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L’Italia delle migrazioni

Corrado Bonifazi

Mulino Le vie della civiltà

Capitolo 1

L’OTTOCENTO PREUNITARIO: TRADIZIONI E NOVITA’ 1. Il quadro di riferimento

Quando nel marzo 1861 la proclamazione di Vittorio Emanuele II sancì la nascita di un nuovo Stato
italiano, il paese era ancora in ritardo rispetto al quadro europeo. Ed era quindi ai margini
dell’economia europea. Nell’800 di sviluppano quei meccanismi che porteranno ad una economia
di mercato, ma ancora l’Italia non era un paese all’avanguardia. Le modalità prevalenti di
produzione erano basate sull’agricoltura, artigianato e piccola industria locale che assicurava
redditi alle famiglie prese però singolarmente. Il Regno d’Italia era in ritardo non solo sotto questo
profilo, ma anche a livello di correnti migratorie. Ritardo non è tuttavia sinonimo di assenza, infatti
le basi dei flussi migratori erano già state gettate. Per comprendere le basi del fenomeno
migratorio italiano appare opportuno partire dal periodo unitario, periodo che l’antropologa
Amalia Signorelli ha definito come un processo lineare, totalizzante e senza residui che ha portato
la società a rimodellarsi ed a plasmarsi. Le parole della Signorelli ci fanno capire anche il motivo
della continuità alternata alla discontinuità del paese.

2. Le dinamiche internazionali Si pensava che nelle società dell’ancien règime non vi fossero
correnti migratorie. Questo è un errore in quanto le correnti si sviluppano a partire dalla fine del
periodo che definiamo come Medioevo a livello ovviamente europeo. I grandi cambiamenti
economici, demografici e sociali, nel corso dell’800 trasformarono gli assetti delle società. Forme di
mobilità periodica e stagionale avevano in questo periodo fatto esplodere il fenomeno delle
migrazioni. Ci si spostava per perché commercianti ambulanti o soldati, o per esigenze di lavoro. La
chiave però delle migrazioni rimaneva il lavoro stagionale. I sistemi di questo tipo di lavoro furono
studiati dallo storico olandese Jan Lucassen nel 1987 sulla base di alcuni questionari che raccolti
dall’amministrazione imperiale francese nel periodo 1808-1813.

Tre di questi sistemi si trovavano nell’Europa nordoccidentale ed avevano come epicentri


l’Inghilterra orientale, il bacino di Parigi e la fascia dei Paesi Bassi e della Germani nordoccidentale.
Gli altri 4 erano nell’Europa meridionale ed avevano come centri di attrazione, la Castiglia, le aree
costiere della Catalogna, della Provenza e della pianura padana oltre che dell’Italia centrale. Il
sistema maggiore era quello che operava nell’Italia e nella sua costa tirrenica (Toscana, Lazio,
Corsica e Isola d’Elba). Secondo le stime di Lucassen questo sistema interessava 100mila lavoratori
provenienti da Marche, Umbria e Regno di Napoli, che si spostavano per cercare fortuna a Roma o
nella Maremma sottopopolata della campagna romana. Lucassen individua un secondo
importante sistema migratorio in Italia, quello nella pianura padana. Qui arrivò a contare un flusso
di 150mila lavoratori. Solo a Parigi le proporzioni erano maggiori attestandosi a 60mila. Negli altri

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centri osservati i numeri erano ben più contenuti. Ovviamente non abbiamo detto che in quegli
anni parlare di stime fedeli di Lucassen sotto il profilo demografico appare veramente forzoso.
Infatti a noi interessa più il fenomeno nel suo complesso che le cifre. In altre parole ci basti
pensare che dagli studi di Lucassen siamo arrivati a farci un’idea reale di quelle che erano le aree
di scambio. Alla luce di altre ricerche, i caratteri funzionali di questi interscambi migratori vengono
sintetizzati da Bade. Egli sosteneva che nelle zone di partenza esisteva sia un fabbisogno di lavoro
aggiuntivo che poteva essere soddisfatto solo a condizioni di salario molto basso, ed un potenziale
di manodopera stagionale disponibile. A questi due aspetti corrispondevano le necessità di coloro
che avevano bisogno di un salario e che potevano offrire manodopera. Coloro che emigravano.

Le cause di questi fattori erano le più disparate. Si passa da fattori ambientali, a motivi di natura
economica, sociale o demografica. Presupposti comuni al funzionamento di questi sistemi di
migrazione stagionale erano le solide tradizioni migratorie e l’esistenza di attività economiche
nelle aree di partenza che i migranti avevano interesse a mantenere. La rottura di questo
equilibrio - sicuramente fragile, e che riesce tuttavia a spiegare il rapporto che vi è tra paese in cui
si va, e paese dal quale si arrivi – avrebbe portato le correnti stagionali a diventare definitive. Alla
fine del periodo napoleonico si rafforzarono una serie di processi che nel futuro avrebbero
cambiato i processi mobilità. Ancora una volta i dati, questa volta raccolti in senso generale dagli
storici, debbono essere presi con cautela. Tuttavia, dovendoci basare su questi in presenza di altro,
si arriva ad alcune cifre che spiegano un po’ più nel dettaglio la situazione. Ad esempio tra il 1820
ed il 1870 nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti si registrò una crescita della popolazione, del
Pil totale e pro capite di quella che aveva caratterizzato i precedenti 120 anni. Nell’Europa
occidentale il tasso aumentò del 68% a livello di popolazione, quasi triplicò il Pil e quadruplicò il Pil
pro capite. In Italia rispetto agli altri pasi le cifre erano opposte, anzi diminuirono tutte e si abbassò
il reddito individuale à questa situazione si deve al superamento della manovra economica
chiamata trappola malthusiana, che tra le tante favorì la transazione demografica di cui stiamo
parlando.

Nella seconda metà dell’800 vi fu poi una diminuzione della mortalità. Non scomparvero le
carestie e le epidemie, ma tuttavia si alzò l’età media alla morte. Dalla seconda metà del ‘700 alla
metà dell’800 in Inghilterra e Galles la vita passò da 36,9 a 41,2. In Francia da 27,9 a 39,7 anni e in
Svezia da 36,3 a 42. Ma cosa ha avuto un peso maggiore per l’evoluzione delle migrazioni?

1. Industrializzazione 2. Urbanizzazione 3. Rivoluzione agricola 4. Transizione demografica 5.


Affermazione di una economia capitalistica e di mercato

Ovviamente questi cambiamenti si riflettono in maniera differente da paese a paese. Tali


cambiamenti ebbero riflesso anche sulla crescita dei flussi transoceanici, i quali rappresentavano la
principale rottura degli equilibri. Equilibri che abbiamo osservato in precedenza. Nacquero quindi
le liste d’imbarco, una misura che tutti i paesi progressivamente cominciarono ad adottare proprio
in vista dell’aumento dei flussi migratori (Inghilterra 1815 già prima fondamento amministrativo
dal 183, Stati Uniti 1819). Intorno alla metà dell’800 molti erano i paesi che intendevano
raccogliere informazioni statistiche, e nel 1853 a Bruxelles si tenne il primo congresso di statistica
che ospitava 26 paesi. E’ lì che prese piede una prima grande proposta: raccogliere dati
comparabili sui paesi transoceanici. Più precisamente la creazioni di registri comunali degli
emigranti per misurare i flussi in arrivo. Prendendo questi dati, una volta accettata la proposta,

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negli Stati Uniti prima di questi gli arrivi risultavano essere inferiori a 10mila. Tra il 1844 ed il 1854
si arrivò a quasi 428mila. Alla vigilia dello scoppio della guerra civile i numeri risultarono più bassi,
circa 153mila nel 1860. In questa fase furono importanti i flussi provenienti dall’Irlanda, Gran
Bretagna e Germania. L’Italia invece aveva un ruolo ancora modesto nell’immigrazione negli Stati
Uniti: gli arrivi crescevano ma riguardavano ancora solo poche migliaia di persone. Maggiore era la
presenza di italiani in Sud America, a Montevideo in Uruguay. Qui, tra il 1835 ed il 1843 gli italiani
erano circa ¼ dei 33mila passeggeri stranieri sbarcati. Le statistiche argentine partono dal 1857 ed
arrivano fino al 1860. Esse registrano numeri più ridotti in quanto su 20 mila passeggeri, gli italiani
erano il 61%. Gli irlandesi, molto mobili, a Liverpool nel 1851 costituivano il 22% della popolazione.
Oppure in Francia, dove gli stranieri componevano tra l’1,1 ed l’1,4% la popolazione tra il 1851 ed
il 1861. In Belgio le persone nate all’estero censite nel 1846 e 1856 furono 95mila, ossia pari al 2%
della popolazione. Valori più interessanti nei censimenti svizzeri, dove gli italiani erano la maggior
parte. Infatti tra il 1850 ed il 1860 gli italiani in Svizzera costituivano il 21 prima, ed il 26,8% dopo.
In conclusione:

- Stiamo parlando ci cifre migratorie ancora molto ridotte - Stiamo parlando ancora di migrazioni
che avvengono fra paesi vicini

3. Le migrazioni italiane

Nell’annuario statistico italiano del 1858, Correnti sostiene che due volte l’anno emigra pure un
popolo di pastori abruzzesi e del Sannio che va dalle 50-56mila unità. Andrebbero poi aggiunte le
migrazioni degli Alpigiani, principalmente dei Cadorni, Carnici, Trentini, Valtellinesi, Comaschi,
Ossolani e Vallesiani, solo in parte registrate dai questionari compilati dai prefetti francesi, ed i
flussi periodici che avevano luogo nel resto del mezzogiorno, alcuni richiamati anche da Lucassen.
Nella gran parte di questi, e degli altri flussi diretti verso l’estero erano presenti artisti, uomini di
cultura che erano più generalmente riconducibili agli esiliati del post unità italiana. Da una parte
comincia progressivamente a crescere una domanda di immigrazione in molti paesi. Dall’altra si
avvia un progressivo declino delle migrazioni stagionali legate all’artigianato ed al commercio
ambulante, messe in crisi dalla concorrenza dei prodotti industriali. Inoltre si iniziano ad avvertire i
primi segnali di una serie di processi che mineranno dall’interno il mondo rurale italiano
determinandone nel tempo la radicale trasformazione.

Uno strumento utile a delineare la situazione migratoria italiana è il primo censimento del 1861,
condotto dalla neo-nascente Maic, Direzione della statistica generale del Ministero di Agricoltura,

  Industria e Commercio. In questo nuovo censimento furono considerati molti aspetti rilevanti che
segnarono un punto di partenza tanto importante quanto necessario ai fini di un miglioramento
del lavoro:

• Luogo di nascita dei censiti distinguendo - nella popolazione residente stabile i nati nel comune
di residenza - i nati in un altro comune - e i nati nel Regno dei nativi di stati esteri

• Dati sulle emigrazioni periodiche - nello stato unitario - che non superavano i confini

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Nei piani originari era anche prevista una rilevazione degli italiani all’estero, ma i dati erano
incompleti e si preferì lasciar perdere. I dati censitari del 1861 ancora una volta come gli altri che
abbiamo precedentemente analizzato, vanno considerati con prudenza perché figli di un lavoro
lontano in un’epoca priva se vogliamo anche dei mezzi tecnici utili a realizzare un lavoro ottimo.
Ma al di là dei margini d’errore, sicuramente ampi, questi dati consentono di fissare alcuni
caratteri interessanti del nostro paese. Dei quasi 21,8 milioni di censiti i nativi esteri erano 88mila
e 600, pari al 4,1% della popolazione totale. Quasi il 15% (3,2 milioni) della popolazione totale,
viveva in un comune diverso da quello di nascita. Centro-Nord 31,2% 16,9% Umbria, percentuali
più contenute al nord con punte minime in Sicilia del 5,4%. Le emigrazioni periodiche erano
valutate in 185mila unità con 141 mila movimenti che avvenivano all’interno dei confini nazionali,
e quasi 44mila che li superavano. Il fenomeno interessava diverse aree del paese e l’emigrazione
risultava maggiore rispetto a quelle disegnata dai prefetti francesi circa mezzo secolo prima. A
livello di compartimenti territoriali il tasso d’emigrazione medio nazionale all’8,5% era
decisamente superato a Parma e Piacenza con il 21,7%. Toscana e Sicilia erano rispettivamente al
3,3% e 2,9%.

La quota di emigrazione verso l’estero era largamente maggioritaria in Umbria e Marche


rispettivamente all’84,9 e 77,5%, così come in Romagna dove pesavano le vicinanze ed i legami
con i territori rimasti allo stato della Chiesa. Le province di più intensa emigrazione periodica erano
l’Abruzzo Ulteriore II, con un tasso del 56,7%, Grosseto 33,1% à siamo in presenza di una
emigrazione principalmente maschile, con una quota femminile di ¼ nelle province considerate.
Una emigrazione al tempo stesso composita che riguardava persone occupate nelle attività
agricole e per un altro 40% nell’industria manifatturiera. Nel complesso i risultati di questo
censimento permettono di delineare e di chiarire il quadro precedente dei francesi.

Se non altro è utile ad osservare il movimento della mobilità del paese e non solo. Infatti molto
importante è la considerazione sulla migrazione stagionale dove si è potuto osservare che il
fenomeno si estendeva sia all’Italia centrosettentrionale che a quella meridionale e che le zone di
partenza erano per lo più coincidenti con quelle dell’arco alpino e della dorsale appenninica, da cui
si partiva tradizionalmente per gli spostamenti stagionali connessi alla pastorizia e all’allevamento
di bestiame. Qui l’emigrazione stagionale si era sedimentata. Del tutto incerte restano invece le
dimensioni dei flussi stagionali diretti verso gli stati vicini, in un momento in cui le migrazioni verso
Franci e Svizzera avevano acquistato un certo peso. Questa sarebbe stata interessante, ma i dati
vengono raccolti al momento e le indagini si sa, non vengono fatte oggi ma appunto al tempo in
cui era opportuno farle. Il primo censimento però non è certo da buttar via, anzi. Esso fornisce due
informazioni importanti:

1. rileva una limitata presenza di nati all’estero sul territorio nazionale e che sarà una caratteristica
tutta italiana almeno per più di un secolo

2. evidenzia una mobilità interna definitiva o almeno di lungo periodo visto che il 15% dei censiti
viveva in un comune diverso da quello di nascita. Almeno 1/3 di questo 3,2 milioni di persone
censite era costituito da addetti alle attività agricole. Persone disposte a spostarsi in zone dove la
manodopera era maggiormente richiesta. Attorno al 40% c’erano gli occupati che si erano spostati
e che provenivano dal culto, dalla sicurezza e dai lavori domestici.

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In definitiva, l’Italia all’avvio del periodo unitario si presentava come una realtà tutt’altro che
immobile. Anzi, un paese semmai che aveva fatto delle diverse forme di mobilità territoriale un
elemento importante del proprio sistema di vita e che sarà pronto ad adattare questo patrimonio
ai mutati caratteri dei processi migratori e delle trasformazioni dei processi produttivi e sociali
regionali e nazionali. Alcuni cambiamenti erano già avvertibili prima del periodo unitario. In
particolare quelli legati alla crescita dell’emigrazione verso l’estero che appare chiaramente dai
dati dei paesi d’immigrazione.

