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Zagrebelsky – MANUALE DEI DIRITTI FONDAMENTALI IN EUROPA

CAP 1- Il sistema europeo e il movimento internazionale per il riconoscimento dei diritti umani

1.1 I precedenti

La Convenzione europea dei diritti umani è frutto di un movimento per il riconoscimento e la protezione
dei diritti fondamentali della persona che si colloca oggi nell’ambito delle responsabilità della comunità
internazionale. Per effetto della Convenzione europea si è creato un livello di protezione internazionale
(europeo) che si aggiunge alle tutele giuridiche e giudiziarie in ambito nazionale. In questo senso si parla di
tutela multilivello dei diritti umani. Per l’Europa la nozione cristiana di “persona”, il giusnaturalismo (XVI e
XVII secolo) e poi particolarmente l’Illuminismo settecentesco hanno rappresentato un fertile terreno di
coltura dei diritti umani. La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, primo
frutto della Rivoluzione francese, è certo il precedente più specifico, non solo per l’elenco dei diritti che
menziona, ma soprattutto perché, negando distinzioni, privilegi e discriminazioni, li riconosce tutti. La
Dichiarazione poi, stabilendo la separazione dei poteri e imponendo i diritti individuali, si presenta
espressamente con la sua natura costituzionale. Altri precedenti sono le dichiarazioni e costituzioni
emanate sul suolo americano: la Dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie britanniche (1776), la
Dichiarazione dei diritti della Virginia (1776), le Costituzioni degli Stati Uniti d’America (1787) con i
successivi emendamenti che hanno dato luogo al “Bill of Rights” americano. Nel sistema americano i diritti
fondamentali hanno assunto il ruolo di limite al potere legislativo, mentre in quello originario francese la
definizione di diritti e della loro tutela era rimessa alla legge, espressione della volontà generale. Un secolo
prima, nel 1689, in Inghilterra era stato introdotto il “Bill of Rights” preceduto dalla Petition of Rights e
dalla Magna Charta Libertatum del 1215.

L’art 2 della francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino afferma che lo scopo di ogni
associazione politica è la conservazione dei diritti naturali dell’uomo, dunque si trattava di una questione
interna agli Stati. Allo Stato spettava la definizione dei diritti fondamentali, del loro contenuto e dei loro
limiti attraverso la legge nazionale; alle autorità e ai giudici il compito di assicurarne la protezione.

1.2 L’evoluzione recente e il sistema delle Nazioni Unite

È solo nel corso del ‘900 che la responsabilità della protezione dei diritti umani si estende a sedi
sovranazionali impegnando la comunità internazionale e superando la pretesa degli Stati di non subire
interferenze esterne.

 Nel gennaio 1918 il presidente USA Wilson enunciò i 14 punti su cui avrebbero dovuto fondarsi le
relazioni internazionali e a cui fece seguito la creazione della Società delle Nazioni, che tuttavia non
venne investita di particolari competenze in tema di diritti umani, gli stessi USA non vi aderirono e
non riuscì ad evitare gravi violazioni dei diritti umani negli anni tra le due guerre;
 Fu nuovamente un presidente USA a richiamare i grandi principi da cui si è sviluppato l’attuale
sistema di protezione dei diritti umani. L’8 gennaio 1941 il presidente Roosevelt pronunciò davanti
al Congresso il discorso detto delle Quattro libertà: libertà di parola e di espressione, libertà di culto
e di religione, libertà dal bisogno e dalla paura; queste avrebbero dovuto essere garantite nel
sistema democratico e fondare l’ordine morale internazionale.
 Il 14 agosto 1941 viene sottoscritta da Roosevelt e da Churchill la Carta atlantica che riprende i 14
punti e le 4 libertà. Essa è all’origine della Carta delle Nazioni Unite.
 L’ONU, creata il 26 giugno 1945 e destinata a sostituire la Società delle Nazioni, si fonda sulla Carta
firmata da 51 originari stati membri. Il suo preambolo indica la volontà di salvare le future
generazioni dal flagello della guerra e sottolinea il valore dei diritti fondamentali dell’uomo, della
dignità della persona umana, dell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna e delle nazioni
grandi e piccole. Nell’art 1 è espresso lo scopo dell’Organizzazione di mantenere la pace e di
realizzare la cooperazione internazionale incoraggiando il rispetto dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, di sesso o di religione. La pace perseguita
dall’ONU non è solo l’assenza di guerra tra gli Stati, ma è una pace che assicura il riconoscimento
dei diritti umani. All’epoca la natura della Carta delle Nazioni Unite costituiva unicamente un atto
politico, senza prevedere strumenti specifici, atti a costringere gli Stati a rispettare i diritti umani al
loro interno; inoltre sembrava indiscussa l’idea che i rapporti tra lo Stato e i suoi sudditi
appartenessero al dominio riservato, alla domestic jurisdiction, che escludeva ogni intervento
esterno, anche solo di critica, raccomandazione o esortazione. Al principio di non interferenza, nella
Carta delle Nazioni Unite fanno eccezione le misure, anche militari, assunte dal Consiglio di
sicurezza quando esso accerti l’esistenza di minacce di pace. La materia dei diritti umani in sé non
appartiene tuttavia al Consiglio di sicurezza (organo esecutivo), ma rimane di competenza
dell’Assemblea generale.

Il 10 dicembre 1948, l’Assemblea generale dell’Onu approva con risoluzione la Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo, nel cui Preambolo di afferma che “è indispensabile che i diritti dell’uomo siano protetti da
norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione
contro la tirannia e l’oppressione”. La Dichiarazione rappresenta un’importante novità in quanto costituisce
l’atto di passaggio dalla proclamazione di un programma politico (carta Onu) al riconoscimento
internazionale di diritti propri degli individui nei confronti degli Stati. A questo proposito va ricordata anche
l’istituzione del Tribunale militare internazionale di Norimberga (accordo di Londra dell’8 agosto 1945),
destinato a giudicare i maggiori criminali di guerra nazisti, in tal modo per i crimini commessi contro
l’umanità veniva superato il limite della sovranità statale e l’individuo come tale otteneva protezione
internazionale. La Dichiarazione tuttavia non è un trattato internazionale dal quale derivino obblighi
giuridici per gli Stati; non contiene inoltre alcuna indicazione circa i mezzi idonei ad assicurare che essa
venga osservata e non prevede neanche strumenti a disposizione degli individui per far valere i loro diritti.
L’ipotesi di istituire una Corte mondiale dei diritti dell’uomo venne respinta. L’importanza della
Dichiarazione deriva dallo sviluppo della generica espressione “diritti dell’uomo” in un catalogo preciso di
diritti. La faticosa redazione dell’elenco vide opporsi l’orientamento dell’Unione Sovietica e quello degli
Stati occidentali: i primi tendevano a dare priorità ai diritti sociali, i secondi ai diritti civili e politici. La
Dichiarazione esprime l’idea che i diritti umani abbiano natura universale e il suo presupposto consiste
nella democrazia, nel senso che solo in uno Stato democratico i diritti umani possono essere rispettati e
possono svilupparsi. Tuttavia, le forme di che i sistemi democratici possono assumere sono varie, anche se
l’idea di democrazia rimanda al mondo occidentale. La posizione dell’individuo (e della donna) rispetto allo
Stato è oggetto di contestazione nel mondo islamico, in Asia, in Africa. In generale, i sistemi giuridici
nazionali differiscono a seconda delle regioni del mondo, della storia e delle culture che vi si sono
sviluppate. Tuttavia, la globalizzazione e i movimenti delle persone da un Paese all’altro spingono
fortemente verso un’armonizzazione di concezioni culturali e di sistemi giuridici. Più di un’universalità
originaria si deve parlare di progressiva evoluzione verso una tendenziale compatibilità di concezioni e
regolamentazioni. Esistono profonde differenze in termini di diritti: alcuni pretendono la semplice
omissione di atti di violazione, mentre altri richiedono a volte un’impegnativa opera politica, economica e
sociale diretta a modificare l’assetto della società. Si tratta della differenza esistente tra la categoria dei
diritti civili e politici e quella dei diritti economici, sociali e culturali. Accanto alla loro universalità si
afferma che essi sono indivisibili, interdipendenti e complementari. La comunità internazionale ha il
dovere di trattare i diritti umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano
di parità e valorizzandoli allo stesso modo. Benché bisogni tener presente delle differenze storiche, culturali
e religione, è obbligo degli Stati, tenendo conto dei propri sistemi politici, economici e culturali,
promuovere e tutelare tutti i diritti umani e le libertà fondamentali.

Per quanto riguarda l’indivisibilità, la separazione in diversi trattati dei diritti civili e politici da un lato e dei
diritti economici e sociali dall’altro segna una divisione. L’affermata indivisibilità indica però la necessità di
considerare nel loro complesso tutti i diritti. Alla Dichiarazione universale fecero seguito il Patto dei diritti
civili e politici e il Patto dei diritti economico-sociali del 1966. Essi sono trattati internazionali che ricalcano
il contenuto della Dichiarazione universale; ratificandoli gli Stati si impegnano a osservarne le disposizioni.
In seno al Patto dei diritti civili e politici è stato istituito un Comitato, composto da 18 esperti indipendenti,
per esaminare i periodici rapporti trasmessi dagli Stati sui diritti umani. A differenza del Patto dei diritti civili
e politici, quello dei diritti economici, sociali e culturali non prevedeva, nel testo originario, la creazione di
un Comitato di controllo. Questo è stato istituito solo nel 1985 per esaminare i rapporti periodici che gli
Stati devono presentare. Un Protocollo opzionale prevede ora che il Comitato possa anche prendere in
esame comunicazioni di individui o di gruppi di individui relative a gravi violazioni del Patto.

Nell’ambito delle istituzioni dell’Onu operano anche il Consiglio dei diritti umani, che ha sostituito la
precedente Commissione e l’Alto Commissario per i diritti umani, istituito nel 1993.

1.3 Il Sistema europeo. Il Consiglio d’Europa e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle
libertà fondamentali.

