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Maksym Adam Kopiec

“Il Verbo era Dio… “


Commento pastorale e spirituale alle letture festive”
Anno “B”

© Proprietà letteraria riservata


Maksym Adam Kopiec

© Kion Editrice, Terni


Prima Edizione novembre 2017

Immagine di copertina: …….…………………………?

ISBN: 978-88-99942-11-3

Stampa: Universal Book, Rende (CS)

www.kioneditrice.it
info@kioneditrice.it
Maksym Adam Kopiec ofm

IL VERBO ERA DIO…

Commento pastorale e spirituale


alle letture festive

Anno “B”
INTRODUZIONE

“E il Verbo era Dio…”. La parola che ci rivolge Dio non è una sem-
plice informazione o notizia, ma Egli stesso che ci viene incontro.
Nell’arco dell’anno liturgico viviamo i misteri della nostra salvezza
compiuta nella storia e nella persona del Figlio di Dio Incarnato,
Gesù Cristo. Perciò celebriamo la Sua nascita, la Sua opera pubblica,
la Sua passione, morte e risurrezione; celebriamo il dono dello
Spirito Santo nel giorno di Pentecoste e il mistero della Trinità;
ringraziamo il Signore per la maternità di Maria e per la presenza
dei santi nella vita della Chiesa; rivolgiamo con speranza il nostro
sguardo verso il futuro oltremondano, eterno e divino. In tutti questi
momenti ci accompagna la parola viva di Dio, con cui Egli effetti-
vamente si rende presente ed operante. Per questo vogliamo essere
molto più sensibili ed attenti al Suo messaggio in cui non solo Lo
sentiamo, ma Lo incontriamo ed entriamo in comunione con Lui.
Oggi la voce del Signore sembra essere zittita dal chiasso del
mondo, come dice il cardinale Robert Sarah nel suo recente libro
“La forza del silenzio”. Infatti per percepire la discreta Parola di
Dio, il Suo sussurrare all’orecchio umano, occorre a tutti noi il
silenzio. Abbiamo bisogno di soffermarci, trovare un minimo di
tempo per staccarci un po’ dal caos e dalla frenesia della quotidianità.
Se davvero vogliamo bene a noi stessi ci serve il profondo ed auten-
tico contatto con la Parola di Dio. Accogliendola nel silenzioso
ascolto, accogliamo Dio stesso che riempie il nostro intimo. Solo
con Dio dentro di noi è possibile vivere pienamente la propria vita,
il tempo, le diverse esperienze, senza scappare dalle difficoltà, senza
muoverci sulla superficie della nostra esistenza e senza rimanere nel
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mondo delle illusioni e delle apparenze temporali. Un sano egoismo
richiede di liberarsi dalla tentazione di poter arrangiarsi da soli e
quindi esige di fare (lo) spazio a Dio che continuamente ci parla.
Dio ci ha creati per fare comunione di vita con Lui, però tale destino
di ognuno di noi non è realizzabile senza il nostro attivo impegno
di ascoltare e di vivere secondo la Sua parola eterna e divina. Solo
l’atteggiamento di vera responsabilità di se stessi di fronte a Dio ci
rende capaci di essere responsabili degli altri e, dunque, di compiere
il comandamento dell’amore del prossimo.
Come è possibile riconoscere l’autentica Parola di Dio? A questo
punto emerge la necessità di cercarla ed ascoltarla all’interno della
Sacra Tradizione, intesa come forma della vita della Chiesa per come
è stata voluta dal Padre, fondata dal Cristo ed animata dallo Spirito
Santo. Infatti la vera Parola di Dio si rende rinvenibile “in tutto ciò
che la Chiesa è, in tutto ciò che la Chiesa vive e in tutto ciò che la
Chiesa crede” (cfr. Dei Verbum 8). La Chiesa, come Corpo di Cristo
e Tempio dello Spirito Santo, quindi come realtà mistica divino-
umana, è il luogo proprio della Parola di Dio. La Sacra Tradizione
della Chiesa abbraccia il Credo, la liturgia e la prassi. In modo
particolare la vita liturgica della Chiesa – ossia il momento celebra-
tivo del reale incontro tra la comunità dei battezzati e Dio Padre
per mezzo del Figlio e nello Spirito Santo – ci offre la condizione
in cui la Parola si fa sentire nel suo significato autentico e autorevole.
La Parola di Dio non ci arriva in modo privato, bensì nella comunità
della Chiesa che crede, prega e opera secondo i comandamenti; nella
Chiesa in cui ad ognuno è stato affidato un carisma e un dono
speciale. Certi carismi però sono stati sigillati in modo istituzionale;
ad esempio al Magistero della Chiesa, cioè al Collegio dei Vescovi
con a capo il Papa, è stato affidato il compito di conservare, trasmet-
tere e interpretare fedelmente la Parola di Dio.
In questa ottica si comprende la funzione di questo volume, che
in continuità con quanto offerto nel primo volume per l’anno “A”,
vuole proporre un commento pastorale e una riflessione spirituale
sulle letture previste per tutte le domeniche e le festività della anno
liturgico “B”. Questo commento però è inserito all’interno della
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bimillenaria storia della Chiesa, della sua Sacra Tradizione e dell’au-
tentico insegnamento del Magistero sin dalle origini della Chiesa.
Allo stesso tempo tale commento cerca di essere adatto alle domande
e sfide del moderno uditore della Parola di Dio, considerando le
sue problematiche, aspettative, esigenze e tutto il contesto odierno,
molto complesso, in cui viviamo. Per questo non poche volte si
fanno riferimenti alle parole dei Papi contemporanei e al loro pa-
trimonio magisteriale, in modo speciale a san Giovanni Paolo II
nel 40° anniversario della sua elezione come successore di Pietro
(1978-2018).
Ai lettori si augura che la lettura delle riflessioni contenute in
questo volume e che accompagnano l’ascolto della Parola di Dio,
sia d’aiuto e porti frutti nella loro vita spirituale e nella ricerca della
sempre più profonda amicizia con il Signore.

14 settembre 2017
(La) Festa dell’Esaltazione della Santa Croce

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ABBREVIAZIONI DEI LIBRI BIBLICI

Ab Abacuc
Abd Abdia
Ag Aggeo
Am Amos
Ap Apocalisse
At Atti degli Apostoli
Bar Baruc
Ct Cantico dei Cantici
Col Lettera ai Colossesi
1Cor Prima lettera ai Corinzi
2Cor Seconda lettera ai Corinzi
1Cr Primo libro delle Cronache
2Cr Secondo libro delle Cronache
Dn Daniele
Dt Deuteronomio
Eb Lettera agli Ebrei
Ef Lettera agli Efesini
Es Esodo
Esd Esdra
Est Ester
Ez Ezechiele
Fil Lettera ai Filippesi
Fm Lettera a Filemone
Gal Lettera ai Galati
Gb Giobbe
Gc Lettera di Giacomo
Gd Lettera di Giuda
Gdc Giudici
Gdt Giuditta
Gen Genesi
Ger Geremia
Gl Gioele
Gn Giona
Gs Giosuè
Gv Vangelo di Giovanni

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1Gv Prima lettera di Giovanni
2Gv Seconda lettera di Giovanni
3Gv Terza lettera di Giovanni
Is Isaia
Lam Lamentazioni
Lc Vangelo di Luca
Lv Levitico
1Mac Primo libro dei Maccabei
2Mac Secondo libro dei Maccabei
Mc Vangelo di Marco
Mi Michea
Ml Malachia
Mt Vangelo di Matteo
Na Naum
Ne Neemia
Nm Numeri
Os Osea
Pr Proverbi
1Pt Prima lettera di Pietro
2Pt Seconda lettera di Pietro
Qo Qohèlet
1Re Primo libro dei Re
2Re Secondo libro dei Re
Rm Lettera ai Romani
Rt Rut
Sal Salmi
1Sam Primo libro di Samuele
2Sam Secondo libro di Samuele
Sap Sapienza
Sir Siracide
Sof Sofonia
Tb Tobia
1Tm Prima lettera a Timoteo
2Tm Seconda lettera a Timoteo
1Ts Prima lettera ai Tessalonicesi
2Ts Seconda lettera ai Tessalonicesi
Tt Lettera a Tito
Zc Zaccaria

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TEMPO DI AVVENTO

PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Is 63,16b-17.19b; 64,2-7


Salmo 79
Seconda lettura: 1Cor 1,3-9
Vangelo: Mc 13,33-37

1. Il significato dell’avvento - Con questa Domenica inizia il tempo


dell’Avvento e con esso il nuovo Anno Liturgico. L’Avvento è un
periodo di quattro settimane, che precede il Natale. Tempo di attesa
e vigilanza, un tempo di grazia del Signore che viene. È un “tempo
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PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

forte”: della vigilanza, della conversione, che si traduce in un rap-


porto intimo con Dio, della gratitudine per un’altra opportunità
di vivere con la speranza e la coscienza di aver ricevuto i doni da
Dio: le capacità, le abilità e di avere da parte Sua il sostegno e l’amore
(1Cor 4). Con tutta la Chiesa viviamo e abbiamo l’opportunità di
celebrare i misteri della nostra salvezza. Il tempo di Avvento è so-
prattutto un tempo di preghiera che apre i nostri occhi sul nostro
bisogno di Dio e ci pone in attesa del Giorno del Signore, ci propone
l’occasione di risveglio e attenzione per andargli incontro con il
cuore pronto, con la consapevolezza che avviene l’occasione favore-
vole per la nostra salvezza. Il significato del termine Avvento è arrivo,
venuta, presenza, futuro e dal punto di vista cristiano ha un duplice
significato: indica le due venute di Gesù. La prima è la venuta storica
di Gesù a Betlemme, la nascita umana, in modo oscuro e silenzioso,
avvolto in fasce e posto in una stalla. Questa Sua venuta ebbe l’im-
pronta della sofferenza, avendo accettato in silenzio l’angoscia, il
tormento ed il supplizio della croce senza rifiutare il giudizio, la
condanna umana, il disonore; il Suo era un disegno di amore mise-
ricordioso, di insegnamento per gli uomini e di portare la salvezza.
La seconda venuta sarà quella alla fine dei tempi che sarà coronata
di gloria. Gesù sarà vestito di luce, avanzerà scortato dalle schiere
degli angeli. Non verrà per essere giudicato, ma per giudicare. Ma
questo ci insegna a vivere “… con sobrietà, giustizia e pietà in questo
mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della
gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,11-13).
La seconda venuta è chiamata la “parusia” con la quale accadrà
anche il giudizio finale. Gesù ci avverte, ci fa sapere in che cosa
consiste il giudizio finale, non per spaventarci o impaurirci ma per
infondere in noi l’atteggiamento della vigilanza e lo fa con diverse
parabole. Possiamo citare quella delle dieci vergini (Mt 25,1-13),
nella quale l’olio che alimenta le lampade è segno di fedeltà e pru-
denza e quella delle pecore e dei capri (Mt 25,31-46), in cui si evi-
denzia che Dio salverà chi è stato capace di amarlo nei fratelli, chi
si è preso cura dei più piccoli, nei quali il Signore si immedesima.
E sarà la salvezza per coloro che hanno scelto di amare Dio e la
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PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

condanna per coloro che lo hanno rifiutato. La coscienza del giudizio


finale ci appare scomoda, la si vorrebbe cacciare, allontanare, dimen-
ticare, eliminare dai nostri pensieri, ma ci dovrebbe, invece, spronare
a vivere in modo responsabile e intenso, sapendo che nessun gesto,
nessuna parola nessun atteggiamento sarà dimenticato o sarà senza
conseguenze. La responsabilità fa capire il dono della libertà, che
non significa fare quanto ci pare e piace, a modo proprio, senza
alcun vincolo, ma essa è lo strumento per amare e fare il bene.
Le due venute sono considerate come un unico evento salvifico
diviso in due tappe. Questa duplice dimensione di attesa caratterizza
tutto l’Avvento.

2. Isaia e il carisma della profezia


a) La missione profetica - I personaggi che ci accompagneranno in
questo periodo sono principalmente queste figure: il profeta Isaia,
Giovanni Battista e la Beata Vergine Maria. Nella storia della salvezza
il profeta ha la funzione di insegnare, spiegare, esortare, consolare;
è un rappresentante di Dio, il portavoce dell’Eterno verso il popolo,
per ammonirlo, avvertirlo, correggerlo, ricondurlo sulla retta via,
consolarlo. Isaia è ispirato, è chiamato, è colui che parla in nome
di Dio e annuncia un Suo messaggio. Anche tutti noi cristiani, in
virtù del Battesimo, siamo profeti, nel senso che diventiamo capaci,
con la forza dello Spirito Santo, di diffondere dovunque la testimo-
nianza del Cristo, per mezzo di una vita di fede e carità. In più
proprio il dono della profezia ci rende anche in grado di spiegare
e interpretare gli eventi attuali, sia nella Chiesa, che nel mondo alla
luce della Parola di Dio, ossia di fare una diagnosi sui tempi in cui
viviamo.
b) La promessa della salvezza e la speranza del perdono - Si potrebbe
dire che nel cammino che ci apprestiamo a vivere durante l’Avvento
il primo maestro è il profeta Isaia. Nel brano della prima lettura di
oggi possiamo comprendere la storia della relazione tra Dio e il suo
popolo. Una relazione in cui Dio che si è concesso totalmente con
amore e compassione, nutre la speranza di poter portare a compi-
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PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

mento la salvezza, che però, viene smentita da una storia di peccato,


culminata con la tragedia dell’esilio. In questo sfondo il popolo,
ricordando ciò che Dio ha compiuto Gli pone diverse domande. In
Is 64,4-7 leggiamo: “Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia
la giustizia e si ricordano delle tue vie. Ecco tu sei adirato perché
abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli”.
Il testo si conclude con il versetto: “Ma tu Signore, sei nostro Pa-
dre…” in cui viene sottolineato il riconoscimento della fragilità
umana in confronto all’azione creatrice di Dio. Da questa esperienza
del proprio limite l’uomo si apre all’attesa di Colui che, malgrado
le nostre colpe e i tradimenti, è e rimane Padre perché non può
tradire sé stesso.

3. Vigilare: la vita interiore, la conversione impegnativa e la speranza


d’attesa - Nel brano evangelico, Gesù indica la condizione per per-
cepire l’agire di Dio: la vigilanza, cioè guardare dentro di sé per
scoprire, conoscere ed accettare i lati oscuri, i limiti, i peccati, anche
se questo ci è scomodo e ci fa paura. È necessario far entrare Dio
in noi per riconciliarsi con Lui e con sé stessi e fare pulizia con il
perdono del Signore. La vigilanza vuol dire essere pronti a concepire
la visita del Signore nella nostra vita, rivivere la venuta di Gesù. Nel
vangelo di oggi, Gesù invitandoci alla vigilanza ci rivolge queste
parole: “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa
ritornerà” (Mc 33,35). Egli ci invita a stare attenti, a rimanere desti:
“Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addor-
mentati” (Mc 13,36). Vigilare è un cammino di conversione che
richiede di penetrare dentro il nostro cuore per scoprire le zone non
evangelizzate di noi stessi; vuol dire vivere con straordinaria intensità
il presente, allenarci a percepire i segni della venuta del Signore.
Essere discepolo, per Marco significa – sulla linea del concetto della
profezia – attendere, osservare, individuare i segni del ritorno tra
molti altri segni, con occhi aperti e capaci di penetrare il buio, senza
lasciarsi distrarre dalla paura del futuro, né dall’incalzare dei ritmi
frenetici del presente. Occhi aperti ma anche un cuore tenuto con-
tinuamente allenato a conservare dentro di sé la fede ed una scon-
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PRIMA DOMENICA DI AVVENTO

finata speranza. Se saremo capaci di tenere gli occhi aperti e il cuore


desto, anche le mani diventeranno operose per compiere il bene,
per consolare, asciugare le lacrime, portare gli uni i pesi degli altri,
mani guidate dalla bontà, dalla tenerezza, dalla compassione. Gesù
ci ha lasciato un compito, una missione particolare ad ognuno di
noi e potremo realizzare il Suo progetto d’amore, porteremo a
termine questo compito che ci è stato affidato, se non ci addormen-
teremo, cioè se non diminuiremo la preghiera, se non ci lasceremo
dominare dagli affanni e dalle preoccupazioni e se presteremo at-
tenzione alla cosa più importante: la salvezza dell’anima.

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SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Is 40,1-5


Salmo 84
Seconda lettura: 2Pt 3,8-14
Vangelo: Mc 1,1-8

1. In cammino verso il Natale - Viviamo oggi la seconda Domenica


di Avvento con le letture della Parola di Dio che mettono in risalto
alcuni aspetti da ascoltare, meditare e vivere con particolare intensità
in questo periodo di attesa e di preparazione al Santo Natale. È
questo il tempo di preparazione, di attesa paziente, di conversione
per l’arrivo del Signore.
a) La figura del profeta - In continuità con il tema della prima
Domenica si vuole riprendere ed approfondire il tema della figura
biblica del profeta cercando di evidenziare gli altri aspetti del suo
significato, la definizione di questo termine, ma soprattutto la
funzione svolta dal profeta. In primo luogo si deve precisare che la
profezia non è una visione, non si tratta di un’apparizione o di una
conoscenza del futuro, ma sta ad indicare un “parlare a nome di
qualcuno”. Nella tradizione giudeo-cristiana la profezia è un mes-
saggio che Dio fa giungere agli uomini attraverso il profeta; è Dio
che manifesta i suoi progetti e la sua volontà. Il profeta, quindi non
è un mago, uno stregone o un veggente, piuttosto è un mediatore,
un intermediario tra il popolo e Dio dal quale è chiamato ad an-
nunciare i Suoi messaggi, le Sue esortazioni, le Sue promesse, spe-
cialmente in particolari momenti della storia caratterizzati da
sofferenze, schiavitù, ingiustizie, peccato, idolatrie ecc. Il profeta
non attira verso di sé l’attenzione e l’ammirazione, ma la rimanda
a Colui di cui è messaggero e ‘ambasciatore’. Il profeta svolge la sua
missione sentendo in sé la passione di Dio perché condivide i sen-
timenti di Dio stesso e prova dentro di sé la premura, l’amore, il
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SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

dolore, le delusioni di Dio, che lotta per il suo popolo. Nella prima
lettura il profeta Isaia proclama, con le parole ispirate, il lieto an-
nunzio della salvezza: “Nel deserto preparate la via al Signore spia-
nate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata,
ogni monte e ogni colle siano abbassati” (Is 40,3-4) Queste parole,
dirette al popolo di Israele annunciavano la liberazione dalla schia-
vitù del peccato e dalla deportazione, alla gente che aveva vissuto
per tanto tempo il dramma dell’esilio, che non credeva più nella
possibilità del ritorno e viveva nella tensione e nel dubbio. In questa
realtà il profeta è inviato a proclamare la consolazione nel momento
della tribolazione, a non temere, ad esortare, ad incoraggiare, a
portare il lieto annuncio della venuta del Signore che porta con sé
la salvezza, la speranza, la pace, la fiducia. Le sollecitazioni dei profeti
a preparare le vie per il Signore, le parole di incoraggiamento e di
consolazione rivolte al popolo di Israele sono rivolte anche a noi e
si riferiscono alla liberazione dalla schiavitù del peccato.
b) La consolazione biblica - È opportuno chiederci: in che cosa
consiste la consolazione? In questo testo biblico viene spiegata come
“parlare al cuore” è incoraggiare a proseguire un cammino difficile.
È una conversione verso Dio, un nuovo ascolto della Sua parola
dopo il silenzio doloroso dell’esilio. L’invito alla consolazione
proclamato da Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo […] parlate
al cuore di Gerusalemme…”. Questo annuncio deve raggiungere ogni
abitante affinché sia rassicurato che Dio non si è dimenticato di lui
e che può continuare ad aver fiducia e a sperare nella Sua protezione
e nella Sua cura; la cura che ha Dio come Pastore buono; perciò
deve riprendere la sequela di Dio che, nella Sua bontà, trova la gioia
e non desidera altro che perdonare e dunque aspetta con pazienza
la conversione, per ristabilire una nuova relazione, una nuova alle-
anza, una nuova amicizia. Un’amicizia che porta con sé i Suoi doni:
verità, giustizia, amore, salvezza. È Gesù il nostro Salvatore, è Lui
il Buon Pastore che ama le sue pecorelle fino a dare la vita per loro:
“Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo
raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce le pecore madri”.
Anche noi comunque dobbiamo preparare le vie del Signore acco-
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SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

gliendo questi doni cercando di vivere secondo i suoi insegnamenti,


evitando il male e desiderando di compiere sempre il bene.

2. Giovanni Battista e la venuta del Salvatore-Messia


a) L’invito alla riconciliazione e il valore positivo della penitenza -
Nel nostro cammino verso l’incontro con il Signore ci accompagna
un grande personaggio, quello di Giovanni Battista, profeta per
eccellenza e maestro di come proclamare la Parola di Dio e come
testimoniarla pubblicamente, senza compromessi, con tutta la pas-
sione e dedizione. A questa missione siamo invitati pure noi, anche
se sarà difficile, data la nostra debolezza, fragilità e incostanza, che
perciò richiede l’aiuto del Signore. Al grido di Isaia, fa eco quello
ripetuto da Giovanni Battista nel Vangelo, il quale rivolge un appello:
“Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Mc 1,3).
A questo richiamo invitava le folle, che accorrevano da tutto il paese,
esortandole a riconoscere i propri peccati, a fare penitenza, incitan-
dole a cambiare vita in modo radicale e a farsi battezzare. Nel Van-
gelo proclamato oggi, l’evangelista Marco presentandoci la figura
di Giovanni Battista ci suggerisce due luoghi per iniziare la sequela
di Gesù: il deserto dal quale inizia la scelta radicale sia di Giovanni
che di Gesù. Il deserto, luogo inospitale, luogo di silenzio, di ascolto,
di purificazione, di formazione, di preparazione per portare un
annuncio di gioia e di conversione. La via, un termine che Marco
usa in moltissimi passi del suo Vangelo e che non indica soltanto
un sentiero da percorrere, ma un camminare nella volontà del Padre
per portarla verso il pieno compimento. Per i discepoli di tutti i
tempi camminare sulla via significa una crescita verso la compren-
sione e l’adesione alla via di Gesù, una via che terminerà sul Calvario.
Giovanni Battista testimoniava in prima persona quello che predi-
cava; con la sua vita penitente, con la sua condotta vivendo nel
deserto, si nutriva di cavallette e miele selvatico e si vestiva con peli
di cammello e con il suo stile di vita confermava le parole che rivol-
geva alla gente. La vita penitente non è un castigo, una punizione,
ma un invito a conformare coscientemente, liberamente e respon-
sabilmente la propria vita a quella di Gesù.
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SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

b) Profeta – uomo umile - Egli ci dà, inoltre, anzi, soprattutto, un


esempio di umiltà, poiché non approfitta della popolarità raggiunta
per conquistare fama e seguaci, che si possano legare a lui, non si
mette al centro dell’attenzione, non cade nella trappola del populi-
smo, presente purtroppo nella Chiesa d’oggi, quando invece di
parlare della misericordia promessa da Dio come liberazione dal
peccato, si preferisce (di) parlare della misericordia nel senso di un
buonismo, facendo rimanere i fedeli nel peccato, anzi, confermandoli
nella condizione peccaminosa. Facilmente poteva far credere alla
gente che era lui il Messia atteso, ma al contrario indica una strada
difficile da intraprendere, bensì sicura. In più, lo fa con fedeltà ed
umiltà: “viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono
degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali”. Giovanni
Battista, l’ultimo profeta che precede Gesù e lega la storia dell’Antico
Testamento e del Nuovo Testamento rappresenta la bocca, la voce
del Signore; è lo strumento di cui si serve perché la gente possa
riconoscere nella sua voce, nelle sue parole, nelle sue opere la voce
stessa di Dio. Egli si è abbassato, è “diminuito” per far “crescere”
sempre di più Gesù; anche nella presentazione del suo battesimo
dicendo che non si tratta di un atto ultimo, definitivo ma della
preparazione ad un altro battesimo “nello Spirito”, che avrebbe
conferito “il più forte” e che immergerà nella vita di Dio coloro che
lo accoglieranno. Anche noi siamo chiamati a svolgere questa voca-
zione anche se in diverse maniere e gradi.

3. La chiamata per noi - L’invito alla conversione vale anche per


noi; in questo tempo di Avvento cerchiamo di trovare la forza per
rivedere la nostra esistenza, di rimetterci nella giusta rotta, di con-
formarla al Vangelo prendendolo come programma della vita. Alla
base di questo cambiamento è necessario un atteggiamento di umiltà
per riconoscere i nostri peccati e ricorrere con fiducia al sacramento
della Confessione, della penitenza che ci rinnova interiormente. La
penitenza dovremmo vederla come una medicina dell’anima per
farci constatare che l’amarezza del peccato, con la grazia e la mise-
ricordia di Dio, trasforma la nostra esistenza in un cuore pieno di
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SECONDA DOMENICA DI AVVENTO

gioia e di gratitudine. Assumiamo, pertanto, qualche impegno di


generosità e di sacrificio unito a qualche opera di carità. Che questo
tempo di avvento, di attesa, di preparazione della venuta del Messia
sia per noi anche una possibilità per esercitare la virtù della pazienza,
una virtù che accetta di vivere la lentezza e la gradualità della vita
umana.
A questo ci richiama la lettera di San Pietro che esorta ed inco-
raggia una comunità di fratelli nella fede a comprendere che i tempi
di Dio non sono percepibili dall’uomo nella sua limitatezza. Poi
spiega che il ritardo di Dio, che alcuni falsi maestri diffondevano,
non è la Sua indifferenza, ma non è altro che la Sua misericordia.
Infatti l’apparente ritardo del ritorno di Gesù è un dono affinché
ci sia il tempo per la conversione e non si perda nessuno dei Suoi
figli. San Pietro invita questa comunità a vivere il presente coltivando
una condotta di vita santa e in preghiera per la conversione dei
propri peccati, nell’attesa di una nuova vita, di un mondo nuovo,
dove abiterà la giustizia.

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IMMACOLATA CONCEZIONE
DELLA BEATA VERGINE MARIA
8 dicembre

Prima lettura: Gen 3,9-15.20


Salmo 97
Seconda lettura: Ef 1,3-6.11-12
Vangelo: Lc 1,26-38

1. Maria la Donna ‘piena di grazia’ e il peccato originale - La solen-


nità di oggi ci chiede di concentrare la nostra attenzione su Maria,
la donna eletta, benedetta che ha creduto alla parola del Signore.
Non è un caso che la celebrazione dell’Immacolata Concezione cade
ogni anno nel tempo di Avvento e due settimane prima del Natale.
Infatti pensiamo che la Chiesa voglia farci riflettere su Maria, la
“piena di grazia”, Colei che è stata fatta oggetto della bontà smisurata
di Dio per ridestare la nostra speranza di salvezza e di vita piena.
La prima lettura tratta dal libro della Genesi ci racconta la creazione
e la storia dei primi uomini che non hanno avuto fiducia, anzi
hanno mostrato sospetto e ingratitudine in Dio Creatore. Il brano
inizia dalla ricerca di Dio, delle sue creature che reagiscono fuggendo
e nascondendosi per la paura. La domanda di Dio vuole svegliare
nell’uomo e nella donna la consapevolezza e la coscienza della loro
disobbedienza e della loro infedeltà. Essi si nascondono perché si
rendono conto di essere “nudi” e questo vuol dire che hanno perso
il contatto con il Signore che li porta di conseguenza ad un cammino
di ipocrisia e falsità, che li allontana dal Padre ma anche da sé stessi.
Nel riconoscere la propria nudità fanno un primo passo nel cam-
mino della verità ma è necessario fare un altro passo per trovare la
strada della sincerità e veridicità e cioè prendersi la propria respon-
sabilità. Invece loro continuano a nascondersi e ad accusarsi l’un
l’altro – “la donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero
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IMMACOLATA CONCEZIONE

ed io ne ho mangiato” (v.12), “il serpente mi ha ingannato e io ho


mangiato” (v. 13) – ed a perseverare nella falsità. Ma Dio non toglie
la Sua benedizione e li accompagna nel loro cammino di fatica e di
dolore con la promessa della vittoria del seme della donna contro
il serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe
e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calca-
gno” (v.15). La Donna di cui si parla è l’Immacolata, nemica del
demonio e “piena di grazia” fin dall’eternità, predestinata come tale
in vista dell’Incarnazione. La “stirpe” è Gesù, il Figlio della donna
che schiaccia il serpente, quel Gesù che è il Redentore dell’umanità.
Dio non maledice né l’uomo né la donna, maledice solo il serpente
e annuncia la lotta che ci sarà tra i figli della donna e i figli del
serpente, tra l’umanità e il male. In questa lotta il risultato è l’inizio
di una nuova umanità rappresentata da Maria che ha timore di Dio,
ma non lo teme, non si nasconde davanti a Lui, anzi entra in un
dialogo di libera accettazione. Maria è fatta oggetto della benevolenza
divina, è stata resa grazia per il progetto, il disegno d’amore di Dio
di farla diventare la Madre del Messia.

2. La fede nell’Immacolata Concezione della BVM nella storia e


nella vita della Chiesa - Maria è stata proclamata “Immacolata
Concezione” con un dogma cattolico del papa Pio IX nel 1854 con
la bolla Ineffabilis Deus che sancisce che la Vergine Maria è stata
preservata dal peccato originale. È la verità di fede che trova confer-
ma con le apparizioni della Vergine Maria quattro anni dopo a
Lourdes ed in particolare quella del 25 marzo, nella quale Lei stessa
dichiara di essere l’Immacolata Concezione per dare un segno ai
cristiani. Ma prima ancora, nel corso degli anni, il popolo aveva
riconosciuto Maria Immacolata cioè libera dal peccato, nel XIII e
XIV secolo molti teologi francescani, tra cui il beato Giovanni Duns
Scoto, hanno ribadito questa verità. Dio, nella Sua onnipotenza,
nella Sua bontà, nel Suo amore smisurato, Le ha fatto questo grande
dono, aveva preservato dal peccato questa creatura fin dal suo con-
cepimento, fin dal primo istante della sua vita, proprio in vista della
sua maternità divina. Con l’annuncio dell’angelo Le rivela la Sua
24
IMMACOLATA CONCEZIONE

missione: “Concepirai un Figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai


Gesù” (Lc 1,21), ma prima ancora Le aveva rivolto un saluto che
aveva creato un clima di attesa e di gioia: “Rallègrati, piena di grazia:
il Signore è con te” (v.28). La presenza di Dio rappresenta una sicu-
rezza ed una garanzia. Comunque Ella rimane turbata e si chiede
la ragione di quelle parole, ma ascolta e domanda come può avvenire
un evento del genere. L’angelo la rassicura: “nulla è impossibile a
Dio” (v.37), Dio realizza sempre ciò che promette e Maria si rende
conto che Dio ha avuto fiducia in Lei per cui si rende disponibile
al Suo disegno con amore e adesione totale. Nel dono d’amore che
ha ricevuto da Dio, Maria comprende che la Sua vita è legata a quel
Figlio che porterà in grembo, che nascerà e che sarà il compimento
dell’alleanza che Dio aveva contratto con l’essere umano. La Sua
risposta: “Ecco la serva del Signore, avvenga di me secondo la Tua
parola” (v.38), manifesta il desiderio di collaborare al disegno di
Dio con libertà. Ella trova forza, è sostenuta dalla grazia divina, ma
compie una scelta che è frutto di tutto l’abbandono e la fiducia che
pone nel Signore, che l’ha plasmata come creatura con parole e gesti
d’amore. Maria Immacolata, piena di grazia ci accompagna e ci
educa a diventare coscienti di essere anche noi creature amate che
apparteniamo a Cristo.

3. Ogni battezzato è chiamato ad ‘essere santo e immacolato’ - Nel


Battesimo, con la potenza dello Spirito Santo, la nostra vita è tra-
sformata per vivere nella strada della salvezza. In questo cammino
ci viene chiesto di conservare la Parola dentro di noi per esserne
plasmati e sentirci pure noi ‘madri’ di Gesù, di aprire il cuore alla
speranza accogliendo anche le fatiche, le sofferenze le contrarietà di
ogni giorno. Lasciandoci guidare, dalla Madonna, facendoci accom-
pagnare e pregando con assiduità la sua intercessione, come Madre
della Chiesa, siamo chiamati anche noi ad “essere santi e immacolati”
come abbiamo letto nella seconda lettura (v.4), dove san Paolo, con
le sue parole scritte nella lettera agli Efesini, ci conferma che possia-
mo assomigliare sempre più alla Madonna: “In Lui (Gesù), ci ha
scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
25
IMMACOLATA CONCEZIONE

di fronte a lui nella carità”. La volontà di Dio, il suo disegno d’amore


di assumere su di sé tutto ciò che è umano, sia il fallimento che il
successo, la sua grazia, la sua benevolenza nei nostri confronti ci
ricorda che il nostro destino è la salvezza, nell’incontro in Lui, in
Gesù. Questo amore riversato su di noi senza alcun merito attende
il nostro ‘sì’, attende la nostra risposta di metterci nelle sue mani.
Dobbiamo, quindi, verificare lo stile della nostra vita per controllare
se effettivamente aspiriamo a questo ideale, a questo desiderio di
diventare, per quanto possibile, pieni di grazia o ci lasciamo trasci-
nare da sentimenti e inclinazioni disordinate. Preghiamo il Signore
di donarci in questo tempo di Avvento la volontà di accogliere Gesù
e di mettere le nostre energie, le nostre risorse a servizio del Suo
Regno e di far posto nella nostra esistenza a Colui che la può tra-
sformare.

26
TERZA DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: Is 61,1-2.10-11


Salmo: Lc 1,46-50.53-54
Seconda lettura: 1Ts 5,16-24
Vangelo: Gv 1,6-8.19-28

1. L’avvento – il tempo della gioia


a) La gioia biblica - La terza Domenica di Avvento che è per tradi-
zione la “Domenica della gioia”, ci invita ad aprirci alla felicità della
promessa annunciata dal profeta Isaia che nella prima lettura testi-
monia l’esperienza della gioia legata al dono ed alla realizzazione
delle promesse di Dio: “Il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri… Io gioisco
pienamente nel Signore…” (Is 6,1.10). Questa esclamazione di gioia
si raggiunge dopo un cammino spirituale del profeta, il quale è
cosciente della presenza dello Spirito, perché sa che la sua missione
è caratterizzata dalla garanzia divina; questo canto di esultanza è
riferito a Gerusalemme salvata e ricostruita dopo l’esilio di Babilonia.
Infatti, soltanto Dio può ricreare un popolo disperso e scoraggiato
come era Israele dopo il ritorno dall’esilio, aprendo prospettive di
speranza.
b) I destinatari del lieto annuncio: i miseri - Il lieto annuncio viene
portato a tutte le persone che vivono nella sofferenza fisica o morale;
ai “poveri” che patiscono dell’ingiustizia altrui, che gridano la loro
angoscia cercando la vicinanza del Signore. I poveri sono i più aperti
e sensibili all’annuncio della salvezza perché non sono forti della
loro personale sufficienza o di una sicurezza materiale, perciò sono
attenti all’ascolto della Parola di Dio e ripongono la loro fiducia
soltanto in Lui. In realtà, ognuno che si riconosce ‘misero’, ‘povero’,
cioè bisognoso di Dio, diventa predisposto ad accogliere questo lieto
annuncio che cambia profondamente la sua vita. La vera povertà,
27
TERZA DOMENICA DI AVVENTO

come diceva san Giovanni Paolo II, non è tanto quella materiale,
ma soprattutto quella di “non conoscere Gesù Cristo”.
c) Il contenuto del lieto annuncio: promulgare un anno di grazia
del Signore - Nella tradizione di Israele anno di grazia si riferisce
all’anno giubilare in cui si ristabiliva la giustizia restituendo la terra
ai poveri che non avevano di che sopravvivere; consisteva nella
liberazione da ogni forma di schiavitù, sia fisica che del possesso
dei beni. Ora ciò che porta l’anno di grazia, cioè il tempo messianico,
è un bene superiore, la vita vera e piena, la vita aperta ad una di-
mensione assoluta, quella eterna e divina. La vita eterna non è da
aspettare alla fine della storia individuale di ciascuno di noi, ma
viene già anticipata attraverso la più intima relazione con Dio di
cui espressione sono la fede salda, la speranza ferma e la carità ardente.

2. Gioire nel Signore


a) La gioia poggia sull’amore di Dio - Nonostante la situazione
dolorosa, il profeta, ed ogni discepolo del Signore, può annunciare
con gioia l’intervento di liberazione, di ritorno alla giustizia, poiché
all’umanità sofferente Dio si rivolge con uno sguardo benevolo, con
parole di speranza per il futuro, a non aver paura, a riprendere un
atteggiamento di fiducia verso il domani. La gioia è motivata dal
fatto che il Signore mantiene la sua promessa di vittoria e di salvezza;
Egli sta con noi, illumina il presente, l’oggi, e ci stimola a vivere in
modo più intenso ogni istante della nostra vita. Il Signore non ci
delude mai perché non ci dà l’illusione di liberarci dal male, dal
peccato e dalla morte, ma lo realizza pienamente in Gesù.
b) Maria – la donna piena di gioia - La gioia che diffonde ed emana
il profeta Isaia prosegue nel cantico del Magnificat che è stato pro-
clamato come Salmo responsoriale e con il quale la Madonna rin-
grazia Dio e lo riconosce come suo Salvatore. Ella riconosce, con
umiltà, tutti i benefici ricevuti dal Signore e attribuisce a Lui le
grandi opere compiute in suo favore. Maria canta la gioia di sentirsi
plasmata dall’Amore. Il Suo canto racchiude lo stupore del suo
popolo nel contemplare lo sguardo di Dio alla sua creatura, che
28
TERZA DOMENICA DI AVVENTO

dona ad ogni cosa la sua bontà originaria; il braccio santo di Dio,


la forza con cui ha reso Israele popolo donandogli una terra; la
promessa fedele di Dio fatta ad Abramo e confermata nelle genera-
zioni fino a quella promessa fatta carne nel Suo grembo.
c) La gioia di san Paolo - Nella seconda lettura San Paolo esorta gli
abitanti di Tessalonica: “Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininter-
rottamente in ogni cosa rendete grazie…” (1Ts 5,16). Ma ora ci
chiediamo: qual è il segreto della gioia di Paolo? Che cosa è la gioia?
In che cosa consiste? E come vivere la gioia? Non è certo una sem-
plice allegria, un’emozione dovuta ad un’esperienza esteriore, al
successo della propria attività, un sentirsi contenti, sorridenti, sod-
disfatti. “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di
coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare
da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore,
dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia”
(Evangelii gaudium 1). La gioia, la letizia, la felicità sono un’espe-
rienza profonda, interiore legata alla preghiera, al ringraziamento,
alla vita in unione con lo Spirito, all’ascolto della Parola di Dio, ad
un rapporto di comunione con il Signore.

3. Dalla gioia alla testimonianza - La gioia è sentire dentro di sé la


libertà dal male e dal peccato che ci allontanano da Dio, anzi ancora
di più si realizza conducendo una vita corretta, irreprensibile e
sentendosi disponibili, umili e docili alla volontà di Dio, malgrado
le difficoltà, le debolezze le fragilità umane. Paolo infatti nella sua
predicazione, pur affrontando persecuzioni, prigionia, fatiche,
tribolazioni, ci rivela che la preghiera è un dialogo continuo e pieno
di fiducia e di ascolto del Signore e la sua preghiera è radicata nella
certezza della fedeltà di Dio.
Anche nel Vangelo di oggi ci viene presentata e viene di nuovo
messa in risalto la luminosa figura di Giovanni Battista, il precursore
del Signore, con le caratteristiche del testimone perfetto (esemplare)
e autentico veritiero, valido, sicuro. Di Lui l’evangelista Giovanni
scrive: “…venne come testimone per rendere testimonianza alla luce...
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce” (Gv
29
TERZA DOMENICA DI AVVENTO

1,8). Giovanni Battista è stato inviato da Dio per testimoniare la


persona di Gesù-Messia, come la luce che risplende in Cristo. Egli
è talmente sincero ed umile da accettare di lasciarsi interpellare dalle
autorità di Gerusalemme che lo interrogano circa la sua identità e
gli chiedono: “Chi sei? Che cosa dici di te stesso? E come mai battezzi
se non sei né Elia, né il profeta, né Cristo?” .Giovanni risponde con
assoluta sincerità e grande umiltà alle domande che gli sono state
fatte dichiarando che non è lui il Messia atteso, ma è solo una voce
che grida ed esorta a preparare la strada al Signore, alla sua immi-
nente venuta. Giovanni indirizzando al popolo un deciso ammoni-
mento compie la missione di risvegliare gli animi sopiti, di preparare
i cuori appesantiti annunciando il tempo messianico. Per la ragione
dell’incarico, della missione ricevuta, egli accetta con sincerità, con
onestà e schiettezza che il suo compito, il suo ruolo finirà senza
alcuna difficoltà né incertezza: “Voi stessi mi siete testimoni che io
ho detto: «Non sono io il Cristo, ma sono stato mandato avanti a
Lui». Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico dello
sposo, che è presente, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa
mia gioia è piena Lui deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3,29).
Quando la sua voce scompare, quando la sua missione, lo scopo
della sua esistenza cessa, Egli, come annunciatore del tempo messia-
nico si ritira e resta la realtà: Gesù! La gioia piena, completa, scatu-
risce dall’incontro, dalla relazione con il Signore e il testimone è un
fedele garante di questo incontro. Egli è come una lampada che
sostiene ed aiuta ad individuare il principio, la sorgente della gioia
e di ciò si rallegra e se ne compiace egli stesso, poiché è stato al
servizio della gioia di qualcun altro. Il bene si diffonde e si vuole
condividere con gli altri così come la gioia della salvezza, dell’amore,
della grazia, della fede spinge e stimola anche noi a testimoniare
Gesù come Giovanni Battista, il quale ci dà l’esempio della gioia
che è come una rete che lega le virtù e che, se condivisa, si moltiplica
in noi e ci stimola ad annunciare e trasmettere il Vangelo. La Parola
di Dio di questa Liturgia invita tutti noi a riflettere sulla nostra
identità di cristiani. In questo periodo di Avvento siamo particolar-
mente chiamati a rivedere la nostra vita affinché i nostri comporta-
30
TERZA DOMENICA DI AVVENTO

menti, il nostro stile di vita possano rispecchiare ed essere segno e


testimonianza dell’Amore di Dio. Ci auguriamo che in questo tempo
di attesa possiamo fare esperienza di una gioia che è frutto della
speranza di un dono, di un incontro, di una presenza, di una pro-
messa di Dio che viene tra noi.

31
QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

Prima lettura: 2Sam 7,1-5.8b-12.14.16


Salmo 88
Seconda lettura: Rm 16,25-27
Vangelo: Lc 1,26-38

1. Dio e la sua ‘casa’ – l’idea della ‘casa del Signore’ nell’ Antico
Testamento: il Tempio di Jahwe - La Liturgia della quarta Domenica
di Avvento che celebriamo oggi pone alla nostra attenzione un
tema che è al centro delle letture bibliche che ci sono state proposte,
nelle quali Dio chiede di fare di noi una ‘casa’ per Lui.
Iniziando a riflettere sulla prima lettura, tratta dal secondo libro di
Samuele, ci viene presentata la figura di Davide che pensa di costruire
la casa, il tempio per Dio per mettervi l’Arca dell’alleanza dopo
averla trasportata a Gerusalemme. Il re Davide, eletto nel segno della
benevolenza divina, con le sue vittorie militari ha conquistato una
certa autorità e rilevanza politica Per conservare tutto lo splendore
della sua posizione vuole costruire un tempio per il suo Dio. Nel
contesto culturale, la sua intenzione non aveva solo motivi religiosi,
ma piuttosto era quella di assicurarsi la presenza ed il favore divino
e garantirsi così il successo, la stabilità del suo regno con una di-
scendenza dinastica. Il profeta Natan in un primo momento sembra
approvare il progetto del re, ma Dio gli rivela un progetto diverso.
Molti profeti ricorderanno continuamente che Dio non è identifi-
cabile con il tempio e non vuole restare chiuso tra quattro mura, la
Sua presenza nel tempio non è sorgente di sicurezza; il progetto di
Dio è abitare l’universo. Egli ricorda a Davide che un servo non
può costruire una dimora per il suo Signore. Oggi potremmo dire:
Dio non si fa racchiudere o ricondurre alle nostre immagini, concetti,
alle pretese e attese umane, bensì va sempre ‘oltre’. In ogni modo
nell’Antico Testamento Dio non ha mai voluto essere chiuso in un
solo posto che Gli fosse potuto servire come un’unica casa, ma ha
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QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

sempre vissuto camminando con il Suo popolo trasformandolo da


un gruppo di schiavi ad una nazione. Dio offre sicurezza e stabilità
non in base ai desideri umani, ma sul fondamento della Sua pro-
messa. Non sarà perciò Davide a dare una casa a Dio, ma Dio con-
tinuerà a costruire una ‘casa’ per Davide in una discendenza. Sarà
Dio a realizzare, a edificare una casa a Davide, una dinastia che dura
per sempre: “…Io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito
dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre
ed egli sarà per me figlio…” (2Sam 7,12-14).

2. Il grembo di Maria – la dimora scelta da Dio: il “sì” umano ac-


coglie Dio - E questi sarà Gesù, il Figlio di Maria. Il brano dell’evan-
gelista Luca riguarda l’Annunciazione, quando l’Arcangelo Gabriele
rivela il progetto di Dio su Maria. Attraverso l’Angelo, Dio chiede
a Maria di essere accolto nel suo grembo per trovarvi rifugio, abita-
zione, ospitalità, l’unione e la familiarità con la persona umana.
Egli vuole venire dentro di noi, chiede che Gli facciamo spazio e
che Lo accogliamo con una adesione piena e decisa. Di solito siamo
noi a sentire tanti bisogni, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio, del
Suo sostegno, di essere esauditi in qualche necessità, chiedere di
poter ottenere qualche favore e siccome Dio è onnipotente ci aspet-
tiamo che risponda alle nostre esigenze. Ma ancora più spesso è Dio
che davanti a noi si sente bisognoso e vuole il nostro aiuto: questa
è la natura della Sua onnipotenza. Dio è capace di umiliarsi, di
mendicare, vuole e ci chiede di offrirGli la casa, desidera la nostra
accoglienza, la nostra ospitalità, il nostro ‘sì”, come quello di Maria.
Il desiderio di Dio è di essere amato, avvolto dall’affetto e dall’amore
materno; vuole essere accarezzato, amato, protetto come si fa ad un
bambino. Dio vuole essere aiutato da Maria e desidera coinvolgerLa
nel suo progetto conoscendo la sua fede. Innanzitutto colpisce il
saluto rivolto a Maria dall’Angelo: “Rallègrati, piena di grazia: il
Signore è con te”. Ella è piena di grazia fin dal suo concepimento,
è l’Immacolata e con il dono della Maternità divina riceve una
pienezza ancora più grande. La grazia è il dono totale di Dio, è la
sua misericordia, la sua benevolenza che provoca la gioia di sentirsi
33
QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

amati, di essere benedetti. “Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla


luce e lo chiamerai Gesù” (Lc 1,31). A questa rivelazione segue un
certo turbamento di Maria che non è generato dal dubbio o dalla
paura, ma è un interrogarsi dentro di sé in un cammino di comu-
nione e di dialogo intimo con il Signore. Ella pone, infatti tutta la
sua fiducia di fronte al Mistero, allo Sconosciuto, di fronte alle
incertezze dell’avvenire, una fiducia che proviene dall’ascolto attento
della Parola di Dio che trasforma, che fa vedere e comprendere
meglio e di più il mistero della vita. “Lo Spirito scenderà su di te e
la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” (Lc 1,35). Il
dialogo tra l’arcangelo Gabriele e Maria si conclude con le stupende
parole pronunciate dalla bocca e dal cuore di quella umile fanciulla:
“Ecco la serva del Signore: avvenga di me secondo la tua parola”.
Maria si auto-consegna, si affida completamente a Dio con tutta se
stessa con la coscienza di essere piccola, semplice, vulnerabile, “gio-
vane donna”, “non sposata”, “di Galilea”. È stupefacente che Dio
si rivolga ad una persona con delle caratteristiche che nella cultura
di quel tempo erano tutte negative, poiché donna, giovane, della
Galilea e non sposata… Ma Dio pone la sua fiducia in ciò che agli
occhi del mondo era considerato irrilevante. Scriveva Tertulliano:
“Non c’è nulla nell’agire di Dio che sconcerti la mente umana quanto
la sproporzione tra la semplicità dei mezzi usati e la grandiosità
degli effetti ottenuti”. Maria inizia a percorrere il cammino per
poter accogliere Dio, lascia da parte i suoi progetti, le sue paure, le
sue aspettative e con il suo assenso, fatto con desiderio e convinzione,
con la completa disponibilità, si pone in attesa con piena fiducia;
il suo grembo diventa così la casa, la dimora del Signore. Maria è
l’immagine di tutta l’umanità che si trova di fronte a Dio che chiede
l’accoglienza. Il brano del Vangelo termina: “E l’angelo si allontanò
da lei” (v.38); Maria rimane sola camminando nella fede sorretta
dalla grazia e dal ricordo di ciò che è avvenuto.

3. L’attività apostolica di san Paolo come ‘dimora’ di Cristo - Anche


San Paolo ha fatto di sé stesso e di tutta l’umanità la casa di Dio.
Così il suo essere ‘casa di Dio’ non ha un carattere statico, ubicato
34
QUARTA DOMENICA DI AVVENTO

e limitato ad un solo posto, ma dinamico in quanto Egli è stato


scelto, chiamato, afferrato e inviato a proclamare Gesù, il crocifisso-
risorto. Annunciare e proclamare il Vangelo sono stati la ragione
della sua vita, tutto il resto lo ha ritenuto come “spazzatura”. Dalla
sua intimità con Gesù, dall’amore sovrabbondante che sperimenta
nella relazione con Cristo scaturisce la sua bruciante passione per
la missione e per l’annuncio. La sua opera è stata una testimonianza
a servizio della Parola di Dio e più di un apostolo è diventato una
luce, un segno della potenza di Dio. San Paolo non ha proclamato
una teoria ma una persona, un incontro, un’esperienza. Nella sua
lettera ai Romani che abbiamo appena ascoltato, egli dice anche a
noi come alle comunità da lui fondate che credere è un incontro
da cui proviene “l’obbedienza della fede” (Rm 16,26); credere è
trasformare la propria vita in Gesù perché il “mistero avvolto nel
silenzio per secoli eterni” divenga Parola (v.25). Anche noi siamo
chiamati ad avere fede, nonostante il clima di incertezza, di dubbio,
di non stabilità in cui viviamo oggi. Malgrado questa situazione di
provvisorietà, di sentirci turbati, facciamoci nutrire dalla Parola di
Dio che dà conforto e fiducia perché il nostro futuro dipende dalla
Sua Provvidenza. Sull’esempio della Vergine Maria anche noi voglia-
mo dire il nostro ‘sì’ a Dio con gioia ed in ogni giorno della nostra
vita, anche quando questo ‘sì’ dovesse comportare delle fatiche e
delle rinunce. Impariamo a fare spazio e ad accogliere il Signore
nella nostra vita con una apertura generosa all’amore e ad una
donazione umile, perseverante e sincera verso i più bisognosi. Fac-
ciamo in modo di vivere l’Avvento con un’attenzione particolare
verso gli altri, affinché ‘si sentano a ’casa’, una casa fatta non di
muri, ma di cuori. Per prepararci a celebrare il Natale ci auguriamo
di sentirci anche noi afferrati dall’amore incondizionato, dall’amore
fedele fino alla follia della croce per rendere presente ed operante
questo amore negli altri, in una vita che si fa dono e condivisione.

35
TEMPO DI NATALE

NATALE DEL SIGNORE - MESSA DEL GIORNO


25 Dicembre

Prima lettura: Is 52,7-10


Salmo 97
Seconda lettura: Eb 1,1-6
Vangelo: Gv 1,1-18

1. Il compimento delle promesse


a) “Dio è con noi” - La lunga attesa del Salvatore, che ha attraversato
la storia del popolo di Israele e che abbiamo celebrato in tutto il
tempo liturgico dell’Avvento, oggi si è compiuta. Le profezie si sono
avverate. Le parole del profeta Isaia che annunciava “la Vergine
36
NATALE DEL SIGNORE

concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele…” sono


diventate realtà nella grotta di Betlemme. Il “Dio con noi” è com-
parso nel mondo. Anche se rimane per sempre inesauribile e miste-
rioso, “l’Emmanuele” ci svela alcuni contenuti, alcune verità; il “Dio
con noi” che spesso ci veniva rappresentato con l’immagine di un
Dio lontano, impassibile, astratto che non partecipa alla nostra
storia, che è indifferente e indisponibile, ora è qui, tra noi. Si incarna,
diventa uomo in un Bambino che ci dice “eccomi, sono a tua di-
sposizione, sono qui per te, per diventare il tuo Bene supremo, la
tua salvezza, la tua vita, perché tu possa conoscere te stesso ed essere
pienamente ciò che dovresti essere” (cfr. Gaudium et spes 22). “Gesù
è la risposta definitiva delle aspettative umane, attraverso il dono
d’amore che Egli rivela” – diceva san Giovanni Paolo II. Da quel
momento l’uomo non è più solo, la sua storia è cambiata e si avvia
verso la salvezza, verso la vita eterna, verso la partecipazione della
vita divina.
b) Il Natale – l’attuazione dell’evento storico – salvifico - In Gesù
Cristo l’uomo accede alla condizione di figlio di Dio e può rivolgersi
a Dio chiamandolo Padre. Celebrare il Natale non è solo un ricordo,
una tradizione annuale, non è un mito o una favola, ma è un’attua-
zione, una nuova realizzazione che possiamo ascoltare attraverso
molti e diversi racconti sulla nascita di Gesù. Nei racconti degli
evangelisti Matteo e Luca, troviamo varietà di episodi con particolari
storici che ci danno garanzia di storicità e credibilità, sono ricchi
di dettagli e diversi nel loro genere letterario. Seppur oggi anche
all’interno della Chiesa stessa, quasi nelle sue strutture di vertice,
non mancano ‘i falsi profeti’ che mettono in dubbio l’evento dell’In-
carnazione e la nostra possibilità di accedere alla figura storica di
Cristo con l’aiuto dello studio biblico–teologico e scientifico. Loro,
quasi contraddicendo il Credo cattolico considerano i Vangeli come
semplici narrazioni, simboliche, inventate e da interpretare in mille
modi. Purtroppo la loro voce ignorante si sente sempre potente ed
imponente. In realtà invece si tratta di narrazioni tipiche che ci
fanno vedere come in quadri, in pitture o simili a rappresentazioni
di opere artistiche, non fatte con il pennello, ma con la penna sotto
37
NATALE DEL SIGNORE

forma di un testo. Gli autori ispirati, come ad esempio Luca, ci


mostrano la nascita di un Gesù povero, figlio di umili artigiani nato
in un piccolo paese dell’impero romano come portatore di tutte le
promesse dell’Antico Testamento, anche se in modo diverso da
quello atteso dal popolo ebraico, tanto è vero che solo i ‘poveri di
spirito’, lo riconoscono.
Per noi è un evento straordinario che ridimensiona nel giusto
contesto la cornice festosa, la poesia del Natale che l’uomo ha mo-
dificato, ha trasformato in una festa luci, di case, di strade e città
illuminate, di persone piene di preoccupazioni per imbandire ricche
tavole di gustosi cibi, di giornate frettolose in cerca di regali.

2. “Dio si è fatto uomo”


a) Tramite Cristo e in Cristo Dio pienamente partecipa alla storia
di ogni persona e di tutta l’umanità - Diverso dagli altri racconti
degli evangelisti è il prologo del Vangelo di Giovanni, una elabora-
zione teologica che sintetizza il mistero dell’incarnazione e che ci
invita ad una profonda riflessione sul Verbo fattosi uomo. Dio si
rivela abbassandosi dall’eternità alla finitezza, accoglie il tempo e si
rivela nei limiti del tempo e dello spazio. Diversamente, noi uomini,
con il nostro modo di pensare ed agire, vorremmo che il tempo e
lo spazio fossero illimitati. Infatti siamo talmente attratti dalla
passione per l’infinito che la tecnologia ci fa sperare di essere sempre
connessi con l’internet, sempre giovani, sempre in forma. L’uomo
cerca sempre di innalzarsi, essere sempre più perfetto, potente,
padrone della vita; desidera percorrere nuovi itinerari ambiziosi,
nuovi propositi e aspirazioni cercando di andare verso le cose supe-
riori, verso l’alto. La scelta di Dio è opposta e nettamente in contra-
sto: l’infinito si limita nel finito, lo sconfinato si inserisce e si fa
contenere in un frammento, l’Onnipotente si annulla in un umile
bambino; colui che abita nei cieli viene ad abitare in mezzo a noi.
Il Natale è la rivelazione del Dio umile che si spoglia e si abbassa,
rinuncia al suo potere, alla sua gloria, alla sua forza al suo splendore
per venire verso il basso. Questa può essere l’espressione del versetto
“il Verbo si è fatto carne”. Colui che viene ad abitare in mezzo a
38
NATALE DEL SIGNORE

noi è il Figlio di Dio “per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza
di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. Farsi carne è farsi uomo
a tutti gli effetti: assumendo su di sé la forma umana si fa comple-
tamente solidale con l’uomo, con la sua debolezza, con i suoi limiti
e imperfezioni, inadeguatezze e perfino con la morte. Il prologo di
Giovanni, forse, non è di facile comprensione, ma vale la pena
cimentarsi con questo capolavoro per renderlo più accessibile.
b) Le analogie per spiegare chi è per noi il Figlio di Dio fattosi uomo
Le parole con le quali ci viene presentato il bambino che contem-
pliamo commossi nel presepe sono “Parola”, “Luce” e “Vita”. Queste
parole ci rivelano la Sua identità, la Sua missione e il dono che Egli
rappresenta per ognuno di noi.
La categoria della Parola: Ognuno di noi può attraversare dei
momenti di silenzio che si subisce a causa di prove dolorose, ferite,
solitudini e da qui nasce il desiderio di una parola piena di amore,
di comprensione. Non ci serve la parola superficiale che è simile ad
una chiacchiera, che non ci raggiunge nel profondo della nostra
esistenza, dei nostri problemi, anzi ci è dannoso ascoltare la parola
di accusa, di critica, di sospetto, di scoraggiamento. Aspettiamo la
Parola che ha in sé una forza creatrice, portatrice di speranza, che
stupisce, ci meraviglia, ci attrae. È Gesù questa Parola che per noi
si è fatta carne, è diventata un uomo in carne ed ossa, che è visibile,
toccabile che trasmette ed invita all’unione, al desiderio di stare
insieme. Questa Parola viene trasformata in una parola umana che
è “testimonianza”. Siamo tutti invitati al silenzio e all’ascolto di un
annuncio che chiede di essere accolto, che suscita gioia e stupore e
pone in cammino.
In questo cammino da custodire nel cuore, perché la Parola
possa farsi carne anche nella nostra esistenza, occorre la Luce. A
volte abbiamo l’impressione di vagare nel buio, come avvolti da una
spessa coltre che ci impedisce di vedere, sommersi dalla sofferenza
e dal male; altre volte perdiamo ogni punto di riferimento e vaghia-
mo smarriti come in mezzo alla nebbia. Ed allora imploriamo ‘la
luce’, ma non quella luce che ci abbaglia e che, impietosa, giudica
la nostra fragilità, i nostri sbagli; non una luce che ci umilia e ferisce
39
NATALE DEL SIGNORE

i nostri occhi. Cerchiamo la Luce che è piena di benevolenza, di


misericordia, che ci dà certezza, sicurezza, orientamento, che ci
indica dove sta la vera notizia, il vero messaggio che dà senso e
significato alla nostra vita, che ci illumina la strada che porta a Dio.
È Gesù questa Luce che illumina come un faro in mezzo alla nostra
storia di naviganti in cerca di un approdo sicuro nel burrascoso
mare della storia.
Infine un’altra categoria che ci inserisce più in profondità del
mistero dell’Incarnazione è la Vita. A volte non apprezziamo la
nostra vita e ciò che ne fa parte; viviamo una vita limitata, dimessa,
debole e messa in pericolo da qualunque contrarietà che ci può
capitare; vivere ci stanca, ci delude, ma dentro di noi abbiamo il
desiderio di una vita piena, vigorosa e vivace; sentiamo la necessità
di essere come una pianta stabilmente fissata alla terra che, attraver-
sata da una linfa benefica e abbondante può portare abbondanti
frutti. È la Vita di Gesù, è Lui la nostra linfa che ci permette di
vivere pienamente, che rende la nostra vita dignitosa, di valore e ci
dà la possibilità di conoscere una creatività straordinaria. Dio stesso
l’ha voluta vivere!

3. Quale atteggiamento di fronte al mistero dell’Incarnazione?


a) Il silenzio e la contemplazione - Comunque il nucleo e il signifi-
cato comune a tutti i racconti richiedono e introducono nel silenzio,
nello stupore nel quale si possono contemplare le scene narrate da
Luca e da Matteo e i contenuti del Prologo di Giovanni. Cosa signi-
fica contemplare? È una riflessione, un raccoglimento, una sosta
silenziosa con la coscienza di stare di fronte ad un Mistero che non
è riducibile alla ragione, ma che è comunque realmente avvenuto;
si tratta di conoscere e comprendere non solo con l’intelletto, ma
con il cuore e con l’amore. La contemplazione si trasforma in ado-
razione dell’amore di Dio che ci provoca alla scelta di essere figli
della luce, (coloro che lo accolgono) o (in) figli delle tenebre (coloro
che lo respingono). Soltanto coloro che credono in Lui entrano in
un cammino di verità.
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NATALE DEL SIGNORE

b) Nel Figlio diventiamo noi figli adottivi di Dio - Solamente a loro


è dato dal Figlio il diritto di diventare figli di Dio. Mettiamoci
dunque in cammino seguendo e imitando Maria che come Madre
ci insegna a scrutare, ad osservare attentamente, a penetrare e inte-
riorizzare con fede, stupore, preghiera e ascolto del Mistero. In
questo Mistero riconosciamo il volto di Dio, ma anche il nostro
volto, la nostra identità di figli di Dio, per vivere come tali, per dare
senso alla nostra esistenza ed orientarla verso l’Uomo che in tutta
la sua esistenza, dalla nascita, fino alla morte in croce ci apre una
porta e ci fa intravedere la trascendenza dell’esistenza umana. Un
Uomo che compie segni straordinari e pronuncia parole che non
tramontano, che mette in pratica l’amore come nessun altro. “Egli
diventa speranza per gli uomini destinati alla morte, poiché morendo
ci meritò la vita e ci aprì un nuovo futuro. Tutto ciò si rivela già
nella sua nascita: il debole bambino che giace nella mangiatoia è il
salvatore del mondo. Questo è l’intramontabile messaggio del Natale
– senza mito né leggenda” (R. Schnacknburg).

Sii benedetto, Padre

Sii benedetto, Padre


Nel tuo infinito amore
ci hai dato l'unigenito tuo Figlio
fattosi carne per opera dello Spirito
nel seno purissimo
della Vergine Maria
e nato a Betlemme
duemila anni or sono.
Egli si è fatto
nostro compagno di viaggio,
e ha dato nuovo significato
alla storia,
che è un cammino fatto insieme
nel travaglio e nella sofferenza,
41
NATALE DEL SIGNORE

nella fedeltà e nell'amore,


verso quei nuovi cieli
e quella nuova terra
in cui tu, vinta la morte,
sarai tutto in tutti.

Giovanni Paolo II

42
DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA DI
NAZARETH
Domenica fra l’ottava di Natale o 30 Dicembre

Prima lettura: Gen 15,1-6; 21,1-3


Salmo 104
Seconda lettura: Eb 11,8.11-12.17-19
Vangelo: Lc 2,22-40

1. La necessità di riflettere e adorare la famiglia umana alla luce


dell’Incarnazione - Oggi, prima Domenica dopo Natale, la Liturgia
ferma il nostro sguardo sulla famiglia umana che è da considerare
come aspetto essenziale dell’evento dell’Incarnazione del Figlio di
Dio. È un tema tanto attuale oggi, quando la famiglia subisce da
parte delle varie correnti politiche, culturali, ideologiche un attacco
frontale; e da parte della Chiesa è addirittura poco valorizzata, dato
che non è molto tempo da quando è tornato alla “casa del Padre”
quel santo papa Giovanni Paolo II che nell’arco di tutto il lungo
pontificato metteva in rilievo il valore cristiano e biblico della fa-
miglia in modo da essere, proprio lui, definito come ‘papa della
famiglia’. Oggi però sembra che molti elementi del suo insegnamento
siano stati archiviati.
a) Abramo, la famiglia cristiana e la Chiesa domestica - Le letture
di oggi ci aiutano a meditare la chiamata di questa comunità umana
paragonando due famiglie: la prima famiglia credente di Abramo e
Sara e la famiglia di Nazareth. Dio ha voluto nascere nella famiglia
umana, in essa è cresciuto “pieno di sapienza e la grazia di Dio era
su di lui.” (Lc 2,52); in questa famiglia ha ricevuto un’identità, ha
imparato ad amare e ha ricevuto la fede del suo popolo La famiglia
umana si manifesta come l’eterno disegno di Dio. In famiglia l’uomo
43
DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA

impara tutto: cresce, riceve l’affetto, l’educazione, l’amore, diventa


capace di scegliere e di creare relazioni. In famiglia impara a cono-
scere Dio, impara a credere, anche se in futuro da persona adulta
sarà egli stesso a scegliere i valori della fede e lo stile di vita cristiano
che vorrà condurre, perché la famiglia trasmette questi valori, gli dà
la possibilità di conoscerli ed apprezzarli, ma non determina le sue
scelte. La famiglia è voluta da Dio, è dono di Dio, anche se purtrop-
po non tutte le famiglie hanno la ‘fortuna’ di essere felici. Però,
malgrado i fallimenti dell’uomo, la famiglia è dono, è la ‘Chiesa
domestica’, ed è il primo ambiente dove si crea un rapporto di
familiarità con Dio, dove si sperimenta la sacralità della famiglia
desiderata da Dio.
b) Dio desidera (di) nascere nella famiglia umana - Anche Gesù (Dio
fatto uomo), pur avendo come Padre Dio stesso, ha desiderato
nascere e vivere nella famiglia umana nonostante tutte le difficoltà
che ciò ha comportato: la fuga in Egitto e tante condizioni di po-
vertà, di incertezza e mancanza di appoggio materiale, morale e
sociale. La fuga in Egitto: un evento dal quale deriva la sapienza che
ci insegna a vivere tra insicurezze, incertezze, minacce e pericoli, ma
con la fiducia di essere assistiti e guidati dal nostro Angelo di Dio.
Questo ci insegna che nella nostra vita, il senso di sicurezza e stabilità
poggia unicamente sulla presenza e sulla guida offerta da Dio e non
sui valori di questo mondo e sulla vita comoda. E viene spontaneo
chiedersi: per quale ragione, per quale motivo Gesù voleva vivere
nella comunione della famiglia umana? È perché sin dall’eternità
Egli già viveva nella comunità di Padre-Figlio-Spirito Santo; quindi
non come un Dio che vive nella solitudine, ma, al contrario, in
rapporto, in relazione con altri: in seno alla Trinità.
c) Il fondamento della famiglia: Trinità e relazione Cristo-Sposo e
la Chiesa-Sposa - La famiglia di Nazareth e la famiglia cristiana sono
lo specchio della comunione dell’amore Trinitario e rivelano lo
sposalizio tra Cristo (sposo) e la Chiesa (sposa). La Trinità si mani-
festa come modello, come prima forma perfetta ed esemplare della
famiglia umana. Anche l’uomo è chiamato a vivere nella comunità
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DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA

e nelle relazioni, perché è stato creato a immagine e somiglianza di


Dio che è, come già detto, comunità delle Persone Divine. Lo sposo
la ama fino in fondo, fino alla fine, anche quando la sposa si allon-
tana, quando tenta di discostarsi; lo sposo la cerca e aspetta che si
ravveda e da qui si fonda, si basa l’indissolubilità del matrimonio.
La comunità di base, la famiglia originale dell’uomo dove e come
si vive? La prima famiglia nasce nel cuore umano, tra “noi e Dio”.
Come abbiamo sottolineato nella festa del Natale, è con questo
evento che l’anima umana diventa la stalla e l’abitazione di Dio.
Per questo, in realtà, se viviamo la nostra vita in comunione con
Dio, con il Signore che vive e sta dentro di noi, anche quando gli
altri ci abbandonano, non ci dovremmo mai sentire da soli, né
soffrire la solitudine o l’abbandono. Anzi vogliamo essere ancora
più determinati a creare i rapporti d’amore con gli altri che sempre
sono amati da Dio, benché feriscano Egli stesso e noi.

2. La necessità di riflettere sulla famiglia nel contesto storico odierno


a) La cultura contro-familiare - Il Vangelo della famiglia costituisce
un messaggio molto attuale di questi tempi dove si promuove uno
stile di vita senza vincoli, senza responsabilità, senza dedizione e
amore vero. La famiglia attualmente sta vivendo numerose insidie
e minacce, non viene difesa né tutelata dalle istituzioni né da una
promozione di politiche di sostegno da parte dello Stato, tantomeno
dalle istituzioni internazionali come l’ONU o l’UE, con servizi utili
a migliorare la qualità del nucleo familiare sia economico che di
assistenza e sostegno morale. Anzi piuttosto si deve constatare che,
anziché promuovere la stabilità della famiglia composta da padre,
madre e figli, è stata emanata nell’anno 2016 una legge per sancire
i matrimoni tra coppie dello stesso sesso, e inoltre è sorta una ondata
quasi irrefrenabile di divulgare a tutti costi una disumana idea del
gender, ignorando la disapprovazione e il dissenso patrocinato delle
manifestazioni pro-family per osteggiare sia questa legge che queste
ideologie completamente traviate che di fatto vogliono svalutare la
famiglia naturale e cristiana, ed i diritti dei bambini. Ecco allora
che la famiglia d’oggi va vista alla luce dell’esempio e del modello
45
DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA

della Sacra Famiglia di Nazareth, che nonostante si trovi immersa


in vicende quotidiane in cui si alternano episodi di sofferenze,
difficoltà, crisi, fatiche, vive nella condivisione, nel sostegno e nella
comprensione reciproca, nella preghiera comune.
b) La richiesta di maggior impegno della Chiesa a favore della fami-
glia: l’esempio di Simeone - La Chiesa ha il compito di partecipare
alle gioie, alle sofferenze e alle difficoltà di ogni famiglia, incorag-
giandola a vivere secondo il Vangelo e accompagnandola nel suo
cammino di rispondere al progetto di Dio e quindi a svolgere i
compiti che la caratterizzano: crescere ed educare ai valori umani e
cristiani i propri figli, evangelizzare, promuovere la giustizia la carità,
testimoniando il proprio stile di vita nella comunità sociale. Nella
Liturgia odierna è significativo il gesto di presentazione di Gesù al
tempio che è segno dell’offerta a Dio e il riconoscimento dei genitori
del dono ricevuto in quel Figlio. Giuseppe e Maria conoscono la
legge di Mosè, sanno perciò che quel Figlio è un dono da accogliere
con gioia e gratitudine, affidato alle loro cure, ma sanno anche che
non è di loro proprietà ma che appartiene a Dio. Per questo offrono
due colombi come accettazione di tutto questo. Comunque quel
Figlio forse non realizzerà i loro sogni e le loro attese, ma il progetto
di Dio che sarà dono per tutta l’umanità. Qui, nel Tempio, avviene
l’incontro con il vecchio Simeone “uomo giusto e pio, che aspettava
la consolazione d’Israele e lo Spirito Santo era su di lui” (Lc 2,25),
un uomo che viveva nella vigilanza e in una stretta relazione con
Dio. L’attesa e la promessa di Dio, la salvezza, si realizza quando
egli prende in braccio quel bambino, riconoscendolo come il Messia,
benedice Dio e gli rivolge un inno di lode e rendimento di grazie,
dichiarando che può congedarsi in pace dal mondo. Dopo aver
benedetto il padre e la madre del bambino, Simeone pronuncia
parole che sembrano contraddire la gioia iniziale poiché rivolge a
Maria le parole: “Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti
in Israele e come segno di contraddizione e anche a te una spada
trafiggerà l’anima” (v.34). Dunque Simeone prevede in questo dono
di grazia un percorso drammatico che metterà a dura prova Gesù e
tutti coloro che lo amano. Questo sta a significare il difficile cam-
46
DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA

mino del discepolo, il coinvolgimento di Maria al destino di Suo


Figlio e la Sua partecipazione alle sofferenze redentrici di Gesù.
Come Simeone, cosciente delle sofferenze a cui sarà esposta la Sacra
Famiglia, profetizzando già partecipa alle Sue future vicende, nello
stesso modo anche la Chiesa, i suoi pastori e le guide dovrebbero
dunque essere più sensibili alle problematiche familiari dei nostri
tempi. Aver maggior coraggio nel difenderla ed accompagnarla di
fronte agli atti sia formali che reali di disprezzo verso di essa.
c) I più fragili della famiglia: i bambini (sia non nati che già nati)
e gli anziani - Tornando al racconto lucano, compiuto il rito, la
famiglia torna alla sua casa e nel trascorrere del vissuto quotidiano
Giuseppe e Maria colmeranno Gesù di affetto, gli trasmetteranno
la fede, le preghiere, i riti e gli insegneranno un lavoro. Nel loro
impegno, nel loro atteggiamento ogni papà ed ogni mamma sono
chiamati a riconoscersi per costruire la propria famiglia sull’esempio
di quella di Nazareth per saper superare con fiducia le prove e le
fatiche quotidiane. Anche Anna, che viene presentata da Luca in
modo sorprendente con una quantità di dettagli come una figura
che ha scelto di vivere e di essere soltanto di Dio, testimonia e si fa
garante della Sua promessa rivelando la verità di Gesù a tutti coloro
che si renderanno disponibili ad accoglierLo. Le figure della Parola
di Dio di questa Liturgia sono tutte persone anziane: Abramo, Sara,
Simeone, Anna. Questo ci dice che nel disegno di Dio della famiglia,
viene loro data molta importanza. Oggi giorno si è diffuso il mito
dell’eterna giovinezza, il culto di essere in forma, di utilità, di moda,
di apparenza, di perfezione estetica, sportiva, ecc., per cui in questa
cultura non viene dato tanto spazio agli anziani. Ed invece, quanti
valori ci trasmettono gli anziani! Un esempio di che cosa ci insegna-
no: la pazienza di Abramo, la speranza nel dolore della sterilità di
Sara, la vigilanza di Simeone, la fiducia nella solitudine della vedo-
vanza di Anna. Loro sono gli anziani che piuttosto che pensare al
loro passato, guardano al futuro (!): un figlio che nascerà, un Messia
che verrà. Sono persone che non si sono abbandonate nella rasse-
gnazione o nella paura, ma piuttosto nella fiducia nella speranza e
47
DOMENICA DELLA SANTA FAMIGLIA

nell’umiltà. Gli anziani sono preziosi e allo stesso tempo fragili,


ricchi di vita e bisognosi di cura, ma soprattutto testimoni di speranza.
d) Il valore della fede in Cristo nella vita della famiglia - L’autore
della seconda lettura rivolgendosi ad una comunità scoraggiata
indica il traguardo da raggiungere e la spinge a camminare nella
fede. Questo appello si concretizza mostrando come la fede ha
trasformato persone comuni come Abramo, Sara, Mosè, Davide i
quali eroicamente sono stati capaci di abbandonare tutto per seguire
il proprio Dio. Per ben ventidue volte nella lettera agli Ebrei viene
ripetuto questo termine “fede”. Che cosa si vuole indicare con il
termine fede? La fede non è soltanto l’atto di credere, ma la fiducia,
la fedeltà, l’atteggiamento di chi si appoggia su un terreno solido,
su una roccia sicura. È Cristo che offre un appoggio saldo, ed è
degno di fede perché ha realizzato tutto ciò che Dio aveva promesso,
perché è arrivato fino all’estremo atto di amore. L’atto di fede è
quindi caratterizzato da chi si offre come appoggio e da chi si affida
a questo appoggio. La fede è dunque il sostegno che abbiamo per
alimentare la speranza e allo stesso tempo prova le cose non viste,
operando come se fossero presenti e visibili, possiede senza avere e
comprende senza vedere. La stessa fede è indispensabile per vivere
pienamente quella realtà costituita da Dio che è la famiglia. Di
fronte alle crisi matrimoniali non sarebbe da chiedersi se all’inizio
dei fallimenti coniugali ci sia la mancata fede ecclesiale nella quale
si erano prima sposati? Preghiamo il Signore che ci aiuti a continuare
a percorrere il cammino della nostra vita immersi nella grande
famiglia umana con fede, speranza e con paziente attesa. Tutti i
genitori siano testimoni di fede e di speranza per il loro figli e nel
loro difficile compito siano accompagnati e sostenuti dalla comunità
cristiana.

48
SECONDA DOMENICA DOPO NATALE

Prima lettura: Sir 24,1-2.8-12


Salmo 147
Seconda lettura: Ef 1,3-6.145-18
Vangelo: Gv 1,1-18

1. Gesù – Lògos/Sapienza - La Liturgia di oggi continua ad aiutarci


nella riflessione e nell’approfondimento sul mistero dell’Incarnazio-
ne, sul progetto del Padre che viene rivelato in Gesù di Nazareth.
A prima vista sembrerebbe una ripetizione (di) ritornare ancora a
meditare di nuovo su questo evento storico-salvifico. Invece la Chiesa
celebrando questo Mistero si rende conto della sua inesauribilità:
mai ci bastano i giorni e gli anni per scavare definitivamente questo
evento che fa esplodere e scavalcare i limiti del tempo, dello spazio
e delle nostre capacità di comprendere.
a) Il significato della ‘Sapienza’ - Il compimento del progetto di Dio
di porre le radici in mezzo al suo popolo è comunicato dal Vangelo
di Giovanni nell’inno che celebra Gesù come Lògos, come Parola,
pensiero, disegno, ragione, intelligenza, principio e fondamento di
tutto, perché “tutto è stato fatto per mezzo di lui!” A Lui si riferisce
la prima lettura “Egli è la Parola della Sapienza, la Parola, il Verbo
in Persona!”.
Chi è questa Sapienza alla luce del libro del Siracide? “La Sapien-
za fa il proprio elogio, in Dio trova il proprio vanto, in mezzo al
suo popolo proclama la sua gloria”. L’autoelogio della Sapienza
percorre tutta la storia della salvezza: uscita da Dio come Sua Parola,
ha percorso le strade dell’universo regnando sulla creazione e
sull’umanità. Si è stabilita in Sion, su comando del Signore, e da
qui si è estesa in tutta la terra. La Sapienza inserisce se stessa “come
Parola uscita dall’Altissimo” che dimora le altezze e osserva gli abissi.
49
SECONDA DOMENICA DOPO NATALE

All’origine della creazione e di ogni esistenza umana c’è, dunque,


uno sguardo profondo che tutto penetra e tutto cura, c’è una parola
“buona” che vuole entrare in sintonia con l’uomo. Nell’Antico
Testamento, la Sapienza viene da Dio, ma non sembra identificarsi
con Lui, rimane una Sua creatura. La Sapienza si manifesta come
Sua forza, come Parola creatrice, come energia, come Spirito che dà
vita, assumendo una connotazione personale, esplorando la terra,
il cielo ed il mare ha ricercato un luogo dove poter dimorare. Ac-
compagnando il cammino dell’uomo ha manifestato la sua potenza
e la sua benedizione: la Sapienza pone la sua tenda in Israele, vi
risiede facendola diventare sua eredità, suo giardino. Nel disegno
eterno di Dio Israele diventa perciò il punto di arrivo e di partenza
per una Sapienza che dovrà raggiungere tutti i luoghi della terra ed
ogni persona.
L’uomo, oggi, ha la pretesa e crede di essere capace di conoscere,
sapere, scoprire tutti i misteri dell’universo, di raggiungere la sapienza
per scoprire tutto ciò che riguarda la vita. Crede nel potere della
sua ragione, della sua intelligenza. Pensa che i progressi della tecnica,
della tecnologia, dell’ingegneria, delle leggi stabilite esclusivamente
da lui ecc., possano svelare e risolvere una volta per tutte il mistero
della vita, il mistero del mondo, considerato però soltanto nella sua
‘materialità e nella sua ‘temporalità’. Chi conosce meglio il mondo,
la creazione, tutto ciò che esiste se non Colui che l’ha fatta? Noi
con umiltà apprezziamo la creazione come dono del Signore, come
mistero da scrutare grazie alla Sapienza. Dio ha voluto abitare la
carne dell’uomo nella sua fragilità percorrendo la sua stessa strada
caratterizzata di gioia, di sofferenza di nascita e di morte.

2. Nel Lògos c’è la Luce


a) La proposta e il rifiuto - Con l’Incarnazione e con il Verbo che
si è fatto uomo ci è stata data la vera luce che illumina ogni uomo.
L’Evangelista Giovanni nel prologo del suo Vangelo presenta con
particolare enfasi la Luce Vera (veritiera, autentica, manifestatrice
della verità). La Luce vera esprime che soltanto nell’accoglienza della
rivelazione portata da Gesù viene offerta all’uomo la comprensione
50
SECONDA DOMENICA DOPO NATALE

di sé e del mondo. Il Verbo era Dio: ora si fa carne; Colui che era
presso Dio pone la sua tenda in mezzo a noi. È un invito a rivolgere
lo sguardo verso Colui presso il quale si trovava il Lògos: “Dio
nessuno lo ha mai visto…”. Solo in Gesù Cristo scopriamo il vero
mistero dell’essere umano, solo in Lui guardiamo la nostra vita, la
guardiamo dentro di noi e vediamo che il Verbo porta la vita alla
sua pienezza nella forma più bella e affascinante. Tuttavia il mondo
e l’uomo, amato in modo smisurato da Dio, è chiamato alla respon-
sabilità, alla scelta di manifestare l’accoglienza o il rifiuto della luce.
Nonostante l’origine divina del mondo e nonostante aver creato
l’uomo a Sua immagine e Sua somiglianza Dio è stato invece rifiutato
proprio dai “suoi”, dalla sua più alta creatura.
b) Il Lògos e la grazia di accedere al Padre - Il Verbo crea e sostiene
tutto il creato e ci svela di essere suoi figli: “a quanti però lo hanno
accolto ha dato il potere di diventare Figli di Dio”. Figli di Dio
sono coloro che credono nel Lògos; ma la nostra figliolanza è un
dono che ha bisogno di una attiva accoglienza da parte di ognuno
di noi: “Dalla sua pienezza, noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su
grazia”. Tuttavia la ‘grazia è sempre un dono da accettare in modo
da farsi coinvolgere da esso. Leggiamo ancora: “E il Verbo si fece
carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato
la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre
pieno di grazia e di verità”. Questo vuol dire che con la venuta del
Figlio, con la Sua incarnazione ci viene manifestato il volto di Dio,
non come giudice severo e lontano, ma come Padre. Verso la fine
del suo componimento poetico l’evangelista Giovanni orienta il
nostro sguardo verso Colui presso cui si trovava il Logos: “Dio
nessuno lo ha mai visto; il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno
del Padre, è lui che lo ha rivelato”. Senza Gesù il mondo si trovava
senza una via d’uscita, dalla quale il Figlio unigenito ci ha liberato;
solo Lui lo poteva fare perché Egli stesso è Dio.
Scrive San Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni
benedizione spirituale nei cieli in Cristo” (Ef 1,3). Con queste parole
ci viene mostrato il modo in cui Dio pensa, guarda, agisce verso
51
SECONDA DOMENICA DOPO NATALE

l’umanità. Egli benedice, guarda la sua creatura e la storia umana


come una realtà “molto buona”, voluta, desiderata e amata. Il Padre,
in assoluta gratuità ci ha benedetto, accogliendoci per redimerci per
mezzo del Figlio amato e riepilogando in Cristo tutto il creato e
tutte le creature. La risposta umana è un riflesso della sua azione:
riconoscerlo e benedirlo come Padre di Gesù e Padre di tutti coloro
che nel Suo amore ha predestinato ad essere figli adottivi. “In lui ci
ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e imma-
colati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui
figli adottivi mediante Gesù Cristo…” (Ef 1,5). Diventare santi e
immacolati sono dono e grazia di Colui che ci ha creati a Sua im-
magine e somiglianza ed in totale gratuità ci ha benedetti predesti-
nandoci ad essere figli, redimendoci per mezzo del Figlio amato. La
santità, caratteristica stessa di Dio, diventa per noi uno stato di
grazia che ci viene donato dall’amore riversato sul Figlio e sull’uma-
nità intera e non può essere un prodotto dello sforzo umano. Dio
paga di persona per farci diventare ciò che siamo con il perdono
dei peccati.
La redenzione comunque non è soltanto libertà dal peccato, ma
una nuova comprensione della vita, dono dello Spirito che è il
mezzo, tramite il quale la paternità di Dio diventa una esperienza
interiore Tuttavia a noi viene chiesto di comprendere e apprezzare
questa grazia che ci viene donata con un cammino paziente, un
lungo procedimento di crescita nella relazione intima con il Signore.
Il nostro compito e impegno è quello di testimoniarla. Paolo chiede
agli Efesini ed anche a noi oggi di saper apprezzare ogni dono di
Dio ricordando continuamente il progetto nel quale viviamo; pro-
getto in cui agli occhi di Dio, la nostra vita è parte di un disegno
d’amore sigillato nel sangue del Figlio, garantito dalla presenza
dello Spirito e che nulla, neppure il nostro peccato, potrà distrug-
gere (questo progetto). In altre parole Gesù è la rivelazione del
Padre e di fronte ad essa dobbiamo prendere una posizione: sce-
gliere se credere oppure rifiutare, respingere. La nostra identità
non dipende dalla nostra condizione di successo, di ricchezza o
povertà né dalla salute o dalla malattia bensì si manifesta come
52
SECONDA DOMENICA DOPO NATALE

una vita benedetta perché redenta da Cristo, dalla Sua risurrezione.


