LA SALVEZZA
VIENE DAI GIUDEI
Introduzione agli Scritti giovannei
e alle Lettere Cattoliche
SAN PAOLO
© ED IZIONI SAN PAOLO s.r.L, 2014
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
ISBN 978-88-215-9256-0
A i miei studenti del V anno istituzionale
della Facoltà teologica di Sicilia
«San Giovanni evangelista»
PREM ESSA
2 Se non segnalato altrimenti, la traduzione dei testi biblici citati estesamente è mia.
I manoscritti di Qumran saranno citati secondo l’edizione di F.G. Martinez (a cura
di), Testi di Qumran, Paideia, Brescia 2003 con traduzione italiana dai testi originali e
note di Corrado Mattone. Nei riferimenti bibliografici delle note si troverà solo il
cognome dell’autore citato (con eventuale numero di pagina del testo); nel caso di più
testi del medesimo autore, anche il rimando al titolo del testo utilizzato. La citazione
integrale dei testi si troverà nella bibliografia raccolta al termine di ogni capitolo,
mentre quella dei testi già citati in un capitolo si ometterà nella bibliografia dei capi
toli successivi. Si troveranno citati per esteso nelle note, invece che nella bibliografia
dei capitoli, solo i testi non direttamente afferenti al campo d’indagine e richiamati
una sola volta.
PRIMA PARTE
IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PEN TA TEU CO » GIOVANNEO
Cfr. Simoens, 6.
done la paternità letteraria a una personalità all’apparenza uni
ca di nome «Giovanni», poi soprannominato «il teologo»2 e
identificato come «apostolo» ed «evangelista».
Di questi scritti, però, l’unico che reca effettivamente il no
me di Giovanni come nomen auctoris è il libro dell’Apocalisse
(Ap 1,1.4.9; 22,8) che tanto ai lettori antichi quanto, soprattut
to, ai commentatori moderni, è apparso spesso il meno giovan
neo tra i cinque. Già Dionigi di Alessandria (III secolo d.C.),
il cui giudizio è riportato da Eusebio di Cesarea {Storia della
chiesa 7,25), sosteneva che l’Apocalisse fosse stata scritta cer
tamente da un Giovanni, un uomo santo e ispirato, ma che
questi non poteva essere identificato con lo stesso Giovanni
autore del Vangelo e della Prima lettera. Ugualmente, oggi,
sempre più studiosi sembrano ritenere insuperabili le differen
ze tra Vangelo/Lettere da una parte e Apocalisse dall’altra;
sempre più frequentemente, quando si parla del corpus giovan
neo, ci si riferisce ormai soltanto a Vangelo e Lettere. La rela
zione storica, letteraria e teologica tra gli scritti attribuiti a
«Giovanni», come l’identità del loro autore (o autori), resta
dunque argomento dibattuto e costituisce il nodo centrale del
la cosiddetta «questione giovannea». I diversi tentativi di solu
zione di quest’ultima dovrebbero chiarire come e perché i
cinque scritti attribuiti a Giovanni, pur diversi nel genere let
terario, nei contenuti, negli obiettivi specifici e nelle strategie
comunicative, manifestino tra loro somiglianze talmente forti,
una parentela così stretta da renderli un microcosmo autono
mo, ben identificabile (e tradizionalmente identificato) nel
Nuovo Testamento.
4 CULPEPPER, 23.
La connessione interna e originaria tra i cinque Scritti gio-
vannei appare ancora più forte, poi, se alla stretta parentela
contenutistica si aggiunge la coerenza sul piano formale ovve
ro la coscienza ecclesiale da cui originano e che li identifica sul
più ampio sfondo degli scritti del Nuovo Testamento. L’unità
originaria del corpus sembra stare proprio nel «noi» ecclesiale
che emerge risolutamente in Vangelo e Lettere (Gv 21,24; lG v
2,19; 3,14; 4,6; 5,19; 2Gv 2; 3Gv 8) e si esprime anche come
«noi» liturgico (Gv 1,14.16; Ap 1,5-6), un «noi» presupposto
dal dialogo «io-voi» del veggente dell’Apocalisse, «fratello e
compagno» dei suoi destinatari nella tribolazione fedelmente
sostenuta per il regno (Ap 1,9; 6,11; 12,10; 19,10; 22,9). Dalla
consapevolezza di questo «noi» ecclesiale, prima che dall’«io»
autoriale che presiede alla stesura dei singoli testi, gli Scritti
giovannei promanano come testimonianza originale, specifica
e unitaria del compimento delle attese e delle Scritture di Israe
le. Caratterizzati, tutti e ciascuno, da una consapevolezza spic
cata ed esplicita del gesto autoriale e del suo significato teolo
gico nell’economia della rivelazione biblica,5 essi si presentano
complessivamente come vera e propria «Scrittura del compi
mento messianico e del dono escatologico dello Spirito».6
La coappartenenza originaria di questi scritti rimane, dun
que, a mio avviso l’ipotesi che meglio spiega la familiarità che
in essi si respira.
5 Cfr. il modo in cui si insiste sul lessico della scrittura («scrivere», grdpho, «libro»,
btblion: Gv 19,19-22; 20,30-31; 21,24-25; lG v 1,4; Ap 1,10-11.19; 2,1.8.12.18; 3,1.7.14;
14,13; 19,9; 21,5) e le formule che chiudono il libro dell’Apocalisse dando ad esso
l’autorità dei libri sacri (Dt 4,2; 13,1 ; 29,19 e Ap 22,18-19; Dn 12,4 e Ap 22,6-10).
6 Così, riguardo al Quarto Vangelo, si esprime VlGNOLO, 131, nota 41. Si vedano
anche le osservazioni di HENGEL, 258 e 302 sul Vangelo e l’Apocalisse come «sacra
scrittura» nell’ambiente giovanneo. Qualche rilievo significativo, pur se limitato
all’Apocalisse, si trova anche in Pérez Màrquez, 358-371.
Data la somiglianza non solo nella fondamentale terminolo
gia teologica ma anche nella visione del mondo, non c’è da
meravigliarsi che nella chiesa antica tanto le Lettere (special-
mente 1 Giovanni) quanto l’Apocalisse siano state poste in
stretta relazione con il Quarto Vangelo e attribuite a un unico
autore, l’apostolo Giovanni. Sia i dati interni ai testi che le
stesse testimonianze patristiche, tuttavia, dimostrano la pro
blematicità di tale attribuzione.
10 Tale identificazione sembra essere stata fatta per la prima volta in Egitto non
prima della metà del secolo circa (cfr. BAUCKHAM, 68-69).
Frammento muratorianó). Si è parlato, dunque, di «cerchia
giovannea» in prospettiva storico-religiosa e, dal punto di vista
sociologico e dottrinale, di «scuola» e di «comunità» giovannea
o di «giovannismo». Senza temere anacronismi e includendo
l’Apocalisse tra le testimonianze scritte caratterizzanti e carat
teristiche dell’ambiente giovanneo, penso si possa parlare le
gittimamente di «chiese giovannee».11 Al corpus giovanneo,
infatti, corrisponde non una setta, una scuola filosofìco-religio-
sa, un processo di iniziazione discepolare o una ecclesiola in
ecclesia, ma una complessa esperienza di «chiesa» (cfr. 3Gv
6.9.10; Ap 1,4.11.20; 22,16 e passim nel settenario delle lettere
in Ap 2-3) vissuta da uomini e donne che condivisero la pro
fessione di fede in G esù di Nazaret secondo una peculiare
tradizione di «testimonianza» a suo riguardo, esprimendo nel
la liturgia la propria fede e la propria visione della storia e del
suo compimento escatologico, costituendo una rete di comu
nità domestiche in comunicazione tra loro la cui evoluzione
storica fu segnata tanto da coesione e resistenza quanto da
dinamiche di conflitto e lacerazione ad intra e ad extra.
PENNA, 207-223.
zioni liturgiche giudaici della Palestina prima del 70; il ricorso
costante alle Scritture e la conoscenza implicita delle tradizio
ni interpretative e teologiche della letteratura giudaica perite
stamentaria; il conflitto identitario intra-giudaico che traspare
dal Vangelo (Gv 8,21-59) e dall’Apocalisse (Ap 2,9; 3,9); lo
sfondo profetico-apocalittico della teologia, delle categorie e
dell’interpretazione della storia salvifica in Vangelo, Lettere e
Apocalisse: tutto questo spinge a ritenere come indiscutibile
l’origine giudaica, palestinese (e probabilmente gerosolimitana)
della tradizione giovannea e la permanenza in essa, anche nelle
diverse fasi del suo sviluppo, di un punto di vista tipicamente
giudaico sulla rivelazione salvifica e sul suo compimento cri
stologico. E in rapporto al giudaismo che la testimonianza gio
vannea «si definisce essenzialmente».12 La missione ai pagani,
del resto, non sembra messa esplicitamente a tema negli Scrit
ti giovannei, anche se, in più modi, essi attestano l’apertura
prospettica ai non giudei (Gv 4,1-42; 12,20-36) e il significato
universale della persona di Gesù, «salvatore del mondo» (Gv
4,42; lG v 4,14; Ap 7,10) e mediatore radicale e ultimo della
sovranità regale di Dio creatore e salvatore (Gv 1,3.10; Ap 1,17;
2,8; 11,15; 22,13). L’affermazione convinta del suo ruolo uni
versale da parte dei credenti “giovannei” non ha come sua
condizione il superamento dell’appartenenza giudaica ma la
pretesa estrema e radicale sulla stessa (Gv 4,9.22; 18,35; 19,16-
22; Ap 2,9; 3,9). L’universalismo giovanneo, in altri termini,
non prescinde dall’identità giudaica di Gesù e dei credenti in
lui, sempre e comunque rivendicata. Il ruolo salvifico di Gesù
Cristo nei confronti del «m ondo» o, per dirla nei termini di
Apocalisse, di ogni «tribù, lingua, popolo e nazione», resta
proclamato proprio a partire da un punto di vista giudaico.
Gli Scritti giovannei, dunque, si possono considerare l’atte
stazione letteraria di una delle tradizioni teologiche e cristolo
12 Ivi, 209-210.
giche più giudaiche del Nuovo Testamento (forse, anche, la più
giudaica). La polemica apparentemente anti-giudaica che in
essi emerge si comprende bene sullo sfondo delle polemiche
identitarie interne al giudaismo del I secolo. Non è la prova di
una rinuncia all’identità giudaica, ma la conseguenza di una
rivendicazione radicale della stessa; attestazione drammatica
di una disputa intra-familiare «nella quale i partecipanti sono
uno di fronte all’altro nella stanza di una casa che tutti hanno
condiviso e tutti chiamano casa propria».13 Anche nelle Lette
re il punto di vista rappresentato dall’autore resta un punto di
vista tipicamente giudaico e apocalittico e il fatto che, nell’ar
gomentazione che esse portano avanti, non compaia più alcun
riferimento esplicito e polemico a «i Giudei»,14 potrebbe im
plicare non un radicale mutamento di contesto (da giudaico a
pagano) ma una situazione di discorso omogenea perché an
cora del tutto intra-giudaica.15
18 Sull’aporia letteraria più difficile, quella posta da Gv 14,31, cfr. GlURlSATO, 424.
439-442.477-490.
19 RIGATO, per esempio, pensa a Giovanni il presbitero come all’unico autore di
tutti e cinque gli Scritti giovannei.
come delle sue apparenti aporie, ha preso piede un’altra ipo
tesi interpretativa del processo redazionale del Quarto Vange
lo, quella basata sul rapporto tra memoria e rilettura che con
sentirebbe di spiegare la genesi della letteratura giovannea a
partire da un processo di «rilettura» delle tradizioni operata
nell’ambiente ecclesiale giovanneo. Facendo tesoro di più di
un secolo di analisi letteraria e di metodo diacronico, i soste
nitori della teoria della relecture hanno provato a ripensarne
gli esiti attraverso categorie e strumenti concettuali propri del
la critica letteraria, della retorica, della teoria della letteratura
e della narratologia contemporanee, così da poter rendere con
to simultaneamente della profonda unità di stile e di pensiero
teologico emergenti da Vangelo e Lettere e delle non meno
problematiche differenze nel lessico e nella prospettiva teolo
gica (nel rapporto tra Vangelo e Lettere) o aporie (nel Vangelo,
in particolare, quella rappresentata dai discorsi di addio che
continuano dopo l’apparente conclusione di 14,31 e quella
rappresentata dal c. 21 che prolunga i racconti pasquali nono
stante l’apparente conclusione di 20,30-31).
Ciò che consentirebbe di superare il conflitto tra i metodi
sarebbe il ricorso al concetto della ipertestualità (ogni relazio
ne che unisce un testo secondario, o ipertesto, a un testo pre
cedente, o ipotesto, che esso intende recepire e rielaborare) e
del paratesto (insieme di enunciati o sequenze che presentano,
inquadrano, interrompono o sigillano un testo previo, condi
zionandone la lettura e articolando su di esso un gesto di rilet
tura). Inteso come frutto di un processo di rilettura, un testo
che ha raggiunto plausibilmente la sua forma finale al termine
di una complessa storia redazionale può essere perfettamente
valorizzato, con tutte le sue aporie, come testo coerente, pie
namente funzionante al livello strutturale e carico di intenzio
nalità comunicativa: ciò che sul piano diacronico è secondario
(un testo successivo a un altro) non lo è però sul piano narra
tivo ed ermeneutico esprimendo, in rapporto a ciò che lo pre
cede, non correzione o presa di distanza, ma ricezione, appro
fondimento, esplicitazione, nuova accentuazione tematica e
reinterpretazione; tutti gesti, questi, che significano e produ
cono nel testo una unità concettuale sostanziale anche se dina
mica e articolata. Il c. 21 del Quarto Vangelo, per esempio,
sarebbe il segno più evidente della rilettura in chiave ecclesio
logica delle tradizioni giovannee con un probabile recupero
anche di quelle sinottiche.20 Se il prologo traghetta il lettore nel
mondo del racconto, l’epilogo trasferisce questo racconto (e il
lettore ideale da esso plasmato) nella vita della chiesa.21
La coerenza narrativa e teologica del Vangelo, come la sua
strettissima parentela con le Lettere, si dovrebbe, dunque, non
all’unità del suo autore ma all’unità dell’ambiente ecclesiale da
cui esso promana. Osservare il processo di rilettura e di conti
nua reinterpretazione delle tradizioni e della memoria, ci por
rebbe proprio davanti all’atto della riflessione teologica vissu
to in seno alla comunità giovannea, frutto e segno di una vo
lontà di sempre maggiore comprensione.
3. Conclusione
26 Cfr. P esce,180.
guida la proclamazione giovannea e che ben si esprime in Gv
20,30-31, non la cristologia alta ma la cristologia capace di
salvezza era l’obiettivo della persuasione di fede del lettore.
Nella storia della comunità giovannea, in fondo, la questione
in gioco era «come la salvezza potesse essere raggiunta».27 Oc
correrà, allora, ripensare la polemica intra- ed extra-ecclesiale
nell’ambiente giovanneo su un asse anzitutto di tipo soterio-
logico e solo in relazione a questo da un punto di vista
dottrinale.
Bibliografìa
1. Questioni storico-letterarie
7 Nel linguaggio della narratologia, la storia raccontata (la story, la fabula) non è la
storia accaduta, l’insieme dei «fatti» così come sono successi e si potrebbero crona
chisticamente elencare (la history), ma là loro ricostruzione narrativa in un determi
nato ordine logico e cronologico. Tale ricostruzione, poi, può essere realizzata in
modi diversi, a seconda della costruzione del racconto (l’intreccio) operata da un
concreto narratore: la costruzione del racconto, dunque, «è la forma conferita al rac
conto dal narratore, il che implica da parte sua la scelta di una struttura, uno stile, una
disposizione» (Marguerat- B ourquin, 27).
8 Ivi.
9 Se fino a un decennio fa si tendeva a leggere nel Vangelo una rigida contrappo
sizione tra un «fronte della fede» e un «fronte della incredulità», ciascuno dei quali
rappresentato in modo cristallino e antitetico dall’uno o dall’altro personaggio, è me
rito della ricerca più recente l’aver mostrato quanto tale contrapposizione sia un frain
tendimento del testo e come, al contrario, i personaggi giovannei siano estremamente
plastici e complessi o, spesso, anche ambigui: cfr. HYLEN.
il cui ruolo è decisivo nella trama del Vangelo. In primo piano
appaiono anche singoli personaggi di cui non si fa menzione
alcuna nei sinottici (la donna di Samaria, Nicodemo, Natanaele,
il cieco nato, il discepolo amato) e in alam i casi la loro storia
personale attraversa in parte o in foto, come uno sfondo pron
to a diventare figura, lo sviluppo del racconto stesso intreccian
dosi intimamente con la storia di Gesù.10 Personaggi che nei
sinottici hanno un ruolo importante, come i Dodici, in G io
vanni compaiono come attori del racconto solo una volta (cfr.
6,67-71), mentre singoli discepoli come Andrea, Filippo, Tom
maso, che nei sinottici vengono solo elencati o quasi, emergo
no, sullo sfondo del più ampio gruppo di «discepoli», come
interlocutori particolarmente significativi di Gesù.
15 H engel , 182.
spiegherebbero l’intento del quarto evangelista (condurre i
lettori alla retta fede cristologica e farli permanere saldamen
te in essa), la sua prospettiva specifica sul ministero di Gesù
- concentrato, non a caso, su Gerusalemme, sul tempio, sulle
feste e sui simboli più importanti del giudaismo del I secolo
-, la diversità delle sue tradizioni e la forma drammatica e
conflittuale del racconto evangelico che le assume e le trasfor
ma conferendo al linguaggio, ai modi e alle strategie del Gesù
giovanneo uno spessore cristologico e teologico così diretto e
trasparente da renderli difficilmente componibili con quelli
del Gesù sinottico.
C ’è una parte importante di verità in questa spiegazione
storico-letteraria della differenza giovannea, come si è visto
affrontando la questione dell’origine dell’intero corpus, ma è
solo una parte che non si può far diventare la totalità. Dal testo
stesso del Vangelo, del resto, la storia della comunità giovannea
non può che essere inferita a rischio di non poca arbitrarietà
e, spesso, a detrimento della valorizzazione piena e attenta del
la storia raccontata nel Vangelo, i cui protagonisti principali
non sono i credenti giovannei alle prese con i loro oppositori
teologici, ma Gesù e i suoi contemporanei.16Il narratore stesso,
che presenta il suo racconto anzitutto come un «libro dei se
gni» compiuti da Gesù «davanti agli occhi dei suoi discepoli»
(20,30; cfr. Dt 6,22), avanza da parte sua una pretesa autoriale
che merita di essere presa in considerazione quando si cerca
un’adeguata comprensione della differenza giovannea e che
consiste nella riconduzione ultima delle cose raccontate alla
testimonianza oculare di un protagonista degli eventi stessi
(21,24). Una simile pretesa non ha pari nei sinottici e si può
ritenere sensatamente che la differenza nella pretesa autoriale
costituisca la differenza per eccellenza, quella che spiega tutte
le altre differenze giovannee. Sia che si intenda il discepolo
17È la tesi, diffusamente argomentata, di B auckham, 12-31, che parla del Quarto
Vangelo come di «qualcosa di completamente diverso» e giustifica tale diversità a
partire dalla identità del suo autore.
scepolare e alla storia dei giudei credenti in Gesù che l’hanno
convissuta e condivisa, di aver saputo riconoscere e proclama
re con tanta limpidezza ciò che è in gioco nella vicenda di
Gesù di Nazaret: ne va di Dio che si è donato al mondo, della
Gloria del suo essere e, dunque, del suo modo di rivelarsi al
mondo (1,1-18; 3,16-21.31-36; 4,42; 12,44-50; 17,20-23); ne
va del concreto e particolare uomo storico Gesù di Nazaret e
del suo destino di passione, sofferenza e morte, valutato, con
estremo realismo, anche in rapporto alle inevitabili e ambigue
implicazioni sociali e politiche della sua pretesa identitaria e
del suo ministero (,14-15; 7,2-10; 11,47-53; 12,42-43; 18,19-21;
19,12); ne va degli uomini e della loro storia, individuale e
comunitaria.18
Alcune delle strategie retoriche dell’evangelista ripetutamen
te sottolineate dagli esegeti, come l’ironia e il fraintendimento
che i personaggi del racconto esprimono nei loro dialoghi o il
narratore nei suoi commenti,19 si spiegano bene in questa luce:
sostenere l’enigmatico e provocatorio linguaggio di Gesù sen
za sfuggirlo, esporsi alle sue pretese senza credere di poterle
risolvere frettolosamente o ridurre con sarcasmo (2,20; 4,12;
8,57), stare nel suo linguaggio così da poterlo comprendere
fino in fondo (8,31-32.43), è dal punto di vista del narratore
assolutamente vitale per i destinatari del suo messaggio, siano
essi gli interlocutori storici di Gesù come il narratore li disegna
sulla scena (3,10; 8,21-30; 16,29-32), siano essi i contemporanei
dell’evangelista e i futuri, potenziali, uditori del suo messaggio.
L’ironia del narratore, a volte tragica, si comprende bene su
questo sfondo: non significa il disprezzo per interlocutori strut
turalmente incapaci di comprendere il linguaggio di Gesù, ma
la sofferenza drammatica che il rifiuto di lui comporta per co
loro che vi sono coinvolti (5,31-35.43; 15,18-16,4a). Dalla chiu-
21 Solo per fare un esempio, nel caso di uno dei pochi racconti comuni alla tradi
zione sinottica e a quella giovannea, quello della guarigione del «figlio» (Gv) / «servo»
(Mt/Lc) di un funzionario regio di Cafarnao (Gv 4,46-54 / / Mt 8,5-13 e Le 7,1-10), la
tradizione giovannea, che parla non di un centurione pagano ma di un funzionario di
si tratta di pronunciarsi sulla sua costruzione del racconto, ar
restarsi è quasi un obbligo: Giovanni «il teologo» può difficil
mente essere utilizzato come fonte nella ricerca del Gesù sto
rico e la «tirannia del Gesù sinottico» sembra difficile da su
perare.22 Il G esù degli storici sem bra costretto a restare
insuperabilmente «de-giovannizzato» e il Gesù giovanneo «de-
storicizzato», a non poco detrimento della stessa ricerca stori
ca che, più che mai concorde oggi nell’affermare il carattere
profondamente giudaico dell’insegnamento e delle pratiche di
vita di Gesù, potrebbe guadagnare molto dall’assunzione del
punto di vista giudaico del quarto evangelista, almeno in ter
mini euristici.23
Lo stesso narratore, tuttavia, fornisce due criteri che posso
no fare da guida alla lettura anche sotto questo aspetto. Tanto
al livello formale quanto al livello contenutistico, infatti, egli
mostra una chiara consapevolezza del senso e delle modalità
del proprio racconto: da un lato, perché teorizza esplicitamen
te, attraverso la categoria della memoria, il rapporto tra passa
to e presente soggiacente ad esso (2,22; 12,16); dall’altro perché
ne dichiara esplicitamente contenuto e scopo (20,30-31).
Erode Antipa (un basilikós) e, dunque, possibilmente di un giudeo, sembra più antica
e storicamente attendibile della stessa fonte (Q) da cui sembra attinto il racconto si
nottico.
22 B rown, Giovanni, LIV. Della «tirannia del Gesù sinottico» che «dovrebbe esse
re gettata nel cestino dei postbultmaniani» parla enfaticamente J.P. Meier, Un ebreo
marginale. Ripensare il Gesù storico, voi. 1, Queriniana, Brescia 32006,52.
23 Cfr. Anderson - J ust - T hatcher (edd.), voi. 1,75-132.
perde occasione per sottolineare l’ignoranza dei suoi contem
poranei: non solo gli outsiders o antagonisti, i personaggi non
Intimi a Gesù (3,10; 8,27.43; 10,6), ma anche i suoi discepoli,
nessuno escluso, nonostante la conoscenza che possono vanta
re risultano spiazzati dal maestro (4,27.31-33; 6,68-71; 11,12-
1ì; 13,6-7.27-29; 16,29-32) e devono ammettere ad alta voce
tli non capire: «Che significa ciò che ci dice...?» (16,17-18). E
proprio in riferimento alla loro difficoltà di comprensione che
li narratore arriva a teorizzare la differenza tra due tempi nella
relazione discepoli-Gesù esplicitandola in due scene partico
larmente importanti del ministero pubblico. All’inizio, ricor
dando la parola di Gesù sulla distruzione e ricostruzione del
tempio (2,19-21); alla fine, in occasione dell’ultima venuta a
( lerusalemme per la terza pasqua (12,12-19): «Queste cose non
le capirono i suoi discepoli al principio (tò proton), ma quando
Gesù fu glorificato si ricordarono che queste cose erano scrit
te su di lui e queste gli avevano fatto» (12,16). In entrambi i
casi il narratore si esprime come voce fuori campo che, a po
steriori, guarda agli eventi passati per spiegarne il senso con
una comprensione che allora, nel momento in cui essi si erano
«volti, non era stata possibile. Egli distingue, perciò, un «pri
ma» e un «dopo che Gesù fu risuscitato» o «glorificato»: il
«prima» è il tempo passato degli eventi - gesti o parole - vis
suti da Gesù e dai suoi discepoli con lui fino alla pasqua; il
«dopo» è il tempo successivo agli eventi di passione, morte e
risurrezione complessivamente intesi. Se al «prima» corrispon
de il fraintendimento (2,20) e la non comprensione (12,16), al
«dopo» corrisponde la comprensione del senso delle parole
pronunciate nel passato («egli diceva», cioè «intendeva dire»)
e delle «cose fatte a» Gesù. In entrambi i casi, la comprensio
ne di eventi e parole non è espressa attraverso il verbo che
esprime conoscenza (gignóskd) ma attraverso il verbo «ricor
dare» (mimnéskò) e in entrambi i casi il processo della memo
ria, entro il quale si realizza la comprensione piena degli even-
li, include in qualche modo il confronto con la Scrittura che
risulta essere la grammatica necessaria per articolare la com
prensione stessa.24
La categoria della memoria, esplicitamente collegata nei di
scorsi della cena al protagonismo attivo dello Spirito (14,26),
viene dunque offerta come chiave di accesso alla costruzione
del racconto giovanneo. La memoria non crea o inventa paro
le e gesti del passato ma esprime un ritorno su di essi per atte
stare una differenza fondamentale tra due tempi: quello del
rapporto tra i discepoli e Gesù prima della pasqua e quello del
rapporto dei discepoli con Gesù dopo la pasqua; al primo cor
risponde ima dimensione di sospensione o non comprensione
di quello che, pure, è stato udito ed è accaduto sotto gli occhi;
al secondo, invece, corrisponde un processo di recupero del
passato pieno di comprensione e di senso e intriso di rimandi
alla Scrittura. Nella costruzione giovannea del racconto, resta
così salvaguardato tanto il passato di Gesù, con tutta la poli
valenza e l’enigmaticità dei suoi gesti e parole, quanto la pie
nezza di senso scaturita dagli eventi pasquali che, senza violare
la storia con i suoi tempi, ne fa però emergere in filigrana lo
spessore e la portata.
25 B r o w n , Giovanni, LIV.
26 II Quarto Vangelo spicca, rispetto ai sinottici, per lo spazio e il valore ermeneu
tico del lessico testimoniale: il verbo martyréd, che nei sinottici compare solo due
volte (Mt 23,31; Le 4,22), in Giovanni compare 33 volte; il sostantivo martyria, che
nei sinottici compare quattro volte (tre in Marco e una in Luca), in Giovanni compa
re quattordici volte. Per l’elaborazione del dato, cfr. VlGNOLO, «La dottrina»; LINCOLN,
«The Beloved Disciple».
mente solo al primo livello o dimensione, perché il lessico
della testimonianza appartiene alla più ampia metafora giuri-
dico-processuale che pervade l’intero Vangelo e che vede nel
la missione e nella storia di Gesù la testimonianza-processo tra
Dio e mondo.
L’insistenza sul significato profondo degli eventi, che è ciò
su cui il testimone si compromette e si impegna, non potrebbe,
però, implicare la rinuncia al significante ovvero la pretesa re
ferenziale di chi crede e invita alla fede. Senza ciò cui viene
riconosciuta la dignità di segno, non potrebbe darsi nemmeno
un significato: «gli avvenimenti hanno bisogno di essere reali
per essere significativi; non sono simboli, ma sono realtà la cui
importanza tuttavia supera il momento in cui esse si sono ve
rificate e si estende a tutta l’intera storia della salvezza».27 An
che in rapporto all’obiettivo che si prefigge (condividere la
fede messianica vivificante) l’operazione testimoniale compiu
ta dal narratore si regge tenendo insieme storia e teologia, fat
to e significato, ciò che fu significativo e ciò che da e in esso fu
compreso in quanto significato; solo mantenendosi nel tra,
nell’interfaccia significativo degli eventi, essa raggiunge il suo
obiettivo; solo consentendo al lettore di contattare il passato
significativo, potrà fungere da strumento efficace di mediazio
ne tra colui che fu «visto» e chi in lui è chiamato a credere
(20,29).
Alla luce di quanto detto, la differenza giovannea non do
vrebbe più risultare un ostacolo in linea di principio. Non
avrebbe senso esprimerla come la differenza che si manifesta
tra chi consegna al lettore le tradizioni su Gesù (i sinottici) e
chi consegna al lettore la loro interpretazione (Giovanni). An
che i sinottici sono interpreti e anche il loro racconto esprime
una opzione di fede che si vuole plasmare e consolidare nel
lettore (Le 1,1-4). La fede biblica, infatti, è sempre un giudizio
sulla storia e, con la scelta del genere «vangelo», si esprime in
un racconto che pronuncia un giudizio interpretativo sulla sto
ria. Lo è più che mai il racconto di colui che, nelle vicende
storiche di Gesù, ha riconosciuto il processo in atto tra Dio e
il mondo. La differenza, piuttosto, consiste nella diversa ango
latura da cui la storia è raccontata e nel punto di vista che
guida la costruzione del racconto come selezione di segni ca
paci di suscitare la fede vivificante. Quello che fa la differenza
è che, in Giovanni, il giudizio sulla storia è dato da un punto
di vista ancora squisitamente giudaico catalizzato da tempi,
luoghi, protagonisti e questioni cruciali per l’identità e le spe
ranze giudaiche nel primo secolo d.C. Il suo punto di vista fa
la differenza dando alla storia di Gesù la forma complessiva di
un’estesa disputa, in cui, sullo sfondo della domanda giudaica
sull’intervento liberatore di Dio alla fine dei tempi e sulla figu
ra mediante la quale si sarebbe realizzato, la questione è deci
dere chi Gesù sia e se il suo agire e il suo dire siano legittimi.
I fatti sembrano fuori discussione al livello descrittivo e, dato
il diverso punto di vista giovanneo, non sorprende che quelli
messi a fuoco siano in buona parte diversi, materialmente e
formalmente, da quelli sinottici. Ciò che, invece, è oggetto di
polemica e necessita testimonianza è la loro interpretazione.
Non multa sed multum, dunque. Ciò vale per il lessico, scar
so in varietà ma saturo di significati; vale per il materiale di
costruzione accuratamente selezionato e per il modo di com
porlo (non molti episodi ma solo alcuni «segni», poche e ampie
scene dense di provocazione strettamente correlate l’una all’al
tra così da formare il quadro narrativo che veicola compiuta-
mente il giudizio del quarto evangelista sulla storia di Gesù);
vale, infine, per la reductio ad unum dell’oggetto della narra
zione giovannea, la rivelazione e il riconoscimento di Gesù da
parte dei suoi contemporanei e le conseguenze storiche di esso.
Non oggetti - seppure dottrinali - ma persone; non contenuti
ma modalità e processi di relazione, eventi significativi per la
loro forza estetica (10,32) e le loro implicazioni relazionali (cc.
5, 9, 11), ricondotti ultimamente al processo in atto tra Dio e
mondo esploso visibilmente nella vicenda di Gesù di Nazaret.
Un tale racconto viene consegnato, dunque, senza esitazio
ne come racconto di un testimone, anzi come testimonianza in
atto, e della soggettività dello sguardo del testimone porta tut
ti i segni: la pregnanza e profondità del suo «vedere», ancora
una volta, non potrebbe andare a scapito dell’implicazione re
ferenziale del racconto ma solo fare ad essa da legittimo fon
damento. E questa a dare alla storia giudaica di Gesù la sua
sobria e imposta trasparenza, talvolta elettrizzante (8,21-59;
10,22-39). Lo sguardo del testimone, assolutamente soggettivo,
non fa che rendere trasparente la trama degli eventi imponen
do ad essi la forma che dal suo punto di vista ha, della storia,
la capacità di durata, di senso: poco spazio per ciò che non è
essenziale; valore estremo, saturo, palpitante, a ciò che è rico
nosciuto significante in vista dei destinatari e dell’obiettivo da
raggiungere e, cioè, concretamente, quelli che per il narratore
sono i «segni» del Cristo, i segni della compiuta relazione esca
tologica tra il Dio di Israele e il suo popolo.28 Da questo punto
di vista, Giovanni rappresenta al meglio la natura propria del
genere «vangelo» che è quella di essere «il resoconto narrativo
deH’incontro di Dio con l’umanità attraverso la vita, morte e
risurrezione di Gesù di Nazaret»29 e, dunque, una storia «pro
fondamente semiotizzata»,30 la cui trasparenza si realizza al
meglio grazie al linguaggio simbolico dell’evangelista.
La strutturante tensione tra storia e teologia non potrebbe
essere più chiara anche dal punto di vista dell’analisi narrativa.
