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APPROFONDIMENTO PER L’ESONERO DI ANTROPOLOGIA

TEOLOGICA

ESEGESI DI COL 1,1-20: IL CRISTOCENTRISMO NELL’INNO DI COL 1

1. INTRODUZIONE

Questo approfondimento consisterà in un’esegesi dei primi 20 vv. della lettera di Paolo ai Colossesi.
Dobbiamo tenere presente che essa è di quelle lettere definite deutero-paoline, la cui paternità è
discussa: quel che è certo è che essa appartiene ad un periodo più tardo rispetto a quello delle lettere
autoriali di Paolo, perciò troveremo in essa una teologia talora maggiormente sviluppata, come sarà
il caso dell’inno cristologico sul quale soffermeremo principalmente la nostra attenzione, in quanto
è in esso che appare quel forte cristocentrismo che vuole essere l’oggetto del nostro
approfondimento. In ogni caso guarderemo esegeticamente tutti i primi 20 versetti di Col 1, in
modo da collocare l’inno cristologico nel suo giusto contesto. Richiamiamo innanzitutto la struttura
di questi primi 20 versetti:

- vv. 1-2: praescriptum epistolare


- vv. 3-23: exordium, che a sua volta si divide in 4 sottosezioni:
1. vv. 3-8: azione di grazie di Paolo
2. vv. 9-14: intercessione di Paolo
3. vv. 15-20: espansione cristologica (la parte sulla quale ci concentreremo di più)
4. vv. 21-23: conclusione (tralasceremo questa sottosezione)

Per l’indagine esegetica ci aiuteremo con l’autorevole commentario di J. N. Aletti1.

2. IL PRESCRITTO EPISTOLARE

I vv. 1-2 costituiscono il praescriputm della lettera: il prescritto è un elemento classico


nell’epistolografia ellenistica, ripresa anche dall’ambiente giudaico. Il prescritto si struttura in:
- superscriptio o titulatio (v. 1): vi è contenuto generalmente il nome del mittente. Qui il mittente è
ovviamente Paolo, che si presenta come apostolo di Gesù Cristo: il genitivo dà qui l’idea di
appartenenza dell’Apostolo a Cristo e la centralità di quest’ultimo per la sua vita. L’origine di
questo apostolato è divina: Paolo è stato chiamato per grazia di Dio; probabilmente qui si può
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J. N. ALETTI, Lettera ai Colossesi, EDB, Bologna 1994

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intravedere il riferimento anche all’episodio della strada di Damasco. Il genitivo, con il primo
riferimento a Gesù Cristo (li andremo sottolineando tali riferimenti), indica l’essere totalmente
posseduto di Paolo dal Signore Gesù. Oltre a Paolo, come mittente dell’epistola, compare anche
Timoteo, definito fratello come in altri luoghi paolini;
- adscriptio (v. 2a): vi è contenuto generalmente il riferimento ai destinatari della lettera. Qui sono i
santi e fedeli fratelli in Cristo che sono a Colossi: Col è l’unica lettera dove i destinatari dello
scritto sono appellati come fratelli; la comunità cristiana dunque viene intesa come una famiglia di
fratelli. Molto importante per noi è quell’in Cristo, dal momento che tornerà dopo anche nell’inno
cristologico: qui però non ha tutta la carica e la portata che lì vedremo, ma vuole semplicemente
esprimere che la fraternità tra i credenti trova in Cristo la sua ragion d’essere;
- salutatio (v. 2b): è e il saluto e l’augurio (se così lo possiamo chiamare) che il mittente invia al
destinatario. Nelle lettere paoline la presenza nel praescriputm dei termini χάρις e εἰρήνη rimanda
ai saluti greco e giudaico. Anche qui, come in altri prescritti, si fa riferimento all’origine teologica
dei doni della grazia e della pace, mentre è invece assente quello cristologico: questo probabilmente
a causa della precedente denominazione fratelli in Cristo, per cui qui si vuole richiamare l’origine
paterna di questa relazione.

3. L’AZIONE DI GRAZIE DI PAOLO (vv. 3-8)

Dopo il praescriptum, nelle lettere paoline segue quello che abbiamo chiamato exordium, una
sezione molto spesso indicata con la denominazione “ringraziamenti e benedizioni epistolari”. In
questa sezione sono generalmente riconoscibili alcuni elementi tipici, che tornano in quasi tutte le
lettere paoline: il ringraziamento a Dio, la preghiera di intercessione di Paolo, una captatio
benevolentiae, prima del culmine escatologico che chiude questa sezione. Cercheremo ora di
cogliere questi elementi nel testo di Col.

v. 3: il testo si apre con il verbo εὐχαριστοῦμεν, il verbo per eccellenza del rendimento di grazie. La
maggior parte delle lettere paoline riporta l’uso di questo verbo, mentre solamente 2Cor ed Ef
contengono formule di benedizione: alcuni sostengono che si tratti di una differenza sostanziale, ma
più probabilmente qui siamo davanti a semplici variazioni di introduzioni epistolari. Il verbo qui è
utilizzato al plurale: all’azione di grazie di Paolo si unisce anche Timoteo, citato come co-mittente
della lettera. Il destinatario di questa azione di grazie è Dio, come per tutte le lettere di Paolo: ma
l’unicità di Col sta nel fatto che qui Dio viene indicato come “Padre del Signore nostro Gesù
Cristo”; probabilmente con questa espressione, secondo alcuni una formula di uso liturgico, si vuole

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anticipare il rapporto tra Padre e Figlio che sarà delineato nel successivo inno cristologico. Compare
inoltre già in questo versetto il motivo della preghiera, proprio anch’esso dell’exordium: la
preghiera di Paolo per la comunità di Colossi viene qui delineata anch’essa come azione di grazie.