Alla fine della 2GM in Europa si iniziò a promuovere l’unità del continente attorno a valori che impedissero
il risorgere delle cause che avevano dato luogo alle due guerre mondiali. Nel 1948 si svolse il Congresso
dell’Aia che diede via ai lavori per l’istituzione del Consiglio d’Europa, primo passo del processo
dell’unificazione europea. Gli Stati fondatori furono il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Irlanda, l’Italia, il
Lussemburgo, la Norvegia, la Svezia, i Paesi Bassi e il Regno Unito. Con il crollo del sistema sovietico
entrarono a farvi parte anche altri Stati come Turchia e Germania. Oggi il Consiglio d’Europa conta 47 Paesi.

Il documento più importante che ha prodotto è la Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (Cedu). Essa si raccorda strettamente con lo Statuto del Consiglio d’Europa, come
dimostra il richiamo ai poteri che esso assegna al Comitato dei ministri e l’attribuzione al segretario
generale del Consiglio del potere di svolere inchieste sull’effettiva applicazione da parte degli Stati delle
disposizioni della Convenzione. Il nesso tra pace, democrazia e protezione dei diritti umani fondamentali è
messo in risalto anche nel Preambolo della Convenzione. Del Preambolo vanno anche menzionati il
richiamo all’intenzione di realizzare un’unità più stretta tra gli Stati del Consiglio d’Europa attraverso la
difesa dei diritti fondamentali e l’affermazione che questi Stati erano mossi dallo stesso spirito e in possesso
di un patrimonio comune di ideali e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e della preminenza del
diritto. Questo rappresenta più che altro un risultato da raggiungere perché esistono ancora oggi divisioni
nel cercare una linea comune rispettosa dei diritti fondamentali delle persone, come quella dei migranti.

La Convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è entrata in vigore il 3 settembre 1953 ed è stata
ratificata dall’Italia nell’agosto 1955. Il testo originario ha subìto nel tempo integrazioni mediante
protocolli aggiuntivi che integrano l’elenco dei diritti e delle libertà, e di protocolli emendativi, che
modificano regole di procedura e di organizzazione del sistema. I protocolli aggiuntivi legano solo gli Stati
che li hanno ratificati, mentre i protocolli emendativi non entrano in vigore se non ratificati da tutti gli Stati
che ne fanno parte. Nella costituzione, nel funzionamento della Corte e nella materia procedurale ha
grande importanza il Regolamento interno della Corte.

Il sistema europeo di protezione dei diritti umani si caratterizza per l’istituzione di una corte
indipendente, capace di accertare le violazioni da parte degli Stati e imporre loro di ripararle. Alla Corte si
può aderire:

 Attraverso un ricorso diretto (reso possibile con il Protocollo n.11), che è un ricorso individuale che
può presentare ogni persona fisica o giuridica. La possibilità di ricorso individuale, da un lato,
costituisce il perno dell’attuale sistema di protezione giurisdizionale dei diritti individuali in Europa
ma, dall’altro, ha generato un numero elevatissimo di ricorsi che mette in grande difficoltà il
funzionamento della Corte europea.
 Attraverso un ricorso interstatale, importante anche se raro.

Il ricorso introdotto dalla vittima della violazione è quello che più frequentemente viene utilizzato perché
al singolo individuo viene offerto un vero diritto di azione sul piano internazionale per far valere i propri
diritti e le proprie libertà. Esso ha diritto a un giudice e, nel procedimento che si apre davanti alla Corte, la
persona ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio sono parti processuali a pari titolo, con eguali diritti e
doveri. La Corte, che con la sua sentenza è chiamata a risolvere il conflitto, è esterna al sistema giuridico
degli stati, ma applica un diritto europeo, indipendente dai parlamenti nazionali.

L’intenzione di rafforzare l’unione degli stati europei sul terreno dei diritti umani richiama la necessità di
armonizzare i diversi sistemi giuridici statali, in ordine al contenuto dei vari diritti e alle modalità di
protezione. Se alla proclamazione dei diritti nella Convenzione si accompagnasse una marcata differenza
pratica nei diversi Stati, l’unità sarebbe negata. La Convenzione sottolinea la comune partecipazione degli
Stati a una stessa cultura dei diritti fondamentali. Va però detto che al crescere dell’importanza della
giurisprudenza della Corte europea ha fatto riscontro il progressivo e negativo aumento della reticenza
degli Stati europei ad accettare l’idea stessa dell’unione più stretta, che naturalmente implica
l’armonizzazione dei livelli e delle modalità di tutela dei diritti fondamentali.

La scelta di introdurre la possibilità di ricorso al giudice, come strumento forte di tutela, ha condotto a
effettuare, tra i diritti fondamentali, la selezione di quelli che più facilmente consentono quel tipo di
controllo. Più forte la tutela, meno ampia l’area protetta.

Accanto alla Corte europea, ma su un piano politico, nell’ampio campo della difesa dei diritti umani, svolge
un’importante azione il Commissario per i diritti dell’uomo che, con il Protocollo n.14, è stato abilitato a
intervenire in alcune procedure, trasformandolo in una sorta di procuratore europeo.

1.4 Il Sistema europeo. L’Unione Europea (rinvio)

L’Unione Europea è il risultato di un processo di unificazione iniziato con la creazione negli anni ’50 delle
Comunità europee: nel 1951 la Ceca, nel 1957 la Cee e l’Euratom. Lo sviluppo di tali istituzioni portò nel
1992, con il Trattato di Maastricht, alla nuova strutturazione sotto il nome di Unione Europea. La natura
specificamente economica delle iniziali Comunità le aveva lasciate estranee al tema dei diritti umani. La Cee
venne istituita per creare un mercato comune tra gli stati membri, sulla base delle 4 libertà di circolazione:
merci, servizi, persone e lavoratori. La Corte di giustizia delle comunità venne spinta a costruire per via
giurisprudenziale la tutela dei diritti, qualora fossero emersi dei conflitti con i diritti fondamentali garantiti
negli stati membri.

1.5 Altri sistemi regionali

Fuori dallo spazio regionale europeo sono stati creati altri sistemi regionali di tutela dei diritti fondamentali:

 La CONVENZIONE INTERAMENTICANA DEI DIRITTI DELL’UOMO, è stata adottata dal 1969


dall’Organizzazione degli stati americani (Osa) ed è entrata in vigore il 1978. A tale sistema
partecipano stati centro e sudamericani; non vi partecipano Stati Uniti e Canada. L’accesso
dell’individuo alla Corte non è diretto, ma dipende dalla decisione della Commissione o dello Stato
interessato. La Commissione, se non rimette l’affare alla Corte, formula delle raccomandazioni allo
Stato interessato affinché la violazione sia riparata; quando constata la violazione di un diritto o di
una libertà tra quelli previsti dalla Convenzione, la Corte ordina che tale diritto o libertà sia
rispettato e ordina pure la riparazione delle conseguenze della violazione e il pagamento di
un’indennità alla persona offesa. Importante è anche la funzione consultiva della Corte.
 La CARTA AFRICANA DEI DIRITTO DELL’UOMO E DEI POPOLI, approvata nell’ambito dell’Unione
Africana nel 1981, ha istituito la Commissione competente a esaminare ricorsi relativi a violazioni
gravi o individuali. La Commissione conclude l’esame dei ricorsi con delle competenze che
trasmette all’Organizzazione dell’Unione Africana. Nel 2008 un Protocollo ha istituito la Corte
africana di giustizia e dei diritti dell’uomo, competente a decidere ricorsi introdotti da uno stato
parte del Protocollo, dalla Commissione, da persone fisiche o da organizzazioni non governative.
 La CARTA ARABA DEI DIRITTI DELL’UOMO, approvata dalla Lega Araba nel 2004, ha costituito il
Comitato arabo dei diritti umani, che riceve ed esami i rapporti degli stati sull’attuazione di
quanto stabilito dalla Carta;
 La CARTA DEI DIRITTI UMANI IN ASIA è un documento redatto nel 1998 da un gruppo di
organizzazioni non governative in Asia. Essa non ha valore giuridico. Qui non esiste un sistema
internazionale di protezione dei diritti umani, ad eccezione delle istituzioni facenti capo alle Nazioni
Unite.

CAP 2- LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. NATURA ED EFFICACIA DELLA SUA GIURISPRUDENZA

2.1 La giurisprudenza delle Corte Europea

La Corte europea ha il compito di risolvere ogni questione d’interpretazione e applicazione della


Convenzione Con le sue sentenze essa risolve controversie relative ai diritti e alle libertà convenzionali,
sollevate da ricorsi individuali o interstatali. La controversia riguarda una vicenda concreta infatti essa è
istituita per proteggere “diritti non teorici o illusori, ma concreti e effettivi”. La giurisprudenza della Corte è
giurisprudenza casistica, cioè decide il caso, ma essa assume un valore generale, in quanto la sentenza
costituisce un precedente cui la Corte si rifà successivamente nei casi analoghi.

La necessità che la Convenzione possa essere applicata nei diversi ordinamenti degli Stati membri del
Consiglio d’Europa, richiede che i concetti adottati dalla Corte siano riferibili allo stesso modo a tutti gli
ordinamenti, per questo la Corte opera ricorrendo a nozioni autonome. La Corte europea ragiona in modo
autonomo rispetto ai diritti nazionali nell’ambito dei quali si è svolta la vicenda sottoposta al suo giudizio.
Non solo procede diversamente dai giudici nazionali, ma tende anche a non ripetere o rivedere le
valutazioni che essi hanno fatto. La Corte non sostituisce la propria ricostruzione del diritto nazionale a
quella adottata dai giudici interni, salvo il caso estremo che essa sia arbitraria. Le valutazioni effettuate dalla
Corte europea rispondono a criteri ed esigenze diversi da quelli delle autorità nazionali. In questo senso la
Corte europea esclude di poter essere usata come sede di una quarta istanza dopo l’esaurimento dei gradi
di giudizio a disposizione del ricorrente in sede nazionale.

2.2 La giurisprudenza della Corte europea (segue). L’interpretazione della Convenzione

La Corte interpreta la Convenzione facendo ricorso ai criteri indicati dagli artt. 31-33 Convenzione di Vienna
sul diritto dei Trattati. La Corte europea deve tenere un atteggiamento giurisprudenziale dinamico ed
evolutivo, tenendo conto delle interazioni con la realtà sociale in evoluzione. La natura evolutiva
dell’interpretazione della Convenzione spiega lo scarso peso ormai assegnato ai lavori preparatori del 1949.
In effetti la Corte tende a interpretare la Convenzione in modo obiettivo a secondo lo scopo, non
necessariamente secondo le intenzioni degli originali redattori.

