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CAP 1) LINEE ESSENZIALI DI STORIA DEL CRISTIANESIMO

Il cristianesimo, la cui denominazione rivela già il legame fondamentale con la figura di Gesù Cristo, è un
fenomeno religioso complesso. Nasce dalla tradizione culturale e religiosa del giudaismo, a sua volta già
influenzata dalla cultura greca diffusasi con i regni ellenistici. Nel tempo ha assunto elementi della cultura
greca, come la lingua, e ha dimostrato capacità di adattamento alle diverse situazioni e ai diversi contesti
storici nel proporre il proprio messaggio di salvezza.

1. Uso del termine

Il termine cristianesimo compare per la prima volta con Ignazio di Antiochia nel II secolo, mentre il termine
“cristiani” intorno agli anni 40 dei I secolo, come sappiamo dagli Atti degli Apostoli scritti da Luca, per
identificare persone che proponevano un messaggio religioso riconducibile a Gesù di Nazareth.

2. Gesù di Nazareth

Da due millenni Gesù il Cristo è oggetto di fede. Relativamente presto di pensò che nella sua figura ci fosse
una componente divina, ma fino all’età dell’illuminismo non ci fu mai una riflessione sulla sua personalità
storica, dato che l’unico canone di verità, all’interno del mondo cristiano, era fornito dalla chiesa che
proclamava la fede in lui come dio e salvatore. Con l’Illuminismo, che mise in primo piano la ragione,
cominciò a porsi il problema del Gesù storico. Un’analisi storica molto complessa, compiuta soprattutto
sulle fonti evangeliche, ci dice che Gesù ea un ebreo, nativo della Galilea, in quale, giunto al trentesimo
anno di età, si dette alla predicazione itinerante. Gesù cercava un rinnovamento interno nel Giudaismo, così
come già faceva Giovanni Battista, di cui egli fu discepolo per un periodo.

3. La “nascita” del Cristianesimo

È un dato di fatto che il cristianesimo rappresenta all’inizio solo una delle tante tendenze del giudaismo. Lo
stesso titolo di Cristo (in greco Unto equivalente al Messiah) che gli venne attribuito proviene dalla
tradizione giudaica. All’inizio furono molte le versioni del cristianesimo perché i discepoli credettero nella
resurrezione dai morti di Gesù e interpretarono in modo diverso la sua persona. Fra le varie forme, quella di
Paolo ebbe il maggior successo fra i pagani, perché non li obbligava ad assumere le osservanze dei giudei
(circoncisione, prescrizioni alimentari..). Paolo intendeva rifondare la religione di Israele, ma di fatto la sua
impostazione affrettò il distacco del cristianesimo dal giudaismo. Il requisito minimo per definire il
cristianesimo sin dalla sua origine è la fede in Gesù Cristo inviato da Dio in quanto personaggio salvifico, in
senso esclusivo come fu per Paolo, o principale, accanto alla Torah, come fu per i giudeo-cristiani,

4. Rapporti fra Cristianesimo e autorità politica

Gesù con la frase “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ha affermato la distinzione
fra la sfera di Dio e quella politica, desacralizzando il politico. A differenza del giudaismo che godeva di
grandi privilegi in quanto era tollerata e protetta dalle istituzioni politiche, i cristiani furono spesso
perseguitati: il cristianesimo era visto come una minaccia all’unità e universalità dell’impero romano, in
quanto non accettava i culti ufficiali che erano considerati un fattore di coesione sociale e politica e aveva
un messaggio altrettanto universale dell’ideologia imperiale. Questa situazione si rovesciò bruscamente con
l’imperatore Costantino: egli portò il cristianesimo a diventare il fondamento religioso dell’impero romano,
e l’imperatore ad essere il capo della chiesa. In oriente, fino alla caduta dell’impero di Costantinopoli nel
1453 si mantennero le condizioni perché l’imperatore continuasse ad avere la funzione di guida delle
chiese, mentre in occidente la progressiva perdita di contatto con l’impero romano a seguito della
formazione dei regni romano-barbarici pose le premesse affinché il vescovo di Roma diventasse il capo
effettivo della cristianità.

5. La formazione dell’identità cristiana


Il II secolo è cruciale. Attraverso la Bibbia dei Settanta si decide se mantenere l’eredità giudaica, contro quei
movimenti che volevano separarsi da questa eredità. Alla Bibbia ebraica si affianca il Nuovo Testamento, in
base al quale i fatti della storia ebraica vengono reinterpretati come prefigurazioni dei fatti di Cristo e della
chiesa. La persistenza dell’eredità giudaica comporta il dogma dell’unicità di Dio, creatore della realtà
umana, dunque è inaccettabile l’idea che il mondo sia creato da un altro dio.

Il Cristianesimo dei primi secoli era formato da tante comunità autonome, unite solo da un sentimento di
unità spirituale, ognuna governata da un collegio di presbiteri e da un vescovo. Con Costantino i dibattiti
diventano generali e si cerca la soluzione con i concili ecumenici. Una delle peculiarità del cristianesimo fu
lo sviluppo dell’insieme di dottrine riguardanti Dio che devono rafforzare il sentimento della retta fede,
contro le deviazioni o gli errori. Questa peculiarità prosegue in una serie di tappe, di cui bisogna ricordare il
Credo Niceno-Costantinopolitano in base al quale il Dio cristiano è diviso in tre persone (Padre, Figlio e
Spirito Santo) e la definizione di Calcedonia, molto contestata, secondo la quale Gesù è una sola persona in
due nature diverse, umana e divina. La riflessione a partire dall’intuizione di fede si sviluppò lentamente
attraverso il confronto di diverse posizioni, perciò quella fra ortodossia e eresia è una delle dinamiche che
percorre la storia del cristianesimo e ne costituisce uno dei tratti caratteristici.