v. 4: Paolo delinea qui i motivi del suo rendimento di grazie e, allo stesso tempo, costruisce una
captatio benevolentiae dei suoi destinatari.
Il primo motivo per rendere grazie è la fede in Cristo Gesù dei colossesi: solo Ef (che ha stretti
legami con Col) contiene un’espressione simile, mentre in buona parte delle sue lettere Paolo fa
menzione della fede dei suoi destinatari. Cosa si intende qui per fede in Cristo Gesù? Ad una prima
interpretazione potremmo intendere qui Cristo Gesù come l’oggetto della fede della comunità di
Colossi. In realtà, quando Paolo vuole presentare questa prospettiva, utilizza o il genitivo (“fede di
Cristo Gesù”) o l’accusativo preceduto da una preposizione di movimento (come εἰς in Col 2,5 o
πρὸς in Fm 5). Qui invece ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ vuole invece probabilmente indicare l’ambiente di vita
della fede cristiana, la sua stessa fonte: essa ha al cuo centro unicamente Gesù Cristo.
Il secondo motivo per rendere grazie è l’amore verso tutti i santi. La fede comune che la comunità
condivide ha come sua conseguenza naturale la carità, che in Col 3,14 viene definito vincolo della
perfezione: ed è proprio questa carità che apre alla grande speranza escatologica di cui si accenna in
apertura del v. 5. Come vediamo, troviamo qui l’accenno alle tre grandi virtù teologali cui Paolo
dedicherà le sue famosissime righe di 1Cor 13; l’ordine è fede, carità, speranza: la fede costituisce
sempre il fondamento, a partire dal quale si origina l’amore, che apre alla grande speranza dei cieli.
Il fatto che qui Paolo faccia riferimento unicamente ai santi non esclude che il cristiano sia
chiamato a vivere la carità anche verso coloro che vivono al di fuori della comunità stessa, se non
addirittura verso i nemici (cfr. Rm 12).

v. 5: il v. 5 si apre con il riferimento alla speranza, cui già accennavamo. Questa speranza preparata
nei cieli costituisce il motivo della fede e dell’amore dei colossesi (διὰ con l’accusativo). Il
participio presente ἀποκειμένην in riferimento ad ἐλπίδα sta a richiamare la profonda verità di
questa speranza: essa è stata inaugurata da Cristo stesso ed è ormai riposta nei cieli, dove Cristo è
assiso alla destra di Dio (cfr. Col 3,1); questa speranza è una speranza certa proprio in virtù di
Cristo, speranza della gloria (cfr. Col 1,27): Cristo non si identifica tout-court con l’oggetto di
questa speranza, ma ne costituisce la ragion d’essere, Colui che la fonda in virtù della sua opera di
redenzione. Anche questo elemento prepara già in accenno all’inno cristologico. E il fatto che qui ci
si riferisca all’opera di redenzione realizzata da Cristo sta nel successivo accenno alla parola del

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vangelo che i colossesi hanno ascoltato, di cui la salvezza di Cristo costituisce il cuore. Qui si fa
anche riferimento alla dinamica fides ex auditu che Paolo illustrerà benissimo in Rm 10.

v. 6: qui Paolo fa alcune considerazioni circa la parola di verità del vangelo cui ha prima accennato.
1) Innanzitutto l’Apostolo sottolinea che non è l’uomo a muoversi verso questa parola, ma è essa
stessa che si fa presente: essa non è giunta una volta per sempre, ma viene continuamente (uso del
participio presente παρόντος);
2) questa parola, come Paolo più volte sottolinea nelle sue lettere e talora proprio negli exordia (cfr.
Rm 1,8), ha estensione universale;
3) la parola porta frutto e cresce: questo, come emerge anche sotto in Col 1,10 (ma anche in 1Cor
1,5-6; Fil 1,5-7; 1Ts 1,3), si realizza nella vita delle comunità di Paolo, nella fede e nell’amore che
sono espressioni dell’accoglienza di questa parola; e in effetti qui Paolo richiama questa realtà con
l’espressione καθὼς καὶ ἐν ὑμῖν.
Questa fruttificazione e crescita della parola del vangelo ha avuto un inizio ben preciso con
l’ascolto (uso dell’aoristo): a partire dall’ascolto si genera la fede e la fede si fa conoscenza. Qui il
verbo ἐπέγνωτε fa riferimento ad una conoscenza più profonda, superiore, motivo che sarà ripreso
subito dopo nel v. 10: il motivo della conoscenza di Dio, intesa come conoscenza profonda e non
semplicemente intellettuale, è particolarmente presente nelle deuteropaoline (specie Col ed Ef).
Oggetto di questo ascolto è la grazia di Dio nella verità: essa non è altro che il vangelo stesso,
precedentemente definito parola di verità, essa è l’annuncio sconvolgente di quella redenzione che
Dio opera per grazia in Cristo (tema classico di Paolo), redenzione che costituisce la “buona
notizia”, il vangelo che i colossesi hanno ascoltato e conosciuto.

v. 7: si fa qui riferimento ad Epafra, collaboratore di Paolo. Egli è colui dal quale i colossesi hanno
ascoltato e imparato il vangelo; ancora una volta l’utilizzo dell’aoristo richiama ad un annuncio ben
preciso, storicamente collocabile, che la comunità di Colossi ha ricevuto. Epafra viene definito sia
amato con-schiavo (rispetto a Paolo e Timoteo) sia fedele servo di Cristo a vostro vantaggio:
entrambi le espressioni richiamano indubbiamente la relazione che intercorre tra il Cristo e
l’evangelizzatore, relazione che è quella del servizio. In relazione a Paolo e Timoteo Epafra è
amato: troviamo un altro accenno alla dimensione della carità che si vive tra santi; in relazione a
Cristo Epafra è fedele (stessa radice di πίστις, che abbiamo prima visto come centrata su Cristo):
Epafra è ciò che deve essere, come Paolo ha anche modo di dire in 1Cor 4,2, cioè che da un
servitore si richiede che egli sia fedele. In Col 4,12-13 Epafra sarà ulteriormente definito come
schiavo di Cristo Gesù, come Paolo stesso si definisce in non pochi casi: in Epafra Paolo riconosce

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dunque un uomo degno del suo affetto e della sua fiducia, un uomo accreditato da Cristo e avente la
sua medesima autorità. Perciò, proprio in virtù di questo, i colossesi non hanno ricevuto da Epafra
un altro vangelo, ma il medesimo vangelo annunciato anche da Paolo.

v. 8: il fatto che Epafra trasmetta notizie a Paolo sta ad indicare indirettamente che è Paolo stesso il
responsabile della chiesa di Colossi. Il riferimento all’amore nello Spirito è molto importante: il
fatto che Paolo non faccia riferimento ai destinatari di questo amore sottende probabilmente che qui
egli si riferisce all’amore che i colossesi vivono fra loro nella loro comunità, radunata appunto nello
Spirito. Tale amore perciò non è riduttivamente una simpatia umana, ma costituisce una relazione
animata dallo Spirito stesso.
Significativo è notare come questo è e rimane l’unico riferimento allo Spirito in tutta la lettera:
questo è sicuramente dovuto alla preponderanza netta della cristologia in Col.

