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IL DEBITO INESTINGUIBILE : SUL SACRIFICIO

Ugo Fabietti

Il corso di questanno ha inteso esplorare alcuni aspetti della


relazione che intercorre tra la dimensione sacrificale e quelle del
dono e del debito. Si tratta di un tema complesso e controverso. Si
tratta infatti di riaprire, tra molte altre questioni, quella del sacrificio
inteso come dono di qualcosa a qualcuno: unidea certamente
antica, presente tanto in coloro che hanno praticato e praticano
sacrifici, quanto tra gli studiosi di storia di religioni e gli
antropologi. Le teorie del sacrificio come dono fatto alle divinit
affondano le loro radici, come del resto quelle dellorigine della
religione, nel pensiero religioso e filosofico degli antichi.
1. Che cosa realmente un sacrificio?
La teoria secondo cui il sacrificio sarebbe un dono fatto alle divinit
lascia di per s aperti alcuni interrogativi che non hanno mai cessato
di imporsi alla riflessione degli studiosi. Poich il sacrificio consiste
molto spesso in un atto violento (o comunque distruttivo) ecco che
sorge la questione di come la violenza possa rientrare in una
religione che promette (come il caso di tutte le religioni) di
sollevare gli esseri umani dalla sofferenza e dalla presenza del male.
In alcuni casi ci particolarmente evidente. Alcune divinit di
popoli del mondo antico (Fenici) o extra-europei (Aztechi)
richiedevano sacrifici umani in quanto divinit assetate di
sangue, nel senso che il sangue umano era ci che le manteneva in
vita ed era quindi in grado di far s che tali divinit elargissero
benessere agli umani. In altre religioni le divinit, pur considerate
benevole e non legate agli uomini da questo patto sanguinario,
chiedevano comunque la morte di un essere umano. E il caso del
dio ebraico che chiede ad Abramo di sacrificare il proprio figlio, ed
il caso del dio cristiano che si sacrifica per il bene degli esseri
umani. Se il sacrificio un atti violento ed una dimensione
2

centrale di tutte le religioni, qual la relazione che lega tra loro


sacrificio, religione e violenza?
Come tutti sappiamo la parola sacrificio pu essere anche usata col
significato di rinuncia. In effetti tutti i sacrifici implicano, oltre che
una dimensione di dono, anche una dimensione di rinuncia, di dono
e quindi di abbandono, di rinuncia della cosa donata. La parola
sacrificio sta per rinuncia soprattutto negli usi metaforici del
termine, quando con essa vogliamo indicare qualcosa che non ha
nulla di strettamente attinente alla sfera religiosa.
Se il sacrificio la distruzione violenta di qualcosa che viene donata
a qualcuno, esso un atto che comporta la presenza di varie
figure, la cui rilevanza pu variare in funzione di ragioni
molteplici, complesse e contingenti. In quello che di solito viene
definito sacrificio entrano infatti quattro elementi costitutivi. Essi
sono:
1) Ci che viene sacrificato (se un essere vivente si tratta della
vittima); 2) colui o colei che compie lazione di sacrificare
(sacrificante)1; 3) colui o coloro che traggono vantaggio dallatto
sacrificale (beneficiari) 4) lentit a cui il sacrificio offerto, la cui
natura invariabilmente ultraterrena: spiriti, antenati, divinit
(destinatario).
Queste quattro figure sono sempre presenti in un sacrificio,
sebbene la loro importanza possa variare in base a considerazioni
particolari. Queste figure sono anche sempre distinte, sebbene in
alcuni casi possa esservi una fusione di ruoli, come nel caso in cui
il sacrificante sia anche il beneficiario, o nel caso che il sacrificante
sia la vittima stessa (per esempio in atti di auto immolazione, un
tema su cu torneremo diffusamente pi avanti).
Ogni atto sacrificale presume lesistenza di un destinatario in
quanto figura che rende effettiva , con la sua intermediazione,
lefficacia del sacrificio. Questo punto appare chiaro se
consideriamo letimologia del termine sacrificio che, derivato dal
latino, si rif a una concezione specifica della sacralit. Il sacrificium
dei latini implica infatti il significato di sacer facere rendere sacro,
per cui il termine sacrificio, cos come lo usiamo in questa sede (in
A volte detto anche sacrificatore, mentre con il termine sacrificante viene indicato colui o coloro
che commissionano il sacrificio (e che qui chiamato beneficiario)
1

senso cio non metaforico) significa mettere a contatto una cosa con
il sacro, renderla sacra.
Sul significato della parola sacer
Il cristianesimo ha finito per identificare la dimensione della
sacralit con quella della santit, ma nel mondo latino, da cui
provengono i termini sacro e santo, (sacer e sanctus), non era cos.
Emile Benveniste2 ci ha spiegato il significato di queste due parole
che solo in circostanze speciali potevano trovarsi riunite per
indicare la medesima cosa. Sacer attributo divino ma anche
ambiguo. Significa infatti consacrato agli di, ma anche caricato di
una contaminazione incancellabile, augusta e maledetta degna di
venerazione e suscitante orrore. Nellantica Roma homo sacer era il
condannato a morte che, come tale, era portatore di una vera e
propria contaminazione. Esso era separato dalla societ degli
uomini, era altro. Come tale era consacrato agli di nel senso
che aspettava soltanto di essere tolto dalla fera terrena.
Benveniste dice anche che i termini che definiscono luniverso
religioso latino sembrano formare delle coppie. In latino abbiamo
infatti, oltre a sacer, il termine sanctus.
Questultimo, che col cristianesimo ha subito, come dicevamo, una
identificazione con sacro, designava in origine ci che proibito
da una pena (sanctio, sanzione). Leges sanctae: leggi inviolabili.
Sancire vuole dire infatti anche per noi circoscrivere il campo di
applicazione di una disposizione e metterla sotto la protezione di
una legge, una volta magari di un dio, invocando sul trasgressore la
punizione divina. E ci che dipende da un interdetto imposto dagli
esseri umani, quindi potrebbe essere assimilato per molti aspetti al
tabu polinesiano3.
E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1969.
Sebbene con le dovute differenze. Nellarea polinesiana tabu (tapu) pu essere una
proibizione che nasce da un atto formale di un capo, persona sacra lui stesso, secondo la
concezione latina del sacer. Gli veniva attribuito infatti un potere (mana) ambiguo e pericoloso.
Il capo polinesiano era tabu lui stesso. La nozione polinesiana di tabu sembra esprimere,
entrambi i significati di sacer e di sanctus, ma non nel senso in cui questi due termini si trovano
riuniti nella visione cristiana, bens come una parola in grado di indicare il sacer e il sanctus
cos come erano intesi dai latini (pericoloso, ambiguo potente il sacer; vietato, off limits, il
sanctus). Lo stesso Benveniste avanza lipotesi che la coppia sacer-sanctus possa essere derivata
2
3

Sancta, nel mondo latino, sono le cose che non sono n sacre n
profane ma che sono confermate da una certa sanzione . Ci che
sottoposto a sanzione sanctus anche se non consacrato agli di
(cio non sacer di per s).
2. Tylor: il sacrificio come dono
Dovendo fissare un punto di partenza per la nostra trattazione del
sacrificio abbiamo deciso di riferirci a E. B. Tylor che, nel suo
Primitive Culture del 1871, dedica largo spazio alla comparsa del
pensiero religioso e, allinterno di questo, si sofferma abbastanza a
lungo sul tema del sacrificio.
In Primitive culture del 1871 Tylor definisce la religione come la
credenza negli spiriti soprannaturali. Si tratta dunque di stabilirne
lorigine, e naturalmente levoluzione che, nel tempo, ha portato il
selvaggio a farsi prima sacerdote e poi filosofo, dove per
questultimo la credenza negli esseri soprannaturali
definitivamente sostituita da una fede nelle possibilit che gli umani
hanno di trascendersi e di elevarsi al di sopra delle superstizioni.
Il ragionamento di Tylor, che si muove nel clima culturale
dellevoluzionismo britannico, pu essere sinteticamente espresso
in questo modo. Gli esseri umani sanno di avere un corpo vivo. Ma
il corpo muore, la vita lo abbandona. Al tempo stesso, nei sogni, gli
esseri umani hanno limpressione che esista un loro doppio, il quale
lascia il corpo temporaneamente per farvi ritorno con la ripresa
dello stato di veglia. Cos questo doppio che si distacca dal corpo, e
dove va la vita quando il corpo muore? Esso sopravvive allessere
umano perch nei sogni non soltanto il proprio doppio che
appare, ma anche quello dei defunti (Tylor lo chiama il fantasma). E
qui che, secondo Tylor, nasce la credenza negli esseri
soprannaturali: il fantasma del morto e il doppio del vivente sono
alla base di ci che noi chiamiamo anima, soffio vitale, pneuma
(greco), ruh (arabo) ecc. e che deve essere stata alla base della prima
credenza negli esseri sovrannaturali. Lanimismo quindi il nome

da una nozione a doppia faccia: positiva (perch caricata da presenza divina) e negativa
(perch vietata agli uomini).
5

che Tylor assegna alla prima forma di religione intesa come


credenza negli esseri sovrannaturali 4
Con le epoche, e con il variare delle relazioni che gli umani
intrattengono con il mondo secondo un rapporto baconiano di
progressiva capacit di controllo dei fenomeni naturali, lanimismo
originario sarebbe andato incontro, sempre secondo Tylor, a
trasformazioni che ci hanno portato verso forme sempre pi evolute
di religione (contenenti per ciascuna delle sopravvivenze, ossia
tracce degli stadi anteriori qualificate solitamente come
superstizioni).
Non interessante qui ripercorrere le tappe di questa evoluzione,
ma invece utile soffermarsi brevemente sul modo in cui Tylor si
accost al problema della religione. Tylor era un razionalista, non
un mistico.
Essere razionalisti, nello studio della religione, significa indagare il
fenomeno senza nulla concedere agli aspetti fideistici che sono alla
base di esso5. Tylor era anche un intellettualista, che significa
invece prestare attenzione alle forme di ragionamento che sono alla
base delle rappresentazioni religiose, mettendo in secondo piano gli
aspetti sociali, linguistici, storici da cui una data rappresentazione
pu dipendere. Questultimo punto spiega perch molte delle
critiche che sono state rivolte, in seguito, allapproccio tyloriano allo
studio della religione abbiano avuto a oggetto, pi che la sua
prospettiva evoluzionista6, il suo intellettualismo. Di queste critiche
ne ricordiamo alcune: lintellettualismo ignora la dimensione
emotiva dei fenomeni religiosi; esso inoltre trascura la dimensione
Questa definizione della religione, che pu apparire generica e alquanto vaga, da porsi in
relazione al rifiuto, da parte di Tylor, di pensare la religione sul modello del culto
organizzato. Egli esortava infatti a non considerare la religione come qualcosa di troppo simile
allidea che ne avevano gli europei, perch altrimenti la maggior parte dellumanit avrebbe
potuto difficilmente essere ritenuta una umanit religiosa.
5 Si ricorda che nello studio antropologico della religione si pu essere scettici fin che si vuole
sulle rappresentazioni e le pratiche di coloro che studiamo, ma che non possiamo invece esserlo
affatto nei riguardi dei discorsi, dei linguaggi e delle pratiche mediante cui, coloro che
studiamo, vivono la loro esperienza religiosa. Come dice C. Geertz nel saggio La religione
come sistema culturale (1967), quando intraprendiamo uno studio antropologico della religione
non possiamo certo impersonare la figura del predicatore del villaggio, ma nemmeno quella
dell ateo del villaggio.
6 Le critiche allevoluzionismo antropologico ottocentesco mosse dagli antropologi del XX
secolo non implicano assolutamente una critica dellevoluzionismo di tipo biologico cos come
questo stato fondato da Charles Darwin.
4

collettiva, sociale della pratica religiosa, e i suoi effetti di ritorno


sulla comunit; eccessivamente speculativa, al punto che produce
una sorta di sostituzione del nativo da parte dellantropologo. Si
assume cio che laltro ragioni come io ragionerei se fossi nelle
stesse condizioni in cui io presumo che lui si trovi.
Lapproccio di Tylor ebbe comunque dei meriti notevoli. Nella sua
prospettiva evoluzionista Tylor riteneva che le societ evolvessero
sulla base di un sempre maggior efficace controllo sul mondo, o che
perlomeno il grado di questo controllo fosse il principale indice
dello stadio evolutivo raggiunto dalla cultura. Si tratta certamente
di una visione riduttiva della cultura ma, nello spirito del tempo,
signific almeno introdurre lidea che gli esseri umani si rapportano
religiosamente al mondo in maniera diversa a seconda della
possibilit che essi hanno di controllare razionalmente il mondo che
li circonda. Quindi non era pi questione di religioni vere e di
religioni false, ma di religioni pi evolute, e di religioni che lo
erano meno.
Lapproccio intellettualistico di Tylor, ancorch etnocentrico (siamo
nella Gran Bretagna dellet vittoriana), mette inoltre laccento sugli
universali dellesperienza e del pensiero umani, stabilendo un ponte
tra quelle che per lui erano le societ semplici e quelle che venivano
considerate le societ pi evolute. In fin dei conti il merito vero di
Tylor fu quello di porre al centro della riflessione il tema dellagire
razionale dellumanit e della sua creativit culturale, contro quelle
correnti degenerazioniste che assegnavano alluomo cristiano
europeo il privilegio di non essere rimasto nello stato selvaggio a
cui la caduta dallo stato di grazia originario aveva condannato il
resto dellumanit7.
E importante ricordare che la prospettiva intellettualista (almeno in
materia di studio della religione) presupponeva, allepoca di Tylor,
che le azioni rituali traducessero quelle preoccupazioni intellettuali
(illusorie) che erano alla base delle credenze religiose. Secondo
questa prospettiva, le credenze sono ad esempio tentativi di
spiegazione di fenomeni naturali che fanno riferimento allazione di
Incontreremo infatti, nel nostro percorso sul sacrificio, le acute osservazioni di un pensatore
come J. de Maistre che, agli inizi dellOttocento, nella sua violenta polemica anti illuminista e
un sostenitore delle teorie della caduta dellUomo e del selvaggio come essere
degenerato.
7

esseri soprannaturali, per cui i riti sono molto spesso dei tentativi di
controllarne la manifestazione. Tipico il caso della danza della
pioggia, interpretata a lungo come un tentativo maldestro, perch
illusorio, di manipolare la natura; o anche della preghiera con cui ci
si rivolge alla divinit per ottener e da essa dei favori.
Anche il sacrifico pertanto, in questa prospettiva, diventa un dono
fatto agli esseri soprannaturali: un atto rituale cio mirante ad
ingraziarsi quelle forze che gli umani credono essere allorigine del
mondo e della vita.
In Primitive Culture (pp. 395-410) Taylor espone una teoria del
sacrificio che prevede unevoluzione del rito in tre fasi: dono in senso
stretto, omaggio e abnegazione.
Sacrifice has its apparent origin in the same early period of culture and its
place in the same animistic scheme as prayer, with which through so long a
range of history it has been carried on in the closest connexion. As prayer is a
request made to a deity as if he were a man, so sacrifice is a gift made to a deity
as if he were a man.
The suppliant who bows before his chief, laying a gift at his feet and making
his humble petition, displays the anthropomorphic model and origin at once of
sacrifice and prayer. But sacrifice, though in its early stages as intelligible as
prayer is in early and late stages alike, has passed in the course of religious
history into transformed conditions, not only of the rite itself but of the
intention with which the worshipper performs it. And theologians, having
particularly turned their attention to the rite as it appears in the higher
religions, have been apt to gloss over with mysticism ceremonies which, when
traced ethnographically up from their savage forms, seem open to simply
rational interpretation..
In now attempting to classify sacrifice in its course through the religions of the
world, it seems a satisfactory plan to group the evidence as far as may be
according to the manner in which the offering is given by the worshipper, and
received by the deity. At the same time, the examples may be so arranged as to
bring into view the principal lines along which the rite has undergone
alteration. The ruder conception that the deity takes and values the offering for
itself, gives place on the one hand to the idea of mere homage expressed by a
gift, and on the other to the negative view that the virtue lies in the worshipper
depriving himself of something prized. These ideas may be broadly
distinguished as the gift-theory, the homage-theory, and the abnegation-theory.
Along all three the usual ritualistic change may be traced, from practical reality
to formal ceremony. The originally valuable offering is compromised for a

smaller tribute or a cheaper substitute, dwindling at last to a mere trifling token


or symbol.
The gift-theory, as standing on its own independent basis, properly takes the
first place. That most childlike kind of offering, the giving of a gift with as yet
no definite thought how the receiver can take and use it, may be the most
primitive as it is the most rudimentary sacrifice. Moreover, in tracing the
history of the rite from level to level of culture, the same simple unshaped
intention may still largely prevail, and much of the reason why it is often found
difficult to ascertain what savages and barbarians suppose to become of the
food and valuables they offer to the gods, may be simply due to ancient
sacrificers knowing as little about it as modern ethnologists do, and caring less.
Yet rude races begin and civilized races continue to furnish with the details of
their sacrificial ceremonies the key also to their meaning, the explanation of the
manner in which the offering is supposed to pass into the possession of the
deity.8

Importante il fatto che Taylor sottolinei come queste differenze


siano connesse non solo con la prassi rituale, ma anche con le diverse
intenzioni di coloro i quali compiono i riti sacrificali.
Altrettanto importante il fatto che, secondo Taylor, gli umani si
comportano con gli di (esseri spirituali) allo stesso modo in cui si
comportano con gli umani stessi ma di rango superiore.
Allatto del sacrificio come dono in senso stretto nei confronti di
poteri come possono essere le forze della natura o alcuni animali
particolari, atti sostenuti da un atteggiamento quasi infantile di
dipendenza nei confronti delle forse a cui si dona, subentra
lomaggio. Questo si ha quando si elabora un sentimento di
riverenza nei confronti degli esseri spirituali (di) a cui si dona con
la stessa devozione e con le stesse aspettative che si hanno quando
si dona a un capo o a un re. Scrive infatti Tylor:
..........let us now follow the question of the sacrificers motive in presenting the
sacrifice. Important and complex as this problem is, its key is so obvious that it
may be almost throughout treated by mere
statement of general principle.
If the main proposition of animistic natural religion be granted, that the idea of
the human soul is the model of the idea of deity, then the analogy of man's
dealings with man ought, inter alia, to explain his motives in sacrifice. It does
so, and very fully. The proposition may be maintained in wide generality, that

E.B. Tylor, Primitive Culture, London 1871. Gordon Press, N. Y. 1977, vol. II, pp. 375-376.
9

the common man's present to the great man, to gain good or avert evil, to ask
aid or to condone offence, needs only substitution of deity for chief, and proper
adaptation of the means of conveying the gift to him, to produce a logical
doctrine of sacrificial rites, in great measure explaining their purpose directly
as they stand, and elsewhere suggesting what was the original meaning which
has passed into changed shape in the course of ages.
It will be noticed that offerings to divinities may be classed in the same way as
earthly gifts. The occasional gift made to meet some present emergency, the
periodical tribute brought by subject to lord, the royalty paid to secure
possession or protection of acquired wealth, all these have their evident and
well-marked analogues in the sacrificial systems of the world
We do not find it easy to analyse the impression which a gift makes on our own
feelings, and to separate the actual value of the object from the sense of
gratification in the giver's good-will or respect, and thus we may well scruple
to define closely how uncultured men work out this very same distinction in
their dealings with their deities. In a general way it may be held that the idea of
practical acceptableness of the food or valuables presented to the deity, begins
early to shade into the sentiment of divine gratification or propitiation by a
reverent offering, though in itself of not much account to so mighty a divine
personage. These two stages of the sacrificial idea may be fairly contrasted, the
one among the Karen9 who offer to a demon arrack or grain or a portion of the
game they kill, considering invocation of no avail without a gift,' the other
among the negroes of Sierra Leone, who sacrifice an ox " to make God glad
very much, and do Kroomen good." 10

La fase dellabnegazione si ha quando il nucleo del sacrificio non


riguarda pi tanto la divinit, quanto piuttosto il sacrificante. Si
sacrificano allora (sempre agli esseri spirituali) cose che hanno un
valore sostanzioso, tanto di natura sociale che economica, quanto
di natura affettiva.
Si inserisce qui l economia del sacrificio e il principio di
sostituzione, nel senso che ci che si dona in sacrificio pu essere
scelto secondo le convenienze del caso, sostituendo un essere
umano con un animale, un animale di valore con uno meno
pregevole, un animale con un vegetale sfino a scegliere come
vittima sacrificale una sua rappresentazione (immagine, simbolo
ecc.). Nel cristianesimo troviamo sacrifici di animali (nella Grecia
contemporanea ad esempio) e in effigie, come nel caso degli exvoto, e nella stessa eucarestia.
9

Popolazione del Myanmar (Birmania).


Primitive Culture, 393-394.

10

10

As for sacrificial rites most fully and officially existing in modern


Christendom, the presentation of ex-votos is one. The ecclesiastical opposition
to the continuance of these thank-offerings was but temporary and partial. In
5th century it seems to have been usual to offer silver or gold eyes, feet, etc., to
saints in acknowledgment of cures they had effected. At the beginning of the
16th century, Polydore Vergil, describing the classic custom, e s on to say : " In
the same manner do we now offer up our churches sigillaria, that is, little
images of wax, and oscilla. As oft as any part of the body is hurt, as the hand,
foot, breast, we present1y make a vow to God, and his saints, to whom upon
our recovery we make an offering of that hand or foot or breast shaped in wax,
which custom has so far obtained that this kind of images have passed to the
other animals. Wherefore so for an ox, so for a horse, for a sheep, we place
puppets in the temples. In which thing any modestly scrupulous person may
perhaps say he knows not whether we are rivalling the religion or the
superstition of the ancients." In modern Europe the custom prevails largely, but
bas perhaps somewhat subsided low levels of society, to judge by the general
use of mock silver and such like worthless materials for the dedicated effigies.
In Christian as in pre-Christian temples, clouds of incense rise as of old. Above
all, though the ceremony of sacrifice did not form an original part of Christian
worship, its prominent place in the ritual was obtained in early centuries. In
that Christianity was recruited among nations to whom the conception of
sacrifice among the deepest of religious ideas, and the ceremony of sacrifice
among the sincerest efforts of worship, there arose an observance suited to
supply the vacant place.
This result was obtained not by new introduction, but by transmutation. The
solemn eucharistic meal of the primitive Christians in time assumed the name
of the sacrifice of the mass, and was adapted to a ceremonial in which an
offering of food and drink is set out by a priest on an altar in a temple, and
consumed by priest and worshippers. The natural conclusion of an
ethnographic survey of sacrifice, is to point to the controversy between
Protestants and Catholics, for centuries past one of the keenest which have
divided the Christian world, on this express question whether sacrifice is or is
not a Christian rite. (pp. 409-10 vol. II).

Tylor sembra comunque far capire che ogni fase del sacrificio porta
con s aspetti della fase precedente, aspetti che, nella prospettiva di
questo autore, dovrebbero costituire delle sopravvivenze,
sebbene esse mantengano pur sempre una loro funzionalit anche
in epoche successive della storia umana.