Ringraziamo il Signore che in questa celebrazione ci ha fatto
riflettere e meditare sulla Sapienza, sulla Speranza e sulla Luce che
non sono altro che Suoi doni e Sua grazia di cui abbiamo bisogno
e che cerchiamo ogni giorno della nostra vita.

53
MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO
1° gennaio nell’ottava di Natale

Prima lettura: Nm 6,22-27


Salmo 66
Seconda lettura: Gal 4,4-7
Vangelo: Lc 2,16-21

1. Con Maria iniziamo un tempo nuovo - Oggi inizia un nuovo


anno, ci è dato un nuovo tempo, ignoto, sconosciuto, incerto. Di
fronte a questo nuovo anno, di fronte al futuro possono affacciarsi
dentro di noi tentazioni di rassegnazione, di scoraggiamento, di
paura per le nuove sfide da affrontare giudicando con un certo
rammarico il male vissuto in passato e di conseguenza la tentazione
di una fuga da impegni e responsabilità, provando un certo scetti-
cismo e sospetto che non avremo le possibilità per cambiare in
meglio il nostro futuro. Forse ci lasciamo trascinare da una prospet-
tiva superficiale, da una falsa scusa di ripiegarci sull’atteggiamento
di vivere bene l’istante e poi sarà quello che sarà.
a) Vivere il presente tenendo lo sguardo sia verso il passato che il
futuro - Ma il tempo è pur sempre un dono verso cui bisogna man-
tenere un giusto atteggiamento: da una parte, apprezzarlo e vivere
ogni momento con la massima intensità, affrontando pienamente
gli eventi, le esperienze e tutte le componenti della vita come dono
del tempo e del futuro; dall’altra, invece, mantenere un equilibrio,
non assolutizzando nessuna cosa e prendendo le dovute distanze
verso la realtà temporale, con la consapevolezza della provvisorietà
e della transitorietà. La proposta biblica della Parola di Dio di oggi
ci invita a riflettere sul tema del tempo. Recita il Salmo: “Dio abbia
pietà di noi e ci benedica”, è la benedizione ricevuta e offerta a
tutto il popolo e ci invita a vivere nel presente, ma in rapporto
con il passato e con il futuro. “Dio abbia pietà di noi” è lo sguardo
54
MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

sul passato, “e ci benedica” è lo sguardo verso il futuro. Lo sguardo


verso il passato ci viene indicato da San Paolo nella lettera ai Galati
nella quale fa riferimento alla loro condizione di peccato in cui
vivevano prima che Dio portasse a compimento la promessa della
nascita del Figlio nato in condizione di fragilità, “nato da donna”
e in vista della liberazione dalla schiavitù “per riscattare coloro
che erano sotto la legge”. Tutto questo perché ricevessimo il dono
della figliolanza divina reso possibile dallo Spirito “perché riceves-
simo l’adozione a figli”, che si manifesterà definitivamente nel
futuro escatologico, nel ‘tempo oltre tempo’. Dio imprime una
svolta alla storia riempiendola, colmandola della Sua presenza e
della Sua opera.
b) Il tempo come luogo della benedizione di Dio - Lo sguardo verso
il futuro ce lo propone la prima lettura tratta dal libro dei Numeri
dalla quale si desume che il futuro sta sotto la protezione, la guida
e la provvidenza di Dio. Se il futuro non fosse nelle mani di Dio
sarebbe inutile la Sua aspettativa e attesa della nostra preghiera e
della benedizione che Egli stesso offre a Mosè, ad Aronne e a tutto
il popolo: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia
risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a
te il suo volto e ti conceda pace”. Si tratta di una benedizione sacer-
dotale, la benedizione di Dio è verso Mosè e tutta Israele. Il volto
sorridente di Dio è augurio di protezione e prosperità per il Suo
popolo. Tutta l’attenzione che Dio rivolge loro è segno di benevo-
lenza, di pace e felicità. Il volgere il Suo volto verso di noi esprime
e genera grazia e pace, è segno di un amore incondizionato, una
presenza che guida ed abbraccia la nostra vita.
c) Il tempo, donato all’uomo per cercare Dio - È bello notare che
Dio ama in modo particolare chi è disposto a lasciare tutto cammi-
nando per cercare Lui: ama Abramo che per fede partì per un luogo
che non conosceva; ama Mosè che per obbedienza lasciò la sua patria
per un deserto abitato dalla Presenza; ama Rut che per amore lasciò
la sua patria per un popolo non suo; ama Maria che partì in fretta
per visitare Elisabetta e condividere il dono di Cristo; ama i pastori
55
MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

sentinelle della notte che sono in attesa di Lui; ama i Magi cammi-
natori solitari verso l’adorazione di Cristo.

2. Maria, Maestra di vivere la storia e (la) Madre della storia di ogni


uomo - In questa solennità del tempo di Natale, la Liturgia ci invita
a contemplare il mistero dell’Incarnazione, con lo sguardo di Maria,
la Madre del Signore. Dio ha voluto avere la Madre perché sa quanto
è bella ed importante la vocazione alla maternità. È la partecipazione
al mistero di Dio di generare e creare. Questa maternità Dio la
sperimenta e ci insegna a valutarla e stimarla. Gesù è nato ed è
vissuto condividendo in tutto la condizione umana: ha avuto bisogno
dei genitori ed ha avuto i ritmi naturali dell’uomo: l’infanzia, la
crescita, l’adolescenza e la maturità.
Maria è una donna coraggiosa e protesa verso l’avvenire, il futuro.
Non considera il tempo con preoccupazione, ma come un’estensione
del Mistero di fronte al quale non fugge, non rinuncia, non si ar-
rende. Il Mistero lo accetta anche se le è incomprensibile. Questa è
la Sua bellezza, perché percepisce in esso il disegno, il progetto, il
senso, il fine, il traguardo della Sua missione.
Anche noi, seguendo Maria, siamo invitati ad accettare il futuro
in quanto “mistero” senza troppi dubbi, incertezze, domande,
preoccupazioni, ma con l’atteggiamento di totale fiducia verso Dio
al quale appartiene tutto. Questo atteggiamento non potrà essere di
attesa passiva, di inerzia, ma piuttosto di collaborazione con Dio
per creare un futuro migliore con la consapevolezza che il Regno
di Dio è già in mezzo a noi. Maria non pretende di capire, ma lascia
che la Parola abiti in lei, che è stata capace di “meditare” silenziosa-
mente, di ascoltare, di credere, di obbedire, di custodire, di attendere
il realizzarsi della Parola stessa.
Maria è la donna che, nell’ombra dello Spirito, ha fatto spazio
in sé a Cristo, Gli ha dato un volto, una carne umana. È la donna
che ha accettato di essere “serva”, seguendo il cammino del Figlio
con fedeltà, fino ad accettare il Suo sacrificio sulla croce. Ella
non è solo la madre di Gesù-uomo, Gesù di Nazareth, ma è la
Madre di Cristo, il vero Dio ed è la Madre di tutti noi; pertanto
56
MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

è diventata modello ed esempio della maternità. È Colei che si


prende profondamente, autenticamente cura di noi, come veri
figli. “Donna, ecco il tuo figlio… Figlio ecco la tua madre” (Gv
19,26-27).

3. Maria, Generatrice e Madre della Pace - Nell’antica tradizione


Maria è vista come punto di riferimento e guida della Chiesa.
L’evangelista Luca, infatti, la pone al centro della comunità in
attesa dello Spirito. La sua presenza educa ad essere discepoli e
ricorda che questo richiede in primo luogo un “generare” Cristo in
sé stessi, accettandolo come centro della propria esistenza, come
criterio di scelta e di azione con la pazienza perseverante di chi
ascolta la parola, la custodisce e ne fa tesoro. Ella, come Madre della
Chiesa, ci insegna a far nascere Gesù dentro di noi nei Sacramenti,
nella fede e nella preghiera.
Oggi ricorre la giornata mondiale della Pace. Di quale pace si
tratta? Non è certo un modo di sentire sfuggendo i problemi o per
seguire una vita comoda, senza fatiche né responsabilità; non è
neanche lo sforzo di non avere nemici. La pace non dipende dalle
condizioni esterne, ma sta dentro l’uomo, nel suo cuore. La pace è
possibile quando c’è la nostalgia di Dio che ci mette in armonia, in
sintonia con Lui stesso, con noi, con gli altri e con la realtà. Gesù
proclama “beati gli operatori di pace”. Gli operatori di pace sono
coloro che amano, difendono e promuovono la vita nella sua inte-
gralità; sono coloro che cercano sempre il bene degli altri, il bene
pieno dell’anima e del corpo.
Nel Vangelo di Luca che abbiamo appena ascoltato, ci vengono
presentate le figure dei pastori in modo positivo: viene evidenziata
la loro vigilanza e la capacità di mettersi in cammino. Dopo l’in-
contro con il Bambino essi condividono con gli altri ciò che avevano
visto e conosciuto diventando così i primi missionari ed annuncia-
tori della pace. I pastori sono andati vicino a Gesù: “il Principe della
pace” che trasforma la vita facendo nascere nei cuori armonia,
serenità, gioia. La venuta di Gesù nel mondo e la Sua presenza come
risuscitato sono continui annunci di Pace.
57
MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

Accogliamo, insieme a Maria, Gesù nella nostra vita per ‘generare’


un’esperienza di gioia, di gratitudine e di pace affinché questi Suoi
doni colmino i nostri cuori e ci rendano capaci di condividerli con
gli altri. Affidiamoci a Dio e lasciamoci guidare dal Suo amore,
dalla Sua verità per vivere un Nuovo Anno secondo la Sua volontà.

58
EPIFANIA DEL SIGNORE
6 Gennaio

Prima lettura: Is 60,1-6


Salmo 71
Seconda lettura: Ef 3,2-3a.5-6
Vangelo: Mt 2,12

1. Il significato cristiano della Epifania/Rivelazione


a) Che cosa la Rivelazione non è . La solennità dell’Epifania celebra
la “manifestazione” di Gesù come Salvatore di tutta l’umanità. È la
Rivelazione che non si riduce ad una visione straordinaria, ad una
apparizione soprannaturale o ad una esperienza mistica, sovrumana.
Non è solo un “far conoscere agli uomini” da parte di Dio un
insieme di dottrine, di verità; la Rivelazione tantomeno (non) ri-
guarda le conoscenze sulle cose ‘nascoste e segrete’. Soprattutto non
ha nulla a che fare con la festa della “befana”. La Rivelazione occorre
comprenderla nello stretto legame con la Verità e con l’auto-donarSi
di Dio.
b) Che cosa ci dice la Rivelazione di Se stessa? - La conoscenza/verità
ai giorni d’oggi vuol dire una scoperta raggiunta dalla ragione,
dimostrata con le prove, con gli esperimenti, provata scientificamen-
te; una cosa evidente, sicura, certa razionalmente; riguarda un og-
getto, una cosa che viene sottoposta ai nostri sensi: fisicamente, in
modo visibile, udibile, afferrabile, tangibile.
Benedetto XVI, durante il suo pontificato ha invitato più volte
ad allargare gli orizzonti della conoscenza e mantenere desta la
sensibilità per la verità che non può essere ridotta a quanto sotto-
posto alla ragione umana e all’esperimento, come se fosse per l’uomo
l’ultima istanza per dichiarare e giudicare ciò che è vero o conosciuto
con certezza. Papa Benedetto molte volte sottolineava invece che
esiste una Verità superiore, la quale può essere conosciuta solo se
59
EPIFANIA DEL SIGNORE

Essa stessa si fa conoscere, si rivela o si manifesta. Questo genere di


verità accade nel mondo delle persone, dove una semplice, sperimen-
tabile deduzione o ragionamento, non bastano per conoscere una
persona; deve essere la persona stessa a rivelarsi, a farsi conoscere.
Tale concetto della verità si riferisce pienamente a Dio che si rivela
per amore, donandosi liberamente, comunicandosi, consegnandosi
completamente all’uomo.

2. La Verità che attira e che salva - Nelle letture odierne viene cele-
brata la manifestazione del Signore come il momento in cui Gesù,
un figlio d’Israele, il popolo santo, compie la propria vocazione. È
la festa dell’universalità e di illimitate prospettive, festa di luce e di
gioia perché “le genti sono chiamate in Cristo Gesù a condividere
la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della
stessa promessa del Vangelo” (Ef 3,6).
Il Vangelo di Matteo narra di alcuni Magi che, essendo attratti
dalla verità, hanno cercato e desiderato di incontrare Dio, anche se
non hanno avuto una piena conoscenza di ‘chi fosse veramente quel
Bambino’. Sono un piccolo gruppo di stranieri di cui non si conosce
la patria, che compiono un lungo percorso per incontrare un Re.
Scrutano il cielo, i segni celesti, aspettano qualcosa o qualcuno e si
imbattono in una stella, che li avrebbe condotti a trovare la verità,
il senso, la gloria, la bellezza di Dio. Quel puntino luminoso, quella
stella, che per loro non è una delle tante ma rappresenta un segno
speciale, è sufficiente per porli in cammino. Essi sono mossi da un
segreto desiderio di seguire quella traccia che ha afferrato la loro
mente ed il loro cuore. Partono spinti da un’attrazione, un desiderio,
una passione, accettando di abbandonare tutto pur di arrivare alla
meta, al traguardo, alla ricerca di un evento straordinario che hanno
intuito alzando lo sguardo verso l’alto, verso il cielo. Nel racconto
di Matteo, così essenziale, rischiamo di sottovalutare i “costi” di
questa avventura che li assimila a tutti i credenti. In effetti, il loro
comportamento si può paragonare ad un cammino di fede, perché:
- hanno fatto un lungo viaggio ed hanno faticato tanto;
- hanno coltivato dentro di sé la sapienza, la saggezza;
60
EPIFANIA DEL SIGNORE

- hanno dovuto abbandonare la loro patria, la loro casa (schemi,


abitudini, immagini, senso di stabilità);
- hanno incontrato difficoltà lungo il cammino, per arrivare ad
onorare Gesù, per adorarlo come ‘vero Re’;
- hanno seguito la stella, la luce, trovando in essa una guida, un
aiuto vincendo incertezze e disorientamento;
- sono andati in compagnia di altri, non da soli ma insieme;
- hanno provato la gioia per aver trovato la verità, il senso, la gloria
e la bellezza di Dio;
- con gioia ed umiltà si sono prostrati in adorazione di quel Bambino
per il quale avevano trovato e concentrato le loro forze alla ricerca
di quella verità che supera la ragione e le sue capacità;
- poi hanno affrontato il percorso di ritorno anche se non sono più
come prima, sentono dentro di essere cambiati… Essi sono animati
ora da una gioia che scaturisce da una fede in ricerca.

3. Quale è il significato di questo racconto per noi cristiani? - La


Rivelazione presuppone da parte nostra il desiderio di accedere a
Gesù e riconoscere in Lui il Signore della nostra vita. È il desiderio
che non cessa mai di ricercare Dio attraverso una fede itinerante,
viandante che non si ferma, non si accontenta, una fede perseverante
e coraggiosa. È la nostra semplicità di accogliere Dio anche dove
non sembra essere presente, come i pastori che guardando con la
semplicità hanno riconosciuto la presenza e la rivelazione di Dio
nella figura di un Bambino. È la gioia, la lode data a Dio dopo
averLo incontrato.
La Rivelazione non arriva a chi non cerca, a chi non la vuole
accettare per la pura indifferenza, o a chi la cerca solo per i propri
interessi, oppure a chi perfino la odia. Erode e gli abitanti di Geru-
salemme vivono a pochi chilometri eppure non si sono accorti della
nascita del Messia, ma anche dopo averne ricevuto l’annuncio non
si muovono. Conoscono le scritture ed hanno la capacità di inter-
pretarle, ma non credendo in esse, oppure ritenendole scomode,
allora non trovano la salvezza. Il popolo di Gerusalemme rifiuta il
vero re e si allea con una regalità umana, falsa e violenta, incarnata
61
EPIFANIA DEL SIGNORE

da Erode che è simbolo del potere che cerca di conservare la propria


autorità distruggendo gli altri, visti come concorrenti e nemici.

3. Cosa significa il racconto sui Re Magi per i non cristiani? - In


ogni cuore umano c’è la nostalgia della verità, la ricerca della felicità,
della salvezza, del senso, della finalità della propria vita. Da qui la
certezza che noi cristiani dobbiamo essere tutti missionari, per
portare la buona notizia del Vangelo agli altri, che può significare
l’apertura alla salvezza, l’apertura ad accogliere la verità che viene
loro offerta. Nei loro cuori si può trovare un terreno fertile ed
accogliente. Come i Magi anche noi siamo venuti qui per adorare
la Luce del mondo che brilla nella grotta di Betlemme. Siamo com-
pagni di viaggio di chi cerca Dio, di chi desidera la pace, di chi lotta
per la giustizia.
Impegniamoci ad ascoltare e seguire la Parola di Dio perché sia
luce ai nostri passi, alla nostra vita ed alla vita degli altri. Allora
scopriremo quanto è importante anche la nostra testimonianza per
far “riconoscere Gesù”, per far “cercare e scoprire” Dio.

62
BATTESIMO DEL SIGNORE

Prima lettura: Is 55,1-11


Salmo: Is 12,2-6
Seconda lettura: 1Gv 5,1-9
Vangelo: Mc 1,7-11

1. Il senso del Battesimo di Gesù - La gioia provata nelle solenni


celebrazioni del Santo Natale, durante le quali abbiamo meditato
la nascita di Gesù annunciata dagli angeli, dei Re Magi guidati dalla
stella fino alla mangiatoia a Betlemme, oggi ci fa guardare in cielo
per ascoltare le parole di Dio; narrate dal brano del Vangelo di
Marco: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compia-
cimento”, ci presentano il senso profondo del Battesimo del Signore,
festa con la quale si conclude il tempo di Natale.
a) Nel Battesimo Gesù è vicino all’uomo bisognoso del perdono -
Questo evento rappresenta l’inizio del ministero pubblico di Gesù.
Racconta san Marco che mentre Giovanni Battista predica la neces-
sità della penitenza e della conversione, in previsione della venuta
del Messia, ormai prossima, ecco che Gesù si mette tra il popolo
per essere battezzato. Avviene ciò che a noi sembra incredibile. Gesù
ha bisogno di penitenza e conversione? Sicuramente no, però proprio
Lui che è senza peccato compie questo gesto di penitenza, si unisce
ai bisognosi di perdono, si vuole mettere dalla parte dei peccatori
per mostrare la solidarietà ed esprimere la vicinanza di Dio. Gesù
mostra il Suo sostegno a noi che facciamo fatica a convertirci e ad
abbandonare i nostri peccati. Gesù vuole immergersi completamente
nella condizione umana. Egli ha voluto vivere la debolezza e la
fragilità umana, ha scelto di ‘patire con’ gli uomini per curare le
loro ferite e prendere su di sé i loro peccati. Se il Natale e l’Epifania
ci hanno rivelato il mistero di Dio che nella fragilità di un Bambino
63
BATTESIMO DEL SIGNORE

è venuto ad abitare tra noi, nella festa del Battesimo ci permette di


inserirci in un normale e ordinario rapporto di familiarità con Lui
che rende più raggiungibile a noi esseri umani il cammino da fare
per incontrarLo, per sentirci amati e mostrare la nostra gratitudine.
b) Battesimo come evento di manifestazione dell’identità e della
missione di Gesù - Ovviamente lo scopo del Battesimo di Gesù non
è quello di essere purificato e liberato dal peccato originale – una
condizione di essere separati da Dio, dalla Sua grazia –, ma è segno
della Sua comunione con un’umanità bisognosa di salvezza, quindi
la sua funzione ha uno spessore molto più profondo. Di fronte
all’umile atto di amore da parte del Figlio, “si aprono i cieli” e si
rivela palesemente lo Spirito Santo sotto forma di colomba e una
voce dall’alto comunica il compiacimento del Padre che riconosce
il Figlio unigenito, l’Amato. Nel Vangelo di Giovanni si legge che
è una manifestazione dell’identità di Gesù e della Sua missione che
terminerà con la morte in croce. Dolore e morte renderanno il Figlio
di Dio totalmente Figlio dell’uomo Lo Spirito che discende su di
Lui è stato mandato dal Padre per dare la testimonianza della filia-
zione divina che lo autorizza e lo accredita a compiere la missione
messianica di salvezza. È una manifestazione dello Spirito Santo
che opera continuamente nella vita di Gesù sin dall’inizio, sin dal
Suo concepimento. Egli è il Figlio, Colui che è generato dall’amore
del Padre, l’Amato, Colui nel quale il Padre trova la Sua gioia. Da
questa vocazione scaturisce la missione di Gesù di comunicare la
paternità del Padre.

2. Il Battesimo di Gesù e il mistero della Santissima Trinità nella


nostra vita - Il Battesimo di Gesù è la rivelazione, la manifestazione,
l’attiva presenza della Santissima Trinità, che dà testimonianza della
divinità di Gesù, di essere il Messia promesso, mandato dal Padre
a salvare il Suo popolo. È proprio nel Battesimo che Dio si rivela
come Trinità; il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono meno
coinvolti nell’evento dell’Incarnazione e della nostra Redenzione.
Gesù è il consacrato del Padre e la Sua umanità è diventata il luogo
64
BATTESIMO DEL SIGNORE

dove è possibile incontrare il volto di Dio, scoprirlo come Padre,


ricevere la sua salvezza.
Si potrebbero individuare tre espressioni-chiave nel Vangelo di
Marco che ci rendono possibile di fare una lettura più profonda
del significato del nostro Battesimo.
a) “Vide squarciarsi i cieli…” - Il cielo si apre: è una nuova realtà che
apre nuove forze e ci introduce nel mistero divino. Il cielo si è aperto
per far entrare una nuova vita con la presenza di Dio: una vita
cambiata! Con il Battesimo, con il suo amore, il cielo entra in noi,
la nostra vita è nuova, è trasformata! Abbiamo ricevuto la grazia e
siamo entrati nella vita soprannaturale.
b) “…e lo Spirito Santo che discendeva su di Lui…” - Lo Spirito Santo
che noi riceviamo fa concepire dentro di noi la vita di Gesù. Lo
Spirito Santo, che a volte non valutiamo abbastanza, è Colui che
suscita il desiderio, l’entusiasmo che non verrà mai spento, ma si
evolverà in una forza dinamica che non ci lascerà ad un livello
mediocre, ma farà migliorare il nostro rapporto con Dio, che poi
verrà confermato e rafforzato con la Cresima. Il Battesimo ci rende
figli adottivi di Dio – per grazia di Dio, per il suo Amore gratuito,
senza che l’abbiamo meritato. In tale filiazione divina si rende chiara
l’autentica dignità dell’essere umano.
c) “Tu sei il Figlio mio, l’amato …” - È la voce che risuona dentro
di noi, dal Battesimo in poi, per tutta la vita. Nella Sua missione
Gesù è venuto a noi, si è unito a noi, ci comunica la paternità del
Padre, ci inserisce nel suo rapporto d’amore. Anche noi siamo i figli
di Dio, gli amati in cui Dio ha posto il Suo compiacimento. Con
il Battesimo i credenti sono inseriti in Cristo nella Chiesa e parte-
cipano alla sua triplice missione: sacerdotale, in quanto rende i
cristiani sacerdoti unendoli e innestandoli nel corpo di Cristo e
facendoli partecipare al Suo sacrificio d’amore; profetica, procla-
mando con la parola e con la vita il messaggio di Dio e annunciando
il Vangelo in ogni luogo e in ogni tempo in cui vivono. È un dono
e una responsabilità da assumere di fronte agli altri. Per questo, in
forza del Battesimo, non ci dobbiamo vergognare di presentarci
65
BATTESIMO DEL SIGNORE

come profeti, anzi, mostriamo volentieri il nostro volto di cristiani.


La terza missione dei battezzati è quella regale. Cristo non si è
manifestato come uno che domina, dirige, si impone, ma si è fatto
servo. Assumendo il Primo Sacramento siamo dotati dell’aiuto, della
grazia di essere liberi e gioiosi; esso ci rende capaci, attraverso opere
di carità e atteggiamenti di portare quel bene soprannaturale che
abbiamo gratuitamente ricevuto da Dio Padre per mezzo di Cristo
nello Spirito Santo.

3. Le conseguenze pratiche – i frutti del Battesimo - L’invito della


prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia è principalmente una
esortazione ad ascoltare la Parola di Dio che ci fa vivere: “Cercate
il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino…Perché
i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le
mie vie”. Sono versetti per proteggerci dalla tentazione di aver
imprigionato Dio, è la Parola che, una volta accolta, porterà frutti
buoni nella nostra vita, come la pioggia che irriga la terra. (Is 55,10-
11) A questa chiamata abbiamo risposto con il Salmo: “Attingeremo
gioia alle sorgenti della salvezza”. È un invito ai genitori ad attingere
alle fonti buone, per il bene dei loro figli; a manifestare e testimo-
niare la fede e la gioia di essere cristiani e di appartenere alla Chiesa.
È la gioia di trasmettere ai figli la stessa dignità di cui godono i
genitori stessi e la considerano come tesoro.
Qui si rende attuale e ragionevole un appello ai genitori che non
fanno battezzare i bambini, a quei genitori i quali, a nome di una
falsa autonomia, intendono lasciare loro la libertà di farlo quando
saranno adulti. In questo modo si negano le condizioni essenziali
per la loro vita di grazia, il tesoro dell’Amore di Dio, bene sopran-
naturale. I bambini sono affidati dal Creatore ai genitori perché li
aiutino con responsabilità a crescere, senza ritenerli una loro pro-
prietà da manipolare secondo i propri desideri, ma assumendo il
compito di insegnare loro a riconoscere Dio come Padre, immetten-
doli nella Sua luce e nei Suoi insegnamenti, facendo loro il dono
della ricchezza della vita divina da cui scaturisce la vera libertà di
sentirsi figli di Dio da coltivare e formare accompagnandoli nella
66
BATTESIMO DEL SIGNORE

loro crescita affinché siano in grado di scelte avvedute e prudenti.


Se rinunciano a rimanere uniti a Cristo, Sorgente della salvezza di
cui sono canali per far passare la linfa dell’Amore di Dio, i loro figli
difficilmente godranno i benefici che lo Spirito Santo esercita per
illuminare la mente e scaldare il cuore.

67
TEMPO DI QUARESIMA

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Gn 9,8-15


Salmo 24
Seconda lettura: 1Pt 3,18-22
Vangelo: Mc 1,12-15

1. Introduzione al periodo di Quaresima - Con la celebrazione della


Prima Domenica di Quaresima inizia il cammino verso la Pasqua.
La Quaresima è un tempo di grazia che Dio concede di vivere ai
propri figli; è un’offerta di salvezza per chiunque crede nella Sua
Parola. In questo periodo che dura quaranta giorni siamo sollecitati
a fare un cambiamento del nostro stile di vita, un rinnovamento
profondo del cuore e a saper riconoscere di aver bisogno di Dio e
della Sua salvezza. In questo cammino ci è di aiuto l’ascolto della
Parola di Dio, la disponibilità ad accogliere l’alleanza offerta dal
Signore insieme alla volontà di rinunciare ai nostri criteri ed interessi
di egoismo.
68
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

2. I tre temi principali - Nelle letture di oggi si evidenziano tre temi:


la conversione, la tentazione e il digiuno.
a) La conversione - Il primo tema riguarda la conversione. La con-
versione è un’esperienza incessante che fa parte di tutta la vita ed è
necessaria per coltivare la fede. Non riguarda soltanto i grandi
peccatori che sono lontani da Dio e dalla Chiesa, ma è un’esperienza
continua, fa parte della fede, del credere e consiste in una continua
e perenne intensificazione e rafforzamento della nostra relazione
con il Signore – dunque è rivolta ad ognuno di noi. Coinvolge
sempre di più tutti gli aspetti della nostra vita nel rapporto con Dio,
di unione, di comunione, di miglioramento e purificazione. La
conversione richiede, quindi, di guardare attentamente la propria
interiorità, correggere ciò che potrebbe turbare la fede e la speranza
e, di conseguenza, modificare la propria condotta. Alla fine del
brano del Vangelo di Marco che abbiamo appena ascoltato Gesù
‘chiama’ alla conversione: “Convertitevi e credete nel Vangelo”.
“Convertitevi!” esortò in uno dei suoi discorsi più belli il papa san
Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi ad Agri-
gento, in occasione della sua visita pastorale in Sicilia. Un forte ed
accorato grido lanciato contro la mafia a seguito della strage di
Capaci.
La conversione è collegata alla prima lettura tratta dal libro della
Genesi: “Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco
io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo
di voi»” (Gn 9,8). L’Alleanza è un rapporto di comunione con Dio;
è dinamica, è un cammino. Il percorso simbologico sul tema della
prima lettura (Gn 9,8-15) e della seconda lettura (Pt 3,18-22) riguarda
l’acqua che apparentemente è in contrasto con il Vangelo che parla
di deserto. Infatti anche l’acqua ha un doppio significato: può
rappresentare la distruzione per l’umanità e la salvezza per Noè (1Pt
3,20). È all’interno di questa splendida confessione che Pietro inse-
risce il riferimento al diluvio, quale anticipazione del battesimo
cristiano. Ed aggiunge che l’acqua, come immagine del Battesimo,
mediante il quale siamo stati immersi nella vita di Cristo, è motivo
di salvezza anche per noi.
69
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

In che cosa consiste la forza e l’efficacia dell’acqua battesimale?


Essa, afferma Pietro, è invocazione di salvezza rivolta a Dio in virtù
della Risurrezione di Gesù Cristo. Invocazione che vuol dire pre-
ghiera, domanda, supplica, grido d’aiuto; e questa invocazione nel
Nuovo Testamento. non è possibile senza il dono dello Spirito. È
necessario cercare sempre nella Parola di Dio il suo inesauribile
nutrimento e ispirazione per poter tradurre fedelmente il Vangelo
nella storia. Dunque, in conclusione, l’acqua battesimale simboleggia
la reale presenza dello Spirito: “…e lo Spirito di Dio aleggiava sulle
acque” (Gn 1,-2).
b) Le tentazioni - Il secondo tema riguarda le tentazioni. Il Vangelo
di Marco, a differenza di Mt e di Lc, racconta le tentazioni di Gesù
nel deserto, in modo breve e conciso. Infatti non precisa le tentazioni
in modo particolare, ma invita a riflettere presentando il tempo
passato nel deserto come lungo periodo in cui è tentato da satana,
come prova continua a cui è sottoposto anche il Messia. Appena
battezzato e unto dallo Spirito, Gesù viene spinto dallo stesso Spirito
nel deserto. Il deserto che sembra in opposizione all’acqua perché
può significare disfacimento, può, allo stesso tempo, essere fonte di
forza e di salvezza. Il breve brano del Vangelo ci parla di Gesù tentato
da satana che stava con le bestie selvatiche. Quindi si trovava in una
condizione di pericolo, di frustrazione, di esaurimento, di sete, di
stanchezza, nella solitudine, in preda al dubbio all’angoscia. Gli
angeli Gli portano sollievo, conforto perché lo Spirito è con Lui ed
in Lui.
“Gesù è tentato da satana”. La coscienza della tentazione ci dice
che nella vita il male può essere presente e se cediamo alle tentazioni
vuole dominarci, per cui, a volte, ci opprime, ci seduce, ci trascina,
per far soffrire noi e gli altri. Nelle tentazioni, però, non siamo soli,
siamo aiutati e sostenuti dagli Angeli che Dio ci ha messo accanto
come Suo aiuto. Essi ci danno la forza di lottare ed affrontarle con
più forza, senza paura, grazie anche alla forza della preghiera come
ha fatto Gesù. Gesù è chiamato ad affrontare il male, ma ci insegna
a non averne paura, a coltivare la speranza che lo si può superare
con la forza dello Spirito che abita in noi. Le tentazioni affrontate
70
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

da Gesù ricordano alla Chiesa che nella vita cristiana è presente la


prova della fede ed ogni giorno è chiamata a lottare contro le sedu-
zioni del maligno, sostenuti da Colui che l’ha sconfitto. Restando
uniti a Cristo si può superare la sfida del deserto uscendone anche
fortificati nella fede, nella speranza, nella carità.
c) Il deserto - Il deserto, in senso biblico, non significa solo un luogo
separato, abbandonato, bensì è simbolo di silenzio, di raccoglimento,
di preghiera, meditazione, riflessione, disciplina spirituale, e anche
di fatica, rinunce e privazioni. A volte dobbiamo affrontare molte
e diverse esperienze del ‘deserto’, delle condizioni scomode, pesanti,
dure, ma che tuttavia possono servirci per una crescita, uno sviluppo,
una maturazione spirituale ed un’intima unione con lo Spirito
Santo. La vita quotidiana che conduciamo è molto spesso frenetica,
caotica, disordinata; è il contrario del deserto. Ecco perché, alcune
volte, è necessario cercare il deserto nella nostra vita, nel nostro
cuore, per creare uno spazio all’ascolto della voce del Signore che
ci parla nel silenzio. Questo raccoglimento, questa disciplina spiri-
tuale ci aiuta a riprendere il lavoro e ad affrontare i problemi. Vo-
gliamo ogni tanto ritirarci nel deserto insieme a Gesù per poter
lasciarci rafforzare, unire, pervadere, permeare ancora di più da Lui.
Nello Spirito Gesù annunciava e nello Spirito è stato reso vivo: è
Risorto! (1Pt 3,18). Con lo stesso Spirito che riempie i nostri cuori
vogliamo risorgere anche noi.
c) Il digiuno - Il terzo tema è il digiuno: “Gesù ha digiunato…”. Le
Sacre Scritture e la tradizione cristiana insegnano che il digiuno è
di aiuto per sfuggire al peccato e per questo nella storia della salvezza
ritorna spesso l’invito a digiunare. Gesù spiega la ragione più vera
del digiuno, disapprovando l'atteggiamento dei farisei, i quali osser-
vavano con scrupolo le prescrizioni imposte dalla legge, ma il loro
cuore era lontano da Dio. Il vero digiuno, ripete il divino Maestro,
è piuttosto compiere la volontà del Padre celeste, il quale “vede nel
segreto, e ti ricompenserà”. Gesù stesso ne dà l’esempio rispondendo
a satana dopo i 40 giorni vissuti nel deserto che “non di solo pane
vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Il
71
PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

valore del digiuno non è solo una rinuncia al cibo, che nei nostri
tempi, sembra essere meno comprensibile e meno utile, ma è un
esercizio spirituale e corporale. È un esercizio che ci rende capaci
di regolarsi, ci insegna ad essere liberi da ogni vizio o schiavitù del
peccato; ci rende liberi, padroni delle nostre passioni, dei nostri
movimenti, sensi, desideri, grazie allo Spirito Santo. La Quaresima
è una occasione favorevole per potenziare questa antica pratica per
correggere il nostro egoismo e aprire il cuore all’amore di Dio e del
prossimo. Privarsi del cibo ci aiuta ad ascoltare Cristo e a nutrirci
della Sua Parola di salvezza e ci permette di saziare la fame più
intima e profonda: la fame di Dio. Come scriveva san Giovanni
Paolo II “il digiuno ha come sua finalità di aiutare ciascuno di noi
a fare di sé dono totale a Dio” (Veritatis splendor, 21).
Lo Spirito Santo ci spinge ad essere disponibili (?) dall’indivi-
dualismo, ma liberi e disponibili per gli altri. La presenza dello
Spirito Santo ci insegna ad essere contenti di ciò che facciamo e a
vivere con gioia questo tempo di riflessione sulla passione, affinché
possiamo entrare più in profondo della Sua Pasqua e Risurrezione
– è stato reso vivo nello Spirito! Il cammino penitenziale della
Quaresima è da vivere nel segno della speranza e della pace che ci
ha promesso Dio, il Quale ci viene incontro, il Quale, anzi, è in
mezzo a noi per donarci la Sua salvezza se accogliamo la Sua Parola.

72
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Gen 22,1-2.9.10-13.15-18


Salmo 115
Seconda lettura: Rm 8,31b-34
Vangelo: Mc 9, 2-10

In questa seconda Domenica del cammino quaresimale si individua-


no due significati: il primo è costituito dal tema del sacrificio pre-
sente nella storia di Abramo e della obbedienza fiduciale, il che
raffigura il vero, autentico e assoluto sacrificio di Dio Padre nel Suo
Figlio; il secondo è l’anticipazione attraverso la Trasfigurazione,
l’annuncio della gloria della Risurrezione che vince la morte.

1. La vicenda biblica di Abramo


a) Il racconto del Libro della Genesi: il Dio cruento? - Nella prima
lettura ci viene presentato un episodio dei più intensi e toccanti
della Bibbia. Abramo dopo una lunghissima e fiduciosa attesa di
avere una discendenza a cui trasmettere il nome ed i beni, quando
ormai aveva un’età in cui aveva forse perso anche la speranza, ha
ricevuto da Dio un dono inaspettato: il figlio Isacco. Ora è lo stesso
Dio che incomprensibilmente gli chiede il sacrificio di immolare
questo desiderato e amato figlio. Ad Abramo questa richiesta risulta
incomprensibile, non sa se si tratta di una prova di fede da parte di
Dio, ma comunque possiamo immaginare quanto quel comando
lo avrà sentito come un dolore straziante. La scrittura non fa trape-
lare niente del dramma che sta vivendo quel padre, noi possiamo
solo avvertirlo e parteciparlo e ci sembra che Dio sia troppo severo
e crudele. Non si tratta di una semplice prova, come se Dio volesse
verificare la lealtà di Abramo. Dio non ha bisogno di metterci alla
prova, non intende farci un esame, un controllo perché comunque
ci conosce, ma perché anche noi possiamo imparare ad avere in Lui
73
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

una fiducia illimitata, incondizionata, malgrado i nostri calcoli e le


nostre previsioni.
b) L’obbedienza fiduciale di Abramo - Si tratta di una realtà, di
un’esperienza molto più profonda: qual è dunque il senso di questa
scena, di questa esperienza? Abramo non è un assassino, ma è un
uomo che riconosce che suo figlio Isacco non è sua proprietà e
quindi accetta che suo figlio appartiene Dio e se Dio lo vuole, signi-
fica che la vita e l’esistenza di Isacco sono proprietà di Dio. L’atten-
zione è centrata su ciò che Abramo fa, non su quello che sente dentro
il suo cuore. Infatti egli non ha nessuna incertezza, senza nessun
dubbio, a quel rigido e inflessibile comando risponde con prontezza
preparando l’occorrente per il sacrificio. Questa è la grandezza di
Abramo. Egli ha avuto questo figlio nella vecchiaia, quando aveva
perso la speranza. Tutto quello che Abramo è ed ha sono doni di
Dio. Questo è il messaggio più importante: è l’atteggiamento di
Abramo, la sua disponibilità a sacrificare suo figlio. È proprio in
questa circostanza della sua vita, in questo fiducioso abbandono che
Abramo diventa nostro padre nella fede. Paolo nella lettera ai Ro-
mani scrive: “Egli credette, saldo nella speranza, e così divenne padre
di molti popoli…pienamente convinto che quanto egli aveva pro-
messo era anche capace di portarlo a compimento” (Rm 4,18-21).
Dio ha chiesto ad Abramo di lasciare la sua terra, gli affetti, le sue
radici per intraprendere una viaggio avventuroso e sconosciuto, ora
gli ha chiesto una rinuncia, un sacrificio molto più grande. Dio gli
chiede tutto ma per la sua ferma sottomissione, per la sua fedele
obbedienza Abramo ottiene una promessa, una giuramento solenne
di benedizione per sé e per la sua discendenza: “Io ti colmerò di
benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le
stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare…”.

2. Nella vita umana tutto è dono di Dio


a) Il sacrificio di Abramo come immagine del sacrificio compiuto
da Dio Padre - La storia di Abramo è una storia di fede, la storia di
un credente, il cavaliere della fede, secondo Kierkegaard, che scom-
74
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

mette tutto su Dio. Abramo è capace di rinunciare al proprio figlio


della promessa solo perché Dio gli chiede questa rinuncia, in quanto
Dio per lui è in cima ai suoi desideri, capisce che l'unica sicurezza
della vita è Dio e che prima o poi ci scontreremo col dolore, la
prova, il sacrificio. Ma Dio salva Isacco allorché Abramo giunge al
limite della prova. Questo sacrificio, che Dio non ha voluto da
Abramo, l'ha compiuto egli stesso nella persona del suo Unigenito.
b) Il sacrificio cristiano come atto di affidamento a Dio - Lo stesso
è per noi: ciò che siamo ed abbiamo sono doni di Dio dati in prestito
all’uomo. Le prove dolorose e a volte incomprensibili ci debbono
insegnare ad essere sempre più attaccati a Dio e non ai Suoi doni
anche se fossero per noi molto importanti e preziosi. In altre parole
Dio chiede di essere amato per Sé stesso e non per tutto quello che
ci ha donato. Impariamo ad essere liberi e a saper ridare a Dio ciò
che è Suo: la nostra vita, la salute, la famiglia, i beni materiali e
spirituali, vivendo senza essere attaccati a ciò che abbiamo ricevuto:
“Signore tutti i Tuoi doni sono importanti per me, ma sono libero
di restituirTi ciò che Tu mi richiedi, ciò che è Tua proprietà, ciò
che mi hai dato solo temporalmente, in prestito, ed ho piena fiducia
che ciò che mi chiedi è per il mio bene”. Solo con tale libertà si può
riconoscere che nella propria vita c’è un solo Dio!
c) Il sacrificio del Padre come atto d’amore senza riserve verso l’uomo.
L’Apostolo Paolo nella seconda lettura ci tramanda un inno di
ringraziamento e manifesta tutta la sua gioia e la sua meraviglia per
la salvezza operata da Dio tramite Suo Figlio Gesù Cristo. Suscita
emozione la frase contenuta nel breve brano letto oggi: “Egli non
ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi…”
(Rm 8,31); al contrario di quanto ha fatto con Isacco, Dio Padre è
stato il primo che ha donato il suo Figlio diletto, ciò che Gli è più
prezioso, più intimo, più caro, il Suo maggior tesoro. C’è dunque
un legame tra la prima lettura ed il Vangelo. Alla luce dell’evento
della Trasfigurazione, che è l’anticipazione della Risurrezione di
Gesù, emerge un altro aspetto, cioè quello della generosità di Dio
Padre, della Sua magnanimità. Solo per l’amore, e per la premura
75
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

verso l’uomo e l’umanità intera, Dio dimostra la Sua libertà e di-


sponibilità a rinunciare e ‘dare’ il Suo Figlio Prediletto!

3. Il senso della Trasfigurazione


a) Il Figlio Unigenito – il Dono Supremo di Dio Padre all’umanità
La Trasfigurazione raccontata dal Vangelo di Marco, viene descritta
con l’immagine di un Gesù inondato di luce con vesti bianchissime;
è un evento di cui sono partecipi i tre apostoli più vicini a Gesù:
Pietro Giacomo e Giovanni, i quali provano turbamento e mostrano
sbalordimento e ignoranza per quanto vedono davanti ai loro occhi.
La voce celeste proclama che Gesù è il Figlio amato; il Suo monito
“ascoltatelo!” significa anche “accettatelo!” – ve lo mando, ve lo
offro per la vostra salvezza – viene ad autenticare con un sigillo la
professione di Pietro presso Cesarea (“Tu sei il Cristo”).
Quindi il primo che soffre e patisce per rinunciare e donare il Figlio
è Dio stesso. Dio Padre sacrifica Suo Figlio per noi; ciò che è an-
nunciato al Tabor, e si realizza al monte Calvario, ed è il prezzo del
nostro riscatto.
b) La Trasfigurazione come anticipazione del Mistero Pasquale
Ma questo sacrificio non finisce con una sconfitta, una perdita, con
la morte e con l’annichilimento, ma conduce alla Risurrezione; ed
anche questa è annunciata con la manifestazione della gloria di Gesù
nell’evento della Trasfigurazione. I discepoli non comprendono
subito il significato di ciò che avevano visto né le parole pronunciate
da Gesù di non raccontare a nessuno di quanto avevano vissuto
fino a quando fosse risorto dai morti. Infatti quando Gesù sarà
risorto comprenderanno il senso della Trasfigurazione come un’an-
ticipazione della gloria alla quale Gesù Cristo arriverà attraverso la
Sua passione e morte in croce. La Trasfigurazione è come un annun-
cio dell’ingresso della luce di Dio nella nostra storia che avverrà
pienamente con la Risurrezione.
c) Le nostre esperienze di ‘monte Tabor’ - Anche nella nostra vita
di fede a volte sperimentiamo delle esperienze ‘del monte Tabor’,
quelle che ci portano la consolazione, la luce di certezza, la bellezza
76
SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA

di una scoperta, di una testimonianza, di una presenza che ci con-


forta e rassicura. A questo punto rischiamo la tentazione che ha
avuto Pietro di fermarci per non affrontare più le fatiche, le paure
e le ansie di ogni giorno. Ma i momenti più belli e significativi ci
spingono a percorrere la stessa via del Maestro: la via del rifiuto,
della passione, della morte e della Risurrezione il terzo giorno.
Ricordiamo il film “La passione” di Mel Gibson nel momento della
morte di Gesù sulla croce, la lacrima che scende sulla terra. È la
lacrima di Dio che partecipa alla morte di Chi ha di più caro, più
prezioso, più intimo. Ecco il Dio cristiano è Dio compassionevole
e passibile; presente nella vita del Figlio e dei figli adottivi.
Chiediamo al Signore di darci la forza per imparare ad essere
disponibili, per ridare ciò che ci è stato dato temporaneamente.
Cerchiamo anche di essere consapevoli che nel nostro cammino di
fede dobbiamo accettare di comprendere un po’ alla volta la nostra
maturazione di cristiani sempre vivendo l’obbedienza della fede,
abbandonando la nostra logica e adottando quella di Gesù con
fedeltà e perseveranza.

77
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Es 20,1-17


Salmo 18
Seconda lettura: 1Cor 1,22-25
Vangelo: Gv 2,13-25

Nella terza Domenica di Quaresima appare un tema che unisce tutte


e tre le letture ed è il ‘radicalismo della fede’ almeno in tre suoi
aspetti fondamentali: la totale e personale dedizione, l’aspetto morale
della fede e infine la fede come espressione dello zelo per il progetto
di Dio.

1. Il radicalismo della fede come atto del totale coinvolgimento


In primo luogo è bene spiegare cosa vuol dire ‘radicalismo’. Di
sicuro non è confondibile con nessun tipo di fanatismo, di fonda-
mentalismo, né tantomeno con il proselitismo, ma si definisce come
un atteggiamento di fronte a Dio che si esprime nella piena totalità
e coerenza ed abbraccia tutta la vita, non conosce condizioni e
riserve, non è parziale, né un’aggiunta. Il radicalismo vuol dire il
pieno coinvolgimento nel piano di Dio; la perfetta radicalità si
percepisce in Gesù, come veniva raccontata nel Vangelo della Prima
Domenica di Quaresima, quando nel deserto, seguendo la missione
affidatagli da Dio, è sottoposto a dure prove e tentazioni che aveva
superato nell’incrollabile fiducia e vicinanza con il Padre. In modo
analogo pure nella seconda Domenica di Quaresima, dove traspare
la radicalità del sacrificio richiesto ad Abramo in cui si intravede la
salvezza operata da Dio compiuta in Gesù Cristo. Egli infatti non
aveva risparmiato dall’obbrobriosa morte in croce il Suo unico
Figlio, come invece aveva trattenuto la mano di Abramo.

2. La dimensione morale della fede radicale


a) Il radicalismo della fede e i Comandamenti di Dio - Nella prima
78
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

lettura tratta dal libro dell’Esodo sottolineiamo il radicalismo della


fede nel senso etico-morale, in quanto si verifica nel rispetto e nella
prassi del sistema dei valori non-negoziabili, presenti nella legge
naturale e nella Legge divina. Alla fede appartiene l’assunzione della
legge data da Dio e l’osservanza da parte nostra dei ‘Dieci Coman-
damenti’, che non sono amari precetti da praticare per soddisfare
Dio, non sono un insieme di norme, leggi, doveri, impegni e respon-
sabilità dure da seguire, ma sono un dono che ricorderà sempre a
Israele di essere popolo di Dio, chiamato ad una libertà impegnativa
che si fa servizio a Dio e ai fratelli e servono per il nostro bene,
come parola d’amore e di premura da parte di Dio per noi. Tale
radicalismo della fede si rende palese nella seconda lettura tratta
dalla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi nella quale l’Apostolo
annuncia la croce come unico mezzo di salvezza e testimonia l’ardore
dell’annuncio, il coraggio di essere presi per Cristo e raccomanda
di evitare di comportarci da stolti o scandalosi quando Lo ricono-
sciamo con parole ed opere davanti al mondo. In definitiva la fede
radicale, integrale e coerente si traduce nell’amare la legge di Dio.
b) La tentazione di stabilire da soli le ‘nuove leggi’ - Ai giorni d’oggi
purtroppo, assistiamo ad un cambiamento, ad un rovesciamento di
alcuni valori fondamentali: l’uomo vuole cambiare le leggi di Dio,
vuole decidere secondo i propri criteri dov’è il bene e dov’è il male.
È una seduzione che è più che visibile anche nella vita della Chiesa,
dove il tentativo di de-centralizzazione ha toccato in modo sbagliato
la dottrina e la morale. Basta pensare alle recenti parole del cardinale
Caffarra che ha scritto nella lettera al Pontefice che “ciò che è rite-
nuto male in Polonia, in Germania è considerato bene, ciò che è
proibito nella diocesi di Filadelfia, è ammesso a Malta”. Di conse-
guenza l’uomo moderno propende a sacrificare la propria esistenza
agli idoli del successo e della ricchezza e intende prospettare la sua
vita a prescindere dal senso del dovere, adottando una condotta di
permissivismo. Inoltre si assiste alla difficoltà, dovuta ad una certa
superficialità di distinguere tra il profano e il sacro. La conseguenza
è un atteggiamento scontato, prevedibile, ordinario dal quale risulta
la difficoltà di sentire il “Sacrum”. A volte veniamo trascinati da
79
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

correnti di moda, non vogliamo rischiare di essere diversi, non


desideriamo essere presi in giro quando non ci conformiamo al
mondo, ma dimostriamo di essere fedeli a Gesù.

3. La fede radicale e lo zelo per le ‘cose’ di Dio


a) Lo zelo per il Tempio di Dio nella Bibbia - Nel Vangelo scopriamo
il terzo aspetto della fede radicale. La frase cruciale che lo evidenzia
è: “lo zelo per la tua casa mi divorerà” (Salmo 69). L’evangelista
Giovanni nel brano di oggi ci presenta una scena sconvolgente che
non rispecchia il solito comportamento di Gesù. In questo episodio
Gesù ha una reazione violenta, di forte ribellione, quando si accorge
che il Tempio, cioè “…la casa del Padre mio…” era diventata un
mercato. Il significato profondo dell’intero brano evangelico è
espresso nelle parole di Gesù: “Non fate della casa del Padre mio
un luogo di mercato”. È da ricordare che il Tempio si prestava ad
abusi; poteva diventare facilmente luogo di mercato. Nel suo recinto
infatti erano venduti gli animali che dovevano essere immolati in
sacrificio. Inoltre i denari per pagare la tassa del Tempio venivano
cambiati dai cambiavalute, i quali ne approfittavano per ottenere
piccoli vantaggi. Già il profeta Geremia aveva rimproverato i sacer-
doti del suo tempo per il fatto che il Tempio era stato ridotto a
spelonca di ladroni (Ger 7,11). Il profeta Malachia aveva annunziato
l’intervento di Dio nel Tempio tramite un forte castigo per gli abusi
nel culto (Ml 3,1). Il profeta Zaccaria aveva predetto che nel giorno
ideale del Signore tutto sarebbe stato santo in Gerusalemme e che
non ci sarebbe stato “più nessun mercante nella casa del Signore
degli eserciti” (Zc 14,21). Egli parla di un futuro Tempio aperto al
mondo intero, costruito con la venuta del Messia. Gesù si inserisce
nella scia dell’atteggiamento profetico. La sua azione purificatrice
del Tempio e le sue parole sono significative. Esse tendono a rendere
il Tempio luogo di Dio e non di mercato, e preannunziano l’inau-
gurazione di un altro Tempio. I giudei pensarono che egli si riferisse
alla ricostruzione.
b) Quale ragione di questo zelo? - Lo zelo di Gesù si traduce nell’amo-
re, nel rispetto, nell’onore, nel fervore, nell’ardore, per le ‘cose’ del
80
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

Padre. Ogni luogo e ogni evento dove Dio si rende presente è sacro:
nella creazione in tutta la sua bellezza, ma in modo particolare nei
luoghi dove Lui si fa presente in modo sacramentale e interviene
concretamente e in modo preciso nella storia per operare la salvezza
dell’uomo. Prima era il Tempio, ora è la Chiesa (realtà divino-uma-
na), che oltre le mura di diverse dimensioni o diversa importanza,
è una comunità animata dallo Spirito Santo; presenza sacramentale
= luogo sacro. Questo intendeva Gesù: dov’è presente Dio è un luogo
sacro dove non si può tollerare un comportamento che sia di mercato
e che può offendere la sua sacralità, qualsiasi tipo di atteggiamento
che disprezza, distrugge o offende la presenza del Padre. Una fede
radicale si vive tramite il nostro senso profondo di rispetto, di stima,
di adorazione di fronte al Sacro, alla Presenza del Mistero nei vari
luoghi o momenti segnati, pervasi e impregnati da Dio. Questo
senso del sacro richiede adorazione, ammirazione, raccoglimento e
timore anche nella Chiesa che non si deve ritenere un luogo comune
come fosse un museo, una mostra ecc.

4. Il Nuovo Tempio alla luce della Risurrezione - Avendo spiegato


(il) perché Gesù non poteva tollerare che il posto sacro fosse degra-
dato e che perdesse la sua sacralità, tuttavia di fronte al Suo zelo,
sembrava strana l’affermazione: “Distruggete questo tempio e in tre
giorni lo farò risorgere”.
Che cosa voleva dire? Sicuramente non intendeva in modo letterale
la distruzione dell’edificio, ma erano parole profetiche con le quali,
come scrive Giovanni, egli si riferiva ad un altro tempio: si riferiva
a Se stesso, al Suo corpo che sarà ricostruito in tre giorni con la
Resurrezione; “voi mi ucciderete, ma io costruirò un nuovo tempio,
una nuova casa”. In secondo luogo, questa nuova casa di Dio è
costruita anche dal corpo umano, dalla vita umana; la vita è sacra
e inviolabile, indipendentemente da come possa svolgersi. Come
dice san Paolo: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito
di Dio abita in voi?”.
Perciò ogni vita umana è sacra, deve essere protetta e preservata
da ogni degradazione, disprezzo, danno. Siamo chiamati a stimare,
81
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

rispettare il nostro corpo, la nostra vita e quella degli altri come


“sacra”. Lo zelo di Gesù verso il tempio, che è il nostro corpo/vita
si traduce nella diligenza, fervore, ardente desiderio di salvare, pro-
teggere, preservare, difendere la nostra vita, la nostra esistenza da
ogni male che de-sacralizza la nostra identità, il nostro “santuario”:
noi che siamo il tempio/la dimora di Dio. Egli ci difende da tutto
ciò che fa male, a noi e agli altri e a Dio che vive in noi. Gesù con-
tinua, anche oggi, nella storia, a cacciare i brutti e i cattivi pensieri
di disperazione, rassegnazione, odio, gelosia, pregiudizi che ci avve-
lenano il cuore, perché facilmente possono danneggiare la sacralità
della nostra esistenza. Ci mette in guardia dalle parole offensive e
dalle opere non degne della nostra vocazione, in quanto potrebbero
profanare la santità del nostro essere il Suo Tempio.
Il suo zelo è continuo ed operante in noi per purificarci, per
richiamarci alla necessità di un rinnovamento interiore, e ad una
liberazione del cuore dagli interessi terreni per una relazione auten-
tica con il Signore. Nel silenzio e nella preghiera verifichiamo se la
nostra fede è autentica e chiediamo al Signore di guidarci sulla via
della vita.

82
QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: 2Cr 36,14-16.19-23


Salmo136
Seconda lettura: Ef 2,4-10
Vangelo: Gv 3,14-21

1. La gioia poggia sulla misericordia di Dio - Il tema centrale di


questa Domenica di Quaresima è la gioia, perché Dio ci manifesta
il Suo vero volto, la Sua identità: “Dio di misericordia”. Un Dio
che ama, che dona e sacrifica Se stesso. Forse per noi è una cosa
ormai scontata, ma nella storia delle religioni si sono prodotte
tante immagini di Dio, più che altro riferite all’immagine dell’uo-
mo; anche la filosofia ci offre un concetto di Dio potente, supremo,
sovrano, assoluto e di fronte alla questione del male lancia la sfida:
o Dio è buono ma non onnipotente, o è onnipotente ma non
buono.
Sorge comunque l’interrogativo: che cosa vuol dire misericordia
nell’ottica della Rivelazione cristiana? Il concetto della divina mise-
ricordia è molto profondo, proviene dall’Antico Testamento (Réha-
min) che vuol dire “le viscere”, cioè il seno, il grembo materno e
indica una relazione di profonda unione, comunione e intimità,
come quello tra madre e figlio; così come pure si esprime il senti-
mento di amore ineffabile, di profondo affetto tra due esseri umani.
Oggi, purtroppo, si rischia di abusare di questo termine; a volte
viene messo in contrasto con la giustizia di Dio. Ma tra misericordia
e giustizia non c’è opposizione, perché la misericordia è il compi-
mento della giustizia e poggia sulla giustizia, in quanto quest’ultima
è necessaria per la misericordia.
La giustizia infatti significa l’assoluta fedeltà di Dio all’uomo.
In modo simile l’atteggiamento dell’uomo che riceve il dono della
misericordia, richiede la fedeltà a Dio e al prossimo, perciò allonta-
nandosi da Dio, respingendo la Sua vicinanza, fa male a se stesso.
83
QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

Infine, la misericordia di Dio, non ha nulla a che fare con permissi-


vismo, buonismo, filantropia o eccessiva indulgenza ma è un appello
all’uomo per una continua conversione e conformazione a Cristo! È
un appello a dare una responsabile e seria risposta ad un Amore che
non si impone, ma si propone. È evidente che l’obiettivo di ogni
lettura della storia cristiana non è il criterio del successo ma della
croce. Alcune caratteristiche del vero significato della misericordia ci
sono manifestate dall’aspetto e dalla forma dell’amore di Dio che ci
vengono ricordate in tutte e tre le letture dell’odierna liturgia.

2. Il contesto storico – biblico - Nella prima lettura tratta da un


brano del libro delle Cronache viene descritta la riflessione del
popolo di Israele che riconosce che la vera causa dell’esilio babilonese
non era la conseguenza della sconfitta militare, ma dovuta, piuttosto,
all’ostinato peccato del popolo, sordo ai ripetuti, amorevoli e com-
passionevoli richiami di Dio. Infatti Israele aveva voltato le spalle
al Suo Dio, aveva trasgredito la sua legge divina ed aveva ignorato
con cinico disprezzo e con una continua e perseverante infedeltà i
vari e ripetuti appelli, gli ammonimenti trasmessi tramite i profeti,
gli incessanti inviti alla conversione. A questo punto, si è reso ne-
cessario un rimedio, un castigo che è come un atto d’amore da parte
di Dio che corregge i suoi figli affinché possano ritrovare la strada
giusta. Nonostante il duro periodo dell’esilio il popolo di Israele
ha la possibilità di intravedere la speranza di una nuova vita e ciò
avviene tramite il re persiano Ciro, strumento della misericordia di
Dio verso Israele il quale permetterà la ricostruzione del tempio e
il ritorno in patria. Questa lettura può aiutarci a leggere la storia
con la stessa profondità e verità ed inoltre farci riflettere sul rischio
che a volte corriamo di rimproverare Dio per le omissioni dell’uomo
Alcuni vedono, invece, contraddizione tra la misericordia e l’ira di
Dio. Nella storia biblica, l’ira di Dio, è un linguaggio simbolico,
analogico che non è paragonabile all’ira umana che cerca la vendetta,
la punizione, ma esprime la passione, lo zelo, la passione di Dio
per salvare l’uomo e rimetterlo sulla retta via.

84
QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

3. La misericordia in san Paolo - Nella seconda lettura san Paolo


scrive agli Efesini: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore
con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha
fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati” (Ef 2,4).
Già da queste prime righe ci viene rivelato un amore incondizionato
e il dono di una salvezza che viene dalla grazia e non da alcun merito
umano. Questo immenso amore e indescrivibile dono della salvezza
san Paolo lo spiega ancora più precisamente: “Per grazia infatti siete
salvi mediante la fede”. La salvezza è esclusivamente iniziativa di
Dio ed è offerta a chiunque crede alla ricchezza della Sua misericor-
dia e del Suo amore, ma ci viene anche ricordato che la fede, resa
operosa dalla carità e dalle opere buone, diventa espressione di
un’autentica vita cristiana. La lettera agli Efesini ci ricorda che siamo
chiamati a vivere con frutto nel mondo, consapevoli dell’amore e
della misericordia che abbiamo ricevuto da Dio. Da questa certezza
di essere amati fino all’inverosimile, saremo capaci di affrontare e
superare momenti di crisi, di difficoltà e di dolore.

4. L’amore misericordioso - Anche il brano del Vangelo di Giovanni


ci mostra la misura dell’amore di Dio per gli uomini mediante il
segno per eccellenza che è il dono del Suo stesso Figlio con il suo
“innalzamento” sulla croce. E qui si rivela chiaramente la missione
di Gesù: la croce come manifestazione dell’amore salvifico di Dio;
affinché ogni credente possa avere la vita eterna si è dovuto arrivare
al sacrificio della croce. Ecco un aspetto ed una forma dell’amore
di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Suo figlio unigenito
perché chiunque crede in lui non vada perduto ed abbia la vita
eterna” (Gv 3,16). La misericordia si manifesta attraverso il fatto che
questo amore non conosce i limiti e come diceva san Giovanni Paolo
II: “Il limite dell’amore è l’amore senza limiti!” Si manifesta anche
attraverso la sovrabbondanza, la gratuità, l’eccedenza la pazienza di
cercare ogni uomo, attraverso la ricerca dell’intimità, della condivi-
sione piena del destino e della storia dell’uomo: “Dio, infatti non
ha mandato il figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché
il mondo sia salvato attraverso di lui” (Gv 3,17). Chi pensa che Dio
85
QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

sia un giudice severo che castiga, sbaglia; semmai è l’uomo che castiga
se stesso peccando e fa male a se stesso quando si allontana da Dio
o Lo rifiuta. Dio ama il mondo di un amore smisurato e per questo
ha mandato nel mondo il Suo Figlio che è diventato uomo proprio
per mostrare agli uomini in modo chiaro ed evidente l’amore del
Padre, la Sua misericordia, il Suo disegno di salvezza, di gioia e di
pace. Per questo il Figlio accetta il pericolo di essere rifiutato, si
rende disponibile a farsi giudicare e condannare e non ha paura di
offrire la Sua stessa vita. A questo punto ci si domanda se è possibile
rifiutare questo Dio che ci offre la tenerezza e la possibilità del
perdono. In definitiva chi sceglie di non credere nel Figlio di Dio
si condanna da sé e rifiuta la salvezza che gli viene offerta. L’evan-
gelista Giovanni, descrivendo gli effetti della salvezza compiuta da
Gesù, riprende il contrasto luce-tenebra (come già nel prologo del
Vangelo). In pratica avviene una divisione tra coloro che decidono
per la luce e coloro che preferiscono le tenebre. Escludersi dall’amore
e dalla salvezza è una terribile responsabilità, mentre accettare la
luce vuol dire abbandonare ogni sentimento di rivalità e di medio-
crità e di supremazia che inquinano la vita quotidiana; significa
diventare più umili e benevoli. La singolarità su cui si basa la fede
cristiana è la passione e la morte di Gesù che non rappresentano un
incidente di percorso, ma la strada che Dio ha scelto per arrivare
all’uomo per liberarlo dal male introducendolo in una vita nuova.

86
QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Ger 31,31-34


Salmo 50
Seconda lettura: Eb 5,7-9
Vangelo: Gv 12,20-33

1. Chi è Dio? - In questa quinta Domenica di Quaresima con la Parola


di Dio che abbiamo appena ascoltato siamo invitati a riflettere su
quale immagine di Dio abbiamo dentro di noi, e ci viene offerta
l’opportunità di verificare chi è veramente Dio nella nostra vita, di
capire se è per noi un padrone a cui obbedire che ci impedisce di
realizzare i nostri desideri, che ci fa sentire i sensi di colpa, oppure è
Colui che si dona e si offre come l’unica verità, come l’unico progetto
di vita. Siamo anche stimolati a meditare sui sentimenti di Gesù, sul
Suo stato d’animo di fronte alla Passione, vissuta come conclusione
e compimento della Sua missione. La Parola di Dio non richiede solo
il nostro ascolto ma anche la meditazione per far entrare dentro di
noi l’evento passato o il contenuto oggetto del messaggio che ci viene
offerto, cioè interiorizzare, rendere nostro quel messaggio o quell’evento.

2. Dio si presenta per mezzo del profeta Geremia - Nella prima lettura
ci viene proposto uno straordinario brano del profeta Geremia in
cui Dio promette una nuova alleanza con Israele. L’insuccesso dell’al-
leanza conclusa al Sinai, a causa delle continue trasgressioni, sta a
dimostrare che il popolo aveva voluto allontanarsi dalla legge di Dio.
Per questo il profeta Geremia annuncia un evento straordinario che
va oltre ogni immaginazione: la legge di Dio non sarà più scritta su
tavole di pietra, ma su tavole di carne: “Porrò la mia legge dentro di
loro, la scriverò sul loro cuore”. Questa profezia viene comunicata
in uno dei peggiori momenti della storia di Israele: Geremia è stato
inviato da Dio per annunciare la rovina del regno di Giuda e il
prossimo esilio. Infatti egli appare come un uccello del malaugurio,
87
QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

ma quando la profezia si è compiuta verrà trasformato in profeta di


speranza e di consolazione. Dio promette un futuro di restaurazione
e di salvezza che sono umanamente impensabili. Dio stesso entra
nell’uomo irradiandolo con la sua grazia; sarà Lui stesso a svelarsi al
cuore dell’uomo e a sostenerlo perché non abbia a cadere nell’infedeltà.
Il brano termina con le parole: “poiché io perdonerò la loro iniquità
e non ricorderò più il loro peccato”. Dio dichiara così un perdono
che eliminerà, cancellerà il peccato sradicandolo dal cuore dell’uomo.
Ecco la grande misericordia di Dio verso l’uomo! Egli rinnova il
cuore in cui imprime la Sua volontà. La nuova alleanza avrà un
‘mediatore superiore’ a quello dell’antica, stipulata tramite Mosè. Così
abolisce l’antico sacrificio degli animali con il sacrificio finale e per-
fetto di Gesù che ha preso su di sé i nostri peccati.

3. La gloria di Dio svelata nel Figlio e nella vita della Chiesa -


Nel Vangelo di oggi l’Evangelista Giovanni ci presenta Gesù che
arrivando a Gerusalemme viene accolto dalla folla in modo festoso
e trionfale. Tra tutta questa gente si trovano anche alcuni greci
(pagani) che chiedono a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù”. Il “vedere”,
che per gli ebrei significa “alleanza”, nella cultura greca, non è un
vedere solo con i sensi, con la vista, con lo sguardo, ma significa
“incontrare”, conoscere, credere in chi poteva spiegare il senso della
vita. Quindi la loro richiesta non è solo per pura curiosità o interesse,
ma il desiderio di lasciarsi continuamente incantare dal mistero, dal
fascino della vita, della storia, del destino, del compimento, dell’av-
venimento, come mosaico della propria storia, con il desiderio di
penetrare sempre più in profondità nel mistero di Cristo. A questa
domanda Gesù risponde in modo che appare strano, che sembra
ignorare il loro desiderio, in realtà Gesù non si sottrae a quei fore-
stieri ma fa loro capire che per vederlo è necessario seguirlo sulla
via del dono di sé. La risposta di Gesù è un colloquio con il Padre:
“È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. Egli ci insegna
non soltanto proclamando, ma anche e soprattutto con ciò che vive
umanamente. La Sua esperienza umana è il luogo della Rivelazione
e della Gloria di Dio. Gesù, infatti, fa capire loro che quello che
88
QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

vedranno è la gloria di Dio: gloria manifestata nella Sua morte,


gloria come dimostrazione dell’Amore, della Misericordia di Dio.
Ma la gloria e l’Amore di Dio non tolgono il turbamento e la paura
a Gesù. Il brano del Vangelo ci presenta Gesù nel momento del
turbamento, dell’angoscia e della paura. Si sta avvicinando il tempo
del compimento della missione della sua vita, della sua glorificazione:
"l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre salvami da quest’ora?
Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!”. La Sua morte in
croce salverà gli uomini dal peccato con una donazione completa
di sé. Spezzando la Sua vita per amore, la Sua vita si consumerà
come il chicco di grano che deve morire per portare molto frutto,
il frutto dell’eternità. Con questo esempio Gesù illustra il senso
profondo della Sua passione imminente, quale sorgente di vita
attraverso la morte: la Sua morte offerta per amore avrà anche la
forza di attrazione: “E io quando sarò innalzato da terra attirerò
tutti a me”. In tale affermazione si manifesta la fecondità del dono
totale di Cristo sulla croce; separando la luce dalle tenebre, attirerà
coloro che già vivono nella luce, la croce di Cristo allontanerà coloro
che hanno preferito le tenebre. Gesù realizza la volontà e il progetto
di Dio: salvare ogni uomo e tutta l’umanità. Senza Gesù non c’è
redenzione. La morte e la risurrezione di Gesù hanno valore univer-
sale anche per coloro che non lo conoscono chiaramente, ma che
lo cercano come quei greci. Per “vedere” Gesù dobbiamo seguirlo
sulla via del dono di Sé e possiamo anche fare un percorso in cui
abbiamo numerosi “segni”: la Sua Parola che accogliamo come
un’eredità preziosa, viva, capace di rafforzare e guidare la nostra
vita; i santi Sacramenti ed in particolare l’Eucaristia; la comunità
cristiana che, come ci ricorda Gesù “là dove sono due o tre riuniti
nel mio nome io sono in mezzo a loro”; i fratelli che incontriamo
sulla nostra strada che diventano il nostro “prossimo” da amare e
servire; le opere di carità verso chiunque ha bisogno di qualsiasi
tipo del nostro aiuto.

4. La gloria di Dio manifestata nell’assunzione della morte e nella


vittoria su di essa - Anche nella lettera agli Ebrei viene descritto il
89
QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA

turbamento e l’angoscia che ha provato Gesù durante la terribile


prova della passione: “Cristo nei giorni della sua vita terrena, offrì
preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, a Dio che poteva
salvarlo da morte e, per il suo abbandono a lui, venne esaudito”.
Potremmo affermare che umanamente sono esperienze da evitare,
ma Gesù ha perseverato nella preghiera, nell’abbandono fiducioso
e nella totale obbedienza alla volontà del Padre. Imparando da Gesù
e meditando su come ha affrontato l’angoscia dell’imminente pas-
sione, vivendo l’esperienza del buio, del turbamento, della paura,
possiamo trarne esperienze creative, costruttive, di valore, utili, anzi
necessarie, affinché anche nella nostra vita possano avere un’efficacia
positiva, salvifica, motivo di salvezza se queste esperienze le viviamo
e le affrontiamo con la fiducia e l’abbandono totale a Dio proprio
come ha fatto Gesù. La supplica di Gesù viene esaudita in maniera
che supera la ragione umana perché il Padre non l’ha scampato dalla
morte, ma ha fatto sì che morendo ha distrutto la morte e con la
Risurrezione è divenuto strumento di salvezza. Dio Padre lo ha
elevato alla sua destra e lo ha costituito Signore dei vivi e dei morti.
Dal turbamento e dalla paura provata da Gesù possiamo trarre un
fondamentale significato: imparare l’obbedienza e dare il primato
alla volontà di Dio. Il dolore dell’individuo può avere l’efficacia
positiva/salvifica per gli altri. Anche noi siamo chiamati ad essere
strumenti di salvezza, capaci come il chicco di grano che deve marcire
nel grembo della terra per portare un abbondante frutto.
La gloria di Dio si rivela nella nostra disponibilità e capacità di
morire a noi stessi, avendo coraggio e fiducia, a lasciarci spezzare
per diventare pane per gli altri. In questo modo il Signore ci prepa-
rerà una vita nuova di eterna comunione con Lui, dove neanche la
paura della morte ha più potere sui credenti. Quanto più siamo
capaci di superare il ripiegamento su noi stessi e vivere per il pros-
simo anche a costo di rinunce e sacrifici, tanto più la vita diventa
più piena e splendente della gloria di Dio. Partecipando alla sorte
di Gesù, la vita è pienamente realizzata. Senza Gesù non c’è fiducia,
conforto, speranza, valori.

90
SETTIMANA SANTA

DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Is 50,4-7


Salmo 21
Seconda lettura: Fil 2,6-11
Vangelo: Mc 14,1-15.47

1. L’introduzione alla Settimana Santa - Con la Domenica delle


Palme inizia la Settimana Santa in cui, insieme a tutta la Chiesa si
celebrerà il mistero della nostra salvezza che culminerà con il Triduo
Pasquale e con la vittoria del Risorto sulla morte. In questa solenne
Liturgia la Chiesa proclama il racconto della Passione di Gesù in
tutta la sua drammaticità e ci introduce nella disposizione spirituale
per vivere questi giorni al seguito di Gesù. Come mai iniziamo la
91
DOMENICA DELLE PALME

Settimana Santa meditando con attenzione la Passione di Cristo?


Perché i primi cristiani, autori e testimoni della Chiesa primitiva
volevano evidenziare la caratteristica essenziale della figura del Messia
attraverso il racconto degli eventi storicamente documentati inerenti
la Passione di Gesù. Inoltre, nel contesto di quell’epoca, nelle tradi-
zioni giudaiche ispirate dall’Antico Testamento esistevano varie im-
magini, varie attese del Messia: politico, liberatore, maestro,
rivoluzionario, apocalittico, che corrisponde ad un’immagine umana.
Il Vangelo, invece, evidenzia la vera, autentica caratteristica di Gesù
Cristo: una caratteristica fondamentale, nuova ed originale: il Messia
atteso, aspettato è già venuto ed è apparso sotto il segno della Passione.

2. La figura del Messia nell’Antico Testamento e nella fede post-


pasquale della comunità dei credenti - Oggi, l’identificazione, l’im-
medesimazione di Gesù di Nazareth e del Messia promesso viene
interpretata e spiegata in due modi:
a) Le profezie dell’Antico Testamento sul futuro Messia - Alla luce
delle promesse dell’Antico Testamento e delle profezie di Isaia che
oggi sono state proclamate nella prima lettura viene presentata la
misteriosa figura dell’Innocente che realizza la sua vocazione nella
mitezza e nella pazienza, nella quale i primi cristiani non hanno
avuto difficoltà a riconoscere Gesù e la Sua missione di Servo sof-
ferente: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a
coloro che mi strappavano la barba”. Il compimento di quella pro-
fezia, che annunciava un Messia totalmente diverso da quello atteso
dai giudei, è proprio Gesù, nel momento così scandaloso della sua
passione e morte in cui veniva deriso, rifiutato, abbandonato da
tutti, compresi i discepoli. “…il Signore Dio mi assiste, per questo
non resto svergognato…”.
b) L’interpretazione neotestamentaria del vero Messia - Queste parole
descrivono con sorprendente realismo il modo in cui Gesù ha af-
frontato la passione, nel segno di un assoluto affidamento al Padre.
La sicurezza di non restare confuso, la fedeltà alla via indicata da
Dio e accolta fin dall’inizio, conducono lucidamente e liberamente
92
DOMENICA DELLE PALME

verso la morte. La croce non è voluta da Gesù, ma la Sua missione


non lasciava spazio per un’altra conclusione all’infuori di un crudele
rifiuto: tutti i suoi interventi di guarigione e di liberazione durante
il ministero pubblico, i continui scontri con le autorità religiose
che lo vogliono eliminare, i malintesi e la difficoltà di comprensione
dei discepoli, che arrivano a tradirlo e a rinnegarlo, lo portano senza
scampo verso il Calvario. Comunque Gesù non subisce gli eventi
indifeso, ma cosciente di offrirsi liberamente assumendo su di Sé i
nostri peccati. La sua coscienza e l’incondizionato affidamento al
Padre rendono la sua faccia dura come pietra, cioè con la totale
convinzione di donarsi per la salvezza degli uomini Ma questa figura
non è stata capita dal popolo, anche se era presente nell’Antico
Testamento, forse perché nessuno poteva immaginare fino a che
punto potesse arrivare l’amore di Dio per l’umanità.
c) La comprensione post-pasquale del mistero di Gesù da parte della
comunità primitiva dei cristiani - Alla luce della fede post-pasquale
san Paolo compone questo inno cristologico che invita alla lode, alla
contemplazione e alla celebrazione del Signore Gesù che: “pur essendo
nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando
simile agli uomini”. La Passione è una libera scelta e decisione del
Figlio di Dio di rinunciare a Se stesso e che non esita a “svuotarsi”
per assumere la nostra condizione umana con le sue pene e sofferenze.
La Sua morte di croce rappresenta il punto estremo a cui arriva l’Amo-
re divino, un amore smisurato che avvolge l’uomo in un abbraccio
senza limiti di tempo e di spazio per innalzarci accanto a Sé. “Per
questo Dio lo esaltò (…) e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il
Signore a lode e gloria di Dio Padre” (Fil 2,6-11). Nella forma della
lode ogni fedele è chiamato ad ammirare nella passione e nella morte
di croce il mistero di un Amore infinito ed eterno. All’obbedienza
sacrificale del Figlio segue la risposta glorificatrice del Padre, cui si
unisce l’adorazione da parte dell’umanità e del creato.

3. Il cristianesimo è una religione che elogia la sofferenza? - Non


mancano le obiezioni da parte degli altri, che si domandano: perché
93
DOMENICA DELLE PALME

il nucleo della fede e della religione cristiana è così centrata sul tema
della sofferenza, della croce e della morte del Figlio di Dio? Per
molti la religione che gira intorno al simbolo della croce può piut-
tosto scoraggiare, rassegnare, anziché attirare e avvicinare, dare la
sensazione di essere più repellente che attraente. In realtà, però, in
Gesù e nel cristianesimo, non si tratta dell’apoteosi, dell’esaltazione
della sofferenza e della morte. Al centro del messaggio cristiano non
sta la morte e la sofferenza, ma l’Amore verso cui la sofferenza, la
passione rimanda, l’Amore che include il dolore. L’evangelista Marco
sottolinea che la gloria di Gesù è stata manifestata attraverso la
passione e non malgrado la passione.
Sul piano umano Gesù viene consegnato come vittima inerme
nelle mani delle autorità e subisce l’infamante pena della crocifissione
che doveva sradicare ogni attesa messianica nutrita nei suoi confronti.
Nella preghiera presso l’orto degli Ulivi, nel Getsemani, l’Evangelista
Marco racconta tutto lo sgomento e la sofferenza che Gesù vive in
prossimità di quello che sta per succedere. Questo turbamento,
pienamente umano fa sentire a Gesù il bisogno di avere accanto i
tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, testimoni della sua Tra-
sfigurazione sul monte Tabor, affinché gli siano vicini nei terribili
momenti della paura e dell’angoscia. Essi però non riescono a restare
svegli probabilmente perché non erano capaci di vivere ed entrare
nella Passione del loro Maestro. Ma Gesù continua a pregare inten-
samente e dalla preghiera scaturisce e avviene il mutamento: dalla
paura al coraggio per affrontare gli eventi, il coraggio che deriva
dalla fede rafforzata dalla prova.
La Passione di Dio assume e riceve senso, significato, valore
salvifico, redentore, ma solo in quanto è stata assunta, assorbita e
trasformata da Cristo che accetta la croce con Amore, come espres-
sione suprema del dono di Sé, mostrando fino a quanto, fino a che
punto si può e si vuole amare. Amore che non scappa mai e non
scende dalla croce: “… salva te stesso...”. A queste provocazioni e
oltraggi che sono rivolti a Gesù dai capi religiosi dai soldati e da
uno dei malfattori crocifissi ai lati di Gesù, Egli non risponde.
Risponde invece l’altro malfattore che ammette il proprio peccato
94
DOMENICA DELLE PALME

e riconosce l’innocenza di Gesù. A colui che agli occhi umani non


è capace di salvare se stesso, il malfattore chiede salvezza. Se lo fa,
è perché crede che quell’uomo è Dio. È una straordinaria professione
di fede che viene dalle labbra di un peccatore. È la fede coraggiosa
di un malvivente pentito e la risposta è che Gesù non salva Se stesso,
non scende dalla croce perché è venuto a cercare chi era perduto.
La croce non è più un segno triste, di sconfitta, ma segno della
speranza che poggia sull’Amore incondizionato di Dio che ci rivela
la misura del Suo amore smisurato.
“Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” Che cosa ha convinto
il centurione a pronunciare questa frase? Che cosa lo conduce a fare
una affermazione simile? Sicuramente non è stato vedere il corpo
nudo, martoriato dai flagelli, il viso sfigurato e sanguinante, la sete
che strazia Gesù, gli insulti ricevuti dai capi del popolo. Marco lo
dice in modo chiaro: “Avendolo visto spirare in quel modo…”. A
rendersi conto che quell’uomo solo, fragile, indifeso che avrebbe
avuto il diritto di gridare, lanciare insulti e cedere alla disperazione,
è la cosa che colpisce il centurione: è l’atteggiamento di Gesù che
lo porta ad andare al di là delle apparenze, a cogliere ciò che è
splendidamente divino: nella terribile sofferenza della croce, Egli
accetta di donarsi all’umanità, in obbedienza al Padre continua ad
amare, continua a donare, ad offrire misericordia e perdono.
Il centro del messaggio di Gesù è che ci ama e ha dato la sua vita:
la passione di Cristo non finisce con la croce accettata con Amore,
ma continua ad essere presente anche oggi, in ogni essere umano
sofferente, sconfitto, rendendo la sua sofferenza significativa per gli
altri. È richiesta la fiducia di unirci alla Passione di Gesù, affinché,
anche il nostro dolore, la nostra passione (se arriva e quando arriva),
possa essere una forma di co-partecipazione salvifica di Cristo. Gesù
soffre e patisce con noi; riscopriamo il suo amore e la sua vicinanza
nella nostra vita. Per questo siamo venuti qui oggi, per fermarci ai
piedi della croce e meditare sulla grazia che ci viene offerta a caro
prezzo, il prezzo del sangue per ribadire la professione di fede del
centurione, per riconoscere nel Cristo, apparentemente sconfitto e
annientato, il Figlio di Dio che vince il male con l’amore.

