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Cesare Boni

Il libro
dei misteri
sublimi
Le cose intorno a noi nascondono una Realtà più profonda
dove il tempo e lo spazio abituali perdono i loro limiti
ed i “misteri” si sciolgono nell’esperienza
della “pura coscienza dell’Essere”.

Verdechiaro
Edizioni
© 2009 Verdechiaro Edizioni
via Montecchio, 23/2
42031 Baiso (Reggio Emilia)
ISBN 978-88-6623-102-8

© 2009 Cesare Boni

Nessuna parte di questa pubblicazione,


inclusa l’immagine di copertina,
può essere riprodotta in alcuna forma
senza l’autorizzazione scritta dell’editore,
ad eccezione di brevi citazioni destinate alle recensioni
Dedico questo mio lavoro al mio Maestro
Swami Muktananda Paramahamsa,
a cui devo il risveglio della mia conoscenza interiore
e alla mia Gurumayi Chidvilasananda,
espressione di amore sublime,
esempio, guida e mèta del mio sviluppo spirituale.
A loro, incarnazioni della Conoscenza e della Pura Coscienza,
la più profonda e umile gratitudine del mio cuore.
Che questo mio atto d’amore,
con la benedizione delle loro Grazie divine,
possa aiutare qualcuno a ritrovare
la via verso la Verità che è scritta
da sempre e per sempre nel cuore di tutti.
Possa il Creatore illuminare il cuore
e diffondere la sua Luce.
Possa Tu concedere agli occhi la capacità
di vedere,
al corpo la luce e la percezione,
per poter scoprire e apprezzare
i sublimi segreti di questo mondo
(Rig Veda)

Grazie di cuore
all’amica Adriana Grosu
CAPITOLO I
I MISTERI: COME E PERCHE’
Ho imparato così tanto da Dio
che non posso più chiamare me stesso
cristiano, induista, mussulmano,
buddhista o ebreo.
La Verità mi ha dato così tanto di se stessa
che non posso più chiamare me stesso
un uomo, una donna, un angelo
e nemmeno un’anima pura.
L’Amore è divenuto amico di Hafiz,
così completamente,
che mi ha tramutato in cenere
e mi ha reso libero da ogni concetto o immagine
che la mia mente ha conosciuto.
Hafiz1

Sono nato a Cuneo in un anno di trionfalismi retorici. Mussolini aveva appena


annunciato al mondo, dal balcone di Palazzo Venezia: “L’Italia ha finalmente
il suo impero!”.
Nelle scuole si insegnavano con enfasi e continuità le realizzazioni del regime
e gli slogan, quasi sempre a sfondo bellico, del suo Duce: “E’ l’aratro che trac-
cia il solco ed è la spada che lo difende”, “Libro e moschetto, balilla perfetto”,
“Allungheremo lo stivale fino all’Africa orientale”, “Se avanzo seguitemi, se
indietreggio uccidetemi”.
In questo clima, dove si doveva accettare per buona ogni idiozia che usciva
dalla bocca di chi comandava, sono nato in una famiglia tipicamente piemon-
tese, dove l’educazione dei figli era dura e severa come le nostre montagne,
dove dominava il senso del dovere, il sacrificio, l’obbedienza, la tradizione, il
silenzio.
Papà era un ufficiale di cavalleria, calvo, con il monocolo, educato, nella scuo-
la militare di Pinerolo, al rispetto delle regole dettate da altri, alla devozione
verso la monarchia sabauda, al mito del coraggio e dell’eroe. Mamma era figlia
di ottima famiglia alto–borghese con figure di tutto rispetto sia nel campo po-
litico che militare, che professionale.

1 Hafiz: The Gift – Ed. Pinguin – pag.32

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Le due famiglie, così diverse all’apparenza, avevano dei denominatori comuni
molto forti. Erano entrambe decisamente antifasciste, dure e scontrose, con dei
principi morali che non dovevano essere mai negletti o trascurati. L’obbedien-
za e la fede nella tradizione, in ciò che si doveva o non si doveva fare, è entrata
in noi con il latte materno, o forse, chissà, prima ancora con il seme paterno.
Il risultato scolastico doveva essere conseguito con regolarità e senza eccezio-
ne. Bisognava parlare solo se e quando interpellati. Si rispettava sinceramente
chi era nato povero o semplicemente in una famiglia meno elevata socialmen-
te, ma sempre con la granitica convinzione che i livelli sociali dovevano essere
rispettati e non erano permesse eccezioni.
Si studiava alla scuola pubblica, si andava a messa regolarmente tutte le dome-
niche e le feste comandate, e durante la seconda guerra mondiale, si recitava
tutte le sere il rosario, strettamente in latino, come si usava allora, e si doveva
esprimere rispetto non solo per Dio, ma anche per la Chiesa Cattolica alla
quale si apparteneva.
Tutto ciò non saprei dire con quale convinzione, visto che mio padre era as-
solutamente anticlericale e mia madre di famiglia massonica, di quei massoni
veri, duri e puri, che non assomigliano certo a quelli di oggi.
Eravamo quattro figli maschi, nati mediamente un paio d’anni l’uno dall’altro,
ma tra i quattro, io ero certamente quello che dava i maggiori problemi a mia
madre. Mio padre era in guerra, quindi non poteva esercitare la sua autorità
nella mia educazione.
Oggi, alla luce della psicologia moderna, si potrebbe dire che ero un bambino
curioso, ricercatore, desideroso di capire e di scegliere, decisamente troppo
individualista per quegli anni.
I problemi sono cominciati molto presto. Avevo una grande difficoltà a vestire
come tutti i miei fratelli. Allora si usava, nelle famiglie bene, che tutti i figli si
vestissero allo stesso modo, leggessero gli stessi libri, frequentassero gli stessi
amici, sedessero, camminassero, stessero in piedi, sorridessero, rispondessero,
parlassero allo stesso modo. Io ero il terzogenito e dovevo quindi prendere
esempio dai due più grandi e dare l’esempio al più piccolo.
Tutto questo mi stava un po’ stretto. Ero uno, dicevano, che voleva fare sempre
diverso dagli altri, che era un “discutivo” e probabilmente, non lo dicevano
espressamente, anche un po’ contestatore.
Come previsto, al compimento del nono anno sono stato mandato a fare la
preparazione religiosa per la Prima Comunione dai Gesuiti del Collegio S.
Tommaso. La cultura religiosa era articolata su tre diversi temi di studio: gli
episodi della Bibbia e del Vangelo raccontati ai ragazzi, la vita dei santi, op-

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portunamente selezionati, e il catechismo. Il catechismo era strutturato in do-
mande e risposte che dovevano dare al bambino una visione completa, sia pur
elementare, dei principi della nostra religione.
Questo modo di insegnare non lasciava spazio a nessun approfondimento, a
nessuna contemplazione, a nessuna ricerca, che peraltro non solo non era ri-
chiesta al bambino, ma nemmeno desiderata dagli insegnanti. Quella era la
verità e basta. D’altra parte a disposizione non vi era che questo. Sapevamo
che esisteva una religione ebraica dalla quale, si diceva, la nostra derivasse. In
fondo non si poteva negare che Cristo fosse un ebreo. Ma di questa religione
non si doveva parlare. Il regime fascista stava sistematicamente massacrando
gli ebrei, nel silenzio di chi sapeva e nell’ignoranza di chi non sapeva.
Vi erano, è vero, nelle nostre valli i così detti protestanti, specie Valdesi o Testi-
moni di Geova, ma noi vivevamo come se loro non esistessero, anzi ci avevano
detto che erano pericolosi e quindi non si dovevano avvicinare.
Domanda: Chi ci ha creato?
Risposta: Ci ha creato Dio.
Domanda: Chi è Dio?
Risposta: Dio è l’Essere perfettissimo creatore e signore del cielo e della terra.
A questo punto ho domandato: “dove posso trovarlo?” – “Non lo puoi trovare
perché abita in cielo”. – “Ma se è il creatore del cielo e della terra, perché abita
solo in cielo e non anche qui?”
A questo punto, per la prima volta è scattata la famosa frase che mi avrebbe
perseguitato per tutti gli anni della mia crescita. “Questo è un mistero, non lo
puoi sapere”.
Così fra indottrinamento e misteri la mia istruzione religiosa continuava.
Avevo delle grosse difficoltà ad accettare che vi fosse tanta diversità tra chi
“stava bene” economicamente ed il povero. Perché, se siamo tutti figli dello
stesso Dio e siamo venuti, così come diceva il catechismo, per “amarlo e ser-
virlo in questa vita (che si diceva essere una sola) e per goderlo poi nell’altra in
paradiso”, vi erano così tante differenze sostanziali nelle nostre vite?
Ancora una volta ho chiesto: “Ho capito che è un mistero il perché non posso
godere Dio in questa vita e quindi devo attendere la prossima, ma perché dob-
biamo servirlo, noi in una vita abbastanza ricca dove beviamo bene e mangia-
mo meglio, dove non vi sono difficoltà economiche e gli altri bambini devono
servirlo nella miseria e nelle privazioni di una vita povera?” La risposta, la
ricordo assai bene, è stata: “questo non c’entra con il catechismo, pensa a stu-
diare le risposte e non cercare di sapere quello che nessuno sa”.
Avevo capito che anche questo era un mistero.

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L’uomo aveva peccato in Adamo per tutta l’umanità. Ecco un altro mistero.
Perché io pecco solo per me e lui ha peccato per tutti?
Dio lo aveva condannato a vivere in questo mondo faticando e tribolando,
sudore e lacrime per avere mangiato una mela e aveva condannato Eva a parto-
rire con dolore sempre per la stessa mela. Mi sembrava di vedere un Dio troppo
severo, anche un po’ crudele.
“No”, mi fu detto, “perché Dio è amore ed ha mandato il suo figlio unigenito a
riscattare l’umanità dal peccato”. Era questa indubbiamente una dimostrazione
dell’amore di Dio.
A scuola avevo però già imparato che l’ “homo sapiens”, alla cui specie noi ap-
parteniamo, è comparso sulla terra circa 150.000 anni fa. Adamo doveva essere
certamente più vecchio. Il mio intelletto ha fatto i conti ed ho commentato: “se
così stanno le cose, non mi sembra che Dio sia poi un’espressione di amore
così grande se si è vendicato condannando l’uomo alla sofferenza e alla pri-
vazione per 148.000 anni prima di mandare il Cristo a redimerci dal peccato!
E poi c’era bisogno di massacrare sulla croce il suo figlio unigenito? Non era
sufficiente che togliesse semplicemente la condanna con una parola? In fondo
Egli così l’aveva pronunciata, così la poteva togliere!”
Il tutto mi era sembrato anche molto sadico, ma non lo potevo dire. Ho sempli-
cemente concluso: “ma questo è un mistero, vero padre Eula?”
Ho visto padre Eula illuminarsi in un sorriso: “vedo che hai capito!”
Cosa avevo capito? Avevo forse capito che non potevo capire? Mah!! Miste-
ro.
Padre Alberto Maggi, insigne biblista, in un suo discorso,2 parlando delle dif-
ficoltà di comprensione del Vangelo e delle incongruenze delle Scritture dice:
“Allora quando uno si trova di fronte a queste difficoltà, normalmente, ricorre
alla persona che crede esperta, spesso il parroco, e il prete, poveretto, che non
sa neanche lui come destreggiarsi, usa una formula magica che è: bisogna aver
fede. (…) E’ chiaro. Io leggo il Vangelo e non lo capisco. Mi dicono di aver
fede, ma la fede dipende proprio dal Vangelo3 che non capisco. E allora? Allora
l’altra parola magica che, normalmente, viene abbinata a “aver fede” è “è un
mistero”. E con la parola mistero si risolve tutto quanto (…) Allora, mistero
dopo mistero, un mistero dopo l’altro, i “misteri della fede” diventano “la fede
dei misteri”. Bisogna credere senza capire.

2 Discorso tenuto il 22 febbraio 2002 al Centro Stella Maris di Ancona, dal titolo: “Quello che
non c’è più nel Vangelo”.
3 S.Paolo– Lettera ai Romani – 10.17

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E, anche per me, i misteri aumentavano man mano che la mia discriminazione
cresceva. Con essa cresceva la ricerca. Perché, come, quando? Non vi era una
logica in tutto ciò che mi si diceva essere la Verità. Nulla era chiaro. Non sol-
tanto era impossibile conoscere questo Dio in questa vita, ma era anche poco
credibile che dell’intera umanità che ammontava a quell’epoca a circa quattro
miliardi di persone, solo noi avessimo il Dio vero. Tutti gli altri erano forse
nell’errore? Se così era, l’amore di Dio, dopo 2.000 anni, non si era ancora rea-
lizzato che per pochi. Erano anche gli altri figli di Dio così come lo siamo noi?
Se no, perché io ero nato in una famiglia che aveva ereditato la Verità e tutti gli
altri forse non l’avrebbero mai ricevuta? Dove era la giustizia di Dio? Potevo
accettare l’ingiustizia che vi fosse un ristretto popolo eletto, senza merito? O
l’ingiustizia di un immenso popolo negletto, senza demerito? Se la vita era una
sola, dove erano le pari opportunità e se non vi erano, perché Dio discriminava
i suoi figli in figli e figliastri? Tutto questo non solo non aveva ragione né logi-
ca, ma era anche profondamente ingiusto.
Questo Dio pareva avere tutti i difetti degli uomini portati all’eccesso e questi
umani nessun pregio divino, pur essendo, così si declamava, immagine e somi-
glianza di Dio. Che mistero immenso ed apparentemente ingiusto! E che dire
della Trinità? Si dice forse alla gente la ragione per cui questo Dio–Uno debba
essere contemporaneamente Trino? Che senso ha? Non poteva l’Uno restare
Uno? E poi perché si fa credere alla gente che solo il nostro Dio sia Uno e Trino
quando si sa per certo che tutte le religioni, tutte le scuole di ricerca della Veri-
tà, lontane o vicine, antiche o moderne, vedono il Divino come Uno e Trino?
Persino la scienza moderna riconosce lo stesso principio e lo vedremo a fondo
quando prenderemo in esame in maniera analitica i vari misteri.
Mi sono posto assai presto le domande fondamentali della ricerca della nostra
realtà: chi sono io? Esistevo prima di nascere? E se c’ero come ero? Se è vero
che la vita ha uno scopo, perché non si è chiari nel dirlo? Chi sa realmente per-
ché vive? E se la vita è una sola ed è preziosa, come si dice, perché uno vive
94 anni e un altro muore a 17 in un incidente? Cosa è questo passaggio fonda-
mentale della nostra esistenza che chiamiamo morte? Perché se sono nato devo
morire? E’ vero che la morte è la fine della vita? Poi mi si dice che esistono due
vite, questa vita e l’altra vita. Mi si dice che ci sarà una risurrezione della carne.
Ma quale carne, se essa si è dissolta negli elementi che la componevano? Non
è affatto chiaro come rinasceremo. Qualcuno mi vuole spiegare cosa sarò io
quando questa vita non ci sarà più e l’altra non sarà ancora cominciata, in quel
punto di giunzione tra le due vite?
E’ indubbio che, quando una cosa finisce, prima che ne nasca un’altra conse-

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cutiva, vi sia un punto, un momento di giunzione, in cui la prima non c’è più e
la successiva non c’è ancora. Cosa sarò io allora? Ci sarò? Non ci sarò? E se ci
sarò, come sarò? Qualcuno me lo spiega?
No, nessuno ci parla con chiarezza di tutti questi interrogativi. Siamo sepolti
dai misteri. Tutto ciò che conta è un mistero. Non lo posso conoscere. Allora
questa mente, questo meraviglioso intelletto, mi è stato dato da Dio solo per
conoscere cose superficiali? Solo per soddisfare le mie piccole necessità quoti-
diane, solo per fare chiacchiere da salotto? Oppure, al contrario, questa mente,
questo intelletto mi è stato dato per scoprire e vivere la mia vera natura, per
conoscere la ragione della vita e di me stesso, per risolvere tutti questi interro-
gativi, tutti questi misteri?
Se no questi meravigliosi strumenti, che non saranno mai eguagliati da inven-
zioni umane, perché mi sarebbero stati dati?
Esiste nel linguaggio esoterico una distinzione tra “segreto” e “mistero”. Il
segreto è quando viene riservata a pochi la conoscenza della Verità che spesso
non verrebbe compresa dai più e quindi probabilmente distorta. Si preferisce
allora, come disse Gesù: “non dare le perle ai porci” ed attendere un più lento
sviluppo mentale e spirituale che aprirà le porte del segreto. Il mistero, invece,
è un qualche cosa che non potrà mai essere rivelato perché troppo lontano dalla
comprensione umana, né potrà essere sperimentato per mancanza del livello di
coscienza necessario.
La parola greca misterion (da myo che significa “chiudersi, essere chiuso”)
e la latina misterium, hanno un parallelo sorprendente anche nella fonetica
nell’ebraico mistar che significa “luogo occulto”, “segreto”, derivato dalla ra-
dice satar “celare, nascondere”.
Infatti i segreti, ad esempio, della Torah sono chiamati seter (plur. setarim).
Quindi i misteri non sono concetti che non possono essere conosciuti, ma sol-
tanto segreti per coloro che ne fanno sincera e costante ricerca.
“Il segreto del Signore è per quelli che lo temono” dice la Bibbia.4
“E in quanto a me, questo segreto mi è rivelato non per alcuna sapienza che
esiste in me più che in qualsiasi altro vivente” dice il Libro di Daniele.5
Forte della reverenza verso il Divino, e attraverso la sua contemplazione, il
mistico può calarsi prima nella propria interiorità e poi trascendere il più sottile
significato del simbolo ed immergersi nella natura di Dio.

4 Bibbia – Salmi – 25.14


5 Bibbia – Libro di Daniele – 2.30

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“Ti ho rivelato così la conoscenza più segreta di tutti i segreti.
Considerala senza nulla omettere e agisci secondo la tua scelta.
Ascolta ancora la mia parola suprema, la più segreta di tutte. Tu
sei profondamente il mio amato e per questo parlerò per il tuo
bene.
Colui che, con la più grande devozione per Me, diffonderà, tra
i miei devoti, questo segreto, senza dubbio egli verrà a me, in
quanto nessuno può fare, più di lui, ciò che mi è grato e nessuno
sulla terra mi sarà più caro.
Chi studierà questa sacra conversazione Mi offrirà ciò mediante
il sacrificio della conoscenza. Colui che pieno di fede l’ascolte-
rà, senza vana critica, raggiungerà, liberato, il mondo radioso
dei giusti”. (Bhagavad Gita – XVIII. 63–71)

Ecco la ragione di questo libro, la ragione di questo studio che ha impegnato


ogni momento della mia vita, che mi ha spinto a percorrere i più vari sentieri
della conoscenza fino a ciò che non oso chiamare la Verità, ma un equilibrio
sì, questo lo posso dire, dove ogni domanda ha una risposta, dove ogni ricer-
ca porta ad una esperienza vissuta, ad un’apertura di consapevolezza, ad una
certezza che non è più intellettuale, ma profondamente sperimentata e vissuta,
ancora ed ancora, nel silenzio profondo e luminoso della mia coscienza.
Il mio Guru mi spinge, ogni volta che mi accingo a compiere un’azione, a
esprimere un desiderio, un’intenzione, che dovrà essere il frutto non egoistico
del mio agire. Gli anglosassoni lo chiamerebbero: la mia “mission statement”.
La mia intenzione, nel diffondere ciò che ho intuito, sperimentato, vissuto
nella mia vita, è che i miei lettori non si accontentino mai di quanto viene
loro indicato come la Verità, ma si dedichino, con profonda determinazione, a
cercare in loro stessi le loro certezze, le assolute convinzioni, su cui possano
poggiare le sicurezze della propria vita che, altrimenti, verrebbe vissuta solo
sulle esperienze degli altri.
Vorrei, infine, correggere il significato della parola fede, troppo spesso usata
per richiedere accettazione su argomenti e principi che non si desidera vengano
approfonditi.
Il significato che viene dato è quello di credere a qualcosa che non può essere
compreso, spesso proprio quello che viene contrabbandato come mistero. In-
fatti si chiude troppo velocemente una ricerca interiore, una contemplazione
profonda con la formula: “mistero della fede”.
Sorge, immediata, la considerazione: se qualcuno mi indica ciò che devo cre-

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dere o ciò che non devo credere, per fede, come fa questo qualcuno a sapere
che quello che mi dice sia la Verità? L’ha lui sperimentata nell’intimo della sua
coscienza, o l’ha compresa con un ragionamento profondo del suo intelletto?
Se si, allora credo fermamente che sia mio diritto avere la stessa esperienza o
la stessa comprensione, se no non mi può dare nessuna garanzia di certezza. E’
così che ognuno dovrebbe vivere, nell’assoluta sicurezza del cammino di co-
noscenza che sta percorrendo, nella profonda esperienza delle proprie risposte
ai grandi interrogativi della nostra esistenza.
La prima certezza è nata, per me, da un episodio che ha lasciato una traccia
profonda nella mia vita.
Avevo appena compiuto 12 anni quando a Torino, durante una operazione, io
sono morto. Sono stato dichiarato morto da uno dei più grandi chirurghi di
quell’epoca, il professor Stroppeni e dalla sua equipe.
E’ stata una esperienza di morte che mi ha proiettato in una conoscenza che
non poteva lasciare alcun dubbio. Con la morte non solo la vita continua, ma
nella morte non vi è assolutamente interruzione del flusso di coscienza.
Quindi la morte non è la fine della vita, quindi non ci sono due vite, ma la vita
è una, continua, inestinguibile, non nata ed eterna, costante, che non dipende
dalla morte dei corpi che la rivestono.
Questo episodio mi ha dato l’esperienza coscienziale, non solo la certezza in-
tellettuale, che “io sono, sono sempre stato e sempre sarò”, indipendentemente
dal relativo che vivo o dalla impermanenza o dal cambiamento che sperimento.
Mi ha dato la certezza che Dio non solo esiste, ma E.
Quindi non mi interessano più i concetti su Dio, le speculazioni intellettuali
sul Divino, perché i concetti si sciolgono nell’esperienza. L’esperienza è al di
là di ogni concetto.

IL PERCHE’ DI QUESTO LAVORO


Ecco il perché di questo lavoro.
Perché si insiste sui misteri se i misteri non esistono?
Per avere l’esperienza che i misteri non esistono sarebbe sufficiente comincia-
re a confrontare tra loro le saggezze delle grandi vie spirituali.
Anche questo pare essere molto difficile da accettare. Questo processo di com-
parazione, di analisi e poi di sintesi, probabilmente, è rifiutato perché tutti po-
trebbero scoprire che non vi è una sola via per la Verità, ma che ogni via ha in
sé tutto quanto serve per giungere a realizzare la Verità. Ciò che invece non si
vuole far conoscere è classificato come “mistero”. In più si verrebbe a scoprire
che ciò che è per noi un mistero è chiaramente espresso e spiegato nelle Scrit-

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ture di un’altra tradizione spirituale.
Amo questo verso dello Srimad Bhagavatam: “Come l’ape sugge il miele da
diversi fiori, il saggio accetta l’essenza di diverse Scritture e vede solo il buono
in tutte le religioni”.
Gandhi ha più volte detto, ed ha prima di morire anche scritto, le seguenti
parole che riassumono la grande filosofia che lo ha sempre ispirato e che molti
in questo mondo moderno vorrebbero imitare senza averne l’apertura di co-
scienza. Non è facendo gli scioperi della fame, bevendo cappuccini o succhi di
frutta, che si giunge alla capacità di vedere la grande positività del messaggio
dello Yoga, l’ahimsa, la non violenza:

“Credo nella fondamentale verità di tutte le grandi religioni del mondo. Credo
che siano state tutte donate da Dio e che fossero necessarie a quei popoli cui
ciascuna di esse fu rivelata.
Credo anche che, se tutti quanti noi potessimo leggere le Sacre Scritture delle
varie fedi dal punto di vista dei seguaci di esse, ci accorgeremmo che sono in
fondo tutte la stessa cosa e che si giovano a vicenda”.

Coloro, ad esempio, come Bede Griffith,6 che hanno vissuto buona parte della
loro vita in India riconoscono nelle Scritture delle altre tradizioni tutta la Verità
che vivono nella loro tradizione spirituale. Egli scrive: “Penso di affrontare tre
grandi temi che possono generare l’idea che esistano dei misteri nella nostra
tradizione occidentale. I tre temi sono:
1 – L’esistenza e la natura di Dio o della Ultima Realtà.
2 – Il problema della creazione e della relazione tra l’uomo e l’universo, tra
l’uomo e l’Unica Realtà, e tra l’Unica Realtà e l’universo.
3 – Il problema dello scopo della vita umana e della vita di ogni cosa manifesta
o immanifesta.
Li affronteremo insieme uno alla volta. Cominciamo con l’esistenza e la natura
di Dio.
E’ risaputo che sia nata una crisi in occidente sul problema dell’esistenza di
Dio. La “morte di Dio” proclamata da Nietzche nel ventesimo secolo è sta-
ta accettata da una parte non trascurabile della popolazione dell’Europa e
dell’America. Questa negazione di Dio, questo non sentire più la necessità di

6 Bede Griffiths nella sua vita è passato attraverso diversi movimenti e religioni. Nato angli-
cano passò all’agnosticismo, poi al cattolicesimo, al monachesimo benedettino e infine al
Sannyasa Indo–Cristiano con il nome di Swami Bede sempre alla ricerca di Dio, della sua
pienezza, dell’unità. Morì avendo trovato ciò che cercava il 13 maggio 1993.

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relazionarsi con un Essere Primo, ha preoccupato e preoccupa i teologi non
solo cristiani.
Quale sarà mai la ragione di questo cambiamento fondamentale di rapporto tra
l’uomo e il Divino che ha dominato la vita delle persone per decine di secoli, e
perché è avvenuto? E’ senza dubbio dovuto ad un complesso processo psicolo-
gico, ma credo che la ragione fondamentale sia che la rivelazione originaria di
Dio, secondo l’ebraismo, è stata data, fondamentalmente, in termini antropo-
morfici. L’ebraismo ha concepito Dio soprattutto come una Persona, un Essere
morale che è conosciuto e seguito attraverso le sue azioni nella storia e il suo
intervento piacevole o spiacevole sulla vita dei popoli e degli individui. La sua
predilezione per alcuni e la sua repulsione per altri, il concetto che qualcosa
possa piacere o dispiacere a Lui era forse un concetto accettabile qualche seco-
lo fa, ma oggi crea certamente dei problemi di rapporto.
E’ pur vero che nell’ebraismo era proibito fare di Dio una forma o un’immagi-
ne e che era concepito invece come un “Dio nascosto” che vive in una dimora
lontana e inaccessibile, ma nella Scrittura non si è mai esitato a vedere Lui in
termini umani, dotandolo di tutte le passioni, di collera e di vendetta, di amore
e di desiderio, di odio e di privilegio, di gioia e di sofferenza.
Sfortunatamente l’ebraismo non è mai stato capace, salvo nella sua straordi-
naria esposizione mistica, la Cabbalah, di una ricerca metafisica. Ha sempre
pensato per immagini, non per esperienza, legittimando alla fine un rapporto
antropomorfico con Dio, che ha soffocato qualsiasi ricerca filosofica.

Anche il concetto cristiano di Dio nel Nuovo Testamento soffre di questo di-
fetto.
L’idea di Dio come Padre nei cieli è profondamente significativa, ma questo
significato deve essere ricercato nell’esperienza del “Puro Spirito”, mentre in-
vece la storicità dell’evento della incarnazione di Dio, come uomo, ha reso la
presenza antropomorfica di Dio ancora più concettuale, più forte.
Quindi quando la Bibbia attuale è diventata la forma finale accettata e assai
spesso imposta, della “rivelazione” cristiana, l’immagine del Figlio ha comin-
ciato a prevalere su quella del Padre, basandosi sull’affermazione di Gesù:
“Chi vede me vede il Padre”7 “Io sono la via, la verità, la vita”8.
Si è persa quindi, quasi completamente, la ricerca del Padre che è invece il
cuore, l’essenza, lo scopo essenziale della venuta del Cristo su questa terra in

7 Vangelo di Giovanni– 14.9


8 Vangelo di Giovanni– 14.6

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vesta umana. Egli è venuto per farci conoscere il Padre e per farci partecipi
della sua perfezione: “Siate così perfetti come il Padre vostro celeste”9. Questa
forte richiesta chiude il messaggio che Gesù porta all’uomo nel discorso delle
beatitudini e della montagna secondo Matteo, ed è significativo che questa es-
senziale sollecitazione manchi completamente in Luca, sostituita soltanto da:
“siate quindi misericordiosi come anche il Padre vostro è misericordioso”10.
Forse mancando l’attenzione sull’unica esperienza possibile di Dio Padre, che
è l’esperienza trascendente, la nostra tradizione potrebbe fare tesoro dell’espe-
rienza dell’India, dove, malgrado il numeroso manifestarsi delle forme di Dio,
non si è mai perso l’unico vero, diretto, non mistificabile, cammino verso la
conoscenza dell’Uno immanifesto: la meditazione trascendentale.
Vi è stato un secolo molto fecondo in cui grandi Maestri, grandi Scritture,
hanno ampiamente sollecitato l’uomo a riportare la propria ricerca, la propria
focalizzazione sullo stato trascendentale dell’Essere. Persino il Buddha, che
appartiene a questo secolo fecondo, sesto prima della nascita di Gesù, nel ti-
more giustificato di perdere la vera essenza del Supremo lo ha, a proposito,
ignorato nel suo insegnamento sostituendolo con il perseguimento dello stato
del Nirvana che è essenzialmente lo stato che trascende qualsiasi manifestazio-
ne, non solo di forma o concetto, ma anche di parola o di pensiero. E’ lo stato
in cui i desideri cessano, i pensieri scompaiono, il divenire è assente e tutti i
limiti del mondo manifesto si sciolgono in una esperienza che non può essere
descritta, né concepita.
Gautama il Buddha rifiutò risolutamente di entrare nella descrizione di que-
sto stato che fu indicato da lui solo in termini di esclusione “non questo, non
quello”.
Questo modo di evitare di circoscrivere il Divino in una qualsiasi qualità o in
qualsiasi attributo è stato ereditato prima dal Vedanta, il sesto dei sei sistemi
della filosofia indiana, il famoso neti neti delle Upanishad, e poi anche, nella
nostra tradizione, da Tommaso d’Aquino e da Meister Eckhart.
Tutti coloro che non si sono accontentati di conoscere “qualcosa di Dio”, ma
hanno sempre perseguito nella loro ricerca l’esperienza di Lui, hanno avuto
la necessità di entrare in loro stessi e trovare Dio eliminando l’ostacolo della
loro mente, del loro ego e persino del loro intelletto in una diretta esperienza
di illimitatezza.

9 Vangelo di Matteo– 5.48


10 Vangelo di Luca– 6.36

16
“Prendi là un frutto di nyagrodha!”. “Eccolo o venerabile”. “Spaccalo”. “Ec-
colo spaccato, o venerabile”. “Che ci vedi?”. “Questi piccolissimi grani, o
venerabile”. “Bene, spaccane uno”. “Eccolo spaccato, o venerabile”. “Che ci
vedi?”. “Nulla, o venerabile” rispose quello.
Allora il padre gli disse: “Da questa essenza sottile che tu non percepisci, o
caro, da questa essenza sottile nasce invero questo grande albero.
Stanne pur sicuro, o caro. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo
è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu, o Svetake-
tu”. (Chandogya Upanishad – 6.12)

E’ quello che troviamo nelle Upanishad. Non sono discorsi razionali alla ma-
niera dei “Dialoghi” di Platone, né sistemi filosofici come quelli di Aristotele,
o di Tommaso d’Aquino. Sono sollecitazioni alla diretta esperienza, intendono
risvegliare la ricerca pressante di ciò che non può essere né visto né udito, né
scritto né letto, che può essere soltanto direttamente sperimentato.
La Mundaka Upanishad è molto chiara: “Esso è non visto, incapace di essere
detto a parole, che non può essere afferrato, senza alcuna qualità identificati-
va, non pensabile, innominabile, l’essenza della conoscenza del Sé, nel quale
il mondo si dissolve, il pacifico, l’illimitato, il non duale. Questo è il Sé. Questo
è quello che deve essere conosciuto”.11
Ecco, dobbiamo affrontare questo paradosso, che è la Verità Ultima, quello che
soltanto può dare significato alla vita, che non può essere espresso o conosciu-
to dai nostri sensi, eppure è solo questo che deve essere conosciuto. “Quando
Questo è conosciuto – è detto nelle Upanishad – tutto è conosciuto”.
Non è quindi contattato da mente o da sensi, ma in una esperienza di saggez-
za intuitiva che trascende ogni consapevolezza ordinaria ed ogni conoscenza
relativa.
L’unica espressione, che certamente non può descrivere l’indescrivibile ma
è la definizione più vicina all’esperienza, è Sat–Chit–Ananda : Essenza, Co-
scienza e Beatitudine.
La Katha Upanishad, che spiega la natura della morte e la sua ragione lo de-
finisce così: “Non con le parole, non con la mente, non con la vista lo puoi
apprendere. Come può essere Esso appreso se non da chi dice: Egli è”.12
Esso non è quindi oggetto di pensiero, ma soggetto, l’Essere che permette al
pensiero di manifestarsi, di essere esistente.

11 Mundaka Upanishad– 7
12 Katha Upanishad – 2. 6–12

17
Nella nostra tradizione religiosa, anche se Dio trascendente è presente nel Van-
gelo di Giovanni: “Nessun uomo lo ha mai visto”13 e in Paolo: “Dimora in una
luce inaccessibile”14 Dio è visto sempre in relazione con l’umano, non vi è
ricerca di Dio come se stesso. Forse solo nei Padri della Chiesa greca vi è una
apertura all’esperienza diretta come in Clemente di Alessandria15, e Origene16.
Chi però si dedica realmente a che Dio possa essere trovato nella sua vera
natura è un monaco siriano del sesto secolo che conosciamo con il nome di
Dionigi l’Aeropagita. Egli insegna una via a tre livelli per giungere alla grande
diretta rivelazione, la via dell’affermazione di Dio. Secondo queste tre vie Egli
è il potere della mente, della ragione, della vita, dell’esistente, per passare al
secondo livello che è la negazione dell’affermazione precedente, per giungere
poi al terzo livello che è anche la negazione della negazione: “La Causa Uni-
versale e Trascendente è raggiunta solo quando si rivela come singola, eterna,
illimitata trascendenza di ogni manifestazione”.17
Questa via è lunga, elaborata e difficile. Se non si vuole seguire l’esperienza
diretta che da millenni ci è portata dalla tradizione orientale, solo perché “non
è la nostra”, dobbiamo allora comunque praticarla noi, secondo una via da noi
elaborata, in occidente, se vogliamo giungere alla mèta della nostra ricerca,
oppure, per noi, Dio resterà sempre un “mistero”. A noi la scelta!

PARALLELO TRA LE VARIE TRADIZIONI


“L’umiltà è accettare la verità della Verità per la Verità”.18
Se si cercano delle similarità tra le varie vie spirituali, come spesso usiamo
fare, in uno spirito costruttivo di ricerca comparata delle varie tradizioni, do-
vremmo sapere che è impossibile trovarle nelle differenti dottrine o nelle di-
verse interpretazioni teologiche che sono date alle varie vie verso il Divino.
Le fondamenta intellettuali e psicologiche dei mistici cristiani, ad esempio, e
dei mistici induisti o islamici, sono completamente diverse.
Quando diciamo che ad un esame più approfondito delle varie esperienze vi
sono delle similarità, non significa affatto che “tutto sia la stessa cosa”.
Nessuno infatti ha la possibilità di penetrare, nella sua interiorità, nelle estasi
mistiche di Santa Teresa d’Avila o di Anandamayi Ma o di Rabia’a o di altri

13 Vangelo di Giovanni– 1–18


14 S.Paolo – Lettera 1 Timoteo– 6–16
15 Clemente di Alessandria – Gli stromati, Ed. Paoline 5–12
16 Origene – De Principiis, Ed. La nuova Italia, 1990– 1–1.5
17 Dionigi l’aeropagita – Sui nomi divini– 1–5.7
18 Al Kalabadhi – Poeta Sufi – “Amare l’uomo per amare Dio”.

18
mistici di differenti estrazioni.
Si può però senz’altro dire, senza ombra di dubbio, che tutti i mistici vivono
nell’ Amore, vedono il mondo e si rapportano con esso solo in una spinta di
entusiasmo, in un meraviglioso trasporto d’amore e di beatitudine. Se voles-
simo usare il linguaggio della Bhagavad Gita li potremmo chiamare Sthita–
prajnas19.
Essi cantano la stessa devozione, non lo stesso modo di esprimerla, perché
questo può essere certamente diverso. Cantano la stessa vibrazione di base, che
è poi l’esperienza fondamentale dell’amore.
I mistici sono esseri eccezionali che, proprio in questa via, ricevono, per grazia
divina, certi mezzi di conoscenza che le persone normali non posseggono.
La contemplazione del Divino è una grazia innata, consiste in una esperienza
di coscienza che è caratterizzata da un “tuffo” sistematico in stati di esperienza
sempre più raffinati, fino a giungere ad uno stato che è il più fino del più fino,
in assoluto contatto con la coscienza trascendentale, che nello Yoga è chiamato
“ritam bhara prajna”.20
Da quello stato stabilizzato possono nascere espressioni mistiche come levita-
zioni, chiaroveggenza, preveggenza, conoscenza di luoghi celestiali, contatto
con esseri divini, che sono anche tipici dello Yoga e sono descritti come “sid-
dhi” nel terzo libro degli Yoga sutra di Patanjali.
Abbiamo detto che l’espressione primaria dell’esperienza dei mistici è l’Amore.
Fratello Lorenzo della Resurrezione usava dire: “tutto diviene ispido dove non
c’è l’amore”. Per questo motivo, per i mistici, ogni cosa prende un significato
luminoso. Questa è la ragione per la quale essi sono i santi più venerati e più
desiderati in ogni religione. Pensate che vita differente ha avuto, ad esempio,
Santa Teresa d’Avila, una monaca spagnola, carmelitana vissuta nel 1500, fatta
“dottore della Chiesa” nel 1970, da Mirabai, una principessa sposata ad un
re, che visse tra il lusso e tutti i confort, e Rabia’a, una serva, costretta per un
certo numero di anni a soddisfare i desideri del padrone, e poi vissuta, nella
povertà più completa, sotto un tettino di canne, dormendo sulla nuda terra, in
un angolo di una via periferica della città di Bassora. Eppure tutte e tre sono
state capaci di seguire la via della devozione, dell’amore, della bhakti e giun-
gere in un’estasi di beatitudine al matrimonio mistico, all’unione, alla fusione
nella luce dell’Amato. Questa esperienza totalizzante è capace di evidenziarsi
anche in forme che sembrano incompatibili tra loro: bhakti, devozione; jnana,

19 Sthita–prajnas: esseri dalla conoscenza fermamente stabilizzata nell’esperienza.


20 Ritam bhara prajna: il campo di tutte le possibilità

19
conoscenza; raja, controllo di sé; karma, azione.
Se prendiamo ad esempio San Giovanni della Croce, il grande mistico spa-
gnolo, carmelitano, generale dell’ordine, dal 1925 “dottore della Chiesa”, lo
vediamo esprimere contemporaneamente tutti e quattro i cammini dello Yoga.
Egli è certamente un “bhakti”, un essere che trova l’unione nell’amore. Egli
definisce lo stato in cui vive: “quell’essenza di amore estatico nel quale nes-
suno può più parlare”. Quasi le stesse parole vengono usate da Narada21 nei
suoi Bhakti Sutra: “Anirvacaniya prema svarupa”: “l’amore che rende muti in
un’esperienza di beatitudine”.
Dio è Amore e l’amore è una via suprema verso l’esperienza di Unità con
l’Amato. I “Canti spirituali” di San Giovanni della Croce sono il controcanto
dei Poemi di Mirabai, delle Poesie di Kabir o delle Rime di Rumi.
Ma San Giovanni della Croce è certamente anche l’incarnazione di uno jnani,
un essere che esprime la “pura conoscenza”, quella dell’Uno senza secondo.
Lo Jnani è un testimone, conoscitore non coinvolto, del gioco divino su questo
piano di esistenza.
Questo cammino parrebbe essere incompatibile con la bhakti descritta prima,
invece chi legge i suoi Studi carmelitani lo scopre un perfetto Jnani, come in
India Ramana Maharshi o Vivekananda. Egli scrive: “Ne consegue che per
ricevere la conoscenza di Dio l’anima deve essere assolutamente indipendente
dai suoi comportamenti naturali, deve essere libera, tranquilla, pacifica ed in
totale serenità”22.
Egli possiede in pieno le cinque caratteristiche che secondo Shankara identifi-
cano uno jnani: tranquillità della mente, governo di se stesso, distacco, costan-
za, mente focalizzata23.
Tutte queste qualità sono spiegate dettagliatamente da San Giovanni della Croce.
Quando parla degli “amorosi favori” che Dio garantisce all’anima, il santo
insiste sulla via che l’anima deve percorrere per essere preparata a riceverli.
La conoscenza di Dio deve essere ricevuta senza l’intervento dell’ego, senza
attaccamenti: “l’anima non deve essere attaccata a nulla, neanche alla dolcez-
za dell’esperienza spirituale (…) lo spirito deve essere completamente libero
e indipendente da ogni creazione del pensiero e da ogni sorta di piaceri o di
dolori che sarebbero un ostacolo alla conoscenza”.24

21 Narada, grande santo poeta dell’India, creatore del Bhakti Sutra e della corrente devozionale
della filosofia indiana.
22 S. Giovanni della Croce – Studi Carmelitani, Ed. Fazi– LF stanza III°, 34
23 Adi Shankaracharia – Vivekachudamani – verso 22–25
24 S. Giovanni della Croce – Studi Carmelitani, Ed. Fazi– LF stanza III°, 35

20
Ma si può senz’altro dire che egli sia stato anche un “raja yogi”.
Il Raja Yoga è una via fondamentale per giungere all’unione con il Divino.
Nel Raja Yoga l’anima passa attraverso due fasi fondamentali di purificazione
delle vritti, delle produzioni della mente che è ancora attaccata alla collera, al
desiderio, all’ignoranza. Sono esperienze di oscurità per l’anima, che devono
essere superate con un ruolo attivo, attraverso ben precise pratiche di espan-
sione di coscienza.
I grandi santi dell’India come Shivananda, Ramakrishna, Muktananda, condu-
cono o hanno condotto i discepoli al di là dell’oscurità dell’ignoranza. Infatti
il termine GURU è formato da due radici sanscrite che si identificano GU con
il buio e RU con la luce. Il Guru è colui che accompagna il discepolo dal buio
dell’identificazione individuale alla luce dell’unità con il Sé.
San Giovanni della Croce ci indica, con altre parole, lo stesso cammino: “l’ani-
ma prima di raggiungere la perfezione deve necessariamente passare attraver-
so due tipi di notti che gli scrittori di spiritualità indicano come vie di purifi-
cazione e che io chiamo”notti” perché l’anima, allora, comunica nell’oscurità
dell’ignoranza”.
“Nostro Signore desidera tuffare le anime nell’oscurità per poterle poi portare
alla luce dell’unione divina”.25
Mi sono dilungato in questi paralleli per evidenziare come le varie vie, pur così
differenti tra loro portano all’esperienza diretta del Divino. Quando il cammi-
no è compiuto non abbiamo soltanto una conoscenza di Dio, ma una unione
totale, una fusione completa con l’Amato. Non si può quindi più parlare di
“mistero”, ma di via impegnativa da seguire, che deve essere percorsa, perché
questa via è tracciata da Dio nel cuore dell’uomo e si percorre con la guida e la
vocazione dello Spirito Santo.
Qualunque via sia più naturale per ogni essere, ecco perché le vie del Signore
sono assai numerose, deve essere seguita con costanza e focalizzazione perché
porti alla scoperta di Dio dentro di noi come tutti i raggi di una ruota condu-
cono al suo perno.
La ruota gira al suo esterno solo perché fa perno sul suo centro che è immo-
bile.
Ricordo un canto dei tagliatori di pietre in India, sull’Himalaya che dice: “O
mente mia non essere come il cerchio della ruota che gira vorticosamente, ma
sii come il suo perno che sta fermo. Solo perché il perno è fermo il cerchio
della ruota può girare vorticosamente”.

25 S. Giovanni della Croce – AMC, Ed. Fazi– prologo 3.

21
Giunti al centro, la conoscenza di ogni raggio diviene completa e totale. Ecco
perché i grandi non sono più solo mistici (bhakti), o dottori della Chiesa (jnani)
o padroni di se stessi (raja), ma tutto questo insieme in una completa, totale
identità con Dio.
Non dovremmo più quindi vedere Dio come un “mistero”. Questa visione ci
tiene lontani dall’Amato, ma dovremmo vederlo come lo “scopo della nostra
vita” che possiamo realizzare, anzi che è il nostro diritto di nascita.
“Il Sé non può essere conosciuto attraverso lo studio delle Scritture, né attra-
verso l’intelletto più raffinato, né da colui che è erudito, ma può essere cono-
sciuto da colui che lo desidera intensamente” dice la Katha Upanishad.

I DANNI DELL’ORTODOSSIA
Negli ultimi anni la parola “Islam” è legata, nel pensiero di molti occidentali,
all’idea di una civiltà buia, arretrata o oscurantista, che rifugge dalle piacevo-
lezze del vivere, rifiuta la bellezza, le arti, che nega l’innato desiderio umano
di conoscenza, nasconde le donne nel chiuso delle case, coperte da un burqa, e
considera il corpo femminile fonte di peccato. Scordiamo che la cultura araba
ha portato in Europa conoscenze scientifiche di altissimo livello, una lette-
ratura raffinata, un’arte delicata, e una capacità di godere la vita da “mille e
una notte”. Dimentichiamo che l’Islam non è nato per fare la guerra alle altre
tradizioni, anzi, è nato come un sentiero spirituale aperto all’esperienza di tutti,
infatti leggiamo nella parte V del libro del Profeta:
“Se Dio avesse voluto avrebbe fatto di voi tutti un solo popolo, ma ciò non fece,
per provarvi con ciò che vi ha dato. Gareggiate, dunque, nelle buone opere,
tutti ritornerete a Dio e Questi vi farà allora conoscere ciò intorno a cui ora
voi siete in disaccordo”.26
Solo la degradazione del Corano, la cattiva interpretazione delle sue “sure”,
un’ortodossia che ha copiato quella dei sentieri che l’hanno preceduta ha cau-
sato con il tempo tutti i danni che stiamo vivendo ora. Non dovremmo mai
scordare tutti i genocidi di cui siamo stati responsabili, noi cristiani, prima
della venuta di Maometto sulla terra, e tutte le guerre che hanno seguito la sua
nascita, generate dalla nostra ortodossia.
Qualche tempo fa ho dedicato, con una mia collega di Parma, una parte del mio
tempo alla scrittura di un libro sulla conoscenza della vita e della morte per i
ragazzi, intitolato “Vado e torno”.27

26 Corano – V.48
27 Cesare Boni – Kicca Campanella – Vado e torno– Ed.Amrita

22
E’ un libro di commento ad una esperienza di morte vissuta da un ragazzo
dodicenne. L’esperienza è stata così chiara e completa da sembrare un film
sul “libro tibetano dei morti”, o sul “libro egiziano dei morti”. Per essere di
aiuto agli insegnanti e per aprire a tutti gli operatori della scuola la possibili-
tà di approfondire l’argomento, abbiamo inserito, nelle note, dei paralleli tra
l’esperienza vissuta dal ragazzo e questi testi straordinari che descrivono i vari
momenti del passaggio e di ciò che avviene al di là della soglia. Poi ho regalato
il libro ad un ex insegnante di scuole superiori. Il suo commento è stato: “credo
proprio che gli insegnanti avranno difficoltà ad accettare il tuo libro nella loro
scuola. Vi sono solo riferimenti a dottrine orientali. Noi seguiamo in Italia una
religione diversa”.
Ho allora domandato: “forse mi potresti indicare dove la nostra religione de-
scrive le varie fasi della morte, o i luoghi e le esperienze che ci attendono
nell’aldilà, così nella seconda edizione potremo inserirle. Io non ricordo o non
conosco questi scritti della nostra tradizione”. Lei mi ha risposto: “non vi sono,
infatti, ma gli insegnanti non accetteranno facilmente riferimenti ad una Verità
che non appartiene alla nostra tradizione”. Ho sorriso, ma in me ho sentito una
stretta al cuore. Purtroppo aveva ragione. Meglio l’ignoranza che una Verità
che non appartiene ai nostri testi sacri.
Mi è venuto in mente l’editto di Ashoka:28

“La sacra maestà del re rende omaggio a uomini di tutte le re-


ligioni, asceti o proprietari di case, con doni e altre forme di
omaggio. Sua Maestà, tuttavia, non si cura tanto di doni o omag-
gi esteriori, quanto del fatto che vi sia uno sviluppo nell’essenza
della materia in tutte le religioni. Questo sviluppo assume varie
forme, ma la sua radice è il ritegno nel parlare e cioè, un uomo
non deve rendere omaggio alla sua tradizione e dire male di
un’altra senza ragione. Dovrebbe esserci denigrazione solo per
motivi specifici perché le altre religioni meritano tutte omaggio
per una ragione o per l’altra.
Colui che rende omaggio alla sua e scredita le altre per puro
attaccamento alla propria, nell’intento di aumentarne la glo-
ria, in realtà, con un comportamento del genere, infligge alla
propria tradizione il danno più grave. La concordia, peraltro,

28 Ashoka, ha regnato in India dal 269 a.C’è stato il grande legislatore dell’India. Diffuse
durante il suo regno 14 editti basati sulla tolleranza, sulla benevolenza e sulla giustizia.

23
è meritoria e per essa s’intende l’ascoltare ripetutamente e di
buon grado la “legge della pietà”29 come è accettata da altre
persone”.

Il vescovo di Londra nel suo libro: Why am I a Christian ? (perché sono un


cristiano?) scrive: “Quella unica piccola candela fu messa nelle nostre mani
dal bambino di Betlemme, ed è la sola candela che vi è nel mondo. Posso dir
questo perché ho girato il mondo ed ho visto da vicino le altre religioni. Esse
non hanno certamente ricevuto nessuna candela per illuminare la loro via”.
Questa affermazione fa il paio con l’inizio di un discorso sentito alla cresima di
un mio nipote, da parte di un vescovo di Roma: “Sono appena tornato dall’In-
dia ed il mio cuore piange ancora nel pensare a tutti quei senza Dio che abitano
quel continente”.
“Nulla è più ostile ad una religione che le altre religioni”, diceva con dolore
Swami Vivekananda.
Abbiamo sviluppato in ogni religione una sorta di patriottismo con un codice
e una bandiera e con un’attitudine ostile, camuffata da una falsa richiesta di
colloquio con le altre religioni. Mi sono sempre domandato perché dovremmo
colloquiare con le altre religioni? A che scopo, visto che il colloquio può es-
sere fruttuoso solo se si è aperti all’apporto positivo degli altri, non quando si
è arroccati, come in un fortino inaccessibile, sulla nostra visione della verità,
pensando che essa sia un nostro esclusivo monopolio.
Cento anni fa si sapeva ben poco di sanscrito, di pali30 o di cinese. Non vi erano
traduzioni sufficienti ed attendibili. L’ignoranza dei nostri studiosi occidentali
era una buona scusa sufficiente per gli insegnanti delle nostre scuole. Oggi
che sono disponibili, in abbondanza, traduzioni assai più precise e complete,
non solo non vi è più una ragione, ma non c’è nemmeno più una scusa per
l’ignoranza. L’ignoranza di ciò che può essere facilmente conseguito non solo
è assurda e disdicevole, ma è anche socialmente e spiritualmente pericolosa.
Assai più di qualsiasi altra forma di dittatura, l’imperialismo teologico è una
minaccia terribile al cammino dell’evoluzione umana.

29 Per “legge della pietà”, Ashoka vuole indicare qualsiasi via che cerca di rendere gli uomini
fratelli, capace di consolare gli afflitti, curare gli ammalati, saziare gli affamati, quindi ogni
vera via di saggezza e di amore.
30 Antica lingua del continente indiano.

24
Scrive William Edelen:31 “Quattordici associazioni americane, da “People for
the American Way” alla “Education Association” hanno pubblicato un docu-
mento indirizzato ai genitori e agli insegnanti, nel quale sostengono che nelle
scuole pubbliche sarebbe opportuno insegnare “religioni comparate”. Questa
materia potrebbe dare un grosso contributo al fine di colmare l’analfabetismo
religioso e, inoltre, potrebbe dare un duro colpo al bigottismo, ai pregiudizi e
alle superstizioni religiose presenti in tutto il mondo”.32
Tale documento non è stato preso in considerazione né dai genitori, né dagli
insegnanti.
Vi è forse, ancora, una ragione per tenere la gente nell’ignoranza della Verità?
Cristo dice ai suoi apostoli nel Vangelo: “a loro parlo per parabole ma a voi
dico la verità”33. Perché ci si continua a propinare parabole e nessuno ci spinge
a sperimentare direttamente la Verità del Cristo? Forse perché scopriremmo
che non abbiamo bisogno di intermediari, di interpreti, di accompagnatori, ma
la Verità di Gesù è così forte da essere la natura stessa di ognuno di noi?
Abbiamo solo bisogno, come diceva il mio grande Guru Swami Muktananda,
di cambiare la prescrizione dei nostri occhiali.
Molti grandi esseri, compreso il mio Guru, hanno avuto una visione di Dio e
l’hanno descritta.
Ricordo nella Bibbia l’esperienza di Ezechiele (1.4): “Io guardavo ed ecco un
vento impetuoso avanzare da settentrione, una grande nube intorno alla quale
splendeva un fuoco, da cui guizzavano bagliori, e nel suo centro come lo splen-
dore dell’elettro in mezzo al fuoco (…) apparve come una pietra di zaffiro, in
forma di trono, una figura in sembiante di uomo che si ergeva sopra.
Da quei che parevano i suoi fianchi, in su, mi apparve splendente come l’elet-
tro, quale visione di fuoco, dentro e d’intorno e da quei che sembravano i suoi
fianchi, in giù, mi pareva pure una visione di fuoco, con uno splendore tutt’in-
torno, simile allo splendore dell’arcobaleno che appare nelle nubi in un giorno
di pioggia. Questa visione era l’immagine della gloria del Signore. A tal vista
io caddi bocconi e udii una voce che parlava…”.

31 Teologo, laureato presso l’Università di Chicago, autore di numerosi saggi pubblicati sulle
riviste più prestigiose degli Stati Uniti e autore di quattro libri di saggi: Toward the mistery,
Spirit, Spirit Dance and Earthrise.
32 “Il libro che la tua chiesa non ti farebbe mai leggere” – Newton Compton Editori
33 Ed Egli disse:”A voi è dato di conoscere i misteri del Regno di Dio, ma agli altri se ne parla
in parabole, affinché vedendo non veggano e udendo non intendano (Vangelo di Luca.
8.11) Ed Egli disse loro:” A voi è dato di conoscere il mistero del Regno di Dio, ma a quelli
che sono fuori tutto è presentato per via di parabole affinché, vedendo, vedano ma non
discernano, udendo, odano si, ma non intendano” (Vangelo di Matteo 4.11)

25
Nella Bibbia, oltre a Ezechiele, tanti altri hanno visto il Signore: “Io vidi il
Signore su un trono alto e elevato”. (Bibbia – Isaia – 6.1)
Salomone lo vide due volte: “In Gabaon il Signore apparve a Salomone in so-
gno, durante la notte e gli disse…” (Bibbia – 1 Re – 3.4). “Quando Salomone
ebbe terminato di costruire il tempio del Signore, la reggia, e quanto aveva
voluto attuare, il Signore apparve per la seconda volta a Salomone, come gli
era apparso in Gabaon. Il Signore gli disse…” (Bibbia – 1 Re – 9.1).
Hildegard di Bingen descrisse così la visione del Signore: “Allora vidi una luce
brillante e in questa luce una figura di uomo di color zaffiro che risplendeva
interamente come un fuoco gentile. La luce brillante ed il fuoco risplendente
ricoprivano l’intera figura umana, in modo che i tre erano una sola luce di una
potenza inconcepibile”34.
Anche se non siamo dei cercatori, cerchiamo di essere almeno dei curiosi. Per-
mettiamo a noi stessi di scoprire la manifestazione di Dio, la luce dello Spirito,
in ogni cosa, nella nostra beatitudine interiore. Tutti dicono che Dio esiste.
Allora guardiamo, cerchiamolo, vediamo se è vero.
La Mundaka Upanishad, una delle grandi scritture del Vedanta, il sesto dei sei
sistemi della filosofia indiana, inizia dicendo che la conoscenza del “Tutto” è
possibile a tutti coloro che realmente la ricercano: “I saggi che si sono stabi-
lizzati nell’esperienza interiore, che sono privi di attaccamento e calmi, che
vivono il contatto con l’Atman35 e che mantengono lo spirito focalizzato sul
Divino penetrano il Tutto”.
Un grande poeta indiano canta:36
Dovunque guardo, amato mio, io ti vedo.
Ovunque girino i miei occhi, trovo uno specchio
in cui è riflesso il mio cuore.
Ti vedo sulla punta di una spada,
nella brillantezza della vista.
Sei nell’unità, come nella separazione.
Ti ho trovato in ogni forma, nell’acqua, nel buio della notte,
nella vibrazione dell’intero cosmo.
Anche se le cose appaiono diverse,
esse sono solo un riflesso delle tua esistenza.
Questa vita è realmente solo un riflesso di te.

34 Hildegard di Bingen– Illumination– commento di Mattew Fox, Ed. Bear and C, Santa Fé,
pag.24
35 Atman : Il divino all’interno dell’uomo
36 Radrindranath Tagore – La vera essenza della vita, Ed. Guanda

26
CAPITOLO II
IL MISTERO DI DIO
Un giorno un re chiese ad un saggio: “Cos’è Brahman?”
Il saggio rimase silenzioso. Il re chiese nuovamente:
“Cos’è Brahman?”Il saggio rimase ancora silenzioso.
Quando il re domandò per la terza volta, il saggio rispose:
“Sto dicendo cosa è Brahman, ma vostra maestà non capisce.
Brahman è la Pace del silenzio”.37

Dicevo nel capitolo iniziale del libro che secondo la nostra religione Dio non
è conoscibile su questo piano di esistenza. Dovremo aspettare di morire per
conoscerlo.
Quindi fino a quel momento Dio resta un mistero.
Sembrano sostenere questa tesi diverse affermazioni di grandi esseri di tutte le
religioni, di tutti i cammini di conoscenza.

Veramente Tu sei un Dio che cela se stesso.


(Bibbia – Isaia – 45.15)
Ho chiesto al messaggero di Dio: “Hai visto il tuo Dio?”. Egli
rispose: “Egli è pura Luce, come posso vederlo?”
(Hadith dell’Islam)
Dio è senza forma. Se pensi che sia grande, Egli è infinito. Se
pensi che sia piccolo, è infinitesimale.
(Sun Hyung Moon – 10.13.70)
La vera natura di Dio è al di là di ogni attributo come umana-
mente concepito. (Salmi Midrash – 25.4)
Tu non puoi vedere la mia faccia. (Bibbia – Esodo – 33.22)
Egli è Amon, colui che è, colui che è nascosto.
(Religione Egizia – Libro Egiziano dei morti – 2.24)
Il Veda non conosce la sua grandezza. Brahma non conosce la
sua vera natura. Gli Avatara non conoscono i suoi confini. Il Si-
gnore supremo, Parabrahman, è infinito.
(Sikh – Ramali, GuruV)
In principio era Dio, nel presente è Dio, nel futuro è Dio. Puoi
fare un’immagine di Dio? Egli non ha forma.

37 Da : “La parola dei saggi dell’India” Ed. SAI – pag 32

27
(Inno dei Pigmei dello Zaire)
Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né
orecchie, senza mani né piedi, eterno, onnipresente, onniperva-
dente, sottilissimo, non soggetto a deterioramento. Esso è ciò
che i saggi considerano la matrice dell’universo.
(Mundaka Upanishad – 1.1.6)
Occhio non vi giunge, non vi giunge la parola e neppure il pen-
siero. Non sappiamo, non conosciamo in quale modo possa es-
sere insegnato. Esso è diverso da ciò che è conosciuto ed anche
al di là di ciò che è ignoto. (Kena Upanishad – 1.4)
Io sono la Luce, Io sono l’immortalità, Io sono l’unione. Io sono
ciò che fu, ciò che è, ciò che sarà. Io sono te. Io sono me e te.
(Basala – Mantra Upanishad – 23)

Eppure di questo Dio sembra che tutti conoscano alcuni elementi essenziali.
Vi sono delle certezze che formano la base di tutte le religioni. Queste certezze
vengono da due grandi flussi di rivelazione. Questi due flussi sono identici in
tutte le tradizioni.
Se prendiamo un libro di teologia cattolica leggiamo che le “fonti della divina
Rivelazione sono le Sacre Scritture e la Tradizione”.
Tanto per non continuare ad illuderci di essere i soli depositari di queste cer-
tezze è facile sapere che più di mille anni prima della venuta del Cristo nella
tradizione dell’India si conoscevano le stesse fonti della divina Rivelazione.
Sono chiamate in sanscrito “Sruti e Smrti”:
Sruti viene dalla parola sanscrita che significa “ascolto”. E’ la sacra conoscen-
za dei Veda, udita dagli antichi Rishi ed oralmente trasmessa generazione dopo
generazione.
Smrti viene dalla parola sanscrita che significa “memoria”. E’ l’intera raccolta
di tradizioni sacre ricordate e poi tramandate.
Tutte queste fonti ci dicono che Dio è UNO, che esiste un solo Dio.

O caro, al principio era soltanto l’Essere, l’Uno senza secondo.


(Chandogya Upanishad – 6.2.1)
AIN SOF è l’Uno senza secondo. (Cabbalah – Zohar)
Uno solo esiste, l’Uno senza secondo.
(Rig Veda – VIII mandala)
Non vi è altro Dio se non l’unico Dio.
(S.Paolo – Lettera ai Corinti – 8.4)

28
Il Signore prima del quale, oltre al quale non vi è nessun altro.
(Zoroastro – Yasna XXVIII.3)
Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è il solo Signore.
(Bibbia – Deuteronomio – 6.4)
Non vi è altro Dio che Dio. (Corano III.2)
Io sono il Brahman supremo, l’Uno senza secondo, sottile, inde-
finibile, la Luce dello Spirito in cui si forma l’universo.
(Vasudeva Upanishad – 7.18)
Allora non vi era né Essere né non essere.
(Rig Veda – X mandala. 129.1–2)

Qualche tempo fa tenevo un seminario sul lago Maggiore ad Arona. Ero seduto
su una panchina del lungolago e mi godevo il tramonto dopo una giornata di
lezioni.
Mi hanno avvicinato due signori che con un sorriso di circostanza mi hanno
domandato: “Cosa ne pensa di Dio?” Avevano in mano un periodico intito-
lato “Torre di guardia”. Erano quindi dei Testimoni di Geova. Li ho guardati
anch’io sorridendo ed ho risposto. “Non ho pensieri di Dio, non mi servirebbe-
ro. Ho l’esperienza di Lui”.
Dal loro stupore ho capito che la mia risposta era giunta assolutamente inaspet-
tata. Non era probabilmente contemplata tra quelle previste nei loro addestra-
menti. Non avevano capito cosa volessi dire. Sono passati quindi ad un’altra
fase dell’approccio. Mi hanno detto: “Le vorremmo presentare il nostro Dio…”
Li ho interrotti chiedendo: “Il vostro Dio è un Dio unico?” – “Certamente” mi
hanno risposto in coro.
“Anche il mio è un Dio unico. Uno il vostro Dio, Uno il mio Dio. Non può che
essere lo stesso Dio. Quindi non avete bisogno di convertirmi perché sono già
convertito. Abbiate una serata felice”.
Uno ha cercato di replicare qualcosa, l’altro lo ha tirato per un braccio e gli
ha detto: “Andiamo, andiamo via, con questo è meglio non parlare, è un po’
strano”.
Scrive Max Muller nel suo: Contributions to the science of mytology (vol.II.
pag.492): “Cinquemila anni fa, o prima ancora (pare anzi certo che si tratti di
molto prima) gli Arii che non parlavano ancora né sanscrito, né greco, né latino
lo chiamavano Dyu Patar, Padre del Cielo.
Quattromila anni fa, o forse anche prima, gli Arii che avevano viaggiato verso
Sud, fino alle rive del Penjab, lo chiamavano Dyaush Pita, Padre del Cielo.
Tremila anni fa, o forse anche prima, gli Arii, sulle rive dell’Ellesponto, lo

29
chiamavano Zeus Pater, Padre del Cielo.
Duemila anni fa, gli Arii dell’Italia, guardavano il loro cielo luminoso, “hoc
sublime candens” e lo chiamavamo Ju–Piter, Padre del Cielo.
Mille anni fa lo stesso Padre del Cielo, e Padre di tutti, era invocato nelle oscu-
re foreste della Germania, dagli Arii teutonici, come Tiu o Zio (Dio)”.
Rabindranath Tagore scrive: “La prima preghiera è quella di realizzare Dio
come Pita. Tu che crei il mondo infinito di stelle e di mondi. Tu sei oltre me,
ma conosco intimamente una cosa: Tu sei Pita, Padre.
Il bambino non conosce nulla delle attività di sua madre. Così non so altre cose
su Dio, ma so questo: “Tu sei mio Padre”.
Che la mia coscienza bruci come fuoco a questo concetto. Tu sei mio Padre.
Ogni giorno sia questo l’unico centro di tutti i miei pensieri, che l’Essere su-
premo che governa l’universo è mio Padre.
Pita no bodhi. Che io mi svegli nella luce di questa grande verità – Tu sei mio
Padre”.38
Nel Tao Teh Ching di Lao Tze39 si può leggere: “Il Tao produsse l’Uno. L’Uno
il Due. I due produssero tutte le cose. Tutte le cose lasciano dietro di sé l’oscu-
rità da cui sono venute e procedono ad abbracciare lo Splendore, nel quale
vanno ad emergere”.
Parlando del Tao precisa: “Concepito come non avente alcun nome, Esso è
l’origine del Cielo e della terra. Concepito come avente nome, Esso è la madre
di tutte le cose”.40
Chuang Tzu scriveva: “Che cosa è dunque il Tao? Vi è il Tao di Dio e il Tao
dell’uomo? Inazione e condiscendenza fanno il Tao di Dio, azione e oscura-
mento il Tao dell’uomo. Il Tao di Dio è fondamentalmente permanente, il Tao
dell’uomo impermanente. La distanza che li separa è grande (…) vi era qualco-
sa di indefinito, immobile e informe. Solo e non soggetto a cambiamento alcu-
no. Si diffondeva ovunque senza che un ovunque vi fosse (…) Io non conosco
il suo nome e quindi lo chiamo il Tao, la Via. Facendo un ulteriore abuso per
darle un nome lo chiamo “il Grande”.41
Tutte le tradizioni riconoscono in Dio due elementi essenziali. Il primo elemen-
to è che Dio E’ (pura esistenza) ed il secondo è che CONOSCE SE STESSO.
Quindi Dio è, e si conosce.

38 Rabindranath Tagore – Il mondo della personalità, Ed. Tea


39 Tao Teh Ching– parte II°, cap.XL 11–42, Ed. La Vita Felice
40 Tao Teh Ching– parte I° , cap. I, 1–2, Ed. La Vita Felice
41 Tao Teh Ching– parte I° cap. XXV.1, Ed. La Vita Felice

30
Il mio nome è AH–MI: Io sono. (Zoroastro – Ormazd–Yasht–7)
Se qualcuno mi chiede: “quale’è il nome di Dio?” posso rispon-
dere: “Egli si può chiamare solo: Io sono”. (Al Gazali)
Mosé disse a Dio: “Ecco quando sarò andato dai figli di Israele
e avrò detto loro: “il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi;
se essi mi chiedono: Qual’é il suo nome? Che risponderò loro?”
Iddio disse a Mosé: “Io sono colui che sono”. Poi disse: “Dirai
ai figlioli di Israele: Io sono mi ha mandato a voi”.
(Bibbia – Esodo – 3.13)

COSA E’ DIO?
Essendo supremamente indefinibile tutti i miei tentativi di descriverlo non sa-
rebbero solo limitati, ma anche un po’ ridicoli, certamente presuntuosi.
Ogni uomo ha il suo concetto di Dio. Qualsiasi manifestazione di Dio, una sta-
tua, un’immagine, una forma, un suono, un disegno, una preghiera, un rosario,
una croce, delle ali, un triangolo, qualsiasi manifestazione è ovviamente solo
necessaria a noi per poter giungere a qualcosa che ci permetta di cominciare a
percorrere un cammino verso di Lui, un cammino che ovviamente non esiste.
Ogni concetto di Dio è necessariamente lontano da Lui.
Un grande Guru teneva un seminario sulla meditazione in America negli
anni’70.
Erano presenti anche alcuni monaci domenicani. In tanti conventi, in tanti
seminari cattolici, ancora oggi, vi è una sincera necessità di contatto con il
Divino. Quello che manca a molti nostri sacerdoti, a molti nostri monaci è pro-
prio l’esperienza del Trascendente. In molti vi è un sincero desiderio, in alcuni
addirittura una forte, manifesta, struggente necessità di contatto con l’Essere
puro, non solo con il Dio manifesto, ma con l’Assoluto non manifesto, unica
origine, unica destinazione della grande avventura della vita. Lo Yogi aveva
appena finito di parlare delle possibilità dell’uomo di tornare ad essere uno con
la vera natura della propria divinità interiore che un monaco si alzò e doman-
dò: “Swami, mi perdoni, ma non ho capito ancora quale sia il suo concetto di
Dio”.
Il maestro lo guardò con molto amore e lo invitò ad avvicinarsi. Prese tra le
sue le mani del monaco e gli chiese di chiudere gli occhi. Lo stato dello Yogi
si trasmise al discepolo che entrò in una esperienza di trascendenza profonda.
Restarono così in silenzio a lungo, poi lo Swami cominciò a parlare: “Vedi, –
disse – non ho nessun concetto di Dio. Di Lui si può avere soltanto l’esperienza

31
e non dovrebbe essere difficile visto che Egli non è altro che la nostra natura
più intima. D’ora in poi chiudi gli occhi e mettiti in una situazione mentale
di desiderio. Egli verrà, se il tuo desiderio è sincero, e permeerà in tuo intero
essere. Tu sarai con Lui e Lui con te. Non più concetti, fratello mio, non più
concetti, ma unione dolce e luminosa, perfetta beatitudine”. Il monaco non dis-
se più nulla. Che bisogno aveva di parlare. La gioia più intima dell’esperienza
più vera riempiva il suo cuore. Stava vivendo lo stato di “beatitudine della
Coscienza dell’Essere”.
Ermete Trismegisto nel suo Corpus Hermeticus sollecita gli uomini in maniera
molto decisa: “Se non divenite uguali a Dio non potrete comprendere Dio,
perché il simile, soltanto, è conosciuto dal simile (…) Pensa che anche per
te nulla è impossibile. Credi che anche tu sei immortale e che sei in grado di
afferrare tutte le cose nel tuo pensiero, di conoscere ogni arte ed ogni scienza.
Trova la tua dimora nei rifugi di ogni creatura vivente. Renditi più elevato di
tutte le altezze e più profondo di tutti gli abissi. Riunisci in te stesso tutte le
qualità opposte, freddo e calore, aridità e fluidità. Pensa che tu sei ovunque nel-
lo stesso momento, sulla terra, in mare, in cielo. Pensa che non sei ancora stato
generato, che sei nell’utero, che sei giovane, che sei vecchio, che sei morto,
che sei nel mondo al di là della tomba. Afferra nel tuo pensiero tutto ciò nello
stesso momento, tutti i tempi e tutti i luoghi, tutte le sostanze, le qualità e le
grandezze insieme. Allora potrai essere Dio”.
Nell’inno dedicato all’Energia divina che dà la vita, a quello che nella nostra
spiritualità è chiamato lo Spirito Santo e nella tradizione Kashmirica è fem-
minile ed è chiamata la Kundalini, si legge: “E’ la dea suprema che si diletta
nella conoscenza del Brahman42 (…) Essa entra nello spazio del Sahasrara43 e
diviene attiva come la mente inebriata d’amore (…) il suo volto, che è come
un loto in fiore sbocciato dall’oceano di delizioso elisir, è soffuso di gioia (…)
tu ti diletti solo nella beatitudine. Il tuo volto manifesta la gioia di centinaia di
lune”.
Dio è al di là di ogni immaginazione, ma è comunque la sola realtà vivente. E’
la più totale e la più esistente delle realtà. Anzi Esso è Pienezza ed Esistenza.
Non può essere provato da esperimenti scientifici, anzi il solo pensare di do-
verne provare l’esistenza, o di volerne una prova, è solo una manifestazione
di mancanza di chiarezza della Sua natura. La sua realtà si prende gioco della

42 Brahman, l’Assoluto trascendente, immanifesto.


43 Sahasrara, conosciuto come il “loto dai mille petali”, la dimora della vera natura divina
nell’uomo.

32
mente e dell’intelletto del migliore degli scienziati e degli eruditi.
Può essere sperimentato solo come Pura Coscienza.
Si racconta che nei “bassi” di Bassora, Rabia’a, la santa, la madre del misti-
cismo sufi, un giorno fosse nella sua misera casa intenta a pulire. Una donna
di passaggio bussò alla sua porta e disse: “Vieni fuori e guarda ciò che Dio ha
fatto”. Rabia’a non uscì e da dentro la casa le rispose: “Entra dentro, piuttosto,
e guarda Colui che ha fatto”.

Egli è al di là dell’Essenza. (Plotino – Enneadi – VI. 8–19)


Egli è tutte le cose e non è alcuna cosa. (idem – V. 2)
Nulla si può affermare di Lui, né l’Essere, né la sostanza, né la
vita, per la sola ragione che Esso trascende tutto. (idem – III.8)
Soffio divino, germe dell’universo, Dio procede secondo la sua
volontà. Non si vede la sua forma, ma si percepiscono i suoi
effetti. (Rig Veda – IV mandala – 48)
Non lo si può afferrare né di sopra, né di lato, né di mezzo. Nes-
suno lo comanda. Lo si può chiamare il Gloriosissimo. La sua
forma la vista non la può cogliere, per cui nessuno potrà mai
vederlo con gli occhi. Gli si dà forma con il cuore, con la Co-
scienza e con lo Spirito. Quelli che lo conoscono diventano im-
mortali. (Taittiriya Aranyaka – 10.1)
Brahman è Essenza, Coscienza e Beatitudine. Colui che sa che
Esso è nascosto nel cuore e nel supremo firmamento realizza
tutti i suoi desideri di conoscenza. (Taittiriya Upanishad – 2.1)
Colui che non si può esprimere con la parola, ma grazie al quale
la parola è espressa, ecco il Brahman, non ciò che qui si venera
come tale. Colui che non si vede con lo sguardo, ma grazie al
quale gli sguardi vedono, ecco il Brahman. Non ciò che qui si
venera come tale. Colui che non si pensa con il pensiero, ma
grazie al quale il pensiero è pensato, ecco il Brahman, non ciò
che qui si venera come tale. (Kena Upanishad – 1.4–6)
Unico senza moto. In Colui che non si muove, il soffio cosmico
ha azione. Si, Egli si attiva e non si attiva. E’ lontano ed è vicino.
Egli pervade il tutto ed è al di là del tutto.
(Isa Upanishad – 4–5)
Non con l’occhio lo si afferra, né con la parola, né tramite altra
divinità, o con la rinuncia, o con l’atto rituale. Con la grazia del-
la conoscenza un essere puro, abbandonandosi alla meditazione,

33
lo vede, indiviso. (Mundaka Upanishad – 2.1)
All’inizio dell’inizio anche il Nulla non esisteva. Poi venne il
periodo del “Senza Nome”. Quando l’Uno venne in esistenza vi
era l’Uno, ma senza forma. (Chuang Tze)
Sono tutto perfetto, sempre mi rinnovello, i miei capelli sono
tenebrosi, il mio volto è il sole.
(Libro Egiziano dei Morti – 42° capitolo)
Unico Dio, regnavi già quando cielo e terra non esistevano. (Li-
bro Egiziano dei Morti – 15° capitolo)
Premessa di Akenaton44: “Dio è uno e coppia”.
Poesia di Akenaton: “Oh! Tenebra dolcissima che dai vita e so-
stanza all’universo, sei tu che poni il seme nel ventre di ogni
madre e lo nutri amorosa, acquietandone il pianto. Se il pulcino
è nell’uovo, Tu gli dai forza per bucare il guscio, invisibile Ma-
dre, Tu tutta sola hai creato la terra ed il cielo lontano. Dall’alto
hai contemplato la creazione. Tu tutta sola, separata a forza dal
tuo sposo che dorme in Sé. Eccoti il mondo, oh Madre, prendilo
nella mano, così come l’hai fatto. E’ figlio tuo, così come è tuo
figlio il vero Re Melkisedek”.45

Quando l’intelletto si rifugia sconfitto nella mente che lo ha generato e quando


la mente rinuncia ai suoi limiti per divenire cosciente della sua vera natura
allora Esso è la sola, unica, illimitata esperienza della Realtà.
Esso si manifesta nell’universo attraverso ogni legge: gravità, relatività, azione
di causa e di effetto, coesione. Ogni legge della medicina, della fisica, della
chimica, della biologia sono una Sua manifestazione.
Ma Dio è ben al di là delle semplici leggi. Non vi è spazio o tempo nel quale
Esso non sia, ma è ben al di là del tempo e dello spazio.
E’ nelle forme, nel profumo, nella bellezza del colore, nel nettare del fiore, ma
è immensamente al di là della stessa linfa che ha prodotto tutte queste mani-
festazioni.

44 Nel 1881 furono ritrovate 300 tavolette di terracotta, da una contadina di Aket–Aton, la città
fondata da Akenaton. Le tavolette erano scritte in caratteri cuneiformi, in lingua Accadu.
45 Melchisedek, viene dall’ebraico “Malki–Sedek” che significa “Il mio re è giusto”. E’ con-
siderato il Maestro per eccellenza, il supremo sacerdote di Dio (vedi salmo 109 e 110). E’
presentato più grande di Abramo (Vangelo di Giovanni – 8.53 e 56–58); quindi più grande
dei sacerdoti della tribù di Levi. “Il sacerdote al modo di Melchisedek” è riconosciuto essere
il sommo sacerdote per sempre.

34
Esso si cela alla vista in ogni forma, come l’olio nel seme, il burro nel latte, la
mente nel cervello e nel cuore, i sensi nel sistema nervoso.
Dimora in ogni essere come Vita e Coscienza. E’ nella gioia dell’essere umano,
come nel suo dolore, nelle pulsazioni del suo cuore, come nella pressione del
suo sangue. E’ nel suono della voce e nell’energia del pensiero come nel potere
delle onde e delle maree, è nel vento e nella pioggia, nel fulmine e nel tuono,
nelle cascate come nel terremoto ed in ogni fenomeno della Natura.
E’ nella musica del musicista, nel colore del pittore, nella forma dello scultore,
nella strofa del poeta, nell’intuito dell’inventore, nella scoperta dello scienzia-
to, nell’abilità del chirurgo, nell’attitudine del pilota, nel carisma del santo.
Dovremmo quindi poterlo sentire in ogni cosa, ovunque, in ogni forma, in ogni
pensiero, in ogni sentimento, in ogni emozione, in ogni movimento, come in
ogni assenza di tutto ciò, nel silenzio e nella quiete.
Il tabernacolo, la chiesa, la moschea, il tempio, la sinagoga, Gerusalemme
come la Mecca, il monte Kailash come il fiume Giordano, il Gange come il
monte Sinai, Varanasi come Medina sono tutti nel nostro cuore, come in ogni
granello di sabbia. Lo dovremmo poter trovare ovunque.
Nella Bhagavad Gita il Signore Krishna descrive questa realtà assai meglio
di quanto posso averla descritta io. Egli dice: “Io sono il sapore delle acque,
sono la luce della luna e del sole, sono la sillaba AUM in tutti i Veda. Io sono il
suono nell’etere e la virilità nell’uomo. Io sono il puro profumo della terra, la
risplendente energia nel fuoco. In tutti gli esseri Io sono la vita e negli asceti,
l’austerità. Sappi che sono l’eterno seme di tutti gli esseri. Io sono l’intelli-
genza dell’intelligente, l’eroismo dell’eroe. Sono la forza del forte, libera dal
desiderio e dalla passione, e negli esseri sono il desiderio che non è contrario al
Dharma. Sappi che sono l’origine del divenire, siano questi sattvici, rajasici o
tamasici. In verità Io sono in essi ed essi in Me. (…) Questa mia divina Maya46,
composta dai guna è difficile da essere attraversata e vi riescono solo coloro
che cercano rifugio in Me”.47
In India, la maggior parte della letteratura è di carattere religioso, perché Dio
non è per loro un Dio lontano. Non abita nel cielo infinito, Egli abita nelle loro
case come nei loro templi. Ogni casa è un tempio. In quasi tutte le camere vi è

46 Maya: è il meraviglioso potere dell’illusione che fa sembrare permanente ciò che è imper-
manente. Il filosofo Radhakrishna definisce “maya” il principio che giustifica l’apparente
condizionamento dell’Assoluto incondizionato”.
47 Bhagavad Gita – VII. 8–14

35
una puja.48 La mamma guida l’arati49 ogni giorno, al quale assiste e partecipa
tutta la famiglia. Sentono la vicinanza di Dio in ogni rapporto umano di amore
e di affetto e, nelle loro feste, Egli è l’ospite d’onore che viene accolto e ve-
nerato. Nelle stagioni dei fiori e dei frutti, all’avvio delle piogge, alla raccolta
del riso, nel pieno autunno essi scorgono l’orlo del suo mantello e sentono i
suoi passi. Non viene sollecitato perché venga, perché sanno che egli è sempre
presente. Lo adorano in tutti gli oggetti di culto, e Lo amano ovunque il loro
amore è vero. Lo riconoscono nella loro donna come la Madre Divina, nel loro
uomo come il Purusha. Egli prende corpo nei loro figli come Kishor, l’eterno
Krishna bambino, biricchino e impertinente, che ruba il ghee50 nella cucina
della mamma.
Egli è Mahamtam purusham, la Persona suprema, non però in una visione
antropomorfica, ma come eterna presenza. Egli è Satyam, la Realtà suprema.
Egli è Jananam, Colui che conosce interiormente tutti coloro che conoscono,
Egli quindi conosce se stesso in tutte le conoscenze. Egli è Sarvanubhuh, Colui
che ha in sé la percezione dei sentimenti di tutte le creature e che perciò sente
se stesso in tutti i sentimenti.
Ma questa Persona suprema, centro di ogni realtà, non è un essere passivo o
inerte ma Anandapuram amrtam yad vibrati: “Egli è la gioia che si rivela nelle
forme. E’ la conoscenza di sé che crea”.
Le Upanishad dicono: “Conosci tutto quello che si muove nel mondo in moto
come avvolto in Dio, e godi di quello che viene da Lui”.
La tradizione devozionale ebraica ha una bellissima preghiera che viene reci-
tata ogni sabato sera dai devoti:
Oh Dio come posso conoscerti, dove possiamo trovarti? Sei vicino a noi come
lo è il respiro, eppure sei più lontano della stella più lontana. Sei misterioso
come le vaste solitudini della notte, eppure sei a noi così familiare come la
luce del sole.
Nella Bibbia il Salmo 19 ripete in maniera molto poetica lo stesso principio: Fa
che io senta sempre la tua presenza in ogni atomo della vita. Fa che io continui
ad arrendermi fino ad essere completamente trasparente. Fa che le mie parole
abbiano radice nell’onestà e i miei pensieri si perdano nella tua luce, Dio in-
nominabile, mia essenza, mia origine, sangue della mia vita, casa mia.
Dio è già la nostra vera essenza. Dovremmo volerlo fortemente ed Esso si rive-

48 Puja: altarino per la devozione quotidiana.


49 Arati: l’offerta devozionale della fiamma alla divinità.
50 Ghee: burro purificato che usano sia nelle loro cucine che nelle offerte devozionali per
testimoniare il rispetto sacro per il cibo.

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lerà a noi in ogni istante. Dio chiede solo la nostra più profonda attenzione, la
nostra più serena costanza, la nostra consapevolezza più espansa.
Anche le tradizioni più lontane conoscono quanto il desiderio del Divino sia
determinante per avere l’esperienze di Lui. Gli Inca Ruka cantavano al Dio Vi-
racocha: Vieni ancora, o Signore, Signore onnisciente, del cielo e della terra,
creatore di tutto ciò che esiste, inizio di ogni cosa. O Creatore dell’uomo, ti
adorerò dieci volte con i miei occhi senza veli fissi su di Te. Non lasciarmi mai
camminare da solo e soprattutto aiutami nel mio richiamo con tutta la forza
della tua voce, affinché io possa compiere le tue intenzioni. Ricordarci di Te è
sufficiente per darci gioia, per onorarci e, andando così, sicuri nel pensiero di
te, innumerevoli volte ti invochiamo nel nostro cuore.

COME TROVARLO ?
Dunque Dio esiste. Non solo è, ma esiste. E’ la sola realtà, non vi è altra realtà.
E’ onnipervadente. Dimora nel cuore dell’uomo. Dicono i testi sacri che è più
vicino a noi della nostra vena iugulare. L’immanifesto non emette suoni, luci,
profumi, ma è onnipresente, in ogni suono, in ogni luce, in ogni colore. E’ al di
là di tutti i nomi e di tutte le forme. E’ senza nome ed è l’essenza della forma.
E’ al di là della luce perché è la luce della luce. E’ al di là di tutti i suoni per-
ché è il suono primordiale da cui tutti i suoni derivano ed è al di là del suono
primordiale, è Supremo Silenzio. E’ al di là di tutti gli insegnanti e di tutti gli
insegnamenti, di tutti i santi e di tutti i beati, di tutti i maestri, di tutti i guru, di
tutte le pratiche e di tutte le preghiere. E’ il Supremo Maestro, Il Guru Sublime
non manifesto. E’ al di là di tutte le cose mortali, di tutto ciò che decade. E’
l’Assoluta Realtà immortale e imperitura. E’ al di là del tempo perché è l’Eter-
no senza tempo. E’ al di là dello spazio perché è l’unica Realtà illimitata. E’ al
di là del movimento perché è il Motore immobile, fonte di ogni movimento.
E’ la totalità dell’esistenza sia animata che inanimata, senziente o insenziente.
Non ha né principio né fine e quindi non ha nemmeno esistenza intermedia tra
il principio e la fine. E’ l’unico scopo di ogni ricerca, di ogni sentimento, di
ogni emozione, di ogni senso, di ogni organo.
Se è tutto ciò come trovarlo, dove trovarlo?

Vi è gioia solo nell’Infinito. Nel finito non vi è gioia. La gioia è


l’Infinito, ma bisogna volerlo conoscere. Oh Signore, io voglio
conoscere l’Infinito. L’Infinito è in basso e in alto, ad ovest, a
est, a sud a nord. Esso è tutto ciò che esiste.
(Chandogya Upanishad – 7.4)

37
L’oceano di Brahman è permeato di nettare, la gioia del Sé. Il
tesoro che là ho trovato non può essere descritto in parole. E’ in-
concepibile. La mia mente si immerge nel vasto spazio dell’oce-
ano di Brahman. Anche soltanto toccando una goccia di questo
nettare io mi fondo in esso e divengo uno con il mio Dio. E ora
dimoro nella gioia del Sé.
(Adi Shankaracharya – Vivekachudamani 482)
La tua natura è non conoscenza, e sconosciuta è la tua realtà. Tu
indiviso esisti ovunque nella tua pienezza. Tu Uno, infinito. Io
desidero conoscerti. (Sarasvatitotra – Tantrasara)
Egli è senza inizio, né fine, immenso, illimitato, non mosso da
nulla. E’ indipendente, asessuato, immutabile, infinitamente po-
tente. Egli è la Luce che illumina. (Maitri Upanishad – 7.2)
Dio, l’unico, esisteva prima di ogni cosa. Egli è il maestro di
tutti e tutti tendono a Lui anche se lo identificano in modi vari e
differenti. (Srimad Bhagavatam – 3.5.23).
Dio è una fontana che fluisce eternamente solo in se stesso.
(San Dionisio)
Il Sommo Ben che solo Esso a sé piace.
(Dante Alighieri – Purgatorio – XXVIII. 91)

Scrive Williamson: “La nota fondamentale delle antiche Upanishad è: Conosci


te stesso, ma con un significato assai più profondo di quello del gnoti se auton
dell’oracolo delfico. Il conosci te stesso delle Upanishad significa conosci il
tuo vero Sé, quello che è alla base del tuo Essere. Trovalo e conoscilo nel
più alto, nell’eterno Sé, l’Uno senza secondo, che è il fondamento dell’intera
creazione”.51
Il Sé che è alla base della intera creazione è così descritto nella Brihadaranya-
ka Upanishad: “Quello che dimora nella mente e dentro la mente, che la mente
non conosce, il cui corpo è la mente e che regola la mente dentro, Egli è il tuo
Sé, il duce supremo, l’immortale”.52
“Questo Brahman è non visto, ma vede; non udito, ma ode; non percepito, ma
percepisce; non conosciuto, ma conosce”.53
“Se un uomo chiaramente discerne questo Sé come Dio e come il Signore di

51 Williamson – La legge suprema, Edizioni Teosofiche Italiane 1981– cap.XI pag.152


52 Brihadaranyaka Upanishad –3.7–20
53 Brihadaranyaka Upanishad – 3.8–11

38
tutto quello che è e sarà, egli allora non teme più nulla”.54
La Chandogya Upanishad lo indica come: “Ora quella Luce che brilla su que-
sto cielo, più alta di tutto, più alta di ogni cosa al mondo, al di là della quale non
esistono altri mondi, quella è la stessa Luce che è dentro all’uomo”.55
“Il Purusha che dimora all’interno, sempre dimorante nel cuore dell’uomo,
è percepito dal cuore, dal pensiero e dalla mente. Coloro che lo conoscono
diventano immortali. Esso soltanto è tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà.
Esso è pure il Signore dell’immortalità. Esso conosce ciò che può essere co-
nosciuto, ma nessuno lo conosce. Lo chiamano il Primo, la Grande Persona.
Non vi sono immagini di Lui, il cui nome è la Grande Gloria. La sua forma non
può essere vista. Nessuno lo percepisce con gli occhi. Coloro che per mezzo
del cuore e della mente lo conoscono, così dimorante nel cuor loro, divengono
immortali”.56

DIO ESISTE
Ho fatto una osservazione importante all’inizio di questa sezione. Ho detto:
“non solo Dio è, ma esiste”. Può e deve essere quindi trovato sia nella “esisten-
za” che “nell’esistente”.
I grandi Maestri di tutte le tradizioni sono venuti su questo pianeta solo per
insegnarci proprio questo, come essere uno con Dio, come tornare alla pura
esperienza della nostra natura essenziale.
Ad esempio S.Attanasio, S.Ireneo, S.Cirillo di Alessandria, Meister Eckhart,
Jacob Boehme ci hanno lasciato una certezza preziosa. Tutti hanno detto:
“Dio divenne uomo perché l’uomo divenga Dio”.

Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo “partecipi della na-


tura divina”. (Bibbia – 2 Pietro – 1.4)
Infatti il figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio. (S.Attanasio
di Alessandria – De Incarnazione – 54.3)
Unigenitus Dei Filius, suae divinitatis volens nos esse parteci-
pes, naturam nostram assumpsit, ut Domines deos faceret cactus
homo. “L’unigenito figlio di Dio, volendo che noi fossimo par-
tecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché fatto
uomo, facesse gli uomini dei”. (S.Tommaso – Opusculum – 57)

54 Idem – 4. 4 –15
55 Chandogya Upanishad – 3.13. 7
56 Svetasvatara Upanishad – 3.13–19

39
Egli non ha bisogno di alcuno, poiché prima di Lui non ci fu nes-
suno. Egli non ha bisogno di vita, perché è eterno. Egli di nulla
manca, poiché è totalmente perfetto. Egli essendo imperfettibile
non ha bisogno di nulla che lo renda perfetto, bensì in ogni mo-
mento è assolutamente perfetto, nella luce. Egli è illimitato, per-
ché non ci fu alcuno prima di Lui che gli ha posto dei limiti. Egli
è incommensurabile, perché non ci fu alcuno prima di Lui che
lo abbia potuto misurare. Egli è invisibile, poiché nessuno lo ha
visto. Egli è eterno ed allo stesso momento esiste eternamente.
(Apocrifo di Giovanni – 3.1)
Entrando in se stesso, il saggio giunge a ravvisare il Dio che è
difficile da concepire, che è penetrato nel segreto, posto nell’in-
timo del cuore. Egli abbandona così gioie e dolori.
(Katha Upanishad – 1.2.12)

Vi è quindi in tutti la incrollabile certezza che l’uomo possa divenire Dio. Que-
sta non può che essere l’unica ragione della vita umana. Ce lo conferma Gesù
nel Vangelo di Matteo, quando conclude il suo vero, grande messaggio che ci
fa cristiani: “Siate quindi perfetti come il Padre vostro celeste”.
(Vangelo di Matteo – 5, 48)
La via da percorrere per giungere al riconoscimento pieno della nostra natura
divina è stata desiderata, cercata, seguita, per secoli e secoli, da un gran nu-
mero di veri “sadhaka”, di veri cercatori della Verità, in ogni epoca ed in ogni
latitudine, ma è stata scoperta soltanto da coloro che hanno avuto la costanza
di persistere nelle loro certezze, di fermarsi sempre più a lungo nell’interno del
loro cuore, nel silenzio più assoluto della loro mente.
Le scritture dicono che il silenzio è lo stato che trasforma la mente quando
abbiamo l’esperienza di Dio, la visione della Trinità.
Quindi l’esperienza del silenzio ci può portare alla “Suprema Avventura” del
contatto con la nostra energia fondamentale.
Da quel momento potremo sperimentare il silenzio in ogni azione, in ogni
parola, in ogni pensiero.
Questo è uno stato che sentiremo arrivare quando le nostre azioni, non solo
sono permeate di silenzio, ma inducono quiete negli altri, nell’ambiente che
ci circonda.
Osservate le vostre parole. Se inducono silenzio in altri, siete sulla buona stra-
da. Se i vostri pensieri portano in loro stessi il potere del silenzio, allora Dio
parlerà anche ad altri attraverso di voi. Parleremo più a lungo del silenzio e del

40
suo rapporto con noi e con Dio nel capitolo IL MISTERO DEL SILENZIO.
Per ora limitiamoci a dire con Meister Eckhart: “Dio parla nel silenzio”.
Scrive un inno dell’Atharva Veda:
“Il vostro intero essere scintilla di Coscienza, il vostro intero essere è immerso
nell’estasi del Sé. In questo stato vi è solo e soltanto assoluto silenzio, che si
trasforma per alchimia in totale conoscenza, totale libertà”.57
Un grande maestro di meditazione indiano descriveva il raggiungimento
dell’esperienza della nostra natura divina come la conquista di un forte circon-
dato da avamposti.
Il forte è la nostra mente, gli avamposti le grandi contaminazioni della nostra
mente, le strutture che abbiamo costruito a difesa delle nostre limitazioni, in
altre parole, le varie manifestazioni del nostro ego. Solo quando riusciremo a
destrutturare il nostro ego e a superare le limitazioni della nostra mente, che
sono, insieme, il nostro senso di separazione, di lontananza dal Divino che è
in noi, solo allora Dio si mostrerà nella sua vera natura, che è assenza totale di
qualsiasi forma, di qualsiasi qualità, ma solo semplice esperienza di trascen-
denza luminosa.
Questa è l’esperienza dei santi, dei mistici, dei grandi esseri di tutte le reli-
gioni e di tutte le vie di conoscenza verso la verità. Giovanni di Ruysbroec
dice: “L’unione dello spirito umano con Dio si forma nell’intimità interiore
e nell’attività esteriore. Nell’intimità della profondità, lo spirito va davanti a
Cristo e, senza intermediari, lo abbraccia. Lo spirito si presenta nudo”.58
Quando parlo di vie, compio volontariamente un errore negato dall’esperienza.
Chi giunge ad unirsi alla sua vera natura divina, anche solo per un istante, sa
per certo che in quella esperienza sublime non vi è né via né mèta, né qualità
né forma, né spazio e neppure tempo. Non vi è nemmeno l’istante che abbia-
mo detto prima, ma semplicemente Assoluto ed Eterno, cioè assenza di ogni
manifestazione comunque espressa.59 Il grande maestro dello yoga Maharishi
Patanjali ha condensato questa verità nei primi sutra dei suoi Yogasutra.
Sutra 2: “Lo Yoga è la cessazione delle modificazioni della mente”.
Sutra 3: “Allora l’osservatore dimora nella sua vera natura essenziale”.
Questo raggiungimento può avvenire soltanto in due modi: con la conquista

57 Atharva Veda – X, 25, inno 36.


58 S.Giovanni di Ruysbroec –La vita divina, Ed. Oscar Mondadori –1.26.
59 “Ora, questo incontro, questa unità che lo Spirito d’amore persegue e possiede in Dio, senza
intermediari, nel raggiungimento dell’essenza, eccede e sorpassa ogni intelligenza, a meno
che l’intelligenza, uscendo fuori di se stessa, non abbia seguito la Luce nelle regioni ove
tutto è semplice”. (Giovanni di Ruysbroec – La luce divina– 2.28)

41
del forte, direttamente. In questo modo non dobbiamo preoccuparci troppo
delle strutture egoiche. Esse cadranno automaticamente nel tempo, perché re-
steranno senza sostentamento. Potremmo anche conquistare sistematicamente,
e purtroppo con notevole sforzo e sacrificio, i vari avamposti, per dare poi
l’attacco finale al forte. Il primo sistema è seguito da coloro che praticano la
meditazione o la concentrazione. Il secondo da coloro che praticano la con-
templazione, o la sistematica padronanza dei loro sensi, dei loro istinti, delle
loro emozioni, dei loro pensieri e dei loro organi dell’azione. La scelta della
via dipende dal carattere del cercatore, dalla tradizione in cui vive, dal maestro
che incontra, dalla struttura egoica che si è costruito a difesa delle limitazioni
della propria mente. Descriverò questa straordinaria avventura nel capitolo IL
MISTERO DELLA MENTE e darò anche alcune pratiche iniziali che possono
permettere al cercatore di orientare la sua ricerca su una delle due vie di co-
noscenza.

“L’unità, considerata in se stessa, dimora al di sopra degli atti


che si compiono per essa, ma tutte le forze dell’anima, nell’im-
minenza delle loro operazioni, ricevono potenza e virtù quan-
do toccano questo fondo, questa origine, questa sorgente che è
l’essenza stessa dello Spirito. E’ in questa unità che lo spirito
dell’uomo incontra, per sua grazia e per sua virtù, la somiglianza
divina (…). La rassomiglianza divina è figlia della Luce deifor-
me, senza Essa l’unione soprannaturale è assolutamente impos-
sibile. (Giovanni di Ruysbroec – La vita divina – 2.27)

Scrive Aldous Huxley: “Il Sé, realizzato nella vostra più intima coscienza ap-
pare nella sua purezza. Esso è Tathagatagarbha (letteralmente: il ventre di Bud-
dha) che non è il regno di coloro che si sono dati al puro ragionamento”.60
Il Rig Veda sintetizza questi principi in due Mahavakya, grandi affermazioni:
1. La conoscenza è strutturata nella Coscienza.
2. La conoscenza è diversa ai diversi livelli di consapevolezza.
La tradizione indiana, a ragione, distingue tra Coscienza e consapevolezza.
La Coscienza è la conoscenza dell’Assoluto in se stesso, la Buddhi del Vedan-
ta, l’Intelligenza cosmica.
La consapevolezza è la conoscenza del relativo, la conoscenza che la mente
può acquisire attraverso l’intelligenza umana individuale.

60 Aldous Huxley – La filosofia perenne – Ed. Adelphi pag.23

42
Con questa spiegazione divengono più chiari i due Mahavakya.
Aldous Huxley li commenta così nel suo libro La filosofia perenne61: “La co-
noscenza è una funzione dell’Essere (…) con lo sviluppo dell’individuo la sua
conoscenza diviene più concettuale e sistematica quanto alla forma, mentre
aumenta notevolmente il suo contenuto utilitario e strumentale. (…) La co-
noscenza cui non potremo mai attingere, restando ciò che siamo, può essere
raggiungibile per mezzo di facoltà più alte e di una vita superiore che noi
possiamo acquisire”.
Gesù esprime lo stesso principio dicendo: “Beati i puri di cuore, perché essi
vedranno Dio”.62
Vorrei qui approfondire maggiormente la via maestra per poter giungere
all’esperienza, sempre più profonda del Divino trascendente, del Samadhi
come dicono gli Yogi, dell’unione mistica, come la chiama S.Teresa d’Avila, a
quella luce divina di cui parlano tutti i grandi mistici. Essa è la meditazione.
Nella semantica occidentale vi è una grande confusione tra meditazione e con-
templazione. Si pensa che la meditazione sia un approfondimento intellettuale
di un concetto, di una parola, di una frase delle Scritture.
Spesso ricevo questa domanda: “Cosa pensi quando mediti?”
La mia risposta è molto semplice: “Non penso nulla, e sono solamente, silen-
ziosamente, dolcemente, beatificamente cosciente di quel Nulla”.
Non sono mai creduto, ma questa è la pura verità.
La meditazione per un periodo più o meno lungo di tempo si pratica, e deve
essere praticata con costanza. Poi, gradualmente, ma sempre più profonda-
mente, si cessa di praticarla. Semplicemente si è la meditazione. Si diviene
quel silenzio, quella dolcezza, quella beatitudine.
In meditazione non si usa affatto l’intelletto. Non si cerca di ottenere qualco-
sa, né di trovare soluzione a qualche problema, a qualche mistero. Non si è
disturbati dai pensieri che possono sorgere nella mente. Sono nubi superficiali
che non possono essere confuse con il cielo luminoso che è sempre esistente,
dietro o al di là di qualsiasi pensiero. Si permette loro semplicemente di esi-
stere, senza cercare di non averli, senza mandarli via, senza giudicarli, senza
attaccarsi ad essi.
Essi vengono e vanno. La meditazione non è un’analisi, sia pur profonda, ma
il riconoscimento della Coscienza illimitata che è la nostra vera natura, la vera
natura della nostra mente.

61 Aldous Huxley – La filosofia perenne – Adelphi pag.12


62 Vangelo di Matteo – 5.8

43
Dovremmo sempre ricordare quel sutra del Pratyabhijna–hridayam, che ab-
biamo già citato, e che è il grande segreto non solo della meditazione, ma della
Realtà divina: “La mente è la Suprema Coscienza che si contrae sull’oggetto
o sul pensiero percepito”.
La Suprema Coscienza, nella sua forma contratta è la mente; ma quando la
mente si volta verso l’interno e ascende nuovamente allo stato di Coscienza,
perdendo i limiti del pensiero, noi siamo “Quello”, la nostra mente scompare
nell’esperienza diretta del Divino Trascendente.
Un grande maestro di meditazione che amo molto osava dire una grande verità:
“Do less and accomplish more”: “Fai di meno e realizza di più”.
In realtà in meditazione noi non facciamo nulla. Qualcosa di straordinario av-
viene in questo “far nulla”. Abbandoniamo semplicemente e spontaneamente
tutti i nostri schemi mentali, scompare ogni differenza, ogni categoria con-
cettuale. Questa è la Verità e la Verità trascende i concetti. Ogni cosa diviene
al contempo interna ed esterna. Questo è il primo passo che infonderà poi il
relativo, ciò che abbiamo visto o udito, nella realtà dell’Assoluto.
Non è che dopo anni di meditazione l’esterno a noi non esista più, no, anzi
i sensi divengono più acuti, più selettivi, più attivi. Nel suono non si godo-
no solo più le vibrazioni superficiali, ma ci si tuffa e si sperimenta la vera e
completa realtà di tutti i livelli di vibrazione che vi sono all’interno del suono,
fino alla vera sua radice che è il silenzio. Così avverrà nella vista delle forme.
Ricordo a questo proposito una frase che Michelangelo era uso dire quando
riceveva le congratulazioni per aver saputo scolpire in così giovane età “la
pietà”, quell’opera immortale che tutti ammirano da secoli nella basilica di
S.Pietro in Roma. “Ma io non ho fatto granché. La figura della Madonna e del
Cristo erano già all’interno di quel pezzo di marmo, io ho semplicemente tirato
via tutto quello che non era quello”.
La meditazione ci porta a vivere e ad integrare tutti gli opposti: l’immobilità
nel movimento, il silenzio nel suono, la quiete nell’agitazione, la pace nella
collera, la ricchezza nell’assenza di ogni cosa, la conoscenza nell’assenza di
qualsiasi pensiero.
Questa integrazione è la prima più elementare esperienza del Divino immani-
festo nell’azione manifesta. In altre parole è l’esperienza del Dio, come esi-
stente, nella sua forma primaria di esistenza.

Mi piace chiudere questo capitolo con uno scritto di Rabindranath Tagore: “O


Donatore di Te stesso! Alla visione di Te, nostra gioia, le nostre anime, come
fiamme divampanti s’innalzano e Ti corrono incontro come le onde del fiume,

44
penetrano nel tuo essere come profumo di fiori. Dacci la forza per amare, per
amare intensamente la nostra vita con le sue gioie e i suoi dolori, i suoi beni
e le sue miserie, i suoi trionfi e le sue cadute. Fa’ che possiamo essere capaci
di comprendere pienamente il tuo universo e di svolgere in esso alacremente
la nostra attività, che possiamo vivere la pienezza della vita, che mostriamo di
saper dare e ricevere. Questa è la preghiera che ti rivolgiamo. Fa’ che la nostra
mente possa liberarsi dalla debolezza di credere che la tua gioia sia una cosa
diversa dall’attività, una cosa misera senza forma e senza continuità. Ovunque
il contadino rompe la dura terra, si manifesti nello spuntare del grano verdeg-
giante la tua gioia, ovunque l’uomo si apre una via nel folto della foresta o
spiana un terreno pietroso per costruirsi la casa, lì la tua gioia lo circondi di
pace e tranquillità. O Lavoratore dell’Universo! Noi ti preghiamo, irrompa la
corrente irresistibile della tua energia universale, come l’impetuoso vento del
Sud in primavera, per gettarsi sul vasto campo della via umana, e vi porti il
profumo dei fiori, il mormorare del boschi, renda dolce e musicale la mortale
inerzia della nostra inaridita esistenza spirituale”.63

63 Rabindranath Tagore – La vera essenza della vita, Ed. Guanda

45
CAPITOLO III
IL MISTERO DEL DIVINO TRASCENDENTE
“O somma Luce, che tanto ti levi
dai concetti mortali, alla mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria,
e per suonare un poco in questi versi,
più si concepirà di tua vittoria,
io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’io sarei smarrito,
se gli occhi miei da Lui fossero aversi.
E mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’io giunsi
l’aspetto mio col Valore Infinito.
(Dante – Paradiso – XXXIII. Verso 67)

I grandi della Chiesa e di tutte le tradizioni spirituali, nel corso dei secoli, ci
hanno guidato sulla via del Divino, proprio come Trascendente. Per averne
l’esperienza diretta, da sempre, questi grandi Maestri di Verità ci indicano una
via che a tutta prima pare difficile, ma diviene invece, in seguito, una espe-
rienza facile e semplice, anzi la più semplice, perché basata solo sul più sottile
stato della consapevolezza umana. Se rimaniamo attaccati ad una azione, ad
una parola, ad un pensiero, ad un concetto, ad un’immagine, ad un simbolo, il
contatto con il Divino Trascendente ci resta precluso.
Sant’Agostino nella De Trinitate scrive: “tolle hoc et illud”, togli questo e
quello.
La stessa espressione sarà usata poi da San Tommaso nella Summa Teologica
volume primo. E’ un’antichissima via già percorsa e consigliata dal Vedanta,
il sesto dei sei sistemi della filosofia indiana. Il Vedanta ci parla di neti neti, né
questo, né quello.

Questo è l’Atman, definibile soltanto con una formula di esclu-


sione (neti, neti). Esso è inafferrabile perché non lo si afferra,
non è soggetto a decadenza perché non decade, non è soggetto ad
attaccamento, perché non si attacca; privo di legami, non teme,
né può essere colpito. (Brhadaranyaka Upanishad – 4.5.15)
L’incorporeo è il respiro e lo spazio interno del cuore. Esso è
immortale, immobile, trascendente. Di questo aspetto incorpo-
reo, immortale, immobile, trascendente l’essenza è la persona
che risiede dell’occhio destro: essa è l’essenza di ciò che è tra-
scendente.
L’aspetto di questa persona richiama quello d’una veste zaffera-
no, d’un vello bianco, d’una coccinella, d’una fiamma, d’un fio-
re di ninfea, d’un bagliore improvviso. E simile ad un bagliore
improvviso, la fortuna tocca a colui che così sa. Ora la formula:
“neti, neti”, “non così, non così”. Non v’è cosa superiore a que-
sto “non così” (iti na). Il nome del Brahman è realtà della realtà.
I soffi vitali sono la realtà, esso è la realtà di essi”. (Brhadaran-
yaka Upanishad – 2.3.1)
Il Divino è senza forma e senza nome. Anche se noi lo indichia-
mo con dei nomi, essi non devono essere presi nel loro signifi-
cato letterale. Quando noi lo chiamiamo Uno, Buono, Esistenza,
Padre, Dio, Creatore, Signore noi cerchiamo di sovrapporgli un
nome. Non essendo capaci di fare meglio, usiamo questi ap-
pellativi onorifici in modo che la nostra mente possa posarsi su
qualcosa. (Clemente Alessandrino – Stromata – 5.12)

La vera natura di Dio non può essere compresa dai nostri pensieri. Se vi è qual-
cosa che possiamo concepire, o capire su Dio, noi stimiamo che Egli sia enor-
memente superiore a ciò che concepiamo. Ma questo è dettato solo dalla nostra
ignoranza. Egli non può essere né concepito, né capito, né pensato perché Egli
è l’origine trascendente di tutto ciò. (Origene – De Principiis – 1.1.5)

A questa affermazione segue una splendida storia. Yajnavalkya64, sul punto


di ritirarsi nella foresta a meditare partecipa alla cara moglie Maitreyi il suo
insegnamento. Ogni rapporto tra noi e il mondo dipende dall’esperienza del
Sé trascendente nell’umano manifesto. Quindi è Quello che deve essere ri-
cercato, perché Esso soltanto esiste e da Esso tutto procede ed in Esso rientra
ogni conoscenza e ogni percezione. Esiste soltanto il Sé immoto, impassibile,

64 Yajnavalkya Vajasaneya è un celebre Maestro upanishadico, cioè del Vedanta, il sesto


sistema filosofico dell’India.

47
inconoscibile.
Yajnavalkya disse: “Maitreyi, io sto proprio per andarmene di
qui e voglio quindi definire la tua situazione con Katyayani”.65
Maitreyi a sua volta disse: “O mio signore, se tutta la terra con
le sue ricchezze mi toccasse, sarei forse per questo immortale?”
“No – le rispose Yajnavalkya – la tua vita sarebbe come quella
dei ricchi, ma non dalla ricchezza si può sperare l’immortalità”.
Allora Maitreyi replicò: “Che m’importa di ciò che non mi fa
raggiungere l’immortalità? Ma ti prego, o signore, dimmi ciò
che conosci!” (…) Egli parlò: “Non a causa dell’amore per il
marito che il marito è caro, ma per amore del Sé il marito è caro.
Non a causa dell’amore per la moglie che la moglie è cara, ma
per amore del Sé la moglie è cara. Non a causa dell’amore per i
figli che i figli sono cari, ma per amore del Sé che i figli sono cari
(…) Non v’è nessun oggetto che si desideri per amore di esso
oggetto, bensì si desiderano tutti gli oggetti per amore del Sé. E’
il Sé, dunque, che bisogna guardare e sentire, è al Sé che bisogna
pensare e rivolgere la propria attenzione.
O Maitreyi, soltanto guardando, ascoltando, considerando il Sé
si conosce tutto questo universo”.66

Se restiamo legati ad una ricerca che nasce dal relativo e si conclude nel rela-
tivo, il Divino sarà irraggiungibile.
Questo ce lo conferma anche Meister Eckhart nel suo Renden der Uterwei-
sung, “Istruzioni spirituali”, quando usa l’analoga espressione “né questo, né
quello” che riprende anche il pensiero di Gregorio di Nissa (335–394) e quello
di Pseudo Dionigi l’aeropagita (I sec. d.C.).
Tutti ci spingono con decisione ad aprirci al non relativo, al non oggetto, al
non pensiero, al non concetto, per avere l’esperienza del Divino che non può
essere in nessun modo raggiunto nella sua vera essenza tramite la conoscenza
intellettuale o sensoriale.
Questo ritorno all’Uno si compie nel contatto ineffabile che Plotino definisce
“da solo a Solo”.
Sant’Agostino in De moribus manichaeorum (XIV–24) lo identifica come:
“Deum nihil aliud dicam esse, nisi adipsum esse”, “Dio null’altro si può dire

65 Katyayani è la prima moglie di Yajnavalkya, Maitreyi la seconda.


66 Brhadaranyaka Upanishad – 4,1–5

48
che sia, se non se stesso”. Dio è puro Essere o meglio, come preciserà poi la
Scolastica, in lui coincidono Essere ed essenza. La sua essenza consiste nel
Puro Essere.
Questo cammino, che è il cammino dei mistici, è visto con sospetto dalla Chie-
sa ufficiale. L’esperienza potrebbe sconfinare in posizioni che la Chiesa consi-
dera eretiche perché non inquadrabili in un contesto ben definito.
Possiamo ricordare la lotta della Chiesa contro i Catari che si diffuse a Colonia
verso la fine del XII secolo.
E’ sempre vivo il ricordo di una barbara esecuzione di un gruppo di cinque
catari fiamminghi, tra questi anche una ragazza, che, sebbene graziata, si gettò
nel fuoco per restare unita ai suoi compagni di fede.
Ma nonostante l’ostilità della Chiesa il fascino del “Trascendente” restò vivo,
in particolar modo nel mondo femminile, dapprima presso le Benedettine e poi
presso le Domenicane.
In pochi decenni sorsero diversi monasteri di Domenicane che non vollero
accettare la Regola, ma rivendicarono il diritto all’esperienza diretta del “Tra-
scendente”. Sono le Beghine che ricercarono una vita povera secondo lo spirito
evangelico. Seguirono, poco dopo, la stessa strada anche i maschi che vennero
chiamati Begardi.
Questo sentimento di indipendenza da ogni vincolo, che non sia quello interno
dell’esperienza del “Sé”, fu condannato prima dal Concilio di Lione del 1274 e
poi definitivamente dal Concilio di Vienna del 1312, nei quali queste comunità
vennero considerate “sette abbominevoli”.
A due altre grandi mistiche Hildegard di Bingen e Matilde di Magdeburgo67
fu resa la vita assai difficile per i loro libri, rispettivamente Liber Scivias (Co-
nosci le vie della Luce) di Hildegard e Licht der Gottheit (Luce fluente della
divinità) di Matilde, in cui testimoniarono la raggiunta unione con la Luce
divina tramite la meditazione, cioè l’espansione dei limiti della mente fino al
raggiungimento della “Unione mistica”.
L’atto mistico si sublima nella completa apertura alla Grazia. Di qui la metafo-
ra cara a Meister Eckhart di “rompere la scorza (Schale) che avvolge il noccio-
lo (Karn) che si trova all’interno di noi come all’interno di ogni cosa”.68
Si parla del “guscio e del nocciolo” anche nello Zohar della Kabbalah, quando
Re Salomone penetrò nel “Giardino delle noci” (Cant. 6.11) e vi scoprì il Punto

67 Hildegard di Bingen (1098–1179) – mistica benedettina ; Matilde di Magdegurgo (1212–


1280) – mistica tedesca, begina.
68 Predicazione “Vidi supra Monte Syon”

49
Supremo originario e disse: “E’ la Luminescenza intima, incommensurabile,
traslucida, sottile e pura – e vide – come il Santo, sia egli benedetto, mise in
serbo questa Luce perché gli uomini non ne godessero, ma ne potessero godere
i saggi”.
Si tratta per tutti i mistici di liberare le energie nascoste della parola divina,
cioè il nocciolo, dall’involucro che lo copre, con diversi passaggi verso il sem-
pre più sottile e poi trascendere il più sottile del relativo (contemplazione),
altrimenti l’interprete della Sacra Scrittura rimane legato al piano filosofico e
resta quindi chiuso in una lettura superficiale e scientifica.
In questa Realtà più profonda ha luogo l’incontro del verbo dell’uomo con il
Verbo di Dio. Questo incontro, come dice Gregorio di Nissa, può aver luogo
solo nel fondo dell’anima.
Per quanto la Chiesa continui ad opporsi a questa via dovrà sempre continuare
a farne i conti perché questa è veramente l’unico percorso verso l’unione e
l’unione è l’unico scopo della nostra vita.