4 . L’INTERCESSIONE DI PAOLO (vv. 9-14)

La struttura di questa preghiera di intercessione che si snoda in questi 6 versetti è sostanzialmente


semplice. Al v. 9 è contenuta la richiesta di Paolo (“che siate ripieni della conoscenza della sua
volontà”), mentre al v. 10 si colloca la finalità per cui Paolo rivolge tale preghiera di intercessione
(“affinché conduciate una vita degna del Signore”). Ma questa finalità, consistente in un agire etico
coerente, viene esplicitato poi nel v. 11 nelle sue 4 modalità che poi analizzeremo. A partire dal v.
12, infine, Paolo eleva al Padre un inno di ringraziamento, che costituisce il preludio del grande
inno cristologico sul quale successivamente porteremo la nostra attenzione.

v. 9: l’esordio διὰ τοῦτο indica lo stretto legame che lega la preghiera di intercessione che Paolo si
accinge a sviluppare alla precedente azione di grazie: qui la preghiera di Paolo non è altro che la
conseguenza stessa dell’adesione alla fede dei colossesi, tanto che essa si eleva dal giorno in cui lui
e Timoteo hanno ricevuto notizie da Epafra (notizie di cui si è accennato al v. 8). Da allora
l’Apostolo e Timoteo elevano a Dio una preghiera incessante; l’accostamento qui dei due participi
προσευχόμενοι e αἰτούμενοι, a prima vista ripetitivo, sta invece a specificare la preghiera che Paolo
eleva, che è preghiera di intercessione.
Oggetto della preghiera è la conoscenza della volontà di Dio che Paolo invoca in pienezza sui
colossesi. Innanzitutto il verbo πληρωθῆτε: è un passivo, da intendere come un passivum divinum; è
Dio perciò che ricolma della conoscenza della sua volontà i credenti, così come è Dio che ha fatto
abitare ogni pienezza nel suo Figlio (v. 19): anche qui si instaura perciò un legame tra Cristo e il

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credente. Taluni esegeti hanno fatto notare circa questa pienezza una sorta di contraddizione con
quanto Paolo dirà poi in Col 2,10, dove si dirà che i colossesi partecipano già di quella pienezza: ma
qui probabilmente il fine è una conoscenza ancora più piena della volontà di Dio espressa dal
termine ἐπίγνωσιν. L’oggetto della domanda è ricorrente nei libri biblici e giudaici, dove parecchi
passi insistono già sul rapporto tra conoscenza della volontà divina e comportamento etico: si può
agire in modo retto solamente conoscendo la volontà divina. Ma tale conoscenza può avvenire
solamente se accompagnata dalla sapienza e dall’intelligenza dello Spirito e non quelle umane,
verso le quali l’Apostolo sarà critico nel corso di questa lettera (cfr. Col 2). Proprio per questo
motivo la conoscenza della volontà di Dio non è qualcosa che l’uomo può ottenere con i suoi sforzi,
ma è unicamente un dono della grazia di Dio, che bisogna impetrare da Dio, il quale vuole donarla a
tutti.

v. 10: viene, in apertura del versetto, esplicitato il fine della conoscenza della volontà divina, che è
quello di camminare in modo degno del Signore, dove qui “camminare” (come è solito in Paolo) sta
a significare il comportamento etico: la conoscenza suddetta dunque non è di carattere speculativo,
ma pratico. Ma a chi si riferisce qui il termine κυρίου? Guardando ai paralleli giudaici (Filone per
esempio) o paolini (1Ts 2,12; 4,1) dovremmo pensare che qui si faccia riferimento a Dio Padre: in
realtà è Gesù che in Col viene appellato come kyrios. Perciò qui dovremmo così interpretare:
bisogna comportarsi in maniera degna del Signore Gesù per piacere a Dio (nonostante non si dica
qui a chi si debba piacere, guardando i paralleli paolini è certamente Dio Padre qui il riferimento). Il
testo propone poi come comportarsi in maniera degna di Dio. È significativo notare che il testo
riproponga qui i medesimi verbi del v. 6 (“portare frutto” e “crescere”): la fruttificazione e la
crescita del vangelo si ha di pari passo con il portare frutto nelle opere buone e con la crescita nella
conoscenza di Dio da parte dei singoli fedeli. Si noti come qui si faccia riferimento sia alla
dimensione pratica come a quella conoscitiva, con una significativa precedenza delle buone opere.
Questo riferimento alle buone opera ha indotto talora a pensare che qui vi sia già uno slittamento
verso il protocattolicesimo, dal momento che si attribuisce quasi più importanza alle opere rispetto
alla tradizionale fede paolina. Ma questo appunto è alquanto infondato: sia perché, come abbiamo
visto, le buone opere sono frutto di quella grazia di Dio la quale dona la conoscenza della volontà
divina, sia perché sono la manifestazione di quella potenza che opera nel credente a cui si farà
riferimento nel v. 11. Circa la conoscenza di Dio a cui qui si fa riferimento, essa non è da far
coincidere con la precedente “conoscenza della volontà di Dio”, sebbene le espressioni siano molto
simili: ciò in cui questa conoscenza di Dio consiste sarà poi meglio specificato proprio nel

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successivo inno cristologico, in cui si descriveranno la redenzione e la creazione operate da Dio con
la mediazione del Figlio.