95
GIOVEDÌ SANTO

Prima lettura: Es 12,1-8.11-14


Salmo 115
Seconda lettura: 1Cor 11,23-26
Vangelo: Gv 13,1-15

1. La spiegazione introduttiva del significato del Giovedì Santo


Con il “Triduo Pasquale” si fa riferimento ai tre giorni precedenti
la Domenica di Pasqua, nei quali si fa memoriale della Passione e
Morte di Cristo, prima della Risurrezione nel giorno di Pasqua. Nel
mattino di questo Giovedì Santo viene celebrata la Messa del Crisma
presieduta dal Vescovo in Cattedrale con i presbiteri della sua diocesi.
Questa celebrazione ha un significato profondo perché vuole rap-
presentare l’unità della Chiesa locale, raccolta intorno al proprio
Vescovo e dove vengono consacrati gli Oli Santi: (il Crisma, l’Olio
dei Catecumeni e l’Olio degli infermi). Benedetto XVI nel Giovedì
Santo del 2012 ha lanciato ai sacerdoti un forte richiamo all’obbe-
dienza. L’occasione è stata la Messa del Crisma, durante la quale si
commemora il giorno natalizio del sacerdozio e i preti rinnovano
le loro promesse fatte nel giorno della loro ordinazione. Il Pontefice
ha ricordato che il sacerdote è chiamato ad essere conforme a Cristo
e dunque non può essere portatore di opinioni personali, ma della
Verità, che è Cristo stesso. Sacerdozio significa tra l’altro, ricorda
Benedetto XVI, “superamento di noi stessi, una rinuncia a quello
che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione”.
Il triduo pasquale comincia questa sera con la celebrazione della
Messa “In Cena Domini” che ha un carattere veramente speciale
per il fatto che in questo giorno, secondo la tradizione, Gesù ha
compiuto l’ultima Cena con i Suoi. Ci troviamo nella sorgente, nel
cuore e nel vertice della liturgia e della vita stessa della Chiesa. È
vero che ogni Messa è il memoriale della cena del Signore, ma in
96
GIOVEDÌ SANTO

questa Liturgia si aggiunge un “oggi” che è di una notevole impor-


tanza; quindi non è una ricostruzione storica, ma è un attualizzare
quell’evento per farci sentire che anche noi siamo presenti, al di là
del tempo e lo spazio, all’Ultima Cena. Questa è la celebrazione
madre di tutte le celebrazioni in cui facciamo memoria dell’istitu-
zione dell’Eucaristia, dell’istituzione del Sacerdozio e del comando
dell’amore fraterno stabilito da Gesù nel gesto della lavanda dei
piedi ai Suoi discepoli. Sulla tavola preparata per Gesù e i Suoi
discepoli c’è un pane che è la stessa vita di Gesù completamente
offerta per tutti. Egli ha donato tutto di Sé: il Suo tempo, le Sue
energie, la Sua misericordia, la Sua compassione, la Sua lotta contro
il male, la Sua difesa dei piccoli e indifesi. C’è il vino che ha il colore
del sangue che Gesù ha versato sulla croce per l’alleanza nuova ed
eterna. A questa tavola si potrà sedere chi si sente povero, affamato
e assetato e desidera entrare in comunione con Gesù.

2. L’istituzione dell’Eucaristia - Nella prima lettura san Paolo, nella


sua prima lettera ai Corinzi, scrive: “Il Signore Gesù nella notte in
cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie lo spezzò
e disse: Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria
di me…” (1Cor 11,24-26). Gesù spezza il pane per loro e fa bere al
calice del vino. Per questa azione ci sono parole che interpretano
quanto viene compiuto e fanno capire il senso profondo. L’Eucaristia
non è una cosa, è una Persona, è Gesù. È lo stesso Gesù che predicava
il Vangelo lungo le strade della Palestina, che sanava i malati, risu-
scitava i morti, perdonava i peccatori, scacciava i demoni. È lo stesso
Gesù che però si rende presente nel pane e nel vino consacrati come
Corpo immolato, come Sangue versato, si rende presente cioè nel
gesto d’amore più grande con il quale ci ha salvati: la sua offerta
d’amore sulla croce.
Gesù comunicandosi a noi nel sacramento dell’Eucaristia vuole
esprimerci i suoi stessi sentimenti di amore e di donazione, di con-
segna di Se stesso alla volontà del Padre per la nostra salvezza e per
la nostra vita. Decidere di fare la Comunione significa decidere di
entrare in quell’energia d’amore che trascinò il Cuore di Gesù e Lo
97
GIOVEDÌ SANTO

condusse a morire d’amore in Croce. Domandiamoci se siamo


coscienti di questo e se ci accostiamo a fare la Comunione con la
consapevolezza di un’azione che significa la consegna di sé, la resa
senza condizioni all’amore e l’impegno a fare la volontà del Padre.
A questo punto ovviamente sorgono le domande circa di chi
può ricevere la Santa Comunione nel contesto attuale circa le coppie
che vivono in modo irregolare. Sulla bimillenaria Sacra Tradizione
e sulla Sacra Scrittura poggia l’insegnamento della Chiesa che le
persone che vivono in una situazione non conforme alla concezione
cattolica del matrimonio e della famiglia non possono accostarsi
alla Santa Comunione. Tuttavia questo non vuol dire che sono
esclusi o rifiutati dalla comunità ecclesiale. Al contrario, come diceva
san Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio, quasi 40 anni fa,
quelle persone richiedono una particolare cura dei pastori e dei
confratelli, in modo che si sentano sempre membri della comunità
dei credenti. Loro costituiscono un aspetto della Chiesa sofferente,
ma il loro contributo alla crescita spirituale della Chiesa non viene
mai negata, anzi lo possono fare in diverse maniere come spiega il
documento.

3. La lavanda dei piedi - In quella stanza c’è un catino, una brocca


con l’acqua ed un grembiule. Gesù lava i piedi ai discepoli. Nel
racconto che fa Giovanni nel suo Vangelo non riferisce le ultime
ore di Gesù con i Suoi discepoli e nel descrivere i “discorsi dell’ul-
tima cena”, dei gesti rituali del pane e del vino come gli altri evan-
gelisti e come scrive san Paolo nella prima lettura. Giovanni mette
piuttosto in evidenza la persona di Gesù che lava i piedi come gesto
di servizio vicendevole e di amore, non da ripetere, ma da prendere
sempre come esempio, un gesto che diventa sacramento: l’amore
del Padre in Cristo e l’amore in Cristo dei credenti. “…Poi versò
dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli…” (Gv
13,1-15). Gesù dimostra il Suo amore totale gratuito e definitivo.
Gesù è l’Agnello pasquale che porta a compimento la liberazione
iniziata nel primo esodo. Gesù ci chiede di imitare il suo modo di
servire l’uomo; ci insegna come donare gesti che consolano, che
98
GIOVEDÌ SANTO

aiutano, che rialzano il prossimo nella dignità che gli spetta di diritto
e permettono di trasmettere loro il Suo Amore. Nel modo di agire
di Gesù si comprende la Sua morte accettata liberamente. A questo
proposito Pietro fa fatica ad accettare quel Messia che deve passare
attraverso la sofferenza.

4. L’istituzione del sacerdozio


a) L’essenza del sacerdozio - Inoltre, in questa celebrazione siamo
invitati a meditare su un altro aspetto importante del mistero di
questo giorno: l’istituzione del sacerdozio ministeriale che insieme
al servizio fraterno della carità ci vengono trasmessi; sono due aspetti
legati fra loro e che sono collegati dall’Eucaristia in quanto indicano
la comunione fraterna e il dono di sé al servizio della Chiesa.
Gesù ha chiesto di ripetere il Suo gesto in nome Suo e della
Chiesa. Il Concilio Vaticano II afferma: “I Presbiteri…ad immagine
di Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, sono consacrati per predicare
il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri
sacerdoti del Nuovo Testamento... Esercitando, secondo la loro parte
di autorità, l’ufficio di Cristo Pastore e Capo, raccolgono la famiglia
di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo spirito, e per
mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre” (Lumen gentium
28). Il senso del Sacerdozio di Cristo e di ogni sacerdote che da Lui
proviene è di essere degno modello per tutti coloro che offrendosi
in Lui, per Lui, in sacrificio gradito a Dio mettono la loro vita a
servizio dei fratelli. Cristo continua ad essere presente nella Chiesa
e rende attuale il mistero di salvezza tramite la Parola, il Sacrificio
ed i Sacramenti per la forza dello Spirito Santo. Questo il fonda-
mentale significato della consacrazione-missione di quanti sono
chiamati a diffondere il Vangelo, guidare il popolo e presiedere le
azioni di culto.
Il sacerdote è chiamato ad essere ponte tra il Padre e l’umanità
in un legame intimo con Gesù Cristo che egli non solamente rap-
presenta, ma (lo) rende presente con la sua stessa persona. Il sacerdote
è qualcosa di più di un ambasciatore, di un delegato di Gesù Cristo,
perché le sue azioni salvifiche sacramentali le compie non in nome
99
GIOVEDÌ SANTO

di Gesù Cristo, ma nella Persona di Gesù Cristo. Il che vuole dire


che quando egli consacra è Gesù Cristo che consacra, quando assolve
è Gesù Cristo che assolve. Quale grande responsabilità e quale grande
amore questi uomini devono avere per Dio e per i loro fratelli! E
tutto questo indipendentemente dalla loro santità.
b) L’umanità del sacerdote
Alcuni vorrebbero che tutti i preti fossero santi e non sopportano
che ci siano preti che non fanno proprio tutte le cose giuste e belle,
che anche loro essendo uomini abbiano le loro debolezze, i loro
difetti e le loro tentazioni, ma questo non ci deve scandalizzare.
Anche il sacerdote ha bisogno di un altro sacerdote che lo assolva,
che lo consoli, che lo aiuti e lo incoraggi. Tuttavia dobbiamo avere
la serena certezza di fede che Gesù ancora oggi è in mezzo a noi e
ci salva toccandoci con la grazia sacramentale. Ma un grande inco-
raggiamento e sostegno alla santità del sacerdote sono i suoi fedeli
che con il loro amore, il loro affetto, la loro compassione per i suoi
difetti, che mai mancano, gli assicurano la loro preghiera e vicinanza.
E quando la gente capisce questo, capisce che la vita del sacerdote
è per loro, incomincia a circondarlo d’affetto e di gratitudine; affetto
e gratitudine di cui il sacerdote ha bisogno per sostenersi poiché,
pur vivendo un amore più grande e più assoluto per Dio, sente in
sé sempre tutta quella sete d’affetto e d’amore umano che ogni
persona si porta con sé dalla nascita. In seno ad ogni comunità come
dono nato dal sacerdozio, i rapporti reciproci dovrebbero essere di
servizio e non di potere.
La celebrazione termina con la processione con cui si porta
l’Eucarestia all’Altare della reposizione, appositamente preparato
per l’Adorazione dei fedeli.

100
VENERDÌ SANTO

Prima lettura: Is 52,13-53,12


Salmo 30
Seconda lettura: Eb 4,14-16;5,7-9
Vangelo: Gv 18,1-19.42

1. Il significato della celebrazione del Venerdì Santo - Fra tutte le


celebrazioni dell’anno liturgico quella del Venerdì Santo è una delle
più sobrie ed eloquenti e si compie in un clima di silenzio, di gesti
e simboli essenziali; in una chiesa spoglia, di fiori e di musica, con
l’altare privo di tovaglia, la grande prostrazione del celebrante vissuta
nel profondo silenzio. Il motivo di questo silenzio è la drammaticità
dell’evento, è l’immensa gravità di ciò che è accaduto, cioè che il
Dio della vita che non può essere sottomesso alla morte, in Gesù,
Egli si è consegnato ad essa. Gesù ha condiviso le nostre sofferenze,
si è fatto servo, è stato disprezzato, maltrattato, umiliato, ed è stato
sottoposto ad una morte infamante, scandalosa benché innocente
Oggi la comunità cristiana non celebra l’Eucaristia perché alla morte
del suo Signore e Sposo non si addice il clima di festa.

2. Gli aspetti principali della celebrazione - Ci sono cinque momenti


che caratterizzano questa liturgia diversa da ogni altra celebrazione.
Il primo è costituito dall’ambiente privo di decorazioni e di simboli
che somiglia ad un sepolcro pronto ad accogliere il corpo lacerato
e sanguinante del Signore che lo vuole accogliere con tutto l’affetto
come ha fatto Sua Madre. Così la comunità cristiana può comple-
tamente concentrarsi sul racconto e sull’immagine che sono il cuore
della celebrazione. Il secondo è quello di un lungo racconto che
occupa la maggior parte della celebrazione. La narrazione che è in
relazione alla nostra fede ed è così essenziale per farci percepire
101
VENERDÌ SANTO

l’identità di Gesù: l’Agnello innocente che assume su di sé il peccato


del mondo. Il terzo si concentra sulla preghiera universale, una
solenne supplica per raggiungere tutti: i propri fratelli nella fede ed
anche per coloro che non credono, per chi soffre e per chi ha re-
sponsabilità verso tutta l’umanità. In seguito avviene l’adorazione
della Croce che dapprima viene gradualmente liberata dal velo che
la copre e poi mostrata all’assemblea come “il legno al quale fu
appeso il Cristo, Salvatore del mondo”. Infine si recita il ‘Padre
nostro’ e si distribuisce la comunione eucaristica. Seppure in questo
giorno non viene celebrata l’Eucaristia si ritiene che i cristiani non
debbano rinunciare a ricevere il Pane eucaristico. Intorno alla Croce
i fedeli presenti si legano e consolidano i legami di fraternità, per
mezzo del sangue versato da Gesù e ravvivano la coscienza di essere
(la) famiglia attraverso la preghiera del Padre nostro.

3. Il mistero della croce - Nel Venerdì Santo siamo messi ogni anno
davanti alla croce per meditare l’amore illimitato che ci viene donato.
Questo era lo strumento di morte che i romani utilizzavano per
intimorire ed eliminare in modo crudele ogni tentativo di ribellione
e di rivolta. Morire sulla croce per il condannato significava affron-
tare lunghe ore di tormento e terminava la sua esistenza con tremendi
dolori per soffocamento. Cristo inchiodato alla croce ha trasformato
quel legno in simbolo di salvezza e di amore; infatti la croce è di-
ventata segno di riconoscimento dei Suoi seguaci. Questo rovescia-
mento è stato compiuto da Gesù con il Suo atteggiamento di amare
malgrado la sua innocenza e la condanna ingiusta, malgrado le
sofferenze che gli sono state inflitte, malgrado la derisione di cui è
stato oggetto e le falsità proferite contro di Lui. Egli continua ad
amare per sconfiggere tutta la cattiveria ed il male. Non è la soffe-
renza, i dolori e la morte di Gesù che ci salvano poiché tutto questo
è la conseguenza di brutalità e di cammino verso la morte. Ci salva
Dio con la missione affidata a Gesù e ci salva Gesù con la fedeltà
al Padre, con il Suo amore che è talmente coinvolto con l’uomo da
impegnarsi fino al dono della Sua vita. In effetti il Servo di Dio (Is
52,13.53,12) che era sfigurato, abbandonato da tutti, disprezzato;
102
VENERDÌ SANTO

“Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri


dolori, è stato trafitto per le nostre colpe”. Da tutto questo risulta
un capovolgimento: tramite la Sua silenziosa umiliazione, mediante
la Sua offerta in sacrificio di riparazione abbiamo ottenuto la pace
e la guarigione.

4. Un breve commento al mistero della morte di Gesù in croce


Il cuore delle letture è la Passione secondo Giovanni nella quale ci
colpisce la serena libertà di Gesù che vive gli eventi con piena cono-
scenza di ciò che stava avvenendo e la piena accettazione del calice
che il Padre gli ha dato da bere. Al Golgota Giovanni spiega in pieno
il mistero pasquale in Gesù che pronuncia: “Tutto è compiuto”,
“consegna lo spirito” e si attua la salvezza voluta dal Padre, di riunire
i figli di Dio dispersi dal peccato. La lettera agli Ebrei , nella seconda
lettura ci vuole trasmettere l’insegnamento dell’obbedienza che ebbe
Cristo divenendo causa di salvezza per tutti coloro che gli obbedi-
scono. La solidarietà di Gesù con gli uomini non è solo legata alla
Sua condizione umana, ma è esistenziale. Gesù ha condiviso in tutto
la debolezza umana ed è stato messo alla prova come capita anche
a noi, ma Egli, a differenza di noi, è rimasto sempre fedele, per
questo potremo accedere alla misericordia di Dio. Attraverso il
sangue dell’Agnello pasquale Dio riconcilia a sé l’umanità ed essa
può entrare (Eb 4,16) in comunione vitale con Dio nella morte di
Cristo, lo Spirito è consegnato al Padre perché lo effonda sugli
uomini come sorgente di vita nuova.
Nel racconto della passione di Giovanni ci appare una compo-
sizione potente e creativa. Egli racconta storicamente i luoghi dove
si consuma il giudizio, la condanna, il supplizio subìto da Gesù,
ma contemporaneamente svela il senso nascosto della passione che
è raggiungibile solo al credente che si lascia accompagnare da lui.
L’Evangelista sottolinea che Gesù essendo condannato il venerdì a
mezzogiorno non poteva rimanere sulla croce. Qui viene paragonato
agli agnelli pasquali che i sacerdoti immolavano nel Tempio a partire
da mezzogiorno; con un ramo di issopo erano stati aspersi gli stipiti
delle porte in occasione dell’uscita dall’Egitto ed è con un ramo di
103
VENERDÌ SANTO

issopo che si porge da bere a Gesù (cfr. Gv 19,29); è un modo sim-


bolico per specificare che il Suo sangue è quello dell’unico vero
Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo e salva dalla morte.
Scrive san Giovanni Crisostomo in una Sua catechesi: “A Gesù
morto e ancora appeso alla croce, racconta il vangelo, s’avvicinò un
soldato che gli aprì con un colpo di lancia il costato: ne uscì acqua
e sangue. L’una simbolo del battesimo, l'altro dell'eucaristia. Il sol-
dato aprì il costato: dischiuse il tempio sacro, dove ho scoperto un
tesoro e dove ho la gioia di trovare splendide ricchezze. La stessa
cosa accadde per l’Agnello: i Giudei sgozzarono la vittima ed io
godo la salvezza, frutto di quel sacrificio. «E uscì dal fianco sangue
ed acqua» (cfr. Gv19,34). Carissimo, non passare troppo facilmente
sopra a questo mistero. Ho ancora un altro significato mistico da
spiegarti. Ho detto che quell’acqua e quel sangue sono simbolo del
battesimo e dell'eucaristia. Ora la Chiesa è nata da questi due sacra-
menti, da questo bagno di rigenerazione e di rinnovamento nello
Spirito santo per mezzo del battesimo e dell’Eucaristia. E i simboli
del battesimo e dell’Eucaristia sono usciti dal costato. Quindi è dal
suo costato che Cristo ha formato la Chiesa, come dal costato di
Adamo fu formata Eva”. È come vero agnello pasquale, dunque,
che Gesù regna sugli uomini, dalla croce si offre per loro, per attirarli
alla Sua gloria.

104
VEGLIA PASQUALE

Prima lettura: Gen 1,1-2,2; (forma breve):


1,1.26-31
Salmo 103
Seconda lettura : Gen 22,1-18
Salmo 15
Terza lettura: Es 14,15-15,1
Salmo: Es 15,1-7a.17-18
Quarta lettura: Is 54,5-14
Salmo 29
Quinta lettura: Is 55,1-11
Salmo: Is 12,2-6
Sesta lettura: Bar 3,9-15.32-4,4
Salmo 18
Settima lettura: Ez 36,16-17a.18-28
Salmo 41
Epistola: Rm 6,3-11
Salmo 117
Vangelo: Mc 16,1-7

1. Introduzione alla celebrazione - La Pasqua è la festa della nuova


creazione, Gesù è risorto e non muore più, grazie a alla Sua
risurrezione si è aperta una nuova dimensione per l’uomo.
Sant’Agostino definì questa celebrazione “la madre di tutte le
veglie”. La Veglia pasquale è la celebrazione più importante di
tutto l’anno liturgico e vegliare richiede che siamo disposti a
trascorrere il tempo senza fretta. I riti della Veglia pasquale per-
corrono in maniera evidente la dimensione cosmica con i simboli
della luce, del fuoco e dell’acqua. Così pure la dimensione del
tempo e della storia: l’incisione dell’anno sul cero, le sette letture
(ripercorrere la storia della salvezza). Per questo all’inizio della
Liturgia della Parola nella Veglia pasquale c’è il racconto della
105
VEGLIA PASQUALE

creazione del mondo. Sono sette giorni, nei quali si comprende


la volontà di Dio di orientare la Sua comunione con la creatura
in un incontro di amore e libertà.

2. Liturgia della luce - La prima parte della Veglia è dedicata al


fuoco, la benedizione del cero e l’accensione delle candele da parte
dei fedeli. In primo luogo viene evidenziata la frase in cui “Dio
disse: «Sia la luce!»” (Gen 1,3), quindi la creazione di ogni altra
entità viene dopo la creazione della luce. Infatti il sole, la luna e le
stelle sono stati creati il quarto giorno. Questo affinché venisse tolto
il carattere divino degli astri che alcune religioni attribuivano loro.
Sono corpi luminosi ma preceduti dalla luce come sinonimo della
gloria di Dio. La luce è la manifestazione del bene, della verità, della
conoscenza, della libertà, al contrario del male che è nascosto nel
buio. A Pasqua, al mattino del primo giorno della settimana, Dio
ci ha detto di nuovo: “Sia la luce!”. Nei giorni precedenti c’era stata
la notte trascorsa al Monte degli Ulivi, l’eclissi solare nella passione
e morte di Gesù ed infine la morte con la discesa agli inferi. Il ve-
nerdì sembrava che tutto fosse finito. I gesti di consolazione, di
guarigione sono cancellati. L’hanno inchiodato a quella croce, hanno
messo a tacere Colui che parlava di amore e di misericordia e si
sono spente tutte le speranze dei poveri che ci avevano creduto.
Ma quando tutto sembra un fallimento, quando sembra che le
forze del male hanno avuto la meglio, avviene l’incredibile. Dio
dice: “Sia la luce! e la luce fu”. Gesù è risorto per annunciare che la
vita è più forte della morte, il bene vince sul male, l’amore è più
potente dell’odio, la verità supera la menzogna. Nella Sua risurre-
zione Gesù annulla i momenti del buio e diventa la nuova luce, la
luce di Dio ci attira a sé nella nuova vita mediante il Sacramento
del Battesimo e la professione di fede. È la fede che ci permette di
vedere la luce che viene da Dio, che apre i nostri occhi per vedere
la vera luce. La Chiesa mostra il mistero della fede attraverso il cero
pasquale, simbolo del sacrificio: la candela illumina consumandosi,
fa luce dando se stessa, la sua luce è fuoco. Il fuoco scalda e trasfor-
ma; così Cristo che ha donato la sua vita donandoci luce, la fiamma,
106
VEGLIA PASQUALE

il calore che brucia il male. “Cristo luce del mondo!” questo è il


grido che squarcia le tenebre della notte!

3. Liturgia della Parola - È la seconda tappa della celebrazione in


cui percorriamo tutta la via della salvezza. Il racconto del Vangelo
di Marco non ci trasmette una grande entusiasmo, una grande gioia,
anzi sembra che trapeli preoccupazione e timore. Siamo messi di
fronte alla realtà della morte. Infatti si può constatare che Maria di
Màgdala con altre donne vanno al sepolcro la mattina presto, per
compiere il loro gesto di ungere il corpo di Gesù. Lo fanno così
presto quasi per paura, per non farsi vedere. Inoltre sono preoccupate
perché si chiedono come faranno a spostare quella pesante pietra
che chiudeva l’apertura del Sepolcro. Ma al loro arrivo si accorgono
che il masso è stato rotolato e che all’interno non c’è più il corpo
di Gesù. Vedono, invece un giovane vestito di bianco che, accorgen-
dosi dello stupore che traspariva dai loro occhi, annuncia loro: “Non
abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto,
non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto”. Un invito a guardare
con fiducia e speranza perché ciò che sta accadendo è opera di Dio.
La risurrezione non era un fatto scontato o previsto, quindi coglie
di sorpresa e può destare meraviglia e turbamento. “Ma andate, dite
ai suoi discepoli e a Pietro: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete
come vi ha detto»”. Ecco la buona notizia: non è qui! La morte non
ha più potere su di Lui. Gesù attende i suoi in Galilea, al crocevia
delle nazioni, dei popoli e razze, il luogo da sempre considerato di
passaggio, di scontri di mescolanze, nel mare aperto della storia.
Non ci si può fermare davanti al sepolcro, a quello che era luogo
della morte. Ora i cuori si aprono alla gioia e alla speranza, ora
possiamo incontrare il Signore lungo le vie del mondo. Nel seguito
di questo brano ci viene raccontato che dopo essere avvisati da Maria
di Màgdala, Pietro e Giovanni si recano di corsa al sepolcro. Gio-
vanni, il discepolo “prediletto” da Gesù entra nel sepolcro dopo
Pietro, per rispetto del primato a lui conferito, osserva attentamente
e medita quanto la scrittura aveva detto sulla risurrezione di Gesù
e nel suo cuore si apre la certezza: “egli vede e crede: Gesù è risorto”.
107
VEGLIA PASQUALE

È una notizia, è un messaggio che per essere accolto e accettato


necessita di un po’ di tempo. È una notizia così bella che si fa fatica
a crederla. Ma questo è l’annuncio della Pasqua per noi, un annuncio
di un amore che è più forte della morte, della malvagità e della
violenza. In Gesù, il crocifisso risorto, riponiamo la nostra speranza,
è Lui è la sorgente di tutto, è l’incontro con Lui che trasforma la
nostra vita.

4. Liturgia battesimale - In questa parte della Veglia si personalizza


ciò che è stato celebrato finora. La luce della Pasqua e la storia della
salvezza compiute in Gesù diventano una consapevolezza per noi
di essere immersi in questa storia con il nostro battesimo. Siamo
chiamati a rinnovare e a cogliere di nuovo il compimento della
salvezza nei segni sacramentali.

5. Liturgia eucaristica - In tutti i gesti compiuti nella Veglia, l’Euca-


ristia è il culmine a cui tende tutta la celebrazione. Ogni veglia, ogni
attesa si conclude con un incontro. Questo è lo spirito con il quale
celebriamo l’Eucaristia, lo spirito di festa, della gioia, dell’incontro
d’amore. La presenza del Risorto non si manifesta in maniera scon-
volgente, è una presenza che si fa quotidiana, ordinaria, è una pre-
senza che ci chiama a riconoscere il Suo volto nei fratelli, negli
amici, ma anche in tutti coloro che incontriamo. La presenza del
Risorto si manifesta nella Sua Parola, nel Suo Corpo e nel Suo
Sangue dei quali ci nutriamo. Apriamoci quindi a questa straordi-
nariamente ordinaria presenza del Risorto nelle nostre vite. Ogni
istante può diventare esperienza della Risurrezione, ogni istante può
diventare porta per entrare nella vita eterna.

108
TEMPO DI PASQUA

DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: At 10,34a.37-43


Salmo 117
Seconda lettura: Col 3,1- 4; (1Cor 5,6b-8)
Vangelo: Mc 16,1-7

1. Cristo è risorto, alleluja! - Questo è il giorno di Cristo Signore!


È il centro dell’annuncio pasquale delle chiese cristiane, e la
principale Domenica di tutto l’anno liturgico che celebra un
evento straordinario nella storia dell’umanità: la Risurrezione! È
l’evento inimmaginabile, nuovo, inaudito! Cristo è risorto, alle-
luja! Questo l’annuncio che ogni cristiano deve diffondere. Il
cuore di noi cristiani è pieno di gioia e di pace proprio perché
109
DOMENICA DI PASQUA

Cristo è risorto. Questa gioia e questa pace siamo chiamati ad


annunciare a tutti quelli che ci vivono accanto. Gesù ci ha chia-
mato, si è manifestato e si è rivelato come vero uomo e vero Dio,
per la nostra redenzione e salvezza, che possiamo comprendere
alla luce della Risurrezione.

2. L’assoluta novità della Risurrezione di Gesù - Nell’epoca in cui


era vissuto Gesù esistevano varie concezioni e diverse credenze per
come si intendeva la salvezza e il destino dell’essere umano. Si
parlava di qualche possibilità di varcare la soglia della morte come
un eterno addormentamento, oppure l’anima che si stacca dal
corpo e quindi una specie di dualismo.
L’evento della Risurrezione è un’apertura alla vita, è un’enorme
prospettiva che va oltre la morte, con certezza, con sicurezza. La
Risurrezione non è un’idea, un senso di sostegno, di consolazione,
ma è il centro, il nucleo, il cuore, il fondamento del cristianesimo
come dichiara san Paolo: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra
fede…” (1Cor 15,17). È la vittoria definitiva sul male e sulla morte;
è la vita eterna per cui la morte non ha più potere per chi dimora
in Cristo. Da questo siamo incoraggiati a coltivare la speranza,
soprattutto nei momenti di smarrimento, di sfiducia, di crisi, di
incertezza, di solitudine, di malattia.
L’Evangelista Marco ha costruito il suo racconto in modo preciso
e colpisce per la sua semplicità, sinteticità, sobrietà ed essenzialità.
La sua intenzione, il suo scopo è di mettere in guardia i cristiani
delle prime comunità dal rischio di tradire l’annuncio pasquale dalle
diffusioni di una favola, di una falsa dottrina. La credibilità di
Marco sta nel fatto di non colorire questo evento, ma di raccontarlo
fedelmente come lo aveva sentito. Infatti nella Domenica delle Palme,
nel Vangelo della Passione del Signore, l’Evangelista Marco racconta
che alla scena drammatica e commovente dell’arresto di Gesù nel
Getsemani, è presente e testimone un ragazzo coperto con un solo
lenzuolo. Si ipotizza che quel giovane che seguiva Gesù in quel
tragico avvenimento fosse proprio lo stesso Marco.

110
DOMENICA DI PASQUA

3. Il realismo della Risurrezione - La Risurrezione è un evento me-


tastorico, non è afferrabile, non è tangibile, ma è reale! Infatti la
Risurrezione non è stata vista da nessuno, viene descritta attraverso
i segni come le apparizioni, la tomba vuota e quindi la testimonianza
di san Paolo: Gesù “apparve a Cefa e quindi ai dodici. In seguito
apparve anche a 500 fratelli…” (1Cor 15,5-6). Gli apostoli a cui
apparve erano coloro che avevano vissuto con Lui, lo hanno rico-
nosciuto, hanno parlato e mangiato con Lui – è la loro testimonian-
za. La Risurrezione non si fonda su una semplice riflessione, ma la
nostra certezza deriva da un atto di fede, è l’assenso del cuore umano
che accoglie il Mistero con convinzione ed entusiasmo. Se la Risur-
rezione fosse tangibile, percepibile, concreta, sarebbe un evento nella
storia, nello spazio, un ritorno alla vita terrena ordinaria, come
Lazzaro e la figlia di Giairo, che sono risuscitati per tornare a morire
alla fine della loro storia. Invece la Risurrezione di Cristo è l’evento
unico, non solo della storia dell’uomo, ma dell’intera creazione. Si
tratta di un’esplosione dei confini del tempo e della storia; è una
Nuova Vita, di un’altra qualità, senza male e senza morte; la Risur-
rezione vuol dire rinascere, riprendere la vita, la vita eterna, la par-
tecipazione alla vita divina, alla gloria: “Quelle cose che né occhio
vide, né orecchio udì Dio l’ha comunicata per mezzo dello Spirito…”
(1Cor 2,9). La fede in Dio può essere messa alla prova dall’esperienza
della sofferenza. Talvolta Dio può sembrare assente e incapace di
impedire il male. Questo perché siamo troppo presi da ciò che si
vede e si tocca e non con lo sguardo proteso alle cose invisibili. Ma
ora, Dio Padre ha rivelato nel modo più misterioso la Sua onnipo-
tenza nella Risurrezione di Suo Figlio con cui ha vinto il male. Nella
Risurrezione di Gesù il Padre ha manifestato la grandezza della Sua
straordinaria potenza verso di noi.

4. Il significato della Risurrezione per noi - Cosa significa, qual è il


senso e il destino della nostra esistenza alla luce della Risurrezione?
Con questo evento cambia tutto nella nostra vita; Essa non si compie
in nessun valore temporale, mondano, economico, nella salute, nel
benessere, nel potere, nella prosperità. Non è solo la vittoria sul
111
DOMENICA DI PASQUA

male, sul peccato, sulla cattiveria dell’uomo, ma ci manifesta la sua


centralità nella nostra vita, ci dona il senso di tutto nella prospettiva
dell’eternità. Come dice san Paolo siamo creature nuove; che non
significa che saremo dotati di superpoteri ma che siamo convinti
di poter cambiare giorno dopo giorno il nostro stile di vita.
Con la Risurrezione di Cristo, non si compie soltanto la missione
della redenzione mediante la vittoria sul peccato, ma viene restituita
la vita piena e realizzata una volta per tutte e per l’eternità e si
manifesta la sua centralità nella nostra vita. Essa ci orienta verso il
vero bene e ci dona la speranza che ci fa andare al di là delle nostre
capacità, delle nostre forze. L’amore di Cristo con il Suo sacrificio,
con la Sua donazione, è più forte della morte e non permette che
la nostra vita finisca nel nulla ma ha la forza di renderla eterna.
La Pasqua è cercare le cose di lassù, cioè le cose belle, vere, certe,
eterne e non quelle di falsità, futilità e frivolezza. La Pasqua vera
che il cristiano celebra, oltre alla liturgia, è quella di sentirsi con un
piede già in paradiso. È davvero un giorno unico e speciale per ogni
cristiano che può cantare “questo è il giorno che ha fatto il Signore,
rallegriamoci ed esultiamo” (Salmo 117).

5. La Risurrezione vissuta nel presente, in anticipo - La Risurrezione


non è solo da celebrare la Domenica e il giorno di Pasqua o aspettare
alla fine della vita, ma viene anticipata e vissuta già ora; penetra la
nostra vita nella misura in cui ci apriamo al Risorto che bussa al
nostro cuore. Possiamo diventare diversi: coraggiosi, gioiosi, carita-
tevoli nell’amare gli altri, senza lasciarci deludere “Chi ci separerà
dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l'angoscia, la perse-
cuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste
cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”
(Rm 8,35-37). Se accogliamo questo annuncio, questo invito, saremo
capaci di essere testimoni di Cristo e di riconoscere la Sua presenza
attraverso ognuno che incontriamo. Nella prima lettura tratta dagli
Atti degli Apostoli, Luca completa il suo intento di raccontare la
storia di Gesù, tramite il Vangelo e la storia della Chiesa apostolica
“Noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione
112
DOMENICA DI PASQUA

dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una


croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse,
non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che
abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai
morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che
egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio” (At 10,39-42).
In questo discorso si percepisce la Risurrezione che continua ad
avvenire nella nostra vita, rendendoci testimoni, davanti al mondo
del Cristo risorto e vivo. La missione della testimonianza affidata
alla Chiesa è ancora in corso ed è riferita ad ogni credente, ad ogni
persona che ha sperimentato che “in nessun altro c’è salvezza”. Una
simile esperienza, un simile tesoro e la gioia che procura, non può
restare nascosto. Ogni volta che apriamo le porte del nostro cuore,
il Risorto ci toglie tutto il male e ci fa partecipi della sua felicità
eterna già nella vita di tutti giorni.

113
LUNEDÌ DELL’ANGELO

Prima lettura: At 2,14.22-23


Salmo 15
Vangelo: Mt 28,8-15

In questo lunedì dopo Pasqua il Vangelo ci presenta il racconto delle


donne che si sono recate al sepolcro dove avevano posto Gesù, ma
l’hanno trovato vuoto. Però vedono un angelo che le informa che
Gesù è risorto e mentre corrono per portare la notizia ai discepoli
vedono lo stesso Gesù che dice loro: ”Andate ad annunciare ai miei
fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno” (v.10). Dalla Galilea
parte dunque l’annuncio della Risurrezione per arrivare fino a noi,
nella nostra storia. È l’annuncio, è la buona notizia che la Chiesa
ripete fin da allora: “Cristo è risorto!” È la vittoria della vita sulla
morte che tutti noi credenti in Cristo dobbiamo annunciare con le
parole, con l’atteggiamento, con la gioia che gli altri possono leggere
sul nostro volto.
Ma dopo la risurrezione di Gesù, dal sepolcro si allontanano
due diversi gruppi di persone portando annunci equivalenti e diversi:
le donne che vanno dai discepoli ad annunciare quello che aveva
detto loro l’angelo e che hanno visto anche Gesù che li avrebbe
aspettati in Galilea per incontrarli. Esse sono felici per aver potuto
adorare il loro Signore, possono sentirsi sicure della loro fede e della
verità di cui Cristo è protagonista. L’altro gruppo è formato dalle
guardie che stavano a vigilare il sepolcro proprio a difesa dei sospetti
dei capi e degli anziani e che, appositamente, si recano da loro per
raccontare ciò che hanno visto al sepolcro. Essi ricevono dagli an-
ziani del sinedrio, che non hanno accettato la notizia della Risurre-
zione, un compenso per mettere in giro la voce che la scomparsa di
Gesù è avvenuta tramite i suoi discepoli che l’hanno rubato. È la
stessa opposizione che gli stessi anziani hanno sempre avuto nei
114
LUNEDÌ DELL’ANGELO

confronti di Gesù quando era in vita. Quindi questo evento, questo


annuncio è accompagnato dalla corruzione di travisare la verità
sulla Risurrezione. Le guardie hanno dimostrato come possa essere
facile che l’annuncio che è un buon motivo di gioia per i discepoli
e per tutti gli uomini possa essere stato dissimulato per l’incitamento
dei capi notabili e religiosi e per l’avarizia: “l’attaccamento al denaro
è principio di ogni male” (1Tim 6,10). Perfino oggi in alcuni am-
bienti autorevoli della Chiesa gira la ‘notizia’ sulla mancata certezza
riguardo alla figura storica di Gesù, delle Sue parole e opere, e di
conseguenza della Sua Risurrezione. Come mai questi dubbi? Perché,
come dicono alcuni sostenitori di tali opinioni, nessuno a quell’epoca
aveva il registratore… A parte la fede, anche le scienze moderne nella
loro onestà non mettono dubbi sulla storicità di Gesù di Nazareth.
Perciò solo una voluta ignoranza può sostenere tali opinioni.
Tornando al racconto evangelico, possiamo notare quanto sia
stata grave la responsabilità dei capi religiosi che invece di soffocare
la Buona Notizia avrebbero fatto una cosa giusta per se stessi e per
i soldati se avessero ascoltato, con un po’ di umiltà, quanto era stato
loro riferito. Così mentre le donne si erano incamminate per la loro
missione di salvezza, le guardie sono impregnate ‘dallo spirito del
mondo’ che respinge e rovescia la Buona Notizia. Questo episodio
ci fa riflettere come il potere seduttore del denaro oltre che essere
strumento di negazione e alterazione per la Parola di Dio, allo stesso
tempo può provocare la chiusura del cuore e della mente davanti
al dono di Grazia del Signore.
Questo accade da allora, la corruzione è sempre stata presente
nella storia della Chiesa e non ci meravigliamo se anche oggi accade
lo stesso. La nostra reazione non è tanto di combattere contro tale
corruzione, ma piuttosto seguire le donne che andarono a dare
l’annuncio. Gesù parla alle donne: “Salute a voi…”. Si tratta della
salute interiore, della salute dell’anima, senza cercare la rivincita e
quindi senza sprecare le energie per lottare contro la corruzione con
un evento pubblico, chiassoso: lasciate che la zizzania cresca insieme
al grano, fino a quando non viene il mietitore e separa la corruzione
dalla fedeltà. Noi intanto mettiamo le forze per l’annuncio e la
115
LUNEDÌ DELL’ANGELO

testimonianza come abbiamo letto nel brano degli Atti degli Apostoli
trovando la forza di sopportare la corruzione (zizzania): con la pace
nel cuore che è la vera salute, possiamo affrontare il male, la corru-
zione e la zizzania.
La fede è dono di Dio che nasce dall’ascolto e dall’accettazione
del Vangelo. Il grande segreto di bellezza della Verità cristiana è
quello di non essere una “dottrina di Gesù”, ma Gesù stesso, Gesù
Risorto!

116
SECONDA DOMENICA DI PASQUA
DELLA DIVINA MISERICORDIA

Prima lettura: At 4,32-35


Salmo 117
Seconda lettura: 1Gv 5,1-6
Vangelo: Gv 20,19-31

La Divina Provvidenza, nel suo infinito Amore ci ha donato la festa


della Divina Misericordia, dono che deriva dalla Pasqua, dalla Re-
surrezione di Cristo, dalla vittoria sul male e sulla morte. L’istitu-
zione del culto e la divulgazione della Divina Misericordia le
dobbiamo a san Giovanni Paolo II, che portò a compimento la
richiesta fatta da Gesù stesso a santa Faustina Kowalska, una suora
polacca, morta a soli 33 anni, che aveva vissuto un’intensa e profonda
vita mistica. Infatti Gesù le era apparso ben quattordici volte e le
aveva chiesto di dipingere l’immagine come lei stessa lo aveva visto
e che questa immagine fosse (stata) venerata e benedetta nella Prima
Domenica dopo Pasqua. San Giovanni Paolo II, ritenendo fonda-
mentale questo messaggio, ha scritto, nel 1980, la sua seconda Enci-
clica, giunta inaspettatamente, dal titolo: “Dives in Misericordia”.

1. Misericordia, Amore, Giustizia - Oggi più che mai l’uomo vittima


di tanti messaggi e idee sbagliate, si sente smarrito, vuoto, sperduto,
insicuro, intimorito; può essere imbrogliato da varie proposte di
idoli e finire rassegnato come i discepoli di Gesù che si erano chiusi
nel Cenacolo per paura. Per questi motivi si ritiene urgente ed attuale
la necessità di intervenire per annunciare Dio Misericordioso. Però
bisogna stare attenti a non cadere nel pericolo di fraintendere ed
abusare il concetto ed il messaggio della Divina Misericordia scam-
biandolo con permissivismo, superficiale buonismo, lassismo ed
eccessiva indulgenza, cadendo nel rischio di banalizzazione: “posso
117
SECONDA DOMENICA DI PASQUA

vivere come mi pare, peccare quanto voglio, tanto Dio comunque


perdona sempre”. In questo modo, secondo questa concezione,
questa immagine di vivere la propria vita a modo proprio, separando
la propria condotta dalla giustizia e dalla verità diventa l’idea dei
protestanti di intendere la Divina Misericordia. L’amore di Dio è
il punto di partenza della Misericordia come si trova anche nei salmi
“Signore fammi giustizia…”
In realtà il concetto di Misericordia è molto più profondo e va
di pari passo con la Giustizia e la Verità, che sono lo stesso volto di
Gesù, la Sua vera immagine. Non c’è Misericordia senza Giustizia e
senza Verità. Misericordia, Verità e Giustizia sono le manifestazioni
dell’Amore di Dio. Certo che la Misericordia è un dono che riceviamo
tutti e Dio non si stanca di elargirlo, ma è un dono che deve essere
accolto, non può essere imposto perché Dio mai limita la volontà
dell’uomo. Quindi per ottenerne l’efficacia è necessario compiere un
percorso serio, di cambiamento della prospettiva di vita
Un altro pericolo può venire da alcuni teologi che avendo la
presunzione di essere innovatori, pensano di essere gli scopritori,
gli inventori della Divina Misericordia (di questo volto misericor-
dioso di Gesù). Mi riferisco al Cardinale Kasper che poco tempo
fa, nel pronunciare la sua lectio magistralis, durante il conferimento
della laurea honoris causa, ha esordito dicendo che, volendo prepa-
rare una relazione, non aveva trovato niente che lo potesse aiutare,
né tra i dizionari teologici, né tra gli articoli, né in altre citazioni.
È molto strano perché c’è, appunto, l’Enciclica Dives in Misericordia,
una delle più lunghe del Pontificato di Giovanni Paolo II, e che
dopo la sua pubblicazione, continuamente, nell’arco di trentacinque
anni, fino ad oggi, è stata anche oggetto di molti articoli, è stata
sviluppata da molti studenti che ne hanno fatto tesi di laurea. Il
papa e coloro che hanno trovato le fonti sul tema della Misericordia
non si sono lamentati della mancata bibliografia su questo argomento.

2. L’attuazione della Divina Misericordia nella vita umana


a) ‘Credere per vedere’ - Come si attua la Divina Misericordia nella
nostra vita? Nel Vangelo di oggi possiamo scoprire l’ardente desiderio
118
SECONDA DOMENICA DI PASQUA

di Gesù di condurre l’uomo, ognuno di noi, dall’incredulità e auto-


sufficienza alla fede. In questa celebre pagina dell’evangelista Gio-
vanni ci colpisce la figura di Tommaso con la sua splendida
confessione di fede in Gesù risorto dopo l’iniziale incredulità: “Mio
Signore e mio Dio!” Su questo famoso episodio si possono fare
alcune riflessioni: a) in senso critico si può dedurre che la fede non
si riduce a ciò che è percepibile in modo naturale ed evidente, perché
la realtà non equivale e non si limita a ciò che è visibile; infatti ci
sono molti aspetti della realtà che non sono riconducibili alla visi-
bilità, possono non essere tangibili, afferrabili. b) in senso positivo
perché Tommaso rappresenta anche un esempio della fede che
domanda, che approfondisce, indaga e ricerca, non si ferma mai;
non vuole le prove, ma le ragioni, i segni, il significato. Da questo
percorso fatto da Tommaso dobbiamo imparare a vedere con il
cuore, perché se la via per arrivare alla fede fosse quella di vedere e
toccare, per nessuno sarebbe possibile credere. Ci vuole la disponi-
bilità a credere, ci vuole l’apertura all’ascolto della parola che per-
mette di aprire gli occhi e vedere in modo diverso. Allora è necessario
“credere per vedere” e non “vedere per credere”.
b) Misericordia: non per confermare nel peccato, ma per liberare
dal peccato - La Divina Misericordia si manifesta, si dona e si pro-
pone come remissione e perdono dei peccati. Gesù, apparendo ai
discepoli che stavano rinchiusi per timore (come capita, a volte,
anche a noi che facciamo fatica ad uscire per essere testimoni dell’au-
tentica fede), per tre volte ripete “Pace a voi!” e aggiunge: “A coloro
cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non
perdonerete, non saranno perdonati”. La remissione dei peccati
equivale alla liberazione da ciò che ci impedisce, ci limita o ci osta-
cola ad essere o diventare come dovremmo essere. La realtà della
misericordia non è astratta o del tutto soggettiva, ma concreta e
comunitaria. Il valore della Confessione è l’incontro con il Padre,
con l’Amore che perdona e abbraccia, il dono del Risorto e il cam-
mino verso la propria interiorità, verso l’anima in cui vive e risorge
Gesù con l’accompagnamento del Ministro del Sacramento. Quindi
per noi è una proposta, un dono ed un impegno ad accettare la
119
SECONDA DOMENICA DI PASQUA

Divina Misericordia con umiltà, con cuore sinceramente contrito


e pentito. Nel contesto odierno dell’accesso ai sacramenti per coloro
che vivono come divorziati nel secondo legame civile, tale tipo di
Misericordia non è accessibile perché contraddicono l’unione tra
Cristo Sposo e la Chiesa Sposa, quella unione in cui sono stati
accorpati i coniugi. Qui dunque non funziona la legge del discerni-
mento o del “caso per caso”, oppure “forse, magari, probabile” ecc.
Comunque il risultato della riconciliazione sacramentale è il
dono della pace, cioè la vera salute del cuore e dell’anima attraverso
il dono dello Spirito Santo per affrontare paura e smarrimento. Le
apparizioni del Gesù Risorto e Misericordioso continuano attraverso
la nostra vita. La Divina Misericordia ci lancia una sfida: testimo-
niarla e renderla visibile con la nostra condotta, le nostre parole, i
nostri gesti, i nostri pensieri.
Come si legge in At 4,32-35 i primi Apostoli davano testimo-
nianza della Resurrezione di Cristo. “La moltitudine di coloro che
erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno
diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era
fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimo-
nianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di
grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché
quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo
di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli;
e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.
Il Risorto continua ad apparire attraverso la nostra fede, la nostra
fiducia e misericordia come a santa Faustina e san Giovanni Paolo
II: “Gesù confido in te”.

120
TERZA DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: At 3,13-15.17-19


Salmo 4
Seconda lettura:1Gv 2,1-5
Vangelo: Lc 24,35-48

Nella Liturgia odierna percepiamo la gioia che viene dall’incontro


con il Risorto, la gioia per la vittoria sul peccato e sulla morte con
rinnovata fiducia, speranza e pace. Dalla Parola di oggi, che è in
continuità con le prime due Domeniche di Pasqua, emerge il tema
dei frutti risultanti dalla Risurrezione. Frutti che si percepiscono se
si delinea e si parte dalla situazione dell’uomo. Per evidenziare quale
è il valore di questi frutti per la nostra vita quotidiana dobbiamo
prima guardare in quali condizioni viviamo.

1. La condizione esistenziale dell’uomo


a) Il peccato - Nella prima lettura Pietro pronuncia un discorso
rivolgendosi a tutto il popolo d’Israele, annunciando la grande opera
compiuta da Dio a favore di Gesù ma allo stesso tempo in queste
parole forti ed incisive risuona un severo monito a coloro che hanno
consegnato e rinnegato al potere romano, che hanno permesso che
venisse graziato un assassino pur di assicurare la morte all’autore
della vita “Voi avete rinnegato..., avete ucciso… Convertitevi dunque
e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” (At 3,13-
15.17-19). Anche Giovanni nella sua prima lettera dichiara : “Vi
scrivo queste cose perché non pecchiate più; ma se qualcuno ha
peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto”.
Ecco splendere la speranza anche per chi, pur riponendo la fiducia
in Dio, ha ceduto alle attrazioni del male e ha tradito la propria
fede. Infatti non solo non sono abbandonati alle loro forze potendosi
riconciliare con Dio, ma sorprendono ancora di più le parole “Egli
121
TERZA DOMENICA DI PASQUA

è vittima di espiazione per i nostri peccati, non soltanto per i nostri,


ma anche per quelli di tutto il mondo”. Giovanni, infatti, sa che è
possibile peccare anche per i credenti e perciò li vuole ammonire
da ciò che minaccia la loro vita cristiana: l’incoerenza tra la fede
proclamata e la fede vissuta.
Il peccato, lo sappiamo, fa parte della nostra vita, ma nel Vangelo
Luca ci rincuora con le parole “…e nel suo nome saranno predicati
a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando
da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”. Il peccato ci fa
vivere come se Dio non ci fosse, comporta un Suo allontanamento
e una rottura della comunione con Lui. Significa tenere il Signore
lontano, non coinvolgersi, non accettare una relazione e vivere come
se non ci fosse la Risurrezione.
b) La paura - L’ansia, la preoccupazione, il timore, l’angoscia: i
discepoli “erano sconvolti e pieni di paura” ma Gesù disse loro
“Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”.
Infatti a causa dell’esperienza della morte in croce di Gesù, molti
discepoli si sono allontanati da Gerusalemme, altri si sono rinchiusi
per paura dei giudei, come anche gli apostoli.
Anche noi viviamo in queste condizioni di peccato e di paura,
ma Gesù Risorto ci aiuta, come ha aiutato i discepoli, a superare
questi momenti di crisi ricordando loro le parole e i gesti che aveva
compiuto, proprio per prepararli all’evento che sarebbe accaduto.
“Sono queste le parole che vi dissi quando ero ancora con voi:
«bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge
di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì la loro mente per
comprendere le scritture”.

2. La remissione dei peccati - Con la Sua Risurrezione Gesù ci di-


mostra, in continuità con la Divina Misericordia, il desiderio di
perdonarci, di guarirci, offrendoci dei doni, dei rimedi/medicine.
Ma la remissione dei peccati richiede la conversione. Nel libro degli
Atti degli Apostoli è scritto: “Convertitevi dunque e cambiate vita
perché siano cancellati i vostri peccati”. La conversione, la remissione
non è imposta, ma è donata e comporta il cambiamento di vita, per
122
TERZA DOMENICA DI PASQUA

ricevere il perdono. La misericordia con cui Dio ci vuole perdonare


non significa ‘tollerare il peccato’ in cui si trova l’uomo, non vuol
dire ‘facciamo come ci pare tanto Dio è talmente generoso che
comunque ci perdona sempre’. Dio ci vuole liberare dal male e dal
peccato per farci vivere liberi come Suoi figli, ma dobbiamo chiedere
perdono avendo la consapevolezza che Gesù è morto per pagare il
debito dei nostri peccati. Il Vangelo di Giovanni nel brano 3,16-17
contiene questo meraviglioso messaggio: “Perché Dio ha tanto amato
il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque
crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna. Infatti Dio non ha
mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché
il mondo sia salvato per mezzo di lui”.

3. La vita eterna - Grazie alla Risurrezione si apre l’orizzonte dell’eter-


no e dell’infinito! Se abbiamo la certezza di partecipare alla Risur-
rezione, alla vita di Gesù, crediamo fermamente che le sue non sono
vuote promesse, che non servono soltanto come insegnamento, ma
in virtù del fatto che ha dato la sua vita per noi, riceviamo la vita
eterna. Partecipare alla vita di Gesù, già ora, nella nostra vita odierna,
nella fiducia, nel coraggio che tolgono dubbi e paure; ma se anche
ci fossero dubbi e paure, il Signore ci dona l’aiuto per superarle. La
consapevolezza della vita eterna fa nascere la pace. La pace è la salute
dell’anima con la quale vengono sconfitti sia il peccato che la paura.
La pace è anche una forza interiore insieme al Risorto, per affrontare
la vita con le sue fatiche e preoccupazioni, “Io sono con voi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo”.

4. Il realismo delle apparizioni - Ciò che colpisce è che le apparizioni


di Gesù, dopo la Risurrezione, hanno un elemento in comune: Gesù
non è riconoscibile, infatti i discepoli fanno fatica a riconoscere il
loro Maestro. Come mai se loro che lo conoscevano bene avendo
vissuto molto tempo con Lui ora non lo vedono? Eppure le appa-
rizioni di Gesù dopo la Risurrezione non sono apparenze, sembianze
o immaginazioni. Non hanno nulla a che fare con favole, fiabe o
invenzioni umane. Infatti Gesù dice: “non sono un fantasma”.
123
TERZA DOMENICA DI PASQUA

L’evangelista Luca scrive ai dispersi giudeo-ellenistici che credevano


nella sopravvivenza dello spirito che, dopo la morte, si separava dal
corpo. Infatti affinché venisse superata questa credenza che esisteva
in quell’ambiente, Gesù dice: “Guardate le mie mani e i miei piedi,
non sono un fantasma, sono io, sono quello che è stato con voi
toccatemi eccomi, datemi qualcosa da mangiare”. Con la Risurre-
zione Gesù rimane sempre uguale, è la stessa persona, lo stesso
soggetto, ma con la Risurrezione i discepoli lo possono percepire
diversamente: è una nuova vita con lo stesso corpo e con la stessa
anima, la persona è la stessa ed è intera: allora da ciò si deve dedurre
che non bastano i sensi e gli occhi, ma occorre la luce della fede.
Quante volte anche noi, nella nostra vita pensiamo che il Risorto
non c’è oppure è così lontano da non essere raggiungibile. Il Vangelo
ci dice invece che la fede è indispensabile per poter incontrare il
Risorto. Ma quale fede, come avere una fede in grado di riconoscere
realmente Gesù Risorto? Innanzitutto è importante il desiderio di
credere, la ricerca della fede, l’interesse e non la rassegnazione e
l’indifferenza. È necessario un continuo ascolto di Gesù: cercarlo
nella sua Parola, nelle scritture a cui rimanda Gesù stesso, aprendo
le loro menti a capire. Basta riportare qui l’esempio dei discepoli di
Emmaus: nell’Eucaristia, sotto il velo dei segni è presente Gesù.
L’incontro con il Risorto fa nascere l’entusiasmo, permette di
ricevere la pace, crea in noi la convinzione nata con l’esperienza
reale. In Atti leggiamo “… Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne
siamo testimoni”. Altrimenti non si può spiegare il martirio e le
pene dei discepoli: non si muore non si dà la vita per una semplice
opinione, un’illusione o un’idea/mito umano. L’incontro con il
Risorto porta a darne la testimonianza.
Gesù, a partire dall’Ultima Cena, lascia e dà dei segni di essere
Lui, il Crocifisso, il Risorto. Non vi sono prove, né dimostrazioni,
ma sono segni credibili e affidabili, poggiati sulla testimonianza:
“Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi
avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la
salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato.
Altrimenti, avreste creduto invano!” (1Cor 15,1-2). Gesù lascia i
124
TERZA DOMENICA DI PASQUA

segni (e non le prove empiriche) perché i segni e la loro testimonian-


za sono condizioni affinché la nostra fede sia un atto libero che, se
viene accolto, accogliamo Gesù come Salvatore della nostra vita.
Vivendo la Risurrezione Gesù ci ha promesso di rimanere con noi
tutti i giorni della nostra vita. Viviamo un’altra Domenica di gioia
in cui le parole ‘riconciliazione’, ‘pace’, e ‘conversione’ ci spingono
ad un’esistenza dove non c’è più posto per egoismi e rancori.

125
QUARTA DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: At 4,8-12


Salmo 117
Seconda lettura: 1Gv 3,1-2
Vangelo: Gv 10,11-18

1. Buon Pastore - La quarta Domenica di Pasqua è detta la Domenica


del Buon Pastore. È un’ulteriore occasione per approfondire il tema
della Risurrezione, dell’importanza del Risorto nella nostra vita. Di
sé il Cristo dice di essere il Buon Pastore che “offre la vita” per le
pecore. Quale pastore potrebbe fare una cosa del genere? Per com-
prendere meglio il significato di questa identità, della missione del
pastore che cura le pecore fino al dono della vita, ci aiutano tre verbi
che leggiamo nel Vangelo di oggi: ‘conoscere’, ‘unire’ e ‘dare’.
a) Conoscere - Il pastore (Gesù) “conosce” non in modo intellettuale
o fisico, ma entra nell’intimità, nell’interiorità di ogni pecora e di
tutto il gregge. Tra il pastore e le pecore si stabilisce una conoscenza
reciproca, senza precedenti, persino inaudita, Egli le ama di un
amore totale, un amore che porta a dare la vita per le sue pecore.
La Sua morte in croce è il fondamento della salvezza del gregge,
della sua unità, del suo sviluppo. “Io sono il Buon Pastore, cono-
sco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, come il Padre
conosce me ed io conosco il Padre” (v.14), come a dire aperta-
mente che le pecore corrispondono all’amore di chi le ama. Infatti
la conoscenza precede sempre l’amore della verità. Il Cristo pastore
introduce il gregge, ossia la Chiesa ed ognuno di noi, nella stessa
conoscenza/comunione che Lui, il Figlio, ha con Dio Padre. La vita
che Egli dona è l’eterna comunione con Dio. Le pecore riconoscono
in Lui la voce del vero pastore, quello promesso da Dio.
b) Unire
Un’altra caratteristica del Buon Pastore è che le sue pecore non sono
126
QUARTA DOMENICA DI PASQUA

solo quelle di Israele: “E ho altre pecore che non provengono da


questo recinto: anche quelle io devo guidare” (v.16). La funzione
del Buon Pastore è di cercare, radunare, riunire tutto il gregge, tutta
l’umanità, nella sua Chiesa, cioè la comunità di fede che vive nella
comunione con Dio. È la stessa apertura che ritornerà nella preghiera
in Gv 17,20, quando Gesù dice: “non prego solo per questi, ma
anche per quelli che per la loro parola crederanno in me”.
c) Dare - Il pastore (Gesù) dà la vita. “Io do la mia vita per poi
riprenderla di nuovo”. Gesù è il datore, Signore e autore della vita,
non solo quella fisica, materiale, ma quella interiore, che nasce solo
dal fatto che Egli trasmette l’Amore di Dio Padre. Egli si è libera-
mente consegnato per adempiere la missione ricevuta dal Padre.
Ecco il senso della sua parola pronunciata sulla croce poco prima
di reclinare il capo, consegnando il suo spirito: “È compiuto” (Gv
19,30).

2. I dettagli della missione di pastore di Gesù - Ora cerchiamo di


capire l’immagine simbolica del termine e del ruolo del pastore nei
fatti più semplici e concreti:
a) Egli va avanti e precede il gregge, lo guida per indicare la strada
da percorrere affinché le pecore non si smarriscano. Il Buon Pastore
ci insegna la parola della verità, autentica strada da percorrere. Questa
parola di verità egli l’ha trasmessa ai suoi Apostoli (testimoni della
risurrezione, della convinzione di fede secondo cui “in nessun altro
c’è salvezza”), che l’hanno consegnata, tramandata ai loro successori:
i Vescovi. Attraverso i successori degli Apostoli, Gesù Buon Pastore
continua a guidare, manifestando (facendo conoscere) la verità che
è la Parola di Dio. Oggi è inoltre la Domenica dedicata alla preghiera
per le vocazioni. Se e quando abbiamo bisogno di conoscere la
Parola di Dio, per approfondire la nostra fede, per incontrare Gesù,
non chiediamo aiuto o consiglio a chiunque, a chi parla per sentito
dire, ha letto qualcosa, ha visto un programma in TV, ma è oppor-
tuno chiedere, avvicinare, e rivolgersi a guide esperte, a chi è prepa-
rato (vescovi, sacerdoti, consacrati, monaci, catechisti), coloro che
127
QUARTA DOMENICA DI PASQUA

sono pastori, testimoni e che ci danno la garanzia della Verità.


b) Il pastore, non solo conduce stando davanti, ma cammina anche
accanto e insieme al gregge per procurare a tutte le pecore da man-
giare. Dà loro il vero cibo che non è solo la parola di verità, ma il
vero pane, che è Gesù stesso, che per noi è nell’Eucaristia. “Sta in
mezzo a noi e ci nutre”.
c) Il Buon Pastore (Gesù) sostiene e regge le sue pecore lungo il
cammino divenendo per loro strada sicura. Dà loro forza quando
sono stanche, deluse, scoraggiate, rassegnate usando diversi modi o
strumenti: la confessione, la preghiera, la gioia di credere, di testi-
moniare Gesù Risorto, la solidarietà, la compagnia di buone persone.
d) Gesù, come Buon Pastore, cammina con il gregge, mettendosi
anche in coda, alla fine delle sue pecore, per proteggerle dal nemico,
offrendo la sua vita per loro per difenderle dai lupi, dal maligno,
che vuole rubare, uccidere, distruggere,. Tutto questo perché nessuna
pecora vada perduta, devastata e nessuna sia la vittima divorata dal
maligno. Questo perché Lui ci conosce più di quanto ci conosciamo
noi stessi. Facciamo fatica ad affidarci a Lui, e qualche volta prefe-
riamo andare dietro al “mercenario” (politico o religioso che sia)
che promette grandi cose al gregge, salvo poi sparire quando le cose
si mettono male lasciandoci preda della nostra debolezza e della
nostra paura, incurante del nostro peccato e della nostra morte.
Con Gesù Buon Pastore che sta avanti, accanto, ci sostiene, sta
indietro, siamo più tranquilli perché ci ha manifestato un altro
aspetto della misericordia del Padre nei nostri confronti, della qualità
e misura del suo amore che può trasformare la nostra vita.
La pagina del “buon pastore” è di una profondità e di una bel-
lezza senza paragoni, ed è capace di racchiudere una ricchezza ine-
sauribile di senso, è uno specchio per la Chiesa di ogni tempo.
Interroghiamoci dunque su quale tipo di intimità viviamo con Gesù
che ci dona la salvezza come scrive Luca nel brano degli Atti degli
Apostoli: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome
dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo
essere salvati” (At 4,12). È il coraggio di Pietro che, solo spinto dalla
128
QUARTA DOMENICA DI PASQUA

fede e dall’amore per Cristo, supera e prescinde dalla paura e dal


giudizio altrui ed è pronto a rispondere a chiunque gli domanda la
ragione della speranza che è in lui. Il popolo ascolta questa parole
vede come vivono i primi apostoli, con la gioia, la preghiera, la
solidarietà, la cura dei bisognosi e questa è la testimonianza a servizio
dell’annuncio evangelico.
La prima lettera di Giovanni inizia con una stupenda esclama-
zione: “Carissimi vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per
essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”. Il dono della
vita eterna è l’ingresso nella comunione con Dio come Suoi veri
figli. Allora la vita eterna non è altro che l’esperienza di una vita di
fraternità da gustare qui e ora nella Chiesa. Il nostro vero nome è
quindi “figlio di Dio”: è bello pensare che l’eterno figlio di Dio si
è incarnato e ha posto “la tenda tra di noi” (cfr. Gv 1,14) facendo
propria anche l’esperienza della figliolanza umana, proprio perché
solo tramite Lui siamo diventati veri figli di Dio.
Sarà proprio nell’incontro intimo con Gesù, nell’esperienza del
Suo donare la vita che non potremo ignorare il fascino, la bellezza
di questo Amore. Se abbiamo fatto esperienza di questo Amore,
amore gratuito ed immenso, siamo chiamati a testimoniarlo amando
come Gesù, dando la vita per amore sulla croce e senza scendere da
essa.

129
QUINTA DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: At 9,26-31


Salmo 21
Seconda lettura: 1Gv 3,18-24
Vangelo: Gv 15,1-8

1. La metafora della vigna e della vite - La Liturgia di queste Dome-


niche Pasquali ci propone ogni anno brani del Vangelo secondo
Giovanni. Gesù nel parlare del suo rapporto con i discepoli si serve
di immagini che venivano utilizzate nell’Antico Testamento da Dio
per descrivere la sua relazione con il suo popolo prediletto, il popolo
di Israele. Nel Vangelo della Domenica scorsa Gesù si definisce come
il buon pastore che conosce e ama le sue pecore fino a dare la sua
vita per loro. Nel brano evangelico di oggi si paragona alla vite, il
Padre al vignaiolo e i discepoli ai tralci. Le immagini della vigna,
della vite sono segno dell’amore di Dio, delle sue premure, ma allo
stesso tempo sono segno dell’infedeltà del popolo. Basta leggere il
cantico della vigna in Isaia (Is 5,1-7) per rendersene conto. È Dio
che si aspetta che la vigna produca uva, ma essa fa uva selvatica. Lo
stesso dramma è descritto da Geremia: “Ti avevo piantato come
vigna scelta, tutta di vitigni genuini, ora come mai ti sei mutata in
tralci indegni?” (Ger 2,21). Nel profeta Ezechiele Israele viene de-
scritto come vite sterile e senza frutti (Ez 15,1-6). Gesù definendosi
come la vite, si inserisce nel simbolismo della vigna e della vite
dell’Antico Testamento, ma con un significato nuovo dando cioè
rilievo alla vite come fonte di vita per i tralci, mettendo in risalto
il rimanere innestati a Lui da cui deriva il propagarsi della vita.

2. Il rifiuto di Gesù come vite - Non rimanere al contrario vuol dire


negare Dio, rifiutare, voler vivere senza di Lui, non aver bisogno di
Dio, fare un progetto di vita senza Dio, oppure credersi autosuffi-
130
QUINTA DOMENICA DI PASQUA

cienti, contare solo su sé stessi mostrando orgoglio e superbia. Non


rimanere in Cristo vuol dire credere a modo proprio: farsi un’im-
magine di Dio plasmata secondo le proprie esigenze e aspettative e
non come creature fatte a Sua immagine e somiglianza; adattare
Gesù secondo le nostre proiezioni; praticare la Chiesa senza avere
Dio nel proprio cuore, nell’anima, senza un contatto interiore, ma
solo per una semplice apparenza, oppure per gli altri particolari,
propri interessi che hanno poco a fare con la fede.
Non rimanere in Gesù equivale a indifferenza religiosa, menefreghi-
smo “il tema di Dio non mi interessa; il tema di Dio non esiste!”
Si arriva perfino alla derisione, alle beffe. In questo caso è difficile
dare testimonianza della propria fede, ma noi cristiani non dobbia-
mo aver paura, non ci dobbiamo vergognare, anche se ci esponiamo
alla derisione e alle beffe. La Chiesa di oggi, guardando i suoi eroici
testimoni deve ritrovare una rinnovata fiducia nello spirito che la
guida e un rinnovato coraggio nel parlare di Cristo senza paura di
essere giudicati, discriminati o perseguitati.

3. “Rimanere nella vite”, ossia in Gesù - In questa Domenica siamo


invitati a fermarci su questo verbo “rimanere” che è il punto di
partenza e la chiave di lettura per noi oggi e che viene proposto
diverse volte come tema caratteristico di Giovanni nel suo Vangelo.
“Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto
da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rima-
nete in me…”. Il significato del verbo rimanere è essere uniti, legati,
appartenere a Gesù. Il rimanere in Lui non è solamente un semplice
rapporto di amicizia, ma diventa come una fusione tra vite e tralcio
in cui si svolge una circolazione reciproca, uno stretto rapporto di
comunione. Se i discepoli rimangono uniti a Gesù attraverso la fede,
Gesù rimane in loro attraverso l’amore e la fecondità, e questa unione
porta all’appartenenza alla vigna del Padre. Certo che questo appar-
tenere a Gesù comporta anche delle continue potature, crescenti
purificazioni. “Ogni tralcio che in me non porta frutto…” (Gv 15,2).
Qui appare anche una certa drammaticità della diversa sorte che è
assegnata ai tralci che non portano frutto, che saranno tagliati,
131
QUINTA DOMENICA DI PASQUA

diventeranno secchi (morti) e conseguentemente bruciati. Inoltre


Gesù ammonisce e mette in evidenza che il Padre è glorificato se i
discepoli portano frutto “In questo è glorificato il Padre mio: che
portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,8). Questo
portare frutto non va inteso soltanto in termini di opere buone da
compiere o in un modo integerrimo di vivere, ma soprattutto nella
fedeltà alla fede, nel credere in Gesù, nella Sua Parola. Rimanere in
Gesù significa vivere in armonia con la sua Parola, con l’intero suo
insegnamento. Il frutto che Dio vuole è quindi che diventiamo
discepoli di Gesù in un cammino che dura tutta la vita. Questo è
quanto afferma anche S. Giovanni nella sua prima lettera “Se rimane
in voi quel che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel
Figlio e nel Padre” (1Gv 2,24).

4 Alcuni aspetti particolari e pratici del detto “Se rimanete in me…”


a) “Rimanere in Cristo” può essere da considerare sul piano perso-
nale, cioè vivere alla presenza di Dio anche quando ci sembra che
Dio tace, quando ci sembra lontano; nella preghiera vissuta come
un incontro, un dialogo, un rapporto personale con il pensiero ed
il cuore rivolti a Lui; lasciare uno spazio per Gesù e parlare con Lui
nelle nostre occupazioni personali, anche durante il lavoro o avendo
delle preoccupazioni; cercare ciò che ci fa sentire la sua vicinanza,
malgrado la sofferenza. Quando ci sentiamo sfiduciati o abbando-
nati, si può ricorrere, ad esempio, alla lettura della Parola di Dio,
ad un saggio spirituale, ad ogni pratica e abitudine religiosa, nella
vita sacramentale.
b) Può essere trattato sul piano comunitario in quanto possiamo
rispondere a questa chiamata amando la Chiesa (Corpo e Sposa di
Cristo), difendendola anche dalle critiche a cui è esposta; con una
partecipazione responsabile ad eventi pastorali della comunità
parrocchiale o diocesana, definita Chiesa locale; vivere la fede nella
famiglia definita Chiesa domestica.
c) Rimanere vuol dire anche essere aperti e accoglienti verso gli altri.
Come viene raccontato in At 9,26-31 in cui Paolo, chiamato a portare
132
QUINTA DOMENICA DI PASQUA

il nome di Cristo Risorto con la parola, con l’annuncio, ma anche


con la sua testimonianza, viene dapprima rifiutato perché era stato
persecutore dei primi cristiani, ma successivamente accolto nella
Chiesa dai suoi fratelli, gli apostoli. Infatti sono proprio questi
fratelli a farlo partire per Tarso, avendo saputo che stava correndo
il rischio di essere ucciso.
d) Rimanere in Cristo a partire dalla seconda lettura tratta dalla
prima lettera di Giovanni richiama la coerenza tra la fede proclamata
e la fede vissuta “con i fatti e nella verità”. Questa verità si esplicita
nella capacità di amare i nostri fratelli, secondo l’esempio di Colui
che ha dato la Sua vita per noi. Ne consegue che è sufficiente avere
fiducia in Dio per ottenere ciò che domandiamo nella preghiera
“perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che gli è
gradito”. Infatti come Gesù stesso insegna nel Vangelo “se rimanete
in me e le mie parole rimangono in voi chiedete quel che volete e
vi sarà dato.” Il comandamento consiste nel credere nel Figlio e
nell’amarci gli uni gli altri: la fede in Gesù Cristo rende possibile
l’amore fraterno che non raramente chiede il sacrificio di sé stessi.
L’amore di Dio ci attira e ci spinge verso gli altri. Quanto più si è
uniti a Dio e ci lasciamo influenzare dallo Spirito Santo tanto più
si amano gli altri come propri fratelli. Quanta ricchezza attingiamo
dalla Parola di Dio! Le conseguenze e gli effetti che essa produce
emergono dalla condotta della nostra vita. La Parola di Dio è un
dono, un tesoro da custodire ed amare: è Dio stesso che si offre
attraverso la Sua Parola.

133
SESTA DOMENICA DI PASQUA

Prima lettura: At 10,25-26.34-35.44-48


Salmo 97
Seconda lettura: 1Gv 4,7-10
Vangelo: Gv 15,9-17

La liturgia invita la comunità cristiana a ringraziare il Signore che,


nel mistero pasquale, ha manifestato la sua salvezza e la sua giustizia.
Fin dall’inizio della Pasqua ed in tutto questo periodo pasquale
abbiamo riflettuto sull’evento della Risurrezione che ci ha fatto
percepire i vari effetti e doni portati da Gesù proprio grazie alla
Sua Risurrezione: la pace, la gioia, la misericordia, la remissione
dei peccati, la vita eterna come partecipazione alla vita divina.

1. Rimanere nell’amore di Cristo - Il brano del Vangelo di oggi


sviluppa il tema già trattato nella scorsa Domenica. Le parole
chiave ed il tema principale è “rimanete nel mio amore”: “Come
il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio
amore” (Gv 15,9). “Questo è il mio comandamento: che vi amiate
gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). Il comanda-
mento che ci dà Gesù, non è un obbligo, una prassi, una pratica
religiosa, un mero dovere, una serie di precetti, ma è il compor-
tamento, l’atteggiamento che rispecchia la nostra condizione di
figli, il nostro stile di vita, che presuppone la sequela di Gesù con
costanza; è percorrere una Via che è Gesù e che porta alla salvezza.
Il centro di questo comandamento è il principio che determina
tutta la vita cristiana, anzi la vita poggia su questo principio che
è l’Amore.
Rimanere significa restare inseriti nell’amore che Gesù ha
avuto per noi per trasmetterlo agli altri e che porta alla salvezza.
“Rimanete nel mio amore”, con persistenza, con perseveranza, con
stabilità (una parola non molto comune in questa società che vive
134
SESTA DOMENICA DI PASQUA

nella precarietà), ricordando che Dio ci ha amato fino alla fine, cioè
dando la sua vita per noi.
Questo amore non è sicuramente un semplice fatto emozionale,
sentimentale o di piacere, di cercare la propria felicità, di sentirsi
contenti e soddisfatti. L’immagine della vite e dei tralci indica che
il rimanere in lui comporta unione profonda per cui l’amore auten-
tico, profondo, vero, ha tantissime definizioni: affetto, legame,
dedizione all’altro.

2. Rimanere nella libertà di diventare il dono di sé - Nel Vangelo di


oggi si concretizza in un modo molto preciso e viene specificato in
modo particolare nelle parole di Gesù questa frase: “Nessuno ha un
amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Il
significato di dare la vita consiste nella libertà di vivere per gli altri
(dedizione) anche nelle situazioni più semplici, quotidiane, nelle
rinunce, nei dispiaceri e dolori. La vera libertà consiste nell’atteggia-
mento di essere dono di sé agli altri, al prossimo, specialmente al
più debole, all’oppresso, al servo, allo schiavo, al povero, per ripri-
stinare in loro la debita dignità e libertà e per conferire loro la
possibilità di sentirsi liberi e che possano percepire l’amicizia e la
fratellanza. Dono di sé ha anche il nome di amicizia che vuol dire
essere ammessi ad una conoscenza, ad una confidenza ed intimità
con l’altro.
“Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando” (v.14) I
discepoli di Cristo sono Suoi amici e perciò sono ammessi ad una
intimità incredibile: “vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho
udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (v.15). L’Amore crea
le condizioni di reciproca comprensione, attenzione, ascolto, con-
divisione, sincerità, uguaglianza.
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi…” (v.16). Su questa
scelta che parte da Gesù riponiamo la nostra speranza di portare il
frutto atteso da Dio, quello dell’amore vicendevole. L’Amore è
gratuito, incondizionato, non calcola, si dona e si riceve senza meriti.
“Perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (v.11), non
una gioia superficiale, relativa e provvisoria, condizionata dal mo-
135
SESTA DOMENICA DI PASQUA

mento, ma la gioia di vivere la nostra vita sul fondamento duraturo


ed eterno dell’Amore di Dio. I Suoi comandamenti non hanno
dunque un altro fine se non quello di donarci la gioia piena che
procura il rimanere nell’amore di Cristo.

3. “Rimanere” chiede la costanza e la fedeltà - Dio è amore” (1Gv


4,7) una magnifica definizione della prima lettera di Giovanni che
impegna tutti i credenti ad amarsi reciprocamente. Tuttavia parlare
dell’amore non rischia di diventare (essere) una cosa ripetitiva? Forse
troppe volte parliamo dell’amore? Nella vita anche altri temi ed altri
argomenti ritornano continuamente: la politica, l’economia, la pace,
il lavoro, la salute; come pure nel campo delle scienze ritornano gli
stessi argomenti: evoluzione, leggi fisiche, materia, energia, corpi
celesti ecc., ma di un certo tema si può continuamente parlare,
meditare approfondire a seconda del contesto, del grado di appro-
fondimento, a seconda del nuovo aspetto che si vuole evidenziare.
Anche l’Amore è un argomento ma è soprattutto la nostra esperienza,
la nostra realtà che ha bisogno della continua revisione e sviluppo.
Ci sono diversi modi di dirsi “Ti amo”, ad esempio tra i coniugi
nelle varie tappe della loro vita.
Di recente, molti teologi e cardinali parlano della misericordia
di Dio, perfino danno a Dio il Nome “Misericordia” (Kasper);
tuttavia la Bibbia chiama Dio Amore, anzi ancora di più, è Egli
stesso che si manifesta come Amore e questo è il Suo proprio nome
che abbraccia tutte le altre perfezioni: misericordia, affetto, perdono,
giustizia, paternità ecc., ma anzitutto nel contesto della vita coniugale
e familiare, la costanza, la continuità e la fedeltà.
Ringraziamo il Signore che attraverso la manifestazione del Suo
Amore possiamo diventare la sorgente di una missione nella storia;
i confini della comunità cristiana non escludono nessuno, sono
aperti a tutti. Testimoniare Gesù con la vita significa diventare
costruttori di riconciliazione e di pace; l’amore ricevuto diventa
amore donato. Oggi l’invito a vivere dell’amore e nell’amore si fa
insistente. Accogliamolo dunque come un dono gratuito, con il
quale Dio ci vuole rendere sempre più simili a Sé.

136
ASCENSIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: At 1,1-11


Salmo 46
Seconda lettura: Ef 4,1-13
Vangelo: Mc 16,15-20

Ci avviciniamo al tempo conclusivo del periodo liturgico della


Risurrezione di Gesù. Questa tappa è vissuta dalla Chiesa con la
celebrazione della solennità dell’Ascensione del Signore. I brani della
prima lettura e del Vangelo raccontano l’ultimo episodio della vita
terrena di Gesù e delle sue apparizioni.

1. Il senso dell’Ascensione nell’orizzonte di tutto il Mistero Pasquale


Cosa significa Ascensione, quale valore, quale grandezza ha di per
sé ed in sé questo evento? Innanzitutto non è un avvenimento da
vivere nel senso fisico, spaziale, spettacolare, materialistico, ma nel
137
ASCENSIONE DEL SIGNORE

senso del passaggio in un’altra dimensione, che rappresenta il


ritorno di Cristo nella gloria del Padre. Il compimento della mis-
sione di Gesù e il sigillo della Sua opera di salvezza. È da compren-
dere non nella sua dimensione storica, ma come atto di fede, come
una realtà invisibile, gloriosa, eterna che non è toccabile, afferrabile,
ma comunque pienamente reale. L’Ascensione non è da celebrare
con lo sguardo nostalgico fissato al cielo, ma come mistero da
vivere in terra, immersi nella nostra realtà, impegnati qui, adesso
in questa vita. L’Ascensione non è un distacco, non è la conclusione
della vicenda storica di Gesù, ma il momento di svolta in cui Gesù
cambia il proprio modo di agire. Egli, attraverso i suoi discepoli,
tramite i quali continua ad essere effettivamente presente tra noi
e tramite loro continua a proclamare e annunciare il Regno fino
ad oggi.
“…Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt
28,20). Il brano del Vangelo di oggi contiene dei dati che fanno
emergere che Egli rimane operante nella storia inviando i suoi
apostoli nel mondo a predicare il Vangelo, a battezzare, assicurando
che la loro missione sarà accompagnata con segni prodigiosi. Con
l’annuncio del Vangelo e con la sua accettazione, in realtà, avvengono
fatti straordinari che stanno a comprovare che Gesù continua ad
agire e che, asceso al cielo è diventato “Signore” della storia.
Salire al cielo non vuol dire dunque abbandonare la terra. Al
contrario, solo ora Gesù può offrire la Sua presenza e il Suo amore
veramente a tutti. Gesù non abbandona questa terra che ha sposato,
Egli vi abita, ma in un altro modo. Continua a visitarla, facendole
dono della Sua luce, della Sua forza e continuando a inviare lo
Spirito promesso agli Apostoli che si diffonde generazione dopo
generazione, su tutti quelli che sono disposti ad accoglierlo.
Con l’Ascensione il mistero pasquale e la vita di Gesù non ven-
gono archiviate come un semplice ricordo, ma la Sua persona, il
Suo messaggio e la salvezza realizzata non hanno più un valore solo
particolare: non accadono solo sotto il cielo di Gerusalemme, ma
con l’Ascensione al cielo Gesù abbraccia l’universo in ogni tempo
e luogo.
138
ASCENSIONE DEL SIGNORE

2. L’Ascensione orienta lo sguardo verso l’eternità - Con l’Ascensione


di Gesù l’umanità è entrata nell’intimità della vita di Dio. Nel Van-
gelo Gesù aveva preannunciato: “…io vado a prepararvi un posto…”
(Gv 14,1-4). Egli porta in cielo la Sua umanità e ci fa partecipi nella
felicità, nell’eternità, rendendo la nostra umanità ed ognuno di noi
innalzati in cielo per partecipare alla gloria di Dio. In questo modo
ha eliminato quel distacco che c’era tra gli uomini e Dio e ci ha
inseriti nella comunione con Dio nella vita eterna e questo è motivo
di gioia. Se la nostra amicizia personale con Lui sarà sempre curata,
avremo uno stimolo a non distogliere lo sguardo dalla gioia
dell’unione definitiva.
“Ma cosa significa che ascese, se non che prima non era disceso
quaggiù sulla terra?” (Ef 4,9). È venuto sulla terra per salvarci e la
salvezza si è compiuta con la Sua Risurrezione. Questa è la conferma:
tutti siamo salvati e con Lui siamo partecipi della Sua gloria. E
ancora: “Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito
doni agli uomini” (Ef 4,8). San Paolo per farci comprendere il
significato di questa frase ci rinvia all’inizio della lettera stessa:
“Fratelli io, prigioniero a motivo del Signore…” (Ef 4,1). ‘Prigioniero’
– come Paolo pure noi siamo di Sua proprietà, gli apparteniamo
totalmente. Gesù che ascende al cielo non rattrista gli Apostoli; essi
sanno che Egli è divenuto Signore della storia, li accompagnerà
dovunque e agirà in mezzo a loro attraverso il Suo Spirito. È proprio
per questo che comincia la missione della Chiesa.