La Corte afferma di non essere abilitata a riconoscere nuovi diritti o nuove accezioni, ma l’art 8 Conv. indica
però come siano evanescenti i margini tra creazione di un nuovo diritto e riconoscimento di un nuovo
aspetto di un diritto già espresso in Convenzione. La natura casistica implica un metodo di lavoro che parte
necessariamente dal caso oggetto del ricorso e richiede alla Corte la ricerca della norma convenzionale
pertinente. La portata del caso, quindi, influenza l’ampiezza che la Corte attribuisce ai diritti e libertà
convenzionali; la Corte muove dal caso per stabilire come vada interpretata e applicata la norma che ha
scelto come pertinente. La Convenzione è redatta nei due testi francese e inglese.

La Convenzione va interpretata e applicata in vista dello scopo di salvaguardare gli ideali e i valori della
società democratica come riportato nel Preambolo. La democrazia è l’unico modello politico previsto dalla
convenzione ed è pertanto il solo con essa compatibile. La Corte sottolinea, nel quadro dell’attenzione ai
diritti delle minoranze, l’importanza della vitalità del dibattito permanente, con i conseguenti limiti al
potere della maggioranza di imporre la propria opinione. Le implicazioni della nozione di democrazia sono
evidenti quando la corte sottolinea la necessaria neutralità dello stato in ordine all’esercizio delle libertà di
espressione, di religione, di associazione ecc.

La Corte interpreta la Convenzione in modo da assicurarne la complessiva coerenza interna. Quanto ai


protocolli aggiuntivi, la Corte ritiene che le loro disposizioni si aggiungano senza modificarle a quelle della
Convenzione.

La ricerca del “consenso europeo” come insieme di dati normativi vigenti e di tendenze sociali, vuol
rispondere all’esigenza di contrastare il carattere autoreferenziale della giurisprudenza della Corte, tuttavia
esso risulta spesso debole perché di tratta di una nozione generica e di difficile accertamento.

2.3 La giurisprudenza della corte europea (segue). Il valore dei precedenti e i mutamenti di
giurisprudenza

La Corte non è legata dai propri precedenti, ma usualmente li segue e li applica. Le più importanti sentenze,
che tuttora costituiscono la base della successiva giurisprudenza, sono state elaborate dalla Corte nei
decenni ’60,’70, nei primi anni della sua attività. Anche le decisioni della Commissione hanno portato
importanti contributi alla costruzione della giurisprudenza europea.

La Corte procede distinguendo il caso da decidere da quelli già decisi, per infine intervenire
all’identificazione del precedente che indica la soluzione da adottare oppure alla conclusione che il caso in
esame non trova ancora riscontro nella giurisprudenza della Corte. Nell’argomentazione dei giudici il
complesso dei precedenti ha almeno la funzione di guida e argine nel senso che segnala le conclusioni cui
non si può giungere senza un esplicito mutamento di giurisprudenza.

2.4 Il margine di apprezzamento nazionale

La Corte europea riconosce agli stati un margine di apprezzamento nell’applicazione della Convenzione per
quanto riguarda la necessità delle limitazioni ai diritti. Nel caso relativo ad alcuni profili del regime
linguistico dell’insegnamento in Belgio dove si poneva un problema di discriminazione, la Commissione
europea dei diritti dell’uomo aveva sostenuto che l’art 14 Conv rivestiva un’importanza particolare in
rapporto alle clausole che non definiscono con precisione i diritti che essi sanciscono. Secondo la Corte le
autorità nazionali, in quanto in contatto diretto con le forze vive del loro paese, sono meglio attrezzate per
valutare fatti ed esigenze, rispetto ad una Corte internazionale, e rimangono libere di scegliere le misure
che ritengono appropriate, sotto il controllo della Corte europea riguardo alla conformità di tali misure alle
esigenze della Convenzione. La Corte ha ammesso che il sistema convenzionale non implica l’imposizione di
un’uniformità assoluta nell’applicazione della Convenzione.

Il riconoscimento del margine di apprezzamento risponde alla logica della sussidiarietà del sistema
convenzionale rispetto a quelli nazionali, che per primi sono chiamati ad assicurare i diritti e le libertà della
Convenzione. L’intervento della Corte, infatti, è solo previsto quando sia sorta una controversia e dopo che
siano state esaurite le vie di ricorso interne. Il ruolo dello Stato nel riconoscere i diritti della Convenzione
non si sostanzia in un diritto, ma in un obbligo; la Corte ha la competenza a interpretare la Convenzione,
agli Stati spetta l’obbligo di adeguarvisi.

Il margine di apprezzamento risponde a ragionevoli preoccupazioni di definizione di confini che sono propri
a decisioni di natura giudiziaria rispetto a quelle politiche degli Stati. La Cote europea afferma che
l’ampiezza del margine di apprezzamento nazionale varia secondo le circostanze, le materie e il contesto e
che rileva in proposito la presenza o l’assenza di un denominatore comune ai sistemi giuridici degli Stati che
fanno parte del sistema della Convenzione (consenso europeo). Da un lato il margine di apprezzamento è
largo se non vi è consenso tra gli Stati membri, specialmente quando il ricorso solleva questioni morali o
etiche delicate; d’altro lato, quando sia in gioco un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o
dell’identità dell’individuo, il margine di apprezzamento è stretto. Per i numerosi e ricorrenti elementi di cui
la Corte tiene conto, il riconoscimento del margine di apprezzamento conduce a risultati imprevedibili
nell’applicazione.

Nel più recente periodo, la giurisprudenza della Corte europea è parsa incline ad ammettere in più ampi
ambiti e con maggior facilità il margine di apprezzamento rimesso agli Stati. Inoltre, recentemente, con il
Protocollo n.15, gli Stati hanno ritenuto di provvedere alla modifica della Convenzione, inserendo nel
Preambolo la menzione espressa della sussidiarietà e del margine di apprezzamento nazionale accanto allo
scopo di assicurare un’unione sempre più stretta tra gli Stati in materia di diritti umani.

2.5 L’interpretazione della Convenzione e la maggior tutela assicurata a livello nazionale

L’art 35 stabilisce che l’interpretazione della Convenzione non può essere di pregiudizio a diritti e libertà
fondamentali riconosciuti dalle leggi nazionali e si rivolge prima di tutto alla Corte europea. La Convenzione
non sostituisce gli ordinamenti nazionali nella previsione, definizione e tutela dei diritti e delle libertà
fondamentali. La protezione convenzionale non può ridurre la portata dei diritti fondamentali assicurati dai
sistemi nazionali, ciò significa che a livello interno i diritti della Convenzione non possono essere negati e
diminuiti, ma possono invece essere arricchiti e garantiti a un livello superiore. In questo senso la
Convenzione assicura il livello di protezione minimo e comune a tutti gli Stati europei.

Fermo il livello di garanzia assicurato dalla Convenzione ai diritti che essa considera, la Corte europea deve
adottare l’interpretazione che non comporti la diminuzione della protezione degli altri diritti e libertà
riconosciuti dal sistema nazionale. Si tratta dell’applicazione del criterio interpretativo fondamentale nella
materia, della prevalenza della norma più favorevole.

2.6 La sussidiarietà. Obbligo di esaurire le vie di ricorso interno

Centrale è per la Corte europea l’obbligo di istituire e assicurare alle vittime della violazione di un diritto
convenzionale “un ricorso effettivo davanti a una istanza nazionale”. Il diritto di ricorso che gli Stati devono
assicurare sottostà all’obbligo di esaurire i ricorsi disponibili prima di rivolgersi alla Corte europea. Dunque
il sistema prevede due obblighi: il primo è quello dello Stato, tenuto a istituire ricorsi interni efficaci, il
secondo è quello dei ricorrenti di utilizzare tali ricorsi. Il diritto a un ricorso nazionale non implica
necessariamente l’obbligo di utilizzarlo, ma la Convenzione prevede tale obbligo come condizione
procedurale di ammissibilità dei ricorsi. La Corte europea può intervenire, in via sussidiaria, solo quando il
ricorso alle vie interne non abbia dato soddisfazione al ricorrente. L’esaurimento delle vie interne consente
alla Corte europea di esaminare i ricorsi conoscendo la posizione delle corti interne nell’applicazione del
diritto nazionale e potendo quindi operare in via sussidiaria.

I ricorsi interni devono essere efficaci e concretamente accessibili. L’accessibilità del ricorso può mancare
per l’esistenza di ostacoli di natura materiale (ad es., costi di accesso troppo elevati) o giuridica (ad es.,
interpretazione troppo formalistica del diritto interno). Nel sistema italiano la mancanza di accesso diretto
alla Corte costituzionale implica che il relativo ricorso non è richiesto per l’esaurimento delle vie interne. Il
ricorso deve essere efficace sia in generale, che nel caso del singolo individuo. È possibile che un ricorso sia
da ritenere efficace in astratto per come è disegnato dalla normativa che lo prevede, e tuttavia si dimostri
inefficace nel caso singolo. L’efficacia del ricorso comprende la capacità di fornire un adeguato indennizzo
se la violazione si è già verificata. In casi specifici l’efficacia del ricorso dipende anche dalla natura
sospensiva di esso, come in ipotesi di espulsioni di stranieri che nel paese di destinazione rischiano di subire
trattamenti contrari agli artt 2 e 3 Conv.

2.7 L’interpretazione della giurisprudenza della Corte


Le sentenze della Corte sono costruite in modo da riepilogare in una loro parte i precedenti
giurisprudenziali rilevanti rispetto al caso; di seguito la Corte espone l’applicazione di quei precedenti al
caso concreto. La ricostruzione della giurisprudenza della Corte non è semplice e meccanica. Certo esistono
sentenze della Corte europea che indicano la ragione della violazione della Convenzione nel contenuto di
una disposizione normativa, cosicché il riferimento al caso concreto sottoposto dal ricorrente finisce con il
divenire poco rilevante, ma normalmente non è così. Nel ricercare il senso della giurisprudenza della Corte
europea non si può prescindere dal fatto che essa è casistica, legata al dettaglio del caso concreto. La
successione di sentenze su casi simili facilita l’identificazione della ratio decidendi e del principio di diritto di
valore generale, che supera il nesso con il singolo caso. La varia tipologia di sentenze che la Corte europea
adotta non legittima una differenziata attribuzione di peso giurisprudenziale all’una o all’altra.