In Giovanni, infatti, la ricchezza dei dettagli informativi offer-
Visibile nella carne, la Parola con cui Dio si rivela, che è Dio
e che è Luce e Vita per gli uomini (1,1-5), pulsa dunque nelle
parole del «discorso» giovanneo, cioè nella sua costruzione
della storia di Gesù, rendendola per intero come una «meta
fora viva» in cui la «continua torsione del senso letterale delle
parole»33 esprime la trasparenza e tridimensionalità dei fatti del
tutto umani della sua vita riconosciuti dall’evangelista come
manifestazione piena del darsi di Dio al mondo. Tale ricom
prensione della storia si manifesta tanto nella trama quanto
nella struttura del testo: la prima, che si presenta come una
trama di rivelazione costruita sul tema del riconoscimento di
Gesù come inviato e sull’azione conflittuale a prezzo della qua
le la rivelazione si realizzerà e il riconoscimento sarà raggiunto;
la seconda, che si sviluppa corrispondentemente attraverso
singole scene di riconoscimento compiuto o mancato.
P ro lo g o p o e tic o (1 ,1 -1 8 )
1,19-2,11: Prologo narrativo (2,1-11 pericope ponte)
2.1- 4,54: Da Cana a Cana, Vinizio della manifestazione di Gesù
e i suoi segni
5 .1 - 12,50: ha relazione tra Gesù e « i Giudei»: rivelazione in
azione e in conflitto
1) 5,1-47 guarigione di un paralitico alla piscina di Betzatà
in giorno di sabato e controversia con «i Giudei»
2) 6,1-7,1 in prossimità della pasqua, in Galilea, il segno dei
pani e le sue conseguenze
3) 7,2-8,59 in occasione della festa delle Capanne, esplodo
no la domanda messianica su Gesù e il conflitto con «i
Giudei»
4) 9,1-10,21 tra le Capanne e la Dedicazione, guarigione del
cieco nato in giorno di sabato e parabola sulla porta e il
pastore
5) 10,22-39: in occasione della festa della Dedicazione, nuo
va esplosione della domanda messianica e del conflitto
con «i Giudei»
6) 10,40-11,54 tra la Dedicazione e la terza pasqua, la risur
rezione di Lazzaro e la decisione di fare morire Gesù
7) 11,55-12,50 le ultime azioni del ministero pubblico e i
suoi esiti alle soglie della pasqua di morte e risurrezione
13.1- 17,26: la comunità discepolare è consacrata come dimora
di Dio sul fondamento della azione-rivelazione pasquale di Gesù
18.1- 19,42: la passione e la morte di Gesù
20.1- 31: racconti pasquali a Gerusalemme
E p ilo g o (c . 2 1 )
Anche se distinte l’una dall’altra in forza del passaggio dal
contesto pubblico dell’attività e delle parole di Gesù (fino a
12,50) a quello privato della cena e del dialogo con i discepoli
(13,1-17,26), le due parti maggiori della storia giovannea di
Gesù sono strettamente congiunte tra loro e imbricate l’una
nell’altra. Se nella prima parte del racconto sono messi a fuoco
«i segni», gestuali e verbali, che sollevano la domanda sull’iden
tità di Gesù e le molteplici relazioni che essi esprimono e con
corrono a determinare, nella seconda parte lo spazio è lasciato
interamente all’evento che da quell’insieme di segni e di rela
zioni è scaturito. Pur non essendo un segno nel senso più fre
quente che il termine assume nei cc. 1-12, l’insieme degli even
ti di passione, morte e risurrezione, che l’evangelista connota
come «partenza», «elevazione», «glorificazione», costituisce la
risposta più radicale di Gesù e, in lui, di Dio alla domanda
ripetuta di un «segno» e all’ambigua relazione con i segni che
attraversa i cc. 1-12 (2,18; 2,23-3,2; 6,14-15; 6,30; 11,37.47-48;
12,17-18). I segni del ministero pubblico, infatti, pur essendo
«tali e tanti», non determinano il riconoscimento di Gesù o, in
ogni caso, non provocano una compromissione pubblica a suo
favore da parte di coloro, tra i «capi», che pure hanno creduto
in lui (12,37-43). Passione, morte e risurrezione, dunque, co
stituiscono l’evento in cui massimamente s’irradia la «gloria»,
cioè si afferma e si svela l’identità di Gesù anticipata parzial
mente nei segni del ministero pubblico. Se quelli lo avvicinano
progressivamente all’«ora» estrema della rivelazione, è solo nel
contesto dell’ultima pasqua, quella di morte e risurrezione, che
Gesù proclama arrivata l’«ora» attesa (12,23.27-28a; 13,31;
17,1). Un medesimo e coerente cammino di rivelazione impe
gna dunque Gesù e chiama a rispondere alla domanda sulla
sua identità da un capo all’altro del racconto: nella sua prima
parte esso si esprime nei segni della gloria e nel conflitto che la
rivelazione di Dio provoca diventando azione; nella sua secon
da parte esso elegge la passione e morte, la partenza da questo
mondo, come spazio pieno della gloria, azione trasformatrice
per eccellenza, apparente negazione dei segni ma, al contempo,
loro piena conferma e svelamento del loro significato ultimo.36
Con connessioni interne costanti, da un capo all’altro del
racconto, la storia uscita dalla penna dell’evangelista, vista con
i suoi occhi, appare come fosse veramente, benché passata, un
dramma ancora in atto di compiersi, vivo, in cui ogni frammen
to prende luce dalla totalità e in cui il tutto, ogni volta, è pre
sente e manifesto nel frammento e si sporge da esso traboccan
do. I singoli episodi, infatti, nella loro sequenza cronologica e
nelle relazioni causali che li legano l’uno all’altro, richiaman
doli l’uno nell’altro in quanto insieme di «segni», hanno in sé
la Gestalt, la forma e struttura, dell’intero discorso evangelico,
del significato riconosciuto nei fatti e negli esiti della vita di
Gesù, Parola diventata carne: l’atto, cioè, del rivelarsi ultimo
(escatologico) e salvifico di Dio nell’esistenza relazionale del
Figlio, nel suo culmine pasquale e nelle relazioni generate a
causa sua e attorno a lui (13,34-35; 19,25-27). Il significato
della storia giovannea di Gesù, infatti, è essenzialmente rela
zionale e processuale: se la rivelazione, nella Scrittura, ha come
suo oggetto la relazione di Dio con l’umanità (l’alleanza) che,
attraverso la storia particolare e rappresentativa di un popolo,
si realizza processualmente, sottoposta essa stessa continua-
mente a processo,37 ugualmente e in modo culminante la rive
lazione di Dio nella persona del Figlio è processuale e conflit
tuale, sottoposta essa stessa a processo e vittoriosa in esso
(16,33). La storia giovannea di Gesù, nella sua trama e nella
sua struttura, si presenta dunque come una metafora viva che,
raccontando un «passato» intriso di memoria scritturistica e
trasparente della vittoria pasquale, dischiude in realtà il futuro
e la Vita, un altro mondo possibile, invitando continuamente
39J. JEREMIAS, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1982,
77-78.
40B o y a r in , 243-284.
elementi di continuità ma anche di discontinuità.41 II prologo,
dunque, per quanto ricco di forti nessi lessicali e tematici col
Vangelo, non ne costituisce un riassunto narrativo né una sin
tesi teologica. La sua funzione può essere meglio compresa
facendo ricorso alle categorie della letteratura antica e della
critica letteraria moderna. Le prime permettono di riconosce
re nel prologo una forma particolare di «prediscorso», quale
potrebbe essere il «prologo drammatico», destinato a illustra
re agli ascoltatori il tema fondamentale del dramma mettendo
loro « l’inizio nelle mani» e permettendogli di seguirne il filo
(cfr. Aristotele, Retorica 3,14,12-19).42 Dal punto di vista della
critica letteraria moderna lo si può considerare come «parate
sto», una sequenza che, pur non costituendo il primo episodio
narrativo, apre l’intero Vangelo ponendosi in «un rapporto di
metariflessività con l’insieme dell’opera che introduce».43 Il
prologo, dunque, non riassume l’intrigo del racconto ma dice
come occorre leggerlo, stimolando il lettore, richiamandogli il
ricco retroterra delle Scritture condiviso (intertestualità) coin
volgendolo nella celebrazione in «noi» della storia del Logos
divenuto carne (interazione), mettendogli in mano la chiave
ermeneutica corretta e introducendo gli elementi costitutivi del
racconto (protagonisti principali, posta in gioco, temi e intrigo)
perché, progredendo nella lettura del racconto, il lettore possa
comprenderlo a un livello sempre più profondo (intratestua-
lità).44 Esso inquadra dunque la storia di Gesù di Nazaret al
41 Al livello del lessico e dei temi nel prologo appaiono vocaboli che non si ritro
veranno più nel Vangelo: «grazia», «pieno/pienezza», «illuminare», «porre la tenda»,
«rivelare/raccontare»; non vi si troveranno più esplicitamente nemmeno le idee del
divenire carne del Logos o della sua mediazione creatrice; nel prologo, d’altra parte,
al livello linguistico sembra regnare il silenzio sugli eventi pasquali, non si parla né di
«croce» né, secondo il linguaggio giovanneo, di «elevazione/innalzamento» o, tanto
meno, di risurrezione e ascensione.
42 ZUMSTEIN, 227.
43 Ivi.
44 Ivi, 229-232.
solo livello in cui può veramente essere raccontata e compresa,
quello di Dio stesso e del rapporto tra Creatore e creatura, Dio
e mondo. La scelta dell’inizio, in Giovanni, è per questo radi
cale e metanarrativa: l’evento celebrato in poesia sta al raccon
to che lo descriverà in prosa come la forma al contenuto, il
segreto strutturale di ciò che accade al suo realizzarsi fenome
nico, la «Gloria» divina al suo «manifestarsi» (1,14; 2,11).
2,2. Struttura
46 Ivi, 353.
verso le parole-gancio (così il v. 1: Lògos, Theós; i w. 3-5: gtgno-
mai, zoe, phòs, skotid) o attraverso l’uso dei pronomi (così nel
collegamento tra i w. 1-2 e 2-3 dove il dimostrativo houtos e il
pronome di terza persona autós sono riferiti al Logos).
Il v. 6, con l’uso del verbo egéneto (cfr. v. 3), determina il
passaggio a un nuovo inizio nel tempo, un evento storico pun
tuale qual è la missione di Giovanni, tradizionalmente collega
ta con la missione di Gesù (cfr. Me 1,1-8). Non si trova alcuna
congiunzione (kat) tra il v. 5 e il v. 6 e i w. 1-5 condividono un
ritmo poetico che i w. 6-8 interrompono, anticipando nel pro
logo lo stile solenne che caratterizzerà la narrazione in prosa
del Vangelo. Si introduce anche un lessico nuovo, quello della
testimonianza {martyréó/martyria) che caratterizza in modo
pervasivo i w. 6-8.
Il terzo movimento è formato dai w. 9-14, collegati ai versi
precedenti, e in particolare al v. 8, attraverso la parola «luce»
(phòs). Con il v. 9 si riprende il ritmo poetico del prologo che
dura fino al v. 14 incluso. Ritorna insistentemente la congiun
zione kat che scandisce le affermazioni sul venire progressivo
del Logos nel mondo, come luce che illumina, fino al modo
dell’incarnazione. Il campo semantico della visione («luce» e
«illuminare» al v. 9; «contemplare» al v. 14) crea un’inclusione
Ira il v. 9 e il v. 14 dando ai vv. 9-14 unità e compiutezza.
Il quarto movimento è formato dai w. 15-17, collegati tra
loro dalla triplice ripetizione della congiunzione dichiarativa-
causale boti alla fine del v. 15 e all’inizio dei w. 16 e 17. Il ri
apparire del nome di Giovanni e del lessico della testimonian
za dimostra una ripresa intenzionale dei w. 6-8. Un ulteriore
elemento di ripresa tra i vv. 6-8 e i w. 15-17 si può riscontrare
nel ricomparire dell’aggettivo «tutti» (pàntes) nel v. 7 e nel v.
16 dove accompagna il pronome personale «noi». Se nel v. 7 il
riferimento alla missione del Battista è prolettico, orientato al
futuro della fede nell’Incarnato, e la sua è una testimonianza
che attende ancora il suo frutto o la sua efficacia verso «tutti»,
nel v. 16 se ne proclama il compimento efficace, perché il sog
getto che parla in prima persona plurale può dire, confonden
do la propria voce con quella di Giovanni, «noi tutti ricevem
m o...».
Il quinto e ultimo movimento del prologo è costituito dal v.
18 che, a differenza dei w. 16-17, non essendo introdotto da
alcuna congiunzione, non è letterariamente collegabile al v. 15
e, in genere, alla testimonianza riconducibile a Giovanni nei
w. 15-17. Al contrario, esso riprende i temi e il lessico del
primo movimento, con l’arricchimento dato dal terzo: ho Theós
dei vv. 1-2 adesso è «il Padre» (cfr. già v. 14); il Logos-77?em
dei w. 1-2 adesso è « l’unigenito Dio» (cfr. già v. 14); il verbo
«essere» all’imperfetto dei w. 1-2 («era»), ora è il verbo «esse
re» al participio presente («colui che è»); l’orientamento del
Logos «volto a Dio» nei w. 1-2, adesso è l’essere permanente
del Figlio «in seno al Padre»: il Verbo del principio adesso è il
Verbo incarnato, l’uomo Gesù, Figlio in seno al Padre.
Questi cinque movimenti, letterariamente distinguibili tra
loro, sono strettamente connessi e si richiamano a vicenda co
sì da determinare un’inclusione maggiore tra i vv. 1-5 e il v. 18
e una più interna tra i w. 6-8 e i w. 15-17. Al centro tra le due
restano i versi 9-14. Racchiusi tra i due incisi sul testimone
Giovanni, essi racchiudono a loro volta al loro interno tutta la
storia della rivelazione come relazione perenne tra Dio e mon
do mediante il Logos che si fa storia umana fino al modo cul
minante dell’incarnazione, realizzazione compiuta della Nuova
Alleanza. Il fatto che i w. 9-14, che abbracciano e sintetizzano
il mistero e la storia della rivelazione, siano racchiusi a loro
volta, quasi come in uno scrigno, dalla testimonianza di G io
vanni, dice che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza, sin
tesi e compimento della rivelazione, è preparato, garantito e
autenticato nella sua legittimità storico-salvifica e, infine, pe
rennemente attestato dalla testimonianza profetico-giuridica
di Giovanni e dei credenti in Gesù. Esso è pienamente fonda
to nella Scrittura e nella storia. Il rapporto tra la testimonianza
di Giovanni e quella dei credenti in Gesù (w. 6-8 e w. 15-17)
è, dunque, compreso come lo spazio-tempo aU’intemo del qua
le si è aperta e percorsa compiutamente - e si può perciò per
correre sempre nuovamente - la via della rivelazione, ovvero
la relazione tra il Logos e il mondo (w. 9-14). Il fatto, infine,
che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza (w. 6-17) sia
incluso e celebrato tra le due unità che si occupano del miste
ro di Dio in sé e in rapporto alle creature e agli uomini tutti,
dice che questo passaggio ha anche in sé la forza della univer
salità, dell’unicità e della definitività della rivelazione del Padre
nel Figlio, l’unica che ha il carattere della «verità» e della «gra
zia» vivificanti di Dio stesso; un’universalità resa possibile solo
dalla storia più particolare, quella del popolo di Dio (w. 6-17)
e, in essa, dalla storia dell’uomo Gesù e dei credenti in lui. Il
doppio riferimento al testimone Giovanni serve da perno al
movimento, rendendo possibile l’atto di rilettura che il prolo
go fa del Vangelo come continua compenetrazione tra eternità
t tempo, azione cosmica e azione storica del Logos, tra Dio e
mondo, dando così inizio e marchio strutturale al Vangelo se
condo Giovanni.
47 Nel resto del Vangelo la preposizione direzionale prós viene usata quasi sempre
in dipendenza dai verba dicendi, dai verbi di movimento ed esprime conseguentemen
te relazionalità (7,33; 13,1.3; 17,11.13; 14,6; 20,17). Data anche la corrispondenza
tematica e teologica tra i w. 1-2 e il v. 18, che determina la maggiore inclusione del
prologo, ritengo che le possa essere riconosciuta una sfumatura semantica che dice
movimento, il costante orientamento del Logos a Dio.
3Tutto per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto)
e senza di lui non venne all'esistenza neppure una cosa.
4In ciò che esiste {ho gégonen) egli era vita48
e la vita era la luce degli uomini.
5E la luce nella tenebra splende
e la tenebra non l'ha sopraffatta (katélaben).
6Ci fu (egéneto) un uomo, mandato da Dio, che aveva nome
Giovanni.
7Questi venne (elthen) in testimonianza, per testimoniare
della luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8Non era (en) lui la luce, ma per testimoniare della luce.
9La luce quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo.49
48 Nel passaggio dal v. 3 al v. 4 non è chiaro a cosa debba essere collegata la propo
sizione relativa «ciò che esiste» (ho gégonen), se a ciò che precede (il v. 3) o a ciò che
segue (il v. 4). Nel primo caso, la proposizione relativa sarebbe effettivamente pleona
stica («... e senza di lui non venne all’esistenza neppure una cosa di ciò che esiste»)'e
farebbe da zavorra nel v. 3 che ha la forma snella di un distico, impreziosito anche dal
parallelismo antitetico che determina un chiasmo perfetto (a «tutto» / b «per mezzo di
lui venne all’esistenza»; b 1«senza di lui venne all’esistenza» / a1 «neppure una cosa»).
Il collegamento con il v. 3 interromperebbe, inoltre, il ritmo ascensionale dei versi
creato mediante la ripetizione, all’inizio della frase successiva, del termine che conclu
de la frase precedente (cfr. v. 1). Questo collegamento, d’altra parte, renderebbe molto
semplice la comprensione del v. 4 che inizierebbe con il riferimento al Logos mediante
il pronome di terza persona («in lui era vita...») e rifletterebbe la cristologia giovannea
che lega strettamente la vita alla persona di Gesù (3,26; 11,23; 14,6; cfr. anche lG v 1,1;
3,11). Nel secondo caso, il senso del v. 3 risalterebbe in tutta la sua nitidezza, ma di
venterebbe problematica la comprensione del v. 4: come intendere la frase «ciò che
esiste in lui era vita»? A cosa legare «in lui»? A «ciò che esiste» («ciò che esiste in lui,
era vita») o a «era vita» («ciò che esiste, era vita in lui»)? Di quale vita si tratterebbe?
Sembra siano state proprio le difficoltà teologiche connesse all’interpretazione di tale
collegamento a determinare un mutamento nella lettura patristica e il collegamento di
«ciò che esiste» con il v. 3. La traduzione che propongo risolve i problemi interpreta
tivi posti dal collegamento col v. 4 intendendo «ciò che esiste» come un casus pendens
cui va riferito il successivo pronome di terza persona «in esso» e considerando sottin
teso il soggetto della frase che sarebbe sempre il Logos del v. 3: « ciò che esiste, in esso
[il Logos] era vita». Nel prologo, un altro esempio di questa costruzione si ha anche
nel v. 12 («quantilo accolsero, diede a loro...»).
49 II v. 9 presenta una costruzione poco lineare: «era la luce quella vera che illu
mina ogni uomo veniente nel mondo». A cosa bisogna collegare il participio «venien
te» (erchómenon)? Alla «luce», a «ogni uomo» o all’imperfetto «era»? A ogni opzio
ne corrisponde una diversa traduzione: «(il Logos) era la luce, quella vera, che illu-
10Era nel mondo,
e il mondo per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto),
eppure il mondo non lo riconobbe.
l‘Venne nella sua proprietà (eis tà idia),
eppure i suoi non gli diedero accoglienza (parélabon).
12Quanti, però, raccolsero (élabon)
a quelli diede potere di diventare figli di Dio,
quelli che credono nel suo nome,
,3i quali non dal sangue, né da volontà di carne,
né da volontà di uomo
ma da Dio sono stati generati!
14Sì, il Logos divenne (egéneto) carne e pose la sua tenda tra noi
e noi contemplammo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15Giovanni testimonia di lui e ha proclamato dicendo:
«Questi era colui di cui avevo detto:
colui che viene (erchómenos) dopo di me
mi è passato (gégonen) davanti
perché era (én) prima di me».
16Ché dalla pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto grazia
su iariti) grazia,50
mina ogni uomo venendo nel m ondo»; «(il Logos) era la luce, quella vera, che
illumina ogni uomo che viene al mondo»; «la luce quella vera, che illumina ogni uomo,
stava venendo nel mondo». Le prime due opzioni presuppongono che il soggetto
vero della frase, cioè «il Logos», debba essere assunto dai w. 1-5 e sia rimasto sottin
teso. Non spiegano, però, perché Fevangelista avrebbe lasciato sottinteso un soggetto
ormai grammaticalmente lontano. La terza opzione, che ho scelto, non richiede un
soggetto esterno alla frase del v. 9 e interpreta come perifrastica la relazione tra l’im
perfetto «era» e il participio «veniente», benché a distanza tra loro. Sia dal punto di
vista sintattico (10,40; 18,18.25) che dal punto di vista del contenuto cristologico la
costruzione è coerente con il linguaggio giovanneo (1,15.27.29.30; 6,14; 11,27; 12,13;
ICìv 4,2; 2Gv 7).
,0 La traduzione della preposizione ariti che ho proposto, dandole un senso cumu
lativo e di sovrabbondanza («grazia su grazia»), non è l’unica possibile. A nti, infatti,
potrebbe indicare contrasto e sostituzione («grazia al posto di grazia»); corrisponden
za o equivalenza («grazia per grazia»); successione («grazia dopo grazia»). Le argomen
tazioni grammaticali, da sole, non sono sufficienti. Il contesto dei w. 14.15-17, che
solo può orientare adeguatamente l’interpretazione del v. 16, non favorisce a mio av
viso un significato sostitutivo della preposizione anti\ attribuirle un valore cumulativo,
d’altra parte, non esclude anche una dimensione di traboccante compimento.
17perché la Legge per mezzo di Mosè fu donata (edóthé),
la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo vennero
all’esistenza (egéneto).51
18Dio nessuno l’ha visto mai.
L’unigenito Dio, che è in seno (eis tòn kólpon) al Padre,
egli ha rivelato (exègesato).
Il verbo «essere», nel resto del prologo, ha come soggetto sempre e soltanto il
I ,ogos-Vita e ne dice resistenza sovratemporale. L’unica volta che viene usato per un
ultro soggetto, qui per Giovanni, è preceduto dalla negazione. Questo aspetto negati
vo dell’identità e funzione di Giovanni è essenziale e speculare a quello positivo: cfr.
U .9-21; 3,25-30; 10,41-42.
racconto. La caratterizzazione del personaggio Giovanni come
primo inviato, dunque, è particolarmente intensa. Egli, a dif
ferenza di quanto accade ai discepoli di Gesù, è mandato di
rettamente da Dio Padre e sta in un rapporto diretto di obbe
dienza con Lui (1,33); la sua missione, quindi, ha una profon
dità teocentrica ineguagliata che la rende in qualche modo
parallela a quella di Gesù, le corrisponde nel tempo storica
mente ed è ordinata ad essa, ricevendone, anche, una coloritu
ra cristologica specifica (3,28). Come Gesù, anche Giovanni
viene ed è mandato per «rendere testimonianza alla verità»
(5,33 / / 18,37); come la Parola-luce che «splende nella tene
bra», così anche Giovanni «arde e splende» (5,35 in relazione
a Sir 48,1; Sai 132,17),34 pur non essendo lui la Luce stessa e
non godendo di luce propria. C ’è un che di struggente in tutto
ciò: inviato direttamente da Dio, Giovanni non è l’inviato per
eccellenza perché «Colui che Dio ha inviato» è per definizione
un altro, quello in funzione del quale Giovanni è stato manda
to. Nel suo essere «mandato da Dio» c’è dunque implicita non
solo una dimensione di profonda dignità, ma anche una dimen
sione di eteroreferenzialità ed espropriazione. Giovanni non è
«la Parola» ma solo la «voce di chi grida nel deserto» davanti
a colui che viene (1,23), divenendo in qualche modo il model
lo di ogni «apostolo-testimone» e anticipando la funzione del
suo «doppio testimoniale», cioè il discepolo amato.
L’insistenza sul lessico testimoniale nei w. 7-8 non è casuale:
la testimonianza, infatti, si lega strettamente alla rivelazione e,
dunque, alla missione nel Quarto Vangelo. Tutti coloro che
sono mandati, in Giovanni, hanno un ruolo nel processo della
rivelazione divina e, dunque, una funzione testimoniale. Il pre
cursore Giovanni, dunque, spicca non in qualità di battezza-54
54 Nel simbolo del lychnos si potrebbe cogliere anche un’allusione alle luci del
candelabro a sette braccia sempre ardente davanti all’arca della testimonianza nella
Tenda del convegno secondo Es 25,31-37; 27,20; Lv 24,2.
ture - anche se tale attività viene ampiamente richiamata in
1,19-34; 3,23; 4,1; 10,40 - ma in qualità di testimone persona
le del Cristo (1,32.34; 3,26; 5,33), addirittura di «amico dello
Sposo» (3,29-30). Nel mondo e nella storia, deponendo «so
lennemente e ufficialmente come di fronte a un tribunale»,55
egli rende al Figlio la testimonianza che il Padre stesso gli ren
de attraverso le Scritture e le opere (cfr. 5,31-32.37; 8,18). Con
una suggestiva immagine, R. Vignolo sintetizza tale ruolo: «ri
spetto a Gesù, Giovanni Battista avanza come una sorta di suo
adombramento anticipato, una sua stupenda controfigura
concava»,56 anticipando e incarnando in sé stesso, per primo,
['«accoglienza» resa dai credenti alla Parola-Luce veniente nel
inondo. Al «credere» di tutti, infatti, è interamente finalizzata
la testimonianza di Giovanni.
w. 9-14. Agganciati ai versi precedenti tramite la ripresa del
sostantivo «luce» e del verbo «venire» (v. 9), i w. 9-14 costitui
scono il movimento centrale del prologo che ha per tema la
venuta del Logos nel mondo. Tra il v. 9 e il v. 10 kósmos, infat
ti, è la parola-gancio, mentre la ripetizione del verbo érchomai
(«venire») collega tra loro il v. 9 (venuta nel mondo) e il v. 11
(venuta nella sua proprietà). Anche il v. 9 e il v. 14 sono in
parallelo tra loro: il Logos viene nel mondo come Luce (12,46),
ma soltanto «nella carne» la verità del suo «venire nel mondo»
giunge alla sua piena visibilità (lG v 4,2; 2Gv 7) e «carne» si
gnifica la possibilità di soffrire e di morire. Tra l’annunzio del
la Luce veniente (v. 9) e la proclamazione della Luce venuta (v.
14) è racchiusa ima rilettura, a posteriori, della relazione dram
matica tra la Parola-Luce e gli uomini. Tra gli uomini, la Paro
la incontra rifiuto (w. 10-11) e accoglienza (w. 12-13). Se i w.
10 e 11 sono accomunati dal parallelismo antitetico («Era nel
mondo, il mondo per mezzo di lui divenne» / / «nella sua prò-
58 II verbo skenód, in realtà, è raro nell’Antico Testamento greco: cfr. Gen 13,12;
Gdc 5,17 e 8,11. Nel Nuovo Testamento compare solo qui e in Ap 7,15; 12,12; 13,6;
21,3.
testimonianza di Giovanni: il v. 15 la riporta in forma di cita
zione diretta, anticipando all’interno del prologo quanto si
leggerà, a racconto iniziato, in 1,30. È dell’uomo-Figlio, e non
più soltanto del Logos-Luce, che Giovanni «testimonia» ora;
è con l’uomo-Figlio che il Logos-Luce è identificato («questi
era colui che io dissi...»). I w. 16-17, a loro volta, si collegano
strettamente alla terza affermazione di Giovanni (v. 15e) me
diante la congiunzione hóti cui occorre riconoscere valore
causale, più che dichiarativo. La testimonianza-proclamazione
di Giovanni diventa, in tal modo, la testimonianza-proclama
zione della comunità dei credenti, gli stessi che parlano in
prima persona al v. 14 e che ritornano a parlare in prima per
sona al v. 16.
La prima differenza da notare, rispetto al primo inciso su
Giovanni, consiste nell’uso, nel v. 15ab, dei verbi al presente
(«testimonia», martyrei) e al perfetto («ha proclamato/grida
ta», kékragen): entrambe le forme verbali dicono che la testi
monianza di Giovanni non solo si è compiuta nel passato, ma
incora risuona nel presente come in atto di compiersi. È un
«grido» profetico che ancora mantiene la sua validità ed effi
cacia (1,23). Utilizzato insieme al verbo martyréó, il verbo kràzo
ha il sapore dell’annuncio kerigmatico solenne e definitivo:
colui che è il Logos divenuto carne è anche il «veniente» atte
so all’incontro di Israele con Dio (Sai 118,26; Ab 2,3; Mt 3,11
// Me 1,7-8 e Le 3,16; Mt 11,3 / / Le 7,19-20; Mt 21,9 / / Me
11,9 e Le 19,38; Gv 6,14; 11,27; 12,13; At 19,4). Pur seguendo
cronologicamente Giovanni nella missione {«viene dopo»), lo
precede in dignità sul piano della funzione storico-salvifica
(«mi è divenuto avanti») perché lo precede sul piano stesso
dell’essere {«era prima di me»). Di nuovo, come nei w. 6-8, i
Ire verbi «divenire», «venire», «essere» si concentrano quando
tìi parla del testimone Giovanni, deputato prima di chiunque
nitro a proclamare l’identità di Gesù. Riferito alla sua procla
mazione, soprattutto nel v. 15 che è preceduto e seguito da due
versi che esprimono la confessione di fede della comunità (w.
14 e 16-17), l’uso del verbo martyréd rappresenta una sorta di
«torsione specificamente forense» dei verbi tipici dell’annuncio
kerigmatico assenti in Giovanni (keryssd, euangelizo) e della
confessione cristologica (espressa anche nel Quarto Vangelo
dal verbo homologéd: cfr. 1,19-20; 9,22; 12,42): «in quanto azio
ne parallela alla confessione cristologica e ad ulteriori atti so
lenni di proclamazione {gtiàate/kràzd, annunziare/augèllo
anangélld apangéllò, patiate/laléd), l’attestazione prende chia
re connotazioni kerigmatiche di energica carica affettiva e
comunicativa».59
vv. 16-17. Questi versi, nei quali il «noi» del v. 14 riprende
la parola fondendo la propria voce con quella del testimone
Giovanni, esprimono esattamente tale carica affettiva e comu
nicativa implicata nell’attestazione di fede. Per il «noi tutti» del
v. 16 la testimonianza di Giovanni è già stata efficace ed essi
parlano qui anche a nome di tutti i potenziali credenti, di «ogni
uomo» che ancora deve essere raggiunto dalla testimonianza
di Giovanni e, in essa, dalla pienezza del Logos divenuto carne.
La precedenza sul piano dell’essere quanto della funzione
storico-salvifica attribuita al Logos divenuto carne trova ulte
riore conferma e fondamento nella proclamazione del «noi»
nel v. 16: «ricevendo» il Logos divenuto carne (cfr. v. 12), in
fatti, essi hanno «ricevuto grazia su grazia» dalla pienezza del
suo essere filiale, presenza corporale, escatologica e personale
della Parola-Dio. Il messaggio cristologico contenuto nel v. 14
si condensa qui non più dal punto di vista dell’identità del
Cristo (la sua «gloria»), ma dal punto di vista di ciò che egli
rappresenta per i credenti. In modo più esplicito che nel v. 14,
nella testimonianza di Giovanni divenuta quella del «noi» cre
dente affiora, dunque, la teologia giovannea dell’alleanza: nel
v. 16 tramite l’accostamento frontale di «grazia» a «grazia»; nel
61 Per gli autori che ritengono che 9,1-10,21 appartenga alla sezione della festa
delle Tende (cc. 7-8), il sabato di cui si parla in 9,14 coinciderebbe anche con «Fulti -
rno giorno, quello solenne, della festa» (7,37): la guarigione del cieco sarebbe la ma
nifestazione culminante della presenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo duran
te la festa.
ta e sul pastore che si sviluppa nel c. 10. Il cieco guarito scom
pare, ma non si segnalano cambiamenti di tempo o luogo:
Gesù continua a parlare con «alcuni tra i farisei che stavano
con lui» da 9,41 a 10,18. Nella sua persona e nella sua storia
drammatica il cieco non soltanto costituisce una figura cristo
logica, ma anche una figura ecclesiologica: rappresenta il servo
Israele prima cieco e poi illuminato dall’azione del Servo di
Yhwh (Is 42,16.18-19; 43,8-13; 49,6-11; 50,10) e, dunque, tut
te e singole le pecore del gregge di Israele, maltrattato dai suoi
pastori ma radunato escatologicamente da Gesù Re e Pastore
davidico (Is 53,6; Ez 34; 37,15-28). Simboli e temi legano il
racconto della guarigione del cieco nato anche alla sezione del
la festa delle Capanne che lo precede: l’invio del cieco alla
piscina di Siloe nella cui acqua, lavatosi, acquista la vista (Gv
9,7) rimanda alla processione che si faceva a Siloe per attinge
re l’acqua da versare all’altare, nel Santo, ciascuno dei sette
giorni della festa; il simbolismo della luce rimanda anch’esso
alle quattro mfndròt giganti poste nel cortile delle donne che
di notte illuminavano Gerusalemme (mSukkot 5,1-4). Acqua
zampillante da Sion e luce senza più notte erano i simboli del
trionfo regale di Yhwh in Sion, al cospetto delle nazioni, nel
contesto di Sukkot già secondo Zc 14,6-9.16.18.19 (cfr. Gv
7,37-39; 8,12) e al tempo di Gesù, le cerimonie della festa con
nesse a questi simboli avevano acquisito ormai un carattere
escatologico e messianico marcato.
