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CORPUS PAULINUM

Dispense per il corso


Alessandro Biancalani
Studio Teologico Interdiocesano – Camaiore (LU)

PAOLO
DI TARSO
Anno Accademico 2016-2017
prof. Alessandro Biancalani – AA 2016-2017 Studio Teologico Interdiocesano - Camaiore
Corso N.T. (Corpus Paulinum)

Premessa generale
Le presenti dispense del corso “Corpus Paulinum e Lettere cattoliche” sono il
punto di riferimento per il test di esame degli studenti dello Studio Teologico
Interdiocesano “Monsignor E. Bartoletti” di Camaiore. Sono state scritte tenendo
presente alcuni criteri che vorrei elencare di seguito.
Didattica. Nella presentazione delle Lettere dell’apostolo si parte sempre dalla
situazione in cui è venuto ad operare Paolo, per cercare di acclimatare lo studente con
il materiale che dovrà, poi, andare a studiare in sezione.
Continuità. Per tutte le Lettere, dopo le necessarie introduzioni, è sempre posta
una Lettura della Lettera che vuole aiutare lo studente a prendere contatto con il testo
biblico. All’interno di questa lettura ho posto i rilievi esegetici, di modo da non
avere, poi, un’altra parte in cui si fossero analizzati gli approfondimenti esegesi. È
una scelta di per sé, forse, anche criticabile, ma considerando la mole del materiale da
prendere in visione per un solo esame, ho preferito lasciare le glosse esegetiche
all’interno della lettura del testo di modo che tale approfondimento risultasse più
chiaro.
Messaggio. Per ogni scritto dell’apostolo ho provveduto, al termine, a proporre
qualche linea teologica di sintesi. In questo modo non ho trattato a parte una sezione
teologica, che avrebbe comportato una difficoltà aggiuntiva allo studente. Non mi
sono neanche pronunciato sulla legittimità di una teologia sulle solo autentiche o su
tutto il corpus, ma più pragmaticamente, ho cercato di aiutare lo studente a cogliere il
messaggio che emerge, lettera per lettera.
I primi tre capitoli delle dispense, intitolati “Paolo e la sua e;rga” si occupano di
aiutare lo studente nella presa di contatto con il materiale paolino e con la sua
persona. Ho preferito trattare le questioni più strettamente legate all’apostolo e alla
sua conversione nel III capitolo, di modo che lo studio risulti più omogeneo. Difatti
lo studente dal capitolo IV sarà accompagnato all’interno del corpus letterario e,
quindi, avendo al capitolo precedente affrontato tutte le questioni legate alla persona
di Paolo potrà meglio raccordare le tematiche dello studio. I primi due capitoli,
invece, sono dedicati ad un’introduzione a tutto il materiale paolino (I) e all’ambiente
culturale, umano e religioso (II) che lo ha generato.
I capitoli successivi (IV-VI), che costituiscono la seconda parte, sono intitolati “Il
kh,rugma del Euvagge,lion tra Sofi,a e No,moj” e affrontano in maniera dinamica la
peregrinazione dell’apostolo a partire dal vangelo che ha annunziato. Il vangelo
annunziato è sempre il medesimo, ma nello stesso tempo incontrando ambiti
differenti ha bisogno ogni volta di essere specificato e riformulato. E così a
Tessalonica abbiamo il primo annuncio del vangelo (IV), a Corinto euvagge,lion
incontrerà sofi,a (V) e con i galati ed i romani dovrà confrontarsi con no,moj (VII).

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All’interno degli approfondimenti sono offerti rimandi bibliografici. Per tutte le


indicazioni rimando, comunque, alla bibliografia generale posta al termine delle
dispense.
Le Lettere della prigionia saranno trattate dalla mia assistente prof.ssa Chiara
Mariotti, che fornirà il materiale didattico necessario per seguire lo sviluppo delle sue
lezioni.

prof. Alessandro Biancalani

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Corso N.T. (Corpus Paulinum)

Indice Generale
PRIMA PARTE
“Paolo e la sua e;rga”
CAPITOLO I: Introduzione generale
1. Consistenza del materiale
1.1. Luogo e data della raccolta
1.2. La formazione del Corpus Paolino
1.3. Il formulario epistolare
2. Il mondo paolino
2.1. Paolo di fronte alla storia: simpatie e rifiuti
2.2. Un pensiero fuori dal comune
2.3. Paolo e Gesù

CAPITOLO II: l’ambiente umano, culturale e religioso di Paolo


1. Il quadro storico di riferimento
1.1. L’ellenismo come elemento unificante
1.2. La diffusione del cristianesimo
2. Alle fonti del pensiero paolino
2.1. Gli ambiti di riferimento
2.2. Il mondo ebraico
2.3. Il mondo greco

CAPITOLO III: Paolo di Tarso, rabbi ed apostolo


1. Formazione e conversione
1.1. Paolo “Ebreo da ebrei”
1.2. Il persecutore dei cristiani
1.3. L’eredità farisaica rovesciata
2. Missionario cristiano
2.1. Per una cronologia paolina
2.2. Gli eventi databili
2.3. I viaggi missionari

SECONDA PARTE
“Il kh,rugma del Euvagge,lion
tra Sofi,a e No,moj”
CAPITOLO IV: Il primo annuncio dell’euvagge,lion
1. La comunità di Tessalonica
1.1. La capitale della Macedonia
1.2. Il cristianesimo a Tessalonica
1.3. I cristiani di Tessalonica
2. La Prima Lettera ai Tessalonicesi

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2.1. Circostanze storiche


2.2. Aspetti letterari
2.3. Lettura della Lettera
2.4. Linee tematiche
2.4.1. Il kerigma primitivo
2.4.2. La sorte dei defunti
2.4.3. La vita cristiana
3. La Seconda Lettera ai Tessalonicesi
3.1. Problemi di autenticità
3.2. Il ritardo della parusia: escatologie incompatibili?
3.3. Contenuto e struttura
3.4. La lettura della Lettera

CAPITOLO V: Euvagge,lion e Sofi,a


1. Prima Lettera ai Corinti
1.1. La città di Corinto
1.2. L’evangelizzazione della città
1.3. Occasione della Lettera
1.4. Euvagge,lion incontra Sofi,a
1.5. Unitarietà ed integrità
1.6. Lettura della Lettera
1.7. Tematiche teologiche
2. La Seconda Lettera ai Corinti
2.1. Circostanze storiche della composizione
2.2. Gli avversari di Paolo
2.3. Aspetti letterari
2.4. Alcune tematiche teologiche

CAPITOLO VI: Euvagge,lion e no,moj


1. La Lettera ai Galati
1.1. Lo Euvagge,lion tou/ VIhsou/ Cristou/ in Galazia
1.2. Il passaggio ad un nuovo euvagge,lion
1.3. L’unico Euvagge,lion tou/ VIhsou/ Cristou/
1.4. Occasione della Lettera
1.5. Contenuto e struttura
1.6. Lettura della Lettera
1.7. Linee tematiche in sintesi
2. La Lettera ai Romani
2.1. L’importanza di Roma nel ministero di Paolo
2.2. I dati letterari
2.3. Contenuto e struttura
2.4. Lettura della Lettera
2.5. Alcune linee teologiche

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“Paolo e la sua e;rga”

- Introduzione generale (cap. I)


- L’ambiente umano, culturale e religioso (cap. II)
- Paolo di Tarso, rabbi e apostolo (cap. III)

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CAPITOLO I
Introduzione generale
1. CONSISTENZA DEL MATERIALE
Le lettere di Paolo entrate a far parte del canone sono tredici alle quali dobbiamo aggiungere la
Lettera agli ebrei, che merita un discorso a parte: nove indirizzate alle singole comunità; quattro a
persone singole. Precedono le lettere indirizzate a comunità e seguono quelle indirizzate a singoli.
All’interno di ognuna di queste due suddivisioni esse sono disposte in ordine decrescente di
lunghezza:
Romani 1Corinti 2Corinti Galati Efesini Filippesi Colossesi
433 437 256 149 155 104 95
1Tessal. 2Tessal. 1Timoteo 2Timoteo Tito Filemone
89 47 113 83 46 25
L’ordine cronologico delle lettere è diverso da quello canonico. Sulla base dei dati contenuti
nelle lettere stesse si può supporre una cronologia quale quella che segue. Vi sono delle incertezze
sulla collocazione delle cosiddette lettere della prigionia. Le prigionie testimoniate da Atti sono due,
quella di Cesarea e quella di Roma1.
DATA EVENTO LETTERE
30 d.C. morte di Gesù
31-33ca persecuzione degli ellenisti
34ca conversione di Paolo
36ca primo viaggio a Gerusalemme
secondo Galati (e Atti)
dopo il 36 attività di Paolo “dalle parti della
Siria e della Cilicia” (Gal 1,21)
48ca “concilio di Gerusalemme”
inverno 49/50-estate 51 a Corinto 1-2 Tessalonicesi
52-55 a Efeso Galati
1 Corinti
55 a Filippi? 2 Corinzi
inverno 55/56 a Corinto Romani
Pentecoste 56 arresto di Paolo
56-58 prigionia a Cesarea Filippesi?
Filemone?
Colossesi - Efesini?
inverno 58/59 in viaggio verso Roma e naufragio
con permanenza a Malta
primavera 59 da Malta a Roma
59-61 prigionia a Roma Filippesi?

1 La cronologia a seguire vuole semplicemente completare il quadro informativo. Ritornerò sulla ricostruzione della

cronologia paolina con dovizia di particolare nel III capitolo.

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DATA EVENTO LETTERE


Filemone?
Colossesi - Efesini?

Di queste lettere l’esegesi storico-critica all’unanimità ne ha riconosciute come autentiche sette


e cioè: Romani, 1-2Corinti, Galati, Filippesi, 1Tessalonicesi, Filemone. L’autenticità delle altre, a
titolo diverso, è stata messa in dubbio. È importante richiamare i criteri di fondo dell’esegesi
storico-critica con cui questo lavoro di attribuzione è condotto, anche se i risultati che si ottengono
rimangono soggetti a discussione e sono ben lungi dall’essere definitivi. L’autenticità paolina di
diverse epistole oggi viene negata da non pochi esegeti. Nel secolo scorso, Baur, e poi molti dopo di
lui, consideravano autentiche solo la 1 e 2 Corinti, Galati, Romani. Oggi l’autenticità di 1
Tessalonicesi, Filippesi, Filemone viene accettata dai più.
Maggiore discussione, invece, concerne 2 Tessalonicesi, Colossesi, Efesini, 1 e 2 Timoteo,
Tito. Per la lettera agli Ebrei c’è accordo unanime sulla non autenticità. Per le lettere discusse si
parla, in ogni caso, di “scuola paolina”. Il corpus canonico non contiene, purtroppo, tutte le lettere
che, di fatto, Paolo scrisse. In 1Cor 5,9 si parla di una lettera mandata ai Corinti prima della nostra
attuale 1Corinti canonica; in 2Cor 2,3-9 ed in 7,8-13 troviamo un’allusione ad una lettera
precedente, una lettera severa, “dalle molte lacrime”.
Oltre al Corpus Paulinum (14 Lettere), ci sono scritti apocrifi: la terza lettera ai Corinti che, di
fatto, è parte degli Atti apocrifi di Paolo (C.160-170); la lettera ai Laodicesi che è trasmessa da
molti manoscritti latini (manca in manoscritti greci); il frammento Muratoriano (codice) allude
anche ad una lettera agli Alessandrini e afferma che è opera dei Marcioniti; si hanno, poi, 14 lettere
di s. Paolo a Seneca (6) e di Seneca a san Paolo (8), opera del IV secolo di uno scrittore latino2.
Non sono le uniche lettere attribuite a Paolo. Il Canone di Muratori, verso la fine del II sec.
a.C. a Roma, afferma: “Fertur etiam ad Laodicenses, alia ad Alexandrinos Pauli nomine finctae ad
heresem Marcionis et alia plura, quae in catholicam ecclesiam recipi non potest: fel enim cum
melle misceri non congruit”3.
Non abbiamo lo stesso ordine delle lettere in tutte le Chiese. L’ordine canonico attuale,
tridentino, è quello più usato, fino al secolo IV, nella Chiesa latina. Non si tratta di un ordine
cronologico; di tale ordine, invece, si discute molto tra gli esegeti. Per esempio, da qualche autore la
lettera ai Galati è considerata la prima, anteriore alle due lettere ai Tessalonicesi. Possiamo
ipotizzare: 1Ts; (2Ts), 1Cor, (2Cor 10-13, forse), Fil (?), 2Cor 1-9, Gal, Rm, (Col), Fm, (Ef,
pastorali).

1.1. Luogo e data della raccolta


Quando e dove fu fatta la raccolta delle lettere paoline? Non è possibile saperlo con certezza.
Dalla 2Cor 10,9-11 sappiamo che i cristiani, vivente ancora Paolo, facevano grande uso ed avevano
grande considerazione per le sue lettere. Dalla 2 Pietro si può ricavare che una raccolta di lettere già
esisteva a Roma e probabilmente in Siria, quando questa lettera fu scritta (3,15-16)4.

2 Cf. L. BOCCIOLINI PALAGI (a cura di), Epistolario apocrifo di Seneca a S. Paolo, Firenze 1985.
3 “Ci sono in circolazione anche una lettera ai Laodicesi e un’altra agli alessandrini, scritte falsamente a nome di Paolo, e

molti altri scritti che non possono essere accolti nella chiesa cattolica: il miele infatti non deve essere mescolato con l’aceto”
(EB 5).
4 Cf. G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Assisi 1985, 205.

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Non pochi autori pensano che il corpus paolino fosse già formato alla fine del I secolo (90-100 e
forse 80); altrimenti è difficile spiegare l’uso antichissimo delle lettere presso gli scrittori
ecclesiastici 5 . Marcione (150 ca.) a Roma stilò un proprio catalogo, elencando, tra gli scritti
cristiani, 10 lettere: Galati, 1 e 2 Corinzi, Romani, 1 e 2 Tessalonicesi, Efesini, Colossesi, Filemone,
Filippesi6. Anche il P46 (Papiro 46 del 200 ca.) riporta 10 lettere in questo ordine: Rm, Eb, 1 e 2
Cor, Ef, Gal, Fil, Col, 1 e 2Ts. Nel canone Muratoriano7 vengono enumerate tutte le lettere paoline,
eccetto quella agli Ebrei.
Ci possiamo chiedere: furono raccolte insieme o in fasi successive? Alcuni autori affermano che
furono raccolte insieme, altri, invece, pensano ad una prima collezione di 7 lettere cui, poi, si
aggiunsero due raccolte (le 3 pastorali e le 3 dalla prigionia).
Un altro punto discussione riguarda il luogo dove fu fatta la raccolta. Alcune ipotesi propendono
per Corinto8, Roma, Alessandria. Probabilmente non sapremo mai con certezza la storia precisa di
tale raccolta9. Gli indizi più forti, comunque, sono a favore di due grandi città del mondo antico,
Efeso e Corinto: ambedue infatti, oltre ad essere importanti centri di cultura e di comunicazione,
avevano l’onore di ospitare un’antica e importante comunità paolina. Il posto occupato
originariamente dalle due lettere inviate alla comunità di Corinto fa ritenere che proprio in questa
città si formò la raccolta poi accettata dalle altre chiese. La formazione del corpus paolino e la sua
accettazione come parte del canone biblico ha fissato una volta per tutte l’ambito e i confini del
“paolinismo”, cioè dei tratti fondamentali e specifici del pensiero e del messaggio di Paolo. Ciò non
significa, però, che il profilo dell’apostolo, quale emerge dalle lettere canoniche a lui attribuite,
corrisponda effettivamente a quella che è stata la sua esperienza storica, in quanto resta aperto il
problema della natura e dell’origine di questi scritti, e di riflesso quello dell’autenticità di alcuni di
essi.

Il testo
In generale si può dire che la situazione, e, quindi, la critica testuale delle lettere paoline, è più
semplice e facile rispetto a quella dei Vangeli e degli Atti. Perduti irrimediabilmente gli autografi,
siamo in possesso di numerosissime copie manoscritte: circa 5000 esemplari! Naturalmente il
valore è proporzionato alla loro antichità. I più antichi sono 10 papiri del III secolo, frammentari,
che precedono la nascita dei primi codici onciali completi: il Vaticano (B) ed il Sinaitico (a)
rispettivamente del IV e V secolo. In assoluto, il manoscritto più antico è il P46 della collezione
Chester Beatty quasi completo, databile al 200 ca. La ricerca critica ha studiato a fondo l’origine, il
valore, le varianti, i numerosi errori di trascrizione, la classificazione in famiglie di questi
manoscritti. Il risultato è stata la pubblicazione di erudite edizioni critiche dell’epistolario paolino,
che ci offrono un testo ricostruito scientificamente sulla base dei numerosi manoscritti esistenti10.

5 Cf. M. G. MARA, Paolo di Tarso e il suo epistolario. Ricerche storico-esegetiche, L’Aquila 1983.
6 Cf. la testimonianza di Epifanio di Salamina, Panarion, 42, 9, 3-4.
7 Scritto in latino volgare, scoperto da Antonio Muratori nella biblioteca Ambrosiana di Milano e da lui pubblicato nel

1740, risalente probabilmente alla fine del secondo secolo. Cf. Introduzione alla Bibbia, Marietti, vol. I, 100.
8 È l’ipotesi di Harnack. Spesso negli elenchi, infatti, vengono nominate per prime la I e la II Corinti.
9 Cf. G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso, 206.
10 C. M. CARREZ, Le lingue delle Bibbia, Milano 1987. Cf. anche B. ALAND, Il testo del Nuovo Testamento, Genova 1987.

Classica è l’editio maior di B. WESCOTT – F. J. HORT, The New Testament, in The Original Greek, Cambridge-London 1881;
in forma di manuale bisogna citare l’edizione di successo di Nestle, nata nel 1898 e aggiornata da B. ALAND, Novum
Testamentum Graece, Stuttgart 1979. Molto pratica l’editio minor K. ALAND - M. BLACK - C. MARTINI – B. METZGER – M.
WIKGREN, The Greek New Testament, United Bible Societies, 1975, che segnala le più importanti varianti testuali,

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Il metodo letterario accosta i testi in modo da poterne determinare le caratteristiche:


1. attribuzione ad un determinato autore (autenticità). Perché un testo possa o non possa essere
attribuito ad un determinato autore debbono essere considerate le seguenti caratteristiche:
a. la diversità di stile rispetto a quello che è lo stile dell’autore. Per Paolo, ad esempio, è
evidente la diversità di stile delle cosiddette lettere pastorali.
b. la diversità di contesto storico. Per rimanere nel discorso delle lettere pastorali, la
struttura gerarchica che queste presuppongono mal si concilia con la struttura delle
comunità paoline.
c. la diversità di visione teologica. Anche in questo caso gli esempi non mancano. 2Ts
presenta un’escatologia diversa da quella di 1Ts e ciò, unito a elementi di natura
letteraria, ha fatto dubitare della sua autenticità. Motivi di ordine teologico militano
contro l’autenticità di lettere come Colossesi ed Efesini
2. unitarietà o compositività del testo. I testi del NT presentano talora delle “rotture” al loro
interno che possono essere indice di fusione di più testi in uno. I criteri che vengono utilizzati
per rilevare questa caratteristica del testo sono:
a. ripetizioni che disturbano
b. tensioni inconciliabili.
“L’individuazione di tensioni e doppioni è solo un lavoro preliminare, cui segue il delicato
compito della loro classificazione: sono tensioni inconciliabili? sono doppioni pesanti?” 11 . Nel
caso delle lettere di Paolo è posto il problema dell’unitarietà di 2Cor e di Fil. Taluni avanzano
ipotesi anche rispetto a 1Ts, 1Cor.
Accanto a questi due primi aspetti ve n’è un terzo che è oggetto dell’attenzione dell’esegesi
storico-critica: l’individuazione all’interno di testi più tardi di materiali provenienti dalla tradizione
precedente. Nel caso delle lettere di Paolo ci si è sforzati di evidenziare al suo interno formule che
Paolo possa aver ricevuto dalla tradizione come ad esempio formule di confessione, inni, ecc. Esse
sono rilevabili da diversi elementi12:
a. il testo è esplicitamente introdotto con il termine “tradizione” (para,dosij): 1Cor 15,1ss
(anche 11,23 per l’Eucarestia);
b. l’uso dei verbi pisteu,ein e o`mologei/n per introdurre la formula: ad es. Rm 10,9.
c. Alcuni tratti stilistici come:
1) parallelismus membrorum (Rm 4,25; 1Cor 15,3-5)
2) forma relativa delle proposizioni (Rm 3,25; 4,25)
3) proposizioni in forma participiale (Rm 1,3s)
4) vocabolario singolare che non ricorre altrove nelle lettere
d. una posizione particolare nel contesto come ad es. Rm 1,3

1.2. La formazione del Corpus Paolino


La raccolta delle lettere paoline in un unico corpus avvenne al termine di un lungo processo di cui,
come abbiamo visto, non si conoscono i tempi e le modalità. Ad eccezione di 1-2 Timoteo, Tito e
Filemone, esse furono indirizzate non a individui, ma a singole chiese. Solo la lettera ai Galati si presenta

indicandone il diverso grado di probabilità. A distanza di un secolo dall’impresa di Wescott-Hort, si avverte oggi
l’esigenza di una nuova grande edizione critica degli scritti di NT e, quindi, anche delle lettere paoline.
11 R. PESCH, La scoperta della più antica lettera di Paolo, Paideia, Brescia 1987, 40.
12 Cf. H. CONZELMANN – A. LINDEMANN, Guida allo studio del Nuovo Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1986,

110s.

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espressamente come inviata a diverse comunità contigue, ciascuna delle quali deve, quindi, aver ricevuto
il suo esemplare.
Le lettere erano lette nei raduni comunitari (cf. 1Ts 5,27) e venivano conservate con venerazione. In
un solo caso si accenna a uno scambio di scritti paolini (Col 4,16); ma è facile immaginare che i
destinatari di una missiva la trasmettessero anche ad altre comunità, le quali la conservavano e la
leggevano con pari attenzione e rispetto. Diverse comunità poterono così avere una loro raccolta di lettere
paoline (o considerate come tali). L’esistenza di una di queste raccolte è attestata verso la fine del I secolo
nella 2 Pietro, dove si legge:
2Pt 3,15-16
“La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza,
come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza
che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose.
In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili
le travisano, al pari delle altre Scritture, per la propria rovina”.

L’autore di questo testo ritiene che le lettere di Paolo siano dotate di una particolare “sapienza”, in
forza della quale esse si collocano sullo stesso piano delle altre Scritture. Purtroppo non dice quante e
quali fossero le lettere a lui note, ma afferma che in esse l’apostolo parla dell’imminente ritorno del
Signore: si può, quindi, supporre che egli si riferisse almeno a quelle in cui Paolo tratta direttamente
questo tema, e cioè Romani (cf. 13,11-14), 1 Corinzi (cf. 7,29-32), Filippesi (cf. 2,15-16) e 1
Tessalonicesi (cf. 5,1-11).
A partire dalla fine del I secolo si moltiplicano gli indizi di una diffusa conoscenza dell’epistolario
paolino:
1. Scrivendo ai Corinzi nel 95-96, Clemente Romano dimostra di conoscere Rm e 1Cor, nonché
la lettera agli Ebrei, e probabilmente anche Gal, Fil e Ef.
2. Nelle sue lettere, composte verso il 110, Ignazio di Antiochia cita Rm, 1Cor, Gal, Ef, Fil, Col,
1Ts e forse anche 2Ts; non si può escludere, anche se è poco probabile, che conoscesse le
Lettere pastorali.
3. Verso il 135 Policarpo utilizza Rm, 1Cor, Gal, Ef, Fil, 2Ts e, forse, 1-2 Timoteo.
4. Marcione, il quale si trova a Roma verso il 140, accetta nella sua Bibbia dieci lettere paoline,
tralasciando non solo Ebrei, ma anche le Pastorali;
5. Durante il II sec. le stesse dieci lettere sono le uniche conosciute, come risulta dai Prologhi in
lingua latina posti all’inizio degli scritti paolini e dal manoscritto P46 compilato alla fine del
secolo.
6. Infine il Canone muratoriano, composto a Roma verso la fine del II sec., elenca tredici lettere
paoline, cioè tutte ad esclusione della lettera agli Ebrei.
Originariamente le due lettere ai Corinzi erano collocate al primo posto della lista: questo ordine
risulta, forse, già dalla lettera di Clemente Romano (47,2-3), ma diventa esplicito nel Canone
muratoriano e, poi, in Tertulliano, Cipriano e Origene. In seguito la lettera ai Romani fu collocata
all’inizio dell’epistolario paolino sia per la sua importanza teologica, sia per il ruolo che nel frattempo la
comunità di Roma aveva assunto nel cristianesimo primitivo. Dopo di essa le altre lettere furono ordinate
in ragione della loro lunghezza.

Dalla missione alle lettere


È per mantenere i contatti con le chiese, per aiutarle a risolvere i loro problemi e per rendere più

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efficace la loro testimonianza nel mondo circostante che Paolo divenne scrittore: le sue lettere sono nate
dalla missione e in vista della missione. La “preoccupazione per tutte le chiese” rappresenta, infatti, come
egli stesso afferma, il suo “assillo quotidiano” (2Cor 11,28).
La lettera più antica dell’epistolario paolino è quasi certamente quella che l’apostolo inviò alla
comunità di Tessalonica, quando, poco tempo dopo la sua fondazione (1Ts 3,1-2.6), era impegnato
nell’evangelizzazione di Corinto (cf. At 18,5). Le altre lettere sicuramente paoline videro la luce durante
quello che viene comunemente chiamato il periodo efesino dell’apostolo (cf. At 19,1-20,3). Le
informazioni in esse contenute mostrano che allora Paolo si teneva in stretto contatto con le comunità da
lui fondate sia in Anatolia che in Grecia, contribuendo in modo determinante alla loro maturazione nella
fede. A tale scopo scrisse a Corinto, oltre alle due lettere canoniche, almeno altre due missive (cf. 1Cor
5,9; 2Cor 1,15-16) andate perdute, che, però, secondo alcuni studiosi sono parzialmente conservate
all’interno delle altre due. Egli, inoltre, ebbe uno scambio epistolare con la chiesa di Filippi, a cui
indirizzò forse diverse missive che almeno in parte sono confluite nell’attuale lettera ai Filippesi. Inoltre
prese contatti con comunità che non erano state fondate direttamente da lui: è questo il caso della lettera
indirizzata a Filemone, un cristiano che probabilmente era il responsabile della comunità di Colossi.
Infine da Corinto, prima di mettersi in viaggio per Gerusalemme, Paolo scrisse la lettera ai Romani. Le
circostanze in cui queste lettere furono composte sono, dunque, conosciute, anche se restano incertezze
circa numerosi dettagli di tempo e di luogo.
Durante la sua attività missionaria Paolo si trovò spesso nella necessità di difendersi nei confronti di
altri cristiani che mettevano in discussione non solo le sue idee, ma anche l’autenticità del suo apostolato.
Purtroppo l’identità e le posizioni di questi oppositori non sono note. Paolo, infatti, non parla
espressamente di loro o a loro, ma si rivolge ai membri delle sue comunità per distoglierli dagli errori in
cui rischiano di cadere. Le posizioni degli avversari, quindi, possono essere colte solo indirettamente, a
partire da allusioni e spunti polemici contenuti nelle lettere stesse. Il metodo utilizzato per ricostruire il
loro pensiero viene oggi chiamato mirror-reading, o “analisi speculare”, in quanto si suppone che gli
avversari sostenessero quanto l’apostolo contesta e negassero quanto egli si sforza di inculcare. Questo
modo di “leggere tra le righe” offre notevoli vantaggi, ma rischia anche di far dire ai testi quello che
l’autore non intendeva. La conoscenza dei punti di vista degli avversari sarebbe assai importante per
precisare l’effettiva portata di molte affermazioni dell’apostolo. Purtroppo il moltiplicarsi delle ipotesi
dimostra che non sono stati ancora raggiunti risultati veramente convincenti.
Nelle lettere deuteropaoline il rapporto diretto tra Paolo e le sue comunità viene ormai a mancare.
Esse risultano composte in circostanze estranee al corso della sua vita, quale risulta dalle lettere
precedenti e dagli Atti. Sono stati fatti, è vero, diversi tentativi per trovare loro una collocazione
adeguata, ma si tratta per lo più di ipotesi difficilmente verificabili. Inoltre manca in esse un aggancio
diretto e immediato con la situazione e i problemi di coloro ai quali sono indirizzate. In definitiva le
lettere deuteropaoline sembrano rivolte ad un uditorio più ampio, con lo scopo di inculcare alcune idee e
di correggere certi errori. In esse si rispecchia un periodo storico successivo nel quale la Chiesa sente
ormai la necessità di preservare le autentiche tradizioni apostoliche e di difenderle nei confronti di coloro
che divulgano false dottrine. Le lettere di Paolo non hanno, dunque, nulla in comune con gli scritti di un
teologo che elabora a tavolino le sue dottrine. Al contrario esse furono concepite in funzione della
situazione concreta in cui l’apostolo si trovava, cioè per la crescita e la maturazione di giovani comunità,
con tutti i loro problemi e difficoltà: esse quindi devono essere lette e comprese nel contesto specifico in
cui hanno visto la luce.

1.3. Il formulario epistolare

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Nel mondo antico le lettere erano composte in base a un formulario abbastanza rigido. Di seguito
propongo la descrizione delle parti di cui si componeva una lettera nell’antichità:
Iniziavano con un “prescritto”, in cui si indicava il nome del mittente al nominativo (superscriptio),
seguito da quello del destinatario al dativo (adscriptio) e da un saluto augurale (salutatio), solitamente
cai,rein (“salve”) all’infinito, ed eventualmente da un breve esordio o ringraziamento dettato dalle
circostanze.
Veniva poi il “corpo della lettera” in cui si affrontava l’argomento che ne aveva occasionato la
stesura.
La lettera terminava con un “postscritto”, che conteneva gli auguri e i saluti, espressi normalmente
con le forme verbali e;rrwso, e;rrwsqe “sta(te) bene!” (cf. At 15,23-29; Gc 1,1).

Inizio Prescritto cai,rein “salve”


Contenuto Corpo lettera Sviluppo dell’argomento
Conclusione Postscritto e;rrwso, e;rrwsqe “sta(te) bene!”

Nel mondo giudaico questo formulario subiva qualche leggera variazione: nel prescritto il saluto
augurale era sostituito dal termine “pace” (~Al+v’.,' eivrh,nh) ed era spesso seguito da una formula di
benedizione a carattere religioso. Paolo fa proprio questo formulario, adattandolo, però, al suo scopo
specifico.
Nel prescritto, ai nomi del mittente e dei destinatari aggiunge le loro qualifiche teologiche e
religiose: per esempio si presenta come “apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio” e si rivolge “alla
chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi ... ”
(1Cor 1, 1-2).
Nel saluto iniziale unisce al termine “pace” (eivrh,nh), tipico dello stile orientale, la formula greca,
trasformata in un augurio di “grazia” (ca,rij): ne deriva così un’espressione (ca,rij u`mi/n kai. eivrh,nh) che
riecheggia la benedizione che i sacerdoti pronunziavano su Israele (cf. Nm 6,25-26).
Tra il saluto e il corpo della lettera introduce un ringraziamento a Dio per la vita cristiana della
comunità a cui è inviata. Nella Seconda lettera ai Corinzi questo ringraziamento prende l’andamento di
una benedizione, mentre nella lettera ai Galati è sostituito da una dura ammonizione.
Le lettere di Paolo terminano con il “postscritto”, nel quale ai saluti fa seguito una benedizione di
carattere liturgico, che può essere più o meno estesa e a volte assume un andamento trinitario: “La grazia
del Signore Gesù sia con voi. Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù” (1Cor 16,23-24); “La grazia del
Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor
13,13).

Inizio Prescritto cai,rein “salve” + ~Al+v', eivrh,nh


Inserto Ringraziamento Euvcaristou/men tw/| qew/|
Contenuto Corpo lettera Sviluppo dell’argomento
Conclusione Postscritto e;rrwso, e;rrwsqe “sta(te) bene!” + benedezione

Nell’antichità era frequente il caso in cui il mittente non scriveva personalmente la lettera, ma si
serviva di uno “scrivano” al quale dettava parola per parola il suo messaggio, oppure ne affidava il senso
generale, con il compito di formularlo nel modo più opportuno. In questo secondo caso lo scriba
assumeva il ruolo tipico del “segretario”: il suo apporto personale nella stesura dello scritto risultava
quindi maggiore, anche se spesso la familiarità con il mittente lo portava spontaneamente ad assumerne

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la terminologia e lo stile. Il mittente autenticava, poi, la lettera apponendovi la firma o anche


aggiungendo di proprio pugno i saluti finali.
Paolo si adegua senza difficoltà alle usanze dell’epoca. È possibile che abbia scritto personalmente
la breve lettera a Filemone (cf. Fm 19). Di solito, però, si serve di uno scrivano: al termine della lettera ai
Romani si trova, infatti, una breve postilla in cui un certo Terzo, presentandosi come colui che ha scritto
la lettera, unisce i suoi saluti a quelli dell’apostolo (cf. Rm 16,22); questi, inoltre, segnala a volte che il
saluto finale è di sua mano (cf. 1Cor 16,21; Gal 6,11), lasciando, così, supporre che il resto della lettera è
opera di uno scrivano.
Non è, invece, possibile stabilire con certezza se Paolo dettava le sue lettere parola per parola o ne
affidava la stesura a un segretario. Nel primo caso, non essendo possibile un’adeguata limatura del testo,
si spiegherebbero alcune disarmonie proprie del suo stile. Nel secondo, invece, lo stile dovrebbe essere
attribuito almeno in parte all’amanuense-segretario: qualora l’apostolo abbia fatto ricorso a tale
collaborazione nel caso delle lettere cosiddette deuteropaoline, la loro diversità da quelle sicuramente
autentiche risulterebbe più facilmente spiegabile.
Roller ha studiato questo aspetto singolare, rifacendosi alle condizioni antiche del comporre13.
In sintesi possiamo affermare che si impiegava molto più tempo e fatica rispetto ad oggi. Per queste
difficoltà, Roller ritiene che gli antichi non scrivessero direttamente le lettere più lunghe né che le
dettassero. Si servivano di amanuensi – non solo scribi – ai quali davano solo i concetti. L’autore,
poi, rileggeva e correggeva. Altri autori hanno contestato le posizioni di Roller. In generale, si può
dire che in gran parte Paolo si serviva di uno scriba14.
Secondo l’uso dei poveri le lettere erano scritte su papiro, un materiale più economico, ma più
fragile e più difficilmente lavorabile della pergamena: ciò spiega la rapida scomparsa dei testi originali.
Paolo, dunque, ha fatto proprio il genere epistolare del suo tempo, arricchendolo però di notevoli
contributi, suggeriti in parte dalla sua fede e dalla sua esperienza cristiana, in parte dal suo talento
letterario e dalle sue qualità personali.