11

3. Robertson Smith: il sacrificio come rito comunitario


Vari anni dopo la pubblicazione di Primitive Culture in cui Tylor
aveva esposto la propria idea circa lorigine della religione e la
natura del sacrificio, un altro studioso britannico adott una
prospettiva per alcuni importanti aspetti opposta a quello del suo
contemporaneo. Lo scozzese William Robertson Smith illustr le
sue idee in materia di religione soprattutto in Lectures on the Religion
of the Semites (1889), dove raccolse la sintesi dei sui studi dedicati al
rapporto tra societ e religione tra i popoli antichi, gli ebrei e gli
arabi preislamici.
Bench evoluzionista come Tylor, Robertson Smith part da
premesse diametralmente opposte a quelle di molti suoi
contemporanei, Tylor compreso. Al contrario di Tylor, che aveva
individuato la fase aurorale della religione in un attitudine
riflessiva dellindividuo (la spiegazione del doppio e del fantasma),
Robertson Smith si concentr sulla dimensione sociale e collettiva
della religione, e in particolare sull'attivit rituale che, secondo lui,
costituiva il dato essenziale da cui partire. Alla teoria della religione
come risultato di uno sforzo intellettuale teso a comprendere la
realt, Smith contrappose l'idea secondo cui il dato primario di ogni
esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essi correlati. Tali riti e
simboli sono condivisi dai membri di una determinata comunit i
quali, nascendo allinterno di una determinata societ, li trovano gi
presenti ed attivi. Proprio perch mir a elaborare una teoria dei
rapporti tra religione e societ, Smith privilegi nettamente la
dimensione dell'azione sociale su quella della rappresentazione
intellettuale. E in effetti non c azione, nella religione, che non si
esprima essenzialmente nei riti.
La derivazione del mito dal rito
E in questa prospettiva che va intesa la discussione del rapporto tra
rito e mito, considerati da molti studiosi di allora (ma non solo) l
uno come leffetto dellaltro, cio il rito come prodotto del mito. Per
Smith il rapporto doveva essere rovesciato. Il rito non era una
traduzione del mito, perch mentre un certo rito appare costante, il
12

mito che lo spiega pu essere diverso da luogo a luogo. Questo non


voleva affatto dire che per Smith gli esseri umani compivano riti
come gesti meccanici, indipendentemente cio dal loro significato,
ma che, essendo la religione antica (pre-monoteista) priva di veri e
propri dogmi della fede, la religiosit si concretizzava innanzitutto
nelladempimento di atti di culto ritenuti appropriati dalla
comunit intera.11 (v. anche pi avanti nota n. 7). Scrive Smith:
Commetteremmo un errore assai grave se dessimo per scontato che ci che
per noi laspetto pi importante e rilevante della religione lo fosse stato anche
nella societ antica di cui stiamo trattando. In relazione ad ogni societ, antica o
moderna che sia, troviamo la presenza da un lato di certe credenze e, dallaltro,
di certe istituzioni, pratiche rituali e regole di condotta. Labitudine di noi
moderni di guardare alla religione dal punto di vista delle credenze piuttosto
che da quello delle pratiche [..]
Di conseguenza lo studio della religione coinciso con lo studio delle credenze
cristiane, dove listruzione religiosa ha dabitudine inizio con la professione di
fede, e nella quale i doveri religiosi sono presentati al discepolo come se
discendessero dalle verit dogmatiche che gli si insegna ad accettare [.]
Le antiche religioni erano per lo pi prive di fede. Consistevano interamente di
istituzioni e di pratiche. Certamente gli uomini non seguivano dabitudine
alcune pratiche senza collegare ad esse un qualche significato; ma di regola
constatiamo che mentre la pratica era rigorosamente fissata, il significato ad
essa connesso era estremamente vago, e il medesimo rito era spiegato da
persone diverse in maniera differente, senza che di conseguenza venisse
sollevata una questione di ortodossia o eterodossia in materia. Nellantica
Grecia, ad esempio, certe cose venivano fatte in un tempio, e la gente
concordava sul fatto che sarebbe stato empio non farle. Ma se aveste chiesto
perch erano fatte, avreste probabilmente ricevuto molte diverse risposte
contraddittorie da individui differenti, e nessuno avrebbe pensato che il fatto di
sceglierne una piuttosto che unaltra avrebbe avuto un significato religioso
E per molto importante introdurre delle precisazioni. A volte il rito serve a riattualizzare il
mito, se per mito si intende una narrazione sacra dotata di un potere di significazione attuale.
Qui riattualizzare significa riportare allattenzione agendo la rappresentazione centrale del
mito. Per esempio i rituali orgiastici dionisiaci con consumo di carni animali crude, che
rimettevano in scena lo smembramento del corpo di Dioniso da parte dei Titani; lEucaristia
cristiana dove i fedeli assumono il corpo di Cristo in memoria dellultima cena; il rito
musulmano dello sgozzamento del montone nel giorno dello Id al Kabir (X giorno del mese di
Pellegrinaggio) in ricordo del sacrificio (poi non compiuto grazie allintervento divino) di
Isacco (Ismaele per i musulmani) da parte del padre Abramo. Si tratta di riattualizzazioni cos
come le abbiamo definite.
Tuttavia anche quanti compiono una riattualizzazione rituale di un mito difficilmente
conoscono una versione unica del mito, a meno che questo non sia codificato in un testo scritto
(e anche in questo caso molti fedeli hanno una conoscenza diversificata e ineguale del testo).
11

13

inferiore. La verit che le diverse spiegazioni avanzate non erano di quelle


che suscitano sentimenti particolarmente forti; poich in molti casi esse
sarebbero coincise con storie diverse riguardanti semplicemente le circostanze
in cui il rito venne stabilito per la prima volta per un ordine o un esempio
direttamente dato dalla divinit. Il rito, insomma, non era connesso con un
dogma, ma con un mito.[..]
In certe serie di miti la credenza non era considerata obbligatoria in quanto
parte della vera religione, n si riteneva che, per il fatto di credere, un uomo
acquistasse un qualche merito religioso e si conciliasse il favore degli di.
Obbligatorio e meritorio era lespletamento preciso di certi atti sacri previsti
dalla tradizione religiosa. Stando cos le cose, ne consegue che la mitologia non
doveva avere quel posto preminente che le cos spesso assegnato nello studio
scientifico delle antiche religioni. Sebbene i miti consistano in spiegazioni del
rituale, il loro valore tuttavia secondario, e si pu affermare con sicurezza che
in quasi tutti i casi il mito era derivato dal rituale, e non il rituale dal mito;
questo perch il rito era fisso e il mito variabile; il rito era obbligatorio mentre
la credenza nel mito era a discrezione del credente. Ora, la grandissima
maggioranza dei miti delle religioni antiche era connesso coi riti di certi
santuari, o con i comandamenti religiosi di trib e regioni particolari. In tutti i
casi del genere probabile, e nella maggior parte di essi sicuro, che il mito la
semplice spiegazione dellusanza religiosa; e che di solito si tratta di una
spiegazione tale che non avrebbe potuto emergere finch il significato
originario della pratica non fosse pi o meno caduto nelloblio. Di regola il mito
non costituisce la spiegazione dellorigine del rituale per chiunque non creda
che si tratti del racconto di fatti realmente accaduti, e il pi temerario studioso
di mitologia non lo creder di certo. Ma se non vero, il mito stesso richiede
una spiegazione, e qualunque principio della filosofia e del senso comune
richiede che la spiegazione vada ricercata non in arbitrarie teorie allegoriche,
ma nei fatti reali riguardanti il rito o le pratiche religiose a cui il mito
collegato. La conclusione che nello studio delle religioni antiche dobbiamo
cominciare non con il mito, ma con il rito e con la pratica tradizionale12.

La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso, che


Smith antepone anche storicamente alla dimensione individuale,
riflessiva e sistematica13, si rivela negli atti di devozione che
coinvolgono lintera societ, e cio in quelli che egli chiama riti
comunitari. Attraverso lo studio del materiale biblico, rivelatore
Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 16-18.
Per Robertson-Smith, come per altri evoluzionisti suoi contemporanei, i processi di
individualizzazione in ogni campo (matrimonio, economia, religione ecc.) erano il frutto di un
processo di progressiva affermazione della persona in quanto entit giuridicamente distinta
dalla comunit, riflesso asua volta della maturazione delle facolt intellettuali degli esseri
umani.
12
13

14

dell'esistenza di una religione a tinte fortemente comunitarie


(nazionali), Smith giunse a sostenere l'esistenza di una sostanziale
omologia tra attivit religiosa e rituale da un lato e identit politica
e sociale dall'altro. Affermando che, nella societ arcaica, "la
religione di un uomo un elemento integrante delle sue relazioni
politiche" (1889:36), Smith sottolineava come il fatto di conformarsi
o meno ai rituali pubblici fosse il segno dello stato dei rapporti tra
gli individui e tra lindividuo e la comunit. Ci era rivelatore della
natura "sociale" della religione e della sua funzione di elemento
coesivo della societ. La religione appariva cos un fattore
regolativo dei rapporti sociali in quanto, attraverso l'adesione ai
rituali pubblici, spingeva gli individui a conformarsi agli standard
di comportamento collettivi. Al tempo stesso, per, la religione
rappresentava
un
elemento
coesivo
poich,
riunendo
periodicamente gli individui a scopi rituali, rafforzava nei
partecipanti, mediante i riti stessi, il senso di appartenenza ad un
unico corpo sociale.
In tal modo la religione non appariva pi come il prodotto di un
atteggiamento speculativo, ma neppure come il frutto di un bisogno
spirituale dellindividuo in quanto tale. Per Smith le credenze erano
s qualcosa di illusorio (come in Tylor), ma non coincidevano con
delle preoccupazioni intellettuali: esse erano piuttosto chiamate a
rispondere alle necessit pratiche della vita. La religione, sostenne
Smith, qualcosa che esiste "non per la salvezza delle anime, ma
per la conservazione e il benessere della societ" (1889: 29).
Il sacrificio
Smith, cerc di fortificare queste sue ipotesi attraverso lo studio
dell'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici, presso i quali egli
riteneva di poter rintracciare le sopravvivenze (egli le chiamava
relics) di fasi ancora anteriori.
L'istituzione del sacrificio in favore della divinit non era, sostenne
Smith, un dono rivolto ad una potenza sovrastante allo scopo di
ingraziarsela. Contro Tylor che aveva avanzato lidea che il sacrifico
fosse un dono agli esseri spirituali, Smith propose la teoria secondo

15

la quale il sacrificio era un rituale di comunione tra gli esseri umani e


la divinit. 14 Egli infatti scrive:
Qualunque atto di culto, per essere veramente completo un semplice voto
non poteva essere considerato tale finch non veniva pronunciato
accompagnandolo con un sacrifico aveva un carattere pubblico o quasi
pubblico. La maggior parte dei sacrifici venivano offerti a periodi fissi, nelle
grandi feste collettive o di carattere nazionale, ma anche unofferta privata era
considerata incompleta senza la presenza di ospiti e senza che i resti delle carni
sacrificali, anzich essere vendute, fossero distribuite con grande generosit.
Pertanto qualunque atto di culto esprimeva lidea secondo cui lindividuo non
vive per s stesso ma solo per i suoi simili, e che questa comunanza di interessi
la sfera su cui vegliano le divinit e a cui queste ultime dispensano la loro
benedizione.
Il significato etico che va dunque attribuito al pasto sacrificale, considerato
come un atto sociale, ricevette unenfasi particolare per via di certe abitudini e
di certe idee connesse con gli atti del mangiare e del bere. Secondo le idee
anticamente connesse con tali atti, coloro che mangiano e bevono insieme sono,
per il fatto stesso di compiere tali atti in comune, legati da amicizia e
obbligazione reciproca. Di conseguenza, quando troviamo, nelle religioni
antiche, che tutte le funzioni ordinarie di culto sono riassunte nel pasto
sacrificale, e che il normale rapporto tra gli dei e gli uomini non riveste altra
forma che questa, dobbiamo ricordarci che latto di mangiare e di bere insieme
lespressione solenne e riconosciuta del fatto che coloro che condividono il
pasto sono fratelli, e che i doveri dellamicizia e della fratellanza sono
implicitamente riconosciuti nella loro comune azione. Accogliendo luomo alla
sua tavola, il dio lo accoglie come amico; ma questo favore esteso non ad un
uomo in quanto individuo privato; egli ricevuto, piuttosto, come un membro
della comunit, a mangiare e a bere con i suoi compagni, e nella stessa misura

Questa idea della divinit come nume tutelare del gruppo era gi presente negli studi dello
storico francese N. D. Fustel de Coulanges (1830-1889). Ne la La cit antique del 1864, uno studio
comparato sullorigine delle istituzioni politico-religiose di Atene e di Roma, Fustel de
Coulanges sostenne che la societ era allinizio fondata su basi teocratiche. La discendenza
comune e la co-territorialit, sebbene elementi fondamentali nella costituzione della comunit
politica (la citt), erano tuttavia secondarie rispetto al culto comune delle divinit tutelari. Gli
stessi legami parentali, primo vincolo politico tra gli esseri umani, erano ci che consentiva di
assicurare la continuit del culto domestico, ed erano pertanto secondari (bench funzionali)
rispetto a questultimo. Si era parenti innanzitutto perch si tributava un culto ad un
antenato comune. Tali idee, unitamente a quelle di Smith sul sacrificio, sarebbero confluite poi
ne Le forme elementari della vita religiosa di mile Durkheim. In questo libro del 1912, fondato in
larga misura sulletnografia allora disponibile, Durkheim present la sua teoria del culto del
totem come celebrazione dellunit del clan e forma aurorale di religione, facendo del rapporto
tra il totem e il clan il punto di partenza della sua visione dei rapporti tra societ e religione.
14

16

in cui latto di culto cementa il legame tra lui e il suo dio, tale atto cementa
anche il legame tra lui e i suoi fratelli in una fede comune.
Abbiamo cos raggiunto un punto della nostra discussione a partire dal quale
possibile tentare una stima generale del valore etico del tipo di religione che
stato descritto. Il potere della religione sulla vita duplice: da un lato tale
potere consiste nella associazione di essa con particolari norme di condotta a
cui assegna delle sanzioni sovrannaturali; ma soprattutto tale potere consiste
nel determinare il tono generale e la tempra delle menti degli individui, che in
tal modo vengono spronate al coraggio e a pi alti ideali, e le eleva al di sopra
della brutale servit nei confronti dei istinti fisici insegnando agli uomini che la
loro vita e la loro felicit non sono il semplice trastullo delle cieche forze della
natura, ma che un potere pi alto li sorveglia e si prende cura di loro. In quanto
fonte ispiratrice di comportamento, questa influenza pi potente della paura
nelle sanzioni sovrannaturali, dal momento che funge da stimolo, mentre
questultima semplicemente regolativa15.

Il rituale di comunione per eccellenza era il sacrificio nel quale il dio


era chiamato a partecipare, come commensale, alla tavola degli
uomini che, nellatto comune del mangiare e del bere, trovavano
loccasione per rinsaldare la propria alleanza, tra loro e con la
divinit rappresentativa dellunit stessa (il prototipo di questa
divinit lo Yahv, degli antichi israeliti).
Come molti suoi contemporanei, Smith non pot sottrarsi al
problema di ricostruire le origini del sacrificio. Bench partito da
posizioni sociologiche e non intellettualistiche, Smith ragion
molto spesso come il suo collega Tylor. Ci chiaramente visibile
nella ricostruzione che egli fa dellorigine del totemismo e delle sue
relazioni con il sacrificio inteso come rito collettivo.
Smith riteneva infatti, come altri (ma non Tylor, come abbiamo
visto), che la prima forma di religione fosse il totemismo, cio il culto
tributato da un gruppo a un essere animale o vegetale con il quale il
gruppo stesso si autoidentificava.16 Questa identificazione era una
conseguenza dellusanza dellorda primitiva di consumare un cibo
in comune, pianta o animale che fosse. Consumando ad esempio la
carne dello stesso animale, gli esseri umani ebbero la sensazione di
essere partecipi della medesima sostanza e quindi di essere non solo
Lectures on the Religion of the Semites, 1889, Black, London, pp. 264-66.
Lidea del totemismo come prima forma di religione gli veniva da un altro studioso scozzese,
J. F. Mc Lennan che, nel 1869, aveva pubblicato un importante lavoro proprio su questo
argomento.

15
16

17

parenti tra loro, ma anche parenti dellanimale. Poich un pasto


comune non pu mantenere per un tempo indeterminato questa
comunanza tra uomini da un lato, e tra questi ultimi e lanimale
dallaltro, il consumo della sostanza comune doveva essere ripetuto
periodicamente per rinnovare nel tempo il legame comunitario tra
gli umani stessi e tra questi ultimi e lanimale. Lidea che tutti
partecipavano, per incorporazione, della stessa sostanza, rafforzava
lidea di comunione e, al tempo stesso, consolidava lidentificazioni
degli umani con lanimale in questione. Di qui la convinzione, tipica
della religione totemica, che un gruppo umano sia parente del suo
totem, o animale (o vegetale), da cui prende il nome. Scrive infatti
Smith:
In the course of the last lecture we were led to look with some exactness into the
distinction drawn in the later ages of ancient paganism between ordinary sacrifices,
where the victim is one of the animals commonly used for human food, and
extraordinary or mystical sacrifices, where the significance of the rite lies in an
exceptional act of communion with the godhead, by participation in holy flesh
which is ordinarily forbidden to man. Analysing this distinction, and carrying back
our examination of the evidence to the primitive stage of society in which sacrificial
ritual first took shape, we were led to conclude that in the most ancient times all
sacrificial animals had a sacrosanct character, and that no kind of beast was
offered to the gods which was not too holy to be slain and eaten without a
religious purpose, and without the consent and active participation of the whole clan.
For the most primitive times, therefore, the distinction drawn by later paganism
between ordinary and extra-ordinary sacrifices disappears. In both cases the sacred
function is the act of the whole community, which is conceived as a circle of
brethren, united with one another and with their god by participation in one life or
life-blood. The same blood is supposed to flow also in the veins of the victim, so that
its death is at once a shedding of the tribal blood and a violation of the sanctity of
the divine life that is transfused through every member, human or irrational, of the
sacred circle. Nevertheless the slaughter of such a victim is permitted or required
on solemn occasions, and all the tribesmen partake of its flesh, that they may
thereby cement and seal their mystic unity with one another and with their god.
In later times we find the conception current that any food which two men
partake of together, so that the same substance enters into their j flesh and blood,
is enough to establish some sacred unity of life between them; but in ancient times
this significance seems to be always attached to participation in the flesh of a
sacrosanct victim, and the solemn mystery of its death is justified by the
consideration that only in this way can the sacred cement be procured which creates
or keeps alive a living bond of union between the worshippers and their god. This
18

cement is nothing else than the actual life of the sacred and kindred animal, which
is conceived as residing in its flesh, but especially in its blood, and so, in the sacred
meal, is actually distributed among all the participants, each of whom
incorporates a particle of it with his own individual life.
The notion that, by eating the flesh, or particularly by drinking the blood, of another
living being, a man absorbs its nature or life into his own, is one which appears
among primitive peoples in many forms [] 17

Il sacrificio di comunione presente nelle religioni pre-monoteiste e


monoteiste sarebbe dunque lo sviluppo di questa prima fase
originaria in cui, comunque, al centro delle preoccupazioni umane
vi era quella di rinsaldare continuamente i legami tra i membri della
comunit, e tra questi e il nume tutelare ( qui che la dimensione
sociologica di Smith prende il sopravvento sullimpostazione
intellettualistica del ragionamento). Molti critici posteriori hanno
fatto notare, come vedremo, che per quanto riguarda lidea del
sacrificio di comunione, come atto fondante e rinnovante la
comunit, la prospettiva di Smith era influenzata dalla prospettiva
cristiana e dal rito delleucaristia in particolare. Questa distorsione
prospettica, certamente presente nella sua opera (dopotutto era un
evoluzionista), bilanciata tuttavia dal merito di aver posto
laccento sulla religione non solo come mera speculazione, ma come
qualcosa di sociale, di collettivo, e quindi morale. Inoltre Smith
diede importanza al rito come a serie di atti concreti in cui si
rinnovano continuamente i principi che stanno alla base della
societ e del rapporto di questa con le proprie divinit tutelari. Da
ultimo, Smith ha avanzato una teoria del sacrificio che superava
lidea di questultimo come semplice dono alla divinit. Lidea del
dono non certamente assente dalle pratiche sacrificali, come
abbiamo visto, ma ne solo un aspetto, e talvolta nemmeno sempre
il pi importante. In fondo quella di Smith era una teoria che non
riduceva la religione a mera speculazione, ma faceva di essa ci che
pochi anni pi tardi i sociologi francesi H. Hubert, M. Mauss e E.
Durkheim (che si ispirarono a Smith, pur criticandolo) avrebbero
definito un fatto sociale18.
Lectures, pp. 312-13.
Vale la pena di ricordare anche come in Smith si ha un superamento della tesi in base alla
quale il culto sarebbe stato originato dalla paura in esseri sovrumani (incarnazione delle
potenze naturali) e una frottola architettata dai sacerdoti a scopi politici. Angoscia, paura,
17
18

19

Un ultimo punto a cui prestare attenzione, anche se certamente


Smith lo enunci in forma assai indiretta, lidea della violenza
come atto fondativo della societ e della cultura (Freud che aveva
letto Smith - in Totem e tab del 1913 enunci una teoria
psicoanalitica dellorigine della religione, della cultura e
dellesogamia che riprendeva proprio questa idea di violenza
iniziale). Per Smith infatti, nelluccisione dellanimale, poi animaletotem, e quindi nel suo sacrificio, gli esseri umani si riconobbero per
la prima volta come membri di un gruppo e come parenti tra loro.
4. Il sacrificio come consacrazione: H. Hubert e M. Mauss
Ricollegandoci a quanto abbiamo visto nel paragrafo 1, e in
particolare alla nozione di sacro, possiamo esaminare una delle pi
importanti teorie del sacrificio. Henry Hubert e Marcel Mauss
dedicarono al tema unopera specifica, il Saggio sulla natura e
funzione del sacrificio, pubblicato circa dieci anni dopo il lavoro di
Robertson Smith, nel 189819. Questi due autori erano allievi di Emile
Durkheim, ma non c dubbio che molte delle idee confluite poi
nellopera pi celebre del grande sociologo francese, Le forme
elementari della vita religiosa (1912) provenissero dalla loro riflessione.
Nello studio del 1898 Hubert e Mauss intrapresero una critica delle
precedenti teorie del sacrificio, e in particolare di quella di
Robertson Smith. Pur riconoscendo a Roberston Smith di aver
compiuto un progresso rispetto a Tylor, essi ne criticavano la
comune impostazione evoluzionistica per cui, come scrivevano,
Roberston-Smith si soffermato a raggruppare genealogicamente i
fatti secondo i rapporti di analogia che credeva scorgere fra di essi
(p. 15).
Limpostazione data da Mauss e Hubert al problema consisteva
invece di enucleare le forme elementari del sacrificio, ossia quei
tratti fondamentali che, al di l della grande apparente diversit,
potevano essere ritenuti comuni a questo tipo di rituale. Essi, si
senso di inadeguatezza, cos come potere autorit e manipolazione politica sono dimensioni
inerenti a qualunque religione, ma Smith insistette, dal suo punto di vista, soprattutto sulla
funzione coesiva ed etica svolta dalla religione sul piano sociale.
19

Hubert, H. e Mauss, M. Saggio sulla natura e funzione del sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002.
20

potrebbe dire, partirono alla ricerca di una struttura comune a tutti


i riti sacrificali.
Mauss e Hubert iniziano con una definizione formale di sacrificio.
Essi precisano a) che la cosa sacrificata sempre consacrata, cio
rivestita di unaura di sacralit, e che b) questa stessa cosa funge da
intermediario tra colui o coloro che devono beneficiare del sacrificio
e la divinit alla quale il sacrificio viene rivolto. Ma ci non basta,
secondo loro, a definire compiutamente il sacrificio. Infatti vi sono
offerte di cose che non vengono distrutte e offerte di cose che
vengono distrutte, in parte o totalmente. E solo in questultimo caso
che si pu parlare di sacrificio, ossia quando c, diremmo noi, un
atto violento esercitato su quella cosa che funge da intermediario tra
luomo e la divinit. Per Mauss e Hubert il sacrificio si presenta
come un atto religioso che, mediante la consacrazione della
vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo
stato di certi oggetti di cui la persona si interessa (p. 22)20.
Esistono sacrifici personali e sacrifici oggettivi. I primi sono quelli in
cui toccata la persona che officia il sacrificio stesso. I secondi sono
quelli in cui sono degli oggetti,reali o ideali, a ricevere direttamente
i benefici dellazione sacrificale (un campo, una casa, un tempio
ecc.). Esiste dunque ununit dei sistemi sacrificali ma questa non
pu risiedere, come invece ritenevano Tylor (dono) o Smith
(comunione) in qualcosa di sostanziale: essa risiede invece in
qualcosa di formale, in una struttura relazionale tra termini, i cui
effetti sono la modificazione dello stato morale del beneficiario
e/o dellofficiante.
Abbiamo dunque la vittima (che viene consacrata), degli officianti
(il cui stato morale viene modificato) cos come dei beneficiari che
acquisiscono i vantaggi dellatto sacrificale e vengono quindi
modificati anchessi moralmente.
Il saggio di Hubert e Mauss si ispira a principi comparativi che sono
differenti da quelli dei loro predecessori evoluzionisti: Anzich
raggruppare genealogicamente i fatti secondo i rapporti di
analogia che si crede poter scorgere fra di essi (come dicevano di
Robertson-Smith) i due studiosi francesi si limitano ad esaminare in
Il termine morale indica in questo caso la sua condizione sociale di fronte agli altri
componenti di una comunit.

20

21

dettaglio il sacrificio vedico (India classica) e il sacrificio biblico,


corredando questo nucleo di dati relativi a due grandi religioni
(linduismo e il giudaismo) e ad integrare tale nucleo con qualche
osservazione proveniente dal repertorio antico-classico ed
etnografico contemporaneo.
La struttura fondamentale del sacrificio che essi delineano prevede
la progressiva ascesa della vittima e del sacrificante dallo stato
profano ad uno stato di sacralit che culmina con la distruzione
della vittima stessa e con un progressivo ritorno di vittima e
sacrificante allo stato profano: il sacrificante riprendendo il suo
normale ruolo nella societ, la vittima sotto forma di bene duso se
viene consumata o come puro resto materiale se viene
completamente distrutta.
Potremmo tradurre in un grafico quanto appena detto. La vittima e
il sacrificante ascendono verso il sacro percorrendo la linea curva di
sinistra (il fatto che la linea sia curva indica che essi vengono
accostati al sacro lentamente con rituali specifici).

Raggiunto il culmine del rituale sacrificale con la distruzione della


vittima, questultima e il sacrificatore precipitano ritornando alla
loro condizione profana (linea diritta di destra), ciascuno dei due
tornandovi per in maniera diversa. La vittima come cosa, il
sacrificatore come individuo che ha qualcosa in pi di prima (il
sacro) di cui si deve liberare (in quanto pericoloso) o che deve
tenere su di s addomesticandolo attraverso rituali particolari. La
vittima diventa cos un medium per comunicare con il sacro, un
intermediario per mettere, essi dicono, in comunicazione il profano
con il sacro:
Nel caso dell'offerta la comunicazione si fa ugualmente attraverso un
intermediario ma non vi distruzione. Invero, una consacrazione troppo forte
pu avere gravi conseguenze, anche quando non distruttiva. Tutto ci che
22

profondamente inserito nell'ambito religioso , per ci stesso, separato dal


mondo profano: pi un essere impregnato di religiosit e pi si carica di
interdizioni che lo isolano..
D'altro canto, tutto quanto entra in contatto troppo intimo con le cose sacre
assume la loro natura e diviene ugualmente sacro. Ora, il sacrificio compiuto
da profani; l'azione che esso esercita sulle persone e sugli oggetti finalizzata a
mettere queste persone e questi oggetti nello stato di svolgere il loro ruolo nella
vita temporale. Le une e gli altri possono entrare con vantaggio nel sacrificio
alla sola condizione di poterne uscire. I riti di uscita servono in parte a questo
scopo: essi attenuano l'effetto della consacrazione; ma da soli, non sarebbero in
grado di attenuarlo sufficientemente qualora la consacrazione fosse stata
troppo intensa. Limportante quindi che il sacrificante o l'oggetto del sacrificio
non la ricevano che smorzata, vale a dire in maniera indiretta. Questa la
funzione dell'intermediario: grazie al quale i due mondi presenti possono
compenetrarsi l'uno l'altro, pur rimanendo distinti.

