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Il professor Andersen e la solitudine dell'uomo contemporaneo

Cenni biografici, influenze letterarie e debutto dell'autore

Dag Solstad è considerato uno dei maggiori scrittori norvegesi, sia sul piano nazionale che
internazionale. Nasce nel 1941 a Sandefjord (Norvegia) e debutta come scrittore negli anni '70 con
due raccolte di racconti, influenzato dalla letteratura di avanguardia. Inizialmente prende come
modello la letteratura modernista e l'assurdo di Kafka, Beckett e Camus, prendendo ispirazione
anche dal minimalismo del Nouveau roman. Negli anni '90, poi, abbandonerà il modernismo per
poter abbracciare il social-realismo, divenendo a tutti gli effetti un intellettuale al servizio del
popolo. Sono gli anni che seguono la disillusione politica dell'autore, prima fermamente sostenitore
dell'utopia di una politica attiva, impegnata, poi totalmente disamorato e proiettato verso una più
profonda indagine dei recessi dell'animo umano, indagine che, come vedremo, assumerà dei
caratteri non solo individuali bensì universali.
All'inizio della sua carriera Solstad lavora come giornalista, collaborando con la rivista Profil, uno
tra i più importanti forum di discussione sulle innovazioni che più hanno inciso sulla cultura
norvegese. Ed è proprio la “norvegesità” della produzione letteraria uno degli aspetti più ricorrenti
nelle opere di Solstad.

L'intellettuale norvegese e la solitudine umana

Influenzato anche dal clima letterario degli anni '90, Solstad partecipa, attraverso la produzione
delle sue opere più significative, alla critica generale mossa nei confronti della figura
dell'intellettuale contemporaneo. Attraverso un'analisi profonda e universalizzata dei processi
psichici dell'uomo, nonché dei tormenti e degli interrogativi che più smuovono i recessi dell'animo
umano, affronta tematiche che spaziano dalla solitudine alla crisi esistenziale, giungendo fino alla
questione dell'inutilità dei “pilastri della società e della letteratura”. Lo stesso professor Andersen è
ossessionato dal timore della perdita di una coscienza storica e culturale. Per questo stesso motivo,
egli appare evidentemente ancorato al mondo della tradizione, ponendosi spesso in una posizione
anti-moderna.
L'autore, durante un'intervista del 1984 con il celebre Jan Kjærstad, dichiara: “Quel che da sempre
mi preme descrivere più di ogni altra cosa è la peculiarità dell'essere norvegesi”. Ciò che quindi
interessa all'autore è l'indagine degli aspetti che più caratterizzano la figura dell'intellettuale in
Norvegia. Come possiamo notare, infatti, i protagonisti delle opere di Solstad non sono altro che
accademici in crisi, spesso della stessa età dell'autore, che mostrano sfiducia nei confronti delle élite
culturali, politiche e mediatiche degli ambienti della società norvegese. Sono uomini di cultura
arrivati a metà della loro vita, privi di rapporti sociali solidi, privi di certezze a cui aggrapparsi, con
la sola consapevolezza che l'uomo, pur essendo un animale sociale, è destinato a vivere gli ultimi
anni -forse decenni- della sua esistenza nella più completa solitudine, potendosi aggrappare
solamente ai fantasmi della propria disillusa e tormentata psiche. La preoccupazione principale
dello scrittore non è tanto la trama quanto lo studio metafisico della solitudine dell'uomo
contemporaneo. I suoi personaggi tendono a vivere ai margini: in Romanzo 11, Libro 18, ad
esempio, Hansen, sfidando la sorte insieme alla sua amante, decide di tornare nella sua piccola città,
lasciando una moglie e un figlio. Ma quando il rapporto con questa donna audace e affascinante
crolla improvvisamente, e lei stessa si trasforma in un essere abbrutito e disperato, egli si ritira a
vivere un'esistenza solitaria, realizzando, infine, di non essere mai stato presente nemmeno per suo
figlio.
Come vedremo nel caso del romanzo La notte del professor Andersen, i protagonisti delle opere
degli anni '90 sono individui caratterizzati da una debilitante incapacità di agire, di prendere
decisioni in grado di dare una svolta, un cambiamento radicale alla propria esistenza. Questa
indolenza turba a sua volta l'individuo in crisi, scatenando una reazione a catena che lo induce in
primo luogo a mettere in dubbio la propria tenuta morale e il ruolo da egli assunto all'interno della
società, e successivamente a non riconoscersi nel proprio io, nella propria personalità. Per Thomas
Andersen definisce i protagonisti di Solstad come hjernehelter, come “eroi cerebrali”, ossia
individui che, incapaci di agire nel mondo reale, sono destinati a vivere totalmente nella propria
interiorità e a perdersi ossessivamente all'interno dei propri pensieri.

