il quadro cronologico dei procuratori della
Siria (e quindi anche della Giudea):42
 M. Tizio: 10-8 a.C. [4-2 a.C.]
 C. Senzio Saturnino: 8-6 a.C. [2-0 a.C.]
 P. Quintilio Varo: 6-4 a.C. [0-2 d.C.]
 L. Calpurnius Piso: 4-1 a.C. [2-5 d.C.]
 Caio Cesare: 1 a.C. - 4 d.C. [5-10 d.C.]
 L. Volusio Saturnino: 4-5 d.C. [10-11 d.C.]
 P. Sulpicio Quirinio: 6-… d.C. [12-… d.C.] (non conosciamo la durata; morì a Roma nel
21 d.C.).
Ritornando al censimento di Quirinio nel 6 d.C. [ca. 12 d.C.] si pone il problema se Lc 2,1-2
intendesse proprio questo censimento oppure un altro. Questi tipi di censimenti erano comuni
nell’antichità: sono documentati nelle Gallie, in Egitto, in Spagna, etc. (cfr. TACITO, Annales 1 §11).
Di particolare interesse è il decreto di Gaio Vibio Massimo praefectus Aegypti del 104 d.C. per un
censimento da fare in Egitto (provincia imperiale) molto simile a quello del racconto di Luca. Pur
trattandosi di un testo posteriore di un secolo, è rilevante sottolineare che in un censimento provinciale
romano si sia tenuto conto delle usanze di quella regione:
«[…] è necessario (αναγκαιόν [έστιν]) che tutti coloro, che per qualsiasi motivo risiedono
fuori, facciano ritorno ai propri luoghi di origine, per compiere gli obblighi imposti dal
censimento [ίνα καί τήν συνήθη οικονομίαν τής απογραϕής πληρώσωσιν] e per prendersi
cura delle terre di loro proprietà».43

40
Giuseppe Flavio (Ant. 17 § 167; cfr. anche § 191) narra di una eclissi di luna prima della morte di Erode; da
calcoli astronomici una eclissi di luna è avvenuta il 12/13 marzo dell’anno 4 d.C. (cfr. anche Bell. 1 § 665).
41
Fra le parentesi quadre sono indicate le date basate sulla presunta nascita di Gesù avvenuta ca. sei anni prima
della data ufficiale.
42
Cfr. E. SCHÜRER, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, pp. 327-331.
43
Cfr. A.S. HUNT - C.C. EDGAR, Select Papyri. Vol. 2: Official Documents (The Loeb Classical Library),
London 1934, nr. 220.

207
Publio Sulpicio Quirinio si distinse per aver sedato una rivolta in Siria (cfr. TACITO, Annales 3 § 48) e
lo si ritrova da quelle parti come legatus Augusti pro praetore nel 6 d.C. [12 d.C.] per il censimento
della Giudea.
1.2.1. Un censimento sotto C. Senzio Saturnino? (Tertulliano)
In Tertulliano (Adversus Marcionem) si ha una notizia interessante:
«Il censimento nel tempo in cui nacque Gesù fu fatto sotto il procuratore C. Senzio
Saturnino» (4,19; PL 2,405).
Questo censimento cadrebbe proprio durante la nascita di Gesù: ca. 7-6 a.C. [1-0 a.C.]. È probabile
che Luca si sia confuso e abbia sbagliato nome, scrivendo Quirinio. Oppure è probabile che Quirinio,
trovandosi in quella regione negli anni 12-8 a.C. [6-2 a.C.], abbia iniziato il censimento che poi
sarebbe stato portato a termine sotto il procuratore Saturnino. Ci sono, infatti, esempi di due legati
imperiali presenti in una stessa regione, come per es. in Africa e in Oriente.
1.2.2. Interpretazione filologica del termine πρωτος (Lagrange)
Un’altra strada per risolvere la questione – seguita da LAGRANGE e da molti altri studiosi44 – si basa su
una interpretazione tipicamente filologica del termine πρωτος (Lc 2,2). Normalmente lo si traduce:
«Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria».
Ora nell’uso linguistico della koiné il termine πρωτος oltre che «primo» può significare anche
«anteriore», «precedente» con senso comparativo, per cui la traduzione potrebbe essere questa:
«Questo censimento fu precedente a quello che ebbe luogo sotto Quirinio, quando era
governatore della Siria».
Secondo questa traduzione sarebbe evidente il riferimento al censimento di Quirinio del 6 d.C. [12
d.C.], quando Gesù aveva ca. 12 anni. In tal caso bisognerebbe ipotizzare un censimento sotto Erode e
si ritornerebbe a discutere sulla notizia di Tertulliano di un censimento sotto Saturnino. Non ci sono
conferme epigrafiche o documentarie di questa notizia di Tertulliano, per cui si potrebbe pensare a un
tentativo per evitare l’equivoco, dato che Tertulliano sapeva bene che sotto Erode era stato procuratore
Saturnino e non Quirinio.
È probabile che Luca non avesse a disposizione fonti storiche precise a riguardo e che avesse voluto
generalizzare, parlando di un censimento di tutto l’impero; una analoga generalizzazione si troverebbe
in At 11,28 quando si parla di una carestia per tutta la terra sotto Claudio mentre è stato un evento (46-
48 d.C.) limitato in alcuni luoghi.
1.2.3. Impianto teologico secondo la profezia di Mi 5,1-4a (Cardellini)
Un’altra possibile soluzione, forse la più attendibile, si fonda sull’impianto teologico per giustificare la
discesa di Giuseppe a Betlemme perché si adempia la Scrittura secondo la profezia di Mi 5,1-4a, citata
in Mt 2,6.45
Con Betlemme-Efrata, oltre al sito geografico, si indica innanzitutto il clan degli «Efratei, o Efraimiti»
(cfr. 1Cr 2,19.24.50). Efrata è la moglie di Caleb che generò Cur, Uri e Bezalel; da Cur nacque Salma,
il fondatore della città di Betlemme. Secondo 1Sam 17,12 David figlio di Iesse figlio di Obed
apparteneva al gruppo delle famiglie di Efrata che abitavano a Betlemme. Inoltre, Rachele partorì

44
Cfr. M.J. LAGRANGE, «Où en est le problème du recensement de Quirinius?», RB 8 (1911), pp. 60-84.
45
Cfr. I. CARDELLINI, «E tu, Bethleem, terra di Giuda … (Mt 2,6)», in N. CIOLA - G. PULCINELLI (a cura di),
Nuovo Testamento: Teologie in dialogo culturale (Supplementi alla Rivista Biblica 50), Scritti in onore di R.
Penna nel suo 70º compleanno, EDB, Bologna 2008, pp. 63-72.

208
Beniamino sulla strada che porta a Efrata (cfr. Gen 35,16.19; 48,7); nella lista di Gs 15,59 Efrata
compare come una città di Giuda.
Questo antico nome non viene ricordato soltanto perché si richiama alla storia dei patriarchi e alla città
degli avi di Davide, ma anche per il significato del termine. Infatti, Efrata – dalla radice prh (cfr.
l’etimo parah nel senso di fecondare, essere fertile)46 – indica quella terra feconda da cui nascerà un
germoglio [ṣemaḥ // perî] con evidente riferimento a Is 4,2: «in quel giorno il germoglio [ṣemaḥ] del
Signore crescerà in onore e gloria e il perî della terra sarà a magnificenza e a ornamento per i superstiti
di Israele»; e anche a Is 7,14 (LXX): «la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà
Emmanuele». La nascita di Cristo sarebbe quindi da comprendere come un atto pubblico non solo
rivolto ai giudei, ma a tutto l’impero, cioè a tutti gli uomini.
Inoltre, è probabile che Luca in At 5,36-37 si riferisca proprio al censimento di Quirinio del 6 d.C. [12
d.C.], quando lascia parlare Gamaliele: «[…] poi, dopo di (Teuda), sorse un certo Giuda oriundo della
Galilea all’epoca del censimento e si trascinò dietro una folla, ma anch’egli perì e quanti gli avevano
creduto, furono dispersi». Anche qui Luca abbinerebbe prima il fatto di Teuda al discorso tenuto da
Gamaliele ca. 10 anni prima (secondo Ant. 19 §363; 20 §§96-99 la rivolta di Teuda sarebbe avvenuta
sotto il procuratore Cuspius Fadus - 44-46 d.C.) e poi farebbe ricordare a Gamaliele la ribellione di
Giuda il Galileo collocata, sempre secondo Luca, nel periodo della nascita di Gesù, mentre di fatto
essa è stata causata dal censimento di Quirinio del 6 d.C. [12 d.C.] (cfr. Ant. 18 §4). Si potrebbe quindi
supporre che anche nel suo Vangelo Luca abbia combinato il censimento di Quirinio con la nascita di
Gesù, anche se questa era già avvenuta. L’intento teologico di proporre una salvezza universale
giustificherebbe la nascita del Messia durante un atto pubblico riguardante tutto l’impero, cioè tutti gli
uomini.
Appendice. Cronologia ufficiale e cronologia reale

46
Il nome del fiume Eufrate, in accadico Purattu, significa che è ubertoso perché con le sue acque produce
fertilità.

209
25. Gesù e le fonti storiche
1. Introduzione
1.1. Gesù è il prodotto o il produttore del cristianesimo? Ovvero: Gesù è veramente esistito?
1.2. O forse è esistito ma era “un altro”?
2. Fonti nell’antichità classica (romana)
2.1. Plinio il Giovane (62-114 d.C.)
2.2. Gaio Svetonio Tranquillo (70-140 d.C.)
2.3. Publio Cornelio Tacito (55-120 d.C.)
2.4. The parting of the ways
3. Fonti ebraiche
3.1. Rotoli del Mar Morto
3.2. Flavio Giuseppe (37-102 d.C.)
4. Fonti rabbiniche
4.1. Talmud
4.2. Toledot Yeshu
5. Fonti cristiane
5.1. Gli apocrifi del Nuovo Testamento
5.1.1. L’influsso degli apocrifi del NT nella grande Chiesa
5.1.2. Valore teologico e loro attendibilità
5.1.3. Apocrifi e Vangeli canonici
5.1.4. Vangelo di Tommaso
5.2. Testimonianze canoniche (NT) su Gesù fuori dai vangeli
5.2.1. Atti degli Apostoli
5.2.2. Lettere cattoliche
5.2.3. Lettera agli Ebrei
5.4. La tradizione paolina

1. Introduzione
1.1. Gesù è il prodotto o il produttore del cristianesimo? Ovvero: Gesù è veramente esistito?
La domanda sull’esistenza storica di Gesù non è venuta che con il XVIII secolo ad opera
dell’illuminismo e il positivismo e poi con l’ateismo moderno. Es. alla fine del Settecento Voltaire –
non certamente un fautore del cristianesimo – affermava che non c’è nessuna base scientifica per dire
che Gesù non sia esistito. Voci isolate parlano di una Jesus Legend. A livello accademico la questione
dell’esistenza storica di Gesù è da ritenersi oggi definitivamente chiusa.
1.2. O forse è esistito ma era “un altro”?
La questione semmai è: chi è stato Gesù?
 Figlio di «Pandera»: citato nel Talmud, fu messo a morte da Alessandro Ianneo (106-79
a.C.) → cfr. Le fonti rabbiniche.
 Un «saggio re ebreo» ucciso dai suoi sudditi in seguito a cui la dispersione degli ebrei fu
vista come il castigo per quella malefatta: così una lettera del 73 d.C. che un certo Mara
Bar Serapion scrive in siriaco al figlio (che con alta probabilità fa riferimento a Gesù).
 Un «sofista crocifisso»: così lo scrittore satirico di lingua greca Luciano di Samosata
(115-200 d.C.) in La morte di Peregrino. È il punto di vista filosofico secondo cui Gesù era

210
venerato come peregrino e fu crocifisso in Palestina per aver introdotto un nuovo modo di
iniziazione.
 Un mago: così il neoplatonico Celso intorno al 178 d.C. nel suo Discorso vero (prima
critica dura e articolata contro il cristianesimo che si conosca), giuntoci grazie alla risposta
di Origene nel Contra Celsum.
 Un profeta ma non era lui sulla croce: così il Corano nella Sura IV §§153-159. L’Islam
riconosce in Gesù un profeta e ha grande devozione verso Myriam, riconosciuta come la
sempre vergine.
 Marito della Maddalena: così Nikos Kazantzakis in L’ultima tentazione di Cristo e poi il
Codice da Vinci.
2. Fonti nell’antichità classica (romana)47
Premessa: più del 95% (per alcuni il 99%) dei racconti che riguardano Gesù sono stati redatti da
autori cristiani. Questa è l’accusa di ideologia e parzialità storica che viene dal mondo illuminista e
positivista. Ne segue la grande importanza delle pochissime altre fonti non-cristiane che non possono
essere tacciate di partigianeria e ideologia.
2.1. Plinio il Giovane (62-114 d.C.)
Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, in una lettera del 112 d.C. – indirizzata all’imperatore
Traiano per chiedere istruzioni su un procedimento giudiziario a carico di alcuni cristiani – scrive:
«Ecco nel frattempo come mi sono comportato con coloro che mi sono stati deferiti come
cristiani. Domandai loro se fossero cristiani. A quelli che rispondevano affermativamente
ripetei due o tre volte la domanda, minacciando il supplizio: quelli che perseveravano li
ho fatti uccidere. Non dubitavo, infatti, qualsiasi cosa fosse ciò che essi confessavano, che
si dovesse punire almeno tale pertinacia ed inflessibile ostinazione. […] I cristiani si
riuniscono in un giorno prefissato e cantano un inno in onore di Cristo come a un
Dio [cfr. corrispondenza con l’antichissimo inno di Fil 2,6-11]. Tale superstizione s’è sparsa
dappertutto, non solo nelle città e nei paesi ma anche nelle campagne». (Epist. 10,96).
2.2. Gaio Svetonio Tranquillo (70-140 d.C.)
Lo storico Gaio Svetonio Tranquillo nella Vita di Claudio [Vita dei Cesari] scrive:
«Claudio espulse i giudei da Roma, visto che sotto l’impulso d’un certo Chrestus non
cessavano di agitarsi». (Claudius 25)
Con ogni probabilità siamo nel 49 d.C. quando Claudio vuole reprimere una sommossa scoppiata tra
giudei, divisi tra chi aveva aderito a Gesù Messia e chi era rimasto fedele alla Legge mosaica. Con un
editto li caccia via da Roma a motivo di un certo Chrestus, che sarebbe Cristo (cfr. l’episodio di
Priscilla e Aquila). Questo direbbe che intorno al 50 d.C. i credenti in Gesù a Roma erano ancora
totalmente all’interno del giudaismo attorno alla sinagoga: i cristiani erano ancora uno dei tanti gruppi
all’interno del giudaismo.
2.3. Publio Cornelio Tacito (55-120 d.C.)
Lo storico Tacito negli Annales (116 d.C.) dà questa testimonianza:

47
Cfr. R.E. VAN VOORST, Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul Maestro di Galilea, San
Paolo, Cinisello Balsamo 2004.

211
«Per togliersi di dosso quest’accusa [essere colpevole dell’incendio di Roma], Nerone
fece condannare e suppliziare coloro che la gente chiamava crestiani, che erano odiati per
i loro costumi. Questo nome proviene loro da Cristo che, sotto il regno di Tiberio, il
procuratore Ponzio Pilato consegnò al supplizio. Repressa per il momento, questa
detestabile superstizione doveva poi apparire di nuovo non solo in Giudea, dove il male
aveva avuto origine, ma anche in Roma.» (XV 44,2-5)
Con Nerone (62-64 d.C.) siamo a circa 15 anni dalla cacciata dei giudei che evidentemente non aveva
sortito l’effetto sperato. Dell’incendio di Roma sono incolpati i soli cristiani: implicitamente si sta
dicendo che era avvenuta una separazione tra giudei e giudeo-cristiani presenti a Roma.
2.4. The parting of the ways
A metà tra l’Editto di Claudio e l’accusa di Nerone si colloca la Lettera di San Paolo ai Romani (57
d.C., prima dei fatti di Nerone). Essa è destinata ai credenti in Gesù di stampo giudaico presenti a
Roma. Cfr. Rm 1,3-5 («Gesù è nato dal seme di Davide secondo la carne, costituto figlio di Dio con
potenza nello Spirito Santo»): è uno stile non paolino che Paolo usa per venire incontro alla sensibilità
giudaica dei cristiani romani e per preparare la sua successiva venuta a Roma.
Tecnicamente si parla di The parting of the ways a partire dal 70 d.C. con la separazione tra i farisei e i
nozrim, i credenti in Gesù di Nazareth figlio di Giuseppe (il nome cristianoi verrà attribuito ad
Antiochia – fuori dalla Palestina – come si legge in At 11).

3. Fonti ebraiche
3.1. Rotoli del Mar Morto
Nei manoscritti di Qumran Gesù non è mai menzionato.
3.2. Flavio Giuseppe (37-102 d.C.)
Flavio Giuseppe accenna più volte a Giovanni Battista quale «uomo di grande autorità presso il
popolo» poi ucciso nella fortezza di Macheronte per mano di Erode.
Quanto a Gesù scrive (Ant. 18,63-64):
«Verso questo tempo visse Gesù, uomo saggio, se pur conviene chiamarlo uomo; egli,
infatti, compiva prodigi, ammaestrava gli uomini che con gioia accolgono la verità, e
convinse molti giudei e greci. Egli era il Cristo. E dopo che Pilato, dietro denuncia dei
nostri primi cittadini, lo condannò alla crocifissione non vennero meno coloro che fin
dall’inizio lo amarono. Infatti apparve ai suoi discepoli il terzo giorno di nuovo vivo,
avendo i divini profeti detto queste cose su di lui e moltissime altre meraviglie. Il gruppo
che porta il nome di cristiani non è ancora scomparso».
Siamo alla fine del I secolo d.C. Da ebreo Giuseppe Flavio dice di Gesù che era il Cristo: allora era un
convertito? È difficile accogliere come del tutto storico questo passo; bisogna sempre ricordare che
tutti i testi antichi furono trasmessi per mano cristiana. L’analisi storico-critica, sulla base di una
traduzione siriaca delle Antiquitates Iudaicae, permette di ricostruire il testo autografo: sicuramente
nelle Ant. c’era un riferimento a Gesù ma un copista cristiano si è decisamente sbilanciato (è uno stile
non storico o cronachistico). L’ipotesi è che la parte in tondo fosse il testo autografo, mentre la parte in
corsivo sia stata l’opera di un copista.

212
JOHN PAUL MEIER parla del Gesù storico come di un ebreo marginale proprio guardando alle fonti
storiche: tutte le fonti più importanti non ne parlano o ne parlano solo con riferimento ai problemi
posti dai cristiani. Gesù era un personaggio che non faceva la storia o che non risultava alla storia.

4. Fonti rabbiniche
4.1. Talmud
Il Talmud – nella versione sia palestinese sia babilonese – nel trattato sullo sabbath parla di «Gesù
Pandera [o ben Pandera]». Altre volte è chiamato «ben Stada» e figlio di una relazione adulterina.
Sulla morte di Gesù dice che si attese che «Jeshu Notzrì [Nazareno]» fosse lapidato alla vigilia di
Pasqua con l’accusa di stregoneria e di corruzione e non trovando in lui nessun elemento per la
discolpa fu appeso al legno.
4.2. Toledot Yeshu
Durante il medioevo sorse un libello anti-cristiano dal titolo ‫[תולדות ישו‬Toledot Yeshu - Vita di Gesù]
(IX secolo d.C.), una serie di racconti non codificati di matrice ebraica – il Talmud ne conferma
l’origine ebraica – su Gesù e sul primo cristianesimo, una sorta di anti-vangelo a uso interno, ironico,
dissacrante, sarcastico.
Nelle Toledòt si afferma che Gesù è figlio di Maria e di un certo Joseph Pandera (ma il legittimo
sposo di Maria si chiamava Giovanni): Pandera è la storpiatura del nome greco parthenos [“vergine”],
da cui il fiorire di tante dicerie. Nasce a Betlemme. Pretende di essere nato da una vergine e di essere
figlio di Dio (ma in realtà è nato da un rapporto adulterino con una donna mestruata). Incontra i dottori
mostrando per essi poco rispetto. Compie miracoli, cammina sull’acqua, risuscita un morto e guarisce
un lebbroso (utilizza come strumento di magia il nome impronunciabile di Dio, che ha rubato nel
tempio). Manda in visibilio i giudei ed entra in Gerusalemme sul dorso di un asino. Applica a sé molte
profezie bibliche (Is 7,14; Zc 9,9; Sal 2 e 110). Fu tradito da Giuda Iscariota, frustato e incoronato di
spine. Gli fu dato da bere aceto, morì in occasione della Pasqua e fu sepolto prima dell’inizio del
sabato. I suoi dodici apostoli raccontarono che era risorto (ma il cadavere era stato nascosto dal
giardiniere). Questo punto di vista giudaico è stato decisamente respinto dall’odierno rabbinismo.48

5. Fonti cristiane
5.1. Gli apocrifi del Nuovo Testamento
5.1.1. L’influsso degli apocrifi del NT nella grande Chiesa
«Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, qualora fossero scritte ad una ad una, il
mondo non basterebbe a contenere i libri» (Gv 21,25).

48
Cfr. RICCARDO DI SEGNI, Il vangelo del Ghetto, Roma 1985. «Le Toledòth Jéshu godono di una fama negativa
e sinistra. Le storie che raccontano sono così dissacranti, e la forma tanto polemica che il mondo cristiano le ha
sempre respinte con forti critiche e anatemi. […] Nel 1958 il Dizionario Ecclesiastico parafrasando don
Giuseppe Ricciotti, scriveva: “Blasfemo e calunnioso libello, circolante in varie redazioni fin dai secoli VIII-IX,
riassume fantastiche ed oscene calunnie manipolate dagli ambienti giudaici dell’epoca e gabellate come fonti
autentiche della vita di Gesù. […] Alla condanna del mondo cristiano ha fatto riscontro da parte ebraica
l’imbarazzo per un’opera che in vari momenti della storia è apparsa poco seria e precisa, scomoda ed
inopportuna. […] Questo imbarazzo spiega le resistenze a diffondere l’opera. Si è perfino tentato […] di
attribuire alcune versioni dell’opera ad antisemiti che se ne sarebbero serviti per attizzare l’odio cristiano per gli
ebrei”.

213
«Gli apocrifi proprietà delle scienze dell’antichità, della filosofia e della storia antica devono studiarli
come qualsiasi altro documento pervenuto a noi dai secoli passati.» (A. PIÑERO, L’altro Gesù. Vita di
Gesù secondo i Vangeli apocrifi, EDB 1995).
5.1.2. Valore teologico e loro attendibilità
«Per taluni di questi scritti (apocrifi), la cui composizione sembra doversi datare assai presto, non oltre
la metà del II secolo, si può ipotizzare che essi, più che dei “falsi” (come si tende spesso ancora oggi
giorno a pensare), fossero, al contrario, collezioni di tradizioni orali su Gesù, anche antiche e degne
dunque del massimo rispetto, che tuttavia non avevano goduto della fortuna (o ne avevano goduto solo
per qualche tempo e presso qualche comunità) di venire riconosciute e recepite dall’insieme dei
credenti; diversamente, in ciò, da quanto era successo agli scritti appunto “canonici”, di cui era stata
accolta la divina ispirazione. […] La grande maggioranza di questi pur vetusti scritti vide la luce dalla
metà del II secolo fino a tutto il IV, troppo tardi per il riconoscimento della loro canonicità, in
un’epoca in cui i criteri, in base ai quali stabilire cosa fosse ispirato e cosa non lo fosse, avevano già
assunto una forma pressoché definitiva.» (A. PIÑERO, L’altro Gesù. Vita di Gesù secondo i Vangeli
apocrifi, EDB 1995).
5.1.3. Apocrifi e Vangeli canonici (Protovangelo gi Giacomo)
5.1.4. Vangelo di Tommaso

5.2. Testimonianze canoniche (NT) su Gesù fuori dai vangeli


5.2.1. Atti degli Apostoli
Gli Atti presentano riassunti della “vita” di Gesù presentati nei discorsi di Pietro e Paolo (At 2,22-24;
13,27-31); non vanno tuttavia valutati come fonte diversa essendo opera dello stesso autore del terzo
vangelo.
5.2.2. Lettere cattoliche
In Gc 5,12 risuona il precetto di Gesù di non giurare.
5.2.3. Lettera agli Ebrei
In Eb 7,14 si parla dell’appartenenza di Gesù alla tribù di Giuda, non a quella di Levi: «È noto infatti
che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al
sacerdozio». Cfr. Eb 8,4: «Se dunque fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, essendovi
quelli che offrono i doni secondo la legge».
In Eb 13,12 si parla della crocifissione di Gesù fuori della porta della città di Gerusalemme e della
preghiera nel Getsemani. Cfr. Eb 5,7-8: «Il quale, nei giorni della sua carne, implorò e supplicò con
grida veementi e lacrime colui che poteva salvarlo da morte, e fu esaudito per la sua riverenza. E
imparò da ciò che soffrì l’obbedienza, pur essendo Figlio»).
5.4. La tradizione paolina
Particolarmente importanti sono i dati – nella loro essenzialità – che troviamo in Paolo (primi anni 50).
Al centro dell’evangelo paolino c’è la persona di Gesù Cristo: non tanto il Gesù terreno (che Paolo,
probabilmente, non ha mai conosciuto), con le sue vicende e il suo insegnamento durante il ministero
pubblico, quanto il Signore, cioè il Crocifisso-Risorto ormai glorificato, vivente nei cristiani e
presente nel mondo con il suo corpo mistico che è la Chiesa. 1Tm 6,13 ricorda che Gesù «sotto Pilato
testimoniò la sua bella professione».

214
Non sappiamo se Paolo abbia mai avuto un contatto con Gesù di Nazareth prima della sua
crocifissione (7 aprile 30 d.C.); non è inverosimile che Paolo si trovasse a Gerusalemme nella Pasqua
di quell’anno, dal momento che specialmente per un ebreo osservante era il pellegrinaggio più
importante del calendario. Se c’era, avrà senz’altro almeno saputo di quel presunto Messia di Galilea
finito così miseramente. Comunque sia, delle vicende terrene di Gesù Paolo si limita a ricordare le
cose essenziali:
 È veramente uomo (Fil 2,7);
 Appartiene al popolo di Israele (Rm 9,5);
 Discende dai patriarchi (Gal 3,16);
 È di origine davidica (Rm 1,3);
 È nato da donna, sotto la Legge (Gal 4,4);
 Nella notte in cui veniva tradito istituì l’Eucaristia (1Cor 11,23);
 E soprattutto morì in croce (1Cor 1,23; 2,2; 2Cor 13,4; Gal 31; 6,14; etc.), fu sepolto e
risuscitato il terzo giorno, dopo di che apparve ai Dodici e ad altri discepoli (1Cor 15,3-8).
Anche i brani in cui l’apostolo si rifà esplicitamente a parole di Gesù sono rari; di questi soltanto tre
sono certi:
 1Cor 7,10 (indissolubilità del matrimonio);
 1Cor 9,14 (mantenimento di chi annuncia l’evangelo);
 1Cor 11,24-25 (le parole dell’ultima cena).
Quando, altrettanto raramente, invita a imitare Gesù Cristo nella sua esistenza terrena, lo fa indicando
soprattutto il suo atteggiamento di obbedienza al Padre e di donazione agli altri: cfr. 1Ts 1,6; 1Cor
11,1; Fil 2,5.
Più numerose sono, invece, le ricorrenze nelle lettere paoline di passi che riecheggiano detti di Gesù
riportati nei vangeli, soprattutto quelli sull’imminenza del giorno del Signore (1Ts 5,2) o quelli tipici
del Discorso della montagna sulla predilezione verso i poveri e i semplici (1Cor 1,27-28), sul
comandamento dell’amore e sulla non-violenza (Rm 12,9-10).

215
26. Gesù nelle fonti dei Vangeli49
Introduzione: dall’evangelo [euvagge,lion] di Gesù ai
quattro vangeli

1. Premessa: il “Nuovo Testamento”


2. Origini del termini euvagge,lion
3. Dalla fase orale alla scrittura
3.1. Il concetto generale di euvagge,lion a livello gesuano (Gesù storico)
3.1.1. Mc 1,14-15
3.1.2. Evangelizare pauperibus
3.2. La proclamazione del kerigma
3.2.1. La formula della trasmissione kerigmatica in 1Cor 15,1-5
3.2.2. Altre formule pre-paoline della trasmissione kerigmatica
4. La nascita del genere letterario ‘Vangelo’
4.1. Tre tappe della formazione di un Vangelo
4.2. Il titolo degli scritti
4.3. La questione dell’identità degli autori
4.4. Quale genere letterario?
5. La redazione del Nuovo Testamento: la “questione sinottica”50
5.1. Quattro diversi tipi di soluzione adottati storicamente
5.2. La soluzione della Sinossi
5.3. La teoria delle due fonti
6. Altre considerazioni
6.1. Criteri di storicità dei vangeli
6.2. Testimonianze canoniche (NT) su Gesù fuori dai vangeli
6.3. Riguardo alla divinità di Gesù

1. Premessa: il “Nuovo Testamento”


L’espressione “nuovo patto” o “nuovo testamento” [h` kainh. diaqh,kh] è presente già nello
stesso NT: 2Cor 3,6; Gal 4,24; Eb 8,6; 9,15; 12,24; nei testi dell’istituzione dell’Eucaristia nei tre
sinottici (Lc 22,20; Mt 26,28; Mc 14,24) e 1Cor 11,25. “Antico testamento” o “antico patto” [h`
palaia diaqh,kh] in 2Cor 3,14.
L’espressione si trova usata per la prima volta per designare l’insieme degli scritti antico-cristiani
‘canonici’ nel 192 d.C. in un libro di un autore antimontanista sconosciuto.
Solo dal II secolo d.C. in poi gli scritti neo-testamentari sono comparati per autorità agli scritti ricevuti
dal giudaismo (il primo testimone che riporta per intero l’elenco dei testi accolti come canonici è il
Codice muratoriano).

49
Bibliografia di riferimento: V. FUSCO, La ricezione dei vangeli nella chiesa antica, in M. Laconi et al.,
Vangeli sinottici e Atti degli apostoli, LOGOS 5, pp. 55-132; D. FRICKER, «Vangelo di Gesù, il Cristo, il Figlio
di Dio». Introduzione ai Vangeli sinottici, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2016. Cfr. quanto detto su Gesù nelle
fonti storiche sia extrabibliche sia poi alcune NT: i testi che più parlano della sua ‘storia’ sono i Vangeli.
50
Cfr. D. MARGUERAT, Il problema sinottico, in Id. (ed.), Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana, Torino
2004, Geneve 20012.

216
L’attuale lista di 27 libri divenne definitiva sia nella Chiesa latina sia nella Chiesa greca solo nel V
secolo d.C. (cfr. la Lettera pasquale di S. Atanasio del 367 d.C. che include 22 libri dell’AT e la lista
completa dei 27 testi del NT) e sancita in modo dogmatico dal Concilio di Trento nel 1546. Il NT
include:
 4 Vangeli;
 13+1 lettere di Paolo;
 7 lettere cattoliche;
 l’Apocalisse di Giovanni.

2. Origini del termini euvagge,lion


Il termine euvagge,lion trae origine nel mondo profano.
 Nella sua formulazione originaria significa solo “buona notizia”, “lieto annuncio”. Una
delle attestazioni più antiche si trova in OMERO, Odissea (14,152-153): «E il premio della
buona notizia [euvagge,lion] ch’io l’abbia solo quando venendo entrerà in casa sua».
 Nel contesto ebraico besarà è una comunicazione orale e breve. Nel mondo della grecità si
riscontra soprattutto nei contesti militari per designare la vittoria in guerra.
 Nella LXX “vangelo” è la buona notizia comunicata a qualcuno (2Sam 18,20.25.27; 2Re
7,9) e non ha di per sé un’accezione religiosa o cultuale ma rimane nel suo significato
profano.
Come si è arrivati da questa base terminologica (comunicazione orale e breve in contesto profano e
bellico) all’accezione cristiana (comunicazione scritta e lunga fino ad abbracciare numerosi capitoli di
un racconto)?

