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GIOVANNI – IL VANGELO INDOMABILE

Robert Kysar attribuisce al vangelo di Giovanni l’aggettivo di indomabile in


quanto se confrontato con i vangeli sinottici «va da solo per la sua strada» 1 nel
senso che si presenta con una struttura letteraria propria che suscita una esperienza
molto differente rispetto ai sinottici. È diciamo il vangelo più anticonformista dei
quattro.

Molte sono le particolarità che lo differenziano. Si apre con la presentazione


della natura divina di Gesù e la sua eternità. Usa un vocabolario proprio e alcune
delle espressioni più usate nei sinottici non sono presenti. Il ministero di Gesù dura
tre anni, infatti indica tre diverse feste di Pasqua, ed è diviso in due parti: una in
Galilea e l’altra, la più lunga dal punto di vista temporale, in Giudea. Il ministero di
Gesù è svolto in parte contemporaneamente a quello di Giovanni il Battista.
L’ultima cena non è una cena pasquale, e avviene il giorno prima della Pasqua,
giorno in cui viene crocifisso Gesù. L’evento che farà scaturire il complotto per
l’arresto di Gesù è la risurrezione di Lazzaro. Inoltre mancano molti episodi, come
il battesimo, le tentazioni, la trasfigurazione, l’agonia del Getsemani, l’istituzione
dell’ultima cena, mentre ci sono avvenimenti che non sono presenti nei sinottici,
quali le nozze di Cana, il dialogo con Nicodemo, la donna samaritana, la
risurrezione di Lazzaro, la lavanda dei piedi. Per quanto riguarda i miracoli
compiuti è da notare che sono assenti gli esorcismi e che le guarigioni sono ancora
più rilevanti rispetto a quelle dei Sinottici, le malattie erano presenti da molto più
tempo in alcuni casi dalla nascita, i miracoli sulla natura sono più stupefacenti e in
generale i miracoli sono in numero minore. Sono chiamati “segni” e piuttosto che
rimandare al Regno di Dio indicano la vera identità di chi li opera.
1
ROBERT KYSAR, Giovanni, Il Vangelo indomabile, Claudiana Editrice, Torino 2000, p. 48.
1
Altrettante particolarità fanno somigliare il Vangelo di Giovanni ai Sinottici,
la più evidente è il racconto della passione, la struttura base dell’ordine del
ministero di Gesù, Giovanni il Battista che preannuncia l’arrivo del Messia e
l’utilizzo di alcune metafore.

Tutto questo è spiegato dall’autore seguendo l’ipotesi che il quarto vangelo è


stato scritto basandosi su una tradizione orale, con la presenza anche di qualche
materiale scritto, che si collegava a quella dei sinottici ma che ha anche preso una
via differente da questa riportando alcuni episodi non presenti sui sinottici. Il
linguaggio e l’utilizzo di alcuni termini, ad esempio il concetto di logos, fanno
pensare che la comunità cristiana in cui si compone tale vangelo si sviluppa in un
ambiente giudaico influenzato dall’ellenismo.

Inoltre lo scopo esplicito che è dichiarato in Gv 20, 30-31 non è convincente


e piuttosto si riferirebbe a una collezione del “libro dei segni” utilizzata
dall’evangelista. Piuttosto il vangelo sarebbe stato scritto per questa comunità in
conflitto con la sinagoga con lo scopo di «rafforzare i credenti cristiani nella lotta
dovuta alla situazione locale»2.

Figlio del Padre: la cristologia giovannea

Il vangelo di Giovanni è un importante contributo alla discussione


cristologica, lo è stato anche per le discussioni dei primi secoli condensate poi nei
concili, in particolare nel concilio di Nicea. Il capitolo si occupa di cinque
argomenti.

Il prologo contiene molti temi che poi sono sviluppati nel vangelo di
Giovanni. Probabilmente è stato scritto dalla comunità giovannea (Kysar). Nel
prologo il termine logos vuole riferirsi a due diversi concetti: 1. Quello delle
filosofie ellenistiche, in particolare dello stoicismo, come una ragione presente in
2
R. KYSAR, Giovanni, Il Vangelo indomabile, p. 41.
2
tutto il cosmo; 2. Nella concezione ebraica la Sapienza, che fu personificata e
identificata con la Parola di Dio. Nel cristianesimo il logos è identificato come tutto
questo ma è una persona. Cristo esiste fin dal principio, prima della creazione e
come logos è l’agente della creazione, la forza che struttura tutto fin dal principio.
Nella relazione tra Dio e il Logos esiste sia l’individualità che l’identificazione. È
come Dio, è Dio, ma è una realtà anche individuale. Questo Logos è l’espressività
di Dio, è Dio che si esprime, si manifesta all’uomo. Il prologo inoltre fa essere il
vangelo di Giovanni l’espressione più elaborata della teologia incarnazionalista dei
primi cristiani.