Alla Grande Camera, che interviene raramente, è rimesso il potere di modificare la giurisprudenza della
Corte. La sentenza della Grande Camera non ha una particolare forza vincolante, maggiore di quella propria
dei precedenti formati dalle sentenze delle Camere. Essa scioglie un contrasto e fissa il tenore del
precedente cui far riferimento, fino a che non sorga la necessità di ripensarlo. Anche le “sentenze pilota”
non presentano una speciale forza. Esse si caratterizzano per il fatto che decidono un caso in vista della
decisione di altri numerosi casi identici (seriali), la cui trattazione viene sospesa in modo da consentire al
governo interessato di introdurre soluzioni riparatorie e preventive di violazioni ripetute o strutturali. Dal
punto di vista giurisprudenziale le sentenze pilota sono spesso di scarso interesse, poiché riprendono
precedenti non contestati.

L’opera che si richiede “all’interprete” della giurisprudenza della Corte europea è dunque complessa e tale
spesso da non condurre a risultati univoci. Quanto alla ricostruzione della giurisprudenza della Corte
europea, il sistema stesso convenzionale ammette che i giudici dissidenti, possano allegare alle sentenze le
loro opinioni separate, dissidenti o concordanti. L’esistenza di tali opinioni separate dimostra la non
incontrovertibilità dell’analisi dei precedenti.

2.8 L’efficacia delle sentenze della Corte europea nel sistema convenzionale

La giurisprudenza della Corte riguarda tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, sia pure con le
differenze che derivano dalla varietà di sistemi normativi e con gli effetti del margine di apprezzamento
nazionale. Innanzitutto, l’adeguarsi alle statuizioni della Corte consente agli Stati di prevenire violazioni.
Oltre all’art. 1 Conv, anche lo Statuto del Consiglio d’Europa impone agli Stati che ne fanno parte di
riconoscere e proteggere i diritti fondamentali delle persone. In caso di inadempimento, lo Stato può essere
sospeso o escluso dal Consiglio. In forza dello Statuto del Consiglio, gli Stati membri sono tenuti ad
osservare la Convenzione nell’interpretazione che ne dà la Corte europea. Al complesso normativo che
deriva dalla giurisprudenza della Corte europea fanno riferimento tutti gli Stati europei, anche
nell’interpretazione e applicazione che ne fanno i loro giudici, le loro corti supreme, le loro corti
costituzionali.

Il vincolo di conformità agli obblighi internazionali e a quelli derivanti dalla Convenzione, si impone ai
giudici, ma anche all’amministrazione pubblica nel suo agire e al Parlamento nel legiferare. A quest’ultimo
incombe curare che la legislazione che i giudici sono chiamati ad applicare sia conforme alla Convenzione,
in modo che la sua interpretazione adeguatrice sia possibile o non necessaria. Per evitare che la legge
interna entri in conflitto con la Convenzione occorre che al giudice sia lasciato un margine di discrezionalità
nel decidere, in modo che sia possibile adattare la decisione alle particolarità del caso.

CAP 3- LA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO

3.1 La posizione della Convenzione dell’ordinamento giuridico italiano


Con la ratifica (1995) della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani, l’Italia non ha soltanto
riconosciuto un certo numero di diritti impegnandosi ad assicurarli a tutti coloro che si trovino nella sua
giurisdizione, ma ha anche aderito a un sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali. La Corte
europea dei diritti umani è competente per l’interpretazione e applicazione della Convenzione e per la
decisione dei ricorsi a essa presentati. Gli Stati che sono parte del sistema si sono impegnati a dare
esecuzione alle sentenze della Corte.

La questione relativa all’influenza nell’ordinamento italiano del diritto dei diritti umani è definita ora
dall’art. 117 Cost. Con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007 la Corte costituzionale ha riconosciuto alle
norme della Convenzione europea il rango di norme interposte nel giudizio di costituzionalità delle leggi
nazionali.

Il tema dei rapporti tra Convenzione e ordinamento interno e dunque, del rango della Convenzione nel
nostro ordinamento, ha generato un acceso dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, almeno fino
all’intervento della giurisprudenza costituzionale nel 2007, successivamente rimessa in discussione in
seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.

L’importanza della soluzione del tema del rango della Convenzione europea nell’ordinamento italiano
deriva proprio dalla notevole portata evolutiva della Convenzione con riferimento ad ogni settore del diritto
interno. Sul punto sono intervenute due sentenze della Corte Costituzionale del 22 ottobre 2007, la n. 348 e
la n. 349. Il percorso che ha condotto la Corte costituzionale alle due sentenze del 2007 è stato difficile,
sbloccato solo dalla riforma dell’art. 117 Cost nel 2001, che al suo comma 1 stabilisce che la potestà
legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Nella sentenza n. 349/2007 la Corte costituzionale ha affermato che il nuovo articolo 117 Cost ha colmato
una lacuna che esisteva in precedenza “a dispetto di uno degli elementi caratterizzanti dell’ordinamento
giuridico fondato sulla Costituzione, costituito dalla forte apertura al rispetto del diritto internazionale e più
in generale delle fonti esterne.

Con le due sentenze nn 348 e 349/2007 la Corte costituzionale ha affermato che:

 Il contenuto dell’obbligo internazionale derivante dalla Convenzione europea dei diritti umani
corrisponde a quanto si ricava dall’interpretazione datane dalla Corte europea, nell’esercizio della
sua competenza a interpretare e applicare la convenzione
 Il giudice nell’applicare la legge nazionale italiana deve interpretarla in modo da assicurarne la
compatibilità con la Convenzione
 In caso d’impossibilità d’interpretazione conforme è esclusa la possibilità che il giudice disapplichi la
legge
 In tal caso, invece, il giudice deve sollevare questione di costituzionalità per il contrasto della legge
con l’art 117 cost rispetto al quale la Convenzione opera come norma interposta
 L’incompatibilità della legge interna con la Convenzione determina la sua incostituzionalità, salvo
che la Convenzione stessa, sia in contrasto con la Costituzione

Il sistema delineato dalla Corte costituzionale si completa con l’indicazione della differenza che distingue il
diritto della Convenzione europea dal diritto dell’Ue e dalla sua Carta dei diritti fondamentali. La Corte
costituzionale ha affermato che, diversamente dal diritto comunitario, la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sovranazionale ma costituisce un modello di diritto
internazionale pattizio, idoneo a vincolare lo Stato, ma improduttivo di effetti diretti nell’ordinamento
interno.
In applicazione della Convenzione prevale sempre la norma che offre la maggior tutela al diritto
fondamentale considerato (art 53 Conv). in questo senso va letta la sentenza n 349/2007 che afferma che
spetta alla Corte costituzionale verificare se le stesse norme Cedu, nell’interpretazione data dalla Corte di
Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla
Costituzione italiana. La sentenza n.348/2007 esprime però una posizione diversa, dove esclude che le
pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di
costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi ad un bilanciamento tra il vincolo
degli obblighi internazionali, imposto dall’art 117 Cost, e la tutela degli interessi protetti e contenuti in
alcuni articoli della Costituzione.

La corte ha affermato che il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una
diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve costituire
uno strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. L’art 53 della Convenzione stabilisce che
l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle
fonti nazionali. La Corte ha aggiunto che “spetta alla Corte europea di decidere sul singolo caso e sul singolo
diritto fondamentale, mentre appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni
diritti fondamentali si sviluppi in maniera squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla
Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea.

La Corte costituzionale, quando si tratta di bilanciare diritti costituzionalmente rilevanti, afferma che il
bilanciamento non deve condurre alla “illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei
confronti della altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel
loro insieme, espressione della dignità della persona”. Il bilanciamento, deve, perciò rispondere a criteri di
proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei
valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuni di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria,
sistematica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati. A tal proposito, la Corte
costituzionale rivendica per sé un “margine di apprezzamento” con riferimento al bilanciamento da
effettuare.

L’evoluzione dell’interpretazione e applicazione dei diritti protetti dalla Convenzione da parte della Corte
europea non necessariamente percorre sempre lo stesso senso di marcia, verso un’estensione della tutela.
Un’evoluzione in questo senso è un’eventualità da ritenere eccezionale ma non impossibile. Non è dunque
da escludere l’ipotesi che sia riconosciuta l’incostituzionalità di una legge nazionale, per il contrasto con la
giurisprudenza della Corte europea, la quale successivamente ritorni sui suoi passi in modo tale che,
rispetto alla nuova giurisprudenza, il contrasto rilevato non appaia.

Nel diritto costituzionale la materia dei diritti fondamentali non può più essere ristretta alla dimensione
nazionale, ma essa tende sempre più a una dimensione universalistica, sia come effetto delle Carte e
dichiarazioni internazionali, sia come effetto della giurisprudenza internazionale e specificamente europea,
sia infine come naturale prodotto del dialogo culturale in atto tra le corti costituzionali.

3.2 L’interpretazione adeguatrice della legge interna alla convenzione

Anche quando non si prospetti un contrasto tra la legge nazionale e la Convenzione, il giudice utilizza la
Convenzione per assicurare un’applicazione della legge nazionale in sintonia con le esigenze convenzionali.
La fase dell’interpretazione adeguatrice o conforme esprime un limite all’accentramento del controllo di
costituzionalità nelle mani della Corte costituzionale. Sia l’interpretazione adeguatrice cui sono tenuti i
giudici, sia la formulazione della questione di costituzionalità quando l’interpretazione adegutrice non sia
possibile, sia il conseguente giudizio di costituzionalità richiedono la ricostruzione del contenuto del diritto
convenzionale di cui si tratta. Al giudice nazionale spetta la ricostruzione del tenore della giurisprudenza
elaborata dalla Corte europea. Il giudice nazionale, tenuto a evitare che lo Stato si renda responsabile di
violazione della Convenzione, orienta l’applicazione della legge interna, anche quando non vi sia una
sentenza della Corte europea specifica rispetto al caso da decidere. I diritti e le libertà che gli Stati europei
si sono impegnati a rispettare accettandone l’elenco contenuto nella Convenzione, non sono radicalmente
diversi da quelli che si ritrovano nelle Costituzioni nazionali.