v. 11: la possibilità di una vita veramente cristiana così come essa è stata delineata al v. 10 è la forza
che il credente riceve proveniente dal potere stesso di Dio: il potere della gloria di Dio deve
manifestarsi nella vita del singolo credente. Tuttavia, questo non implica una vita facile per il
credente: prova di questo è il fatto che la forza che il credente riceve è finalizzata alla perseveranza
e alla pazienza con le quali il credente deve fronteggiare ciò che egli deve soffrire per la fede. I
commentatori sono concordi nel considerare la perseveranza come virtù di non violenza con la
quale ci si oppone alla violenza in un contesto di ostilità verso la fede; la pazienza invece è una
reazione di comprensione, tolleranza ed indulgenza ad intra rispetto alla comunità. Le prove perciò
vengono sia dall’esterno che dall’interno della chiesa.

v. 12: la maggior parte dei commentatori separa il participio con cui si apre il versetto dai participi
precedenti e lo intende come un’esortazione: in realtà, esso prolunga e dà senso ai participi
precedenti, per cui il rendimento di grazie diviene il quarto elemento per cui la vita dei credenti
piace al Signore. D’altronde queste costruzioni sono abbastanza diffuse in Col: spesso infatti
troviamo imperativi seguiti da parecchi participi che ne precisano le motivazioni, le condizioni o le
modalità. Il rendimento di grazie va reso nella gioia: è significativo che l’espressione μετὰ χαρᾶς
preceda lo stesso participio. E questo risalta ancor di più se consideriamo come si era conclusa la
frase precedente, con il riferimento alla dimensione della prova: nonostante essa, la comunità può e
deve rendere grazie a Dio. Il rendimento di grazie è rivolto al Padre, il cui termine viene utilizzato
in maniera assoluta, senza altre specificazioni: l’autore non aggiunge né Theos (come nel v. 3, nella
precedente azione di grazie di Paolo), né “del Signore nostro Gesù Cristo” (come altrove), né
“nostro” in riferimento alla comunità; sopprimendo queste espressioni l’autore vuole lasciare al
termine Padre la sua massima estensione: l’azione di grazie alla quale la comunità è esortata chiama
i credenti a vivere da figli, riconoscendo quanto il Padre ha fatto per loro, che costituisce il
fondamento della loro stessa adesione alla fede e che sarà esplicitato nei versetti successivi.
Infatti il rendimento di grazie ora non è più, come quello di Paolo, per l’agire dei credenti, ma per
l’opera creatrice e salvifica di Dio Padre.
“che ci ha resi capaci di aver parte all’eredità dei santi nella luce”: è un’espressione che porta
dietro sicuramente un background giudaico, specie al libro della Sapienza. Cerchiamo di
comprendere i termini di questa espressione. Innanzitutto εἰς τὴν μερίδα τοῦ κλήρου: che cosa è
questa parte di eredità a cui ci si riferisce? Qualcuno, individuando una certa correlazione con il v.

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13, identifica questa parte di eredità con il Regno cui si fa riferimento nel versetto successivo.
Riprendo personalmente un’intuizione dello studio di J. Dunn sulla teologia paolina, quando egli
classifica quella dell’eredità come una metafora tipicamente paolina della salvezza: d’altronde il
Regno del v. 13 sarebbe il compimento di questa salvezza. La redenzione va dunque a costituire il
punto di partenza, la realtà ormai presente da cui partire, per andare a ricostruire il gran disegno
avuto inizio con la creazione. E tale disegno è opera del Padre: ma, come vedremo, il Figlio ha un
ruolo decisivo in esso. Circa i santi, essi sono coloro che hanno già beneficiato della salvezza
operata dal Padre nel Figlio e regnano ormai con lui: alla comunione con costoro sono stati ora
chiamati i credenti, che godono ora di questo status; altri esegeti identificano i santi con gli angeli,
ma qui sembra alquanto difficile.

v. 13: se nel v. 12 si era descritta la situazione in cui sono stati posti i credenti, la comunione con i
santi, ora l’autore accenna alla modalità attraverso la quale essi sono stati condotto in questa nuova
situazione. I credenti sono stati liberati: vi è dunque all’origine una azione salvifica di Dio. E da
cosa sono stati liberati? Dal potere della tenebra: qui l’espressione si oppone alla condizione dei
santi, che è nella luce. L’espressione “liberare delle tenebre” è molto diffusa negli scritti giudaici
intertestamentari, come per esempio nei testi qumranici: in essi luce e tenebre identificano
ovviamente bene e male, due poteri che sono costantemente in lotta e che simbolizzano due sfere
d’influenza superiori, quella di Dio e quella del male. I credenti, sottratti al potere della tenebra, non
vengono però abbandonati, ma portati nel Regno del Figlio del suo amore, passano cioè da una
condizione tenebrosa ad una luminosa, consistente in una comunione di amore. Circa il riferimento
al Regno, bisogna dire che generalmente Paolo utilizza l’espressione regno di Dio e non regno di
Cristo: tuttavia non si può, come alcuni hanno fatto mettere in contrapposizione queste realtà, infatti
qui è lo stesso Padre a porre i credenti nel regno del suo Figlio che, come Paolo scrive anche in
1Cor, riconsegnerà il regno a Dio Padre al finire dei tempi. Sicché il Regno diviene una realtà già
presente (ad esso appartengono i santi che sono nella luce), ma ancora da realizzare in pienezza.
Inoltre il riferimento a Cristo serve ad introdurre come egli sia necessario nell’opera della
redenzione dei credenti stessi, tanto che il Padre li affida al suo regno.

v. 14: qui appunto si fa per la prima volta esplicito riferimento alla redenzione operata da Cristo, la
quale non viene però descritta, in quanto resta il fatto che tale riferimento si situa ancora in quel
rendimento di grazie che è rivolto al Padre: è chiaro però che, anche se questi versetti descrivono
l’opera salvifica del Padre in favore dei credenti, quest’opera stessa mette progressivamente in
rapporto i credenti col Cristo; questo culmina col fatto che l’attenzione si sposta dall’agire del Padre

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a ciò che i credenti hanno ricevuto in Cristo. Ed in Cristo essi hanno ricevuto l’ ἀπολύτρωσιν, cioè
il riscatto: l’ ἀπολύτρωσις era il prezzo da pagare per riscattare uno schiavo. Ma da quale schiavitù i
credenti sono stati riscattati? Quella del peccato, ci dice l’autore: è questo un’altra classica metafora
della salvezza utilizzata da Paolo nelle sue lettere.
A questo punto termina questo rendimento di grazie ed inizia la grande sezione cristologica,
introdotta in questi ultimi 2-3 versetti.