Nel II secolo, con la progressiva stabilizzazione dell’organizzazione gerarchica con a capo il vescovo, si
instaura una più o meno aperta conflittualità con movimenti carismatici e profetici. Questa tensione tra
movimento e istituzione continua a manifestarsi ogni qual volta il rafforzarsi dell’istituzione appare come
un allontanamento dagli ideali del vangelo. Così avviene nel XII secolo in occidente, quando il monachesimo
non sembra più in grado di soddisfare le esigenze di vita evangelica: di conseguenza compaiono dei
movimenti che predicano vita evangelica e povertà, che vengono accusati di eresia. Dalla stessa esigenza d
vita evangelica nascono anche il movimento promosso da Francesco d’Assisi nel XIII secolo ed altri ordini
mendicanti. Anche la riforma di Martin Lutero reca in sé la riscoperta del vangelo, contro la politica religiosa
papale del tempo.

Il cristianesimo nasce come nova religio (nuova religione), sul tronco di una religione antichissima (il
giudaismo) che era rispettata dai romani. Nel corso dei secoli prevalse l’idea che il nuovo è deviazione dalla
perfezione originaria e quindi il “nuovo” viene proposto come un ritorno all’antico. Al di là di ciò, nuove
proposte ed esperienze, oltre che la convinzione che lo spirito di Dio continua a operare tra gli uomini, ha
reso il cristianesimo una religione dinamica e aperta all’innovazione.

CAP 2) MINISTRO DI DIO E BESTIA DI SATANA: IL RAPPORTO TRA IL CRISTIANESIMO DELLE


ORIGINI E L’AUTORITA’ PAPALE
1. I testi fondanti: Paolo e il contesto della parenesi ai romani

Nel rapporto fra autorità civile e fede contenuta nel Nuovo Testamento possiamo fare riferimento alle
parole di Gesù “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Se riflettiamo su questa frase
concordiamo nel dire che questo è un insegnamento del Gesù storico e che fa riferimento ad una dottrina
liberale.

Bisogna ricordare che la redazione dei vangeli sinottici è stata accompagnata dalla trasmissione orale di
detti e fatti di Gesù. Ciò significa che nonostante la conoscenza di questo detto fra i seguaci contemporanei
di Gesù, questo non è in senso cronologico la prima prescrizione scritta sul rapporto fra messaggio
evangelico e sfera politica, perché la redazione dei vangeli è posteriore alle lettere autentiche di Paolo.

La più antica fonte scritta a riguardo è un Passo della Lettera ai romani (cap 13,1-7) di Paolo dove affermava
che ogni vivente deve sottomettersi alle autorità costituite (Dio e l’autorità romana). Chi si ribella
all’autorità si contrappone all’ordine stabilito da Dio e deve pagare una condanna. I governanti non fano
paura a chi opera nel bene ma a chi opera nel male. Infine dice “date a tutti ciò che è loro dovuto: a chi il
tributo, a chi la tassa, a chi il timore, a chi l’onore”.

Questo testo, che a una lettura priva di pregiudizi appare chiaro nel suo messaggio di fondo, è diventato un
testo tormentato, di cui alcune tesi recenti mettono addirittura in dubbio il significato politico e
propongono soluzioni de-politicizzanti. In quest’ottica le potenze di cui si parla sarebbero potenze angeliche
(angeli) oppure le autorità della sinagoga.

Il contesto è il giusto modo di vita per il fedele. Paolo guarda innanzitutto alla vita della comunità, parlando
dei rapporti interni e poi di quelli dei membri della comunità con l’esterno (vivere in pace, non farsi giustizia
da sé e vincere il male con il bene). Segue il brano sulle autorità, con l’esortazione a non avere debito con
nessuno e a non far male a nessuno. Nell’ultima lettera ai Romani Paolo dice che “la nostra salvezza è ormai
vicina”, questo prossimo orizzonte rende provvisoria ogni istituzione umana.

Da ciò si ricava che Paolo sta riformulando l’atteggiamento della corrente farisaica, prevalente nella
diaspora giudaica, che prende un dato di fatto l’esistenza dell’autorità e la sua sussistenza perché Dio la
permette, a beneficio delle comunità cristiane che è l’unico suo centro d’interesse. Il fedele, anticipando
nella sua vita la realtà escatologica, si sottomette all’autorità che esiste ancora-per-poco senza difficoltà
perché nel suo agire regolato dall’amore non si coinvolge con il male per il quale si potrebbe subire il
servizio punitivo cui l’autorità è preposta da Dio.

Ma perché a beneficio del Romani? Sicuramente per il contesto, ma anche per la confluenza a Roma di
giudei di varie parti e specialmente dalla Giudea, una zona perennemente a rischio di rivolte, quindi per
evitare contrasti interni tra cristiani e giudei.

2. I testi fondanti: il tributo a Cesare e il suo contesto storico

Il giudaismo dei tempi di Gesù consisteva in una realtà multiforme, sia pure con alcune certezze
generalmente condivise: il culto monoteistico di Dio, il Tempio, il ruolo della Torah. La ricchezza e pluralità
di voci era tale da spiegare bene l’avvento di Gesù, che presenta, oltre alla condivisione del comune
giudaismo, da un lato affinità con tanti aspetti del poliedrico contesto storico e dall’altro spiccati tratti di
originalità.

