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Italo Svevo
   
    
 

 
     
Sommario: La biografia - L’ideologia - La poetica
- I romanzi: Una vita - Senilità - La
coscienza di Zeno -
Altre opere
 
   
 
    
    
La biografia
    
       
Italo Svevo è lo pseudonimo di Ettore Schmitz, nome
d’arte scelto dallo scrittore ad
esprimere la
volontà di conciliazione delle due anime che erano in lui. I
genitori infatti erano
ebrei, ma il padre di origini tedesche, la madre
invece, Allegra Moravia, italiana. La famiglia
comunque si considerava
italiana e viveva di commerci. Ettore dunque nacque a Triste nel 1861
e
da bambino fu mandato a studiare a Würzburg, città
della Baviera, ma con forti legami
culturali con l’Italia.
Lì egli apprese rapidamente la lingua tedesca e
poté leggere le opere di
scrittori sia tedeschi che inglesi
e russi. Tornato a Trieste si iscrisse presso l’Istituto
Superiore di
Commercio “Revoltella”, volendo il
padre avviarlo al commercio. Il tracollo finanziario
dell’azienda di famiglia sconvolse però questi
piani ed Italo finì con l’impiegarsi presso una
filiale triestina della Banca Union di Vienna. Nel frattempo tuttavia
egli aveva conosciuto la
redazione de L’Indipendente,
giornale diretto da Riccardo Zampieri, amico del patriota Oberdan,
e di
chiara impostazione irredentistica. In questo periodo Italo
approfondì le sue conoscenze
letterarie avvicinandosi ai
grandi classici della letteratura italiana, Boccaccio, Machiavelli,
Guicciardini, ed anche agli scrittori francesi Flaubert, Zola, Balzac,
Daudet ecc.  Nel 1896 sposò
Lidia Veneziani, figlia
di un grosso industriale produttore di vernici  e, dopo alcuni
anni, entrò a
lavorare in quella ditta. Divenne
così un imprenditore che coltivava la passione per il
violino e
per la letteratura. Dopo l’insuccesso anche del suo
secondo romanzo, Senilità, apparso a puntate
su
L’Indipendente, per più di due decenni non
pubblicò altro, dedicandosi alla sua azienda. Ebbe
tuttavia
modo di conoscere personalmente James Joyce, che fu suo insegnante di
inglese, e di
avvicinarsi al pensiero di Freud. Dopo aver pubblicato
nel 1922 “La coscienza di Zeno”, che
finalmente lo
affermò come scrittore, nel 1928 morì a seguito
di un incidente automobilistico.
    
    
    
La poetica
    

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Svevo ebbe una concezione impegnata della letteratura. Nella crisi di
valori della società
contemporanea, lo scrittore vide che
essa non poteva più svolgere un ruolo consolatorio,

costituire una via di evasione dalla realtà,
né essere più racconto mitico: ormai avrebbe
potuto
essere soltanto ricerca intellettuale, strumento di analisi,
volta a trasmettere alcune fondamentali
scoperte e tra queste il
carattere ambiguo della nostra personalità, complessa e
contraddittoria.
La nuova letteratura avrebbe dovuto allora
assumere  come protagonista un personaggio non più
suscettibile di una interpretazione univoca.  Comparve
così nell’opera sveviana una figura nuova
di eroe:
l’inetto. Questo carattere umano ha certamente dei precursori
in personaggi della
narrativa russa, per esempio di Turgenev o di
Dostoevskij, ma in Svevo diviene figura centrale.
L’inetto
sveviano pertanto è caratterizzato soprattutto dal
velleitarismo, dalla sproporzione tra le
sue ambizioni e le sue
capacità, dalla sua tendenza a vivere più con la
fantasia che nella realtà.
Pieno perciò di
inibizioni, di frustrazioni, avverte la sua inferiorità e
subisce gli eventi, non li
domina. Egli dunque è un eroe in
senso negativo,  è colui che soggiace passivamente
ai
condizionamenti ambientali e alle pulsioni dell’inconscio
che lo privano di ogni possibilità di
scelta. Egli
è un abulico, un essere privo di forte volontà,
più incline alla contemplazione che
non all’azione.
    