Centrale, in questo schema del sacrificio proposto da Hubert e


Mauss la coppia concettuale sacro/profano.
Alla base di questa distinzione vi lidea, da allora e poi per molto
tempo diffusa nella teoria antropologica, secondo cui il mondo e
quello dei popoli primitivi in particolare - sarebbe percepito
come diviso concettualmente in due sfere di esperienza. Al profano
appartiene lesperienza sensibile o, si potrebbe meglio dire, il
mondo della prevedibilit, della predittivit naturale e della
progettualit umana. Al sacro appartiene invece tutto ci che non
rientra della sfera del profano, e quindi tutto ci che sta di l dei
poteri umani.21 In base a questa visione dicotomica della realt, ogni
variazione, o passaggio, da una condizione allaltra provocherebbe
unalterazione nellequilibrio delle forze che sono alla base della
stabilit del mondo medesimo (umano e naturale).
Per quanto desueta sotto molteplici aspetti (per esempio lidea di un
mondo primitivo totalmente immerso nella dimensione del sacro),
questa teoria si rivel perspicua in relazione alla struttura dei rituali
che, come mise in luce Arnold Van Gennep nel suo libro I riti di

Durkheim, ne Le forme elementari della vita religiosa (1912) definir addirittura il sacro come
linsieme delle cose separate, intedette, le quali sono oggetto di credenze e di pratiche
collettive (di qui la celebre definizione di religione come sistema solidale di credenze e di
pratiche relative a cosa sacre, cio separate, interdette, le quali uniscono in ununica comunit
morale, chiamata Chiesa (nel senso di ecclesia, comunit) tutti quelli che vi aderiscono (p.97).

21

23

passaggio (1909), si articolano in tre fasi. Tali fasi sarebbero un modo


per controllare i passaggi di condizione (sociale o spirituale) che
si hanno sempre in tutte le societ: uscita da una condizione, di
sospensione e di riaggregazione alla nuova condizione.
Accostarsi al sacro vuol dire dunque abbandonare uno stato di
prevedibilit per avvicinarsi a qualcosa di imprevedibile, vietato,
pericoloso. Lo si potr fare solo prendendo le debite misure, perch
chiunque pretenda di accostarsi al sacro senza precauzioni, pu
essere involontariamente responsabile dello scatenamento di forze
"ambigue", pericolose e diffuse capaci di mettere a repentaglio non
solo la vita di chi compie lazione, ma anche lordine fisico del
mondo e quello morale della societ.
La teoria del sacrificio di Hubert e Mauss si fonda dunque da un
lato sulla dicotomia sacro/profano e, dallaltro lato, sulla
ritualizzazione che consente la sacralizzazione dellofficiante e della
vittima grazie alla quale gli umani possono accostarsi senza pericoli
alla divinit (sacra) per trarne un beneficio (profano).
Un aspetto saliente della loro teoria che la vittima e il sacrificante
vengono quasi a fondersi per il fatto che entrambi devono essere
sacralizzati. Il processo di sacralizzazione della vittima giunge al
culmine nel momento in cui distrutta, cio quando, secondo
Hubert e Mauss, il sacro che si per cos dire accumulato nella
vittima mediante il rito di sacralizzazione, la lascia per raggiungere
definitivamente la sfera che gli propria, quella del sacro come
opposto al profano. Di qui la spiegazione del fatto che gli esseri
sacrificato sono, dopo distrutti, esseri profani che possono, nel caso,
essere consumati dagli esseri umani.
Il sacro come fatto sociale
Hubert e Mauss si muovono nellarea di pensiero tipica della scuola
di Durkheim. Essi condividevano tutti una teoria proiettiva della
religione. La religione secondo costoro la proiezione di fatti
sociali in una sfera immaginaria, superna. La teoria durkheimiana
della religione (Le forme elementari della vita religiosa, 1912) vede
questultima come una metafora sacralizzata della societ, per cui
la dipendenza che gli esseri umani elaborano nei confronti delle
24

loro divinit sono in realt frutto della sensazione, largamente


inconsapevole, che la loro esistenza in quanto singoli possibile
solo per lesistenza di una societ (altri esempi classici di teorie
proiettive della religione sono quelle di Feuerbach e di Freud).
Il sacro, sebbene separato dal profano, non unentit statica (per
quanto le religioni lo pensino come tale), perch la societ che si
trasforma, che registra dei cambiamenti. Il sacro, come la societ di
cui una proiezione, sempre in movimento, cambia cio a seconda
dellorientamento sociale. Ci che pi conta per la societ (dal
punto di vista della sua coesione) diventa, secondo questi autori,
sacro. Nel 1906 Hubert e Mauss., in una rivisitazione del loro saggio
del 1898, scrissero:
Dicevamo che le cose sacre sono cose sociali [nel senso che ci che sacro
per natura condiviso in quanto riconosciuto tale da una societ o da un gruppo
sociale]. Ora andiamo anche oltre e diciamo che, a nostro avviso, concepito
come sacro tutto ci che, per il gruppo e i suoi membri, qualifica la societ. Man
mano che gli dei escono dal tempio per diventare cose profane ecco che cose
umane ma sociali come la patria, la propriet, il lavoro, la personalit umana vi
fanno ingresso una a seguito dellaltra22

Le trasformazioni del sacrificio


Bench per molti aspetti fossero lontani dalle posizioni degli
evoluzionisti che li avevano preceduto, Hubert e Mauss, come tutti i
durkheimiani, ritenevano possibile tracciare una linea di
trasformazione delle istituzioni religiose, la quale seguiva grosso
modo le trasformazioni delle societ di cui erano, in fondo, la
proiezione. Queste trasformazioni non seguivano una linea
definita, ma potevano assumere aspetti diversi a seconda delle
circostanze storiche e sociali specifiche. Queste diramazioni
nellevoluzione del sacrificio portano Hubert e Mauss a esplorarne
gli aspetti pi diversi ai quali sottosta non solo la struttura
fondamentale di tutti sacrifici, ma sotto i quali si celano

Hubert H. e Mauss M. Lorigine dei poteri magici e altri saggi di sociologia religiosa, Newton
Compton, Roma 1977, p. 19 (ed. or 1906).

22

25

rappresentazioni diffuse del rapporto tra umani e esseri


sovrannaturali.
Un tema considerato dai due autori per esempio, quello del
sacrificio come espulsione del male dalla comunit. Ricollegandosi
ai riti di espiazione tra gli ebrei (il capro espiatorio), essi mostrano
come i rituali che circondano nellinduismo il dio Rudra, divinit
delle greggi, si basino su principi analoghi e mettano addirittura in
scena i prodromi del sacrificio della divinit medesima.
Vi per un caso in particolare in cui appare chiaro che il carattere che viene
cosi eliminato essenzialmente religioso: quello del toro allo spiedo, vittima
espiatoria del dio Rudra. Rudra il padrone degli animali, colui che ha il potere
di distruggere animali e uomini con la peste e con la febbre; dunque un dio
pericoloso. Dio del bestiame, presente entro il gregge e contemporaneamente
lo circonda e lo minaccia. Per allontanarlo, lo si concentra sul pi bello dei tori
del gregge, che diventa esso stesso Rudra; viene allevato, consacrato come tale
e gli si rende onore. Poi, almeno secondo alcune tradizioni, lo si sacrifica fuori
dal villaggio, a mezzanotte, in mezzo al bosco e in tal modo Rudra eliminato.
Rudra degli animali andato a raggiungere il Rudra dei boschi, dei campi e dei
crocicchi. Lo scopo del sacrificio dunque I'espulsione di un elemento divino.

Secondo Hubert e Mauss infatti lidentificazione del toro con Rudra


e la sua uccisone sembrano prefigurare lidea, tipica di molte
religioni, del sacrificio del dio.
Per Hubert e Mauss lidea del sacrificio del dio tuttavia
chiaramente individuabile, al suo stato aurorale, in alcuni riti agrari
arcaici e moderni (essi fanno riferimento al folklore europeo).
I riti agrari, compiuti stagionalmente, hanno un significato preciso,
quello di rinnovare la fertilit della terra dispensatrice di
sostentamento per gli umani.
I riti agrari appartengo alla categoria dei sacrifici oggettivi (v.
sopra). Essi non riguardano cio gli esseri umani come tali, ma le
cose, in questo caso i campi, le messi ecc. I riti agrari sono finalizzati
a: 1) riprodurre la fertilit della terra e 2) superare i divieti che
impediscono agli umani di prendere impunemente dalla terra i
suoi frutti. I riti agrari infatti non hanno solo lo scopo di aiutare la
terra a produrre, ma anche di consentire agli umani di prelevare i
suoi frutti.

26

Gli umani sanno ovviamente che la terra d i suoi frutti solo se


lavorata da loro, ma sanno anche che il loro lavoro non dar frutti
se la terra non sar consenziente. Dietro questa idea vi
evidentemente una concezione del rapporto uomo-natura molto
diversa da quella che dallet moderna e dalla rivoluzione
industriale in poi in maniera particolare, si elaborata in Europa
circa tale rapporto. 23
La terra si presenta infatti come animata da una forza che viene
pensata in forma di spiriti. Questi rimangono latenti nelle
stagioni improduttive per risvegliarsi con la stagione della fioritura.
Tali spiriti, oltre che essere alla base della fruttificazione dei vegetali
sono anche i loro guardiani che, in quanto tali, vanno bloccati e,
al tempo stesso, fissati alla terra affinch questultima possa dare i
suoi frutti.
I sacrifici agrari hanno un duplice scopo: prima di tutto sono destinati a
permettere agli uomini di lavorare la terra e di utilizzare i suoi prodotti,
liberandoli dalle interdizioni che li proteggono. In secondo luogo, sono un
modo di rendere fertili i campi coltivati e di conservare la loro vita quando,
dopo il raccolto, appaiono spogli e come morti. La terra e i suoi prodotti, infatti,
sono considerati eminentemente cose vive. Vi in essi un principio religioso
che latente durante l'inverno, ricompare in primavera, si manifesta nel
raccolto e, per tale motivo, lo rende ai mortali pericoloso da avvicinare.
Talvolta, persino, questo principio lo si rappresenta come uno spirito che
monta la guardia intorno alle terre e ai frutti; questi gli appartengono e tale
Un caso contemporaneo potrebbe gettare un po di luce sullatteggiamento che le
popolazioni rurali di cui parlano Hubert e Mauss potevano aver avuto nei riguardi della terra.
Le attivit agricole dei contadini di Bijapur (India) sono ad esempio ancora oggi condotte nell
osservanza di un calendario rituale che ha per oggetto la terra. Luso della terra guidato una serie di
fattori che, combinati, sono suscettibili di assicurare il benessere alimentare dei contadini. Essi
chiamano guna la qualit del suolo; hada la serie di operazioni che, in accordo con il tipo di suolo, la
disponibilit di acqua, il periodo dellanno, la variet delle sementi ecc. devono essere eseguite in
maniera appropriata; e soprattutto hulighe, o abbondanza concessa, ci che si riferisce ai raccolti
concessi loro, appunto, dalla terra. Hulighe (abbondanza concessa) indica dunque la produttivit
della terra ma non riflette un orientamento economicistico. Tale concetto incorpora infatti lidea
che la produttivit ha origini sacre. un concetto con forti valenze morali e sociali e che
implica lobbligo di condividere e di donare agli altri membri della comunit. Il concetto di
hulighe difatti strettamente connesso con i riti che fanno della terra la fonte di tale
produttivit, e della produzione un evento inscritto in un contesto sociale e morale. Tali riti
confermano e rinnovano la forza (thakat) della terra. Lintroduzione di sementi pi
produttive e la modernizzazione dei sistemi irrigui ha scardinato questo universo morale dei
contadini di Bijapur.
23

27

appartenenza costituisce la loro santit; bisogna dunque eliminarlo perch il


raccolto o luso dei frutti diventino possibili. Ma, nello stesso tempo, esso vita
stessa del campo, e, dopo averlo espulso, indispensabile ricrearlo e fissarlo
nella terra di cui costituisce la fertilit. I sacrifici di semplice desacralizzazione
possono adempiere al primo di questi scopi, non al secondo. I sacrifici agrari
hanno dunque, per maggior parte, effetti molteplici e vi si trovano riunite
forme di sacrifici diversi. Essi rappresentano uno dei casi in cui meglio si
osserva questa complessit fondamentale del sacrificio sulla quale non
insisteremo mai abbastanza.

Affinch lo spirito venga bloccato, cio messo nellimpossibilit di


reagire di fronte al prelievo dei frutti della terra, questultima va
desacralizzata, ossia resa profana. Invece, per fissare lo spirito alla
terra affinch questa continui a produrre, bisogna sacralizzarla. E
quindi necessario compiere due atti opposti: da un lato fare offerte
allo spirito (al dio ecc.) per allontanarlo da ci che gli uomini voglio
prendere per s (desacralizzazione); dallaltro lato bisogna invece
aspergere i campi del sangue delle vittime e distribuire i resti della
vittima trai coltivatori (sacralizzazione).
Spesso un medesimo rito pu assolvere ai due scopi. In tal caso lo
spirito viene simbolicamente eliminato e al tempo stesso fatto
simbolicamente rivivere. Hubert e Mauss citano un caso dal folklore
europeo, dove vi era, e in parte ancora vi , lusanza di celebrare riti
e feste stagionali che simboleggiano la fine dellanno e linizio
dellanno nuovo, oppure il ritorno della primavera. In certe regioni
dEuropa un manichino ricoperto di una camicia e simboleggiante
lo spirito della vegetazione, veniva interrato al sopraggiungere della
primavera. La camicia per era tolta e posta su un albero in fiore
simboleggiate lanno nuovo. Sotterrando il manichino lo si
uccideva, ma la sua forza (o spirito) veniva fatta rivivere
ponendo la camicia che lo ricopriva sullalbero. La continuit della
vita della vegetazione era in tal modo assicurata, e la morte dello
spirito dellanno agrario vecchio era la condizione per larrivo di
quello nuovo.24

Questo tema della continuit della vita nonostante la morte si ricollega a quello della morte
come condizione per poter pensare la vita e la rinascita, un tema che, come vedremo pi avanti,
tutte le religioni elaborano indistintamente ancorch in forme anche molto diverse tra loro.
24

28

A giudizio di Hubert e di Mauss levoluzione del sacrificio agrario


alla base della concezione del sacrificio del dio. Questultimo infatti
il risultato finale di una evoluzione, e non il punto di partenza
dellevoluzione del sacrifico medesimo. Robertson Smith aveva
posto come primo atto sacrificale il sacrificio del totem, quindi il
sacrificio della prima forma di divinit : per Hubert e Mauss invece
il sacrificio del dio posteriore al sacrificio al dio.
In ogni sacrificio vi , un atto di abnegazione, dal momento che il sacrificante
si priva di qualche cosa e ne fa dono. Questa abnegazione gli viene spesso
persino imposta come un dovere. Il sacrificio infatti non sempre facoltativo;
gli di lo esigono. Agli di si deve il culto, il servizio, come dice il rituale
ebraico; si deve la loro parte, come dicono gli Ind. Tuttavia questa
abnegazione, questa sottomissione non sono senza contropartita. Se il
sacrificante dona qualche cosa di s, non dona se stesso; la sua persona la
riserva prudentemente. Poich il motivo per cui dona , in parte, per ricevere.
Il sacrificio si presenta dunque sotto un duplice aspetto: un atto utile ed
anche un obbligo. Il disinteresse si mescola all'interesse. Questo rende ragione
del fatto di averlo spesso inteso sotto forma d contratto. In ultima analisi, non
esiste forse sacrificio che non contenga un qualche cosa di contrattuale. Le due
parti in causa scambiano i loro servizi ed ognuna trova il proprio tornaconto.
Perch gli di, anch'essi, hanno bisogno della profanit. Se non gli fosse
riservata una parte delle messi, il dio del grano morirebbe; perch Dioniso
possa rinascere, bisogna che, al tempo della vendemmia, il capro di Dioniso
venga sacrificato; il soma che gli uomini offrono da bere agli di che li rende
forti contro dmoni. Perch l'essere sacro sussista bisogna lasciargli la sua
parte, ed sulla parte dei profani che viene prelevata la parte per la divinit.
Tale ambiguit insita nella natura stessa del sacrificio e dipende
indubbiamente dalla presenza dell'intermediario, e noi sappiamo che senza
intermediario non pu esservi sacrificio. Questo perch la vittima distinta dal
sacrificante e dal dio, essa li mantiene separati pur unendoli; sacrificante e
divinit si avvicinano, ma non si concedono totalmente l'uno all'altra.
Vi un caso tuttavia, nel quale ogni calcolo egoistico assente. Si tratta del
sacrificio del dio. Perch il dio che si sacrifica si dona senza contropartita.
Questa volta ogni intermediario scomparso. Il dio che nello stesso tempo il
sacrificante fa un tutt'uno con la vittima e talvolta anche con il sacrificatore.
Tutti i diversi elementi che entrano in gioco nei sacrifici ordinari, in questo caso
si integrano gli uni negli altri e si fondono. Inevitabilmente, una tale
compenetrazione non possibile se non per esseri miti ci, vale a dire per esseri
ideali. Questo spiega come la concezione di un dio che si sacrifica per il mondo
abbia potuto prodursi e sia divenuta, anche per i popoli pi civilizzati, pi alta
e quasi il vertice ideale dell'abnegazione totale.
29

Ma, come il sacrificio del dio non esce dalla sfera immaginaria della religione,
cos si potrebbe credere che l'intero sistema sia soltanto un gioco di immagini.
Le potenze alle quali il fedele si rivolge e per le quali sacrifica i suoi beni pi
preziosi sembrano essere nulla di positivo. Coloro che non credono vedono in
questi riti soltanto vane e costose illusioni e si stupiscono che l'intera umanit si
sia accanita a dissipare le proprie forze per fantomatiche divinit.(pp. 88-90)

In realt Hubert e Mauss vedono in questa idea di abnegazione


incorporata nel sacrificio del dio qualcosa che ha a che vedere con il
fondamento stesso della societ. Innanzitutto le divinit, per quanto
fantomatiche esse siano, sono perch credute, e quindi sono dei fatti
sociali insieme alla credenze relative. In secondo luogo la credenza
nelle divinit esprime una esigenza sociale che in una societ
priva di divinit non scompare. Di seguito al brano sopra citato ecco
infatti la conclusione del Saggio sulla natura e la funzione del sacrificio:
Ma vi sono forse autentiche realt alle quali si pu riferire l'istituzione nella
sua integralit. Le nozioni religiose, poich sono credute, sono; esse esistono
oggettivamente come fatti sociali. Le cose sacre, in riferimento alle quali
funziona il sacrificio, sono cose sociali e questo basta per spiegare il sacrificio.
Perch il sacrificio abbia un fondamento che lo giustifichi sono necessarie due
condizioni. Prima di tutto bisogna che al di fuori del sacrificante vi siano delle
cose che lo facciano uscire da se stesso e alle quali debba ci che sacrifica. In
secondo luogo, bisogna che tali cose si trovino vicine a lui, in modo che egli
possa entrarne in rapporto, riceverne la forza e la sicurezza di cui ha bisogno e
trarre dal contatto che stabilisce con esse quei benefici che attende dai suoi riti.
Ora, tale carattere di intima penetrazione e di separazione, di immanenza e di
trascendenza , nel suo pi alto grado, peculiare delle cose sociali. Anch'esse
esistono contemporaneamente, secondo il punto di vista dal quale si guardano,
dentro e fuori l'individuo. Si comprende allora quella che pu essere la
funzione del sacrificio, a prescindere dalle espressioni simboliche con le quali il
credente lo esprime a se stesso. Tale funzione una funzione sociale perch il
sacrificio si riferisce a delle cose sociali.
Da una parte, questa rinuncia personale degli individui o dei gruppi ai loro
beni alimenta le forze sociali. Ovviamente, non che la societ abbia bisogno di
quelle cose che costituiscono la materia del sacrificio; tutto qui avviene sul
piano delle idee e si tratta unicamente di energie morali e mentali. Ma l'atto di
abnegazione implicito in ogni sacrificio, richiamando frequentemente alle
coscienze singole la presenza delle forze collettive, alimenta precisamente la
loro, esistenza ideale. Quelle espiazioni e purificazioni generali, quelle
comunioni, quelle sacralizzazioni di gruppi, le creazioni di geni dei centri
abitati, conferiscono o rinnovano periodicamente alla collettivit, rappresentata
30

dai suoi di, quel carattere buono, forte, grave e terribile, che uno dei tratti
essenziali di qualsiasi personalit sociale. - Da un'altra parte, in questo stesso
atto, gli individui trovano la loro convenienza: essi conferiscono a s e alle cose,
delle quali vivono abitualmente, la forza sociale tutta intera. Essi rivestono di
una autorit sociale i loro voti, i loro giuramenti, i loro matrimoni. Circondano
di un alone di santit che li protegge i campi che hanno lavorato, le case che
hanno costruito. Nello stesso tempo, essi ritrovano nel sacrificio il modo di
ricomporre gli equilibri rotti; mediante l'espiazione, si riscattano dalla
maledizione sociale, conseguenza della colpa, e rientrano nella comunit; con la
spartizione che compiono delle
cose delle quali la societ si riservata l'uso, essi ne acquisiscono il diritto di
godimento. La norma sociale viene cos mantenuta senza pericolo per gli
individui, senza diminuzione per il gruppo. In tal modo assolta la funzione
sociale del sacrificio, tanto per i singoli, quanto per lintera collettivit. E poich
la societ composta non soltanto di uomini bens di cose e di avvenimenti,
facile intuire come il sacrificio possa seguire e riprodurre contemporaneamente
il ritmo della vita umana e quello della natura; come abbia potuto divenire
periodico secondo le scadenze dei fenomeni naturali, occasionale come i
bisogni momentanei degli uomini, e come infine abbia potuto adattarsi a mille
funzioni.
Si del resto potuto constatare, cammin facendo, quante credenze, quante
pratiche sociali, che non sono propriamente religiose, si trovano in relazione
con il sacrificio. Si parlato via via del contratto, del riscatto, della pena, del
dono, dell'abnegazione, delle concezioni relative all'anima e all'immortalit che
sono elementi che stanno ancora alla base della morale comune. Questo sta a
significare quale importanza ha per la sociologia la nozione di sacrificio.
Ovviamente, in questo lavoro, non ci eravamo proposti di seguire la nozione
del sacrificio nel suo sviluppo e attraverso le sue molteplici ramificazioni:
l'obiettivo che ci siamo prefissi era semplicemente di cercare di costituirla, di
darle un fondamento (pp. 90-91).

5. Lillusione sacrificale e il cristianocentrismo


Al termine di questa rivisitazione di tre celebri teorie del sacrificio
(Tylor, Robertson-Smith, Hubert e Mauss) venuto adesso il
momento di trattare quelli che, secondo alcuni autori recenti,
sarebbero i loro limiti e i loro pregi rispettivi.
La prima di queste critiche quella avanzata dallantichista Marcel
Detienne che, a partire dal caso del sacrificio greco, ritiene di
respingere la teoria di Hubert e Mauss del sacrificio in quanto atto

31

di consacrazione.25 Come abbiamo visto, infatti, i due autori


avevano sostenuto che lessenza del sacrificio consistesse nel
mettere in contatto la vittima e il sacrificante con la sfera del sacro.
Secondo Detienne, tuttavia, nel sacrificio greco n la vittima n il
sacrificante abbandonano mai il mondo profano per il mondo sacro.
E per difficile valutare questa affermazione. Detienne si fonda su
testi che probabilmente non affermano effettivamente nulla in
direzione delle tesi di Hubert e Mauss, ma il fatto che non ci si pu
fermare alle apparenze, bens superarle come fanno Hubert e
Mauss e come dovrebbe fare ogni indagine di tipo antropologico. Il
fatto insomma che nei testi antichi non ci sia alcuna affermazione
esplicita al riguardo di un allontanamento dal mondo di vittima e
sacrificante non implica necessaramente che non vi sia
sacralizzazione, che non vi sia cio intenzione di compiere un
accostamento al sacro. Se dovessimo negare lidea che esiste un
accostamento sacro sulla base del fatto che nessuno degli interessati
lo afferma, commetteremmo una ingenuit diametralmente
opposta, ma nella sostanza simile, a quella che Geertz ammette di
aver commesso chiedendo a un balinese se pensasse che Rangda
fosse vera26
Partendo da questa premessa, Detienne cerca di demolire non solo
lidea della sacralizzazione come caratteristica dellatto sacrificale
(da lui considerato come atto che autorizza la partecipazione ad una
comunit politica)27, ma anche quella secondo cui il sacrificio si
presenterebbe come un fenomeno unitario. Secondo Detienne
infatti, proprio come il totemismo stato il frutto di un
immaginazione antropologica che ha riunito sotto una stessa
rubrica fatti etnologici eterogenei ritenendo che avessero una natura
comune28, anche il sacrificio stato il prodotto di una illusione.
Per Detienne infatti, la visione del sacrificio sviluppata dalle scienze
religiose ( storia delle religioni e antropologia della religione)
Tutti i riferimenti a detienne riguardano il saggio Pratiche culinarie e spirito di sacrificio in
Detienne, M. e Vernant, J-P. (a cura) La cucina del sacrificio in terra greca, Boringieri, Torino 1982
(ed. or. 1979).
26 Cfr. C. Geertz, La religione, ecc. p. 149.
27 In questo Detienne ricalca la teoria di Robertson-Smith relativa al sacrificio come rito
comunitario, e quindi politico, che tuttavia egli critica per i motivi che ora vedremo.
28 La critica radicale del totemismo venne sviluppata da Lvi-Strauss nel volume Il totemismo
oggi (1962).
25

32

dipende da una serie di mosse derivanti dalla inconsapevole


assunzione della teoria del sacrificio cristiano come ispiratrice dello
sguardo storico e antropologico sul fenomeno.29 Il sacrificio infatti,
con lo sviluppo delle scienze religiose, assume uno statuto teorico
preciso consentendo ad esempio di connettere sacrificio stesso e
totemismo in quanto prima forma di religione.
Ma la teoria di Mauss soltanto un episodio della grande impresa che, da
Robertson Smith [in poi], elabora la categoria culturale del sacrificio
collocandola al centro di quello che si decide allora di chiamare la religione.
L'illusione suscitata dal totemismo negli stessi anni, tra il 1885 e il 1920, non
sarebbe stata cos totale se la figura del totem non avesse portato con s,
insieme al problema della divisione tra l'uomo e il mondo animale e vegetale,
una preoccupata domanda sul potere, attribuito a certi riti sacrificali, di
mantenere tra l'uomo e l'animale una forma di comunanza. Oscillante tra la
bestia e l'aspetto umano, all'incrocio tra l'antico fondo agrario del Vicino
Oriente e le nuove attese suscitate dalle religioni di salvezza, un dio come
Dioniso ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione di questa teoria,
condivisa, alla fine del secolo scorso, da intellettuali preoccupati di tracciare un
confine tra i rituali selvaggi e ripugnanti, lasciati al "popoli allo stato di natura"
(Naturvlker), e quelle forme il cui valore morale e la cui tensione spirituale non
lasciavano dubbi sulla loro appartenenza alla sfera della religione. Con
Robertson Smith e la sua analisi antropologica della religione dei semiti
s'inaugura un percorso che parte dal mondo biblico per arrivare ai margini del
cristianesimo, fino al cuore del razionalismo occidentale.
Senza dubbio, il sacrificio da sempre, in ambito cristiano, l'atto di culto che
serve alla religione come pietra di paragone, la cui efficacia continuamente
verificata dal resoconti dei viaggiatori. "Esso - osserva il missionario gesuita
Joseph-Franois Lafitau nel 1724 - antico come la religione stessa, ed esteso
quanto le nazioni sottomesse alla religione, poich non ce n' una sola in cui il
sacrificio non sia stato in uso, e in cui non sia stato nello stesso tempo una
prova della religione." Ma solo con l'avvento di una "scienza delle religioni", in
pieno diciannovesimo secolo, il sacrificio assume uno statuto teorico preciso.
Domina una prospettiva, l'evoluzionismo, e nell'indagine aperta per scrivere
una storia delle forme elementari della religione, il totemismo, accreditato di un
carattere universale, appare come il prototipo di ogni atto sacrificale. Nella
manducazione dell'animale totem immolato dal clan, Robertson Smith
riconosce le due componenti essenziali del sacrificio: il pasto in comune e
l'alleanza per mezzo del sangue(pp. 20-21)

Gi ai primi del Novecento era stato fatto osservare per esempio come Robertson-Smith,
parlando del sacrificio di comunione fosse influenzato dal rito dellEucarestia.
29

33

Oggi, col distacco reso possibile dalle analisi raccolte in questo volume, ci pare
importante rilevare che la nozione di "sacrificio" una categoria del pensiero di
ieri, altrettanto arbitraria quanto quella di "totemismo", denunciata di recente
da Lvi-Strauss: una categoria costruita in modo artificiale per mettere insieme
elementi di diversa provenienza etnologica, e che ben dimostra l'egemonia
sotterranea esercitata dalla visione cristiana su storici e sociologi convinti
d'inventare una nuova scienza (p. 26).