La storia del cieco raccontata su questo sfondo costituisce
un segno quanto mai evidente dell’identità messianica di Gesù
come «inviato» che, nel contesto, è oggetto continuo di dispu
ta (7,12.25-27.31.40-43; 8,25; 10,19-21; 10,24.36) ma si può
riconoscere dai segni e nelle opere. Nella sua stessa persona, il
cieco nato attesta l’opera di Dio in atto di realizzarsi grazie alla
presenza e all’azione di Gesù e, dunque, prova la differenza tra
luce e tenebra e il discernimento tra chi è cieco e chi vede. Egli
è, dunque, giudizio in se stesso. Un giudizio vissuto a prezzo
della propria vita: proclamarsi secondo la sua identità significa
inevitabilmente, per l’ex cieco, parlare a favore dell’identità di
Gesù ed esporsi così al rischio del rigetto da parte dei suoi
pastori (9,24-34) e dell’abbandono da parte dei suoi stessi ge
nitori (w. 18-22). A differenza di questi, il cieco illuminato non
teme ma rischia, così come Gesù stesso, nei cc. 5-12, rischia
continuamente la vita persistendo nell’affermazione della pro
pria identità. Opera di nuova creazione in se stesso (9,3), egli
dimostra la verità delle parole di Gesù: «Le opere, che il Padre
mi ha dato da portare a compimento, quelle stesse opere che
io faccio testimoniano di me che il Padre mi ha m andato»
(5,36). Letta sullo sfondo dei cc. 5-12 e, in particolare, dei cc.
7-10 la storia del cieco nato costituisce un luogo di rivelazione
cruciale del dramma cristologico nelle sue diverse dimensioni:
antropologica, ecclesiologica e soteriologica.
Nella sequenza narrativa del Quarto Vangelo, quello del c.
9 è il terzo racconto di guarigione dopo quelli del figlio del
funzionario regio a Cafarnao (4,46-54) e del paralitico alla pi
scina di Betzatà (5,1-18). Con quest’ultimo, il racconto della
guarigione del cieco nato ha molte cose in comune: avviene in
giorno di sabato (5,9 / 9,14) e assume conseguentemente i to
ni di una controversia giuridica in materia di halakah giudaica
(violazione del sabato); lo spazio maggiore è riservato ai dialo
ghi più che al miracolo in se stesso e ciò conferisce un caratte
re maggiormente drammatico alla narrazione; la guarigione, in
entrambi i casi, è motivo di conflitto tra Gesù e coloro che
appaiono deputati alla custodia del sabato («i Giudei» in 5,9-18,
«i farisei» e «i Giudei» in 9,13-34); il guarito si trova personal
mente coinvolto nel conflitto. Tra il paralitico di Betzatà e il
cieco nato, però, c’è una profonda differenza. L’atteggiamento
del primo sembra piuttosto passivo e deresponsabilizzato, non
determina un rapporto personale con Gesù; l’atteggiamento
dell’altro è attivo e progressivamente più deciso, capace del
rischio e del conflitto, e conduce a un’esperienza intima e com
piuta di Gesù riconosciuto nella fede come il Figlio dell’uomo.
La storia del cieco nato, dunque, non è solo un racconto di
miracolo, né solo una controversia ma anche una storia inci
piente di discepolato e sequela.02
Il genere del racconto giovanneo è dunque misto: la cornice
festiva del sabato fa del racconto di guarigione una controver
sia sulla Legge con importanti risvolti cristologici; lo spazio
dato al protagonismo del cieco guarito, nel contesto della con
troversia sull’identità di Gesù e sulla confessione messianica
(Gv 9,22), rende la storia del miracolo una storia di sequela
con evidenti risvolti ecclesiologici e, dato il simbolismo dell’ac
qua e della luce, una probabile allusione battesimale.
3.2. Struttura
62 La formula «e (Gesù) passando vide» (kat paràgdn eiden), che apre il racconto
(9,1), potrebbe confermarlo. Nei Vangeli sinottici, infatti, essa compare identica all’ini
zio di racconti di «vocazione»: in Me 1,16 apre il racconto della chiamata di Simone
e Andrea; in Me 2,14 / / Mt 9,9 apre quello della chiamata di Levi/Matteo. In Mt 9,27
e 20,30, inoltre, si parla del «passare» di Gesù ad apertura dei due racconti paralleli
di guarigione dalla cecità e, in Mt 20,34, il recupero della vista è preludio alla sequela.
B1) 9,35-38 - Nuovo incontro con Gesù e confessione di fede
del cieco.
A 1) 9,39-41 - Dialogo di Gesù con i farisei che stavano con lui.
dell’uso della saliva in pratiche terapeutiche miracolose. Tacito, per esempio, tra Ì
prodigi attribuiti all’imperatore Vespasiano ricorda la guarigione di un cieco median
te lo sputo (Storie 4,81).
con un paradossale escamotage: non lo è, «ma gli somiglia». Il
soggetto in questione, però, al conflitto delle interpretazioni ri
sponde con la propria dichiarazione di identità: «Sono io» (v.
9). La struttura predicativa della proposizione è importante per
capirne la funzione e il significato allusivo nell’economia del
racconto: a chi si chiede se «questo» vedente (predicato) possa
e debba essere identificato con il cieco seduto a mendicare che
si conosceva prima (soggetto), il guarito risponde «(quello) sono
io»! L’«io sono», in questo caso, è una formula di riconoscimen
to in cui l’io è il predicato di qualcuno o qualcosa di cui si sta
parlando (18,5.6.8). Nel Deuteroisaia e in altri testi post-esilici
(Dt 32,39; Is 41,4; 43,10.25; 46,4; 48,12; 51,12; 52,6), la formu
la è usata come auto-proclamazione divina: nel contesto della
polemica anti-idolatrica, Yhwh - Colui che pronuncia e fa udi
re il suo Io - afferma di essere lui (predicato) colui di cui si di
scute (soggetto), cioè il vero Dio, quello che, a differenza degli
altri pretesi «dèi», veramente merita il titolo di «Dio».
Su questo sfondo va compreso l’uso della formula in bocca
a Gesù in Gv 5-12 proprio in risposta al conflitto delle inter
pretazioni che la sua parola e la sua azione suscitano (8,24.58),
e sul medesimo sfondo, si intuisce il potere evocativo della
formula messa in bocca al cieco guarito, egli stesso testimone
nel suo corpo della presenza e dell’azione liberante di Yhwh
nella persona del suo «Inviato». Come nel caso di Gesù, anche
nel caso del cieco nato guarito la formula «sono io» è la pro
clamazione decisa della propria identità in risposta al conflitto
delle interpretazioni. Inizia a profilarsi per lui una situazione
paradossale che si configurerà progressivamente come un’osti
nata lotta dei suoi interlocutori contro l’evidenza. Nei w. 10-
11, ammessa e non concessa la sua identificazione con colui
che prima era cieco, l’uomo viene interrogato sul «come» del
la sua nuova condizione che viene implicitamente ricondotta
a un intervento prodigioso (cfr. il passivo teologico «sono sta
ti aperti»). L’avverbio compare sei volte nel capitolo (w. 10.15.
16.19.21.26), sempre in bocca ai personaggi che si confrontano
con il miracolo, e dimostra la loro difficoltà a confrontarsi con
la novità: o perché la si rifiuta o perché non si ha il coraggio di
prendere posizione rispetto ad essa. Alla domanda sul «come»
il cieco guarito risponde raccontando dal suo punto di vista il
prodigio e chiamando in causa «l’uomo chiamato Gesù». L’in
sistenza sul termine ànthròpos è particolarmente marcata nel
racconto in cui ricorre otto volte, quattro delle quali per rife
rirsi a Gesù (w. 11.16.24) che, alla fine, chiederà al guarito di
credere in lui come Figlio dell’uomo (v. 35): la dimensione
antropocentrica della cristologia giovannea spicca in questo
racconto che più di tutti lascia spazio alla sfida dell’identità,
alla dignità e al protagonismo umano di chi viene a contatto
con il Figlio dell’uomo e crede in lui.
Nel descrivere il miracolo, il cieco guarito non fa menzione
dello sputo ma solo del fango spalmato sugli occhi; segnala,
invece, la puntuale corrispondenza tra l’esecuzione dell’impe
rativo di Gesù e l’acquisizione della vista (v. 11). L’attenzione
degli interlocutori si sposta, dunque, sull’«uomo chiamato G e
sù». Come nel racconto della guarigione del paralitico (5,12-
13), anche in questo emerge il tema dell’elusività di Gesù: «Lui
dove è?» (v. 12; cfr. 7,11; 11,56-57). Soprattutto nell’arco dei
cc. 5-12 egli viene cercato sempre, dovunque, ma è solo lui che
si fa trovare quando l’ora è giunta. La questione del suo «dove»
è la questione stessa della sua identità e missione (cfr. 7,27-
30.34-36; 8,14.19.21-22) e avvolge l’intero Vangelo (cfr. 1,38-
39; 20,2.13-16). L’umile confessione - un’evidenza, in real
tà - del cieco divenuto vedente («Non lo so», ouk oida) lo
sintonizza già sulla verità di Gesù, sulla sua libertà e sul suo
mistero, diversamente da quanto accade per tutti coloro che,
nel seguito del racconto, pretenderanno più volte di «sapere»
(w. 24.29) dimostrando di essere ciechi pur vedendo (v. 41).
Colui che afferma di non sapere «dove» Gesù sia, alla fine del
racconto sarà trovato da lui (v. 35).
vv. 13-17. Se nei w. 8-12 il miracolo ha come paradossale
conseguenza la messa in discussione dell’identità del cieco e
nel v. 12 la questione dell’identità di Gesù comincia appena a
profilarsi, qui, invece, la questione dell’identità di Gesù guari
tore diventa esplicitamene il tema del racconto e il motivo del
conflitto, intrecciandosi definitivamente con quella dell’iden
tità del cieco guarito. Il destino dei due, da questo momento,
non sarà più separabile. A partire dal v. 14, che contestualizza
in giorno di sabato il gesto di guarigione compiuto da Gesù, il
racconto di miracolo si trasforma in una controversia giuridica:
«fare fango», infatti, è un lavoro costruttivo che imita la crea
zione, ripete ciò che Dio ha fatto creando Adamo, e determina
dunque una violazione del riposo sabatico (mShabbat 7,2). Il
caso viene, dunque, portato dai farisei che appaiono nel v. 13
deputati ad affrontarlo e a giudicarlo dal punto di vista della
Tóràh. La sequenza interrogazione (v. 15), conflitto tra opinio
ni diverse (v. 16) e domanda su Gesù (v. 17) ripete quella dei
w. 10-12 ma con un’inversione: lo “scisma” tra gli interrogan
ti non precede ma segue l’interrogazione. Per la seconda volta
{pàlin, «di nuovo») il guarito viene interrogato sul «come» del
prodigio e si trova a raccontare il miracolo. Stavolta l’accento
è posto non sulla corrispondenza tra parola di Gesù e azione
del cieco, ma tra l’azione di Gesù («Mi ha posto fango sugli
occhi») e quella del cieco («Mi sono lavato»). La visione («ve
do») ne è il risultato.
Il gruppo dei farisei si divide tra quelli che insistono sulla
difformità tra il comportamento di Gesù e la legge sul sabato
al fine di negarne l’origine da Dio («Quest’uomo non viene da
Dio perché non osserva il sabato») e quelli che insistono sulla
novità inaudita del prodigio per difenderla («Come può un
uomo peccatore fare simili segni?»). Dal punto di vista dei
primi, che ricorda quello de «i Giudei» in 5,16.18, è dirimente
il riferimento alla Legge e all’osservanza del sabato; dal punto
di vista degli altri, che ricorda quello del fariseo Nicodemo
(3,2), il sigillo identitario dei «segni» chiede un salto ermeneu
tico: può mai essere hamartolós, disobbediente alla Legge (9,2),
chi può dare la vista a un cieco nato? La domanda diventa
teologica (come Dio agisce continuamente in quanto creatore
e giudice in giorno di sabato?), soteriologica (come l’Israelita
deve osservare veramente il riposo di Dio e collaborare con lui
al compimento escatologico della creazione?) e cristologica
(Gesù è un falso profeta che, compiendo gesti che rasentano
la magia, può istigare il popolo alla disobbedienza e all’idola
tria, o con la sua azione sta proprio indicando che è giunto il
compimento escatologico della creazione?). Al cieco guarito
viene quindi chiesto di esprimersi lui stesso sul suo guaritore,
di testimoniare in quello che è diventato un processo aperto a
carico di Gesù per la violazione del sabato. L’uso del sintagma
«dire {légo) riguardo a qualcuno (peri + genitivo)», frequente
in Giovanni con i suoi equivalenti «parlare» (laléó) e «testimo
niare» (martyréd) riguardo a qualcuno, sottolinea la dinamica
processuale assunta dalla questione cristologica (1,22; 5,31-
32.36-39; 7,13; 12,41; 18,33-34). La risposta del guarito è po
sitiva e decisa: «E un profeta». Dopo l’appellativo rabbi (v. 2),
questo è il primo dei titoli di Gesù che appaiono nel capitolo
ed è implicitamente contrapposto all’accusa che vedrebbe in
lui un «peccatore». In Giovanni è un titolo rilevante (1,21.25),
che inquadra Gesù nell’attesa del profeta come Mosè (Dt 18,9-
22) carica anche di implicazioni escatologiche (IMac 14,41).
Positivamente è attribuito a Gesù dall’evangelista (Gv 4,44) o
anche da altri personaggi del racconto (4,19; 6,14; 7,40); i fa
risei come gruppo, invece, tendono a negarglielo (7,52).
vv. 18-23. La presa di posizione nei confronti di Gesù, in ogni
modo, precipita il cieco guarito in una situazione ancora più
paradossale quando ai farisei subentrano «i Giudei». Se non
fosse per l’insistenza con cui l’evangelista introduce, semplice-
mente attraverso il nome, una distinzione, il lettore sarebbe
indotto a identificare farisei e «i Giudei» (9,27; 10,19-21). Per
il ruolo inquisitorio che esercitano e la posizione che assumono
nei confronti di Gesù i due gruppi, nella scena, finiscono co
munque per sovrapporsi. Non potendo accettare il giudizio
positivo e di apertura del cieco guarito nei confronti di Gesù (è
un profeta), allora essi preferiscono negare l’evidenza riguardo
al guarito stesso. Non potendo sfuggire alle implicazioni del
miracolo, che potrebbe far pensare a Gesù come al Servo di
Yhwh (10,19-21) e alla sua azione come prova dell’irrompere
dell’agire escatologico di Dio, devono negare il miracolo stesso
e, dunque, l’identità e la storia del cieco guarito. L’intento ne
gatorio viene definito dall’evangelista come un rifiuto di crede
re («non vollero credere di lui che fosse cieco e avesse acquista
to la vista», v. 18) che ripropone il loro atteggiamento nei con
fronti di G esù stesso (5,38.44; 8,45-46; 10,25-26). La loro
resistenza, espressione di difesa davanti alla novità, cerca quin
di il sostegno nella figura dei «genitori» del cieco, garanti
dell’identità del guarito dal punto di vista sociale e istituziona
le. Se «i Giudei» tendono a negare il passato (il cieco, forse, non
era nemmeno tale), i genitori confermano l’identità dell’uomo
quanto al passato (è figlio nostro ed è nato cieco) ma non si
compromettono in alcun modo rispetto al presente e alla sua
novità. La duplice ripetizione del «non sappiamo» (v. 21) non
è in questo caso un’ammissione sincera di ignoranza come in
9,12, ma una presa di distanza dalla novità del figlio («Come
ora ci veda») e una mancata assunzione di responsabilità davan
ti a chi ha agito così da guarirlo {«Chi gli abbia aperto gli oc
chi»). Essi dicono sì all’identità dell’uomo in rapporto alla sua
nascita, no al rapporto tra l’identità di Gesù e la nuova condi
zione di vita del figlio abbandonato a se stesso («Ha l’età...»).
Del rapporto tra identità e novità, passato e presente, la respon
sabilità pesa tutta sul figlio che, come accade a Gesù nel Van
gelo, è annunciato «parlare di se stesso» (5,30-31; 8,13.18).
Nei w. 22-23, un commento del narratore inquadra e deco
difica le parole dei genitori del cieco guarito ripetute al v. 21 e
al v. 23 in forma chiastica («Interrogate lui! Ha l’età... H a l’età,
interrogate lui»): il rifiuto di parlare in suo sostegno viene dalla
paura e questa, a sua volta, dal rapporto con «i Giudei» e dalle
implicazioni socio-religiose connesse all’interpretazione messia
nica del «segno» e alla conseguente proclamazione di Gesù
come Messia. Della «paura dei Giudei» il Vangelo parla altre
volte (7,13; 19,38; 20,19) alludendo alla minaccia che alcuni
giudei costituiscono per altri giudei in un contesto giudaico
omogeneo interessato e attraversato dalla proclamazione mes
sianica di quanti credono in Gesù. Il timore de «i Giudei», in
fatti, si giustifica per una decisione collegiale (v. 22: «Si erano
già accordati») di sanzionare con l’esclusione dalla comunità
(12,42; 16,2) chiunque dichiari pubblicamente di riconoscere
in Gesù di Nazaret il Messia. Non si tratta di una decisione
formale e ufficiale presa da un qualche tribunale religioso, ma
di un accordo interno a un gruppo che vede alleati «farisei» e
«Giudei» quasi fino all’identificazione (9,22 // 12,42). L’obiet
tivo è rendere religiosamente e istituzionalmente insostenibile
per un giudeo l’attribuzione pubblica dell’identità messianica
a Gesù. Tale accordo sembra richiamato dal narratore al lettore
come qualcosa che questi ben conosce, che appartiene alla sua
esperienza presente nel periodo post-pasqualè, ma che affonda
le radici in un passato che lo precede collocandosi nel contesto
del ministero pre-pasquale di Gesù: «si erano già accordati...».
Data l’apparente genericità del riferimento a «i Giudei» e la
difficoltà di capire cosa potesse significare concretamente e co
me potesse attuarsi una «de-sinagoghizzazione» nell’arco del I
secolo d.C. (prima e dopo il 70), è impossibile definire meglio
i contorni dell’accordo. Certamente, l’intenzione dell’evangeli
sta è, da un lato, quella di gettare un ponte tra il presente del
lettore e il passato di Gesù e dei suoi discepoli storici; dall’altro,
quella di far percepire al lettore tutto il carico di violenza con
nesso alla questione messianica al tempo di Gesù e, al contem
po, l’intensità del conflitto religioso e istituzionale determinato,
soprattutto in ambiente gerosolimitano, dall’attribuzione alla
sua persona del titolo di Messia (12,9-11.42-43). Le figure che
restano in primo piano nell’unità centrale del racconto non so
no, dunque, scelte a caso: «i Giudei», che si impongono come
garanti dell’identità religiosa del guarito, e i genitori che ne
garantiscono l’identità al livello socio-antropologico, lasciano
già intravedere, con il loro protagonismo negativo, il conflitto
istituzionale, tanto al livello familiare quanto al livello religioso,
che vedrà coinvolti i discepoli di Gesù.
w. 24-34. Viene qui rappresentato il secondo e ultimo inter
rogatorio del cieco guarito, molto più sostenuto e serrato del
primo. La drammaticità del racconto e l’ironia brillante del suo
personaggio principale, il cieco, raggiungono il loro vertice.
L’unità è costruita in forma concentrica e scandita dall’alter
nanza dialogica tra «i Giudei» e il cieco guarito.
Dal v. 24 (a) al v. 34 (a1) si passa da una seconda convoca
zione del cieco («Chiamarono per la seconda volta l’uomo che
era cieco») alla sua definitiva espulsione («Lo buttarono fuo
ri»); dall’invito a lui rivolto perché si dissoci da colui che l’ha
guarito e riconosca che è un «peccatore», all’accusa violenta
precipitata su di lui («Tu sei nato tutto intero nei peccati»);
dalla presunzione di sapienza de «i Giudei» («Noi sappiamo»)
al loro rifiuto radicale della sapienza del guarito («Tu pretendi
di insegnare a noi?»). Il cieco guarito viene posto davanti a
un’alternativa: o accusare Gesù come peccatore «dando gloria
a Dio» (cfr. 16,2), rinnegando la propria esperienza e assumen
do in foto la dottrina della Legge così come la concepiscono «i
G iudei» o, al contrario, rifiutare il loro giudizio, forte della
propria esperienza, esponendosi al rischio di pagare di perso
na e di vedere ritorta su di sé l’accusa di peccato scagliata se
condo la più statica interpretazione della dottrina della retri
buzione (nato cieco, cioè «nato tutto nei peccati»: v. 34).
La prima (b v. 25) e l’ultima (b1w. 30-33) risposta del cieco
illustrano la sua scelta per Gesù e contro l’alternativa imposta
da «i Giudei». Per tre volte il guarito insiste, infatti, sul dato
della guarigione che è la sua verità e la sua certa e unica sapien
za (v. 25: «Una cosa so: pur essendo cieco, adesso ci vedo»; v.
30: «M i ha aperto gli occhi»; v. 32: mai si è udito che «uno
abbia aperto gli occhi di un cieco nato»). Davanti alla sua espe
rienza, nessuna sapienza o dottrina ideologicamente e astrat
tamente difesa può resistere.
«I G iudei» possono pure ostinarsi in una interrogazione
fatta senza alcuna volontà di ascolto (c v. 26) e nel rifiuto vio
lento e oltraggioso di un «sapere» che può infrangere la grani-
ticità delle loro certezze mosaiche (c1 v. 28-29): l’ironia del
cieco guarito, che risalta massimamente nella sua domanda
posta al centro del dialogo (v. 27), esprime una libertà e ima
sapienza che non teme né la smentita né l’ira degli interlocu
tori. Questi si avvitano sempre di più nella loro chiusura ideo
logica e nella loro «cecità»; quello, forte e sicuro della propria
esperienza, si slancia con sempre maggiore forza e ad occhi
aperti verso la conoscenza che da essa promana. Il contra
sto tra il sapere dell’uno e degli altri, tra l’io/tu del cieco e il
noi/voi de «i Giudei» richiama le dinamiche della contrapposi
zione verbale tra Gesù e «i Giudei» nei cc. 5-12 (5,16-47; 6,41-
58; 8,21-59; 10,22-39). Le identità prendono rilievo in modo
sempre più marcato e antitetico: da un lato quella de «i Giudei»,
discepoli di Mosè esperti nel giudicare secondo la Legge pec
cato e peccatori; dall’altro, quella del cieco ora vedente, accu
sato ironicamente di essere discepolo di Gesù (v. 28), che di
venta realmente maestro dei suoi interlocutori. Il modo di rap
portarsi a Gesù dei soggetti contrapposti fa la differenza.
«I Giudei» si scontrano con un’evidenza enigmatica: ritorna
ossessiva e inutile la domanda sul «come» (v. 26) che mostra la
lotta in atto contro un’evidenza che non si vuole accogliere
nelle sue implicazioni e che, quindi, lascia senza risposta chi la
rifiuta. Essi, infatti, «sanno» che a Mosè ha parlato Dio e, dun
que, hanno nella Legge la garanzia del retto giudizio; essi «san
no» che se uno la trasgredisce deve essere giudicato «peccato
re». Oltre questo sapere, però, non possono permettersi di
andare (v. 34) e disconoscono chi in giorno di sabato apre gli
occhi di un cieco nato: non sanno «di dove sia», cioè gli nega
no qualunque tipo di riconoscimento e di relazione con loro
(cfr. Le 13,25-27.28; 20,7). Usando il sintagma «sapere di dove
sia», hevangelista gioca ironicamente su due livelli di senso:
nell’intenzione de «i Giudei», dire di «non sapere di dove G e
sù sia» significa dissociarsi da lui e negargli ogni origine da Dio;
nella ripresa ironica del cieco, e dal punto di vista del narrato
re che si esprime per sua bocca, la dichiarazione di ignoranza
riguardo all’origine di Gesù, connessa al prodigio che egli ha
operato, è un’implicita ammissione della sua missione dal cie
lo in qualità di Messia nascosto che deve essere rivelato nel
tempo ultimo (Gv 1,31.33). «Il Cristo», infatti, «quando viene
nessuno sa di dove sia» (7,27). Di conseguenza, il cieco può
dire: «Qui, appunto, sta il prodigio: che voi non sapete di do
ve sia eppure mi ha aperto gli occhi» (v. 30)! A chi rifiuta di
aprirsi resta non solo la negazione della realtà (il cieco guarito
viene buttato fuori), ma anche lo smacco della risposta man
cata e della non comprensione dell’agire mirabile di Dio (5,20).
Il cieco, invece, si rafforza nella conoscenza di sé crescendo,
contemporaneamente, nella comprensione del suo guaritore,
preparandosi progressivamente a incontrare Gesù a occhi aper
ti. Appare quindi, con somma ironia, “maestro” esperto dei
principi teologici condivisi dai suoi interlocutori e riscontrabi
li anche nella condotta e nell’insegnamento di Gesù: Dio esau
disce solo chi lo teme e fa la sua volontà (4,34; 5,30; 6,38-40;
7,17; 11,41-42) e, dunque, il giudizio non può che essere a
favore di Gesù. Egli è un inviato fedele a colui che l’invia, al
trim enti non avrebbe «p o tu to fare n ulla» (5,19.30-31;
7,17.18.28; 8,13-14.18.28.42.54; 10,18; 12,49).
«Buttando fuori» il cieco guarito, alla fine dell’interrogato
rio, «i Giudei» mostrano di respingere gli stessi criteri basilari
della retta relazione con Dio che dovrebbero avere appreso
dalla Legge e che credono di difendere. Perdono, con lui, l’oc
casione dell’incontro con l’inaudito presente in Gesù (v. 32).
L’interrogatorio non ha un «luogo» se non quello relazionale:
il narratore non dice dove si trovino i protagonisti e dove si
svolga il loro ultimo incontro. L’accento viene posto tutto sul
la loro relazione e sulla relazione con Dio, attraverso la perso
na di Gesù, che nella loro relazione è implicata: per gli uni è
mancata, per l’altro è spalancata.
vv. 35-38. Perso l’appoggio familiare come quello religioso,
il cieco resta consegnato a se stesso. E in questa condizione
relazionale spoglia ma completamente aperta che Gesù lo «tro
va» e gli si fa finalmente «vedere». La costruzione della scena
culminante dell’incontro con Gesù è limpida: dopo una breve
introduzione, che insiste sulla condizione del guarito ormai
tagliato fuori dalla relazione con «i Giudei» (v. 35a), un breve
dialogo con duplice scambio di battute tra Gesù e il cieco por
ta alla piena rivelazione dell’uno e alla pienezza dell’incontro
di fede per l’altro (vv. 35b-38a); il gesto della prostrazione tra
duce corporalmente l’atto di fede e sigilla l’incontro (v. 38b).
Il dialogo è costruito in forma chiastica:
64 Cfr. Reynolds. Non si parla di un atto di fede nel Figlio dell’uomo nemmeno
nella letteratura biblica o giudaica peritestamentaria.
suo ruolo giudicante. Donatosi immediatamente con la fede a
colui che gli ha donato la vista, interna ed esterna, il cieco di
venuto vedente si prostra davanti al Figlio deH’uomo (cfr. 1
Enoc 48,5). Né in Giovanni né nei sinottici esiste narrazione di
un incontro con Gesù di Nazaret paragonabile all’intensità e
pienezza di questo in cui la figura umana del Gesù pre-pasqua-
le è riconosciuta, per fede, in tutta la sua trasparenza e trascen
denza e in cui, alla fede di un uomo, Gesù si consegna nell’in-
tegralità del proprio mistero custodito nella cifra del Figlio
dell’uomo.
vv. 39-41. Il significato della storia del cieco divenuto veden
te viene esplicitato in un detto che esprime il senso e lo scopo
della missione di Gesù («sono venuto per»: v. 39) e in un bre
ve dialogo con i «farisei che stavano con lui» (vv. 40-41) che
riprende il dialogo con i discepoli all’inizio del capitolo (vv.
2-5). La storia del cieco dimostra il fine salvifico della missione
di Gesù: operare un «giudizio» (krima), cioè discernere luce
da tenebra, vera da falsa sapienza, e provocare una scelta (3,17-
21). Come nel caso profeta Isaia, la missione di Gesù implica
anche l’accecamento degli occhi che non vedono credendo di
vedere (Is 6,9-10; Gv 12,39-41); solo denunciando e persino
sfidando l’ingiusta pretesa di chi crede di vedere, provocando
ne l’accecamento, può aprirsi lo spazio per l’azione del Servo
destinato ad aprire gli occhi dei ciechi. I farisei, che reagiscono
alla parola di Gesù, sono probabilmente vicini a Gesù non
solo al livello spaziale. Il sintagma che esprime tale vicinanza
(«quelli che erano con lui») indica un rapporto di familiarità
determinato da una missione che si svolge insieme (Gen 24,54;
Me 2,25 / / Le 6,3 e Mt 12,3), dall’appartenenza a uno stesso
gruppo (Ger 41,3; Dn 10,7; Mt 27,54; Me 1,36) o dall’appar
tenenza di alcuni ad altri (Ap 17,14). In Gv 3,26 viene usata
per indicare il rapporto tra Gesù e Giovanni; in 11,31 quello
tra Maria di Betania e «i Giudei» venuti per consolarla della
morte del fratello. È possibile, dunque, che si tratti di poten
ziali discepoli di Gesù provenienti dall’ambiente dei farisei.
Anzitutto per loro, il caso del cieco è la parabola in azione che
la similitudine del pastore e del gregge illustrerà col linguaggio
metaforico (10,1: 18). Nella misura in cui riconosceranno la
propria cecità, essi potranno, come il cieco, allinearsi a Gesù;
finché pretenderanno di vedere, saranno loro a portare la re
sponsabilità di una cecità non guaribile, come quella manife
stata, col suo carico di violenza, dagli interlocutori del cieco.
Tanto l’estrinseca e astratta precomprensione dei discepoli
(9,2) quanto il giudizio erroneo de «i Giudei» (9,34) sono ri
baltati.
Dal cieco divenuto vedente la Luce venuta nel mondo può
essere accolta senza alcuno ostacolo od opacità; il dono della
vista fatto a lui, per converso, significa il «giudizio» sul mondo
e costituisce un appello ad andare continuamente verso la luce
e a credere nella luce per diventare figli della luce (12,35-36).4
4.1. Contesto
65 H Vangelo di Filippo la definisce «la compagna» del Signore (59,10) o «del Figlio»
(63,33) e dice che il Signore Tarnava più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla
bocca {Ivi), indicando con questo linguaggio la dignità di Maria come figura del per
fetto gnostico e simbolo della Sofia unita al Salvatore. Nella letteratura cristiano-
gnostica, le è attribuito un intero testo, il Vangelo di Maria (su cui cfr. A. Puig i Tàrrech,
I vangeli apocrifi, voi. II/l San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,253-279).
a mantenere con il gesto della visita alla tomba un qualche
contatto o continuità con la storia del maestro che sembra es
sersi conclusa tragicamente (11,31). L’indicazione cronologica
è duplice. Si tratta, come nei sinottici (Mt 28,1; Me 16,2; Le
24,1), del primo giorno della settimana. Alla lettera, del «gior
no uno dei sabati», espressione che richiama il primo giorno
della settimana della creazione (Gen 1,5). Se si considera il
computo dell’ultima settimana di Gesù iniziato in Gv 12,1 («sei
giorni prima della pasqua»), questo giorno «uno» coincide in
Giovanni con l’ottavo, il primo dopo il settimo (lo sabbàt pa
squale): come ottavo esce dal computo concluso dei sette, dice
la pienezza e inaugura la novità (cfr. anche «dopo otto giorni»
in 20,26). Anche il dettaglio relativo all’ora di questo giorno,
«di buon mattino, che ancora era tenebra», richiama l’alter
nanza notte giorno del racconto delle origini e, simultaneamen
te, la sua rilettura in 1,4-5: quanto sarà sperimentato in questo
giorno dai discepoli ha a che fare con l’inizio della creazione,
anzi con la nuova creazione in cui la Vita del Logos-Luce vin
ce la tenebra del mondo. La sottolineatura «che c’era ancora
tenebra», oltre a riprendere un dato tradizionale relativo alla
visita delle donne al sepolcro (Mt 28,1: al chiarore del primo
giorno; Me 16,2: al mattino presto; Le 24,1: all’alba profonda),
fa ancora percepire la tensione e il conflitto che fa da sfondo
alla vittoria del Risorto.
vv. lb-13 (la complicazione). Il fatto che sconvolge Maria è
la visione del sepolcro senza la pietra posta a sigillarlo. Davan
ti alla «pietra tolta», senza avvicinarsi per vedere all’interno,
essa deduce che altri «hanno tolto» il corpo stesso del Signore.
Mentre i sinottici usano un verbo specifico, apokylid (rotolare),
Giovanni usa il verbo atro che ha un significato molto più am
pio (prendere, togliere, portare via, sollevare, eliminare) e gli
è molto caro. Nel racconto della risurrezione di Lazzaro era
già stato usato per indicare il movimento di rimozione della
pietra del sepolcro fatto su ordine di Gesù (Gv 11,39.41) e
anche altrove viene usato per indicare il sollevamento di pietre
piccole (8,59). Assume un significato negativo proprio in rap
porto a Gesù quando esprime l’intenzione de «i G iudei» di
eliminarlo facendolo condannare a morte (19,15; cfr. 10,18) e
quando scandisce le operazioni di rimozione dei cadaveri dal
le croci (19,31.38). «Togliere», però, è anche ciò che Gesù fa
in rapporto al peccato (1,29); è il gesto di liberazione del tem
pio da ogni profanazione ordinato da Gesù (2,16); è il gesto
del paralitico di sollevare il proprio lettuccio, segno del recu
pero totale della mobilità (5,8-12). La pietra tolta, dunque,
potrebbe significare estrema perdita (persino il cadavere di
Gesù è stato sottratto al saluto e al pianto dei suoi cari) o estre
ma liberazione (il Signore è libero dalla morte). L’interpreta
zione del segno del sepolcro aperto data dalla Maddalena a
Pietro e al discepolo amato va nella prima direzione. Il para
dosso della sua deduzione è ben espresso linguisticamente dal
rapporto tra il «togliere» e «il Signore»: Maria considera Gesù
morto come oggetto passivo della manipolazione altrui; al con
tempo, però, il narratore suggerisce al lettore che il Signore
non può essere oggetto passivo dei gesti di morte altrui. La sua
vita non può essere «tolta»: è donata per essere ripresa (10,18).