    
    
L’ideologia
    
    
Per comprendere sino in fondo la personalità di Italo Svevo
occorre tener conto della natura
dell’ambiente culturale in
cui egli visse. Trieste, al tempo del nostro scrittore, era
città franca
dell’Impero Austro-ungarico. Grande
porto ed emporio mercantile attraverso il quale
transitavano merci
dirette in tutta Europa, aveva particolari legami con Vienna
ovviamente,
Budapest e Praga. Nella città viveva pertanto
una folla di individui delle più diverse
nazionalità:
italiani, slavi, turchi, tedeschi, greci,
ebrei...Città prevalentemente borghese e mercantile, si
collocava nell’area culturale della Mittel Europa (col nome
di Mitteleuropa  = Europa di mezzo,
si indicava la parte
centrale dell’Europa con limiti geografici che andavano dal
Mar del Nord e
dal Baltico sino all’Adriatico; a questi
confini geografici però non corrispondevano altrettanto
chiari confini culturali giacché si considerava
Mitteleuropa, sotto questo riguardo, tutta l’area
anche
dominata dalla monarchia asburgica).  Le persone colte di
Trieste leggevano autori
francesi, russi, tedeschi, scandinavi e
inglesi. Si coltivavano con attenzione la musica e la
pittura. Questa
borghesia tuttavia non costituiva un blocco unitario e la
città era sottoposta a forti
tensioni sociali. I lavoratori
portuali infatti per primi avevano assimilato il portato della
propaganda socialista ed anarchica; vi erano poi gli irredentisti
italiani assai attivi mentre parte
della popolazione si atteggiava a
cosmopolita. In questo crogiolo di diverse posizioni dovette
subito
orientarsi Svevo. Quantunque poco vocato all’attivismo
politico, frequentando
L’Indipendente si
sensibilizzò nei confronti del problema delle terre italiane
irredente, si accostò
anche al socialismo sia per aver
personalmente conosciuto Bebel, teorico della
socialdemocrazia, sia per
aver letto qualcosa di Marx. Tuttavia non credette nella
possibilità di
una rivoluzione capace di stabilire la
giustizia sociale. Nel suo unico lavoro di contenuto
politico, il
racconto “La tribù”, egli mostra di
avere coscienza dello sfruttamento della classe

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operaia necessariamente
connesso con lo sviluppo della società industrializzata, del
carattere
utopico delle dottrine egualitarie, alle quali guarda
tuttavia con simpatia.
       
Da un punto di vista filosofico egli si avvicinò
all’evoluzionismo darwiniano, ma non
credette che le dottrine
di quel pensatore fossero sufficienti a spiegare e a capire la
condizione
umana e vide come la pretesa di spiegare l’essenza
dell’uomo all’interno di leggi naturali
necessarie
ed immutabili si scontrasse contro la concezione del comportamento
umano come
scaturente da un fondo psicologico complesso e
contraddittorio. Attraverso la lettura di
Schopenhauer infatti egli era
arrivato alla convinzione della non riducibilità
dell’agire umano
alle semplici leggi positive. Anche Svevo
infatti affermò che le motivazioni razionali del
comportamento umano non fossero che la copertura di pulsioni profonde
la cui dinamica non è
riducibile al determinismo psicologico
dei positivisti. Ma la parte più originale del pensiero
sveviano è nel concetto di malattia. A. Grillini1
così ricostruisce questo pensiero: “Gli animali
che si sono succeduti sulla faccia della terra si sono saputi adattare
all’ambiente, modificando la
struttura del proprio corpo in
funzione di una più efficace lotta per la vita: si sono
coperti di peli,
si sono forniti di zanne e di artigli, hanno corazzato
la propria pelle...A un certo punto è
comparso
l’uomo, il più debole, il meno specializzato e
adattato fra tutti gli animali, un essere
nudo e indifeso a causa di
una dose assai più sviluppata di anima. L’anima
indica nel testo
sveviano l’indisponibilità umana
ad un adattamento totale e definitivo, la capacità di
conservare
parte delle potenzialità iniziali e di rimanere
allo stato di “abbozzo”...per lunghi secoli
l’uomo ha
vissuto a fianco del mammuth...ma il mammuth, privo
di anima, è scomparso, soccombendo di
fronte agli imprevisti
capovolgimenti di clima e di ambiente, mentre l’uomo
è sopravvissuto,
proprio grazie a quella che poteva sembrare
la sua debolezza. La stessa opposizione mammuth-
uomo si riproduce
all’interno della specie umana: ci sono degli uomini che si
sono integrati nel
loro ambiente sociale e ce ne sono altri pochi che
tale integrazione non hanno saputo o voluto
accettare, rimanendo
più degli altri in uno stato di disadattamento. I primi
producono, mandano
avanti la società e sono psicologicamente
sani; i secondi, non adatti, malati nella volontà e nello
spirito, incapaci di vivere in maniera semplice e diretta, appaiono
inutili nel presente, ma
costituiscono una ricchezza per tutti,
giacché sono essi a custodire, nella loro indeterminatezza,
i
lineamenti ancora incerti del possibile uomo futuro. Nei tempi lunghi
sono gli uomini di questo
tipo ad avere la meglio...la malattia, in
questa accezione, non è più soltanto il segno di
una
sconfitta individuale, di un fallimento esistenziale, di una caduta
nella lotta per la vita, ma è il
sintomo di un malessere
connaturato al vivere e nello stesso tempo la condizione
imprescindibile
per la rivelazione, anch’essa in continua
evoluzione, del senso della vita”. Con ciò Svevo
rovescia Darwin, indicando nell’uomo non adattato
all’ambiente, come tra gli animali, la punta
più
alta dell’evoluzione.
    