Tra le tante voci c’era quella del movimento “zelante”, protagonista dei tentativi di liberazione della Giudea
dai romani, nel periodo che va dal passaggio della Giudea a provincia romana alla distruzione di
Gerusalemme (70 d.C). Questa corrente era molto divisa al suo interno a causa delle lotte dei singoli capi
per l’egemonia del movimento. Questa divisione interna è uno dei motivi per cui la fonte primaria, Flavio
Giuseppe, inanella una quantità di nomi per i vari gruppi di rivoltosi, creando negli studiosi molte
incertezze.

Per molto tempo lo scrittore giudeo Flavio Giuseppe ha rappresentato la fonte migliore e quasi unica per la
conoscenza delle divisioni interne al giudaismo del I secolo d.C.

Flavio Giuseppe prese parte direttamente alle vicende di belligeranza antiromana. Su ciò abbiamo due suoi
resoconti (che presentano alcune divergenze): in Guerra giudaica si presenta come uno dei capi scelti dai
ribelli per dirigere le operazioni; in Autobiografia si mette sulla scena già a partire dalla gestazione della
rivolta, assegnandosi il ruolo di moderatore che parte per il fronte solo quando tutti i tentativi di pace sono
falliti. Giuseppe era consapevole dell’inferiorità di mezzi dei rivoltosi e quindi dell’inevitabile catastrofe.
Quando tutto è perduto, egli finisce per consegnarsi ai romani, mentre tutti gli altri si danno alla morte. Una
volta prigioniero, la sua sorte cambiò in meglio quando profetizzò il futuro impero a Vespasiano e,
avveratasi la profezia, egli prese il nome di Flavio e entrò a far parte del seguito del nuovo imperatore.
Nella guerra giudaica Flavio Giuseppe ci dà la descrizione delle tre principali sette giudaiche del tempo:
sadducei, farisei ed esseni. Articola un discorso riguardante le loro credenze circa Dio e il destino
(provvidenza), il libero arbitrio e l’immortalità. Per i sadducei tutto dipende dall’uomo, per i farisei c’è
sinergismo fra uomo e Dio, per gli esseni tutto è determinato da Dio. I sadducei negano ogni aldilà, i farisei
credono nella resurrezione dei giusti, gli esseni credono nell’immortalità dell’anima di buoni e malvagi,
destinata a premi e pene.

È evidente l’apprezzamento delle tre sette, che rappresentano per lui la parte pensante del giudaismo, a
differenza dei “briganti” che hanno spinto i concittadini alla guerra con i loro peccati, alla rovina di
Gerusalemme e del Tempio, forzando la mano a Vespasiano e Tito.

Nell’ Antichità giudaiche Flavio Giuseppe si decide a parlare di una quarta setta, quella degli zeloti, fondata
da Giuda il Galileo e dal fariseo Sadduk per opporsi al censimento fiscale dei romani. Giuseppe occulta la
radice religiosa degli zeloti per non far ricadere sulla religione giudaica il peso delle scelte operate dal
partito.

Nella ricostruzione di Hengel, la lotta di liberazione reca motivazioni religiose e politiche, e anzi, come
radice ideologica profonda, si mostra di natura religiosa. È Dio il vero padrone della terra di Israele per cui
obbedire a una autorità straniera risulta un’infrazione del comando di Dio “non avrai altro Dio all’infuori di
me”. Quella di Giuda era una presa di posizione dottrinale sulla signoria di Dio, che doveva essere esclusiva
e diretta, non mediata da autorità estranee come per i farisei. Flavio Giuseppe non può nascondere che
questa “pazzia” aveva persuaso il popolo: essa aveva anche delle implicazioni escatologiche perché
l’instaurazione della signoria di Dio su Israele sarebbe stato l’inizio della sua redenzione.

Lo zelo per la Legge e il Tempio, interpretato in maniera propria dai ribelli armati, era un tratto comune a
questi, agli esseni nonché ai primi seguaci di Gesù. Lo zelo significava dedizione alla volontà di Dio e
inasprimento della Torah, come realizzazione di tale volontà in vista dell’imminente instaurazione del regno
di Dio.

Il rabbinismo, come anche il cristianesimo, fu il frutto della radicale semplificazione del giudaismo dopo la
tragedia storica dei giudei. Dopo il 135, il rabbinismo cercò di costruire un’osservanza, un modo di vivere al
cospetto del Dio d’Israele, senza più Tempio né terra santa, totalmente diverso da quello di chi aveva
provocato la catastrofe. Il rabbinismo si organizza in modo da non pensare al futuro, senza cenno a
speranze apocalittiche, ma all’organizzazione del presente, in modo da annullare qualsiasi richiamo ad
un’autorità superiore: solo il presente di Dio conta e la responsabilità dell’uomo che si assume il compito di
onorare Dio nel presente.

La filiazione genetica che è stata più in voga potrebbe essere definita come una sorta di pan-essenismo,
cioè la riconduzione a Qumran di figure come Giovanni Battista e Gesù. Per quanto riguarda il primo è
tradizionale considerare come segni di una filiazione essenica l’abbigliamento, l’alimentazione e
l’adolescenza nel deserto, nonché la distanza di 16 km fra Qumran e il luogo dove Giovanni battezzava.
Eppure i punti di divergenza sono tali da porre Giovanni in opposizione all’essenismo. Il battesimo fa
conseguire il perdono dei peccati totalmente al di fuori del sistema culturale del Tempio, al quale invece gli
esseni si richiamano. Giovanni Battista è un predicatore apocalittico indipendente. Ancora più insistiti i
tentativi di fare di Gesù un esseno, anche se il distanziamento dagli esseni è nettissimo.