Capitolo 2

LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE (1861-1914) 1. Il nuovo volto delle migrazioni

Abbiamo descritto i processi di trasformazione delle società europee. Tali processi giunsero a
maturazione tra gli ultimi tre decenni dell’800 e tra l’inizio del ‘900 che precede la prima guerra
mondiale. Questo periodo è chiamato prima globalizzazione perché per la prima volta su vasta
scala si ebbero scambi di merci, capitali e persone. Tra 1870 e 1913 le economie del vecchio e del
nuovo mondo continuavano a crescere di molto rispetto al passato. Tuttavia la crescita economica
fu solo uno dei tanti fattori. Le migrazioni intercontinentali furono una delle più evidenti
manifestazioni di questa trasformazione. Queste conobbero uno straordinario sviluppo anche in
termini di dimensioni che fino a quel momento non erano nemmeno immaginabili. Infatti all’inizio
dell’800 gli spostamenti si verificavano in paesi vicini, mentre tra il 1861-1915 vi furono 39milioni
di spostamenti oltre l’Atlantico. Questa spinta di migrazioni transoceaniche determinava la
crescita di flussi internazionali sul suolo europeo e non solo. Ci fu anche un aumento della mobilità
interna ed una ri-articolazione della mobilità temporanea. Da un lato vi era un aumento della
popolazione nei paesi che era difficilmente controllabile e che non permetteva alle tradizionali
strutture economiche di mantenere le condizioni precedenti. Dall’altro si manifestava un surplus di
lavoro che si creava nelle zone di esodo. Questo permetteva di trovare nuove occupazioni e nuove
opportunità laddove i sistemi conoscevano uno sviluppo senza precedenti. In altre parole si
ebbero molti benefici da questi cambiamenti, e la politica preferì ostacolare poco le migrazioni.
Anzi, si occupò di promuovere i flussi di migrazione secondo i dettami della politica principale e
vigente di laissez – faire. Tutto questo portava novità anche a livello geografico, e tutti i paesi fino
alla vigilia della guerra erano entrati in questo processo di trasferimento di forza lavoro. Un
processo questo, che si frenò con l’arrivo della guerra.

2. L’impetuosa crescita delle migrazioni di massa • Il quadro generale demografico

La ricostruzione della popolazione e del Pil effettuata da Maddison nel 2006 – e già utilizzata nel
capitolo precedente ci permette di individuare le dinamiche di fondo del periodo. Ricordiamo però
che i dati vanno presi con cautela, sebbene quello si, ci forniscano informazioni importanti.
Nell’analisi comparata di 5 paesi europei e di 3 importanti mete transoceaniche si nota da subito
una crescita demografica ed economica rilevante. Sviluppo demografico ed economico risultano
più contenuti nei 3 paesi non europei, e questo consentì di ridurre il gap proprio con l’altra parte
del nuovo continente. Argentina, USA e Brasile sono i tre paesi considerati. La crescita maggiore si
ha nel primo caso perché la popolazione aumentò ad un tasso del 3,43% annuo che voleva dire
popolazione raddoppiata nell’arco di 20 anni. Sempre qui il Pil crebbe del 6% annuo, e quello pro
capite triplicò. In Europa invece si registravano tassi di crescita inferiori ma considerevoli. In

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Germani il Pil aumento del 2,8%, in Svezia del 2,6%, Italia e Regno Unito 1,9% e in Francia
dell’1,6%. La popolazione diminuiva però in Svezia rispetto al cinquantennio precedente. Essa
passo dallo 0,97 allo 0,7%. In Francia sorte peggiore dove si passò dallo 0,42 allo 0,18%. Il caso
svedese si spiega con le emigrazioni e con la diminuzione dell’incremento naturale. Italia e Regno
Unito sostanzialmente a cifre invariate, mentre migliorò la Germania che passo dallo 0,91
all’1,18% annuo addirittura superando la popolazione francese. Consideriamo che l’aumento
demografico rappresenta un dato fondamentale nei processi di migrazione. A loro volta, le
migrazioni rappresentano la variabile che consente di ridurre gli squilibri tra gli andamenti
demografici e quelli economici con maggiore rapidità. La variabile che senza dubbio ha avuto il
peso maggiore in tutto questo sistema è la variabile demografica che ha aumentato i livelli di
sopravvivenza. Tra il 1860 ed il 1910 la speranza di vita alla nascita aumento in Svezia di 12,5 anni,
11,1 in Inghilterra e Galles, di 7,9 in Francia, raggiungendo i 58,1 anni nel primo caso, i 52,7 nel
secondo e 50 nel terzo. Non meno rilevanti gli aumenti in Germani e Italia tra il 1870 e 1910, dove
nel nostro paese la speranza di vita aumentò di 14,2 anni arrivando a 45,4 ed in Germania
raggiunse i 49 anni con una crescita di 12. Per entrambi questi due ultimi paesi rimase un grande

ritardo nei livelli di mortalità infantile – mentre la Svezia presenta la situazione migliore tra i paesi
considerati con un tasso di mortalità infantile che quasi si dimezzò in 50 anni. Non meno
eccezionali i comportamenti riproduttivi. Infatti in 50 anni la fecondità si trasforma. Tra le donne
nate nel 1850 il cui periodo di fecondità si concluse circa nel 1900, le francesi avevano
mediamente meno di 4 figli per donna, mentre negli altri paesi dai 4,28 delle svedesi, ai 5,17 delle
tedesche. Per le donne nate nel 1875 i valori si abbassavano con l’eccezione delle donne italiane.
In Francia il tasso era sceso a 2,6. In Germania, Svezia e Inghilterra era sotto ai 4 figli per donna,
mentre in Italia il numero era ancora alto. La conseguenza fu che tra il 1860 e lo scoppio della
prima guerra mondiale si registrarono, tranne che in Francia, ritmi di accrescimento anche per
effetto delle mortalità declinate. Il processo di riduzione delle nascite (Italia esclusa), si concluse
con la generazione del 1900. Tra le due guerre, quindi per le donne nate nel 1900 il fattore
demografico contribuì sempre meno alla crescita del potenziale di emigrazione dell’Europa
centrosettentrionale. Una differenza che aiuta a spiegare già adesso le ragioni della ritardata
chiusura del ciclo emigratorio italiano rispetto agli altri paesi. Potremmo dire che quel che appare
comune ai diversi paesi è l’aprirsi di una lunga fase in cui la natalità risulta sensibilmente più
elevata della mortalità. Ciò si traduce in forti aumenti della popolazione che agiscono in favore
dell’emigrazione in due modi diversi:

- Con effetto immediato di aumentare la popolazione - In 15-20 anni di accrescere l’offerta di


lavoro spingendo verso il basso i salari e rendendo necessario un incremento dell’occupazione In
quasi tutto il periodo considerato – in Germania, Galles, Svezia e Inghilterra il movimento naturale

contribuì alla crescita della popolazione con un’intensità compresa tra il 10 ed il 15% annuo Livelli
che l’Italia raggiunse solo attorno al 1880 e da cui la Francia è ancora molto distante. In termini
assoluti questi valori determinavano aumenti che per la Germania erano di 420mila unità ad inizio
periodo e di 790mila nel 1912. Per l’Italia di 140mila e 460mila, per il Regno Unito di 370mila e
465mila – mentre il Francia e Svezia l’ammontare dell’incremento diminuì di poco nel primo caso
ed in maniera più consistente nel secondo. In definitiva il fattore demografico ha costituito uno

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degli elementi chiave degli eccezionali flussi migratori registrati durante la prima globalizzazione. •
Il contesto economico e sociale e le dinamiche migratorie

Tra le tante trasformazioni economiche e sociali, molte se non tutte hanno avuto riflessi sui
processi migratori. Maddison individua tuttavia tre delle variabili principali che hanno fatto da
motore per lo sviluppo demografico ed economico delle società moderne:

1. La conquista e lo stanziamento di aree sottopopolate. A partire dalla seconda metà dell’800


quando i fattori successivi cominciarono a produrre effetti sempre più consistenti.

2. Il commercio internazionale ed i movimenti di capitali, che crebbe durante l’800 a ritmi


sostenuti ma che portò il Pil mondiale dall’1% del 1820 all’’8,7% del 1913 con punte del 17,8% nei
paesi bassi e del 15,6% in Germania. Il Pil mondiale era cresciuto del 60% tra il 1820 ed il 1870 e
del 146% tra il 1870 ed il 1913. Tutto questo grazie al principio del libero scambio, ma anche
all’evoluzione dei trasporti terrestri e marittimi. Sono importanti a partire dal 1846 anche
l’abolizione delle leggi sul grano in Inghilterra, e l’accordo tra la stessa Inghilterra e la Francia nel
1860 per applicare dazi più bassi rispetto agli altri paesi – fino a quando nel 1887 in Italia, e più in
generale da altre parti come conseguenza della crisi dell’agricoltura europea, vennero introdotti
dazi molto alti su cereali e zucchero.

3. L’innovazione tecnologica ed istituzionale portò ad una riduzione dei costi tra il 1870 e 1913
dell’1,5% annuo e nell’insieme del periodo di 45 punti cambiando le regole di scambio. Teniamo
presente che alla crescita del commercio internazionale corrispose un aumento dei movimenti di
capitale. Dal 1914 una parte dei flussi economici si diresse a favore dei trasporti.

La rivoluzione dei trasporti agì in due direzioni sui flussi migratori: ridusse i costi degli spostamenti
e favorì lo sviluppo di un mercato internazionale delle materie prime e dei prodotti industriali. La
navigazione a vapore sostituì la navigazione a vela nella seconda metà dell’800 e ridusse i tempi di
trasporto. Dal 1870 il processo di cambiamento ed innovazione sembrava completarsi con
l’introduzione di navi in metallo, più veloci e sicure che permisero un collegamento migliore tra i
grandi centri europei.

 Spostare decine di milioni di persone indusse le compagnie navali ad incentivare le migrazioni per
avere un guadagno sempre maggiore (biglietti prepagati ad esempio).

Parallelamente si sviluppò una migliore ed efficiente rete ferroviaria. Dal 1970 al 1913 la lunghezza
della rete ferroviaria aumentò di quasi 46 volte in Argentina E 33 in Brasile. Negli Stati Uniti del
1913 si contavano 400mila km in più, ma cifre notevoli si ebbero anche in Russia e Svezia. Furono
poi costruite strade anche lavorando sui trafori. Ovviamente questo significava manodopera ed
anche per questo motivo le migrazioni (stagionali) aumentavano. All’aumentare dei lavoratori nel
settore dell’industria, proporzionalmente calava drasticamente il numero degli occupati nel
settore agricolo dove nel 1913 era la principale fonte di lavoro nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Centri e città che vivevano di campagna erano adesso vittimi di una emigrazione forzata in
presenza di alcuni casi specifici. Si pensi ad un cattivo raccolto, o ancor peggio ad una inondazione.
In questi casi le persone fuggivano specie dove la cultura dell’emigrazione era già radicata nel
tempo à crisi del mondo agricolo e rurale a cui ovviamente corrisponde la crescita e lo sviluppo di

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quello industriale ed urbano. Il tasso di urbanizzazione secondo Bairoch aumentò notevolmente
considerando che le città dovettero adeguarsi alla domanda. L’offerta era quindi calibrata su
questa tendenza e le città cominciarono progressivamente a cresce ed a svilupparsi. La
popolazione che viveva in centri con più di 5mila abitanti raddoppiò in Europa tra il 1850 ed il 1910
passando dal 16,4% al 32,8%. A fine periodo la popolazione urbana rappresentava il 69,2% del
totale del Regno Unito. Solo Londra e Parigi avevano più di un milione di abitanti, mentre nel 1913
erano 13 le città tra Europa ed America.

Accanto all’innovazione tecnologica Maddison pone tra i fattori chiave dello sviluppo, i
cambiamenti istituzionali. Quello che ha avuto maggior effetto, è secondo lui il processo di
formazione degli stati nazionali nel corso dell’800. Ovviamente ogni paese ebbe dei riflessi
differenti in base alle diverse scelte in tema di acquisizione e trasmissione della cittadinanza. I
paesi di immigrazione scelsero lo ius solis (per una più rapida incorporazione dei nuovi arrivati).
Quelli d’emigrazione puntarono allo ius sanguinis (per mantenere il legame con i propri emigranti
discendenti). In linea di massima il rafforzamento degli stati nazionali determinò una progressiva
eliminazione della limitazione agli spostamenti interni, ed un maggiore controllo sugli arrivi degli
stranieri. Ovviamente questo fu un processo che si sviluppò diversamente in base al paese, ma un
elemento era comune a tutti. Esso è il graduale prevalere delle posizioni più aperte alla libertà di
movimento, sia nei paesi di emigrazione che in quelli di immigrazione. à furono quindi
liberalizzati i movimenti interni, se pur con qualche contrasto iniziale come dimostra la battaglia
politica che negli Stati Uniti (1830-1855) condussero i movimenti nativisti per ostacolare
l’immigrazione cattolica irlandese e tedesca, e da cui uscirono sconfitti per il vigoroso sviluppo del
capitalismo.

Ovviamente i favorevoli all’immigrazione si sono trovati spesso a fronteggiare gli avversi. Sempre
negli Stati Uniti ne 1880 fu firmato con la Cina un accordo che limitava l’immigrazione da quel
paese. Due anni dopo venne approvato in Cina il Chinese Exclusion Act che la vietava
completamente. Più in generale a pesare a favore di una maggiore libertà vi erano considerazioni
di ordine pratico. L’aumento dei passaggi di frontiera rendeva difficile il controllo delle frontiere, in
quanto mancavano gli adeguati strumenti di controllo. Da qui poi la necessità di controllare i
movimenti migratori che portò ad una miglioria nelle forme di controllo se pur indirizzate spesso
nei confronti delle minoranze che si sentivano discriminate. Tirando le fila si può concludere che
abbiamo preso in analisi un periodo fortemente favorevole alle migrazioni. Nei paesi di
emigrazione i pur alti livelli di crescita economica non furono in grado, per molti anni, di assorbire
del tutto la richiesta di risorse aggiuntive determinata dall’incremento demografico e dalla crisi dei
settori produttivi. La popolazione ne risenti per:

- Insicurezza - Instabilità della propria condizione - Necessità di riorganizzare le strategie di


sopravvivenza

A fronte di questa crisi, nei paesi d’immigrazione si registrò una crescita economica tale da creare
una domanda di lavoro che eccedeva largamente le capacità dei sistemi demografici nazionali. Per
tale ragione si optò verso il non ostacolare le migrazioni della rivoluzione dei trasporti rendeva
possibili. Una simile dinamica per giunta caratterizzò anche le aree urbane e industriali dei paesi
europei. Si creò quindi una differenza fra paesi a livello salariale tra le due sponde dell’Atlantico.
Nel 1870 i salari negli USA erano 4 volte più elevati di quelli italiani e svedesi, e il doppio rispetto ai

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paesi UE considerati. Nel 1913 la differenza si era ridotta, ma in USA si guadagnava 3 volte rispetto
all’Italia, 2,6 rispetto alla Francia, e rimaneva sui 40 punti percentuali con gli altri paesi. Brasile ed
Argentina ebbero una differenza positiva sempre e solo con Italia e Francia, ma se dalla Francia si
emigrava poco verso questi paesi, stessa cosa non si può dire dell’Italia. Infine a determinare gli
spostamenti vi era anche una variabile definibile come cultura dell’emigrazione che
progressivamente andava diffondendosi e che sommata alle altre, andava a creare un fenomeno di
dimensioni ben più grandi rispetto alle migrazioni della prima metà dell’800. • Dimensioni e
tendenze delle migrazioni internazionali

Quando vogliamo appoggiarci ad un quadro della dinamica migratoria del periodo ci dobbiamo
necessariamente rifare al lavoro di Ferenczi e Willcox (1929). Stiamo parlando ovviamente di un
lavoro che come abbiamo detto per gli altri, necessità di essere preso con la dovuta cautela
essendo non sempre completo e con qualche defezione. Premesso questo, ciò che si osserva da
questo lavoro è che il flusso migratorio dei cittadini europei verso gli altri continenti tra il 1861 ed
il 1915, è di 39 milioni. All’interno di questa forbice, precisamente tra il 1861-1880 il flusso annuo
si attestava tra le 200milla e le 400mila unità. Tra 1881-1885 superò le 600mila e nei quindici anni
successivi variò tra le 780 e le 602mila. AL calo dell’ultimo decennio dell’800, seguì una crescita
impetuosa che fece balzare il numero dei migranti sopra il milione di unità annue nel primo
quindicennio del secolo successivo, a 1,3 milioni nei dieci anni successivi. Il periodo è possibile
scomporlo il 3 cicli- In tutti e tre i cicli si ha un primo momento di crescita seguito da una
diminuzione di intensità, mentre il passaggio da una fase all’altra è segnata da un evidente e
sensibile salto dimensionale. Cambiavano anche le aree di provenienza: diventavano maggioritari i
flussi dall’Europa meridionale ed orientale ed aumentò la componente individuale. Inoltre la
domanda di lavoro si indirizzò sempre di più verso la manodopera poco qualificata à a questo
esodo l’Italia contribuì per circa 1/5 del tot. dove dal 1876 (quando si hanno i primi dati del nostro
paese. E’ interessante che l’andamento ciclico dei flussi migratori del periodo appare anche
considerando i dati dei paesi di immigrazione dell’America settentrionale e meridionale. Anche qui
sono identificabili tre periodi con un primo momento di crescita, seguita da una successiva
diminuzione di intensità – per poi avere un vero e proprio salto dimensionale. Tale coincidenza era
tutt’altro che scontata, inoltre nel lungo periodo i dati di arrivo e quelli di partenza appaiono
coerenti: tra il 1861-1915 sono 39 milioni i partenti dall’Europa verso altri continenti, e 38,7 milioni
gli arrivati sul suolo americano.