CAP 4- ORIGINE E STRUTTURA DEL SISTEMA

4.1 Origine ed evoluzione del sistema Ue di tutela dei diritti fondamentali

Benché la Cee sia stata istituita nel 1957 allo scopo di creare un mercato comune europeo, già dal 1969 la
Corte di giustizia ha qualificato i diritti fondamentali della persona come principi generali del diritto
comunitario, la cui salvaguardia “va garantita entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità”.
Tale orientamento giurisprudenziale è stato codificato dal Trattato sull’Unione Europea del 1992, il cui art 6
ha sancito l’obbligo di rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea e dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.

Nel Consiglio europeo di Colonia del 1999, gli Stati membri hanno deciso l’elaborazione di una Carta dei
diritti, conferendo mandato a una “Convenzione” composta da membri delle istituzioni comunitarie e da
parlamentari nazionali. È stata così redatta la Carta di Nizza, il 7 dicembre 2000, da Parlamento europeo,
Consiglio e Commissione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, contenente un catalogo di
diritti fondamentali suddivisi in sei titoli (Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia) e
seguiti da un gruppo di disposizioni generali in materia d’interpretazione e applicazione della Carta stessa.
Benchè inizialmente sprovvista di vincolatività giuridica, la Carta di Nizza è annoverata tra le fonti
d’identificazione dei diritti fondamentali nel regolamento dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali,
creata nel 2007. La carta è stata infine “giuridicizzata” dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007
ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che ne ha sancito l’equiparazione, sul piano del valore giuridico, ai
trattati istitutivi, pur non incorporandola nel testo degli stessi.

4.2 La tutela giurisdizionale. La Corte di giustizia dell’Unione Europea

La Corte di giustizia non è un giudice dei diritti fondamentali, ma ha il compito di assicurare il rispetto del
diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati (art 19 Tue) sui quali si fonda l’UE, controllando la
legittimità degli atti delle istituzioni dell’UE e vigilando sull’osservanza da parte degli Stati membri degli
obblighi derivanti dai Trattati. Dunque, la tutela dei diritti fondamentali non è altro che un effetto indiretto
dell’attività della Corte.

Quanto all’accesso alla tutela giurisdizionale, la Corte di giustizia può essere adita dalla Commissione
europea o dagli Stati membri, con il ricorso per infrazione, teso all’accertamento di eventuali
inadempimenti statali agli obblighi previsti dai trattati. La Corte può anche essere investita di ricorsi di
annullamento, volti a promuovere un controllo di legittimità su atti legislativi, atti del Consiglio, della
Commissione e della BCE, nonché di organi e organismi Ue. A seguito del ricorso, che deve essere promosso
entro due mesi dalla pubblicazione, notificazione o conoscenza dell’atto contestato, la Corte può annullare
quest’ultimo, ove riscontri un vizio di incompetenza, violazione di forme sostanziali, violazione dei trattati
ecc. Le persone fisiche e giuridiche hanno una legittimazione attiva più limitata di Stati e istituzioni Ue a
proporre ricorso in annullamento, infatti possono impugnare unicamente gli atti che li interessano
direttamente come decisioni, regolamenti o atti non legislativi di carattere generale.

Rispetto al ricorso in carenza, atto a sanzionare l’eventuale inerzia delle istituzioni europee, la
legittimazione attiva spetta sia alle istituzioni e agli Stati, sia ai singoli. Quest’ultimi, tuttavia, dispongono del
locus standi solo per lamentare che istituzioni, organi o organismi dell’Unione abbiano omesso di emanare
nei loro confronti un atto diverso da raccomandazione o parere.

Un’ulteriore forma di ricorso diretto è quello per ottenere il risarcimento del danno da responsabilità
extracontrattuale delle istituzioni o degli agenti dell’Ue. La legittimazione spetta ai singoli. La forma di
ricorso che ha conosciuto maggior fortuna è il ricorso per interpretazione pregiudiziale, tramite il quale il
giudice nazionale diviene “giudice comune” del diritto Ue, ossia l’istanza giurisdizionale in grado di
approntare tutela diretta e immediata ai diritti conferiti ai singoli dall’ordinamento dell’Ue. Questo viene
promosso dalle autorità giurisdizionali degli Stati membri, le quali hanno la facoltà di sottoporre alla Corte
questione di interpretazione dei trattati, o di validità e interpretazione degli atti di istituzioni, organi od
organismi Ue Le sentenze interpretative della Corte sono generalmente funzionali alla verifica della
compatibilità del diritto interno con quello dell’Ue. Le sentenze in tema di validità di atti di diritto derivato
possono essere esaminate anche oltre il decorso del termine bimestrale previsto. I criteri interpretativi
presi in considerazione sono l’interpretazione teleologica e il principio dell’effetto utile. La Corte è
pervenuta all’elaborazione di nozioni giuridiche autonome da utilizzare nell’interpretazione degli atti di
diritto primario e derivato dell’Ue. Quanto alla procedura, le pronunce della Corte sono precedute dalla
presentazione di conclusioni da parte dell’Avvocato generale, che esprime un parere giuridico sulla
controversia, prospettandone una possibile soluzione, cui la Corte non è però vincolata. Le sentenze della
Corte sono collegiali.

4.3 Ambito applicativo dei diritti fondamentali Ue. Istituzioni, organi e organismi dell’unione (art. 51/1
Carta Ue).

Sono soggetti al sindacato della Corte le istituzioni, organi e organismi dell’Unione. Gli atti delle istituzioni
devono essere interpretati e applicati con modalità atte a garantire il rispetto dei diritti fondamentali e
possono essere sindacati innanzitutto dalla Corte di giustizia. La vincolatività della Carta, conseguita con
l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, comporta, da un lato, che le disposizioni della stessa possano
essere utilizzate come parametri di legittimità degli atti dell’Unione; dall’altro, vista l’equiparazione del
valore della Carta a quello dei trattati, i diritti fondamentali rivestono un rango superiore rispetto a quello
dei diritti fondamentali derivanti dalla Convenzione europea che, in quanto principi generali del diritto
dell’Unione, si collocano in posizione intermedia tra il diritto primario e quello derivato. La Corte di giustizia
appare sempre più propensa a utilizzare direttamente la Carta, senza la mediazione della Convenzione.

La Corte di giustizia ha sottolineato che il controllo di conformità ai diritti fondamentali di qualsiasi atto
dell’Unione ha valore di garanzia costituzionale e si svolge nelle forme ordinarie anche rispetto ad obblighi
internazionali assunti dall’Unione, dal momento che gli accordi internazionali vincolano le istituzioni e sono
idonei a prevalere sul diritto derivato, ma hanno rango inferiore nell’ordinamento Ue rispetto al diritto
primario e ai principi generali del diritto dell’Unione, tra cui i diritti fondamentali.

4.4 Ambito applicativo dei diritti fondamentali Ue. Gli Stati membri “nell’attuazione del diritto
dell’Unione” (art 51/1 Carta Ue)

Ai sensi dell’art. 51/1 Carta Ue, sono tenuti al rispetto dei diritti fondamentali garantiti dall’Ue gli Stati
membri, ma esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Il controllo comunitario, dunque,
interviene solo nella misura in cui il diritto fondamentale invocato sia collegato a una situazione giuridica la
cui disciplina sia oggetto specifico del trattato e non riguarda situazioni puramente interne di uno Stato.

Gli Stati membri sono tenuti a rispettare i diritti fondamentali comunitari, sia quando attuino in senso
proprio il diritto dell’Unione, sia quando pretendano di derogarvi in forza di proprie esigenze imperative di
interesse generale. Sotto il primo profilo, rientrano l’adozione di misure di implementazione di atti
normativi dell’Ue (es le direttive), ma anche l’uso di strumenti normativi in settori di competenza statale
esclusiva, a presidio di interessi specifici dell’Ue. In relazione al secondo profilo, vengono in rilievo le
fattispecie ove gli Stati membri pongano in essere misure nazionali suscettibili di ostacolare la libera
circolazione di merci, persone, servizi e capitali garantita all’interno dell’Unione. Dette misure sono
ammissibili solo per i motivi di interesse generale previsti al Tfue, oppure sul fondamento di esigenze
imperative d’interesse generale codificate dalla giurisprudenza della corte di giustizia. La Corte di giustizia
ha chiarito che eventuali misure nazionali derogatorie alle libertà di circolazione devono essere conformi ai
diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento dell’Ue, rivendicando la propria competenza a effettuare il
controllo di conformità.

4.5 Rapporti tra livello Ue e livello nazionale di tutela dei diritti fondamentali (art 53 Carta Ue). Ruolo
delle “tradizioni costituzionali comuni” (art 52/4 Carta Ue).

Quando atti degli Stati membri sono soggetti al sindacato della Corte di giustizia circa il rispetto dei diritti
fondamentali, occorre determinare lo standard di tutela da applicare, in caso di divergenza tra livello Ue e
livello nazionale di protezione di uno stesso diritto fondamentale. Si pone cioè l’interrogativo se gli Stati
membri siano tenuti al rispetto di un determinato diritto fondamentale nella versione accolta dal proprio
ordinamento costituzionale, oppure in quella contemplata dalla Carta dei diritti fondamentali o dalla
Convenzione europea. La Corte di giustizia dovrebbe applicare lo standard di protezione dell’Ue, poiché la
garanzia dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione di un singolo Stato membro non può prevalere
sul diritto dell’Unione, con conseguente allineamento degli standard nazionali a quello dell’Ue. In base a
una diversa opinione, dovrebbe prevalere lo standard di tutela del singolo Stato membro, secondo il
paradigma del “livello più elevato di tutela possibile”.

La Corte di Giustizia ha affermato che non è indispensabile che una misura restrittiva emanata dalle
autorità di uno Stato membro corrisponda a una concezione condivisa da tutti gli Stati membri
relativamente alle modalità di diritto fondamentale.

L’art 53 Carta Ue precisa che nessuna disposizione della Carta deve essere interpretata come limitativa o
lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione
delle costituzioni degli Stati membri. L’intangibilità dei diritti fondamentali garantiti dalle Costituzioni
nazionali opera nella rispettiva sfera di applicazione dei diversi strumenti, pertanto non consente agli Stati
membri, nell’ambito applicativo del diritto Ue, di opporre invariabilmente il proprio più elevato standard di
tutela al fine di derogare all’applicazione del diritto Ue.