Sul piano dell’azione, comunque, il problema che la M ad
dalena pone implicitamente ai due discepoli è quello del recu
pero del cadavere di Gesù (v. 15): il «non sapere dove» sia
stato deposto è una mancanza di conoscenza da colmare al
fine di recuperare il contatto fisico col corpo. La dichiarazione
di ignoranza coinvolge un soggetto plurale («non sappiamo»)-.
Maria parla forse a nome delle donne, sue compagne di pelle
grinaggio secondo la tradizione sinottica? Forse, piuttosto, si
associa enfaticamente ed emotivamente i suoi interlocutori,
Pietro e il discepolo amato, nell’angoscia della scoperta. Nella
sua dichiarazione di ignoranza, il lettore vede riapparire il tema
giovanneo dell’elusività di Gesù, sempre (ri)cercato, che con
trassegna dal suo inizio anche la storia discepolare (1,38).
La reazione dei due discepoli - l’uno scomparso dalla scena
dopo il rinnegamento di Gesù fatto prigioniero (18,15-18.25-
27), l’altro presente insieme alla Maddalena presso la croce
(19,25-27) - ripete il gesto iniziale della donna: «venire al se
polcro». Se la donna aveva corso per riferire della tomba aper
ta, i due «corrono» per costatare il fatto. Su questo punto la
tradizione giovannea è vicinissima a quella lucana: «Pietro, al
zatosi, corse al sepolcro e chinatosi a guardare vide solo i teli.
E se ne tornò sui suoi passi pieno di stupore per l’accaduto»
(Le 24,12; cfr. 24,24). La differenza principale tra le due con
siste nel fatto che nel Quarto Vangelo il soggetto coinvolto non
è solo Pietro ma anche il discepolo amato e che è anzitutto di
lui che Gv 20,5 dice quello che Le 24,12 dice di Pietro, per poi
farli tornare insieme sui loro passi (Gv 20,10). In Luca, inoltre,
la visita di Pietro al sepolcro segue l’annunzio pasquale delle
donne e il suo stupore anticipa già la gioia dell’incontro con il
Risorto (Le 24,41), mentre in Giovanni le parole di Maria non
hanno alcuna intonazione pasquale.
Se si ritiene che «l’altro discepolo» che introduce Pietro nel
cortile del sommo sacerdote in G v 18,15-16 sia il discepolo
amato, come penso probabile, il riapparire di Pietro dietro a
lui, rimasto vicino al Signore fino alla fine, suggerisce che anche
la storia discepolare di Simone di Giovanni, soprannominato
la Roccia («Cefa» o Pietro: 1,40-42), è destinata a uno sbocco
positivo nonostante il fallimento nella sequela pre-pasquale
preannunciato da Gesù stesso (13,6-10.36-38). Per il momen
to Pietro «segue» l’amato e «i due insieme» corrono al sepol
cro. L’espressione, che ricalca il linguaggio biblico (senèhem
yahdàw, cfr. Gen 22,6.8), dice la strettissima relazione tra i due
e, al contempo, garantisce la validità della loro testimonianza
al maschile.66 Al discepolo amato il narratore lascia il primato
«D ue o tre testimoni» sono necessari per una deposizione valida (Dt 17,6; 19,15;
Gv 8,17; 2Cor 13,1; lTm 5,19; Eb 10,28).
temporale nella corsa e nel costatare la situazione del sepolcro
dall’esterno (w. 4-5: «arrivò per prim o... non entrò»; v. 8:
«era arrivato per primo al sepolcro»). A Pietro, invece, riserva
il primo posto nell’osservare il dettaglio della situazione all’in
terno (v. 6: «ed entrò nel sepolcro») e della precisa disposizio
ne dei teli funerari ormai svuotati del cadavere (w. 6-7), per
poi associare alla sua anche la visione del discepolo amato (v.
8: «Solo allora entrò... e vide»).
Cosa vedono i due testimoni? Traduzione e interpretazione
dei w. 5-7 sono, da questo punto di vista, una crux interpre
tum .61 I panni mortuari (tà othónia) sono visibili, già a chi
china il capo per guardare dall’esterno attraverso l’apertura
bassa della tomba scavata nella roccia, come deposti o «gia
centi», cioè distesi sul banco di pietra della deposizione del
cadavere (v. 12); il sudario (soudàrion) posto sul capo, invece,
avvolto a parte. Il primo sostantivo è usato nel Nuovo Testa
mento solo in Le 24,12 e in G v 19,40 e 20,5-7 per indicare
l’insieme dei teli funerari con i quali il corpo di G esù era
stato legato e avvolto per la sepoltura dopo la deposizione
dalla croce. Il secondo - termine di origine latina (sudarium)
sotteso anche all’aramaico sudara ’ che indica un velo di ampie
dimensioni che può fungere anche da mantello (cfr. targum
Rut 3,15) - è usato solo due volte in Luca-Atti per indicare
un fazzoletto e in G v 11,44 per indicare il pezzo di tessuto
che copre il volto di Lazzaro morto (per qualcuno, a mo’ di
mentoniera). In quest’ultimo senso è da intendere anche in
20,7. In 20,5-7 i teli sono visti poggiati e piatti, come svuota
ti del loro contenuto, sulla pietra dove era stato deposto il
cadavere; il sudario, invece, si trova avvolto a parte rispetto
agli altri panni. L’insistenza accurata sui dettagli esprime l’in
tenzione del narratore di comunicare quanto inconsueta e
inspiegabile dovesse essere apparsa ai discepoli la visione dei67
67Cfr. GmBERn.
teli, anche se al lettore non è facile ricostruirne con certezza
la disposizione fisica.
Dalla posizione e conformazione dei teli, quanto meno, ai
discepoli doveva apparire chiaro che il cadavere di Gesù non
era stato trafugato come temeva Maria. Il dettaglio, infatti,
spiega il credere del discepolo amato al v. 8: «E vide e credet
te». Coerentemente con la strategia e teologia giovannea che
connette l’atto di fede all’esperienza concreta del Cristo e, in
specie, alla «visione» di lui e dei suoi segni (2,23; 6,40; 19,35),
anche nel caso del discepolo amato vedere e credere sono mes
si in parallelo come causa l’uno dell’altro. Diversamente che
nel caso di Tommaso (20,25.27.29), però, il credere del disce
polo amato non è determinato dalla visione del corpo del Cri
sto risorto ma dall’anomala assenza del suo cadavere dal sepol
cro. Bende e sudario privi del corpo fungono per lui da segni
che stimolano una «consapevole fiducia» in Gesù correlata
all’esperienza della sua presenza amante prima della morte e
in fluida continuità con quella.68 Al v. 9 il commento del nar
ratore esplicita il carattere ancora incipiente e intuitivo della
fede del discepolo amato per affermare, allo stesso tempo, l’as
soluta novità dell’esperienza pasquale. Il discepolo amato, in
fatti, vede degli indizi che gli fanno presentire un accadimento
di vita che stimola fiducia anche se tale accadimento «non» ha
«ancora» una configurazione esperienziale e parola adeguata
a esprimerlo: «non avevano ancora capito la Scrittura». La ri
surrezione di Gesù è indeducibile a tavolino; non è affermabi
le come atto scribale d’esegesi della Scrittura. Non è una ne
cessità razionale, ma la rivelazione del disegno salvifico in essa
inscritto e compiuto nel modo e nel tempo prestabilito. Prima
di sperimentarla pienamente come evento, la lettura delle Scrit
ture non basta a comprenderla. Una volta sperimentata, però,
ne costituirà la chiave stessa (lC or 15,4; Gv 2,22; At 2,22-36;
68 G hiberti, 127.
4,2)! Dal punto di vista narrativo, conseguentemente, il crede
re del discepolo amato non ha alcuna conseguenza nella storia:
i due discepoli se ne tornano indietro e la loro visione del se
polcro non risolve il dramma della Maddalena (Gv 20,10). Un
input, però, è lanciato al lettore riguardo al modo in cui può e
deve disporsi a interagire con la testimonianza del narratore
sui «segni» di Gesù per vivere, a sua volta, la relazione fluida
e piena con lui dopo la Pasqua.69
La telecamera, a questo punto, ritorna sulla Maddalena, che
il lettore comprende essere ritornata con i due discepoli al
sepolcro (w. 11-13). Come prima «stava» insieme alle altre
donne e al discepolo amato presso la croce di Gesù (19,25)
così ora «sta» davanti al sepolcro. La sua permanenza tenace
nel luogo della morte e della sepoltura ricorda anche lo «stare»
del testimone Giovanni dal quale prende avvio la storia disce-
polare (1,35): lo «stare» della Maddalena, dunque, definisce
un arco tra inizio e fine del discepolato storico di Gesù e, al
contempo, inaugura l’inizio della testimonianza pasquale del
Risorto. Prima dell’incontro con il Risorto, però, la sua presen
za è caratterizzata da un lutto senza consolazione: il verbo
«piangere», che ricorre tre volte al participio presente, all’im
perfetto e all’indicativo presente, è l’azione che maggiormente
identifica la Maddalena (w. 11.13); evoca il pianto di Maria di
Betania e de «i Giudei» per la morte di Lazzaro (11,31.33) ma
anche il pianto dei discepoli annunciato da Gesù (16,20). Col
suo pianto la Maddalena esprime tutto il peso dell’assenza del
Signore e della separazione determinata dalla sua morte che,
solo dopo, sarà riconosciuta come preludio di una vita ulterio
re, sovrabbondante, non «toglibile» (16,22). Il suo piangere,
tuttavia, si accompagna al medesimo gesto compiuto dal disce
polo amato: chinarsi per guardare dentro (v. 5). Il racconto
giovanneo richiama, a questo punto, la tradizione sulla visione65
5. Linee teologiche
71Motyer, 198-199.
spontaneo di una storia delle idee giunta a piena maturazione,
ma primariamente l’audace espressione verbale di ima cono
scenza relazionale consentita dalla fede e maturata dall’espe
rienza di Gesù letta a partire dalla Scrittura.
5.1. La soteriologia
5.2. La cristologia
5.3. La pneumatologia
74 Cfr. Stibbe.
«m andato» insieme dal Padre e dal Figlio come dono della
loro intima unità e prende, presso i discepoli, il posto di Gesù
ormai assente.75 Non è definito solo come «Spirito Santo» (Gv
14,26; 20,22), secondo l’uso antico- e neotestamentario più
tradizionale, ma anche come «lo Spirito di verità» (14,17;
15,26; 16,13)76 e «il Paraclito» (14,16; 15,26), cioè colui che è
«chiamato-presso» per difendere un imputato nel contesto di
un processo o per sostenere e consolare.
Entrambi i titoli, in Giovanni, si spiegano a partire dalla
metafora processuale che caratterizza la sua presentazione del
ministero di Gesù e del destino dei suoi stessi discepoli: lo
Spirito è inviato, dopo la partenza di Gesù, per continuare
presso, con e in loro (14,17) la sua medesima testimonianza nel
«mondo» nella duplice funzione di difensore di Gesù e di pro
tettore, consolatore, dei discepoli. Come Gesù, anche lo Spi
rito «discende dal cielo» (1,32), appartiene cioè interamente
alla realtà di Dio opposta alla realtà del mondo signoreggiato
da un «principe» che è menzognero e padre della menzogna
(8,44). Sarà contro l’azione di questo «principe», in ultima ana
lisi, che i discepoli insieme allo Spirito continueranno la testi
monianza di Gesù alla verità (16,11; 18,37) vivendo, come
nuove creature generate «da acqua e da Spirito», l’esperienza
del regno di Dio (3,3-8) e mostrandone la profonda alterità
rispetto alle logiche di potere violento del «mondo». Non a
caso in Giovanni - come del resto anche nella tradizione sinot
77 Sul rapporto tra l’acqua purificante e il dono divino dello «spirito di verità»
nella nuova creazione, cfr. lQ S a Regola della comunità 3,6-8; 4,18-25.
Donato dal Risorto dopo la passione (ma cfr. già 19,34),
esso è anche simultaneamente il «giudizio» di salvezza del
Creatore sulle creature ed è donato proprio perché i testimoni
di Gesù possano portare nel mondo la testimonianza divina
del perdono (20,23): non un perdono che ignora il peccato del
mondo (16,8-11), ma il perdono che lo denuncia e lo porta via
(1,29). Giustamente, Giovanni può affermare con decisione
che prima della «glorificazione» di Gesù «non c’era lo Spirito»
(7,39): c’era, continuo e pieno, su lui in quanto Figlio (1,32-33;
3,34) ma non ancora riversato sul mondo come purificazione
dal peccato prima della sua passione. Per questo, anche, «gio
va» che Gesù «vada», cioè si separi fisicamente per sempre dai
discepoli con la sua morte-per (16,7; indirettamente anche
11,50), perché lo Spirito del perdono «venga», testimonianza
fedele, intima e continua della verità-fedeltà di Dio e della sua
nuova creazione a dispetto e al cospetto del peccato del mon
do. Continuando l’azione di «insegnamento» del Gesù terreno,
lo Spirito, infatti, ne continua anche la glorificazione (14,26;
16,12-15) rendendo presenti, efficaci e sempre più intellegibi
li ai discepoli, passo a passo con la loro storia nel mondo, le
parole del Figlio che sono «Spirito e Vita» (6,63). Come, cre
dendo, si «riceve» il Logos divenuto carne e, in lui, la pienezza
della relazione con Dio, così, nell’incontro con il Risorto, i
discepoli «ricevono» il dono rinnovante dello Spirito simulta
neamente alla missione per testimoniare al mondo la Parola
divenuta carne.
5.4. Lescatologia
78 B r o w n , Introduzione, 256-257.
(4Q181 Le dieci generazioni 1,3-4). Su questo sfondo linguisti
co e teologico, a partire dalle proprie tradizioni gesuane e dal
confronto con altre tradizioni neotestamentarie che insistevano
alternativamente - ma non esclusivamente - sull’uno o l’altro
aspetto del compimento (Le 17,20-21.22-37; lTs 4,13-5,10 e
2Ts 2; lC or 10,11; 15,12-58), Giovanni può avere maturato,
senza contraddizione, la propria concezione.
La si può comprendere e interpretare, poi, alla luce della
cristologia, della soteriologia e della pneumatologia giovannee.
La riflessione prolungata sul significato e sull’avvento dell’«ora»
di Gesù - intesa già nei segni che ne anticipano la Gloria (la
risurrezione di Lazzaro) come evento di rivelazione e di com
pimento escatologico dell’agire creatore e redentore di Dio -
segna il passaggio definitivo da una concezione quantitativa o
cosmologica del tempo a una qualitativa, del tutto condiziona
ta dall’esperienza cristologica. Se di dottrina delle «cose ulti
me» bisogna parlare in Giovanni, se ne può parlare solo in
termini di escatologia personale cristocentrica: risurrezione
(escatologia futura) e vita (escatologia presente) coincidono
con la persona di Gesù di Nazaret (11,25-26). «Cristo è l’even
to escatologico che libera dalla morte e dalle tenebre»79 e segna
«il cambio degli eoni».80 La vita eterna è la relazione intima (il
«conoscere») col Padre e col Figlio (17,2) e, ove si tratta di
questa relazione, le «delimitazioni temporali» vengono messe
«totalmente da parte».81 Come il «non poter trovare» Gesù è,
per chi lo cerca ambiguamente, minaccia del proprio fallimen
to escatologico (7,34-36; 8,21), così il «trovarsi» reciproco di
Gesù e di quanti vanno a lui (1,41.45; 5,14; 6,25; 9,35; 11,17)
è già esperienza della presenza vivificante e salvifica di Dio
nella e oltre la storia, pegno di un sicuro «essere con» Gesù là
79 G nilka, 284.
80 B rown, Introduzione, 262.
81 G nilka, 287.
«dove egli è» (6,62; 12,26; 13,36; 14,3; 17,24).82 Di questo «do
ve», già i discepoli conoscono la «via» (14,3) per percorrere la
quale hanno la guida dello Spirito (16,13), partecipando già ai
doni tipici dell’era escatologica come la gioia e la pace (14,27;
15,11; 16,20-24.33; 20,19.21.26).
Certamente in Giovanni (come e più che in Luca-Atti) si
può, dunque, parlare di un tempo dello Spirito che segue al
tempo della vita storica di Gesù di Nazaret (7,39) e prepara,
anticipandolo, quello del suo venire finale. I discorsi di addio
annunciano esattamente questo tempo come il tempo di vita e
di testimonianza dei credenti destinato a coinvolgere e inclu
dere il «m ondo» (17,21.23). In questo senso, è vero anche per
Giovanni che «la salvezza richiede tempo, non solo perché
essa si realizza nella storia, ma anche perché vi sono fasi diver
se nella sua realizzazione».83 Questo tempo, però, non si pone
rispetto agli altri due in termini di mera sequenza: il presente
del «dimorare» e del «manifestarsi» del Padre e del Figlio in
chi custodisce la parola e ama G esù (14,21-24) «recupera
nell’adesso anche passato e futuro»;84 ne partecipa e li manife
sta. L’«ultimo giorno», per Giovanni, non è qualitativamente
diverso dal «giorno» di Gesù già visto con giubilo da Abramo
(8,56): manifesto nella sua più vera luce nel giorno ottavo, fuo
ri la misura dei «sette giorni» della prima creazione, il giorno
di G esù non è più qualcosa da attendere. L’esperienza
dell’«ora» a venire è già l’«adesso» per i credenti (4,23; 5,25;
11,22; 12,31; 21,10).
5.5. La teologia
5.6. Lecclesiologia
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LETTERE D I GIOVANNI
1. Questioni storico-letterarie
4 Hengel, 103.
5 II termine «anticristo» è di conio giovanneo e non è attestato prima nella lettera
tura giudaica o giudaico-cristiana. Nel linguaggio giovanneo esso designa, in prospet
tiva cristologica, l’avversario di Dio atteso nell’ora ultima e culminante della rivelazio
ne divina secondo la tradizione apocalittica (Me 13,14; 2Ts 2; Ap 13). L’apparizione
di «maestri d’errore» era attesa in connessione ad essa: nella Prima e Seconda lettera
di Giovanni i seduttori escatologici sono tali proprio come «anticristi» (cfr. Hengel,
e specificamente negatori della messianicità di Gesù. A loro
attribuisce un'azione di insegnamento ingannevole con la qua
le, al presente, essi insidiano i suoi destinatari (2,26: «Questo
vi ho scritto riguardo a quelli che cercano di ingannarvi»);
- in lG v 4,1-6 richiama la situazione di rottura guardandola dal
la prospettiva giudaico-apocalittica del discernimento tra gli
spiriti, lo spirito della verità e lo spirito dell'inganno. Di coloro
che sono mossi da quest'ultimo, parla come di «falsi profeti
usciti nel mondo» (v. 1), in tutto appartenenti al «mondo» in
teso come ciò che si oppone a Dio e alla sua azione rivelatrice
e salvifica. Li dichiara riconoscibili dal fatto che negano la mes
sianicità di Gesù, uomo storico e mortale («Gesù Cristo venu
to nella carne»: v. 2). Dello spirito che li muove parla come
dello spirito «dell'anticristo» già presente nel mondo (v. 3). La
contrapposizione tra questi e i suoi destinatari è ancora più
marcata: quelli «sono dal mondo», i suoi destinatari «sono da
Dio»;
- altrove, soprattutto nella prima sezione del corpo di 1 Giovan
ni, le tesi degli interlocutori polemici sono velatamente indica
te quando, parlando in prima persona plurale («Se diciamo...»)
o in terza singolare («Colui che dice...»), l'autore stigmatizza
come false delle affermazioni verbali: o perché smentite dalla
condotta (1,6; 2,4.9) o perché giudicate erronee e ingannevoli
(1,8.10). Si tratta, in questi casi, di affermazioni che lasciano
trasparire un'antropologia e un'etica alquanto arroganti: si cam
mina nella tenebra pur pretendendo di vivere in comunione
con Dio (1,6), non si osserva il comandamento dell'amore e si
odia il fratello (2,4.9-11), si crede di non avere peccato né bi
sogno del sangue purificatore di Gesù (1,8.10) ma, in pratica,
si commette il peccato fondamentale che è quello di Caino
(3,7-18) presumendo un'unzione che, invece di unire a Gesù
Cristo, al Padre e ai fratelli, separa;
142-143). Il passaggio dal singolare (la figura astratta dell’anticristo) al plurale (le sue
incarnazioni concrete) dice quanto Fautore consideri la crisi attraversata dalla comu
nità come la prova dell’avvento dell’ora culminante della storia del mondo e della
battaglia escatologica conclusiva.
- in 2Gv 7-11, di nuovo, si trova un riferimento a «molti ingan
natori» che «sono usciti nel mondo» (cfr. lG v 4,1) identificati
dal rifiuto di confessare Gesù come Messia nel suo venire pro
fondamente umano e storico («G esù Cristo che viene nella
carne»).6 Di chiunque condivida tale rifiuto Fautore parla come
de «Fingannatore e Fanticristo» mettendo drasticamente in
guardia i suoi destinatari da qualunque forma di «comunione»
spirituale con lui (saluto di pace e accoglienza nella casa della
comunità). Più chiaramente che nella Prima lettera, in cui si
rimandano i destinatari alF«insegnare» sicuro del «crism a»
dello Spirito (lG v 2,27), Fautore parla qui della «dottrina» o
insegnamento «del Cristo» nel senso soggettivo e oggettivo: che
ha, cioè, il Gesù terreno come origine e perpetuo fondamento
(Gv 7,16-17; 8,31; 18,19) e nella proclamazione della sua vera
identità di Messia e Figlio di Dio il contenuto salvifico. L’atteg
giamento di chi «rimane» in essa è contrapposto a quello di chi
Fabbandona «procedendo oltre {ho proàgòn)». Al rimanere
nell’insegnamento cristico è connesso il possesso di Dio, cioè
la comunione «col Padre e col Figlio» (lG v 2,23); all’abban
dono di esso sono connessi invece il non possedere Dio e «ope
re malvagie». L’autore raccomanda ai destinatari di guardarsi
bene da chi nega la messianicità di Gesù per non perdere il
frutto escatologico del suo riuscito lavoro missionario (2Gv 8;
cfr. Gv4,36);
- in 3Gv 9-10 i motivi e i protagonisti del conflitto sono più
circostanziati: un personaggio di nome Diotrefe, membro de
«la chiesa», è in conflitto aperto con il Presbitero e ne rifiuta
l’autorità («non ci accoglie»). Questi lo definisce polemicamen
anche VON W AHLDE, The Gospely3,2-5 ritiene che, ricevuto in dono lo Spirito nella
sua pienezza escatologica, secondo la promessa di Gesù stesso, i secessionisti credes
sero di poter fare a meno di Gesù come Cristo e Figlio unico di Dio. Anche loro si
ritenevano unti e figli senza bisogno della sua mediazione e non attribuivano alla sua
morte alcun significato soteriologico.
9L ieu, 26-31.37-47.
10G r i f f i t h , 149-191.
nica (una cristologia) diversa dalla propria, ma il rifiuto stesso
di riconoscere l’identità di Messia Figlio di Dio a Gesù in quan
to uomo mortale e, di conseguenza, un valore alla sua morte
come espiazione per il peccato (2,2; 4,10). Dalla confessione o
meno della specifica messianicità di Gesù, infatti, sarebbe di
pesa anche una certa visione di Dio e della redenzione (4,9-
10.14). «Credere nel nome del Figlio di Dio» (5,13), ovvero
professare l’identità messianica di Gesù, così come nella com
prensione giovannea era stata risignificata e compresa in ter
mini teologici, era il passo decisivo e rivoluzionario.11 Dalla
confessione o meno della messianicità di Gesù dipendevano
l’esperienza e la concezione della redenzione (soteriologia) co
me esperienza di comunione vitale con Dio e con i fratelli inau
gurata e resa possibile dal sangue di Gesù (1,7) e dal dono
dello Spirito (pneumatologia) e, correlativamente, la conoscen
za vivificante del «vero Dio» (teologia) capace di trasformare
l’esistenza (antropologia ed etica). D alla proclam azione
dell’identità messianica di Gesù dipendeva la rivelazione del
volto di Dio come rivelazione storica, concreta, sociale e veri
ficabile nella trasformazione del tessuto relazionale tra gli uo
mini.
D a questo punto di vista, mi sembra si possa dire che il
conflitto riconoscibile nelle prime due Lettere faccia da sfondo
a quello personale insorto tra il Presbitero e Diotrefe. Il tipo
di relazione geografica e spirituale tra la chiesa destinataria di
2 Giovanni («la signora eletta»), quella da cui scrive il Presbi
tero (2Gv 13), quella di cui il Presbitero parla in 3Gv 9 e quel
le cui appartengono Gaio, Demetrio e Diotrefe, è storicamen
te molto difficile da ricostruire nei dettagli. Se si ipotizzasse
che «la chiesa» cui il Presbitero si riferisce in 3Gv 9a, accen
nando a una lettera inviatale, fosse la stessa destinataria di
” L ieu, 70-73.
ta fede e seminare in essa atteggiamenti e convinzioni in nulla
conformi alla professione di fede e al comandamento dell’amo
re. L’autore, stavolta, sembra meno preoccupato di consolida
re nell’annuncio originario e nei suoi risvolti pratici i suoi de
stinatari (5-6) che di dare indicazioni concrete per evitare che
la predicazione antimessianica attecchisca e comprometta la
piena riuscita della missione da lui condivisa con i suoi desti
natari (7-11). Il vincolo di comunione che lo lega a loro sembra
più pacifico che nel caso della Prima lettera e il tenore del testo
più sereno. Significativamente, la metafora familiare utilizzata
per esprimere il vincolo non è più quella asimmetrica del rap
porto padre-figli, ma quella paritaria del rapporto tra chiese
sorelle ciascuna con i suoi «figli» o componenti (4.13). Il titolo
d’onore col quale si presenta (l’Anziano) non sembra legato a
esigenze polemiche o apologetiche: speculare a quello attribu
ito alla chiesa destinataria («Signora»), esprime e presuppone
il reciproco riconoscimento di identità in una storia condivisa.
Di conseguenza, l’autore insiste sulla relazione d’amore che lo
lega stabilmente, nella «verità che rimane» (allusione tanto al
la rivelazione cristologica quanto alla sua permanente efficacia
garantita dallo Spirito), alla comunità eletta e ai suoi figli fede
li. Su questo sfondo sicuro, si limita a porgere un invito (5) e
a mettere in guardia (8.10-11).
In 3 Giovanni, invece, i toni diventano nuovamente critici
e a tratti nervosi. Il destinatario Gaio, chiamato «carissimo» e
considerato implicitamente «figlio» dal Presbitero (3-4), si tro
va - o, in ogni caso, è posto dalla stessa Lettera - al centro
dello scontro personale in atto tra la figura del Presbitero - la
cui autorità non sembra in discussione tra «i fratelli» (3.5),
nella propria comunità (6) o nella chiesa cui egli può ancora
permettersi di scrivere autorevolmente (9-10) - e un leader
pretenzioso della chiesa a cui ha scritto (Diotrefe). Più che di
«chiarire concrete situazioni di politica ecclesiastica» (come
portare avanti G aio quale legittimo leader e delegittimare
Diotrefe),14 l’obiettivo primario del Presbitero è quello di so
stenere il suo destinatario nelle scelte già fatte nei confronti dei
missionari itineranti (tra cui, forse, lo stesso Demetrio proba
bile latore della Lettera: 5-8.11-12). La strategia, dunque, è
duplice anche qui: in positivo, egli difende l’importanza e la
dignità della missione itinerante (7) e la bontà dell’atteggia
mento di ospitalità che Gaio ha già manifestato ed è invitato a
portare avanti fino in fondo come gesto di vera «cooperazione
alla verità» (8); in negativo, denuncia l’arroganza e la malvagi
tà di parole e opere che rivelano la non esperienza di Dio (1 lb)
e che hanno come conseguenza la lacerazione violenta e arbi
traria del tessuto ecclesiale (9-10). Di nuovo, l’autore sente il
bisogno di fare appello alla propria autorità, ma si tratta sem
pre di un’autorità testimoniale (12), fondata sulla verità e or
dinata alla verità (1.3-4.12) che altro non è che la verità
dell’amore (si veda in 3.6 il parallelo tra «testimoniare della tua
verità» e «testimoniare della tua carità»). Anche nei confronti
di Diotrefe è evidente che il Presbitero non può né intende
fare appello ad argomenti di tipo istituzionale-giuridico: se la
sua autorità è contestata, sarà solo la prova delle opere malva
gie a testimoniare a suo favore e contro Diotrefe al cospetto
della comunità (10).
Almeno due tratti comuni mi sembra si possano individua
re nella strategia impiegata da chi scrive nelle tre Lettere. An
zitutto, egli fonda la propria autorità su una identità testimo
niale e nella testimonianza alla verità (cioè alla rivelazione
cristologica e all’esperienza di salvezza e di comunione con Dio
che essa implica) egli riconosce già coinvolti i suoi destinatari,
L’argomento d’autorità funziona solo perché intrinseco all’espe
rienza propria e dei suoi destinatari: «L’autorità si trova all’in
terno della vita e dell’esperienza della comunità credente; pro
seguire nel cammino è un compito comune e l’esame della
15 L ieu, 43.
16H engel, 93.
17 Brown, Le lettere, 146.
custodirne gelosamente con la confessione di fede il solo fon
damento sicuro ed efficace, quello costituito dalla rivelazione
salvifica dell’essere e del dono di Dio in Gesù Cristo.
28Cfr. Manns.
in mente l’impeccabilità connessa alla nuova alleanza e al suo
continuo compiersi quale evento escatologico di vita eterna.29
Il «non peccare», infatti, è proprio solo di chi «rimane nel Fi
glio» (3,6) ed è direttamente proporzionale all’essere perenne-
mente generati da Dio: come il «rimanere» non è mai un atto
compiuto una volta per tutte che si possa dire al passato ma
può essere detto solo al presente, così anche la generazione da
Dio viene detta al perfetto che indica un atto compiuto nel
passato ma con conseguenze permanenti (ho gegennèménos...
gegénnetai). L’impeccabilità, dunque, identifica l’essere dei cre
denti nel presente del loro vivere in quanto generati da Dio.