3. Dalla fase orale alla scrittura


Occorre osservare che la medesima accezione originaria del termine è presente negli scritti del NT: è
una accezione che non viene perduta ma introdotta in un differente contesto quale quello religioso.
3.1. Il concetto generale di euvagge,lion a livello gesuano (Gesù storico)
3.1.1. Mc 1,14-15
Mc 1,14-15 descrive l’iniziale predicazione di Gesù:
Meta. de. to. paradoqh/nai to.n 14
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò
VIwa,nnhn h=lqen o` VIhsou/j eivj nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, 15
th.n Galilai,an khru,sswn to. e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio
euvagge,lion tou/ qeou/ kai. le,gwn è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
o[ti peplh,rwtai o` kairo.j kai.
h;ggiken h` basilei,a tou/ qeou/\
metanoei/te kai. pisteu,ete evn
tw/| euvaggeli,w|Å
Marco sintetizza l’insegnamento di Gesù sotto la categoria di euvagge,lion tou/ qeou (prima
ricorrenza del termine). Nella seconda ricorrenza esso è il soggetto di pisteu,w: la buona notizia è

217
la vicinanza del regno di Dio, la vicinanza di Dio stesso che per primo prende l’iniziativa. Da rilevare
l’istanza all’imperativo del meta-noew [“cambiare modo di pensare”, “ricredersi”]. TOMMASO
D’AQUINO commenta questo passo in modo illuminante: la conversione e il credere non sono due cose
distinte ma la conversione coincide con l’iniziare a credere nell’euvagge,lion. In questo Gesù si
distingue dalla predicazione di Giovanni Battista, il quale chiede anch’esso la conversione ma la parte
buona è sostituita dalla minaccia del castigo.
3.1.2. Evangelizare pauperibus
Inoltre, Marco insiste sul fatto Gesù ha annunciato la buona novella ai poveri. Cfr. anche
l’evangelizare pauperibus di Lc 4,18, Lc 7,22 (“[…] Ai poveri è annunciato il Vangelo”) e Mt 11,5.
3.2. La proclamazione del kerigma
Le prime comunità cristiane hanno annunciato la fede in Gesù con della formule della trasmissione
kerygmatica. Kerigma è divenuto termine tecnico per esprimere la sintesi della predicazione iniziale
della chiesa, la quale mantiene un carattere di oralità. Per la prima generazione cristiana il Vangelo
non è scritto ma è trasmissione in forma orale del kerigma, inteso come dottrina sintetica di tutto il
cristianesimo nascente: Cristo è morto e risorto per i nostri peccati (attribuzione alla morte di Gesù di
una finalità espiatoria – la sua morte cancella i nostri peccati).
3.2.1. La formula della trasmissione kerigmatica in 1Cor 15,1-5
In particolare, in 1Cor 15,1-5 con questo termine Paolo richiama i contenuti fondamentali della
predicazione cristiana, di provenienza prevalentemente orale (ambito liturgico, battesimale,
catechetico, etc.):
1
Gnwri,zw de. u`mi/n( avdelfoi,( Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho
to. euvagge,lion o] annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale
euvhggelisa,mhn u`mi/n( o] kai. restate saldi 2 e dal quale siete salvati, se lo
parela,bete( evn w-| kai. mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che
2
e`sth,kate( diV ou- kai. non abbiate creduto invano! 3
sw,|zesqe( ti,ni lo,gw| A voi infatti ho trasmesso, prima di tutto, quello
euvhggelisa,mhn u`mi/n eiv che anch’io ho ricevuto, cioè
kate,cete( evkto.j eiv mh. che Cristo morì per i nostri peccati secondo le
eivkh/| evpisteu,sateÅ 3 pare,dwka Scritture
4
ga.r u`mi/n evn prw,toij( o] kai. e che fu sepolto
pare,labon( o[ti Cristo.j e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
5
avpe,qanen u`pe.r tw/n a`martiw/n e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
h`mw/n kata. ta.j grafa.j 4 kai.
o[ti evta,fh kai. o[ti
evgh,gertai th/| h`me,ra| th/|
tri,th| kata. ta.j grafa.j 5 kai.
o[ti w;fqh Khfa/| ei=ta toi/j
dw,deka\...

Siamo attorno al 51-52 d.C. Paolo usa sia il sostantivo [euvagge,lion] sia il verbo
[euvhggelisa,mhn].
«pare,dwka … pare,labon» è una formula fissa che indica il tradere di padre in figlio già
proprio della tradizione giudaica.

218
Il termine euvagge,lion è riferito in assenza ancora di un NT scritto al kerigma cristiano. Paolo
trasmette quello che aveva già ricevuto (probabilmente dalla comunità di Antiochia, la prima rilevante
comunità cristiana fuori dalla Palestina). Interrogandosi sul significato che la morte di Gesù assumeva,
la comunità cristiana colloca la sua morte sullo sfondo salvifico del pro nobis. E l’insistenza kata.
ta.j grafa.j [“secondo le Scritture”] nelle prime generazioni cristiane vuole significare
l’introduzione della vicenda altamente drammatica (dal punto di vista degli apostoli) di Gesù nel piano
di Dio come contenuto nelle Scritture ebraiche.
Quando Paolo non usa la tradizione ma esprime il suo punto di vista e la sua ermeneutica, non parla in
questi termini («per i nostri peccati»), ma usa una formula breve ma più ampia e includente e più
personalistica: Cristo è morto «per noi», «per voi», «per tutti», fino a «per me» (Gal 2,2). Non è solo
una eliminazione del negativo (togliere il peccato) ma molto di più un darci il positivo: benedizione,
figliolanza, riscatto, liberazione, giustificazione, amore, perdono.
3.2.2. Altre formule pre-paoline della trasmissione kerigmatica
Altre formule pre-paoline sono presenti nei seguenti passi, dove ciò che li accomuna è il riferimento
alla morte di Gesù:
 1Cor 11,23-25 («vi trasmetto quello che ho ricevuto» nelle parole dell’ultima cena);
 1Cor 16,22 (mara,na qa, - “Signore, vieni”);
 Gal 1,4 (auto-consegna di Gesù per i nostri peccati);
 Gal 4,6/Rm 8,15/Mc 14,36 (abba o` path,r);
 Rm 1,3b-4a; Rm 3,25;
 Fil 2,5-11 (fondamentale inserzione paolina dell’espressione «morte di croce» in Fil 2,8).
Si noti l’abbondante uso del sostantivo euvagge,lion nelle lettere paoline rispetto al resto del NT:

Il sostantivo euvagge,lion è attestato 76 volte nel NT di cui: 60 nelle lettere paoline, 8
in Mc, 4 in Mt; non è mai utilizzato in Lc e Gv.
 Il verbo corrispondente euvaggeli,zein è riportato 54 volte nel NT di cui 21
nell’epistolario paolino.
Paolo insiste moltissimo sul concetto di euvagge,lion: a volte parla del “mio vangelo” per dire la
sua propria esperienza dell’evento dell’incontro del risorto sulla via di Damasco.

4. La nascita del genere letterario ‘Vangelo’51


A differenza di Paolo, Gesù non ha scritto nulla o comunque non abbiamo nulla di quanto
eventualmente lui abbia scritto: solo due volte nei Vangeli il verbo grafw è usato con soggetto Gesù
(Gv 8,2-11). Nemmeno ha comandato di scrivere nulla: «andate e predicate il mio Vangelo».
Nemmeno mai si dice che nella sua vita terrena qualcuno abbia scritto di lui: la sola cosa che fu scritta
di Gesù mentre era ancora in vita fu il titulus crucis in tre lingue (cfr. Gv).
Gesù praticava la tradizione orale. Si può dire che nella sua predicazione Gesù usasse degli aiuti per
memorizzare in assenza di strumenti di annotazione e registrazione: es. anafore (ripetizioni inziali),
racconto di storie, etc.
51
Cfr. J.N. ALETTI, Gesù: una vita da raccontare. Il genere letterario dei Vangeli di Matteo, Marco e Luca, San
Paolo, 2017 (paragone dei vangeli sinottici con il genere bios dell’epoca antica).

219
I discepoli apostoli in una prima fase hanno continuato a tramandare gli insegnamenti del maestro e a
farli conoscere. Fino al 50 d.C. (quando ci saranno i primi scritti a partire da 1Ts) non ci fu l’esigenza
forte di scrivere i detti e i fatti della vita di Gesù. Il solo testo sacro era la Scrittura ebraica, mostrando
in essa ciò che era detto in modo profetico della vita di Gesù.
Dopo la sua ascensione al cielo la predicazione di Gesù si espande fuori da Gerusalemme e dalla
Palestina nell’impero romano; è in questo contesto geografico e culturale nuovo che emerge l’esigenza
di mettere per iscritto. Paolo inizia a usare lo scritto epistolare per comunicare la fede in Gesù alle
comunità più lontane.
4.1. Tre tappe della formazione di un Vangelo
Cosa era importante mettere per iscritto? Ci si rende subito conto che non si poteva mettere per
iscritto tutto: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, qualora fossero scritte ad una
ad una, il mondo non basterebbe a contenere i libri» (Gv 21,25 - affermazione paradossale e iperbolica
che contiene una verità). L’esigenza e l’atto di preservare i ricordi più importanti avvengono a
partire dalla vita concreta e dai problemi che attraversavano le giovani comunità cristiane. Il
Vangelo nasce già come una forma di attualizzazione di problematiche interne. Così, ad esempio,
sebbene le prime comunità avessero al loro interno gli apostoli, i testimoni oculari dell’evento Gesù di
Nazareth, e alcuni suoi famigliari, tuttavia gli evangelisti e il sentire della comunità in cui essi sono
inseriti non ritennero che gli anni della vita nascosta a Nazareth fossero importanti al punto da essere
fissati nello scritto.
Nascono le prime raccolte: di parabole, di miracoli significativi, di inni composti e usati nella
preghiera comunitaria, nell’eucarestia, nel battesimo. La prima cosa ripetuta con attenzione è il
racconto della passione dove c’è tutto il pro nobis di Dio.
Ad un certo punto questo insieme di ricordi e racconti è preso in mano dall’evangelista – da notare che
nessuno dei 4 vangeli riporta la firma dell’evangelista; i loro nomi sono convenzionali – che scrive un
testo unitario per dire ciò che ritiene essenziale secondo le esigenze della sua comunità. Il Vangelo
nasce come testo che racconta tutta la storia passata a tre livelli:
1. La parola e i fatti di Gesù ripetuti dagli apostoli;
2. La parola della Chiesa primitiva;
3. La stesura scritta del Vangelo.
Lc 1,1-4 «1 Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono
compiuti in mezzo a noi, 2 come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni
oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3 così anch'io ho deciso di
fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto
ordinato per te, illustre Teòfilo, 4 in modo che tu possa renderti conto della solidità
degli insegnamenti che hai ricevuto».
Luca si presenta come un grande letterato, come un vero storico che fa ricerche accurate con grande
attenzione ai dettagli. Quando si mette a scrivere il suo vangelo ha in mano qualcosa: tanti hanno già
tentato di raccontare l’evento Gesù per iscritto. Dunque è assai probabile che l’evangelista avesse in
mano già qualcosa di scritto.
Implicitamente l’evangelista dice che non è stato un testimone oculare ma che ha ricevuto quanto sta
per scrivere da chi lo è stato. Questo si può applicare a tutti gli evangelisti.
Accanto al mittente dello scritto si specifica anche il destinatario: Teofilo. Probabilmente è un
personaggio fittizio; è un nome generico che dice “amico di Dio”, “amato da Dio”, in modo che

220
ognuno possa ritrovarsi in esso. Teofilo è già stato catechizzato: è già almeno un catecumeno. Dunque,
questo e gli altri vangeli non sono scritti per chi non ha mai sentito parlare di Gesù o chi non crede in
lui, ma per chi ha già iniziato il cammino di fede.
Gv 20,30-31 (prima finale). Si specifica la finalità di fede: ciò che è stato scritto non risponde ad una
esigenza conoscitiva (far conoscere chi era Gesù) ma perché «si creda che Gesù è il Cristo».
Gv 21,24-25 (seconda finale). «Noi»: dice la comunità in cui l’evangelista vive e opera (è l’implicita
canonizzazione del testo giovanneo).
4.2. Il titolo degli scritti
Nessuno dei vangeli canonici come pervenutici reca il titolo euvagge,lion che lo definisca:
 Marco inizia con «VArch. tou/ euvaggeli,ou VIhsou/ Cristou/
Îui`ou/ qeou/л (Mc 1,1): “principio del vangelo di Gesù Cristo” sia senso
soggettivo (il vangelo che è Gesù Cristo) sia in senso oggettivo (il vangelo che Gesù ha
annunciato).
 Matteo inizia con «Bi,bloj gene,sewj VIhsou/ Cristou/ ui`ou/ Daui.d
ui`ou/ VAbraa,m» (Mt 1,1): “vita di Gesù Cristo …” (segue la genealogia di Gesù).
Rispetto a Marco Matteo sottolinea un’altra origine di Gesù: egli insiste sin dall’inizio
sull’aggancio di Gesù con il giudaismo.
 Solo Luca nel suo proemio parla di dih,ghsin - “narrazione”, racconto di una vicenda,
della stessa biografia di una persona.
Nessuno degli evangelisti usa il termine euvagge,lion come titolo; anzi, nei manoscritti antichi
ogni vangelo inizia senza titolo. Nella ricerca storiografica si presentano come libretti anonimi: codici
successivi del II-IV secolo d.C. attribuiscono questi titoli alla tradizione ecclesiale successiva e in ogni
caso non usando mai il genitivo [euvagge,lion kata … e non euvagge,lion tou …].
Dunque, non dall’interno ma solo dall’esterno si realizza la caratterizzazione dei vangeli come tali.
4.3. La questione dell’identità degli autori
Gli autori dei vangeli sono anonimi. L’attestazione più antica sull’attribuzione ai quattro vangeli
canonici risale a Giustino (II secolo d.C.) che nel Dialogo con Trifone scrive: «So piuttosto che i vostri
precetti, contenuti in quello che chiamate vangelo, sono così grandi e mirabili da far pensare che
nessuno sia in grado di osservarli» (10,1; cfr. anche Dialogo 100,1; Apologia 66,3). Quindi la
denominazione si diffonde nei manoscritti P66 e Bodmer II a partire dai quali i testi sono segnalati
come di Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Perché questi nomi?
 Secondo la tradizione Matteo è uno dei Dodici (Levi il pubblicano: cfr. Mt 9,9); dunque, la
sua autorità è assai forte.
 Anche Giovanni è uno dei Dodici: anche la sua autorità è assai forte.
 Marco, secondo la tradizione che risale a EUSEBIO DI CESAREA (Storia ecclesiastica 3,15-
16) ma che raccoglie una testimonianza di PAPIA DI GERAPOLI (inizi II secolo d.C.), è chi
riportava l’insegnamento e la predicazione di Pietro. Papia afferma:
«E questo diceva il presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, tutto quanto ricordò,
accuratamente scrisse, benché non ordinatamente, delle cose dette e fatte dal Cristo. E
infatti egli non ascoltò il Signore né lo seguì; bensì più tardi, come ho già detto, seguì

221
Pietro: il quale secondo le necessità faceva le sue istruzioni, ma non con lo scopo di fare
un’esposizione ordinata dei logia riguardanti il Signore, sicché nessuna colpa ebbe Marco
nello scrivere in questa maniera alcune cose come le ricordava; di una cosa sola infatti si
preoccupò: di non tralasciare nulla delle cose che aveva ascoltato e di non alterare niente di
esse. Matteo da parte sua in lingua ebraica ordinò i detti e ciascuno li interpretò come
potette».
 In modo analogo Luca era discepolo di Paolo (che lo nomina diverse volte nelle sue
lettere); alcuni fanno riferimento a Luca quando negli Atti degli Apostoli si usa il «noi».
Rappresenta la tradizione legata all’“apostolo” Paolo (titolo controverso auto-attribuitosi).
Nel II secolo d.C. si assiste ad una fissazione del sostantivo “vangelo”. Dunque, l’autorevolezza e
autorialità dei 4 scritti evangelici è sempre sancita dall’esterno.
4.4. Quale genere letterario?
Da Lc 1,1 desumiamo che si tratta di una narrazione. Che genere di narrazione: apologetica, storica,
elogiativo-encomiastica, cronachistica?
 Storiografie antiche?
Cfr. le Storie di Tacito, la Storia di Roma di Tito Livio, le Storie di Polibio. Il solo che si avvicina
molto al genere storiografico dell’antichità è Luca, con riferimento sia al terzo vangelo sia agli Atti
degli Apostoli: es. il riferimento al censimento; la presentazione della figura del Battista.
D’altra parte al confronto con la storiografia antica si trovano anche consistenti lacune: es. è detto
poco del contesto storico-culturale in cui Gesù vive.
 Biografie?
La biografia concentra l’attenzione su un personaggio: cfr. la Vita di Mosè di Filone alessandrino, le
Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, le Vite dei Cesari di Svetonio, la Vita di Apollonio di Tiana di
Filostrato, le Vite parallele di Plutarco.
Possono le Vite antiche essere state un modello per i vangeli? Ad una primissima lettura il vangelo può
essere considerato la “vita di Gesù”, sebbene presentata da quattro prospettive diverse. In questo senso
è interessante il parallelo con Alessandro Magno (III secolo a.C.), di cui sono esistiti almeno 4
biografi che hanno sottolineato quattro aspetti diversi dello stesso (strategia militare, capacità
politiche, eroismo, vita familiare).
D’altra parte, è prossima un’obiezione: tra le biografie antiche e i vangeli ci sono diversità notevoli.
In primo luogo, il genere biografico non si adatta per nulla al vangelo di Marco, il più antico da cui
hanno attinto anche Matteo e Luca. Se Mt 1-2 e Lc 1-2 danno informazioni sull’infanzia di Gesù, non
così Marco che presenta Gesù già adulto (battesimo al Giordano). Una biografia siffatta priva di
qualsiasi riferimento all’infanzia e alla giovinezza di Gesù sarebbe molto strana: tutte le biografie
antiche iniziano con la descrizione del contesto delle origini di un personaggio.
In secondo luogo, nessuna biografia dedica così tanto spazio alla morte del personaggio scelto come
per Gesù. I vangeli sono essenzialmente il racconto della passione di Gesù: specie nel vangelo di
Marco c’è una ampia sproporzione al punto che se 13 capitoli ne raccontano poco più di un anno di
vita pubblica, ben 2 capitoli – per altro i più ampi (capitoli 14 e 15 = 1/5 del vangelo) – sono dedicati
alle sole ultime ore della vita terrena. Il tempo raccontante coincide con il tempo raccontato, a dire la
centralità e l’enfasi posta sui racconti della passione che la prima comunità cristiana ha ritenuto di
centrale importanza. Cfr. MARTIN KÄHLER (con riferimento al Vangelo di Marco): «i vangeli sono un

222
racconto della passione di Gesù con ampia introduzione» fine a preparare il lettore a cogliere la
parte centrale. In Marco è una preparazione allo scandalo. Neanche i vangeli di Matteo e Luca
rientrano a pieno titolo nel genere biografia.
 Midrash?
Genere ben conosciuto nella tradizione giudaica, per alcuni il vangelo apparterrebbe al genere del
midrash essendo la ripresa di passi biblici attualizzati alla luce della situazione presente.
Specie Matteo con le “formule di compimento” (pure presenti in Mc e Lc): è proprio del vangelo di
Matteo rileggere la figura di Gesù in base alle Scritture ebraiche.
 Romanzi?
Il genere romanzesco non è molto diffuso nel mondo antico: esempi ne sono le Avventure di Cherea e
Calliroe di Caritone di Afrodisia e il Satyricon di Petronio. La componente preponderante nei Vangeli
impedisce di accostarli ad un romanzo: (i) Gesù è un personaggio storicamente esistito; (ii) i Vangeli
sono scritti in funzione della fede dei destinatari e non per diletto o passatempo.
 Memorabilia?
Cfr. i Memorabilia di Socrate di Senofonte; gli Apomnemoneùmata ton apostòlon nell’Apologia I di
Giustino (66,3). Ma il racconto dettagliato della passione e della morte in croce di Gesù si distanzia
notevolmente da questo genere letterario, specie come presentato da Giustino.
 Hypòmnemata?
Cfr. Luciano di Samosata, De historia conscribenda (48). A prima vista specie Marco potrebbe
apparire come una memoria improvvisata che avrebbe bisogno di un migliore ordinamento o
redazione.
 Storiografia biblica?
Le narrazioni del Pentateuco (la storia del popolo di Israele dalla nascita agli eventi fondanti)
sarebbero stati modelli narrativi che avrebbero poi influenzato la redazione dei Vangeli: questo può
essere rintracciato in qualche misura specie in Matteo che segue la Torah nel Vangelo; ma non così
per Marco e Luca.
 Un unicum
In sintesi, certamente il genere cui più si avvicinano i vangeli è il genere biografico ma con le dovute
distinzioni sopra fatte. Di fatto «[n]on si possono identificare con nessuno dei generi letterari antichi»
(R. LATOURELLE, A Gesù attraverso i vangeli. Storia ed ermeneutica, Cittadella, Assisi 1979).
Siamo di fronte ad un unicum letterario: genere del tutto nuovo, senza riferimenti nel passato, che non
si limita a ripercorrere la storia di Gesù e dei discepoli, né solo a riprendere storiograficamente la
storia del popolo di Israele. Certamente nei vangeli c’è un intento biografico e storico, ma il genere
letterario è unico. Marco non si è inventato un intreccio narrativo autonomo: la sua narrazione è una
ripresa della tradizione ecclesiale. Matteo e Luca hanno avuto probabilmente una serie di detti comuni
(Fonte Q). Gli evangelisti hanno avuto a disposizione del materiale già esistente.
Ogni evangelista scrive per una comunità. I vangeli sono stati definiti «storie kerigmatiche»
(MARTIN ENGEL) o anche «storie catechetiche»: il vangelo non è stato solo predicato e annunciato
ma già applicato alla realtà concreta della comunità cui l’evangelista scriveva.

223
5. La redazione del Nuovo Testamento: la “questione sinottica”
Il fatto sinottico: siamo in presenza di quattro testi diversi, di cui tre sono molto vicini tra loro
presentando moltissimi elementi comuni (in primis il canovaccio letterario, l’intelaiatura) sebbene
anche alcune significative differenze. Da ciò deriva una complicazione per via delle discordanze –
quasi contraddizioni – non risolvibili (es. l’ora della morte di Gesù, il locus del discorso delle
beatitudini, il numero degli anni del ministero pubblico di Gesù). Il filosofo pagano Celso diceva che
«alcuni fedeli che hanno bevuto troppo sono giunti ad alterare il testo più volte».
La questione sinottica: come spiegare l’esistenza di non uno ma ben quattro vangeli tra loro
differenti? Come storicamente si è formato il fatto sinottico?
 Matteo-Marco-Luca sono forse debitori, indipendentemente l’uno dall’altro, di una fonte
unica a loro precedente? E questa eventuale fonte era scritta o solo orale?
 Oppure ci fu uno dei tre sinottici che scrisse per primo e gli altri due si servirono di lui? E
allora l’eventuale priorità a chi compete?
 Ipotesi di GRIESBACH (nel Settecento): la priorità è di Matteo da cui
dipenderebbero nell’ordine Luca e Marco (in particolare Marco sarebbe la versione
sintetica e più pratica di Matteo).
 Teoria delle due fonti (oggi la più diffusa): la priorità è di Marco affiancato dalla
fonte Q [Quelle], dai quali dipenderebbero separatamente Matteo e Luca.
5.1. Quattro diversi tipi di soluzione adottati storicamente
1. Riconoscimento della canonicità solo di alcuni testi (Marcione)
Una prima soluzione radicale fu adottata verso la metà del II secolo d.C. da Marcione: il solo vangelo
canonico è Luca insieme al c.d. Apostolikon (raccolta di dieci lettere dell’apostolo Paolo). La
soluzione marcionita fu oggetto di condanna da parte della Grande Chiesa.
2. Armonizzazione dei quattro vangeli (Taziano)
Una seconda soluzione fu quella adottata dal siro Taziano, attivo a Roma verso il 170 d.C., nella sua
celebre opera Diatéssaron (il titolo originale significava “L’evangelo tratto dai Quattro” o anche
“Armonia dei quattro evangeli”), di cui non abbiamo l’originale ma versioni successive specie
grazie al commento di S. Efrem il Siro. Il metodo di Taziano consiste nel fare un collage dei quattro
vangeli, traendo materia da tutti quattro, eliminando i doppioni e facendo un’opera collettanea di
redazione. Eusebio di Cesarea parla di quest’opera nei termini di «compendio e fusione dei vangeli».
Fu un’opera di grandissimo successo editoriale, specie in Siria; ma che suscitò ben presto la reazione
dei vescovi (es. Teodoreto) in Siria contro il «vangelo dei mescolati» in favore del «vangelo dei
separati» (i quattro distinti).
Era chiaro ai padri della Chiesa che i vangeli non sono fatti per essere armonizzati. Ogni tentativo
di armonizzazione è una evidente manipolazione soggettiva del testo fatta da una scelta umana e fine a
distruggere l’opera personale di ciascun evangelista. L’esito di questa opera redazionale finisce per
essere un ibrido senza alcun valore, che peraltro getta ai rifiuti non poche pagine evangeliche (ben
lontano dallo spirito che animava il profeta Samuele che «non lasciava andare a vuoto nessuna parola
del Signore»). Anche negli episodi che ricorrono in più evangelisti c’è sempre un’ottica particolare
con cui l’autore sacro presenta quell’episodio (es. la parabola della pecora perduta in Lc 15 è collocata
nel Sitz im Leben originario di Gesù, mentre in Mt 18 è rivolta a tutta la comunità e specie ai capi del
popolo).

224
3. Concordismo (apologetica cattolica)
Un terzo tipo di soluzione è stato di lasciare intatti i quattro Vangeli, applicando il ‘concordismo’:
espressione di un atteggiamento chiaramente apologetico, il concordismo è una deriva di stampo
letteralista che cerca di forzare i testi per far rientrare a tutti i costi i dati discordanti. Si tratta però di
operare delle forzature che non rispettano il testo. Ma con risultati scarsi: es. con riferimento a Mt 5,6-
7 (il discorso del monte ambientato da Lc in pianura) i concordisti dicono che Gesù si trovava su un
altopiano.
4. “Armonia evangelica” (Eusebio di Cesarea)
Un sistema più tecnico e rispettoso del fatto sinottico è quello attestato da Eusebio di Cesarea nel suo
breve scritto Canones decem harmoniae evangeliorum. Egli si rifà ad un precedente lavoro di
AMMONIO ALESSADRINO, che divise il testo evangelico in varie pericopi (es. 340 per Lc, 252 per Gv)
tentandone una concordanza; su questa base EUSEBIO mette in colonna i titoli delle pericopi. In questo
modo non si eliminano i brani paralleli e si mettono in luce le concordanze e i paralleli. Si tratta di una
vera e propria “armonia evangelica”, anche se molto scheletrica, prototipo di “armonie” successive,
che facilitano una lettura, per così dire, sincronica dei Vangeli.
5.2. La soluzione della Sinossi
Sinossi è il riportare a stampa allo stesso momento e nello stesso spazio in parallelo i testi dei diversi
vangeli per cogliere con un solo colpo d’occhio i paralleli e le discordanze. Primo esempio di sinossi è
quello realizzato da GRIESBACH nel 1776 in Germania. È la base del moderno studio storico-letterario
dei vangeli.
La sinossi esalta al massimo il fatto sinottico: evidenzia all’estremo l’identità letteraria e favorisce il
confronto, lasciando del tutto intatto il testo sacro; cerca il rapporto di dipendenza reciproca tra i
vangeli e permette di prendere atto della ricchezza che sta nella diversità testuale e di intenti
(proponendo una sua propria prospettiva cristologia, teologia, ecclesiologia, pneumatologia,
escatologia, ogni vangelo compone un ritratto originario di Gesù). La sinossi comprende: tre colonne
(Mt e Mc, e Lc per i passi paralleli); quattro colonne (molto raramente, specie nei racconti della
passione); una sola colonna (prologo e inizi di Gv).
Inoltre, la sinossi permette di dedurre l’esistenza di:
 Triplice Tradizione (TT): Mc/Mt/Lc presentano, in modo sostanziale, gli stessi eventi
(detti o fatti di Gesù).
Sotto tale classificazione sono state individuate circa 100 pericopi: es. il battesimo di Gesù
(appena accennato ma non raccontato da Gv); le tentazioni di Gesù nel deserto (appena
accennate in realtà in Mc); la trasfigurazione; la parabole del seme e del seminatore; la
guarigione della suocera di Pietro; la passione e morte di Gesù.
 Duplice Tradizione (DT): il materiale accomuna due dei tre sinottici (il rapporto più
consistente, quasi esclusivo, è quello tra Mt e Lc, assente invece in Mc).
Questa duplice tradizione è costituita da 40 pericopi: es. nei primi due capitoli le
genealogie e il riferimento a Maria che rimane incinta prima di andare a vivere insieme a
Giuseppe; le beatitudini; la preghiera del Padre nostro; la parabola dei talenti e delle mine;
il loghion eucologico.

225
 Sondergut: il “patrimonio peculiare” (materiale proprio e specifico) di ogni vangelo, per
cui – anche se in proporzioni diverse – si riscontrano pericopi che non è possibile rilevare
negli altri vangeli.
Presenza minimale in Mc (3 paragrafi - ca. 25 vv.: il germoglio che cresce da solo; il cieco
di Betsaida; …); presenza più ampia in Mt (la strage degli innocenti; l’annunciazione a
Giuseppe; buona parte del discorso della montagna; il discorso ecclesiologico; il giudizio
finale); ampia presenza in Lc (l’annuncio a Maria e ai pastori; il “vangelo dell’emarginato”
[Lc 9,51-10,46]; le parabole del buon samaritano, delle monete, del figlio prodigo, della
misericordia [Lc 15]; tra gli incontri con il Risorto l’apparizione ai discepoli di Emmaus
[Lc 24]); presenza massimale in Gv.
5.3. La teoria delle due fonti
Come spiegare questa diversità?
La teoria delle due fonti è un’ipotesi che dà una soluzione alla questione sinottica e per questo scelta
dal 90-95% degli studiosi di oggi:
 TT: la fonte scritta è Mc, il vangelo più antico; Mt e Lc conoscono Mc e attingono a
piene mani a lui; Mt non conosce Lc e Lc non conosce Mt.
 DT: a spiegare l’esistenza di materiale comune a Mt e Lc (sp. i detti di Gesù) ma non
presente in Mc è sorta l’ipotesi di una Fonte Q [Quelle] (che non abbiamo e di cui nessuno
parla). Essa delimita l’ambiente della Palestina del nord (Galilea); fu scritta in aramaico;
sarebbe più antica di Mc; si presenta come uno scritto di genere sapienziale che presenta
Gesù come maestro di sapienza (per gli studiosi potrebbe essere stato un altro vangelo o
almeno un abbozzo di vangelo, consistente essenzialmente in una raccolta di loghia).
C’è un’edizione critica della Fonte Q, avendo isolato e ricostruito il testo ipotetico della
stessa. Per convenzione si indica es. “Q 14,27” (che indica Lc 14,27 e dove “Q” dice che
quel passo è presente in parallelo anche in Mt).

226
L 500 vv. Q 230 vv. Mc 661 vv. M 330 vv.

Lc 1160 vv. Mt 1068 vv.

227
Quasi tutto Mc (tranne pochi vv.) è contenuto in Mt. Anche Lc attinge da Mc ma in misura minore
rispetto a Mt. Sia Mt sia Lc attingono a Q. Rimane fuori il Sondergut (M e L).