Nella sentenza Melloni del 2009, relativa al mandato d’arresto europeo, la Corte di giustizia ha escluso che
l’art 53 Carta Ue “autorizzi in maniera generale uno Stati membro ad applicare lo standard di protezione dei
diritti fondamentali garantito dalla sua Costituzione quando questo è più elevato di quello derivante dalla
Carta e ad opporlo all’applicazione di disposizioni di diritto dell’Unione”, osservando che tale
interpretazione sarebbe lesiva del principio del primato del diritto dell’Unione.

La Corte ha affermato che l’introduzione o il mantenimento degli standard nazionali di tutela dei diritti
fondamentali è consentito, a condizione che non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta.

Ciascuno Stato membro può invocare, quali controlimiti, proprie peculiari modalità di tutela dei diritti
fondamentali, ma solo a patto di non compromettere la tutela dei diritti approntata dalla Carta, né il
primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Ue. Le tradizioni costituzionali del singolo Stato membro
possono, pertanto, venire in rilievo solo se rappresentano peculiari modalità di tutela di diritto
fondamentali già riconosciuti dall’ordinamento dell’Unione, e corrispondenti a tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri. Spetta poi alla Corte di giustizia vagliare, caso per caso, l’opponibilità al diritto
dell’Unione di standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, prendendo in considerazione sia
l’esistenza di una disciplina europea armonizzata di tutela di detto diritto, sia in rilievo di eventuali aspetti
fondanti dell’identità costituzionale degli Stati membri. Attraverso detto meccanismo, la Corte decide se e
quali valori, pur peculiari a un determinato stato membro, possano essere incorporati nella nozione
europea dei diritti fondamentali, e diventare dei controlimiti condivisi.

4.6 Forza espansiva dei diritti fondamentali e tensione con il principio delle competenze attribuite all’Ue
(art 51/2 Carta Ue)
La Carta Ue enuncia un catalogo di diritti fondamentali attinenti a ogni settore giuridico e non limitati alle
sole materie di competenza dell’Ue. Al contempo, l’art 51/2 Carta Ue puntualizza che lo strumento “non
estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce
competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze definite nei trattati”. Questo
perché si segue il principio di attribuzione delle competenze iscritto nell’art 5 Tue, secondo cui l’Unione
agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per
realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati
appartiene agli Stati membri.

L’enunciazione di un catalogo di diritti fondamentali è suscettibile di determinare un fenomeno di


espansione delle competenze dell’Unione, secondo il fenomeno della c.d.”incorporation”. In primo luogo, i
diritti enunciati dalla Carta presuppongono l’insorgere, a carico dell’Unione e dei Paesi membri, di obblighi
positivi di promozione dei diritti stessi, la cui attuazione comporta l’adozione di misure attive, nei settori cui
i diritti si riferiscono; in secondo luogo, la Corte di giustizia tende a interpretare in modo estensivo la
nozione di “ambito applicativo del diritto Ue” nei quale gli Stati membri sono soggetti al controllo circa il
rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta e a espandere la propria attività giurisdizionale di
tutela; in terzo luogo, la Corte è propensa a un utilizzo estensivo dei divieti di discriminazione in base alla
nazionalità e al sesso e del principio di libera circolazione dei cittadini dell’Unione. Infine, la Corte di
giustizia ha chiarito che gli Stati membri sono tenuti a non compromettere l’effetto utile dell’Unione, anche
quando esercitino le proprie competenze esclusive.

4.7 Rapporti tra sistema Ue e sistema della Convenzione europea di tutela dei diritti fondamentali. Il
coordinamento dal punto di vista dell’Ue (artt 52/3 e 53 Carta Ue)

La Carta Ue si preoccupa del coordinamento con la Convenzione europea, stabilendo che la Carta deve
essere interpretata conformemente alla Convenzione, oppure, eventualmente, in modo da garantire un
innalzamento del livello di protezione offerto da quest’ultima, e non mai un abbassamento. L’art 52/3 Carta
Ue stabilisce infatti l’identità di significato e portata dei diritti della Carta “corrispondenti” a quelli garantiti
dalla Convenzione salva la possibilità che “il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”. L’art 53
Carta Ue vieta un’interpretazione delle disposizioni della Carta che si risolve in una limitazione o lesione dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalla Convenzione.

Sul piano teorico, a norma dell’art 52/3 Carta Ue, il livello di protezione dei diritti fondamentali apprestato
dalla Convenzione europea costituisce un minimum standard inderogabile, rispetto al quale la Carta può
apprestare un livello di tutela più elevato. L’applicazione pratica di tale meccanismo non è altrettanto
semplice, essendo evidente la difficoltà di stabilire, in ciascun caso concreto, quale sia lo “standard di tutela
più elevato”, poiché generalmente ogni innalzamento del livello di protezione di un diritto è
controbilanciato dalla corrispondente limitazione di altri diritti fondamentali concorrenti.

4.8 Il coordinamento dal punto di vista della Convenzione. La giurisprudenza della Corte europea.

Gli Stati membri dell’Ue rimangono responsabili per le eventuali violazioni della Convenzione derivanti da
atti o comportamenti loro ascrivibili, benché adottati in attuazione del diritto dell’Unione. La Corte europea
ritiene esercitabile un sindacato pieno circa la conformità alla Convenzione di atti e attività statali di
attuazione del diritto primario dell’Unione (ossia dei trattati istitutivi), in base al rilievo che quest’ultimo
non è soggetto ad alcun sindacato giurisdizionale da parte della Corte di giustizia. La Corte europea esercita
poi il proprio controllo su atti e attività statali di attuazione del diritto Ue derivato, con modalità differenti a
seconda del margine di discrezionalità di cui gli Stati dispongono. Se lo Stato interessato gode di un margine
di discrezionalità, il sindacato della Corte europea si svolge nelle forme usuali e lo Stato rimane pienamente
responsabile per eventuali violazioni della Convenzione; se non dispone di alcun margine, il sindacato non è
precluso, ma si svolge in forma attenuata. La misura statale adottata è assistita da una presunzione di
conformità alla Convenzione, derivante dalla tendenziale equivalenza, sul piano sostanziale e procedurale,
del sistema di protezione dei diritti fondamentali previsto dall’ordinamento dell’Ue rispetto a quello della
Convenzione. Questa presunzione è ribaltabile, con ritorno della Corte europea al sindacato pieno, solo in
caso di accertata “manifesta insufficienza” di protezione Ue di un dato diritto fondamentale. La Corte ha
giustificato l’adozione di questa soluzione con la necessità di tenere conto del duplice ordine di obblighi
internazionali (doppia fedeltà) gravanti sugli Stati contraenti, tenuti sia al rispetto della Convenzione che
agli obblighi dell’Ue.

Ma, in presenza di significativi limiti del sistema di protezione Ue dei diritti fondamentali e in assenza di
adesione dell’Unione alla Convenzione, l’adozione del paradigma della presunzione astratta di equivalenza,
ribaltabile solo per manifesta insufficienza della protezione, rischi di abbassare lo standard convenzionale di
tutela dei diritti, esigibile nei confronti degli Stati contraenti membri dell’Ue. Tale abbassamento darebbe
incoerente rispetto allo stesso disposto della Carta Ue, che assume la Convenzione a minimum standard
inderogabile di protezione dei diritti fondamentali e foriero di ineguaglianze al cospetto degli Stati
contraenti della Convenzione e non membri dell’Unione.

La Corte europea ha puntualizzato che la presunzione di equivalenza opera nei limiti in cui la Corte di
giustizia dell’UE abbia già esaminato la fattispecie e, pertanto, il meccanismo di protezione Ue dei diritti
fondamentali abbia potuto in concreto essere attivato.

4.9 Il coordinamento nel futuro. La problematica adesione dell’Ue alla Convenzione europea

Il coordinamento vero e proprio tra i due sistemi di tutela potrà dirsi realizzato con l’adesione dell’UE alla
Convenzione europea, prevista dall’art 6/2 Tue. Un negoziato avviato nel 2010 prevedeva l’adesione
dell’Unione alla Convenzione, al Protocollo addizionale e al Protocollo n 6 relativo all’abolizione della pena
di morte, introducendo degli adattamenti per evitare che l’adesione incidesse sulla distribuzione delle
competenze tra Unione e Stati membri e sulle attribuzioni di ciascuna delle istituzioni dell’Unione, ma la
Corte di giustizia ha espresso parere negativo, ritenendo che l’accordo pregiudicasse la specificità e
l’autonomia del diritto dell’Unione per vari motivi:

 la Corte ha richiamato l’art 53 Carta Ue secondo cui l’applicazione di standard nazionali di tutela
non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, né il primato, l’unità e l’effettività
del diritto dell’Unione, per evidenziare che l’accordo di adesione non prevede alcuna clausola di
coordinamento tra detta disposizione e l’art 53 Conv, il quale invece consente agli Stati di applicare
standard di tutela dei diritto fondamentali più elevati di quelli garantiti dalla Convenzione.
 In secondo luogo, la Corte ha evocato le specificità del sistema di controllo Ue sul rispetto dei diritti
fondamentali, in particolare il principio di fiducia reciproca nei settori della cooperazione giudiziaria
civile e penale, visti, asilo e immigrazione, che obbliga ciascuno Stato membro a presumere il
rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri e l’assenza di proprie competenze
giurisdizionali nel settore della politica estera e di sicurezza. Ad avviso della Corte, l’adesione
dell’Unione alla Convenzione, comportando la necessità che ciascuno Stato membro verifichi in
concreto il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri e sottoponendo
l’Unione alla giurisdizione della Corte dei diritti umani anche nel settore della Pesc, compromette
l’equilibrio dell’Unione. Anche questa argomentazione è apparsa poco convincente ai
commentatori. Infatti, la Corte europea dei diritti umani prevede già l’obbligo di valutare, prima di
dare attuazione ai meccanismi di cooperazione propri dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, il
rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali.
 La Corte ha considerato la previsione, contenuta nel Protocollo n.16 alla Convenzione, che
autorizza le giurisdizioni nazionali di ultimo grado a rivolgere alla Corte dei diritti umani domande di
pareri consultivi sull’interpretazione o applicazione della Convenzione o dei suoi protocolli.
 Poiché con l’adesione, la Convenzione diventerebbe parte integrante del diritto dell’Unione, l’art.
33 Conv consentirebbe di sottoporre controversie relative al diritto dell’Unione alla giurisdizione
della Corte europea dei diritti umani.
 Infine, la Corte di giustizia ha mosso critiche al meccanismo del c.d. “convenuto aggiunto” previsto
dall’accordo di adesione, che avrebbe consentito la partecipazione dell’Ue ai procedimenti
introdotti contro uno o più Stati membri e concernenti violazioni della Convenzione causate da atti
e attività statali di attuazione del diritto Ue o viceversa.
(NON CI HO CAPITO UN CAZZO)

4.10 Le limitazioni all’esercizio dei diritti sanciti dalla Carta (art 52/1 e 2 Carta Ue)(rinvio) e il divieto di
abuso del diritto (art 54 Carta Ue)

L’art. 54 Carta Ue vieta di interpretare le disposizioni della Carta nel senso di comportare il diritto di
esercitare un’attività o compiere un atto che miri a distruggere diritti o libertà riconosciuti nella Carta o a
imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla Carta.