Anche alla luce di 5,16-18, si può quindi ritenere che l’impec
cabilità di chi è generato da Dio affermata in 3,9 sia da inten
dere come quella sanatio in radice che distingue la vita dei cre
denti purificati per sempre da ogni desiderio di morte e da ogni
attitudine che lo concretizzi. La loro impeccabilità è la stabile
permanenza nell’amore fraterno come immancabile dimensio
ne sociale della confessione di fede nel Cristo venuto nella car
ne, unico «precetto» che riassume la Legge di Dio (3,23).
v. 10. L’autore, coerentemente, esplicita ciò che nel v. 9 era
solo implicito: la differenza tra i «figli di Dio e i figli del diavo
lo» appare «manifesta» dalla pratica dell’amore fraterno, car
tina al tornasole di ogni azione di giustizia. Il verso è parallelo
al v. 8b.30 La «manifestazione» del Figlio permette l’identifica
zione dei figli a partire dall’agire secondo l’amore: le opere
diaboliche sono dissolte nel senso che quanti le compiono («i
figli del diavolo») sono smascherati come tali e non possono
essere confusi con «i figli di Dio», né il loro agire con un agire
secondo giustizia. Se l’autore sente la necessità di fare questo
52 K lauck, 238.
vo dei w. 7-10 e la storia biblica viene riletta nella prospet
tiva dualistica tipica della letteratura apocalittica. Il gesto
fratricida di Caino viene addotto come la concretizzazione
particolare ed estrema delle «opere malvagie» di chi « è dal
malvagio» (cfr. Testamento di Beniamino 7; Antichità giudai
che 1,52-54). Abele, vittima del gesto, non viene chiamato col
suo nome proprio né la qualificazione delle sue opere come
«giuste» ha altra motivazione che la strategia retorica della
contrapposizione. Egli funziona solo come archetipo delle
vittime dell’aggressività cieca, nefasta, di chi, partecipe
dell’operare malvagio del diavolo (lG v 3,8), rifiuta la luce
che rivela la qualità delle sue opere (Gv 3,19-21; 7,7), odia i
fratelli e li condanna a morte, giusti e inermi (Sap 2,10-24;
Mt 23,35; Eb 11,4). Significativamente, il gesto omicida di
Caino viene definito in modo crudo con un verbo utilizzato
nei Settanta soprattutto per indicare l’immolazione degli ani
mali per i sacrifici (sphàzd, «scannare, immolare») che nel
Nuovo Testamento è usato solo qui e in Apocalisse per indi
care l’immolazione dell’Agnello (Ap 5,6.9.12; 13,8), la morte
reciproca che gli uomini si danno privi di pace (6,4), quella
di una delle teste della bestia (13,3) e la morte innocente dei
martiri (6,9; 18,24): il suo «timbro cultuale»33 potrebbe già
contenere un rimando all’immolazione di Gesù e all’uccisio
ne dei suoi discepoli fatta, nella convinzione di rendere cul
to a Dio, da chi «non ha conosciuto» né G esù né il Padre
(Gv 16,2)!
v. 13. L’odio del «m ondo» (G v7,7; 15,18-16,4), correlato
alla non accoglienza e alla non comprensione della Parola del
la rivelazione (Gv 17,14; lG v 3,1), non può dunque stupire i
«fratelli» che devono, per parte loro, rafforzarsi nella «cono
scenza» dell’annuncio su cui è fondata la loro identità e porsi
non nel solco di Caino ma in quello di Cristo. Parlando
” Beutler, 91.
dell’odio del «m ondo» (che nel Quarto Vangelo è incarnato
soprattutto dall’ostilità mortale subita da Gesù e dai suoi di
scepoli in contesto giudaico) l’autore allude, probabilmente,
alla concretizzazione che esso trova nell’odio del fratello con
testato agli interlocutori polemici della Lettera e dal quale egli
sente ancora il bisogno di mettere in guardia i suoi destinatari
(2,9-11; 4,20). Se si potesse specificarne meglio sul piano sto
rico la modalità di attuazione, si sarebbe anche risolta la que
stione dell’identità di tali interlocutori e dello scisma interno
alla comunità giovannea, ma anche in assenza di dati ulteriori
mi sembra corretto non intendere la crudezza del linguaggio
dell’autore in senso solo simbolico come mera strategia retori
ca. L’insistenza sul sapere proprio dei credenti costituisce, co
munque, il polo positivo della sua argomentazione che è anche
il più rilevante.
vv. 14-15. Tra un «noi sappiamo» (v. 14) e un «voi sapete»
(v. 15) viene affermata, come frutto consapevole dell’esperien
za ecclesiale, la correlazione insuperabile tra l’amore del fratel
lo e la vita e, viceversa, tra l’odio del fratello e la morte. Il
passaggio dalla sfera della morte a quella della vita, che Gv 5,24
fa dipendere dall’ascolto della parola di Gesù e dalla fede in
Colui che è fonte della sua missione, qui è un’esperienza già in
atto («siamo passati», metabebekamen, perfetto) comprovata
dal frutto che produce: l’amare i fratelli («amiamo», agapómen,
al presente), azione continua di una relazione che rende visi
bile l’invisibile Dio così come il Cristo l’ha rivelato e traduce,
perciò, perfettamente la fede in lui (3,23; 4,7-16). Amore, in
fatti, è «il nome per la fede che quotidianamente e costante-
mente si concreta nella condotta di vita».34
vv. 16-17. Un «abbiamo riconosciuto» (v. 16) svela, e al con
tempo proclama, il fondamento cristologico dell’esperienza
ecclesiale, lo stesso per il quale l’«amore» non solo è riprova
* Klauck, 241.
della Vita che «rimane» stabilmente in chi vive in modo posi
tivo la fraternità e lo distingue da chi la vive come luogo insu
perabile di violenza e di morte, ma è anche il «dovere» dei
fratelli, tanto nella sua forma più radicale e totalizzante («dare
l’anima/vita per»; Gv 10,11.15.17-18; 15,12-13; 1G v 4,11),
quanto nella concretizzazione più elementare e quotidiana del
la compassione attiva richiesta a chi ha le ricchezze materiali e
gli strumenti di sussistenza di cui l’altro è privo (non «chiude
re le proprie viscere» al fratello nel bisogno: Dt 15,7-11; Gc
2,15-16 ma anche, in negativo, lG v 2,16). Come l’odio del
fratello viene addirittura identificato con l’attitudine omicida
(3,15; cfr. Mt 5,21-22 ma anche Testamento di Gad 4,6), così
l’omissione consapevole della cura per il fratello viene consi
derata inconciliabile con l’esperienza della vera Vita: «l’amore
di Dio», in senso sia soggettivo (lG v 3,1; 4,9-11.16) che ogget
tivo (4,20-21), non «rimane in» e non vivifica stabilmente chi
si sottrae alla relazione col fratello. Ogni omissione nell’azione
dell’amore è equiparabile a un’interruzione di vita ed è impe
dimento alla permanenza dell’amore di Dio nel cuore dei cre
denti (cfr. G c 4,17).
v. 18. Con un’esortazione che richiama il monito iniziale,
l’autore chiude l’argomentazione indicando, mediante due cop
pie di sostantivi in parallelismo antitetico, ambito e modalità
autentici dell’azione continua dell’amore. In entrambe le cop
pie, il secondo sostantivo («lingua»; «verità») va inteso proba
bilmente come la fonte da cui promana il primo e che in esso
si esprime (la lingua si esprime «con parole»; la verità si espri
me «con opere»). Una parola espressa dalla lingua, ma inope
rante e inefficace, è contrapposta a un’opera che esprime la
verità, da intendersi non nel senso soggettivo della sincerità di
chi ama ma nel senso forte che ha negli Scritti giovannei come
termine che indica la verità-fedeltà divina e, dunque, la rivela
zione cristologica (cfr. «le opere della sua verità» per le quali
Dio viene benedetto in 1QM Regola della guerra 13,2; lQ S a
Regola della comunità 1,19; 11Q17 Canti dell’olocausto del sa
bato 5,5; lQ H a Inni 9,30). Al negativo, dunque, l’autore chie
de che l’amore non sia il vanto ingannevole di chi lo proclama
a parole mentendo e non «facendo la verità» (cfr. la diatriba
iniziale che contestava la discrepanza tra un dire e un vivere in
lG v 1,6.8.10; 2,4), ma l’opera giusta (3,12) di chi ne svela con
cretamente la verità, mostrando così al contempo la novità
della rivelazione cristologica - amore di Dio svelato e operato
nella carne dell’uomo - e la propria origine da e appartenenza
a Dio (cfr. subito dopo 3,19).
3. Linee teologiche
35 Cfr., per la «tradizione dei comandamenti» nelle tre Lettere, VON W a h l d e , The
Gospely voi. 3,386-401 che ritiene che il comandamento relativo alla fede e all’amore
corrisponda al «doppio scrutinio», relativo alla fede (comprensione della Legge) o agli
«spiriti» che guidano i membri della comunità (cfr., in analogia, lG v 4,1) e alla con
dotta (l’osservanza della Legge), cui venivano sottoposti i membri della comunità di
Qumran prima all’ingresso e poi annualmente (cfr. lQ Sa Regola della comunità 3,20-24;
6,13-23). Tale interesse per la fede e la prassi era comune nel determinare l’apparte
nenza ai gruppi giudaici nel I secolo. In 1 Giovanni queste due dimensioni fondamen
tali dell’appartenenza si esprimono nelle due affermazioni capitali della Lettera: Dio
è luce (1,5); Dio è amore (4,8) e, dunque, nei due comandamenti fondamentali: cre-
dere/camminare nella verità e amarsi/amare il fratello.
36L ieu, 47.
niale cui fa appello chi le si rivolge è intrinseca e conforme
alla natura stessa della comunità dei credenti in «comunione»
tra lóro e con il Padre e il Figlio. Contro quanti pretendevano
di poter mantenere una comunione con Dio prescindendo
dall’attuazione di una relazione fraterna conforme all’essere
di Dio rivelato in Cristo, l’autore delle Lettere ribadisce con
assoluta costanza l’impossibilità di partecipare della Vita per
chi «non ama» sperimentando concretamente nella relazione
con il fratello la possibilità e la fecondità dell’amore. La fede
e l’amore assumono per questo una visibilità ecclesiale e co-
munionale. La comunione dei credenti col Padre e col Figlio,
nel segno della perfetta riconciliazione (l’«espiazione» dei pec
cati: 1,7.9; 2,2; 4,9-10.14) e del dono dell’identità filiale (3,1-3),
si concretizza proprio nel segno della fraternità e dell’amicizia
determinate dalla rivelazione cristologica (2Gv 13; 3Gv 15).
Nemmeno l’autorità che appartiene al Presbitero garante del
la tradizione è rivendicata e si esprime secondo altri parametri:
non si può mantenere al contempo la comunione riconcilian
te col Padre e il Figlio e la comunione con chi, negando il
Cristo, nega con le opere la riconciliazione e la vita (2Gv 11;
3Gv 9-10).
La rivelazione teologica e cristologica, l’esperienza della sal
vezza comunitaria e l’attuazione fedele e piena del comanda
mento divino sono, infine, posti in una cornice escatologica e
apocalittica ancora più accentuata che nel Quarto Vangelo:
l’«ora» che i credenti vivono - e che l’avvento dei seduttori e
degli anticristi svela - è quella dell’unzione dello Spirito par
tecipato intimamente ai credenti come segno del compimento
della nuova alleanza (Ger 31,29-34; Ez 11,18-21; 36,27-28;
37,26-28). In Cristo, realizzatore della nuova alleanza col dono
di sé e dello Spirito, i credenti sono partecipi delle promesse
di quella e invitati a «rimanere» in essa con la fede e con la
vita: avendo l’insegnamento interiore dello Spirito non hanno
bisogno di maestri (lG v 2,26-27; 3,24) e conoscono Dio inti-
mamente avendone interiorizzato, con l’amore, la Tómh. Pu
rificati da ogni peccato (1,7.9; 2,1-2.12; 3,5; 4,10) essi possono
restare e vivere nel suo amore con un cuore nuovo e unificato
(Ez 11,19; G er 32,39) diventandone dimora come singoli e
come comunità, sperimentando anche tra loro la relazione più
intima e vicina possibile.
Bibliografia
1. Questioni storico-letterarie
5 H ill , 154-155.
4 Cfr. il Primo libro di Enoc con una storia redazionale complessa tra V e prima
metà del I secolo a.C ; VAssunzione o Testamento di Mosè nel I secolo d .C ; XApoca
lisse di Mosè intorno al I secolo d.C.; 4 Esdra e 2 Baruc scritti verso la fine del I seco
lo d.C. come l’Apocalisse di Giovanni; XApocalisse di Abramoytra il 70 e il 100 d.C.,
e le apocalissi cristiane (cfr. il Pastore di Erma, VApocalisse di Pietro, XAscensione di
Isaia e XApocalisse di Elia).
parlare di «apocalissi» come genere letterario, per definire le
opere accomunate da caratteristiche formali e letterarie simili
a quelle del testo giovanneo, e di «apocalittica» per indicare
l’atmosfera o tradizione teologico-interpretativa che si riflette in
tali scritti e anche in altri che non appartengono formalmente
al medesimo genere letterario (cfr. il Libro dei giubilei-, i Testa
menti dei dodici patriarchi-, il Rotolo della guerra). Punto di
confluenza delle tradizioni profetiche e sapienziali dell’Antico
Testamento, la tradizione apocalittica coniugava l’attesa del
compimento delle promesse dell’alleanza e della fine del tem
po presente (escatologia) a una visione del mondo e della con
dizione umana fondamentalmente negativa perché segnata dal
peccato in modo irrimediabile. Le origini del male non si con
sideravano intramondane né si riteneva che il male potesse
essere identificato con la sola trasgressione umana. Attraverso
il linguaggio mitologico, le radici del male, della sofferenza e
della morte venivano ricondotte a un dramma ultraterreno, a
una trasgressione angelica i cui effetti contaminanti si sarebbe
ro riversati su tutta l’umanità (Sap 2,23-24) e dai quali gli uo
mini non avrebbero mai potuto liberarsi con le proprie forze.
Nei testi che riflettono tale tradizione, a un rivelatore o media
tore della rivelazione è affidato il compito di svelare in cosa
consista la salvezza divina per gli uomini che attendono la li
berazione (per esempio: giudizio e distruzione degli empi;
sconfitta definitiva degli angeli ribelli; riscatto e ricompensa
eterna dei giusti), come essa si realizzerà (da cui l’uso abbon
dante del simbolismo numerico-cronologico, cosmico e antro
pologico per esprimere secondo le categorie spazio-temporali
ciò che le oltrepassa) e, eventualmente, grazie a chi (per esem
pio il «Figlio dell’uomo» in Dn 7 e in 1 Enoc 45-57, definito
anche come «Messia» in 1 Enoc 48,10).
Paradossalmente, quanto a forma, contenuti e messaggio
teologico, l’Apocalisse giovannea è quella che più si distanzia
dalle opere appartenenti alla letteratura di rivelazione che da
essa ha preso nome. Occorre, dunque, cercare di identificare
alcune caratteristiche comuni del genere per vedere come l’au
tore dell’Apocalisse se ne sia servito trasformandolo.
nel sangue dei peccatori») in Ap 14,20 («Il sangue fino alle briglie dei cavalli»). Per
significativi paralleli tra l’Apocalisse giovannea e 1 Enoc, cfr. P. Sacchi (ed.), Apocrifi
dell Antico Testamento, voi. l/II, UTET, Torino 22006, 425-427. La forma originale
dei messaggi alle chiese potrebbe essere stata ispirata proprio alla tradizione enochica
(cfr. Trip Jd i, Apocalisse, 109-110).
8 Bauckham, La teologia, 30.
9 Cfr. Manunza.
tale e regale, vittorioso nell’interezza della sua esperienza di
morte e risurrezione. E l’evento pasquale, infatti, che compie
ed esprime là salvezza realizzando la fine del vecchio mondo e
l’avvento del mondo nuovo «al cuore stesso dell’antico»10
(l,17c-19a). Il veggente e i destinatari del suo messaggio, dei
quali egli si considera compagno «nella tribolazione, nel regno
e nella perseveranza in G esù» (1,9), sono quindi «testimoni»
profetici della «testimonianza di Gesù» (nel senso soggettivo
e oggettivo). In questa, essenzialmente, consiste tutta la «rive
lazione» ispirata del profeta Giovanni (19,10).
Il carattere cristologico della rivelazione e il suo radicamen
to nella vicenda storica di Gesù e dei suoi testimoni spiegano
come mai, pur condividendo molti dei codici simbolici delle
altre apocalissi giudaiche e pur annunciando cieli e terra nuo
vi simultanei alla sparizione delle forme antiche del mondo
(20,11; 21,1), l’Apocalisse giovannea non indulga a speculazio
ni di nessun genere di tipo protologico (origine del male e
dramma interno al mondo angelico) e possa, invece, delineare
ima narrazione del compimento del piano salvifico di Dio: non
un futuro a venire per generazioni lontane, ma il dispiegarsi
certo e imminente della vittoria, già avvenuta nel passato e in
continuo atto di compiersi nel tempo di vita degli uomini, di
Colui che, nel suo Cristo, si è rivelato Signore del tempo e
della storia («l’Essente, l’Era e il Veniente»: 1,4.8). Proprio il
lessico della «vittoria», che appartiene alla complessa metafora
bellica mediante la quale, lungo tutto il testo dell’Apocalisse,
si descrive il carattere dinamico e processuale dell’instaurazio
ne del regno (5,5; 6,2; 11,7; 12,11; 13,7; 15,2; 17,14), esprime
la simultaneità tra scomparsa del vecchio e avvento del nuovo:
«il tempo propizio (kairós)», infatti, «è prossimo iengys)», ri
pete il testo all’inizio e alla fine (1,3; 22,10) facendo eco all’an
nuncio inaugurale della predicazione gesuana (Me 1,14-15 e
10 CUVILLIER, 399.
paralleli), e la partecipazione piena ai beni della salvezza è as
sicurata a «colui che vince» (presente) come Cristo ha vinto e
continuerà a vincere (si vedano 3,21 e le altre «promesse al
vincitore» in 2,7.11.17.26; 3,5.12; 21,7).
Come le altre apocalissi, dunque, l’Apocalisse giovannea non
è una descrizione minacciosa della fine catastrofica del cosmo,
ma un libro di ammonizione e di consolazione. Diversamente
dalle altre, essa non annuncia un compimento a venire ma af
ferma che la salvezza futura è già avvenuta, che Colui che ver
rà è già venuto, che l’«ultimo» è anche il «primo» e che proprio
con questi tutti devono e dovranno misurarsi (1,7-8). Come
negli Atti degli apostoli, anche nell’Apocalisse giovannea i te
stimoni del Risorto si confrontano con il mondo giudaico e con
quello pagano, nel contesto dell’impero romano, sempre a
prezzo di una battaglia che li impegna nella totalità della vita,
anche fino alla persecuzione e alla morte; in entrambi, la storia
umana, dall’annuncio del vangelo in poi, è letta come un nuo
vo esodo che ha come meta ultima la liberazione/salvezza
dell’umanità e l’instaurazione definitiva del regno di Dio in
Cristo in una creazione rinnovata. In entrambi, dunque, la sto
ria umana è letta profeticamente come storia di salvezza, ma
ciò attraverso l’impiego di due generi letterari opposti: l’auto
re degli Atti si fa erede della storiografia biblica (dei «profeti
anteriori») per garantire una continuità storica al vangelo di
Gesù nello spazio e nel tempo; l’autore dell’Apocalisse si fa
erede della tradizione profetico-apocalittica giudaica (dei «pro
feti posteriori» e dei sapienti) per dimostrare come la testimo
nianza gesuana tocchi al cuore, nel suo senso più profondo,
strutturale («fin dalla creazione del mondo»: 13,8; 17,8), la
creazione, la storia e l’esistenza umana. Posta stabilmente al
suo centro, grazie all’esistenza della comunità credente, la te
stimonianza dell’Agnello immolato ne garantisce con certezza
assoluta l’esisto salvifico.
I. 2. L’Apocalisse di Giovanni nel contesto di vita delle chiese
dell’Asia minore n elI secolo d.C.
12 «Nelle chiese d ’Asia il problema nasceva dal fatto che l’esercizio dei mestieri e
del commercio era accompagnato da riti religiosi, e in particolare da sacrifici alle di
vinità patronali, così che la partecipazione alle gilde diveniva problematica per un
cristiano: se restava nella corporazione era coinvolto nei banchetti con carni sacrifica
li e comportamenti licenziosi; se invece ne usciva, si escludeva dalle normali vie del
commercio». Considerare religiosamente neutra la partecipazione a questi rituali,
«permetteva di restare nel giro degli affari, di trarne profitti e, così, di guadagnarsi di
che vivere agiatamente... L’opzione di Giovanni di Patmos equivaleva invece a un
suicidio sociale ed economico» (BlGUZZl, 100).
13Arcari, Visioni, 275.277.
dell’azione antidivina del «serpente antico» o «diavolo» e «sa
tana» (Ap 12,9).
1.4.1.1 dati
1.4.2. L’interpretazione
Nella distinzione tra «le cose che hai visto, quelle che sono
e quelle che devono accadere dopo queste» (1,19), è presente
15 Si vedano i «tre anni e mezzo» del ministero profetico dei due testimoni nel
c. 11; i tempi del peregrinare della donna nel deserto al riparo dal serpente in 12,14;
i «mille anni» del c. 20.
in nuce la scansione tra le due parti principali dell’Apocalisse,
la prima dedicata alla visione inaugurale del Risorto («le cose
che hai visto»: 1,9-20) e ai messaggi alle chiese in considerazio
ne della loro condizione attuale («le cose che sono»: 2,1—3,22);
la seconda dedicata alle visioni propriamente apocalittiche,
quelle cioè che rivelano i dinamismi e l’esito salvifico della
storia dal punto di vista di Dio e dell’Agnello («le cose che
devono accadere dopo queste»: 4,1-22,5).
Dal punto di vista di chi guarda dal cielo, le visioni che si
susseguono non sono altro che «la rappresentazione simbolica»
della vittoria pasquale di Cristo sulla morte e sulle potenze e
del suo esito escatologico: è questo «ciò che deve accadere in
breve» secondo la rivelazione del disegno divino (cfr. Dn 2,28-
29 e Ap 1,1; 4,1; 22,6).16Da questo punto di vista metastorico,
le visioni della sezione non dicono altro che la sincronia del
combattimento già accaduto e vinto dall’Agnello una volta per
tutte. Nulla di nuovo deve accadere dopo che già non sia ac
caduto. Per questo, dunque, simboli, immagini e temi si ripe
tono e si approfondiscono.
Dal punto di vista storico dei credenti, che vivono ciascuno
il proprio chrónos esistenziale, l’avvenimento cristologico ha
però inevitabilmente uno svolgimento sperimentabile nel tem
po: è il passato annunciato (Xevangelo per tutte le nazioni: 14,6)
che imprime un dinamismo nuovo al presente e l’orienta deci
samente al futuro. Alle visioni dei cc. 6-22, allora, tocca espri
mere la diacronia della sincronia teologica e cristologica, con
tutto il peso di sfida, sofferenza, rischio, sconfitta a volte (13,7),
che il dispiegarsi storico del conflitto cristologico per il regno
porta con sé. A partire, dunque, dalla visione del trono celeste
e dell’Agnello vittorioso, il racconto delle visioni dell’Apoca
lisse si muove continuamente su due livelli: quello della storia
materiale con i suoi protagonisti umani, che si svolge in un
chrónos di durata indefinibile e che viene evocata mediante un
linguaggio simbolico plastico che, pur alludendo a situazioni
ed eventi vissuti dalle chiese della provincia romana dell’Asia
alla fine del I secolo d.C., non perde mai la sua riserva di signi
ficato e in cui ogni lettore può riconoscere le costanti della
propria esperienza mondana (livello storico)', quello della storia
teologica - i cui protagonisti sono Dio, Cristo e gli eserciti,
angelici e umani, schierati dalla loro parte contrapposti al dra
go, alle sue bestie e ai suoi eserciti antagonisti dell’opera divina
- che nell’arco dello sviluppo dell’Apocalisse è raccontato at
traverso il procedimento della ricapitolazione (livello metasto
rico).
Nell’intrecciarsi dei due livelli, dunque, progresso lineare e
movimento a spirale si congiungono in un’architettura narra
tiva «straordinariamente meticolosa», con una «complessa re
te di rimandi letterari, paralleli e contrasti che danno forma al
significato sia delle parti sia dell’insieme»,17 e che procede fa
cendo leva sul ritmo simbolico settenario e ternario.
La struttura del testo può essere quindi descritta come
segue:
Prologo (1,1-3)
Prima parte (1,4-3,22): il presente delle chiese al cospetto del
Risorto
1,4-8: il saluto del profeta Giovanni alle chiese
1,9-20: visione inaugurale del Risorto nel «giorno dominico»
2,1-3,22: settenario dei messaggi alle chiese
Seconda parte (4,1-22,5): la sovranità vittoriosa di Dio e del
l’Agnello si dispiega nella storia
Prima sezione introduttiva (cc. 4-5): visione in cielo del trono
regale di Dio, del libro sigillato con sette sigilli e dell’Agnel
lo. Da essa dipendono, singolarmente e come totalità, le
sezioni successive (cfr. l’apparire in 4,5 di una formula che
fa riferimento alla teofania sinaitica in Es 19,16 e ricorre poi
in Ap 8,5; 11,19; 16,18-21 ogni volta accresciuta)
Seconda sezione (cc. 6,1-8,5): 1’Agnello scioglie i sette sigilli.
Prima del settimo sigillo, una visione intermedia sull’immen
sità e universalità della salvezza (c. 7) sospende la sequenza
dei giudizi
Terza sezione (cc. 8,1-11,19): sette angeli hanno sette trombe
che scandiscono i flagelli contro l’idolatria tradizionale. Pri
ma della settima tromba, di nuovo una pausa con visioni
intermedie (10,1-11,13) che intreccia l’azione del giudizio
divino a quella umana del ministero profetico
Quarta sezione (12,1-16,21): un trittico di segni (la donna, il
drago con le sue due bestie, i sette angeli con le sette coppe
con sette flagelli contro l’idolatria della bestia). Prima che il
terzo segno si dispieghi (15,5-16,21), il veggente attira il let
tore sulla visione di quanti vincono la bestia, la sua immagi
ne e il suo marchio (15,2-4).
Quinta sezione (17,1-22,5): due ostensioni parallele e antiteti
che, quella di Babilonia prostituta, di cui il veggente con
templa il crollo e il giudizio (cc. 17-18) e quella della Geru
salemme sposa, di cui il veggente contempla l’architettura
splendente (21,9-22,5). Aperte allo stesso modo (17,1-3 / /
21,9-10) esse abbracciano, al loro interno, un’importante
sezione di transizione, nella quale dalla celebrazione del giu
dizio di Babilonia si passa alla celebrazione delle nozze
dell’Agnello con la Gerusalemme nuova attraverso la vitto
ria di Cristo Agnello e il giudizio finale (19,1-21,8). Il pa
rallelismo tra i versi che sigillano il giudizio di Babilonia e
la proclamazione delle nozze dell’Agnello (19,9-10) e quelli
che seguono all’ostensione della Gerusalemme celeste (22,6-
9) mostra lo stretto legame tra la sorte della prostituta e
l’avvento della sposa: si tratta delle due dimensioni specu
lari, positiva e negativa, dell’unico disegno divino rivelato a
Giovanni («ciò che deve accadere in breve»).
Epilogo: 22,6-21
Pur non essendo formalmente racconto e non procedendo
in maniera meramente lineare, l’Apocalisse è in questo senso
pienamente “storia”: non «progresso né ritorno, ma trasforma
zione del medesimo: diacronia di una sincronia».18 Se si rap
presentasse graficamente, la struttura dell’Apocalisse sopra
descritta apparirebbe, soprattutto nella sezione delle visioni
vere e proprie (4,1-22,5), come un’architettura che si avvolge
su se stessa in un movimento a spirale. Tra un prologo (1,1-3)
e un epilogo (22,6-21) che mettono in scena il Rivelatore, il suo
angelo, il veggente, il libro e i suoi destinatari, la considerazio
ne del vissuto attuale delle chiese, interpretato attraverso la
parola del Risorto risuonante come profezia in una lettera cir
colare (1,4-3,22), fa da sfondo permanente e indispensabile
alle visioni simboliche mediante le quali viene comunicata ai
lettori la «rivelazione di Gesù Cristo» (4,1-22,5). Il contenuto
dei sette messaggi alle chiese, infatti, non è che l’applicazione
prolettica del significato delle visioni simboliche che seguiran
no al vissuto storico delle comunità che, ascoltata la parola
viva del Risorto, potranno riconoscere forme e contenuti della
loro partecipazione attiva al disegno divino che le visioni rive
leranno.
La manifestazione di questo disegno ha nella visione del
trono, del libro sigillato e dell’Agnello che solo può aprirlo (cc.
4-5) il punto di partenza, il centro interpretativo permanente
e il punto di arrivo. E la sovranità vittoriosa, al contempo sto
rica e metastorica, di Colui che siede sul trono e dell’Agnello,
proclamata prima nella liturgia celeste (cc. 4-5) e dispiegata
poi progressivamente nella storia in un movimento a spirale
(cc. 6-16), che si manifesterà nella sua realizzazione piena
all’apparire della Gerusalemme sposa, i cui membri, resi
4Giovanni alle sette chiese che sono nelTAsia. Grazia a voi e pace
da Colui che è, che era e che viene e dai sette spiriti, che stanno
davanti al suo trono 5e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il pri
mogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A colui che ci ama e ci ha svincolato23 dai nostri peccati con il suo
sangue 6e ha fatto di noi un regno, sacerdoti al Dio e Padre suo, a
lui la gloria e il potere nei secoli dei secoli.24 Amen!
22 Prigent, 86.
23 II codice Porfiriano, molti minuscoli e la Vulgata leggono lousanti («che ci ha
lavato») invece che lysanti («che ci ha svincolato») seguito da apó piuttosto che da ek.
La lettura con il verbo lyd è meglio attestata Op18, Sinaitico, Alessandrino, codice di
Efrem riscritto) e si comprende bene sullo sfondo dell'uso dei Settanta (cfr. Is 40,2:
«Il suo peccato è stato dissolto, perdonato [lélytai]»). La variante potrebbe avere
un'origine battesimale (cfr. anche Gv 13,10).
24 «Dei secoli» è incerto. È molto più attestato (Sinaitico, codice di Efrem riscritto,
tradizione bizantina, versioni latine e siriaca), ma manca in $p18, Alessandrino, Porfi
riano e in alcuni minuscoli. Potrebbe essere un'estensione liturgica della formula dos-
7a«Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà e coloro che lo
hanno trafitto e si batteranno [il petto] a causa sua tutte le tribù
della terra».
c«Sì, amen!
8Io sono l’Alfa e l’Omega - dice il Signore Dio - Colui che è, che
era e che viene, il Pantocratore».
sologica. Questa, però, ricorre per intero altre 11 volte nell’Apocalisse: la occorrenza
per 12 volte potrebbe essere voluta.
l’«essere» e l’«esserci» divino coniugando per due volte il ver
bo «essere» - non solo in forma di participio sostantivato come
nella Settanta («Colui che è»), ma anche legando l’articolo de
terminativo all’imperfetto del verbo, oltre ogni sostenibilità
grammaticale («l’Era») - e una volta il participio presente del
verbo «venire» che dà il giusto spazio, in prospettiva cristolo
gica, alla dimensione di futuro già presente nella proclamazio
ne del Nome.25 Dio, sorgente di ogni benedizione e fedele alla
sua alleanza, è il presente, il passato e il futuro dei credenti. La
riformulazione giovannea del Nome ricorre così tripartita altre
due volte: in 1,8, a inclusione, e in 4,8 quando i quattro esseri
viventi attorno al trono acclamano per tre volte la santità divi
na (il trisaghiorr, cfr. Is 6,3). Laddove, invece, il Nome divino
viene richiamato con una formulazione bipartita («Colui che
è e che era»: Ap 11,17; 16,5), ci si trova ormai in contesti in cui
le visioni del veggente anticipano la fine, quando il giudizio è
ormai definitivo e il «venire» divino nel suo regno non è più il
futuro atteso ma il compimento realizzato.
In seconda posizione compare il riferimento allo Spirito.
L’espressione «i sette spiriti, che stanno davanti al suo trono»
ritorna in forma simile in 4,5 («i sette spiriti di Dio») dove
decodifica il significato delle «sette lampade ardenti di fronte
al trono». Il simbolo delle sette fiaccole ardenti, che rappre
sentano lo sguardo penetrante di Dio attivo nel mondo (gli
«occhi») è di matrice biblica (Zc 4,2.10) ma l’uso di «spiriti»
al plurale è anche di sapore fortemente giudaico, perché riman
da alle speculazioni apocalittiche sugli spiriti/angeli della cor
te celeste o sugli spiriti/angeli decaduti. L’uso del plurale pneu-
mata per indicare gli angeli si trova anche in Eb 1,7.14 e non
27 Nei Settanta, nel v. 12, si nota un ampliamento rispetto al testo masoretico che
insiste ulteriormente sulla signoria divina usando per Dio il titolo di Pantocratore che
si ritroverà in Ap 1,8: «Tu su tutto eserciti il principato (sy pàntdn àrcbeis), Signore,
principe di ogni principato {ho àrchdn pàsès arches)..., Pantocratore (pantokràtdr)».