3. Con l’Ascensione inizia la missione della Chiesa - La missione


deriva dal mandato stesso di Cristo: “Andate in tutto il mondo e
proclamate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15); questa missione
affidata agli apostoli si comprende e viene assicurata dalla sua pro-
messa: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt
28,20). Gesù li esorta e li rassicura, come esorta e rassicura anche
noi di non essere preoccupati, perché non ci ha lasciati soli, ‘io sarò
presente in mezzo a voi’, questo è il motivo per essere felici ed avere
la gioia (Salmo 46).
139
ASCENSIONE DEL SIGNORE

Ma la missione di annunciare e portare il Vangelo in tutto il


mondo, non è proselitismo, costrizione o imposizione per gli altri
a credere, ma è una proposta, un invito a ricevere il Suo messaggio
che rende la società più umana, la persona più persona, l’uomo più
uomo. La missione a volte sembra un compito troppo difficile, ma
Dio non ci fa fare cose alla nostra portata o che ci piacciono, ma
le cose che può realizzare solo Lui, con la Sua forza in noi. Anche
se solo Lui può salvare tutti, tuttavia non lo vuole fare senza la
nostra cooperazione ed impegno. La missione è l’espressione anche
del nostro giusto desiderio di far conoscere agli altri ciò che per noi
costituisce il tesoro della fede: Amore e salvezza di Gesù che
non è nostra proprietà ma un dono che non possiamo tenere solo
per noi ma è da condividere con gli altri.

3. Per evitare una falsa comprensione della missione - Nella società


odierna purtroppo la legge punta sulla laicità, facendone il suo
credo, la propria religione e non è possibile manifestare la propria
appartenenza con i segni come la croce, l’abito religioso o altre
immagini e figure. Infatti, in tanti paesi dell’Europa occidentale
si vogliono cancellare i simboli cristiani in nome della libertà
religiosa per timore che si potrebbe trattare di una intolleranza
o mancanza di rispetto verso le altre religioni. Il santo papa
Giovanni Paolo II nel preambolo della costituzione Europea ha
chiesto che fosse inserita la frase in cui ci si dovesse riferire alla
cultura cristiana, la quale non minaccia e non disprezza le altre
religioni e le altre culture religiose presenti. Ma l’Europa che
dovrebbe poggiare su questa identità, purtroppo, non ha voluto
accettare di fare questo cammino ed è finita inesorabilmente in
una certa confusione che si può constatare facilmente ogni giorno
ed in tanti avvenimenti, sia sul piano religioso, etico, politico,
ideologico e così via. Se l’Europa avesse mantenuto la coscienza
della sua vera identità, della sua storia, della sua origine e dei sui
valori cristiani non perderebbe sé stessa come sta avvenendo oggi
procurando paradossalmente una specie di proprio suicidio po-
litico, culturale e sociale.
140
ASCENSIONE DEL SIGNORE

Perciò, ognuno di noi ha ricevuto questo compito: “Ed Egli ha


dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri
ancora di essere evangelisti, ad altri pastori e maestri”. Quindi se-
condo la propria specifica vocazione, ognuno è invitato e coinvolto
nella missione di annunciare il Vangelo, in modo coraggioso e
convinto. Questo è un dono ed un compito da trasmettere con la
propria condotta, con il proprio esempio e con la parola, l’amore
e la salvezza che ci ha donato Gesù. Gesù ci dà il mandato di an-
nunciare il Vangelo e ci ha fornito delle risorse necessarie, ci ha
donato delle capacità e vari carismi. Il Risorto, il Signore, non trat-
tiene per sé i Suoi poteri; quelli che credono possono dunque agire
con efficacia nella storia, possono guarire le malattie e lenire le
sofferenze, possono parlare nuove lingue di fraternità, di misericor-
dia, di compassione, di solidarietà.
Ringraziamo il Signore per averci dato la gioia di diventare Suoi
testimoni di amore e di speranza e poter rappresentare Gesù in
questo mondo. Per questo compito impegnativo Gesù ci dona il
suo Spirito che ci sostiene e ci consola e trasforma la nostra vita.

141
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

Prima lettura: At 2,1-11


Salmo 103
Seconda lettura: Gal 5,16-25
Vangelo: Gv 15,26-27; 16,12-15

Si celebra oggi la solennità di Pentecoste, cinquanta giorni dopo la


Pasqua. Il centro della solennità odierna è il dono dello Spirito,
dono che trasforma i discepoli e li orienta sulle strade della missione,
li fa uscire dal cenacolo dove sentivano ancora la presenza di Gesù
e li avvia per le pubbliche piazze ad annunciare il Signore morto e
risorto facendosi capire da ogni uomo. Si apre per la Chiesa l’era
nuova, quella della perenne presenza dello Spirito che continua ad
agire nella storia dell’umanità. Con la vittoria del Risorto sulla
morte e sul peccato il Cristo compie la sua promessa di donare alla
Chiesa lo Spirito Santo, il Paràclito.

1. Lo Spirito nella vita di Gesù - A differenza delle altre persone


della Trinità, nella vita dei cristiani, lo Spirito sembra essere in un
certo modo ‘sconosciuto’, una ‘realtà sfuggente’, che diventa difficile
illustrare, raffigurare, trovarne un’immagine, un volto. Di solito lo
descriviamo meglio attraverso simboli biblici come “soffio” (dalla
profondità di Dio verso il mondo e l’uomo); “colomba” (tenerezza,
bontà, innocenza, santità); “fuoco” (efficacia di operare, che divora);
“vento” (libertà di agire). Lo Spirito è apparentemente nascosto nella
vita terrena di Gesù, ma in realtà, è inseparabile in tutta la vita e
l’opera di Gesù.
Nell’incarnazione: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te
stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà
sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1,35). Nel Batte-
simo: “E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discen-
dere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: «Tu
142
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto»” (Mc 1,10-11).


Nella missione: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo
mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato…” (Lc 4,18). Nelle
promesse date ai discepoli: Lo Spirito parlerà in voi durante le
persecuzioni “…e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per
causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. E quando vi
consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di
che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò
che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del
Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,18-20). Nell’instaurazione
del Regno di Dio: “se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito,
allora il regno di Dio è giunto in mezzo a voi” (Lc 11,20). Nella
morte di Gesù: “Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle
tue mani consegno il mio spirito»” (Lc 22,46). Ed infine nella Ri-
surrezione e nella promessa del Consolatore che guiderà i disce-
poli e tutta la chiesa alla verità intera: “Io pregherò il Padre ed egli
vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre,
lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo
vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso
di voi e sarà in voi” (Gv 14,16-17).
Dopo la morte di Gesù: lo Spirito diffonde la sua opera e pro-
duce i frutti dalla sua morte e Risurrezione (Atti degli Apostoli).
Infatti lo Spirito renderà sempre accessibile il mistero di Dio attra-
verso i Sacramenti e la Parola/Kerygma. Grazie allo Spirito la morte
e la Risurrezione di Gesù non sono un semplice ricordo e non
appartengono alla memoria del passato, bensì giungono a tutti
attraverso la Chiesa.

2. Lo Spirito nella nostra vita


a) Lo Spirito crea in noi, sin dall’inizio, la condizione per l’inabita-
zione di Dio dentro di noi. Egli vive in noi, ci conosce, prega in
noi, scruta, penetra, condivide, partecipa, patisce, stimola, illumina,
sollecita buone ispirazioni, guida, santifica, perfeziona, consacra. E’
pienamente impegnato e coinvolto nel nostro animo, nei nostri
affetti, sentimenti e in tutta la nostra storia.

143
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

b) Lo Spirito ci rende capaci di essere testimoni e missionari corag-


giosi e umili nell’annuncio come abbiamo ascoltato nel Vangelo di
domenica scorsa (Mc 16,15-20). Egli ci rende testimoni anche attra-
verso la preghiera sull’esempio della Beata Vergine Maria che era
insieme con gli Apostoli nel Cenacolo in attesa della venuta dello
Spirito Santo. “Se non c’è Chiesa senza Pentecoste, non c’è neanche
Pentecoste senza la Madre di Gesù, perché Lei ha vissuto in modo
unico ciò che la Chiesa sperimenta ogni giorno sotto l’azione dello
Spirito Santo” (Benedetto XVI).
c) Lo Spirito costituisce la Chiesa di Cristo. Diversi sono i nomi
della Chiesa, tra cui: Popolo di Dio, Corpo mistico di Cristo, Tempio
dello Spirito Santo. Senza lo Spirito non si comprende che cosa o
piuttosto chi è la Chiesa: Lo Spirito sarà l’anima della Chiesa di
Cristo; in altre parole l’origine della Chiesa sta nell’evento della
Pentecoste. Se non ci fosse stata l’effusione dello Spirito, la Chiesa
non esisterebbe, sarebbe una delle religioni, una ideologia, un sistema
di valori, una filosofia, un insegnamento, una semplice istituzione,
un gruppo di credenti, ma non la Chiesa. Essa è la forma visibile,
concreta dell’essere presente e operante nel mondo dello Spirito
Santo: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre,
lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimo-
nianza, e anche voi date testimonianza…” (Gv15,26).
d) Tra alcuni frutti e gli effetti dell’agire dello Spirito nella e per
mezzo della Chiesa basta indicarne alcuni aspetti: compiuta l’opera
che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno
di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continua-
mente la Chiesa affinché i credenti avessero attraverso Cristo accesso
al Padre in un solo Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà
la vita, una sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr.
Gv 4,14; 7,38-39); per mezzo Suo il Padre ridà la vita agli uomini,
morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro
corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e
nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1Cor 3,16; 6,19) e in
essi prega e rende testimonianza della loro condizione di figli di
144
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16. 26). Egli introduce la
Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la unifica nella
comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni
gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef 4,11-12;
1Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa ringiovanire,
continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo
Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: “Vieni”.

3. Lo Spirito Santo e diversità religiosa e culturale nella storia del


mondo - Dalla liturgia odierna emergono ancora due aspetti del
rapporto tra lo Spirito Santo e la Chiesa. Il primo lo troviamo nella
prima antifona di inizio: “Lo Spirito del Signore ha riempito l’uni-
verso, Egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio”. Questo signi-
fica che la Chiesa nascente (ma sempre presente nel concreto contesto
storico) è già implicitamente presente in Israele, poi operante nella
prima comunità di Gerusalemme, nella vita di Gesù e dei suoi
discepoli, e infine diffusa attraverso le comunità disperse in tutto
il mondo. A differenza delle altre religioni non è né legata, né de-
terminata, né tantomeno limitata ad una sola razza, popolo, etnia,
cultura. Le lingue e le culture non saranno più un ostacolo o una
barriera invalicabile, perché lo Spirito renderà la parola degli Apostoli
comprensibile a tutti gli uomini, in modo da superare i confini
dello spazio e del tempo. “Erano stupiti, e fuori di sé per la meravi-
glia…” (At 2,7) di poter ascoltare la parola nella propria lingua. Qui
emerge il carattere universale della Chiesa riempita e vivificata dallo
Spirito che è destinata a tutti, abbraccia tutta l’umanità sovra-regio-
nale, sovra-storica, sovra-culturale. La Chiesa scavalca i confini, è in
tutto il mondo e non contano le percentuali. Per questo può conti-
nuare l’opera della missione, dell’evangelizzazione e dell’incultura-
zione. La Parola deve incarnarsi in mondi, situazioni e culture
diverse, cioè entrare in contatto con ogni popolo, anche con quelli
ostili, e impiantarsi dappertutto, assumendo i valori positivi com-
patibili con il Vangelo, inserendosi anche in ogni tradizione con
missionari cristiani, poiché la Chiesa è capace di riconoscere i valori
di santità, bontà e verità presenti nelle varie culture. Il nostro com-
145
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

pito sarà quello di tirarli fuori, perfezionarli, purificarli. Le culture


e i valori dei diversi popoli possono costituire una grande ricchezza
che deve essere rispettata ed apprezzata come espressione della ricerca
umana di Dio.
C’è anche un secondo aspetto, quello espresso dalla seconda
antifona d’inizio: “L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito, che ha stabilito in noi la sua dimora”. Essa
evidenzia non solo l’agire universale e globale nella storia umana,
bensì il Suo intimo rapporto con ogni persona e con ogni individuo.
Lo Spirito opera in ciascuno di noi e ci ispira, suscita la buona
volontà di ascoltare il Padre per riconoscere nella preghiera la Sua
volontà. Lo sviluppo di questa idea si trova nella seconda lettura di
san Paolo che esortando la comunità dei Galati a vivere secondo la
Parola di Dio, rende anche noi capaci di amare, nonostante tutto,
ci guida e ci illumina anche nei momenti di buio e di smarrimento.
Lo Spirito, però, non agisce da solo, ha bisogno della nostra
apertura, della nostra collaborazione. Anche se siamo consapevoli
della nostra fragilità, il prodigio della Pentecoste ci dà la possibilità
di comunicare con efficacia la Parola di vita per estenderla ad ogni
persona con cui entriamo in contatto. Continuiamo la nostra fer-
vente invocazione: “Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi
fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore”. Sì, infiamma il
nostro cuore, perché anche noi, con umiltà e coraggio, diventiamo
annunciatori della Parola di Dio ai nostri fratelli perché anche loro
siano colmati della tua forza, del tuo amore, della tua pace.

146
TEMPO ORDINARIO

SECONDA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: 1Sam 3,3b.10-19


Salmo 39
Seconda lettura: 1Cor 6,13c.15a.17-20
Vangelo: Gv 1,35-42

Dopo la festa del Battesimo di Gesù della Domenica scorsa, la liturgia


odierna ci suggerisce di fermarci ancora sulla figura di Giovanni
Battista riguardo al suo ministero in riferimento a Cristo. Se anche
nell’Avvento abbiamo meditato sulla maestosa figura del Battezza-
tore, oggi ci viene presentato il passaggio dei suoi discepoli a Colui
che è stato presentato come l’Agnello di Dio, e siamo chiamati
particolarmente all’ascolto della Parola di Dio perché l’ascolto è la
condizione principale per seguire il Signore. In modo speciale ve-
147
SECONDA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

niamo invitati a meditare sul tema della vocazione che scaturisce


dalle letture che abbiamo appena ascoltato.

1. La comprensione biblica della vocazione - Cosa vuol dire la parola


Vocazione? E una “chiamata”, cioè un appello di Dio verso l’uomo,
per ogni uomo a diventare discepolo di Gesù. Nella storia di tutta
la Bibbia, la vocazione non è frutto di una proposta o di una richie-
sta da parte dell’uomo, ma sempre di una libera iniziativa di Dio
che sceglie ed elegge; è un genere di vocazione profetica a partire da
Abramo, Mosè, Davide, Geremia, Isaia, Giona ecc. Il ruolo di coloro
che ebbero la vocazione, o che sono stati chiamati è quello di accettare
liberamente di essere intermediari, messaggeri, mediatori tra Dio ed
il popolo, di svolgere un’opera particolare, un ruolo speciale e respon-
sabile, non per un impegno momentaneo, ma per tutta la vita.
La prima lettura ci racconta della vocazione di Samuele. Egli è
il simbolo del discepolo che non conosce ancora il Signore, ma è
disposto ad ascoltare, ad imparare con prontezza e si dimostra
sensibile alla parola del Signore: “Parla, Signore, perché il tuo servo
ti ascolta”. Samuele, a differenza di altri profeti chiamati, non solleva
nessuna obiezione, né riceve una missione precisa, ma appena rico-
nosce l’appello ricevuto lo accoglie, pronto a diventare non solo
profeta, ma sacerdote e giudice per Israele perché il Signore era con
lui e non lasciò “andare a vuoto una sola delle sue parole”. Come
commento alla chiamata di Samuele viene proclamato il Salmo 39
che attualizza lo stato d’animo del profeta: “Ecco, io vengo, Signore,
per fare la tua volontà”. È una preghiera di ringraziamento che
unisce i motivi di supplica, di fiducia e allo stesso tempo dichiara
la disponibilità a compiere la volontà di Dio, fare cioè quello che
il Signore gli chiede. Questo desiderio è applicato a Samuele, ma
ancora di più a Gesù che dichiara la sua piena disponibilità a com-
piere la volontà del Padre. Approfondire l’iniziativa preveniente di
Dio porta con sé tutto un processo di interiorizzazione e di scoperta
progressiva delle esigenze spirituali e morali della propria vocazione.
Tutto in noi dovrà diventare segno della realtà che ci portiamo
dentro che è Dio, il Dio che vive in ognuno di noi e che si deve
148
SECONDA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

rendere palese, si deve manifestare attraverso il nostro sguardo, i


nostri gesti, il nostro sorriso, la nostra parola la nostra semplicità,
la nostra fatica, il nostro lavoro – tutto diventa segno di Lui come
ci ha ricordato san Paolo nella seconda lettura: “Voi siete la dimora
di Dio… il tempio di Dio… voi siete la presenza di Dio in mezzo al
mondo e noi non apparteniamo a noi stessi ma siamo stati riscattati
a caro prezzo…, il prezzo del sangue di Cristo” e questo dà il diritto
a Dio di fare la chiamata, e si rivolge a noi con un progetto di vita.

2. La novità della ‘vocazione’ nell’atteggiamento di Gesù - La realtà,


l’esperienza, il fenomeno della vocazione, continua anche nel Nuovo
Testamento: Gesù sceglie e chiama i suoi discepoli ed in Gesù si
manifesta una novità nel capire questo termine e si comprendono
nuovi aspetti. Infatti, la chiamata non è solo per affidare a svolgere,
a realizzare un compito voluto da Dio; Gesù non chiama solo in
funzione di farli diventare Suoi “strumenti”, ma contiene un nuovo
significato; non si tratta, quindi, solo di ciò che bisogna fare, ma
entrare in una nuova qualità della vita. Nel Vangelo di Giovanni
c’è la domanda di Gesù “Che cercate?”, cioè chiede: Che volete fare
della vostra vita, quali sono i profondi desideri, gli ideali per cui
vale la pena di impegnare la vita? Egli provoca nei discepoli le
aspettative più profonde, quelle fondamentali che risultano dal
bisogno del vero senso della vita, del vero bene. I discepoli non
sapevano cosa dire e rispondono con una domanda: “Signore,
dove abiti?” Essi cercavano di conoscere meglio Gesù, volevano
stringere un rapporto di forte legame con il Maestro, fare amicizia
con Lui. Gesù risponde: “Venite e vedrete”. Gesù si offre ad aprir
loro la sua casa, non la casa materiale ma li invita ad entrare nella
Sua tenda/abitazione; è un invito a far conoscere la Sua proposta e
a suscitare il desiderio di farsi riconoscere non come semplice inse-
gnante ma come Maestro della vita. I discepoli rimasero con Lui a
parlare ed in questo rapporto di intimità, in questa profonda rela-
zione scoprono che Gesù è la risposta ad ogni domanda sul signifi-
cato e senso dell’esistenza poiché Lui è la Via, la Verità, la Vita. Il
Signore ci ha liberato da ogni schiavitù, per cui desidera che noi
149
SECONDA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

facciamo la Sua volontà, accettando il suo dono che consiste nell’es-


sere amati senza condizioni, in ogni momento, in qualsiasi situazio-
ne. Gesù non condiziona, non obbliga, ma ‘consegna’, ovvero fa
soltanto un invito ad accettare la sua proposta. Ecco l’invito che
Gesù ci fa: lasciarsi coinvolgere completamente ed in ogni momento
della nostra esistenza; avere consapevolezza della vita, del perdono,
della misericordia, della grazia, “conquistati a caro prezzo”. Ed una
volta accettato questo messaggio, portarlo agli altri.
Vocazione è, quindi aderire alla chiamata di Gesù, è riconoscerlo
come il Messia, come fa Andrea, come l’unico capace di trasformare
la propria vita e renderla “riuscita”, realizzata, piena, abbondante e
completa. Infatti nella nostra traduzione, di quell’incontro viene
detto: erano le quattro del pomeriggio, che nel linguaggio biblico è
l’ora decima; la cifra dieci significa cifra completa, un’ora che per
l’autore del Vangelo, che ama i significati simbolici, è l’ora che
cambia la vita. La nostra vita, grazie a Gesù diventa vocazione; una
vocazione normale: non servono doni straordinari come Mosè,
Abramo, tanti Santi o persone carismatiche che hanno guidato e
attirato numerose persone portandole a Gesù, Una vocazione nor-
male, come è avvenuto per Samuele un ragazzo semplice che ha
ricevuto la vocazione essendo chiamato per nome da Dio. I discepoli
che hanno ascoltato Giovanni Battista, quindi attraverso la media-
zione di qualcuno che sa “toccare” il nostro cuore, ci fa avvicinare
a Gesù, Via, Verità e Vita che è la risposta alla domanda sul signifi-
cato e senso della vita.
La vocazione cristiana è evangelizzare sempre e dovunque, portare
Gesù nei luoghi in cui viviamo, anche a costo di andare controcor-
rente ed, evangelizzando noi stessi, ci lasciamo sempre più plasmare
dal Vangelo. Nella misura in cui si diventa missionari, in cui si
diventa testimoni con uno stile di vita vissuta con sobrietà e nella
generosa dedizione verso tutti si cresce di più, si diventa più maturi,
con più fiducia e consapevolezza di appartenere al Signore. Ringra-
ziamo il Signore che ci ha chiamati, lasciamoci coinvolgere e pla-
smare; così portando il lieto annuncio porteremo a perfezione la
nostra vita.

150
TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Gio 3,1-5.10


Salmo 24
Seconda lettura: 1Cor 7,29-31
Vangelo: Mc 1,14-20

1. I tratti essenziali del Vangelo di Marco - A partire da questa do-


menica il vangelo che ascolteremo nell’anno liturgico B è tratto dal
vangelo di Marco. È il vangelo più breve, più semplice, ed è stato
composto intorno al 70 d.C.. Marco è stato collaboratore di Paolo
negli Atti degli Apostoli e confidente di Pietro (1Pt 5,13); il suo
Vangelo è per antonomasia “il Vangelo del discepolo” e della do-
manda: “chi è Gesù?”. A queste domande egli risponde con una
netta professione di fede: Gesù è il Messia, il figlio di Dio. Il racconto
di oggi parla dell’inizio del ministero di Gesù e ci pone di fronte
alla bella notizia dell’intervento divino nella nostra storia, ma ci
interpella anche chiedendo un serio cambiamento e una fiduciosa
disponibilità. Il brano evangelico di oggi si divide in due parti. La
prima che tratta dell’inaugurazione della missione di Gesù, (v.14-15);
e la seconda che riporta il racconto della chiamata dei primi discepoli
(v.16-20).
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”, è l’annuncio
di Gesù del Regno di Dio fatto ad ogni uomo di ogni epoca, luogo
e storia. Diversamente dalle attese giudaiche qui viene posta l’atten-
zione non sul “quando”, ma sull’“ora”: infatti il tempo è giunto al
suo punto centrale, al suo apice, cioè al suo compimento. Il tempo
è compiuto significa che il Regno ha raggiunto in Gesù la sua pie-
nezza. Tutto rientra nel disegno di Dio e l’attesa fin qui protrattasi
ha trovato risposta (Gal 4,4).
“Convertitevi e credete nel Vangelo”. L’evangelista Marco ci fa
capire che la svolta radicale della propria vita è la condizione neces-
saria per incontrare Dio. Questa proposta, questo progetto fa nascere
151
TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

negli ascoltatori l’entusiasmo, si intravedono immagini di un modo


di vivere affascinante e prodigioso, fa scorgere una convivenza umana
riconciliata, una fraternità cristiana perché Gesù vive ciò che annun-
cia. Il Regno di Dio è innanzitutto rompere con la malvagità dell’uo-
mo per cambiare la realtà fondata su giustizia, amore, pace, libertà,
verità, per stimolare un cambiamento radicale del regno dell’uomo.
Occorre cambiare gli occhi prima di vedere, il cuore prima di aderire
alla Verità che rimette in discussione la nostra esistenza. La grazia
portata da Gesù chiede una risposta. Convertirsi significa un capo-
volgimento di mentalità, cambiare la direzione della vita. È girare
le spalle al passato per dare l’inizio ad un nuovo cammino. Credere
nel Vangelo indica non solo essere persuasi della sua verità ed affi-
dabilità, non è solo una attività intellettuale o un impegno morale,
ma un atto totale, personale e spirituale di aprirsi, fidarsi, rischiare,
lasciarsi coinvolgere ed immergersi dentro di esso, facendone il
fondamento della propria vita.

2. La ripresa del tema della ‘vocazione’ - In continuità con la do-


menica scorsa, anche nel Vangelo di oggi appare la questione della
vocazione. Marco ci presenta Gesù, nel suo cammino quotidiano,
è lungo le strade ed i luoghi dell’uomo che incontra i primi disce-
poli, mentre questi stanno esercitando il proprio mestiere. La
vocazione nasce da uno sguardo “vide Simone e Andrea…”. “Vede-
re”, nel linguaggio biblico non è un semplice osservare, ma uno
“scegliere”, come quando Dio guarda/elegge David oppure
guarda/predilige l’umiltà di Maria. Gesù guarda le persone e le
interpella in una relazione personale: il Suo è uno sguardo che si
fa Parola.
L’abbandono delle reti da parte di Simone e Andrea significa
distacco totale dalle sicurezze che avevano sino allora garantito la
loro vita. Il “subito” evidenzia la radicalità e la prontezza della
risposta dei due a Gesù nell’abbandonare gli strumenti del mestiere.
Nella scena successiva notiamo che nel caso di Giacomo e Giovanni,
Gesù utilizza un altro verbo: “li chiamò”, che ci fa pensare ad una
chiamata specifica alla salvezza. Essi abbandonano all’istante il loro
152
TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

padre e i loro compagni di lavoro rispondendo con prontezza all’ur-


genza della chiamata.
In Gesù c’è la nostra vocazione, cioè la nostra identità. Abitare
con lui, entrare sotto la sua ‘tenda’ comporta di appartenere a Lui,
è la nuova qualità della vita. Quanto più siamo Suoi, tanto più
siamo sicuri di noi stessi. Infatti ogni vocazione non rappresenta
un fatto inutile, ma produce un cammino e si trasforma in program-
ma di vita.
“Vi farò diventare pescatori di uomini”. Gesù promette loro
qualcosa di molto grande. Da pescatori di pesci sono chiamati a
diventare pescatori di uomini. Si tratta di una chiamata, di un’affa-
scinante esperienza, di una grande gioia nel collaborare con Gesù
nell’annuncio del suo messaggio salvifico, nell’opera della redenzione.
Nell’ascolto della predicazione del Vangelo da parte dei discepoli
possiamo anche noi renderci disponibili, aperti e desiderosi di
proclamare la salvezza alle persone che stanno accanto a noi. Quanto
più ci sentiamo sicuri, accettati, confermati nel Signore e dal Signore,
tanto più siamo aperti e non piegati, concentrati su noi stessi. Co-
minciamo pure noi a provare il desiderio stesso del Signore di far
avvicinare gli altri a Lui per far scoprire loro l’Amore di Dio. La
sequela di Gesù provoca un rinascita della propria vita e conduce
alla conversione.

3. La conversione - La Liturgia odierna evidenzia anche un paralle-


lismo fra tutti i testi: del profeta Giona, di san Paolo e del Vangelo.
Essi sono focalizzati sul tema della conversione. Questo tema lo
troviamo nella prima lettura tratta dal libro del profeta Giona nella
quale si racconta di questo profeta che riceve l’ordine da Dio di
recarsi a Ninive, capitale dell’Assiria (odierno Iraq), una città dove
esisteva corruzione, idolatria, prostituzione, a portare l’esortazione
alla conversione al cambiamento di vita. Giona non vorrebbe com-
piere questa missione ed in un primo momento cerca di evitarla
perché gli sembra un fatto incredibile che Dio voglia cercare ed
usare misericordia all’infuori di Israele. Tuttavia, benché Giona
annunci solo la distruzione della città, i cittadini di Ninive si pen-
153
TERZA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

tirono e cambiarono vita. Nel constatare questo cambiamento, questa


conversione dal loro comportamento malvagio, anche Dio in qualche
senso ‘si converte’ dalla punizione che aveva deciso di operare. Ci
sono dei legami tra la prima lettura ed il Vangelo. Uno di questi è
il tempo: qui Giona annuncia “ancora quaranta giorni” per la con-
versione, mentre per i Galilei “il regno di Dio è vicino”. Dio lascia
all’uomo il tempo di maturare per portare frutti di conversione,
come è stato detto nel primo punto.
In continuità con la seconda lettura della precedente Domenica,
Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, affronta i problemi della prima
Chiesa, in cui ammoniva i cristiani riguardo alla vita matrimoniale,
rivolgendosi in particolare a coloro che si comportavano in maniera
disdicevole nel contesto della sessualità, a coloro che rifiutavano di
sposarsi, ai casi di divorzio e ai matrimoni misti esortandoli a rima-
nere fedeli al proprio battesimo. L’avvertimento di Paolo “il tempo
si è fatto breve” cioè limitato, ridotto, non va inteso in senso cro-
nologico, come se si respirasse imminente la fine del mondo, ma
qualitativamente, come tempo opportuno (kairòs), del discernimento
e della decisione. Il vivere “come se non…” che Paolo ripete più volte
non va compreso come un rifiuto o un disprezzo del mondo pre-
sente, ma come segnale che le realtà strettamente terrene vanno
sempre apprezzate in funzione del Regno di Dio. Si tratta di dare
ad ogni cosa il giusto valore senza farne il fine esclusivo. La frase
“quelli che usano dei beni del mondo vivano come se non li usas-
sero pienamente” riassume questo atteggiamento. Nessun bene
umano, neppure il più nobile, può prendere il posto di Dio. Il
confronto racchiuso è tra i valori effimeri, temporali, non definitivi
e la pienezza dei beni eterni che provengono dal Risorto.
Impariamo, pertanto, a prendere le dovute distanze, da ogni cosa
che fa parte della nostra vita, dai beni umani e temporali che possono
essere importanti e di valore, ma non sono mai assoluti.

154
QUARTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Dt 18,15-20


Salmo 94
Seconda lettura:1Cor 7,32-35
Vangelo: Mc 1,21-28

1. L’autorità - Oggi domandiamo al Signore che cosa ci vuole comu-


nicare, su quale argomento, su quale tema insiste; che cosa vuole
che noi percepiamo ed accettiamo come Suo messaggio con la parola
che ci trasmette. Che cosa ci colpisce dell’atteggiamento e delle parole
di Gesù? Quale attributo si potrebbe assegnare oggi a Gesù dal
racconto che abbiamo appena ascoltato?
Marco racconta e descrive la scena in cui Gesù caccia via il de-
monio, guarisce un uomo liberandolo da uno spirito impuro rivol-
gendosi a lui con severità “Taci! Esci da lui! … E lo spirito impuro
straziandolo e gridando forte uscì da lui”. Quale è stata la reazione
della gente? A questo miracolo, la gente reagisce con grande timore,
gli astanti restano attoniti per la potenza di Gesù sugli spiriti del
male, “Tutti furono presi da timore tanto che si chiedevano a vicen-
da: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità»”.
Quindi, il messaggio di oggi è sul tema dell’autorità. Con l’autorità
Gesù insegna e compie le sue opere di guarigione, di liberazione, di
salvezza (tutti gesti di benevolenza). “Gesù, entrando nella sinagoga,
(a Cafarnao) insegnava. “Ed erano stupiti del suo insegnamento;
egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli
scribi” (Mc 1,21).

2. L’autorità nella vita umana - Nella nostra esperienza ordinaria,


quotidiana cos’è l’autorità? Non è certo dominio, potere, costrizione
o voler imporre a tutti i costi agli altri la propria volontà senza
rispettare l’altrui libertà. Comunque è una caratteristica importante,
necessaria nel nostro agire, operare, parlare, affinché le opere siano
155
QUARTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

efficaci. L’autorità di una persona permette che la sua parola, il suo


discorso raggiunga il destinatario, l’interlocutore e che susciti nel
cuore, nell’animo, nella mente una reazione, una provocazione che
abbia significato, valore, senso; che sia una parola creativa e costrut-
tiva. Se non c’è questa autorità, non c’è nemmeno l’ascolto. Questo
vale anche per le opere: se una persona ha autorità, il suo compor-
tamento può portare a risultati positivi ed efficaci, altrimenti, qual-
siasi cosa faccia, non sarà presa in considerazione. Se una persona
possiede autorità, garantisce dando la sua parola, ascoltando e ac-
cettando, quanto fa e dice e con le sue opere metterà gli altri sulla
retta via.
Alcuni esempi: se i genitori hanno autorità con cui trasmettono
i veri valori che loro stessi praticano, c’è maggiore sicurezza e spe-
ranza che i figli cresceranno nel modo migliore: saranno educati,
responsabili, creativi, sia nella vita familiare che in quella sociale.
Se i genitori hanno autorità i figli ascolteranno. Se gli insegnanti
hanno autorità, più facilmente arriveranno a trasmettere agli studenti,
in modo efficace le conoscenze e le doti che gli studenti/allievi
accetteranno, coglieranno con interesse; saranno affascinati, trascinati
da ciò che trasmette un insegnante. Se chi è responsabile sul piano
sociale e politico, svolge il suo incarico con giustizia e sa difendere
i diritti umani del popolo che gli è stato affidato, se sa organizzare,
secondo le regole della solidarietà e della giustizia tutta la vita sociale,
allora potrà godere di stima e di rispetto. Se gli imprenditori hanno
autorità, sono ascoltati dagli impiegati ed operai che, siccome il
proprietario non è un dittatore, ma una persona onesta, si fidano
e ascoltano facendo così nascere una circolarità di collaborazione
tra proprietari e dipendenti e sono contenti da entrambe le parti.
Anche tra le amicizie, se c’è una persona che ha autorità suscita
confidenza, apertura e con più facilità si è capaci di aprirsi, condi-
videre le proprie difficoltà, pene, gioie, successi. Quindi, nella vita
quotidiana, l’autorità, bisogna meritarsela, guadagnarsela. Non la
si può imporre o pretendere.
Certo, si può essere ‘autorevoli’ nel senso negativo anche quando
si parla male e si fanno cose cattive, ad esempio i fondatori dei
156
QUARTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

sistemi totalitari, i dittatori, i despoti, i tiranni, responsabili dei


fallimenti, dei disastri, delle stragi. I criteri comunque sono ricono-
scibili nelle parole, nelle opere, nella reciprocità, nel legame e nella
coerenza; innanzitutto il criterio della vera autorità sta nei buoni
frutti che essa produce.

3. L’autorità di Gesù - Nel Vangelo di oggi, Marco raccontando


questo episodio, presentandoci questa scena, non ci dà nessuna
definizione di che cosa è l’autorità. La potremo capire, comprendere
meglio, analizzando l’atteggiamento di Gesù. Infatti a Gesù viene
attribuita l’autorità poiché Egli si presenta come un personaggio
che ha grande potere. Ma in che cosa consisteva la Sua autorità?
Soprattutto nella certezza di essere Figlio di Dio, è un’autorità
soprannaturale che si dimostra nella Sua perfetta coerenza tra le
parole e le opere, tra l’insegnamento di cui ci parla la prima parte
del Vangelo e l’opera realizzata; è l’autorità con cui solo Lui può
portare la salvezza eterna. Anzi, Egli è la Salvezza. Gesù trovandosi
di fronte ad un uomo posseduto dal diavolo compie il suo primo
esorcismo; “esci da lui”. Il miracolo di liberazione è un gesto d’amo-
re, di misericordia, di guarigione, come è descritto nella seconda
parte del Vangelo. Egli insegna con una autorità superiore, originaria
e originale che ha il fondamento nella Sua stessa persona: “è stato
detto…, ma io vi dico” (Mt 5).
Dopo aver parlato, annunciato, pronunciato, subito opera, agisce;
la sua coerenza comporta ciò che dice. Se proclama la liberazione,
la realizza, la fa, la porta. Portando la guarigione, la liberazione, la
salvezza conferma la parola detta prima e quindi la sua parola è
credibile e affidabile. Oltre alla coerenza ci sono anche altri criteri
per capire la Sua autorità ed il suo atteggiamento autorevole: la
Signoria di Gesù ha trovato conferma di fronte ai suoi ascoltatori,
facendo provare come la santità che appartiene solo a Dio stesse
con Lui. Il Santo di Dio era in mezzo a loro, aveva preso ad abitare
con loro per sempre. Dio, il Santo, il totalmente Altro non sarà più
inaccessibile. Si è incarnato in Gesù di Nazareth; può essere toccato,
ascoltato e, nel morire e risuscitare dai morti, ha versato su di noi
157
QUARTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

lo Spirito Santo che consola ogni pena, asciuga ogni lacrima, infonde
speranza in ogni uomo. Oggi, come ieri Gesù insegna con autorità
e lo Spirito Santo aiuta ad interpretare ciò che dice.
Ringraziamo il Signore che oggi ha voluto che riflettessimo su
questo argomento dell’autorità e che ci spinge ad essere credibili e
affidabili. Attraverso il Signore, in modo più efficace, potremo
continuare a parlare, a comunicare secondo il modo in cui viviamo.
Lo ringraziamo per ciò che ci ha comunicato e Gli chiediamo che
ci dia la forza, la grazia e l’aiuto affinché siamo in grado di poterLo
imitare.

158
QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Gb 7,1-4. 6-7


Salmo 146
Seconda lettura: 1Cor 9,16-19.22-23
Vangelo: Mc 1,29-39

1. Il problema del male - Le letture di oggi fanno riflettere sulla


malattia, sul dolore umano, sull’umanità sofferente che attende di
essere guarita. Possiamo dire che esistono tre tipi di male che fanno
parte della nostra vita. Prima di tutto il male personale, quello
individuale che si compie facendo scelte sbagliate. Questo tipo di
male si chiama “peccato”, quindi: il primo tipo di male è il peccato
commesso da noi stessi; il secondo, è quello naturale che non dipende
da noi (catastrofi, incidenti, malattie), che comunque ci colpisce e
ci fa del male; il terzo infine è il male subìto da parte di altre persone,
che deriva dal cattivo comportamento di altri: offese, sfruttamento,
oppressione, torti. I testi odierni fanno piuttosto rivolgere lo sguardo
verso il male concepito come dolore e sofferenza, sia naturale che
subìta da parte altrui.

2. Il male del giusto - Il brano della prima lettura tratta dal libro di
Giobbe, primo della serie dei libri sapienziali, descrive la realtà
oggettiva in cui ci troviamo fin dall’inizio: in una situazione della
nostra vita che non possiamo cambiare. Questo capita soprattutto
a persone perseguitate, povere, sfruttate, emarginate, disprezzate,
oppresse, allontanate. Infatti possiamo dire che il dolore è un’espe-
rienza, un destino comune a tutta l’umanità e nello stesso tempo è
un mistero. Il personaggio di Giobbe, protagonista dell’omonimo
libro, del quale oggi si legge un brano, rappresenta la figura della
persona che soffre per il male non commesso da lui. A Giobbe la
sua sofferenza, la situazione di dolore, del buio (gli) sembra assurda,
inspiegabile, ma nonostante abbia perduto tutti i suoi beni e tutti
159
QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

i suoi affetti, non perde la fiducia in Dio proclamando: “il Signore


dà, il Signore toglie, benedetto il nome del Signore”. La sua vita gli
appare ormai senza speranza e quindi gli è diventata insopportabile,
per questo chiede di porre fine alla sua esistenza. Dopo queste im-
magini di riflessione sulla fatica, sulla precarietà dell’esistenza umana
sulla disperazione, Giobbe si apre all’invocazione e alla preghiera.
Egli non riesce a risolvere e a spiegare il problema del giusto che
soffre e cerca soprattutto di trovare un senso alla propria vita. Giobbe
comprende il valore purificatore della sofferenza e che è necessario
guarire dal proprio orgoglio spirituale. Qui appare il mistero del
dolore innocente che prefigura la passione di Cristo che avrà carattere
espiatorio per i peccati del mondo intero. Anche noi possiamo far
esperienza del male, ci può accadere di perdere la salute, la pace in
famiglia, la prosperità, il lavoro e ci potremmo domandare: “Perché,
come mai è successo, come mai è successo proprio a me? Perché Dio
non mi ha protetto e mi fa vivere questi momenti che non credo
di meritare?”. “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi
ti vedono” (Gb 42,5).

3. Gesù di fronte al male - Passando a meditare il brano del Vangelo,


ci chiediamo: qual è il comportamento di Gesù? Quale atteggiamento
assume di fronte al male? È molto importante scoprirlo! Egli non
fugge di fronte al male, al dolore, non nasconde la testa sotto la
sabbia, non giudica le persone che soffrono come se fossero colpevoli
del loro male. Anzi Gesù si fa prossimo, assume su di sé il dolore
e la sofferenza delle persone segnate da dure prove. I suoi gesti
confortano, guariscono, sostengono il loro cammino. E tutto questo
lo compie nel silenzio, nel raccoglimento, nella preghiera. A volte
ci facciamo l’idea falsa che le persone che stanno male lo meritano;
meritano la sofferenza, il dolore a causa dei loro peccati, come se
fosse una punizione, un castigo da parte di Dio. Gesù non giudica
le persone così; non le considera di valore inferiore, non le tratta
come inutili, senza importanza, inferiori a chi sta bene. Anzi, come
scrive Marco nel suo Vangelo, considera i poveri, i malati, i bisognosi,
i sofferenti come i primi che cercano la salvezza: “tutti ti cercano”,
160
QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

non solo gli apostoli, ma tutti questi bisognosi, malati, sfruttati, che
sono stati messi tra parentesi nella vita comunitaria della città, della
civiltà; questi poveri sono in prima fila a cercare la redenzione dal
male che subiscono, a desiderare la salvezza. Per questo Gesù va loro
incontro, in mezzo al dolore, in mezzo alla sofferenza diffusa, in
mezzo alla gente. Il 70% della popolazione vive, oggi, nella povertà,
nello sfruttamento, nella persecuzione, nell’oppressione, nell’ingiu-
stizia. Gesù va in mezzo a questi poveri sofferenti, disprezzati, rifiu-
tati, considerati come immondizia del mondo. Affronta con coraggio
la sofferenza e il dolore; non rimane indifferente, non si ripiega su
se stesso e non trova scuse per spiegare la situazione tirandosi indie-
tro, prendendo le distanze, allontanandosi in un atteggiamento di
inerzia e falsa pace. Gesù aveva il coraggio di far fronte a questa
realtà, anzi, ha deciso di immedesimarsi con loro. Per questo nel
Vangelo si legge: “Cristo ha preso le nostre infermità, si è caricato
delle nostre malattie…”. È difficile immaginare che i malati, guariti
da Gesù d’allora in poi ebbero una vita tranquilla e felice. Piuttosto
nella loro guarigione hanno scoperto la continua, premura e cura
di Dio con la quale potevano essere più fiduciosi e coraggiosi ad
affrontare ogni prova di dolore. Con Cristo qualsiasi situazione
difficile assume un significato profondo se nutriamo la speranza
che stando accanto a chi soffre, nel farci prossimo con umiltà verso
i deboli e gli ultimi, riusciamo ad essere esempio da imitare, rinvian-
do a Cristo, fonte e modello di amore che rende liberi per essere
servi gli uni per gli altri.

4. E noi di fronte al male? - Se ci trovassimo in momenti di difficoltà


e di dolore, di sofferenza, di povertà, di malattia, di disgrazia, qual
è il messaggio per noi dal Vangelo di oggi? Prima di tutto accettare
la realtà, non scappare, accettare la situazione, ma non in modo
passivo, di rassegnazione e pensando che ‘ormai è finita’, ma cer-
cando, attraverso la preghiera, di trasformare la realtà che viviamo
e affrontiamo, in un’occasione ed un’opportunità per cercare il
Signore, la Sua salvezza, la Sua liberazione. “Tutti ti cercano”. Anche
noi, bisognosi che stiamo male, invece di chiederci “come mai,
161
QUINTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

perché mi è successo?”, dovremmo essere stimolati e spinti a cercare


il Signore “Signore, salvami!” come abbiamo pregato nel salmo:
“Risanaci Signore, Dio della vita”. Così il nostro dolore, la nostra
sofferenza, potrebbe diventare il luogo dell’incontro con il Signore,
che non rimane indifferente, ma ci salva.
Se ci troviamo di fronte al male degli altri, il Vangelo ci invita
a seguire l’esempio di Gesù: dimostrare l’interesse, la compassione
nei confronti di chi soffre; essere presenti ed assumere l’atteggiamento
di partecipazione ai loro dolori, condividere la loro sorte, la loro
condizione ed avere grande rispetto verso di loro e non considerarli
di seconda, terza o ultima categoria, inutili, senza significato. Noi
cristiani, siamo chiamati a ridare loro la dignità, il valore che ap-
partiene loro come persone. Anche noi, oggi, seguendo l’esempio
di Gesù, siamo invitati ad essere solidali, compassionevoli, verso chi
ha subìto dei torti. Perciò facciamo questo buon proposito di essere
più aperti e vicini verso coloro che stanno male, tanto più che siamo
vicini a celebrare la ventitreesima giornata del malato, istituita da
san Giovanni Paolo II. Tante persone hanno vissuto o vivono questa
esperienza, perciò cerchiamo, in modo comunitario, di sostenere e
prendere su di noi le infermità, le malattie e i dolori degli altri.

162
SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Lv 13,1-2.45-46


Salmo 31
Seconda lettura: 1Cor 10,31-11,1
Vangelo: Mc 1,40-45

1. La ‘purificazione’ - Nella terza domenica ordinaria Gesù continua


ad annuncia che “il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino:
convertitevi e credete nel Vangelo”; nella quarta domenica Gesù
sbalordisce per la nuova dottrina insegnata con autorità, comanda
perfino agli spiriti immondi che gli obbediscono e vincendo il male
mostra un Dio che opera e regna; nella quinta domenica Gesù gua-
risce molte persone sofferenti di tante malattie e scaccia molti de-
moni; le guarigioni sono segni dell’onnipotenza di Dio, che si svela
in Gesù, segni che satana è vinto e che il tempo è davvero compiuto.
a) La ‘purificazione’ nel mondo biblico - La Parola di Dio oggi, sia
nella prima lettura che nel Vangelo, ci propone il tema del termine
‘purificazione’. Si tratta della purificazione dalla lebbra, che intesa
sul piano fisico, determinava lo stato di impurità e quindi la sepa-
razione, l’emarginazione dalla società, finché la persona malata non
fosse guarita. La lebbra segnava di fatto la morte sociale del lebbroso
che era condannato a vivere isolato dalla città; non si potevano avere
contatti con lui, per la possibile contaminazione, non era ammesso
al culto liturgico e di conseguenza era escluso dalla comunione con
Dio. Guarire un lebbroso significava, da un certo punto di vista
risuscitare un morto.
Nell’Antico Testamento e fino ai tempi di Gesù c’era un certo
modo di valutare l’impurità che veniva considerata soprattutto dal
punto di vista esteriore: erano considerati impuri i riti pagani, il
culto degli dei, alcuni cibi (es. il maiale), le tradizioni straniere, le
malattie, specialmente la lebbra, ritenuta come punizione dei peccati.
163
SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

La purità, al contrario consisteva nell’osservare tutti i precetti, le


norme, le prescrizioni di legge che gli ebrei avevano aggiunto in
misura esagerata ai 10 Comandamenti consegnati da Dio a Mosè
sul Sinai: un “pesante fardello” come le aveva chiamate lo stesso
Gesù (riti, abluzioni, offerte, evitare i lebbrosi ecc.).
Nel Nuovo Testamento si considerano, piuttosto, questi due temi
dal punto di vista interiore: l’impurità del cuore è rappresentato da
odio, invidia, ipocrisia, falsità, perversità, orgoglio, superbia. La pu-
rezza come una virtù morale: semplicità, trasparenza, sincerità, coe-
renza, umiltà, magnanimità. “Beati i puri di cuore” proclama Gesù;
la purezza viene intesa come desiderio di cercare la volontà di Dio.
b) La novità di ‘purificazione’ esercitata da Gesù - Nel Vangelo di
Marco viene evidenziato, infatti, che oltre la guarigione della malattia
fisica è indispensabile anche quella spirituale. L’episodio del Vangelo
narrato oggi si concentra in tre passaggi: la guarigione del lebbroso
(vv.40-42); l’ammonimento a tenere segreto il miracolo (vv.43-44);
la propagazione del miracolo da parte del lebbroso guarito (v.45).
La vera purificazione deve avvenire all’interno dell’uomo, perché la
lebbra interiore rovina la vita. La lebbra interiore è tutto ciò che ci
tiene lontani dal Signore; è il nostro sguardo offuscato, corrotto,
che non ci permette di vedere in modo giusto. La purificazione ci
permette di ricreare l’unione con il Signore, che libera il nostro
sguardo sulla vita facendocela vedere nella sua vera realtà; ci libera
da ogni condizione di dipendenza, di egoismo, di sospetti, di invidia,
di mancanza di compassione verso gli altri.
“Se vuoi, puoi purificarmi!”. Il lebbroso ha un atteggiamento di
invocazione, di insistenza; chiede di essere aiutato, è inginocchiato
in segno di venerazione verso Gesù il quale ne ha compassione: “Lo
voglio, sii purificato!”. In altre parole, Gesù vorrebbe dire: “voglio
ripristinare la tua condizione di persona malata, sofferente, emarginata.
Voglio che ritorni a vivere nella società, ed apprezzare il senso pro-
fondo della tua vita”. Gesù toccando il malato, stabilisce visibilmente
una relazione concreta con Lui, gli rivela la misericordia di Dio.
L’impurità del lebbroso che cerca la guarigione, non gli toglie
la purezza del cuore; nella sua preghiera, nella sua umiltà e sincerità,
164
SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

domanda di essere guarito. L’immagine del lebbroso è l’immagine


dell’uomo escluso dalla vita, che trova in Dio la sua salvezza. Egli
non si commisera, ma prende l’iniziativa, chiede di essere purificato,
collabora alla sua salvezza. La sua è una professione di fede. A volte
la malattia porta alla sfiducia, alla durezza, mentre il lebbroso con
la sua voglia di vivere non si dà per vinto, consapevole della propria
fragilità, va avanti, rischia, supera tutti gli ostacoli che lo bloccavano.
La purezza di Gesù è nella relazione concretamente vissuta, con
la quale rivela la misericordia di Dio. Egli non ha paura, si avvicina
ad un uomo che è separato, isolato e gli dimostra il suo Amore.
Nella purezza del suo sguardo, vede il cuore del lebbroso e si china
verso di lui, lo tocca e lo guarisce. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza
del malato, si contamina, si compromette per dare la vita. La scon-
fitta della lebbra è come un’anticipazione del dono pasquale: il
ritorno alla vita di un uomo già destinato a morire.
Per noi la purezza del cuore significa anche avvicinarci a coloro
che sono ritenuti “lebbrosi”, cioè esclusi, separati, peggiori peccatori.
L’agire di Gesù è modello per la vita cristiana.

2. Il ‘miracolo’ - Un altro tema proposto dalle letture di oggi è il


‘miracolo’. Nel linguaggio biblico i miracoli non sono soltanto degli
eventi straordinari, ma sono dei segni tramite i quali Dio si comu-
nica; sono accompagnati da un valore simbolico e sono la manife-
stazione dell’identità di Gesù che attraverso di essi svela che Egli è
Figlio di Dio che porta la salvezza. Gesù non compie i miracoli per
mettersi in mostra o per imporre la fede in Lui; non sono compiuti
per fare proseliti o convincere gli spettatori. Numerose volte Gesù
chiede ai miracolati di rimanere in silenzio ed è non raramente fatto
divieto a chi riceve il miracolo di seguirlo. Nel Vangelo di oggi Gesù
allontana subito il lebbroso dopo un’ammonizione severa. Egli non
chiede il compenso per sé, né la pubblicità, ma rispettoso della Legge
mosaica, lo rinvia al sacerdote per gli usuali riti che servono a rein-
tegrarlo nella comunità.
Il Nuovo Testamento racconta anche dei miracoli operati dagli
Apostoli, in quanto dono concesso a loro da Gesù perché potessero
165
SESTA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

manifestare la loro fede e annunciare il Regno di Dio e per poter


sollecitare il pentimento e la conversione tra le persone.
In questa ottica si comprende il messaggio di Paolo nella seconda
lettura in cui esorta i Corinzi ad evitare ostacoli all’annuncio del
Vangelo e alla manifestazione della gloria di Dio. Ognuno è invitato
ad evitare tutto quello che può inquietare la coscienza dei fratelli
più deboli, affinché si possa realizzare una comunità libera ed unita.
Paolo esorta ancora ad un comportamento di vita che sia radicato
nella fede in Gesù e a portare segni di solidarietà e disponibilità
mostrata con le buone relazioni con gli altri. Egli stesso come ser-
vitore del Vangelo, si presenta come modello da imitare.
Gesù lascia i ‘segni’ nella nostra vita quotidiana, ci manifesta la
sua volontà per risollevarci dalle malattie spirituali che rovinano la
nostra vita. Gesù predica come uno che ha autorità, guarisce i malati,
chiama i discepoli a seguirlo, perdona i peccati, tutte prerogative
che nell’Antico Testamento sono di Dio e solo di Dio.
Cerchiamo di essere attenti a ciò che Dio ci vuole comunicare,
ai segni, agli strumenti che sono la manifestazione della Sua presenza.
Una presenza silenziosa, ma operante in mezzo a noi. Se riusciamo
a percepire e sperimentare il Suo amore, è già questa un’anticipazione
della nostra definitiva guarigione e della salvezza.

166
SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Is 43,18-19.21-22.24b-25


Salmo 40
Seconda lettura: 2Cor 1,18-22
Vangelo: Mc 2,1-12

1. Il perdono
a) Il racconto di Marco - Dio non dimentica i suoi figli e non
abbandona mai nessuno e la missione di Gesù segue la stessa dire-
zione e si esprime nel perdonare i peccati. La bella notizia di Gesù
coincide con la Sua sensazionale pretesa di essere Dio, perdonando
i peccati. Una cosa che crea dei contrasti con gli avversari che
rappresentavano il sistema religioso di quel tempo ed uno di questi
contrasti riguarda appunto il perdono dei peccati. Tanta gente
aveva sentito parlare dei miracoli che operava Gesù e da ogni parte
venivano per poterlo incontrare, tanto da creare un sovraffolla-
mento che rendeva difficile percorrere le vie di Cafarnao. Il rac-
conto del Vangelo di Marco di oggi ci introduce in una scena nella
quale tutta la numerosa folla accorsa da Gesù aveva bloccato l’en-
trata della casa dove Lui si trovava. Tutti volevano vederlo, volevano
conoscerlo per essere guariti e per ascoltare la Sua Parola. Fra tutta
questa folla c’è un paralitico che non potendo camminare con le
sue gambe, era portato da quattro uomini molto decisi che questo
incontro potesse avvenire. Essi escogitano una maniera molto
ingegnosa facendo calare il malato dal tetto della casa con delle
funi. Gesù è colpito da questa loro determinazione e vede in questo
la “fede”. La loro attesa era quella che il paralitico fosse guarito,
che potesse tornare a camminare, ma Gesù fa molto di più: lo
perdona. Naturalmente il Suo intervento desta una reazione scon-
volgente sia perché nella mentalità biblica ogni malattia era messa
in rapporto con il peccato, con la colpa e sia perché secondo il
167
SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

comune modo di pensare religioso di quel tempo solo Dio poteva


perdonare i peccati.
b) Il senso di ‘perdono’ nell’attività di Gesù - Il perdono di Dio non
è come quello umano di ‘lasciar perdere’, non vendicarsi, non tenerne
conto, rassegnarsi. Eppure si ha l’impressione che il perdono di Dio
nella mentalità dei nostri tempi sia ridotto ad un atteggiamento
‘buonista’ e ‘lassista’, per cui il Signore lascia correre e non tiene
conto del male commesso. Questa è una concezione tipicamente
protestante del ‘perdono’ e della ‘misericordia’. Il senso autentico
del perdono come azione creativa di Dio, che è in grado di rendere
‘buono’ l’uomo ‘cattivo’, consiste nella possibilità di creare un ‘cuore
nuovo’. Gli “esperti della legge”, i suoi avversari, sono sconvolti da
quella inaudita affermazione di Gesù; la Sua pretesa equivale ad una
bestemmia perché si è attribuito un ruolo divino e parla come se
fosse Dio. Essi non avevano il coraggio di dire la loro perplessità,
ma Gesù comprende i loro pensieri e, senza rimproverarli dice loro
apertamente che è sbagliato pensare che Gesù ha bestemmiato perché
si comporta come Dio. Gesù intende farli riflettere e pone loro
questo interrogativo: “Che cosa è più facile: dire al paralitico «Ti
sono perdonati i peccati», oppure dire: «Alzati, prendi la tua barella
e cammina?»” (v.9). Gesù volendo rendere credibile la Sua parola,
aggiunge un’altra azione. L’effetto di perdonare i peccati non è
constatabile, non è visibile e potrebbe sembrare una cosa facile, ma
dire “alzati e cammina” è un fatto che può essere riscontrato da
tutti. Nel primo caso non accade niente che si possa accertare, mentre
nel secondo caso si può facilmente verificare il fatto accaduto. La
guarigione del paralitico è la prova concreta che Gesù ha il potere
che viene dall’alto e che questo potere gli permette anche di perdo-
nare i peccati. I gesti compiuti da Gesù sono dei segni ed hanno il
senso di far capire qualcos’altro di più grande. La Sua pretesa di
essere Dio non è azzardata perché Egli compie quello che dice, così
come con la parola di Gesù il paralitico è guarito, con la stessa
parola è perdonato. L’intervento di Gesù ci sollecita ad una inver-
sione di tendenza, a celebrare ciò che più vale, al di là delle appa-
renze. Abbiamo bisogno di serenità interiore come della salute fisica.
168
SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Gesù risana l’uomo nel corpo dopo averlo risanato nello spirito con
il Suo perdono. La Sua missione consiste, appunto, nel riportare
l’uomo all’immagine divina offuscata con il peccato ed il perdono
è la soluzione migliore per la guarigione sia fisica che interiore e
risana tutto l’uomo. L’evangelista Marco ama designare Gesù “Figlio
dell’uomo” che indica la sua doppia caratteristica: quella di un uomo
comune e insieme quella di un personaggio celeste dotato di poteri
straordinari. In altre parole Gesù è l’uomo che ha sulla terra lo stesso
potere che Dio ha in cielo, anzi Egli è l’intervento stesso di Dio
nella storia. Con questo termine Gesù si definisce come colui che
verrà a compiere il giudizio alla fine dei tempi. Il racconto termina
con la meraviglia della gente che si interroga sulla identità di Gesù
causata dal suo modo di agire: “Non abbiamo mai visto nulla di
simile” (v.12). È il primo passo verso la fede.

2. Gli effetti del ‘perdono’ alla luce dell’annuncio di Isaia - Questo


brano evangelico ci dà la sicurezza che Dio ci offre sempre la pos-
sibilità di riprendere la relazione con Lui che ha inviato Gesù a
donare il perdono. Il peccato è una situazione che blocca l’uomo
in una situazione di egoismo, di orgoglio e di solitudine; il perdono
lo libera per nuove prospettive e orizzonti. Quando siamo impri-
gionati in esperienze negative, ogni mattina al risveglio possiamo
sempre chiederci se è possibile ricominciare una giornata nuova,
diversa in cui ci possiamo appoggiare a Dio e trovare in Lui la
speranza, la protezione, la forza e il desiderio di collaborare per la
nostra salvezza. Scrive infatti Sant’Agostino: “Dio che ti ha creato
senza che tu lo voglia, non ti salva senza che tu lo voglia”.
Il perdono di Dio è sempre proiettato in avanti e permette di
ricominciare sempre da capo: “Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova”
(Is 43,18-19). Nel brano della prima lettura, il profeta Isaia con il
suo cantico annuncia la prossima liberazione per consolare gli ebrei
esiliati in Babilonia. L’azione di Dio sempre operante si può para-
gonare al seme che germoglia in modo nascosto, ma il Suo intervento
salvifico non è frutto dei sacrifici cultuali del popolo o delle loro
169
SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

invocazioni. Il popolo è stato infedele ed ha spesso disobbedito, ma


tale intervento ha come motivo Dio stesso: “Io, io cancellerò i tuoi
misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati”
(v.25). La constatazione dell’amore fedele, della salvezza e del perdono
di Dio dovrebbe portare il popolo a cambiare il proprio atteggia-
mento. Il perdono che Dio concede sempre e nuovamente sarà la
forza per orientare i cuori sulla strada del ritorno e verso nuove
prospettive.

3. Il perdono come la realizzazione del “sì” di Dio nell’ottica di san


Paolo - Il brano proposto dalla liturgia nella seconda lettura ci appare
come una lettera di riconciliazione che Paolo rivolge ai Corinzi con
affetto e calore. Dopo il consueto saluto egli rivolge una benedizione
dimostrando la sua gioia per comunicare che la dolorosa vicenda
riguardante il conflitto intercorso tra Paolo e la comunità di Corinto,
ha avuto un buon risultato. A Corinto si insinuavano accuse di
insincerità e slealtà da parte di Paolo; infatti sembra che egli avendo
promesso di visitare questa comunità, non avrebbe in seguito man-
tenuto la promessa. Paolo si difende dall’accusa di leggerezza, e di
slealtà, ma quello che risulta più interessante è il metodo con cui
procede quella che potrebbe sembrare una “bega pastorale” in una
preziosa catechesi. Paolo coglie l’occasione per parlare di Cristo
come il “sì” di Dio, cioè il garante credibile dell’attuazione delle
promesse divine, tra cui quella della riconciliazione e del reciproco
perdono tra gli uomini.
In questo “sì” Egli infatti mostra sia la solidità della Sua parola
e nello stesso tempo rende possibile a noi di rispondere con fedeltà
alla chiamata di Dio. Come messaggero di Gesù Cristo e come Suo
imitatore, Paolo non può essere ambiguo né doppio. Di conseguenza
la predicazione di Paolo è stato un fedele annuncio di quel “sì”
fedele di Dio che in Cristo è diventato realtà. Chi dà stabilità e
fermezza alla fede in Cristo è Dio stesso con il dono del Suo Spirito.
L’apostolo e la comunità camminano con fermezza sulla strada di
Gesù. ‘Unzione’, ‘sigillo’ e ‘caparra’ (v.21) sono tre espressioni che
richiamano l’ingresso del cristiano nella vita battesimale grazie al
170
SETTIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

dono dello Spirito e la prospettiva della partecipazione alla gloria


divina di cui lo Spirito è anticipo. È un “sì” che, come spiegano le
espressioni di Paolo ‘unzione’, ‘sigillo’ e ‘caparra’, richiama il signi-
ficato del battesimo rendendo a Dio una vera e autentica venerazione.
L’‘unzione’ significa l’incarico dell’apostolo e della comunità; il
‘sigillo’ rimanda al fatto con cui Dio ha preso possesso dei suoi ed
infine la ‘caparra’ indica l’anticipo e la garanzia, fin da questa vita
e questa storia, della salvezza definitiva.

171
OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Os 2,16b.17b.21-22


Salmo 102
Seconda lettura: 2Cor 3,1b-6
Vangelo: Mc 2,18-22

1. La ‘sponsalità’ - Conviene iniziare la nostra riflessione con la


preghiera di Colletta: “O Padre, che in Cristo sposo e Signore chiami
l’umanità intera all’alleanza nuova ed eterna, fa che nella tua Chiesa
radunata per la celebrazione del banchetto nuziale, tutti gli uomini
possano conoscere e gustare la novità del Vangelo…”. Infatti il tema
principale (anche se non unico, quando passeremo al testo di san
Paolo) di questa Liturgia della Parola è la ‘sponsalità’.
a) La ‘sponsalità’ nella storia del profeta Osea e il suo riferimento
alla relazione di Dio con Israele - Il capitolo 2 del profeta Osea
lungo e complesso racconta la metafora di Dio come sposo del
popolo e nello stesso tempo ribadisce la colpa del popolo che si
comporta come sposa infedele, adultera e prostituta. Per la Liturgia
odierna vengono presi solo alcuni versetti che evidenziano la pro-
messa divina riguardante il rinnovamento dell’alleanza con l’imma-
gine delle nozze. Il profeta, vittima di un grave tradimento da parte
della moglie si identifica con Dio stesso. Infatti anche Dio Jahvè è
uno sposo tradito dai Suoi che hanno un comportamento idolatrico
con il quale tradiscono l’alleanza del Sinai. Tra i dieci comandamenti
ce n’è uno primario e fondamentale: “Amerai il Signore Dio tuo
con tutto il cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”
(Dt 6,15). Dio è un Dio geloso e va amato per primo, per questo
motivo i profeti rimproveravano il popolo quando si dimenticava
di questo amore e adoravano e servivano i loro idoli. Israele era una
sposa fedele se osservava i comandamenti; non osservandoli diventava
la sposa infedele, adultera. Ma nonostante le gravi colpe il Signore
non abbandona il Suo popolo, lo vuole correggere, lo vuole recupe-
172
OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

rare per poter stabilire una nuova relazione di amore sicura e sincera.
Il Signore promette al popolo di ricondurlo al ‘deserto’, cioè lì dove
non aveva nulla, per parlare al cuore di Israele, quando sperimenterà
che niente e nessuno lo libererà dall’amara condizione dell’esilio.
Quando tornerà ad essere sposa fedele il Signore si legherà di nuovo
al Suo popolo con affetto totale ed autentico, e ciò sarà motivo di
gioia per l’amore ritrovato e riconquistato.
b) Cristo – lo Sposo per eccellenza - Questa profezia è evidentemente
applicata alla figura di Gesù-Sposo e chi lo sa riconoscere può inau-
gurare la piena comunione con Dio. Per noi cristiani oltre alla
dimensione sponsale che deriva dall’essere creati dal Padre per mezzo
del Figlio, nello Spirito Santo, c’è anche la Redenzione che abbiamo
ricevuto dal Figlio mandato dal Padre per opera dello Spirito Santo.
Gesù dunque è lo Sposo di tutti i battezzati sia in virtù della crea-
zione che della Redenzione. I discepoli di Gesù sono come i giovani
amici di uno sposo che, come invitati, preparano la festa con l’amico
che celebra le nozze. La Sua sposa sarà la Chiesa con la quale misti-
camente si unirà nell’amore dello Spirito Santo.

2. Cristo Sposo e il digiuno - “Perché i tuoi discepoli non digiuna-


no?”. Il digiuno rituale praticato dai discepoli di Giovanni e dai
farisei era in sostanza uno stile religioso, una pratica che assumeva
un tono penitenziale purificatore ed era proposto come rimedio per
espiare il passato, come strumento per rendere più efficace la pre-
ghiera e meritarsi la salvezza. Questo atteggiamento è in netto con-
trasto con l’abitudine di Gesù e dei Suoi discepoli che mangiavano
e bevevano anche con cattive compagnie. Gesù offre la novità di
presentarsi come lo Sposo che non può fare a meno di partecipare
al banchetto nuziale mentre è presente, “mentre lo sposo si trova
con loro”. Nei villaggi palestinesi uno sposalizio era occasione di
grande festa e gioia per tutti ed il momento finale culminava con
il banchetto con parenti ed amici. Per Israele il banchetto nuziale
rappresentava e prefigurava la festa gioiosa dei tempi messianici e
la figura dello sposo ricordava il Dio dell’alleanza, lo Sposo per
eccellenza. Con la venuta di Gesù lo sposo è presente e si siede a
173
OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

tavola per celebrare le nozze con il popolo. I discepoli che parteci-


pano al banchetto si trovano nella gioia, di conseguenza non possono
digiunare; se Gesù è lo sposo divino significa che il tempo della
salvezza è inaugurato e la sua compagnia richiede la festa. Le nozze
che Gesù celebra sono con la Chiesa, nuovo popolo di Dio, nel Suo
sangue che rinasce nel banchetto della nuova e definitiva alleanza.
La gioia cristiana è quindi la gioia pasquale, quella gioia conquistata
da Gesù per mezzo della sofferenza, della morte e della Sua assoluta
donazione. La pratica religiosa del digiuno interpretata e vissuta alla
vecchia maniera non è più opportuna alla novità del Regno di Dio
che deve puntare soprattutto al rinnovamento interiore autentico.
In altre parole il digiuno è opportuno praticarlo non per mostrarsi
di fronte agli altri, ma per una crescita nella fede e nell’amore. I
paragoni che Gesù presenta nella seconda parte del brano evangelico
dicono che il vecchio non è compatibile con il nuovo in quanto il
nuovo, unito al vecchio potrebbe danneggiarlo. Il nuovo qui è
rappresentato dalla novità portata da Gesù ma il vecchio non si
riferisce all’Antico Testamento, ma alla comune mentalità giudaica,
secondo la quale il digiuno è uno strumento devozionale di giustizia
farisaica per conquistare qualcosa da Dio. La novità di Gesù è la
Sua stessa Persona, il dono gratuito della salvezza e l’opportunità
della festa grazie allo Sposo che dona la Sua vita e offre il proprio
Corpo e Sangue per il banchetto nuziale della Sua Chiesa/sposa.

3. Il ‘digiuno’ all’interno del rapporto tra la ‘grazia’ e la ‘legge’


Nel brano della seconda lettura Paolo presenta le sue credenziali di
apostolo nelle persone che rappresentano esse stesse la lettera di
raccomandazione a Corinto e che sono diventate cristiane grazie
alla sua opera di evangelizzatore. Tuttavia egli sa molto bene che
tutte le sue capacità vengono da Dio che ha formato apostoli capaci
di comunicare la nuova alleanza promessa dai profeti che Cristo ha
compiuto con il dono della Sua vita. Paolo chiama i Corinzi “lettera
di Cristo scritta dallo Spirito Santo”, non su materiale qualsiasi ma
nel profondo del cuore. Ciò significa il superamento di un certo
modo di capire il rapporto con Dio basato finora sull’adempimento
174
OTTAVA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

di una legge imposta dall’esterno, anche se con l’autorità stessa di


Dio. Nell’ambito della odierna Liturgia il principio di Paolo si può
applicare alla questione del digiuno. Infatti l’atteggiamento giudaico
considera il digiuno come elemento della legge, opera meritoria per
ingraziarsi il Signore. Egli fa un confronto tra l’insieme delle norme
legali come il tipo di religione chiusa nella pratica della legge diven-
tata ormai “lettera” morta, con lo Spirito di Dio donato da Gesù
che offre all’uomo la grazia che lo rende capace di compiere la
volontà di Dio. La novità di Gesù risulta invece nel rendere possibile
un incontro d’amore totale e gratuito perché la “nostra capacità
viene da Dio”. La vita della comunità deve quindi basarsi su un
cuore rinnovato dalla grazia, che accoglie l’iniziativa salvifica di Dio
e si apre non solo a Cristo, riconosciuto come l’unico Signore, ma
anche a tutti coloro che credono in Lui. In questo rapporto diventa
determinante l’azione dello Spirito, che, diffondendo la grazia di
Cristo, rompe le resistenze umane e porta il credente a configurarsi
al suo Signore. Il distacco dalla legge, intesa come un sistema rigido
di concezioni e di pratiche, apre necessariamente la via ad una
inculturazione del Vangelo, senza la quale l’annunzio non potrà
mai penetrare il cuore di coloro che l’ascoltano; anzi si trasformerà
quasi inavvertitamente in una legge che viene imposta dall’alto e
impedisce l’azione dello Spirito e la loro risposta di fede.
Il Salmo 102 che ci viene proposto sottolinea l’amore di Jahvè
che è la Sua caratteristica principale. È l’inno che sotto forma di
benedizione celebra il Signore come Padre misericordioso che si
china sulla fragilità dei Suoi figli e perdona i loro peccati. I benefici
del Signore non si possono contare e i Suoi doni sono infiniti: Egli
perdona le colpe, guarisce le malattie, libera dalla morte, introduce
alla pienezza della vita; Egli è il redentore del popolo, è Colui che
salva, che si prende cura dei Suoi e non si comporta secondo i criteri
umani; non ripaga Israele secondo le sue colpe, ma usa il principio
della misericordia. Il ritornello ci fa ripetere: “Egli è buono e grande
nell’amore”. Questo Amore e la Sua misericordia, se vengono accolti,
inevitabilmente provocano la conversione, l’abbandono del peccato,
il rispetto dei comandamenti, per vivere nella grazia.

175
NONA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Dt 5,12-15


Salmo 80
Seconda lettura: 2Cor 4,6-11
Vangelo: Mc 2,23-3,6

1. Il valore del ‘riposo’ nell’Antico Testamento - Nella vita umana


si avvicendano i tempi del lavoro e del riposo, della veglia e del
sonno, del giorno e della notte, della festa domenicale e dei giorni
lavorativi. Il riposo permette di poter lavorare senza sentirsi schiavi,
ma anche il lavoro dà maggiore significato e senso al riposo e gli
impedisce di diventare noia ed ozio.
La prima lettura afferma in modo inconfondibile come l’osser-
vanza del riposo nel giorno di sabato sia per gli ebrei considerato
in modo radicale. “Non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio né
tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, ecc.”.
Era una legge incondizionata che se fosse stata infranta poteva essere
punita con la morte. Infatti nel libro dei Numeri viene detto che
un uomo che raccoglieva legna di sabato fu condannato a morte.
Ma era necessario stabilire in ogni violazione se il lavoro compiuto
era per necessità o per ottenere un guadagno o accumulare dei beni.
Comunque la legge di Mosè non era contro l’uomo, ma era a favore
dell’uomo, stabilendo il riposo durante il quale si poteva dedicare
alla preghiera, si potevano curare le relazioni e per santificare un
giorno in cui era doveroso ringraziare il Signore per il bene ricevuto
dal lavoro dei sei giorni di lavoro precedenti. Naturalmente il man-
giare ed il bere non poteva essere considerato un lavoro, ma era la
necessità di alimentarsi. Il sabato è il giorno della realizzazione e
l’adempimento della creazione. Dio disse: “Rifulga la luce dalle
tenebre” e dalle tenebre è comparsa la grande luce dell’amore di
Dio, le tenebre sono state vinte.
176
NONA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Qui si potrebbero individuare almeno tre significati profondi


del riposo del sabato di cui parla il libro del Deuteronomio: il primo
era motivato dalla liberazione dai “lavori forzati” cui erano stati
sottoposti per oltre 450 anni in Egitto assumendo così il significato
di affermazione del valore della persona e quindi di predominio
sulle cose. Il secondo come partecipazione al riposo di Dio (Gn 2,3)
e mette in stretto rapporto il riposo del sabato con il riposo di Dio
che dopo i sei giorni della creazione si “riposò”. Riposare di sabato
significa riconoscersi immagini di Dio dando a questo giorno l’im-
pronta della gioia e della festa; la celebrazione del sabato non si
doveva caratterizzare solo come obbedienza alla legge, piuttosto
come un desiderio di libertà e di colloquio con Dio ed il Suo popolo.
Purtroppo dai dottori della legge e dagli scribi il riposo del sabato
era stato trasformato in una minuziosa e scrupolosa serie di leggi e
di proibizioni tanto da diventare una nuova schiavitù, una devozione
esteriore e puramente formale. Nell’ebraismo un pensiero ed una
pratica legalistica del sabato ha portato ad un atteggiamento di totale
dipendenza dell’uomo da una norma apparente che invece doveva
essere a suo servizio.

2. L’atteggiamento di Gesù verso il ‘riposo’ - Riguardo alla domenica


il rischio di una simile estraneità lo corriamo anche noi ai nostri
giorni. A partire dal VI secolo la domenica cristiana somiglia ad
un’osservanza religiosa, morale e di semplice rito, pratica devozio-
nale. Inoltre lo sviluppo di una civiltà scientifica e tecnica ha pro-
curato un disordine per quanto riguarda le abitudini e i principi
della comune mentalità. Infatti oggi la domenica, per molti è sentita
e vissuta come giorno di svago, di “evasione”, ma allo stesso tempo
molte persone devono lavorare affinché altri possono divertirsi o
prendersi svago e riposo. Di fronte al contesto odierno, sembra
sempre attuale il messaggio che viene dal Vangelo.
Il caso dei discepoli che spigolavano il grano per nutrirsi poteva
essere ricondotto alla necessità di alimentarsi, non ad un accumulo
di grano e quindi era lecito spigolare per nutrirsi in un momento
di bisogno, perfino in un campo altrui. Gesù di fronte alla cultura
177
NONA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

dei farisei che interpretava scorrettamente la Parola di Dio risponde


segnalando un passo della Scrittura e facendo loro notare che essi
pur ritenendosi maestri in Israele non l’avevano capita. L’esempio
che Gesù porta è così evidente che è capace di smascherare la durezza
di cuore dei Suoi accusatori. Si tratta del re Davide che in caso di
assoluta necessità aveva infranto la legge che stabiliva che i pani del
Tempio fossero consumati solo dai sacerdoti, mentre lui ne mangiò
e li diede anche ai suoi compagni. Gesù non vuole annullare, can-
cellare il sabato; la Sua intenzione è piuttosto quella di correggere
l’atteggiamento in uso andando diritto all’essenziale dichiarando
due concetti: il primato della misericordia sulle pratiche devozionali
e sulle imposizioni relative al riposo sabbatico. Il Vangelo prosegue
sul tema del sabato con la guarigione dell’uomo dalla mano para-
lizzata. I Suoi accusatori non tralasciano anche questa volta l’oppor-
tunità di criticarlo negando l’azione della provvidenza divina proprio
nel giorno di sabato, giorno in cui Dio chiedeva all’uomo di incon-
trarsi con maggiore intensità con Lui. Perfino gli erodiani e i farisei
che erano divisi da diversi motivi sociali, politici e religiosi si tro-
varono solidali per sopprimere Gesù che appariva loro troppo sco-
modo, nella loro mente non c’era posto per Gesù. Il secondo primato
che Gesù vuole dichiarare è quello dello spirito sulla regola. Con la
Sua domanda – “È lecito in giorno di sabato fare il bene…?” – Gesù
vuole restituire il contenuto positivo della festa che gli Ebrei avevano
apertamente dimenticato. Dal Vangelo appare con chiarezza la scelta
di Gesù che non rinuncia a fare il bene di sabato, ma non lo fa per
mettersi in contrasto o apparire anticonformista, ma perché il sabato
è il giorno favorevole per guarire i malati e riabilitare i bisognosi
alla pienezza di vita, per liberare chi in qualche modo è prigioniero
o schiavo. Il sabato ebraico diventato capo di accusa contro Cristo
è rimasto attaccato alle tenebre, ma su di esso splende il nuovo
giorno della risurrezione, il “giorno dopo il sabato”, il Dies Domini,
la Domenica, l’anticipazione del giorno eterno del cielo.

3. La testimonianza di Paolo e il ‘riposo’ - San Paolo nella sua se-


conda lettera ai Corinzi paragona se stesso e tutti coloro a cui è
178
NONA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

affidato il compito di annunciare il Vangelo a “vasi di creta”. Che


cosa vuole intendere con questo termine? Che il grande e prezioso
tesoro del Vangelo è portato da persone simili a vasi di terracotta,
spesso con crepe, ma solo grazie a Dio, lo scopo che Egli predispone
è dissetare gli assetati con quella preziosa acqua. Magari questi vasi
perdono acqua per strada, ma grazie a Dio abbastanza acqua giunge
ai destinatari ed essa svolge in modo eccellente la sua funzione.
L’Apostolo stesso sa di essere un “servo inutile” (Lc17,10), non è
lui che ha fatto le cose grandi, egli si ritiene un “vaso di creta” in
cui Dio pone la ricchezza e la potenza della Sua grazia. Egli era
sicuramente un uomo con molte qualità naturali, ma sapeva di
non essere la persona più adatta per la missione alla quale era stato
chiamato. Era stato nemico di Cristo, un violento, ma Cristo lo
incontra, lo chiama, lo trasforma e si serve di lui per i Suoi pro-
positi di salvezza. Eppure tramite lui Dio realizza e continua a
realizzare cose grandi! Paolo aveva dovuto affrontare tante difficoltà
come messaggero del Vangelo, ma la sua diffusione non è lasciata
alle sole risorse umane, ma avviene anche attraverso strumenti
umani deboli e inappropriati. La potenza vera è conferita a Dio e
solo a Lui deve essere attribuita. Ed ora l’Apostolo ringrazia il
Signore per il beneficio ricevuto di essere Suo messaggero, ma
anche della protezione ricevuta in ogni avversità incontrata in
modo da ritenere che la sua opera non è mai stata inutile. Nelle
tribolazioni incontrate non (ne) è rimasto mai schiacciato. È stato
perseguitato, colpito, imprigionato ma Dio non lo aveva mai
abbandonato, e nessuno avrebbe rovinato del tutto la sua reputa-
zione. Sempre esposto alla morte aveva accettato ogni cosa per
amore di Gesù affinché tramite lui si manifestasse la vita eterna
in chi avrebbe accolto Cristo. Nei momenti della sua intensa pre-
ghiera ha compreso con chiarezza come affrontare e vivere ogni
sofferenza, ogni difficoltà e tante persecuzioni poiché è convinto
che nel momento in cui sperimenta la propria debolezza si mani-
festa la potenza di Dio che non lascia mai soli, ma diventa sostegno
e forza. Solo quando Dio avesse voluto che terminasse il suo mi-
nistero i suoi nemici avrebbero avuto la meglio su di lui. Ma il
179
NONA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

suo ministero continua ancora oggi attraverso le sue lettere contenute


nella Bibbia per i cristiani di ogni tempo e luogo.
Tuttavia che c’entra il contenuto del testo paolino con il tema
di ‘riposo’, di cui si parlava prima? Chissà, se per poter imitare
Paolo, per poter affrontare i momenti di prova, stanchezza, perse-
cuzione nella missione di annunciare il Vangelo, non ci sono neces-
sari i tempi di ‘riposo’, di sosta, di ristoro, di silenzio e di festa nel
senso biblico come è stato esposto prima?