6. Altre considerazioni
6.1. Criteri di storicità dei vangeli
1. Antichità delle fonti (non va presa in modo assoluto, ma l’intento è di avvicinarci il più
possibile alle parole e fatti di Gesù)
2. Attestazione molteplice
3. Unicità / discontinuità / assenza di analogie (Gesù si oppone al divorzio, il celibate, le
parabole)

228
4. Criterio dell’imbarazzo (Gesù inizia la sua attività pubblica con un’azione che lo
confondeva con I peccatori).
5. Continuità esterna / colorazione palestinese / coerenza (lavori scientifici ebraici, ed altri.
Studio del contesto di Gesù).
6. Spiegazione necessaria / logica che risolve i contrari / motivo sufficiente
6.2. Testimonianze canoniche (NT) su Gesù fuori dai vangeli:
In Gc 5,12 risuona il precetto di Gesù di non giurare
In Eb 7,14 si parla della sua appartenenza alla tribù di Giuda, non a quella di Levi (“È noto infatti che
il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al
sacerdozio”; cf. 8,4: “Se dunque fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, essendovi quelli che
offrono i doni secondo la legge”); in Eb 13,12 si parla della sua crocifissione fuori della porta della
città di Gerusalemme, e della preghiera nel Getsemani (5,7-8: “Il quale, nei giorni della sua carne,
implorò e supplicò con grida veementi e lacrime colui che poteva salvarlo da morte, e fu esaudito per
la sua riverenza. 8 E imparò da ciò che soffrì l' obbedienza, pur essendo Figlio”).
La tradizione paolina ricorda che Gesù “sotto Pilato testimoniò la sua bella professione (1Tm 6,13).
Gli Atti presentano ‘riassunti della ‘vita’ di Gesù presentati nei discorsi di Pietro e Paolo (2,22-24;
13,27-31); ma sono opera dello stesso autore del III vangelo, quindi non vanno valutati come fonte
diversa.
Particolarmente importanti (siamo ai primi anni ’50) sono i dati – nella loro essenzialità – che
troviamo in Paolo.
Al centro dell’evangelo paolino c’è la persona di Gesù Cristo. Ma non tanto il Gesù terreno (che
Paolo, probabilmente, non ha mai conosciuto), con le sue vicende e il suo insegnamento durante il
ministero pubblico, quanto il Signore, cioè il Crocifisso-Risorto ormai glorificato, vivente nei cristiani
e presente nel mondo con il suo corpo mistico che è la chiesa.
Non sappiamo se Paolo abbia mai avuto un contatto con Gesù di Nazaret prima della sua crocifissione,
avvenuta nell’aprile dell’anno 30; non è inverosimile che Paolo si trovasse a Gerusalemme nella
pasqua di quell’anno, dal momento che specialmente per un ebreo osservante era il pellegrinaggio più
importante del calendario. Se c’era, avrà senz’altro almeno saputo di quel presunto Messia di Galilea
finito così miseramente.
Comunque sia, delle vicende terrene di Gesù, Paolo si limita a ricordare le cose essenziali:
che è veramente uomo (Fil 2,7), che appartiene al popolo di Israele (Rm 9,5), discendente dai
patriarchi (Gal 3,16), di origine davidica (Rm 1,3), nato da donna, sotto la Legge (Gal 4,4); che nella
notte in cui veniva tradito istituì l’eucaristia (1Cor 11,23); e soprattutto che morì in croce (1Cor 1,23;
2,2; 2Cor 13,4; Gal 31; 6,14; ecc.), fu sepolto e risuscitato il terzo giorno, dopo di che apparve ai
Dodici e ad altri discepoli (1Cor 15,3-8).
Anche i brani in cui l’apostolo si rifà esplicitamente a parole di Gesù sono rari; di questi soltanto tre
sono certi: 1Cor 7,10 (l’indissolubilità del matrimonio); 9,14 (il mantenimento di chi annuncia
l’evangelo) e 11,24-25 (le parole dell'ultima cena). E quando, altrettanto raramente, invita a imitare
Gesù Cristo nella sua esistenza terrena, lo fa indicando soprattutto il suo atteggiamento di obbedienza
al Padre e di donazione agli altri (cf. 1Ts 1,6; 1Cor 11,1; Fil 2,5).
Più numerose sono invece le ricorrenze nelle lettere paoline di passi che riecheggiano detti di Gesù che
troviamo nei vangeli, soprattutto quelli sull’imminenza del giorno del Signore (cf. 1Ts 5,2), o quelli
tipici del Discorso della montagna sulla predilezione verso i poveri e i semplici (cf. 1Cor 1,27-28), sul
comandamento dell’amore e sulla non-violenza (cf. Rm 12,9-10).
6.3. Riguardo alla divinità di Gesù
Ecco alcuni riferimenti nel NT alla divinità di Gesù:

229
 «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1-18).
 «Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31).
 «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo allora saprete che Io sono» (Gv 8,28).
 «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).
 «Avete inteso che fu detto, ma io vi dico» (Mt 5-7).
 Il perdono dei peccati (cfr. Mc 2).
 «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo
siano con tutti voi» (2Cor 13,13).

27. I destinatari dei Vangeli


“Quattro vangeli per quattro lettori”52
1. Introduzione
2. Il lettore di Marco – un lettore spiazzato
3. Il lettore di Matteo – un lettore edificato
4. Il lettore di Giovanni – un lettore iniziato
5. Il lettore di Luca-Atti – un lettore radicato nella storia
6. Conclusione
1. Introduzione
Il lettore d’un romanzo giallo è lo stesso d’un lettore de La Divina Commedia di Dante? Forse
risponderete di sì, in quanto una stessa persona può aver interesse a leggersi Dante all’università, e un
giallo in vacanza. Ma potreste anche rispondermi di no, impegnandovi in una analisi socioculturale
della tipologia del lettore di Dante e di un thriller. Il che significherebbe impegnarsi in una costruzione
sociologica della potenziale udienza che legge queste opere: chi legge Dante, e chi Michael Connally?
Di fatto il problema posto dal titolo «Quattro vangeli per quattro lettori» è diverso. Non mi chiedo:
chi legge il vangelo di Matteo, e chi quello di Giovanni?, bensì: che tipo di lettore vien costruito da
ognuno di questi due vangeli? Quale modello di lettore vogliono plasmare? Posto così, il problema è
tipico dell’analisi narrativa. Quel geniale semeiotico che corrisponde al nome di Umberto Eco già nel
1990 diceva che, sotto la spinta delle scienze del linguaggio nell’interpretazione dei testi era in corso
uno spostamento di accento: non l’enunciazione storica del testo (cioè l’opera dell’autore) mobilita
l’attenzione, bensì la sua ricezione da parte del lettore.53 Primaria diventa ormai la cooperazione,
ovvero la collaborazione del lettore nell’atto della lettura. L’analisi narrativa partecipa di questo nuovo
paradigma. Il suo interrogativo canonico non è relativo a ciò che l’autore ha inteso, ma suona: quale
effetto il testo esercita sui propri lettore e lettrice? Altrimenti detto, con Paul Ricoeur, un testo rimane
in qualche modo incompiuto finché attende d’essere letto, dal momento che esso è «una strategia di

52
DANIEL MARGUERAT, Università di Losanna (CH) - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano, 29
ottobre 2007. Traduzione a cura del prof. Roberto Vignolo. In merito al tema della presente conferenza, si veda il
più ampio contributo dell’Autore: D. MARGUERAT, L’éxegèse biblique à l’heure du lecteur, in: D. MARGUERAT
(éd), La Bible en récit. L’éxegèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque internationale d’analyse narrative des
textes de la Bible, Lausanne (mars 2002) Labor et Fides Genève 2003, 13-40.
53
U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Bompiani Milano,1990.

230
persuasione avente come proprio target il lettore», e che solo «nella lettura» questa strategia attua il
proprio percorso.54 Sempre Ricoeur aggiunge che non solo un testo è totalmente rivolto al proprio
lettore, ma addirittura lo prevede, predisponendogli «l’esperienza viva» della lettura.55 A questo punto
ripropongo la questione: quale lettore ha di mira ogni vangelo, quale «esperienza viva» di lettura
prevede per lui?
Ma i termini del problema han bisogno di ulteriore precisazione, e bisognerà introdurre una distinzione
supplementare per individuare con precisione quanto andiamo cercando. Mi servo di una distinzione
proposta da Peter Rabinowitz56 tra udienza autoriale e udienza narrativa. L’udienza autoriale è quella
presupposta dall’evangelista Marco, quando scrive: «Golgotha – che significa: luogo del cranio» (Mc
15,22), postulando che la propria udienza, o, se preferite, i suoi lettori, non conoscono l’aramaico,
traducendo quindi per loro in greco il termine Golgotha. D’altra parte quando parla dei farisei non
sente il bisogno di spiegarne la funzione in Israele, presupponendola loro nota. L’udienza autoriale
corrisponde all’immagine che l’autore si fa dei propri lettori, della loro cultura, delle loro competenze
e della loro ignoranza, aiutandoli al passaggio quando teme che non dispongano delle necessarie
informazioni. L’udienza narrativa rappresenta l’effetto che il narratore vuole avere sul lettore.
Altrimenti detto: il lettore che il narratore ambisce a costruire. Ecco l’oggetto della mia ricerca. Quali
lettori ambisce a costruire ognuno dei quattro vangeli? Come avrete capito, il mio postulato è che un
narratore non voglia solo raccontarci una storia, trasmetterci un’informazione, ma che la costruzione
stessa del suo racconto agisca sul lettore. E pretendo, come vedremo, che l’immagine del lettore
costruita da ogni vangelo trovi ampia conferma nella storia della sua lettura.
2. Il lettore di Marco – un lettore spiazzato
Cominciamo con il vangelo di Marco, che – al caso – per meglio delinearlo, distinguerò da quello di
Matteo. Com’è noto, il racconto Marco si presenta quale una successione rapida e molto segmentata di
brevi unità narrative. Il narratore infila di seguito una serie di micro-unità (parabole, incontri,
guarigioni, dialoghi), in questa successione che tiene il lettore con il fiato sospeso. Nel rapido ritmo
del racconto, colpisce la successione di parole, di movimenti abbozzati e avviati, ma lasciati
incompiuti. Certo, la storia delle forme (Formgeschichte) ci ha insegnato a identificare in questa
successione di frammenti, le unità formali concepite originariamente in seno alla tradizione orale,
successivamente collegate tra di loro dall’evangelista. Qual è l’effetto di questo dispositivo narrativo?
Questa progressione spezzata è nettamente percepibile nella gestione dello spazio: in questo racconto
Gesù si sposta, si disloca continuamente, passando da luoghi deserti alla casa, dalla via alla sinagoga,
dalla riva del lago alla montagna. Il lettore viene coinvolto e trascinato da un micro-episodio all’altro,
ciascuno dei quali si svolge in un luogo diverso. Il tono è già dato dai primi versetti del vangelo, dove
si passa dal deserto (1,4) al fiume Giordano (1,5), dal Giordano al deserto (1,12), dal deserto alla
Galilea (1,14), dalla Galilea alla riva del lago (1,16), dalla riva a Cafarnao (1,21), e così via. Lungo i
primi dieci capitoli di Marco, ho potuto contare non meno di cinquantaquattro cambiamenti di luogo
da parte di Gesù, mentre il periodo equivalente di Matteo, che conta venti capitoli, porta soltanto
quarantasette cambiamenti di luogo. Si può quindi dire che, prima del racconto della passione, la
mobilità di Gesù in Marco è un tratto del personaggio più importante ancora rispetto alla prospettiva
della sofferenza. Che tipo di lettore costruiscono queste due gestioni dello spazio, tanto diverse tra loro
come quelle di Marco e Matteo?

54
P. RICOEUR, Temps et récit II, Paris, Seuil, 1984, p. 234.
55
P. RICOEUR, op. cit. 230-231.
56
P. RABINOWITZ, Before Reading. Narrative Conventions and the Politics of Interpretation, Ithaca/London,
Cornell University Press, 1987.

231
Per cominciare, diamo uno sguardo alla prima manifestazione pubblica del Gesù di Marco, la giornata
di Cafarnao (Mc 1,21-34.35-39), che internamente al vangelo gioca un ruolo programmatico,
aprendosi con un esorcismo in sinagoga (1,21-28), proseguendo con una guarigione in casa di Simone
e di Andrea (1,29-32), per concludersi dopo il tramonto del sole davanti alla porta della casa (1,32-34).
Per Marco questi tre luoghi sono simbolici: la sinagoga è il luogo dell’autorità liberante di Gesù, la
casa simbolizza la prossimità coi discepoli, lo spazio aperto simbolizza l’affluenza della folla. Ora,
proprio nel momento in cui l’evangelista nota l’affluenza dei malati intorno a Gesù – che «non
lasciava parlare i demoni, perché lo conoscevano» (1,34) – ecco prodursi un episodio curioso, che
Matteo non ha recepito. E’ la scena della fuga di Gesù in un luogo deserto, dove Simone e i suoi
compagni finalmente lo ritrovano (1,35-38). «Trovatolo, gli dicono: “Tutti ti cercano!”. E dice loro:
«Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, affinché annunci anche là. Per questo infatti io sono
uscito!» (1,37ss.). Questa assenza di Gesù è drammatizzata dalla partenza di Gesù («si alzò, uscì, e se
ne andò»: 1,35), e dall’intensità dell’inseguimento e della ricerca («Tutti ti cercano!»: 1,37).
Evidentemente una scena che messo a disagio Matteo, cui non piace che ci si permetta di inseguire
Gesù, e anche perché l’immagine di un Gesù che fugge di nascosto contravviene alla sua visione del
Messia a disposizione delle folle: un episodio troppo urtante per la sua cristologia. Di solito i
commentatori staccano questa scena dalla giornata a Cafarnao. E’ un errore, dal momento che
aggiunge ai tre precedenti (sinagoga, casa, luogo aperto), un quarto luogo simbolico, il luogo deserto,
un ambiente assai importante nella topologia del secondo vangelo. La scena organizza la fuga di Gesù
e la caccia dei discepoli per ritrovarlo, e, a partire da quel momento, la questione centrale posta dalla
giornata di Cafarnao non è «chi è Gesù?». Chi egli sia, lo ha dichiarato subito lo spirito impuro («Io so
chi tu sei: il santo di Dio!»: 1,24), e i demoni pure lo sanno (1,34). La questione non è «chi è Gesù?»,
ma «dove è Gesù?». In altri termini, appena l’identità di Gesù viene proclamata, ecco che l’interessato
si defila. Abbiamo qui una struttura propria di Marco, destinata a ripercuotersi regolarmente lungo il
corso del racconto.
La moltiplicazione delle partenze di Gesù, coltivata dal narratore fin all’eccesso tra i capp. 1 e 10,
situa il lettore alla presenza di un Cristo che se ne va, che precede, un Cristo costantemente fuori
dell’umana portata. Ogni risposta sull’identità di Gesù è rimessa in gioco dalla sua partenza. La mia
ipotesi di lettura è che Gesù sfugga non soltanto ai discepoli, ma continuamente allo stesso lettore,
trascorrendo rapidamente da un luogo all’altro, così che la questione della sua identità va riaprendosi
nel momento stesso in cui la si ritiene ormai chiusa.
In appoggio a questa tesi, interviene un’osservazione classica sulla geografia di Marco, secondo cui in
questo vangelo la topografia palestinese si rivela perfettamente deficitaria. L’evangelista conosce poco
la geografia di Palestina, in merito a cui commette qualche errore. Il suo interesse per i viaggi di Gesù
non è documentario. La logica narrativa di Marco non è comandata da una geografia palestinese, o da
un luogo preciso, foss’anche la casa, ma sta tutta nello spostamento (déplacement). La logica è lo
stesso spostamento.57 Più precisamente, è lo spostamento di Gesù, dal momento che dopo 1,38
dobbiamo aspettare 4,35 per vedere il maestro accompagnare i discepoli – ma quale
accompagnamento, visto che nella barca scossa dalla tempesta Gesù subito si assenta,
addormentandosi! Pietro ha appena identificato una coerenza nella sua scoperta di Gesù confessandolo
come Messia («Tu sei il Cristo!»: 8,29), ed ecco che questa confessione esplode sotto la pressione
dell’annuncio della sofferenza (8,32-33). Ancora una volta si vede che la sintassi narrativa non scorre
mai liscia, ma costantemente fratturata. Come vedremo, Matteo ha assunto la posizione

57
Secondo l’azzeccata espressione di E. TROCMÉ, La formation de l'Evangile selon Marc (EHPR), Strasbourg,
1963, p. 61 note 238 : «La confusione topografica risultante dalla moltiplicazione di queste partenze [di Gesù]
nei capp. 3-10, gli [a Marco] interessa assai poco, perché sta a servizio del suo desiderio di mostrare un Gesù
che se ne va» (sott. mia).

232
diametralmente opposta, dal momento che nella sua narrazione la mobilità di Gesù è costantemente
frenata da lunghe stazioni in cui la parola del maestro è offerta ai discepoli come alle folle: sono i
grandi discorsi del primo vangelo. Inoltre, per descrivere la condizione del credente, Matteo ha scelto
il termine della sequela – akolouthein –: credere è seguirlo (Mt 4,20.22.25 ecc.). Il lettore matteano è
invitato a ritrovarsi nella figura del discepolo chiamato dal maestro alla sua sequela, una condizione
che si concretizza nell’ascolto dell’insegnamento in una comunione di destino con Gesù e nella rottura
col mondo. Netta la differenza: là dove Matteo insiste sulla sequela del Signore che accompagna il
Maestro che precede, Marco punta su un Gesù in atto di andarsene. Il lettore di Matteo è orientato
sulla difficoltà di seguirlo, il lettore di Marco è disorientato da un Signore inafferrabile. Il primo
individua il proprio posto tracciato ai piedi del maestro; il secondo vede il maestro andarsene non
appena egli vi si è installato.
L’itineranza di Gesù nel secondo vangelo trova il proprio correlato nella sistematica ricorrenza delle
famose consegne di silenzio, appunto corrispondenti alla teoria del cosiddetto segreto messianico.
Dopo le guarigioni (1,44; 5,43; 7,36; 8,26), piuttosto che dopo gli esorcismi (1,25.34; 3,12), o dopo le
confessioni di fede (8,30; cf 9,9), Gesù comanda di tacere quanto egli ha appena compiuto, o quanto
della sua identità è stato rivelato. La folla si vede quindi rifiutare un accesso immediato all’identità di
Gesù. Accostando queste consegne a quanto appena detto, constatiamo che le consegne al silenzio
esercitano lo stesso effetto del motivo della inafferrabilità di Gesù, solo spostandolo sul registro del
discorso. In altri termini, l’itineranza di Gesù nel vangelo di Marco offre alla cristologia del segreto
messianico la sua configurazione narrativa. Nella strategia narrativa marciana c’è una totale coerenza:
quello che le consegne al silenzio dicono sul piano discorsivo è ritrascritto sul piano narrativo dalla
costante mobilità di Gesù, in quanto sottrae Gesù alla captazione dei personaggi del racconto.
Un testo permette d’illustrarlo: il primo esorcismo di Gesù alla sinagoga di Cafarnao (1,23-27), dove
scatta la prima consegna al silenzio significata da Gesù nel vangelo («Taci, esci da quest’uomo!»:
1,25). Ma, a ben vedere, la consegna scatta proprio in occasione del primo atto pubblico di Gesù nel
vangelo, di un esorcismo inaugurante il suo ministero. Di colpo Marco sottopone all’intenzione del
lettore il potere liberante del Figlio sul mondo degli spiriti. Ma si potrà notare al tempo stesso che in
questo gesto inaugurale dal valore programmatico, Marco – ecco l’aspetto davvero straordinario –
denuncia al lettore come demoniaca l’appropriazione del sapere relativo al Cristo. «“Io so chi tu sei: il
Santo di Dio!”. Allora Gesù lo minacciò dicendo: “Taci, ed esci da quest’uomo!”» (1,24b-25a). Perché
farlo tacere? Forse perché si tratterebbe di uno spirito impuro? E tuttavia lo spirito impuro dice il vero!
Allora perché zittirlo? A mio avviso, è qui denunciato come fatto demoniaco il credersi detentore del
mistero cristologico. Captare Gesù in una formula, foss’anche vera, è l’errore cristologico da cui
bisogna guardarsi. Per capire chi è Gesù bisogna attendere la sua azione e la sua sofferenza. Il motivo
della pronta fuga di Gesù il giorno dopo porta lo stesso timbro teologico: sfugge a quanti vogliono
rinchiuderlo nel ruolo del taumaturgo. Pareva detto tutto all’inizio: «inizio del vangelo di Gesù Cristo,
Figlio di Dio» (1,1). Questo inizio, questa archè, altro non sarebbe che una metonimìa del vangelo
stesso, come suggerisce Jean Delorme?58 In ogni caso, tutto avviene come se – dopo aver detto tutto
quanto c’era da dire sull’identità di Gesù con il titolo Figlio di Dio –, il narratore s’ingegnasse a
problematizzare l’accesso a questa identità, a narrativizzarne la difficoltà, a mettere in racconto la non-
immediatezza di questa confessione di fede.
Vediamo ancora un ultimo testo, quello della trasfigurazione (Mc 9,1-13). Sovente ne è stata notata la
collocazione strategica, subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo e il primo annuncio
della passione, come pure la funzione nello scenario evangelico: con la trasfigurazione l’attestazione

58
J. DELORME, Evangile et récit. La narration évangélique en Marc, «New Testament Sudies» 43 (1997) 367-
384.

233
messianica tocca il suo apogeo e al tempo stesso irrimediabilmente si annuncia la sofferenza del Figlio
dell’uomo.59 Il racconto marciano raggiunge qui un vertice, e Matteo nulla sottrae a questa intensità
cristologica. Ben diverso, tuttavia, è il trattamento di questo colloquio in Marco e in Matteo dal punto
di vista che ci interessa, e cioè l’effetto sui discepoli. Alla voce celeste proclamante: «Questo è il mio
figlio prediletto, in cui mi compiaccio. Ascoltatelo!» (Mt 17,5), i discepoli in Matteo reagiscono con
una prosternazione piena di tremore, da cui Gesù li risolleva; poi, in dialogo privato con il Maestro,
l’obiezione degli scribi relativa alla venuta di Elia è superata affermando che Elia è già venuto, «allora
i discepoli capirono che egli parlava loro di Giovanni il Battista» (Mt 17,13). Matteo elabora la
tradizione della trasfigurazione con una cristologia dello svelamento. I discepoli di Marco, invece, non
hanno proprio niente di quella reazione: né prosternazione con successivo risollevamento, né
comprensione. Il potenziale di senso rappresentato dalla visione del Cristo in gloria, conversante con
Elia e Mosè, è immediatamente represso da una consegna al silenzio la cui validità è tuttavia limitata
(fatto unico in Marco) alla risurrezione del Figlio dell’uomo (Mc 9,9); ma i discepoli non
comprendono «che significhi: risuscitare dai morti» (Mc 9,10). Questo commento narrativo riguarda
anche il lettore, a propria volta interpellato sulla sua capacità o meno capire meglio di loro: non tanto
l’idea generale di risurrezione, che va da sé, ma quella di Gesù, che getterà le donne al sepolcro nella
stessa costernazione. Qui tocchiamo con mano a qual punto il motivo dell’incomprensione dei
discepoli in Marco risponda non tanto ad un interesse storico, ma piuttosto abbia di mira il lettore e lo
interpelli circa il proprio intendimento.
In conclusione, la domanda suona: che cosa ci fa un tale racconto? Che tipo di lettore costruisce? Mi
par chiaro che, fin dal suo inizio, il racconto di Marco resista ad ogni chiusura sistematica, ad ogni
parola conclusiva, bloccando ogni tentativo di sapere teologico. Il primo nel vangelo a dichiarare «io
so chi tu sei: il Santo di Dio!» (1,24) è un posseduto demoniaco, che si fa esorcizzare proprio nella
sinagoga di Cafarnao. Ecco così avvisati i candidati ad una precipitosa confessione cristologica …
Anche una dichiarazione teologicamente corretta si vede ricusata in quanto intempestiva. Possiamo
parlare di una specie di sfaldamento della conoscenza istillato da questo racconto, in cui quanto si
credeva sapere è sotto posto a scosse continue, e l’intelligenza dei discepoli regolarmente si arresta. Al
cap. 4 elevati allo statuto di iniziati al mistero del regno di Dio («a voi è stato dato il mistero del regno
di Dio, ma per quelli di fuori tutto diventa enigma»: 4,11), al cap. 8, dopo il duplice miracolo dei pani
i discepoli, eccoli strapazzati da Gesù: «Non capite ancora?» (8,21).
Da un capo all’altro del vangelo, il Gesù di Marco s’ingegna a trovarsi altrove rispetto al luogo in cui
lo si cerca. La confessione del centurione sotto la croce («davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»
15,39)60 è una confessione a scoppio ritardato: Gesù è morto quando il centurione lo riconosce. E a
Pasqua, davanti alla tomba scoperchiata, le donne apprenderanno con sorpresa che Gesù non è lì, e che
precede i discepoli in Galilea (16,6-7). Il Gesù di Marco si sottrae ai personaggi del vangelo perfino al
di là della tomba. Ma questo suo sottrarsi è metafora di un’alterità, di un altrove, di un’altra terra dove
il lettore è convocato per vedere il Vivente. Una Galilea è promessa al lettore di Marco…
3. Il lettore di Matteo – un lettore edificato
Tutt’altro effetto in Matteo. Nella sua monografia Matthew's Narrative Web61, Janice Capel Anderson
è stata sensibile alla rete narrativa tessuta dal narratore con quell’espediente di ridondanza che gli è
tanto tipico. Ogni lettore del primo vangelo conosce le ridondanze verbali che spuntano come ritornelli

59
Con forza B. STANDAERT, L'évangile selon Marc. Composition et genre littéraire, Brugge, 1978, p. 41-108.
60
Y. BOURQUIN, Marc, une théologie de la fragilité. Obscure clarté d'une narration (Monde de la Bible 55),
Genève, Labor et Fides, 2005.
61
J. C. ANDERSON, Matthew's Narrative Web. Over, and Over, and Over Again (JSNT.SS 91), Sheffield, JSOT
Press, 1994.

234
lungo il vangelo: formule di introduzioni alle citazioni di compimento («questo avvenne perché si
adempisse quello che il Signore aveva detto per mezzo del profeta…»),62 oppure formule
d'introduzione alle parabole (« il regno dei cieli è simile a… »63), o ancora formule minaccianti la
condanna escatologica (« Là sarà pianto e stridore di denti »64). In Matteo abbiamo a che fare con uno
sforzo insistente del narratore che tende a saturare l’informazione con questo fenomeno di ridondanza.
Assistiamo – oserei dire – ad una pedagogia di sazietà cognitiva (rassasiement cognitif), una
pedagogia situata all’inverso di Marco, perché lavora con la completezza, con la conferma del detto
attraverso il dire, che conduce il lettore di Matteo ad un rapporto con la conoscenza che mette in causa
precisamente il vangelo di Marco. Il lettore del primo vangelo è saturato (comblé) là dove quello del
secondo vangelo è frustrato. Non ci si stupirà di non rintracciarvi eco alcuna dello scenario marciano
di decostruzione di statuto iniziatico applicato alla figura dei discepoli. I discepoli di Matteo, al
contrario, sono associati positivamente all’intimità del maestro, e beneficiari costanti del suo
insegnamento. Questo non significa che il lettore – a immagine dei discepoli nella storia raccontata –
non sia gnoseologicamente modificato o anche spiazzato. Ma, invece di essere problematizzato come
in Marco, il rapporto al proprio sapere è dato positivamente.65 Parlo del lettore di Matteo come di un
lettore edificato, pensando appunto a questo sforzo di offrire sazietà attraverso la ridondanza.
La narrazione matteana – come già detto – è costantemente interrotta dal discorso. Matteo non è certo
il solo a procedere così, ma lo fa in modo tanto sistematico che, forzando un pochino la formula, si
potrà parlare del suo vangelo come di un racconto messo in discorso, mentre invece per Luca-Atti si
parlerà piuttosto di discorsi messi in racconto. L’arte di Luca consiste in effetti nel combinare discorsi
e racconto in una maglia strettissima, mentre Matteo procede attraverso larghi raggruppamenti
tematici. Merita sostare su questo fenomeno di sequenzializzazione, che perviene ad una architettura
propria al primo vangelo, che è l’alternanza racconto/discorso. Matteo è il solo a averne fatto un
principio strutturante la narrazione. Contiamo cinque grandi discorsi che scandiscono la narrazione,
con il Sermone della montagna come primo (Mt 5-7), e l’ultimo che raggruppa le invettive contro
scribi e farisei (Mt 23) e il discorso escatologico (Mt 24-25). Si tratta di cinque battute d’arresto della
narrazione, o piuttosto cinque forti rallentamenti imposti al tempo narrativo. La parola riportata in
effetti abbassa in modo spettacolare l’andatura della narrazione. Il racconto prende la velocità del
discorso.66 Riportare la parola d’un locutore è in effetti il mezzo di cui il narratore dispone per
rallentare il ritmo narrativo, al punto che la sua velocità finisce per coincidere con quella della storia
narrata. Il lettore decifra il Sermone della montagna alla stessa andatura di quella di Gesù che lo sta
proclamando. C’è sincronia tra la messa in racconto e la storia raccontata. Al tempo stesso, il soggetto
locutore riceve un duplice uditorio: dietro la finzione dell’uditorio della storia raccontata (Gesù parla
ai suoi discepoli, alle folle), il locutore si rivolge al narratario. Altrimenti detto, soprattutto se
prolungato, il discorso in qualche modo diserta il livello della storia raccontata per investire un registro
cognitivo in cui il narratore si rivolge più direttamente al lettore.
Che effetto attribuire a tanto ampie spiagge discorsive? Il discorso è riconosciuto per essere un luogo
di intelligibilità del racconto: il lettore ne riceve chiavi facilitanti per seguire il filo della narrazione.
Reciprocamente, il racconto dovrebbe confermare e convalidare la parola riferita. C’è azione del
racconto sul discorso e del discorso sul racconto. Sarà forse casuale l’intreccio discorso/racconto in

62
Mt 1,22 ; 2,15.17.23 ; 4,14 ; etc.
63
Mt 13,24 ; 18,23 ; 22,2 ; 25,1.
64
Mt 8,12 ; 13,42.50 ; 22,13 ; 24,51 ; 25,30.
65
Rimando al mio articolo: « La construction du lecteur par le texte (Marc et Matthieu) », in : C. FOCANT (ed.),
The Synoptic Gospels. Source Criticism and New Literary Criticism (BETL 110), Leuven, Leuven University
Press-Peeters, 1993, p. 239-262, soprattutto pp. 253-259.
66
D. MARGUERAT – Y. BOURQUIN, Per leggere i racconti biblici, Roma, Borla, 2001, p. 91-95.