    
    
I romanzi
    
    
Il primo romanzo pubblicato da I. Svevo fu “Una
vita” apparso nel 1892. Vi si narrano le
vicende del giovane
Alfonso Nitti che, lasciato il paese natale, si trasferisce a Trieste
dove trova
lavoro come impiegato in una banca. La sua vita si svolge in
maniera monotona tra l’ambiente di
lavoro, la casa pensione,
ove egli è andato ad abitare, la biblioteca cittadina, nella
quale ogni

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tanto si rifugia, finché, in occasione di un


ricevimento dato dal proprietario della banca, il signor
Maller, egli
non ne conosce la figlia Annetta e se ne innamora. La ragazza, pur
avendo diversi
corteggiatori, comincia a frequentare Alfonso e a
nutrire per lui un sentimento di affetto, attratta
soprattutto dalle
qualità artistiche del giovane che ha progettato un romanzo
e che ora vuole
scriverlo proprio con la sua collaborazione. Dalla
frequentazione assidua nasce tra i due giovani
l’amore.  Alfonso potrebbe chiedere la mano di
Annetta, ma tentenna finché, approfittando di
una malattia
che ha colpito la vecchia madre rimasta in paese, decide di andare da
lei. Quando
dopo diverso tempo torna a Trieste, Alfonso trova ormai
Annetta fidanzata ad un altro uomo e
scopre infranto per
sempre  il suo sogno d’amore. Il giovane
si  rende presto conto che, anche
sul posto di lavoro, ormai
le cose sono per lui cambiate in peggio, tanto che è stato
assegnato ad
una mansione di minore importanza; ma lo smarrimento
più totale lo subisce dopo che viene
sfidato a duello dal
fratello di Annetta, presentatosi ad un appuntamento al quale 
sarebbe dovuta
andare la ragazza. Decide allora di suicidarsi ed attua
questo suo proposito senza che il fatto
susciti troppo clamore in
città e tra i suoi conoscenti.
    