Vere “Lettere” o “Epistole”


Nell’antichità lo stile epistolare veniva utilizzato per comporre non solo “lettere” vere e
proprie, ma anche scritti di altro tipo. A. Deissmann, che per primo studiò la corrispondenza privata
contenuta nei papiri greci, distingue nella epistolografia antica due generi letterari diversi: la
“lettera” vera e propria e l’“epistola”. La lettera “per sua natura è intima e personale, valevole solo
per i destinatari o il destinatario, ma non per il grande pubblico”. Essa “è aletteraria come un
contratto d’affitto o un testamento... non si adatta a nessuno se non a colui che l’ha scritta e a chi
deve aprirla... Il suo contenuto è molteplice quanto la vita”.
L’epistola, invece, è “una forma d’arte letteraria, un genere della letteratura, come per
esempio il dialogo, il discorso, il dramma. Con la lettera essa condivide soltanto la forma della
corrispondenza scritta... Il contenuto dell’epistola tiene conto del grande pubblico, che essa vuole
interessare. Se la lettera è un segreto, l’epistola è una merce da mercato; chiunque può e deve
leggerla: quanti più lettori essa trova, tanto più ha ottenuto il suo scopo. Ciò che per la lettera è
cosa essenziale, cioè l’indirizzo e i particolari propri della corrispondenza, per l’epistola invece è

13 O. ROLLER, Das formular der paulinischen Briefe. Ein Beitrag zur Lehre vom autiken Brief, BWANT 4,6, Stuttgart 1933.
14 Cf. G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso, 183. Si è voluto introdurre (Deismann) una distinzione nelle lettere dell’antichità e,

quindi, in quelle di Paolo: lettere: scritti privati, semplici, familiari, mandati a singoli o a poche persone; epistole: scritti
più solenni, quasi dei trattati, miranti a formulare un pensiero, una dottrina, un insegnamento e volti alle cose semplici
della vita personale e quotidiana. Deismann ritiene che, in generale, quelle di Paolo siano lettere. Tale distinzione non è,
comunque, da enfatizzare troppo. A questo argomento dedico uno spazio congruo nel paragrafo successivo.

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semplice ornamento esterno, con il quale viene data l’illusione della forma "epistolare"... La lettera
è un pezzo di vita, l’epistola è il prodotto dell’arte letteraria”15.
In base a questa distinzione il Deissmann afferma che le missive autentiche dell’apostolo Paolo
sono vere e proprie lettere, che non si distinguono dai semplici fogli di papiro dell’Egitto se non in
quanto lettere “di Paolo”; classificandole come epistole si toglierebbe ad esse il meglio. Questo
giudizio è sostanzialmente esatto. Le lettere di Paolo sono scritti occasionali, che egli invia a
comunità da poco fondate con l’intento di aiutarle ad affrontare i problemi che incontrano nel loro
cammino di fede. Delle “lettere” in senso proprio esse hanno lo stile immediato e diretto, che
manifesta al vivo la personalità del loro autore.
Per difendere il suo operato e per rafforzare il suo ruolo apostolico Paolo rivela a volte
circostanze e momenti della sua vita e della sua attività. Se affronta temi dottrinali, lo fa in funzione
di situazioni concrete, riprendendo l’insegnamento impartito oralmente e correggendo eventuali
errori di interpretazione. A questa norma non fa eccezione neppure la lettera ai Romani, la quale,
pur contenendo una esposizione abbastanza sistematica del pensiero di Paolo, è stata anch’essa
composta per rispondere a precise necessità di carattere pastorale. Queste osservazioni non valgono
invece per le lettere deuteropaoline, nelle quali lo stile non è più familiare e diretto, ma diventa
attento e a volte ricercato, mentre il dialogo con i destinatari lascia il posto a una trattazione più
astratta di temi teologici o pastorali.
Tuttavia anche le lettere autentiche di Paolo si avvicinano sotto qualche aspetto alle “epistole”:
non sono infatti documenti privati, poiché sono dirette a una o più comunità e devono essere lette in
pubblico. La stessa lettera a Filemone, sebbene inviata a un privato, presenta un insegnamento che
deve servire a tutta la comunità che si raduna nella sua casa (cf. Fm 1-2). Se questi scritti, pur
essendo indirizzati a piccole comunità della Grecia e dell’Anatolia, ebbero la fortuna di essere
raccolti e meditati per secoli, ciò è dovuto anche al fatto che già in partenza il loro genere letterario
non era quello della pura e semplice “lettera”.
Nuova luce sulle caratteristiche proprie delle lettere paoline viene oggi dal confronto con un
più abbondante materiale di origine egiziana o greco-romana; particolarmente utili per comprendere
l’epistolario paolino si sono dimostrate anche le lettere giudaiche, sia della Palestina che della
diaspora, scritte da responsabili delle comunità. Paolo dunque, pur ispirandosi a modelli presenti nel
suo mondo culturale, ha saputo creare un genere letterario nuovo, adatto alle esigenze di una
comunicazione diretta e immediata con le sue comunità lontane. La sua personalità religiosa e
letteraria ha contribuito a impedire che le sue lettere cadessero nell’oblio e a far sì che lungo i secoli
cristiani e non cristiani continuassero a sentirsi interpellati direttamente e personalmente da esse.

Uno stile immediato e personale


La lingua usata dall’apostolo è la koinè, cioè quella forma di greco che era diventata “comune” in
tutto l’impero romano. Essa si differenzia dal greco classico in molte particolarità grammaticali e
stilistiche e risente l’influsso di altre lingue, quali il latino e soprattutto l’aramaico e l’ebraico (semitismi).
Diversamente da altri autori del NT che, pur scrivendo in greco, dimostrano di pensare in ebraico o in
aramaico, Paolo elabora direttamente i suoi concetti e le sue riflessioni in greco, che dimostra di
possedere come lingua materna. Lo stile di Paolo è molto personale e spontaneo.
Nelle sue lettere abbondano le metafore (cf. Rm 11,17-24), le similitudini (1Cor 12,12-27) e le
immagini (1Cor 9,24-27; 2Cor 11,2). Caratteristici sono anche l’antitesi e l’anacoluto. La prima consiste

15 A. DEISSMANN, Licht vom Osten. das Neue Testament und die neuentdeckten Texte der hellenistisch-römischen Welt, 194-

195.

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nel presentare la realtà in due poli contrapposti (vita-morte, legge-fede, carne-spirito, schiavitù-libertà
ecc.), con l’effetto di mettere il lettore di fronte alla necessità di operare una scelta: l’uso di questo
artificio è espressione di un animo che non ama i chiaroscuri e tende quasi inavvertitamente a
radicalizzare le posizioni. L’anacoluto consiste nella mancanza di collegamento tra due elementi di una
frase, uno dei quali appare perciò, come dice il termine stesso, “privo di compagnia”, quasi sospeso in
aria, e per ciò stesso riceve una particolare sottolineatura16: anche questo procedimento rivela una foga
espressiva che poco si adatta alle regole della sintassi, tipica dello stile di Paolo la capacità di adottare una
grande varietà di forme letterarie.
Nelle sue lettere si incontrano formule liturgiche tradizionali17, invocazioni (Rm 15,32), preghiere
(Rm 15,13), dossologie (Rm 16,25-27), inni 18 e confessioni di fede 19 . Numerosi sono i brani
autobiografici: Paolo parla di se stesso per mettere in luce i suoi rapporti con i destinatari (cf. 1Ts 3,13),
per difendersi dalle accuse che gli sono rivolte (2Cor 1,12-2,11) o per polemizzare con gli avversari (Gal
1,11-2,14).
Altre forme letterarie frequentemente usate sono la parenesi20 e i cataloghi di vizi e virtù (Gal 5,19-
23). Spesso Paolo fonda le sue tesi sull’AT, che cita solitamente nella versione greca della LXX e
interpreta secondo i metodi dei rabbini del suo tempo (cf. Gal 3,6-14); egli, però, fa anche ricorso al
metodo della diatriba, comunemente usata dai filosofi popolari, che consiste nell’introdurre un fittizio
interlocutore con cui si dialoga e discute (Rm 3,1-8). A volte l’apostolo ha inserito nelle sue lettere brani
appartenenti alla tradizione orale21, debitamente adattati al suo discorso.
Nel corpo delle lettere Paolo esprime i suoi pensieri secondo una logica interna il cui movimento
non è sempre facilmente rilevabile. In passato gli studiosi hanno spesso ravvisato in esse due parti, una
dottrinale e l’altra parenetica; in realtà questa divisione è piuttosto artificiosa, perché nel discorso di Paolo
teoria e prassi si mescolano in modo quasi inestricabile. Attualmente la ricerca intorno al modo in cui
Paolo dispone il suo materiale si è notevolmente sviluppata. Ad una metodologia basata quasi
esclusivamente sul contenuto è subentrata da parte di numerosi studiosi l’attenzione a tutti quegli
elementi formali e stilistici con i quali ogni autore indica le articolazioni del suo scritto.
Alcuni studiosi recenti hanno esaminato i testi del NT alla luce delle regole tipiche della retorica
classica, teorizzata specialmente da Aristotele, Cicerone e Quintiliano. Questo metodo, noto come
“rhetorical criticism”, è stato applicato a volte in modo piuttosto drastico, imponendo al testo uno
schema predefinito, che in gran parte gli è estraneo22. A questi eccessi hanno reagito altri studiosi i quali,

16 Cf. per es.: Rm 2,15-16; 2,20-21.


17 Per es.: amen, maranathà, abbà; ecc.
18 Fil 2,6-11; 1Cor 13; Rm 11,33-36.
19 1Cor 15,3-5; Rm 1,34.
20 Rm 12; 13,1-7.
21 Fil 2,6-11; Rm 1,3-4.
22 Per farsi un’idea del panorama degli studi si può consultare:

• J.D.H. AMADOR, Where Could Rhetorical Criticism (Still) Take Us?, Currents in Research: Biblical
Studies 7(1999) 195-222; E. BLACK, Rhetorical Criticism: A Study in Method. The University of Wisconsin
Press, 1978.
• B. CAMPBELL, Flesh and Spirit in 1Cor 5:5: An Exercise in Rhetorical Criticism of the NT, Journal of the
Evangelical Theological Society 36.3 (Sept. 1993) 331-342.
• F.F. CHURCH, Rhetorical Structure and Design in Paul’s Letter to Philemon, Harvard Theological
Review 91(1978) 17-33.
• K.P. DONFRIED, The Epistolary and Rhetorical Context of 1 Thessalonians 2:1-12, Karl P. Donfried &
Johannes Beutler, The Thessalonnians Debate. Methodological Discord or Methological Synthesis? Grand
Rapids/Cambridge, UK: Eerdmans, 2000.

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invece di partire da regole prestabilite, esaminano a fondo la composizione di un testo per scoprirvi
possibili influssi di carattere retorico (“retorica letteraria”). In questa forma moderata l’analisi retorica
può aiutare a comprendere più in profondità gli antichi scritti cristiani i quali, salva la libertà e originalità
dei loro autori, sono e restano opere di persuasione, sorte in un mondo in cui questa tecnica aveva
raggiunto notevoli sviluppi teorici e pratici. In definitiva, Paolo ha adottato la lingua e i procedimenti
letterari del suo tempo allo scopo di farsi comprendere da coloro che nelle assemblee cristiane avrebbero
ascoltato la lettura dei suoi scritti e di convincerli ad adottare una mentalità e una prassi conformi al
vangelo.
Con le lettere deuteropaoline lo stile cambia: esse appaiono come scritti anonimi e dottrinali,
composti in modo più accurato e grammaticalmente corretto, ma senza più la foga del Paolo storico e la
sua immedesimazione negli argomenti trattati.

Paolo e la sua “Scuola”


L’autenticità delle lettere tradizionalmente attribuite all’apostolo Paolo è stata messa in discussione
nel secolo scorso, quando il problema è stato sollevato dagli studiosi della scuola di Tubinga. In base alla
teoria dialettica della storia, F. Ch. Baur sosteneva che Paolo aveva composto solo le quattro lettere
maggiori (Rm, 1-2 Corinzi e Galati), le uniche in cui si rispecchiano le idee proprie del cosiddetto
“partito paolino”, contrarie a quelle della corrente che fa capo a Pietro (“partito petrino”). Il problema è
stato affrontato successivamente su un piano non più ideologico, ma letterario, storico e teologico. A
un’attenta analisi alcune lettere hanno rivelato non solo uno stile, ma anche un lessico e una sintassi
diversi; il loro genere letterario si avvicina maggiormente a quello dell’“epistola”. Il rapporto tra mittente
e destinatari diventa più generico; nuovi temi fanno la loro comparsa23 , mentre altri sono ripresi e
sviluppati in modo diverso24. Il contesto storico non è più quello in cui è vissuto e ha operato Paolo,
mentre la sua figura e il suo ruolo sono fortemente idealizzati.
In base a questi rilievi si è fatta strada tra gli studiosi l’opinione secondo cui le Pastorali (1-2

• Y. GITAY, A Study of Amos’s Art of Speech: A Rhetorical Analysis of Amos 3:1-15, Catholic Biblical
Quarterly 42(1980) 293-309.
• R. HOPPE, The Epistolary and Rhetorical Context of 1 Thessalonians 2:1-12: A Response to Karl P. Donfried,
Karl P. Donfried & Johannes Beutler, The Thessalonnians Debate. Methodological Discord or
Methological Synthesis? Grand Rapids/Cambridge, UK: Eerdmans, 2000.
• D.M. HOWARD JR., Rhetorical Criticism in Old Testament Studies, Bulletin for Biblical Research 4(1994) 87-
104.
• G.A. KENNEDY, New Testament Interpretation Through Rhetorical Criticism. The University of North
Carolina Press, 1984.
• E. KRENTZ, 1 Thessalonians: Rhetorical Flourishes and Formal Contraints, Karl P. Donfried & Johannes
Beutler, The Thessalonnians Debate. Methodological Discord or Methological Synthesis? Grand
Rapids/Cambridge, UK: Eerdmans, 2000.
• K. MÖLLER, “Hear THis Word Against You”: A Fresh Look at the Arrangement and the Rhetorical Strategy of
the Book of Amos, Vetus Testamentum 50.4 (2000) 499-518.
• S. WALTON, What Has Aristotle to Do with Paul? Rhetorical Criticism and 1 Thessalonians, Tyndale
Bulletin 46.2 (1995) 229-250.
• S. WALTON, Rhetorical Criticism: An Introduction, Themelios 21.2 (January 1996) 4-9.
• C.A. WANAMAKER, Epistolary vs. Rhetorical Analysis: Is a Synthesis Possible?, Karl P. Donfried & Johannes
Beutler, The Thessalonnians Debate. Methodological Discord or Methological Synthesis? Grand
Rapids/Cambridge, UK: Eerdmans, 2000, 255-286.
• J.A.D. WEIMA, The Function of 1 Thessalonians 2:1-12 and the Use of Rhetorical Criticism: A Response to
Otto Merk, Karl P. Donfried & Johannes Beutler, The Thessalonnians Debate. Methodological Discord or
Methological Synthesis? Grand Rapids/Cambridge, UK: Eerdmans, 2000, 114-131.
23 Per es.: Cristo capo della Chiesa e del cosmo in Col ed Ef, i ministeri ecclesiali nelle Pastorali.
24 Per es.: in 1Ts la parusia è imminente, mentre in 2Ts si allontana nel tempo.

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Timoteo e Tito) non sono state composte da Paolo, mentre è ancora discusso il caso della 2 Tessalonicesi
e di quelle inviate alle chiese dell’Asia (Efesini e Colossesi). Questo orientamento è stato rafforzato
recentemente dagli studi sulla pseudoepigrafia, i quali hanno dimostrato che questo fenomeno era assai
diffuso nell’antichità: nel mondo biblico-giudaico il nome dell’autore di un’opera è spesso fittizio, mentre
in quello greco è nota l’attribuzione a personaggi famosi come Orfeo, Omero, Pitagora e Platone di scritti
composti successivamente.
Molte obiezioni contro la presenza di opere pseudoepigrafiche nel canone cristiano sono cadute
quando si è distinto nettamente il problema dell’ispirazione di uno scritto da quello della sua autenticità.
La composizione di lettere paoline non autentiche non fu opera di individui isolati, ma si iscrive nel
contesto di un vasto movimento di pensiero e di vita che oggi viene chiamato comunemente “scuola
paolina”. Esso prende inizio da tutte quelle persone che circondavano l’apostolo ed erano legate a lui da
profondi vincoli di fede e di collaborazione: nei loro confronti egli si attribuiva il ruolo di padre e di
madre25 e proponeva se stesso come modello da imitare26. Tra costoro un posto speciale spetta a Tito e a
Timoteo, ma non bisogna dimenticare tanti altri il cui nome appare spesso nel corso delle lettere e
soprattutto nei saluti finali27. All’interno della scuola paolina si giunse ben presto a una idealizzazione
della persona di Paolo, ma soprattutto si sentì la necessità di preservare dall’oblio il suo messaggio,
eliminando i malintesi e cercando in esso una risposta ai nuovi problemi delle comunità.
A tale scopo vennero raccolte le lettere autentiche, ma al tempo stesso furono divulgati con il suo
nome e sotto la sua autorità nuovi scritti, con i quali persone dotate di un’approfondita conoscenza del
suo messaggio ne esplicitavano il contenuto in vista di situazioni nuove e difficili. L’autenticità di alcune
importanti lettere paoline, pur essendo stata negata da vasti settori del mondo esegetico, resta tuttavia un
problema aperto al quale vengono date, come si vedrà nell’introduzione a ciascuna di esse, le soluzioni
più diverse.
In ogni caso queste opere sono utili per ricostruire non tanto l’azione e il pensiero dell’apostolo,
quanto piuttosto l’impatto che esso ha avuto nel periodo immediatamente successivo alla sua scomparsa.

Scritti unitari o antologie


L’unità interna delle lettere paoline è più apparente che reale. Alcune di esse presentano, infatti,
disarmonie e bruschi cambiamenti di argomento e di tono che sono difficilmente spiegabili in un’opera
uscita di getto dalla penna del suo autore.
A questo fenomeno sono state date le spiegazioni più svariate. Non si può però escludere che esso
derivi dal fatto che, quando cominciò a prendere forma l’epistolario paolino, frammenti di scritti diversi
vennero accostati per formare un’unica lettera. Paolo stesso segnala l’esistenza di lettere che non trovano
posto nel suo epistolario28. È mai possibile che la scuola paolina abbia lasciato scomparire testi così
preziosi? Non potrebbero essere stati conservati come parti di altre lettere? Gli studiosi sono oggi
generalmente del parere che la Seconda lettera ai Corinzi e la lettera ai Filippesi siano in realtà antologie
di scritti indirizzati da Paolo a quelle comunità in occasioni e tempi diversi.
In questa prospettiva molti ritengono che la lettera scritta “tra molte lacrime” (2Cor 2,4) sia stata
conservata all’interno della Seconda lettera ai Corinzi. Restano aperti, come si vedrà, numerosi problemi
riguardanti il contesto storico e geografico in cui hanno avuto origine le missive originarie, nonché i
criteri con cui le diverse parti sono state collegate.

25 Cf. 1Ts 2,7-8.11; 1Cor 4,15; Gal 4,19.


26 Cf. 1Cor 4,6.9-10; 1Ts 4,1-2; Gal 1,6-9.
27 Cf. Rm 16,1-16.21-23.
28 Cf. 1Cor 5,9; 2Cor 2,4.

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Un’analoga ipotesi è stata avanzata, ma senza troppo successo, anche a proposito della 1
Tessalonicesi e soprattutto della 1 Corinzi, nella quale potrebbe essere inclusa la missiva a cui l’apostolo
allude in 1Cor 5,9. Sembra infine che i saluti contenuti nell’ultimo capitolo della lettera ai Romani (Rm
16,1-23), pur essendo autentici, facessero parte originariamente di una lettera autonoma indirizzata alla
chiesa di Efeso; ma questa ipotesi è oggi fortemente contestata da numerosi studiosi.
Un accostamento alle lettere paoline basata sull’idea di una loro sostanziale unità non è più, almeno
in certi casi, del tutto accettabile. Non si può escludere, infatti, che i discepoli di Paolo abbiano in qualche
modo rifuso il materiale a loro disposizione, disponendolo nel modo che sembrava loro più conveniente
per garantirne la preservazione e una corretta interpretazione. Tuttavia le ipotesi avanzate restano
largamente discutibili, almeno finché non saranno identificate in modo convincente le modalità con cui i
redattori finali hanno compiuto la loro opera.

Il mondo teologico di Paolo


A partire dalle sue Lettere si è parlato di una teologia di Paolo. Essa, infatti, segue un
itinerario, uno sviluppo diacronico riscontrabile nella sua vita e nei suoi scritti. Non c’è
contraddizione nel suo pensiero, e neppure immobilismo, ma sviluppo per le differenti situazioni
che è stato chiamato ad affrontare, e maturazione a partire soprattutto dal suo impegno nella
missione. Guardando il mondo teologico di Paolo al suo punto di arrivo, sincronicamente, possiamo
identificare questi aspetti fondamentali:
• l’iniziativa di Dio29, nata in Dio, si manifesta e si attua al di fuori di Lui, divenendo “mistero”
rivelato30;
• il Vangelo: è l’annuncio di Cristo morto e risorto, che l’iniziativa di Dio porta a contatto
dell’uomo. L’uomo, così interpellato, deve fare una scelta di accettazione o di rifiuto, scelta
dalla quale dipende il suo futuro escatologico e totale;
• la fede: è l’atteggiamento per il quale si accoglie l’annuncio del Vangelo. Ha tre livelli di
sviluppo: prima adesione, crescita fino a penetrare tutti gli aspetti della vita, sbocco
comunitario;
• la giustificazione: è la situazione che si determina nell’uomo il quale, ascoltato il Vangelo,
reagisce con la adesione di fede. È liberazione dalla peccaminosità, inserimento in Cristo
mediante il Battesimo, filiazione divina mediante il dono dello Spirito;
• la Chiesa: la giustificazione, data alla singola persona, immette nella collettività di tutte le
persone che hanno ricevuto lo stesso dono. Si ha così la Chiesa che è l’insieme universale
del nuovo popolo di Dio; essa si realizza e si scopre tale nelle singole comunità e nel
contesto generale (cosmico) in cui è situata; costituisce il “Corpo di Cristo” in fase di
crescita;
• l’uomo: come individuo e come componente della Chiesa si salva nella storia che
comprende un passato 31 , un presente 32 e, soprattutto, un futuro 33 che costituisce la fase
escatologica finale. In essa si realizza pienamente l’iniziativa divina.

29 Si possono ricordare termini quali elezione, chiamata, pre-determinazione.


30 Cf. R. PENNA, Il “Mysterion” paolino, Brescia 1978: livello del divenire; livello delle componenti intrinseche: teologico,

cristologico, ecclesiologico, antropologico.


31 L’AT e gli eventi storici di Cristo
32 Le circostanze concrete in cui si realizza l’impegno religioso.
33 Morte, resurrezione, pienezza raggiunta.

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2. IL MONDO PAOLINO
2.1. Paolo di fronte alla storia: simpatie e rifiuti
Paolo svolse la sua attività apostolica in mezzo a insuccessi e incomprensioni, e solo con grandi
difficoltà ottenne che venisse riconosciuta l’autenticità del suo vangelo. Dopo la morte egli fu accettato
come una delle figure più rappresentative del cristianesimo primitivo. Tuttavia non sono mancati nei suoi
confronti atteggiamenti di sospetto o addirittura di aperta contestazione.

Gli scritti del NT


L’autore che più ha contribuito alla conoscenza e all’esaltazione della figura di Paolo è stato Luca, il
quale nel suo secondo volume non si è limitato a descriverne l’opera, ma ha voluto trasmettere anche
alcuni punti essenziali del suo insegnamento. Egli è dunque il rappresentante più esimio della scuola
paolina.
Tuttavia da un confronto approfondito tra gli Atti e le lettere autentiche sembra assodato che Luca
non avesse una conoscenza diretta di questi scritti: ne è prova il fatto che, anche quando riprende la
terminologia dell’apostolo, egli dimostra di non essere più sensibile al significato specifico che questi le
attribuiva. Più che difendere la persona e la teologia di Paolo, l’autore degli Atti vuole garantire,
mediante l’autorità indiscussa dell’apostolo dei gentili, la legittimità di quel processo storico che ha
portato alla nascita di un cristianesimo ormai sganciato dalla sua matrice giudaica.
Testimoni di una devozione incondizionata a Paolo sono le lettere deuteropaoline (Colossesi ed
Efesini, Seconda ai Tessalonicesi e Pastorali), che, come si è visto, sono attribuite da molti studiosi alla
scuola paolina. In esse la figura dell’apostolo è fortemente idealizzata, ma il suo messaggio viene
reinterpretato in funzione di problemi e orientamenti teologici nuovi.
Molto vicino alla scuola paolina è anche la Prima lettera di Pietro, uno scritto di carattere
chiaramente pseudepigrafico composto verso la fine del secolo. In essa si trovano numerosi brani che
riecheggiano espressioni e temi propri delle lettere ai Romani e agli Efesini, anche se una vera e propria
dipendenza letteraria da questi scritti non è dimostrabile. L’autore della Seconda lettera di Pietro rivela
per primo una conoscenza diretta dell’epistolario paolino: egli ne afferma l’autorità e l’accettazione da
parte della Chiesa, ma si premura di mettere in guardia i lettori da interpretazioni erronee (cf. 2Pt 3,15-
16). È chiaro che al suo tempo gli scritti dell’apostolo cominciavano ad essere interpretati dagli eretici in
senso non ortodosso.
Molto controversi sono, invece, i rapporti delle lettere paoline con altri due scritti canonici di questo
periodo, la lettera agli Ebrei e la lettera di Giacomo. La prima è stata per lungo tempo annoverata tra gli
scritti paolini, e di fatto vi si riscontrano non poche analogie tematiche e letterarie con la tradizione
paolina. È significativo tuttavia il fatto che Paolo non vi sia mai nominato, mentre l’universo teologico e
letterario dell’autore è chiaramente diverso da quello dell’apostolo. L’autore della lettera di Giacomo si
oppone espressamente alla teoria paolina della giustificazione mediante la fede (Gc 2,20-24); tuttavia
sembra che non voglia correggere quanto è affermato dall’apostolo, ma una presentazione distorta che ne
veniva fatta in ambienti giudeo-cristiani. Non è escluso che in questo scritto sia contenuta una riflessione
in gran parte autonoma rispetto a quella di Paolo. Estranei alla tradizione paolina risultano i vangeli di
Matteo e di Marco, nonché tutta la letteratura che va sotto il nome dell’apostolo Giovanni.

L’antica letteratura cristiana


Reticenze o addirittura silenzi intenzionali nei confronti di Paolo si notano in alcune opere della
prima metà del II sec., quali la Didaché, la Seconda lettera di Clemente, la Lettera di Barnaba, il Pastore
di Erma e le opere di Papia. Un rifiuto esplicito della figura di Paolo si trova però soltanto tra gli Ebioniti

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e gli Elcesaiti, movimenti ereticali di stampo giudeo-cristiano, e nelle omelie Pseudoclementine.


A parte questa zona d’ombra, la figura di Paolo è ricordata e i suoi scritti sono frequentemente
utilizzati dagli scrittori ecclesiastici. Nella Lettera ai Corinzi di Clemente Romano (composta verso il
95/96), nelle lettere di Ignazio di Antiochia (databili all’anno 110 circa) e nelle due lettere di Policarpo ai
Filippesi (rispettivamente del 110 e del 135) il ricordo e la venerazione del grande apostolo vanno di pari
passo con una conoscenza non sempre precisa e approfondita del suo pensiero.
Nel corso del II sec. si impossessano della figura e dell’opera dell’apostolo i movimenti ereticali. Le
correnti gnostiche cristiane, in modo particolare quelle che fanno capo a Valentino, si rifanno
all’insegnamento di Paolo. Per Marcione “c’è insanabile opposizione tra Paolo e gli altri apostoli, tra
giudaismo e cristianesimo, tra Nuovo e Antico Testamento, tra legge e vangelo, tra creazione e
redenzione, tra il Dio dell’AT, della legge, della creazione e dei giudei, e il Dio del NT, del vangelo, della
redenzione e dei cristiani, e infine tra Gesù, messia apparso nell’anno 15° dell’impero di Tiberio (Lc 3),
morto e risorto, e il Messia annunziato dai profeti, promesso nell’AT e che apparirà alla fine della
storia, ma per essere annientato da Gesù nella sua parusia”34. In base a tali concezioni Marcione elabora
un canone delle Scritture che comprende soltanto un vangelo, quello di Luca, che secondo lui contiene
l’insegnamento di Paolo, e dieci lettere dell’apostolo: sono escluse le Pastorali ed Ebrei, mentre Efesini è
identificata con la lettera ai Laodicesi di cui si parla in Col 4,16.
L’appropriazione di Paolo da parte degli eretici rischiava di provocarne il rifiuto definitivo da parte
della grande Chiesa. Ciò fu evitato soprattutto per merito delle chiese da lui fondate in Anatolia e in
Grecia, oltre che naturalmente per l’appoggio della chiesa di Roma e l’opera di Ireneo di Lione. Questi si
richiama spesso a motivi paolini, pur interpretandoli in modo a volte originale; ma soprattutto conferisce
alle lettere di Paolo la stessa autorità delle Scritture profetiche dell’AT e dei vangeli, riconoscendo nel
loro autore un apostolo al quale il Signore Gesù si è rivelato.

La leggenda
La figura di Paolo divenne ben presto oggetto di leggende popolari, le quali si svilupparono tra i
cristiani dell’Asia Minore già nel corso del II secolo. Tali leggende confluirono negli Atti di Paolo,
un’opera in nove sezioni, di cui la seconda è rappresentata dagli Atti di Paolo e di Tecla: vi si racconta la
conversione dell’apostolo, la sua attività missionaria in Asia e in Grecia, il viaggio verso l’Italia e il
martirio. È chiaro che in questo contesto non interessano più la figura storica di Paolo, il suo messaggio e
la sua collocazione all’interno del cristianesimo primitivo, ma piuttosto il suo zelo missionario, i suoi
miracoli e le sue sofferenze; per quanto riguarda l’insegnamento, esso viene focalizzato soprattutto sul
valore ascetico della continenza e della verginità e sulla polemica contro gli idolatri e contro gli eretici.
Infine l’apostolo viene presentato come modello di bontà, di virtù e di preghiera.
Paolo è stato causa di scandalo e di contrasto non solo durante la sua vita, ma anche dopo la sua
scomparsa. Malgrado i silenzi, i rifiuti e i travisamenti di cui è stato fatto oggetto, egli ha tuttavia
continuato a esercitare un influsso determinante nella storia del cristianesimo di ogni tempo. Anche se
spesso non è stato capito dai suoi stessi ammiratori e seguaci, le sue lettere hanno costituito, specialmente
nei momenti di crisi, una sorgente inesausta di intuizioni e di stimoli per il rinnovamento della Chiesa e
dei singoli credenti.

2.2. Un pensiero fuori dal comune


La lettura degli scritti di Paolo non lascia indifferenti. Se la genialità di Paolo colpisce, altre

34 G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso e le origini cristiane, 379.

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colte alcune sue affermazioni lasciano perplessi. Non è sempre facile, in effetti, seguire
l’argomentare dell’apostolo fatto, insieme, di affermazioni perentorie e di interpellanze improvvise.
La successione dei temi affrontati non viene colta immediatamente nella sua logica, nella sua
pertinenza. Così, a titolo di esempio, perché mai la Prima Lettera ai Corinti si presenta, alla rinfusa,
accanto a grandi affermazioni sulla croce35, la risurrezione36, alcune esortazioni sul celibato37, il
matrimonio38, i tribunali civili39 e il cibo40? Simili discorsi che appaiono confusi anche a causa di
alcune citazioni dell’AT, che rendono difficile la comprensione41, ci lasciano perplessi perché noi
ignoriamo i problemi concreti cui rispondono 42 , senza peraltro voler negare che tali problemi
corrispondano a quelli che abbiamo anche noi.
Del resto, il tono che Paolo usa è sorprendente ed, in alcuni casi, addirittura disturba43. Paolo è
colmo di affetto per i Tessalonicesi, da lui qualificati come “amatissimi nel Signore” 44 , ma
tremendo con i Galati che tratta, senza mezzi termini, da stolti e insensati45. Perché mai si permette
di trattare i cristiani in un modo che noi volentieri qualificheremo come ingiusto? Nella lista dei
rimproveri rivolti a Paolo figura, dunque, in un posto di rilievo, quello dell’intolleranza. Viene
accusato anche di misoginia46. Viene tacciato, inoltre, di lassismo, come uno che denuncia la carne
per esaltare lo spirito47. Questo atteggiamento, che noi interpretiamo come autoritario, pare imporre
la sua volontà alle comunità non soltanto per ciò che riguarda la fede, ma anche nei costumi48. Si
arriva addirittura a pretendere ch’egli sia il fondatore del cristianesimo. Per riassumere il tutto, è la
sua personalità stessa che ci disturba, perché il suo “io” è onnipresente.

Un pensiero insostituibile
Bisogna riconoscerlo: gli scritti Paolini sono esigenti quando li si avvicina perché un buon
numero di espressioni, che l’autore utilizza ci sono diventate estranee49. Il lettore di oggi accosta le
lettere con gli stereotipi che 2000 anni di una storia fatta di passioni, di dispute teologiche hanno
accumulato sulla persona di Paolo e sui suoi iscritti. I testi dell’apostolo sono diventati ermetici
perché noi non troviamo più in essi la fonte assolutamente originale, che li ha ispirati. Tuttavia il
dovere di leggerlo è imprescindibile perché Paolo è un testimone insostituibile, per l’incontro
eccezionale che il risorto gli ha concesso di se stesso, per la sua missione universale per le sue
lettere che ci rivelano Cristo. La comunità ecclesiale di oggi è invitata ritrovare sempre di più il
senso delle scritture in generale degli scritti di Paolo in particolare, se vuole rimanere viva nella

35 Cf. 1Cor 1,18-25.


36 Cf. 1Cor 15,1ss.
37 Cf. 1Cor 7,1ss.
38 Cf. 1Cor 5,1ss; 7,7ss.
39 Cf. 1Cor 6,1-8.
40 Cf. 1Cor 8,1-13.
41 Cf. 1Cor 9,8-10.
42 Per es.: il battesimo per i morti, ricordato in 1Cor 15,29.
43 Cf. 1Cor 14,18-19: “Io ringrazio Dio che parlo in altre lingue più di tutti voi; ma nella chiesa preferisco dir cinque parole

intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua”.
44 Cf. 1Ts 1,4.
45 Cf. Gal 1,6ss.
46 Cf. 1Tm 2,11-15: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né

d’usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Perché Adamo fu formato il primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la
donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione nondimeno sarà salvata partorendo figliuoli, se persevererà nella fede,
nell’amore e nella santificazione con modestia”.
47 Cf. Rm 7,25-8,4.
48 Cf. 1Cor 11,1-16.
49 Cf. 2Cor 2,14-17.

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fede. Essa non deve lasciarsi respingere dalla reale difficoltà che la lettura di questi testi presenta.
Essi appartengono alla rivelazione e, a questo titolo, sono indispensabili per la conoscenza di Cristo.
Scritti in un tempo determinato, essi hanno un valore per tutti tempi, non avendo altro contenuto
che l’evento Cristo.