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DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Prima lettura: Gen 3,9-15


Salmo 129
Seconda lettura: 2Cor 4,13-5,1
Vangelo: Mc 3,20-35

1. L’origine del peccato - Tutta la storia umana è impregnata da una


lotta terribile contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin
dall’origine del mondo, che durerà fino all’ultimo giorno della storia.
Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per
poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità
se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio
(Gaudium et spes 37b). L’esistenza cristiana comincia con la vittoria
efficace sul male e su satana nel battesimo che nel suo rito avviene
con l’esorcismo, la rinuncia a satana che viene estesa e costantemente
rinnovata nella partecipazione agli altri ‘segni della vittoria di Cristo’,
i sacramenti. Tutta la vita del cristiano diventa, come quella di Cristo,
una lotta, un duello con il male e le potenze del maligno.
Il libro della Genesi ci introduce ad una serie di episodi riguar-
danti la prima coppia di tutta l’umanità. La serena situazione in cui
Dio li aveva collocati non dura molto. All’improvviso entra in scena
un elemento che scompagina il meraviglioso ordine che aveva voluto
Dio: il serpente, che è indicato come una delle bestie selvatiche in
cui risulta la personificazione del male, della predisposizione cattiva,
è identificato poi con il diavolo. La Bibbia ci presenta il primo
uomo ricco di tanti e grandi doni che non sembra possibile che si
sia ribellato a Dio. Ne aveva un’immagine talmente dominatrice e
perfetta che non sarebbe stato capace di trasgredire il comando ed
elevarsi fino a Lui se la tentazione non fosse arrivata da fuori,
dall’esterno. Alla domanda “Dove sei?”, Adamo ha paura di presen-
tarsi di fronte a Dio poiché aveva riconosciuto la sua colpa; tuttavia
invece di rendersi conto della gravità e di prendere su di sé il diso-
181
DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

nore e la responsabilità del proprio peccato, egli scarica la propria


colpa sulla donna la quale a sua volta si discolpa addossando il
proprio errore sul serpente. Adamo ed Eva si scagionano dal loro
peccato scaricandolo su altri. C’è una strana tendenza in coloro che
subiscono le tentazioni a dire che provengono da Dio, mentre in
realtà le tentazioni vengono da satana, manifestandosi nell’indurre
alla falsità, agli inganni, alle sue lusinghe, alle ipocrisie; la sua astuzia
può attirare al peccato. Tuttavia, malgrado egli sia il tentatore noi
però siamo i peccatori.
In questo testo si parla di eventi capitati all’inizio della storia;
in effetti l’autore ha voluto dire la realtà dell’uomo di tutti i tempi,
ha voluto spiegare la situazione della sua sofferenza e morte; situa-
zione in cui, da una condizione ideale, sarebbe caduto a causa del
suo peccato, della sua disobbedienza. In questo modo spiega molto
bene che la presenza del male nella storia non deriva da Dio, ma
dall’uomo stesso – anche se il mistero del male nella sua dimensione
oltremondana precede misteriosamente la colpa dell’uomo, si tratta
del cosiddetto mysterium iniquitatis. In ogni modo Dio non è
assolutamente responsabile del male presente nel mondo, piuttosto
continua ad offrire all’uomo la possibilità di raggiungere una vita
dignitosa e la possibilità di superare i suoi limiti. Il peccato di
Adamo ed Eva è chiamato “peccato originale” nel senso che si tratta
di un limite che tormenta ed affligge l’uomo fin dalle origini, però
può essere superato con l’aiuto di Dio.
Successivamente i profeti annunceranno la salvezza che si realiz-
zerà in un tempo imprecisato, promettendo un paradiso che Dio
donerà un giorno a tutta l’umanità. Lo annunceranno attraverso le
espressioni simboliche che vogliono far capire che l’uomo è chiamato
alla felicità a patto che sappia staccarsi dai condizionamenti che
provengono dalle tentazioni del male e sappiano vivere un rapporto
con Dio che sia fedele ai principi di amore e giustizia che sono la
base dell’esperienza religiosa di ogni tempo.

2. Gesù vince il maligno - Ed ecco la promessa della liberazione si


realizza in Cristo, il vero Liberatore dell’uomo, di quell’uomo che
182
DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

caduto per mezzo di satana, ora riceve nel Figlio di Dio la rivelazione
di misericordia che dona speranza di perdono. Anche nel brano del
Vangelo di Marco proposto dalla liturgia odierna ci viene presentata
la situazione in cui Gesù che viene accusato dai dottori della legge,
che venivano da Gerusalemme, di essere posseduto da satana, proprio
perché Egli scacciava i demoni.
La risposta di Gesù è suddivisa in più parti:
a) Egli cerca di provare il paradosso dell’accusa che è fatta a partire
dal pregiudizio dei Suoi accusatori che non vedono nei miracoli di
Gesù la benevolenza di Dio. Siccome sono convinti che la loro
interpretazione della legge è quella giusta, ne deducono che Gesù
non può agire in nome di Dio, rivelandosi così ciechi dato che se
Gesù scaccia satana non può essere dalla sua parte.
b) Non solo non è dalla parte di satana ma mostra apertamente che
la sua azione è diretta contro satana e che è venuto a mettere fine
al suo regno che tiene l’uomo separato da Dio e quindi in una
condizione di morte.
c) Gesù conclude rispondendo che chi lo rifiuta non vuole conoscere
la verità; anzi, rifiutando la sua predicazione la trasforma in opera
del maligno e si pregiudica in modo irreparabile l’ingresso nel regno
di Dio. Nel linguaggio biblico attribuire ostinatamente a satana ciò
che invece viene da Dio, oppure, al contrario, conferire a Dio ciò
viene da satana e in effetti fraintendere l’amore con il male significa
la bestemmia contro lo Spirito Santo. Con questo modo di agire
viene compromessa in modo definitivo la propria vita rendendola
un fallimento.
Con la Sua risposta Gesù ci mette in guardia per non lasciarci
ingannare dal seduttore, ma trovare solo in Lui, che è vero Messia,
la vera strada da percorrere. Solo con Lui possiamo resistere al pec-
cato, cioè al rifiuto dell’Amore di Dio.

3. L’arma contro il peccato: la grazia di Dio e la ferma fede in Cristo


morto e risorto - L’Apostolo Paolo ci fa interrogare sui motivi che
può avere una persona ad affermare con tanta sicurezza di credere
183
DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

in Cristo e a persistere nel cammino di fede nonostante questo


comporti diverse difficoltà. Perché vivere e predicare il Vangelo
nonostante ci si esponga a derisione, privazione e si vada incontro
ad ostilità? Per Paolo il desiderio di far conoscere il Vangelo in cui
crede risulta incontenibile e si sente “afflitto”, “turbato” e nello
stesso tempo è deluso per tante persone inaffidabili che si procla-
mano cristiane. Però se le persone possono deludere, Cristo non
delude mai e ciò basta affinché Paolo annunci la Sua Parola con
energia e determinazione che derivano dalla certezza che Gesù è
veramente risorto (v.14) e che per grazia di Dio egli pure un giorno
parteciperà alla risurrezione: “Infatti, se crediamo che Gesù morì e
risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà
con lui quelli che si sono addormentati” (1Ts 4,14).
Tutte le difficoltà che Paolo patisce e perfino la morte non lo
spaventano perché tutto ciò che compie e sopporta lo fa per il
beneficio degli altri e per la gloria di Dio. Egli suggerisce dei motivi
per non scoraggiarsi:
a) La grazia che gli è stata mostrata nel momento della sua conversione
sulla via di Damasco; “Perciò, investiti di questo ministero per la
misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d'animo” (4,1).
b) Il privilegio di essere strumento di Dio per comunicare la salvezza
in Cristo “la vita di Gesù” (vv.7-11). ??
c) Il desiderio di annunciare ciò che crede con la certezza che la
risurrezione avverrà anche per lui e per gli altri come è avvenuta per
Cristo (vv.13-15).
Paolo guarda la condizione dell’uomo dal punto di vista esteriore
che invecchia e considerando che le facoltà diminuiscono e si de-
gradano, mette in evidenza che al contrario, nella sua interiorità,
l’uomo con il tempo si rafforza e si rigenera. La momentanea, leggera
afflizione di Paolo può essere sopportata in vista di quello che per
grazia gli sarà donato per l’eternità e quello che l’avversario tenta
di ostacolare e distruggere viceversa lo rafforza sempre di più. Il suo
sguardo non si ferma sulle calamità presenti, ma è puntato al futuro,
al traguardo finale che lo attende.
184
DECIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Anche noi crediamo che con la morte fisica non finisce tutto,
ma esiste un aldilà, un’altra dimensione, e che la nostra identità, la
nostra essenza di creature umane è fatta di anima e di corpo. Dio
ci ha riservato per il “dopo” un “edificio”, una “abitazione celeste”
che ci farà relazionare con la nuova creazione.

185
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Ez 17,22-24


Salmo 91
Seconda lettura: 2Cor 5,6-10
Vangelo: Mc 4,26-34

La Liturgia ci consegna una riflessione sulla realtà del Regno di Dio,


che è il tema fondamentale, il centro del messaggio dell’annuncio
di Gesù, ciò che Lui aveva predicato, proclamato e instaurato. Il
Regno di Dio non è una realtà distante, lontana, che ci aspetta alla
fine del mondo. Quando avrà la sua piena manifestazione, non si
intende un mondo migliore, nel senso meramente sociale ed econo-
mico di prosperità, da creare con le nostre forze umane, ma è di
altro ordine, quello soprannaturale che è già presente nella storia,
si sta già compiendo, realizzando in questo mondo, nella nostra
vita, in ciascuno di noi. Per fare questa riflessione, ci poniamo
quattro domande. La prima: che cosa è il Regno di Dio? In che cosa
consiste, qual è la sua natura? Come lo possiamo definire? La secon-
da: come può ciascuno di noi contribuire all’edificazione del Regno
di Dio, già adesso, nella storia, nella vita, sia personale, sia sociale,
sia comunitaria? La terza: come si manifesta il Regno di Dio? Come
è percepibile, in che modo può essere afferrabile, “toccabile”? La
quarta: come viene annunciato da Gesù? In che modo, con quale
linguaggio, con quali parole?

1. Che cosa è il Regno di Dio? - Nella prima lettura leggiamo: “Sa-


pranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio
l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e
germogliare l’albero secco” (Ez 17,24); ovviamente questo è un
linguaggio simbolico, quello proprio del profeta Ezechiele. Dio
186
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

definisce Se stesso “il Signore”, cioè, si tratta del dominio, della


Signoria di Dio su tutto il creato, su tutto l’universo, su tutta la
creazione, nella sua totalità, ma anche il suo dominio e la sua signo-
ria sulla vita di ciascuno di noi. Però, quando parliamo di Dio,
quando facciamo riferimento a Dio, del Suo dominio o della Sua
signoria non confondiamo questo concetto con quello di come lo
applicheremmo agli uomini, nel senso umano di governare, di
dirigere, a volte in modo apodittico, per dimostrare la propria
superiorità, sovranità, supremazia, a volte anche lo strapotere e la
dittatura. Non è in questo senso che Dio realizza il Suo dominio e
la Sua signoria, ma nel senso di introdurre la giustizia, un nuovo
ordine nella vita degli uomini, un ordine poggiato sull’amore, “È
bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”,
come recita la prima strofa del Salmo 91. Ricordiamo a questo
proposito le parole di Gesù: “Cercate prima il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,25-33).
Per questo la prima lettura ci dice che Dio umilia l’albero alto e
innalza l’albero basso, questa è la sua giustizia: Egli predilige gli
ultimi: sconvolge i criteri di valutazione degli uomini e sovverte le
categorie umane e i loro piani. Tutti sapranno che Egli umilia i
potenti e suscita nuova forza nei più deboli nel senso ampio del
termine. Secondo quanto abbiamo letto nella prima lettura, ma
anche alla luce di tutto il Vangelo di Marco, non solo del brano che
abbiamo ascoltato oggi, ma in tutta la storia di Gesù, il Regno di
Dio non significa qualche cosa, qualche luogo, un’istituzione, una
struttura politica, una organizzazione creata o inventata dagli uo-
mini, ma è Qualcuno, è la Persona stessa di Gesù. In Lui il Regno
di Dio si compie, viene instaurato; nella Sua promessa vengono
realizzate anche le promesse dell’Antico Testamento. Sul piano
umano, tra il regno ed il Re, c’è la differenza: una cosa è il Regno,
un’altra cosa è il Re. Nel caso di Gesù, il Re costituisce anche il
Regno, cioè, c’è identificazione tra il Regno ed il Re. Questo per
spiegare in che cosa consiste, che cosa vuol dire il Regno di Dio.

187
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

2. Quale è il nostro ruolo nella costruzione del Regno di Dio?


Quale è il ruolo personale di ognuno di noi come credenti, nell’edi-
ficazione del Regno di Dio già in questa storia? Per rispondere a
questa domanda, Gesù si serve di realtà semplici ed accessibili a tutti
e chiarisce il modo in cui il Regno di Dio, la Sua signoria opera già
nella vita di ciascuno di noi. Nelle parole del Vangelo di oggi, Gesù
dice: “Così è il Regno di Dio, come un uomo che getta il seme sul
terreno, dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e
cresce” (Mc 4,26). Si tratta di un linguaggio metaforico, ovviamente,
ma è proprio questo è il nostro ruolo: gettare il seme sulla terra, sul
terreno; questo significa compiere e realizzare anche cose semplici
ed umili ma fatte con amore, compiere gesti pieni d’amore, in modo
silenzioso, in modo tale che chi getta il seme non vuole innalzarsi,
non lo compie per vanagloria, per superbia, per gonfiarsi, per met-
tersi in mostra, ma lo fa e si impegna per l’edificazione del Regno
di Dio, per il bene comune. Prima di tutto dobbiamo riconoscerci
chiamati ed invitati a edificare il Regno di Dio, ma assumendo
l’atteggiamento di umiltà per vedere che il Primo Costruttore, Colui
che lo edifica, è Dio stesso, nella Persona di Gesù. Certo, Lui desidera
che anche noi facciamo parte di questa costruzione in questa terra,
senza però attribuire a noi stessi i meriti, non sentirci gli eroi, i
protagonisti, quelli dai quali dipende assolutamente tutto. Dio vuole
il nostro coinvolgimento, il nostro impegno, ma senza assolutizzare
ciò che facciamo. La forza della parola non sta nel gesto dei semi-
natori che si succederanno, ma nello stesso seme che viene seminato.
La crescita del Regno, non dipende da soli sforzi umani, ma dal
dono, dalla fedeltà incondizionata di Dio.

3. Come si manifesta il regno di Dio in questa vita, in questa storia?


Per farcelo comprendere Gesù prende come termine di paragone la
crescita del seme, come leggiamo nel Vangelo: “È come un granello
di senape che, quando viene seminato sul terreno è il più piccolo
di tutti i semi che sono sul terreno, ma quando viene seminato cresce
e diventa più grande di tutte le piante dell’orto…” (Mc 4,31). Questo
vuol dire che, a volte, il Regno di Dio non si manifesta in modo
188
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

splendente, ma in modo quasi invisibile, impercettibile, nascosto,


silenzioso, senza fare intorno a sé né rumore né chiasso. Infatti, il
granellino di senape, così piccolo ed apparentemente insignificante,
una volta seminato, cresce e diventa grande ed appariscente. Nella
seconda lettura abbiamo sentito: “Camminiamo infatti nella fede e
non nella visione – siamo pieni di fiducia…” (2Cor 5,7), cioè con
lo sguardo dell’anima fisso sulle cose che non si vedono, ma che
sono eterne. Paolo ne godeva già, grazie alla “caparra” dello Spirito
e non si scoraggiava. Questo ci fa capire, in riferimento al Regno
di Dio, come si manifesta nella storia. Infatti, a volte, non lo perce-
piamo, non lo vediamo ancora, non siamo nella sua piena visione,
ma comunque questo regno è già presente in mezzo a noi, sta cre-
scendo pian piano, come un albero con tanti rami. Da parte nostra
si richiede di coltivarlo, con pazienza, con perseveranza, con fiducia,
senza scoraggiarci, senza lamentarci nel vedere e cogliere solo gli
avvenimenti negativi, senza concentrarci solo sul male, che fa chiasso
come oppressione, sfruttamento, guerre, perché anche se non perce-
piamo subito gli effetti della sua manifestazione, il Regno di Dio
già opera e agisce effettivamente, si manifesta in modo umile e
semplice, ed è più efficace, più attivo, più presente, più vitale, di
quanto ci sembra a prima vista.

4. Come Gesù annuncia il Regno di Dio? - Tornando alla parte


finale del brano del Vangelo, così scrive Marco: “Con molte parabole,
dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano inten-
dere” (Mc 4,33). Queste parole, riguardano, ovviamente, l’annuncio
del Regno di Dio alla folla. Gesù, per far capire meglio in che cosa
consiste, lo fa con le parabole, cioè usando un linguaggio metaforico,
ma semplice, accessibile e comprensibile a tutti gli ascoltatori. Il
brano, termina con la frase: “Senza parabole non parlava loro ma,
in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Mc 4,34). Gesù,
successivamente, parla ai discepoli in privato, spiega loro in modo
privilegiato e ristretto, insegnando e trasmettendo ciò che a loro
volta sono chiamati a diffondere. Questo ci fa capire che l’annuncio
del Regno di Dio, la Parola di Dio non ci arriva soltanto attraverso
189
UNDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

la Scrittura, ma tante cose rivelate da Dio ci sono arrivate anche


attraverso la Sacra Tradizione, cioè per mezzo delle parole non
scritte, i gesti, il culto, la pratica e tutta la vita della Chiesa sin
dall’inizio, a partire dai discepoli che erano ricevevano l’insegna-
mento di Gesù e hanno riferito, comunicato, verbalmente, senza
mettere per iscritto, tutto ciò che avevano imparato, vissuto e poi
trasmesso alle altre generazioni, fino a oggi. Per cui, a volte, non ci
dobbiamo meravigliare se la Bibbia non contiene tutta la Rivelazione
di Dio. La Chiesa dunque attinge alla Rivelazione di Dio anche
tramite la Sacra Tradizione, trasmessa attraverso i secoli. Di questo
parla, ad esempio, il Concilio Vaticano II: “Cristo Signore, nel quale
trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo,
ordinò agli apostoli che l’Evangelo, prima promesso per mezzo dei
profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro
predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola
morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedel-
mente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale,
con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto
dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò
che avevano imparato dai suggerimenti dello spirito Santo, quanto
da quegli apostoli e da uomini a (?) loro cerchia, i quali, per ispira-
zione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della sal-
vezza” (Dei Verbum cap. II).
Mentre ringraziamo il Signore per averci rivelato e offerto l’op-
portunità di meditare questo bellissimo mistero del Regno di Dio
del quale ci ha chiamati a far parte, Gli chiediamo con umiltà e
fiducia di essere capaci di cogliere l’azione operosa di Dio nel nostro
cuore. Gesù, affidando a ciascuno di noi la responsabilità di annun-
ciare il Regno, agisce in noi e ci dona forza ed energie per farlo
crescere nel mondo, nonostante le nostre debolezze ed i nostri limiti
e nonostante gli attuali ostacoli da parte del mondo.

190
DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Gb 38,1.8-11


Salmo 106
Seconda lettura: 2Cor 5,14-17
Vangelo: Mc 4,35-41

1. L’uomo e la forza della natura - Nelle precedenti domeniche ci è


stato presentato Gesù che sapeva dominare le malattie e le potenze
del demonio. Oggi dimostra la sua capacità di dominare anche gli
elementi della natura che qui vengono raffigurati dal mare, che nel
simbolismo della Bibbia rappresenta molte volte il potere del male
e della potenza distruttrice, contro cui l’uomo da solo è impotente.
Il Vangelo di questa domenica presenta la narrazione della “tempesta
sedata” che ci mette di fronte all’esperienza delle nostre paure e ci
invita a verificare il nostro rapporto con il Signore e a farci una
domanda: come mai non riusciamo e non saremo mai capaci di
dominare sui fenomeni, soprattutto sulle situazioni dove appare il
male naturale, la forza stravolgente della natura?
a) La narrazione dell’Evangelista - Marco racconta che mentre Gesù,
con i suoi discepoli, attraversava il mare di Tiberiade, si era scatenata
un’improvvisa ed imprevedibile tempesta, e la barca, travolta da
grosse onde, si stava riempiendo d’acqua, con il rischio di affondare.
I discepoli, anche se esperti del lago, hanno paura, si sentono smarriti
ed in grave pericolo di vita, svegliano Gesù che si è addormentato
e gli dicono con un tono disperato: “Maestro, non t’importa che
siamo perduti?” (Mc 4,38). Questa domanda sembra voglia addossare
al Maestro la responsabilità delle loro vite. Quante volte di fronte
al male, al dolore, alla sofferenza anche noi ci lasciamo prendere
dal panico, dall’angoscia, dallo sgomento? Per questo Gesù “si destò,
minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!»” (Mc 4,39). Il
191
DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

vento ed il mare gli obbediscono immediatamente, la tempesta si


placa, si calmano le onde minacciose. Poi Gesù rivolge ai discepoli
un rimprovero: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. La
sottolineatura su quel “non… ancora” fa capire non solo il ritardo,
ma anche la durezza di cuore. L’evangelista Marco vuole far capire
che la fede in Gesù rende acquietati anche nei momenti di difficoltà,
perché Egli è sempre presente in ognuno di noi, nella nostra vita,
nella barca della Sua Chiesa (cfr. il messaggio di Benedetto XVI per
il funerale del cardinale Joachim Meisner).
b) Il significato e l’attualità del testo - Gesù ci insegna che non
dobbiamo aspettarci che in qualsiasi situazione, Dio risolva i nostri
problemi, non è che toglie il ‘male’ della natura, della creazione,
anche se può essere presente, ma prima di tutto vuole che noi im-
pariamo ad avere fiducia in Lui e poggiare la nostra vita su di Lui,
perché malgrado tutto quello che potrebbe accadere, dobbiamo avere
la coscienza che occorre avere coraggio contro ogni forma di pericolo
e di paura. La nostra fede, quindi, non è una formula che risolve
tutti i nostri problemi, non è una fuga, un isolamento dai problemi
del mondo. La fede non è garanzia di tranquillità né di vita facile,
ma è un impegno continuo, perché crede, che nonostante venga
messa alla prova dalle “tempeste” Gesù vive come noi e con noi
sulla stessa barca, accompagna la nostra esistenza, sostiene e conforta
le nostre angosce.
Il messaggio che emerge dal Vangelo odierno è un messaggio di
fiducia, di coraggio che si diffonde anche oggi per la Chiesa e per
il singolo cristiano. La Chiesa è percossa dal vento, dalla tempesta
delle prove, delle persecuzioni, degli attacchi contro la sua dottrina,
dei disorientamenti che alle volte si verificano anche nel suo interno.
Essa può correre il pericolo di sentirsi sola, di avere il brivido del
naufragio, particolarmente in alcuni momenti storici quando – come
avviene oggi – la si vuole estromettere dalla società, quando spuntano
falsi pastori (anche all’apice della Chiesa) e dottori che profetizzano
l’inutilità o addirittura la soppressione del messaggio salvifico di
Gesù, in modo tale da renderlo inefficiente per l’uomo moderno.
La domanda di Gesù: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora
192
DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

fede?” è rivolta alla Chiesa, ai suoi autentici pastori e a tutta la


comunità, per renderli sempre più consapevoli che occorre avere
coraggio contro ogni forma di pericolo, che bisogna restare fedeli
a Cristo; Egli sta al timone della barca; guida la barca verso la spon-
da. Anche noi siamo interpellati a riflettere sulla nostra fede, sulla
fiducia e l’abbandono che abbiamo nel Signore. Spesso la tempesta
è proprio nel nostro cuore; tentazioni, scoraggiamenti, difficoltà di
ogni genere possono sconvolgere la nostra vita; in questi momenti
pensiamo che il Signore dorma e non si curi di noi. Dobbiamo
ritrovare nella preghiera costante il dialogo con Lui. La supplica
“Salvami o Signore” che troviamo in alcuni salmi sia la nostra
persistente preghiera.

2. Il limite del male naturale e il potere del Creatore


a) Dio è il Signore del creato - L’immagine del mare, secondo il
linguaggio dell’Antico Testamento rappresenta una forza oscura e
misteriosa che solo Dio è in grado di dominare, perché solo Dio
conosce i limiti entro cui questo misterioso e sconosciuto spazio
può esercitare il suo potere. Infatti già nella prima lettura ci viene
offerta la chiave di lettura della Parola di Dio oggi proclamata,
ovvero che il mare viene vinto dalla volontà salvifica del Dio creatore.
Il brano tratto dall’ultima parte del libro di Giobbe, presenta questo
personaggio che, sentendo il dolore, la delusione la sofferenza per
tutte le disgrazie che gli sono accadute, rivolge a Dio delle accuse.
Finalmente il Signore, non più chiamato genericamente Dio, ma
con il suo nome Jahvè gli risponde e dice a Giobbe: “Chi ha chiuso
fra due porte il mare…gli ho fissato un limite… dicendo «Fin qui
giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde»”
(Gb 38,8-11). Questo fatto che pone le acque in uno spazio delimitato
è la creazione di Dio, perciò la natura, nonostante la capacità di
poter provocare all’uomo la sofferenza, non perde la sua originale
bontà.
b) La dannosa illusione umana di sottoporre definitivamente la
natura - In questo brano si può percepire anche la naturale tentazione
193
DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

umana di poter dominare la natura e ritenere, considerare se stessi


padroni del mondo, di tutto il creato, di tutto ciò che esiste, come
se tutta la natura, la creazione, l’universo fossero a nostra disposi-
zione. Anche se l’uomo ha raggiunto un certo potere sulle forze
naturali, anche se abbiamo tutto lo sviluppo, il progresso scientifico,
tecnologico, tecnico, di fronte a fenomeni inattesi, tipo il terremoto,
può cercare soltanto la spiegazione scientifica, ma la scienza non
riesce a spiegare alcuni fenomeni prodigiosi: l’unica spiegazione
plausibile è un segno portentoso che manifesta la cura di Dio per
l’umanità segnata dalla morte. La creazione, tutto il creato, non è
quindi di nostra proprietà, ma è prima di tutto il dono offerto alle
nostre mani che è da custodire, da coltivare ed esserne responsabili,
come dice anche l’ultima enciclica di papa Francesco: “…coltivare
il creato, essere responsabili”, affinché possiamo produrre, tirare
fuori da essa, dei beni ancora maggiori.
c) Gesù è il Signore dell’universo nel Quale tutto viene ricapitolato
Gesù ha gli stessi poteri di Dio, ha l’ultima parola sul creato, sulla
storia, su tutte le forze che la costituiscono poiché tutto dipende da
essa e solo in essa c’è la forza di creare e rivelare il logos di tutto.
L’amore di Cristo ci possiede, ci fa guardare con occhi nuovi le cose
di ogni giorno. In Cristo il credente viene trasformato in nuova
creatura che passa da una situazione di peccato alla libertà e all’amo-
re. Aver fede vuol dire abbandonarsi a Dio e collaborare al suo
fianco per liberare il male dal mondo. Come scrive san Paolo nella
seconda lettura tratta dalla Seconda Lettera ai Corinzi, San Paolo ci
suggerisce di non guardare più nessuno alla maniera umana, piut-
tosto invita il credente a riflettere che l’amore di Dio è prima di
ogni altra cosa e la vita cristiana è la risposta d’amore conseguente
all’iniziativa del Padre in Cristo.
Per concludere, ricordiamo questi tre concetti molto importanti
del vangelo di oggi: 1° la tentazione dell’uomo di dominare sulla
natura; 2° riconoscere che la creazione è dono di Dio e non di nostra
proprietà; 3° mantenere la fiducia nel Signore, anche di fronte a
situazioni in cui da parte della natura, della creazione, possiamo
avvertire la nostra impotenza e disperazione. Tentazioni, scoraggia-
194
DODICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

menti, difficoltà di ogni tipo, possono sconvolgere la nostra vita,


potremmo avere la sensazione che il Signore non si curi di noi, di
essere soli e sconfitti dagli eventi, dalle circostanze. Allora dobbiamo
ritrovare nella preghiera costante il dialogo con il Signore che ci
dona una pace interiore e la certezza che Egli ci è vicino e non ci
abbandona. Che queste parole rimangano (e restino) nella nostra
mente ed anche nella nostra interiorità, spiritualità, nella nostra
vita, nel nostro modo di pensare, di vivere come cristiani, come
coloro che appartengono a Gesù e lo seguono, come i discepoli e
gli apostoli.

195
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Sap 1,13-15; 2,23-24


Salmo 29
Seconda lettura: 2Cor 8,7.9.13-15
Vangelo: Mc 5,21-43

1. La giustizia di Dio vince le forze della morte e del peccato


a) Il libro della Sapienza sul progetto di Dio e sulla venuta della morte
- “L’uomo non è creato per la morte, Dio è un Dio della vita”. Questa
affermazione è il messaggio centrale di oggi. La Liturgia di questa
Domenica esprime, infatti, un inno alla vita ed un richiamo alla fede
nell’immortalità, poiché Dio stesso si presenta come il Signore della
vita, come è scritto nel brano della prima lettura tratto dal libro della
Sapienza: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei
viventi” (v.13) – questa non faceva parte del Suo piano. “Egli infatti
ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono
portatrici di salvezza” (v.14). Ma accanto alla bontà della creazione,
espressione dell’amore di Dio, ci sono esseri umani che sono ostili
al progetto divino e con la loro malvagità aprono la strada al male:
“Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno
esperienza coloro che le appartengono” (Sap 2,23-24).
b) Dio è Dio della vita, il Vivente - Pertanto le forze generatrici che
operano accanto a Dio, a vantaggio della vita, premiano i giusti e
frenano il male che deriva dalle forze ostili che saranno, alla fine,
sconfitte e distrutte. La giustizia, intesa come salvezza, appartiene a
Dio, è immortale e accompagna coloro che la attuano a quell’im-
mortalità per cui Dio creò l’essere umano; immortalità intesa come
eternità, come dono di una vita senza fine. Il progetto di Dio non
prevedeva la morte spirituale poiché l’uomo è stato creato ad imma-
gine di Dio e partecipa all’incorruttibilità, che è Suo dono. La causa
della morte spirituale va ricercata nella cattiveria del miscredente
196
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

che se la procura da solo, allontanandosi dall’amicizia con Dio. La


morte spirituale è conseguenza degli errori compiuti in piena libertà
(il peccato) con cui l’uomo tronca i suoi legami con la fonte stessa
della vita: Dio, il Vivente per eccellenza.
c) L’adorazione di Dio da parte dell’uomo - Ma subito dopo ab-
biamo pregato con il Salmo 29 che, in risposta a questa drammatica,
tragica tremenda condizione umana dice: “Ti esalterò Signore
perché mi hai risollevato” esprime un’azione di grazie in cui l’oran-
te ricorda la malattia passata come un piombare nel mondo dei
morti e il fatto di sentirsi di nuovo vivo, fisicamente e socialmente
come risuscitato. Nel momento in cui aveva ritenuto che la sua
esistenza fosse finita, è cominciata una risalita ed una ripresa dallo
scampato pericolo, grazie all’intervento di Dio. Ed anche nell’an-
tifona d’inizio abbiamo recitato: “Popoli tutti, battete la mani
acclamate a Dio con voci di gioia”: per cui non spetta alla morte
l’ultima parola ma alla vita e al Signore.

2. Miracolo come segno del dominio di Dio come Creatore


a) Il racconto di Marco - Il Vangelo odierno ci presenta due casi in
cui si evidenzia l’impossibilità di essere salvati dagli uomini. Ci
troviamo di fronte a due situazioni disperate nelle quali la fede è al
centro, infatti i due miracoli sono l’esaltazione della potenza della
fede e sono i segni della vittoria della vita sul male e sulla morte.
Noi a volte ci fermiamo su questa dimensione, su questo aspetto
un po’ spettacolare; cerchiamo i miracoli come se fossero le prove,
le evidenze della nostra fede. Invece questi sono i segni della vittoria
della vita sulla morte promessa da Gesù e realizzata con la Sua
Risurrezione. Si può notare che il Vangelo ha una struttura interes-
sante, perché all’inizio parla della domanda, anzi della supplica di
Giairo, ma poi all’improvviso si intromette l’episodio della donna
che aveva perdite di sangue da dodici anni, poi di nuovo ritorna il
tema della figlia di Giairo e della sua implorazione. Infatti per questo
il racconto di Marco assume un valore ancora più profondo: all’ini-
zio Gesù, ha ascoltato l’accorata l’implorazione di Giairo che “gli
197
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza” (v.22-23), ma mentre


Gesù si stava recando verso la sua casa, passa ad un altro episodio,
ad un’altra situazione come se avesse dimenticato questa invocazione
e avesse dato l’attenzione ad un’altra richiesta.
b) Il miracolo si ottiene e si percepisce con la fede - Anche a noi a
volte (ci) sembra che siamo dimenticati da Dio nelle nostre preghiere.
Supplichiamo con insistenza, quasi ci gettiamo in ginocchio per
implorare Gesù, per implorare Dio e (ci) sentiamo di essere dimen-
ticati, ignorati e abbandonati. Quando ci assalgono i dubbi che Dio
non risponda alle nostre invocazioni, alle nostre preghiere, ancora
di più occorre una preghiera costante e determinata, come atto di
completo abbandono. Questa è la condizione fondamentale per
scorgere miracoli in tanti eventi della nostra esistenza. La fede è la
situazione, l’ambiente nel quale il miracolo, che è opera di Dio,
avviene e la fede si approfondisce grazie al prodigio che si è verifi-
cato. Arriva, poi il momento, quando Gesù, quando Dio stesso trova
il tempo giusto per intervenire. Solo che bisogna aspettare il suo
tempo per essere esauditi.

3. Miracoli come segni dell’Amore di Dio verso l’uomo e come


risposta alla domanda piena di fede - I miracoli, come leggiamo nei
Vangeli, sono il segno della presenza continua, perenne, perpetua
di Gesù in mezzo a noi. Il segno della Sua premura della quale a
volte noi non ci accorgiamo, ma Lui però è presente. Quindi più
che l’aspetto spettacolare del miracolo, ciò che è più importante, in
qualsiasi fatto prodigioso, quello che noi definiamo come miracolo
è l’agire, l’operare diretto, immediato da parte di Dio nella nostra
vita, è il segno del Suo amore, del Suo coinvolgimento nella nostra
storia, e, come abbiamo accennato poco fa, è il segno della vittoria
della vita sulla morte.
a) Il caso della donna - Per quanto riguarda la situazione della donna,
che aveva perdite di sangue da dodici anni e che aveva molto sofferto
si deve spiegare che questa malattia, per una giudea era particolar-
mente grave perché le precludeva qualsiasi atto di culto ed il contatto
198
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

con la gente. La donna osa sfidare la ressa e i pregiudizi e vuole


arrivare a toccare il mantello di Gesù. Come scrive Marco, “Se
riuscirò anche solo a toccare le sue vesti sarò salvata” (Mc 5,28).
Questa donna, frustrata dalla vita, ha saputo trovare il coraggio e
la forza per consegnare al Maestro la sua sofferenza. Gesù che si
accorge dell’energia uscita da lui, risponde: “Figlia la tua fede ti
ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male” (v.34). Con il
saluto “Va in pace” vuole esprimere un augurio di vita, di benessere,
di riconciliazione; si tratta di restituire dignità e vita a tutta la
persona, inclusa la corporeità. In questa guarigione si trovano due
dimensioni accomunate: quella fisica e quella spirituale del gesto
liberatore di Gesù; una salvezza integrale, una nuova creazione-
liberazione. Nell’appellativo “figlia” Gesù esprime tenerezza per
questa fragile creatura ma capace di un’insolita fede. Dio è capace
di intervenire, di operare, di fare quello di cui abbiamo bisogno
nella nostra vita, a condizione che abbiamo la fede, che crediamo
fiduciosamente in Lui, al Suo Amore, alla Sua premura di Padre.
In quella donna che Gesù chiama teneramente “figlia” Egli scorge
una fede personale così forte ed intensa che non aveva finora
trovata neanche nei suoi discepoli.
b) Il caso di Giairo - Nel frattempo arriva la notizia del dramma,
umanamente insormontabile, della morte della figlia di Giairo e
una conseguente sfiducia di quelli della sua casa per le capacità
di Gesù. In questo caso Gesù chiede a Giairo di scommettere su
di lui e fa un’affermazione inaudita: “Perché vi agitate e piangete?
La bambina non è morta ma dorme”, poi afferrando la bambina
per mano le dice “Talità kum che significa: Fanciulla, io ti dico:
alzati!”. Gesù la risveglia e la bambina si alza. In questo caso
conta la fede vicaria che sostituisce la fede di un’altra persona.
Per questo viene considerata ed ha la sua importanza la nostra
preghiera, la nostra intercessione per gli altri, la fede a nome di
coloro che non credono, perché la morte, nel linguaggio biblico,
non significa soltanto la morte fisica, ma anche essere lontani da
Dio e possiamo pregare con la nostra fede per aiutare, salvare le
altre persone.

199
TREDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

4. Una riflessione conclusiva - Nel suo testamento Giovanni Paolo


II ha scritto che i documenti del Concilio Vaticano II sono la bussola
della Chiesa del XXI secolo. Proprio questi documenti ci danno le
indicazioni di come deve camminare e vivere la Chiesa in questi
tempi. Quindi non sono documenti da archiviare, ma da rileggere
e da applicare. Per questo motivo, a volte, faccio delle citazioni di
alcuni brani del Concilio, che la maggioranza di noi non legge.
Quando si parla della rivelazione di Dio, dicono i Padri conciliari,
cinquanta anni fa “questa storia della rivelazione avviene con eventi
e parole intimamente connessi tra loro in modo che le opere com-
piute da Dio nella storia della salvezza manifestano e rafforzano la
parola”. In realtà significa che le parole dichiarano le opere e chia-
riscono il ministero in esse contenuto. Quindi, in questo contesto,
faccio questa citazione perché i miracoli, le opere sono contenuti,
sono connessi intimamente, in modo intrinseco, con quello che
Gesù proclamava e diceva, e le sue parole spiegavano il senso, il
significato, il valore, delle opere compiute da Lui. Quindi anche
attraverso gli eventi Dio ci parla, ci comunica. Vogliamo anche noi,
attraverso gli eventi che accadono nella nostra vita, capire, compren-
dere, ciò che il Signore ci rivela affinché rappresentino per noi la
luce che illumina il nostro cammino.

200
QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Ez 2,2-5


Salmo 122
Seconda lettura: 2Cor 12,7-10
Vangelo: Mc 6,1-6

La Parola di Dio attira la nostra attenzione ancora una volta sul


tema del profeta. Questa volta potremo apprenderne altri aspetti.
Gesù stesso dichiara di essere profeta, anche se non accolto, anche
se è rifiutato, soprattutto nella Sua patria, tra i parenti, in casa Sua.
A partire dall’Antico Testamento abbiamo tante figure profetiche
mandate da Dio al popolo; Gesù è il compimento di tutta la storia
dei profeti. Per questo motivo vogliamo riflettere sul tema della
figura, sulla persona del profeta.

1. La ‘meraviglia’ - È molto interessante osservare la struttura del


Vangelo odierno che inizia e si conclude con lo stesso atteggiamento
della meraviglia.
a) La ‘meraviglia’ della gente - La scena si svolge nella sinagoga di
Nazareth, la patria di Gesù, nel luogo dove ci si riuniva per leggere
la Sacra Scrittura ed ascoltare le spiegazioni. Gesù vi si reca di sabato
e si mette ad insegnare suscitando lo stupore e l’incredulità dei suoi
concittadini: “E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano:
«Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è
stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?»” (v.2).
Il Vangelo finisce con l’affermazione di Gesù: “E si meravigliava
della loro incredulità” (v.6). Quindi sia all’inizio che alla fine del
Vangelo c’è la meraviglia, lo stupore: all’inizio si tratta della mera-
viglia della gente, degli uditori, degli ascoltatori, dei testimoni e alla
201
QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

fine quella di Gesù. Per quanto riguarda la meraviglia e lo stupore


della gente, si può delineare o descrivere come fosse una meraviglia
espressa dall’ammirazione, dal fascino, ma velata dallo scetticismo
misto a sarcasmo: “Com’è possibile!” La prima domanda che la
gente si pone, insinua dubbi su Gesù come maestro, la seconda
sulla Sua sapienza e la terza sui miracoli, avendo constatato l’umiltà
delle origini e del lavoro di Gesù. La credibilità del messaggio di
Gesù, anche se accompagnata da segni e miracoli, viene vanificata
dalla familiarità dei rapporti che alla fine porta le persone allo
scandalo come dice san Marco: “Ed era per loro motivo di scan-
dalo”; come per dire: “Questo Gesù che conosciamo, figlio di
Giuseppe di Maria; conosciamo tutta la sua famiglia; li conosciamo
da sempre e lui adesso si presenta, si manifesta, si autodefinisce
come profeta? Com’è possibile! È una cosa scandalosa!”. Quindi
questo stupore, questa meraviglia si trasforma in atteggiamento di
scandalo, di rifiuto, di ripudio, di respingere Gesù, la sua parola
e le sue opere.
b) La ‘meraviglia’ di Gesù e la reazione dei ‘pochi’ - Invece la mera-
viglia di Gesù è diversa “Si meravigliava della loro incredulità…”.
Questo modo di sentire vuole, piuttosto, sottolineare l’espressione
di Marco come se avesse voluto sottolineare l’atteggiamento e il
vissuto di Gesù, la Sua amarezza, il Suo rammarico, la sua compas-
sione. Infatti Gesù non si scandalizza, non condanna la gente che
è incredula, che lo rifiuta, che lo respinge; non si offende, non li
punisce, non li castiga, piuttosto è una meraviglia vissuta con dolore,
con dispiacere in se stesso, ma comunque, senza scoraggiarsi. Gesù
comunque, riesce ad operare solo nei confronti di quei pochi che
l’hanno accolto, che gli hanno creduto e lo hanno riconosciuto
come profeta capace di proclamare la Parola di Dio, e l’annuncio
della salvezza. Così continua il Vangelo: “… ma solo impose le mani
a pochi malati e li guarì” (v.5), perché solo questi pochi malati,
poveri, sofferenti hanno riconosciuto in Gesù la figura del profeta
mandato da Dio. Di questo testo ci colpisce anche che la gente stessa
riconosce in Gesù la sapienza, i prodigi, i miracoli, le grandi opere
sovrumane, soprannaturali, malgrado il fatto che Gesù fosse uno di
202
QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

loro, (come) uno di tanti (persone). Però il loro sguardo era deter-
minato dall’umile sapienza e dall’autentica fede. Ci vuole la fede
per vedere in queste opere ed in queste parole l’intelligenza e l’operare
di Dio attraverso il Suo Inviato. I miracoli hanno come presupposto
la fede. Vengono compiuti quando si ha una relazione personale
con Gesù. I miracoli sono la risposta alla sincerità dell’uomo che
cerca la verità. Quindi non sono tanto i miracoli o la sapienza che
portano alla fede, ma è la fede che è necessaria per vedere i miracoli
e sentire la parola profetica di Dio.

2. La figura del ‘profeta’ – un altro aspetto


a) Profeta – uomo di Dio - Ed ora vogliamo fare una riflessione
sulla figura e le caratteristiche del profeta: in genere il profeta, nella
storia biblica, non è un veggente, un visionario, non è uno che
racconta gli eventi dell’avvenire per farci conoscere che cosa avverrà
alla fine o nel futuro della nostra vita. Non è questo il suo ruolo,
questa è una concezione sbagliata della parola profeta. La prima
caratteristica del profeta nella storia biblica è (colui) che proclama
la Parola di Dio, che è scelto e chiamato da Dio per manifestare la
Sua volontà. Non proclama la sua parola, ma la Parola di Dio. Lui
si rende conto di non essere il protagonista ma di essere lo strumento
nelle mani di Dio, di essere mediatore tra Dio e l’uomo, come ab-
biamo sentito nel brano della prima lettura tratta dal libro del
profeta Ezechiele. Egli infatti dovrà esprimere e manifestare la vo-
lontà e il disegno di Dio, secondo il mandato ricevuto da Dio stesso
con docilità, obbedienza, senza temere l’ostilità del popolo. Un’altra
caratteristica del profeta è che proclama la Parola di Dio e il suo
disegno con passione, in altre parole, in altri termini, si identifica,
si immedesima con la Parola stessa. Per lui non è solo una funzione
da svolgere, da compiere, ma la Parola che riceve da Dio e che deve
trasmettere ed annunciare, prima di tutto la deve scrutare ed appro-
priarsene egli stesso. Essa si imprime nel suo cuore, nella sua mente,
nella sua vita. Anche di fronte al rifiuto, all’incomprensione, all’osti-
lità, il profeta non si scoraggia, non si rassegna, comunque trasmette,
comunque cerca di realizzare la sua vocazione affidatagli, con fedeltà
203
QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

alla chiamata, anche quando si è respinti, non voluti, ostacolati,


perseguitati.
b) Profeta – uomo dei ‘pochi’ e per i ‘pochi’ - Inoltre il profeta è
mandato anche ai “pochi”. Quando apparentemente sembra che la
sua opera di annunciare, di proclamare sembra essere inutile, sembra
vada in fumo, sembra non porti apparentemente gli effetti ed i
risultati perché sono rimasti pochi quelli che lo hanno riconosciuto
e gli hanno creduto (quei malati che guarì), comunque egli è con-
vinto che ne vale la pena. Si può citare a questo punto l’intervista
fatta su Tv 2000 a Joaquin Navarro Valls direttore della sala stampa
in Vaticano e portavoce del Papa nei tempi di san Giovanni Paolo
II. La giornalista chiede a Navarro Valls, che accompagnava sempre
Giovanni Paolo II in tutti i suoi viaggi, quale è stata la visita più
toccante e più commovente tra tutti i viaggi fatti in tutto il mondo,
nei quali il Papa aveva incontrato migliaia e migliaia di persone.
Risponde Navarro Valls: “È stato il viaggio in Danimarca, Svezia e
Finlandia, nei paesi atei o protestanti, dove i cattolici sono la mino-
ranza. Lì è andato a fare il viaggio per incontrare un centinaio di
persone, ha fatto apposta quel viaggio, anche se ha incontrato pochi
che lo aspettavano, che lo volevano, che lo desideravano come suc-
cessore di Pietro e come vicario di Cristo”. Questa è la prova che
vale la pena andare anche per pochi che ci ascoltano e vogliono
ascoltare la Parola di Dio.

3. L'instancabilità apostolica di san Paolo, nonostante le contraddizioni


Anche noi, (come abbiamo già detto in altre occasioni), in quanto
incorporati, in virtù del battesimo, nella funzione profetica di Cristo,
siamo chiamati ad essere profeti soprattutto nel mondo di oggi,
anche se non è facile, anche se troviamo ostilità, indifferenza; a
volte, come cattolici, siamo perfino derisi, ma seguendo l’esempio
di san Paolo nella seconda lettura (2Cor) dove ci viene presentato
un testo commovente, che colpisce il cuore, come se fosse una sua
intima confessione. San Paolo riconosce la sua debolezza come
messaggero, come inviato: “Affinché io non monti in superbia, è
stata data alla mia carne una spina…” (v.7). Tanti di noi si potrebbero
204
QUATTORDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

facilmente scoraggiare: “Signore, sono troppo debole, che vuoi da


me? Non sono capace di compiere quello che mi chiedi…”. La mi-
steriosa spina nella carne collegata con Satana, lascia intuire un
ostacolo demoniaco alla sua evangelizzazione. Ma san Paolo non
considera la sua situazione di infermità e persecuzione in se stessa,
ma se ne compiace perché è l’occasione della rivelazione della po-
tenza, della gloria del Signore. L’esperienza ha insegnato all’apostolo
che quando egli è debole dal punto di vista umano, quando è privo
di quello che il mondo considera come forza, allora egli è forte di
una potenza spirituale, di fede e di amore. È toccante l’umile pre-
ghiera di Paolo: “A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore
che l’allontanasse da me” (v.8). Dio non gli concede quello che gli
ha chiesto, ma gli dona molto di più. Infatti il Signore gli risponde:
“Ti basta la mia grazia… “ (v.9); gli concede la grazia, la forza per
accettare e superare la prova. Poi Paolo dice: “mi vanterò quindi
ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza
di Cristo”. Per questo quando anche noi siamo deboli è allora che
siamo forti e possiamo compiere la nostra missione, la nostra voca-
zione di essere profeti, mandati adesso a nome di Gesù. Quindi
l’ostilità, il rifiuto da parte del mondo, la sua indifferenza ed anche
la nostra personale debolezza non ci può dispensare dal fatto che
siamo chiamati a svolgere questa bellissima vocazione, che ci dà
tanta gioia, di rappresentare Dio stesso, essere Suoi messaggeri, Suoi
ambasciatori in questo mondo che è talmente lontano da Dio, dal
Vangelo, dai valori proclamati dal Signore.

205
QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Am 7,12-15


Salmo 84
Seconda lettura: Ef 1,3-14
Vangelo: Mc 6,7-13

La riflessione di oggi riguarda esplicitamente il tema della evange-


lizzazione, talmente attuale (fino) al punto che anche la Chiesa ha
avuto fin dall’inizio l’obiettivo di proporre la persona di Gesù, la
rivelazione di Dio in Lui. Il tema della evangelizzazione è stato
meditato con particolare attenzione al Concilio Vaticano II. I padri
conciliari avevano affidato come impegno, come vocazione, e come
missione a tutta la Chiesa il messaggio ricevuto e trasmesso da Cristo
e dagli Apostoli. Infatti il Concilio Vaticano II ha dato tanto spazio
al tema dell’evangelizzazione, così pure molti altri documenti dei
papi: Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco, non
soltanto con la loro predicazione, ma anche con le loro opere, con
le loro attività concrete.

1. Chi è ‘evangelizzatore’? - L’argomento dell’evangelizzazione che


la Parola di Dio ci propone a meditare, si focalizza sulla domanda:
Chi è il soggetto dell’evangelizzazione? Chi è Colui che sta evange-
lizzando, che è chiamato a portare il Vangelo, ad annunciare la
Parola di Dio nel mondo e nell’ambiente in cui vive? È Cristo il
primo evangelizzatore. Ricordiamo a questo proposito le Sue famose
parole: “Bisogna che io annunci il regno di Dio: per questo sono
stato mandato” (Lc 4,43); Egli applica a Se stesso la frase del profeta
Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per
annunziare ai poveri un lieto annunzio” (cfr. Is 61,1; Lc 4,18). Da
Cristo l’opera di evangelizzazione è stata affidata alla Chiesa e con-
206
QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

tinua fino a oggi. Affinché la Chiesa possa compiere fedelmente


questo compito, questa vocazione è stata fornita, riempita, animata
dal dono dello Spirito Santo, come abbiamo detto poco fa, è stata
inviata da Cristo prima ancora della Sua passione, morte e risurre-
zione, del mistero pasquale. Come abbiamo sentito all’introduzione
alla Santa Messa, la Chiesa di per sé è missionaria, è evangelizzatrice,
quindi non tiene per se stessa il Vangelo, ma lo diffonde perché il
Vangelo, che è il bene maggiore che abbiamo ricevuto da Dio, è il
bene di per sé diffusivo, si diffonde, non si chiude in se stesso. Se
il bene si diffonde, così anche la Chiesa, tutta la Chiesa, cioè tutta
la nostra comunità, a partire dai laici, dalle semplici persone, dai
catechisti, dai religiosi, dai sacerdoti, dai vescovi e dal Papa sono
chiamati a diffondere la Parola di Dio. Ognuno di noi nella propria
totalità ed individualità è chiamato ad essere evangelizzatore, un
compito che appartiene ad ogni battezzato. Questo per spiegare chi
è il soggetto dell’evangelizzazione.

2. In che cosa consiste ‘l’evangelizzazione’? - La seconda domanda


ci fa riportare una riflessione preliminare: Paolo VI e Giovanni Paolo
II, nelle loro encicliche hanno sottolineato che l’evangelizzazione
consiste nel rinnovamento continuo, perenne dell’umanità; nella
promozione di ogni essere umano e non soltanto sul piano terreno,
ma promuovere l’uomo ed orientare l’umanità ed ogni essere umano
verso Dio Padre. In concreto, in modo più esatto e preciso, l’evan-
gelizzazione consiste nella nostra fatica, nel nostro impegno, nel
nostro lavoro, di liberare ogni essere umano dal male peggiore che
è il peccato, cioè dall’allontanamento da Dio, dalla tentazione di
scordarsi, di dimenticarsi di Dio. Quindi la liberazione dal male
morale, la liberazione dalla tentazione di allontanarsi da Gesù, dal
Suo amore, dalle Sue promesse e nella difesa continua dei diritti
umani, della promozione della dignità umana. L’evangelizzazione
consiste anche nel portare la Parola di Salvezza a coloro che ancora
non l’hanno sentita. Infatti, come diceva san Giovanni Paolo II, la
povertà peggiore è quella di non conoscere Cristo.

207
QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

3. Che cosa viene trasmesso attraverso l’evangelizzazione? - La terza


domanda che ci poniamo: quale è il contenuto, l’oggetto dell’evan-
gelizzazione, che cosa dobbiamo predicare, annunciare? Prima di
tutto, come diceva il beato Paolo VI: “l’amore del Padre”; portiamo
questo bell’annuncio agli altri, cercando nello stesso tempo, di
riconoscere ed accettare, noi stessi, di essere amati da Dio. Un altro
contenuto di questa evangelizzazione, ciò che deve essere predicato
ed annunciato è la salvezza in Cristo, come abbiamo sentito nella
seconda lettura, tratta dalla lettera di san Paolo agli Efesini “In lui,
anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il Vangelo della
vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello
Spirito Santo che era stato promesso” (Ef 1,13). Ecco ciò che costi-
tuisce l’oggetto molto importante dell’evangelizzazione in Cristo,
quello che deve essere predicato, annunciato: è la chiamata alla
conversione come dice il Vangelo: “Ed essi partiti, proclamarono
che la gente si convertisse…” (Mc 6,12).

4. In che modo bisogna evangelizzare? - Come dobbiamo evangeliz-


zare ai tempi di oggi? A volte ci sentiamo così vulnerabili, incapaci,
deboli, fragili che non ci sentiamo idonei, come si legge nella prima
lettura tratta dal libro del profeta Amos, il quale, quando viene
chiamato a predicare, a profetizzare, risponde “Non ero profeta, né
figlio di profeta, ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro”
(Am 7,14). A volte ci viene spontaneo lamentarci: “Sono un uomo
semplice e tu, Signore, mi chiami per evangelizzare a proclamare la
tua parola? Non ne sono degno, non ne sono capace”. Invece Dio
sceglie, chiama quelli che apparentemente sembrano inesperti, inetti,
deboli, fragili, non preparati e di loro (ne) fa strumenti, mediatori,
messaggeri della Sua Parola e questo può avvenire attraverso una
semplice testimonianza, la condotta della vita; quindi non solo
annunciando, insegnando, uscendo sulle piazze per proclamare la
Parola di Dio ma soprattutto testimoniandola con lo stile di vita e
le opere. Tutto questo diventa anche per noi la provocazione che
emerge dalla Parola di Dio di oggi e ci spinge e ci stimola a riflettere
e ad approfondire la nostra missione. Prendiamo come esempio san
208
QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Francesco quando mandava i suoi confratelli nelle missioni, soprat-


tutto tra i saraceni, i musulmani, gli arabi nel medio oriente, diceva
loro: ‘quando arriverete in quei luoghi, prima di tutto cercate di
conoscere le persone, cercate di capire il loro ambiente, cercate di
mostrare il vostro stile di vita, le vostre opere di carità, di amore,
di perdono, di accettazione, di dialogo, e soltanto quando sarà
necessario, comincerete, se ve lo domanderanno, a predicare in modo
esplicito la Parola di Dio, la Parola del Vangelo’.
Altri modi per evangelizzare sono le catechesi, le proposte delle
chiese locali, delle parrocchie, la partecipazione agli incontri per
approfondire la Parola di Dio, appartenere alle varie comunità che
esistono presso le parrocchie, ed anche il dialogo con gli altri. Ov-
viamente non si può imporre agli altri l’annuncio del Vangelo, ma
prima di tutto cerchiamo di conoscerli e di entrare nel loro ambiente,
nella loro cultura e tradizione.

5. Chi sono i destinatari dell’evangelizzazione? - Prima di tutto, come


diceva Giovanni Paolo II, i primi destinatari dell’evangelizzazione
siamo noi che dobbiamo lasciarci evangelizzare o essere evangelizzati,
scrutati, penetrati dal contenuto del Vangelo continuamente, tutta la
vita, poi l’evangelizzazione è orientata, indirizzata a tutto l’universo,
a tutto il mondo a tutta l’umanità. Quali ambienti possiamo speci-
ficare? Coloro che non conoscono Gesù, che vengono da altre reli-
gioni, tradizioni, culture e così via, poi gli atei, coloro che pur
crescendo, vivendo nella società dove si conosce il Vangelo, la fede
cristiana, la chiesa cattolica, rifiutano di credere, rifiutano il mes-
saggio di Gesù. Poi anche coloro che appartengono al cosiddetto
mondo scristianizzato di cui fa parte soprattutto l’Europa occiden-
tale, laica, secolare; infine quelli che dicono: noi crediamo a modo
nostro ed anche i cosiddetti credenti, ma non praticanti. San Gia-
como, nella sua lettera, dice in modo chiaro: non c’è la fede senza
le opere e tra queste opere si inserisce e subentra la pratica religiosa,
la partecipazione nella vita comunitaria, della parrocchia, soprattutto
la partecipazione alla Santa Messa, al sacramento della Riconcilia-
zione, alla comune preghiera, ecc.
209
QUINDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Non esiste la fede senza la pratica come se uno volesse dire: ‘Dio
sì, Cristo sì, la Chiesa no, questo ambiente non mi interessa’. Non
c’è Dio senza la Chiesa. La comunicazione che ci fa Dio attraverso
la Sua parola ci pone queste domande e questi messaggi. Lo vogliamo
ringraziare per tutto quello che ci comunica, ci dice, ci offre, per il
fatto di essere noi stessi scelti come annunciatori del suo messaggio
e lo vogliamo fare nel modo migliore possibile. Per poter fare questo
abbiamo bisogno del dono dello Spirito Santo che anima, agisce, e
ci rende coraggiosi, fiduciosi per uscire e andare verso il mondo di
oggi pieni dell’entusiasmo di appartenere a Gesù.

210
SEDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Ger 23,1-6


Salmo 22
Seconda lettura: Ef 2,13-18
Vangelo: Mc 6,30-34

La Liturgia di questa sedicesima Domenica del Tempo Ordinario


ci invita a fermare il nostro sguardo sull’immagine della figura
biblica del Buon Pastore. Il pastore è una guida che ama le sue
pecore, si adatta alla loro situazione, le porta sulle sue braccia, e
gode di una certa e indiscussa autorità.

1. Il ‘pastore’ nell’Antico Testamento - Il pastore è l’immagine di


Dio che conduce il Suo popolo verso la salvezza. Egli difende il Suo
gregge dai pericoli e dimostra amore per ogni singolo. Nell’Antico
Testamento con il termine “pastore” non si designano soltanto gli
umili pastori che pascolano le greggi, ma anche i sovrani ed i gover-
nanti del popolo. Di fatto i pastori che qui rappresentano i re mal-
vagi del gregge d’Israele si sono rivelati infedeli alla loro missione.
Nel brano della prima lettura il profeta Geremia si scaglia contro
di loro con l’accusa “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono
il gregge del mio pascolo” (23,1-2). Il “guai” è principalmente un
grido di dolore per la situazione disperata, ed è rivolto verso i re, i
saggi e i sacerdoti responsabili della caduta di Gerusalemme che,
per la loro incuria, la loro ingiustizia ed oppressione, hanno provo-
cato l’esilio e la dispersione del popolo. Ma Dio stesso, autentico
pastore, troverà la soluzione con le promesse che iniziano con un
“Ecco…”: La prima è una punizione per i re che non si sono preoc-
cupati del benessere del popolo, poi attuerà il ritorno dall’esilio
babilonese, e il ripristino della Sua sovranità e del Suo primato.
211
SEDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Costituirà su di esso pastori giusti e idonei, finché non ci sarà che


un solo pastore, secondo la promessa fatta a Davide: “susciterò un
germoglio giusto”, un discendente legittimo. “Egli prenderà in mano
il gregge, lo radunerà e lo farà riposare in pascoli erbosi ed acque
tranquille”, come recita la preghiera del salmo responsoriale.

2. Il ‘Buon Pastore’ nel Nuovo Testamento


a) Gesù Buon Pastore nutre le Sue pecore con la propria Parola
L’aspettativa degli antichi profeti ha il suo compimento in Gesù. Il
tema del gregge disperso è comune alla prima lettura come al Van-
gelo, nel quale si rappresenta il volto dell’umanità che appare a Gesù
come gregge senza pastore: “si commosse per loro, perché erano
come pecore senza pastore” (v.34). Ma la nostra attenzione viene
attirata anche dal fatto che Gesù offre alla folla, innanzitutto, il Suo
messaggio che precede la soddisfazione della fame fisica. Egli vuole
far conoscere la Sua vera identità, presentare la novità del Suo inse-
gnamento, del Suo ruolo di maestro e di guida. Di solito la gente
Lo cerca per ottenere delle guarigioni, dei miracoli e affinché inter-
venga per risolvere i suoi problemi, ma in questa scena, la gente,
priva di orientamento e di senso, Lo cerca e Lo segue perché ha
bisogno di altro: della Sua parola che non è un insieme di semplici
istruzioni o teorie, ma è il miracolo della compassione, della gratuità,
della magnanimità e della pazienza; un appassionato coinvolgimento
nelle vicende, negli smarrimenti e nelle cadute dell’uomo. Egli
manifesta il suo atteggiamento gioioso ed intenso dell’annuncio del
Regno. Il Suo messaggio tocca fino in fondo, determina e cambia
la vita dell’uomo. Le parole di Gesù portano consolazione, conforto,
orientamento e verità nella vita; l’armonia, la speranza e cioè “un
nuovo ed autentico modo di vedere la vita”. Gesù il “vero pastore”
che ha pietà dell’uomo, nutre per lui comprensione, compassione,
accettazione e vicinanza in ogni situazione. Egli si presenta anche
come una guida che con la Sua “autorità” affiderà agli apostoli il
compito di rappresentarLo, con l’esempio e la testimonianza nella
missione di essere “pastore buono”.

212
SEDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

b) Gesù Buon Pastore è il ‘Rifugio’ dei Suoi discepoli - Nella prima


parte del Vangelo viene raccontato il ritorno dalla missione degli
Apostoli, che dopo aver riferito “quello che avevano fatto e quello
che avevano insegnato” (v.30), vengono invitati da Gesù a riunirsi
tra di loro, in disparte, per (farli) riposare. Questa proposta di
prendersi una pausa di riposo e di solitudine, lontano dalla con-
fusione e dal rumore, per ritemprarsi, denota una particolare
intimità, condivisione e confidenza, che esiste tra loro. In compa-
gnia di Gesù si possono recuperare le forze e l’entusiasmo, si rica-
rica l’anima priva di energie per le fatiche. La comunione con Gesù
precede la predicazione perché ogni missionarietà ha bisogno di
ripartire dalla sorgente; infatti gli Apostoli inviati in missione,
sono allo stesso tempo anche discepoli poiché devono apprendere,
essere ammaestrati e imparare a proclamare la buona notizia. La
conoscenza di Gesù Figlio di Dio, la vicinanza con Lui è un’espe-
rienza di vitale importanza. Gesù ci fa entrare, contemplare e vivere
con intensità e profondità nella verità, nel mistero di Dio. Egli dà
un autentico senso alla nostra vita, è per tutti noi una guida sicura.
Nella nostra società riceviamo tante notizie, opinioni, dottrine ed
anche noi cristiani corriamo il rischio di trovarci disorientati,
sbandati intellettualmente e spiritualmente. A volte, senza render-
cene conto, siamo preda di messaggi, di proposte di seguire stili
di vita che ci ingannano e ci viene a mancare la riflessione e la
necessità di affidarci al vero pastore della nostra vita: Gesù che è
“la via, la verità, la vita”. Solo in Lui troveremo sicurezza e il
cammino giusto e sicuro da seguire.
c) Gesù Buon Pastore anche di coloro dell’‘altro gregge’ - Nella
seconda lettura scritta dall’Apostolo Paolo agli abitanti di Efeso ci
viene presentato Gesù Cristo “nostra pace”. Egli interpella i cristiani
di quella città, che essendo prevalentemente composta di svariate
culture e dove si verificavano diversi traffici, erano ritenuti “i lon-
tani”, cioè i pagani e quindi non ammessi ai benefici concessi al
popolo eletto, cioè “ai giudei”. Paolo li rassicura che Gesù, con il
dono della sua vita sulla croce ha ammesso anche loro alla parteci-
pazione della salvezza ed alla gloria di Dio. Gesù, infatti, ha annun-
213
SEDICESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

ciato la pace ai lontani come ai vicini, li ha uniti in un solo Spirito,


ha aperto un nuovo orizzonte superando la “legge umana” affinché
tutti possano presentarsi con libertà al Padre. Infatti lo Spirito
mantiene uniti tutti i membri della Chiesa e li apre alla testimonian-
za ed all’annuncio della Buona notizia.

214
DICIASSETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: 2Re 4,42-44


Salmo 144
Seconda lettura: Ef 4,1-6
Vangelo: Gv 6,1-15

1. La moltiplicazione dei pani - Oggi ascoltiamo l’annuncio della


salvezza che si sta compiendo attraverso l’immagine di un banchetto
imbandito da Gesù per noi, con il miracolo della moltiplicazione
dei pani narrato dal Vangelo di Giovanni. Il quarto evangelista, che
a partire da questa Domenica prende il posto di Marco e ci accom-
pagna per cinque domeniche, presenta la lettura semi-continua del
capitolo 6 per approfondire maggiormente il significato del sacra-
mento dell’Eucaristia. Il capitolo si apre con il miracolo della mol-
tiplicazione dei pani. Quando Gesù vede una gran folla venire verso
di Lui mette alla prova i Suoi discepoli perché si manifesti ciò che
hanno e provano nel cuore. Prima provoca Filippo chiedendogli
dove si potesse comprare il pane per tutta quella gente, ma il disce-
polo rinuncia ad intervenire sentendosi incapace di agire per la
mancanza dei mezzi. Interviene Andrea con maggiore fiducia in
quello che Gesù può fare e dice: “C’è qui un ragazzo che ha cinque
pani d’orzo e due pesci” (v.9). Quei pochi pani messi nelle mani di
Gesù diventano la base per saziare quella moltitudine, ma è stato
necessario che vengano “perduti “ da quel ragazzo. Il brano è, quindi,
anche un insegnamento di fede. Tutto viene da Dio, tutto è grazia,
ma Dio chiede la collaborazione fattiva dell’uomo. Gesù si serve dei
soli cinque pani chiedendo un segno di disponibilità che diventa
espressione di condivisione e di apertura delle persone a Lui.

215
DICIASSETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

2. Il significato del gesto prodigioso compiuto da Gesù - Gesù mol-


tiplica i pani e dona del cibo materiale alle folle affamate, un pane
che sazia la fame del corpo, ma nello stesso tempo e, principalmente,
vuole far capire quale sia il senso ed il significato del miracolo. Il
pane donato, come parola definitiva di Dio per alimentare la vita
del credente, vuole farci accogliere la rivelazione del mistero che si
nasconde nella persona di Gesù. Mediante questo segno Gesù mostra
che può e vuole appagare anche ogni altro tipo di fame presente
nell’uomo. Il nostro brano ha una singolare particolarità: narra
l’episodio che nei Vangeli in totale, è raccontato per sei volte: una
volta Luca e Giovanni, due volte ciascuno Marco e Matteo. Eviden-
temente la tradizione cristiana primitiva ha dato a quest’episodio
un grande risalto. Ma come avviene di solito, nel quarto vangelo,
al ‘segno’, che in questo caso è un miracolo, è strettamente abbinato
un discorso di grande importanza teologica: è il discorso sul ‘pane
della vita’ (6,26-59), la grande fonte di riflessione sul Sacramento
dell’Eucaristia.
a) La ‘Moltiplicazione dei pani’ come anticipo dell’Eucaristia
In tutto il testo, vi sono vari richiami a gesti, parole e idee caratte-
ristici della liturgia cristiana, per cui sembra essere molto stretto il
legame di questo brano con la tradizione liturgica della celebrazione
eucaristica, soprattutto alla luce del fatto che il Vangelo di Giovanni
non riferisce l'istituzione dell'Eucaristia, ma la presuppone con
questo racconto sul “pane di vita” e con la lavanda dei piedi. Nel
capitolo 6 di Giovanni gli interlocutori di Gesù sono la folla, i
Giudei ed i discepoli. È bene evidenziare che il miracolo avviene
prima della Pasqua e questo, non soltanto per indicare che il pane
miracoloso che Gesù dà è il simbolo della nuova Pasqua, ma anche
per ricordare l’uscita del popolo d’Israele e la manna che il Messia
avrebbe nuovamente dato, secondo l’attesa dei Giudei. Gesù è colpito
dalla fame della folla, ma anche dalla fame della Sua parola e della
Sua Persona e sazia con sovrabbondanza, sia con pane materiale che
diventa, nello stesso tempo, simbolo dell’insegnamento che sta
dispensando alle folle con autorevolezza. Gesù, non solo opera
guarigioni per la salute, nella dimensione fisica e spirituale, risusci-
216
DICIASSETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

tamenti della vera vita, dona liberazione e salvezza, ma vuole donare


il vero cibo per essere pienamente nutriti, sazi ed appagati.
b) La ‘Moltiplicazione dei pani’ come manifestazione dell’identità
di Gesù - Alla fine la folla riconosce che Gesù “è davvero il profeta,
colui che viene nel mondo!”(v.14), ma questo entusiasmo e la rea-
zione di Gesù che si ritira da solo fanno capire che il suo potere
non deve essere male interpretato. Egli si sottrae alla folla, perché
non intende essere scambiato per un semplice operatore di miracoli,
per chi risolve i problemi e fornisce miracolosamente il cibo quoti-
diano, ma vuole dirigere lo sguardo dei presenti su qualcos’altro,
vuole rispondere ad esigenze più profonde, vuole farsi conoscere
per quello che Egli è. La moltiplicazione dei pani è l’anticipo del
pane vero e vivo, la promessa dell’Eucaristia, la parola ed il corpo
di Gesù che sono il nostro cibo per la vita eterna. Da ciò si com-
prende il valore ed il senso della Messa, non come semplice pratica,
ma come vivo incontro con Gesù che sazia.
c) La ‘Moltiplicazione dei pani’ alla luce delle altre due letture
Anche nella prima lettura – classico esempio di relazione reciproca
fra i due Testamenti – si tratta di una moltiplicazione di pani operata
dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44). Il profeta che parlando non a suo
nome, ma a nome di Jahvè, comanda di dare da mangiare alla gente
mentre il suo servitore gli fa notare l’inadeguatezza delle risorse a
disposizione. Ma quello che appare insufficiente nell’ottica umana,
non lo è per chi guarda con gli occhi della fede. Per questo la parola
di Eliseo, forte della forza di Dio, si realizza. Il parallelo fra i mira-
coli illumina anche l'aspetto profetico della persona di Gesù.
A sua volta, la seconda lettura (Ef 4,1-6) sottolinea uno degli
aspetti della vita eucaristica della Chiesa: la comunione e l’unione
che si costruiscono attorno a Cristo e si alimenta dell'unico pane
eucaristico. Paolo, nella sua condizione di “prigioniero del Signore”
si identifica come apostolo e sente su di sé l’autorizzazione nella
richiesta di essere ascoltato. Egli implora l’umiltà, l’eliminazione di
ogni egoismo e superbia, di usare dolcezza, amabilità, pacatezza,
magnanimità. Tutti atteggiamenti che dovrebbero identificare ogni
217
DICIASSETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

cristiano nell’accoglienza, nell’unione, nella pace, nell’accettazione


reciproca. L’unità della Chiesa è un dono di Dio, ma richiede la
collaborazione dei credenti in Cristo. La soluzione alle discordie e
alle divisioni sono: un solo Signore, un solo Dio Padre, un solo
Spirito. Il riferimento alle tre persone divine indica(no) la Trinità
come sorgente di comunione nella salvezza riservata e donata a tutti
i credenti.

218
DICIOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Es 16,2-4.12-15


Salmo 77
Seconda lettura: Ef 4,17.20-24
Vangelo: Gv 6,24-35

1. Gesù come ‘pane di vita’ di fronte alle false aspettative del popolo
Gesù si definisce “pane di vita”, essendo solo Lui capace di saziare
la fame di Dio, la fame di senso, di verità che abbiamo nel cuore.
Ma il requisito necessario per riconoscere Gesù conforme ai nostri
bisogni è la fede. Infatti, ogni segno che Egli compie per farci com-
prendere la vita divina che ci vuole comunicare, è afferrabile solo
mediante questa fiducia. La fede ci porta a scoprire Gesù, nella
profondità della Sua Persona e della Sua Parola. Il messaggio del
Vangelo di oggi si può sintetizzare nell’affermazione: “Il pane di
Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (v.33), un
messaggio da accettare come rinnovamento nostro e della storia di
tutta l’umanità. Continuando il racconto di domenica scorsa, quando
la moltiplicazione dei pani ha infervorato la folla che, però, non
ha compreso l’importanza del segno, oggi comincia la lunga discus-
sione a Cafarnao tra Gesù e i giudei i quali lo “cercano” per i propri
bisogni, le proprie aspettative che, però, non coincidono con la vera
motivazione per cui Gesù va cercato. Gesù modifica e trasforma la
ricerca della gente orientandola a far emergere la domanda vera.
Gesù comprende che la folla non sa precisamente cosa vuole, per
cui spiega l’equivoco di cui è vittima: “Voi mi cercate non perché
avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi
siete saziati” (v.26). La gente dimostra di non aver capito che quel
segno doveva essere compreso come qualcosa di più vitale e impor-
219
DICIOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

tante, mentre Gesù chiede un cammino di fiducia e di sequela e


raccomanda di non darsi troppo da fare per procurarsi un cibo che
non dura, che porta alla delusione ed al vuoto, ma di cercare il cibo
che rimane, che dura in eterno, che è la vita stessa di Dio. Gesù
annuncia loro che l’unica cosa da fare è impegnare la propria vita
sulla Sua persona.

2. Gesù, il ‘pane di vita’ che sazia la fame più profonda dell’uomo


L’Evangelista Giovanni, in questo brano, dichiara che la salvezza
non proviene dai progetti, dagli sforzi dell’uomo ma soprattutto
dall’accettazione del dono della fede. Eppure i Giudei, ancora incre-
duli, pretendono un segno simile a quello operato da Mosè, con-
frontandolo alla manna, il “vero pane disceso dal cielo”, secondo
le antiche attese. Gesù ricorda loro che l’autore del dono era il Padre.
Ora il Padre dona il Figlio che è molto più grande del profeta pro-
messo e di essere lui il Messia venuto a compiere tale attesa. Lui è
il pane che placa la fame dell’umanità. Quando Gesù si accorge che,
comunque, essi pur comprendendo la superiorità del pane di cui
parla Gesù non ne capiscono il valore simbolico, rispondendo alla
loro durezza di cuore, dichiara e si identifica solennemente con “il
pane di vita”. È una affermazione che spiega la Sua qualità, esclusiva,
unica, di saper donare all’umanità, il nutrimento, il gusto il senso
all’esistenza. Credere in modo vero, autentico equivale a vivere dando
un valore alla vita con l’abbandono e la docilità, al vero pane che è
Gesù, alla Sua parola, alla Sua persona. È rendersi conto di conoscere
la “grazia”, cioè l’amore gratuito di Dio. Il pane della vita è “la
grazia”.

3. L’insegnamento pratico della prima lettura - Il messaggio di sfa-


mare e saziare è anticipato nella prima lettura, tratta dal libro
dell’Esodo in cui si narra della condizione di fatica, di precarietà
del popolo ebraico, quando attraversando il deserto, dopo la libera-
zione dalla schiavitù dall’Egitto, si lamenta e mormora. Arriva
perfino ad avere nostalgia del pane che aveva assicurato, pur nella
condizione di schiavo, dimenticando le umiliazioni subìte e la
220
DICIOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

prospettiva della libertà nella terra promessa. A questo malcontento


Dio risponde con il dono della manna che è segno della sua sollecita
gratuità e provvidenza. Ma questo miracolo non vuole procurare
solo il pane quotidiano, che comunque risponde ad una necessità
importante, ma vuole insegnare al popolo a fidarsi di Lui che è
sempre fedele all’alleanza: “Ecco, io sto per far piovere pane dal
cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno…, perché
io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia
legge” (v.4). Dio ha così risposto alla mormorazione del popolo,
non soltanto procurandogli il cibo, ma educando l’uomo che non
si vive di solo pane ma di Dio stesso che è sorgente e traguardo della
vita. Anche oggi, nella Chiesa, è maggiore il numero di persone che
difficilmente partecipano, ma che brontolano, si lamentano, che di
coloro che non partecipano e difficilmente si lagnano. Questo ci
dovrebbe spingere a lamentarci di meno e a dedicarci il più possibile
ad una partecipazione positiva per proporre la liberazione che Dio
attua per mezzo di noi. La Parola di Dio mette in luce la forma di
schiavitù che è la ricerca della sicurezza fondata sulle cose materiali.
Il cristiano ha come prerogativa una ‘santa incertezza’: la manna
consumata entro il giorno, senza i granai, oltre le banche. È l’incer-
tezza che ci fa vivere il presente con pieno coinvolgimento e guardare
il futuro con la speranza deposta nel Signore.

4. Il ‘pane di vita’ ci nutre in cammino verso la Nuova Vita - Anche


san Paolo, nel brano della seconda lettura, scrivendo ai cristiani di
Efeso, li esorta a ricercare l’unità e a vivere in modo coerente la vita
cristiana con uno stile di vita e con un comportamento diverso da
quello che avevano prima di aver conosciuto Cristo. Li incoraggia
ancora ad abbandonare “ l’uomo vecchio” che era caratterizzato da
scelte e pensieri instabili, inutili e corrotti, ma imparando da Cristo,
a rinnovarsi, rivestendo, nello spirito e nella mente, “l’uomo nuovo”,
l’uomo creato da Dio improntato alla santità e alla giustizia. Essere
uomini nuovi esprime l’immagine e la somiglianza del Figlio Gesù.
Questa contrapposizione tra l’effimero e l’eterno, indica la diversità
tra il cibo che perisce ed il cibo vivo ed immortale del Vangelo.
221
DICIOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Nella società attuale esiste un certo permissivismo, ma allo stesso


tempo essa si presenta intollerante. Siamo spinti, infatti, a compor-
tamenti lontani dalla legge morale, ma contemporaneamente ci
viene imposto uno modello di condotta che se non si è in grado di
seguire fa sentire le persone frustrate, rifiutate e depresse. Qui si
impone la scelta tra la mentalità del mondo ‘vecchio’ e vivere come
uomo ‘nuovo’ in Cristo.

222
DICIANNOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 19,4-8


Salmo 33
Seconda lettura: Ef 4,30-5,2
Vangelo: Gv 6,41-51

1. Ostilità dei Giudei - Il brano del Vangelo di oggi che è preso


dall’ultima parte del discorso di Gesù, definito come discorso sul
“pane di vita”, si caratterizza per alcuni elementi peculiari: a) il fatto
che ora Gesù non dialoga più con la folla ma con i Giudei; b) la
loro “mormorazione” per le affermazioni di Gesù (vv.41-42); c) la
risposta di Gesù alle loro proteste (vv.43-50): Gesù che si definisce
“pane della vita”. L’incredulità e la ribellione dei Giudei all’autori-
velazione di Gesù di essere il pane disceso dal cielo deriva dall’umile
origine terrena di Gesù e diviene motivo di scandalo contro la sua
pretesa di avere origine divina. Essi hanno dimenticato la grandezza
del miracolo della moltiplicazione dei pani, e che hanno dichiarato
Gesù come il profeta che deve venire nel mondo. Per loro egli è solo
il “figlio di Giuseppe”, un uomo conosciuto di umile e semplice
famiglia, non può essere quel Messia che le Scritture annunciavano
come re potente.

2. La necessità della grazia della fede - Gesù comprende la loro


difficoltà di fronte al mistero della Sua persona e viene in loro aiuto
dando una spiegazione: “Nessuno può venire a me, se non lo attira
il Padre che mi ha mandato” (v.44). Gesù afferma così la sua stretta
comunione con il Padre e come unico rivelatore di Dio. In altre
parole nessuno può conoscere Gesù se non è attratto dal Padre ed
d’altro canto non è possibile avvicinarsi a Dio senza passare attra-
verso Gesù, senza la sua mediazione, la sua conoscenza. Dio insegna
223
DICIANNOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

ed illumina l’uomo tramite la conoscenza di Gesù. In Gesù, Dio


prende la figura umana, e gli uomini possono conoscerlo. Il Figlio
di Dio è venuto nel mondo per rivelare il volto di Dio. Spetta all’uo-
mo aderire, lasciarsi attirare, corrispondere al dono di fede affinché
consegnandosi nelle mani di Cristo possa ottenere la vita eterna.
Quindi, l’atteggiamento che viene richiesto è di far propria la pro-
posta di Gesù, di accogliere, anzi, assimilare la Sua persona, aderendo
a Lui con atto di fede. La fede ci fa riconoscere nell’Eucaristia il
dono più grande che possiamo avere, perché Gesù stesso vivo e vero,
come ‘pane di vita’, è presente in ogni Ostia consacrata. Questa
presenza indefinibile è stata per tanti martiri la forza imbattibile
per superare qualsiasi difficoltà; alcuni di loro, in attesa della pena
di morte, si facevano portare la Comunione di nascosto. Alcuni
erano sacerdoti e riuscirono anche a celebrare la Messa e a distribuire
il Pane celeste a chi lo desiderava. Anche san Massimiliano Kolbe,
mentre si trovava nel campo di concentramento di Auschwitz riuscì
in diverse occasioni a celebrare la Messa di nascosto.

3. Il senso dell’esperienza di Elia per comprendere meglio il messag-


gio di Gesù - Elia, vivendo un periodo di crisi e disperazione nel
deserto, proprio per mezzo del dono del pane ricevuto da Dio,
ottiene una nuova energia, una forza nuova che gli permette di
affrontare una lunga strada ed arrivare fino all’Oreb il monte di
Dio. I mezzi sono scarsi ma Dio si mostra potente nella debolezza
delle risorse e delle cose quotidiane e semplici. Siccome il pane è il
nutrimento fondamentale dell’uomo, Gesù utilizza questo alimento
e paragona Se stesso come mezzo di sostentamento. Come l’uomo
non può vivere senza pane, così il cristiano non può vivere senza
Cristo “pane della vita”. Infatti Gesù che vuole far parte della vita
dell’uomo, vuole essere a lui unito, coinvolto profondamente, chiede
di essere accolto e ci invita a far nostro il suo modo di pensare e di
agire. Nell’ultimo versetto di questo capitolo, Gesù, dopo aver riba-
dito “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo
pane vivrà in eterno”, aggiunge un rinvio, un’anticipazione al futuro:
“il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (v.51). Il
224
DICIANNOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

pane coincide chiaramente con la carne di Gesù. Questa è già la


comunicazione, la rivelazione del mistero del Suo corpo e del Suo
sangue. Gesù può finalmente dire in che cosa consiste il pane da
Lui offerto. Egli offrirà all’uomo la Sua stessa vita.

4. Il sacrificio di riconciliazione di Gesù come motivo del perdono


reciproco tra i cristiani - Il dono che Gesù ha fatto di Sé sulla croce
a favore dell’uomo, questa Sua autodonazione viene ripresa dalla
lettera di san Paolo agli Efesini esortando loro a diventare imitatori
di Dio (5,2). Il sacrificio di Gesù assume il senso dell’offerta della
Sua vita destinata ad ottenere la riconciliazione con Dio. Per questo
san Paolo illustra quale deve essere il comportamento del cristiano
in modo che si differenzi dai pagani. La norma principale è la carità
che si traduce in abitudini di vita descritte simultaneamente in modo
opposto. In primo luogo li ammonisce a far cessare ogni atteggia-
mento di durezza, sdegno ira e maldicenza, poi li sollecita alla
benevolenza, alla misericordia reciproca e motiva questa domanda
riferendosi al perdono ricevuto da Dio in Cristo. Questo è dunque
il motivo, la ragione, per cui i cristiani debbono essere coloro che
amano e si perdonano, perché credono in Cristo che ci ha amati
donando Se stesso e perché sono stati segnati dallo Spirito nel Bat-
tesimo: “non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale
foste segnati nel giorno della redenzione” (v.30).