Tra i titoli cristologici troviamo innanzi tutto il termine “Agnello di Dio”. Il


collegamento tra la celebrazione della Pasqua e la morte, avvenuta nello stesso
giorno mentre sacrificavano gli agnelli, suggerisce a questo titolo il senso di agnello
sacrificale, in cui la morte ha un senso espiatorio, cancella il peccato. Inoltre il
“servo sofferente” viene identificato come agnello (Is 53,7). [p.62] Allora è: 1.
Simbolo della nuova Pasqua, nuova liberazione; 2. Vittima innocente che rimuove il
peccato; 3. È la figura che alla fine distrugge il male del mondo; 4. è il servo di Dio,
le sue sofferenze compiono l’espiazione per il peccato. La sua opera non avviene
solo con la morte ma anche attraverso la relazione con lui. Gesù è colui che
adempie tutte le attese messianiche: è il Figlio di Dio (per la concezione ellenistica
indica l’essere divino di Gesù), il Messia, il Re d’Israele [p.64]. Inoltre c’è il tema
del rapporto tra Gesù e Giovanni il Battista, in cui si evidenzia che quest’ultimo non
è Gesù, infatti è più grande del Battista ed è “prima di lui”: probabilmente è una
risposta a chi credeva che il Battista fosse il Messia. Ma la sua vera identità è
nell’espressione Figlio dell’Uomo, un inviato particolare di Dio, dai caratteri
misteriosi e che trova ampio spazio nel vangelo di Giovanni, soprattutto nella
semplice espressione di Figlio, che designa sia la qualificazione Figlio dell’uomo
che quella di Figlio di Dio.

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Il Figlio dell’uomo ha un’origine divina, nella dimora celesta, è inviato da
Padre (la cristologia dell’inviato è molto presente nel quarto vangelo), sarà
innalzato che ha un doppio senso, l’atto della crocifissione e il senso dell’onorare
una persona. Il tema dell’innalzamento racchiude tutta la teologia giovannea: Gesù
si comporta come un sovrano che va verso la sua incoronazione, padrone della sua
vita, che non può essere umiliato. Il Figlio, inviato dal Padre, ha le stesse funzioni di
Dio ed esercita l’autorità del Padre. Il Figlio e il Padre sono uno e sono anche
individuali. Rispondere a Gesù vuol dire rispondere al Padre, se si rifiuta Gesù si
rifiuta Dio. Anche in questo caso la cristologia giovannea è un matrimonio
creativo tra due temi differenti, l’essere Figlio di Dio nell’ebraismo voleva dire
essere obbediente, nel mondo ellenistico voleva dire avere origina divina [p. 75].

L’espressione Io sono usata nel quarto vangelo ha valore cristologico.


Afferma l’identità divina di Gesù. Questa espressione ha un parallelo sia nella
cultura ebraica, riguardo il nome di YHWH, che nella cultura ellenistica dove erano
usati relativamente alle divinità. L’evangelista identifica Cristo con Dio (vd. p. 81).
(p. 76-81).

Nella visione giovannea c’è poca riflessione sull’opera di Cristo compiuta


con la sua morte intesa come espiazione e molto di più riguardo una riflessione
sulla procurata liberazione: la morte è vista come un innalzamento, una
glorificazione. All’inizio della riflessione i cristiani vedevano la morte come
qualcosa di imbarazzante. La narrazione giovannea presenta punti di vista differenti
rispetto ai sinottici: l’attenzione maggiore riguardo Pilato, gli artefici della morte
sono i capi sacerdoti (per attaccare gli oppositori della sinagoga), Gesù è l’attore
principale, lui si consegna, è pienamente libero, e non si dichiara mai la sua morte
ma solo che “rese lo spirito”. È un re che va verso la sua incoronazione,
rappresentata dall’innalzamento in croce: è l’ascenzione e la glorificazione. La
liberazione, attuata grazie all’agnello pasquale che è Cristo, si effettua mediante la
rivelazione della vera natura di Dio attraverso l’atto supremo dell’amore che è la
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croce. La lavanda dei piedi, che anticipa la croce, spiega in che modo la morte di
Gesù si configura come purificazione. La croce è il compimento della rivelazione
redentiva.