Le vie di accesso a Paolo


Per scoprire o riscoprire la personalità di Paolo il carattere insostituibile del suo messaggio è
indispensabile partire dalle sue Lettere. Tali missive sono state redatte, a partire dagli anni 50, dallo
stesso apostolo, almeno per sette di esse50. La lettera ai Colossesi e quella agli Efesini sono tardive,
tanto che la loro autenticità viene contestata; tuttavia, senza voler risolvere adesso questo problema,
non si può in alcun modo eliminare il carattere paolino di queste due lettere che rappresentano, di
fatto, il coronamento di un medesimo pensiero. Quanto alle lettere dette pastorali, vengono
considerate posteriori all’apostolo. Questo corpus epistolare è il luogo per eccellenza per scoprire
Paolo, il suo messaggio, la sua vita, la sua opera.

2.3. Paolo e Gesù


Il vangelo che Paolo ha annunziato in Anatolia e in Grecia si ricollega espressamente alla
predicazione fatta pochi anni prima da Gesù di Nazareth nei villaggi della Galilea. Tuttavia il suo
messaggio non si identifica semplicemente con quello di Gesù.
Paolo, infatti, ha di Gesù una conoscenza indiretta, mediata cioè dalle prime comunità cristiane di
lingua aramaica e greca. Per di più egli vive e opera in un ambiente diverso, quello delle grandi città
romane, in cui la tradizione giudaica deve confrontarsi con la cultura ellenistica.
In questa nuova situazione egli elabora il suo pensiero in modo originale e autonomo, dando inizio a
un cristianesimo che, pur senza sacrificare i suoi legami con l’ambiente giudaico originario, è più aperto e
disponibile al dialogo con la cultura ellenistica. La sua persona e il suo insegnamento si pongono dunque
a un crocevia importante del cristianesimo primitivo, sul quale hanno esercitato un forte influsso, non
senza provocare polemiche e anche rifiuti.
Il titolo con cui Paolo si presenta ai suoi cristiani e che difende con fermezza nei confronti degli
avversari è quello di apostolo di Gesù Cristo. Tuttavia egli non fu discepolo di Gesù durante la sua vita
terrena, anzi probabilmente non lo conobbe neppure di persona: il suo apostolato deriva dal fatto che
sulla via di Damasco il Risorto apparve anche a lui, “come a un aborto” (1Cor 15,8-9), cioè fuori
tempo, quando ormai si era chiuso il ciclo delle apparizioni ufficiali. È, dunque, legittimo chiedersi se
esiste effettivamente un rapporto di continuità tra Gesù di Nazareth, la sua vita e il suo insegnamento, e la
predicazione dell’apostolo dei gentili.

Epistolario e tradizione evangelica a confronto


Il rapporto che intercorre tra Paolo e Gesù può essere precisato solo attraverso un confronto tra le sue
lettere e i vangeli, supponendo che questi, sebbene composti in un momento successivo, rispecchino in
modo attendibile la figura e l’insegnamento di Gesù. Da questo studio appaiono alcuni fatti a prima vista
sconcertanti.
Paolo non conosce, o almeno non mostra di conoscere se non in minima parte, le tradizioni
riguardanti la vita terrena di Gesù. Egli infatti non menziona il battesimo di Gesù, le sue tentazioni, il suo
annunzio incentrato sulla venuta imminente del Regno, le controversie con i farisei, i miracoli e le
parabole; malgrado l’importanza da lui attribuita alla morte e risurrezione di Gesù, non ricorda alcun

50 Rm; 1 e 2Cor; Gal; Fil; 1Ts; Fm.

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dettaglio della passione o delle apparizioni ai discepoli.


Dall’epistolario paolino si possono ricavare solo pochi dati circa la vita terrena di Gesù:
• di lui dice che appartiene al popolo di Israele (Rm 9,5);
• che è un discendente di Davide (Rm 1,3);
• nato da donna, sotto la legge (Gal 4,4);
• e che compì la sua opera come “servitore dei circoncisi” (Rm 15,8);
• tra i suoi discepoli si distingue il gruppo dei Dodici, nel quale emerge Cefa/Pietro;
• mentre tra i suoi “fratelli” (1Cor 9,5) spicca Giacomo, colonna della chiesa di Gerusalemme51;
• nella notte in cui veniva tradito Gesù istituì l’eucaristia (1Cor 11,23);
• morì in croce52;
• fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, dopo di che apparve ai Dodici e ad altri discepoli (1Cor
15,6).
Ancora più scarsi sono i detti di Gesù che l’apostolo ricorda esplicitamente:
• la moglie non si separi dal marito e questi non ripudi la propria moglie53;
• “quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo”54.
• Di Gesù egli cita anche le parole pronunziate sul pane e sul vino durante l’ultima cena55.
• Due volte si appella a una parola del Signore che però non è conservata nei vangeli56.
Più numerose, ma anche più vaghe, sono le allusioni a particolari insegnamenti di Gesù:
• bisogna vivere in pace57;
• senza rendere male per male58;
• anzi benedicendo i persecutori59;
• l’amore del prossimo è la sintesi di tutta la legge60;
• è necessario evitare lo scandalo61;
• e pagare le tasse dovute62;
• nulla deve essere più considerato come impuro63.
Se si confronta il nucleo centrale del messaggio di Gesù con quello di Paolo, appaiono senza dubbio
innegabili somiglianze, che possono essere riassunte nell’iniziativa gratuita di Dio in favore del suo
popolo e di tutta l’umanità. Non meno chiare sono però le differenze: mentre Gesù pone al centro del suo
annunzio il regno di Dio, compiendo le opere che ne manifestano la venuta, Paolo concentra la sua
attenzione sull’evento della morte e della risurrezione di Cristo, nel quale Dio stesso è all’opera per la
giustificazione dell’uomo peccatore. Pur rivendicando un ruolo di primo piano nel disegno di Dio, Gesù
non si attribuisce espressamente i titoli di Messia, Signore e Figlio di Dio; Paolo, invece, incentra su di
essi tutta la sua cristologia. Sia Gesù che Paolo prendono posizione contro la legge mosaica: ma mentre il

51 Gal 1,19; 2,9.12; cf. 1Cor 15,7.


52 Gal 3,1; 1Cor 2,2 ecc..
53 1Cor 7,10-12; cf. Mc 10,9.
54 1Cor 9,14; cf. Lc 10,7.
55 1Cor 11,24-25; cf. Lc 22,19-20.
56 1Cor 14,37; 1Ts 4,15.
57 1Ts 5,13b; cf. Mc 9,50.
58 1Ts 5,15; Rm 12,17.
59 Rm 12,14; cf. Mt 5,44; Lc 6,28.
60 Rm 13,9; cf. Mc 12,28-31.
61 Rm 12,13; cf. Mc 9,42.
62 Rm 13,7; cf. Mc 12,17.
63 Rm 14,14; cf. Mc 7,15.

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primo ne relativizza le disposizioni subordinandole alla pratica dell’amore, il secondo squalifica la legge
opponendo ad essa la fede come unica via per ottenere la giustificazione. In questo bilancio sono
particolarmente significativi i silenzi dell’apostolo, che si situano proprio là dove sarebbe stato opportuno
e spontaneo un riferimento esplicito alla tradizione evangelica. Ma è soprattutto la sua teologia, a prima
vista così diversa da quella del profeta di Nazareth, a porre un problema oggettivo, al quale sono state
date le soluzioni più disparate.

Continuità e sviluppo
La conversione e la prima formazione cristiana di Paolo avvenne nell’ambito delle prime comunità
di lingua greca, dalle quali ricevette gli elementi fondamentali della fede; tuttavia durante tutto il suo
ministero egli mantenne rapporti stretti e continuati con le prime comunità palestinesi di lingua aramaica.
Sia alle une che alle altre egli è pertanto debitore del suo messaggio, che approfondì mediante categorie
riprese tanto dal mondo culturale giudaico che da quello ellenistico. La dipendenza di Paolo dalla fede
delle prime comunità palestinesi ed ellenistiche è stata recentemente messa in risalto dalla ricerca storico-
morfologica, la quale ha evidenziato nelle sue lettere un materiale più antico, che egli riprende talora in
modo quasi letterale, facendone spesso il punto di partenza delle sue riflessioni teologiche.
A volte è Paolo stesso che segnala l’utilizzazione di materiale arcaico, quando ad esempio afferma di
aver trasmesso ciò che lui stesso ha ricevuto riguardo alla Cena del Signore64 e alla risurrezione di Cristo
(1Cor 15,3), oppure quando, per affermare l’indissolubilità del matrimonio, si appella a un comando del
Signore 65 . Analogamente si può pensare che si ispiri a tradizioni della comunità primitiva allorché
descrive la prassi battesimale66 e i carismi67, oppure raccomanda il celibato per il regno68. Un chiaro
marchio di arcaicità hanno anche alcune espressioni liturgiche quali amen69, maranathà (Signore, vieni!)
(1Cor 16,22), abbà (papà)70. Il fatto che queste parole siano conservate in aramaico postula che Paolo le
abbia ricevute dalla comunità di Gerusalemme.
Nelle lettere si possono individuare antiche formule con cui la comunità esprimeva la propria fede.
Alcune assumono la forma caratteristica della “omologia”, solenne dichiarazione riguardante l’identità di
Gesù71. Altre invece sono professioni di fede in senso proprio, che ricordano un evento salvifico che si è
attuato nel passato72. A volte esse presentano una teologia più arcaica di quella sviluppata da Paolo, come
quando si dice che il vangelo di Dio, promesso nelle sacre Scritture, riguarda “il Figlio suo, nato dalla
stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di
santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,34). Una chiara
origine prepaolina rivelano alcuni testi in forma innica, tra i quali spicca l’inno cristologico di Fil 2,6-11,
ove l’opera di Gesù viene presentata secondo lo schema insolito dell’abbassamento e della glorificazione.
Altri inni analoghi si trovano nelle lettere deuteropaoline 73 . Ciò appare anche nell’uso della
“benedizione”74 e della “dossologia”75, dei “cataloghi” di virtù76 e di vizi77 e delle “tavole domestiche”78.

64 Cf. 1Cor 11,23-25; cf. Lc 22,19-20.


65 1Cor 7,10-11; cf. Mc 10,11 e par.
66 Rm 6,1-7; cf. At 2,41.
67 1Cor 12-14; cf. At 2,4; 10,46; 19,6.
68 1Cor 7,26; cf. Mt 19,12.
69 Rm 1,25; 1Cor 14,16 ecc.
70 Gal 4,6; Rm 8,15.
71 Cf. 1Cor 12,3; Fil 2,11; 1Cor 8,6.
72 Cf. 1Ts 1,9b-10; 4,14a; 1Cor 15,3-5; Rm 4,25; 14,9.
73 Cf. Col 1, 15-20; Ef 1, 3-14; 1Tm 3,16.
74 Cf. Rm 1,25; 9,5; 2Cor 1,3.
75 Cf. Gal 1,5; Rm 11,36; 16,25-27; Fil 4,20.

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Il vangelo di Paolo è, dunque, profondamente radicato nella fede della Chiesa primitiva, che l’apostolo fa
sua e approfondisce in funzione della vita delle comunità da lui fondate nel mondo greco-romano. Anche
se non ripercorre le tappe della catechesi contenuta nei vangeli sinottici, egli non si presenta come un
innovatore, ma come un apostolo e un pastore interessato a mantenere l’integrità della fede, pur
adattandola alla nuova situazione in cui si trova ad operare.
I rapporti tra Gesù e Paolo sono stati oggetto di un lungo dibattito. Le differenze che separano l’uno
dall’altro furono evidenziate per la prima volta circa un secolo e mezzo fa da F. C. Baur, fondatore della
scuola di Tubinga: secondo questo studioso le loro posizioni sono inconciliabili, in quanto Gesù predicò
“una religione che respira il più puro spirito morale”, mentre Paolo elaborò un sofisticato sistema
teologico.
L’idea di un divario insanabile venne ripresa all’inizio di questo secolo da W. Wrede, per il quale
l’apostolo, influenzato dall’apocalittica giudaica, già prima della sua conversione credeva in un essere
celeste, una specie di Cristo divino, che poi identificò con Gesù di Nazareth quando questi gli apparve
come il Risorto: sarebbe questo l’elemento nuovo che impresse una svolta decisiva al pensiero di Paolo.
Secondo W. Heitmüller, invece, l’elemento nuovo consisterebbe nello sviluppo che il messaggio di
Gesù subì dopo la sua risurrezione nell’ambito della comunità primitiva e soprattutto del cristianesimo
ellenistico, che trasformò il messia giudaico nel trascendente figlio di Dio e nel divino Signore.
A questa linea di pensiero, che afferma una netta differenza o addirittura una contrapposizione tra
Paolo e Gesù, si oppose A. Schweitzer, il quale mise in primo piano la continuità che esiste tra i due sul
terreno dell’attesa escatologica: sia Gesù che Paolo annunziarono l’imminente irruzione nella storia della
signoria di Dio; la differenza sta nel fatto che per l’apostolo, che si colloca in un momento successivo a
quello di Gesù, la salvezza è già stata inaugurata mediante la sua morte e risurrezione ed è disponibile per
coloro che si uniscono misticamente a Lui.
Il paolinismo sarebbe, dunque, l’unico autentico sviluppo del vangelo di Gesù. Una posizione in
qualche modo intermedia è stata adottata da R. Bultmann, il quale, se da un lato riconosce la dipendenza
di Paolo dal cristianesimo ellenistico, dall’altro afferma che la vera differenza tra Gesù e Paolo sta nel
fatto che “la cosa decisiva che Gesù attende per Paolo si è già compiuta”. Per lui, quindi, i contenuti
della predicazione di Gesù avrebbero perso la loro importanza in favore del kerygma primitivo, cioè
dell’annunzio con il quale Dio chiama efficacemente l’uomo perduto a decidersi per il dono della
salvezza che gli viene offerto gratuitamente nel Cristo risorto. La dissociazione operata da Bultmann tra il
Gesù della storia e il Cristo della fede è stata superata dai suoi discepoli, secondo i quali Gesù,
annunziando l’imminente venuta del regno escatologico di Dio, collocò se stesso al centro dell’iniziativa
salvifica divina.
Esiste pertanto una continuità tra la cristologia implicita di Gesù e quella esplicita di Paolo, il quale
però, non avendo avuto un’esperienza diretta di quanto Gesù disse e fece durante la sua vita terrena,
focalizzò la sua attenzione sull’evento della sua morte e risurrezione, nel quale vide il culmine e la
pienezza di tutta la sua opera salvifica.
Il dibattito sui rapporti tra Paolo e Gesù ha messo in luce due fatti importanti: da una parte non esiste
tra i due un abisso invalicabile, dall’altra non si può semplicemente affermare che i rispettivi punti di
vista coincidono. L’apostolo non ha alterato il vangelo di Gesù, ma lo ha ripreso esplicitando il ruolo che
questi, in forza della sua morte e risurrezione, svolse nel piano salvifico di Dio. Nel fare ciò egli si è

76 Cf. Gal 5,22-23; 2Cor 6,6; Fil 4,8.


77 Cf. Gal 5,19-21; 1Cor 5, 10-11; 6,9-10; Rm 1,29-30.
78 Cf. Col 3,18-4,1; Ef 5,22-6,9; 1Tm 2,9-15.

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ispirato alla fede della comunità primitiva, che ha colto nel delicato passaggio dal mondo culturale
giudaico a quello greco-romano.
Proviamo a ripercorre con attenzione queste tappe. La ricerca si è impegnata a trovare una
spiegazione “storica” della teologia paolina, su tre direttrici diverse:
- l’annuncio di Gesù di Nazareth (Gesù storico);
- il cristianesimo primitivo;
- fattori culturali e religiosi dell’ambiente.
I risultati della prima direttrice sono stati e non potevano non essere deludenti. Nella
predicazione di Gesù non è possibile scorgere la chiave del pensiero paolino. Paolo non ha
conosciuto Gesù. Il suo epistolario rivela uno stacco dalla predicazione di Gesù così come possiamo
conoscerla dai sinottici.
La scuola di Tubinga ha, invece, privilegiato la seconda direttrice: il Cristianesimo primitivo
visto in una sua intrinseca e supposta dialettica tra il partito di Pietro, ligio alle osservanze e allo
spirito del Giudaismo e quello aperto al mondo pagano, egemonizzato da Paolo. Domina in questa
impostazione lo schema idealista della tesi e dell’antitesi. Il Vangelo di Paolo si spiega in forza di
questa lotta contro la segregazione del Vangelo nella cittadella del Giudaismo. I discepoli di Baur si
sono mantenuti su questa linea pur con qualche significativo cambiamento. In ogni caso la scuola di
Tubinga non ha pensato ad influssi esterni: il cristianesimo di Paolo, una monade priva di porte e
finestre, un fenomeno storico isolato dall’ambiente. Oggi si prende il meglio di questa attenzione.
Fuori di schematizzazioni semplicistiche si cerca di precisare quanto Paolo ha ricevuto e, quindi,
quanto è dipendente dall’esperienza ecclesiale.
Se, infatti, la principale ispirazione della teologia di Paolo fu la rivelazione concessagli
nell’esperienza ineffabile della conversione, quell’evento non fu l’unica fonte della sua conoscenza
di Cristo e del movimento cristiano. Egli non fu il fondatore di tale movimento, ma vi si inserì in un
secondo momento. È del tutto normale, allora, che Paolo abbia ereditato dalla tradizione primitiva
della Chiesa alcune idee fondamentali sull’identità di Cristo e sulla sua opera. Pertanto è da
prendere “cum grano salis” e da comprendere nel contesto polemico l’affermazione dell’Apostolo –
contenuta all’inizio della lettera ai Galati – circa la sua totale autonomia dall’ambiente ecclesiale.
Di fatto, vi sono nelle lettere paoline chiare implicazioni della dipendenza dalla tradizione
apostolica della Chiesa primitiva: dal suo kerigma, dalla sua liturgia, dalla sua terminologia
teologica, dalla sua parenesi. Paolo trasmette ciò che ha ricevuto79, si richiama alle abitudini della
Chiesa80, raccomanda fedeltà alla tradizione. Attraverso affinità lessicali e tematiche tra i diversi
documenti neotestamentari è possibile recepire le tracce della primitiva predicazione ed il fondo
comune della catechesi e ciò che da esso è passato negli scritti paolini. È possibile, allora,
individuare con sufficiente sicurezza:
a) frammenti del kerigma primitivo81;
b) elementi della liturgia, quali ad esempio la formula eucaristica82. Sempre dell’esperienza
liturgica sono da ricordare alcune dossologie che erano comune patrimonio ecclesiale83, ed alcuni

79 Cf. 1Cor 11,2.23; 15,1.3.


80 Cf. 2Cor 1l,16.
81 Esempi a riguardo possono essere: 1Ts 1,10; Gal 1,3-4; 1Cor 15,2-5; Rm 1,2-4; 8,34; 10,8-9. Si può utilmente

documentarsi con C. H. DODD, La predicazione apostolica ed il suo sviluppo. Paideia, Brescia 1973 (I cap.); T.
SCHREINER (a cura di), Forma ed esigenze del Nuovo Testamento, Bari 1983, 77.
82 Cf. 1Cor 11,23-25; la prassi battesimale che traspare in alcuni testi quali Rm 6,1ss; preghiere ed invocazioni quali:

amen, maranathà, Abbà, ecc.


83 Quali Gal 1,5; Fil 4,20; Rm 11,36; Ef 3,21.

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inni così come si trovano, pur non senza qualche ritocco84. Infine, l’uso di formule confessionali
echeggia la prassi della Chiesa primitiva: Gesù è il Signore85; Gesù è il Cristo86.
c) alcuni termini evocativi di precise visioni teologiche emergono dal retroterra ecclesiale:
Figlio di Dio87; la triade: fede, speranza e carità88; Chiesa di Dio89; apostolo90, ecc.
d) infine, certe parti esortative delle lettere paoline fanno pensare ad un’incorporazione del
materiale parenetico in uso nella comunità.
In conclusione, l’applicazione del metodo della storia delle forme ha consentito di ritrovare
in Paolo l’eco di pensieri comuni e tracce di un comune linguaggio, anche se non possiamo
dimenticare i limiti di un metodo come questo quando è applicato ad un materiale quale è
l’epistolario paolino. Esso, infatti, non è il risultato di una lenta evoluzione letteraria, ma nasce dalla
personalità dell’Apostolo in debito, sì, con la tradizione, ma anche vigorosamente originale.
Dagli inizi del Novecento, è la terza direttrice, l’attenzione degli storici si è volta alle forze
religiose e culturali del duplice milieu91: quello greco-pagano e quello giudaico. Paolo è cittadino di
Gerusalemme o di Atene? Questa è stata la direttrice più esplorata. In sintesi si possono indicare
queste tappe della ricerca:
a) a favore di un Paolo fortemente ellenizzato si espresse la scuola storico-religiosa
(Reitzenstein92, Bousset93);
b) il Vangelo di Paolo trova la sua spiegazione nelle religioni misteriche di stampo greco-
orientale, nel dualismo gnostico e nel culto di divinità salvatrici.
Il procedimento metodologico di questi studiosi è alquanto discutibile: constatata una serie di
analogie della teologia paolina con molteplici espressioni della religiosità greco-orientale hanno
concluso la dipendenza di questa da quelle94. Già Wrede (1904) aveva spiegato il Vangelo paolino
come applicazione a Gesù della sua credenza in un Messia trascendente proprio della apocalittica
giudaica del 4 Esdra e dell’Apocalisse di Baruc. Ma è soprattutto con Schweitzer che abbiamo la
reazione più precisa all’indirizzo della scuola storico-religiosa e contro ogni tentativo di fare di
Paolo un greco95. La sua tesi è riassumibile in queste preposizioni:

84 Per esempio in Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 5,14.


85 1Cor 12,13; Rm 10,9.
86 1Cor 3,11.
87 Cf. Rm 1,4.9; 2Cor 1,19; Gal 2,20; Ef 4,13.
88 Cf. 1Ts 1,3; 5,8.
89 Cf. 1Cor 1,2; 10,32; 11,22; 12,28; 15,9; Gal 1,13; Ef 3,10; 1Tm 3,5.15.
90 Cf. Rm 1,1; 11,13; 1Cor 1,1; 9,1.2; 15,9; 2Cor 1,1; 12,12; Gal 1,1; 2,8; Ef 1,1; Col 1,1; 1Tm 1,1; 2,7; 2Tm 1,1; Tt 1,1.
91 Milieu è una parola di origine francese adottata in italiano, che significa “contesto, ambito, ambiente” in special modo

usata dal punto di vista sociale e culturale, ad esempio per indicare appunto l’ambito sociale e culturale in cui opera un
artista, o da cui emerge una corrente di pensiero. Nell’originale francese può però anche indicare un ambiente
malavitoso, un giro d’affari losco, come testimonia anche il termine di Le Milieu attribuito a delle organizzazioni
criminali.
92 L’influsso dell’ambiente ellenistico sul pensiero di Paolo è stato enfatizzato soprattutto dalla scuola storico-religiosa,

fiorita nel periodo che precedette la prima guerra mondiale. Antesignano di questa scuola fu P. Wendland, la cui opera è
stata tradotta di recente in italiano: egli sostiene che la gnosi orientale ha influito sulla religiosità di Paolo, e che il
cristianesimo, come religione redentiva, si può comprendere solo sullo sfondo di una mistica prettamente pagana. Sulla
stessa linea si colloca l’opera già citata di W. Heitmüller. Due anni prima R. Reitzenstein aveva scritto un libro sulle
religioni misteriche, nel quale dipingeva Paolo come uno gnostico, buon conoscitore della letteratura ellenistica, che
condivide con i mistici ellenistici il senso estatico dello sdoppiamento della propria personalità.
93 Secondo W. Bousset le caratteristiche specifiche della teologia di Paolo sono dovute in massima parte all’influsso che

esercitarono su di lui da una parte il dualismo gnostico, dall’altra le religioni misteriche e i culti delle divinità salvatrici,
chiamate Kúptot (Signori).
94 Oggi questa posizione è poco seguita e, gradualmente, si è privilegiata l’attenzione al mondo biblico.
95 All’inizio del XX secolo W. Wrede e A. Schweitzer attribuirono alcune peculiarità del pensiero di Paolo all’influsso

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- come Gesù, Paolo è debitore dell’escatologia e dell’apocalittica giudaica, tutta protesa


verso l’instaurazione del Regno messianico, che sarebbe sorto sulle ceneri di questo
mondo, verso la finale resurrezione dei morti e la realizzazione del Regno di Dio;
- il paolinismo ed il pensiero greco non hanno nulla in comune;
- la mistica della redenzione e la dottrina sacramentaria di Paolo appartengono alle idee e
al linguaggio dell’apocalittica.
Weiss (1913) si è opposto ad ogni soluzione unilaterale del problema, proponendo l’ipotesi
di molteplici influssi 96 . Siamo, poi, al periodo immediatamente successivo alla prima guerra
mondiale: il campo continua ad essere dominato dall’opinione del Paolo greco, tuttavia emerge un
elemento nuovo. Siamo alla valorizzazione della letteratura rabbinica. Billerbeck pubblica (1922-
1928) una ricca raccolta di materiale rabbinico. Importante è il terzo volume dell’opera
“Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch” dedicato a Paolo. Anche per Kittel,
accanto e avanti a tutte le analogie ellenistiche medio-orientali, per lo studio del Cristianesimo
primitivo sussiste la questione dei rapporti di questo con il tardo giudaismo palestinese. Ancora
Schweitzer nel 1930 torna alla carica con l’opera “La mistica dell’Apostolo Paolo”, ribadendo
l’intuizione di venti anni prima: Paolo è un mistico incentrato sulla persona di Cristo. In lui sono
presenti tre concezioni salvifiche: escatologica, mistica e giuridica. La prima è fondata nell’attesa di
Cristo, la seconda è caratterizzata dall’essere in Cristo, la terza consiste nella dottrina della
giustificazione. La salvezza mistica anticipa nella storia la salvezza attesa per la fine del mondo.
Dopo la seconda guerra mondiale, si continua ad oscillare tra il polo greco-pagano e quello
giudaico. Nell’alveo della scuola religionistica si colloca anche R. Bultmann, il quale
precedentemente aveva affermato la dipendenza e al tempo stesso l’originalità di Paolo nei
confronti della cultura greca. In seguito egli sottolineò le analogie tra il pensiero di Paolo e il mito
gnostico del redentore, sceso dai cieli e apparso in terra per risvegliare la coscienza delle anime
decadute: su questa linea richiamò pure l’attenzione sulla gnosi giudaico-orientale attestata nei testi
mandaici.
Una certa dipendenza di Paolo dalla cultura greca viene oggi riconosciuta senza difficoltà, ma
nei singoli casi gli studiosi si pronunziano con grande cautela. È fuori discussione per esempio che
l’apostolo abbia spesso adottato, pur con i dovuti correttivi, il metodo della diatriba cinico-stoica.
Dalla filosofia popolare, nella quale predominavano elementi di origine stoica, ha assunto termini
come fu,sij97, sunei,dhsij98, evleuqeri,a99, avreth,100 , auvta,rkeia101. Lo stesso si può dire dei cataloghi
di vizi e di virtù102, i quali però erano già stati adottati dal giudaismo ellenistico. L’utilizzazione da
parte di Paolo di termini o espressioni di chiara matrice ellenistica non deve però ingannare: spesso

dell’apocalittica giudaica. In seguito diversi studiosi misero in luce la sua dipendenza da altri settori del mondo giudaico.
L’importanza dell’ambiente rabbinico è stata evidenziata soprattutto da P. Billerbeck, il quale all’indomani della prima
guerra mondiale raccolse in un’opera monumentale un ricco materiale rabbinico parallelo al NT. Sulla stessa linea si
colloca W. D. Davies, il quale mostra come i principali temi della teologia paolina traggono ispirazione dalla sua
formazione rabbinica.
96 Altri studiosi infine, come J. Weiss, pensano che nel pensiero di Paolo sia confluita, insieme al messaggio etico di Gesù

e della comunità primitiva, una serie di correnti spirituali dell’epoca: religiosità ellenistico-giudaica ed etica stoica,
mistica sincretistico-ellenistica e gnosi dualistico-ascetica.
97 Rm 1,26-27; 2,14; ecc.
98 1Cor 8,7.10.12; Rm 2,15; ecc.
99 Cf. 1Cor 10,29; 2Cor 3,17; Gal 5,1.13; ecc.
100 Fil 4,8.
101 2Cor 9,8.
102 Cf. Rm 1,18-32; Gal 5,19-23.

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infatti egli conferisce loro un significato nuovo, facendone il veicolo di concetti che affondano le
loro radici nel mondo biblico. In questo egli segue un metodo ampiamente diffuso nell’ambito del
giudaismo ellenistico. Per quanto riguarda le religioni misteriche, sembra che a volte Paolo faccia
suoi alcuni dei loro concetti preferiti, come avviene per esempio a proposito del battesimo (cf. Rm
6,33), ma si tratta per lo più di contatti puramente formali.
Bultmann, che già aveva evidenziato il debito di Paolo verso la diatriba cinico-stoica in
un’opera sintetica “Il Cristianesimo primitivo nel quadro delle religioni antiche” (1948, ed. it.
1964) afferma che il Cristianesimo primitivo è un fenomeno sincretistico; in esso si mescolano
elementi culturali, valori etici e credenze religiose del mondo giudaico, dell’ambiente greco, della
“pietà” orientale. Riprendendo la teoria di Heitmüller e Bousset, sottolinea la differenza
fondamentale tra Cristianesimo ellenistico, matrice del pensiero paolino, e quello palestinese:
l’attesa escatologica di questo aveva lasciato il posto al culto di Gesù Kyrios, presente nei
sacramenti, e alla “sapienza” propria del mito gnostico. Rileva la analogia tra la teologia paolina
della redenzione con l’antropologia e la soteriologia dei sistemi gnostici. Pure nelle diversità,
tuttavia Paolo vi si sarebbe ispirato.
Nel frattempo la scoperta dei manoscritti di Qumran suggerì nuove somiglianze tra questo
ambiente giudaico di matrice essena e le lettere paoline. H. J. Schoeps attirò, invece, l’attenzione
sul giudaismo ellenistico, mentre altri studiosi, quali R. Le Déaut e M. McNamara posero l’accento
sulle versioni aramaiche dell’AT (targumim). Le radici giudaiche di Paolo sono state approfondite
da numerosi studiosi cattolici, tra i quali emergono L. Cerfaux, S. Lyonnet e J. Dupont.
Dopo la pubblicazione dei testi di Nag-Hammadi 103 , espressioni di una setta cristiana
gnosticizzante, l’interesse per la gnosi ha catalizzato l’attenzione nell’ultimo ventennio. Tuttavia,
per quanto riguarda la gnosi, oggi si fa notare la distinzione tra testi gnostici per lo più abbastanza
tardivi rispetto all’inizio del Cristianesimo, e teorie gnostiche, presenti fino dal primo secolo.
Non si può escludere che esistesse una corrente di pensiero comunemente chiamata
“pregnosticismo” o “protognosticismo”, nella quale circolava un complesso di idee e concezioni
che preludono allo gnosticismo vero e proprio: è possibile che questo gnosticismo allo stato ancora
embrionale abbia avuto un influsso non tanto su Paolo, quanto piuttosto sui suoi avversari, i quali lo
costrinsero a utilizzare in una certa misura la loro terminologia nella elaborazione del suo pensiero.
L’attenzione, poi, si è spostata sul versante giudaico dalla scoperta dei testi di Qumran.
All’inizio si sono notati molti punti di contatto, enfatizzando eccessivamente la vicinanza tra
Cristianesimo primitivo e la setta dei monaci del Mar Morto; per esempio:
a) l’antitesi luce-tenebre e carne-spirito;
b) la dottrina della corruzione radicale dell’uomo;
c) l’interesse per la conoscenza dei misteri divini riguardanti il destino del mondo;
d) la febbrile attesa escatologica alcuni rituali (bagni purificatori e cene sacre);
e) l’organizzazione e la disciplina della comunità;
f) la tecnica esegetica applicata alle scritture la polemica contro il culto gerosolimitano.

103
Nag Hammâdi è una cittadina situata nel Governatorato di Qina (Egitto centrorientale), con una popolazione
di circa 30.000 abitanti. È importante centro agricolo per la produzione di zucchero, a cui si affianca l'industria
dell'alluminio e del cemento. Fu nota anticamente con il nome di χηνοβόσκιον (Chenoboskion, “recinto per oche”).
Sulla curiosa denominazione Erodiano riporta un sapida freddura: “ Chenoboschia o Chenoboschio, città
egiziana. Alessandro disse che la città non riportava nulla del nome, infatti nessuno vi potrebbe scorgere oche al
pascolo, visto l'impegno dei suoi abitanti nel rispetto dei coccodrilli” (De prosodia catholica, ed. A. Lentz,
Grammatici Graeci, vol. 3.1. Leipzig, Teubner, 1867), È soprattutto nota per la scoperta, nel 1945, di una
biblioteca di scritti gnostici cristiani scritti in lingua copta noti come codici di Nag Hammâdi.