Sebbene inconsapevolmente, Hubert e Mauss avrebbero dunque,


secondo Detienne, messo ancora una volta il sacrificio al centro
della teoria religiosa. Prova ne la loro considerazione del sacrificio
del dio come culmine non tanto storico, ma logico dellintera
evoluzione sacrificale (in realt questo culmine logico sarebbe
dettato in loro da un pregiudizio cristianocentrico). Detienne dice
che se per Hubert e Mauss il sacrificio al dio pu venire a fondare
lordine sociale in quanto contiene in s lidea di abnegazione (come
in Tylor), il sacrificio del dio sarebbe lespressione pi alta di questa
abnegazione medesima e resterebbe alla fine nella teologia cristiana
in forma sublimata. Lagnello pasquale sarebbe lequivalente di
Cristo.30 Il sacrificio del dio cristiano sarebbe insomma, per
Hubert e Mauss, il trionfo dellabnegazione e la fine dellaspetto
contrattuale e comunitario del sacrificio. Per Detienne tuttavia, ci
sarebbe un falso punto di arrivo, in quanto , in realt il punto di
partenza del ragionamento dei due autori, punto di partenza che
consente di leggere il sacrificio in maniera unitaria, in una societ in
cui la religione pensata entro i termini del cristianesimo, alla luce
cio di una inconsapevole teoria locale della religione (il
cristianesimo) preso per una scienza.
Questa stessa precomprensione del sacrificio derivante
dallinconsapevole adozione del punto di vista cristiano, avrebbe
condotto E. Durkheim, per il quale il sacrificio era comunione,
rinuncia e abnegazione al tempo stesso, a vedere il sacrificio pi
semplice come gi pervaso da una forza morale, cio come
Secondo Detienne lo schema di Hubert e Mauss non funziona perch nel sacrificio del dio
cristiano le figure del sacrificante e della vittima di sovrapporrebbero. Verrebbe quindi meno
il termine intermedio che ci a cui si sacrifica (un dio). Ma non si vede perch tali figure
non potrebbero sovrapporsi. Anzi, c di pi. Infatti il sacrificio di Cristo pu apparire come un
evento che, oltre alla due precedenti figure, cumula anche quella del beneficiario e
dellintermediario, visto che Cristo redime, come uomo, gli uomini, e si sacrifica a Dio Padre.
30

34

abnegazione e rinuncia dal momento che non pu esserci


comunione (societ) senza rinuncia. Durkheim si opponeva in realt
a quegli autori vicini al pensiero cristiano (per lo pi i missionarietnologi) che attaccavano Robertson Smith per aver voluto vedere
una sostanziale unit storica ( in quanto evolutiva) nel rito
sacrificale. Per quegli autori mitologia e religione segnavano
nettamente la differenza tra primitivi e civilizzati rispettivamente,
per cui lidea di tracciare una linea di continuit tra costumi
giudicati barbari e il sacrificio di Cristo ( o comunque le idee
sublimate del sacrificio presenti anche in altre grandi religioni)
sembrava voler accomunare un rito aberrante e un mistero
spirituale. Cos scrive Detienne:
Siamo invitati [da Durkheim] allo spettacolo dell'Intichiuma . Ci viene
presentato il clan del Bruco. E gi un gruppo rispettabile, non pi un'orda, una
"massa instabile di individui", .. Il clan del Bruco forma un gruppo
organizzato; una societ che presenta caratteri civili; ha la sua bandiera, un
emblema animale, il bruco, con il quale il clan s'identifica emotivamente. E
ancora, il clan del Bruco ha una sua festa che, fissata dal capo, si svolge in due
fasi. La prima occupata da riti destinati ad assicurare da proibizioni e
contrassegnati da proibizioni e da pratiche ascetiche: gli uomini del clan fanno
scorrere il loro sangue per rianimare le virt del totem e, nello stesso tempo, si
fanno assoluto divieto di mangiare i rappresentanti della loro specie totemica.
L'annullamento dei divieti caratterizza la seconda fase: grande raccolta di
bruchi, e tutti ne mangiano in abbondanza; al centro, il pasto del capo, a cui si
offre qualche esemplare che egli incorpora solennemente allo scopo di ricreare
la specie.
Quali sono gli elementi essenziali dello schema sacrificale iscritto in questo
spettacolo primitivo? Durkheim rende ampio omaggio alla chiaroveggenza di
Robertson Smith, che, da Aberdeen in Scozia, e senza aver mai assistito
all'Intichiuma, aveva riconosciuto nel sacrificio originario un atto di comunione
alimentare, cio un pasto che permette a un gruppo umano e a una potenza
divina di entrare in comunione in una stessa carne, commemorando la loro
parentela naturale. Il pasto totemico, scoperto in seguito, permette di precisare
questo modello, mostrando che la comunione alimentare avviene attraverso
l'incorporazione del principio vitale del clan, della sua anima personificata.
Durante il pasto totemico si mangia l'essere sacro, immolato solo dai suoi
adoratori. Ma Durkheim va pi lontano. Il sacrificio non solo comunione: esso
anche, come mostra la sua forma primitiva, rinuncia e abnegazione.
Nell'Inchiuma, il gesto decisivo non l'atto del mangiare, ma l'offerta; e
l'oblazione obbedisce a una ragione superiore: l'atto dell'offrire implica l'idea di
35

un soggetto morale che l'offerta destinata a soddisfare. Grazie al clan del


Bruco, il dubbio non pi permesso: non pu esserci comunione senza
rinuncia. Il sacrificio pi rozzo, il pi primitivo, gi ispirato da una forza
morale.
In quegli stessi anni, molti storici delle religioni, obbedendo a intenzioni -erse,
mettono a confronto il sacramento dell'eucarestia, in cui il cristiano mangia il
corpo del Signore e ne beve il sangue, con la pratica molto antica degli
adoratori di Dioniso che dilaniano e divorano vittime animali credendo di
mangiare la carne del dio. Gli apologeti della fede cristiana, come il
domenicano Marie-Joseph Lagrange, reagiscono con fermezza e denunciano
laberrazione del senso religioso in clan di civilt molto inferiore in cui si
praticano riti carnali e disgustosi.
Per evitare la confusione tra i rozzi riti dei popoli allo stato di natura e il
mistero spirituale dell'eucarestia che caratterizza la religione cristiana, cio
l'unica vera, si opera una distinzione all'interno del sacrificio tra un istinto
degenerato fino alla pratica abbietta di divorare carni crude e sanguinanti, e la
nobile tendenza a una comunione puramente spirituale, in cui l'atto del
mangiare irrilevante, e gli aspetti alimentari sono sviliti e come negati. Uno
dei maggiori rimproveri che l'esegesi cattolica muove a Robertson Smith
proprio di aver confuso la frontiera tra quella che Lagrange chiama insieme ad
altri Mitologia, e in cui imperversa l'animismo, riconoscibile per i suoi aspetti
scandalosi, e la Religione, che non appartiene allo stesso piano della Natura,
poich si manifesta solo al livello delle civilt evolute, insieme con l'esigenza
morale.
Mostrando che l'offerta pi primitiva, e quindi pi semplice, implica un gesto
di rinuncia e postula un soggetto morale, l'analisi di Durkheim va proprio nello
stesso senso. Tuttavia, per Durkheim, tra il clan del Bruco, dove la societ
s'instituisce nella sua forma elementare, e gli ambienti cattolici, protestanti o
ebraici di elevata spiritualit, non c' frattura, ma solo una differenza di grado.
Ai due estremi troviamo una stessa tensione etica, che fa passare in secondo
piano i costumi alimentari, il rituale dell'uccisione, la natura delle vittime: tutto
ci, insomma, che non costituisce l'essenza del rapporto sacrificale, cio,
appunto, lo spirito di sacrificio. "Stiamo attraversando una fase di mediocrit
morale": la costatazione che Durkheim fa al termine delle Forme elementari della
vita religiosa la motivazione profonda della scuola sociologica. Come la
scienza della civilt di Edward B. Tylor, l'analisi sociale degli allievi di
Durkheim animata dallo spirito di riforma. La sociologia, scrive Georges
Davy, doveva essere quella filosofia che avrebbe contribuito a consolidare
definitivamente la repubblica e a ispirare riforme razionali, dando nello stesso
tempo alla nazione un principio d'ordine e una dottrina morale.` Nella sua
riflessione sullo Stato, nelle sue lezioni sul socialismo, o quando redige, nel
1916, in piena prima guerra mondiale, un corso di morale per la scuola
primaria, Durkheim applica la stessa strategia.'9 La scuola di domani deve
stabilire l'autorit morale, inculcando nel bambino la religione della regola,
36

insegnandogli la gioia di agire in armonia con gli altri, secondo una legge
impersonale comune a tutti";" la missione del socialismo di far risorgere una
nuova solidariet morale tra gli uomini. (pp. 22-25).

In realt lo scopo di Durkheim, sostiene Detienne, era quello di


mostrare che lofferta pi rozza contiene in s una forma
embrionale di moralit. Per Durkheim, come per gli antropologi
della sua epoca, e di quelle successive, non c frattura, ma
differenza di grado: questo senza dubbio un residuo
evoluzionistico, ma corrisponde allidea, interpretata poi altrimenti
dallantropologia, secondo cui il genere umano appartiene alla
stessa specie e il pensiero stesso, pur declinato diversamente a
seconda della storia culturale di ciascun gruppo, sempre
pensiero umano.
Ldea di abnegazione di s come culmine del sacrifico (storicamente
esemplificato dalla morte di Cristo) fa dunque capo, secondo
Detienne, alldea di Hubert e Mauss secondo cui la rinuncia fonda
la comunit morale. Il dono, il desiderio di donare, sono parte
fondante dellimpulso delluomo come essere eminentemente
sociale.
Secondo Detienne, pertanto, la teoria del sacrificio di Hubert e
Mauss (e di Durkheim) dipenderebbe (e quindi sarebbe inficiata)
dalladozione implicita di una prospettiva cristiana a ritroso.
In effetti il sacrificio del dio si presenta, secondo questi autori, come
un atto senza contropartita. Il passaggio dal dono inteso come
legame tra uomini e divinit appare definitivamente come
abnegazione e sacrificio di s allo stato puro. In questi autori la
prospettiva sul sacrificio dipendeva, vero, dalle loro inclinazioni
teoriche sociocentriche (lindividuo non esiste al di fuori della
societ). Probabilmente era anche influenzata, come dice Detienne,
dal loro cistianocentrismo (pur non essendo loro n praticanti, n,
nella maggior parte dei casi, cristiani, ma piuttosto con origini e
tradizioni ebraiche). La loro prospettiva dipendeva anche dalla loro
concezione politica. Erano infatti dei socialisti riformisti, e per loro
lindividuo non poteva che trovare la sua salvezza allinterno di
un corpo sociale per il quale egli doveva essere pronto a sacrificarsi.
Non era, la loro, unideologia totalitaria che poneva lo stato sopra
ogni altra cosa, era invece una concezione del corpo sociale formato
37

da individui responsabili e capaci di aderire volontariamente


allinteresse generale.31
Con lattivit sacrificale la collettivit acquista quel carattere buono, forte,
solenne, terribile che uno degli aspetti essenziali di ogni personalit sociale.
La patria, la propriet, il lavoro, la persona umana devono essere ascritte a
credito del sacrificio come fenomeno sociale. L'ascesi implicita in questa
istituzione permette all'uomo di scoprire in s un centro fisso: l'unit del volere,
di fronte al flusso molteplice e divergente delle pulsioni sensibili. Il dono, il
desiderio di donare, l'oblazione confermano questo orientamento. L'essere
umano si distacca, in una certa misura, dagli oggetti del desiderio immediato.
Dalle forme fondamentali del totemismo fino all'instaurazione del sacrificio
animale nelle religioni superiori, questo movimento si amplifica, fino a
raggiungere il culmine nell'immagine del dio che si sacrifica, figura suprema
che conferisce al sacrificio il suo vero significato e coniugala mitologia dei
misteri di Dioniso con l'esemplare spiritualit del mistero cristiano
dell'eucarestia (pp.25-26).

6. Il sacrificio: una nozione utile?


Dopo la critica di Detienne allidea di sacrificio come idea capace di
comprendere tutti i fatti etnologici normalmente designati come tali
(per effetto di unillusione simile a quella che ha tenuto per lungo
tempo in vita lillusione totemica) dobbiamo effettivamente
chiederci se pu avere ancora un senso parlare di sacrificio come di
una categoria di fatti sociali riconducibili ad un denominatore
comune. Valerio Valeri, in un lungo e dettagliato articolo dedicato
alletnografia della caccia e del sacrificio tra gli huaulu di Ceram
(Indonesia)32 respinge la proposta di Detienne sulla base di
considerazioni analoghe a quelle che lo inducono a ritenere che la
questione dellillusione totemica sia posta in maniera riduttiva33.
Al termine della sua vita Mauss (che mor nel 1950) sembra essersi pentito di questa visione
sacrificale della vita sociale, cos come sembr esprimere perplessit per alcuni aspetti della
sua opera (si pensi soprattutto gli studi sulla magia) che avevano toccato i lati oscuri del
comportamento e del pensiero umani. Mauss, discendente da una famiglia di rabbini, si
sottrasse alla persecuzione razziale messa in opera in Francia dai nazisti e dai collaborazionisti
francesi, a cui Mauss temeva di aver dato un indiretto aiuto nel coltivare i miti del sangue, del
sacrificio e della violenza.
32 Valeri, V., Wild Victims: Hunting as Sacrifice and Sacrifice as Hunting in Huaulu , 1994.
33 Lvi-Strauss, sostiene Valeri, ha sicuramente mostrato linconsistenza del termine cos come
questo era stato impiegato sino ad allora, ma la riduzione del totemismo a sistema
classificatorio dei gruppi umani attraverso le specie, e viceversa, elimina il problema del culto
31

38

Valeri propone infatti di adottare la prospettiva di Wittgenstein: i


riti chiamati sacrifici sono fenomeni che, pur avendo alcune
caratteristiche in comune, non le possiedono tutte allo stesso grado
contemporaneamente, al punto che alcuni di tali fenomeni possono
non avere elementi in comune ma essere in relazione attraverso le
caratteristiche che condividono con altri della stessa famiglia.34
Valeri ritiene pertanto che, sulla base di questa prospettiva, si possa
procedere ad una definizione di che cosa siano i riti chiamati
sacrifici sulla base di qualcosa che li accomuna. Si tratta di una
caratteristica non evidente: essa non enunciata dagli interessati, ma
resa manifesta da un atto che consiste nell esercitare ritualmente
(cio nel rispetto di un codice che si vuole sempre identico a s
stesso) una azione distruttiva di una vita o di rimozione dalla sfera
umana di un bene considerato prezioso (perch segno di vita) allo
scopo di procurare dei benefici. I benefici a cui mira il sacrificio
possono essere molto diversi di volta in volta, ma tutti hanno un
denominatore comune: mantenere e implementare la vita di colui
che ha promosso il rito e dei suoi ospiti (Valeri 1994: 105).
7. Il sacrificio come dono: due visioni e le loro interpretazioni
Tuttavia qui non ci interessa
meno di ritenere valida la
sacrificio. Pi interessante
cristianocentrismo attribuito

tanto la questione dellopportunit o


categoria antropologico-religiosa di
ci sembra invece, partendo dal
da Detienne e Hubert e Mauss,

che lega il totem alle unit sociali e oscura i processi di oggettificazione e di feticizzazione
attraverso cui animali, vegetali, o minerali, diventano totem (1994:102).
34 La nozione di somiglianza di famiglia coniata da Wittgenstein potrebbe essere illustrata
nella maniera seguente. Prendiamo il caso di tre rituali sacrificali (A, B, C) al cui interno
compaiono la dimensione dellofferta (p), del dono (q), della comunione con la divinit (r) e
della comunione tra i fedeli (s). I tratti non sono mai presenti contemporaneamente in nessuno
dei tre sacrifici. Cos:
A p q
B
q r
C
r s
A non ha nessuna delle caratteristiche di C, per ha qualcosa in comune con B che a sua volta
ha qualcosa in comune con C. A e C appartengono, secondo la teoria delle somiglianze di
famiglia di Wittgenstein, alla stessa famiglia. E quindi sono legittimamente definibili come
sacrifici.
39

prendere in considerazione la lettura cristiana del sacrificio nella


quale questultimo pressoch identificato con un dono (di s).
Lo stesso Mauss, daltronde, autore di un classico studio sul dono,
(il Saggio sul dono del 1923-24) nel quale egli si sforz di delucidare
quella che resta una sua intuizione fondamentale, cio la natura di
legame sociale (o, come qualcuno ha detto, di legante) dellatto del
donare.
Si potrebbe dire, a scopo di chiarezza, che abbiamo a che fare con
due grandi concezioni del dono. Una, quella che fa capo a Mauss, e
di cui parleremo pi oltre, che fa del dono un atto sociale di
primaria importanza. Unaltra, che si ispira pi direttamente alla
idea del dono come abnegazione, sacrificio di s, come totale
dedizione allaltro. E la concezione che del dono ha il cristianesimo
e che, come stato fatto osservare, condivisa da molte altre
religioni, specialmente quelle salvifiche (ind, buddista, giudaica,
musulmana).
Non che la teoria di Mauss sia del tutto esente dalla concezione
del dono come dono di s : infatti non solo nel saggio sul sacrificio
scritto con Hubert, ma anche nella parte finale del suo lavoro del
1923-24, Mauss parla ancora una volta del dono in chiave morale.
Tuttavia nella visione cristiana del dono, e in alcune interpretazioni
che filosofi hanno dato recentemente del dono, questultimo non
appare con le valenze sociologiche attribuitegli per la prima volta in
maniera esplicita da Mauss, ma resta un moto dello spirito. Il
filosofo francese Jacques Derrida, ad esempio, in alcuni lavori
recenti35 ha ridiscusso latto del dono attraverso una raffinata
ricognizione degli usi linguistici che noi facciamo di questa parola, e
ha parlato di impossibilit del dono, in quanto il dono sarebbe un
donare totale e disinteressato che, una volta percepito come dono
da colui che dona o da colui che riceve, lo fa cessare di essere un
dono, in quanto attiva immediatamente unidea di ritorno che
nega la idea di dono medesima. Secondo alcuni autori quello di
Derrida una sorta di idealismo intransigente che oscura la
portata sociologica dellatto del donare cos come stata messa in
luce da Mauss. Secondo tali autori (in particolare Alain Caill 36),
35
36

Derrida, J. Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002 , Donare il tempo, Cortina, Milano, 1996.
Caill, A. Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati, Torino 1998 (1994).
40

Derrida enfatizza il punto di fuga delle grandi religioni (p. 98)


almeno nel senso che tutte le grandi religioni si sono fatte
promotrici di una progressiva eliminazione degli aspetti
narcisistico-particolaristici del dono e dellamore (ibidem) e in
fondo, il cristianesimo potrebbe essere anche considerato come una
macchina logico-storico-pratica per assiomatizzare il dono
(ibidem). Ma con il suo idealismo intransigente Derrida finisce
per parlare di una cosa alquanto diversa da quella di cui parla
Mauss. Mauss parla del fenomeno del dono nella sua complessa
articolazione sociale e morale, mentre Derrida pretende di
restringere il tema a questultimo aspetto. Cos facendo, dice ad
esempio Caill, Derrida vorrebbe un dono depurato dal suo
proprio veleno, un gift senza gift (ibidem). Che cosa significhi
questultima affermazione di Caill appare evidente quando si
consideri che gift (in inglese moderno dono) voleva anche dire
veleno37. Mauss sostenne infatti che il termine gift era indicativo
del fatto che donando si metteva il donatario nella condizione di
sentirsi obbligato a restituire e quindi impegnarlo in uno scambio
che poteva anche non essere nel suo interesse.
8. Il dono come legame: M. Mauss
E invece la dimensione sociale del dono e la sua funzione di legante
che Mauss mise al centro del suo lavoro del 1923-24.
Utilizzando letnografia del tempo, specialmente i lavori di Franz
Boas sulle popolazioni della costa nord-ocidentale degli Stati Uniti e
del Canada, e quelli di Bronislaw Malinowski sulle popolazioni
delle Trobriand (Melanesia), Mauss mise in evidenza il carattere
socialmente pervasivo di atti apparentemente ascrivibili alla sfera
dello scambio e dellinteresse economico. Lo scopo di Mauss era di
mostrare come nelle societ da lui chiamate arcaiche le
transazioni implicassero lattivazione di pi livelli di significato,
religioso, rituale, politico, affettivo ecc. Mauss defin quindi le
gare di esibizione di beni attuate dai nativi americani, e lo
scambio dei trobriand, fatti sociali totali.
Questa capacit delle parole di designare due cose contrarie non rara. Il termine pharmacon
significa in greco rimedio ma anche veleno

37

41

Questo lavoro un frammento di studi pi vasti. Da anni, la nostra attenzione


concentrata, a un tempo, sul regime del diritto contrattuale e sul sistema delle
prestazioni economiche tra i diversi gruppi e sottogruppi, di cui si
compongono le societ dette primitive, nonch quelle che potremmo chiamare
arcaiche. Ci troviamo d fronte a un'enorme quantit di fatti, tutti molto
complessi, in cu si mescola tutto ci che costituisce la vita propriamente sociale
delle societ che hanno preceduto le nostre - fino a quelle della protostoria. In
questi fenomeni sociali totali , come noi proponiamo di chiamarli, trovano
espressione, a un tempo e di colpo, ogni specie di istituzioni: religiose,
giuridiche e morali - queste ultime politiche e familiari nello stesso tempo -,
nonch economiche, con le forme particolari della produzione e del consumo, o
piuttosto della prestazione e della distribuzione che esse presuppongono; senza
contare i fenomeni estetici ai quali mettono capo questi fatti e i fenomeni
morfologici che queste istituzioni rivelano.
Di tutti questi argomenti molto complessi e di questa molteplicit di cose
sociali in movimento, intendiamo considerare qui solo uno dei tratti, profondo
ma isolato: il carattere volontario, per cos dire, apparentemente libero e
gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni. Esse hanno
rivestito quasi sempre la
forma del dono, del regalo offerto generosamente, anche quando nel gesto che
accompagna la transazione, non c' che finzione, formalismo e menzogna
sociale e, al fondo, obbligo e interesse economico. Pur indicando con precisione
tutti i diversi principi che hanno conferito questo aspetto a una forma
necessaria dello scambio - cio a dire della stessa divisione del lavoro sociale di tutti questi principi, ne studieremo a fondo uno solo. Qual la norma di diritto
e di interesse che, nelle societ di tipo arretrato o arcaico, fa s che il donativo ricevuto
sia obbligatoriamente ricambiato? Quale lorza contenuta nella cosa donata fa s che il
donatario la ricambi? Ecco il problema sul quale ci fermeremo in modo pi
particolare, pur accennando agli altri. Ci ripromettiamo di dare, per un numero
abbastanza grande di fatti, una risposta a queste domande precise e di mostrare
in quale direzione sia possibile intraprendere tutto uno studio delle questioni
connesse. Si vedr anche a quali problemi nuovi verremo introdotti: gli uni,
riguardanti una forma permanente della morale contrattuale, e cio il modo in
cui il diritto reale resta ancora ai nostri giorni legato al diritto personale; gli
altri, concernenti le forme e le idee che hanno sempre presieduto, quanto meno
parzialmente, allo scambio e che, ancora oggi, suppliscono in parte alla nozione
di interesse individuale. (pp. 5-6)

Allinizio del suo lavoro Mauss accenna al fatto che attraverso un


lungo tragitto che il dono, dalle forme agonistiche iniziali
riscontrabili ancora oggi tra i nativi nordamericani si trasformato
via via con il tempo in forme pi complesse di transazione e che
42

esso ha finito, in fondo, per tramutarsi in un problema di morale


sociale (alludendo alla questione del dono disinteressato e dell
abnegazione evocati chiaramente nel Saggio sul sacrificio):
Raggiungeremo, cos, un duplice scopo. Perverremo, cio, a conclusioni, per
cos dire archeologiche, sulla natura delle transazioni umane nelle societ che ci
circondano o che ci hanno immediatamente preceduto. Descriveremo i
fenomeni riguardanti lo scambio e il contratto in tali societ che non sono prive
di mercati economici, come si preteso di sostenere - il mercato, infatti, un
fenomeno umano che, secondo noi, presente in ogni societ conosciuta -, ma il
cui regime di scambio diverso dal nostro
Vedremo agire in queste transazioni la morale e l'economia. E poich
constateremo che la morale e l'economia operano ancora nelle nostre societ in
modo costante e, per cos dire, soggiacente, e poich crediamo di avere trovato
qui uno dei capisaldi su sono costruite le nostre societ, potremo dedurne
alcune conclusioni morali su taluni problemi posti dalla crisi del nostro diritto e
da quella della nostra economia, e ci fermeremo a questo punto.
Questa pagina di storia sociale, di sociologia teorica, di conclusioni di morale,
di pratica politica ed economica, ci induce, in fondo, a porre una volta di pi,
sotto forme nuove, vecchi ma sempre nuovi problemi (pp. 6-7).