5,2.25) ed è interessante il fatto che in Apocalisse il verbo e il
sostantivo siano usati sostanzialmente in chiave ecclesiologica
per dire il rapporto tra il Risorto e là/le comunità simboleggia
te da Gerusalemme «accampamento dei santi», «città amata»,
luogo dello scontro finale tra il Cristo e i suoi avversari (Ap
2,4.19; 3,9; 20,9);
b) il verbo «sciogliere» (lyd), qui usato per indicare la libe
razione dai peccati come fossero vincoli che tengono incatena
ti, ricompare altre cinque volte nell’Apocalisse ma sempre in
senso fisico (sciogliere qualcosa o qualcuno da ciò che lo tiene
legato) e mai in relazione a «peccato» (hamartia). L’immagine
dello «scioglimento» dei peccati ha uno sfondo biblico e signi
fica il perdono (cfr. G b 42,9; Sir 28,2; Is 40,2; Mt 16,19; 18,18)
ma non ritorna altrove nella letteratura giovannea. Il collega
mento diretto col «sangue» di Cristo (alla lettera: «nel suo san
gue»), prezzo per l’acquisto dei riscattati (Ap 5,9), segno
dell’amore incarnato di Dio (12,11; 19,13) e strumento della
loro purificazione (7,14), dimostra però che Giovanni la assu
me trasformandola in immagine di redenzione esodica a sfon
do cultuale, essendo il sangue di Cristo sangue dell’Agnello
immolato (cfr. anche Gv 19,14.36; lG v 1,7-9; 2,2.12; 5,6.8). È
introdotto così il tema esodico-pasquale e, connessa ad esso,
comincia a emergere anche la dimensione bellica o conflittua
le implicita nel concetto di «regno» già nell’epopea esodica:
come la regalità divina non viene proclamata mai in Esodo
prima dell’esperienza della liberazione pasquale, culmine di un
braccio di ferro tra il faraone d’Egitto e di Dio di Israele (Es
4,22-23; 15,18), così la costituzione del «regno» non può esse
re proclamata indipendentemente dall’azione di contrasto e di
riscatto che ha avuto come prezzo la morte del Cristo-Agnello
(il sangue versato);
c) il v. 6, che contiene un’allusione evidente a Es 19,5-6,
esplicita ciò che nel v. 5 era implicito: aspetto positivo dell’ope
ra della liberazione dai peccati è la dignità nuova dei redenti,
«fatti» realmente ciò che erano stati chiamati ad «essere» nella
relazione di alleanza, «regno e sacerdoti».281 riscattati dal pec
cato (dimensione negativa e di contrasto dell’azione redentrice)
sono stati costituiti spazio e ambito in cui Dio esercita manife
stamente la sua regalità (dimensione positiva dell’azione reden
trice). Si può notare un’antitesi intenzionale tra il titolo di ba-
sileìs (Ap l,5a), usato al plurale nell’Apocalisse sempre per
riferirsi ai «re della terra» antagonisti del Messia e rigorosa
mente mai attribuito ai redenti, e il sostantivo basileta (1,6) che
invece esprime pienamente la loro nuova dignità di «popolo
acquistato» nel sangue dell’Agnello (5,9). Però, in quanto «re
gno» di Dio sulla terra, essi sperimentano pienamente e vivono
attivamente in sé la sua potestas regia (5,10; 20,4.6; 22,5). Lo
fanno, infatti, in qualità di «sacerdoti», titolo che ritorna non
a caso altre due volte in 5,10 e 20,6 in rapporto al tema del
regno e sempre per descrivere lo status dei redenti. Il loro at
tuale essere «regno» e testimonianza, anche fino al martirio,
dell’unica vera regalità degna di questo nome si manifesta nel
«servizio» (il titolo doùloi, «servi», ricorre in 1,1; 2,20; 6,11;
7,3; 10,7; 11,18; 19,2.5; 22,3.6) col quale offrono al «D io e
Padre» di Gesù il culto che gli spetta (cfr. anche 20,6: «Saran
no sacerdoti di Dio e di Cristo», cioè sacerdoti del culto che si
offre in Cristo al Padre). Sin dalla sua prima dossologia, dun
que, l’Apocalisse mette a tema la relazione tra la cristologia, la
soteriologia e l’ecclesiologia. Effetto dell’azione redentrice del
Cristo-Agnello è che gli uomini diventino regno (dimensione
discendente) esercitando come servi di Dio il loro sacerdozio
(dimensione ascendente). Il «regnare» attivo, che è anche la
loro vocazione ultima (20,6; 22,3-5), è già stato realizzato in
loro e per loro dal Cristo nel passato e servendo fedelmente,
28 La relazione tra i due privilegi identitari, nella dossologia, riflette una tradizione
testuale diversa da quella del testo masoretico («regno di sacerdoti») e dei Settanta
(«sacerdozio regale») e attestata, invece, da Simmaco, Teodozione e dal targum («re
gno, [e] sacerdoti»).
come «sacerdoti», il Dio e Padre di Gesù essi ne diverranno
sempre più attori protagonisti, sperimentando e testimoniando
nella loro vita la «dissoluzione» dei peccati e delle ingiustizie
(18,4-5) che traducono un pensiero idolatrico colpevolmente
ignaro della sovranità di Dio sulla storia e sulla vita degli uo
mini.
v. 7ab. Dopo l’amen corale che sigilla la dossologia col rico
noscimento pieno e grato della verità cristologica e soteriolo-
gica in essa proclamata, il primo dei numerosi pronunciamen
ti profetici dell’Apocalisse afferma che lo stesso Cristo, sogget
to delle azioni passate e presenti celebrate nella dossologia, è
anche l’atteso di cui parlare al futuro («Ecco, viene... ogni
occhio lo vedrà... si batteranno il petto...»). In quanto «trafit
to» è chiaramente identificato con il Crocifisso; nella qualità
di colui che «viene con le nubi» è identificato con il Figlio
dell’uomo danielico. L’identificazione tra il Figlio dell’uomo
nascosto e venturo dell’apocalittica e l’uomo Gesù crocifisso,
il «venuto nella carne», è tipicamente giovannea. L’autore, per
esprimerla teologicamente, fonde tra loro il testo di Dn 7,13
(«Ecco, viene con le nubi») e quello di Zc 12,10.12.14 ripreso
liberamente («E guarderanno a me, colui che hanno trafitto, e
si lamenteranno su di lui come col lamento per un figlio uni
co ... e si lamenterà il paese tribù per tribù... tutte le tribù rima
ste»), letti e probabilmente tradotti da un testo ebraico simile
a quello sottostante alla traduzione greca di Teodozione.
L’associazione tra Dn 7,13 e Zc 12,10, in realtà, doveva es
sere tradizionale in alcuni ambienti protocristiani, come dimo
stra il fatto che essa si ritrova anche in bocca a Gesù, nel con
testo del discorso escatologico e in riferimento al ritorno fina
le del Figlio dell’uomo, secondo Mt 24,30 («Allora apparirà il
segno del Figlio dell’uomo nel cielo, e allora si batteranno [il
petto] tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio dell’uomo
venire sulle nubi del cielo con potenza e molta gloria»). La
differenza più importante, però, consiste nel fatto che per G io
vanni l’elemento di connessione tra i due testi non sta nel rap
porto tra la venuta del Figlio dell’uomo e il battersi, in ricono
scimento del proprio errore, di tutte le tribù della terra al mo
mento del suo avvento glorioso, ma nell’identità tra il Figlio
dell’uomo venturo e «colui che è stato trafitto». L’affermazione
di Zc 12,10 riguardo al trafitto, non richiamata nel testo mat-
teano e non citata altrove nel Nuovo Testamento, è invece ci
tata espressamente e introdotta da una formula di compimen
to in Gv 19,37 dopo il racconto della trafittura del costato di
Gesù: «Queste cose avvennero perché si riempisse la Scrittu
ra... e di nuovo un’altra Scrittura dice: “Guarderanno a colui
che hanno trafitto”». Nella visione inaugurale seguente alla
nostra pericope (Ap 1,9-20) l’identificazione tra il Crocifisso
Risorto e il Figlio dell’uomo diventerà esplicita.
Un ultimo aspetto dell’utilizzazione del testo di Zaccaria può
essere sottolineato ed è il nesso implicito tra la signoria di G e
sù su tutti «i re della terra» (v. 5 a) e il riconoscimento dell’er
rore da parte di «tutte le tribù della terra» (v. 7), certamente
simultaneo alla costatazione del totale fallimento di Babilonia
che indurrà al lamento e al battersi il petto tutti «i re della
terra» che con essa hanno fornicato (18,9-10). Tutti sono già
stati e saranno definitivamente coinvolti nell’incontro col Figlio
dell’uomo crocifisso e questo incontro avrà un carattere emi
nentemente pubblico.
v. 7c. Con solennità, la verità di quanto detto viene procla
mata attraverso l’affermazione doppia «sì, amen», in greco e
in ebraico, che compare solo qui in tutto il Nuovo Testamento.
Tanto il sì che l'amen, infatti, ricompaiono altrove nell’Apoca
lisse ma mai insieme. Il sì viene sempre dal cielo, mai dagli
uomini (14,13: dallo Spirito; 16,7: dall’altare; 22,20: dal Cristo);
l'amen risuona nella liturgia celeste in 5,14; 7,12; 19,4 ma espri
me l’acclamazione e l’invocazione di tutta la chiesa ad apertu
ra e chiusura del libro (1,5; 22,20). Se in 1,6, dunque, amen è
il sigillo della dossologia (come più volte accade a conclusione
delle euloghie dell’Antico Testamento e delle tante dossologie
del Nuovo Testamento), in l,7c sigilla l’oracolo profetico con
cui le Scritture vengono rilette cristologicamente e apre l’auto-
proclamazione divina che ne garantisce il compimento.
v. 8. Per l’esplicito ricorso alla formula oracolare («dice il
Signore Dio»), per l’apparire della forma «io sono» (ego eimi)
e per la congiunzione di tre titoli che esprimono l’identità di
vina («l’Alfa e l’Omega», «Colui che è, che era e che viene»,
«il Pantocratore»), l’autoproclamazione divina che chiude
l’unità è la più solenne di tutta l’Apocalisse. Il ritornare del
nome di Dio apparso in 1,4, rafforzato dal merismo Alfa e
Omega - resa greca della formula ricapitolativa dell’alfabeto
ebraico da alef a tato e corrispondente, in parte, all’autopro-
clamazione anticotestamentaria «Io sono il primo e l’ultimo»
(Is 44,6; 48,12; Ap 1,17; 2,8; 21,6; 22,13) - e dal titolo di «Pan
tocratore» (alla lettera: «colui che tutto tiene nel suo potere»),
conferma la centralità del tema della assoluta signoria di Dio
sulla storia che appare sin dal saluto iniziale e che, stavolta, è
proclamata da Dio stesso! Soprattutto quest’ultimo titolo, che
unito a «il Signore Dio» ricorre 7 volte nell’Apocalisse (qui e
4,8; 11,17; 15,3; 16,7; 19,6; 21,22, ma cfr. anche 16,14; 19,15)
ed è l’equivalente dell’anticotestamentario Yhwh e/o ’Elóhè
fb à ’ót, manifesta la sensibilità teologica tipicamente giudaica
e teocentrica di Giovanni di Patmos. È, infatti, assente altrove
nel Nuovo Testamento (eccetto che in una citazione oracolare
conflata in 2Cor 6,18) ed esprime la sovranità di Dio su tutta
la creazione. E l’unico titolo divino mai usato nell’Apocalisse
per Gesù. A differenza di esso, gli altri titoli divini del v. 8, pur
essendo fondamentalmente teologici, tendono ad assumere una
netta risonanza cristologica: il «veniente» per eccellenza, infat
ti, è Cristo (Ap 22,7.12.17.20); lui è «il primo e l’ultimo e il
vivente» (1,17-18) e lui è l’Alfa e Omega (22,13). Il «venire»
regale di Colui che tutto tiene nelle sue mani riguarda così sia
Dio Padre che il Cristo. È un venire che si attende in una di-
mensione pubblica attesa per il futuro (1,7) ma che ha anche
una dimensione presente. I tempi di Dio non si possono cal
colare perché Egli è il Veniente (w. 4.8) e il suo Cristo «viene»
(non «verrà») ! Col suo stesso essere, Dio garantisce dunque
l’esito cristologico della storia e ciò che di esso si comincerà a
dire mediante le visioni e gli oracoli a partire da 1,9.
Nel rassicurare, dunque, le comunità destinatarie del suo
libro profetico, il veggente mette a tema la questione della re
galità divina come la questione centrale di tutta la sua teologia,
soteriologia, escatologia ed ecclesiologia. Il simbolismo regale
che attraversa l’Apocalisse si intreccerà, da questo momento
in poi, con una estesa metafora bellica: il «principe dei re del
la terra», colui che ci ama e ha fatto di noi un regno, lo stesso
che viene con le nubi, è stato un tempo «trafitto». La «terra»
non gli è stata favorevole. Ma è il primogenito dei morti e il
suo «venire», lui, Giovanni, l’ha già visto (1,9-20) e questa vi
sione vuole comunicare alle chiese. Il giudizio che, nel messag
gio settenario, il Signore pronuncerà su di esse anticiperà tera
peuticamente e in modo mirato le visioni del giudizio che ri
guarderanno «tutte le tribù della terra».
29 Cfr. Tb 13,9-18; Is 34; 60; 62; 66,10-14; Ez 40-48; Gal 4,26; Eb 12,22; i testi
dedicati alla Nuova Gerusalemme e al culto del tempio futuro tra i manoscritti del Mar
Morto (2Q24; 4Q554-555; 5Q15; 11Q18); Testamento di Dan 5,12-13; 2 Baruc 4,2-6.
30L u p i e r i , 326.
31TRIPALDI, Apocalisse, 220. L’autore rimanda giustamente anche a Giuseppe e
Asenet (14,14-15,10; 18,5-11; 19,8) ove la convertita Asenet, data in sposa al patriarca
Giuseppe, si adorna per le nozze e, resa simile alla città-tempio, di «grande e meravi
gliosa bellezza», diventa simbolo dell’ingresso dei pagani nel popolo eletto.
cielo. Se in 19,5 la voce dal trono invitava tutti alla lode di Dio,
ora essa proclama solennemente la verità contenuta nella vi
sione della Gerusalemme nuova e, con essa, il raggiungimen
to della meta ultima dell’azione redentrice di Dio creatore
additata, sin dall’Esodo, nel dimorare di Dio in mezzo al suo
popolo (Es 25,8-9; 29,45; 40,34-38; Lv 26,11-12; Ez 37,26-28;
Zc 2,14-15, nonché 2Cor 6,14-18). Dio, ora, non abita più in
un santuario circoscritto in mezzo alla città degli uomini,
foss’anche la «città santa» di un tempo; il loro stesso vivere
insieme, nella novità della Gerusalemme discesa dal cielo, è la
«tenda» santificata che egli si erige e, viceversa, Dio stesso è
per gli uomini dimora e santuario (Ap 7,15-17). Nella Geru
salemme nuova, infatti, il veggente non vedrà più nessun san
tuario perché Dio stesso e l’Agnello sono ormai il suo santua
rio (21,22)!
La Gerusalemme nuova, in fondo, non è altro che lo spazio
della reciprocità e dell’intimità di vita di Dio con gli uomini
che è la meta compiuta della relazione di alleanza. Usando il
verbo «attendarsi» {skènód), presente nel Nuovo Testamento
solo nel Quarto Vangelo e nell’Apocalisse, il v. 3 riprende dun
que in chiave esplicitamente ecclesiologica le tradizioni antico
testamentarie sulla tenda/dimora di Dio in Israele che il pro
logo del Quarto Vangelo aveva riletto anzitutto in chiave cri
stologica (Gv 1,14) e il formulario tipico dell’alleanza («Io
sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo»: Es 6,7; Lv 26,12;
Ger 31,33; Ez 36,28; 37,23.27; Os 2,25; Zc 8,8) risuona ormai
in chiave marcatamente universalistica. Il sostantivo che nella
traduzione dei Settanta viene usato normalmente per indicare
il popolo di Israele (laós) nella sua differenza rispetto alle na
zioni (éthnè) viene, infatti, declinato al plurale: «Essi saranno
suoi popoli». Condizione e modalità di questa appartenenza
sarà proprio il compiersi della inabitazione divina in mezzo agli
uomini e, dunque, della promessa deU’Emmanuele (Is 7,14):
proprio in quanto «Dio con loro», il Dio d’Israele sarà il «loro
Dio», il Dio di tutti gli uomini.32 La mediazione cristologica
della relazione di alleanza non è qui esplicitata, ma resta un
presupposto sottinteso imprescindibile (cfr. Ap 1,6; Ez 34,24).
Nel v. 4 viene dunque descritta, prima al positivo («e asciu
gherà. ..») e poi al negativo («non ci sarà p iù...»), la condizio
ne che attende l’umanità redenta. Rievocando e concatenando
tra loro due tra i testi più intensi e rappresentativi dell’escato
logia universalistica isaiana (Is 25,6-8 e 65,16-20; ma cfr. anche
35,8-10 e 66,10-14) Giovanni riassume il senso della presenza
dell’Emmanuele nel gesto della consolazione di tutte le lacrime
fatto da Dio in persona (cfr. già Ap 7,17). La presenza defini
tiva di Dio in mezzo agli uomini chiude i conti con la condi
zione subentrata alla trasgressione di Adamo (cfr. Gen 2,4b-
3,24), perché il vecchio mondo è finito. Confermando la visio
ne (v. 1) e sintetizzandone il senso, la voce dal trono lo
dichiara: «Le cose di prima se ne sono andate» (cfr. Is 65,19).
w. 5-8. La definitività della nuova condizione d ’esistenza
degli uomini con Dio è attestata in ultimo da «Colui che era
seduto sul trono» in persona. Si tratta dell’unico caso nell’Apo
calisse in cui, da quando la sua figura è introdotta in Ap 4,2,
una parola gli viene attribuita esplicitamente e direttamente.
La sua presenza sovrana si fa sentire direttamente al veggente,
dopo la visione del cielo e della terra nuovi, in una concatena-
32 II v. 3 presenta due varianti di rilievo anche per il senso del testo. La prima ri
guarda il plurale «popoli» (laot), attestato dal Sinaitico e dall’Alessandrino, rispetto al
singolare laós presente nel Porfiriano, nella maggior parte dei minuscoli e versioni,
compresa la Vulgata, e preferibile come lectio difficilior difforme dall’uso comune nei
Settanta. La seconda riguarda la parte finale del verso: «loro Dio» manca nel Sinaitico
e nella maggior parte dei minuscoli ma è attestato dall’Alessandrino, dalla Vulgata e
da pochi minuscoli. Il sintagma potrebbe essere stato aggiunto per creare un paralle
lismo con la prima parte del verso («essi saranno suoi popoli ed egli, il Dio con loro,
sarà loro Dio») o omesso perché ritenuto ridondante e non necessario («essi saranno
suoi popoli ed egli il Dio con loro sarà»). Nella costruzione teologica del verso, che si
regge tutta sul compimento della promessa dell’Emmanuele, a me sembra che il sin
tagma abbia un’importanza strutturale pur rendendo sovraccarica la sintassi della
frase e ritengo più plausibile l’omissione che l’aggiunta.
zione di sette parole che lo incalzano con urgenza all’atto di
scrittura («Scrivi...»: v. 5b). Il ritmo veloce dei detti (determi
nato dalla concisione delle singole proposizioni, dalla triplice
ripetizione del verbo «dire», dall’insistenza enfatica sull’«Io »
divino che riconduce prepotentemente a sé ogni cosa o, nel v.
8, dalla ripetizione serrata del k ai che congiunge e assimila in
un unico destino di morte otto tipologie di soggetti) esprime
l’accelerazione inarrestabile della storia ormai giunta al suo
compimento ultimo.
vv. 5-7. La prima parola divina (5a) spiega la causa di tale
accelerazione: l’azione rinnovatrice di Colui che siede sul tro
no, descritta al presente, che afferma il compimento della nuo
va alleanza (Ger 31,31.33) facendo risuonare in termini radi
cali e onnicomprensivi («Ecco, nuove tutte le cose») l’oracolo
che annunciava il nuovo esodo in Is 43,19 (testo masoretico:
«Ecco, faccio una cosa nuova»', Settanta: «Ecco faccio cose
nuove»). Al presente di Dio in azione corrisponde il gesto di
scrittura comandato per attestarlo (seconda parola): «Scrivi»
(5b). Si tratta dell’ultima delle dodici occorrenze dell’impera
tivo aoristo gràpson che nell’Apocalisse è usato sempre per
indicare il gesto autoriale ma è motivato alla radice solo qui
(«Scrivi, perché...»): le parole che dicono e spiegano la visio
ne e ricapitolano nel linguaggio della novità il messaggio
dell’intero libro sono affidabili e prive di menzogna, sicure nel
comunicare la realtà rivelata nella sua verità. Giovanni, dun
que, deve scrivere perché la novità di vita comunicata attra
verso la rivelazione resti legge dell’interpretazione, chiave di
lettura del tempo in cui gli uomini vivono e in cui Colui che
siede sul trono è presente e opera il giudizio e la salvezza. Le
parole della sua rivelazione, che vanno messe per iscritto, sono
perciò l’ultima profezia della Scrittura pronunciata perché la
comunità dei credenti, in ogni tempo e luogo, possa leggere,
comprendere con sapienza la voce dello Spirito e agire corri
spondentemente alla Parola «fedele e verace» di Dio che è il
Cristo stesso (19,11) in cui la novità di Dio è personalmente
presente, agita e ricapitolata.
La terza parola (6a) può, di conseguenza, affermare che le
parole della novità non sono un futuro ma un evento già acca
duto ed efficace nel presente: «sono accadute», hanno già co
minciato ad essere (16,17). La quarta parola (6b) spiega perché:
Colui che siede sul trono è inizio e fine della storia e del tempo
e lo è in Cristo (2,8; 3,14; 22,12-13); la storia umana è intera
mente abbracciata e contenuta da Dio creatore e redentore (Is
43,10-13; 44,6). La sua Parola fedele, dunque, che risuona com
piuta da oltre i limiti del tempo dicibile con l’alfabeto umano,
si rivolge agli uomini nel loro presente: «A chi ha sete... colui
che vince...». La quinta (6c) e la sesta (7) parola valgono, quin
di, da promessa e da stimolo e riguardano coloro che agiscono,
al presente, la loro relazione con Dio al modo del Cristo vin
citore; la settima (8) si presenta invece come un monito e ri
guarda tipologie astratte di soggetti, identificati da attitudini e
azioni viziose, dentro le quali i singoli potrebbero concreta
mente riconoscersi (Ap 9,20-21; 22,15). Mentre le prime richia
mano la promessa al vincitore con cui si concludevano i mes
saggi alle singole chiese («chi vince»: 2,7.11.17.26; 3,5.12.21;
«io darò»: 2,7.17.26.28; 3,21), la seconda richiama le minacce
fatte ai membri delle comunità dei quali i messaggi denuncia
vano il peccato e l’infedeltà. Poste l’una accanto all’altra, la
promessa della vita e la minaccia della morte, richiamano le
benedizioni e maledizioni che, nel formulario anticotestamen
tario dell’alleanza, sigillavano il patto tra i contraenti (Lv 26;
Dt 28) o le beatitudini e i guai che contrassegnavano la predi
cazione evangelica (Le 6,20-26; Mt 5,1-12; 23,13-33). Condi
zione di vita, però, non è più l’osservanza o meno della Legge
(,nómos) - termine che dalla letteratura giovannea scompare
definitivamente dopo Gv 19,7 - ma l’«avere sete» e il «vince
re»: un motivo sapienziale il primo, un motivo bellico il secon
do, ma entrambi caratteristici dell’apocalisse giovannea.
Il tema della sete e del dono dell’«acqua della vita» (cioè
un’acqua sorgiva attinta a una fonte perenne e, fuori di meta
fora, la vita stessa che Dio è) nel Nuovo Testamento è tipica
mente giovanneo (Gv 4,7-15; 7,37-39; 19,28; Ap 7,16-17; 22,1-
2.17). Esso riprende e fa risuonare insieme parecchi testi anti
cotestamentari: Dio e/o la sua parola e sapienza sono l’acqua
viva da fonte perenne che sola può saziare la sete vera dell’uo
mo (Sai 41,3; 62,2; Sir 24,21; 51,24; Is 55,1; Ger 2,13) e, nel
Quarto Vangelo, è da Cristo che essa può essere attinta come
«dono» (Gv 4,10). Sullo sfondo della occorrenza precedente
di Ap 7,16-17, che fondeva insieme la reminiscenza di Is 25,8
(sopra richiamato al v. 4) e di Is 49,9-10, si capisce che la pro
messa divina qui fatta a chi è assetato richiama anche il secon
do carme isaiano del Servo mediante il quale si compie l’azio
ne redentrice e di consolazione di Dio «pastore», cioè re, del
suo popolo. Come nel v. 4 il gesto del tergere ogni lacrima
sintetizzava l’atto della consolazione divina, così qui lo sinte
tizza il gesto del dissetare con l’acqua della vita.
Il simbolo dell’acqua vivificante, però, racchiude in sé il
richiamo anche ad altri testi della Scrittura: a monte, il raccon
to protologico di Gen 2,10-13 relativo all’acqua viva e vivifi
cante sgorgante in Eden all’inizio della creazione; a valle, le
profezie escatologiche di Zc 14,8 ed Ez 47 relative all’acqua
sgorgante nel tempo escatologico dalla Gerusalemme santa e
dal suo tempio (cfr. Ap 22,1-2). Non acquistabile, ma solo ri
cevibile in dono, l’acqua promessa all’assetato è Dio stesso e il
rapporto con sé che Egli dona a chiunque lo desideri vincendo
la battaglia della resistenza contro tutto ciò che non ha il sigil
lo del Cristo, del Padre e della loro sovranità. Del «vincitore»,
dunque, viene dichiarata una partecipazione così profonda e
piena alla vittoria del Cristo-Figlio e alla sua relazione con Dio
(«erediterà queste cose») che per esprimerla il veggente ricor
re nuovamente alla formula dell’alleanza ma nella sua declina
zione regale-messianica: «io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio»
(2Sam 7,14; lC r 17,13; Sai 2,7; 89,27). Si tratta dell’unico caso,
nella letteratura giovannea, in cui la condizione filiale dei cre
denti rigenerati da acqua e da Spirito non è espressa dal termi
ne téknon (alla lettera: il «partorito») ma dal termine hyiós
(«figlio»), altrimenti riservato esclusivamente a Gesù. La pro
messa al vincitore di sedere sul trono stesso di Cristo, che nel
l’ultimo dei messaggi alle chiese ricapitolava le precedenti (Ap
3,21), si esprime qui come riconoscimento pieno della sua iden
tità filiale e regale e, dunque, della sua conformazione piena al
Cristo.
v. 8. Si conclude il discorso divino: sono elencati i vizi che
escludono l’uomo dal rapporto filiale e costiforme sopra de
scritto. Direttamente o indirettamente, infatti, le attitudini o
azioni elencate sono antitetiche a quelle che caratterizzano il
Cristo e quanti gli sono fedeli. «Tim oroso» o vile è l’uomo
senza coraggio, che si esime dalla battaglia condotta da Cristo
e da quelli «con lui» eletti e fedeli (17,14; 19,14): non lottando,
egli non potrà mai essere vincitore (3,15-16). «Incapace di fe
deltà» è qualcuno che incarna una qualità antitetica a quella
da cui prendono nome il Cristo e, nell’Antico Testamento gre
co, Dio stesso «Signore fedele» (Dt 7,9; 32,4; Sai 144,13; Is
49,7) e i suoi servi (lSam 3,20; 2Sam 23,1; IM ac 2,52; Sir
44,20): questi, anche se avrà iniziato la battaglia, non sarà ca
pace di portarla a termine fino alla vittoria custodendo fino
alla morte, se necessario, le parole fedeli di Dio (Ap 2,10.13).
Gli «abominevoli» sono tutti coloro che si rendono detestabi
li al Dio fedele per avere condiviso gli «abomini» di Babilonia
prostituta «madre di tutti gli abomini della terra» (17,4-5). Per
loro non è possibile l’ingresso nella Gerusalemme nuova
(21,27). «Assassini, fornicatori, stregoni e idolatri» concretiz
zano con varie forme di violenza, manipolazione e mistificazio
ne, l’abominio che non può entrare nella città santa (9,21;
22,15). I «menzogneri tutti» (categoria che per alcuni abbrac
cia le altre sette) sono non quelli che dicono bugie ma gli pseu-
deis, quelli che si allineano pienamente al diavolo (Gv 8,44),
amano e praticano il falso (Ap 22,15) e sono avversari attivi
della verità e fedeltà di Cristo (2,2), antitetici ai redenti nella
cui bocca non si trova falsità (14,5).
Il linguaggio del testo è apocalittico e serve a stigmatizzare
ciò che non ha nulla a che vedere con Cristo, «fedele e veritie
ro», né col Padre suo. Alle chiese, in tal modo, viene indicato
ciò che bisogna rifuggire perché contraddice il nuovo e scom
parirà per sempre con il cielo e la terra di prima. A coloro che
in esso vivono e muoiono con le loro opere è riservata la «se
conda morte» di cui Giovanni aveva già parlato in 2,11; 20,6.14
e alla quale erano stati riservati il drago, le due bestie, la mor
te e l’ade. Unita all’immagine dello «stagno ardente di fuoco e
di zolfo» (cfr. anche 14,9-11 e 19,20 per la bestia, il falso pro
feta e gli adoratori della bestia), l’espressione richiama la «ge
enna del fuoco» (Mt 5,22; 18,8-9; Me 9,47-48) e significa la
perdizione eterna (Is 66,24): non la morte fisica ma quella «ul
tima, totale, escatologica»,33 quella che veramente bisogna te
mere. Di questa seconda morte il vincitore non potrà avere
alcuna paura (Ap 2,11).
4. Linee teologiche
” Ivi, 17.
40 Ivi, 34.
41 Sull'importanza della forma «drammatica» nellestetica e nella teologia dell'Apo
calisse, cfr. T oribio C uadrado, 133-196.
egualmente il dono di sé nella testimonianza fedele anche
fino al martirio.42
4.4. Lescatologia
42 B auckham, The climax, 210-237. La Regola della guerra (1QM) è uno dei testi
più caratteristici della biblioteca di Qumran e descrive la guerra finale, della durata
di quarantanni, tra i figli della luce e i figli delle tenebre, una guerra in cui le schiere
angeliche, guidate da Michele (per Ì figli della luce) o da Belial (per i figli delle tenebre),
combattono a fianco degli uomini e nella quale Dio annienterà definitivamente le
forze del male e le tenebre. L’Apocalisse di Giovanni, per certi versi, può essere acco
stata a questo testo nella misura in cui intende narrare simbolicamente la battaglia del
Cristo-Agnello e dei suoi seguaci nell’instaurazione del Regno. La caratteristica propria
dell’Apocalisse sembra essere non il suo rifiuto del militarismo apocalittico ma il suo
uso copioso del linguaggio militaristico in un senso non-militaristico. Nella distruzio
ne escatologica del male, non c’è spazio per una violenza armata reale, ma c’è ampio
spazio per l’immaginario della violenza armata (Ivi, 233).
fanno riferimento a ciò che Cristo ha già compiuto nel suo
sacrificio pasquale. A partire dal c. 6, invece, le visioni e audi
zioni di Giovanni propongono agli occhi e agli orecchi del
lettore una sequenza di azioni in cui la trascendenza sembra
intervenire nella storia umana, evocata solo attraverso comples
si quadri simbolici, e in cui ciò che è dell’Agnello e ciò che è
dei redenti nella concretezza del loro esistere spazio-tempora
le non è quasi più distinguibile. Il già compiuto una volta per
tutte si manifesta come forza motrice di ciò che «deve accade
re» e si traduce nello scioglimento dei sigilli del «libro» preso
dalla mano di Colui che siede sul trono e nel dispiegamento
pieno della storia degli uomini con Dio e dal punto di vista
divino. Da questo momento in poi, il già compiuto diventa
movimento in atto nel presente dei destinatari e futuro sempre
più prossimo quanto più la sua forza provocatrice di giudizio,
conversione, salvezza viene immessa nella storia. Si capisce, in
questo senso, l’incalzare degli aoristi per dire quanto è già com
piuto (6,17; 11,15; 12,7-9.10-12; 19,2.6-8.20-21; 20,4) o l’uso
del presente per indicare l’esercizio in atto della propria sovra
nità da parte del Cristo cavaliere vittorioso (19,11.15) o la lot
ta dei suoi testimoni (11,4-6.9-10). Le azioni belliche che ve
dono scontrarsi l’Agnello e i suoi contro i loro antagonisti
oppure le proclamazioni del regnare fatte a loro riguardo per
il passato o affermate a loro riguardo per il futuro sembrano
dire simbolicamente un combattimento per il regno che effet
tivamente c’è stato, è stato vinto e ancora lo sarà: non dal dra
go né dalle sue bestie ma da Dio, dall’Agnello e da coloro che
sono con lui, «Re dei re e Signore dèi signori» (17,14 e 19,16).
La comunione-comunicazione tra la trascendenza e la storia,
nella persona di Dio, dell’Agnello e dei suoi fedeli e, simulta
neamente, l’uso di un linguaggio simbolico conforme alla tra
dizione apocalittica per dire teologicamente la storia reale,
giustifica l’apparente confusione dei tempi. L’Agnello ha vinto
(cc. 4-5), ancora deve vincere con e attraverso i suoi in ogni
tempo e spazio della vita degli uomini (cc. 6-16) e certamente
vincerà (cc. 17-22). Per il resto, è solo questione di un «picco
lo tempo». Illuminante, in tal senso, è la risposta che in 6,9-11
viene data alla preghiera formulata dai martiri e ispirata alle
domande essenziali della teodicea nella Scrittura: «Fino a quan
do, o Padrone santo e verace, non giudicherai e vendicherai il
nostro sangue da coloro che abitano sulla terra?». Dopo il do
no di una veste bianca, simbolo della risurrezione già parteci
pata, a loro viene detto di «riposare ancora poco tempo» (cfr.
Is 54,7; Ap 20,3-4), fino a che sia completo il numero dei con
servi e fratelli che, come loro, saranno uccisi per la loro testi
monianza. C ’è, dunque, una misura di pienezza da raggiunge
re che determina il rapporto tra il già e non ancora così come
esso si manifesta nella trama dell’Apocalisse. Questa misura di
pienezza, che effettivamente manca, si esprime in un tempo
«piccolo», «rapido», «vicino» (1,3; 2,16; 3,11; 11,14; 22,7.10.
12.20), calcolabile qualitativamente e non quantitativamente.
Il simbolismo numerico, così abbondantemente utilizzato da
Giovanni di Patmos, dimostra che al cuore dell’escatologia
dell’Apocalisse sta non la quantità ma la qualità dei tempi.
A rigor di termini, non si potrebbe neanche dire che l’asse
del «già» compiuto sia statico mentre quello del «non ancora»
dinamico: senza la vittoria dell’Agnello, che è celebrata nella
sezione del trono da cui tutto dipende e che comanda tanto il
settenario delle lettere (le promesse al vincitore) quanto lo
svolgimento delle visioni fino al culmine della Gerusalemme
nuova (la promessa al vincitore in 21,7), non ci potrebbe es
sere lo scioglimento dei sigilli e non si potrebbe dare lo svol
gim ento d e ll’A p o calisse. N ella v ittoria già com piu ta
dell’Agnello il movimento quindi c’è, ma sta fuori dal libro!
Non a caso essa viene proclamata e celebrata, ma non viene
mai raccontata. Anche in 19,11-21 ne viene raccontato l’esito,
non la sua realizzazione sull’asse temporale che sta fuori dal
libro nella pasqua di Gesù Cristo. Al libro della «rivelazione»,
in fondo, non tocca altro che confessare, dispiegare, sviscera
re, dal punto di vista dello Spirito che parla alle chiese, sog
getti, modi, cause, occasioni ed esiti del combattimento per il
Regno che l’Agnello ha compiuto vittoriosamente, affinché la
sua battaglia vittoriosa sia partecipata e vissuta dalla comuni
tà: nella liturgia, che unisce cielo e terra e permette la com
prensione «in Spirito» della storia, e nella vita, che porta avan
ti la storia fuori dal libro.
Bibliografìa
4Penna, 211.
zione e «deuterosi» ultima e definitiva: ultima proprio perché
definitiva e definitiva proprio perché attestante l’accadimento
della Parola fuori dal Libro, la trasformazione della Parola in
«carne» e «corpo» personale e sociale, quello del Cristo e quel
lo dei credenti in lui, suoi «testimoni».