235
questo vangelo che insiste con la forza più intensa possibile sulla convalidazione della parola mediante
l’atto: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore!”, entrerà nel regno dei cieli, ma bisogna fare la
volontà del Padre mio celeste» (7,21). Il Discorso della montagna si conclude con la parabola delle
due case, che ingiunge di ascoltare e di mettere in pratica le parole appena intese, proprio come
farebbe un uomo che costruisce la propria casa non sulla sabbia, ma sulla roccia. Illuminante sarà un
piccolo esempio di questa reciproca connessione – non una semplice giustapposizione – di racconto e
discorso in questo vangelo. Si tratta del famoso enunciato di Mt 5,17: «non crediate che io sia venuto
ad abolire la legge e i profeti. Non sono venuto ad abolire, bensì a compiere». Dal punto di vista della
retorica del discorso questo enunciato è considerato – a ragione – come la tesi portante del Discorso
della montagna, e concretizzato con la rilettura della Torà cui si è dedicato Gesù (5,21–7,12).
Domando: la portata della «tesi» sarà davvero confinabile a questo discorso? Osserviamo che già in
precedenza, al cap. 4, il racconto delle tentazioni nel deserto mette in gioco il rapporto di Gesù alla
Scrittura: Gesù in effetti respinge le proposte di Satana trovando appoggio su tre citazioni di
Deuteronomio (Dt 4,4.7.10). La dichiarazione di Mt 5,17 fornisce dunque una motivazione discorsiva
a quanto Gesù ha precedentemente già vissuto e sperimentato. Il suo fare ha preceduto il suo dire, la
fedeltà vissuta ha preceduto la dottrina. D’altra parte il sermone della montagna sviluppa solo il
versante della «Legge». Cosa diventa allora il compimento della Legge e dei profeti? La sequenza
immediatamente successiva, ai capp. 8-9, presenta una serie di racconti di miracoli di cui i primi tre
sono conclusi dalla formula già citata «perché si adempisse quel che era stato detto da parte del
profeta: …» (8,17); la citazione successiva è di Is 53,4: ecco dunque la dimensione profetica. La
portata della tesi di Mt 5,17 non va dunque ristretta al discorso che ne viene introdotto, avverandosi
d’una ampiezza nettamente più larga, capace di irradiare il racconto a monte come a valle,
sovrastandolo con la sua incisiva formulazione.
Conclusione sul primo vangelo. La sua funzione strutturante, edificante, sistematica non poteva non
convenire a una chiesa in cerca di riassunti catechetici e di energiche formule dottrinali. Il lettore di
Matteo è un lettore edificato nella comunità, un lettore costruito en Eglise, cioè nella chiesa e come
chiesa.
4. Il lettore di Giovanni – un lettore iniziato
Il quarto vangelo si caratterizza per un uso intensivo del linguaggio simbolico. La simbolica non è
esclusiva di questo vangelo, ma raggiunge qui una frequenza e un’intensità senza pari nel Nuovo
Testamento. L’acqua viva, la luce del mondo, il pane del cielo, l’agnello di Dio, il buon pastore, la
vite. La simbolica giovannea, bisogna dirlo, ha trovato fortuna nel linguaggio cristiano.
Bisogna però riconoscere che quello simbolico è un linguaggio iniziatico. La Samaritana (Gv 4) non
comprende nulla del discorso di Gesù che le chiede l’acqua, finché non accede al senso simbolico
dell’acqua che proprio lui le offre. Attaccata al senso ovvio, ne resta all’esterno. Tanto che i discepoli
alla fine del capitolo, insistono a pensare che Gesù parli di ordinario mangiare mentre invece sta
parlando della volontà di Dio come di un cibo che egli riceve (Gv 4,32-34), incapaci di accedere al più
fondamentale livello del credere, proposto loro da Gesù. Come il malinteso di cui parleremo adesso –
e che è pure una specialità tutta giovannea – l’uso del linguaggio simbolico sta a servizio di una
intenzione didattica, apparendo al cuore dei grandi discorsi cristologici con cui l’evangelista espone al
lettore la concezione giovannea della rivelazione.
Soprattutto, però, il linguaggio simbolico insegna al lettore come leggere il vangelo. Quando il lettore
sente Gesù proclamarsi «la luce del mondo», allora potrà comprendere la dimensione simbolica della
guarigione del cieco nato, che subito seguirà nel cap. 9: il vero «vedere» è credere al Cristo, ecco
perché ogni lettore è cieco dalla nascita. Ecco perché l’ultima parola del cieco risanato non suona: «io
vedo», ma «io credo, Signore» (9,38). Il lettore, la lettrice capiranno perché mai Giuda lasci Gesù

236
proprio di notte per andare a tradirlo (13,30) o perché Maria di Magdala vada al sepolcro proprio
quando ancora fa buio (20,1). O ancora perché i discepoli di Gv 21 abbiano pescato tutta la notte
senza prender nulla, finché al mattino non abbiano incontrato il Risorto. La metafora «luce del
mondo» funziona come un segnale apposto in capo al libro per sensibilizzare il lettore alla simbolica
luce/tenebre ogni volta che questa apparirà in seguito. Si potrebbe dimostrare la stessa cosa riguardo
all’acqua, il cui simbolo compare in Gv 2 (Cana), poi in Gv 3 (Nicodemo), in Gv 4 (la Samaritana), in
Gv 5 (l’infermo di Bethesda), ecc. fino alla crocifissione, dove sgorga dal fianco di Cristo (19,34),
liberata – o somma ironia! – dal colpo di lancia di un soldato. Assistiamo ad una strategia di
apprendistato, di progressiva iniziazione con cui il narratore fa entrare il lettore nel mondo di valori
che intende presentargli. Senza accorgersene immediatamente, il lettore è fatto oggetto di un
asistematico processo d’apprendistato, diventando un iniziato. E più riprenderà la lettura del vangelo
di Giovanni, più scoprirà le molteplici risonanze che il testo fa echeggiare in profondità.
Quando i Padri della chiesa hanno parlato del vangelo di Giovanni come del vangelo «spirituale» non
dicevano altro. Il che non significa che questo vangelo sarebbe meno carnale o meno incarnato di un
altro, ma che il suo linguaggio è costantemente a doppio fondo, e si apre ad una dimensione simbolica
nascosta, a un senso spirituale di cui solo l’iniziato a poco a poco scopre il cammino. Nella teoria dei
quattro sensi della Scrittura, il senso ultimo è in effetti quello spirituale.
Si deve notare che dopo secoli di esegesi focalizzata sul discorso, la dimensione narrativa del quarto
vangelo è stata rimessa in valore dall’analisi narrativa. Ne fu pioniere Robert Alan Culpepper, con il
suo studio del 1983: Anatomy of the Fourth Gospel67. In seguito, l’attenzione è andata concentrandosi
sulle tre procedure maggiori della retorica giovannea: il malinteso, l’ironia, la simbolica.
Parliamo dell’ironia, una procedura molto sottile, consistente nel far intendere di voler dire il
contrario di quanto vien detto. L’ironia sovverte il senso ovvio per lasciar indovinare – per l’iniziato,
naturalmente, e solo per lui – che il vero significato è tutto all’inverso. Quando nel corso della
Passione, Pilato dichiara alla folla di Gerusalemme «ecco il vostro re!» (Gv 19,14), la folla risponde
urlando: «a morte!». Ma il lettore iniziato – diciamo, il lettore cristiano – sa che , senza saperlo, Pilato
dice il vero: Gesù è il Messia, il re dei giudei. Quando il sommo sacerdote Caifa giustifica la condanna
a morte di Gesù sostenendo: «meglio per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e che la nazione
intera non perisca» (Gv 11,50), la sua dichiarazione si ispira al cinismo politico; ma il lettore iniziato
sa bene che sta dicendo il vero, pur senza saperlo: Gesù morirà offrendosi in sacrificio per i peccati di
tutti. Giovanni è maestro riconosciuto d’ironia, in tutto il Nuovo Testamento il gran virtuoso
dell’ironia. Ma ripeto: l’ironia presuppone un «doppio intendimento», che è un linguaggio in codice.
Meno nota è la procedura ironica ottenuta per ambivalenza semantica. Un esempio tratto sempre dal
contesto della Passione, in Gv 19,13. Al termine del suo lungo confronto con Pilato, Gesù lascia il
pretorio con il procuratore, dirigendosi entrambi in direzione del béma, dove Pilato lo presenterà ai
giudei come il loro re (béma è un termine che possiamo tradurre sia con «tribuna», sia con
«tribunale»). Ma ecco qui un altro serio problema di traduzione, su cui le nostre bibbie esitano. Si deve
tradurre: «Pilato fece uscire Gesù e lo fece sedere sulla tribuna», oppure: «Pilato fece uscire Gesù e si
sedette sulla tribuna»? Il senso non è affatto lo stesso: è Pilato a installare Gesù derisoriamente sulla
tribuna (senso transitivo del verbo kathizein), oppure Pilato va lui stesso a sedersi come un giudice sul
palco riservato a tale funzione (senso riflessivo di kathizein)68? Contrariamente a molti esegeti, penso
che qui il testo sia intenzionalmente ambiguo. L’ironia si manifesta qui come una rottura in seno
all’atto di enunciazione, una procedura retorica consistente nel congiungere sotto una stessa immagine

67
R. A. CULPEPPER, Anatomy of the Fourth Gospel. A Study in Literary Design, Philadelphia, Fortress, 1983.
68
Dossier presentato da J. BLINZLER, Le procès de Jésus, Paris, Mame, 1962, p. 391-401 (aspetto storico) e X.
LÉON-DUFOUR, Lecture de l'Evangile selon Jean, IV, Paris, Seuil, 1996, p. 109-110 (aspetto filologico).

237
o espressione due significati opposti o conflittuali, di modo che il lettore non viene invitato a
respingerne una, ma piuttosto a mantenere aperta la tensione reciproca. Il narratore ha quindi di mira il
doppio intendimento in ordine a far sapere al lettore che la verità teologica dell’evento va letta
all’inverso rispetto a quanto si svolge in superficie: sotto l’apparenza dell’accusato portato in
tribunale, in realtà è Gesù a giudicare i propri giudici; è la vittima a svelare la verità del processo che
Dio intenta contro gli uomini. Notare come questo doppio intendimento dipenda da un non-detto non
esplicitato dall’evangelista, proprio come quando non ci dà la chiave del malinteso di Nicodemo sulla
rinascita (3,4-10), o della Samaritana sull’acqua viva (4,11-14). Tocca al lettore capire l’ironia del
racconto…oppure smarrirsi. Giovanni fa uso abituale dell’ironia, ma molto diversamente da Marco,
dal momento che l’ironia in genere non è portata contro i discepoli.
Il lettore costruito da questo testo è attratto dal lato del non-detto, invitato a bucare le apparenze, per
guadagnare il senso degli eventi narrati. Nel linguaggio del racconto è invitato a percepire la
connotazione simbolica dell’acqua e della luce come metafore della salvezza. Il racconto lavora così a
costruire una competenza d’interpretazione, attirando il lettore nell’orbita di una lettura iniziatica. Jean
Zumstein ha esplorato il dinamismo di questa pedagogia del narratore parlando di una «strategia del
credere» con cui il lettore credente viene coinvolto a passare da una convinzione elementare ad una
fede propriamente giovannea.69 Il processo di iniziazione conduce quindi il lettore/la lettrice ad
adottare le categorie specifiche della teologia giovannea. Il lettore inteso dall’udienza narrativa è un
lettore iniziato.
Oltre l’uso della simbolica – che il lettore a poco a poco viene invitato a decifrare, a condizione di
cogliere i segnali che gli vengono destinati – e oltre alla decifrazione dell’ironia (di tutti gli espedienti
giovannei il più difficile da cogliere), una terza procedura ben nota è il malinteso. Il più noto è quello
di Nicodemo (Gv 3), cui Gesù parla di nuova nascita, e che a propria volta replica: «Come un uomo
può nascere, se è vecchio? Potrà forse rientrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere?»
(3,5). In questa procedura è il processo di identificazione nel personaggio a suscitare la riflessione.
Viene sovente inteso come una specie di proiezione, per cui il lettore è invitato a calarsi lui stesso nei
panni del personaggio, a vibrare delle sue stesse emozioni, della sua attesa o sorpresa. Ma quale
offerta d’identificazione viene fatta al lettore iniziato del quarto vangelo? Deve forse mettersi nei
panni di Nicodemo che si smarrisce, non riuscendo a capire che la nuova nascita è tutta dall’alto, una
nascita generata dallo Spirito, e non da una seconda gravidanza? Oppure deve piuttosto ridere di
Nicodemo che sbaglia strada che inciampa sulle parole, non cogliendo la dimensione metaforica del
linguaggio di Gesù? Né l’uno né l’altro, a mio avviso, dal momento che il processo di identificazione
non è un’equazione semplice. Il mondo del racconto non è un calco di quello del lettore. Per passare
dall’uno all’altro, dal mondo del racconto al mondo del lettore deve intervenire – per riprendere ancora
una parola di Ricœur – una rifigurazione,70 cioè l’appropriazione di un intrigo – quello del racconto –
e il suo innesto su di un altro intrigo –quello della vita del lettore. Tra questi due tracciati di vita non
c’è riproduzione meccanica, ma piuttosto attrazione, influenza, sollecitazione. La lettura è l’incrocio di
due intrighi, quello del racconto e quello della mia vita.
Riprendo la domanda: a chi può identificarsi il lettore iniziato del quarto vangelo? Il testo che sfila
nell’atto di lettura invita a identificarsi ad un processo più che non ad un personaggio, ad una dinamica

69
« L'évangile de Jean: une stratégie du croire», in : J. ZUMSTEIN, Miettes exégétiques (Monde de la Bible 25),
Genève, Labor et Fides, 1991, p. 237-252.
70
La rifigurazione caratterizza la terza fase dell’atto di lettura secondo Ricoeur, Mimesis III, che è lo stadio
interpretativo per eccellenza : «Quel che in un testo è effettivamente da interpretare, è una proposta di mondo, di
un mondo per me abitabile, per progettarvi uno dei mei possibili a me più propri» (P. RICŒUR, «La fonction
herméneutique de la distanciation», in: Id., Du texte à l'action. Essais d'herméneutique II, Paris, Seuil, 1986, p.
101-117, ivi 115).

238
piuttosto che ad una figura narrativa. Si tratta – in altri termini – d’essere molto più attenti all’intrigo
in cui il personaggio si trova implicato. Il che è pure conforme alla biografia antica, che fissa il
personaggio più sul suo agire che non sulla sua interiorità.
Riprendendo Gv 3, la ricerca di Nicodemo è dispiegata sotto gli occhi del lettore, una ricerca che passa
per la destabilizzazione, per lo spostamento/spiazzamento (déplacement) del punto di vista, per un
abbandono del sapere e la confessione di un’ignoranza. E’ il maestro in Israele a domandare a Gesù:
«Come può avvenire questo?» (3,9), e che con la sua domanda scatena il discorso di Gesù sulla vita
eterna (3,10-21). Penso si debba abbandonare l’idea di una identificazione per adesione statica ai
personaggi, e pensare piuttosto al processo in cui è impegnata la figura narrativa. L’autore del quarto
vangelo non ci invita ad inciampare come fa Nicodemo, così come neanche a ridere a sue spese. Ci
dipinge un Nicodemo che inciampa per illustrarci la necessaria destabilizzazione d’un processo di
scoperta teologica, mostrando che il percorso di iniziazione cui il lettore è invitato s’iscrive su di una
linea non continua, ma spezzata. E questa stessa rottura configura quella instaurata dalla nascita
dall’alto (3,7-8). Altrimenti detto: il racconto fa ciò di cui parla, provoca rottura là dove parla di
rottura, o se si preferisce, fa rinascere il proprio lettore ad un’altra visione proprio là dove parla di
nuova nascita.
Subito dopo il colloquio con la Samaritana (Gv 4) riprende lo stesso tema approfondendolo in forza di
un medesimo processo di malinteso, Dall’acqua attingibile al pozzo, e attraverso il dialogo passando
all’adorazione in verità, ecco la donna samaritana rivelata nella sua tormentosa vicenda.
Il lettore costruito dal racconto giovanneo è un lettore risucchiato in un processo d’iniziazione,
addestrato a decodificare il doppio senso delle parole o delle situazioni, formato a gustare lo spessore
simbolico del linguaggio. E lo stesso percorso di certi personaggi nel vangelo dispiega sotto i suoi
occhi questo percorso iniziatico con tutti i suoi scossoni, con le sue necessarie ricomposizioni di
convincimenti e – come evidenzia il cieco nato di Gv 9 – con le difficoltà in agguato.
5. Il lettore di Luca-Atti – un lettore radicato nella storia
Come si è visto, il lettore di Marco è incessantemente destabilizzato, depistato, addestrato a scoprire
un Gesù che egli crede di conoscere, ma non conosce veramente. Al contrario, il lettore di Matteo, è
invitato all’ascolto di discorsi con cui sarà edificato, istruito, installato in un rapporto di discepolo a
maestro. Per parte sua quello di Giovanni è attirato in un processo iniziatico di lettura, che gli farà
progressivamente scoprire il senso nascosto delle parole, lo spessore del simbolismo e il sottile gioco
dell’ironia.
Ma che ne è del lettore di Luca-Atti degli apostoli (precisando che il vangelo di Luca non è che il
primo volume di un’opera in due parti, Luca e gli Atti)? Quest’opera di un medesimo autore è stata
scissa in due volumi per ragioni pratiche. Quando il canone del Nuovo Testamento è andato a
costituirsi progressivamente nel corso della prima metà del secondo secolo, i quattro vangeli sono stati
raggruppati, sicché il libro degli Atti veniva a trovarsi separato dal suo primo tomo e isolato. Queste
due opere che nel Nuovo Testamento leggiamo separate dal vangelo di Giovanni, erano in realtà
previste per esser lette di seguito l’una all’altra. Il canone ha separato ciò che l’autore aveva unito!
Lungo la formazione del canone la posizione degli Atti ha variato. Qualche manoscritto li colloca con
le epistole pastorali, per accostarli ad un Paolo ormai alla fine della vita. In effetti, il discorso di Paolo
agli anziani di Efeso (At 20) è molto vicino a quanto si legge nelle Pastorali: «Vegliate su voi stessi e
su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di
Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue» (20,28). Manca in At la nozione di «deposito
apostolico» – capitale nelle Lettere Pastorali –; ma si indovina nel discorso la medesima coscienza di
una chiesa che Paolo sta per abbandonare, sentendola minacciata da «lupi rapaci» (At 20,29) che si

239
introdurranno nella comunità. Ma non questa adiacenza alle Pastorali s’imporrà nella fissazione del
canone, bensì piuttosto la sua collocazione attuale tra il vangelo di Giovanni e le epistole paoline. In
effetti, da un lato questa corrisponde cronologicamente alla sequenza dei vangeli, dal momento che è il
tempo postpasquale ad essere oggetto degli Atti. E dall’altro, gli Atti descrivono il teatro dell’attività
di Paolo, le cui epistole vengono di seguito. Paolo è a Roma proprio in At 28, e subito dopo comincia
la lettera ai Romani, con un accostamento non fortuito, per cui si può parlare in merito di una
narratività del canone. Secondo la sua successione, il canone neotestamentario racconta una grande
storia.
Il lettore costruito dalla duplice opera di Luca-Atti ci insegna dunque che la storia della salvezza non
si ferma agli eventi di Pasqua. L’Ascensione è riportata per ben due volte dal narratore: una a
conclusione del vangelo (Lc 24,50-53), l’altra agli inizi degli Atti (At 1,6-11). Interessante notare che
queste due versioni non sono identiche: Lc 24 chiude la vita di Gesù con un atto di separazione,
l’Ascensione con cui il Risorto di separa dai suoi benedicendoli. Questa separazione non è un dramma,
ma una partenza interamente sovrastata dal gesto di benedizione. In At 1, al contrario, l’Ascensione è
il punto di partenza per la missione degli apostoli, che proprio in questo momento diventano i mandati
del Risorto, per essere «miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle
estremità della terra» (At 1,8). Qui l’Ascensione significa d’ora in poi l’assenza di Gesù che sparisce,
ma che, sparendo, istituisce un gruppo di testimoni nei suoi discepoli. L’Ascensione non è più una
conclusione come in Lc 24, ma piuttosto un invio. E d’altronde due uomini biancovestiti verranno a
scuotere i discepoli che se ne stanno con gli occhi al cielo dove il Risorto è appena sparito: «Uomini di
Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo,
tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). I personaggi celesti
riorientano l’attenzione e l’attività dei discepoli di nuovo in direzione della terra, verso la storia
presente.
Come si vede, solo a qualche versetto di distanza – i pochi che separano i due racconti dell’ascensione,
situati l’una alla fine del vangelo, e l’altra agli inizi degli Atti – l’evangelista si è permesso di fornire
due versioni diverse del medesimo avvenimento. Non si contraddicono ma nemmeno concordano. Una
chiude, l’altra fa ricominciare. Il che significa che il medesimo avvenimento può esser fatto oggetto di
due diversi sguardi interpretativi. E’ un addestramento alla lettura della storia, a decifrarne i molteplici
significati, esplorarne le diverse sfaccettature, coglierne diversi effetti di senso. Ecco la caratteristica
dell’opera lucana: non solo ci racconta una storia – quella di Gesù e degli inizi della chiesa –, ma,
offrendo diverse versioni dello stesso evento, insegna a interpretarla, facendo del proprio lettore un
interprete, un ermeneuta della storia, e insegnandogli a leggere i molteplici sensi di una storia che si
presta a significazioni plurime.
In effetti, la doppia versione del racconto dell’Ascensione di Gesù non è l’unico esempio di questo
genere. Un racconto che occupa un posto centrale negli Atti, la conversione di Paolo sulla via di
Damasco è riportato ben a tre riprese: dal narratore (At 9), in un discorso autobiografico di Paolo
stesso davanti al popolo di Gerusalemme (At 22), e infine in un’apologia di Paolo davanti al re
Agrippa e alla regina Berenice (At 26). Tre racconti, tre varianti del medesimo evento. Questa
ripetizione mostra l’importanza accordata da Luca a questo evento, dal momento che la conversione di
Paolo gli permette al tempo stesso di dimostrare la fondamentale continuità che lega giudaismo e
cristianesimo, la fede farisaica di Saulo e la sua nuova fede nel Risorto; ma anche di mostrare che
quest’ultima proviene da un’iniziativa con cui Dio interpella il proprio popolo. Questo racconto gli
permette di saldare continuità e discontinuità tra giudaismo e cristianesimo.

240
Ognuna di queste varianti possiede accenti propri.71 In At 9 il narratore evidenzia lo spettacolare
capovolgimento imposto al nemico di Gesù: colui che stava recandosi a Damasco per ricondurre in
catene a Gerusalemme i discepoli di Gesù, si ritrova gettato a terra (non da cavallo, un’invenzione
questa dei pittori, incapaci di immaginarsi che un uomo della dignità di Paolo potesse viaggiare a piedi
– ma era costume abituale nell’Antichità). Accecato, non vede più nulla. Lui che voleva arrivare
trionfante a Damasco, cacciare i cristiani dalle sinagoghe, vi entra tenuto per mano dai suoi compagni
di viaggio. Nel suo processo di guarigione, un ruolo decisivo gioca Anania, l’umile discepolo
damasceno mandato da Cristo a guarirlo. Naturalmente Anania recalcitra, facendo presente la sulfurea
reputazione di Paolo persecutore. Ma Cristo ne vince la resistenza, illustrando così fino a che punto la
conversione di Paolo e la sua vocazione di evangelizzatore dei pagani siano state di difficile
riconoscimento per i primi cristiani. Appena guarito dalla cecità per mano di Anania (si misura bene
fino a che punto la guarigione di questo accecamento assuma valore simbolico), Paolo va a predicare il
Cristo ai propri correligionari giudei di Damasco, che ben presto fomentano un complotto per farlo
perire. Paolo passa così dal ruolo di persecutore del Cristo a quello di testimone perseguitato del
Cristo.
In At 22 la situazione è assai differente. Paolo è appena stato arrestato su denuncia dei giudei d’Asia,
ed espulso dal tempio, e avendo domandato al centurione romano di poter difendere la propria causa
presso il popolo di Gerusalemme, si accinge a render conto degli avvenimenti di Damasco, ma in
tutt’altra prospettiva. Qui si tratta di mostrare come l’apparizione del Risorto s’iscriva in diretta
continuità con il proprio attaccamento al Dio dei padri. Eccolo allora richiamare la propria formazione
farisaica ai piedi di Gamaliele, e il suo stretto attaccamento alla Legge dei padri. «Il Dio dei nostri
padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla
sua stessa bocca» (At 22,14). Di passaggio, si noti come Gesù nemmeno sia designato per nome, ma
con l’epiteto «il giusto», di risonanza ben forte nella pietà giudaica, e da Luca già adottato altrove
come titolo cristologico (Lc 23,47; At 3,14). Anania, il cui ruolo è fortemente ridimensionato (At
22,12), nemmeno viene designato come discepolo, bensì come «un uomo pio, fedele alla legge e in
buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti» (At 22,12). In breve, la presentazione viene – se
così si può dire — il più possibile rispettivamente giudaizzata e scristianizzata, per legittimare non più
tanto il trauma che ha rappresentato per i cristiani di Damasco, quanto piuttosto l’inserimento
nell’azione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e quindi la sua perfetta giudaicità.
In At 26 l’uditorio cambia ancora una volta: Paolo prende come testimone la corte di Agrippa per far
la propria apologia, e dimostrare l’inconsistenza delle accuse portate contro di lui. Si comincia con
un’accurata captatio benevolentiae. Agrippa è presentato come un esperto di costumi e controversie
del mondo giudaico (At 26,3), ma, in quanto sovrano ellenistico, cliente di Roma, uomo di garantita
imparzialità. Il racconto della caduta e della conversione di Damasco è tuttavia introdotto da un
cappello che ne colora l’intero racconto: Paolo protesta con il re d’essere accusato dai giudei a motivo
de «la speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di
vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. …Perché si considera inconcepibile
fra di voi che Dio risusciti i morti?» (At 26,6-8). Davvero terribile l’abilità di quest’operazione
retorica: l’apparizione del Risorto da Paolo sperimentata in quel di Damasco corrisponde nientemeno
che alla speranza millenaria del popolo, la speranza cioè della risurrezione. Di certo Luca forza il tratto
presentando come speranza millenaria del popolo quello che è il cuore della fede farisaica del primo
secolo. Ma poco importa, Agrippa è preso come testimone del fatto che gli avversari di Paolo si
pongono in contraddizione con la loro stessa propria speranza, rinnegando ciò per cui il popolo prega

71
Vedi D. MARGUERAT, Les Actes des apôtres (1-12) (CNT 5a), Genève, Labor et Fides, 2007, p. 319-322.

241
incessantemente. Terza lettura dell’evento di Damasco, ancora differente, dove Paolo rivendica per sé
e per la nuova fede da lui rappresentata l’autentica eredità del giudaismo.
Disporre negli Atti di tre versioni dello stesso avvenimento, è farne brillare le sue differenti
sfaccettature, e insegnare al lettore a leggere la storia sotto diversi punti di vista in ordine a
comprendere la ricchezza semantica degli avvenimenti. A scuola di Luca, senza nemmeno
accorgersene il lettore è convocato a fare questo apprendistato, che, in certa qual maniera, si attua
perfino a propria insaputa.
Sin qui abbiamo potuto reperire una medesima procedura narrativa adottata da Luca in ordine ad
ottenere questo effetto, consistente nella ripetizione variata di un medesimo avvenimento. Ma la sua
strategia narrativa non è certo a corto di risorse. Un’altra procedura narrativa, che percorre vangelo e
Atti, porta il nome greco di synkrisis72, provenendo dalla retorica greco-romana. La synkrisis – il cui
termine significa «distinguere insieme» – consiste nel mettere in parallelo due personaggi in vista di
compararli e soprattutto per mostrare l’influenza (o la superiorità) dell’uno sull’altro. Questa
procedura di synkrisis è messa in atto quando gli Atti raccontano una guarigione prodotta dagli
apostoli o da Paolo, riutilizzando i termini già impiegati per raccontare i miracoli di Gesù. «Alzati e
cammina!». Dice Gesù al paralitico di Lc 5,23. «Nel nome di Gesù il Nazoreo, [alzati e] cammina!»,
dice Pietro allo zoppo della Porta bella del tempio (At 3,8).
Perché queste ripetizioni, forse per difetto d’immaginazione? Forse che, per dire le stesse cose, Luca
disporrebbe di un vocabolario esiguo – il che sarebbe sorprendente da parte di uno scrittore tanto
dotato? No, se Luca ricorre agli stessi termini, lo fa intenzionalmente. E la sua è una ragione teologica:
negli Atti i miracoli degli apostoli o di Paolo non sono mai frutto della loro pietà, ovvero la
performance dei loro doni terapeutici. Ad agire, a guarire è sempre «il nome del Signore». Ecco
perché è importante ripetere le parole utilizzate per i miracoli di Gesù, in quanto l’agente della
guarigione è il medesimo, Gesù di Nazareth, ovvero il Risorto. Ancora una volta Luca ci insegna a
leggere la storia. Sollecitando alla nostra memoria un richiamo del vangelo, ci fa comprendere dove si
trovi la fonte dell’azione miracolosa: nell’azione di Cristo attraverso i suoi discepoli.
L’azione terapeutica non è la sola che si ritrovi configurata dalla procedura della synkrisis. Come Gesù
in occasione del suo battesimo, anche Pietro e Paolo beneficiano d’una visione estatica nel momento
chiave del loro ministero (At 9,3-9 ; 10,10-16). Inoltre, come Gesù predicano e sostengono l’ostilità
dei giudei. Come il loro maestro patiscono e affrontano la morte. Paolo subisce un processo come già
lo stesso Gesù (tre volte i procuratori romani riconosceranno la sua innocenza, come Pilato per tre
volte ha ammesso quella di Gesù).
E’ ben noto il parallelismo tra la morte di Stefano protomartire e la morte di Gesù: Stefano muore
come Gesù in seguito ad un processo sommariamente condotto dal sinedrio (At 6,12-14 ; Lc 22,66-
71), e davanti ai suoi accusatori, proprio come Gesù ha una visione del Figlio dell’uomo (At 7,55-56 ;
Lc 22,69). Come Gesù, anche lui muore gridando forte (At 7,60a ; Lc 23,46a), affidando il proprio
spirito, e implorando il perdono per i suoi avversari (At 7,59-60 ; Lc 22,46.34). E come nella
Passione, qualche uomo pio si prenderà cura del corpo del suppliziato (At 8,2 ; Lc 23,50-53). Questi
molteplici richiami, davvero troppi per esser trascurati, fanno della morte esemplare di Stefano una
passione protratta. Gesù l’aveva predetto: «il discepolo non è superiore al suo maestro» (Lc 6,40).
Luca fa dunque appello a una memoria evangelica, ma – insisto – senza alcun richiamo né commento
narrativo esplicito. Ce lo fa sapere narrativamente, con la procedura della ripetizione o della
ridondanza; sicché spetta al lavoro della lettura evidenziarlo. Da bravo pedagogo, il narratore

72
J.-N. ALETTI, Il racconto come teologia, Roma, Dehoniane, 1996, 53-86. D. MARGUERAT, La prima storia del
cristianesimo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002, p. 57-81.

242
moltiplica gli indizi, ma il lavoro tocca al lettore, che impara così a leggere la storia dei testimoni di
Gesù come una storia che il Risorto continua ad animare, e la sofferenza dei testimoni come una
Passione dove il Crocifisso serve da modello ai propri discepoli. Luca-Atti ci invita ad un’energica
lettura cristologica della storia.
6. Conclusione
La mia conclusione sarà breve: o vi ho convinto, e allora non ci sarà bisogno di dire di più; oppure, se
non vi ho convinto, è comunque tempo di fermarsi!
Ho inteso mostrare che ogni narratore ha in vista un lettore che il suo proprio testo nella sua forma e
strategia narrativa contribuisce a costruire. Umberto Eco dice che il testo è un meccanismo pigro, che
per funzionare ha bisogno del lettore. Possiamo dire anche che il lettore ha bisogno del testo per
esistere. E soprattutto – come si è visto – che il testo non pone in essere qualunque lettore, a meno che
il lettore non si ribelli alla proposta di lettura, il che rientra nel suo sacrosanto diritto.
Sarebbe interessante, a questo punto, verificare se la proposta di costruzione del lettore abbia
effettivamente funzionato nella storia, ma non voglio abusare del vostro tempo. Arrischio solo qualche
rapida osservazione. Il vangelo di Matteo, con il suo lettore edificato, ha giocato un ruolo decisivo
nella strutturazione del catechismo e della dottrina nella teologia della chiesa latina. Il vangelo di
Giovanni ha nutrito molte letture esoteriche, più degli altri prestandosi alle meditazioni spirituali.
Luca-Atti ha fornito alla cristianità la sua strutturazione storico-salvifica come pure il suo calendario
liturgico. Quanto al vangelo di Marco, sarà forse un caso che sia stato il vangelo meno letto, meno
commentato e meno meditato nella storia del cristianesimo fino al diciannovesimo secolo, quando la
ricerca del Gesù storico gli ha assicurato un uso e una celebrità inattesi? Questo lettore spiazzato e
depistato non era particolarmente predisposto a sedurre un’ampia cristianità.
La sapienza della chiesa antica ha voluto che i vangeli ci fossero conservati tutti e quattro. Stupenda
saggezza teologica.

28. I simboli degli evangelisti


1. I simboli dei vangeli nella tradizione
2. L’interpretazione dei quattro animali come simbolo dei vangeli nei Padri della Chiesa
1. I simboli dei vangeli nella tradizione
I quattro evangelisti sono stati spesso rappresentati con simboli, tre dei quali presi dal mondo animale.
Tratte da una visione di Ezechiele (Ez 1,24-28) ripresa nell’Apocalisse (Ap 4,7-8), queste
rappresentazioni dovrebbero esprimere una particolarità dell’opera di ciascun evangelista. La
fluttuazione delle attribuzioni si può spiegare a seconda che gli interpreti si basino sull’inizio di
ciascun vangelo o sul suo contenuto o sulla sua visione di Cristo. Esiste comunque un notevole
consenso fra i commentatori più antichi sul simbolismo del numero quattro, che indica l’irradiamento
universale del vangelo. Fra le molte spiegazioni proposte, ricordiamo questa:
 Matteo è rappresentato come un giovane, perché il suo vangelo comincia con la
genealogia di Gesù;
 Marco è rappresentato come un leone, perché il suo vangelo comincia con la predicazione
di Giovanni Battista nel deserto;
 Luca è rappresentato come un toro (l’animale dei sacrifici), perché il suo vangelo
comincia nel tempio;

243
 Giovanni è rappresentato come un’aquila che vola e scruta dall’alto, perché il suo vangelo
comincia con considerazioni teologiche su Gesù, il Verbo fatto carne.