Lanalisi del dono condotta da Mauss si articola, come abbiamo


detto, sulletnografia del tempo. Molti spunti provengono a Mauss,
oltre che da Boas e Malinowski, anche da etnografi tedeschi e
olandesi impegnati in ricerche in Oceania. Il caso chiave di tutto
il Saggio sul dono costituito tuttavia dallinterpretazione maori
dello scambio (Nuova Zelanda), sui quali Mauss edifica la sua teoria
del dono come complesso di atti consistente nel dare-riceverericambiare.
Tre erano le regole che, per Mauss, sottostavano al fenomeno del
dono in quanto fatto sociale (e non come moto dello spirito), e
cio dare, ricevere e ricambiare: era attraverso questo complesso di
regole che si strutturava il principio della reciprocit. Mauss
riconduceva tale principio e il suo carattere obbligatorio, ad una
qualit intrinseca agli oggetti scambiati, una qualit che li
assimilava alla persona che li aveva posseduti e che rimaneva in essi
anche dopo il loro passaggio nelle mani di un'altra. Era la credenza
nell'esistenza di tale qualit, e nell'azione esercitata da
questultima, a mettere in moto il sistema delle prestazioni
reciproche, poich la mancata restituzione degli oggetti donati
43

avrebbe prodotto l'interruzione dello scambio, la quale si sarebbe


tradotta a sua volta in un danno per il trasgressore della regola. La
qualit presente nella cosa era infatti suscettibile di vendicarsi
sul trasgressore in quanto forza appartenente al possessore
originario della cosa donata, la forza magica di colui che laveva
ceduta.
In questa sua interpretazione Mauss fu profondamente influenzato
dalla lettura delletnografia polinesiana e della teoria dello hau
esposta da un informatore maori alletnografo E. Best che scrive:
Vi parler dello hau... Lo hau non il vento che soffia.Niente affatto. Supponete
di possedere un oggetto determinato (taonga) e di darmi questo oggetto; voi me
lo date senza un prezzo gi fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo.
Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide
di dare in cambio qualcosa come pagamento; essa mi fa dono di qualcosa
(taonga). Ora, questo taonga che essa mi d lo spirito (hau) del taonga che ho
ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taonga da me ricevuti in cambio dei taonga
(pervenutimi da voi), necessario che io ve li renda. Non sarebbe giusto da
parte mia conservare per me questi taonga, siano essi gradito o sgraditi. Io sono
obbligato a darveli, perch sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se
conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio,
perfino la morte. Questo lo hau, lo hau della propriet personale, lo hau dei
taonga, lo hau della foresta. Kati ena, basta su questo argomento (pp. 17-18)

La trattazione della teoria del dono si muove quindi attorno a tre


punti fondamentali: lidea di prestazione totale; la teoria (maori)
dello spirito della cosa donata; lobbligo di donare e di ricevere (e di
ricambiare). A questi tre punti se ne deve aggiungere un quarto,
ci che Mauss chiama il dono fatto agli uomini e quello fatto agli
di, che poi quello che pi ci interessa direttamente per il nostro
argomento38. Scrive Mauss:
Secondo Lvi-Strauss, che svilupper in maniera originale alcune intuizioni di Mauss relative
al carattere obbligatorio del dare, ricevere e ricambiare, ossia al principio di reciprocit, il fatto
di aver assunt, come ha fatto Mauss, una teoria indigena come spiegazione del fenomeno
rappresentava un grande progresso, poich affrontava un problema etnografico prendendo
le mosse da una teoria neozelandese o melanesiana piuttosto che servendosi di nozioni
occidentali come l'animismo, il mito o la partecipazione (Lvi-Strauss 1965: XLIII). Tuttavia,
proseguiva Lvi-Strauss, laver assunto una teoria indigena quale quella dello hau come
spiegazione del fenomeno, costituiva anche un limite. Lo hau dice infatti Lvi Strauss - non
costituisce la ragione ultima dello scambio: esso la forma cosciente sotto la quale uomini di
una societ determinata... hanno colto una necessit... la cui ragione altrove, dove con questo

38

44

L'evoluzione era naturale. Uno dei primi gruppi di esseri, con cui gli uomini
hanno dovuto contrattare e che, per definizione, aveva proprio questa
funzione, era costituito, prima di tutto, dagli spiriti dei morti e dagli dei. Infatti,
sono loro i veri proprietari delle cose e dei beni del mondo e con loro, perci,
era pi necessario operare degli scambi e pi pericoloso non farli.
Inversamente, proprio con loro era pi facile e pi sicuro effettuare degli
scambi. Lo scopo preciso della distruzione sacrificale quello di essere una
donazione che va necessariamente ricambiata. Tutte le forme di potlc del
Nord-ovest americano e del Nord-est asiatico conoscono il tema della
distruzione'. Si uccidono schiavi, si bruciano oli preziosi, si buttano oggetti di
rame in mare, si applica il fuoco a case principesche, non solo per date una
manifestazione di potenza, di ricchezza e di disinteresse, ma anche per
sacrificare agli spiriti e agli dei, confusi in realt con le loro incarnazioni
viventi, i portatori dei loro titoli, i loro alleati iniziati.
Ma appare gi un altro tema, che non ha pi bisogno di questo sostegno umano
e che pu essere antico come lo stesso potlc: tale tema si identifica con la
credenza che sia necessario acquistare dagli dei e che gli dei siano in grado di
pagare il prezzo degli oggetti. Forse in nessun luogo, una simile idea si esprime
in maniera pi tipica che presso i Toradja delle Clbes. Kruyt ci dice che il
proprietario deve " acquistare " dagli spiriti il diritto di compiere certi atti sulla
" sua ", in realt sulla " loro" propriet . Prima di tagliare il proprio bosco,
prima perfino di raschiare la propria terra, prima di piantare il palo della
propria casa, bisogna pagare gli dei. Cos, mentre la nozione di acquisto
appare assai poco sviluppata tra le consuetudini civili e commerciali dei
Toradja, quella di acquisto dagli spiriti e dagli dei , al contrario, costante (pp.
26-27).

Ma i doni hanno anche lo scopo di procurare la pace:


Van Ossenbruggen, che non solo un teorico, ma anche un osservatore
insigne e che vive sul posto, ha individuato un altro tratto di queste istituzioni.
I doni, fatti agli uomini e agli dei, hanno anche lo scopo di procurare la pace
con gli uni e con gli altri. In tal modo vengono allontanati gli spiriti malvagi, e
pi in generale le influenze nefaste, anche se non personalizzate: la
maledizione di un uomo permette, infatti, agli spiriti gelosi di penetrare in voi,
di uccidervi, alle influenze nefaste di agire, e le colpe verso gli uomini rendono
il colpevole debole di fronte agli spiriti e alle cose sinistre.
E chiaro come si possa iniziare, a questo punto, una teoria e una storia del
sacrificio-contratto, il quale presuppone istituzioni del tipo di quelle che stiamo

altrove Lvi-Strauss allude a quei principi inconsci che, a suo parere, sarebbero alla base del
principio di reciprocit (le strutture mentali inconsce).
45

descrivendo e, inversamente, le realizza al massimo grado poich proprio


degli di, che donano e ricambiano ci che hanno ricevuto, dare una cosa
grande in cambio di una piccola..
Non forse per un puro caso che le due formule solenni del contratto: in latino
do ut des, e in sanscrito dadami se, dehi me, siano state conservate anche da testi
religiosi. (pp. 27-28)

Ci che attira lattenzione, in questo brano, losservazione secondo


la quale i doni hanno lo scopo di procurare la pace, non solo tra
esseri umani, ma anche tra uomini e divinit. La pace per che cosa?
In che senso si pu parlare di una pace tra umani e divinit che
stata compromessa o che deve essere sempre ribadita o
procurata?
Il fatto che, come risulta dalletnografia citata da Mauss, ma come
sappiamo anche da quanto avveniva nelle societ arcaiche (e molto
probabilmente avviene oggi seppure sotto altre sembianze
sacrificali), colui che si rendeva colpevole verso gli uomini
legava il gruppo agli di mediante un vincolo che doveva
essere sciolto. E questo legame (percepito evidentemente come
negativo) poteva essere sciolto solo mediante un dono, un sacrificio.
Il sacrificio del colpevole (lhomo sacer dei latini) scioglieva la
comunit dalla divinit e restituiva la pace alla comunit.
La dimensione della colpa, che tutte le societ conoscono, assume
forme diverse a seconda del significato culturale specifico che
ogni societ le attribuisce. In molti casi essa pu essere fatta risalire,
come avviene nella tradizione giudaico-cristiana, ad una
mancanza originaria, mitologicamente corrispondente a tutte
quelle mancanze che ogni cultura, indistintamente, pone
allorigine della condizione umana (v. ad es. il mito dinka descritto
da Geertz in La religione come sistema culturale). La scienza
occidentale, e specialmente la filosofia e lantropologia, hanno
cercato di spiegare, nei loro propri termini, ci che il pensiero non
scientifico (religioso) ha rappresentato per millenni, e in tutte le
culture, come un evento originario: la separazione delluomo dal
mondo divino. La spiegazione scientifica e filosofica di questa
sensazione avvertita dallessere umano sarebbe invece che questi
in qualche modo consapevole della propria incompletezza.
Lessere umano sarebbe cio inconsapevolmente consapevole che
46

senza laiuto di modelli culturali egli sarebbe funzionalmente


incompleto [. ] una specie di mostro informe senza meta n
capacit di autocontrollo, un caos di impulsi spasmodici e di vaghe
emozioni (Geertz, La religione ecc. pp. 125-26).
Se questa idea di incompletezza pu essere declinata in maniera
diversa a seconda delle circostanze culturali e storiche specifiche,
nel cristianesimo che si fonde con lidea di colpa originaria. Col
cristianesimo, ma sicuramente anche in altre religioni, il mito, da
descrittivo, diventa infatti omiletico, nel senso che da quella che era
una pura forma descrittiva della condizione umana prima che
fossimo costretti a vivere da esseri umani (siamo costretti a
vivere da esseri umani, non ci posiamo fare niente e se vogliamo
sapere come mai, perch un giorno abbiamo offeso dio, abbiamo
fatto uno sgarro allo spirito della foresta ecc.) si passa adesso a un
giudizio di tipo morale. Se la nostra colpa originaria, essa
connaturata allessere umano. Come potremo redimerci? Chi ci
redimer? Chi potr restituirci a quella condizione di unit
originaria con la divinit dalla quale ci siamo separati per una nostra
colpa? Il cristianesimo su questo punto chiaro. Il sacrificio di Cristo
ci ha redenti, ma ci ha redenti solo come pura possibilit, dal
momento che il libero arbitrio lascia sempre allindividuo la
facolt di decidere se commettere o no atti colpevoli (peccati).
Come si spiegherebbe, altrimenti, la presenza del male del mondo
anche dopo il sacrificio redentore di Cristo, lultimo dei sacrifici?
9. Una teoria locale del sacrificio: il tradizionalismo cattolico di
J. de Maistre
Siamo cos definitivamente giunti al cuore della problematica
cristiana del sacrificio. Per approfondire il discorso in questa
direzione (assai complesso vista la sterminata massa di testi
teologici che ne hanno trattato), e in relazione al tema del dono e del
debito, si scelto di privilegiare alcuni testi di un cristiano, non
teologo, e fortemente influenzato dal pensiero tradizionalista
cattolico, Joseph de Maistre (1753-1821). De Maistre, uomo di lettere
e diplomatico savoiardo, fu una delle espressioni pi acute
dellanti-illuminismo europeo, tradizionalista e papista convinto. Fu
47

anche uno dei principali teorici del degenerazionismo, cio dellidea


che luomo, dato il suo stato di angelo caduto poteva elevarsi
spiritualmente sono tramite la rivelazione: i popoli che non avevano
conosciuto la parola di Cristo erano pertanto nelle tenebre, e
lesempio supremo di questo stato di colpevole maledizione era per
lui costituito dai selvaggi (quegli stessi selvaggi che proprio in
quegli anni i membri della Socit des observateurs de lhomme
consideravano i nostri fratelli dispersi presso gli ultimi confini
dellUniverso). Non a caso nemico di J.-J.-Rousseau ( luomo
nasce buono e la societ lo corrompe), de Maistre vede
nelluomo un essere colpevole che fin dagli stadi pi primitivi della
sua storia ha intuito questa indubitabile verit e che, per porvi
rimedio, ha escogitato una serie di atti miranti a redimerlo da
questa condizione di degrado: i sacrifici.
Nonostante le sue posizioni certamente non progressiste, de
Maistre fu per un razionalista, non un irrazionalista.
Lilluminismo, stato detto, penetr in lui come in molte altre
figure di suoi contemporanei che pure non si mostrarono favorevoli
ai lumi, portatori della rivoluzione, dellateismo, e del regime
repubblicano. Il destino della sua opera fu quello di alimentare,
come ha osservato Isaiah Berlin, le dottrine fasciste dellesaltazione
della violenza e del sangue, ma questa fu lutilizzazione che la
modernit ha fatto delle sue concezioni circa la natura umana (per
questo, bench ferocemente antimoderno, de Maistre stato detto,
fu in realt un pensatore moderno perch preannunci alcuni
temi del XX secolo).
De Maistre fu un grande scrittore e, nonostante la fosca visione
delluomo e del suo destino (il che contrasta con quella che
dovrebbe essere invece, in un cristiano, un messaggio di speranza)
anche un autore ironico. Egli fu quasi sempre asistematico nella sua
opera, ma al tema del sacrifico dedic, oltre che pagine importanti
della sua opera pi nota, Le serate di San Pietroburgo (apparso
postumo proprio lanno della sua morte, il 1821)39, un breve, ma
dotto scritto del 1810, Chiarimento sui sacrifici.40 Coniugando le
pagine de Le serate di San Pietroburgo (dora in poi SSP) con quelle di
39
40

Le serate di Pietroburgo, Risconi, Milano 1971.


Chiarimento sui sacrifici, Biblioteca dellimmagine, Pordenone, 1993.
48

Chiarimento sui sacrifici (dora in poi CSS) cercheremo di esplorare


ci che si presenta come una vera e propria teoria locale del sacrificio,
quella di un tradizionalista cristiano cattolico (un caso etnografico
in mezzo agli altri).
Il male e la guerra
De Maistre parte dalla constatazione del male nella storia. Male e
sofferenza nella vita e nel mondo intero sono la prova della caduta
delluomo. La guerra e lo spargimento di sangue, proprio perch
dati contrari alla ragione, sembrano folli e inesplicabili. De
Maistre non un apologeta della guerra, ma lega linevitabilit di
essa allo stato decaduto delluomo: la guerra, dice divina e
demoniaca al tempo stesso proprio coma la rivoluzione (quella
francese e pi in generale le rivoluzioni che sovvertono la
morarchia per diritto divino). Dio non vuole la guerra ma la
permette. Perch? Perch le sue radici sono nelluomo e in un atto
di divisione inspiegabile (razionalmente). Non si tratta di spiegare
la possibilit della guerra, come e quando cio essa si produca, ma
piuttosto si tratta di spiegarne la facilit (SSP p. 377). Di fronte alla
guerra la ragione si trova in scacco. Volendola spiegare accentua la
scissione delluomo che, pi se la spiega, e pi gli appare assurda.
Essa vorrebbe cos guidarla da un lato e dallaltro farla cessare a suo
piacimento. Si consideri, dice de Maistre, il culto irrazionale
tributato al soldato che ha il diritto di versare innocentemente il
sangue innocente Per de Maistre si pu fare solo una
fenomenologia della guerra, non spiegarla. De Maistre osserva
che di solito chi fa la guerra diventa pi coraggioso, pi capace di
abnegazione, pi capace di obbedire e- fenomeno inspiegabile pi
religioso. Di fronte a queste aporie de Maistre ricorre, poco
razionalisticamente, al termine mistero. Se la scissione delluomo
rende comprendibile la guerra e ne mostra le manifestazioni, non
ne spiega lessenza (divina e diabolica), che de Maistre individua in a
forza superiore e misteriosa, una legge del mondo come lui la
chiama. Legge che, sebbene apparentemente lontana dallo spirito
della religione, manifesta la presenza di Dio (non a caso nella
Bibbia si parla del Dio degli eserciti). De Maistre cita Jean Baptiste
49

Rousseau, uno scrittore conservatore di poco antecedente, che scrive


E la collera dei re che muove larmi sulla terra, la collera del
cielo che d larmi in man ai re (SSP, p. 395).
Luomo infatti trascinato verso labisso della distruzione, dove la
guerra appare innanzitutto come la prosecuzione di una legge del
mondo, ma soprattutto come una immensa espiazione del peccato
conseguente alla degradazione e alla colpa:
Vorrei farvi osservare inoltre che la terribile e della guerra non che un
capitolo della legge generale che pesa sull'universo. Nel vasto campo della
natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata
arma tutti gli esseri in mutua funera; appena oltrepassate le soglie del regno
dell'insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritto sui
confini stessi della vita. Gi nel regno vegetale si comincia ad avvertire la
presenza di questa legge: dall'immensa catalpa [una pianta carnivora] all'umile
graminacea, quanti sono le piante che muoiono e quante quelle che sono uccise?
Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa
evidenza. Una forza, nello stesso tempo nascosta e palpabile, si rivela
continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della
vita.. Non vi un solo istante in cui un essere vivente non sia divorato da un
altro. Al di sopra di queste numerose razze animali posto l'uomo, la cui mano
distruttrice non risparmia alcun essere vivente; egli uccide per nutrirsi, uccide
per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi,
uccide per istruirsi, uccide per uccidere: re superbo e terribile, ha bisogno di
tutto, e nulla gli resisteL'uomo domanda tutto in una volta: allagnello i
visceri per far risuonare un'arpa, alla balena fanoni per sostenere il corsetto
della giovane vergine, al lupo i denti micidiali per rifinire le opere le pi
delicate, all'elefante le sue difese per costruire il giocattolo di un bambino: le
sue tavole coperte di cadaveri. Il filosofo pu anche scoprire come il massacro
permanente sia previsto e ordinato nel grande tutto. Ma questa legge si
arrester di fronte all'uomo? Senza dubbio no. Quale essere sterminer allora
colui che tutti stermina? Egli stesso. E l'uomo incaricato di sgozzare l'uomo.
Ma come potr ubbidire a questa legge, lui che un essere morale e
misericordioso, lui nato per amare, lui che piange sugli altri come su se stesso,
che nel pianto ha conforto e inventa anche finzioni pur di piangere; lui infine al
quale stato detto che dovr rendere conto di tutto il sangue che avr versato
ingiustamente ? Con la guerra. Non sentite la terra grida e invoca sangue? Non
le basta il sangue degli animali e neppure quello dei colpevoli versato dalla
spada delle leggi. Se la giustizia umana uccise tutti i rei, non vi sarebbe guerra;
ma essa non raggiungerebbe che un numero limitato e spesso li risparmia
senza pensare tuttavia che la sua feroce umanit contribuisce a rendere
necessaria la guerra, soprattutto se nello stesso tempo un'altra cecit, non meno
50

stupida e funesta, lavora a spegnere lespiazione nel mondo. La terra non ha


gridato invano: la guerra divampa. L'uomo, colto all'improvviso da un furore
divino, estraneo all'odio e alla collera, avanza sul campo di battaglia senza
sapere quel che vuole nemmeno quel che fa. Che cos' dunque questo terribile
enigma? Niente pi contrario alla sua umanit e nulla gli ripugna di meno:
compie con entusiasmo atti che lo fanno inorridire. Non avete notato che sul
campo di morte l'uomo non disobbedisce mai? .Niente resiste, niente pu
resistere alla forza che trascina luomo al combattimento; omicida innocente,
strumento passivo di una mano terribile, si tuffa nellabisso che egli stesso ha
scavato: d e riceve la morte senza sospettare di averla creata egli stesso .
Cos si attua perennemente la grande legge della distruzione violenta degli
esseri viventi, dall'animaletto quasi invisibile fino all'uomo. La stessa terra
sempre intrisa di sangue non che un immenso altare sul quale tutto ci che
vive deve essere immolato all'infinito, senza misura, senza tregua, fino alla
consumazione delle cose, fino all'estinzione del male fino alla morte della
morte (SSP 395-97).

La guerra rimanda, in de Maistre, al fine superiore della


riconciliazione attraverso il sacrificio e si mostra quindi come un
supremo momento di giustizia, il che ne illumina e chiarisce tante
apparenti antinomie pur aprendoun altro gravissimo
problema41: la morte degli innocenti che espiano per i colpevoli, un
tema questo che tratteremo poco pi avanti. La guerra, intanto,
una legge contro cui luomo non solo nulla pu, ma qualcosa
che egli stesso vuole:
Ma l'anatema deve colpire l'uomo in modo pili diretto e visibile; l'angelo
sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo e non lascia
respirare una nazione se non per colpirne altre. Ma quando i crimini, e
soprattutto quelli di un certo re, si sono accumulati su un punto segnato,
langelo accelera oltre ogni limite il suo infaticabile volo. L'immensa velocit
del suo movimento lo rende presente nello stesso tempo in ogni punto della
sua temibile orbita, simile a una torcia ardente che ruota rapidamente; egli
colpisce nello stesso istante tutti i popoli della terra. Altre volte, ministro di una
vendetta precisa e infallibile, si accanisce su alcune nazioni e le bagna nel
sangue. Non illudetevi che queste tentino qualcosa per sfuggire o rendere pi
mite la sentenza. Pare quasi di vedere queste grandi colpevoli rischiarate dalla
luce della loro coscienza che chiedono il supplizio e l'accettano per trovare
espiazione! Fino a quando rester loro una goccia di sangue, verranno ad
offrirla; e dopo qualche tempo una rara giovent si far raccontare le guerre

41

Ravera, M., Joseph De Maistre pensatore dellorigine, Mursia, Milano 1986, p. 100.
51

devastatrici nate dai delitti commessi dai padri. La guerra dunque divina in
se stessa, poich una legge del mondo (SSP pp. 398-99).

Perch espiare attraverso il sangue? Non c n compiacimento n


sadismo nelle pagine di de Maistre, ma piuttosto una concezione
che il frutto di una visione tragica non solo del dolore e della
sofferenza, ma anche del valore dellautoimmolazione di Cristo.
Insomma, la guerra non si esaurisce nella violenza ma adopera
questultima per riscattare luomo dalla colpa. Questa visione del
male come riconciliatore, come rigeneratore dellunit e del mondo
per de Maistre il prodotto delluomo, non di Dio (di qui la ripresa
irrazionalista e fascisteggiante della guerra come cura ai mali del
mondo sviluppata in alcuni ambienti tra la fine dellOttocento e la
prima met del XX secolo).
Il sacrificio e la reversibilit
Il gravissimo problema di cui si diceva poche righe pi sopra
che il sacrificio, una cerimonia che la ragione non indica e che il
sentimento respinge, dice de Maistre, e che non pu essere
spiegato chiamando in causa la superstizione e il pregiudizio dal
momento che non mai potuto esistere un errore universale
costante, s un momento di riconciliazione, ma esso implica la
morte di un essere innocente che paga per il colpevole: questa
lidea di reversibilit delle colpe (che de Maistre considera essere un
dogma, una verit certa, assoluta e indiscutibile). Le colpe di chi
fa del male sono espiate dagli innocenti (piove sul giusto e
sullingiusto, ma lingiusto ha lombrello del giusto). Il male nel
mondo si presenta quindi come qualcosa che colpisce chiunque,
giusti e ingiusti, innocenti e colpevoli. Tuttavia, se cos, perch
nessuno veramente innocente, nemmeno gli innocenti. Luomo
porta infatti su di s il marchio della colpa, del peccato (questidea
poi estesa a tutti gli esseri sacrificabili).
De Maistre mette in luce luniversalit del sacrificio espiatorio, la
riparazione di una colpa che gli uomini hanno sempre avvertito
come tale. Essi agiscono cos per allontanare la collera divina, non
perch la divinit sia sanguinaria. Infatti egli scrive allinizio di CSS:
52

Non adotto di certo l'empio assioma: Il timore, nel mondo, origin gli dei.
Mi piace notare invece che gli uomini, dando a Dio nomi che esprimono la
grandezza, il potere e la bont, chiamandolo Signore, Maestro, Padre
ecc., hanno sufficientemente dimostrato che l'idea della divinit non pu essere
figlia del timore. Possiamo osservare inoltre che la musica, la poesia e la danza,
in una parola tutte le arti piacevoli, erano chiamate a contribuire alle cerimonie
del culto; e che l'idea d'allegria si fuse sempre cos intimamente a quella di
festa, che quest'ultima parola divenne ovunque sinonimo della prima.
Lungi da me, d'altronde, credere che l'idea di Dio sia sorta in un certo momento
per il genere umano, cio che possa essere meno antica dell'uomo.
Bisogna tuttavia riconoscere, una volta salvaguardata l'ortodossia, che la storia
ci mostra in ogni epoca l'uomo consapevole di questa terribile verit: egli vive
sotto la mano d'una potenza sdegnata, e questa potenza pu essere appagata solo con
sacrifici.
Non certo facile, a prima vista, conciliare idee in apparenza cos
contraddittorie; ma, se riflettiamo attentamente, comprendiamo benissimo
come si conciliano, e perch il sentimento del terrore sia sempre esistito accanto
a quello della gioia, senza che luno abbia potuto mai annientare l'altro.
Gli dei sono buoni, e dobbiamo loro tutti i beni di cui godiamo: dobbiamo loro
la lode e l'azione di grazia. Ma gli dei sono giusti, e noi siamo colpevoli:
bisogna placarli, bisogna espiare i nostri crimini; e, per riuscirci, il mezzo pi
potente il sacrificio (CSS p. 5).