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Dopo un primo momento, la convinzione di un contatto stretto tra Cristianesimo primitivo e,


quindi, Paolo con Qumran si è notevolmente allentata. Si sono poste altre sottolineature quali:
- L’incidenza del rabbinismo: la fede cristiana costituisce la piena fioritura del giudaismo
(Davies). Paolo, un rabbi che ha creduto nella venuta del Messia traendone le
conseguenze: abrogazione della legge mosaica e promulgazione della legge del Messia;
effusione dello Spirito; ingresso dei pagani nel popolo di Dio.
- Difensori di un profondo radicamento di Paolo nel mondo giudaico (escatologia,
apocalittica, corrente sapienziale) si sono fatti molti studiosi cattolici anche se non si
misconosce l’apporto dell’ellenismo essenzialmente per quanto riguarda il linguaggio
dell’Apostolo.
Il punto di arrivo della ricerca attuale:
- riconoscimento di una osmosi culturale e religiosa tra giudaismo ed ellenismo;
- non è più possibile contrapporre il giudaismo palestinese, impermeabile ad influssi greci,
ad un giudaismo della diaspora più o meno ellenizzato: l’uno e l’altro erano aperti ad
apporti esterni;
- Gerusalemme o Atene, Paolo ebreo o ellenista sono dilemmi semplicistici.
Recentemente P. Sanders ha posto a confronto le strutture religiose del giudaismo palestinese con
quelle di Paolo: se nel giudaismo predomina il “nomismo del patto”, in forza del quale l’osservanza della
legge è la condizione per rimanere nell’alleanza donata gratuitamente da Dio, per Paolo è determinante
l’escatologia partecipazionista, ossia l’unica via di salvezza è l’essere in Cristo mediante la fede.
Attualmente gli studiosi convergono nell’affermare che Paolo illustra il mistero di Cristo attraverso
categorie desunte in gran parte dall’esperienza religiosa di Israele, così come è stata delineata nell’AT,
che egli legge prevalentemente nella versione greca dei LXX.
Di qui derivano i grandi temi paolini, quali il peccato che corrompe tutta l’umanità, la giustizia
salvifica di Dio che si rivela nella persona di Cristo, la redenzione e la giustificazione mediante la fede,
l’amore del prossimo come sintesi di tutta la legge, la chiamata non solo di Israele, ma di tutti gli uomini
alla salvezza, la Chiesa come nuovo popolo di Dio.
Tuttavia l’atteggiamento di Paolo verso l’AT è complesso. “In parte l’AT per Paolo è obsoleto e da
rifiutare (AT come legge); in parte, esso è preannunzio, cioè preparazione e quindi valorizzazione in
senso positivo (AT come promessa); in parte, conserva intatta l’autorità di libri ispirati e divini (AT
come Scrittura); infine, e come conseguenza, esso fornisce a Paolo in maniera determinante abbondanza
di materiale concettuale e lessicale, come imprescindibile mezzo espressivo (AT come linguaggio)”104.
Paolo legge l’AT secondo le modalità proprie del giudaismo del tempo, ora utilizzando i metodi
dell’esegesi rabbinica 105 , ora introducendo motivi e spunti tipici delle correnti apocalittico-
escatologiche106. Quando sembra mettere in discussione certi concetti biblici, per esempio la legge, in
realtà non si contrappone all’AT in quanto tale, ma a una sua interpretazione che prescinde da Cristo e
dalla sua opera salvifica. In questo caso egli sostituisce concetti ormai logori con altri, per esempio la
giustificazione e fede, che però derivano anch’essi dal mondo biblico.
Pur rifacendosi continuamente alla fede, alla cultura e alle attese del popolo giudaico, Paolo elabora
il suo pensiero teologico a partire dall’evento di Cristo morto e risuscitato. Se nelle sue lettere si notano
gli influssi culturali più disparati, egli però li utilizza in modo autonomo, senza mai legarsi ad un sistema

104 R. PENNA, Atteggiamenti di Paolo verso L’antico Testamento, in RivBib 32(1984) 175-210.
105 Cf. Gal 3,6-14; 4,21-31; Rm 4; 1Cor 10,1-5,
106 Cf. 1Ts 4,13-5,10; 1Cor 15,51-53; 2Cor 5,1-10; Fil 3,11.20-21.

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precostituito. “Nelle sue lettere Paolo appare come chi basa la spiegazione del suo evangelo, la sua
teologia, sul significato della morte e della risurrezione di Gesù, non come chi ha adattato la morte e
risurrezione di Cristo in uno schema preesistente, dove esse possano assumere il posto di altri motivi con
funzioni simili”107.

107 P. SANDERS, Paolo ed il giudaismo palestinese, 760.

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CAPITOLO II
l’ambiente umano, culturale e religioso
1. IL QUADRO STORICO DI RIFERIMENTO
Abbiamo visto nel precedente capitolo la consistenza del materiale con la quale dovremo
misurarci. questo primo momento ci è servito per prendere contatto con questa complessa ed
affascinante figura. Adesso volgiamo il nostro sguardo all’ambiente umano, culturale e religioso
che hanno contributo a far nascere la personalità dell’apostolo delle genti. Per fare ciò non si può
separare la storia del primo cristianesimo da quella dell’ambiente in cui esso nacque e si sviluppò,
cioè l’impero romano nelle sue diverse componenti nel I sec. d.C.

Roma nel passaggio dalla repubblica all’impero


Il I sec. d.C. è dominato da due dinastie la Giulio-Claudia, che ha inizio con Ottaviano
(Augusto) e la Flavia che ha inizio con Vespasiano.

Augusto Tiberio108 Gaio109 Claudio110 Nerone111 Vespasiano Tito Domiziano


31 a. C.–14 d. C. 14-37 d. C. 37-41 d.C. 41-54 d. C. 54-68 d. C. 69-79 d. C. 79-81 d. C. 81-96 d. C.

Alcune caratteristiche
1. L’inizio dell’impero di Augusto cade in un momento di profonda attesa dopo le profonde
guerre intestine che hanno sconvolto Roma per tutto il I sec. a.C. Si fa interprete di questa
attesa Virgilio nella IV ecloga112.
2. Augusto, che riceve tale nome dal senato nel 27 a.C., intende restituire al popolo romano la
propria sovranità. Le cariche che gli vengono conferite sono ancora cariche inquadrabili nella
configurazione repubblicana: egli detiene il comando delle truppe di stanza fuori di Italia, ha
la potestà consolare e tribunizia. Tutto questo tende lentamente a modificarsi a favore di un
potere autocratico che riunisce in sé tutto il potere.
3. La pace universale che favorisce l’osmosi tra le diverse culture che costituivano l’impero.

1.1. L’ellenismo come elemento unificante

Vie e commerci
L’unità di tutto il bacino mediterraneo intorno a Roma favorisce gli scambi in ogni senso. Per
ragioni militari e commerciali una rete stradale unisce in diversi centri del bacino mediterraneo.
Alcuni dati:

108 Ricordato in Lc 3,1: VEn e;tei de. pentekaideka,tw| th/j h`gemoni,aj Tiberi,ou Kai,saroj.
109 Gaio (Caligola) dal marzo 37 al gennaio 41 d.C. Non è ricordato nel Nuovo Testamento. Secondo Penna109, può essere

un riferimento a lui Mc 13.14: {Otan de. i;dhte to. bde,lugma th/j evrhmw,sewj e`sthko,ta o[pou ouv dei/( o` avnaginw,skwn noei,tw.
110 È ricordato in At 11,28 a proposito della carestia e in 18,2 per l’editto di espulsione del 49 (secondo Orosio).

Vedremo più avanti la questione intorno a questa datazione.


111 È citato indirettamente nel Nuovo Testamento: quando Paolo in At 25,11-12 si appella a Cesare si appella a Nerone

che è imperatore in quel momento. Sotto Nerone inizia la guerra in Palestina che terminerà nel 70 con la conquista di
Gerusalemme.
112 R. PENNA, L’ambiente, 91.

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- Comunicazioni per nave: in primavera ed estate era il modo ci comunicazione più veloce è
più semplice, come ci è riferito dal testo di Atti113. Con il vento favorevole si potevano
percorrere perciò più di 100 km.
- Comunicazioni fluviali, molto più limitate;
- comunicazioni via terra: a cavallo e cambiando cavallo alle stazioni si potevano percorrere
alcune centinaia di km; in alternativa i carri potevano percorrere una cinquantina di Km al
giorno; a piedi non più di 40114.

Importanza della polis


Già Alessandro Magno aveva fatto delle città fondate ex novo (ad es. Alessandria) o rifondate
secondo il concetto greco il punto fondamentale della diffusione della cultura greca in oriente. Con i
suoi successori questo processo continua così come avviene successivamente con i romani
soprattutto a partire da Augusto quando ormai è necessario dare stabilità a tutta la serie di conquiste
avvenute nel corso del I sec. a.C.: tra le città di primaria importanza per il NT una di quelle fondate
dai romani è Filippi.
Le polis, collegate tra di loro da un sistema viario assai sviluppato, divengono punto di incontro
delle diverse culture tutte unificate dalla lingua e dalla cultura greca, più in oriente che in occidente.
Aumenta la mobilità. Nelle lettere di Paolo sono un esempio di mobilità i due coniugi Aquila e
Priscilla: li troviamo a Corinto, provenendo da Roma; essi però erano originari del Ponto; a Efeso
hanno una casa e, quando Paolo scrive ai Romani, sono di nuovo a Roma.

Lo scambio religioso e culturale


Di conseguenza si accentuano gli scambi tra le diverse parti dell’impero. Questo non favorisce
solo i commerci ma anche la dimensione religiosa e culturale. Lo scambio religioso è favorito dalla
mobilità della popolazioni. Chi giunge alla città per un qualunque motivo si porta dietro i suoi
legami etnici e religiosi. Ancora una volta il NT fornisce l’esempio del giudaismo che è diffuso in
tutto il bacino del Mediterraneo Orientale con le sue sinagoghe e le sue leggi. Il primo cristianesimo
segue la stessa prassi.

Giudaismo: diffusione e organizzazione


All’interno di questo quadro di pone il giudaismo con la fisionomia che lo caratterizza nel I sec.
Il giudaismo entra nell’orbita greca con la conquista di Alessandro nel 331 a.C. I romani compaiono
con Pompeo nel 63 a.C. Negli anni a cavallo tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C. la Palestina, sotto
dominio romano, riceve in toto od in parte lo status di regno indipendente sotto la famiglia di
Erode:
Erode115 Archelao116 Erode Antipa117 Filippo118 Erode Agrippa I119 Erode Agrippa II120
37-4 a.C. 4 a.C. - 6 d.C. 4 a.C. - 39 d.C. 4 a.C.- 34 d.C. 39-44 d. C. 50-100 d. C.

113 Cf. At 28,11-13: “Dopo tre mesi salpammo su una nave di Alessandria che aveva svernato nell’isola, recante l’insegna dei

Diòscuri. Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni e di qui, costeggiando, giungemmo a Reggio. Il giorno
seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli”.
114 Da Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, 36-37.
115 È il famoso Erode il Grande, quello della strage degli innocenti. Governa dal 37 al 4 a. C. A lui succedono i suoi tre figli.
116 È etnarca in Giudea, Samaria ed Idumea e viene mandato in esilio dai Romani nel 6 d.C. per il suo governo brutale.
117 Etnarca in Galilea e Perea sino al 39.
118 Governa nella Transgiordania sino al 34.
119 Muore nel 44 e governa dapprima il regno di Antipa per poi estendere il suo dominio su tutta la Palestina con il

favore di Caligola.
120 È figlio di Agrippa I, che governa la Transgiordania dal 50 al 100 circa.

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A tutto questo dobbiamo aggiungere la differenziazione fra il giudaismo palestinese e


giudaismo della diaspora. Il primo ruota intorno a Gerusalemme ed il suo tempio, inteso come
Legge e culto. È diviso nelle sette di sadducei, farisei, esseni e zeloti. Sarà movimentato dalla
rivolta a Roma del 66 d.C., con la conseguente fine del Tempio. Il secondo, quello della diaspora,
ha i suoi grandi centri in Babilonia ed Alessandria, con un riferimento generale all’interno del
bacino del mediterraneo.
Vale la pena precisare i passaggi di carattere storico appena accennati. Dopo la rivolta contro la
Siria guidata da Giuda Maccabeo negli anni 167-164 a.C., la Palestina riconquistò per un breve
periodo (circa un secolo) l’indipendenza con la dinastia degli Asmonei, iniziata nel 143 a.C. con
Simone, che fu proclamato sommo sacerdote ed etnarca (capo del popolo, cioè re).
In quell’epoca presero consistenza le correnti principali del giudaismo, i Farisei e i Sadducei,
delle quali si parla nel NT. Il contrasto tra queste due correnti e le lotte fratricide fra gli appartenenti
alla dinastia degli Asmonei diedero spunto all’intervento dei romani, i quali occuparono la Palestina
(con Pompeo nel 63 a.C.) e la inglobarono nei loro possedimenti, appoggiandosi al partito sadduceo
capeggiato da Ircano. Costui venne proclamato sommo sacerdote, ma non etnarca. Così la Palestina
tornò ad essere suddita di un altro Stato, avendo perso l’indipendenza riconquistata un secolo prima.
Contro il nuovo oppressore che, tra l’altro, imponeva gravosi tributi, si manifestò subito una forte
opposizione. Gli stessi Esseni, setta religiosa aliena da ogni tipo di violenza, sorta nel II secolo a.C.,
accusavano l’impero romano di divorare i popoli come l’aquila.
Prima di continuare con i cenni storici è opportuno soffermarci sull’ellenismo. Esso è definito
come la civiltà e la storia in genere del bacino del Mediterraneo medio e orientale, inizia a partire
dal 333 a.C. (anno della partenza di Alessandro il Macedone alla conquista dell’oriente) e viene
fatto concludere convenzionalmente con il 31 a.C. (anno della battaglia navale di Azio). Ma anche
successivamente l’ellenismo continuò ad improntare per più di un secolo la cultura e le
consuetudini dei popoli tra i quali si era esteso e perfino quelle della stessa Roma. L’ellenismo si
formò nel contatto tra la civiltà greca classica ormai matura e le civiltà orientali (iranico-babilonese,
ebraica, egiziana). I successori di Alessandro Magno nei vari regni ellenistici favorivano sempre i
greci e la fondazione di città e di colonie greche. La lingua greca (Κοινὴ Ἑλληνική) anche dopo la
conquista romana, divenne la lingua franca cioè di uso comune e la più diffusa del bacino del
Mediterraneo orientale, in sostituzione dell’aramaico, del fenicio e dell’egiziano. Chiaramente le
varie culture di quella zona furono fortemente influenzate da quella greca.
Gli orientali furono colpiti dalla diversa concezione dell’uomo portata dai greci, i quali lo
consideravano libero e non servo del re o di Dio. Si diffuse una nuova concezione del rapporto tra
uomo e Stato, inteso questo non più come comunità di sangue, ma come comunità di partecipazione
ai diritti e ai doveri comuni sulle stesso territorio. In quel periodo ebbe grande diffusione il
fenomeno della diaspora degli ebrei, che costituirono comunità molto importanti ad Alessandria e a
Leontopoli in Egitto e ad Antiochia in Siria e si insediarono perfino a Roma.
Gli ebrei della diaspora parlavano greco e raccoglievano numerosi proseliti e i soldati giudei
che avevano prestato servizio presso altri re al ritorno in patria portavano la lingua greca, nuove
abitudini e una visione del mondo molto diversa da quella del giudaismo. Molte persone delle classi
più elevate cominciarono ad assumere nomi greci a partire dal II secolo a.C.
Dopo la battaglia di Azio ebbe fine la repubblica romana e si costituì l’impero con Cesare
Ottaviano Augusto che visse fino al 14 d.C. Proprio durante il suo regno, in piena “pax romana”,
avvenne la nascita di Cristo. Ad Augusto successe Tiberio, che regnò dal 14 al 37 d.C., quindi
durante gli anni della predicazione, della morte e della resurrezione di Gesù e della fondazione della

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Chiesa. Dopo Tiberio regnarono Caligola (dal 37 al 41), Claudio (dal 41 al 54) e Nerone (dal 54 al
68). All’epoca di Claudio nella numerosa comunità giudaica di Roma iniziò l’evangelizzazione, che
era stata estesa anche ai pagani, probabilmente ad opera dello stesso Pietro il quale, secondo
Eusebio (“Storia ecclesiastica”) si recò nella capitale dell’impero intorno al 44. I contrasti tra i
giudei osservanti e giudei convertiti al cristianesimo (seguaci di Cristo) provocarono l’espulsione di
questi ultimi da Roma nel 49. Qualche anno dopo e principalmente in Roma avvenne con Nerone
(dal 64 al 67) la grande persecuzione dei cristiani accusati di odio del genere umano e di avere
causato l’incendio della capitale. Negli ultimi anni del regno di Nerone, proprio in coincidenza con
la persecuzione, viene collocata l’epoca del martirio in Roma di Pietro (per crocefissione) e di
Paolo (per decapitazione).
Il primo incontro fra la fede cristiana e il mondo romano è indicato negli Atti degli Apostoli (At
2,10) dove si dice che al discorso di Pietro subito dopo l’evento della Pentecoste in Gerusalemme
assistettero anche alcuni “stranieri di Roma”. Al momento della morte di Gesù la Palestina faceva
parte della provincia della Siria governata dal legato di Roma. Il potere, nonostante la presenza di
un etnarca (o re) giudeo, era saldamente nelle mani dei romani i quali avevano lasciato al sinedrio
alcune competenze politiche, religiose e sociali riguardanti la vita e gli affari dei giudei,
riservandosi i gradi più elevati della giustizia, ivi compresa la comminazione della pena di morte. Il
sinedrio, in ebraico sanhedrin e in greco synedrion era il supremo consesso politico, religioso e
giudiziario ebraico. attivo in Palestina fino alla distruzione del tempio, fu trasferito a Jahvè nel 70
d.C. dopo aver perso i poteri politici ed essere diventato completamente fariseo. L’insofferenza dei
giudei per il dominio romano si manifestò con sommosse e ribellioni più volte represse. Queste
ribellioni culminarono la prima volta con la guerra insurrezionale dal 66 al 70 terminata con la
distruzione del tempio e di parte della città di Gerusalemme, il massacro di molti cittadini e la
riduzione in schiavitù dei superstiti; la seconda volta con la guerra giudaica dal 131 al 134
conclusasi nuovamente con la vittoria dei romani i quali distrussero Gerusalemme e la riedificarono
come colonia romana interdetta agli ebrei.

1.2. La diffusione del cristianesimo


Le fonti a nostra disposizione testimoniano la diffusione del euvagge,lion secondo linee di
diramazione che hanno il loro centro in Gerusalemme, il luogo dove si sono svolti gli eventi
culminanti della nuova fede. Se diamo alle parole di Paolo in Rm 10,18 un valore letterale ciò
significa che in pochi decenni lo euvagge,lion si è diffuso a tutti i territori allora conosciuti: “Ora io
dico: Non hanno forse udito? Tutt’altro: per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del
mondo le loro parole”. La stessa opera di Paolo procede in questa direzione secondo la notizia che
egli stesso ne da in Rom 15,19: “Così da Gerusalemme e dintorni fino all’Illiria, ho portato a
termine la predicazione del vangelo di Cristo”.

La diffusione geografica
Alla luce dei dati che emergono non solo dal Nuovo Testamento ma anche da altre
testimonianze si può supporre che le linee di diffusione del cristianesimo tra il I ed il II sec. d.C.
seguano tre direttrici legate alle grandi strade di collegamento dell’impero121:

121 P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, 51-52.

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Oriente Sud Ovest Nord Ovest


Anatolia - Mesopotamia - Edessa - Da Alessandria –coste Africa - colonne Creta - la Sicilia - Gallia -
Oriente d’Ercole Spagna

- La direttrice orientale, quella che partendo dall’Anatolia entrava in Mesopotamia attraverso


Edessa e quindi si spingeva verso oriente.
- La direttrice di sud ovest che da Alessandria, costeggiando le coste dell’Africa, raggiungeva
le colonne di Ercole; qui nel II sec. si incontrano fiorenti centri cristiani e qui nasce la prima
produzione letteraria latina.
- La direttrice di nord ovest che, passando attraverso Creta, la Sicilia, si volge verso l’Italia e
quindi da qui verso la Gallia e la Spagna.

Gli Atti degli Apostoli


Gli Atti contengono già una linea di diffusione geografica 122 . A questo enunciato essi
rimangono fedeli nello svolgimento del libro fornendone una struttura. All’interno di questa trama
si notano, però, linee di diffusione che si discostano dalla linea principale. Ad esempio in At 9,2 si
apprende che a Damasco vi erano dei discepoli del Signore.
È possibile schematizzare i dati provenienti da Atti:
- Gerusalemme è il centro della narrazione nei primi cinque capitoli. I testi in cui è possibile
cogliere i diversi aspetti della comunità gerosolimitana:
o 1,12-15: sono riuniti insieme gli undici (poi dodici con Mattia); in tutto circa 120
persone (1,15);
o 2,41.47: ai 120 si uniscono ora circa tremila persone (v. 41) e continuamente altri (v.
47);
o 4,4: dopo le parole di Pietro a proposito della guarigione del paralitico, altri credono
ed il numero raggiunge le 5000 persone circa;
o 5,14: continua la crescita di quelli che credono nel Signore;
- Damasco nel cap. 9 come luogo a cui Saulo si dirige ed in cui esiste una comunità di cui è
parte Anania (9,10);
- Lidda in 9,32-37: Pietro vi si reca e guarisce un paralitico (Enea);
- Ioppe in 9,36-42 con la guarigione di Dorcade (cf 10,23; alcuni fratelli di Ioppe
accompagnano Pietro nel viaggio verso Cesarea);
- Cesarea in 8,40 come luogo in cui vi giunge Filippo, dopo aver evangelizzato le città della
costa da Azoto a Cesarea; in 10,44 vi si forma una piccola comunità intorno a Cornelio; in
21,8 vi giunge Paolo ed è ospite in casa di Filippo; alcuni discepoli di Cesarea lo
accompagnano a Gerusalemme (21,16).
- Antiochia di Siria compare per la prima volta in At 11,19-26 e si dice come la parola
evangelica per la prima volta venga rivolta anche a non ebrei. Essa rimane il centro della
missione paolina.

Gerusalemme Damasco Lidda Ioppe Cesarea Antiochia di Siria


1,12-15; 2,41.47; 4,4; 5,14 9,1-31 9,32-37 9,36-42 8,40; 10,44; 21,8.16 11,19-26

122 È la famosa risposta di Gesù agli apostoli che gli chiedono quando si manifesterà il Regno di Dio in At 1,8: e;sesqe, mou
ma,rturej e;n te VIerousalh.m kai. ÎevnÐ pa,sh| th/| VIoudai,a| kai. Samarei,a| kai. e[wj evsca,tou th/j gh/j.

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Altri testi del NT


Da altri testi del Nuovo Testamento si apprendono i nomi di altri luoghi: Colossi (Col 1,12);
Laodicea (Col 2,1; 4,13.15.16); Gerapoli (Col 4,13); Smirne (Ap 1,11; 2,8); Pergamo (Ap 1,11;
2,12); Tiatira, Sardi, Filadelfia tutte nominate dall’Apocalisse (le sette chiese).
Dalla Prima di Pietro si apprende che esistono comunità nella Cappadocia, nella Bitinia, nel
Ponto (1Pt 1,1). Gal 1,17 parla dell’Arabia. Creta è ricordata in Tt 1,5; la Dalmazia in 2Tm 4,10;
Nicopoli nell’Epiro (Tt 3,12); l’Illiria in Rom 15,19.
Manca in queste fonti una direzione “orientale” della diffusione del Vangelo. Ma ciò è dovuto
al carattere delle fonti. Stando ad Eusebio, ad Epifanio ed a scritti apocrifi è possibile pensare ad
una diffusione del cristianesimo in direzione orientale.

I grandi centri
La diffusione del cristianesimo procede a raggiera partendo dai grandi centri. In particolar
modo ne vanno segnalati tre.
Gerusalemme. Come Atti dimostrano Gerusalemme è il primo grande centro di irraggiamento.
Secondo 8,4 è la dispersione conseguente alla morte di Stefano che favorisce questa diffusione; in
realtà essa doveva essere iniziata già prima se è vero che esisteva una comunità a Damasco di cui
non si parla antecedentemente. È probabile che questa diffusione procedesse per iniziativa
individuale e in base alle situazioni, come mostra la narrazione di At 8, dove l’occasione è la
persecuzione. Comunque sia Gerusalemme mantiene la sua centralità: secondo At 8,14 la notizia
della conversione della Samaria ad opera di Filippo spinge gli apostoli a mandare Pietro e Giovanni
per verificare ciò che è accaduto. La comunità di Gerusalemme mantiene il suo controllo della
situazione anche nel caso della conversione di Cornelio ad opera di Pietro chiedendogli conto di
quanto è avvenuto (11,1-3). Lo stesso avviene con Antiochia: dopo l’opera dei primi ignoti
missionari, la Chiesa di Gerusalemme invia Barnaba a verificare e confermare quanto è accaduto
(11,22-24). In At 15 essa è il luogo per dirimere la questione riguardante i pagani che credono nel
vangelo. Anche nei viaggi di Paolo essa rimane il punto di riferimento. Al termine del secondo
viaggio Paolo sale a Gerusalemme per salutare la Chiesa (18,22: katelqw.n eivj Kaisa,reian( avnaba.j
kai. avspasa,menoj th.n evkklhsi,an( kate,bh eivj VAntio,ceian). Il terzo viaggio si conclude a
Gerusalemme dove Paolo è preso prigioniero.
Le lettere di Paolo testimoniano a loro volta la centralità di Gerusalemme:
- Galati. Paolo compie due viaggi a Gerusalemme (uno dopo tre anni e uno dopo quattordici):
a Gerusalemme infatti vi sono le “colonne” (2,9: stu/loi) ed è nel confronto con loro che
Paolo sa di non correre od aver corso invano.
- Romani. Scrivendo ai romani Paolo giustifica la colletta per i poveri di Gerusalemme con
queste parole: “Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella
comunità; la Macedonia e l’Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri
che sono nella comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori:
infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un
servizio sacro nelle loro necessità materiali” (15,25-27). I santi di Gerusalemme appaiono
qui come la fonte della conoscenza evangelica a cui è necessario rispondere con un aiuto
materiale.

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Antiochia
Sull’Oronte era insieme a Roma ed Alessandria una delle tre grandi città dell’impero, nodo i
comunicazione tra nord e sud (dall’Egitto alle province anatoliche) e da ovest ad est (la
Mesopotamia e la Persia). Antiochia compare per la prima volta in 11,19ss: qui il vangelo è
annunziato ai pagani e fa breccia. In questo modo Antiochia balza alla ribalta della storia del primo
cristianesimo come comunità etnica. Rapidamente essa assurge a centro propulsore della missione.
Qui operano Barnaba e Paolo; da qui partono i viaggi missionari.

Alessandria
Questa città non compare negli itinerari di evangelizzazione del primo cristianesimo. L’unica
indicazione che emerge dagli Atti è quella riguardante Apollo, il quale è di Alessandria e, a
riguardo della sua fede, è così descritto in At 18,25: ou-toj h=n kathchme,noj th.n o`do.n tou/ kuri,ou kai.
ze,wn tw/| pneu,mati evla,lei kai. evdi,dasken avkribw/j ta. peri. tou/ VIhsou/( evpista,menoj mo,non to.
ba,ptisma VIwa,nnou. Questa notizia cosa può indicare a riguardo di una comunità cristiana a
Alessandria? Se era presente una comunità cristiana formatasi all’interno di quella giudaica, doveva
essere un cristianesimo particolare dal momento che era a conoscenza solo del battesimo di
Giovanni. Di fatto sulle origini di questa importante comunità non si sa nulla. La datazione di
partenza certa è il 189 d.C. quando Demetrio diviene vescovo di Alessandria. Il fatto, però, che alla
fine del II sec. si sviluppi una fiorente scuola e nasca una linea teologica di primaria importanza
indica che deve esservi stato un humus precedente. Da tenere presente che due importanti autori
gnostici che vivo intorno alla metà del II sec. sono egiziani: Basilide e Valentino123.

Alcuni elementi di carattere sociologico


I tempi della pax romana
Paolo nasce nella parte orientale dell’impero romano. Dopo la vittoria di Azio (30 a.C.), questo
impero ha trovato veramente la pace. Nel primo secolo i suoi confini hanno una certa stabilità.
Vanno dalla Spagna alla Siria e alla Palestina, passando per la macedonia, l’Asia minore (l’attuale
Turchia), l’Egitto e i paesi del Nord Africa (l’attuale Maghreb). Certo, questa estensione estrema,
nella quale Augusto ha organizzato le condizioni della “pace romana” (pax romana), presenta
ancora alcuni residui focolai di instabilità, soprattutto in Giudea, ma anche in Pisidia e Licaonia,
nell’entroterra montagnoso di queste regioni dell’Asia minore visitate da Paolo. Tuttavia queste
guerre civili non occupano più la ribalta. Il brigantaggio endemico ed alcune rivolte non rimettono
in discussione i fondamenti dell’autorità di Roma.
Il motivo per il quale la supremazia di Roma è accettata risiede, soprattutto, nella sua
amministrazione. Alcune province sono amministrate direttamente: sono affidate ad un governatore,
un proconsole, per esempio l’Acaia o l’Asia. Altre zone sono gestite in modo indiretto, per esempio
mediante una dinastia locale, come nel caso della Giudea.

Una società viva ed asimmetrica


In questo vasto impero gli abitanti sono distribuiti in modo molto disuguale. La popolazione vive
essenzialmente nelle città. Nella società le differenze sono assai discriminanti. Coloro che hanno
ottenuto la cittadinanza romana rappresentano una élite internazionale. Più in generale, sono forti le
differenze tra le città e la campagna. I rapporti preminenti sono quelli verticali, che siano di
parentela, di amicizia o di patronato. Quello dell’epoca non è un mondo fossilizzato. Il primo secolo

123 G. FILORAMO, Il cristianesimo in Egitto, in Humanitas 51(1996), 178-182.

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è caratterizzato da un risveglio economico di alcune parti dell’impero. Lo sfruttamento, in Italia ma


anche in Grecia, nelle isole del Mar Egeo ed in Egitto, fornisce materie prime che vengono
trasportate nel bacino del Mediterraneo. La circolazione delle persone è favorita da una relativa
sicurezza. Gli atti degli apostoli riflettono questa vitalità, confermata, del resto, dall’archeologia
delle fonti letterarie.

Una cultura comune


La circolazione delle merci delle persone favorisce quella delle idee. L’impero, in effetti, è anche
una cultura comune. In questo modo la lingua è uno dei fattori di coesione. Dunque si parla greco,
anche se a parlarlo non sono tutti: sussistono, infatti, numerosi dialetti quali il licaonio, l’aramaico,
il frigio. Si parla anche latino. La civiltà greca è onnipresente, tanto che si viene a delineare una
uniformazione non solo a livello dei monumenti, ma anche dei culti. Questa cultura comune
permetterà a Paolo di orientarsi nel corso dei suoi molteplici viaggi. Il politeismo, nella sua
diversità, ed il monoteismo giudaico costituiscono due mondi opposti. Questi due mondi religiosi si
distinguono sia per il numero dei fedeli che per le loro pratiche. La religione trasmette la presenza
degli dei e dei riti comunitari. Le divinità che fondano le città, creavano coesione attorno ai sacrifici
pubblici. Alcuni dei passano dall’oriente all’Occidente, dove il loro culto incontra un grande
successo. La cosa importante è la pratica collettiva, rispetto ad una credenza individuale. La
condizione religiosa dell’impero, contrassegnata da una ricerca della salvezza, mescola spesso
superstizione, magia, astrologia filosofia. Tutti aspetti di fronte ai quali si troverà Paolo.
Il giudaismo, al contrario, è fondato sulla confessione di un Dio unico che si rivela nella storia ad
un unico popolo ed ha coscienza della propria particolarità in mezzo alle nazioni. A differenza degli
dei delle nazioni Israele chiede un’adesione del cuore. Una parte del popolo abita la Palestina,
mentre una diaspora forte e antica è presente in tutto il bacino del Mediterraneo. La sua dimensione
demografica non è trascurabile: le grandi città sono abitate da un 10º della popolazione giudaica, a
quanto pare. I giudei pongono ai romani un problema strettamente politico con la Giudea.
Determinate usanze locali della provincia di Giudea i romani le accettano, fra queste il sinedrio.
In cambio dell’esercizio della giurisdizione civile e penale i romani volevano pesanti imposte, che
causano malcontento tra le popolazioni. I nazionalisti vogliono cacciare l’occupante della terra che
Dio ha dato al suo popolo. Travolti da un fervore messianico, suscitano la rivolta contro Roma che
sfocerà nella guerra del 66. È in questo contesto di torbidi politici e rivendicazioni popolari
d’indipendenza in nome della legge che Gesù annuncia un regno che non è di questo mondo (cf. Gv
18,36).
I romani riconoscono ad ogni popolo diritto di praticare il proprio culto ancestrale. Nel caso
particolare di giudei, Cesare Augusto concesse loro le esenzioni necessari per poter osservare la
legge di Mosé, a condizione di non fare proseliti turbando così l’ordine pubblico. Il fatto religioso
sarà, comunque, fonte di conflitti permanenti. I romani non si scontrano con il contenuto di una
religione che, peraltro, non cercano di comprendere; ma nella città greche si verificano spesso degli
scontri a proposito di abitudini quotidiane che appaiono come un impedimento all’ordine pubblico.
Così, Paolo appare spesso quale fautore di disordini della città. Quando giudei di Giudea,
porteranno, in nome della legge, la lotta sul terreno politico, Paolo non li seguirà. Tale lotta
condurrà Israele alle guerre del 66-70 e del 132-135.
Il mondo greco offre un universalismo culturale dal punto di vista della lingua, dell’educazione,
ma anche dal punto di vista politico, in quanto integra le diverse nazioni; i giudei, da parte loro, pur
partecipando alla cultura comune, sono dispersi nell’impero senza mescolarsi alle nazioni. Essi

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volgono lo sguardo verso Gerusalemme.

2. ALLE FONTI DEL PENSIERO PAOLINO


2.1. Gli ambiti di riferimento
Abbiamo già visto alcuni ambiti di riferimento significativi della formazione di Paolo, ma
adesso dobbiamo concentrare la nostra attenzione sul quel mondo ebraico e greco, nel quale
l’apostolo crebbe. Prima, comunque, di affrontare i riferimenti culturali di Paolo, ne farò una breve
presentazione degli ambiti che dobbiamo tener presente, fornendone una panoramica iniziale.