4.11 Carte o obblighi positivi. La distinzione tra diritti e principi (art 52/5 Carta Ue)

La Carta Ue, oltre a porre a carico dell’Unione e degli Stati membri obblighi negativi di non ingerenza dei
diritti da essa garantiti, impone altresì obblighi positivi:

 Di promozione dei diritti fondamentali;


 Di protezione dei diritti da lesioni poste in essere da altri soggetti privati;
 Obblighi a carico dei privati di rispetto dei diritti fondamentali nelle relazioni interprivate (es.
divieto di discriminazione in base al sesso in materia di condizioni retributive; divieto di
discriminazione in base alla cittadinanza, età, religione ecc)

4.12 Le pietre angolari del sistema Ue di tutela dei diritti fondamentali. Il divieto di discriminazione in
base alla nazionalità e la cittadinanza dell’Unione

Originariamente concepito per la realizzazione del mercato comune europeo, per incoraggiare la libera
circolazione del capitale umano e de fattori produttivi, il divieto di discriminazione in base alla nazionalità
rappresenta il principio fondamentale del diritto Ue, espressione del principio generale di uguaglianza. È
provvisto di effetto diretto e si applica a tutti gli atti e comportamenti delle autorità pubbliche, comunitarie
e nazionali, nonché ai rapporti tra privati, con due limitazioni:

 I beneficiari del divieto sono i soli cittadini degli Stati membri e le persone giuridiche aventi la
nazionalità di uno Stato membro, ad esclusione di persone fisiche e giuridiche di Stati terzi;
 Il principio si applica in tutte e sole le situazioni di rilevanza “comunitaria”, ossia nei settori ove il
Tfue prevede una competenza dell’Ue, ma anche nei settori di competenza degli Stati membri, ogni
qualvolta la disciplina nazionale incida sull’esercizio delle libertà di circolazione.

La situazione di esercizio della libertà di circolazione, atta a determinare l’applicazione del divieto di
discriminazione in base alla nazionalità, consiste non solo nello spostamento del cittadino di uno Stato
membro verso un diverso Stato membro, ma anche nel ritorno nel proprio Stato nazionale, nonché nella
nascita e residenza in uno Stato diverso da quello di cittadinanza e di possesso di doppia cittadinanza.

Quanto ai contenuti del divieto, sono proibite le discriminazioni dirette o formali, ossia le distinzioni di
trattamento che hanno come effetto quello di sfavorire i cittadini di altri Stati membri, escludendo o
limitando l’accesso a diritti garantiti ai cittadini nazionali, o imponendo ai soli stranieri condizioni speciali
(quali la residenza). Sono altresì vietate le discriminazioni indirette, ossia risultanti dall’applicazione di
criteri apparentemente neutri rispetto alla cittadinanza (tipicamente la residenza o la conoscenza di una
determinata lingua), che tuttavia producono effetti sfavorevoli a carico dei non cittadini.
Mentre le discriminazioni dirette che non ammettono giustificazioni come quelle per motivi di ordine
pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica, le discriminazioni indirette sono ammissibili se
giustificate da considerazioni oggettive, indipendenti dalla cittadinanza dei lavoratori interessati. La Corte
provvederà a valutare le varie situazioni, considerando la legittimità del trattamento.

Altro caposaldo del diritto Ue è la cittadinanza dell’Unione, istituita dal Trattato di Maastricht e
attualmente disciplinata dall’art. 20 Tfue. Il suo acquisto o la sua perdita dipendono dall’attribuzione o dalla
revoca della cittadinanza di uno Stato membro. Spetta agli Stati membri disciplinare le modalità di acquisto
e perdita della propria cittadinanza – e, di conseguenza, di quella dell’Unione – ma tale competenza deve
essere esercitata nel rispetto del diritto Ue. Rientra nell’ambito applicativo del diritto Ue la situazione del
cittadino dell’Unione che subisca la revoca della cittadinanza da parte di uno Stato membro, essendo detta
misura idonea a far venir meno lo status di cittadino dell’Unione e di diritti a esso correlati.

Dal possesso della cittadinanza dell’Unione discendono:

 il diritto di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati membri;


 il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello
Stato membro di residenza;
 il diritto di godere della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro,
alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
 il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di
rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di
ricevere una risposta nella stessa lingua;

Divieto di discriminazione in base alla nazionalità e cittadinanza dell’Unione operano sinergicamente per
garantire la parità di trattamento ai cittadini degli Stati membri che esercitino le proprie libertà di
circolazione.

4.43 Le pietre angolari del sistema Ue di tutela dei diritti fondamentali (segue). Il divieto di
discriminazione in base al sesso

Il divieto, già previsto dal Trattato istitutivo della Cee del 1957, originariamente limitato alle retribuzioni, è
stato poi esteso all’occupazione e all’impiego, ed è attualmente enumerato tra i divieti di discriminazione
che garantisce la parità tra donne e uomini in tutti i campi. Detto divieto costituisce espressione di
uguaglianza e gode di effetto diretto.

Il legislatore comunitario ha adottato una pluralità di direttive attuative dei precetti dell’art 157 Tfue,
nell’attuazione del principio della parità di trattamento in materia di accesso al lavoro, alla promozione e
alla formazione professionale, di condizioni di lavoro, compresa la retribuzione, e di regimi professionali di
sicurezza sociale. Il divieto di discriminazione in base al sesso comporta la garanzia della parità retributiva
per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari lavoro, nonché la parità di genere nell’accesso al lavoro e
nelle condizioni di impiego, inclusa la cessazione del rapporto di lavoro.

Sono vietate anzitutto le discriminazioni dirette, ossia palesemente volte a stabilire un trattamento meno
favorevole sulla base del sesso. La nozione include le discriminazioni fondate sul mutamento di sesso,
risultando dunque vietati il licenziamento di un dipendente in ragione del cambiamento di sesso, sia il
rifiuto della pensione di vecchiaia, all’età prevista per le donne, a un transessuale passato dal sesso
maschile a quello femminile, sia, infine, il diniego di rettifica di stato civile. La Corte di giustizia ha ritenuto
discriminatoria l’esclusione generalizzata delle donne da determinate attività lavorative, quali l’impiego
nella polizia di Stato, nelle forze armate, nel settore industriale o nel lavoro notturno.

Sono vietate altresì le discriminazioni indirette, ossia disposizioni, criteri o prassi apparentemente neutri
ma suscettibili di porre in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, a
meno che oggettivamente giustificati da una finalità legittima. La Corte di giustizia ha ritenuto
indirettamente discriminatorie nei confronti delle donne previsioni penalizzanti per i lavoratori part-time,
data la maggior presenza statistica di dipendenti di sesso femminile tra i lavoratori a tempo parziale,
nonché l’imposizione di un requisito minimo di statura per l’accesso a determinati concorsi per
l’arruolamento.

4.14 Le pietre angolari del sistema Ue di tutela dei diritti fondamentali (segue). I “nuovi” divieti di
discriminazione

Oggi l’art. 19 Tfue sancisce il divieto di discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, sulla religione,
convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale.

La direttiva 2000/43 vieta le discriminazioni dirette e indirette fondate sulla razza o l’origine etnica, in
materia di impiego e formazione professionale; di occupazione e condizioni di lavoro; di protezione sociale,
sicurezza sociale e assistenza sanitaria; di prestazioni sociali; di istruzione e di accesso a ben e servizi;

La direttiva 2000/78 vieta, invece, le discriminazioni dirette e indirette in base alla religione, alle
convinzioni personali, agli handicap, all’età e all’orientamento sessuale, in materia di condizioni di accesso
all’occupazione, di orientamento e formazione professionale, di condizioni di lavoro, comprese le condizioni
di licenziamento e la retribuzione, di affiliazione e attività in organizzazioni sindacali o di categoria.

Quanto al divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale, la Corte di giustizia ha ritenuto


incompatibili con la direttiva 2000/78 normative e disposizioni di contratti collettivi nazionali che
attribuivano la pensione di reversibilità al coniuge, ma non al partner del lavoratore deceduto, che
concedevano al partner una pensione complementare di vecchiaia di importo inferiore rispetto a quella
concessa a un beneficiario coniugato e non riconoscevano al partner giorni di concedo straordinario e
premi stipendiali concessi ai dipendenti in occasione del matrimonio.

La Corte ha poi ritenuto che il rifiuto di ingaggiare un giocatore in quanto gay, costituisse indizio di
discriminazione, da stigmatizzare con sanzioni effettive.

Quanto alla discriminazione in base agli handicap, detta nozione designa ogni limitazione risultante da
menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale possa ostacolare la piena ed effettiva
partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri
lavoratori. Eventuali differenze di trattamento nei confronti dei disabili non integrano discriminazioni
vietato dove, vista la natura o le condizioni di esercizio di una determinata attività, la caratteristica non
posseduta dai disabili costituisca un requisito essenziale e determinante dello svolgimento dell’attività, e la
limitazione sia conforme al principio di proporzionalità.