Qui de Maistre si oppone ai temi classici del razionalismo e


dellilluminismo sei-settecentesco circa le teorie sullorigine della
religione, per esempio quella di matrice razionalista e illuminista
sei-settecentesca secondo cui gli di sarebbero il prodotto della
paura di fronte allignoto, con tutto ci che ne consegue (Dio
anteriore alluomo).
La consapevolezza di vivere sotto la mano di una potenza sdegnata
spinge dunque luomo a placare tale potenza con dei sacrifici. Dio
non chiede sacrifici, ma gli uomini colpevoli non possono che
rappacificarsi con lui se non mediante tali atti sanguinari. Tanto la
consapevolezza della propria colpevolezza, quanto il tipo di
risposta (i sacrifici) sono universali. Infatti, egli scrive:
Tale fu la credenza antica, e tale ancora, sotto varie forme, quella di tutto
l'universo. Gli uomini primitivi, da cui l'intero genere umano ricevette le idee
fondamentali, si credettero colpevoli: tutte istituzioni generali furono fondate
su questo dogma, di modo che gli uomini di ogni secolo non hanno smesso di
ammettere la degradazione primitiva e universale, e di dire come noi, sebbene
53

in maniera meno esplicita: le nostre madri ci hanno concepiti nel peccato; giacch
non c' dogma cristiano che non abbia la radice nellintima natura e in una
tradizione antica quanto il genere umano (CSS p. 6).

Nessuna religione dunque interamente falsa, nel senso che luomo


ha avvertito, seppure obnubilato dalla sua mente primitiva e
degenerata, alcune verit fondamentali che solo il cristianesimo ha
rivelato nella loro piena verit.
Lettore delle opere dellallora nascente egittologia, de Maistre
chiama a testimoni del suo argomento gli Egizi:
Qualunque posizione si prenda sulla duplicit dell'uomo, la maledizione
pronunciata da tutto l'universo cade sempre sulla potenza animale, sulla vita, e
sull'anima (giacch tutte queste parole significano la stessa cosa nel linguaggio
antico). 1 Lanima il principio vitale, non lo spirito che si eleva nella sua
invividualit, sopra la vita materiale.
Gli Egiziani, che la sapienza dell'antichit proclam i soli depositari dei segreti
divini , erano persuasi di questa verit, e ogni giorno ne rinnovavano la
pubblica professione; giacch, quando imbalsamavano i corpi, dopo aver lavato
nel vino di palma gli intestini, le parti molli e, in una parola, tutti gli organi
delle funzioni animali, li mettevano in una specie di cassa che alzavano al cielo,
e uno degli operatori pronunciava questa preghiera in nome del morto: Sole,
sovrano padrone al quale devo la vita, degnati di ricevermi presso di te. Ho
praticato fedelmente il culto dei miei padri; ho sempre onorato coloro ai quali
devo questo corpo; mai ho negato un prestito; mai ho ucciso. Sebo commesso altri
errori, non ho agito per colpa mia, ma per colpa di queste cose.
E subito si gettavano queste cose nel fiume, come causa di tutti gli errori che
l'uomo aveva commesso, dopo di che si procedeva all'imbalsamazione.
Ora, sicuro. che, in. questa cerimonia gl Egiziani possono essere ritenuti
come i veri precursori la rivelazione che ha detto anatema alla carne, che l'ha
dichiarata nemica dell'intelligenza, cio di Dio, e che ci ha detto espressamente
che tutti coloro che sono nati dal sangue o dalla volont della carne non
diventeranno mai figli di Dio.
Essendo dunque l'uomo colpevole per il suo principio sensibile, per la sua carne e
per la sua vita, l'anatema cadeva sul sangue; poich il sangue era il principio
della vita, o piuttosto il sangue era la vita (CSS p.10).

Lanatema della carne ricadeva dunque sul sangue in quanto


elemento vitale.
Questo spiega perch il cielo irritato contro la carne poteva essere
appagato solo dal sangue delle vittime sacrificate.
54

Riguardo ai sacrifici umani de Maistre molto sicuro della propria


spiegazione: questo errore spaventevole, come lui li chiama,
nacque dallaccostamento di due fattori: il principio di sostituzione
e lidea di una importanza proporzionata delle vittime. Dato il
dogma della reversibilit42, per cui la vita colpevole comunque,
una vita meno preziosa poteva essere data per una pi preziosa
(sostituzione). Cos al posto di un essere umano poteva essere
messo un altro, soprattutto quando la comunit era in pericolo e
correva il rischio di essere annientata. Citando Cesare (De bello
gallico) a proposito dei Galli, presso i quali il supplizio dei
colpevoli era estremamente gradito alla divinit, de Maistre
sembra anticipare Mauss sebbene egli non pensi, come invece
pensava questultimo con tutti i suoi colleghi, che la divinit fosse
innanzitutto la garante dellunit politica e sociale della comunit.
Per de Maistre, proprio come per Mauss, ogni delitto commesso
allinterno della comunit legava questultima, dove il colpevole
risultava sacro e votato agli di fino a quando, versato il suo
sangue [o quello di una vittima sostitutiva], questi avesse slegato se
stesso e la nazione.
Il paganesimo, inteso come comprendente tutte le forme di religioni
anteriori allebraismo e al cristianesimo, appare a de Maistre come
portatore di mille sprazzi di verit primordiali ma imperfette.
Siamo qui di fronte ad una lettura retroattiva e retrospettiva della
storia religiosa con al centro il sacrificio43. Anche qui il sacrificio
diventa una specie di operatore concettuale che consente di
leggere il carattere unitario delle forme religiose, sebbene con
intenti molto diversi da quelli che animavano la scuola di
Una volta riconosciuto che la vitalit del sangue, o meglio l'identit del sangue e della vita,
un fatto di cui l'antichit non dubitava per nulla, e che stato riconosciuto di nuovo al giorni
nostri, bisogna ammettere che anche un'opinione antica quanto il mondo che il cielo irritato
contro la carne e il sangue poteva essere appagato solo dal sangue; e nessuna nazione ha
dubitato che ci fosse nello spargimento del sangue una virt espiatoria! Ora, n la ragione n la
follia hanno potuto inventare questa idea, e ancor meno farla adottare da tutti. Essa si radica
nelle estreme profondit della natura umana, e la storia, su questo punto, non presenta una sola
dissonanza in tutto l'universo. La teoria intera riposava sul dogma della reversibilit. Si credeva
(come si creduto e come si creder sempre) che l'innocente potesse pagare per il colpevole; perci
si concludeva, dal momento che la vita colpevole, che una vita meno preziosa potesse essere
offerta e accettata per un'altra. Si offri dunque il sangue degli animali; e questa anima, offerta
per un'anima, fu chiamata dagli antichi antipsychon . come se si dicesse anima per anima o
anima sostituita (CSS pp. 11-12).
43 La teoria di Detienne, se valida, dovrebbe essere quindi estesa a de Maistre.
42

55

Durkheim: piuttosto che vedere nelle forme sacrificali una


continuit progressiva dellidea di abnegazione, per cui
laustraliano fratello del moderno europeo ideale che si
sacrifica per la societ, il sacrificio la spia universale di una colpa
comune diversamente avvertita, una idea innata (come altre) che
segna il destino tragico delluomo.
Come ha scritto uno studioso di de Maistre,
Il sacrificio di Cristo illustra, riassume e completa l'intera storia delle religioni
- ch' poi per Maistre storia della religione mostrando come, nel suo insieme,
essa riposi sul dogma universale e antico come il mondo della reversibilit dei
dolori dell'innovenza a profitto dei colpevoli , dogma infinitamente naturale
all'uomo anche se insondabile per la ragione, s che volerlo spiegare
razionalmente altro non sarebbe che voler razionalizzare il cristianesimo stesso,
poich esso riposa tutto intero su questo stesso dogma ampliato
dell'innocenza che paga per il delitto Nel sangue liberamente sparso
dall'uomo-Dio, dal Figlio, dall'unico veramente e assolutamente innocente, si
consuma quella morte della morte, quella riunificazione di ci ch'era scisso,
quella negazione del negativo verso la ricostituzione dell'unit che in modo
imperfetto e incompleto l'uomo oppresso dalla coscienza della colpa ha sempre
presagito, cercato e perseguito nell'uccisione delle sue innumerevoli vittime
sacrificali, s che questo il sacrificio perfetto e unico, e insieme il supremo e
sublime paradosso della storia del mondo. Dio paga per quelle stesse colpe che
l'uomo ha commesso contro di lui, attira su di s la negativit e la sofferenza
concedendo loro quella vittoria che insieme il loro annientamento: la ragione
vacilla, l'amore trionfa, l'irrazionale della storia s'illumina e si trasfigura nella
sovra-nazionalit inconcepibile della centralit del Cristo. Tutto assume un
senso; meglio, tutto recupera il proprio senso: comprendere ricordare, e
l'innatismo vero 44.

Il sacrificio non riducibile, secondo de Maistre, a una semplice


offerta45 delle carni della vittima alla divinit, ma consiste in uno
spargimento di sangue. E infatti nello spargimento del sangue in
quanto vita che luomo vede la virt espiatrice del sacrificio, e
questo sacrificio eterno.
Tutte le nazioni hanno creduto che il supplizio dei colpevoli fosse qualcosa di
assai accetto alla divinit , e tutte le antiche leggi, pure concordi nell'assimilare

Ravera, cit. p. 109.


Ironicamente, de Maistre sostiene che se si trattasse di una semplice offerta di carni agli di, i
sacrificanti e i sacrificatori potrebbero rivolgersi alla macelleria.
44
45

56

al colpevole il nemico, sottolineano anche nella lettera il carattere sacrificale


dell'esecuzione (SACER ESTO ... ) : questo fu il senso antico e profondo della
pena di morte, che pure ispira orrore e raccapriccio nel suo conservarsi nei
tempi moderni e presso i popoli civili - ormai spogliata, nella coscienza
collettiva, del suo originario significato - accanto all'uso inveterato dei sacrifici
umani presso i popoli selvaggi, .. e nuova luce ne ricava anche - sia detto per
inciso - il senso divino della guerra, che altro non che un continuo,
immenso sacrificio umano. In tutto questo si mostr sempre, pur fra
innumerevoli mali ed errori di ogni genere, la vivida luce dell' istinto religioso
del genere umano , e quando questo istinto religioso, riconfermato e purificato
nella sua verit dal sacrificio di Cristo, ha rinnovato la faccia della terra
rettificando l'antica credenza che pure gi in precedenza gli aveva reso la pi
decisiva testimonianza, allora all'idea oscura e feroce del sacrificio come
punizione si sostituisce il concetto cristiano, in cui il mistero della reversibilit si
incarna nella sua pi sublime pienezza, dell'assunzione libera e volontaria della
colpa e dell'accettazione della sofferenza a profitto dei colpevoli. Maistre
Ges sar in agonia fino alla fine del mondo , e la sua agonia prosegue e rivive
nelle sofferenze che ogni giusto accetta in comunione con lui; una meraviglia
inconcepibile, senza dubbio, ma al tempo stesso infinitamente plausibile, che
soddisfa la ragione annientandola e che dimostra nel modo pi degno di Dio
ci che il genere umano ha sempre confessato, anche prima che gli fosse
insegnato: la sua degradazione radicale, la reversibilit dei meriti
dell'innocenza che paga per il colpevole, e la salvezza attraverso il sangue .46

Dalla maledizione della carne colpevole solo lultimo degli


spargimenti di sangue potr liberarci. Di fatto il sacrificio di Cristo,
non ci liberer se non alla fine del mondo, quando luomo sar
definitivamente scomparso. I giusti continueranno a dare il loro
sangue per espiare le colpe degli ingiusti, fino alla morte della
morte. Il sacrificio per de Maistre la restituzione a Dio di ci che
non si rubato, quindi un tentativo, mai concluso, di saldare
comunque un debito:
Sotto l'impero di questa legge divina, il giusto (che non crede d'essere tale)
assume su di s la sofferenza per ottenere infine la grazia di poter restituire ci
che non ha rubato, e la sofferenza dell'innocente, sia essa volontaria o
cristianamente accettata, continua e prosegue (anche se non completa: e come
potrebbe esser mai completata?) la sofferenza di Cristo per la rigenerazione
dell'umanit47.

46
47

Ravera, cit. p. 111.


Ravera, cit. p. 111.
57

De Maistre cerca nei Padri della Chiesa la conferma delle sue idee.
Le trova in Origene:
Dobbiamo ascoltare soprattutto Origene, su questo interessante argomento,
sul quale aveva meditato molto. La sua ben nota opinione era che: il sangue
sparso sul Calvario non era stato utile soltanto agli uomini, ma anche agli
angeli, agli astri, e a tutti li esseri creati; cosa che non apparir sorprendente a
chi si ricorder che San Paolo ha detto che Dio ha voluto riconciliare ogni cosa
per mezzo di colui che il principio della vita, e il primogenito fra i morti,
poich ha pacificato col sangue che ha sparso sulla croce sia colui che sta in
terra sia colui che sta in cielo (CSS p. 36).

Con la citazione da Origene (II III sec. D. C.) siamo giunti a un


punto decisivo, perch con essa si chiude il cerchio maistriano ma
anche quello antropologico. Tale affermazione ricollega infatti la
visione cristiana del sangue alle concezioni, presenti in tutte le
culture, del nesso tra sangue e vita.
10. Vita, morte, e rinascita.
Verso la met dellOttocento, J J Bachofen, un giurista svizzero noto
soprattutto per il suo libro Das Mutterrecht (1861), cominci a
interessarsi al simbolismo funerario dei popoli antichi. Egli not che
questo simbolismo conteneva in s immagini esplicite o implicite
che rinviavano allidea di rinascita. Cos luovo (simbolo della vita),
per met bianco e per met nero, significava lalternarsi della luce e
delle tenebre, del giorno e della notta, della vita e della morte. La
sua rotazione implicava un continuo ritorno, un avvicendarsi
perenne delle due facce, la vita e la morte, la morte e la vita.
Lanalisi del simbolismo funerario dei popoli antichi, iniziato
nellOttocento da Bachofen, e proseguito poi da altri studiosi, fu
rafforzata, nel corso del Novecento, dallidea di ricercare nei riti
funebri medesimi, cos come si potevano osservare in campo
etnografico, un simbolismo che mettesse in evidenza questa
alternanza, e una presenza in questi stessi riti, dei simboli della
rinascita. I riti funebri, tutti indistintamente, rinviano ad una idea di
rigenerazione della vita degli esseri umani, degli animali come dei
vegetali. Certamente lenfasi varia da rito a rito, da contesto a
58

contesto. Infatti si va dalla rigenerazione delle risorse di cui un


gruppo vive (riti agrari, per esempio) alla rigenerazione degli
umani (fertilit)alla rigenerazione del cosmo intero (sacrifici hindu
ma vedi anche Origene).
Alcuni di questi sistemi di pensiero, entro cui si muove la
concezione simbolica della vita e dei riti che evocano la sua
rigenerazione, concepiscono la vita come una risorsa limitata. Il
sacrificio hindu, ad esempio, riposa su una concezione limitata
della vita, nel senso che se prendi devi dare. Da un lato, la
credenza nella reincarnazione, tipica di questa religione,
conferma la visione della vita come risorsa limitata, mentre
dallaltro lato il funerale stesso concepito come sacrificio, come
restituzione continua e mai definitiva che gli umani fanno al cosmo
in cambio della vita che hanno ricevuto.
Concezioni della vita come bene limitato si trovano presso vari
popoli. Esemplare il caso dei Trobriand (studiati da Malinowski)
dove i nuovi nati sono considerati la reincarnazione degli spiriti
degli antenati dei membri del matrilignaggio.
Molte delle concezioni (non strettamente scientifiche) della morte e
della vita implicano inoltre lidea che la morte sia in qualche modo
la fonte stessa della vita. La concezione della vita come bene
limitato da un lato e quella per cui morte e riproduzione sono
correlate, sono interconnesse. E quindi naturale che i riti funebri
siano costellati di simboli della rinascita. Questo non perch domini
ovunque una concezione della vita come bene limitato, o perch
sia sempre presente lidea che morte e rinascita fisica siano sempre
legate. Vero piuttosto che sempre e comunque le religioni
negano lirreversibilit della morte nel momento stesso in cui
affermano un nuovo inizio.
Di solito il concepimento e la nascita sono i simboli pi ovvii per
far fronte al problema. Essi fanno capo di solito a delle
cosmografie caratterizzate sessualmente: miti di creazione di
origine degli di e del mondo che fanno riferimento ad atti sessuali
come fonte della vita cosmica sono presenti in molti sistemi
religiosi. Tuttavia le culture fanno un uso molto differente , cio
variabile, di questo simbolismo. La riproduzione biologica, inoltre,
un simbolo ambiguo, e talvolta entra nei rituali funebri pi come
59

rappresentativo di qualcosa che deve essere superato, piuttosto che


come una affermazione di rigenerazione. La carne pu per
esempio essere negata e infatti nel cristianesimo la resurrezione
dei corpi un modello cristologico pi che un riferimento concreto.
Per il cristiano la carne va infatti superata e la rinascita dopo la
morte essenzialmente spirituale. Quindi n ci che deve essere
rigenerato (il corpo? lo spirito?), n il simbolismo relativo
(concepimento, carne, sangue? ) sono ovunque gli stessi48.
11. Il terribile enigma dellumanit: da de Maistre a Bataille.
Come si visto precedentemente, de Maistre, per le sue
considerazioni sulla guerra e il sangue, per il suo papismo radicale,
e per la sua avversione totale alle idee dellilluminismo e ai principi
della repubblica nata dalla rivoluzione francese, non stato amato
da alcuno (eccezion fatta per quella interpretazione fascistizzante
delle sue idee di cui lo stesso de Maistre non pu essere
ovviamente incolpato)49.
Un autore maledetto dunque, maledetto perch inquietante.
Inquietante come chiunque, indipendentemente dalle proprie
convinzione politiche o religiose, osi addentrarsi in quei meandri
della vita umana difficilmente riconducibili ai criteri interpretativi
Bloch, M. e Parry, J. 1982 (a cura), Death and the Regeneration of Life, CUP, Cambridge.
Sulla indigeribilit generalizzata di de Maistre il filosofo francese Philippe Sollers ha scritto
un breve articolo che, in un passaggio, dice cos: Connaissez-vous Joseph de Maistre? Non,
bien sr, puisquil ny a pas aujourdhui dauteur plus maudit. Oh, sans doute, vous en avez
vaguement entendu parler comme du monstre le plus ractionnaire que la terre ait port,
comme un fanatique du trne et de lautel, comme un ultra au style fulgurant, sans doute, mais
tellement contre-courant de ce qui vous parat naturel, dmocratique, sacr, et mme tout
simplement humain, quil est urgent deffacer son nom de lhistoire normale. Maistre ? Le
diable lui-mme. Baudelaire, un de ses rares admirateurs inconditionnels, a peut-tre pens
lui en crivant que personne ntait plus catholique que le diable. Ouvrez un volume de
Maistre, vous serez servis. Maudit, donc, mais pas lancienne, comme Sade ou dautres, qui
sont dsormais sortis de lenfer pour devenir des classiques de la subversion. Non, maudit de
faon plus radicale et dfinitive, puisquon ne voit pas qui pourrait sen rclamer un seul
instant. La droite ou mme lextrme-droite ? Pas question, cest trop aristocratique, trop fort,
trop beau, effrayant. La gauche ? La cause est entendue, quon lui coupe la tte. Les
catholiques ? Allons donc, ce type est un fou, et nous avons assez dennuis comme a. Le pape ?
Prudent silence par rapport ce royaliste plus royaliste que le roi, ce dfenseur du Saint-Sige
plus papiste que le pape. Vous me dites que cest un des plus grands crivains franais ? Peuttre, mais le style nexcuse pas tout, et vous voyez bien que son cas est pendable. Maistre ? Un
Sade blanc . Ou, si vous prfrez, un Voltaire retourn et chauff au rouge . Philippe Sollers,
Maistre. Un Sade blanc, in Le Nouvel Observateur 21/06/2007.
48
49

60

della trasparente razionalit senza abbandonarvisi ma, al contrario,


ma tenendo un atteggiamento critico, vigile, sospettoso. De Maistre
si aggira infatti per luoghi dai quali chiunque preferisce tenersi
lontano a meno di non aderire ad essi incondizionatamente (come
faranno le ideologie fascisteggianti del Novecento): la violenza, la
guerra, la morte, il sangue. De Maistre insiste infatti su quei
terribili enigmi che avvolgono la vita dellessere umano e di cui
niente pi contrario alla sua umanit e di cui nulla gli ripugna di
meno, ci per cui egli compie con entusiasmo atti che lo fanno
inorridire.
De Maistre maledetto per aver affrontato, certo dal suo punto di
vista ultraconservatore, temi che sarebbero diventati pi attuali
solo nel Novecento, quando si tornati ad interrogarsi sulla follia
della guerra e su quei miti della violenza, del sangue e del sacrificio
che tanta devastazione dovevano portare nel mondo. Tra costoro,
un posto privilegiato spetta a Georges Bataille.
Georges Bataille (1897-1962) stato uno dei pi influenti pensatori
francesi del secondo dopoguerra. La sua opera (parte della quale
postuma) si situa tra filosofia, letteratura, arte, poesia, sociologia e
antropologia. Essa assai frammentaria, asistematica e, come stato
detto, atopica. Non infatti ascrivibile n a un genere di scrittura
preciso, n si sofferma mai su un oggetto quale potrebbe essere
quello delimitato da una tradizione disciplinare precisa.
Centrale, in Bataille, quella che lui stesso chiama la dimensione
dellenigma, un tema de maistriano per eccellenza e che Bataille
declina in senso del tutto laico. Non c infatti alcun dio nel pensiero
di Bataille; c tuttavia la dimensione del sacro, qualcosa di
misterioso, enigmatico appunto, verso cui lessere umano tende.
Il mondo, dice Bataille, dato alluomo come un enigma. Il punto,
egli sostiene, in cui la ragione e il suo oltre si incrociano in una
possibile visione della realt quella del limite dellutile. La
ragione non rende conto di come vi possano essere cose che luomo
persegue oltre lutile (inteso come suo bisogno immediato). Questo
oltre appartiene alluomo, dentro di lui, non lo trascende.
Tuttavia luomo tende a trascendersi, anche se questo moto non
finalizzato al puro bene.

61

Rifacendosi a Mauss50, Bataille considera il fenomeno del potlc.


Esso il caso etnografico che meglio esemplifica il gesto della
dpense, cio della dissipazione, del dispendio, della dilapidazione
cosciente e volontaria messa in atto dagli uomini51. Essa non ha
altro scopo che quello di comunicare attraverso la distruzione. La
distruzione dei beni utili apre allora due questioni: 1) annienta
lutilit delle cose consegnandoci, nel momento stesso della sua
distruzione, ci che va oltre lutile, il suo carattere sacro. 2)
questo atto distruttivo creativo di una comunicazione sottratta
alle leggi dello scambio. E una comunicazione totale.
Per ottenere ci luomo deve tutta via produrre. Deve produrre per
poter dissipare e ottenere gli effetti della dissipazione. Ci non
ottenibile facendo riferimento ad una mera razionalit scientifica, in
quanto questa riduce il mondo ad un ammasso di oggetti
senzanima coi quali non pu esservi alcuna comunicazione al di
fuori della logica del possesso e dellutilizzazione.
Nella preparazione de La parte maledetta (pubblicata definitivamente
nel 1962 ma largamente scritta nel periodo 1939-45) Bataille si
proponeva proprio di confrontarsi con tali questioni e superare la
nozione di potlc con la questione ultima, quella del sacrificio:
lessenza del sacrificio ci porta, egli dice, l dove si situa lenigma
esattamente, l dove la chiave di ogni esistenza umana. Questa
chiave la morte, o meglio, quei meandri oscuri della nostra
esistenza che paiono ricevere un senso attraverso i giochi che la
vita stata costretta a giocare con la morte: la comicit nella morte,
leros e la morte, la violenza, il supplizio come spettacolo,
ovviamente il sacrificio medesimo.52
Nella morte sacrificale si comunica il massimo dellangoscia
comunicabile, dice Bataille, perch il sacrificio strappa le cose
allordine del reale, le strappa alla loro povert, per restituirle al
divino: questo il compito del sacrificio, secondo unidea espressa

Bataille partecip attivamente al Collge de sociologie che, negli anni trenta, cerc di
riportare il discorso etnosoiologico della scuola durkheimiana a confrontarsi con la dimensione
del sacro inteso non come religioso nel senso classico del termine, ma come qualcosa di
intoccabile e indicibile nella stessa vita quotidiana.
51 La dpense (1933), in Bataille, G. La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
52 Si ricordi linterpretazione di Geertz della lotta teatralizzata tra Rangda e Barong: una messa
in scena dellorripilante e del comico (La religione ecc.).
50

62

anche da altri autori secondo cui il sacrificio un dono a dio, e


dare a dio distruggere (S. Weil).
Nella Teoria della religione scrive infatti Bataille:
Si offrono le primizie del raccolto o si fa il sacrificio di un capo di bestiame per
sottrarre al mondo delle cose la pianta e l'animale, e al tempo stesso
l'agricoltore e l'allevatore.
Il principio del sacrificio la distruzione, ma per quanto si giunga a volte a
distruggere totalmente (come nellolocausto), la distruzione che il sacrificio
intende operare non l'annientamento. E la cosa - solo la cosa che il sacrificio
vuole distruggere nella vittima. Il sacrificio distrugge i legami di
subordinazione reali di un oggetto, strappa la vittima al mondo dell'utilit e la
rende a quello del capriccio inintelligibile. Quando l'animale offerto entra nel
cerchio in cui il sacerdote lo immoler, passa dal mondo delle cose - precluse
all'uomo e che per lui sono niente, che conosce dall'esterno - al mondo che gli
immanente, intimo, conosciuto come lo la donna nella consumazione
carnale.. (p. 43).