5. L’ESPANSIONE CRISTOLOGICA (vv. 15-20)

Questi versetti formano decisamente un’unità a sé stante: lo comprendiamo dal genere letterario, dai
parallelismi, dalle ripetizioni di vocabolario e infine dalla scomparsa della parola Theos, che
sottolinea la esclusiva colorazione cristologica del brano. Circa il genere letterario, il testo è
sicuramente un brano innico, nonostante alcuni abbiano voluto vedere in esso una professione di
fede nel Cristo mediatore della creazione e della redenzione, sul modello delle confessioni
monoteiste dell’AT e degli scritti giudaici intertestamentari. In realtà, oggi si concorda che il brano
costituisce invece un inno di lode: e questo lo si evince dalle unità semantiche. L’inno è una grande
lode rivolta a Cristo, sul modello di alcune lodi veterotestamentarie dove i titoli divini si alternano
alle argomentazioni in loro favore: infatti troviamo una prima affermazione al v. 15 seguita da
un’argomentazione ai vv. 16-18a, e una seconda affermazione al v. 18b seguita da un
argomentazione fino al v. 20.
Circa l’interpretazione di questo importante testo, fino a poco tempo fa si riteneva che il brano fosse
la ripresa di un inno cristologico (elaborata dai dottori di Colossi) sulla supremazia e la mediazione
cosmica del Cristo risorto, inno che voleva esorcizzare l’angoscia dell’uomo greco costretto a far
fronte alle forze naturali, animate da potenze ostili (a cui Paolo fa molto spesso riferimento, specie
in Col e soprattutto in Ef). Il redattore di Col avrebbe appunto ripreso questo inno e vi avrebbe
aggiunto alcuni elementi per inserirvi la teologia della croce tipicamente paolina, correggendone
dunque la cristologia, unicamente cosmica e gloriosa. In realtà oggi questa posizione tende sempre
più ad essere abbandonata. Se è certamente possibile che in questi versetti vi sia contenuto un inno
preesistente a Col, non possiamo affatto considerare che alcune sue parti (come Col 1,20b) sia
un’aggiunta e dunque una correzione dell’inno primitivo: infatti queste parti costituiscono i punti di
collegamento con i successivi vv. 21-23. Due sono le interpretazioni possibili, che d’altronde sono
anche fra loro compatibili: 1) i vv. 15-20 hanno lo scopo di preparare l’argomentazione cristologica
del cap. 2; 2) essi costituiscono qualcosa di gratuito e unicamente proveniente dalla devozione
cristica dell’autore di Col.

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Circa la struttura di Col 1,15-20, essa è alquanto dibattuta e complessa: in linea generale possiamo
affermare che tale struttura ha come suoi pilastri portanti i doppi hos estin e hoti: infatti i due hos
estin (v. 15 e v. 18b) introducono le attribuzioni, mentre gli hoti (v. 16 e vv. 19-20) introducono le
argomentazioni.
Circa il contenuto, che sarà meglio sviluppato nell’esegesi dei singoli versetti, possiamo dire che
non si fa alcun riferimento a Dio (se non nel genitivo del v. 15), sebbene egli venga designato come
l’autore delle azioni di creazione, riconciliazione e rappacificazione. L’accento non è posto dunque
sull’azione divina e sul suo autore, ma sulla mediazione di Cristo, grazie alla quale tali azioni sono
state possibili. Tutto dunque viene centrato sulla relazione tra “lui” e “tutte le cose”, opposizione
che torna spesso nell’inno. A differenza di altri passi del NT, dove l’agire di Cristo viene
menzionato, qui l’insistenza è sulla mediazione, come prova la ripetizione delle preposizioni in, per
mezzo, per: tutti gli esseri creati e redenti sono in rapporto di dipendenza con il Cristo.
Nell’inno si fa riferimento al Figlio esclusivamente con pronomi (hos o autos): questo induce a
pensare che il riferimento di questi pronomi sia il “Figlio del suo amore” del v. 13. Alcuni
commentatori ed esegeti, fin dall’età patristica, hanno voluto distinguere in tal modo: nei vv. 15-17
parlerebbero del Figlio come Logos increato, mentre nei vv. 18-20 si parlerebbe del Figlio come
Logos incarnato. Tale distinzione appare però esegeticamente ingiustificabile, come invece è
perfettamente affermabile per esempio in Eb 1,2-4: non è un caso che i verbi dei titoli che vengono
riferiti al Figlio sono tutti al presente (estin) e nessuno, per esempio, al passato. L’inno si riferisce
unicamente al Figlio, che è allo stesso tempo colui per mezzo del quale tutto è stato creato, colui
che ha rappacificato tutto nel suo sangue e colui che è stato elevato nella gloria.

v. 15: l’inno si apre con due titolature riferite al Figlio che, per la loro disposizione, hanno indotto
nel passato molti esegeti a vedere una ripresa dei primi capitoli della Genesi, un’allusione al primo
Adamo, creato anch’egli ad immagine di Dio e costituito a capo di tutta la creazione: in tal modo
qui il brano si sarebbe riferito a Cristo come ultimo Adamo, motivo presente nella teologia di Paolo.
Ma ultimamente l’esegesi vede in questi titoli un riferimento ai libri sapienziali: si alluderebbe qui
in realtà alla figura della sapienza.
“Immagine del Dio invisibile”. Si è voluto vedere in passato un riferimento a Platone, che nel
Timeo scrive che il mondo sensibile è immagine del Dio intelligibile. Sono evidenti, da questo, le
differenze nell’uso del concetto di immagine: infatti mentre Platone lo riferisce al mondo, Col lo
attribuisce al Figlio, il quale è distinto, come abbiamo già detto, da tutte le cose; inoltre in Platone il
concetto di immagine esprime una partecipazione indiretta e imperfetta, che non può essere
applicata al Figlio. Dunque non è dall’ellenismo che l’autore ha ripreso, quanto invece dal