Il contatto fra Gesù e il Battista è ben documentato dai vangeli. La morte di Gesù a opera dei romani e
quella di Battista a opera di Erode è letta come l’esito finale di un confronto di natura politica che i discepoli
avrebbero successivamente riplasmato in senso spirituale. Questa era la tesi di Reimarus, invece che pan-
essenismo, ci troviamo di fronte a una sorta di pan-zelotismo. Per Giovanni Battista la tesi urta contro la
testimonianza di Flavio Giuseppe che non lo avrebbe certo lodato, come invece fa, se avesse avuto il
minimo sentore del carattere ribellista della sua predicazione. Per Gesù le molte fonti diverse concordano
nell’intendere in senso non politico la sua predicazione, anche se spesso portava con sé un versante di
liberazione sociale evidenziato, ad esempio, nelle Beatitudini.

Il Tributum capitis, la tassa personale pagata dai provinciali, non solo era gravosa, in quanto
simbolicamente e praticamente indizio di sottomissione, ma era pagata con il denarius, la moneta romana
d’argento che conteneva elementi idolatrici. Il pagamento del tributo si inserisce quindi nel clima teso fra
opposte posizioni di lealismo o di accettazione della sovranità romana. La risposta di Gesù, data nei tre
vangeli sinottici a interlocutori diversi (Marco, Matteo e Luca) alla domanda “è giuso o no dare il tributo a
Cesare?” fu “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. La frase è costruita seguendo un
parallelismo tra Cesare e Dio: “date” inteso come ridate a Cesare il denarius. In tal senso, l’affermazione di
Gesù sarebbe la semplice teorizzazione della separazione delle due sfere. Si può però, anche operare uno
sbilanciamento semantico, dando maggior rilievo al secondo termine: si dia pure a Cesare quel che è di
Cesare, ma si dia importanza a Dio che ha la priorità. In ogni caso nel detto di Gesù quello che appartiene a
Cesare viene separato da quello che appartiene a Dio, cioè manca la cornice unitaria, presente invece in
Paolo, costituita dall’affermazione: ogni autorità viene da Dio.

3. Dopo Gesù e Paolo

La frase finale del brano di Paolo “Date a tutti ciò che è loro dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi la tassa la
tassa; a chi il timore il timore, a chi l’onore l’onore”, questa sembra essere una libera reinterpretazione del
detto di Gesù sul tributo. Entrambi presentano un parallelismo, si potrebbe supporre che la distinzione
proposta tra timore e onore indirizzi a due referenti diversi, Dio e i funzionari esattori. Ma anche le prime
due distinzioni riguardano entrambe autorità umane, perché sono loro a riscuotere i due tipi di tasse, a
ciascuna delle quali si dovrebbe o il timore o l’onore. Di certo la tradizione successiva va nel senso
dell’attribuzione di timore e onore a due diverse entità, rappresentate da Dio e dai governanti. Questa linea
interpretativa, che troviamo in bocca a cristiani i quali si rifiutavano di prestare il culto all’imperatore, rende
evidente ciò che in Paolo rimaneva allo stato latente, cioè quel limite dettato dalla coscienza entro cui
essere sottomessi all’autorità.

4. Continuatori della linea paolina

“O diletti, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno
guerra all’anima. La vostra condotta fra i gentili sia irreprensibile, perché mentre vi calunniano
come malfattori, al vedere le vostre opere buone giungano a glorificare Dio nel giorno del
giudizio. State sottomessi a ogni istituzione umana a causa del Signore: si all’imperatore come
sovrano, sia ai governanti come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché
questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli
stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per
coprire la cattiveria, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, onorate
l’imperatore.”

Nel secondo capitolo della Prima lettera di Pietro, l’autore dice ai cristiani che loro sono una stirpe eletta, il
popolo di Dio: la loro condizione in mezzo ai pagani è però di stranieri e di pellegrini. Li richiama a una
buona condotta e evidenzia la finalità missionaria in quanto loro glorificheranno Dio nel giorno del giudizio.
È nel quadro di una crescente problematicità della condizione dei cristiani rispetto all’ambiente circostante
(i cristiani sono di fronte a una situazione di sofferenza) che si colloca l’accento di novità della lettera, non
nell’esortazione alla sottomissione che non si discosta sostanzialmente da quella paolina: infatti dire che
bisogna essere sottomessi a causa del Signore equivale al paolino “ogni autorità viene da Dio”.

Se guardiamo alla frase “onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, onorate l’imperatore” constatiamo
un’intenzionale costruzione accurata, che vede in posizione a cornice il verbo “onorare”, con la creazione
del parallelo fra i “tutti” e “l’imperatore”, in funzione attenuativa, e mette invece in evidenza i due
atteggiamenti centrali, propri della disposizione cristiana, cioè l’amore per i fratelli e il timore verso Dio.

Nella Prima lettera di Pietro rispetto alla paolina Lettera ai romani è variato l’atteggiamento rispetto al
contesto storico, in quanto si insiste sul rispetto verso ogni istituzione umana, anche quella patriarcale, di
cui parla subito dopo con le raccomandazioni agli schiavi e alle donne, e sulla necessità di non dare loro
adito con la cattiva condotta al clima di accusa esistente, mentre nulla di nuovo si dice sull’autorità rispetto
a Paolo: i governatori ci sono per punire i malfattori. Rispetto alle autorità terrene, il cristiano non chiede
nulla, ma questo non implica un atteggiamento di contrapposizione o rifiuto, bensì di sottomissione perché,
pur in una condizione provvisoria (quella terrena), le autorità servono per la punizione del male e il
cristiano non deve mai porsi nella condizione di essere punito per il male.