Il passaggio dal profano al sacro tramite la vittima (il modello di


Hubert e Mauss) libera lessere umano dalla dipendenza dalla
coseit, dalle cose nel loro essere cose e nullaltro.
. La separazione preliminare del sacrificante e del mondo delle cose
necessaria al ritorno dell'intimit, dell'immanenza tra l'uomo e il mondo, tra il
soggetto e l'oggetto. Il sacrificante ha bisogno del sacrificio per separarsi dal
mondo delle cose e la vittima non potrebbe esserne separata a sua volta se il
sacrificante gi non lo fosse. Il sacrificante enuncia: ,Intimamente, appartengo,
io, al mondo sovrano degli di e dei miti, al mondo della generosit violenta e
senza calcolo, come la mia donna appartiene ai miei desideri. Ti sottraggo,
vittima, al mondo in cui tu eri e non potevi che essere ridotta allo stato di una
cosa, avendo un senso esteriore alla tua natura intima. Ti richiamo allintimit
del mondo divino, allimmanenza profonda di tutto ci che (pp. 43-44)53.

Nella liberazione dalla cosa mediante la sua distruzione cosciente,


lessere umano si sente partecipe del divino. Nel sacrificio la
comunicazione con il divino totale.
Attraverso il percorso sin qui seguito siamo giunti dunque di fronte
alla soluzione dellenigma, alla ragione ultima che spinge lessere
umano al sacrificio di esseri e cose. Liberarsi dal mondo sensibile
53

Bataille, G., Teoria della religione, SE, Milano, 2002 (1973).


63

distruggendo un essere o una cosa, equivale a essere partecipi del


sacro, del divino. Certe affermazioni di de Maistre sul carattere
divino e diabolico al tempo stesso della guerra potranno
apparire pi chiare se lette alla luce delle formulazioni laiche di
Bataille. La vittima, che per Hubert e Mauss era un intermediario
per accostarsi al sacro, mantiene dunque questa funzione ma, con
Bataille, emerge lidea che il sacrificio, oltre che essere un modo per
avvicinare il sacro, esprime anche, da parte dellessere umano, il
desiderio di liberarsi della cosa per mettere in primo piano la
parte spirituale del s.
Cercheremo allora, sulla base di queste prospettive, e di altre, di
comprendere
un
aspetto
rilevante
dellagire
politico
contemporaneo, quello che consiste nei gesti di auto immolazione
messi in atto dagli attentatori suicidi, figure che si sono
moltiplicate in varie parti del mondo da circa una ventina danni.
12. Martirio e sacrificio: una forma di violenza politico-religiosa
nel mondo contemporaneo.
Il terrorismo suicida un fenomeno di antica data che ha per
conosciuto unimpennata senza precedenti negli ultimi anni. Gi nel
corso degli anni 1980 atti di questo genere avevano cominciato a
diventare sempre pi frequenti fino ad assumere, per gli
occidentali, prevalentemente le caratteristiche piuttosto nette di una
variante, quella del terrorismo di matrice islamica54. Specialmente a
partire dallinizio della seconda intifada in arabo scuotimento(28 settembre 2000) gli episodi di questo tipo si sono intensificati.
Da un punto di vista strettamente tecnico, un atto terroristico di tipo
suicida potrebbe essere definito come un attacco violento
politicamente motivato attuato da uno o pi individui consapevoli
che attivamente e scientemente causano la propria morte facendosi
saltare in aria con lobiettivo prescelto. La morte sicura di coloro che

Le odierne manifestazioni del terrorismo suicida sono molteplici. Un caso dei pi rilevanti
quello dei Tamil induisti dello Sri Lanka (Natali 2004).

54

64

realizzano tale attacco la condizione necessaria per il successo


della missione55.
In seno allo stesso mondo musulmano, gli attentatori suicidi non
sono identificabili esclusivamente come arabo-palestinesi, e
neppure come individui che si prefiggono di compiere aggressioni
finalizzate a colpire obiettivi israeliani o occidentali. In Iraq, ad
esempio, ma non solo, attentatori suicidi colpiscono oggi i loro
fratelli musulmani appartenenti a fazioni politiche avversarie con
la stessa forza devastante, obbligandoci a rivedere lidea che questi
atti siano finalizzati a distruggere solo gli occidentali o loccupante
israeliano.
Quando nei mesi successivi allinizio della seconda intifada i colpi
portati da uomini (e donne) - bomba palestinesi contro civili
israeliani inermi si intensificarono, i media, i politici e il pubblico,
specialmente occidentali, cominciarono a interrogarsi sulle ragioni
di tali gesti. Sul piano linguistico gli attentatori suicidi vennero
chiamati kamikaze, mentre la riprovazione di tali atti si fiss,
come ovvio, sulle vittime indifese di questi attacchi. In questo
modo, riconducendo la figura dellattentatore suicida ad unaltra
ben nota (il kamikaze giapponese che dirige il proprio aereo
imbottito di esplosivo contro la nave americana durante le ultime
fasi della guerra del Pacifico), e reagendo moralmente con la
condanna dei massacri, i media, i politici e il pubblico generico
relegarono il fenomeno in uno spazio di discorso che fece degli
attentatori suicidi degli spostati (al massimo dei fanatici)
manipolati da altri e, delle vittime degli attentati, loggetto di una
spietata follia distruttiva. Casi di manipolazione di individui
Schweitzer, Y., 2000, Suicide Terrorism: Development & Characteristics, p. 1. Lecture
presented in the International Conference on Countering Suicide Terrorism, (21st Feb. 2000):
http://www.ict.org.il
Naturalmente la definizione di atto terroristico relativa, e per questo motivo viene qui
virgolettata. Terrorista considerato di solito chi compie unazione bellica al di fuori di ogni
schema convenzionalmente riconosciuto come legale. La guerra legale, il terrorismo no.
Inoltre il terrorismo considerato come un atto che colpisce le popolazioni non militarizzate,
mentre si d per scontato che la guerra non faccia ci. Ma questa, come sappiamo, una
capziosa distinzione perch da sempre, ma specialmente nellet contemporanea, le guerre non
solo colpiscono anche le popolazioni inermi, ma sono spesso intenzionalmente organizzate per
colpire soprattutto queste ultime (dalla II guerra mondiale alle guerre del Golfo si assistito a
una escalation di violenza attuata scientemente, ma legalmente, contro le popolazioni civili:
unautorizzazione a versare innocentemente il sangue innocente, avrebbe forse detto de
Maistre..
55

65

problematici o psicologicamente immaturi si sono certamente


verificati, cos come lo scempio che dei corpi delle vittime i gesti di
costoro hanno prodotto un dato di fatto. Tuttavia si deve far
notare che pochi si sono impegnati in un tentativo di comprensione
del fenomeno che andasse al di l di considerazioni strettamente
politiche (che effetto avranno gli attentati sui rapporti tra israeliani
e arabi, tra occidentali e musulmani?); meramente tecniche (con
quali mezzi e strategie gli uomini-bomba perseguono il proprio
intento?); o puramente morali (perch fare strage di innocenti?).
Tra questi ancora meno sono stati coloro che hanno cercato di
rilevare lorigine dello sconcerto che un tale fenomeno generava
negli osservatori. Uccidere uccidendosi pareva a volte folle, a
volte perverso e a volte anche vigliacco.
Noti editorialisti si lanciarono in considerazioni sociopsicologiche che facevano risalire simili atti allastio dei palestinesi
verso i pi abili israeliani nello sfruttamento del territorio; oppure
al risentimento per essere stati espropriati delle case e delle terre o,
nel caso dei ragazzi che a volte si facevano esplodere in caff e
discoteche, all invidia dei giovani palestinesi nei confronti dei
loro coetanei israeliani per il loro modo di vivere alloccidentale.
E innegabile che questi sentimenti possano far parte (sul versante
arabo) della tragica vicenda che lega il popolo israeliano e quello
palestinese. Tuttavia verosimile che allorigine dello sconcerto di
fronte a questo modo irrazionale ( e illegale) di fare la guerra vi
fosse l abitudine, forse filogeneticamente incorporata, di non poter
concepire luccisione del proprio simile senza la mediazione di
unarma e, naturalmente, facendo uso del proprio corpo. Lo
scandalo dellattentatore suicida consiste probabilmente non solo
nellidea di guerra illegale che costui attua, ma anche nel fatto che
un simile gesto pare contravvenire ci che lessere umano andato
elaborando nel corso della sua evoluzione. Sembra infatti che
laggressivit intraspecifica, che in tutte le specie fortemente
inibita (geneticamente), negli umani si svilupp invece con la caccia.
Potendo uccidere animali con strumenti anche a distanza (senza
usare le proprie mani, le proprie gambe e i propri denti), divent
pi facile uccidere anche un essere umano. Lessere umano perse il
meccanismo naturale di controllo (linibizione allaggressivit
66

intraspecifica) e larma disattiv la remora alla distruzione del


proprio simile.
La storia della tecnologia bellica , in fondo, una storia di
progressiva presa di distanza dal nemico, fino a che la guerra
moderna port questo processo al limite estremo, con la possibilit
di eliminare anche migliaia di individui senza alcun tipo di
contatto, fisico o visivo: premendo semplicemente un bottone e,
soprattutto, con pochi sensi di colpa (tranne che in casi molto
particolari).
Tutte queste osservazioni ci pongono gi di fronte alla esigenza di
dover interpretare il fenomeno del terrorismo suicida in termini
diversi da quelli meramente tecnici o politici, e persino differenti da
quelli che fanno riferimento a stati danimo genericamente definibili
come invidia, risentimento, odio, o a determinate patologie
psichiche. Se, come sembrano dirci i dati dellarcheologia
preistorica, delletologia e della genetica, larma ha fatto degli
umani, oltre che dei predatori di animali, anche degli assassini a
distanza, per contrasto e sullo sfondo degli sviluppi
tecnologici di questa tendenza esponenziale (data ormai per
scontata) che dobbiamo leggere lo sconcerto suscitato dal gesto
dellattentatore suicida.
Oltrepassando lo sconcerto derivante dallo spettacolo di un conflitto
armato in cui lattaccante sceglie premeditatamente e
sistematicamente di autoeliminarsi nel momento stesso in cui
annienta il nemico, e cercando di non cadere nel tranello che
consiste nel ricondurre il fenomeno a categorie note o precostituite
(kamikaze, follia, disadattamento ecc.), dovremmo cercare di
assumere il punto di vista dellattore - per parafrasare una celebre
affermazione di Malinowski - e muovere dalle autorappresentazioni di coloro che hanno fatto dellattentato suicida la
meta finale della propria vita oppure un gesto apprezzabile e/o da
incoraggiare56.
Martiri

Tra questi rientrano quanti hanno perseguito il loro scopo sino alla fine lasciando documenti
scritti, visivi e sonori sulla propria missione, coloro che hanno aspirato a compiere atti del
genere senza riuscirci e quanti li hanno assistiti nella loro impresa.

56

67

Le dichiarazioni lasciate dagli attentatori suicidi, cos come quelle


rilasciate dagli aspiranti tali; i commenti dei loro fiancheggiatori e di
molti familiari, e di quanti ne condividono, in toto o in parte, il
progetto, convergono verso la nozione di martirio57. Per una pi che
probabile confluenza semantica derivata dal modello cristianoantico del martirio che fa di colui o colei che lo subisce, o che lo
cerca volontariamente, il testimone della fede (in greco il martys
il testimone), anche il martire musulmano (shahid) autore di una
testimonianza (shahadah) che comporta, nel caso dellattentatore
suicida, unidea di testimonianza martiriale (istishahad).
Chi possa essere considerato martire, e perch, una questione
complessa irta di eccezioni e sottigliezze dottrinarie, e neppure
definita in maniera unanime tra gli stessi musulmani, dal momento
che la nozione di martirio spesso inseparabile dalla concezione,
anchessa ampiamente dibattuta, che si ha del jihad, termine spesso
malamente tradotto, nelle lingue europee, con lespressione guerra
santa (ma il cui senso qualcosa come lotta sulla via di Dio). La
questione non tuttavia trovare definizioni univoche, valide
sempre e ovunque. Lislam non possiede, se non per alcuni principi
fondamentali, ununit dottrinaria pari a quella cattolica. Esso
costituito da una pluralit di vedute validate da tradizioni
discorsive altrettanto plurali e che sono riconoscibili come
islamiche nel momento (e fino al momento) in cui si
autoriconoscono e sono riconosciute come tali58.
Il linea generale, il martire musulmano (shahid) dunque il
testimone (shahid) della verit della fede. Come possa testimoniare
questa verit un fatto storicamente contingente e dipendente dal
significato che, sempre a seconda delle circostanze storiche, viene
Questo non significa per, come invece spesso si sente dire o si legge, che le famiglie di coloro
che aspirano al martirio siano compatte nel sostenere gesti del genere (v. Hassan 2001).
58 Asad, T. 1986 "The Idea of an Anthropology of Islam", Occasional Papers, Georgetown
University, Washington. In questa prospettiva che chiama in causa il riconoscimento e
lautoriconoscimento, entrano in gioco le dimensioni della credenza e della autorit. La credenza
appartiene ad una realt che ha la propria ragion dessere in se stessa, che trova una forma di
convalida nelle condizioni stesse della credenza. Lautorit invece quella della tradizione, una
nozione in questo caso simile a quella di credenza, poich aderire ad una tradizione autorevole
significa, in qualche modo, credere, in particolare credere nel fatto che esista una linea di
continuit sulla cui validit non ci si pongono domande fino a quando, appunto, non la si mette
in discussione.
57

68

attribuito allaltro termine da cui quello di martirio spesso


inscindibile: jihad. Il significato di questultimo per varia da
unidea di lotta che lindividuo combatte con se stesso per il
miglioramento della propria coscienza morale fino alldea di una
guerra vera e propria in difesa o per laffermazione della propria
fede59.
Nella congiuntura mondiale attuale il jihad riconosciuto, in quanto
fatto socialmente, politicamente e ideologicamente rilevante, non
in virt delle cause locali che lo hanno determinato, n per le
singole biografie dei suoi combattenti, ma come una serie di effetti
globali che hanno assunto una propria universalit che va oltre tali
particolarit60.
Questi effetti globali, sulla politica e sul pubblico, nonch, bene
sottolineare, sullimmaginario dei jihadisti medesimi, sono il
prodotto dei media e non delle storie singole dei particolari attivisti,
e neppure delle condizioni ambientali che li hanno spinti a prendere
questa via, come nemmeno delle teorie che, riallacciandosi alle varie
scuole dottrinarie musulmane, possono giustificare queste scelte.
Ci che va enfatizzato, del rapporto tra istishahad (testimonianza
martiriale) e media, che anche coloro che vi prendono parte
sembrano essere determinati, nelle loro scelte, da messaggi
mediatici. Il istishahad infatti diventato uno spazio di discorso
visuale nel quale va certamente collocata unintenzione
comunicativa di tipo politico ma anche, e soprattutto, un modo di
rappresentare a se stessi il proprio destino, la propria missione, il
Il termine jihad compare pi volte nel Corano e, col tempo, ha ricevuto interpretazioni diverse
e perfino contrastanti. Guerra dattacco, lotta interiore, guerra difensiva,il jihad stato
anche, in passato, uno strumento di opposizione allintrusione coloniale, come ad esempio in
Libia allepoca della dominazione italiana. Nella odierna lettura fondamentalista del jihad
questultimo una lotta militare contro i nemici dellislam, i quali vengono identificati con
coloro che non si adeguano ai dettami divini, coi governanti corrotti (dei paesi a maggioranza
musulmana) e contro le potenze occidentali che li appoggiano (Mervin S. 2001 Lislam.
Fondamenti e dottrine, Bruno Mondadori, Milano 2001). Lislam politico radicale inserisce il jihad
in una logica di scontro globale e tace il fatto che il Corano, anche quando parla di jihad come
guerra dattacco (ma in difesa della fede una specie di guerra preventiva), esclude di
praticarla contro ebrei e cristiani, in quanto entrambi ahl al kitab cio popoli del Libro (la
Bibbia) e, come tali, protetti (dhimmi, che per significava tassati, secondo lantica usanza
arabo-beduina di proteggere trib nomadi o comunit di agricoltori sottoposte in cambio di un
tributo).
60 Devji F. 2005, Landscapes of the Jihad. Militancy, Morality, Modernity, Cornell University Press,
Ithaca. P. 87
59

69

proprio nemico e il proprio gesto che, nel caso degli attentatori


suicidi, si presenta come un martirio-testimonianza (shahadahh).
Persino la pratica di decapitare gli ostaggi, cos come le
autopresentazioni alla Rambo, entrambe varianti locali del modo
di condurre il jihad, sono tipici riflessi di un codice, quello
mediatico, che sembra autorizzare (nel senso foucaultiano del
termine) comportamenti e forme di presentazione del s che non
hanno nulla a che vedere n con la tradizione islamica, n con forme
locali della tradizione. I personaggi e i modelli narrativi di una certa
produzione mediatica (filmica e televisiva) sembrano invece essere
ci che prevale su questioni dottrinarie o su teorie politiche. Questo
ambiente mediatico non influenza soltanto il pubblico occidentale
e gli stessi attori, ma anche il pubblico dei paesi a maggioranza
musulmana, che finisce per ricevere una rappresentazione
omogenea, mediatica (e quindi distante dal contesto motivazionale
specifico) del istishahad come fatto globale61. Il istishahad viene
allora proiettato in uno spazio visuale che non pi legato a luoghi
o a storie particolari ma che ha, nei siti pi disparati, e sconnessi con
il contesto geografico o storico che loro proprio, lo scenario della
propria rappresentazione. La testimonianza del gesto suicida
avviene quindi in uno spazio pubblico globalizzato (dai media) nel
quale lattentatore suicida trova la possibilit di essere percepito
come martire, testimone (tanto dai musulmani e quanto dai
non musulmani).
Nel processo mediatico, la fusione tra il morire (martirio) come
accadimento, e il vedere come testimonianza raggiunge unintensit
di gran lunga superiore a quella raggiunta nel contesto entro il
quale, come sembra, questa speciale coincidenza semantica tra
essere martiri ed essere testimoni prese originariamente forma. Tale
contesto fu quello cristiano, e in particolar modo quello della tarda
antichit. In uno studio dedicato alla formazione delle idee di
martire e di martirio nel mondo urbano dOriente nel periodo
romano tardo-antico, G. Bowersock62 (1995) ha ricondotto questi
E opportuno precisare che gli attentatori suicidi, cio gli aspiranti martiri non sono quelli
che sono comparsi in passato sui nostri schermi televisivi intenti a leggere proclami o a
minacciare esecuzioni di ostaggi. Pur definendosi tutti combattenti sulla via di Dio
(mujahiddyn) combattenti ordinari e aspiranti martiri attuano modalit assai differenti di lotta.
62 Bowersock, G. W. 1995, Martyrdom & Rome, CUP, Cambridge.
61

70

fenomeni alla convergenza di due elementi: da un lato il


protagonismo sociale giocato normalmente dalla figura delluomo
(o della donna) santo; dallaltro il gesto suicida, tipico della
tradizione romana, che consente di scegliere la morte di fronte alla
impossibilit di affermare la propria dignit. Secondo Bowersock
infatti, questa congiuntura, caratterizzata a suo parere da un clima
politico particolarmente instabile e suscitatore di possibili
atteggiamenti estremistici (si pensi ad asceti, anacoreti e stiliti)
avrebbe alimentato quella che lui chiama una ideologia della morte
al servizio del trionfo di una causa (p. 74).
Mentre con il tempo le gerarchie religiose cristiane avrebbero finito
con lo scoraggiare, e quindi espungere lelemento suicida dalla
professione di fede, anche la pi decisa (lasciando ai persecutori il
compito di fare dei martiri), nulla di ci accaduto nella
tradizione islamica. Ma, a prescindere da questa pur importante
differenza tra le due tradizioni, cristiana e musulmana
rispettivamente, importante sottolineare soprattutto il contesto
pubblico del martirio cristiano, contesto che solo in quanto pubblico
poteva essere fatto coincidere con una testimonianza nel senso
completo del termine. M. Rizzi63, riprendendo le tesi di Bowersock,
ha cercato di affinare l idea di contesto pubblico facendo
opportunamente notare come il protagonismo [sociale e politico di
quanti avevano lo scopo di far trionfare la causa] aveva un suo
specifico luogo [] quello del tribunale e dellattivit giudiziaria
che [] si svolgeva almeno a due livelli, quello dei tribunali locali e
quello della giurisdizione romana cui sola spettava lo ius gladii64 (p.
25). In un simile scenario - prosegue Rizzi la morte era un esito
possibile, ma non scontato n, forse, neppure probabile. Al
contrario, la presa di posizione di fronte al giudice rivestiva un
rilievo e un impatto pubblico che non di rado si risolveva in un
rafforzamento del prestigio sociale e politico di chi aveva, a vario
titolo, sfidato il potere costituito ai suoi vari livelli (ibidem). E
infatti solo nel contesto di tipo giudiziario greco-romano, quindi
pubblico, che il termine martire (martys) sembra trovare la sua vera,

Rizzi, M. 2005, Da testimoni a martiri. Pratiche di martirio e forme di leadership nella


tradizione cristiana, Quaderni Nangeroni, Mimesis, Milano, pp. 23-32.
64 Cio il diritto della spada, ossia di condannare a morte i colpevoli.
63

71

originaria, applicazione, significando appunto testimone e


venendo ad indicare, a partire dalla seconda met del II secolo,
lidea di colui o di colei che d la vita come testimonianza della
propria fede. Ci non toglie che i cristiani non abbiano sentito il
desiderio di morire per la propria fede anche prima si questo
slittamento semantico (Bowersock 1995: 5), ma certo che solo da
allora, e in conseguenza di tale slittamento, i termini martire e
martirio hanno assunto il significato che oggi viene ad essi
universalmente attribuito, tanto nel cristianesimo quanto nellislam.
Proseguendo il suo commento alla tesi di Bowersock, Rizzi definisce
il fenomeno come frutto di unideologia del protagonismo sociale a
servizio dellaffermazione di un ideale, in un contesto in cui la
morte era compresa tra gli esiti possibili. Possibili ma non
necessari (Rizzi 2005:29). E lespressione, possibili ma non
necessari a stabilire la differenza tra lideologia del protagonismo
sociale, cos come si configura alla base del martirio cristiano, e
quella che alla base del martirio islamico. Possibile, per i
cristiani, era (ed ) la morte in quanto inferta da altri, ma ci non
toglieva che altre forme di persecuzione li potessero far considerare
dei martiri (esilio, confisca dei beni, privazione dei diritti);
necessaria invece la morte per il martire musulmano, tanto che
essa gli venga inferta da altri, quanto che essa sia scientemente
autoprocurata65. Infatti, una divaricazione fondamentale si crea
nella pratica e nella politica del martirio cristiano da un lato e del
martirio islamico dallaltro.
Se lesito dunque molto diverso nei due casi, appare invece molto
simile la struttura del contesto in cui tanto il cristiano delle origini
quanto il musulmano attuale possono apparire come dei martiri. E
infatti un contesto caratterizzato, in ambedue i casi, dalla presenza
di uno spazio di comunicazione visuale che fa del martire cristiano
delle origini e del martire musulmano attuale dei testimoni in quanto
testimoniati (visti/ascoltati) da altri: il pubblico del processo al
cristiano nel primo caso; il pubblico (prevalentemente mediatico)
dellattacco suicida musulmano nel secondo. Luno e laltro sono

Un cristiano del periodo tardo-antico poteva cio essere un martire in quanto imprigionato,
perseguitato, privato dei beni e della libert. Un musulmano shayd, martire, solo in quanto
morto.

65

72

martiri (testimoni della loro fede) solo perch pubblicamente


visti/riconosciuti66.
Le similitudini nella struttura del contesto nei due casi del martirio
cristiano e di quello musulmano riguardano sicuramente altri
aspetti del comportamento che potrebbero essere chiamati
disposizionali e motivazionali.
Il protagonismo politico, e il desiderio di far trionfare la propria
fede (che si pone come verit) a qualunque prezzo di fronte
allostilit dellambiente sociale, sono probabilmente motivazioni
che dispongono gli individui coinvolti a rischiare la propria vita
nel caso del cristiano tardo-antico, e a sacrificarla nel caso
dellaspirante shahid contemporaneo.
Una configurazione del tutto speciale sembra assumere, nellepoca
attuale, lidea del martirio in ambiente musulmano, almeno nel caso
degli attentatori suicidi. Qui lo shahid infatti, per definizione, colui
che si auto-immola per testimoniare della propria fede. Questo
gesto estremo non comprensibile solo come reazione disperata ad
un contesto politico caratterizzato dalla violenza. E invece un gesto
che, a partire da questo contesto violento, trova una sua ragion
dessere allinterno di una particolare configurazione disposizionale
e motivazionale, attivata da concezioni specifiche della sacralit e
della trascendenza, oltre che da un idea particolare della relazione
tra corpo e spirito.
Sacrifici
In uno studio dedicato alle politiche della morte67 nella
congiuntura coloniale e postcoloniale, A. Mbembe ha scritto che
nella Palestina odierna convivono due logiche apparentemente
inconciliabili: la logica del martirio e la logica della sopravvivenza,

E noto che vi sono anche dei martiri ignoti, ma questo un fenomeno ex-post, cio
istituzionalizzato da unautorit che, in quanto guida di una comunit (lo stato, la nazione ecc.),
proietta su quei morti (sconosciuti) un potere attivo nella realizzazione della comunit stessa.
67 Mbembe, A. 2003, Necropolitics, Public Culture, 15 (1), pp. 11-40.
Per politiche della morte (Necropolitics) Mbembe intende, rovesciando (in senso
complementare) lespressione biopolitiche di M. Foucault, il potere e la capacit di dettare
chi pu vivere e chi pu morire come espressione ultima della sovranit nel mondo
contemporaneo (Mbembe 2003: 11).
66

73

dove, in entrambe, sono a loro volta compresenti le idee di morte,


terrore e libert.
Il contesto dellattentato suicida descritto da Mbembe sembra
riproporre indirettamente, e per alcuni aspetti, la logica generale
della dinamica sacrificale cos come questa stata delineata in molti
lavori di antropologia e, al contempo, pare evocare alcuni intrecci
tra sacrificio e caccia cos come sono stati messi in luce da vari studi
etnografici o teorici pi o meno recenti68. Non tutti gli attentatori
suicidi vanno per incontro al martirio avendo in mente unidea
sacrificale quale pu essere quella di dare la propria vita per
testimoniare la propria fede religiosa. Infatti,
Il regista israeliano, Giuliano Mer - intervistato alla trasmissione televisiva
Report del 10 settembre 2004 - descrive cos i ragazzi del campo profughi di
Jenin che si facevano esplodere (invano) contro gli immensi caterpillar che
abbattevano le case, con i loro abitanti ancora dentro: Il campo profughi
molto piccolo, controllato dal pi potente esercito del mondo con le
apparecchiature pi sofisticate del mondo. Circondati da elicotteri apache e
carri armati, l'unica cosa che possono fare contro questa enorme macchina
farsi saltare in aria. Dei 23 kamikaze che si sono fatti esplodere a Jenin io ne
conoscevo 6: nessuno era religioso, nessuno cercava vergini nel cielo69, ci che li
spinge che preferiscono morire piuttosto che vivere come morti. Io credo che
se i palestinesi avessero il Vietnam dietro di loro si comporterebbero come i
Vietcong ma invece hanno intorno solo cemento, cemento, muri, muri, muri,
muri, muri e muri, una piccola quantit di esplosivo, chiodi, e si fanno saltare
in aria, questo quello che gli rimasto. (De Luna 2006. p. 267).