La proclamazione deH’imprevedibile compimento messia
nico delle Scritture e delle attese di Israele nella persona di
Gesù di Nazaret crocifisso e risorto, riconosciuto come «Colui
che viene» (Gv 6,14; 11,27; 12,13; lG v 5,6; Ap 1,7-8; 3,11;
22,7.12.20) ed «è venuto» «nella carne» (Gv 1,14; lG v 4,2;
2Gv 7), cioè come uomo passibile di sofferenza e morte (lG v
5,6; Ap 1,17-18) e proprio per questo sovrano vittorioso (Gv
12,32; 16,33; 18,36-37; Ap 3,21;5,5; 17,14; 19,11-16), attraver
sa e unifica tutti gli Scritti giovannei. Nella «carne», che è la
possibilità di patire e morire, la Parola si rivela e si invera come
Vita di Dio per il mondo. Il significato dell’incarnazione è
esplorato da una prospettiva post-pasquale e la cristologia è
intimamente orientata alla soteriologia.5 Passione, morte e ri
surrezione di Gesù costituiscono, dunque, il «cuore stesso del
giovannismo» nonché l’evento a partire del quale i cinque scrit
ti rileggono le Scritture.6 Pur se con lessico e argomentazione
a volte diversi, Vangelo, Lettere e Apocalisse condividono «una
stessa teologia che considera la croce come la grande trasfor
mazione della storia nell’eschaton».7 Benché la cristologia del
la Parola (Gesù è la Parola di Dio e il testimone fedele per
eccellenza) e la cristologia pasquale siano al centro della rive
lazione e spingano ad affermazioni teologiche inaudite, l ’atten
zione ultima verte sul piano di salvezza di Dio e sul ruolo che
10 M. KARRER, Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2011, 356-358.
Linee di teologia giovannea
11 Ivi, 358.
to viene connessa in modo privilegiato alla missione profetica,
si manifesta in modo nuovo e assoluto in Gesù e richiede dun
que una ricomprensione della rivelazione stessa e del suo svol
gersi storico. Gesù, profeta escatologico (Gv 6,14; Dt 18,15-
22), si dimostra infatti tale nella parola e come persona. La sua
parola ha la forza del giudizio divino e della vita divina (Gv
5,10-30; 6,63.68); ha il potere della risurrezione stessa (5,24;
8,51).
Chi è dunque quest’uomo la cui parola è così totalmente
coestensiva alla Parola di Dio? E soprattutto, cosa o, meglio,
chi è veramente, profondamente, questa Parola totalmente co
estensiva a Dio che la dona come all’uomo che la porta? È a
questa domanda che rispondono gli Scritti giovannei, in fondo,
portando al culmine tanto la cristologia quanto la teologia neo
testamentaria: questa Parola è soggetto relazionale, Dio in re
lazione a Dio, «Figlio» in relazione al «Padre», partecipe, te
stimone e realizzatore della sovranità propria del Dio uno (Gv
1,1-2.14.8; 19,14.19-22; 2G v3; Ap 1,5-6; 2,18). Questa Parola,
con la sua identità relazionale, dice Dio come relazione origi
naria e amore sorgivo («fonte d ’acqua viva»: Ap 7,17; 21,6) o,
a partire dall’esperienza cristologica e dalla proclamazione del
Logos divenuto sarx, come Padre e Figlio in costante relazione
d’amore oltre e dentro la «carne» dell’uomo, partecipata all’uo
mo col dono dello Spirito vivificante, «acqua zampillante in
vita eterna» (Gv 4,14; 7,37-39).
Tutt’altro che negare l’unicità del Signore Dio, la testimo
nianza cristologica ne svela la struttura intimamente relaziona
le mostrandone e affermandone storicamente la «verità» in
azione attraverso il corpo dell’ànthrdpos Gesù, Figlio dell’uomo
e fratello degli uomini, protagonista messianico del compimen
to escatologico. La posta in gioco in questa rivelazione antro
pologica, dal basso, dell’essere e della signoria del Dio uno è
altissima: lo dimostra la forma polemica che la testimonianza
cristologica assume in tutti gli Scritti giovannei traducendosi
in una lotta senza quartiere contro l’idolatria in tutte le sue
forme (religiosa, economica e socio-politica). Se nel Quarto
Vangelo la proclamazione dell’unico Signore passa per la carne
dell’uomo Gesù, votato fino al dono della propria vita all’ono-
re-gloria del Padre e all’affermazione della sua signoria vivifi
cante liberata dalle sue contraffazioni diaboliche, ideologiche
e omicide (Gv 5,16-47; 8,21-59; 10,1-18.22-39), nelle Lettere
e nell’Apocalisse essa passa dalla testimonianza, dall’esperien
za e dal discernimento di una comunità profetica, sostenuta
dalla Parola della vita ascoltata e attuata nella pratica di un
amore fraterno fedele e nella resistenza, fino anche alla morte,
contro ogni sistema di relazioni che neghi e violenti l’uomo. In
tutti i casi, il Cristo crocifisso e risorto, «espiazione per i nostri
peccati» (lG v 1,7; 2,2; 4,10) o Agnello immolato e redentore
(Gv 1,29.36; 19,14-16.36; Ap l,5b; 5,6-14), è al contempo ri
velazione del volto amante dell’unico vero Dio, smascheramen
to delle seduzioni idolatriche e mortifere dei falsi profeti, «prin
cipio» della nuova creazione e segno permanente della nuova
alleanza realizzata. Questa, infatti, altro non è che l’avvenire
storico della relazione d’amore tra il Padre e il Figlio parteci
pata stabilmente e intimamente, mediante il dono dello Spirito,
ai credenti che perseverano nell’amore reciproco e nella resi
stenza alle seduzioni idolatriche fino al dono della propria vita.
Attestazione eloquente della rivelazione e proclamazione del
Dio uno appare in particolare, in tutti i testi giovannei, il ricor
so pervasivo al linguaggio nomistico («ascoltare/custodire la/e
parola/e o il/i comandamento/i»; «fare/cercare la volontà/ciò
che è gradito/l’onore/la gloria di Dio»), riferito in positivo tan
to a Gesù quanto ai credenti, che dimostra attuata e costante-
mente risuonante nel loro cuore l’intimazione esigente dello
sema‘ Yisrà’el del comandamento principale della Tóràh: «Il
Signore tuo Dio è l’unico Signore. Tu amerai il Signore tuo Dio
con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue
forze» (Dt 6,4-5); cioè, nell’interpretazione tardo-giudaica, fino
al dono della vita per prendere su di sé il «giogo del regno dei
cieli».12*Nella traduzione giovannea, però, lo sema‘ ha una con
cretizzazione inevitabilmente singolare: la fede nel Dio uno e
vero, nonché la proclamazione esistenziale della sua signoria,
è inscindibile dalla confessione di fede nel Cristo Figlio e dal
la custodia della parola/testimonianza divina che egli signifi
ca.15 L’amore di dedizione al Dio uno e l’osservanza dei suoi
comandamenti si concretizzano, ora, nell’amore per Gesù e
nell’osservanza del suo «com andam ento nuovo», quello
dell’amore reciproco/fraterno, perché è dalla sua esistenza do
nata che passa la rivelazione dell’invisibile Dio come relazione
Padre-Figlio riversata nei credenti-figli col dono dello Spirito
e, dunque, come «amore» che è «vita eterna» e denuncia co
stante di ogni sistema di relazioni che conduce alla morte. Al
dischiudersi dell’«arca dell’alleanza nel cielo» il veggente G io
vanni vede, ormai, la donna-madre in atto di partorire il Mes
sia Figlio e la sua discendenza in atto di combattere, vittorio
samente, la stessa battaglia messianica contro il mistificatore
delle origini.
La proclamazione del Dio uno in termini storici e relazio
nali costituisce, dunque, la struttura costante dell’annuncio e
della teologia giovannee: il Dio uno è Colui il cui «esserci»
sovrano e liberante si fa percepire e riconoscere nell’appello a
credere e nell’esperienza dell’amare che passa dalla relazione
con Gesù (Gv 8,31-36). La cristologia giovannea non è, da
questo punto di vista, che la cartina al tornasole della sua teo
logia: credere che l’uomo Gesù di Nazaret è il Cristo implica
una visione realmente nuova, specifica di Dio, tanto rispetto al
mondo giudaico quanto rispetto al mondo pagano. L’esperien
za del Cristo è, infatti, il luogo di rivelazione ultimo e pieno
14 T r ip a l d i , Gesù, 2 1 5 .
15G nilka, 214.
16Penna, 214.
riferimento alle dinamiche intra-ecclesiali, però, gli Scritti gio-
vannei non sembrano presupporre altra autorità che quella
testimoniale del discepolo amato, sulla quale si struttura la con
tinuità della tradizione sotto l’azione e la guida dello Spirito;
quella testimoniale e pastorale del «Presbitero», non rigidamen
te classificabile tuttavia sul piano ministeriale né automatica-
mente accettata nelle chiese che pure stavano sotto il suo raggio
di influenza (come emerge, del resto, da 3 Giovanni); quella
testimoniale e carismatica del profeta-veggente Giovanni, nean-
ch’essa indiscussa, come si evince dal conflitto intra-ecclesiale
tra gruppi profetici in posizione antitetica («nicolaiti», soste
nitori della «dottrina di Balaam», seguaci della «profetessa
Gezabele»).
Più che la contrapposizione tra carisma e istituzione, per la
comprensione dell’ecclesiologia giovannea mi pare più feconda
e coerente con il linguaggio dei testi, ancora una volta, l’assun
zione della categoria della testimonianza. Come si è avuto mo
do di dire in rapporto all’ecclesiologia delle Lettere, la comu
nità giovannea è kerigmatica più che carismatica, se tale qua
lifica si intende al modo giovanneo, cioè come testimoniale.
Ciò che vale per le Lettere, dunque, può essere esteso anche
agli altri Scritti e al volto di chiesa che ne emerge: la comunità
dei credenti, nella letteratura giovannea, è una comunità di
testimoni in atto di vivere, comprendere sempre più profon
damente e perpetuare storicamente la testimonianza cristolo
gica davanti e nel mondo per la salvezza del mondo sotto la
guida dello Spirito e di quanti, a diverso titolo, ne ascoltano e
ne trasmettono la parola cristiforme. L’ecclesiologia degli Scrit
ti giovannei, come molti hanno notato, è anch’essa cristocen
trica (le metafore del gregge, della vigna o del tempio). Su
questo sfondo comune mi sembra si possano mettere a fuoco
due aspetti, correlati e forse meno frequentati, dell’ecclesiolo
gia giovannea: da un lato, il rapporto tra un’antropologia cri
stiforme e l’ecclesiologia; dall’altro, la pervasività del linguaggio
e delle metafore familiari e sociali cui possono ricondursi l’in
sistenza sulla figura della «donna», sposa e madre, e del popo
lo-città.
Il primo aspetto mi sembra suggerito dall’insistenza, tipica
soprattutto del Quarto Vangelo e dell’Apocalisse, sulla figura
di Gesù come dnthrópos e (simile a) «figlio di dnthrópos» (Gv
4 ,2 9 ; 5 ,7 .1 2 .2 7 ; 8,40; 9 ,1 1 .1 6 .2 4 ; 10,33; 11,47.50; 19,5; Ap
1,7.13) o Messia in una carne mortale (Lettere). Questa insi
stenza, a mio avviso, ha un valore non solo cristologico ma
anche ecclesiologico, come si è visto lavorando più analitica-
mente sulla storia del cieco nato capace, dopo avere acquista
to la vista, di proclamare la sua identità al modo stesso di G e
sù («io sono»). L’identità umana e divina di G esù «Figlio
dell’uomo», figura di rivelatore regale e trascendente ma, al
contempo, di uomo tra gli altri esposto al disprezzo e al riget
to come può esserlo ogni uomo (Gv 8,48-59; 9,28.34.35-38;
19,5), diventa fondamento, struttura costitutiva e modello
dell’identità dei credenti ovvero dell’umanità additata a Nico-
demo come l’umanità capace del «regno di Dio», rigenerata
«dall’alto», «da acqua e da Spirito» (Gv 3,3-10), in una condi
zione e dignità / liliale che caratterizza singolarmente e comu
nitariamente i credenti in Gesù (Gv 1,12-13; lG v 3,1-2; Ap
21,7). La testimonianza dello Spirito di Gesù, in loro come già
in lui, è una testimonianza interiore che l’uomo-figho possiede
in se stesso (Gv 5,31-32; 6,44-45; 8,12-19).
La possibilità di pronunciare l’«io sono», dunque, non ap
partiene solo a Dio e a G esù (Quarto Vangelo passim ; Ap
1,8.17; 2,23; 21,6; 22,13.16) ma anche all’uomo redento che
costruisce e difende davanti al mondo la propria identità di-
scepolare. L’«io sono», a partire da Gesù, non è più soltanto
cifra teofanica o cristologica, ma antropologica ed ecclesiolo
gica, declinabile al singolare e al plurale («noi siamo»: lG v 2,5;
3,1-2.19; 4,6.17; 5,19-20). È cifra di un’identità regale e vitto
riosa: consapevole, agita storicamente nella fede, con fiducia e
perseveranza, con franchezza, in una relazione piena con Dio
e con gli uomini, cristiforme, rischiando la propria stessa vita
(Gv 19,5; Ap 2,10; 12,10-11). Non significa più soltanto «l’au
torità divina di Gesù e la sua unità col Padre»,17 ma anche il
radicamento dell’uomo redento nell’essere di Dio (il fonda
mento teologico della proclamazione antropologica) e la radi
cale e definitiva manifestazione umana dell’«esserci» divino e
della sua prossimità (la dimensione antropologica della procla
mazione teologica).
Il Cristo in cui «rim anere» come tralci nella vite vera di
Israele (Gv 15,1-8) e nella cui «unzione» dimorare (lG v 2,26-
27), il simile a Figlio d’uomo che cammina in mezzo alle chie
se (Ap 1,12-13.20) è un uomo che ha e pretende di avere rico
nosciuta, al contempo, la dignità del Figlio inviato (Gv 5,16-18;
10,33). Se «è questo l’uomo che non si può accettare»,18 questo
è altresì proprio il Figlio di Dio creduto che parla «come mai
uomo ha parlato» (Gv 7,46), attorno al quale si costituisce la
comunità dei credenti, conformemente al quale e alla sequela
del quale cammina ogni singolo essere umano certo di poter
«andare/essere», nella morte e nella vita, «dove lui va/è» (Gv
12,26; 13,33-36; 14,3-6; 17,24; Ap 3,21; 11,8; 14,4; 19,14) e
«come lui è» (lG v 3,2; 4,17): con occhi aperti capaci di vede
re come vedono i redenti e i profeti; con orecchie capaci di
ascoltare ciò che lo Spirito dice alle chiese. Non è forse la fede
attiva e perseverante nell’umanità mortale e glorificata di Gesù
di Nazaret, riconosciuto come Messia e Figlio di Dio, lo spar
tiacque identitario drammatico tra «i Giudei» e «i discepoli»
(Quarto Vangelo), tra chi è figlio di Dio e chi è figlio del dia
volo (Lettere), tra i redenti «tra gli uomini», fedeli fino anche
alla morte nella resistenza anti-idolatrica, e chi abbandona la
sua fedeltà per compromettersi con la bestia e con il suo falso
17Prigent, 28.
18L éon-Dufour, 168.
profeta (Apocalisse)? Allo stesso modo, 1’ànthropos costiforme,
con qualità ormai angeliche e trascendenti, è la misura stessa
imétron) della città/popolo escatologico di Dio (Ap 21,17).19
Il secondo aspetto è collegato al primo: sulla dignità e iden
tità filiale del Cristo crocifisso e risorto si fonda, in tutti gli
Scritti giovannei, lo status dei credenti come «figli di Dio» ere
di, in qualità di vincitori, dei beni dell’alleanza messianica ed
escatologica (Ap 2,26-28; 21,7). Rigenerati dallo Spirito i cre
denti possono quindi chiamarsi «fratelli», in rapporto a Gesù
e tra loro, e le chiese a loro volta «sorelle» che condividono la
comune elezione (2Gv 13). Se in rapporto a Dio Padre, al Cri
sto maestro e ai tradenti della testimonianza cristologica, i cre
denti possono essere appellati «figli», la chiesa che ne rappre
senta la personificazione collettiva - sia essa declinata al singo
lare o al plurale - non è mai chiamata «figlia» ma è indicata
sempre attraverso la metafora femminile della donna, sposa e
madre, conformemente all’uso biblico relativo tanto al popolo
eletto (Os 1-3) quanto alla eletta città di Dio, Gerusalemme-
Sion, che finisce per rappresentarlo soprattutto a partire
dall’epoca post-esilica (Sai 87; Is 54; 60-62; 66; Zc 1,14 e 8,2).
La proclamazione della dignità filiale dei credenti, dunque,
implica anche il compimento delle promesse profetiche riguar
do alla «donna» Gerusalemme/Sion, sposa e madre, e alla sua
discendenza. Singolare, a questo riguardo, mi pare la metafora
del parto messianico trasversale esplicitamente al Quarto Van
gelo e all’Apocalisse ma sottesa, implicitamente, anche alle Let
tere. Tanto nel Quarto Vangelo che nell’Apocalisse, infatti, la
figura ecclesiologica dominante è quella della donna-madre
LE LETTERE CATTOLICHE
IL SETTENARIO
D E LL E LETTER E «C A TTO LICH E»
Queste sono le cose che riguardano Giacomo, del quale si dice che
sia la prima delle lettere denominate Cattoliche. Ma bisogna sapere
che essa è considerata spuria; perciò non molti degli antichi l’han
no menzionata, come neppure quella detta di Giuda che è anch’es-
sa una delle sette cosiddette Cattoliche. Nondimeno noi sappiamo
che anche queste, come le altre, sono state lette pubblicamente in
tantissime chiese (Storia della chiesa 2,23,24-25; cfr. anche il rife
rimento a «Giuda e le altre Lettere Cattoliche» in 6,14.1).
2 Ivi, 510.
3 Cfr. Painter, 249.
4 Si vedano le osservazioni di N orelli, 479-480.487. 495.
5 «Queste sette lettere hanno talmente pochi aspetti in comune che sono state ri
unite in un gruppo a parte per il solo fatto di non essere paoline» (Cullmann, 107).
lo di Gnilka6verso l’inizio e la fine della seconda metà del ’900
e quello di quanti, attualmente, pensano di poter ricostruire
una teologia unitaria delle Lettere Cattoliche.7 Come suggerisce
efficacemente il titolo del lavoro dedicato da D. Nienhuis alla
collezione delle sette Lettere Cattoliche, al suo significato
nell’insieme del canone neotestamentario e alla funzione svol
ta dalla Lettera di Giacomo nella sua formazione (Not by Paul
alone), gli studi attuali sul corpus sottolineano fondamental
mente un dato: nel processo di formazione del canone, la sele
zione e la sequenza originaria delle sette Lettere Cattoliche - in
un numero simbolo di completezza come quello rappresentato
dalle sette chiese destinatarie dell’epistolario paolino o
dell’Apocalisse giovannea - rifletteva un intento preciso, quel
lo di fissare e salvaguardare l’eredità irrinunciabile del giudai
smo e della componente giudaico-palestinese della chiesa nel
la traditio apostolica accanto all’eredità paolina delle chiese di
origine a maggioranza pagana e, eventualmente, a correttivo
canonico delle sue interpretazioni deviami o riduttive, perché
la testimonianza originaria all’evangelo potesse essere trasmes
sa davvero nella sua integralità, cioè in modo «cattolico».8Tan
to la testimonianza dei manoscritti più antichi quanto quella
delle liste canoniche del IV-VI secolo lo dimostra.
Nei manoscritti onciali del IV e V secolo (Vaticano, Alessan
drino, Sinaitico) la Lettera di Giacomo costituisce sempre la
prima delle sette e viene posta con queste dopo gli Atti degli
Apostoli a formare con essi un’altra collezione (Praxapóstolos,
Atti e Apostolo). Mentre nei codici Vaticano e Alessandrino
Atti e Cattoliche sono posti dopo il tetraevangelo e prima delle
Lettere paoline, nel codice Sinaitico seguono la collezione delle
Bibliografia
1. Questioni storico-letterarie
1 gì20 (III secolo: 2,19-3,9); (P25 (III secolo: 1,10-12.15-18); <P54 (V/VI secolo: 2,16-
18.22-26; 3,2-4); $p74 (VII secolo, che contiene, anche se frammentario, tutto il Praxa-
póstolos da At 1,2 fino a G d 24 nell’ordine Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda; di
Giacomo sono conservati circa una settantina di versi che coprono, pur se in modo
lacunoso, Finterò testo della Lettera); <p100 (III/IV secolo: 3,13-4,4; 4,9-5,1).
nella seconda metà del ’900 quando, superati anche i «divieti»
imposti da M. Dibelius nel suo imponente commentario,2 se
ne sono esplorati in modo sempre più approfondito lo sfondo
storico e sociale, il genere letterario, l’antichità e la ricchezza
delle tradizioni, l’originalità della loro rilettura redazionale, la
struttura, lo scopo e la teologia.3 Lo studio della Lettera di
Giacomo costituisce ormai un capitolo fondamentale per la
comprensione delle origini cristiane e della loro matrice giu
daica.
5 Cfr., tra gli ultimi, McK night, 36-37 che, dopo avere soppesato tutti gli argo
menti, considera autentica la Lettera, inviata da Giacomo alle comunità messianiche
della diaspora negli anni 30.
stificazioni del ritardo della parusia che, al contrario, viene
annunciata sempre come «prossima» (Gc 5,8-9). Giacomo ma
nifesta piuttosto una forte sensibilità verso le esigenze della
giustizia tipiche della predicazione dei profeti; presenta una
cristologia al suo stato nucleare (Gesù è «Signore»), ha in men
te una chiesa con una struttura istituzionale appena accennata
(«maestri» e «presbiteri»: 3,1; 5,14) e una visione del compi
mento escatologico di sapore marcatamente apocalittico (4,13-
5,6). Dato il grado elevato di ellenizzazione della Palestina nel
I secolo d.C., forse non è necessario pensare a uno scrittore
formatosi fuori dai suoi confini per spiegarne il greco di buon
livello e l’abilità retorica.
Mi sembra convincente dunque, allo stato attuale della ri
cerca, la tesi di chi sostiene l’autenticità della Lettera e la sua
provenienza da un ambiente palestinese, specificamente gero
solimitano, prima della distruzione del tempio di Gerusalemme.
O, in ogni caso, una dipendenza fortissima della Lettera nella
sua forma redazionale finale, non posteriore all’80 d.C., dalle
tradizioni e dall’insegnamento di Giacomo fratello del Signore.
Chi ha dato ad essa la sua attuale veste letteraria potrebbe ave
re voluto custodire integra per le comunità giudeo-cristiane
legate alla chiesa madre di Gerusalemme la voce autorevole di
Giacomo: il suo messaggio teologico, ecclesiale ed etico nato
sullo sfondo del contesto sociale e religioso palestinese degli
anni 40-60 d.C. aveva una validità per le comunità cristiane che
superava quegli stessi confini cronologici e geografici.
8 Si vedano in 2,7 il «bel Nome» invocato sui credenti, e in 2,8; 3,13; 4,17 il loro
agire e condursi in mitezza sovrana e in conformità integra alla Parola della Legge.
città delle regioni dell’impero romano di lingua greca fuori
dalla Palestina. Quale che sia la residenza dei destinatari della
lettera circolare, però, ciò che più conta è la loro situazione di
vita deducibile dalle argomentazioni dell’autore. Situare stori
camente la parenesi di Giacomo è indispensabile, infatti, per
comprenderne il messaggio e le sfide. Benché la destinazione
circolare della Lettera imponga di considerare i riferimenti al
le esperienze di vita dei destinatari come potenzialmente tipici,
di carattere generale e applicabili a diversi contesti, alcuni ele
menti emergenti dal testo sembrano evidenziare alcune condi
zioni di vita specifiche.
Le comunità cui Giacomo si indirizza sembrano caratteriz
zate anzitutto da una compagine sociale differenziata. Costitui
te da membri in prevalenza di livello sociale medio-basso, do
vevano essere quanto meno frequentate anche da personaggi di
livello sociale più elevato e, possibilmente, alcuni di questi ne
facevano parte (1,10; 2,1-5). Di contesti comunitari siffatti in
diaspora dà prova la Prima lettera ai Corinzi (lCor 1,26; 11,17-
22.33-34). Nel lanciare i suoi moniti e le sue invettive contro i
ricchi (Gc 5,1-6), l’autore traduce nel suo stile peculiare forme
letterarie e temi che gli derivano dalla tradizione profetica (cfr.
gli oracoli di giudizio in «guai» o quelli che contengono l’invito
a urlare e a fare lamento: Is 5,8-25; 10,l-4a; 13,6; 14,31;
23,1.6.14; 32,9-14; Ger 22,13-14; 49,3; Am 5,16-20; 6,1-7; Ab
2,5-20), dalle sue riproposizioni sapienziali (Sir 2,12-14; 41,8-9),
dai suoi sviluppi nell’apocalittica giudaica (cfr. le invettive con
tro i ricchi oppressori in 1 Enoc 94,6-8; 96,4-8; 97,7-98,3; 103,5-
6) e nella tradizione evangelica (cfr. Mt 11,20-24; 23,13-36; Le
6,20-26; 10,13-15; 11,42-52; 23,28), ma sarebbe difficile capire
come la scelta di questo tipo di linguaggio potrebbe non riflet
tere il Sitz im Leben dell’autore, dei suoi lettori o di entrambi.
Se nelle comunità destinatarie del suo messaggio «Ì ricchi» fos
sero tolleranti e generosi verso i fratelli, Giacomo non ricorre
rebbe allo stereotipo del ricco oppressore; se sapesse che i veri
ricchi delle sue comunità sono i commercianti, non li dipinge
rebbe come latifondisti. Se non sapesse che nelle comunità ci
sono persone che aspirano a una leadership basata su un uso
aspro e violento di parole e argomentazioni, non insisterebbe
tanto sulla necessità di tenere a freno la lingua e di mettere da
parte ogni forma di zelo amaro e violento (Gc 3,1-4,10).
I destinatari di Giacomo dovevano dunque in qualche modo
essere coinvolti in problematiche di relazioni sociali come quel
le vissute nelle antiche associazioni volontarie (collegia) cui i
romani equiparavano le stesse assemblee sinagogali giudaiche
della diaspora. I membri dei collegia, come quelli delle prime
comunità cristiane, si costituivano volontariamente, per la li
bera decisione di associarsi e non per nascita. Erano piccoli
gruppi che facilitavano i rapporti personali. Avevano pasti in
comune accompagnati da rituali e attività cultuali. Potevano
quindi incorrere nello stesso tipo di problemi. Il modo in cui
Giacomo istruisce i suoi destinatari, collegando tra loro que
stioni di leadership (3,1-2; 3,13-14), di differenze sociali inter
ne (1,9-11; 2,1-7; 2,15-16; 4,11-5,6), di tendenze clientelari
(2,2-4) e di tensioni reciproche (1,19-21; 4,11-12; 5,9) potreb
be richiamare l’esigenza di una regolazione delle polemiche
comunitarie che erano frequentemente fonte di preoccupazio
ne nel mondo antico.9 Il suo accento, comunque, resta forte
mente orientato allo scioglimento delle tensioni sociali tra clas
si ricche e classi deboli della società ed è comprensibile anche
alla luce delle differenziazioni sociali tra i giudei residenti in
diaspora che potevano essere ripartiti in tutti gli strati della
società ed esercitare i mestieri più diversi. Sulle fasce della
popolazione più segnate da difficoltà di ordine sociale ed eco
nomico potevano fare maggiormente presa anche argomenta
zioni e fermenti di natura violenta, talvolta giustificati anche
religiosamente (3,13-4,10).5
5 Cfr. Verseput.
Per tutte le componenti sociali in conflitto, l’appello unico
di Giacomo è a una reciprocità positiva che unifichi e renda
integri i credenti, come singoli e come comunità, e manifesti
in loro la potenza della Parola del regno di Dio, compiuta in
Gesù Cristo e in atto di compiersi nella loro esistenza al co
spetto del «mondo». Esso, dunque, tiene insieme la denuncia
profetica dell’ingiustizia e il rifiuto netto dell’odio e della vio
lenza, polarità paradossale e caratteristica dello stesso annuncio
del regno fatto da Gesù.
12 H artin , Jam es and thè Q Sayings, 29. Cfr. anche T aylor - G uthrie, 692-
695.699-700.
” Cargal, 169-170.
2. Esegesi di Gc 2,1-11: pensare, giudicare
e agire secondo il vangelo del regno
14 La traduzione («Tu resta in piedi lì. ..») riflette la lezione del codice Alessandri
no, del codice T7 e della Vulgata (assunta da Nestle-Aland27) e non quella del codice
Vaticano (preferita da Nestle-Aland28) che si dovrebbe tradurre: «Tu stai in piedi o
siediti lì allo sgabello dei miei piedi». Le varianti, in realtà, sono almeno cinque e si
giustificano per la difficoltà di comprendere concretamente il linguaggio deittico del
testo: quella del codice Alessandrino mi sembra spieghi meglio la genesi delle altre.
tribunali? 7Non sono proprio loro che bestemmiano il nobile No
me invocato sopra di voi?
8Se realmente adempite la Legge regale, secondo la Scrittura (che
dice) amerai il prossimo tuo come te stesso, voi agite bene; 9ma se
fate favoritismi personali voi commettete peccato, venendo accu
sati dalla Legge come trasgressori. 10Chi, infatti, osserva l’intera
Legge ma manca anche riguardo a un solo (precetto) diventa col
pevole di tutto. “Perché Colui che ha detto: Non commettere adul
terio, ha detto anche: Non uccidere. Se tu, quindi, non commetti
adulterio, ma uccidi, sei diventato trasgressore della Legge.
16Cfr. K amell.
w. 8-11. Mostrato il fondamento teologico ed evangelico del
suo imperativo di partenza e denunciata la pericolosa incon
gruenza del comportamento dei suoi destinatari, l’autore può
tornare sulla questione dei favoritismi personali. Egli non ne
dichiara solo l’illegittimità, ma indica la direzione di un’auten
tica e originale interpretazione della giustizia richiesta ai cre
denti che ricorda da vicino le dichiarazioni programmatiche di
Gesù secondo Mt 5,17-20 ed esprime bene i due poli tra cui si
muove la riflessione di fede del giudeo-cristiano Giacomo: da
un lato la Legge, con la sua immensa esigenza di giustizia che
attende di impregnare e trasformare tutti gli ambiti della vita
umana; dall’altro il Vangelo del regno che di questa Legge rea
lizza, storicamente ed escatologicamente insieme, sia le esigen
ze che la promessa. In questi versi, dunque, l’argomentazione
di Giacomo si fa ancora più rigorosa.
Una prima coppia di proposizioni in parallelismo antitetico
(w. 8-9) e dalla forma di detti condizionali («se voi», seguito
dall’azione e dalla conseguenza), richiama l’esempio ipotetico
portato nei w. 2-4 e si caratterizza per l’uso dei verbi in secon
da persona plurale con cui Giacomo definisce le azioni dei suoi
destinatari. Contrapponendo una realizzazione pienamente
compiuta e unificante (teléo) della «Legge» (v. 8a) all’azione
discriminatoria e separatrice dei favoritismi personali (v. 9a),
egli formula il giudizio sulla loro condotta («agite bene» del v.
8c in contrasto a «commettete peccato» del v. 9b) in base alla
conformità o meno di questa alla Scrittura che, quanto a «Leg
ge», è integralmente rappresentata dal comandamento del
l’amore del prossimo (Lv 19,18). Questo, posto a conclusione
della prima grande parte di Lv 19 (vv. 1-18) in cui si trova
anche il divieto di fare preferenze di persone (Lv 19,15), sin
tetizza le prescrizioni morali del cosiddetto Codice di santità
(Lv 17-26), del Decalogo (cfr. Mt 19,19) e, con esso, di tutta
la Tóràh. Non è una legge nuova, ma con un indiscutibile ri
chiamo alla prospettiva del «regno promesso a coloro che ama
no Dio», Giacomo la riconosce come «legge regale»: in senso
proprio, perché vige all’interno del regno di Dio ovvero è la
legge del suo regno; in senso metaforico, perché è quella che
per eccellenza sintetizza e sigilla la volontà del Santo di Israele
e «libera» tutta la capacità sovrana di bene dei credenti eredi
del regno (Gc 1,25;2,12). Se i credenti adempiono realmente
la Legge conformandosi alla sintetica parola dell’amore del
prossimo, operano in pienezza la giustizia; ma se fanno prefe
renze di persone, non adeguandosi a uno degli aspetti in cui la
Legge vuole concretizzato il comandamento principe sulle re
lazioni umane (Lv 19,15), essi «commettono» peccato (verbo
ergàzomar. cfr. Sai 6,9; Mt 7,23; Gv 3,20; 6,28; Rm 2,9-13;
13,10; Gal 6,10), non «com piono» la giustizia di Dio (in Gc
1,20 si ha lo stesso verbo greco) e sono giudicati dalla stessa
Legge come persone che hanno deviato dal sentiero che essa
traccia.
Passando al v. 10 dalla seconda persona plurale alla terza
persona singolare e a una sentenza di tipo casistico, Giacomo
giustifica, in termini concettuali, il giudizio formulato in pre
cedenza facendo leva su un principio decisivo e caro al giudai
smo, cioè quello dell’unità e totalità della Legge (cfr. Gal 3,10;
5,3). Questo principio riconduce la vita a una profondissima
unità interiore che non dipende dalla puntualità dell’azione
richiesta in questo o quel singolo precetto, ma dalla coerenza
interna con cui i singoli comandamenti riflettono la volontà di
bene di Dio. Nella Legge non si può calcolare una differenza
tra precetti «minimi» e «grandi» (cfr. Mt 5,19) perché in cia
scuno è la medesima esigenza di giustizia che si manifesta. Nel
frammento del singolo precetto è tutta l’esigenza di giustizia
della Legge che chiede di affermarsi.