L’ellenismo
Fra le componenti da tenere presenti dell’ambiente ellenistico possiamo elencare124:
- stoicismo e filosofia popolare incentrata sull’ideale civile, la libertà personale,
l’interpretazione religiosa della vita. Interessante l’influsso sulla morale: somiglianze e
differenze.
- la religione dei misteri. Si pone come una via di salvezza, con il suo ciclo di morte e vita del
dio, un linguaggio cultuale e religioso strutturato. Nel recente passato, come si è detto, vi era
un atteggiamento di grande considerazione circa i possibili influssi sul linguaggio cultuale e
sul pensiero teologico dell’Apostolo. Oggi si registra una posizione più cauta e molto più
puntuale.
- la gnosi, è un’atmosfera culturale, una soteriologia per via di conoscenza, che comprende
una cosmologia ed un’antropologia.
Potremmo chiederci come mai gli esegeti protestanti e cattolici si sono buttati sullo studio della
gnosi? Gli esegeti protestanti della “Religionsgheschichtlische schule” per sostenere che il
Cristianesimo deve molto a queste correnti; il cristianesimo sarebbe, in gran parte, fenomeno
sincretista125. I cattolici e molti protestanti moderati, per affermare che se l’influsso c’è, vi è solo

124 Di seguito fornisco una breve presentazione bibliografica sull’ellenismo:

• F. PRAT, La teologia di san Paolo, vol. II, 34-39.377, nota 2. Prat si muove sulla linea di un’eccessiva
polemica, nondimeno l’indirizzo dell’esegesi attuale gli ha dato ragione.
• C. H. DODD, L’interpretazione del quarto Vangelo, Brescia 1974. Dodd fa il suo studio in riferimento al
Vangelo di Giovanni, ma il discorso vale anche per Paolo. Importante il cap. II: “La religione ellenistica
nella sua forma più elevata riflessa nella letteratura ermetica”. Preziosi anche i cap. V e VI sullo
gnosticismo ed il mandaismo.
• H. Schlier, Riflessioni sul Nuovo Testamento, Brescia 1969. Ottimi i cap. V e VI; il cap. V è dedicato
all’esame del rapporto tra il Nuovo testamento ed il mito; il cap.VI è sull’uomo nel pensiero gnostico.
• E. LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento, Brescia 1980. Ottimo sulla gnosi e sull’ellenismo in genere
• P. GRECH-G. SEGALLA, Metodologia per uno studio della teologia del Nuovo Testamento, Torino 1978, in
particolare il cap. III.
• A. GEORGE - P. GRELOT (a cura di), Introduzione al Nuovo Testamento, agli inizi dell’era cristiana, Roma
1971, la prima parte è molto interessante.
• R. PENNA, L’ambiente storico culturale delle origini cristiane, Bologna 1984.
• R. BULTMANN, Il Cristianesimo primitivo, Milano 1964, in particolare la parte quarta.
• R. BULTMANN, γνῶσις, in GLNT, Vol. II, G. Kittel – G. Friedrich (edd.), Paideia, Brescia 1966, coll. 462-542.
• P. WENDLAND, La cultura ellenistico-romana nei suo rapporti con Giudaismo e Cristianesimo, Brescia 1986.
• R. MCL. WILSON, Gnose ed Nuoveau Testament, Parigi 1969.
• E. E. VARDIMAN, La grande svolta. La Giudea tra ellenismo e primo Cristianesimo, Milano 1987.
125
Religionsgeschichtliche Schule (“storia delle religioni scuola”) apparsa nel tardo 19° secolo in Germania come la
nascente metodo storico-critico stava decollando. Era una scuola di pensiero che ha sottolineato lo studio della

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nel linguaggio e, quindi, esteriore. Certamente le seduzioni per conclusioni affrettate non mancano
nell’ellenismo. Basta pensare all’ideale morale stoico, al mito dell’“Ur Mensch” e del salvatore
salvato (Redentore redento) della gnosi e al concetto del Logos di derivazione neoplatonica con la
coloritura veterotestamentaria ricevuta da Filone126.
È difficile dire quale dei due movimenti, quello gnostico o quello cristiano, abbia influenzato
l’altro, poichè non si hanno lavori gnostici anteriori al Cristianesimo. Anche per quanto riguarda le
idee circolanti non è difficile dimostrare che il discorso cristiano si muova in una traiettoria
fortemente originale.

religione come evoluzione fenomeno socio-culturale, e che in quanto tale, la religione doveva essere vista in
primo luogo come prodotto del milieu religioso in cui si è sviluppato. Il Schule religionsgeschichtliche si è spesso
associato con l'Università di Göttingen a causa del rapporto che molti dei sostenitori di questa scuola di pensiero
ha avuto con l'università (direttamente o indirettamente). Notevoli le persone associate al Schule
religionsgeschichtliche sono Albert Eichhorn, Albrecht Ritschl, Wilhelm Bousset, Hermann Gunkel, Ernst
Troeltsch, Wilhelm Wrede, Johannes Weiss, Hugo Gressmann, Julius Wellhausen, e, naturalmente, preferito da
tutti, Rudolf Bultmann. Il Schule religionsgeschichtliche , applicata agli studi biblici, ha cercato di capire le
credenze religiose del Vecchio e Nuovo Testamento nel contesto dell'ambiente circostante religiosa al tempo in
cui furono scritti i testi. Così, per esempio, Wilhem Bousset cercato di comprendere la nascita di una cristologia
divina all'interno del greco-romana contesto religioso del primo secolo. Così, egli vedeva la tensione attorno alla
nascita di Gesù a condizione divina non come il risultato di un palestinese comunità ebraica, ma come il risultato
dell'influenza delle chiese ellenistiche. In altre parole, per Bousset era il culto dell'imperatore romano e religioni
misteriche che ha fornito il background necessario per comprendere come Gesù è risorto dalla condizione di un
profeta a Dio stesso. Anche se la sua tesi non è presa come ricostruzione veritiera del quadro socio-religioso
dell’epoca dalla maggior parte degli studiosi del cristianesimo antico, è stata, comunque, un risultato significativo
della Schule religionsgeschichtliche applicata alla religione cristiana. I sostenitori della Schule
religionsgeschichtliche si è essenzialmente un approccio comparativo religione per i loro studi, cercando in
analisi comparative di certi motivi (ad esempio, culto religioso, la pratica e l'esperienza). Ad esempio, Eichhorn
ha proposto che la Cena del Signore non era il risultato di un evento storico reale che si è verificato con Gesù ei
suoi discepoli. Invece, ha affermato che l'origine del pasto sacramentale nel cristianesimo primitivo può essere
spiegata una volta ci si rivolge per l'utilizzo del pasto sacramentale nella cultura circostante, con il risultato
inevitabile che il cristianesimo primitivo era in gran parte una religione sincretistica. Naturalmente, il lavoro
del Schule religionsgeschichtliche non ha esattamente ricevuto una calda accoglienza tra le autorità ecclesiastiche
e alla fine tale movimento è morto dopo la prima guerra mondiale. La maggiore miopia della scuola è stata
trasmettere e descrivere il senso dell’esperienza religiosa all’interno della cultura che lo avevo generato, senza
possibilità di ulteriori sviluppi. Bisogna parimenti riconoscere anche i lati positivi: si può sottolineare la sua
importanza nella messa al centro del metodo storico-critico (ad esempio redazione critica, critica delle forme,
ecc.).
126 Avremo modo a breve di accostare il mondo della gnosi. Per ora ci basti dire che in generale gli gnostici

tendevano ad identificare il Dio veterotestamentario con la potenza inferiore del malvagio Demiurgo, creatore di
tutto il mondo materiale, mentre il Dio neotestamentario con l'Eone perfetto ed eterno, il generatore degli
eoni Cristo e Sophia, incarnati sulla Terra rispettivamente come Gesù e Maria Maddalena. Dalla concezione
docetista insita in gran parte delle religioni gnostiche, deriverebbe poi il rifiuto della resurrezione del corpo di
Gesù, poiché dopo la sua morte, egli sarebbe tornato sulla Terra solo nella sua forma divina, liberato dal corpo
materiale. Inoltre, nel periodo tra la Resurrezione e l'Ascensione, periodo considerato dagli gnostici ben più
esteso dei canonici quaranta giorni, avrebbe impartito solo a pochi dei suoi discepoli una sorta di insegnamento
segreto(di tale insegnamento tratta l'apocrifo Pistis Sophia). Tale insegnamento, parallelamente alla dottrina
della Chiesa, fondata sulla predicazione pubblica del Cristo, venne tramandato per via occulta a beneficio di
pochi eletti, escludendo, così, la gerarchia della Chiesa. Inoltre, aspetto fondamentale, la salvezza doveva
giungere attraverso esperienze personali e non attraverso lo studio dei testi canonici. Tutte queste convinzioni
contrastavano fortemente con l'ortodossia del cattolicesimo che andava formandosi in quei primi secoli. Fu
quindi inevitabile che le dottrine gnostiche, che in un primo tempo si erano diffuse anche all'interno della Chiesa,
incontrassero l'opposizione delle comunità cristiane e fossero considerate come eretiche. Ciò portò il movimento
gnostico ad un rapido declino, anche se, specialmente in Medio Oriente, alcuni aspetti dello gnosticismo (come
l'aspetto ascetico) divennero parte integrante del patrimonio della Chiesa Cristiana.

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Il giudaismo
L’ambiente giudaico è quello più vicino all’Apostolo, ma anche questo non è una realtà
semplice e facilmente individuabile nella sua complessità127. Possiamo segnalare:
- la grande corrente rabbinico-farisaica, caratterizzata dalla tendenza ad esasperare
l’importanza della Torah;
- la cultura ebraica e veterotestamentaria più robusta e genuina: quella caratterizzata dalla
ricchezza della letteratura profetica, della letteratura sapienziale e della vita liturgica e di
preghiera così come si esprime nei salmi;
- l’emergente e forte corrente apocalittica.
Un discorso a parte merita Qumran. Da quando sono stati scoperti i manoscritti si è indagato
sui possibili rapporti tra la comunità e il Cristianesimo in generale e, in particolare, sui singoli
autori. Cosa si può dire oltre a quanto già accennato precedentemente? L’influenza fra
Cristianesimo primitivo e Qumran ci fu, anche se più ristretta di quanto si possa pensare a prima
vista. Non è detto che sia l’essenismo come il cristianesimo non si rifacessero ad idee e movimenti
più vasti e generalizzati. Nondimeno, specie a livello letterario, vi sono punti di contatto che
costringono a porre il problema. “Ora non c’è dubbio che il Nuovo Testamento, accanto ad
analogie generali che, come abbiamo visto, non provano molto, presenta con gli scritti di Qumran
anche analogie particolari di fondo e di forma che suppongono una stretta vicinanza. Basta
pensare al passo di II Cor 6,14-7,1 così qumranico di pensiero e di stile, che sembra una specie di
aerolito caduto dal cielo di Qumran in una lettera di Paolo”128.
L’influsso tra Qumran ed il Nuovo Testamento non è detto che fosse esercitato fin dalle origini.
Può trattarsi di un’influenza sorta in un secondo tempo. Gli apporti di Qumran potrebbero essere
venuti non attraverso Giovanni Battista e Gesù quanto, piuttosto, attraverso Paolo, Giovanni ed
anche i cristiani della seconda generazione. L’essenismo non ha fornito l’ispirazione essenziale del
Cristianesimo fin dalle origini, né attraverso il precursore, né, ancor meno, attraverso il fondatore.
L’influenza, secondaria, si spiega sia per il fenomeno di essersi convertiti al Cristianesimo, sia
per una possibile presa di posizione della Chiesa nascente nei confronti di quella comunità, a livello
organizzativo ed anche di contenuti.
Più forti, probabilmente, i contatti fra Paolo, Giovanni e la comunità e la letteratura qumranica.
Dove? Anche oltre la Palestina, per esempio ad Efeso; l’errore citato nella lettera ai Colossesi
sembra colorato di essenismo; ugualmente in Col. 1,12-23 l’autore può avere presente la letteratura

127
Di seguito fornisco una breve presentazione bibliografica sull’ellenismo:
- G. BONSIRVEN, Il giudaismo palestinese al tempo di Gesù Cristo, Torino 1950
- J. JEREMIAS, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1970; in particolare il cap. II
- A. GEROGE-P. GRELOT (a cura di), Introduzione al Nuovo Testamento; agli inizi dell’era cristiana, Roma 1976,
102
- K. SCHUBERT, I partiti religiosi ebrei del tempo neotestamentario, Brescia 1976
- M. MCNAMARA, I targum e il Nuovo Testamento, Bologna 1978
- E. LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento, Brescia 1980, 81
- P. GRELOT, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Roma 1981.
- R. PENNA, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, Bologna 1983; cf. tutta la prima parte
- K. KOCH, Difficoltà dell’apocalittica, Brescia 1985
- E. P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese, Brescia 1986
- H. G. KIPPENBERG-G.A. WEWERS (a cura di), Testi giudaici per lo studio del Nuovo Testamento, Brescia 1987
128 P. BENOIT, Esegesi e teologia, Roma 1967, 545. Fa riferimento ad un capitolo pubblicato anche in AA.VV., Paul and

Qumran. Studies in New Testament Exegesis, Oxford 1969.

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qumranica; così pure in Ef 5,6-13 e 6,10-17. Ma non solo in Asia Paolo è potuto entrare in contatto
con Qumran; già le lettere ai Tessalonicesi, anteriori al soggiorno ad Efeso, suggeriscono
analogie129.
L’influsso si riferisce a temi maggiori o minori? Ricevuti tali e quali oppure modificati? Si può
dire che gli influssi qumranici in Paolo sono su aspetti marginali del messaggio cristiano. Inoltre
sono profondamente trasformati e messi a servizio di un dato nuovo ed originale130.

2.2. Il mondo ebraico


Nel suo cammino di espansione il cristianesimo impara a misurarsi con l’ambiente in cui si
introduce. In taluni casi vengono assunti i valori dell’ambiente, in altri si entra in conflittualità. Il
primo ambiente in cui il cristianesimo fa la sua comparsa è il giudaismo palestinese.
Successivamente l’annunzio evangelico incontra l’ambiente ellenistico. Infine il confronto è con la
struttura politica dell’impero romano.

Il Giudaismo
Gesù è ebreo e gli apostoli sono ebrei: è, dunque, con il giudaismo che per primo il vangelo è
chiamato a confrontarsi. Indubbiamente il giudaismo fornisce al cristianesimo nascente la base della
sua fede: basti pensare all’AT sia esso nel testo ebraico che in quello greco. Tuttavia, con il crescere
dell’espansione cristiana cresce anche il conflitto con il giudaismo che arriva presto alla rottura. È
da precisare che il giudaismo non è un fenomeno unitario ma piuttosto variegato (allora più di
oggi). Accanto al giudaismo rappresentato dal sacerdozio del tempio esiste quello farisaico più
legato alla Legge, quello di tipo apocalittico. È necessario poi parlare di un giudaismo ellenistico
con sue proprie connotazioni diverse da quelle del giudaismo palestinese.

Gli Atti degli Apostoli


Stando agli Atti degli Apostoli gli elementi di conflittualità sono i seguenti.
Dai capp. 1-5 appare il conflitto soprattutto con la corrente sadducea che predominava nel tempio e
rappresentata dalle famiglie sacerdotali. Motivo del conflitto è il nucleo della predicazione
apostolica: la resurrezione di Gesù. Un primo testo da citare significativo è:
At 4,1-2
“Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti,
il comandante delle guardie del tempio e i sadducei, irritati per il fatto
che essi insegnavano al popolo e annunciavano in Gesù la risurrezione dai morti”.

129 Cf. 1Ts 5,1-11; 2Ts 2,6ss.


130
Di seguito fornisco una breve presentazione bibliografica sull’influsso qumranico:
- A. GEROGE-P. GRELOT (a cura di), Introduzione al Nuovo Testamento; agli inizi dell’era cristiana, Roma 1976,
136
- P. BENOIT, Esegesi e teologia, Roma 1967.
- E. LOHSE, L’ambiente del Nuovo Testamento, Brescia 1980,
- P. GRELOT, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Roma 1981.
- R. PENNA, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, Bologna 1983, 58-65
- O. CULMANN, Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, Roma 1981; in particolare il I cap.
- E. P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese, Brescia 1986; il cap. II
- L. MORALDI, Il maestro di giustizia, Fossano 1971

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Coloro che si presentano a Pietro e Giovanni sono i sadducei e gli appartenenti alla classe
sacerdotale. Lo stesso Paolo sottolinea questo aspetto in 23,6:
At 23,6
“Paolo, sapendo che una parte era di sadducei e una parte di farisei,
disse a gran voce nel sinedrio: "Fratelli, io sono fariseo, figlio di farisei;
sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti".

Un secondo motivo di conflittualità appare da quello che è narrato nei capp. 6ss. La
predicazione di Stefano e del primo cristianesimo ellenista contiene elementi “sovversivi” che sono:
a. “l’escatologica abrogazione del culto del tempio”.
b. “la revisione della torà di Mosè sulla base della vera volontà di Dio”; manca ancora la
sistematicità del discorso di Paolo ma già vi sono gli elementi fondamentali.
c. il dono dello Spirito Santo “che essi interpretavano come segno dell’avvento del tempo
finale”.
I primi due elementi sono fortemente presenti nella vicenda di Stefano. Tra le accuse mosse
Stefano vi sono le seguenti:
At 6,13
“Presentarono quindi falsi testimoni, che dissero:
"Costui non fa che parlare contro questo luogo santo e contro la Legge”.

Stefano stesso sembra confermare queste accuse quando alla fine del discorso fa riferimento al
tempio ed alla Legge dicendo:
7,47-48
“ma fu Salomone che gli costruì una casa. L’Altissimo tuttavia
non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo, come dice il profeta”

7,53
“voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini
dati dagli angeli e non l’avete osservata”.

Tale accusa è rinnovata a Paolo reiteratamente, sia all’interno della prima comunità che dal
giudaismo. Per la prima comunità si possono vedere i testi di 15,1ss; 21,20-21. Per il giudaismo si
può vedere quello che dice la gente quando Paolo è preso:
21,28
gridando: "Uomini d’Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando
a tutti e dovunque contro il popolo, contro la Legge e contro questo luogo;
ora ha perfino introdotto dei Greci nel tempio e ha profanato questo luogo santo!".

Un terzo motivo di conflittualità sembra essere dato dalla maggiore capacità espansiva
dell’annunzio evangelico. In molti luoghi l’adesione al vangelo di molti pagani suscita la violenta
reazione degli ebrei. Due esempi sono dati da quanto accade ad Antiochia (13,43-50) e a
Tessalonica (17,1-5).

Lettere di Paolo
Nelle lettere di Paolo i motivi sono diversi:

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In 1Ts il motivo di conflitto è piuttosto generico: la persecuzione a cui i giudei della Palestina
hanno sottoposto Gesù e la prima comunità.

1Ts 2,14-16
Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù
che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferto le stesse cose
da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei Giudei.
Costoro hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi,
non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi
di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre
di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo.

In Galati ed in Romani il conflitto giunge all’apice con la riflessione sulla Legge e sulla sua
temporaneità.
Gal 3,13
Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge,
diventando lui stesso maledizione per noi,
poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno.

Rileviamo anche, nella lettera ai Colossesi, problematiche provenienti dal giudaismo.


Col 2,16-18
Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda,
o per feste, noviluni e sabati: queste cose sono ombra di quelle future,
ma la realtà è di Cristo. Nessuno che si compiace vanamente
del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni,
gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio.

Per altro verso Paolo anela ardentemente che Israele giunga ad accogliere il vangelo (Rm 9-11).
Rm 9,3
Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo
a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.

Altri scritti
Vangelo di Giovanni. Il riferimento all’essere cacciati dalla sinagoga:
9,22
Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei;
infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno
lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.

12,42
Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma, a causa dei farisei,
non lo dichiaravano, per non essere espulsi dalla sinagoga.

16,2
Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque
vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.

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Nel testo di Apocalisse troviamo due riferimenti:


2,9
(Smirne) Conosco la tua tribolazione, la tua povertà - eppure sei ricco –
e la bestemmia da parte di quelli che si proclamano Giudei
e non lo sono, ma sono sinagoga di Satana.

3,9
(Filadelfia) Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di Satana,
che dicono di essere Giudei, ma mentiscono, perché non lo sono:
li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato.

Per una sintesi


Il primo scontro è con il giudaismo del tempio. Sembra assodato storicamente che il primissimo
annunzio cristiano si sia scontrato con il giudaismo del tempio, che era costituito dai sadducei, per
l’annunzio della resurrezione in Cristo. Il centro dello scontro è la Torà ed il fariseismo.
È, però, il cristianesimo ellenistico che rompe con il fariseismo a proposito della torà. La
proiezione verso le genti e l’apertura ad esse porta a distaccarsi dalla Torà e a rileggerne la funzione
in chiave storico salvifica “fino alla venuta dell’erede” (cf. Gal 3,16-18). Non è un caso che sia il
fariseo Saulo a cercare di distruggere la prima Chiesa.
La caduta del tempio e la trasformazione del giudaismo in giudaismo rabbinico, operò un
ulteriore irrigidimento verso il cristianesimo. La caduta di Gerusalemme e la distruzione del tempio
avviano un processo di trasformazione del giudaismo palestinese dando vigore alla corrente
farisaica. In particolare è da ricordare l’opera di Yohannan Ben Zakkay a Yabne. Fu
un rabbino ebreo, vissuto a cavallo del secolo cristiano, ed una delle principali figure del periodo
che seguì la distruzione del Secondo Tempio (I secolo d.C.). Era discepolo di Hillel, era favorevole
a che Gerusalemme assediata si arrendesse ai romani, ma gli Zeloti non erano d’accordo. Perciò egli
fu portato fuori dalla città dai suoi seguaci, chiuso in una bara, fingendosi morto, e portato davanti
al comandante romano Vespasiano. Yochanan chiese che l’accademia rabbinica di Javneh venisse
risparmiata dai romani quando essi avessero sconfitto la rivolta ebraica. Fu qui che, quando il
Tempio cadde in rovina, lui e i suoi colleghi ricostruirono il giudaismo insegnando che le buone
azioni avevano sostituito il potere espiatorio dei sacrifici rituali. Secondo il Talmud, Yochanan ben
Zakkai131 visse 120 anni, dal 40 a.C., fino all’80 d.C.132. Sono state avanzate diverse ipotesi circa
l’identità di Yochanan e dei suoi discepoli133.

131 Il nome ebraico Yochanan ben Zakkai, traslitterato in italiano è Giovanni figlio di Zaccheo. Il significato del nome

Giovanni è “grazia di Yahweh”, mentre Zaccheo, in aramaico antico, significa il “giusto”, il corrispondente dell’ebraico
“zaddik” o “tzaddik”. Zaccheo è un diminutivo di Zaccaria (Zekaryain ebraico). Il nome Yochanan è una contrazione
di Jehochanan o Jehohanan. Yochanan talvolta si ritrova anche traslitterato in Yohanan o Ioanan.
132 La sua vita sarebbe suddivisa in tre improbabili periodi di 40 anni ciascuno, tra i quali solo nell’ultimo periodo

avrebbe predicato. Sempre secondo il Talmud, Yochanan aveva 6 discepoli (principali): Hanina ben Dosa (Anania figlio
di Dosa), Eliezer ben Hyrcanus (Lazzaro figlio di Ircano), Joshua ben Hananiah (Giosuè figlio di Anania), Yosi (Iose,
diminutivo di Giuseppe, Yosef in ebraico), Shiméon ben Nathanel (Simeone figlio di Nataniele/Natanaele) ed Eleazar
ben Arakh (Eleazaro/Eleazzaro/Lazzaro figlio di Arakh). Il primo fra questi discepoli, Hanina ben Dosa, curò il figlio di
Yochanan. Comunque il figlio del rabbino Yochanan ben Zakkai morì prima del padre.
133 Zakkai, il padre di Yochanan, è stato identificato con Zaccheo il pubblicano neotestamentario di Gerico . Molte

altre teorie sono state avanzate, anche se le prove a sostegno di queste sono scarse o inesistenti: per esempio
Zakkai è stato identificato con Zaccaria, padre del Battista. Lo stesso Yochanan è stato identificato con

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Le correnti del mondo giudaico


Abbiamo visto che i contrasti con la chiesa nascente, soprattutto quella che proviene dalla
diaspora, sono quasi immediati. D’altronde gli scritti del NT ce li testimoniano con abbondanza.
Analizzando il mondo giudaico che incontrò l’apostolo Paolo, dobbiamo soffermarci su alcuni
gruppi con i quali interagì sicuramente. Presento prima sadducei, esseni e zeloti, per, poi,
soffermarmi un po’ più a lungo sui farisei.
I Sadducei
Costituirono un’importante corrente spirituale del tardo giudaismo (fine del periodo
del secondo Tempio), e anche una distinta fazione politica verso il 130 a.C. sotto la
dinastia Asmonea. Rappresentata eminentemente dall’aristocrazia delle antiche famiglie,
nell’ambito delle quali venivano reclutati i sacerdoti dei ranghi più alti, nonché, in particolare,
il Sommo sacerdote, la corrente dei sadducei, si richiamava, nel proprio nome, all’antico e
leggendario Sadoc (anche Sadoq o Zadoq), sommo sacerdote al tempo di Salomone. Cercavano di
vivere un giudaismo illuminato, e quindi di trovare un compromesso anche con il potere romano.
Dei sadducei e della loro spiritualità non conosciamo molto, perché la loro fazione, ritenuta
colpevole di collaborazionismo nei confronti dei romani, fu letteralmente sterminata, durante la
rivolta giudaica del I secolo d.C., dagli insorti più esagitati e violenti, come narra lo storico Flavio
Giuseppe, in quella prima guerra giudaica che, oltre ad essere una lotta di liberazione dalla
dominazione straniera, fu anche una vera e propria cruenta e spietata guerra civile. Gli eventuali
residui superstiti dei sadducei o furono assimilati dalla società romano-ellenica nella quale si
rifugiarono, oppure si convertirono al cristianesimo. In ogni caso, dopo la catastrofe nazionale
giudaica del 70 d.C., culminata nella distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio, l’ebraismo
riemerge coagulandosi attorno alla corrente spirituale dei farisei, avversaria dei sadducei e di questi
ultimi non vi è alcuna traccia. Sui sadducei cala, quindi, un velo che assomiglia molto ad una sorta
di damnatio memoriae: i romani, che si erano appoggiati a loro per governare la Giudea, dovettero
constatare il sostanziale fallimento della loro categoria in quanto amministratori e alleati, un po’
come gli inglesi, nella prima metà del secolo XX dovettero prendere atto che i marajah, da loro
sostenuti, non riuscivano più a controllare l’India; dai farisei, che già ne avevano avversato la
dottrina, i sadducei vennero parimenti ritenuti responsabili della catastrofe che aveva colpito la

Jehochanan me-Gush Halav (Giovanni di Giscala), con Giovanni Battista e con l’apostolo Giovanni Evangelista.
Queste tre identificazioni devono essere errate per i seguenti motivi: Giovanni di Giscala combatté con i
rivoluzionari ebrei durante la Prima Rivolta Giudaica, mentre Yochanan ben Zakkai si oppose ad essa. Giovanni
Battista nacque nell’8 a.C. e morì sotto Tiberio (principe/imperatore dal 14 d.C. al 37 d.C.), mentre Yochanan
nacque, almeno secondo il Talmud, nel 40 a.C. e morì nel 80 d.C. Inoltre, Giovanni Evangelista morì intorno al 100
d.C. e scrisse il suo libro delle rivelazioni, dopo l’80 d.C., data in cui morì Jehochanan ben Zakkai. È, invece,
interessante il nome di uno dei discepoli di Yochanan ben zakkai, Eliezer ben Hyrcanus. Eliezer è una variante
di Eleazar. Dalla “Guerra Giudaica” di Flavio Giuseppe (Yosef ben Mattàt) apprendiamo che nello stesso periodo
di Eliezer, ossia durante la Prima Rivolta Giudaica visse Eleazar Ben Yair (Lazzaro figlio di Giàiro, identificato
da Luigi Cascioli ne "La Favola di Cristo" con l’evangelico Lazzaro di Betania). Da Flavio Giuseppe sappiamo
che Eleazar ben Jair discendeva da Giuda di Gamala (noto anche come Giuda di Galilea o Giuda il Galileo). Giuda
era figlio di Ezechia che era figlio dell’asmoneo Ircano II. La madre di Lazzaro di Betania, Eucaria, discendente
degli Asmonei. Ircano pertanto era un nome di famiglia per Eleazar ben Jair (la cui identificazione con Lazzaro di
Betania pare quanto meno plausibile, considerando la comune discendenza asmonea). Per quanto riguarda
l’omonimo Eliezer discepolo di Yochanan ben Zakkai, ricordiamo che viene chiamato ben Hyrcanus, cioè “figlio di
Ircano”, anche se spesso il termine “ben” va tradotto come “discendente di”. In ogni caso, se accettiamo
che Eliezer e Eleazar possano essere la stessa persona, Ircano, padre di Eliezer/Eleazar, si sarebbe chiamato
anche Jair/Giàiro? No, perché Jair era un titolo sacerdotale attribuito ai discendenti del mitico Ira lo Iairita.
Questa identificazione pertanto ci sembra la più plausibile tra quelle proposte.

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nazione ed il Tempio; per i cristiani, infine, i sadducei rimasero indelebilmente associati alle figure
di Caifa ed Anna, rispettivamente, il sommo sacerdote che fece arrestare e condannare a morte
Gesù. In buona sostanza, mancarono ai sadducei buoni avvocati che ne perpetuassero la memoria
storica con dovizia di particolari.
Sul piano dottrinale, si ritiene, in base alle scarse informazioni pervenuteci, che i sadducei, a
differenza dei farisei considerassero vincolante solamente la cosiddetta Legge scritta, ossia quanto
tramandato nei libri della bibbia ebraica, o Torah. Al contrario, i farisei sostenevano che avesse
pari, se non anche superiore importanza, la Legge orale, ossia la tradizione interpretativa della
Torah, assertivamente trasmessa in maniera verbale, di generazione in generazione. Al contrario dei
farisei, i sadducei non credevano alla resurrezione dei morti, ossia alla perpetuazione dell’individuo
dopo la morte, in corpo e spirito. Sembra che essi respingessero anche l’esistenza di un’anima
immortale, tuttavia, è lecito dubitare che avessero, al riguardo, una posizione di netta preclusione,
sia perché ciò non si concilierebbe con il contenuto della stessa Legge scritta, sia perché l’evidenza
archeologica delle modalità di sepoltura seguite dai sadducei attesta, in ogni caso, una fede nella
esistenza di un mondo ultraterreno del quale il defunto, alla morte, entra a far parte. Pare che non
accettassero nemmeno la dottrina degli angeli.
Il calendario liturgico dei sadducei differiva leggermente da quello adoperato dai farisei, la qual
cosa spiega le lievi divergenze temporali relative ai racconti della Passione tra i Vangeli sinottici e
quello di San Giovanni. Il rifiuto della tradizione orale, fu, probabilmente, il fattore che consentì ai
sadducei di aprirsi alla cultura dell’ellenismo, pur conservando la fede nel giudaismo, facendo di
essi una élite intellettuale ed imprenditoriale capace di esercitare notevole influsso persino
nell’ambito della politica imperiale. La loro permeabilità agli influssi stranieri connessa alla
capacità di mantenere intatta la propria identità, è tipica dei ceti aristocratici di ogni tempo ed ogni
nazione, e la opposizione ai sadducei da parte dei farisei riecheggia motivi di orgoglio nazionale e
di rivalsa anti-aristocratica che troviamo, nella Storia, replicati infinite volte in diversi contesti.
Sebbene i sadducei siano scomparsi dalla scena storica nel I secolo d.C., ai loro insegnamenti si
richiamarono i Caraiti134, che ruppero con l’ebraismo rabbinico nell’VIII secolo.
Gli Zeloti
Gruppo politico-religioso giudaico apparso all’inizio del I secolo, gli zeloti erano partigiani
accaniti dell’indipendenza politica del regno ebraico, nonché difensori dell’ortodossia e
dell’integralismo ebraici. Considerati dai romani alla stregua di terroristi e criminali comuni, si
ribellavano con le armi alla presenza romana in Palestina. Fondati da Giuda il Galileo ebbero stretti
rapporti con la comunità essena di Qumran di cui furono il braccio armato. Svolsero un ruolo

134
I caraimi (detti anche karaimi, caraiti o karaiti) sono un popolo di ceppo e lingua turca affine ai tatari,
originario della Crimea e aderente al caraismo. Oggi la comunità più rilevante, benché ridotta a poche centinaia
di persone, risiede a Trakai, in Lituania. L’origine dei caraimi, emersi come gruppo a sé stante tra i turchi della
sponda nord del Mar Nero in età medievale, è ancora oggetto di dibattito storico. Un’ipotesi ne fa i discendenti di
un gruppo di origine ebraica, aderente al caraismo e stanziatosi in Crimea, che avrebbe adottato la lingua
turca parlata nell’area, dando così origine alla lingua caraima (di base turca con influenze ebraiche). Altre ipotesi,
accettate nel corso della storia dai caraimi stessi e dagli altri popoli con i quali sono venuti in contatto, li
considerano invece etnicamente turchi, convertiti al caraismo; alla medesima conclusione sono d’altra parte
giunti anche gli studiosi, che li considerano turchi di religione giudaica, e non ebrei di lingua turca.
Tradizionalmente agricoltori, i caraimi furono spesso impiegati come militari dalle varie potenze che, nel corso
dei secoli, controllarono la loro patria originaria. Questo portò a una loro diaspora in gran parte dell’Europa
orientale, che ne determinò in molti casi l’assimilazione alle popolazioni maggioritarie. Attualmente piccoli
gruppi sono presenti in Ucraina, Polonia e, soprattutto, in Lituania.

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importante nella grande rivolta del 66-70, la maggior parte di essi perì durante la presa
di Gerusalemme da parte di Tito Flavio Vespasiano (70).
Nel I secolo lo zelotismo va impadronendosi gradualmente delle masse, urbane e ancor più di
campagna, le porta al fanatismo e le conduce alla violenza dei predoni e dei sicari, che porteranno
alla catastrofe finale della prima guerra giudaica. La caduta di Gerusalemme tuttavia non segnò la
sconfitta dello zelotismo; gli ultimi zeloti infatti, a capo dei quali c’era Eleazaro ben Simone, si
rifugiarono, in un estremo tentativo di resistenza, nella fortezza di Masada, a sud del deserto di
Giuda, vicino al Mar Morto. Quando si videro perduti, tutti i 960 zeloti si diedero la morte. Fonti
sull’origine del movimento zelota sono le testimonianze convergenti di Giuseppe Flavio e
dell’evangelista Luca135. Robert Eisenman ha posto l’attenzione sulla presenza in alcuni riferimenti
contemporanei del Talmud della parola zeloti, usata come sinonimo di kanna’im, ma non
esattamente come un gruppo, piuttosto come preti vendicativi del Tempio. La testimonianza dello
storico ebreo sulla dottrina degli zeloti è interessante136.
È facile desumere da qui che lo zelotismo non è che un fariseismo estremo, che coinvolge il
piano politico assieme a quello religioso per il fatto di non obbedire ad altri che a Dio. I termini che
indicano i combattenti messianisti (chrestianoi in greco) sono: a) in ebraico: Qanana (Cananei) e
Bariona; b) in greco: Zelotes e Lestes; c) in latino: Sicarii, Latrones e Galilaei (Sicari, Ladroni e
Galilei).
I passi biblici di Lc 6,15+At 1,13 potrebbero far intendere in un coinvolgimento politico. In
realtà la parola zelota può essere tradotto anche “zelante”. Più articolata la questione circa il
possibile coinvolgimento degli altri apostoli 137 . Negli Atti degli Apostoli, il fariseo Gamaliele,
accomuna la situazione degli apostoli appena arrestati alla storia di due capi zeloti, Giuda il
Galileo e Teuda (At 5,33-39). Secondo gli studi di Eisemann138 sembrerebbe ma non è certo che
l’elemento zelota nell’originale gruppo di apostoli sia stato mascherato e sovrascritto per dar modo
alla chiesa cristiana di Paolo di assimilarsi all’elemento romano e di far proseliti tra i gentili.
Universalmente riconosciuto come Zelota da ambienti ecclesiastici e accademici è Simone il

135 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, II-12: “In Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei così detti

sicari (Ekariots), che commettevano assassini in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle
feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro
avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così
bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”.
136 GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, XVIII,23: “Giuda il Galileo introdusse una quarta setta i cui membri sono in tutto

d’accordo con i farisei, eccetto un invincibile amore per la libertà che fa loro accettare solo Dio come signore e padrone. Essi
disprezzano i diversi tipi di morte e i supplizi dei loro parenti e non chiamano nessun uomo signore”.
137 Giuda detto Iscariota, nel caso fosse vera l’equivalenza tra Iscariota e Sicario. Simone detto Pietro nel caso fosse

correttamente attributo il soprannome di Bariona. Simone il Cananeo chiamato sempre Simone lo Zelota nel Vangelo di
Luca, per distinguerlo da Simone Pietro. Interpretando un passo del vangelo di Luca nel quale Giacomo di Zebedeo e suo
fratello Giovanni chiedono a Gesù il permesso di incendiare un villaggio di samaritani dal quale il Cristo e i suoi seguaci
erano stati respinti, lasciando intendere fosse quella la norma di comportamento.
138 R. EISENMAN, James the Brother of Jesus: The Key to Unlocking the Secrets of Early Christianity and the Dead Sea

Scrolls, Viking Penguin, 1997.