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giudaismo ellenistico e, probabilmente, proprio dal contesto sapienziale: infatti la Sapienza viene
definita in Sap 7,26 immagine della bontà divina e nel Legum allegoriae di Filone principio,
immagine e visione di Dio.
Qui non abbiamo un contrasto tra una realtà visibile e Dio invisibile: il Signore risorto infatti non è
visibile e allo stesso modo la Sapienza è detta immagine della bontà divina senza che essa sia
visibile; se il creato fa conoscere Dio (come afferma chiaramente Sap 2,23), la manifestazione del
Figlio è diversa da quella, in quanto viene dalla sua partecipazione mediatrice all’opera della
creazione, come la Sapienza partecipa nell’AT alla creazione. Questa interpretazione esclude
dunque quella adamitica dell’esegesi classica, sebbene Col 3,10 e anche altri passi paolini utilizzino
il concetto di eikon rimandando alla tipologia Adamo/Cristo: in questi testi infatti si tratta però non
del Cristo come immagine di Dio, ma della conformità dei credenti all’immagine del Cristo.
Il Cristo è dunque immagine del Dio invisibile, colui per la cui mediazione creatrice Dio si fa
conoscere.
“Primogenito di ogni creatura”: diverse sono state le interpretazioni date a questo titolo,
“primogenito”:

- primogenito nel significato di origine, per cui Cristo è “prima di ogni creatura”;
- primogenito nel significato di inizio di una serie: Cristo sarebbe la prima delle creature, ma
pur sempre creatura;
- primogenito non in riferimento al Cristo preesistente, ma al Cristo incarnato: esso dunque è
un titolo solo di eccellenza, non di anteriorità;
- primogenito in riferimento al Cristo preesistente, senza però che sia un titolo d’origine, ma
solo di eccellenza;
- primogenito come “generato prima di ogni creatura”: è una posizione simile alla prima, ma
che considera solo il rapporto Cristo/creato.

Il titolo prototokos porta in sé una certa ambiguità: il termine infatti designa il figlio maggiore che,
in virtù di questa sua posizione, è l’erede principale e gode di autorità sui suoi fratelli. In tal modo il
Cristo sarebbe superiore sì a tutte le cose, ma rischierebbe di restare ingabbiato nella realtà creata.
D’altronde nella Scrittura non troviamo mai una simile designazione: si parla di Israele, del Messia
o della Torah come primogeniti, ma non come primogeniti di ogni creatura. Il contesto (soprattutto i
vv. successivi) ci aiutano a comprendere la retta ermeneutica di questo titolo: esso deve essere
compreso in funzione della mediazione unica del Figlio nell’opera di creazione; non si tratta qui
della creazione del Figlio, ma di quella di tutto il creato: perciò il titolo non si riferisce al Figlio

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come la prima delle creature. È anche evidente la differenza con la concezione sapienziale: la
Sapienza veterotestamentaria viene infatti detta come creata al principio (cfr. Sir 24,9; Pr 8,22); in
virtù del riferimento precedente alla Sapienza, alcuni hanno pensato che anche qui si dovesse
riportare la stessa visione veterotestamentaria.
In realtà, prototokos indica qui un titolo di filiazione unica ed eterna, prima ancora della creazione
del mondo: d’altronde la seconda parte del termine non deriva dal verbo ktizo, ma da tikto, che
significa “generare” e non “creare”.

v. 16: questo versetto giustifica i due titolo del v. 15, insistendo sulla mediazione unica del Figlio:
tale unicità della mediazione è enfatizzata dall’ “in lui” posto in posizione iniziale. Come già
accennato, molto importante è l’uso delle preposizioni en, dia, eis: esse esprimono il rapporto fra
tutte le cose e il Cristo come loro principio unificatore, che è un rapporto di dipendenza. Le tre
preposizioni esprimono in maniera complementare la portata della mediazione creatrice del Figlio:
en esprime non un significato strumentale prima di tutto (sarà espresso dal dia), ma il fatto che
l’azione creatrice fu tutta impregnata della presenza del Figlio, presenza che sarà meglio espressa
dalle altre due preposizioni; dia indica il fatto che le cose sono per mezzo di Cristo, mentre eis
esprime l’aspetto teleologico delle cose verso Cristo, compimento della creazione: la finalizzazione
cristologica della creazione è un elemento di novità rispetto alla tradizione sapienziale (mai infatti si
dice che la creazione sia eis sophian).
Il verbo che viene utilizzato qui per due volte è ktizo, “creare”: tale verbo riprende un’affermazione
fondamentale del monoteismo biblico e giudaico, che esclude ogni panteismo. Infatti, essendo
creati, gli esseri non sono generati e non è possibile alcuna confusione con la divinità.
Vi è poi l’espressione ta panta, “tutte le cose”: tale espressione è da intendere primariamente come
espressione generale, per cui la mediazione creatrice del Figlio è da intendere a favore dell’universo
nella sua totalità, nel suo insieme; ma il fatto che vengano poi elencate queste realtà sta a significare
che la mediazione del Figlio si esercita anche su ciascuna delle realtà create prese singolarmente.
Esse sono:

- “quelle nei cieli e quelle sulla terra”: il registro è cosmologico e le categorie spaziali. Qui
non vi è contrapposizione fra cielo e terra, ma essi formano una totalità, quella dell’universo
creato: gli esseri elevati e quelli più umili sono nella stessa situazione;
- “quelle visibili e quelle invisibili”: la mediazione creatrice di Cristo si esercita non solo per
le realtà visibili, ma anche per quelle invisibili, quali le potenze angeliche, che vengono poi
precisate: i nomi di questi esseri menzionati indicano tutti un esercizio di potere, si tratta di