LA DIVINITA’
Nell’esperienza più profonda della trascendenza si giunge addirittura ad una
sottilissima differenziazione, una sorta di duplice piano di realizzazione: il pia-
no di Dio inteso a livello di Essere, come Dio Creatore, il Padre, e un piano
ancora più profondo, più essenziale, oserei dire più originario dello stesso Dio,
che Meister Eckhart denomina la Divinità.
Il Divino come Divinità è tale solo nella sua immutabilità ed unicità assoluta.
Il Divino come Dio Padre, invece, è tale nel suo rapporto con l’uomo e con la
creazione.
Di Esso si potrebbe dire che non è più Assoluto, in quanto relativo alla crea-
tura.
Ogni volta che nell’orizzonte di Dio si apre la relazione tra Dio e creatura
si manifesta ovviamente il problema della molteplicità della natura stessa
dell’Uno.
Parlerò di questa Realtà più a fondo del capitolo IL MISTERO DELLA TRINI-
TA, ma desidererei qui evidenziare come la stessa esperienza di Dio come Di-
vino, cioè Assoluto immobile ed immutabile, sia possibile anche nelle pratiche
dello Shivaismo del Kashmir dove Dio come Divino è chiamato Paramashiva.
Esso poi si diversifica nella espressione trinitaria.
Così anche nell’esperienza dei grandi mistici Cabbalistici dove il Divino è
sperimentato come AIN SOF, e si diversifica poi, come vedremo, quando AIN
SOF diviene Keter, la Corona.

50
Scrive Giorgio Israel del suo libro La Kabbalah69: “Dio in se stesso in quanto
“Pura Essenza” non è concepibile né pensabile dalla mente umana la quale può
soltanto tentare di indagare la sfera dei rapporti tra Dio e il mondo, tra Dio e
la Sua creazione. La coerenza del pensiero Cabbalistico con i principi del mo-
noteismo si esprime nella affermazione radicale dell’Assoluta Trascendenza
di Dio, nella sua separatezza ed inconoscibilità da parte dell’uomo. Dio è il
Trascendente Assoluto, l’AIN SOF, ovvero “Colui che si estende senza fine”,
l’Infinito.
La Cabbalah si offre come la via per ricuperare la Tradizione dimenticata e
oscurata che conosceva la Rivelazione.70 E’ qui che si arresta la comprensione
umana. Essa non trova più nulla da capire dove vi è soltanto il Nulla.
Leo Schaya scrive:71 “nella rivelazione del roveto in fiamme, Dio chiama Se
stesso l’Essere (Ehjeh). In quanto Nulla, Egli non è né principio né fine, né
primo né ultimo, e neppure si afferma come “Essere”, come l’Uno e l’Uni-
co, o mediante qualsivoglia altro nome affermativo. Egli è il “Non–Essere, o
Sopra–Essere, senza nome, nascosto, silenzioso, esente da dualismo, limite o
condizionamento. Ma in quanto Essere egli è Primo e Ultimo: “Io il Principio
e Io l’Ultimo, fuori di me non vi è altro Dio. Chi è con me? C’è forse un Dio
fuori di me o un rifugio? Io non ne conosco”.72 “Prima di me non esistette alcun
Dio né dopo di me ce ne sarà un altro (…) Io, Io sono Dio”.73
Proprio la unicità e la semplicità assoluta del Primo Principio rendono impos-
sibile una sua identificazione con la mente o con l’intelletto.
L’Assoluto, il Primo, l’Uno è al di là di ogni attività pensante. Esso quindi non
è né una mente raziocinante né qualcosa di intellettualmente conoscibile da
parte della mente umana.
E’ là che va cercato, al di là di ogni immagine, di ogni pensiero, di ogni con-
cetto, di ogni suono. E’ là che lo troviamo, senza errore, senza difficoltà, senza
sforzo, quando la mente è trascesa e l’esperienza riposa nella pace e nell’as-
senza del limite, nella pienezza e nella beatitudine suprema, nello stato di Pura
Coscienza dell’Essere.
Solo in questo spazio assoluto, immutabile, perfettamente immobile, il Divino
può divenire Dio–Padre e quindi generare “incessantemente” il Figlio.

69 Giorgio Israel – “La Kabbalah” – pag.51


70 Qui Giorgio Israel si riferisce alle antiche tecniche di ripetizione del Nome che portavano
alla diretta esperienza del Trascendente e non soltanto ad un commento o una contemplazi-
one del significato del testo sacro.
71 Leo Schaya – L’uomo e l’Assoluto secondo la Cabbalah – pag.46 – Ed. Rusconi
72 Bibbia – Isaia – 44, 6–8
73 Bibbia – Isaia – 43, 10–13

51
Queste Verità trovano espressione nella lode Cabbalistica a Dio trascendente
che va sotto il nome di “Preghiera di Elia”: “Signore dei mondi! Tu sei l’Uno,
Tu sei il più Sublime di tutti i sublimi, il più Nascosto di tutti i nascosti. Nessun
pensiero può pensarTi, perché Tu sei essenza pura che trascende tutto il cono-
scibile. Tu hai prodotto dieci forme74, sopraformali e originanti, veri aspetti di
Te stesso e in Te stesso, di cui Tu stesso sei l’aspetto supremo e inconoscibile;
dieci forme che sono la causa di tutte le cose, forme che noi chiamiamo Se-
phiroth, per guidare per mezzo loro i mondi sconosciuti e invisibili e i mondi
visibili. Tu stesso ti avvolgi, quale massima Sephira, o Primo Principio di tutte
le cause75, in esse, e poiché Tu permani in esse quale loro unità essenziale e
indivisibile, la loro armonia permane immutata ed immutabile. Chi le pensasse
separate, spezzerebbe la Tua unità. Tu le guidi, mentre Tu stesso non sei deter-
minato da nessuno, né dall’alto, né dal basso perché tu sei contemporaneamen-
te non determinato, autodeterminante e determinante tutto, tu sei il continuo
generatore di tutto ciò che è generato”.76
In questo continuo generare Dio si dispiega come Eterno Presente.
L’esperienza ci rivela come in questa unità che avviene “nel fondo dell’anima”
il tempo si muta in eternità.
Possiamo allora accedere a quello che Santa Teresa d’Avila chiama “il matri-
monio mistico” nella stanza più intima del Castello Interiore solo attraverso
“la Grazia”, a condizione, però, che si lascino fuori tutte le qualità, tutti i nomi
che noi Gli attribuiamo, siano pur essi quelli relativi al Padre, al Figlio ed allo
Spirito Santo.
La Realtà del Divino come Dio si rivela quindi come Divinità, la cui caratteri-
stica di fondo è quella di essere senza qualità e quindi Unità Assoluta.
In questo orizzonte più profondo del Divino, al di fuori di qualsiasi manifesta-
zione di tempo, il Padre può generare il Figlio, il Verbo. “Nato dal Padre prima
di tutti i secoli” dice il Credo della nostra tradizione.
Senza questo fenomeno esistenziale della nascita “continua” di Dio, la crea-
tura non sarebbe aperta all’orizzonte del Divino eterno, ma cadrebbe, come
effettivamente avviene in coloro che non ricercano la loro “essenza”, in una
condizione di impermanenza, di continua provvisorietà, legata al tempo e allo
spazio.
Nell’esperienza della Realtà del Divino l’uomo non ha più soltanto la “consa-

74 Le dieci forme sono le dieci Sephiroth dell’ “Albero della Vita”.


75 La prima Sephira, o Primo Principio è AIN SOF, l’Assoluto trascendente.
76 Leo Schaya – L’uomo e l’Assoluto secondo la Cabbalah – pag.27

52
pevolezza dell’esistente”, di qualcosa solo soggetta e legata a tempo e spazio,
ma ha “pura Coscienza dell’Essere, dell’Esistenza”.
Grazie ad un suo desiderio struggente, alla sua ferma volontà di conoscere,
l’uomo, tramite la Grazia, può aprire la sua anima, non già soltanto a Dio, ma
al Divino Trascendente, quello che Meister Eckhart ha chiamato Gottlichkeit,
“il Divino”.
Per conoscere la Conoscenza che ci permette, senza ombra di dubbio l’espe-
rienza della Verità Ultima bisognerebbe perseguire quella stabile condizione di
“grazia” che si raggiunge solo nel vivere il meraviglioso rapporto che c’è tra
“Dio e Divinità”, e soprattutto tra “Spirito e Spiritualità”.
“Dio e Divinità sono tanto dissimili quanto il cielo lo è dalla terra – scrive
Meister Eckhart nel suo Sermone n.100 – Nolite timere eos77 in quanto Dio è il
Grande Spirito legato alle vicende umane e cioè alla creazione, alla sua parte-
cipazione alla vita e alla storia, mentre tutto quel che è nella Divinità è UNO e
come tale inconoscibile, innominabile, non manifestato.
Dio opera, la Divinità non opera, non ha nulla su cui e con cui operare.
Anche questo concetto è chiaro nei Sermoni, pag.624: “Dio e la Divinità sono
distinti dall’operare e dal non operare”.
Ecco che Eckhart, così come la grande Margherita Porete nel suo Specchio del-
le anime semplici78 distingue Got, il Dio delle varie forme religiose, da Gotheit,
la Divinità: “fondo senza fondo del quale non ci si può appropriare”.79
Questa è l’esperienza più profonda, ma anche, e solo, estremamente vera, che
chiarisce, al di là dell’uso dell’intelletto o della dialettica, come il concreto e
maschile Got, Dio, derivi dall’astratto e femminile Gotheit, Divinità o lo Spi-
rito Geist derivi da Geislicheit, Spiritualità. E’ l’ultima esperienza dell’oltre
dove cessa qualsiasi pretesa di comprensione, di possesso, di perché, di come
e, finalmente, anche di ego spirituale. Infatti la parola “Divinità” desostan-
zializza il concetto di un Dio che si possa catturare, possedere, adorare in un
tempio o in luoghi sacri, attraverso preghiere o formule, ma che può essere
invece soltanto esperienza di adorazione, di amore, di totale fusione in Spirito
e Verità, quando si diviene un solo Spirito.80
Questo è, a mio parere, il senso di diventare Dio enunciato non solo dai grandi
mistici di tutte le tradizioni, ma anche da Attanasio “Dio divenne uomo perché

77 Meister Eckhart – I sermoni– pag.622.


78 M.A.Vannier – Preface a Meister Eckhart –Ed.Arfuyen, Orbey 2004.– pag 13.
79 Meister Eckhart – I Sermoni tedeschi – pag 78–79.
80 Vangelo di Giovanni – 4.23 – S.Paolo – I lettera ai Corinzi – 6.17.

53
l’uomo divenga Dio”.81
Questa grande affermazione che ieri era sufficiente per bruciare sul rogo i co-
noscitori di Dio non era altro che la formula di Massimo il Confessore “Di-
venne per Grazia ciò che Dio è per natura” e che secondo la parola stessa di
Meister Eckhart identificava la “mente rozza dei censori ecclesiastici”82. Per
questo fu scomunicato con bolla papale in agro dominico di Giovanni XXII il
27 marzo 1329.83
Si “diviene il Divino” quando nel completo distacco da qualità, volontà, antro-
pomorfismo di un Dio si esaurisce l’egotismo, la individualità e si è completa-
mente assorbiti nell’Uno, dove scompare Dio come “altro”, la figura dell’On-
nipotente, dell’Onnisciente, dell’Onnipervadente, del Dio che dimora nei cieli
e si diviene “unus Spiritus”, un solo Spirito, uno nell’Uno, anzi come dicono i
grandi mistici tedeschi e olandesi ein einig ein, un unico Uno.84
Scriveva Angelus Silesius: “Nulla in Dio si conosce. Egli è un unico Uno. Ciò
che in Lui si conosce, questo bisogna essere”.85
Questa esperienza è stata sempre non accettata e spesso osteggiata dalla Chiesa
ufficiale, ed ancor oggi non compresa, basti leggere la seconda enciclica di
Benedetto XVI che dimostra quanto sia difficile anche per chi si proclama “vi-
cario di Cristo” essere rapiunt coelum86, e quindi essere chiari sull’esperienza
del “Dio trascendente” dovendo ricorrere, dopo 2000 anni di gestione spiritua-
le, alla Speranza di un rapporto personale con un Dio antropomorfico anziché
avere la Certezza dell’unione con la vera natura trascendente di Dio.
Nel cammino verso il Dio manifesto si glorifica allora la “sofferenza” anziché
la “beatitudine”; si enfatizza il sacrificio come “sforzo”, a volte estremo della
vita, invece della grande “pace” dell’unione.
Sorella Katrei, la grande, misteriosa figlia spirituale di Meister Eckhart scri-

81 Catechismo della Chiesa Cattolica – Cap.II.


82 “Rudes imperiti tardi, gente che taccia di eresia quel che non comprende” – G.Thery “edi-
tion critique des pieces relatives au proces d’Eckhart, contenues dans le manuscrit 336 de
la Bibliotheque de Soest”.
83 Dante reagisce nel Paradiso – canto XVIII – contro Giovanni XXII
“O miliza del ciel cu’io contemplo, / adora (prega) per color che sono in terra/ tutti sviati
dietro il malo esempio./ Già si solea con le spade far guerra/ ma or si fa togliendo or qui, or
quivi/ lo pan che il Pio Padre a nessun serra”.
“In veste di pastor lupi rapaci/ si veggion di quassù per tutti i paschi (le diocesi della
Chiesa)/ Oh difesa di Dio, perché pur giaci?” Paradiso – XXVII. 55
84 Vangelo di Giovanni – 10.30 – / 17.9
85 Angelus Silesius – Il pellegrino cherubino, Ed. Paoline – Libro I°– pag 156.
86 S. Agostino –Le confessioni 8.8.1– Città Nuova Editrice “surgunt indocti et rapiunt coelum”

54
veva: “Alcuni parlano della vita dei santi e di quanto abbiano sofferto, ma io
dico: non hanno sofferto. Con la più piccola esperienza che avevano della pre-
senza di Dio dimenticavano tutto il loro soffrire. Nel morire in Dio si diviene
privi di ogni sofferenza in tutte le cose”.
Essa dice al suo confessore: “Gioite con me, io sono divenuta Dio”.87
Questo è anche il primo e più importante messaggio del Buddha: l’estinzione
della sofferenza nel Nirvana.
Da questa esperienza di beatitudine della Coscienza dell’Essere l’anima esce
nella comprensione che dobbiamo compiere tutte le opere stabilizzati in quella
condizione al di là del tempo, al di là delle qualità, in assoluta unione.
Yogastah kuru karmani dice Veda Vyasa nella Bhagavad Gita: stabilizzato
nell’Unione compi l’azione.
Lo stesso principio è testimoniato anche da Gesù che compie tutte le opere sta-
bilizzato nel Padre. Infatti se Dio avesse mai compiuto un’opera sola al di fuori
di se stesso non sarebbe Dio. E’ così che dovremmo agire anche noi.
Mi si chiederà chi mai è in grado di vivere questo stato in maniera permanente.
Posso testimoniare che nella mia ormai lunga vita ho incontrato esseri di tutte
le tradizioni che vivono questa unione con il Divino ed operano nel mondo.
Ho incontrato Padre Pio e Madre Teresa; Anandamayi Ma e SitaRam Dass;
ho imparato da Maharishi Mahesh Yogi ed ho vissuto con il mio grande Guru
Swami Muktananda Saraswati e con la mia Gurumayi Chidvilasananda. In
loro si potevano e si possono riconoscere le cinque caratteristiche che per me
contraddistinguono chi ha realizzato Dio divenendo Lui.
Essi non pronunciano mai una parola di lamento, non si discolpano mai qual-
siasi cosa accada loro; non desiderano altro che quello che Dio desidera da loro
(nello Yoga si direbbe che “fluiscono nel Dharma”); non sono mai distratti e
parlano solo quando la loro parola è più preziosa del loro silenzio e manife-
stano totale, permanente beatitudine, quello stato che S.Francesco chiamava
“perfetta letizia”.
Diceva sorella Katrei al suo confessore: “permango stabilmente nella pura Di-
vinità in cui mai è stata immagine o forma. (…) Sappiatelo, tutto quello che
si esprime con la parola e che si propone agli uomini mediante le immagini è
soltanto un mezzo per attrarre Dio. Ma sappiate che in Dio non vi è altro che
Dio. Sappiate che nessuna anima può entrare in Dio se prima non è divenuta
Dio, giacché era Dio prima di essere creata”.88

87 Pseudo Meister Eckhart “Divenire Dio”. Pag 67“ Ed.Adelphi


88 Pseudo Meister Eckhart – “Divenire Dio” – Pag.76 – 77

55
Questa espressione di Verità Quidquid in Deo est, est Deus “ciò che è in Dio,
è Dio”, appartiene anche alla Scolastica e si legge anche nella Regulae theolo-
gicae di Anano di Lille.
Sorella Katrei prosegue poi dicendo: “Ciò che si può esprimere a parole lo col-
gono i sensi o le potenze inferiori dell’anima. Le potenze superiori dell’anima
non se ne accontentano e si spingono sempre oltre fino a giungere nell’origine.
Le nove potenze dell’anima sono tutte al servizio dell’uomo, lo traggono fuori
dalle realtà inferiori e lo aiutano a muoversi verso l’origine. Quando l’anima è
nella pienezza delle sue forze, di fronte all’origine, al di sopra di ogni cosa cre-
ata, tutte le potenze devono restare fuori. Ecco come dovete intenderlo; allora
l’anima nuda, spoglia di tutte le cose che possono prendere un nome, se ne sta
una nell’Uno, anzi si effonde nella pura Divinità come l’olio si spande su un
panno imbevendolo per intero”.89

IL DISTACCO, LA RINUNCIA
L’esperienza avviene solo attraverso il distacco, il vairagya degli Yogi, attra-
verso l’abbandono dei mistici, il lasciare la presa dei buddhisti, la svaha dei
Brahmani.
Persino Dio dovrà essere lasciato. Questo è il passo più difficile, più strazian-
te della illuminazione, perché anche la devozione, anche l’amore spirituale,
anche l’attaccamento alla realizzazione divengono non solo un impedimento,
ma una barriera all’esperienza più profonda. Solo quando l’esperienza è per-
manentemente stabilizzata, Dio, nella sua assoluta compassione, ricompensa
la creatura con un amore totale, con la vista della sua forma, con la perfetta
letizia. Ma prima la creatura dovrà rinunciare ad ogni attaccamento. Solo così
essa “sale” all’Unità con il Divino, ed il Divino non può che essere sperimen-
tato in Unità. Tutto diviene Uno. Non si tratta però di una unicità astratta, ma
di una unità dinamica.
In questa esperienza nasce la vocazione di Dio nei confronti dell’uomo, nasce
quindi il desiderio struggente di raggiungere la nostra natura divina.
Questo desiderio struggente che gli inglesi chiamano longing genera in noi un
“gusto del Divino”. Grazie a questa vocazione, che si trasforma in abbandono,
l’uomo assapora nel più profondo della sua anima, quella esperienza che in
sanscrito è chiamata satchitananda, la beatitudine della Coscienza dell’Esse-
re.
E’ questo il momento in cui l’uomo sperimenta la gioia della propria autenti-

89 Idem – Pag.78–79

56
cità.
Grazie al distacco l’anima penetra nel suo Nulla.
Solo nella coscienza di essere intrinsecamente nulla l’anima assapora la co-
scienza di essere sempre più vicina al Divino, fino all’unione in cui anche la
beatitudine cessa in una unità completa.

LA MEDITAZIONE
Questo avviene in meditazione profonda in cui si perde gradualmente, ma ine-
sorabilmente la consapevolezza del corpo per passare poi alla pura ripetizione
mentale del mantra90, la cui articolazione si destruttura in una consapevolezza
più sottile, il suono del mantra, che a sua volta si trasforma in un silenzio totale
in cui il pensiero è perduto, ogni sensazione, ogni manifestazione dell’ego,
ogni parvenza di individualità svanisce in una esperienza di Pura Coscienza
dell’Essere, che a sua volta è trascesa, attratta irresistibilmente verso “l’unio-
ne”, in una luce fortissima in cui anche la testimonianza dell’Essere si perde
nell’Unità più totale. Allora il mistero è svelato. Non vi è più mistero alcuno.
Nella Regola dei monaci cistercensi si legge: “Il monaco ascolta il mondo con
le orecchie del suo cuore. Egli lascia che la sua mente analitica riposi in devo-
zione e silenzio, in modo che il suo stesso cuore diventi una preghiera. Il suo
cuore è allora toccato ed aperto in modo che il potere di Dio agisca direttamen-
te e il monaco entri nella conoscenza del Divino in essenza e beatitudine”.
“E giunto il momento, ed è questo in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo
adorano devono adorarlo in spirito e verità”.91
Attenzione! La meditazione deve essere insegnata da un Maestro illuminato
che ha realizzato la vera natura del Divino in se stesso e soprattutto pratica
questa unione nella vita quotidiana, o da un insegnante che abbia però ricevuto
l’autorizzazione ad insegnare dal suo Guru e sia in grado di dimostrarlo. Que-
sto è di vitale importanza per non essere guidati da un cieco, come dice Gesù
nel Vangelo.
In oriente la meditazione è la pratica principale della vita di un uomo o di una
donna, la pratica che precede qualsiasi attività. La giornata comincia con una
Puja al Dio personale o al Maestro dal quale il meditante ha ricevuto il mantra
con il quale si accompagna non solo nella sua vita di veglia, ma anche nel son-

90 Mantra: la parola suono, esperienza sonora del nome di Dio, che è Dio stesso. Il primo
mantra, da cui tutti gli altri derivano, è l’OM (AUM), la forma sonora della Trinità divina,
del SatChitAnanda.
91 Vangelo di Giovanni – 4.23–24

57
no e nel sogno. E poi Atha Dhyanam: ora meditiamo!
Parleremo ancora della parola mantra. Per il momento è bene sapere che se-
condo un grande erudito, un grande Pandit, il mantra si chiama così perché
induce manana92, cioé l’assorbimento nel Divino attraverso la mente, e perché
dona trana, protezione dal carosello del ciclo delle nascita e delle morti.
Come si medita con il mantra?
Si medita come il Maestro ci ha insegnato! Non consiglio né variazioni, né
diversioni. La via è delicata e sublime e non ci è permesso inserire un nostro
“fai da te”.
Tuttavia per coloro che desiderano cominciare, per testare la loro costanza,
provo a dare alcune indicazioni essenziali:
1. Cominciate a ripetere il mantra silenziosamente.
2. E’ importante sapere che anche se la ripetizione è solo mentale di fatto non
siete voi che lo ripetete, ma esso si ripete da solo e voi state semplicemente
ad ascoltarlo.
3. Ascoltate con estrema attenzione ogni sillaba del suono del mantra.
4. Ciò che è importante, qui, è ascoltare.
5. Arriverà certamente un momento in cui non dovete più ripetere mentalmen-
te il mantra, ma il mantra ripete se stesso.
6. Portate la vostra attenzione sull’energia del mantra che è nel suo suono.
7. Quando notate una sottile pulsazione di energia, semplicemente focalizzate
la vostra attenzione su quella.
8. Lasciate che sia Lei a scegliere come presentarsi a voi.
9. Permettete di essere completamente assorbiti in quella energia.

LA CONOSCENZA COME JNANA E VIJNANA


Ermete Trismegisto scrive nel suo Corpus Hermeticus XIII trattato: “l’uomo
deve liberare la mente nel silenzio interiore. A questo punto si rivela la cono-
scenza di Dio che gli indica la strada del ritorno a Lui. Intanto gli vengono
spontaneamente le dieci virtù che lo rendono figlio dell’Uno”.
Nella Bhagavad Gita (VII.2) il Signore Krishna dice ad Arjuna, il suo discepo-
lo: “Ti esporrò la conoscenza totale (vasudevah sarvam) senza nulla omettere.
Quando avrai conosciuto questa sapienza null’altro ti rimarrà da conoscere in
questo mondo”.
L’Essere Divino è tutto, vasudevah sarvam, e di conseguenza se si ha l’espe-

92 Secondo il Vedanta “manana” rimuove da un aspirante il dubbio che gli impedisce il cos-
tante pensiero su Brahman, l’Assoluto.

58
rienza della Sua Essenza tutto è conosciuto, non soltanto il puro Sé, ma anche
la natura, il mondo, il pensiero, l’azione.
La vera conoscenza che supera la dualità e riporta l’uomo alla sua vera natura
divina ha due aspetti che in sanscrito vengono indicati con le parole jnana, la
conoscenza diretta del Divino Trascendente, e vijnana, la conoscenza contem-
plata dei principi dell’esistente. Nella tradizione dell’India vengono identificati
come Purusha, il Dio manifesto e la conoscenza di Prakriti, la natura primor-
diale.
L’insieme di questi due aspetti ci permetterà di conoscere tutto ciò che è con-
tenuto nell’origine divina e nella suprema verità della sua natura. Questa cono-
scenza nell’uomo è rara e difficile da ottenere.
“Tra migliaia di uomini, uno solo tenta di raggiungere la perfezione e tra co-
loro che la raggiungono appena uno su mille riesce a conoscermi nei miei
principi”. (Bhagavad Gita – VII.3).
Ancora una volta la Bhagavad Gita è di fronte alla realtà divina nella sua inte-
rezza, come natura della creazione e come essenza dell’Essere. Chiama questa
espressione duale dell’Uno “la mia natura inferiore (Paraprakriti), e la mia
natura suprema (Purushottama)”.
“Io sono la matrice di tutti gli esseri (VII.6) Io sono l’origine di questo univer-
so e anche la sua dissoluzione. Al di là di Me non vi è nulla di Supremo”.
Mi viene ora in mente quanta identità vi è con l’espressione di Gesù: “Io sono
l’alfa e l’omega”.93

“Getta questo sale nell’acqua, poi domattina avvicinati a me”.


E quello così fece. Poi il padre gli disse: “Prendi dunque il sale
che ieri sera hai gettato nell’acqua”. Egli lo cercò ma non riuscì
a trovarlo; era completamente sparito.
“Orsù, bevi un sorso d’acqua prendendolo da un lato. Com’è?”.
“E’ salata”. “Bevine un po’ prendendola nel mezzo. Com’è?”
“E’ salata”. “Ora bevine un altro po’ prendendola dall’altro lato.
Com’è?”. “E’ salata”. “Mangiaci, ora, sopra qualcosa di sala-
to come controprova, poi siediti vicino a me”. Quello cosi fece
e disse: “E’ sempre lo stesso, è sempre salata”. Il padre allora
disse: “O caro tu non vedi quello che rende salato tutto ciò, ep-
pure c’è sicuramente. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto
l’universo è costituito da Essa. Essa è la vera Realtà, Essa è l’At-

93 Nell’Apocalisse di Giovanni viene ripetuta ben tre volte: 1.8 / 21.6 / 22.13.

59
man. Essa sei tu Svetaketu”. (Chandogya Upanishad – 6.12)
Chi ha la conoscenza sa da dove è venuto e dove va. Lo sa come
un ubriaco che si risveglia dalle sua ubriachezza, che è tornato in
sé ed ha ristabilito il contatto con il suo vero essere, la sua essen-
za divina. (da il Vangelo della Verità – NAG HAMMADI)

Kahlil Gibran scrive nel “Profeta”: “Come ognuno di voi è solo nella cono-
scenza di Dio, così in solitudine ognuno di voi deve cercare la conoscenza di
Dio e la comprensione del mondo”.
Allora il mistero è svelato, non vi è più alcun mistero.
Non solo Dio, ma la Divinità si è svelata, non in un abbraccio, ma conceden-
dosi tutta intera in una meravigliosa essenza luminosa, dove non vi è più il
desiderio di conoscere, perché non vi è più nulla che non sia conosciuto, ma vi
è soltanto una totale esperienza di Essere.

Soltanto Shiva esisteva, solo. Egli era l’indefettibile, il fausto


splendore di mille soli. (Svetasvatara Upanishad – 4.19)
Là il sole non splende, né la luna dà luce, né brucia alcun fuoco,
però la luce della mia gloria è presente simile a mille soli. (Bha-
gavad Gita – XV.6)
Lo splendore di mille soli, sorti insieme nel cielo, solo questo po-
trebbe somigliare allo splendore di quello stato. (idem – XI.12)
Nuovamente ispirato da Te sono entrato in me stesso. Sotto la
Tua guida sono entrato nell’intimità del mio cuore. L’ho potuto
fare perché Tu sei diventato il mio aiuto. Entrai e vidi con l’oc-
chio dell’anima, dovunque esso sia, una luce immutabile al di là
del mio sguardo interiore e della mia intelligenza. Non era una
luce che può essere vista sulla terra, che ognuno può osservare
liberamente. Era una luce molto più forte di ogni altra mai vista
e così intensa da penetrare ogni cosa. Era una luce molto diffe-
rente dalla luce del mondo manifesto. Era la luce che mi aveva
creato. Chi conosce la Verità vede questa luce. (S.Agostino)
La natura di tutte le cose è aperta alla nostra consapevolezza,
vuota e nuda come il cielo, luminoso, vuoto, senza centro né
circonferenza, il puro nudo Rigpa sorge.
(Il libro tibetano dei morti)
Si mostra loro la Divina Essenza immediatamente, nuda, chia-
ramente e apertamente, ed essi godono della loro stessa Essenza

60
Divina. (Benedetto XII – Benedectus Deus)
Se qualcuno vi chiede: “Da dove venite?” rispondete loro: “Noi
siamo usciti dalla Luce, di là dove la Luce si forma uscendo
dall’Uno”. (Vangelo di San Tommaso – 50)
Un solo atomo di quella Luce val più di mille paradisi.
(Bastami – poeta sufi)
Dio è la Luce dei cieli e della terra ……. Come lampada in un
cristallo simile ad una stella lucente ……. Egli è Luce su Luce.
(Corano – XXVIII. 88)

Le Upanishad lo onorano con un inno che riassume la pienezza del Dio tra-
scendente sia nell’esperienza dell’Illimitato, sia nell’esperienza dei limiti:

Om purnamadah purnamidam
Purnat purmamudacyate
Purnasya purnamadaya
Purnamevavasisyate
Om. Quello é perfetto. Questo é perfetto.
Dal perfetto nasce il perfetto.
Se dal perfetto è preso il perfetto,
il perfetto rimane perfetto.

Più o meno nello stesso periodo di tempo, ma in tutt’altra parte della terra un
profeta ebraico scriveva: “Egli è Eternità e a Lui nulla può essere aggiunto, né
può diminuire”.94
Anche in Cina il grande Chuang Tze cantava: “Per continuare a versare senza
che sia mai pieno, e poter attingere senza che sia mai vuoto, senza conoscere
perché e come questo avviene, Questo può essere chiamato: Colui che si na-
sconde nella luce.
Nella nostra tradizione Meister Eckhart ha la stessa esperienza: “Il Principio è
un Infinito che nessuno può aumentare o diminuire”.
Ma, attenti, in questo Infinito noi possiamo entrare e dimorare, qui e ora. Vi
possiamo entrare ogni volta che trascendiamo i limiti del mondo manifesto,
che espandiamo lo spazio fino all’Illimitato e il tempo fino all’Eterno. Questo
è il nostro più sublime diritto di nascita. Perché dovremmo perderlo trinceran-
doci dietro a una rinunzia che chiamiamo mistero?

94 Bibbia – Ecclesiaste – 42.21.

61
Scrive Gregorio di Nazianzo95 nel suo Apologia – inno a Dio:

Tu sei al di là, al di là di tutto.


Quale altro nome potrebbe essere il tuo?
Quale inno può cantare le tue lodi?
Nessuna parola sarebbe sufficiente.
Tu solo sei ineffabile.
Di ogni voce sei la sorgente.
Tu solo sei l’inconoscibile,
da te ogni pensiero origina.
Ogni cosa ci dice la tua grandezza,
le cose che parlano e quelle mute.
Ogni cosa esprime la tua gloria,
quelle che hanno senso e quelle senza senso.
I desideri di tutte le tue creature
sono contenuti in questo unico desiderio struggente
di fondersi in Te. Per questo ti pregano
con parole o con il loro silenzio.
Per Te tutti son fermi,
per Te tutti si muovono.
Di tutti gli esseri tu sei la mèta.
Tu sei Uno, tu sei tutti, tu sei nessuno.
Non una cosa, non tutte le cose.
Tu hai tutti i nomi, eppure come ti devo chiamare?
Tu sei l’innominabile.
Quale mente umana può superare il velo che ti nasconde?
Sii benevolo con noi ora, ti preghiamo,
Tu che sei al di là, al di là di tutto.
Nessun altro nome potrebbe essere il tuo.

Questa ricerca del Dio Trascendente è sempre stata la suprema avventura


dell’uomo. Coloro che non si accontentano di fare la strada a metà, coloro che
hanno realizzato che molte vie spirituali partono dalla fase del Dio Personale,
e desiderano invece conoscere il Divino al di là del limite, quello che abbiamo
chiamato il “Dio al di là di Dio”, si sono gettati nella loro ricerca, non più an-

95 Gregorio di Nazianzo: santo, Padre della Chiesa, compilò con Basilio la Filocalia di Ori-
gene. E’ con S.Basilio e Gragorio di Nissa uno dei Padri Cappadoci.

62
corati a schemi religiosi, a precetti o comandamenti, a centri di potere, palesi
od occulti. Hanno vissuto, a volte sofferto, molto spesso pagato, questa loro
spinta, felici soltanto di essere certi delle loro esperienze personali, soggettive
che li conducevano sempre più profondamente verso l’unione con l’Amato.
Due di questi esseri coraggiosi, provenienti da esperienze religiose diverse,
si sono uniti per aprire, a chi lo volesse sperimentare, un cammino spirituale,
in piena libertà di spirito, o come dice Gesù nel discorso delle Beatitudini, in
“purezza di cuore”.
I loro nomi sono: Sri Swami Brahmabandhab Upadhyaya e Padre Henry La
Saux.
Il primo ha scritto un inno al Divino, nel suo aspetto di Essere, Coscienza e
Beatitudine:

Adoro Satchitananda
Essere, Coscienza e Beatitudine,
non riconosciuto da chi parla troppo,
desiderio, invece, dei Santi, mèta suprema,
il più alto, l’eterno, l’Uno ad di là di ogni cosa.
Pienezza indivisa,
vicinissimo, e pur tuttavia inaccessibile,
triplice in se stesso, e pur tuttavia assolutamente semplice,
pura consapevolezza,
segreto più intimo, impenetrabile.
Padre, sorgente di tutto,
sovrano Signore, mai nato,
seme non piantato dell’albero della vita,
causa universale, che crea con il suo sguardo,
che provvede a tutto.
Parola proferita nel silenzio assoluto, infinito,
il Figlio dell’uomo, generato, pieno di gloria,
immagine del Padre,
pensiero esistente, salvatore,
originato dall’unione tra l’Essere (sat) e la Coscienza (chit),
Spirito di grazia, beatitudine, sostanziale,
purificatore, leggero e libero,
voce della voce, donatore di vita.96

96 Sri Swami Brahmabanhab Upadhyaya – Satchitananda – pag.203–204

63
Questo inno, è stato composto in India da Sri Swami Brahmabandhab Upadya-
ya e tradotto dal sanscrito da Padre Henri La Saux.
I loro tentativi, più volte reiterati, di creare un Ashram (Shantivanam), dove
le due tradizioni Advaita Vedanta e Cristianesimo potessero essere vissute in
armonia verso il comune obiettivo dell’unione con Dio, trovarono la ferma
opposizione della Chiesa, ed ebbero quindi vita breve.
Scrive Padre Henri La Saux nel commento a questo inno: “Upadhyaya tentò
con tutte le sue forze di aiutare la Chiesa, in India, a divenire veramente in-
diana, e liberarsi di tutti gli impedimenti europei che sono divenuti pesanti e
limitanti. Pensava di poter offrire a tutti in questo modo uno sviluppo interiore
e possibilità reali di vivere il Divino nella vita quotidiana. Egli ha sognato
una teologia ed una liturgia che esprimesse e celebrasse realmente la fede e
l’insegnamento del Cristo con l’aiuto della profonda intuizione dell’anima in-
duista. Ma numerose incomprensioni e dolorosi confronti lo hanno spinto ad
abbandonare il progetto”.
E’ a causa del nostro modo di pensare erroneo che facciamo delle distinzioni
tra noi e l’Anima Suprema. Pensare di essere separati e diversi dal Supremo
Spirito è la causa della nostra caduta nell’ignoranza dalla nostra santità ori-
ginaria e dall’immagine di Dio, nel quale l’uomo fu concepito e fu infuso di
Spirito Santo.
Rimanere nel cuore dello Spirito Divino, eppure pensare di vivere separati da
lui, è la causa della nostra oscurità su questo piano di esistenza.
La nostra coscienza di essere l’Intelligenza Creativa, essendo viziata da vari
pensieri della nostra mente, diviene la radice della nostra attività, mentre la
pura coscienza di io sono è libera da tutte le azioni e le energie.

Altre grandi menti hanno avuto vita assai difficile perché il loro modo di vivere
la spiritualità non era conforme all’interpretazione della Bibbia ed all’insegna-
mento della Chiesa cattolica. Tutti ricorderanno l’assurdo processo a Galileo
Galilei, tutti forse invece non sanno, o non vogliono sapere, quanti Maestri
alchemici sono stati bruciati sul rogo dai giudici dell’Inquisizione. Ancor oggi
la spiritualità dei grandi scienziati viene contrastata con tutte le forze dai Papi
esistenti, basti vivere con interesse la battaglia della Santa Sede contro l’uso
delle cellule staminali embrionali; eppure Einstein nel capitolo Religione e
Scienza di quello scritto che io giudico il suo testamento spirituale dice: “Diffi-
cilmente troverete uno spirito profondo nell’indagine scientifica senza una sua
caratteristica religiosità. Ma questa religiosità si distingue da quella dell’uomo
semplice. Per quest’ultimo Dio è un essere da cui spera protezione e di cui

64
teme il castigo, un essere col quale corrono, in una certa misura, relazioni per-
sonali, per quanto rispettose siano. E’ un sentimento elevato della stessa natura
dei rapporti tra figlio e padre. Al contrario, il sapiente è compenetrato dal senso
della causalità per tutto ciò che avviene. Per lui l’avvenire non comporta una
minore decisione ed un minore impegno del passato; la morale non ha nulla
di divino, è una questione puramente umana. La sua religiosità consiste nel-
la ammirazione estasiata delle leggi della natura; gli si rivela una mente così
superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è
al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo. Questo sentimento è il
leit–motiv della vita e degli sforzi dello scienziato nella misura in cui può af-
francarsi dalla tirannia dei propri egoistici desideri. Indubbiamente questo sen-
timento è parente assai prossimo di quello che hanno provato le menti creatrici
religiose di tutti i tempi. (…) Nell’uomo primitivo è in primo luogo la paura
che suscita l’idea religiosa; paura della fame, delle bestie feroci, delle malattie,
della morte. Siccome, in questo stato inferiore, le idee sulle relazioni causali
sono di regola assai limitate, lo spirito umano immagina esseri più o meno ana-
loghi a noi dalla cui volontà e dalla cui azione dipendono gli eventi avversi e
temibili e crede di poter disporre favorevolmente di questi esseri con azioni ed
offerte, le quali, secondo la fede tramandata di tempo in tempo, devono placarli
e renderli benigni. E in questo senso io chiamo questa religione la religione
del terrore; la quale, se non creata, è stata almeno rafforzata e resa stabile dal
formarsi di una casta sacerdotale particolare che si dice intermediaria tra questi
esseri temuti e il popolo e fonda su questo privilegio la sua posizione dominan-
te. (…) Ma vi è in ogni caso un altro grado della vita religiosa, sebbene assai
raro nella sua espressione pura ed è quello della religiosità cosmica. Essa non
può essere pienamente compresa da chi non la sente poiché non vi corrisponde
nessuna idea di un Dio antropomorfico. L’individuo, in questa religiosità co-
smica è cosciente della vanità delle aspirazioni e degli obiettivi umani e, per
contro, riconosce l’impronta sublime e l’ordine ammirabile che si manifestano
tanto nella natura quanto nel mondo del pensiero. L’esistenza individuale gli
dà l’impressione di una prigione e vuole vivere nella piena conoscenza di tutto
ciò che è, nella sua unità universale e nel suo senso più profondo”.97

IL SIMBOLO
L’uomo, consapevole della sua natura divina e profondamente spinto verso la
riunione con la propria natura essenziale, ha cercato in ogni tempo ed in ogni

97 Albert Einstein – Come io vedo il mondo – Newton–Compton Editori pag.22

65
luogo, con ogni mezzo di trovare la via verso l’unità con il suo Dio.
“Kena margena bho svamin dehi brahmamayo bhavet” “O Signore, seguendo
quale cammino un’anima incarnata può unirsi a Brahman, la Realtà assolu-
ta?” urla l’umanità nella veste di Parvati, nella Guru Gita, la parte finale degli
Skanda Purana.
Non essendo capace di relazionarsi direttamente con l’Assoluto immanifesto,
vincolato come è alle contrazioni del relativo, l’uomo ha cercato altre vie. Ha
creato numerose religioni, per rilegare se stesso al suo Amato, ha creato tradi-
zioni e liturgie, comandamenti e precetti, lodi e Scritture, canti e musiche, che
hanno sempre avuto un grave problema: create per portare l’uomo al trascen-
dente lo hanno sempre più vincolato a quel relativo che volevano superare.
La Guru Gita conferma quanto dico nei versi 6°–7°–8°: “I Veda98, gli Shastra99,
i Purana100, i racconti storici e gli altri scritti, la scienza dei mantra, gli yantra101
e così di seguito; le Smrti102, le liturgie, i trattati su Shiva e Shakti e vari altri
testi causano in questo mondo la caduta di coloro la cui mente è preda dell’il-
lusione. Stolti sono coloro che si impegnano in sacrifici rituali, voti, penitenze,
japa103, beneficenze e pellegrinaggi, senza conoscere il principio del Guru”.
Tra i tanti tentativi ve ne è uno che vale la pena di prendere in considerazione.
Il simbolo.
Una via segreta, ma straordinaria, per aprire la consapevolezza umana al “si-
gnificato senza significato” dell’Immanifesto, della Verità, è sempre stato il
simbolo.
Nato per gli iniziati, come qualsiasi insegnamento, è stato poi dato a tutti e,
come sempre avviene, ha perso le grandi possibilità che ha in sé.
Toth, il dio della Sapienza, nella tradizione dell’antico Egitto, dice, parlando di
Dio: “Nei simboli fece iscrivere la Verità”.104
Desidero chiarire brevemente, ora, cosa si intende per simbolo. Il termine che
è di origine greca (sunballo), vuol dire: sintesi di qualcosa, istanza di unio-
ne, riunione di significati diversi tendenti ad un unico punto di concordanza,
spinta verso l’Uno. Il punto di concordanza si identifica poi con un’immagine
simbolica. Questi diversi significati che si riuniscono nel simbolo, non devono

98 Veda: le scritture più antiche e più prestigiose che l’uomo possegga.


99 Shastra: i libri religiosi,
100 Purana: raccolte di antiche leggende.
101 Yantra: disegni e diagrammi mistici.
102 Smrti: disposizioni e chiarimenti delle Scritture rivelate.
103 Japa: ripetizione costante del Nome di Dio durante l’attività quotidiana.
104 Libro delle Piramidi – III°, 25

66
essere ricercati all’interno dell’immagine, ma al di là dell’immagine stessa.
Pur esprimendosi mediante una raffigurazione, il significato del simbolo ha
radici e dimora in una profondità trascendente dove l’immagine non potrà mai
giungere. E’ a questa profondità trascendente che dovrebbe arrivare l’attenzio-
ne di chi osserva il simbolo.
Ecco perché i simboli sono così difficilmente capiti: perché sono veicoli verso
l’Uno che vengono utilizzati e compresi solo dagli iniziati, in quanto per la
loro comprensione non basta l’uso della nostra intelligenza, ma ci vuole un
richiamo ben più profondo che viene dalla nostra coscienza, dallo stato tra-
scendentale del nostro essere.
Puntualizzato il concetto di simbolo conviene dare una piccola spiegazione
sulla distinzione tra simbolo e segno, al fine di evitare incomprensioni.
Jung se ne è occupato e disse che anche il segno è una espressione di signifi-
cati concordanti, ma esso indica qualcosa di conosciuto, che rientra, cioè nella
normale esperienza visiva.
Sono segni, ad esempio: il linguaggio, i segni matematici, ecc.
Il simbolo invece, con la sua immagine, indica qualcosa che non rientra nella
nostra esperienza visiva, né si riferisce, né ha origine da rapporti conosciuti. Il
segno ed il simbolo si riferiscono, dunque, a due livelli diversi del conoscere:
il segno si riferisce all’essere che si conosce; il simbolo, all’essere che normal-
mente non si conosce.
Il simbolo introduce quindi alle cose invisibili.
Questa interpretazione trova riscontro anche nel concetto alchemico habentibus
simbolum facilis est transitus: è facile passare oltre avendo un simbolo; o nella
frase di S.Paolo: “dalle cose visibili si può giungere alle cose invisibili”.105
W.Goethe era un appassionato cultore di simboli e li chiamava: “improvvisa,
vivente, rivelazione dell’imperscrutabile”.
Il simbolismo è per la mistica il sistema primo e irrinunciabile per nascondere
la Verità a chi non deve sapere, ma è anche la via di ritorno, è il solo sistema di
pensiero capace di penetrare, per intuizione, nel velo del segreto più profondo
ed è anche lo strumento di comunicazione più adatto ad adeguare il messaggio
alla conoscenza del destinatario.
Il simbolo consente quindi diversi gradi di interpretazione a seconda del livello
di introspezione di chi interroga il testo o il simbolo. Al semplice o al neofita, il
simbolo darà solo un barlume di Verità, al ricercatore maturo schiuderà invece
il senso profondo del riconoscimento della Conoscenza.

105 S.Paolo – Lettera ai Romani – 1.20

67
Nell’antica tradizione dell’India, ci sono due tipi di simboli: i Mandala e gli
Yantra.
Mandala significa, letteralmente, cerchio e si riferisce ad una figura chiusa,
rivolta verso un centro. Ma i Mandala non sono necessariamente rotondi. Ci
sono anche Mandala quadrati o poligonali, ma hanno tutti una caratteristica
comune e cioè sono chiusi in se stessi ed hanno tutti un centro grafico.
I Mandala possono, quindi, mettere in contatto chi li osserva con le energie che
rappresentano. Gli Yantra sono, invece, dei Mandala finalizzati al raggiungi-
mento di uno scopo preciso.
Nella Brihadaranyaka Upanishad (2.1.19) vi è una metafora di un ragno che,
stando al centro della sua tela, emette e riassorbe i suoi fili in cerchi concentrici
raggruppandoli tutti in un punto. Questo è il simbolo dell’unità nelle diversità.
I fili del ragno si espandono simmetricamente in circonferenze visibili e, ben-
ché siano sostenuti da linee divergenti tra i vari cerchi, a varie distanze, essi
possono sempre essere riassorbiti nel centro della tela.
Questo riassume, in una analogia, o volendo in un disegno, tutta l’essenza del
pensiero spirituale dell’India.
Tutte le esistenze diversificate nei loro aspetti sono solo e soltanto emanazioni
di un singolo principio. Ed il punto di origine della Suprema Coscienza è si-
multaneamente un deposito infinito di energia collettiva da cui tutto si manife-
sta, e a cui, dopo un tempo diverso per ogni cosa, tutto ritorna.
Questo centro è l’Uno, la unità cosmica che è la base di tutte le diversità espres-
se dagli universi.
I buddhisti, che usano principalmente i Mandala, stabiliscono quali sono quel-
li particolarmente importanti e favorevoli e li usano per le loro meditazioni.
Nella tradizione indiana sono collegati anche all’insegnamento Vastu,106 alla
formazione di costruzioni o templi che siano particolarmente adatti alla cir-
colazione dell’Energia creativa dello Spazio. Infatti il tempio hindu, se visto
dall’alto, raffigura un Mandala in pietra. Il Mandala architettonico più famoso
è quello di Borobudur, a Giava, intorno al quale il devoto esegue un circuito, in
senso orario (pradakshina), e sale alle successive terrazze che simboleggiano i
sette livelli crescenti di Coscienza.

Il simbolo che qui desidero ora prendere in considerazione è lo Yantra, che è


considerato “sacro e dinamico”, e che permette di realizzare la totale esperien-
za dell’Uno.

106 Vastu–Vidya: la scienza dell’architettura, una delle sessantaquattro scienze vediche.

68
L’uomo, e lo vedremo in tutto il libro, è una specie di viaggiatore il cui scopo
principale è trovare l’unità con l’Uno.
Sia che esso punti direttamente alla mèta, che si diletti in un viaggio più lungo,
nel quale possa avere pause di riflessione, rallentamenti o accelerazioni, o,
eventualmente, anche la scelta di poter interrompere il viaggio, sa però che
ogni istante del suo percorso è un movimento che lo porterà, più o meno lenta-
mente o velocemente, al punto di origine di tutte le esistenze.
Risvegliare la consapevolezza del “centro” significa avere a disposizione tutta
la forza che ci permette di vivere e godere interamente la totalità che il simbolo
propone.
La ricerca del centro è quindi il punto intorno al quale lo Yantra manifesta tutta
la sua varietà.
La parola Yantra deriva dalla radice sanscrita Yam, che significa sostenere,
conservare, evidenziare l’energia inerente a quel particolare elemento, oggetto
o concetto.
Da un punto di vista spirituale il termine Yantra si è allargato fino ad acquisire
significato di ricerca teologica. Gli Yantra mistici sono strumenti ed aiuti for-
midabili per indicare discipline od esperienze che in parole verrebbero distorte
o incomprese.
Lo Yantra dell’argomento che abbiamo trattato in questo capitolo sarebbe assai
semplice, come semplice è il principio che lo sostiene.
L’immanifesto è uno stato di puro Spirito, di totale non–manifestazione, di pie-
nezza. Il suo simbolo non può che essere un punto. Questo punto è assai noto
ai meditanti che hanno dedicato e dedicano la loro attenzione primaria e totale
all’esperienza del Divino Trascendente.
Prima di qualsiasi inizio di creazione vi è un solo principio cosmico (Para-
mashiva). Questo Essere è “vuoto”, nel senso che in Esso è assente qualsiasi
forma di manifestazione. Non potrebbe essere supposto o sperimentato in nulla
che abbia una dimensione, un tempo o una forma.
Quindi l’essenza dell’Uno nello Yantra è sempre il suo centro, che, visibile o
invisibile, è il punto generatore dell’intero Yantra. Non può che essere un pun-
to, perché il punto è completamente trascendente. Non vi è infatti in esso né
dimensione, né forma, né qualità. Questo punto è chiamato in sanscrito Maha
bindu.
Proprio come il seme di un albero non è un albero manifesto, ma ha in sé l’es-
senza dell’intero albero, l’essenza di ogni parte dell’albero, l’essenza dell’im-
mortalità dell’albero, che genererà un nuovo seme, che genererà un nuovo
albero; così il bindu contiene in sé un universo che non solo non è ancora

69
differenziato, ma nemmeno manifestato nella sua origine.
Dal punto di vista filosofico il bindu ha quindi in sé l’intera Coscienza di Para-
mashiva, l’Assoluto trascendente immanifesto, che ha in sé, non solo la capa-
cità di esprimersi come creazione, ma anche e soprattutto di esprimersi come
Creatore.
Questo punto, il bindu, non è solo un simbolismo, non è solo il perno dell’in-
tero Yantra, ma è realmente una esperienza del meditante.
Chi dedica la propria struggente ricerca nella direzione della conoscenza
dell’Essere non può non avere, prima o poi, la meravigliosa sorprendente espe-
rienza del bindu.
Il punto è l’infinita contrazione dell’Uno, totalmente espanso, in uno spazio
senza spazio, che contiene in sé ogni manifestazione potenziale o già divenuta
presente.
Il bindu, il punto, è quindi anche assenza totale di tempo manifestato. Questo
punto, visto dai meditanti nella esperienza della Pura Coscienza, è di una lumi-
nosità inesprimibile: la luce di mille soli, chiamata anche la perla blu quando
gioca il ruolo di preparazione ad essere la causa dell’universo. Tutto l’universo
in un punto. No! Di più, tutto l’Assoluto immanifesto in un punto, un punto di
luce, un bindu.
In ogni capitolo cercherò di dare un’idea, sia pur ridottissima ed imperfetta,
di come l’Assoluto possa esprimersi in uno Yantra107, in una forma mistica,
che non può e non deve essere interpretata come forma, o come disegno, o
come significato, pena la perdita della vera essenza dello Yantra. Deve essere,
invece, anziché interpretata, penetrata fino al suo bindu, e quindi, nella asso-
luta trascendenza di questa forma senza forma, rivelare l’essenza intima dello
Yantra.
Potete cominciare, se volete, a portare la vostra attenzione su un punto, un
punto nero su un foglio bianco, o meglio un punto di luce di un piccolo laser
su un muro in una stanza buia.
Se lo farete con costanza, quel punto, quel bindu, vi rivelerà non solo quello
che è chiamato il mistero del simbolo, ma il segreto stesso della non manife-
stazione, della non dimensione, del senza tempo.
Quel bindu dimora nel Sahasrar, il centro spirituale sulla sommità del capo. E’
la sede della Coscienza divina nell’uomo.

107 Anche la Trinità è uno Yantra, lo Spirito Santo, il Dio personale, l’uomo, la creazione, la
vita e la morte, la parola, il suono, la lettera, il silenzio sono tutti Yantra che esprimono una
cosa soltanto: l’Assoluto immanifesto in una manifestazione che deve essere trascesa se
vuole essere sperimentata nella sua vera natura.

70
Tutti i dinamismi della vita sono contenuti in Esso, compreso il flusso del re-
spiro. E’ la dimora della vita nell’uomo.
Quando quel bindu entra nel corpo dell’uomo genera la nascita del respiro e
con esso l’inizio della vita umana.
Vedremo nel capitolo IL MISTERO DELLA VITA come la vita umana abbia
una qualità particolare rispetto all’espressione generale della vita. Essa comin-
cia quando il processo del respiro genera nell’uomo l’inizio della consapevo-
lezza discriminativa.
Come l’inizio della vita umana è legato all’entrata del bindu nel corpo così
il processo di morte si conclude con l’uscita del bindu dal corpo, quando il
respiro cessa e la consapevolezza discriminativa si riassorbe nella mente che
l’ha generata.
Gesù descrive così il bindu come il “regno di Dio”: “Il regno di Dio è grande
come un granel di senape108. Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma una volta
cresciuto è il più grande di tutti gli alberi, e gli uccelli dell’aria possono venire
a nidificare tra i suoi rami”. Un’altra volta ha detto: “E’ simile il regno dei
cieli ad un granello di lievito che una donna prende e mescola in tre misure di
farina, finché tutta la massa sia fermentata”.109
Lo Shivaismo del Kashmir parla di questo bindu in diverse scritture: “La be-
atitudine della Coscienza si ottiene attraverso l’espansione del centro”;110 (…)
“poco dopo, da quella espansione nasce il punto (bindu) (…)”.111
La stessa analogia, del seme e dell’albero, viene anche usata nello Shivaismo
del Kashmir che ci dice che proprio come il seme di un albero non è un albero
“manifesto”, ma ha in sé l’essenza di un albero, così il bindu ha in sé l’universo
intero non ancora manifestato dalla sua monade originaria.
Riferendosi allo schema creativo dello Shivaismo del Kashmir, la Coscienza
di Shiva, quando comincia a essere limitata e ad essere negata nella sua assolu-
tezza dal potere creativo della Shakti, si contrae in un punto. Questa contrazio-
ne dello spazio illimitato (Akasha) nel bindu è la prima negazione che Shiva,
l’Assoluto, sperimenta in se stesso.
Lo stesso principio è molto chiaro nella alah:112 il Dio che non si può raggiun-

108 Vangelo di Matteo – 13.31


109 Vangelo di Matteo – 13.33
110 Kshemaraja – Pratyabhijna–hrdayam – sutra 17
111 Vasugupta – Spandakarika – sutra 42
112 Alah in ebraico significa “ascendere”. Alah si sviluppa in arabo come Allah. In ebraico
è l’equivalente di “God Elohim” (Bibbia – Isaia – 14.13) “ il Dio che ascende – il Dio
potente”.

71
gere con la mente o l’intelletto, l’inconoscibile, l’Ain Sof, che trascende com-
pletamente ogni manifestazione, prima di creare l’universo permea e riposa
nel suo proprio Assoluto e pervade di sé la sua totalità. Per far posto ai mondi,
cioè per generare il relativo, si contrae, nega, per così dire, la propria pienezza
in una dimensione e in un tempo. Questo movimento è la vita degli universi
creati, in un continuum, che in ebraico è chiamato simsum.
L’apice dello yod, la lettera ebraica iniziale del tetragramma che identifica il
nome di Dio, YHWH, rappresenta, infatti, il primo splendore della luce di Ain
Sof, l’Infinito, quello che nella tradizione indiana è chiamato prakasha.
“Prima di ogni cosa, Egli – sia benedetto – riempiva tutti i mondi. (…) Si fece
una veste di luce della sua essenza (…) come la cavalletta, il cui vestito fa parte
del suo corpo; poi Egli – sia benedetto – si ritirò e si contrasse, per così dire,
entro la propria veste e generò i mondi”. (Genesi – Rabba – XXI . 5)
La spinta creativa del Supremo è messa in azione sotto l’irresistibile forza
di autorigenerazione. Il bindu espande. L’evoluzione cosmica si muove verso
l’espansione dividendo il punto originario, unitario, in due. In questo modo
l’unità e l’omogeneità del punto si modifica in due bindu, l’uno bianco (Shi-
va) l’altro rosso (Shakti). Il rapporto armonico tra i due si manifesta in una
continua ed eterna sequenza di espansioni e contrazioni che caratterizzano la
manifestazione dell’universo.
“Questo gioco creativo si manifesta nel suono (vak) delle lettere di una parola
sanscrita, e nel suo significato (artha), componendo la parola con significato
e destrutturandola nuovamente in lettere pronte a formare nella loro unione
successiva un’altra parola con un altro significato”.113
Nel simbolismo questo processo creativo dell’universo è chiamato Visarga–
mandala114.
I due bindu sono rappresentati nella grafica sanscrita dalla lettera “H” aspirata,
infatti la vocale che accompagna la “H” aspirata viene letta come doppia, con
un doppio suono della stessa vocale. Questa coppia di bindu è ancora struttu-
ralmente indivisibile, cioè, anche se due, essa forma ancora una singola unità,
come abbiamo visto, e vedremo ancora essere Shiva/Shakti. Questo impulso
di procreazione che vede Shiva/Shakti uniti nel bindu è spesso visto, da chi ha
ancora problemi di comprensione di cosa sia il simbolo e di cosa sia il Tantra,
come un accoppiamento sessuale. E’ un grande stravolgimento del valore del

113 Kamakalavilasa – verso 6 – Il Kamakalavilasa è stato tradotto da sir John Woodroffe


(Artur Avalon) e pubblicato in Inglese a Madras nel 1953.
114 Visarga: emissione, espansione.

72
simbolo e del valore del Tantra identificare questo Yantra o questo processo
come una manifestazione erotica.
Abbiamo detto che dall’unione dei due bindu nasce il principio primario della
creazione come suono (nadatmika Shakti)115.
I due bindu sono visti come le lettere “A” e “H”, che sono la prima e l’ultima
lettera dell’alfabeto sanscrito e contengono quindi in loro tutti i suoni e tutte le
parole e quindi qualsiasi espressione di creazione.
In questo gioco tra loro “A” e “H” si completano nella creazione del triangolo
cosmico formato dalle lettera “A – KA – THA”, rappresentanti la triade cosmica
(Mula Trikona) che è la base del processo creativo che genera Iccha Shakti,
l’energia della volontà dell’Immanifesto di esercitare la spontanea conoscenza
interiore identificata come Jnana Shakti, che manifesta la molteplicità e conse-
guentemente il suo potere di azione, di movimento, Kriya Skakti.116

115 Nadatmika Shakti: energia primaria del suono cosmico. Da questo nasce un bindu triforme
(Okama Kala) che è la radice di tutti i mantra.
116 Questa azione trinitaria della Shakti è descritta nel Malini Vijayottara Tantra – II°. 6–8

73
Metafisica dell’evoluzione simbolo Yantra descrizione

1) L’universo nella sua Maha bindu, il grande


forma immanifesta “punto seme”

2) Shakti, il potere potenziale Il bindu espande e si separa sotto


di Shiva si attiva in uno la spinta del desiderio cosmico
stato non ancora manifestato della conoscenza di se stesso

3) Modificazione dell’unità Il bindu si separa


originaria in due, Shiva/Shakti: Visarga Mandala
i due in Uno

4) Trasformazione Mula Trikona, la triade cosmica


dell’unità originaria considerata il ventre cosmico
della futura creazione

5) Il triangolo si duplica nella Shiva (Prakasha) e Shakti


espressione integrata del (Vimarsha) si dividono creanprin-
cipio maschio/femmina i principi della vita

6) Il triangolo discendente crea la Mula Prakriti, la natura


i vari Tattva, le categorie cosmiche, primordiale si proietta in 24
il mondo espresso delle diversità Tattva117

7) Il triangolo si rivolta ed inizia La manifestazione inizia, con il il


percorso inverso di conoscenza risveglio della Kundalini, il suo
verso l’Unità, che è la sua vera e cammino di ritorno verso l’unione
unica Realtà mistica Shiva/Shakti

8) Il simbolo dell’intero processo


Cosmico: dall’Uno–al molteplice–
all’Uno.

I due processi 6 e 7 sembrano separati solo perché identificati nella creazione manifesta
sotto la limitazione del tempo/spazio, ma avvengono contemporaneamente nella loro
vera dimensione essenziale che è trascendente

117 Per questo processo fare riferimento ai capitoli successivi ed in particolar modo al capi-
tolo: il mistero della creazione

74
CAPITOLO IV
IL MISTERO DELLA TRINITA’
Il Tao genera l’Uno;
L’uno è formato dal Due in opposizione
(lo Yin e lo Yang)
Il Due genera il Tre,
Il Tre genera tutte le cose del mondo.
(Tao teh Ching)

Dio è Uno e Trino proclama la nostra tradizione religiosa, e aggiunge essere


questo un mistero sublime. Sublime lo è certamente, ma che sia effettivamente
un mistero pare negato da tutte le altre tradizioni.
Non siamo affatto noi soli a credere in un Dio Uno e Trino. Molte grandi tradi-
zioni, molte vie di conoscenza lo hanno affermato nel corso dei secoli, in ogni
latitudine.
In modi diversi, con nomi differenti, questa sublime Verità è stata creduta e
venerata da miliardi di uomini.
Come può ciò che è Uno essere riconosciuto al contempo Trino?
Effettivamente da un punto di vista intellettuale, logico, questo pare un para-
dosso irrisolvibile.
Ancora una volta nella nostra tradizione questo viene chiamato “mistero della
fede”.
Prima di approfondire come questo mistero sia invece “conoscenza di Verità”
nelle altre spiritualità, così come anche nella nostra tradizione esoterica, desi-
dero chiarire un punto che ritengo fondamentale.
Nella comune credenza dei cattolici Dio è identificato con il Padre, ma non è
così in realtà. Dio è Dio ed è allo stesso tempo Padre, Figlio e Spirito Santo.
Dio è Uno e si manifesta come Trino. Il Padre è una prima differenziazione,
molto impropriamente, potremmo dire, una componente della Trinità.
Nella conoscenza esoterica di tutte le tradizioni Dio è Trascendente e da questa
pura Esistenza si manifesta l’esistente e cioè la Trinità.
Questa essenza trascendente, nella spiritualità esoterica ebraica è chiamata AIN
SOF, da cui emana KETER, la corona, quello che noi chiameremo “il Padre”.
Nella tradizione persiana è chiamato ZEROUAN AKERANE, l’Uno prima della
manifestazione, da cui deriva AHURA–MAZDA, l’Esistenza che si conosce.
Nella tradizione islamica è chiamato ALLAH da cui nasce EL–IMAN, la Fede,
la Verità. Nella tradizione induista è chiamato PARAMASHIVA, da cui emana

75
SHIVA, il Trascendente, la prima componente della Trimurti. Nella tradizione
buddhista è chiamato MAHASHUNIA, il grande vuoto, da cui nasce la manife-
stazione trinitaria dei KAYA, come vedremo in seguito. Nella tradizione egizia
è AMON, l’Assoluto immanifesto.

L’UNO–TRINO
Come fa l’Uno ad essere identificato al contempo come Trino?
Vi sono diverse spiegazioni che riconoscono, però, tutte lo stesso processo.
Dio, e lo abbiamo già detto nel II capitolo, è Pura Esistenza. Io sono il Divino
dice di se stesso nell’Esodo della Bibbia (3.13). Quindi Dio E’. Attenti bene E’,
non esiste, ma è l’esistenza di ciò che esiste e, allo stesso tempo, si conosce,
conosce se stesso.
Se dovessimo chiarire in modo relativo ciò che è assoluto, permettetemi una
licenza esplicativa certamente inadeguata, diremmo che l’Uno ha due compo-
nenti fondamentali: E’ e si conosce.
Come fa a conoscersi? Esattamente come faremo noi, si osserva. In fondo tutti
riconoscono all’uomo di essere immagine di Dio. Genera la conoscenza di
Sé, osservandosi. Con questa attenzione, sempre esistente, su se stesso, nasce
all’interno dell’Uno una dualità, l’Uno che conosce, e l’Uno che è conosciu-
to.
Se andiamo in una qualsiasi chiesina di paese troviamo che i dipinti ritraggono
il Padre Eterno con un triangolo in testa. Il triangolo è il simbolo della Trinità
ed è stato dipinto sulla testa del Padre perché noi identifichiamo la conoscenza
con la testa, con il cervello. Il triangolo nasce, infatti, come abbiamo detto,
da un impulso di conoscenza dell’Uno in se stesso. All’interno del triangolo
viene dipinto un occhio ad indicare che il triangolo avviene dall’osservazione
dell’Uno in se stesso, che la Trinità nasce perché per conoscersi l’Uno si os-
serva.
Spesso negli Scritti esoterici di ogni epoca e di ogni spiritualità questo fenome-
no viene descritto come se il Divino specchiasse se stesso in se stesso, come se
riflettesse la sua immagine sulle acque.

E lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.


(Bibbia– Genesi – 1.2)
Dal suo proprio potere di volontà, Chiti, la Coscienza, manifesta
l’universo sul suo proprio schermo.
(Pratyabhijna hrdayan – sutra 2)
L’Essere supremo volge lo sguardo in se stesso. Il suo pensiero

76
è creativo e nel flusso di luce che esce da Lui, vede la sua imma-
gine. (S.Giovanni – Vangelo apocrifo)
Il Padre primordiale, senza principio, vede se stesso in se stesso
come in uno specchio. (Eugnosto il beato)
L’Immortalità guardò se stessa nella regione delle acque e sulle
acque apparve la sua immagine. (Testi gnostici – La natura degli
arconti – 87.15)
Da Lui che è infinito scaturì un’immagine che fu chiamata Sofia
(conoscenza). (Testi gnostici – Origine del mondo – 98.15)
Da Lui provennero tre forze: il Padre, la Madre e il Figlio. Pro-
vennero da se stesse, dal vero silenzio del Padre immutabile.
Questi provennero dallo sguardo del Padre ineffabile, in se stes-
so. (Vangelo degli Egiziani – 51.1)
Egli è l’Essere che si genera da solo, si osserva, si comprende e
si conosce così com’è. (…) Egli è colui che proietta se stesso in
se stesso e genera questo tipo di creazione.
(Trattato Tripartito – 56.1)
Dio ha desiderato specchiarsi e ha creato così il tempo e lo spa-
zio. (Isaac Louria, cabalista del 18° sec.)
Il Figlio appare eternamente di fronte al Padre, come il Padre è
eternamente di fronte al Figlio. Il gioco tra i due uguali è lo Spi-
rito Santo, nel quale i due si riconoscono eternamente. Il gioco
ed i giocatori sono la stessa cosa. (Meister Eckhart)
Il Tao genera l’Uno, l’Uno genera il Due, il Due genera il Tre,
il Tre genera tutte le cose. Tutte le cose hanno in sé Yin e Yang;
Yin dietro, Yang davanti, e sono armonizzate dal respiro imma-
teriale: Chi. (Tao teh Ching – XLII)

Nasce, così, colui che osserva: il Padre; e colui che è osservato, l’immagine del
tutto simile al Padre: il Figlio.
A questo punto l’Uno si manifesta come due. Seguitemi ancora nel processo
sublime.
Se vogliamo conoscere qualcosa, non vi deve essere soltanto un conoscitore ed
un conosciuto, ma è necessaria una terza energia che passi dal conoscitore al
conosciuto, quello che noi chiameremmo: il flusso della conoscenza.
Se vi è un osservatore che osserva un osservato è necessaria una terza energia
chiamata osservazione perché l’osservatore possa vedere l’osservato.
In questo processo, essendo l’Uno l’unica Realtà esistente, tutte le componenti

77
sono all’interno dell’Uno.
All’interno dell’Uno vi sarà quindi: l’Uno come conoscitore (il Padre), l’Uno
come conosciuto (il Figlio), l’Uno come conoscenza (lo Spirito Santo); rima-
nendo sempre ed esclusivamente Uno. Ma vi è ancora una realtà in tutto questo
processo. Il conosciuto (il Figlio) viene rivelato solo se vi è un flusso di cono-
scenza (lo Spirito Santo) che lo rivela.
UNO DUE
PADRE FIGLIO
PURUSHA PRAKRITI (CREAZIONE)
CONOSCITORE CONOSCIUTO

TRE
SPIRITO SANTO
BUDDHI (CONOSCIENZA - VITA)
CONOSCENZA

Tutto ciò è molto chiaro se osserviamo la nascita del Dio–uomo, Gesù, che
viene concepito dal Padre solo attraverso lo Spirito Santo.
Ecco un altro mistero svelato, perché il Dio uomo, come vedremo nel prossimo
capitolo, non esiste solo nella nostra tradizione. Come potremo sinceramente
insistere a pensarci “il popolo eletto”? Non è forse eletta tutta l’umanità?
Nelle altre forme di spiritualità è conosciuto come Krishna, come Rama, come
Buddha, come Horus, come Odino, come Ahura Mazda, come Mahavira, come
Wakan Tanka e come numerose forme prima di loro e dopo di loro, ed il pro-
cesso è sempre lo stesso.
In tutte le tradizioni vi è il mistero della Trinità rivelato. Vi è nell’antico Egitto,
nella tradizione persiana, nella spiritualità induista, nel sesto dei sei sistemi
della filosofia indiana, il Vedanta, ed è rivelato anche dallo Yoga della Bhaga-
vad Gita. E’ chiaro anche nel Buddhismo tibetano e persino nell’Islam dove
sembrerebbe completamente escluso.
Prendiamo in considerazione una per una queste rivelazioni cominciando dalle

78
tre manifestazioni del supremo Purushottama della Bhagavad Gita.
Se si leggono superficialmente le Upanishad sembrerebbe che il Divino si ma-
nifesti solo come duale, all’interno della natura dell’Uno. Talvolta il Purusha
viene descritto come due uccelli sullo stesso ramo dell’albero della vita, uno
mangia i dolci frutti dell’albero, gode cioè le gioie che la vita ci offre, l’altro
non mangia, ma, testimone silenzioso, completamente distaccato dalle delizie
della natura, osserva il suo doppio, non coinvolto118. Quando il primo, il gudu-
rioso vede il secondo, il gaudioso, e scopre la beatitudine dell’Essere, anziché
le gioie dell’esistere, realizza in se stesso la sua grandezza ed è liberato per
sempre dalla sofferenza.
La Bhagavad Gita, a questi due stati ne aggiunge un terzo, il supremo Puru-
shottama119 (Bhagavad Gita VIII 9–11), sviluppando il pensiero delle Upani-
shad: “Anche se Akshara, l’immobile, l’immutabile, sopra ogni cambiamento,
il silenzioso, è supremo, vi è un Purusha divino che gli è superiore, Purushot-
tama”. (Mundaka Upanishad 2.1)
Purushottama, divenendo cosciente di sé, in uno stato assolutamente inespres-
so, si riconosce in tre stati che sono, allo stesso tempo, Uno e Trino. Questi stati
sono identificati come KSHARA, AKSHARA e UTTAMA.
Lo Kshara, il sempre mutevole, l’energia in movimento è la natura, il multifor-
me divenire dell’anima. Il Purusha in questo stato è la molteplice manifestazio-
ne dell’Essere divino, il divenire.
L’Akshara, l’immobile, l’immutabile, l’eterno, il Sé inattivo e silente è il Puru-
sha capace di generare in se stesso lo Kshara, tramite l’azione di Uttama.
Uttama è al tempo stesso l’immobile Uno e la mutevole molteplicità. E’ al
contempo il flusso della vita sempre mutevole, generato dal Uno immutabile, e
la Pura Coscienza dell’Uno immutabile che si riconosce nella manifestazione
mutevole.
Non vi è bisogno di essere eccessivamente creativi per riconoscere il Padre in
Akshara, il Figlio in Kshara, e lo Spirito Santo in Uttama.
Da questa Realtà, allo stesso tempo Trascendente ed immanente, nascerà la più
elevata corrente del Bhakti Yoga, la ricerca dell’Uno attraverso la devozione
al Dio personale, l’apertura del cuore verso il Dio espresso e manifesto, quello
che nella Bhagavad Gita è indicato dal verso: “Per mezzo della sua natura il

118 Svetasvatara Upanishad – 4, 6 ; Mundaka Upanishad – 3,1


119 Purushottama, l’Anima suprema, il Supremo Purusha (purusha– uttama), superiore sia al
Purusha mutevole, manifesto (il Figlio) che al Purusha immutabile (il Padre). E’ Lui che
nella Bhagavad Gita parla per bocca di Krishna.

79
Signore diventa Jiva,120 colui che è vivo” (Bhagavad Gita – VII.5–7).
In tutta la tradizione scritta dell’India l’Uno è indicato anche come SATCHITA-
NANDA (Sat – Chit – Ananda).
SAT è la pura Esistenza, il principio dell’Essere universale e supremo, l’unica
Realtà, il Vero, il Padre.
CHIT è la pura Coscienza dell’Essere, colei che rende Sat cosciente della pro-
pria esistenza, il flusso della conoscenza dell’Uno in se stesso, lo Spirito San-
to.
ANANDA è la beatitudine del riconoscimento, la pura felicità dell’Uno espres-
sa nell’esistente, nella creazione, nella manifestazione, il Figlio.

IL DIO TRINITARIO COME SUONO


Questa espressione trinitaria è riassunta nel Mantra supremo OM che è compo-
sto di tre lettere A–U–M, la triplice espressione dell’Assoluto.
“Io sono l’OM in tutti i Veda” (Bhagavad Gita – VII.8). “AUM (…) è con-
siderato come la triplice rappresentazione di Brahman” (Bhagavad Gita –
XVII.23).
AAAA è il suono più aperto in assoluto, il suono senza contrazione, il primo
suono da cui tutti gli alfabeti derivano, colui che manifesta la creazione attra-
verso suoni e parole (shabda, vak), attraverso la manifestazione di se stesso.

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo


era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per
mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che
esiste. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. (Van-
gelo di Giovanni – 1.1)

UUUU è la negazione dell’Assoluto nel relativo, la manifestazione contratta


del suono nella creazione, l’esistente che nasce dalla contrazione nel tempo
dell’Eterno.
MMMM è il flusso della vita di U, il continuum del Divino che riconosce se
stesso nella sua manifestazione.
L’Atharvasira Upanishad (3.1) lo conferma dicendo: “Brahman, Tu sei colui
che dà forma alle forme, Tu sei l’Uno e sei Trino. Sei l’estensione, la pace e la
prosperità. Tu sei l’immanente ed il Trascendente e sei il fine supremo”.

120 Jiva, l’anima individuale o coscienza individuale

80
Colui che medita sull’Essere supremo per mezzo delle tre lettere
“A–U–M”, ossia con la intera sillaba “OM”, giunge allo splen-
dore del sole. (Prajna Upanishad – 5.5)
Si dice che la sillaba OM (AUM) è l’arco, l’Atman è la freccia,
il Brahman è il traguardo. Questo bisogna colpire. Come la frec-
cia si immedesima nel bersaglio, in egual modo l’uomo otterrà
l’identità con il Tat121. (Mundaka Upanishad – 2.2.4)
In Esso, come i raggi nel mozzo della ruota, si congiungono le
arterie; Esso si muove celato all’interno, pur manifestandosi in
varie guise. Meditate sull’Atman, considerandolo come la silla-
ba OM. (Mundaka Upanishad – 2.2.6)
Queste cose dice l’AMEN, il testimone fedele e verace, il Princi-
pio della creazione di Dio. (Bibbia – Apocalisse – 3.14)

LA TRINITA’ NELLE VARIE RELIGIONI


Chunboo Kyung, il grande saggio della religione coreana scrisse: “Ciò che è
visibile risiede nell’invisibile. L’invisibile consiste in tre Realtà ultime, la cui
essenza è l’Assoluto, l’Infinito”.
Nella tradizione persiana vi è un parallelo interessante.
Il dottor Haug nel suo Essays on the Parsis ci dice che in Persia, al tempo
dei Sassinidi si conosceva che l’Assoluto onnipervadente senza inizio né fine,
illimitato ed eterno, al di là di ogni concetto o manifestazione, era ZEROUAN
AKERANE122, da Esso emanava AHURA MAZDA, che significa “Esistenza–
Sapienza–Gioia assoluta”.

A Ahura Mazda io canto l’inno di gloria (…) Tu, amato Ahura


Mazda, sei il Maestro pianificatore, il Signore di tutta la creazio-
ne, l’essenza del tempo senza tempo, il vero spirito della Verità
e del bene. Tu sei pieno di saggezza e onnisciente. Non cade una
foglia senza che tu lo sappia. Tu conosci il numero degli alberi
e le foglie su di loro. Tu conosci il numero dei granelli di sabbia
di qualunque spiaggia e il numero delle stelle in cielo. Tu mi
conosci meglio di quanto io mi conosca. Aiutami quindi, amato

121 Tat: il Quello di Tat tvam asi: Tu sei Quello ( Chandogya Upanishad – 6.8,6) rappresenta
il Brahman
122 I moderni zorohastriani hanno dimenticato questa conoscenza perdendo anche l’esperienza
diretta dell’Assoluto.

81
Ahura Mazda, di giorno in giorno, se è possibile, a conoscerTi
un po’ meglio a capirTi e a comprenderTi. (…) Il mio cuore ane-
la per Te con una brama che non si placa. Tu sei il mio avere più
prezioso, più grande e magnifico, di molto più amato e più caro
della vita del mio corpo e della vita del mio spirito. La mia gioia
è in Te, il mio rifugio è in Te, la mia pace è in Te. Fammi vivere
innanzi a Te e in Te, io prego umilmente.
(Zorohastro – Ahunavad Gatha – XXXVIII.3)

Ahura Mazda è Trino nell’Uno.


Ah: significa “Io sono – Pura Esistenza”.123

Il mio nome è AH’MI – Io sono (Zorohastro – Ormazd Yasht – 7)

Ura: significa “conoscenza, sapienza, colui che è conosciuto da Ah come se


stesso”.
Mazda: è la gioia più sottile, la beatitudine che deriva dalla pura coscienza di
Ah, “io sono”, che si riconosce in Ura.124
Il parallelo prosegue anche nell’ebraismo tradizionale. Ho già detto che nella
Cabbalah, l’Assoluto, non identificabile con parole o qualità, con energie o
manifestazioni, immutabile ed eterno è AIN SOF. Da Esso si manifesta la pri-
ma trinità dell’albero della vita: Keter, come Padre; Chochmah, come Figlio;
Binah, come Spirito Santo. Da essi derivano tutte le restanti Sephiroth e anche
la Shekinah, lo Spirito del Divino, che può essere sperimentato in ogni mani-
festazione.
Scrive Moshé Cordovero:125 “Le prime tre Sephiroth: Keter, Binah e Chochmah

123 Ancora una volta la lettera “A” identifica l’Assoluto, il suono da cui ogni espressione
manifesta deriva. Esso entra nell’uomo attraverso la “H”, la aspirazione, il flusso ascend-
ente della vita.
124 Questa interpretazione è ribadita più volte nelle preghiere del Mazdeismo specie nell’inno
fondamentale chiamato “AHUNA VAJRYA”: “Così il Signore Mazda con la santità del
pio dono dello Spirito e delle opere, elargiva in nome di AH ai poveri il vitto, a tutti le
acque buone, venerate dai più. Come il Signore è tale per propria volontà così Egli è
anche moderatore per la sua santità. Sono doni dello Spirito Santo, il Signore Mazda, gli
effetti delle opere buone di questo mondo che è di Ura. La potestà è esercitata dai tre santi
nomi che Egli diede al mondo in difesa dei miseri”.
125 Moshé Cordovero (1522–1570) fu maestro del grande cabalista Louria. A 27 anni aveva
già finito la sua opera principale Pardes Rimmonim– Il giardino dei melograni. Cordovero
modificò in qualche modo la concezione delle Sephiroth e polarizzò tutta la sua attenzione
sul dinamismo interno dell’AIN SOF.

82
devono essere considerate come una sola e identica Realtà. La prima, Keter,
rappresenta la scienza infinita di Dio; la seconda Binah, Dio nell’atto della sua
capacità di conoscere, la terza Chochmah, ciò che è oggetto della conoscenza
di Dio. (…) Il Creatore è contemporaneamente Conoscente – Conoscenza e
Conosciuto. Questo perché il suo modo di essere consiste nell’applicare l’atto
del conoscere solo a se stesso e a nulla che sia fuori di Lui. Egli conosce tutto
ciò che è conoscendo se stesso. Non esiste nulla che non risieda in Lui e che
Egli non ritrovi in se stesso”.
Louria scriveva, dopo di lui: “Come in un gioco di specchi Dio guarda se
stesso e Lui stesso è l’oggetto infinito della sua conoscenza, al di fuori del
quale, ovviamente, non ci può essere niente. Ma questo guardare se stesso non
è nient’altro che la Sapienza infinita”.
Nella Cabbalah si legge: “Il sacro Anziano esiste con tre teste che in realtà
sono una sola e identica cosa. Tutti i misteri sono contenuti in Esso e a loro
volta sono contenuti nell’Anziano degli anziani; in Lui tutto è racchiuso”.126
Nel Buddhismo tibetano tutta la Trinità è presente nell’anima della creatura.
La sua divisione, nell’unità della sua essenza, si rivela all’uomo nei vari mo-
menti del processo del morire e della morte. Gli insegnamenti parlano di tre
livelli dell’Essere chiamati in sanscrito KAYA.
Leggiamo ciò che dice il grande Maestro di Buddhismo tibetano e grande
esperto del Bardo Sogyal Rinpoche nel suo splendido libro Il libro tibetano del
vivere e del morire: “Vediamo quindi la tripartizione del processo da questa
prospettiva:
12. La natura assoluta che si rivela al momento della morte nella Luminosi-
tà fondamentale è chiamata Dharmakaya. E’ la dimensione della realtà
“vuota” e “incondizionata” alla quale non hanno mai avuto accesso né
illusione, né ignoranza e né qualunque tipo di concetto.
13. La radiosità intrinseca di luce ed energia che si manifesta spontaneamente
nel Bardo della Dharmata è chiamata Sambhogakaya. E’ la dimensione
del totale appagamento, il campo della perfetta beatitudine, della massima
ricchezza, al di là delle limitazioni dualistiche, oltre il tempo e lo spazio.
14. La cristallizzazione in una forma che avviene nel Bardo del Divenire è chia-
mata Nirmanakaya. E’ la dimensione della manifestazione infinita”.127
Padmasambhava scrive: “Nel Rigpa i tre Kaya sono inseparabili e completa-
mente presenti in unicità. Poiché Esso è vuoto e assolutamente non creato è il

126 Alessandro Nangeroni – La Cabbalah – Cap.10, pag.105 Ed. Xenia


127 Sogyal Rinpoche – Il libro tibetano del vivere e del morire – Cap.21, pag.316 Ed. Ubaldini

83
Dharmakaya.
Poiché la sua luminosa chiarezza costituisce l’inerente trasparente radiosità
della vacuità: è il Sambhogakaya. Poiché la sua apparizione è priva di impedi-
menti e di ostacoli è il Nirmanakaya.
Questi tre sono presenti in totale unicità e ne costituiscono la reale
essenza”.128
Nell’Islam sembra impossibile identificare Dio–Uno, Allah, come Trino, eppu-
re da una seria e attenta lettura ed esperienza del Corano diviene evidente che
la Rivelazione si manifesta in Trinità.
Nell’Islam nulla è più importante della preghiera canonica (Calat), diretta alla
Kaaba e della ripetizione della “menzione di Dio” (dhirku’Llah), diretta verso
il cuore.
Scrive Frithjof Schuon nel suo Comprendere l’Islam: “Potremmo anche espri-
merci così: se l’uomo essendo fatto ad immagine di Dio si distingue dalle
altre creature per intelligenza trascendente, libero arbitrio e dono della parola,
l’Islam sarà allora la religione della certezza, dell’equilibrio e dell’orazione,
secondo l’ordine delle tre facoltà deiformi. Perveniamo così alla triade tradi-
zionale dell’Islam: EL–IMAM (la fede), EL–ISLAM (la legge, letteralmente: la
sottomissione) e EL–IHSAN (la via, letteralmente: la virtù, l’intelligenza). (…)
EL–IMAM è la certezza dell’Assoluto e della dipendenza di ogni cosa dall’As-
soluto (…) EL–ISLAM è il Profeta, in quanto personificazione dell’Islam. E’ un
equilibrio in funzione dell’Assoluto e tendente ad Esso. EL–ISHAN, infine, ri-
conduce con la magia della parola sacra, in quanto questa è veicolo sia dell’in-
telligenza che della volontà, le due precedenti posizioni alle loro essenze”.129
La dottrina islamica è racchiusa in due enunciazioni (testimonianze–Shaha–
dah) della fede: “La ilaha illa’Lhah: non vi è divinità (realtà esistente) al di
fuori della sola Divinità (l’Assoluto) e Muhammadun Rasul’Llah: e Moham-
med (il glorificato, il perfetto) è l’inviato (la manifestazione attraverso la sua
parola)”.
Siamo in presenza di due asserzioni, di due certezze, di due piani della stessa
realtà, l’Assoluto e il relativo, la causa e l’effetto, Dio e il mondo visibile, e
della manifestazione attraverso la parola (lo Spirito Santo, Colui che ha parlato
per mezzo dei profeti).
Ancora una volta siamo al riconoscimento della stessa Trinità che si esprime

128 J.M.Reynolds – Self Liberation through seeing with naked awareness – pag.13 Station Hill
– New York 1989
129 Frithjof Schuon – Comprendere L’Islam – pag.15. Ed. SE

84
attraverso le due formule della “testimonianza della fede”.
La stessa Trinità si manifesta anche nella scienza più moderna ed attuale. Se
consideriamo la teoria della relatività di Einstein, sia la speciale che la genera-
le, ci accorgiamo che il grande fisico ha espresso la sua straordinaria intuizione
in una formula matematica E:MC2.
Noi volendola semplificare possiamo dire che tutta la straordinaria molteplicità
della creazione manifesta non è che energia e quindi che l’energia si può mani-
festare come materia se il rapporto energia/materia è uguale ad una energia in
rapidissimo movimento, C2, la velocità della luce.
Ma ciò che a noi più interessa, e che diviene evidente, è che esaminando dal
nostro punto di vista la formula E:MC2 ci accorgiamo che ha effettivamente
un significato trinitario.
“E” è l’energia creatrice, il campo unificato, l’intelligenza, l’Uno, possiamo
anche chiamarlo il Padre; “M” è la massa, la materia, l’energia contratta in
ogni forma creata, possiamo dire il Figlio dell’energia primaria; “C” è il rap-
porto che esiste tra i due, lo Spirito che dà la vita, la vita stessa. Non vi sarebbe
creazione di materia da parte dell’energia se non esistesse il rapporto E/M:C2.
Questa formula è la dimostrazione matematica e la spiegazione scientifica
che la materia nasce dall’energia attraverso l’azione di una terza espressione
dell’energia primaria.

La Trinità è espressa e venerata in quasi tutte le tradizioni, da quelle più vicine


a noi a quelle più lontane, da quelle più antiche fino all’Islam, l’ultima grande
religione, tuttora in piena espansione.

Il Padre divenne la creazione infondendosi in essa come Spirito


Santo. Questa attrazione divina genera se stessa nel Padre, ema-
na dal Padre, si consuma nella creazione, il Figlio, e si riassorbe
nel Padre. Questo è il gioco dello Spirito di Dio. (S.Agostino –
De moribus manicheorum – III.24)
Vi sia uno spazio tra le acque, che separi le acque dalle acque, e
Dio creò quello spazio e separò le acque che erano sotto lo spa-
zio dalle acque che erano sopra. (Bibbia – Genesi – 1. 6–7)
Un tempo eravate Uno, poi siete divenuti Due, ma divenuti due,
cosa farete ora? (Vangelo di Tommaso – 11)
Quando Purusha diviene cosciente della sua stessa esistenza,
l’Intelligenza diviene intelligente. La Coscienza diviene co-
sciente. Vi sono in realtà due Purusha, come due uccelli, com-

85
pagni inseparabilmente uniti, sullo stesso albero. Uno mangia i
dolci frutti dell’albero, l’altro osserva soltanto, non coinvolto.
(Mundaka Upanishad – 3, 1)
Come in un gioco di specchi, Dio guarda se stesso, e Lui stesso
è l’oggetto della sua conoscenza, al di fuori del quale, ovvia-
mente, non vi può essere nulla. Il sacro Anziano esiste con tre
teste che in realtà sono una sola ed identica cosa. Tutte le cose
segrete sono contenute nell’Anziano degli anziani. In Lui tutto è
racchiuso. (Cabbalah – Sepher Yetzira)
Dio, ritirandosi in se stesso, ha generato uno spazio vuoto, nel
quale si è potuta sviluppare, come in uno specchio, la creazione.
All’interno di questo vuoto, l’Assoluto ha proiettato la sua Luce.
Ne è uscito un primo essere vivente che è la figura originale
dell’Essenza divina. (Cabbalah – Sepher Yetzira)
Ciò che è visibile risiede nell’Invisibile. L’Invisibile consiste in
realtà in tre Realtà ultime, la cui essenza è l’Assoluto, l’Infinito.
(Chumboo Kyung – grande saggio coreano)
Una parola disse il Padre, e questa Parola era suo Figlio, e questa
Parola Egli continua a dire nell’eterno silenzio e in silenzio deve
essere udita dall’anima. (S.Giovanni della Croce)
Il Regno di Dio è dentro di voi e fuori di voi. Quando vi cono-
scerete, allora diverrete consapevoli, e saprete che siete voi i
figli del Padre vivente. (Vangelo di Tommaso – 5)
In Principio era il Verbo ed il Verbo era con Dio e il Verbo era
Dio. Esso era nel principio presso Dio.130
Ogni cosa è stata fatta per mezzo di Lei e senza di Lei nemmeno
una delle cose fatte è stata fatta. Lei era la vita, e la vita era la
luce degli uomini, e la luce spende nelle tenebre e le tenebre non
l’hanno ricevuta. (Vangelo di Giovanni – 1.1)
In Principio era Prajapati, la manifestazione divina dell’Essere
Assoluto, in Lui era Vak, la santa Parola, ed anche Vak, la Pa-
rola, era veramente Parabrahman, l’Assoluto. (Rig Veda – VII
mandala – 1.24)
L’Essere ha allora generato da se stesso “l’esistente”. L’Essere

130 La versione italiana traduce ciò che è scritto nella “Vulgata”, la versione latina della Bib-
bia che dice: “et Verbum erat apud Deum, (…) Hoc erat in principio apud Deum”, ma se
ci riferiamo alla versione dei Settanta, in lingua greca, leggiamo: “kai o logos en pros ton
theon”. Pros ton theon significa in realtà “rivolta verso” “interfacciata a”.

86
è immutabile eterno, senza nome, senza forma, onnicompren-
sivo, mentre “l’esistente” è un’espressione e un’espansione, un
movimento del mondo del divenire, un mondo di cambiamento
incessante e di trasformazione continua. (Swami Vivekananda
– I discorsi)
Dio non ha una speciale conoscenza di Sé ed un’altra conoscen-
za che comprende tutte le cose esistenti. La Causa di tutti gli
esseri, conoscendo se stessa come può ignorare le cose che da
Lei derivano e di cui è la Causa? Dunque, con questa, Dio co-
nosce le cose che sono, non con la scienza delle cose, ma con
la conoscenza di sé stesso. (Dionigi l’aeropagita – De divinis
nominibus – VII, 2, 869c)
L’Assoluto (Chiti – la Coscienza), dal suo stesso potere di vo-
lontà è la causa della manifestazione dell’universo. (Pratyabhi-
jna hridayam – sutra 1)
Dal suo stesso potere di volontà, Chit, la Coscienza, manifesta
l’universo sul suo proprio schermo. (idem – sutra 2)
L’Essere Supremo volge lo sguardo in se stesso. Il suo pensiero
è creativo, e nel flusso di Luce che esce da Lui, vede la sua im-
magine. Si manifesta quindi il primo pensiero discriminativo (Io
sono Quello). (Vangelo apocrifo di Giovanni)
Quando io parlo di Dio, voi tutti vi dovete sentire immersi in
un’unica luce e in tre luci insieme. Lì c’è divisione indivisa, uni-
tà con differenza. Uno solo, nei tre, è la divinità o per essere
espliciti, sono la divinità. Non ho ancora pensato all’Unità che
la Trinità mi immerge nel suo splendore. Non ho ancora comin-
ciato a pensare alla Trinità che già l’Unità mi afferra. Quando a
me si presenta uno dei Tre, penso che questi sia il tutto, tanto la
mia vista ne è colmata. Quando unisco i Tre in un solo pensiero,
vedo una sola grande fiamma, senza che io possa dividere l’uni-
ca luce. (S. Gregorio – 330–390 d.C. – Discorsi sul battesimo)

La Cabbalah è molto chiara in proposito. Dice: “Questo è Keter, chiamato


Ayin, il Nulla, a causa della sua estrema finezza, della sua adesione alla fonte
e del fatto che non si può attribuire l’essere. Da Keter emanò un secondo pun-
to, in una seconda rivelazione. Questo è Chochman (la Sapienza), chiamato
“Yesh”, (l’esistente) perché è il principio della rivelazione e dell’esistere. E’
chiamato “Yesh–Ye–Ayin”, essere che deriva dal Nulla. Poiché Esso è il Prin-

87
cipio dell’Essere e del Non Essere stesso, ha bisogno di un terzo punto per
rivelare ciò che esiste, e questo è Binah, l’Intelligenza”.131
Anche nel Libro Egiziano dei morti vi è Dio nella sua triplice espressione: “Io
sono Khepri al mattino, Ra, al mezzodì, Atun, la sera”.
Per semplificarne lo studio e per averne un quadro, sia pur non completo, alle-
go uno schema riassuntivo della Trinità nelle grandi tradizioni.
Credo sia così chiaro a tutti come la Trinità sia la nostra stessa pura esistenza
che si distingue in tre espressioni della stessa assoluta Realtà. Tutto ciò potrà,
forse, essere ritenuto un segreto, cioè come qualcosa che non tutti sono in gra-
do di comprendere e di vivere, ma non più essere considerato un mistero che
non possa essere sperimentato.

CRISTIANE- Maha
YOGA UPANISHAD
SIMO MANTRA
PADRE SAT A AKSHARA
FIGLIO ANANDA U KSHARA
Spirito Santo CHIT M UTTAMA

MAZDEISMO CABBALAH TORAH ISLAM


AH KETER NESAMAH EL–IMAM
URA CHOCHMAH NEFES EL–ISLAM
MAZDA BINAH RUAH EL–IHSAN

VEDANTA INDUISMO BUDDHISMO antico EGITTO


PURUSHA SHIVA DHARMAKAYA OSIRIDE
PRAKRITI VISHNU NIRMANAKAYA HORUS
SAMBHO-
BUDDHI BRAHMA ISIDE
GAKAYA

RELATIVITA’ SUFI
E AQIL
M MA’QUL
C2 AQL

131 Daniel C. Matt – L’essenza della Kabbalah – Ed. Newton & Compton, pag. 42

88
LA TRINITA’ E’ UN SEGRETO, NON UN MISTERO
Che la Trinità non sia un mistero, ma un segreto da scoprire nel cuore dell’uo-
mo è testimoniato dalle parole e dagli scritti di tutti i grandi mistici. Dice Santa
Teresa d’Avila quando descrive la visione mistica della Trinità nella settima
mansione del Castello Interiore:
“Una volta introdotta in questa mansione le (all’anima) si scoprono in visione
le tre persone della Santissima Trinità, come in una rappresentazione della Ve-
rità in mezzo ad un incendio, simile ad una nube risplendentissima che viene al
suo spirito. Le tre persone si vedono distintamente e l’anima per una nozione
ammirabile di cui viene favorita, conosce con certezza assoluta che tutte e tre
sono una sola sostanza, una sola potenza, una sola sapienza, un solo Dio. Ciò
che crediamo per fede, ella lo conosce quasi per vista, benché non con gli occhi
del corpo, né con quelli dell’anima, non essendo visione immaginaria. Qui le
tre persone si comunicano con lei, le parlano e le fanno intendere le parole con
cui il Salvatore dice nel Vangelo che Egli con il Padre e con lo Spirito Santo
scende ad abitare nell’anima che lo ama e osserva i suoi comandamenti. O
Dio! Che differenza udire e credere a queste parole dall’intendere la Verità nel
modo che ho detto!
Lo stupore dell’anima va ogni giorno aumentando perché le pare che le tre
divine persone non l’abbandonino più. Le vede risiedere nel suo interno nella
maniera già detta e sente la loro divina compagnia nella parte più intima di
se stessa come in un abisso molto profondo che per difetto di scienza non sa
definire”.132
Ancora sulla Trinità, nella spiegazione degli stemmi disegnati alla fine del suo
Manoscritto A, Teresa scrive: “Il triangolo luminoso rappresenta l’adorabile
Trinità che non cessa di effondere i suoi doni inestimabili sull’anima della pic-
cola, povera Teresa, perciò nella sua riconoscenza ella non dimenticherà mai
questo motto: l’Amore si paga solo con l’amore”.133
Elisabetta della Trinità è, se fosse possibile, ancora più chiara, ancora più espli-
cita:
“Entreremo nel più intimo di noi stesse, là dove dimorano il Padre, il Figlio e
lo Spirito Santo e in loro saremo una cosa sola.134 Se uno mi ama osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a Lui e prenderemo dimora in
Lui (…) La nostra anima è il tempio di Dio. Ad ogni istante del giorno e della

132 S.Teresa d’Avila – Il castello interiore – VII mansione – 1. 6–7


133 S.Teresa d’Avila – Manoscritto A – Spiegazione degli stemmi – 85v, pag.212
134 S.Elisabetta della Trinità – Le Lettere – 191. pag.338

89
notte le tre persone divine abitano in noi”.135
Scrive a Margherita Gollot in due lettere:136
“Perdiamoci in questa Trinità Santa, nel Dio tutto amore, lasciamoci trasporta-
re in quelle regioni dove non vi è più che Lui, Lui solo”.
“Le nostre anime si perderanno in Lui, in questa Trinità eterna, in questo Dio
tutto amore”.
A Germana de Gemeaux scrive: “Sono Elisabetta della Trinità, cioè Elisabetta
che scompare, si perde nei Tre e si lascia invadere da loro. Questo è il vincolo
divino che ci unisce fino ad essere una cosa sola”.137

Al di là della semantica usata che risente del vocabolario ascetico è chiaro che
la Trinità non è per loro più un “mistero”, ma è l’espressione di una Verità che
si sente sperimentata in una vibrante beatitudine.
E’ proprio questa esperienza che viene sollecitata da Teresa d’Avila quando ci
dice: “Oh Dio! Che differenza udire e credere a queste parole, dall’intendere la
Verità nel modo che ho detto”.
Ho citato le due mistiche, ma avrei potuto citare S.Agostino: “Lo Spirito Santo
è una ineffabile comunione del Padre e del Figlio”,138 o S.Giovanni della Cro-
ce, o S.Bonaventura, o S.Alberto Magno, o S.Giovanni Crisostomo, o Origene,
o Hildegard di Bingen, solo per citare alcuni santi della nostra tradizione, ma
si potrebbero riempire volumi delle esperienze di grandi esseri di tutte le tra-
dizioni.
Perché allora dovremo continuare ad accettare che la Trinità sia un mistero,
quando è semplicemente una esperienza intima che permea, in ogni istante,
completamente il nostro essere? Chiamare queste esperienze un “mistero” to-
glie ai cercatori la possibilità di gustare essi stessi la stessa sublime esperien-
za. Bisognerebbe che coloro che sono preposti all’insegnamento della Verità,
anziché chiudersi in una negazione di possibilità che è la parola “mistero”,
intraprendessero, loro per primi, il cammino dell’ “esperienza”, per poter poi
aprire il cammino a coloro i quali saranno seriamente interessati alla “ricerca
della conoscenza della verità”.

135 S.Elisabetta della Trinità – Le Lettere – 239. pag.418


136 Idem – Lettera 51 e Lettera 70.
137 Idem – Lettera 148.
138 S.Agostino – La Trinità – 5.11.12

90
CAPITOLO V
IL MISTERO DEL DIO–UOMO
A quel Dio mi inchino
che dà luce al sole e bellezza alla luna.
A quel Dio mi inchino
che inspira gioia nei cuori degli uomini.
A quel Dio mi inchino
che dispensa a tutti Vita e Coscienza.
Possa quel Dio assoluto ispirarci
affinché possiamo realizzare la perfezione
della nostra natura divina.
Yajur Veda

I grandi maestri di tutte le tradizione sono venuti, in ogni epoca ed ogni latitu-
dine, ad indicare all’uomo la via del riconoscimento della Verità in loro stessi.
Nella Guru Gita, la porzione finale degli Skanda Purana, la creazione, nelle
vesti di Parvati, chiede al suo Guru, nelle vesti di Shiva:
“Kena marghena bho svamin dehi brahmamayo bhavet. Tvam krpam kuru me
svamin namami caranau tava”. “O Signore, per quale via può un’anima incar-
nata tornare a unirsi a Brahman, l’Assoluta Realtà? Abbi compassione di me, o
Signore. Io mi inchino ai tuoi piedi”. (Guru Gita 3)
Riconoscersi è il termine chiave che risolve il grande paradosso umano/divino,
che supera il peccato originale della creazione, cioè il senso di separazione di
cui si parlerà nel capitolo IL MISTERO DELLA CREAZIONE.
Ho detto che l’esperienza di tutti i cercatori di Dio è che l’unità si raggiunge
nell’assoluto superamento del senso di separazione. Questo diviene costante
solo nella totale quiete delle modificazioni della mente.
Ecco la ragione per cui le grandi religioni parlano di un Dio Trascendente.
Spesso però la capacità dell’uomo di rapportarsi con la sua vera natura divina
è inibita da una progressiva inerzia, che lo rende sempre meno sensibile ed
interessato al superamento dei suoi limiti.
Ecco perché il Divino si fa umano.
L’incapacità d’identificazione con il Trascendente può essere superata solo da
un rapporto d’amore con un Dio che prende forma umana. Questa è la ragione
per la quale il Divino si fa uomo: per amore verso l’umanità.
Questa verità è alla base di tutte le religioni, anche quelle come l’Islam, che nei
loro scritti negano la manifestazione divina.

91
Maometto lo afferma, infatti, nel Corano. Egli dice: “Chi ha visto me ha visto
Allah”.
La stessa identica frase, e non è certamente un caso, dice Gesù a Filippo139: “Da
tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto o Filippo? Chi ha visto
me ha visto il Padre. E come puoi tu dire: “Mostraci il Padre? Non credi che io
sono nel Padre e il Padre è in me?”
Nella Bhagavad Gita il Signore dice ad Arjuna, il suo discepolo: “Sebbene io
sia il non nato, il Sé imperituro, il Signore di tutte le creature, ricorrendo alla
natura che mi è propria (prakrti), vengo all’esistenza, mediante i miei stessi
poteri (il potere di manifestazione e di creazione delle forme). Ogni volta che il
Dharma (la legge, l’ordine, la giustizia, la conoscenza della nostra vera natura)
declina e l’Adharma (l’ignoranza dell’Essere, l’entropia, l’ingiustizia) prevale,
di tempo in tempo, di luogo in luogo, io mi incarno tra gli uomini. Per il soste-
gno dei buoni e la dissoluzione dei malvagi, ristabilisco il Dharma. Compiuto
ciò ritorno al luogo da cui sono venuto. Colui che conosce il vero principio
della mia nascita e della mia azione divina, quando abbandona il corpo non
rinascerà più, o Arjuna, egli verrà a me. Liberati dall’attrazione, dalla paura
e dalla collera, purificati mediante l’austerità della conoscenza, ripieni dello
Spirito Divino, che è nella natura della vita, avendo preso rifugio in me molti
hanno raggiunto la mia natura divina”.140
Spesso in occidente la conoscenza della incarnazione del Divino nell’umano
è stata motivo di discordie e separazioni, sovente addirittura di disprezzo e
negazione. Spesso l’Incarnazione divina viene messa a morte.
Il Signore conosce tutto questo e nelle scritture la triste realtà è evidenziata, nel
Vangelo come nella Bhagavad Gita: “Gli insensati mi disprezzano perché mi
rivesto di un corpo umano, ma è perché non conoscono la mia suprema natura
di Signore delle creature”.141
“Sputandogli poi addosso e prendendogli la canna, gliela battevano in testa.
Dopo averlo così schernito, gli levarono il manto, gli rimisero le sue vesti, e
lo condussero a crocifiggere (…) Coloro che passavano lo ingiuriavano (…)
e nello stesso modo lo beffeggiavano anche i ladroni che erano crocifissi con
lui”.142
Gesù dice, mentre viene ucciso sulla croce: “Perdona loro perché non sanno

139 Vangelo di Giovanni – 14.9


140 Bhagavad Gita – IV, 6–10
141 Bhagavad Gita – IX, 11
142 Vangelo di Matteo – 27.30

92
quello che fanno”.143
Se l’uomo fosse capace di riconoscere in se stesso la sua vera natura, se vivesse
la sua divinità interiore nel relativo che lo circonda, non avrebbe bisogno di
rapportarsi con una realtà divina in forma umana.
Il tempo e la mente dell’uomo sono i responsabili della perdita della realizza-
zione di Dio.
Solo l’Islam rifiuta qualsiasi figura che è impermanente per raggiungere il per-
manente, ma poi onora il Corano come l’incarnazione di Dio in forma sonora
e scritta.
La Gnosi cristiana parte dall’idea fondamentale che il Cristianesimo consi-
sta in questo: “Dio si è fatto ciò che noi siamo, per renderci ciò che Egli è”
(S.Ireneo). Il cielo è divenuto terra affinché la terra divenga cielo.
Cristo rappresenta nel mondo esteriore e storico ciò che accade da sempre nel
mondo interiore dell’anima.
Nell’uomo, lo Spirito si fa ego, affinché l’ego divenga puro spirito (…) Il Cri-
stianesimo è così una dottrina d’unione, o la dottrina dell’unione, piuttosto che
dell’unità. “Il Principio si unisce alla manifestazione affinché questa si unisca
al Principio” scrive Frithjof Schoun.144
Perché questa dualità Gesù–uomo, che nella natura del Cristo non esiste, sia
superata dalla creatura, bisogna che essa non divenga, come si è detto per se-
coli, simile al Cristo, ma divenga il Cristo. Solo in questa completa unità vi è il
superamento della dualità. Se si resta in qualsiasi forma di separazione, non vi
potrà essere l’esperienza diretta della Sua e della nostra divinità interiore.

LA VIA DELLA DEVOZIONE


Nel Cristianesimo come d’altronde in ogni altra tradizione, senza eccezioni,
vi è un’altra possibilità di realizzazione del Divino attraverso il messaggio
sapienziale del Cristo, l’Amore.
Gesù ci ha detto “Ama Dio con tutte le tue facoltà e, in funzione di tale amore,
ama il prossimo tuo come te stesso, perché amare significa unirsi”.145
Si deve, quindi, in quest’amore superare la forma di Dio e divenire Lui.
Nei monasteri buddhisti al giovane postulante che entra per la prima volta,
regalano una statuina del Buddha in terracotta. Questa statuina diviene oggetto
d’adorazione da parte del giovane. Tutte le attenzioni dedicate alla divinità

143 Vangelo di Luca – 23.34


144 Frithjof Schoun – Comprendere l’Islam – Ed. SE Pag. 127
145 Vangelo di Matteo – 19.18

93
sono, da quel giorno, indirizzate alla forma del Maestro. Le si offre fiori ed
incensi, preghiere e puje146 per lungo tempo. Un giorno il lama direttore del
convento entra nella piccola cella del discepolo e di fronte a lui rompe la statu-
ina gettandola al suolo. Il dolore è grande, forse anche il risentimento, ma è il
momento in cui il giovane monaco deve fare un salto di qualità, superare l’at-
taccamento alla forma per fondere la propria consapevolezza nella Coscienza
del senza forma.
Così avviene anche nei Guru–Kula, le scuole dei veri Maestri Siddha. Giunge
un momento in cui il Guru apparentemente nega la sua presenza ai discepoli.
In realtà nega soltanto il contatto con la sua forma esteriore. Coloro che con-
tinuano ad essere dipendenti da questa espressione del Guru vivente soffrono
di un grave senso di mancanza. A volte questo strazio interiore è superato dal
discepolo, ma purtroppo molti non riescono a realizzare il Guru nella loro di-
vinità interiore ed abbandonano la via spirituale. Coloro che, invece, sono in
grado di non essere più dipendenti dalla forma fisica del Guru, sentono la sua
presenza in ogni istante nei loro cuori, cominciano a sentirla realmente nel loro
mantra d’iniziazione, nel silenzio della loro meditazione, nella gioia come nel
dolore della loro vita quotidiana, nel sorriso dei loro bambini come nelle parole
dei loro canti.
Così dovrebbe essere il nostro rapporto con il Cristo, con il Guru, o con qual-
siasi espressione di Dio–uomo, o anche con tutte le altre forme previste nella
nostra tradizione: venerarli, adorarli, amarli fino a quando si possa trascender-
li. Allora il mistero del Dio–uomo sarà svelato perché finalmente noi potremo
essere Lui. Come potrà più, allora, esservi qualcosa di Lui che non sia anche
noi? Anzi i termini noi e Lui non avranno più motivo di esistere.

E’ nella carne e attraverso la carne che giungiamo a Colui che è


al di là della carne. (S.Agostino)
Gesù disse: “Colui che berrà dalla mia bocca diventerà me. Allo
stesso modo io diventerò lui e le cose nascoste gli verranno rive-
late”. (Vangelo di S.Tommaso – 15)

146 Puja: cerimonia sacra e devozionale individuale o collettiva consistente in omaggi ed offerte
rituali, in espressioni di devozione, in manifestazioni di amore e di dolcezza del cuore, in
assoluta quiete della mente, in pace e serenità.
Gesù nel Vangelo di Matteo (5.23) nel discorso più importante della sua vita pubblica ci dà
questo insegnamento: “Se dunque tu stai presentando la tua offerta all’altare e ivi ti ricordi
che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta lì dinanzi all’altare e va’
prima a riconciliarti con il tuo fratello, poi allora torna e presenta la tua offerta”.