E’ bene precisare però, che nelle principali mete americane di quel periodo, si possono notare
alcune variazioni di intensità. I punti di svolta nel trend ascendente sono riconducibili a:
- Crisi commerciale e finanziaria del 1873 in USA - Introduzione di restrizioni all’ingresso del 1882
in USA - Recessione dei primi anni Novanta in USA e Argentina - Crisi economica del 1907 in USA

Per quanto riguarda l’immigrazione italiana, i dati riferiti ai tre paesi d’arrivo ci mostrano come
fino al 1898 vi fu una prevalenza di destinazioni latinoamericane, con punte superiori alle 100 mila
unità in Brasile nel 1888, 1891 e 1897 ed un massimo per l’Argentina di 88 mila arrivi nel 1889. A
partire dal nuovo secolo gli Stati uniti diventano la nostra meta preferita, nonostante il forte flusso
verso l’Argentina. Diminuì invece il flusso verso il Brasile a causa della non brillante congiuntura
economica del paese, e a causa del blocco dei trasferimenti gratuiti attuato con il decreto Perinetti
del 1902. In Argentina gli arrivi degli italiani raggiunsero il massimo nel 1906 con 127 mila unità, e
superarono le 100 mila anche nel 1910 e 1913. Tale soglia venne oltrepassata per la prima volta

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negli Stati Uniti nel 1900 e lo fu sistematicamente negli anni successivi. Complessivamente
secondo i dati statunitensi, gli italiani immigrati nel paese tra il 1900 ed il 1913 furono 2,75 milioni
con un massimo di 286 mila arrivi nel 1907. Una lettura più attenta dei dati può essere tuttavia più
idonea. Attenzione infatti, perché gli italiani negli Stati Uniti anche negli anni in cui il numero degli
arrivi era superiore ad altri anni, componevano il 20-30% di tutta l’immigrazione. In Argentina
invece ne costituivano più della metà tra il 1861-1906, ed in Brasile tra 1885-1902 superarono
sempre tale quota. Verrebbe da dire che siamo in presenza di una perdita migratoria, ma in realtà
non è così perché gli italiani rientravano poi nel paese. Nel caso della nostra emigrazione è noto il
caso go londr inas dove si sfruttava l’inversione stagionale e quindi si lavorava in estate in Italia, ed
in Argentina in inverno creando un mercato stagionale su base continentale. A parte questi casi
estremi fu sempre alto il grado di temporalità dei progetti migratori. Se è vero, come stavamo
dicendo che gli italiani (e più in generale tutti) tendevano a rientrare nel proprio paese,
osserviamo adesso alcuni dati. Negli Stati Uniti tra il 1880-1930 la quota dei ritorni era su
percentuali comprese o superiori al 50-60% degli arrivi. Per l’Italia, Livi Bacci utilizzando le
statistiche demografiche americane, stima una quota di ritorni che parte dal 43,4% degli arrivi tra il
1880-1890, sale al 47,6 ed al 52,6% nei due decenni successivi – ed arriva fino al 63,2 tra il 1910-
1920 anche per effetto dei rientri determinati dal conflitto. [Il numero degli italiani immigrati in
Canada è disponibile solo a partire del 1900 e dopo tale date superò le 10 mila unità sono negli
anni fiscali 1907 (11,2 mila), 1912 (16,6 mila) e 1913 (24,7 mila)].

L’alta percentuale dei ritorni era anche conseguenza della struttura demografica dei flussi. Qui
abbiamo poche informazioni, ma si nota uno sbilanciamento nella composizione per sesso ed età.
Secondo i dati statunitensi, ad esempio i maschi rappresentavano tra il 1861-1915 una quota
compresa tra il 60 ed il 70% del totale degli arrivi, mentre tra il 1868 ed il 1915 le persone di età
compresa tra i 15 ed i 40 anni erano tra il 65 e l’80% dell’immigrazione complessiva. A livello
intraeuropeo con la rivoluzione industriale ed il processo di trasformazione economica e sociale, il
lavoro migrante si trovò a svolgere nei paesi europei d’arrivo una funzione integrativa e sostitutiva
nei settori disertati dalla forza lavoro locale, specie nell’agricoltura e nelle opere pubbliche. Essi
permettevano agli autoctoni di migliorare le loro condizioni. Non abbiamo dati disponibili per
vedere come le cose andassero negli spostamenti intercontinentali, ma facendo riferimento ai dati
censuari si può arrivare a capire qualcosa. Gli stranieri diventarono più di un milione già nel 1880
in Francia. In Germania, nel 1910 tale soglia era superata. La presenza straniera crebbe in tutto il
periodo esaminato. Gli stranieri arrivarono a comporre l’1,9% della popolazione totale in
Germania, il 3% in Francia, il 3,4% in Belgio ed il 14,7% in Svizzera à il peso dell’immigrazione
italiana appare più evidente in Francia ed in Svizzera dove nel 1910 rappresentava più di 1/3 di
tutta la popolazione straniera. In Germania gli italiani censiti al 31 dicembre 1910 erano 100 mila,
ma crebbero durante la stagione estiva. Anche il numero di italiani in Austria era cresciuto dove
dalle 22 mila unità del 1871, si passò alle 63 mila del 1901 e alle 79 mila del 1911. Modesta invece
la presenza degli italiani in Belgio, che acquistò vigore solo dopo il conflitto mondiale. 3.
L’emigrazione di massa e la trasformazione del modello migratorio italiano • Un paese in
cambiamento

Prima di esaminare la dinamica migratoria italiana dobbiamo considerare alcuni cambiamenti


all’interno del quadro italiano. Cambiamenti che hanno portato a delle trasformazioni. Tra il 1871-
1911 non ci sono grandi differenze nei ritmi di crescita della popolazione che anzi sono molto vicini
al dato medio nazionale. Sul piano territoriale i valori regionali sono compresi tra gli aumenti

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superiori all’1% annuo di Puglia e Lazio, e il valore negativo della Basilicata -0,19%. Questo è frutto
di perdite migratorie, della capacità di attrazione verso i flussi interni. Se il Mezzogiorno nel
complesso non presentava ancora differenze nei tassi di crescita della popolazione rispetto al resto
del paese, è vero però che perdeva terreno sul fronte economico. Stime recenti mostrano come il
Mezzogiorno non abbia retto il passo del paese per il Pil pro capite. Questo nel 1871 era pari a
circa l’81% di quello del Nord-Ovest, ricca, la ripartizione più ricca, nel 1911 arrivava a costruirne
appena il 69%. Nel complesso il periodo liberale rappresentò un per l’Italia una fase di crescita. Il
paese al momento dell’Unità era povero sotto ogni aspetto: la gente (una persona su due, o due su
tre) non aveva le calorie sufficienti per mantenersi in buona salute. Nel 1861 solo il 26,9% sapeva
leggere e scrivere, e solo il 26,5% della fascia 15-19 anni. Il 44% dei cittadini era povero. L’età
liberale rappresento un miglioramento di tutte queste condizioni. Nel 1922 i sottonutriti erano 1
su 5 e già dal 1911 la situazione era in netto miglioramento sotto tutti i profili appena analizzati,
tranne che per il divario Nord-Sud ancora molto alto ed evidente. Dal Mezzogiorno si finiva per
emigrare maggiormente proprio perché il divario sul piano della povertà era molto evidente. A
questi fattori si aggiunse anche una diversa crescita demografica:

- Liguria tassi superiori al 10‰ con valori che si stabilirono poi nel tempo fra il 6 ed il 9‰ - Veneto
dai primi anni del 1880 con valori intorno al 20‰ - Toscana e Abruzzo intorno al 10‰ - Basilicata
tendenza ascendente solo dall’inizio del Novecento

• La contrastata ascesa dell’emigrazione ed i primi sviluppi della mobilità interna (1861-1900)

I primi decenni unitari sono importanti per le trasformazioni delle migrazioni italiane.
L’emigrazione assume un ruolo sempre più importante a partire da questo periodo. A livello
politico c’era ovviamente divergenza sul tema, in quanto alcuni volevano controllarlo per evitare la
perdita di risorse umane, mentre altri lo consideravano un fenomeno inevitabile alla luce delle
trasformazioni economiche. Possiamo dire che l’Italia è un paese d’emigrazione per eccellenza
tanto per le dimensioni del fenomeno, quanto per la modalità dei flussi di andata e di ritorno
secondo Gould (1980), Hatton e Williamson nel 1998. Cambiarono poi anche le migrazioni
interne, come ad esempio le migrazioni stagionali, che nel 1861 come si è visto, ancora si
uniformavano ai modelli di inizio Ottocento. La mobilità interna a carattere non stagionale divenne
più frequente e più in generale per effetto di queste dinamiche i centri urbani e le grandi città
conobbero una fase di crescita:

- La popolazione di Milano triplicò tra il 1871-1911 (da 200 a 579mila abitanti) - Roma aumentò di
2,3 arrivando a 500mila - Torino arrivò a 427mila e Genova a 270mila. Entrambe quindi
raddoppiarono

Sull’emigrazione sono disponibili i dati di cinque censimenti degli italiani all’estero condotti a
cadenza

decennale tra il 1871 ed il 1911. Ma i più interessanti sono i dati raccolti per la rilevazione degli
espatriati del 1876 ai quali sono stati affiancati i dati sulle partenze e sui ritorni dall’America. Per
quanto riguarda invece le immigrazioni di stranieri dall’estero, l’unico dato disponibile è quello di

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stock rilevato a partire dal censimento del 1881. Parziale e limitata è anche l’informazione sulla
mobilità interna del periodo. Sulle immigrazioni periodiche sono disponibili i risultati delle indagini
condotte dal Maic nel 1905 e 1910. Informazioni sulle migrazioni interne sono fornite dai
censimenti. Per osservare gli spostamenti migratori interni i primi tentativi risalgono al 1862 con
l’emanazione da parte della Direzione generale di statistica di una circolare che sollecitava le
autorità comunali ad adottare provvedimenti atti a misurare e controllare gli spostamenti della
popolazione. Questo sistema non andò a buon fine in quanto necessitò nel corso del tempo di
correttivi. Riprenderemo questo punto più avanti, ma per adesso la dinamica migratoria interna ed
internazionale del periodo è ottenibile attraverso un sistema diverso. Il sistema è quello del calcolo
residuo dei saldi migratori a partire dai dati di censimento e del movimento naturale. Anche qui
stiamo parlando di un sistema difettoso in quanto si basa sui dati del periodo unitario che
ovviamente debbono essere visti come dati parziali. Comunque, in generale si osserva che la
perdita migratoria del paese crebbe. Tra il 1861-1871 si registrò un saldo migratorio di -206mila
unità, un dato che diventò -362mila nel successivo intervallo intercensuario, salì a -2,9 milioni tra il
1881-1901 ed arrivò a 1,6 milioni nella prima decade del Novecento. Nei primi intervalli censuari
nelle province di Milano, Roma e Napoli le migrazioni interne annullarono e ribaltarono la perdita
verso l’estero determinando quasi sempre un saldo migratorio positivo grazie alla capacità
attrattiva dei capoluoghi. Secondo le stime di Mortara, nel periodo 1862-1871 l’eccedenza degli
immigrati nelle grandi città sugli emigrati fu relativamente scarsa. Egli disse inoltre che il saldo
migratorio era positivo principalmente nei capoluoghi. Dal punto di vista politico bisognerà
attendere il 1888 per vedere la prima legge sull’emigrazione. Tuttavia non è che tale questione
rimase assente, anzi. Infatti prevalsero come detto in precedenza, gli interessi di coloro che erano
a favore di un processo libero di migrazione. In assenza di leggi specifiche in materia, due erano i
punti sui quali basarsi.

1. Il regio decreto del 13 novembre 1857 con cui lo stato sabaudo regolava il rilascio dei passaporti
e la cui validità venne estesa a tutto il paese dopo l’Unità

2. Le norme del 1865 sulla pubblica sicurezza. Norme che attribuivano alle autorità di polizia la
sorveglianza delle agenzie pubbliche, e di conseguenza anche quelle di emigrazione.

A queste norme di base vennero affiancate successivamente delle circolari:

- 1861 il Ministro dell’Interno Ricasoli sollecitò i prefetti a rifiutare il passaporto a coloro che non
erano in possesso dei mezzi necessari per il viaggio, e a coloro la cui intenzione era di
abbandonarsi all’ozio ed alla mendicità.

- 1867 il Ministero dell’Interno invitò i prefetti a diminuire le migrazioni verso l’America - 1868 il
Ministero chiese ai sindaci e alle autorità di pubblica sicurezza di impedire le emigrazioni degli
italiani

Le circolari furono una consuetudine italiana, ma sorprende per adesso il fatto che a pochi giorni
dell’ultima circolare, l’allora Primo Ministro Menabrea si oppose di fatto a questi interventi. Più
semplicemente egli diceva che il governo non poteva impedire le emigrazioni, e che anzi queste
potevano essere combattute se fossero migliorate le condizioni dei lavoratori. Sollecitò quindi i

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ricchi proprietari terrieri e gli industriali a migliorare le condizioni di vita dei propri lavoratori à
manovra improntata sul liberalismo cavouriano.