Il suo principio di unità, in ultima analisi, continua Giacomo
(v. Ila), non sta nella Legge ma, ancora più profondamente,
nell’identità unica di Colui che in essa ha parlato. L’unità e
indivisibilità della condotta giusta, e della Legge che l’esige,
sono poste, quindi, in relazione con l’intento comunicativo e
con la volontà santificante dell’unico Dio (Gc 1,18). Utilizzan
do, infine, un detto in forma condizionale come quelli dei w.
8-9 («se tu» seguito dall’azione e dalla conseguenza corrispon
dente), nel v. l l b Giacomo conclude la sua argomentazione
così come l’ha aperta, riportandola sul piano della formulazio
ne del giudizio: ciascuno, in base all’ermeneutica della Legge
proposta, può verificare la conformità o meno della propria
condotta a essa. Dal monito lanciato ai credenti contro la scis
sione interiore e la discriminazione comunitaria, Giacomo si è
spinto con la sua riflessione fino a raggiungere il fondamento
ultimo del suo imperativo di partenza, che non è né questo né
quel precetto della Legge, ma la volontà creatrice e redentrice
dell’unico Dio. Nel suo pensiero, svelato per intero, la sempli
cità della condotta dei credenti è comandata dalla semplicità e
unità di Dio che, con un medesimo atto di parola, guida la
loro condotta fino alla pienezza di giustizia che vige nel regno
per coloro che lo amano. Indirettamente, Giacomo risponde,
così, anche all’esigenza diffusa nel giudaismo del I secolo di
ricondurre a unità i molteplici precetti della Legge (Me 12,28-
31; Mt 22,34-40; Le 10,25-28; Rm 13,8-10; Gal 5,14; Testamen
to di Issacar5,2\ Testamento di Dan 5,3; Filone, Le leggi specia
li 2,63; Abramo 208), proponendo come via maestra la piena
assimilazione e interiorizzazione dell’esigenza di giustizia della
Legge, vissuta e interpretata da Gesù nella sua predicazione
del regno secondo il precetto «regale» dell’amore del prossimo,
come espressione sintetica della volontà unificante e salvifica
di D io per il suo popolo «a ll’alba della sua escatologica
sovranità».17 L’amore integro e totalizzante per Dio e la fede
nell’unico Signore Gesù Cristo non possono «compiersi» che
in un’unità interiore ed esteriore di vita, che rende «compiuti»
i credenti (Gc 1,4) nel giudizio e nell’azione, dando anche al
3. Linee teologiche
Cfr. Batten.
Parola di verità» (1,18). Il Dio «padre degli orfani e protettore
delle vedove» (Sai 68,6), che nella Scrittura si manifesta come
giudice imparziale che vuole immuni da qualsiasi parzialità i
membri del suo popolo (Gc 2,1-11), manifesta storicamente il
suo essere e il suo agire proprio nella parola con cui dichiara e
realizza definitivamente l’«elezione» dei più fragili invece che
dei più forti (2,5), ribaltando così i parametri di giudizio del
«mondo». In linea anche con gli sviluppi teologici più recenti
degli scritti sapienziali (Sir 24; Sap 9), il teocentrismo di G ia
como si esprime quindi in una vera teologia della Parola, insie
me profetica e sapienziale, che presuppone però la novità
dell’annuncio evangelico e messianico del regno.19 La «Parola
di verità» nella quale Dio si manifesta fino in fondo come Pa
dre, per il «noi» dei credenti non è più soltanto quella creatri
ce e quella profetica, ma quella evangelica (Mt 5,3 / / Le
6,20.24; lCor 1,26-31). La paternità di Dio che loro sperimen
tano non è più soltanto quella che gli appartiene come Crea
tore, ma quella che esprime un suo preciso atto di «volontà» o
progetto realizzato mediante una nuova generazione. Essa ri
guarda allora in modo nuovo il «noi» dei credenti, destinati,
per immenso dono, a essere davanti a Dio e al mondo «primi
zia» di una nuova creazione e, dunque, preannuncio e insieme
manifestazione del mistero della vera regalità di Dio sul mondo.
«Giudice» unico e uno nel suo parlare (Gc 2,8-11; 4,12; 5,9),
Egli è colui che dà «compimento» all’umile perseveranza dei
credenti (4,6; 5,11) e si rivela, proprio in essa, «ricco di com
passione e di misericordia», artefice di un giudizio «regale» che
21 L.-T. J o h n s o n , 63-64.
sono sempre stimolare una feconda ermeneutica «cattolica»
dello statuto esistenziale dei credenti in Cristo: l’affermazione
della «sola fede» - contrassegno equivocato della tradizione
paolina (Rm 3,21-28; 4,2-3; G al 2,16) - non può stare essa
stessa «da sola»;22 implica necessariamente l’appello a una vita
redenta, quella di cui Giacomo, non diversamente da Paolo del
resto (Rm 6; Gal 5,6), si occupa in modo mirato e illuminante,
trattando problemi diversi da prospettive differenti e additan
do ai suoi destinatari ambiti e aspetti concreti, potenzialmente
universali e permanentemente validi, di una vita di fede impre
gnata dal rapporto di amicizia con Dio e dal rifiuto delle logi
che mondane (Gc 2,23; 4,4).
22 Wall, 48.
sentire, nel giudicare, nel parlare, nell’agire. U linguaggio della
«perfezione» - che sia predicato della Legge (1,25), dell’opera
della pazienza (1,3) o degli stessi credenti (1,4; 3,2) - indica
fondamentalmente questa piena integrità che è propria di Dio,
volto della sua santità (Mt 5,48). È alla sua integrità che i cre
denti sono chiamati a conformarsi nel sentire, nel parlare e
nell’agire. Posta davanti ai loro occhi come meta e, insieme,
come criterio di esistenza, tale integrità non significa altro che
la radicale adesione alle esigenze dell’amore unificante dell’uni
co Dio. Per il «Giacomo» della comunità-madre gerosolimita
na, essa deve tradursi, in particolare, nell’integrità delle rela
zioni paritarie tra «fratelli», presentate nel libro del Deutero
nomio come meta di una comunità che ha assim ilato in
profondità le esigenze dell’alleanza, vincendo nel proprio seno
ogni forma di violenza e di stratificazione in classi (Dt 10,12-22;
15,4-6.11; At 2,42-47; 4,32-37).
Non è un caso, dunque, che, pur ispirandosi di continuo
all’insegnamento dei sapienti e attingendone le forme, Giaco
mo non usi mai la metafora paterna per indicare il rapporto
vitale all’interno del quale trasmettere la «sapienza» e si attesti
sempre, invece, su una relazione simmetrica, di uguaglianza,
rivolgendosi ai destinatari come a «fratelli». L’appellativo ripe
tuto realizza già quello che comanda, determinando l’identità
fraterna dei membri delle comunità. Nei diversi ambiti della
vita essi devono tradurre tale identità senza ipocrisia: nel rap
porto con i potenti della società, in quello tra ricchi e poveri
all’interno della comunità, nell’uso della parola - ambito an
tropologico ed etico privilegiato da Giacomo perché partico
larmente atto a riflettere o a tradire la «Parola di verità» salvi
fica - nell’esercizio della leadership, nel sostegno di tutti i de
boli. Contro ogni atteggiamento superbo e altero che impedisce
questa apertura relazionale fraterna nella fedeltà all’alleanza e
alla Parola «impiantata», Giacomo si scaglia perciò a più ripre
se, richiamando il grido profetico contro l’ingiustizia e Top-
pressione che alberga in mezzo al popolo di Dio (Gc 2,4; 4,7-
10; 4,13-17; 5,1-6). La sua consapevolezza, tuttavia, va anche
oltre questo grido profetico. Pur assumendolo pienamente egli
sa, e invita i suoi «fratelli» a riconoscere, che dalla preghiera
efficace del «giusto» paziente dipende il «frutto della terra»
(5,16-18) e che la cura reciproca tra fratelli ha il potere di sal
vare e «coprire» il peccato cancellandone gli effetti e arginan
done il corso (5,19-20). La forza salvifica della Parola impian
tata si manifesta, infatti, proprio in questa forma integra e ri
sanante di relazione fraterna. Le «dodici tribù che sono nella
diaspora» possono vivere in questa luce, già nel presente,
l’esperienza della restaurazione escatologica resa possibile dal
Signore «ricco di compassione e misericordioso».
Volta a sostenere e a illuminare il cammino concreto delle
comunità alla luce del compimento messianico ed escatologico,
la teologia di Giacomo ruota, dunque, fortemente attorno a
temi di natura etica e di etica comunitaria. E, tuttavia, il suo
centro non sta nell’etica ma nella professione di fede monotei
stica e cristologica che governa tanto l’etica quanto l’ecclesio
logia, per altro poco sviluppata.23 Il riconoscimento dell’unico
Signore, così come si manifesta storicamente Padre dei poveri
in Gesù Cristo Signore della Gloria, governa tutta la sua argo
mentazione. Esso implica per i credenti - singoli e comunità
- un cammino di unificazione e integrazione sempre più pro
fondo e direttamente proporzionale alla loro capacità di collo
carsi nell’orizzonte del compimento escatologico dell’agire di
Dio. Su questo sentiero di «beatitudine» Giacomo li attrae
mediante la proclamazione di una Parola di verità - unica e
insieme dalle molteplici risonanze - verso la quale chinarsi con
amore e nel cui ascolto attivo perseverare tra le prove nella
certezza del «compimento del Signore».
Bibliografìa
1. Questioni storico-letterarie
1?p72 (III/IV secolo: 1,1-5,14), (VII secolo: lacunosi i cc. 1,2 e 3), *PS' (IV se
colo: 2,20-3,1.4-12), gV25 (III/TV secolo: 1,23-2,5.7-12).
la fine del I secolo d.C. Più difficile, invece, è stabilire un
terminus post quem: se fosse realmente stata scritta dall’apo
stolo Pietro, col quale il mittente si identifica nel prescritto
(1,1), allora la sua redazione non potrebbe essere posteriore
alla data del suo martirio entro la metà del 60. Tuttavia, le
prove a favore del carattere pseudepigrafo del testo sono for
ti, anche se non certo con un «peso schiacciante» come giu
dicano alcuni studiosi:2
6H orrell, 50-51.
La conoscenza e l’apprezzamento profondo delle Scritture,
dei privilegi e delle categorie teologiche tipiche del giudaismo
che la Lettera presuppone nei destinatari (lPt 1,10-12.15-16.19-
20; 2,3-10; 2,21-25; 3,5-6.10-12.18-22; 5,13), appellati «stranieri
e pellegrini» (2,11) residenti in «diaspora» (1,1) da un Pietro che
li saluta da una «co-eletta» comunità collocata anch’essa simbo
licamente in terra d’esilio (Babilonia, 5,13), spinge quindi a ri
tenere che i destinatari dovessero avere in parte un’origine giu
daica e che, benché forse convertiti in (buona?) parte dal paga
nesimo (1,14.18; 2,10.25; 3,6; 4,3-4), dovessero comunque
essere venuti a contatto con Pevangelo attraverso il giudaismo o
avere avuto una catechesi d’impronta fortemente giudaica7. Se,
poi, dietro il nome simbolico di Babilonia si riconosce la città di
Roma è ragionevole pensare che le chiese dell’Asia settentriona
le destinatarie della missiva condividessero con la chiesa di Ro
ma la stessa matrice giudaica e gerosolimitana (At 2,10). La fi
gura di Pietro, rappresentante anzitutto della predicazione e
tradizione gerosolimitana, poteva costituire un’autorità per en
trambe le aree credenti. Pietro, infatti, è descritto in modo sin
golare nella Lettera come «co-anziano», membro cioè di un
presbiterio giudeo-cristiano, «testimone (màrtys)» delle sofferen
ze di Cristo e «partecipe (koinonós)» della sua gloria di prossima
rivelazione (lPt 5,1): dunque, confessore integro del kerigma e
corresponsabile; con gli altri «anziani» del mandato pastorale di
Cristo «pastore capo (archipotmen)» (5,4; cfr. Gv 21,15-19).
D all’accento costante posto sulle sofferenze (pàscho,
pathemata) di Cristo (lPt 1,11; 2,21-23; 3,18; 4,1.13; 5,1) e dei
credenti (2,19-20; 3,14.17; 4,12-13.15.19; 5,910), si può anche
dedurre che i «cristiani», ormai riconoscibili con questo pre
7 Questa era anche la convinzione di Eusebio, che riteneva 1 Pietro indirizzata agli
ebrei della diaspora (Storia della chiesa 3,4,2), e di Girolamo (Gli uomini illustri 1)
secondo il quale «Simon Pietro... principe degli apostoli, dopo l’episcopato della
chiesa di Antiochia» aveva predicato «alla diaspora di quanti avevano creduto dalla
circoncisione, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia».
ciso nome nel loro contesto sociale (4,16; At 11,26; 26,28), pur
appartenendo a nuclei domestici in cui i padroni o i mariti
potevano essere non credenti (lP t 2,18-3,2), avevano comin
ciato a dissociarsi dalle pratiche licenziose e idolatriche attri
buite ai pagani (4,3-4) e potevano essere malvisti (2,12; 3,16),
sperimentare varie forme di ostracismo sociale ed essere espo
sti ad azioni giudiziarie (3,13-17), forse anche per il rifiuto del
culto imperiale, «dimostrazione cultuale di lealtà» verso l’im
pero romano che per i cristiani restava una «soglia invalicabile»
(in 2,13.17 il «re» e i «governatori» locali sono «creature uma
ne»; il Kyrios è solo Dio con il suo Cristo).8
8 G ielen, 647-648.
9 PUECH, «La Première», 497.
inferiore e disprezzata, essi possono considerare l’appartenen
za alla «fraternità» dei credenti come esperienza di una «casa
spirituale» (2,5; 4,17) e la «rigenerazione» battesimale vera
fonte di identità (2,2).
Per raggiungere questo scopo e comunicare ai destinatari il
suo messaggio cristologico di speranza e di conforto, l’autore
ricorre a tradizioni e, forse, anche a materiali letterariamente
autonomi e formalmente diversi tra loro: frammenti innici di
origine liturgica (1,18-21; 2,21-25) e battesimale (3,18-22) uni
ti, o talvolta inframmezzati ad arte, a brani di sapore omiletico
(si veda in 1,4 il passaggio dal «noi» liturgico-confessionale al
«voi» omiletico) e a schemi catechetici e parenetici.101La ric
chezza delle tradizioni e dei materiali utilizzati non rende però
necessarie ipotesi complicate sulla genesi letteraria del testo,
come quelle che vedrebbero in 1 Pietro originariamente
un’omelia (o, addirittura, un rituale) battesimale:11 l’unità stili
stica, la continuità tematica e la serrata coerenza argomentativa,
teologica e pastorale della Lettera depongono a favore della sua
unità letteraria e confermano la natura autenticamente episto
lare del testo individuabile già dalla sua struttura formale.
L’immagine dell’esistenza in diaspora, usata nella Scrittura
tanto per indicare la condizione originaria di Abramo e dei
padri quanto quella del popolo esiliato in Egitto o in Babilo
nia, apre (1,1-2), attraversa (1,17; 2,11) e chiude la Lettera
(5,9.13) e permette ai destinatari di dare un preciso senso so-
teriologico ed escatologico alla loro condizione critica nella
società: partecipi della sorte di Abramo, connessa originaria
mente alla sua chiamata, essi sono anche la «comunità escato-
2. Linee teologiche
18 lPt 1,1-2 e G c 1,1; lPt 1,3 e G c 1,16-18; lP t 1,6^9 //4,12-14 e Gc 1,2-4.12; cfr.
N icolaci, «Giacomo e Prima Petri».
19 The Literary Relations, 1913.
20 Vanhoye, 110.
Gesù Cristo» (lPt 1,2),21 del quale alla fine dell’esordio si richia
mano insieme le «sofferenze» e la «gloria» pasquali (1,11) e che
nel primo frammento cristologico innico di 1,18-21 è paragona
to a un «agnello senza macchia e difetto» (cfr. Gv 1,29; Eb
9,12.14), grazie al cui sangue prezioso i credenti sono stati «ri
scattati» dalla «condotta vana ereditata dai padri» (lPt 1,18-19).
Il suo «sangue», prezzo di redenzione, libera e consacra i cre
denti come popolo sacerdotale di Dio (Es 12,22-23; 24,8; 29,21;
Lv 8,30). Quale «pietra rigettata dai costruttori» (lPt 2,4.7; Sai
118,22; At 4,11), Cristo è il Servo giusto, senza peccato (Is
52,13-53,12), grazie alla cui sofferenza innocente, vissuta nella
piena fiducia in Dio giusto giudice e in favore dei peccatori, i
credenti sono radicalmente destituiti (apogenómenoi, bapax bi
blico) dai loro peccati (lP t 2,21-25) e messi in grado di «cam
minare sulle orme» di Gesù stesso vivendo «in lui» e come lui
la propria sofferenza innocente nella giustizia e per amore della
giustizia (2,20; 3,14; cfr. Mt 5,10). Il sangue di Cristo, dunque,
è il prezzo della loro liberazione: se, sul piano sociologico, essi
vivono l’esperienza della schiavitù rispetto a padroni non sempre
«miti» (lPt 2,18), sul piano teologico essi possono riconoscersi
riscattati ed eletti da Dio per mezzo del sangue di Cristo agnel
lo. La sua passione è condizione per il loro esodo escatologico.
La «cristologia della passione», che in 1 Pietro è presente con
un grado di concentrazione e in una «forma unica nel Nuovo
Testamento»,22 non esaurisce però la visione di Gesù: pur non
chiamandolo mai «Figlio (di Dio)» ma sempre, insistentemente,
«Cristo», per l’autore l’identità messianica di Gesù si collega
strettamente alla sua signoria (Gesù è Kyrios) che lo pone sul
piano stesso di Dio e la cui santità i credenti devono riconosce
re e venerare integralmente «nei loro cuori» anche se questo
costa loro la sofferenza (3,15). In prospettiva apocalittica ed
25 G oppelt, 552-553 traduce il genitivo syneidèsin Theoù come «il legame di co
scienza a Dio».
26 U sostantivo si trova, significativamente, anche nella lezione del codice Sinaitico
di Sir 36(33),3b che, invece di «e la Legge è per lui [l’uomo assennato] affidabile
come Yinterrogazione degli oracoli», ha: «e la Legge è per lui affidabile come l’assicu
razione (eperotéma) degli oracoli». Essendo, purtroppo, questo emistichio ricostrui
bile nel testo ebraico di Sir 33,3 solo per congettura (cfr. A. Minissale, La versione
greca del Siracide, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995,79-80.82.89) non è possibi
le stabilire con certezza lo sfondo semitico del greco. Considerando, però, che il verso
appartiene alla sezione di Sir 32,14-33,6 dedicata al rapporto tra il giusto, la Sapienza,
la Legge e il timore di Dio, si può quanto meno rilevare come l’uso petrino del sostan
tivo in contesto battesimale riecheggi effettivamente la responsabilità verso la giustizia
chiesta al credente. Ciò conferma la connotazione particolarmente giudaica della vi
sione petrina del battesimo cristiano.
27 Cfr. P uech, «L a Première», 518-519.
risurrezione di Cristo, in ultima analisi, è il fondamento di
un’etica della responsabilità direttamente proporzionale alla
coscienza identitaria dei credenti: il suo criterio formale e per
manente è il traguardo escatologico segnato dal Cristo e annun
ciato dal vangelo perché tutti possano vivere spiritualmente
secondo Dio anche se condannati ingiustamente dagli uomini
(4,6); come esso debba tradursi concretamente nelle diverse
circostanze della vita e nelle diverse situazioni relazionali, que
sto dovrà essere scoperto di volta in volta dal credente che cam
mina sulle orme del giusto sofferente. Nelle relazioni sociali,
allora, la «bella condotta» sarà caratterizzata da «mitezza e ri
spetto» (3,16), dall’assenza di violenza, colpa, aggressione o
disordine perché tutti possano essere guadagnati senza parole
alla Parola (3,1); contemporaneamente, però, essa sarà una giu
stizia senza compromessi, cedimenti o conformismo rispetto ai
«propositi dei pagani» (4,3), per quanto ciò possa costare in
giusto patire. Il rapporto con la società basato sulla «coscienza
di Dio», per certi versi, è più critico di quello prospettato da
Paolo (cfr. Rm 13,1-7) anche se non è esplicitamente un rap
porto di resistenza frontale e radicale come quello sostenuto da
Giovanni di Patmos. I codici domestici petrini ne sono la tra
duzione letteraria più chiara (lP t 2,13-17; 2,18-3,7), segno di
un’«etica interinale che vive nel presente sperando nella giusti
zia divina dell’età a venire»28 senza, però, smettere di chiedere
a ciascuno di assumersene di volta in volta la responsabilità
personale. La condotta dei credenti, così, diventa «testimonian
za della nuova esistenza escatologica, perché non evita le con
dizioni di vita proprie della storia, ma vi si espone in maniera
oggettivamente adeguata».29
La formulazione della struttura teologica e antropologica
dell’etica in termini di libertà dei «servi di Dio» e di «coscien
Bibliografia
1. Questioni storico-letterarie
3 Cfr. M a z ic h .
4 BAUCKHAM, } ude and thè Relatwes o f Jesus, 174-178. BROSEND, 183-186 ritiene
che il testo sia stato composto da Giuda fratello del Signore entro il 70 d.C per rispon
dere a una contestazione della propria autorità e difendere il proprio onore.
destinatari, quanto alla «fede trasmessa ai santi una volta per
tutte» (3). L’autore sembra derivare in qualche modo la sua
autorità da quella di Giacomo, di cui forse conosce la Lettera,
e il suo personale insegnamento presuppone comunque, ide
almente e/o realmente, una cristianità giudaica di area palesti
nese in cui i fratelli del Signore erano leader riconosciuti.
Nel caso di 2 Pietro, al contrario, gli studiosi sono pressoché
unanimi nel riconoscere nel testo i segni tipici della pseudepi-
grafia. Il richiamo solenne al nome semitico e al soprannome
greco del primo apostolo di Gesù («Simon Pietro, servo e apo
stolo di Gesù Cristo»: 2Pt 1,1), autorevole testimone della sua
gloria nella trasfigurazione (1,16-18); la familiarità con il lessi
co, con la cultura e con concezioni filosofiche ellenistiche (cfr.
in 1,3-11 l’insistenza sul lessico della virtù e della conoscenza
o sulla partecipazione alla «natura divina»; in 3,10 l’idea di una
conflagrazione degli elementi cosmici presente nella filosofia
stoica); la scelta di adottare il genere del discorso testamentario,
grazie al quale può essere assicurata continuità al messaggio di
«Pietro» dopo la morte ormai imminente (1,12-15); il modo
con cui, pur identificandosi con Simon Pietro, l’autore guarda
agli «apostoli» come autorità distinte e del passato (3,2); la sua
conoscenza di una collezione di Lettere paoline, messe al pari
delle «altre Scritture», e di interpretazioni delle stesse a suo
giudizio devianti (3,15-16); l’utilizzazione della Lettera di Giu
da: sono tutti argomenti che rendono inevitabile il giudizio sul
carattere tardivo e pseudepigrafo del testo. L’autore della Let
tera, dunque, è un giudeo-cristiano erudito della diaspora che
conosce gli scritti paolini, 1 Pietro e Giuda. Lo si può imma
ginare tanto in Asia minore quanto a Roma o, secondo alcuni,
ad Alessandria.5
Dai dati sopra richiamati, tuttavia, non si possono ricavare
elementi certi per la datazione di nessuna delle due Lettere. Se
5C o sì G r u n st à u d l .
la Lettera di Giuda può essere ragionevolmente collocata non
oltre l’80-90 d.C. (periodo in cui Giuda, tra i più giovani dei
fratelli di Gesù, poteva essere ancora vivo), per 2 Pietro (che
presuppone 1 Pietro, Giuda e una collezione di Lettere paoli-
ne) le proposte vanno dai primi decenni del II secolo alla se
conda metà, anche in ragione del giudizio che si dà del rappor
to letterario tra il testo e l’apocrifa Apocalisse di Pietro che,
presupponendo la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.), può
essere datata intorno al 135 d.C. Per quanti ritengono che 2
Pietro sia presupposta àa\VApocalisse di Pietro, la datazione
non può essere ritardata oltre il 130 d.C.; per quanti ritengono
il contrario, ne si può ritardare la composizione fino alla secon
da metà del II secolo.6 Si tratta comunque dell’ultimo testo del
Nuovo Testamento: in uno scritto che si richiama saldamente
all’eredità delle Scritture profetiche e al loro carattere ispirato,
servendosi per questo anche delle loro riletture nella tradizio
ne giudaica (1,19-21; c. 2), Pietro e Paolo, l’uno custode della
retta interpretazione del messaggio dell’altro, appaiono l’auto
rità apostolica riconosciuta quando, passata la generazione
degli apostoli e dei testimoni oculari, era necessario custodire
integra la traditio fidei per nuove generazioni in tempi e spazi
mutati.
1 .3 .1 destinatari
Prescritto (1,1-2)
Esordio (1,3-11)
Corpo della Lettera (1,12-3,13):
- intenzione testamentaria della Lettera apostolica (1,12-15)
- l’esperienza della trasfigurazione del Signore, «parusia» po
tente del passato testimoniata dall’apostolo, è posta a fon
damento storico della «parusia» finale del Signore (1,16-18)
- la parola profetica delle Scritture ne è confermata (1,19-21)
e diventa criterio di discernimento profetico nel presente
(1,19-2,22), garantendo l’esito escatologico della storia (per
i falsi maestri, analoghi ai falsi profeti stigmatizzati dalle
Scritture, «il giudizio da lungo tempo non cessa di operare»
e «la distruzione non sonnecchia», cfr. 2,3)
- la parola dei profeti e degli apostoli viene ricordata a fonda
mento della speranza e della vita dei credenti (3,1-12)
Epilogo (col richiamo alle Lettere di Paolo al pari delle Scritture) e
dossologia finale (3,14-18)
2. Linee teologiche
11 Eusebio, Storia della chiesa 1,7,14 dice che i fratelli del Signore si definivano, in
riferimento a Gesù, despósynoiy coloro che appartengono al despótès.
verna intimamente e storicamente la vita dei suoi; è colui la cui
«potente presenza» è stata sperimentata in tutta la sua sover
chiarne grandezza e gloria dai testimoni storici (Pietro e il «noi»
apostolico a nome del quale egli parla: 1,16-18). A lui come
Kyrios Salvatore risale il «santo precetto» trasmesso dagli apo
stoli (3,2). Kyrios, però, è anche il nome del Dio creatore e
salvatore delle Scritture (2,4.9); è Colui presso il cui tribunale
si può recare o meno un «giudizio» offensivo nei confronti di
qualcun altro (2,11 / / G d 9); è il Signore al di sopra delle mi
sure del tempo umano (Sai 90,4 in 2Pt 3,8), che è fedele e
immancabile nella realizzazione della sua promessa (3,9) e
nell’avvento del «suo» giorno (3,10 con chiara allusione cristo
logica). E Colui di cui si può conoscere e predicare la makro-
thymia come spazio desiderabile ed efficace di salvezza (3,15).
Anche in 2 Pietro, dunque, come in Giuda, la «signoria»
unica è quella condivisa da Dio e da Gesù Cristo in qualità di
Salvatore e Figlio amato (2 Pietro), soggetto di éleos (Gd 21)
come Dio lo è di makrothymia (2Pt 3,15).
14 Cfr. Nm 13,32: alcuni degli esploratori introducono nella comunità «una calun-
confini anche gli angeli che non hanno custodito il dominio
celeste loro assegnato {arche) e hanno provocato il peccato
sulla terra unendosi alle figlie degli uomini (cfr. Gen 6,1-5 alla
luce di 1 Enoc 6-11). In modo simile ad essi violano nuovamen
te i confini Sodoma, Gomorra e le altre città che sono «andate
dietro a una carne diversa» (Gen 19,4-25 e Libro dei giubilei
16,5), tentando di violentare gli esseri angelici e, così facendo,
violando i confini tra angeli e uomini.15 La stessa dinamica è
implicita nel peccato della bocca attribuito agli avversari in G d
16 («Sono mormoratori lamentosi che si muovono in base alle
loro bramosie mentre la loro bocca pronuncia enormità») e
stigmatizzato nel v. 11 col richiamo alla antilogia di Core (Nm
16) e nei w. 14-15 con la profezia di Enoc sull’avvento del
Signore giudice di tutte le opere e parole dure degli empi (1
Enoc 5,4). Dunque, la dinamica sottesa a tutti i modelli nega
tivi tratti dalla tradizione è una questione di «confini e di
contaminazione».16
Il lessico della purezza e dei suoi contrari, che attraversa le
due Lettere e che indica solo occasionalmente e non struttu
ralmente violazioni di natura sessuale, conferma il dato: il pun
to nodale della polemica sta nella violazione empia dei confini
che implica da un lato la corruzione e il fallimento della propria
dignità creaturale (la propria «carne»), dall’altro la negazione
radicale della «signoria» (ciò che è altro dalla propria carne
mortale) che ben si esprime nel vituperio arrogante delle «glo
rie» che appartengono alla sfera della trascendenza divina.
Nell’ampio contesto di 2 Pietro, in particolare, la sovranità di
Dio creatore e giudice è ciò su cui cade l’accento: è la sovrani-
nia della terra» (cfr. Nm 14,36-37); in 14,2 la comunità «mormora» (cfr. gli opposito
ri di Giuda accusati di essere «mormoratori» nel v. 16); in 14,9 Giosuè supplica la
comunità: «non diventate apostatai apò toù Kyriou». Apostasia dal Kyrìos e rifiuto
presuntuoso di ricevere la terra così come essa si presenta, disobbedendo alla volontà
divina, vanno di pari passo.
15 H armngton, 196-197.
16B rosend, 174.
tà di Colui che «con la Parola» ha dato forma alla creazione e
la sostiene in vita nella sua condizione presente (2Pt 3,5-7).
Coloro che negano il proprio limite creaturale, negando il po
tere di Dio creatore e giudice e la parusia ultima del Signore e
del suo giorno, sono paragonabili a maggior ragione e con sen
so nuovo rispetto a quello reperibile in Giuda ad «animali sen
za parola» destinati alla corruzione. Se tutto si mantiene grazie
alla Parola di Dio, coloro che vivono allo stato «fisico» natu
rale, che non godono del «riconoscimento» del Signore e Sal
vatore, non potranno che andare distrutti «come gli animali
che periscono» (Sai 49,13-21). Il giorno del Signore verrà per
loro «come un ladro».
Il nesso tra angelologia, cristologia e parusia dimostra che
nella signoria di Gesù Cristo sono comprese dimensioni visi
bili e invisibili della realtà. Un atteggiamento di timore e tre
more, in ultima analisi, è ciò che i nostri due autori chiedono
ai loro destinatari ricavandolo dalla Scrittura e dalle parole dei
profeti e degli apostoli: la polemica contro gli oppositori è
strumentale al raggiungimento di tale scopo. Ottenere tale at
teggiamento, al contempo fiducioso, pieno di misericordia e di
speranza come trepido e attivo, pieno di tensione prospettica,
di apertura esistenziale radicale al mistero della sovranità tra
scendente di Dio nel suo Cristo e alla «promessa» del suo gior
no (quella contenuta nella parusia del suo giorno), è il fine
ultimo della predicazione di profeti e apostoli accolta dai cre
denti al cospetto del mondo. È ciò cui l’intera Scrittura serve
«finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei
nostri cuori» (2Pt 1,19).
Bibliografia
Premessa pag. 7
PRIMA PARTE
IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PENTATEUCO» GIOVANNEO
1. Questioni storico-letterarie » 37
1.1. Giovanni e i sinottici » 38
1.2. La differenza giovannea e la pretesa autoriale
sottesa al Quarto Vangelo pag. 46
1.3. «Non multa sed multum»;
il racconto giovanneo tra storia e teologia » 50
1.3.1. La memoria come chiave di accesso
alla costruzione del racconto giovanneo » 52
1.3.2. La Gestalt giovannea della vita di Gesù:
non molte cose, ma in profondità » 54
1.4. Il Quarto Vangelo come «metafora viva»:
trama e struttura letteraria del testo » 61
1.4.1. La trama giovannea tra azione e rivelazione » 61
1.4.2. La struttura letteraria » 64
2. Esegesi di Gv 1,1-18: da dove è necessario .
iniziare il discorso » 68
2.1. Genere letterario, background e funzione » 68
2.2. Struttura » 71
2.3. Traduzione e commento » 75
3. Esegesi di Gv 9: dottrina ed esperienza
davanti al rivelarsi del Figlio dell’uomo » 98
3.1. Contesto e genere letterario » 99
3.2. Struttura » 102
3.3. Traduzione e commento » 105
4. Esegesi di Gv 20,1-18: Maria di Magdala
e rincontro con il Signore risorto » 122
4.1. Contesto » 122
4.2. Struttura » 125
4.3. Traduzione e commento » 126
5. Linee teologiche » 138
5.1. La soteriologia » 140
5.2. La cristologia » 143
5.3. La pneumatologia » 148
5.4. L'escatologia » 151
5.5. La teologia » 155
5.6. Lecclesiologia » 158
Bibliografia » 160
LETTERE DI GIOVANNI
APOCALISSE
1. La rivelazione cristologica
al centro della storia salvifica » 274
1.1. Gesù morto e risorto accadimento
e centro delle Scritture » 276
1.2. Gesù Viglio inviato e testimone fedele » 279
2. Il Dio uno, fonte e termine dell’amore che vivifica » 283
3. La pienezza dello Spirito » 287
4. Aspetti dell’ecclesiologia giovannea » 291
SECONDA PARTE
LE LETTERE CATTOLICHE
LETTERA DI GIUDA
E SECO NDA LETTERA DI PIETRO
Conclusione