94
L’uomo è una creatura deiforme, dotato di una intelligenza ca-
pace di concepire l’Assoluto e di una volontà capace di scegliere
la via che lo riporta a Lui. (Ibn Arabi)
L’anima umana non è altro che la manifestazione per eccellenza
dello Spirito del Clemente, poiché il Clemente ha soffiato il Suo
Spirito in lui. (Corano – XXXII.9)
Qual’è la cosa peggiore che possa compiere l’istinto del male?
Che l’uomo dimentichi di essere figlio di Re. (Rabbi Shlomo)
Io e Te significa dualità, e la dualità è illusione perché solo l’Uni-
tà è Verità. (Al Haqq)
Solo nell’Unità vi è pace, nella dualità vi è illusione e sofferenza,
impermanenza e incertezza. (Abu Al Bistami – Maestro Sufi)
Ho visto il mio Signore con gli occhi del mio cuore e gli ho
chiesto: “Chi sei?” Egli mi ha risposto “te”. (Al Hallai – Maestro
sufi)

Due grandi mistici cristiani, in poche parole, ci descrivono questo meraviglio-


so rapporto tra la Divinità espressa e la vera natura di tale manifestazione.
Dice Meister Eckhart: “L’uomo esteriore gusta le cose come creazione. L’uo-
mo interiore che è in me gusta le cose, non come creatura, ma come dono di
Dio. Ma per l’uomo che è nel mio intimo esse hanno il gusto non del dono di
Dio, ma di Dio stesso”.
Giovanni di Reynbroeck scrive: “Al di là dell’espressione è questa meraviglio-
sa meraviglia”.
Il Corano porta questa testimonianza quando Dio dice di Adamo agli angeli:
“Quando io l’avrò formato secondo la perfezione ed avrò insufflato in lui il
mio Spirito (min Ruhi) cadete prosternati di fronte a lui”.147
“Chi vede me vede il Padre (…) perché come il Padre ha vita in se stesso, così
ha dato anche al figlio di avere vita in se stesso”.148

L’ATTIVITA’ DEL DIO–UOMO


Migliaia sono i tuoi occhi, eppure tu non hai occhi.
Migliaia sono le tue forme, eppure tu non hai forma.
Migliaia sono i tuoi piedi, eppure tu non hai piedi.
Tutto questo è il tuo gioco, e tu mi affascini.

147 Corano – XV.29 e XXXVIII. 72


148 Vangelo di Giovanni – 5.26

95
In ogni cuore vi è la tua Luce. Quella Luce sei tu.
Da ogni Luce, che è Dio stesso, ogni anima è illuminata;
ma quella Luce divina diviene manifesta solo alla presenza del Maestro,
solo con la ripetizione del suo santo nome.
Guru Nanak

Quale straordinario atto d’amore è però quello del Dio che diviene uomo. Qua-
li straordinari raggiungimenti il genere umano ha avuto attraverso la figura del
Buddha, del Cristo, di Krishna, di Rama, del Mahavira. Che dolcezza vi è nelle
loro parole, che amore nei loro atti, totale dedizione all’umanità, meravigliosi
insegnamenti, esempi sublimi, Grazia permanente.
La natura essenziale d’ogni esistenza ha nell’attività del Dio–uomo il suo
aspetto personale.
L’attività di Brahman è Iswara che si manifesta nella Trinità induista.
L’attività di Dio nel Cristianesimo è Gesù che è l’espressione vivente delle tre
persone.
Al culmine della creazione vi è il Dio personale che permette la soluzione del
paradosso Dio–uomo.
Non vi può essere soluzione se non in una figura che sia contemporaneamente
vero Dio e vero uomo.
Nelle religioni che non hanno una tale manifestazione, vi è come soluzione
della separazione tra Dio e uomo una sorta di Patto che il Divino assicura tra
Sé e la creatura. Tutto questo è espresso ad esempio nell’Ebraismo.
La simbologia della separazione e quella del Patto di rientro sono chiare nella
Genesi e nell’Esodo del cosiddetto Antico Testamento.
All’inizio della Genesi non vi è nessun patto tra Dio e l’uomo ma solo una
condanna di separazione per la sua disobbedienza. “Poi rivolto alla donna le
disse:149 “Moltiplicherò assai le tue pene e le doglie della tua gravidanza. Avrai
i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito ed egli
dominerà su di te (…) la terra sarà maledetta per cagion tua, con lavoro fati-
coso riceverai da quella il tuo nutrimento per tutti i giorni della tua vita, essa ti
produrrà spine e triboli, ti nutrirai dell’erba dei campi. Con il sudore della tua
fronte mangerai il pane finché tornerai alla terra da cui sei stato tratto, poiché tu
sei polvere e in polvere ritornerai (…) perciò il Signor Iddio cacciò Adamo dal
giardino di Eden, perché coltivasse la terra dalla quale era stato tratto e dopo
averlo cacciato pose dei Cherubini a Oriente del giardino di Eden, armati di

149 Bibbia – Genesi – 3.16 e seg.

96
spada fiammeggiante per impedire l’accesso all’albero della vita”.
Il Patto avviene molto più tardi, prima con Noé sul rispetto della vita identifi-
cata con il sangue e simboleggiato dall’arcobaleno150, ma il primo vero patto
avvenne soltanto con Abramo: “Abramo aveva 99 anni, quando gli apparve il
Signore e gli disse “Io sono Iddio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii
perfetto. Stabilirò il mio patto tra me e te, e ti moltiplicherò in modo stragran-
de”. Abramo si prostrò fino a terra e Iddio continuò dicendo: “Sono io! Ecco
il mio Patto con te. Tu diventerai padre di una moltitudine di popoli. Non ti
chiamerai più Abramo, ma il tuo nome sarà Abrahamo, perché io ti costituisco
padre di una moltitudine di popoli. Ti farò moltiplicare in modo stragrande,
ti farò diventare molte genti e dei re usciranno da te. Stabilirò il mio Patto tra
me e te e i tuoi discendenti dopo di te. Darò a te e ai tuoi discendenti dopo di
te la terra dove abiti ora come forestiero, tutta la terra di Canaan in possesso
perpetuo, e sarò loro Dio”. Segue poi una strana domanda d’impegno basata
sulla circoncisione, che sarà quindi il simbolo del Patto sulla carne della gente.
(Bibbia – Genesi – 17.1)
Il Patto si perfezionerà nell’Esodo (19.1) la cui conclusione sarà le “tavole del-
la legge”, i dieci Comandamenti e il cui simbolo sarà l’ “Arca dell’Alleanza”.
Abbiamo visto che nella Genesi l’uomo, generato da Dio si sente separato da
Lui. Nasce la prima diaspora dell’uomo, immagine e somiglianza di Dio, in un
esilio raffigurato da questo piano d’esistenza, dal limite, dalla finitezza.
L’uomo è il popolo d’Israele. Tale popolo è l’eletto, come l’uomo è l’unico
nell’intera creazione a poter stabilire e seguire la via di rientro verso il suo
diritto di nascita, l’unione con il suo Dio.
La vita dell’uomo nella creazione duale è l’esilio del popolo eletto in Egitto e
in Babilonia. Poi l’Esodo come la “sadhana” è il cammino verso la realizzazio-
ne che è la terra promessa. Il Patto, berit, è ribadito nei rotoli di Qumran come
l’unico mezzo per giungere alla Luce attraverso la lotta con le tenebre. Il Patto
come descritto nel Rotolo della guerra (1QM:Milhamah) è solo per:

Il popolo dei Santi del Patto, istruiti nella Legge,


dotati d’intelletto,151 uditori della voce gloriosa,152
spettatori degli angeli santi,153aperti d’orecchi,

150 Bibbia – Genesi – 9.8–17


151 Facoltà di discriminazione tra il Bene ed il Male, tra ciò che conduce alla Luce e ciò che
trattiene nelle tenebre.
152 La voce gloriosa è il PRANAVA , la voce di Dio, il suono del fluire della Grazia.
153 Testimoni di Dio, scoperto nelle profondità di ciò che non può essere scoperto nel mondo duale.

97
uditori delle profondità dei misteri di Dio.

Che questo cammino possa essere compiuto, e che, quindi, i misteri di Dio
possano essere svelati si legge in SIR 17.11: “I loro occhi contempleranno la
grandezza della Gloria, le loro orecchie sentiranno la magnificenza della Sua
voce. Essi sono i Santi”.
I Santi sono coloro che hanno superato l’esilio, la separazione dell’uomo da
Dio. Questo Patto si manifesta attraverso l’acquisizione della pace di Dio: “Il
Patto della tua pace hai inciso per loro in eterno”, “quand’anche i monti si al-
lontanassero e i colli fossero rimossi, l’amore mio non si allontanerà da te, né
il mio patto di pace verrà rimosso, dice l’Eterno”.154

IL PATTO E LA CASTA SACERDOTALE


Il Dio personale, nella religione ebraica è sostituito, come ho già detto dal Pat-
to, ma anche dalla casta sacerdotale. “La guida dei sacerdoti nella guerra santa
porterà alla sicura vittoria. I sacerdoti garantiranno la giusta trasmissione dei
contenuti del Patto”. (Sefer ha – Berit)155
Dovrebbe essere quindi chiaro che il popolo che ha accolto il Dio personale
e ne segue la “Via” non ha bisogno di una casta sacerdotale. Come si è dimo-
strato in tutte le religioni la casta sacerdotale si è sostituita pian piano, ma de-
finitivamente, al Dio personale, prendendone le veci e distorcendo il più delle
volte l’insegnamento, ma, ciò che è più grave, rendendo sempre più difficile il
rapporto diretto con la manifestazione divina, essendosi costituita come unico
mediatore tra Dio e l’uomo.
Nella Bibbia, Isaia, proprio nell’introduzione della sua profezia, tuona contro
la casta sacerdotale che si è corrotta e non è più capace di riportare il popolo al
suo Signore, anzi non lo riconosce più essa stessa. Dice: “Il bue conosce il suo
proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, Israele, invece, non compren-
de, il mio popolo non ha senno”. E prosegue dicendo:
“Che mi importa dei molti vostri sacrifici? Sono sazio dell’olocausto di arieti e
del grasso dei vitelli, del sangue dei buoi, degli agnelli e dei capri. Non li gra-
disco. Quando venite e vi presentate davanti a me, chi reclama questo da voi?
Non calpestate più i miei cortili per portarmi delle offerte vane. Il vostro in-
censo mi è in abominazione. Neomenie, sabati e adunanze rituali non le posso
soffrire, né i sacrifici o le feste” e prosegue in modo ancora più deciso dicendo:

154 Bibbia – Isaia – 54.10


155 Bibbia – Esodo – 24.7

98
“quando voi stendete le vostre mani, distolgo da voi i miei occhi. Anche se voi
moltiplicate le preghiere io non le ascolto (…) lavatevi, purificatevi, allonta-
nate le vostre cattive azioni dai miei occhi. Cessate di fare il male, imparate a
fare il bene, cercate la giustizia”. (Bibbia – Isaia – 1.3.17)
“Io odio, disprezzo le vostre feste, non prendo piacere nelle vostre solenni ra-
dunanze. Se mi offrite i vostri olocausti e le vostre oblazioni, io non li gradisco;
e non fo’ conto delle bestie grasse che mi offrite in sacrificio di azioni di grazie.
Lungi da me il rumore dei vostri canti! Che io non oda più la musica dei vostri
salteri!” (Bibbia – Amos – 5.21–24)
Gesù più volte nel Vangelo si rivolge alla casta sacerdotale in maniera molto
ferma. Un giorno poi li minaccia addirittura: “Ma guai a voi Scribi e Farisei
ipocriti! Perché serrate in faccia agli uomini il regno dei cieli, e non ci entrate
voi, né lasciate che ci entrino quelli che ci vogliono entrare”. (Vangelo di Mat-
teo – 23.13)
Le controversie nell’ambito religioso, nella nostra tradizione, sono sempre
avvenute per diverse interpretazioni della Parola di Gesù, compresi i grandi
scismi come quello della Chiesa d’Oriente rispetto alla Chiesa d’Occidente e le
grandi riforme, a cominciare da Lutero, gestite sempre da gente di Chiesa.
Lo stesso avviene nell’Islam con la “Sunna”.156 L’interpretazione della Sunna,
che secondo Maometto non avrebbe dovuto avere mediatori, è invece gestita
dalla classe sacerdotale. Questo ha inizialmente creato la grande divisione tra
Sciiti e Sunniti e poi come vediamo ora, ma come è spesso successo nel corso
dei secoli, è sfociato in vere e proprie guerre fratricide. Ancora nel dicianno-
vesimo secolo gli Sciiti iraniani hanno massacrato i maestri Ba’hai colpevoli a
loro dire di eresia nei confronti della Sunna e della casta sacerdotale.
Lo stesso principio viene indicato da Pietro in uno dei suoi scritti: “Sappiate,
innanzitutto, questo: nessuna Scrittura profetica va soggetta a privata spiega-
zione perché non da volontà umana fu recata una profezia, ma mossi dallo
Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio”.157
Ancora più complicato diventa il cammino di rientro del cercatore all’Unità se,
ed è sempre avvenuto, la casta sacerdotale si divide in più caste e quindi in più
interpretazioni della parola del Dio–uomo, del Patto, della voce, dell’insegna-
mento, della figura del Dio personale.
Questo è purtroppo avvenuto in tutte le religioni. Provate a pensare alle diatribe

156 La Rivelazione della Legge di Dio attraverso il profeta Maometto nel Corano e negli
Hadit
157 Bibbia – 2 Pietro – 1.20

99
e alle divisioni nell’Induismo tra Vishnuiti e Shivaiti, nella completa ignoranza
dell’Unità di Dio e del messaggio d’amore del Divino incarnato.
Esaminate se volete le differenze evidenti tra il Buddhismo Mahayana e il
Buddhismo Hinayana o Teravada. Questa divisione è avvenuta, ahimé, solo
pochi anni dopo la morte del Buddha.
Provate a confrontare l’interpretazione della Torah data dalle correnti ebree
ortodosse e quella data dai seguaci della grande dottrina della Cabbalah. Nella
nostra religione poi, credo, battiamo tutti i record. In internet ho potuto contare
ben 112 Chiese di Cristo.
Se vogliamo ben esaminare la storia e l’insegnamento che ci viene proposto
nella nostra religione, se accettiamo, per un momento, d’essere lontani da idee
preconcette, alle quali invece restiamo spesso disperatamente attaccati come
naufraghi al pezzo dell’albero spezzato di una barca nella tempesta della vita,
se siamo ancora capaci di un minimo di discriminazione, di esame della storia
e della realtà, saremo sorpresi di quanto siamo stati portati in giro dalla casta
sacerdotale dominante.
Leggete gli Atti degli Apostoli e le Lettere di S.Paolo e troverete in tutta evi-
denza che solo pochissimi anni dopo la morte del Cristo è avvenuto uno “sci-
sma” terribile che ha interamente sconvolto le scelte fatte da Gesù in vita e
dopo la sua resurrezione.
Chiedendovi di approfondire personalmente il problema, se l’argomento vi
interessa, con una lettura attenta dei testi del Nuovo Testamento, vi indico
brevemente:
1. Gesù, nella sua vita pubblica, seleziona accuratamente dodici apostoli, evi-
denziando per bene che non sono loro a scegliere il Maestro, ma viceversa
è Lui a scegliere loro:
“Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi e vi ho co-
stituiti perché andiate e portiate frutto ed il vostro frutto sia permanente”.
(Vangelo di Giovanni – 15.16 – 6.70) (Vangelo di Marco – 3.13)
2. A questi apostoli Gesù dedica insegnamenti particolari, esempi e attenzioni
molto profonde, oserei dire definitive sulla realtà del Regno di Dio:
“Allora i discepoli, accostatisi gli dissero:”perché parli loro in parabole?”
– ed Egli rispose loro: “Perché a voi è dato di conoscere i segreti del Regno
dei cieli, ma a loro non è dato (…) Beati gli occhi vostri perché vedono ed i
vostri orecchi perché odono. Poiché in verità vi dico che molti profeti e giu-
sti desiderarono vedere le cose che voi vedete e non le videro e di udire le
cose che voi udite e non le udirono”. (Vangelo di Matteo – 13.10) (Vangelo
di Marco – 4.11)

100
3. Con questi apostoli, con le loro stesse incertezze, le loro contraddizioni,
con le loro debolezze, con la loro incapacità di vivere costantemente nella
consapevolezza della natura del Cristo, con loro Egli ha vissuto tutta la sua
vita pubblica e conclude con loro la vita terrena istituendo quello che nella
nostra religione pare essere il sacramento fondamentale che porta all’Unità:
l’Eucarestia:
“Prendete e mangiate; questo è il mio corpo (…) prendetene tutti perché
questo è il mio sangue (…) io vi dico che non berrò più di questo frutto della
vite, fino a quel giorno in cui ne berrò del nuovo, insieme a voi, nel Regno
del Padre mio”. (Vangelo di Matteo – 26.26) (Vangelo di Marco – 14.22)
4. E’ a Pietro che sembra dare il potere di condurre il gruppo degli apostoli:
“Beato te o Simone, figlio di Giona, perché non la carne né il sangue ti ha
rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. Ed io dico a te, che tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte dell’inferno
mai prevarranno contro di lei. E a te darò le chiavi del Regno dei Cieli, e
qualunque cosa avrai legata sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qua-
lunque cosa sarà sciolta sulla terra sarà sciolta anche nei cieli”. (Vangelo
di Matteo – 16.17)
“Pasci i miei agnelli (…) Sii pastore delle mie pecore (…) Pasci le mie pe-
corelle”. (Vangelo di Giovanni – 21.15)
5. Appena risuscitato, quando si presenta a Maria Maddalena ed alle donne
al sepolcro chiede subito di Pietro, si premura che la notizia venga data a
Pietro per primo ed è davanti agli altri che Pietro corre al sepolcro:
“E andate a dire ai suoi discepoli e a Pietro che Egli vi precede in Galilea,
là voi lo vedrete come Egli vi ha detto”. (Vangelo di Marco – 16.7)
“Tuttavia Pietro alzatosi corse al sepolcro e chinatosi per guardare vide
solo i pannolini per terra”. (Vangelo di Luca – 24.12)
“Allora di corsa si reca da Simon Pietro e da quell’altro discepolo predilet-
to di Gesù e dice loro: Hanno portato via dal sepolcro il Signore e non sap-
piamo dove l’abbiano messo. Uscì dunque Pietro con quell’altro discepolo
e andarono al sepolcro”. (Vangelo di Giovanni – 20.2)
6. E’ a questi apostoli, e non ad altri, che dedica il suo tempo, la sua attenzio-
ne, le sue apparizioni. A questi apostoli, e non ad altri, rinnova gli insegna-
menti e chiede la diffusione della “buona novella”. A questi apostoli, e non
ad altri garantisce sostegno e riconoscimento:
“Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”. (Van-
gelo di Marco – 16.15)
“La pace sia con voi! Come il Padre ha mandato me io mando voi. (…)

101
Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi,
e a chi li riterrete, saranno ritenuti”. (Vangelo di Giovanni – 20.21)
“Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi altri?” Alla risposta
affermativa di Simone detto Pietro dice: “Abbi cura dei miei agnelli” (Van-
gelo di Giovanni – 21.15) e ripete per ben tre volte lo stesso mandato: “Abbi
cura dei miei agnelli”.
7. E’ a questi apostoli e non ad altri che concede la vista benedetta ed unica
della sua ascensione al cielo:
“Il Signore Gesù, adunque, dopo aver loro parlato, si elevò al cielo, e sie-
de alla destra del Padre. Essi poi se ne andarono a predicare dovunque,
cooperati dal Signore, il quale confermava la parola con i miracoli che
l’accompagnavano”. (Vangelo di Marco – 16.19)
8. A questi apostoli manda lo Spirito Santo che li pervade con la Sua cono-
scenza e i suoi poteri, che li completa sulla via della realizzazione, che ne
fa dodici Cristi viventi:
“Venuto poi il giorno della Pentecoste si trovarono tutti insieme nel mede-
simo luogo (…) sicché tutti furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono
a parlare lingue diverse secondo che lo Spirito Santo dava ad essi di espri-
mersi”. (Atti degli apostoli – 2.1)
9. Sono questi dodici apostoli che cominciano a testimoniare il Cristo e la sua
vita, i suoi insegnamenti e la sua natura divina:
“Allora Pietro, insieme con gli altri undici, si presentò loro e alzò la voce
dicendo”. (Atti degli apostoli – 2.14) (Vangelo di Marco – 16.19)
10. Davanti a tre di loro, Pietro, Giacomo e Giovanni, Gesù sale su un alto
monte, si trasfigura in compagnia di Mosé e di Elia:
“Là di fronte a loro Gesù cambiò aspetto. Il suo volto si fece splendente
come il sole e i suoi abiti divennero bianchissimi come la luce”. (Vangelo
di Matteo – 17.2) (Vangelo di Marco – 9.2) (Vangelo di Luca – 9.28)

Eppure, solo pochissimi anni dopo, un cittadino romano di origine ebrea reclama:
1) di essere stato raggiunto da una luce divina che egli, da solo, ed egli sol-
tanto, ha identificato come la luce del Cristo.
2) di poter insegnare in nome di Gesù, non avendolo mai conosciuto, anzi
avendolo perseguitato, autochiamandosi “apostolo per vocazione”158, o
per “volontà di Dio”159.

158 S.Paolo – Lettera ai Romani –1.1


159 S.Paolo – 1 lettera ai Corinzi – 1.1 / Lettera agli Efesini 1.1

102
3) di ritenere in un eccesso di ego spirituale di essere più qualificato di Pietro
stesso a diffondere l’insegnamento di Gesù, che non ha mai udito, e che
non ha voglia di udire dai veri apostoli, rimanendo con loro solo pochi
giorni, sollevando un contenzioso che gli apostoli non riconoscono come
aderente al messaggio del Dio–uomo.
4) litigando e separandosi da Pietro, rivendicando una indipendenza di giudi-
zio e di azione che Pietro, Giacomo e gli altri apostoli non gli riconoscono
ad Antiochia.160
5) crea la prima e più grave scissione, un vero e proprio scisma, dagli apo-
stoli del Cristo, infatti nessuno di loro lo segue, lo riconosce, né lo accetta.
Quando Paolo ritorna ad Antiochia non a lui, ma a due discepoli di cui si
fidano, Giuda Barsabba e Sila, affidano una lettera per la chiesa locale161
ed anche Barnaba, il discepolo mandato con lui dagli apostoli, viene cac-
ciato e sostituito da un altro Sila, suo discepolo.
6) da quel momento nascono le chiese di Pietro (Cefa) e le chiese di Pao-
lo162-163. Da quel momento negli scritti della nostra tradizione non si saprà
più nulla dei dodici apostoli. Essi non figureranno mai più se non quando,
ben più tardi, saranno necessarie delle credenziali più profonde di quelle
che può dare il cittadino romano di origine ebrea e che servono per fonda-
re una Chiesa piramidale che Gesù non ha mai istituito e che non ha mai
voluto. La storia degli apostoli, quelli veri, quelli scelti da Gesù vivente,
di fronte a tutta la comunità, non è più in alcun modo raccontata da Luca,
discepolo di Paolo, negli Atti degli apostoli, a testimoniare la profonda
frattura che si è venuta a creare tra Pietro e Paolo dopo la questione di An-
tiochia. Verrà invece raccontata da Eusebio di Cesarea nella sua Historia
ecclesiastica, e rivista da Rufino.
7) L’insegnamento del Cristo viene da Paolo in buona parte stravolto (non
parla egli mai del discorso delle “beatitudini e della montagna” che costi-
tuisce realmente il Nuovo Testamento, stabilisce un rapporto con le donne
così misogeno da essere completamente contrario al rapporto che il Cristo

160 S. Paolo – 1 Lettera ai Corinzi – 9.2 “Se per gli altri non sono apostolo, per voi, almeno,
lo sono. Voi siete il sigillo del mio apostolato nel Signore. Questa è la mia difesa contro
quelli che mi giudicano”.
161 Bibbia – Atti degli Apostoli – 15. 22–23
162 S.Paolo – 1 Lettera ai Corinzi – 1.12
163 S.Paolo – 2 lettera ai Corinzi – 11.6 “Ora io ritengo di essere in nulla inferiore a questi
“superapostoli”, mentre Pietro ne prende le distanze dicendo che loro e non lui sono stati
“testimoni oculari”: “questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo
con Lui sul sacro Monte” 2 Pietro 1.16

103
aveva avuto con le donne in tutta la sua vita, un rapporto patologico con il
sesso che purtroppo a distanza di venti secoli ancora continua nella nostra
chiesa e causa danni irreparabili (come quelli dei preti pedofili).
8) Nei suoi scritti, salvo alcuni riferimenti, peraltro assai scarsi nella I lettera
ai Corinzi – 1,23–25, “si abbinano, ahimé, tanti silenzi nelle sue lettere:
non si dice nulla di Gesù guaritore ed esorcista, non c’è traccia del ricco
materiale del racconto della passione, sono assenti le parabole, ignorate
le controversie che hanno opposto il Nazzareno ai farisei e agli scribi a
proposito della legge mosaica, nessun accenno al battesimo per mano del
Battista, alle tentazioni, alla missione galileaica. E se l’annuncio essenzia-
le di Gesù verteva sul “Regno di Dio” e ne faceva un “vangelo teologico”,
quello di Paolo è un messaggio “Cristologico” sulla morte e resurrezione
di Gesù”.164
Quello che ritengo assai più grave di ogni altra considerazione, a mio pa-
rere assurdo in uno che si dice discepolo di Gesù, è l’assenza totale di
riferimento alle parole del Cristo vivente, ma soprattutto al Padre, come ha
ben evidenziato anche Bultmann.165
9) Fa scrivere addirittura da un suo discepolo, Luca, che non ha mai cono-
sciuto Gesù, un nuovo vangelo, negando esplicitamente il valore di van-
geli come quello di Tommaso o quello di Pietro, o di Maria. In questo
vangelo viene addirittura trasformata la frase che Gesù, secondo i vangeli
di Matteo e di Marco, disse durante l’ultima cena. Ad essa fu aggiunta
una fantomatica “Nuova Alleanza”, che è divenuta poi nella odierna litur-
gia addirittura “nuova ed eterna alleanza”166, ma ancor più nell’offerta del
pane la frase “fate questo in memoria di me” che figura solo nel vangelo di
Luca e nelle lettere di S.Paolo167, e che giustifica una istituzione dell’Euca-
restia che altrimenti non avrebbe credenziale in altri scritti.
10) Sembra che Pietro abbia vissuto a Roma gli ultimi due anni della sua vita
e sia morto nella persecuzione di Nerone (67 d.C.) in contemporanea con
Paolo, ma i due non risulta si siano mai incontrati, anzi come risulta negli
Atti degli apostoli (28.22–26) Paolo tenta di riconvertire alla sua visione

164 Giuseppe Barbaglio – “Gesù ebreo di Galilea”– Ed.EDB, pag. 53.


165 R.Bultmann –“L’interpretation du Nouveau Testament” – Ed. Aubier 1955.
166 L’ “Alleanza” che Gesù cita nella benedizione, sia nel Vangelo di Matteo (26.28) che nel
Vangelo di Marco (14.22) non è affatto una “nuova Alleanza”, anzi conferma l’Alleanza di
Dio con gli ebrei: “Con questo sangue Dio conferma la sua Alleanza”.
167 San Paolo inserisce la frase “fate questo in memoria di me” anche nell’offerta del vino. I°
lettera ai Corinzi – 11.23–25, contrariamente a quanto dicono tutti i vangeli sinottici.

104
del Cristo anche i discepoli di Pietro. I due non si sono mai apprezzati,
non hanno mai collaborato, non si sono mai amati, eppure oggi li vediamo
continuamente accomunati, non solo nelle statue e nei dipinti, ma anche
nelle feste del calendario solo perché questo è divenuto utile a rivendicare
credenziali, che in realtà non sono mai esistite.

Giudicate voi in tutta serenità. Chiedetevi perché tutto ciò non è evidenziato
dalla casta sacerdotale dominante. Chiedetevi, se avessimo noi vissuto quegli
anni, avremmo seguito Pietro, l’apostolo, lo scelto dal Dio–uomo, il crismato
dallo Spirito nella Pentecoste o Paolo, il cittadino romano di origine ebrea che
si è autoproclamato “apostolo più di costoro (i veri apostoli di Gesù)”.
Io so quale Maestro avrei scelto!
Riporto un brano di una lettera del Cardinale Carlo Maria Martini pubblicata
sulla “Repubblica” di sabato 29 settembre 2007. Egli scrive:
“(…) Si pone qui un problema gravissimo, quello della possibilità che un’isti-
tuzione religiosa decada: si leggono ancora i testi sacri, però non sono più
compresi, non hanno più forza, accecano invece di illuminare.
Molte volte ho insistito sulla necessità di giungere a superare le tradizioni re-
ligiose168 quando non sono più autentiche. Solo la parola di Dio, rappresentata
qui da Gesù, è normativa e capace di dare chiarezza.
E ho pure affermato, a proposito della necessità di imparare a convivere tra di-
versi – la sfida più urgente della nostra civiltà –, che non dobbiamo tanto insi-
stere sulla ortodossia religiosa delle singole parti, auspicando che ciascuno sia
religioso al meglio secondo la sua tradizione. Le tradizioni, comprese le nostre,
possono conoscere infatti anche delle forme di decadenza. Occorre piuttosto
fermentarci e vivificarci a vicenda, al di là dell’appartenenza religiosa, così che
ciascuno sia aiutato a rispondere di fronte a Dio.
Personalmente non sono favorevole al dialogo religioso quando considera
le religioni come monoliti, realtà che devono dialogare restando immutabili.
L’uomo è fatto per superare se stesso, come diceva Pascal: “L’uomo supera in-
finitamente l’uomo”. Occorre dunque lasciarci fermentare a vicenda da parole
vere e autentiche.
Parole vere e autentiche, non collegate ad una tradizione religiosa precisa, le
troviamo sopratutto nel Discorso della montagna. Parole che toccano ciò che
di più sensibile c’è nell’esistenza umana: la fedeltà, la lealtà, l’umiltà – non

168 Uno dei due pilastri della Divina Rivelazione secondo la nostra teologia: Sacra Scrittura e
Tradizione.

105
sappia la destra ciò che fa la sinistra –, il perdono, il non preoccuparsi delle
cose di questo mondo, non accumulare tesori, non giudicare per non essere
giudicati, fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi.
Questo è un insegnamento sicuro per tutti, che tocca nell’intimo il nostro cuo-
re e ha la forza di rinnovare un ebreo, un cristiano, un mussulmano, un indù,
un buddhista, proprio in quanto attinge le profondità dello spirito. (…) Sono
le verità di fondo del Discorso della montagna, assolutamente autentiche e
affidabili, perché contengono anche la giusta critica alle tradizioni religiose
degradate.
Ci rendiamo conto che il compito del discepolo è grande, è un compito di sin-
cerità e di autenticità, e ad esso noi siamo continuamente spinti da una grazia
superiore alle nostre forze, dalla grazia dello Spirito Santo, che ci guida, ci
stimola e ci sorregge”.
Padre Raimon Panikkar in un intervento video presentato il 17 ottobre 2007 al
Centro San Fedele di Milano diceva: “Penso, dopo un’esperienza di quaranta
secoli di logica del nemico e di continui sforzi per combatterlo, che tutto ciò
non dia risultati. Continuiamo ad aver nemici dappertutto. L’unica cosa che
per me resta da mettere in pratica è il Sermone della Montagna. Dato che non
è mai stato messo in pratica non sappiamo se funziona (…) Nella pratica per-
sonale funziona. E ciò non significa affatto sottomettersi ad un’altra civiltà, o
perdere la propria identità. (…) Di cosa ho paura? Di perdere una identità che
è così debole che non si sostiene da sola? (…) E’ necessario rilevare che gli
scontri di civiltà, storicamente, hanno a che fare con il problema della Verità e
del suo possesso esclusivo. Non si può negare, infatti, che in nome della Verità
si sono fatti crimini spaventosi e trovate giustificazioni orribili. Noi non siamo
i padroni della Verità. Citando S.Tommaso: chi ha trovato la Verità è posseduto
dalla Verità, non ne è padrone. (…) Abbiamo necessità di comprendere che
la Verità, forse, quando cade dal cielo sulla terra si rompe in cento pezzi, un
pezzetto a disposizione di ciascuno”.169

IL DIO PERSONALE ALL’INTERNO DELL’UOMO


Il ritorno a Dio, nostra natura e nostra essenza può, quindi, per tutto ciò che ab-
biamo detto finora, avvenire facilmente per l’uomo se accetta il Dio personale
ed il suo insegnamento: “Questo è il mio figlio diletto nel quale mi sono com-

169 Raimon Panikkar: – Il tempo del perdono e la logica del nemico – La Repubblica – 9 ot-
tobre 2007 – pag 23 Raimon Panikkar – sacerdote cattolico – filosofo

106
piaciuto, ascoltatelo”170. “Nessuno viene al Padre se non attraverso il Figlio”171.
“Io e il Padre siamo uno”172.
In Oriente ed in numerose tradizioni in Occidente la via di rientro avviene
facilmente se guidata dal Guru, la manifestazione vivente di Dio attraverso la
via della devozione, della Bhakti, che comporta una completa trasformazione
dell’ego personale fino al momento in cui il discepolo diviene il Guru.

Karmana manasa vaca Prostrati completamente di fronte al Guru


Nityam aradhayed Gurum senza riserve e servi continuamente il Guru
Dirgha dandam namaskrtya con mente, parole e azioni.
Nirlajjo Gurusannidhau

Gurur brama, gururvishnur Il Guru è Brahma, il Guru è Vishnu


Gururdevo Maheshvara Il Guru è il Signore Shiva
Gurureva Parabrahma Il Guru è veramente Parabrahma
Tasmai Srigurave namah Il supremo Signore trascendente
(Guru Gita.28) Omaggi devoti a Sri Guru

Nel profondo dell’uomo vi è una incarnazione di Dio che possiede le stesse


qualità del Dio personale, ma le mostra sotto le limitazioni del proprio corpo
nato nel mondo, in un certo momento. Per i cristiani questa incarnazione è una
sola (ma non è sempre stato così. Solo il quarto Vangelo, il Vangelo di Giovan-
ni indica Gesù come “l’unigenito figlio di Dio”, nei tre sinottici questa certezza
non è affatto manifestata).
Per gli induisti le incarnazioni del Divino nell’umano possono essere tante
nelle più diverse forme.
La Bhagavad Gita dice che quando l’Adharma, la perdita del cammino verso
Dio, la incapacità di compiere azioni evolutive, prevale sul Dharma, la giusta
azione, la ricerca della nostra natura divina in noi, il Signore, di tempo in tem-
po, di luogo in luogo, si incarna per ristabilire il cammino della giustizia e ga-
rantisce la sua assistenza continua, costante, silenziosa o palese, ma vincente,
verso il riconoscimento della Realtà più intima.

Per parte mia io ritengo che la principale ragione che suggerì al

170 Vangelo di Matteo – 3.17


171 Vangelo di Giovanni – 14.6
172 Vangelo di Giovanni –10.30

107
Dio invisibile di divenire visibile nella carne e avere commercio
con gli uomini, fu quello di guidare gli uomini carnali, che pos-
sono amare solo carnalmente, al sano amore della sua carne e in
seguito a poco a poco all’amore spirituale. (S.Bernardo)
Poi il Beato parlò e disse: “Sappi che, di tempo in tempo, un
Tathagata nasce nel mondo, un essere pienamente illuminato,
degno e beato, ridondante di saggezza e di bontà, felice della co-
noscenza dei mondi, insuperato come guida dei mortali erranti,
maestro di dei e di uomini, un Buddha beato. Egli comprende
compiutamente questo universo, come se lo vedesse faccia a
faccia. Egli proclama la Verità, sia nella lettera che nello spirito,
bella nella sua origine, nel suo progresso, nella sua fruizione.
Egli fa conoscere una via superiore in tutta la sua purezza e in
tutta la sua perfezione. (Tevijja Sutra)
Se non sono illuminati, i Buddha non sono altro che esseri co-
muni. Quando c’è l’illuminazione, gli esseri comuni si trasfor-
mano in Buddha. Così l’Illuminato, l’Avatara, può rivelare la via
dell’illuminazione ad altri ed aiutarli a divenire, in atto, ciò che
essi sono già in potenza. (Hui–Neng)

Nel libro di Enoch leggiamo: “Le montagne salteranno come arieti e le stelle
del cielo torneranno a cantare tutte in coro, in quel giorno in cui sarà ritrovato
Melchisedek,173 il Re vero, sul grande fiume (…) allora la brezza serale farà
rabbrividire di gioia le coscienze liberate (…) ed Egli dice una antica preghiera
di 22 parole. La vittoria sul male e la vittoria sulla morte prendono allora vita.
Sette parole sono pronunciate ed il Maligno perde ogni potere. Vengono udite
altre sette parole e alte l’uomo leva le sue mani rendendo grazie e contemplan-
do. Squilla e si spegne l’ultima sequenza e l’uomo è già perdutamente buono.
Questa bontà durerà un millennio e sarà chiamata “paradiso”.
Il Buddhismo, pur non trattando direttamente la natura di Dio, quindi il rico-
noscimento di un Dio Trascendente, ha però messo il Buddha sul trono del Dio
vivente.
Tra i Sufi, Al Haqq, il reale, l’esistente, sembra identificarsi con Allah (il Su-
premo Trascendente) ed anche il Profeta è una incarnazione del Logos.
Nella tradizione dell’India la moglie è per il marito la manifestazione della

173 Melchisedek: citato nella Genesi (14.18 e 17.5) è il Sommo Sacerdote che benedice
Abramo in nome di Dio.

108
Shakti di Dio, la Grande Madre, la Madre Divina, Uma, Durga e la sua fun-
zione è esercitata su tutta la famiglia, marito compreso. Nel Nord–Ovest la
sposa, al momento del matrimonio tiene in mano un coltello, nel Bengala uno
schiaccianoci. Il significato è che lo sposo, con l’aiuto della sposa, che è l’in-
carnazione del Potere Divino, taglierà i legami dell’illusione e tramite l’amore
raggiungerà con tutta la famiglia l’unione con Dio.
La famiglia è proprio questo, la via che porta dalla molteplicità all’Unità.
Attenti però a non rimanere legati al potere dell’apparenza, alla manifestazione
della forma, che è, come tutto il manifesto, illusione, Maya.

E’ il potere dell’apparenza che ci porta fuori strada.


(Platone – Protagora 356)
Nulla è vincolante come il potere dell’illusione.
(Ibn Ata Illah Alwahm – I poemi)
A causa dell’inganno della dualità, generato dall’attrazione e
dall’avversione, o Bharata, tutti gli esseri sono soggetti all’il-
lusione fin dalla nascita. Quando il tuo intelletto oltrepasserà il
pantano dell’illusione, allora conseguirai lo Yoga.
(Bhagavad Gita – II.52)

La domanda che spesso mi viene posta è: “Posso giungere all’esperienza del


Divino senza credere in un Dio personale?”
La risposta è: “Certamente si”, ma siamo continuamente in pericolo, come
se camminassimo sulla lama di un rasoio. L’ego, le sovrapposizioni mentali,
che ci siamo create e che vedremo più chiaramente nel capitolo IL MISTERO
DELLA MENTE, e che Gesù giudica come “maestre dell’inganno” tendono
a conservare la nostra mente, la nostra intelligenza in una condizione duale,
legata alla dimensione spazio–tempo e nel continuo ricordo che siamo uomini,
imperfetti, incapaci, limitati, condannati a vivere tra bene e male.
Il Dio personale, il Guru, specie se è vivente, con il suo insegnamento, con la
sua presenza, con la sua Grazia, guida sistematicamente il discepolo attraverso
la folta selva degli attaccamenti alla dualità.
Dante canta mirabilmente, all’inizio della Divina Commedia questo stato:

Nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai per una selva oscura
che la diritta via era smarrita.
Ah! Quanto a dir qual’era è cosa dura

109
esta selva selvaggia ed aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura
e tant’è amara che poco è più morte.
(…)
Io non so ben ridir com’io v’entrai
tant’ero pien di sonno in su quel punto
che la verace via abbandonai.

Dante uscirà dalla selva e sarà salvato dalle tre fiere solo con l’aiuto di due
Maestri, Virgilio e Beatrice, e accompagnato da essi sul cammino verso Dio.

IL SALVATORE
In quasi tutte le tradizioni il Dio–uomo viene chiamato “il Salvatore”.
Lo era Horus in Egitto e anche suo padre Osiride di cui egli era la reincarna-
zione.
Da che dovremmo essere salvati? E’ ovvio in ogni tradizione. Dobbiamo esse-
re salvati dalla presa della molteplicità nella quale noi viviamo su questo piano
d’esistenza, dall’identificazione con i frutti dell’albero del bene e del male174,
vale a dire dalla dualità, dall’allontanamento dall’Uno, dal senso di separazio-
ne, che è la fonte di tutti i mali, quindi dalla sofferenza che ne deriva.
Horus è descritto così da Bonwick nel suo Egyptian Belief (pag.157): “Egli è il
grande Dio amato dal cielo. Egli era il figlio del Divino. All’epoca corrispon-
dente alla festa di Natale la sua immagine era portata fuori dal santuario, con
speciali cerimonie, come l’immagine del Bambino Gesù è, ancor oggi, portata
fuori ed esposta a Roma all’Ara Coeli”.
Anche Krishna è in sanscrito chiamato Hari, che significa “Colui che toglie
i peccati del mondo”. Negli Skanda Purana, il Guru, l’uomo divenuto divino
“dispensa il potere della autoconoscenza e brucia tutti i karma (i peccati) ac-
quisiti in innumerevoli vite”. Prosegue poi dicendo: “La radice della liberazio-
ne è la Grazia del Guru”.
Un’altra straordinaria similitudine è come tutti questi “Salvatori” siano nati da
una vergine. Lo era Osiride, nato anch’egli all’epoca del solstizio d’inverno
da una vergine immacolata, la dea Neith, che come Iside, madre di Horus, era
conosciuta come “Madre di Dio, Vergine immacolata, Regina del cielo, Stella

174 Evidente è il parallelo tra il frutto dell’albero del bene e del male della Genesi e
l’attaccamento al frutto dell’azione dello Yoga, ed Eva non è che l’incarnazione di Maya,
l’illusione che illude l’uomo di essere l’autore delle proprie azioni (karma mala).

110
del mare, Stella del mattino, Colei che intercede”.175
Questi appellativi richiamano le giaculatorie alla Madonna che si recitavano
dopo il rosario quando ero ragazzo.
Anche in Babilonia Tammuz, il dio solare di Erido era adorato come “il Salva-
tore” ed era descritto come “Figlio unigenito del dio Ea che lo concepì con la
vergine Istar senza che questa perdesse la sua verginità”.176
In un antico inno accadico Istar era invocata come: “O vergine Istar” ed era rap-
presentata come la vergine Maria con il figlio in braccio, con la testa coronata
di dodici stelle ed ai suoi piedi una falce di luna. Come la vergine Maria anche
lei era chiamata “Regina del cielo” e pregata come “figlia del tuo Figlio”.
Scrive Dante nella Divina Commedia:

Vergine madre, figlia del tuo figlio


umile ed alta, più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio.
Tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si riaccese l’amore
per lo cui caldo, nell’eterna pace,
così è germinato questo fiore.177

Anche i Cartaginesi adoravano una “Grande madre” chiamata Tanit–Artemis,


la vergine celeste. A Petra, in Giordania, Epifanio descriveva l’adorazione di
Lat, madre degli dei, vergine madre.178
In Persia la nascita del Dio solare Mitra conosciuto con il nome di Tseur (il
Salvatore) è descritta essere avvenuta in una grotta da una vergine e veniva
celebrata quando il sole cominciava a tornare sensibilmente verso Nord dopo
il suo lungo viaggio invernale (solstizio di inverno).179
Altre descrizioni similari sono state fatte nel corso dei secoli da Zoroastro (Ze-
radusht), dai Maya, dove si adorava il “Salvatore” Quetzalcoatl, nato in modo
miracoloso e la cui festa veniva celebrata al solstizio d’inverno. Il suo conce-
pimento avvenne perché la madre Chimalma, ancora vergine, inghiottì una

175 Bonwick – “Egyptian Belief” C. Kegan Publisher – pag.157


176 Rev. J.P. Lundy – Sacred Books of the East – pag 87.
177 Dante Alighieri – La divina commedia – Paradiso – canto XXXIII verso 1–9
178 Robertson–Smith –Religions of Semites– BPod Publisher – pag.56.
179 Child – Progress of religious ideas – Kessinger Publisher – vol I° pag 271

111
pietra di luce che risvegliò in lei il germe della vita, così essa diede alla luce
Quetzalcoatl. La nascita del figlio le costò la vita, ma essa fu dal figlio assunta
in cielo ed è da allora venerata come la mediatrice tra Dio e gli uomini.
Addirittura sorprendenti le somiglianze tra i primi anni di Gesù ed i primi anni
del Signore Krishna. Come abbiamo già detto Egli è in sanscrito chiamato Hari
che significa “colui che toglie i peccati del mondo”. La sua nascita fu miraco-
losa essendo Egli il “supremo Brahman (il Dio Trascendente)” 180. Sua madre
Devaki lo concepì senza aver avuto contatto con un uomo. Al tempo della sua
nascita Nanda, marito di Devaki, era tornato nella sua città natale per pagare le
tasse dovute al re. Krishna nacque in una prigione, che era una grotta, la quale
al momento della nascita si illuminò a giorno pur essendo circa mezzanotte
ed un coro di angeli, o esseri divini, lo salutò come il Dio incarnato. Il poeta–
profeta Narada visitò i suoi genitori, esaminò le stelle e lo dichiarò il bambino
di stirpe divina. Egli fu salvato con la fuga dalla crudeltà di Kansa, che nella
speranza di ucciderlo ordinò una strage di tutti i neonati maschi nei suoi do-
mini. Da fanciullo meravigliò i suoi maestri con la sua sapienza. Fece molti
miracoli. Fu tentato ed assalito dai diavoli, lavò i piedi ai Brahmini.181
I fenomeni naturali che accompagnarono la sua nascita sono descritti nei Vi-
shnu Purana (libro V cap. 3). Il giorno della sua nascita il cielo fu illuminato
da una luce fortissima proveniente dai quattro punti cardinali e la notte da una
stella cometa assai luminosa che si fermò sul luogo della nascita. La natura co-
minciò a vibrare di una musica celestiale, mentre gli spiriti del cielo volavano
e facevano piovere fiori sulla terra. I buoni provarono un senso nuovo di delizia
e di beatitudine e cantarono le glorie di Dio. Il carattere miracoloso della sua
nascita, l’intervento divino per salvare la vita del fanciullo miracolosamente
generato e la strage degli innocenti sono descritti nel Dizionario classico della
mitologia indù (pag 165) di Dowson.
Persino il suo nome ha la stessa radice dell’appellativo con il quale è conosciu-
to Gesù. Sia il nome Krishna che l’appellativo Cristo (Kristos) vengono dalla
radice sanscrita Kr che significa “Grazia”.
La relazione prosegue nel significato di Gesù chiamato Agnus Dei, l’offerta
sacrificale, “qui tollis peccata mundi”, “che toglie i peccati del mondo”. In san-
scrito il Dio che offre se stesso durante la Yajna è Agni e dona poi ai fedeli le
offerte del sacrificio: yajnasistasinah santo mucyante sarvakilbisaih “i buoni

180 Vishnu Purana – libro V cap.1


181 Williamson – La legge suprema – pag.14

112
che mangiano le offerte del sacrificio si liberano di tutti i peccati”.182
Nell’Apocalisse di Giovanni leggiamo “l’Amen, il testimone fedele e verace,
il principio della creazione di Dio”. In sanscrito l’AUM (OM) è l’espressione
del Dio Trascendente, il testimone di se stesso nella sua manifestazione, il prin-
cipio della creazione: “La trinità di Brahman è condensata nella espressione
triplice Aum Tat Sat”183
Non solo somiglianze, ma vera identità vi è poi nell’esame del peccato secon-
do la tradizione cristiana e del karma secondo la tradizione dell’India. Il pec-
cato si realizza in: pensieri, parole, opere e omissioni. Vi è karma nell’azione,
nella parola, nel pensiero e nell’omissione. Il peccato avviene quando vi è
piena avvertenza e deliberato consenso. Il karma trova realizzazione quando il
pensiero, la parola, l’azione, l’omissione avvengono in piena consapevolezza
e volontà.
Potrei seguitare con la mitologia dell’Highland della Scozia con il dio chia-
mato Bal, tra gli scandinavi con la nascita di Freyr, il figlio di Odino, con la
nascita di Dioniso in Grecia.
Potrei andare avanti nell’esaminare la “Morte e la Risurrezione del Dio viven-
te”.
Nei Tandyi Brahmana “il Signore (Prajapati) offrì se stesso in sacrificio agli
Dei per la salvezza degli uomini”.184
Anche Krishna, dopo morto, discese nelle regioni infernali dove liberò le ani-
me dei defunti.185 Risuscitò da morte ed ascese in cielo186.
In un’altra incarnazione Vishnu, il Dio degli esseri viventi chiamato Wittoba o
Balaji è rappresentato appeso ad una croce latina.
In quasi tutte le tradizioni religiose il Dio vivente che è ucciso risuscita da
morte o si reincarna.
Osiride, ucciso da Thone (il male) risuscita in Horus che distruggerà il mal-
vagio. Tanto Osiride che suo figlio Horus sono rappresentati crocifissi con le
braccia aperte nella volta del cielo.187

182 Bhagavad Gita – Canto III° verso 13. Rig Veda X° Mandala. Nel dizionario dell’Induismo,
Agni è riconosciuto come “il Purificatore”, colui che prepara e perfeziona la conoscenza
dell’Assoluto, l’intermediario tra cielo e terra, la volontà del Divino all’opera su questo
piano di esistenza.
183 Bhagavad Gita – Canto XVII verso 23.
184 Monier Williams – Hinduism” – pag 36. Rig Veda – X,90
185 Asiatic Researches – Vol.I° pag.249.
186 Depuis –Origine des tous les cultes.
187 Cox – Mytology of the arian nations. Bonwich – Egyptian belief – pag.157.

113
Mitra, il Salvatore persiano,188 morì e risuscitò. Mitra ha numerose caratteri-
stiche comuni con Gesù. Nacquero entrambi il 25 dicembre da una vergine ed
alla loro nascita erano presenti solo i pastori. Furono visitati da tre Magi che
portarono gli stessi doni, incenso e mirra. Entrambi si sono detti “Via – Verità
– Vita”; tutti e due sono stati chiamati “figlio di Dio” e “buon Pastore”. Tutti
e due sono stati dipinti con un agnello sulle spalle. Mitra morì, come Gesù, da
poco passati i 30 anni e fu sepolto in segreto. Il giorno seguente i discepoli,
recatisi a piangere le spoglie del loro Maestro–Dio, non le trovarono più e
cantarono un inno di lode e di certezza: “Rallegratevi, sacro stuolo di iniziati,
il vostro Dio è risorto dalla morte. Le sue pene e le sue sofferenze saranno la
nostra salvezza”.189
E’ impossibile non restare impressionati e colpiti dalle rassomiglianze che si
riscontrano, non solo nella nascita, ma nella vita, nella morte, nella resurrezio-
ne e nell’ascesa al cielo dei vari “Salvatori”. Esse sono troppo numerose per
poterle ascrivere ad una semplice coincidenza. Esse sono celebrate da popoli
diversi che hanno vissuto in epoche differenti e che spesso non sembra abbiano
avuto contatto tra loro.
Assolutamente impressionante è anche il discorso della montagna con le di-
sposizioni prescritte per l’Ahimsa, la non violenza, nello Yoga, o la visione
del Padre e la sua relazione con il Figlio descritta dal Vangelo e nella filosofia
del Vedanta. D’altra parte chi sa dire chi erano i Re Magi e da dove realmente
venissero e dove andò Gesù a completare la sua preparazione alla vita pubblica
durata appena tre anni? Potrebbe essere andato nel lontano Oriente visto che
figura assente dal suo paese per ben diciotto anni, dal dodicesimo al trentesi-
mo?
Al lettore qualsiasi deduzione.

IL DIO–UOMO E IL SUO MESSAGGIO


Se vogliamo seriamente comprendere la grandezza del Dio–uomo dobbiamo
conoscere, poi capire, poi tradurre in pratica nella nostra vita quotidiana il suo
messaggio. I grandi Esseri mettono nei loro insegnamenti tutta la vibrazione
della loro natura divina. Quindi possono essere compresi solo da chi entra in
risonanza con loro tramite la loro figura, la loro parola, la volontà e l’amore che

188 Mitra: Il culto di Mitra iniziò nel 700 a.C. in Persia e si diffuse nel I° sec. a.C. tra i soldati
romani. Paolo si appropriò di molti miti di Mitra, specie il Natale, la Pasqua, la Quaresima
e la festa della Resurrezione di primavera. Fondamentalmente anche la Messa cristiana
assomiglia al vecchio sacramento mitriaco della “taurobolia”.
189 Depuis – Origine des tous les cultes – vol V, pag 241 e seg.

114
si nasconde nei loro detti.

Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei


cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio.
(Vangelo di Matteo – 7.21)
Ogni cosa mi è stata data dal Padre.
(Vangelo di Giovanni – 13.3)
Le opere che il Padre mi ha dato da compiere testimoniano che il
Padre mi ha mandato. (Vangelo di Giovanni – 10.25)
Chi ha veduto me ha veduto anche il Padre.
(Vangelo di Giovanni – 14.9)
Io e il Padre siamo uno. (Vangelo di Giovanni – 10.30)
Vi ho fatto conoscere le cose udite dal Padre.
(Vangelo di Giovanni – 15.15)
Il Padre mi ha comandato quel che devo dire.
(Vangelo di Giovanni – 12.49)

Il messaggio viene rivelato da Gesù subito dopo i 40 giorni di ritiro nel deserto
e per la prima volta è molto chiaro nei suoi discorsi. Egli torna in Galilea e
parla nella sinagoga di Nazareth, il suo paese, e proclama la sua divinità, i suoi
poteri e la sua missione citando il profeta Isaia: “Lo Spirito di Dio è sopra di
me; per questo Egli mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato a
bandire liberazione ai prigionieri ed ai ciechi il ricupero della vista; a rimet-
tere in libertà gli oppressi e a predicare l’anno di grazia del Signore”. E dopo
aver letto il brano del profeta, lì di fronte a tutti mentre gli occhi di tutti erano
fissi su di lui disse: “Oggi si è adempiuta questa scrittura e voi l’udite”.190

Se prendiamo in esame la situazione storica e politica dell’epoca di Gesù in


Palestina dobbiamo rilevare che era veramente esplosiva.
Vi era una dominazione straniera, quella romana, vi era un governo fantoccio,
quello di Erode il grande, poi di suo nipote Erode Antipa, educato a Roma
dagli stessi insegnanti dell’imperatore Claudio. Vi era una rivolta tra le po-
polazioni delle campagne e la “elite” politica e religiosa delle città. Gli ebrei
ricchi e dominanti erano più propensi a sposare la cultura greca ed il sistema
di vita romano anziché applicare nella loro quotidianità i dettati della legge
mosaica. Non dimentichiamo che il Battista fu ucciso da Erode Antipa perché

190 Vangelo di Luca – 4.16–22

115
pubblicamente accusato di violare la legge morale con la vedova di suo fratello
e con la di lei figlia Salomé.
Un gruppo non grande, ma significativo, aveva abbandonato la sinagoga di
Gerusalemme e si era ritirato a vivere secondo l’ortodossia sulle rive del Mar
Morto, gli Esseni, probabilmente la comunità spirituale nella quale potrebbe
aver vissuto il Battista.
Un altro gruppo, rivoluzionario, gli Zeloti, voleva riprendere in mano la ge-
stione di un paese che secondo la Bibbia era stato dato loro da Dio, ma non
esisteva ormai più come tale. Duemila ebrei erano stati crocifissi da poco in
Galilea dai Romani.
In questa situazione si trova a operare e ad insegnare Gesù, uscendo dal suo ri-
tiro nel deserto. Era necessario un cambiamento radicale, perché, secondo Lui,
il regno di Dio era vicino. Gesù, come gli Esseni e come il Battista, denunciava
senza riserve la crisi esistente. Per questo il suo messaggio, il suo insegnamen-
to, se visto nella sua giusta luce e non distorto, è duro e non lascia spazi ad
interpretazioni buoniste, anzi ristabilisce la giusta applicazione della Legge:

“Poiché io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli Scribi e dei
Farisei voi non entrerete punto nel Regno dei cieli.
Voi avete udito che fu detto agli antichi (…) ma io vi dico
Voi avete udito che fu detto (…) ma io vi dico
Fu detto (…) ma io vi dico
Avete udito pure che fu detto agli antichi (…) ma io vi dico
Voi avete udito che fu detto(…) ma io vi dico”191

Ed ancora altre cinque volte corregge l’interpretazione della Legge e la sua


applicazione nella vita di tutti i giorni.
Attacca con una ironia devastante ancora la leadership degli Scribi e dei Fa-
risei:

“Gli Scribi e i Farisei che siedono sul seggio di Mosé (…) ma non fate secon-
do le loro opere, perché dicono ma non fanno” e per ben sette volte si rivolge
direttamente a loro dicendo: “Guai a voi” chiamandoli “guide cieche (…) stolti
e ciechi (…) ciechi (…) ipocriti (…) sepolcri imbiancati (…) pieni di ipocrisia
e d’iniquità (…) serpenti (…)” e arrivando a dire “Ipocriti, perché serrate il
Regno dei cieli dinnanzi alla gente, poiché né entrate voi né lasciate entrare

191 Vangelo di Matteo – 5.21 e seg.

116
quelli che vogliono entrare”.192

In questa situazione politico–religiosa Gesù lancia, con l’autorità che gli vie-
ne dallo Spirito, il suo messaggio di vita rivoluzionario, tanto rivoluzionario
che San Paolo, legato al mondo greco da un punto di vista culturale e romano
di cittadinanza, non ha potuto sposare nella sua meravigliosa novità, perché
colpiva coloro che avrebbero dovuto sostenerlo. Con lui, e forse sotto la sua
guida anche Luca, suo discepolo, nel suo Vangelo stravolge, nelle sue parti più
preziose, il messaggio delle “beatitudini”, cioè la Via sulla quale camminare
per giungere all’esperienza del Padre.
George Bernard Shaw quando parla di San Paolo esprime un giudizio netta-
mente negativo: “ha fatto mostruose imposizioni sulla figura di Gesù, (…) ha
mostrato un terrore del sesso ed un terrore della vita”.193
Ecco il messaggio del Dio–uomo, così straordinariamente simile a quello dato
dal Signore Krishna ad Arjuna, il suo discepolo, nella Bhagavad Gita. Il mes-
saggio di Gesù è quello che distingue il cristiano dall’ebreo che lo ha prece-
duto, è, o almeno dovrebbe essere, la carta di identità del discepolo di Gesù.
Eppure negli scritti di San Paolo non se ne trova traccia alcuna, come non si
trovano traccia, salvo in due passaggi marginali, delle parole del Maestro. Non
si legge mai nelle sue lettere “Gesù ha detto”, ha piuttosto scritto: “io vi dico”,
“io vi ordino”, “siate miei imitatori”. E nel Vangelo di Luca vedremo questo
messaggio essere totalmente stravolto.

LE BEATITUDINI
1° Beatitudine:194
Beati i poveri in ispirito perché di loro è il regno dei cieli.
E non come dice il Vangelo di Luca (6.20) “Beati voi che siete poveri perché
il regno di Dio è vostro”, a cui si lega poi addirittura un anatema successivo
“guai a voi ricchi”.(6.24)
Poveri in ispirito (ptochoi to pneumati), non poveri. Essere poveri è uno stato,
non è un titolo di merito, né può essere considerato un privilegio. Non può
essere considerato un ostacolo, ma nemmeno una condizione per la salvezza.
La salvezza viene offerta a coloro che sono poveri in se stessi. L’interpretazio-
ne di Luca porta ad un bombardamento di stereotipi semplicistici (per lo più

192 Vangelo di Matteo – 23.2 e seg.


193 G.B.Shaw “the writing of Saint Paul” – pag.296 New York 1972
194 Vangelo di Matteo – 5.3

117
provenienti da persone che non hanno mai direttamente provato la povertà): “i
poveri sono i prediletti da Dio”, “beati i poveri perché non hanno preoccupa-
zioni o pensieri”.
Dio non esalta la povertà, anzi la sua bontà si è sempre rivelata proprio nella
soppressione delle condizioni che riflettono la povertà ed il bisogno.195 “Dio trae
su il povero dal letame”.196 “Egli innalza il povero traendolo dall’afflizione”197.
“L’anima mia non era ella angustiata per il povero?”198
Nella tradizione dell’India la ricchezza, ovviamente non solo quella materiale,
è uno dei quattro raggiungimenti della vita realizzata.199
I poveri in ispirito sono quelli che vivono con una mente quieta, che non se-
guono o sono prigionieri dell’agitazione della loro mente. Dice Patanjali, il
codificatore dello Yoga nei suoi Yoga sutra: “Lo Yoga (l’unione con Dio) è
l’assoluta quiete delle modificazioni della mente”. (Sutra 2)
Scrive Michael H. Crosby nel suo commento alle “Beatitudini”: “I poveri di
spirito di Matteo non rappresentano una particolare classe sociale o econo-
mica e non sono neppure persone che mancano realmente di risorse materiali,
ma sono i discepoli che ascoltano l’insegnamento di Gesù sulla volontà di
Dio. Comprendono le sue implicazioni nella profondità del loro essere e le
traducono in pratica (…). I poveri in spirito sono coloro che si rendono conto
di dover mettere ordine nella loro vita in relazione a Dio e si impegnano a
rimettere ordine nel creato. Nella profondità del loro essere, al centro della
loro vita, la loro esistenza testimonia totale dedizione a Dio, alla sua volontà,
alla sua opera”.200
Marco Aurelio scriveva: “un uomo può vivere da saggio anche essendo ricco e
vivendo in un palazzo reale”.
In altre parole Gesù indica subito la caratteristica principale che un discepolo
deve avere per accettare l’insegnamento del Maestro e, grazie a quello, fon-
dersi nel regno dei cieli: deve essere umile. Qualsiasi mente piena di orgoglio,
che ricerca fama o raggiungimenti mondani, non ha spazio per qualsiasi inse-
gnamento spirituale.

195 Bibbia – Esodo – 3. 7–8


196 Bibbia – Salmo – 113.7
197 Bibbia – Salmo – 107.41
198 Bibbia – Giobbe – 30.25
199 Dharma, artha, kama, moksha, giustizia, ricchezza, piacere, liberazione : Guru Gita –
verso 148
200 Michael H. Crosby è un sacerdote francescano, cappuccino, noto tra gli specialisti, ma an-
che autore di libri divulgativi. Ha vinto due volte il “Catholic Book Award”. La citazione è
tratta da “Parole Vere” Sezione Biblica Ed. EMI pag.83

118
La Bhagavad Gita dice: “Le anime illuminate che hanno realizzato la verità vi
istruiranno nella conoscenza di Brahman (l’aspetto trascendentale di Dio) se
sarete umili con loro e li servirete come discepoli”.
Un professore di università americano andò da un maestro Zen per chiedere
l’illuminazione, ma cominciò a parlare dicendo al maestro tutti i suoi pregi,
tutto ciò che aveva fatto e ciò che aveva conseguito nella sua vita. Il maestro
lo invitò a bere con lui una tazza di the. Cominciò a versare il the nella tazza
del professore, ma non si fermò quando la tazza fu piena, continuò a versare
ed il the cominciò a riempire anche il piattino. Il professore era stupito e me-
ravigliato. Il maestro continuò a versare e il the colò tutto sui pantaloni del
professore che si alzò infuriato urlando: “ma che razza di maestro sei, non ti
accorgi nemmeno che la tazza è piena?” Il maestro si scusò dicendo: “E’ vero
la tazza è piena, non ci sta più nulla, ma non ti accorgi che anche la tazza della
tua mente e della tua superbia è piena. Come vuoi che vi possa entrare un qua-
lunque insegnamento per la tua illuminazione?”

2° Beatutudine
Beati gli afflitti perché verranno consolati.
E non “beati voi che piangete perché riderete”. (Vangelo di Luca – 6.20).
Ancora una volta la differenza tra Matteo e Luca è notevole non solo da un
punto di vista semantico e letterale ma nella profondità del messaggio; immen-
samente nuovo quello del Maestro, scontato e populista quello di Luca che
stravolge completamente la preziosità delle parole di Gesù.
Il Maestro si rifà a mio parere alle parole di Isaia (61): “Mi hanno inviato
per fasciare quelli che hanno il cuore rotto (…), per consolare quelli che fan-
no cordoglio (…), l’olio della gioia in luogo del dolore, il manto della lode
in luogo di uno spirito abbattuto onde possano essere chiamati terebinti di
giustizia,201 la piantagione dell’Eterno da servire alla sua gloria”.
Gesù, come Isaia tocca profondamente il dolore della separazione che è sì assai
sentita dall’uomo nella morte, ma tocca soprattutto il dolore della separazione
da Dio. La sofferenza più grande della nostra vita è infatti la privazione della
nostra principale caratteristica di esseri umani e cioè vivere la realizzazione
della nostra natura divina. Vi è nella nostra vita un senso di perdita, di solitudi-
ne spirituale. Questa afflizione è in effetti una beatitudine perché, solo quando

201 Terebinto è un albero alto ed imponente, spesso associato alla quercia. Spesso è considera-
to un albero sacro. Nella Bibbia si ricorda ad esempio il terebinto di Ofra che apparteneva
al padre di Gedeone e dove questi portava le sue offerte (Giudici 6.11), o quello di Iabes
sotto cui furono sepolte le osse di Saul (1 Cronache 10.12).

119
diviene forte e pressante, la Grazia soddisfa il nostro desiderio di esperienza
della nostra divinità interiore, solo allora la nostra consapevolezza sarà appa-
gata, totale, completa, gioiosa e beata.
Swami Ramakrishna, il grande Maestro di Calcutta, usava dire: “La gente
piange fiumi di lacrime perché un figlio non nasce, o perché muore o perché
non raggiunge la ricchezza, ma chi versa anche una sola lacrima perché non
ha ancora visto Dio?”
Il vero significato di questa seconda beatitudine è anche espresso nella “Imita-
zione di Cristo”: “O Signore Iddio, quando diverrò uno con te e mi fonderò nel
tuo amore tanto da dimenticare totalmente me stesso? Sii tu in me e io in te e
permettimi di abitare insieme a te come uno”.

3° Beatitudine
Beati i mansueti perché erediteranno la terra
Questa beatitudine è completamente assente nel Vangelo di Luca e la ragione
potrebbe essere la totale mancanza del concetto di mansuetudine negli scritti
del suo maestro San Paolo e nei suoi anatemi.
I mansueti sono coloro che amano la pace, ed ama la pace chi ha raggiunto una
profonda consapevolezza che la vita può essere vissuta nella esperienza della
“non violenza”. Il grande Maestro dello Yoga, Maharishi Patanjali la chiama
ahimsa. E’ un’esperienza vissuta dal Mahatma Gandhi quando ha rivendicato
dagli inglesi la libertà della sua terra dalla schiavitù del colonialismo. Non ha
sollecitato rivolte o rivoluzioni, atti di terrorismo o guerre sante, ma ha pra-
ticato in maniera eroica l’ahimsa, l’assenza di violenza. Ha sempre detto, ha
sempre scritto, che non odiava gli inglesi, anzi pregava per la loro arroganza, e
lo ha dimostrato, senza cedimenti, fino all’estremo sacrificio; e anche colpito a
morte ha guardato senza odio o risentimento il proprio omicida ed ha pronun-
ciato più volte soltanto la parola Ram, Ram (Dio, Dio).
Nella nostra tradizione vi è la convinzione che chi è mite non raggiungerà
mai nulla, solo chi è aggressivo raggiungerà delle mète importanti e questo
concetto sembra realmente realizzarsi in coloro che si pensa abbiano “fortuna
nella vita”. E’ difficile contraddire questa affermazione a parole, ma la certezza
che tutto nella vita appartenga a loro è solo di coloro che sono profondamente
radicati nell’amore e nella gentilezza. Gli arroganti potranno essere ricchi o
famosi, ma il vuoto del loro cuore è incolmabile e resta profondo qualsiasi cosa
possano possedere o raggiungere su questo piano di esistenza.
Il mistico cinese Lao Tzu diceva: “tra le cose deboli e delicate della terra nes-
suna cosa è capace di vincere ciò che è duro e fermo come l’acqua. Ciò che è

120
delicato vince ciò che è rigido. Rigidità e durezza sono compagni della morte,
delicatezza e tenerezza sono compagni della vita”.
Padre Luciano Mazzocchi, sacerdote saveriano, missionario in Giappone dal
1963 al 1982 ha rivendicato questa possibilità adottando come cristiano la
meditazione Zen (zazen) come valido strumento per superare la mancanza di
esperienza del Divino che è profonda nella nostra tradizione occidentale, e
raggiungere la vera, pura coscienza dell’Essere, la vera essenza dell’onniper-
vadenza divina. Egli ha scritto: “sedendo immobili e silenziosi, quell’immenso
seno che sostiene l’esistere si fa presente e scioglie i nodi che irrigidiscono la
vita. Il seno immenso che sostiene tutto ciò che esiste non è una delle cose che
esistono, non è una forma, nemmeno la prima tra le forme, non è una persona,
nemmeno la prima tra le persone, non è nulla di tutto ciò che scaturendo da
esso viene all’esistenza. E’ un seno incontaminato, che non può mai essere
contaminato. E’ il nulla di tutte le esistenze, eppure solo nel continuo ritorno
ad esso tutto ciò che esiste si purifica, diviene agile, ritrova sempre nuova vi-
talità, assurge a bellezza. Lo Zen è il cammino religioso che premurosamente
custodisce il nulla nella purezza del nulla, affinché sia sempre il seno immen-
so che fa vivere il tutto. Lo Zen è quindi la religione del valore religioso del
nulla”.202
Il cristianesimo, come comunemente viene inteso, cioè il cristianesimo che
si è radicato nei limiti della cultura dell’uomo occidentale, basa il concetto
dell’esistere sulla logica positiva, sul pensare, sul comprendere, urta e si logora
nel limite del pensiero e dell’azione incapace ormai di trascendere le costrizio-
ni della mente. Solo i mistici sono in grado di vivere l’Infinito nel finito, l’As-
soluto nel relativo. Gli altri, assai spesso, identificano Dio con una persona, sia
pur con una visione antropomorfica di cui non conoscono i contorni o la forma,
di cui non realizzano le dimensioni o le potenze che vengono allora identificate
con una serie di qualità umane spinte all’eccesso, non rendendosi conto che
ogni qualità, anche se vista come infinita, limita l’Illimitato e impedisce la
completa fusione dell’uomo nel Divino.
Crediamo, o almeno credono le correnti più puritane della nostra tradizione
cristiana, in un Dio–giudice che, secondo la nostra visione può mandare all’in-
ferno una creatura, che d’altra parte, esiste solo perché Esso l’ha generata, con
la condanna a patire eternamente, perché peccatrice.
Il pensiero che molti cristiani possano avere nella loro mente e nel loro cuore
l’idea di un Dio che può condannare eternamente la sua creatura, e mentre la

202 Luciano Mazzocchi – Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen – EDB– pag 24

121
sua creatura soffre le pene dell’inferno, Egli abiti la deliziosa pace del paradi-
so, è semplicemente terribile, un autentico assurdo.
Arriviamo infatti a degli assurdi incredibili, ma, ahimè, vissuti con terrore e
ansia non solo nella vita ma anche, e questo è assai più grave, alle soglie della
morte.
Un giorno ho domandato ad un teologo, che va per la maggiore, come mai
la Chiesa abbia dichiarato santi papi e vescovi che hanno inquisito a morte
milioni di persone colpevoli soltanto di avere pensieri o convinzioni diverse
da quelle canoniche. Mi ha risposto: “Sì, sotto l’influenza della mentalità do-
minante in quell’epoca anche i santi hanno commesso azioni orrende, basta
leggere la vera storia della vita di Francesco Saverio a Goa nel 16° secolo, ma
hanno commesso quegli atti in buona fede. Vedevano il peccato al di fuori di
loro e non in loro. Lo scopo di San Pio V e dell’Inquisizione era valido in sé:
difendere la Fede, ma per difendere la Fede hanno usato metodi violenti”.
La stessa risposta è stata data da un giornalista di Famiglia Cristiana la rivista
delle Edizioni San Paolo.203
Ora io mi domando: “Gesù ha mai raccomandato di difendere la Fede? La Fede,
in quanto tale, ha bisogno di essere difesa? Non ha in sé la difesa di se stessa?
Ha bisogno di una affermazione così tragica: “Amo, quindi ti uccido?”
Così non siamo certo mansueti. Così Gesù non ha parlato per noi, o siamo solo
noi che continuiamo dopo due millenni a non ascoltare la sua voce, pretenden-
do poi di parlare a nome suo?
Padre Luciano Mazzocchi, sacerdote missionario, scrive: “La cultura occi-
dentale che mira alla comprensione positiva di tutto l’esistente, senza l’aiuto
fraterno della cultura orientale, rimane violenta e rende violento anche il cri-
stianesimo, la religione dell’amore”.204
Negli ultimi anni abbiamo visto e sentito ben due Papi, che vengono indicati
come grandi teologi, reclamare per il cristianesimo una “reciprocità con le altre
religioni che dobbiamo constatare ancora come mancante”.
Ma come si può snaturare il messaggio di Gesù fino a questo punto? Come può
reclamare il popolo di Gesù qualsiasi sorta di reciprocità? Come può l’Amore
pretendere o anche solo chiedere una qualsiasi reciprocità? Come possiamo
trasformare l’Amore in un baratto? Quando mai Gesù ci ha insegnato a chiede-
re qualcosa in cambio? Quando mai Gesù ha preteso reciprocità quando la sua
vita è stata un esempio sublime di “dare” senza nulla chiedere?

203 Famiglia Cristiana – n.45 – Novembre 1998


204 Padre Luciano Mazzocchi – “Il Vangelo secondo Giovanni e la Zen” EDB

122
Si rivendica reciprocità dicendo che noi qui apriamo moschee e loro (l’Islam)
là non permettono chiese.
Mi viene da scrivere che vi è, a dire poco, una discreta confusione. Le mo-
schee sono aperte in Italia, non nello Stato Città del Vaticano, che è un’altra
nazione. I papi vogliono essere sovrani (un’altra assurdità unica al mondo) nel
loro Stato e come Capi di Stato, non come Cristiani, sia ben inteso, possono
rivendicare reciprocità, ma sul loro territorio, non sul territorio di una nazione
indipendente e laica che deve considerare, secondo la propria Costituzione, le
religioni tutte uguali, con uguali diritti ed uguali doveri (ahimé anche su questo
punto la Costituzione ed il Concordato sono violate).
Non mi risulta vi siano moschee, né sinagoghe, né templi buddhisti o induisti
in Vaticano.
Mi viene da dire, con Gesù sulla croce, di questo mondo divenuto così oscuro
ed ignorante: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.205

4° Beatitudine
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati
Ancora una volta, se leggiamo il Vangelo di Luca rimaniamo stupiti da come
anche questa beatitudine sia stata stravolta.
Egli dice: “beati coloro che hanno fame e sete perché verranno saziati”.
Lascio al lettore vedere la profondità dell’incomprensione del messaggio di
Gesù che è un riconoscimento sublime, non una constatazione assai materiale
e relativa.
Gesù rivendica una giustizia, ma quale giustizia?
Ancora una volta è la libertà dal vincolo, dalla contrazione, che genera l’ansia
del raggiungimento, l’affanno per il conseguimento di ciò che è impermanente
a scapito di ciò che è permanente. Diviene molto chiaro il significato quando
più avanti nel “discorso della montagna” dice: “se la vostra giustizia non supe-
ra quella degli scribi e dei farisei, non entrerete punto nel regno dei cieli”.206
L’applicazione integrale e cieca, ma soprattutto stravolta, della legge mosaica,
genera continue guerre e rivalse. Ne abbiamo un esempio evidente nel rapporto
di quei due popoli di quella terra dove Gesù, evidentemente non per caso, è
nato ed ha vissuto come ebreo e palestinese. In quella terra gli Ebrei e i Pale-
stinesi si sono ammazzati senza sosta per ormai 2700 anni, pur considerando
entrambi, e noi con loro, quella terra come “la terra santa”.

205 Vangelo di Luca – 23.34


206 Vangelo di Matteo – 5.17

123
Gesù chiarisce che la legge di causa e di effetto esiste in natura e, finché la
manifestazione relativa continuerà ad esistere, non può essere negata; né potrà
essere evitata finché vi saranno i cieli e la terra, ma deve essere vista e vissuta
in chiave di apertura e non di chiusura come capiremo in seguito quando ci
insegnerà: “vi hanno detto non uccidere, ma io vi dico (…), vi hanno detto ama
il tuo prossimo e odia il tuo nemico, ma io vi dico (…)”.
Non è la giustizia delle leggi morali, o delle buone qualità che è rivendicata
da Gesù in questa beatitudine, ma il liberarsi da ogni contrazione della vita e
dell’azione nell’espansione che porta all’esperienza diretta di Dio.
Avere fame e sete di Dio è il primo passo per aprirci all’esperienza. Vi è una
storia significativa nella tradizione persiana. Un discepolo andò dal maestro e
chiese: “Signore, come posso realizzare Dio?”
Il maestro non rispose alla domanda, ma disse: “Vieni con me e ti mostrerò
come”. Portò il discepolo in un lago e gli spinse forte la testa sott’acqua. Dopo
pochi minuti lo tirò su e domandò: “Come ti senti?”
“Oh, non ho mai desiderato una cosa nella mia vita come ho desiderato una
boccata d’aria ora”.
“Bene – disse il maestro – quando desidererai così intensamente Dio non do-
vrai attendere molto per averne l’esperienza”.

5° Beatitudine
Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia
Ancora una volta questa beatitudine è completamente assente nel Vangelo di
Luca.
Vi è spesso nella nostra tradizione una difficoltà di comprensione per due pa-
role: misericordia e compassione, le si confonde con la parola pietà, una sorta
di sentimento di comune sofferenza per le sfortune degli altri. E’ un po’ un
piangere per simpatia. Il termine a mio parere dovrebbe essere invece inteso
come un “vibrare all’unisono” se la vibrazione del nostro cuore è capace di
estinguere la sofferenza altrui.
Nella esperienza della pietà, invece, abbiamo come risultato due sofferenti,
cioè due contrazioni che si uniscono e spesso si moltiplicano, anziché l’espan-
sione di un cuore che porta il cuore dell’altro nella stessa condizione di espan-
sione.
Ancora una volta l’affermazione di Gesù è assolutamente identica ad un sutra
(aforismo) dello Yoga di Patanjali che dice: “La calma assoluta della mente si
ottiene coltivando (…) misericordia e compassione verso chi è infelice”.
Un grande Guru diceva: “Quale è la differenza tra l’uomo e Dio? L’uomo se

124
gli fate del male, anche solo una volta, dimentica tutte le volte che siete stati
gentili con lui e ricorda l’unica volta che lo avete ferito, ma se dimenticate Dio
e commettete offesa contro di Lui cento volte, egli dimentica tutti i vostri errori
e ricorda le poche volte che lo avete sinceramente cercato. Il peccato esiste
solo agli occhi degli uomini. Dio non vede i loro peccati”.
Vi è necessariamente una relazione biunivoca tra la misericordia, la compas-
sione e la mente quieta. Se abbiamo una mente non ferma, non stabile, quando
siamo in presenza delle sofferenze altrui si innesca un meccanismo di emo-
zione che porta nuovamente alla contrazione e quindi all’esperienza di molti
tipi di limiti. Solo una mente quieta è completamente espansa e può spontane-
amente portare la sofferenza altrui a vivere il suo stato di assenza del limite,
si prova allora misericordia, compassione, amore, tutte esperienze in cui, non
solo la mente, ma anche il cuore sono completamente aperti.
D’altra parte anche Gesù ci ha insegnato lo stesso agire. Noi diciamo che il
Maestro ci ha detto: “Ama il prossimo tuo”, ma non è vero, ancora ed ancora
ci cambiano completamente il messaggio, proprio nel suo significato più vero.
Allora noi agiamo per quello che ci insegnano. Non è che non sia bene amare il
nostro prossimo, è un’ottima cosa, dovremmo arrivare tutti ad amare il nostro
prossimo, ma se non seguiamo l’insegnamento del Cristo che ha in sé l’autorità
e la forza del Maestro non riusciremo ad avere i risultati che Gesù si prefiggeva
per noi. Infatti dopo duemila anni quanti di noi sono realmente capaci di amare
il prossimo? Cosa vuol dire? Che Gesù ha fallito nel suo messaggio? O hanno
fallito coloro i quali hanno cambiato profondamente l’insegnamento? Infat-
ti Gesù ci ha detto, seguendo peraltro una frase già esistente nella Bibbia207:
“ama il prossimo tuo come te stesso”208. E’ là, all’interno di noi stessi la fonte
dell’amore, non è né nel pensiero, né nell’emozione, né nello sforzo, né nel
semplice desiderio di amare che possiamo amare realmente, ma è nel conse-
guimento dell’esperienza più profonda del nostro essere, in quella unità con la
nostra natura divina la fonte dell’amore e quindi la capacità di dare avendo sta-
bilizzato il nostro essere in quella profonda condizione di ricchezza dell’espan-
sione totale. Ancora una volta la tradizione orientale, circa cinque secoli prima
dell’affermazione di Gesù, ci spingeva sullo stesso cammino. Nella Bhagavad
Gita Krishna dice al suo discepolo Arjuna: “Yoga Stah Kuru Karmani”209 “Sta-
bilizzato nello Yoga (nella tua natura divina) compi l’azione”.

207 Bibbia –Levitico – 19.18


208 Vangelo di Matteo – 19.18
209 Bhagavad Gita –II° verso 48

125
Ecco come essere misericordiosi. Amando noi stessi possiamo esprimere amo-
re per gli altri.

6° Beatitudine:
Beati i puri di cuore perché vedranno Dio.
Anche questa beatitudine è assente nel Vangelo di Luca. Mentre scrivo questi
miei pensieri è uscito un libro di Papa Ratzinger che si sforza a convincerci
che il Vangelo di Matteo e quello di Luca dicono la stessa cosa210. Lo sforzo
è estremo nel suo tentativo, perché da queste differenze qualunque cattolico
potrebbe cominciare a domandarsi che ne è stato del messaggio di Gesù nel
magistero della Chiesa. E’ estremo perché è sempre difficile convincere qual-
cuno che due cose tanto diverse siano uguali, ma questo sforzo non è essere
“puri di cuore”.
Chi sono i puri di cuore? Pare semplice dire che sono coloro che conducono
una vita in assoluta moralità. Eppure nessuno di loro è sicuro di aver visto Dio.
Perché? Beh, perché non è la moralità che ci porterà alla visione di Dio. La
moralità è buona e necessaria, ma è solo costruire le fondamenta per il vero
palazzo. E per di più spesso siamo così attaccati alla nostra moralità che non
siamo capaci, non solo di avere, ma nemmeno di vedere, alcun tipo di fles-
sibilità e quindi con questi forti attaccamenti ai nostri principi morali siamo
nuovamente prigionieri di contrazioni e di limiti.
Vi sono due modi di essere moralmente attivi. Il primo è quello che abbiamo
detto e il secondo è quando la moralità nasce spontanea dentro di noi, piano
piano, passo dopo passo, con la nostra apertura verso Dio.
Se siamo ancorati ad un grande pilastro portante della nostra vita e cioè l’im-
pegno a seguire, nella gioia, il nostro cammino verso la visione di Dio, sponta-
neamente il nostro comportamento sarà sempre più morale.
Nella tradizione orientale noi diremmo che seguiamo sempre di più il nostro
Dharma.
Il mio Guru spesso dice che la visione di Dio viene quando troviamo il cammi-
no verso Dio e lo seguiamo.
Nell’infanzia tutti abbiamo fatto un gioco: con una mano ci siamo ancorati ad
un palo e quando siamo stati sicuri della presa ci siamo divertiti a girare intorno
al palo a sempre maggiore velocità.

210 Joseph Ratzinger – Gesù di Nazaret – Ed. Rizzoli

126
Vi è un’altra esperienza di vita che può chiarire questo concetto.
Da alcuni anni ho uno splendido cane, un bovaro delle Fiandre. E’ un cane
grande e molto forte, ed è molto affezionato a mia moglie, la sua padrona.
Gioca con lei nel bosco che circonda la casa. Lei gli getta una palla e lui parte
a gran velocità per raggiungerla, ma la palla rimbalza su radici, sassi e cespugli
e cambia repentinamente direzione. Il cane data la sua massa e la sua velocità
non è in grado di fare altrettanto, ma pur uscendo dalla traiettoria della palla,
o addirittura cadendo, conserva sempre la testa fissa sulla palla. Appena è pos-
sibile riprende la direzione giusta, e sempre, immancabilmente, raggiunge la
palla.
Così dovrebbe essere condotta la nostra vita, con la testa sulla palla.
Godiamoci tutte le dolcezze che la vita ci offre, però sempre con la “testa sulla
palla”, sempre “ancorati al palo” del cammino verso Dio che non è altro che
la stessa ragione della nostra vita. E questo è detto in ogni tradizione. Questi
sono i puri di cuore.
Gesù finirà il suo discorso dicendo “siate così perfetti come il Padre vostro
celeste”, ma per poterlo essere dobbiamo fermamente credere che questo sia
possibile e che Gesù non sia stato un folle utopista, o un venditore di fumo.
Anche nella gerarchia ecclesiastica, al più alto livello, riscontro nei discorsi
e negli scritti che non si crede realmente che l’uomo possa divenire uno con
il Divino nella sua perfezione. Questo invece è fermamente creduto non solo
possibile, ma realizzato, nelle persone dei grandi maestri dell’India che sono
chiamati per questo “Siddha” che significa “perfetti”.
Più prenderemo la responsabilità di seguire il cammino che ci siamo tracciati
venendo al mondo, fino alla realizzazione della nostra natura divina, più di-
verremo “puri di cuore”. Se ripetiamo continuamente che siamo “peccatori”
realmente entreremo e, ahimè, rimarremo nel circolo vizioso della contrazione.
Dovremmo invece ripetere come il veggente del Salmo “Dio è la mia forza e
il mio rifugio”.211

7° Beatitudine
Beati i costruttori di pace perché saranno chiamati figli di Dio.
Di quale pace parla Gesù nel discorso della montagna. Parla certamente della
pace così come la intendiamo comunemente tutti noi, che tutte le persone de-
sidererebbero vi fosse nel mondo. Ricordo ancora una volta come un grande
santo vivente, un maestro buddhista ha recentemente proclamato una verità su

211 Bibbia –Salmo – 46.1

127
questo argomento quando il presidente degli Stati Uniti ha proposto una “road
map”, una “via” da percorrere per la pace in Medio Oriente. Ha affermato
“Non vi è una via per la pace, la pace è la via”.
Credo di poter dare al lettore una quantità di esempi di come si può essere
costruttori di pace, solo osservando il comportamento dei miei grandi Guru e
facendo tesoro di come hanno vissuto e come vivono.
La gente va nei loro ashram generalmente con la mente agitata, piena dei suoi
problemi. Anzi spesso va nell’ashram proprio per risolvere i suoi problemi. I
discepoli si avvicinano al Guru per il Darshan212 e la loro mente diviene im-
mediatamente calma, non hanno più ansie, non hanno più angosce, non hanno
più domande da fare, non sentono più contrazioni. Un completo silenzio, pro-
fondamente consapevole, li pervade, un’esperienza di pace profonda, di vera
quiete dissolve le loro difficoltà, i loro contrasti. Cosa è avvenuto? Lo stato di
pace assoluta del Maestro ha cominciato a diffondersi nella mente agitata, nel
cuore sofferente del discepolo. Il Maestro è divenuto un “costruttore di pace”.
Si racconta che degli allievi del grande Guru Brahmananda Saraswati, appena
giunti all’ashram, abbiano iniziato ad avere problemi tra loro. Invidie, gelosie,
superbie hanno cominciato a manifestarsi, come spesso avviene in tutte le co-
munità. Swami Premananda, un vecchio Swami che era preposto all’educazio-
ne dei nuovi postulanti propose quindi al suo Guru Brahmananda di espellere i
giovani dall’ashram. Il Maestro rispose che non era una soluzione e chiese che
i giovani venissero portati tutti i giorni a meditare con lui per un mese. Così fu
fatto. Alla fine del mese tutti i problemi di rapporto si erano sciolti, avevano
trovato soluzione espandendosi nella esperienza del “samadhi”, quella perfetta
unione con il Divino che è lo scopo e la mèta della meditazione. Ecco i costrut-
tori di pace di cui parla Gesù nel discorso della montagna. La pace della mente,
la pace del cuore, quella dolcissima esperienza in cui nulla manca e nulla è di
troppo, quella sottile gioia che rende i rapporti umani con i propri simili e con
la natura l’esperienza vivente della pace, e questa pace viene automaticamente
trasmessa senza bisogno di nessuna “road map”.
Anche questa beatitudine è mancante nel Vangelo di Luca e non vi è da me-
ravigliarsi se alla fine delle quattro beatitudini riportate egli chiude il discorso
con quattro anatemi:213
Guai a voi ricchi (…), Guai a voi che siete ora satolli (…), Guai a voi che ora

212 Il Darshan è il momento in cui il Guru incontra il discepolo.


213 Anatema viene dal greco anatema: esporre al pubblico disprezzo – oggetto esposto alla
pubblica maledizione perché consacrato agli dei infernali – maledetto.

128
ridete (…), Guai a voi quando gli uomini diranno bene di voi (…).
D’altra parte il suo maestro Paolo di Tarso usa lo stesso sistema nelle sue let-
tere:
Se qualcuno non ama il Signore sia anatema214(…) Se vi annunceranno un
Vangelo diverso sia anatema.215
Come si può con questa attitudine riconoscere come siano beati “i costruttori
di pace”?

8° Beatitudine:
Beati coloro che sono perseguitati a causa della giustizia perché di loro è il
Regno dei cieli.
Ancora una volta Gesù parla di giustizia. Questa beatitudine è strettamente
legata alla quarta: “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia” e cioè fame
e sete di Dio216, il desiderio struggente di essere liberi nella nostra natura divina
che è poi il nostro diritto di nascita e questo avviene nella assoluta apertura del-
la mente e del cuore. Troppo spesso nel compiere le nostre azioni, nella nostra
sete di giustizia, siamo condizionati dal giudizio del prossimo. Crediamo più a
ciò che dicono gli altri che non a noi stessi ed è naturale che sia così avendo di
noi una visione di limitatezza, di incompletezza, di contrazione. Allora com-
piamo azioni solo per compiacere il giudizio del prossimo. Gesù che conosce
gli uomini aggiunge a ragione all’ottava beatitudine un lungo corollario:
“Guardatevi dal praticare la vostra giustizia nel cospetto degli uomini per
essere osservati da loro, altrimenti non ne avrete premio presso il Padre vostro
che è nei cieli”.217
Quando, piano piano, la consapevolezza della nostra vera natura divina matura
dentro di noi per esperienza diretta, allora il nostro comportamento sarà sem-
pre più dharmico, sempre più giusto nella direzione dello scopo della vita che
è appunto la conoscenza vissuta della nostra vera natura divina, della nostra
“divinità”.
Ricordo il primo giorno che sono entrato nell’ashram del mio Guru. L’ashram
è una struttura autogestita dove ad ognuno viene assegnato, al suo arrivo, un

214 S.Paolo – Lettera 1° Corinzi – 16.22


215 S.Paolo – Lettera ai Galati – 1.8
216 La “Giustizia” dikayosunen nella Bibbia è sinonimo di Dio perché secondo la Bibbia “solo Dio
è giusto” (Bibbia – Salmi 143 e Giobbe 4.17), “Abramo ebbe fede nel Signore, per questo il
Signore lo considerò giusto (Bibbia – Genesi 15.6); “Abramo non è stato forse fedele a Dio nella
prova? Per questo Dio lo ha considerato giusto (Bibbia –I Maccabei – 2.52).
217 Vangelo di Matteo – 6.1

129
servizio, una seva, qualunque essa sia, secondo le necessità del momento. Ri-
cordo di aver incontrato il mio Maestro dopo aver ricevuto la mia seva. Con
la faccia molto seria mi ha domandato: “Ti hanno dato la seva?” “Si” ho ri-
sposto. Egli ha aggiunto con estrema fermezza: “Ricorda, non solo qui, ma in
ogni momento della tua vita, vi è un solo modo di compiere l’azione: perfetta.
L’azione deve essere sempre perfetta”. Educato dalla mia famiglia al senso del
dovere per tutta la mia gioventù, sempre giudicato nelle mie azioni, sempre
bersagliato dai sensi di colpa, mi sono sentito ferito ed ho risposto: “Come
perfetta? Perfetta a giudizio di chi?”
Lo sguardo del mio Baba è cambiato da severo a profondamente amorevole e
mi ha detto: “Tuo, solo tuo, di nessun altro. Ma perché la tua azione sia perfet-
ta a giudizio tuo, ricorda, devi mettere tutto te stesso in ogni azione. Nessuna
parte di te deve rimanere assente. Solo così la tua azione sarà perfetta”. Così
soltanto la nostra azione potrà essere considerata da noi realizzante, ma dob-
biamo avere una profonda convinzione di aver dato tutti noi stessi nelle nostre
azioni, averle onorate nella profonda consapevolezza che solo attraverso le
azioni giuste la nostra pura coscienza può essere raggiunta e vissuta.
Vi era un giorno un monaco errante che, in un giorno di terribile calura estiva,
giunto sotto un albero decise di riposarsi dormendo qualche ora. Prese quindi
una pietra, vi poggiò il capo come su un cuscino e attese il sonno. Passarono
di là due donne che vedendo il monaco con la testa appoggiata alla pietra com-
mentarono: “che razza di rinunciante è questo monaco che ha bisogno di un
cuscino per dormire?”, e continuarono la loro via verso il fiume dove solevano
lavare i panni. Il monaco sentì l’osservazione delle due donne e pensò: “forse
hanno ragione. Un rinunciante non dovrebbe aver bisogno di un cuscino per
dormire” e tolse la pietra da sotto la testa. Un’ora dopo le donne tornarono dal
fiume e vedendo il monaco che dormiva con la testa per terra commentarono:
“che razza di monaco è questo che cambia idea a giudizio degli altri?”
Quando acquisiamo consapevolezza del nostro modo di vedere la giustizia
ci troviamo però, a volte, in condizioni di non intendere il normale senso di
giustizia che viene seguito dalle leggi dello stato o dal giudizio del prossimo
e spesso potremmo essere perseguitati, puniti, condannati per questo nostro
individuale senso di libertà. Sta in noi essere certi della giustizia del nostro
comportamento e questo avviene se le nostre azioni sono indirizzate verso una
pratica di amore e di compassione. Per questo in questa beatitudine Gesù ci
mette in guardia, ma ci conforta anche dicendo: “beati voi, quando vi oltrag-
geranno e vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per cagion mia. Rallegratevi e giubilate perché il vostro premio è grande

130
nei cieli”.
Il Talmud dice: “è meglio essere tra coloro che sono perseguitati che tra coloro
che perseguitano”.
Il saggio, l’illuminato, non è più soggetto alle restrizioni della mente altrui e nem-
meno dalla propria perché dimora nella conoscenza della giustizia suprema.
Dice la Bhagavad Gita: “la sua mente è morta all’influenza di ciò che è esterno,
è viva alla beatitudine del Sé, siccome il suo cuore conosce il Supremo la sua
felicità è per sempre”.218
Quando Gesù parla di ricompensa in cielo non intende, a parer mio, che dob-
biamo attendere una ricompensa dopo morti, ma fa riferimento a quella felicità
che si prova vivendo nello stato celestiale di realizzazione, pur essendo ancora
nel proprio corpo fisico e nel complesso psichico. Questa beatitudine di cui
parla anche la Bhagavad Gita è il nostro cielo dovunque noi siamo, ed in qual-
siasi momento, è la nostra “terra promessa”, è il nostro “Regno di Dio”.

LA VITA INTIMA DI GESU’


Invece di preoccuparsi di tramandare in maniera corretta il messaggio di Gesù
la nostra chiesa sembra più interessata a questioni del tutto marginali rispetto
al grande, rivoluzionario insegnamento che Cristo ha portato al mondo. Essa
si perde in battaglie spesso violente contro romanzi che toccano la vita intima
di Gesù, oppure radunando centinaia di migliaia di persone contro una legge
che dovrebbe stabilire i diritti civili dei conviventi, o affermando, a sproposito,
che la famiglia sia stata, e sia il luogo che Cristo indica come realizzativo del
suo insegnamento.
Facendo così si perdono i “fondamentali” del messaggio e si corre dietro ad
emozioni o a strategie politiche che nulla hanno a che fare con la vera ragione
della venuta di Gesù su questo piano di esistenza.
E’ assurdo che l’uscita del romanzo Il codice da Vinci di Dan Brown abbia
generato vivaci e persino scomposte reazioni di molti ambienti del mondo cat-
tolico, compresi vescovi e cardinali.
Per alcuni, Gesù è grande perché non si è sposato, per altri proprio per la ra-
gione inversa. Eppure, né il celibato, né il matrimonio di Gesù interessano il
suo insegnamento. La novità assoluta dell’ “uomo di Nazaret” nulla ha a che
fare con il fatto che Egli fosse sposato o celibe. Gesù non si è mai occupato di
questi argomenti perché si può essere: “poveri in ispirito, o coloro che pian-
gono, o miti, o aver fame e sete di giustizia, o misericordiosi, o puri di cuore,

218 Bhagavad Gita – V.7

131
o operatori di pace, o perseguitati a causa della giustizia” sia essendo celibi
o sposati, e nulla cambierebbe se Lui avesse pronunciato queste parole essen-
do scapolo o ammogliato. Invece l’affermazione che Gesù potesse avere una
moglie e un figlio ha messo in subbuglio buona parte dei credenti, e passi, ma
anche tutti i vertici della chiesa, il ché se non fosse ridicolo sarebbe veramente
preoccupante.
Questa reazione non è che un seguito del pensiero paolino secondo cui si ac-
cordava un posto speciale alle vergini, si riteneva che il celibe vivesse una vita
superiore, vicino a quella degli angeli secondo un’affermazione del Vangelo di
Luca (20.36). Secondo Paolo il cuore degli sposati “risulta diviso”219 (1 Corinzi
7.34), non sono protesi verso il cielo (Colonnesi 3. 1–3) dove è la dimora del
cristiano (2 Corinzi 5.2).
Queste sono non solo motivazioni fittizie e immotivate, ma non hanno riscon-
tro nelle parole e nei fatti della vita di Gesù che si è non solo circondato di
uomini sposati, ma anche delle loro mogli.
La Chiesa si è preoccupata di tenere intatta l’immagine del Cristo celibe, la-
sciando in secondo piano la sua vera identità e la specificità della sua missione.
Secondo Gesù non erano importanti il Tempio, il culto, i sacrifici, perché Dio,
come dice Isaia, non solo non li pretende, ma li ha “in abominio”. Il sesso non è
mai apparso nella sua predicazione come un problema importante da risolvere,
né si è mai infilato ad osservare ciò che succedeva nel letto di una coppia, come
purtroppo da sempre si sono sentiti autorizzati a fare coloro che si dicono certi
di essere suoi successori. Egli ha solo indicato la via per ritornare “al Padre”,
ha solo parlato dell’unica vera ragione della vita umana e cioè il raggiungere
il “regno di Dio”, di cui annunciava l’esistenza, e lo indicava come mèta della
vita dell’uomo. Per tutti coloro che hanno veramente a cuore il “messaggio”
non ha nessuna importanza che Gesù fosse celibe, o marito, o padre. Inve-
ce, ancora una volta si è cercato di dividere tra sposati e celibi, tra relazioni
innocue e quelle “particolari”, tra unioni di coppia, sacramentate, celebrate
in Comune, o non celebrate. Non parliamo poi della crociata in favore della
famiglia. Si dimentica che, cosa assai sconvolgente per la mentalità ebraica
dell’epoca, assai spesso Gesù ha reagito alla madre, o alla gente in maniera
niente affatto tradizionale su questo argomento.
Al giovane che prima di seguirlo chiede di poter andare ad assolvere i suoi do-
veri di lutto per la morte del padre, cosa considerata non solo egregia, ma quasi

219 “Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come piacere al Signore; lo sposa-
to, invece si preoccupa delle cose del mondo, come piacere alla moglie, e si trova diviso”.

132
obbligatoria, secondo la legge e la tradizione, risponde: “lascia che i morti sep-
pelliscano i morti”. Ma Gesù va molto oltre quando vengono ad avvertirlo che
sua madre ed i suoi fratelli lo stanno aspettando ed hanno bisogno di parlargli,
egli risponde: “Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli? – poi con una mano
indicò i suoi discepoli e disse: Guarda, sono questi mia madre e i miei fratelli
perché se uno fa la volontà del Padre mio che è nel cielo, egli è mio fratello,
mia sorella e mia madre”.220
Aveva già reagito malamente alla madre quando dodicenne fu ritrovato nel
Tempio di Gerusalemme a discutere con in dottori delle Legge: “Perché mi
cercate? Non sapevate che io mi devo occupare delle cose del Padre mio?”.221
Già a Cana aveva risposto alla madre: “Che vuoi da me, o donna ?”222
Quando una donna che lo aveva sentito predicare, spinta dall’entusiasmo escla-
ma: “beato il grembo che ti ha portato, e le mammelle che ti hanno allattato”
Gesù risponde: “Beato piuttosto chi fa la volontà del Padre mio”.
Gesù nega quindi la virtù della maternità biologica, dopo aver negato già a do-
dici anni il valore della paternità fisica, ma l’episodio più sconcertante avviene
proprio sotto la croce. Interpretato dalla chiesa come un gesto d’amore verso
la madre, sono in realtà di una durezza inaudita le ultime parole del Cristo in
croce: “donna, ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre”. Quale mancanza di com-
passione e di dolcezza chiamare “donna” la madre, con l’ultimo respiro. Non
vi è conforto né amore per il dolore della madre, non vi è riconoscimento del
valore dei veri fratelli nell’affidamento della madre ad un estraneo, anziché ad
un parente stretto, come peraltro prescriveva la legge ebraica.
Manca in molte manifestazioni dei vertici della Chiesa la consapevolezza del
valore dei “fondamentali” del messaggio che sono, vale ripeterlo, la conoscen-
za del Padre, il Regno di Dio, la visione dell’amore interiore come riferimento
per l’amore per il prossimo.
Dovremmo, come discepoli di Gesù tornare a vivere l’Amore, l’unità della
manifestazione nel Divino trascendente, ricercare l’unione mistica. Questo
può solo avvenire nel silenzio della mansuetudine: beati i mansueti perché
erediteranno la terra.
Non è forse questo l’insegnamento di Gesù: “non contrastare il malvagio,
anzi…”223 che è poi lo stesso messaggio del grande Maestro dello Yoga Maha-

220 Vangelo di Matteo – 12.46 e seg.


221 Vangelo di Luca – 2.49
222 Vangelo di Giovanni – 2.4
223 Vangelo di Matteo 5.17

133
rishi Patanjali: “verso il malvagio dovremmo esercitare indifferenza”224.
Il Buddha ha insegnato: “Vi è un solo modo per essere pacifici (mansueti), non
avere nemici”.

Il Corano ci dice: “Più lui cerca di insultarti, più grande deve essere la tua
clemenza”225

IL DIO–UOMO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA


Non mi sembra possibile ricordare neanche un passaggio dei vangeli sinot-
tici dove si dica in modo molto esplicito che Gesù “sia Dio”, né tanto meno
“unigenito figlio di Dio”. Questa certezza si trova solo in Giovanni, e solo tre
volte.226
Se esaminiamo attentamente il testo mi sembra si possa dire che questa af-
fermazione venga fatta senza indicare il nome proprio di Gesù, anche se il
riferimento a Gesù sembra essere indubbio. E’ Giovanni il battista che indica
fisicamente Gesù come “figlio di Dio”, ma non come “figlio unigenito”.
La massima vicinanza al vero Gesù mi pare si possa attribuire al Vangelo di
Marco e probabilmente la massima autenticità delle affermazioni di Gesù si
dovrebbe riconoscere al Vangelo di Matteo se si vogliono escludere i detti
gnostici del Cristo, che si leggono nel Vangelo di Tommaso, che suonano deci-
samente come i più conformi alla personalità ed alla verità vissute da Gesù.
Luca è decisamente lontano dall’uno e dall’altro, basti confrontare come ho
fatto in questo capitolo il discorso delle Beatitudini e le parole dell’ultima cena
o l’attenzione rivolta ai Gentili, cosa che certamente Gesù non ha fatto, come
risulta evidente nei Vangeli sinottici, ovviamente Luca compreso.
Lontanissimo dalle parole del Cristo mi pare ancora una volta Paolo che, d’al-
tra parte, mi sembra ancora più interessato a difendere quanto dice lui che non
a riportare il messaggio del Maestro, anche perché con tutta probabilità non lo
conosceva.
In tutto il Nuovo Testamento il più vicino allo spirito di Gesù mi sembra suo
fratello Giacomo, da come risulta dagli atti degli Apostoli, che sono tra l’altro
stati scritti da Luca, discepolo di Paolo, ma soprattutto dalla sua lettera nella
quale contraddice apertamente la visione paolina: “l’uomo è giustificato per

224 Patanjali – Yoga sutra – vol I° sutra 33


225 Corano – LXI– 45–46
226 Vangelo di Giovanni – 1.14 e 3.16 – I° lettera di Giovanni – 4.9

134
fede, indipendentemente dalle opere della legge”.227
Giacomo, infatti, dice chiaramente:” Voi vedete che l’uomo viene giustificato
in base alle sue opere e non soltanto in base alla fede”.228
Nella lettera di Giacomo si sente assai viva la voce dei profeti del deserto, di
Elia e di Giovanni il battista.
Il diritto e la giustizia sono al centro del messaggio della lettera di Giacomo ed
anche del pensiero di Gesù: “Ecco il salario dei lavoratori che hanno mietuto
i vostri campi e del quale li avete frodati, grida; e le grida di quelli che hanno
mietuto sono giunte alle orecchie del Signore”.229
Giacomo insiste che la Sapienza, la Conoscenza è il dono che Dio ha dato agli
uomini, e per lui, come per Gesù il cuore della Legge è quello indicato nel
Levitico: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figlioli del tuo
popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso”.230
Quindi la Sapienza e la Conoscenza, non la Speranza, come indica invece Papa
Ratzinger nella sua seconda enciclica, sono il messaggio biblico ed il messag-
gio di Gesù: “Se perseverate nella mia parola siete veramente miei discepoli;
e conoscerete la Verità e la Verità vi farà liberi”.231 Questa è una affermazione
di certezza, non di speranza. La speranza potrebbe essere stata da noi vissuta
prima della venuta del Maestro, ma con il suo messaggio e il suo insegnamento
siamo già nel suo cuore, e non dobbiamo più sperare nulla, ma essere certi già
di avere tutto.
Non dimentichiamo che Gesù, pur essendo fortemente innovativo nel ridise-
gnare la visione messianica è profondamente rispettoso della Legge di cui ri-
conosce la verità immortale. Il suo meraviglioso discorso della montagna lo
incorona interprete del ristabilimento della vera legge mosaica completamente
distorta dalla giustizia degli scribi e dei farisei. Gesù ribalta la loro interpreta-
zione e ritorna veramente al dettato di Mosé contenuto nel Levitico che abbia-
mo appena citato.
Gli scribi e i farisei nella loro interpretazione della giustizia giustificavano la
reazione di chi aveva ricevuto un torto: occhio per occhio, dente per dente,
mentre Mosè aveva portato esattamente il messaggio opposto: attento a ferire
un occhio del fratello perché per la legge di causa e di effetto subirai la stessa
reazione. Attento ad uccidere perché per la legge di azione e reazione farai la

227 S.Paolo –Lettera ai Romani – 3–28


228 Lettera di Giacomo – 2–24
229 Lettera di Giacomo – 5– 4
230 Bibbia –Levitico – 19–18
231 Vangelo di Giovanni – 8–31

135
stessa fine.
Capite bene che questo ritorno alla vera enunciazione della giustizia divina
capovolgeva completamente le consuetudini del suo tempo e tornava ad essere
profondamente rispettoso della Legge e del rapporto con l’autentico messaggio
di Mosè.

IL DIO–UOMO NELLA TRADIZIONE DELL’INDIA


Il Dio personale è adorato e venerato da tutti i popoli che formano il grande
continente indiano, ma, cosa veramente eccezionale essendo stata l’India una
fucina di diverse scuole spirituali e di pensiero, è riconosciuto e venerato in
tutta la storia dell’India da tutti i grandi esseri, compresi coloro che sembrano
essere lontani da una visione personale di Dio e ancorati invece in una espe-
rienza del Dio trascendente, come Shankara, il grande maestro dell’Advaita
Vedanta.232
Alla fine della sia pur breve vita anche lui, con la grande devozione alla “Ma-
dre Divina”, porta l’assoluta asetticità della sua dottrina sul cammino che in
qualche modo apre alla manifestazione divina personale.
D’altra parte la sua alta filosofia era già stata contrastata in India da due grandi
filosofi, Ramanuja, nel secolo 11° e da Madhua nel 13° secolo, entrambi pro-
fondamente influenzati dalla corrente “bhakti” o devozionale verso un Dio per-
sonale così diffusa in India già nel secondo secolo a.c. con la Bhagavad Gita.
Anche Shankara, nel suo stupendo commento alla Bhagavad Gita, non mette
mai in discussione la presenza di Dio su questa terra nelle vesti umane di Kri-
shna.
Egli aveva già riconosciuto il Dio personale incarnato nel suo grande Guru Go-
vinda a cui dedica una della più belle odi che siano mai state scritte al Maestro
riconosciuto come l’incarnazione del Divino.
Analizzando però più a fondo il concetto di Dio personale espresso in tutta
la tradizione dell’India e la visione del Dio uomo nel Cristianesimo troviamo
delle differenze sostanziali che spesso non vengono evidenziate o ne sono in-
vece messe in risalto altre che a mio parere possono essere viste sotto la stessa
ottica.
La dottrina cristiana dice che in Gesù il Divino e l’umano sono uniti in una
sola persona. Nella sua persona, cioè nel suo Sé, nell’essenza ultima del suo

232 Adi Shankaracharya (788–820 d.C.) grande filosofo dell’Advaita Veda, assertore del
monismo assoluto. Suoi i più prestigiosi commenti ai Brahmasutra di Badarayana e alla
Bhagavad Gita di Veda Vyasa. Autore del Vivekachudamani.