Professor Andersens Natt

In questa opera in particolare possiamo notare quanto Dag Solstad si avvicini all'esplorazione di ciò
che sono le discrepanze tra i modi in cui vorremmo reagire agli eventi della vita e il modo in cui
effettivamente li affrontiamo. L'omonimo personaggio centrale di questa narrazione, dopo due mesi
di assoluta frenesia, giunge con una calma implacabile a uno stato di completa accettazione passiva.
La sua vita è sempre stata caratterizzata dal suo forte impegno nel mondo letterario. Andersen è un
accademico, in precedenza è stato persino sposato. Adesso non lo è più. Non ha figli, ma solo due
nipoti, e si ritrova a festeggiare la Vigilia di Natale in uno stato di quieta solitudine, seguendo ad
uno ad uno tutti i canoni della tradizione. Gli ritorna in mente la sua fascinazione infantile nei
confronti delle immagini divine: il bambin Gesù, il presepe, i Re dell'Oriente... Ma la sua non è una
devozione religiosa, bensì un tentativo di riportare in auge un passato che ormai sembra essersi
dissolto nel nulla, in una nebbia di oblio che minaccia l'effettiva perdita di una coscienza
tradizionale, culturale e storica.
Nel corso di tutto il suo lunghissimo monologo interiore, il professor Andersen dà voce ai suoi
pensieri più profondi, toccando tematiche non solo religiose ed esistenziali, ma anche sociali e
letterarie in senso stretto. Egli critica in primis la generazione contestatrice degli anni Settanta,
inizialmente di posizioni radicali, ma successivamente integrata nel mondo borghese e ormai
omologata al successo sociale e al benessere materiale. Proprio durante l'episodio della cena di
Santo Stefano, infatti, Andersen si rende conto di quanto siano sterili e insensati i discorsi
pronunciati dalla sua stessa generazione di intellettuali, di quanto siano ipocriti e privi di contenuto,
tanto da essere ormai ridotti a un mero e fastidioso cicaleccio. La vita non è altro che un triste
teatrino in cui ogni attore è obbligato a recitare un ruolo, che si sa essere vuoto, sterile, ma che ha
ormai inglobato totalmente l'identità stessa dell'individuo. Tutto è pura apparenza estetica, non c'è
spazio per il contenuto, l'interiorità, ma solo per ciò che risiede sulla superficie. Per il professore,
quindi, l'unico dialogo possibile resta quello con se stesso, con il proprio io. Ormai la distanza non è
più tra classi sociali, bensì tra individui: di qui l'impossibilità di comunicare e la frustrazione
dell'intellettuale nel non potersi esprimere in una società i cui pilastri ha sempre tanto difeso e
osannato fin poco prima. Il professor Andersen, quindi, non è altro che un decadente che, nel corso
del suo inarrestabile monologo interiore, sfida le norme e i valori condivisi, contestandoli. Il suo
immobilismo si traduce nell'astenersi dall'agire secondo quanto impongono le convenzioni sociali
che tanto hanno ormai omologato l'individuo, riducendolo a un mero strumento al servizio delle
mode e dei criteri condivisi. In una società in cui persino le opinioni e i gusti personali sembrano
essere avvolti da uno spesso velo di conformismo apatico, il professor Andersen si interroga sulla
possibilità che i grandi pilastri della tradizione non possano crollare definitivamente. Andersen si
ritira, così, nel suo spazio cerebrale, ma la sua riflessione purtroppo non condurrà mai all'azione. Il
suo costante ritrovarsi immerso nella sua interiorità non è altro che il riflesso di una profonda
sfiducia nei confronti delle istituzioni.
L'evento che scatena le riflessioni del protagonista è l'omicidio di una giovane donna dai capelli
biondissimi, all'apparenza un'adolescente, che viene consumato in un appartamento di fronte alla
sua abitazione, proprio davanti ai suoi occhi. Resosi conto della gravità della situazione, il professor
Andersen corre subito a rifugiarsi dietro le tende della finestra e quando torna a sbirciare si accorge
che anche le tende della finestra di fronte sono state tirate. Da questo momento in poi si prolunga