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Cananeo. Tra i reperti di Qumran si ritrovano tracce che collegano la comunità essena ai
rivoltosi zeloti, come ad esempio il Rotolo della guerra139.
Gli Esseni
Gli Esseni furono un gruppo ebraico di incerta origine, nato forse attorno alla metà del II secolo
a.C. e organizzato in comunità isolate di tipo monastico e cenobitico. Tra i gruppi ebraici di età
ellenistico-romana, conosciuti e documentati anche da autori greci e latini, quello degli Esseni è
forse oggi il più noto. Già nell’antichità avevano scritto su di essi, per ricordare i più
rilevanti, Filone Alessandrino (Quod omnis probus liber sit), Giuseppe Flavio (Guerra Giudaica),
che ci attesta di esserne stato discepolo, e Plinio il Vecchio (Naturalis Historia). Sulla loro origine e
sul significato del nome (puri, bagnanti, silenziosi, pii) non c’è accordo tra gli studiosi. Molto
probabilmente ebbero inizio dalla metà circa del II secolo a.C. in epoca maccabea, e di essi non si fa
mai menzione prima degli Asmonei. Di vita appartata e solitaria, si erano organizzati, fuori dal
contesto sociale, in comunità isolate di tipo monastico e cenobitico; protetti da Erode il Grande, al
tempo di Gesù erano oltre 4000 e vivevano dispersi in tutto il paese; circa 150 erano quelli residenti
a Qumran. Questo sito andò incontro ad una fine violenta nel 68 d.C. ad opera dei romani a causa
del loro coinvolgimento nelle sommosse negli anni della guerra che si concluse con il crollo
di Gerusalemme. Prima della fine però riuscirono a nascondere la loro biblioteca nelle grotte
circonvicine. Alcuni scampati, sembra, si unirono agli zeloti di Masada e ne condivisero la sorte. Lo
proverebbe il ritrovamento, durante gli scavi del 1963 a Masada, di un frammento di pergamena
dei Canti della santificazione del sabato noto dai ritrovamenti della grotta 4.
Giuseppe Flavio usa il nome Esseni in due racconti principali140, così come in qualche altro
contesto141. In molti passi, comunque, Giuseppe scrive Essaios, che generalmente è da intendersi
come Esseno.142. Filone usa il nome Essaioi, sebbene egli ammetta che questa versione greca del
nome originale, che secondo la sua etimologia significa “santi”, sia inesatta. Il testo latino di Plinio
riporta la parola Esseni. Nel I secolo d.C. lo storico Giuseppe Flavio identificò gli esseni come una
delle maggiori quattro principali scuole ebraiche del periodo143.

139 IPPOLITO ROMANO, Refutatio, IX, 26: “Sono divisi (gli esseni) fin dall’antichità e non seguono le pratiche nella stessa

maniera, essendo ripartiti in quattro categorie. Alcuni spingono le regole fino all’estremo: si rifiutano di prendere in mano
una moneta (non ebraica) asserendo che non è lecito portare, guardare e fabbricare alcuna effigie; nessuno di costoro osa
perciò entrare in una città per tema di attraversare una porta sormontata da statue, essendo sacrilego passare sotto le
statue. Altri udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo
minacciano di morte se non si lascia circoncidere; qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è
appunto da questo che hanno preso il nome di zeloti, e da altri quello di sicari. Altri ancora si rifiutano di dare il nome di
padrone a qualsiasi persona, eccetto che a Dio solo, anche se fossero minacciati di maltrattamenti e di morte”.
140 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra giudaica, 2.119, 158, 160; Antichità Giudaiche, 13.171-2.
141 GIUSEPPE FLAVIO, Un racconto sugli Esseni, in Antichità Giudaiche, 13.298; Il cancello degli Esseni, in Guerra

Giudaica, 5.145; Giuda della stirpe degli Esseni, in Antichità Giudaiche, 13.311 (ma qualche manoscritto recita Essaion);
Tenere gli Esseni in onore, in Antichità Giudaiche, 15.372.378; Un certo Esseno detto Manaemus, in Antichità Giudaiche,
15.373; Gli Esseni, in Antichità Giudaiche, 18.11.18.
142 GIUSEPPE FLAVIO, Giuda della stirpe Essaios, in Guerra Giudaica, I.78; Simone della stirpe Essaios, in Guerra

Giudaica, 2.113; Giovanni l’Essaios, in Guerra Giudaica, 2.567; 3.11; Coloro che sono da noi chiamati Essaioi, in Antichità
Giudaiche 15.371; Simone un uomo della razza degli Essaios, in Antichità Giudaiche, 17.346.
143 Sugli esseni si sono concentrate molte speculazioni esoteriche. Il controverso Ahmed Osman, ad esempio, nel

suo libro “Fuori dall’Egitto”, ha sostenuto che “Esseno” deve essere tradotto come “colui che segue Gesù (Essa)”.
Questa “ovvia” traduzione letterale è da tralasciare a causa delle indiscutibili assunzioni circa le origini della
cristianità del I secolo d.C. Nel suo libro Gabriele Boccaccini (Beyond the Essene Hypothesis, Eerdmans Publishing,
Cambridge, 1998, 47), spiega che una etimologia per Esseni non è ancora stata trovata, ma che si applica anche a
numerosi gruppi diffusi in tutta la Palestina che includono anche la comunità di Qumran. Infine il riferimento di
Giuseppe Flavio ad un “cancello degli Esseni” nel Tempio suggerisce che una comunità essena vivesse nel

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Secondo Giuseppe gli Esseni dimoravano “non in una sola città” ma “in moltitudine in ogni
città”144. Filone parla di “più di quattromila Essaioi”, che vivevano nella “Siria Palestinese”145, più
precisamente, “in molte città della Giudea e in molti villaggi e raggruppati in grandi comunità
composte da numerosi membri”146. Alcuni studiosi ed archeologi moderni hanno individuato un
insediamento abitato dagli Esseni a Qumran, un altopiano nel Deserto della Giudea lungo il Mar
Morto. Mentre la testimonianza di Plinio “sulla parte occidentale del Mar Morto, lontano dalla
costa ... [sopra] la città di Engeda”, tende ad essere utilizzata a supporto di questa identificazione,
non esiste tuttavia nessun’altra prova conclusiva di questa ipotesi. Tuttavia essa ha finito per
dominare la discussione scientifica e la percezione collettiva sugli Esseni.
Il Padre della Chiesa Epifanio, che scrisse intorno al IV secolo d.C., sembra fare una
distinzione tra due gruppi principali all’interno degli Esseni: “Coloro che vennero prima di lui
[Elxai, un profeta Esseno], gli Ossaeni e i Nazareni”147. Epifanio, poi, descrive ogni gruppo148.
Alcuni gruppi moderni che rivendicano una connessione con l’Essenismo, rivendicano anche la
collocazione degli Ossaeani, che incoraggiavano il celibato, che sarebbe stata attorno all’area
di Qumran; e dei Nazareni, che incoraggiavano il matrimonio, e sarebbero stati attorno all’area
del Monte Carmelo.
I resoconti di Giuseppe e Filone mostrano che gli Esseni (Filone: Essaioi) conducevano una
vita strettamente celibe, ma comunitaria − spesso paragonata dagli studiosi alla vita monastica
buddista e in seguito cristiana − anche se Giuseppe parla di un altro “rango di Esseni”, che si
sposavano 149 . Secondo Giuseppe, avevano usanze e osservanze come la proprietà collettiva 150 ,
eleggevano un capo che attendesse agli interessi di tutti e i cui ordini venivano obbediti151, era loro
vietato prestare giuramento152 e sacrificare animali , controllavano la loro collera e fungevano da
canali di pace153, portavano armi solo per protezione contro i rapinatori154, e non avevano schiavi,

quartiere della città o che regolarmente accedesse a questa parte dei recinti del Tempio. Georges Ivanovič
Gurdjieff, nel suo libro “I racconti di Belzebù a suo nipote”, sostiene che gli Esseni sono stati i veri e più fedeli
seguaci di Gesù.
144 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.124.
145 FILONE D’ALESSANDRIA, Quod Omn. Prob. XII.75.
146 Cf. G. BOCCACCINI, Beyond the Essene Hypothesis, Eerdmans Publishing, Cambridge, 1998, 111.
147 EPIFANIO DI SALAMINA, Panarion, 1,19.
148 EPIFANIO DI SALAMINA:

- Esseni “Nazareni”: “I Nazareni - erano Ebrei per provenienza - originariamente da Gileaditis [dove i primi
seguaci di Yeshua fuggirono dopo il martirio di Giacomo, fratello di Gesù], Bashaniti e Transgiordani …Essi
riconoscevano Mosè e credevano che avesse ricevuto delle leggi, ma non la nostra legge ma altre. E così, essi
erano Ebrei che rispettavano tutte le osservanze ebraiche, ma non offrivano sacrifici e non mangiavano
carne. Essi consideravano un sacrilegio mangiare carne o fare sacrifici con essa. Affermavano che i nostri
Libri sono delle falsità, e che nessuno dei costumi che essi affermano sono stati istituiti dai padri. Questa era
la differenza tra i Nazareni e gli altri. . ." (Panarion, 1,18).
- Esseni “Ossaeani”: “Dopo la setta dei [Nazareni] viene un’altra setta legata strettamente ad essi, chiamata
Ossaeani. Costoro sono Giudei come i primi... originari della Nabataea, Ituraea, Moabitis e Arielis, le terre
oltre il bacino che le Sacre Scritture chiamavano Mare di Sale. . . Sebbene siano diverse dalle altre sei sette
essa si è separata da loro solo perché proibiscono l’uso dei libri di Mosè come fanno i Nazareni” (Panarion,
1,19). GIUSEPPE FLAVIO aggiunge: “Oltre ad essi, esiste un’altra frangia di Esseni che concordano per leggi e
costumi ma differiscono nella visione del matrimonio” (Guerra Giudaica, 2.160).
149 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.160-161.
150 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.122; Antichità Giudaiche, 18.20.
151 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.123.134.
152 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.135.
153 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.135.
154 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.125.

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ma si servivano a vicenda 155 e, come conseguenza della proprietà comune, non erano dediti ai
commerci156. Sia Giuseppe che Filone hanno lunghi resoconti dei loro incontri comunitari, pranzi e
celebrazioni religiose. Da quanto si è dedotto, il cibo degli Esseni non poteva essere alterato, con la
cottura ad esempio; e potrebbero essere stati strettamente vegetariani, mangiando principalmente
pane, radici selvatiche e frutta. Dopo un totale di tre anni di prova157 , i membri appena unitisi
prestavano un giuramento che comprendeva l’impegno a praticare la pietà verso la divinità e
l’aderenza a principi morali verso l’umanità, per mantenere uno stile di vita puro, di astenersi da
attività criminose e immorali, di trasmettere intatte le loro leggi e di preservare il libro degli Esseni
e il nome degli Angeli158. La loro teologia includeva il credo nell’immortalità dell’anima e il fatto
che avrebbero ricevuto indietro le loro anime dopo la morte159.
Gli Esseni vengono discussi in dettaglio da Giuseppe e Filone. Molti studiosi credono che la
comunità di Qumran, che presumibilmente produsse i Rotoli del Mar Morto, fu un ramo degli
Esseni; comunque, questa teoria è stata disputata da Norman Golbe da altri studiosi. Alcuni
suggeriscono che Gesù fosse un Esseno, e che la Cristianità evolse da questa setta dell’Ebraismo,
con la quale condivide molte idee e simboli160.
Tra i reperti di Qumran si ritrovano tracce che collegano la comunità essena ai rivoltosi zeloti,
come ad esempio il Rotolo della guerra.
“...Sono divisi (gli esseni) fin dall’antichità e non seguono le pratiche nella stessa maniera, essendo ripartiti
in quattro categorie. Alcuni spingono le regole fino all’estremo: si rifiutano di prendere in mano
una moneta (non ebraica) asserendo che non è lecito portare, guardare e fabbricare alcuna effigie; nessuno di
costoro osa perciò entrare in una città per tema di attraversare una porta sormontata da statue,
essendo sacrilego passare sotto le statue. Altri udendo qualcuno discorrere di Dio e delle sue leggi, si
accertano se è incirconciso, attendono che sia solo e poi lo minacciano di morte se non si lascia circoncidere;
qualora non acconsenta essi non lo risparmiano, lo assassinano: è appunto da questo che hanno preso il nome
di zeloti, e da altri quello di sicari. Altri ancora si rifiutano di dare il nome di padrone a qualsiasi persona,
eccetto che a Dio solo, anche se fossero minacciati di maltrattamenti e di morte”161.

Alcune usanze essene erano molto simili a quelle cristiane dei primi secoli e ciò potrebbe
essere dovuto alla comune origine giudaica e all’uso delle medesime scritture bibliche. Nonostante
ciò, i numerosi paralleli esistenti tra gli scritti di Qumran e i vangeli canonici, hanno convinto un
buon numero di studiosi del fatto che le dottrine e le tradizioni delle comunità essene abbiano

155 GIUSEPPE FLAVIO, in Antichità Giudaiche 18.21.


156 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.127.
157 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.137-138.
158 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.139-142.
159 GIUSEPPE FLAVIO, Guerra Giudaica, 2.153-158; Antichità Giudaiche, 18.18.
160 Secondo Martin A. Larson, gli oggi incompresi Esseni erano Ebrei Pitagorici, che vivevano come monaci. In

quanto vegetariani e celibi, in comunità autosufficienti, che evitavano il matrimonio e la famiglia, essi
predicavano una guerra incombente con i “Figli del Buio”. In quanto “Figli della Luce”, ciò rifletteva un’influenza
separata dallo Zoroastrismo attraverso la loro ideologia parente del Pitagorismo. Secondo Larson, sia gli Esseni
che i Pitagorici ricordavano i thiasoi, o le unità di culto dei misteri orfici. Giovanni il Battista viene ampiamente
considerato come un ottimo esempio di Esseno che aveva lasciato la vita comunitaria (si veda GIUSEPPE
FLAVIO, Antichità Giudaiche, 18.116-119), ed è, forse, perché aspiravano ad emulare il loro proprio
fondatore Maestro di moralità, che venne crocifisso. Un’altra questione è la relazione tra gli Essaioi e
i Therapeutae e Therapeutrides di Filone (si veda De Vita Contemplativa). Si può sostenere che egli considerava
i Therapeutae come una branca contemplativa degli Essaioi i quali, diceva, ricercavano una vita attiva (Vita
Cont. I.1).
161 IPPOLITO ROMANO, Refutatio, IX, 26. L’attendibilità di Ippolito Romano è, tuttavia, messa in dubbio da alcuni storici

come Laura Gusella e Gabriele Boccaccini.

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costituito la base fondamentale sulla quale si è successivamente sviluppato il Cristianesimo. Gli


indizi emersi dalle ricerche filologiche, storiche e archeologiche, testimoniano l’esistenza di
rapporti tra esseni e cristiani, e legittimano l’ipotesi secondo la quale il cristianesimo e l’essenismo
siano legati da una stretta parentela. In particolare, le scoperte dell’archeologo Bargil Pixner,
documentate da vari esperti, tra i quali Rainer Riesner, hanno evidenziato un fatto di eccezionale
rilevanza: il primo luogo di riunione della prima comunità cristiana a Gerusalemme, nonché il luogo
ove si svolse l’ultima cena, era ubicato nelle immediate vicinanze del quartiere degli esseni a
Gerusalemme: “esseni e primi cristiani sarebbero vissuti a Gerusalemme, per così dire, porta a
porta” 162 . Ciò rende estremamente plausibile l’ipotesi di contatti diretti e frequenti tra esseni e
cristiani. Inoltre, alcune evidenze di ordine storico, hanno convinto molti studiosi del fatto che siano
avvenute conversioni in massa di esseni al cristianesimo. Secondo Otto Betz e Rainer Riesner:
“Dobbiamo anche tener conto che un gran numero di esseni si convertì a Gesù come messia. Questi
esseni convertiti formavano una cerchia di teologi che per quei tempi poteva ritenersi altamente
qualificata. Essi erano in grado di pensare e studiare a fondo chi sia stato Gesù e in che modo ci
abbia portato la salvezza”. Sul tema dei paralleli tra esseni e cristiani, i due autori affermano: “Vi
sono stati occasionalmente, a dire il vero, dei tentativi di negare in ampia misura le somiglianze
emerse, ma questi non necessari sforzi apologetici rimangono in minoranza”.
Le similitudini con la dottrina cristiana sono numerosissime e possono essere divise, in linea di
principio, in due categorie: similitudini filologiche e similitudini relative alle usanze rituali, alla
teologia e alle consuetudini organizzative.
- Similitudini filologiche:
Sono quelle che emergono dal confronto tra i manoscritti degli esseni e gli scritti del Nuovo
Testamento. Secondo Betz e Riesner: “È davvero sorprendente constatare quanto spesso
essenismo e cristianesimo primitivo facciano riferimento a un gruppo ben definito di testi
veterotestamentari. Poteva esserci, qui, la stessa tradizione esegetica” 163 . Jean
Daniélou identifica questa comune tradizione esegetica in una raccolta
di Testimonia messianiche (4QTest/4Q175) rinvenuta a Qumran, contenente una selezione
di profezie dell’Antico Testamento, che sarebbe stata utilizzata anche dai primi
cristiani 164 . Esistono, inoltre, paralleli filologici che risultano estranei alle tradizioni
giudaiche veterotestamentarie. Ad esempio i temi relativi ai “figli della luce” e “i figli delle
tenebre”, i “molti/la maggior parte”, la giustificazione “solo per grazia”, la figura del
“mebaqqer” (“ispettore”, ἐπίσκοπος 165 ) rappresentano punti di contatto presenti
nell’essenismo e nel cristianesimo, ma assenti nelle tradizioni esegetiche del giudaismo
coevo, rappresentato da gruppi quali i Farisei e i Sadducei, la cui impostazione culturale era
improntata ad una fedele e rigorosa osservanza e conformità agli scritti dell’Antico

162 O. BETZ-R. RIESNER, Gesù, Qumran e il Vaticano, LEV, 1995, 221. Si può consultare: GABRIELE BOCCACCINI, Beyond

the Essene Hypothesis, Eerdmans Publishing, Cambridge, 1998; R. RIESNER, Esseni e prima comunità cristiana a
Gerusalemme, Nuove scoperte e fonti, LEV, 2001; J. DANIELOU, I Manoscritti del Mar Morto e le origini del
cristianesimo, Arkeios, Roma, 1993; D. SPATARU, Sacerdoti e diaconesse: la gerarchia ecclesiastica secondo i Padri
Cappadoci, Edizioni Studio Domenicano, 2007; A. PAUL, I Manoscritti del Mar Morto, Elledici, Torino, 2002; J.
FITZMYER, Qumran, Queriniana, Brescia, 1995; MARTINEZ – BARRERA, Gli uomini di Qumran, Paideia, Brescia, 1996.
163 O. BETZ-R. RIESNER, Gesù, Qumran e il Vaticano, LEV, 1995, 221.
164 J. DANIELOU, I Manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, Arkeios, Roma, 1993, 37.
165 D. SPATARU, Sacerdoti e diaconesse: la gerarchia ecclesiastica secondo i Padri Cappadoci, Edizioni Studio Domenicano,

2007, 40.

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Testamento. Secondo Danielou, si tratta di temi “in cui è più chiara la dipendenza del
cristianesimo nei confronti di Qumran”166.
- Analisi filologiche comparative:
André Paul afferma: “Tra gli scritti di Qumran e il Nuovo Testamento anche le
rassomiglianze sono precise. Un dato testo particolare, una data espressione o titolo
trovano in entrambi corrispondenze sorprendenti. La materia è così ricca che la scelta
diventa necessaria”167. Joseph Fitzmyer fa notare che: “le formule introduttorie del Nuovo
Testamento erano invariabilmente più vicine alle formule di Qumran che alle formule
mishnaiche, talvolta anche una traduzione letterale delle formule di Qumran”168. Martinez e
Barrera aggiungono: “Certo è che i testi del Nuovo Testamento mostrano numerosi paralleli
e punti di contatto con quelli di Qumran. Poiché gli scritti esseni sono più antichi di quelli
cristiani, è logico supporre che i primi possono avere influito sui secondi”169.
- Similitudini relative alle usanze rituali, alla teologia e alle consuetudini organizzative:
Anche in questi casi le similitudini risultano significative a causa della divergenza esistente
tra l’essenismo e le coeve usanze e tradizioni giudaiche. Jean Danielou sottolinea che: “Fu
quando la prima chiesa incominciò a svilupparsi, che essa dovette darsi una forma più
istituzionale. E qui ancora emergono i punti di contatto con la comunità di Qumran. [...]
Risulta così evidente che la prima comunità cristiana è immersa in un ambiente ebreo e
vicino a Qumran, dal quale essa riprende numerose forme di espressione”170. Tra le usanze
rituali e teologiche, che presentano significative similitudini tra essenismo e cristianesimo, si
possono ricordare: i pasti comunitari, le preghiere quotidiane, il battesimo, il calendario
solare, la Didaché, il Testamento dei XII patriarchi, la resurrezione dai morti, le beatitudini.
Tra le consuetudini organizzative: il matrimonio e il divorzio, la comunione dei beni,
l’organizzazione gerarchica, l’organizzazione giudiziaria, l’ascetismo, la vita associata,
l’ospitalità.
I Farisei
Gruppo religioso in seno al giudaismo i cui inizi risalgono al periodo del secondo tempio.
Notizie dettagliate a loro riguardo le dobbiamo allo storico giudaico 71 Flavio Giuseppe171.
1) Il nome farisei deriva dalla parola ebraica perûshîm = i “separati”, probabilmente in
considerazione della loro rigida osservanza della Legge che portava a una separazione rispetto ai
meno rigorosi172.
2) Storia: i farisei hanno origine dal movimento degli asidei, dal quali si staccarono non
condividendo la loro attesa messianico-apocalittica imminente. Verso la fine del Il sec. a.C.
entrarono in scena come avversari degli Asmonei, di cui combatterono la politica mondana e le
tendenze ellenizzanti. Ruppero con la casa Asmonea sotto Giovanni Ircano (134 – 104 a.C.) e fu

166 J. DANIELOU, I Manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, Arkeios, Roma, 1993, 33.
167 A. PAUL, I Manoscritti del Mar Morto, Elledici, Torino, 2002, 267.
168 J. FITZMYER, Qumran, Queriniana, Brescia, 1995, 159.
169 MARTINEZ – BARRERA, Gli uomini di Qumran, Paideia, Brescia, 1996, 326.
170 J. DANIELOU, I Manoscritti del Mar Morto e le origini del cristianesimo, Arkeios, Roma, 1993, 30-39.
171 Alcuni riferimenti bibliografici possono essere: G. BOCCACCINI, I giudaismi del Secondo Tempio. Da Ezechiele a

Daniele, Morcelliana, 2008; A. J. SALDARINI, Farisei, scribi e sadducei nella società palestinese. Paideia, Brescia 2003;
G. STEMBERGER, Farisei, sadducei, esseni, Paideia, Brescia 1993; R. T. HERFORD, I Farisei, Laterza, Bari 19824.
172 Chiamati da Giuseppe Flavio col nome di farisei (ebr. perushim, gr. pharisaion), ossia i “separati” o i

“dissidenti”. Probabilmente il termine fu coniato dagli oppositori con intento dispregiativo; tra loro si
chiamavano invece chaverìm (“congregati”, “compagni”).

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verso quest’epoca che apparvero costituiti in partito (àiresis). Dopo l’estinzione della dinastia
acquistarono un forte influsso sul 71 Sinedrio e sul popolo, per il quale essi rappresentavano
l’autorità religioso-spirituale e dal quale venivano rispettati e tenuti in grande considerazione. Dopo
la distruzione di Gerusalemme rimasero l’unico partito religioso sopravvissuto e il loro
orientamento di pensiero divenne determinante per il giudaismo rabbinico successivo.
3) Dottrina: i farisei ricercavano un esatto adempimento della Legge poiché secondo la dottrina
farisaica, la Torah è lo strumento col quale Dio ha creato il mondo, e la preminenza d’Israele
consiste nel fatto che con la Torah, ad esso fu dato proprio questo strumento. Essa è il segno della
sua elezione. La legge manifesta la volontà assoluta di Dio e il suo adempimento attua la salvezza.
Essa doveva però esser adattata di volta in volta alla mutevole situazione umana. Nell’adempimento
della Legge, l’uomo non doveva subire alcun danno. La concezione farisaica della Legge era
pertanto gran lunga meno radicale di quella degli esseni di Qumran. Alla Legge fissata per iscritto
era equiparata tradizione orale, la spiegazione della Legge da parte degli scribi (la Torah orale),
poiché questa sarebbe implicitamente contenuta nella Torah scritta. Nonostante la separazione tutto
ciò che è “impuro” (vale a dire, ciò o colui che non corrisponde alle prescrizioni della Legge),
faceva parte della dottrina farisaica che anche peccatori e non-israeliti avrebbero avuto parte alla
salvezza. Nonostante l’alta considerazione della pro religiosità, i farisei erano consapevoli della
necessità della grazia173.
Il NT dipinge i farisei come i veri e propri avversari di Gesù; va, però, considerato, d’altro
canto, che Gesù ha molto in comune con i farisei, che egli prende sul serio la loro religiosità e
perfino nelle dispute si preoccupa di loro. Il conflitto nasce da una differente posizione nei confronti
della Legge. Per Gesù (e per il cristianesimo primitivo - Paolo) la Torah non poteva essere
considerata una necessità assoluta per la salvezza. Non la “tradizione dei padri”, ma Gesù era
l’interprete autentico della volontà assoluta di Dio. Di qui la sua libertà sovrana di fronte alla
Legge, cosa che per la credenza dei farisei nell’origine divina della Torah non era possibile imitare.
La seconda causa del conflitto era la distanza dei farisei da tutte le attese messianico-escatologiche
imminenti, cosicché la pretesa messianica che Gesù avanzava con la parola e l’azione era per loro
inaccettabile. Certo, nella concezione della legge dei farisei c’era il pericolo di una religiosità
esteriorizzata, e non di rado vi ci sono caduti. I rimproveri che il NT solleva contro di loro si tro-
vano anche negli scritti rabbinici. Tuttavia dedurre dalla radicalizzazione e dalla polemica inasprita
del NT che i farisei fossero tutti indistintamente ipocriti e il fariseismo soltanto un adempimento
esteriore della Legge, contraddice i dati di fatto storici. Diversamente non avrebbe potuto dar vita
alle grandi figure del periodo post-biblico e vitalizzare con una nuova linfa il giudaismo successivo
al 70 d.C. e al 135 d.C.
Nel Talmud sono descritte con una certa ironia sette categorie di Farisei:
- 1) Il gruppo delle “spalle larghe” che scrivevano le loro buone azioni sulla schiena perché
fossero note a tutti gli uomini;
- 2) i “vacillanti” che andavano per strada strusciando i piedi per terra e urtando contro i
ciotoli per farsi notare;

173 Importante segnalare come Il pensiero religioso dei Farisei è in realtà inequivocabilmente esplicito non solo

sul principio dell'immortalità dell'anima, ma anche su quello, più complesso e delicato, della risurrezione dei
morti. In altre parole, i Farisei credevano fermamente che sia l'anima che il corpo fossero suscettibili di essere
risuscitati, e il principio dogmatico della resurrezione dei morti altro non significava se non la ricomposizione di
quell'unità psico-fisica originaria, scompostasi al momento della morte.

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- 3) gli “sbattitesta” che chiudevano gli occhi per non vedere le donne e sbattevano la testa
contro i muri;
- 4) gli “umili perfetti” che camminavano piegati in due;
- 5) i “Farisei di calcolo” che praticavano la Legge per godere delle possibili ricompense;
- 6) i “Farisei della paura” che facevano il bene perché temevano il castigo;
- 7) i “Farisei del dovere”, cioè i buoni Farisei.
I farisei si consideravano gli eredi del riformatore Esdra, che veneravano come il secondo
fondatore dell’ebraismo dopo Mosè e l’iniziatore del giudaismo. Attendevano il riscatto del popolo
senza il ricorso alla violenza nei confronti degli occupanti romani e forse per questo sopravvissero
alla rovina del Tempio e alla distruzione di Gerusalemme che travolsero invece sadducei, esseni,
zeloti e sicari.
Circa la contiguità tra i farisei e gli zeloti abbiamo un riferimento in Giuseppe Flavio: “Giuda il
Galileo introdusse una quarta setta: i membri sono d’accordo con i farisei in tutto, eccetto un
invincibile amore per la libertà, che fa loro accettare solo Dio come signore e padrone. Essi
disprezzano i diversi tipi di morte e i supplizi dei loro parenti e non chiamano nessun uomo
signore”174. Fallita la ribellione dei giudei ai romani nel I secolo d.C. e distrutta Gerusalemme, i
farisei emersero dalla catastrofe che aveva travolto la loro nazione quale unica corrente spirituale
vitale, capace di coagulare attorno a sé i resti, che non vennero assimilati dalla società romano-
ellenica, o che non si convertirono al cristianesimo. Dai farisei trae origine l’ebraismo rabbinico o
moderno.
L’imperatore Tito concesse dopo il 70 d.C. al rabbino fariseo Iohanan Ben Zakkai, come
abbiamo visto in precedenza, di trasferire e mantenere a Jahvne il sinedrio, per cui i farisei rimasero
l’elemento determinante di tutto il giudaismo posteriore.

2.3. Il mondo greco

L’ambiente ellenistico
Se il giudaismo è l’ambito iniziale dello sviluppo del nascente cristianesimo, l’ambito di
diffusione è quello di lingua greca. Lo stesso Nuovo Testamento, scritto nel greco della koinè, è il
miglior testimone di questa diffusione. Ma l’assunzione della lingua significa anche assunzione
della cultura. Quale l’atteggiamento del cristianesimo dinanzi alla cultura greca? Esso è
ambivalente: mentre accoglie tale cultura, contemporaneamente la combatte.

La testimonianza del Nuovo Testamento


Alla base del confronto dialettico con il mondo ellenistico vi è la percezione che il primo
cristianesimo ha della portata della rivelazione operata da Gesù e dell’evento che lo vede al centro
dell’annunzio evangelico.
Come primo testo va posto Mt 11,25-26 - Lc 10,21
Mt 11,25-26
In quel tempo Gesù disse: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.

Lc 10,21

174 GIUSEPPE FLAVIO, Antichità Giudaiche, XVIII, 23.

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In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse:
"Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto
queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.

Per quanto i sofo,i ed i suneto,i indichino piuttosto atteggiamenti che non precise categorie di
persone (e quindi riguardano indistintamente giudei e greci), non vi è dubbio che dietro queste
parole che vi un atteggiamento di “antipatia” del primo cristianesimo verso tutto ciò che sa di
sapienza umana a favore dell’unica rivelazione. Il messaggio contenuto in queste parole andrebbe
letto alla luce di tutto il messaggio evangelico sui “poveri” e sui “piccoli”.

Un secondo testo da tenere è 1Cor 1,18-25.31. In questo testo sono poste duramente a
confronto la sofi,a tou/ ko,smou con il kh,rugma: tra le due vi è inconciliabilità. La prima è il frutto di
uno sforzo umano175; la seconda, invece, è puro dono di Dio, qualcosa che proviene dall’esterno ed
entra nel cuore dell’uomo che la accoglie e perciò entra nella salvezza
Sulla stessa linea si pone un secondo testo di Paolo che è Rm 1,21-22.
Rm 1,21-22
perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio,
ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata.
Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti

L’epicureismo
Mi soffermo in particolare su due correnti filosofiche largamente diffuse al tempo
dell’apostolo: l’epicureismo e lo stoicismo. Paolo stesso cita filosofi di questi due correnti nel suo
famoso discorso all’Areopago di Atene (At 17,15-34).
Gli epicurei traevano il loro nome dal fondatore della scuola, Epicuro, vissuto tra il 314 e il 270
a.C. Secondo costoro l’anima esiste ma non è immortale perché svolge la sua funzione solo quando
è contenuta nel corpo e, separandosene alla morte, si dissolve. Le divinità esistono, vivono negli
spazi che separano un mondo dall’altro, sono perfette, autosufficienti dal mondo e ad esso
indifferenti. Le divinità non provvedono quindi alle cose del mondo. In polemica con gli stoici,
Epicuro considerava l’uomo libero da ogni costrizione esterna da parte di un fato o di una divinità
che guidasse le azioni umane. Questo filosofo riteneva, perciò, che l’uomo dovesse ricercare in se
stesso la causa fondamentale della propria felicità o infelicità. La felicità consisteva nel piacere che
è uno stato di equilibrio e di armonia e di assenza del dolore. E nella scelta del piacere consisteva la
vera salvezza. A differenza degli stoici, gli epicurei non ammettevano un vero e proprio diritto
naturale con un sistema di leggi sempre comunque valide. E allora ciò che è giusto non vale per se
stesso, ma solo in quanto conforme all’utilità.
Il termine epicureismo ha nella storiografia filosofica due significati sovrapponibili ma non
coincidenti. Da un lato esso sta ad indicare “la filosofia originaria di Epicuro”, da un altro “la
storia dei pensatori che, dalla sua enunciazione dal IV secolo a.C. al presente, si sono rifatti ad
Epicuro”: in altre parole, nel primo significa “il pensiero di Epicuro”, nel secondo “la storia del
pensiero dei seguaci di Epicuro”, ed è questo il significato prevalente.
La dottrina epicurea s’innesta nel clima culturale ed etico dell’ellenismo che dopo la delusione
politica seguita alla caduta della democrazia ateniese “subordina tutta la ricerca filosofica

175 Cf. 1Cor 1,20: il sofo,j a cui segue il grammateu,j ed il suzhthth.j tou/ aivw/noj tou,tou.

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all’esigenza di garantire all’uomo la tranquillità dello spirito”176. Sul raggiungimento di questo


obiettivo Epicuro fonda il suo pensiero su tre principi:
1. il sensismo, cioè il principio per il quale la sensazione è il criterio della verità e il criterio
del bene (il quale ultimo s’identifica perciò col piacere);
2. l’atomismo per il quale Epicuro spiegava la formazione e il mutamento delle cose mediante
l’unirsi e il disunirsi degli atomi e la nascita delle sensazioni come l’azione di strati di
atomi, provenienti dalle cose, sugli atomi dell’anima;
3. il semi-ateismo per il quale Epicuro riteneva che gli dèi esistono sì, ma non hanno alcuna
parte nella formazione e nel governo del mondo177.
Precisato quanto sopra, non è inopportuno incominciare a parlare di epicureismo
considerandolo nel primo significato, per ricordare quali siano i fondamenti del pensiero del suo
fondatore e le sue tesi principali. L’epicureismo, o filosofia del “giardino” è la dottrina
filosofica di Epicuro. Il secondo nome deriva dal luogo, una casa con giardino appena fuori
da Atene, dove egli dal 306 a.C. impartiva lezioni ai suoi discepoli. La sua filosofia si basa
sull’atomismo pur discostandosi da Democrito e sull’eudemonismo intendendo con ciò la ricerca
del piacere in modo diverso da come la concepiva Aristippo, allievo di Socrate.
Egli riprende la teoria degli atomi traendone conclusioni di tipo etico capaci di liberare l’uomo
da alcune delle sue paure primordiali, come quella della morte. Ritiene che il criterio della verità sia
la conoscenza sensibile, ovvero solo i sensi sono veri ed infallibili. Grazie alle impronte che le cose
sensibili lasciano nell’anima l’uomo è in grado di formulare dei pregiudizi che però non sempre
corrispondono alla verità.
Gli Epicurei, in primis il romano Lucrezio, il più importante dei seguaci di Epicuro, vedono
nella filosofia la via d’accesso alla felicità, dove per felicità s’intende la liberazione dalle paure e
dai turbamenti, contingentemente al raggiungimento del piacere. La filosofia, quindi, ha uno scopo
pratico nella vita degli uomini; essa è uno strumento il cui fine è la felicità: “È vano il discorso di
quel filosofo che non curi qualche male dell’animo umano (Epicuro)”
Su questa convinzione, la ricerca scientifica atta all’investigazione delle cause del mondo
naturale ha lo stesso fine della filosofia:
- Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando che per la loro natura perfetta, essi non
si curino delle faccende degli uomini (esseri imperfetti);
- Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo dal
momento che “quando ci siamo noi, non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo
noi”;
- Dimostrare l’accessibilità del limite del piacere, ossia la facile raggiungibilità del piacere
stesso;
- Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la provvisorietà e la brevità del dolore.
Epicuro infatti divide il dolore in due tipi: quello sordo, con cui si convive, e quello acuto,
che passa in fretta.
Epicuro segue la tripartizione della filosofia in: logica o “canonica”, fisica ed etica. Questa è
la logica che tenta di dare un criterio di verità, un canone, cioè una regola che serve all’uomo per
orientarsi nella ricerca della felicità. Essa è, dunque, la teoria della conoscenza. Criterio della verità
è costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle emozioni. Le sensazioni costituiscono il

176 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET 1960, 308.