136
essere Egli è Dio, pur rimanendo egli ben conscio della sua natura umana. Se
confrontiamo questo modo di vedere il Divino in forma umana con quello
dell’India troviamo una differenza sostanziale, non tanto nella visione di Gesù
come persona storica, ma come “unigenito” figlio di Dio, interpretando questa
espressione come la sola manifestazione di Dio in un corpo umano avvenuta
nei corso dei secoli su questo pianeta.
Questo, abbiamo già detto, crea numerosi interrogativi ai quali non vi è risposta.
Se invece lo riteniamo unigenito come Uno generato dall’Uno e quindi non
più legato soltanto ad una figura storica, ma Dio manifestato da Dio in Dio,
non troviamo più una vera differenza.
Mi sembra invece più importante notare che per la tradizione indiana l’espe-
rienza del Dio personale è una espressione di identità del puro Essere in una
manifestazione conscia di Beatitudine, l’esperienza di Cristo, almeno come si
manifesta nei Vangeli non è la stessa. Egli vede se stesso in una esperienza di
identità in relazione con il Padre.
Cerco di spiegarmi meglio. Egli non dice mai “io sono il Padre”, ma “il Padre
e io siamo uno”.233 E’ una sorta di unità nella dualità seguendo la quale Egli
ribadisce “io sono nel Padre e il Padre è in me”234, ancora più relazionata in
dualità quando dice “chi vede me vede il Padre”235, “Il Padre che dimora in me
fa le sue opere”.236
E’ una esperienza dell’Assoluto in una relazione personale e questo sembra
essere il carattere distintivo del rapporto del cristiano con il Dio fatto uomo.
Questa sembra essere anche la visione di Giovanni che nel suo Vangelo af-
ferma: “a coloro che hanno creduto in Lui ha dato il potere di divenire figli di
Dio”.237 Questa trasformazione avviene per virtù dello Spirito Santo che invece
di riportare l’uomo a Dio, come espressione dell’Uno, lo porta a divenire il
Cristo incarnato.
Il significato dell’incarnazione, nella nostra tradizione è, dunque, quella di ri-
portare l’umanità alla Coscienza divina e non direttamente all’Essere divino.
Nella nostra visione, come nella tradizione dell’India, il Logos si manifesta
come carne238, ma si differenzia poi perché nel cammino cristiano di realizza-
zione Gesù viene a portare l’umanità alla partecipazione della natura divina

233 Vangelo di Giovanni – 10.30


234 Vangelo di Giovanni – 14.10
235 Vangelo di Giovanni – 14.9
236 Vangelo di Giovanni – 14.11
237 Vangelo di Giovanni – 1.12
238 Vangelo di Giovanni – 1.14

137
come figlio, non come diretta fusione nel Dio trascendente.
Cristo è Dio nella sua natura di figlio, nella tradizione dell’India l’espressione
del Dio personale nella figura del Guru è invece:

Gururbrahmah Gururvishnur Gururdevo Maheshvarah


Il Guru è Brahma, il Guru è Vishnu Il Guru è il signore Shiva
Gurureva Parabrahman
Il verità il Guru è ParaBrahman.239
(…)
“Omaggi al Guru, che è Shiva, che è la sola causa dell’universo,
che è il ponte per attraversare l’oceano del mondo ed è il Mae-
stro di tutta la conoscenza”.
“Omaggi a Shree Guru, che con il collirio della conoscenza apre
gli occhi di chi è accecato dall’oscurità dell’ignoranza”.240

Le Upanishad più e più volte assicurano l’uomo che: “colui che conosce il
supremo Brahman, veramente diviene Brahman stesso”.241
Da noi pare esserci una specie di inaccessibilità a Dio: “Dio dimora nei cieli”.
Gesù insegnava che il Padre è: “Colui che è nei cieli”.242
Nella tradizione dell’India la inaccessibilità a Dio è simboleggiata non dalla
necessità di ascendere sempre più in alto, ma piuttosto quella di indirizzare la
nostra consapevolezza sempre più profondamente all’interno fino a scoprire il
segreto dell’Essere nella natura stessa del proprio cuore:
“Scopri nella caverna del tuo cuore quello splendore nel quale dimora il Dio
trascendente”.243 Per questo raggiungimento il Guru, il Divino incarnato, è in-
dispensabile per il discepolo, ma la mèta non è divenire il Guru, ma il Divino
trascendente stesso.
Queste due vie che sembrano differire così tanto hanno invece un identico
significato, un raggiungimento comune: Dio è al di là della naturale compren-
sione della mente umana. Se l’uomo vuole entrare nel regno di Dio non può
rimanere attaccato alla sua individualità, alla sua contrazione come persona,
ma deve espandere quei limiti al di là di qualsiasi espressione fino ad entrare
in contatto con una esperienza che è senza tempo e senza spazio, senza logica

239 Parabrahman : L’Assoluto immanifesto in tutta la sua espressione trinitaria.Guru Gita – 37


240 Guru Gita – 33–34
241 Mundaka Upanishad – 3.2.9
242 Vangelo di Matteo – 6.9
243 Kaivalya Upanishad – 1.3

138
e senza pensiero, “al di là del divenire e del non divenire”,244 “al di là di ogni
distinzione e di ogni qualità”,245 solo allora diverrà Atmavid”.246
Quel segreto silenzio che Gesù ha rivelato come dimora del Padre, quel più
alto cielo che Egli ha realizzato con l’Ascensione certamente è lo stesso segre-
to contenuto nelle Upanishad,247 o in Yahveh, il Dio nascosto di Israele.248
Dice Padre Henri La Saux, monaco benedettino, che ha vissuto in India buona
parte della sua vita: “sembra che l’India, spinta dallo Spirito, inviti il cristiano
a ricercare il segreto di Dio, creatore e Sapiente, non più al di fuori o vicino a
noi, ma nella più profonda esperienza del nostro cuore”.249

244 Iso Upanishad – 10.14


245 Mundaka Upanishad – 7
246 Atmavid: Conoscitore del Sé – Chandogya Upanishad – 7.1
247 Chandogya Upanishad – 3.14.2 / 3.13.7 Mundaka Upanishad – 2.2.9
248 Bibbia – Isaia – 45.15
249 Padre Henri La Saux – Saccidananda– ed. ISPEK pag.13

139
CAPITOLO VI
IL MISTERO DELLO SPIRITO SANTO
“Perfetta, indivisibile, indistinta,
precede la creazione del cielo e della terra.
Calma, non mutevole, vuota,
procede nei due sensi e si allarga e si stringe.
Non conosco il suo nome.
La chiamo TAO, la via, la verità, la vita,
ma è come dire niente.
Non pensare alla forma, dà peso alla funzione.
È questa il TAO. E’ forma senza forma
visione senza cosa, nebbia di già svanita.
Se viene non vedi il suo volto,
se passa non vedi il suo dorso”
Lao Tze

In tutte le tradizioni si parla dello Spirito di Dio, ma, malgrado tutto, nella no-
stra religione rimane assai misterioso250, eppure da Esso comincia l’avventura
terrena del Dio Uomo, del Dio manifesto.
Nella Bibbia Gabri’el disse a Maria (Mirjam) che sarebbe entrato in Lei un
Pneuma Aghion, un sacro soffio, e che la forza dell’Altissimo l’avrebbe co-
perta come un’ombra, per cui il Santo che sarebbe nato sarebbe stato chiamato
“figlio di Dio”.251
Anche Elisabetta (Elisheba), quando Maria andò a trovarla e la salutò, fu ripie-
na di “sacro soffio”. Un altro angelo aveva detto a Giuseppe (Josep): “Quello
che é nato in Lei è sacro soffio.252 Anche Zaccaria (Zekarjah) quando riprese a
parlare e cominciò a profetare fu ripieno del sacro soffio.253 Di Simeone (Shi-
mehon) si dice: “Il sacro soffio era su di lui, ed aveva ricevuto una predizione
dal “sacro soffio” che non avrebbe visto la morte prima di aver visto il Messia
(Mashiakh) del Signore. E venne al tempio pieno di “sacro soffio”.
In greco il termine è Pneuma. E’ il soffio vitale di Dio, è la presenza incorpo-

250 René Laurentin, esegeta, teologo e agiografo, una delle personalità più note nel panorama
teologico francese e internazionale intitola il suo trattato sullo Spirito di Dio: Lo Spirito
Santo, questo sconosciuto. Il lavoro di 635 pagine è edito in italiano da Queriniana.
251 Vangelo di Luca –1.28 e seg.
252 Vangelo di Matteo – 1.20
253 Vangelo di Luca – 1.67 e seg.
rea, ma vera, della Realtà divina in un individuo santo.
In ogni caso il “sacro soffio” è descritto nella Bibbia come la forza vitale che
Dio dà alla creatura infondendosi in essa e rendendola così “anima vivente”.
S.Ireneo paragona il Verbo e il “sacro soffio” alle due mani con le quali Dio
modella la sua argilla, la creazione.254
Tuttavia nella tradizione cattolica lo Spirito Santo è soprattutto visto nella sua
attività di santificazione, animazione ed ispirazione delle persone, dei profe-
ti, della chiesa, ed assai meno, quasi per nulla, nell’opera della natura, come
creatore.
Vi è stata una gran paura di depredare il Padre della sua proprietà di Creatore
perché non si vede chiaramente lo Spirito nell’unità con il Padre. Eppure nella
Sacra Scrittura si legge: “Lo Spirito del Signore riempie l’universo e, essendo
di tutti gli esseri la forza di coesione e l’armonia, ne conosce assolutamente la
voce”.255
“Il tuo Spirito incorruttibile è in tutte le cose”.256
Anche S.Basilio dice: “In verità la creazione non ha dono alcuno che non le
venga dallo Spirito Santo”.257
Il soffio divino, quindi, crea, è artefice della fase discendente dell’UNO nel
molteplice, ma è anche l’artefice della risalita del molteplice all’UNO. In altre
parole lo Spirito esiste in Sé, poi si manifesta, si esprime nella creazione, ma in
un terzo tempo torna in se stesso. Dice S.Tommaso d’Aquino: “Questa proprie-
tà dello Spirito è legata alla sua natura profonda, a ciò che Egli è nel mistero di
Dio, al fatto che, Uno e medesimo, Egli è in tutti ed in ogni cosa, per animarli,
e soprattutto in Gesù e in noi”.258
Quindi lo Spirito è nello stesso tempo principio di una immensa diversità e
mezzo di riunione di questa diversificazione creativa nell’unità divina.
Come abbiamo visto, e come vedremo ancora in seguito, questo modo di espri-
mere il gioco dello Spirito Santo è assolutamente imperfetto, perché il creare,
come soffio di vita, e quindi il distinguere la natura dal suo Creatore, e ripor-
tarla all’unità con l’Uno, come espressione di Grazia, non avviene, in realtà,
nei parametri del tempo, ma in un tempo senza tempo, in un continuum eterno,
in un eterno presente.
Quindi dovremmo sempre ricordare che la vita non è un dono di Dio all’uomo.

254 S.Ireneo – Adversus haereses – V. 6.1 e 28.4


255 Bibbia – Sapienza – 1.7
256 Bibbia – Sapienza – 12.1
257 S.Basilio – Trattato sullo Spirito Santo – XIX, 49
258 S.Tommaso d’Aquino – III° sent. D 13 q. 2a

141
Questa visione ci riporta ad una condizione duale, ma la vita è Dio stesso nella
sua espressione di Spirito divino. Dunque la vita è Dio, la vita è l’uomo, poiché
nulla, dice Giovanni nel prologo del suo vangelo, sarebbe stato creato senza di
Lei, quindi l’uomo è Dio nell’espressione dello Spirito.
Lo Spirito Santo è la vita, questa presenza dell’Assoluto in noi e in ogni cosa
creata, che dà valore al nostro essere interiore, rendendolo, non solo vivo, ma
allo stesso tempo desideroso ricercatore della comunione con la nostra realtà
divina.
Quanti uomini non abitano se stessi perché restano ancorati alla manifestazio-
ne esteriore, alla visione superficiale di ogni cosa creata, completamente pri-
gionieri del loro vivere quotidiano? Eppure in tutti l’unica realtà permanente,
immutabile, è la Realtà trascendente. Coloro che la conoscono per esperienza
diretta non possono avere dubbi sulla loro vera natura, ma difficilmente posso-
no darne dimostrazione a coloro che sono chiusi a questa dimensione.
I primi versi del Rig Veda esprimono proprio questo concetto: “I versi dei Veda
sono strutturati al livello della Coscienza. Cosa possono fare i Veda per coloro
che non sono aperti a questa Realtà trascendente?”
Vi sono quindi due nascite nell’uomo, una materiale: “Gli soffiò nelle narici un
alito vitale e l’uomo divenne anima vivente”259, e l’altra spirituale con l’inizia-
zione: “Ed ecco che i cieli si apersero ed egli vide lo Spirito di Dio scendere
come una colomba e venire sopra di lui”260; “Ben vi battezzo io con acqua, in
vista del ravvedimento; ma colui che viene dietro di me è più forte di me (…)
egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”.261
Gesù esprime la stessa certezza quando parlando con Nicodemo, un fariseo,
capo dei Giudei, dice: “In verità, in verità ti dico: se uno non è nato dall’alto,
non può vedere il Regno di Dio (…) In verità, in verità ti dico se uno non è
nato dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel Regno di Dio, il nato dalla
carne è carne, e il nato dallo Spirito è spirito. Non ti meravigliare che ti abbia
detto, voi dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole, senti il suo sibilo,
ma non sai donde viene né donde và. Così è chiunque è nato dallo Spirito”.262
E’ interessante notare che proprio qui si inserisce nella tradizione ebraica, non
il battesimo di acqua, che era conosciuto e praticato da secoli, ma il battesimo
di “sacro soffio”, quello stesso battesimo che da millenni viene praticato in
India dai Siddha, dai Maestri perfetti, nel Buddismo tibetano dai Rinpoche,

259 Bibbia – Genesi – 2.7


260 Vangelo di Matteo – 3.16
261 Vangelo di Matteo – 3.11
262 Vangelo di Giovanni – 3.3 e seg.

142
nell’Islamismo dei Sufi dal Maestro, nel Cristianesimo orientale dallo Starlet,
e che nello Shivaismo del Kashmir, in sanscrito è chiamato shaktipat, la tra-
smissione della Grazia da Maestro a discepolo.
Come mai, ci potremmo chiedere, Gesù porta per la prima volta nella storia
di Israele tale battesimo, mai fino ad allora praticato? Come lo ha riconosciuto
Giovanni il battista se era una novità assoluta? Come lo ha potuto praticate
Gesù molte volte in seguito? Come se lo sono inventato i due? Da chi lo hanno
sentito, visto, provato, imparato? Come ne ha Gesù trasmesso l’iniziazione ai
suoi discepoli nella Pentecoste?
Neanche gli Esseni lo conoscevano. Dai sacri testi, solo recentemente ritrovati,
si rileva che essi erano un movimento prevalentemente dualistico.
Tutto lascia pensare che i due cugini lo abbiano potuto conoscere altrove, nel
periodo di assoluta assenza che va dai dodici ai trent’anni di Gesù. Infatti,
considerando lo stesso periodo, nulla si sa neanche di Giovanni il battista come
grande essere che predica il cammino verso Dio e diviene il precursore del
Divino incarnato. Com’è che si comincia a parlare di lui praticamente in corri-
spondenza con la vita pubblica di Gesù?
Bisogna però riconoscere che se avessero vissuto dai dodici ai trent’anni in
India, in Persia o altrove, difficilmente avrebbero potuto conoscere così bene
le Scritture della loro tradizione. Invece Gesù predica nelle sinagoghe con la
competenza di un “rabbi”, lui che non era un levita, quindi della tribù che,
tradizionalmente, era preposta all’insegnamento, ma della tribù di Giuda; e,
nel solo episodio della tentazione nel deserto, Gesù cita per ben tre volte il
Deuteronomio263 e mette pure il Salmo 91264 in bocca al “tentatore”, e resta nel
deserto 40 giorni, come i 40 anni dell’Esodo.
Eppure quello che avviene nelle tentazioni è una chiara dimostrazione delle
possibilità che sono offerte all’uomo realizzato tramite la pratica delle “sid-
dhi”: la trasmutazione degli elementi, il controllo della fame e della sete, la
possibilità di utilizzare i poteri temporali, la possibilità di vincere la gravità e
di volare.265
Tutti questi poteri sono descritti a fondo nel III libro degli “Yoga sutra di
Patanjali”.266
Come li aveva conosciuti Gesù? Come li aveva ottenuti?

263 Bibbia – Deuteronomio – 8–3/6–16/6–13.


264 “Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui, poiché sta scritto: ”Dio comanderà ai sui angeli
per te, perché ti proteggano” – Vangelo di Luca – 4.9
265 Dimostrerà in seguito questo potere camminando sulle acque.
266 Patanjali scrive gli “Yoga sutra” circa 300 anni prima della nascita del Cristo.

143
Gesù pare resistere a tutte le tentazioni di usare i suoi poteri, le siddhi, per suo
uso personale. Anche nella tradizione dell’India questa è una delle prove della
realizzazione del Siddha, del perfetto. Gesù dice ai settanta discepoli che sono
stati mandati da lui in missione e sono felici perché nel nome di Gesù hanno
potuto sottomettere i demoni: “Ecco, io vi ho dato la potestà di calcar serpenti e
scorpioni, e tutta la potenza del nemico, e nulla potrà farvi del male. Pure, non
vi rallegrate perché gli spiriti vi sono sottoposti, ma rallegratevi perché i vostri
nomi sono scritti nei cieli”.267
Potrebbe Egli essere andato a cercare altrove ciò che nella sua tradizione non
trovava più in quel tempo nella classe sacerdotale, dopo aver appreso la Torah?
In fondo fino ai dodici anni avrebbe potuto essere istruito, educato alle Scrit-
ture da Zaccaria, lo zio che era un’erudito nella parola di Dio. Infatti proprio a
dodici anni disputa già nel tempio con i dottori della Legge con la competenza
di un esperto.
Un altro particolare ci spinge a credere che abbia seguito qualche scuola di tra-
dizione orientale, forse legata a uno o più dei tre Magi che vennero alla grotta
alla sua nascita. In India infatti il ragazzo lascia la casa paterna a dodici anni
per andare nel GuruKula, la scuola del Guru, dove resta per un periodo di anni
multiplo di sei, quindi, o dodici, o forse diciotto, come sono gli anni, in cui
sembra che Gesù sia mancato da casa.

LA TRINITA’ COME “PERSONE UGUALI E DISTINTE”


Un altro problema che riguarda non solo lo Spirito, ma l’intera Trinità è la tra-
dizione, ormai consolidata, di chiamare ogni espressione trinitaria “persona”.
Non avendo l’esperienza diretta né dello Spirito, né del Padre, ci siamo gettati
a fare riferimento al Figlio perché è l’unico che conosciamo come “persona”.
Essendo, secondo il Concilio di Nicea (325 d.C.), il Figlio “della stessa so-
stanza del Padre”, si è cercato di superare il problema di identità delle singole
espressioni trinitarie chiamandole tutte “persona”.
Se questa identificazione ha, per coloro che non hanno esperienza diretta del
trascendente, il vantaggio di superare il dinamismo impersonale dell’espres-
sione del Padre e dello Spirito, non manca, però, di suscitare non pochi pro-
blemi.
Già S.Agostino confessa di usare il termine “persona” solamente per “non es-
sere costretto a tacere”.268 S.Anselmo diceva: “Tres nescio quid” – “I tre non

267 Vangelo di Luca – 10.19


268 S.Agostino – De Trinitate – VII, 6–11

144
so che cosa”.269
Il maggiore problema è che con l’identificazione come “persona” si tende non
solo verso un antropomorfismo della divinità, ma si crea, quasi fatalmente la
visione di una separazione triplice, inducendo, nella maggior parte delle perso-
ne, l’incapacità di vedere l’Uno come l’unica realtà del Trino, ed il Trino come
realtà dell’Uno.
L’espressione “persona” aveva creato problemi anche ai Padri del Concilio
Lateranense del 649 d.C., che correggeva l’espressione “persona” con la frase
subsistentiis consubstantialibus ”sussistenze consustanziali”.270
S.Agostino, preoccupato della perdita della Realtà divina come Uno, scriveva:
“Ciascuna è in ciascuna e tutte sono in ciascuna, e ciascuna è in tutte, e tutte
sono in tutte, e tutte non fanno che una sola Cosa”.271
Come vedete non tocca più il termine “persona”, ma Dio diviene neutro (quid
– Cosa).
Tutta questa diatriba è generata dalla capacità di avere l’esperienza trinitaria
che non può essere una esperienza selettiva, ma per sua stessa natura sarà sol-
tanto una esperienza monistica. Mancando questa, ancora una volta si tende ad
esercitare una separazione nell’Unità, mentre l’esperienza mistica ci dà, senza
ombra di dubbio, la certezza della Trinità nell’Unità e dell’Unità nella Trinità.
S.Teresa d’Avila descrive lo stato in cui le certezze sono assolutamente stabili
che lei chiama: “orazione di quiete”, noi diremmo meditazione o trascendenza
o samadhi, o nirvana:

Quando è lo Spirito di Dio che agisce in noi, non è necessario


cercare considerazioni per eccitarci a confusione o ad umiltà,
perché ci umilia e ci confonde Lui stesso e in un modo assai
diverso di come potremmo da noi, con le nostre povere con-
siderazioni, neppure confrontabili con l’umiltà vera e piena di
luce che il Signore concede (…) perciò l’anima è già disposta
a tutto, già sicura della sua eterna salute, benché con umiltà e
timore; non già timore servile, ma riverenza filiale accresciuta
di molto. Si sente accendere da un grande amore di Dio senza
umani interessi.272

269 S.Anselmo – Monologion – 78


270 Unum Deum in tribus subsistentiis consubstantialibus, “un solo Dio in tre sussistenze
consustanziali” –Densinger– Schonmetzer – n.501
271 S.Agostino –De Trinitate – VI, 10,12
272 S.Teresa d’Avila – Vita – V, 15,14

145
Anche la Beata Elisabetta della Trinità descrive lo stato di trascendenza in
questo modo nella lettera a Maria Luisa Ambry:

“Si ricordi che è in Lui (Dio) che egli si fa sua dimora quaggiù;
poiché lo porta nel più intimo di se stesso, egli può sempre in-
contrarsi con Lui in questo santuario interiore in ogni gioia ed in
ogni prova. E’ il segreto della felicità, il grande segreto dei Santi.
Essi lo sanno bene di essere il “tempio di Dio” e che unendosi a
Lui si diviene “un medesimo spirito con Lui” e perciò giudicano
tutto permanendo nella sua luce”.273

Questi doni dello Spirito Santo a cui Teresa accenna sono ben descritti nella
Bibbia da Isaia: “Spirito di sapienza e di discernimento, Spirito di consiglio e
di fortezza, Spirito di riconoscenza e di timore del Signore. Su chi riposerà lo
Spirito del Signore non giudicherà secondo le apparenze, né renderà senten-
za per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i miseri e con equità renderà
sentenze in favore dei poveri del paese (…) la giustizia sarà la cintura dei suoi
lombi e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi”.274
Nella Bibbia si legge: “In essa c’è uno Spirito intelligente, santo, unico, mol-
teplice, sottile, mobile, perspicace, senza macchia, terso, inoffensivo, amante
del bene, acuto, irresistibile, benefico, amante dell’uomo, immutabile, fermo,
senza preoccupazioni, onnipotente, onniveggente, e che penetra tutti gli spiriti
intelligenti, puri e sottilissimi. E’ esaltazione della potenza di Dio, effluvio
puro della gloria dell’onnipotente. E’ irradiazione della luce eterna, specchio
tersissimo dell’attività di Dio e immagine della sua bontà. Pur essendo unica,
può tutto, restando in se stessa rinnova ogni cosa e attraverso le generazioni,
entrando nelle anime sante prepara gli amici di Dio e i profeti. (…) Essa è
più bella del sole e supera ogni costellazione. Paragonata alla luce, risulta più
splendida”.275
La presenza dello Spirito è quanto di più sublime e meraviglioso è stato dato a
noi, comunità degli uomini, esseri viventi, ma anche alla natura in cui viviamo.
Nello Spirito Santo non si manifesta una qualche energia buona o buonissima,
ma lo stesso Dio che crea e riporta alla Coscienza dell’Uno la creazione che,
per sua stessa natura, si sente separata dal suo creatore. E’ la manifestazione

273 Beata Elisabetta della Trinità – Lettere – 210 pag.372


274 Bibbia – Isaia – 11.2
275 Bibbia – Sapienza – 7.22

146
della beatitudine dell’Essere. Dov’è lo Spirito Santo, qui è presente Dio in tutta
la sua pienezza. E noi lo sperimentiamo nella vita stessa; sentiamo, gustiamo,
odoriamo, vediamo, udiamo Dio nella nostra vita e la nostra vita in Dio.
La Bibbia lo conferma più e più volte: “Poiché in Te è la fonte della vita; alla
tua luce noi vedremo la luce”. Gesù parla dell’ “acqua che zampilla verso la
vita eterna” quando parla con la samaritana.276 Matilde di Magdeburgo chiama
lo Spirito: “Divinità che fonde e fluisce”.
Lo Spirito di Dio è qui e ora. Noi nella nostra tradizione invochiamo la sua
venuta. Questa richiesta singolare nella tradizione cristiana si chiama epiclesi
dello Spirito.
La maggior parte degli inni della Pentecoste invocano: Veni, Creator Spiritus,
come se lo Spirito sia uno dei doni di Dio. Lo Spirito è ben più di un dono; è
la presenza senza limiti di Dio che ci identifica con la vita. Il mio grande Guru
ci ha insegnato la presenza di Dio in noi stessi, come noi stessi: “Dio dimora
in te come te”. Il Divino, nella sua forma di Spirito è una presenza avvolgente,
dove l’uomo, anzi tutto ciò che vive, può sentire la pienezza, l’immanenza,
l’illimitato e l’eterno. Nella Bibbia il salmista canta: “alle spalle e di fronte tu
mi stringi; Tu poni su di me la tua mano. Stupenda è per me la tua conoscenza,
talmente alta che non riesco ad esprimerla. Dove potrei andare lontano dal tuo
Spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là Tu sei!
Se discendessi negli inferi, anche là Tu sei! Se raggiungessi le ali dell’aurora e
riuscissi ad abitare al di là del mare, sì, anche là mi guiderebbe la tua mano, mi
prenderebbe la tua destra”.277
Non vi è nessuno Spirito che deve venire, Egli è onnipresente, come la vita
stessa. E’ per noi solamente un problema di consapevolezza, di riconoscimento
perché la vita eterna dello spirito di Dio non è una vita diversa da quella che
noi già viviamo, è la stessa vita, però con una consapevolezza piena. Questo è
possibile in ogni essere vivente, non la si può comprimere in una dimensione
religiosa o spirituale. Nessuno è troppo giovane, nessuno troppo vecchio, nes-
suno troppo povero o ignorante per ricevere il riconoscimento che lo Spirito di
Dio è la vita stessa. Dicono gli Atti degli Apostoli: “effonderò il mio spirito su
ogni essere umano e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie. I vostri giovani
avranno visioni e i vostri anziani sogneranno sogni. Certo, sui servi miei e sulle
mie ancelle effonderò in mio spirito e profeteranno”.
Dovrebbe, quindi, essere chiaro a noi che lo Spirito non è qualcosa che deve

276 Vangelo di Giovanni – 4.14


277 Bibbia – Salmo –139.5

147
venire, che dobbiamo aspettare che venga. Se non fosse già intorno a noi la
creazione non vi sarebbe, e se non fosse già in noi, non esisteremmo. Siamo
noi che non lo vediamo. La consapevolezza del Divino in noi deve aprirsi
all’esperienza che già siamo Quello. Deve avvenire soltanto quello che il mio
Guru ha chiamato un cambio di prescrizione dei nostri occhiali. Quindi la Pen-
tecoste non è qualcosa che è avvenuta nel 33 d.C., ma è un fenomeno costante,
eterno, sempre esistente, è il riconoscimento del nostro valore divino che in
sanscrito è chiamato Shaktipat. Non è quindi il battesimo o la cresima che do-
vrebbero identificare colui che cammina verso l’unità con Dio, ma la “svolta”
della consapevolezza che può avvenire anche senza una iniziazione formale,
ma attraverso un riconoscimento, quello che in greco è chiamata eucaristia.
Questa, che tutte le tradizioni chiamano “vita nuova” e che viene in noi con la
consapevolezza dello Spirito di Dio non è dunque una ri–nascita, ma è una vita
che si rinnova continuamente nella consapevolezza del “qui e ora”, quello che
negli Atti degli apostoli si legge come: “Ecco io faccio nuove tutte le cose”.278
Nella tradizione indiana lo stesso concetto è noto come Uma, la sempre gio-
vane.
Questo riconoscimento, chiamato nello Yoga il risveglio di Kundalini, si rico-
nosce da alcuni segnali visibili, manifesti, o profondamente vissuti. Desidero
evidenziarne tre che ci cambiano drasticamente in positivo anche la vita di tutti
i giorni.
Il primo è il senso di una gioia profonda, intima, indescrivibile.
Non ci sentiamo più costretti alla sofferenza, ma sappiamo, per esperienza,
che possiamo scegliere, siamo finalmente liberi di uscire dal dolore e lasciar-
ci inebriare dall’espansione. “Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia” scriveva
Blaise Pascal in un appunto che portava sempre con sé e che contemplava
continuamente.
Il secondo segnale è l’accoglimento della vita. Cominciamo a conoscere e a
vivere lo scopo della nostra vita in assoluta certezza. Finalmente conosciamo il
perché della nostra vita, il perché di come siamo, il nostro “dharma” direbbero
i Maestri ed i discepoli dello Yoga. Accogliamo “con il consenso del nostro
cuore” il nostro presente, il nostro destino e lo identifichiamo come il cammino
verso la realizzazione permanente della presenza divina in noi.
Il terzo segnale è l’esperienza della pace, pace con la natura, pace con i nostri
simili, pace con noi stessi, pace con Dio. Questo avviene quando la nostra
mente diviene sempre più quieta. Solo in quello stato di quiete avviene una

278 Bibbia – Atti degli apostoli – 21.5

148
testimonianza e non più un coinvolgimento nelle nostre azioni o nelle azioni
degli altri, solo in questo stato di quiete il Sé rivela se stesso.

IL LOGOS, LO SPIRITO NELLA TRADIZIONE GRECO–GIUDAICA


Nella tradizione giudaico cristiana lo Spirito Santo è anche identificato con la
parola greca Logos, in ebraico Davar che significa intelligenza, flusso creativo,
verbo, parola.
Nelle traduzioni più comuni hanno scelto il termine “parola” senza indicare
che tipo di parola, che tipo di verbo.
“Logos” è il suono creatore, la parola creatrice, che dà consistenza, vita mani-
festa, a tutte le cose. Senza logos nessuna cosa creata sarebbe creata dice San
Giovanni nel preambolo del suo Vangelo.
Riferendosi al Verbo l’evangelista dice “al principio”, ma a che principio si
riferisce se il principio è espresso in ebraico con la parola béréshit che è for-
mata da “beth” che è la seconda, non la prima lettera dell’alfabeto ebraico, che
è aleph.
Lo fa perché vuole indicare l’ingresso dello Spirito di Dio nel mondo manife-
sto, nel mondo della temporalità. Béréshit non è quindi il Principio primario,
questo è Aleph, che però è immanifesto. Aleph è il simbolo del Dio trascenden-
te, il Dio che solo esiste, nulla se non lui.
Prima del “al principio”, di Béréshit, vi è un principio che non è esistente, ma
“pura esistenza”. Da questa pura esistenza, causa unica, principio senza se-
condo, scaturisce Béréshit, il logos, che è la causa prima della creazione, della
dualità. Il logos, il flusso creativo è già una energia in movimento, lo Spirito
Santo (ecco le ali della colomba, ecco nella seconda riga della Genesi della
Bibbia la parola “aleggiava”279) che è l’artefice di ogni manifestazione, anche
della manifestazione del Figlio.
Il teologo protestante Paul Tillich280 ha convalidato il Vangelo di Filippo dicen-
do: “non nel nome di Dio è l’esperienza, ma al di là del nome, nel Dio al di là
di Dio”. Nel Vangelo di Filippo si legge: “chi sente la parola Dio non intende
ciò che è autentico, ma intende ciò che non è autentico, così pure per il nome
“Padre”, “Figlio”, “Spirito Santo”, “Vita”, “Luce”, “Resurrezione” e tutti gli
altri nomi”.281

279 Bibbia–Genesi – 1.2 – ”E lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”


280 Paul Tillich, teologo protestante tedesco (1886–1965) perse per le sue idee la cattedra e
dovette emigrare. E’ considerato tra i più importanti teologi dei tempi moderni.
281 Vangelo di Filippo – 2. 53 – 24,34

149
Noi intendiamo nell’interpretazione del prologo del Vangelo di Giovanni il
logos come Ieshoua282 che vuol dire “salvatore”. Questo può essere vero solo
perché lo Spirito, il logos lo manifesta.
Tra l’Aleph, l’inconoscibile, l’inespresso, il trascendente, il sommamente puro,
l’unico, e la creazione Ieshoua, colui che sarà la via, la verità, la vita in questa
manifestazione, vi è il flusso creativo, questo logos che genera, su questo piano
di esistenza, l’esistente, la dualità, ma allo stesso tempo è capace, attraverso la
sua forma manifesta Ieshoua, di riportare la dualità all’unità. Ecco la funzione
del Figlio, del Maestro, del dispensatore del Logos, non più come flusso crea-
tivo, ma come “spirito paraclito”, come spinta di salvazione dalla dualità verso
l’Uno, il Padre.
Quindi questo Logos che genera la molteplicità è capace, allo stesso tempo, di
rendere possibile l’unità, non una unità indifferenziata o una semplice fusione,
ma una unità di relazione. Ecco l’Amore. Non vi può essere Unità senza Amo-
re, non vi può essere Amore senza Unità.
Ovviamente la conoscenza del Logos non è un monopolio della nostra tradi-
zione religiosa.
San Giustino conferisce ad Eraclito il merito della prima esposizione della pa-
rola Logos, dell’esistenza del Logos. Questo avviene ad Efeso sei secoli prima
di Cristo, sette secoli prima del Vangelo di Giovanni. In Eraclito è identificato
con il fuoco (la luce), nell’Esodo della Bibbia dal roveto ardente di Mosé.
Axelos nel suo studio su Eraclito dice che il Logos è “un legame che unisce
l’energia ai fenomeni”. Questa energia vitale viene respirata e diviene Intel-
ligenza manifesta che ci rilega a noi stessi, alla nostra vera natura essenziale,
quando ci sentiamo separati.
Gli stoici, poi, hanno proclamato questo Logos come “il più divino dei divini”.
Questo Logos degli stoici influenzerà profondamente il cristianesimo come
“diritto alla ragione”. Ad Esso si ispireranno sia Sant’ Agostino che Pascal.
Chi ha approfondito la teoria del Logos è Filone d’Alessandria, un ebreo colto,
profondamente influenzato dall’ellenismo. Per Filone il Logos è “il più grande
dono che Dio potesse fare all’uomo”. Per Filone, se gli uomini sono incapaci
di divenire “Figli di Dio” possono almeno divenire ”Figli del Logos”. Ecco è
proprio quello che é avvenuto e che avviene nella nostra religione. Incapaci di
essere figli di Dio tentiamo la via di essere Figli della manifestazione, del Lo-
gos “Io sono la via, la verità, la vita”283. Secondo Giovanni “solo il figlio può

282 Ieshoua viene dalla radice ebraica Yasa che vuol dire salvatore
283 Vangelo di Giovanni – 1.18 – 14.9 – 14.6

150
incontrare il Padre” e “chi ha visto il Figlio ha visto il Padre”.
Per Filone il Logos è il “nutrimento dell’anima”. Per Giovanni Gesù è il “pane
della vita”, “la sorgente dell’acqua viva”. Per Filone il Logos è la luce. Per
Giovanni “era la luce degli uomini”. Per Filone lo Spirito di Dio (il Pneuma)
guida i passi della mente umana verso la Verità, per Giovanni Gesù restituisce
la vista ai ciechi, è Spirito di verità che ci guiderà alla Verità totale.284 E’ stato
tradotto che il Logos è “con” Dio o “presso” Dio. Ancora una volta la tradu-
zione, a parer mio, non rende affatto la verità del messaggio perché la parola
greca pros indica un movimento, indica “colui che fluisce verso”. Questa co-
stante presenza, che è la nostra vita stessa, come il Logos, è permanentemente
orientata verso Dio. Questo è il reale scopo della vita. Questo scopo è una
presenza sempre esistente che è in noi, non con noi o presso di noi, come è in
Dio, anche se l’uomo ha perduto la consapevolezza, ha perduto la presenza del
suo Spirito Santo, ha perduto questo suo “flusso di direzione verso”, ha per-
duto la consapevolezza di essere Figlio. Questa è la ragione per la quale Gesù,
come tutti i grandi Maestri, manifestazione di Dio su questo piano di esistenza,
sono venuti in questo mondo. Essi, tutti, sono Via, Verità, Vita, luce dell’uomo,
Guru del discepolo.
Meister Eckhart scriveva: “l’occhio attraverso il quale io vedo Dio è l’occhio
attraverso il quale Dio mi vede”. E’ questa vista reciproca la ragione dello
Spirito Santo. Conoscere Dio è entrare in quest’occhio ed essere illuminati
dalla Luce.
Il Logos è Dio dice Giovanni. “Il Padre e io siamo uno”. Ecco come la Cono-
scenza genera creazione, dualità, temporalità ed ecco come l’Amore riconduce
la creazione alla luce dell’Uno, che è l’Uno stesso.
Il tutto avviene in una distinzione, ma non in una separazione tra loro. Essi, i
tre, sono Uno.

LA SHAKTI, LO SPIRITO NELLA TRADIZIONE ORIENTALE


Perché se lo spirito di Dio è così presente in tutto il Nuovo Testamento deve
essere considerato nella nostra tradizione come “il Dio sconosciuto”, addirit-
tura un Mistero?
Per conoscere più a fondo questo Spirito Santo possiamo, se vogliamo, vedere
come Esso viene rivelato nella tradizione Shivaita.

284 Vangelo di Giovanni – 16.13 – “Quando verrà lo Spirito di verità egli vi guiderà in tutta la
verità”.

151
In accordo con gli Agama,285 che trattano di Shiva, il Dio trascendente, imma-
nifesto, la Coscienza Divina non è semplicemente onnipervadenza fredda e
inerte, ma è piuttosto Spanda, attiva, dinamica, vibrazione di vita, pulsazione
creativa.
Negli Shiva sutra, Shiva, il Dio al di là di qualsiasi impulso di manifestazione
anche primordiale, è Prakasha, luce286, mentre l’aspetto divino evidenziato ne-
gli Spanda Karika è Vimarsha, vibrazione, la manifestazione dinamica.
Esaminiamo un po’ più a fondo questi termini che possono essere identificati
in due parole: Coscienza e attività che sono di fatto una parola sola: Spanda; e
lo Spirito di Dio non sarà per noi mai più un mistero.
Spanda: il movimento del Divino in se stesso. Ma attenzione, il movimento
può avvenire solo in un sistema spazio–temporale, ma il Supremo trascende
ogni nozione di spazio–tempo, quindi quando Spanda è riferito al Supremo
non può essere un movimento né fisico, né psicologico, come piacere e dolore,
e nemmeno un movimento pranico (flusso vitale) come fame o sete. E’ una
vibrazione dell’Estasi della Pura Coscienza (Chit – Ananda), una specie di di-
namismo spirituale, la Pulsazione Creativa del Divino che dà vita all’universo,
è la vibrazione del flusso della vita (Vimarsha), la vibrazione della assoluta
libertà (Svatantrya) che il Divino esercita in se stesso per conoscersi. In essa, e
con essa, genera ogni espressione creativa.
Abhina Vagupta, il grande maestro dello Shivaismo del Kashmir definisce
Spanda: “una sorta di movimento; quando l’Immobile, l’Inamovibile appare
come se muovesse, come il tempo che scorre dal passato al futuro, ma in realtà
è solo presente. L’Immobile appare avere una quantità di manifestazioni”.287
Spanda è quindi “dinamismo spirituale” senza alcun movimento in se stesso,
una specie di “causa sine qua non” di tutte le pulsazioni, come il punto fermo
da cui nascono tutti i movimenti.
L’infinita, perfetta, divina Coscienza ha sempre oltre che Prakasha, la Luce
dell’Essere, anche Vimarsha, l’auto consapevolezza che è una sottilissima at-
tività potenziale.
Vimarsha è quindi lo Spirito Santo della nostra tradizione.

285 Agama: “ciò che è stato tramandato”, cioè l’insegnamento religioso tradizionale contenuto
nei testi non vedici e a differenza dei Veda erano accessibili anche alle donne e alle caste
inferiori.
286 Anche nella prima lettera di Giovanni vi è la stessa affermazione (I Giov. 1.5) “Ora questo
è il messaggio che abbiamo udito da Lui e che vi annunciamo: Dio è Luce e in Lui non vi
sono tenebre alcune”.
287 Anche Aristotele indica lo stesso principio quando chiama Dio “motore immobile”.

152
Negli Spanda Karika lo Spirito di Dio è identificato con il termine Shakti che
rappresenta l’emergere288 ed il riassorbimento289 dell’Energia Primordiale di
Shiva, il respiro di Shiva.
Nella realtà temporale questa natura essenziale di Shiva sembra l’una seguire
l’altra, ma esse sono, per così dire, contemporanee, o meglio sono solo nel
presente, o meglio al di là del tempo. In realtà nulla emerge e nulla si riassorbe.
E’ solo la Spanda Shakti che appare in questi due differenti aspetti. Nel Corano
questa sequenza è riassunta nella sura: “Si è conosciuto ed ha creato così il
tempo e lo spazio”.
Nello Shivaismo del Kashmir è vista come i cinque atti di Shiva: creazione,
sostentamento della sua creazione, riassorbimento o cambiamento di stato, ce-
lamento della sua vera natura nella creazione, e rivelazione della sua realtà.
La possiamo comprendere bene se esaminiamo con un minimo di attenzione la
legge sulla rifrazione della luce. Se un raggio incolore colpisce un cristallo, a
valle si forma uno spettro di sette colori (vedi il fenomeno dell’arcobaleno).

288 L’espansione: Unmesha (in sanscrito)


289 La contrazione: Nimesha (in sanscrito)

153
Il raggio incolore è Shiva, il Divino immanifesto, trascendente, che è Uno; lo
spettro di sette colori è la creazione manifesta che è molteplice e pare avere
vita propria, ma non è, nella sua realtà, che il raggio incolore; il cristallo è il
mezzo, lo Spirito Santo, attraverso il quale il raggio incolore si manifesta come
arcobaleno. Ma rifrangendo nuovamente l’arcobaleno nel cristallo, i sette co-
lori si ricomporranno nella loro natura primordiale, il raggio incolore. Questa
legge fisica ci fa comprendere assai bene la funzione dello Spirito Santo come
creatore della molteplicità delle forme e come mezzo indispensabile per il ri-
torno all’esperienza dell’Uno.

Un altro esempio potrebbe essere una proiezione di immagini su uno schermo.


Le immagini dello schermo non sono diverse dalla luce che le manifesta. Noi
le percepiamo come l’esistente, ma esse non esisterebbero senza la luce, non
sono altro che luce.
La manifestazione avviene attraverso il potere della conoscenza che nasce da
un impulso di libertà chiamato in sanscrito svatantra shakti.
Svatantra shakti si rivela in tre poteri:
- il potere della volontà: volere : iccha shakti
- il potere della conoscenza: sapere : jnana shakti
- il potere dell’azione: fare : kriya shakti

154
Quando la Shakti indipendente di Dio, che è inseparabile da Lui, è pronta a
fluire nella forma dell’universo, prende il nome di Iccha Shakti e si sviluppa e
si manifesta come Jnana e Kriya. (Malini vijaya tantra 3.5)
La Shakti nella sua forma di volontà ha in sé entrambi i poteri di conoscenza e
di azione. (Swami Muktananda – The secret of the Siddha – pag.159)

La conoscenza dello Spirito Santo è stata ulteriormente approfondita dai saggi


dell’India. Essi, nelle loro meditazioni, hanno scoperto che come Iccha Shakti,
il potere della volontà fluisce in tre vie, anche Jnana Shakti, il potere della co-
noscenza e Kriya Shakti, il potere dell’azione, fluiscono in tre vie:
Jnana Shakti si manifesta in:
- Varna: le lettere dell’alfabeto
- Pada: il potere di trasmissione; il movimento del suono
- Mantra: il suono cosmico del nome di Dio

Kriya Shakti si manifesta in:


- Kala: tempo; principio del tempo
- Tattva: le 36 forme che permettono al Divino di entrare in azione su
questo piano di esistenza.
- Bhuvana: divenire; luoghi di esistenza; differenti mondi (108).

LE QUALITA’ DELLO SPIRITO SANTO


Nella tradizione dell’India, contrariamente a quanto avviene nel Cristianesi-
mo, una grande attenzione viene portata sulla conoscenza dello Spirito Santo.
Questa ricerca millenaria, compiuta dai più grandi Siddha, dai Rishi vedici e
dai più illuminati mistici di tutte le tradizioni ci ha lasciato in eredità splendide,
profondissime intuizioni, esperienze ed aperture del cuore.
Da queste sono nati trattati, poesie e inni d’amore e di conoscenza.
Tutti ci dicono che lo Spirito di Dio ha non solo la funzione creativa, ma è
costantemente “attento a ricercare opportunità per redimere i suoi amanti (gli
uomini) dal ciclo delle nascita e delle morti”.
Esso è l’ispiratore di tutte le Sacre Scritture di qualunque tradizione ed è la
conoscenza illuminante di tutte le parole dei grandi Maestri. E’ considerata la
“compagna inseparabile del Dio primordiale, è l’energia che risveglia i cer-
catori alla coscienza di Dio e all’esperienza della loro vera natura. Permette
all’uomo, durante lo stato di veglia di essere consapevole della vita, e della
possibilità di compiere il cammino verso l’unità con Dio.

155
E’ capace di distruggere tutte le illusioni che trattengono l’uomo in uno stato di
limitazione e portarlo a raggiungere la città della liberazione, il superamento
dei legami che nascono da una identificazione con il tempo e con lo spazio.
Lo Spirito di Dio ci permette di essere totalmente concentrati nelle nostre azio-
ni ed al contempo liberi dall’attaccamento ai frutti dei nostri desideri e dalle
tempeste vincolanti delle nostre passioni.
Esso è conoscenza, pura coscienza, infinita beatitudine.
Lo Spirito di Dio ci libera, se costantemente perseguito, dal dolore e dalla
sofferenza della nostra vita quotidiana.
Esso è capace di tramutare la impermanenza della vostra vita nella visione
permanente del Divino.
Se viene onorato, amato, seguito, per lungo tempo, senza interruzione e con
amore è il collirio che cambia la visione dei nostri occhi e ci permette di vedere
l’Assoluto nel relativo, l’Infinito nel finito, l’Eterno nell’impermanente.
E’ la luce che illumina la Realtà e ci permette di avere il cuore costantemente
intossicato d’amore.
Egli è il potere della volontà, della conoscenza e dell’azione.
E’ “la nostra energia vitale” ed al contempo è colui che ne detta le regole e le
fa rispettare. Governa il flusso del nostro respiro e le leggi della natura.
E’ colui che sostiene l’intera creazione, dall’aspetto più materiale all’aspetto più
sottile. E’ la Madre divina che tiene nel suo ventre tutti gli universi. E’ colei che
rende divino anche l’aspetto più violento e oscuro della creazione manifesta.

LO SPIRITO COME “GRANDE MADRE”


In molte tradizioni, compresa la tradizione induista lo Spirito Santo è anche
chiamato “la Grande Madre”, l’intelligenza che diviene creativa, la grazia
santificante, colei che permette a Dio di essere cosciente di sé, la conoscenza
interiore.
In India è nota come Durga, il cui nome deriva dalla radice sanscrita Drg che
significa vedere, la divina visione, il riconoscimento del Dio trascendente nella
sua creazione.
Questo non è altro che il gioco della vita: L’Uno osserva se stesso e conoscen-
dosi genera la molteplicità.290 Durga riporta la molteplicità all’Uno, sua vera
natura.
Nel Devi Bhagavatam si legge: E’ soltanto compiacendola che vi è la speranza
di raggiungere la realizzazione spirituale.

290 Vedi il capitolo IV° e il capitolo VII°

156
Lo Spirito Santo è visto anche come l’ “intelligenza del cuore” in ogni essere
umano e si manifesta come: MahaKali, MahaLakshmi e MahaSaraswati che
sono la manifestazione deI tre guna: tamas, rajas e sattva, le tre qualità fonda-
mentali della Natura: l’inerzia, il movimento, la luce.
Come MahaKali governa la notte, l’assenza di movimento, l’inerzia291, tamas.
Come MahaLakshmi distrugge il bufalo che vive nella selva selvaggia, di-
strugge i desideri, gli impulsi del piacere mondano, rajas.
Come MahaSaraswati è il potere dell’evoluzione, il lavoro, l’ordine, l’orga-
nizzazione, la creatività, distrugge l’egoismo e la pigrizia, sattva.
Spanda, lo Spirito Santo, è il divino movimento (soffio) che si manifesta da
Shiva; è il potere che trascende i sensi; è la potenzialità, l’essere pronto del
Supremo a manifestarsi come universo espresso. E’ quindi, niente altro che l’
io sono di tutte le tradizioni.
Il supremo Shiva manifesta questo universo attraverso la sua Spanda Shakti e
con la stessa Shakti lo riassorbe, mutandolo eternamente di stato.

In Shiva Ella si manifesta in infinite forme (…) Ella vibra eterna-


mente e non è differente da Shiva (…) Quella Spanda Shakti non
è differente da Shiva, poiché Shiva non è differente da Shakti.
Entrambi Shiva e Shakti sono pertinenti alla stessa Realtà pro-
prio come il fuoco ed il calore non sono due realtà distinte.
(Svaccanda Tantra – II.27 e seg.)

Creando l’universo dà inizio a spazio e tempo che in Shiva come “prakasha”,


luce divina, non esistono. Pur dando vita a spazio, tempo e forme Shiva non è
limitato da esse.

Lo sperimentiamo, sia pur per un istante, anche noi quando


siamo impegnati in attività come leggere, correre, aver paura,
essere in collera, meravigliarsi, avere entusiasmo e anche nella
pronuncia delle parole. (Somananda Shiva drishti – 1.9,10,11)

Nelle Scritture dell’India vi sono due analogie molto chiarificatrici di come


il Divino, pur essendo Creatore, non sia influenzato, in nulla, dalla sua crea-
zione: il melo produce le mele e le offre senza chiedere nulla in cambio, ma
al contempo è assolutamente non influenzato da come le mele sono utilizzate,

291 Yoga nidra (mette Vishnu a dormire)

157
se esse siano utilizzate bene o male è un problema di chi pratica l’azione, non
dell’albero che le produce.
L’acqua sgorga pura, gratuita, abbondante dalla sorgente, ma essa non è asso-
lutamente influenzata, né responsabile per l’uso che viene poi fatto della sua
acqua.
Nella realtà questa Spanda è costantemente vibrante, ma nel tempo, quindi già
a livello della manifestazione, ha un inizio che è visto dagli scienziati come
una esplosione. Questa esplosione, che in realtà è una implosione (big bang), si
è manifestata come suono (vimarsha – logos – vak) che è eterno e ininterrotto.
Questo suono viene dalla luce, lo stato indifferenziato di Shiva (prakasha).
Entrambe, Jnana Shakti e Kriya Shakti hanno un grande potere di attrazione,
creano identificazione con le parole, il pensiero, il suono, l’azione e le forme.
Questa identificazione crea dolore e sofferenza.
Provate a pensare quando qualcuno ci insulta. Subito ci identifichiamo con
l’insulto e entriamo in una contrazione che genera sofferenza.

Qualche anno fa la mia nipotina Sofia, allora di dieci anni, è tornata a casa dalla
scuola in lacrime. Piangeva con tutto l’entusiasmo che si ha a quell’età quando
succede qualcosa che ci fa soffrire. Per parecchio tempo non è riuscita nemme-
no a parlare e a dirci cosa fosse successo. Singhiozzava soltanto.
Quando finalmente riuscì ad articolare parola siamo venuti a sapere che Silvia,
l’amichetta del cuore, le aveva detto “brutta e cattiva”. Il dolore era immenso.
Mai avrebbe potuto pensare che la sua migliore amica le potesse dire “brutta e
cattiva”. Eppure era successo e questo le causava una sofferenza notevole.
Quando fu un poco più calma ho cercato di farla ragionare. Le ho detto: “Ma
tu ti senti “brutta e cattiva”? Lei ha negato con tutte le sue forze. “Allora Silvia
si è sbagliata. Perché non glielo hai detto? Domani se ti dirà di nuovo brutta e
cattiva tu le puoi dire: Io non sono brutta e cattiva, io sono bella e buona. Se mi
vedi brutta e cattiva stai sbagliando, quindi il problema è solo tuo!”
La cosa le era piaciuta. Si è allenata tutto il pomeriggio per essere pronta a
rispondere se Silvia avesse insistito con i suoi giudizi. Ogni tanto veniva e mi
chiedeva: “E se mi dice stupida?” Le ho insegnato a rispondere: “Non sono
stupida, sono intelligente. Se mi vedi stupida ti sbagli e il problema è solo
tuo!”
L’indomani tutti erano già in classe quando un po’ in ritardo giunse Silvia e si
sedette nel posto che occupava di solito, vicino a Sofia. Appena seduta ha detto
subito: “Brutta e cattiva”. Sofia che era ormai pronta le ha risposto, forte, ad
alta voce, in maniera che tutti sentissero: “Io non sono brutta e cattiva, sono

158
bella e buona, se mi vedi brutta e cattiva il problema è solo tuo!”. Tutti hanno
sentito, compresa la maestra che è intervenuta dicendo: “Sofia, non devi dire
alla tua amichetta che ha un problema. Chi ti ha insegnato a rispondere così?”
Sofia pronta: “Nonno mi ha insegnato”. La maestra ha chiuso per quel giorno
il discorso dicendo: “Domani mandami nonno”.
L’indomani ho accompagnato Sofia a scuola. La maestra ci ha visto arrivare e
senza nemmeno dirmi buongiorno mi ha assalito dicendo: “Come si permette
lei di insegnare ad una bambina a dire che la sua amica ha un problema”. Era
tutta rossa e anche un po’ sudata. Invece di risponderle le ho detto: “Mi sembra
un po’ agitata. Le consiglio di sedersi e di calmarsi, così parleremo meglio”. Si
è seduta. Allora le ho detto: “E’ lei che doveva intervenire. Se permette, anche
solo una volta, che le bambine si insultino tutte si sentiranno in diritto di farlo.
Se lei invece insegnerà che nessuna bambina è brutta, cattiva, stupida o igno-
rante, tutte impareranno che sbagliano ad usare quei termini”. La maestra era
intelligente. Ha capito ed ha adottato il metodo che le avevo suggerito. Dopo
pochissimo tempo nessuna bambina ha più insultato un’altra perché veniva
subito ripresa dalla maestra e dalla classe.

LA MANCANZA DI DIO MADRE


A differenza con l’oriente il Dio di Israele non includeva una espressione di-
vina considerata femminile, né il Divino era sposo di nessuna. Infatti quando
nell’Antico Testamento il Dio di Israele è presentato come amante o marito, la
sua sposa è la comunità di Israele292, o la terra di Israele293.
In realtà questa mancanza si è trasmessa anche al Cristianesimo e all’Islam, in
netto contrasto con la tradizione di Egitto, Persia, Babilonia, Grecia, Roma e
tutto l’oriente.
E’ vero che i cattolici venerano Maria, ma il culto della Vergine venne molto
tardi nella nostra tradizione, non vi era affatto nei primi secoli ed è divenuto
popolare in Europa solo nel primo secolo del secondo millennio. Ancor oggi
Maria è venerata come madre di Gesù, ma non viene mai vista come divinità a
sé stante. E’ madre di Dio, ma non Dio madre, vi è un’enorme differenza. Nella
nostra Trinità due sono le divinità decisamente maschili e lo Spirito Santo è
neutro come il termine “pneuma” che lo contraddistingue. Non essendovi il
neutro nella nostra lingua anche lo Spirito acquista genere maschile.
Oggi i teologi cristiani e islamici sottolineano che Dio non deve essere consi-

292 Bibbia – Isaia –50.1, Geremia – 2.2–3, 20.25,3.1–20, Osea –1.4 e 1.14
293 Bibbia – Isaia – 62.1–5

159
derato maschile, perché è asessuato, ma poi giustificano gli scritti che pongono
il maschio come decisamente dominante, per il fatto che Dio è maschio.294
Nel 1977 Papa Paolo VI ha dichiarato apertamente che una donna non può
diventare prete: “perché nostro Signore era un uomo”.
Questa visione è però negata da quasi tutti gli scritti gnostici e quindi anche
cristiani.

A te Padre e tramite te Madre, i due nomi immortali, genitori


dell’essere divino e tu che dimori nei cieli, umanità dal potente
nome. (Ippolito – Refut –5–6)

Valentino, maestro gnostico immagina il Divino come una dualità nell’unità,


una parte, l’Ineffabile, il Profondo, il primo Padre e l’altra, la Grazia, il Silen-
zio, il Grembo, la Madre di tutto295.
I seguaci di Valentino la invocavano come: “Madre del mitico, eterno silenzio”
o come “Oh Grazia, possa Colei che è prima di ogni cosa, l’incomprensibile,
l’indescrivibile Grazia, riempirmi dentro e accrescere in me la conoscenza di
me stesso”.
Un altro scritto gnostico, La grande rivelazione, indica l’origine dell’universo
come: “un grande potere, la mente dell’universo che governa ogni cosa ed è
un maschio (…) e l’altra, una grande intelligenza è una femmina che produce
ogni cosa (…) essi si sono scoperti essere dualità, che è di fatto circoscritta
nell’unità di Mente–Intelligenza, inseparabili l’uno dall’altro, formanti l’Uno,
questo potere divino risiede in ogni cosa ed è nascosto. Questo potere è uno,
generando se stesso in se stesso, cresce se stesso, cercando se stesso, trovando
se stesso, essendo Madre di se stesso, Padre di se stesso, sorella di se stesso,
sposa di se stesso, figlia di se stesso, essendo l’unica radice del tutto”.296
Anche l’apocrifo di Giovanni lo identifica con il Pneuma, lo spirito e vi si
rivolge al femminile: “Ella è l’immagine dell’invisibile, virginale, perfetto spi-
rito, diventa la Madre di ogni cosa, poiché esisteva prima di tutto, il Madre–
Padre (Matropater)297”.
Altri la descrivono come “la Sapienza” (Sophia), altri con il termine ebraico
Chochman, la seconda sefira, “il Signore ha creato il mondo con la Sapienza”

294 S.Paolo – lettera ai Corinzi –I 11.7–9 e 14.34–35 ; Efesini– 5.24 ; Colossesi – 3.18 ;
Timoteo – I. 2–11
295 Ireneo – ADV Haer – 1. 11–1
296 Ippolito – Refut 6.18
297 Apocrifo di Giovanni – 4.34 e 5.7 – Testi gnostici – ed. Moraldi Torino 1981

160
“essa è il primo Creatore universale che genera tutte le creature e illumina tutti
gli esseri umani”.
Un altro testo, recentemente scoperto a Nag Hammadi, il Triforme Protennoia,
il cui significato letterale è: il primo pensiero dalla triplice forma, celebra la
potenza femminile identificata con i termini “Pensiero, Intelligenza, Previden-
za”. Essa parla: “Io sono Protennoia, il Pensiero che dimora nella Luce (…)
Colei che esiste prima di tutto (…) permeo ogni creatura (…) sono l’invisibile
in ogni cosa”.298
Potrei continuare, perché le citazioni sono numerosissime, ma penso che que-
sto basti a noi per riportare la nostra visione trinitaria ad una devozione alla
Madre come “Spirito infuso, Intelligenza creativa, Grembo divino” e rivalutare
finalmente Dio nella sua unità, in cui ogni espressione abbia uguale dignità e
valore, e basti a rivedere questo malcelato sciovinismo che ci perseguita da
sempre.

QUALE GUIDA?
Se mi chiedessero, a questo punto, se sono favorevole all’istituzione di sa-
cerdoti femmine, direi certamente di no, non perché sono contrario al sesso
femminile, ma perché sono proprio assolutamente contrario all’istituzione di
sacerdoti di qualsiasi sesso o religione, palesi o mascherati come nell’Islam.
La mente è più che sufficiente a sviare l’umano dal diretto contatto con Dio
che certo non abbiamo bisogno di altre istituzioni intermedie tra noi e Lui, a
qualsiasi religione appartengano, qualsiasi sesso abbiano, che debbano essere
ritenute necessarie perché Dio manifesti se stesso nell’uomo.
Parlo sulla base di due esperienze personali e dirette:

15. La casta sacerdotale, da che mondo è mondo, in qualsiasi latitudine o tem-


po, non ha mai saputo, né potuto assolvere questo compito perché non vi
è nulla che glielo permetta. D’altra parte è sintomatico che non vi sia stato
mai un grande essere divino, incarnato nei secoli, che abbia istituito una
casta sacerdotale, non Krishna, non Buddha, non Rama, non il Mahavira,
non Muhammad, e neanche Gesù.
16. Perché quando la nostra mente apre, finalmente, i suoi limiti all’Illimitato
nella esperienza del samadhi, dell’estasi mistica, dello stato trascendentale
dell’Essere, trova il contatto con il Supremo, con il Divino, senza inter-
mediari, senza aiuti, senza necessità di nulla, in una luminosa e semplice

298 Triforma Protennoia – XIII, 35. 1–24.

161
espansione di pura consapevolezza. In tanti anni di meditazione ho impa-
rato che meno sono le nostre proiezioni mentali, le nostre necessità, e più
diretto, pronto, sublime, facile è il “tuffo” nell’Infinito illimitato dove la
beatitudine non è un senso o un sentimento, ma un puro stato dell’Essere.

Meister Eckhart finisce il suo sermone Operare partendo dal fondo più intimo
di noi stessi299 con la seguente espressione di speranza:

Possiamo noi realmente restare all’interno di noi. Possiamo noi,


senza intermediari, né speculazioni di sorta, possedere tutta la
Verità nella vera beatitudine, con il solo aiuto di Dio.
Non dovremmo in nessun modo ritenere o considerare Dio come
esterno all’uomo, ma solo considerarlo come il nostro proprio
Sé, all’interno di noi.
Molti credono di dover vedere Dio come se Egli fosse là e noi
qua. Non è così. Dio e io siamo uno. Per la conoscenza di Dio è
semplice: io ricevo Dio in me e, per amore, è altrettanto sempli-
ce, io entro in Dio.
Alcuni dicono che la beatitudine non è fondata sulla conoscenza,
ma solo sulla volontà. Hanno torto. Se fosse fondata sulla volon-
tà non sarebbe l’esperienza di unità. Amen

Gesù ha detto: “Colui che berrà dalla mia bocca diventerà come me nello stesso
modo che io diventerò come lui, e le cose nascoste gli verranno rivelate”.300
“Tu hai visto lo Spirito e sei divenuto lo Spirito, tu hai visto Cristo e sei dive-
nuto Cristo, Tu hai visto il Padre e diverrai il Padre. Chi ha raggiunto in sé la
conoscenza non è più un cristiano, ma un Cristo”.301

Vi è uno straordinario testo dal titolo Allogèno che letteralmente significa: di


altra natura, che descrive i passi che portano alla conoscenza:

“Ero molto turbato e mi volsi a me stesso. Avendo visto la Luce


e il Bene che erano dentro di me divenni divino. (…) Poi rice-
vetti la visione di un Potere femminile, Colei che appartiene a

299 Lo stesso concetto è espresso dalla Bhagavad Gita nel capitolo II, verso 48 “Yogastah
Kuru Karmani” stabilizzato nello Yoga compi l’azione.
300 Vangelo di Tommaso – 50.28–30
301 Vangelo di Filippo – 61.29 e 67.26

162
tutte le glorie, che mi disse: “Poiché hai conosciuto il bene che è
dentro di te ascolta riguardo al triplice Potere e custodirai la co-
noscenza in gran silenzio e segreto. Dopo aver scoperto il Bene
allogèno passa al secondo stadio, la conoscenza di te stesso”. E
allora pregai perché mi fosse concessa la rivelazione, mi prepa-
rai a ciò per molti anni. Mi rallegrai un giorno perché ero in una
grande luce e in una strada benedetta. Contemplai la sua beati-
tudine nel silenzio che porta alla coscienza e alla conoscenza di
te stesso, così come sei, e cercando te stesso ascendi alla fonte
della vita e vedrai il movimento del soffio di Dio. Poi ascenderai
all’esistenza e la troverai che è ferma e quieta”.302

Il fatto che, di quando in quando, nel mio libro metto in forse l’autorevolezza
di una guida, quasi universalmente riconosciuta, non deve sorprendere, perché,
da vero amante dell’insegnamento di Gesù ritengo che sia mio dovere (e pia-
cere) interrogarmi su come si sia costituita questa autorità e cosa la legittimi,
se pur esiste qualcosa.
Da molto tempo, fin dalla mia esperienza diretta di cosa sia la morte, ho sempre
più preferito la libertà della mia coscienza, all’approvazione sociale e alla cer-
tezza religiosa. Desidero sapere per esperienza diretta anziché credere, senza
esperienza, ad opinioni, precetti, comandamenti, direttive espresse da altri, che
come me, sono ancora sul cammino della conoscenza. Non accetto che lo Spi-
rito Santo parli alle istituzioni e non al cuore dell’uomo direttamente e questo
perché sono certo delle mie esperienze soggettive.
Dal momento in cui ho constatato, per diretta esperienza, che la morte apriva
scenari e prospettive vere per l’uomo, diverse da quelle proposte dalla Chiesa
ufficiale, ritengo che non si debba accettare per “fede” quello che dicono gli
altri, se non, eventualmente, provvisoriamente finché non si sia trovata la pro-
pria strada, la propria esperienza diretta.
Nella nostra tradizione Eraclòne dice: “Gli uomini dapprima sono indotti a
credere al Salvatore da altri, ma poi, con la loro maturazione, non credono più
soltanto ad una testimonianza umana, ma scoprono, invece, il loro rapporto
con la Verità stessa”.303
A questo proposito mi ha sempre entusiasmato il rimprovero che Gesù fece ai
sacerdoti, agli scribi e ai farisei: “Lasciateli andare, sono guide cieche, guide di

302 Allogènes – X, 50 e seg.


303 Eraclòne – Framm. – 39

163
ciechi. Se un cieco fa da guida a un cieco, tutti e due cadranno nella fossa”. E
quello che fece ai suoi apostoli quando gli citarono i profeti: “Voi avete dimen-
ticato colui che è vivo davanti a voi e avete parlato di morti”.304
Se leggiamo con attenzione i rotoli trovati a Nag Hammadi scopriamo che vi
erano delle comunità, già al tempo di Israele, che avevano rifiutato la guida
della Chiesa ufficiale e dei sacerdoti, e si erano ritirati a cercare la verità in loro
stessi, la conoscenza ultima nell’esperienza della loro natura più intima. Essi
trovarono nel loro cuore l’esperienza del Dio trascendente, nell’unione misti-
ca, e scoprirono come questo fosse il vero scopo della vita, e come arricchisse
in maniera enorme il valore anche delle loro azioni e delle loro relazioni con
gli altri.
Questi scritti, così tanto perseguitati, e non sapremo mai quanti di essi sia-
no stati bruciati dalla furia distruttiva dell’ego spirituale di Chiese ufficiali
in Egitto ed in Israele per difendere (sic!) l’integrità della dottrina, ci hanno
rivelato che vi potrebbe essere un altro modo di intendere il cristianesimo, cioè
il messaggio e la testimonianza di Gesù nella nostra vita.
Oggi piangiamo questo tesoro in buona parte perduto, ma che anche i Vangeli
lasciano intendere essere stato vivo ai tempi di Gesù, nelle sue parole, quando
riassicura gli apostoli sulla verità che viene loro impartita:305 “A loro parlo per
parabole, ma a voi dico la verità”, “non date le perle ai porci”, “in verità vi
dico, molti profeti e giusti desiderarono vedere ciò che voi vedete e non videro
e non udirono”. Quale era dunque questa rivelazione così preziosa che Gesù
riservava solo ai suoi discepoli e forse neanche a tutti, come si rivela in più
parti nel Vangelo di Giovanni e nel Vangelo di Tommaso?
Potrebbe essere quella dei Vangeli segreti, il Vangelo di Verità, il Vangelo di
Tommaso e perché si continua ad avere tanta paura, ancora dopo 2000 anni,
a rivelarla? Potrebbe mettere la gente di fronte ad un messaggio indirizzato
direttamente ai loro cuori senza intermediari o interpretazioni di altri.

Abbandona la ricerca di Dio, la conoscenza della creazione e le


altre questioni dello stesso genere. Cercalo prendendo te stes-
so come punto di partenza. Impara a conoscere chi è dentro te
stesso. Se indaghi attentamente lo troverai in te stesso. (Ippolito
– Refut – VIII. 15, 1–2)

304 Vangelo di Tommaso – 41. 27–30


305 Vangelo di Matteo – 13.10

164
In molti di questi testi la conoscenza del proprio Sé è anche la conoscenza di
Dio. Il Sé individuale ed il Sé divino sono Uno e uno soltanto. In più Gesù
vivente, come si rivela nei testi apocrifi e gnostici, parla di illusione e di illu-
minazione e mai di peccato o pentimento, come il Gesù del Nuovo Testamento.
Invece di venirci a salvare dal peccato viene come Maestro, come una Guida
eccelsa, per spalancarci le porte del riconoscimento della nostra natura divina
e così farci conoscere il Padre.

Quando la mente ha raggiunto questo livello di percezione della Realtà, del Sé,
riconosce l’Amato con certezza, per diretta esperienza. E’ questa qualità di una
realtà viva che dà all’uomo il potere straordinario di riconoscere la sua natura
divina. Non sono più mere speculazioni filosofiche o soltanto un prodotto di
un entusiasmo religioso, spesso guidato da altri, a indicarci la via, ma è l’espe-
rienza della pienezza della Coscienza, della coscienza di Essere che non è altro
che la diretta conoscenza di se stessi.
Insieme al contatto diretto dell’Essere nasce una cosciente esperienza di be-
atitudine. Allora la grande affermazione vedantica di Dio come SAT–CHIT–
ANANDA, Essere, Coscienza e Beatitudine cessa di essere una espressione
letterale e diviene realtà vivente, personale, certa, al di là di ogni dubbio, che
ogni uomo può, poi, con la costanza della sua pratica introspettiva rendere
operante in ogni aspetto ed in ogni momento della sua esistenza, qui e ora, e
poi nell’al di là dove questa esperienza diverrà primaria e definitiva.
Ogni cosa che sperimentiamo allora negli stati di tempo e di spazio saranno
permeati dalla pienezza eterna dell’Essere trascendente.
Cadrà così un altro mistero. Le cose nascoste ci saranno rivelate all’interno
come Gesù assicura nel Vangelo di Tommaso e come migliaia e migliaia di
persone, nel corso dei secoli hanno sperimentato nelle loro meditazioni, in
ogni luogo, in ogni tempo, e sotto qualsiasi tradizione.

165
CAPITOLO VII
IL MISTERO DELLA CREAZIONE
O abbondante Grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la Luce Eterna,
tanto che la veduta vi consunsi.
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo di squaderna.
Dante – Divina Commedia – Paradiso XXXIII. 82

Né prima quasi torpente si giacque,


che né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest’acque306
Dante – Divina Commedia – Paradiso XXIX. 20

Lo Sommo Ben che solo Esso a Sé piace,


fece l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arra, a lui, d’eterna pace307
Dante – Divina Commedia – Purgatorio XXVIII.91

Nelle Upanishad è detto: Eko aham bahu syam “Io sono uno e voglio divenire
molti”.
Gli islamici parlano del Verbo come: Kun Fia Kun “Egli volle e l’universo si
fece”.
Abbiamo già visto nei capitoli precedenti il gioco di conoscenza che Dio eser-
cita in se stesso per divenire cosciente della sua assolutezza. Dionigi l’aeropa-
gita ce lo descrive così: “Dio non ha una speciale conoscenza di Sé, e un’altra
conoscenza che comprende tutte le cose esistenti. La Causa di tutti gli esseri,
conoscendo se stesso, come può ignorare le cose che da Lui derivano e di cui
è la causa? Dunque, con questa conoscenza Dio conosce le cose che sono, non

306 “Né prima della creazione, il Divino giacque inerte, poiché la creazione non avvenne né
prima né poi, poiché l’atto della creazione è fuori dal tempo, non avendo Dio né prima né
poi”. Lo stesso concetto è espresso la Tommaso d’Aquino nella Summa Teologica (I.10.1).
307 “Il Divino che gode solo di se stesso fece l’uomo buono e atto a ben operare, a cui diede
per pegno la pace eterna, la beatitudine trascendente” . Questo concetto ribadisce quanto
detto nella Bibbia– Genesi (I.31) “E Dio vide tutte le cose che aveva fatte e vide che erano
buone”, e quanto detto in Ecclesiaste (III.11) “Ogni cosa Egli ha fatto bella”.
con la scienza delle cose, ma con la conoscenza di se stesso”.308
Ksemaraja309 nella tradizione dello Shivaismo del Kashmir inizia il suo Prat-
yabhijna–hrdayam esprimendo proprio le stessa Verità:
Sutra 1: “L’Assoluto Chiti (la Coscienza) dal suo stesso potere di volontà è la
causa della manifestazione dell’universo”.
Sutra 2: “Dal suo stesso potere di volontà Chiti (la Coscienza) manifesta
l’universo sul suo proprio schermo”.
Abbiamo già visto come l’Uno, per conoscersi, automaticamente, separi se
stesso in un osservatore ed in un osservato, in un conoscitore e in un cono-
sciuto.
Questo gioco genera, quindi, uno spazio all’interno dell’Uno e questo spazio è
percorso dal processo di conoscenza in un tempo.
La nascita del tempo e dello spazio all’interno dell’Uno genera, quindi, un
esistente all’interno dell’Esistenza, un relativo all’interno dell’Assoluto.
Questo fenomeno crea nel relativo una perdita di coscienza della sua vera na-
tura. Il manifesto si sente separato dall’Immanifesto e cerca, quindi, di tornare
alla conoscenza di ciò che egli è realmente.

“Dio, ritraendosi in se stesso, ha generato uno spazio vuoto


(hallal ha panoui), nel quale si è potuta sviluppare, come in uno
specchio, la creazione. All’interno di questo vuoto, l’Assoluto
ha proiettato la sua Luce. Ne è uscito il primo essere vivente,
che è la figura originale dell’essenza divina. (Rabbi Askenazi,
Cabbalista contemporaneo)
La creazione è solo la proiezione nella forma di ciò che esisteva
già nel senza forma. (Srimad Bhagavatam – III.2)
Tutto è creato e ricreato in ogni istante. (Cabbalah – Zohar)
Non vi era né l’essere, né il non essere. Senza respiro, respirò per
mezzo della sua Potenza quell’Uno. (Rig Veda – X, 129, 1–2)
Non vi è stata un’origine di nulla che abbia tempo e forma, né vi
sarà mai una fine, come morte, ma solo un processo di separa-
zione, ma gli uomini la chiamano “origine”. (Empedocle)
L’irreale non ha esistenza, non c’è non esistenza per il Reale. La
Verità su di essi è stata vista dai conoscitori della Verità.

308 Dionigi l’Aeropagita –de Divinis nominibus– VII,2 869c.


309 Ksemaraja: grande Maestro dello Shivaismo del Kashmir, autore del prestigioso Pratyabh-
ijna–hrdayam conosciuto in occidente come “Lo splendore del Riconoscimento”.

167
(Bhagavad Gita – II, 16)
Il Principio è un Infinito che nulla può aumentare o diminuire.
(Chuang – Tse)
Non dovreste nemmeno immaginare che Dio, quando ha creato
i cieli e la terra e tutte le creature fece una cosa un giorno e un
altro giorno un’altra cosa. Mosé descrive la creazione e ha fatto
bene, ma lui conosceva molto di più. Diede a ciascuno ciò che
poteva capire. Ma la realtà è diversa. Dio volle conoscere se
stesso e tutto avvenne. (Meister Eckhart)
Dio disse: “Essere”. E questo fu. (Corano – XXXVI.82)
La forza con la quale Dio lavora è la sua volontà. Dio volle e
tutto ebbe esistenza. (Hermes)
Quando Dio volle, il suo pensiero non ebbe bisogno di parole,
tutto venne in esistenza in un singolo istante.
(Cabbalah – Zohar)
La nascita umana riflette la Mia immagine.
(Srimad Bhagavatam – XI, 19)
Abbraccia il tuo Sé semplice, abbraccia la tua originale natura.
(Tao Teh Ching – XIX)
Per manifestarsi la sua Saggezza generò da se stessa tutto l’esi-
stente. La divina Saggezza creò il mondo in maniera che dalla
sua Conoscenza ogni cosa fosse rivelata. (Rumi)
Ero un tesoro nascosto. Ho voluto conoscermi, così il mondo
divenne esistente. (Muhammad – Hadith qudsi)

La manifestazione deve creare, perciò, gli strumenti perché questo ritorno av-
venga.
Come abbiamo già visto il primo strumento generato è la mente (manas).
Per acquisire conoscenza la mente compie lo stesso gioco che l’Assoluto ha
compiuto in se stesso. Crea in sé una separazione per poter conoscere. La men-
te, conoscendo per differenze, deve generare uno strumento che valuti le di-
versità, che discrimini. Manifesta così l’intelletto (buddhi individuale) che è
lo strumento attraverso il quale la mente acquisisce conoscenza attraverso il
valore delle differenze.
La formazione dell’intelletto, come vedremo nel capitolo IL MISTERO DEL-
LA VITA, determina il momento in cui l’anima entra nel corpo umano.
Provo a chiarire meglio la funzione della mente e quella dell’intelletto.
Poniamo il caso che io sia salito su una montagna e guardi la valle. La mia sarà
una visione panoramica. Nessun particolare avrà per me maggior valore di
altri. In questo caso è la mente lo strumento di conoscenza.
Desidero ora riconoscere un paese dall’altro. Allora le differenze tra l’uno e
l’altro mi guideranno in questa identificazione.
Un paese avrà un torrente che lo costeggia, sarà allora il paese di Chiusa Pe-
sio, un altro avrà una collina con una chiesina che lo racchiude come in una
bomboniera. Sarà allora Peveragno. La basilica della Madonna delle Grazie mi
permetterà, con la sua cupola particolare, di identificare Boves.
Questo gioco di conoscenza sarà esercitato dall’intelletto che mi permetterà di
conoscere grazie alla valorizzazione delle differenze.
Nella vita di tutti i giorni questa funzione non è sempre sufficiente alla mente
per discriminare tra persona e persona. Allora la mente genera l’ego personale
(ahankara).
L’ego è la progressiva sovrapposizione di schemi mentali ai quali inesorabil-
mente io mi identifico.
Il bambino nasce senza Ego, ma l’intervento educativo della madre, del padre,
del maestro, del sacerdote, della società, fanno nascere e poi crescere nel bim-
bo il senso del “mio”, poi il senso del “desiderio”, poi il senso “dell’ignoran-
za”, che si sublimerà poi nel peccato di “superbia”.
Faccio un caso pratico. Il bimbo senza ego viene portato ai giardinetti dalla
madre che gli dà un secchiellino per giocare con i sassolini. La mamma dirà al
bambino: “tieni bene il tuo succhiellino, non lo dare a nessuno”. Si avvicina un
altro bimbo per giocare. Il mio, tenendo stretto il suo secchiellino dice: “mio!”
e lo difende con tutte le sue forze. E’ nato il senso del “mio”. Dopo alcune setti-
mane egli è nuovamente ai giardini con il suo secchiellino. Si avvicina un altro
bambino con il suo secchiellino. Il mio, tenendo stretto il suo, dice “mio!”, Ma
cerca di afferrare quello dell’amico. E’ nato il “desiderio”. Quando andranno
all’asilo si incontreranno ancora con i loro secchiellini, ma questa volta, con
una certa aria di superiorità uno dei due dirà: “il mio è più bello del tuo”. E’
nato il primo impulso di “superbia”. Nel secondo bambino, se ritiene vera l’af-
fermazione del mio, potrebbe nascere il primo impulso di “invidia”.
Da questo semplice esempio possiamo realizzare come nella nostra vita le tre
funzioni della mente, che in sanscrito sono chiamate; mente: manas; intelletto:
buddhi individuale; ego: ahankara, saranno poi esercitate dall’uomo contem-
poraneamente.
Facciamo un esempio: è semibuio, sono per una strada ed un’ombra sembra
venirmi addosso. Salto sul marciapiede con affanno. Cosa è avvenuto? La
mente ha visto l’ombra arrivare, l’intelletto l’ha identificata come una macchi-

169
na, l’ego l’ha ritenuta pericolosa. I tre inviano al corpo un segnale che mette in
moto il meccanismo di fuga.

P
UNO DUE I
(Purusha) (Prakriti) A
IO SONO COLEI CHE È OSSERVATA N
O

A
S
S
TRE O
(Buddhi Mahat) L
PURA COSCIENZA U
INTELLIGENZA COSMICA T
O
NASCE IL TEMPO E LO SPAZIO

P
Chitta
MENTE I
Manas A
N
O

R
INTELLETTO EGO E
(Buddhi) (Ahankara) L
A
T
I
V
O
il triangolo della mente

Questa trinità della mente è la prima articolazione molteplice del flusso della vita
(Buddhi) nella costruzione delle facoltà intellettive ed individuali dell’uomo.
L’uomo inizia la sua vita da individuo, ma non perde, né perderà mai, il suo
seme di Dio, il soffio divino che crea l’anima individuale.
“Dio fece Adamo dagli elementi della terra, gli soffiò nelle narici un alito vita-
le e l’uomo divenne anima vivente”.310
“Il seme di Dio è in noi. Come un contadino intelligente e buon lavoratore,
esso crescerà e prospererà fino a diventare Dio di cui è seme. Di conseguenza

310 Bibbia–Genesi – 2.7

170
i suoi frutti saranno la natura di Dio. I semi della pera danno gli alberi di pero,
quelli della noce, i noci, e il seme di Dio si svilupperà in Dio”.311

Tutte le creature esistono eternamente e interamente nell’Esse-


re divino, come il loro modello. Tutti gli esseri viventi furono,
prima della loro creazione, una cosa sola con l’Essenza di Dio
(Dio crea nel tempo ciò che era, è, e sarà nell’eternità). (Swami
Vivekananda)
Eternamente tutte le creature sono Dio in Dio (…) Esse sono la
stessa vita, la stessa essenza, la stessa potenza, lo stesso Uno e
niente di meno. (Heirich Seuse)
Onorate Allah che ha creato i cieli e la terra e li ha dotati di luce e
di buio. Ma coloro che non credono conservino il loro Dio. Egli
vi ha creato dalla creta. Egli ha determinato un tempo di vita
per voi, eppure voi dubitate. Egli è sia in cielo che in terra, egli
conosce i vostri meriti. (Corano – VI.1–3)
Ecco la verità: come da un fuoco fiammeggiante sorgono miglia-
ia di scintille della stessa natura del fuoco, del pari, dall’Eterno
nascono innumerevoli esseri e in Lui ritornano. In verità l’Eter-
no è celeste, incorporeo, Egli contiene tutto ciò che è esteriore e
interiore. Egli è non generato. Egli è senza respiro, senza intel-
letto. Egli è puro. Egli è al di là dell’imperituro che è al di là di
tutto. (Mundaka Upanishad – 2, 1)
Gli atomi dell’universo possono essere contati, ma non le mie
manifestazioni. Eternamente creo innumerevoli mondi. (Srimad
Bhagavatam – XI.10)
Oh Dio di tutto, onore a te, l’anima di tutto, causa prima di ogni
atto. Tutta la vita non è che te, Dio di piaceri e di delizie. (Maitri
Upanishad – 5.1)
I sette cieli e la terra e tutto quanto in essi contenuto, cantano le
tue lodi. Egli è realmente gentile e compassionevole. (Corano –
XXI, 92–93)

311 Meister Eckhart – Works – Watkins, London

171
MAYA
Con la nascita della mente, nella pienezza della sua articolazione, si manifesta,
ahimè! nell’uomo quel processo che il Vedanta identifica in Maya, che in san-
scrito significa “non c’è, pura illusione”.
Maya è quel fenomeno che ci fa sentire separati dalla nostra vera natura. Non
ci sentiamo più l’Assoluto illimitato, ma ci sentiamo soltanto il relativo nel
limite. L’uomo, considerando la creazione come separata dal suo Creatore,
diviene prigioniero di una “grande illusione” (MahaMaya), che ha in sé sem-
pre qualcosa di virtuale, come se avesse una esistenza apparente, transitoria,
soggetta a nascita e morte, così diversa dalla Realtà assoluta, sempre esistente,
onnicomprensiva.
Questo vivere la manifestazione come “idee rivestite di forme” crea una enor-
me difficoltà ad andare al di là dell’esistenza individuale.
Questo attaccamento all’apparenza delle cose, alla loro manifestazione fisica,
o anche più profondamente, l’identificazione con il mondo del sottile, senti-
menti, emozioni, pensieri, crea un diaframma all’interno dell’uomo, un senso
fittizio, ma estremamente potente, di separazione, che è l’unica vera ragione
delle nostre paure, delle nostre ansie, delle nostre angosce, della solitudine,
dell’impotenza, della debolezza, della mancanza di amore, dell’incapacità di
amare, della sofferenza e del dolore.
L’intero mondo e ognuna delle sue parti componenti, non sono altro che la for-
za divina (buddhi) in azione, che determina e dirige anche i più piccoli movi-
menti, che dimora in ogni forma e possiede ogni anima ed ogni intelligenza.
Tutto vive in Dio, in Lui si muove e giustifica la sua esistenza. Esso è in tutto.
In tutto Esso agisce e manifesta il suo essere.
Il perfetto che si manifesta come imperfetto, l’Assoluto che prende forma di
relativo è il fenomeno mistico dell’universo.
L’imperfezione appare nelle forme e nell’azione della mente e del corpo. Essa
sussiste nei fenomeni. Chi è rivestito da questa imperfezione è, però, assoluta-
mente e soltanto, perfetto e permanente.
Dice il grande Maestro dello Yoga, Aurobindo: “E’ Maya che crea la falsa idea
delle cose e conferisce loro un carattere inferiore. E’ la forza dell’illusione che
devia la nostra conoscenza, crea falsi valori, ci avvolge nell’ego, nella mente,
nei sensi, nell’essere fisico, nell’intelligenza limitata e ci nasconde la suprema
Verità della nostra esistenza. Questa ingannevole Maya ci vela il Divino, che
siamo, lo Spirito infinito e imperituro.
Se potessimo vedere che il Divino è la vera realtà della nostra esistenza, tutto
cambierebbe nella nostra visione, tutto rivestirebbe il vero carattere. La nostra

172
vita e la nostra azione acquisterebbero valori permanenti e i loro movimenti
seguirebbero la legge della natura divina”.312
Servepalli Radhakrishna, il grande filosofo che è stato anche Presidente dell’In-
dia scrive nel suo commento alla Bhagavad Gita: “Il Supremo è vita e forma
in ogni essere. L’essere universale di Dio include nel suo aspetto inferiore la
totalità dell’inconscio, e nella sua realtà superiore la totalità del suo essere
cosciente. L’incarnarsi dell’anima nel corpo, nella vita individuale, nei sensi,
nella psiche, nella facoltà discriminante, dà luogo all’ego, il quale usa l’am-
biente materiale per poter svolgere la sua attività (…) La realtà intera e indivisa
del Supremo appare come divisa nella molteplicità delle anime”.313
Nell’inno alla Kundalini314 il poeta canta: “Chi aspira alla perfezione e co-
nosce le sue limitazioni raggiunge la mèta mentre vive sulla terra grazie alla
conoscenza di shri Kundalini. Liberatosi dal falso cammino di Maya un tale
essere raggiunge la città della liberazione attraverso la via di shri Kula Kun-
dalini”.
La parola sanscrita che il poeta usa per indicare “le sue limitazioni” è nija–
dosa. Nija significa “innate”, le limitazioni che gli derivano dall’essere nato
in una forma limitata, contratta, mortale. Dosa indica appunto la contrazione,
la limitazione della creazione che verrà superata grazie alla conoscenza (vid-
yaya).
Quando parla di Maya l’accoppia ad un falso cammino (kumargah), ad un
cammino di illusione, ad una non realtà.
Pur tuttavia la parola Maya non si ritiene, nella tradizione indiana, qualcosa
di cattivo, di brutto, di diabolico, ma, al contrario, una funzione divina. Infatti
l’energia divina che crea, che trasforma, che libera, la Kundalini, è identificata
anche con Maya, perché è infatti l’energia che contrae l’Assoluto nel relativo.
Il poeta dice: “Ella (la Kundalini) è conoscenza. Ella è autogenerata. Ella è
Maya (il potere dell’illusione) e Kriya (il potere dell’azione)”.
“Ogni cosa, salvo Dio è un’illusione. Egli è al di là di ciò che Gli attribuiscono”.315
La sola realtà di tutte le differenziazioni è la sua Unità illimitata. Se qualche

312 Sri Aurobindo – Lo Yoga della Bhagavad Gita – Ed. Mediterranee – pag.179
313 Servepalli Radhakrishna –Bhagavad Gita– Ed. Ubaldini – pag.258
314 Kundalini: il potere della creazione ed al tempo stesso il potere della Grazia che risiede
all’interno dell’essere umano. Inizialmente dormiente nel muladhara chakra, la kundalini,
quando risvegliata dal Guru, diviene attiva, e muove nell’uomo come una specie di fuoco
purificatore bruciando sul suo cammino tutti i samskara, concetti, emozioni, false identifi-
cazioni che risiedono nella sushumna, il canale centrale in cui scorre l’energia vitale.
315 Corano –XLIII.82

173
cosa ci sembra avere una esistenza separata che si oppone come manifesta-
zione limitata all’Essenza infinita è perché noi dissociamo quella cosa dalla
totalità che è la sola Realtà che non ha in sé divisioni o differenziazioni.
Se l’uomo potesse vedere ogni cosa nel suo legame universale che risale alla
“Causa” prima e nella sua identità eterna con questa “Causa” non vedrebbe più
se stesso od ogni cosa separata dall’ “Unico”.
Il discernimento, la discriminazione è il mezzo, lo strumento di passaggio tra
l’ignoranza e la conoscenza. Trasforma la vista delle molteplici possibilità nel-
la visione dell’Infinito indivisibile.
La discriminazione divenuta pura; non vede più tracce di molteplicità. Per
l’uomo allora non vi sarà che l’Infinito, la sola Realtà.
Dice Al – Arabi: “La nudità della discriminazione porta alla perdita di tutto ciò
che non è Lui e quindi all’amore di Lui”.

Io e te significa dualità e la dualità è illusione, perché solo l’unità


è verità (Al haqq). Solo nell’unità vi è pace, nella dualità, nell’il-
lusione vi è sofferenza, impermanenza, incertezza. (Abu–Al Bi-
stami, Maestro Sufi)
Quando l’anima è avvolta nell’illusione si ottiene un corpo e si
agisce. Nello stato di veglia si è soddisfatti dei piaceri consisten-
ti in donne, cibo e bevande e così via. Nel sogno l’anima indi-
viduale gode felicità e dolori nei mondi creati dalla propria illu-
sione. Nello stato di sonno profondo, scomparso ogni fenomeno,
si sperimenta una forma di beatitudine, immersi nell’oscurità.
(Kaivalya Upanishad – 1.12)

IL SEGRETO SVELATO DELLA CREAZIONE


“La Shakti salta in un turbine di gioia. Che Essa si manifesti come creazione”
scrive Kshemaraja, il grande maestro dello Shivaismo del Kashmir nei suoi
Shiva Stotravali tika.
La creazione avviene in un impulso di gioia.
L’energia della manifestazione, l’Intelligenza creativa, assume subito più for-
me. Vediamo questo processo nell’essere umano.
Nello Zohar si legge: “Dio creò l’uomo per mezzo del segreto della Sapienza
(Chochmah – L’essenza intelligibile dell’uomo), e lo plasmò con grande arte
(a Sua immagine), e gli alitò la vita perché penetrasse e capisse i segreti del-
la Sapienza e perché conoscesse la Gloria (o presenza reale) del suo Signore

174
divino”.316
Nel Sahashrar, il centro spirituale più elevato, situato alla sommità del capo, la
dimora del Divino nell’uomo, la Shakti esiste nella sua illimitatezza, infinita,
totalmente espansa, perfezione assoluta. Lì Shiva e Shakti sono in perfetta uni-
tà, totalmente trascendenti, al di là di ogni manifestazione, al di là di qualità,
forme o nomi.
Quando è nel Sahashrar, Essa non percepisce alcun mondo, è pura luce.
Anche tutti i nostri tentativi di descriverla sono patetici, sono una nostra pueri-
le necessità di descrivere l’indescrivibile.
Nella sua espressione, inesistente, di Beatitudine, comincia a scendere nel-
la Sushumna Nadi, il canale centrale del corpo sottile, e permea una prima
area chiamata Pura Creazione tra il
Sahashrar e l’Ajna Chakra. Comin-
cia, allora, ad essere sperimentata
dai grandi saggi, dai grandi veggenti
come Puro Principio di consapevo-
lezza di Unità.
Non è più Pura Coscienza (Shiva),
ma è già un accenno di manifesta-
zione: Coscienza di Unità. E’ ancora
sperimentata come Uno, non vi è an-
cora separazione tra Shiva e Shakti; è
ancora Coscienza consapevole. Shiva
comincia ad essere consapevole del
suo stato di Coscienza. Proprio pri-
ma di raggiungere l’Ajna Chakra, la
Shakti impatta il Prisma di cristallo,
pura consapevolezza di Sé, il prisma
totalmente trasparente dell’illusione
(Maya). La sua luce incolore si ri-
frange passando attraverso il prisma
di cristallo, si divide e si scompone.

Sahashrar , prisma di Maya

316 Zohar– Terumah –155a

175
Come nella esperienza fisica della “rifrazione della luce”, come nell’esperien-
za dell’arcobaleno, si separa in più luci, ognuna differente dall’altra, così la
luce senza qualità si manifesta in molte luci, ognuna identificata da una qualità,
da un colore, da un suono, da una energia differente.
Il soggetto è ora diviso dall’oggetto. Nasce Maya, l’illusione della realtà. Maya
è anche chiamata “lo specchio dell’illusione che rompe il Tutto in molti”.
I grandi veggenti dello Shivaismo del Kashmir317 hanno portato all’umanità la
più completa analisi, la più sottile conoscenza, non solo della creazione in se
stessa, ma anche la dottrina dell’autoriconoscimento.
Il riconoscimento richiede non solo la rimozione totale di tutti i veli di ignoran-
za che l’uomo ha accumulato ed ha trasmesso ai posteri attraverso i secoli, ma
anche l’indentificazione dell’essere individuale con la Realtà suprema.
La loro visione è stata così chiara e così precisa che il cammino di sviluppo
dell’Uno in se stesso è stato non solo riconosciuto con uno scrupolo matema-
tico, ma anche con una sensibilità, così particolare, da poter essere considerata
veramente “divina”.
Lo sviluppo della Pura Coscienza verso la manifestazione è stato sperimentato
in cinque puri elementi che sono, sia ben chiaro, una sola, unica, indivisibile
Realtà cosmica, pura soggettività che si articola, però, in cinque esperienze
trascendenti chiamate Suddhavidya Tattva:318
Shiva: Aham, Puro Essere, Io sono.
Shakti:Aham come espressione femminile di Shiva, a lui cosmicamente legata
in Unità.
Sadashiva: Aham–Idam, Io sono–Quello, pura creazione, pura consapevolezza
di Unità.
Ishvara: Idam–Aham. Quello–Io sono. Prevale, sia pur ancora nell’Unità il
primo impulso personale.
SuddhaVidya: Aham–Aham – Idam–Idam. Siamo alla prima esperienza di se-
parazione319, ma tutto è ancora pienezza (purna).
La Pienezza, a questo punto del suo riconoscimento vede se stessa come Pur-
nam Aham e Purnam Idam: Questo (Assoluto Immanifesto) è perfetto, Quello
(manifestazione dell’immanifesto) è anche perfetto. E’ lo stato che nella Bib-
bia identifica il Creatore che giudica la sua creazione, la sua manifestazione:

317 Vasugupta, che ricevette gli Shiva sutra, Bhaskara, che li ha commentati, Ksemaraja,
Somananda, Utpaladeva, Abhinavagupta.
318 Suddha: puro, non contaminato ; Vidya:conoscenza ; Tattva:realtà, verità, essenza.
319 Aham : Io sono. Idam: questo

176
“E la luce fu, e Dio vide che la luce era buona (…) e chiamò la raccolta delle
acque “mari”. E Dio vide che questo era buono (…) E Dio vide che questo era
buono (…) ecc”.320
Torniamo ora a Maya, la prima espressione dell’Assoluto nel relativo. Siccome
solo l’Assoluto esiste, il relativo che nasce dall’Assoluto non è altro che un
riflesso in uno specchio.
“E lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque”.321
Nella Bhagavad Gita il Signore Krishna dice ad Arjuna: “Questa mia Maya è
difficile da superare. Solo chi prende rifugio in me può superarla”.322
“Maya, la creatrice del mondo, la conoscenza velata nata dall’ignoranza, risie-
de nel corpo. Colui, grazie alla cui luce nasce la vera conoscenza, è noto con
il nome di Guru”.323
“Gu, la prima sillaba, rappresenta il principio di Maya e la seconda sillaba, Ru,
la suprema conoscenza che distrugge l’illusione di Maya”.324

Gesù nel Vangelo di Giovanni dice “Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno
viene al Padre se non per mezzo di me”.325
Il superamento della Maya, dell’illusione che la realtà sia quella che vediamo,
che misuriamo, che sperimentiamo attraverso i sensi, è il vero unico scopo
della vita. Solo se riusciamo a svuotare la nostra struttura psichica dall’assalto
dei nostri schemi mentali possiamo, attraverso il lavoro della Grazia, essere
ripieni di Verità.
Il grande saggio di Alandi, Jnaneshwar Maharaj, nel suo straordinario com-
mento alla Bhagavad Gita dice chiaramente che se uno pensa di poter superare
la Maya con i suoi soli sforzi è un folle. La Maya può essere superata solo
attraverso la Grazia Divina.

L’ALBERO DELLA VITA


Abbiamo finora visto che ogni cosa che si manifesta non è che l’energia
dell’Uno che appare (è veramente un’apparenza) divisa in innumerevoli ma-
nifestazioni. Per inferenza dovremmo riconoscere che anche il microcosmo,
cioè il nostro corpo fisico, come il macrocosmo, cioè l’universo, non è altro

320 Bibbia – Genesi – 1,4 e seguenti


321 Bibbia – Genesi – 1,2
322 Bhagavad Gita – VII,14
323 Skanda Purana – Guru Gita – verso 10
324 Skanda Purana – Guru Gita – verso 24
325 Vangelo di Giovanni – 14,6

177
che la manifestazione più evidente e grossolana dell’energia creativa di Dio
che diviene sensibile.
La Shakti non si arresta alla manifestazione di Maya, ma continua a discendere
fino all’Ajna Chakra e da questo a tutti i Chakra che seguono creando gli ele-
menti attraverso i quali si manifesta l’intero nostro sistema psicofisico.
Per lo Shivaismo del Kashmir sono in tutto 36 i tattva, i principi attivi che
formano l’essere vivente.
Per nostra maggiore semplicità esamineremo invece la creazione dal punto di
vista del Vedanta, il sesto dei sei sistemi della filosofia dell’India. Esso, infatti,
comporta l’esame di soli 25 tattva e la sua struttura, pur essendo assolutamente
completa, è molto più semplice e comprensibile per coloro che non si sono an-
cora avventurati in una contemplazione più profonda della Realtà trascendente
e della sua manifestazione relativa.
Il Vedanta, anziché da Shiva, l’Essere assolutamente puro, il Purushottama,
la suprema persona, l’Io sono, inizia da Purusha, il Supremo, il Divino che
permea il cuore di tutti gli esseri. E’ conosciuto come Parama, il più alto, il
Signore dell’universo, che nella nostra tradizione può essere identificato come
il Padre eterno.

Invisibile, inafferrabile, senza famiglia né casta, senza occhi né


orecchi, senza mani né piedi, eterno onnipresente, onniperva-
dente, sottilissimo, luminoso, non soggetto a deterioramento, il
Purusha (Mundaka Upanishad – 1.1.6)
Esso (il Purusha) è ciò che i saggi considerano la matrice di tutto
l’universo. (Mundaka Upanishad – 1.1.6)
Divino, incorporeo è Purusha, lo Spirito universale. Esso com-
prende tutto ciò che è esteriore e ciò che è interiore, è innato.
Senza respiro, senza intelletto, puro, è superiore e tutto trascen-
de. Da lui nascono il respiro vitale, l’intelletto e tutti gli organi
dei sensi, l’etere, il vento, la luce, le acque, la terra, sostegno
di tutto (…) Purusha, lo Spirito universale è l’universo: azione,
ascesi, Brahman, immortalità suprema. Colui che lo riconosce,
riposto nel profondo del cuore, costui, quaggiù scioglie i nodi
dell’ignoranza (…) Là non riluce il sole, non la luna, non le stel-
le, non brillano i lampi, per non parlar del fuoco; tutto l’uni-
verso risplende se Esso risplende. Tutto questo universo brilla
della sua luce. Questo è il Brahman immortale. Il Brahman si
distende a oriente e a occidente, a Sud e a Nord, in alto e in

178
basso. Il Brahman è il Tutto, è l’ottimo (…) Quando il meditante
distingue l’aureo creatore, il Sovrano, lo Spirito universale, allo-
ra, raggiunta la conoscenza, dopo essersi liberato del bene e del
male, senza macchia, raggiunge l’identità suprema. (Mundaka
Upanishad – 1.2 e seg.)

La creazione nasce, in una condizione assolutamente al di là del tempo326,


dall’impulso eterno che l’Uno ha di conoscere se stesso, l’unica cosa esisten-
te.
“Nulla esiste che non sia Shiva” dice l’esperienza religiosa dell’India. “Io sono
l’Eterno, l’Iddio tuo (…) non avere altri dii nel mio cospetto (…)” dice Dio a
Mosè iniziando lo sviluppo della Legge327. “Non vi è dio se non Dio” dice la
Tahlil dell’Islam.328
Tutta la conoscenza in qualsiasi differenziazione religiosa o spirituale nasce da
questo principio universale. Il Rig Veda lo chiama, come la Cabbalah, L’Uno
senza secondo, la professione di fede cattolica dice: Credo in unum deum.

Abbiamo visto ormai con chiarezza che l’Uno osserva se stesso in se stesso per
conoscersi. Questa conoscenza può essere realizzata solo se l’Uno, all’interno
di Sé si separa in un Uno osservatore ed in un Uno osservato. Quando abbiamo
esaminato il Dio personale abbiamo visto che quello che separa e distingue il
nostro dagli altri cammini di Verità è il fatto di aver interpretato l’espressione
di Giovanni Unigenito Figlio come la sola figura storica di Gesù che sarebbe
quindi stata l’unica espressione vivente di un Dio in un corpo umano, rea-
lizzata, non si sa perché, solo dopo 150.000 anni dalla comparsa dell’Uomo
Sapiens. Abbiamo visto come invece nella Bhagavad Gita il Signore Krishna,
per gli induisti una delle dieci manifestazioni dell’Assoluto su questo piano di
esistenza, dica: “Ogni qual volta l’Adharma329 prevale sul Dharma330, di tempo
in tempo, di luogo in luogo io mi incarno”.331
Forse sarebbe bene, e creerebbe meno problemi, vedere l’Unigenito proprio
nel senso dell’Uno generato dall’Uno. Il generato è sempre Unigenito, anche
se si manifestasse mille volte in un corpo umano, su questo o su altri piani di

326 Nel Credo della religione cattolica si legge: ”nato dal Padre prima di tutti i secoli”.
327 Bibbia – Esodo – 20,1
328 La testimonianza di fede islamica “la ilaha illa Allah”
329 Adharma: l’ingiustizia, la disonestà, in altre parole il male.
330 Dharma: la giusta azione, la via verso l’Assoluto, la Legge, in altre parole il bene.
331 Bhagavad Gita – 4,7

179
esistenza perché l’Uno resterebbe sempre generato dall’Uno.
Che Gesù, come Cristo, possa essere identificato in una condizione di “senza
tempo” è chiaro anche nella citazione del Vangelo di Giovanni (8,58) “In ve-
rità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse io sono”. In questo apparente
errore di tempi vi è tutta una rivelazione. Identificare il Cristo solo con una
manifestazione storica, temporale, non rende giustizia alla essenza assoluta
del Cristo.
Sorprendente è la somiglianza con un Hadith di Muhammad che risponde a chi
lo interroga. “Io ero quando Adamo era ancora tra l’acqua e l’argilla”.332
Nella Bhagavad Gita il Signore esprime lo stesso concetto: “Mai in alcun tem-
po, in verità io non fui”.333
Potrei aggiungere un episodio assai significativo della vita di Krishna descritto
nello Shrimad Bhagavatam. Ogni Gopi, le pastorelle devote di Krishna, voleva
avere il privilegio di possedere Krishna tutto per sé. Il Signore risolve il pro-
blema divenendo molti, uno per ogni Gopi. Ognuna ha così creduto di averlo
tutto per sé. Egli fa capire che non importa quante sono le sue manifestazioni,
Egli è sempre uno soltanto.

Tentiamo un rapido riassunto del principio fondamentale della creazione per-


ché, credo sia questo il più profondo segreto che apre all’uomo la conoscenza
della sua vera natura.
L’Uno (Purusha) osserva se stesso in se stesso e genera Prakriti, l’espressione
creata primordiale, quella che l’Uno (io sono) identifica come se stesso e si
riconosce in Lei (io sono quello). Perché questo riconoscimento possa avveni-
re, essendoci stata una separazione, vi dovrà necessariamente essere una terza
espressione dell’Uno che supera questa separazione e genera quindi Prakriti.
Questa terza espressione è chiamata Buddhi, o principio creativo, intelligenza
creativa, lo Spirito Santo, che è Signore e dà la vita al Figlio, all’espressione
dell’Uno che si manifesta. Nasce quindi all’interno dell’Uno una Trinità che
è sempre l’Uno, ma che a ragione, anche nella nostra tradizione, è vista come
un triangolo con un occhio all’interno, simbolo dell’osservazione di Dio in
se stesso. Ma tutto ciò lo abbiamo già visto quando abbiamo esaminato il co-
siddetto mistero della Trinità. Qui dobbiamo invece rilevare che l’Uno, sepa-
randosi all’interno di se stesso, genera uno spazio tra Padre e Figlio che deve
essere superato dall’Uno Spirito Santo, Conoscenza, in un tempo. Il grande

332 Abu Huraira Tirmidhi.


333 Bhagavad Gita – II,12

180
maestro cabalista del 18° secolo Isaac Louria, commentando il versetto della
Bibbia: (Genesi 1,6–7) “Ci sia uno spazio tra le acque, che separi le acque dalle
acque, e Dio creò quello spazio e separò le acque che erano sotto lo spazio da
quelle che erano sopra”. Scrisse: “Dio ha desiderato specchiarsi ed ha creato
così il tempo e lo spazio”.
Questa contrazione della Intelligenza creativa, della Pura Coscienza dell’Esse-
re, genera quindi il primo strumento discriminativo, la Mente, (Manas) che non
è altro che l’impulso creativo che si contrae nel tempo e nello spazio. Nasce
quindi la facoltà pensante, il primo elemento relativo che deriva direttamente
da Buddhi, l’Intelligenza creativa, non essendo altro che Buddhi stessa con-
tratta nel tempo e nello spazio.
Nata da un impulso di conoscenza, la mente è il primo strumento che permet-
terà all’Uno generato di tornare alla consapevolezza di se stesso. Per questo
ritorno alla conoscenza dell’Uno creatore, l’Uno creato utilizza la mente come
strumento primario, ma non unico. La mente trasformerà se stessa in un’ulte-
riore Trinità: mente, intelletto ed ego, e da essa nascerà l’intero albero della
vita, come vedremo nel capitolo IL MISTERO DELLA MENTE.

Tagore in uno dei suoi poemi scriveva: “Il mondo non è solo atomi o molecole
o radioattività o altre forze. Il diamante non è solo carbonio e la luce non è solo
vibrazione dell’etere. Non giungerete mai a conoscere la realtà della creazione
portando la vostra attenzione solo sulle cose che per loro natura cambiano
continuamente”.
Tagore ha ragione. La natura della realtà della creazione deve essere ricer-
cata andando sempre più a fondo nell’indagine scientifica di ciò che appare
all’esterno, nelle cose, ma potrà essere raggiunta solo da un occhio speciale
che sappia avere la visione di ciò che non si vede, la conoscenza di ciò che non
può essere conosciuto.
Matteo nel suo Vangelo (6.22) dice: “Se dunque il tuo occhio è singolo tutto il
tuo corpo sarà illuminato”.334
Nel Libro Egiziano dei Morti si legge dell’occhio singolo di Ra, come possibi-
lità di riconoscere il Divino trascendente in questo piano di esistenza.
Nella Bhagavad Gita Krishna esprime lo stesso concetto: “Ma tu non sei capa-
ce di osservare Me con questi tuoi occhi; Io ti dò l’occhio divino; contempla
la mia forma regale”.335

334 “In altre traduzioni si può leggere “semplice” anziché “singolo”.


335 Bhagavad Gita – XI.8

181
Se andiamo a leggere su un dizionario la definizione di “realtà” troviamo:
“Quello che è al di là delle apparenze, ciò che è esistente”.
Vi sono due tipi di menti che cercano di raggiungere la conoscenza della realtà:
una mente scientifica ed una mente spirituale. La mente scientifica è analitica,
va a fondo di tutto ciò che ha dimensione, forma, che può essere osservato,
misurato, catalogato, che è formato, insomma, di elementi visibili. La mente
spirituale invece è speculativa, tende a scoprire la natura e l’origine delle cose
attraverso una esperienza che sia soggettiva e non oggettiva, attraverso una
certezza e non una ipotesi o una teoria.

L’ORIGINE DELLA CREAZIONE


Già cinquemila anni fa i Veda ci descrivevano la natura di questa scoperta.
Naturalmente solo una visione, una contemplazione non superficiale può avere
accesso a questa ricerca speculativa.
Il punto di partenza è lo stesso: l’uomo si è guardato intorno e si è chiesto:
“Quale è l’origine della creazione? Chi è la persona, l’energia, l’intelligenza
nascosta che è responsabile di questa manifestazione? Cosa è il tempo? Quale
è la causa di tutto questo?”
La maggior parte degli inni del Veda sono l’intuizione di veggenti poeti che
hanno indagato la Realtà delle forze, delle energie dell’universo. Le Upani-
shad, che sono considerate la conclusione dei Veda, sono invece il risultato
delle meditazioni di filosofi veggenti. Gli uni e gli altri sono giunti a conclusio-
ni straordinariamente e inaspettatamente simili, gli uni nel tempio del creato,
gli altri nel santuario dei loro cuori, hanno visto la Luce divina ed hanno udito
la Voce divina, la “musica delle sfere”. Hanno avuto il Darshan, la visione
dell’Essere divino che permea l’infinito spazio eterno e sono giunti alla cer-
tezza che questo Essere è senza tempo, senza inizio e senza fine, immanente e
trascendente, all’interno e all’esterno di ogni cosa.
E’ in realtà un Essere–Esistenza, senza forma, qualità o nome.
Le Upanishad sono chiare nel dire che la realtà di Dio può essere solo percepita
nella silenziosa voce dell’Eterno:
“Colui che in verità conosce il Supremo Essere, diviene senza dubbio Lui
stesso”.336
“Ascoltate, perché dirò cose eccellenti e le mie labbra si apriranno a insegna-
re cose rette. Poiché la mia voce esprime il vero e le mie labbra abominano
l’empietà (…) Sono tutte piane per l’uomo intelligente e rette per quelli che

336 Mundaka Upanishad – 3, 2.9

182
hanno trovato la scienza. Ricevete la mia Sapienza anziché l’argento e la scelta
anziché l’oro, perché la Sapienza val più delle perle e tutti gli oggetti preziosi
non la equivalgono”.337

La conoscenza della creazione è vecchia come il mondo, è vecchia come l’uo-


mo.
Tutti i libri sapienziali di tutte le tradizioni cominciano con una descrizione del
processo creativo e proseguono indicando più o meno chiaramente la cono-
scenza di questo processo.
Talvolta queste descrizioni sono molto profonde, a volte paiono troppo filoso-
fiche, a volte invece addirittura ingenue, un po’ “naif”, un po’ fanciullesche.
Dobbiamo sempre tenere presente a chi questa conoscenza era rivolta, assai
spesso a popoli che avevano una vita legata alla terra, al tempo, altre volte a
popoli pastori, o montanari. I veggenti, se volevano comunicare con loro, do-
vevano adottare una semantica che potesse essere compresa. Qualsiasi scuola
ci insegna che perché vi possa essere un flusso di comunicazione vi devono
essere due poli attivi, un polo trasmittente ed un polo ricevente. Se uno dei
due non è attivo la comunicazione non solo non passa, ma non esiste. Quin-
di il modo di trasmettere un messaggio ha le sue regole che sono conosciute
spontaneamente da tutti i sapienti di tutte le tradizioni antiche o moderne. Il
messaggio deve essere innanzi tutto “vero”, ma anche “adeguato al ricevente”,
e poi ancora trasmesso “al momento giusto”.
Leggete il modo come già cinquemila anni fa i grandi veggenti del Rig Veda
comunicavano la grande realtà della creazione.

Allora non vi era non esistenza, né vi era esistenza, non vi era


né aria né spazio. Allora cosa vi era e dove? Chi diede origine?
Vi era acqua illimitata e profonda? Allora non vi era morte né
immortalità, non vi era la visione di giorni e di notti. Quell’Uno,
in una atmosfera senza spazio, respirò la sua propria natura
non essendovi nulla se non “Quello”. Vi era oscurità coperta
da oscurità in quell’oceano indeterminato e non percepito. Un
vuoto senza limiti celava ciò che non era esistente. Dall’intima
grandezza della Luce Suprema nacque quell’ Uno.
(Rig Veda – X. 219–1.2.3)
All’inizio quel “desiderio di conoscenza” fu l’unico movimento,

337 Bibbia – Proverbi – 8,6

183
l’unico seme che generò la “Mente divina”, che trovò la connes-
sione tra il non esistente e l’esistente. I veggenti scoprirono nei
loro cuori ed intuirono nella loro mente la Realtà non esistente, e
con essa la realtà dell’esistenza. (Rig Veda – X. 129–4)
Questa creazione si manifestò e poi venne formata dalla mente
divina che conobbe se stessa tramite l’osservazione di se stessa.
(Rig Veda – X. 129–7)
Chi vide il primo Uno che fu generato? Aveva quello ossa od era
senz’ossa. Aveva il respiro, il sangue, l’anima della terra? Chi si
avvicinò e lo conobbe? Chi lo ha conosciuto e ce ne parla? Quale
è il sentiero per raggiungerlo? Nella caverna del loro cuore han-
no visto Quello che è il Supremo ed il Segreto.
(Rig Veda – III.54–5)
Chiese il monaco al Maestro: “tutte queste montagne, questi fiu-
mi, questa terra e le stelle da dove vengono?” Rispose il Mae-
stro: “Dallo stesso luogo da cui viene la tua domanda”.
(Ibn Saud – Maestro sufi)
Egli ha esteriorizzato ogni cosa in modo che Egli sia l’interno,
ed Egli ha contratto l’esistenza di ogni cosa in modo che Egli sia
l’esterno. (Ibn Ata illah – Ikam 152)
Non vi era né essere né non essere senza il respiro emesso dal
suo potere, dall’Uno. (Rig Veda – X. 129)

Dopo secoli e millenni i grandi veggenti continuano a dire la stessa verità ai


loro simili che, distratti invece dalle vicende relative della vita, non prestano
ascolto all’unica Realtà, alla scoperta della loro vera natura.