Come tuttavia vedremo, lassenza di un ideale religioso non elimina


il dato sacrificale del gesto dellattentatore suicida. Come
cercheremo di mostrare mettendo in dialogo le letture che del
sacrificio fanno Hubert e Mauss e Maurice Bloch da un lato, e
Georges Bataille dallaltro, la dimensione sacrificale non affatto
assente, neppure tra quanti si autoimmolano senza nutrire alcuna
aspirazione ad entrare nel mondo ultraterreno cos come questo
rappresentato nella tradizione islamica.

Si veda, per tutti, Valeri, Wild Victims ecc. cit.:


Chi muore combattendo per la fede sar ricompensato dalla presenza, nel paradiso
musulmano, delle Ur.
68
69

74

Cominciamo dunque con gli attentatori credenti. Prima di compiere


ma missione suicida, egli si sottopone a un processo di
sacralizzazione. Egli si consacra con preghiere e dichiarazioni di
intenti inerenti ai motivi che lo spingono ad affermare la verit della
fede, e dopo aver ricevuto una benedizione da parte di un imam. E
solo a questo punto che egli sceglie il suo obiettivo.
Lattentatore parte per la sua missione come individuo
sacralizzato. Poich, assieme alle vittime del suo gesto, diventer
vittima lui stesso, laspirante martire in uno stato di sospensione
che ne fa, per certi aspetti, un gi morto. Infatti lespressione con
cui egli indicato dai suoi al shahid al hayy, martire vivente70.
Lo stato di sospensione potrebbe ricordare lo stato di margine o
di liminalit messi in luce da Van Gennep e Turner
rispettivamente71. Come in un rito di passaggio (da essere umano
comune a shahid) lattentatore suicida si pone, con le dichiarazioni
di intenti, le preghiere e la benedizione di un imam, in uno stato
transitorio che precede la sua definitiva trasformazione nella
condizione ricercata (quella di martire). Non un caso che nel
tempo che intercorre tra la consacrazione e latto suicida, lo shahid
credente si sottoponga alle stesse restrizioni purificatrici previste
per altre occasioni rituali della tradizione musulmana. Lidea che
laspirante suicida sia gi morto daltronde in sintonia con la
tendenza, ampiamente diffusa, a parlare di colui o colei che si
appresta a compiere un passaggio (per esempio nei riti di
iniziazione), come di una persona morta. Questo per due motivi:
perch il suo status indefinito (ne ha perso uno ma non ne ha
acquistato ancora un altro), e perch spesso solo in questo stato di
morte apparente che lindividuo entra in contatto con il mondo
dellinvisibile, normalmente definito come sacro (antenati o
divinit da cui dipendono la vita e la morte).
Come spiegano Hubert e Mauss, il cui ragionamento ruota, come
abbiamo visto, attorno alla coppia concettuale sacro/profano, nei riti
sacrificali la consacrazione duplice. Essa riguarda il sacrificante
Il che conferma quanto detto pi sopra, e cio che nella tradizione islamica un individuo, per
poter essere martire, deve essere morto.
71 Van Gennep, A. 1981, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino (ed. or. 1909); Turner, V. W. 1972,
Il processo rituale. Struttura e antistruttura, Morcelliana, Brescia (ed. or. 1969).
70

75

che deve entrare in contatto con il sacro. Ma riguarda anche e


soprattutto la vittima, che deve essere consacrata per poter andare
verso il sacro a cui offerta. Per Mauss e Hubert il sacrificio
infatti, come si gi detto, un atto religioso che, mediante la
consacrazione della vittima, modifica lo stato della persona morale
che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa
(p. 22). Per questi autori esiste, come sappiamo, ununit dei sistemi
sacrificali ma questa non un dato sostanziale, bens di forma, cio
la modificazione dello stato morale del beneficiario e/o
dellofficiante mediante una consacrazione, la distruzione e lofferta
di una vittima. Ora, nel caso degli attentatori suicidi, le pratiche di
sacralizzazione dellaspirante shahid sono le stesse per il sacrificante
e per vittima poich, nel caso specifico, il sacrificante e la vittima
sono la stessa cosa. Nel momento in cui si consacra come
sacrificante, lindividuo si consacra anche come vittima.
Nel modello di Hubert e Mauss abbiamo dunque la vittima (che
deve essere consacrata), degli officianti (il cui stato morale viene
modificato), cos come dei beneficiari che acquisiscono i vantaggi
dellatto sacrificale e vengono quindi modificati anchessi.
Sappiamo che nella interpretazione del sacrificio di Hubert e Mauss
la struttura di questo rituale prevede la progressiva ascesa della
vittima e del sacrificante dallo stato profano ad una condizione di
sacralit72. Questultima culmina con la distruzione della vittima e
con un progressivo ritorno di vittima e sacrificante allo stato
profano: il sacrificante riprende il suo normale ruolo nella societ,
mentre la vittima si presenta o sotto forma di bene duso (se viene
consumata) o come puro resto materiale (se viene completamente
distrutta).
La dinamica sacrificale dellattentatore suicida ha esiti materiali
diversi, ma simili sul piano della rappresentazione. Il sacrificante,
infatti, non torna allo stato profano trasformato, ma vi torna come
cosa quando non si dissolve completamente. Sono le vittime del
suo gesto diverse da lui (i nemici) a diventare puri resti materiali.
Queste ultime hanno qualcosa che le assimila, almeno in parte, alle

72

Sullutilizzazione del termine sacrificante in Hubert e Mauss v. nota 1.


76

prede di una battuta di caccia73. Una plausibile spiegazione di


questo gesto distruttivo, compiuto da attentatore suicida tanto
credente quanto non credente, ma riferita al contesto israelopalestinese , come scrive lo storico G. De Luna74, che
una ricerca di Paola Sacchi75 ha... recentemente sottolineato la vastissima
portata simbolica che racchiusa nella distruzione del corpo dei nemici operata
dagli uomini-bomba. Va ricordato anzitutto che secondo la tradizione religiosa
ebraica (halacha) il corpo deve essere sepolto rapidamente nella terra, e che i
resti corporei sono considerati e trattati come se fossero il corpo intero. I morti e
i loro resti devono essere onorati perch sono destinati a risorgere, trattarli
impropriamente un peccato contro Dio. Secondo la legge religiosa tutta la
materia corporea deve essere sepolta, anche il sangue.
La forza di questo imperativo si vede bene, quando esplode una bomba in un attentato:
ogni volta interviene una squadra di ebrei ortodossi volontari che assolve al dovere
sacro di raccogliere tutti i frammenti dei corpi anche il sangue che gocciolato viene
raccolto con dei pezzi di stoffa, cos come vengono raccolti gli oggetti macchiati di
sangue, per essere poi sepolti con il cadavere. E talmente importante seppellire corpi
integri e perfetti che non solo si restituisce ogni materia corporea alla tomba, ma ai
membri dell'associazione religiosa (Chevra kadisha) che controlla le sepolture concesso
persino intervenire per perfezionare il corpo dopo la morte, circoncidendo o
eliminando i tatuaggi per esempio"76.
Il centro nevralgico di queste operazioni l'Istituto di medicina legale di
Gerusalemme, il luogo privilegiato da Meira Weiss per condurre le sue ricerche
sulla centralit del corpo del soldato nella definizione di una identit
nazionale israeliana fortemente segnata in senso militarista`77. In questo senso,
Ricordiamo che molto spesso le vittime dei sacrifici erano, e sono, procurate attraverso una
messinscena che, anche nel caso di sacrifici compiuti su animali domestici, mima la sorpresa, la
cattura, la presa in trappola dellanimale da sacrificare, proprio come se fosse la preda di una
battuta di caccia. Cfr Detienne e Vernant 1982 e Valeri 1994.
74 De Luna, G. Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi,
Torino 2006.
75 Cfr. P. Sacchi, Le politiche dei resti umani nel conflitto israelo-palestinese in AAVV. Morte e
trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi, Bruno Mondadori, Milano 2006.
76 Weiss, M., The Chosen Body. The Politics of the Body in Israeli Society, Stanford University Press,
Stanford 2002, pp. 57-64.
77 Una volta che i frammenti dei corpi sono giunti all'Istituto, raccolti negli appositi sacchetti di
plastica numerati in sequenza, fondamentale tenere distinti resti e corpi sulla base delle
dicotomie noi/loro, ebrei / non ebrei, soldati / non soldati. In particolare, all'Istituto i corpi dei
soldati sono tenuti separati e trattati quasi cerimonialmente, ed proibito in qualsiasi
circostanza prelevare tessuti da loro. Come riferisce Weiss, molti degli intervistati tra il
personale dell'Istituto insistevano sull'importanza di non toccare i corpi dei soldati: il
soldato un eroe ... il suo corpo sacro. Noi non dobbiamo toccarlo, non dobbiamo portare via
niente. Cfr. M. Weiss, The Body of the Nation: Terrorism and Embodiment of Nationalism in
Contemporary Israel, in Anthropological QuarterIy, LXXV (2001), n. 1, PP. 47-48.
73

77

la disintegrazione dei corpi delle vittime qualcosa che va anche al di l degli


scopi politico-militari degli attentati (seminare panico e insicurezza nelle file
nemiche, vendicare i propri caduti, testimoniare la propria forza), e punta
direttamente a intaccare simbolicamente un corpo sociale e un'identit
nazionale che assegnano particolare valore e significato al corpo fisico integro
78.(De Luna pp. 268-69).

Nella logica dello shahid, la volont di auto-annientamento si fonde


con quella di portare con s il nemico e di intaccarlo
simbolicamente. In questo senso ragionevole supporre che il
martirio musulmano, oltre ad avere una dimensione pubblica,79
possieda anche una valenza totalizzante, almeno nel senso che
esso prevede che anche le vittime del gesto dello shahid siano
partecipi della testimonianza. Secondo F. Devji, infatti, non solo le
persone, ma anche animali, edifici e altri oggetti inanimati possono
essere partecipi del rito del martirio, compresi perfino coloro che
assistono al martirio di altri senza essere uccisi (Devji 2005: 95). La
testimonianza per definizione un atto pubblico, e siccome i
martiri musulmani attuali si muovono in un ambiente fortemente
mediatizzato, molte cose che altrimenti sarebbero probabilmente
escluse concettualmente dallatto medesimo, entrano invece a farne
parte80.
P. Sacchi, Le politiche, cit.
E opportuno sottolineare come si dovrebbe sempre precisare il contesto di riferimento
dellattentatore suicida. Non detto infatti che un aspirante martire palestinese sarebbe
disposto a fare la stessa cosa in Europa; n che laspirante shahid sunnita che colpisce i
musulmani shiiti in Iraq morirebbe allo stesso modo in Israele. Lidea del martirio cio,
dovrebbe essere modulata localmente e in relazioni alle condizioni storico-politiche, alle
retoriche, e alle caratteristiche che sono proprie del contesto locale. E infatti la mancata
considerazione del contesto specifico in cui laspirante martire agisce a rinviare unimmagine
uniforme del jihad e del martirio medesimo.
80 Nella sua analisi Devji giunge a sostenere che la rappresentazione
mediatica del martirio crea una comunit globale la cui testimonianza
impone determinate responsabilit ai suoi membri. Questa comunit non
circoscritta ai soli musulmani, ma include tutti coloro che portano
la loro testimonianza [...] In un certo qual modo perfino i nemici del
jihad o le sue vittime partecipano nei riti del martirio morendo
accanto agli attentatori suicidi come negli attacchi spettacolari
dell11 Settembre. Questo fatto pu spiegare perch i supporters del
jihad traccino continui paralleli tra la propria morte e quella dei
loro nemici, poich entrambe si fondono in una comunit di martirio
resa possibile dalla intimit virtuale dei media che consente a
ciascuna parte di scambiare parole e atti con gli altri (p. 96). Da
questo punto di vista Devji sembra andare in una direzione contraria a
quella di Mbembe, il quale si chiede se la differenza delle armi
usate per infliggere la morte [armi classiche da una parte e uomini e
78
79

78

Rimane ancora da spiegare il senso dellautoannientamento, cio


del cupio dissolvi perseguito dallaspirante martire nei confronti
della
sua
stessa
fisicit.
Una
lettura
antropologica
dellautoannientamento fisico, concepito come parte e condizione
essenziale della riuscita dellaspirante martire, comporta una
riflessione sulla violenza sacrificale e sulla concezione del corpo,
oltre che dei rapporti che intercorrono tra questultimo da un lato e
la dimensione trascendente e spirituale dallaltro.
La violenza distruttiva che scaturisce dallatto di autoeliminazione
sembra voler significare, come scrive Mbembe, che con un simile
gesto si vuole chiudere a tutti la porta alla possibilit di vivere (p.
37). Questa semplice constatazione sembrerebbe a prima vista
contrastare con il desiderio di libert che gli attentatori suicidi
palestinesi vogliono esprimere con il proprio gesto. Il gesto del
martire musulmano certamente un atto disperato, ma
inscrivibile in un processo complesso, che vede entrare in azione
una concezione particolare del rapporto tra violenza, trascendenza,
morte ma anche, e soprattutto, vita.
Nel suo studio comparativo sul ruolo svolto dalla violenza nella
religione Maurice Bloch (2005) ha prospettato la possibilit che la
trascendenza, lungi dallessere unistanza archetipica81, sia il
prodotto pi generale delle varie forme che le relazioni politiche
possono assumere82.
Bloch interessato a cogliere, sotto la loro apparente diversit,
lidentit di struttura dei riti religiosi. Rifacendosi a Van Gennep e
a Turner, e alla loro idea di andata sospensione ritorno come
struttura caratteristica dei processi rituali, egli cerca di spiegare il
ruolo che la violenza assume allinterno di questi ultimi. La teoria di
donne-bomba dallaltra] non impedisca linstaurazione di un sistema di scambio generalizzato
tra il modo di uccidere e il modo di morire (p. 36).
81 Bloch si oppone decisamente alla visione essenzialista e riduttiva che della violenza ha R.
Girard (1980), per il quale la violenza sarebbe connaturata allessere umano. Secondo Girard, le
comunit umane, per potersi (temporaneamente) sbarazzare della violenza distruttiva,
andrebbero incontro a periodiche crisi sacrificali nelle quali i capri espiatori vengono fatti
oggetto di atti appunto violenti con il fine di trasformare la violenza distruttiva per la comunit
in una violenza costruttiva, cio rafforzatrice dellordine e della forza (interna) della comunit.
Come si vedr, la teoria di Girard, per quanto parta da premesse diverse da quelle di Bloch, ha
esiti simili, anche se in Girard tali esiti sono enunciati nella forma dellastrazione filosofica.
82 Se si vuole, la teoria di Bloch rientra in quella grande famiglia delle teorie della religione
che fanno di questultima un fenomeno proiettivo.
79

Bloch che subendo una violenza nella fase di andata (quando


per esempio un individuo sottoposto ai riti che lo allontanano da
una certa situazione di status) egli dominato dalle forze
trascendenti (antenati, divinit) che, come spesso viene affermato,
vegliano sul rito. Questa violenza uccide colui che sottoposto
ad un rito (per esempio di iniziazione) al punto che, come si visto,
si parla delliniziando come di un morto. E tuttavia in questo
stato intermedio di sospensione che lindividuo acquisisce quella
forza che gli consentir di far ritorno politicamente pi potente di
prima (con un nuovo status superiore a quello che gli era proprio e
che ha definitivamente abbandonato). Questa forza gli viene dal
mondo trascendente, cio dal contatto con quei poteri che gli sono
stati trasmessi quando era morto, quando cio lui stesso faceva
parte (simbolicamente) del mondo invisibile. Bloch sostiene,
adducendo prove etnografiche spesso convincenti, che in molti riti
di questo tipo gli iniziati, tornando pi forti al mondo dei vivi
(prima erano infatti morti) manifestano questa loro forza con atti
violenti che possono andare da sacrifici animali (seguiti da
banchetti) alla messa in atto di azioni ostili contro nemici o rivali.
allora in questo senso che il trascendente si configurerebbe come il
prodotto delle relazioni politiche, tanto interne quanto esterne al
gruppo.
La dimensione della violenza centrale in ogni religione, e la
religione stessa, daltra parte, non cessa mai di ricordarcelo. Con
sacrifici reali o con la memoria di essi, come quella di figure
martirizzate (il capro sacrificale di ebrei e musulmani in
sostituzione del figlio di Abramo, la Passione di Cristo, i martiri
stessi) la religione incorpora dellidioma della violenza e se ne
avvale, riproponendola in un linguaggio di tipo iconico83, il quale si
esprime attraverso quelli che Geertz ha definito simboli sacri, cio
i segni delle verit della fede che si svelano attraverso i simboli
medesimi e il cui effetto quello di fortificare la comunit dei
credenti84.
Nel senso che significa di per s, al di l della possibilit o meno di potersi costruire come
discorso.
84 Il caso prototipico del linguaggio iconico della violenza nella religione costituito dal
crocifisso, il quale un simbolo sacro la cui visione rinvia (iconicamente) alle verit della fede
cristiana (morte e resurrezione in primis). Ad ogni modo, in hoc signo vinces.
83

80

dunque in questo senso che diventa comprensibile il significato


della violenza sacrificale: dare pi forza a chi compie il sacrificio e
alla comunit a cui costui appartiene. Di conseguenza
lautodistruzione perseguita dallaspirante martire potrebbe essere
interpretata come un atto inteso a fortificare il sacrificante e la sua
comunit di fronte alle difficolt, le sofferenze e i soprusi subiti per
mano del nemico o delloccupante. Laspirante martire, credente
oppure no, procede di fatto ad un lavoro di sacralizzazione che
precede il gesto suicida, prende una forza che pu provenirgli
solo e unicamente dalla dimensione trascendente: Dio85 o qualcosa
daltro (come vedremo). con questa forza aggiunta che
laspirante shahid pu infatti scagliarsi contro il suo obiettivo. una
forza spirituale, che trascende limmanenza del suo stesso corpo.
Nel suo lavoro Mbembe fa ad esempio osservare come nella logica
del martirio sembri emergere una nuova semiotica. Il corpo
dellaspirante martire non qualcosa da proteggere, tuttaltro. Esso
non ha n potere n valore, come corpo. Ha potere solo in quanto
sottoposto a un processo di astrazione basato sul desiderio di
eternit, in quanto, scrive Mbembe, il martire, avendo stabilito un
momento di supremazia nel quale egli ha prevalso sulla propria
natura mortale, pu essere visto come operante nel segno del
futuro (Mbembe p. 37). Questo processo di astrazione, questa
supremazia, questo prevalere sulla propria natura mortale la forza
della trascendenza acquisita dallaspirante martire nel processo di
sacralizzazione. Ma non necessario essere credenti per compiere
un atto sacrificale. Infatti, il martire opera, come dice Mbembe, nel
segno del futuro, dove questo futuro non la vita ultraterrena, con
la presenza di una evidente concezione messianica del tempo il
presente il futuro e viceversa ma anche la direzione della
motivazione al martirio. E qui che la logica della liberazione si
affianca a quella del martirio., ed qui che tale logica, che sia

Lo schema di Bloch non pu essere trasferito tout court a qualunque situazione sacrificale.
Ma se lo applicassimo qui interamente, anche a puro scopo di esercizio, e volessimo identificare
la violenza fatta su colui che subisce la trasformazione da essere umano comune a martire,
questa violenza potrebbe essere identificata con quella che il soggetto, e la sua comunit,
avvertono come subita in quanto proveniente dallesterno e che si traduce in una immagine di
s come di oppressi.
85

81

pensata dentro una rappresentazione religiosa oppure no, assume la


dimensione della trascendenza.
Alla luce di quanto si visto a proposito della violenza sacrificale, la
concezione che laspirante martire ha del proprio corpo dipende
dalla funzione operativa del corpo medesimo: quella di accedere
alla trascendenza. Come? Mediante il sacrificio del corpo stesso.
Questa funzione operativa del corpo che, autodistruggendosi, si
accosta al trascendente, di qualunque trascendente si tratti (Dio o il
futuro) pu forse essere meglio compresa alla luce di quanto stato
sostenuto da G. Bataille il quale, a proposito del corpo e dello
spirito, ha scritto:
La miseria delluomo, in quanto [si percepisce come] spirito, consiste
nellavere il corpo di un animale e dunque essere come una cosa, ma la gloria
del corpo umano di essere il substrato di uno spirito. E lo spirito cos
strettamente avvinto al corpo-cosa che questo non cessa mai di essere assillato,
non mai cosa che al limite, al punto che, se la morte lo riduce allo stato di
cosa, lo spirito pi presente che mai: il corpo che lha tradito lo rivela
maggiormente di quando lo serviva. In un certo senso il cadavere la pi
perfetta affermazione dello spirito. lessenza stessa dello spirito che
limpotenza definitiva e lassenza del morto rivelano, allo stesso modo in cui il
grido di colui che viene ucciso laffermazione suprema della vita (Bataille
2002: 38).

In questa prospettiva la distruzione del corpo non tanto ci che


libera lo spirito, quanto ci che lo fa pi presente che mai. Uno
spirito che, nella concezione dello shahid, tanto pi presente
quanto pi il suo corpo dissolto. Autodistruggersi imbottiti di
esplosivo non infatti solo un mezzo efficace per sorprendere il
nemico, per fare del proprio corpo unarma aumentando la forza
devastante dellesplosione, anche unespressione estetica del
modo di concepire un sacrificio, dove ci che corporeo scompare
per far posto alla trascendenza vista come ragione ultima della
sopravvivenza.
Il ricorso alla violenza suicida quindi, oltre che un atto politicomilitare, una complessa forma di comunicazione sociale che,
sebbene plasmata da istanze mediatiche, contiene in s una
complessa concezione dellindividuo, della comunit, del corpo,
della trascendenza nonch del tempo e, naturalmente, della
82

violenza medesima. Alla violenza in quanto forma di linguaggio


viene conferita una forma e un significato allinterno di linguaggi e
pratiche che sono tipiche di un certo contesto storico-sociale per cui
essa pu trasformarsi in un processo di costruzione mediante
distruzione, dove la sofferenza di un individuo pu diventare una
benedizione per lintera societ86. Emerge dunque una concezione
particolare del rapporto che lega vita, morte e rinascita, tipico, come
abbiamo visto, di tutti i sistemi religiosi e non solo. La
testimonianza martiriale (istishahad) dellattentatore suicida ha
senso solo in vista di una vita ulteriore, la quale non
necessariamente solo quella del martire in Paradiso, ma anche
quella, fisica e terrena, della sua comunit. E a questo punto che la
violenza religiosa in senso lato, bataillano, diventa tuttuno con la
violenza politica.
Un atto sacrificale , come stato fatto osservare in relazione a
tuttaltro contesto - le pratiche di risoluzione di un attacco di
stregoneria tra i buddisti dello Sri Lanka - qualcosa che restituisce
una agentivit (agency) alla vittima di un attacco, la quale, per
potersene liberare, compie un atto sacrificale87. Compiere un atto
sacrificale significa, in questo contesto, e forse ovunque, fare di se
stessi un costruttore di mondi, qualcuno che si impegna in un
atto di auto-ricreazione e che in grado di riplasmare le relazioni
[sconnesse] nel mondo, cos come queste influiscono sulle
possibilit vitali della vittima (ibidem). Questa definizione della
vittima di una violenza che, per liberarsi di questultima, compie un
sacrificio suscettibile di rimettere a posto lordine delle cose,
sembra adattarsi perfettamente anche allo shahid. Percependosi
come vittima di una violenza, egli, o ella, indipendentemente dal
fatto che sia credente oppure no - compie un sacrificio con cui
diventa possibile liberare quelle forze capaci di conferire un ordine
al mondo. Ma il sacrificio che compie lo compie su di s (oltre che
naturalmente sui suoi nemici), in un atto estremo per far emergere

Aijmer, G. 2000, Introduction: The Idiom of Violence in Imagery and Discourse, in Aijmer,
G. e Abbink, J. (Eds.) Meanings of Violence, Berg, Oxford and New York, p. 8.
87 Kapferer, B.1997, The Feast of the Sorcerer. Practices of Consciousness and Power, Chicago
University Press, Chicago, p. 184
86

83

quelle forze spirituali e trascendenti da cui dipende, in ultima


istanza, lunico ordine possibile.
solo allinterno di questa particolare configurazione, fatta di
trascendenza, sacralit, concezioni del rapporto tra corpo e spirito,
nonch di violenza politica e attesa messianica, che noi possiamo
tentare di cogliere la specificit dellatto che, nella rappresentazione
di chi lo compie, fa dellattentatore suicida un martire musulmano,
uno shahid.

84

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