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esseri che, in quanto esercitano un certo potere reale sugli elementi cosmici e sugli uomini,
potrebbero esser rivali del Figlio; ma anche essi sono unicamente per la mediazione del
Figlio: questo elenco di nomi vuole appunto sottolineare questa realtà. Secondaria è perciò
la questione sulla natura morale di questi esseri e sul loro grado di eccellenza, molto
affrontata nella letteratura giudaica e intertestamentaria: l’esegesi antica ha sostenuto che i
“Troni” e le “Signorie” siano angeli buoni, mentre “Principati” e “Potenze” angeli cattivi, in
quanto essi vengono sconfitti da Cristo (cfr. Col 2,15); circa la loro gerarchia, la prima
coppia citata veniva ritenuta come insieme di angeli superiori.

v. 17: dopo aver parlato della mediazione creatrice del Figlio per tutte le cose, il testo passa ora ad
indicare le implicazioni di questo. Il pro panton indica qui la preminenza in dignità oppure
l’anteriorità? In genere la dignità è connotata da altre preposizioni (hyper, epi), qui si deve intendere
l’anteriorità. Potrebbe sembrare strano che l’anteriorità del mediatore non venga prima, nel testo,
della mediazione: ma è proprio grazie alla mediazione stessa che noi possiamo conoscere
l’anteriorità del mediatore. Né deve meravigliare l’uso del verbo al presente e non, per esempio, al
passato: il Figlio è infatti eterno, è da sempre prima di tutte le cose.
Circa il sussistere delle cose nel Figlio, si è visto in questa affermazione uno sfondo stoico, dove il
cosmo era un insieme unificato e divino: tale intuizione stoica sarebbe stata adattata al monoteismo
biblico. Una simile operazione potrebbe essere possibile, ma non possiamo affermarlo di certo. Il
fatto che tutte le cose sussistono nel Figlio rimanda anche al concetto filosofico di creatio continua:
la realtà si mantiene nell’essere in virtù di questa mediazione.

v. 18: il Figlio viene qui definito capo del corpo della Chiesa: in passato l’esegesi ha visto il
genitivo tes ekklesias come un’aggiunta posteriore per controbilanciare una cristologia troppo
mitologica; ma abbiamo visto che non possiamo intendere ciò in tal modo. Cristo viene definito
kefalè; si dibatte circa il senso da dare a questo termine: esso connota l’autorità (per cui Cristo ha
totale autorità sulla Chiesa) o l’origine (per cui Cristo è la fonte della Chiesa)? Cerchiamo di
comprenderlo dal contesto. Qui il termine kefalè non è da intendersi in senso biologico, come
membro di un corpo vivo, che ha bisogno di altre membra per sussistere (come altrove in Paolo), in
quanto i vv. precedenti affermano che Cristo è prima di tutte le cose. Ma, basandosi sul v. 17b, si
può dire che la Chiesa non può sussistere, come ogni realtà, senza il Cristo; inoltre, dato che
precedentemente non abbiamo fra le preposizioni anche la proposizione ek per l’esistenza degli
esseri creati, possiamo intuire che qui kefalè connoti l’autorità totale del Cristo sulla Chiesa. In tal
modo si comprende anche il motivo per il quale questa affermazione viene posta qui:

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1) l’autorità di Cristo sulla Chiesa si oppone alle autorità cui si è fatto riferimento nel v. 16: solo
Cristo può rivendicare autorità sulla Chiesa. E questo è molto importante per gli sviluppi della
lettera (cfr. Col 2,6-23);
2) collegata all’affermazione del primato del Figlio su tutta la creazione, questa affermazione
significa che l’autorità del Cristo sulla Chiesa è collegata alla sua autorità su tutto il creato.
La Chiesa è il corpo del Cristo: Cristo e Chiesa sono perciò inseparabili, la Chiesa dipende dal suo
rapporto con il Cristo di cui deve esprimerne la signoria, ed inoltre essa costituisce una realtà
organica, in crescita.
L’affermazione di Cristo come capo del corpo della Chiesa costituisce l’anello di congiungimento
con il riferimento alla mediazione redentrice di Cristo: infatti subito dopo troviamo le altre
attribuzioni introdotte dall’hos seguite dalle argomentazioni introdotte dall’oti.
Cristo è principio: anche qui ritroviamo lo sfondo sapienziale, dal momento che anche la Sapienza
viene definita così in Pr 8,22 e in Filone. Ma qui il termine archè non si riferisce alla posizione del
Cristo rispetto alla creazione (come per la Sapienza nei passi suddetti: d’altronde la posizione di
Cristo rispetto alla creazione è stata già delineata), ma si riferisce a quel nuovo inizio che è
costituito dalla resurrezione. In tal senso il successivo prototokos è una specificazione di archè; qui
però questi attributi non devono essere intesi unicamente nel senso di anteriorità, ma anche di
eccellenza. Cristo è primogenito dei morti: la sua resurrezione dà il via ad una serie che è un inizio,
una speranza per tutti i morti.
Al termine troviamo un’affermazione molto importante che ci svela la finalità verso cui l’inno
tendeva: mostrare il primato del Figlio a tutti i livelli; infatti il verbo proteuo non esprime solo la
priorità temporale o locale, ma il primato di rango e dignità.

v. 19: troviamo qui l’inizio dell’argomentazione dopo le attribuzioni precedenti. Innanzitutto


troviamo subito una difficoltà grammaticale: infatti il verbo eudokesen può avere due soggetti, Dio
(sottointeso) o pleroma. Ma, guardando al successivo participio eirenopoiesas, che è un maschile,
possiamo affermare tranquillamente che il soggetto sottointeso è Dio: se non viene qui inserito è
perché l’autore vuole mantenere focalizzata l’attenzione sul Figlio.
Maggiori problemi sono sollevati dal termine pleroma. È comunemente accettato il senso passivo di
questo termine: ma qui si ha un uso comune o tecnico del termine? Nell’uso comune il termine è
seguito da un genitivo che precisa di quale pienezza si tratti; l’uso tecnico è quello in cui il termine
indica la pienezza cosmica dello stoicismo, che è Dio in quanto riempiente il mondo. L’assenza di
genitivo potrebbe indurci a pensare alla seconda ipotesi: ma come è possibile accettare, dopo quanto
detto sopra, una teoria evidentemente panteista? L’uso allora deve essere comune: ma cosa designa