Al di là dell’oscurità, dove non vi è né giorno né notte, né vi è


ciò che é e ciò che non è, il Sublime Uno solo è, senza inizio né
fine. Quello è il supremamente luminoso Uno, e da quella co-
noscenza perenne dell’Uno in se stesso venne fuori l’inizio del
tempo. (Svetashvatara Upanishad – 6.18)
Non vi era né sole che risplendeva, né luna né stelle. Non vi era-
no lampi, né fuochi. Dalla sua luce interiore nacque la creazione.
Dalla sua luminosità nacque la luce. (Svetashvatara Upanishad
– 6.14)
In verità al di là degli oggetti vi sono i sensi, vi è la mente. Al
di là della mente vi è l’intelligenza ed al di là dell’intelligenza il

184
supremo Sé. Al di là dell’Uno, l’immanifesto, al di là dell’imma-
nifesto, l’Atman. Non vi è nulla al di là dell’Atman. Quello è la
mèta suprema. Quello è l’estremo Uno. (Katha Upanishad – 1.
3–10.11)
Quello che è invisibile, inconcepibile, pura Luce, pura Coscien-
za, che è al di là degli occhi e delle orecchie, delle mani e dei
piedi, Quello che è eterno, onnipervadente, il rifugio di tutto, il
più sottile del sottile, imperituro, Quello è la sorgente di ogni es-
sere e può essere percepito solo da coloro che hanno una mente
pura e stabile. (Mundaka Upanishad – 1–1.6)
Quell’Uno non dimora nel campo di ciò che può essere visto,
né nel campo delle forme. Nessuno con questi occhi mortali lo
può vedere. Eppure attraverso un cuore puro, una mente rivolta
all’interno, una coscienza senza limite, può essere conosciuto. Il
conoscitore di quell’Uno, in verità, diviene immortale. (Katha
Upanishad – 2.6–9)
Come le onde sorgono dall’acqua, la fiamma dal fuoco, i raggi
dal sole, allo stesso modo le onde dell’universo sono sorte da Me
in differenti forme. Come l’olio è nascosto nel seme, il fuoco nel
ciocco di legna, il succo nella compattezza della mela, così le
varie forme del cosmo giacciono nel loro stato potenziale, nella
pienezza della Coscienza divina. (Shivaismo del Kashmir – Vij-
nana Bhairava)

Come la ragnatela esce dal ragno ed è tessuta, come la pianta esce dal seme ed
i capelli dal corpo di un uomo, così l’universo viene fuori dall’eterno Brahman.
(Mundaka Upanishad)
Come in uno specchio pulito le varie scene di una città o di un villaggio appa-
iono nel riflesso differenti l’una dall’altra e dallo specchio stesso, benché non
siano in realtà diverse dallo specchio, allo stesso modo il mondo, benché non
differente dalla pura Coscienza di Paramashiva, appare diverso da Paramashi-
va e tutte le cose del mondo appaiono differenti le une dalle altre. Ogni oggetto
sembra possedere una sua esistenza separata da ogni altra, l’intera immagine
sembra possedere una vita propria distinta dalla realtà del soggetto. Ma se ve-
diamo bene non possiamo estrarre e separare neanche la più piccola immagine
dallo specchio. Sono una cosa sola con il soggetto. Possono scomparire solo se
scompare il soggetto, ma essendo egli eterno, sempre esistente, la sua immagi-
ne sarà sempre esistente. (Shivaismo del Kashmir – Paramartasara)

185
Ho citato i Rig Veda che sono certamente la conoscenza più antica che l’uomo
abbia ancor oggi completa, ma subito dopo vi è un’altra tradizione che ha
lasciato frammenti di conoscenza che si identificano, sia pur in una semantica
diversa, con i Veda. Essi sono egualmente poetici, forse altrettanto semplici
nella forma, ma allo stesso modo profondi nella conoscenza suprema. Essi
sono i Libri delle piramidi della tradizione Egizia. Questa Verità è espressa dal
dio Thoth, detto il dio della saggezza e della parola. Si dice che Thoth abbia
pronunciato una parola magica, dalla quale è uscita tutta la diversità delle cose
create.
Anche il grande Sufi Muhyi–d–din dichiara nelle Chatons des Sagesses: “Se
tu affermi la sola Trascendenza, tu condizioni il Sé illimitato perché Egli
comprende anche l’Immanenza, e se tu affermi la sua Immanenza tu lo limiti
perché non riconosci la sua Trascendenza, ma se tu affermi simultaneamente
l’Uno e l’altra (la Conoscenza che contempla la Trascendenza e la Conoscenza
che si riflette nell’ignoranza e di là contempla il Trascendente nel suo aspetto
di Immanenza) tu sarai fuori dall’errore e nella Verità vedrai la Trascendenza
unirsi alla prospettiva discriminante dell’Immanenza.
Attento a non dividere l’Uno dal duale e a non astrarre la Divinità dalla pienez-
za illimitata e indivisibile delle sue possibilità”.
“Dovunque vi voltiate là è la presenza di Allah”. (Corano – II.109)
“Non è che io ho un’anima. Io sono un’anima che ha un corpo”. (Kabir)

LA CHIAVE SEGRETA
Nella storia dell’insegnamento non sono certo molti coloro che hanno inse-
gnato soprattutto ai bambini. I Maestri, tutti, hanno amato i bambini. Si può
ricordare l’episodio di Gesù con gli apostoli e i pargoli; si può ricordare Swami
Ramdass circondato dai bambini a cui racconta il Mahabharata, il mio grande
Guru Swami Muktananda con un grappolo di bambini sulla sua macchinetta
elettrica visitare l’upper garden del suo Ashram, ma il loro vero insegnamento
è sempre stato principalmente rivolto agli adulti.
E’ vissuto invece un grande Maestro sulle rive del Gange che dedicava la sua
saggezza soprattutto alle giovani generazioni. Si chiamava Baba Sitaramdass.
Fu chiamato ad insegnare in America e si trovò a visitare una scuola di eco-
nomia e management per i ragazzi. Uno di loro domandò: “Baba ci racconti la
storia della creazione?”
Baba Sitaramdass sorrise e dalla sua bocca uscì la storia più vera, ma più emo-
zionante di economia e management legata alla verità della creazione e alla

186
sua manifestazione su questo piano di esistenza. Potete raccontarla ai vostri
ragazzi. E’ la verità raccontata dalla mente assolutamente semplice di un gran-
de santo alla mente ancora semplice, perché non ancora contaminata da troppi
desideri o da attaccamenti, di un gruppo di ragazzi.

“Una volta, tanto, tanto tempo fa, non vi era assolutamente nulla, non vi erano
né dimensioni, né direzioni, un infinito vuoto, che non era veramente vuoto, ma
era pura, immanifesta Esistenza – Coscienza e Beatitudine. Questo era Para-
mashiva, Dio al di là di Dio. A noi sembrerà una situazione un po’ strana, ma
lui, Paramashiva, in quella situazione si trovava benissimo, anzi, quasi benis-
simo, perché una piccola parte di lui non sembrava del tutto contenta. Quale
poteva essere questa parte? Non certo l’Esistenza che essendo esistenza si
trovava benissimo in una condizione statica di puro Essere. Non poteva essere
la Beatitudine che per sua natura godeva tantissimo all’interno di se stessa, in
qualunque condizione. Doveva essere la parte Coscienza che ha sempre in sé
una potenzialità di movimento, di nuova conoscenza.
Questa piccola parte non proprio a suo agio cominciò lentamente, dolcemen-
te, a muoversi come sono capaci di fare tutte le parti femminili che vogliono
cambiare uno stato esistente. Piano piano, quasi senza che Paramashiva se ne
accorgesse, questa parte cominciò a manifestarsi da lui e divenne così il suo
complemento cosmico, la sua Shakti. Paramashiva aveva ora una compagna.
La osservò. Essa divenne viva. A lui piacque e fu contento. Ma lei no. Osser-
vando intorno a sé si rese cosciente, essendo Coscienza, che non vi era nulla,
proprio nulla e, pur avendo gli stessi poteri di Paramashiva, essendo la sua
consorte, ebbe anche coscienza di essere annoiata del nulla, quindi cominciò
ad agitarsi. Immaginate cosa può fare una agitazione cosmica essendo anche
vibrazione e quindi forza cinetica, energia nell’azione? Ella decise di espri-
mere se stessa come Intelligenza creativa. Ma capì subito, essendo Intelligen-
za che il lavoro del Creatore poteva essere estremamente impegnativo perché
avrebbe dovuto non solo creare, ma sostenere la sua creazione e poi anche
cercare di riciclare la sua creazione quando fosse diventata troppo vecchia
o troppo malata. Si rese conto che creare avrebbe potuto avere delle conse-
guenze di gestione. Quindi essendo Intelligenza risolse il problema creando
all’interno di se stessa una specie di Direttore Generale e lo chiamò Iswara,
il Dio personale, o Padre, il Signore della Creazione. Ma venendo dalla Intel-
ligenza era anche lui supremamente intelligente, si creò quindi un consiglio
di amministrazione formato da tre espressioni di lui e le chiamò Brahma, che
fece il vice presidente addetto alla creazione, Vishnu il vice presidente addetto

187
alla gestione, alla manutenzione e alle risorse del personale e Rudra (Shiva)
addetto alla demolizione e al riciclaggio della creazione, perché nulla, nessu-
na energia venisse perduta. Nacque così la legge di Lavoisier: “nulla si crea,
nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Al primo consiglio di amministrazione
Iswara dettò il programma. Si sarebbe dovuto creare, con la energia della
Shakti, un grande universo, anzi un universo di universi, così bello, intercon-
nesso, un po’ complicato per poter tenere Shakti felice e impegnata per tutto
il tempo a venire, e che al momento non era ancora venuto. Assegnò i compiti
come abbiamo detto. Essi approvarono il progetto e la realizzazione comin-
ciò.
Avete già capito che il verbo “cominciò” non è esatto perché non vi fu real-
mente un inizio, perché il tempo non c’era ancora. Però per non creare confu-
sione per prima cosa, Brahma creò il tempo e lo spazio, così oggi noi possiamo
dire che ci fu un inizio della creazione, altrimenti se dovessimo dire la realtà
saremmo veramente un po’ in difficoltà. Comunque l’universo cominciò, fu
conservato da Vishnu e riciclato da Rudra. Ma nacque un problema. Essendo
ormai tutto nel relativo ed essendo tutto nato da Shakti, lui, Iswara essendo
assoluto non aveva nessuna possibilità di goderne. Tutti gioivano, erano felici,
giocavano divertendosi un sacco e lui, il Direttore Generale, era tagliato fuo-
ri dai giochi. Allora essendo Intelligenza risolse brillantemente il problema.
Chiamò Brahma e gli ordinò: “Voglio che tu faccia di me anche una creatura,
ma ovviamente, deve essere assolutamente speciale, con potere di godere della
mia creazione, ma anche di discriminare, di avere, per così dire una sorta di
libero arbitrio, di poter riconoscere e godere delle differenze ed essere capace
di manipolare, almeno fino ad un certo punto, la creazione intorno a sé. Ma
all’interno di questo essere vi deve essere ovviamente la mia vera natura asso-
luta”. Domandò a Brahma: “E’ possibile questo?” Brahma aveva esperienza
di creazione e non tardò a dare ad Iswara una soluzione brillante: “Si può
fare, ho già in mente il progetto. Si chiamerà Essere umano, ma devi avere
un po’ di pazienza. Essendo così complesso ci vorrà nove mesi per vederlo
realizzato”.
“O.K.–disse Iswara– tra nove mesi io sarò anche un essere umano”.
Appena la struttura fu pronta Brahma andò da Iswara e gli disse: “Ora puoi
entrare in lui con una tua parte che chiameremo Purusha o Anima”. Così
Brahma piazzò l’anima all’interno del corpo e della mente umana con un sof-
fio, una specie di va e vieni di energia, che era una specie di rifornimento di
vita. Lui soffiava nell’uomo questa specie di energia detta Prana o respiro e
poi riassorbiva i gas combusti dell’energia bruciata nell’azione, nel pensiero

188
dell’uomo. La creazione fu attentamente osservata dal creatore e giudicata
molto buona. Ma vi fu una difficoltà che si presentò ben presto. Purusha, l’ani-
ma, finché sperimentava piacere, gioia, bellezza, felicità era contento, ma ap-
pena doveva entrare in uno stato di dispiacere, dolore, bruttezza, infelicità si
ribellava, ed avendo il libero arbitrio lasciava il corpo, rientrava in Iswara e
il corpo moriva. Eravamo da capo. Iswara convocò il consiglio di amministra-
zione e pose il problema. Brahma disse: “Non è un problema di creazione. Io
l’ho creato perfetto e tu l’hai potuto sperimentare. Sembra più un problema di
manutenzione, e la manutenzione spetta a Vishnu”.
Vishnu riconobbe che qualcosa andava fatto. Aveva visto che se l’essere uma-
no era consapevole di essere divino, di essere Iswara, non avrebbe accettato la
regola della dualità, avrebbe sempre voluto tornare all’unità, e quindi avrebbe
lasciato indietro il suo corpo appena una sofferenza si fosse manifestata.
Nel consiglio di amministrazione successivo Vishnu, che si era consultato con
Brahma e Rudra presentò un progetto. Dobbiamo mettere una specie di chia-
ve in modo che l’uomo non abbia accesso alla sua parte divina. Così dovrà
restare, almeno per un periodo di tempo nella dualità, dimenticando la sua
divinità. Chiameremo questa chiave “la mente”. Poi ne avrà accesso, diciamo
così con un meccanismo a tempo. Il problema sembrava risolto, ma nacque un
altro problema, dove nascondere la chiave in modo che l’uomo non la trovasse
troppo presto.
“Sull’Himalaya” consigliò Brahma. Iswara che viveva nel senza tempo capì
subito che l’uomo sull’Himalaya sarebbe andato nel 1950. “Nella fossa del-
le Marianne” disse Vishnu che conosceva tutti gli abissi marini. No, disse
Iswara, un certo Piccard, negli anni ’60, conoscerà tutto di quella profondità
marina. “Sulla luna”, suggerì Rudra. No! Lì ci arriveranno addirittura gli
americani e chissà che guerra saranno capaci di concepire per sfruttare la
chiave. I tre vice direttori erano ormai sfiduciati, ma Iswara, l’Intelligenza,
ebbe una idea intelligente. “Bisogna metterla in un posto dove l’uomo non
pensi di trovarla, il più vicino possibile, perché egli per sua natura è portato
a cercare sempre lontano. Dovrebbe essere un posto all’interno di lui. Vedete
come egli sta sempre a guardare fuori. Proprio così. Egli è più attratto dalle
meraviglie della creazione di Brahma, anziché godere delle meraviglie che ha
all’interno di se stesso. Perfetto – decise – il posto più adatto è il suo cuore.
Nel cuore dell’uomo custodirò la chiave della sua divinità. Là potrà arrivare
solo quando perderà i suoi limiti di tempo, spazio e di ego. Ecco, proprio così,
dovrà superare prima sette ostacoli che sono i suoi peccati capitali: l’ira, la
gola, la lussuria, l’invidia, l’avarizia, la superbia e soprattutto la sua accidia,

189
la sua pigrizia spirituale che sarà la prova suprema. Superata quella potrà al-
lora meditare, dissolvere, quindi, i limiti del tempo e dello spazio e potrà avere
accesso alla chiave. Allora sarà pronto a tornare a godere delle sua natura
essenziale, che è la mia vera natura” disse Iswara.
E così fu fatto.
Iswara divenne l’essere umano che ha in sé la sua natura divina , ma è impe-
dito a trovarla dalla chiave che è stata chiamata mente. Solo quando la mente
saprà entrare nel cuore e divenire uno, l’uomo sarà cosciente di essere Dio”.

Desidero concludere anche questo capitolo con una poesia di Rabindranath


Tagore:
Anche un pugno di polvere poteva nascondere i tuoi segni,
quando ancora ne ignoravo il significato.
Ora che sono più saggio, li leggo
in tutto quello che un tempo li celava.
Sono dipinti nei petali dei fiori,
la schiuma delle onde li porta, scintillanti,
le colline li innalzano.
Distolto il viso da Te, leggevo i tuoi messaggi
a rovescio, non ne comprendevo il senso.338

338 Rabindranath Tagore – Offerta di frutta.

190
CAPITOLO VIII
IL MISTERO DELLA MENTE
Questa trinità, mente, intelletto ed ego, (manas, ahankara e buddhi) non può
bastare alla mente per acquisire la conoscenza in un universo che è anche mon-
do dei sensi, della materia. Quindi la mente (manas) genera in se stessa una
sequenza di cinque qualità sensibili non manifestate (in sanscrito tanmatra):
la qualità sonora, tangibile, visibile, sapida ed olfattiva chiamate in sanscrito,
rispettivamente shabda, sparsa, rupa, rasa, gandha.

Mente
Intelletto Ego

Genera i 5 sensi della mente


Le qualità sensibili non manifestate
(tanmatra)
sonora olfattiva
tangibile sapida
visibile

che generano i 5 elementi del


Complesso fisico

Shabda è la prima manifestazione, il suono primordiale. E’ la manifestazione


nel corpo umano dell’OM, dell’AMEN, dell’AMN, del Logos di cui parlano
tutti i testi sacri.

Queste cose dice l’AMEN, il testimone fedele e verace, il Princi-


pio della creazione di Dio. (S.Giovanni – Apocalisse – 3.14)
In Principio era la Parola (Logos), e la Parola era presso Dio e
la Parola era Dio. Essa era, da sempre, presso Dio. Tutte le cose
ebbero esistenza per mezzo di Lei, e senza di Lei nemmeno una

191
delle cose create fu creata. Lei era la vita e la Luce degli uomini.
Questa Luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno
compresa. (Vangelo di Giovanni – 1. 1–2)
Con una sola Parola sbocciò l’esistenza di questa vasta creazione
e un milione di fiumi di vita vennero in essere. (Guru Nanak)
Questa parola (kalam) è il soffio creatore (kun, che significa: sii).
Ma ciò che in Dio è potenza creatrice, sarà nell’uomo potenza
che trasforma e deifica. Se la parola divina crea, la parola umana
riconduce a Dio. (Frithyof Schuon, Comprendere l’Islam)
Dio è un suono, un suono non espresso. Diciamo che Dio è ine-
sprimibile. Chi può pronunciare quel suono? Nessuno, solamen-
te il suono stesso. (Meister Echkart)
Il suono prodotto dall’etere è noto come: “Non suonato”. In
questo suono non suonato si deliziano gli dei, gli yogi, i grandi
spiriti. Proiettando le loro menti in questo suono, raggiungono la
liberazione. (Sangita Makaranda, Shiva Tattva Ratnakara)
Ciò che non può essere ascoltato con l’orecchio, ciò per mezzo
del quale l’ascolto si realizza, questo, sappi, che è il Brahman,
non ciò che il volgo venera come tale. (Kena Upanishad – 1.7)
Il pensiero (Buddhi) quando, dopo la sua espansione viene a ri-
posare il questo punto (Manas) è chiamato il Dio personale, il
Dio vivente. Esso allora si espande e si rivela maggiormente e da
quel punto si manifestano: aria, fuoco, acqua e terra in combina-
zione. Così il pensiero che era fino ad allora ritratto su se stesso,
si rivela per mezzo di un suono. Da quel momento il pensiero è
finalmente chiaro senza veli. (Zohar)

Frihjof Schuon nel suo commento al Corano scrive: “La Parola è lo Spirito
divino, l’intelletto centrale ed universale che realizza e perpetua il miracolo
della creazione”.339
La stessa verità è espressa anche nella tradizione egizia dal Dio Thoth, detto il
dio della saggezza e della parola. Si dice che Thoth abbia pronunciato il suono
primordiale, il responsabile di tutta l’infinita molteplicità della creazione:

Alla fine della notte, ai limiti della luce,


Thoth si specchiò nelle cose non ancora create dal Tempo.

339 Frihjof Schuon – Comprendere l’Islam – Ed. SE

192
Allora fu formulato l’universo.
Allora i suoi dei, appena creati, avanzarono.
Le Eternità delle cose non create rimasero al di là.
Allora la Voce fu fatta risuonare,
allora il nome fu espresso.
Alla soglia dell’entrata, tra l’Universo e l’Infinito,
nel segno dell’entrata,
Thoth osservava, mentre davanti a Lui
venivano proclamate le Eternità.
Nel respiro Egli le fece risuonare,
e nei simboli fece iscrivere la Verità.

Questi cinque “tanmatra” sono i sensi della mente.


Come possiamo averne l’esperienza, come sappiamo che esistono?
E’ molto semplice risolvere questo interrogativo attraverso una piccola con-
templazione.
Le ventiquattro ore della giornata sono divise in tre stati di consapevolezza: la
veglia, il sonno profondo e il sogno.
Nella veglia io posso sentire i suoni, toccare le forme, vedere le cose ed i
colori, assaporare i vari gusti ed odorare i profumi con i sensi e gli organi del
corpo, come vedremo in seguito, ma nel sogno tutti questi elementi costituenti
il mio corpo fisico stanno ricaricando le loro batterie esaurite dalle azioni e
dai pensieri della giornata. Nel sogno, quando i sensi del corpo riposano, io
posso, però ancora, udire, toccare, vedere, gustare e odorare. Con quali sensi
posso godere di questa esperienza? Non certamente con i sensi del corpo fisi-
co. Abbiamo visto che essi riposano con il corpo. Realizziamo queste facoltà
utilizzando i cinque tanmatra, le cinque qualità sensibili non manifestate della
mente. Ecco spiegato un altro cosiddetto mistero che ha creato notevoli diffi-
coltà ai nostri neurofisiologi e soprattutto ai nostri psichiatri e psicologi.
Queste qualità sono nostre e noi siamo abituati ad usarle non solo nello stato
di sogno, ma anche nella veglia, ogni volta che dobbiamo esprimere una me-
moria.
Poniamo il caso che quest’estate io sia stato in vacanza alle Maldive e che al
mio rientro un amico voglia da me una descrizione di quelle isole. Non saranno
certamente i sensi esterni, relativi al mio corpo fisico che mi potranno aiutare.
Essi vedono infatti solo la natura che in quel momento percepiscono al di fuori.
Quello solo possono vedere, quello solo possono descrivere.
La mia mente per rispondere dovrà andare nel magazzino delle mie memorie.

193
Allora rivedrò i paesaggi tropicali e potrò descrivere la mia esperienza estiva:
le spiagge bianchissime perché generate dalla barriera corallina, l’acqua az-
zurra e trasparente, il cielo blu e terso, migliaia di pesci variopinti che nuotano
nella laguna che circonda le isole, la vivacità degli uccelli colorati che volano
di palma in palma, i cormorani che pescano tuffandosi nell’acqua cristallina.
Con che sensi posso rivedere le mie memorie? Solo con i sensi della mia men-
te, i cinque “tanmatra”.
Con essi posso anche visualizzare qualsiasi fantasia, posso viverla e descriver-
la, se voglio.
I cinque “tanmatra” sono anche le forze che sostengono la creatività. La crea-
tività, anche se sollecitata da elementi della natura, viene poi rielaborata all’in-
terno di ogni individuo. Questa è la ragione per cui uno è più creativo di un
altro, oppure, pur essendo la natura uguale per tutti noi, i creativi la esprimono
in forme, colori, suoni diversi.
I “tanmatra” non sono soltanto i componenti della psiche umana, ma anche i
componenti integrali dell’universo stesso. Sono l’esperienza dell’estasi, del-
la gioia, dell’entusiasmo, del fervore. Sono l’origine del suono nella manife-
stazione creata. Sono le facoltà mentali, non espresse nel senso ordinario del
termine, ma come fuoco di emozioni e sensazioni attraverso le quali si espri-
mono le forze che sostengono la creatività. Nella Cabbalah possono essere
identificate con la Sephira Netzah, e si manifestano nella sfera della devozione,
nell’espressione del potere delle cerimonie, nell’energia straordinariamente
potente ed efficace dell’invocazione del nome di Dio (shabda), ma anche di
qualsiasi espressione sonora come l’imprecazione, il sermone, l’orazione, il
colloquio, la poesia, la canzone.
Ora conosco la funzione delle cinque qualità sensibili non manifestate della
mia mente, ma per poter realizzare maggiori possibilità di acquisire conoscen-
za su questo piano di esistenza nascono dai cinque tanmatra cinque elementi
(bhuta), costituenti l’intero universo materiale.
Dalla qualità sonora nasce l’etere, lo spazio (akasha), dalla qualità tangibile,
l’aria (vayu), dalla qualità visibile, il fuoco (tejas), dalla qualità sapida, l’acqua
(ap), dalla qualità olfattiva, la terra (prithivi).
Con i cinque elementi comincia la creazione materiale. Tutto l’universo è for-
mato da questi cinque elementi che si combinano tra loro in infinite forme e
proporzioni.
La creazione più solida, più compatta, avrà una prevalenza di terra; quella li-
quida, di acqua; quella aeriforme, di aria; quella più calda, di fuoco. Lo spazio
ne è il contenitore. Tutta la fisica moderna, come già i grandi testi vedici, ci

194
dicono che tutte le componenti della creazione hanno un’altissima percentuale
di “vuoto”. Questo vuoto è l’elemento etere (akasha).
Dai cinque bhuta nascono rispettivamente i cinque sensi del corpo. In sanscrito
sono chiamati Jnanindriya340, i poteri della conoscenza. Sono i sensi che tutti
conoscono ed usano.
Dall’etere nasce l’udito; dall’aria, il tatto; dal fuoco, la vista; dall’acqua, il
gusto; dalla terra, l’odorato.
Su questo piano di esistenza noi siamo solamente capaci si usare i nostri sensi
uno alla volta. Vedremo in seguito che nella fase port mortem, nel bardo della
Dharmata saremo in grado di usare i sensi tutti insieme, contemporaneamente.
Non saranno però i nostri bhuta, ma i nostri tanmatra a darci questa straordi-
naria e celestiale esperienza di percepire le forme, ad esempio, anche come
suono, come colore, come energia, come profumo.
I sensi generano, poi, gli organi attraverso i quali possono entrare in azione. Gli
organi dell’azione sono in sanscrito chiamati Karmindriya341. L’udito genera
l’orecchio; il tatto, la pelle; la vista, l’occhio; il gusto, la lingua; l’odorato, il
naso.
I Karmindriya principali cioè l’orecchio, la pelle, l’occhio, la lingua, e il naso
sono completati, nel corpo umano, da una serie assai numerosa di Karmindri-
ya, ad esempio gli organi escretori, gli organi generatori, le mani, i piedi e la
parola.

Da Lui (Purusha) nascono il respiro vitale (buddhi), l’intelletto,


la mente, tutti gli organi dei sensi, l’etere, il vento, la luce, le ac-
que, la terra, sostegno di tutto. (Mundaka Upanishad – 2, 1–3)
Le divinità, una volta generate, si precipitano nel grande oceano
della vita (…) l’ATMAN342, l’unico e solo, portò loro un uomo
ed esse dissero: “in verità è ben fatto!” L’uomo invero è una
cosa ben fatta. Quindi Esso disse loro. “entrate, ognuna nella
propria dimora”. Il fuoco, fattosi parola, penetrò nella bocca; il
vento, fattosi respiro, penetrò nelle narici; il sole, fattosi vista,
penetrò negli occhi; i punti cardinali, fattisi udito, penetrarono
nelle orecchie; le erbe e le piante, fattesi peli, penetrarono nella

340 Jnanindriya è composto di due parole sanscrite: Jnana che significa conoscenza e Indriya
che significa potere, strumento attraverso in quale di acquisisce qualcosa.
341 Karmindriya è composto di due parole sanscrite: Karma che significa azione e Indriya che
significa potere.
342 L’Atman è l’espressione del Divino nell’essere umano creato.

195
UNO
(Purusha)
Io sono

DUE
(Prakriti)
Prima espressione della natura

TRE
(Buddhi Mahat)
Intelligenza cosmica

BUDDHI MANAS AHANKARA


Intelligenza individuale Mente Coscienza individuale
prensiero individuale Funzione dell’IO. Ego

5 Tanmatra
Suono primordiale che Qualità sensibili non manifestate
genera le altre qualità

Sonora Tangibile Visibile Sapida Olfattiva


(Shabda) (Sparsha) (Rupa) (Rasa) (Gandha)

5 Bhuta
Elementi
Etere Aria Fuoco Acqua Terra
(Akasha) (Vaja) (Tejas) (Ap) (Prithivi)

5 Jananendrya
Poteri di conoscenza
Udito Tatto Vista Gusto Odorato
Orecchio Pelle Occhi Lingua Naso

5 Karmendriya
Poteri dell’azione

Organi Organi Mani Piedi Parola


Escretori Generatori

formazione del corpo sottile e dei chakra

196
pelle; la luna, fattasi pensiero, penetrò nel cuore; la morte, fattasi
apana343, penetrò nell’ombelico; le acque, fattesi seme, penetra-
rono nel membro virile.
(Aitareya Upanishad – 3.1)
In Esso sono tessuti i cieli e la terra e l’atmosfera, la mente con
tutti gli organi dei sensi. (Mundaka Upanishad – 2. 2–5)

I cinque elementi, i bhuta, sono anche gli artefici della differenziazione della
struttura del nostro corpo.
Dall’elemento terra nascono la carne, le ossa, l’organo dell’odorato e gli odori.
Dall’elemento acqua nascono il sangue, l’organo del gusto, i gusti e l’umidità,
cioè tutti i nostri fluidi.
Dall’elemento fuoco nascono il calore, il colorito, l’organo della vista e le
forme. Dall’elemento aria nascono le cavità del corpo, l’organo dell’udito e i
suoni.
La stessa manifestazione esiste anche nella tradizione egizia. Osiride dice in-
fatti:

Questi sono gli elementi del mio corpo,


perfetti nella sofferenza, glorificati nella prova,
poiché il profumo della rosa morente
è come il sospiro trattenuto nella sofferenza;
e il fuoco rosso fiamma
come l’energia della mia volontà, mai sottomessa
e le coppe del vino sono come il flusso del sangue nel mio cuore
sacrificato alla rigenerazione e ad una vita nuova.
Il pane ed il sale sono come i fondamenti del mio corpo
che io distruggo per poter essere nuova di tempo in tempo.
Io sono Osiride trionfante,
ma mi manifesto come Osiride il Nophris.344
Ora io sono colui che è vestito di un corpo di carne,
ma sono, anche in lui, lo Spirito trascendente del Grande Dio.
Io sono il Signore della vita, il trionfo della morte.
Chi si identifica con me, si eleverà con me.

343 L’Apana è una delle cinque forme del Prana, dell’energia vitale che fluisce nel corpo
umano.
344 Nophris è la manifestazione del divino Osiride nella creazione.

197
Io sono la manifestazione della materia,
la cui vera dimora è l’Invisibile.
Io sono puro, eppure dimoro nell’universo.
Io sono colui che rende la materia perfetta.
Senza di me l’universo non esiste.

IL CORPO DI MENTE
Entrando un po’ più a fondo nella creazione del nostro sistema psicofisico e
nel perché della sua costituzione, da un punto di vista della ragione della vita,
vediamo come nasce ora il corpo di mente, quello che è formato dal Prana, la
forza vitale, identificata con la parte energetica del respiro.
Questo corpo chiamato in sanscrito Prana–Maya–Kosha inizia a formarsi
all’atto del concepimento. L’energia paterna, chiamata “bianca e beata”, con-
tenuta nello spermatozoo, si incontra con l’energia materna, chiamata “rossa
e calda”, contenuta nell’ovulo, (in termini occidentali diremmo: quando lo
spermatozoo paterno entra nell’ovulo materno), ha luogo una esplosione di
energia.

All’inizio è nell’uomo che giace l’embrione, ossia lo sperma,


che è l’ardore raccolto in tutte le sue membra. In verità l’uomo
porta l’Atman in se stesso. Quando versa il seme nella femmina,
allora provoca la nascita dell’Atman in un corpo umano. Questo
seme diviene una cosa sola con la donna, così come se fosse una
delle sue membra. Perciò non le porta danno, ed essa fa crescere
l’Atman dell’uomo che è penetrato in lei. (Attareya Upanishad
–2.4.1)

Questo incontro sviluppa in maniera esponenziale la somma delle due energie


e crea il nucleo in cui sarà costituito il cuore del nuovo bimbo. Questo serbato-
io incredibile è chiamato Anahata Chakra.345
Anahata in sanscrito significa “suono non udito con i normali organi di perce-
zione” ed è conosciuto come il chakra del Cuore.
Si chiama Anahata perché è di fatto il punto che riceve Shabda, il suono OM
primordiale, che da Bhuddi fluisce nella creatura. Questo suono non può essere
percepito né per mezzo dell’orecchio, né dal senso dell’udito. Esso è un suono

345 Chakra in sanscrito significa “ruota”, perché l’energia in esso contenuta ha un movimento
rotatorio.

198
non espresso, non creato dall’uomo, ma principio e fonte di creazione.
L’energia da Anahata si diparte nuovamente, dividendosi in paterna e materna,
bianca e rossa. Entrambe queste energie formano una via luminosa, che si chia-
ma Nadi Sushumna e che stabilisce due punti terminali, i quali determinano
il primo dei cinque elementi costitutivi del corpo del nascituro: Akasha l’ete-
re o lo spazio. I punti terminali che limitano Akasha sono anch’essi chiamati
chakra e rispettivamente Sahasrar quello determinato dall’energia paterna, che
è situato sulla cima della testa, e Muladhara quello determinato dall’energia
materna, situato alla base della spina dorsale nella posizione dell’osso sacro
nel corpo fisico.
Nel suo cammino di ritorno da questi due chakra terminali verso il cuore,
l’energia paterna stabilisce un chakra al centro delle sopracciglia chiamato
Ajna Chakra e uno nella posizione della gola, chiamato Vishuddha Chakra.
L’energia materna stabilisce un chakra ai genitali, chiamato Svadhistana Cha-
kra e un altro al plesso solare chiamato Manipura Chakra. Quest’ultimo è di
fatto il serbatoio di quel famoso fuoco gastrico di cui abbiamo parlato e che
illuminerà la via che percorreremo abbandonando il corpo fisico al momento
della morte clinica.
Tutti questi sette chakra principali
e tutti i chakra secondari, che da
questi prenderanno vita, sono lo-
calizzati nel corpo sottile, il corpo
di mente, e sono tra loro collegati
da una fitta rete di canali di ener-
gia, chiamati Nadi. Nelle scritture
dell’India, il corpo umano è para-
gonato ad una città, le nadi, alle
strade della città, il Prana o i venti,
di cui parleremo del capitolo X, ad
un cavallo e la mente al cavaliere.
Le nadi sono 7.200.000. Quelle
conosciute dalla medicina cine-
se e sulle quali si basa il principio
dell’agopuntura sono 350.000. Due
di esse sono particolarmente impor-
tanti e costituiscono un circuito per
la distribuzione dell’energia della
nadi Sushumna in tutto il sistema

199
psicofisico. Esse prendono il nome di Ida e Pingala. Ida parte dal testicolo de-
stro e Pingala da quello sinistro. Salgono arrotolate come due serpenti attorno
alla nadi Sushumna fino a riunirsi nell’Ajna Chakra. Questa riunione delle tre
nadi nell’Ajna Chakra è chiamata in sanscrito Muktatriveni346.
Nella tradizione indiana questa unione è rappresentata dall’incontro (Sangam)
dei tre fiumi: il Gange, lo Yamuna, e il Sarasvati che fisicamente avviene alla
periferia della città di Allahbad.
I primi cinque chakra generano i cinque elementi: il Muladhara genera la terra,
Svadhistana, l’acqua, Manipura, il fuoco, Anahata l’aria, e Vishuddha l’etere.
Ajna genera la mente (Manas).

Andiamo ora un po’ più a fondo nell’esame delle singole parti.


Il corpo umano è Brahma Pura, la dimora di Brahma.

L’uomo è una creatura deiforme, dotato di una intelligenza ca-


pace di concepire l’Assoluto e di una volontà capace di scegliere
la via che lo riporta a Lui. (Ibn Arabi)
L’anima umana non è altro che la manifestazione per eccellenza
dello spirito del Clemente, poiché il Clemente ha soffiato il suo
spirito in lui. (Corano – XXXII, 9)
Non sapete che il corpo è il tempio di Dio. (S.Paolo – I lettera ai
Corinzi 6.15–19) ecc
E’ evidente che il corpo umano fu fatto con gli elementi di en-
trambi i mondi. I quattro elementi racchiudono in loro il mistero
del carro celeste della santità, e richiamano le quattro lettere che
compongono il nome di Dio. (Zohar)
Nel corpo dell’uomo sono contenuti i tesori del Divino, inclusi
i piani di creazione. Nel corpo dell’uomo è celata la Luce dello
Spirito Santo. (Guru Nanak)

Iswara, il Divino nella sua manifestazione individuale entra nell’universo, nel-


la creazione, come Jiva (vita).
Quindi la grande affermazione vedantica tu sei Quello indica che l’uomo, nella
sua natura essenziale non è altro che Brahman, l’Assoluto divenuto vivente.
Questo è difficile da comprendere se consideriamo tutte le limitazioni dell’uo-
mo e della natura.

346 Muktatriveni è l’incontro delle tre forze che portano alla liberazione (Mukti).

200
LE KOSHA, GLI IMPEDIMENTI ALLA VISIONE DIRETTA DI DIO.
Il Divino entrando nella sua veste umana discende dal piano assoluto al piano
relativo rivestendosi di cinque Kosha, di cinque coperture, quelle che Giovanni
nell’Apocalisse chiama “le lunghe vesti”: Annamaya, Pranamaya, Manoma-
ya, Vijnanamaya, Anandamaya e si contrae nelle nostre limitazioni.
Nella prima, Annamaya il Signore si identifica con la contrazione del corpo, si
vede bello o brutto, basso o alto, grasso o magro, femmina o maschio, giovane
o vecchio. Si sente energico o stanco, affamato o assetato o sazio. E’ lo stato
che genera il peccato di gola e la spinta sessuale.
Anna in sanscrito significa cibo347. Dal cibo di genera l’ojas l’energia contenu-
ta nello sperma, e anche il fuoco gastrico.
Annamaya Kosha: così si chiama in sanscrito il corpo materiale, il corpo fisico,
la copertura creata dal cibo.
In esso regnano gli elementi: terra, acqua e fuoco che sono legati ai primi tre
chakra348 a cominciare dal basso e cioè al muladara, svadhistana e manipura. I
primi due elementi, terra e acqua, producono cibo e bevanda che sono assimi-
lati dagli organi della digestione e convertiti nel corpo di cibo, nel corpo fisico.
In più sono dotati degli indriya, poteri che, come abbiamo visto sono divisi in
jnanindriya che presiedono alle facoltà dei nostri sensi fisici ed in karmindriya
che danno forza ed energia agli organi dell’azione prodotti dai vari sensi.
Nel corpo di mente Pranamaya il Signore pensa, capisce, apprende, cresce in
conoscenza, si riveste di tutte le strutture egoiche che lo rendono diverso da
ogni suo simile. Le strutture egoiche, come abbiamo già visto, sono in sanscri-
to chiamate con il termine Ahankara. Sono di fatto degli schemi mentali fittizi
che l’uomo forma per vedersi diverso. Sono considerate dallo Yogi il grande
nemico eppure l’uomo se le forma perché sono indispensabili per acquisire la
conoscenza di ciò che lo circonda.
Noi conosciamo per differenze, attraverso l’intelletto (buddhi), che è capace di
discriminare, di analizzare, di dividere, di separare, di estrapolare e, attraverso
la valorizzazione delle differenze, di acquisire conoscenza. Questo lavoro è
integrato dal senso dell’ego, che è poi il senso “dell’io e del mio”, del posses-
so, della identificazione, dello stato che genera in noi l’avarizia, l’invidia, la
superbia.
Pranamaya Kosha: così si chiama in sanscrito la seconda copertura, il corpo di

347 Annapurna in sanscrito è l’energia divina che permea il cibo. La cucina e la sala da pranzo
negli Ashram sono infatti considerati come il tempio di Annapurna.
348 Parleremo più profondamente di questi Chakra, centri di energia sottile che costituiscono
con le Nadi il corpo sottile, il corpo di mente.

201
mente che manifesta se stesso nei chakra anahata e vishudda, i chakra del cuore
e della gola, che sono legati agli elementi aria ed etere. Vi sono in pranamaya
le dieci forze vitali, i cinque prana principali e i cinque prana secondari, che
descriveremo più avanti. Questi elementi formano il corpo sottile come mente,
intelletto, ego ed i cinque tanmatra, i sensi non manifestati della nostra mente
che abbiamo descritto abbastanza diffusamente nel capitolo precedente nella
visione pranica, cioè determinati dall’energia vitale che fluisce nell’uomo di-
rettamente dal Creatore.
Questa copertura è colei che trattiene i samskara, le impressioni mentali deri-
vate da azioni, pensieri, parole o omissioni passate, che formano i nostri Kar-
ma, che sono la causa delle nostre rinascite, quando arriverà il momento della
nostra reincarnazione.
Manomaya Kosha e Vijnanamaya Kosha: queste due ulteriori coperture della
mente che sono la causa delle limitazioni create dal complesso mentale prima-
rio, sono anch’esse formate rispettivamente dalla mente (manas), dall’intellet-
to (buddhi), dall’ego (ahankara) e da chitta (la consapevolezza individuale).
Manas è colei che registra automaticamente i fatti che i sensi percepiscono.
Buddhi li discrimina, li determina, li separa e crea quindi la conoscenza
dall’esame e dalla valorizzazione delle differenze, come abbiamo già visto in
modo più esteso nel capitolo precedente.
Ahankara è la sovrapposizione di tutti gli schemi mentali che determinano la
diversità delle singole individualità.
Chitta è il senso di consapevolezza individuale, la capacità effettiva di ac-
quisire conoscenza dell’essere individuale. Quello che il termine Coscienza
(buddhi)349 è per l’Assoluto trinitario, diviene consapevolezza nella trinità del-
la nostra mente.
Esse risiedono rispettivamente nell’Ajna Chakra e nella regione al di sopra di
questo, nel cristallo che trasforma la luce del Sahashrar nella molteplicità del
mondo manifesto.
Anandamaya Kosha è il corpo della beatitudine.
Vi è una diversità interessante tra la gioia, la felicità e la beatitudine. Dovrem-
mo cominciare a portare la nostra consapevolezza sulla non del tutto sottile
differenza che vi è tra questi termini.
La gioia è generata dall’osservazione e dal godimento di un oggetto esterno.
Gli strumenti della gioia sono gli organi dell’azione e i sensi legati al corpo:
l’odorato, il gusto, la vista, il tatto e l’udito. Si può infatti provare gioia attra-

349 Vedi nota nel capitolo IV: Il mistero della Trinità.

202
verso il naso, la bocca, l’occhio, la pelle, l’orecchio, attraverso le mani, i piedi,
la parola, e anche attraverso gli organi generatori, e gli organi escretori. La
gioia appartiene quindi alla sfera di Annamaya.
La felicità è invece generata da una proiezione di energia più interiore. Non ha,
infatti, la necessità di un oggetto esterno, ma ha il bisogno di un pensiero, di
una espansione della mente, di qualcosa di più intimo. Nemmeno all’intelletto
è permesso provare felicità, perché l’intelletto è assai più legato alla dualità,
mentre la felicità ha la necessità di avvicinarsi ad un senso di espansione, di
unità, come l’amore, l’apertura del cuore, la compassione, la identità con l’uni-
verso nel suo valore più profondo. E’ legata quindi assai più all’entusiasmo che
all’azione, alla meraviglia che non ha bisogno di oggetti esterni, all’orgasmo
anziché all’atto sessuale.
La beatitudine è invece la trascendenza della felicità. Essa non ha nemmeno
più bisogno della mente è totalmente autonoma ed autosufficiente. Si espande
in coscienza, appartiene all’Essere.

Queste coperture della Realtà ultima ci impediscono la visione della nostra


natura assoluta.
La loro eliminazione sistematica che avviene attraverso la sincera ricerca di Dio
e la pratica costante della meditazione porteranno l’essere umano ad uno stato
di purificazione totale nel quale ogni residuo di impedimento sarà eliminato e
la luce del Sé potrà risplendere nella consapevolezza umana ventiquattro ore
su ventiquattro, nei tre stati relativi di veglia, sonno sogno. Ho citato la medi-
tazione, ma alla fine di questo capitolo chiarirò cosa intendo per meditazione,
perché in occidente vi è una profonda confusione su questo termine, troppo
spesso è scambiato con la concentrazione o con la contemplazione. Per ora ba-
sterà sapere che la meditazione è uno stato in cui la mente non esiste più perché
si è completamente espansa nella sua natura essenziale che è Coscienza.
Il grande santo poeta islamico sufi Rumi descrive quanto abbiamo detto nel suo
commento al Corano:

L’uomo si avviluppa nella propria tela.


Rimuovere le montagne dal loro posto sarà più facile
che rimuovere l’attrazione per l’oscurità
quando si è impadronita dell’anima.
Ecco cosa disse il santo Ibn Ata Allah:
“Se sei destinato a raggiungerlo solo dopo la distruzione
delle tue contrazioni e all’abbandono dei tuoi desideri

203
non lo raggiungerai mai.
Lui assorbe le tue qualità in se stesso
e i tuoi attributi nei suoi e quindi ti conduce a lui
attraverso ciò che tu ricevi da lui,
e non attraverso ciò che egli riceve da te.
Tutte le dimenticanze e le trascuratezze della Tua bellezza vengono da noi.
Liberaci da noi stessi e concedici la conoscenza più profonda di Te.
Dal senza forma questa esistenza ha preso forma
e svanisce nuovamente nel senza forma.
A Lui dobbiamo tornare.
Questo è possibile solo avendo guadagnato con impegno
il permesso di espellere dalla nostra mente
ciò che è vano e che gli abbiamo sovrapposto.

Per trent’anni ho cercato Dio,


ma quando ho contemplato con cura
ho scoperto che in realtà Dio era colui che cercava
e io colui che era cercato.
Oh indistruttibile amore, o divino menestrello,
noi siamo pezzi di ferro ed il tuo amore la più grande calamita.
Concedici o Signore, nel nostro andare e venire, nel nostro restare,
in ciò che diciamo, in ciò che vogliamo, di essere liberati
dai dubbi e dagli schemi dell’illusione che ricoprono il nostro cuore
e ci impediscono di vivere i tuoi segreti più nascosti.
Come posso sperare in Te, sapendo chi io sono?
Come posso non sperare in Te sapendo chi Tu sei?

O Signore, quando tu eri nascosto alla mia vista


la febbre della vita mi ha posseduto.
Quando ti sei rivelato a me, la febbre della vita è sparita.
Quando mi hai rivelato la vera faccia di ogni cosa creata
l’ho vista unita alla tua faccia.
Quando mi hai rivelato la schiena di ogni cosa creata
l’ho vista attaccata ai comandamenti e ai precetti che ci siamo costruiti.
Come posso dire che questa esistenza è mia
quando non ho la conoscenza di me?
Come faccio a dire che io esisto se i miei occhi sono fissi su di Te?
Se la voce di Dio fu udita da Mosè parlare attraverso un cespuglio di acacia

204
in forma di fiamma e dire: “IO SONO”,
perché non dovrebbe parlare con la lingua del suo amico
l’anima dell’uomo?
Uno sbocciare di canti di gioia cascate da cielo in terra.
O stanchi cuori, siate allegri. Oggi è il vostro giorno!

I SETTE CORPI
Oggi vi è una certa confusione nella ricerca della nostra natura divina, nella
ricerca di Dio. Si incontrano molte persone interessate a sapere di più come
sono le vie spirituali, quali sono le differenze tra esse, quali invece le simili-
tudini, comparandole, ma questo, ahimè, non corrisponde poi ad un sincero
interesse a percorrere un cammino verso l’esperienza di loro stessi. Si chiede,
si ascolta, si legge, ma non si cerca veramente. Direi quasi che questa ossessio-
ne che vi è oggi di chiedere, di leggere, di ascoltare, di informarsi sui cammini
spirituali si rivela essere, spesso, un ostacolo alla vera ricerca. Chi non vuole
cercare, chiede, ascolta, legge. Sono due processi molto differenti. Nel chie-
dere, nell’ascoltare, la nostra attenzione è centrata su chi parla, sull’altro. Nel
cercare l’attenzione è centrata su se stessi, su chi ricerca.
Chi cerca è così soggetto ed oggetto della propria ricerca.
Oltre alla sistematicità della ricerca, vi deve essere una grande spinta interiore,
uno struggente richiamo verso la conoscenza che nasce però dall’esperienza e
non dall’intelletto, da un libro o da un seminario.
Entrando in noi stessi, troveremo un mondo fantastico, una diretta conoscenza
rivelante. Troveremo che il cammino di ritorno verso la vera esperienza del
Divino si realizza attraverso la conoscenza esperienziale di sette corpi e di sette
centri spirituali chiamati chakra. Ogni chakra è strettamente legato ad un corpo
corrispondente.

Il chakra del corpo fisico, il corpo di veglia è il muladhara. Esso ha due poten-
zialità. La prima è una potenzialità naturale che ci viene dalla nostra costitu-
zione di nascita. L’altra si ottiene con la meditazione.
La prima potenzialità è legata alla naturale spinta al sesso che è connaturata
con il corpo. La potenzialità nascosta del muladhara è invece il brahmacharya
che è la trasformazione spirituale della spinta naturale del sesso. Più la mente
è indirizzata verso la realizzazione dei desideri sessuali, più difficile è raggiun-
gere la potenzialità del brahmacharya.
Il grave problema è che, generalmente, mettiamo in conflitto le due possibilità.
Da una parte vi è, indubbiamente, una necessità, dall’altra parte vi è una sop-

205
pressione delle necessità, quindi una forte contrazione che diventa un ostacolo
al cammino spirituale. La trasformazione di una necessità in un’altra non do-
vrebbe avvenire, e di fatto non avviene, attraverso la soppressione. E’ chiaro
che da una contrazione non potrà mai nascere una espansione.
Nella nostra tradizione religiosa ad esempio questa incompatibilità è divenuta
un’ossessione. L’attenzione primaria del nostro cammino spirituale pare oggi
essere, nella chiesa, fondamentalmente indirizzata ai problemi del sesso. La
castità, il misoginismo che nasce dall’insegnamento di S.Paolo, come abbiamo
visto, non dall’insegnamento di Gesù, ha portato e porta una quantità di proble-
mi anche gravi, come la pedofilia, che oscurano invece il vero insegnamento
che il Cristo ha lasciato agli apostoli, e per loro tramite ai suoi discepoli.
Parlavo di questo con un giovane monaco benedettino facente parte di un grup-
po di studiosi di avanguardia sull’ecumenismo delle religioni cristiane e mi
raccontava un episodio accadutogli durante un ritiro di giovani cattolici. Il
sabato precedente la celebrazione domenicale sono venuti in massa a confes-
sarsi.
Il peccato che veniva denunciato da tutti era la violazione del sesto coman-
damento. Tutti confessavano di essersi masturbati. Alcuni indicavano anche
quante volte e spesso come ricadevano nella reiterazione del peccato. Ogni
volta il frate sorvolava e metteva i giovani davanti all’ira, all’invidia, alla man-
canza di generosità, alla mancanza d’amore, alla superbia, e soprattutto all’ac-
cidia. Essi parevano, invece dare solo importanza alle loro debolezze sessuali.
Questa mancanza di discriminazione esasperò il frate che reagì durante una
confessione dicendo al giovane penitente: “Ma che razza di Dio pensi che sia
il tuo, il nostro, interessato alle tue masturbazioni, che si turba e si offende
perché ti scopi la ragazza. Pensi forse che a Lui interessi quante seghe ti sei
fatto o non piuttosto se non sei stato capace di cercarlo nel tuo cuore, se non sei
stato capace di amare Lui in te e nel tuo prossimo? Vai e cerca Dio vivo nella
tua vita, Egli può essere trovato anche nell’estasi dell’orgasmo. Vai e cammina
con Lui in ogni singolo istante del tuo presente”.
Quale è allora la soluzione? E’ la lenta, ma sistematica, comprensione di ciò
che è il sesso, perché esiste, perché è una forza prioritaria in tutta la creazione,
e dove ci può portare.
Solo nella consapevolezza una cosa può essere trasformata. La consapevolezza
è la pietra filosofale. Se una persona diviene consapevole dei suoi desideri ses-
suali, come nascono, come si sviluppano, come si realizzano, cosa può nascere
da loro, allora potrà utilizzare queste grandi energie verso una più vera com-
prensione del brahmacharyato. Questo avviene, lentamente, con una pratica

206
costante delle meditazione e della contemplazione.
Brahmacharya non è la soppressione del sesso, ma l’utilizzo del desiderio ses-
suale, in maniera discriminata e non animale, verso l’espansione della consa-
pevolezza in Coscienza.

Il secondo corpo, il corpo sottile, è correlato al secondo chakra svadhistana


. Anche questo ha due potenzialità. La sua naturale attitudine è lo sviluppo
della paura, dell’odio, della collera, della violenza. La seconda potenzialità
è la trasformazione dell’attitudine di nascita e cioè lo sviluppo dell’amore,
della compassione, dell’assenza di paura. Anche qui, generalmente, si compie
lo stesso errore e si permette alla violenza di esprimersi incontrollata, o la si
controlla con la soppressione.
Bisogna essere attenti allo stato che stiamo vivendo. Dovremmo coltivare la
coscienza del testimone, essere sempre consapevoli del nostro stato. Dovrem-
mo aprirci a quello che lo Yoga chiama Vairagya, il distacco, per poter essere
in grado di inserire, in ogni momento della nostra vita, Viveka, la discrimina-
zione, che sarà possibile utilizzare solo se non saremo impulsivamente coin-
volti nella paura, nella collera, nella superbia, nell’invidia.
Solo allora non saremo più schiavi, prigionieri del nostro stato, ma avremo
posto una distanza tra noi e l’avvenimento, saremo in grado di osservare noi
stessi e controlleremo il nostro stato al suo sorgere.
E’ la consapevolezza della “natura” della paura, della collera, della violenza che
ci porterà, sistematicamente, sempre più vicini ad un uso positivo dell’energia
che causa questa spinta e che quindi potrà essere trasformata in amore, com-
passione, assenza di paura, perdono. La collera è una faccia della medaglia, il
perdono è l’altra faccia, ma la medaglia è l’energia della collera che può essere
espressa come perdono. Ma perché questo possa avvenire la medaglia deve
essere rivoltata; così la violenza può essere trasformata in compassione.
Ancora una volta il processo avviene, spontaneamente, attraverso una medita-
zione costante ed una consapevolezza sempre più espansa.

Il terzo corpo viene chiamato “causale”, chiamato anche, con una certa ap-
prossimazione, “il corpo astrale”. Ha anch’esso due potenzialità. Inizialmente
si arrovella in dubbi e pensieri. Se vengono trasformati allora divengono con-
sapevolezza. Se i dubbi vengono repressi, avviene un processo non buono,
un processo di mancanza di certezza, di fede, (sraddha), e, benché repressi, i
dubbi si abbarbicano alla mente ed un giorno scoppieranno più virulenti.
Ciò che è necessario, in caso di pensieri eccessivi, o di dubbi è lavorare affin-

207
ché i pensieri divengano chiari, risoluti.
Solo allora saremo capaci di prendere in mano un processo discriminativo ed
una seria propensione a prendere delle decisioni. Questo è il vero significato
di viveka, la discriminazione, la chiarezza, la consapevolezza, nella visione
dello Yoga.
Il chakra relativo al terzo corpo è manipura. Dubbi e certezze sono le sue due
forme. Quando i dubbi sono risolti solo le certezze rimangono. Ma bisogna es-
sere chiari con noi stessi. Dubbi e certezze non sono in contrasto, come siamo
abituati a pensare, ma sono l’uno lo sviluppo naturale dell’altro.

Il quarto corpo è quello che nella nostra semantica chiamiamo psiche. Il chakra
relativo è anahata le cui qualità naturali sono immaginazione e fantasia.
Queste qualità sono esercitate dal quarto corpo sia di giorno (immaginazioni e
fantasie) che di notte (sogni).
Quando l’immaginazione si sviluppa verso la realizzazione diviene volontà,
determinazione.
Così anche il sogno, quando si sviluppa completamente diviene visione psichi-
ca, cioè vedere cose senza l’uso degli organi dei sensi. In questo caso l’espe-
rienza ci dice che siamo anche al di là del tempo e dello spazio. Quale è la
diversità tra sogno e visione psichica?
Nel sogno immaginiamo, ad esempio di essere a Parigi, nella visione psichica
questo spostamento è reale, noi siamo effettivamente a Parigi. Questo è il cor-
po della chiaroveggenza. Si può essere testimoni di avvenimenti che accadono
lontano dal corpo fisico. Nei casi di preveggenza questo anche avviene, ma
essendo noi fuori del tempo, quando, nuovamente nel corpo fisico, tentiamo di
dare un tempo alla visione, alla realizzazione dell’avvenimento che abbiamo
visto, siamo quasi sempre in errore perché dobbiamo inserire un elemento, il
tempo, che era assente al momento della visione. Queste possibilità del quarto
corpo sono state studiate e anche utilizzate da varie “intelligence”, di varie
nazioni, con buoni risultati, ma purtroppo, o per fortuna, in un buon numero
di casi si sono riscontrate “non attendibili”. La ragione è che ben difficilmente
questo fenomeno, che è naturale, può essere esercitato a piacere.

Il quinto corpo è il corpo spirituale, collegato al chakra vishudda. Qui avviene


qualcosa di assolutamente entusiasmante.
Se i primi quattro corpi si presentano con una doppia forma apparentemente
contradditoria, dal quinto corpo in poi questa dualità cessa, cessano anche le
differenze di sesso. Quando questo avviene siamo fuori dal dominio del duale.

208
La caratteristica di chi, superati i quattro corpi, entra nel quinto è l’assoluta
libertà da qualsiasi mancanza di coscienza. La coscienza a questo punto sarà
sempre presente ventiquattr’ore su ventiquattro. Cosa significa questa afferma-
zione? Significa che nello stato di veglia l’uomo non sarà più identificato con
i propri pensieri, non avrà più proiezioni mentali (vritti), vivrà permanente-
mente nel suo presente, sempre in contatto con il proprio Sé interiore. Durante
la notte sognerà, ma sarà sempre un sogno consapevole. Saprà di essere nello
stato di sogno e potrà, come un testimone esterno, intervenire sul sogno a suo
piacimento.
Avrà, ovviamente, la sua alternanza di sonno profondo e di sogno, ma non
perderà più consapevolezza del suo stato. Saprà perfettamente di essere anche
nello stato di sonno profondo, che è lo stato più vicino alla beatitudine.
Il quinto stato è lo stato libero dall’ego, da qualsiasi sovrapposizione mentale
che utilizziamo in genere per costituirci una identità.
Nella vita avviene che essendo incapaci di conoscere realmente chi siamo, ci
creiamo una personalità, una identità fittizia, fatta di proiezioni, di identifica-
zioni. Chi realizza il quinto stato è invece sempre consapevole, non solo di se
stesso, della vera natura della sua mente, ma è anche completamente libero,
fuori da ogni condizionamento. Nella tradizione buddhista verrebbe chiamato
un “Buddha”, un risvegliato, privo di ogni forma di ego. Non ha più bisogno di
mostrare nulla a nessuno e non è più condizionato dal giudizio del prossimo.
Ma, attenzione, questo non è che il primo passo della realizzazione. La realiz-
zazione non è completa, ma essendo uno stato di libertà, di conoscenza, di bea-
titudine, molti si fermano nel loro avanzamento evolutivo a questa condizione
che in sanscrito è identificato con il termine Atma jnana, conoscenza totale di
se stesso, e non proseguono verso Brahma jnana, la conoscenza dell’Assoluto.
Per questa ragione i Maestri ci dicono sempre: “ricerca il più alto, cerca la
Verità, l’Essere, non solo la beatitudine”.

Coloro che proseguono il cammino entrano nel sesto corpo, il corpo cosmico,
il cui chakra relativo è Ajna. Qui non vi è più dualità. L’esperienza di beatitu-
dine del quinto corpo si trasforma in una esperienza di “esistenza dell’Essere”.
Entriamo nella esperienza della Coscienza. Non vi è più coscienza individuale,
coscienza del mio essere, coscienza della mia vera natura, della mia esistenza,
ma viene completamente perso qualsiasi senso dell’Io o del mio, così la mia
Coscienza diviene semplicemente Coscienza, la mia esistenza, semplicemente
Esistenza. Questo livello è chiamato anche Brahma sharira. Questa sembra
veramente essere l’esperienza finale, l’esperienza di Dio: Aham Brahmasmi,

209
cioè non vi è più “Io”, ma solo “Brahman”, l’Assoluto.

Ci aspetta però un settimo passo, il corpo del Nirvana, il corpo del Nirvikalpa
Samadhi, l’esperienza di totale unità il cui chakra è il Sahasrar.

UN ALTRO PUNTO DI VISTA


Essendo la mente lo strumento essenziale per l’acquisizione della conoscenza
su questo piano di esistenza, ed essendo la conoscenza la struttura attraverso la
quale si giunge al trascendente e quindi al livello nel quale i misteri cessano di
esistere, e nascono le assolute certezze basate sull’esperienza soggettiva diret-
ta, e non sulla interpretazione intellettuale dei sacri testi, desidero approfondire
il segreto della mente da un altro punto di vista che può essere complementare
con quanto esposto finora.
Cominciamo da un punto fermo che abbiamo già più volte enunciato.
L’Uno nel processo del conoscersi separa se stesso da se stesso. La conoscenza
può esserci soltanto se vi è una distanza tra il conoscitore e il suo oggetto di co-
noscenza. Allora il conoscitore conosce il conosciuto osservandolo. Nell’Uno
questo processo ovviamente avviene tutto all’interno di se stesso, non essen-
doci altro che Lui.
Abbiamo visto come la conoscenza del conosciuto, l’osservazione dell’osser-
vato, avviene attraverso una terza componente, una pura coscienza, una energia
che unisce l’Uno alla sua proiezione. Questo flusso supera questa separazione
e riunisce la sua creazione all’Uno. Questo flusso è la vita della creazione.
L’Uno pur dividendosi all’interno di se stesso è cosciente del suo intero gio-
co creativo. Conosce sé come conoscitore, come conosciuto e come flusso di
conoscenza; come osservatore, come osservato e come flusso di osservazione,
ma purtroppo il conosciuto, l’osservato, la creazione dal suo punto di vista si
sente separata, non ha più la consapevolezza di essere l’Uno. Questo senso di
separazione fa sorgere nella creazione una serie di identificazioni contratte:
“sono piccolo, sono limitato, sono impotente, sono mortale, sono ignorante e
fallace, sono peccatore”.
L’Uno, in questo gioco che in sanscrito, nella tradizione indiana è chiamato
lila, contrae la sua natura assoluta in una esistenza relativa. Nascono così uno
spazio, lo spazio della separazione dell’Uno in se stesso, ed un tempo, il tempo
del flusso della creazione. L’Assoluto illimitato si contrae quindi in tempo e
spazio proprio nell’atto stesso di conoscersi.
Sentendosi quindi separato cerca nuovamente l’unione che è la sua vera na-
tura essenziale, la cui consapevolezza è perduta e desidera nuovamente la co-

210
noscenza di Sé; risponde, o cerca di rispondere alla domanda fondamentale
dell’esistenza relativa: “chi sono io?”
Il cammino di rientro verso l’unione non può avvenire che grazie alla stessa
energia di conoscenza che separa. Essa viene in aiuto della creazione e la ripor-
ta alla sua vera natura, la riporta nuovamente a casa.
Considerate l’atto di fede che i cattolici pronunciano ogni volta all’inizio del
sacrificio della messa. Parlando di questa seconda essenza della Trinità, il fi-
glio, Gesù, noi, la creazione, dice: “nato dal Padre prima di tutti i secoli (cioè in
una condizione assoluta, dove non vi è né tempo, né spazio), Dio da Dio, Luce
da Luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato, della stessa sostanza del
Padre”; e quando esamina la terza essenza dice: “credo nello Spirito Santo che
è Signore e dà la vita (a chi? Al figlio!) e procede dal Padre e dal figlio (Dio
divenne uomo perché l’uomo divenga Dio)350, e con il Padre ed il figlio è ado-
rato e glorificato (pari natura, pari dignità, unità della diversità) e ha parlato per
mezzo dei profeti (si è quindi manifestato su questo piano di esistenza).
Questo flusso dell’Uno che genera la creazione, la riporta nuovamente a casa,
la riconduce all’unione con il suo creatore.
La vita diviene così cammino di conoscenza e questo cammino avviene attra-
verso due componenti essenziali: lo Spirito Santo, la Grazia santificante (in
sanscrito la Shakti) e il nostro impegno personale.
Dante nell’Inferno della Divina Commedia, quando fa parlare Ulisse, che cer-
ca di convincere i compagni a riprendere il mare, gli mette il bocca un verso
eccezionale che descrive la natura della vita e l’impegno della creatura per sod-
disfare la ragione della propria esistenza: “Considerate la vostra semenza,351 /
nati non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza”.352
Questo è lo scopo della vita: tornare all’unione con la nostra vera natura divina
attraverso delle scelte di conoscenza, attraverso un sistematico cammino di
espansione della consapevolezza umana. E come può avvenire questa meravi-
gliosa avventura? Avviene attraverso uno strumento divino: la mente.

COSA E’ LA MENTE?
Purtroppo in occidente abbiamo a questo proposito una mancanza di cono-
scenza.
Sappiamo forse come la mente si comporta, ciò che fà e non dovrebbe fare, ciò

350 S.Attanasio – Catechismo della Chiesa Cattolica – Cap.II


351 Semenza: la vostra vera natura dalla quale venite.
352 Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno –XXVI , 118.

211
che non fà e dovrebbe fare, ma non sappiamo cosa sia la mente. Quale è la vera
natura della mente? Dove la possiamo situare, se mai essa può avere una sede?
Di che sostanza è formata?
Sembra un argomento così difficile da poterlo classificare come un “mistero”.
Siamo di fronte al “mistero della mente”. Ancora una volta questo mistero si
rivela però solo un “segreto”.
Lo Shivaismo del Kashmir è un corpus di conoscenza straordinario, impostato
proprio interamente sulla natura della mente e sul suo utilizzo per soddisfare
lo scopo della vita.
Nel Pratyabhijna–hrdayam, il grande Kshemaraja ci rivela la natura della
mente in venti straordinari sutra. Nel V sutra dice: “La pura Coscienza, discesa
dal suo stato più espanso, diviene la mente contraendosi sul pensiero e sull’og-
getto percepito”. Nel VI sutra prosegue il chiarimento: “Colui che identifica la
sua natura con la mente sperimenta Maya” (la esperienza della vita nella sua
forma contratta, la illusione della separazione, il senso di limitazione).
Il mio Guru diceva che questa conoscenza è di estrema importanza per il cer-
catore spirituale.
Cosa realmente dice il quinto sutra? Ci dice quello che abbiamo visto finora. Ci
dice che la Pura Coscienza dell’Essere, quel flusso di conoscenza che abbiamo
chiamato in tanti modi nelle più svariate tradizioni (Spirito Santo dell’ebrai-
smo e nel cristianesimo, Buddhi del Vedanta, Binah nella Cabbalah, Iside in
Egitto, Shakti nello Shivaismo del Kashmir ecc.) e che permette all’Uno di
essere cosciente di se stesso, della sua Infinità, del suo Assoluto, del suo essere
Uno, scendendo dal piano assoluto al piano relativo, contraendosi nel tempo e
nello spazio diviene la mente353. Ecco spiegato il comando di Dio all’uomo nel
giardino dell’Eden: “del frutto dell’albero che sta al centro del giardino non
ne dovrete mangiare altrimenti morirete (sarete soggetto a tempo e spazio)”354,
ecco spiegata la maledizione: “con dolore trarrai il cibo (dalla terra) per tutti i
giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché
da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”.355
La mente è quindi il soggetto principale per la conoscenza del mondo relati-
vo, ma è anche il soggetto principale per riportare il relativo alla conoscenza
dell’Assoluto ed è il soggetto unico attraverso il quale il limite si può fondere

353 Questa contrazione è vista nella Torah come la maledizione di Dio sull’uomo che ha
mangiato il frutto della dualità, il frutto dell’albero del bene e del male.
354 Bibbia – Genesi – 3.3
355 Bibbia – Genesi – 3.17–18

212
nuovamente nella sua vera natura illimitata, il finito nella sua infinitezza. E’
allo stesso tempo la contrazione dell’Assoluto nel relativo e l’espansione del
relativo nell’Assoluto. E’ il meraviglioso paradosso della creazione e del Cre-
atore in una assoluta unità.
Nella Mistica ebraica si legge questa possibilità che è la vera natura dell’uo-
mo: “Disse Rabbah: se volessero i giusti potrebbero creare il mondo.356 Che
cosa provoca la divisione? Le vostre colpe357, giacché è scritto: “Ma le vostre
colpe, purtroppo, fanno una divisione tra voi e il vostro Dio”.358 “Se non vi
fossero le vostre colpe non vi sarebbe differenza tra voi e Lui”.359
Ciò che sembrerebbe inconciliabile, incompatibile trova nella mente e attra-
verso la mente la sua soluzione.
Ksemaraja ci invita, attraverso una consapevolezza sempre più espansa ad ave-
re questo riconoscimento in ogni istante della nostra vita.
Per raggiungere questo risultato abbiamo bisogno, come diremo ancora in se-
guito, di coltivare la nostra consapevolezza del momento presente e la pura
coscienza dello stato di meditazione.
Non riusciremo quindi a dare una dimensione alla mente, né una forma. Non
riusciremo a darle una dimora dove trovarla perché essa è in ogni singola cel-
lula del nostro sistema psicofisico.
Eppure dopo anni di meditazione non vi è un momento in cui un praticante del-
lo Yoga, dello Dzogchen buddhista, non sia consapevole della propria mente
divenendo il “testimone” dei propri pensieri, delle proprie azioni, della propria
conoscenza.
I grandi insegnamenti dei grandi Maestri riguardano principalmente l’utilizzo
della mente per tornare a sperimentare la pura coscienza, la propria natura
fondamentale.
Nel Tao vi è una costante ricerca della “mente pura”. Scrive F.A.Gatti: “La
mente all’origine è pura, all’origine è calma. Apertura e libertà ne sono le qua-
lità primarie. Quando si governa la mente, cioè quando la si mantiene alla sta-
to originario primordiale, essa è chiara come un torrente alpino, pura, fresca,

356 Sanherdrin 65.b


357 Ciò che la Bibbia chiama “le vostre colpe” prende nomi diversi a seconda delle varie
tradizioni, ma sono descritte tutte allo stesso modo e della stessa natura, Vritti (schemi
mentali), Koshas (coperture della Realtà), Malas (contrazioni della natura relativa), Kle-
shas (coperture della Realtà), Lunghe vesti (coperture della Realtà), Peccato (contrazioni
che ci allontanano dal Divino, massima espansione), Karma (i legami dell’azione).
358 Bibbia –Isaia – 59.2
359 Mistica ebraica – testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo –
pag.209

213
senza torbidezza, silenziosa come un’immensa voragine, esente dal clamore,
ampia come l’universo, smisurata estensione aperta, vasto deserto dai confini
sconosciuti. A questa maniera la mente, che nulla contiene, è simile al carbone
o all’acqua ferma. Il carbone può bruciare, l’acqua ferma può riflettere. Può
anche essere assimilata ad uno specchio limpido”.360
Ma Gcig Lab sgron, somma poetessa dello Dzogchen raccomandava di “eli-
minare la guida del ragionare per accedere allo stato spontaneo originario” che
nel buddhismo è chiamato “mente naturale”, “come si fa immergendosi in un
mare agitato fino a raggiungere la sua tranquilla profondità”.
Un grande Yogi dava lo stesso esempio quando insegnava il principio della
meditazione: “E’ proprio come il principio del tuffarsi. Si assume una posizio-
ne, si ricerca una direzione, ma poi ci si lascia andare in assoluta innocenza”.
Il Taoismo ci insegna: “Non fare troppo. Tratta come preziose le tue cono-
scenze. Non fare troppo poco. Mantieni sempre viva la consapevolezza che
illumina la tua mente”.
Il grande maestro cinese Zhaozhou Congshan ha scritto: “Cielo, terra ed io si
ha un’unica radice. I diecimila esseri ed io si ha un corpo solo: la vera natura
della mente”.
Abbiamo accennato alcune volte ormai in questo libro che la vera natura della
mente è quella esperienza di “io sono” che tutti i grandi saggi hanno raggiunto
e che tutti i veri cercatori aspirano a raggiungere.
Vi sono fondamentalmente due vie che portano all’esperienza del Sé. Una di-
retta ed una mediata. Due strade opposte, ma che raggiungono la stessa desti-
nazione.
La prima trova l’esperienza nella perdita immediata dei limiti fino a fondere la
mente nell’oceano illimitato, eterno, senza qualità della pura Coscienza.
Questo cammino è percorso solo attraverso la Grazia di un vero Maestro, di
un realizzato, di un illuminato, che ha percorso il cammino verso il Trascen-
dente così tante volte da realizzare che il cammino, la mèta e se stesso sono la
stessa, unica Realtà. Un Guru che ho conosciuto diceva: “Non vi dò nulla che
già non abbiate, sollecito solo la vostra consapevolezza a riconoscere ciò che
già siete”.

La mente non è altro che il Buddha e il Buddha non è altro che


l’essere senziente. Quando lo Spirito assume la forma di un es-
sere senziente Esso non ha sofferto una diminuzione. Quando

360 F.A.Gatti – L’armonia prima del male nel Taoismo religioso – pag 76

214
Esso è divenuto il Buddha, non ha aggiunto nulla a se stesso”.
(Huang – Po)

La seconda via passa attraverso il raffinamento sistematico della visione ester-


na della natura o interna del pensiero articolato, fino a giungere all’esperienza
più sottile del relativo, fino alla spontanea necessità di trascendere anche il più
sottile del sottile e trovarsi immerso nella meraviglia dell’Assoluto.
Prendiamo brevemente in esame, con la consapevolezza ben viva che questo
tentativo non potrà essere che il seme che permetterà al vero cercatore di far
crescere la pianta della conoscenza totale della filosofia perenne, della gioia
che si manifesta come “beatitudine”, della pace così profonda da essere l’unico
stato che debba essere realizzato come permanente nel continuo agitarsi dei
cambiamenti della vita vissuta.
La via dell’esperienza del Sé dei Vedantini, del Rigpa dei buddhisti tibetani,
del Samadhi degli Yogi, può soltanto essere percorsa, con possibilità di succes-
so, nell’incontro con un Guru che ci accetti come discepoli.
L’incontro con il Maestro è la più grande benedizione esistente. Nulla ha più
valore di un Maestro realizzato, di un Siddha Guru. Ma l’incontro con il Mae-
stro è anche il punto finale di un grande raggiungimento.
Nella tradizione del Maharastra si legge che un giorno un cercatore andò ad
incontrare un Guru e gli chiese di essere istruito circa la Verità, di poter co-
noscere la Conoscenza suprema. Il Guru prese il discepolo in parola e rispose
senza altri fronzoli dialettici. “Tutto è Coscienza e tu sei Quello. Questa è la
Verità”.
Il discepolo restò deluso e commentò ad alta voce. “E’ tutto qui? Non mi puoi
dire nulla di più?” “Questo è tutto quello che ti posso insegnare – disse il Guru
– Se vuoi qualcos’altro devi andare da altri e non da me”.
Il discepolo se ne andò piuttosto insoddisfatto e girò per l’India in cerca di un
altro Guru. Lo trovò dopo lunghe peripezie e gli fece la stessa domanda: “Vo-
glio conoscere la Verità. Mi puoi insegnare come conseguirla?” Il Guru che era
come tutti i Maestri piuttosto sensibile domandò: “Sei stato da altri Guru prima
di me?” il discepolo fece il nome del primo Guru incontrato.
“Molto bene – disse il Maestro – ti insegnerò, ma prima mi devi servire per
dodici anni” e chiamò il manager del suo Ashram e chiese: “Abbiamo un lavo-
ro per questo ragazzo?” Il manager rispose che l’unico lavoro disponibile era
spalar letame nella stalla delle vacche. Il Guru chiese l’assenso del discepolo
che si mise di buon grado nella stalla e spalò letame per dodici anni. Alla fine
di questo periodo il Guru lo chiamò e gli disse: “Ecco, ora sei pronto a riceve-

215
re l’insegnamento. La Verità è questa: “Tutto è Coscienza e tu sei quello”. Il
discepolo entrò in una profonda esperienza di samadhi. Tornato alla coscienza
del mondo disse al Maestro: “E’ la stessa Verità che mi ha impartito il primo
Guru che ho incontrato dodici anni fa. Cosa è cambiato?” Il Maestro rise: “La
Verità non è cambiata in questi dodici anni e non cambierà neppure nei prossi-
mi dodicimila anni, sei tu che sei cambiato. La “seva”, il servizio che hai svolto
senza motivazioni egoistiche ha aperto la tua consapevolezza alla Verità”.
La Bhagavad Gita insegna che il discepolo per prima cosa deve riconoscere le
proprie contrazioni, poi deve volerle superare, ha quindi, per superarle, biso-
gno di un Maestro che gli indichi la via. Il Guru interviene quando il discepolo
è pronto.
Un grande Guru ci ha insegnato che una persona che cammina nel buio non
conosce la luce. Come può cercarla se non l’ha mai vista? Se cerca di scoprire
il cammino da solo egli girerà semplicemente intorno senza raggiungimenti
per lungo tempo. Quindi è assolutamente certo che abbiamo la necessità di
una guida saggia. Il Guru ha trovato tutto ciò che noi cerchiamo. Ciò che noi
desideriamo è già il tesoro che Lui ha acquisito. La differenza tra noi e il Guru
è che noi siamo il seme e il Guru è già l’albero, nato dallo stesso seme. Noi
siamo all’inizio ed egli ha già raggiunto la meta. In fondo la sola differenza tra
noi e Lui è proprio solo questo passo che noi dobbiamo ancora compiere.
L’esperienza può essere data al discepolo, a giudizio del Maestro, come il re-
galo più prezioso, il raggiungimento più totale dove la consapevolezza del
presente si fonde, senza ulteriori mediazioni, nella pura Coscienza del “senza
tempo”.
Nella vita del grande Maestro dell’Advaita Vedanta, Adi Shankaracharya vi
sono due episodi che storicamente garantiscono questo raggiungimento.
Il Maestro aveva quattro discepoli ai quali insegnava sistematicamente la co-
noscenza suprema. Uno di questi era considerato dagli altri tre un po’ tardo,
assai meno brillante, incapace di cogliere subito la valenza profonda dell’in-
segnamento. Il suo nome era Giri. Un giorno il Maestro era pronto per la le-
zione, ma Giri non era presente. Il Guru chiese agli altri dove fosse ed essi
risposero che era al Gange a lavare il dothi, il vestito del Maestro. Uno di essi,
il più preparato, il più studioso, ma evidentemente ancora un po’ presuntuoso,
Sureshwar, disse agli altri tre: “Guruji può pure cominciare tanto quel muro
capirà l’insegnamento come lo farebbe Giri”. Il Maestro colse al contempo la
presunzione di Sureshwar e la dedizione, l’amore, l’umiltà di Giri e lo illuminò
con il potere del suo sankalpa, della sua volontà. Giri arrivò cantando le lodi
del maestro in versi totaka, la composizione più difficile della poesia indiana.

216
Fu da quel momento illuminato per sempre e fu chiamato con il soprannome
di Totakacharya, il Maestro che insegna in versi totaka. Divenne in seguito il
capo del seminario (math) più prestigioso della tradizione del Brahmanesimo,
quello di Jothirmath.
Tutti gli altri furono illuminati allo stesso modo: Hastamalakam in un momen-
to di crisi profonda incontrò il Maestro e in lacrime gli domandò: “Chi sono io,
Guruji?” Il Guru lo fissò negli occhi profondamente e rispose: “Tu sei Quello!”
Hastamalakam ebbe l’esperienza definitiva della sua vera natura.
Sogyal Rinpoche, il grande Maestro tibetano racconta nel suo meraviglioso
lavoro: Il libro tibetano del vivere e del morire: Il mio maestro mi aveva man-
dato a chiamare, mi aveva fatto sedere di fronte a sé. Eravamo noi due soli e mi
disse: “Ora ti introdurrò alla natura essenziale della mente”. Prese la campana
e il piccolo tamburo e cantò l’invocazione a tutti i Maestri del lignaggio, dal
Buddha primordiale al suo Maestro. Poi mi diede l’introduzione. Improvvisa-
mente mi rivolse una domanda senza risposta: “Cosa è la mente?” e mi fissò
intensamente negli occhi. Ero stato colto di sorpresa. La mia mente andò in
pezzi. Non rimanevano parole, nomi, pensieri. Di fatto non rimaneva nessuna
mente (…) In quel momento di puro sconcerto si aprì un varco e in quella
apertura si allargava la nuda, immediata consapevolezza del presente, libera da
qualunque attaccamento. Era semplice, nuda, essenziale. Una semplicità nuda,
ma radiosa di calore e di immensa compassione”.361

Il mio Guru dopo tanti inviti aveva accettato di venire a Roma per alcuni gior-
ni. Era Pasqua del 1989. Avevo lavorato tanto per questo evento e con mio
grande rammarico coloro che gli stavano intorno mi avevano dato una “seva”,
un servizio che mi portava lontano da Lei proprio quando Lei era nel mio
paese. Vivevo quello stato di separazione con qualche difficoltà. Mi sentivo
isolato. Un giorno Lei espresse il desiderio di andare ad Assisi alla tomba di
S.Francesco. Nuovamente dovetti lasciare Roma per preparare il suo viaggio
in Umbria. Questa volta, però, lo feci con tutto me stesso, per realizzare un suo
desiderio. Tornai che era sera tardi. Lei stava finendo il Darshan, il momento
in cui il Guru incontra i discepoli. Riuscii a buttare via le mie scarpe e correre
in sala. Ormai non vi era più nessuno nella fila. Camminai velocemente verso
di Lei. Mi guardò intensamente. Quanto amore in quello sguardo! Cominciò
a prendermi in giro: “Mi inviti a Roma e non ci sei mai. Vai sempre in giro
mentre io sono qui”. Seppi solo dire: “Oh Gurumayi” che il suo sguardo prese

361 Sogyal Rinpoche –Il libro tibetano del vivere e del morire – Ed. Ubaldini, cap. IV pag. 5

217
la mia mente e la sprofondò in un oceano di amore, di beatitudine, di illimitata
consapevolezza del momento presente, di pace assoluta e questa pace vibrava
come la vera natura del mio Guru. Mi prostrai davanti a Lei. Ella prese la mia
testa e la portò con forza sui suoi piedi. La pace infinita si trasformò in un
oceano di Luce. Non esisteva più nulla, né la sala, né la gente, né la musica,
né i suoi piedi. Non vi erano più né Guru né discepolo. Solo la Luce divina
nella quale il cuore si unisce alla mente e la immerge nella pura coscienza
dell’Essere.

MANTRA E MEDITAZIONE
La stessa esperienza, se pure non così drammatica si può avere ogni volta che
si entra in meditazione, ogni volta che la mente perde i suoi limiti e nulla rima-
ne se non l’assoluta Coscienza di beatitudine.
La meditazione permette alla mente limitata di allargare la consapevolezza del
relativo, del pensiero, verso la perdita di tutti i limiti che identificano lo stato
di mente fino all’espansione nella pura Coscienza.
Nella tradizione yogica che io seguo, la meditazione avviene utilizzando un
mantra dato dal Maestro durante l’iniziazione.
Da un punto di vista etimologico la parola mantra è legata alla sillaba sanscrita
man, la sillaba che individua la mente, manas, e dal prefisso tra, che può signi-
ficare “protegge, salva”, ma anche “che conduce al di là”.
La parola mantra può quindi significare “protegge la mente (dalla illusione e
dal potere vincolante del pensiero)”, oppure può significare: il suono che “por-
ta la mente a trascendere il relativo”, quindi il potere vincolante della mente.
Come si vede le due interpretazioni sono comunque concordi sull’effetto che il
mantra ha sulla mente e cioè scioglie il potere vincolante del pensiero e lascia
la mente libera nella sua natura essenziale.
Questo potere (mantra–virya) è descritto negli Shiva sutra: “L’essere luminoso
della perfetta coscienza di io sono, che dimora in una moltitudine di parole, la
cui essenza consiste nel più alto non dualismo, è il segreto del mantra”.362
Si dice che i mantra siano stati uditi dai grandi esseri nello stato più silenzioso
della parola, nello stato di Paravac e trasmessi dai Maestri ai loro discepoli.
Quindi non tutte le parole sono mantra, neanche tutte le parole spirituali. Ad
esempio la parola YHWH (Javhé) è un mantra ma non lo è la parola Dio, lo
è Yehosua, ma non lo è Gesù. Nel mantra lavora l’energia chiamata Matrika–
Shakti, l’energia del suono come parola unita al suo significato in un’unica

362 Jaidev Sing –Shiva sutra– pag.88

218
potente vibrazione ed è dinamizzata dall’intenzione che si esercita nell’uti-
lizzarla. Ma vi è un altro segreto: il mantra riceve un’infusione di Shakti, di
energia divina dalla Grazia del Maestro illuminato.
Ecco perché tra vari milioni di mantra per il discepolo funziona soltanto il
mantra dato dal suo Maestro. Ecco perché è inutile cercare di meditare con un
mantra ricavato da un libro. Solo il mantra ricevuto dal Maestro è un chaitan-
ya–mantra, un mantra vivo, un mantra che vibra in maniera particolare per il
discepolo.
Kshemaraja scrive nel suo commentario al sutra Guru rupaya “Il Guru è il
mezzo” degli Shiva sutra: “Il Guru è colui che insegna la Verità fondamentale.
Quindi Egli è il mezzo che porta il discepolo alla realizzazione del mantra–
virya (il potere del mantra)”.363
Se la meditazione diviene più profonda, e si approfondisce con la costanza e
con la consapevolezza del significato del mantra, avviene una straordinaria al-
chimia. Non è più il discepolo che ripete il mantra nella sua meditazione, ma il
mantra ripete se stesso alla velocità che quel giorno desidera prendere; a volte
lentissimo, a volte tanto veloce che la mente non riesce a seguirlo. Allora, in un
caso e nell’altro può avvenire che le sillabe del mantra cedano la loro articola-
zione prima ad un suono e poi ad una semplice vibrazione che si destruttura e
poi si dissolve in un silenzio profondo.
Il mantra ha portato la mente del cercatore all’esperienza della propria natu-
ra essenziale. Nella meditazione il conoscitore, il conosciuto e la conoscenza
sono divenuti Uno.
Dicono gli Skanda Purana: “Proprio come una lampada accende un’altra lam-
pada, (il Guru) comunica la conoscenza che ogni cosa è Brahman, il Brahman
che è impercettibile, eterno, il più alto, senza forma e senza attributo”.364
E’ una infusione di Shakti che il Guru esercita nel discepolo. Nella tradizione
dell’India questo fenomeno è chiamato shaktipat. Da quel momento inizia il
vero sadhana, la vita spirituale del discepolo.
E’ un punto di non ritorno. Da quel momento la evoluzione umana accelera in
un modo che non ha uguali. “Una straordinaria trasformazione comincia all’in-
terno della consapevolezza dell’iniziato. Egli non se ne rende conto perché un
velo di ignoranza (mula–ajnana) ancora lo ricopre. Ma tuttavia questa trasfor-
mazione comincia con l’iniziazione e, come un seme piantato in un terreno

363 Kshemaraja – Shiva sutra vimarshini – 2.6


364 Skanda Purana – Guru Gita – verso 109

219
fertile, fruttificherà nella realizzazione (atma jnana)”.365
“L’incontro con lo Spirito è frutto di una coraggiosa e ferma spogliazione per-
sonale, di una povertà intrepida e vissuta, che rimuove tutti i veli e fa fissare lo
sguardo sull’ultimo splendore del volto divino”.366
Questo è il lavoro del Maestro. Il discepolo è preso in custodia dal suo Guru
che lo guiderà nel migliore dei modi alla conoscenza della Verità.
“Colui che fa nascere la luce della vera conoscenza è chiamato Guru. La sillaba
“Gu” è buio e la sillaba “Ru” è detta essere la Luce. Non vi è dubbio che il
Guru sia la suprema conoscenza che ingoia il buio dell’ignoranza”.367
Ora spetta al discepolo fare la sua parte. La pratica della meditazione deve
essere esercitata con costanza, con consapevolezza e con devozione.
In India per indicare ciò che avviene nel discepolo che esercita con costanza la
meditazione insegnatagli dal Guru usano una analogia: la tintura della stoffa.
La tela esce dal telato e per essere tinta viene immersa nel colore. Quando vie-
ne sollevata sembra perfettamente colorata, ma viene esposta al sole. Il colore
sbiadisce quasi completamente, meno un po’ che resta sulla stoffa. Allora ogni
mattina viene ri–immersa nel colore ed esposta nuovamente al sole. Ogni gior-
no il colore continuerà a sbiadire, ma sempre un po’ meno, finché un giorno
esposta al sole la stoffa non sbiadirà più e resterà completamente colorata.
Con la meditazione avviene esattamente la stessa sequenza. Fin dal primo gior-
no usciremo dalla nostra pratica perfettamente espansi e silenziosi, ma il calo-
re dell’azione della nostra vita quotidiana porterà via “quasi” tutti i benefici.
Un giorno, però, immergeremo la nostra mente nell’esperienza della pura Co-
scienza e poi al fuoco della vita, un bel giorno, il più fortunato di tutti i giorni
fortunati, la consapevolezza del Sé, la conoscenza di io sono, non svanirà più e
sarà nostra per sempre. La vita avrà trovato la sua perfezione.

Colui che interrompe le sue pratiche spirituali e le sue preghiere


costanti è come un uomo che lascia sfuggire di mano un uc-
cellino, sarà difficile che riesca a riprenderlo. (S.Giovanni della
Croce)
Si volumus non redire, correndum est – Se non vogliamo tornare
indietro, dobbiamo continuare a correre. (Pelagio)
Vi sono ben poche anime che si dedicano alla preghiera interiore

365 Swami Shivananda– The mistery of the mantra – pag.51


366 Giovanni Vannucci – La vita senza fine – pag.104
367 Skanda Purana – Guru Gita – verso 10

220
e non si trovano, qualche volta, pochissimo disposti ad essa, con
grandi oscurità nella mente ed una grande insensibilità nei loro
affetti (…) e tuttavia, per una grazia segreta ed un coraggio im-
presso profondamente nello spirito, non desistono, nonostante
tutto, ma risolutamente spezzano le barriere di tutte le difficol-
tà e continuano, come meglio possono, le loro pratiche, per un
maggiore progresso della loro anima. (Augustine Baker)
Se ti avverrà di dire: “ora basta, ho raggiunto la perfezione” tutto
sarà perduto, perché è funzione della perfezione far conoscere la
tua imperfezione. (S. Agostino)
Sappi che quando imparerai a perdere te stesso nella meditazio-
ne quotidiana tu raggiungerai l’Amato. Non vi è altro segreto da
imparare, e più di questo non mi è noto.
(Ansari di Herat – santo sufi)

LA CONTEMPLAZIONE
Abbiamo parlato più sopra di una seconda via, l’abbiamo chiamata una via
mediata. Questa viene percorsa attraverso un raffinamento sistematico della
visione esterna della natura e interna del pensiero articolato, fino all’esperien-
za del più sottile del relativo, fino, abbiamo detto, alla spontanea necessità di
trascendere anche il più sottile del sottile, fino ad immergerci nella meraviglia
dell’Assoluto.
E’ la via contemplativa che può essere seguita però solo se vi è una costan-
te, sistematica attenzione sulla mèta che si vuole raggiungere. Faccio spesso
l’esempio del mio cane. Il mio cane è un bovaro delle Fiandre, di chiama San-
son. Il nome spiega anche le sue dimensioni e la sua forza. Di lui vi ho già detto
quando vi ho raccomandato di non perdere mai di vista la mèta. Ho chiamato
questa attenzione costante “la testa sulla palla”.
E’ un ottimo esempio che descrive la via contemplativa. Anche il nostro inse-
guire l’esperienza della divinità si svolge su un terreno molto spesso diffici-
le, non sempre regolare. Anche noi perdiamo a volte il nostro equilibrio e ci
sembra addirittura di smarrire la via, ma se conserviamo “la testa sulla palla”
questo non sarà mai possibile e prima o poi realizzeremo lo scopo della nostra
vita. Ciò che è importante per la riuscita è conservare “la testa sulla palla”.
Adesso vi descriverò un po’ più dettagliatamente il fenomeno. Dobbiamo cer-
care di approfondire il nostro modo di utilizzare i sensi, la vista, l’udito, il tatto,
il gusto e l’odorato. Ci riveleranno un mondo segreto, pieno di fascino e di
meraviglia. Guardate una rosa e notate come oltre ad essere un fiore bellissimo

221
sia anche un’armonia integrata di differenze. Il tronco è diverso dalla corteccia
e dalle radici. Le spina è diversa dalla foglia. Ogni foglia è diversa dalle altre
nella forma, nel colore, nelle dimensioni. Decine di foglie diverse. Il petalo è
poi diverso da ogni altra parte della rosa per la sua delicatezza, per il suo colo-
re, per il suo modo di costituire il fiore. Il profumo è diverso dal nettare. Portate
sistematicamente la vostra attenzione su quanto queste diversità siano armo-
niche ed integrate nell’unità della rosa. La rosa è un uni–verso, una unità nelle
diversità. Ma tutte queste espressioni manifeste della rosa nascono da una sola
energia: la linfa della rosa. E per di più questa energia, la linfa, è immanifesta.
Essa genera da se stessa la infinita varietà delle differenze. E’ l’espressione vi-
vente dell’Uno che si esprime nella sua creazione. Anche solo approfondendo
ogni giorno una contemplazione sistematica di una rosa potremo arrivare alla
conoscenza del Divino. Non avremo bisogno per questo di difficili libri di teo-
logia. Lo stesso esempio si può fare per una casa. Essa è formata da un insieme
di mattoni, di tegole, di cemento, di calce, ma è molto più di tutto questo. E’
una casa. Una casa ha in sé una energia particolare, una vita particolare che è
molto di più dell’insieme delle parti che la compongono.
Proviamo a godere questa energia immanifesta in ogni cosa attraverso un dol-
ce, ma sistematico esercizio di contemplazione. Troveremo la stessa energia in
un tramonto, in un’alba, in una tempesta di vento, nel lampo come nel tuono, in
una grande onda come in una valanga: quanta energia, quale energia!
Questi sono soltanto esempi. Potete trovare infiniti modi di percepire il sottile
nelle cose. Potrete sentire questa energia con l’udito nel suono, con il gusto nel
sapore, con il tatto nella morbidezza, con l’odorato in un profumo, con la vista
nelle forme o nei colori.
“L’attenzione cambia il valore dell’oggetto”.368 Con l’attenzione si coglie nella
creazione l’energia del Creatore.
Meister Eckhart in uno dei suoi Sermoni ha detto: “noi dobbiamo capire che
tutte le creature, per loro natura, cercano di essere come Dio. I cieli e i pianeti
non ruoterebbero se non seguissero il sentiero di Dio. Se Dio non fosse in tutte
le cose, la natura cadrebbe morta, senza più lavorare o avere un fine. Che voi
approviate o no, la natura, fondamentalmente, sta cercando e tendendo verso
Dio. Qualunque uomo, anche nella sua estrema sete, rifiuterebbe l’acqua se
non avesse Dio. Il desiderio della natura non è bere o mangiare o vestirsi di
qualcosa privo di Dio, ma essa, sia pur in modo velato, è alla ricerca del sen-
tiero verso Dio all’interno di sé”.

368 Rig Veda – X mandala

222
La manifestazione procede sempre dallo stato di non manifesta-
zione, anche se vi può essere per l’uomo un problema di prece-
denza, che è puramente teorico e non temporale. Dio è troppo
sublime perché vi sia una relazione temporale tra se stesso e la
sua creazione. Vi è solo un problema di attenzione nella creazio-
ne. Portando sistematicamente la nostra attenzione sulla manife-
stazione, il Sublime, ci si presenterà ai nostri sensi e quindi alla
nostra mente.
( Jili Al–insan Al Kamil– santo sufi)
Quando diecimila cose sono viste come unità, allora saremo ri-
tornati all’origine e rimarremo dove siamo sempre stati.
(Sen T’sen – monaco buddhista)
L’Amato è Tutto in tutti. L’amante lo nasconde con la sua mente.
L’Amato è tutto ciò che vive, l’amante deve scoprirlo se vuole
vivere. (Jalal–uddin Rumi – poeta islamico)

Per portare le contrazioni ad espandersi in una esperienza di gioia e di appaga-


mento abbiamo comunque sempre bisogno della mente. Vediamo quindi anco-
ra le possibilità che la nostra mente ci offre di vivere una vita felice o infelice,
contratta o libera, realizzata o limitata, nella gioia o nella sofferenza.

FELICITA’ O INFELICITA’: UNA NOSTRA SCELTA


Dopo aver approfondito la conoscenza della mente da un punto di vista princi-
palmente teorico desidero vedere se esistono delle serie possibilità di vivere la
vita in maniera meno stressata, meno agitata, più felice.
Tutto dipende dalla nostra mente.
Se impariamo a non trattare più la nostra mente come se fosse capace di as-
sorbire qualsiasi impatto, qualsiasi impulso, qualsiasi contrazione, come se
fosse la nostra nemica, ma incominciassimo a vedere la mente come la nostra
migliore amica, come colei che ci può restituire le nostre attenzioni nei suoi
riguardi con impulsi di gioia, con felicità durature, con beatitudini dolcissime,
allora la nostra mente sarà la fedele compagna, anzi l’artefice silenziosa della
nostra vita serena.
Spesso invece i nostri comportamenti sono solo sorgenti di infelicità.
Dovremmo sapere e tenere sempre presente che la mente è capace di vivere gli
opposti. Essa è estremamente flessibile. E’ nostra esperienza diretta come essa
sia capace di vivere un momento d’amore dolcissimo ed un minuto dopo un

223
forte impulso di gelosia, come essa sia capace di scegliere, ma al tempo stesso
possa essere condotta in un’esperienza di inerzia avvilente. Essa ha la neces-
sità di strutturarsi dei limiti per poter giudicare, discriminare, scegliere, e poi
abbia bisogno di destrutturarli per poter uscire dalla dualità e fare l’esperienza
dell’unità.
Dice lo Yoga: “La realizzazione è l’espansione dei limiti della mente verso
l’esperienza della propria natura illimitata”.
La nostra mente, dicevamo, è estremamente flessibile, può, volendo, cambiare
in un attimo il suo punto di focalizzazione. Facciamo un esempio molto sem-
plice: pensate ad una pecora bianca. La nostra mente la figura, la vede e vo-
lendo la può anche descrivere. Ma se un minuto dopo portiamo la nostra atten-
zione su una pecora nera è quella che vediamo. La pecora bianca è scomparsa
dalla nostra consapevolezza. Così avviene con la pecora nera se desideriamo
pensare ad una pecora marrone. Possiamo indirizzare la mente sul pensiero che
vogliamo, possiamo, se lo desideriamo, controllare i nostri pensieri.
Potete rinnovare l’esercizio con qualsiasi oggetto, ad esempio una pantera
nera, poi una pantera maculata, poi volendo anche una pantera rosa.
Essendo certi di questo principio fondamentale: la mente può essere indirizzata
con facilità su un oggetto, su un pensiero e poi anche sui loro opposti. Possia-
mo sfruttare questa qualità meravigliosa della nostra mente per indirizzarla
verso pensieri appaganti, verso stati sempre più sereni o felici.
Facciamo degli esempi pratici e scopriamo alcuni segreti per vivere felici.

1° SEGRETO PER VIVERE FELICE


La scelta dei nostri stati d’animo.

Gli stati d’animo non sono semplici emozioni che ci capita di provare, sono
“reazioni che noi scegliamo di avere”.
Tenendo presente quanto detto sopra il sillogismo è semplice:
Premessa primaria: Io posso controllare i miei pensieri.
Premessa secondaria: I miei stati d’animo dipendono dai miei pensieri.
Conclusione: Io posso controllare i miei stati d’animo.

Dovremmo utilizzare nella vita la “capacità di poter scegliere”.


Le Scritture dell’India identificano questa possibilità umana nel “Principio del
secondo elemento”. Illustrano questo principio con un esempio:
“Se sono seduto con altri in una stanza completamente buia e questo buio ci
causa dei problemi perché la gente alzandosi pesta il vicino, o il vicino, giran-

224
dosi, ci dà una gomitata in faccia, è inutile cominciare un’analisi dei problemi
del buio, né è sufficiente fare un simposio, o una tavola rotonda sul buio, ri-
manendo al buio. Per risolvere tutti i problemi che sono nati dalla situazione
contingente devo inserire “un secondo elemento” che sia in grado di eliminare
immediatamente tutti i problemi del buio. E’ ovvio, che nel caso specifico, il
“secondo elemento” sia la luce.
Se accendo una luce, tutti i problemi del buio scompaiono. Esiste per ogni
situazione un “secondo elemento”.
Tutti i Maestri, di tutte le tradizioni, hanno sempre insegnato questo principio
sia pure in maniera diversa.
Nello Yoga di Patanjali si legge che per uscire dalla contrazione bisogna “con-
templare l’opposto”. Questo è il messaggio di Gesù nel discorso della monta-
gna:
“Voi avete udito che fu detto, (…), ma io vi dico (…)
“Voi avete udito che fu detto, (…), ma io vi dico (…)369
Altrettanto chiara, e persino più schematica è la “Preghiera semplice di
S.Francesco”. Pare quasi essere un “data base” del secondo elemento.
A sinistra troveremo enunciate tutte le nostre contrazioni, a destra l’elemento
nuovo da inserire per portare la contrazione del I elemento nella espansione
del II.

O Signore fai di me un istrumento della tua pace

Dove vi è l’odio, fa che io porti l’amore


Dove è l’offesa, che io porti il perdono
Dove è discordia, che io porti l’unione
Dove è il dubbio, che io porti la certezza
Dove è l’errore, che io porti la verità
Dove è la disperazione, che io porti la speranza
Dove è la tristezza, che io porti la gioia
Dove sono le tenebre, che io porti la luce
Poiché
Sì! E’ dando che si riceve,
perdonando che si è perdonati,
morendo che si risuscita a vita eterna.

369 Vangelo di Matteo – 5.17

225
Vi sono due pratiche nello Yoga che ci indirizzano verso la quiete della mente,
la prima è chiamata la pratica del momento felice. Ci insegna che se abbiamo
un momento più o meno lungo di tristezza, di sofferenza possiamo portare la
nostra mente verso un momento in cui siamo stati “completamente felici”. Do-
vremmo, non solo ricordare quell’episodio di vita, ma riviverlo effettivamente
in tutti i suoi particolari: dove eravamo, con chi eravamo, se era giorno o se
era notte, come era il tempo, come era il luogo. Il particolare forma la realtà
del generale.
Converrebbe approfittare di un momento di completa quiete per scrivere bre-
vemente, ma nella sua interezza, quell’episodio proprio così come lo abbiamo
vissuto. E rileggerlo tre volte in tutti i suoi particolari, rivivendoli.
La nostra tristezza lascerà campo all’esperienza della felicità, la nostra agita-
zione alla quiete.
Le seconda pratica è chiamata delle dieci benedizioni.
Dice: “Se siamo in un tunnel buio, dove tutto pare non avere soluzione, dove
la tristezza pare un abisso di sofferenza, allora potremmo fermarci, sederci e
portare la nostra attenzione su dieci benedizioni che stiamo vivendo proprio in
quel momento e di cui non siamo consapevoli. Ad esempio:
Sono vivo. Se sono vivo posso ancora provare la felicità che pur esiste, posso
ancora godere della bellezza della natura, dell’arte, del colore, della musica,
della forma. Posso ancora vedere il sorriso di un bimbo, godere dell’amore di
una donna.
Dovrei vivere realmente la benedizione di essere vivo. Ormai potrei anche
essere morto e non avere più la possibilità di godere di tutta la bellezza del
creato e della creatura.
Sono sano. Potrò essere triste o deluso, ma sono sano. Solo coloro che hanno
perduto, sia pur per breve tempo, la salute sanno quale grande benedizione sia
essere sani. Io sono sano e mi devo poter godere questo stato.
Ho una casa, sono amato da qualcuno, amo qualcuno, ho mangiato, ho un
lavoro, per ognuna di queste condizioni ci dovremmo fermare a contemplare
quale sarebbe la nostra situazione se ci venisse a mancare, saremo allora con-
sapevoli dell’enorme benedizione che possiamo godere vivendola.
Senza sforzo saremo in grado di individuare molte situazioni esistenti che do-
vrebbero essere presenti alla nostra consapevolezza, che ci potrebbero dare,
gioia, sicurezza, benessere e che invece non viviamo perché la nostra mente è
prigioniera di una contrazione triste che ci rende la vita sofferente.
Spostiamo quindi la mente e facciamola godere di ciò che è nostro proprio in
quel momento.

226
Queste due pratiche si riassumono in un principio che dovrebbe essere con-
tinuamente perseguito nella nostra vita: portare tutte le nostre contrazioni in
espansione, portare l’agitazione in quiete.

2° SEGRETO PER VIVERE FELICE


Vivere nel presente.

Le nostre sofferenze, nella maggior parte dei casi avvengono perché la nostra
mente continua a rimanere su un episodio del passato, e in quello restiamo
immersi senza essere nemmeno consapevoli che, proprio in quel momento,
stiamo vivendo un’altra situazione. Ad esempio, cammino in riva al mare, al
tramonto. Tutto è meraviglioso, il cielo rosso , il mare calmo, la brezza piace-
vole, la terra è piena di fiori, le rocce si tingono di rosa, lontano rintocca una
campana, la situazione è bellissima, ma noi siamo tristi, depressi, sofferenti per
un episodio del passato che continua a vivere nel presente nella nostra mente.
L’85% del nostro tempo lo passiamo in un passato che non esiste più, e di
questo passato, generalmente ricordiamo solo le cose negative, dolorose, spia-
cevoli. Assai raramente i nostri ricordi sono su episodi felici, gioiosi, realiz-
zanti.
Eppure il presente è la nostra unica realtà. Il passato è un presente che non
esiste più, il futuro è un presente che non esiste ancora.
Dimentichiamo questa ultima realtà ogni volta che siamo preda dell’ansia, o
dall’angoscia.
L’ansia si manifesta perché proiettiamo la nostra mente in un futuro che non
sappiamo come sia, non sappiamo gestire, al momento, non sappiamo come si
svilupperà. Ma tutte queste proiezioni mentali non sono reali, quella situazione
non esiste ancora, molto probabilmente non sarà cosi, eppure noi la soffriamo
perché la nostra attenzione rende presente, viva, una situazione di fantasia.
Si racconta che Russel, il grande filosofo, fosse festeggiato da tutta la comunità
culturale inglese per il suo novantesimo compleanno. Era presente anche la
regina e buona parte della camera alta del parlamento britannico. Il ministro
della Cultura aveva terminato il suo discorso in cui elogiava il Maestro per tut-
to ciò che aveva scritto, pensato, elaborato nella sua lunga vita. Toccava ora a
lui, secondo la tradizione inglese, ringraziare per la considerazione dimostrata.
Il Maestro si alzò e tra lo sconcerto generale disse: “Ringrazio il Ministro per
l’elogio di un uomo, nel quale però io non mi riconosco. Ora vi dico io chi è
stato il filosofo Russel. E’ stato uno che per novant’anni ha avuto una mente

227
che ha concepito situazioni negative, ha sofferto di ansie per situazioni disa-
strose che per fortuna non si sono mai avverate”.
Viviamo ruminando un passato che non c’è più. Viviamo fantasticando un fu-
turo che non sarà mai come lo abbiamo pensato. Trascuriamo e perdiamo il
presente che è la nostra unica realtà.
Si racconta un episodio della vita del Buddha. Il grande saggio, seduto sulle
rive del Gange, aveva appena finito un discorso in cui indicava ai discepoli
le fonti della sofferenza, quando un uomo si alzò, si avvicinò al Buddha, lo
schiaffeggiò per quello che il Maestro aveva detto dell’India e fuggì via. Dopo
una notte di riflessione l’uomo tornò mentre il Maestro teneva la sua lezione,
sempre sulle rive del Gange. Si buttò ai piedi del saggio e lo pregò di perdonar-
lo. Il Buddha lo guardò con amore e poi disse: “Di che dovrei perdonarti?”. Il
discepolo, mortificato, ricordò al Maestro quello che era successo il giorno pri-
ma. Buddha sorrise e poi disse: “Osserva attentamente il fiume. Dove credi sia,
ormai, l’acqua che passava ieri? Così dove credi che sia il tempo passato? Per
noi non esistono più né l’una, né l’altro. Vivi il tuo presente, perché solo quello
che succede qui e ora è reale, tutto il resto o non c’è più, o non c’è ancora”.

3° SEGRETO PER VIVERE FELICE


Noi e il giudizio del prossimo.

Spesso diventiamo infelici convincendoci che il concetto che un altro ha di noi


sia più giusto e più importante di quello che noi abbiamo di noi stessi.
Ci hanno insegnato a vivere la nostra vita influenzati dal nostro prossimo ed
abbiamo perduto la fiducia in noi stessi e il rapporto con il nostro pensare.
Prendiamo in esame alcuni messaggi che riceviamo, o comunichiamo tutti i
giorni ed impariamo a riscriverli secondo la realtà del momento.
Mi offendi. Perché mi offendo? Perché ritengo il tuo giudizio più importante e
più vero di quello che ho di me stesso.
Se mi si dicesse ad esempio “sporco negro”, essendo io di razza bianca, mi ver-
rebbe semplicemente da ridere e consiglierei il mio interlocutore di andare da
un oculista a farsi controllare la vista. Perché allora dovrei offendermi se uno
mi dicesse: “Sei un cretino!” Se non mi ritengo un cretino dovrei correggere
semplicemente l’affermazione facendo presente al mio prossimo che si è sba-
gliato, oppure riconoscere in me stesso che “mi sono offeso perché ho creduto
vero ciò che lui ha detto di me”.
Così quando diciamo: “mi rattristi” dovremmo invece dire: “mi sono rattrista-
to perché ho ritenuto triste ciò che mi hai detto”.

228
“Mi ha fatto fare una cattiva figura”. Dovrebbe essere cambiata in: “mi sono
sentito uno scemo per aver dato maggior credito a quello che pensava quell’al-
tro che non a quello che pensavo io”.
Tutto questo avviene perché vi è un’altra necessità nella nostra vita “la neces-
sità di essere accettati”.

4° SEGRETO PER ESSERE FELICI


Non sentire la necessità di essere accettati.

Oggi i ragazzi sembrano essere molto più liberi di quello che erano “ai miei
tempi”.
Eppure se li vedi sono “inquadrati” come eravamo noi, ma in modo diverso.
Ad esempio vestono tutti allo stesso modo. Un anno con i jeans firmati, un
anno dopo con quelli sbiaditi per mostrare che sono lisi, un anno dopo addi-
rittura appositamente rotti. Non parliamo delle scarpe delle ragazze. Un anno
sono di moda gli zatteroni, un altro anno le scarpe a punta vertiginosa, un altro
anno le “ballerine”. Il tutto dettato da altri.
E’ questo un vecchio insegnamento che mi riporta alla mia gioventù. Ho con-
fessato all’inizio del I capitolo che da adolescente ero un po’ ribelle, non ac-
cettavo volentieri di essere “come gli altri”. Quante volte mia madre mi ha
rimproverato dicendo: “vuoi sempre essere diverso dagli altri”, oppure “com-
portati come si comportano tutti” oppure “cosa penseranno di te?”
Ci si doveva comportare come “era previsto comportarsi” in quella circostan-
za.
Questo ci portava a dei comportamenti che non erano consoni al nostro modo
di vedere o di pensare. Questo creava in noi una contrazione o una forzatura
nel nostro carattere.
Riporto qui di seguito alcuni esempi di comportamento di chi ricerca appro-
vazione:

1. Cambiare convinzione perché qualcuno mostra di disapprovare ciò che di-


ciamo.
2. Edulcorare una affermazione per non vedersela rifiutare.
3. Adulare una persona per rendersi ben accetti.
4. Dire cose che non si pensano solo per piacere a qualcuno.
5. Scusarsi di continuo. Fare un uso eccessivo o improprio di “scusi” o “mi
dispiace”.
6. Tentare di fare buona impressione sul prossimo simulando una conoscenza

229
che non si ha.
7. Elemosinare complimenti.
8. Mostrarsi eccessivamente d’accordo, fare continui gesti di assenso.
9. Faticare in eccesso per qualcuno e risentirsi per non essere stati capaci di
dire di no.
10. Rattristarsi se una persona che vogliamo ci stimi, manifesta un’opinione
contraria alla nostra.

Indico qui ora alcune strategie per eliminare il bisogno di approvazione.

1. Reagire alle disapprovazioni, mettendole in evidenza, cominciando il di-


scorso con “tu”. Esempio: “tu ti stai arrabbiando” “tu disapprovi il mio
comportamento”. Così non perderai di vista che la disapprovazione è un suo
problema, non un tuo.
2. Combattere la tentazione di cominciare il discorso con “io”, o mettersi au-
tomaticamente sulla difensiva.
3. Se si ha la sensazione che qualcuno ci stia manipolando possiamo esprimere
ad alta voce il nostro dubbio.
4. Anziché approvare qualcosa che non si ritiene vera o appropriata, ringrazia-
re semplicemente l’interlocutore di aver espresso la sua opinione.
5. Far notare a chi ci disapprova che si è messo sulla difensiva.
6. Ignorare le disapprovazioni.
7. Possiamo dire “Non ho detto queste cose per convincerla che ho ragione,
come sono certo che lei non desidera convincermi della giustezza della sua
affermazione”.
8. Evitare di chiamare a testimone di quanto si dice un’altra persona. Esempio:
“Vero Giovanni?”, “Vero tesoro?”, “Bella giornata vero?”.

5° SEGRETO PER ESSERE FELICI


Non accettate di avere sensi di colpa.