Ora questo romanzo presenta non pochi legami con la narrativa
ottocentesca. Come prima
cosa infatti risente della letteratura
realista, essendo volto a mettere in luce, in tutti i suoi
particolari,
l’ambiente di lavoro delle banche e, con esso, la
mentalità della classe borghese
mercantile ed
imprenditoriale che intorno a quelle gravitava. Opera di denuncia,
giacché l’autore
non condivide la logica del
guadagno ad ogni costo né il cinismo di una
società che come valore
conosce solo il dio denaro; ma anche
di evidente autobiografismo, fondata com’è sulla
personale
esperienza di Italo, già impiegato di banca. Sotto
altri riguardi “Una vita” può apparire
un
romanzo sociologico nella contrapposizione evidente tra il sistema
di valori delle opposte realtà
della vita contadina e della
cittadina. Sotto questo riguardo la vicenda di Alfonso esprime le
problematiche connesse all’inurbamento e
all’incapacità di adattamento del giovane
all’ambiente nuovo in cui si trova; elementi questi che fanno
pensare a quest’opera come ad un
epigono della letteratura
campagnola. Ma la storia di Alfonso può anche essere letta
come una
mancata iniziazione alla vita, il che ci porterebbe
nell’ambito del “romanzo di formazione”,
il
Bildungsroman; o ancora come un’opera dettata
dall’adesione dello scrittore alle idee del
darwinismo
sociale, per cui Alfonso sarebbe un soccombente nella lotta per la
sopravvivenza.
Per capire sino in fondo il romanzo allora, è
necessario concentrare l’attenzione sulla figura del
protagonista. Alfonso è un individuo che appare sempre
incapace di adeguarsi alla realtà, egli
riesce a realizzare
le sue aspirazioni solo nell’immaginazione, nella fantasia;
messo di fronte alla
realtà, non la domina ma ne
è dominato, sicché si rifugia più
spesso nel sogno. Ciò però non
impedisce che si
generino in lui frustrazioni, sicché vive una vita
profondamente infelice nella
coscienza o della sua
inferiorità rispetto agli altri, o, quando si lascia
ingannare dalla sua
ragione, in quella della sua superiorità
che lo confina però nella solitudine. Egli può
apparire
persino un nevrotico che nasconde a se stesso la propria
malattia, che si auto inganna. La
caratteristica fondamentale di questo
personaggio è pertanto il velleitarismo o, se si vuole,
l’inettitudine. Alfonso Nitti dunque è il primo
grande “inetto” della nostra letteratura. A livello
stilistico il romanzo si giova soprattutto della tecnica del monologo
interiore che rivela i legami
di Svevo con Joyce e attraverso la quale
la vicenda è sempre ricondotta all’angolo visuale
del
protagonista. Per quanto riguarda la lingua invece si assiste allo
sforzo dell’autore di arrivare ad
un’espressione
correttamente italiana attraverso il passaggio ad esempio delle
espressioni

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dialettali nella forma della lingua ufficiale, ma che


registra diverse locuzioni disusate o termini
non corretti.
       
Il secondo romanzo apparve nel 1898 ed è
“Senilità”. Personaggio protagonista
è Emilio
Brentani, anch’egli con
velleità artistiche, piccolo scrittore di provincia che
vive  con la sorella
Amalia una vita monotona da impiegato,
ravvivata sola dall’amicizia con un certo Balli,
anch’egli artista fallito, ma che in compenso riscuote
successi con le donne. Ed una donna, alla
fine, entra anche nella vita
di Emilio: è Angiolina, una popolana procace, istintiva, un
po’
volgare, ma piena di vita. In breve Emilio se ne innamora
e riesce anche a intrecciare una
relazione con lei.  Vorrebbe
farle un po’ da Pigmalione, ma la ragazza finisce con il
tradirlo con
altri uomini e poi si concede anche al Balli.
Contemporaneamente dello scultore si innamora
anche Amalia che si
consuma letteralmente per lui. Sentendosi infatti respinta, offesa
nella sua
femminilità, si lascia vincere dalla tentazione
dell’etere con cui si droga. Quando Emilio scopre i
sentimenti della sorella e invita il Balli a non più
frequentare la propria casa,  è troppo tardi: la
sorella ormai delira, crede di essere sposata con il Balli, e muore
stroncata dall’etere. Emilio a
questo punto decide di
lasciare per sempre Angiolina e dimenticarla , nello stesso tempo
rinuncia anche alla vita, non però suicidandosi,
bensì rifugiandosi e chiudendosi in un’inerzia
totale.
       
A questo punto siamo in grado di comprendere il titolo del romanzo che
fa riferimento
appunto ad una condizione psicologica di abulia e di
rinuncia alla vita, alla condizione di chi non
sa più essere
giovane e riesce a rimuovere ogni spinta vitalistica, ogni desiderio.
Come scrive A.
Grillini2, Emilio si chiude in una precoce
senilità “in uno stato patologico che della
vecchiaia
naturale riproduce l’assenza di futuro e la
propensione a vivere nel ricordo, nel sogno, nella
contemplazione”.
    