5. La preghiera per le autorità

La Prima lettera di Clemente ai Corinzi, inviata intorno agli anni 90 d.C dalla comunità di Roma a quella di
Corinto, per scongiurare le divisioni in quella comunità, dopo la metà del II secolo fu attribuita a Clemente,
vescovo di Roma. Qui abbiamo qualcosa di diverso nella parte finale della lettera: una preghiera per le
autorità. Anch’essa appartiene alla tradizione giudaica. In quell’epoca i giudei sostituivano il culto
dell’imperatore con la preghiera per lui: dal punto di vista pratico ci si aspettano benefici e protezione ma
dal punto di vista ideologico è un ulteriore passo in avanti rispetto alla presa d’atto che il potere esercitato
dagli imperi è voluto da Dio. Con questa preghiera si cerca un’ulteriore risonanza interiore: l’accordo del
proprio intimo con il volere di Dio.

La prima parte della lettera non è ancora preghiera per i governanti, ma spiega che gli uomini devono
condurre una vita giusta, facendo ciò che è gradito a Dio e ai governanti. Successivamente c’è un cenno alla
situazione di difficoltà in cui vivono i cristiani “padrone, fa splendere su di noi il tuo volto per il bene della
pace.. perché siamo liberati da coloro che ci odiano ingiustamente” e una supplica alla liberazione dei
cristiani:

“Dona concordia e pace a noi e a tutti gli abitanti della terra [..] quando ti invochiamo
santamente nella fede e nella verità, perché diventiamo obbedienti al tuo Nome onnipotente e
ai nostri governanti e capi della terra.”

Si torna, con una nuova precisazione, su ciò che è dovuto ai governanti: dopo l’obbedienza a Dio, è
menzionata quella verso le autorità.

“Tu, o Padrone, hai dato loro il potere sovrano in virtù della tua potenza magnifica, perché noi,
riconoscendo la gloria e l’onore che tu hai dato loro, siamo a loro sottomessi, senza opporci al
tuo volere: dona loro salute, pace, concordia, stabilità, perché esercitino in modo irreprensibile
il comando che tu hai dato loro. […]”

L’autore implicitamente rimette a Dio il giudizio sulle autorità, verso le quali Dio sarà propizio in relazione al
loro modo di governare: in ogni caso il cristiano prega Dio perché induca le autorità a un comportamento
giusto.

Confrontando la preghiera di Clemente con la Prima lettera a Timoteo, si nota che, mentre la lettera di
Clemente delineava, attraverso l’invocazione per le autorità, un loro ideale comportamento, qui, più
sbrigativamente, viene menzionato il fine utilitaristico. “Ti raccomandiamo che si facciano domande,
suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per gli imperatori e per tutti quelli che stanno al
potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla [..]”. La vita calma e pia è una condizione
affinché si arrivi alla salvezza di tutti gli uomini secondo il cristianesimo.
La dimensione universale del Vangelo e, dunque, l’atteggiamento aperto verso il mondo, ci appare oggi
molto scontata eppure l’ordine della Chiesa è legato a quello del mondo, la chiesa non è né nemica del
mondo, né vi si conforma, ma rimane aperta alla società, purché annunci la salvezza universale. Se si
traggono le conseguenze logiche di questo sentimento universale si dovrebbe concludere che anche le
autorità terrene sono incluse nella speranza di salvezza.

Fatto salvo il rifiuto della pretesa idolatrica dell’autorità, di cui trattano i testi martiriali, la linea espressa
dagli autori sopra presentati del primo cristianesimo è testimone della sottomissione alle leggi vigenti.

In un passo di A. Diogneto si descrive la condizione dei cristiani nel mondo.

“I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per modo di
vestire. […] Invece, mentre abitano città greche o barbare, seguono le usanze locali quanto agli
abiti, al cibo e al modo di vivere. Abitano ciascuno la sua patria, ma come stranieri residenti; a
tutto partecipano attivamente come cittadini, e a tutto assistono passivamente come stranieri;
ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria terra straniera. Si sposano come tutti e
generano figli, ma non abbandonano la loro prole. [..] Passano la vita sulla terra, ma sono
cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.”
(E.Norelli)

Nell’elenco delle virtù cristiane non figura nessun atteggiamento antisociale. Il cristiano obbedisce alle
leggi, che sono stabilite nel luogo in cui si trova a vivere, non ha pretesa di cambiarle, e non chiede nessuna
legge particolare: le supera con il comportamento.

6. Conclusione: il problema della storia

Nei testi esaminati finora noi non riscontriamo un allargamento dello sguardo a un futuro della storia
umana. Si danno raccomandazioni per il presente, per una vita retta davanti a Dio, in cui rientrano anche
quelle nei confronti dell’autorità, ma si mantiene un sentimento di provvisorietà, per cui l’unico punto di
riferimento, metastorico, consiste nel giudizio di Dio che deve compiersi.

Al contrario l’Apocalisse di Giovanni, alla fine del I secolo, in contemporanea alla Prima lettera di Clemente,
riflette sul senso del presente e del futuro dopo la venuta del Messia e lo dipinge come un susseguirsi di
sciagure scatenate dal potere demoniaco che si manifesta attraverso quello politico. Non c’è interlocuzione
dei fedeli con il potere politico, l’unica essendo il rifiuto dell’idolatria e quindi l’accettazione della morte. La
speranza della storia è solo nel segmento finale, il millennio, in cui Satana è finalmente incatenato, e il
potere politico cede il posto al regno dei santi.

Il cristianesimo dei primi secoli sperimenta una condizione in cui il potere politico è in linea di principio più
che di fatto ostile al cristianesimo stesso. In questo orizzonte i cristiani teorizzano e vivono un
atteggiamento di sottomissione e di lealismo. Il quadro di riferimento comune continua, da entrambe le
parti, cristianesimo e impero, ad essere quello di un potere sacralizzato, sia pure, nel caso del cristianesimo,
in modo secondario, in quanto lo si fa derivare dal volere di Dio e lo si subordina ad esso, in modo diretto
nel caso dell’ideologia imperiale, perché progressivamente l’imperatore viene ad assumere il ruolo di
mediazione con la sfera divina, e in qualche modo la rappresenta. Con l’adesione al cristianesimo da parte
dell’impero, le due istituzioni, impero e chiesa, vennero a sovrapporsi.