Il senso di colpa è un peso incredibile sulle spalle di molte persone. E’ qualcosa


che, a volte, ci perseguita per tutta la vita. Perché nasce? Nasce perché in un
momento successivo, spinti dalla nostra mente, o dalla mente altrui rimettiamo
in discussione una decisione presa.
Purtroppo non ho una ricetta per eliminare i nostri sensi di colpa pregressi,
quelli già strutturati nella nostra mente, ma desidero farvi partecipi di un in-
segnamento che ho ricevuto da Swami Sitaramdass durante un mio soggiorno

230
a Rishikesh, in India, diversi anni fa. Il Maestro un giorno disse: “Per quanto
riguarda i vostri sensi di colpa passati, dovrete trovare voi stessi un rimedio,
ma vi posso assicurare che la pratica del Japa370 e la meditazione sono rimedi
infallibili. Ora voglio darvi una ricetta perché non abbiate più a soffrire per
sensi di colpa nuovi. La ricetta è questa: quando dovete scegliere quale azione
compiere cercate di essere distaccati dal risultato, osservate semplicemente le
possibilità di scelta che vi sono di fronte a voi, ma non scegliete. Attendete che
la vostra mente si quieti. Nello stato di quiete della mente nascerà un impulso
di intuizione, coglietelo subito e scrivetelo su un qualsiasi pezzo di carta che
terrete con voi. Se non lo farete correrete il rischio che la vostra mente vi con-
fonda la scelta fatta, o lo facciano altre persone a voi vicine. Una volta fatta la
scelta non ritornatevi mai più sopra e non permettete a nessuno di giudicare
la vostra scelta o darvi il consiglio di ripensarci. D’altra parte, se rimetteste la
vostra decisione in discussione, anche solo un momento dopo, non sareste mai
nelle stesse condizioni di scelta e quindi la vostra critica sarebbe sbagliata a
priori e vi creereste sensi di colpa per la scelta fatta o per i risultati della vostra
scelta”.

Come vedete la mente non è più un mistero, in realtà per i saggi non lo è mai
stato; perché dovrebbe esserlo per noi? Potremo parlare per ore della sua natu-
ra, di dove origina, di cosa è composta, dove la si può trovare, che cosa crea,
come ci si può relazionare. Vi è un ultimo insegnamento che desidero compar-
teciparvi. Viene dal mio Maestro che ha detto che la mente potrebbe ricevere
dalla natura coscienza e beatitudine e come la nostra mente si apra, invece, alla
depressione e alla tristezza; che noi siamo nati con il potere dell’espansione e
con la debolezza della contrazione, possiamo quindi decidere di sperimentare
o l’una o l’altra. Ci ha pregato di liberarci dai legami delle nostre contrazioni di
rispondere all’attrazione e alla gioia, di lasciare che l’energia si muova dentro
di noi. Ci ha esortato di rendere grandi noi e gli altri. Ci ha ricordato che siamo
noi i fornai del pane che mangiamo.

LA VERA ESSENZA DELLA MENTE


La vera essenza della mente, come abbiamo visto è pura Coscienza dell’Essere
che manifestandosi su questo piano di esistenza prende i limiti del tempo e
dello spazio.
Abbiamo visto come la mente sia il primo strumento per acquisire conoscenza,

370 Japa è la ripetizione del Nome di Dio durante la giornata, o durante un’attività.

231
ma la vera ragione della mente sia la conoscenza della sua vera natura essen-
ziale che è la pura Coscienza dell’Essere.
La mente sprofondando nella sola “Essenza” conduce l’essere alla “nudità
dell’Unione” che gli apre la Conoscenza assoluta, quella della “Essenza su-
prema”. In questa conoscenza l’anima muore alla sua personalità individuale,
alla sua individualità illusoria riducendosi nella sua “semenza” infinitesimale
e sovra–individuale, alla sua scintilla universale e divina. Il Sé nascosto nel
cuore è il centro spirituale dell’io.
Allora “l’occhio del cuore” si apre all’Infinito e la scintilla del Sé si rivela
come una “Luce suprema” che contempla se stessa attraverso la non esistenza
del senso del “mio”.
L’essere è pervenuto all’ultimo grado di ogni intelligenza, la Conoscenza pro-
pria dell’Uno che nessuno può conoscere, se non Lui stesso, come attesta an-
che la Risalah islamica sufi: “Nessuno può vederlo salvo Lui stesso. Nessuno
lo afferra se non Lui stesso. Nessuno può conoscerlo se non Lui stesso.
Il Sé vede se stesso tramite se stesso. Egli si conosce da solo. Nessuno se non
Lui può vederlo, nessuno se non Lui può afferrarlo”.

Desidero chiudere anche questo capitolo con uno scritto di Rabindranath Tago-
re: “Quando cantavo il sopraggiungere delle nuvole, il picchiettio della pioggia
ha trovato il suo pathos nei miei canti. Fin dall’alba della nostra storia i poeti
e gli artisti hanno infuso i colori e la musica della loro anima nella struttura
dell’esistenza. Per questo, io so per certo che la terra ed il cielo sono tessuti
con le fibre della mente umana e, allo stesso tempo, della mente universale. Se
ciò non fosse vero la poesia sarebbe falsa, la musica un’illusione e il mondo
costringerebbe il cuore dell’uomo a un silenzio completo.
Il Grande Signore suona: il soffio è suo, ma lo strumento è la nostra mente per
mezzo della quale Egli canta i suoi canti di creazione”.

232
CAPITOLO IX
IL MISTERO DELLA VITA
Oh figli della Luce, camminate nella Luce,
lasciate che tutte le vostre oscurità
svaniscano dal cammino della vostra vita.
Oh figli della Luce, emanate amore e gioia.
Oh figli della Luce, dimorate nella Luce,
pensate alla Luce, vivete nella Luce,
lasciate che la vostra vita sia solo Luce,
le vostre parole scintille di saggezza,
i vostri sguardi di amore
saranno di aiuto a tanti cuori travagliati.
La canzone della vostra beatitudine
solleverà molti spiriti depressi.
Oh figli della Luce,camminate nella Luce.
Lasciate che tutte le vostre oscurità
svaniscano dal cammino della vostra vita.
Narada – Rime sulla vita

Credo che, tra tutti i misteri che abbiamo esaminato e che potremmo esaminare,
uno è quello di maggiore interesse per l’essere umano: il mistero della propria
vita. E’ questo infatti il mistero la cui soluzione potrebbe finalmente significare
la scoperta delle scoperte: cioè cosa è la vita e quale è il suo scopo?
Queste risposte aprirebbero orizzonti completamente nuovi alla conoscenza,
non solo filosofica, ma anche scientifica dell’uomo.
Egli ha indagato, e continua ancora a farlo, profondamente la materia ed ha
scoperto livelli sempre più sottili della realtà manifesta. Nella ricerca dell’uni-
verso l’uomo ha spostato sempre più in là i confini del cosmo. Ormai l’atomo,
l’elettrone, sono divenuti elementi grossolani per quella che noi chiamiamo la
scienza della vita. E’ stata scoperta, non solo la composizione della materia,
ma anche l’antimateria.
Tuttavia la vita in sé, la cosa più intimamente nostra, e che dovrebbe essere la
più semplice da scoprire, rimane un mistero.
Mi sono sempre domandato il perché? Ha detto il premio Nobel Rita Levi
Montalcini: “Ogni giorno così tante cellule nascono nell’uomo, così tante cel-
lule muoiono. Mi domando come e perché l’uomo non sappia che cosa sia la
vita e che cosa sia la morte”.

233
A questo punto della nostra ricerca dovrebbe essere chiaro a tutti cosa sia la
vita, ma essendo questa una conoscenza fondamentale per ognuno di noi, visto
che viviamo, sarà bene approfondire l’argomento da diversi punti di vista poi-
ché la vita sembra essere, a detta di tutti, piena di misteri.
Ben pochi sono coloro che conoscono che cosa sia la loro esistenza e quale sia
il suo scopo. Perché siamo qui?
Su questa domanda ho avuto uno dei momenti più toccanti della mia vita. Mia
madre conosceva benissimo quello che studiavo e quello che insegnavo, ma
dopo la mia esperienza di morte, avendo sofferto il dolore violento ed improv-
viso, profondo, di una madre che perde un figlio di dodici anni, non aveva più
voluto sentire pronunciare la parola morte. Soltanto passati gli ottant’anni mi
chiamò in lacrime e volle vedermi. Il medico le aveva appena detto che il suo
cuore era molto debole, le probabilità di subire una morte improvvisa erano
molto alte per il restringimento della vena “porta”, quella che permette al san-
gue di raggiungere il cuore.
Mi abbracciò, piangeva come una bambina. Mi chiese: “Perché devo morire?
Ho vissuto come tutte le donne una vita un po’ serena e un po’ agitata, un po’
allegra e un po’ triste, un po’ felice e un po’ infelice. Ho fatto cinque figli ed
ho vissuto per loro. Ho ora dodici nipoti che sono la mia gioia, perché li devo
lasciare? Che significato ha tutto questo?”
Mi sono stretta al petto la mia vecchietta. Un impulso intenso di compassione
mi ha legato profondamente a lei. “Mio Dio – la mente mi ha detto silenziosa-
mente – la mia mamma ha vissuto ottant’anni senza sapere perché viveva. Ora
non sa perché deve morire proprio perché non conosce la ragione della vita.
Come posso aiutarla? Non è parlandole che risolverò il suo problema. Dovreb-
be avere invece l’esperienza della vera natura della vita”.
Ecco il segreto. Tutti viviamo, ma non conosciamo quale sia la vera natura
della vita. Nessuno ce lo dice perché ben pochi lo sanno, e ancora meno sono
coloro che desiderano saperlo, quindi tutti parlano della vita come se bastasse
viverla.
Questo di mia madre è l’urlo dell’umanità che forse in se stessa ha la spin-
ta a sapere, ma è stata troppo spaventata per desiderare interamente questa
conoscenza. Allora l’umanità si nasconde dietro una cortina di ignoranza, di
silenzio, di angoscia, di ironia, pur di non sapere, perché le hanno detto che,
prima o poi, dovrà morire e che la morte è la fine di tutto ciò che siamo e che
abbiamo. La vita finirà. Finché c’è vita c’è speranza, dicono i proverbi più
popolari. Quindi la vita, più che essere conosciuta deve essere goduta. Carpe
diem dicevano i nostri vecchi.

234
Ogni volta che in Italia vi sono state le elezioni politiche ed ho sentito tutti i
candidati discutere sulla “qualità della vita”.
Sembra che per loro la qualità della vita dipenda dal fatto di avere un televisore
al plasma, o un telefonino di ultima generazione che possa inviare SMS, E–
mail, che possa fare fotografie ed inviarle a mezzo mondo tramite il computer.
Molti identificano la qualità della vita con una macchina di grande cilindrata
con un navigatore satellitare, oppure dal numero degli elettrodomestici che
hanno in cucina o dalla seconda casa al mare. E’ forse quello il metro per
misurare la qualità della vita? Poveri noi ancorati a queste realtà transitorie.
Certamente se fosse questa la verità la nostra vita dovrà subire necessariamen-
te alti e bassi, periodi di esaltazione e di depressione profonda. Vedremo tra un
po’ come ben altro debba essere il metro per misurare la qualità della nostra
vita. Se basiamo tutto su ciò che è per sua natura impermanente avremo la de-
lusione che, presto o tardi, queste realtà relative verranno a cessare creandoci
dolori e sofferenze. Allora, certamente, ci accorgeremo che non sappiamo che
cosa sia la vita, specie quando crediamo che questa venga a cessare. Abbiamo
sempre nel corso degli anni rifiutato di approfondire l’argomento ed abbiamo
accettato, per pigrizia o per ignoranza, di dirci che la vita, nella sua natura è
un mistero e che questo mistero primario è circondato da un numero infinito di
misteri corollari. Vogliamo provare a contarli, anche in maniera assai appros-
simativa?
Anche la Bibbia sembra giustificare l’inutilità di ogni contemplazione: “Quale
utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole (…) sono
giunto a disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo durato sotto il sole,
perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi la-
sciare i suoi beni ad un altro che non ha per nulla faticato”.371
Questo accumularsi di misteri nasce da un errore fondamentale iniziale: la vita
ci viene indicata e viene vissuta come se fosse un segmento.
Il segmento è una porzione di retta delimitata da due punti: un punto d’inizio
e un punto di fine. L’inizio della vita per noi è la nascita. Alla nascita si viene
alla vita. La fine per noi è la morte. La morte è la fine della vita.

Vita
Nascita ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Morte

Questa visione così primitiva della nascita e della morte è certamente la gene-

371 Bibbia – Qoelet – 1.3

235
ratrice di un numero infinito di misteri. Chi pensa che questa sia la realtà delle
cose naviga in un abisso di ignoranza.
1. Chi ero io prima di nascere? Mistero.
Questa è una domanda che ci sentiamo fare assai spesso dai bambini che esco-
no dall’infanzia ed entrano nella pubertà.
Ricordo che un giorno ero ospite, a pranzo, di una coppia di psicoterapeuti
di Torino che avevano un maschietto di undici anni. Per diverso tempo mi ha
girato intorno cercando di parlarmi, ma finché la mamma è stata presente non
ha osato rivolgermi la parola. Quando la mamma è andata in cucina a prepara-
re il pranzo si è avvicinato e mi ha domandato in grande segreto, come fosse
qualcosa di estremamente misterioso: “Chi ero io prima di nascere?”. Gli ho
sorriso e gli ho chiesto: “Hai domandato alla mamma?”. “Si” mi ha risposto.
“E cosa ha detto la mamma?”. Ha fatto una strana faccia, poi avvicinandosi al
mio orecchio mi ha sussurrato: “Boh! Mi ha detto qualche cosa, ma si é capito
che non lo sa. Tu me lo sai dire?”. “Certo – gli ho risposto – vieni con me in
giardino”. Abbiamo preso un fiore come esempio ed abbiamo fatto una chiac-
chierata semplice, ma profonda sul principio della vita. Sulla linfa che genera
tutte le varie parti del fiore e che come tutte queste parti non siano che la linfa
immanifesta, incolore, della rosa. Era entusiasta. Continuava a salterellare per
il giardino e diceva come se parlasse a se stesso “lo sapevo che si poteva sape-
re. Ero certo che lo potevo sapere”.
Quanti se lo saranno chiesto e non si sono mai dati una risposta. Hanno sempli-
cemente sepolto il desiderio di conoscenza in un tumulo di silenzio chiuso da
una pietra tombale con su scritto: mistero. La risposta che noi abbiamo è che
questo fa parte del mistero della vita. Solo Dio sa perché. Dio sa certamente
perché, ma perché non lo possiamo sapere noi?
2. Perché la vita essendo una sola ed essendo preziosa è diversa in tempo per
ognuno di noi? Perché uno vive 94 anni e un altro muore a 10 travolto da
uno Tzunami? Mistero.
3. Perché sono nato maschio e un altro essere nasce femmina? Perché proprio
io maschio e proprio lei femmina? Mistero.
4. Perché uno nasce sano e vive sano ed uno nasce malato e soffre per la sua
malattia tutta la vita, se la vita è una ed è preziosa? Mistero.
5. Perché sono nato in una famiglia benestante, ed un altro nasce in una fami-
glia costretta a mendicare per poter mangiare? O nasce in Biafra o in Darfour
e muore di stenti? Mistero.
6. Sarà vero che vi sarà un’altra vita nell’aldilà, e come sarà?

236
I misteri potrebbero continuare all’infinito. A nulla vi è risposta. Siamo real-
mente condannati a vivere questa vita come una mosca cieca?372 Oppure vi è
un disegno sistematico per tenere la gente nell’ignoranza, nelle mani di chi
dice che sa?
Ebbene sappiate che tutti questi misteri trovano risposta logica, conseguente,
perfetta, solo che si voglia approfondire la verità rivelata, non solo nella nostra
tradizione, ma anche nelle altre spiritualità disponibili.

Vi ho scritto queste cose perché sappiate che la vostra vita è


eterna. (I lettera di Giovanni – 1.5–13)
Bisogna che l’uomo accetti la morte come accetta la nascita. Fa-
cendo così imparerà che non deve morire ma che la sua vita è
eterna. (Rabbi Yitzahaz – Commento al salmo – 118.17)
Nessuno muore poiché l’anima porta in sé i segni della sua eter-
nità. (Corano – LXXV.38)
Ciò che esiste non può cessare di esistere.
(Bhagavad Gita – II.16)
Non morirò, resterò in vita e annuncerò le opere del Signore. Il
Signore mi ha provato duramente, ma non mi ha consegnato alla
morte. (Bibbia – Salmo – 118.17)

Queste affermazioni non dovrebbero stupire perché anche la nostra scienza oc-
cidentale le riconosce vere in una legge fondamentale della chimica moderna.
L’abbiamo già citata altre volte, ma è bene tenerla presente. Antoine Laurent
Lavoisier nel 1790, nei suoi studi sul principio della conservazione della mas-
sa, metteva il mondo scientifico davanti ad una affermazione rivoluzionaria:
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Il ciclo cosmico prova che la vita è eterna. Essa non ha né inizio, interruzione
o fine. Assume nel suo continuo trasformarsi infinite forme, apparendo, scom-
parendo, e riapparendo come le onde dell’oceano che prendono forme, dimen-
sioni, forze differenti diversificandosi tra loro senza mai perdere la loro natura
essenziale, quella di essere acqua. La creazione è un vasto serbatoio di una
sola energia che si trasforma in più energie per creare diverse espressioni di
materia. Nell’uomo questo percorso di cambiamento è generalmente chiamato

372 A chi volesse dare risposte a questi interrogativi, o volesse approfondire il tema della vita e
della morte consiglio di leggere: Sogyal Rinpoche – Il libro tibetano del vivere e del morire
– Ed.Ubaldini , o Cesare Boni – Dove va l’anima dopo la morte – Ed. Amrita.

237
morte, ma, come sempre in natura, la trasformazione, la morte di una forma in
un determinato momento e luogo, determina la nascita di un’altra forma in un
altro momento o luogo, o in un diverso livello di manifestazione”.373
Eppure la vita non è un concetto solamente astratto. Comporta il vivere e l’es-
sere su questo piano di esistenza, qui ed ora.
Gli scienziati di tutto il mondo stanno cercando di chiarire sempre più i feno-
meni che danno origine alla vita, le sue caratteristiche, come essa si presenta
nei suoi aspetti spaziali e temporali ed il suo diffondersi nell’universo.
Ma questo non basta per dare risposte sulla vera natura della vita, né tanto
meno sulla sua ragione. Ricordo di aver avuto l’occasione, alcuni anni fa, di
leggere un libro recensito da Scientific American dal titolo: “The physics and
chemistry of life” e mi colpì una affermazione iniziale. Gli autori scrivono: “Ci
sono tre enigmi, tre fondamentali enigmi nel mondo:
1: che cos’è l’universo?
2: che cos’è la materia?
3: che cos’è la vita?”
Ad un certo punto, quasi alla conclusione della loro indagine, delle loro ricer-
che, dichiarano che questi sono sempre stati i problemi irrisolti, non solo dalla
scienza, ma anche dal pensiero umano, e concludono con una affermazione in
parte ottimistica e in parte pessimistica. Dicono: “le prime due risposte forse
saranno trovate dalla scienza nel XXI secolo, ma riteniamo che l’enigma della
natura della vita, sia pur rivestito di nuove forme rivelate, rimanga assai pro-
fondo, lontano e sconosciuto”.
Da dove desidero partire per chiarire che la vita è un profondo segreto, ma non
un mistero, e che, come abbiamo fino ad ora affermato, non potrà essere cono-
sciuto dalla nostra mente, ma potrà essere invece vissuto direttamente, in una
esperienza coscienziale, in tutta la sua vastità e in tutta la sua chiarezza?
Desidero partire da un’analisi che tutti conoscono e alla quale tutti concorda-
no.
Osserviamo la vita e la troviamo al contempo sia complicata che semplice.
Questo paradosso è sotto i nostri occhi. La vita è lo spuntare dei fiori in pri-
mavera. E’ il maturare dell’uva in autunno, lo scorrere dell’acqua del fiume,
la profondità dell’oceano. La vita è la manifestazione del cielo stellato, la ro-
tazione della terra intorno al sole. Sono gli uccelli che volano nel cielo e la
loro migrazione, il guizzare dei pesci nel mare. La vita è il mutarsi del seme in
albero e dell’albero in seme, il corpo umano che cresce e poi decresce, il fluire

373 Cesare Boni – Dove va l’anima dopo la morte – Ed. Amrita –

238
del vento e il crepitio della pioggia sul prato. Ma la vita è anche qualcosa di
più sottile che non può essere visto con i nostri sensi normali, ma può essere
indagato con i nostri strumenti, ad esempio la fotosintesi clorofilliana, quello
straordinario processo, grazie al quale le piante assorbono energia dal sole e
la utilizzano per trasformare l’acqua ed il biossido di carbonio in ossigeno
ed in composti organici. Anche questo è vita. Vita è il ciclo dell’azoto in cui
strani microscopici parassiti traggono la loro energia dalle radici delle piante,
mediante la fissione dell’azoto nell’atmosfera. Vita è l’espressione della gioia,
vita è lo sbocciare di un amore, vita è un impulso di carità o di compassione,
vita è l’entusiasmo per ciò che ci piace e la repulsione per ciò che non ci piace;
vita è la meraviglia che nasce in un bambino, la gioia dell’adulto, la saggezza
del vecchio.
Tutto ciò non può essere ridotto ad una semplice variazione metabolica, è vita
che si manifesta. La vita è tutto, ecco perché dicevo che è al contempo compli-
cata, ma anche semplice. Tuttavia nella ricerca del segreto della vita dobbiamo
andare ben al di là delle scoperte della scienza, poiché la scienza, per quanti
progressi potrà fare, non riuscirà mai a rivelare “l’origine prima” degli innu-
merevoli fenomeni dell’esistenza.

Nel portico di un tempio in rovina


sedeva un uomo sui resti di una colonna spezzata,
lo sguardo fisso verso est.
Tra le rovine del passato, guardava il sorgere del giorno.
Gibran che lo vedeva ogni volta
durante la sua passeggiata mattutina,
alla fine chiese cosa stesse facendo.
“Guardo la vita” fu la risposta.
“Tutto qui? “
“E non è abbastanza?”374

Proviamo a partire dal conosciuto e fare un viaggio affascinante verso l’ignoto


o meglio il segreto. Potrei partire subito da una affermazione che può essere al
tempo stesso anche la soluzione del problema. Potrei dire cosa è la vita, quale
è la sua vera natura primaria e quale è la sua ragione, quando la vita si rivela in
ogni manifestazione, fino alla più sublime di tutte: la vita umana. Ma restereb-
be solo una affermazione, una mia affermazione.

374 Kahlil Gibran – A tear and a smile – pag 9

239
Partiamo da una domanda fondamentale: dove risiede la vita umana?
A questa domanda, così semplice e così diretta, nessuno scienziato sa rispon-
dere. Sappiamo molte cose, sappiamo dove si trova il cervello o il cuore, o
il fegato, ma se gli chiediamo dove si trova la vita, anche lo scienziato più
intuitivo si deve fermare. Questo per lui è un mistero. Non è ancora il vero
mistero della natura della vita, ma anche solo la soluzione di una ricerca ben
più grossolana, come questa, si rivela già un mistero.
Kahlil Gibran ha scritto:375 “E’ buona la Vita con l’uomo, ma come è lontano
l’uomo dalla Vita”.
Ha scritto Alexis Carrel, premio Nobel per il suo: Man the unknown: “In realtà
la nostra ignoranza è abissale, la maggior parte delle domande poste da coloro
che studiano l’essere umano rimane senza risposta”.
Immense regioni interiori sono tuttora sconosciute. Proviamo, tuttavia, a com-
piere il cammino un passo alla volta.
Cominciamo con una affermazione incontestabile: “il corpo umano è formato
di materia”. Il corpo è costituito di cellule le quali sono composte da altri ele-
menti, ad esempio proteine e molecole del DNA. Anche queste sono divisibili,
ad esempio, in carbonio, azoto ecc, tutti elementi che si trovano in tutto l’uni-
verso. Tutto ciò che compone il nostro corpo può essere trovato anche altrove,
tuttavia nell’uomo ci scontriamo subito con una particolarità che è tipica del
corpo umano e che non è riscontrabile negli altri elementi dell’universo: le
funzioni eseguite dal nostro corpo lo differenziano nettamente anche dai cal-
colatori più complicati, dai robot più sofisticati, da qualsiasi altro meccanismo
di precisione. Il corpo umano è composto da circa 60 trilioni di cellule che
eseguono contemporaneamente una tale moltitudine di funzioni che non riu-
sciamo nemmeno ad immaginare. Pensiamo che, a quanto ne sappiamo, solo il
fegato svolge circa 200 tipi di attività disintossicanti e metabolizzanti. Il fegato
è però di una pigrizia esasperante se lo confrontiamo con il nostro cervello, con
i suoi 20 milioni di cellule, sempre in attività.
I vasi sanguigni di un individuo adulto hanno una lunghezza di quasi 100 mila
chilometri, più di due volte la circonferenza della terra. Quando respiriamo
mettiamo in funzione quasi 300 milioni di cellule. Tutto questo complesso ma-
croscopico, nel microcosmo di un corpo, ha bisogno per funzionare di una
forza immensa, e per di più questa forza deve essere in grado di far funzionare
tutto questo insieme in perfetta armonia.
Questa premessa è necessaria se vogliamo assolvere alla funzione più elemen-

375 Kahlil Gibran – Thoughts and Meditations – pag 46

240
tare della vita umana e cioè di avere una mente creativa che è il nostro mag-
giore valore relativo.
La conoscenza di questa energia unificante, che sviluppa una forza vitale così
impressionante, è la ragione della nostra appassionata scoperta, della soluzione
del mistero della vita.
Pensate che uno scienziato giapponese ha calcolato che una fabbrica che do-
vesse produrre tutte le sostanze chimiche elaborate dal fegato umano dovrebbe
essere più estesa dello spazio tra Tokyo e Yokohama.
Fin dai tempi più antichi tutti i sapienti sono andati alla ricerca di questa stra-
ordinaria forza vitale. Ma per scoprirla hanno dovuto compiere un tuffo all’in-
terno non solo del corpo umano, ma all’interno della vita stessa.
Non è necessario postulare una esistenza antropomorfica di una divinità. E’
sufficiente andare a trovare direttamente questa forza vitale attiva e positiva
all’interno del corpo umano e scopriremo che sarà la stessa forza che vi è
all’interno del pensiero, della mente, dell’emozione, del sentimento, dell’im-
pulso creativo e che questa essenza fondamentale della vita umana è un tutto
unico con la forza vitale dell’universo. La forza vitale che si esprime negli
esseri umani rappresenta non solo l’innata intelligenza dell’uomo ma la sua
Coscienza di essere.
Finora abbiamo visto che il corpo umano non è semplicemente un complesso
di elementi fisici, ma un insieme vitale ben ordinato e ritmico che crea e si ri-
crea. Ovviamente la stessa energia vitale che c’è nel macrocosmo relativo, che
noi chiamiamo corpo, la ritroviamo in ogni singola cellula che lo compone.
Però non dobbiamo vedere il corpo solo come un luogo in cui avvengono que-
ste straordinarie reazioni a catena, ma è anche l’ospite di una intensa attività
mentale che influenza, volente o nolente, la nostra attività fisica integrata, e an-
che di un’attività più nascosta, meno esposta, più intima, ma straordinariamen-
te più importante per chi vuole giungere alla soluzione del segreto della vita:
una benefica, dolcissima, sottilissima attività spirituale, che noi per il momento
possiamo identificare con una esperienza di Coscienza.
Per capire la vera natura di questa attività spirituale, che è parte integrante
della vita stessa, dobbiamo entrare nel laboratorio della nostra Coscienza ed
osservare, non coinvolti, l’assoluta profondità dell’essenza della nostra energia
vitale.
Gli esseri che vivono nel nostro universo, ma credo anche tutti coloro che sem-
plicemente vivono su qualsiasi altro piano di esistenza, ricevono la loro forza
vitale individuale da una essenza cosmica fondamentale che fornisce energia a
tutte le espressioni di vita, ovunque esse si manifestino.

241
Ormai tutti hanno riconosciuto l’esistenza di questa forza vitale, ma la sua
natura per molti rimane un mistero.
Abbiamo visto che questa energia della vita si manifesta nel corpo fisico e nel
mondo che ci circonda. E’ identificabile in tutte le leggi che governano anche
il mondo inorganico. Tutte le leggi della fisica, della chimica, della biologia,
dell’astronomia, etc. sono regolate da una sola energia creativa. Anche l’intel-
ligenza, la consapevolezza, il pensiero, i sentimenti hanno la stessa origine.
La vera natura di tutto ciò che è espresso e non espresso è una sola, unica, in-
divisibile realtà: l’energia vitale primaria che si manifesta su questo e su altri
piani di esistenza come vita. Nulla esiste che non sia Lei. Nell’essere umano
vi è la stessa energia vitale che vi è in ogni cosa manifesta e immanifesta, ma
quando la scopriamo diviene evidente che non è solo una connessione con
l’energia cosmica, ma è la stessa energia cosmica che prende i limiti dell’esse-
re individuale, proprio come l’aria di una camera è la stessa che vi è al di là dei
muri che la circoscrivono, ma noi la identifichiamo come l’aria della camera,
e non come la contrazione limitata dell’aria esterna illimitata. Se togliessimo i
muri l’aria circoscritta si fonderebbe senza modifiche nell’aria circostante.
Potremmo dedurre, da tutto quello che abbiamo detto finora, che nella vita
degli uomini, come nella vita di tutto il cosmo, l’esistenza consiste nella inse-
parabile unità del flusso dell’energia vitale che abbiamo chiamato primaria.
Nella osservazione della vita, come abbiamo fatto finora, si rileva che tutte
le cose sono costituite da elementi in costante mutamento che si combinano
gli uni con gli altri in modi diversi ed interagiscono continuamente tra loro.
Se vogliamo giungere ad una conclusione scioccante, ma evidente, dobbiamo
accettare che nulla esiste in quanto tale, perché un attimo prima ogni cosa è dif-
ferente da quello che si manifesta al momento dell’osservazione e certamente
un minuto dopo è ancora diversa e continuerà di attimo in attimo a cambiare
la sua manifestazione. Ma andando più a fondo nella nostra contemplazione
dobbiamo pur riconoscere che, benché tutti questi aspetti di quella che noi
identifichiamo come realtà siano temporanei e transitori, troveremo che deve
esistere una verità permanente più profonda.
Anche secondo la nostra scienza tutto l’universo è in costante movimento e
cambiamento. L’astronomia stessa ci garantisce che l’intero cosmo è in co-
stante mutamento, eppure, nonostante la sua transitorietà, la vita è meraviglio-
samente armonica.
Questo continuo cambiamento ci mette a confronto con una nuova scoperta
della nostra vita che per molti, ahimè, è uno dei problemi più gravi: il tempo
e lo spazio.

242
Anche Kant, prima degli scienziati, ha affermato che l’uomo percepisce la sua
realtà in un contesto spazio–temporale.
Per conoscere bisogna circoscrivere, misurare, calcolare, rilevare, reiterare
l’osservazione. Però questo non è tutto nella esperienza della realtà, perché
non solo possiamo osservare che ciò che è oggetto della nostra ricerca cambia
continuamente da istante a istante, ma anche che la massa dell’osservatore
falsa l’esperimento376.
Ma alla base di tutto questo continuo mutamento vi è qualcosa di immutevole
che è la natura fondamentale dell’oggetto.
Questo campo unificato di energia che è alla base del mondo manifesto mute-
vole è stata studiata da Einstein nella sua teoria del campo unificato che è il re-
galo più prezioso che il grande fisico abbia fatto all’umanità, ma non è ancora
stato apprezzato dalla scienza per il valore immenso che ci porta.
Einstein ha cercato ed ha elaborato una teoria che completa la grande rivela-
zione della “relatività”.
A quel tempo il campo elettrico ed il campo magnetico erano già stati uniti
e sintetizzati nel campo elettro–magnetico. Restavano comunque quattro for-
ze nella trasformazione dell’energia in materia. Il campo elettro–magnetico,
l’interazione debole, l’interazione forte ed il campo gravitazionale. In parole
semplici Einstein ha cercato di dirci che non soltanto tutta la grande diversifi-
cazione dell’aspetto e della natura della materia è solo energia, ma che questa
energia è una ed una sola.
Le fondamentali proprietà della nostra vita sono nel mondo fisico la forma tan-
gibile e l’aspetto, ma in un mondo più sottile sono la conoscenza, i sentimenti,
la individualità, ma questi due mondi non rappresentano tutta la vita, perché
esiste una fonte essenziale che li sostiene entrambi.
Mentre il nostro corpo, il nostro aspetto esterno, le nostre conoscenze, il nostro
pensiero, la nostra identità sono in continuo mutamento, la loro vera natura è
invece una essenza di vita che è fondamentale ed immutabile.
Facciamo un esempio molto semplice: prendiamo in esame Giovanni a
vent’anni. Il suo corpo composto di decine di miliardi di cellule è in costante
mutamento, subisce continue trasformazioni guidate dal suo metabolismo. Se
Giovanni guardasse, proprio ora, a vent’anni, una sua fotografia di quando ne
aveva dieci vedrebbe tutti i cambiamenti che sono avvenuti e potrebbe anche
essere consapevole degli immensi mutamenti che avverranno al suo corpo ne-
gli anni a venire.

376 Teoria della indeterminazione di Heisemberg.

243
Prendiamo ora in esame Giovanni a quarant’anni. Effettivamente il suo corpo
è cambiato, ma se andasse più a fondo scoprirebbe che anche il suo modo di
pensare, la sua relazione con il prossimo, con la natura, le sue opinioni, i suoi
sentimenti, il suo complesso emozionale sono notevolmente mutati e cambiano
ancora con il variare delle condizioni esterne, ma è soprattutto diverso come la
sua mente sia ora capace di reagire agli avvenimenti della vita. Probabilmente
il suo ragionamento è molto più ricco, meno instabile, la sua discriminazione
più acuta, le sue conclusioni più realizzanti. Eppure, nonostante ciò, è sempre
ancora Giovanni. Il suo essere Giovanni è rimasto immutato, al di là di tutti i
cambiamenti esterni. C’è una realtà che non cambia e impedisce a Giovanni di
divenire Antonio. Questa realtà è chiamata il Sé.
Il sé (minuscolo) individuale è mutato e cambierà ancora, ma il grande Sé è
sempre lo stesso immutato e immutabile.
Tutti i grandi pensatori, non solo orientali, ma anche occidentali, da Platone a
Plotino, da Kant a Kierkegaard, da Nietzsche a Heidegger, benché differenti
nei loro pensieri e nelle loro conclusioni, hanno alla fine sostenuto di non la-
sciarsi prendere a calci dai casi della vita al punto di identificarsi con i muta-
menti continui, ma di imparare a fare riferimento al Sé immutabile.
Non c’è dubbio che possiamo osservare, non travolti dai casi della vita, i pro-
blemi che dobbiamo affrontare e trarne, quello che noi chiamiamo, conoscenza
esperienza e saggezza.
Questo grande Sé è indubbiamente collegato alla nostra mente, anzi è la nostra
mente quando si riconosce svincolata dai limiti del tempo e dello spazio e del
piccolo sé.
Vi sono stati infatti momenti, e nessuno può negare di averli avuti, in cui ab-
biamo udito la musica della vita. Sono stati momenti di sublime armonia in
cui i ricercatori hanno sentito la vita di Dio risuonare al loro interno come la
loro vita, la vita dell’uomo. Gli uomini sono nati in questo mondo della natura
e conoscono tutti i loro limiti le loro costrizioni, i loro desideri soddisfatti o
insoddisfatti che, dobbiamo riconoscere essere ancora una volta pieni di limiti.
Eppure molti di loro sono consapevoli di respirare nel mondo dello spirito,
anelano sempre maggiore libertà e la trovano assai spesso in una manifestazio-
ne della vita che si chiama amore.
Nell’amore, anche solo per un momento, si sentono liberati da tutti i loro desi-
deri egoistici, si riconoscono svincolati da ogni limitazione di razza o di nazio-
nalità, dalla paura o dalla servitù di credi o convenzioni.
In quei momenti, che possono durare poco, o a lungo nel tempo, gli uomini
hanno la certezza, o almeno la sensazione di essere divenuti uno con qualcosa

244
di divino. Non vorrebbero che quei momenti finissero mai, ma, ahimè, questo
incessante fluire delle cose cancella, nel tempo, la nostra ricchezza. Se siamo
aperti a questo tipo di esperienze, il tempo, questo compagno inesorabile della
nostra vita, può divenire il nostro amico più prezioso aprendo la nostra consa-
pevolezza, sempre più profondamente, all’esperienza del presente, del tempo
senza tempo.

Camminate nel ritmo della vita,


le vostre membra non saranno stanche.
Cantate con il ritmo della vita,
la vostra voce sarà dolce.
Danzate con il ritmo della vita,
i vostri piedi non toccheranno terra.
Respirate il ritmo della vita.
Pensate nel ritmo della vita.
Lasciate che questa energia ritmica
sia la vostra vita377.

IL TEMPO
Ma torniamo al tempo. Voltaire ha detto: “Di tutte le cose dell’universo il tem-
po è la più lunga e la più corta, la più veloce e la più lenta, può essere diviso
nella particella più infinitesimale e può essere prolungato nell’eternità”.
Il tempo non è altro che una sequenza ininterrotta di atti e di pensieri. La per-
cezione del tempo e dello spazio è innata nella consapevolezza umana perché
è innata nella mente. La mente è mente perché vincolata da tempo e spazio.
Se togliamo dalla nostra mente la contrazione del tempo e dello spazio, la
consapevolezza si espanderebbe in Coscienza, cioè il piccolo sé tornerebbe a
fondersi con la sua Realtà universale, il grande Sé. Ciò che è inseparabile si
separa nella nostra mente. Quindi vediamo anche la nostra vita condizionata da
tempo e spazio. Il suo legame con la nostra mente è evidente in ogni caso della
nostra vita. Se viviamo un periodo felice il tempo passa velocemente, vorrem-
mo ci lasciasse più tempo per gustare le gioie che la vita ci sta offrendo. Se il
momento è difficile, triste o doloroso il tempo sembra lunghissimo, infinito.
Anche se ci annoiamo il tempo sembra lungo e se ci divertiamo diventa breve.
Sembra quasi che cambi il ritmo del tempo, che esso divenga individuale. Ed
è proprio così. Ognuno vive il suo tempo, a modo suo. Questo è quello che ha

377 Rumi – La canzone della vita

245
fatto dire ad Einstein che il tempo è relativo. Che sia poi legato alla mente è
evidente se osserviamo i bambini piccoli. Non sono sincronizzati sul ciclo del-
le ventiquattro ore. Dopo aver mangiato, sia giorno, sia notte, si addormentano.
Il neonato vive il ciclo sonno–veglia almeno sette volte al giorno. Stabilirà il
tempo ciclico come un adulto non prima del decimo mese.
La vita umana, oltre che legata al ritmo del tempo è legata al ritmo della na-
tura, come se fosse immersa in un grande ciclo naturale che segue in maniera
sincrona i mutamenti dell’universo. Questo ritmo vitale legato alla natura è
diverso da individuo a individuo, ma in tutti tiene unite le energie di tutte le
parti funzionanti del corpo, della mente, e le sintetizza in un’unica personalità
soggettiva. Ad esempio per chi dedica, almeno in parte, il tempo della sua vita
alla ricerca della sua vera natura interiore, alla fonte divina che si manifesta
come flusso vitale, un anno rappresenta un valore maggiore di quello che è
l’esperienza di un anno per una persona solamente interessata a raggiungimen-
ti mondani, o come li abbiamo chiamati più sopra, impermanenti.
Questo avviene perché chi è dedito ad un cammino spirituale ha l’attenzione
focalizzata sul momento presente. Ogni momento è prezioso in sé perché porta
in sé l’esperienza del senza tempo. Il momento presente è il punto di giunzione
tra passato è futuro.
Se la nostra consapevolezza sa vivere il presente possiamo godere dell’espe-
rienza dell’eternità in ogni istante. Infatti il presente è il tempo senza tempo. Se
paragoniamo il tempo, come fanno i buddhisti, ad un fiume che scorre, vedia-
mo che il futuro confluisce costantemente nel presente ed il presente diviene
immediatamente passato. Il presente quindi non ha tempo. Se osserviamo la
mente nell’attimo presente è in completa espansione. E’ capace di essere mente
solo nel passato o nel futuro. Allora soltanto ciò che è inseparabile si separa e
la mente manifesta se stessa nel pensiero e nell’azione.
Sfortunatamente sembra che la gente non sia capace di vivere pienamente il
presente, infatti l’85% del nostro tempo è speso a ruminare un passato che non
c’è più o a fantasticare un futuro che molto probabilmente non sarà mai così.
Ma sembra anche che la gente non sia sensibile al flusso vitale dal quale è
continuamente benedetta.
Nella vita quotidiana è importante attingere continuamente e pienamente in
maniera consapevole alla forza vitale, al flusso della vita per poter usufruire al
massimo di ogni momento presente. Se utilizzassimo l’infinito tesoro contenu-
to in ogni momento di vita, la nostra esistenza sarebbe non solo immensamente
più ricca, ma anche certamente più felice.
Ogni nostro problema, le paure, le ansie, le angosce, le solitudini, è legato al

246
tempo.
Se fossimo capaci di vivere pienamente la straordinaria ricchezza della vita
saremo liberi da tutti i problemi.
Vivendo completamente ogni momento presente ogni attimo della nostra vita
diventerà l’esperienza vivente dell’Eterno, di quella Energia primaria che in-
clude in Sé tutto il tempo. Ogni singolo momento diventerà l’eternità. Il nostro
flusso vitale si fonde inscindibilmente, nel presente, con il flusso vitale cosmi-
co. La vita sarà, non solo vissuta, ma conosciuta, perché noi stessi saremo la
nostra vita.
Dice il saggio Shabistari: “Il passato è volato via, il mese e l’anno prossimo
non esistono ancora. Solo il piccolo punto del presente è nostro”.
Vi è un proverbio americano che trovo non solo falso, ma anche pericoloso nel-
le sue applicazioni. Non solo lo hanno inventato per loro, ma ahimè, lo hanno
esportato come una verità.
Il proverbio è: “il tempo è denaro”. Il tempo è infinitamente più prezioso del
denaro e non vi è nulla di comune tra i due. Non si può accumulare tempo, non
si può ricuperare il tempo perso, non si può prestare o prendere in prestito il
tempo e soprattutto non potremo mai dire quanto tempo ci rimane nella banca
della vita. Il tempo è vita. Alla fine della vita quanta gente sarebbe certamente
disponibile a dare tutto il suo denaro per avere anche solo un po’ di tempo.
Tutti i grandi si sono occupati del tempo dando ad esso un grande significato.
Diceva Johann Wolfgang von Goethe: “Siccome il tempo non è una persona,
non possiamo richiamarlo quando se ne è andato. Allora onoriamolo con mirto
e impulsi di cuore mentre esso è presente”.
Plutarco: “L’intera vita dell’uomo non è che un punto di tempo. Cerchiamo di
goderlo quando esso è presente e non spenderlo senza scopo”.
E.C. Brewer scriveva:
“Piccole gocce d’acqua, piccoli granelli di sabbia
formano un grande oceano o una spiaggia piacevole,
così piccoli minuti, per quanto umili possano sembrare,
formano la potente era dell’eternità”.
Sulla meridiana del campanile del mio paese si può leggere: “Il tempo che è
passato non si può richiamare. Il tempo che hai è qui e ora. Il futuro non c’è
ancora e potrebbe non esserci. Ricorda solo il presente e il suo tempo”.
Seneca ricordava ai suoi concittadini, con un senso vivo di compassione: “Po-
chissimi, in verità, vivono il presente, tutti gli altri cercano sempre di vivere
un altro tempo”.
Omero scriveva: “Vi è una cosa a cui siamo particolarmente attaccati, e vi è

247
una cosa che sprechiamo senza cura. Pare impossibile, eppure sono la stessa
cosa: la vita”. Mi piace concludere queste citazioni con un proverbio cinese: “I
fiori che coglierai domani sono nei semi di oggi”.

LO SPAZIO
Tocchiamo ora brevemente l’argomento spazio, l’altro parametro che ci condi-
ziona la vita, l’altra contrazione che trasforma in mente la Pura Coscienza.
Abbiamo già detto che l’universo è in espansione e che essa avviene a fortis-
sima velocità. Sembra che continuerà fino a giungere ad un nuovo concentrato
di materia creata, grande come una pallina, che riesploderà e darà vita a nuovi
universi. Quindi la scienza sembra arrivata all’idea fondamentale che esiste
una continua creazione della materia, come esiste una continua contrazione
della creazione in un ciclo che non ha né inizio né fine. Non è quindi possibile
porre dei limiti al cosmo come già milioni di anni fa si leggeva nei Veda, o nel-
le scritture del buddhismo: questo giustificherebbe la previsione che esistano
un numeri imprecisato di universi.
Pascal nei paragrafi 347 e 348 dei suoi Pensieri scrive:
347 – “L’uomo non è altro che una canna, la più debole creazione della natura,
ma è una canna che pensa. L’universo non ha bisogno di grandi cose per ab-
batterlo; un soffio, persino una goccia d’acqua, è sufficiente a distruggerlo. Ma
anche se l’universo dovesse annichilirlo, l’uomo sarebbe ancora più grande del
suo avversario, perché sa che sta morendo e si rende conto del vantaggio che
l’universo ha su di lui. E nonostante questo, l’universo non sa nulla (…)
348 – Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità di essere umano, ma
nell’ordine dei miei pensieri. Anche se ho delle proprietà, esse non sono nulla.
Per mezzo dello spazio l’universo si impossessa di me e mi avvolge come un
granello di polvere; attraverso il pensiero io mi impossesso dell’universo”.

Abitualmente pensiamo allo spazio come a quello occupato dal nostro corpo
fisico, ma osservando bene la nostra vita non possiamo non rilevare che vi-
viamo molti spazi, l’uno differente dall’altro. Ad esempio vi è uno spazio per
ogni senso, o meglio vi sono due sensi, il tatto e il gusto che sperimentano lo
spazio solo quando lo spazio non esiste, infatti non vi è tocco se uno spazio
si interpone tra una cosa e l’altra, come non vi è gusto se i nostri organi, la
bocca, la lingua, il palato non prendono contatto con la cosa da gustare. Quindi
per due sensi vi è esperienza quando vi è mancanza di spazio, mentre gli altri
sono decisamente orientati a darci conoscenza di essi attraverso tre spazi che
possono essere anche profondamente diversi. Lo spazio più piccolo è utilizzato

248
dall’odorato. Il profumo viene percepito se è molto vicino al naso. Se fos-
se lontano lo spazio impedirebbe l’uso del senso in relazione all’oggetto che
profuma. Più grande decisamente può essere lo spazio per l’udito. A volte in
determinate condizioni di vento o di eco o di formazione di una valle, l’udito
può utilizzare uno spazio decisamente grande, ma mai come quello che può
essere utilizzato dalla vista.
Se prendiamo poi in esame lo spazio quando usiamo la nostra mente per studi,
per lavoro, per il tempo libero, esso può essere assai più grande dello spazio
considerato per l’utilizzo dei sensi, ma diventerà estremamente vario se lo rife-
riamo al nostro rapporto con gli altri, ai nostri ricordi, alle nostre fantasie.
Quanto diverso poi è lo spazio della mente nel sogno. A volte esso sembrerà
non esistere, a volte si estenderà in maniera notevole, sin quasi ad essere per-
duto come spazio di visione.
Lo spazio si espande ancora quando tocca la sfera dei sentimenti, dell’amore
per una persona o per il genere umano, dell’amore per la natura.
Ma senza alcun dubbio lo spazio maggiore è sperimentato come spazio spi-
rituale. Più ci avviciniamo alla fonte della nostra energia vitale, più cresce
il nostro spazio soggettivo, finché alla fine lo spazio si potrà fondere in una
esperienza di a–spazialità che si rivela come immensità.
Tutto si fonde in una infinita pulsazione di pace, di illimitatezza, di eternità.
Ecco, sì, proprio così, in quella esperienza quando lo spazio lascia il posto alla
trascendenza, uno strano fenomeno si verifica: spazio e tempo si unificano
in una sola, unica mancanza di manifestazione. Semplicemente si sono estesi
così tanto da non essere più identificabili né come elementi separati, né come
manifestazione unitaria.

LO SPAZIO CURVO
Questo ci porta ad una delle più recenti scoperte della scienza. Ai tempi di
Newton venne scoperta la forza di gravità. Si è per lungo tempo creduto che la
famosa mela fosse caduta a causa della gravità, seguendo una linea retta. Così
si è pensato per lungo tempo che anche la luce si propagasse per linea retta.
Ora gli scienziati sostengono che la mela non cade per linea retta, ma seguendo
la curvatura della terra.
Ormai sono certi che lo spazio si curvi nei pressi di grandi masse come la terra
o come il sole e che quindi la mela stia semplicemente seguendo la linea di
questa curvatura. Ancora una volta questa “teoria dello spazio curvo” fa parte
della teoria generale della relatività di Einstein. Essa è stata dimostrata già dal
1919 dall’astronomo inglese Sir Stanley Eddington, durante un’eclissi totale di

249
sole. Egli scoprì che la luce delle stelle lontanissime si curva, in effetti, attorno
al sole al punto che le stelle che per linea retta non dovrebbero essere visibili
diventano di fatto osservabili.
Quanto si curva questo spazio? Si curva tanto da potersi identificare con il tem-
po, in uno spazio unico curvo, tanto da non avere né inizio né fine. Questa è una
teoria dove spazio e tempo interagiscono in un continuum spazio–temporale,
dove non sono più identificabili lo spazio o il tempo come entità separate.
Oh! Ecco la dimostrazione scientifica di quella esperienza che abbiamo citato
prima e che è ricorrente ogni volta che meditando entriamo in uno stato di
trascendenza: uno spazio curvo dove non vi è più né tempo, né spazio in un
continuum illimitato.
Vi è una poesia di Li Po che amo tanto. Dice: “Il cielo e la terra sono una
locanda in cui tutte le cose si fermano per breve tempo. Il tempo è l’eterno
accumularsi di ospiti”.
Noi esistiamo, è vero, nel continuum spazio–temporale, finché agiamo su que-
sto piano di esistenza, ma quando entriamo nella condizione più sottile di quel-
la esperienza, il nostro continuum spazio–tempo si fonde con la pura coscienza
dell’Essere.
Quello che è più affascinante è, però, che tutto ciò che sembra separato quando
la nostra vita è vissuta nella consapevolezza del limite, diviene uno e uno sol-
tanto quando la nostra vita è vissuta a livello della Pura Coscienza.
Ogni Sé individuale si fonde in una esperienza affascinante di unità. Si ha
quindi la certezza che ogni particolare creato, ogni situazione di vita, ogni
sensazione sottile o grossolana, che ci sembrano individuali e separate non
sono altro in realtà che espressioni di Pura Coscienza illimitata, della vera
natura della vita. La vita che è una, indivisa, eterna, inestinguibile, si manifesta
su questo piano di esistenza come differenziata in creazioni che sono invece
condizionate da tempo e da spazio. Che meraviglia!!
Noi, come esseri individuali siamo di fatto quell’illimitato, eterno, non mani-
festato oceano dell’Essere che noi chiamiamo vita.
Tra noi e la vita non vi è nessuna differenza. Noi siamo la vita.
Ecco svelato il mistero. Ora però, scoperto chi siamo, possiamo esaminare il
vero scopo della vita.

250
LO SCOPO DELLA VITA

La realtà della Vita è la Vita


il cui inizio non è nel grembo materno
e la cui fine non è nel sepolcro
I nostri anni sono un istante della vita eterna,
la materia e il suo mondo sono un sogno
a paragone del risveglio
che chiamiamo con terrore: morte.378

Il concetto di “Io” e “Tu” deve divenire Uno, ed alla fine fonder-


si nell’Amato.379

Ne IL MISTERO DELLA TRINITÀ380 e ne IL MISTERO DELLA CREAZIO-


NE381 abbiamo visto come l’Uno senza secondo nell’atto stesso di conoscersi
genera un Figlio simile a Lui in tutto, e come questo figlio venga generato
tramite una terza energia dell’Uno, che nelle varie tradizioni assume nomi
diversi. In Giappone è chiamato Ki, in Cina Chi, in Messico Quatzalcoatl o
Kukulkan, nella tradizione mistica ebraica è chiamato Binah, in India è chia-
mato Shakti, in Egitto Iside, a Roma Mercurio, in Grecia il Logos, nello Yoga
Kundalini, nello Shivaismo del Kashmir La Madre Divina, nel Cristianesimo
Spirito Santo.
Questa terza energia è il mezzo attraverso il quale l’Uno esprime se stesso nella
sua creazione. Dice il Credo cattolico “che è Signore e dà la vita, e procede dal
Padre e dal Figlio….”..
Procede dal Padre e diviene la Creazione in ogni sua forma e quindi anche
nell’essere umano.
Nel processo di conoscersi, abbiamo visto, l’Uno si divide per potersi osserva-
re. Questa divisione non è vista come separazione dal punto di vista dell’Uno,
ma, ahimè, lo è dal punto di vista della creazione. Essa si sente separata dal
suo creatore e questa separazione crea delle contrazioni che determinano la
caratteristica fondamentale della manifestazione e cioè che tutto all’interno di
essa è impermanente perché soggetta a tempo e spazio.
L’uomo perde quindi il contatto con la sua origine divina. Non è che perda

378 Kahlil Gibran – The voice of the Master – pag.31


379 Rumi – Poems – pag.62
380 Capitolo IV°
381 Capitolo VII°

251
la sua origine divina, ma non è più in grado di riconoscerla. In questa perdita
nascono per l’uomo tutte le limitazioni che conosciamo, compresa la nascita
e la morte.
La vita è il mezzo attraverso il quale l’uomo è in grado di ritornare al Padre
grazie al potere dello Spirito Santo che procede quindi in questa fase dal Fi-
glio al Padre. Questo ritorno, questo riconoscimento della sua natura divina,
questa espansione del limite all’illimitato, dell’impermanente al permanente,
può e deve essere operata nel corso della vita umana. Dio divenne uomo perché
l’uomo divenga Dio.382
Tutte le religioni, tutti i cammini spirituali sono concordi nel riconoscere che
questo è il vero scopo della vita.
“La conoscenza di Dio è la ragione stessa della creazione del mondo”.383
“La via della conoscenza della vita è il fana’hiLlah, l’estinzione nella Divinità,
la riunione con l’Assoluto”.384
Come può avvenire questo? Ancora una volta tutte le vie spirituali concordano.
La visione della mèta, cioè dell’unione mistica con la nostra vera natura divina
deve essere costante. Questa ricerca deve essere perseguita in ogni istante.
Non si tratta di trascurare i nostri doveri quotidiani, tutt’altro, si tratta di strut-
turare dentro di noi la motivazione principale dei nostri atti, il ricordare il per-
ché della nostra nascita, del nostro soggiorno su questo pianeta e il perché della
nostra morte futura.
Questo è il primo passo a cui ne devono seguire altri altrettanto importanti. Ne
cito alcuni:
1. Essendo la mèta da raggiungere la più completa delle espansioni, l’assenza
totale di qualsiasi mancanza, ogni nostra più piccola contrazione dovrà es-
sere notata al più presto e portata subito in espansione.
Rileggiamo insieme, se volete, il Discorso della Montagna riportato nel Van-
gelo di Matteo, o la Preghiera semplice di S.Francesco e vedremo che il
messaggio del Cristo o del Poverello d’Assisi è proprio questo: non restate
nella contrazione, convertite la contrazione in espansione.
Allora potranno essere conseguite le otto Beatitudini che, come abbiamo già
visto, sono la vera carta di riconoscimento del discepolo del Cristo, come la
carta di identità del discepolo di qualsiasi vero Maestro.
2. Accettare in maniera attiva, positiva, come motivo di crescita il nostro desti-

382 S.Attanasio – Catechismo della Chiesa Cattolica – cap. II°


383 Add al Wahid –L’Islam interiore – pag.35
384 Idem – pag 39

252
no presente. Ogni cosa che ci capita nella vita, giorno per giorno, istante per
istante è un debito creato in precedenza e che ci si presenta per il pagamento.
Se questo avviene con il consenso del nostro cuore, il nostro destino, il no-
stro presente, diviene un evento benedetto.
3. Realizzare quelli che sono i nostri doveri quotidiani con un senso di servizio
verso noi stessi, verso gli altri, verso Dio.
4. Questo comporta un sempre maggiore distacco dai frutti dell’azione. Non si
chiede all’uomo di non compiere azioni. Non potrebbe essere fatto. Non gli si
chiede di non avere frutto dall’azione, sarebbe contrario ad una delle leggi fon-
damentali della creazione385, ma di non essere attaccati al frutto dell’azione, di
non far divenire il risultato primario rispetto all’azione stessa.
E’ l’azione che conta, è come noi la compiamo che ha valore. I frutti necessa-
riamente verranno, ma l’attaccamento ai frutti diviene, lo si capisce bene, una
nuova contrazione.

La conseguenza di queste quattro predisposizioni è, lo si può capire con una


semplice contemplazione, una via verso una vita di maggiore gioia, di maggio-
re felicità, di più grande realizzazione.
I frati cistercensi dicono nella loro Regola. “Il monaco ascolta il mondo con le
orecchie del suo cuore. Egli lascia che la mente analitica riposi in devozione e
silenzio, in modo che il suo stesso cuore diventi una preghiera. Il suo cuore è
toccato e aperto in modo che il potere di Dio agisca direttamente”.
Il 9 novembre, la festa del Diwali, la festa della luce, il mio Guru ha mandato
a mia moglie e a me un biglietto di auguri come sempre estremamente illu-
minante: “Sperimentate il Potere pieno di luce all’interno. Celebrate SHRI386
– celebrate la bellezza – celebrate la dignità – celebrate la sacralità – celebrate
l’abbondanza – celebrate la nobiltà – celebrate la buona fortuna – celebrate
la gioia e tutto ciò che porta gioia. Svegliatevi ogni giorno allo splendore del
vostro cuore”.
Ecco la strada verso la conoscenza del Divino all’interno di noi e nella crea-
zione, la strada dove i misteri si sciolgono in una certezza che va al di là della
speculazione intellettuale. Ecco come la nostra mente sale piano piano verso
l’alto e si fonde infine nello splendore interiore, vivendo in un mondo che pur
nei limiti canta la gloria dell’Illimitato.

385 “Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.


386 Shri: il Signore, il Divino in forma umana.

253
Lo scopo della vita è realizzare il tuo eterno Sé, abbracciare la
tua vera natura. (Tao Teh Ching)
Se rimaniamo come siamo stati creati, siamo nello stato della
virtù. Se dobbiamo cercare la virtù al di fuori di noi, questo sarà
difficile. Ma siccome è dentro di noi è sufficiente conservare
l’anima rivolta a Dio. (Philokalia)
L’anima è per sua natura fatta per il paradiso, e Dio è il nostro
solo diritto di nascita. (Meister Eckhart)
Hai detto: “se tu non divieni infedele con me io non ti lascerò
mai, non ti mostrerò mai la mia schiena”. Ora non capisco per-
ché sei così distante. Oh, se solo tu non mi avessi fatto innamo-
rare così tanto. (Rubaiyat of Hafiz)
Dio non può fare a meno di noi, così come noi non possiamo
fare a meno di Lui, quindi, anche se noi ci allontaniamo da Lui,
è impossibile per Dio voltarci le spalle. (Meister Eckhart)
In verità questa vostra comunità è solo una comunità, e io solo
sono il vostro Signore, quindi venerate me. Ed essi invece si di-
visero. A Noi tutti devono tornare. (Corano – XXI, 92–93)
La tua mente non pensa all’Uno che è l’onnipotente e non ti
importa di cercare il Divino. Oh, no, sei così tanto preso dalla
tua pittura che dimentichi chi l’ha creata e non vedi il Pittore.
(Rubaiyat of Hafiz)
Quando per l’embrione viene il tempo di ricevere lo Spirito, in
quel momento il Sole corre in suo aiuto. (Rumi – Poeta islamico
sufi)

LE VIE DI UNIONE CON IL DIVINO


Siate coraggiosi, siate veri, e aspettate.
Quanto a lungo?
Che importa se il tempo è lungo o corto.
Il tempo non è ciò che cerchiamo.
Il tempo non è il nostro scopo,
né l’aspettare ci distoglie dalla mèta.
Quindi aspettate e osservate
perché il tempo porterà il frutto dell’attesa
nei vostri cuori.387

387 Rumi – La canzone della vita –

254
Nel VII capitolo, IL MISTERO DELLA CREAZIONE e nell’VIII IL MISTE-
RO DELLA MENTE abbiamo visto come la creazione si completi nell’essere
umano.
Il flusso divino della vita si è costruito, su questo piano di esistenza, tutto ciò
che gli serve per ritornare alla conoscenza della sua vera natura primaria, alla
coscienza di “Io sono”.
Questo è infatti il solo scopo della vita, ma è anche l’unico scopo della creazio-
ne. La creazione esiste perché l’Uno si è conosciuto, lo abbiamo ripetuto ormai
fino alla noia, e questo straordinario gioco non è avvenuto una volta nei secoli,
come sembra lasciarci intendere la Bibbia, ma è il gioco eterno, senza tempo
che si rinnova nel tempo, ma è sempre esistente, senza inizio né fine.
La conoscenza del Divino è anche il fine della “gnosi islamica” come d’altra
parte di ogni “gnosi”, di qualsiasi cammino spirituale; è la vera ragione della
vita.
Nell’Islam viene ricercata nel Tasawwuf, o Sufismo,388la via esoterica verso
fana’hiLlah, “l’estinzione nella Divinità”, l’ “unione mistica” dei ricercatori
cristiani resa in maniera mirabile da santa Teresa d’Avila della settima mansio-
ne del “Castello interiore”.
Tale unione avviene attraverso la Grazia che, in molte vie spirituali, compresa
la nostra, dovrebbe essere trasmessa al discepolo dal Maestro durante l’inizia-
zione.389
In molte vie spirituali l’identificazione con il Divino avviene attraverso la ripe-
tizione del “Nome” come nel Japa Yoga in India, con il “nembutzu” nel Bud-
dhismo Zen, con il “dhikr” nell’Islam, e con la “preghiera del cuore” nell’eso-
terismo dei monaci ortodossi.
Ma la grazia da sola non basta a raggiungere e realizzare lo scopo della vita, ci
vuole il nostro impegno personale. Questo è visibile nella nostra vita ogni volta
che vogliamo conseguire un qualunque risultato. E’ proprio l’impegno perso-
nale ad aprire per noi un flusso maggiore o minore di Grazia. Essa è disponibile
per noi in ogni momento della nostra vita al massimo. Il Divino stesso nella sua
espressione di Spirito Santo è tutto per noi, ma noi determiniamo, con il nostro
libero arbitrio, quanta grazia vogliamo far fluire nella nostra vita.
A questo proposito potrebbe essere emblematica un’esperienza della mia vita.

388 Sufismo, da Suf: lana, materiale dei vestiti dei primi compagni di Muhammad. René
Guenon dice nel suo libro Scritti sull’esoterismo islamico e sul Taoismo che la parola Sufi
è numericamente equivalente all’espressione “Al hikmatu–l–ailahiyyah” che significa
“saggezza divina”.
389 Nell’Islam è chiamata “Barakah” dal nome dell’uccello Barak (Grazia).

255
Quando la mia mamma è morta mi ha lasciato in eredità una certa somma.
Mi è sembrato giusto darne una parte ai poveri. Ho scelto i più poveri dei più
poveri. Vivevano ad Agra, un villaggetto di circa seicento anime in India, nella
parte nord dello stato del Maharashtra. Era una popolazione così miserevole
perché poteva coltivare solo il riso durante la stagione dei monsoni, perché era
a mezza costa di una collina totalmente priva di acqua. Ovviamente non man-
giavano che riso condito con una specie di aglio selvatico e poche bacche che
nascevano spontanee sulla collina.
Per bere dovevano portare l’acqua da una fonte lontana circa dieci chilometri
dal villaggio. Un terzo dei bimbi moriva nei primi tre anni di vita. Non avevano
mai visto un dottore, o una medicina.
Feci un sopralluogo con alcuni agronomi dell’ashram di Gandhi ed un idroge-
ologo amico di mio fratello.
Con nostra sorpresa scoprimmo che vi era la possibilità di scavare un pozzo
nella valle e a una profondità di 180 metri attingere acqua e portarla con delle
pompe sulla cima della collina per distribuirla poi per gravità ad ogni famiglia
del villaggio e ad ogni piccolo appezzamento di terreno. Il Mahatma Gandhi,
nella sua riforma agraria del 1948, aveva diviso il terreno dell’India in tanti
piccoli campi che vennero dati in proprietà agli adivasi, i contadini locali.
Il lavoro ebbe successo. Un grande getto d’acqua uscì dal terreno della valle
e fu mandato ad un serbatoio fatto costruire sulla cima della collina rifornito
permanentemente da due pompe idrauliche a motore diesel. Ognuno poteva
attingere dal serbatoio che rimaneva comunque sempre pieno.
L’acqua sarebbe fluita nei singoli campi solo se le cunette fossero sempre puli-
te e profonde a sufficienza per garantire l’afflusso di acqua necessario, e questo
avveniva con un lavoro costante degli adivasi.
Tutto all’inizio procedette perfettamente. Ma con l’andar del tempo i più labo-
riosi, i più costanti nell’assolvere i loro impegni continuarono a ricevere acqua
abbondante e quindi a raccogliere i prodotti delle loro coltivazioni: vegetali,
frutta e erba per la vacca. Coloro i quali non curavano le loro cunette comin-
ciarono a ricevere meno acqua dal serbatoio ed il loro prodotto cominciò a
scarseggiare.
Costante dovrebbe essere anche per noi la cura dei condotti che portano la
Grazia nei nostri strumenti di conoscenza, la mente, l’intelletto, il corpo; attra-
verso i quali, la Grazia può far fruttificare il nostro impegno. Noi saremo gli
artefici della nostra realizzazione attraverso l’uso delle pratiche spirituali che
secondo tutte le tradizioni dovrebbero essere utilizzate per lungo tempo, senza
interruzione e con amore.

256
Spesso riteniamo essere lo scopo della vita quello di fare grandi
opere, di conseguire strepitose realizzazioni, mentre invece ci
viene richiesto solamente di essere ciò che siamo e di fare al
meglio ciò che dobbiamo fare.
Dio esige un fedele adempimento delle più piccole incombenze
affidateci, anziché la più ardente aspirazione a cose alle quali
non siamo chiamati. (S. Francesco di Sales)
Oh amico serba la speranza di Lui, mentre vivi, perché nella
vita sta la liberazione. Se i tuoi vincoli non sono infranti mentre
vivi quale speranza di liberazione vi può essere dopo morti? E’
solo un sogno vuoto che l’anima debba unirsi a Lui solo perché
ha lasciato il corpo. Se Egli è trovato ora, Egli è trovato allora.
Altrimenti andiamo solo ad abitare nella casa dei morti. (Kabir)
Nel mondo a venire non mi si chiederà: “Perché non sei stato
Mosé?”. Ma mi si chiederà: “Perché non sei stato Sussja?” (Rab-
bi Sussja – rabbino chassidico)

Eppure la maggior parte degli uomini vive senza conoscere lo scopo della vita
e coloro che dovrebbero insegnarlo, dovrebbero indicarlo, non sono in grado di
farlo perché non lo conoscono, o non sanno come raggiungerlo.
Sembra che Goethe abbia detto al suo maestro che gli spiegava come dovesse
giocare il gioco della vita: “Ma come facciamo a giocare quel gioco se non mi
hai indicato la porta dove fare goal?”
Parte degli ostacoli che si incontrano sul cammino della realizzazione dello
scopo della vita non è costituita da difficoltà reali, ma piuttosto da problemi
immaginari, da schemi mentali, da tradizioni consolidate, da pregiudizi di na-
tura emotiva tipici della funzione dell’Ego nella nostra mente. Il mio Guru
ci dice spesso che la realizzazione spirituale è soltanto trovare la via che Dio
vuole per noi e seguirla.
Spesso il cammino della realizzazione dello scopo della vita è ritardato da una
strana idea che, piuttosto di vivere i nostri anni nella direzione del nostro rico-
noscimento, pensiamo di doverci preoccupare invece della salvezza degli altri
o di quella del mondo in generale.
Nascono così i movimenti, le organizzazioni, le chiese, i califfati, le missioni.
Bisognerebbe ricordare che Gesù non ha detto: “Ama il prossimo tuo”, ma ha
detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Il termine di paragone del no-
stro amore per gli altri, nell’insegnamento di tutti i grandi Maestri, nasce dalla
conoscenza di noi stessi, dall’amore per la nostra natura divina che viene, in

257
seguito, riconosciuta negli altri.
Bisognerebbe quindi arrivare a sacralizzare tutti gli aspetti della vita, anche al
di là dei momenti rituali, in ogni sguardo, in ogni respiro, in ogni gesto, in ogni
pensiero, in ogni azione, in una sorta di preghiera perenne non espressa in pa-
role, ma sentita nella più profonda espressione della nostra natura essenziale.
Nella Bhagavad Gita il Signore Krishna dice: “All’inizio dei tempi, il Signo-
re delle creature, creando gli esseri insieme al sacrificio390, disse: Per mezzo
di questo sacrificio genererete (vita). Che (il sacrificio) sia per voi la vacca
dell’abbondanza”.391
Dice Meister Eckhart: “Bisognerebbe pregare con totale focalizzazione. Si do-
vrebbero avere tutte le membra, gli occhi, le orecchie, la bocca, il cuore e tutti i
sensi tesi nella preghiera e non dovremmo fermarci prima di avere l’impressio-
ne di divenire uno con colui che è presente mentre lo preghiamo, cioè Dio”.392
Vi sono due storie molto belle nella tradizione dell’Islam che indicano le diffi-
coltà nel seguire questa strada.
L’una dice che vi erano due fratelli, uno eremita ed un altro sultano. L’eremita
mandò un suo discepolo al fratello sultano con gli auguri per il suo complean-
no. Il discepolo compì la missione, ma restò stupito come, in un avvenimento
così pubblico come il suo compleanno, il sultano, circondato da ricchezze, da
onori, da regali, da donne bellissime, da simboli del potere e da riconoscimenti
mondani, riuscisse a conservare il pensiero sempre rivolto ad Allah.
Il sultano volle conoscere dal discepolo il modo di vita del fratello eremita e
poi commentò: “che tristezza, mio fratello pensa ancora alla vita di palazzo che
ha lasciato di sua volontà”.
La seconda racconta di un altro eremita, così perseverante nella ricerca spi-
rituale, che riteneva di non avere nemmeno il tempo per alzarsi dal posto per
andare a mangiare. Aveva quindi incaricato il fratello di portargli il cibo ogni
giorno per facilitargli il cammino verso la realizzazione. Giunse in paese il Ma-
estro dell’eremita che, vedendo la situazione, domandò al suo discepolo: “per-
ché fai questo? Chi credi che avrà più merito presso Allah, tu o tuo fratello?”
La costante relazione con l’unico Principio divino da cui tutto deriva e al quale
solo possiamo riferirci nella speranza di ritrovare, prima in noi, e poi riportare

390 Sacrificio, non nel significato totalmente distorto che la nostra tradizione ci propone, ma
nel senso di “sacrum facere”
391 Bhagavad Gita – III.10. L’abbondanza é la realizzazione dello scopo della vita che nella
tradizione indiana é composta da quattro raggiungimenti: Dharma : la verità; Artha : la
ricchezza; Kama : il piacere; Moksha : la liberazione.
392 Meister Eckhart – Traites et Sermons – Edition Flammarion, pag.79

258
agli altri, l’esperienza vissuta di quella “armonia universale” dalla quale l’uo-
mo si è allontanato per vivere la propria espressione di vita nella molteplicità.
Un libro, cripticamente intitolato “Il tuono, la mente perfetta” contiene una
bellissima poesia dedicata ad una presenza divina femminile che parla in prima
persona:

“Io sono la prima e l’ultima,


sono l’onorata e la disprezzata,
sono la prostituta e la santa,
sono la sposa e la vergine,
sono la sterile e molti sono i miei figli,
sono il silenzio che è incomprensibile,
sono l’espressione del mio nome”393

IL VALORE DELLE DIVERSITA’


Con questo mio discorso non voglio assolutamente intendere o incoraggiare
una “fratellanza” dimentica dei principi propri di ogni fede religiosa o di ogni
cammino spirituale, né, ancor meno, ricercare un inutile e dannoso sincretismo
dottrinale. Desidero invece invitare ad avere un’esperienza intima dell’Unità
nella molteplicità, nella validità che esiste, e che riconosco in ogni espressione
rivelata, in ogni aspetto manifesto di quella Verità che è una e la stessa per
tutti.
Non si tratta, quindi, di cercare compromessi o ritenere di poter ricondurre le
varie posizioni dottrinarie delle differenti religioni ad estinguersi in una nega-
zione del valore delle differenze, ma di riconoscere, invece, che la vera natura
di tutti i cercatori di Dio, qualunque strada percorrano, è una ed una soltanto e
che la mèta è già nella strada stessa fin dall’inizio dei secoli.
Questo spegnerebbe quella sete atavica di sentirsi migliori di altri, il popolo
eletto, i depositari di antichi e nuovi “patti”, nuove ed eterne alleanze, in una
crescita smisurata, e purtroppo sempre esistente, di ego spirituale che è, a mio
parere, non solo la causa di antichi e recenti massacri di esseri umani, che sono
giunti a cancellare dalla faccia della nostra terra interi popoli nel nome della
nostra o dell’altrui religione, ma anche la forma egoica più deleteria e più dif-
ficile da destrutturate in vita, ma anche in morte.
Si racconta a questo proposito la storia di un santo rabbino, di un sacerdote
ebreo che tanto bene aveva fatto alla sua comunità, e che si ritrova, dopo morto

393 “Il tuono, la mente perfetta” – cap.IV 13–16

259
al cospetto di Dio che lo loda per la sua vita condotta nella realizzazione della
“Legge” e del bene del suo prossimo. Il rabbino rifiuta ogni elogio perché vive
un grave senso di colpa dal quale non riesce ad uscire: il suo unico figlio si
è fatto cristiano. Dio cerca di confortarlo, ma il buon uomo torna ancora ed
ancora su questo, per lui, terribile episodio che dimostrerebbe, a suo giudizio,
che non è stato né un buon padre, né un buon sacerdote. Continua a ripetere a
se stesso e a Dio che il suo unico figlio si è fatto cristiano.
Ormai stufo di questa lamentela continua anche Dio perde la pazienza e gli
dice: “Ora basta, sappi che duemila anni fa anche in mio unico figlio si è fatto
cristiano”.
Vorrei ricordare ancora il discorso dello Shaykh Al–Alawi al suo medico fran-
cese il quale sosteneva che tutte le credenze si equivalgono.
“Si equivalgono solo se si considera l’appagamento. Ma vi sono dei gradi: al-
cuni uomini sono appagati con poco, altri sono soddisfatti con la religione, altri
reclamano di più. Per costoro ci vuole non solo l’appagamento, ma la grande
pace, quella che conferisce la pienezza dello spirito”.394
In ogni parte del mio libro vi è una sola speranza, riuscire a risvegliare, almeno
in alcuni, la ricerca di una Realtà trascendente, l’anelito verso una realizza-
zione spirituale, verso una conoscenza, possibile solo se gli schemi mentali,
nei quali viviamo, vengono trascesi in una esperienza nella quale l’Illimitato,
il Supremo, si rivela come la nostra vera natura più intima. Questo è possibile
solo se entriamo in uno stato dove le differenze riconoscono la loro Unità e nel
quale il senso di limitazione e di appartenenza si sia completamente dissolto.
Allora la conoscenza non è più strutturata in un cammino specifico, ma nell’uo-
mo stesso, in quella esperienza che i Padri della Chiesa chiamavano Sophia
perennis, che l’Islam chiama Al–din al–qayyim, la Realtà immutabile, che lo
Yoga chiama Atma jnana, la conoscenza del Divino nell’umano.
Vi deve essere una “conversione al centro del nostro essere”, un entrare nel
cuore che è la dimora della Luce divina, la realizzazione della frase di Gesù:
“Il Regno di Dio è dentro di voi”.
“Dio divenne uomo perché l’uomo divenga Dio” dice il grande Attanasio, uno
dei padri della chiesa.395
Questa è la vera “guerra santa”, il “Jihad” degli islamici, la via della “sadhana”
dei sentieri esoterici orientali.
Monoimo, il Maestro gnostico dell’Asia minore (140–190 d.C) dice: “Abban-

394 Martin Lings – “Un santo sufi del ventesimo secolo”– Ed. Mediterranee 1994
395 Catechismo della Chiesa cattolica – capitolo II°

260
dona la ricerca di Dio, della creazione e di altre questioni dello stesso genere.
Cercalo prendendo te stesso come punto di partenza. Impara chi è dentro di
te e rendi ogni cosa sua propria dicendo: “Mio Dio, mia mente, mio pensiero,
mia anima, mio corpo”, (…) conosci la fonte del dolore e della gioia, dell’amo-
re e dell’odio (…) se indaghi attentamente queste questioni lo troverai in te
stesso”.396
Ippolito, cristiano di lingua greca del terzo secolo, conosce queste esperienze
orientali e le riporta: “C’è tra gli indiani chi fa filosofia in mezzo ai bramini,
conduce una vita autosufficiente, astenendosi dal mangiare creature viventi
(…) dicono che Dio è luce, non come la luce che si vede, né come il sole o
il fuoco, bensì, per loro, Dio è discorso, non quello che trova espressione in
suoni articolati, ma quello della conoscenza diretta per cui, tramite il silenzio
vibrante all’interno di se stesso, il saggio percepisce tutti i segreti della propria
essenza divina e della natura”.397
Gesù disse a Tommaso: “Esamina dunque e riconosci chi sei tu (…) Mentre ora
cammini con me, benché tu di ciò non sia conscio, tu hai già conosciuto e sarai
chiamato per questo conoscitore di te stesso. Colui che di fatto non si conosce
non ha conosciuto nulla, chi però si è conosciuto è pure venuto a conoscenza
della profondità del Tutto”.398
Il grande poeta DiJalal–al–din Rumi ci racconta questo episodio della sua vita
e del dono della conoscenza che ha ricevuto dal suo Maestro Ali–al–Jawal:
“Quella notte ho chiesto a Dio la conferma della mia intenzione (di divenire
discepolo di Ali–al–Jawal), ed ho passato l’intera notte pensando come sareb-
be stato il nostro incontro. Quando venne il mattino sono andato a trovarlo nel
suo zawiyah399, nel quartiere di Rumaylah, situato tra le due città di Fez, sulla
riva del fiume dove ora vi è la sua tomba. Ho bussato al portone. Egli era là,
davanti a me, che puliva la sua zawiyah, come faceva di solito, malgrado la
sua età e la sua posizione spirituale.
“Cosa vuoi?” mi chiese. “Oh, mio Signore – risposi – voglio che tu mi prenda
per mano nel cammino verso Dio”.
Cominciò a rimproverarmi furiosamente, nascondendo il suo stato ai miei oc-
chi, con parole come queste: “Chi ti ha detto che io tenga per mano qualcuno,
e perché poi proprio te?” e mi cacciò via.
Tutta la notte ho chiesto a Dio di ispirarmi, ancora una volta, tramite la let-

396 Ippolito – Refut – Cap.VIII° 15–12


397 Ippolito – Refut – Cap. IX° 1–24
398 Libro dell’atleta Tommaso – II° 138–7.18
399 Zawiyah: l’ashram, la residenza, il Guru Kula, la scuola dei maestri sufi.

261
tura del “libro sacro”, poi dopo la preghiera del mattino sono tornato alla
zawiyah. Ho trovato il Maestro che stava pulendo. Ho bussato al portone. Mi
ha aperto e mi ha fatto entrare. Gli ho detto: “Prendimi per mano sul sentiero
verso Dio”. Allora mi prese per mano e mi disse: “Benvenuto”. Mi fece en-
trare nella sua abitazione, nella parte più interna del suo zawiyah, mostrando
grande gioia. “Mio Dio – gli dissi – ho cercato un Maestro così a lungo”.
“Egli mi rispose: “Io ho cercato così a lungo un vero discepolo”.

Lo scopo della vita umana, lo ribadisco ancora, è uno solo, superare il senso di
separazione che ci divide dalla nostra vera natura divina.
Se la conoscenza dello scopo è facile, non sempre il cammino è altrettanto
agevole. Avere un Maestro non significa, automaticamente, essere preso per
mano da Lui, e percorrere con Lui il cammino della conoscenza. L’uomo ha
il privilegio di essere libero, di scegliere il cammino che vuole percorrere, se
percorrerlo e come. Il Maestro non ci costringe a camminare con Lui, ma ci in-
dica, a volte con amore e compassione, a volte con severità e chiarezza, a volte
in maniera espressa, a volte nel silenzio, a volte con lodi, a volte con biasimi,
la direzione verso la Luce divina.
Non è difficile trovare un Maestro. Non sono molti, è vero, ma vi sono sempre
stati, di tempo in tempo e di luogo in luogo. Vi sono anche ora. Quello che è
assai più difficile è trovare un discepolo, un vero discepolo che abbia la forza,
la convinzione, e soprattutto la costanza di seguire il Maestro sul cammino
della destrutturazione dei propri limiti, nel processo della rinuncia a ciò che
teniamo di più e cioè i nostri schemi mentali.
Questo è lo scopo della vita e la destinazione è il ritorno alla nostra unica casa,
alla dimora originaria, e ci dicono i Maestri che, quando raggiungeremo questa
destinazione suprema, ci accorgeremo che il cammino è stato solo una illusio-
ne, in realtà non vi è mai stato né cammino né mèta, siamo sempre soltanto
stati “Quello”.

La vita umana è una rara conquista. Il suo scopo è conoscere


l’Atman (il Divino nell’umano) conoscendo il quale non è più
necessaria ulteriore conoscenza. Tutti devono realizzare che il
Divino è al loro interno. Dio è nel vostro cuore, voi siete la sua
incarnazione. Voi siete Lui, ma non lo sapete. Vi è un velo di
ignoranza che vi separa da Dio. Rimuovete quel velo.
Il microcosmo è il macrocosmo. L’individuo è l’universale. Dio
dimora in ogni cosa e in ogni essere umano, per quanto piccolo,

262
nella sua interezza e perfezione. Pensate non in termini di indi-
vidui, ma sempre in termini di universale. Fate ogni cosa avendo
presente Dio, allora il vostro senso dell’ego svanirà e realizze-
rete che siete lo spirito universale, senza cambiamenti, eterno,
infinito. Questa è la nostra mèta.
La vita vi è stata data per essere al servizio di tutti. L’espansione
dell’individuo nell’universale è possibile quando il pensiero di
Dio domina la vostra mente, quando l’amore di Dio riempie il
vostro cuore ed il volere di Dio governa le vostre azioni. Do-
vunque vediate qualcuno dovreste vedere non solo la sua forma
esterna ma anche la Realtà che dimora in lui. Questa è la vera
visione. Questo soltanto vi renderà liberi dal senso delle diver-
sità e vi permetterà di realizzare l’unità e la unicità di tutto ciò
che è esistente. Non dovreste vedere Dio solo nei luoghi e nelle
persone sante, ma in tutti, dovunque, anche nel mercato. Dovre-
ste sentire la divina presenza in voi come voi.
Il sentiero è semplice, diretto e facile. Ricorda l’Amato con tutto
l’amore del tuo cuore. In quel momento sarete pieni di gioia.
Non vi sarà sforzo dolore o lotta. Quando voi cercherete Lui,
Lui cercherà voi nel tempio del vostro cuore. Lasciate che il suo
amore vi permei e vi assorba completamente. La Verità che cer-
cate è l’essenza della vostra anima. La vostra Realtà è realizzata
nella trascendenza. La Verità è la totalità della vita all’interno e
all’esterno, ed essa è anche lo scopo della nostra vita. (Swami
Ramdass)
Possa io dare alla mia vita il significato più alto, anche se molti
vivono la vita per raggiungimenti che non durano, anche se i più
vivono addirittura la vita senza darle un significato. (Platone)
Questo è il mio credo e il mio amore: vedere la bellezza della
creazione e vedere Dio in essa. (S.Bonaventura)

Le Upanishad dicono con grande solennità “Conosci l’Unico, Il Supremo,


l’Essere immortale”.
Questo è il fine ultimo dell’uomo, trovare l’Unico che è in lui, che è la sua
Verità, l’essenza della sua anima.
Molti sono i desideri dell’uomo. Tutti inseguono i più disparati oggetti di que-
sto mondo nei quali trovano la loro esistenza e la loro soddisfazione. Ma, che
l’uomo ne sia consapevole o meno, la parte più preziosa di lui è sempre in

263
cerca di quell’Unità. Crede di raggiungerla nell’unità della nazione, nell’unità
del gruppo, nell’unità della squadra, nell’unità dell’amore fisico, ma tutti que-
sti raggiungimenti danno all’uomo solo una soddisfazione temporanea, perché
sono tutti impermanenti. Egli troverà la sua più alta gioia solo nel raggiungi-
mento dell’Unico infinito nella sua eterna Unità. Le Upanishad lo indicano con
chiarezza: “Soltanto coloro che hanno raggiunto la quiete della mente possono
ottenere la gioia eterna, conseguendo, nel loro più intimo, l’esperienza dell’Es-
sere che manifesta l’unica essenza nella molteplicità delle forme”.
L’Unico che dimora in noi come noi, per sua natura tende a voltarsi, sia pur fra-
stornato dalla grande varietà del creato, a ciò che è veramente Unico, perché è
Tutto, perché in Esso è la vera gioia che non ha i caratteri dell’impermanenza.

Naviga il vascello della tua vita verso la meta,


fermo, amorevole, continua a navigare con gioia.
L’acqua può essere a volte agitata o a volte può essere calma.
Tu rimani, comunque, con la tua direzione verso la mèta.
Il cielo ti può sorridere o può essere a volte oscuro e nuvoloso.
Tu rimani, comunque, con la tua direzione verso la mèta.
Il vento può soffiare aggressivo, o può essere una brezza favorevole.
Tu rimani, comunque, con la tua direzione verso la mèta,
fermo, amorevole, continua a navigare con gioia.400

QUANDO LA VITA DIVIENE VITA UMANA?


Ora si pone un interrogativo che negli ultimi anni ha creato non poche polemi-
che, ma che è sempre stato, specie nella nostra tradizione religiosa motivo di
discussione fin dal II secolo dopo Cristo.
Questo interrogativo è: quando l’anima entra nel corpo di un uomo? E’ un in-
terrogativo che pare solo una curiosità, mentre invece la sua soluzione è molto
importante per poter gestire al meglio, non soltanto il problema dell’aborto, ma
anche dell’uso delle cellule staminali embrionali.
Mentre il primo problema è sempre stato vivo per l’uomo il secondo si pone
oggi con la massima evidenza per la cura preventiva e anche curativa di malat-
tie che non trovano rimedi efficaci con i trattamenti in uso.
Senza aver la pretesa di esaurire qui l’argomento così complesso possiamo
tuttavia mettere alcune basi per ulteriori contemplazioni e ricerche.
Fin dal primo approccio al problema si intuisce subito che esistono due vie

400 Di–Jalal –al– din Rumi – La canzone della vita –

264
di approfondimento. Una è la via biologica che fissa quando la vita comincia
ad interessarsi della formazione di una mente umana, di un intelletto umano
e di un corpo umano; la seconda deve risolvere il grave problema di quando
l’anima entra in questa mente, in questo intelletto, in questo corpo perché è
evidente che il complesso dell’uomo è formato del suo sistema psico–fisico,
ma anche del suo complesso animico, quindi spirituale.
L’entrata dell’anima è contemporanea all’inizio della formazione di questo
straordinario mezzo che è il sistema psicofisico o è essa differita cioè avviene
in un momento successivo?
E’ indubbio che vi sia vita in ogni cosa sulla terra ed in questo universo. Vi è
vita nel mondo minerale, nel mondo vegetale, nel mondo animale ed ovvia-
mente anche nell’embrione dell’uomo. Ma non si può ritenere che vi sia la
possibilità animica nei primi tre mondi, minerale, vegetale e animale, perché
la possibilità animica è quella che porta il complesso che la riveste ad essere
prima di tutto consapevole della propria natura e poi capace di compiere quel
cammino di rientro verso l’unità con il creatore, che abbiamo visto essere la
sola ragione della vita umana.
Il minerale si forma su questo pianeta o nell’universo ed assolve il primo com-
pito. In questo compito vi sono già molte funzioni che assolve anche il regno
vegetale, ma non tutte. Così il vegetale vive il suo destino ed assolve le sue
funzioni tra le quali ve ne sono alcune che ritroviamo anche nel regno anima-
le, ma non tutte. L’animale, a sua volta, compie funzioni proprie ed alcune di
esse le ritroviamo anche nella vita dell’uomo. Ma l’uomo ha in più almeno
due possibilità e capacità che gli sono specifiche: quella di volere e quella di
discriminare.
Mentre le azioni animali sono guidate prevalentemente dalla natura e sono
specifiche di ogni razza e per ogni istinto; l’uomo ha invece la possibilità e
la capacità di decidere, di scegliere, di discriminare come vuole percorrere la
sua vita evolutiva nel suo corpo e nella sua mente. Queste prerogative sono
specifiche dell’uomo.
Di un’altra cosa sono certe tutte le tradizioni. La vita è eterna e quindi l’anima
non muore quando muore il corpo. Parlando di questo argomento una grande
scuola di pensiero dell’India ha detto: “L’anima non muore con la morte dei
corpi che la rivestono”.401
Si può quindi inferire che le anime esistano già prima di entrare in un corpo
umano. Quando e come esse siano lo vediamo nel prossimo capitolo, ma que-

401 Scuola teosofica dell’India.

265
sta entrata dell’anima nel corpo presuppone che l’anima già esista.
So che questo è stato un argomento assai controverso nella nostra tradizione
religiosa già dai tempi di S.Agostino. Diamo ad esso una breve attenzione.
Nella tradizione delle religioni monoteiste, l’ontologia sostanziale, quello che
noi chiameremmo: l’organismo, si completa in una ontologia relazionale. Noi
in altre parole diremmo che la personalizzazione di questa vita è data da un
legame con il Creatore che sceglie di chiamare quell’essere all’esistenza. Oggi
la chiesa cattolica insiste dicendo che la personalizzazione interviene al mo-
mento della fecondazione (animazione immediata). Vi è tuttavia una tradizione
assai più antica, che è viva tuttora, che dice esistere una fase pre–personale di
sviluppo e che Dio attende che il feto abbia realizzato uno sviluppo sufficiente
prima di proporgli la propria alleanza (animazione differita).
Per essere imparziali bisogna riconoscere che tra la fecondazione e la nascita
non vi è un accadimento biologico che ci permetta di dire con certezza quando
l’anima entra nel corpo, quindi quando la vita diviene vita umana.
Questa è la ragione per la quale sia la scienza che il diritto riconoscono la vita
umana solo al momento della nascita. Ad esempio se vi fosse un incidente
d’auto che causasse la morte di un feto di sette mesi, dunque già in teoria capa-
ce di vivere, non vi potrebbe essere incriminazione per omicidio colposo.
Affermare che la vita dell’uomo cominci al momento della fecondazione nega
di fatto che due gemelli omozigoti, che si sviluppano dalla separazione di un
singolo uovo fecondato in un momento successivo allo stato embrionale pos-
sano avere due anime, dovrebbero coabitare la stessa anima.
D’altra parte la teoria che la vita dell’essere umano cominci alla nascita non è
affatto più solida. Il feto di sei mesi pesa mediamente 800 grammi e potrebbe
vivere, anzi ha diritto a vivere di vita autonoma. Quindi potrebbe avere dignità
di vita umana.
La scelta di una data considerata come inizio di una vita che sia vita umana
deve avvenire soltanto per convenzione e perciò può essere contestabile e con-
testata. Non vi è nessuna possibilità scientifica di certificare quando una vita
diviene vita umana. Dipende solamente dalle varie culture sociali e religiose.
Certe tappe della vita embrionale possono comunque essere prese in conside-
razione nella ricerca del momento in cui l’embrione possa divenire persona
prima di divenire persona umana.
Lo stadio di otto cellule marca l’inizio di una certa individualità. Ciò avviene
al terzo giorno dal concepimento. Prima di questo stadio ogni cellula può dare
nascita ad un essere completo, compreso lo sviluppo della placenta. Dopo que-
sto stadio le cellule si differenziano tra cellule esterne e cellule interne.

266
Verso il decimo giorno l’embrione si impianta nell’utero. Inizia quindi una vita
relazionale con la madre. Solo nel momento in cui rompe l’involucro esterno,
al fine di impiantarsi nell’utero, l’embrione si divide in due. Questo è il mo-
mento in cui si può individuare se l’embrione, dividendosi in due, darà origine
a gemelli omozigoti, aventi una sola placenta. Qui, effettivamente l’afferma-
zione che l’anima entri nel corpo al momento del concepimento diventa estre-
mamente azzardata. Uno dei due dovrebbe restare senz’anima, o condividere
l’anima del fratello.
Il Professor Stefanini, dell’Università di Roma, porta la propria e la nostra
attenzione su questa realtà dell’inizio della gestazione quando nell’Enciclope-
dia Cattolica (1951) scrive: “L’anima è individuale. L’individualità dell’uovo
fecondato non è affatto irrevocabilmente stabilita. Spesso l’uovo si divide e
forma due o tre embrioni distinti”.
Un’altra data estremamente significativa, forse la più importante rispetto a
quelle esaminate finora, è quella che va dalla 11° alla 14° settimana. Essa corri-
sponde a quello che viene considerato il passaggio tra embrione e feto. Questa
vedremo è la data più significativa nella quale molti saggi di tutte le tradizio-
ni, compreso il più grande maestro teologo della nostra religione, Tommaso
d’Aquino, fissa come l’ingresso dell’anima nel corpo, intorno al 40° giorno di
gravidanza.
A partire dalla 12° settimana gli aborti spontanei divengono rari. I medica-
menti pericolosi per le malformazioni non presentano più rischi. La silhouette
dell’embrione comincia a prendere forma umana. E’ verso la 12° settimana che
inizia la migrazione di 80 miliardi di neuroni verso la loro localizzazione de-
finitiva che terminerà al sesto mese di gravidanza (24° settimana). Prima della
12° settimana i neuroni non hanno attività. Se la fine della vita è determinata
oggi dalla scienza medica (e accettata senza batter ciglio dalla nostra religio-
ne) dalla fine dell’attività cerebrale, si dovrebbe ammettere che l’inizio della
vita corrisponda all’inizio dell’attività neuronale e dunque della coordinazione
dell’organismo per la formazione del nuovo cervello. L’assemblamento neu-
ronale è l’origine della capacità relazionale del futuro neonato con ciò che è
all’esterno di lui. Non per nulla la 14° settimana è anche la data che la mag-
gioranza dei paesi considera un limite per l’autorizzazione all’interruzione di
gravidanza. Un’altra data, come abbiamo visto, di estrema importanza è il 6°
mese, decisiva per la vita autonoma del feto. In Giappone si ammette l’aborto
fino alla 24° settimana di gravidanza.
Quindi nessun biologo può dare una risposta quando abbia inizio il mutamento
tra vita e vita umana. Come abbiamo detto è una questione di convenzione

267
sociale e religiosa.
Passiamo ora a vedere ciò che dicono le maggiori vie spirituali e religiose.
L’Induismo ritiene che l’anima individuale (Atman) prenda possesso del corpo
umano al momento del primo respiro. Così pensa, secondo la Bibbia, anche
la corrente più ortodossa dell’Ebraismo. Nella tradizione Cabbalistica invece
si ritiene che l’anima prenda possesso del suo mezzo umano al 7° mese. La
stessa data è ritenuta anche valida per il Vedanta, il sesto dei sei sistemi filo-
sofici dell’India. Una descrizione molto chiara della tempistica è nella Garbo
Upanishad. Lo Yoga tende ad accettare invece il periodo tra la 12° e la 14°
settimana (3° mese). Nell’Hatha Yoga Pradipika si sconsiglia pertanto un’at-
tività di asana prima del 3° mese. Nel Buddhismo vi sono più correnti. Alcu-
ne (Buddhismo tibetano) contemplano che l’anima entri nell’embrione al 14°
giorno di gravidanza.

LA VITA UMANA E LA CHIESA CATTOLICA


Ma che dice invece la nostra tradizione?
La discussione sulla natura dell’essere umano comincia nella Chiesa Cattolica
con la costruzione della Chiesa stessa. Dobbiamo però ricordare che la Chiesa
non è nata con Cristo, ma molto dopo, come abbiamo più volte ripetuto, sulla
base dell’insegnamento, non di Gesù, ma di Paolo di Tarso. Né Cristo, né gli
Apostoli hanno istituito una Chiesa centrale che governasse e dettasse legge
sulle varie Chiese. I precetti nascono e si rivelano nelle lettere di Paolo. Gesù
predicava invece di trovare il Regno di Dio “dentro di noi”, di trovare l’amore
in noi, per poterlo dare agli altri: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. L’amo-
re interiore è il metro per l’amore espresso e praticato.
La Chiesa, non avendo più contatto con questo insegnamento primario, si di-
lania fin dai primi secoli su argomenti di tutt’altro respiro, nella maggior par-
te argomenti intellettuali, che sollecitano le menti in una serie di acrobazie
spesso contrapposte. L’oggetto della ricerca invece di essere la natura divina
dell’uomo diviene: la trasmissione del peccato originale; la differenza tra uo-
mini e donne e tra altri animali, disquisendo se le donne potessero o no avere
un’anima; la possibilità o meno della preesistenza dell’anima; l’unicità e la
ripetitività dell’esperienza del Cristo; la verginità della Madonna; il celibato di
Gesù; la condanna dell’omosessualità. Questo perché anziché vedere l’uomo
come espressione divina, come immagine di Dio, come portatore della grande
energia dell’Amore, lo si comincia subito a vedere come portatore di peccato
(non parliamo delle donne), come fondamentalmente malvagio, come prigio-
niero di satana, come infimo e limitato, perché maledetto da Dio.

268
Il contatto con la vera natura divina è perduto ed ecco allora giungere, conti-
nua e insistente, una serie di precetti, di regole, di imposizioni, di negazioni,
di divisioni, di anatemi, di condanne, di scomuniche, formulate dalla classe
sacerdotale che la nuova Chiesa, in contrapposizione al messaggio originale di
Gesù, ha riformato. Nelle prime chiese cristiane, cioè comunità di devoti, non
vi era una classe sacerdotale per il semplice fatto che gli unici veri anatemi, le
uniche vere condanne che Gesù ha formulato sono state proprio per i sacerdoti,
come abbiamo già visto nel Vangelo di Matteo.
Bisognerebbe che ancor oggi si contemplasse la frase di Isaia rivolta ai sa-
cerdoti: “Invano essi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di
uomini”.402
Si deve arrivare al XIII secolo per avere tra i Padri della Chiesa una posizione
più o meno unitaria che durerà fino ai giorni nostri.
Chi ha stabilito un principio che ha fatto scuola ed è tuttora, come vedremo qui
appresso, maestro in materia, è stato Tommaso d’Aquino con una esposizione
che è nota in teologia come animologia. Vi è per Tommaso una precisa distin-
zione di fasi differenti e distinte nello sviluppo della persona umana.
La prima fase è chiamata vegetativa e inizia dal concepimento. Segue poi uno
stadio detto animale finito il quale, comincia la fase chiamata sensitiva, alla
quale segue la fase razionale nella quale il feto dotato di “una certa organizza-
zione” riceve l’anima che viene insufflata da Dio nel corpo umano. A quel pun-
to l’anima diviene intellettiva. Comincia qui il cammino della identificazione
dell’anima sia con la sua natura umana che con il suo aspetto più profondo nel
quale di identifica con l’immagine divina.
Malgrado si sia evidenziata nel XVII secolo una nuova teoria detta della pre–
formazione che prevede la presenza dell’anima già nelle prime fasi dello svi-
luppo del così detto Homunculus “un uomo piccolo, già completamente forma-
to e destinato a crescere”, la esposizione di Tommaso è rimasta primaria nella
nostra tradizione religiosa.
Vorrei ora ricordare che le fonti della divina Rivelazione sono in tutte le tradi-
zioni, compresa la nostra, la sacra Scrittura e la tradizione.
Ebbene, cosa dice la Sacra Scrittura in proposito? Non è vero, come oggi si
tende a comunicare alla gente che la Bibbia non dica nulla. Essa dice poco,
ma quel poco a me pare molto chiaro e più che sufficiente a sostenere quanto
è chiaramente rivelato.
Essa dice nella Genesi: “E Dio fece l’uomo dalla polvere della terra. Gli soffiò

402 Vangelo di Marco – 7.7

269
nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne anima vivente”.403
Esaminando questa rivelazione si evidenziano due realtà:
1. Le frasi indicano una tempistica diversa. Prima Dio forma l’uomo dalla
polvere della terra e poi soffia in lui un alito vitale ed egli diviene anima che
vive nel corpo dell’uomo.
2. La seconda realtà conferma e rafforza le prima ed è che Dio soffia nelle
narici un alito vitale. Le parole hanno un senso e non sono scelte dal veg-
gente a caso. Si parla di narici, non di un soffio che entra in maniera generica
nell’uomo. No! Il soffio entra attraverso le narici. Questo non lascia spazio
ad interpretazioni. Le narici presuppongono una fisicità ben formata. Sarà
difficile trovare le narici nell’embrione, o peggio al concepimento.
La seconda affermazione della Bibbia è sempre nella Genesi: “Dio creò l’uo-
mo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina li creò”.404
Forse non è un caso che il sesso si riveli nel feto intorno alla 14° settimana,
data in cui molte tradizioni, come abbiamo visto, dicono che l’anima entri nel
corpo.

Anche Dante nel Purgatorio sposa questa tesi che lui chiama “la Verità”:
Apri alla Verità che viene il petto,
e sappi che, si tosto come al feto
l’articular del cerebro è perfetto
lo Motor Primo a lui si volge, lieto
sovra tant’arte di natura, e spira
Spirito nuovo di virtù repleto.405

3. La terza è di S. Paolo: “Se infatti c’è un corpo naturale, vi è pure un corpo


spirituale (…) Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello naturale e poi
lo spirituale. Quel che è spirituale viene dopo”.406
Anche qui non vi può essere fraintendimento. E’ evidente che non vi può
essere contemporaneità, ma due tempi diversi.
Questa affermazione in qualche modo l’aveva già scritta S. Agostino:
“L’anima può avere la somiglianza di un corpo, somiglianza che non è cor-
porea, ma qualcosa di simile a un corpo”.407

403 Bibbia – Genesi – 2.7


404 Bibbia – Genesi – 1.27
405 Dante – Divina Commedia –Purgatorio – XXV.67
406 S.Paolo – lettera I° Corinzi – 15.46
407 S. Agostino – De Genesi ad litteram –12.33.62

270
Torniamo ora alla tradizione cattolica, che segue, in ordine di tempo, le affer-
mazioni della Summa teologica di S.Tommaso.
Nella seconda metà del XIX sec., l’animazione continua ad essere dibattuta
in maniera particolarmente vivace, perché si affaccia per la prima volta alla
scienza la richiesta dell’aborto terapeutico. La biologia comincia ad avere basi
più solide. La scienza medica compie un salto di qualità ed inizia a manifestar-
si anche il materialismo.
In questo periodo il gesuita Padre Matteo Liberatore scrive uno studio di note-
vole spessore, intitolato Del composto umano (1862). Egli scrive: “Per sfuggire
alle terribili conseguenze del materialismo, nato dallo spiritualismo cartesiano,
dobbiamo chiarire due questioni centrali e cioè: l’origine del pensiero e delle
idee e l’unione dell’anima con il corpo. La prima dà la chiave per la conoscen-
za umana, la seconda ci porge la formula dell’essenza stessa dell’uomo”.
Padre Liberatore divide quindi lo studio in due parti, composte di due volumi
ciascuna. Nella seconda parte relativa alla animazione del corpo umano, scrive
più volte che deve essere seguita la strada della Scolastica, che rivela: “l’armo-
nia delle dottrine filosofiche di S.Tommaso intorno all’uomo, con i dati delle
scienze naturali”.
Il lavoro di Padre Liberatore è importantissimo, in quanto contrappone la te-
oria della Chiesa, che si rifaceva a S.Tommaso, alla teoria materialistica, che
poneva l’inizio della persona umana alla fecondazione.
Quasi nello stesso periodo esce la Apostolicae saedis di Pio IX, che rivede le
punizioni per l’aborto.
Si occupa di questo argomento anche Antonio Rosmini che ha una grande con-
troversia con la Chiesa. Verrà riabilitato dal Papa solo di recente.
Nel 1951 Albino Luciani, il futuro Papa Giovanni Paolo I scrisse la sua tesi di
dottorato proprio su questo tema: “L’origine dell’anima umana secondo Anto-
nio Rosmini” esaminando i vari aspetti della questione: teologici, embriologici
e filosofici. L’opera è stata favorevolmente recensita da Civiltà Cattolica408 che
ne approvava in termini entusiastici la conclusione decisamente favorevole alla
esposizione tomistica, giudicata: “più che mai valida”. Una seconda edizione
dell’opera con l’aggiunta di una risposta alle critiche di autori rosminiani è sta-
ta pubblicata nel 1958, in cui si conclude “che la teoria della pre–formazione
(cioè dalla infusione dell’anima al concepimento) non è oggi che un curioso
ricordo storico, ma che anche al tempo di Rosmini era sorpassata”.
Un’altra opera di notevole interesse è la discussione di Hilaire de Paris, teolo-

408 Civiltà Cattolica 1952 – anno III – pag. 189–190

271
go, professore alla Sorbonne, intitolata L’animation immediate réfuteé – 1889.
Egli scrive: “l’anima prevede dunque il corpo, come l’abitante prevede la casa,
e come l’operaio prevede lo strumento. La materia propria dell’anima è il cor-
po organizzato, come dice S.Tommaso: est autem propria materia animae,
corpus organizatum (L’anima poi ha una sua propria materia: un corpo orga-
nizzato) – e ribadisce più tardi: non est agitur ante organizationem corporis
(non vi è dunque (l’anima) senza l’organizzazione del corpo)”.409
L’ultimo lavoro di questo periodo è del Cardinal Mercier, fondatore dell’Uni-
versità di Lovanio con la sua opera Psychologie 1885 nella quale ribadisce il
concetto: “l’anima è creata da Dio solamente nel corso della vita embrionale,
dopo che, di volta in volta, un principio di vita organica dapprima, e una vita
discriminativa poi, hanno dato all’embrione la perfezione della volontà”.
Ancora in questi anni Antonio Lanza, vescovo di Reggio Calabria, moralista e
teologo dei più celebrati ribadisce le tesi di S.Tommaso.
Desidero concludere con un’affermazione del più famoso filosofo cattolico
moderno Jacques Maritain che in uno scritto del 1967 scriveva che: “ammet-
tere che il feto umano, dall’istante della sua concezione riceva l’anima intel-
lettiva, quando la materia non è ancora in nulla disposta a questo riguardo è, ai
miei occhi, una assurdità filosofica”.

Mi sorge spontanea una considerazione: fino a qualche decennio fa erano i


materialisti (atei e mangiapreti) a sostenere che la soluzione dei problemi della
vita andava trovata su basi scientifiche e si doveva lasciar perdere la metafisica
e la spiritualità. I cattolici replicavano (a ragione) che la scienza, non solo non
è arrivata, ma non arriverà mai a definire alcunché sull’anima, perché non può
essere dotata di strumenti di ricerca così raffinati come l’essenza animica.
Oggi, con mio grande divertimento, tutto si è capovolto. La Chiesa con il suo
“Comitato Scienza–Vita” fondato per la difesa della legge 40/2004 afferma
che S.Tommaso è vecchio, come tutta la scuola Scolastica, e lo sono ancora di
più S.Agostino e la Patristica, e quindi si deve trascurare qualsiasi deduzione
filosofica o metafisica e attaccarsi alla scienza. I Laici oggi sottolineano invece
che quello della animazione resta il problema centrale che distingue la vita dal-
la vita umana, e che questo è quindi un problema metafisico e che la metafisica
è quindi non solo rilevante, ma imprescindibile.
Giovanni Sartori con il suo fine umorismo ricorda con grande efficacia che i
cattolici non sottolineano a sufficienza la differenza tra vita e vita umana, che

409 S.Tommaso – Contra Gentiles – II°.89

272
dipende proprio dalla presenza dell’anima. “D’altra parte – egli dice – nessuno
che mangia un uovo può dire che ha mangiato un pollo, e quando mangia del
caviale nessuno direbbe di aver mangiato cento storioni”.
Mi sono dilungato forse eccessivamente nell’esame di quando la vita diviene
vita umana, ma questo studio è essenziale per chiarire che non vi sono misteri
nel segreto della vita, vi è solo una diversità di opinioni sulla tempistica di
ingresso dell’anima nel corpo. Tutto il resto è assai chiaro e ci rivela che il
“mistero della vita” non è nemmeno più un “segreto”.
Mi piace terminare il capitolo sul “mistero della vita” con una poesia di Ra-
brindranath Tagore:

Dove, solo, veglia nascosto il Dio della vita?


O fedele, apri la porta, oggi voglio vederLo.
Chi è che io cerco tutto il giorno
camminando per le strade del mondo?
Alla fiamma della tua vita
io accendo la luce della mia vita.410

410 Rabrindranath Tagore – Canti di offerta.

273
CAPITOLO X
IL MISTERO DEL RESPIRO
Sono solo una fessura in un flauto
attraverso il quale fluisce
il respiro del Cristo.
Ascolta questa musica!
Sono il concerto che esce dalla bocca
di ogni creatura
che canta con miriadi di corde.
Hafiz411

Il respiro è lo strumento che unisce la vita individuale alla vita cosmica, che
collega il flusso della vita individuale all’eterna esistenza.
Il respiro permette alla vita, così come l’abbiamo vista nel capitolo VII e nel
capitolo IX di questo lavoro, di fluire dall’oceano cosmico dell’Essere verso
l’uomo, di rendere attivi i suoi strumenti relativi: il corpo, in tutte le sue com-
ponenti essenziali, la mente come la meravigliosa manifestazione del pensiero
e l’intelletto come lo strumento indispensabile per acquisire la conoscenza.
Tutto questo sistema è stato studiato da migliaia di anni da tutte le tradizioni
spirituali, è stato indagato a fondo e lo si è trovato formato da migliaia di ca-
nali chiamati “nadi”e da migliaia di centri, chiamati “chakra”, dove l’energia
primaria della vita, chiamata “Prana”, si differenzia, per creare, strutturare e
conservare in ogni condizione, in maniera ottimale l’intero sistema.
Il Prana era conosciuto non solo in oriente412, ma anche in Grecia dove il “sof-
fio vitale” era chiamato anemos, e a Roma nella parola latina anima. Entrambe
le parole sfruttano la stessa radice sanscrita ana.
413
Il Prana è la forza divina che dona la vita a questa creazione nata dagli ele-
menti (bhuta), che altrimenti sarebbero inerti.

E l’Eterno fece l’uomo dagli elementi della terra, gli soffiò nelle

411 Hafiz – The Gift – Ed. Pinguin pag.203


412 La radice della parola Prana è il fonema sanscrito ana che significa l’energia della vita
nel suo gioco di conoscenza. “a” è infatti il suono più aperto, senza limitazioni, la prima
lettera di tutti gli alfabeti, il suono dell’Assoluto che nega la propria Infinità nel limite “n”.
Il fonema “n” rappresenta infatti la negazione in tutti gli alfabeti; per ritornare dal limite
all’Illimitato “a”.
413 Cesare Boni – Dove va l’anima dopo la morte– Ed. Amrita
narici un alito vitale e l’uomo divenne anima vivente.
(Bibbia – Genesi – 2.7)
Quando Io l’avrò formato secondo la perfezione ed avrò insuf-
flato in lui il mio spirito (min–ruhi) cadete prosternati di fronte a
lui. (Corano – XV. 21 – XXXVIII. 72)
Dal Sé è nato questo Prana. Proprio come dove vi è un uomo
vi è la sua ombra, così il Prana è accoppiato al Sé. Egli viene in
questo corpo generando le azioni della mente.
(Prajna Upanishad – 3.3)

Anche nel Credo della religione cattolica si parla dello Spirito in questi termi-
ni: “che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed
il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti”.
Tutti gli elementi, di per sé inerti, nati dalla diversificazione della energia cre-
ativa, e combinati tra loro per formare la manifestazione nella quale vivranno,
ricevono il soffio divino.

Come Prajapati414 tu ti muovi nel grembo. Tu sei in verità che


rinasci. A te le creature recano omaggio, a te che risiedi (nel
corpo) insieme con i sensi. Tu sei il miglior sacerdote degli Dei,
tu sei la prima offerta per i Mani415.
Tu sei la pura condotta degli asceti, discendenti di Atharvan e di
Angiras416.
Per la forza tu sei Indra417, o respiro, tu sei Rudra418, il protettore.
Tu sei il sole che si muove nell’atmosfera. Tu sei il signore degli
astri.
Quando tu fai cadere la pioggia, o respiro, le creature si riempio-

414 Prajapati: “Signore della creazione”. L’Atharva Veda (XI. 4.12) identifica l’energia
creativa di Prajapati con il soffio vitale “prana”. Prajapati è la personificazione attiva
dell’Assoluto, produce, e quindi è spirito e materia; è il tempo nelle sue varie suddivisioni;
è cibo, donde si genera lo sperma e quindi tutte le creature.
415 Mani: E’ considerato un gioiello le cui forze hanno nell’Atharva Veda (I. 29, 1–6) le pro-
prietà di proteggere chi lo possiede, oltre a soddisfare ogni suo desiderio.
416 Noti veggenti autori di inni dell’Atharva Veda e del Rig Veda.
417 Indra: La divinità tutelare degli indo–ariani considerato il primo tra gli dei.
418 Rudra: Dio vedico della tempesta. E’ citato in numerosi brani del Rig Veda. Lo Svetasva-
tara Upanishad afferma che il solo Rudra non è colpito dalla dissoluzione dell’universo
(pralaya) alla fine di ogni era cosmica. In un secondo tempo fu identificato in tutto e per
tutto con Shiva.