Nel 1871 venne effettuato il primo censimento degli italiani all’estero. La rilevazione basata sulle

informazioni fornite dai consolati e sui dati dei paesi d’arrivo, si dimostrò largamente inadeguata a
fornire una buona conoscenza del fenomeno. Essa comunque portò a stimare tra le 432 mila e 478
mila il numero approssimativo degli italiani dimoranti o di passaggio all’estero nella notte del 31
dicembre 1871. Di questi solo 232 mila furono registrati nominativamente e classificati per
provincia di nascita:

- 75,5% veniva dall’Italia settentrionale - 11% dall’Italia centrale - 9,3% dal Meridione - 4,3% dalle
isole

Per le regioni centrosettentrionali con l’eccezione della Liguria, l’Europa era la principale meta, per
quelli del Sud era preferito andare in America o Africa in base alle regioni, abruzzesi e calabresi
nella prima. Sardi e Siciliani nella seconda. I pugliesi preferivano l’Europa. Alcune rilevazioni
effettuate nei porti di imbarco francesi ed in quelli di Genova lo confermano. Gli italiani si spostano
molto verso l’America. Il censimento del 1871 rilevò pure un aumento della mobilità interna che
passò nel giro di dieci anni ad aumentare dal 1,9 al 19%. I valori erano cresciuti nel Centro-Nord,
ma anche nel Mezzogiorno. Sempre nel 1871 furono pubblicati i risultati di una prima rilevazione
semi ufficiale dell’emigrazione curata da Leone Carpi che si avvalse della collaborazione del
Ministero dell’Interno e degli Esteri. Egli osservò che nel periodo 1869-76 Veneto, Lombardia e
Piemonte erano le regioni a maggior deflusso, mentre valori molto più contenuti presentavano le
regioni meridionali. Nel 1872 la Giunta di statistica sollecitò l’idea di creare una statistica
dell’emigrazione. Un fenomeno indispensabile per mettere fine alla polemica sulle cifre. Vi fu un
confronto all’interno della Giunta: Bodio, il presidente era a favore delle migrazioni, Florenzano
autore di una statistica su Napoli, era contrario. Prevalse la linea di Bodio, che era anche la linea a
favore dell’introduzione di una statistica ufficiale. Perse nel dibattito Florenzano, che intendeva
accantonare questa idea per dare invece spazio ad un progetto legislativo che meglio regolasse i
flussi. Bodio vinse non senza difficoltà. Pensare infatti ad una statistica ufficiale senza che il pase
avesse un assetto normativo in materia, rese il lavoro in questa direzione assai complicato. Si
arrivò alla conclusione che il metodo statistico doveva basarsi sulla definizione dei migranti. Essi
erano considerati tali nel momento in cui espatriavano in disagiate condizioni economiche.
Mancavano però i registri della popolazione che impedivano al sistema statistico di raccogliere dati
certi e fedeli. Inoltre il controllo dei documenti non era particolarmente andato avanti, e tutto
sembrava non avere una definizione certa. Si dovette infatti aspettare il 1929 per avere dei registri
ufficiali della popolazione. Nel frattempo, andando avanti con la storia, nel 1873 fu emanata
un’altra circolare dal Ministro dell’Interno Lanza per impedire l’emigrazione illecita e le frodi alle
agenzie marittime. Con questa invitò inoltre i sindaci a non concedere il nulla osta a coloro che non
erano in possesso di denaro e quindi di mezzi necessari, a pagarsi il viaggio. Non furono d’accordo
all’interno del Primo congresso degli economisti del 1875, e si chiedeva un intervento dello stato
per tutelare gli emigranti e controllare gli agenti. A livello parlamentare Rossi e Luzzatti spinsero a
favore del congresso e quindi per la proposta di legge di Minghetti e dello stesso Luttazzi del 1878.
Il passaggio dai governi della Destra storica a quelli della sinistra, avvenuto nel marzo 1876 non
produsse grandi cambiamenti. Depretis che governò dal 1876 al 1887 ebbe sulla questione

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migratoria un atteggiamento molto prudente per non entrare in conflitto con gli interessi della
borghesia meridionale.

- 1876 prima circolare che abrogava quella del 1873 (Ministro Lanza che impediva l’immigrazione
illecita) - Un’altra circolare del governo Depretis che invitava i prefetti alla vigilanza sugli agenti di
emigrazione per impedire la partenza e la rovina di operai ed agricoltori regnicoli - 1883 nuova
circolare per tutelare l’emigrazione fuori dall’Europa, ma ancor più per controllarla e diminuirla

In Italia come nel resto d’Europa, i fattori economici e demografici concorsero a far crescere la
spinta ad emigrare: la partenza arrivò a rappresentare il modo più efficace e diretto per migliorare
le proprie condizioni di vita. Tutto questo in un periodo in cui una serie di soggetti, tra cui le
compagnie di navigazione e agenti d’emigrazione, stavano acquistando una posizione notevole e
quindi ampliando il raggio dell’emigrazione à il tutto favorito dalla discussione parlamentare che
approvò un progetto continuativo rispetto a quello di Minghetti e Luzzatti.

Il peso del Mezzogiorno per i flussi in uscita era inizialmente modesto: appena 7 mila unità nel
primo biennio della rilevazione, ossia il 7% degli espatriati totali. Nel 1886 però superavano già le
50 mila unità. Più in generale, per tutta l’Italia, le migrazioni del 1886 erano orientate
principalmente ai paesi europei. Successivamente, a partire da questa data si preferivano le mete
transoceaniche. Fino alla prima guerra mondiale l’Europa assorbiva il 43,7% della nostra
emigrazione, il 54,4% si diresse verso l’America, ed il restante 2% si distribuì negli altri continenti. Il
93% dei flussi europei aveva come meta preferita la Francia, l’Austria-Ungheria, la Svizzera e la
Germania. Oltreoceano invece, gli italiani si diressero verso gli Stati Uniti, l’Argentina ed il Brasile
che insieme raccolsero il 94% degli italiani nelle Americhe. Più nello specifico la Francia era la meta
preferita dagli italiani che emigravano fino al 1886. Nell’ultimo quindicennio Austria-Ungheria
divenne invece il posto in cui spostarsi più volentieri. La Francia rimase comunque il paese con il
maggior numero di migrazioni per tutto il periodo dell’Ottocento di cui abbiamo rilevazioni. Ma gli
italiani come si spostavano? I dati ci permettono di osservare come nel 1876 più della metà
dell’emigrazione meridionale era rivolta verso le Americhe (percentuale che crebbe negli anni
ottanta del 90%). Dal Centro-Nord invece, le partenze verso l’America del Nord e del Sud
rappresentavano una quota più bassa arrivando ad un massimo del 64% nel 1888 e superando il
50% soltanto nel 1891. L’emigrazione in Europa e in America entrò prepotentemente nelle
strategie economiche delle famiglie settentrionali e meridionali. Un modo questo, per migliorare le
condizioni di vita. La straordinaria novità del periodo è che la globalizzazione ampliò a dismisura la
scala geografica di realizzazione di tali processi, dando la possibilità di sfruttare le opportunità e di
cercare una soluzione alle proprie necessità. In linea generale, considerando l’andamento
dell’intero periodo esaminato in alcune province si ha la possibilità di evidenziare alcune tipicità:

- Udine come Belluno ebbe un comportamento fuori dalla scala arrivando ad un massimo del
96,3‰ nel 1899, per altro molto più basso del 142,6‰ raggiunto dall’altra provincia veneta nel
1901.

- I valori crebbero nel caso di Lucca dove erano già elevati a metà degli anni settanta - Crebbero a
Potenza dove invece era più contenuti - Reggio Calabria dove si registrò un aumento
dell’emigrazione sul finire dell’800 - Genova è invece esempio di una emigrazione contenuta che
coincide con i grandi centri urbani,

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dove le partenze non raggiunsero mai picchi elevati Per quanto riguarda invece la destinazione dei
flussi? Il Mezzogiorno abbiamo detto essere orientato per lo più oltre l’Atlantico. Il Centro-Nord
invece per lo più nel continente.

• Nel 1888 si giunse all’approvazione della prima legge organica in materia di emigrazione. La
discussione parlamentare era sempre rivolta verso i favorevoli ed i contrari per i motivi già citati di
una emigrazione in linea con gli sviluppi economici dell’Europa, o al contrario di una emigrazione
da frenare per non aprire a fenomeni migratori controproducenti per il paese. Qui la discussione
più forte si ebbe in realtà tra gli agrari meridionali e le compagnie di navigazione. La legge vide la
luce durante il primo governo Crispi. Era questa una legge che riconosceva la libertà di emigrare
fatti salvi gli obblighi di legge come la leva. La figura dell’agente e del sub-agente veniva regolata
definitivamente, e fu introdotto l’obbligo di stipulare un contratto di emigrazione tra le parti,
specificandone i punti essenziali. Fu introdotta inoltre un’apposita commissione in grado di
risolvere le controversie in materia. A detta di Annino, si ebbe però un provvedimento che
rifletteva le incertezze e le riserve con cui buona parte della classe dirigente guardava al fenomeno
emigrazione. Una legge che metteva in luce l’incapacità di coordinare i fondamenti liberali dello
stato post unitario con le istanze sociali che un fenomeno come l’esodo prospettava.

La questione non era risolta, ed Annino non fu quindi smentito. Il fenomeno in crescite, ed una
legge

incapace di arginare e gestire la questione spinsero il governo a pensare ad una nuova legge
capace di apportare un miglioramento al quadro generale. In linea di massima ci basti pensare,
perché successivamente lo riprenderemo più nel dettaglio, che a partire dalla nuova legge del
1901 si ebbe nel caso italiano una definitiva e netta apertura verso il fenomeno migratorio. Primi
segnali si ebbero con quella del governo Crispi. L’Italia non riusciva ancora a tutelare però i propri
emigranti. I massacri di Aigues Mortes in Provenza, in Louisiana, a New Orleans ed a Tallulah
sempre in Louisiana ne sono una prova più che evidente. Problemi si ebbero anche sul fronte della
cittadinanza. In Italia il legame di cittadinanza si trasmetteva per ius sanguinis e,
conseguentemente non riguardava soltanto gli emigranti, ma anche i loro discendenti nati nel
paese d’arrivo. Questa concezione forte della cittadinanza entrò in conflitto con molti paesi
d’immigrazione specie del Sud e Nord America che tendevano al contrario, a far entrare i nuovi
arrivati ed i loro discendenti in tempi relativamente rapidi à è in questo senso che l’Italia si
oppose, pur senza successo, alla concessione della cittadinanza a tutti gli stranieri, in Brasile in
occasione della c.d. Grande Naturalizzazione prevista dalla Costituzione del 1891 in della
proclamazione della Repubblica due anni prima. In conclusione possiamo per adesso dire che a
cavallo tra Ottocento e Novecento l’esodo migratorio crebbe in modo esponenziale rispetto ai
datti delle stime del periodo precedente. Da 200 mila del 1896 si passò in tre anni a 300 mila
espatriati. In ordine: Belluno, Udine, seguite da Vicenza, Lucca, Avellino, Campobasso, Treviso e
Potenza avevano le medie più alte del biennio 1899-1900. Altre 19 province avevano un tasso
d’emigrazione compreso tra il 10 ed il 20‰, mentre solo in 5 casi l’intensità del fenomeno non
superava l’1‰. • La promozione dell’emigrazione e la nuova realtà migratoria interna (1900-1914)

Abbiamo detto che il nuovo secolo portò con sé la definitiva affermazione dell’emigrazione verso
l’estero. Anni importanti per l’Italia che in questo periodo si contendeva il primo posto con gli
spagnoli per gli sbarchi in Argentina, ma anche anni in cui era insieme a cittadini Russi e

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dell’Impero Austro- ungarico il paese che maggiormente si spostava verso gli Stati Uniti. Facciamo
comunque un punto sulle migrazioni interne prima di passare in rassegna i dati dell’emigrazione
verso l’estero. Primo aspetto fondamentale è quello delle migrazioni stagionali. Un fenomeno
tanto importante che spinse il Maic a condurre tra il 1905-1910 due indagini che permettono di
fare il punto sulla situazione: i migranti periodici furono infatti valutati intorno alle 858 unità nel
1905 ed intorno alle 727 mila nel 1910 – rispetto ai 185 mila rilevati all’indomani dell’Unità. Stiamo
parlando in altre parole di un fenomeno che varia dall’8,5‰ del 1861, al 20/25‰ nel primo
decennio del Novecento. Le indagini del Maic presero in considerazione solo gli spostamenti che
avvenivano all’interno dei confini nazionali. E’ però vero che buona parte dei flussi verso l’estero
del 1861erano con ogni probabilità rivolti nel Lazio e nel Veneto visto che queste due parti non
erano ancora entrate nel Regno d’Italia. In definitiva, nonostante le indagini del Maic si riferiscano
agli emigrati stagionali, è lecito dubitare che i criteri utilizzati abbiano permesso effettivamente di
misurare i migranti e non abbiano piuttosto prodotto un ibrido, in parte riferibile alle persone ed in
parte agli spostamenti. Resta quindi un ampio margine di differenza che segnala
un’intensificazione della mobilità periodica, in linea con le trasformazioni che avevano interessato
i processi produttivi specie nel settore agricolo. Una crescita, quella della mobilità stagionale, che
si riflette non a caso con il miglioramento della rete dei trasporti interni che facilitavano di molto
gli spostamenti. Si pensi infatti che il 49,1% degli spostamenti avveniva per ferrovia, e che solo il
18,6% avveniva a piedi. Grandissima parte di questa mobilità stagionale era legata alle attività
agricole che nel 1905 come settore primario, assorbiva quasi il 90% del fenomeno. Gli spostamenti
dei lavoratori agricoli avevano in genere un raggio ridotto. Infatti nel 1910 il 55,4% degli
spostamenti avveniva tra comuni della stessa provincia, e solo il 10,3% di questi avveniva tra
comuni non confinanti. Stiamo parlando di Sistemi migratori ben precisi:

- Sistema padano centrato principalmente sulle risaie del Vercellese e della Lomellina - Sistema
dell’Italia centrale i cui punti di attrazione erano rappresentati dalla Maremma e dall’Agro

Romano ancora infestato dalla malaria, e da Roma - Sistema meridionale dove le aree d’arrivo
erano il basso foggiano e la provincia di Potenza - Sistema siciliano con un raggio d’azione che
abbracciava anche la provincia di Reggio Calabria e parte del Crotonese

Gli spostamenti erano anche il frutto di tradizioni che venivano portate aventi nel corso degli anni,
tuttavia non vi è dubbio che a pesare sulle decisioni degli spostamenti fossero per lo più fattori di
tipo economico. Le lotte operaie e contadine, insieme all’emigrazione avevano infatti determinato
in diverse zone un indubbio aumento dei salari ed un certo miglioramento delle condizioni di
lavoro. Secondo le stime del Maic del 1914, nel caso di soggiorni di 30-40 giorni le spese di viaggio
rappresentavano infatti, tra il 4-6% dei salari attesi. Il risultato di tutti questi processi fu una
complessa geografia della mobilità. Tra i grandi centri urbani, solo Roma presenta un saldo
negativo – sia pur contenuto – per effetto della forte crescita dell’emigrazione verso l’estero nel
territorio provinciale. Già durante gli ultimi anni dell’Ottocento crebbe l’attrattività delle grandi
città anche se è vero che la mobilità crebbe in generale in tutto il periodo liberale. Con il primo
censimento del Novecento, l’elaborazione congiunta dei quesiti sul luogo di nascita e di presenza
permise di costruire la matrice origine-destinazione delle migrazioni interne. Si tratta di un tipo di
dato che fissa al momento del censimento, la stratificazione degli spostamenti avvenuti tra la
nascita degli individui e la rilevazione. Un’informazione statistica che non ha un preciso
riferimento temporale ed a cui sfuggono gli spostamenti di chi è ritornato nel luogo di nascita e dei

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migranti deceduti prima del censimento. Tuttavia questi dati rimangono importanti perché ci
danno la dimensione della mobilità territoriale.