2. L’interpretazione dei quattro animali come simbolo dei vangeli nei Padri della Chiesa
Questa interpretazione si è imposta a partire da S. GIROLAMO, che così spiegava le cose:
«Ora questi quattro vangeli erano stati annunciati già da molto tempo, come dimostra anche il libro di
Ezechiele che così descrive la prima visione: “Al centro c’era come la figura di quattro esseri viventi
che avevano ognuno fattezze d’uomo, poi fattezze di leone, fattezze di toro e fattezze d’aquila”. La
prima faccia, quella d’uomo, indica Matteo, il quale, nel suo inizio, sembra scrivere la storia di un
uomo: “Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”. La seconda indica
Marco, che fa sentire la voce del leone che ruggisce nel deserto: “Voce di colui che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore, spianate i suoi sentieri”. La terza faccia, quella del toro, prefigura
l’evangelista Luca, che comincia il suo racconto presso Zaccaria; la quarta, quella di Giovanni
l’evangelista che prende delle ali per lanciarsi ancora più in alto e trattare del Verbo di Dio. […]
Perciò, l’Apocalisse di Giovanni, dopo l’evocazione dei ventiquattro vegliardi che reggono delle cetre
e degli incensieri e adorano l’Agnello di Dio, fa vedere la folgore, il tuono, i sette spiriti che corrono
da ogni parte, il mare di cristallo e i quattro animali pieni di occhi; e dice: [citazione di Ap 4,6-81]»73.
Ma non è stato sempre così: l’attribuzione dei simboli è variata nei primi secoli:
leone toro figura umana aquila
IRENEO Giovanni Luca Matteo Marco
VITTORINO Giovanni Luca Matteo Marco
AMBROGIO Marco Luca Matteo Giovanni
AGOSTINO Matteo Luca Marco Giovanni
GIROLAMO Marco Luca Matteo Giovanni

C’è unanimità riguardo a Luca e quasi unanimità riguardo a Matteo. II fatto che Marco e Giovanni,
due vangeli così diversi, condividano il segno del leone e dell’aquila è indubbiamente sorprendente.

73
GIROLAMO, Préface au Commentaire sur saint Matthieu, t.I, libri I-II, righe 55-80: SC 242.

244
29. Il Vangelo secondo Marco
1. Introduzione
1.1. La formazione dei vangeli e il ruolo del racconto della Passione di Gesù
1.2. L’autore implicito
1.3. La questione della datazione
2. Il testo
2.1. La cronologia
2.2. Macro-struttura
2.3. L’epilogo di Mc 16,9-20: la c.d. finale canonica
2.4. La linguistica
3. I temi
3.1. Le domande sull’identità di Gesù
3.2. Le crisi del rapporto Gesù-discepoli
3.3. La cristologia di Marco
3.4. Il «segreto messianico» nei Vangeli
4. La riscoperta del vangelo sec. Marco
1. Introduzione
1.1. La formazione dei vangeli e il ruolo del racconto della Passione di Gesù74
«I vangeli sono un racconto della passione di Gesù con ampia introduzione» (MARTIN KÄHLER).
L’ampia introduzione serve a introdurre e preparare il lettore-destinatario a cogliere la parte centrale
del vangelo, ovvero ad affrontare lo sconcerto, la destabilizzazione e lo sconvolgimento dei fatti della
passione. Ciò che precede quel racconto è necessario per cogliere il messaggio che la salvezza di Gesù
passa attraverso la sofferenza. Così, se questa è euvagge,lion, tutta la vita di Gesù che ha come
sua fine la passione può essere definita euvagge,lion: allora anche ciò che precede la passione, la
vita pubblica, va conosciuta.
1.2. L’autore implicito
Nessun testimone riposta il nome dell’evangelista. Alcuni lo identificano con il giovane senza nome
che segue Gesù dopo la sua condanna a morte e che fugge spogliato delle sue vesti per evitare di
essere arrestato (Mc 14,51 - questo è Sondergut marciano).
Il nome Markòs compare 8 volte nel NT; una volta compare anche Giovanni Marco (in At 12): egli è
presentato come nipote di Barnaba, discepolo di Paolo nel suo primo viaggio missionario salvo poi
non volerlo più con sé e quindi discepolo di Pietro (1 Pt 5,13). Stando alla tradizione che risale a
EUSEBIO DI CESAREA (Storia ecclesiastica 3,15-16) ma che raccoglie la testimonianza di PAPIA DI
GERAPOLI (inizi II secolo d.C.), Marco sarebbe stato il segretario di Pietro, ossia colui che ne riportava
l’insegnamento e la predicazione:
«E questo diceva il presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, tutto quanto ricordò,
accuratamente scrisse, benché non ordinatamente, delle cose dette e fatte dal Cristo. E
infatti egli non ascoltò il Signore né lo seguì; bensì più tardi, come ho già detto, seguì
Pietro: il quale secondo le necessità faceva le sue istruzioni, ma non con lo scopo di fare
un’esposizione ordinata dei logia riguardanti il Signore, sicché nessuna colpa ebbe Marco
nello scrivere in questa maniera alcune cose come le ricordava; di una cosa sola infatti si
preoccupò: di non tralasciare nulla delle cose che aveva ascoltato e di non alterare niente

74
Cfr. www.gliscritti.it.

245
di esse. Matteo da parte sua in lingua ebraica ordinò i detti e ciascuno li interpretò come
potette».
A conferma di questo, in applicazione del criterio dell’imbarazzo, sarebbe la constatazione di come
Marco sia dei quattro evangelisti il più spietato con gli apostoli e specie proprio con Pietro (a dire che
Pietro non avrebbe nascosto il suo fallimento al suo discepolo).
1.3. La questione della datazione
Il Vangelo di Marco fu scritto intorno al 70 d.C., prima o dopo la distruzione di Gerusalemme.
È caduta, invece, l’ipotesi di una datazione pre-68 d.C. Dopo il ritrovamento del celebre frammento
7Q575 a Qumran, il papirologo O’CALLAGHAN (negli anni Settanta) ritenne possibile identificare il
frammento con il vangelo di Mc 6,52-53: «In realtà non avevano ben capito il fatto dei pani perché il
loro cuore era indurito. E avendo attraversato il lago verso terra giunsero a Genesaret e sbarcarono».
Se tale decifrazione risultasse plausibile si tratterebbe del più antico reperto del NT; significherebbe
anche che prima del 68 d.C. esisteva a Qumran una versione di Marco conosciuta. Ma la ricerca
scientifica su 7Q5 rimane aperta: l’ipotesi di O’Callaghan non è teoreticamente impossibile, ma,
sebbene non si sia trovato un testo alternativo conosciuto che corrisponda al frammento, anche
l’attribuzione a Marco risulta molto precaria e dunque altamente improbabile. È una concentrazione di
varianti rispetto al testo canonico di Marco, oltre a non essere chiaramente leggibile (corruzione del
testo). Di fatto a Qumran non sono stati ritrovati testi relativi al NT.

Mc 6,52-53: [52] ouv ga.r [non infatti]


1 sunh/kan evpi. toi/j a;rtoij( [avevano capito il fatto dei pani]
2 avllV h=n auvtw/n h` kardi,a pepwrw- [essendo il loro cuore indurito]
3 me,nh [53]kai.diapera,santej evpi.th.ngh/n [compiuta la traversata]
4 h=lqon eivj Gennhsare.t kai. [arrivarono a Genesaret e]
5 proswrmi,sqhsanÅ[54] kai.evxel-qo,ntwn [presero terra. Appena scesi…]
1 [sunn_an]e[pitoiVartoiV]
2 [alln na]utwn n[_ardia p epwrw]

75
La grotta 7Q conteneva soltanto frammenti in lingua greca. A questa particolarità si aggiunge il fatto che,
diversamente da tutte le altre grotte in cui i reperti sono pergamenacei, i testi sono su papiro, compilati solo da
un lato, quindi provenienti da rotoli e non da codici. Tutti i testi trovati sono precedenti al 68 d.C.: in particolare
secondo gli esperti di papirologia, lo stile “Zierstil” in cui sono scritti i papiri 7Q fissa la loro datazione tra il 50
a.C. e il 50 d.C.

246
3 [men]n _ai t[aperasanteV] epitnngnn
4 [nl'on eiV Ge]nnn s[aret _ai]
5 [proswrmiV]'nsa[n _ai exel]-
* [parentesi quadre]: le sezioni assenti sul papiro stesso
* lettere sottolineate: se ne solo ipotizza l’esistenza
* frase in neretto (evpi. th.n gh/n): è del tutto assente nel papiro
* lettera sbarrata: nel papiro non è completa, se ne ipotizza la costruzione come eta;
* la t nell’attuale testo greco si presenta come d e va a formare la preposizione dia; lo scambio
è comunque frequente.
Il piccolo frammento 7Q5 contiene in 5 righe solo 9 lettere sicure, le altre risultano di difficile
interpretazione offrendo diverse possibilità. A favore della tesi che il frammento appartenga al vangelo
di Marco starebbe il fatto che, nel contesto sticometrico, l’unico testo conosciuto che corrisponda, dato
un numero di lettere più o meno uguale per ogni riga, è Mc 6,52-53; inoltre, nella quarta riga la rara
successione delle lettere ni ni eta sigma sarebbe identificabile con il nome Genesaret in Mc 6,52-53.
Gli stessi difensori della tesi affermano, però, che, perché essa stia in piedi, in primo luogo una lettera
dubbia della seconda riga deve essere identificata come la lettera ni; in secondo luogo una lettera della
terza riga deve essere uno iota, anche se vi è una linea curva, dovuta, però, ad una sfilacciatura del
papiro; in terzo luogo bisogna supporre il cambio d’iniziale da d in t del verbo greco “attraversare”; in
quarto luogo il testo deve aver omesso, per mancanza di spazio, il complemento di direzione “verso
terra”, espressione presente nel frammento di Marco; infine, bisogna supporre uno spazio prima del
kai che indicherebbe proprio l’inizio di un nuovo paragrafo.
Gli argomenti contrari affermano che più il frammento è piccolo più l’identificazione deve basarsi
almeno su di un elemento indubitabile e senza supporre irregolarità nel testo. La sequenza delle
quattro lettere ni ni eta sigma è poco indicativa perché es. solo nel NT vi sono 116 combinazioni delle
4 lettere in tale successione ed esse non riferiscono al nome “Genesaret”, ma al verbo molto più
comune “generare”. Inoltre, contestano la lettura della lettera ni alla seconda riga e della lettera iota
nella terza. Infine, il cambio di d in t si riscontrerebbe solo in pochi casi e sarebbe da dimostrare anche
la scelta del copista dell’omissione di “verso terra”. La conclusione di questi studiosi è che l’ipotesi
non possieda prove fondanti.

2. Il testo
2.1. La cronologia
Il vangelo di Marco consta di due parti sproporzionate:
I. Gesù in Galilea
II. Gesù a Gerusalemme (gli ultimi capitoli).
Nel parallelo con il vangelo di Giovanni la struttura cronologica non regge: seguendo Gv, Gesù fa
avanti e indietro tra la Galilea e la Giudea (Gerusalemme). Gli studiosi danno maggiore rilievo storico
al Quarto Vangelo tanto per la cronologia quanto per la topografia.
In Marco c’è uno sforzo di semplificazione: ha voluto rendere più semplice e schematica la storia di
Gesù. Marco ha definito una “teologia della geografia”, “teologia dei luoghi” per cui la Galilea
rappresenta i luoghi positivi (luogo dell’annuncio delle apparizioni dopo la risurrezione: «Ora andate e
dite ai suoi discepoli che egli vi precede in Galilea» - Mc 16,7), mentre la Giudea e Gerusalemme
rappresentano i luoghi negativi (condanna e morte). In questo si evidenzia l’indole di Marco come

247
catechista: per insegnare usa non solo i fatti e i detti di Gesù ma anche i luoghi. Nei soli 16 capitoli di
questo vangelo tutto ha un significato.
2.2. Macro-struttura
 Introduzione: Mc 1,1-13
Prologo: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). Il vangelo di
Marco inizia con la proclamazione dell’identità di Gesù. Il vangelo di Marco ha come
scopo la ricerca della vera identità di Gesù: Mc 1,1 dà già la risposta alla domanda di
fondo che percorre tutto il suo vangelo - chi è Gesù? Al nome proprio di Gesù si aggiunge
il titolo Cristo: Marco presenta sin da subito Gesù come il messia atteso, il compimento
delle Scritture ebraiche. Inoltre, Gesù è il Figlio di Dio. Annuncio di quanto avverrà.
Presentazione di Giovanni Battista (citazione di Isaia). Battesimo di Gesù al Giordano. Da
qui segue una suddivisione essenziale in due parti:
 I metà: Mc 1,14 - 8,26
Attività di Gesù in Galilea: chiamata dei primi quattro discepoli e inizio della comunione di
vita con loro (Mc 1,16-20); inizio dell’attività messianica (Mc 1,21). Sorta di leitmotiv dei
primi 8 capitoli è la presenza di diverse domande circa l’identità di Gesù, a dire che quella
è la domanda fondamentale. Tuttavia, Gesù non accetta di rispondere: non serve a nulla
sapere la risposta se non c’è un discepolato, se non si compie un cammino con Lui verso lo
scandalo e l’abominio della morte del messia di Dio, condannato non solo dall’autorità
politica ma anche dall’autorità religiosa e finanche dalla Torah.
 Centro: Mc 8,27-30
Domanda di Gesù («E voi chi dite che io sia?») e confessione di Pietro («Tu sei il Cristo, il
figlio di Dio») a Cesarea di Filippo.
 II metà: Mc 8,31 - 16,8
Cammino verso Gerusalemme. Tre annunci della passione (8,31; fine 9; fine 10). Passione
e morte di Gesù. Il riconoscimento e l’attestazione di Gesù “Figlio di Dio” (Mc 15,39) si ha
davanti all’ignominia della morte in croce (e non davanti ai miracoli) e ad opera di un
pagano, il centurione (e non dei suoi discepoli). In Marco Gesù muore in modo scomposto,
lanciando urla e gemiti. Mc 16,8: le donne fuggono impaurite dinanzi alla tomba vuota. Mc
16,9-20: la c.d. finale canonica.
2.3. L’epilogo di Mc 16,9-20: la c.d. finale canonica
Molti manoscritti tra i più autorevoli e antichi non hanno questa integrazione, fermandosi al v.8. Al
contrario, i manoscritti più recenti riportano la finale. Tuttavia, togliendo questi versetti il vangelo
apparirebbe tronco, terminandosi con la scena della tomba vuota da cui le donne scappano spaventate.
L’integrazione è stata dunque introdotta come canonica e ispirata (c.d. “finale canonica”), ma non fa
parte dell’originale di Marco. Non va pertanto presa in considerazione, qualora si cerchi di interpretare
questo Vangelo in sé e per sé (tutte le edizioni critiche del NT segnalano almeno in nota questo fatto).
2.4. La linguistica
Nel Vangelo di Marco sono presenti 1345 termini, con circa 80 hapax legomena.
Abbondante uso di aramaismi.
Sono anche presenti dei latinismi.

248
3. I temi
3.1. Le domande sull’identità di Gesù
Il tema dominante è quello dell’identità di Gesù:
 Mc 4,35-41 (la tempesta sedata)
 Mc 8,27-30 (la domanda rivolta ai discepoli nel passo centrale)
 Mc 12,35-37 (la domanda a Gesù sul perché si dica che il Messia sarà figlio di Davide)
 Mc 14,61 (il racconto della passione)
3.2. Le crisi del rapporto Gesù-discepoli
In Marco assume uno spazio preponderante la difficoltà del rapporto di discepolato. Il rapporto dei
discepoli con Gesù è sottoposto a crisi molto forti e ripetute: «non capite ancora?» = “non credete
ancora?”
 Mc 8,31-33: la prima crisi provocata dall’annuncio della passione
 Mc 14,50.66-72: seconda chiamata - Pietro rinnega Gesù
 Mc 14,28: terza chiamata dei discepoli - «Dopo la mia resurrezione vi precederò in
Galilea»
3.3. La cristologia di Marco
Il titolo messianica Christos è usato 7 volte: una nell’introduzione (Mc 1,1), una nella I parte (Mc
8,29), ben cinque nella II parte (Mc 9,41; 12,35; 13,21; 14,61; 15,32).
La denominazione Figlio di Dio è usata 4 volte (Mc 1,1; 3,11; 5,7) fino al riconoscimento supremo
della figliolanza divina di Gesù sotto la croce (Mc15,39).
La denominazione Figlio dell’uomo è usata 12 volte (Mc 2,10.28; 8,31.38; 9,12.31; 10,33.45; 13,26;
14,21.41.62). Questa espressione non è mai usata da altri in rispetto a Gesù, ma è sempre Gesù che si
auto-designa così: in sottofondo c’è Dn 7,13 (a sua volta tratto dalla letteratura enochica). In bocca a
Gesù indica ora l’elemento divino e di giudizio escatologico, ora la natura umana di Gesù (figlio
d’uomo come tutti gli altri).
3.4. Il «segreto messianico» nei Vangeli
[W. WREDE, Das Messiasgeheimnis in den Evangelien. Zugleich ein Beitrag zum Verständnis des
Markusevangelium, Göttingen 1901]
L’ingiunzione del silenzio. Diverse volte Gesù impone ai miracolati e agli stessi discepoli di non
rivelare la sua identità. Tuttavia, questa ingiunzione è trasgredita: non solo dalle persone che non gli
obbediscono ma neanche dagli stessi gesti di Gesù che si accompagnano ai miracoli.
Questa ingiunzione al silenzio è abbondante specialmente nella prima parte (Mc 1,14 - 8,30), mentre è
di fatto assente nella seconda parte (Mc 8,31 - 16,8). Quando si inizia a intravvedere la fine ingloriosa
e scandalosa del messia, in qualche modo Gesù non impone più il silenzio. L’ipotesi di Wrede – si
tratta di un’invenzione dei discepoli per colmare la distanza tra il Gesù della storia e il Cristo messia –
non è più seguibile: in primo luogo, è un motivo presente anche in Lc e Mt; inoltre, il silenzio è
richiesto da Gesù per evitare che sia scambiato per un messia politico, glorioso; l’attribuzione
dell’identità messianica regale sarà coperta fino a quando il fraintendimento non sarà più possibile.

249
Gesù era consapevole di andare incontro alla morte? Sì. Gesù si identifica con il servo sofferente
di Yhwh. Mc 10,45 che cita Is 53 è l’unica volta in cui esplicitamente Gesù mostra di essere
consapevole del valore salvifico per gli altri della sua vita e della sua morte: cfr. i racconti della
passione, le parole dell’istituzione.
Gesù attribuiva un significato alla sua morte? Quale? Sì. In Mc 10,45 Gesù è consapevole della
sua morte e attribuisce un significato salvifico. La fine tragica del messia era la questione centrale che
attraversava la nascente comunità cristiana: agli apostoli appare chiaro che, se Gesù è davvero il
messia (lo confermavano le apparizioni del risorto), allora la sua morte era iscritta nel piano di Dio.
Nel retroterra giudaico era chiaro che il perdono dei peccati e la salvezza erano legati alle pratiche
cultuali e liturgiche nel tempio, in primis i sacrifici: Ad un certo punto avviene l’apertura mentale che
considerava tutto questo non più legato al culto ma alla morte di Gesù: la sua morte assume valore
salvifico, che perdona i peccati e celebra una nuova alleanza.
4. La riscoperta del vangelo sec. Marco
In assoluto Matteo è stato il vangelo più commentato, perché era il più ampio e il più didascalico
(presenta la figura di Gesù come maestro). Questo ha spinto nel corso dei secoli a mettere da parte il
vangelo di Marco, quasi fosse secondario o una sintesi di Matteo.
Solo dopo il Concilio Vaticano II e la ripresa degli studi esegetici e biblici c’è un ritorno imponente di
attenzione per e una concentrazione degli studi su Marco, che – con l’adozione della teoria delle due
fonti – è indentificato come il vangelo alla base di Matteo.

250
30. Il Vangelo secondo Matteo
1. Introduzione
1.1. L’autore
1.2. I destinatari
1.3. La datazione
2. Il testo
2.1. Il “vangelo dell’infanzia” (Mt 1-2)
2.2. I discorsi di Gesù
2.3. La narrazione
3. I temi
3.1. Cristologia ed ecclesiologia
1. Introduzione
Matteo è il vangelo ecclesiastico per eccellenza: è il vangelo più commentato nella storia della Chiesa
(cfr. i commenti di Origine, Giovanni Crisostomo, Ilario, Girolamo), il più utilizzato nella liturgia, il
primo inserito nel canone.
1.1. L’autore
Dal II secolo d.C. in avanti la tradizione attribuisce il primo vangelo a «Matteo, figlio di Alfeo» (cfr.
Mc 2,14), altrimenti noto come «il pubblicano Levi», citato anche in Lc 5,27, in Mt 9,9 (lo dice
esattore di imposte presso Cafarnao, sulla via che collegava la Galilea a Damasco in Siria) e in Mt
10,3.
Un Matteo originario in aramaico? Riprendendo la testimonianza di PAPIA DI GERAPOLI, EUSEBIO
DI CESAREA (Esegesi dei detti del Signore) afferma tra l’altro che Matteo scrisse una raccolta «in
ebraidi dialecto ta loghia»: traducendo questo con “in lingua ebraica” sorge l’ipotesi che ci fosse un
originale in ebraico o aramaico alla base del testo greco che conosciamo. Ma non c’è traccia di un
originale aramaico; perciò Eusebio avrebbe potuto voler dire “nella prospettiva ebraica” o “nella
mentalità ebraica”. In questo senso, nonostante i diffusi semitismi nel testo matteano, il primo vangelo
fu scritto fin dall’inizio in greco.
Forse l’evangelista è un giudeo-cristiano. Il retroterra è il background del giudaismo palestinese o
quello vicino della comunità giudaico-ellenistica di Antiochia di Siria.
1.2. I destinatari
Probabilmente il vangelo di Matteo era destinato a comunità cristiane in ambiente di giudaismo
ellenistico (Siria? Cfr. Mt 4,24). La comunità di Matteo risente moltissimo di una matrice giudeo-
cristiana, dove è ancora molto importante l’osservanza della Torah, sebbene vi siano delle antitesi
(Gesù si presenta come autorità superiore alla Torah stessa che pure permane nella piena validità).
 Per questo in Matteo è evidente una specifica attenzione alla Scrittura (ben più massiccia
che in Lc e Mc), proponendone una rilettura cristologica. D’altronde il modo di citare di
Mt è specifico. In primo luogo, egli intende mostrare che Gesù è discendente di Davide e di
Abramo; la genealogia di Mt 1,1 (Gesù «figlio di Davide») vuole mettere in rilievo quanto
viene detto dopo, ossia che Gesù è il Cristo / Messia atteso e appartiene al popolo di
Israele. In secondo luogo, in Mt 1-2 ritorna a mo’ di ritornello la formula «questo avvenne
perché si adempisse quanto aveva detto il profeta»: il chiaro intento di Mt è di mostrare
Gesù come colui che compie le Scritture.

251
 In Matteo è anche chiara una attenzione alle tradizioni giudaiche (soprattutto sulle purità
alimentari).
Inoltre, se Mc vuole mettere pietre d’inciampo nella lettura che così rimane spigolosa con un
susseguirsi di racconti in assenza di grandi discorsi di Gesù (eccetto il discorso sulle parabole in Mc
4), il racconto di Mt è destinato ad un lettore edificato, a cui viene spianata la strada: tipico elemento
strutturale è la presenza di lunghi discorsi.
1.3. La datazione
Il vangelo fu scritto probabilmente dopo la distruzione del secondo Tempio (70 d.C.), a causa della
citazione esplicita in Mt 22,7 nella parabola del banchetto di nozze («Allora il re si indignò e, mandate
le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città»). Pertanto le datazioni sulla
redazione del vangelo oscillano tra il 70 e il 90 d.C.: la datazione più probabile è tra l’80 e l’85 d.C.

2. Il testo
2.1. Il “vangelo dell’infanzia” (Mt 1-2)
In confronto a Mc, in Mt dopo la genealogia iniziale (Mt 1,1) risulta l’aggiunta dei due capitoli iniziali
che descrivono l’infanzia di Gesù (presenti anche in Lc 1-2). Sono impropriamente detti “Vangeli
dell’infanzia”. Se, infatti, Mc è il modello del genere letterario euvagge,lion, questo genere non
prevede che si parli di Gesù bambino; allora il “vangelo dell’infanzia” non corrisponde al genere
euvagge,lion. Inoltre, in questi capitoli non si parla dell’infanzia di Gesù, ma si presentano solo
brevissime finestre su alcuni episodi dei primi anni della vita di Gesù: gli eventi precedenti alla
nascita, la nascita, la strage degli innocenti, la presentazione al tempio, la fuga in Egitto (per quanto
tempo?), Gesù adolescente al tempio.
Gli apostoli e gli evangelisti non hanno alcuna finalità storica o cronachistica, ma unicamente quella di
consolidare nella fede i destinatari della loro predicazione. Uno dei motivi per cui nascono i vangeli
apocrifi sarà proprio la curiosità umana di colmare questa lacuna. Dunque, Mt 1-2 e Lc 1-2
appartengono ad un altro genere letterario: i vangeli hanno anche una forte base storica.
2.2. I discorsi di Gesù
Differentemente da Mc, Mt mostra un interesse per i discorsi di Gesù: è qui più che altrove che si
riscontra la fonte Q (costituita essenzialmente da detti di Gesù maestro [didascalos]). Secondo una
strutturazione da tutti accettata, questi discorsi sono presentati in cinque blocchi:
1. Mt 5-7: il c.d. “discorso della montagna”
È il discorso più unitario, se non il più lungo. Nel titolo è indicato unicamente il luogo dove
il discorso è avvenuto (cfr. Lc). Il tema è – come unanimemente definito – lo statuto-
identità del discepolo di Gesù evidente: dall’alta e sovraccaricata ridondanza della
presentazione iniziale di Gesù come didascalos (= Gesù è il nuovo Mosè che sul monte dà
la legge nuova); dalla lista delle Beatitudini; dalle antitesi («avete inteso che fu detto […]
ma io vi dico»); e da regole di vita principalmente pratiche. Gesù si confronta con la Torah
e apporta delle radicalizzazioni.
2. Mt 10: il “discorso missionario”
È il discorso relativo alle istruzioni che Gesù imparte ai discepoli nel “mandarli” ad
evangelizzare (cfr. parallelo in Mc 6,6b-13: Mt riprende Mc ma amplia notevolmente la
tematica).

252
3. Mt 13: l’insieme delle “parabole del regno”
Cfr. parallelo in Mc 4: anche qui Mt riprende Mc ma amplia notevolmente il discorso.
4. Mt 18: il “discorso comunitario”
È il discorso relativo alla vita dei discepoli. Include la parabola della “pecorella smarrita”
che in Mt (al contrario di Lc) assume un valore pastorale-ecclesiale (richiamo ai
responsabili della comunità). In base a dove avviene la collocazione assume un significato
diverso.
5. Mt 24-25: il “discorso escatologico”
Dopo i discorsi di Gesù nel Tempio (Mt 23) Gesù fuori dal tempio adotta una prospettiva
escatologica con i suoi discepoli (Mt 24).
Rispetto a Mc che vuole il suo lettore sempre sconcertato, Mt fornisce continuamente il filo conduttore
della sua narrazione. Così tutti questi discorsi terminano con una formula stereotipata conclusiva che
li caratterizza e mostra come questi cinque blocchi scandiscano in modo regolare il ritmo della
narrazione lungo tutto il vangelo di Mt nell’alternanza discorso-narrazione:
1. [Mt 5-7] in Mt 7,28: Kai. evge,neto o[te evte,lesen o` VIhsou/j
tou.j lo,gouj tou,touj [“quando Gesù ebbe finito questi discorsi”]
2. [Mt 10] in Mt 11,1: Kai. evge,neto o[te evte,lesen o` VIhsou/j
diata,sswn toi/j dw,deka maqhtai/j auvtou/ [“quando Gesù ebbe
terminato di dare queste istruzioni ai suoi discepoli”]
3. [Mt 13] in Mt 13,53: Kai. evge,neto o[te evte,lesen o` VIhsou/j
ta.j parabola.j tau,taj [“quando Gesù ebbe finito queste parabole”]
4. [Mt 18] in Mt 19,1: Kai. evge,neto o[te evte,lesen o` VIhsou/j
tou.j lo,gouj tou,touj [“quando Gesù ebbe finito questi discorsi”]
(assolutamente identica alla formula del primo blocco)
5. [Mt 24-25] in Mt 26,1: Kai. evge,neto o[te evte,lesen o` VIhsou/j
pa,ntaj tou.j lo,gouj tou,touj [“quando Gesù ebbe finito tutti questi
discorsi”]. Con “tutti” [pa,ntaj] questo blocco è conclusivo di tutti i discorsi di Gesù.
2.3. La narrazione
La narrazione si svolge sulla falsariga del Pentateuco?
In realtà la narrazione si basa su una formula che ritorna due volte nel testo di Mt:
 Mt 4,17 - “l’annuncio del regno”: VApo. to,te h;rxato o` VIhsou/j
khru,ssein kai. le,gein\ metanoei/te\ h;ggiken ga.r h`
basilei,a tw/n ouvranw/n [“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire:
«Convertitevi, poiché è vicino il regno dei cieli»];
 Mt 16,21 - il “preannuncio della passione”: VApo. to,te h;rxato o` VIhsou/j
deiknu,ein toi/j maqhtai/j auvtou/ o[ti dei/ auvto.n eivj
~Ieroso,luma avpelqei/n kai. polla. paqei/n [“da allora Gesù
cominciò a dire chiaramente ai suoi discepoli che egli doveva andare a Gerusalemme e
soffrire molto …”]

253
3. I temi
3.1. Cristologia ed ecclesiologia
La “cristologia dell’Emmanuele” sostituisce la pneumatologia. La citazione di Isaia: «sarà
chiamato l’Emmanuele, il Dio-con-noi» (Mt 1,23) è la prospettiva cristologica che fa da sfondo a tutto
il vangelo di Matteo: la presenza del Dio-con-noi è concentrata sulla persona stessa di Gesù e passa
attraverso Gesù. Egualmente in Mt 18,20 e Mt 28,20 («Io sarò con voi fino alla fine del mondo»).
Sebbene la pneumatologia sia presente, il vangelo di Mt non si conclude (come invece Lc e Gv) con la
promessa dello Spirito: Dio sarà presente nella sua chiesa (Mt è un vangelo ecclesiologico) mediante
la presenza misteriosa ma attiva del Risorto. Al centro del Vangelo di Mt c’è la certezza che Dio è in
mezzo a noi. Questo fa pensare anche ad un riferimento alla natura divina di Gesù, Figlio di Dio che
solo in quel momento inserisce.
Rapporto con il giudaismo. Riprendendo Mc, Mt apporta però delle modifiche. Cambiano, infatti,
non solo il canovaccio dell’intera narrazione, ma anche la prospettiva e i contenuti: forte, infatti, è la
considerazione del rapporto con il giudaismo e della vicinanza alla legge – compimento della Torah
che tuttavia persiste (Mt 5,17 è Sondergut matteano).
Dodici profezie. Mt 1-2; 4,12; 8,17; 12,17; etc.
Inizio (giudaismo) & fine (universalismo). Mt 15 («Non sono stato inviato se non alle pecore
perdute della casa di Israele») è Sondergut matteano, ma è storicamente sostenibile che Gesù abbia
pronunciato queste parole: Alla fine, però, il vangelo presenta un’apertura universalistica a tutte le
genti (il Risorto invia gli apostoli in tutto il mondo).