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qui pleroma? Per rispondere a questa domanda, gli esegeti hanno consigliato di non separare il
termine pleroma dai verbi eudokesen e katoikesai, il cui sfondo è chiaramente veterotestamentario.
È Dio, la sua gloria, il suo spirito che si compiacciono di venire a soggiornare in modo permanente
in un luogo determinato. Alcuni rifiutano di vedere in pleroma la divinità stessa (cfr. Col 2,9), in
quanto il Figlio è Dio da sempre e l’incarnazione non ha mutato nulla in questo senso: tuttavia il
testo non dice che il Figlio ha ricevuto la pienezza della divinità nell’incarnazione, dunque si può
pensare all’accoglimento eterno del Figlio della divinità del Padre che lo genera. Se invece, a
motivo dell’aoristo eudokesen, si deve pensare ad un evento del Gesù terreno, la pienezza cui si fa
riferimento è allora probabilmente quella dello Spirito, descritta in eventi come il battesimo, che
qualifica Gesù per compiere il suo ministero. Ma, in ogni caso, la pienezza a cui qui si fa
riferimento resta sempre una pienezza divina.

v. 20: in virtù della pienezza che ha ricevuto, il Figlio può realizzare la mediazione salvifica, che
viene qui descritta. Il kai iniziale ha qui valore consecutivo: si passa qui infatti da una condizione
(necessaria alla realizzazione) ad una realizzazione. Tutte le cose vengono riconciliate per mezzo di
lui, ma anche eis auton: come per la creazione, anche per la redenzione troviamo espressa una
finalità cristologica; la riconciliazione è perciò anch’essa ordinata alla supremazia e alla signoria del
Cristo su tutte le cose. È questo un elemento di novità rispetto all’intero epistolario paolino. La
rappacificazione è avvenuto per mezzo del sangue della croce: come già detto, alcuni hanno visto
questa come un’aggiunta per inserire la theologia crucis paolina correggendo una cristologia della
sola glorificazione; in realtà, come già detto, qui non vi è alcuna rettificazione, anzi il senso va nella
medesima direzione di tutto l’inno: non è il sangue infatti che importa qui, ma che questo sangue sia
quello del Figlio, che dunque ha un ruolo centrale nella redenzione.
Circa infine il riferimento alle cose celesti e alle cose terrestri, che sono state riconciliate (“tutte le
cose” infatti sono state riconciliate), abbiamo tre interpretazioni diverse: Dio ha riconciliato gli
esseri della terra con quelli del cielo, oppure i celesti fra loro e i terrestri fra loro, o tutti gli esseri
con se stesso. Abbiamo visto che sopra non vi era opposizione, anzi, fra terra e cielo: per cui anche
qui dobbiamo andare nello stesso tempo, preferendo la terza interpretazione. Circa il concetto di
pace cosmica, cui qui di fatto si viene ad accennare, il vocabolario di questo passo proviene dal
giudaismo intertestamentario. Filone parla di pace cosmica nel suo De specialibus legibus a
proposito della festa giudaica delle trombe: se in quel giorno si suona la tromba, è per ricordare che
Dio diede i comandamenti al suono della tromba, ma anche per significare la pace universale. Infatti
la tromba suona l’attacco, ma suona anche la fine dei combattimenti. Il conflitto tra le diverse parti
della natura è voluto da Dio per punire l’empietà: la festa delle trombe chiama invece tutti a rendere

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grazie a Dio che fa la pace e sopprime tali conflitti. Questa pace cosmica riguarda anche gli angeli,
che tuttavia non vengono riconciliati con Dio, ma con gli uomini. In definitiva, ancora una volta,
qui si vuole affermare che le potenze sono dipendenti dal Figlio: non solo esse non hanno potuto
ristabilire l’uomo nell’amicizia con Dio, ma le relazioni che esse stesse intrattengono con l’umanità
sono state ottenute proprio grazie all’opera redentrice del Figlio.

6. LO SFONDO DELLA PERICOPE COL 1,15-20 E LA SUA CRISTOLOGIA

Come abbiamo visto, l’esegesi più recente ha avuto il grande merito di rilevare le radici bibliche e
giudaiche (in particolare sapienziali) del vocabolario e delle idee espresse in questi versetti,
abbandonando invece l’ipotesi gnostica. In realtà, queste tradizioni sapienziali sottese si
comprendono solo a partire da un orizzonte più ampio, quello delle confessioni monoteiste
giudaiche, dove il Dio Creatore è riconosciuto come il Redentore e viceversa. Questo schema
teologico viene qui applicato al Cristo.
Circa la cristologia, abbiamo visto come vengono applicati al Cristo diversi caratteri propri della
Sapienza veterotestamentaria, ma allo stesso tempo vi sono alcune peculiarità proprie della
mediazione cristologica (come il finalismo cristologico della creazione). L’inno non ha tuttavia
come scopo quello di porre a confronto Cristo e la Sapienza: se di confronto si deve parlare, anzi, il
confronto avviene tra il Cristo e gli esseri invisibili, per affermare la superiorità del primo sui
secondi.
Per descrivere il Cristo il brano non utilizza un vocabolario teologico (definendolo, per esempio,
Dio), in quanto a quell’epoca una tale affermazione sarebbe stata di difficile recezione. Il brano non
intende nemmeno dimostrare che il Figlio è come Dio o di rango uguale a Dio: infatti i titoli eikon,
prototokos non possono essere riferiti a Dio Padre; la funzione del Cristo è quella di mediatore: qui
la preoccupazione dell’autore è quella di affermare la superiorità di Cristo rispetto agli esseri celesti.
Questa insistenza dell’autore è comprensibile alla luce del contesto di Colossi, dove ci si
interrogava circa il fatto che quella del Cristo fosse l’unica mediazione o no.
Molto importante è il titolo di Figlio che non solo mira a prevenire ogni separazione tra Logos
preesistente e Cristo umano, ma anche sottolinea la relazione intima col Padre e rafforza ciò che in
seguito sarà affermato come divinità di Cristo.

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