177 Cf. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, UTET 1960, 308.

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primo criterio di verità perché derivano dalla verità stessa. Le sensazioni, infatti, si formano dalle
immagini (in greco εὶδολα) delle cose e queste si creano da un flusso costituito di atomi che si
staccano dalle cose stesse (simulacra). Le sensazioni, dunque, derivano direttamente dalle cose e ne
sono parte. Dunque sono vere. Il sensismo è il principio per il quale la sensazione è criterio di verità
e, quindi, di bene (che poi si identifica con il piacere).
La moltitudine di sensazioni ripetute formano i concetti o anticipazioni, che sono gli schemi
della nostra mente e fungono da riassunto mnemonico delle esperienze mentali e da anticipazioni di
quelle future. I concetti, dal momento che derivano dalle sensazioni (primo criterio di verità)
costituiscono, insieme ad esse, il criterio fondamentale della verità. Facciamo un esempio: un
bambino deve imparare che cosa sia il fuoco la prima volta che lo sente. Impara dunque la
sensazione del caldo, di pericolo e di paura. Dopo che avrà visto più fuochi, e li avrà “sentiti” tutte
le volte, imparandoli a memoria, non solo non avrà più bisogno di sentirlo tutte le volte
direttamente, perché ne avrà introiettato il concetto, ma potrà anche anticiparlo.
L’emozione consiste nel dolore e nel piacere e costituisce la norma per la condotta pratica della
vita. Questa, pur non rientrando nel campo della logica, costituisce il terzo criterio della verità.
Secondo gli epicurei, le sensazioni ed i concetti non possono essere fonti di errori perché non
possono essere confermate da una sensazione/concetto omogenei, né da una sensazione/concetto
che li confuti provenendo da un altro oggetto. L’opinione (la δοξα), invece, è confermata come vera
se confermata dalle testimonianze dei sensi. In questo meccanismo il ragionamento si trova ad
essere in stretta connessione con i fenomeni percepiti e ha lo scopo di estendere la conoscenza
anche a ciò risulta in un primo ordine di considerazioni oscuro alla sensazione stessa.
La fisica secondo gli epicurei è materialistica, dal momento che esclude la presenza di ogni
anima o principio spirituale, riprendendo quindi la teoria atomistica democritea, e meccanicistica
perché si avvale esclusivamente del principio del movimento dei corpi per spiegare tutto ciò che è
fisico. Viene escluso, quindi, ogni possibile principio di finalismo. Ne deriva che tutto ciò che
esiste, per gli epicurei, non può che essere corpo, dal momento che solo il corpo può agire o subire
un’azione. Il vuoto (unico “non corpo”) è considerato necessario al movimento dei corpi, ma
proprio per la sua natura incorporea è passivo, non agisce, non subisce. Come Democrito, gli
epicurei ritengono che nel vuoto, infinito, vi siano corpi minuscoli e indivisibili che muovendosi si
urtano, unendosi o dividendosi.
Unione di corpi è la vita, disgregazione di corpi è la morte. Al fine di ribadire l’idea del
carattere accidentale e casuale dell’universo, Epicuro introdusse il concetto di clinamen, ovvero la
possibilità degli atomi di deviare la direzione della loro caduta, dando vita così a nuove
combinazioni; il clinamen motiva lo scontro tra atomi, che altrimenti non avverrebbe poiché
secondo Epicuro le particelle, aventi tutte lo stesso peso, cadono dall’alto verso il basso alla stessa
velocità e dunque in mancanza di una deviazione non si incontrerebbero mai; da questo segue che la
direzione dei corpi non rispetta nessun disegno finalistico, ma è determinata unicamente dalla
necessità intrinseca alla materia di muoversi.
Altro principio fondamentale degli epicurei è la convinzione che gli dèi esistano, ma non si
preoccupino minimamente dell’andamento delle cose terrene, né abbiano la minima intenzione di
governare il mondo materiale. Essi si trovano negli intermundia (gli spazi che si trovano tra i molti
mondi esistenti), ma esistono certamente, poiché, avendone l’uomo l’immagine mentale,
ricollegandosi al criterio di verità epicureo della prolessi, è necessario appunto, affinché ci sia
questa rappresentazione nella mente umana, che gli dèi esistano; inoltre, essi sono antropomorfi,
perché la forma dell’uomo, secondo gli epicurei, è la più perfetta e razionale. In questa posizione,

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l’anima si trova ad essere un composto materiale di atomi che si diffondono nel corpo. Gli atomi
dell’anima hanno una forma differente dagli altri, sono più sottili e rotondi.
Per gli epicurei la felicità è piacere e il piacere può essere in movimento (gioia) o stabile
(assenza di dolore). Soltanto la totale assenza di dolore (aponia) e di turbamento (atarassia) sono
eticamente accettabili e dunque costituiscono la vera felicità. Queste si raggiungono solo se si
seguono quelli che gli epicurei definiscono “bisogni naturali” (per esempio, il nutrirsi). La
limitazione qualitativa e quantitativa dei piaceri è il problema stesso della virtù etica, in quanto
segno evidente della condizione umana. Proprio per questo i piaceri si dividono in naturali necessari
(come, per esempio, il mangiare), naturali non necessari (come il mangiare troppo) e vani, cioè né
naturali né necessari (ad esempio, l’arricchirsi): i primi devono essere assecondati, i secondi
possono essere concessi ogni tanto, mentre i terzi devono essere assolutamente evitati.

Gli stoici
Gli stoici prendono il nome da stoà (il portico) in cui aveva sede la scuola filosofica fondata da
Zenone in Atene intorno al 300 a.C. La filosofia degli stoici era chiaramente orientata, a differenza
di quella degli epicurei, al conseguimento della virtù e alla realizzazione dell’ideale del saggio. Al
centro di quella filosofia era posto il concetto di lògos inteso come “ragione”, principio
organizzativo della vita cosmica e della vita morale. Per gli stoici tutta la realtà, compresa la
divinità, è corporea e tutto il mondo è pervaso da un’unica forza vivente. E la divinità non è distinta
dal mondo ma è il principio interno che lo regge lo ordina (panteismo). Gli stoici sostenevano la
separazione dell’anima al corpo dopo la morte ed avevano elaborato il concetto di dovere. Per loro
il bene supremo era la virtù e quattro erano le virtù fondamentali: la prudenza, la temperanza, la
fortezza e la giustizia. È facile qui vedere delle analogie con il cristianesimo.
La filosofia stoica era una specie di filosofia alla moda, che caratterizzava lo spirito del tempo.
Il suo nome derivava dalla stoà poikílē, il Pecile, il variopinto portico di Atene, dove Zenone, il
fondatore della stoà, insegnava. Punti focali riguardavano l’arte della vita sana. Cercava, inoltre, di
dimostrare l’esistenza di Dio con argomenti logici.
Scopo principale (télos) dell’uomo è pertanto quello di imparare a comportarsi nel modo
giusto. La stoà chiama tale scopo “vivere secondo il logos” o, stando alla formulazione di Zenone,
“vivere contemplando la verità è l’ordine dell’universo e contribuendo a realizzarli con le proprie
forze, senza lasciarsi trascinare dalle forze irrazionali dell’anima”. I filosofi stoici erano una
specie di consulenti spirituali psicologi, che iniziavano il singolo all’arte del vivere nel modo
giusto. Un settore importante della loro consulenza era costituito dal giusto modo di affrontare i
colpi del destino. Padroneggiare la sofferenza senza troppo affanno, sopportarla, per così dire, con
tranquillità storica, questa insegnava a fare un buon filosofo.
Gli stoici puntavano a una nuova purezza dei cuori e a una ripresa morale di tipo spirituale, che
apriva la strada verso nuovi orizzonti religiosi. Alcuni di essi credevano in un Dio unico, in una
volontà razionale capace di essere tutt’uno con il mondo. Il filosofo Seneca, il più noto esponente
della corrente stoica, fu contemporaneo di Gesù e dei suoi apostoli e morì suicida nel 65 d.C.
durante la persecuzione di Nerone. Viene considerato da molti come il pensatore dell’epoca più
vicino al cristianesimo. Nonostante le notevoli differenze tra le due scuole, il fine a cui mira la
saggezza stoica è analogo a quello epicureo e cioè l’autosufficienza dell’uomo, la sua libertà
interiore che lo rende capace di bastare a se stesso in ogni situazione.
Gli insegnamenti etici della stoà erano familiari ed i primi cristiani molti di essi li trovarono
assai istruttivi. I neo convertiti, entrando nella comunità cristiana, portavano con sé un solido

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patrimonio fatto di comportamenti etici. In ogni caso Paolo conosceva la filosofia stoica. Le sue
tavole domestiche corrispondono all’etica, che è insegnata in tale filosofia178. Quando in seguito finì
a Roma, là viveva anche Seneca. La Chiesa antica finse uno scambio epistolare tra lui ed il filosofo
pagano. Evidentemente la Chiesa pensava ch’egli fosse vicino alla filosofia stoica. Questa vicinanza
diventa chiara quando confrontiamo le sue direttive con quelle del filosofo romano Epitteto, un ex
schiavo che insegnò poco dopo di lui. Alcuni consigli dati da Paolo alle sue comunità nelle sue
Lettere, consigli ed in un secondo momento non poté fare a meno di dare loro, potrebbero ricorrere
così come sono anche in Epitteto.
Quel che l’uomo deve soprattutto dominare sono pertanto le sue passioni. Esse sono un impulso
che li spinge al di là del fine stabilito dalla ragione. Nella filosofia stoica le passioni sono
considerate una malattia dell’anima. La ragione deve regnare sovrana in tutto e guidare l’uomo.
L’uomo deve evitare pure i sentimenti della gioia, della tristezza, del desiderio della paura. Nella
filosofia stoica la compassione è giudicata in maniera negativa. Paolo si riferisce ai criteri della
filosofia stoica, quando scrive filippesi: “tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile,
onorato, quello che per cui merita lode, tutto questo soggetto dei vostri pensieri” (Fil 4,8). Ma nello
stesso tempo diverge dalla stoà, quando li esorta così: “rallegratevi nel Signore, sempre: lo dico
ancora, rallegratevi!” (Fil 4,4). Egli scrive le sue lettere animato da forti sentimenti179. Apre il suo
cuore ai destinatari180, scostandosi così dalla mancanza di passione e di sentimenti della filosofia
stoica.
Luca, nel discorso dell’Areopago181, fa riferimento a due correnti della filosofia greca: quella
epicurea e quella storica. Ambedue si occupavano in fondo semplicemente del modo con cui
l’uomo trova la via della vera felicità. La questione della felicità, della buona riuscita della vita, è
attuale tanto oggi come allora. Paolo vuole dare una risposta cristiana anche se presenta Gesù come
la via che conduce ad una vita ben riuscita. Fa sua l’aspirazione alla felicità, che ha caratterizzato la
filosofia greca da Platone in poi (“tutti gli uomini vogliono essere felici”), e formula il suo
messaggio alla luce di tale aspirazione.

Culti misterici
Al tempo di Paolo i vari culti misterici esercitavano un grande fascino. Essi provenivano dalla
Grecia, come per esempio i misteri eleusini di Demetra, oppure dell’Asia minore, come misteri di
Dioniso e il culto di Adone, oppure ancora dall’Egitto, come i misteri di Iside, o dalla Persia come
culto di Mitra.

I misteri eleusini
Erano riti religiosi misterici che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra nell’antica
città greca di Eleusi. I riti eleusini erano antichissimi, si svolgevano già prima dell’invasione
ellenica182. Secondo alcuni studiosi il culto di Demetra fu fondato nel 1550 a.C.. Quando, nel VII
secolo a.C., Eleusi diventò parte dello Stato ateniese, i riti si estesero a tutta la Grecia antica e alle
sue colonie. Ebbero larga diffusione anche a Roma e perfino Cicerone, l’imperatore Adriano e
l’imperato Gallieno vi presero parte. I misteri rappresentavano il mito del ratto di Persefone,
strappata alla madre Demetra dal re degli Inferi, Ade, in un ciclo di tre fasi, la “discesa” (la perdita),

178 Cf. Col 3,8-16.


179 Cf. 2Cor 12,15.
180 Cf. 2Cor 7,1ss.
181 At 17,15-34.
182 Periodo miceneo, circa 1600-1100 a.C.

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la “ricerca” e l’ascesa, dove il tema principale era la “ricerca” di Persefone e il suo


ricongiungimento con la madre. Il rito era diviso in due parti: la prima, piccoli misteri, era una
specie di purificazione che si svolgeva in primavera, la seconda, grandi misteri, era un momento
consacratorio e si svolgeva in autunno. La cerimonia voleva rappresentare il riposo e il risveglio
perenne della vita delle campagne. I riti erano in parte dedicati anche alla figlia di
Demetra, Persefone, poiché l’alternarsi delle stagioni ricordava l’alternarsi dei periodi che
Persefone trascorreva sulla terra e nell’Ade. I riti, le cerimonie e le credenze erano tenute segrete.
Gli iniziati credevano che avrebbero ricevuto la giusta ricompensa dopo la morte. I vari aspetti dei
Misteri sono rappresentati su molti dipinti e ceramiche. Poiché i Misteri comprendevano visioni e
invocazioni a una vita oltre la morte, alcuni studiosi ritengono che il potere e la longevità dei
Misteri Eleusini derivasse da agenti psichedelici. La distruzione del tempio di Demetra
nel 396 d.C., ad opera dei visigoti, cristiani seguaci dell’Arianesimo e condotti da Alarico, sancì la
definitiva interruzione delle celebrazioni.

Il culto di Dioniso
Elemento tipico del culto di Dioniso è la partecipazione essenzialmente femminile alle
cerimonie, che si celebravano in svariate zone della Grecia: le baccanti, chiamate anche menadi,
lene, tiadi o bassaridi, ne invocavano e cantavano la presenza e, anche per mezzo di maschere183,
riproducevano ritualmente il mitico corteo dionisiaco di sileni, satiri e ninfe. Si identificavano con il
dio e ne acquisivano il “furore”, inteso come stato d’invasamento divino. Scopo del rito era quello
di ricordare le vicende mitologiche di Dioniso; erano incoronate da frasche di alloro, tralci di vite e
pampini, e cinte da pelli di animali selvatici, e reggevano il tirso 184 . Gli uomini erano invece
camuffati da satiri 185 . Ebbro di vino, il corteo, chiamato tiaso, si abbandonava alla vorticosa
suggestione musicale del ditirambo, lirica corale e danza ritmica ossessiva ed estatica186. Nei rituali
dionisiaci venivano stravolte le strutture logiche, morali e sociali del mondo abituale187. Divinità
enigmatica e ammaliante, Dioniso si faceva beffe di ogni ordinamento e convenzione, sconvolgeva
le coscienze, sgretolava regole e inibizioni riconducendo gli uomini, in un vortice delirante, al loro

183 Importanti nel culto di Dioniso, che si suppone legato alla nascita della tragedia greca.
184 Una verga appesantita a un’estremità da una pigna che ne rendeva instabili i movimenti.
185 Vi partecipavano anche gli schiavi.
186 Tutti caratteri che erano rivissuti nell’ambito del culto attraverso cerimonie che portavano i seguaci del dio a vivere

degli stati di estasi profonda e coinvolgente. Coloro che partecipavano a queste cerimonie si lasciavano andare a balli
sfrenati e suonavano accompagnati dal ditirambo, portando sul capo corone di pampini. I seguaci si
consideravano posseduti dal dio e per riproporre l’unione fra la divinità e l’uomo si cibavano di carni crude dilaniate con
le mani. Per essere ammessi a queste cerimonie, bisogna seguire prima un vero e proprio rito di iniziazione.
Quest’ultimo era costituito da un banchetto, da un battesimo e dall’introduzione al tempio.
187 Il filosofo Friedrich Nietzsche, ne “La nascita della tragedia”, affermò che la potenza dionisiaca induceva in uno stato

di estasi ed ebbrezza infrangendo il cosiddetto “principio di individuazione”, ossia il rivestimento soggettivo di ciascun
individuo, e riconciliava l’essere umano con la natura in uno stato superiore di armonia universale che abbatteva
convenzioni e divisioni sociali stabilite arbitrariamente dall’uomo. Nietzsche sosteneva che la vita stessa, come
principio, che anima i viventi, è istinto, sensualità, caos e irrazionalità, e per questo non poté che vedere in Dioniso la
perfetta metafora dell’esistenza: ciò che infonde vita nelle arterie del mondo è infatti una fonte primeva e misteriosa che
fluttua caotica nel corpo e nello spirito, è la tempesta primigenia del cosmo in eterno mutamento. Hegel, da parte sua,
nella prefazione alla “Fenomenologia dello spirito”, raffigurò in un’immagine dionisiaca la conoscenza del Vero, quando
la paragonò al “vacillare della baccante, in cui non v’è membro che non sia ebbro”.

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stato di purezza primordiale188. Il culto di Dioniso, diffuso in tutta la Grecia, era particolarmente
vivo in Beozia e in Attica. Ad Atene erano importanti le dionisie rurali, o piccole Dionisie, e quelle
urbane, o grandi Dionisie. Nelle prime, celebrate nei vari borghi dell’Attica, è elemento tipico la
falloforia, o processione del fallo, che fa riferimento alle connotazioni agricole e di fecondità del
dio; nelle dionisie urbane sono elemento centrale le rappresentazioni teatrali, presenti anche in
un’altra festa dionisiaca ateniese, le Lenee, o festa dei torchi. Il ciclo delle celebrazioni ufficiali in
onore del dio ad Atene era chiuso dai tre giorni delle antesterie, all’inizio della primavera: vi si
riscontra la relazione con la vegetazione e il legame col regno dei morti, il terzo giorno si pensava
che i morti ritornassero fra i vivi per essere poi, al termine della festa, ritualmente allontanati189. Il
culto di Dioniso venne introdotto in Italia dalle colonie greche e fu oggetto anche di provvedimenti
repressivi, come il senato consulto del 186 a.C. che vietava i baccanali, ma nella religione mistica
ebbe sempre grande importanza fino all’età imperiale. Nella tarda antichità il culto di Dioniso
assurse a religione cosmica e si espanse capillarmente in maniera del tutto spontanea: solo le
vicende storiche posero fine alla sua influenza.

I misteri di Iside
Erodoto visita l’Egitto verso la metà del V sec. a.C. quando il regno dei faraoni, già da circa
settantacinque anni (dal 525 a.C.) è dominato dai Persiani e i suoi abitanti, per reazione alla
dominazione straniera, intensificano le manifestazioni più marcate della loro religione e, in
particolare, della loro devozione verso Iside e Osiride. Lo storico greco viene ammesso ad assistere
a molte feste ed a visitare molti templi. Nelle sue “Storie” egli assimila Iside a Demetra e Osiride a
Dioniso, per effetto delle affinità delle rispettive narrazioni mitiche, ma mantiene un contegno
riservato sui rituali visti nei templi, poiché quella civiltà antica, con la sua storia millenaria e la sua
solennità ieratica, gli ispira, come in ogni greco di quel tempo, un sentimento di profonda
venerazione.
La lingua della solenne liturgia del culto di Osiride è quella egizia, ma l’area di diffusione del
culto non va oltre i confini di quello che era stato il dominio politico dei faraoni. È, quello di

188 Per il filologo Walter Otto rappresenta “lo spirito divino di una realtà smisurata”, che si manifesta in un eterno
deflagrare di forze opposte: estasi e terrore, vita e morte, creazione e distruzione, fragore e silenzio, è una pulsione
vitale dirompente e selvaggia, che affascina e inquieta, la sinfonia inebriante dell’universale realtà del cosmo. Per Károly
Kerényi “dove regna Dioniso la vita si rivela irriducibile e senza confini”. Per Roberto Calasso, il dio ubriaco era “intensità
allo stato puro” che “travolgeva nell’ebbrezza e usava il sarcasmo verso chiunque gli si opponesse”. E ancora: è il dio della
potenza provvidenziale e distruttiva per Roux; è “il dio dell’ambiguità”, “il differente”, che unisce le polarità
contraddittorie dell’umano per Versnel; è il dio di una no man’s land in cui gli opposti della saggezza e della follia si
uniscono per Calame; è il dio che rappresenta quell’elemento di alterità che ogni essere umano porta dentro di sé per
Vernant; non è una divinità greca come le altre per Dabdab Trabulsi; è “un’arborescenza illimitata di doppie tensioni” per
Segal; è un paradosso, “la somma di innumerevoli contraddizioni”, tanto da presentarsi come “abisso ed enigma”, per
Henrichs.
189 A Delfi i tre mesi invernali erano sacri a Dioniso, e l’immagine del dio e del suo corteo era raffigurata su una delle due

facciate del tempio.

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Osiride, il culto più uniformemente diffuso in Egitto, la sua vera anima, il suo centro di coesione;
esso ha radici antichissime ed alcuni aspetti dei suoi rituali sono d’ambito strettamente faraonico190.
Tuttavia sappiamo poco del contenuto effettivo inerente al nucleo centrale dei Misteri isiaci, sul
quale gli scrittori antichi, greci e latini d’età ellenistica ed imperiale, parlano poco, in osservanza
della regola del segreto iniziatico cui sono tenuti tutti coloro che sono stati introdotti all’esperienza
misterica. Vi è, quindi, una diversità fra il comportamento di Erodoto – il cui silenzio non è legato
ad un’iniziazione misterica ma ad un rispetto reverenziale – e quello degli autori più recenti; si
tratta di una diversità legata all’evoluzione storica del culto isiaco e di quello osirideo191.
Il culto isiaco-osirideo si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo e i santuari isiaci si
ritrovano in tutte le più importanti città del mondo antico e, soprattutto, in quelle marittime, dove,
per effetto dei traffici, è più frequente la presenza di mercanti egiziani provenienti da Alessandria, il
più importante emporio marittimo del mondo antico192.
A Roma il culto conosce vicende alterne, legate alle diverse tendenze culturali, religiose e
politiche interne alla società romana e, quindi, al loro diverso modo di porsi rispetto a certi culti
stranieri. Sul finire della Repubblica (I sec. a.C.), il governo, allarmato dal numero dei seguaci che
il culto raccoglieva nei ceti più popolari, tenta invano di arginare il fenomeno. È una linea politico-
religiosa in parte analoga a quella che era stata adottata, molto tempo prima, nei confronti del culto
dionisiaco, quando il Senato romano, col Senatus consultum de bacchanalibus del 189 a.C., aveva
proibito questi riti orgiastici notturni, peraltro segnati dalla problematica preminenza, dal punto di

190 La testimonianza di Erodoto è la più antica, fra le fonti greche, sul culto di queste due divinità; ad essa, nel corso dei

secoli, si aggiungeranno altre fonti, da Diodoro Siculo a Plutarco – quest’ ultimo con la sua opera “De Iside et Osiride” –
ad Apuleio che, nelle sue Metamorfosi, descrive la sua esperienza d’iniziazione ai Misteri isiaci, fino a Porfirio, che
rilegge i Misteri isiaci ed osiridei alla luce della filosofia neoplatonica, per giungere poi ai polemisti cristiani che, nella
loro critica demolitrice dell’antico “paganesimo”, si adoperano per evidenziare quelle che considerano le incongruenze e
gli aspetti “grotteschi” di questa antica spiritualità egizia, dimostrando, talvolta, scarsa comprensione per una differente
sensibilità religiosa. Abbiamo una considerevole varietà di fonti, unitamente ai testi religiosi egizi, quali il Libro dei
Morti e il Libro delle Piramidi, solo per citarne alcuni.
191 Nella storia del culto di Iside e Osiride, la letteratura distingue due fasi diverse. La prima ha un ambito strettamente

egiziano; alcuni aspetti del mito di Osiride e, soprattutto, del rituale, sono il fondamento della legittimazione sacrale del
potere, della consacrazione della regalità faraonica. In linea più generale, essi hanno la loro radice nell’attenzione che gli
antichi Egizi hanno per il post-mortem e le sorti dell’anima. La seconda fase è, invece, ellenistica, in cui, per effetto delle
conquiste di Alessandro Magno, la cultura e la religione greca s’incontrano con quella egizia, come con altre, da quella
babilonese a quella persiana, fino ai contatti ed agli interscambi con l’India. In questo periodo storico, i seguaci del culto
non si reclutano soltanto nella terra d’Egitto, ma in tutto il mondo ellenistico e, poi, in tutto il mondo greco-romano. La
dea Iside assume, inoltre, una posizione prioritaria nelle menzioni rituali e nella devozione e questa è una differenza
importante rispetto al periodo precedente. I riti, pur essendo sostanzialmente gli stessi, hanno volto il loro originario
carattere funerario a quello di pegno per l’immortalità beata di coloro che vi sono introdotti. In altri termini, dal rituale
di sostegno in favore del defunto che deve affrontare le prove del post-mortem, secondo la concezione espressa
nel Libro dei Morti, si passa al rituale in funzione di preparazione in vita al post-mortem e quindi di esperienza della
vicenda di morte e rinascita, come narra Apuleio. Il mito di Osiride smembrato da Tifone-Seth e ritrovato e ricomposto
da Iside, sorella e sposa di Osiride, diviene il modello e il fondamento di due rituali diversi nelle loro funzioni e finalità.
Dal rito funerario si passa quindi al rito misterico ed alle conseguenti procedure d’iniziazione.
192 In Italia, la sua presenza è attestata a Puteoli sin dalla fine del II secolo a.C., nonché a Pompei, nel corso del I secolo

a.C. ed a Neapolis, dove è presente una colonia alessandrina, nella regio Nilensis, di cui tuttora la toponomastica
cittadina conserva il ricordo. Dalla Campania il culto dev’essere penetrato a Roma, già intorno all’80 a.C., ai tempi di Silla,
periodo per il quale è attestata una confraternita di Pastofori, secondo la testimonianza di Apuleio (Metamorfosi, 11,30).

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vista della mentalità patriarcale romana, del ruolo sacerdotale femminile193. Nel 58, nel 56, nel 54 e
nel 50 a.C. si hanno vari provvedimenti di soppressione delle associazioni isiache e del loro culto.
La frequenza stessa di questi provvedimenti dimostra la loro inefficacia e la persistenza ed il
radicamento del culto. Nel 50 a.C. il console Paolo Emilio, non trovando nessuno che volesse
eseguire il provvedimento, afferra egli stesso l’ascia per piantarla nella porta del tempio isiaco di
cui era stata ordinata la distruzione, stando alla testimonianza di Valerio Massimo (I, 3). Nel 48
a.C., Iside e Serapide sono di nuovo oggetto di culto sul Campidoglio e nel 43 a.C. i triumviri,
forse, per conquistare i favori del popolo, decretano un tempio ad Iside e Serapide. Augusto, pur
avendo una nota ostilità verso l’Egitto e tutte le sue manifestazioni194 e pur attuando un programma
di restaurazione dei culti e dei sacerdozi della religione romana arcaica, non si spinge fino a proibire
il culto isiaco, ma lo relega fuori del pomerio, la cinta sacra dell’Urbe. Tiberio ha, invece, un
atteggiamento più deciso e chiaro, ordinando la demolizione del tempio di Iside e facendo gettare
nel Tevere il simulacro della dea. Ben diverso è l’atteggiamento degli imperatori successivi, quali
Caligola e Claudio, i quali favoriscono il culto isiaco, nonché Nerone, che mostra una speciale
preferenza per le divinità egizie. Vespasiano e Tito trascorrono nel tempio di Iside la notte che
precede la cerimonia del loro trionfo sui Giudei, come narra lo storico Giuseppe Flavio 195 .
Domiziano fa ricostruire l’Iseo dopo l’incendio dell’80 e lo consacra nel 92. Adriano fa costruire
nella sua villa suburbana il Canopo196 nel quale sono stati rinvenuti numerosi esemplari dell’arte
egizia. Commodo è così fanaticamente devoto del culto isiaco – con quella scompostezza che tanto
lo differenzia da suo padre, l’imperatore-filosofo stoico Marco Aurelio – che si fa radere il capo sul
modello dei sacerdoti egizi di Iside e porta egli stesso nelle processioni il simulacro di Anubi197.
Caracalla – l’imperatore della famosa Constitutio Antoniniana che estende la cittadinanza romana a
tutti gli abitanti dell’Impero – edifica due santuari di Iside, uno sul Quirinale ed un altro sul Celio,
da cui proviene il nome alla regio III (Isis et Serapis).
Il culto isiaco raggiunge il culmine della sua espansione e della sua legittimazione con la
dinastia imperiale dei Severi, nel III secolo, mentre il IV secolo – fatta eccezione per Flavio
Giuliano, autore di un Inno alla Madre degli dèi – è segnato dal declino dei culti pagani e da una
legislazione imperiale sempre più restrittiva verso i sacra maiorum. L’epilogo di questo processo si
ha nella distruzione del tempio di Serapide ad Alessandria nel 391 d.C., da parte dei seguaci
della religione cristiana. Questo breve excursus storico non è finalizzato a soddisfare una mera
curiosità antiquaria; la conservazione della memoria storica è decisiva per ben inquadrare il
complesso rapporto che intercorre fra la spiritualità romana e quella egizio-ellenistica, tendo conto
del pluralismo religioso romano, del rispetto che i Romani avevano verso altri Misteri, come quelli
di Samotracia della loro apertura a culti anch’essi stranieri, come quello di Mitra, di lontana origine
iranica, che presentava però tratti di austera e severa disciplina, più affini alla gravitas romana.
Ecco, è questo il punto centrale: Roma guarda con diffidenza a quelle forme di religiosità che,

193 La preoccupazione della classe dirigente romana, in quel caso, concerneva l’infiacchimento e la mollezza che quei

rituali potevano suscitare nella gioventù romana, allontanandola dallo spirito virile e combattivo, che aveva consentito a
Roma, insieme ad un complesso di altri fattori, di assumere e consolidare un ruolo egemone in Italia prima e nel
Mediterraneo poi. Il problema, in quel caso, era stato politico e religioso al tempo stesso, ma anche di costume e di
cultura. Per il culto isiaco, oltre un secolo dopo, il problema si pone per la lontananza del fervore devozionale dei seguaci
della dea rispetto alla tradizionale gravitas romana.
194 Memore dell’aiuto trovato da Antonio nel regno di Cleopatra.
195 GIUSEPPE FLAVIO, Bellum Judaeum, 7,5,4.
196 In origine un sobborgo di Alessandria d’Egitto, con un celebre santuario di Serapide.
197 LAMPRIDIO, Commodo, 9.

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suscitando intensi sentimenti di devozione e di fede fra i ceti popolari, implicano il rischio di
snaturare il tradizionale “spirito” romano, il suo stile asciutto ed essenziale, il suo contegno austero
e composto, anche e soprattutto nel momento rituale, nel rapporto col divino. Non è certo un caso
che Augusto releghi l’Iseo fuori del pomerio e che gli imperatori più miti, come indole e come
concezione del potere – quali, ad esempio, Traiano, Antonino Pio, Marco Aurelio – non mostrino
segni di particolare predilezione o di ostentata adesione verso il culto isiaco e verso quelli egizi in
generale. L’unica eccezione è quella di Adriano, del quale va però considerata la formazione
culturale spiccatamente ellenistica, l’amore per i viaggi e per la conoscenza diretta dei popoli
dell’Impero e delle relative culture198.

Il mitraismo o mithraismo
Fu un’antica religione ellenistica, basata sul culto di un dio chiamato Meithras che
apparentemente deriva dal dio persiano Mitra e da altre divinità dello Zoroastrismo. A differenza
dello zoroastrismo fu una religione misterica. L’origine del Mitraismo è da identificarsi nell’area
del Mediterraneo orientale intorno al II-I secolo a.C. Questa religione venne praticata anche
nell’Impero Romano, a partire dal I secolo a.C., per raggiungere il suo apogeo tra il III ed il IV
secolo, quando fu molto popolare tra i soldati romani. Il Mitraismo scomparve come pratica
religiosa in seguito al decreto Teodosiano del 391, che mise al bando tutti i riti pagani, e
apparentemente si estinse poco più tardi.
Il culto di Mitra attirò l’attenzione del mondo romano soprattutto per le sue concezioni
misteriosofiche, che ruotavano intorno all’idea dell’esistenza dell’anima e della sua possibilità di
pervenire attraverso le sette sfere planetarie all’aeternitas. Nonostante la religione facesse
professione di universalismo, questo culto escludeva le donne e fu praticato soprattutto dai militari
e, in parte, da “burocrati” e amministratori.
Essendo una religione misterica di iniziazione, al pari dei misteri eleusini, il Mitraismo non
diede luogo alla diffusione di un corpo di scritture rivelate e anche i suoi rituali erano tenuti segreti
e riservati agli iniziati. Le scarne informazioni scritte sul mitraismo provengono da scrittori cristiani
o pagani, ma non aderenti al mitraismo, oppure sono frutto dell’applicazione ipotetica al mitraismo
di notizie sul dio Mitra provenienti dallo zoroastrismo.
Il Mitraismo è documentato soprattutto dalle scoperte archeologiche, iconografiche ed
epigrafiche dei suoi templi, i mitrei, risalenti al tardo Impero Romano. San Girolamo descrive i
sette gradi dell’iniziazione mitriaca199 e Tertulliano riferisce che l’iniziato veniva segnato in fronte
come “soldato di Mitra” 200 e che agli adepti venivano prescritte abluzioni purificatorie, simili

198 Gli imperatori più favorevoli al culto isiaco sono, non a caso, quelli che, nella storia dell’Impero, incarnano la
tendenza assolutistica, sul modello dei sovrani orientali dei regni ellenistici, da Caligola a Nerone a Domiziano, fino ai
Severi che rappresentano il tratto più militare del potere imperiale romano. La vicenda mitica di Osiride – ritrovato e
ricomposto da Iside – Signore dell’oltretomba, assimilato dai greci a Dioniso, offre un modello di legittimazione
ideologico-religiosa del potere imperiale, della perpetuità dell’Impero che sempre nuovamente si incarna come
principio in un nuovo imperator, nel corso della successione al trono. Tuttavia, il culto di Iside, al di là dell’uso
strumentale che vari imperatori ne fanno, si radica nel mondo romano in circa cinque secoli di storia, rispondendo,
evidentemente, ad un bisogno di contatto diretto con la divinità che la religione romana tradizionale, nella sua ufficialità
liturgica, non riesce più a soddisfare. La dea “myrionima” (dai molti nomi) riassume in sé l’archetipo della Dea madre,
ordinatrice dell’universo, datrice di Vita spirituale, donatrice dell’Acqua di Vita, apportatrice di Fortuna, secondo quella
tendenza, tipica del paganesimo tardo-imperiale a riassumere in una sola divinità le molteplici presenze divine, viste
come espressioni di un’Entità unica, Numen multiplex, come dicevano gli Antichi.
199 GIROLAMO, Epistola CVII ad Laetam.
200 TERTULLIANO, De Praescriptione haereticorum, 40.