Ma Possiamo osservare che il 4% della popolazione viveva in una regione diversa da quella di
nascita, il 2,4% in un’altra ripartizione, nel 1911 tali valori erano invece arrivati rispettivamente a
4,8% e 3% à gli italiani che erano stati censiti in una ripartizione diversa da quella di nascita,
erano passati in dieci anni da 736 mila a quasi 983 mila. Successivamente nel 1902 arrivarono
anche i primi dati relativi alla rilevazione ufficiale delle migrazioni interne basata sui registri di
popolazione, e già allora la mobilità presentava livelli tutt’altro che trascurabili con 506 mila
iscrizioni e 402 mila cancellazioni.

Ma l’inizio del Novecento vide anche un’altra importantissima novità. Stiamo parlando del
superamento della legge sull’emigrazione precedente di fine 800 che fu sostituita da quella del
1901. La legge n.23 del 31 gennaio 1901, titolata Dispos iz ion i l e g i s la t iv e su l la emigrazione
ebbe il merito di regolamentare il grande esodo migratorio. Osserviamone adesso in uno spazio
apposito le principali caratteristiche:

Uno dei punti centrali fu la creazione del Commissariato generale dell’emigrazione, dipendente dal
Ministero degli Affari esteri e alla cui direzione venne posto Luigi Bodio. Il Commissariato aveva
adesso compiti, fino a quel momento demandati ai singoli Ministeri. Il passaggio delle competenze
dal Ministero degli Interni ad una agenzia di quello degli Esteri era un punto importante. L’esodo
migratorio cessava di essere un problema di ordine interno e diventava, come già era successo in
altri paesi, un momento importante per le relazioni internazionali del paese. La legge istituì la
figura del vettore di emigranti a cui veniva concessa un patente annuale dal Commissariato, per
“arrolare o accaparrare emigranti”. Scomparivano quindi le figure degli agenti e dei subagenti
previste dalla legge del 1888 e che potevano essere adesso ricoperte da qualsiasi cittadino, a atto
che non avesse precedenti penali. Con il provvedimento si stabilirono anche le norme per tutelare
i minori di 15 anni ed i migranti in generale. Venne creato un ispettorato dell’emigrazione con sedi
nei porti di Genova, Napoli e Palermo preposto a vigilare sulle partenze e sui ritorni. La legge
stabiliva inoltre l’obbligo di presenza di un medico militare a bordo di ogni nave. La risoluzione
delle controversie tra emigranti e vettori venne affidata ad apposite commissioni arbitrali
provinciali. Punto molto importante fu quello sui passaporti. La legge infatti snelliva le pratiche di
ottenimento di questo documento. Il passaporto andava rilasciato entro 24h dal ricevimento della
domanda o del nulla osta. Non costava per coloro che emigravano per motivi di lavoro o familiari.
Tutte facilitazioni queste, che oltre che a rendere più agevole l’emigrazione, hanno contribuito a
gonfiare i dati degli espatriati. Adesso l’emigrante viene definito una volta per tutte. Si parla di lui
come di un cittadino che si reca in un paese porto al di là del canale di Suez – escluse le colonie ed
i protettorati italiani – o in un paese al di là di Gibilterra, viaggiando in terza classe o in classe che il
Commissariato dichiara equivalente. La legge provò anche a tutelare il migrante al di fuori dei
propri confini istituendo appositi uffici di protezione, informazione ed avviamento al lavoro.
Secondo Annino malgrado le critiche avanzate, la legge si rivela uno strumento efficace di
controllo e tutela dell’emigrante rispetto al periodo precedente. Il vero punto debole della legge
riguarda però la tutela all’estero del migrante.

Da questo momento vengono rivoluzionate anche le forme del controllo statistico sui dati. Ci si
comincia infatti a basare sui passaporti e si ebbe quindi un miglioramento del lavoro svolto dal

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Maic. Tuttavia il rilascio del passaporto non implicava necessariamente l’emigrazione ed inoltre
spesso non era un documento necessario per gli altri paesi. Nel 1902 il Commissariato iniziò quindi
una autonoma rilevazione dei flussi transoceanici. I dati vennero raccolti sulle partenze e sui
ritorni, sebbene il Commissariato ebbe dei problemi con coloro che viaggiavano in terza classe o
una diversa per decisione del vettore. E’ comunque opportuno dire che se confrontati, i dati
italiani con quelli degli altri paesi hanno una sostanziale coerenza. Tra 1882-1901 le statistiche del
Maic danno un dato inferiore a quello di tutti paesi d’arrivo considerati, con scarti abbastanza
prossimi nei tre casi, e pari, complessivamente, al -17,1% (situazione che potrebbe indicare una
sottostima del fenomeno da parte delle statistiche basate sui nulla osta, anche per effetto di un
quadro normativo che ostacolava l’emigrazione legale). Con la nuova legge ed i nuovi sistemi di
raccolta dei dati la situazione cambiò radicalmente. Al tempo stesso è possibile che i dati analizzati
siano sovrastimati, ma in definitiva la quantificazione delle dimensioni totali del fenomeno da
parte delle statistiche italiane non è molto distante da quella che si ottiene utilizzando le fonti dei
paesi d’immigrazione. Inoltre si può aggiungere, che ancora oggi il confronto tra la misurazione di
uno stesso flusso migratorio, alla partenza e all’arrivo, può cambiare. Non è poi sbagliato, anzi,
ammettere che con l’arrivo del ‘900 si ebbe una crescita esponenziale del fenomeno emigrazione.
Se nel 1901 gli espatriati furono 533 mila, nel 1913 i dati ci parlano di cifre ben al di sopra di una
crescita modesta in quanto si contavano 873 mila spostamenti. Per la prima volta nella storia
italiana, il tasso d’emigrazione a livello nazionale era superiore al 10‰.

Dal 1901 al 1913 sempre, dal Mezzogiorno partivano sempre 200 mila unità annue. Sul totale del
flusso, la quota del Mezzogiorno si mantenne quasi sempre al di sopra del 40%, arrivando nel 1909
a superare il 50%. Tuttavia considerando in termini relativi il fenomeno solo i valori del
Mezzogiorno risultano più elevati (tranne che nel 1908). Questa crescita dell’emigrazione
meridionale spiega anche il deciso prevalere delle correnti transoceaniche su quelle europee nel
primo quindicennio del Novecento. I flussi diretti in Europa crebbero al di sopra delle 200 mila
unità dal 1901. Superando nel 1913 le 300 mila. Fra le destinazioni europee si registrò un calo delle
partenze verso l’Austria-Ungheria a vantaggio di quelle dirette in Svizzera, Francia e Germania.
Oltreoceano la meta principale della nostra emigrazione diventarono gli Stati Uniti: questa
corrente migratoria nel 1901 superava per la prima volta le 100 mila unità, arrivando nel biennio
1905-1906 ad oltre 300 mila. Questa condizione verso gli Stati Uniti mette un po’ in ombra la meta
Argentina che comunque non superava le 100 mila unità nel 1913. Era in calo, e non poco la meta
Brasile, parallelamente alla crescita degli Stati Uniti e dell’Argentina sotto il profilo economico. A
livello europeo la Francia era la meta preferita dai piemontesi 42,6%, dai toscani 39,6%, sardi,
umbri ed emiliani tra il 20-25%. La Svizzera era la meta preferita dai lombardi 35,6%. La Germania
non rappresentò la principale destinazione per nessuna regione, ma accolse una quota notevole di
veneti (23,8%). Gli Stati Uniti verso cui si diresse quasi il 30% di tutta l’emigrazione italiana di quel
periodo, accolsero il 72,1% dei siciliani, il 70,5% dei laziali e con l’eccezione della Sardegna, la
maggioranza dei flussi di tutte le altre regioni meridionali. Il Brasile importante per i calabresi,
l’Argentina per i liguri. Nel 1912-1913 nessuna provincia italiana aveva uscite inferiori al 5‰ a
dimostrazione che in questa fase tutto il paese era coinvolto nelle emigrazioni.

A inizio ‘900 i flussi iniziavano ormai a muoversi in base ad una loro dinamica i cui meccanismi
vanno ricercati nei legami sociali tra aree di partenza e di arrivo.

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• Sul piano microeconomico questo legame si tradusse in un crescente flusso di risorse che grazie
alle rimesse giungevano alla famiglie dei migranti: 9,3 milioni di lire di rimesse dal Banco di Napoli
nel 1902, ed 85 milioni nel 1914, Un crescita questa, confermata anche dall’Istat à alle aree di
esodo venne attribuito grazie a ciò un miglioramento delle condizioni di vita. Gran parte di questo
denaro fu impiegato in depositi e titoli di stato. Questo contribuì a rendere l’emigrazione una
componente duratura. Una funzione che l’emigrazione cesserà di svolgere tra le due guerre
mondiali, quando la chiusura degli sbocchi impedirà di muoversi.

• Furono decisamente positivi gli effetti macroeconomici delle rimesse. Queste permisero le
grandi trasformazioni economiche del paese del periodo giolittiano. Le rimesse infatti oltre a
rappresentare una posta attiva nella bilancia dei pagamenti, erano di fatto, una forma di
trasferimento di ingenti risorse dall’agricoltura al settore industriale, anche dal Mezzogiorno al
Centro-Nord.

• La questione delle rimesse è spiegata quindi dal legame che gli emigrati mantengono con il loro
luogo

di origine. Una conferma si trova anche nei dati sui rimpatriati dall’America disponibili dal 1905. Da
quell’anno al 1914 furono 1,8 milioni i ritorni, ossia il 36,4% dei 4,9 milioni di espatriati diretti
oltreoceano nello stesso periodo, ma che arriva al 63% dei 2,9 milioni di partenze verso queste
destinazioni registrate dalle statistiche Cge. Prevalentemente maschi che rappresentavano l’80%
del totale. Il boom dell’emigrazione del primo Novecento determinò quindi un modello
principalmente maschile, a cui corrispondeva un calo dell’emigrazione dei minori e dei gruppi
familiari. Non mancarono ovviamente le difficoltà. Infatti l’italiano all’estero era spesso visto
negativamente. I casi già citati della Louisiana furono certo i più eclatanti, ma in generale si
avvertiva ostilità nei confronti dei nostri concittadini dell’epoca. Spasso visti come malavitosi ed
attaccabrighe, secondo lo stereotipo del mafiosetto. Da segnalare inoltre che il periodo in cui gli
italiani tendevano maggiormente ad emigrare, ossia il periodo che stiamo prendendo in
considerazione in questa sessione, coincide con il periodo di limitazione da parte delle frontiere
estere che inserirono la variante dei maggiori controlli dei flussi. Nel complesso il primo
quindicennio del Novecento ha rappresentato uno slancio straordinario per gli italiani in
concomitanza con una esponenziale crescita economica di tutto il paese. Sul piano politico si erano
infine create le definitive condizioni per una legge che fosse capace di regolare l’intero sistema dei
flussi di emigrazione, consolidando quindi una economia dell’emigrazione ed una cultura
dell’emigrazione che venne vista almeno inizialmente come una occasione di riscatto individuale.
Era poi cresciuta anche la mobilità interna come abbiamo avuto modo di osservare e quindi anche
i flussi stagionali. Essi accrebbero la loro durata, anche a livello di tramite Nord-Sud. L’arrivo della
guerra mondiale segnò la fine della prima globalizzazione, e come vedremo successivamente,
dopo il conflitto cambieranno radicalmente tutte le coordinate del fenomeno. Una nuova fase per
le migrazioni internazionali e per quelle italiane.

Capitolo 3

TRA LE DUE GUERRE (1915-1945) 1. Un trentennio tormentato L’attentato di Sarajevo segna il via
ad un nuovo processo, una nuova pagina di storia delle migrazioni che andremmo
progressivamente a conoscere. Per rendere però almeno inizialmente l’idea, stiamo parlando di un

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fenomeno che ha portato le vittime ad essere stimate intorno ai 10 milioni. Questo primo conflitto
mondiale fu una delle cause principali all’avvento dei successivi regimi totalitari. Cambiavano
quindi diversi connotati sia sotto il profilo politico, che ovviamente economico e soprattutto
sociale. L’innovazione tecnologica non si ridusse e su una variabile per le migrazioni di questo
periodo. Quello però che preme introdurre qui è il nuovo assetto in materia di leggi sulle
migrazioni che portarono ad una riorganizzazione di tutto l’intero processo. Con la conclusione
della guerra vennero infatti ridotte le mobilitazioni per via di controlli e limitazioni sempre più
rigorosi. L’economia mondiale stentò a riprendere i ritmi di crescita postbellici, e nel 1929 entrò in
una delle sue crisi più profonde. Si ridussero i flussi transoceanici ed a risentirne fu principalmente
l’emigrazione italiana, sottoposta a vincoli restrittivi dagli Stati Uniti, che nel periodo precedente
della prima globalizzazione, era il paese in cui gli italiani andavano maggiormente. In generale
anche i flussi interni all’Europa conobbero un forte rallentamento. 2. Ripresa e declino
dell’emigrazione di massa nel contesto internazionale Qualità e disponibilità del materiale
statistico migliorano in questo periodo, ma mancano valutazioni ufficiali sul Pil. Ci serviremo quindi
delle ricerche di Maddison. Il ritmo di crescita della popolazione si ridusse in maniera abbastanza
netta in quasi tutti i paesi., con l’eccezione dell’Italia dove si mantenne praticamente sullo stesso
livello registrato nella prima globalizzazione. Abbiamo già visto nel capitolo precedente come la
fecondità delle donne nate nel 1900, si attestasse nei paesi dell’Europa settentrionale anche al di
sotto del livello attuale di sostituzione. I tassi di fecondità sono bassi in Europa tra Germania,
Svezia e Regno Unito al 2,1 figli per donna, mentre l’Italia è al 3,05 sopra la media nel decennio
precedente alla grande guerra. Il risultato complessivo delle dinamiche di fecondità e mortalità fu
un virtuoso rallentamento dell’incremento naturale della popolazione. Tendenza che si confermò
negli anni Venti. Dopo il netto rialzo del 1920 i valori diminuirono per un quindicennio. In Francia
continuarono a scendere arrivando a valori negativi tra il 1935-1950. In Inghilterra e Svezia i tassi si
stabilizzarono tra il 2 ed il 4‰. La politica natalista della Germania portò il tasso al 7-8‰. Questi
andamenti mostrano come, da un punto di vista demografico, l’emigrazione si fosse smorzata fra
le due guerre. Il caso italiano invece mostra una differenza in quanto i tassi di incremento naturale
si attestavano intorno al 10‰, con un potenziale di emigrazione che ebbe la possibilità di
realizzarsi soltanto nel secondo dopoguerra. Dal punto di vista economico, nonostante le
distruzioni della guerra e la crisi del ’29, in tutti i paesi considerati il Pil totale e pro-capite crebbe
nel periodo che abbiamo preso in considerazione. America come punto più alto di crescita, e
Germani con il livello più basso. Possiamo quindi parlare di un evidente e complessivo
peggioramento che si ebbe negli anni ’30 per effetto della crisi mondiale: i tassi di variazione del Pil
pro-capite si ridussero in tutti i paesi esaminati, e negli Stati Uniti ed in Argentina diventavano
addirittura negativi. In questo periodo contrastano un primo decennio di sostanziale crescita e di
recupero dei livelli di produzione da un lato, ed un secondo momento in cui prevalsero i fattori
recessivi. La guerra rappresentò un vero e proprio choc per il sistema economico internazionale.
Rafforzò le tendenze pensionistiche, determinò una disgregazione del mercato mondiale delle
merci e tutti questi fattori resero quindi difficile anche un periodo di crescita come quello degli
anni Venti. L’arrivo della Grande depressione rafforzò ancor di più le tendenze protezionistiche. I
processi di scambio dei fattori produttivi a livello internazionale non vennero riattivati e dopo la
momentanea ripresa dei primi anni post- bellici si ebbe una progressiva riduzione dei flussi
migratori. Il meccanismo che aveva permesso la grande crescita dei flussi durante la prima
globalizzazione aveva come presupposto l’interesse da parte dei vari paesi a non creare ostacoli
all’ingresso. Questo sistema andò progressivamente a scardinarsi già prima del conflitto. Infatti, un
punto di cesura netto si ebbe con il caso statunitense.