275
no di gioia, pensando: “ci sarà cibo a volontà”.
Tu sei un Vratya419, o respiro. Tu sei l’unico saggio, sei colui che
tutto assorbe, sei il Signore dei buoni. Noi ti doniamo cibo, tu sei
il nostro Padre, o Matarisva420. Rendi sempre benevolo quel tuo
aspetto che si trova nelle parole, nell’udito, nella vista, nell’in-
telletto. Non allontanarti. Dal potere del respiro dipende tutto
ciò che nei tre mondi si trova. Proteggici come una madre i figli.
Procuraci felicità e saggezza. (Atharva Veda – XV.12.36)
Tutto ciò che vi è in questo mondo e anche tutto ciò che vi è in
cielo è sotto il controllo del Prana. (Prajna Upanishad – 2.3)

Questo fluire dello splendore, dell’energia, dell’intelligenza divina entra in noi


come Prana e sale al Sahasrar. Noi identifichiamo il Prana con il respiro, ma
questo è assai limitante per il Prana. Esso è ovunque nell’aria, nell’acqua, nel
fuoco e nella terra, nel cibo e nelle bevande, nel calore del sole, nella luce, nel
vento, nella pioggia, negli alberi e nei fiori, nei profumi, nei gusti e nei suoni.
Il Prana è tutto ciò che esiste. Esso sale al Sahasrar e prende dimora nel centro
più alto nel corpo sottile.

Quando un bimbo è creato dall’unione delle energie di un ma-


schio e di una femmina nel grembo della madre, la Shakti o for-
za divina forma per primo il Sahasrar nella testa e colà dimora.
(Dhyan Yogi Shri Madhusudandajdasji)

Di lì si distribuisce nel corpo sottile assumendo cinque forme diverse: Prana,


Apana, Samana, Vyana e Udana, a seconda delle funzioni che dovrà svolgere,
dando vita e azione ai vari centri.
E’ compito del luminoso Udana fare da veicolo e rischiarare la via attraverso la
quale l’uomo, divenuto solo anima, al momento della morte, ascende al mondo
degli eletti.

Lo splendore del fuoco è l’Udana. Perciò colui nel quale il ca-


lore vitale si è estinto, con i sensi concentrati nella mente, con i
pensieri che aveva al momento della morte, per mezzo di questo

419 I Vratya sono stirpi arie non brahmaniche ammesse nell’ortodossia soltanto dopo il compi-
mento dei riti propiziatori previsti nei primi canti dell’Atharva Veda.
420 Matarisva è il nome del fuoco e del vento: fuoco come “luce”, vento come “respiro”.

276
Udana, si ricongiunge all’energia vitale per avviarsi a nuove ri-
nascite. L’energia vitale, unita allo splendore, lo porta insieme
con l’anima nel mondo corrispondente ai suoi pensieri. (Prajna
Upanishad – 3.9)
Se si colpisse alla radice un grande albero, ne uscirebbe la linfa,
ma continuerebbe a vivere. Se si colpisse alla metà, ne uscireb-
be la linfa, ma continuerebbe a vivere. Se si colpisse alla cima,
ne uscirebbe la linfa, ma continuerebbe a vivere. In quanto è
compenetrato dalla forza vivificante, lieto se ne sta, bevendo
avidamente dalle radici. Ma quando la forza vivificante abban-
dona un ramo, questo secca. Se ne abbandona un altro, questo
secca. Se ne abbandona un terzo questo secca. Se abbandona
tutto l’albero, tutto l’albero secca. Proprio così, o caro, sappi che
qui muore ciò che è abbandonato dalla forza vivificante, ma non
è la forza vivificante che muore. Qualunque sia questa essenza
sottile, tutto l’universo è costituito da essa. Essa è la vera realtà.
Essa è l’Atman. Essa sei tu, o Svetaketu. (Chandogya Upani-
shad – 6.11.1)
Tutto questo mondo, comunque sia, fu creato al muoversi del
respiro vitale. (Katha Upanishad – 2.6.2)
Assume ogni forma, aureo, tutto vede, è lo scopo supremo, è
l’unica fonte di luce, risplende, si leva il sole che ha mille raggi,
che si muove in cento modi. Esso è l’energia vitale di tutte le
creature. (Prajna Upanishad – 1.8)

Tutte le tradizioni conoscono, sia pur con nomi diversi, il circuito del Prana.
Tutte le culture spirituali e le scuole mediche hanno, di volta in volta, sentito,
desiderato conoscere, indagato e scoperto che il Prana, il respiro inalante, risa-
le per prima cosa nel Sahasrar e poi ridiscende lungo la Sushumna nadi come
Apana. Giunto all’Ajna Chakra il Prana si divide nelle due nadi principali, Ida
e Pingala, di cui abbiamo già parlato, attraverso le quali porta energia divina
al Chakra del cuore, Anahata. Di lì continua il suo cammino con il nome di
Samana, nella sua forma che sostiene l’individualità, l’utilizzo della mente e
della personalità nella vita di tutti i giorni, e con il nome di Vyana, nella sua
forma che aiuta l’interazione tra individuo ed ambiente. Vyana è il Prana che
dà energia ai movimenti vitali interni, alle varie circolazioni, sanguigna, linfa-
tica, nervosa, respiratoria, simpatica, parasimpatica, ecc.
Il simbolo della professione medica, il Caduceo, è chiaramente formato dalla

277
figura dell’Ajna Chakra, dalla Sushumna e da Ida e Pingala.

Dopo aver compiuto le sue funzioni il Prana esce all’esterno come Udana,
l’espirazione, che si fonde nell’ambiente ad una distanza di 12 dita dalle na-
rici.

a
an
Pr

Sahasrara

Apana
SUSHUMNA

Ud
an
a

Anahata

a
an na
m a
Sa Vy

Udana

Muladhana
278
O Venerabile, donde proviene il Prana? Come penetra nel corpo?
Come si dispone dopo essersi diviso? Per quale via fuoriesce?
Come si atteggia interiormente ed esteriormente? (…)
Il Prana proviene dall’Atman. Come l’ombra si estende se c’è un
corpo, così l’energia vitale si rivela se c’è l’Atman. Penetra nel
corpo con il potere della volontà della mente. Come un sovrano
dispone i suoi ministri, ordinando di governare questo o quel vil-
laggio, così il Prana dispone al suo posto tutte le forme. Il Prana
pone Apana negli organi di escrezione e di generazione. Pone se
stesso nell’occhio e nell’orecchio ed insieme nella bocca e nel
naso. Nel mezzo sta il Samana che distribuisce in modo eguale
(sama : eguale) il cibo offerto e da cui sorgono sette fiamme. Nel
cuore risiede l’Atman. Là ci sono 101 arterie e di nuovo 100 per
ognuna di esse. Su ognuna di queste ultime vi sono 72.000 arte-
rie minori. In queste si muove il Vyana. L’Udana, che si muove
verso l’alto attraverso una di queste arterie, conduce al mondo
dei virtuosi quando c’è merito, al mondo dei peccatori, quando
c’è colpa, al mondo degli uomini quando vi sono entrambi, me-
riti e colpe. (Prajna Upanishad – 3.1.7)
Di questo cuore cinque sono le aperture che conducono al mon-
do degli dei. Quella orientale è il Prana, che è la vista ed il sole.
Bisogna venerare ciò come splendore e nutrimento. Quella che
è la sua apertura meridionale è Vyana, che è l’udito e la luna.
Bisogna venerare ciò come fortuna e come gloria. Quella che è
la sua apertura occidentale è l’Apana, che è la parola ed il fuoco.
Bisogna venerare ciò come splendore della scienza sacra, come
nutrimento spirituale. Quella che è la sua apertura settentrionale
è il Samana, che è la mente e la pioggia. Bisogna venerare ciò
come fama e bellezza. Quella che è la sua apertura rivolta ver-
so l’alto è l’Udana, che è il vento e lo spazio etereo. Bisogna
venerare ciò come forza e grandezza. Questi cinque servi del
Brahman sono i custodi delle porte celesti. (Chandogya Upani-
shad – 3.13.1).

Attraverso il Prana tutti gli esseri vivono, quindi è chiamato anche la “vita
universale”. E’ il principio universale della forza vitale, pervade ogni cosa; può
essere sia statico che dinamico. Si trova in tutte le forme, dalle più alte alle più
basse, dalla formica all’elefante, dall’ameba unicellulare all’uomo, dalla forma

279
più elementare della vita delle piante al più intelligente essere umano.
Tutto ciò che si muove o lavora, o ha vita, non è che una espressione o ma-
nifestazione del Prana. E’ il Prana che brilla negli occhi di un bambino. E’
attraverso il potere del Prana che le orecchie odono, gli occhi vedono, la pelle
sente, la lingua assapora, il naso odora, il cervello e l’intelletto funzionano.
Il sorriso di una giovane donna, la melodia di una musica, il potere empatico
delle parole di un oratore, la dolcezza del suono della voce della persona amata
sono tutte espressioni del Prana. Il fuoco brucia attraverso il Prana, il vento
soffia, i fiumi scorrono. Prana sono gli elettroni, il magnetismo, l’elettricità.
La circolazione del sangue, il battito cardiaco avvengono attraverso il Prana,
e così la digestione, l’erezione del membro virile, l’eccitazione della donna.
Tutto il sistema nervoso funziona attraverso il Prana. Il liquido seminale non
utilizzato si trasforma in “ojas”421 che non è altro che Prana. Prana è il flusso
dell’amore, della compassione, della carità, della conoscenza.

NATURA DEL PRANA


Come abbiamo già visto, nell’uomo, al di là della copertura fisica o annamaya
kosha, che è fatta dall’essenza del cibo, vi è pranamaya kosha, la copertura
vitale che è formata dal Prana, dal respiro. Questo Prana manipola e riempie
tutte le coperture fisiche.
Prana è il legame tra il corpo fisico ed il corpo sottile, il corpo di mente.
Quando questo legame si rompe il corpo diviene un cadavere; è la morte clini-
ca. La forza fisica si ritira nella forza mentale.
Il respiro è la manifestazione esteriore del Prana, della forza vitale. Il respiro è
la manifestazione grossolana della energia sottile del Prana.
Gli Yogi tendono ad utilizzare il Prana per i loro raggiungimenti spirituali.
Negli Yoga sutra di Patanjali, il grande codificatore dello Yoga, la pratica del
Prana è il quarto degli otto astanga, delle otto parti del cammino verso il Sama-
dhi, l’esperienza dell’assoluta quiete della mente.
Gli Yogi ripetono mentalmente il loro mantra ad ogni inspirazione e ad ogni
espirazione seguendo il ritmo naturale del loro respiro.
Alla fine del respiro inalante, come alla fine del respiro esalante, gli Yogi foca-
lizzano la loro attenzione su due fasi estremamente importanti della loro prati-
ca chiamate kumbaka. Sono due punti di giunzione in cui il respiro è assente.
Sono queste due porte importantissime verso l’esperienza del Trascendente.

421 Ojas: è il prodotto della sublimazione del liquido seminale. In sanscrito significa: vitalità –
luminosità – splendore.

280
In questa focalizzazione sul respiro gli Yogi ripetono il mantra Hamsa. Se la
ripetizione (Japa) del mantra Hamsa avviene spontaneamente lo Yogi ripete
il mantra 21.600 volte tra notte e giorno sul normale ritmo del suo respiro.
Questa ripetizione spontanea è chiamata Ajapa japa “il suono ripetuto senza
ripeterlo”.
La parola Japa è composta da due radici: JA che sta per Jani: nascita, creazio-
ne; e PA che sta per Palana: protezione. Japa: protegge chi è nato.
La parola Hamsa è composta di tre fonemi. HA che rappresenta la Shakti,
l’energia divina che manifesta la creazione; AM che rappresenta la creazione
nell’essere vivente; SA che rappresenta Shiva, il Signore Assoluto. E’ quindi il
gioco della creazione e del ritorno alla natura divina che abbiamo visto negli
altri capitoli.
Quando inaliamo beviamo il nettare della vita che è nell’aria. Quando esaliamo
portiamo fuori di noi tutto ciò che la pulizia interiore ha rimosso dal nostro
sistema psicofisico. E’ chiaro che più pulita e fresca è l’aria e più il flusso della
vita può fare il suo lavoro dentro di noi.
Pochi respirano bene. Questo inibisce le possibilità che il Prana, il respiro,
offre alla nostra vita. Lo stesso avviene se la nostra postura è contratta o chiusa
mentre respiriamo.
Quando siamo in una situazione pericolosa cessiamo di respirare perché la
contrazione aumenta. Gli animali lo fanno per essere meno visibili, manifesta-
re meno la loro presenza.
Secondo il Taoismo vi sono nove situazioni in cui il respiro viene compro-
messo e quindi lo stato mentale rilassato viene disturbato: rabbia (che solleva
il respiro), paura (che abbassa il respiro), delirio (che lo rallenta), terrore (che
lo sbilancia), dolore (che lo scompone), pensiero (che lo lega), fatica (che lo
danneggia), freddo (che lo costringe) e caldo (che lo disperde).
L’Hatha Yoga Pradipika dice: “Un respiro disturbato porta ad una mente di-
sturbata. Un respiro stabile porta ad una mente stabile. I due dipendono l’uno
dall’altra, quindi coltivate uno spirito stabile e quieto. Allora la mente sarà
sotto controllo e la vita dello yogi sarà più proficua”.
Un grande mistico spagnolo del diciassettesimo secolo disse: “Se vuoi uno spi-
rito calmo regola il tuo respiro, perché quando quello è sotto controllo, il cuore
sarà in pace, ma quando il respiro è spasmodico, allora sarà disturbato. Perciò
prima di accingerti a fare qualsiasi cosa regola il respiro, e il tuo temperamento
sarà raddolcito e il tuo spirito calmato”.
Nell’Esicasmo cristiano si usava controllare il respiro con la preghiera come
mezzo per ottenere l’unione con Dio. La chiamavano “la preghiera di Gesù”

281
perché nella tradizione orientale cristiana si tramanda che Gesù facesse portare
ai suoi apostoli l’attenzione al loro respiro mentre portavano l’attenzione sulla
presenza del Padre. I monaci focalizzavano l’inalazione e l’esalazione nella
sezione del cuore. I Buddhisti tibetani generalmente uniscono al respiro una
visualizzazione di natura, lo chiamano “lo Yoga del vento”. Tra gli Islamici sia
la parola respiro che la parola preghiera hanno la medesima radice Dhikr [La
Ilaha (non vi è Dio) (esalante); Illa Allah (se non Dio) (inalante)].

Nell’organismo temporaneamente vivente coesistono questi due


flussi: l’ascesa verso l’immortalità e la discesa verso la morte.
(Nikos Kazantzakis)
Ho conosciuto nel mio corpo il gioco dell’universo; sono sfuggi-
to all’errore di questo mondo. L’interno e l’esterno sono divenuti
come un unico cielo; l’Infinito e il finito si sono uniti; sono ebbro
alla vista di questo Tutto. (Kabir)
Il grande Yogi tramite il suo respiro mira alla Luce, puro come
la montagna sacra (Kailas) e con la forza della sua respirazione
diventa il signore ed il guardiano della Luce. (Shiva Samhita)
E’ me che cerchi? Quando veramente mi cerchi, mi troverai nella
più piccola particella del tempio. Kabir dice: “O cercatore dim-
mi che cosa è Dio? Egli è il respiro dentro il respiro”. (Kabir)
Io sono colui che ha il corpo, tu sei il respiro del respiro.
Tu conosci il segreto del mio corpo;
io conosco il segreto del tuo respiro.
E’ per questo che il tuo corpo è nel mio.
Tu conosci e io conosco, Ramanatha,
il miracolo del tuo respiro nel mio corpo. (Devara Desimayya –
poeta indiano del X sec.)
Il primo principio del corpo è una “calda esalazione” che genera
la creazione, Il primo principio dell’anima è una “fresca inspira-
zione” che ci riempie dello Spirito di Dio. (Eraclito)

Il respiro è il veicolo che ci facilita il transito verso una vasta e magnifica realtà
interiore. Con il nostro respiro inalante possiamo sperimentare senza dubbi e
senza sforzi la presenza di Dio all’interno. Un poeta indiano ha scritto: “Non
tenere Dio fuori di te. Lascia che Dio sia il tuo respiro; il respiro che inali e il
respiro che esali. Se hai questa comprensione, allora hai raggiunto la Verità”.

282
RESPIRAZIONE YOGICA COMPLETA
Sdraiatevi sulla schiena oppure sedete in una posizione confortevole con la
spina dorsale allungata, le spalle rilassate verso il basso e all’indietro, allonta-
nandole dalle orecchie. Il petto è espanso e il retro del collo allungato in modo
che il mento si muova leggermente verso il petto. Se siete allungati a terra,
distendete le braccia lungo i fianchi con il palmo verso il soffitto. Se sedete
dritti, fate riposare le mani in grembo.
Cominciate ad osservare il respiro e seguite il suo naturale fluire. Divenite
consapevoli di ogni inalazione e di ogni esalazione, colmando tutto il corpo di
energia pranica e di luce.
Ora inalate dolcemente dalle narici, riempiendo d’aria i polmoni a comincia-
re dalla loro parte inferiore. Estendete questa sensazione di pienezza anche
all’addome, mentre il diaframma si abbassa e spinge le pareti anteriori dell’ad-
dome in avanti. Esalate lentamente attraverso le narici.
Ora inspirate di nuovo e colmate di aria la parte centrale dei polmoni, spingen-
do in fuori le costole fluttuanti nella parte anteriore e posteriore della schiena.
Esalate di nuovo lentamente.
Inalate e colmate la parte superiore dei polmoni di aria, aprendo e sollevando
la parte superiore del petto e delle costole. Ora esalate.
Se combiniamo tutte e tre le parti in un respiro che fluisce continuo, abbiamo
il respiro Yogico completo!
Per prima cosa inspirate attraverso le narici il più profondamente possibile
mandando il respiro al fondo dei polmoni, mentre il diaframma si abbassa
nell’addome. Continuate ad espandere questa stessa inalazione verso la porzio-
ne centrale dei polmoni mentre la cassa toracica si allarga. E alla fine lasciatelo
fluire verso la parte superiore dei polmoni. Ora lentamente e delicatamente
esalate, liberando il respiro dalla zona inferiore dei polmoni, quindi dalla zona
centrale e poi dalla zona superiore dei polmoni.
Ripetete questo ciclo per parecchie volte con la consapevolezza che il prana
sta risuonando attraverso tutti i livelli del vostro essere sotto forma di energia
e luce e che Dio è presente in ogni respiro che prendete.

IL RESPIRO NELLA TRADIZIONE ISLAMICA


E’ interessante vedere come anche la religione islamica si interessi attivamente
alla funzione del respiro, quindi del Prana. Ci chiarisce in maniera magistrale
questo rapporto Frithjof Schuon nel suo libro “Comprendere l’Islam” edito da
SE nella collana della “Cultura Religiosa”:
La Presenza divina ha nell’ordine sensibile due simboli o veicoli, o due “ma-

283
nifestazioni” naturali, di importanza capitale: il cuore in noi, che è il nostro
centro, e l’aria intorno a noi, che respiriamo.
L’aria è la manifestazione dell’etere, che tesse forme ed è in pari tempo il
veicolo della luce che manifesta, a sua volta, l’elemento etereo. Quando re-
spiriamo, l’aria penetra in noi e – simbolicamente parlando – è come se essa
introducesse in noi l’etere creatore della luce; noi respiriamo la Presenza uni-
versale di Dio. Vi è parimenti un rapporto tra la luce e la freschezza, giacché le
due sensazioni sono liberatrici; ciò che esteriormente è la luce, interiormente
è freschezza. Noi respiriamo l’aria luminosa e fresca e la nostra respirazione
è un’orazione come il battito del nostro cuore; la luminosità si riferisce all’In-
telletto e la freschezza all’Essere Puro.
Il mondo è come un tessuto i cui fili sono costituiti dall’etere; noi vi siamo tes-
suti con tutte le creature. Ogni cosa sensibile proviene dall’etere, che contiene
tutto; ogni cosa è etere cristallizzato.
Il mondo è un immenso tappeto; noi possediamo il mondo intero in ogni respi-
ro, poiché respiriamo l’etere in cui ogni cosa è costituita, e poiché “siamo”
l’etere. Come il mondo è un incommensurabile tappeto nel quale tutto si ripete
nel ritmo di un continuo cambiamento, o ancora, dove tutto rimane simile
nell’ambito della legge della differenziazione, così il Corano – e con esso tutto
l’Islam – è un tappeto o un tessuto dove il centro si ripete ovunque in modo
infinitamente variato e dove la diversità non fa che sviluppare l’unità: “l’ete-
re” universale altro non è se non la Parola divina che è ovunque “Essere”
e “Coscienza” che è ovunque “creatrice” e “liberatrice” o “rivelatrice” e
“illuminatrice”.
La natura che ci circonda – sole, luna, stelle, giorno e notte, stagioni, acque,
montagne, foreste, fiori – questa natura è una sorta di Rivelazione; ora queste
tre cose: natura, luce e respirazione sono profondamente legate.
La respirazione deve associarsi al ricordo di Dio. Occorre respirare con vene-
razione, con il cuore, per così dire.
E’ detto che lo Spirito di Dio – Soffio divino – fu “al di sopra delle acque” e
che Dio creò l’anima “insufflando” e, ancora, che l’uomo che è “nato dallo
Spirito” è simile al vento “che tu ascolti, ma di lui non sai donde viene e dove
va”.
E’ significativo che l’Islam sia definito nel Corano come una “dilatazione
(inshhirah) del petto”; che si dica, ad esempio che “Dio ci dilata il petto per
l’Islam”; il rapporto tra la prospettiva islamica ed il senso iniziatico della respi-
razione e anche del cuore è una chiave di primaria importanza per la compren-
sione dell’arcano sufico. Per la stessa via e per forza di cose, sfociamo pure

284
nella Gnosi universale.
Il “ricordo di Dio” è come la respirazione profonda nella solitudine di un’alta
montagna; l’aria mattutina, colma della purezza delle nevi eterne, dilata il pet-
to; questo diviene lo spazio, il cielo entra nel cuore.
Ma tale immagine comporta ancora un simbolismo più differenziato; quello
della “respirazione universale”: l’espirazione si riferisce alla manifestazione
cosmica o alla fase creatrice e l’inspirazione alla reintegrazione, alla fase sal-
vatrice, al ritorno a Dio”.422

IL RESPIRO NELLA TRADIZIONE CRISTIANA


Padre Serafino, un monaco esicasta del monte Athos, diceva ai fedeli che gli
chiedevano come potersi avvicinare a Dio: “Chi ascolta la sua respirazione
non è lontano da Dio. Ascolta chi dimora alla fine della tua espirazione, ascol-
ta chi dimora alla fine della tua inspirazione. Vi è là realmente qualche secon-
do di silenzio più profondo del flusso e del riflusso del mare, qualcosa che ci
porta all’immensità dell’oceano. La meditazione è costituita da una posizione
simile ad una montagna e ad una direzione simile ad un papavero che guarda
sempre verso la luce. Il papavero, per potersi orientare sempre verso la luce,
deve avere uno stelo dritto (colonna vertebrale), quindi, per acquisire energia,
sii stabile, raddrizzati, sii vigilante, orientati verso la luce, ma sii senza orgo-
glio, come il papavero che si adatta al soffiare del vento con grande umiltà.
La montagna darà al meditante il senso della stabilità, dell’eternità. La po-
sizione della spina dorsale il senso della flessibilità, l’orientamento verso la
luce, l’assenza di aspettative o di profitto, l’innocenza e la concentrazione
spontanea”. – e poi aggiungeva – “Smetti di ruminare sul significato delle
cose. Impara a immergerti nel flusso e nel riflusso del tuo respiro. Impara a
meditare come l’oceano.
L’esistenza è un mare continuamente pieno di onde. Tu guarda come le innu-
merevoli onde appaiono sulla superficie del mare dalla profondità dell’ocea-
no, mentre il mare resta nascosto nelle onde. Percepisci quello che è nascosto
nelle onde. Scopri nella profondità del tuo respiro la “Ruah, il Pneuma, il
respiro di Dio”.

Anche la nostra tradizione è stata per lungo tempo interessata al Prana come
veicolo dell’energia divina ed ai chakra come fonti di distribuzione o di ral-
lentamento di tale energia. Nel monachesimo medioevale cristiano, svizzero

422 Frithjof Scuon – Comprendere l’Islam – Ed.SE , pag 58–59

285
e tedesco si trovano diversi manuali con la corrispondente raffigurazione dei
chakra.
Nell’Apocalisse di S.Giovanni si considera il corpo sottile come il “libro della
conoscenza” che è custodito da “7 sigilli” che devono essere aperti affinché
l’uomo possa pervenire alla conoscenza completa. Il settimo sigillo corrispon-
de al Sahasrar che, quando aperto, dona l’esperienza del Divino.

Solo il Cristo, l’Agnello, è degno di aprire tutti e sette i sigilli


alla gente e dare quindi a tutti la conoscenza completa, la visio-
ne del trono di Dio. Tu sei degno di prendere il libro e aprirne i
sigilli. (Bibbia – Apocalisse – 5.9)

Ancor oggi il monachesimo è a conoscenza che il Prana, come tutte le energie


in movimento emette dei suoni. Tali suoni sono utilizzati dai monaci come
mezzo per il loro avanzamento spirituale. Esiste ancora la conoscenza che i
suoni della creazione cambiano con le ore del giorno. Ecco perché i monaci si
alzano per cantare le loro litanie alle tre del mattino e recitano le loro preghie-
re, compiono le loro contemplazioni ogni tre ore, al cambiare del movimento
del Prana. Questa conoscenza era nota fin dall’antichità. Vi è una parte della
letteratura vedica chiamata Gandharva Veda423 che riproduce i suoni del Prana
nei vari momenti della giornata e sollecita quindi la forza creatrice divina nelle
sue varie fasi. Il Gandharva Veda è l’eterna musica della natura che è adatta ad
ogni uomo. E’ il respiro della natura che cambia tra giorno e notte in base alla
necessità di regolare le due grandi forze della manifestazione e cioè l’attività
e il riposo della natura.
E’ il linguaggio, la scienza e l’arte della beatitudine. Ad esempio dalle quattro
alle sette del mattino è capace di generare devozione, pace, integrazione; dalle
sette alle dieci, energia, dinamismo, compassione; dalle dieci alle tredici, suc-
cesso, gioia, conoscenza; dalle tredici alle sedici, felicità, creatività, abbondan-
za, dalle sedici alle diciannove, rilassamento, coerenza, festeggiamenti; dalle
diciannove alle ventidue, felicità, compassione, gioia; dalle ventidue all’una
di notte, rilassamento, sonno tranquillo, sonno riposante; dall’una alle quattro,
amore, gentilezza, tranquillità.
Magnifico è ascoltarla e scoprire che la natura usa per i suoi scopi diversi
suoni, che per poter essere riprodotti, hanno spinto l’uomo a costruire diversi
strumenti come il santur, il sitar, il shebnai, il sarod, ma anche il tamburo, i

423 I Gandharva sono i musici celesti.

286
cimbali, l’armonium, il flauto ecc. E’ stata una esperienza incredibile per me
ascoltare un giorno una scuola di musica e canto in India riprodurre tutti questi
suoni della natura solo con dei vocalizzi. Quando ho domandato come questo
fosse possibile e mi è stato risposto dal Maestro: “perché ti meravigli, la musi-
ca vera è già all’interno dell’uomo e può essere esternata in completa armonia
con la natura dell’essere umano solo con il suo respiro.
La musica è natura e la natura nasce dal respiro di Dio. Non ha quindi bisogno
di strumenti. Questi suoni sono stati colti dai Rishi424 nelle loro osservazioni
della natura e soprattutto dalla loro attenzione focalizzata all’interno nelle loro
meditazioni e riprodotti poi per i loro discepoli.
Per migliaia di anni questa conoscenza è stata trasmessa dai Maestri ai loro
allievi”.
In diversi ospedali indiani e ultimamente anche occidentali sono stati trasmes-
si questi suoni ai malati terminali con grandi risultati sulla qualità della loro
energia, perché il Gandharva Veda è in grado di infondere armonia e coerenza
in tutto l’ambiente, rivitalizzando la mente e il corpo, sintonizzando la fisiolo-
gia con i cicli della natura che sono alla base di ogni ora del giorno e di ogni
stagione dell’anno.
Si genera, quindi, con il giusto raga425, un’atmosfera armonica che nutre la
coscienza e l’intero ambiente con qualità estremamente positive.
I grandi musicisti, in India, sono sempre stati considerati dei Guru, perché
erano in grado di realizzare nei loro discepoli la consapevolezza di Dio, armo-
nizzando il loro respiro con il respiro universale. Essi sono sempre stati onorati
e riveriti come esseri divini. Ho avuto la fortuna di conoscere da vicino uno dei
grandi maestri di santur: Shivkumar Sharma. Quando gli ho chiesto chi fosse
stato il suo Guru, mi ha risposto con gioia e commozione che era stato suo
padre. Parlava del padre come se fosse stato un essere divino, celestiale, che
insieme alla tecnica era in grado di trasmettere il respiro della creazione nei
suoni del suo strumento o della sua gola.
Mi raccontò una bellissima storia: “Molti anni fa, viveva nel nord dell’India,
alla corte di un Re molto ricco e potente un grande musicista di nome Dilip Ku-

424 Rishi: veggenti della tradizione vedica indiana capaci di sentire in loro e riprodurre i suoni
dell’Assoluto che fluisce nella creazione relativa e riportare così il relativo nuovamente
all’esperienza dell’Assoluto.
425 Raga: una nota o una melodia musicale, o anche un particolare modo musicale. Questo
termine deriva dalla radice sanscrita Ranj che significa “colorare”, o anche “velare di
emozioni”. I Raga sono sei e sei sono le Ragini, che diversificano i Raga in ulteriori modi
musicali.

287
mar, che tutti consideravano un Maestro. Ogni volta che terminava un concerto
e veniva complimentato dai presenti, invece di inorgoglirsi, ripeteva costante-
mente: “Io non sono nulla in confronto al mio Maestro”. Questo incuriosì il Re
che era un grande appassionato ed un grande estimatore della buona musica.
Chiese a Dilip Kumar di invitare il suo Maestro a corte per un concerto. Il
musicista rispose che questo non era possibile perché il suo Maestro avrebbe
certamente rifiutato. Il Re insistette esercitando sul suo musicista una forte
pressione. “L’unico modo perché voi, mio Re, possiate sentire la sua musica è
architettare uno stratagemma. Io lo chiamerò a corte, e, solo, nella mia stanza,
lo pregherò di aiutarmi a preparare un pezzo di musica molto difficile. Certa-
mente lui prenderà il suo strumento e mi guiderà nei segreti di quella melodia.
Voi, mio Re, sarete nascosto dietro una tenda e potrete solo ascoltare, non
intervenire”. Il Re accettò e tutto avvenne come previsto. Il grande Maestro
venne, Dilip Kumar suonò ed il Re si nascose dietro la tenda della camera. Nel
mezzo della suonata il grande Maestro prese il suo strumento e disse: “Così
non basta. Ti ho insegnato ad andare molto più profondamente nel cuore della
tua musica. Dio si deve rivelare a te nel tuo respiro ed i tuoi raga dovranno es-
sere una preghiera di ringraziamento per averti dato la possibilità di riprodurre
la sua armonia, la sua energia, il suo respiro creativo”. Cominciò a suonare nel
più divino dei modi. Il Re dietro alla tenda era in estasi. Non aveva mai udito
nulla di simile. Finita la lezione il grande Maestro tornò nella sua modesta e
quieta casa tra le montagne ed il Re, uscito dal nascondiglio, abbracciò il suo
musico e disse: “Un vero e proprio concerto di angeli. Perché non suoni anche
tu come lui?” Dilip sorrise e rispose: “La ragione è semplice, mio sire, vedete,
io suono solo per voi, lui suona sempre solo per Dio”.

IL PRANA E IL RESPIRO
Quando l’Essere cosmico, trascendentale, onnipresente, assoluto, fluisce nella
manifestazione terrena della vita, il Prana assume il ruolo di respiro, ma con-
serva la sua intima connessione con la sua origine non manifesta.
Ad ogni inspirazione il Prana cosmico assume l’identità della forza individuale
e ad ogni espirazione l’Udana torna in contatto con l’Essere che è la sua ori-
gine.

Da Lui, l’Assoluto, nascono il respiro vitale, l’intelletto, la men-


te, tutti gli organi dei sensi, l’etere, il vento, la luce, le acque, la
terra, sostegno di tutto. (Mundaka Upanishad – 2.1.3)
Il rifugio supremo (il Brahman) si è manifestato. Ciò che si muo-

288
ve e respira e palpita negli occhi, in Esso è fissato. Esso è ful-
gente, più sottile del sottile. In Esso risiedono i mondi ed i loro
abitanti. Esso è l’indistruttibile Brahman. E’ il respiro, la parola,
l’intelletto, la Verità immortale. (Mundaka Upanishad – 2.2.1)
Dal Sé è nato questo Prana. Proprio come, dove vi è ogni uomo
vi è la sua ombra, così il Prana è accoppiato al Sé. Egli viene in
questo corpo generando le azioni della mente.
(Prajna Upanishad – 3.3)
Tutto ciò che vi è in questo mondo e anche tutto ciò che vi è in
cielo è sotto il controllo del Prana. (Prajna Upanishad – 2.3)
Tutto questo mondo, comunque sia, fu creato al muoversi del
respiro vitale. (Chandogya Upanishad – 2.6.2)
Ciò che non respira con il respiro, ciò per mezzo del quale il
respiro viene tratto, questo sappi che è il Brahman, non è ciò che
il volgo venera come tale. (Kena Upanishad – 1.8)
A questo Prana, ossia al Brahman, tutte le divinità portano tributi
senza che Esso ne chieda, e del pari tutte le creature portano tri-
buti senza che li chieda. Per colui che questo sa non vi è più né
morte né rinascita.(Kausitaki Upanishad – 2.2)

IL PRANA, IL DISTACCO E LA RINUNCIA


I testi sacri parlano molto di rinuncia e distacco. Per riuscire a capire bene il
distacco e contemplare cosa significa, la pratica che mi è servita di più è stata
la “consapevolezza del respiro”.
La prima domanda che ci facciamo quando contempliamo il distacco è: “c’è
qualcosa che è veramente nostra?”
Il respiro sembra essere mio, ma dopotutto non lo posso gestire. E’ essenziale
per la mia vita ma resiste ad essere posseduto. Può essere un grande insegnante
di vairagya, il distacco.
Patanjali dice che lo Yoga è focalizzare la mente finché diventa quieta ed il
respiro è il mezzo più facile per farlo. Il respiro è molto collegato alla mente.
Respirare sembra semplice, si inspira e si espira, ma ci sono delle modifica-
zioni del respiro che noi creiamo come strategie personali per affrontare gli
eventi della vita.
Per esempio di fronte ad uno sforzo io tendo a trattenere il respiro, così anche
se devo affrontare un pericolo. E’ una strategia sottile con la quale , spon-
taneamente, cerco di fermare quello che sta succedendo in modo da poterlo
affrontare meglio.

289
Avete avuto l’esperienza che quando qualcosa cade tratteniamo il respiro,
come se volessimo fermare la cosa che sta cadendo?
Nello Yoga si dice che l’abilità di focalizzare il Prana ci dà un enorme potere di
influenzare la situazione. Da noi non succede perché per noi entrare in sintonia
con il Prana è limitato dal fatto che vogliamo influenzare sempre la situazione
con la nostra volontà, perché vogliamo che abbia il risultato che desideriamo.
Questo ci porta a bloccare il respiro, quindi il Prana.
Vairagya significa non attaccamento, non “holding on”. A cosa ci attacchiamo?
Ci attacchiamo quasi sempre a vecchi modi di essere. Quando siamo agitati
vuol dire che ci stiamo attaccando a qualcosa e lo possiamo vedere nel respiro.
Lasciare andare comincia dal respiro stesso.
Tornare alla perfezione del respiro ci aiuta a cambiare l’attitudine verso la vita.
Come respiriamo, o crea la nostra separazione dal mondo, o sostiene l’espe-
rienza di unità con l’energia cosmica.
In ogni tradizione spirituale si dà, quindi, una grande importanza al canto per
tre motivi: il canto apre il cuore. Nel canto vi è un grande flusso di amore solo
se partecipiamo al canto in prima persona, molto meno se ci facciamo cantare
nelle orecchie come fanno, quasi tutto il giorno, i giovani di oggi.
Una volta si cantava quando si era felici, quando si era in compagnia, quando
si lavorava. Oggi questa pratica è scomparsa e con essa è scomparsa la legge-
rezza del cuore.
Il secondo motivo è che il canto, come la meditazione, permette ai due lobi
celebrali di funzionare all’unisono, come all’unisono risuona, nello stesso
semiencefalo, il lobo frontale, parietale e posteriore. Queste rilevazioni scien-
tifiche sono state fatte da più di 50 istituti universitari e pubblicate dall’Univer-
sità M.I.U di Fairfield nell’Iowa, Stati Uniti.
Il terzo motivo, più importante di tutti è che il canto predispone, anzi spesso
accompagna addirittura, la mente all’esperienza del Trascendente.
Avete visto come respirano i neonati? Respirano con tutto il corpo. Vi è in loro
una completa armonia tra il corpo, il respiro e l’energia cosmica della vita. In
loro non c’è separazione con il grande respiro. Quando cresciamo cominciamo
a respirare solo con una piccola parte del nostro corpo, addirittura con solo un
sesto delle nostre possibilità polmonari, così le limitazioni che imponiamo al
nostro respiro rinforzano il nostro senso di separazione.
Nello Yoga vi è una scienza chiamata pranayama426che insegna vari tipi di
schemi di respiro. Se li esaminiamo da vicino scopriamo che sono tutte varia-

426 Pranayama: quarto degli otto astanga (asta: otto) (anga: parte) del Raja Yoga di Patanjali.

290
zioni di un singolo tema: il trattenere il respiro, in altre parole “holding on”.
Certe volte ci sembra che respirare sia faticoso. Abbiamo i muscoli bloccati da
tensioni. Il respiro diviene corto. Questo è un problema di attitudine e cambiare
le nostre attitudini non è impresa facile. Dovremmo imparare di tanto in tanto
a cambiare il nostro respiro; fare, ad esempio un lungo respiro per sbloccare
una situazione ricorrente.
Pranayama non significa “controllare” il respiro, come viene assai spesso in-
teso in occidente. Pranayama significa “osservare il respiro” e scoprirne i vari
modi senza volerlo controllare a nostro piacimento. Solo quando, spontanea-
mente, conosceremo i nostri modi di respirare naturalmente potremo passare
senza sforzo e quindi senza contrazione da un modo ad un altro. Dovremmo
semplicemente essere attenti ai movimenti ed alle sensazioni sottili associate al
respiro. Divenire consapevoli delle aree di rigidità, di tensione e di incoscienza
del nostro corpo, ci permetterà in seguito di essere in grado di “respirare” in
queste contrazioni ed eliminarle secondo natura.
Automaticamente il respiro diverrà più morbido, più fluido perché quelle aree
verranno rilassate dal respiro stesso. Piano piano vedremo il nostro corpo, dal-
la nostra pelle, allo spazio interno alle ossa partecipare e rispondere al flusso
del respiro.
Non è un esercizio di controllo, anzi al contrario, è un esercizio di consape-
volezza, è un “lasciare andare”, un lasciare andare le nostre limitazioni, è un
esempio di vairagya perché ci fa distaccare dai vecchi modi di essere. Divenia-
mo quindi non attori del nostro respiro, ma testimoni del nostro respiro. Non
siamo noi che respiriamo, ma l’intero nostro sistema psicofisico viene respi-
rato. Dovremmo sempre ascoltare il suono del nostro respiro tenendolo dolce.
Qualunque sensazione di durezza e rigidità, anche nelle mascelle, negli occhi,
nel naso, nelle spalle, nelle braccia, nel nostro tronco significa che stiamo for-
zando il respiro, che gli sovrapponiamo qualcosa. Quando ci accorgiamo di
questo possiamo, se siamo divenuti consapevoli del nostro respiro, tornare al
nostro normale ritmo e focalizzarci, con dolcezza, sulla nostra respirazione.
Allora apprezzeremo la sua pienezza e la sua indipendenza. Ci accorgeremo
che il respiro non è un nostro possedimento, ma non è nemmeno separato da
noi. E’ sia nostro che più che nostro. E’ una esperienza di vairagya, che è l’op-
posto della sensazione di “mio”; è espansione.
Vairagya è spesso interpretata come la negazione dei sentimenti, ma è il con-
trario, è il processo di focalizzarsi sulla naturale perfezione dell’Infinito.
La stessa cosa succede con il respiro, che viene sperimentato come Infinito
indiviso. In quello stato non ci si sente demotivati, ma pieni di puri sentimenti,

291
di esuberanza verso la vita. Ogni respiro è amore verso la vita stessa, ma men-
tre amiamo il respiro nella inspirazione, lo lasciamo andare nella espirazione.
Non ci attacchiamo al respiro perché sarebbe un atto contro la vita. La passione
dello Yogi è per la vita nella sua pienezza. Il senso di perfezione è completezza
interiore, è l’essenza di vairagya, perché automaticamente non ci si attacca più
alle piccole cose.
I pensieri e i sentimenti vanno e vengono, ma sono forme di shakti427, span-
da428, che si formano e si dissolvono; perdono la loro importanza per lasciare il
posto al sussurro del Sé più grande e più nobile.
I sussurri sono il suono del respiro. I grandi Yogi ci confortano: “non dovete
sviluppare il distacco, dovete solo rinunciare alla dualità” Quando non vi è più
nulla diverso da te, come puoi rinunciare a qualcosa, cosa vi è più da rinunciare
o accettare? Rinunciate alla dualità”.
La domanda ricorrente è: “Cosa dobbiamo abbandonare per raggiungere
Dio?”
La risposta dei Maestri è univoca e chiara: “Se hai veramente qualcosa allora è
necessario abbandonarla. Ma cosa hai che può dirsi sia realmente tua?”
La nostra vita non è che l’espressione stessa di Dio. Qualunque cosa vediamo è
la sua manifestazione. Neanche il nostro corpo ci appartiene. Dio viene trovato
non attraverso la rinuncia a qualcosa, ma attraverso la giusta comprensione, la
consapevolezza della nostra vera natura. Le cose non necessarie diminuiranno
il loro interesse fino a cadere spontaneamente.
Un’altra forma di rinuncia è la “trasformazione”.
Nel Vangelo Gesù dice: “Convertitevi”.429 Giovanni il battista: “Vengo a pro-
clamare un vangelo (messaggio) di conversione”430 (trasformazione). Per quasi
millesettecento anni la nostra Chiesa ha accettato una traduzione errata del-
la parola “convertitevi” che è divenuta “penitenza”.431 Gesù, quindi, avrebbe
detto. “se non fate penitenza non entrerete nel Regno dei cieli”. Il Concilio
Vaticano II, siamo negli anni settanta del secolo scorso, con delicatezza, quasi

427 Shakti: è l’energia divina che fluisce dal Creatore verso la creatura, è l’aspetto femminile
del Dio Uno, l’intelligenza creativa che compie la duplice funzione di creare e di riportare
la creazione alla consapevolezza della sua vera natura divina.
428 Spanda: viene dalla radice sanscrita SPAN che significa fremito, tremore, palpitazione,
pulsazione. E’ la vibrazione che è sorgente di tutte le forme dell’attività divina ed umana.
429 Vangelo di Matteo – 4.17
430 Vangelo di Marco – 1.4
431 Nel Vangelo dei Settanta l’esortazione è “metanoeite” che significa “trasformatevi”. Nella
Vulgata, il Vangelo tradotto in latino, si legge invece “paenitentiam agite”, che spinge la
gente alla “penitenza”.

292
in guanti bianchi, ha cambiato finalmente la traduzione: “Convertitevi perché
il Regno dei cieli è vicino”. “Provate a pensare quanti santi, quanti uomini e
donne si sono martoriati nella “penitenza” (cilici, fustigazioni, digiuni) per
anni, alcuni per una intera vita, solo per un errore di traduzione che ha portato
danni tremendi”, dice Padre Alberto Maggi nelle sue predicazioni.
Trasformare il nostro modo di vedere le cose, trasformare le nostre tendenze,
le nostre abitudini, i nostri attaccamenti, i nostri schemi mentali. Trasformare
il nostro giudizio sul mondo, sugli altri, avendo trasformato il giudizio di noi
stessi. I grandi Maestri ci consolano e ci sostengono dicendo e ripetendoci che
i nostri pensieri non sono cattivi, e neanche il nostro intelletto e il nostro ego.
Quello che dovremmo rivedere è il modo di usare questi strumenti. Possiamo
usarli per sentirci colpevoli, peccatori, depressi, incapaci, inadeguati, o po-
tremmo usarli per sentirci consapevoli, per portare al massimo le nostre quali-
tà, per godere della bellezza della creazione, per godere la dolcezza del nostro
cuore, per esercitare amore e compassione, per elevare noi stessi e gli altri.
Dovremmo però sempre essere consapevoli che possiamo esserlo se abbiamo
presente che ogni nostra azione, pensiero, parola, trova base e sviluppo nella
energia divina della vita che entra nel nostro sistema psicofisico attraverso il
respiro. Onoriamo il respiro come la forma divina che si manifesta su questo
piano di esistenza e non saremo più prigionieri di limitazioni e contrazioni.

293
CAPITOLO XI
IL MISTERO DELLA MORTE
E’ bene ricordare la morte.
Ci aiuta a ricordare l’impermanenza della vita sulla terra,
e questo ci prepara alla nostra morte.
Chi è ben preparato sa che non vi è nulla
che possa essere paragonato a Wakan Tanka432,
colui che è Tutto.
Solo allora conosce il mondo che è reale.
Alce Nero

Tra tutti i vari misteri che abbiamo preso in considerazione, la morte è, per
l’uomo, il mistero più spaventoso, più doloroso che debba affrontare nella sua
avventura terrena.
Abbiamo già visto nei capitoli precedenti come e perché questo non dovrebbe
essere. Qui affronteremo il tema del perché la morte non sia affatto un miste-
ro.
Ritengo un po’ la mia missione in questa parte di vita che identifichiamo come
maturità e poi vecchiaia, quella di accompagnare i malati terminali attraverso
la soglia che divide questo piano di esistenza da quello che ci ospiterà quando
avremo lasciato lo strumento del corpo. In questo servizio, che desidero com-
piere per i miei simili, troppe volte ho visto uomini e donne morire in dispe-
razione, in estrema agitazione, e a volte addirittura prede del terrore. La loro
mente era prigioniera di conoscenze, di schemi mentali, di figure che la nostra
tradizione ha sollecitato per secoli.
Ci hanno insegnato che la morte è la cosa più brutta, non solo che ci possa
capitare, ma anche che esista. La morte è la fine di ogni possibilità e speranza,
la morte è la tragedia più grande che l’uomo debba affrontare. In altre parole
la morte è la fine della vita, ed essendo la vita la cosa più preziosa della nostra
esistenza, la morte è la nostra peggior nemica. Tutto questo senza realmente
sapere che cosa sia la morte, perché, anche solo per ragionamento logico, se
noi conoscessimo cosa è la morte, quale è la sua natura, perché questa avviene,
e cosa accade una volta avvenuta, non sarebbe più per noi un mistero.
Ricordo un colloquio con un sacerdote che seguiva i miei seminari sulla co-

432 Wakan Tanka – Il Divino di tutte le tribù del Nord America – Colui che dimora in ogni
espressione della Natura, ma la cui vera natura è l’Assoluto illimitato, il Tutto.

294
noscenza della vita e della morte. Aveva superato gli ottant’anni e si sentiva
quindi vicino al momento in cui avrebbe dovuto scoprire la realtà della morte
per esperienza diretta.
Era sinceramente impaurito. Mi diceva che aveva, come tutti i sacerdoti, cer-
cato di confortare, non solo coloro che avevano subito un lutto recente, ma a
volte anche chi si avvicinava personalmente alla “soglia”.
“Mi accorgo – mi confessava – che era un tentativo umano, vissuto e sofferto
in una visione che nulla aveva di reale. Parlavo, ma non sapevo realmente se
ciò che dicevo era vero o meno, se corrispondesse realmente ad una certezza,
o solo a una credenza di cose che mi avevano inculcato, e a cui mi attenevo
perché non avevo dentro di me nulla di meglio da dare. Ora però sono io ad
affrontare “il mistero”, l’ignoto”.
Aveva ragione. Per secoli, la nostra società, la nostra famiglia, la scuola, e ahi-
mè, la religione, ci hanno dipinto la morte come terribile, come un incubo che
tutti dovranno affrontare senza la minima conoscenza, sostenuti solamente da
letterature tragiche, da credenze, da tradizioni, da manifestazioni artistiche, da
preghiere strutturate apposta per incutere timore.
“(…) poi se ne vanno tra i morti. Certo finché si resta uniti alla società dei
viventi c’è speranza. Meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che
moriranno, ma i morti non sanno più nulla; non c’è più per essi alcun salario
perché il loro intelletto svanisce e non vi è per essi alcun ricordo. Il loro amore,
il loro odio e la loro invidia, tutto è ormai finito, non avranno più alcuna parte
in tutto ciò che accade sotto il sole.
Va’, mangia con gioia il tuo pane, bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio
ha già gradito le tue opere. In ogni tempo le tue vesti siano bianche e il profu-
mo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni
della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sor-
te nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole. Tutto ciò che trovi da fare fallo
finché ne sei in grado, perché non ci sarà né attività, né ragione, né scienza, né
sapienza giù nel mondo dei morti dove stai per andare”.433
Nella nostra tradizione, dai tempi più antichi, per la testimonianza delle Scrit-
ture, o per la tradizione orale, ogni ebreo sapeva che l’uomo è fatto dagli ele-
menti della terra, che Dio gli soffiò nelle sue narici un alito vitale, (nefesh)
e l’uomo divenne un essere vivente dotato di un’anima (ruah).434 Ma l’alito

433 Bibbia – Ecclesiaste (Qoelet) – 9.4


434 Bibbia – Genesi – 2.7

295
vitale è un elemento che egli ha in comune con tutti gli esseri animati435, e che
la sua energia costituisce la vita stessa.436 Se Dio ritira quell’alito di vita, il
vivente muore e torna alla polvere da cui è venuto.437
Il nephesh viene richiamato438 e lascia colui che stava abitando, e svanisce
come un vapore contenuto nel sangue.439 L’uomo rende l’anima.440 Questo av-
viene, secondo il salmista dell’esilio più o meno tra i settanta e gli ottant’anni,
e l’uomo, privato del respiro, deposto nella tomba, viene consegnato alle leggi
della natura, diventa un’ombra tra i refraim, i deboli, che nello Sheol condu-
cevano una esistenza pallida e oscura, da cui il salmista invoca Dio di salvarlo,
senza peraltro dire, dove egli speri di sfuggire allo Sheol441, perché non è affatto
chiaro nemmeno come e dove si possa andare se si sfugge al destino previsto.
Solo nell’ultimo secolo prima della venuta del Cristo si apre una luce di spe-
ranza verso una possibilità di sopravvivenza, di una vita nel Regno di Dio.
Capite bene che, con queste premesse poi, piano piano, rimangiate, fino ad
aspirare di vedere il volto di Dio, senza peraltro conoscere come esso sia, la
nostra tradizione parte da basi ben tragiche che ancor oggi si porta dietro. Ha
un lavoro assai difficile S.Paolo nella I lettera ai Corinzi442 a spiegare come ri-
sorgeranno i morti. A chi gli chiede “Come risorgono i morti? Con quale corpo
verranno?” risponde, tutto subito, come fa peraltro assai spesso, intimidendo
l’interlocutore, chiamandolo “stolto”, poi parla di corpi celesti che sostitui-
ranno i corpi terrestri, ma è assolutamente chiaro a chi leggesse bene questa
parte della lettera che non conosce affatto come saranno, infatti dice: “Dio gli
darà un corpo come vuole, a ciascun seme il suo corpo. Non ogni carne è la
medesima carne, altra è la carne di un uomo, e altra è quella dell’animale, altra
quella di un uccello, altra quella di un pesce. Vi sono corpi celesti e corpi terre-
stri, altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri” senza
spiegare come saranno i corpi celesti e che cosa faranno una volta abbandonato
il corpo terrestre. Capite bene che in questa lunga spiegazione, estremamente
generica, che dura ben ventitre paragrafi, non vi è nulla che possa essere di
aiuto alla conoscenza, che ci possa far capire cosa realmente avverrà.

435 Idem –7.22


436 Bibbia – Giosuè – 2, 11–15 ; 5.1
437 Bibbia – Genesi – 3.19
438 Bibbia – Genesi – 35.18
439 Bibbia – Levitico – 17.11–14
440 Bibbia – Giobbe – 11.20
441 Bibbia – Salmo 16 e 13
442 S. Paolo – I° lettera ai Corinzi – 15.35 e seg.

296
Brancoliamo ancora e sempre nel buio. Ecco da dove viene la nostra paura,
dalla mancanza totale di chiarezza, di conoscenza. Viene inoltre da una profon-
da divisione che si è voluta strutturare, negli scritti e nelle parole, tra quella che
chiamiamo vita e quella che chiamiamo morte. Inoltre vi è sempre stata una
liturgia della morte corredata da teschi, falci, fiamme, urla di dolore, giudizi
divini terribili, condanne definitive, inferni eterni. “Dies irae”443 declamava il
celebrante dei funerali di quando ero ragazzo, e poi tutti insieme, in presenza
del cadavere ci chiedevamo chi potesse sostenere il giudizio divino, ipotizzan-
do la possibilità di andare nelle fiamme eterne dell’inferno: Domine, Domine
qui sustinebit, “Signore, Signore chi sosterrà (il tuo giudizio)”. Il peccato da
cui nessuno sfugge, un Dio decisamente giudice, e non espressione di amore,
sono stati profondamente incidenti nella costruzione della paura della morte.
Se ci chiediamo perché sia stata scelta una parte delle Scritture dove, invece di
lodare l’amore di Dio, si minacciano i giorni dell’ira, è assai chiaro che, non
sapendo nulla di ciò che avverrà, questa costruzione è stata strutturata per poter
gestire, non la morte, della quale alla nostra liturgia importa ben poco, ma so-
prattutto la vita della gente. Si dice che esiste questa vita e un’altra vita e che si
accede alla vita eterna nell’aldilà attraverso un passaporto che viene concesso
se nell’aldiquà, ci si è comportati secondo parametri rigidi che la gerarchia ci
impone. E in tutta questa confusione la gente muore nella paura, nel terrore,
nella disperazione.

LA PAURA DELLA MORTE


Queste non sono considerazioni vecchie, superate da una nuova dialettica ec-
clesiale, no! È un problema di oggi come è stato un problema di ieri.
Un vescovo cattolico, vivente, insegnante alla Università Cattolica di Milano,
scrive nella prefazione di un suo libro recente:
“Non è la prima volta che mi confronto con il tema della morte, anzi del mo-
rire, per non ipostatizzare una realtà che coincide con la persona umana. Con
uno scritto, sia chiaro; poiché nella vita si incontra la realtà del morire ad ogni
angolo di strada; e nel segreto della meditazione personale non sono capace di
liberarmene tanto facilmente. Una sorta di pensiero ritornante, se non proprio
un’ossessione. (…) Il timore. Il tremore. La paura. La trepidazione. La coster-
nazione. Lo sgomento. Il panico. Quella stretta al cuore e quell’offuscarsi della
mente che attanaglia e circonda, quando ci si misura con l’Assoluto reso storia,
fatto uomo e vivente e regnante e aspettante e giudicante. (…) Caro lettore,

443 Il giorno dell’ira (di Dio)

297
mi spiace se hai già acquistato questo libretto. Ti puoi difendere evitando di
leggerlo. Se appena ti inoltri per qualche pagina, vedrai che l’argomento del
morire non è sfumato, incipriato e cellophanato al punto da non svelare più
nulla o quasi.
No. La paura qui si impone e dilaga. Come è necessario che sia. Ritorna mole-
sta e monotona, pressoché come una fissazione, come un incubo. La paura del
morire e del dopo. (…) Non mi preoccupo più di tanto per salvare la faccia e
darmi un tono. Né mi consola troppo la certezza che si deve morire tutti.
Io sono io. Nessuno può sostituirmi nell’atto di lasciare questo mondo e com-
parire davanti al mio Signore, Giudice morto e risorto per amore.
La gioia viene dopo. Quando dopo.
E vivo una volta sola. Non si dà duplicazione, reiterazione, finta prova. Se
fallisco, fallisco per sempre. Il Signore mi aiuti”.444
Non è questa solo una straziante confessione di un pensiero ossessivo. No!
E’ un urlo disperato di aiuto che viene dall’umanità tutta che è stata lasciata
nell’ignoranza non solo della morte e del suo processo, ma ahimè, della vera
natura della vita.
“Facciamo qualcosa, diciamo a tutti la verità”. scrive Sogyal Rinpoche, il gran-
de saggio tibetano, che io, con grande umiltà, considero uno dei miei maestri
benedetti, nel suo preziosissimo libro: “… Non ci è stato insegnato quasi nulla
su come aiutare chi muore, anche se è una persona cara e vicina, e non siamo
incoraggiati a pensare al futuro del defunto, a come continuerà la sua esistenza,
a come possiamo ancora aiutarlo. Anzi, qualunque pensiero in questo senso ri-
schia di essere bandito come inutile e ridicolo. Tutto ciò dimostra con dolorosa
evidenza, che ora più che mai abbiamo bisogno di un cambiamento radicale
del nostro atteggiamento verso la morte e i morenti. (…) La comprensione
della morte, della natura spirituale della morte e del morire, la conoscenza di
che cosa si può fare per dare aiuto a chi muore, dovrebbe essere diffusa in tutta
la società. Dovrebbe essere insegnata, seriamente e in modo creativo, nelle
scuole e nelle Università, ma soprattutto, ed essenzialmente dovrebbe essere
presente nella formazione dei medici e del personale infermieristico … e di
tutti coloro che assistono i morenti: familiari, sacerdoti di tutte le religioni,
counselor, psicologi e psichiatri”.445
Provate a fare un confronto tra le parole del Vescovo e le parole di Sogyal Rin-

444 Alessandro Maggiolini – La santa paura – L’arte di morire – Ed. Mondadori – Introduzi-
one
445 Sogyal Rinpoche – Il libro tibetano del vivere e del morire – Ed. Ubaldini

298
poche: quanta disperazione nel primo, quanta serenità, quanto amore, quanta
compassione nel secondo. L’uno non sa dove sbattere la sua testa l’altro vuole
aiutare tutti a non morire in condizioni di difficoltà e di ignoranza. Lui sa! Sa
cosa è la morte perché conosce che cosa è la vita. E’ tutto qui il problema. Chi
vive immerso nei misteri e chi invece vive in una profonda conoscenza vissuta
all’interno di se stessi e all’esterno nella creazione dove tutto canta la canzone
della vita. Non si tratta solo di ascoltarla, ma di viverla profondamente cantan-
do all’unisono. Si tratta di non rassegnarsi all’ignoranza di ciò che non si sa, e
si dice non si possa sapere, ma seguire il cammino della conoscenza fin dal suo
primo impulso, dal Divino che conosce se stesso, e poi da noi che possiamo
conoscere Lui, perché Lui siamo noi.
Quanta serenità vi è nell’esperienza diretta, al di là di ogni pensiero, di ogni
schema mentale, là dove la dualità si espande nuovamente nella sua origine,
l’Unità, dove diviene profondamente vero il grande messaggio che il mio Guru
ci ha lasciato: Dio dimora in noi come noi in lui.
Mi ritorna una frase di Monsignor Maggiolini che ho riportato più sopra e che
suona come un invito al lettore, ad aiutare chiunque si trovi nella sua stessa si-
tuazione, ma invece è una attestazione di impotenza: “Ti puoi difendere evitan-
do di leggerlo”, e mi sorge spontanea un’altra domanda: “Perché monsignore
non cerca di difendersi lei dalla sua paura, che lei chiama santa ed io invece
chiamo inutile, anzi dannosa per lei e per gli altri, ricorrendo anche ad altre
tradizioni che abbiano approfondito, più della nostra, l’aspetto della morte, e
sopratutto iniziando a praticare una meditazione che la porti a trascendere. Se
non la trova nella nostra tradizione non è anatema trovarla nello Yoga, o nello
Shivaismo del Kashmir, o nel Buddhismo, o tra i Sufi. Ha forse un, questo si,
sacro timore di perdere qualcosa nell’acquisire nuove conoscenze?”
Diceva il grande Guru di Arunachala Ramana Maharshi: “La paura della morte
non è stata mai di aiuto, né per la morte né per la vita. Non ha mai generato in
noi un senso di non attaccamento. Quindi non è mai stata utile a nessuno, anzi
è sempre stata profondamente nociva”.
La morte è una realtà così presente dalla quale non possiamo difenderci, anche
se per tutta la vita ci sforziamo di non pensarci, perché il solo pensiero ci fa
paura, ci angoscia. Essa tornerà ancora ed ancora di fronte a noi quando dovre-
mo accompagnare all’ultima dimora nostro padre e nostra madre, la moglie o il
marito, e ancora più straziante nella sua realtà, un figlio adolescente.
Ci sarà sempre un momento in cui la morte si impadronirà della nostra mente
e ci scuoterà fino alle più intime fibre.
Abbiamo visto perché abbiamo paura. Vediamo ora se, con quiete e con dol-

299
cezza, possiamo cominciare un cammino di comprensione che ci porti alla
soluzione del problema, all’estinzione della paura, per quanto profonda possa
essere.

ALCUNE CONSIDERAZIONI
La prima considerazione è che la morte non è qualcosa che accadrà nel futuro,
ma è presente nella nostra vita dal momento della nostra nascita.
Spesso sento dire: “Ora sto bene, sono giovane, sono forte, perché devo pensa-
re alla morte? Ci penserò quando sarà il momento”. Questo è un grave errore,
un terribile malinteso. La morte è già in azione, proprio qui e ora. Non avviene
a novant’anni, improvvisamente, la morte non è mai un evento improvviso, ma
è un processo che comincia con la nascita.

I veri filosofi sono sempre occupati nella pratica del morire. Non
è forse filosofia studiare la morte?
(Platone – Il Fedone – 67d, 81°)
Imparate a morire così imparerete a vivere, nessuno ha imparato
a vivere se non ha imparato a morire.
(The book of the craft of dying)
Morite prima di morire. (Muhammad – Hadith 143–E)
La morte è una freccia che è già in volo, e la vostra vita dura solo
fino a quando vi raggiunge. (Hermes)
E’ stupefacente che gli uomini vedendo gli altri morire intorno a
loro dimentichino la morte. (Alì)
Perché certa è la morte per il nato e sicura è la nascita per il mor-
to; quindi sull’inevitabile non dovresti affliggerti.
(Bhagavad Gita II, 27)
Sto cercando di restituire il Divino che è me stesso al Divino che
è il Tutto.(Plotino – Le ultime parole riportate da Porfirio)
Che il mio augurio sia di lasciare questa vita non amando lei ,
ma Te. (Robert Herrich)
Dovremmo portare costantemente la nostra mente verso la mor-
te, e la nostra attenzione preoccupata verso la paura di morire.
Noi facciamo proprio esattamente il contrario: fuggiamo la mor-
te, ma non pensiamo di risolvere la nostra paura della morte.
(Epicuro)

La vita ha in sé due porte di passaggio, una è la nascita e l’altra è la morte,

300
parallele e speculari. Come non temiamo la nascita non dovremmo temere
la morte. Tra questi due processi fondamentali della nostra vita vi sono delle
similitudini impressionanti.
Molti dicono che dovremmo pensare costantemente alla propria morte. Io sono
dell’opinione che pensare non risolve alcun problema, perché il pensiero non
è altro che una manifestazione di qualcosa che già conosciamo. Contemplate
per un istante i vostri pensieri e vi accorgerete che non ci verrà mai in mente
qualcosa che non conosciamo, quindi, se non conosciamo nulla della morte
potremo fare solo delle fantasie, delle teorie, ma mai l’osservazione di una
realtà. Quindi la morte va vissuta, testimoniata, non pensata. In India si dice
che dovremmo avere il darshan della nostra morte. Darshan vuol dire vedere,
vivere attraverso l’esperienza della vista. Un veggente penetra all’interno della
sua esperienza, tra lui e ciò che vede non vi è più nessuna separazione, non vi è
più speculazione, non vi è più pensiero. Il pensatore invece gli gira attorno con
maggiore o minore consapevolezza.
Allora scopriremo che un grande segreto si cela nella morte. Quel fenomeno
che chiamiamo morte, e continuiamo ad evitare, alla prova del proprio darshan
nasconde in sé la rivelazione della vita e del vero scopo della vita.
Pare un paradosso: dovremmo entrare nella esperienza della morte per poter
vivere la vita al massimo delle nostre possibilità perché potremo fare allora
delle scelte che siano in armonia con il suo vero perché, con lo scopo della vita
che si rivela. E possiamo vivere la morte? Assolutamente si!
Se abbiamo avuto il desiderio di vivere l’esperienza del trascendente e non ci
siamo accontentati soltanto della superficialità del vivere il relativo, l’imper-
manente, allora conosciamo esattamente il processo del morire.
La meditazione che ci porta a trascendere è un affascinante tuffo attraverso
tutti i corpi di cui siamo costituiti, il corpo fisico, o corpo di veglia; il corpo
sottile, o corpo di sogno; il corpo causale, o corpo si sonno profondo; fino ad
immergerci e poi a fonderci nel corpo sopracausale, il corpo trascendentale
dell’Essere.
Questo è esattamente il cammino che compiremo al momento della morte,
come vedremo continuando a leggere questo capitolo. Piano, piano, la morte
svelerà i suoi segreti, perderà, come dice S.Paolo, il suo pungiglione, allora la
morte ci canterà la canzone della vita, e riuscirà persino a divenire “amica”.
Un maestro di meditazione, molto conosciuto, vissuto nella seconda metà
del secolo scorso diceva ai suoi discepoli, facendo l’esempio dell’oceano e
dell’onda: “Una volta vista e riconosciuta la vera natura della morte, perché
dovremmo averne paura? (…) Se l’onda ha scoperto che la nascita contiene in

301
sé la morte, se è arrivata a capire che la sua fine è cominciata nel momento stes-
so della sua creazione, il problema svanisce. (…) Il sole comincia a tramontare
nel momento in cui sorge. Un tramonto è tanto reale quanto un’alba; la diffe-
renza sta solo nella direzione. Al tramonto, il sole torna esattamente dov’era
all’alba. (…) chi sa questo non può più opporsi alla realtà delle cose. Accetta
tutto, vive la verità, la conosce, la vede e l’accetta. Con l’accettazione avviene
la trasformazione; solo l’involucro esteriore si forma e si distrugge. L’oceano
continua ad essere quello che è sempre stato; è solo l’onda che ha preso forma
e poi si è disintegrata. (…) Sto insegnando l’arte di morire, perché chi impara
quest’arte diventa esperto anche di quella di vivere. (…) La morte è la soglia
per conoscere, e riconoscere, la vita. (…) Conoscendo la vita, allora saremo
persino capaci di amare la morte”.446 Parole forti, ma che contengono in loro il
carisma dell’esperienza
La seconda considerazione è che chi ha paura si contrae e contraendosi crea
all’interno di sé un blocco. Questo blocco è dato da un’ignoranza che è coltiva-
ta soprattutto qui in occidente. Noi sappiamo che ogni cosa che viviamo, ogni
cosa che conosciamo con i nostri sensi, ogni nostro pensiero è impermanente,
ma viviamo ciò che siamo, ciò che abbiamo come se dovesse durare per sem-
pre. Il blocco si forma perché pur sapendo, per scienza o per ragionamento, che
tutto è impermanente, noi crediamo di poter avere la nostra vita per sempre.
Non è mai il momento per morire!
Ci aggrappiamo a quella che consideriamo la nostra vita con tutte le nostre
forze.
Dovremmo essere in grado di lasciare andare, di creare all’interno di noi la
capacità del distacco. Consiglierei ai cristiani di contemplare bene quella frase
così cruda, ma così profonda di Gesù al giovane che, seguendo le sue tradizio-
ni, voleva andare a seppellire il padre morto. Gesù dice: “Lasciate che i morti
seppelliscano i morti”. Ci attacchiamo a noi anche quando desideriamo che
qualcosa di noi sopravviva nei nostri figli, in ciò che sono stati i nostri rag-
giungimenti, i nostri atti nobili, le nostre eredità. La vita è una continua presa
tragica di qualcosa che ci sfugge sistematicamente dalle mani.
Se la vediamo dal punto di vista di chi vuole trattenere, questa considerazione
è drammatica, ma se la vediamo con gli occhi di chi ha la certezza che il tempo
non è che una sequenza di presenti, come abbiamo già detto nel libro, allora
vivremo il nostro continuo presente con la consapevolezza che esso è la nostra
vita e che, in nessun caso, nessuno può perdere e nessuno può derubarci del

446 Osho – La voce del mistero – Ed. Mondadori pag. 18 e seg.

302
nostro presente, qualunque esso sia.
Allora la morte non ha più presa.
Una volta visto e riconosciuto che la morte è in azione dentro di noi continua-
mente, perché dovremmo averne paura?
Rileggiamo con attenzione il discorso delle Beatitudini e il discorso della
Montagna di Gesù, vi scopriremo come lasciare andare, come non generare
attaccamenti, come in altre parole essere meno dipendenti dal nostro ego e da
ciò che abbiamo e che crediamo nostro nel tempo.
Leggiamo la Bhagavad Gita, essa ci porterà per mano attraverso la destruttu-
razione dei nostri attaccamenti fino alla gloriosa esperienza della libertà dai
nostri schemi mentali, ci porterà a non attaccarci ai frutti delle nostre azioni,
ma a compiere i nostri atti nella consapevolezza del tempo presente, con il
massimo impegno, con tutti noi stessi.
Certe volte sento una profonda tenerezza, una spinta di compassione per coloro
che si affannano sperando di prolungare la loro vita. A parte che vedremo come
la vita non potrà essere allungata neanche di un istante, perché il tempo di vita
è strutturato all’interno di noi in gestazione, il prolungare la nostra vita non ha,
comunque, senso alcuno. Creeremo all’interno di noi una continua paura che
la vita, che abbiamo fatto di tutto per prolungare, cessi per qualche motivo,
improvvisamente.
Maometto nel Corano (XXXI.34) ci ricorda: “Veramente nessuno, se non Dio,
conosce quando verrà la nostra ora; Egli conosce ogni cosa, dalla sorgente
della pioggia a ciò che avviene nell’utero materno. In verità solo Dio è onni-
sciente, conosce ogni cosa”.
La terza considerazione, la più determinante nella prospettiva della morte, è
che la vita non può mai finire, quindi la morte non può essere in nessun modo
considerata come la “fine della vita”.
Tutte le grandi tradizioni religiose e spirituali, tutti i grandi Maestri, ci assicu-
rano, per loro diretta esperienza che la vita è eterna, mai nata, inestinguibile:

La morte non è la fine della vita, è invece un aspetto della vita.


E’ qualcosa che accade nel corso della vita. E’ necessaria per la
nostra evoluzione. La morte non è l’opposto della vita, è solo
una fase della vita, la vita continua a fluire senza sosta.
(Swami Shivananda)
La morte non arresta la nascita, la nascita non arresta la morte.
(Dogen, Maestro Zen)
Colui che sa che l’anima è saggezza, senza vecchiaia, eterna-

303
mente giovane, non teme la morte, poiché sarà libero dai propri
desideri, immortale, perché saprà di essere l’unica cosa esisten-
te, libero da ogni mancanza. (Atharva Veda – X, 8, 43–44)
Non potrà mai conoscere la morte chi non sa che cosa sia la vita.
Conoscete la ragione della vita e conoscerete la ragione della
morte. (Confucio)
Vi ho scritto queste cose perché sappiate che la vostra vita è
eterna. (S. Giovanni – I lettera – 5.13)
Bisogna che l’uomo accetti la morte come accetta la nascita. Fa-
cendo così imparerà allora che non deve morire, ma che la sua
vita è eterna. (Rabbi Yitzahaz – Commento al salmo 118.17)
Nessuno muore, poiché l’anima porta in se stessa i segni della
sua eternità. (Corano – LXXV.38)
Ciò che esiste non può cessare di esistere.
(Bhagavad Gita – II.16)
La morte non è nient’altro che un cambiamento di coscienza da
un luogo di esistenza ad un altro. La vita al contrario è un pro-
cesso che non conosce fine.
(Kirpal Sing – Il mistero della morte – pag.46)
Non vi è mai stato un tempo in cui io non fossi, né tu non fossi,
né tutti questi dominatori di uomini non fossero, né vi sarà mai
un tempo nel quale tutti noi cesseremo di esistere.
(Bhagavad Gita – II.12)
La morte che ispira terrore e stringe il cuore è per me l’annun-
cio di una vita più gioiosa. Dò a lei pienamente il benvenuto.
(Kabir)
La morte è la più grande delle illusioni terrene. Non esiste mor-
te, ma solo un cambiamento delle condizioni di vita. La vita è
continua, ininterrotta, inestinguibile, non nata ed eterna, costan-
te. Essa non finisce con la morte dei corpi che la rivestono.
(Annie Besant – Teosofa)

Nell’uomo questo percorso di cambiamento è generalmente chiamato morte,


ma come sempre in natura, la trasformazione, la morte di una forma, in un
determinato momento o luogo, determina la nascita di un’altra forma, in un
altro momento o luogo, o in un diverso livello di manifestazione. Prendete ad
esempio il ciclo della pianta che diventa seme per tornare pianta, o del vapore
che diviene acqua, spesso ghiaccio, per tornare ad essere acqua e poi vapore.

304
Similmente l’uomo diviene entità visibile quando assume un corpo fisico, re-
cita diversi ruoli, da studente a pensionato, muta la sua struttura da neonato a
vecchio, per poi cambiare ancora una volta il suo aspetto, il suo ruolo, il suo
modo di manifestarsi su altri piani di esistenza ed, eventualmente, ritornare, se
sarà il caso, a recitare un ruolo diverso in questo o altri mondi.
Quindi la morte non è affatto ciò che è creduta nell’opinione comune. Non
esiste una morte contrapposta alla vita, ma solo nascita e morte nel ciclo della
vita.447

Nascita e morte vanno di pari passo nel ciclo eterno della vita
(Ma Anandamayi Ma)
Se la nascita è un divenire, anche la morte è un divenire, è asso-
lutamente non una cessazione; essa segna una tappa sulla lunga
via dell’evoluzione (Shree Aurobindo)
La morte non è la fine della vita. La vita è un processo che non
ha fine. La morte è solo un passaggio fenomenico e necessario.
La dissoluzione del corpo non è diversa dal sonno. Proprio come
l’uomo dorme e poi si sveglia, così devono essere considerate la
nascita e la morte. La morte è come il sonno. La nascita è come
il risveglio. (Swami Shivananda)
Perché temere la morte? Voi morite in ogni istante. Morite tutte
le sere quando vi addormentate, o quando passate dallo stato
di sogno allo stato di veglia. Quando conoscerete questa morte,
allora saprete che la vostra vita, la Coscienza, è assolutamente
eterna. (Shree Ramana Maharshi)
Rifletti su queste gradualità, su questi mutamenti delle forme
che acquista lo spirito dell’uomo e scoprirai il segreto dell’eter-
na Sapienza che le ha formate a immagine della Realtà suprema.
(Rabbi Shimeon)
Non vi è assolutamente dolore al momento della morte. Gente
ignorante ha creato orrore e terrore per la morte. Nei Garuda
Purana e negli Atma Purana sono descritte le sofferenze della
morte affermando che sono come la puntura di 72.000 scorpioni.
Questo è scritto da preti ignoranti che cercano di forzare la gente
sulla via della moksha (liberazione). Nella letteratura spirituale
tutti i grandi esseri illuminati attestano che non vi è il più piccolo

447 Cesare Boni – Dove va l’anima dopo la morte? – Ed. Amrita –

305
segno di dolore nella morte. Essi descrivono la loro esperienza
di morte e lo stato di grande leggerezza e liberazione che hanno
provato lasciando il corpo. Non temete i dolori della morte. Essi
non esistono. Voi siete immortali. (Swami Shivananda – Bliss
divine)

Scrive Leo Shaya: “Non bisogna confondere la morte corporale come un’estin-
zione dell’esistenza. Essa non comporta per l’essere che un cambiamento di
stato, sia che l’anima continui a vivere su un altro piano cosmico, in una nuova
forma di individualità illusoria dell’unica Realtà, sia che con la morte corpora-
le la sua ignoranza e quindi la sua personalità si fonda nella Conoscenza pura
ed eterna del Sé infinito che l’uomo ha cercato nella sua vita terrena.
La morte corporale per il fatto che rappresenta la eliminazione di una con-
sapevolezza ristretta ed effimera dell’esistenza divina simbolizza l’estinzione
dell’ignoranza.
Questa estinzione è sovente chiamata anche “morte psichica” in quanto la mor-
te si dissolve assieme alle lunghe vesti del nostro ego, e nel suo grado supremo
anche “morte spirituale” perché viene a cessare qualsiasi rapporto duale con il
Divino al quale l’essere si unisce.
Allora questa morte può essere anche chiamata “morte dell’anima” perché ces-
sa qualunque aspetto dell’energia psicofisica dell’individuo e quindi l’anima
si fonde nell’Esistenza eterna. (…) Per questo il Profeta – che Allah vegli su
di Lui – ha detto: “Morite prima di morire”. Questo significa “conoscete voi
stessi prima di morire. Allora la morte non permetterà al vostro ego di impri-
gionarvi nell’ignoranza su un altro piano di esistenza”.448

LA MORTE NELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE


Solone, il grande legislatore ateniese in uno dei suoi numerosi viaggi fu rice-
vuto dal Re Creso nel suo palazzo. La sera, dopo cena, il Re disse: “Amico
mio, ho sentito parlare molto della tua saggezza e di quanto hai viaggiato in
cerca della conoscenza. Non posso resistere al desiderio di chiederti quale è
stato l’uomo più felice che tu abbia incontrato”. Solone rispose. “Un ateniese
chiamato Tellus”. Il Re ci rimase molto male. Credeva essere lui l’uomo più
felice della terra per le sue immense ricchezze. Ma Solone continuò: “Mio Re,
tu sei molto ricco e governi molti popoli, ma alla domanda che mi hai posto
non posso risponderti come tu vorresti finché non sarò venuto a conoscenza

448 Leo Shaya – La dottrina sufi dell’Unità – pag.32

306
che sei morto felice, come ha fatto Tellus. I ricchi possono soddisfare tutti i
loro desideri e tutti i loro appetiti ed i poveri, invece, se sono fortunati, possono
contare solo su un corpo sano o su una famiglia con dei bei bambini, la verità
che devi imparare è che non si può dire che un uomo sia stato veramente felice
se non ha accolto la morte come ha accolto la nascita del suoi figli, o l’amore
della propria donna”.449
La morte è la misura della vita, la morte è l’apice, quindi dovremmo fare della
nostra vita una preparazione alla morte.
Nella tradizione occidentale abbiamo molti esempi di esseri che nella morte
hanno dimostrato veramente di essere grandi. Per queste meravigliose creature
la morte non è mai stata un mistero. Socrate è certamente uno di loro. Nel Fe-
done di Platone, Socrate dice chiaramente che la morte è solo una separazione
dell’anima dal corpo e che un uomo saggio ricerca questa possibilità per tutta
la vita perché il corpo è il maggiore ostacolo alla conoscenza della Verità e
assicura che lui si è preparato a dare alla morte il benvenuto come il cigno, in
vicinanza della morte, canta il suo canto migliore.450
Anche Pitagora conosceva la natura della nascita e della morte come un fluire
di causa e di effetto. Ovidio riporta le sue parole: “Nulla è permanente nell’in-
tero mondo. Ogni cosa è un flusso e viene all’esistenza come una apparenza
transeunte. (…) Non vedete che l’anno fluisce in una successione di quattro
stagioni imitando il flusso della nostra vita. All’inizio della primavera la natura
è tenera e piena di linfa come nell’età della fanciullezza. Nella seconda fase
tutto è in fiore come un uomo forte e giovane. L’autunno sopravviene quando
l’ardore della gioventù ci ha lasciato, i capelli diventano grigi sulle tempie e
cadono come le foglie d’autunno. L’inverno viene quando la forza è termina-
ta.
Allo stesso modo si comporta il nostro corpo al momento della morte. Ma
siatene certi, nulla nell’intero universo cessa di esistere. Le cose prendono sol-
tanto una nuova forma.
Uomini, costernati dalla paura di una morte gelida, perché siete così terroriz-
zati dallo Stige, dall’ombra e dalle rime di poeti ignoranti, dal pericolo di un
mondo che non esiste?

449 Erodoto – Le Storie.


450 Da notare che nello Yoga la parola cigno “Hamsa” è la stessa parola che significa “Io sono
Quello”. I grandi Maestri sono chiamati Paramahansa “il grande cigno”. Il significato
mistico del canto del cigno è l’armoniosa canzone del Prana, l’energia vitale, che lascia
il corpo al momento della morte per il meraviglioso ricongiungimento con l’energia della
vita cosmica.

307
I nostri corpi al momento della nostra morte cesseranno di soffrire. Le nostre
anime sono immortali e sono ricevute in una nuova casa dove vivranno e dimo-
reranno quando avranno lasciato la loro residenza precedente”.451
Gli stoici ci hanno insegnato che per superare la paura della morte dobbiamo
pensare ad essa costantemente, nel modo giusto.
Leonardo da Vinci ci ha lasciato detto: “Proprio come un giorno ben speso ci
porta un sonno felice, così una vita ben spesa ci porta una morte felice”.
I grandi filosofi più recenti, da Schopenhauer a Nietsche, da Heidegger a Sar-
tre, a Bertrand Russel, ci hanno portato testimonianze esperienziali della cono-
scenza della morte. Così anche i poeti come Shakespeare e Shelley. Per essi la
morte non è mai stata un mistero, ma un grande segreto che essi hanno rivelato
nei loro pensieri perché gli uomini potessero superare la “grande transizione”
con animo sereno e con la dolce certezza di lasciare un periodo di prove, a
volte severe, e godersi il frutto della loro vita vissuta in una espansione di co-
noscenza e di rapporto d’amore per l’umanità e per la creazione tutta.

Non so quale influenza può aver avuto nella nostra tradizione liturgica la cono-
scenza dell’India antica, ma certo molte frasi, molti concetti sembrano ereditati
per intero da testi indiani molto più vecchi.
Le Upanishad (1200–700 a.C.) dicono: Mrtyor ma amrtam gamaya “condu-
cimi dal mortale all’immortalità”. I nostri sacerdoti declamano: Liberate me
Domine de morte aeterna “liberami, o Signore, dalla morte eterna”.452
Nei Veda (1800–1200 a.C.) si legge: amrtam jyotih “la luce immortale si rive-
li”. Nella nostra tradizione leggiamo: lux aeterna luceat eis “la luce eterna sia
loro rivelata”.
S.Paolo nella lettera ai Corinzi (I.15) scrive: Oh morte dov’è la tua vittoria?
Oh morte dove è il tuo pungiglione? Nell’Atharva Veda (500–400 a.C.) leggia-
mo: kim no mrtyuh karishyati “noi siamo divenuti amici di Dio, cosa può ora
farci la morte?”

IL PROCESSO DEL MORIRE


Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, lo Spirito di Dio, quello che nella
nostra Bibbia “aleggiava sulle acque”; la Shakti dell’Immanifesto che nella

451 Ovidio – Le Metamorfosi – cap.15


452 Le due frasi esprimono in concreto lo stesso concetto, ma è estremamente evidente come
la frase del testo indiano sia positiva, parla di “immortalità”, la nostra scrittura è ancora
una volta opprimente e negativa, parla di “morte eterna”.

308
tradizione indiana kashmirica “manifesta Se stessa sul suo proprio schermo”;
Buddhi che nella verità del Vedanta è la pura Coscienza dell’Essere, Binah che
nella visione cabbalistica si manifesta come le Sephirot dell’albero della vita;
questo Spirito di Dio diviene Spirito dell’uomo manifestandosi come Mente,
per soddisfare la ragione della vita che è la “conoscenza dell’Assoluto nel re-
lativo, dell’Illimitato nel limite”.
La mente, abbiamo visto nel capitolo VII, “il mistero della creazione” si strut-
tura, per assolvere il suo compito di strumento di conoscenza, in intelletto ed
ego, da cui nascono i cinque sensi interni non manifestati (tanmatra).
Da questi hanno origine, struttura e funzione i cinque elementi fondamentali
(bhuta) che costituiscono la forma espressa di ogni tipo di manifestazione:
etere, aria, fuoco, acqua e terra.
Da essi derivano i nostri cinque sensi: udito, tatto, vista, gusto e odorato (jna-
nendriya), che si dotano, per assolvere il loro compito, di organi dell’azione:
orecchi, pelle, occhi, lingua, naso (karmendriya).
Nascono così, formati dai cinque elementi fondamentali, dai sensi, e dagli or-
gani dell’azione, i nostri corpi. Essi serviranno alla mente, tramite l’intelletto e
l’ego, come strumenti efficacissimi per acquisire, in armonia con le altre forme
di creazione, la consapevolezza dell’Essere, che viene ad abitare, sotto forma
di Spirito, questa dimora divina ed essenziale.
Non vi è nulla di misterioso in tutto ciò, non vi è, se lo desideriamo sapere,
nemmeno nulla di profondamente segreto.
Una volta compreso come lo Spirito di Dio che, anche nel Credo della nostra
tradizione, dà la vita alla creatura, ci sarà facile svelare a noi stessi il segreto
della morte.
La morte non è che il processo di riassorbimento graduale o immediato, di-
pende dal tipo di morte, dell’energia vitale dagli strumenti: organi, sensi ed
elementi del nostro corpo.
Tale riassorbimento avviene, sistematicamente, in senso inverso alla sequenza
di formazione del corpo. I primi a perdere energia vitale saranno quindi gli or-
gani dell’azione, gli ultimi ad essere stati costituiti, nel seguente ordine: naso,
lingua, occhi, pelle, orecchi. L’energia vitale di questi verrà riassorbita nei ri-
spettivi sensi che li hanno, a suo tempo, costituiti. Nulla si perde, semplice-
mente essi non potranno più funzionare perché privi dell’elemento energetico
che li rendeva efficienti.
Passeremo poi al riassorbimento dell’energia della vita dai sensi, anche questa
volta in senso contrario alla loro costituzione. Quindi perderanno vigore prima
l’odorato, poi il gusto, poi la vista e infine il tatto e l’udito.

309
La loro energia vitale sarà, anche questa volta, assorbita, rispettivamente, dagli
elementi che li hanno generati.
L’odorato cederà la sua forza all’elemento terra; il gusto all’elemento acqua; la
vista all’elemento fuoco; il tatto all’elemento aria e l’udito all’elemento etere.
A loro tempo anch’essi saranno privati della loro energia: la terra la cederà
all’acqua; l’acqua al fuoco, il fuoco all’aria; l’aria all’etere.
Questa sequenza sarà, per chi è abituato ad accompagnare i terminali, da feno-
meni ben chiari ed evidenti, tali da permettere, a chi ne è capace, interventi di
sostegno e di accompagnamento preziosi per il morente.453
Dovremmo ricordare quello che il mistico indiano Kabir cantava in omaggio
a questa energia vitale:

Tu sei veramente la vita di tutto quello che qui esiste;


anzi, tutti e due i mondi, questo e quell’altro,
sono in te, qui e ora.
E’ da te che è discesa ogni sapienza,
e a te che Dio rivela i suoi segreti.
In breve, sebbene tu appaia così limitato,
l’intero universo risiede in te.

I quattro punti cardinali si unirono con i quattro elementi del


mondo inferiore, aria, fuoco, acqua e terra. Così mescolandoli
insieme, il Santo, benedetto Egli sia, creò un corpo mirabilmente
perfetto. E’ evidente che il corpo umano fu fatto con gli elementi
di entrambi i mondi. I quattro elementi racchiudono in loro il
mistero del carro celeste della santità e richiamano le quattro
lettere che compongono il nome di Dio. (Zohar)
Tutto è nel corpo dell’uomo, lo Spirito puro, le sfere celesti, gli
spazi terrestri. Nel corpo dell’uomo dimora il Signore supremo,
il Padre di tutti gli esseri e la sua Luce. Nel corpo dell’uomo di-
mora Colui che è senza forma, Colui che non può essere limitato
in dimensione, Colui che è al di là di ogni comprensione.
Nel corpo dell’uomo sono contenuti i tesori del Divino, inclusi
i piani di creazione. Nel corpo dell’uomo è celata la luce del-

453 Chi volesse approfondire queste sequenze, o conoscere anche il cammino dell’anima dopo
la morte clinica, può fare riferimento a: Sogyal Rinpoche – Il libro tibetano del vivere e del
morire – Ed. Ubaldini, o : Cesare Boni – Dove va l’anima dopo la morte – Ed. Amrita.

310
lo Spirito Santo. Essa appare meditando sulla parola datami dal
Maestro. Nel corpo dell’uomo sono tutti gli esseri divini e la
perfetta manifestazione del Divino. (Guru Nanak)
Mentre è in noi, nel corpo, noi non la vediamo (la luce di Dio).
Ahimé! In una vita senza vita come questa, o Tulsi, ognuno è
completamente cieco. (Tulsidas – I poemi)
Tutti gli esseri trovano la morte spiacevole e non l’accettano.
Tuttavia, cosa è la morte se non lo svuotamento dell’involucro
del corpo e la liberazione delle due anime (atma e jivatma) im-
prigionate in esso? Dopo le fatiche e le vicissitudini della vita,
le anime si liberano ed il corpo le segue nel riposo. Questo è il
grande ritorno: il non corporeo ha prodotto il corporeo e il corpo
ritorna allo stato di non corporeità. Questa idea del ciclo eterno
è nota a molti, ma solo l’eletto può ricavare delle conseguenze
pratiche positive da essa. (Chiang Tze)
Quando, o caro, un uomo muore, la sua parola si ritrae nella
mente, la mente nel soffio vitale, il soffio vitale nel Tejas, il Tejas
nella Suprema Divinità, qualunque sia questa essenza sottile.
(Chandogya Upanishad – 6, 8.6)
Chiunque lasciando il corpo procede ricordando Me, raggiunge
il mio Essere, non vi è alcun dubbio su questo.
(Bhagavad Gita – VIII, 5)
Quando ha percepito ciò che è senza suono, senza tatto, senza
forma, imperituro, senza sapore, eterno, senza odore, senza prin-
cipio né fine, che sta al di là del grande Atman, che è duraturo,
l’uomo è liberato dalle fauci della morte.
(Katha Upanishad – 3, 15,17)
Il Nome è meglio del buon olio e il giorno della morte è meglio
del giorno della nascita. E’ meglio andare alla casa del lutto, che
andare alla casa del banchetto. (Bibbia – Ecclesiaste – 7.1)
Il Profeta ha veramente detto che nessuno di coloro che ha la-
sciato questo mondo si sente triste e gli dispiace di essere morto,
ma, ahimè, può sentire cento dispiaceri per aver perso un’op-
portunità, dicendo a se stesso: “perché non ho fatto della morte
motivo di vita, della morte che è il magazzino di tutte le fortune
e di tutte le ricchezze”. (Rumi – Le Poesie)

Durante questa fase di riassorbimento l’uomo vive diverse esperienze che ac-

311
compagnano questa transizione chiamata “la dissoluzione esterna del bardo
del morire”.
Sono esperienze spesso testimoniate da coloro che stanno vivendo questo mo-
mento al contempo delicato e liberatorio.
Alla fine del riassorbimento dell’energia vitale dall’elemento terra, il morente
ha una visione, quello che nella letteratura tibetana è chiamato un miraggio
scintillante.
Essi riportano la visione di prati in fiore, picchi di montagna che si stagliano
nel cielo, estensioni pressoché infinite di mare, valli lussureggianti. Il più delle
volte questa visione prende caratteristiche antropomorfiche. I morenti vedono
la mamma morta da tempo, i bimbi vedono la nonna, che vengono loro incon-
tro per rassicurarli ed aiutarli a superare la transizione. Secondo le varie tra-
dizioni sono solo delle visualizzazioni che la nostra mente crea per infonderci
sicurezza, per il superamento di paure o sensi di separazione.
La chiave di un sereno morire è ancora una volta la parola surrender454, cioè
affidarsi al flusso della grazia divina, senza resistenze eccessive. Nella nostra
tradizione diremmo aver fede. In noi vi è già la certezza della verità e della
pace. Non mettiamo delle resistenze e tutto andrà per il meglio.
Al momento del riassorbimento dell’energia vitale dell’elemento acqua avre-
mo, se moriremo, ben inteso, in uno stato di consapevolezza, la visione di una
nebbia densissima che ci toglierà ogni punto di riferimento spaziale. Saremo
immersi anche in una condizione di silenzio rotto solo da una specie di sordo
ronzio di api.
Quando l’acqua verrà riassorbita, inizierà la destrutturazione dell’energia vita-
le dall’elemento fuoco. In questa fase la visione della nebbia densa scomparirà
e si manifesterà alla consapevolezza del morente una fontana di faville di fuoco
rosso vivo, come quelle che escono da un grande fuoco. Tutto sarà più leggero,
meno oppressivo. Nascerà un grande senso di libertà. Non saremo più il mari-
to, la moglie, il padre, la madre o il figlio di nessuno, saremo solo noi stessi.
Coloro che hanno vissuto esperienze di NDE riportano a questo punto di es-
sere stati testimoni della visione della loro vita, ma non è questo il momento
in cui gli atti della nostra vita compariranno di fronte a noi. Questo avverrà in
seguito, molto più in là nel nostro viaggio oltre la soglia della morte. Queste
saranno soltanto le manifestazioni visive dei nostri attaccamenti. Ciò che dob-
biamo lasciare, essendoci particolarmente caro, ed avendo creato in noi una
dipendenza, ci si presenterà sotto forma di immagini. Ci pregheranno di non

454 Surrender : resa, lasciare andare, distaccarsi.

312
essere abbandonate, vorrebbero restare con noi. Ciò non sarà possibile, allora
esse si allontaneranno e non avremo alcuna possibilità di trattenere alcunché.
Ancora una volta la parola chiave è surrender.455
Qui perderemo definitivamente non solo l’uso, ma anche la struttura del nostro
intelletto. D’ora in poi, sia nelle poche ore di vita che trascorreremo ancora
ospiti del nostro corpo, sia nella transizione, sia in tutto l’aldilà, non avremo
più la nostra capacità discriminativa, perché non dovremo più acquisire co-
noscenza, non dovremo più elevare il nostro livello di consapevolezza. Così
come saremo al momento della nostra morte, così saremo per tutto il periodo
che resteremo nell’aldilà.
Dovremmo cominciare a renderci conto che tutte le visioni che avremo nella
fase di dissoluzione esterna sono soltanto frutto della nostra mente. Come ab-
biamo visto già con la visione della “madre”, anche tutte queste visioni sono
pure illusioni, senza nulla di esistente. Spetterà a noi presentarci all’esperienza
avendo fatto un lavoro, in vita, di distacco dai nostri pensieri, dai nostri attac-
camenti, anche dalle nostre abitudini troppo profondamente radicate.
Per far questo dovremmo divenire amici della nostra mente, non dovremmo
mai trattare la mente con severità, né tanto meno mortificarla. Dovremmo es-
sere sempre compassionevoli con essa. Imparate ad ascoltarla ma sappiate che
i Maestri ci insegnano amate la vostra mente, ma non credetele. Cerchiamo di
imparare a distaccarci, gradualmente, da tutte le proiezioni, le creazioni della
nostra mente.
Ancora una volta la meditazione ci sarà di estremo aiuto, perché la meditazio-
ne è vissuta in un distacco, in una sorta di testimonianza dalle creazioni della
mente, dai pensieri, dalle sensazioni.
Rumi, il grande poeta sufi cantava: “La vostra paura della morte è realmente
solo paura di voi stessi. Cercate di scoprire da dove questa paura esce real-
mente”.
A questo punto l’elemento aria si fonderà nell’elemento etere. La visione nella
mente è ora una grande colonna di fuoco, nella quale entreremo. Riconosce-
remo in questa colonna di fuoco il fluire del respiro divino, la luce della vita.
Saremo colmi di entusiasmo e meraviglia.
Il sangue si riassorbirà completamente nel centro del cuore con tre gocce di
sangue che si accoppieranno a tre lunghi respiri finali. Poi il respiro cesserà.
Solo un minimo di calore resterà nel cuore. Il battito cardiaco continuerà, an-
che dopo la cessazione del respiro, per alcuni minuti. Le funzioni vitali saranno

455 Vedi nota 22

313
a questo punto sospese. E’ la morte clinica.
Ma il processo del morire non è ancora completo. Proseguirà con la dissolu-
zione interna, la dissoluzione dell’energia vitale dal complesso psichico, che
finora è totalmente funzionante.

Il giorno in cui i guardiani della casa (le mani) tremeranno, co-


loro che sostengono (le gambe) si curveranno, le macinatrici (i
denti) si fermeranno perché saranno ridotte a poche, quelli che
guardano dalle finestre (gli occhi) si oscureranno, e i due scuri
delle finestre (le palpebre) si chiuderanno sulla strada, diminuirà
il rumore della macina (la voce), tutte le figlie del canto (i toni
della voce) si affievoliranno, mentre i fiori del mandorlo (i ca-
pelli) diverranno bianchi, la locusta (il pene) non si drizzerà più
neanche sotto l’effetto del cappero, allora l’uomo si incammine-
rà verso la dimora della perpetuità e la polvere tornerà alla terra
come prima, e lo Spirito tornerà a Dio che lo ha dato.
(Bibbia – Ecclesiaste. 12, 3–8)
Le 15 parti della natura umana (5 karmindriya, gli organi
dell’azione; 5 jnanindriya, sensi; 5 bhuta, elementi) ritornano
al loro fondamento, la mente, tutti i sensi interni ritornano agli
elementi cosmici corrispondenti (i 5 venti del prana), le azioni
ed il sé, costituito di conoscenza, tutti si unificano nel principio
supremo indistruttibile. (Mundaka Upanishad – 3. 2–7)
Quando un uomo muore porta con sé il permanente “Linga Sa-
tira”, che è costituito dai 5 jnanindriya, dai 5 karmindriya, dai 5
prana, dalla mente e dall’intelletto, dai 5 tanmatra e dal sempre
mutevole magazzino del suo Karma (Karmasraya) che determi-
nano la formazione della nuova vita.
(Swami Shivananda – Bliss divine – 115)
Quando ci si indebolisce per l’età, o ci si infiacchisce per una
malattia, come il frutto del mango, del fico, del pippala, si di-
stacca dal picciolo, così questo Purusha si stacca dalle membra e
seguendo il cammino opposto si affretta al suo luogo di origine,
cioè il respiro. (Brhiad–aranyaka Upanishad – 4.3.36)

Spesso mi viene chiesto se è possibile sfuggire alla morte. Ovviamente la ri-


sposta è no (!) se per morte si considera solo la destrutturazione dell’energia
vitale dal nostro corpo, ma se si intende invece la consapevolezza della vita,

314
la conservazione della beatitudine dell’Essere, allora posso, in tutta sincerità
rispondere si (!).
Completo il ragionamento con due chiarimenti:
1. la morte è necessaria alla vita, come la nascita. Attraverso queste due porte
di passaggio, la vita raggiunge la consapevolezza della sua vera natura e del
suo scopo. Non saremmo mai capaci di conoscere la nostra vera essenza,
chi noi realmente siamo, senza la nostra straordinaria avventura su questo
piano di esistenza. La morte è quindi una “amica della vita” e non una
“nemica”.
2. E’ possibile sfuggire alla presa della morte soltanto “uccidendo” la morte,
e questo può avvenire solamente attraverso le pratiche spirituali che ci por-
tano a sperimentale la trascendenza, la Coscienza dell’Essere, e attraverso
la vera devozione, quella spinta del cuore che sia però espressione del puro
Amore, senza la sia pur vaga intenzione egoistica o duale, ma che ci porti
alla fusione totale con l’Amato. I due devono divenire Uno.
Vincere la morte non significa non lasciare il corpo, ma lasciare il corpo senza
paura, senza attaccamenti, senza rimpianti, sicuri di andare incontro all’espe-
rienza più piena della nostra vera natura interiore.
Ogni meditazione è una piccola esperienza di morte, ed è una esperienza di
morte cosciente, cioè del tipo di morte che ognuno di noi dovrebbe augurarsi
e dovrebbe ricercare.
Noi temiamo la morte perché pensiamo di dover lasciare questo corpo, ciò che
possediamo, la nostra posizione sociale, i nostri affetti.
Ciò che dovremmo realmente temere è il non aver utilizzato il tempo, gli spazi,
la bellezza del mondo che ci circonda, i nostri valori di nascita, la nostra intel-
ligenza, le meravigliose possibilità della nostra mente, il nostro corpo, i nostri
amori, i nostri sentimenti, il nostro entusiasmo, la meraviglia, per entrare in
contatto sistematico con il nostro essere, per entrare in contatto con Dio.
Non dovremmo pensare a Dio solo come una entità astratta, o peggio come
una persona separata da noi, lontana, irraggiungibile, inavvicinabile, ma pen-
siamolo vestire realmente i panni dei nostri sensi sottili, delle nostre intuizioni
più intime, delle nostre gioie, dei nostri dolori, dei nostri momenti facili e di
quelli difficili, della natura, dei nostri sentimenti, della gente che ci circonda.
Così dovremmo capire la realtà del mondo, la vera natura del mondo, la na-
tura di Dio, per noi immediatamente raggiungibile. Così dovremmo capire la
nostra nascita e la nostra morte, come momenti, creati da Dio per poter entrare
in contatto con noi stessi, con Lui, e Lui con noi, poiché Lui ci cerca assai di
più di quanto noi cerchiamo Lui. In quei momenti non abbiamo nulla da fare,

315
se non godere di una sublimazione entusiasmante dei nostri limiti terreni. In
quei momenti non dobbiamo più lavorare, far denaro, conquistare posizioni
di carriera, difendere posizioni sociali, mangiare, bere, divertirci, fare sesso;
dobbiamo solo e soltanto vivere la nostra unità con Lui.
Dovremmo quindi essere certi che non vi è una sola buona ragione per temere
la morte.
Dovremmo veramente pensare che l’esperienza della morte è così naturale
come l’esperienza del sonno o del sogno. Ciò che rende la morte travagliata,
sofferta, temuta, sono le nostre resistenze, la nostra cattiva comprensione, i
nostri attaccamenti, in altre parole la nostra mente. Ma non avviene forse la
stessa cosa con quella che noi chiamiamo vita? Non è forse la nostra mente la
principale responsabile dei nostri travagli, della nostre sofferenze, delle nostre
ansie, delle nostre angosce, delle nostre paure?
Nella tradizione islamica si legge: “Fu chiesto al Profeta, che Dio lo benedica:
chi è il diavolo e chi è il peggior diavolo? Egli rispose: il diavolo sei tu stesso
ed il peggior diavolo sei tu quando non conosci te stesso”.456
Dante si sente dire da Virgilio alle porte dell’Inferno:
Noi siam venuti al luogo ov’io t’ho detto
Che tu vedrai le genti dolorose
Ch’hanno perduto il ben dell’intelletto.457

456 Frithjof Scuon – Comprendere l’Islam – Ed. SE


457 Dante Alighieri – Divina Commedia – Inferno – III, 16

316
CAPITOLO XII
IL MISTERO DELLA PAROLA E DEL SILENZIO
Silenzio.
Faccio silenzio.
Faccio silenzio per sentirTi.
Il silenzio è il recipiente del suono.
Faccio silenzio per perdermi nella Tua voce.
Faccio silenzio affinché la sua pace sia un piacevole
giaciglio per Te, sul quale tu ti distenda
e tu possa assumere tutte le forme che vuoi.
Faccio silenzio perché la vuotezza della mia esistenza
si possa riempire della Tua pienezza.
Il silenzio sia sempre il recipiente della mia esistenza.
Faccio silenzio.
Silenzio.
(Rumi – I poemi sacri)

LA PAROLA
Chi conosce il vero tesoro della “parola”? Eppure fin dall’antichità si è sentita
la grande forza, la grande energia che vi è nel suono, e nella sua articolazione:
la parola.
Tutti i popoli hanno avuto bisogno di un linguaggio, tutti lo hanno strutturato
secondo le loro esigenze, secondo la loro personalità, secondo la loro natura.
Solo molto più tardi l’uomo ha desiderato indagare più a fondo la grande ric-
chezza che la parola, il suono, gli portavano, la loro vera natura, da dove venis-
sero, da cosa fossero generati e quale fosse il loro vero scopo.
Il primo che ci ha regalato uno studio sistematico del suono pare essere stato
il grande veggente dell’India Bhartrhari con il suo Vakyapadiya (Trattato sulle
parole e sulle frasi). Egli ha indagato in maniera sistematica la conoscenza ve-
dica dell’origine del suono, della sua articolazione e del suo significato.458
Nel Tantrismo la nascita del suono e l’articolazione delle lettere è identificata
con l’energia divina stessa (Shakti) che si concretizza, dopo un lungo cammi-
no di conoscenza, nelle formule rituali usate nell’Atharva Veda e raccolte nel
MantraShastra (la scienza dei Mantra).

458 L.Renon – Les pouvoirs de la Parole dans le Rig Veda – Etudes Vediques et Paninèennes
I° pg 1.27

317
“Vac”, un nome femminile, è la prima espressione del termine “parola”, usato
in quasi tutti i libri del Rig Veda, ma il primo inno dedicato interamente a Vac
è nel X mandala (inno 71 e 125). L’inno 71 dedicato a Brhaspati, il dio delle
formule sacre, in cui viene descritta l’origine ed il segreto della sacra parola,
comincia così: “Oh Brhaspati, che fosti la prima manifestazione della Parola
quando questa si preparava a giocare il ruolo dell’azione, a dare un nome alle
cose, una formulazione che ha dato ulteriore potere alla Parola. La Parola, il
Nome, come comparsa per prima nel Rig Veda è la vera essenza di ciò che è
nominato ed è per questo immortale”.
E’ anche indicato che la Parola non è aperta a tutti: “Molti hanno occhi, ma non
riescono a vedere, molti hanno orecchi, ma non riescono ad udire”.459
Anche Gesù ha espresso questa realtà più volte nella sua vita pubblica: “Chi ha
orecchi da intendere, intenda”.460 “Avendo orecchi non udite”.461
Questa certezza esisteva da tempo nelle comunità spirituali ed era già stata
espressa più volte nella Bibbia: “Hanno orecchi e non odono”.462 “L’orecchio
che ascolta e l’occhio che vede li ha fatti l’Eterno”.463 “Il Signore mi ha aperto
l’orecchio”.464 “Egli apre così i loro orecchi ai suoi ammonimenti”.465 “Chi ha
orecchi, ascolti”.466
Nel secondo inno (Rig Veda X.125) la Parola è glorificata come un potere su-
premo. Essa parla e dice: “Io sono colei che detta le regole (rastri), che porta in
sé i tesori, che comprende. Tra coloro che ricevono devozioni io sono la “pri-
ma”. A chi amo concedo potere, capacità di comprendere le formule sacre, io
sono la visione del veggente e la saggezza del saggio. Io pervado cielo e terra.
Sono io che dò nascita al Padre creatore di questo mondo”.
Come si vede la parola è posta addirittura come generatrice del Generatore.
Questo concetto viene ribadito anche nell’VIII mandala del Rig Veda (100.10):
“La Parola quando si prepara a parlare detta le regole agli dei, che a loro volta
creano la dea Parola che viene parlata da tutti gli esseri viventi”. “Tu, o Indra,
divieni grande perché possiedi la Sacra Parola”.
La Parola è identificata con Brahman, l’Assoluto, anche nell’Atharva Veda:

459 Bhartrhari – Vakyapadiya – stanza 4


460 Vangelo di Matteo – 11.15 – Vangelo di Marco – 4.9 – Vangelo di Luca – 8.8
461 Vangelo di Marco – 8.18
462 Bibbia – Salmo 115.6 e 135.17
463 Bibbia – Proverbi – 20.12
464 Bibbia – Isaia – 50.5
465 Bibbia – Giobbe – 36.10
466 Bibbia – Apocalisse – 2.7

318
“Veramente essa fu tutto l’universo prima del suo inizio. Quando si manifestò
essa realmente diede origine all’universo. Erbe, specie e acque nacquero dal
suo suono”.467 “Viraj”468 è quindi identificato con Vac, essa appare come il
principio attivo, che regola e illumina, nutre. Essa è femminile come energia
creativa.
Anche nello Yajur Veda si legge la stessa verità: “Prajapati era, e la Parola era
con Lui, poi essa si staccò da Lui e creò tutta la manifestazione. Fatto ciò che
si perpetua nel continuum, torna da Prajapati”.469
L’approfondimento dei Veda nello studio della musica e del silenzio sono due
Upaveda470: il Gandharva Veda471 che manifesta la musica della creazione in
ogni ora del giorno e il Sthapattya472 che illustra la ricchezza del silenzio.
I Gandharva Veda sono un po’ il seguito del Rig Veda, più alla portata di tutti e
non solo degli iniziati o degli eruditi (pandit), e hanno in sé tutta la conoscenza
del suono. I Rishi, i veggenti, hanno studiato così profondamente il segreto del
suono che hanno scoperto delle musiche naturali che ci mettono in armonia
con il creato in ogni ora del giorno. Un grande Maestro, Maharishi Mahesh
Yogi ha fatto produrre una serie di CD sulla musica dei Gandharva Veda. Nel
commento a quella produzione dice: “Ogni livello della creazione ha una sua
frequenza. Una frequenza si trasforma in un’altra e questo è il modo in cui av-
viene il processo dell’evoluzione. La notte finisce e comincia il giorno. All’al-
ba nasce una nuova freschezza e c’è una diversa frequenza nell’atmosfera. A
mezzogiorno c’è un altro cambio di frequenza, alla sera ancora, a mezzanotte
ancora. La musica dei Gandharva va con lo scorrere del tempo, stabilendo le
sue melodie secondo i cambiamenti della natura. Crea quelle melodie naturali

467 Vangelo di Giovanni – 1.1” In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo
era Dio. Questi era nel principio presso Dio. Tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di Lui
nulla fu fatto. In lui era la vita”.
468 Viraj o Virat: la totalità della creazione grossolana nota anche come Vaishvanara, è la
sintesi universale di ciò che , nell’ordine individuale, è rappresentato dalla corporeità. In
Viraj interagiscono mente e corpo.
469 Prajapati: Il Signore degli esseri prodotti. Espressione di Brahma, il Creatore stesso, che
si manifesta come Saraswati, la Shakti, il potere di Brahma. Importante è la completa
similitudine con il prologo del Vangelo di Giovanni, pur essendo questo circa 2000 anni
più recente.
470 Mentre i Veda sono la conoscenza della Totalità, gli Upaveda sono la conoscenza delle
parti, della creazione.
471 I Gandharva sono i cantori nel cielo, coloro che musicano il silenzio, lo riempiono di
melodia, di freschezza e con la loro musica purificano il parlare.
472 Il Sthappattya Veda è collegato all’Ayur Veda perché una perfetta salute è necessaria per
non avere contrazioni che impedirebbero il silenzio e la sua purificazione.