225
VENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Pr 9,1-6


Salmo 33
Seconda lettura: Ef 5,15-20
Vangelo: Gv 6,51-58

1. Il corpo di Gesù è il pane necessario per la vita eterna - Nel sesto


capitolo del Vangelo di Giovanni ci sono dichiarazioni di Gesù
straordinarie e sconvolgenti. Egli, definendosi come “pane vivo”
che dà la vita a chi lo mangia, precisa che questo cibo è la sua carne,
ovvero la sua umanità, il suo corpo per la vita del mondo. Il brano
odierno che chiude il discorso eucaristico di Cafarnao, cominciato
dalla diciassettesima domenica, è strutturato in tre parti: A) Inizia
con l’affermazione di Gesù di essere il pane vivo disceso dal cielo e
dal bisogno assoluto di mangiare questo pane poiché mangiandolo,
si può arrivare alla vita stessa di Dio. B) Poi Gesù aggiunge che il
pane che donerà, corrisponde alla Sua carne, il Suo corpo. Il termine
‘carne’ rimanda all’umanità del Figlio di Dio Incarnato condividendo
la fragilità e la debolezza dell’uomo; invece l’espressione “per la vita
del mondo” specifica che si tratta di una prospettiva universale. C)
Se in precedenza i Giudei si erano scandalizzati per la condizione
di umiltà di Gesù ora, di fronte a questa Sua dichiarazione, restano
letteralmente sconvolti e si mettono a contestare duramente ritenen-
do esagerata la sua pretesa. Gesù allora dichiara: “Il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo”.
“Come può darci la sua carne da mangiare?” (v.52); ancora una
volta ricorre la domanda: “Com’è possibile?”. Questo annuncio è
stato frainteso da una comprensione in senso materiale, mentre le
parole simboliche di Gesù rinviano oltre. Egli, però, non dà spiega-
zioni, ma, in modo solenne, ribadisce la necessità di mangiare la
226
VENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna e il dono di
risuscitare nell’ultimo giorno. Alla fine del brano viene ancora
affermata la caratteristica precaria del dono della manna che non
ostacolò la morte dei padri d’Israele facendo emergere l’impareggia-
bile eternità di Gesù, pane di vita, della vita eterna.

2. La carne di Cristo e l’Eucaristia - In queste parole c’è un chiaro


riferimento alla Sua morte in croce, ma anche all’Eucaristia. Gesù
offre Se stesso sulla croce per la salvezza del mondo. L’Eucaristia
continua il mistero dell’Incarnazione e attualizza il sacrificio di
Gesù sulla croce. Sant’Ignazio di Antiochia sottolinea che l’Eucaristia
è il pane il quale è il rimedio che dà l’immortalità, un contravveleno
per non morire, ma per vivere in Gesù Cristo per sempre.
Il concetto del ‘mangiare’ scaturisce in quello di assorbire ed essere
trasformati. Una trasformazione che parte dal Cenacolo, come l’ha
magnificamente presentata il papa Benedetto XVI: “Facendo del
pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli (Gesù) anticipa la
sua morte, l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione
d’amore…”.
Questo fa capire che non si può avere la vita eterna, ovvero la
realtà nuova con i pani distribuiti alla folla, ma rimanda chiaramente
al sacramento dell’Eucaristia, al modo con cui viene vissuta e al
nostro rapporto con Cristo risorto che incontriamo nel pane euca-
ristico, vero pane con il quale viene a dimorare in noi. Questo
semplice gesto di ‘fare la comunione’ va colto nel suo infinito valore:
si tratta di un cibo che è Gesù! La Sua vita donata per la salvezza
del mondo è un cibo reso disponibile affinché chi ne mangia possa
trovare l’energia e la gioia di vivere al Suo stesso modo: con amore
e donando la propria vita agli altri.

3. Il Banchetto e la Sapienza - L’immagine del mangiare e del bere


ricorre spesso in tutta la Sacra Scrittura in cui si parla di banchetto,
di convito, di condivisione di cibo e bevande. Il pasto non viene
valutato solo in rapporto all’esigenza di nutrirsi per mantenersi in
vita ma acquisisce un valore religioso. L’autore della prima lettura
227
VENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

descrive la Sapienza come la parola di Dio che si riconosce nel creato,


nella Legge, nei Profeti e nella Parola del Padre. Questa Sapienza,
che è impersonata da una nobile “signora” che allestisce un sontuoso
banchetto e invita gli uomini a prendervi parte: “Venite, mangiate
il mio pane, bevete il vino che io ho preparato” (v.5); “Chi è ine-
sperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “abbandonate
l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”
(vv.4-6), vuole comunicarci che chi si ritiene ancora impreparato a
seguire Dio, si può ispirare alla Sua sapienza, può accrescere in se
stesso l’intelligenza e la felicità. Questo invito richiede da parte
nostra la ricerca e l’ascolto continuo della Sapienza che viene dal
Signore per poter acquistare quella saggezza che ci permette di
distinguere il bene dal male e di non vivere con esagerata autosuffi-
cienza le proprie opinioni. La Sapienza intesa come intima cono-
scenza di Dio, mentre ci incoraggia alla lode ed alla fiducia in Lui,
ci invita a comportarci lealmente e sperimentare così la Sua prote-
zione (Salmo 33).
Il modo per arrivare alla comprensione della volontà di Dio è
la partecipazione all’assemblea liturgica in maniera corretta, dove è
possibile vivere un dialogo tra i fratelli, e si possa avere la possibilità
di pregare, di rendere grazie per essere ricolmi dello Spirito Santo.
Ed essere ricolmi dello Spirito Santo vuol dire (di) avere in se stessi
la potenza di Cristo e la possibilità di trovarsi alla presenza di Dio.
Solo così si può ottenere una sapienza adeguata per vivere un vita
saggia e colma di luce. La vita cristiana è fatta anche di lotta per
poter portare a termine una liberazione dal male che continuamente
ci insidia, ma anche un tempo propizio per decidere di occuparsi
della propria salvezza manifestandosi nel mondo come figli di Dio,
come dice san Paolo (Ef 5,15.20). In questa ottica la Sapienza si
presenta a noi come Parola che sazia, nutre e dà la forza per affron-
tare e superare le lotte, donandoci la possibilità di vivere come figli
della luce.

228
VENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Gs 1,2a.15-17.18b


Salmo 33
Seconda lettura: Ef 5,21-32
Vangelo: Gv 6,60-69

1. Una questione da spiegare - Oggi termina la lettura del capitolo


6 del Vangelo di Giovanni che è stato inserito a completare il Vangelo
di Marco che in questo anno B viene a lui dedicato. Ci chiediamo
il perché di questa mancata continuità, come mai invece di conti-
nuare a leggere il Vangelo di Marco c’è questa parentesi di cinque
settimane in cui viene letto il Vangelo di Giovanni? È una cosa
molto curiosa, ma anche una cosa molto importante da capire per
la nostra lettura di tutto il Vangelo.
Quando è stata interrotta la lettura del Vangelo di Marco, si
parlava della folla che seguiva Gesù. Ad un certo punto l’Evangelista
Marco racconta che Gesù voleva far riposare i discepoli che erano
stanchi dopo il loro ritorno dalla missione a cui li aveva inviati, ma
(siccome) molta gente (che) li seguiva in continuazione tanto che
non avevano neanche il tempo per mangiare. Allora Gesù vedendo
“che erano come pecore senza pastore” si rende conto che la folla
era stanca e aveva fame, quindi “si mise ad insegnare loro molte
cose”.
La domenica successiva, la diciassettesima, Gesù si rivela come
il Pastore che nutre compassione, un coinvolgimento intenso ed
affettuoso. La Liturgia si richiama appunto al testo giovanneo,
precisamente al capitolo 6, dedicato alla moltiplicazione dei pani
per quella folla affamata.
Le domeniche successive Giovanni ci riferisce il discorso che
Gesù aveva fatto dopo aver nutrito migliaia dei Suoi ascoltatori.
229
VENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

La moltiplicazione non è solo un gesto di nutrire la folla affamata,


ma l’anticipo del mistero eucaristico, ossia dell’istituzione dell’Eu-
caristia. A tal punto anche il linguaggio adoperato da Giovanni per
raccontare quell’evento si serve delle espressioni presenti già nei
Vangeli sinottici quando parlano dell’istituzione dell'Eucaristia
nell’Ultima Cena celebrata da Gesù e i Dodici nel cenacolo, la sera
prima della Sua morte e del Suo sacrificio. I tratti caratteristici del
linguaggio eucaristico li si possono percepire nelle formule come:
“prese il pane”, “rese grazie”, lo benedisse” e “lo distribuì”. Non è
difficile riconoscere nell’uso di queste espressioni l’intenzione di
Giovanni, che nel suo Vangelo, pur non riportando immediatamente
il racconto sull’istituzione del sacramento dell’Eucaristia, vuole
mettere in rilievo i gesti con cui Gesù manifesta la Sua volontà e
anticipa, attraverso le Sue opere e parole il disegno di dare agli
uomini il pane vivo che è il Suo Corpo. Per questo nelle domeniche
successive fino ad oggi abbiamo ascoltato la spiegazione da parte di
Gesù inerente all’evento di moltiplicare i pani e saziare il popolo
che lo seguiva, l’evento a cui Egli dà il senso di anticipazione dell’Eu-
caristia.

2. Il legame tra il testo di Giovanni e i racconti dei Vangeli sinottici


Fatta questa spiegazione vediamo meglio il senso dell’inserzione del
capitolo 6 del Vangelo di Giovanni all’interno della lettura del
Vangelo di Marco che facciamo tutto questo anno fino alla fine di
novembre. Solo che per tirare fuori il pieno senso del Vangelo di
oggi che cosa succede? Quel discorso sul pane vivo che è Gesù, come
lo presenta il Vangelo di oggi, suscita in tanti cuori la medesima
crisi: “come è possibile che lui diventi per noi il pane vivo, il pane
per la vita eterna?”; e ancora: “come fa uno del nostro paese, della
nostra patria, ad essere figlio di Dio?”. Giovanni evidenzia questi
dubbi nella forma di una precisa domanda: “Costui non è forse
Gesù il figlio di Giuseppe?”.
Nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca il dubbio della gente pro-
vocherà invece la domanda di Gesù stesso posta agli Apostoli: “Voi
chi dite che io sia?”. Se Gesù poneva questa domanda, lo faceva
230
VENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

apposta per provocare nei loro cuori una autentica riflessione sulla
immagine che avevano su di Lui. A nome di tutti risponde Pietro:
“Tu sei figlio di Dio”. Come per dire: ‘non sei un semplice maestro,
un insegnante, non sei Elia un’altra volta incarnato o Giovanni
Battista che è risorto, ma sei figlio di Dio’. E Gesù come commenta
questa professione di fede di Pietro? “Non la carne, non il sangue,
te l’avevano rivelato ma … il Padre che è nei cieli te l’aveva rivelato”;
in altri termini, occorre la grazia dall’Alto per essere capace di pro-
fessare nel figlio di Maria la presenza del Figlio di Dio Incarnato.
Invece qui nel Vangelo di Giovanni che cosa succede? Gesù prima
fa la domanda “Anche voi volete andare via?”. Rispondono i Dodici
nella forma della domanda retorica: ‘da chi andremo Signore?’. A
tal punto Gesù spiega: “Per questo vi ho detto che nessuno può
venire a me se non gli è concesso dal Padre, se non è attirato dal
Padre”. Solo con l’aiuto della grazia del Padre, attraverso il dono
della fede, è possibile riconoscere Gesù come Figlio di Dio e rico-
noscerLo anche nell’Eucaristia. Lui continua ad essere presente in
modo concreto, attivo, operante; è presente in mezzo a noi e con
noi, nella vita di ciascuno di noi. L’Eucaristia ne è garanzia una
conferma del Suo amore che si rende presente in mezzo a noi, perché
non ci vuole lasciare, non ci vuole abbandonare: “io sono con voi
tutti i giorni della vostra vita e della storia di tutto il mondo fino
alla fine”. In tal modo si rende più palese l’analogia tra i testi dei
Vangeli sinottici (Marco, Matteo, Luca) e del Vangelo di Giovanni
che assume la struttura divisa in quattro momenti: a) la manifesta-
zione di Gesù; b) il dubbio del popolo; c) la domanda provocatoria
di Gesù ai discepoli; d) la loro risposta affermativa.
Partecipando profondamente all’Eucaristia vogliamo pure noi
rispondere al Signore che ci chiede: “Volete andarvene anche voi?”
e “Chi dite che io sia per voi?”. Consapevoli della grazia che opera
in noi vogliamo confessare insieme agli Apostoli: “Tu sei i Figlio
di Dio, perciò non abbiamo altro dove andare”.

231
VENTIDUESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Dt 4,1-2.6-8


Salmo 14
Seconda lettura: Gc 1,17.21-27
Vangelo: Mc 7,1-8.14.21-23

1. La legge del Signore - Il tema principale che appare dalle letture


è quello della Legge, dei precetti, dei comandamenti. La legge viene
vista come un dono, un regalo da parte del Signore, che non ci offre
soltanto e prima di tutto il Suo corpo, il Suo sangue, la Sua presenza,
sulla strada verso la salvezza, ma ci dà anche una chiara dottrina,
un insegnamento, la parola viva, quella contenuta nella Sua Legge,
nei Suoi precetti, nei Suoi comandamenti. Ora, la domanda è questa:
“Come considerare la Legge che troviamo nel Vangelo, quella Legge
istituita da Gesù?” Qui appaiono le due vie, le due possibilità: la
prima è di assumere l’atteggiamento degli scribi, dei farisei dei
sadducei, di utilizzare la Legge, i precetti, i comandamenti, per il
proprio interesse dimostrando un evidente atteggiamento di ipocrisia,
di falsità, come dice lo stesso Gesù. La falsità nascosta dietro gli
atteggiamenti dei farisei, è l’atteggiamento formalmente corretto,
per cui non si può attribuire loro nessuna colpa, non si possono
accusare di niente. Formalmente con la Legge con le tradizioni, con
le pratiche religiose sono (del tutto) completamente a posto, però
nel cuore, le cose non vanno allo stesso modo. La seconda possibilità
che arriva dal nostro confronto con la Legge del Signore è quella
che potrebbe essere anche una chiamata, da parte di Gesù, ad assu-
mere l’atteggiamento di coerenza. Per trovare il vero valore della
Legge del Signore, della Legge del Vangelo, bisogna accettarla e farla
propria, in modo tale che ci sia la coerenza tra la legge, il pensiero,
il cuore, e le azioni della persona. Se c’è una conformità, una coe-
232
VENTIDUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

renza, un’armonia, non c’è spazio per l’ipocrisia, non c’è la possibi-
lità che uno usi i precetti, i comandamenti per il suo privato
interesse, ma li usa soltanto essendo spinto, stimolato condizionato
dall’amore, come voleva Gesù. Solo questa coerenza rende palese la
finalità e il vero ruolo della Legge.

2. Il rischio dell’auto-inganno – la Legge va osservata per l’amore


Detto ciò è possibile specificare alcune esortazioni e insegnamenti
offertici dal Vangelo di Marco.
a) La prima esortazione è la chiamata a non lasciarci ingannare da
noi stessi, come nel caso dei farisei; perché anche loro si sono in-
gannati, pensando che essendo fedeli formalmente ai precetti, tutto
poteva andare bene, tutto sarebbe stato a posto e si sarebbero potuti
presentare davanti alla società come coloro che sono superiori
nell’autorità, nel potere, nel creare l’opinione pubblica e così via.
Oggi ci accorgiamo che ci sono varie forme di auto-inganno, ci si
può si lasciare ingannare da se stessi, dalle proprie proiezioni, im-
maginazioni, dalle proprie idee. Esempi:
b) Non si ingannano gli studenti che non studiano bene, ma anche
se studiano bene, comunque il loro studio è finalizzato a prendere
un buon voto ma nella testa, nel cuore, nella vita, non rimane nulla
e non si rendono conto che questo invece serve per tutta la loro
vita? Che il loro studio e la loro ricerca servono anche agli altri, alle
generazioni future? Lo fanno soltanto per prendere un buon voto,
il diploma, in vista di una possibile vita più comoda non vedendo
gli aspetti più profondi del loro studio e quindi si ingannano e il
loro modo di capire il valore lo studio è molto limitato e ridotto.
c) O non si ingannano i malati che continuamente rimandano la
visita dal medico dicendo a loro stessi: con il tempo passerà, in qualche
maniera il mio malore si risolverà e tutto alla fine andrà bene?
d) Oppure non si ingannano quelli che lavorano che non si danno
da fare, ma anche se si danno da fare pensano al loro lavoro solo in
prospettiva di poter prendere lo stipendio e non si accorgono del
fatto che il loro lavoro serve per la loro crescita, la loro formazione,
233
VENTIDUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

e che il loro lavoro serve anche agli altri, alla società? Anche questa
è una forma di auto-inganno, di una incoerenza, di una falsità.
e) Non si ingannano forse coloro che si confrontano con gli altri,
con quelli più piccoli, più vulnerabili più fragili e li disprezzano
per potersi sentire superiori, più grandi, più forti, più autonomi?
Anche questo è un inganno, perché non si accorgono che, anche
chi è nella povertà, nella piccolezza, può essere veramente più forte
e meritare maggior rispetto.
f) Non si ingannano i dirigenti che sfruttano sul piano politico,
sociale, culturale tutto il popolo? Cercano i loro interessi ma non
si accorgono, che con il tempo, comunque la cosa verrà alla luce e
saranno giudicati valutati o condannati? Anche questa è una forma
di auto-inganno.
g) Infine non si ingannano i “criticoni” che puntano sugli altri,
vedono i loro difetti, i loro peccati e non lo fanno in buona fede
per aiutare questi “peccatori”, ma per coprire le proprie ingiustizie,
per attirare l’attenzione sugli altri, mentre loro si possono presentare
come quelli di una certa autorità, di una grande stima? Anche questo
è un auto-inganno.
In ogni caso, ingannando gli altri, come anche nel caso dei farisei,
degli scribi, dei sadducei non inganniamo noi stessi, vivendo nel
mondo delle nostre illusioni, delle nostre proiezioni, delle nostre
fantasie? E quindi anche la Legge del Signore, a volte, può essere
strumentalizzata, utilizzata male, affinché noi possiamo apparire
come migliori esternamente, ma dentro di noi le cose non vanno
così.
Dentro di noi esistono, funzionano, si muovono le intenzioni
cattive. Quindi il modo autentico di compiere i precetti è quello di
essere spinti e motivati dall’amore, perché se dentro di noi non c’è
l’amore che ci spinge, ci stimola a realizzare a mettere in pratica i
comandamenti, i precetti, questi non compiono la loro funzione,
rimangono fine a se stessi. Se invece siamo attenti a coltivare dentro
di noi l’amore, come motivo e come fine, compiamo i precetti, i
comandamenti e la legge del Signore, primo fra tutti il comanda-
234
VENTIDUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

mento dell’amore, scopriremo il senso e la profondità di ogni pre-


cetto che ci è stato dato per il nostro bene e di coloro che abbiamo
attorno.

3. La Legge serve a rinnovare la nostra interiorità - Ancora un’altra


osservazione, che scaturisce dal Vangelo di oggi, in cui Gesù dice:
“non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo
impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”.
Anche questa osservazione di Gesù, potrebbe essere un aiuto per
scegliere tra un atteggiamento falso, ambiguo, ambivalente, di inte-
resse particolare e un atteggiamento di coerenza di armonia di ac-
cordo tra il Vangelo e la nostra vita perché ci parla e ci mette in
guardia, piuttosto, da un certo inquinamento del cuore e ci chiama
a mantenere ed alimentare dentro di noi la purezza del cuore.
Ci colpisce che oggi giorno ci sia questo sproporzionato interesse
per l’inquinamento del clima, dell’atmosfera, dell’aria, del mondo,
del cibo, dell’acqua. Quanta attenzione diamo al cibo, all’acqua, a
tutte queste cose alimentari per non contaminare il nostro fisico.
Questo di per sé è giusto, ma allo stesso tempo ci domandiamo: ma
quanto siamo preoccupati del ‘clima del cuore’ e della purezza delle
nostre parole che escono dalla bocca e che allo stesso tempo espri-
mono la condizione del nostro cuore? Quante parole di aggressività,
parole che feriscono, che manifestano lo stato del nostro cuore,
inquinato, che emana e contagia l’ambiente intorno a noi, l’ambiente
in cui viviamo, le persone, le relazioni, i rapporti con gli altri, nella
casa, in famiglia, nel lavoro, dappertutto; i rapporti con gli amici,
con i vicini, che con le nostre parole, con i nostri gesti, con i nostri
atteggiamenti possiamo sporcare l’ambiente e questa sarebbe una
cosa peggiore rispetto all’inquinamento dell’aria.

4. La Legge serve per distinguere tra il bene il male - Ed ora ci po-


niamo la domanda: qual è il senso, il valore dei precetti, dei coman-
damenti, della Sua legge che il Signore ci lascia? Prima di tutto, i
precetti aiutano a distinguere, a riconoscere il confine tra il bene e
il male e di conseguenza danno una vera conoscenza, la luce per
235
VENTIDUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

poter fare buone scelte, per educare a plasmare una retta giusta
coscienza dentro di noi. Oggi la gente spiega le sue scelte, le sue
decisioni, i suoi valori dicendo: ‘secondo me’, ‘a mio parere’, ‘io
ritengo che…’; come se i principi del bene e del male fossero una
cosa opinabile e sottoposta all’arbitrio individuale. Ma se ognuno
avrà la sua etica, la sua morale per distinguere il bene ed il male,
come possiamo trovare un accordo? E se non lo troveremo, arrive-
remo ad un caos totale. Quindi l’etica e la morale, distinguere il
bene dal male non dipende da ogni individuo, altrimenti l’etica
diventa una cosa autoreferenziale, che dipenderebbe da ogni singola
persona che si renderebbe un giudice, mentre l’ultima istanza a
decidere dove c’è il bene e dove c’è il male viene solo da parte di
Dio: l’autore della legge, l’autore dell’albero della conoscenza del
bene e del male, (ricordiamo la storia del libro della Genesi): è Lui
che decide dov’è il confine tra il bene ed il male e quindi per rendere
un’etica comune, per poter distinguere giustamente, rettamente il
bene ed il male ci dobbiamo riferire alla legge del Signore, alla legge
del Vangelo, altrimenti ci perdiamo, altrimenti cadiamo nel nulla.

236
VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Is 35,4-7


Salmo 145
Seconda lettura: Gc 2,1-5
Vangelo: Mc 7,31-37

1. Il racconto della guarigione del sordomuto - Il racconto dell’Evan-


gelista Marco è ambientato in un territorio pagano, è breve, è chiaro
e parla del miracolo, dell’opera prodigiosa, compiuta da Gesù nei
confronti di un sordomuto. Come certamente sappiamo si tratta di
una delle opere, uno dei miracoli compiuti da Gesù, ma ognuno di
questi miracoli ha la sua portata, il suo spessore il suo valore, il suo
significato e anche il suo messaggio che ci viene donato e rivolto.
Allora cerchiamo di capire: quale è il messaggio, quale è la comuni-
cazione, la notizia che il Signore ci offre attraverso questo gesto
compiuto della guarigione operata nei confronti del sordomuto?
Soprattutto ci dobbiamo domandare qual è il significato del mutismo
e della sordità e questa spiegazione la vogliamo fare su alcuni piani.

2. La sordità fisica - Prima di tutto cosa vuol dire sul piano naturale,
sul piano fisico, fisiologico essere muti, essere sordi, nella vita di
tutti i giorni; (di) non poter parlare, (di) non poter sentire, ascoltare,
accettare nessun suono da fuori? Potrebbe essere definita come una
specie di anomalia, di contraddizione di ciò che è l’uomo. Lui infatti
è un essere creato per comunicare, per ascoltare, per sentire, per
parlare ed esprimere ciò che sta dentro di lui. Invece, in questo caso,
il mutismo, la sordità, in qualche maniera contraddicono questa
capacità, questa abilità dell’essere umano. Però, sul piano naturale
anche se uno non riesce a verbalizzare e articolare le parole, le frasi
237
VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

o non riesce ad ascoltare, a sentire pienamente le parole pronunciate


dagli altri perché non gli entrano attraverso l’udito, questo non vuol
dire che non è un essere relazionale, socievole o sociale, capace di
stringere i rapporti con gli altri, perché in funzione di questa rela-
zione, di questi rapporti con gli altri e con la società abbiamo le
altre forme di comunicazione tra le persone non necessariamente
verbali. Insomma la sua condizione non nega la possibilità anche
se fosse limitata, di rapportarsi con gli altri. Abbiamo tante persone
che chiamiamo invalidi, disabili ma che comunque, in qualche
maniera fanno parte della nostra società anzi possono funzionare
benissimo, quindi realizzano ciò che nella loro natura è stato inserito
come creature capaci di relazionarsi e stringere i rapporti con gli
altri e così, anche manifestare senza verbalizzare o ascoltare le parole;
sono anche capaci di esprimere ciò che sta loro a cuore: i loro affetti,
le loro idee, le loro convinzioni, i loro valori, i loro progetti; anche
il loro amore, lo possono accettare ed esprimere malgrado siano
sordomuti. Questa è una cosa che comunque è innegabile.

3. La sordità psicologica - Però c’è anche una specie di mutismo e


di sordità che, possiamo considerare sul piano psicologico. Questo
che cosa vuol dire? Quanti di noi rimangono, nella vita “chiusi” sul
piano mentale, psicologico; abbiamo i nostri schemi, oltre i quali
non siamo capaci di uscire, non siamo capaci di cambiare le nostre
opinioni; ciò che diciamo noi, siamo convinti sia l’unica cosa vera.
A volte crediamo solamente alle nostre opinioni, soltanto a noi
stessi, psicologicamente isolati, chiusi, prigionieri di noi stessi,
separati dalle relazioni con gli altri, incapaci di ascoltare e ricevere
la parola altrui. Forse a volte alcuni in quanto feriti per il fatto di
essere stati delusi, traditi, ingannati, umiliati, sfruttati, ecc., restano
chiusi in se stessi e perdono questa capacità di confidarsi, di espri-
mere il coraggio di essere aperti verso gli altri. Questa condizione è
un tipo di ‘malattia’, e tale condizione è forse anche peggiore di
quella di essere sordomuto sul piano naturale, perché soffrono nella
mente, nell’anima, negli affetti; si è imprigionati, ingabbiati in se
stessi presi dalla paura.

238
VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

4. La sordità sociologica - Legato a quello psicologico, c’è anche


l’aspetto sociologico di essere sordomuti. Questo lo possiamo sco-
prire con le parole significative del Vangelo che rappresenta il com-
pimento di quanto è stato profeticamente annunciato nella prima
lettura tratta dal profeta Isaia. Marco racconta che l’atteggiamento
di Gesù è un po’ strano perché di solito non mandava fuori la folla
mentre compiva un miracolo invece in questo caso che cosa ha fatto?
Ha preso questo sordomuto in disparte, lontano dalla folla, come
se fosse stata proprio questa folla a renderlo sordomuto, sia sul
piano naturale sia sul piano spirituale, affettivo, mentale e psicolo-
gico. A questo punto si impone una domanda: “Non facciamo anche
noi parte di quella folla dalla quale Gesù a volte porta via le persone.
per guarirle? Perché noi potremmo essere coloro che fanno male a
quelle persone, con la lingua, con le parole. Quindi Gesù è costretto
a portare via da noi quelle persone, altrimenti noi continueremmo
a fare loro del male, con le nostre parole e quindi ci domandiamo:
“forse sono io o sono stato io il motivo per cui una persona si è
isolata, è rimasta sordomuta, ingabbiata in sé stessa? Dipende dal
nostro gruppo, dalla nostra comunità o dalla nostra parrocchia che
una persona si è isolata ed allontanata?” E a quel punto ci poniamo
un’altra domanda: “Sì, noi abbiamo ricevuto il dono di parlare, ma
lo usiamo bene?” Soprattutto però abbiamo ricevuto un altro dono:
di ascoltare, di udire, ma usiamo bene quel dono dell’udito? Lo
usiamo per ascoltare le persone, per comprenderle, per essere com-
passionevoli, empatici, capaci, cioè di percepire le cose come le
percepisce quella persona e di ‘entrare nei suoi panni’? ‘Ascoltare’,
non vuol dire un semplice sentire, ma accettare la parola altrui in
modo che la voce di una persona entri dentro di noi. Questo sul
piano psicologico e sociologico.

5. La sordità religiosa
a) L’ascolto di fede - Poi, alla fine, meditiamo sull’essere sordomuti
o soffrire di mutismo e sordità sul piano della fede. Possiamo sentire,
ascoltare tante parole notizie, informazioni che si ascoltano dalla
Tv, dalla radio, dai vicini, dalle persone che si incontrano per la
239
VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

strada; tante parole positive o negative; chiacchiere o cose anche di


valore, ma alla fine, alla luce della fede, alla luce del messaggio di
oggi, se non ascoltiamo, se non facciamo entrare dentro di noi la
Parola di Dio, sia mediante l’udito sensuale, fisico, sia mediante
l’ascolto del cuore, dell’anima, in modo che ci scruti, ci penetri, che
ci riempia, che ci trasformi continuamente, allora continuiamo ad
essere chiusi di fronte a Dio; continuiamo ad essere lontani da Dio,
rimanendo così sordi davanti alla Sua Parola: E questo lo possiamo
dire anche riguardo alla nostra capacità di parlare, di esprimere le
parole sempre sul piano della fede. Possiamo dire tante parole, fare
molte affermazioni, esprimere tante nostre diverse opinioni, condi-
zioni, sia belle che meno belle, ma fino a quando non uscirà dalla
nostra bocca la Parola di Dio, cioè fino a quando la nostra parola
non sarà una parola di guarigione, fino a quando non riusciremo
a pronunciare insieme con Gesù: “Effatà Apriti!” non saremo capaci
di scoprire e di far riscoprire il vero potere della Parola, di quella
Parola della vita.
b) Il senso della guarigione del sordomuto alla luce del sacramento
del Battesimo - I gesti di Gesù sono orientati a rivelare la potenza
sanante che proviene da Lui e la Sua partecipazione alla sofferenza
umana. Gesù avvicina l’uomo nella sua realtà storica e ne condivide
i dolori. Il Suo sospiro indica proprio il Suo coinvolgimento, il Suo
dispiacere per il sordomuto. Il Suo sguardo verso il cielo denota che
la Sua forza risanatrice non è magia, ma potenza divina. Il miracolo
del sordomuto ci riguarda personalmente. Nel giorno del Battesimo
ci sono stati fatti gli stessi gesti compiuti da Gesù sul sordomuto.
Nel rito del battesimo dei bambini il celebrante dice: “Il Signore
Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda presto di
ascoltare la sua parola e di professare la tua fede, a lode e gloria di
Dio”. Nel rito per gli adulti il ministro adopera la stessa parola di
Gesù: «Effatà» e la spiega: “Effatà, cioè apriti”. Nel Battesimo abbiamo
ricevuto la capacità di ascoltare la parola di Dio e di annunziarla agli
altri. È un incarico che ci interessa personalmente e continuamente.
Le orecchie del nostro cuore devono aprirsi continuamente all’ascolto
del messaggio di Gesù e la lingua si deve sciogliere nell’annunziarlo
240
VENTITREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

apertamente e con coraggio a tutti. Lo richiede la fedeltà al nostro


Battesimo. A volte non abbiamo nulla da annunciare agli altri perché
non sappiamo ascoltare la parola di Dio. Chi prima non ascolta il
Vangelo non saprà comunicarlo con la lingua e con la vita.
c) Forse anche noi siamo ‘sordomuti’? - Fino a quando la nostra
bocca non esprimerà la Parola di Dio e il Vangelo, fino a quando
non diventeremo evangelizzatori, la nostra parola non avrà pieno
valore e sul piano della fede saremo ‘muti’! Allora oggi anche noi,
come quel sordomuto del Vangelo, vogliamo in qualche modo
avvicinarci a Gesù, lasciarci portare a Lui, forse attraverso gli altri,
come il sordomuto, davanti a Gesù in modo che Lui ci guarisca, ci
renda capaci di ascoltare bene la Parola di Dio sul piano della fede,
esprimerla con la nostra vita, con le nostre parole, in modo che non
rimaniamo più sordi e muti. Da ciò risulta che sul piano della fede
la sordità e il mutismo dipendono da noi e quindi chiediamo al
Signore che ci guarisca e ascoltiamo la sua invocazione: ‘Apriti!
Accogli la Mia parola ed inculcala dentro di te falla tua, propria
questa Mia parola, la Parola di Dio e così la potrai anche trasmettere,
tramandare agli altri, guarendo gli altri con la buona parola del
Vangelo’.

241
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Is 50,5-9a


Salmo 114
Seconda lettura: Gc 2,14-18
Vangelo: Mc 8,27-35

1. La domanda fondamentale di Gesù - La Parola di Dio di oggi è


ricchissima di contenuti e di messaggi che il Signore ci vuole offrire
e donare, perché attraverso i Suoi messaggi, non ci dà soltanto una
certa istruzione, una certa notizia o informazione, come siamo
abituati noi a darle o a riceverle. Con il Suo messaggio Lui dona
Se stesso. Il brano del Vangelo oggi ci conduce nel momento in
cui Gesù inizia a parlare di Sé come Messia, ma non quel Messia
che tutti aspettavano deludendo così le speranze e le loro attese,
fra cui anche gli Apostoli e primo di tutti Pietro. La domanda
essenziale, fondamentale che abbiamo ascoltato nella pagina evan-
gelica costituisce uno dei cardini di tutto il Vangelo di Marco
perché ruota intorno a quella che diventa la forma, la struttura,
l’asse che divide tutta la composizione del suo Vangelo, in due
momenti, come vedremo ancora meglio. Gesù, mentre è in viaggio
con i Suoi discepoli li interroga con la domanda che è divisa in
due parti: “La gente chi dice che io sia?”, dopo di che ne segue
un’altra, ancora più scottante, più travolgente, più toccante: “Ma
voi, chi dite che io sia?”.
a) La prima domanda - Nella prima domanda “Che cosa dicono
gli altri” sembra che Gesù avesse avuto il desiderio di sapere quello
che la gente diceva di Lui, un desiderio un po’ ‘finto’, perché non
gli importava tanto la risposta in quanto la conosceva già, con la
sua coscienza divina. Ma questa domanda è rivolta anche a noi,
242
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

perché pure la nostra conoscenza di Gesù, a volte, è condizionata


da quello che dicono gli altri. Che cosa dicono gli altri di Dio, che
dicono di Gesù? Che dicono della Chiesa, che dicono della fede?
E noi, qualche volta, ci lasciamo trascinare, condizionare, determi-
nare, da quello che gli altri dicono di Gesù e così stiamo costruendo
la nostra conoscenza di Dio e di Gesù, della Sua vita, delle Sue
parole e delle Sue opere, a partire da quello che dicono gli altri.
Ma questo può essere un inganno, per cui da qui consegue la
seconda domanda, quella ancora più toccante: ”Voi chi dite che
io sia?” Non ci importano le voci degli opinionisti, dei tuttologi
che vogliono dire tutto, che pretendono di sapere tutto, che sono
pieni di sé, li sentiamo dovunque, soprattutto alla Tv, alla radio;
Lo si vedrà come uno dei fondatori di religioni oppure come un
grande maestro morale o, ancora, in tempi più recenti, come un
grande rivoluzionario politico-sociale. Spesso viene inserito come
il primo della lista, ma sempre “uno tra”; no, non ci importano
il loro pareri né i loro motivi.
b) La seconda domanda - “Voi chi dite che io sia?” Oggi Gesù
chiede a ciascuno di noi: ‘Chi sono io per te?’. Cristo ha fatto
questa domanda ai discepoli dopo un po’ di tempo vissuto insieme;
quindi non è stata una domanda astratta, ma l’ha fatta dopo un
periodo in cui avevano avuto modo di parlare, di ascoltare Gesù
e passare il tempo con Lui. I discepoli potevano affrontare varie
situazioni, varie sfide; insieme a Gesù, potevano lavorare; potevano
essere ospitati dalla gente, dalle famiglie, quindi avevano vissuto
con Gesù. È stato un tempo sufficiente per aver potuto stabilire
tra loro un legame profondo, quasi intimo, di amicizia, di cono-
scenza tale che potevano essere interrogati: “Chi dite che io sia per
voi?”. Ci vuole, dunque, un tempo lungo di stare insieme con Gesù
affinché possiamo essere capaci di rispondere a questa domanda.
Chi non sta vicino a Gesù, alla Sua presenza, in Sua compagnia è
difficile che possa dare una risposta adeguata o adatta o all’altezza
di quella domanda che viene posta da Gesù. Quindi anche noi,
affinché possiamo conoscere Cristo, è necessario che abbiamo il
tempo sufficiente e le situazioni vissute insieme a Lui per poterGli
243
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

rispondere. È Pietro poi che risponde a nome dei discepoli con


una sbalorditiva confessione: “Tu sei il Cristo”. “E impose loro
severamente di non parlare di lui a nessuno. E cominciò a insegnar
loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere ripro-
vato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire
ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Gesù faceva questo discorso
apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte, e si mise a rimpro-
verarlo”. Essere riconosciuto come Messia provoca Gesù ad annun-
ciare la Sua passione, morte e risurrezione.

2. La centralità del colloquio tra Gesù e gli Apostoli nel Vangelo


di Marco
a) Per il testo di Marco - Con questo discorso, cambia la struttura
del Vangelo di Marco. Infatti fino a quel punto si parla del vissuto
di Gesù e dei discepoli insieme, delle Sue parole, del Suo insegna-
mento, del Suo messaggio, del Vangelo portato nel mondo, della
vicinanza del Regno, dei miracoli, delle opere prodigiose compiute
da Lui, ecc. Invece a partire da questo discorso, Egli inizia a parlare
del suo destino; iniziano i discorsi in cui Gesù predice e annuncia
la Sua croce, la Sua imminente morte e la Sua persona viene pre-
sentata diversamente, cioè come Colui che si inserisce nella strada
verso Gerusalemme, verso il Gòlgota ed infine verso la Risurrezione.
Da qui, scaturisce il legame tra la conoscenza di Gesù e l’evento,
l’esperienza della croce.
b) Per la nostra fede - Per questo motivo la nostra conoscenza di
Gesù deve essere spesso verificata poiché noi, facilmente, corriamo
il rischio di formare la nostra idea, la nostra conoscenza privata
di Gesù: una conoscenza fraintesa, sbagliata, falsa, impostata dalle
idee che il mondo ha su Gesù, oppure condizionata, determinata
dalle nostre ambizioni, aspirazioni, illusioni. Ma ora con questa
esperienza della croce, la nostra conoscenza di Gesù, viene sotto-
posta ad una forte, profonda verifica, ad un esame. In altre parole,
non possiamo conoscere Gesù senza la croce; per questo Pietro si
scandalizza, “lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo”. Come
Pietro anche noi ci possiamo scandalizzare e ci chiediamo: ‘Come
244
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

mai queste parole, che cosa stai dicendo? Sei rifiutato, respinto, la
passione, e poi crocifisso. La morte la risurrezione? Non esistono
queste cose, scandalizzi noi e scandalizzerai anche la gente’. Non
ci piace la croce nella nostra immagine di Gesù, nella fede, nella
religione, nella nostra vita. Ma non esiste un vero Cristo, un vero
Gesù, senza la croce. Chi elimina la croce, non conosce Gesù.

3. Il senso della croce di Gesù nella storia del mondo - In questo


senso la croce abbatte, scuote, fa crollare, fa fallire tutte le nostre
illusioni o le nostre false immagini su Gesù e su Dio. Anzi, in
Cristo crocifisso, Dio ha preso ogni male, ogni dolore, ogni soffe-
renza umana ogni pena che riguarda l’uomo su Se stesso; per cui
non regge più questa famosa accusa e domanda filosofica: ‘Dov’era
Dio? Dov’è Dio in questo mondo così cattivo, pieno di sofferenza,
di ingiustizia di sfruttamento? Dov’è Dio di fronte a tutto il male
che vediamo, che percepiamo nel mondo di oggi? E perché Dio
ammette che avvengano tutte queste cose cattive intorno a noi?’.
Come se volessimo mettere Dio sul banco degli imputati! Ma queste
domande non hanno più ragione di essere poste, non c’è più spazio
per questa domanda, dal momento in cui noi accettiamo che in
Gesù si è manifestato e ci è venuto incontro il Dio crocifisso; non
Dio impassibile, indifferente, ma Dio crocifisso che prende su di
Se tutto il male che fa parte della nostra vita. E noi non avremo
nessuna vera conoscenza di Gesù e non avremo in noi, nella nostra
vita un vero posto per Gesù se non lo accogliamo con la Sua croce.
A volte lo aspettiamo, lo vogliamo accogliere, solo in quanto è
uno che fa miracoli, che rende la nostra vita facile, comoda, che
risolve tutti i nostri problemi; ci rivolgiamo a Lui nelle nostre
difficoltà, ma difficilmente lo accogliamo nella condizione di Gesù
che soffre e che vuole soffrire anche nel nostro corpo, nella nostra
vita, come dice san Paolo nella acclamazione che abbiamo recitato
nell’alleluia prima del Vangelo: ”Quanto a me non ci sia altro
vanto che nella croce del Signore, per mezzo della quale, il mondo
per me è stato crocifisso, come io per il mondo”.

245
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

4. Cristo crocifisso – chiave di lettura per conoscere se stessi -


La conseguenza della conoscenza, dell’accettazione e dell’accoglienza
di Cristo diventa anche l’opportunità, l’occasione di conoscere
autenticamente e realmente se stessi. Quante false idee ed immagi-
nazioni, quante aspirazioni, quante ambizioni abbiamo su di noi!
Spesso nemmeno ci accettiamo, non accettiamo la nostra vita, il
nostro passato, non accettiamo quello che siamo. A volte ci vergo-
gniamo di noi stessi, spesso siamo anche timidi. Invece in Gesù
Cristo, e nella Sua croce, conosciamo meglio anche chi siamo
veramente. Se vogliamo sapere, capire e conoscere chi siamo, ecco
la risposta: dobbiamo guardare la croce di Gesù, perché in Gesù
Dio ci ha amati fino alla fine; questa è la nostra identità: siamo
amati da Dio fino al punto che Lui ha dato la sua vita per noi, ci
ha liberato dalle opinioni, dalle accuse del mondo, dai pareri degli
altri su di noi, anche dalle nostre illusioni, dalle immaginazioni,
che a volte ci rendono schiavi di noi stessi; Egli ci libera dal nostro
egoismo e dalla falsità che c’è in noi. In definitiva, ci libera dal
mondo e da noi stessi e così ci dà una vera immagine di chi siamo
noi: amatissimi da Lui.

5. Cristo crocifisso e la nostra condotta - Ed infine, dopo queste


tre tappe, conoscendo Gesù, conoscendo la Sua croce, conoscendo
noi stessi, comprendiamo anche meglio quello che dice san Giacomo
nella sua lettera che abbiamo ascoltato nella seconda lettura del
legame tra fede e opere: ‘Tu hai la fede ed io le opere; mostrami la
tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia
fede’. Si tratta, appunto del legame stretto tra la nostra conoscenza
attraverso la fede in Gesù crocifisso con la nostra vita, le nostre
opere la nostra condotta, di come viviamo la nostra vita. Una vera
ed autentica conoscenza di Cristo della Sua croce e di noi stessi, che
non è una semplice teoria, una semplice idea, una semplice profes-
sione, dichiarazione, confessione, una semplice dottrina astratta che
ci è stata inculcata soltanto nella mente, ma si tratta di una cono-
scenza pratica che avvolge, che abbraccia tutta la nostra vita e attra-
verso la nostra vita si esprime quell’autentica conoscenza di Dio, di
246
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Cristo e di noi stessi. Così seguendo Gesù, stando insieme con Lui
possiamo anche arrivare a quella coerenza, quell’armonia, tra quello
che conosciamo di Lui, tra quello che crediamo di Lui e quello che
viviamo nella vita di tutti i giorni, attraverso le nostre opere che
non sono altro che una forma di professare, di confessare Gesù
crocifisso nella nostra vita: Gesù crocifisso, morto e risorto che ci
dà la vera vita, la vita dei figli di Dio.

247
VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Sap 2,12.17-20


Salmo 53
Seconda lettura: Gc 3,16-4,3
Vangelo: Mc 9,30-37

1. La Sapienza divina e la vita del giusto - Il titolo stesso “Libro della


Sapienza”, ci introduce nella tematica centrale di questa domenica,
e del messaggio che oggi il Signore ci vuole comunicare. Il breve
brano della prima lettura viene prospettato in modo da dirci che la
Sapienza biblica e divina, la Sapienza di Gesù, la Sapienza della
Chiesa, la Sapienza che viene dalla fede si lega con la giustizia e con
la fedeltà. All’inizio di questo brano, la Sapienza si riferisce alla
persecuzione da parte di persone malvage che tendono trappole alla
persona del giusto, da chi non sopporta la sua vita perché per loro
è scomoda “tendiamo insidie al giusto”. Per cui la Sapienza in qual-
che maniera si vuole immedesimare, si incarna nella vita, nella figura
di questo giusto che personifica l’immagine di Israele. Nella vita del
giusto, la Sapienza è consapevole di essere una ‘istruzione’ per il
mondo e per il nostro modo di pensare. Questa Sapienza si rende
conto di essere scomoda, di essere sgradevole, difficile da ascoltare,
da capire, da comprendere per il malvagio, come succederà anche
nel caso dei discepoli che non capivano, che non comprendevano
le parole di Gesù, le Sue parole di sapienza. Di questa situazione il
giusto, si accorge; è cosciente che dal momento in cui ha accolto
nella sua vita, nella sua carne, nel suo corpo, nella sua storia, la
Sapienza divina, sarà prima o poi rifiutato, respinto, come abbiamo
ascoltato nella lettura che dice: “vediamo se le sue parole sono vere,
mettiamolo alla prova con violenza e tormenti” (v.19). La vita di
248
VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

un giusto, di una persona saggia e sapiente è la più radicale conte-


stazione da parte dell’empio e per questo motivo non lo sopporta
e vorrebbe eliminarlo in quanto lo percepisce come una minaccia.
Il giusto è consapevole, comprende di essere messo alla prova, con
violenza, tormenti, insulti e di essere anche condannato, come
addirittura si dice, alla conclusione del brano: “condanniamolo ad
una morte infamante”. La Sapienza, quindi, essendo cosciente di
dovere essere rifiutata, malgrado tutte le difficoltà, imprime nella
mente di chi la accoglie, di identificarsi con il Figlio di Dio. Infatti,
come abbiamo sentito a metà di questo brano, la Sapienza fa capire
al giusto di essere figlio di Dio e questo lo riconoscono anche quei
nemici, quegli avversari che la Sapienza è del giusto, perché dicono:
“Infatti il giusto è Figlio di Dio”. La profezia della prima lettura,
con la provocazione nei confronti delle logiche mondane di dominio
e di sopraffazione e il tema del giusto perseguitato si ricollega la
sorte del servo di Jahvè, paziente e mite.

2. La Sapienza alla luce della Lettera di san Giacomo - Nella seconda


lettura tratta dalla lettera di san Giacomo, all’inizio si spiega, la
Sapienza in senso negativo, che cosa non è, quale è l’opposto della
Sapienza? La mancanza della Sapienza, come dice l’apostolo, cosa
provoca, cosa comporta? Leggiamo: “Fratelli miei, dove c’è gelosia
e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”,
come se avesse voluto dire che in questi casi c’è la mancanza della
Sapienza. Infatti nella frase successiva dice “Invece la Sapienza che
viene dall’alto…” ed elenca tutte le cose che caratterizzano la Sapienza
che viene, da Dio. La contraddizione, l’opposizione della sapienza,
per come la prospetta san Giacomo è la gelosia, la contesa, l’invidia,
le guerre, le liti, come è successo anche nel caso dei discepoli, di cui
parla il brano del Vangelo. Allora continua: “Non vengono forse
dalle vostre passioni, che fanno guerra nelle vostre membra…” – per
la mancanza della sapienza? Dice ancora san Giacomo: “Siete pieni
di desideri e non riuscite a possedere, uccidete, siete invidiosi e non
riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!”. Questi sono gli effetti
della mancanza della Sapienza che viene dall’alto e che vuole essere
249
VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

ospitata dentro di noi. Alla luce di quello che dice san Giacomo, la
Sapienza divina non è altro che una semplice, pura, mera intelligenza,
una conoscenza teorica, ma è, soprattutto, una conoscenza applicabile
e che va applicata alla vita. Per essere sapiente, non basta conoscere
tutto quello che la sapienza ci dice, ci offre e ci comunica, perché
una semplice conoscenza teorica non basta. La sapienza ci offre non
soltanto la capacità di sapere, di conoscere, di scrutare, penetrare ed
avere sempre più notizie, informazioni, conoscenze, scienze, dottrine
e così via. La sapienza, quella vera, ci offre l’arte di vivere e vivere
bene, così come vuole per noi Dio nostro Padre. Quindi, come
abbiamo detto, non basta conoscere le regole della vita e le vie giuste
della condotta, ma bisogna essere capaci di applicarle, di metterle
in atto, applicarle nella nostra vita. Soltanto a questa condizione,
se la sapienza viene messa in atto, se praticata nella nostra vita, si
traduce, e come dice san Giacomo, porta queste conseguenze: “La
Sapienza è pura, pacifica, mite arrendevole, piena di misericordia e
di buoni frutti, imparziale, sincera porta alla pace, porta ordine,
porta armonia, sicurezza, solidità, stabilità”. La Sapienza dall’alto è
innanzitutto genuina, non aggressiva. La vera Sapienza è pacifica,
piena di misericordia, non fa differenze, non è parziale, non nascon-
de i propri fini; si manifesta nei sentimenti di pace, che generano
l’unità della comunità, portano frutti di opere buone che non ac-
cendono le guerre, le liti, in ogni luogo dove si vive e si svolge la
propria attività.

3. La Sapienza nel Vangelo di Marco


a) I contenuti del brano del Vangelo - Dall’attenta meditazione del
brano del Vangelo, si può notare che è diviso in tre momenti.
1° Nella prima parte c’è il secondo annuncio di Gesù della sua
passione, morte e risurrezione, (già nella Domenica scorsa Gesù
aveva dato il primo annuncio nella Sua conversazione con Pietro,
dove Gesù pone la domanda “Voi chi dite che io sia?”, con la con-
seguente risposta/professione di fede di Pietro). Nel Vangelo di oggi,
per la seconda volta Gesù preannuncia la sua passione, morte e
risurrezione e dopo questo annuncio, Marco dice dei discepoli: “Essi
250
VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

però non capivano queste parole”, ovvero non hanno avuto la sa-
pienza di entrare in fondo all’annuncio di Gesù.
2° Nel secondo momento avviene la disputa dei discepoli su chi di
loro sarà superiore, più importante, rivelando così l’incomprensione
dell’annuncio della passione e la smania di orgoglio e di potere ed
anche questa è la mancanza della vera sapienza.
3° Nel terzo momento, Gesù dice: “Se uno vuole essere il primo,
sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E preso un bambino lo
pose in mezzo a loro e abbracciandolo disse loro “chi accoglie uno
solo di questi bambini, nel mio nome accoglie me e chi accoglie me
non accoglie me ma Colui che mi ha mandato” cioè il Padre. Anche
se in modo implicito, ma comunque si rende palpabile che la Sa-
pienza si presenta e si identifica con Gesù, con Cristo il quale ci
dice e ci fa capire che la Sapienza si manifesta pienamente nella
croce. Ed a questo proposito ricordiamo il brano in cui san Paolo
nella Lettera ai Corinzi parlando della croce di Gesù dice: “Per i
Giudei è motivo di scandalo, per i pagani è motivo di stoltezza,
invece per noi cristiani, discepoli di Gesù, è la sapienza di Dio”.
Quindi c’è questa circolarità, questa reciprocità tra Gesù, Croce e
Sapienza.
b) La Sapienza e l’umiltà - Tornando ancora all’atteggiamento dei
discepoli, in cui con la loro discussione, la loro lite l’uno verso
l’altro manifestano l’assenza della sapienza, ed hanno anche una
idea sbagliata dell’autorità umana, considerandola come potere,
come dominio, per essere superiori, più forti, più popolari. Oggi
siamo tanto attenti alle statistiche, ai sondaggi di chi è più popolare,
ma la popolarità non è la misura dell’autentica sapienza di una
persona, non è nemmeno la situazione in cui uno è più stimato,
più lodato, più nobile ecc., ma essere superiore assume al contrario,
l’atteggiamento di umiltà. Per questo Gesù aveva detto loro: “Se uno
vuole essere il primo, sia l’ultimo”. E questo essere ultimo si identi-
fica con l’umiltà, che non vuol dire umiliazione, autodisprezzo o
sentirsi inferiori, un nulla, uno zero; l’umiltà non è questo. L’umiltà,
alla luce della Sapienza divina, vuol dire avere la capacità di cono-
scere ed accettare sé stessi, in quanto peccatori ed in quanto redenti
251
VENTICINQUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

da Gesù, bisognosi della sua misericordia, del suo perdono. La


Sapienza si manifesta, come dice il Vangelo di oggi, nell’atteggia-
mento del bambino. A volte, noi adulti pensiamo di avere tanta
sapienza da trasmettere, da comunicare ai bambini, ai fanciulli.
Pensiamo che il bambino è uno che deve imparare, ascoltare gli
adulti, le maestre, gli insegnanti, i catechisti ed accettare i loro mes-
saggi, le loro lezioni, le loro ammonizioni, istruzioni. Questo va
bene, ma anche un bambino trasmette a noi adulti un messaggio e
degli elementi di sapienza dei quali forse noi ci siamo già scordati.
Come viene interpretata la sapienza, guardando un bambino, che
cosa ci dice, che cosa ci comunica? Che la sapienza si manifesta
attraverso la sua vulnerabilità, la sua fragilità e si realizza tramite
un abbandono una fiducia, poiché un bambino è una creatura, un
essere che si fida, che ha piena fiducia nei genitori e si abbandona
agli adulti, agli insegnanti, ai catechisti, alle persone autorevoli più
grandi. Il bambino è anche predisposto, è disponibile e rappresenta
questa possibilità di ascoltare, di seguire, di obbedire e di imparare.
Il bambino rappresenta una metafora del vero discepolo mostrando
il suo atteggiamento come condizione per entrare nel regno. Dal
momento in cui noi cerchiamo di somigliare a questa figura del
bambino ci apriamo alla sapienza che viene da Gesù.
Concludiamo la nostra riflessione con le parole della Colletta
che abbiamo detto all’inizio della Messa prima di ascoltare la Parola
di Dio: “O Dio Padre, tu vuoi che gli ultimi siano i primi e fai di
un fanciullo la misura del tuo Regno, donaci la Sapienza che viene
dall’alto perché accogliamo la parola del tuo Figlio e comprendiamo
che davanti a te il più grande è colui che serve”.

252
VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Nm 11,25-29


Salmo 18
Seconda lettura: Gc 5,1-6
Vangelo: Mc 9,38-43.45.47-48

1. La sequela di Gesù - In continuità con i temi delle domeniche


precedenti, inerenti la croce e la Sapienza, questa volta il Signore ci
offre un insegnamento un po’ pratico: come seguire Gesù che va
verso il suo destino, la crocifissione, la morte violenta sulla croce,
tramite cui ci salva, ci redime e vince la morte con la sua risurrezione.
Come sarà possibile percorrere la stessa strada del Maestro?
Uno degli indizi è quello che ci offre proprio la Parola di Dio di
oggi e lo offre in modo “negativo”, puntando su un tema che di
per sé non è tanto piacevole o gradevole, ma che ha come obbiettivo
di metterci in guardia da certi atteggiamenti che possono ostacolare
o addirittura rendere impossibile il nostro cammino sulle orme di
Cristo. Ora lo scopo di questa riflessione, dopo aver ascoltato il
Vangelo, non è quello di entrare nei particolari di ogni parola e di
ogni frase detta da Gesù perché dalle Sue parole si potrebbe essere
scossi, sconvolti e forse anche scoraggiati, come ad esempio: “Se la
tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala…”. Dunque, invece di
entrare nei dettagli di questi detti di Gesù, si vuole piuttosto trovarne
il senso più profondo, utile per rendere il nostro cammino di fede
più efficace.

2. Gli ostacoli nel seguire Gesù - I testi odierni ci fanno riflettere


sulle nostre abitudini: che siano pulite, che siano liberate dall’at-
teggiamento di settarismi, di evitare, per quanto possibile di diven-
tare inciampo per gli altri. Il tema che accomuna tutte e tre le
253
VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

letture è il problema, o dicendo in modo più chiaro, il peccato


della ‘gelosia’ e dell’‘invidia’.
a) Episodi biblici - Nella prima lettura tratta dal libro dei Numeri,
in cui “settanta uomini anziani” radunati nella tenda profetizzarono
in virtù dello spirito sceso su di loro, tranne Eldad e Medad, che
pur trovandosi fuori della tenda nell’accampamento, hanno anche
loro profetizzato in modo analogo ai settanta anziani. A quel punto
Giosuè, pieno di zelo vorrebbe impedirlo: “con quale diritto pure
loro profetizzano?”. Ed anche nel Vangelo l’apostolo Giovanni come
Giosuè reagisce gelosamente preoccupato per un individuo simpatiz-
zante di Gesù che scacciava i demoni nello stesso nome di Gesù: ‘Noi
scacciamo i demoni, facciamo le cose buone, seguiamo il Signore
Gesù, crediamo come lui, lo ascoltiamo, come mai anche gli altri
fanno cose buone senza appartenere al nostro gruppo?’. Evidentemente
anche nel caso dell’apostolo appare una certa gelosia e invidia.
b) Un commento - Andiamo piuttosto in profondità di questo
fenomeno e di queste mosse interiori spesso spontanee e incontrol-
labili. La prima domanda è: dov’è la causa, dove sono le radici
dell’atteggiamento che noi definiamo come gelosia e come invidia
nella nostra vita? Perché questo ci capita, ci accade e avviene nella
nostra vita, nella nostra storia? La gelosia nasce quando non ritenia-
mo e non consideriamo che quello che siamo, quello che abbiamo
e quello che abbiamo fatto è un dono gratuito: “Senza di me non
potete fare nulla” dice Gesù. E se riconosciamo di essere quello che
siamo, di avere quello che abbiamo e di aver fatto tutto quello che
abbiamo potuto fare di buono, di bello, di valore, di qualità, non
lo dobbiamo attribuire esclusivamente a noi stessi. Il fatto di essere
buoni cristiani, ben educati, di avere una certa intelligenza, di essere
capaci di fare cose buone, o di appartenere ad un gruppo che si
ritiene ‘esemplare’, in parrocchia, in qualche comunità, in famiglia,
nel posto di lavoro, in qualche associazione, non ci deve far vantare
e non ci deve far sentire superiori nei confronti degli altri. Se rico-
nosciamo che tutto è dono del Signore, che non è una cosa che
abbiamo meritato, ma l’abbiamo ricevuta, se ci accorgiamo che il
254
VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Signore ci ha dato tutte queste doti, queste abilità, queste capacità,


non le dovremmo ritenere più di nostra proprietà, come nostro
merito o l’effetto del nostro lavoro, del nostro sforzo, della nostra
fatica. Questo è il primo passo importante per non cadere nella
gelosia: essere grati, riconoscere che quello che siamo, quello che
abbiamo, quello che abbiamo fatto è la conseguenza di aver ricevuto
la forza e il dono del Signore, la Sua grazia.
La gelosia nasce anche dalla fraintesa o malintesa giustizia, dal
nostro concetto della giustizia: ‘con quale diritto un’altra persona,
come me, o come noi può avere le stesse grazie, gli stessi doni, gli
stessi privilegi, gli stessi diritti, la stessa importanza, nobiltà, appar-
tenenza, ruolo, funzione, posizione? come mai? con quale diritto?’.
A quel punto non solo non ammettiamo che noi siamo stati gratu-
itamente dotati di quei doni, ma accade una cosa ancora più grave:
non permettiamo neppure a Dio che manifesti la sua sovrabbondante
bontà e la distribuisca nei confronti anche degli altri, di quegli altri
che noi percepiamo come ‘esclusi’ dai nostre ambiti, dalla nostra
vita personale, familiare, dal nostro posto di lavoro o dai nostri
gruppi di appartenenza, e pretendiamo di essere noi a decidere o
dettare a Dio chi merita o non merita un ruolo, una funzione, un
dono, un carisma, una posizione, in parrocchia, nella Chiesa ecc.
Noi vogliamo prendere il posto del Signore e della sua bontà. Queste
senz’altro sono radici e cause della gelosia e dell’invidia.

3. Le conseguenze dell’invidia e della gelosia - Sorge un’altra doman-


da: quali potrebbero essere le conseguenze di questa gelosia se noi
non ce ne liberiamo? Prima di tutto stiamo male noi stessi, siamo
amareggiati; invece di essere contenti di quello che siamo, di quello
che abbiamo o abbiamo fatto, e siccome Signore ha dato le stesse
cose anche agli altri, facciamo continui confronti, paragoni, tra noi
e gli altri, e così, ci avveleniamo dal di dentro, nei nostri pensieri,
nei nostri affetti e questa non è una cosa piacevole, non ci fa star
bene perché invece di essere contenti di ciò che abbiamo ricevuto,
invece di sentire dentro di noi la gioia di ciò che con il nostro
contributo Dio realizza in noi, per noi e tramite noi portando il
255
VENTISEIESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Suo disegno alla finalità, ci concentriamo sugli altri, soprattutto


quelli che stanno apparentemente oltre i confini dei gruppi a cui
noi apparteniamo e dove il Signore, anche lì può operare e scegliere
le persone tramite cui continua a realizzare l’unico disegno a cui
partecipiamo sia noi, sia loro. Coltivando in noi questa amarezza,
questa insoddisfazione non solo facciamo star male noi stessi ma
facciamo star male anche gli altri, quelli chiamati da Gesù nel Van-
gelo “i piccoli”, quando noi li riteniamo inferiori e così con il nostro
senso di superiorità, di esclusività li scoraggiamo, li allontaniamo
forse anche dal Signore e diventiamo per loro, come dice il Vangelo
di oggi, motivo di “scandalo” per questi “piccoli”. Questo è il mes-
saggio del Vangelo.

4. L’atteggiamento corretto - Attraverso questa lezione un po’ ‘nega-


tiva’, che punta sul tema della gelosia, dell’invidia, il Signore vuole
che noi coltiviamo, e conserviamo dentro di noi, prima di tutto la
gratitudine per il bene ricevuto personalmente nella nostra vita; poi
la gioia che questa bontà del Signore è talmente larga, ampia che
non conosce i confini e (che) si allarga anche nei confronti degli
altri, di quelli che non conosciamo, che stanno oltre, fuori delle
nostre comunità. Ecco l’insegnamento che deriva dalla Liturgia
d’oggi: cerchiamo di sentire la gioia della sovrabbondanza dell’amore,
della tenerezza, dell’affetto del Signore e della Sua premura anche
nei confronti degli altri. La cosa importante è che coltiviamo dentro
di noi l’entusiasmo che il Signore, in qualunque modo, porta o sta
portando a compimento il Suo disegno di salvezza non solo in noi
e per mezzo di noi, ma anche per mezzo degli altri. La cosa fonda-
mentale, il fine definitivo, è quello di creare, costruire e attuare il
Regno di Dio, già qui, in queste condizioni della vita quotidiana,
per portarlo alla sua piena manifestazione, al pieno adempimento
alla fine dei tempi, non da soli, ma con tutta la famiglia umana,
senza escludere nessuno. Chiediamo al Signore che ci illumini, ci
dia la forza di comprendere questi misteri, il Suo messaggio e di
assumere l’atteggiamento di umiltà e di gratitudine per tutta la Sua
sovrabbondante bontà.

256
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Gen 2,18-24


Salmo 127
Seconda lettura: Eb 2,9-11
Vangelo: Mc 10,2-16

1. Il matrimonio - La Parola di Dio di questa domenica è focalizzata


sul tema di capitale importanza, ma dall’altra parte di estrema deli-
catezza. Si tratta del matrimonio e della famiglia cristiana.
a) Perché la Chiesa insegna sul matrimonio e sulla famiglia - Appena
si inizia a considerare questo argomento, spesso si sentono le voci
di obiezione: ‘come mai la Chiesa, i Vescovi, i Cardinali, i preti, i
sacerdoti si possono permettere di parlare della famiglia? Tutti coloro
appartenenti alla Chiesa che hanno da dirci su questo argomento
dato che non hanno sperimentato né il matrimonio, né hanno
fondato la famiglia? Che la Chiesa è autorizzata, anzi obbligata a
parlare del matrimonio, si può spiegare in due modi: uno, analogico
(partendo da qualche altro esempio della vita quotidiana); l’altro,
teologico (partendo da quello che è stato rivelato da Dio stesso
mediante Cristo).
b) La spiegazione analogica - Per il primo modo facciamo un esem-
pio: se un medico cura una persona che è malata di cancro, non è
necessario per curare, per guarire quella persona e spiegare in che
cosa consiste la sua malattia, che quel medico soffra anche lui di
cancro. Quindi la sua esperienza, la sua conoscenza non richiede
che sia anche lui ammalato di cancro, ma che possa aiutare colui
che è ammalato. In modo analogo anche gli esperti che studiano
sul piano della fede il fenomeno della famiglia, non devono (essere)
necessariamente essere sposati ed essere genitori.

257
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

c) La spiegazione a partire dalla fede - Per il secondo modo è neces-


sario dire: quando parliamo del matrimonio dall’ambone o dalla
cattedra, nelle aule accademiche o universitarie, nelle chiese, tra il
popolo, sia il papa, sia i vescovi, o i sacerdoti, loro non esprimono
le loro idee sul matrimonio cristiano. I successori degli Apostoli e
i sacerdoti espongono solamente quello che aveva insegnato Gesù,
non aggiungono né possono cambiare neanche uno iota a ciò che
Cristo aveva detto riguardo al matrimonio. Il matrimonio infatti è
strettamente legato con il progetto di Dio riguardo all’uomo, in
quanto “uomo e donna li creò”. Il ruolo dei discepoli di Cristo è
solo quello di trasmettere fedelmente l’insegnamento di Gesù e
spiegarlo in modo che sia più comprensibile al popolo di Dio e a
tutti gli uomini in quanto la visione universale della famiglia, cioè
in quanto non solo di carattere cristiano, ma naturale.

2. Il matrimonio come una scelta vincolante propria dell’essere


umano - Per approfondire questo tema ci poniamo alcune domande.
La prima domanda la formuliamo in senso negativo, a partire dalle
parole del libro della Genesi e a partire da quello che ci ha detto
Gesù: ‘che cosa non è il matrimonio cristianamente inteso alla luce
del disegno divino?’. Non è un semplice accordo, un consenso o un
contratto, come solitamente si fanno gli accordi sul piano politico,
diplomatico, sociale, culturale. Il matrimonio non è una cosa prov-
visoria, transitoria, fugace, effimera, temporale, momentanea. Non
ci si sposa ad experimentum, per fare una prova, come diceva Gio-
vanni Paolo II. Come non si nasce, non si vive e non si muore per
prova, così non si ama per prova, così non ci si sposa per prova,
non si diventa sacerdote per prova, ad experimentum. Lo si diventa
o non lo si diventa: coniuge, sposo, sposa, prete, sacerdote, france-
scano e così via. Si sceglie e si diventa, non si fanno gli esperimenti
iniziali riguardo al piano delle scelte esistenziali e vincolanti. Certo,
ci vuole un discernimento dentro di noi, ma quando arriva il mo-
mento della decisione, della scelta, lo si fa in modo fermo, costante,
fedele, ragionevole, maturo e responsabile, in modo che dopo non
c’è più spazio per il discernimento. Trattando del matrimonio ci si
258
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

riferisce ad un ordine superiore dei principi non-negoziabili, dove,


dopo un periodo di discernimento, fatta la scelta, la persona si
auto-determina definitivamente. In questa maniera essa realizza ciò
che distingue essenzialmente la persona umana: la sua libertà nella
responsabilità davanti a se stessa, all’altro e alla società.

3. Matrimonio come partecipazione nell’Amore Eterno del Dio–Trinità


Ed ora, entrando più in profondità, il matrimonio cristiano rispec-
chia un altro aspetto della natura personale dell’uomo stesso: “un
essere relazionale”. Infatti siamo stati creati a immagine e somiglianza
di Dio-Trinità, non di un Dio solitario, chiuso, autosufficiente, ma
un Dio che è la comunità delle Persone divine, quindi Dio che vive
la vita comunitaria dentro di Sé e crea le relazioni, tra il Padre ed
il Figlio con il Figlio e il Padre e con lo Spirito Santo. Siamo perciò
convocati, chiamati a creare relazioni e l’apice di questa nostra
chiamata, di questa nostra vocazione a realizzare il nostro essere
persona umana, si realizza soprattutto nel matrimonio. È la voca-
zione più bella e immaginabile, è la reciproca donazione per costruire
insieme una nuova identità, una nuova storia, e una nuova qualità
della vita. Il matrimonio è la comunione del “noi” nell’atto di un
totale e perenne Amore e la partecipazione all’Amore eterno e alla
fedeltà di Dio-Creatore nei confronti della Sua creatura. Quando
Dio ha creato il mondo e l’uomo, ha detto il Suo eterno sì :“per
sempre ti voglio, ti amo e ti sarò fedele, fino alla fine”. Quindi il
matrimonio non è altro che entrare in questo rapporto tra Dio e il
mondo, questo continuo ‘sì’ detto da Dio nei confronti della crea-
tura; anche se questa si allontanasse, se si scordasse di Dio, anche
se peccasse e Lo tradisse, Dio gli direbbe sempre ‘sì’. Il matrimonio
consiste in questo, nella partecipazione a questo continuo, eterno,
perenne, irrevocabile e indissolubile sì detto da Dio alla creatura,
come abbiamo sentito nella prima lettura.

4. Matrimonio come partecipazione sacramentale nello sposalizio


tra Cristo-Sposo e la Chiesa-Sposa - Inoltre, e questa è la cosa più
profonda, il matrimonio cristiano è anche la partecipazione all’amore
259
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

di Cristo verso la sua Chiesa, verso la Chiesa dei peccatori, delle


persone deboli, fragili, vulnerabili, e chi si sposa è incluso, è com-
preso, è coinvolto in questo Amore. Anche se nella Chiesa ci fossero
dei peccatori, dei traditori, comunque a questa Chiesa Gesù dice:
‘sei il mio corpo, sei la mia sposa ed io ti dico per sempre sì, ti sarò
fedele fino alla fine’. Il matrimonio celebrato in chiesa non è altro,
che un continuo, perenne ed irrevocabile ‘sì’, imitando Gesù e
partecipando al Suo continuo dire ‘sì’ alla Chiesa. Grazie a questo
‘sì’ irrevocabile e allo stesso tempo indissolubile, il matrimonio
cristiano dura per sempre. C’è un piccolo libro intitolato “Ogni
amore vero è indissolubile”; infatti non si può amare soltanto per
qualche tempo, altrimenti questo contraddirebbe l’amore stesso. In
questo consiste l’amore: è fedele ed è eterno. Il matrimonio cristiano
come abbiamo già detto, non è un contratto, un accordo, un con-
senso, è l’alleanza con Cristo; in altre parole, nel matrimonio i
coniugi non soltanto fanno il giuramento, dicendosi reciprocamente
“sì” fino alla fine della vita, ma dicono ‘sì’ a Cristo presente nei
coniugi. Quindi nel matrimonio, si dice “sì” a Cristo che è presente
nella sposa e nello sposo; con la fedeltà allo sposo e alla sposa, viene
detto ‘sì’ a Cristo e si è fedeli a Lui. Qui, perciò, nasce un triangolo
tra lo sposo, la sposa e Cristo che diventa il fondamento e l’unico
garante della fedeltà e dell’indissolubilità, del legame tra lo sposo e
la sposa. Per questo soprattutto il matrimonio è Sacramento di
Cristo che costituisce il principio e il fondamento dell’unione tra
due persone, della fedeltà di Gesù e a Gesù. Nel matrimonio, il
primo che è fedele è Gesù con la sua promessa: ‘io sto con voi, nella
vostra vocazione matrimoniale, vi sarò fedele, sarò fedele allo sposo
e alla sposa, mi sono inserito in mezzo a voi, sarò io il principio di
unità tra di voi’. Non c’è matrimonio cristiano senza Cristo, anche
se questo richiede sacrifici e rinunce. Ma queste ultime domeniche
abbiamo parlato tante volte di Cristo crocifisso: “Chi vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso…”. La stessa cosa avviene nel matri-
monio; anche l’amore richiede sacrifici, rinunce, negare se stessi,
negare i propri egoismi per dedicare la propria vita all’altra persona.
Quindi Gesù sta a fondamento di ogni matrimonio cristiano, è un
260
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

patto fatto con Lui: nell’altra persona riconosco Cristo e Lo amo


nello sposo o nella sposa.

5. I tratti pratici e le caratteristiche del matrimonio - Ma questo


amore matrimoniale, coniugale, come si realizza in pratica?
a) La carità - Qui bisognerebbe riportare, anche se questo brano non
fa parte delle letture di oggi, il testo della Prima Lettera di san Paolo
ai Corinzi, esattamente il capitolo13 con il famoso inno alla carità.
Che cosa è l’amore, come lo definisce san Paolo? ‘L’amore è pieno
di fiducia, pieno di fede, di speranza, di dedizione all’altro, tutto
sopporta, è perseverante fino alla fine, tutto accetta, tutto assume,
tutto assorbe’. Vale la pena rileggere questo testo di san Paolo per
riconfermarci in che cosa consiste in pratica l’amore, imitando Gesù.
b) Eterosessualità: uomo e donna - Dal punto di vista legislativo,
cioè come la legge ci serve e ci aiuta a vivere in modo migliore il
matrimonio? Quali sono i caratteri tipicamente cristiani? Come
sostiene la secolare tradizione del cristianesimo fin dall’inizio,
praticamente il matrimonio è “eterosessuale”, tra un uomo e una
donna, come è scritto nella prima lettura: la persona umana non è
stata creata come uomo e uomo, non è stata creata come donna e
donna, ma come uomo e donna. Solo in questo modo si completano,
definendo la condizione di eterosessualità, La sessualità non è un’ag-
giunta alla nostra natura: noi siamo già determinati come persone
umane come maschi, come uomini, e così anche le donne con la
loro personalità, il loro essere persone umane lo vivono nella loro
femminilità e con la loro bellissima vocazione alla maternità. Quindi
il matrimonio cristiano è eterosessuale; non può avvenire tra due
persone dello stesso sesso, sarebbe una contraddizione a quello che
ci dice il Vangelo, a quello che ci dice la parola di Dio.
c) Monogamia - Inoltre il matrimonio è uno, con una sola persona,
quindi esclude la poligamia; non è possibile, una volta sposati con
una persona, abbandonarla e unirsi ad un’altra. Questo è un riferi-
mento ai divorziati risposati, l’altro matrimonio non sarà valido agli
occhi della Chiesa e del Vangelo di Gesù che ha detto: “all’inizio era
261
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

così, cioè fin dal principio era così, dall’inizio della creazione, “Dio
li fece maschio e femmina”, per questo l’uomo lascerà suo padre e
sua madre e si unirà a sua moglie ed i due diventeranno una carne
sola. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto, per
cui nessuno, né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, sono autorizzati
a dividere ciò che Dio ha congiunto e unito. È doveroso chiarire
queste cose in ogni tempo e in ogni luogo dove vive la Chiesa.
d) Apertura alla procreazione - Un’altra caratteristica del matrimonio
è l’apertura alla procreazione; è aperta, non la esclude non la nega,
non nega che coloro che si sposano possano diventare genitori. Ciò
che caratterizza il matrimonio per come è stato voluto da Dio, esso
deve essere alla vita, alla nuova vita. La vita dei coniugi serve a
trasmettere il dono della vita. Così partecipano nell’atto dell’eterna
generazione del Padre all’interno del mistero Trinitario. Dio Padre
non conserva la vita per se stesso, ma la condivide pienamente con
il Suo Figlio Eterno.

6. I casi delle convivenze ‘irregolari’ - Oggi si parla di questi casi dei


matrimoni falliti, in crisi, in difficoltà, dei casi delle persone separate,
divorziate-risposate, oppure delle coppie omosessuali. Riguardo a
tutte queste relazioni, a questi rapporti irregolari, sembra che oggi
facciamo una scoperta, un rinnovamento della famiglia, del matri-
monio, per essere aggiornati, per adeguarci al mondo, ma l’impor-
tante è essere adeguati al Vangelo. Attenzione: noi dobbiamo
adeguarci al Vangelo, non il Vangelo al mondo. La Chiesa non ha
diritto di adeguare la verità sul matrimonio al contesto reale, ma
risanare la realtà peccaminosa e farla adeguare alla verità divina sul
matrimonio. Non vogliamo ridurre il piano e il disegno di Dio alle
esigenze o alle pretese umane, ma la debolezza umana la vogliamo
curare, innalzare e santificare al piano del disegno di Dio. Di questi
casi non riusciti, falliti o irregolari, Giovanni Paolo II nell’esorta-
zione apostolica Familiaris consortio del 1981, ha scritto: “Insieme
con il Sinodo esorto caldamente i pastori, quindi i sacerdoti, i vescovi
e l’intera comunità dei fedeli, delle parrocchie, affinché aiutino i
divorziati, i separati-risposati, gli omosessuali, con sollecita carità,
262
VENTISETTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

con passione e cura profonda, che non si considerino separati dalla


chiesa”. Ognuno di noi li deve aiutare, ma questo non vuol dire che
adesso vogliamo accettare le seconde nozze, l’ammissione alla co-
munione o fare una legislatura sulle coppie irregolari nella Chiesa.
Non ci stacchiamo da loro, come dice Giovanni Paolo II, anzi, in
quanto loro battezzati come lo siamo noi, “siano chiamati a conti-
nuare a vivere nella chiesa, siano esortati ad ascoltare la Parola di
Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella pre-
ghiera, a dare incremento alle opere di carità, alle iniziative della
comunità, a favore della giustizia, della pace, ad educare i figli nella
fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per im-
plorare, di giorno in giorno la grazia di Dio, non sono esclusi dalla
grazia e dalla via della salvezza a partecipare alla vita di Gesù mal-
grado la loro vita fallita nel matrimonio”. La Chiesa, si deve prendere
ancora di più cura di loro, ma questo non vuol dire fare una nuova
legge sulle coppie dei gay o le seconde nozze dei separati o l’ammis-
sione alla comunione dei risposati, ma aiutarli e creare loro lo spazio
in mezzo a noi, li dobbiamo accettare, aiutare, consolare, sostenere
nel loro difficile cammino della guarigione e della conversione.
Dello zelo, della premura, per quanto riguarda la famiglia che ha
avuto Giovanni Paolo II durante tutto il suo lungo pontificato, (ne)
parla anche il cardinale Sarah nel libro “Dio o niente”: un’intervista
fatta dallo scrittore Nicolas Diat al card. Sarah, Prefetto della Con-
gregazione per il Culto Divino. Nei suoi ricordi, parlando di Gio-
vanni Paolo II dice così: “Durante un Angelus, quando era molto
indebolito per una ospedalizzazione faticosa all’ospedale Gemelli il
29 maggio 1994, pronunciò queste parole straordinarie dalla finestra
del Policlinico Gemelli: «Proprio perché la famiglia è minacciata,
perché la famiglia è aggredita, il Papa deve essere pure aggredito, il
papa deve soffrire, affinché tutte le famiglie e il mondo intero vedano
che esiste un Vangelo della sofferenza attraverso il quale noi dob-
biamo preparare l’avvenire, il terzo millennio delle famiglie, di ogni
famiglia e di tutte le famiglie»”. Per il bene delle famiglie ha dedicato
la sua sofferenza e la sua malattia provocata dall’attentato. Non per
caso è stato chiamato “il Papa delle famiglie”.

263
VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Sap 7,7-11


Salmo 89
Seconda lettura: Eb 4,12-13
Vangelo: Mc 10,17-30

1. L’efficacia della Parola di Dio - Ogni Domenica il Signore ci dona


la Sua preziosa Parola che siamo invitati a meditare e dalla quale farci
penetrare, farci scrutare per illuminare le nostre tenebre di noi piccoli
esseri umani: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni
spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’ani-
ma e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti
e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti
a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (seconda lettura).
Ma affinché la Parola, che è sempre discreta e rispettosa della nostra
libertà, possa penetrare nel nostro intimo, nel nostro cuore dobbiamo
aprire la porta della nostra anima, dobbiamo accogliere l’invito che
continuamente ci rivolge. Questa celebre pagina della Lettera agli
Ebrei è una meravigliosa celebrazione della radicalità della Parola di
Dio che è presentata come una forza giudicante alla quale niente
sfugge e a cui ognuno di noi dovrà rendere conto. La Parola di Dio
viene presentata come infallibile nel suo giudizio che raggiunge sempre
il suo obiettivo, ma contemporaneamente agisce come un eccellente
chirurgo che estirpa il male per guarirci, è fondamentale ed inevita-
bilmente giudica le coscienze nella loro profondità. Allo stesso tempo
la Parola di Dio è irresistibile e decisiva della storia umana. Solo chi
è fedele al suo ascolto, chi la medita, la prega la contempla e la mette
in pratica può arrivare alla salvezza.

2. La necessità della Sapienza Divina - Il Vangelo di questa domenica


viene affiancato per una adatta coincidenza alla lettura del brano
264
VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

del Libro della Sapienza che fa l’encomio della Sapienza divina. Il


contenuto della preghiera che si attribuisce al Re Salomone manifesta
innanzitutto un cuore ascoltante che può distinguere il bene ed il
male in vista di governare il popolo. Qui viene desiderata e richiesta
sopra ad ogni ricchezza, che non ha paragoni con la bellezza ed
ogni altro dono perché i suoi doni sono ritenuti più splendidi e
senza fine. La salute fisica che ogni uomo ritiene come bene supremo
e la bellezza, sono ritenuti beni trascurabili di fronte alla prudenza,
alla sapienza, all’intelligenza, alla saggezza che sono ancora più amati
e desiderati perché sono doni che equivalgono a “Dio”.

3. La ‘ricchezza’ evangelica - Nel Vangelo di questa domenica, Marco


ci propone tre passi che riguardano lo stesso tema, ovvero le ricchezze
di questo mondo che ci impediscono di entrare nel Regno di Dio.
La prima riguarda l’uomo ricco che è invitato da Gesù a vendere
tutti i suoi beni e donarli ai poveri (v.17-22); la seconda ci fa capire
che questa richiesta è molto faticosa da attuare (v.23-27); la terza
riguarda la promessa di Gesù a Pietro e agli altri discepoli che hanno
lasciato tutto per seguirLo, ma che riceveranno il centuplo di ciò
che hanno lasciato insieme a persecuzioni già nel presente e nel
futuro, la vita eterna.
a) Giovane ricco - Il giovane, fin dall’infanzia, aveva sempre osservato
i comandamenti di Dio, aveva amato Dio ed era stato sempre ubbi-
diente ai Suoi precetti. Ma a questo punto egli sentiva un’insoddi-
sfazione profonda, sentiva che gli mancava qualcosa e chiede a Gesù
quel qualcosa: ‘Cosa devo fare di più, questo l’ho già fatto e lo faccio,
cosa mi manca?’ E Gesù “fissatolo lo amò”, cioè “lo guardò con
amore”. Le tre parti del Vangelo intercalano ‘sguardo d’amore’,
‘incoraggiamento alla decisione’, ‘bruciante ironia da parte di Gesù’
che rappresentava una specie di sovversione nell’ambiente giudaico
dove la ricchezza era segno della benedizione di Dio.
Gesù pur apprezzando le intenzioni e la condotta di vita praticata
da quell’uomo gli propone di fare un passo avanti, mostrando anche
l’esigenza di volere tutta la persona al completo, un totale distacco
dai beni terreni per avere il cuore libero dai beni che sembrano
265
VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

essenziali senza esserlo. Allo stesso tempo lascia all’interlocutore la


libertà di decidere. Se quell’uomo era così preoccupato di avere in
eredità la vita eterna, Gesù gli ha offerto un tesoro in cielo, ma
purtroppo non è riuscito a farlo e se ne va scuro in volto, addolorato,
e quasi ostile. Egli ha rifiutato il vero bene, la vera ricchezza, la vita
eterna proposta da Gesù perché non ha saputo, o non ha potuto
rinunciare alle sicurezze umane, non ha potuto e voluto capire che
gli veniva offerto una bene ineguagliabilmente prezioso e perenne,
non ha accettato il rischio della gioia eterna, della pienezza di Dio.
Paolo lo aveva capito bene quando scrisse: “Tutto ormai io reputo
spazzatura, al fine di guadagnare Cristo... si tratta di conoscerlo e
di provare la potenza della sua risurrezione...” (Fil 3,8-10).
b) La fatica di orientarsi verso la ‘vera ricchezza’ - Segue un discorso
privato tra i discepoli e Gesù che evidenzia la difficoltà per i ricchi
di entrare nel regno di Dio. Gesù aveva già ammonito che le pre-
occupazioni e l’attrazione per la ricchezza frenano la Parola la
quale rimane senza frutto. Segue il famoso detto: “E’ più facile che
un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel
regno di Dio”. che sembra volutamente esagerato, che appare così
radicale da farci intendere che Gesù non voleva trasmettere l’im-
possibilità per un ricco di essere discepolo di Gesù e ottenere la
vita eterna. Sicuramente Gesù vuole far capire ai Suoi discepoli,
ed anche a noi oggi, che è impossibile entrare nel Regno di Dio
per tutti coloro che amano di più le loro proprietà che i beni
spirituali.
c) La promessa della ricompensa eterna - Quando i discepoli inter-
rogano Gesù Egli risponde spiegando che ciò che è impossibile agli
uomini è possibile a Dio. Questa risposta può sembrare a prima
vista sfuggente ma essa si inserisce direttamente nel problema del
“distacco”. Gesù è Colui che apre gli occhi, la mente, il cuore dei
discepoli alla profondità di Dio. Se siamo convinti che Dio è l’unica
vera ricchezza riceveremo da Lui stesso la forza per distaccarci dai
beni terreni. È indispensabile avere fede. Nel contrasto tra la dichia-
razione di Pietro: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo
266
VENTOTTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

seguito”, e l’atteggiamento del giovane ricco si comprende l’interro-


gativo: ‘se lascio tutto cosa avrò di contraccambio?’. Seguire Gesù
non è povertà, ma ricchezza e guadagno. Infatti la risposta di Gesù
è chiara: Quello che vale è la rinuncia effettuata a motivo di Gesù
e del Vangelo. Tale rinuncia si trasforma nella ricompensa già in
questa vita che viene intesa solo come anticipo della piena ed assoluta
ricompensa nell’eternità.