In conclusione la comunità giovannea comprende che colui che aveva


comunicato la verità in questo modo non poteva essere altro che Dio. Se così non
fosse non si spiega come potrebbe cambiare radicalmente i credenti ovunque. Non
confondono il Figlio con il Padre, pur essendo Dio entrambi. Inoltre la cristologia
del IV vangelo è stata elaborata anche in risposta alle accuse rivolte ai cristiani di
quel tempo (p. 92).

Capitolo 2 - Due mondi diversi: il dualismo giovanneo

Il cristianesimo primitivo elabora un dualismo ereditato dal giudaismo:


quest’ultimo diceva che c’è una forza (il male) che si oppone alla volontà divina e
che con l’apparizione del Messia sarà sconfitta. Quindi un dualismo perché le forze
del male erano reali ma non potenti come Dio, inoltre c’era anche un dualismo
temporale: all’arrivo del Messia giungeva il tempo futuro in cui il male era sconfitto
e Dio governava. Il IV vangelo presenta una revisione del pensiero dualistico del
Nuovo Testamento in generale.

Le espressioni simboliche del dualismo nel quarto vangelo si trovano già nel
prologo con la coppia luce/tenebra (Gv 1,5) e ce ne sono molte. Si analizzano questi
dualismi partendo dalla concezione giovannea di kosmos. Quando è utilizzato in
maniera negativa non si riferisce al mondo fisico ma rappresenta il regno
dell’incredulità, del rifiuto della verità rivelata da Cristo e della falsa pretesa che
l’esistenza umana possa essere indipendente da Dio. L’evangelista sembra accettare
un dualismo cosmico tra il mondo e il regno celeste (p. 99), al posto del dualismo
temporale che risulta assente nel IV vangelo. Da una parte il regno di chi sceglie di
comprendere l’esistenza come creature indipendenti da Dio (tenebre, menzogna,

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carne, morte, regno di Satana, basso), l’altro regno di chi sceglie di comprendere la
verità rivelata (luce, verità, spirito, vita e vita eterna, regno di Dio, alto): tutto il
male del mondo è radicato in una errata autocomprensione dell’uomo, esso si
sconfigge con la correzione della falsa comprensione umana. Il IV vangelo è poco
interessato all’immagine di una figura cosmica responsabile del male.

L’uso dell’espressione “i giudei” nel quarto Vangelo non è coerente. Alcune


volte è usato per indicare un gruppo di persone dal punto di vista etnico e religioso,
in altre per identificare i “malvagi”, spesso per indicare i capi religiosi. Per Kysar è
utilizzata per indicare lo stereotipo di coloro che rifiutano Cristo, per indicare una
figura tipica, non persone in particolare. L’evangelista sceglie i giudei come
oppositori perché la comunità giovannea ha una disputa con la sinagoga. La non
coerenza dell’uso di questa espressione si può spiegare con il materiale tradizionale
a disposizione che l’evangelista non avrebbe corretto.

Nel IV vangelo Gesù spesso parla come se la volontà di Dio avesse


determinato quelli che risponderanno alla rivelazione divina in Cristo e in altri punti
del vangelo questo credere deriva da una libera scelta dell’uomo: il determinismo
giovanneo risulta presente nel vangelo ma ha all’interno dello stesso una
contraddizione. In questo modo l’autore vorrebbe forse esprimere il mistero
sull’origine della fede. Per Kysar la risposta è ancora una volta nella convivenza
delle due tradizioni, una dell’autore e un’altra della comunità. Quale sia l’origine
dell’insegnamento comunque il Vangelo ci lascia con una visione paradossale della
fede: da una parte essa è dono di Dio, dall’altra gli uomini sono responsabili della
loro incredulità. (p. 111-117)

In conclusione per il IV evangelista il male ha radici negli esseri umani,


radicato nell’identità: il credere di essere indipendenti costituisce la via del male, il
riconoscersi dipendenti da Dio costituisce la via del bene. Il passaggio da un
“mondo” all’altro dipende sia dalla scelta umana che da un dono di Dio. Questa