Anche questo romanzo fu completamente ignorato dalla critica letteraria
del tempo. Rispetto
al precedente possiamo notare diversità
ed analogie. Consistono queste diversità nella minore
attenzione nella descrizione esteriore degli ambienti, nella mancanza
di interesse dello scrittore
per gli elementi di natura sociale, nella
quasi assenza di personaggi minori, concentrandosi la
narrazione
nell’analisi dei quattro protagonisti. Lo strettissimo legame
di continuità con “Una
vita” invece
è dato dal personaggio di Emilio, fratello gemello di
Alfonso. Anche Emilio infatti è
un inetto analizzato in
tutti i suoi sentimenti, i suoi pensieri. Appartiene alla stessa classe
sociale
di Alfonso: è anch’egli un artista piccolo
borghese mortificato dalla società che non ne riconosce
il
valore. Ma i due si somigliano soprattutto da un punto di vista
psicologico: anche Emilio è
fondamentalmente un debole, un
uomo incapace di affrontare la realtà e che per questo si
è
costruito un mondo a sua dimensione che lo garantisce
dalla violenza e dalla cattiveria degli
altri, ma che anche lo isola. E
quando con la realtà esterna entra in contatto, per esempio
innamorandosi di Angiolina, allora resta deluso e sconfitto da quella
realtà.
    
Per questo aspetto del contrasto tra il mondo sognato e quello reale,
questo personaggio può
essere considerato anche un epigono
dell’eroe romantico, ma di quello poi gli manca
completamente
la volontà pugnace, il senso di ribellione, il sangue caldo
nelle vene, la volontà
di lotta. Come scrive A. Grillini3
“Emilio è un inetto incapace di aderire
schiettamente alla vita,
portato a sovrapporre all’azione
un’attività analitica paralizzante, che da un lato
gli consente
squarci di autocoscienza dolorosa, dall’altro si
lascia tentare continuamente da sofismi auto
ingannatori”.

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Secondo una certa interpretazione sociologica, Emilio incarnerebbe
invece l’impotenza
sociale del piccolo borghese declassato,
frustrato da una condizione alienante e spersonalizzata .
Per questo si
è detto che egli costituisce un tipo sociale collegabile a
precise coordinate storiche,
quelle del tempo di Svevo appunto, e
rappresentante l’intellettuale nel momento della crisi della
società sulla fine dell’Ottocento. E Svevo avrebbe
dunque espresso attraverso di esso la piena
coscienza di questa crisi.
       
Sotto altri riguardi “Senilità”
costituisce un esempio di romanzo psicologico essendo
l’attenzione dello scrittore sempre volta ad analizzare
l’interiorità dei protagonisti e di Emilio in
particolare. Secondo A. Grillini4 anzi “il vero oggetto del
libro è la rappresentazione dei
meccanismi contorti
dell’autocoscienza del protagonista, i quali si sviluppano
faticosamente tra
momenti di lucidità e momenti di auto
inganno, fino all’esito patologico finale (la
senilità)”.
    
Per quanto riguarda gli altri protagonisti del romanzo, è
stato notato come il Balli rappresenti
l’antieroe del
romanzo, nel senso che sembra possedere tutte quelle doti che ad Emilio
mancano,
essere l’elemento positivo opposto a quello
negativo. Sicurezza di sé, intraprendenza, successo
in amore
sembrano le sue qualità positive invidiate
dall’amico. In realtà anche Balli cela al suo
interno un’intima debolezza, come scrive G. Baldi5
“con la sua fisionomia di piccolo superuomo
rappresenta il
tentativo di rovesciare velleitariamente l’impotenza in
onnipotenza, mascherando
la debolezza con l’ostentazione
della forza dominatrice”.
    
Da un punto di vista stilistico
“Senilità” è un romanzo in
cui si registrano talvolta interventi
del narratore, che esprime suoi
giudizi e commenti critici, tal altra si assume nella narrazione la
prospettiva del protagonista. Da notare che già in questo
romanzo comincia ad emergere un
atteggiamento di auto-ironia del
protagonista. Anche la struttura poi appare mutata. Non
abbiamo
più infatti un protagonista assoluto, continuamente
analizzato nelle sue caratteristiche
psicologiche, ma un insieme di
quattro personaggi che interagiscono tra loro.
    