tutta una battaglia all'interno della coscienza del protagonista. Inizialmente sembra deciso a
chiamare la polizia, ma poi cambia repentinamente idea, convinto di non sapere realmente che
versione raccontare e dubbioso di poter essere deriso da quanti dovessero ascoltare la sua
testimonianza. Nonostante le mille riflessioni e i molteplici ripensamenti, egli resta comunque
immobile, e inizia persino a sentirsi lui stesso implicato nell'omicidio per non averlo denunciato
tempestivamente. Il romanzo è quel che si potrebbe definire a tutti gli effetti un “giallo di inazione”,
ossia un giallo in cui sostanzialmente il protagonista non agirà mai, almeno non nel mondo reale,
bensì consumerà sempre di più le proprie energie mentali a furia di rimuginare continuamente sulla
possibilità di agire o meno. Egli, infatti, non denuncerà mai il delitto, bensì troverà sempre delle
scuse, delle giustificazioni che lo condurranno a restare totalmente passivo di fronte alla
drammatica situazione. Mentre si astiene dall'intervenire, però, Andersen continua sempre a spiare
l'assassino. Nasce a poco a poco in lui una sensazione particolare, un misto tra timore e
ammirazione nei confronti di questo uomo misterioso. Inizia a percepire l'omicidio come un atto
voyeuristico, come un'azione in grado di condurre l'uomo alla libertà, all'affermazione del proprio
sé, indipendentemente dalle possibili ripercussioni in ambito etico e morale. Nel suo ossessivo
rimuginare sull'esistenza e sul mondo che lo circonda, l'uomo arriverà persino ad interrogarsi sulla
questione della presenza-assenza di Dio, giungendo a una chiara conclusione: l'unica forma in cui
Dio può realmente esistere deve essere quella di garante della morale, di unico giudice in grado di
determinare il labile confine tra bene e male. Nonostante ciò, però, lo stesso professore afferma che
in realtà è possibile far sparire la figura di Dio con un semplice schiocco di dita, e con Egli liberarsi
così anche di ogni condizionamento etico e morale.
Il riflesso che si proietta contro il vetro della finestra , vedremo, non è solamente quello dell'ombra
del professor Andersen, bensì quello della sua stessa coscienza. Infatti è proprio la sua coscienza ad
essere scossa perché, mentre egli osserva la finestra della casa di fronte alla sua, si imbatte
improvvisamente in un tacito delitto che, pur dissolvendosi apparentemente nel nulla, resta
indelebile nella sua fragile e tormentata psiche. Da un punto di vista più strettamente scenografico,
gli avvenimenti descritti in questo passaggio del libro ci ricordano un celebre capolavoro di Alfred
Hitchcock intitolato Rear Window (in italiano La finestra sul cortile). Come possiamo notare, Dag
Solstad riesce a tratteggiare con una chiarezza disarmante il ritratto della precarietà della psiche
umana e della tendenza all'ossessività che è tipica dell'individuo che si ritrova ad essere
irrimediabilmente reciso dal contesto sociale in cui è immerso.
Ma nonostante la vicenda narrata sia quasi completamente caratterizzata da un immobilismo e da
una forte inazione da parte del protagonista, verso la fine del romanzo Andersen si ritroverà a tu per
tu con l'assassino, arrivando persino a familiarizzare con lui. Questo cambio di rotta conduce il
lettore stesso a dubitare della veridicità della vicenda, a chiedersi se il tutto non sia altro che la
rappresentazione dei fantasmi della mente del professor Andersen. Dov'è, quindi, il confine tra
realtà e finzione? Esiste? Probabilmente non riusciremo mai a trovare delle risposte univoche ai
mille interrogativi che ci pone Solstad, ma forse è proprio questo lo scopo dell'autore. Egli stesso ha
sempre affermato che i suoi romanzi sono domande, non risposte, perciò il lettore non può far altro
che lasciarsi trasportare nei meandri della psiche umana, in un sonno che è sospeso tra la veglia e
l'incubo. E magari, chissà, potersi perdere per poi ritrovarsi. O forse no.

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