La secolarizzazione è un fenomeno diverso. La separazione fra spera del temporale e dello spirituale ha
permesso di recuperare e intendere con più chiarezza quel peculiare nesso fra tensione escatologica ed
istanza etica, il quale costituiva allo stesso tempo il fondamento del rispetto del cristiano verso l’autorità e
la sua libertà di fronte ad essa.

CAP 3) LA TEOLOGIA POLITICA DI IPPOLITO E DI EUSEBIO DI CESAREA


1. Introduzione

Ippolito ed Eusebio di Cesarea sono emblematici di due posizioni opposte, maturate nei primi tre secoli di
diffusione del cristianesimo, in merito alla elaborazione più o meno esplicita di una teologia politica, e con
essa, alla riflessione su una quantità di problemi ad essa collegati: il rapporto con la storia, con le promesse
contenute nelle Scritture, con l’apocalittica e l’Apocalissi di Giovanni, con le realtà mondane.

Teologia politica è terminologia moderna. Per gli autori cristiani dei primi secoli, la ricerca di un’eventuale
teologia politica deve rintracciarsi con l’analisi più generale del loro rapporto con le realtà terrene, con il
presente della storia, per comprendere la posizione degli autori nei confronti delle realtà istituzionali.

Prendiamo lo gnosticismo: in esso assistiamo al dissolvimento a livello teorico di un fine unitario della storia
umana, in quanto gli gnostici negano una natura e una destinazione comune a tutti gli uomini, e vi
contrappongono vicende diversificate. Sul piano dell’etica a questo dissolvimento di un fine unitario
corrisponde la negazione di una pratica uniforme di rapporti e atteggiamenti anche esterni dei cristiani,
passibili di tragici e visibili esiti pubblici: si pensi alla negazione della necessità e del valore di una
testimonianza pubblica di fede cristiana di fronte alle autorità giudiziarie, essendo questa emanazione di un
potere superiore diabolico. In termini di rapporto con le realtà politiche, questa visione si traduce in un
sostanziale disinteresse ma anche in un pratico possibilismo, in un lealismo opportunistico.

Contrariamente, per i marcioniti l’opposizione al potere terreno è assoluta. Al polo opposto rispetto a
gnosticismo e marcionismo, ci sono soluzioni che affermano, attraverso una visione provvidenziale e
unitaria della storia, il valore positivo delle realtà umane, ma che divergono circa il ruolo da assegnare
all’attuale assetto istituzionale.

In queste prese di posizione è coinvolta l’Apocalisse di Giovanni, in particolare i capp 19-21, dedicati agli
eventi finali. Sono individuabili tre direttrici: quella di Melitone di Sardi, che potremmo definire un motivato
lealismo verso la realtà istituzionale dell’Impero, la più feconda sul piano della futura elaborazione di una
teologia politica, quella di Ireneo, che potremmo definire un lealismo disinteressato, e quella di Ippolito,
negativa verso l’Impero, anche se gli assegna la funzione utile di segnalare, con le sue vicende sempre più
tragiche, le tappe di avvicinamento alla fine. Sussiste in tutti e tre l’idea comune che in ogni modo si
arriverà alla dissoluzione di tali realtà, in altri termini, dell’Impero romano, prima della fine della storia
stessa. Secondo Melitone e Ireneo, che sono millenaristi, dopo tale dissoluzione ci sarà un segmento di
storia libero dal potere terreno, mentre, per Ippolito che non è millenarista, crede invece nella perennità
della creazione terrena glorificata e liberata dal peccato e dimora dei santi, tutta un’eternità di liberazione.

2. Ippolito

Ippolito condivide con Melitone l’idea del sincronismo fra impero romani e sviluppo del cristianesimo,
volgendola però nei termini di un parallelismo antitetico, in quanto l’universalismo imposto con la violenza
ai popoli sottomessi è la contraffazione diabolica dell’universalismo cristiano. Ad Ireneo lo avvicina la
medesima scansione della storia in sette millenni, pari ai sette giorni della creazione (1000 anni = 1 giorno
di Dio). Ireneo collegava questa suddivisione alla credenza millenaria del settimo millennio come riposo
glorioso dei santi, mentre Ippolito la finalizza a un raffreddamento dell’attesa escatologica, che poteva
assumere un carattere disgregante della convivenza civile e della vita sociale: i suoi calcoli infatti
stabiliscono la nascita di Cristo a 5500, cioè a metà del sesto millennio, lasciando un lasso di tempo ancora
molto lungo prima della fine, che potremmo stabilire in circa 300 anni, sulla base della probabile cronologia
di Ippolito.

Nel Commento a Daniele di due fatti accaduti in Siria e nel Ponto, Ippolito sottolinea il suo intento
antimontanista o contro fenomeni di fibrillante attesa della fine. Nel primo caso, il capo di una chiesa,
interpretando male le Scritture, aveva persuaso i suoi fedeli ad andare incontro a Cristo nel deserto e per
poco il governatore romano non ammazzò tutti. Nel secondo caso, il capo di una comunità nel Ponto,
anch’esso inesperto di scrittura sacra, persuase i fedeli che entro un anno ci sarebbe stato il giudizio: la
gente smise di lavorare per darsi alla penitenza. Molti si rovinarono per attendere la fine ma, quando l’anno
finì e non avvenne nulla, ci fu uno scandalo e si diffuse sfiducia religiosa e un grosso calo di fede. Ippolito si
assegna il compito di interpretare le Scritture, indirizzando alla speranza il disagio dei fedeli e facendogli
prendere coscienza della natura diabolica del potere politico, ma senza che questo si traduca in disordine
sociale.