Il datore di lavoro è obbligato ad adottare misure di accomodamento in favore dei disabili quali
l’adattamento dei locali di lavoro, attrezzature, ritmi di lavoro e ripartizioni dei compiti, nonché l’eventuale
riduzione dell’orario di lavoro.

Quanto al divieto di discriminazione in base all’età, la direttiva 2000/78 legittima gli Stati membri a
prevedere disparità di trattamento in base all’età giustificate da obiettivi di politica di lavoro, di mercato di
lavoro e di formazione professionale, e a fissare per i regimi professionali di sicurezza sociale un’età per
poter accedere o aver titolo alle prestazioni pensionistiche o all’invalidità. Nell’effettuare il bilanciamento
tra divieto di discriminazione in base all’età e obiettivi di politica sociale, la Corte ha considerato compatibili
con la direttiva legislazioni volte a promuovere l’inserimento professionale dei lavoratori anziani
disoccupati, l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, la formazione generale, la necessità di evitare abusi
del sistema pensionistico, l’equa ripartizione dei rischi connessi a malattia e decesso nei regimi di
previdenza complementare, la necessità di garantire lo svolgimento di servizi essenziali da part di soggetti
in piena salute fisica. La Carta Ue ha, poi, introdotto alcune disposizioni a favore di minoranze quali i minori
e gli anziani.

La Carta Ue prescrive, inoltre, il rispetto della diversità culturale, religiosa e linguistica. Infine, la Carta ha
definitivamente consacrato i principi generali di uguaglianza e non discriminazione. La Corte di giustizia ha
affermato che gli Stati membri sono tenuti al rispetto dei principi di parità di trattamento e di non
discriminazione, sanciti dagli artt. 20,21 e 23 Carta Ue.

CAP 5- DIRITTI UMANI E DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA NELL’APPLICAZIONE DEI GIUDICI NAZIONALI

5.1 Rango ed efficacia del diritto Ue nell’ordinamento italiano

La Corte di giustizia ha sottolineato che la Cee costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel
campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai
loro poteri sovrani e che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini.
A differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato Cee ha istituito un proprio ordinamento giuridico,
integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i
giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Si afferma così il primato del diritto comunitario (oggi Ue) sul
diritto nazionale che si estrinseca nell’impossibilità per gli Stati di far prevalere un provvedimento
unilaterale ulteriore, il quale pertanto non è opponibile all’ordinamento stesso.

Consegue che le norme di diritto comunitario (oggi diritto Ue), primario e derivato, fanno parte
integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente.

La Corte di giustizia ha statuito che, in presenza di una norma di diritto Ue provvista di efficacia diretta , il
giudice nazionale deve disapplicare il diritto interno contrastante, senza attenderne la rimozione da parte
della Corte costituzionale. L’obbligo di disapplicazione incombe su qualsiasi autorità pubblica.

Sono provviste di effetto diretto tutte le disposizioni di diritto Ue che siano sufficientemente chiare, precise
e incondizionate e non richiedano l’emanazione di ulteriori atti integrativi. Rientrano tra questi: divieto di
ostacolare la libera circolazione di merci e persone; divieto di discriminazione in base al sesso, cittadinanza
ecc; obblighi per gli Stati membri a lottare contro attività illecite;

Sono inoltre dotate di carattere chiaro, preciso e incondizionato le disposizioni dei regolamenti comunitari
e delle decisioni. Non è viceversa possibile per lo Stato far valere nei confronti del singolo un obbligo
imposto da una direttiva prima della trasposizione della stessa o aggravare la responsabilità penale del
singolo prima dell’attuazione della direttiva.

La Corte di giustizia ha poi enunciato l’obbligo del giudice interno di interpretare il diritto nazionale in senso
conforme al diritto Ue, a prescindere che quest’ultimo sia provvisto di effetto diretto. I limiti
all’interpretazione conforme sono l’impossibilità di far derivare un obbligo del singolo dall’interpretazione
del diritto nazionale conforme a una direttiva non trasposta, in base ai principi di certezza del diritto e di
irretroattività della legge penale, e la limitazione dell’obbligo di interpretazione conforme alle direttive il cui
termine di attuazione sia scaduto.

Il rimedio risarcitorio può venire in considerazione ove si sia verificata una violazione del diritto Ue da parte
delle autorità nazionali, non più emendabile, a causa del passaggio in giudicato della decisione giudiziaria
interna.

La Corte costituzionale italiana, dopo un iniziale atteggiamento di chiusura, già dagli anni 70 ha riconosciuto
il principio del primato del diritto comunitario, sia pure in base a una concezione dualistica del rapporto tra
ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali. Nella giurisprudenza degli anni 70, la Corte ha ritenuto
che il primato del diritto comunitario dovesse essere garantito mediante la rimozione del diritto interno
contrastante. Dopo il rigetto di tale soluzione con la sentenza Simmenthal, la Corte costituzionale ha
riconosciuto che le disposizioni della Cee immediatamente applicabili entrano e permangono in vigore nel
territorio italiano, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello
Stato, che fa parte di un ordinamento giuridico distinto.

La Corte, pur mantenendo la propria impostazione dualistica, ha pertanto riconosciuto che l’effetto diretto
produce in capo al giudice comune l’obbligo di non applicazione del diritto interno contrastante con il
diritto comunitario. La Corte costituzionale ha puntualizzato che la possibilità di disapplicare il diritto
interno è riservata alle sole ipotesi di contrasto con le norme comunitarie provviste di effetto diretto.

5.2 Rango ed efficacia dei diritti fondamentali garantiti dall’Ue nell’ordinamento italiano

I diritti sanciti dalla Carta Ue godono del primato sul diritto interno, avendo la Carta lo stesso valore
giuridico dei Trattati, ma non tutti questi diritti sono provvisti di effetto diretto e idonei a determinare la
disapplicazione del diritto interno contrastante. L’unico strumento cui il giudice interno può e deve
ricorrere per sciogliere eventuali dubbi interpretativi sul significato o la portata delle disposizioni della Carta
è il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.

La Corte ha ritenuto direttamente applicabili i divieti di discriminazione in base all’età e alla religione o
convinzioni personali, oltre che in base al sesso e alla nazionalità. L’efficacia diretta può essere riconosciuta
alle sole disposizioni della Carta che presentino le caratteristiche della chiarezza, precisione e portata
incondizionata.

Dalla giurisprudenza della Corte di giustizia comunque si trae che, con l’adesione dell’Ue alla Convenzione
europea, ogni qualvolta la Convenzione penetrerà in un ordinamento nazionale attraverso il diritto
dell’Unione, essa non potrà non godere degli stessi attributi giuridici propri del diritto dell’Unione: primato,
effetto diretto, attitudine a comportare la disapplicazione del diritto interno contrastante.

5.3 La c.d. doppia pregiudizialità e la sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale italiana

La Corte di giustizia ha evidenziato che la sussistenza, nell’ordinamento statale, del controllo di


costituzionalità accentrato non priva il giudice comune della facoltà (o obbligo) di esercitare il rinvio
pregiudiziale della causa al giudice dell’Unione. La Corte costituzionale italiana ha richiamato la sentenza
n.269/2017 per affermare che, ove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità in riferimento sia ai diritti
protetti dalla Costituzione, sia a quelli garantiti dalla Carta Ue, il giudice comune è tenuto a investire
prioritariamente della questione la Corte costituzionale. Quest’ultima giudicherà alla luce dei parametri
interni ed eventualmente di quelli europei anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta
dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali.

La corte costituzionale afferma che i giudici ordinari possono disapplicare la disposizione legislativa in
questione che abbia superato il giudizio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al
diritto dell’Unione. Tale conclusione, tuttavia, non è quella raggiunta dalla Corte di giustizia. In alcune
sentenze il meccanismo di controllo prioritario di costituzionalità viene salvato solo nella misura in cui esso
garantisca il pieno potere del giudice comune di procedere a rinvio pregiudiziale e a disapplicazione, dopo
l’intervento della Corte costituzionale, ed anche sulle stesse questioni già decise dalla stessa.

Nella sentenza Global Starnet Ltd, la Corte di giustizia ha ribadito l’obbligo, per il giudice comune di ultima
istanza, di effettuare il rinvio pregiudiziale e di disapplicare il diritto interno contrastante con il diritto Ue,
indipendentemente dalla circostanza che la Corte costituzionale abbia affermato la legittimità
costituzionale delle norme nazionali.

Deve osservarsi come la possibilità, per il giudice ordinario, di instaurare n dialogo diretto con la Corte di
giustizia, risulti coessenziale al sistema di tutela giurisdizionale dell’UE, che assegna al giudice comune il
ruolo di “giudice naturale” del diritto dell’Ue, al contempo riservando alla Corte di Lussemburgo “l’ultima
parola” circa l’ambito di applicabilità della Carta e l’idoneità di alcune sue disposizioni a produrre effetti
diretti.
Sembra, dunque, che si possa trovare una via d’uscita con la giurisprudenza della Corte di giustizia solo
consentendo al giudice comune di sottoporre ogni profilo interpretativo del diritto Ue alla corte di giustizia
e all’esito, di disapplicare il diritto interno contrastante con quello sovranazionale, sia in specie applicabile e
provvisto di effetti diretti. Ciò fatta salva la prerogativa della Corte costituzionale di opporre i controlimiti
all’ingresso nell’ordinamento di norme contrastanti con i principi supremi e diritti fondamentali sanciti dalla
Carta costituzionale. Nell’ipotesi di contrarietà del diritto nazionale a diritti garantiti dalla Carta, ma non
dalla Costituzione, dovrebbe, invece, ritenersi possibile il rinvio pregiudiziale “diretto” alla Corte di giustizia.

La Corte ha ritenuto che il giudice nazionale dovesse valutare direttamente l’eventuale disapplicazione delle
norme interne, ove contrastanti con le predette disposizioni del Tfue, dotate di efficacia diretta.

La stessa conclusione, nel senso del potere-dovere del giudice comune di procedere direttamente alla
disapplicazione, parrebbe doversi trarre in relazione agli altri divieti di discriminazione e libertà
fondamentali sanciti dal Tfue e provvisti di efficacia diretta, quali la libera circolazione di persone, merci e
capitali e i divieti di discriminazione in base alla nazionalità e al sesso.

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