254
31. Il Vangelo secondo Luca
1. Introduzione
1.1. L’autore
1.2. La datazione
2. Vangelo e Atti degli apostoli
2.1. Un’opera ben costruita come una sola storia in due parti
2.2. Luca e Paolo
3. La syncrisis dei personaggi
4. Il prologo (Lc 1,1-4)
4.1. Dedica a Teofilo
4.2. Scopo dell’autore
4.3. Catena graduale della formazione dei vangeli
5. La struttura del Vangelo
5.1. Il Vangelo dell’infanzia (Lc 1-2)
5.1.1. Verbi che fanno da ritornello
5.1.2. L’infanzia di Gesù: confronto con Mt
6. Alcuni temi
7. L’identità delle figure
7.1. Gesù
7.2. I discepoli
7.3. Lo Spirito Santo
1. Introduzione
Nella prospettiva delle due fonti attinge alla Fonte Q ma più di altri alla fonte sua propria L (sp. in Lc
9-19).
1.1. L’autore
Luca molto probabilmente non è né palestinese né ebreo: era uomo colto, profondo conoscitore delle
Scritture, talento da narratore.
Dalla fine del II secolo d.C. la tradizione patristica ha unanimemente riconosciuto in Luca l’autore del
Terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli. La testimonianza più antica è quella di S. IRENEO: «Luca,
compagno di Paolo, consegnò in un libro il Vangelo che quest’ultimo predicava» (Ad Haer. III, 1).
Altri nomi ne danno testimonianza come Tertulliano e il Codice di Muratori. Si tratta in ogni caso di
nomi legati agli apostoli: nella canonizzazione c’è già il riferimento all’autorità apostolica (il
riferimento di Luca è Paolo).
Se per il suo Vangelo Luca ha avuto a disposizione il Vangelo di Marco, la Fonte Q e il Sondergut L,
quali le fonti per gli Atti? Da dove Luca attinge i grandi discorsi (es. di Stefano, Giacomo, Pietro,
Paolo, nonché dei personaggi politici)? In alcuni passi degli Atti chi scrive usa un «noi» (At 16,10-17;
20,5-15; 21,1-18; 27,1-28,16: sono tutti passi che riguardano passaggi in mare): questo direbbe che
Luca era uno dei compagni di Paolo (cfr. Fm 24; Col 4,14; 2Tm 4,11), portando con sé un diario
personale nell’accompagnarlo nei suoi viaggi apostolici. Ma alla fine del XIX secolo d.C. si è messa in
discussione la tradizione che Luca fosse compagno di Paolo per i seguenti motivi:
 Lucas era nome molto comune all’epoca, perciò le menzioni che nelle lettere Paolo fa di
Luca come suo accompagnatore non provano che quel Luca sia anche l’autore dell’opera.

255
 Il noi poteva essere un procedimento stilistico noto nell’antichità per dimostrare la presenza
all’evento che si racconta.
 In modo più determinante direbbe che chi scrive riflette la situazione di comunità cristiane
della fine del I secolo d.C., in particolare riguardo alla rottura già avvenuta con il
giudaismo; e così riflette più la prospettiva di un cristiano della II o III generazione che
quella di un compagno di Paolo (i cui viaggi sarebbero anteriori di almeno di 30 anni, ben
lontani dunque sia nel tempo che nello spazio).
1.2. La datazione
La datazione dell’intera opera lucana risalirebbe agli anni 75-80 d.C.

2. Vangelo e Atti degli apostoli


2.1. Un’opera ben costruita come una sola storia in due atti
Il lettore è progressivamente introdotto in un processo dinamico di lettura e approfondimento del
significato dell'opera di Luca. Luca scrive non solo la “storia” di Gesù ma anche la “storia” della
Chiesa. Il Vangelo e gli Atti degli apostoli sono l’opera di uno stesso autore e si iscrivono in un vero
progetto letterario e specialmente teologico: presentare il compimento e la diffusione dell’opera
salvifica di Dio nella continuità dei due momenti rappresentati dal tempo di Gesù e dal tempo della
Chiesa.
Luca è un artista, che narra quello che ha ricevuto con grande maestria. Molti indizi portano a pensare
che egli ha in mente sin da subito di scrivere una sola storia divisa in due atti con molti parallelismi:
 I prologhi delle due opere presentano richiami reciproci l’uno all’altro: nell’uno Luca
descrive il modo in cui ha lavorato e lo scopo che si è prefisso (Lc 1,1-4), nell’altro Luca
ricorda anzitutto il primo libro che ha scritto, poi allude agli avvenimenti seguiti alla
risurrezione e agli incontri del Risorto con gli apostoli «per quaranta giorni» (At 1,1-3).
 L’ascensione funge da cerniera tra i due testi ponendosi in chiusura del Vangelo e in
apertura degli Atti (peraltro Luca è il solo evangelista che ci racconta dell’ascensione al
cielo di Gesù, avvenuta 40 giorni dopo la risurrezione).
 Nel Vangelo l’inizio della vita pubblica di Gesù è il Battesimo; negli Atti a Pentecoste lo
Spirito santo scende sugli apostoli che avviano così la loro attività pubblica.
Le due opere sono da considerarsi dunque in unità: parallelismo tra la vita di Gesù e la vita della
chiesa (quello che avviene nella vita di Gesù avviene nella Chiesa):
 Il tempo di Israele (inteso come «tempo della promessa»);
 Il tempo di Gesù (inteso come «tempo della salvezza»);
 Il tempo della Chiesa (inteso come «tempo della testimonianza»).
Secondo l’indicazione di KONSELMAN (Il Cristo. Il centro del tempo), le due opere formano un tutto
che fa di Gesù il «centro del tempo», cioè il tempo che è al centro della storia della salvezza.
Ma non solo la persona di Gesù è il centro di questa costruzione, ma anche la città di Gerusalemme in
un duplice movimento:
 Nei Vangeli secondo una dinamica centripeta: verso Gerusalemme. Il Vangelo è
costruito in modo tale che tutto sia orientato verso il compimento a Gerusalemme:

256
passione, apparizioni del risorto, ascensione. Luca enfatizza al massimo questo dato. Lc
9,51 («prese la ferma decisione [indurì la sua faccia] di mettersi in cammino verso
Gerusalemme») segna il punto di svolta nella vita di Gesù, segnando il passaggio da una
parte all’altra del vangelo lucano.
 Negli Atti secondo una dinamica centrifuga: da Gerusalemme verso gli estremi confini
della terra, che nell’ottica di Luca saranno Roma (l’Urbe, raggiugendo la quale si
raggiungeva tutto il mondo all’epoca conosciuto). Il piano degli Atti è sintetizzato nelle
parole: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a
Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At
1,8). Così Luca evidenzia le tappe geografiche della predicazione apostolica.
2.2. Luca e Paolo
Luca è un fan sfegatato di Paolo. Eppure negli Atti:
 Mai si accenna al fatto che Paolo abbia scritto nulla, sebbene le sue lettere fossero ben note
e circolassero tra le prime comunità cristiane;
 Mai Paolo è definito “apostolo”: per Luca “apostolo” era solo chi aveva vissuto con Gesù
(tanto che quando si tratterà di sostituire Giuda si sceglierà qualcuno che come discepolo
aveva seguito Gesù nella sua vicenda storica).
Di fatto però la sua opera, pur denominandosi Atti degli apostoli, si presenta di fatto come Atti di
apostoli e alla fin fine tratta in misura largamente preponderante del solo Paolo: At 9 ne introduce la
figura, At 12-28 ne parla in maniera diffusa; la sua “conversione” è narrata ben tre volte (At 9; 22; 26).
In confronto, se in At 1-12 c’è una presenza costante di Pietro, questi da qui in avanti scompare
improvvisamente salvo ricomparire brevemente in At 15 (c.d. concilio di Gerusalemme).
Inoltre, gli Atti terminano con l’arrivo di Paolo prigioniero a Roma (deve affrontare il processo perché,
in quanto civis romanus, si è appellato a Cesare) «annunziando il regno di Dio e insegnando le cose
riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28,31). Questa
finale non racconta la fine di Paolo, che in realtà non è narrata in nessun testo del NT ma solo negli
Atti di Paolo (alcune parti risalgono al II-III secolo d.C., altre al V secolo d.C.). Ora, quando Luca
scrive gli Atti (80-85 d.C.) – avendo già scritto il Vangelo – gli episodi narrati erano già accaduti da
tempo e tutti sapevano del martirio di Paolo. Se ne può dedurre che Luca non voleva terminare il
suo libro con il martirio di Paolo:
1. Per non oscurare il martirio di Gesù raccontato nel suo vangelo;
2. Perché ormai la finalità era stata raggiunta (il vangelo era predicato ovunque);
3. Per lasciare l’idea che Paolo è vivo e continua a parlare alla Chiesa attraverso i suoi
scritti epistolari.

3. La syncrisis dei personaggi


In Luca è chiaro l’uso del procedimento letterario della syncrisis dei personaggi (cfr. le Vite parallele
di PLUTARCO), consistente nel “confronto/comparazione” di due scene parallele per farne emergere
una con sottile ironia:
 L’annunciazione a Zaccaria nel tempio e il suo dubbio (Lc 1,5-25) vs l’annunciazione a
Maria e la sua pronta risposta (Lc 1,26-38).

257
 I nomi altisonanti delle autorità politiche e religiose del tempo vs «lo spirito scese su
Giovanni nel deserto».
 Giovanni Battista e Gesù.
 Pietro e Paolo (At 1-12; At 13-28): Paolo è menzionato 3 volte tanto rispetto a Pietro. Per
Luca, Paolo è il grande eroe del suo racconto.
 Stefano e Gesù (At 7,60; Lc 23,34): Stefano muore dicendo le stesse parole di Gesù.
Stefano appare come la rappresentazione di Gesù; Gesù appare come «il modello fondatore
del discepolo, colui nel quale si radica il senso della missione della Chiesa, ma soprattutto
colui che resta presente alla sua Chiesa attraverso tutti coloro che rendono testimonianza
nel suo nome» (FLICHY, «L’oeuvre de Luc», 53).

4. Il prologo (Lc 1,1-4)


Il prologo al Vangelo introduce anche gli Atti degli Apostoli.
1
Molti hanno già cercato di mettere insieme un evpeidh,per polloi.
racconto degli avvenimenti verificatisi tra noi, evpecei,rhsan avnata,xasqai
2 dih,ghsin peri. tw/n
così come ce li hanno trasmessi coloro che fin
peplhroforhme,nwn evn h`mi/n
dall’inizio furono testimoni oculari e ministri
pragma,twn(
della parola.
3
kaqw.j pare,dosan h`mi/n oi`
Tuttavia, anch’io, dopo aver indagato
avpV avrch/j auvto,ptai kai.
accuratamente ogni cosa fin dall'origine, mi sono
u`phre,tai geno,menoi tou/
deciso a scrivertene con ordine, egregio Teofilo,
lo,gou(
4
affinché tu abbia esatta conoscenza di quelle
e;doxen kavmoi,(
cose intorno alle quali sei stato catechizzato.
parhkolouqhko,ti a;nwqen pa/sin
avkribw/j( kaqexh/j soi gra,yai(
kra,tiste Qeo,file(
i[na evpignw/|j peri. w-n
kathch,qhj lo,gwn th.n
avsfa,leianÅ

4.1. Dedica a Teofilo


Un personaggio di alto rango sociale? Un sommo sacerdote giudaico? Teofilo, vescovo di Antiochia?
 “Amato da Dio” - “Amante Dio”. È un personaggio fittizio.
4.2. Scopo dell’autore
Scopo dell’autore è di contribuire a rafforzare la certezza di fede. Il suo vangelo, quindi, è indirizzato a
chi già ricevuto l’annuncio e gli insegnamenti su Gesù Cristo.
4.3. Catena graduale della formazione dei vangeli
1. «gli avvenimenti successi tra di noi»: quanto Gesù ha detto e fatto ci viene trasmesso dai
«testimoni oculari».

258
2. «trasmessi» [pare,dosan]: la trasmissione di questi avvenimenti accaduti e constatati da
testimoni che poi divennero «servitori della parola» [u`phre,tai geno,menoi
tou/ lo,gou]. La fede cristiana trova il suo fondamento nella tradizione orale.
3. «molti han posto mano a stendere un racconto»: i molti tentativi di mettere per iscritto i
fatti accaduti non includono certo i soli Mc, Mt e Q, ma anche parecchi altri tentativi,
seppur parziali, dai quali Lc sarebbe preceduto. Un esempio può essere dato dal Racconto
della Passione, forse il primo tentativo di mettere per iscritto qualcosa riguardante Gesù, la
cui passione occupa nei Vangeli molto spazio. In Lc lo Spirito Santo è donato nel cenacolo,
il dono è lo stesso, ma il come, il dove e quando varia in base all’impostazione
dell’evangelista.
4. «così ho deciso anch’io [è parso anche a me] di fare ricerche accurate su ogni circostanza
fin dalle origini e di scriverne». È lo stadio in cui si pone l’Autore col suo vangelo: la
redazione finale.
Possiamo precisare che il vangelo di Luca è composto: Fonte Q, rimaneggiamento di Mc e materiale
proprio di Lc (Vangelo dell’emarginato).

5. La struttura del Vangelo


 Lc 1-2: Vangelo dell’infanzia
Fa parte a sé. In esso emerge molto la syncrisis.
 Lc 3,1 - 4,13: sezione preparatoria
Alla fine di Lc 3 parallelo alla genealogia di Mt 1,1 ma con alcune differenze: Mt sottolinea
l’origine israelita (“figlio di Davide, figlio di Abramo”), Lc sottolinea la prospettiva
universalista (figlio di Adamo, padre di tutti gli uomini). In questa sezione sono presenti anche
le tentazioni.
 Lc 4,14 - 9,50: sezione del ministero di Gesù in Galilea
Lc 4,14-20: Luca presenta la missione di Gesù nella sinagoga di Nazareth (solo Luca tra gli
evangelisti offre questa scena; Nazareth nell’AT non viene mai nominata). Gesù insegnava
passando sempre nelle sinagoghe: l’archeologia testimonia che in Galilea c’erano molte
sinagoghe (l’ultima rinvenuta è quella di Magdala), a testimonianza di come in Galilea il
giudaismo fosse forte e fervente. Il programma di Gesù si identifica con e attualizza la
profezia di Is 61: «oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato». Il semeron lucano è
un “oggi” teologico: l’accoglienza del vangelo segna l’inizio della salvezza, ma lasciando alla
libertà dell’ascoltatore di cogliere il passaggio dalla profezia al suo adempimento in Gesù.
Lc 9,51 segna la svolta: l’inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme: «Mentre stava per
compiersi il tempo della sua assunzione dal mondo, Gesù decise fermamente [a muso duro]
di andare verso Gerusalemme» [VEge,neto de. evn tw/| sumplhrou/sqai
ta.j h`me,raj th/j avnalh,myewj auvtou/ kai. auvto.j to.
pro,swpon evsth,risen tou/ poreu,esqai eivj VIerousalh,m].
 Lc 9,51 - 19,27: sezione del viaggio da Nord a Sud
Questa sezione è importante per Luca, in cui egli inserisce quasi tutto ciò di cui voleva parlare,
tanto che è più vasta della sezione della passione. Qui figura il c.d. Vangelo dell’emarginato,
che contiene le parabole della misericordia.

259
Dopo Lc 18, che riporta la parabola del fariseo e del pubblicano (Sondergut lucano), Lc 19
riporta l’episodio reale di Zaccheo, capo dei pubblicani: dall’accoglienza di Gesù scaturisce la
salvezza. Il messaggio centrale è la misericordia. Zaccheo è la risposta a tutte le domande
rimaste aperte, che vi sono nei brani precedenti.
 Lc 19,29 - 21,38: ministero di Gesù a Gerusalemme
 Lc 22,1 - 23,56: passione e morte di Gesù
 Lc 24,1-53: le apparizioni del Risorto
L’episodio dei discepoli di Emmaus è Sondergut lucano. I 40 giorni dopo la resurrezione sono
un Sondergut lucano. Altro tema su cui Lc insiste è la missione dei discepoli.

5.1. Il Vangelo dell’infanzia (Lc 1-2)


5.1.1. Verbi che fanno da ritornello
Le due annunciazioni a Zaccaria (Lc 1,5-25) e a Maria (Lc 1,26-38): avph/lqen [«partì»] in Lc
1,23 è riferito a Zaccaria, in Lc 1,38 è riferito all’arcangelo che annuncia a Maria; u`pe,streyen
[«tornò (a casa)»] in Lc 1,56 (fine del Magnificat).
Le due nascite di Giovanni Battista (Lc 1,57-58) e di Gesù (Lc 2,1-20): sumba,llousa
[«conservava»] insieme a u`pe,streyan [«se ne tornarono», questa volta riferito ai pastori] in Lc
2,19.
Le due circoncisioni (manifestazioni) di Giovanni Battista (Lc 1,59-80) e di Gesù (Lc 2,21-40):
hu;xanen in Lc 1,80 riferito a Giovanni Battista; hu;xanen in Lc 2,40 e evpe,streyan in Lc
2,39 riferiti a Gesù.
Infine, in Lc 2,51 i tre ritornelli sono presenti tutti insieme: h=lqen [«tornò (a Nazareth)»] (Lc
2,51a); dieth,rei [«conservava (tutte queste cose in cuor suo)»] (Lc 2,51b); proe,kopten
[«cresceva (in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini)»] (Lc 2,52).
5.1.2. L’infanzia di Gesù: confronto con Mt
Elementi in comune: (1) Il concepimento verginale; (2) La nascita a Betlemme di Giudea; (3)
L’unione matrimoniale tra Maria e Giuseppe.
Differenze: (1) In Lc e Mt nessuna citazione biblica diretta, ma in Mt se ne sente l’eco con riporti e
allusioni; (2) Atmosfera di carattere giudaico; (3) Andamento delle vicende più sereno e tranquillo che
non in Mt; (4) Quasi un contrasto tra Giovanni Battista e Gesù; (5) Presenza dei titoli di Salvatore,
Cristo Signore [cristo.j ku,rioj] (Lc 2,11) e di Figlio dell'Altissimo [ui`o.j u`yi,stou]
(Lc 1,32), e non profeta come in Mt.

6. Alcuni temi
Con Gesù termina tutto ciò che era antico. La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni il Battista
(incluso); dopo di lui comincia un’altra epoca in cui il regno di Dio viene annunziato ed ognuno fa di
tutto per entrarci (Lc 16,16).
Gesù opera solo all’interno dei confini di Israele; anzi, Luca si concentra sul Tempio (e quindi
Gerusalemme), da dove tutto inizia e tutto finisce (cfr. la conclusione della narrazione dopo
l’Ascensione al cielo: «stavano sempre nel tempio lodando Dio» - Lc 24,53).

260
Il semeron lucano: l’avverbio «oggi» compare frequentemente (2,11; 3,22; 5,26; 13,32; 19,5.9; 23,43)
a dire che la buona notizia di Gesù, salvatore, deve essere ascoltata e accolta «oggi».
Relazione fra giudaismo e il nascente movimento gesuano: l’accoglienza riservata alla «salvezza di
Dio» (Is 40,5) offerta in Gesù Cristo.
L’universalismo della salvezza: tema su cui Luca stabilisce un evidente collegamento fra l’inizio e la
fine del suo racconto. Da Israele alle genti: le «genti» di Simeone sono le genti dell’ultimo discorso di
Paolo.
 Lc 2,30-35: le parole profetiche di Simeone («tutti i popoli», «genti»)
 Lc 4,16-30: la predicazione di Gesù a Nazareth
 At 28,28: l’ultimo discorso di Paolo a Roma («Sia dunque noto a voi che questa salvezza di
Dio viene ora rivolta ai pagani ed essi l’ascolteranno!»).
Tema molto caro a Luca sono i poveri (Lc 1,52: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli
umili).
7. L’identità delle figure
7.1. Gesù
È l’annunciatore della misericordia di Dio: cfr. la parabola del figliol prodigo (15,11-32); l’incontro
fra Gesù e Zaccheo (19,1-10); la preghiera di Gesù al Padre per i suoi carnefici (23,34): la promessa
del «paradiso» al «buon ladrone» (23,43). Gesù appare sempre interamente abbandonato nelle mani
del Padre (2,49; 23,46), con il quale è continuamente in preghiera (3,21; 5,16; 6,12; 9,18; 9,28-29;
11,1; 22,32.40-46).
Luca introduce i titoli di Salvatore, Cristo Signore [cristo.j ku,rioj] (Lc 2,11) e di Figlio
dell'Altissimo [ui`o.j u`yi,stou] (Lc 1,32).
Vangelo della gioia messianica e della lode a Dio: cfr. racconti dell’infanzia (1,14.28.44.47.58; 2,10)
e molte pagine del suo racconto (10,17; 13,17; 18,43; 19,1-10; 24,51-52).
Luca elimina ciò che gli sembra contrario alla dignità di Gesù.
7.2. I discepoli
Luca dimostra la stessa preoccupazione nei riguardi dei discepoli: contrariamente a Marco addolcisce
il rapporto di Gesù con loro.
Tuttavia, riguardo al seguire Gesù, Luca denuncia il pericolo delle ricchezze, sottolinea la necessità
della rinuncia (6,24-25; 12,13-31.33-34; 16,1-13.19-31; 21,1-4), e accentua la necessità della
spoliazione: i primi discepoli hanno lasciato tutto quando Gesù li ha chiamati (5,11.28; 14,33; 18,22);
bisogna prendere la propria croce ogni giorno (9,23) e rinunciare a tutti i propri beni (14,33); bisogna
«odiare» i propri parenti e non preferire nessuno all’amore del Signore (14,26; 18,29).
7.3. Lo Spirito Santo
Lo Spirito Santo è il vero protagonista della vita sia di Gesù (presente nel Vangelo: 1,15.35.67;
2,25-27; 3,22; 4,1.14; 10,21; 11,13) sia della chiesa nella sua testimonianza fino ai confini della terra
(presente abbondantemente negli Atti degli apostoli per 72 volte).

261
32. Gli Atti degli apostoli
1. Introduzione
1.1. Il genere letterario Atti
1.2. Il titolo
1.3. Gli Atti degli apostli, opera lucana
1.4. Il genere letterario degli Atti degli apostoli
2. Le fonti
2.1. Le tre sezioni «Noi»
2.2. I grandi discorsi
2.3. Rapporti fra gli Atti e l’epistolario paolino
3. La struttura degli Atti
4. La teologia del libro degli Atti

1. Introduzione
1.1. Il genere letterario Atti
Vi è una vasta letteratura che va sotto il nome di Atti tanto da poterlo identificare come un genere
letterario. Iniziato con il libro canonico denominato Atti degli apostoli, questo fa da modello ad
almeno una quindicina di altri Atti, soprattutto apocrifi scritti tra il II e il V secolo d.C., in particolare:
 Atti di Giovanni, composti a partire dalla metà del II secolo d.C., molto influenzati dal
docetismo.
 Atti di Pietro, scritti nella seconda metà del II secolo d.C., non presentano elementi eretici;
contengono il famoso episodio del Quo vadis?, da cui conosciamo la descrizione del
martirio di Pietro, che fu crocifisso a testa in giù.
 Atti di Paolo, scritti nel 180-200 d.C. Qui si racconta di S. Tecla, conosciuta specie in
oriente, che dopo aver ascoltato la predicazione di Paolo sulla verginità decide di lasciare
il fidanzato Tamiri e consacrarsi, suscitando così l’ira di Tamiri che perseguita sia Paolo
sia Tecla; si riporta anche la sola descrizione fisica che conosciamo di Paolo (piccolo,
calvo, con naso aquilino e spalle arcuate, brutto ma docile di carattere); si descrive il suo
martirio (la decapitazione sotto Nerone alle Tre fontane a Roma).
 Atti di Tommaso, scritti nel III secolo d.C., descrivono la missione dell’apostolo Tommaso
in India.
 Atti di Pilato.
1.2. Il titolo
Come già i Vangeli, anche gli Atti degli apostoli non riportano una titolazione.
Il titolo più antico – come figura nel Codice di Muratori (fine II secolo d.C.) – è Acta omnium
apostolorum, poi semplificato in Acta apostolorum. Tuttavia, al suo interno non sono descritti gli atti
di tutti gli apostoli, ma solo di una piccola minoranza degli apostoli: si parla inizialmente degli
Undici in At 1,26 (l’associazione di Mattia agli apostoli dopo la morte di Giuda) e 2,14, mentre dei
Dodici si parla solo una volta in At 6 (istituzione dei diaconi).
Il più nominato dei Dodici è Pietro, che figura 56 volte ma solo fino ad At 12; la sua uscita di scena
avviene in At 12,18 («scese in Galilea e soggiornò a Cesarea»); ricompare brevemente in At 15

262
(discorso al c.d. concilio di Gerusalemme). Pietro è menzionato anche nelle lettere di Paolo, sp. in
1Corinzi («Cefa»): questo indirettamente dice che Pietro è sicuramente stato a Corinto, dove una delle
fazioni in cui la comunità era divisa si richiamava proprio a Cefa. Al contrario, in Romani Paolo non
cita Pietro: questo ci dice che fino al 57 d.C. Pietro non era ancora stato a Roma.
Saulo compare 15 volte da At 7,58 (il martirio di Stefano) fino a 13,9. Quindi da At 13 si trova il
termine Paolo, citato ben 136 volte. Di fatto con 151 menzioni (tre volte più di Pietro) è lui il vero
protagonista del libro. Luca menziona più di tutti chi “apostolo” nel senso lucano non era stato: ci si
chiede allora se Luca consideri Paolo come apostolo. Luca non da il titolo di apostolo a Paolo, perché
non è stato copn Gesù, ma soprattutto perché non era con loro sin dagli inizi. Inoltre, Luca riporta
l’episodio della sua c.d. “conversione” ben tre volte (At 9; 22; 26) a dire lo straordinario significato
che l’incontro di Paolo con Cristo sulla via di Damasco ha per la nascente comunità ecclesiale.
Dunque, gli Atti degli apostoli sono una celebrazione di Paolo, da cui il titolo più precisamente
sarebbe di Atti “di” apostoli.
1.3. Gli Atti degli apostoli, opera lucana
Gli Atti narrano la storia della chiesa: Luca ha composto due scritti che si richiamano e si integrano
in modo sorprendente, dove Gesù è il centro del tempo.
1.4. Il genere letterario degli Atti degli apostoli
Gli Atti sono unici del loro genere nel canone NT: non sono lettere, né vangeli, né apocalissi. Piatto
forte di questa opera sono i grandi discorsi: che ruolo hanno per costituire un genere letterario
proprio?
 È un racconto, che si può dire “storico” ma non nel senso moderno-illuministico del
termine;
 Appartiene al genere bios [vita] dell’antichità, ma non narra le vicende dei personaggi
dalla nascita alla morte;
 È un romanzo ellenistico perché narra le peripezie dei personaggi ma non racconta storie
d’amore;
 All’interno troviamo anche dei sommari, ovvero dei racconti molto generici. Ciò indicava
l’assenza di fonti più dettagliate.
 Appartiene anche genere delle memorie o diari, perché contiene note personali e di diario
(cfr. le sezioni introdotte da «noi»).
 Si trovano, infine, elementi del genere c.d. della storiografia patetica, intesa a suscitare
un pathos e una partecipazione nel lettore.
Gli Atti sono una narrazione teologica della vita della Chiesa primitiva con l’intento di indicare
la via [«o`do,j»]: infatti, i cristiani sono detti “i seguaci della via”.
Il libro di Atti descrive «il tempo della Chiesa» dove è lo Spirito che la guida. Usando un
linguaggio matematico si può dire che il Battesimo di Gesù sta all’inizio della sua opera come la
Pentecoste sta all’inizio della Chiesa.

263
2. Le fonti
Per la ricostruzione della missione dell’apostolo Paolo Luca non ha fonti a disposizione, nemmeno le
lettere paoline: infatti, in Atti – sebbene siano scritti a circa 30 anni dai viaggi missionari dell’apostolo
– non si menziona mai che Paolo abbia scritto nulla.
2.1. Le tre sezioni «Noi»
Ora, nel testo compaiono tre sezioni introdotte da «Noi» (prima persona plurale):
 1a sezione: At 16,10-17;
 2a sezione: At 20,5-15 e At 21,1-18;
 3a sezione: At 27 e 28.
Alla luce di queste sono state fatte delle osservazioni e proposte delle soluzioni:
1. In tutti gli Atti vi è una marcata unità stilistica e linguistica, così che tutto sembra lucano,
cioè di una sola mano; in altri termini, dalla critica stilistica interna è difficile isolare delle
sezioni pre-redazionali. Da ciò la soluzione tradizionale e più antica: l’autore degli Atti è
anche l’autore delle sezioni «Noi»; quindi, è stato compagno di Paolo nei viaggi
missionari.
2. All’estremo opposto la soluzione per cui le sezioni «Noi» costituiscono uno Stilmittel, un
puro espediente stilistico redazionale per dare l’impressione che il narratore sia stato
presente agli avvenimenti narrati.
3. Le sezioni «Noi» tradiscono una fonte. Con ogni probabilità l’autore delle sezioni «Noi» è
un compagno di viaggio di Paolo ma è diverso dall’autore degli Atti. Chi scrive gli Atti ha
avuto una fonte di prima mano, ossia un diario di viaggio.
La terza soluzione è un buon compromesso che trascura, però, l’evidenza che in tutti gli Atti c’è una
uniformità e omogeneità di stile e di redazione: la mano è unica. D’altra parte si intravvede una fonte
precedente in queste sezioni.
2.2. I grandi discorsi
Un altro blocco notevole del libro degli Atti che potrebbe richiamare l’idea di una fonte sono i
discorsi. Da soli essi occupano quasi un terzo del libro: sono riportati 8 discorsi di Pietro, 9 di Paolo,
1 di Stefano (il più lungo di tutti), 1 di Giacomo, oltre ai discorsi di figure extra-apostoliche come
Gamaliele, Demetrio, Tertullio, Festo. I discorsi rivelano la teologia degli Atti, che è tutta condensata
qui.
Come faceva Luca a disporre di questi discorsi? È possibile e probabile che Luca disponesse di
racconti riguardanti interventi di vari personaggi in varie circostanze, ma non che disponesse di fonti
scritte. Dunque, secondo un criterio storiografico descritto da Tucidide i discorsi riportati negli Atti
sono i discorsi che secondo l’autore ciascun personaggio avrebbe dovuto pronunciare nella
circostanza descritta: ecco perché la teologia lucana è riflessa principalmente nei discorsi (venivano
riletti secondo la sua prospettiva teologica).
Presente in modo massiccio è l’istanza missionaria: i discorsi principali sono rivolti a non cristiani.
Cfr. i discorsi di Giacomo, Pietro e Paolo nel 49 d.C. a Gerusalemme per dirimere la questione
fondamentale della chiesa nascente: cosa fare con i non giudei che aderiscono alla fede cristiana? Un
discorso di alta teologia, prettamente pastorale, è, invece, quello di Paolo a Mileto. Da ciò si desume

264
la preoccupazione di Luca di adeguare il tono del discorso in ragione dell’uditorio: cfr. stile e tono
diverso nei due discorsi di Paolo in At 17, l’uno all’areopago di Atene, l’altro alla sinagoga di Pisidia.
2.3. Rapporti fra gli Atti e l’epistolario paolino
Si evince chiaramente che ciò che Paolo racconta di proprio pugno nelle sue lettere non coincide con
quello che Luca gli mette in bocca negli Atti: distonia e differenza di impostazione teologica su alcuni
temi. Luca descrive la sua immagine e conoscenza di Paolo, di cui certamente è un sostenitore: gli
Atti rispecchiano Paolo in modo analogo a come i Vangeli rispecchiano Gesù.
Dunque, in ragione della grande distanza cronologica tra la predicazione paolina e la redazione degli
Atti e in ragione della non esistenza ancora di un corpus epistolare paolino (che si definirà tra la fine
del I e gli inizi del II secolo d.C.) quando Luca negli anni 75-80 scrive la sua opera, la teologia
paolina va desunta dalle sue lettere piuttosto che dagli Atti. Ad ogni incoerenza e contrasto tra i due
testi la preferenza va data alle lettere – specie le sette paoline – perché sono fonti di prima mano.
D’altra parte gli Atti restano di fondamentale importanza per la ricostruzione dei tre viaggi missionari
e di tutta l’attività apostolica di Paolo, che non è possibile desumere dalle sue sole lettere.

3. La struttura degli Atti


0a. At 1,1-2: Il prologo
0b. At 1,3-11: Gli antefatti del libro
1. At 1,12 - 8,3: La Chiesa di Gerusalemme
2. At 8,4 - 12,25: Le prime missioni
3. At 13,1 - 15,35: La missione di Barnaba e Paolo
4. At 15,36 - 21,14: Le missioni di Paolo
5. At 21,15 - 28,31: Paolo in catene.
 At 1,1-2: Il Prologo
Il Prologo degli Atti è parallelo al Prologo nel Vangelo secondo Luca.
 At 1,3-11: Gli antefatti del libro
Le ultime parole di Gesù e sua ascensione. Il v.8 è criterio strutturante o sommario prolettico (anticipa
quanto verrà dopo) con valore anche teologico e programmatico per tutto il testo.
 At 1,12-8,3: la Chiesa di Gerusalemme
I primi cinque capitoli descrivono gli atti e le azioni che sono limitate a Gerusalemme:
 At 1,12-26: la ricomposizione del gruppo dei dodici.
 At 2,1-41: la Pentecoste, molto importante per l’opera lucana in quanto dà il fondamento
pneumatologico dell’attività, vita e missione della Chiesa; sommario sulla vita all’interno
della comunità (insegnamento degli apostoli, comunione. frazione del pane, preghiera).
 At 3: la guarigione di uno storpio.
 At 4,1-31: Pietro e Giovanni davanti al Sinedrio, loro liberazione e preghiera degli apostoli
(la «piccola Pentecoste»).