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• Nel 1907 proprio negli Stati Uniti il Congresso nominò una Commissione incaricata di studiare
cause e conseguenze dell’immigrazione nel paese. Furono scritti 42 volumi da quella che è
conosciuta ancora oggi come la Commissione Dillingham. Questi volumi servivano da base a
diverse proposte per introdurre strumenti che controllassero la nuova ondata di immigrazione
dall’Europa meridionale ed orientale. La commissione indicò nelle sue conclusioni la necessità di
mantenere il blocco dell’immigrazione dai paesi asiatici, e suggerì di utilizzare come strumenti di
dei riduzione dei flussi, gli analfabeti e le quote per each race. Furono questi tentativi di introdurre
limitazioni, e nel 1917 in piena guerra, il veto del Presidente Wilson non fu sufficiente a bloccare
l’approvazione del Burnett Bill, con il quale si introduceva il Licterary Test per impedire ‘ingresso
nel paese agli stranieri analfabeti. Con un atto di emergenza, nel 1921 fu emanato in Dillingham
Bill. Esso prevedeva un ingresso degli stranieri per quote. In altre parole si ebbero ingressi per
ciascuna nazionalità pari al 3% della connazionali residenti nel paese (in base a quanti ce n’erano
nel 1910, poi abbassata al 2% nel 1924).

I processi messi in moto dalla guerra modificarono in profondità i contesti di riferimento,


rendendo impossibile il ripristino dei meccanismi che regolavano lo scambio nel periodo della
prima globalizzazione. E’ in questo contesto che va inserita la manovra statunitense , che trovò
rispondenza poco dopo anche in Canada, Argentina e Brasile. Più in là nel tempo questo si verificò
anche nell’Unione Sovietica, e nell’Italia fascista. La crisi del ’29 rappresentò poi una nuova
occasione per avere altri problemi di questa natura. Una sorta di colpo finale come lo definisce il
libro. Successivamente a questa data il tasso di disoccupazione era molto alto un po’ ovunque,
passando dal 19% dell’Australia e del Canada, al 25% degli Stati Uniti. E dal 30% di paesi come
Germani, Danimarca e Paesi Bassi. Il periodo della Grande depressione determinò quindi una
brusca caduta degli arrivi. Le politiche restrittive e l’ostilità delle popolazioni d’arrivo erano ormai
passate in secondo piano come fattore di riduzione dei flussi. Adesso il problema è la recessione.
Alla diminuzione delle migrazioni internazionali vi fu però un aumento della mobilità interna. Un
fattore da considerare è quello che al progressivo calo degli addetti all’agricoltura tra il 1913-1950
corrisponde un aumento dei lavoratori nell’industria. Una tendenza questa, che riguarda l’Europa.
Nel caso italiano sarà molto importante il triangolo industriale, capace di convogliare le persone in
quelle determinate città invece che lasciare andare fuori dal paese. Possiamo quindi concludere
che da un lato la chiusura degli sbocchi, dall’altro il riassetto del quadro economico internazionale
– portano ad una crescita della mobilità interna. Non poteva essere diverso questo caso, se
consideriamo che durante la guerra era difficile lo spostamento da un paese ad un altro. La guerra
sottomarina lanciata dallo stato maggiore tedesco rese insicure ad esempio le rotte atlantiche.
Proprio questi attacchi, per giunta, spinsero gli Stati Uniti ed il Brasile ad entrare in guerra nel 1917
a fianco dei paesi dell’Intesa. L’Argentina invece conservò la sua neutralità fino alla fine del
conflitto. Negli Stati Uniti gli arrivi passarono dagli 1,2 milioni dell’anno fiscale 1914, ai 327 mila del
1915. I cali si ebbero anche in Canada e Sud America. La guerra aveva definitivamente determinato
una contrazione dei flussi che si erano sviluppati durante la prima globalizzazione. Erano massicci
adesso i ritorni nei propri paesi d’origine. Alcuni paesi addirittura ricorsero a stranieri, quindi
persone che si trovavano in quel determinato stato per fargli fare la guerra al loro fianco. Basti
pensare che a fine guerra si contavano 600 mila soldati provenienti dalle colonie nell’esercito
francese e 1,2 milioni di non europei che invece, avevano combattuto nelle file di quello inglese. La
guerra causò massicci spostamenti di popolazione dai luoghi investiti direttamente dai
combattenti, ed una serie di migrazioni forzate per assicurare l’omogeneità etnica all’interno dei
nuovi confini: si pensi allo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia che coinvolse 1 milione di

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persone. Complessivamente nel dopoguerra gli spostamenti forzati dovrebbero aver interessato
circa 9,5 milioni di persone. Quelli che non erano forzati ripresero invece una volta conclusasi la
guerra. Stati Uniti, Canada, Brasile ed Argentina erano i paesi in cui si tendeva ad immigrare
maggiormente. Tuttavia con la crisi del ’29, dal 1931-1945 in tutti questi paesi presi singolarmente
non si superavano i 100 mila arrivi. In linea con i pochi movimenti erano i numeri del nostro paese.
Infatti, gli italiani oltre l’Atlantico diminuirono in questo periodo, tranne che in Argentina, dove gli
arrivi erano presumibilmente dovuti al blocco posto dagli Stati Uniti. Negli anni Trenta
l’emigrazione italiana si ridusse a poca cosa. La quota degli italiani sul totale dell’immigrazione
scese dal 27,6% del 1921 al 13% dell’anno successivo. Si mantenne al di sotto del 10% nel resto del
decennio. Negli anni Trenta il peso degli italiani aumentò attestandosi al 19% del totale. Altri paesi
come Belgio e Francia videro crescere l’immigrazione negli anni Venti, ma nel decennio successivo
rimase stabile per la Francia e diminuì per il Belgio. La crescita si ebbe successivamente negli anni
Trenta, con la particolarità della Svizzera non in linea con questo incremento. In conclusione, gli
italiani si confermavano una popolazione tra le più attive a livello migratorio. Crescita in termini di
presenza principalmente nel Belgio. Alla vigilia del secondo conflitto gli italiani costituivano il 43%
della popolazione straniera in Svizzera, 1/3 in Francia ed attorno al 10% in Belgio e Germania. 3.
Dalla promozione postbellica alle soluzioni autarchiche del fascismo L’Italia fu il primo paese
all’interno del quale si instaurò una dittatura a causa delle difficoltà portate dal dopoguerra. Alla
ripresa degli anni Venti, va segnalata la difficoltà del decennio successivo, e la trasformazione
strutturale del secondo dopoguerra. La mancanza di libertà politica portata dal fascismo ha creato
misure di tipo protezionistico che hanno avuto riflessi anche a livello migratorio. Dal punto di vista
demografico tra il 1921-1936 al Centro e nel Mezzogiorno si registrò un tasso medio annuo di
crescita dello 0,99% che era due volte più grande di quello registrato nel resto del paese al nord.
La crescita del Pil pro-capite tra 1911-1931 non fu distante dal ventennio precedente. Il
Mezzogiorno risultava ancora in uno stato di arretratezza rispetto al resto della penisola, infatti,
basti pensare che nel 1931 il reddito di una persona di questa parte d’Italia era pari al 76,9% di un
abitante del nord. Nel 1938 la situazione peggiorò in quanto il reddito di una persona del sud era
pari al 63,1% di un abitante del nord. In soli 7 anni la distanza era aumentata di 14 punti
percentuali. Inoltre:

- I tassi di crescita naturale nel 1910 del Centro-Nord e del Mezzogiorno si attestavano intorno al
12‰, quel valore, rappresentò per la parte centrosettentrionale un massimo raggiunto da cui partì
la fase calante. Il Sud rispondeva diversamente, in quanto un decennio dopo avrebbe raggiunto il
15,5‰.

- Lo scarto nelle speranze di vita rimase inalterato per entrambe le zone - Aumentò quello dei tassi
di mortalità infantile - La differenza nei tassi di analfabetismo si ridusse - Negli anni ‘20 aumentò la
povertà del Centro-Nord, e diminuì quella del Sud

Nonostante la crescita del Pil pro-capite, la situazione della classi più disagiate si può dire che
peggiorò, e la riduzione delle rimesse giocò un ruolo importante (1924: 4,5 miliardi di lire di
rimesse, e solo 708 milioni nel 1939 che ebbe conseguenze anche sul piano demografico). L’Italia
ha conosciuto sostanzialmente tre differenti periodi che potremmo sintetizzare così:

1. Periodo di crescita fino al 1929 2. Periodo di contrazione e ristagno fina al 1934 3. Periodo di
accentuata ripresa negli anni che precedono il secondo conflitto

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Gli effetti della crisi del ’29 furono pesanti si, ma meno rispetto che in altri paesi. Continuò poi a
diminuire la quota di addetti all’agricoltura, e ad aumentare la quota degli addetti all’industria.
Rispetto al resto dell’Europa era però in ritardo per il numero di occupati nell’agricoltura. Vi fu poi
un periodo di riduzione dei saldi migratori. Infatti essi scesero a -1,6 milioni di unità registrati nel
primo decennio del Novecento, alle -943 mila del periodo 1911-1921. Negli anni Venti si arrivò ad
1 milione di perdite, per poi andare a -315 mila nel quinquennio 1931-1936. La prima guerra segnò
una forte contrazione della emigrazione italiana che fino al 1916 interessò tanto la componente
continentale, quanto quella transoceanica. Nell’immediato dopoguerra la politica italiana puntò ad
una ripresa dell’emigrazione, con l’intenzione di ripristinare i meccanismi del periodo giolittiano:

• Nel 1919 fu approvato il Testo unico dei provvedimenti sull’emigrazione e sulla tutela giuridica
degli emigranti che serviva a mettere odine dopo la legge del 1901. Il provvedimento confermò il
ruolo centrale del Commissariato nella gestione dell’emigrazione. Il Testo unico prevedeva anche
norme di tutela per i flussi transoceanici. Il questo senso erano considerati migranti coloro che
viaggiando anche in una classe superiore alla terza, espatriavano esclusivamente a scopo di lavoro.

Il regime inizialmente proseguì con una politica di promozione dell’emigrazione, come succedeva
nei governi liberali. Vennero stipulati accordi bilaterali con diversi paesi a causa della situazione
che gli Stati Uniti avevano creato con il Quota Act. Gli accordi comprendevano Francia, Belgio e
Brasile per la tutela dei nostri emigranti. Furono in questo senso istituiti corsi di alfabetizzazione e
una prima Conferenza internazionale sull’emigrazione e sull’immigrazione. Le cose cambiarono nel
1927 quando Mussolini dichiarò pubblicamente di volere arrivare ad una popolazione di 60 milioni
di abitanti entro la metà del secolo. Sembrava evidente, sebbene non avesse fatto cenno al
problema emigrazione, che adesso la rotta fascista avrebbe preso un’altra piega. Un paese che
vuole crescere demograficamente non poteva permettersi flussi di emigrazione. Furono limitate le
concessioni dei passaporti, e nel 1928 fu abolito il passaporto speciale per gli emigranti. Il
documento per chi voleva andare a lavorare fuori non costava più 2 lire, bensì 80. Tutte queste
misure culminarono in una nuova legislazione:

• Legge n. 1278 del 24 luglio 1930 intitolata Adozione di nuove norme penali in materia di
emigrazione. Il provvedimento non solo stabiliva pene pesanti per chi emigrava irregolarmente,
ma anche per coloro che favorivano questo tipo di forma illegale di emigrazione con gli aiuti.
Intanto il Cpmi, acronimo di Comitato permanente per le migrazioni interne sorto nel 1926, fu
sostituito con il Commissariato per le migrazioni e per la colonizzazione interna nel 1931. Questo
permise durante gli anni ’30 una forma di colonizzazione demografica (che riguardava 3 mila
persone in Libia e 500 nell’Africa orientale). La natura repressiva ed autoritaria spinse molti
dissidenti all’esilio, ai quali si aggiunsero gli ebrei nel 1938 dopo le Leggi Razziali.

Ricapitolando:

- 1914 nuova definizione di emigrante con provvedimento per la tutela giuridica - 1915 i modelli
riepilogativi furono sostituiti con le schede individuali - 1921 la rilevazione dei rimpatriati fu estesa
anche ai paesi europei e del bacino mediterraneo.

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Inoltre sempre in quest’anno si cominciarono ad utilizzare le cedole statistiche inserite nei
passaporti (ritirate al momento dell’imbarco/sbarco o al passaggio alla frontiera). Infine si effettuò
un nuovo censimento degli italiani all’estero completato però solo nel 1927 (stimati in 9 milioni).

- 1927 Direzione generale degli italiani all’estero - 1928 la rilevazione si basò fino al 1942 sulla
nuova normativa sui passaporti. I migranti erano divisi in due categorie come lavoratori e non
lavoratori - 1929 Istat

Tutti questi strumenti portarono le rilevazioni a stimare nel 1919, 253 mila espatriati che nell’anno
seguente divennero 615 mila. Negli anni successivi i numeri diminuirono, ad eccezione del biennio
1929- 1930. La conseguenza fu che gli espatriati diminuirono con la politica restrittiva del fascismo:
si pensi che nel 1932 si contarono meno di 100 mila espatriati appunto. Tra il 1939 ed il 1942 i
ritorni erano superiori alle partenze, e quindi si ebbe un saldo positivo sulla bilancia migratoria.
Osservando il fenomeno più da vicino si nota come nel Mezzogiorno le uscite raggiunsero il
massimo nel periodo 1920 c0n oltre 350 mila unità (pari al 57,3% di tutti gli espatriati). Nei 10 anni
seguenti solo nel biennio 1923-1924 superarono le 100 unità. La mancanza di validi sbocchi
europei che sostituissero le mete oltre l’oceano, sono in questo momento da considerare
importante per la riduzione dell’intensità del fenomeno.