Il terzo romanzo sveviano, “La coscienza di Zeno”,
apparve nel 1923, ben venticinque anni
dopo il secondo. Questo ritorno
all’arte dopo così tanto tempo fu dovuto almeno a
due fattori
esterni. Il primo fu l’amicizia che nacque tra il
nostro scrittore e Joyce, in quegli anni a Trieste, e
che fu anche
maestro di inglese di Svevo: lo scrittore dublinese lesse le opere di
Italo, ebbe
parole di elogio per lui, lo stimolò a
continuare. Il secondo fu invece il diffondersi delle teorie di
Freud a
Trieste e in modo particolare nell’ambiente ebraico, libero
da remore religiose e aperto a
nuove esperienze culturali e in cui si
era determinata una sorta di moda per la psicanalisi. A ciò
aggiungasi il fatto che Svevo trovava una congenialità di
fondo tra la sostanza della dottrina di
Freud ed alcune istanze della
propria poetica.
    
Il romanzo dunque presenta una struttura insolita e manca di una trama
vera e propria. Si apre
infatti con una Prefazione nella quale un certo
dott. S., psicanalista, dichiara di aver voluto
pubblicare per vendetta
il diario per lui scritto da un suo ex paziente, Zeno Cosini, che, sul
più
bello, ha interrotto la cura. Segue un Preambolo in cui
si presenta Zeno il quale si accinge a
ripercorrere con la memoria le
tappe fondamentali della sua vita. Abbiamo quindi cinque
capitoli
rievocativi di quegli episodi e intitolati rispettivamente: Il fumo, La
morte di mio padre,
La storia del mio matrimonio, La moglie e
l’amante, Storia di una associazione commerciale.
Conclude
l’opera un ottavo capitolo intitolato Psico-analisi che fa da
pendant ai primi due.
    
Il contenuto è stato così riassunto da L. Nanni6:
“Il fumo -Zeno pensa che causa della sua
malattia sia il
fumo. Decide di liberarsene, prima con propositi precisi fatti a se
stesso e vincolati

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a date scritte un po’ ovunque,