265
 At 4,32-35: sommario sulla prima comunità cristiana dove si accenna alla comunione dei
beni.
 At 4,32-5,11: sezione posta all’interno del sommario perché propone due esemplificazioni
della prassi della comunione dei beni – una in positivo (quella di Barnaba), l’altra in
negativo (quella di Anania e Saffira).
 At 5,12-16: sommario.
 At 5,17-42: gli apostoli davanti al Sinedrio con l’intervento di Gamaliele.
At 6,1 introduce una frattura. Nei sommari precedenti si dice sempre che la Chiesa gode di grande
unità; ora, improvvisamente l’autore riferisce il sorgere di un dissenso, un malcontento. La storia di
Stefano fa emergere la frattura tra Ellenisti ed Ebrei e dà origine alla prima persecuzione.
All’interno della Chiesa di Gerusalemme vi erano delle comunità sia di lingua ebraica sia di lingua
greca.
 At 8,4 - 12,25: le prime missioni
 At 8,4-40: la diffusione della parola con Filippo, non l’apostolo ma uno dei sette “diaconi”
(non nel senso che questo termine assumerà successivamente);
 At 9,1-30: ingresso in scena di Saulo, anche se è già accennato nell’episodio di Stefano.
 At 9,31 - 11.18 + 12,1-23: gli atti di Pietro: ministero a Lidda, Ioppe e Cesarea; battesimo
di Cornelio e famiglia. La sezione incastonata in questa (At 11,19-30 + 12,24-25) presenta
l’inizio della chiesa di Antiochia.
 At 13,1 - 15,37: la missione di Barnaba e Paolo
Il primo viaggio missionario di Paolo è in realtà un viaggio che vede Barnaba come capo della
spedizione, cui Paolo è sottoposto.
 At 13,1-3: l’invio dei due da parte della Chiesa di Antiochia di Siria dove appare come sia
tutta la comunità ad essere il soggetto inviante.
 At 15,1-35: sorgere della controversia sulla circoncisione, cui fa seguito il c.d. concilio di
Gerusalemme con i discorsi di Pietro e di Giacomo; così si conclude la missione di
Barnaba e Paolo.
 At 15,36 - 21,14: le missioni di Paolo
Ci sono due sezioni:
 At 15,36 - 18,22: il secondo viaggio missionario di Paolo della durata di un anno e mezzo
(Antiochia di Siria, Galazia, Troade, passaggio in Europa: Filippi, Tessalonica, Berea,
Atene, Corinto);
 At 18,23 - 21,14: il terzo viaggio missionario.
 At 21,15 - 28,31: Paolo in catene
Otto capitoli che più degli altri sono biografici. Tre sezioni:
 At 21,15 - 23,22: fatti che si svolgono a Gerusalemme; apologia di Paolo.
 At 23,23 - 26,32: trasferimento a Cesarea; anche qui Paolo fa un’apologia.
 At 27-28: trasferimento a Roma.

266
La questione della finale. Ad una prima lettura il libro termina in modo brusco sebbene negli anno
Ottanta il martirio di Paolo fosse conosciuto. È un espediente geniale per presentarlo come
annunciatore del vangelo che continua a parlare nel presente alla Chiesa. Il racconto del martirio di
Paolo è presente nell’apocrifo Atti di Paolo.

4. La teologia del libro degli Atti


Pneumatologia. L’intento di Luca è di far vedere la presenza del risorto e «il tempo dello spirito»: la
presenza dello Spirito spinge gli apostoli alla testimonianza. La parola pneuma è riportata ben 72
volte in Atti.
Concetto di popolo. L’uso del concetto di popolo è usato per indicare alcune volte Israele, altre volte
i pagani che accolgono il vangelo.

33. L’apostolo Paolo.


Il corpus paolino: Lettere di Paolo e altre lettere

1. La figura dell’apostolo Paolo


2. Le fonti di informazione
3. La cronologia della vita di Paolo
4. La vita di Paolo (cfr. la vita di Gesù)
4.1. Il nome
4.2. La giovinezza
4.3. La formazione a Gerusalemme
4.4. Paolo era sposato?
4.5. Saulo persecutore dei cristiani
4.6. Paolo cristiano: conversione o vocazione?
4.7. Il missionario-apostolo e i viaggi missionari
4.8. L’epilogo
5. Le lettere
6. Il pensiero di Paolo
Appendice. I viaggi missionari di Paolo
1. La figura dell’apostolo Paolo
La figura di Paolo di Tarso nell’ambito del cristianesimo nascente è una figura unica: dei 27 titoli del
NT ben 13 scritti riportano il nome dell’apostolo. Dagli scritti paolini è da escludere la Lettera agli
Ebrei che pure inizialmente si pensava essere di Paolo.
La personalità di Paolo è estremamente ricca. È missionario, autore di scritti, teologo, martire. Nella
sua esperienza si incontrano e scontrano istanze specifiche: ebreo di nascita, fariseo, consapevole delle
sue tradizioni; vissuto a Tarso di Cilicia (Asia minore), aperto all’influsso della cultura ellenistica;
infine, entusiasta di Gesù, che confessa Cristos e Kyrios, il messia e il Signore morto e risorto per tutti.
Principio ispiratore di tutta la sua attività missionaria e di tutto il suo pensiero (teologico, cristologico,
pneumatologico, ecclesiologico) è l’evento di Damasco: l’incontro con Gesù risorto.

267
Paolo è considerato il primo grande convertito dell’epoca cristiana. Paolo non scrive a caldo, subito
dopo la sua conversione, ma a circa 20 anni di distanza con il superamento di importanti obiezioni
anche da parte giudaica. Nonostante ciò, Paolo conserva la freschezza e l’entusiasmo che ci si aspetta
da un neo-convertito. Ciò che scrive rispecchia da vicino ciò che aveva elaborato nella sua
predicazione nelle comunità che visitava.
Inoltre, nel confronto con le comunità cristiane che visita Paolo recepisce e rielabora in modo proprio
e creativo il dato della tradizione: la ricezione della tradizione è evidente dove Paolo riporta
formulazioni pre-paoline (es. 1Cor 5,3-4 e altri passi pre-paolini).
L’ampia ricchezza storica, teologica e spirituale delle sue lettere ha avuto un influsso enorme nella
storia, es. nella conversione di S. Agostino, nell’avvio della riforma luterana e nella nascita del
movimento protestante, e ancora nell’opera di Karl Barth che con il suo Commento alla Lettera ai
Romani segna il passaggio dal protestantesimo liberale all’acquisizione del significato storico e
salvifico del vangelo di Gesù.
2. Le fonti di informazione
Di nessuna figura biblica si hanno così tanti documenti che ne attestano l’esistenza e il pensiero:
 7 lettere proto-paoline: 1Ts, 1-2Cor, Fil, Fm, Gal, Rm. Sono lettere autentiche scritte di
prima mano dall’apostolo Paolo.
 6 lettere deutero-paoline: Col, Ef, 2Ts; e 1-2Tm e Tt (lettere pastorali). Sono lettere la
cui autenticità è discussa, sebbene non allo stesso modo per tutte: per alcuni sp. Col e un
po’ meno Ef potrebbero essere di Paolo; il consenso è, invece, quasi unanime nel ritenere
che le tre lettere pastorali, pur richiamandosi all’apostolo, sono pseudo-epigrafie di scuola
paolina (attribuzione a Paolo quale personaggio autorevole per sottolineare il rilievo delle
lettere e la perenne presenza dell’autore nella comunità).
 Atti degli apostoli. Il loro valore è da considerare di volta in volta; in ogni caso la loro
importanza è da subordinare alle lettere, specie le proto-paoline.
 Atti apocrifi: Atti di Paolo, Atti di Tecla.
3. La cronologia della vita di Paolo
Nelle lettere di Paolo e negli Atti non figura nessuna preoccupazione cronachistica. Tuttavia, la
menzione di personaggi chiave permette di ricostruire una cronologia abbastanza probabile della vita
dell’apostolo: la menzione di Areta IV, re dei Nabatei (1Cor 11,32-33); l’Editto di Claudio contro i
giudei del 49 d.C. ca. (At 18 - Priscilla e Aquila lasciano Roma a causa dell’Editto e si incontrano a
Corinto con Paolo); l’incontro con Lucio Giulio Gallione, fratello di Seneca, proconsole a Corinto nel
51-52 d.C. (come da iscrizione ritrovata a Delfi); etc.
5/10 d.C. [?] Nascita di Paolo a Tarso.
[30 Morte di Cristo].

32/33 ‘Conversione’. A Damasco e in Arabia (Gal 1,15s; 1Cor 15,8).


35/36 Visita a Gerusalemme e incontro con Pietro (Gal 1,18).
36-48 A Tarso. Ad Antiochia di Siria. Primo viaggio missionario (Gal 1,21; At 9,30;
11,25s; 13-14).
48-49 ‘Concilio’ di Gerusalemme (Gal 2,1s; At 15). “Incidente di Antiochia” (Gal 2,11-
14).

268
50-52 Secondo viaggio missionario (At 16,1ss.). Soggiorno di un anno e mezzo a
Corinto (At 18).
52-55 Terzo viaggio. Soggiorno di due anni e mezzo ad Efeso (At 19-20).
55-56 Soggiorno di tre mesi a Corinto e viaggio a Gerusalemme (At 21-23).
56-58 Prigionia a Cesarea (At 23-26).
58/60 [?] Viaggio da prigioniero verso Roma (At 27).
60-62 [?] Prigionia romana (At 28). Martirio.
[?] indica date incerte a causa dell’assenza di riferimenti attendibili: incerto è l’anno di nascita, che si
può supporre risalire ai primi anni dell’era cristiana (quando scrive a Filemone nel 54-55 d.C. si
definisce presbitero - ca. 50 anni); incerto è anche l’anno della morte.
Ci sono inoltre molti buchi; mancano molti dettagli dell’arco della sua attività pubblica: intercorrono
25 anni tra il martirio di Stefano e il suo arrivo e martirio a Roma.

4. La vita di Paolo (cfr. la vita di Gesù)


4.1. Il nome
Saulo prima dell’adesione a Cristo; Paolo dopo la “conversione” sulla via di Damasco.
4.2. La giovinezza
Nasce e cresce a Tarso di Cilicia, Asia minore (cfr. Atti). Dopo l’incontro con Cefa si rifugia a
Damasco. Eredita la cittadinanza romana, riconoscimento altissimo raramente concesso dai romani a
non nativi cittadini (cfr. Atti; alcuna menzione nelle lettere). Nasce in una famiglia ebraica della
diaspora: conosce il greco e la Scrittura nella traduzione dei LXX. Vive come conciatore di pelli e
costruttore di tende.
4.3. La formazione a Gerusalemme
Paolo si forma alla scuola farisaica di Gamaliele I, il più noto dottore della sua epoca (At 22,3). Qui ha
radici il rabbinismo. Paolo impara la Scrittura e i metodi e le regole esegetiche della tradizione
rabbinica.
4.4. Paolo era sposato?
Era normale per un ebreo tanto più se osservante di seguire le regole giudaiche prendendo così moglie.
Ma da 1Corinzi si evince chiaramente che Paolo non aveva legami coniugali nel momento in cui era a
Corinto: in 1Cor 7 scrive di preferire il celibato, predica il celibato per il regno dei cieli e ne fornisce
le motivazioni (la parousia imminente e la libertà da impedimenti per la predicazione). Ne segue che
Paolo o non si era mai sposato (ma sarebbe stato strano per un rabbino non prendere moglie) oppure
era rimasto vedovo.
4.5. Saulo persecutore dei cristiani
Paolo apparteneva a quel movimento di stampo farisaico che perseguitava la setta gesuana che metteva
in discussione le stesse colonne del giudaismo: il Tempio e la Legge (cfr. il discorso di Stefano, che
dice come quelle istituzioni ormai avessero fatto il loro tempo).
4.6. Paolo cristiano: conversione o vocazione?

269
La svolta sulla strada di Damasco solo in parte presenta le caratteristiche di una conversione: questa,
infatti, è un passaggio o da una religione a un’altra o da una vita libertina e dissoluta a una di rigore
morale. Ora, Paolo rimane un ebreo osservante pur nella fede in Gesù Cristo ed era già «irreprensibile
quanto alla Legge». La sua è allora una svolta esistenziale, un vero cambiamento di mentalità
[metanoia]: al posto della Torah pone ora al centro della sua esistenza la persona di Gesù Cristo.
Paolo non racconta mai della sua conversione sulla via di Damasco: anzi, tende a porsi sempre in
secondo piano (es. 1Cor 15,8). Paolo fa capire che l’iniziativa è stata di Dio che lo ha chiamato a
essere testimone del suo Figlio per pura grazia; sebbene stesse perseguitando la sua Chiesa, Gesù ha
scelto lui che era il meno meritevole incaricandolo di una missione. Dunque, è una vocazione, una
chiamata di origine divina più che una conversione in senso morale (cfr. Ger 1, Is 1). Lo scrive bene in
Fil 3,7-9: Paolo non afferma che il resto sia senza valore, ma che è danno e spazzatura qualora messo a
confronto e in competizione con la luce di Cristo.
Paolo più di tutti gli altri autori del NT insiste sull’irrevocabilità delle promesse di Dio (Rm 9,11): è
proprio alla luce della ricchezza della tradizione del giudaismo che il vangelo di Gesù acquista tutta la
sua centralità. Centrale non è la legge né qualsiasi altra pratica religione; centrale è la persona di Gesù
Cristo che è il fine e il termine della legge [telos nomou: Rm 10,4]. Paolo cambia il suo punto di
appoggio: non le sue pratiche religiose, ma il debito incolmabile per aver ricevuto immeritatamente la
grazia; unica condizione è la fede, l’accoglienza del dono di Dio. Paolo cercherà di colmare questo
debito connesso alla grazia di Cristo e verso la Chiesa con la sua ansia e il suo zelo missionario: «sono
in debito con tutti, dotti e ignoranti, giudei e pagani […]».
4.7. Il missionario-apostolo e i viaggi missionari
Paolo è evangelizzatore, fondatore di comunità, «uomo in corsa» come si definisce lui stesso; ma è
anche vero che in alcune comunità si ferma anche per un tempo consistente. Percorre 15.000 km di
missione, per lo più a piedi e in navigazione! Egli iniziava rivolgendosi agli ebrei della diaspora: di
sabato nella sinagoga legge le Scritture e annuncia Gesù il Messia, sebbene non sempre con successo.
«Tutto purché Cristo sia annunciato!». Ciò che Paolo desidera è che sia annunciato l’agape di Gesù
(2Cor 5,14); l’unico fine per cui rallegrarsi è che Cristo sia annunciato (Fil 1,18). Per questo non
accetta aiuti dalle comunità che visita per sfuggire all’accusa di vivere sulle spalle della comunità
(1Cor 9), tranne a Filippi per via dello speciale legame affettivo con la comunità. Paolo sopporta anche
tante avversità nel suo apostolato: minacce di morte, flagellazioni, lapidazioni, naufragi (1Cor 1,8-9).
4.8. L’epilogo
In Romani Paolo manifesta l’intento di proseguire verso la Spagna, passando prima per Gerusalemme
per consegnare una colletta per i poveri della città e chiedendo preghiera per sfuggire ai nemici lì
presenti. Ma a Gerusalemme Paolo è arrestato, imprigionato a Cesarea e infine, dopo aver fatto
naufragio a Malta, portato a Roma in quanto civis romanus per il processo davanti a Cesare. Secondo
la tesi tradizionale sarebbe stato liberato e solo nella seconda prigionia avrebbe scritto le lettere
pastorali; ma è molto più probabile l’ipotesi della prima e unica prigionia.
5. Le lettere

6. Il pensiero di Paolo
Paolo e Gesù:
1) Prospettiva Giudaica: Dio > Legge > Opera > Giustizia:
2) Prospettiva giudeo-cristiana: Dio > Legge/Cristo > Fede/Opere > Giustizia

270
3) Prospettiva Paolina: Dio > Cristo > Fede > Giustizia > Opere
Queste ultime non sono condizione, ma effetto. Inoltre, il ruolo della legge non è più di giustificazione
in sé, ma è strumento. L’evangelo paolino: Dio è «colui che giustifica l’empio» (Rm 4,5).
L’attualità di Paolo.
Appendice. I viaggi missionari di Paolo

271
272
33. Il corpus giovanneo.
Il Vangelo secondo Giovanni (il Quarto Vangelo)76
1. La letteratura giovannea
2. Quarto Vangelo e Vangeli sinottici
2.1. Diversità rispetto ai Sinottici
2.1.1. Assenza di corrispondenza sinottica
2.1.2. Diversa disposizione degli episodi comuni
2.1.3. Diversa impostazione narrativa
2.1.4. Altre differenze
2.2. Specificità del Quarto Vangelo
2.3. Quale il rapporto tra il Quarto Vangelo e i Sinottici?
3. Tradizione e redazione del Quarto Vangelo
4. La teologia del Quarto Vangelo
4.1. Temi
4.2. Somiglianze e differenze con la teologia paolina
5. Struttura del Quarto Vangelo
6. Scopo e intenti redazionali
7. Ipotesi sull’autore del Quarto Vangelo
7.1. Il «discepolo amato»
7.2. L’apostolo Giovanni
7.3. L’evangelista Giovanni
1. La letteratura giovannea
La letteratura giovannea si considera costituire un corpus comprendente il Quarto Vangelo, le tre
lettere (1-3 Gv) e l’Apocalisse. A differenza della letteratura del corpus lucano e paolino, i legami tra
i tipi testuali giovannei non è così stretto come in Luca e in Paolo: così, mentre tutti concordano nel
ritenere Quarto Vangelo e lettere provengano da una stessa comunità, non tutti lo sono per quanto
concerne l’unità di autore. Ancor più controversa rimane la questione se l’Apocalisse vada inclusa
nella letteratura giovannea oppure no: tradizionalmente la si tende ad includere (SEGALLA, 272).

2. Quarto Vangelo e Vangeli sinottici


2.1. Diversità rispetto ai Sinottici
Rispetto agli altri Vangeli cambia paesaggio e clima, non solo nel materiale ma anche nello stile:
2.1.1. Assenza di corrispondenza sinottica
Cfr. i contenuti in sinossi quadrata. Questo pone la questione di quali fonti avesse Giovanni:
probabilmente aveva in mano i sinottici ma il suo intento era ben diverso, come prova anche la sua
cristologia alta in cui emerge tutta la divinità di Gesù.
Questo è evidente sin dal Prologo (Gv 1,1-18): carattere solenne [en arché o logos]; carattere innico
celebrativo di Cristo visto come il logos sarx egheneto (Gv 1,14). Questo passa soprattutto attraverso
la testimonianza di Giovanni Battista, primo testimone del mistero della pre-esistenza del logos

76
Bibliografia di riferimento: V. MANNUCCI, Giovanni: il Vangelo narrante. Introduzione all’arte narrativa del
Quarto Vangelo, EDB, 1993; M. NICOLACI, La salvezza viene dai giudei. Introduzione al Quarto Vangelo, San
Paolo.

273
rispetto a tutte le cose che sono state fatte per mezzo di lui (co-creatore). In Giovanni si evince sin da
subito l’identità di Gesù Cristo che è Dio; invece, nei Sinottici non c’è mai una presentazione così
esplicita della divinità di Gesù (ma solo indicazioni che vanno implicitamente in quella direzione).
2.1.2. Diversa disposizione degli episodi comuni
Lì dove c’è corrispondenza sinottica, tuttavia, gli episodi sono presentati in maniera diversa:
Il racconto della passione. In Gv ha tutto un simbolismo diverso e tutt’altra impostazione sostanziale:
durante il suo arresto nel Getsemani Gesù dice «Io sono» e chi era andato lì ad arrestarlo
improvvisamente cade a terra dinanzi a questa risposta; questo dice la pienezza di poteri e di sovranità
che Gesù conserva per tutto il racconto, il suo permanere attivo e mai passivo, sicché quello che gli
accade durante la passione avviene perché Egli lo permette.
La cacciata dei venditori nel tempio. Nei Sinottici essa è posta al termine dei vangeli, nell’unico
viaggio di Gesù a Gerusalemme, per cui si presenta come l’ultimo determinante elemento che decreta
la condanna a morte. Al contrario, nel Quarto Vangelo è situata all’inizio (Gv 2,13) subito dopo il
segno di Cana (Gv 2,1): l’opposizione a Gesù, specie delle autorità religiose, non riguarda solo la fine
della sua attività ma è situata già all’inizio, sicché il Quarto Vangelo può essere visto come un grande
processo fatto a Gesù sin da Gv 2.
Il «segno» della moltiplicazione dei pani. È l’unico episodio che è riportato da tutti i vangeli. In Gv 6
l’episodio termina con la predicazione di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sull’accoglienza del Pane
della vita e il confronto con la manna data ai padri nel deserto; poi da Gv 6,51 il discorso diventa
esplicitamente eucaristico, assumendo toni duri al punto che i discepoli iniziano ad allontanarsi fino
alla professione di Pietro «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna». In Gv questo
discorso sostituisce il racconto dell’istituzione presente nei Sinottici.
La guarigione dell’ufficiale regio (fine Gv 4).
2.1.3. Diversa impostazione narrativa
C’è un’«arte narrativa» (MANNUCCI) che, a differenza dei Sinottici, copre tutto il Quarto Vangelo.
Nei Sinottici la vita pubblica è schematizzata: la semplificazione di Mc – l’identificazione di due
luoghi sostanziali, la Galilea e la Giudea, collegati dall’unico viaggio di Gesù verso Gerusalemme per
la Pasqua – è ripresa anche da Mt e Lc.
Al contrario, il Quarto Vangelo menziona tre Pasque con la presenza di Gesù a Gerusalemme, a dire
un arco di attività pubblica della durata di tre anni. Inoltre, la presenza di Gesù a Gerusalemme è
attestata anche per altre feste giudaiche: la festa delle capanne - succot (Gv 7); la festa della
dedicazione del tempio o festa delle luci - hanukkah (che risale alla riconquista maccabaica e alla
riconsacrazione del Tempio, con la costruzione di un nuovo altare e l’accensione di una nuova
lampada il cui olio apparentemente insufficiente bastò per tutti gli otto giorni della festa) (Gv
10,22ss.); un’altra festa non specificata, probabilmente la Pentecoste (Gv 5,1).
2.1.4. Altre differenze
Assenza delle parabole. Nel Quarto Vangelo Gesù non racconta parabole. Semmai si presentano delle
similitudini o metafore allargate: es. «Io sono la vite e voi i tralci» (Gv 15); «se il chicco di grano
caduto in terra […]» (Gv 12,24, poi ripreso in 1Cor 15 per spiegare la risurrezione di Gesù); «Io sono
il bel pastore» (Gv 10); etc.
Assenza del Gesù esorcista. Nel Quarto Vangelo è fortemente presente la figura del diabolos, al
punto da poter vedere non singoli esorcismi ma un unico grande esorcismo.

274
Assenza del tema dei poveri. I sinottici – specie Lc – insistono sul tema dei poveri: es. Lazzaro e il
ricco epulone (Lc 18); l’uso dei beni; la beatitudine «beati i poveri» senza nessun complemento, ad
indicare qualsiasi tipo di indigenza ad iniziare da quella materiale (vs il complemento «to pneumati» di
Mt a dire colui che grazie allo Spirito si riconosce povero e bisognoso davanti a Dio →
spiritualizzazione dell’atteggiamento che si riduce a umiltà). Nel Quarto Vangelo questo tema è
presente a latere nella risposta che Gesù dà a Giuda («i poveri li avete sempre con voi …»)
nell’episodio della donna che versa sui piedi di Gesù l’olio del valore di 300 denari (corrispondente
alla paga di 300 giorni di lavoro).
Identità e missione di Gesù. Nei Sinottici Gesù è l’annunciatore / predicatore del regno di Dio che si
fa vicino all’uomo. Al contrario, nel Quarto Vangelo Gesù annuncia se stesso: «Io sono» ricorre per
tre volte (specie in Gv 8) in modo assoluto senza complemento (così una delle traduzioni di Es 3,14
nella LXX); altrove si trova con complemento: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Di più,
Gesù annuncia se stesso come rivelatore del Padre nella sua stessa persona e manifestazione: cfr. i
discorsi di Gesù nella seconda parte del vangelo.
Assenza dell’appello alla metanoia.
Dunque, c’è una molteplicità e diversità di teologie, cristologie, pneumatologie, ecclesiologie, che è
stata canonizzata dalla Chiesa nascente che non era affatto uniforme: sarebbe un errore di applicare i
detti del Quarto Vangelo per spiegare i Sinottici; occorre, invece, conservare la specificità dei singoli
racconti.
2.2. Specificità del Quarto Vangelo
I temi. Ci sono dei temi su cui il Quarto Vangelo insiste continuamente quasi in modo martellante: il
segno, la fede, la luce, la vita, la verità, il mondo, i giudei. In particolare, il termine e concetto «vita»
ritorna 24 volte a significare come la vita eterna sia la vita divina. Il termine «giudei» al plurale ricorre
ben 70 volte, molto più che nei Sinottici: c’è una netta presa di distanza dal giudaismo, che
rappresenta la controparte. Questo ha influito nei secoli fino a sfociare in disprezzo per gli ebrei e in
aperto antisemitismo. Tuttavia, sempre nel Quarto Vangelo c’è la frase più positiva di tutto il NT sui
giudei: «La salvezza viene dai Giudei» (fine Gv 4). Si tratta come sempre di una critica da leggere in
senso intra-giudaico.
Lo stile del parlare di Gesù. Nei Sinottici Gesù parla per “detti”, accostati in modo redazionale,
senza uno sviluppo preciso e logico dei temi. All’estremo opposto nel Quarto Vangelo ci sono discorsi
compiuti e logici nel loro punto d’inizio e d’arrivo, in cui prevale una certa omogeneità tematica con
inevitabili ripetizioni.
Povertà di vocabolario. Giovanni usa poco più di 1000 vocaboli nei suoi 21 capitoli: una relativa
povertà di vocabolario, se posta a confronto es. con Marco che usa circa 1350 vocaboli in soli 16
capitoli. Ma è un vocabolario speciale, con parole chiave che sono rare nei Sinottici: es. agape-
agapao, aletheia, gignoskein, phos, pater, kosmos, ioudaioi, etc.
2.3. Quale il rapporto tra il Quarto Vangelo e i Sinottici?
Sullo sfondo rimane aperta questa sostanziale domanda. Giovanni ha conosciuto la trasmissione orale
dei detti e dei fatti di Gesù, elaborandoli però secondo il proprio genio e intento (con i confronti
possiamo comprenderlo). Non si può essere sicuri che Giovanni abbia conosciuto i Sinottici e ne
dipenda: a questo fine l’episodio più studiato è il segno della moltiplicazione dei pani, l’unico che è
riportato da tutti i vangeli. La differenza tra i Sinottici e il Quarto Vangelo è una differenza teologica
(Gesù non ha detto queste cose in questo modo, ma ognuno ne ha dato una rielaborazione differente
con un’intenzione teologica ben precisa).

275
3. Tradizione e redazione del Quarto Vangelo
Il Quarto Vangelo presenta una notevole complessità redazionale: es. l’uso di logos in maniera così
incisiva solo nel Prologo, senza più presentarsi in tutto il resto del vangelo; la collocazione strana di
Gv 6 (Gv 5 si chiude con Gesù che si trova a Gerusalemme, mentre senza alcuna mediazione Gv 6
inizia con Gesù in Galilea: per alcuni studiosi è possibile che i due capitoli siano stati invertiti,
disarmonizzando così il testo); la finale di Gv 14 e gli inizi di Gv 15; la non armonizzazione delle due
conclusioni (Gv 20, 30-31 e 21, 24-25) dopo l’introduzione della seconda.
L’originalità del Quarto Vangelo sta nel: (1) Materiale originale; (2) Vocabolario e stile non
coincidenti con il modo di parlare del Gesù storico dei Sinottici; (3) Teologia elaborata attingendo al
materiale gesuano solo in funzione dell’intento teologico perseguito; (4) Sensibilità all’ambiente
culturale giudaico-palestinese e poi greco-ellenista (cfr. FILONE): es. il concetto di logos e l’insistenza
su conoscenza-conoscere (al punto da far parlare di un “vangelo pre-gnostico”: saranno tutti elementi
che la gnosi elaborerà facendo della conoscenza il punto di accesso all’iniziazione).
Tutto questo pone un problema di fonti: quali le fonti usate da Giovanni? Mettendo da parte sia il
Prologo (che è un genere a sé) sia il Capitolo 21 – che probabilmente sono stati aggiunti
successivamente (occorre perciò leggere il Prologo e la finale alla luce del Vangelo e non il contrario)
– si può parlare di una tradizione e redazione avvenuta in tre fasi:
1. Il punto di partenza è uno stadio arcaico palestinese della tradizione evangelica come
testimoniato dall’uso di aramaicismi: Kephas per dire Simon Pietro (presente anche in
Paolo); Messias e Gabbatà [“litostroto”] come traslitterazione in greco dell’ebraico;
paroimia invece di parabole in 10,6; 16,25.29; il semitico sarx che compare in Gv 1,14 ma
anche in 6,51, dove invece i Sinottici nel racconto dell’eucaristica usano soma. Mancano le
parole dell’istituzione, ma è presente il discorso in modalità diverso alla fine del capitolo 6
(nella Sinagoga di Cafarnao).
A questo primo livello il garante della tradizione è un discepolo, «quello che Gesù
amava», presente però da Gv 13 in avanti. Per alcuni una figura che potrebbe indicare
questo discepolo anche nei capitoli precedenti è il discepolo innominato di Giovanni
Battista che con Andrea decide di seguire Gesù.
2. La seconda fase è l’elaborazione teologica del materiale da parte dell’evangelista. Si
tratta di un linguaggio e una teologia molto diversa dai Sinottici: cfr. dualismo luce-
tenebre; vita-verità-mondo; etc. (tutti concetti astratti e storici del tempo).
3. La terza fase corrisponde all’edizione attuale. Al testo tramandato si aggiungono il
Prologo e la seconda conclusione (Gv 21). Alla fine di Gv 21 il «Noi» indica la comunità
che si fa garante della tradizione precedente.

4. La teologia del Quarto Vangelo


4.1. Temi
Il Quarto Vangelo presente una forte concentrazione cristologica: Gesù non predica il «regno di
Dio» (2 sole volte in Gv 3,3.5; cfr. 18,36) ma il proprio mistero. Gesù si presenta come rivelatore delle
cose celesti, specialmente come rivelatore del Padre: Gesù è la verità e porta al mondo la verità, cioè
la rivelazione personificata di Dio.