Ippolito e Ireneo identificano la quarta bestia di Daniele con l’impero romano: entrambi condividono l’idea
dell’alternarsi storico come dominatori di babilonesi, persiani, greci e romani. Concordano anche
nell’introdurre la figura dell’Anticristo, mentre divergono a proposito delle due bestie dell’Apocalisse.
Ireneo identifica la bestia che sale dal mare con l’Anticristo e quella che sale dalla terra con il suo falso
profeta, proiettando esclusivamente nel futuro lo scatenamento del mare. Ippolito invece identifica
l’impero romano con la bestia che sale dal mare e l’Anticristo con la bestia che sale dalla terra. Il ruolo
dell’Anticristo sarà quello di restitutor dell’Impero, dopo il suo frazionamento, e di restitutor del regno e del
tempio dei giudei che, ingannati, lo adoreranno come il messia atteso: a questo punto, il destino di romani
e giudei, uniti dall’opposizione verso i cristiani, si compie.

3. Eusebio di Cesarea

Per capire Eusebio di Cesarea bisogna tenere in conto una grande figura che funge da spartiacque e che
influenzò profondamente Eusebio: Origene, vissuto nel III secolo. Eusebio sembra mettere in relazione
oppositiva la figura di Ippolito a quella di Origene. L’opera di Origene appare un recupero delle istanze
gnostiche in un quadro di piena ortodossia. Origene accetta pluralismo e complessità della storia.

Mentre Ireneo concepiva una fine della storia all’insegna della vittoria e beatitudine dei santi e della eterna
maledizione e punizione dei malvagi, Origene assume, in contrapposizione, il binomio giustizia-bontà
dell’unico Dio, il che gli impedisce di pensare a una punizione eterna e gli impone di far iniziare la vicenda
delle creature razionali non da questo mondo (eone), segnato dalla disuguaglianza, ma da una precedente
vicenda di caduta delle creature intellettuali inizialmente tutte uguali e libere. La storia umana si allarga così
alla prospettiva della molteplicità degli eoni e così la visione della storia umana si relativizza e anzi è vista
solo in chiave di espiazione e quindi senza possibilità di un sollievo umano per i buoni, che sperimentano la
prova e il dolore purificatore in questa vita per evitarla nelle future. La vita del cristiano viene così descritta
come una continua tensione di superamento dello stadio immediatamente precedente.

Eusebio di Cesarea è un ammiratore di Origene, ma non si spinge verso gli illimitati orizzonti origeniani. Si
attiene alla storia degli uomini e costruisce la prima Storia della Chiesa. A causa dell’imperfetta cognizione
di Dio, inconsapevole della pienezza del dogma trinitario e in quanto tale, secondo la tesi di Peterson,
predisposta ad accettare senza remore una funzione teologica della monarchia costantiniana, corrispettivo
terreno della monarchia celeste, nonché a causa dell’istanza escatologica. Il nesso fra subordinazionismo
teologico e teologia politica è stato da tempo accantonato. Caduto questo primo presupposto, la revisione
critica ha individuato da lungo tempo la parte più fondata storicamente della tesi proprio nell’assenza di
escatologismo in Eusebio.

Inoltre, nella misura in cui la teologia storica diverge dai moderni criteri storiografici, si sono moltiplicate le
critiche alla qualità di storico di Eusebio, simili a una serie di anatemi. Salvatore Calderone indicava da un
lato l’oggetto specifico dell’anatema in una delle due facce di cui si compone l’idea che della storia si fa
Eusebio, quella di una suprema guida degli eventi storici esercitata da Dio, e dall’altro faceva notare l’altra
faccia della teoria, che individuerebbe una linea di costante progresso e sviluppo dell’umanità,
progressivamente inserita nella chiesa, cioè ormai nel regno di Cristo sulla terra, reso possibile dall’età
costantiniana. Laicizzata così l’impostazione eusebiana, viene posto l’accento sul suo ottimismo di fondo.
Eusebio assume come fondamentale lo schema preannuncio-compimento mutuato dalla profezia. A ciò era
portato dalla sua indole di esegeta cristiano. L’intero sistema ermeneutico cristiano, nonché l’autorità della
Scrittura ebraica presso i cristiani, si fondavano su questo schema, valido sia per le parti profetiche che
storiche. Le antiche profezie “annunciarono, nella venuta di Cristo, beni in abbondanza per tutti gli uomini,
recando a tutti i popoli, in cambio della ripulsa di un popolo, la buona novella della conoscenza di Dio, della
cacciata dei demoni, della liberazione dell’ignoranza e dell’inganno, lo splendore della luce e della religione.
Profetizzarono anche che i discepoli avrebbero riempito il mondo della sua dottrina. Proclamarono che le
chiede di Cristo si sarebbero stabilite fra tutte le genti e che nel mondo intero il popolo dei cristiani avrebbe
ricevuto un unico nome; che gli atti ostili di governanti e re contro la Chiesa del Cristo non sarebbero valsi a
distruggerla, perché essa riceve forza da Dio”.

A questo messaggio evangelico, Eusebio aggiunge una riflessione specifica di indole apologetica circa il fatto
che il messaggio di Cristo, indirizzato a tutta l’umanità, si riallaccia all’antichissima filosofia degli uomini di
Dio, giusti e religiosi, Abramo e i patriarchi vissuti prima di Mosè. In questo modo Eusebio è in grado di
presentare la religione cristiana come la generalizzazione di un’intuizione e di un modo di vita che era stato
vissuto in antico ed era rimasto come fermento di pochi (i profeti):

“il cristianesimo non è né una forma di religione greca, né una forma di giudaismo, ma
quell’antichissimo genere di religione, intermezzo fra queste […]. Questo tipo di religione,
rimasto a lungo silente, fu rinnovato dal Salvatore, secondo quanto Mosè e gli altri profeti
avevano predetto”.