 Nel complesso tra il 1919-1939 gli espatriati dal Centro-Nord furono 2,5 milioni, contro il 1,5
milione di partenze registrate nel mezzogiorno. Piemonte, Lombardia e Sicilia contribuirono
maggiormente all’emigrazione con oltre 400 mila partenze. Le destinazioni principali furono la
Francia e gli Stati Uniti insieme all’Argentina e alla Svizzera. Questi paesi nel complesso ospitavano
l’80% delle emigrazioni italiane. Solo in Francia andarono 1,5 milioni di persone, e negli USA circa
965 mila. La Germania era il paese con il più basso numero di arrivi per gli italiani, che in questo
periodo si attestavano intorno alle 74 mila unità. Si parla comunque di una natura rotatoria della
emigrazione italiana, con un deflusso migratorio controbilanciato da un sostanzioso numero di
ritorni. Prendendo in considerazione solo le uscite, emerge però una componente più legata a
trasferimenti definitivi e di tipo familiare. La quota maschile fu ad esempio, più bassa di quella
registrata nella prima globalizzazione approssimandosi negli anni ’30 alla soglia del 50%. Gli
espatriati con meno di 15 o 14 anni crebbero, arrivando a circa il 20% del totale, mentre nel primo
quindicennio nel Novecento erano stabili al 10%. Oltre a limitare l’emigrazione verso l’estero il
regime fascista lavorò per limitare anche il fenomeno interno. I primi vincoli alla mobilità interna
vennero introdotti nel 1928, rafforzati nel 1931, e resi ancor più stringenti nel 1939. Con
quest’ultimo provvedimento si legava il trasferimento di residenza nei comuni con più di 25 mila
abitanti, o di notevole importanza al possesso di una occupazione. Nel 1929 tutti i comuni si
dotarono di un registro della popolazione, proprio nel momento in cui si avviò la politica di
ostacolo delle migrazioni interne. Il regolamento anagrafico del 1929 permise all’Istat di dare
istruzioni ai comuni per migliorare la tecnica di rilevazione. Durante la prima guerra mondiale il
numero di trasferimenti anagrafici si ridusse. Nel primo dopoguerra i valori ritornarono a crescere,
ma furono bruscamente interrotti tanto dalla politica del 1929, quanto dallo scoppio della seconda
guerra mondiale. In tutta evidenza, i provvedimenti restrittivi non furono in grado di fermare la
dinamica migratoria. Anzi, il tasso medio annuo tra il 1931 ed il 1940 fu pari al 29,4%: uno dei
periodi a più elevata mobilità interna nella storia del paese. Se osserviamo i saldi regionali,
abbiamo un’idea più precisa del fenomeno. In generale, appare ancora forte il carattere
intraregionale del fenomeno. Tra il 1931-1940 su una media annua di 1,26 milioni di trasferimenti,

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si ebbe una redistribuzione media interregionale di appena 53 mila unità. I dati censuari
permettono di avere un quadro più preciso delle relazioni migratorie tra le diverse aree del paese.
Il mancato inserimento del quesito sul luogo di nascita nel censimento del 1936, proprio per
evitare un riscontro statistico dei limitati effetti della politica antiurbanesimo del regime,
impedisce di avere indicazioni sull’intensità del fenomeno nella prima metà di un decennio chiave
per l’evoluzione della mobilità interna. Nel 1931 i residenti in Italia centrosettentrionale nati nel
Mezzogiorno erano già saliti a 600 mila unità, mentre 200 mila persone si erano mosse in direzione
contraria à in dieci anni la perdita migratoria del Mezzogiorno era, cresciuta di quasi 150 mila
unità. Passata dalle 91 mila unità del 1921 alle 342nmila del censimento successivo. Nel complesso
il fenomeno sembra aver seguito, anche nel caso italiano lo stesso percorso che ha caratterizzato
gli altri paesi a sviluppo capitalistico. L’industria ed i settori in espansione hanno attratto, una volta
assorbito il proletariato locale, la forza lavoro sottoccupata o disoccupata delle campagne vicine.
Le industrie liguri, dotate di uno scarso bacino demografico, assorbirono immigrati provenienti da
altre regioni già all’inizio del secolo. Unica eccezione quella rappresentata dal Lazio, dove la massa
migrante è stata attratta dall’esistenza di centri industriali. Nel caso specifico di Roma, gli abitanti
passarono da 660 mila a 1,65 milioni, con tassi medi di crescita annui del 3,5% tra il 1921 ed il
1931, del 4,3% tra il 1931 e il 1936 e del 2,4 tra il 1936 ed il 1951. Nel periodo fascista, in
conclusione, città come Milano e Torino conobbero una generale espansione di cui beneficiarono
anche i centri urbani vicini. Inoltre rimasero intense le migrazioni stagionali dovute per lo più alle
attività agricole. Per mezzo di esse, una quota compresa tra il 70 e l’85% si spostò. Infatti, nel 1937
si ebbe il valore massimo di 343 mila lavoratori agricoli di tipo temporaneo. Di questi 82 mila
erano impegnati nella coltivazione del riso, e 214 mila in quella del frumento – che
rappresentavano le quote maggiori degli spostamenti. Per quanto riguardo l’industria, gli
spostamenti temporanei erano da attribuire alle costruzioni edilizie ed a quelle stradali. Ci si
spostava all’interno della stessa provincia nel 1910, rispetto a quanto ci si spostava tra province
diverse, con differenze del 54% nel primo caso, e 24% nel secondo. Una ultima considerazione va
fatta adesso sull’affidabilità delle statistiche migratorie del periodo, sopra alle quali pesa una certa
incertezza. L’intervento di Mussolini per ridurre i quesiti censuari del 1936, portò all’eliminazione
della domanda sul luogo di nascita ed a documentare gli scarsi risultati della politica contro
l’urbanesimo. E’ altrettanto evidente che il risultato congiunto dei cambiamenti di responsabilità
nella gestione delle statistiche sugli espatriati e dei nuovi indirizzi politici del regime fu un ritardo
di 7 anni nella pubblicazione dei dati. Questo portò quindi ad avere dei dati con una generale
sottostima nella misurazione dell’emigrazione del periodo. Nonostante le difficoltà di questa fase,
data dalla chiusura degli sbocchi esteri, e dalle politiche del fascismo contro migrazioni interne ed
internazionali, è opportuno evidenziare che le migrazioni degli anni ’30 si attestarono su livelli di
una certa consistenza. Il flusso con l’estero si ridusse notevolmente, con ogni probabilità
comunque meno di quanto appare dai dati Istat. La mobilità anagrafica raggiunse livelli alti mai
visti nei quarant’anni precedenti.

Capitolo 4

GLI ANNI DELLA GRANDE CRESCITA (1946-1975) 1. Ricostruzione e miracolo economico La seconda
guerra mondiale provocò 55 milioni di morti, 11 dei quali persero la vita nei campi di sterminio.
Una tragedia immane per l’Europa, che ebbe riflessi anche a livello produttivo ed infrastrutturale.
Tuttavia le scelte politiche, a differenza di quanto avevamo visto in precedenza, permisero questa
volta di evitare i cadere nella trappola del nazionalismo e del protezionismo. L’Italia si inserì

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perfettamente in questo processo: il paese arrivò a tassi di sviluppo mai raggiunti in precedenza, il
settore industriale decollò definitivamente. La società passo da rurale ed agricola, ad avere un
ruolo industriale. Un nuovo scenario migratorio internazionale quindi, che l’Italia affrontò
chiudendo con il fascismo ed aprendo ad una stagione politica di incoraggiamento verso le
migrazioni. Un ruolo nelle migrazioni, che nel paese mancava dalla prima globalizzazione. 2.
L’Europa nuovo entro delle migrazioni internazionali La produzione di dati statistici migliorò nel
secondo dopoguerra. I dati venivano finalmente rilevati con continuità e quindi si aveva una buona
reperibilità delle statistiche che diventavano anche facilmente reperibili. Le stime di Maddison
beneficiarono di questo aspetto diventando maggiormente affidabili. Nel periodo 1950-1973 è
proprio Maddison a definire il periodo di maggiore crescita economica nel mondo, con un tasso
annuo medio della ricchezza pro-capite del 2,9%, contro l’1,3% registrato nella prima
globalizzazione. La spinta a questo miglioramento venne dal Giappone dall’Europa occidentale. Tra
i paesi europei considerati i risultati migliori si registrarono in Italia (5% annuo) e nella Germania
Federale: paesi che triplicarono in un quarto di secolo il Pil pro-capite. La popolazione mondiale
crebbe grazie anche alle persone provenienti dal Terzo mondo. Crebbe dai 2,5 miliardi del 1950 a
3,9 miliardi del 1973 che in termini di tasso medio annuo voleva dire avere un aumento dell’1,9%
che era il doppio della prima globalizzazione e del periodo compreso tra la due guerre. La pace era
una variabile determinante in questo momento storico, e proprio ciò spinse gli Stati Uniti ad
attuare il Piano Marshall che portò in 4 anni 13 miliardi di dollari nelle casse europee. La stessa
pace, col tempo spinse la stessa Europa ad organizzarsi al proprio interno dopo il fallimento della
Società delle Nazioni. Si passò dalle Nazioni unite, arrivando in un primo momento alla Comunità
economica europea con il trattato di Roma del 1957 che sarà l’embrionale Unione europea a cui si
sarebbe approdati successivamente. La Guerra fredda portò il mondo ad essere diviso
sostanzialmente in due parti. Una divisione questa che ebbe ovviamente riflessi anche nel nostro
contesto. Nella parte occidentale del continente lo sviluppo economico divenne l’obiettivo dei
governi, da raggiungere attraverso l’intervento diretto dello stato in economia. In altre parole fu
riattivato un sistema pensato ai tempi della prima globalizzazione, una parziale ricostruzione
dell’economia atlantica che nel secondo dopoguerra i governi cercarono di controllare muovendo
flussi di capitali che avevano a loro volta un ruolo diretto nella gestione dei movimenti dei
lavoratori. Il fattore Terzo mondo era incredibilmente importante in questo nuovo periodo perché
l’aumento della popolazione a lui dovuta fece parlare in termini di bomba demografica. E’ qui che
si crea una dicotomizzazione negli anni Cinquanta tra Nord e Sud del mondo, e tra paesi
industrializzati e in via di sviluppo.

- All’inizio degli anni Sessanta 16 anni separavano la vita media dei paesi sviluppati rispetto a quelli
in via di sviluppo

- La mortalità infantile era arrivata al 22‰ nell’area più sviluppata, ma stava ancora al 96‰ nel
resto del mondo

- In tema di fecondità i valori erano rispettivamente a 2,16 e 5,37 figli per donna - I tassi di
incremento demografico nell’area più ricca del paese scesero dal 12,1 al 6,6‰, mentre in

quella povera passarono dal 21 al 24,2‰ Il fenomeno della population bomb diventava
difficilmente controllabile perché questi tassi di incremento riguardavano una popolazione di 3
miliardi di persone, con un aumento annuo di 70 milioni di unità. Tuttavia si erano ridotte le

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differenze all’interno dei paesi sviluppati. Un dato interessante sotto il profilo migratorio è poi
rappresentato dal tasso di incremento della popolazione in età lavorativa (Pel). L’Italia che pure ha
tassi di incremento naturale più elevati di Francia e Germania Federale, presentava un più basso
livello di crescita della popolazione tra i 15 ed i 64 anni d’età. Questo era il risultato dell'opposta
dinamica migratoria. È però chiaro che la partita migratoria, esaurita negli anni 60 si giocò in
seguito sulla scala geografica diversa, visto che il tasso di crescita del Pel nelle regioni meno
sviluppate era il doppio di quello delle aree più ricche. In effetti se si prendono in esame le stime
dei saldi migratori effettuate dalle Nazioni Unite, Il resto dell’Europa restò in perdita per tutti gli
anni 50, mentre la parte meridionale del continente continua ad avere un elevato saldo negativo
anche nel decennio seguente. Nella prima metà degli anni Settanta una leggera perdita si registrò
ancora nell’Europa orientale, mentre in quella meridionale Gli arrivi superarono sia pur di poco le
partenze. L’Europa guadagnò tra il 1970 ed il 1975, 2 milioni di persone che sommati ai 3,1 milioni
dell’America settentrionale, e alle 462 mila unità dell’Oceania, arrivano quei 5,6 milioni persi dagli
altri continenti. L’Europa cessò infatti di essere la principale fonte dell’emigrazione transoceanica.
Sul versante dei paesi d’immigrazione permanente dell’America settentrionale dell’Oceania,
invece si registrò negli anni Sessanta una attenuazione delle restrizioni introdotte fra le due
guerre, e vennero in particolare eliminate le normative che discriminavano gli individui in base a
fattori etnici. Furono introdotti quindi interventi di politica migratoria che cercarono di porre
l’accento sugli aspetti umanitari, con norme che favorirono l’ingresso dei rifugiati e i
ricongiungimenti familiari. L’andamento degli arrivi risultò fortemente crescente negli Stati Uniti,
dove nel 1968 si superarono le 450.000 unità. Canada ed Australia invece alternavano fasi di
crescita a momenti di riduzione. La riduzione della componente europea e invece evidente in tutti
e tre i paesi. Negli Stati Uniti nella prima metà degli anni 70, l’immigrazione dall’Europa
rappresenta ormai meno di un quarto del totale, mentre in Canada arrivava al 42% e in Australia
era ancora prossima al 68%, ma aveva perso 15 punti percentuali nell’immediato dopoguerra. Gli
italiani che vi si trasferirono tra il 1946 ed il 1975 sono stati 1,4 milioni. Gli Stati Uniti furono scelti
da 550.000 italiani, il Canada da 480.000 e l’Australia da 383.000. In Canada ed Australia
l’immigrazione italiana ebbe un ruolo importante durante gli anni Cinquanta e Sessanta. I valori
però scesero, in corrispondenza del generale calo delle partenze dal nostro paese. Argentina e
Brasile solo fino a metà degli anni Cinquanta riuscirono ad accogliere flussi di una certa
consistenza. In Argentina si registrò un massimo di 150 mila arrivi nel 1949, di cui due terzi
provenienti dall’Italia, ma negli anni seguenti il volume del fenomeno diminuì rapidamente,
scendendo nel 1960 al di sotto delle 10.000 unità. In Brasile il massimo si registrò nel 1952 con
85.000 arrivi e il calo fu più lento. Nonostante la brusca riduzione di italiani che arrivarono in
Argentina, tre 1946 ed il 1969, secondo le statistiche del paese latinoamericano furono ben
518.000 tra il 1947 ed il 1955. Si arriva per tutto il conflitto valutare tra i 50 e i 60 milioni
complesso delle migrazioni forzate verificatesi sul suolo europeo. Anche gli anni più vicini alla fine
del conflitto furono caratterizzati da imponenti migrazioni forzate. Stiamo parlando di quella che è
definita come la pulizia etnica, la più grande che il continente avesse mai conosciuto durante la
sua storia: intere popolazioni furono obbligate a lasciare le proprie case al fine di assicurare
l’omogeneità etnica all’interno di nuovi confini nazionali. Il fenomeno andò progressivamente ad
esaurirsi nei primi anni 50. Tre 1945 e il 1950 furono 15,4 milioni di persone quelle che si
spostarono da est ad ovest, e 4,7 milioni si mossero nella direzione opposta. I flussi più cospicui
furono quelli diretti dalla Polonia alle due germanie (7 milioni), dalla Cecoslovacchia alle due
Germania e all’Austria (3,2 milioni), 1,5 milioni il numero di persone che si spostarono dall’unione
sovietica verso le due Germania e la Polonia. Il vero elemento caratterizzante dell’emigrazione