267
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Is 53,10-11


Salmo 32
Seconda lettura: Eb 4,14-16
Vangelo: Mc 10,35-45

1. Il Vangelo del servizio caritatevole - Sembra essere abbastanza


ovvio il messaggio di oggi, tratto dal Vangelo di san Marco. Dal suo
racconto si evince prima di tutto una domanda, anzi, la richiesta
dei discepoli, i fratelli Giovanni e Giacomo: “Concedici di sedere
nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Prima
di tutto Gesù risponde prospettando un cammino di croce e che la
gloria che loro cercano non dipende da Lui ma dal Padre. Questo
è il secondo tentativo ambizioso di aspirare ad un posto privilegiato
nel gruppo degli apostoli coperta da una certa sottomissione. Gesù
cerca di far capire loro che Egli sta percorrendo la strada verso la
croce e chiarisce che non è quello che spetta ai suoi discepoli: di
cercare gli onori, le funzioni, il ruolo, l’importanza, la superiorità
che erano prerogative dei governanti, dei capi delle nazioni e soprat-
tutto dei Romani oppressori, ma come spiega poi nella seconda
parte del Vangelo, dicendo: “Tra voi però non è così; ma chi vuole
diventare grande tra voi, sarà vostro servitore, e chi vuole essere il
primo tra voi, sarà schiavo di tutti”. E poi aggiunge: “Anche il Figlio
dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti”. Tutto chiaro: da una parte
la richiesta di essere dominatori, superiori, nobili e più importanti,
e dall’altra parte l’insegnamento, l’ammonizione di Gesù di cercare
le cose umili, di essere servitori, di essere disponibili, aperti ai biso-
gni, alle necessità dei più poveri, dei più fragili, dei più vulnerabili,
che ci stanno intorno ma che spesso passano inosservati. Qui si
268
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

delinea l’opposizione tra il potere umano che può spingersi fino


alla prevaricazione e al dominio ed il modo di pensare di Gesù che
è principalmente servizio e solidarietà. Alla luce del Vangelo l’aspi-
razione e il desiderio di ‘essere grande’, deve equivalere all’atteggia-
mento di ‘schiavo’ di tutti con cui si denota la grandezza di Cristo
sommo sacerdote. Tuttavia appare chiaramente anche la coincidenza
con la figura del Servo sofferente di Jahvè della prima lettura. Quindi
il principale messaggio del Vangelo è il servizio, ma è importante
capire il vero concetto del servizio.

2. Il concetto di servizio
a) Il ‘servizio’ malinteso - Siamo chiamati a servire però questo verbo
‘servire’ richiede una breve spiegazione. Difatti, si può servire in
diverse maniere; nella nostra vita il servizio può assumere diverse
forme e varie espressioni. Si può servire anche in senso negativo, ad
esempio nei casi in cui si serve perché si è succubi, sottomessi, sot-
toposti, lusinghieri, adulatori. Alcuni diventano quasi tentacoli di
chi ha potere, cioè vendono loro stessi, servono apparentemente,
sembrano persone come servitori bravi che si offrono, si consegnano,
si dedicano ma dietro il loro atteggiamento c’è il solo il loro inte-
resse, il loro obiettivo che vogliono raggiungere e quindi il servizio
diventa una copertura, un mezzo, uno strumento per raggiungere
gli scopi personali, individuali. Così vogliono compiacersi, e a volte
questo tipo di servizio assume anche la forma del carrierismo, attra-
verso il servizio succube. Ci sono infatti anche quelli che vogliono
appagare, soddisfare una certa lobby, un certo gruppo di interessi,
da parte del quale avevano ricevuto un appoggio, ed ora devono
servire, essere servitori nei confronti di questo gruppo a cui devono
tanto nella loro vita. Carrierismo, mondanità, celebrità, populismo,
farsi vedere con tutte quelle opere di carità che si possono fare, lo
fanno per far sì che gli altri li applaudano, per farsi vedere dai
mass-media, dai giornalisti, nelle prime pagine, affinché le video-
camere li seguano per mostrare i loro gesti di solidarietà esteriore,
semplicemente per la vanagloria. Va bene, si può ‘servire’ anche in
questa maniera clamorosa, chiassosa, rimbombante, populista… Ma
269
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

è questo, veramente il servizio? Lo facciamo per il vero motivo che


intende Gesù?
b) Il ’servizio’ evangelico – alcuni esempi - Invece, evangelicamente,
servire è un gesto di carità; non si fa del servizio uno spettacolo, non
serve per la celebrità, populismo o essere nelle prime pagine o nelle
prime notizie dei telegiornali – una tentazione presente nella Chiesa
fin dai suoi esordi: anche oggi perfino nelle sue strutture più alte è
palese questo fenomeno. Prendiamo un esempio positivo. Madre
Teresa di Calcutta, ormai proclamata santa, racconta un episodio
accaduto nel 1986 in India. È andato lì in visita san Giovanni Paolo
II, e lei racconta una storia che i giornalisti non hanno visto, le camere
della Tv non hanno registrato, solo lei l’aveva memorizzata e poi
raccontata. Lei dice che durante questa visita in India, san Giovanni
Paolo II ha visitato la casa dei moribondi, quelli che stavano nella
situazione terminale della loro vita. Lei riferisce così: “Si è trattenuto
a lungo tempo in questa casa, ha provato a nutrire a dare da mangiare
ad alcune persone anziane, che stavano per morire, anzi, aveva accom-
pagnato anche alcune persone nel momento dell’agonia, della morte.
È stato molto commosso, gli uscivano le lacrime dagli occhi”. Questo
è il servizio: in silenzio e fatto con la carità e per la carità. Soltanto
così impariamo a dare al concetto di ‘servire’ di cui parla il Vangelo
di oggi, un giusto, autentico, evangelico, biblico senso e significato.
‘Servire’ è un atto di amore vero e autentico, il cui modello (lo) per-
cepiamo nella vita di tanti altri santi dei nostri tempi, di altri perso-
naggi che, facilmente, abbiamo già scordati. Ciò che costituisce il
nucleo di questo loro servizio è annunciare, proclamare, portare alle
persone bisognose il bene supremo, cioè Gesù, il Suo Vangelo, il
Vangelo di speranza, di fiducia, di sostegno, di conforto, il Vangelo
della salvezza. Il servizio serve per rendere presente e per far sentire
Gesù più vicino a quelle persone più bisognose, forse anche più
lontane da Gesù; renderLo più prossimo, più ascoltato.

3. La missionarietà come atto di servizio


a) Il legame tra la missionarietà e servizio - La più grande povertà,
come diceva san Giovanni Paolo II, non è quella materiale, econo-
270
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

mica, sociale ecc., bensì quella di non conoscere Gesù Cristo. Da


qui deriva l’importanza di svolgere il servizio migliore verso i fratelli
e sorelle che non Lo conoscono portando a loro l’annuncio della
Buona Novella della salvezza compiuta da Cristo. In tal modo
emerge la nostra vocazione missionaria. Seppure non siamo missio-
nari nel senso classico del termine, perché nessuno, almeno la mag-
gioranza di noi (non) è andato in Asia, in Africa in Sud-America
per fare il missionario, tuttavia in virtù del Battesimo ciascuno di
noi è chiamato ad essere evangelizzatore. Ricordiamo santa Teresa
di Lisieux, morta a ventiquattro anni, che è vissuta in clausura per
sei anni, di cui la maggior parte (di questo tempo) è stata a letto,
sempre malata. Ha offerto le sue sofferenze, i suoi dolori per le
missioni, per l’evangelizzazione, affinché il messaggio di Gesù potesse
arrivare fino agli estremi confini del mondo.
b) La necessità di lasciarsi plasmare dal Vangelo nella scuola di
Gesù - Però, per essere un vero evangelizzatore, un vero missionario,
ciascuno di noi deve, prima di tutto, lasciarsi evangelizzare conti-
nuamente: impregnare, riempire, colmare il nostro cuore, la nostra
anima, la nostra mente, la nostra ragione, il nostro intelletto dei
contenuti del Vangelo, dei contenuti della fede che professiamo.
A volte può capitare che per alcuni la fede si è formata, si è pla-
smata e si è fermata con le notizie che vengono dai mass-media e
la nostra immagine della fede della Chiesa, della religione, del
Vangelo risulta debole, incompleta, opinabile e facilmente confu-
tata. Invece ci vuole un approfondimento maggiore, più serio, più
intenso: leggere, meditare, frequentare qualche corso, non per fare
studi di alto livello, ma per essere aggiornati, nelle questioni della
fede, dei contenuti del Vangelo che così verrebbe proclamato con
maggiore consapevolezza e poter comunicare la ragione del proprio
credere attraverso questo insegnamento. Gesù stesso istruiva, pro-
clamava il Suo insegnamento ai discepoli che Lo seguivano per
ascoltarlo, agli Apostoli che vivevano con Lui che avevano imparato
i contenuti del Vangelo ed avevano impegnato tutta la loro vita,
soprattutto dopo la Sua risurrezione a portare nel mondo il mes-
saggio di amore, di salvezza per tutti. E questo livello, questo piano,
271
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

si può dire intellettuale, di capire, di comprendere meglio, di andare


più in fondo ai contenuti della fede del Vangelo è molto importante
perché se non si è abbastanza preparati che cosa possiamo portare
nelle periferie? Le nostre deboli idee? Il nostro vuoto? Siamo man-
dati nelle periferie del mondo, ma non possiamo annunciare o
proclamare la nostra scarsa conoscenza, le nostre idee, le nostre
opinioni.
c) Il punto comune della ‘missione’ e del ‘servizio’: carità - Le opere
di carità sono mediazioni con le quali si può annunciare, procla-
mare il Vangelo; attraverso la testimonianza, le opere, la nostra
attività, i nostri gesti d’amore testimoni di valori evangelici. Per
poter raggiungere i destinatari, le persone che non conoscono Gesù
e non conoscono il Vangelo, il primo approccio per aderire a Cristo
è l’esempio e lo stile di vita dei cristiani-missionari. È importante
il contributo ed il sostegno materiale, economico, i gesti di carità,
ma in quanto orientati a far conoscere loro chi è Gesù, che cosa
aveva detto, che cosa aveva trasmesso alla Chiesa e che cosa la
Chiesa ci insegna, rappresentando Gesù oggi. In tal modo attraverso
la condotta dei cristiani possono riconoscere chi è Colui che li ha
mandati nel mondo.
d) Un gigante delle missioni nei nostri tempi - Padre Piero Gheddo
ha chiamato Giovanni Paolo II un ‘gigante delle missioni’. Lo stesso
papa ha dedicato a questo tema una delle sue encicliche intitolata
Redemptoris missio. In essa il santo papa, per evidenziare l’urgenza
dell’opera missionaria, si è espresso in questi termini: “Ormai dopo
2000 anni, siamo all’inizio della missione, all’inizio dell’evangeliz-
zazione”, la stragrande maggioranza del mondo non conosce Gesù;
ecco il nostro ruolo e chiediamo, a questo punto, per intercessione
della Madonna e di san Giovanni Paolo II, grande apostolo missio-
nario ed anche patrono delle famiglie che ci accompagni, interceda
per noi, ci aiuti con le sue preghiere nel nostro compito di essere
servitori, missionari ed evangelizzatori.
Oggi lo abbiamo nominato alcune volte perché come sappiamo
si sta svolgendo il sinodo sul tema della famiglia e questo Papa è
272
VENTINOVESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

conosciuto anche come “il Papa della famiglia”. Due giorni fa ab-
biamo celebrato l’anniversario della sua elezione come Papa e tra
qualche giorno, giovedì 22 ottobre celebreremo la sua memoria nel
calendario liturgico.

273
TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Ger 31,7-9


Salmo 125
Seconda lettura: Eb 5,1-6
Vangelo: Mc 10,46-52

1. Cercare Dio
a) L’approccio biblico - A volte la nostra riflessione sulla Parola di
Dio la iniziamo dalla parola del Vangelo o da una delle letture e
cerchiamo di individuare e specificare un comune denominatore,
un tema che potrebbe accomunare tutti i testi che la Parola di Dio
ci offre. Questa volta si vuole partire dall’antifona dell’ingresso alla
Santa Messa recitata all’inizio; essa riporta le parole del Salmo104:
“Gioisca il cuore di chi cerca il Signore, Cercate il Signore e la sua
potenza, cercate sempre il Suo volto”. La parola chiave è ‘cercare’.
Si tratta del ‘cercare’ che non è casuale perché in qualche maniera
ci fa capire in che cosa consiste il nostro rapporto con Dio, il rap-
porto tra Dio e l’uomo, che è definito e spiegabile appunto attraverso
il verbo ‘cercare’.
b) Il desiderio di Dio di ‘essere cercato’ - Questo vuol dire che Dio
desidera (di) essere cercato, vuole che noi lo cerchiamo, vuole
diventare l’obiettivo dei nostri desideri, delle nostre passioni, delle
nostre nostalgie; non vuole essere un Dio che si impone, un Dio
autoritario, un Dio dittatore, ma un Dio che nel silenzio si pro-
pone. Dio offre il dono del Suo amore, della Sua grazia, del Suo
perdono, del Suo affetto paterno, e vuole essere desiderato, cercato,
sembra quasi che voglia chiederci costantemente: ‘cercami, se mi
vuoi bene’.
274
TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

c) L’uomo – un essere che cerca - Dio ha creato l’uomo come un


essere per cercare, così possiamo definire la vita di ciascuno di noi,
come coloro che continuamente cercano varie cose: la prosperità,
il benessere, il lavoro, la tranquillità, la salute, le buone condizioni
di vita. Ma ci sono desideri ancora più profondi dentro di noi: la
Verità, la bontà, la felicità, la pace, la giustizia, il Regno di Dio,
l’incontro con Colui che pienamente può colmare e appagare le
nostre più profonde nostalgie e desideri. Questa ricerca dell’uomo
non riguarda solo noi credenti, ma riguarda ogni essere umano e
tutti i popoli e perfino coloro che si definiscono non credenti. Dice
la prima lettura che abbiamo sentito dalle parole del profeta Geremia:
“Rallegratevi per la prima delle nazioni,…” (v.7). L’autore si rivolge
a varie nazioni che Dio guida sulla via della salvezza attraverso la
storia del Suo popolo Israele.
d) Il ‘resto di Israele’ - Il concetto del “resto di Israele”, nella Bibbia
ha varie definizioni e interpretazioni. A questo punto cerchiamo di
approfondire chi è questo ‘resto di Israele’. I privilegiati del popolo
di Israele? Quelli sperduti del popolo di Israele? O piuttosto, come
risulta dal contesto delle letture di oggi, quelli che stanno fuori del
popolo di Israele: quei popoli che non conoscono Dio, ma che lo
cercano senza conoscerlo? E quindi coloro che cercano quel Dio
ignoto, sconosciuto di cui san Paolo cercava di dare la spiegazione
all’areopago di Atene, dove aveva fatto il suo discorso davanti ai
filosofi, ai sapienti, ai saggi greci, i quali non ne conoscevano il
nome, ma comunque lo cercavano, lo avrebbero voluto raggiungere?

2. La nostra ricerca di Dio


a) La fede – una cammino interminabile - Comunque l’importante
è coltivare dentro di sé il desiderio di cercare il Dio che ci manifesta
la verità, la bontà, l’amore, la grazia, la salvezza e quindi anche il
nostro cuore lo deve continuamente cercare. Lui non si fa possedere,
ma vuole essere cercato e si fa trovare da chi lo cerca. Da questo
risulta che la nostra fede non è altro che un continuo cammino. La
fede non è posseduta, non è che una volta che uno dice di credere,
275
TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

crede in modo definitivo, ma continuamente si sente in cammino,


perché la cosa peggiore sarebbe quella di smettere di cercare Dio, di
camminare per incontrarLo. Anche se (ci) dichiariamo di essere
credenti, comunque dobbiamo continuare a cercare Dio tutta la
vita, come aveva confessato sant’Agostino: “Inquieto è il cuore
umano, finché non riposa in Dio… Tardi ti ho amato, bellezza così
antica e così nuova”. Quindi non sprechiamo il tempo della nostra
vita, ma cerchiamo Dio incessantemente, pur sentendoci già credenti.
b) La fatica e la gioia di cercare Dio - Ma questa ricerca, essendo un
cammino, richiede la fatica perché è una strada in salita, richiede
un po’ di sforzo, un po’ di rinunce, un po’ di sacrificio e di sudore.
Per questo il Salmo di oggi recita: “Nell’andare, se ne va piangendo”,
perché a volte, camminando ci mettiamo a piangere per debolezza,
timore, stanchezza, però poi continua: “ma nel tornare viene con
gioia”. Quando troviamo questo accesso al Signore, anche se non
si fa possedere e non si fa toccare immediatamente, tuttavia tornando
al Signore troviamo la gioia e vogliamo coltivare la speranza. C’è
anche un altro aspetto di questa nostra ricerca, avvenuta nella fede
e con la fede.
c) Approfondimento dei contenuti del Credo cattolico - Si potrebbe
dire che noi, che ci dichiariamo (di essere) credenti, supponiamo di
essere credenti, pensiamo di credere in Dio, in Gesù, e nello Spirito
Santo; siamo convinti che la Chiesa è Una, Santa, Cattolica e Apo-
stolica; crediamo nella Risurrezione, nella vita eterna, nella remis-
sione dei peccati. Immaginiamo di credere in queste cose, a volte ci
sembra di credere, ma in realtà questo credere implica un cammino
che forse non abbiamo neppure iniziato. Quindi non ci acconten-
tiamo mai di aver raggiunto il fine, l’obiettivo di entrare in possesso,
una volta per tutte, della conoscenza del Credo. Per cui bisogna
avere l’umiltà di riconoscere se stiamo davvero in cammino verso
il Signore che vuole essere cercato e conosciuto. Durante questo
cammino, che provoca tanta fatica, ci possono essere, infatti, mo-
menti di dubbio, di buio, di rassegnazione, di trovarsi nelle tenebre;
forse perdiamo la direzione, l’orientamento e domandiamo a Dio.
276
TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

‘Signore dove sei, Dio dove sei? Ti abbiamo perso, non sappiamo
più dove andare, dove ti dobbiamo cercare e come ti dobbiamo
cercare. Abbiamo perso i pastori, quelli che ci dovevano guidare,
che invece ci portano alla confusione. Signore, dove sei?’ (vedi il
messaggio di Benedetto XVI al funerale del cardinale Joachim Mei-
sner, il 15 luglio 2017).
d) La luce della fede - È allora che abbiamo bisogno in questo cam-
mino, della luce della fede, della speranza, come aveva detto papa
Benedetto XVI nella sua esortazione Verbum Domini. La Parola di
Dio è la parola della speranza che ci è tanto necessaria mentre fac-
ciamo il faticoso cammino della fede, soprattutto nei momenti in
cui la fede subisce dubbi, difficoltà, quando si trova nel momento
del buio, dell’oscuramento, nel momento occulto come nel caso del
figlio di Timèo, Bartimèo che era cieco ed anche lui era sperduto
come dice il Vangelo . Anche a noi Gesù dice: “La fede ti ha salvato”.
Anche per noi, la fede è la condizione per la salvezza definitiva ed
ultima; senza la fede non si può essere salvati. Ma allo stesso tempo
la fede è la forza, è il cibo, è il nutrimento, la fonte delle nostre
energie per poter continuare, malgrado tutti gli ostacoli, ed il buio,
per poter continuare il cammino verso il Signore. Inoltre, la fede
non è solo la condizione della salvezza, ma è anche l’anticipazione
della salvezza. La salvezza già la anticipiamo qui, la percepiamo in
questa vita, in qualche modo come in germe, in frammento. Ricor-
diamo a questo punto le parole del Vangelo di Giovanni quando
Gesù dice: “Chi crede già è salvato” (Gv 3,16). La nostra fede ci fa
sperimentare, ci fa vivere, in che cosa consisterà alla fine, la nostra
salvezza: nel rapporto vicino, intimo, profondo, inseparabile con il
Signore. In questa unione profonda di amore, di felicità, senza
lacrime, senza buio, senza oscurità; di fronte alla luce, come quella
luce che aveva riconquistato Bartimèo, grazie al Signore anche noi
ce la auguriamo. Chiediamo al Signore che ci dia la forza, di non
scoraggiarci, di non rassegnarci mai e di continuare il nostro cam-
mino di fede e che ci dia buoni, saggi, fedeli pastori capaci di guidare
ciascuno di noi verso la via che ci porterà alla vera autentica salvezza,
al vero, autentico incontro con Gesù.

277
TRENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Dt 6,2-6


Salmo 17
Seconda lettura: Eb 7,23-28
Vangelo: Mc 12,28b-34

1. Dio di Israele è Dio Unico


a) Il ‘credo’ di Israele come memoria delle opere di salvezza compiute
da Dio - La Liturgia della Parola di oggi nella prima lettura ci pro-
pone la formula di preghiera più importante nella tradizione ebraica
lo “Shema Israel!” (=Ascolta Israele!) che i fedeli recitavano tre volte
al giorno in modo particolare al mattino. Questa espressione – che
si riferisce al ricordo delle opere compiute da Dio verso il Suo po-
polo che le ha memorizzate – è considerata il ‘credo’ della religione
ebraica in quanto contiene la dichiarazione di Jahvè come unico
Dio e lo stretto legame che lo unisce al popolo di Israele. Nei pochi
versetti inclusi nel testo di questa preghiera compare il riconosci-
mento del Signore (=Jahvè) con il Dio dei padri. Nel contesto storico-
religioso possiamo constatare la novità del Dio biblico potendo
confrontare le varie religioni e credenze che seguono e adorano diversi
dèi, visti, considerati ed onorati spesso come figure semplicemente
superiori agli uomini. Sono dèi del potere, della vittoria, della ricchez-
za, della guerra, del piacere, del tempo, ma poco interessati all’uomo
e piuttosto bisognosi di sacrifici per essere soddisfatti.
b) L’originalità del Dio di Israele - Il Dio d’Israele è un Dio “nuovo”,
un Dio “inconcepibile” che va oltre le immaginazioni, le fantasie e
le proiezioni umane. Innanzitutto non è creatura dell’uomo, ma
creatore dell’uomo che lo chiama perché lo vuole, gli dimostra la
premura e l’affetto, aspettando contemporaneamente la sua risposta
e la sua fedeltà. Dio fa nel tempo delle promesse e le realizza a con-
278
TRENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

dizione della fedeltà del Suo popolo, per questo è perseverante l’appello
ad ascoltare e temere “il Signore tuo Dio”. Dio offre al Suo popolo
Israele la “Legge” come segno dell’alleanza, una cosa incomprensibile.

2. Dio dell’Amore
a) La legge dell’amore - Già nell’Antico Testamento il comandamento
dell’amore di Dio “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, unico
è il Signore. Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con
tutta la tua anima e con le tue forze” (v.5) è completato dal secondo
comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18)
Qui però il prossimo è inteso come il proprio connazionale. Per
Gesù, invece il prossimo è qualunque uomo, anche il proprio nemico.
L’amore del prossimo si rivela in modo inseparabile dall’amore per
Dio. È come se non si potesse concepire di amare Dio in modo
staccato dall’amore per il prossimo. Il legame tra l’amore di Dio e
l’amore per il prossimo è sempre al centro della vita cristiana. La
Legge dell’amore porta alla felicità, perciò non può essere imposta
perché non si può amare se si è obbligati o costretti. A questo punto
il discorso sulla Legge non tratta tanto di regolamenti e norme giuri-
diche, legislative, ma esprime e fa comprendere all’uomo la propria
identità umana. Senza Dio non potremo trovare noi stessi perché la
nostra persona è stata creata da Dio per entrare in un’intima relazione
con Lui, il che comporta inevitabilmente un concreto stile di vita.
b) L’amore di Dio e la nostra identità - L’amore non è solo una
forma di agire, ma è la fonte, il fondamento della nostra identità;
viviamo ed esistiamo non per caso o per un capriccio o arbitrio di
Dio, ma solo perché Lui ci ha creati per l’amore e solo per l’amore.
L’uomo è venuto al mondo dal disegno eterno di amore di Dio, è
orientato verso l’amore ed è per questo che può essere l’interlocutore
di Dio e partecipe della Sua vita. Gesù in più occasioni ha svelato
il volto di Dio come Padre che ama ogni essere umano – l’unica
creatura capace di rispondere a questo amore. Il cristianesimo dunque
non si basa su teorie o divieti, ma ‘su un amore che si dona fino
alla fine’ (Gv 13,1).

279
TRENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

c) La capacità di amare - Nessuno potrebbe amare nella verità se


Gesù non ci desse anche la possibilità di avere un “cuore nuovo”
(Ez 11,19). Infatti il nostro è troppo piccolo, troppo meschino,
troppo egoista, troppo cattivo per essere capace di amare così come
il Padre vuole. E proprio questo “cuore nuovo” il Signore Gesù,
con il suo Santo Spirito, ha inserito in ognuno di noi nel Battesimo,
come seme e germoglio, che può crescere e fruttificare nell’unione
con Lui, nei sacramenti e nella preghiera. Ed è proprio nella con-
cretezza della nostra vita quotidiana che il “cuore nuovo” è chia-
mato a porre in atto l’amore nel conflitto, a volte duro, con le forze
del non-amore striscianti e a volte insistenti, incalzanti e presenti
nel nostro “uomo vecchio” il cui cuore stenta a morire.
d) Il perdono come atto dell’amore supremo - Quanto alla nostra
risposta, l’autenticità del nostro amore a Dio si può verificare nella
capacità di amare il prossimo e soprattutto di perdonare che è la
forma più alta dell’amore. L’Amore non è un semplice sentimento,
ma una auto-donazione all’altro, al prossimo, come dono di sé per
rivelare che si vive per chi ha bisogno di noi, affinché l’altra persona,
oggetto di tale amore, possa scoprire di essere amata da Dio e di
conseguenza riconoscere ed accettare questo bene supremo.

3. Il valore dell’amore nel conteso della cultura odierna - Nel brano


del Vangelo che viene proposto nella Liturgia odierna si legge di
uno scriba che pone a Gesù una domanda ‘trabocchetto’, ma Gesù
non introduce grandi novità. Egli ribadisce la necessità dell’ascolto,
la disponibilità e la docilità a ricevere la rivelazione di Dio. A questo
punto si può constatare come lo scriba fariseo riconosce il valore
delle parole di Gesù e dichiara che l’amore verso Dio e verso il
prossimo vale più di tuti gli olocausti e i sacrifici, quindi si rivela
molto vicino al pensiero di Gesù e al suo sentire religioso profondo.
Gesù apprezza la sua saggia risposta e gli dice: “Non sei lontano da
Regno di Dio”. Una affermazione di grande attualità nel contesto
storico – culturale in cui viviamo. Nella cultura moderna si evidenzia
un’attenzione particolare verso l’uomo; si promuove il suo benessere
sotto ogni forma. Questo è giusto e opportuno, ma in questa incli-
280
TRENTUNESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

nazione a incoraggiare umanesimi terreni, sociali, economici, politici,


insomma di carattere ‘orizzontale’, si nasconde un grave pericolo:
l’esclusione di Dio e la pretesa di fare a meno di Dio. Anche noi
cristiani diamo grande importanza all’esigenza dell’amore fraterno,
ma ci preoccupiamo poco che il vero amore fraterno sia misurato
all’amore di Dio. Dio non ha più il posto che Gli spetta perché ha
perso il valore rispetto al prossimo. Gesù ci dice che per amare
veramente l’uomo, per favorire il suo bene in modo vero e disinte-
ressato è necessario amare Dio con tutto il cuore perché più si ama
Dio, più si è capaci di amare l’uomo. La società che vuole fare a
meno di Dio, come purtroppo possiamo verificare in questi tempi,
nega l’uomo stesso! Di fronte alle ingiustizie, alla fame, all’oppres-
sione presenti nel mondo si vogliono dare risposte brutali; per
risolvere i problemi cosiddetti climatici si parla di una falsa sovrap-
popolazione e viene suggerita la pianificazione controllata e artificiale
delle nascite o dell’aborto legittimato; di fronte a qualsiasi difficoltà
vissuta dalle famiglie si propone come soluzione il divorzio; ai malati
inguaribili l’eutanasia; con la promozione di una corrotta(?) acco-
glienza degli immigranti si copre l’operazione di distruggere l’identità
dei popoli, il mondo dei valori non-negoziabili; sotto la pretesa del
vero impegno sociale viene esercitato il populismo di chi vuole avere
sempre più potere, ecc. In tale situazione attuale soltanto il Dio
dell’amore può difendere il volto dell’uomo e la sua inviolabile
dignità dal concepimento alla morte naturale.

281
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: 1Re 17,10-16


Salmo 145
Seconda lettura: Eb 9,24-28
Vangelo: Mc 12,38-44

La Liturgia della Parola di oggi ha come centro due vedove: l’ospi-


talità, l’assistenza, la carità dell’una viene ricompensata dal miracolo
del profeta Elia (prima lettura) e l’umile generosità dell’altra merita
da Gesù un grandissimo elogio (Vangelo). Le due vedove hanno in
comune la povertà e l’altruismo; tutte e due sono capaci di dare
tutto, donano sé stesse non preoccupandosi di niente perché si
affidano alla Provvidenza di Dio; il loro è un vero gesto d’amore.

1. La vedova del Vangelo - Il Vangelo di oggi lo si potrebbe dividere


in due parti: la prima contiene un insegnamento di Gesù e la seconda
racconta della vedova, colei che con il suo sconvolgente atteggiamen-
to aveva perfino attirato l’attenzione di Gesù. Gesù è nel Tempio
di Gerusalemme ed insegna a guardarsi dai modi di fare degli scribi
che vengono definitivi ironicamente esibizionisti, vanitosi, superfi-
ciali, vuoti e ipocriti che ostentano boriosamente se stessi ricercando
riconoscimenti e primi posti, sfruttando anche gli altri a proprio
beneficio. Gesù li aveva smascherati con il Suo sguardo attento e
penetrante che sa vedere quello che altri non vedono. In questo
contesto Gesù si siede di fronte al tesoro del Tempio, nel luogo dove
i fedeli gettavano le loro offerte e guarda la gente che va a gettare la
propria offerta: “sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla
gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte”. Questo
atteggiamento di Gesù che si mette proprio nel posto per osservare,
per guardare appare come una cosa un po’ strana. Umanamente
282
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

non è una cosa tanto bella mettersi a guardare le persone e poi


valutare quanto avevano lasciato e quanto aveva offerto ognuna di
loro; comunque l’intenzione di Gesù è completamente diversa.

2. Il significato del gesto della vedova


a) Non si condanna la ricchezza materiale di per sé - Ma come
spiegare e dare significato all’atteggiamento di questa vedova e quale
valore aveva percepito ed evidenziato nel suo gesto Gesù stesso? La
chiave di lettura, il senso, il significato di questo gesto da parte della
vedova povera, si inserisce, si capisce e si colloca, in un quadro più
ampio, in una certa logica, in un certo modo di pensare, di valutare;
in quella logica definita del ‘dare e ricevere’. La prima cosa da chiarire
è che Gesù non vuole condannare tutti gli altri: i ricchi, chi vive
nella ricchezza, nel benessere, nella prosperità perché questo, di per
sé non è cattivo, ma l’importante è come l’uomo si comporta e vive
nelle condizioni di prosperità. Quindi non si vogliono giudicare le
persone ricche, benestanti come se vivessero contro il Vangelo.
L’elogio che fa Gesù di questa donna povera, si spiega dal Suo criterio
di considerare superiore il misero obolo della vedova a quello più
consistente dei ricchi. La vedova compie un gesto che a prima vista
ci può sembrare insensato perché mette a rischio il presente e il suo
futuro. La vedova anticipa il dono totale di Gesù sulla croce e questo
si collega alla seconda lettura. Come la vedova ha fatto un sacrificio
di sé anche Gesù sacrifica la Sua vita.
b) Gratitudine - Quello che emerge e che esprime l’atteggiamento
di quella donna è prima di tutto la gratitudine; infatti lei è contenta,
è soddisfatta e con tutta la sua gioia interiore esprime la sua ricono-
scenza in modo tale che dà quel poco, dà quel niente che ha, che
per lei, umanamente, significa tanto. Per questo sente un grande,
profondo ringraziamento nei confronti del Signore e Gli esprime
questo immenso affetto offrendo tutto ciò che ha. Se viene qualche
persona qui in chiesa dove ci conosciamo e sappiamo che qualcuno
si trova della povertà, che ha poco da offrire e fa un gesto generoso,
simile a quella donna, ci sembrerebbe una cosa sconcertante, clamo-
283
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

rosa che potrebbe suscitare una forte impressione. Quante volte noi,
avendo molto di più, non apprezziamo quello che abbiamo, senza
pensare che lo abbiamo ricevuto senza nostro merito; invece lei si
era resa conto, che quello che aveva lo possedeva perché l’aveva
ricevuto come dono. Il suo comportamento ci insegna ad assumere
l’atteggiamento di essere grati sempre di ciò che accade nella nostra
vita, di ciò che avviene, anche di quelle grazie che umanamente
possono essere difficili perché vivere nella povertà, effettivamente
non è un motivo per dire: ‘Grazie Signore di farmi povera o di farmi
vivere nella miseria’, ma il Signore ci invita alla logica di assumere
l’atteggiamento di bontà e gratitudine.
c) Generosità - Questa donna si rendeva conto, aveva la consapevo-
lezza, di avere ricevuto, di essere (donata) alimentata e fornita dalla
Provvidenza divina. Da qui nasce in lei il forte, prepotente desiderio
di fare l’offerta nel tempio e di dire grazie a Dio lasciando l’ultimo
spicciolo, le due monetine che fanno un soldo; così comprendiamo
meglio la frase del Vangelo: “Gratuitamente avete ricevuto e gratui-
tamente date” (Mt 10,8). Tutto quello che ci è stato dato ed anche
tutto quello che abbiamo acquistato, conquistato, lo abbiamo potuto
avere grazie alle capacità, abilità, facoltà, di cui il Signore ci aveva
dotato e grazie anche a certe condizioni di vita: il dono della salute
per cui si sono potuti raggiungere certi obiettivi nella vita; per questo
cerchiamo anche di dare gratuitamente, senza aspettare in cambio
di ricevere dagli altri.
C’è anche un’altra frase della Scrittura che dice: “C’è più gioia
nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Quanto siamo contenti, quando
possiamo accontentare le persone che in diverse maniere sono vera-
mente bisognose, non soltanto sul piano materiale, ma bisognose
di affetto, di accoglienza, di ascolto, di sensibilità, di apprezzamento!
A volte, invece possiamo distruggere, far male, far soffrire le persone
anche con le parole, con le maldicenze. Perciò se crediamo che c’è
più gioia nel dare, possiamo offrire una parola buona, la presenza,
il consiglio, il conforto, l’ascolto; dare qualsiasi cosa, quella che a
loro serve, che è necessaria all’altra persona, come noi l’abbiamo
ricevuta, infatti ricevere significa anche avere umiltà.

284
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

d) Umiltà - Nella nostra vita può capitare di essere protagonisti,


grandi donatori, di appartenere o essere associati a varie fondazioni
e di fare un’opera caritatevole, a favore dei bambini in Africa, di
intervenire in varie difficoltà o malattie e fare i nostri gesti in forma
evidente, clamorosa. Se facciamo questi gesti per diffondere la notizia
a livello mondiale, in modo mediatico, in modo che tutti sappiano
(di) quanto siamo impegnati non è come fare un’opera di beneficenza
in maniera generosa e gratuita ma per vanagloria. Piuttosto sarebbe
molto meglio fare una cosa buona, bella ma in silenzio. Quindi
sarebbe giusto avere l’umiltà di fare il bene, ma anche avere l’umiltà
di riceverlo. L’incontro con Dio non si realizza tramite riti esterni,
fastosi ma attraverso gesti semplici talvolta impercettibili nei quali
ogni persona abbandona le sicurezze per gettarsi nelle mani di Dio
senza calcoli o riserve. Se ci trovassimo in situazioni di difficoltà
dovremmo avere l’umiltà ed il coraggio di farci aiutare, di ricevere
l’aiuto, di non apparire come protagonisti, autosufficienti, padroni,
forti, che non hanno bisogno di niente e di nessuno; anche questa
‘tentazione’ ci minaccia. Ci vogliamo liberare da questa tentazione e
dobbiamo lasciarci aiutare quando ne abbiamo bisogno, soprattutto
dalle persone che esplicitamente, umilmente, con la loro benevolenza
ci vogliono aiutare, non soltanto sul piano materiale, ma anche mo-
rale, ad esempio quando stiamo male moralmente, psicologicamente
spiritualmente e sotto ogni aspetto.
e) Fiducia - Ancora un’altra caratteristica che distingue questa donna,
è la sua fiducia, soprattutto alla luce della prima lettura che è tratta
dal primo libro dei Re, dove si parla di una donna di Sarèpta che
con il suo ‘niente’ ha preparato da mangiare al profeta Elia, e con
il suo gesto di dare, di offrire senza riserve né calcoli si è trasformata
la sua condizione, è cambiata la sua vita, poiché non avrebbe sofferto
più di nessun tipo di mancanza. Dare quindi la fiducia, senza cal-
colare, senza misurare se conviene o non conviene, perché se alcuni
hanno bisogno di noi e del nostro aiuto glielo diamo, perché abbia-
mo fiducia che ci sarà Qualcuno con la maiuscola che ci aiuterà, ci
sosterrà, che non ci abbandonerà mai, non ci lascerà mai da soli. A
volte ci lasciamo trascinare dalla seduzione di porre la nostra fiducia
285
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

su quanto abbiamo sul conto corrente in banca o su altre persone


con cui stiamo creando i gruppi di interesse in una logica di mercato,
di scambio reciproco, invece di fidarci del Signore. Quindi non
cerchiamo la fiducia, il sostegno, l’appoggio da parte di lobbies o
di gruppi di interessi, ma nella convinzione che avendo Dio ho
tutto come diceva san Francesco d’Assisi: “Mio Dio e mio tutto”.
Questo ci aiuta a guardare la nostra vita in un’altra prospettiva: se
poniamo Dio al primo posto, qualsiasi tipo di mancanza non prende
il sopravvento su di noi, non ci scoraggia, non ci mette in un atteg-
giamento di rassegnazione, di disperazione, ma sentiamo, mantenia-
mo e conserviamo sempre dentro di noi, la virtù della speranza, di
una fiducia non banale, né ingenua, ma salda, ferma, solida e forte
perché deposta in Dio.
f) La libertà - Un altro elemento che contraddistingue la vedova
povera è la libertà. Per questo nel canto al Vangelo abbiamo recitato
la frase: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.
Il regno dei cieli è il regno della libertà e la persona povera in spirito
è una persona libera. Quella donna era libera da qualsiasi dipendenza,
soprattutto libera di possedere, di consumare, mentre la società
odierna è contraddistinta dal consumismo. Oggi, che è Domenica,
nei supermercati, che sono strapieni ci sono ‘altre chiese’, ‘altre
basiliche’. Lì ci sono grandi altari dove si fa il culto del dio del
consumo, delle spese, anche se non sono necessarie, perché il con-
sumismo ha preso il posto di Dio. La libertà e l’umiltà della vedova
ci insegnano che in questo consiste essere poveri in spirito: fiduciosi
e liberi. Salviamo, salvaguardiamo, conserviamo la libertà interiore
in noi perché questo ci fa capire che nell’essere umano, nella nostra
esistenza, ‘essere’ è più importante di ‘avere’. Dio non ci guarda per
quello che abbiamo, per quello che abbiamo conquistato, o raggiun-
to, ma per quello che siamo, per come siamo. Questo è più impor-
tante, perché è questo che determina, che decide il valore, la dignità,
la bellezza del nostro essere discepoli di Gesù.
Speriamo che anche nei nostri confronti, Gesù possa dire un
giorno le stesse parole che aveva detto di quella donna: “In verità,
io vi dico che questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più
286
TRENTADUESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

di tutti gli altri”. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo.
Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva,
tutto quanto aveva per vivere. Questo ci auguriamo e chiediamo al
Signore che ci aiuti a migliorare il nostro atteggiamento di autentica
generosità verso il prossimo e gratitudine, umiltà, e fiducia nei Suoi
confronti.

287
TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO
ORDINARIO

Prima lettura: Dn 12,1-3


Salmo 15
Seconda lettura: Eb 10,11-14.18
Vangelo: Mc 13,24-32

1. Il compimento ultimo e definitivo di tutta la creazione - Come


ogni anno, l’ultima parte del mese di novembre è dedicata ai temi
dell’escatologia, cioè ai temi riguardanti la fine del mondo, la fine
dei tempi, la fine dell’universo, la fine della nostra vita e della nostra
storia. Dalla Rivelazione divina deriva chiaro il messaggio che tutta
la creazione tende verso il suo traguardo che avrà la sua attuazione
definitiva alla fine dei tempi con la seconda ed ultima venuta del
Figlio di Dio. Di solito abbiamo queste immagini un po’ comuni
sul concetto della fine del mondo caratterizzati dalle visioni apoca-
littiche, catastrofiche, piene di segni naturali, ma allo stesso tempo
straordinari, quasi come se fossero presi da un film di fantascienza.
Invece, la fine del mondo, secondo il messaggio del Vangelo, non
ha niente a che fare con queste nostre proiezioni umane o cinema-
tografiche di fantasia.

2. L’idea della fine dei tempi alla luce del Libro del profeta Daniele
L’Antico Testamento non ci offre una chiara ed univoca concezione
della fine dei tempi, né della risurrezione né della vita eterna. Il
brano del Libro del profeta Daniele è uno dei pochi testi che ne
esprime una vaga idea. L’autore di questo libro esprime un’idea della
vita ultraterrena, di una vita nell’aldilà, verso la quale si arriva attra-
verso la risurrezione. Infatti, scrive l’autore, che tutti saranno risorti,
“quelli che dormono nella regione della polvere, si risveglieranno…”.
288
TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Non viene utilizzato il concetto della ‘risurrezione’, ma quello di


‘risvegliarsi’: “gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per
l’infamia eterna”. Comunque, da questo testo si possono dedurre
tre elementi riguardo alla – seppur generica – idea della risurrezione
e della vita eterna. Essa abbracciava ‘tutti’, anche se nel testo è scritto
‘molti’, ma teologicamente nel linguaggio biblico il termine molti
spesso è sinonimo di “tutti”. In seguito si parla della ‘giustizia’, gli
uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna eterna, quindi la fine
dei tempi sarà segnata anche dal giudizio come del resto aveva detto
Gesù nella parte conclusiva del Vangelo di Matteo quando parla
della parabola della sua venuta, alla fine dei tempi, della divisione
tra le capre e le pecore: gli uni vanno alla condanna eterna, gli altri
alla risurrezione dei vivi. La fine dei tempi è dunque segnata dal
risvegliarsi di ‘tutti’ e dal ‘giudizio’. Infine la terza caratteristica
dell’idea della risurrezione nel Libro del profeta Daniele è costituita
dall’‘eternità’. L’eternità non vuol dire il tempo senza fine. Eternità
vuol dire ‘oltre’ il tempo, al di là del tempo, una nuova forma di
vivere non più limitata dal tempo e dallo spazio.

3. Le ‘cose ultime’ alla luce delle parole di Gesù - Per quanto riguarda
il Vangelo e le parole di Gesù, quando Lui parla ed esprime il mes-
saggio riguardante la fine dell’universo, dei tempi, del mondo, si
deve fare attenzione al fatto che la vita, la storia, il mondo, non
hanno semplicemente un termine, una fine, una conclusione, una
scomparsa, ma tutta la storia dell’universo avrà compimento. Ed a
questo punto ricordiamo nel Vangelo di Giovanni, le ultime parole
di Gesù sulla croce. Gesù non ha detto ‘Tutto è finito, tutto è ter-
minato, tutto è scomparso, tutto è sparito’, ma ha detto “Tutto è
compiuto!”. Con queste parole termina e si compie la sua missione,
la sua vita terrena e si apre ad una realtà nuova, gloriosa, della
Risurrezione, del ritorno al Padre. Così anche nel nostro caso, il
compimento della nostra vita è portarla alla piena realizzazione.
Non è la scomparsa, il termine, la fine brusca, troncata, ma il com-
pimento, la realizzazione definitiva della nostra vita. La questione
del compimento di tutto ciò che esiste ci introduce al tema dei
289
TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

cosiddetti ‘Novissimi’, che mostra, sottolinea l’assoluta ‘novità’ della


risurrezione, la ‘novità’ di una vita completa ed eterna.
Dall’altra parte si potrebbe comprendere il messaggio di Gesù,
nel senso che la fine del mondo potrebbe essere segnata dal termine,
dalla fine, dalla scomparsa che si riferisce alla fede. Infatti Gesù dice:
“Il Figlio di Dio, quando tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?”.
Il rischio, si rivolge alla nostra condizione di credere. Questo è il
rischio maggiore che possiamo correre: essere responsabili della
scomparsa della fede in questa terra. Le espressioni, i sintomi, i
segnali di questo termine della ‘fine della fede’ nella vita individuale
possono essere: la negligenza, l’accidia, la svogliatezza, la pigrizia
spirituale, le lamentele continue, incessanti, di sentirsi stufi e stanchi
di credere. Il Vangelo ci dice: “Dalla pianta del fico imparate la
parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le
foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi quando vedrete
accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte”. Allora
se sappiamo leggere la natura, quanto più, attraverso i sintomi
negativi che si verificano nella nostra vita personale non percepiamo
in questi segni il processo del declino della fede?

4. Il senso del Vangelo nel contesto attuale - La scomparsa della fede


sul piano pubblico e sociale è il male peggiore e nel contesto degli
eventi recenti, particolarmente quelli che accadono nell’Europa Oc-
cidentale svuotata dalla fede, si presenta come effetto di un processo
iniziato qualche secolo fa, quando l’umanità ha deciso di svuotarsi,
di sgombrarsi, di staccarsi da Dio, di rinunciare ai princìpi, ai valori,
alla verità e costruire la società, la civiltà senza Dio. Così la nostra
società occidentale oggi è vulnerabile, è fragile di fronte a quei fattori,
a quei fenomeni, a quelle forze sia interne (politica interna dei paesi
occidentali) che esterne (migrazione, estremismo); questi sono i feno-
meni che privano il Vecchio Continente, stanco di credere, della
propria identità. Senza essere pessimisti, si può osare di affermare,
che la civiltà europea sta vivendo il lento processo di agonia.
Il vero futuro e il vero bene dell’umanità non possono essere
costruiti solamente sullo sviluppo tecnico, tecnologico, scientifico,
290
TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

economico. Anche se dal punto di vista militare si possono avere


tutte le risorse e le forze per difendersi di fronte alle numerose
minacce e sfide, eppure la condizione interiore della società appare
estremamente debole, priva dei princìpi, vuota, liquida, superficiale
e senza valori permanenti. La civiltà d’oggi preferisce che tutto sia
negoziabile, che ogni verità e ogni valore fondamentale siano sotto-
posti al giudizio personale e individuale: decide il soggetto su quello
che è buono o quello che è falso o peccaminoso. Lo stesso soggetto
diventa l’istanza ultima e definitiva per decidere sulla verità, sul
bene, sul bello. In questo senso si potrebbe parlare della fine della
fede.

5. Di fronte al futuro: il primato della speranza che non delude


Ma tornando alla comprensione cristiana dell’eternità, essa ci per-
mette di guardare il futuro con la speranza poggiata sulla Parola di
Dio che rivela il nostro destino come figli di Dio. Questo sguardo
verso il futuro definitivo nell’aldilà può provocare e comportare
almeno tre effetti positivi da vivere qui ed ora. Prima di tutto la
coscienza che la nostra vita sarà comunque compiuta, aperta alla
realtà nuova, alla vita nuova, alla vita eterna; ci fa vedere il presente,
la nostra vita presente, in un’altra prospettiva. Ci fa vedere il pre-
sente, quello di oggi, non come una vita grigia, mediocre, ma come
una vita piena di senso di significato, di valore. Tutto ha senso, tutto
ha significato agli occhi di Dio: tutto quello che pensiamo, che
facciamo, che realizziamo, ciò che diciamo.
Inoltre, come secondo effetto, la coscienza del compimento alla
fine del mondo, ci fa pensare anche, che il nostro fare il bene, non
lo facciamo per meritare il premio eterno nella vita dopo la morte;
non si fa un commercio di fare il bene per meritare il premio della
vita eterna, piuttosto è il contrario: le nostre opere buone, compiute,
fatte, e realizzate oggi, sono lo specchio della nostra identità finale,
come figli di Dio. Se, un giorno, dobbiamo diventare figli di Dio
in Gesù, davanti al Padre, varcando la soglia della morte, questa
nostra identità di figli di Dio, ci dice: ‘Comportatevi da figli di
Dio!’, ‘Quel bene che fate e che volete realizzare nella vostra vita
291
TRENTATREESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

fatelo con questa convinzione, con questa coscienza, con questa


consapevolezza di non essere figli delle tenebre, ma figli di Dio, figli
della luce’.
Il terzo effetto è la coscienza del compimento della vita che ci
fa considerare e comprendere la vita nell’ottica che tutto nella nostra
vita è importante, ogni parola, ogni pensiero, ogni gesto, ogni opera,
ogni atteggiamento, però, tutto quello che abbiamo, tutto quello di
cui disponiamo, non ha un valore assoluto; per cui non si possono
divinizzare le cose, gli oggetti, che sono gli effetti, i risultati della
nostra produzione, delle nostre mani, perché anche se possono essere
utili e buoni, lo sono soltanto nelle condizioni di questa vita qui,
ora, dobbiamo prenderne le distanze e non possono essere né asso-
lutizzati né divinizzati. Altrimenti ci comporteremmo come il po-
polo di Israele quando Mosè è salito sul monte Sinai e il popolo è
rimasto nella valle, si sono creati il vitello d’oro, che era il prodotto
delle loro mani e l’hanno divinizzato.
Per concludere: la fine del mondo è da intendere come compi-
mento con tanti effetti, con tanti risultati come realizzazione della
nostra vita che ci orienta verso i cosiddetti ‘novissimi’, verso una
vita nuova, perfetta, piena di felicità, vissuta in compagnia, nella
presenza, di fronte e vedendo faccia a faccia Dio Padre.

292
FESTE E SOLENNITÀ
NEL TEMPO ORDINARIO

SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE,


LO SPOSO DI MARIA

Prima lettura: 2Sam 7,4-5.12-14.16


Salmo 88
Seconda lettura: Rm 4,13-16-18.22
Vangelo: Mt 1,16.18-21.24

1. San Giuseppe – sposo di Maria e padre di Gesù - La festa di oggi


ci invita alla riflessione su san Giuseppe, padre putativo di Gesù.
Egli ha congiunto alla discendenza di Davide Gesù che ha potuto
rivendicare questo titolo messianico profetizzato dalla Scrittura,
così come ci hanno trasmesso gli evangelisti Matteo e Luca con la
doppia(?) della genealogia. A prima vista sembra che ci siano poche
informazioni per la riflessione; in fondo, oltre il nome conosciamo
293
SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

pochi episodi dell’infanzia di Gesù. Nel Vangelo viene caratterizzato


per il silenzio e l’ascolto delle voci angeliche che gli comunicano
nel sonno. Egli riceve da Dio le comunicazioni nel sonno attraverso
dei sogni; ma non sono dei sogni che esprimono il proprio desiderio
o la propria attesa, le proprie illusioni, ma è Dio che gli parla, per
fargli capire cosa sta avvenendo nella sua vita, a quale richiesta è
stato chiamato, a quale collaborazione deve corrispondere: “Giuseppe,
figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa,
perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Questo
tipo di sogno avverrà tre volte nella sua vita: nell’accogliere Maria
come sua sposa, nel custodire la Santa Famiglia portandola in Egitto
e riportando Gesù a Nazareth. In questi sogni in cui Dio opera nella
vita di Giuseppe gli consegna Maria e gli affida il compito di curare,
vigilare e proteggere l’infanzia di Gesù. È dunque un patriarca che,
al tempo stesso, diventa il servo fedele del Vangelo, quel servo al
quale vengono affidate le attitudini come doni per custodirli e poi
restituirli. Ancor prima che questo si compia nella predicazione del
Signore Gesù, lui si vede già coinvolto in tutto ciò. Ha ricevuto un
dono, ed è veramente un dono ricevuto. Infatti prendendo con sé
Maria, sua sposa, che già sta attendendo il Signore Gesù, anche se
non concepisce riceve il grande dono della paternità. Infatti quale
uomo sarebbe potuto essere più vicino al piccolo Gesù, se non quello
che Dio gli ha messo accanto come padre?

2. San Giuseppe – obbediente e silenzioso custode di fede - Un altro


carattere che lo identifica è l’obbedienza generosa che il Signore gli
chiede e l’umile lavoro di artigiano che svolge nella sua modesta
bottega, tanto che anche Gesù fu contraddistinto come “figlio del
falegname” (Mt 13,55). Quindi sembrerebbe una persona senza
particolare grandezza. Eppure la Chiesa ha riconosciuto e attribuito
a san Giuseppe molti appellativi: protettore dell’infanzia, degli sposi,
della famiglia, dei lavoratori, delle vergini, dei profughi e dei mo-
renti… Giuseppe apparirà sempre nel silenzio, ma non nell’indiffe-
renza o dimenticanza, nel nascondimento, ma non nell’assenza,
perché sappiamo dal Vangelo che la sua presenza ha contraddistinto
294
SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

Gesù: “Gesù cresceva in sapienza, grazia, età davanti a Dio e agli


uomini” (Lc 2,52). Per questo vivrà nel silenzio, secondo lo spirito
espresso da Giovanni Battista: “Lui deve crescere e io diminuire”
(Gv 3,30). Ha compiuto l’opera del patriarca in quanto ha saputo
ricevere, custodire, restituire il dono ricevuto e diventa per noi segno
del cammino della fede. In questo Giuseppe deve diventare per noi
un segno profetico. Anche noi, infatti, siamo chiamati ad essere
custodi della fede ricevuta, della parola di Dio donata, custodi della
nostra e della vita altrui, custodi della pace e della dignità della
persona umana.

3. San Giuseppe – personificazione e modello delle virtù fondamentali


Il Vangelo definisce questo uomo così modesto e timido come
“giusto” (Mt 1,19) che è la lode più ricca di virtù e di valore conferita
ad un uomo la cui situazione sociale ed economica era delle più
semplici ed umili. Un uomo povero, onesto e laborioso che però sa
coltivare una vita interiore così intensa da mettersi prontamente a
disposizione del disegno di Dio, sa prendere su di sé la responsabilità
verso la famiglia e rinuncia al naturale amore coniugale che la
rappresenta e la sostiene, offrendo così l’intera esistenza alla inim-
maginabile necessità della sbalorditiva nascita del Messia che chia-
merà Gesù e che riconoscerà concepito dallo Spirito Santo. Un
uomo che ha affrontato i rischi, gli affanni e le responsabilità di
quella particolare Sacra Famiglia; a lui è spettato il ruolo del lavoro,
del servizio, della vita in semioscurità, ma lo possiamo ammirare e
considerare come felice ed appagato. In san Giuseppe possiamo
notare che i valori e le virtù della vita hanno diversa rilevanza da
ciò per cui siamo normalmente stimati. Ci rendiamo conto che in
questo caso quello che è piccolo diventa grande; questo è quanto si
riscontra nelle parole di Gesù: “Io Ti rendo lode, o Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose [le cose del
regno messianico] ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai
piccoli” (Mt 11,25). San Giuseppe è l’esempio degli umili che viene
elevato dal cristianesimo a grandi testimonianze e ci dà la prova che
per essere graditi a Dio non occorrono grandi cose, ma qualità
295
SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

normali, umane, quotidiane, genuine, vere ed effettive. Egli ha tanto


da dire alla nostra vita, nella nostra storia, nel nostro cammino. La
povertà e la laboriosità nella quale Egli è vissuto ci fanno pensare
alla nostra vita percorsa sempre da varie preoccupazioni per conqui-
stare la ricchezza economica, immersi come siamo in una società
del progresso tecnico, tecnologico, in una società del benessere e del
consumo. Da san Giuseppe che è stato impegnato a provvedere al
mantenimento della Sacra Famiglia, a guadagnare qualche cosa per
vivere, ci viene l’insegnamento che i beni economici anche se degni
del nostro interesse cristiano, non vengano considerati fini a se
stessi, ma che siano mezzi tramite i quali possiamo avere un lavoro
dignitoso e onesto e utilizzati anche per il bene comune.

4. L’importanza della preghiera per l’intercessione di san Giuseppe


San Giuseppe sia per noi un esempio da imitare, e come protettore
della Chiesa lo invochiamo con il desiderio di consolidare la sua
secolare esistenza di virtù evangeliche affinché non vacilli e sia
protetta dalle insidie del maligno che sempre è in agguato per de-
molirla. Chiediamo a san Giuseppe che continui a custodirla come
ha custodito l’infanzia di nostro Signore Gesù Cristo e ha accom-
pagnato fedelmente la sua sposa Maria. Come implorarlo per le
necessità? La Chiesa invita a pregarlo, in particolare, praticando la
devozione del Sacro Manto di San Giuseppe, risalente al 22 agosto
1882, data in cui l’Arcivescovo di Lanciano, Monsignor Francesco
Maria Petrarca, la approvò: orazioni da recitarsi per 30 giorni con-
secutivi in ricordo dei 30 anni del casto sposo di Maria Santissima
a fianco e a tutela di Gesù. Un Manto che molto potrebbe ottenere
nell’anno del centenario di Nostra Signora di Fatima, perché, proprio
a Fatima, anche san Giuseppe apparve. Era il 13 ottobre 1917, ultima
delle apparizioni mariane alla Cova d’Iria e pioveva a dirotto. Rac-
conterà suor Lucia: “Arrivati (…) presso il leccio, spinta da un istinto
interiore, domandai alla gente che chiudesse gli ombrelli, per recitare
la Corona. Poco dopo, vedemmo il riflesso di luce e subito dopo la
Madonna sopra il leccio. «Cosa vuole da me?». «Voglio dirti che
facciano qui una cappella in Mio onore; che sono la Madonna del
296
SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

Rosario; che continuino sempre a dire la Corona tutti i giorni»”. A


questo punto Lucia chiese se poteva guarire malati e convertire
peccatori, la Madonna disse che non tutti avrebbero ricevuto la
grazia: «Devono emendarsi; chiedano perdono dei loro peccati» e,
con un aspetto più triste, non «offendano più Dio Nostro Signore,
che è già tanto offeso». In seguito la Madonna aprì le mani, che
emanavano luce, e le fece riflettere e proiettare nel sole. Lucia allora
gridò a tutti di guardare l’astro in cielo. Mentre la Madonna si
elevava congedandosi, il riflesso della sua luce continuò a proiettarsi
nel sole. E accanto al sole apparvero ai veggenti: san Giuseppe, il
Bambino Gesù, la Madonna, vestita di bianco, con il manto azzurro.
San Giuseppe e il Bambino benedicevano il mondo: la Sacra Famiglia
si presentò nel suo splendore celeste per assicurare la protezione in
terra”. (da: “Quarta Memoria di Lucia dos Santos”, in A.M. Martins,
Documentos. Fátima, L.E. Rua Nossa Senhora de Fátima, Porto
1976, p. 349-351).

297
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

Prima lettura: Is 7,10-14


Salmo 39
Seconda lettura: Eb 10,4-10
Vangelo: Lc 1,26-38

1. L’orizzonte dell’Incarnazione del Figlio di Dio - Oggi celebriamo


il grande mistero che si è compiuto ben duemila anni fa: l’Annun-
ciazione del Signore, una delle più importanti feste mariane che la
Chiesa ha introdotto nel calendario Liturgico. La narrazione dell’epi-
sodio si trova nel Vangelo di Luca in cui l’Arcangelo Gabriele co-
munica a Maria il concepimento del Figlio di Dio. Questo
avvenimento è stato posto dall’Evangelista nello spazio e nel tempo.
“Nel sesto mese l’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città
della Galilea chiamata Nazareth, a una vergine promessa sposa di
un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si
chiamava Maria” (Lc 1,26-27). Per capire meglio quello che avvenne
a Nazareth è necessario prestare attenzione alla seconda lettura.
Questo testo, tratto dalla Lettera agli Ebrei ci consente di ascoltare
298
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

il dialogo tra il Padre e il Figlio sul disegno di Dio da tutta l’eternità.


“Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai
preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà»”
(10,5-7). Questa Lettera ci stimola ad obbedire alla volontà di Dio
in piena libertà. Il Verbo Eterno viene in mezzo a noi per donare
il sacrificio che è superiore a tutti gli altri sacrifici offerti nella
trascorsa Alleanza. Il Suo è il sacrificio assoluto ed immortale, scon-
finato, che riscatta il mondo dal peccato e dalla morte, un sacrificio
che sostituisce le tante vittime sacrificali del Vecchio Testamento.
Il progetto divino è svelato a poco a poco nell’Antico Testamento,
in modo speciale nelle parole del profeta Isaia che si leggono nella
prima lettura: “Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la
vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”
(7,14). Emmanuele, Dio con noi. Questa è la profezia, l’annuncio,
l’evento irripetibile che sarebbe accaduto, che si sarebbe compiuto
a Nazareth e che indica il tempo, fissato dall’eternità, in cui Dio ha
ritenuto di mandare il Figlio in terra per redimere gli uomini: questo
‘tempo’ con l’incarnazione e la morte del Cristo viene ad essere il
punto centrale della storia umana. Maria era consapevole di unirsi
ad una storia profetica, che sarebbe stata completata da suo Figlio,
per il quale Dio stesso aveva scelto un nome, quello di Gesù, che
significa “Colui che salva, il Salvatore”. Questo è l’avvenimento che
celebriamo oggi con tutta la gioia ed intensa felicità.

2. ‘Amen’ di Maria - Il saluto e l’annuncio dell’arcangelo – “Ave


Maria piena di grazia il Signore è con te” – hanno dato inizio alla
preghiera dell’Ave Maria. A Maria fu rivolto l’annuncio ed Ella lo
accolse dal profondo del cuore con il suo “Eccomi… avvenga di me
secondo la tua parola” (Lc 1,38). La grazia è l’amore di Dio, quindi
Maria è l’amata da Dio, un titolo riservato solo a Lei. Maria, l’amata
dal Signore, nel ricevere il dono di Dio, che accoglie con tutta la
sua persona, si rende disponibile a questo amore con il suo “Eccomi…
avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Questo stupendo
brano evangelico del racconto dell’annuncio a Maria di diventare
299
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

Madre del Salvatore si trova, a partire dal II secolo, nel linguaggio


delle formule del Credo e nell’arte cristiana. Dio è entrato nel mondo
con una proposta, senza imporsi. Il “sì” di Maria è la decisiva con-
cretizzazione dell’Alleanza. In Lei si realizza la promessa dell’antico
Israele che siamo invitati a rivivere nella fede. L’incarnazione è il
mistero della cooperazione consapevole di Maria alla salvezza avuta
come dono. Ci viene svelato che Dio ha voluto salvarci mediante
la creatura: “…e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo
a noi…e noi vedemmo la sua gloria” (Gv 1,14). Il Verbo Eterno
cominciò a vivere come essere umano. I due “eccomi” di Maria e
di Gesù riecheggiano tra di loro formando l’unico Amen. Già in
questa totale offerta di Gesù al Padre per noi, si può capire il coin-
volgimento pieno di Maria, che al termine del colloquio con l’angelo
dà il suo “sì” con una parola molto chiara ed efficace. Non dice
soltanto farò quanto hai detto, mi impegnerò a svolgere questo
servizio, ma esprime una consacrazione: “sia fatto di me – della mia
persona – quello che hai detto”.

3. Maria e la Chiesa - La devozione mariana è stata sempre presente


nella vita della Chiesa, ma un esempio recente di forte spessore
l’abbiamo potuto scorgere nello stemma pontificale di san Giovanni
Paolo II: “Totus tuus”. Nella sua preparazione spirituale e nel suo
tenace ed energico ministero ha reso palese davanti a tutti la presenza
di Maria come Madre e Regina della Chiesa. Una presenza materna
che lui aveva percepita nell’attentato del 13 maggio 1981 in Piazza
San Pietro. Per ricordare quel fatto drammatico egli volle che un
mosaico riproducente la Vergine Maria si ergesse dall’alto del Palazzo
Apostolico e che seguisse i momenti fondamentali, la storia e il
contenuto del suo lungo pontificato. L’immagine dell’Annunciazione
ci fa cogliere con evidenza che tutto nella Chiesa è partito da lì
anche quello di Pietro è partito dal “sì” di Maria alla volontà di
Dio. È una relazione affettuosa ed un significato concreto. Tra la
Chiesa e Maria esiste un rapporto conforme, che ha la stessa natura.
Il Concilio Vaticano II ha fortemente e felicemente scelto di inclu-
dere l’approfondimento sulla Beata Vergine Maria (Lumen gentium),
300
ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

un documento da cui emerge la Sua figura essenziale per la vita della


Chiesa, per la formazione intellettuale e spirituale, come Madre e
discepola di Cristo.
L’annuncio in Maria è un ascolto che accoglie e genera. Così realizza
in se stessa il mistero della fede, accettando Dio com’è. La povertà
totale – “sono la serva del Signore” – di chi rinuncia all’agire proprio
per lasciare il posto a Dio è in grado di contenere l’Assoluto. È
figura di ogni uomo e di tutta la Chiesa che, nella fede, concepisce
e genera l’Incomprensibile: Dio stesso.

301
SANTISSIMA TRINITÀ

Prima lettura: Dt 4,32-34.39-40


Salmo 32
Seconda lettura: Rm 8,14-17
Vangelo: Mt 28,16,20

1. Dio-Trinità come Mistero della fede - Oggi la Chiesa ci propone


di vivere il mistero della Santissima Trinità che proclamiamo
come mistero della vita perché lo è per eccellenza. Infatti, si tratta
di un concetto di Dio che si è rivelato e si è fatto conoscere come
tale. Dio è il protagonista della storia della salvezza, ma non è
un Dio astratto e solitario. Egli non è un Essere che si sente
soddisfatto della propria autosufficienza, ma vuole aprirsi e
relazionarsi. Se Dio non ci avesse comunicato la Sua intimità,
noi non saremmo stati mai capaci e non saremmo capaci neanche
in futuro, di scoprire questo mistero su Dio in quanto Trinità.
302
SANTISSIMA TRINITÀ

Il termine “mistero” non vuol significare un segreto, una cosa


nascosta, enigmatica, esoterica, una realtà sconosciuta da decifrare,
decodificare, che si potrà scoprire con il passare del tempo. Dio
non è stato così geloso da voler nascondere qualcosa di Sé o da
non manifestarsi completamente. Il Mistero, in riferimento a
Dio, alla Santissima Trinità significa che abbiamo a che fare con
una realtà, con Qualcuno, con le Relazioni tra le Persone divine
che rappresentano la suprema, la più alta, anzi l’infinita, assoluta
bellezza che provoca nel cuore umano un fascino, un’attrazione
che nello stesso tempo è, in quanto mistero, inesauribile, imper-
scrutabile (Rm 11,33), non è afferrabile, non è raggiungibile e
supera ogni nostra immaginazione. Il mistero della Santissima
Trinità va oltre le nostre capacità della ragione. Infatti ci chiedia-
mo come può esistere un solo Dio e tre Persone Divine? Non è
una contraddizione? Come conciliare queste due Verità? Se con
la ragione non riusciamo a capire una cosa, se ci rendiamo conto
che la nostra ragione ha dei limiti, è perché Dio supera le nostre
immaginazioni, le nostre proiezioni su di Lui. E poiché Dio non
è secondo la nostra immagine, dobbiamo accettare ciò che dice
di Se stesso, anche se ci sembra assurdo, paradossale. Quindi,
essendo inesauribile nel Suo mistero, quando dico che Egli è
incomprensibile, Dio è allo stesso tempo conoscibile e, quanto
più si fa conoscere, tanto più si aprono nuovi spazi, nuovi oriz-
zonti in cui possiamo scoprire nuovi aspetti del Suo essere, della
Sua esistenza, della Sua identità, della Sua vita. Questa è una cosa
splendida, bellissima! Ciò che diventa il principio dell’unità delle
tre Persone è l’Amore. Quanto più lo conosciamo, tanto più
aumenta il desiderio di entrare in un rapporto sempre più pro-
fondo, che non rimane sul piano intellettuale o teoretico, come
se fosse riservato a teologi, esperti, studiosi o ricercatori, ma
riguarda tutti i credenti, anche (o forse soprattutto) i più semplici.
Infatti per aderire a Dio serve innanzitutto l’intelligenza interiore
e spiritale tramite cui è possibile vivere il fascino e la bellezza
dell’Essere Divino.

303
SANTISSIMA TRINITÀ

2. Trinità – Unità nella Comunione e la Comunione nell’Unità


La Trinità si presenta, come comunità delle persone, nell’unità
dell’Amore, pur nella loro diversità, pluralità; contemporaneamente
sia come ‘Diversità-Comunità’, che come ‘Diversità-Unità’. Questo
vuol dire che il Dio Trinitario, il Dio cristiano non è un Dio soli-
tario, lontano, chiuso in Se stesso, che si ama in modo egoistico,
narcisistico. Dio non è solitudine, ma comunione di Luce e di
Amore, Vita donata in un eterno dialogo tra il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo. Anche se noi confessiamo la nostra fede con le parole
“Credo in un solo Dio…”, eppure teniamo presente quanto ha detto
Gesù: “Andate e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Ne risulta
che Dio è uno solo, ma costituisce, nello stesso tempo, la comunità
delle persone; rappresenta vincoli della reciprocità e una vicendevole
donazione. Si tratta, infatti, di relazioni d’amore, poiché Dio non
potrebbe essere definito e non si potrebbe realizzare come Amore,
se non esistesse la comunità delle persone che vivono quell’atto di
amore e costituiscono un’assoluta unità nella reciproca e assoluta
donazione. Questa assoluta donazione si esplicita nel fatto che il
Padre può essere definito come Padre perché esiste il Figlio, il Figlio
può essere definito come Figlio perché esiste il Padre dal quale ha
ricevuto l’Amore donato dal Padre e lo ricambia. L’Amore che li
unisce, non è un sentimento, non è un semplice affetto, un normale
legame ma è l’Amore in Persona, cioè lo Spirito Santo ed in questo
modo si manifestano tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

3. Trinità e la nostra identità umana


a) Trinità come fondamento per capire la natura dell’essere umano
e personale - Con la ‘costituzione’ trinitaria sono misteriosamente
legati i più grandi doni senza i quali non potremmo essere ‘persone
umane’: Vita – Verità – Amore. Da Dio Padre abbiamo ricevuto la
Vita: essere, tempo, spazio, talenti, esistenza, facoltà, responsabilità.
Attraverso e mediante il Figlio fatto uomo in Gesù: verità, rivelazio-
ne, conoscenza di noi stessi, senso, significato, dignità e finalità della
nostra Vita. Nello Spirito abbiamo ricevuto l’Amore: essere amati,
304
SANTISSIMA TRINITÀ

ed essere capaci di amare, l’Amore santificante che ci rende figli


adottivi di Dio. A questi doni della Trinità possiamo rispondere
con le tre virtù teologali: al Padre che ci dà la Vita, con la speranza,
la fiducia e l’abbandono; al Figlio che ci svela la Verità con la fede,
l’atto di credere, l’assenso; allo Spirito Santo che riversa in noi
l’Amore, la carità e la santità.
b) L’uomo come essere individuale e relazionale - A che (ancora)
serve nella nostra vita meditare su questo mistero, definito imper-
scrutabile, inesauribile, cosa dice alla nostra vita la ricerca di andare
nel profondo a questa realtà Divina, di conoscere Dio come Trinità?
“Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò” (Gn
1,27) e poiché Dio è la Trinità, rispecchia in noi questa struttura
trinitaria. Ognuno di noi è costituito con la propria individualità,
identità, personalità, irripetibilità. Nessuno può entrare nell’altrui
conoscenza, coscienza, volontà, desideri, affetti, decisioni, esperienze.
Nessuno può vivere l’altrui gioia, tristezza, malattia, morte. Ognuno
vivrà tutto questo in modo assolutamente personale. Ma d’altra
parte perché si possa essere le persone che siamo, abbiamo bisogno
delle relazioni con altri, abbiamo necessità di vivere condizioni di
reciprocità e di comunità.
Proprio perché Dio esiste come Trinità nell’Unità e quindi
costituisce la comunità di amore, allora noi rispecchiamo questa
immagine, questa somiglianza di Dio uno e trino attraverso la nostra
individualità e relazionalità verso gli altri, poggiata sempre sull’atto
d’amore. Così imitiamo e mostriamo il Mistero della Trinità per
mezzo della nostra natura e della nostra condotta aperta e dedita al
prossimo: non concentrati e ripiegati su noi stessi, ma nelle relazioni
di comprensione, amicizia ed affetto verso i nostri cari e verso tutti
gli altri ritroviamo anche la nostra unicità ed irripetibilità.
Per noi tutto ciò rappresenta un impegno, una sfida, un invito:
come la Trinità vive la relazione in un assoluto amore, così anche
noi, per diventare noi stessi, per rendere la nostra vita pienamente
realizzata, abbiamo bisogno di assumere questo atteggiamento d’amo-
re, secondo il comandamento che Gesù ci ha lasciato: “Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con
305
SANTISSIMA TRINITÀ

tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come
te stesso” (Lc 10,25-28). Se dunque siamo capaci di amare, è perché
portiamo dentro di noi l’impronta della Trinità, del Dio-Amore.
c) Trinità e l’impegno missionario dei cristiani - Il Vangelo odierno
insiste sulla missione affidata agli apostoli di andare in tutto il
mondo, di ammaestrare tutte le nazioni battezzandole. Il brano ci
riporta tre affermazioni di Gesù. La prima afferma che Egli è stato
costituito partecipe degli stessi poteri di Dio. Il Figlio ha lo stesso
potere del Padre; ha la stessa signoria universale, in cielo e sulla
terra. La seconda è un comando dato agli apostoli e riguarda la
missione loro affidata di rendere gli uomini suoi discepoli. La terza
affermazione è la promessa di Gesù: “Ecco io sono con voi tutti i
giorni fino alla fine del mondo”. Non è una promessa di consola-
zione; è la garanzia di cura, di appoggio e di vittoria. La missione
apostolica sta sotto il segno di questa presenza. Gesù rimane nella
Chiesa, nella storia. La sua presenza tra noi tutti i giorni è presenza
anche del Padre e dello Spirito Santo ed in Lui sono operanti il
Padre e lo Spirito Santo.
Con il segno della croce che facciamo più volte durante la gior-
nata, rinvigoriamo la nostra certezza che la Santissima Trinità è
operante nella nostra vita; ci ricordiamo l’impegno di una risposta
autentica e gioiosa all’amore di Dio. ed è un gesto e un’invocazione
del Dio Vero che ci fa vincere ogni forma del male e del peccato.

306
SANTISSIMO CORPO
E SANGUE DI CRISTO

Prima lettura: Es 24,3-8


Salmo 115
Seconda lettura: Eb 9,11-15
Vangelo: Mc 14,12-16.22-26

1. L’Eucaristia come attuazione dell’opera della salvezza - L’odierna


solennità ci invita a riflettere in modo profondo, meditando e
contemplando, il mistero dell’Eucaristia, perché la Santa Messa a
cui partecipiamo tutte le domeniche (alcuni vi partecipano anche
nei giorni feriali), è un riassunto di tutti gli eventi salvifici compiuti
nella vita di Gesù. L’Eucaristia non è un semplice ricordo, una
commemorazione, una semplice memoria; non è un precetto, un
obbligo, un dovere, un rito che celebriamo per essere bravi cristiani,
bravi credenti, bravi fedeli e per compiere ciò che richiede da noi
la Chiesa.
Con l’istituzione dell’Eucaristia Gesù aveva anticipato durante
l’Ultima Cena, la Sua Morte e Risurrezione facendo capire ai disce-
poli che in futuro loro stessi avrebbero dovuto far permanere e
perdurare il mistero della salvezza che Lui aveva compiuto. La Chiesa
vive dell’Eucaristia, della continua presenza di Gesù in mezzo a noi,
una reale presenza, che avviene, accade, ogni volta che celebriamo
la Santa Messa. L’ultima enciclica che ha scritto Giovanni Paolo
II, esattamente due anni prima della sua morte, è stata intitolata
“Ecclesia de Eucharistia”, in quanto dedicata proprio all’Eucaristia.
Il Papa, in questa enciclica afferma che “la ripresentazione sacra-
mentale nella Santa Messa del sacrificio di Cristo…” (n. 15) costi-
tuisce, ogni volta che la celebriamo, una attuazione dell’opera della
redenzione dai nostri peccati, per la nostra salvezza eterna e per il
riscatto dalla morte eterna. Questo è il Suo atto d’amore, anche
307
SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

se, ovviamente, il sacrificio che compiamo durante la Santa Messa,


lo compie Gesù, all’interno della nostra assemblea liturgica attra-
verso la figura del sacerdote.

2. L’Eucaristia come partecipazione al mistero della redenzione


Questo sacrificio non è più sanguinoso, non è più materiale, tangi-
bile, fisico, ma è reale, accade, avviene veramente, Lui realmente si
sacrifica per noi. Quindi l’atto e l’evento è lo stesso, cambia solo la
forma. È la sovrabbondanza dell’amore di Dio che, come in croce,
in modo storico, così sull’altare, in modo sacramentale, dona Se
stesso a noi. Questo Mistero Pasquale non appartiene al passato,
ormai superato e lontano, ma al presente, in quanto qui ed ora, si
celebra e si attua; l’opera della nostra salvezza avviene qui, davanti
a noi e per noi. Partecipando alla Santa Messa, si vive ciò che è
successo nella vita, nella storia di Gesù duemila anni fa.
Tanti di noi non possono andare a visitare i luoghi sacri a Ge-
rusalemme: il Cenacolo, il Getsemani, il Sacro Sepolcro, i luoghi
delle apparizioni ecc. Dopo la Risurrezione, però – è qui che risiede
la forza del mistero dell’Eucaristia – avviene che attraverso la parte-
cipazione alla Santa Messa in un certo modo siamo portati al Ce-
nacolo, dove Gesù ha istituito l’Eucaristia, anticipando la sua
Passione, Morte e Risurrezione; siamo portati nel Getsemani, per
compatire con Lui la Sua sofferenza, il Suo dolore, la sua paura, la
Sua ansia, la Sua angoscia, il Suo terrore; siamo portati anche sotto
la croce di Gesù per raccogliere le gocce del Suo sangue; siamo portati
alla tomba vuota, segno della Sua Risurrezione; infine siamo coloro
che sono stati testimoni, presenti alle Sue apparizioni. Infatti come
Lui appare a Pietro, è presente qui, come appare ai discepoli così
appare anche a noi, anche se in un’altra maniera, in un altro modo.
Infatti nel Tabernacolo, nel Santissimo Sacramento continua la reale
presenza di Gesù in mezzo a noi.

3. L’Eucaristia come dono dell’amore - L’Eucaristia è, quindi, un


dono da parte di Gesù, un dono di Se stesso a ciascuno di noi. Tutto
questo è il Suo ardente desiderio che viene dal Suo amore per il
308
SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

nostro bene. Oggi, purtroppo viviamo in un contesto in cui tutto


assume e viene ridotto ad una dimensione ‘profana’, naturale, laica,
secolarizzata, sciolta, liquida, appiattita, indifferente, come se Dio
non esistesse. Il Santissimo Sacramento invece ci rende più sensibili
e attenti ai segni del Sacro nella nostra vita che santifica, conserva,
solleva e perfeziona il profano. Il nostro atteggiamento sarà, allora,
di silenzio, di adorazione, di ammirazione, rispetto e timore per un
incontro e un dialogo d’amore. È nostro interesse venire qui ed
entrare in comunione con il Signore. Siamo noi che guadagniamo,
Lui non ha bisogno della nostra risposta, in quanto non è determi-
nato, non è costretto, ma comunque Lui vuole, desidera la nostra
risposta. Prima di aver proclamato il Vangelo, abbiamo recitato
cantando l’alleluia, questa esclamazione: “Io sono il pane vivo disceso
dal cielo…”; per amore, Gesù diventa il pane vivo e chi mangia
questo pane vivrà in eterno.