276
 Lo dicono i titoli cristologici dati dall’evangelista, oltre a logos, unigenito, dio.
 Anche molti simboli sono usati con funzione rivelatrice in auto-rivelazioni: es. vino buono,
acqua viva, pane di vita, luce del mondo, pastore bello, porta, via-verità-vita, etc.; mentre
altre auto-rivelazioni sono esplicite: «Io sono» (Gv 8,24.28.58; 13,19), Messia.
Diversamente dai Sinottici, al lettore è chiesta la fede più che la metanoia: la salvezza è legata
all’accettazione della persona di Gesù e al credere in Lui; (sebbene manchi del tutto il sostantivo
pistis, per 94 volte compare il verbo pisteuein, che per 2/3 delle volte ha per oggetto Gesù, ovvero
credere in Gesù. Egli è il rivelatore celeste).
Tipico è il c.d. “doppio fondo” del vangelo giovanneo (da altri detto “qui pro quo”, atificio
letterario): si tratta di un malinteso con intento teologico sostenuto da un forte simbolismo, strutturato
come una dichiarazione di Gesù che suscita malinteso e che a sua volta è occasione di chiarificazione,
portando così l’interlocutore a un più alto livello di comprensione:77
 L’«ora» (Gv 2): si comprenderà solo nel proseguio della narrazione al momento della
glorificazione di Gesù (che in Gv è già l’essere innalzato sulla croce).
 Il «nascere di nuovo» (Gv 3): il dialogo iniziale tra Gesù e Nicodemo si stempera in un
monologo di Gesù con Nicodemo che scompare nell’ombra quasi a dire la sua
incomprensione.
 L’«acqua viva» (Gv 4): l’incontro con la donna samaritana è Sondergut giovanneo, il che
ha fatto pensare al Quarto Vangelo come avente origine nell’ambiente della comunità
samaritana. Fortissimo è l’elemento simbolico: es. i cinque mariti sono un topos letterario
per dire l’imbarbarimento della Torah (imbarbarimento della popolazione samaritana ma
che osservava la Torah). A differenza di Nicodemo la donna, segno di emarginazione, è
capace di tenere fino in fondo il dialogo con Gesù, facendo domande di senso e cogliendo
la progressione nella rivelazione di Gesù come Messia; questo è il solo caso in cui Gesù si
rivela esplicitamente. La donna diventa così apostola e fautrice della diffusione della fede
ad altri del suo villaggio.
 Altri esempi: il «Pane del cielo» (Gv 6); la «mia carne» (Gv 6,51); «Vedrete il mio
giorno»; il «sonno» dei discepoli; «Tuo fratello risorgerà» (rivivificazione di Lazzaro,
cioè segno di e non propriamente resurrezione dai morti); «Quando sarò innalzato da
terra […]».
4.2. Somiglianze e differenze con la teologia paolina
Sia Giovanni sia Paolo sono teologi della fede, con una forte insistenza sul credere, sebbene in Paolo
ricorra frequentemente il sostantivo pistis quale elemento di giustificazione, mentre in Giovanni – per
il quale Gesù è il compimento della rivelazione storica dai patriarchi e dunque della volontà salvifica
di Dio – il verbo pisteuein.
Inoltre sia per Paolo sia per Giovanni la salvezza mediante la fede in Cristo è per tutti senza
distinzione, sebbene espressa con categorie diverse («giustificazione» in Paolo, «vita eterna» in
Giovanni). Fede = Credere in Gesù  unica condizione

5. Struttura del Quarto Vangelo

77
Cfr. la lista dei fraintendimenti in V. MANNUCCI, Giovanni: il Vangelo narrante. Introduzione all’arte
narrativa del Quarto Vangelo, EDB, 1993.

277
C’è un’enorme varietà di proposte strutturali a seconda dei criteri utilizzati: (1) criterio cronologico-
geografico; (2) criterio liturgico-giudaico - le feste; (3) criterio simbolico o tipologico; (4) criterio
letterale; (5) struttura drammatica; (6) criterio della rivelazione progressiva di Gesù.
Un diffuso consenso porta su questa struttura:
 Gv 1,1-18 - Prologo innico-cristologico
 Gv 1,19 - 12,50 - Parte prima: il libro dei segni e dei discorsi di rivelazione. Gesù si
rivela davanti al mondo: è dominante la dimensione pubblica delle azioni e delle parole di
Gesù; per 16 volte ritorna il termine semeion anziché parlare di miracoli.
Gv 1,19-51. Inizio della rivelazione di Gesù; il Battista e i primi discepoli; Prologo storico-
narrativo.
Gv 2-4. Cana-Gerusalemme (cacciata dei venditori nel tempio)-Samaria-Cana; varie
risposte a Gesù (i discepoli, i giudei, Nicodemo, la samaritana, l’ufficiale regio).
Gv 5-10. Confronto fra Gesù e il giudaismo nelle feste: il sabato (Gv 5); la Pasqua (Gv 6);
la festa delle capanne (Gv 7-9); la festa della dedicazione (Gv 10).
Gv 11-12. Gesù verso l’ora della morte e della glorificazione: rivificazione di Lazzaro (Gv
11); unzione a Betania, ingresso a Gerusalemme, venuta dei greci (Gv 12); valutazione e
riepilogo del ministero di Gesù (Gv 12,37-50).
 Gv 13-20 - Parte seconda: il libro degli addii e della gloria/ora. Ora Gesù si rivela
davanti ai suoi: è dominante il tema del compimento dell’opera e del ritorno al Padre (cfr.
13,1; 14,2.28; 15,26; 16,7.28; 17,5.11; 20,17).
Gv 13-17: ultima cena e discorsi di addio.
Gv 18-19: la signoria di Gesù nella passione.
Gv 20: resurrezione e incontri con i discepoli; prima conclusione (Gv 20,30-31).
 Gv 21 - Epilogo (qualificato come appendice-aggiunta). Pesca miracolosa e mandato a
Pietro; seconda conclusione (Gv 21,24-25).

6. Scopo e intenti redazionali


1. Intenti polemici (impliciti)
a. Contro il Battista e i suoi discepoli
b. Contro i giudei, esponenti del mondo (coloro che non l’hanno accolto)
c. Contro i giudeo-cristiani (si può dedurlo dall’attenzione alle feste giudaiche)
d. Contro il docetismo (contro l’umanità di Gesù  Prologo)
2. Intento positivo (esplicito) espresso in Gv 20,31: «perché crediate […] e abbiate la
vita»
a. Intento principalmente cristologico
b. Intento ecumenico: i samaritani; i greci; iscrizione sulla croce in tre lingue; preghiera
per coloro che crederanno (Gv 17).

278
La finalità che si è proposto l’evangelista è doppia, come esplicitata nella prima conclusione (Gv
20,30-31): la narrazione della rivelazione di Gesù allo scopo che credere che egli è il Cristo,
Figlio di Dio, e credendo, aver vita nel suo nome. La rivelazione di Gesù è presentata però non
come un dogma, ma come un dramma, cui partecipare mediante la fede personale (Gv 12,24-26).

30
Πολλὰ μὲν οὖν καὶ ἄλλα 30 Molti dunque e altri segni fece [NVP] 30 Gesù in presenza dei
σημεῖα ἐποίησεν ὁ Ἰησοῦς Gesù davanti ai discepoli, che non discepoli fece ancora molti altri
ἐνώπιον τῶν μαθητῶν [αὐτοῦ], ἃ sono stati scritti in questo rotolo. segni, che non sono scritti in
οὐκ ἔστιν γεγραμμένα ἐν τῷ 31 questo libro.
Questi [pl.f.] però sono stati
βιβλίῳ τούτῳ· 31
scritti affinché crediate [a] Questi sono stati scritti affinché
31
ταῦτα δὲ γέγραπται ἵνα che Gesù è il Cristo crediate che Gesù è il Cristo, il
πιστεύσητε ὅτι Ἰησοῦς ἐστιν ὁ il Figlio di Dio, [b] Figlio di Dio, e, credendo, abbiate
Χριστὸς ὁ υἱὸς τοῦ θεοῦ, καὶ ἵνα e affinché credendo [a1] la vita nel suo nome.
πιστεύοντες ζωὴν ἔχητε ἐν τῷ abbiate la vita nel suo nome. [b1]
ὀνόματι αὐτοῦ.

In conclusione: Giovanni intende dare un’interpretazione teologica di una vera storia (cfr. i discorsi di
Gesù). Il vangelo di Giovanni è una testimonianza di fede, di una fede ampiamente ripensata,
alla quale è stata data la forma narrativa di un racconto su Gesù (teologia calata sulla trama di
una narrazione).

7. Ipotesi sull’autore del Quarto Vangelo


7.1. Il «discepolo amato»
1. È una figura ideale o una finzione letteraria (ipotesi più radicale);
2. È una persona storica, ma non un discepolo di Gesù;
3. È un personaggio storico fondatore della comunità giovannea: “presbitero Giovanni”?
4. È Giovanni figlio di Zebedeo che sta all’origine della tradizione, distinto dall’Evangelista
che scrisse il vangelo.
5. È Giovanni apostolo, in cui si identifica l’autore e scrittore del Vangelo.
In dettaglio:
1. Il testimone che il gruppo giovanneo assicura garante della tradizione scritta del vangelo
(Gv 21,24);
2. Il discepolo più intimo di Gesù (Gv 13,25; 21,20);
3. Compare vicino a Pietro, in suo aiuto (Gv 13,24-26; 21,7) o in concorrenza con lui (Gv
20,2-10; 21,20-23);
4. Il testimone delle ultime vicende drammatiche di Gesù, a partire dall’ultima cena al
Calvario, alla tomba vuota, fino alle apparizioni del Risorto;
5. Testimone e interprete e anche venerato fondatore della comunità giovannea, cui appartiene
il gruppo che ufficialmente testimonia alla fine del vangelo;
6. Uno dei primi discepoli, per cui si potrebbe identificare con l’anonimo discepolo di
Giovanni Battista che con Andrea incontra per primo Gesù (Gv 1,38-41).

279
7.2. L’apostolo Giovanni
Il «discepolo amato» è l’apostolo Giovanni?
A favore dell’identificazione. La tradizione antica identifica nel «discepolo amato» sia l’apostolo
Giovanni sia l’evangelista Giovanni. Effettivamente l’apostolo Giovanni, come lo conosciamo dalle
altre fonti (Sinottici, Atti degli apostoli e lettere paoline), ha molti punti in comune con il discepolo
amato: (1) fu uno dei tre compagni più intimi di Gesù; (2) fu socio (e poi compagno) di Pietro ancor
prima di diventare discepolo di Gesù (Lc 5,10); (3) fu nominato con Pietro e Giacomo a capo della
comunità di Gerusalemme.
Contro l’identificazione. Contro l’ipotesi tradizionale c’è la considerazione che mai è fatta
l’equivalenza tra discepolo amato e Giovanni: la ragione è che probabilmente non era lui. L’assenza di
specificazione ha soprattutto una funzione teologica ed ecclesiologica: ogni volta che compare il
«discepolo amato» – dalla lavanda dei piedi in avanti – è per impersonare ogni vero discepolo amante
il Signore. Allo stesso modo sotto la croce la madre di Gesù diventa madre di ogni discepolo di Gesù:
affermazione fortissima della maternità spirituale di Maria sulla chiesa, condivisa anche dalla teologia
protestante (cfr. Commento sul Magnificat di Lutero).
7.3. L’evangelista Giovanni
L’identità dell’evangelista Giovanni è implicita: è quell’autore implicito «che testimonia queste
cose e le ha scritte» (Gv 21,24; cfr. 19,35). Riepilogando e restringendo il campo delle ipotesi:
1. Discepolo amato = apostolo Giovanni = autore e redattore finale del vangelo (la tradizione
antica);
2. Discepolo amato = apostolo Giovanni ≠ autore del vangelo;
3. Discepolo amato ≠ apostolo Giovanni ≠ autore del vangelo.

34. Il corpus giovanneo.


L’Apocalisse78
1. Introduzione
2. Il genere letterario
2.1. Excursus sull’apocalittica come genere letterario
2.2. Il proprium dell’apocalittica

78
Bibliografia di riferimento: *E. COTHENET, Il messaggio dell’apocalisse, LDC, Torino 1997; *P. PRIGENT,
L’Apocalisse di S. Giovanni, Borla Roma 1985; *G. BIGUZZI, Apocalisse, Paoline, Milano 2005; E. CORSINI,
Apocalisse di Gesù Cristo secondo Giovanni, SEI, Torino 2002 (ed. riveduta di Apocalisse prima e dopo, Torino
1980); E. LUPIERI, L’apocalisse, Lorenzo Valla, 1999; X.I. PIKAZA, Apocalisse, Borla, Roma 2001 (or. spagn.
1999); A. WIKENHAUSER, L’Apocalisse di Giovanni, BUR, Milano 1983; U. VANNI, Apocalisse. Una assemblea
liturgica interpreta la storia, Queriniana, Brescia 1979. U. Vanni, Apocalisse. Commento, Cittadella 2018.

280
2.3. Elementi comuni tra l’Apocalisse giovannea e la letteratura apocalittica giudaica
2.4. Elementi originali dell’Apocalisse giovannea rispetto alla letteratura apocalittica giudaica
3. L’autore
4. La datazione
5. Il testo
5.1. La struttura
5.2. Lingua e stile
6. Scopo e intenti
7. Interpretazione

1. Introduzione
L’Apocalisse è il libro più complesso e originale di tutta la Bibbia a causa del suo simbolismo. Nella
mentalità comune il significato del termine “apocalisse” è derivato da una certa interpretazione di
questo libro come sinonimo di catastrofe, disastro, distruzione; oppure da un’interpretazione
fondamentalista per cui l’indeterminazione della sua significazione simbolica è strumentalizzata in
modo abusivo per predicare la fine distruttiva del mondo. Ma questo tipo di lettura settaria è non solo
superficiale ma soprattutto fuorviante, perché dettata da precomprensioni di tipo ideologico,
divenendo terreno fertile per il millenarismo, la New Age, etc.
Se il simbolismo apocalittico in alcune parti del libro presenta scene drammatiche di disastri e morte
che potrebbero apparire lontane dai nostri giorni, in realtà molti episodi odierni non sono così lontani
da quel simbolismo che allora trova pieno riscontro nell’attualità.
Non sappiamo se il Quarto Vangelo fosse già stato scritto quando Giovanni scrisse l’Apocalisse.
2. Il genere letterario
Il genere letterario non è comune, non può lasciare indifferenti.
L’Apocalisse è «l’unico libro profetico del Nuovo Testamento» (WIKENHAUSER). Occorre dunque
una partecipazione attiva e impegnata da parte del lettore, che deve disporsi con un atteggiamento di
simpatia per condividere l’esperienza della comunità cristiana cui Giovanni si rivolge. Inoltre,
l’Apocalisse è un libro liturgico, il più marcatamente liturgico di tutto il NT. Da questi elementi ne
segue il carattere ecclesiologico del libro.
Il libro si apre con il termine apokalypsis (Ap 1,1), che in italiano non traduciamo ma solo
traslitteriamo. Il suo senso più profondo è “rivelazione” ad indicare l’azione del togliere ciò che
toglie o nasconde = scoprire, svelare. L’azione è positiva: togliere il velo per mostrare quello che è
nascosto. Dalla prima parola passa nel titolo a designare tutto il libro e così il suo contenuto, sicché
«ogni parola rappresenta un sacramento, un mistero» (SAN GIROLAMO); ogni parola è davvero
rivelazione.
L’Apocalisse è «rivelazione di Gesù Cristo»: sacramento di Gesù Cristo, rivelazione della potenza di
Dio nel Signore risorto fino al compimento finale. C’è, dunque, un aspetto cristologico subito in
apertura. È un libro di consolazione e di speranza: grande professione di fede nella signoria cosmica
di Dio, Signore del creato e della storia (cfr. il congiungimento della Gerusalemme celeste con la città
terrena, simbolo del congiungimento della sposa con il suo sposo).
2.1. Excursus sull’apocalittica come genere letterario
In Israele non c’era un vero e proprio movimento religioso degli apocalittici distinto dagli altri.
Tuttavia, l’Apocalisse eredita il suo linguaggio e i suoi simboli da una consolidata tradizione

281
giudaica di impostazione apocalittica. Essa annovera tanti scritti apocrifi sia dell’AT sia del NT: es.
l’Apocalisse di Baruc, Apocalisse di Esdra, Apocalisse di Abramo, il libro dell’Enoc etiopico, gli
Oracoli sibillini, i testi messianici rinvenuti a Qumran (Apocalisse aramaica, Sulla resurrezione, Testo
aronitico A). Ma è un genere presente anche nei libri canonici dell’AT e del NT: es. il libro di Daniele,
alcuni passi paolini, Mc 13 e paralleli in Lc e Mt (discorso apocalittico pronunciato dallo stesso Gesù).
Dunque, era un tipo di letteratura79 molto conosciuto e comune dal III secolo a.C. fino ai tempi di
Gesù, sicché la comunità – al contrario dell’uomo moderno – era abituata a questo tipo di linguaggio.
2.2. Il proprium dell’apocalittica
Una possibile definizione da molti condivisi del genere letterario “apocalittica” è la seguente: «[…] un
genere di letteratura di rivelazione inquadrata in un contesto narrativo, in cui una rivelazione è
mediata da un essere dell’aldilà ad un destinatario umano, e che rivela una realtà trascendente che
è sia temporale – in quanto ha di mira la salvezza escatologica – sia spaziale – in quanto implica
un altro mondo, soprannaturale» (J.J. COLLINS 1979).
Gli scritti apocalittici rispecchiano lo schema proprio degli scritti di rivelazione: un racconto che fa
da cornice descrive il destinatario, il mediatore e le circostanze del fenomeno della rivelazione.
Caratteristici di questa cornice sono:
1. Il motivo della rivelazione con una ricezione profetica della rivelazione mediante sogni,
visioni, fenomeni uditivi, a volte con la mediazione di un angelo-interprete.
Questa caratteristica è spesso integrata da due altri elementi tematici:
2. Lo scenario dell’uditorio, derivato dai racconti di corte;
3. Lo scenario della “visione di Dio”.
2.3. Elementi comuni tra l’Apocalisse giovannea e la letteratura apocalittica giudaica
1. L’apocalittico non è un predicatore / annunciatore come il profeta, ma uno scrittore
(cfr. Ap 22,18: «questo libro»). Normalmente l’identità dell’apocalittico non è conosciuta:
l’autore si nasconde dietro uno pseudonimo → pseudoepigrafia (comune alle lettere
deutero-paoline e a molti libri dell’AT). Anche Giovanni è uno scrittore e non un oratore.
Ap 1,1-2: “Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose
che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo
servo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che
ha visto”.

2. L’apocalittica parla un linguaggio pieno di enigmi, allegorie, simboli. È un linguaggio


in gran parte simbolico che chiede di essere decifrato: es. la bestia è identificata con un
numero (666). È un linguaggio per iniziati.
3. La rivelazione / il messaggio avviene attraverso la visione piuttosto che con la parola
di Dio.
4. Tipico dell’apocalittica è lo scontro tra il bene e il male. Nell’Apocalisse lo sconto
riguarda i cristiani e i loro persecutori.
5. Di conseguenza, nell’apocalittica c'è una forte impazienza per l’irruzione escatologica
dell’intervento di Dio diretto, in un confronto ultimo tra bene e male, a castigare i malvagi
e a premiare i buoni. Qui si innestano le correnti millenariste fino al medioevo e in alcuni

79
Il termine “apocalittico” è recente: è stato usato a partire dall’Ottocento, specie in Germania, proprio per
identificare la serie di opere apocalittiche sviluppatesi dal III secolo a.C.

282
suoi rivoli fino alle sette dei nostri tempi, che finanche pretendono di stabilire la data della
fine del mondo.
2.4. Elementi originali dell’Apocalisse giovannea rispetto alla letteratura apocalittica giudaica
1. In Apocalisse manca la pseudoepigrafia. L’autore non si nasconde dietro una figura
autorevole del passato ma si presenta con il suo nome: al contrario dei Vangeli l’autore si
auto-presenta come «Giovanni di Patmos» (Gv 1,1).
2. Altro elemento caratteristico è la dimensione profetica che distacca l’opera, almeno
parzialmente, dal filone apocalittico. L’autore si dichiara profeta e lo scritto parla
esplicitamente di profezia.
3. Lo scritto è indirizzato a sette chiese dell’Asia minore (Ap 2-3). A ben vedere tutto il
libro (a parte Ap 1,1-3) si presenta come una lettera: la formula di incipit (Ap 1,4:
mittente, destinatario, saluti) e la formula conclusiva di saluto ricordano il genere letterario
della epistolografia antica. L’autore non propone una riflessione generale sul bene e sul
male nella storia, ma ha una preoccupazione pastorale concreta.
4. L’Apocalisse è uno scritto ad uso liturgico. Il rapporto tra uno che legge e molti che
ascoltano è richiamato sia all’inizio che alla fine, in un contatto diretto con l’assemblea
liturgica. Lo scritto nasce nella liturgia (Ap 1,9 riferisce che durante il suo esilio Giovanni
fu preso dallo spirito «nel giorno del Signore» = domenica) ed è inviato alle chiese per
essere letto, proclamato e interpretato nella liturgia. Giovanni era personaggio noto nella
comunità specie per il suo essere testimone perseguitato.
5. La differenza più importante rispetto all’apocalittica giudaica è l’annuncio che Dio in
Cristo ha già vinto le forze avverse. Il “già” è tipico del discorso cristiano. Per le
apocalissi giudaiche le sofferenze della comunità trovano senso nel fatto che la vittoria è
vicina ma rimandata al futuro; al contrario, l’Apocalisse fa sua la certezza che Dio in Cristo
ha già realizzato la vittoria finale e definitiva: «Babilonia è già caduta» (Ap 14), «il drago è
già stato precipitato» (Ap 12). Attestazione di ciò è la frequenza del verbo nikao
[“vincere”]. Ap 5: L’agnello sgozzato ritto in piedi.
L’interrogativo centrale dell’apocalittica chi è il signore della storia e del mondo? trova risposta
nell’apocalittica cristiana: Dio in Cristo è signore della storia e del mondo. È lo stesso kerigma
primitivo ma espresso con potentissima efficacia in linguaggio simbolico senza usare un
linguaggio astratto come Paolo in 1Cor 13,3-5.

3. L’autore
Il giovannismo dell’Apocalisse. L’Apocalisse è considerata parte della letteratura giovannea, con cui
ci sono punti di contatto. Es. il termine «agnello» è importante sia nel Quarto Vangelo sia poi
nell’Apocalisse; tuttavia, nel primo come amnòs, nella seconda come arnìon; egualmente «acqua della
vita»; etc.
Ma tante le differenze. Alcuni temi comuni – es. Cristo vincitore, perseveranza, etc. – fanno pensare
che i due autori venissero dalla stessa scuola ma non lo stesso autore.
Le varie tesi sull’identità di «Giovanni di Patmos» (Ap 1,1):
1. È l’apostolo Giovanni (PADRI DELLA CHIESA);
2. È Giovanni il presbitero (PAPIA, II secolo);

283
3. È diverso dall’autore del Quarto Vangelo, a sua volta diverso dall’apostolo Giovanni, ma
tutti facenti parte del movimento giovanneo;
4. È uno pseudonimico.

4. La datazione
Due ipotesi rispetto alla data discriminante del 70 d.C. (anno della distruzione di Gerusalemme e
momento di svolta del cristianesimo nascente):
1. Per alcuni prima del 70 d.C.: 67-69 d.C. Questa tesi sarebbe provata dall’uso del numero
“666” per identificare «la bestia» (Ap 13,18): l’ipotesi più probabile, secondo la gematrìa
(tecnica antica che attribuisce un numero ad ogni lettera dell’alfabeto), è che “666” alluda a
Nerone, fautore della prima grande persecuzione organizzata di cui ci riferisce TACITO.
Così, infatti, sommando il valore delle lettere ebraiche che costituiscono il nome di
“NeRON KaeSaR” ([50+200+6+50] + [100+60+200] = 666).
2. Per altri dopo il 70 d.C.: fine I - prima decade II secolo d.C. Prova ne sarebbero i
riferimenti alla «nuova Gerusalemme», «Roma nuova Babilonia».
In ogni caso non oltre questa data, dal momento che già IRENEO (fine I - inizi II secolo
d.C.) testimonia le visioni dell’Apocalisse. Sicuramente non successiva al tempo di Traiano
(117 d.C.).

5. Il testo
5.1. La struttura80
Il libro presenta una struttura minima, basata su varie indicazioni di natura letteraria. Appare come
un’opera unitaria, formata da due parti principali di lunghezza ineguale ma chiaramente definibili o
connesse l’una con l’altra:
 Ap 1,1-3: Prologo
 Ap 1,4 - 3,22 - Prima parte: le sette lettere. Si articola in tre fasi che si susseguono in
crescendo:
Ap 1,4-8: dialogo liturgico iniziale;
Ap 1,9-20: incontro domenicale con Cristo risorto;
Ap 2-3: messaggio di Cristo risorto alle sette chiese.
 Ap 4,1 - 22,5 - Seconda parte: il corpo apocalittico vero e proprio. Ha un’articolazione
letteraria più complessa, che consta di cinque sezioni, di cui le sezioni 2-3-4 (sette sigilli,
sette trombe, tre segni) costituiscono la tesi centrale, a trittico:
Ap 4,1-5: Sezione introduttoria. Si presentano i personaggi, il rotolo, i sette sigilli, il Cristo.
Ap 6,21 - 8,5: Sezione dei sigilli. Si introduce l’elemento settenario: la cifra “sette” è
presente in tutte le parti.
Ap 8,1 - 11,19: Sezione delle sette trombe.

80
Cfr. U. VANNI, Apocalisse. Una assemblea liturgica interpreta la storia, Queriniana, Brescia 1979.

284
Ap 12,1 - 16,21: Sezione del triplice segno (la donna, il drago, gli angeli con le sette
coppe).
Ap 17,1 - 22,5: Sezione conclusiva. Intervento definitivo e irreversibile di Cristo, re dei re,
Signore dei signori, che rovescia le forze del male. Si prepara la scena della Gerusalemme
nuova.
 Ap 22,6-21: Epilogo.
«Le cinque sezioni della seconda parte sono collegate tra loro da uno sviluppo lineare, temporale e
progressivo: si determina così un movimento ascendente che sbocca nella sezione conclusiva. Ma nel
decorso del libro, alcuni elementi sono sottratti, mediante un gioco sottile dei tempi verbali, dall’asse
dello sviluppo temporale, e ruotano liberamente, in avanti e indietro, rispetto allo sviluppo lineare
conferendo così un certo carattere meta-temporale allo scontro delle forze positive e negative nel
senso di un superamento dell’attenzione cronachistica agli eventi e permettendo l’applicazione del
messaggio ad ogni situazione concreta della storia.» (VANNI).
5.2. Lingua e stile
La lingua dell’Apocalisse è un greco molto vicino al semitico, unico in tutto il NT, che delinea
l’identità dell’autore come persona molta colta di radice semitica. Sicuramente questi conosce la LXX
ma traduce quasi sempre direttamente dall’ebraico: riprende intere frasi dell’AT senza alcuna
introduzione a volte con aggiunte che dicono la lettura cristiana di quei passi.
Sono presenti errori grammaticali in greco, ma non per sbadataggine quanto per forzatura del testo
(es. espressioni anomale come «il leone muggisce»): queste anomalie dicono come l’autore si senta
troppo stretto nella formulazione linguistica.
Il vocabolario è dotto e ampio: geografia dei luoghi; conoscenza e predilezione per le pietre preziose
(es. nella descrizione della Gerusalemme nuova).

6. Scopo e intenti
L’Apocalisse è un messaggio di speranza in un tempo di persecuzione. La vittoria di Dio sul male è
già avvenuta con tutta la sua potenza e non è più davanti a noi; inoltre, la vittoria già conseguita si
esplica nel tempo.
L’autore vive la persecuzione in prima persona e rischia la sua vita: il suo messaggio alle «sette
chiese» è dunque che in tutte le difficoltà la comunità deve mantenere intatta la sua fede in Cristo che
ha già vinto la morte!

7. Interpretazione
Criteri ermeneutici fondamentali, da tenere sempre presenti nell’esegesi dell’opera:
1. Contesto: l’assemblea liturgica. L’Apocalisse nasce nel contesto vitale della liturgia e
dell’assemblea liturgica, che si impegna a leggere e comprendere la propria storia alla luce di
Cristo vincitore nella Pasqua di morte e risurrezione. A questo fine l’opera è idealmente
collocata nel «giorno del Signore», giorno in cui l’assemblea incontra il Risorto; inoltre, le
visioni riproducono scene di liturgia celeste (cfr. anche Eb 8,5).
2. Stretta dipendenza dall’AT di cui ne è una rilettura in chiave cristologico-pasquale. Nella
liturgia la comunità cristiana legge la Scrittura ebraica (magari nella traduzione greca della

285
LXX), operando una sorta di lectio divina: comprensione del senso del testo interpretato ora
alla luce dell’esperienza fatta con Cristo e applicato alla propria situazione in cui opera la
salvezza di Cristo.
3. Il simbolismo è lo strumento abituale e principale di comunicazione. Le visioni
apocalittiche si possono definire visioni teologiche della storia e del mondo. L’autore
presenta la sua esperienza di Cristo con un invito ala visione: «io vidi ed ecco ora tu vedi». I
simboli apocalittici hanno come intento la comunicazione di un messaggio essenzialmente
religioso; ma la comunicazione attraverso simboli richiede una forte collaborazione da parte
del lettore per raggiungere il messaggio veicolato dal simbolo. Il simbolo comunica proprio in
quanto simbolo. La comunità liturgica è chiamata in causa per comprendere il senso dei
simboli e leggere la propria situazione e attualizzarla alla luce di quel simbolismo. È
necessario, dunque, che il lettore acceda allo stesso simbolismo pena traviamenti e difficoltà
interpretative:
 Simbolismo cosmico: simboli naturalistici significanti la trascendenza di Dio, ma anche
qualcosa che Dio vuole dire (sconvolgimenti quali «le stelle che cadono», «il sole che si
spegne», «la luna che si tinge di sangue» non sono posti in un tempo preciso, poiché Dio
rimane sovrano sulla natura e attraverso la natura parla all’uomo).
 Simbolismo antropomorfico: simboli significanti il senso dell’uomo e della sua attività
(la terra è il luogo dove l’uomo vive e combatte, la casa, lo sposo, la vita, il lavoro). A
questi simboli l’autore dà un senso nuovo (es. lo stare in piedi rappresenta la
resurrezione, le vesti hanno significato preciso, le città dicono le comunità, la cena,il vino
dice il calice dell’ira).
 Simbolismo cromatico: i colori quasi sempre significano una qualità (14 volte il bianco
indica la risurrezione di Cristo ma esprime anche una qualifica morale; il rosso indica la
radice demoniaca di molti fenomeni storici).
 Simbolismo aritmetico: simbolismo quantitativo e qualitativo (“7” indica pienezza e
totalità, sicché “666” è il massimo dell’incompletezza e dell’imperfezione; “12” la storia
della salvezza; “10” il tempo determinato - dell’uomo; “1000” il tempo illimitato - di
Dio).
 Simbolismo teriomorfo: animali significanti una realtà superiore a quella terrena,
vicina ma non tangibile (es. l’immagine dell’agnello ricorre 28 volte, dovendo sempre
ricordare quanto detto la prima volta; cavallette; cavalli sempre con senso negativo ad
indicare i pagani che hanno i cavalli per fare la guerra; bestia sempre con senso negativo).
Anche in questo caso l’autore attribuisce un senso nuovo (non solo la mitezza, «ira
dell’agnello», «agnello che pascola», etc.). Il simbolo si trova quasi ad ogni parola
(GIROLAMO).
 Struttura continua. Raccolta di elementi simbolici secondo schemi ricorrenti e
progressivi, per cui conoscendo i singoli elementi e aggiungendoli via via l’uno all’altro
si ricostruisce un quadro complessivo (es. il primo sigillo in Ap 6,20).
 Struttura discontinua. Decifrare ciascuna immagine e metterla da parte per andare
oltre verso un’altra immagine (es. nella visione di Ap 5,1-8 (sp. v.6), uno dei testi centrali
dell’Apocalisse, l’agnello è sgozzato, esanime, senza sangue, ma invece che giacere a
terra è ritto in piedi: le sette corna dicono l’onni-potenza; i setti occhi dicono l’onni-
scienza). È un linguaggio potentissimo che, se da una parte esprime il kerigma primitivo,

286
dall’altra rende complicata l’interpretazione per chi non ha una comprensione del
simbolismo apocalittico. 7 corna = agnello onnipotente (pienezza della potenza) 7 occhi =
agnello onniscente (pienezza della conoscenza).
 Ridondanza. Rafforzamento per esagerazione di una idea già espressa, per inculcare a
coloro che ascoltano (es. ripetizione continua del numero 12 nella descrizione della città
santa o del numero 7 in Ap 1).
4. Nell’intento dell’autore spicca un forte interesse per la storia dell’umanità. In alcuni
sistemi interpretativi il libro dell’Apocalisse:
a. È una profezia sulla storia futura della chiesa e del mondo: qui ha origine il millenarismo
(es. Gioacchino da Fiore nel XIII secolo);
b. Annuncia la fine del mondo;
c. Valuta la storia contemporanea e dunque è un testo che continuamente riferisce a
qualsiasi epoca storica;
d. Riflette sul senso complessivo della storia della salvezza: interpretazione adeguata che
riflette ed è legata all’ambiente liturgico.
e. Messaggio di speranza.
 Dio in Gesù Cristo è il Signore della storia.

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