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europea del periodo è però rappresentato dalle migrazioni per lavoro. I primi accordi bilaterali
sottoscritti dall’Italia con il Belgio della Francia, terminarono nei primi anni 60. Si stavano aprendo
condizioni favorevoli per un’eccezionale aumento nell’utilizzo dei lavoratori stranieri nelle
strutture produttive di molti paesi. Si fece così ricorso a lavoratori reclutati nelle ex colonie, in altri
a flussi provenienti dall'Europa meridionale o dal bacino del Mediterraneo. L'Italia fu il primo
paese ad essere coinvolto in questo processo di trasferimento della forza lavoro dalla periferia al
centro del sistema migratorio europeo. Per avere un’idea complessiva, il dato resta quello dello
stock di popolazione straniera residente nei diversi paesi. Sono dati questi che da un lato
sottostimano l’intensità del fenomeno, perché non considerano le persone che sono rientrate nel
paese di origine, quanti sono deceduti, e quanti sono stati gli stranieri naturalizzati. Dall’altro lato i
dati sono stati sovrastimati, in quanto comprendevano anche i figli degli immigrati nati nel paese
d’arrivo che non ne hanno però acquisito la cittadinanza. Pur considerando questi fattori di
distorsione, la crescita dimensionale delle collettività straniere nei paesi europei di immigrazione
appare notevole. Tra il 1950 ed il 1975, il numero totale di stranieri residenti nei paesi considerati
triplicò, passando da 3,9 a 12,1 milioni, Ed il loro peso sulla popolazione totale salì dal 2,1 al 5,4%. I
principali paesi d’accoglimento furono la Germania federale, dove nel 1975 risiedevano 4 milioni di
stranieri, la Francia in cui risiedevano 3,4 milioni, ed il regno unito dove erano presenti in 1,4
milioni. Dietro ai flussi di immigrazione in tre europei della prima globalizzazione facile scorgere gli
effetti delle rallentamento della crescita demografica, in paesi dove l’economia si sviluppava a
ritmi intensi ed era nella top profonde trasformazioni delle strutture produttive. Più evidente del
secondo dopoguerra Quando in molti paesi dell’Europa occidentale la forza lavoro si mostrò ben
presto insufficiente a garantire gli elevati ritmi di crescita raggiunti dalle economie nazionali. Il
precedente calo della natalità, infatti, aveva rallentato la crescita del Pel e, nei paesi che avevano
partecipato alla guerra, pesavano l’elevato numero di invalidi e larghi vuoti lasciati dal conflitto tra
le generazioni in età da lavoro. Le stesse trasformazioni strutturali dell’economia, con il calo degli
addetti all’agricoltura, avevano poi una ricaduta negativa sui tassi di attività della popolazione.
L’effetto di questi processi riportato relativamente agli uomini di alcuni paesi. In Francia le
migrazioni contribuirono circa il 40% della crescita del Per maschile e permise un aumento della
forza lavoro. Nella Germania federale senz’emigrazione sarebbero diminuite sia la Pel che la forza
lavoro maschile, in Svizzera il surplus di arrivi pesò per circa il 70% della crescita della prima e
diede un contributo rilevante a quella della seconda. In Italia, invece, tipico paese di immigrazione,
i flussi in uscita rallentarono la crescita del Pel. La divisione di ruoli Tra aree d’arrivo e aree di
partenza fu estremamente chiara. Una netta linea di divisione corse lungo la Cortina di ferro: tra i
paesi socialisti, infatti solo la Jugoslavia contribuire flussi del lavoro, e gli altri movimenti rilevante
tra est ed ovest furono causati dall’invasione dell’Ungheria nel 1956 e Cecoslovacchia nel 1968. Il
processo di decolonizzazione causò infatti il ritorno di quasi 7 milioni di europei nei loro paesi
d’origine. Tra questi flussi il più numeroso, con oltre 1 milione di persone, probabilmente quello
dall’Algeria alla Francia, ma altrettanto importanti sia pur su una scala numerica più contenuta
furono quelli di altri paesi tra cui l’Italia. Da questi paesi iniziarono a partire anche flussi di nativi, in
un primo momento composti quasi esclusivamente da militari delle truppe ausiliarie o da persone
che avevano collaborato con le amministrazioni coloniali. Tutto questo tipo di spostamenti trovò
inizialmente un quadro normativo tollerante, se non apertamente favorevole. Questi flussi che
sotto una forma diversa si erano già manifestati nel corso della prima guerra mondiale,
costituirono le avvisaglie di movimenti ben più consistenti. Il periodo di massimo sviluppo delle
migrazioni europee per lavoro si caratterizzò per un clima politico sostanzialmente favorevole ai

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flussi. I governi dei paesi di immigrazione ed emigrazione svolsero, infatti un ruolo attivo nella
promozione del fenomeno, firmando accordi bilaterali per il reclutamento di lavoratori stranieri.

- Nel 1957 il Trattato di Roma introdusse il principio della libera circolazione dei lavoratori
all’interno della comunità economica europea, che confermò l’interesse dei paesi d’arrivo a
favorire l’immigrazione per rispondere alla crescente domanda di lavoro.

La crescita economica senza precedenti del dopoguerra e la possibilità per l'offerta di lavoro
nazionale di migliorare le proprie condizioni, in termini di qualità dell'occupazione di reddito,
resero l'immigrazione, soprattutto per il suo carattere temporaneo un fattore d’aggiustamento
positivo per tutti gli attori in scena. Gli immigrati, i governi dei paesi di partenza che allentavano le
tensioni sociali, i paesi d’arrivo desiderosi di evitare che la piena occupazione scasso la crescita
accelerata dei salari, e i lavoratori locali ai quali veniva offerta la possibilità di salire nella scala
occupazionale. L’immigrazione fu comunque vista come una realtà temporanea e congiunturale.
Anche se emersero differenze significative tre paesi che, come la Svizzera la Germania, puntarono
con più decisione al modello del “lavoratore ospite”, rafforzando il carattere temporaneo di flussi
scoraggiando la stabilizzazione degli immigrati ed i ricongiungimenti familiari. Differenti erano i
paesi come per esempio la Francia, desiderose invece di utilizzare il fenomeno anche come
strumento di riequilibrio demografico. Le politiche di stop del biennio 1973-74 Determinate dalle
crisi petrolifere, segnarono la conclusione di questa fase espansiva dell’immigrazione. Gli obiettivi
che si prefiggevano le politiche di stop erano sostanzialmente riconducibili a quattro ordini di
motivi:

- Minimizzare la disoccupazione tre lavoratori locali, Esportandola nei paesi di provenienza degli
immigrati

- Ridurre le tensioni sociali determinate dal numero elevato di stranieri residenti - Diminuire la
dipendenza dal lavoro straniero - Armonizzare la propria politica migratoria quella dei paesi che
già avevano introdotto delle restrizioni La scelta di utilizzare, da parte dei paesi di arrivo, la valvola
dell’immigrazione soprattutto come strumento di risposta congiunturale problemi economici
sociali sollevate dalla crisi economica provocata da quello che è definito come l’Oil-shock dei primi
anni Settanta, appare evidente. Sia quindi l’impressione che questi interventi avessero ancora un
orizzonte una prospettiva di breve periodo, in linea, con le politiche attuate sino ad allora,
basandosi su semplici provvedimenti di natura amministrativa presi senza una preventiva
discussione parlamentare. In definitiva, la grande migrazione europea per lavoro Si concluse in
sordina, come era iniziata. Solo dopo che i paesi europei abbandoneranno le politiche attive di
reclutamento la questione acquisterà un ruolo centrale nei processi politici del continente. Nel
frattempo l’Europa sarà trasformato in continente di immigrazione, e successivamente anche la
parte meridionale diventerà un’importante meta dei flussi migratori, mentre la caduta del muro di
Berlino li costituirà quell’unitarietà Del sistema migratorio che si era spezzata con la guerra fredda.
L’Italia Europa centrale dell’emigrazione Europea per lavoro. Nella Germania federale di italiani
erano infatti quasi 200.000 già nel 1960 ed erano diventati 574.010 anni dopo, ma erano scesi dal
28,7 , sette al 18,8, otto% di tutta la popolazione straniera del paese. Francia nel 1968 erano
572.000. Più alta la quota di italiani residenti in Svizzera e Belgio, nel 1970 dove erano
rispettivamente il 54,1 e 35,8% degli stranieri. Minore nel regno unito nei Paesi Bassi. A partire
dalla seconda metà degli anni 50 vi fu una rapida e progressiva perdita della centralità della

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componente italiana nel flussi migratori europei. In Francia la quota di italiani sugli arrivi di
lavoratori permanenti a gestione dell’Office national d’immigration (Oni) Declinò inesorabilmente:
nel 1956 era ancora l’80,6% del totale, 10 anni più tardi era scesa al 10,2% e nel 1973
rappresentava appena 3,7%.Nella a Germania federale del 1956 italiani erano il 49,4% di tutti gli
ingressi di lavoratori, arrivarono al 54,4% nel 1960, ma nel 1969 erano scesi al 21,1% del totale.
Qui gli italiani reclutati ufficialmente dal 66% del 1960 passarono all’8% del 1966. Il processo di
sostituzione della forza lavoro italiana con quella proveniente da altri paesi della periferia del
continente era nato da tempo. La domanda di lavoro immigrato negli anni 50 assunse dimensioni
tali da non poter essere soddisfatta dalla sull’emigrazione italiana. Inoltre il miglioramento delle
condizioni economiche del paese ridusse la platea di quanti erano disposti ad accettare qualsiasi
lavoro. Nei paesi comunitari i lavoratori italiani avevano ormai acquisito uno status giuridico vicino
a quello dei lavoratori locali, il che gli rendeva meno convenienti degli immigrati. 3. L’Italia e il
boom migratorio 3.1 L’emigrazione Per l’ Italia il periodo che va dalla fine della guerra la crisi
petrolifera degli anni settanta Rappresentò il superamento delle ritardo che pesa aveva nei
confronti degli altri. Alla fine del conflitto l’Italia era un paese prostrato Che non era neanche in
grado di garantire i livelli minimi di sussistenza ai suoi 46 milioni di abitanti. Le infrastrutture
chiave erano stati distrutto gravemente danneggiate, la produzione agricola era scesa nel 1945 alle
67% del valore registrato nel 1938. Il settore manifatturiero rappresentava almeno il 29% di
quanto era stato fabbricato sette anni prima, e dopo il ventennio fascista il sistema democratico
era tutto da ricostruire. L’inchiesta sulla miseria nel 1952 ci mostrava come l’Italia fosse un paese
in difficoltà dove le persone non potevano permettersi calzature quantomeno dice, dice Ciocca.
Per l’Italia agli anni 50 e 60 furono anni di straordinaria crescita economica. Tra il 1951 del 1963
l’economia crebbe in media del 5,8% annuo, Arrivando al 6,5% negli anni del boom tre 1958 ed il
1963. Inoltre continuò a crescere del 5% annuo fino al 1973, ed il tasso di disoccupazione si
mantiene al di sotto del 5,5%, Mentre la quota di occupati nel settore agricolo scese da 42,1 del
1951 al 17,2% del 1971.

La quota dell’industria, nello stesso periodo passò dal 32,2% percento al 43,3%. La fortissima
crescita economica dell’altrettanto rilevante trasformazione strutturale sono le ragioni principali
della fine dell’emigrazione di massa e, dopo qualche anno, della trasformazione dell’Italia in un
paese di immigrazione. Sono anni questi del salto di qualità che proiettano l’Italia tra le principali
economie mondiali. La crescita del Pil pro capite investì tutto il paese, risultando in termini relativi
più elevata nel Mezzogiorno, dove registrò un tasso medio annuo del 6,3% contro un dato medio
nazionale del 5,3%. Nel 1971 il Pil pro capite del mezzogiorno arrivò valere il 64% di quello del
triangolo industriale rispetto al 44% del 1951. A questo risultato contribuirono sia gli intensi flussi
migratori interregionali del periodo, che ridussero ritmi di crescita della popolazione del
Mezzogiorno e aumentarono quelli del Centro Nord, sia il massiccio intervento pubblico
nell’economia. Dicono Brunetti, Felici e Vecchi nel 2011 - che attraverso la Cassa per il
mezzogiorno, lo Stato promosse all’epoca nel sud la realizzazione di numerose opere
infrastrutturali, dagli acquedotti alle strade, passando per gli impianti industriali. Agli effetti positivi
di questo certo afflusso di risorse vanno poi aggiunti quelli della riforma agraria delle bonifiche che
contribuirono a migliorare la situazione sociale e a far aumentare la produzione agricola del
mezzogiorno. Negli anni del boom si ridusse la distanza economica: si ridussero il divario in termini
di reddito, ma non riuscirono a far superare all’economia meridionale l’antica condizione di
dipendenza dall’esterno. Rimase ancora in profondo divario dal punto di vista demografico. Il tasso
di incremento naturale del sud, per esempio, era nel 1971 ancora 2,4 volte più elevato di quello

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delle resto del paese comportato un accrescimento annuo del 10,5‰. Sensibile stavano anche le
differenze dei tassi di fecondità totale di mortalità infantile, mentre era scomparso lo scarto nelle
speranze di vita. Restavano significative differenze che all’inizio degli anni 70 portavano la quota di
povertà assoluta del Mezzogiorno a valori 2,3 volte più alti di quella del Centro Nord. Tutti segni di
un dualismo che non era affatto scomparso che persisterà negli anni seguenti, continuando così a
influenzare la dinamica migratoria nazionale. Durante gli anni del miracolo economico fu invece il
nord-est a uscire dalla dipendenza migratore interna ed internazionale. I tassi di incremento
naturale della popolazione scesero dai livelli registrati prima del conflittoPunto più merito fu il
cambiamento sotto il profilo economico.Questa zona diventò uno dei motori della crescita ed il
risultato fu la chiusura dell’emigrazione di massa e l’apertura di una nuova fase in cui il nord-est si
venne a caratterizzareCome una delle parti del paese con maggiori capacità creative. Alla fine della
guerra il paese, approvato dal conflitto, si trovò ad affrontare l’eccedenza di una popolazione
rispetto alla capacità del sistema produttivo. Una situazione questa, che impose una scelta politica
esplicita favore di una ripresa dell’emigrazione:

- Nel decreto del 1946 che concedeva un sussidio straordinario alle famiglie dei lavoratori emigrati.
- La stessa assemblea costituente senti bisogno di inserire nella costituzione un esplicito richiamo

alla libertà di emigrazione per dare forza quella che era considerata una necessità per l’economia
italiana.

- L’articolo 35, il primo della parte dedicata rapporti economici, sancite la Repubblica riconosceva
la libertà di emigrazione, fatta eccezione per milione di stabiliti dalla legge nell’interesse generale
ed inoltre tutelava il lavoro italiano all’estero.

Nonostante la chiara scelta politica favore di una ripresa dell’emigrazione, il quadro normativo
amministrativo venne modificato con estrema lentezza:

- Nel 1948 siti ordinarono le competenze in materia - Nel 1952 venne approvata la nuova legge sui
passaporti - Solo nel 1959 venne introdotta la gratuità del documento per gli emigrati - E bisognò
attendere addirittura il 1986 per una sentenza della corte costituzionale che abrogasse l’articolo
della legge del 1930 che puniva chi eccitava all’emigrazione Questi ritardi non impedirono però
che nel secondo dopoguerra, l’emigrazione, si configurasse con una scelta precisa di politica
economica attraverso cui garantire un alleggerimento della pressione della disoccupazione sul
mercato del lavoro nazionale. Un elemento importante della strategia governativa fu introdurre
una politica massiccia denigrazione per 2 milioni di lavoratori. Nella relazione presentata nel 1947
al consiglio economico nazionale venne prevista un’emigrazione di 640.000 persone del 1948 e il
1953, ed un flusso di rimesse di 607 milioni di dollari. L’anno successivo in occasione della
costituzione dell’organizzazione europea di cooperazione economica, creata con il compito di
coordinare il piano

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