sottolineate da un solenne U.S. (Che non vuol dire Stati Uniti, ma
semplicemente Ultima Sigaretta) e poi facendosi ricoverare in una casa
di cura, dove però non
passa nemmeno una notte,
perché preso dalla sua solita irragionevole gelosia per la
moglie (non
lo tradirà, in sua assenza, proprio con il
medico che l’ha in cura?), corrompe l’infermiera e
se ne
torna bellamente a casa dove la moglie, fedelissima, lo accoglie
con un benevolo sorriso. La
morte del padre - narra delle civili
incomprensioni che dividono padre e figlio. Il padre non ha
difficoltà a convincersi che il figlio, sempre pronto a
ridere a sproposito, sia effettivamente
pazzo. Il figlio, per parte
sua,  è piuttosto ribelle, ma solo in teoria,
dentro di sé insomma, perché
oggettivamente si
può dire che sia un ragazzo abbastanza tranquillo e
ubbidiente. Ma ecco che il
padre si ammala di edema cerebrale. Si mette
a letto. Il figlio lo vuole curare, lo costringe, anche
perché il medico così gli ha imposto di fare, a
stare a letto, e quando il padre vuole a tutti i costi
alzarsi egli usa
la forza. Il padre con un ultimo sforzo alza il braccio e muore. La
mano
ricadendo colpisce il volto del figlio. Uno schiaffo. Volontario?
Questo dubbio doloroso Zeno se
lo porterà dentro tutta la
vita. La storia del matrimonio - Zeno incontra in Borsa Giovanni
Malfenti, furbo commerciante che gli diviene maestro in affari, amico e
suocero, nonché suo
secondo padre. Giovanni ha una moglie e
quattro figlie: Ada, la seria e la bella, Alberta, la più
giovane fra le tre da marito e molto vicina allo spirito di Zeno,
Augusta, la strabica, e Anna la
più piccola, una bimba. Zeno
diviene abituale frequentatore del loro salotto doppio stile (Luigi
XIV
e veneziano) e le intrattiene con storielle amene, di cui
l’unica a non compiacersene era
proprio quella per cui Zeno
le diceva, e cioè Ada. La sua corte ad Ada si complica poi
per
l’entrata inscena di un rivale, Guido Speier, giovane
bello elegante e come Zeno suonatore di
violino, ma di lui molto
più abile. Ada ne è veramente incantata e Zeno
è decisamente destinato
alla sconfitta, tanto che,
attraverso una serie di vicende altamente comiche, che vanno da una
seduta spiritica imbastita da Guido e mandata a monte da Zeno per
dispetto, alla proposta di
matrimonio fatta in successione e per
sbaglio a ciascuna delle tre sorelle maggiori, arriverà a
fidanzarsi con Augusta, delle tre proprio l’unica che Zeno
non avrebbe mai pensato di sposare. Il
matrimonio invece si
mostrerà azzeccatissimo: Augusta sarà veramente
la moglie ideale. La
moglie e l’amante - l’amante
si chiama Carla, è una giovane del popolo che, per
continuare i
suoi studi musicali, s’affida prima alla
beneficenza di Enrico Copler, amico di Zeno, e poi a
quella di Zeno
stesso. La relazione non turba i rapporti con Augusta, anche
perché ovviamente
non ne è a conoscenza. Crea
solo spazi e contraddizioni dentro la coscienza di Zeno, ma il modo
in
cui egli li supera ci dà ancora un esempio della sua
proteiforme natura, cioè della sua
“malattia”. Carla poi vuole vedere Augusta. Zeno fa
in modo che incontri Ada e la scambi per
Augusta. Mossa
controproducente. Carla ne resta affascinata. Sente un vago rimorso a
“tradirla”.
Lascia Zeno e decide di sposare il
maestro di musica che Zeno stesso le aveva procurato. Forse
era
ciò che Zeno, cui nel frattempo era nata una figlia, voleva
e non voleva. Sta male:
l’ambiguità di sempre! Ma
non gli resta che continuare il ruolo di buon marito.
L’ultimo
episodio - Storia di una associazione commerciale -
racconta della fondazione di una casa
commerciale da parte di Guido
Speier, e come venga condotta in malissimo modo. Zeno, messi
da parte i
vecchi complessi, si offre di aiutarlo nell’amministrazione.
Ma Guido è veramente un
incapace e l’azienda ha i
giorni contati. L’affare sbagliato del solfato di rame rende
la situazione
addirittura insostenibile. Guido simula un primo
tentativo di suicidio e ottiene dalla moglie un
prestito per sollevare
le sorti della ditta. Ma gli errori da parte di Guido continuano,
aggravati

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anche dalle perdite in borsa, e così non gli resta


che inscenare un secondo suicidio, ma questa
volta per una serie di
circostanze imprevedibili, gli va male e muore. Zeno si rivela a questo
punto abilissimo: giocando in Borsa riesce a dimezzare il debito del
cognato e si conquista in
parte la stima di Ada, che le sofferenze
psichiche e il morbo di Basedow hanno precocemente
invecchiata. In
parte, perché Ada non perdonerà mai a Zeno di
essere mancato al funerale di
Guido. Il fatto che Zeno non vi sia
giunto in tempo, perché arrivato all’ultimo
momento causa
gli impegni in Borsa, aveva comicamente sbagliato
funerale, non è affatto agli occhi di Ada
un’attenuante. Ada lascia così Trieste e coi due
figli si reca in Argentina, dove i suoceri la stanno
aspettando”. In Psico-analisi Zeno si riporta al tempo
presente dichiarando di voler abbandonare
la terapia alla quale si
è sottoposto nella convinzione che la psicanalisi non possa
restituirgli la
salute. Egli anzi scopre che la vita stessa
è malattia incurabile e sempre mortale. In
quest’ultima
sezione del romanzo è la famosa
pagina in cui Svevo-Zeno profetizza una prossima distruzione
dell’intero globo terrestre per l’esplosione di un
ordigno di eccezionale potenza provocata da un
uomo un po’
più ammalato degli altri che lo collocherà al
centro della terra nel punto ove il suo
effetto potrà essere
il massimo. Allora “ci sarà
un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra
ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di
parassiti e di malattie”.
    