Per Eusebio il rapporto passato/presente è un rapporto di annuncio/inveramento degli eventi che danno
senso alla storia umana, ma è anche un rapporto di accrescimento quantitativo di essi perché la realtà che
costituisce l’inveramento nel presente era già appannaggio nell’antica epoca, per un numero ristretto di
persone. L’intenzione divina è che la diffusione della propria parola progredisca ogni giorno e raggiunga
tutti gli uomini. È stata una facilitazione voluta dalla provvidenza divina che il messaggio usufruisse di uno
mondo pacificato, quello del governo di Roma, ma bisogna stare attenti a non far dipendere dall’impero
romano il disegno divino dell’evangelizzazione. È questo il senso dell’ipotesi formulata in merito a nuove
persecuzioni, eventualmente permesse da Dio per mostrare che il rafforzamento della parola non deriva
dalla volontà umana ma dalla potenza divina.

La visione di Eusebio sul disegno divino manifestatosi con chiarezza nella venuta di Cristo e
nell’evangelizzazione è di natura ottimista. È però altrettanto indubbio che la situazione si complica se si
guarda alla storia dell’umanità: due schemi interferiscono tra loro, uno gradualistico e uno pessimistico. In
uno, sembra che l’umanità di dia gradualmente sollevata da un brutto inizio; nell’altro sembra che sia
andata peggiorando. Il primo trova espressione nell’ottavo libro della Dimostrazione dove si sottolinea il
passaggio dell’umanità dallo stato bestiale a una civile mansuetudine, attraverso opportuni interventi di
Dio, sia punitivi sia legislativi. L’altro è espresso nei primi dieci capitoli del quarto libro della Dimostrazione,
nei quali all’originaria creazione dell’uomo immagine di Dio si oppone da subito l’azione pervasiva dei
demoni che superano anche l’azione positiva degli angeli delle nazioni, sicché i patriarchi e Mosè appaiono,
anziché come avanguardia di luce, come fragili barlumi in persistenti tenebre e alla fine il Salvatore scende
come medico universale perché l’eccesso di malvagità travolge lo stesso popolo ebraico.

L’unico aspetto comune fra i due schemi riguarda il ritardo nella venuta del figlio di Dio: era giunto perché si
era toccato il culmine del male possibile o del bene possibile. In entrambi gli schemi si dà per scontato il
libero arbitrio dell’uomo, il che pone il problema della dialettica nella storia fra libero arbitrio e azione
provvidenziale, esercitata mediante la mediazione del Logos, il quale governa e provvede all’andamento del
mondo. La trama del disegno divino sembra quasi segnalare un’assenza di Dio fra gli uomini anziché una
presenza. È possibile tentare una spiegazione di quest’aporia a due livelli: al primo livello bisogna guardare
all’intero arco storico, nel quale l’incarnazione costituisce momento di svolta e di rassicurazione a posteriori
che gli eventi anteriori ad essa rispecchiavano realmente la pedagogia rivelatrice del Logos (l’azione del
Logos non può essere coercitiva e immediatamente pressante sull’evento); al secondo livello per Eusebio la
storia umana si inquadra nella cornice negativa costituita dall’idea di una caduta ontologica.

L’antropologia eusebiana si presenta radicalmente dualista: a ogni passo vengono contrapposti il vero
uomo, cioè l’anima, fatta a immagine e somiglianza di Dio, e il corpo, rivestimento terrestre, unito a essa
quale “bestia da soma” e “schiavo” in funzione della vita terrena.

Dunque, la radice profonda dell’antimillenarismo di Eusebio non appare dovuta all’ipervalutazione del
regno costantiniano ma al pessimismo sotteso alla sua valutazione della vita terrena. Egli recupera la storia
dei cristiani come popolo universalistico in chiave provvidenziale, su un fondo di pessimismo che però ha
perduto la tensione escatologica che si notava in Origene. La vita quaggiù è da leggere in chiave negativa e
di rassegnazione e gli uomini devono mirare alla vita di lassù.

Nel Triaconteterico Eusebio esprime in modo compiuto la sua teologia politica proponendo l’idea che come
il Logos ha funzione di guida per le anime verso il regno dei cieli, così Costantino guida gli uomini e li
allontana dai pericoli nel regno terreno.

L’unigenito Logos di Dio, regnando con suo Padre, dura dai tempi che non avevano inizio fino a
quelli che non hanno fine; ugualmente colui che è caro a Lui, sostenuto da superiori
emanazioni regali e rafforzato in nome di una vocazione divina, comanda sulla terra da un
lungo periodo di anni. [..]

In questo discorso Eusebio esalta la figura di Costantino che governa ormai da tre decadi e che ha portato la
pace nell’impero romano. Sia chiaro, la guida dell’imperatore è sempre in vista del regno dei cieli: il Logos
esorta ad essere pronti per il viaggio superiore. Il sovrano terreno è consapevole che lo stato presente non
è degno di Dio, sa che le cose sono mortali e caduche e desidera anch’egli il regno di Dio.

Nella visione eusebiana della storia il futuro, oltre ad essere compimento, è soprattutto liberazione dai mali
terreni: una visione del presente poco ottimista, per quanto gratificata dall’evangelizzazione e grata ai
benefici apportati dalla provvidenziale figura dell’imperatore.

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