319
che si accordano con il processo dell’evoluzione. Produce un’influenza armo-
nizzante nell’intera atmosfera”.
Anche la tradizione spirituale ebraica esprime esattamente gli stessi principi,
gli stessi concetti.
“Quando il Santo – sia Egli benedetto – volle creare il mondo, guardò la Torah,
parola per parola, e in corrispondenza di Essa compì l’arte del mondo, giacché
tutte le parole e tutte le azioni di tutti i mondi sono nella Torah”.473
Dio dà vita all’intero universo attraverso la semplice contemplazione della Pa-
rola.
Dal silenzio che domina la scena nasce il mondo quando il silenzio si articola
in suono. Vi è quindi questa sequenza: silenzio – lo sguardo divino in se stesso
– la nascita del suono – la creazione delle forme.
Avete notato Dio non legge la Torah, semplicemente la guarda.
La creazione non è tuttavia completa fino alla formazione dell’uomo. Per com-
pletare la creazione lo sguardo di Dio si completa nello sguardo dell’uomo
verso Dio.
Come il Divino guarda la Torah per creare l’uomo, così l’uomo guarda la To-
rah per ritrovare Dio.
“Quando il mondo fu creato nulla esistette fino al momento in cui Egli decise
di creare l’uomo affinché studiasse la Torah e il mondo potesse esistere in essa.
Pertanto chiunque guarda la Torah e la studia, fa sì, per così dire, che esista il
mondo intero. Il Santo, sia Egli benedetto, guardò la Torah e creò il mondo e
l’uomo guarda la Torah e fa esistere il mondo. Ne consegue che la Torah è ciò
che realizza e sostiene tutto il mondo”.474
“Dio con la Sapienza creò la terra”.475
“Il Signore creò la terra con la Sapienza, ha consolidato i cieli con l’Intel-
ligenza e dalla sua Conoscenza sono stati aperti gli abissi e le nubi stillano
rugiada”.476
Le lettere delle lingue non convenzionali (sanscrito–ebraico antico–aramaico)
sono l’espressione della potenza divina e sono capaci di portare e conserva-

473 Sefer–ha Zohar– Il libro dello Splendore II.161 a– I rinvii alla Zohar si riferiscono alla
numerazione dell’edizione apparsa a Mantova 1558 – 1560.
474 Sefer –ha–Zohar II.201. La visione che la Sapienza (Conoscenza) abbia preceduto la crea-
zione si riscontra anche nella Bibbia – Proverbi 22.30 “Quando Egli fissava i cieli Io ero
presente (…) Io ero accanto a Lui quale architetto”. Chi volesse approfondire il ruolo della
Parola come creatrice può leggere: P.Capelli La Parola creatrice in India e Medio oriente.
Ed. Giardini, Pisa 1994
475 Bet ha–Midrasch
476 Bibbia – Salmi – 3.19

320
re nella creazione manifesta l’impulso del Divino. Le lettere sono un legame
indissolubile che unisce i Nomi di Dio. L’energia racchiusa nelle lettere, che
trascende i grandi limiti che si riscontrano nella conoscenza razionale, è capace
di legare la molteplicità di tutto ciò che è manifestato alla profondità dell’es-
senza del Creatore stesso.
Come vi è uno studio profondo della Parola nel Veda e specie nei Vedanga così
vi è nella mistica ebraica.
“L’intera Torah è composta di Nomi del Santo, sia Egli benedetto, e perciò
salva e protegge l’uomo”.477
Ricordando quanto ho già scritto sul Mantra nel capitolo VIII e cioè che il
significato della parola Mantra è anche “protegge colui che lo ripete” è curioso
il parallelo con gli Skanda Purana: “Anche una sola lettera della Guru Gita è
un mantra supremo. Si dovrebbe ripeterla. Tutti gli altri mantra di diverso tipo
non valgono nemmeno la sessantesima parte di essa”.478
Nel medio–evo, nella tradizione hassidica i grandi Maestri erano chiamati
“ba’ale Shem”, “I Signori del Nome”. Il più famoso è il Ba’al Shem Tov.
Il cabbalista usa le lettere dell’alfabeto con lo stesso spirito con cui il musicista
del Gandharva Veda usava i vocalizzi della natura o l’alchimista tramutava
i metalli ricavando, attraverso successive purificazioni, elementi sempre più
puri e cioè significati sempre più profondi e assoluti.
Anche gli studi più moderni hanno cominciato a scoprire affascinanti verità
sul suono come creazione. Dice Alfred Tomatis, un medico otorino che ha de-
dicato la sua vita allo studio della voce e dell’emissione vocale: “La creazione
è una realizzazione generata dal suono che si diffonde nello spazio facendo
nascere il tempo. Il cosmo è dunque un suono iniziale che si diffonde in uno
spazio infinito secondo varie modalità. L’evoluzione del mondo è il risultato
di questo suono attraverso il tempo (…) secondo un ordine che ci sorprende in
ogni istante, e la nostra meraviglia aumenta nella misura in cui vi penetriamo
per comprendere meglio chi siamo. Man mano che la velocità media delle mo-
lecole aumenta, la materia si mette a cantare secondo modalità diverse. Si tratta
di un’autentica musica di fondo479, di cui non sappiamo ancora comprendere
le motivazioni”.480
Marius Schneider, uno scrittore tedesco che si è dedicato particolarmente allo

477 Sefer simmus Tehillim (libro dell’uso dei Salmi) – I.1


478 Skanda Purana – Guru Gita – verso 133.
479 E’ il sono della lettera “M” nell’OM, nell’AMEN, nella parola ebraica SHEM, il suono del
“continuum” della creazione senza tempo, senza inizio né fine.
480 Alfred Tomatis – Ascoltare l’universo – pag 87 Ed. Baldini e Castoldi, 1998

321
studio della musica ha scritto: “Il suono della vibrazione primordiale si è sa-
crificato per espandersi progressivamente in una spirale ritmica e crescente
di vibrazioni sempre più alte e più specifiche fino a condensarsi, pietrificarsi,
incarnarsi in un continuum di creazione”.
Alcuni naturalisti hanno scoperto come la vibrazione sonora sia alla base di
ogni espressione dell’universo. Essi hanno fatto risuonare una sottile placca di
vetro (Ernst Chladni 1756–1827) o una placca di metallo (Hans Jenny 1904–
1972), con sopra della sabbia o talvolta anche dell’acqua, con della musica o
delle vibrazioni sonore. Hanno dimostrato che i suoni modellano la sabbia o
gli altri elementi formando disegni diversi a seconda del tipo di suono e del
numero di Hertz, onde elettromagnetiche. Sulla base delle vibrazioni emesse,
la materia entra in risonanza, come un diapason entra in risonanza quando
vibra un altro diapason. Guardando queste immagini è impressionante vedere
la similitudine tra le figure formate dalle vibrazioni acustiche sulle placche e
le forme naturali. Risulta evidente come ogni espressione naturale abbia la sua
vibrazione e a seconda della vibrazione si manifesti in modi diversi.
Un altro scrittore tedesco, Schelling giunge alla stessa conclusione: “La tota-
lità del mondo materiale è una musica gradualmente condensata, una somma
di vibrazioni le cui frequenze aumentano nella massa, man mano che si mate-
rializza”.
Nella creazione una vibrazione iniziale si diffonde con un movimento circolare
(tutto nella creazione ruota, dall’elettrone, all’atomo, ai pianeti). Alfred Toma-
tis dice ancora: “Ogni atomo o molecola non sono altro che la rappresentazione
fisica di un fenomeno vibratorio, quindi sonico, più o meno complesso”.
Ogni vibrazione ha quindi un suono, l’accoppiamento di tutti questi suoni ge-
nera un’orchestra meravigliosa. Si comincia con un suono sottile che poi si
espande, si separa, diventano due, nasce il ritmo e poi i suoni si moltiplicano e
nasce quella che viene chiamata la “musica delle sfere”. Questa musica sottile,
quando risuona nel mondo materiale attraverso dei mezzi di risonanza fisica,
come la voce o gli strumenti, si esprime nella musica che noi sentiamo o cre-
iamo. Tuttavia, secondo quello che dicono i Maestri, la musica che sentiamo
è una espressione minima e limitata comparata alla meraviglia e all’armonia
della musica divina. Il grande saggio musicista Hazrat Inayat Khan dice: “La
vita assoluta da cui è nato tutto ciò che viene percepito, visto o sentito, e in cui,
a suo tempo tutto si ri–immergerà, è silenziosa, immobile ed eterna. Dai Sufi
viene chiamata ZAT. Ogni movimento che sorge da questa vita silenziosa è una
vibrazione, che è a sua volta creatrice di vibrazioni. All’interno di una vibra-
zione vengono create innumerevoli altre vibrazioni. Come il movimento causa

322
movimento, così la vita silenziosa diviene attiva in alcune sue parti e crea
sempre maggiore attività, perdendo così la pace del suo stato originario di vita
silenziosa. E’ il grado di attività di queste vibrazioni che determina i vari piani
di esistenza. Questi piani sembrano differire gli uni dagli altri, ma in realtà non
possono essere separati. E’ l’attività delle vibrazioni che li rende più densi e
così la terra è nata dai cieli. I regni minerale, animale e umano sono graduali
cambiamenti di vibrazioni e le vibrazioni di ogni piano sono differenti, ma
l’essenza è la stessa, è la stessa energia che è luce e suono insieme”.

OM, LA VIBRAZIONE SEME


Quando Vac si articola nella sillaba più sacra del Sacro (OM:AUM), simbolo
dell’Assoluto–Brahman, dell’Infinito, e di tutte le espressioni della totalità, è
al tempo stesso anche fuori dal tempo, si identifica con l’Unità assoluta (non
duale), che la trascende, allora Vac viene espressa con la parola akshara, l’in-
distruttibile, l’indissolubile, l’imperituro.

Come tutti i fogli d’un manoscritto sono perforati da un’astic-


ciola che li tiene uniti, così tutta la parola del Veda è perforata
dalla sillaba OM che ad esso conferisce unità, suono e significa-
to. La sillaba Om è tutto questo universo.
(Chandogya Upanishad – 2.23.4)
Queste parole dice l’AMEN (OM), il testimone fedele e verace,
il principio della creazione di Dio
(S.Giovanni – Apocalisse – 3.14)

OM è composto di tre fonemi che sono visti come l’essenza dei tre Veda:
A : Rig Veda, U : Sama Veda, M : Yajur Veda.
Nella lettera A sono contenuti anche i fonemi U e M così come nel Rig Veda
sono contenuti il Sama e lo Yajur Veda. I tre fonemi sono collegati alle tre divi-
nità Rudra, Brahma e Vishnu e alle loro Shakti (Kali, Saraswati e Lakshmi).

In verità, o Satyakama, la sillaba Om : AUM è il Brahman su-


periore e inferiore. Perciò chi la conosce ottiene con questo solo
mezzo l’uno o l’altro mondo. Quando egli medita sulla sola let-
tera A, illuminato da questa soltanto, torna rapidamente alla ter-
ra. Gli inni del Rig Veda lo riconducono al mondo degli uomini
e qui, dedito all’ascesi, alla continenza, alla fede, gode di grande
stima. Se poi s’assorbe nel pensiero delle due lettere A–U, viene

323
trasportato dalle formule dello Yajur Veda al mondo della luna.
Dopo aver goduto la prosperità nel mondo della luna, torna in
terra.
Colui che medita sull’Essere supremo per mezzo delle tre lettere
A,U,M, ossia con l’intera sillaba OM giunge nello splendore del
sole (…) Dalle melodie del Sama Veda viene sollevato al mondo
di Brahman e da questo, che è il sommo ricettacolo dei viventi,
contempla lo Spirito Supremo che abita nel cuore di ognuno.
(Chandogya Upanishad – 2 e seg.)
La forma del Brahman puro, che risiede nello spazio etereo, è la
luce suprema481. In verità la forma del Brahman puro, che risiede
nello spazio etereo è la sillaba OM. (…) Perciò bisogna meditare
sullo splendore infinito con la sillaba OM.
(Maitri Upanishad – 6.36)
Una parola disse il Padre e questa parola era il Figlio, la creatura,
e questa parola egli continua a dire nell’eterno silenzio e nel si-
lenzio deve essere udita dall’anima. (S.Giovanni della Croce)
Aver compreso che nulla si ottiene facendo domande su quel
suono, ma che esso deve essere percepito e meditato nel si-
lenzio, questo è il segno che si è ottenuto “il grande risultato”.
(Chuang Tze)

La Parola Vac si dispiega su quattro livelli: Paravac – Pashyanti – Madhyama


e Vaikhari.482
Questa è la stupenda avventura della parola: l’Assoluto si completa nella sua
Shakti e dal livello della Shakti emerge il livello di Nada, con il quale si può
dire cominci la condensazione del livello primordiale del suono. Questa con-
densazione non può ancora essere percepita, perciò, potremmo dire che, se
Nada è effettivamente la prima forma virtuale di suono, esso rimane comunque
ancora impercettibile.
Nada è la prima risonanza della Suprema Parola, della vibrazione (spanda) che
dà vita al principio primario,483 ed è chiamata anche Paravac.
Ksemaraja spiega che quando l’energia riconosce in sé il primo impulso creati-

481 Vangelo di Giovanni – 1.4: “In Lei (la Parola) era la vita, e la vita era la luce degli uo-
mini”.
482 Rig Veda – I°.164.45
483 Dove esso si manifesti nel corpo sottile dell’uomo non è del tutto definito. Le varie scuole
si differenziano. Alcune dicono sia nel Muladhara Chakra, altri in Svadistana.

324
vo (spanda), che non è altro che se stesso in forma di vibrazione, percepita, ma
non ancora manifesta (nada), nasce la prima attitudine della Shakti a giocare il
ruolo di Intelligenza creativa.
Iayarath, nel suo commento al Tantrasara, descrive il livello di Nada come Co-
scienza che trascende l’universo e la pura consapevolezza. Prosegue dicendo
che Nada è il suono “non percepito”, quasi immanifesto, in cui i fenomeni non
sono ancora differenziati.
Da questo suono non percepito, Paravac, nascono i successivi tre livelli del
suono, che si accoppiano alle tre forme di Shakti che abbiamo già incontrato:

Pashyanti Iccha Shakti U Sonno profondo Manipura (ombelico)


Madhyama Jnana Shakti I Sogno Anahata (cuore)
Vaikhari Kriya Shakti E Veglia Vishudda (gola)

Il Lakshmi Tantra distingue questi quattro livelli del parlare nel capitolo 51.
L’Assoluto parla e dice: “Fatto di pura Coscienza, io evolvo prima come pra-
na, poi attraverso alcuni movimenti vengo trasformato in suono (shabda), poi
in paravak, pashyanti, madhyama e vaikhari, evolvendo da queste quattro for-
me in ciò che esprime e in ciò che è espresso. Dallo stato di madhyama, dove
vengo anche chiamato bindhu, in cui la totalità dei fonemi e i corrispondenti
aspetti della creazione sono compresi, entro nello stato di vaikhari, dove, divi-
dendomi in 50 lettere dell’alfabeto, manifesto me stesso come suoni e relativi
significati. Chi conoscendo questo processo è in grado di trascendere la forma
manifesta del suono, giunge all’esperienza di ciò che è al di là del suono”.
Seguendo i lavori di Abhinavagupta o di Ksemaraja484, siamo in grado di appro-
fondire questi quattro livelli e capire molto di più del segreto delle scritture.
Se torniamo ai 36 tattva dello Shivaismo del Kashmir possiamo collocare Pa-
ravak al di là dei tattva, al livello di Paramashiva, il Signore Supremo, che
esiste come Shiva/Shakti e vibra come aham (io sono).
Pashiantivak appare al livello di Sadashiva tattva, il primo principio creato,
aham/idam.
Madhyamavak si manifesta al livello di Isvara tattva e Vaikarivak, il parlare
espresso, nasce influenzato da Maya–tattva e si manifesta in tutti i restanti
tattva.

484 Shantarasa and Abhinavagupta’s philosophy – Poona 1963 – cap.II° pag.80

325
LA STUPENDA AVVENTURA DELLA PAROLA
Paravac appare come parola primordiale, non creata, la vera essenza della Re-
altà più alta, sempre presente e onnipervadente. Essa è identica alla luminosa
pura Coscienza (chit) che è l’ultima Realtà.
“Paravac è Coscienza. E’ l’autoconsapevolezza sorta spontaneamente, la più
alta libertà e la sovranità del Signore Supremo. La luminosità pulsante è il puro
essere, non espresso in tempo e spazio. Come essenza di tutte le cosa è detto
essere il cuore del Signore Supremo”.485
Essa è considerata la vibrazione luminosa che è colei che sollecita la pura
Coscienza a vibrare e a prepararsi alla manifestazione. Essa contiene in sé,
nello stato primordiale indifferenziato, non solo ogni stadio della parola e del
parlare, ma anche ciò che da essa nasce e cioè frasi, pensieri, azioni e oggetti
che si manifesteranno in questo universo.
Essa è quindi il seme della manifestazione. Ma Paravac è più che il punto
iniziale della manifestazione, essa è più che la sorgente o il ricettacolo di ogni
cosa creata, essa è il primo impulso della vita stessa che nasce dalla illumi-
nazione della Coscienza, dal puro Essere trascendente, illimitato, immobile,
inesprimibile.
E’, quindi, la pura Coscienza che conosce se stessa.
Abhinavagupta scrive: “Essa (Paravac) è colei che genera il livello di Pashyan-
ti e gli altri livelli dopo di lei. Senza di lei, luce della Coscienza, solo buio
e incoscienza prevarrebbero” e prosegue dicendo: “ogni cosa, pietre, alberi,
uccelli, esseri umani e via dicendo sono null’altro che la Suprema Parola, pre-
sente in essi e costituente ogni cosa”.
Paravac è identificata con la trasformazione di “prakasha” in “vimarsha”. E’
infatti anche chiamata “prakasha–vimarsha maya” essendo essa, sia luce indif-
ferenziata della pura Coscienza (prakasha), che consapevolezza, realizzazione
sempre più manifesta di questa pura luce (vimarsha).
Questi due aspetti non possono essere separati e trovano la loro espressione
unitaria proprio in Paravac.

Pashyanti appare quando in Paravac nasce una tendenza verso la manifesta-


zione, ed è così considerato il secondo livello del parlare.
Nasce dalla Suprema Parola ed è identica ad essa, nella sua vera natura essen-
ziale, ma non possiede né la trascendenza, né l’onnipervadenza di Paravac.

485 Isvara–pratyabijna–karika – 1.5.13–4 – traduzione di Mark S.G. Dyczkowski – La dot-


trina della vibrazione (1987)– pag.196

326
La traduzione di Pashyanti, nella semantica moderna, sarebbe “virtuale”, per-
ché in questo livello emerge nella pura Coscienza una sorta di desiderio di
vedere, una quale iniziale visione di ciò che sarà in seguito manifestato nei
livelli seguenti del parlare.
Vi è in Pashyanti solo una tendenza “verso”, ma ancora nessuna oggettività,
in quanto possiamo senz’altro dire che la pura soggettività della Coscienza è
ancora l’impulso prevalente e dominante. Abhinavagupta scrive che “i primi
di quella che sarà la manifestazione oggettiva, la differenziazione dell’Uno,
cominciano ad essere vagamente concepiti in Pashyanti, una sorta di desiderio
di esprimersi, di caratterizzarsi”.486
Quindi, benché differente da Paravac, Pashyanti è tuttavia, ancora, molto vici-
na alla Suprema Parola.
Pashyanti potrebbe, quindi, anche essere definita come “il momento iniziale,
indifferenziato della Coscienza che precede la consapevolezza della manifesta-
zione dualistica, cioè dove ciò che è espresso e la sua matrice inespressa non
sono ancora divise”.
Quella di Pashyanti è quindi una condizione ambigua in quanto rappresenta un
impulso di transizione tra la completa indifferenziazione e l’inizio del deside-
rio di differenziarsi.
In alcuni commentatori, ma in realtà anche in alcuni veggenti, come Bhartriha-
ri, questi due livelli sono stati visti come uno soltanto e identificato a livello
di Manipura, il chakra dell’ombelico, ma i grandi Maestri, come Utpaladeva
o Abhinavagupta hanno chiarito in maniera profonda la pur sottile differenza
tra questi due livelli.
Pashyanti è stato identificato da questi due grandi Rishi con Iccha Shakti, il po-
tere della volontà, il primo impulso pre–cognitivo che corrisponde al momento
che segue la prima completa Coscienza indifferenziata.
Questo momento, come abbiamo visto, è caratterizzato, però, già dalla sottile
vibrazione che Prakasha, la luce della conoscenza, induce sull’oceano illimita-
to della Coscienza indifferenziata e totalmente quieta.

E’ questa sottilissima vibrazione della pace assoluta che genera il primo impul-
so della conoscenza dell’Uno in se stesso.
Nasce quindi dall’attenzione proiettata su se stesso il primo, vago, ancora non
identificato momento di conoscenza che si svilupperà in seguito in “Madhya-
ma”, il livello intermedio del parlare, che sarà riconosciuto come Jnana Shakti,

486 Shantarasa and Abhinavagupta’s philosophy – Poona 1963 – cap.II° pag 82

327
il potere della conoscenza dell’Uno in se stesso.

Madhyama: pur riposando sempre in Paravac e sorgendo da essa il movimento


virtuale che si riscontra a livello di Pashyanti, la Parola inizia ad esprimersi in un
terzo stadio, uno stadio intermedio, “madhyama”. E’ chiamato così perché è in
una posizione intermedia tra la sottile e ancora indifferenziata parola (Pashyanti)
e il manifesto, articolato livello della parola grossolana (Vaikhari).
Madhyama esce dalla condizione indifferenziata.
Abbiamo visto come in Pashyanti non vi sia altro che un “desiderio di divi-
sione della parola in fonemi, parole e frasi; qui in Madhyama questa divisione
si realizza effettivamente. Finalmente appare la condizione, sia pur non an-
cora organizzata, del linguaggio che non è più totalmente mancante come in
Pashyanti, non è ancora articolata ed espressa come sarà in Vaikhari.
In Madhyama appare la coscienza linguistica. In essa fonemi, parole e frasi
sono presenti, ma sono ancora per così dire “ammassati” in un insieme di ma-
teriali che costituiscono il linguaggio, ma esso non è ancora in grado di espri-
mersi come suono/significato.
A livello individuale della cognizione, questo è il piano in cui la mente muove
verso un livello analitico e diventa consapevole non solo della differenziazione
innata nel pensiero cognitivo e nel linguaggio, ma anche di una differenziazio-
ne tra i segni, la loro articolazione in suono e ciò che i segni manifestano come
significato o come riferimento soggettivo e oggettivo.
Bisogna comunque chiarire che, benché i segni esistano già nel suono, non
hanno ancora una loro esistenza fisica. Essi sono ancora o mentali (per la con-
sapevolezza individuale) o semplicemente suono (nella consapevolezza og-
gettiva).
Abhinavagupta spiega che: “il livello di Madhyama è quello di una forma di
coscienza dove il mondo oggettivo, benché ormai manifesto, rimane “coperto”
dalla soggettività”.
In Madhyama la conoscenza soggettiva è già completa, realizzata, ma non ha
ancora il livello della espressione manifesta.
La mente a livello di Madhyama, mette in gioco l’intelletto (buddhi) capace di
discriminare, di analizzare, di differenziare, di scegliere, ma in maniera ancora
decisamente impersonale, quindi, malgrado la costruzione dei pensieri e il pen-
siero discorsivo siano già presenti essi sono in qualche modo soltanto di una
natura che non è ancora in grado di identificare il significato che è accoppiato
al suono.
Per questo nasce l’ultimo livello del parlare.

328
Vaikhari è lo stato in cui la differenziazione è completamente manifestata,
unita alla contrazione spazio/tempo. Il processo del linguaggio è pienamente
manifesto. Qui siamo in una sfera di oggettività, non solo mentalmente, ma
fisicamente individuabile.
La luce divina che si è espressa come conoscenza dell’Uno in se stesso diviene
qui la conoscenza dell’oggetto e del differente. Qui si esercita la facoltà di scel-
ta, qui si osserva la vibrazione dei livelli precedenti e si compone il linguaggio
che sia consono ad esprimere pensieri, concetti, sentimenti, emozioni, scelte
nel mondo della dualità e della differenziazione.
Il movimento nel quale la parola si sviluppa da uno stato supremo, incondizio-
nato, in uno stato vibratorio di un suono organizzato in linguaggio, come per-
cepito in questo mondo, e che genera il graduale emergere di ogni cosa creata,
può essere meglio compreso se prendiamo in esame il perché della nascita dei
fonemi sanscriti.
La differenziazione del movimento, in una successiva graduale condensazione
e solidificazione dell’energia della parola, porta alla manifestazione i 36 livelli
della creazione rivelati dalle scritture tantriche, o i più condensati 25 livelli
della scrittura vedantica, i tattva, in cui l’intera manifestazione prende vita.
Se approfondiamo da dove origina questo sistema di emanazione fonetica ci
troviamo davanti a delle scoperte eccezionali, a dei legami imprevisti tra popo-
li e nazioni che sembrerebbero non aver avuto contatti tra loro.

LA PAROLA NELLE SCRITTURE


Le scritture più antiche sulla storia del linguaggio risalgono addirittura al ven-
tesimo secolo prima della venuta del Cristo, ma il più sistematico studio a cui
possiamo fare riferimento può essere ascritto a Nandikeshvava, contempora-
neo di Maharishi Patanjali (300 a.C.) in cui si prende in esame il parallelo tra
suono e significato.487
Ad esempio nel sutra 3 si definisce il fonema “A” come il potere della pura Co-
scienza, dell’Assoluto immanifesto, espresso nel suono primordiale “A” libero
da ogni contrazione e lo si chiama avarna: il non fonema. Non a caso il suono
del fonema “A” è il primo di qualsiasi alfabeto.
“A” è quindi l’origine di ogni successiva differenziazione, il primitivo risve-
glio della totalità dello sviluppo della parola, che sarà poi sempre il suono

487 D.Ruegg – Contributions à l’histoire de la philosophie linguistique indienne – pag.108–


109

329
dell’Uno che si dividerà in forme diverse.
E’ da questa divisione che prendono vita i vari fonemi, vocali e consonanti che
definiscono il linguaggio espresso.
Nascono, quindi in sanscrito le prime tre vocali corte a,i,u, da cui si manifesta-
no le stesse tre vocali lunghe.
Nasceranno, quindi, poi le altre vocali e poi gradualmente le altre consonanti.
Le vocali associate alla loro natura trascendente, sono i fonemi “seme” di tutte
le altre lettere dell’alfabeto.
Le prime tre vocali seme, a,i,u, sono la manifestazione delle tre fondamentali
energie di Shiva, la suprema ed assoluta energia della Coscienza, di cui “A” è
l’espressione del suo stato trascendente (anuttara); “I” è l’espressione sonora
di “iccha shakti”, il potere della volontà e “U” è l’espressione sonora di “jnana
shakti”, il potere della conoscenza (unmesha). Tutte le espressioni successive
del linguaggio sono la manifestazione di “kriya shakti”, il potere dell’azio-
ne. Da esse, abbiamo detto, nascono, gradualmente, le altre 13 vocali e poi le
consonanti come differenti aspetti della divina energia creatrice, dallo stato
trascendente allo stato pienamente espresso dell’attività creativa del Divino.
Questo garantisce che il linguaggio così espresso sarà eterno, come eterna è la
creazione, e sarà immutevole in una creazione continuamente in movimento.
“A” è quindi la più alta e la più pura forma manifestata dell’essere di Shiva,
chiamata anche Chit–Shakti, l’energia della pura Coscienza.
Questo suono è il fonema originario, da cui tutti gli altri si manifestano e ad
esso ritornano “come perle su una collana”.488
Il suono “A” manifesta la pura, assoluta, suprema Coscienza nel suo stato di
pienezza.
Abhinavagupta dice: “A” è la totalità del potere non soggetto a Maya, al di là
del primo impulso creativo, nell’essenza dell’oceano senza vibrazioni della
Coscienza che riposa nella grande luce dell’Assoluto. Essa si manifesta dal
primo all’ultimo stadio dell’emanazione, essendo la condizione di pienezza del
supremo “Io”, nella sua totale consapevolezza dell’universo come un prodotto
dell’effulgente emanazione della Pura Energia.489
“A” è quindi onnipervadente. Essendo pura energia è la pura Coscienza, sul
piano trascendente essa è senza dubbio al di là di ogni manifestazione.
Questo è, come abbiamo già detto, ma vale la pena ripeterlo e ricordarlo, chia-
ramente espresso anche nella Cabbalah dove “alef”, il primo suono è totalmen-

488 Shiva sutra :”Dio è una collana di lettere”


489 Abhinavagupta – Paratrimshika – Srinagar 1918 pag.27

330
te inespresso e inesprimibile, generatore di “beth”, il suono che è espresso “nel
principio”, prima della prima manifestazione creata. Questo stesso principio
viene ripreso da Giovanni nel prologo del suo vangelo, quando parla del “prin-
cipio” come “bereshit” e dice anch’egli come la Parola “abbia creato il mon-
do intero”. Il concetto però non è nuovo perché ripetuto più volte nell’antico
testamento: “dalla Parola del Signore furono fatti i cieli”490; “Dio dei Padri e
Signore di misericordia che tutto hai creato con la tua Parola”491.
Abbiamo già visto come il processo della vita trovi inizio proprio dalla vocale
“A” di “ANA”.
“A”: espressione dell’Uno nella sua pura trascendenza.
“N”: negazione dello stato assoluto nella creazione contratta.
“A”: suono del ritorno alla Coscienza dell’Essere, come ragione e scopo della
vita.
Lo stesso gioco creativo si riscontra nel fonema OM (AUM) come espressione
sonora del dittongo AU che si manifesta nel continuum senza tempo di cui “M”
è espressione.

Vedremo tra poco come la prima frase del Rig Veda ribadisca proprio questo
gioco divino estendendolo anche alla vocale “I” ed “E” visto come movimento
interno di Shiva, che dopo le prime manifestazioni A,I,U, ritira se stesso in un
riposo interiore e si manifesterà all’esterno solo come il dittongo e : a+i.
Lo stesso movimento interno è evidenziato nel settimo giorno della creazione
biblica.
Prendiamo in esame l’intero versetto della Genesi e vedremo come tutto corri-
sponda con quanto abbiamo detto.
“In principio Elohim creò il cielo e la terra”. Abbiamo già visto come “in
principio” sia espresso con la lettera Beth e non Alef e come Elohim sia plurale
e non singolare, ora possiamo notare che il verbo, tradotto al passato, “creò”
sia in ebraico invece espresso al presente perché la creazione avviene in realtà
solo nel presente e sia ininterrotta e costante. “Il mondo era vuoto e deserto,
le tenebre ricoprivano gli abissi”. Si evidenzia qui che vi era in effetti solo
Elohim e un abisso di tenebre. Tutto era immobile ed inerte, poi soffiò il vento
di Dio492, prakasha, la luce, e tutto cominciò a manifestarsi. “E Elohim disse
(…)” e ogni volta che parla si realizza un impulso di creazione. Così per sei

490 Bibbia – Salmi 33; Vulgata – 32.6 ; Isaia – 40.8


491 Bibbia – Sapienza – 9.1–2
492 “e un vento impetuoso soffiava sulle acque” è in altre Bibbie tradotto: “Lo Spirito di Dio si
muoveva sulla superficie delle acque”

331
giorni. Ogni giorno osserva e si compiace, prende consapevolezza della sua
manifestazione. E’ interessante notare come Dio crea durante la notte, cioè la
creazione avviene nella espressione duale di Dio, dove la luce di Dio è perduta
nelle tenebre. Le Bibbie, in genere, traducono: “Così Dio completò i cieli e la
terra e ciò che vi si trova, tutto era in ordine. Il settimo giorno terminata la sua
opera Dio di riposò. Il settimo giorno aveva finito il lavoro. Dio benedisse il
settimo giorno e disse “E’ mio!””. Molto più vera è la traduzione di Igor Sibal-
di nel suo libro “La creazione dell’universo” che dice: “E i cieli e la terra che
dovevano essere ultimati sono ultimati e con essi il loro ordine (…) E il settimo
giorno Tutta la Divinità portò a termine l’ atto sovrano che compiva e ritornò
in se stessa in quel settimo giorno”. La parola che viene nelle Bibbie cristiane
tradotta con “si riposò” significa in realtà “ritornò in se stessa”, alla sua forma
Assoluta, dove non vi è alcun tipo di azione. Infatti ciò che viene tradotto “E’
mio!” dovrebbe essere invece tradotto, in una forma più corretta “Sono Io!”.
Il Divino finalmente torna alla sua vera natura che è assoluta e in quella si
riconosce. Questo penso sia la vera ragione per cui la corrente cristiana Avven-
tista si chiama “del settimo giorno”. Quella è la destinazione dell’uomo e di
tutta la creazione. Infatti se leggiamo la Genesi con maggiore consapevolezza
scopriamo che mentre tutti i sei giorni precedenti hanno un inizio ed una fine,
il settimo giorno invece non ha fine. Se esaminiamo ora la parola Elohim che
viene da noi tradotta come “Dio” scopriamo qualcosa di estremamente inte-
ressante. Il termine ALHIM in ebraico è composto dal femminile ALH e dal
maschile plurale HIM. Elohim esprime quindi l’unità dei principi maschile e
femminile in una Divinità plurale.493 Solo nel secondo capitolo della Genesi
Elohim scompare e Dio viene chiamato YHVH.
Vediamo ora come questo gioco sia anche espresso dalla prima parola del Rig
Veda, AGNIM ILEH.
“A” esperienza dell’Uno nella sua pura trascendenza.
“G” è la vocale più chiusa dell’intero alfabeto, che corrisponde nelle vocali
ad U.
“N” è la negazione di “A” che si manifesta quindi nella contrazione come la
vocale “I” e quindi nel continuum “M” della creazione permanente che non ha
né principio né fine, né nascita né morte.

Quando Dio creò l’uomo, gli diede la musica come linguaggio,


diverso da ogni altro linguaggio.

493 Nella tradizione tantrica potrebbe essere assimilato a Sadashiva (aham/idam)

332
Il canto degli uccelli sveglia l’uomo
dal sonno della notte
e lo invita a unirsi ai Salmi
intonati dalla Eterna Saggezza
che ha creato il canto degli uccelli.
E quella musica lo induce a chiedersi
il significato dei segreti contenuti nei Libri Sacri.494

DIO PARLA CONCISAMENTE


Il Mugghid495 disse un giorno ai suoi scolari: “Voglio indicarvi il miglior modo
di recitare la Torah. Bisogna non sentir più affatto se stessi, non essere più che
un orecchio che ascolta ciò che il mondo del Verbo dice di Sé. Non appena si
cominciano a sentire le proprie parole, si cessi”.496
Rabbi Levi di Odessa diceva: “Il mio maestro Rabbi Mardocheo mi ha inse-
gnato a pregare. Egli diceva: “chi pronuncia la parola Signore e mentre lo fa ha
in mente di pronunciare poi “del mondo”, questo non prega. Ma se nell’attimo
in cui dice “Signore” ha in mente di offrirsi tutto al Signore, e la sua anima si
perde pure nel Signore, ed egli non sa più pronunciare le parole “del mondo” e
gli basta di aver potuto dire “Signore”: questo prega. Questa è l’essenza della
preghiera”.
Ricordo di aver letto una frase di Kabir che mi ha guidato e mi guida da anni
nella ripetizione del nome di Dio: “Non ripeto il nome di Dio con la mia lin-
gua, né con la mia gola, né con la mia mente, o sulla mia mala497. Dio ripete in
me il suo Nome, mentre io resto in silenzio affascinato ad ascoltarlo”.
Se veramente siamo interessati ad andare a ricercare il vero significato delle
Scritture, esso va trovato molto al di là delle parole perché ad una lettura super-
ficiale possono sembrare incomprensibili, estremamente sintetiche.
“Dio parla concisamente” dicono i Rabbini.
Provate a leggere i libri sacri dello Shivaismo del Kashmir, del Vedanta, o dello
Yoga espressi in sutra e vi renderete conto quanto essi siano profondi. Una loro
parola vi suggerirà una contemplazione di ore, a volte di giorni. In altre Scrit-
ture si possono trovare sovrapposizioni di significato (es: Bibbia, Apocalisse),
analogie difficili da penetrare (es: Cabbalah, Libro tibetano dei morti, Libro

494 Kahlil Gibran – The voice of the Master – pag.57


495 Mugghid: Maestro Cabbalista che è in grado di insegnare la conoscenza di Dio nel silenzio
e nella parola.
496 M.Buber – I racconti dei Chassidim – 1979 – pag.150
497 Mala: il rosario in grani con il quale gli orientali ripetono il nome di Dio.

333
della scala di Maometto, Libro delle piramidi, Libri gnostici). Questo perché
il Divino che detta o ispira le Scritture ha il solo scopo di salvare l’uomo dalla
presa della dualità e non di informare.

Il Corano è come una novella sposa. Anche se cerchi di toglierle


il velo ella non si mostrerà. Se discuti il Corano non scoprirai
nulla e non ti toccherà alcuna gioia. Poiché hai tentato di toglier-
gli il velo il Corano si nega a te. Usando l’astuzia e facendosi
sgradevole e indesiderabile ai tuoi occhi ti dice: “Non sono quel-
lo che tu ami”. (Jahlal ed Din Rumi)
Dio ha volutamente sparso delle difficoltà nei Libri Sacri che
Egli stesso ha ispirato al fine di indurci a leggerli ed esaminar-
li con maggiore attenzione e per esercitarci all’umiltà con la
constatazione della limitata capacità della nostra intelligenza.
(S.Agostino)

Un libro sacro con le sue apparenti contraddizioni e con le sue oscurità ha qual-
cosa del mosaico, a volte dell’anagramma. Vi è un solo modo per giungere alla
comprensione completa di una “sruti”, cioè uno scritto di ispirazione diretta:
portare la nostra consapevolezza allo stesso livello di coscienza del libro e ciò
avviene solo tramite una contemplazione completa, cioè una contemplazione
che inizi da una autoanalisi e termini nel silenzio del Sé, in una esperienza di
meditazione. E poi molto, molto amore, molta dedizione, molta umiltà, molta
pazienza e spesso molto tempo. La luce può giungere d’un tratto o poco alla
volta, spesso non subito, ma con l’impegno e la costanza. Altrimenti dovremo
accontentarci dei commenti, o di chiarimenti integrativi al testo fatti da altri.
Ma attenti agli autori di questi interventi:

“Dio, l’Altissimo non parla a chiunque, come i re di questo mon-


do. Egli non parla a un qualsiasi ciabattino, ma ha eletto ministri
e sostituti. Si accede a Dio attraverso gli intermediari da lui elet-
ti. Dio, l’Altissimo ha fatto una scelta tra le sue creature affin-
ché si possa pervenire a Lui attraverso colui che Egli ha eletto”.
(Jahlal ed Din Rumi)

Specie in questi ultimi tempi sono fiorite, ogni dove, traduzioni e commen-
ti. Sappiate giudicare, siate selettivi, non leggete ogni cosa, non credete ad
ogni cosa. Restate, per vostra maggiore garanzia, fedeli alle grandi scuole, alle

334
grandi anime. Attenti anche a giudicare i cosiddetti Libri Sacri. Stupirà certo
molti lettori l’apprendere che i manoscritti più antichi della Bibbia ebraica ed
aramaica in nostro possesso risalgono soltanto ai secoli 9° e 10° d.C. Se pen-
siamo adesso che i maggiori profeti vissero ed operarono tra l’8° e il 6° secolo
a.C. e che buona parte dei libri storici e dei libri profetici venne composta in
quei tempi o poco dopo, nel periodo dell’esilio babilonese o subito dopo, e che
i testi più recenti dell’Antico Testamento (Bibbia cristiana) non sono databili
oltre la prima metà del 2° secolo a.C., potete calcolare quanti anni siano passati
tra la prima stesura definitiva del testo e quella in nostro possesso. Considerate
inoltre che, per tagliare breve il discorso, tutto veniva tramandato ricopiando i
testi e gli amanuensi e gli scribi non sempre erano in grado di attenersi soltanto
a ciò che avevano da ricopiare ed aggiungevano ciò che a loro giudizio poteva
rendere la Scrittura più chiara ai lettori.
Per questa ragione non stupirà sapere che gli studiosi parlano di ben tre re-
censioni del testo ebraico della Bibbia (babilonese, palestinese, egizia) assai
diverse tra loro.
Ho parlato dell’Antico testamento cristiano, ma potrei fare lo stesso ragiona-
mento per il Nuovo Testamento, o per buona parte dei testi orientali. Sulla base
del ragionamento precedente, proverò a dare una breve guida per l’identifica-
zione del termine “sacro”. “Sacro” è ciò che in primo luogo si ricollega all’or-
dine trascendente, non ad un elaborato intellettuale o concettuale; che in secon-
do luogo possiede una caratteristica di assoluta certezza; e che in terzo luogo
sfugge alla comprensione ed al controllo dello spirito umano comune. Frithjof
Schoun, uno dei maestri indiscussi della tradizione spiritualistica dell’inizio
del secolo XX scriveva:
“Immaginiamo un albero, le cui foglie, non avendo alcuna conoscenza diret-
ta della radice, discutessero del problema di sapere se questa esiste o meno,
oppure, in caso affermativo, quale ne sia la forma; se allora una voce, pro-
veniente dalla radice potesse dire loro che la radice esiste e quale è la sua
forma, tale messaggio sarebbe “sacro”, Il “sacro” è la presenza del centro
nella periferia, dell’immutabile nel movimento. La dignità ne è essenzialmente
una espressione, giacché anche nella dignità il centro si manifesta all’esterno,
il cuore traspare nei gesti. Il “sacro” introduce nel relativo una quantità di
assoluto, conferisce a cose periture una trama di eternità”.498
Nell’insegnamento Chassidico, il Ba’al Shem Tov diceva che la parola deve
entrare nel cuore, ma poiché esso è talvolta chiuso, essa sta su di esso, gli si

498 Frithjof Schoun – Comprendere l’Islam – ed. SE

335
posa sopra, in attesa che il cuore si apra e l’accolga.
Rabbi Mendel di Kork diceva: “E’ scritto che queste parole che oggi ti dò per
comandamento ti staranno sul cuore”.499 Non è detto “nel tuo cuore”, perché il
cuore talvolta è chiuso, ma le parole stanno su di esso e, quando in santi mo-
menti si apre, cadono nel suo fondo”.500
Scrive in proposito suor Emanuela Ghini: “La Scrittura cambia il cuore a misu-
ra che esso la riceve. Da qui la necessità del suo ascolto incessante, infaticabi-
le. Come Cristo, la parola sta alla porta del cuore e bussa. Solo a chi apre offre
l’intimità della cena, la gioia della comunione,501 la pace del dialogo, dello
scambio, del reciproco amore”.
Cita poi un racconto chassidico:
“Dove abita Dio?”
Con questa domanda il Rabbi di Kazk stupì alcuni uomini dotti che erano
suoi ospiti. Quelli risero di lui: “Che dite, tutto il mondo è pieno della sua
gloria!”. Ma egli rispose da sé alla propria domanda: “Dio abita dove lo si fa
entrare”.502

LA DIVINA ALCHIMIA DELLA PAROLA


Avendo presa visione in maniera molto breve e sintetica della manifestazione
creata come espressione del suono possiamo chiarire meglio il perché le scrit-
ture siano espresse in linguaggi che non sono elaborati dall’uomo, che non
sono convenzionali.
Le nostre lingue attuali sono tutte lingue convenzionali, create dall’uomo, dif-
ferenti tra loro. Le lingue che manifestano la Realtà spirituale del suono, come
il Sanscrito, l’Ebraico antico che deriva dall’Egizio antico, o l’aramaico, sono
invece lingue eterne perché basate sulla vibrazione del suono che ha in sé il
significato della vibrazione stessa.
Il suono ed il significato sono in queste lingue identificate dalla stessa vibra-
zione che è la parola stessa.
Per chiarire meglio prendo ad esempio due fonemi sanscriti che si ritrovano
immutati nelle altre lingue spirituali.
Il primo esempio è il fonema “SH” che ha in sé la natura della vibrazione della
“pace”. Quindi le parole che significano pace, o che inducono pace hanno tutte
come base, come radice, come lettera seme, il fonema “SH”.

499 Bibbia – Deuteronomio – 6.6


500 M.Buber – i racconti dei Chassidici –Milano, 1979, pag, 606
501 Bibbia – Apocalisse – 3.20
502 Emanuela Ghini – Il segreto dei Chassidim – Ed. Piemme , pag. 39

336
In sanscrito Pace suona come Shanti. La vibrazione creativa dell’Assoluto im-
manifesto è Shakti. L’Assoluto trascendente è Shiva. Il Dio personale che è
l’espressione vivente della pace, il Dio della pace è Krishna. L’espressione
divina che quieta le emozioni, che espande i limiti della mente è Shamboo. Il
Divino nella sua manifestazione individuale nel Vedanta è Purusha, la parola
dei veggenti Shruti, il suono primordiale Shabda, la divina iniziazione all’espe-
rienza del divino mediante le pratiche sacre è Diksha, il vuoto che distingue
l’abisso biblico, o l’esperienza del “nirvikalpa Samadhi” è Shunya, il processo
di purificazione mentale che porta alla profonda esperienza della equanimità è
Shodana e così di seguito.
La stessa vibrazione della pace si trova nell’ebraico Shalom o nell’aramaico
Heshusha, lo Spirito di Dio che fluisce sulle acque, nella Genesi, è Shin, il
nome di Dio di cui parla sia l’antico che il nuovo testamento è Shem, la Luce
di Dio identificata con il sole è Resh, è Shabbat il giorno sacro dedicato a Dio,
l’unzione divina in greco è Krishtos, chi è capace di un contatto con le forze
sottili della natura e con il trascendente è Sciamano.
Abbiamo già visto come la radice ANA che è la vibrazione del gioco divino
della creazione sostiene la parola Prana, lo spirito vitale, l’energia della vita,
si ritrova anche nella parola greca Anemos che significa respiro energia che
dà vita ad ogni cosa creata, o nel latino Anima che esprime il complesso psi-
cofisico energetico dell’individuo vivente, così come il fonema “PR” indica
il movimento; e lo studio potrebbe continuare, ma a noi qui interessa soltanto
capire e realizzare che in sanscrito il suono e la forma, il suono e il significato
della parola, sono indissolubilmente uniti nel fonema.
Quando emetto un suono questo mette in moto la realizzazione del significato
relativo e della forma conseguente. Sono ormai numerose le esperienze filmate
o fotografate di vibrazioni che si condensano in forme ben definite.
Il suono nella sua espressione significativa porta alla vibrazione e poi alla sua
radice che è sempre silenzio. Si realizza quindi in natura la legge fisica della
risonanza. Se prendiamo ad esempio un bicchiere di cristallo e lo colpiamo con
un oggetto, il bicchiere emette un suono che dura più o meno tempo a seconda
della purezza del cristallo. Se gli accostiamo un altro bicchiere uguale, ma
muto, il secondo entra in risonanza, emetterà lo stesso suono che durerà tanto
a lungo come il primo.
Su questo principio si basa il processo della meditazione che porta all’espe-
rienza del Trascendente tramite la ripetizione, prima articolata, poi mentale,
poi pre–mentale del mantra, espressione sonora del Dio trascendente. L’espe-
rienza del Divino nel processo meditativo avviene facendo risuonare in noi

337
la vera natura divina che è il nostro suono seme, attraverso la risonanza con
il mantra. Sullo stesso principio sono basate le “Siddhi”, i poteri che lo Yogi
acquisisce e che sono descritti nel terzo libro degli Yoga sutra di Patanjali. La
ripetizione del sutra manifesta il suo significato ed attiva i suoi poteri.
Questo è il principio su cui si basano tutti i libri sacri.
Nella lettura delle Scritture, come nella ripetizione del mantra durante la me-
ditazione, come nel canto della vibrazione divina, o nella ripetizione del nome
di Dio nel Japa, avviene qualcosa di straordinario. La scienza ci insegna che
suono e significato utilizzano rispettivamente la corteccia cerebrale del semi–
encefalo destro e la corteccia del semi–encefalo sinistro. Quindi io utilizzerò
nella rilevazione del suono il semi–encefalo destro e nella comprensione del
significato il semi–encefalo sinistro.
Nel sanscrito siamo invece in presenza di un suono–significato e di un signifi-
cato–suono uniti, fusi nella stessa parola. I nostri due semi–encefali funzione-
ranno, quindi, all’unisono. Molto rapidamente anche nello stesso semi–encefa-
lo verranno rilevate le stesse reazioni sia nella parte frontale, che laterale, che
posteriore. L’utilizzo della piena potenzialità cerebrale sarà quindi acquisita
spontaneamente e sarà a disposizione dell’individuo inizialmente sia durante
la meditazione, che durante la lettura delle scritture sanscrite, o durante il Japa,
ma a poco a poco anche nell’azione quotidiana dove verranno sfruttate le pause
di silenzio tra pensiero e pensiero, tra respiro e respiro, tra suono e suono e la
massima potenzialità di conoscenza si aprirà allora all’uomo, spontaneamen-
te. In questo momento l’uomo accresce enormemente le proprie possibilità di
utilizzo della grande affermazione vedica: la conoscenza è strutturata nella
Coscienza.
Il Divino si rivela a noi nel suo Nome e nella sua funzione che può quindi es-
sere sollecitata attraverso il suono nel suo Nome. Questa integrazione genera
conseguenze meravigliose. Nella ripetizione del Nome si comincia a “gustare”
la Presenza e ad esercitare una reciprocità amorosa “io do me stesso a Dio e nel
contempo Dio dà se stesso a me”.
In Isaia (55.10–11) Dio ci dice: “Come la pioggia e la neve discendono dai
cieli e non vi risalgono senza aver annaffiato la terra, averla fecondata e fatta
germogliare, affinché produca il seme al seminatore ed il pane per mangiare,
così la Parola che esce dalla mia bocca non ritorna a me senza frutto, ma com-
pie ciò che desidero ed adempie la mia missione”.
S.Girolamo (V sec.) diceva: “Colui che ignora le Scritture ed il modo di pro-
nunciarle, ignora la potenza e la saggezza di Dio. L’ignoranza delle Scritture è

338
ignoranza del Signore”.503
Essendo questa la realtà del suono e del significato nasce quindi un nuovo pro-
blema e cioè la esatta pronuncia della Parola o della Scrittura.
Le grandi rivelazioni hanno però alla fine una formula di sollievo:
Se qualche lettera o parola è stata omessa, o se qualche lettera è stata pronun-
ciata male, ti prego di perdonami, o Dio, e di essere benevolo504.
La Parola di Dio, come espressione del Dharma, della giusta azione, della spin-
ta e del raggiungimento dello scopo della vita che è prima il riconoscimento e
poi l’unione con il Divino immanifesto viene portata all’uomo dai profeti, dai
veggenti, dai rishi che sanno percepire, intendere e riprodurre il messaggio di-
vino contenuto nella vibrazione dello Spirito Santo, della Shakti dell’Assoluto.
Nel nostro Credo, in relazione con lo Spirito Santo si legge: “e ha parlato per
mezzo dei profeti”, ma, attenti, non tutti gli scritti considerati sacri sono effet-
tivamente espressioni della vibrazione diretta del Divino. Nella conoscenza
dell’India questo è evidente nella differenziazione delle parole Shruti e Smrti.
Shruti è la rivelazione diretta dello Spirito che parla attraverso il linguaggio del
veggente. Smrti è invece una descrizione, un commento, un chiarimento che
viene dall’uomo. Faccio alcuni esempi: nell’inno alla Kundalini, l’espressione
manifesta dello Spirito Santo, delle dodici strofe solo le prime otto sono Shruti,
diretta emanazione della Shakti divina, le restanti quattro sono commenti od
aggiunte fatte dagli uomini e quindi considerate Smrti. Così nel canto al Guru
negli Skanda Purana, la Guru Gita, fino al verso 128 è trasmessa la comunica-
zione diretta di Shiva a Parvati, quindi è una Shruti, dal verso 128 al 182 siamo
invece a contatto con una Smrti che descrive gli effetti, i modi e i risultati dei
primi 128 versi. Così anche nella nostra tradizione non tutti i libri della Bib-
bia, ad esempio la Genesi o l’Esodo, possono essere considerati Smrti, mentre
molti Salmi, i Profeti, parte del Deuteronomio, i Numeri sono probabilmente
diretta ispirazione del Divino.
Sta alla nostra sensibilità riparare ai danni che i nostri vecchi hanno compiuto
nel mischiare una Shruti con una Smrti rendendoci difficile quel contatto ori-
ginale e prezioso con l’espressione divina. Questa sensibilità cresce nel ritorno
sistematico all’esperienza della radice del pensiero che avviene con la pratica
costante della meditazione e quindi del silenzio interiore che abbiamo visto
essere la radice seme di ogni espressione sonora.
La Cabbalah dice: “quando Dio parla, nel momento della Creazione, avviene

503 S.Girolamo –Commento ad Isaia – 24.17


504 Shiva Mahimnah stotram – verso 43

339
anche la manifestazione. Il Pensiero quando, dopo la sua espansione, viene a
riposare in questo punto è chiamato “Dio vivente”. Esso allora si espande di
nuovo e si rivela maggiormente e da questo punto nascono fuoco, aria, acqua
e terra in combinazione. Così il Pensiero che fino ad allora era come ritirato
su se stesso si rivela per mezzo di un suono. In quel momento il Pensiero è
finalmente chiaro, senza veli”.

Ma tu quando vuoi pregare entra nella tua camera, chiudi la por-


ta e prega il Padre tuo nel segreto. (Vangelo di Matteo – 6.6)
Il ricordo di Gesù sia una cosa sola con la tua respirazione e
allora conoscerai l’utilità dell’ “esichia”.
(S.Giovanni Climaco – Scala del paradiso – Città Nuova 1995)
La preghiera di Gesù deve essere costantemente respirata.
(S.Clemente Alessandrino – Stromati – Centurie – 2.87)
Io apro la bocca e aspiro avido dei tuoi comandi.
(Bibbia – Salmo 119.131)
Ripeti costantemente il nome di Dio, che Egli sia benedetto, e te
ne rallegrerai, oltre ogni tua previsione, quando dovrai morire.
(Rabia’a – Santa Sufi)
C’è un viatico nel cammino umano, un cibo che nutre e sazia
totalmente, àncora l’uomo e la donna al loro fondamento, Dio,
li sottrae alla fatica del percorso, li consola nelle loro prove, ne
fuga le ombre, ne rischiara i passi oscuri; è la Parola di Dio.
(suor Emanuela Ghini – monaca carmelitana)505
La vita eterna consiste nel sentire tutto in Dio.
(S.Isacco il siriano – Ouvres spiriruellees – pag.38)
Intuite ciò che Dio è attraverso ogni sensazione.
(S.Clemente Alessandrino – Sromati – V 9 centuria)

Se qualche passaggio delle Scritture ci colpisce particolarmente dovremmo


essere capaci di fermare la lettura e portare il suono della vibrazione che si
è verificata a livello della mente sempre più profondamente alla radice del
pensiero.
I Maestri di tutte le tradizioni ci dicono che quando un testo “ci parla” è lo Spi-
rito di Dio che viene udito. Da questo livello dovremmo metterci in “ascolto”.
Ciò che era “udito” diverrà ora “ascoltato”, cioè portato al di là dei concetti, del

505 Emanuela Ghini – Il segreto dei Chassidim – Ed. Piemme pag.38

340
significati, dell’interpretazione e “digerito” in un’esperienza che può diventare
“flusso di vita”, chiave di ogni conoscenza. In quel momento, se continuassimo
a leggere, potremmo correre il rischio di lasciarci sfuggire questa inaspettata
visita della Shakti del Divino e quindi la comunicazione stessa della Shruti.
Portando invece la vibrazione a livello del cuore, prima, e poi dell’ombelico,
riportando quindi la Parola verso la sua totale esperienza, prima a livello di
madhyama e poi a livello di pashyanti, noi entreremo nel segreto profondo
del messaggio. Allora la manifestazione sonora di Dio riempirà totalmente il
nostro essere e lo trasformerà con il linguaggio del cuore prima e dell’imma-
nifesto poi.
Solo così il testo sacro comincerà veramente a vivere con noi e noi con lui.
Allora la nostra esperienza avuta nella vita di tutti i giorni o in meditazione
troverà riscontro nella Verità che vive non nell’apparire, ma nell’Essere, non
nella mente discriminante, ma nel silenzio della Coscienza.
Quindi il libro sacro non ci è dato per sapere, ma per essere, non nel concetto
e nell’azione, ma nella Presenza stessa che è al di là di ogni capacità discrimi-
nativa.
Vi sono quindi due modi per utilizzare la Parola: il primo è dall’esperienza
meditativa, dal messaggio della creazione, alla Parola rivelata di Dio per essere
sicuri che la nostra esperienza sia effettivamente confermata dall’esperienza
del Saggio, del Profeta, del Maestro, della Shruti. Il secondo dallo scritto, non
letto come un testo da interpretare, ma da lasciar vibrare in noi fino a risveglia-
re esperienze vissute, ma non trattenute, vecchie risonanze, non pienamente
maturate, ora nuovamente vive attraverso la forza della Shakti divina.
Entrambe queste vie hanno bisogno di un segreto fondamentale, del più grande
tesoro della vita, il Silenzio che risiede puro e incontaminato alla radice del
Pensiero.

IL SEGRETO DEL SILENZIO


Quando la musica cessa non abbiamo voglia di parlare.
Sarebbe un dolore dover parlare perché desideriamo volgerci
dentro di noi e sentire la nostra armonia interiore
e godere il silenzio che è lo specchio di Dio.
Come nel silenzio che segue la fine di un canto
noi realizziamo tutto il significato della canzone,
così, nel meraviglioso silenzio del suo cuore, il cercatore di Dio
vede tutto come musica, come sublime armonia

341
che riempie il suo intero essere di gioia.506

Oggi il mondo non conosce più il silenzio, eppure è proprio nel silenzio che,
come abbiamo già visto finora, il mondo ha la sua origine ed il suo compimen-
to. Abbiamo visto come il Divino sia immenso silenzio e quando questo oce-
ano incontaminato vibra nel primo impulso di conoscenza in se stesso, questo
silenzio si manifesti come Dio, ancora pienamente trascendente, nella unione
increata con la sua Shakti, con la sua predisposizione a gestire l’Intelligenza
di Dio come Intelligenza Creativa, come “grembo eterno” della futura mani-
festazione.
In questo sottilissimo vibrare, il Silenzio continua ad essere Silenzio, come
l’acqua dell’oceano continua a essere se stessa nella manifestazione dell’on-
da.
Così la vibrazione della Luce divina, prakasha, si completa in vimarsha, la
capacità di trasformazione della Luce in Suono e da questo in un eterno, con-
tinuo, ininterrotto flusso di vita che genera ogni pensiero, ogni concetto, ogni
azione, ogni forma, ogni colore, tutto ciò che è esistente.
Dall’esistenza all’esistente, il Silenzio continua ad essere la sola unica essenza
di ogni cosa, e noi, non solo nella nostra natura più intima, ma anche in ogni
strumento manifesto della nostra vita umana, non siamo che dominante silen-
zio alla base di ogni cosa creata.
L’uomo, avendo perso contatto con la sua profonda ricchezza, vive lacerato da
una profonda nostalgia irreprimibile del proprio silenzio originario, ma, non
ritrovando più la via verso il suo tesoro essenziale, cerca di coprire questo pro-
fondo senso di separazione, di cui abbiamo parlato a lungo nei capitoli prece-
denti, con affannosi strumenti di rumore sempre più violento, sempre più alto.
Sono entrato ieri in un bar per bere qualcosa di fresco, in un giorno di calura
estiva e ho dovuto scontrarmi con una musica stereo a volume fortissimo. Per
chiamare quella manifestazione del suono una musica ho dovuto far ricorso a
tutto il mio ottimismo.
Erano soltanto tre percussioni senza armonia, senza modulazione, senza pause,
senza qualsiasi parvenza di disegno musicale. Ho chiesto alla ragazza: “sop-
porti questo suono, a questo volume, tutto il giorno?” Mi ha risposto nella più
moderna semantica giovanile romana: “Si, lo so che mi rincoglionisco, ma è
meglio questo del silenzio. Io il silenzio non lo sopporto, mi dà tristezza, mi
viene da piangere”.

506 Da: Le parole dei saggi – Ed. SAI – pag 12

342
Ho voluto farla pensare e le ho detto: “Come può farti piangere il silenzio se
nel silenzio non vi è nulla, soltanto pace?”
Mi ha guardato come se avesse bisogno di aiuto e mi ha risposto: “Ma come
non vi è nulla nel silenzio, come vi è solo pace? A me, nel silenzio mi si strin-
ge il cuore, sento che mi manca qualcosa. Non so che cosa, ma mi viene da
piangere”.
“Sai cosa farei se fossi in te? Metterei un’altra musica che abbia anche delle
pause di silenzio, così potrei cominciare a gustare tutte e due, la musica e le
pause”.
E’ andata allo stereo e ha messo una canzone moderna e poi è tornata e mi ha
detto: “Forse hai ragione, senti come è bella questa”. Poi ridendo ha prosegui-
to: “Ecco questa mi rincoglionisce di meno e poi forse riesco pure a pensare.
Mi sa che è meglio”.

Un giorno d’estate disse un ranocchio alla compagna: “Temo


che gli abitanti di quella casa sulla spiaggia siano infastiditi dal
nostro cantare notturno”. Rispose la compagna: “E allora? Non
disturbano la nostra quiete di giorno con le loro chiacchiere?” –
Disse il ranocchio: “Cerchiamo di essere migliori degli umani.
Di notte rimaniamo in silenzio, tratteniamo le canzoni nel nostro
cuore anche se la luna invoca i nostri ritmi e le stelle la nostra
armonia”.
Quella notte tacquero, e tacquero anche la notte seguente, e ri-
masero in silenzio anche la terza notte.
Strano a dirsi, la donna loquace che viveva nella casa in riva al
lago scese a colazione il terzo giorno e si sfogò con il marito:
“Non ho dormito per nulla queste tre notti. Con il gracidare del-
le rane nell’orecchio avevo il sonno assicurato, ma deve essere
successo qualcosa. Da ben tre notti tacciono e io sono quasi im-
pazzita per l’insonnia”.
Il ranocchio sentì e, rivolto alla compagna, disse strizzando
l’occhio: “E noi eravamo quasi impazziti rimanendo in silenzio,
vero?”
La compagna rispose: “Sì, il silenzio della notte ci pesava. Ora
comprendo, non occorre che smettiamo di cantare per il comodo
di quanti hanno bisogno di riempire di rumore il loro vuoto”.507

507 Khalil Gibran – The Wanderer – (the frogs) pag.44

343
Altri, invece, lacerati da quella nostalgia insopprimibile del silenzio interiore,
corrono a fare l’esperienza del deserto, l’esperienza della vela in alto mare,
l’esperienza della valle incontaminata di montagna e tentano di riprendere con-
tatto con quel qualcosa che sanno esistere, ma non riescono più a vivere come
esistente.
Per godere il silenzio nella sua sempre più profonda ricchezza bisogna prima
conoscerlo.
Conoscere il silenzio significa conoscere la creazione, l’uomo e Dio, i quali si
incontrano solo nel linguaggio comune del silenzio.
Ma il silenzio non si manifesta subito in tutta la sua profondità. Vi deve essere
una ricerca sistematica perché il silenzio ha un solo segreto, una sola realtà che
si rivela solo se uno acquista passo passo la cultura del silenzio, un suo alfa-
beto, un suo linguaggio, se siamo capaci di sillabarne quotidianamente la sua
realtà. Questa realtà è un modo di essere che si acquista attraverso una pratica
costante. Questa pratica viene fatta dall’uomo secondo tre requisiti che Patan-
jali, il grande padre dello yoga, ci indica nei suoi Yoga Sutra.
Egli ci dice che qualsiasi pratica deve essere esercitata “per lungo tempo, senza
interruzione e con amore”. Solo allora l’uomo si scopre sempre di più, non a
“fare la pratica”, ma a “essere la pratica”. Non si fa più la meditazione, ma si è
la meditazione, non si recitano le preghiere, ma si diviene la preghiera stessa,
non si esercita la devozione, ma si diventa quella apertura del cuore, non si
ricerca Dio, ma si ha l’esperienza di Lui, fino a quando, dicono i Maestri si
diviene Dio, e questa trasformazione avviene solo nel silenzio.
“Dio divenne uomo perché l’uomo divenga Dio” ripete S.Attanasio.
“Nessun esercizio spirituale è fine a se stesso, ma si deve sublimare nel silen-
zio” dice S.Serafino di Sarov (1759–1833).
Un grande Maestro Chassidico insegnava ai suoi discepoli a pregare, diceva:
“Se pregando dico “Dio” e poi aggiungo “mio” allora non sto più pregando. A
Dio posso solo aggiungere il silenzio più profondo”.
Oggi nessuno insegna più il silenzio, né la società, né la scuola, né la famiglia
e nemmeno la religione. L’uomo, separato da Dio, non ha più la propria dimora
nello Spirito, né conosce la via per giungervi, e la via è il silenzio.
“Dio dimora nel silenzio” dice S.Giovanni della Croce.
“E’ vedendo il silenzio che l’anima diviene Dio” dice Mirabai
L’uomo cerca la sua profondità, quando va bene, nello psichismo, nel pensiero,
nella mente, dove vive invece la dualità. Si dovrebbe raggiunge l’esperienza
del Divino prima o al di là di qualsiasi manifestazione, e soltanto dopo eserci-

344
tare la capacità discriminativa; e poi compiere l’azione. Yogastah kuru karmani
dice la Bhagavad Gita “stabilizzato nello Yoga (nell’unione) compi l’azione”.
Se restiamo sul livello dell’espressione, della separazione dal silenzio, vivremo
probabilmente in una falsa identificazione di noi stessi, in un non essere, che
non nutrendo più l’unico desiderio interiore di Dio, si ricopre di innumerevoli
desideri esteriori nati da questo senso di separazione che ci identifica su questo
piano di esistenza. L’uomo cerca allora di spegnere le sua sete di Assoluto, che
esiste sempre nella natura umana, anche se inconsciamente percepita, cerca di
soddisfare questa mancanza nell’ossessivo desiderio di ciò che è transitorio, si
aggrappa affannosamente all’impermanente, non conoscendo più la via verso
l’Infinito.
Anni fa il mio Guru ci ha dato un messaggio che ci ha guidato la contempla-
zione tutto l’anno: “Blaze the trail of equipoise, enter the heart, the divine
splendor”. “Traccia la via verso l’equilibrio stabile, entra nel cuore, lo splen-
dore divino”.
E’ così che dovremmo fare: trovata la via segnarla, come si fa con i sentieri
di montagna, perché non venga più perduta, e giungere, quindi, allo splendore
divino che è nel cuore, “prakasha”, attraverso la via maestra del Silenzio.
Chi dovrebbe guidare non è più capace di farlo perché ha perso egli stesso la
via. Utilizza anch’egli strumenti non adeguati alla mèta che si vuole raggiunge-
re. Dice l’attuale patriarca ortodosso di Antiochia, Ignazio IV: “Il cristianesimo
di oggi non è spesso degenerato, ridotto a pietismo sentimentale e a un cattivo
moralismo più o meno manicheo? La risposta a questo proposito potrebbe es-
sere quella di ritrovare e di attualizzare l’immenso patrimonio spirituale dell’
“esicasmo”.508 Esso conosce tecniche simili a quelle dell’Asia per liberarci dai
legami, per ripulire la mente dai concetti, per unire l’intelligenza al cuore, uti-
lizza posture e ritmi fisiologici come quelli della respirazione. La meditazione
non si chiude su se stessa, essa diviene preghiera, anzi meglio, preghiera al di
là della preghiera. Ci fa fare l’esperienza del silenzio”.
Così la meditazione diviene una esperienza concreta di Dio che può illumi-
nare tutto il nostro essere e tutta la nostra vita, ben al di là del tempo limitato
dall’esercizio della meditazione. Quel silenzio comincerà a permeare gradual-
mente, ma sempre più profondamente ogni istante, ogni pensiero, ogni atto
della nostra vita quotidiana.
Molto spesso mi si chiede: “Come posso trovare un vero Maestro?” – “Questo
non è un problema – rispondo io – il problema è trovare un vero discepolo. Un

508 L’esicasmo è la dottrina mistica del Cristianesimo ortodosso.

345
vero discepolo troverà certamente un vero Maestro”.
Bisogna prima di tutto, per divenire discepoli, che l’atteggiamento fondamen-
tale sia l’ascolto. Con tutto se stesso il discepolo dovrà ascoltare, perché solo
così potrà ricevere l’insegnamento, contemplarlo, viverlo, divenire l’insegna-
mento, perché tutto se stesso deve divenire obbedienza.
La parola obbedienza viene dal latino ob–audire : ascoltare. Infatti in tutti i
libri sacri vi è questa sollecitazione ad ascoltare. Quante volte nella Bibbia,
specialmente nelle Shruti dei profeti vi è il richiamo “Ascolta Israele!!”
Nel primo capitolo della Bhagavad Gita, Krishna insegna ad Arjuna come
ascoltare, e solo in seguito comincia a dargli l’insegnamento.
Chi esercita realmente l’ascolto sa, infatti, fino a che punto è in quel momen-
to legato al concetto mentale, quanto attaccamento vi è in lui verso qualche
forma di impermanenza. Se ascolta, allora tutto tace, l’esterno come l’interno,
l’attrazione come la repulsione, il bene come il male. Allora il silenzio diviene
messaggio, insegnamento, si permea di certezza e di verità, il dubbio scompare
nella pienezza, la Parola diviene il Maestro e il Maestro diviene la Parola.
Questa verità diviene esperienza vissuta nel “darshan” con il Guru. Ci si siede
in silenzio ai suoi piedi. Lui o Lei non parla, noi non parliamo, Lui o Lei ci
guarda, noi la guardiamo, e in quel silenzio profondo un flusso di conoscenza,
che è al di là delle parole, passa dal Maestro al discepolo. Questo è il vero inse-
gnamento, la vera crescita. Lo stato del Maestro fluisce nel discepolo.
L’ascolto è dunque quell’esercizio, quella pratica di costante vigilanza, quella
focalizzazione che il mio Maestro chiama l’attenzione, la consapevolezza di
entrare, istantaneamente, in comunione, in unità, il divenire uno con ciò che è
“qui e ora”.
Questo incessante ascolto della vita crea in noi un silenzio meraviglioso an-
che nell’esercizio dell’azione più impegnativa, genera un sottofondo di pace,
di gioia, di amore, di beatitudine; è una profonda continua rivelazione della
Shakti divina.
Nessuno può realmente dire di non averne fatto l’esperienza. Quando mettia-
mo tutti noi stessi in un’azione, in un’impresa non resta altro spazio a vibra-
zioni disordinate, disarmoniche, a impulsi distraenti o distruttivi, a confusioni
o dubbi, a incertezze o ansie.
Si sta praticando quello che lo Yoga indica come pratyahara, la focalizzazione
di tutti i sensi e di tutti i poteri verso un solo punto, l’azione che si compie
proprio “qui e ora”.
In questa “pienezza” si sperimenta solo più l’essenza di Dio che in sanscrito
viene chiamata purna,e questa pienezza nasce dal silenzio e dall’ascolto, que-

346
sta pienezza si trova solo nel centro del cuore dell’uomo, nello splendore della
Luce di Dio, prakasha.
Non è vero che il silenzio non sia di questo mondo, bisogna solo imparare
la via che ci conduce ad esso e poi percorrerla con regolarità, con dolcezza e
amore, bisogna saper riposare in noi stessi e piano piano anche in Dio. I padri
del deserto dicevano: “a nulla porta la riflessione, soprattutto non a Dio, invece
tutto dimora nel sentire cosciente fino alla sensazione del Divino”.
Questo ascolto del “sussurro della Parola”, quello che nella tradizione dell’In-
dia si chiama “la voce del Dharma”, tramuta, piano piano, ma un’istante dopo
l’altro, senza sforzo, la vita umana in vita divina, la “sadhana” in esperienza
di unità.
Se non identifichiamo il cammino del Dharma come uno sforzo disumano, se
non ci contraiamo per il raggiungimento dell’obiettivo della vita, se non vedia-
mo il “sacrificio” come una rinuncia sistematica e dolorosa, perseguita in una
continua, lacerante ricerca di sofferenza per il conseguimento di unità con la
nostra natura interiore, allora la nostra “sadhana”, il nostro cammino spirituale
potrà essere fonte di gioia, di pienezza, di beatitudine. Dobbiamo essere certi
che non siamo venuti al mondo per soffrire, non siamo vittime del sadismo di
Dio, ma la gioia, la felicità, la pace sono un nostro diritto di nascita.
Fin dall’episodio vissuto a dodici anni in cui il mio flusso vitale si è ritirato da-
gli organi dei miei sensi in una esperienza di morte clinica, non sono più stato
interessato a compiere atti o fatti in cui l’esperienza primaria sia vissuta come
un sacrificio, intesa come una rinuncia, come sforzo e come contrazione.
Ho vissuto l’esperienza della Luce divina come l’esplosione illimitata della
gioia, della beatitudine, non causata da qualcosa, ma nella completa espan-
sione della Coscienza, quindi la parola sacrificio ha per me acquisito il suo
più certo significato di sacrum facere: compiere qualcosa di sacro, e questo
qualcosa essendo Dio, massima espansione non può né potrà mai essere per
me contrazione, sofferenza, rinuncia o limite.
“Più si è contratti, più si è distratti”, dicevano i Maestri dell’esicasmo.509
Tutto questo contrasta con la ragione della vita che è fluire di Grazia, respiro
di Dio. E’ meglio vivere una normale vita cercando di raggiungere una espe-
rienza, anche inizialmente transitoria, di espansione, anziché struggersi nella
rinuncia alla gioia, nella creazione della creazione, nella mortificazione del
nostro corpo, della nostra mente.

509 Distratti : dis–tratti : tratti fuori

347
LA NATURA DEL SILENZIO
Qualsiasi esperienza di gioia interiore è maturata in un contatto, sia pur tem-
poraneo con il silenzio della nostra mente. Qui la dualità è perduta e quando
la dualità è perduta è perso anche il limite del relativo e vi è un contatto con
l’Assoluto che ci garantisce che la via è percorribile e vale la pena di essere
percorsa.
Un altro concetto profondamente radicato nel normale pensare della gente è
che il silenzio sia soltanto l’assenza di parole, il non parlare.
Alcuni anni fa ho partecipato ad un ritiro di meditazione con un gruppo di ami-
ci ed uno Swami venuto a guidarci nello studio della Bhagavad Gita.
Il ritiro era autogestito e quindi ad ognuno era stato assegnato un servizio.
Una signora di mezza età, una mattina, si presentò allo studio della Scrittura
con un gran cartello puntato sul cuore. Sull’etichetta era ben visibile una sola
parola: SILENZIO. Aveva deciso, evidentemente, di trarre il maggior vantag-
gio possibile dal ritiro conservando uno stato di silenzio. In questi casi tutti
cercano di facilitarne la scelta non parlando alla persona, se non nei casi di
assoluta necessità. Nella vita comunitaria, comunque, a volte è necessario dire
qualcosa. Con lei sarebbe stato impossibile qualunque comunicazione. Appena
qualcuno le rivolgeva la parola lei portava l’indice alle labbra e poi indicava il
segno “silenzio”.
Il pomeriggio del primo giorno è stata vista davanti ad un distributore di be-
vande fresche. Aveva inserito 500 lire per ricevere una coca–cola, ma la mac-
chinetta non aveva funzionato a dovere. Nessuna bottiglietta era caduta nel
cestino. La signora ha cominciato ad agitarsi. Sussurrando qualcosa tra sé e
sé ha inserito una seconda moneta, ma nemmeno questa volta ha ricevuto la
bevanda scelta. Ha cominciato, allora, a battere con il pugno sul distributore.
Nessuna risposta. Ha continuato a battere sempre più forte imprecando, prima
all’interno si sé, lo si vedeva dallo sguardo, poi sottovoce, poi a voce alta. Un
ragazzo passò di là e portandosi l’indice alle labbra ed indicando il cartello
che la signora portava le indicò la scelta del silenzio. A questo punto la signora
diede un calcio alla macchinetta delle bevande e se ne andò imprecando ad alta
voce e giustificando la rottura del silenzio con questo episodio imprevisto.
Per lei il silenzio era soltanto la mancanza della parola, ma non è così.
Il mio Guru mi ha insegnato: “Parla solo quando la tua parola è più preziosa del
tuo silenzio”. Allora sia quando parlo, sia quando non parlo sono comunque
in silenzio. Il silenzio non è esterno, ma interno a noi. La rottura del silenzio
non è una parola, ma una “vritti”, un pensiero non adeguato alla quiete della
mente, non utile alla situazione, non necessario, non di sostegno alla vita. Se

348
la bocca non si apre, ma la mente pensa molto, non siamo affatto nel silenzio.
La quiete mentale è lo strumento del silenzio. Per facilitare questa situazione
la mattina utilizzo prima di meditare due focalizzazioni, prendo due impegni
con me stesso che mi devono accompagnare tutta la giornata.
1. Porto la mia attenzione sul fatto di essere nuovamente nello stato di ve-
glia.
Lo stato di veglia è l’unico stato di coscienza, nelle ventiquattro ore della
giornata, in cui sono nel pieno possesso del mio sistema psicofisico. Il mio
corpo, con i suoi elementi, i suoi cinque sensi e gli organi dell’azione sono
totalmente disponibili per conseguire lo scopo della vita. Vi è nuovamente
la possibilità di un pieno sviluppo della coscienza verso la realizzazione del
nostro completo riconoscimento, del totale uso del flusso della vita, quando
tutto il nostro essere può essere diretto verso il potere della conoscenza della
nostra natura divina.
Con questo impegno pongo di fronte a me la mèta della mia giornata e quin-
di posso, con più facilità, percorrere, senza eccessive dispersioni di azioni o
di pensieri, la via del Dharma. Grazie ad essa tutto è motivato, fino in fondo,
in maniera molto reale, e solo con tale direzione, ben chiara di fronte a me,
l’attenzione, la focalizzazione, la consapevolezza costante, che sono lo stato
vero dello Yoga, divengono possibili.
Nascono con essi anche la chiarezza delle priorità della giornata, della vita.

2. La seconda focalizzazione è una ferma determinazione, una profonda con-


vinzione che sia giusto “accogliere il presente con il consenso del mio cuo-
re”, qualsiasi cosa la vita mi presenti in quella giornata.
E’ un riconoscimento profondo che ciò che sarà oggi il mio presente è stato
originato dalle mie azioni di ieri e ciò che sarà domani, nella mia vita, sarà
originato dalle mie azioni di oggi.
Nulla avviene per caso, nulla sfugge alla legge di causa e di effetto, alla
legge di azione e di reazione.

Queste due focalizzazioni mi aiutano molto a mantenere una quiete della men-
te, una direzione precisa.
Mi viene sempre in mente una frase di Seneca, il filosofo romano che diceva:
“se non sai dove stai andando nessuna strada è buona”.
Un’altra pratica che mi consente una più costante quiete della mente è il Japa,
la costante ripetizione del nome divino, così come mi è stato insegnato dal mio
Maestro.

349
E’ una pratica molto antica che in oriente viene esercitata da tutti coloro che
desiderano un contatto più costante con una mente più quieta e da questa con
una Presenza che altrimenti molto spesso viene persa nell’azione o nel pen-
siero.
Il Nome, nel cammino spirituale porta alla quiete. In ebraico antico, abbiamo
già visto, il Nome, Shem, ha in sé la radice sanscrita Sh, la radice della vibra-
zione della pace.
Nominare significa conoscere fin nell’intimo, là dove il nome nasce e trova la
sua radice, la sua sorgente. Dalla conoscenza nasce il riconoscimento (prat-
yabhijna). Infatti, quando la consapevolezza del nome diviene coscienza della
vibrazione, avviene quella straordinaria alchimia che solo le lingue spirituali
sanno realizzare. La forma diviene suono, il suono diviene forma e la Presenza
del significato del nome si manifesta.
Un’altra pratica che uso assai spesso è prendere una frase delle Scritture che mi
ha ispirato particolarmente e la conservo viva, durante tutta la giornata, nella
mia consapevolezza. Questa frase cessa di avere soltanto un significato, il qua-
le viene ben presto trasceso nel vero compimento della contemplazione.
Il significato si perde nel suono, il suono si perde nella vibrazione, la vibrazio-
ne si perde nella luce. L’esperienza della Scrittura viene allora “assaporata”.
Per questa pratica ci vuole tempo. Bisogna saper “ruminare”, come diceva
S. Gregorio Magno, “finché il ventre non contenga la frase e il nostro intero
essere ne sia pieno”.510
Santa Teresa di Lisieux ci descrive la sua pratica dicendo: “Prendo un versetto
della Scrittura come una gallina prende una goccia d’acqua. Essa si lava il
becco e la lascia scendere a lungo per impregnarsene”

L’esperienza, in quanto tale, è indescrivibile come ogni incontro intimo che


va al di là della mente cosciente, ma il suo risultato è sempre pace, gioia,
espansione del cuore. La certezza è di essere scesi nel cuore, là dove avviene il
contatto con lo “splendore divino”, come dice il mio Guru, dove si sentono, nel
silenzio, le parole del Divino. Si ha in questa pratica l’esperienza della Trinità:
il Silenzio è il Padre, la Parola è il Figlio e l’amore, la gioia, la beatitudine, è
lo Spirito Santo. Allora la Parola agisce nella sua pienezza. Nel silenzio non si
cerca un accrescimento della conoscenza, un sapere. Non si cerca di capire, di
esercitare scelte o direzioni, ma si riposa semplicemente nella pace della men-
te. Solo in seguito, questa esperienza struttura la conoscenza, perché è stata

510 S. Gregorio Magno – Discorso su Ezechiele – 1.10–11

350
generata dalla Coscienza dell’Essere. Solo dopo vi può essere una trasforma-
zione, una conversione, un nuovo sapere.
Quello che non dovremmo cercare di fare è aggiungere attimi di silenzio alla
vita, ma che la vita stessa divenga silenzio nell’agire, nel pensare, nel parlare.
Il Silenzio è il luogo dove il Divino ci parla continuamente senza voce e noi
riusciamo a sentirlo senza orecchie.
Swami Anandacharya, maestro del Vedanta, in un discorso a Londra ha detto:
“L’uomo che non ha vissuto solitario in montagna non ha ancora scoperto la
sua anima. La solitudine e il silenzio danno nuova nascita alla vita. Essere solo
sulla sommità di un alto monte è un’esperienza esaltante che vale più di tutte
le scritture del mondo. Le porte della ragione si chiudono e quelle dell’intui-
zione, dell’inspirazione, si aprono. Tutti i grandi ideali che nascono in una città
sembrano un sogno che diviene reale come la vita stessa. Capiamo nuovi signi-
ficati nell’oscurità e nella luce delle stelle. L’uomo è destinato a trovare la sua
salvezza nella visione dell’Assoluto, e la solitudine e il silenzio delle montagne
sono testimoni di questo segreto. Bisogna affrontare questa esperienza con spi-
rito aperto, ricettivo, pronti a cogliere i messaggi che vengono dal silenzio e
dimorano nell’etere. Dobbiamo aprirci a loro e bagnarci nel sacro mare dello
spazio illimitato e ricevere il battesimo dalla profondità del silenzio. Di notte
su un picco di montagna, “l’Anima Eterna” scambia messaggi con lo “Spazio
Eterno”. L’oscurità suona le note di una nuova armonia per celebrare la nuova
relazione tra l’anima e lo spazio. E’ nello specchio del presente che scorre ed
è riflessa la gloria della vita che viene. L’anima apre le porte dei cieli, che fino
ad allora la parola ha tenuto segrete. In un profondo soliloquio, l’anima dice:
“Non morirò mai, la mia ora è il tempo eterno”.
Un giorno un grande Guru tenne il America un satsang, un incontro con dei
giovani in una università e parlò del silenzio, di come il silenzio sia spesso
molto più comunicativo della parola, come sia fonte di conoscenza. Alla fine
un monaco domenicano lo sfidò dicendo: “Perché allora non mi parli senza
parole?” Il santo rise ed accettò la sfida. “Certamente ti parlerò senza parole
quando tu sarai in grado di ascoltarmi senza orecchi”.

LA FILOSOFIA DEL SILENZIO


Il silenzio è l’unico elemento che contiene tutti i più profondi segreti dell’uni-
verso. E’ l’unica realtà che contiene in sé il passato, il presente e il futuro.
Vi è forse mai stato un tempo in cui il silenzio non sia esistito o un momento

351
in cui sia mancato, o un’epoca in cui non sia stato percepito o addirittura pra-
ticato?
Il silenzio è sempre stato l’elemento di base di tutto ciò che si è manifestato
su questo universo, in tutta la materia, ma anche e pare impossibile in tutti i
suoni.
In tutte le tradizioni si legge, da sempre, che la creazione nasce da un suono.
Questo suono è stato chiamato “la musica delle sfere”, ma questo suono nasce
dal silenzio più profondo, dove la manifestazione non solo non esiste ancora,
ma paradossalmente non esiste neppure la sua potenzialità. Questa nasce quan-
do il silenzio si increspa in virtù della conoscenza che Dio ha di se stesso in se
stesso, come abbiamo visto nel “mistero della parola”.
Il silenzio è quindi non solo al di là di ogni spazio, ma anche al di là di ogni
tempo, si manifesta per un periodo di tempo, si dissolve ancora nel tempo, per
rinascere sotto forme diverse in tempi diversi.
Anche quello che apprezziamo di più, come la bellezza, come il nostro corpo,
come la felicità durano un certo tempo. Anche la ricchezza dura un tempo più
o meno lungo. La vita è un gioco continuo di apparire e scomparire, di venire
e di andare, di acquisire e di perdere. Non ci pensiamo mai, ma attraverso tutto
ciò pulsa il profondo silenzio. Esso è sempre presente, non contaminato, non
limitato, non vincolato né dal passato, né dal presente, né dal futuro. Anzi, nel
silenzio nessuna vibrazione è possibile, nessuna contrazione o espansione.
Il silenzio semplicemente è!
E’ esperienza di chi lo pratica che il silenzio sia al contempo assenza di ogni vi-
brazione, eppure profonda beatitudine che si rivela all’esperienza solo quando
il silenzio diviene veramente profondo, totale. Eppure il silenzio permea ogni
cosa: la nostra mente, il nostro intelletto, il nostro ego, i nostri pensieri, pur
continuando a risiedere nello stato più libero dai pensieri. Il silenzio è quindi
onnipervadente.
Esiste nell’acqua, come nel fuoco, nella terra, come nell’aria, esiste nella piog-
gia, nella neve, nel profumo di un fiore, nella tenerezza vellutata di un peta-
lo, in un lampo, come alla base del fragore del tuono. E’ nella profondità dei
mari, come nello spazio infinito del cielo, ma soprattutto dimora all’interno
dall’uomo, all’interno di ognuno di noi. Il silenzio è l’espressione della vita e
della morte. Il silenzio è ricercato in tutti i cammini spirituali perché è la fonte
dell’esperienza divina.
Il silenzio è la dimora dell’intuito e della creatività. E’ infatti là dove dobbiamo
ritirarci se vogliamo cogliere quella divina espressione che si manifesta nel
bello, nella conoscenza, nell’arte. E’ infatti il silenzio la base dell’espressione

352
e nello stesso tempo il dissolvimento di ogni forma espressa.
Ho visto il grande maestro del cinema Michelangelo Antonioni, cercare ispi-
razione nel silenzio mentre girava uno dei suoi ultimi film. Quando una scena
non gli piaceva faceva interrompere ogni attività intorno a lui e si metteva in un
profondo silenzio. I suoi occhi vedevano ben al di là dello spazio della camera
in cui si svolgeva la scena e solo quando la sua creatività veniva ritrovata in
quel silenzio, rigirava la scena. Ebbene, rivedendo il film si deve riconoscere
che quelle sono le scene migliori, venute dal nulla profondo del silenzio inte-
riore del maestro.
Si racconta che anche Michelangelo Buonarroti, durante i lavori di affresco
della Cappella Sistina, quando mancava di creatività, andasse nella campagna
romana, in piena notte, e nel silenzio più profondo si aprisse a nuove intuizioni
e le disegnasse “con il pennello della sua mente” sulla volta stellata.
Straordinario il potere delle pause nell’azione. I grandi maestri di verità hanno
detto che i passi del progresso sono due: attività e riposo. Non vi può essere
attività efficace se non preceduta dal riposo, dal silenzio. Il silenzio è presente
in tutta la sequenza del tempo, nelle stagioni, nel giorno e nella notte, nel re-
spiro, nel pensiero, ma è anche la vera natura delle pause che vi sono tra una
manifestazione e la manifestazione successiva. E’ sperimentabile nei punti di
giunzione tra gli stati di coscienza di veglia, di sonno e di sogno. E’ anzi lo
stato assoluto che permea tutti e tre questi stati relativi. Lo troviamo tra una
parola e l’altra, tra una frase e l’altra all’inizio e alla fine di ogni movimento.
Lo troviamo nella natura di un bosco, nell’armonia integrata di una foresta,
nell’apparente assenza di vita di un deserto, negli occhi di un bambino e nel
cuore dell’uomo innamorato.
Tutti i musicisti conoscono il potere del silenzio nella musica. Una mia amica,
prestigiosa violinista, allieva di Isaac Stern, mi raccontava che il suo maestro
spesso usava dire: “all’inizio ed alla fine di ogni frase musicale vi sono delle
pause di silenzio. Dovete dare a queste pause tanta attenzione quanta ne date
alle note del vostro spartito. In quelle pause è nata l’espressione musicale suc-
cessiva. In quelle pause vi è tutto il valore di ciò che suonerete in seguito. Se
darete solo la vostra attenzione alle note sarete degli “strimpellatori”, mai dei
musicisti”.
Anche Karl Nielsen, compositore danese diceva: “le pause sono importanti
come le note”. Durante il silenzio la musica continua a risuonare. Ogni pausa
contiene la forma futura della creazione successiva.
“Il suono emerge dal silenzio” hanno detto tutti i sapienti di tutte le tradizioni.
La musica ha il silenzio all’interno di se stessa, anzi la musica è la vibrazione

353
del silenzio.
Eppure, pur essendo onnipervadente, pare così difficile trovarlo, così difficile
coglierlo. Oggi più che mai sembra che il silenzio sia una perdita di tempo,
anziché il generatore del tempo, una mancanza di creatività, anziché la fonte di
ogni creazione, una debolezza anziché una forza.
Pensate che il Mahatma Gandhi, con la sua resistenza silenziosa, il suo sa-
tyagraha, quello che lo Yoga chiama mauna sadhana, sconfisse la potenza
dell’impero britannico. Tutti i lunedì, il sant’uomo osservò un profondo si-
lenzio, a cui non rinunciò neanche nei momenti più difficili della sua “lotta
pacifica”.
Miguel de Molinos, teologo spagnolo morto a Roma nel 1696, distingueva tre
gradi di silenzio: il silenzio della bocca, il silenzio della mente, il silenzio della
volontà.511
Astenersi da chiacchiere oziose è difficile, ma frenare il flusso continuo e di-
sordinato dei nostri pensieri è ancora più difficile. Più difficile di tutto è ridurre
al silenzio le voci del desiderio e dell’avversione all’interno del nostro egoi-
smo.
Un giorno lo Sceicco Nashrudin stava meditando a casa sua con tre suoi cari
amici. Avevano fatto una promessa reciproca. Sarebbero stati in silenzio per
sette giorni. Rispettarono la promessa per tutto il primo giorno. Durante la
meditazione della notte una delle lampade ad olio cominciò a dare segni di
esaurimento. Uno dei tre dervisci aprì un occhio e disse ad un servo: “rifornisci
quella lampada”.
Un secondo derviscio allora lo rimproverò dicendo: “non dovevi parlare, quel-
lo è un compito dei servi”. Un terzo derviscio molto seccato sussurrò: “Siete
proprio scemi, avete parlato tutti e due”. Allora Nashrudin, giungendo le mani
in segno di ringraziamento disse: “ti ringrazio Dio mio. Sono l’unico a non
aver rotto il silenzio”.
Dovremmo riappropriarci del silenzio, dovremmo riscoprire che il silenzio è la
fonte della vita e ri–permeare la nostra vita di silenzio.
Che beatitudine nel silenzio, che conoscenza nel silenzio, che pienezza nel
silenzio. Dobbiamo ritornare a praticare il silenzio, perché è solo attraverso il
silenzio che si può ritrovare l’esperienza del silenzio, ma anche insegnare ad
avere l’esperienza del silenzio.
Il silenzio è sempre stata la porta per immergersi in Dio.

511 Miguel de Molinos – Guia spiritual que desembaraza el alma y la conduce por el interior
camino para alcazar la perfecta contemplacion y el rico tesoro della interior paz– 1675

354
Nel Corano vi è una sura che dice: “A Dio si può arrivare attraverso la luce o
attraverso il fuoco”.
La luce sorge dal silenzio profondo, è l’esperienza del Trascendente dove solo
il silenzio esiste, è la diretta esperienza dell’Illimitato. Il fuoco è il cammino
della creazione, l’incontro del Divino nelle cose attraverso la visione di piani
sempre più sottili di esperienza nel creato fino a cogliere il gioco della creazio-
ne in una rosa, in un bosco, il gioco della vita nel ciclo della pioggia.
Chiudiamo gli occhi ed immergiamoci nella beatifica esperienza della pace,
del silenzio, della Coscienza.
Gesù nel Vangelo di Matteo (6.5) è stato molto chiaro: “quando pregate, non
siate come gli ipocriti, poiché essi amano di fare orazione stando in piedi nelle
sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere veduti dagli uomini. Io vi dico
in verità che questo è in premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nel-
la tua cameretta e, serratone l’uscio, fa orazione al Padre tuo che è nel silenzio
e il Padre tuo che vede nel silenzio te ne darà la ricompensa”.

Oh, se serbate il silenzio esso si tramuterà in sapienza.


(Bibbia – Giobbe – 13.5)
Sta in silenzio davanti all’Eterno e aspettalo.
(Bibbia – Salmo – 37.7)
Silenzio davanti al Signore, all’Eterno. (Bibbia – Sofonia – 1.7)
La vita spirituale non è altro che l’operazione dello Spirito di
Dio dentro di noi e pertanto il vostro silenzio deve essere gran
parte della vostra preparazione ad essa.
(William Law – The Spirit of prayer)
Non si praticherà mai un digiuno troppo rigido verso la seduzio-
ne della conversazione mondana. (Francois Fenelon)
Sull’albero del silenzio cresce il frutto della pace.
(Proverbio indiano)
Proprio come il fuoco senza combustibile si estingue nella sua
sorgente, anche il pensiero, quando non è più attivo, si estingue
nella sua sorgente: il silenzio. (Matri Upanishad – 6.34)
Il Padre pronunciò un verbo. Quel verbo è suo Figlio, ed egli lo
pronuncia per l’eternità, in sempiterno silenzio, e nel silenzio
l’anima deve udirlo. (Vangelo di Tommaso)
Occorre mettersi seriamente a praticare ciò che si è imparato nel
silenzio. (S.Giovanni della Croce – Opere – Utet 1993)

355
PRATICARE L’ESPERIENZA DEL SILENZIO
Bisogna imparare a trovare il silenzio, a focalizzare il silenzio, a vivere nel
silenzio. Bisogna imparare a riposare in se stessi. Solo così saremo capaci di
vivere pienamente tutto ciò che la vita ci offre, la bellezza della natura, la forza
delle sue leggi, la dolcezza del sole, la carezza del vento, l’energia del fulmine.
Solo così saremo capaci di gustare la straordinaria meraviglia dei nostri sensi,
il profumo dei fiori, la fragranza della terra umida, la brezza odorosa del mare,
il gusto del cibo in tutti i suoi aspetti, salato, dolce, acido, amaro, aspro, la
pienezza del miele, la delicatezza del frutto, lo stupore del colore, la perfe-
zione della forma, la vista del tramonto, la dolcezza dell’alba, la delicatezza
della seta, la morbidezza della lana, lo sguardo di un bimbo, la saggezza di un
vecchio.
Tutto ciò che i nostri sensi percepiscono sono strati di vibrazione che partono
dal livello più agitato della superficie fino a giungere al livello più quieto del
quieto che prende origine dal silenzio.
Un altro modo per realizzare il silenzio è, come abbiamo già detto, la pausa tra
due relativi. Tra due pensieri vi è una zona di silenzio, tra due parole, tra due
suoni, tra due azioni, tra due respiri, tra due passi vi è sempre una pausa dove
ogni azione trova origine o compimento nella non–azione. Dovremmo gra-
dualmente, ma costantemente, aprire la nostra consapevolezza alla realtà del
silenzio che esiste in natura ogni volta che un’azione, un pensiero, un’emozio-
ne cessa, prima che l’azione, il pensiero, l’emozione successiva, nasca. Allora
saremo in grado di vivere l’intero sviluppo del relativo che si manifesta, dal
silenzio precedente al silenzio successivo, attraverso uno sviluppo consapevo-
le e crescente dell’azione.
“L’ascolto interiore e cosciente della respirazione involontaria conduce, un po’
alla volta alla calma del corpo e dell’anima, a una separazione dell’ego da tutte
le tensioni. E’ allora possibile sperimentare, alla fine della espirazione, un mo-
mento misterioso di silenzio abissale, estraneo, ma presto familiare. Bisogna
gustare questo stato furtivo che si prolunga a mano mano che ci si abbandona
ad esso. Progressivamente si rivelerà come una presenza, la presenza di Qual-
cuno. Questo silenzio diviene allora sorgente al fondo di me quando mi infon-
de l’inspirazione (…) Alla fine della inspirazione, un nuovo silenzio (…) Ogni
inspirazione è così il ricettacolo del Soffio divino, una salita verso la Luce che
illumina la Coscienza grazie a questo segreto, e ogni espirazione è una discesa
verso la profondità”.512

512 A&R Goettmann – L’alfabeto del Silenzio – Neri Pozza pag.87

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Vi sono altre pratiche per “l’ascolto” del Silenzio ecco alcuni altri esempi:
Quando ascoltiamo voci o suoni possiamo spostare la consapevolezza al silen-
zio che vi è alla base. Mentre si parla o si pensa fate lo stesso, cercate di con-
servare la consapevolezza del silenzio che è al di là delle parole. L’esperienza
diviene facile se interrompiamo il parlare o una musica quando la frase non è
ancora finita o quando la frase musicale è ancora in corso e restiamo solamen-
te ad ascoltare il silenzio che si manifesta. Quello è lo “spirito del suono”: il
silenzio.

Ora intensamente sento il silenzio.


Odo i suoi cori cantare i secoli
e il cielo annunciare l’Invisibile.513
L’uomo si agita come la tempesta,
io sospiro in silenzio,
poiché ho scoperto
che la rabbia dell’uragano si placa
e la inghiotte l’abisso del tempo,
ma un sospiro, un silenzio, dura
per sempre nel continuum di Dio.
La musica del mare finisce sulla spiaggia
o nel cuore di quelli che l’ascoltano.514

Dice Kahlil Gibran: “Benché l’onda delle parole ci sovrasti sempre, le nostre
profondità sono sempre immerse nel silenzio”.515
Quando camminiamo possiamo portare l’attenzione non sul piede che compie
il passo, ma sul piede che sta fermo. Possiamo poi portare la nostra attenzione
sul breve momento di equilibrio che vi è ogni volta che portiamo avanti un pie-
de. Focalizzando l’attenzione su questi brevi momenti di immobilità si diviene
consapevoli dell’eterna fermezza al di là del movimento. Quella fermezza è lo
“spirito del passo”.
Quando siamo in una camera completamente buia, con dolcezza focalizziamo
l’attenzione proprio sul buio cercando, senza sforzo, di penetrare la sua natura
e permettiamo a quella esperienza di a–spazialità di immergere la nostra con-

513 Kalhlil Gibran – Thoughts and Meditations – pag.18


514 Kahlil Gibran – A Tear and a Smile – pag.189
515 Kahlil Gibran – Le parole non dette – Ed.paoline pag.265

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sapevolezza nello “spirito del buio”.
Seguite un pensiero fin ché si perde in un altro pensiero. Piano piano riuscirete
a cogliere il punto di giunzione tra due pensieri, dove vi è solo silenzio. La
mente è completamente espansa e pronta a contrarsi sul pensiero successivo.
Quel punto è lo “spirito del pensiero”.
In un giorno di completo sereno, con il corpo perfettamente fermo, osservate
il cielo senza batter ciglio. Dopo qualche momento il cielo sarà dentro di voi
e voi nel cielo, in condizioni di a–spazialità. Lo stesso esercizio si può com-
piere di notte fissando la volta stellata e cercando, senza sforzo, di visualizza-
re sempre più profondamente la immensità dell’universo notturno. Si perderà
gradualmente la consapevolezza delle stelle per immergersi nella tenebra più
profonda della volta notturna. Quello è lo “spirito del cielo”.
Osservate con uno sguardo focalizzato un campanile spostando lentamente la
vostra attenzione verso la punta. Giunti al culmine proseguite la vostra ascesa
là dove la punta scompare nel cielo.
Potete fare lo stesso esperimento con il suono di un gong. Seguite il suono che
piano piano si spegne in un silenzio vibrante. Sarete in grado di ascoltare il
suono anche quando le vostre orecchie non saranno più in grado di udirlo.

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GLOSSARIO

Agama: “ciò che è stato tramandato”, cioè l’insegnamento religioso contenuto nei testi
non vedici.
Aham: pronome personale “io”, l’anima individuale, “io sono”.
Ahamkara: l’ego, il concetto di individualità, una delle funzioni della mente.
Ahimsa: non violenza. Uno dei cinque “Yama” o divieti degli Yoga Sutra di Patanjali.
Ajna: il sesto dei sette chakra. E’ il centro della percezione divina.
Akasha: spazio. Il primo e più sottile dei cinque elementi che formano la creazione.
Anahata: il quarto dei sette chakra, il chakra del cuore.
Asana: posizione, postura, seggio. Terzo passo (anga) dello Yoga di Patanjali. In genere
indica una posizione di Hatha Yoga, ma anche il tappetino sul quale lo Yogi medita.
Ashram: luogo di ritiro e di meditazione, dove si raggiunge con facilità la quiete della
mente.
Atman: il Sé, la Pura Coscienza, l’Assoluto in noi.
Bhakti: pratica della devozione. Nel contesto religioso è sinonimo di adorazione, ve-
nerazione.
Bindu: punto. E’ il simbolo della emanazione della creazione. E’ la forma espressa della
Pura Coscienza.
Brahma: uno degli aspetti della Trimurti. Corrisponde al Dio creatore.
Brahman: la Realtà suprema. L’Essere che trascende ogni concetto e ogni espressione.
La sola Verità trascendente.
Buddhi: l’intelletto. La prima evoluzione da Prakriti. Indica sia l’intelletto individuale
che l’intelletto cosmico, il Logos dei greci, l’Iside degli Egizi.
Chakra: cerchio, punti di energia dai quali originano le nadi, canali nei quali scorre
d’energia vitale.
Dharma: dovere, giustizia, giusta azione, conformità alle leggi dell’Energia universale,
equilibrio e armonia.
Gurukula: la scuola del Guru che veniva frequentata dai ragazzi dopo l’upanayama,
l’iniziazione al cammino spirituale, avvenuta a dodici anni. La vita con il Guru durava
un numero di anni pari a sei o multipli di sei, generalmente dodici. Questo periodo era
chiamato “brahmacharin”, il primo dei quattro stadi della vita tradizionale, lo stadio
dello studente.
Idam: questo. Il Veda usa questo termine in riferimento all’universo manifesto. Il Ve-
danta lo identifica come “illusorio”. Viene spesso messo in relazione con “aham”, “io
sono”.
Indriya: potere. Indica sia la facoltà che l’organo corporeo il cui insieme costituisce uno
strumento di conoscenza.
Ishvara: Signore. Nell’Atharva Veda indica il potere divino. Nello Yoga e nella Bhaga-
vad Gita indica il Dio trascendente nella forma del Dio personale.
Jnana: conoscere, l’acquisizione della conoscenza.

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Karma: una azione o la sua esecuzione, l’azione soggetta alle leggi della causalità.
Kosha: guscio, involucro energetico. Secondo il Vedanta cinque Kosha si sovrappongo-
no al Sé e ne impediscono la conoscenza.
Kundalini: l’energia nascosta nel Muladhara Chakra. Rappresenta la consapevolezza
dell’Essere che attraversa i vari stati relativi di Coscienza fino alla realizzazione dello
stato supremo (Paramashiva), l’unione con il Divino trascendente.
Manas: la mente. La perfetta definizione della mente si trova nelle Scritture dello Shi-
vaismo del Kashmir. Essa è conosciuta come Coscienza divina che si contrae, su questo
piano di esistenza, in tempo e spazio.
Manipura: terzo chakra, situato simbolicamente all’altezza del plesso solare. E’ consi-
derato il chakra dell’elemento Fuoco ed ha come bija mantra il suono “Ram”.
Maya: illusione, ignoranza del Trascendente. Tutto ciò che si sovrappone alla Pura
Coscienza dell’Essere e ne impedisce la conoscenza. Ciò che non è reale. In sanscrito
significa semplicemente: “non è”.
Muladhara: primo chakra situato simbolicamente all’altezza del “sacro” nel quale è
raccolta arrotolata tre volte e mezza su se stessa la Kundalini. E’ considerato il chakra
dell’elemento Terra ed ha come bija mantra il suono “Lam”.
Nadi: canali del corpo sottile in cui scorre il “prana”. Le nadi più importanti sono: ida,
pingala e sushumna lungo la quale sono disposti i sette chakra principali.
Nimesha: l’attività interiore di Spanda attraverso il quale l’oggetto di proietta nel sog-
getto, l’involuzione di Shiva nella materia. In sanscrito significa “Il battito di un oc-
chio”, che simboleggia la dissoluzione del mondo.
Parvati: la sposa di Shiva, la sua energia divina creativa personificata. Venne, nella
mitologia puranica anche identificata come la Madre del mondo, come la Madre natura,
prakriti.
Prakasha: il principio della auto rivelazione, la Luce di Dio, la pura Coscienza, il prin-
cipio attraverso il quale ogni cosa è conosciuta.
Prakriti: la prima espressione della Natura manifesta. Pra, in sanscrito, indica il “pro-
cedere nella natura” e krti significa “causa attiva”. Prakriti è quindi lo stimolo a pro-
durre. Viene quindi vista come il principio attivo femminile attraverso il quale l’inattivo
maschile giunge a manifestarsi.
Purana: raccolta mitologica del periodo post–vedico. Strumento per far conoscere il
Veda al popolo non appartenente alla casta brahminica.
Purna: pienezza. L’Assoluto – Infinito nella sua essenza di Pienezza.
Purusha: ha diversi significati. Per il Sankhya (il terzo dei sistemi filosofici dell’India)
è il polo attivo nel quale Prakriti si rivela e manifesta il mondo. Per lo Yoga è il polo
maschile dell’Uno (Iswara) il cui polo femminile è Prakriti. Nel Vedanta spesso è sino-
nimo di Brahman, l’Assoluto immanifesto, il Sé supremo.
Raja: significa in sanscrito “regale”. Raja Yoga è lo Yoga codificato da Patanjali nei
suoi Yoga sutra come comprendente gli otto passi o limbi (asthanga) del cammino verso
l’identità con l’Essere Assoluto.

360
Rajas: è uno dei tre guna o espressioni dell’universo creato che rappresenta il movi-
mento, l’attività, l’energia, il fuoco, il dinamismo.
Rishi: veggente, dalla radice sanscrita drs: vedere. Il Rig Veda menziona molti Rishi
che hanno manifestato la realtà dell’Assoluto immanifesto e della sua manifestazione.
Hanno dato vita a intere famiglie di rishi.
Sadhana: cammino spirituale che il cercatore compie verso l’unione con il Divino, con
il Sé supremo.
Sahasrar: il loto dai mille petali. Il settimo chakra situato sulla sommità del capo. E’
simbolicamente la dimora di Shiva, dove si unisce definitivamente con la sua Shakti al
compimento dell’ascesa simbolica lungo la sushumna.
Samadhi: ultimo e ottavo “anga” degli astanga del Raja Yoga di Patanjali. E’ sinonimo
di trascendenza, di fusione nel Sé assoluto. E’ lo stato trascendentale dell’Essere, nel
quale cessa di essere percepita la dualità del soggetto–oggetto.
Sankalpa: volontà, determinazione. E’ anche indicata come la “dinamica energia di
Vishnu” specie quando il volere viene esercitato dal Guru verso il discepolo o verso la
natura manifesta.
Satchitananda: l’Assoluto immanifesto nella sua forma trinitaria: Essenza – Coscienza
– Beatitudine. Sat : Essenza, Verità, Realtà. Chit: Coscienza. Ananda : Beatitudine.
Sattva: esistenza in sé, Essere assoluto. E’ anche uno dei “guna”, quello che corri-
sponde all’equilibrio, all’armonia, alla purezza, alla luce. A Sattva è anche associato il
“tanmatra” del suono (shabda) e il vishuddha chakra.
Sefira: singolare di “sefirot” le qualità creative e create dell’albero della vita nella Cab-
balah.
Sefirot: plurale di “sefira”. Nella sapienza della Cabbalah da Ain Sof nascono dieci
sefirot che formano l’albero della vita che ha le radici nella corona del cielo kether e i
rami in basso della shekinah.
Shabda: il “suono”. Uno dei cinque tanmatra, quello relativo ad akasha–l’etere. Il suo-
no è stato considerato in tutte le tradizioni il principio della creazione: vac (India),
logos (Grecia), verbum (Roma). Nella tradizione indiana è stato oggetto di studi molto
profondi specie nella scuola sacerdotale del Mimamsa.
Shakti: “potenza o energia divina” personificata e indicata come l’aspetto femminile,
dinamico di Dio. Non ha solo un ruolo di primo piano nel Vishnuismo, in cui si rivela
come le grandi Dee Lakshmi, Kali, Saraswati, Durga, Uma, ma anche e soprattutto
nello Shivaismo del Kashmir, in cui si manifesta come “Spanda”.
Shaktipat: la divina trasmissione di energia dal maestro al discepolo. Attraverso “shakti-
pat” lo stato del Guru entra nel discepolo, che ha non solo un’esperienza diretta della
sua divinità interiore, ma anche l’inizio di una profonda trasformazione che lo porterà,
senza ombra di dubbio, a “moksha”, la liberazione da tutti i vincoli e le limitazioni della
forma creata.
Shastra: “norma, trattato, o codice di leggi”. Si tratta di un particolare gruppo di scritti
induisti risalenti al periodo post–vedico. Lo “Shastra” consiste nella esposizione for-

361
male di determinati argomenti.
Shiva: “fausto, propizio, misericordioso, benevolo”. Questo è il nome dell’Assolu-
to, dell’Uno. Lo si trova già nel Rig–Veda (II–33,1–7). Nel Vedanta è indicato come
“l’Uno senza secondo” : Brahman. Nel Jnana Yoga prende il nome di Pasupati: “Il
Signore degli esseri”. Nello Shivaismo del Kashmir lo si trova come Paramashiva :
“l’Assoluto immanifesto”.
Siddha: “perfetto”, lo Yogi che ha raggiunto l’unità con l’Assoluto, che vive costan-
temente in uno stato di turiya, anche nello stato di veglia, di sonno e di sogno. Sono
considerati i grandi Guru dell’umanità: jagat–guru.
Siddhi: “poteri”. Vi sono otto siddhi principali ed una quantità di altre che sono descrit-
te nel III libro degli Yogasutra di Patanjali.
Smirti: “ricordo, memoria”. Sono la raccolta delle tradizioni sacre ricordate e quindi
tramandate. Si distinguono dalle grandi Verità (sruti) percepite invece dai grandi rishi
nello stato di samadhi.
Spanda: “vibrazione, espansione creativa”. E’ il primo movimento creativo che nasce
dall’Unità verso la pluralità della creazione manifesta.
Sraddha: “fede, rito”. E’ soprattutto conosciuto come il rito funebre in onore dei defunti
che tende a ricordare che la morte non spezza il legame tra il passato e il presente, tra
i vivi e i morti. Lo sraddha serve anche per far accumulare meriti all’anima del morto
e quindi cancellare parte dei suoi karma. Sraddha è anche una cerimonia celebrata in
determinate occasioni liete, come riportato nell’Atharva Veda.
Sruti: “ascolto”. E’ la sacra conoscenza percepita nello stato di samadhi dai grandi
veggenti. Le prime sruti sono contenute nei brahmana vedici.
Sunna: La scrittura sacra dell’Islam : il Corano e gli Hadith.
Sushumna: la nadi principale che unisce il muladara chakra al sahasrar. E’ la via attra-
verso la quale si distribuisce e si diversifica l’energia vitale che forma i corpi sottili ed
il corpo fisico dell’individuo. E’ inoltre il “disco rigido” del nostro computer dove sono
registrate tutte le nostre azioni (karma) e tutti i programmi che ci siamo dati venendo
al mondo.
Svadhistana: secondo chakra, il chakra posizionato ai genitali, nel corpo sottile. Corri-
sponde all’elemento acqua”.
Svatantrya: “indipendente, libero”. Shiva crea il mondo, nello Shivaismo del Kashmir,
dal suo stesso potere di volontà (svatantrya– shakti).
Swami: Ordine monastico fondato da Adi Shankaracharya.
Tamas: uno dei tre guna, quello che corrisponde all’oscurità, all’inerzia, alla passività,
alla staticità. Equivale all’ignoranza, lo stato con i maggiori limiti e la minore libertà.
Tanmatra: i cinque sensi interni della mente, i cinque sensi non manifestati: la qualità
sonora, tattile, visibile, sapida, e olfattiva.
Tao: l’assoluto immanifesto nella tradizione taoista cinese.
Tattva: letteralmente significa Tat : Quello e tva : tu. Sono i venticinque “elementi”, o
“principi” o “categorie” del Sankhya, o i ventisei dello Yoga o del Vedanta, o i trentasei

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dello Shivaismo del Kashmir.
Totaka: “metro” delle scritture delle Upanishad. E’ considerato il metro più complesso
e completo. Nome assegnato a Giri, uno dei quattro allievi di Adi Shankaracharya,
chiamato per questo Totakacharya, il reggente del monastero più prestigioso dell’India
a Jothirmath, Himalaya.
Unmesha: (lett. aprire gli occhi) 1) la esternalizzazione di iccha shakti; l’inizio del
processo creativo dell’universo. 2) Sviluppo della consapevolezza spirituale.
Upanishad: dal sanscrito upa : complementare, aggiuntivo e ni–sad : sedere ai piedi
di un Maestro. Il significato è che la conoscenza esoterica doveva essere impartita so-
lamente ad un vero discepolo in maniera personale e segreta. Le quattordici upanishad
principali datano dal 700 al 300 a.C. Le upanishad ebbero origine, come anche il mani-
festarsi del Vedanta e del Buddhismo, dalla chiusura della casta sacerdotale dell’epoca
e la perdita del contatto con il Trascendente.
Vairagya: distacco dai frutti dell’azione, distacco dall’oggetto dei sensi.
Vak o Vac: la parola. Uno dei Karmendriya. E’ anche il nome della dea Sarasvati la
shakti di Brahma il “creatore”.
Veda: “la conoscenza”. Inizialmente gli inni che compongono i Veda erano raccolti in
un’unica struttura di conoscenza. Veda Vyasa li ha divisi in tre grandi raccolte Rig Veda
– Sama Veda – Yajur Veda, a cui secoli dopo si è aggiunto l’Atharva Veda.
Vedanta: il sesto dei sei sistemi della filosofia indiana. E’ il grande sistema monistico a
cui si sono ispirati scuole e filosofi non solo orientali, ma anche occidentali.
Vijnana: intelletto puro, sinonimo di buddhi da cui proviene una conoscenza discrimi-
nativa e analitica.
Vimarsha: la coscienza di Sé di Paramashiva che manifesta il processo creativo.
Vishnu: il Divino conservatore e sostenitore della creazione. La seconda espressione
della Trimurti.
Vishudda: il quinto chakra, il chakra della gola. Il loro principio è ananda : la beatitu-
dine, l’elemento identificativo è l’etere il senso è l’udito.
Viveka: discriminazione, conoscenza come consapevolezza.
Vritti: modificazione, onda, vibrazione, fluttuazione. Conosciuto come “pensiero”.
Yoga: “unione” il quarto dei sei sistemi filosofici indiani. Codificato da Maharishi Pa-
tanjali (Yogasutra di Patanjali).

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BIBLIOGRAFIA

(I libri riportati nella bibliografia sono stati consultati per intero dall’autore
nell’elaborazione dell’opera)

Abbé Pierre, Che cosa è la vita, Ed. Piemme


Alan Bryson, Light after death, Sterling Publishers, 1997
Alberto Maggi, Parabole come pietre, Cittadella Editrice
Alberto Maggi, Come leggere il Vangelo, Cittadella Editrice
Alberto Maggi, Padre dei poveri, Cittadella Editrice
Albert Einstein, Come io vedo il mondo, Ed. Newton Compton Editore
Aldous Huxley, La filosofia perenne, Ed. Adelphi
Alessandro Maggiolini, La santa paura, l’arte di morire Ed. Mondadori, 2000
Alessandro Nangeroni, La Cabbalah, Ed. Xenia
Alice Bailey e Djwhal Khul, Morte: la grande avventura, Ed. Nuova Era, 1994
testo originale Death, the great adve