Ora l’importanza di questo romanzo consiste nella presa di
coscienza di Zeno della realtà del
suo tempo. Attraverso
l’analisi dell’individuo infatti, dei suoi ideali,
delle sue sconfitte, Svevo
perviene alla scoperta della totale crisi
della società del suo tempo; quella dello scrittore
triestino
è un’analisi della condizione
esistenziale dell’uomo contemporaneo che si scopre sfornito
sia di
grandi valori ideali sia di senso morale, corrotto, privo di
legami affettivi. Zeno è il tipico
rappresentante di una
società in pieno disfacimento del quale egli ha piena
coscienza. Di qui il
titolo del romanzo. Zeno pertanto pervenuto a
questa duplice consapevolezza, cioè quella della
propria
condizione e quella della società nel suo insieme, non
rappresenta alcuna alternativa né
offre soluzioni. Egli si
pone semplicemente come testimone, come colui che, scoperto il volto
della realtà, finisce con l’accettarla senza
troppi drammi e la considera anzi una malattia che non
sopporta cure.
Zeno per altro trova riscatto proprio nella consapevolezza, nella sua
condizione
critica, nella sua chiaroveggenza. La tesi fondamentale
dell’opera è che tutta la vita è
malata, la
salute vera è impossibile, concessa soltanto
all’animale ottuso, inconsapevole ed adattato, o a
quegli
uomini che si accettano come sono e vivono in maniera aproblematica. La
malattia
pertanto “è la storia, la
civiltà, la caratteristica dell’animale uomo che
progredisce con gli
ordigni e abbandona per sempre il sano sviluppo
organico dell’animale; non c’è terapia
che
possa guarire l’individuo e la società, se non
un ritorno all’innocenza primigenia” (Grillini7).
    
A questo punto siano in grado di vedere le differenze tra questo
personaggio e i protagonisti
dei due romanzi precedenti: Zeno si
differenzia da Alfonso e da Emilio perché 
è più gaio,
conosce l’ironia,
è scanzonato, alla fine le cose gli vanno tutte bene. Ma in
realtà egli  rimane
l’inetto di sempre;
come dice Gioanola8 “non è uno che è
guarito, ma uno che ha accettato la sua
malattia”. Fratello
carnale dei primi due, come nota Grillini9, Zeno ha rinunciato alla
ribellione
velleitaria e ad ogni speranza di integrazione nel mondo e
di salvezza nella guarigione. Se poi
volessimo confrontarlo con certi
personaggi pirandelliani, come ad esempio Mattia Pascal,
noteremmo
certamente delle somiglianze consistenti in una certa forma di abulia,
nella
mancanza di una forte volontà, di una energia fisica e
morale; ma anche una fondamentale
differenza: mentre i personaggi
pirandelliani di fronte alla scoperta del volto della realtà
in

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20/03/22, 06:56 Nuova pagina 1

qualche modo restano passivi e rinunciano alla vita, nel senso che
lasciano che sia la vita a
trasportarli ove essa vuole,
l’ultimo protagonista sveviano ha una reazione positiva
accettando la
realtà senza farsene un cruccio perenne.
       
Anche da un punto tecnico “La coscienza di Zeno”
segna una svolta. Asse portante della
narrazione è la scelta
del tempo interiore, sicché passato presente e futuro si
alternano passando
l’autore da un tipo tradizionale di
narrazione di eventi remoti, alla tecnica del monologo
interiore nel
momento che si sposta nel tempo presente, tendendo poi ad assumere lo
stile
dell’ironia che rende la lettura del romanzo
particolarmente leggera.
    
Altre opere
    
    
Sappiamo che Svevo aveva intenzione di scrivere un quarto romanzo
avente di nuovo come
protagonista Zeno e che sarebbe stato intitolato
“Il vecchione”. Di quest’opera abbiamo
solo dei
frammenti dai quali si può ricavare che tema
centrale sarebbe stato il rapporto tra vita e
letteratura per arrivare
a concludere che la “letteraturizzazione”
dell’esistenza sarebbe l’estremo
risarcimento al
male di vivere.
       
Ci rimangono invece una quantità di opere di teatro che egli
però non pubblicò e che la
critica ha
costantemente ignorato, nonché un certo numero di racconti
tra cui “L’assassinio di via
Belpoggio”,
“Argo e il suo padrone”, “La
morte” scritti dall’età giovanile sino
agli anni
posteriori alla pubblicazione de “La Coscienza di
Zeno”. Anche per questi racconti manca una
tradizione critica.
     
    
 
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