4. L’Eucaristia come invito impegnativo per diventare anche noi il


‘pane vivo’ - Con l’istituzione dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena,
Gesù ha anticipato la sua Morte e Risurrezione e ha fatto capire ai
suoi discepoli che avrebbero dovuto, nel futuro, far permanere e
perdurare il mistero della salvezza da Lui compiuto. Questo è anche
un invito, una chiamata ad ognuno di noi poiché, a partire dal
Battesimo ed in virtù del Battesimo, siamo incorporati in Gesù. Per
questo vuole che pure noi diventiamo con Lui il pane della vita,
vuole che partecipiamo alla Sua sorte, vuole servirsi di noi, non
come un sovrano, come un eroe che assolutamente da solo salva
tutto il mondo, ma vuole servirsi anche della nostra vita per renderci
pane per gli altri; il Suo desiderio è farci diventare il pane per tutta
l'umanità, per il mondo, per le persone che ci stanno intorno, con
le quali lavoriamo, collaboriamo, per gli amici, per le famiglie e
qualsiasi altra persona.
Cosa significa, in che cosa consiste questo ‘essere pane’? La ri-
sposta la troviamo nel Vangelo di Marco, il quale racconta la storia
avvenuta nel Cenacolo, che dice proprio così: “Mentre mangiavano
Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo
309
SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

diede loro…” (Mc 14,22). È il pane per eccellenza, è il Suo corpo


che diventa pane per la vita eterna. Per capire cosa vuol dire ciò, ci
aiutano questi quattro verbi: prendere (prese il pane), benedire (recitò
la benedizione), spezzare (lo spezzò), dare (lo diede loro). Prendere,
benedire, spezzare, dare. Se noi vogliamo essere il pane di cui si serve
il Signore per portare il Suo amore e diventare Egli stesso il pane
per gli altri, sono necessari questi quattro elementi:
a) Egli ci prende (prende il pane): vuol dire che siamo Suoi, Egli ci
ha scelti, ci ha chiamati, ci ha voluti, non siamo un caso, una cifra,
un numero, ma siamo stati scritti nel Suo eterno disegno, nell’eternità
di Dio. I nostri nomi sono già stati scritti, in quanto voluti da Dio.
b) Siamo benedetti (benedice il pane): se noi dobbiamo essere il pane
di cui si serve il Signore, Egli ci benedice (bene-dire), siamo benedetti,
benvoluti. Qualsiasi cosa dice a noi o dice di noi, ha uno spessore
positivo, è buono, è una parola buona e bella, d’amore, d’affetto,
di sostegno, di sollievo, di conferma; come se volesse dire: “ti amo”.
c) Siamo spezzati (spezza il pane), come il pane che siamo noi o che
dobbiamo diventare. Questo verbo “spezzare” non ci suona molto
bene, perché, di solito, si associa ad una rottura, ad una frattura, ad
una interruzione, a qualcosa che può anche far male. Perciò, in
modo simbolico, ci fa capire che, se vogliamo essere pane per il
mondo insieme al Signore, non dobbiamo escludere dalla nostra
vita momenti ed esperienze di dolore, di sofferenza, di difficoltà.
Anche queste possono essere forme o espressioni tramite le quali il
Signore realizza il Suo sacrificio di amore e non lo fa in modo
amaro, lamentoso, avvilito, rassegnato, sforzato, ma con tutta la
convinzione, determinazione, sicurezza di lasciarsi spezzare e vuole
che anche noi ci lasciamo spezzare nonostante il dolore e la soffe-
renza. Per noi c’è anche l’insegnamento che possiamo trasformare
i momenti e le esperienze di dolore, in modo positivo, come forme
ed espressioni d’amore.
d) Siamo dati (lo diede loro). Il pane lo diede e pure noi siamo dati,
donati, come pane, al mondo. La nostra vita, la vita di ciascuno di
noi è dono del Signore. Siamo grati per averla ricevuta e siamo
310
SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

consapevoli che non è di nostra proprietà. Avendocela donata, il


Signore la vuole regalare come dono agli altri ed è in questo senso
che siamo chiamati, invitati a diventare pane, non solo per noi stessi,
ma anche per agli altri. Questi quattro verbi ci aiutano a capire le
parole della Consacrazione: “Lo prese, lo benedisse, lo spezzò e lo
diede”.
Che la riflessione su questi quattro verbi ci aiuti a vivere in modo
più profondo la Santa Messa e a comprendere che siamo negli occhi
del Signore e che ciò che Lui vuole è che diventiamo e che parteci-
piamo al suo essere ‘pane vivo’, per portare la Sua grazia, il Suo
amore, il Suo dono della salvezza all’umanità d’oggi.

311
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

Prima lettura: Os 11,1.3-4.8c-9


Salmo: Is 12,2-6
Seconda lettura: Ef 3,8-12.14-19
Vangelo: Gv 19,31-37

1. Le origini del culto al Sacratissimo Cuore di Gesù - Nel mese


di giugno la Chiesa ricorda solennemente il Sacro Cuore di Gesù.
Era il 27 dicembre del 1673, quando Gesù apparve a Santa Mar-
gherita Maria Alacoque mostrandole il Cuore circondato dalle
fiamme invitandola a prendere il posto che san Giovanni aveva
occupato nell’Ultima Cena, cioè di poggiare il capo sul Suo Cuore
dicendole: “Il mio divino Cuore è così appassionato d’amore per
gli uomini, che non potendo più racchiudere in sé le fiamme
della sua ardente carità, bisogna che le spanda. Io ti ho scelta per
adempiere a questo grande disegno”. Margherita Maria ebbe tali
apparizioni per 17 anni, sino alla morte. Gesù si rivelò addolorato
e ferito per l’indifferenza, l’ingratitudine degli uomini, soprattutto
di quelli consacrati a Lui. Per questo chiese a santa Margherita
di rimediare a queste carenze e di fare la Santa Comunione il
primo venerdì di ogni mese e di prostrarsi dalle 23 alle 24 nella
notte tra il giovedì e il venerdì. Chiese ancora che il venerdì dopo
l’ottava del Corpus Domini fosse dedicato alla festa del Suo
Cuore. La devozione al Sacro Cuore era già praticata nell’anti-
chità e si diffuse nel corso dei secoli con le celebrazioni in Suo
onore e sull’esortazione dei Sommi Pontefici. La solennità odier-
na si è propagata sempre più trovando un grandissimo favore
in mezzo al popolo cristiano. Attualmente la festa del Sacro
Cuore di Gesù viene celebrata il venerdì dopo la solennità del
Corpus Domini, visto che detta ricorrenza è stata spostata alla
domenica; il sabato che segue è dedicato al Cuore Immacolato
312
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

di Maria, quale segno di comune devozione ai Sacri Cuori di


Gesù e Maria, indissolubili per il grande amore donato all’umanità.

2. Il Cuore di Gesù e la sete dell’amore - Nel Cuore di Cristo noi


troviamo, in maniera particolarmente suggestiva, la rivelazione del
Dio-Amore e l'invito insistente di vivere in questo Amore e per
questo Amore. Di fatto, il desiderio più profondo dell’uomo è amare
ed essere amato, si potrebbe dire che questo è il suo più grande
bisogno. Anche il Concilio Vaticano II ci ricorda che “Dio non creò
l'uomo lasciandolo solo: fin da principio «uomo e donna li creò»”
(Gn 1,27) e la loro unione costituisce la prima forma di comunione
di persone (Gaudium et spes 12). Ma questa sete di amore è di un
amore vero, grande, profondo e perenne. Purtroppo un amore di
questo tipo sembra non possa esistere perché subisce varie vicende
che lo sviliscono, lo aggrediscono, lo uccidono. Allora questa sete
umana resterà insaziabile? La storia della salvezza ci suggerisce che
l’uomo deve amare con lealtà e pienezza e che il suo amore deve
essere inserito e completato dall’amore di Dio che si è fatto uomo
per insegnare agli uomini che cos’è l’amore e come si ama.
Siamo diventati così insensibili, oggi, così incapaci di vedere e
di sentire, da non accorgerci che attorno a noi, dentro di noi, vi è
un amore dal quale proviene tutto ciò che è buono, bello, vero,
valido nella nostra vita?
La devozione al Sacro Cuore di Gesù è l’anima e il cuore del
Vangelo e del piano di salvezza di Dio. Parlare del cuore di Gesù è
riflettere sulla Sua umanità, che ci ha amati con cuore d’uomo, è
parlare del cuore di Gesù, dell'amore di Dio per gli uomini. “Ti ho
amato con amore eterno” (Ger 31,3). “Dio ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Il cuore è il simbolo
dell’amore. “Il cuore rappresenta l’essere umano nella sua totalità,
è il centro originale della persona umana, quello che le dà unità. Il
cuore è il centro del nostro essere, la fonte della nostra personalità,
il motivo principale dei nostri atteggiamenti e delle nostre scelte, il
luogo della misteriosa azione di Dio”, ha scritto Karl Rahner. Il
cuore dunque è l’ immagine dell’amore. E siccome Cristo ha avuto
313
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

un amore perfetto, il suo cuore è per noi l’emblema perfetto dell’amo-


re. Il suo cuore è stato colmato di amore per il Padre e per gli uo-
mini. Noi impariamo quello che è l’amore cercando di comprendere
e di vivere qualcosa dell’amore di Cristo.

3. La devozione del Sacro Cuore di Gesù e la celebrazione del mistero


della Redenzione - Nel 1979, papa san Giovanni Paolo II scriveva
nella sua prima enciclica Redemptor hominis: “La redenzione del
mondo, questo tremendo mistero dell’amore, in cui la creazione
viene rinnovata è, nella sua più profonda radice, la pienezza della
giustizia in un Cuore umano: nel Cuore del Figlio primogenito,
perché essa possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i
quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall'eternità,
predestinati a divenire figli di Dio”. Celebrare il Cuore di Gesù è
quindi celebrare la redenzione. È celebrare l’amore e rispondere
all’amore amando, a quell’Amore che tante volte non è amato. “Il
cuore parla al cuore”, affermava a questo proposito Giovanni Paolo
II riferendosi alla devozione al Cuore di Gesù, come espressione e
colloquio d’amore.
Celebrare il Cuore di Gesù è celebrare il sacramento dell’amore
salvifico del Padre, come si recita nel prefazio di questa Messa:
“Gesù, elevato sulla croce, ha fatto sì che dalla ferita del suo costato
sgorgassero, con l'acqua e il sangue, i sacramenti della Chiesa, perché
così, avvicinandosi al cuore aperto del Salvatore, tutti potessero
abbeverarsi alle fonti della salvezza”.

4. L’amore non amato nel Libro del profeta Osea nel Cuore trafitto
di Gesù - Nell’Antico Testamento si parla del cuore di Dio come
strumento della Sua volontà. Viene scritto che i peccati dell’uomo
causano dolore al cuore di Dio che si impietosisce e perdona la
fragilità umana. Nel capitolo 11 del libro di Osea viene descritta la
profondità dell’amore manifestato al popolo di Israele dall’inizio
della storia: “Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto
ho chiamato mio figlio” (v.1). Purtroppo però, a questo incessante
amore, il popolo ha risposto con disinteresse e indifferenza tanto
314
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

che il Signore si rende conto che “Più li chiamavo, più si allontana-


vano da me” (v.2). Questo brano del profeta Osea ci trasmette la
delicatezza, la premura e un sentimento di dolore e amarezza trat-
tenuti dalla determinazione di salvare. Egli che ama ardentemente
vuole riportare a sé l’umanità perché infine comprenda di quale
amore è fatta oggetto. Infatti Dio non si allontana, non si separa
da Israele perché “il mio cuore si commuove dentro di me, il mio
intimo freme di compassione” (v.8).
In questa celebrazione del Sacratissimo Cuore di Gesù siamo
invitati a meditare il mistero del cuore di Dio che si commuove e
si impietosisce e trabocca d’amore per l’umanità. L’amore immenso
di Dio per l’uomo non rinuncia di fronte ai rifiuti e all’ingratitudine,
ma arriva al punto di mandare tra noi il Figlio Unigenito e per
sconfiggere il peccato e la morte permette che venga messo in croce.
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”
(Gv 13,1). L’apostolo Giovanni testimonia: “Uno dei soldati con
una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua”
(Gv19,34). Ecco il cuore trafitto di Gesù per amore! Sul Calvario
sembra tutto finito: lo è per coloro che hanno crocifisso Gesù. Invece
il discepolo amato comprende che tutto ora comincia su un piano
più alto. Egli vede il pieno significato di quel sacrificio: il vero
Agnello di Dio è stato immolato nella vera Pasqua per la più vera
e piena liberazione degli uomini dalla schiavitù dell’odio, del male,
del peccato: “Era, quello, un giorno solenne”. È l’amore che trionfa,
il cuore trafitto è simbolo del cuore che si “apre” per riversare sugli
uomini le fonti della grazia, e finalmente gli uomini vedranno e
capiranno di quale amore Dio li ha amati.

5. Il Cuore Misericordioso e i doni sacramentali - La festa del Cuore


di Cristo ci chiama a meditare e sperimentare che siamo opera del
Suo amore e siamo chiamati ad essere amore per Lui. Da questa
riflessione scaturirà un canto di grande sollievo, di gioia e di esul-
tanza come ci invita il salmo responsoriale che oggi si recita: “At-
tingeremo con gioia alle sorgenti della salvezza!”. Abbiamo anche
ascoltato la breve lettura tratta dalla lettera di san Paolo agli Efesini:
315
SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

“Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha


amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatti rivivere con
Cristo... Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli,
in Cristo Gesù” (Ef 2,4-6). In questa stupenda pagina fa sentire ai
cristiani convertiti dal paganesimo che sono completamente coperti
da un amore sconfinato, tenero e forte che supera ogni conoscenza
e riveste gli uomini di tutta la pienezza di Dio. Nel cuore di Gesù
risiede il centro ed il fondamento necessario per il cristianesimo. In
Cristo ci è stata donata l’originalità innovativa e sconvolgente del
Vangelo. Il Cuore divino interpella il nostro cuore e ci sprona a
separarci dalle nostre certezze umane ed affidarci a Lui per seguire
il Suo esempio facendoci dono di totale e gratuito amore per gli
altri. L’invito di Gesù a “rimanere nel suo amore” (Gv 15,9) è rivolto
ad ogni battezzato, ma in particolare ai sacerdoti, e come afferma
il Santo Curato d’Ars: “Il sacerdozio è l’Amore del Cuore di Gesù”,
frase riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1589) e ricor-
diamo con emozione che da questo Cuore è sgorgato il dono del
ministero sacerdotale insieme al dono dell’Eucaristia.
Siamo certi che il cuore di Cristo pulsa ancora nel nostro mondo
e non smette di amarci anche quando abbiamo la triste impressione
che alte barriere siano state erette tra noi e Lui.

316
NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA
24 GIUGNO
Prima lettura: Is 49,1-6
Salmo 138
Seconda lettura: At 13,22-26
Vangelo: Lc 1,57-66.80

1. I dati biblici concernenti la nascita di san Giovanni


a) Le circostanze - Oggi si celebra la natività di san Giovanni Battista,
figlio di Zaccaria e di Elisabetta chiamata la sterile. Secondo un’antica
tradizione la nascita avvenne ad Ain-Karim a circa 7 km ad Ovest
di Gerusalemme. Le condizioni di questa nascita erano piuttosto
strane. Per tutti era palese che fosse opera e segno di Dio. La prova
era già l’annuncio della sua nascita al padre, Zaccaria, mentre questi
era intento al servizio sacerdotale nel tempio di Gerusalemme. La
madre, Elisabetta, era già avanti negli anni e si riteneva fosse sterile.
Giovanni nasce da una donna in età avanzata, suo padre Zaccaria
non crede all’annuncio della nascita del figlio e per questa incredulità
resterà muto fino a quando nascerà questo figlio a cui darà il nome
di Giovanni che per il suo ambiente era insolito. Il padre stesso
dovette dare ordine che fosse chiamato “Giovanni” e non, come
tutti gli altri volevano, “Zaccaria” (Lc 1,59-63). Il nome Giovanni,
in ebraico significa “Dio è misericordioso”, forse perché in futuro
avrebbe manifestato la salvezza di Dio. In ogni modo solo dopo la
nascita del figlio Zaccaria riacquista la parola.
b) Il Canto di Zaccaria - Avendo ritrovato la parola, Zaccaria cantò
un inno di riconoscenza contenente tutta la speranza del popolo
eletto. La prima parte, in forma di salmo, è una lode a Dio per le
opere da lui compiute per la salvezza. La seconda parte è un canto
in onore della nascita di Giovanni e una profezia sulla sua futura
missione di profeta dell'Altissimo.

317
NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

2. La missione profetica di Giovanni: l’annuncio del battesimo


Il Vangelo lo chiama Battista perché egli rivela un nuovo tipo di
purificazione non più mediante immersione personale come era
solito fare nei battesimi ebraici, ma ricevendo l’acqua purificatrice
da parte di un ministro. Questo per manifestare che l’uomo non
(si) può mondarsi dal peccato da solo ma che la grazia della santità
viene da Dio. Giovanni è ricordato per la sua vita trascorsa nella
penitenza, nella privazione, nel sacrificio, ma la tradizione lo rico-
nosce e lo caratterizza per il suo ruolo profetico. Egli è l’ultimo
profeta dell’Antico Testamento e il primo Apostolo di Gesù, perché
gli rese testimonianza ancora in vita. Un grande profeta e come lo
definisce Gesù: “Fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di
Giovanni”, poiché ha potuto indicare lui stesso l’oggetto delle sue
profezie (Mt 11,7; Gv 1,19-28). Giovanni, colui che battezzava al di
là del Giordano, in territorio straniero, il più grande tra i nati di
donna, e il più piccolo nel Regno dei Cieli, è considerato il ponte
tra l'Antico e il Nuovo Testamento, colui che contemporaneamente
porta a compimento la fase della profezia e inaugura la fase della
testimonianza, dei martiri. La figura e la caratteristica del profeta
non è solo annunciare il futuro messianico, essere messaggero della
parola di Dio ma soprattutto essere testimone della Parola annun-
ciata. Giovanni Battista faceva risuonare lungo il Giordano il suo
accorato grido “Convertitevi”, chiamando la gente alla conversione
e alla penitenza per preparare la via a Cristo.

3. Perché la celebrazione liturgica della nascita di Giovanni? - È una


cosa insolita celebrare la sua nascita, poiché degli altri santi si celebra
solo il giorno del passaggio all’altra vita. È tale la considerazione
che la Chiesa gli riserva, dato che è l’unico santo dopo Maria e (di)
Cristo ad essere ricordato nella Liturgia, oltre che nel giorno della
sua morte (29 agosto), anche nel giorno della sua nascita terrena (24
giugno); ma quest’ultima data è la più usata per la sua venerazione
Il motivo è che lui, quando ancora stava nel grembo materno è stato
santificato, liberato dal peccato originale. Perciò la sua nascita è
stata un avvenimento di grazia come ci racconta l’evangelista Luca
318
NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

quando racconta della visita di Maria Santissima alla cugina santa


Elisabetta. In quel momento, appena Maria entrò nella casa di
Zaccaria, il bambino sussultò di gioia nel grembo materno. Questo
fatto particolare fu inteso dai Padri come la santificazione o l’un-
zione di Giovanni. In questa ottica si comprende l’importanza della
celebrazione liturgica della nascita di san Giovanni Battista.

4. Il Battista come ‘voce’ che prepara la ‘strada’ per la venuta del


Messia - Il silenzio di Zaccaria ci fa riflettere sulla nascita di Giovanni
come accostamento alla divisione del velo (?) nella passione di Cristo.
Se Giovanni avesse annunciato se stesso non si sarebbe riaperta la
bocca di Zaccaria. Quella lingua si scioglie perché nasce la voce.
Infatti quando viene chiesto a Giovanni che anticipava la venuta
del Messia “Chi sei tu?” (Gv 1,19) lui rispose “Io sono voce di uno
che grida nel deserto” (Gv 1,23). Il Battista è voce mentre l’evangelista
Giovanni dice di Gesù: “In principio era il Verbo” (Gv 1,1) e poi,
subito, si ricorderà del suo maestro: “Venne un uomo mandato da
Dio: il suo nome era Giovanni”. Il Battista è voce per un po’ di
tempo; Cristo è il Verbo eterno fin dal principio.
Giovanni l’Evangelista, anche lui, lascerà il Battista per Gesù. Il
Battista si è rallegrato di vedere partire i suoi migliori discepoli.
Anche qui, sta la sua grandezza: la grandezza di un profeta e testi-
mone vero, scomodo, ma profondamente onesto, nella sua umiltà
di essere il precursore, il testimone di Gesù Cristo. Alla fine della
sua missione egli dirà: “Io non sono quello che voi pensate! Ma
ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare
i sandali” (At 13,25). Egli, diceva sant’Agostino, avrebbe avuto la
possibilità di presentarsi come il Messia dato che la gente aveva una
grande stima verso di lui, ma, al contrario, si presenta per ciò che
non è: non è Elia, non è il Cristo, non è il profeta che deve venire;
si presenta come annunciatore dell’arrivo del Signore. La sua voca-
zione, compresa di fronte alla volontà di Dio, l’ha scoperta come
missione di preparazione e vissuta in funzione di un altro, di Colui
del quale dice: “Io vi battezzo con acqua; ma ecco, viene dopo di
me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”.

319
NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

5. Le virtù di Giovanni Battista - La grande santità si caratterizza


soprattutto dall’unione delle virtù più diverse, che solo Dio può
unire così intimamente. È l’unione della fortezza con la dolcezza,
dell’amore per la verità o la giustizia, con la misericordia per i peccatori.
Ha accettato di spogliarsi per essere un precursore e soltanto
questo. Ha voluto questa dedizione, una rinuncia così rara tra i
precursori di cedere il primo posto. Quando la sua missione fu
compiuta, san Giovanni Battista ha accettato di essere un semplice
strumento, in totale sottomissione dall’azione del Padre. Dirà: “Nes-
suno può prendersi qualcosa se non gli è stata data dal cielo” (Gv
3,27). Un’altra cosa importante per san Giovanni fu di essere fedele
al dono che gli era stato fatto. Era la voce, e adesso risuona la Parola;
era la lampada che doveva abituare gli occhi alla luce che adesso
risplende come il Sole. E Giovanni invece di rammaricarsene se ne
rallegra: “Lo sposo è colui al quale appartiene la sposa; ma l’amico
dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello
sposo” (Gv 3,29). Alcuni dei suoi discepoli si offendono perché le
folle lo stanno lasciando per seguire Gesù, Giovanni sa vedere al di
là delle apparenze. Con lo spirito di profezia, contempla la meraviglia
che sta per compiersi: questa meraviglia è la presenza dello Sposo.
Lo Sposo è il Verbo di Dio. La sposa, è la natura umana che si unisce
a Lui. È anche la Chiesa che sta nascendo.

6. La parola profetica richiede la testimonianza – l’attualità del


messaggio di Giovanni Battista - Profezia e testimonianza hanno
permeato la vita di Giovanni il Battista. La sua testimonianza è certa,
forte e chiara, ed è il risultato del suo spirito profetico. Infatti, il
suo ‘parlare di fronte al popolo’, ‘in nome di Dio’ e ‘in favore di
Dio’, è stato talmente consapevole, sicuro e determinato che gli è
costato il carcere, per uscire dal quale non ha avuto bisogno di altri
testimoni, se non di se stesso e del suo sangue versato, conseguenza
delle ingiustizie che si era permesso di denunciare a viso aperto, ‘di
fronte al popolo’ e ‘in nome di Dio’.
È morto, insomma, per aver detto di ‘no’ a una legge civile che
contraddirebbe la legge morale. Per aver rimproverato un cosiddetto
320
NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA

“divorziato-risposato”, peccatore pubblico, che voleva comportarsi


davanti a tutti come se la sua seconda unione fosse legittima. Nel
contesto attuale, in cui si parla della visione cristiana del matrimonio
e in cui si aspetta(no) (le) chiarezza da parte del magistero della
Chiesa, l’atteggiamento di Giovanni e la sua fedeltà alla verità morale,
dovrebbero farci riflettere. La sua voce forte e chiara contro il pec-
cato e contro il falso insegnamento, mantiene oggi una particolare
attualità. È di testimoni come questi che il mondo ha bisogno oggi!
È di gente che sa di essere voce di Dio, e non sua Parola, è di questo
che i cristiani oggi hanno nostalgia, del chiaro insegnamento!
Quante solennità di Giovanni Battista dovremo ancora attendere
perché torni a farsi vivo nella Chiesa il suo spirito profetico, la sua
parola di fuoco che scalda gli animi a cose più grandi, la voglia di
osare percorsi nuovi, la sfrontatezza di cercare nuove soluzioni per
le nostre attività in disfacimento, il desiderio di aprire le porte delle
chiese ai cristiani in difficoltà, il coraggio di correggere in faccia
coloro che si credono i depositari della verità, ma che in realtà sono
i falsi profeti, messaggeri di una dottrina ingannatrice?

321
SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
29 GIUGNO

Prima lettura: At 12,1-11


Salmo 33
Seconda lettura: 2Tm 4,6-8.17-18
Vangelo: Mt 16,13-19

1. La Chiesa fondata sulla fede degli Apostoli - La festa dei Santi


Apostoli Pietro e Paolo è una memoria di grandi testimoni di Gesù
Cristo e un importante riconoscimento alla Chiesa una, santa,
cattolica e apostolica: una festa della cattolicità. La solennità dei
santi apostoli Pietro e Paolo è molto antica ed è stata introdotta nel
Santorale romano prima del Natale. Già nel secolo IV venivano
celebrate tre Messe: San Pietro in Vaticano, San Paolo Fuori le Mura
ed un’altra nelle catacombe di San Sebastiano dove i loro corpi
furono presumibilmente nascosti ai tempi delle invasioni. Ricordia-
mo contemporaneamente i due grandi amici di Dio, due fra i primi
testimoni del Signore due pilastri della Chiesa che, come primi
testimoni, hanno aderito e diviso peripezie e amore per il Vangelo
rendendo visibile la santità di Dio.

1. San Pietro
a) La personalità - Simone figlio di Jona discepolo di Giovanni il
precursore, pescatore di Betsaida (Lc 5,3; Gv 1,44) che più tardi si era
trasferito a Cafarnao. È stato inserito dal fratello Andrea nel gruppo
dei dodici discepoli al seguito di Gesù (Gv 1,42). Gesù lo chiamerà
Cefa che significa Pietro perché intende realizzare in lui la pietra
fondamentale e la guida della comunità dei seguaci. Simon Pietro è
uno dei primi testimoni a vedere la tomba vuota ed ha un’apparizione
di Gesù risorto. Dalla descrizione che ne fanno i Vangeli possiamo
definire Pietro come un uomo duro istintivo e semplice, di grande
322
SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

sentimento ed impulsivo. Egli non è da raffinate trattazioni teologiche,


non è affatto diplomatico e alcune volte interviene rozzamente e fuori
luogo, ma segue fedelmente Gesù e lo ama intensamente. Egli è umile,
docile e modesto, debole e perfino pauroso, ma pieno di entusiasmo
e passione. Lo immaginiamo con il viso segnato per la fatica del suo
mestiere e le mani indurite e screpolate dal contatto continuo con
l’acqua e dall’attrezzatura per pescare. Forse non conosceva le profezie
e le dispute tra i rabbini, piuttosto ci appare come un uomo concreto,
ostinato con un temperamento forte e deciso. Eppure Gesù sceglie
proprio lui per essere capo del suo gruppo e garante della fede dei
fratelli e non Giovanni l’apostolo contemplativo e devoto come
facilmente avremmo potuto pensare.
b) La missione e la fede di Pietro - Pietro ci ricorda la missione di
pescatore ma anche di pastore che Gesù gli affida facendolo insieme
agli altri undici, da discepolo ad apostolo. Il ruolo di cui si sente
investito lo fa sentire turbato e confuso, mentre la sua vita riceve
uno scatto imprevisto e violento. Pietro dovrà essere schiacciato
dalla croce, dovrà fare i conti con i propri limiti e con la sua debo-
lezza. A quel punto ha potuto conoscere veramente la sua fede perché
è stata messa alla prova, quando rinnega il Maestro e piange amara-
mente. Quando Gesù domanda ai dodici cosa pensano di Lui, Pietro
risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16).
Pietro ha ricevuto l’incarico di rappresentare tutta la Chiesa ed in
virtù della personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa
ha guadagnato di sentirsi dire da Cristo: “E io ti dico: Tu sei Pietro
e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi
non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli:
tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che
scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Dopo la
risurrezione Gesù affidò a Pietro il compito di pascere il suo gregge;
di sciogliere e di legare. Se Cristo per tre volte gli chiede se è da lui
amato, per tre volte Pietro lo deve rassicurare quasi rattristandosene.
Eppure Pietro deve sciogliere tre volte quello che per tre volte aveva
legato per timore. Ma intanto per tre volte il Signore affida a Pietro
le Sue pecorelle.
323
SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

c) A Pietro… - “Per la tua fragilità, che è anche la nostra, per saper


piangere i tuoi sbagli, perché non sei stato forse il migliore ma il
più autentico ti amiamo grande Pietro. Perché hai ricevuto il compito
di conservare la fede, di mantenerla integra, farla crescere dentro di
te e confermare i fratelli? Perché credi. Perché solo tu, impulsivo e
di grande cuore ti sei buttato nel lago andando incontro a Gesù che
camminava sulle acque”.
Vogliamo onorare l’Apostolo, che fra tutti ci assicura della nostra
comunione con Cristo, e che, per quelle Chiavi Benedette, addirittura
le Chiavi del Regno dei Cieli, a lui poste in mano dal Signore, ci
ispira tanta filiale e devota confidenza. Più che pensare, in questo
momento, desideriamo pregare.

2. San Paolo
a) Un cenno storico
Molto diverso da Pietro, Paolo studioso, intellettuale, critico pun-
gente, fanatico e credente intransigente cade a terra davanti alla luce
di Gesù che lo investe in pieno giorno. Paolo ci ricorda la passione
della fede, lo slancio dell’annuncio, il dono della grazia divina, il
fuoco dello Spirito. Secondo At 22,3 Paolo nacque a Tarso in Cilicia
(attuale Turchia del sud), probabilmente attorno al 5-10 d.C. Secondo
i testi biblici, Paolo era un ebreo che godeva della cittadinanza
romana. Nei primi anni della sua vita (At 22,3 e 26,4) sarebbe cre-
sciuto a Gerusalemme, dove studiò alla scuola di Gamaliele. Nella
narrazione biblica viene descritto come presente e accondiscendente
dell’uccisione di Stefano, primo martire cristiano (intorno al 35),
non come esecutore della lapidazione, ma “custode dei mantelli”
dei lapidatori. In seguito in vari passi della Scrittura viene descritto
come impegnato alla persecuzione dei cristiani.
b) L’apostolato di Paolo - San Paolo è stato l’apostolo dei Gentili,
ovvero il principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani
greci e romani. Non conobbe direttamente Gesù e, come tanti
connazionali, avversava la neo-istituita Chiesa cristiana, arrivando
a perseguitarla direttamente. Sempre secondo la narrazione biblica,
324
SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

l’adesione di Paolo al movimento cristiano viene indicata con il


termine “conversione”. Un giorno, mentre si recava da Gerusalemme
a Damasco per perseguitare i cristiani della città, venne accecato
dalla luce solare e sulle sue palpebre si formarono come delle squame.
Inoltre subito dopo fu chiamato da Gesù risorto, che gli apparve
lungo il cammino e iniziò a predicare il cristianesimo. Come gli
altri missionari cristiani, inizialmente si rivolse agli Ebrei, ma in
seguito si dedicò prevalentemente ai ‘Gentili’. I territori da lui toccati
nella predicazione itinerante furono inizialmente l’Arabia (attuale
Giordania), la Grecia e l’Asia Minore (attuale Turchia). Il successo
di questa predicazione lo spinse a scontrarsi con alcuni cristiani di
origine ebraica, che volevano imporre ai pagani convertiti l’osser-
vanza dell’intera legge religiosa ebraica, soprattutto la circoncisione.
Paolo si oppose fortemente a questa richiesta. Fu fatto imprigionare
dagli Ebrei a Gerusalemme con l’accusa di turbare l’ordine pubblico.
Appellatosi al giudizio dell’imperatore – come era suo diritto, in
quanto cittadino romano – fu condotto a Roma, dove venne tenuto
per alcuni anni agli arresti domiciliari, riuscendo a continuare la
sua predicazione. Venne decapitato probabilmente attorno al 64-67,
durante la persecuzione di Nerone. L’influenza storica di Paolo
nell’elaborazione della teologia cristiana è stata enorme; mentre i
Vangeli si limitano prevalentemente a narrare le parole e le opere
di Gesù, sono le lettere paoline che definiscono i fondamenti dot-
trinali del valore salvifico della Sua incarnazione, passione, morte
e risurrezione – ripresi dai più eminenti pensatori cristiani dei
successivi due millenni. Per questo alcuni studiosi contemporanei
lo hanno identificato come il vero fondatore del cristianesimo.
Quanta determinazione, pazienza e dispiacere dovrà affrontare per
continuare ad annunciare il Regno di Dio. È grazie a lui, grazie alla
sua persistenza e alle prove che ha dovuto subire che noi siamo figli
di Dio. Senza di lui il cristianesimo non avrebbe avuto la diffusione
presso tutto il bacino del Mediterraneo; grazie a lui, alla sua forza,
il Vangelo ha oltrepassato la storia. Paolo con la sua passione ed il
suo amore per le sue comunità affronta le difficolta trovando solu-
zioni inedite, particolari ed originali ed inventa un linguaggio
325
SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

straordinario per diffondere e proclamare il Vangelo. Paolo il grande


e ardente evangelizzatore, innamorato del Signore in una delle lettere
e passaggi più belli dei suoi scritti inviati all’amico Timoteo confessa:
“Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il
momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia,
ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto
la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà
in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno
atteso con amore la sua manifestazione. Il Signore però mi è stato
vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento
l'annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui
liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male
e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli
dei secoli. Amen”. Questo è Paolo e soprattutto questi sono Pietro
e Paolo: Santi Apostoli che ci insegnano ad amare Dio e a professare
la fede e a renderla visibile al mondo.

* * * * * * * * *
Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma
anch’essi erano una cosa sola, benché siano stati martirizzati in
giorni diversi, Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò
questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli Apostoli
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze
e la predicazione. La Chiesa, fondata su Cristo, nonostante le tante
tempeste e i peccati degli uomini rimane salda, perché la Chiesa
non è dei papi, dei vescovi, dei preti e neppure dei fedeli laici, è
soltanto di Cristo. Solo chi vive in Cristo promuove e difende la
Chiesa con la santità della vita e non con le sole parole di circostanza
o nuovi integralismi che possono trovare accoglienza in una Chiesa
che è e deve continuare ad essere madre, sull’esempio di Pietro e
Paolo, apostoli della fede e della comunione ecclesiale.

326
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE
6 AGOSTO

Prima lettura: Dn 7,9-10.13-14


Salmo 96
Seconda lettura: Pt 1,16-19
Vangelo: Mc 9,2-10

1. Il ‘monte’ - Il 6 agosto la Chiesa fa memoria della Trasfigurazione


di Nostro Signore. L’Evangelista Marco ci ha raccontato ciò che
accadde il giorno in cui Gesù salì su un alto monte portando con
sé Pietro, Giacomo e Giovanni, i “figli del tuono” (“Boanèrghes”,
Mc,17,1). Il monte si interpreta come simbolo della salita esteriore
ma anche interiore, come respirare aria pura e godere del panorama
della creazione e nonostante la fatica, ci si sente leggeri e più vicini
al Creatore. Nella scrittura ricordiamo l’esperienza della salita sul
327
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

monte di Isacco, nel sacrificio dell’agnello, anticipazione dell’Agnello


definitivo sacrificato sul monte Calvario.

2. La scena della Trasfigurazione - Mentre erano lassù, mentre Gesù


pregava, “si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splen-
denti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle
così bianche” (Mc 9,3) e apparvero due uomini, anch’essi nella gloria
che parlavano con Lui, erano Mosè ed Elia che rappresentavano la
Legge e i Profeti. Sia Mosè che Elia avevano ricevuto la rivelazione
di Dio sul monte; ora sono in dialogo con Colui che è la rivelazione
di Dio in Persona. Luca ci riferisce in un breve accenno di che cosa
parlavano i due grandi testimoni di Dio con Gesù: “Apparsi nella
loro gloria, parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a
compimento a Gerusalemme” (9,31). Il loro argomento di conver-
sazione è la croce, come esodo di Gesù che doveva avvenire a Geru-
salemme. I tre discepoli sono sconvolti dalla grandezza
dell’apparizione: il ‘timore di Dio’ li pervade, come abbiamo visto
anche nei momenti in cui si percepiva la vicinanza di Dio in Gesù,
si rendono conto della propria miseria e sono quasi bloccati dalla
paura. “Erano stati presi dallo spavento”, riferisce Marco (9,6). A
questa visione Pietro quasi stordito, pronuncia il suo umano senti-
mento e desiderio: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo
tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!” (9,5). E
a questo punto l’Evangelista Marco racconta: “Non sapeva
infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”.
Venne una nube (che nella Bibbia annuncia sempre la presenza di
Dio), li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: “Questi
è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. E improvvisamente, guardan-
dosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.

3. Il significato della Trasfigurazione


a) Preparazione dei discepoli per l’imminente destino di Gesù - È
una realtà stupenda di questa solennità che celebriamo oggi; è uno
degli eventi che fanno parte del mistero di salvezza che trova l’adem-
pimento, è quello che adesso ci unisce: la morte e la gloria di Cristo.
328
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

Ma per poter comprendere fino in fondo il significato di questi


eventi sacri e inspiegabili dovremmo andare lì con i discepoli e con
Gesù per ascoltare, contemplare e farci avvolgere da quella luce,
entrare nella nube e rimanere lì nella presenza gloriosa del Signore,
nella pace e nella beatitudine eterna, preparandoci per la nostra vita
futura.
Con la Sua Trasfigurazione Gesù manifestò ai Suoi discepoli sul
monte santo (2Pt 1,18) – identificato per tradizione nel Tabor – lo
splendore della vita divina che è in Lui. Gesù aveva già parlato loro
(già) del Regno di Dio e della Sua seconda venuta nella gloria, ma
si era reso conto che forse non avevano capito bene e non se ne
erano convinti. Per questo Gesù viene loro in aiuto per offrire un
segno che avrebbe reso la loro fede più salda e intensa perché mediante
il fatto visibile di quel giorno potessero arrivare alla sicurezza degli
avvenimenti futuri. Volle far mostrare la Sua realtà interiore e infinita,
la Sua divinità donando una immagine che avrebbe preannunciato
il Regno dei Cieli. Gesù rivela agli Apostoli la Sua gloria perché
sappiano affrontare lo scandalo della croce e capiscano che per
arrivare al Regno di Dio bisogna sopportare tante sofferenze.
b) La Risurrezione deve essere preceduta dalla croce - Come i tre
discepoli vorremmo restare tutti sul Tabor. Ma con la contempla-
zione di questo evento siamo chiamati ad uscire dal nostro egoismo
e gustare già in parte il Paradiso. Tuttavia la trasfigurazione pur
essendo anticipo della risurrezione, ammette prima la morte.
Infatti il cammino di Cristo era questo: “Il Figlio sarebbe dovuto
risuscitare dai morti”, dunque prima sarebbe dovuto morire.
A questo punto è opportuno conoscere la conversazione che i
tre discepoli hanno con Gesù durante la discesa dal “monte alto”.
Gesù parla con loro della Sua futura risurrezione dai morti che,
appunto, include la croce come precedente passaggio. I discepoli,
invece, pongono domande sul ritorno di Elia annunciato dagli
scribi. Gesù dice loro: sì, prima viene Elia e ristabilisce ogni cosa;
ma come sta scritto del Figlio dell'uomo? Che deve soffrire molto
ed essere disprezzato e “ordinò loro di non raccontare a nessuno
329
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse
risuscitato di morti.”
In fin dei conti ciò che dovrà accadere non sarà una conquista
trionfale di Gerusalemme, ma una condanna da Gerusalemme. Gli
“osanna” non sono stati per Lui un vero riconoscimento, ma dei
“sia crocifisso”; quindi la condanna e la diffamazione. Due tribu-
nali lo aspettavano per usare su di Lui la loro malvagità. Gesù, di
fronte ai due tribunali non si difese, ma annunciò: “Anzi io vi dico:
d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio,
e venire sulle nubi del cielo” (Mt 26,64). Egli glorioso ‘verrà sulle
nubi del cielo’, perché, investito di ogni potere in cielo e in terra.
c) La Trasfigurazione come invito alla preghiera - La trasfigurazione
è una situazione di preghiera in cui diventa visibile ciò che accade
nel dialogo di Gesù con il Padre: l’intima immedesimazione del Suo
essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il
Padre è avvolto di splendore, Gesù stesso è Luce da Luce. Ma Egli
non sfugge alla missione per cui è venuto nel mondo, rimane
nella storia e così fa capire a noi cristiani che pregare non
significa uscire dalla realtà e dalle responsabilità ma affrontarle,
confidando nell’amore fedele e inestinguibile di Dio. La mani-
festazione di Cristo sul Tabor non fu dunque solo un’esperienza per
preparare i tre Apostoli a resistere nella fede di fronte alla condanna
a morte di croce di Gesù, ma divenne, attraverso la contemplazione,
elemento forte dell’annuncio, così come Gesù aveva voluto.

4. La Trasfigurazione nell’ottica del Libro del profeta Daniele


La prima lettura scelta dalla Liturgia ci presenta due grandi visioni
del profeta Daniele. La prima visione riguarda il Padre, seduto in
trono per promulgare un giudizio di condanna. Non si tratta del
giudizio universale, che verrà fatto dal Cristo, ma di un giudizio
contro coloro che si oppongono a Cristo che già al tempo di Daniele
era atteso e per noi annunciato e vissuto nella Chiesa. Il giudizio è
contro coloro che avversano Cristo, contro coloro che proseguono
con errori sempre più astuti e micidiali contro Cristo e contro la
Chiesa. Davanti a Lui scorre un fiume di fuoco costituito da un
330
TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

denso guizzare di fulmini, segno della sua potenza contro gli empi.
I malvagi sono dispersi ed ecco che si stabilisce sulla terra il Regno
di Cristo sulle nazioni. È la seconda visione, e riguarda precisamente
Cristo, Cristo glorioso che è ‘sulle nubi del cielo’.
È lo stesso Gesù che usa l'immagine dello stare ‘sulle nubi’ per
indicare la sua gloria di risorto, e il suo essere Re del cielo e della
terra (Mt 24,30; 26,64). Nessuno di noi, dunque, può esitare nel
riconoscere in quell’uno “simile a un figlio di uomo” il Cristo
glorioso; “simile”, per indicare che quel personaggio possedeva un
aspetto divino. La visione di Daniele preannuncia il Cristo che andrà
verso il Padre ed a Lui è presentato, secondo il rito di corte, dalle
schiere degli angeli. È proprio una presentazione trionfale del Cristo
vincitore, a cui il Padre consegna il potere su tutte le genti: “Gli
diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servi-
vano”. La visione presenta in sé due momenti: quello della consegna
del potere al Cristo, e il momento in cui tutte le nazioni lo servono.
Al giudizio del Padre contro gli empi, che ostacolano il cammino
dei testimoni di Cristo, segue la loro sconfitta, e poi l'avvento sulla
terra, su tutte le nazioni della civiltà dell’amore. Il profeta Daniele
aveva visto cose che riguardavano fatti molto lontani; fatti che altri
avrebbero visto e vissuto, ma intanto era fondamentale che venissero
annunciati, affinché fossero riconosciuti al tempo della realizzazione
degli avvenimenti già profetizzati.
Nella trasfigurazione Gesù realizza la liberazione dell’uomo; pur
lasciandolo con le sue debolezze e le sue sofferenze, la sua solitudine
e la sua morte, (ma) trasfigura tutto ciò prendendolo su di sé e
facendo della condizione umana più povera il segno stesso della
prossimità di Dio al mondo. Questo sguardo trasfigurato su Gesù,
che fa vedere come le sorti del Regno si compiano con la Sua morte,
ha potuto attuarsi solo a partire dalla Risurrezione.

331
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA
15 AGOSTO

Prima lettura: Ap 11,19a;12,1-6a.10


Salmo 44
Seconda lettura: 1Cor 15,20-27
Vangelo: Lc 1,39-56

1. L’Assunzione della Beata Vergine Maria – la verità della fede


La festa odierna è la principale celebrazione liturgica in onore di
Maria Santissima, la sua Assunzione in cielo per opera del Figlio
suo Gesù. La Chiesa celebra oggi in Maria il compimento dei Mistero
pasquale. Essendo Maria la “piena di grazia”, senza nessuna ombra
di peccato, il Padre l’ha voluta associare alla Risurrezione ed alla
Gloria di Gesù Cristo, suo Figlio.
332
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

Nel 1950 Papa Pio XII proclamò il dogma che la Vergine Maria
“terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste
in anima e corpo”, la verità di fede che era già conosciuta dalla
Tradizione e confermata dai Padri della Chiesa. Un particolare molto
importante della venerazione tributata alla Madre di Cristo, eviden-
ziato dal Concilio Vaticano II: “perché fosse più pienamente con-
formata col Figlio suo, Signore dei dominanti e vincitore del peccato
e della morte” (Lumen gentium 59). Celebrando dunque l’Assunzione
di Maria, noi celebriamo lo splendore della Risurrezione del Cristo,
“primizia di coloro che sono morti” (seconda lettura). La certezza
di fede che Cristo ha vinto la morte in Maria ha un’ulteriore prova
in quanto viene assunta al Cielo in corpo e anima. “Ella è la gloria
di Cristo. Cristo si glorifica in Lei, come il Padre si è glorificato
in Lui. Tutta la gloria del corpo risorto di Cristo si riflette nel
corpo di Maria. La tradizione cristiana paragona la bellezza di
Maria alla bellezza della luna (pulchra ut luna). L’immagine è
profonda: come la luce della luna è una luce riflessa della luce del
sole, così l’assunzione al cielo di Maria è la luce riflessa della
risurrezione di Gesù” (cardinale Carlo Caffarra). Maria, nell’As-
sunzione, è la creatura che ha raggiunto la pienezza della salvezza,
fino alla trasfigurazione del corpo. È la donna vestita di sole e
coronata di dodici stelle. È la madre che ci aspetta e ci sollecita a
camminare verso il regno di Dio. Ella è garanzia che tutto l’uomo
sarà salvato e che i corpi risorgeranno.
L’atto di proclamazione dell’Assunta si mostrò quasi come
conferma del culto liturgico. Nel Vangelo che abbiamo appena
ascoltato, Maria stessa esprime profeticamente alcune parole che
dirigono in questa prospettiva, dicendo: “D’ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48). È una rivelazione
per tutta la storia della Chiesa. Questa espressione del Magnificat,
raccontata dall’Evangelista Luca, dichiara che la lode alla Vergine
Santa, Madre di Dio, profondamente legata a Cristo Suo figlio,
riguarda la Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi. L’annotazione
di queste parole da parte di san Luca ipotizza che la consacrazione
di Maria fosse già presente al periodo dell’Evangelista e questo
333
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

rappresenta un dovere ed un impegno della comunità cristiana di


celebrare la grandezza della Madonna e un appello a lodare Dio.
Maria viene glorificata con l’Assunzione al Cielo perché, come
racconta il Vangelo, l’esaltazione e la lode a Maria sta nell’espressione
di Elisabetta: “Beata colei che ha creduto” (Lc 1,45). E il Magnificat,
questo canto al Dio vivo e operante nella storia è un inno di fede
e di amore, che prorompe dal cuore della Vergine. Ella ha vissuto
con lealtà perfetta e ha comunicato nell’intimo del suo cuore le
parole di Dio al suo popolo, le promesse fatte ad Abramo, Isacco e
Giacobbe, che sono il contenuto della sua preghiera.

2. Alcuni temi particolari legati al mistero dell’Assunzione di Maria


a) La lotta tra la ‘donna’ e la ‘bestia’ - Nel suo tipico linguaggio
simbolico, Giovanni nel Libro dell’Apocalisse ci parla di questa
misteriosa “Donna vestita di sole”; sappiamo bene come con
quest’immagine egli volesse indicare la Chiesa nel suo travaglio di
donare Cristo al mondo che non ne vuole sapere di Lui e le fa
guerra. Da sempre, i Padri e i Maestri di spiritualità hanno letto
quest’immagine anche in riferimento a Maria che di questa Chiesa
è Madre e icona perfetta. Inoltre la Chiesa rappresenta il nucleo
centrale del progetto di salvezza di Dio: come tutto è stato fatto
per Cristo, così tutto è stato fatto per la Chiesa in quanto essa è
“corpo di Cristo”, avvolta dallo stesso splendore di gloria. Ma non
dobbiamo dimenticare l’altro “segno” che ostacola e minaccia il
primo: il “dragone rosso” dalle sette teste e dalle dieci corna, sim-
bolo di satana e della potenza ostile a Dio e al suo popolo. Tutta
la forza della visione allegorica sta in questo contrasto e nella
vittoria definitiva di Cristo e del suo popolo su satana: “Ora si è
compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza
del suo Cristo” (Ap 12,10). Ciò sta a significare che la Chiesa e
Maria, che ne è l’espressione più ricca, sono arrivati ed arriveranno
alla gloria tramite una grande lotta.
b) Il “Magnificat” - Il Magnificat si presenta come cantico di lode
e di ringraziamento di Maria al Padre in occasione della visita a sua
334
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

cugina Elisabetta. Maria ringrazia il Padre “perché ha guardato


l’umiltà della sua serva”, ha guardato il suo ‘nulla’ e l’ha fatta grande:
“Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11).
In questo mondo sempre più aggressivo, violento, prepotente, Maria
ci insegna l’umiltà, il farsi piccoli e riconoscersi tali con gioia. Maria
era assolutamente cosciente del proprio essere ‘nulla’ e ‘niente’ senza
Dio e ne è felice; per questo ringrazia il suo Signore che la guarda
con amore e la chiama ad essere la Madre del suo Figlio Gesù. Dio
l’esaltava al di là di ogni immaginazione quanto lei si è mostrata
completamente aperta e disponibile alla Sua volontà e libera da ogni
pretesa. Impariamo da Maria a riconoscerci guardati con amore da
Dio Padre e ad accettare dentro di noi Suo Figlio Gesù perché cresca
nel nostro cuore per poterLo mostrare al mondo mediante la santità
della nostra vita. Adesso che Lui siede alla destra del Padre, lo pre-
ghiamo perché possa continuare a camminare quaggiù attraverso i
nostri piedi, fare del bene a tutti attraverso le nostre mani, continuare
a sorridere attraverso il nostro volto, a intenerirsi, a compatire e ad
amare attraverso il nostro povero e piccolo cuore che Lui dilata e
apre all’amore.
c) L’Assunzione di Maria e il valore dell’umana corporeità - Celebrare
l’Assunzione al Cielo in corpo e anima di Maria significa affermare
con forza il valore cristiano della corporeità umana per cui noi
crediamo che non ci apparteniamo essendo “stati pagati a caro
prezzo” (1Cor 6,19-20), che apparteniamo al Signore, che i nostri
corpi sono membra del corpo di Cristo (1Cor 6,15). Principio
fondamentale della teologia cristiana della corporeità che ci dice
che la persona umana non ‘ha’ un corpo, bensì “è” un corpo, la
persona umana esiste, si esprime, vive nella dimensione corporale
del tutto speciale, di una corporeità informata, vivificata dallo Spi-
rito, dall’anima; dunque si tratta di un corpo spirituale e personalizzato.
“La celebrazione odierna diventa allora luce che trasforma la
nostra mente, perché non ci conformiamo alla mentalità odierna
che del corpo umano non ha più nessun rispetto. Essa infatti ha
separato il corpo della persona, riducendolo così ad un oggetto di
cui fare uso ed ha separato l’esercizio della sessualità dall’amore
335
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

coniugale, riducendola ad un ‘gioco’ privo di ogni serietà”, affermava


il cardinale Carlo Caffarra.
Concludendo, è opportuno richiamarsi al papa Benedetto XVI
che, in riferimento all’Assunzione, ne mette in risalto la fede piena
di fiducia e la gioia per tutti noi. Infatti in Maria vediamo la meta
verso cui camminano tutti coloro che sanno legare la propria vita
a quella di Gesù, che lo sanno seguire come ha fatto Maria. Questa
solennità parla allora del nostro futuro, ci dice che anche noi saremo
accanto a Gesù nella gioia di Dio e ci invita ad avere coraggio, a
credere che la potenza della Risurrezione di Cristo può operare
anche in noi e renderci uomini e donne che ogni giorno cercano
di vivere da risorti, portando nell’oscurità del male che c’è nel mon-
do, la luce del bene.

336
SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI
1° NOVEMBRE

Prima lettura: Ap, 7,2-4.9-14


Salmo 23
Seconda lettura:1Gv 3,1-3
Vangelo: Mt 5,1-12

1. L’universale vocazione alla santità


a) I ‘santi anonimi’ - La celebrazione eucaristica di oggi ci chiama
a partecipare alla gioia dei santi per gustarne la beatitudine che
vivono con Cristo nella Risurrezione. I santi non sono soltanto
quelli di cui conosciamo i nomi, che hanno un giorno stabilito
nell’anno per farne la memoria, ma sono una folla innumerevole;
ci sono infatti tutti i battezzati di ogni tempo e di ogni prove-
nienza. Sono i santi anonimi e sono i più numerosi. Sono stati
uomini normali che hanno amato il Signore, vivendo il Vangelo
con semplicità, umiltà e fedeltà nella quotidianità della loro vita.
Sono coloro che hanno compiuto, seppur con fatica e sacrificio
la volontà di Dio. Della maggior parte di loro non conosciamo
il nome né la loro vita, ma possiamo immaginare che, trovandosi
faccia a faccia con Dio, siano illuminati e pieni di gloria. La
Chiesa oggi si riconosce come “madre dei santi” e festeggia in
essi le sue particolari caratteristiche e gioisce per coloro che sono
partecipi della Pasqua. Sì, la Pasqua di Cristo è avvenuta una volta
per tutte con la Sua Morte e Risurrezione, ma essa continua ad
attuarsi e compiersi nella vita di ogni essere umano. Nella prima
lettura tratta dal Libro dell’Apocalisse, l’autore li presenta come
“una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni
nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9). Questa popolazione
include i santi a partire dall’Antico Testamento, quelli del Nuovo
Testamento, i molteplici martiri dall’origine del cristianesimo,
337
SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

dei successivi secoli e tutti gli altri beati e testimoni di Cristo


fino ai giorni d’oggi.
b) Tutti sono chiamati alla santità - Il significato della Solennità
che oggi celebriamo è per noi un invito e un’opportunità per
riaccendere il desiderio del cielo, di somigliare ai santi, di vivere
nella luce di Dio, come Unico e Sommo Bene, di essere Suoi amici,
di trovarci presso di Lui, nella Sua vicinanza. Dio come obiettivo
dei nostri desideri, delle nostre aspirazioni, della nostra nostalgia,
della nostra ricerca. Questo desiderio e questa chiamata che oggi
ci vengono riproposti sono stati confermati con forza dal Concilio
Vaticano II – nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen
gentium che affermava: “…tutti nella chiesa, sia che appartengano
alla gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla san-
tità” (n.39), e ancora, secondo quanto già affermava Pio XI nel
1923: “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla
pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (n.40).

2. Come si vive la santità


a) La sequela di Gesù - A questo punto ci domandiamo: come arrivare
ad un tale traguardo? Siamo abituati a pensare che è necessario avere
doni soprannaturali, particolari carismi, saper fare azioni e gesti
straordinari. Invece l’approfondimento del Vangelo e l’insegnamento
della Chiesa ci assicura che la santità è alla portata di tutti, nella
vita ordinaria, quotidiana, alla luce del nostro destino definitivo.
La santità è la partecipazione alla Risurrezione e diventa una chia-
mata e vocazione per noi. Quali sono allora i ‘requisiti’ per poter
raggiungere questa desiderata meta? Prima di tutto ascoltare Gesù e
seguirlo con tenacia e costanza, senza scoraggiarsi se si incontrano
ostacoli e impedimenti: “Se uno mi vuol servire – dice il Signore –
mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve,
il Padre lo onorerà” (Gv 12,26).
Certo, dobbiamo sapere che ogni tipo di santità, anche se vive
diversi percorsi, passa sempre per la via della croce, la strada del
sacrificio, la strada della rinuncia a se stessi. “se il chicco di grano,
338
SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce


molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria
vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna (Gv 12,24-25).
b) la santità come stile di vita cristiana - La Solennità di oggi vuole
ricordarci pertanto che la santità è una caratteristica specifica della
vita cristiana. Giovanni Paolo II parlava di essa come della “misura
alta della vita cristiana”. Le biografie dei santi raccontano di uomini
e donne che, grati del progetto del Signore, hanno sostenuto espe-
rienze di dolore e supplizi indescrivibili, persecuzioni e martirio.
Hanno proseguito nella loro convinzione e nell’attaccamento a
Cristo: “sono passati attraverso la grande tribolazione – si legge
nell'Apocalisse – e hanno lavato le loro vesti rendendole candide
col sangue dell'Agnello” (v.14). I loro nomi sono scritti nel libro
della vita (Ap 20). Il testo dell’Apocalisse che la Chiesa ci fa leggere
in questa Solennità permette di definire i cristiani – vincitori come
il Cristo (le ‘palme’ del v.9 sono il segno di trionfo) attraverso la
tribolazione e nel Suo sangue – sono coloro che hanno orientato
tutta la loro vita verso Dio, presente nel tempo e nella storia, meta
ultima e definitiva di ogni uomo. Ciò che hanno sperimentato nella
loro vita diventa il loro canto dinanzi a Dio e all’Agnello: “La sal-
vezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”). Per
loro si sono spalancate le porte del Paradiso dove hanno trovato la
loro perenne abitazione.
c) L’esempio e l’aiuto dei santi - Nei santi abbiamo dei modelli,
intercessori e amici che ci aiutano (Lumen gentium 60), ci incorag-
giano a seguire la stessa via, a provare la gioia nella fiducia riposta
in Dio, perché l’unico vero motivo di infelicità per l'uomo è vivere
lontano da Lui. Ognuno di noi è chiamato a farsi santo, a lasciare
che la sua vita sia contagiata e permeata dalla santità di Dio. Ognuno
è chiamato a rispecchiare tutto ciò che di più bello e grande esiste
nel suo cuore; a nutrire e a sviluppare la nostalgia della santità, di
quello che siamo invitati a diventare; a riscoprire l’intercessione dei
santi, invocando da questi amici di Dio il segreto della loro felicità:
Pietro dona la sua fede rocciosa, Paolo la forza della fede, Stefano
la dedizione totale fino al martirio, Francesco la perfetta letizia,
339
SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

Domenico l’anelito dell’annuncio missionario, Teresa di Calcutta


la cura per i poveri, Giovanni Bosco quella per i giovani, Teresa di
Lisieux la semplicità dell’abbandono a Dio.
d) Santità come dono di Dio - Indubbiamente raggiungere la santità
richiede un impegno continuo, ma ci aiuta sapere che è possibile
ad ognuno di noi, perché dobbiamo considerare che non è soltanto
fatica dell’uomo, ma soprattutto dono di Dio. Nella seconda lettura
tratta dalla Lettera di san Giovanni Apostolo ci vengono trasmesse
parole di grande sostegno e consolazione: “Vedete quale grande
amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo
realmente!” (1Gv 3, 1). Da questo brano capiamo che per il Battesimo
siamo partecipi della vita divina, siamo figli di Dio. La santità non
è solo una realtà che riguarda il futuro, ma è già un bene da godere
nel presente. Tutto questo non può lasciarci indifferenti, anzi ci
sprona alla riconoscenza verso il nostro Padre celeste che ci ha fatto
dono di sé e ci invita ad un rapporto personale intenso, vivo e
sincero con Lui e ad un impegno generoso, alla capacità di distacco
dai beni terreni, di donazione umile e servizievole e di amore verso
i nostri fratelli specialmente i più bisognosi di affetto, comprensione,
compagnia, solidarietà.
e) Le Beatitudini come programma per vivere la santità - Purtroppo
ai tempi di oggi si possono riscontrare diversi tipi di crisi: econo-
miche, politiche sociali, della famiglia, della fede. Ma la crisi più
vera, più preoccupante e disastrosa è la crisi dell’uomo. Nel Vangelo
di questa festa, sono state proclamate le Beatitudini in cui Gesù dice:
“Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, i miti, beati quelli che
hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, beati i puri di
cuore, gli operatori di pace, i perseguitati per causa della giustizia”
(Mt 5,3-10). Questo è il programma della vita santa: la felicità intesa
non come provvisoria, relativa, momentanea allegria, come un’espe-
rienza attraente e piacevole, come un periodo di serenità. La felicità
evangelica è un’anticipazione del Cielo con la fede, la speranza e
l’amore. È accettare tutto come se fosse scelto e voluto da noi, quindi
senza rassegnazione, ma vedere e capire il senso anche nelle piccole
340
SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

cose. Così ogni istante, ogni pensiero, parola, ogni opera, ogni cosa
quotidiana assume un grande valore per l’eternità. I “beati” vedono
la presenza di Dio in ogni circostanza, anche se fosse sfavorevole.
Ma chi ha vissuto le Beatitudini prima di tutti e soprattutto è stato
Gesù; il vero “Beato” è Lui. Egli è stato povero in spirito, afflitto,
misericordioso, affamato, assetato, puro di cuore, mite, operatore
di pace, perseguitato e causa della giustizia. Nella Sua passione,
Morte e Risurrezione Egli rivela il mistero della vera beatitudine;
per questo siamo spinti a seguirlo, ognuno nelle condizioni in cui
si trova a vivere.
E allora chiediamo a tutti i santi che intercedano, che ci aiutino,
che si facciano sentire ancora in modo più toccante nella nostra vita
e che noi siamo capaci di lodarli, ma anche di essere attratti a seguire
il loro esempio della totale donazione della loro vita al Signore e ai
fratelli, ad amare fino a saper rinunciare a noi stessi, a ‘perdere noi
stessi’ per amore. Solo così non ci perderemo, ma ci ritroveremo sulla
strada della santità che ci porterà alla gloria di Dio.

341
COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI
2 NOVEMBRE

Prima lettura: Gb 19,1.23-27


Salmo 126
Seconda lettura: Rm 5,5-11
Vangelo: Gv 6,37-40

1. La vicinanza e solidarietà con i fratelli defunti - Ieri, nella Solen-


nità di Tutti i Santi, abbiamo alzato lo sguardo verso l’alto per
pregare coloro che hanno terminato e portato a termine il pellegri-
naggio sulla terra e vivono nella comunione con Dio. Oggi dirigiamo
lo sguardo in basso, verso la terra per pregare per coloro “che ci
hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della
pace”. La commemorazione dei defunti al 2 novembre ebbe origine
nel X secolo nel monastero benedettino di Cluny. Il Papa Benedetto
XV, nel tempo della prima guerra mondiale, concesse la facoltà, ad
ogni sacerdote in questo giorno di celebrare tre Messe. La Liturgia
viene celebrata nella prospettiva del mistero pasquale di Cristo
Signore. La Chiesa prega che ogni figlio, incorporato per il Battesimo
a Cristo morto e risorto, passi con Lui dalla morte alla vita, oppor-
tunamente purificato nell’anima.

2. La morte e il desiderio dell’eternità - Nella nostra vita non siamo


mai completamente soddisfatti, ci sembra di non avere mai abba-
stanza. Siamo continuamente in attesa del domani sperando che
arriverà qualcosa di più: amore, felicità, prosperità, serenità. Ma in
fondo a tutte queste aspirazioni e speranze si nasconde l’insidia della
morte. È un pensiero difficile da gestire, un tema che per la nostra
società è quasi proibito da accettare, piuttosto si preferisce scacciarlo
perché il solo pensiero fa paura. Da una parte, in modo spontaneo
e naturale, pensiamo alla morte con paura perché viene ritenuta la
342
COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

fine, il nulla, la decomposizione, la scomparsa, il buio, l’oscurità,


l’incertezza. Abbiamo paura di andare verso qualcosa che non co-
nosciamo. Temiamo che tutto ciò che abbiamo costruito di bello e
di buono durante la vita venga improvvisamente annullato. Abbiamo
paura anche perché pensiamo che ci sarà un giudizio su come ab-
biamo vissuto la nostra esistenza, sui nostri errori, sulle nostre
mancanze. Dall’altra parte si manifesta il naturale desiderio dell’uo-
mo di vivere per sempre, come se ci fosse in lui un bisogno di infi-
nito; in altre parole, ogni altro tipo di speranza viene ritenuta breve
e troppo limitata. Così scrive sant’Ambrogio: “A dire il vero, la
morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo
dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede
come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò
la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua,
fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché
la morte restituisce quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza
la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio”.
Nonostante ciò a pensarci bene, durante tutta la vita siamo in com-
pagnia della morte: malattie, dolori, delusioni, eventi catastrofici
inattesi e così via. Comunque la morte rappresenta un grande mistero
che merita ed è oggetto di grande riguardo.

3. L’Amore più forte della morte


a) L’Amore di Dio ha sconfitto la morte - Davanti a questo mistero
tutti, anche noi cristiani, cerchiamo qualcosa che ci aiuti a sperare,
cerchiamo un segno che possa consolarci e ci offra uno spiraglio di
luce, affrontando la morte assumiamo un atteggiamento che ci
interroga sul senso ultimo dell’esistenza umana. Questo atteggia-
mento in parte dipende dallo spessore, dall’intensità della fede che
abbiamo. Il cristiano non considera la morte come la tragica fine
di tutto, ma come un evento che viene illuminato dalla risurrezione
di Cristo. Soltanto riconoscendo la speranza nella morte, può vivere
la vita donandogli un senso profondo di amore e di fiducia. L’uomo
può spiegare e comprendere il senso profondo della sua vita soltanto
se c’è un Amore che superi la paura della morte. Perciò Dio si è
343
COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

fatto vicino all’uomo, è entrato nella sua vita per dirci: “Io sono la
risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque
vive e crede in me non morirà in eterno” (Gv 11,25-26). Ci tornano
in mente tante altre parole di Gesù con le quali vuole confermare
le Sue promesse “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in
Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono
molti posti. Se no, ve l'avrei detto. Io vado a prepararvi un posto;
quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi
prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,1-2).
Dio si è davvero rivelato facendosi raggiungibile e ha tanto amato
il mondo “da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede
in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Infatti
nel Suo infinito amore rivelato sulla Croce, si è calato fino al baratro
della morte, l’ha vinta e, in quanto Risorto, ha aperto anche a noi
le porte dell’eternità. Pertanto la Sua morte è la vita di tutti.
b) La preghiera per i defunti come atto d’amore - Ogni domenica,
recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità: “Dio verrà a
giudicare i vivi e i morti ed il Suo Regno non avrà fine”. La nostra
professione di fede ci promette la vita eterna che non vediamo con
gli occhi del corpo, ma (la) possiamo intravedere con gli occhi della
fede che illumina il nostro pellegrinaggio terreno. La fede nella
risurrezione dei corpi ci sostiene con una sicurezza solida che “con
la morte la vita non è tolta, ma trasformata e mentre si distrugge la
dimora di questo esilio terreno viene preparata una abitazione eterna
nel cielo”. Il ricordo dei defunti ci fa riflettere sul misterioso stato
di coloro che, come parte della Chiesa, si trovano in uno stato
intermedio di non partecipare ancora alla Santità di Dio e di tutti
i Santi. La nostra comunione con loro non è un semplice ricordo,
una nostalgica memoria, ma esiste un rapporto di amore e carità;
pregando per loro e partecipando alle Messe in suffragio esprimiamo
la nostra gratitudine per la loro vita.

4. La speranza in Dio non delude mai - La Parola di Dio dell’odierna


celebrazione ci parla, per bocca di Giobbe, di questa vita ultraterrena,
rassicurandoci che “dopo che la nostra pelle sarà strappata via, senza
344
COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

la nostra carne, vedremo Dio. Noi lo vedremo, noi stessi, i nostri


occhi lo contempleranno e non altri” (Gb 19,27). Alla luce di questa
promessa, siamo certi che nessun uomo è abbandonato ad un ignoto
destino perché tutti siamo figli di Dio e, come tali, siamo amati,
perdonati, accolti tra le braccia del Padre. “La speranza poi non
delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”, ci ricorda san Paolo
nella sua Lettera ai Romani (5,5). Essa nutre la fiducia in Dio Padre,
“fedele in tutte le sue promesse, e santo in tutte le sue opere” (Sal
144,13). Tutta la nostra vita è un abbandono fiducioso nella promessa
divina, che non sbaglia e non illude.
Per concludere, come abbiamo già detto, è alla luce della Risur-
rezione che dobbiamo guardare la morte. “Dio dimostra il suo amore
verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è
morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue,
saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand'eravamo
nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del
Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati
mediante la sua vita” (Rm 5,6-11) E ancora uno splendido brano
del Vangelo di oggi dell’evangelista Giovanni che rinsalda la nostra
fede e ci rassicura: “E questa è la volontà di colui che mi ha mandato:
che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti
nell'ultimo giorno” (Gv 6,39-40).

345
NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
RE DELL’UNIVERSO

Prima lettura: Dn 7,13-14


Salmo 92
Seconda lettura: Ap 1,5-8
Vangelo: Gv 18,33b-37

1. L’istituzione della Solennità del Cristo Re - A conclusione dell’an-


no liturgico, la Chiesa celebra la Solennità di Cristo Re, che glorifica
Cristo risorto e asceso al cielo e che dal Padre ha ricevuto ogni potere
in cielo e terra estendendo la Sua signoria in tutto l’universo. Questa
Solennità è il compimento ed il culmine di tutte le celebrazioni che
abbiamo vissuto nell’arco di questo anno. È stata voluta e istituita
da Pio XI l’11 dicembre 1925. In questo contesto sociale e storico
si denotano movimenti nei quali si verifica un periodo di fioritura
delle idee guida fondamentali che affermavano la verificabilità e la
sperimentabilità come esclusivo ed unico criterio di verità; che
professavano una illimitata fiducia e un'esaltazione nel progresso
scientifico, il crollo delle monarchie; il materialismo, il marxismo,
il modernismo ecc. Si fa strada l’idea di “rivoluzione”, si punta sul
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CRISTO RE DELL’UNIVERSO

progresso economico, sul capitalismo, si instaura il nazismo, si


attribuisce alle scienze fisiche e sperimentali e ai loro metodi la
capacità di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell'uomo. Per
questi motivi il papa vuole rammentare che solo Gesù Cristo sta al
centro della storia e della salvezza umana.

2. Cristo, il Signore dell’universo, nelle mani degli uomini - La


Parola di Dio ci aiuta a percepire, a comprendere, a capire meglio
in che cosa consiste questa regalità di Cristo come Signore di tutto
l’universo, di tutti i tempi, di ogni epoca, di ogni luogo, di ogni
situazione. Non c’è un elemento, un frammento, un istante dell’uni-
verso, del cosmo, del tempo, della vita, della storia umana e della
storia individuale di ciascuno di noi, in cui Gesù non sarebbe il
Signore, il Re. Egli è l’unico e universale Salvatore del mondo,
l’unico mediatore “…per mezzo di lui e in vista di lui tutto è stato
creato. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui” (Col
1,15-17). La sua regalità si manifesta, si realizza e si rende palese,
visibile sotto la forma della debolezza umana. Cristo, da quello
che abbiamo ascoltato dal Vangelo di Giovanni, viene sottoposto
al verdetto, alla sentenza di uomini, al giudizio dei sommi sacerdoti,
delle autorità del popolo di Israele e di Pilato che dice: “La tua
gente e i sommi sacerdoti, ti hanno consegnato a me” (Gv 18,35).
Il re viene consegnato? Questo, piuttosto ci farebbe venire in mente
l’idea di una persona che è limitata nel suo dominio, nella sua
signoria, nella sua libertà. È una cosa inaudita che Gesù sia mo-
strato come prigioniero, schiavo, consegnato, sottoposto, sottomes-
so, in possesso altrui, dipendente dalle sentenze, dalle decisioni
dai verdetti degli altri. Dov’è la regalità di Gesù? Il re è libero, il
re è una persona libera di decidere, di organizzare, di fare le scelte,
di interferire nella vita dei suoi sudditi, del suo popolo, di coloro
che, in qualche maniera, dipendono da lui. Ma qui, in questo caso,
nel caso di Gesù, la sua libertà regale in quanto re, la sua libertà
consiste nella sua autoconsegna. Ma non sarebbe stato consegnato
se Lui, Egli stesso, Gesù, non si fosse consegnato liberamente al
Suo popolo, a coloro che, in realtà, dipendono da Lui. Si è conse-
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CRISTO RE DELL’UNIVERSO

gnato a loro; quanta libertà dimostra Gesù che come Re si è auto-


consegnato a coloro che dipendono da lui, ai suoi discepoli, ai
suoi sudditi, al suo popolo.

3. Cristo Re e la Sua assoluta libertà di auto-consegnarsi agli uomini


a) La libertà regale di Cristo libera l’umanità dal peccato - Per quale
motivo la scelta di Gesù di umiliarsi e di spogliarsi di ogni potere?
Nella seconda lettura sta scritto: “A Colui che ci ama e ci ha liberati
dai nostri peccati con il suo sangue…” (Ap 1,5). “Colui che ci
ama…”: proprio in questo consiste la libertà regale di Gesù, cioè
di amare fino al punto di renderci liberi. Lui, apparentemente,
rinuncia alla libertà nel senso umano del termine, per rendere
liberi noi. Ci rende liberi consegnandosi, dando Se stesso affinché
noi siamo liberi dal peccato.
b) Il peccato umano di pretendere il potere sulla vita - Il peccato
peggiore è di pretendere ed illudersi di essere noi i re, essere noi
signori, i dominatori, i governanti, i padroni del tempo, dello spazio,
degli affari, delle vicende, del futuro; i padroni della nostra vita!
Non riconosciamo che la nostra vita ci è stata donata, che siamo
stati donati a noi stessi nella nascita e nella morte. Non siamo noi
i re e i padroni della nostra vita e di tante altre cose, situazioni,
esperienze. Con queste pretese ed illusioni si casca facilmente
nell’egoismo, nella chiusura, di poter vivere e progettare la propria
vita per conto proprio, a seconda delle proprie immaginazioni,
spesso impregnate da questa ricerca egoistica che tende a sottoporre
gli altri a noi stessi.
c) La libertà regale per servire con l’amore - Gesù, invece, ci ama e
ci ha liberato dai nostri peccati, per renderci capaci di vivere in
modo autentico e felice. Ci ha liberati dai peccati e ci ha resi capaci,
di essere in grado, come lui, di lasciarci consegnare e rendere la
nostra vita un dono per gli altri, e non considerare “gli altri” in
modo da renderli succubi, adulatori, per cercare, in realtà, i propri
interessi, ma servire gli altri per il loro autentico bene. Questo ri-
chiede, a volte, anche essere una persona scomoda come Gesù che,
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pur essendo una personaggio scomodo perché diceva la verità; a


volte infatti diceva parole amare, dure, serie, severe, ma sempre e
comunque per servire gli altri. In contrapposizione alla donazione
di Gesù emerge la figura dell’ambiguità, della vigliaccheria, dell’op-
portunismo di Pilato, il quale per sua comodità e per paura dell’am-
biente e della gente non ha accolto la verità. Nell’ottica del servizio
agli altri si capisce la libertà del Cristo Re, la sua libertà assoluta di
poter consegnare Se stesso, stimolato, sollecitato, suscitato dal suo
infinito amore verso ciascuno di noi.

4. La nostra partecipazione alla regalità di Cristo - Così se noi lo


seguiamo e lo imitiamo, cominciamo ad imparare a comprendere
la nostra libertà, come l’ha vissuta Gesù, anche noi possiamo parte-
cipare alla sua regalità; anche noi diventiamo partecipi della regalità
di Cristo. Che cosa è, in che cosa consiste la libertà regale, in modo
ancora più particolare? Innanzitutto si deve spiegare in che cosa
consiste il Regno iniziando da cosa non è: non è una struttura
politica, ma una definitiva realizzazione del disegno d’amore di Dio
in cui si può godere di ordine, di pace, di giustizia e di felicità.
Come è stato accennato prima, quanto più vogliamo essere autono-
mi, autosufficienti, auto-padroni ed avere il libero arbitrio di decidere
di tutto o di disporre, di godere di questa arbitrarietà, nella nostra
vita, su di noi, sulla vita degli altri, sul lavoro, sul mondo, tanto
più, paradossalmente, siamo schiavi delle nostre illusioni, delle
nostre proiezioni, delle nostre fantasie, delle nostre immaginazioni
non realizzabili. Invece, quanto più siamo vicini e uniti a Dio e ci
lasciamo ‘dipendere’ da Dio, che è libero nell’amore assoluto, quanto
più siamo obbedienti a Lui, tanto più diventiamo anche noi, piena-
mente e veramente liberi. Paradossalmente, obbedendo a Gesù e
lasciandoci dipendere da Dio, diventiamo completamente liberi,
capaci di amare, vivere rettamente e capaci di servire con serenità con
gioia, malgrado le difficoltà, malgrado le prove, malgrado anche i
sacrifici, come Gesù, che è stato disprezzato, nel momento del processo
e della Sua Passione. Ma questo disprezzo, questa umiliazione l’ha
accolta con la piena libertà di servire per l’amore e con l’amore.

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CRISTO RE DELL’UNIVERSO

5. La regalità di Cristo apre alla Verità - Oltre la libertà, nella regalità


di Cristo si inscrive anche un altro attributo. Come è scritto alla
fine del Vangelo di oggi “Per questo io sono nato e per questo sono
venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità”. Cristo
Re ci porta alla verità e ci spiega che cosa è la verità: La verità cri-
stiana, la verità biblica, la verità divina, non è soltanto un insieme
di notizie, di informazioni, di teorie, di insegnamenti da accettare,
puramente, meramente sul piano intellettuale. La verità, alla luce
del Vangelo di Giovanni (14,6), viene ‘personificata’; dice Gesù: “Io
sono la via, la verità e la vita”. Le Sue parole si potrebbe parafrasare
in questo modo: ‘sono venuto per dare testimonianza alla verità, la
verità che riguarda Me; io mi rivelo, mi manifesto davanti a voi
come il vostro Re, come il vostro Signore, come Colui che vi salva
da voi stessi, da tutto quello che ci può essere di falso, di inganno,
di peccaminoso nella vostra vita. Questa è la verità manifestata da
Gesù: la Sua stessa Persona, in quanto Re che ci rivela chi siamo e
come dobbiamo vivere.
La verità di Gesù, consiste nell’unione delle parole e delle opere,
della dottrina e della legge, della conoscenza e della pratica della
vita. La parola “Verità” mette in discussione la realtà dei giorni
d’oggi in cui tutto è opinabile, relativo, discutibile, negoziabile,
sottoposto ai vaghi discernimenti. Tale concezione elimina l’esi-
stenza della verità oggettiva che vale sempre, dappertutto e per
tutti.
Oggi, considerando il contesto del vivace dibattito sulla fami-
glia, non mancano le voci tra i laici, sacerdoti, vescovi e cardinali
che avrebbero voluto che si cambiassero le pratiche, lo stile di
operare, di agire, di facilitare certi precetti, certi comandamenti,
anzi la verità inerente il matrimonio cristiano per come ci è stata
rivelata attraverso il Vangelo di Gesù. Questa verità è inseparabile
dalla Persona stessa di Cristo, non la possiamo cambiare. Se cam-
biamo la Verità trasmessa nella forma dei fermi precetti e dei
comandamenti fissi, se tocchiamo questo campo, ad esempio il
problema dell’ammissione alla comunione ai risposati, tocchiamo
anche la verità rivelata da Dio, mentre questa nessuno la può
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CRISTO RE DELL’UNIVERSO

cambiare, – “è la verità di Dio!”. Si può staccare dall’albero della


vita il frutto che ci piace come fece Eva? E possiamo, in modo
arbitrario, decidere noi come si deve vivere? Non ce l’aveva mani-
festato, non ce lo aveva fatto conoscere l’Autore, il Creatore e il
Datore della vita? Chi siamo noi per decidere in modo diverso?
Quindi la verità di Cristo abbraccia questi due elementi: dottrina
e pratica; non si cambia la pratica, non si cambia la pastorale, non
si cambia la disciplina della vita cristiana, i precetti, i comanda-
menti, affinché siano più facili da praticare e per rendere la vita
dei cristiani falsamente e apparentemente più tranquilla, più serena,
lasciando loro di continuare a vivere nel peccato.
Nemmeno la misericordia (spesso falsamente intesa) permette
di vivere nella menzogna che conferma di rimanere nel peccato, ma
implica, presuppone e richiede la conversione. Non esiste la miseri-
cordia senza giustizia, senza trasformazione, senza riconoscimento
del peccato. La regalità di Cristo consiste nella sua libertà assoluta,
nella manifestazione della verità.

6. Cristo come Re che continuamente viene - Nella seconda lettura


tratta dal libro dell’Apocalisse, sentiamo il Signore che dice: “Io
sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipo-
tente”. Questo brano non dice che “è venuto”, ma che Cristo Re,
nella sua regalità, è Colui che “viene” continuamente. Da una parte
si parla della Sua gloria e del Suo regno che verranno e che si
manifesteranno pienamente alla fine dei tempi, come compimento
di tutta la storia umana di ciascuno di noi e di tutto il mondo, di
tutto l’universo. Dall’altra parte, la sua regalità si manifesta nel
fatto che Lui viene, in quanto Re, che serve, che ci aiuta, che ci
sostiene, in ogni momento della nostra vita, tutti i giorni, in ogni
istante, in ogni attimo, viene continuamente in modo reale e con-
creto, non in modo simbolico, ma realmente, è presente e continua
a venire tutti i giorni. Siamo noi, a volte, che non riusciamo a
sentire la Sua presenza reale, perché siamo presi da tante cose della
vita, siamo un po’ soffocati, un po’ stanchi, un po’ distratti, mentre
Lui è presente, operante nella nostra esistenza. Alla regalità e alla
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CRISTO RE DELL’UNIVERSO

dignità divina di Cristo siamo stati chiamati anche noi e nessuna


circostanza la può cancellare. Allora Cristo Re, in quanto assolu-
tamente libero, ci rende liberi per il suo amore; Cristo Re che ci
porta la verità su di noi; Cristo continuamente presente che viene
incessantemente incontro a ciascuno di noi.

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I NDICE

INTRODUZIONE 5
ABBREVIAZIONI DEI LIBRI BIBLICI 9
TEMPO DI AVVENTO
Prima domenica di Avvento 13
Seconda Domenica di Avvento 18
Immacolata Concezione 23
Terza Domenica di Avvento 27
Quarta Domenica di Avvento 32
TEMPO DI NATALE
Natale del Signore - Messa del giorno 36
Domenica della Santa Famiglia di Nazareth 43
Seconda Domenica dopo Natale 49
Maria Santissima Madre di Dio 54
Epifania del Signore 59
Battesimo del Signore 63
TEMPO DI QUARESIMA
Prima Domenica di Quaresima 68
Seconda Domenica di Quaresima 73
Terza Domenica di Quaresima 78
Quarta Domenica di Quaresima 83
Quinta Domenica di Quaresima 87
SETTIMANA SANTA
Domenica delle Palme 91
Giovedì Santo 96
Venerdì Santo 101
Veglia pasquale 105
TEMPO DI PASQUA
Domenica di Pasqua 109
Lunedì dell’Angelo 114
Seconda Domenica di Pasqua della Divina Misericordia 117
Terza Domenica di Pasqua 121
Quarta Domenica di Pasqua 126
Quinta Domenica di Pasqua 130
Sesta Domenica di Pasqua 134
Domenica dell’Ascensione del Signore 137
Pentecoste 142
TEMPO ORDINARIO
Seconda Domenica del Tempo Ordinario 147
Terza Domenica del Tempo Ordinario 151
Quarta Domenica del Tempo Ordinario 155
Quinta Domenica del Tempo Ordinario 159
Sesta Domenica del Tempo Ordinario 163
Settima Domenica del Tempo Ordinario 167
Ottava Domenica del Tempo Ordinario 172
Nona Domenica del Tempo Ordinario 176
Decima Domenica del Tempo Ordinario 181
Undicesima Domenica del Tempo Ordinario 186
Dodicesima Domenica del Tempo Ordinario 191
Tredicesima Domenica del Tempo Ordinario 196
Quattordicesima Domenica del Tempo Ordinario 201
Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario 206
Sedicesima Domenica del Tempo Ordinario 211
Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario 215
Diciottesima Domenica del Tempo Ordinario 219
Diciannovesima Domenica del Tempo Ordinario 223
Ventesima Domenica del Tempo Ordinario 226
Ventunesima Domenica del Tempo Ordinario 229
Ventiduesima Domenica del Tempo Ordinario 232
Ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario 237
entiquattresima Domenica del Tempo Ordinario 242
Venticinquesima Domenica del Tempo Ordinario 248
Ventiseiesima Domenica del Tempo Ordinario 253
Ventisettesima Domenica del Tempo Ordinario 257
Ventottesima Domenica del Tempo Ordinario 264
Ventinovesima Domenica del Tempo Ordinario 268
Trentesima Domenica del Tempo Ordinario 274
Trentunesima Domenica del Tempo Ordinario 278
Trentaduesima Domenica del Tempo Ordinario 282
Trentatreesima Domenica del Tempo Ordinario 288
FESTE E SOLENNITÀ NEL TEMPO ORDINARIO
Solennità di San Giuseppe 293
Annunciazione del Signore 298
Santissima Trinità 302
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo 307
Sacratissimo Cuore 312
Natività di San Giovanni Battista 317
Santi Apostoli Pietro e Paolo 322
Trasfigurazione del Signore 327
Assunzione della Beata Vergine Maria 332
Solennità di Tutti i Santi 337
Commemorazione dei Defunti 342
Cristo Re dell’Universo 346

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