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visione dualistica si è generata dall’esclusione della comunità giovannea dalla
comunità ebraica: così si crea un “noi” e un “loro” soddisfacendo sia una necessità
teologica che una sociale. La teologia, infatti, non è solo un processo mentale ma è
radicata nella situazione sociale del teologo. (p. 118-121)
Capitolo 3 – Vedere è credere: la concezione giovannea della fede

La fede e le affermazioni teologiche devono avere una base nell’esperienza,


chiaramente diversa da quella di cui si parla nelle scienze. Infatti, di frequente nelle
religioni viene richiesta una fede prima che elementi dell’esperienza la sostengano.
Possiamo allora dire che nella religione esiste una componente della fede che è
prima dell’esperienza e una che deriva da essa. Questo è presente anche nel IV
vangelo. (p. 123-126)

I segni come provocatori della fede. Il termine “segno” è utilizzato nel IV


vangelo in modo differente dai sinottici: in questi spesso ha una connotazione
negativa, nel vangelo di Giovanni spesso ha una connotazione positiva. Sono opere
di Dio meravigliose che producono la fede. Otto i segni principali: Cana (2,1-11),
guarigione del figlio del funzionario del re (4,46-54), guarigione del paralitico (5,1-
9), moltiplicazione dei pani (6,1-14), Gesù cammina sul mare (6,15-25), guarigione
del cieco nato (9,1-8), resurrezione di Lazzaro (11,1-46), la pesca miracolosa (21,1-
14). Una fede embrionale ci permette di “vedere i segni”, essa si nutre
dell’esperienza dei segni ed evolvendo questa fede non avrà più bisogno di vedere:
questo è il cammino prospettato dal IV vangelo. La fonte da dove l’evangelista
riprende questi racconti è molto antica e vuole mettere in evidenza l’ambiguità dei
segni e portare il lettore ad una visione della fede che non necessiti di questi. La
fede risulta così un processo continuo. (p. 126-135)

Vedere, udire, e credere del quarto vangelo. Le parole greche nel IV vangelo
indicano sia una percezione sensibile che una percezione di fede. Udire anche può
essere esperienza sensoriale e evento da cui nasce la fede: i giudei non possono

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credere perché non ascoltano correttamente (Gv 8,43). La fede è radicata quindi
nell’esperienza sensoriale ma va anche al di là. Il vedere e ascoltare che produce
fede necessita di una volontà di discernere in modo più profondo la realtà. Questo
vedere oltre è un dono di Dio. C’è di fondo una visione sacramentale. Dio si deve
sperimentare mediante gli eventi sensoriali della vita (1,14). (p. 136-141)

Conoscere e credere. Conoscere e credere sono parole interscambiabili per la


chiesa Giovannea. Conoscere è credere. Nella bibbia conoscere indica una
esperienza personale profonda. Nel vangelo di Giovanni conoscere è entrare in
rapporto intimo, indica un rapporto di fede. (p. 141-145)

Visione sintetica della fede. L’avere fede indica nel IV Vangelo il


coinvolgimento personale con Gesù e una comprensione di una formula di fede.
Questa seconda accezione appare nella storia del cristianesimo quando si va a creare
una identità di gruppo: i cristiani sono coloro che professano una fede, in senso
appunto confessionale. L’autore del vangelo utilizza sempre il verbo, perché la fede
“si fa” ed è sempre una realtà dinamica. (p. 145-148)

Conclusione. Il vangelo propone una visione del rapporto tra fede ed


esperienza perché la fede del lettore possa crescere. Sostiene il ruolo positivo
dell’esperienza sensoriale all’origine della fede che si trasforma in un rapporto
personale di fiducia con la persona divina. C’è un dono iniziale da parte di Dio che
apre gli occhi perché la fede come percezione sia possibile, l’uomo diventa poi
responsabile della maturazione della fede. (p. 148-150)

Capitolo 4 – L’eternità è ora: l’escatologia giovannea

C’è una tensione tra la dimensione presente e futura della salvezza. Ci sono
tre tipi di escatologia nel quarto vangelo: una escatologia futuristica che combacia
con le aspettative protocristiane, una escatologia attuale in quanto le attese dei
cristiani sono già presenti ora nel rapporto con Cristo, e una escatologia celeste per
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cui c’è una dimora in cui i cristiani saranno portati per il perfezionamento del loro
rapporto con Dio. In definitiva è presente una escatologia dialettica in cui è
presente sia una dimensione che guarda al futuro sia una dimensione di salvezza nel
presente. (p. 151-164)

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