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al battesimo cristiano 201 . Il contenuto dottrinale del mitraismo, quindi, è quasi esclusivamente il
prodotto di interpretazioni moderne. Nei primi decenni del XX secolo è stata accolta
universalmente la ricostruzione di Franz Cumont. La ripresa degli studi mitraici negli anni settanta
ha portato ad interpretazioni sostanzialmente diverse. Il centro del culto ed il luogo di incontro dei
seguaci era il mitreo, una cavità o caverna naturale adattata, di preferenza già utilizzata da
precedenti culti religiosi locali, oppure un edificio artificiale che imitava una caverna. I mitrei erano
luoghi tenebrosi e privi di finestre, anche quando non erano collocati in luoghi sotterranei. Quando
possibile, il mitreo era costruito all’interno o al di sotto di un edificio esistente. Il sito di un mitreo
può essere anche identificato dalla sua entrata separata o vestibolo, la sua caverna a forma di
rettangolo, chiamata spelaeum o spelunca, con due panchine lungo le mura laterali per il banchetto
rituale, ed il suo santuario all’estremità, spesso in una nicchia, prima del quale vi era l’altare. Sul
soffitto in genere era dipinto un cielo stellato con la riproduzione dello zodiaco e dei pianeti. I
mitrei, così diversi dai grandi edifici templari dedicati alle divinità dei culti pubblici, si
distinguevano anche per il fatto di essere di dimensioni modeste; il servizio di culto, che terminava
in un banchetto comune, era officiato da una piccola comunità, solitamente formata da poche
dozzine di persone. Nel Mitraismo l’acqua sembra svolgere un ruolo purificatorio importante e
spesso nelle vicinanze del santuario vi era una sorgente naturale o artificiale. In ogni tempio
mitraico, il posto d’onore era occupato da una rappresentazione del dio Mitra, in genere raffigurato
nell’atto di uccidere un toro sacro, tauroctonia: questa scena rappresenterebbe un episodio
mitologico, più che un sacrificio animale202.
I riti misteri affascinavano, perché in essi il singolo si sentiva accolto ed importante: una via di
salvezza all’interno di un mondo percepito come ostile ed alienante. Il mantenimento del segreto sui
culti misterici, sulle esperienze fatti dai partecipanti, favoriva la coscienza elitaria. Ci si sentiva
particolare, una cosa davvero importante per molti soldati e schiavi. Nei culti misterici si prendeva
parte al destino della divinità. Si sentivano degnati di immergersi, nel corso degli ultimi giorni,
nella vita divina che veniva loro comunicata nel culto. Il culto di mitra era riservato agli uomini.
Agli altri culti potevano partecipare anche le donne. In alcuni di essi determinate donne svolgevano
addirittura un ruolo dominante. Paolo conosce chiaramente i culti misterici. Egli entrò a contatto
con Corinto, la città portuale greca, che ne ospitava molti. I membri della comunità cristiana si

201 TERTULLIANO, De Baptismo, 5.


202 Il mito, secondo la ricostruzione fantasiosa e priva di fonti di Cumont, racconta, infatti, che Mitra affronta un giorno il

dio Sole e lo sconfigge. Il Sole, allora, stringe un patto di alleanza con il dio che suggella donandogli la corona raggiata. In
un’altra sua eroica impresa, Mitra cattura il Toro e lo conduce in una caverna. Ma il Toro fugge e il Sole, memore del
patto fatto, se ne accorge e manda al dio un corvo quale suo messaggero con il consiglio di ucciderlo. Grazie all’aiuto di
un cane, Mitra raggiunge il Toro, lo afferra per le froge e gli pianta un coltello nel fianco. Allora dal corpo del toro
nascono tutte le piante benefiche per l’uomo e in particolare dal midollo nasce il grano e dal sangue la vite. Ma Ahriman,
che nel culto mitriatico rappresenterebbe il Dio del Male, invia un serpente e uno scorpione per contrastare questa
profusione di vita. Lo scorpione cerca di ferire i testicoli del toro mentre il serpente ne beve il sangue, ma invano. Alla
fine il Toro ascende alla Luna dando così origine a tutte le specie animali. Così, Mitra e il Sole suggellano la vittoria con
un pasto che rimarrà nel culto sotto il nome di agape. Nella raffigurazione quindi, oltre a Mitra, il Toro, il Sole, e la Luna
sono presenti i quattro animali, ovvero il serpente, lo scorpione, il cane e il corvo. Una interpretazione del mito di tipo
astronomico, e quindi totalmente diversa dalla precedente è stata recentemente proposta da David Ulansey, che
osservò che tutti i personaggi che compaiono nel mito corrispondono a costellazioni: Mitra sarebbe associato
con Perseo, la cui costellazione si trova al di sopra di quella del Toro. In altre iconografie viene rappresentato il dio Mitra
nascente da una roccia, generato sulle sponde di un fiume all’ombra di un albero sacro, secondo il mito sulla sua nascita.
Nelle iconografie la divinità viene spesso rappresentata insieme a due personaggi, detti i dadofori o portatori di fiaccole:
i loro nomi erano Cautes e Cautopates. Il primo dei due porta la fiaccola alzata, l’altro abbassata: rappresenterebbero il
ciclo solare, dall’alba al tramonto, e allo stesso tempo il ciclo vitale: il calore luminoso della vita e il freddo gelido della
morte.

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imbattevano in tali culti ogni passo, per cui in ambedue le lettere ai corinzi, Paolo adopera la
terminologia misteri. Egli interpreta la cena del Signore alla luce delle esperienze che i corinzi
avevano fatto in culti del genere, ma evidenzia, nello stesso tempo, anche le differenze.
L’apertura dei culti misterici alla partecipazione delle donne fece sentire i suoi effetti anche
nella Chiesa primitiva. In essa le donne svolgevano un ruolo importante. Perciò dobbiamo riflettere
in modo nuovo proprio alla luce dei culti misterici la risposta che Paolo dà a proposito del nuovo
ruolo della donna nel culto. Dove adotta la libertà a proposito delle donne e dove la limita? Alla
luce dei culti misterici egli sviluppa la sua teologia del battesimo e della cena del Signore.
L’apostolo spiega che la partecipazione al destino della divinità non si riferisce soltanto il culto,
bensì viene attuata nella vita quotidiana. In questa Paolo partecipa alla morte di Gesù, e nel suo
corpo diventa visibile pure il mistero della resurrezione203.

Culti sacrificali
Accanto ai culti misterici c’erano molte modalità di sacrificali idolatrici. Paolo ne parla nella
prima Lettera ai Corinzi. La carne, che si poteva comprare al mercato, proveniva quasi sempre da
sacrifici idolatrici del genere. Nell’antichità i templi erano dei mattatoi che fornivano la carne al
mercato. Una parte della carne sacrificata si mangiava nel corso del banchetto sacrificale idolatrico,
l’altra parte era venduta al mercato. Tanto i romani quanto i greci conoscevano molti culti
sacrificali. Si macellavano tori e pecore. Una parte si bruciava sull’altare sacrificale per gli dei,
l’altra, il più delle volte maggiore, la si consumava, per cui i culti sacrificali che si qualificavano
come dei banchetti sacrificali, che permettevano di entrare in comunione con il dio. Egli era il vero
padrone di casa in quelle occasioni. Si mangiava davanti a dio, non con il dio. Un dato
fondamentale dei banchetti è anche la gratitudine verso dio e verso i suoi benefici. Essi erano
caratterizzati da gioia e serenità. Alcuni scrittori antichi gli hanno duramente criticati e derisi. Il dio,
così essi argomentano, si coprirebbe la faccia se assistesse a simili banchetti.
Paolo ha davanti agli occhi questi culti sacrificali quando raccomanda ai corinzi di non
scambiare la cena del Signore con un pasto normale, durante il quale qualcuno finisce anche per
ubriacarsi. Inoltre si domanda se un cristiano possa mangiare carne sacrificata agli idoli. I corinti
cristiani, quando compravano la carne, non potevano fare a meno di domandarsi se si trattava di
carne sacrificata gli idoli. Inoltre essi erano spesso invitati a partecipare a banchetti idolatrici,
perché molti di questi banchetti erano organizzati da associazioni, a cui erano invitati i cristiani più
ragguardevoli, ed erano strettamente collegati con i banchetti in onore di idoli.
Nell’antichità c’erano anche dei culti specifici in onore di determinati eroi, che si erano resi
benemeriti nei confronti del bene comune della città. Tra i romani corrispondeva a questo costume
il culto dell’imperatore. L’imperatore era considerato un benefattore, in onore del quale si offrivano
sacrifici. Solo successivamente tali sacrifici divennero un prova per vedere se i cristiani rimanevano
fedeli all’adorazione dell’unico Dio. Luca critica l’ideologia imperiale romana quando descrive
Gesù come il vero re della pace e si esprime in maniera critica verso i re di questo mondo, che
opprimono i loro popoli e si fanno chiamare benefattori 204 . In Paolo non troviamo
quest’atteggiamento critico. Le affermazioni che egli fa in Romani 13 sono piuttosto differenti nei
confronti dell’autorità. La questione del modo in cui i cristiani devono comportarsi verso lo Stato fu
discussa in maniera controversa già nella Chiesa primitiva. Ad essa si danno risposte diverse anche
oggi.

203 Cf. 2Cor 4,7-18.


204 Cf. Lc 22,24-27.

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Possiamo comprendere Paolo solamente se lo vediamo sullo sfondo del suo tempo. Egli cercò
di predicare il messaggio di Gesù agli uomini tenendo conto della loro aspirazione spirituale,
affinché si sentissero interpellati da tale messaggio e vi trovassero una via verso una maggiore
libertà, vita e amore. Egli tenne conto della loro aspirazioni, ma non disse loro quello che avrebbero
gradito sentirsi dire. L’importante per lui era comunicare la sua esperienza personale della
conoscenza di Cristo. A questo scopo si espresse di volta in volta in maniera diversa, a seconda dei
suoi interlocutori e dei destinatari.

La gnosi
I prodomi dello gnosticismo
Il riflesso dell’incontro del primo cristianesimo con l’ambiente circostante non è senza
conseguenze per la sua stessa riflessione: nascono dei pericoli che minacciano l’integrità del
“deposito”. Ciò diviene tanto più tangibile quanto più il tempo passa: gli ultimi scritti del Nuovo
Testamento sono chiari a questo riguardo.
Gli scritti del Nuovo Testamento sono coscienti che le nascenti comunità sono passibili di
pericoli devianti dalla retta fede. Ciò è presente soprattutto nelle lettere più tarde.

L’atteggiamento del NT dinanzi alle deviazioni


Abbiamo una serie di risposte: a) letteratura paolina (Colossesi e Lettere Pastorali); b)
Giovanni; c) Giuda; d) Seconda Lettera di Pietro; e) Apocalisse.
Di per sé lo gnosticismo è un fenomeno che si sviluppa e tende a definirsi meglio nel corso del
II sec. Parlare perciò di gnosticismo nel I sec. è perciò prematuro: non mancano però segni che
potremmo definire pregnostici. Alcuni elementi caratterizzanti lo gnosticismo205.
Le Fonti
Possiamo riassumere così le nostre fonti a disposizioni:
- I Padri: Giustino a Roma tra il 150 ed il 165; Ireneo a Lione intorno al 180; Ippolito a Roma
intorno al 230; Epifanio a Cipro verso il 375206;
- Le versioni copte di diversi scritti: Vangelo di Maria, l’Apocrifo di Giovanni, la Sophia di
Gesù Cristo;
- I ritrovamenti di Nag-Hammadi nel 1945: 13 libri rilegati in cuoio contenente 53 scritti
gnostici del V sec.
definizione
La difficoltà di definire che cosa sia lo gnosticismo deriva dall’estrema frammentazione del
fenomeno: esso comprende sette che si estendono dalla Gallia all’Iran. I diversi nomi che essi
ricevono è testimone dell’estrema varietà207:
- dai fondatori: valentiniani, marcioniti, basilidiani
- dal luogo di origine: perati
- dalla nazionalità: frigi
- dalla loro attività: encratiti
- dalla loro dottrina: doceti
- dall’oggetto del loro entusiamo: cainiti, ofiti
- dalle loro pratiche immorali: entichiti (per i loro costumi dissoluti).

205 M. R. GRANT, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, Il Mulino, Bologna 1976, 13ss.


206 Possiamo considerare le fonti fino a Bar Konai nell’VIII sec.
207 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 108, 1-2.

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All’estrema varietà corrisponde tuttavia un elemento comune: “Questo è il primo punto, e il più
importante, nel definire lo gnosticismo. È una religione che salva mediante la conoscenza, e la
conoscenza è essenzialmente conoscenza di sé, riconoscimento dell’elemento divino che costituisce
il vero sé” 208. È la gnw/sij come qualcosa di rivelato: perciò lo gnostico non crede ma sa per
rivelazione. Ed è mediante questa gnw/sij così ricevuta che lo gnostico può tendere al mondo da cui
era decaduto.
“Altre religioni sono in varia misura centrate su Dio; lo gnostico è centrato su di sé. Egli si
interessa ai dettagli mitologici dell’origine dell’universo e della umanità, solo nella misura cui essi
esprimono e illuminano la sua comprensione di se stesso”209. Il recupero della propria identità porta
a distaccarsi dal mondo materiale in vari modi: ora come rottura dalla morale convenzionale ora
invece con una morale ascetica assai accentuata.

Le origini
Le posizioni riguardo all’origine dello gnosticismo possono essere così sintetizzate: da una
filosofia ellenistica; da una religione orientale; dal cristianesimo (questa è l’opinione dei Padri che
combattono lo gnosticismo come dottrina eretica); dal giudaismo eterodosso.

Paolo
Le lettere ai Tessalonicesi non sembrano contenere elementi accostabili ad una dottrina
gnostica tutte orientate come sono al tema escatologico.
La lettera ai Galati presenta invece alcuni elementi interessanti:
Gal 4,9-11
Ora invece che avete conosciuto Dio,
9

anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo


a quei deboli e miserabili elementi (evpi. ta. avsqenh/ kai. ptwca. stoicei/a),
ai quali di nuovo come un tempo volete servire?
10Voi infatti osservate scrupolosamente giorni, mesi, stagioni e anni!

11Temo per voi di essermi affaticato invano a vostro riguardo.

Gli stoicei/a sono gli stessi da cui sono stati liberati secondo 4,3: “Così anche noi, quando
eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo (u`po. ta. stoicei/a tou/ ko,smou h;meqa
dedoulwme,noi)”.
Importante è la diversa prospettiva che caratterizza Gal rispetto a 1-2Ts: “È importante rilevare
che in questa lettera l’accento di Paolo si sposta dal futuro a ciò che Cristo ha già fatto. Egli ci ha
salvati dal presente secolo malvagio; non è più Paolo che vive, ma Cristo vive in lui (2,20); il
mondo è stato crocifisso in lui ed egli nel mondo (6,14); una nuova creazione è già venuta
(6,15)”210. Vi sono forti punti di contatto con Colossesi.
Ci possiamo chiedere: vi erano dei pregnostici a Corinto? Chi sono effettivamente coloro che
Paolo combatte nelle due lettere? Cercando di cogliere chi siano gli entusiasti di Corinto, ne
emergono alcune caratteristiche interessanti: l’abbondanza di doni dello Spirito Santo quale è
testimoniata dal cap. 14; non credono nella resurrezione dei morti perché probabilmente per loro la

208 M. R. GRANT, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, Il Mulino, Bologna 1976, 21.


209 M. R. GRANT, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, Il Mulino, Bologna 1976, 20.
210 M. R. GRANT, Gnosticismo e cristianesimo primitivo, Il Mulino, Bologna 1976, 166.

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resurrezione è già avvenuta; per loro “tutto è lecito”; non temono di mangiare gli idolotiti perché
hanno la conoscenza; la ricerca di una sapienza umana a cui Paolo oppone la sapienza della croce.
Più complessa la situazione che traspare dalla lettera ai Colossesi.

Per un quadro complessivo del fenomeno


Gnosi significa propriamente conoscenza, sapere. Gli storici non sono concordi a proposito del
movimento della gnosi e dello gnosticismo. La scuola di Bultmann partì da uno gnosticismo
precristiano. Ma molti testi gnostici sono postcristiani e interpretano in maniera agnostica testi
cristiani, come per esempio il Vangelo di Giovanni. Dal colloquio di Messina 1966 in poi si
distingue “la gnosi quale conoscenza dei misteri divini riservata ogni dallo gnosticismo quale
sistema che parte da una visione dualistica del mondo ruota attorno al mito del redentore celeste. Il
redentore gnostico si apre una strada tra le sfere dei pianeti per risvegliare il dio narcotizzato
dell’uomo”211. Il Colloquio su Le origini dello gnosticismo, tenutosi a Messina dal 13 al 18 aprile
del 1966212, affrontando la confusione terminologica che allora regnava in merito alla gnosi ed allo
gnosticismo propose un utilizzo più preciso dei termini in questione che riproponiamo in questa
breve nota. Gli studiosi proposero che il termine gnosticismo fosse da utilizzare in senso più
specifico all’interno dell’insieme più indifferenziato e multiforme della gnosi.
Così recita espressamente il punto A di tale Documento finale:
“Per evitare un uso indifferenziato dei termini gnosi e gnosticismo, sembra utile identificare,
con la cooperazione dei metodi storico e tipologico, un fatto determinato, lo “gnosticismo”,
partendo metodologicamente da un certo gruppo di sistemi del II secolo d.C., che vengono
comunemente così denominati. Si propone invece di concepire la “gnosi” come “conoscenza dei
misteri divini riservata a una élite”. Tale precisazione terminologica si rendeva necessaria a motivo
dell’evidente singolarità del fenomeno dello gnosticismo nel II secolo d.C., tale da differenziarlo da
ogni forma di gnosi precedente.
Il Documento finale così si esprime al punto B: Come ipotesi di lavoro si propongono le
formulazioni seguenti:
1) Lo gnosticismo delle sètte del II sec. implica una serie coerente di caratteristiche che si
possono riassumere nella concezione della presenza nell’uomo di una scintilla divina, che proviene
dal mondo divino, che è caduta in questo mondo sottomesso al destino, alla nascita e alla morte, e
che deve essere risvegliata dalla controparte divina del suo Io interiore per essere finalmente
reintegrata. Questa idea, di fronte ad altre concezioni di una “degradazione” del divino, è fondata
ontologicamente sulla concezione di una “degradazione” del divino la cui periferia (spesso
chiamata Sophia o Ennoia) doveva entrare fatalmente in crisi e produrre - benché indirettamente -
questo mondo, di cui essa non può d’altronde disinteressarsi perchè deve recuperarvi lo pneuma.
(Concezione dualistica su un sottofondo monistico, la quale si esprime con un doppio movimento di
degradazione e di reintegrazione).
2) Il tipo di gnosi implicato dallo gnosticismo è condizionato dai fondamenti ontologici,
teologici e antropologici qui indicati: non ogni gnosi è lo gnosticismo, ma solo quella che implica,
nel senso sopra chiarito, l’idea della connaturalità divina della scintilla che deve essere rianimata
e reintegrata: questa gnosi dello gnosticismo implica l’identità divina del conoscente (lo gnostico),
del conosciuto (la sostanza divina del suo Io trascendente) e del mezzo per cui egli conosce (la

211 Lexicon für theologie und Kirche, “Gnosis”, 803s.


212 I cui atti furono pubblicati nel volume a cura di U. BIANCHI, Le origini dello gnosticismo, E. J. Brill, Leiden, 1967.

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gnosi come facoltà divina implicita che deve essere risvegliata e attuata; questa gnosi è una
rivelazione-tradizione. Questa rivelazione-tradizione è dunque di tipo diverso dalla rivelazione-
tradizione biblica e islamica).
Il consenso generale del Colloquio è riassunto in queste proposizioni accolte allora sia da
coloro che vedevano nello gnosticismo un fenomeno tipicamente post-cristiano, sia da coloro che
difendevano l’esistenza di singoli elementi pre-gnostici non organizzati in un sistema
precedentemente al II secolo d.C., sia da coloro che teorizzavano anche una forma di proto-
gnosticismo di origine indo-iranica o greca che avrebbe contenuto in forma embrionale ciò che
sarebbe stato, a loro dire, sviluppato poi nello gnosticismo del II secolo. La chiarificazione
terminologica del Colloquio del 1966 si rivela di estrema utilità, a nostro avviso, per la sua
precisione storico-scientifica, anche nelle discussioni odierne. Per uno studio scientifico sullo
gnosticismo ed il suo rapporto con il cristianesimo segnaliamo una bibliografia ragionata delle fonti
e degli studi più significativi curata dal prof. Lettieri213.
Potremmo, dunque, definire la gnosi come una tendenza esoterica, che può andare a braccetto
con qualsiasi religione: con il giudaismo, con il cristianesimo, con le religioni misteriche. Lo
gnosticismo è una dottrina che parte dal fatto che l’io dell’uomo è una scintilla della luce divina
dispersa nella materia, scintilla che il redentore divino libera. Ha poco senso continuare a
domandarsi, di fronte a un’affermazione di Paolo, quale sia il mito di un redentore gnostico o il
sistema gnostico, che le sta alle spalle. Paolo visse, piuttosto, in un tempo nel quale le tendenze
gnostiche erano forti in tutte le religioni, così come in ambienti ebraici, cristiani e filosofici. Si
sentiva il bisogno di rifugiarsi nella spiritualità per fuggire in questo modo dall’estraneità del
mondo. Nel mondo dell’impero romano, che diveniva sempre più duro, gli ambienti gnostici
esercitavano un grande fascino sugli individui impegnati in una ricerca spirituale. E anche molti dei
primi cristiani furono trascinati dalla corrente gnostica. Tali tendenze della gnosi sono d’attualità
pure oggi. Ci sono tante persone infatuate di esperienze spirituali, ma che non riescono a
padroneggiare la loro vita concreta. Per esse la spiritualità è una fuga dal caos della propria vita. A
Corinto Paolo si imbatte in tendenze gnostiche del genere e fa leva su questo desiderio di
conoscenza, di illuminazione di vera sapienza. Cita gli slogan della gnosi214 ed indica ai corinti,
sullo sfondo delle idee gnostiche, la via cristiana che conduce alla sapienza tra i perfetti215.
Verso il 200 Clemente d’Alessandria ha attribuito alla gnosi le seguenti domande fondamentali:
“Chi eravamo noi e siamo diventati? Dove eravamo? Dove siamo gettati? Verso dove stiamo
andando? Da che cosa siamo liberati? Che cos’è la nascita? Che cosa la rinascita?”216. Ma tali
domande non sono riservate alla gnosi, bensì sono attuali anche oggi. Ognuno deve trovare
individualmente una risposta adesso. Perciò la situazione, a cui Paolo risponde, è simile alla nostra.
E sarà una cosa affascinante scoprire nelle sue parole una risposta alle nostre domande odierne.

213 G. LETTIERI, Lo gnosticismo: la sua essenza e le sue origini, apparsa in Lateranum, 64(1998) fascicolo 2-3, 629-648.
214 1Cor 6,12: “Tutto mi è lecito!”.
215 Cf. 1Cor 2,6-16.
216 Lexicon für theologie und Kirche, “Gnosis”, 805.

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CAPITOLO III
Paolo di Tarso, rabbi ed apostolo
1. FORMAZIONE E CONVERSIONE
Abbiamo visto, nel capitolo precedente, l’ambiente umano e culturale che ha generato
l’apostolo delle genti. Adesso, in questo terzo capitolo, ci concentreremo sulla sua persona in
particolare: la formazione ricevuta, l’esperienza come persecutore dei cristiani, il ribaltamento di
tutto ciò in concomitanza con l’incontro con il Risorto. Nella seconda parte del capitolo, poi, ci
concentreremo sulla cronologia paolina, affrontando anche gli avvenimenti inerenti tutti i suoi
viaggi missionari.

1.1. Paolo “Ebreo da ebrei”


La data di nascita di Paolo è sconosciuta. Definiva se stesso un uomo vecchio in Fm 9217;
questo significa che sarebbe nato nel primo decennio d.C. Luca descrive Paolo come giovane
presente alla lapidazione di Stefano (At 7,58)218. Paolo non ci dice mai dove è nato, ma il suo nome,
Paolo, lo collocherebbe a qualche città romana. Vantava origini giudaiche e faceva risalire la sua
discendenza fino alla tribù di Beniamino219. Era un israelita, un “ebreo da ebrei, fariseo quanto alla
legge” (Fil 3,5), “accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei miei padre” e superando i suoi
coetanei e connazionali nel giudaismo (Gal 1,14). Definendosi un ebreo, può aver voluto dire che
era un giudeo di lingua greca che sapeva parlare anche l’aramaico e che sapeva leggere l’AT
nell’originale220.
Anche Luca presenta Paolo come un giudeo, come fariseo nato a Tarso221, una città ellenistica
della Cilicia 222 , come un cittadino romano dalla nascita, 223 e che aveva una sorella 224 . Tarso è
testimoniata per la prima volta come Tarzi sull’obelisco nero di Salmanassar III, del IX sec. a. C.225.
Nel IV secolo, Senofonte226 la chiamava una grande e prosperosa città e le monete greche del V e
del IV secolo rivelano la sua antica ellenizzazione. Venne profondamente ellenizzata da Antioco
IV Epifane (175-164), che vi stabilì anche una colonia di Giudei (nel 171 ca. a.C.) per incrementare
il commercio e l’industria227.
Nella riorganizzazione dell’Asia Minore da parte di Pompeo nel 66 a.C., Tarso divenne la
capitale della provincia della Cilicia. Più tardi Marco Antonio concesse alla città libertà, immunità e
cittadinanza, diritti confermati poi da Augusto, il che può spiegare le connessioni romane di Paolo.

217 Qualcosa come tra i 50 ed i 56 anni di età (GLNT XI, 172).


218 Questo vorrebbe dire tra i 24 ed i 40 anni (cf. DIOGENE LAERZIO 8.10; FILONE, De Che., 114).
219 Rm 11,1; Fil 3,5; 2Cor 11,22.
220 Cf. D. MOULE, in Exp-Tim 70 [1958-1959] 100-102. Le lettere di Paolo rivelano che egli conosceva bene il greco e che

sapeva scriverlo e che nel rivolgersi alle chiese dei Gentili di solito citava l’AT in greco. Tracce del genere retorico della
diatriba stoica nelle sue lettere, mostrano che aveva ricevuto un’educazione greca.
221 At 9,11; 21,39; 22,3.
222 At 22,3.6; 21,39
223 At 22,25-29; 16,37; 23,27
224 At 23,16
225 Riga 138; cf. D.D. LUCKENBILL, in ARAB 1, 207.
226 Anab. 1.2.23
227 Cf. W. M. RAMSAY, in ExpTim 16 (1904-1905) 18-21; FILOSTRATO, Vita di Apollonio di Tiana 6,34; A.N. SHERWIN-WHITE,

Roman Society, 144-193.

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Tarso era un famoso centro di cultura, filosofia ed educazione. Strabone228 conosce le sue scuole
come superiori a quelle di Atene e di Alessandria ed i suoi studenti come nativi della Cilicia, non
stranieri. Atenodoro, un filosofo stoico e maestro dell’imperatore Augusto, si ritirò lì nel 15 a.C. E
gli venne affidato il compito di rivedere gli sviluppi civici e democratici della città. Anche altri
filosofi, stoici ed epicurei, vi si stabilirono e insegnarono lì. Romani famosi visitarono Tarso:
Cicerone, Giulio Cesare, Augusto, Marco Antonio e Cleopatra. Perciò, il Paolo lucano può vantarsi
di essere un “cittadino di una città non certo senza importanza” (At 21,39).
Il Paolo lucano si vanta anche di essere “cresciuto in questa città (di Gerusalemme) formato
alla scuola di Gamaliele” (At 22,3), vale a dire, Gamaliele I, il più anziano, la cui attività a
Gerusalemme si svolge all’incirca dal 20 al 50 d. C 229 . Sebbene la descrizione lucana della
giovinezza di Paolo trascorsa a Gerusalemme possa spiegare la sua educazione ed il suo modo di
pensare semitici, Paolo stesso non dice neanche una parola a proposito di questo aspetto della sua
giovinezza. Inoltre si crea una difficoltà: gli scritti di Paolo non indicano mai se egli abbia
incontrato o se abbia avuto una qualche conoscenza personale con il Gesù del ministero pubblico230:
se Paolo ha passato la sua giovinezza a Gerusalemme, avrebbe potuto mancare un tale incontro?
L’unica prova che Paolo sia stato educato da un figura rabbinica come Gamaliele è quella
affermazione degli Atti.
Secondo J. Jeremias 231 , al tempo della sua conversione Paolo non era semplicemente un
discepolo rabbinico (talmîd hakam), ma un maestro riconosciuto con il diritto di prendere decisioni
legali. Questa autorità sarebbe da presupporre quando fu inviato a Damasco per arrestare dei
cristiani232 e nel suo voto contro i cristiani in quanto membro del sinedrio (At 26,10). In base a ciò
Jeremias ha concluso che siccome l’età richiesta per l’ordinazione rabbinica era di 40 anni, Paolo si
sarebbe convertito a mezza età e sarebbe stato sposato, poiché il matrimonio era obbligatorio per i
rabbini. Jeremias armonizza i precedenti dati lucani con il materiale paolino interpretando 1Cor
7,8233 nel senso che Paolo si poneva nella classe dei vedovi (ch,raij() e non in quella dei celibi
(avga,moij). Inoltre 1Cor 9,5 significherebbe che Paolo non si sarebbe risposato. Ma quasi ogni punto
di questa interessante tesi solleva dei dubbi: armonizzazione discutibile, età di Paolo, data recente
della testimonianza rabbinica usata, lo stato di Paolo234.

Origini familiari
Se ignoriamo la data esatta della nascita di Paolo, conosciamo, però, le sue origini familiari e
sociali. A informarci nel modo più preciso è la Lettera ai Filippesi (3,4-14). Paolo si definisce meno
mediante le sue origini familiari che mediante la sua nascita nel giudaismo: “circonciso all’età di
otto giorni” secondo quanto prescrive la tradizione, Paolo è “ della stirpe d’Israele” (Fil 3,5).
Appartiene al popolo eletto. È “della tribù di Beniamino”: la sua famiglia è, quindi, originaria del
Nord della Galilea. Essendo nato a Tarso, appartiene al mondo della diaspora. Egli non rinnega mai
le proprie origini giudaiche. Dirà a proposito dei suoi detrattori: “Sono ebrei? Anch’io! Sono

228 STRABONE, Geogr. 14,673


229 Cf. W.C. VAN UNNIK, Tarsus or Jerusalem: the city of Paul’s Youth, London 1962
230 Cf. 2Cor 5,16; 11,4 che non significa necessariamente che ci sia stata, anche se il tipo di argomentazione e l’uso

dell’AT sono simili a quelli dei giudei palestinesi colti, la sua dipendenza dalle tradizioni rabbiniche è più dichiarata che
provata. Cf. E. P. SANDERS, Paul and Palestinian Judaism, Philadelphia 1977 [trad. it., Paolo e il giudaismo palestinese,
Paideia, Brescia 1986]. Ma cf. J. NEUSNER, in HR 18 ([1978] 177-191).
231 In ZNW 25 [1926] 310,312; ZNW 28 [1929] 321-323
232 At 9,1-2; 22,4-5; 26,12
233 “Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io”.
234 Cf. E. FASCHER, in ZNW 28(1929) 62-69; G. STAHLIN, in TDNT 9,452 n. 109 (trad. it., in GLNT XV, 766s).

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israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io” (2Cor 11,22). E ancora: “Anch’io infatti sono
israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino” (Rm 11,1). Paolo non appartiene
certo a una delle grandi famiglie di notabili, che vanno orgogliosi della loro genealogia e possono
far riferimento a tre generazioni di ascendenti. Egli non cita mai suo padre o suo nonno. In
compenso, insiste sul fatto di non essere meticcio, di essere del seme di Abramo, della discendenza
di Giacobbe. Questo modo di presentarsi lo distingue dai proseliti. Dicendosi “ebreo figlio di ebrei”
(Fil 3,5), vuole ricordare che discende dai giudei sia in linea paterna che in quella materna. Se prova
il bisogno di dirlo, è perché nella diaspora erano frequenti i matrimoni misti.

Saulo, Saûlos, Paolo


Saul, letteralmente “colui che viene richiesto (con la preghiera)”, è il nome ebraico che gli
viene dato alla circoncisione. Nella storia di Israele questo nome era stato portato da un uomo, Saul,
anch’egli della tribù di Beniamino, il fondatore della monarchia nel IX secolo a. C. Portare un
simile nome in un ambiente semitico è un invito a diventare sostituto della persona di cui si porta il
nome. Questa scelta di un nome legale è tanto più interessante in quanto nella diaspora viene
portato raramente. Dagli Atti degli Apostoli apprendiamo che Paolo aggiunge al nome semitico di
Saul la forma greca di Paûlos dopo il suo incontro con il proconsole di Cipro che si chiamava
Sergio Paolo (At 16,9). Paolo non ha cambiato nome: porta un doppio nome. Ormai, è con questo
nuovo nome greco che firma le sue lettere; piuttosto lì la forma latinizzata è Paûlos, che significa
poco, piccolo.

Cittadino Romano
Essere cittadino romano significa beneficiare di uno statuto che del diritto di partecipare alla
vita pubblica di Roma, soprattutto concede delle garanzie giuridiche fiscali, e obbliga le autorità a
rispettare la dignità della persona che porta questo titolo. Questo privilegio è menzionato dal libro
degli Atti (22,25-29). Paolo, nelle sue lettere, non vi fa allusione. I fatti, comunque, vengono a
confermare questo statuto, che alcuni esegeti hanno, però, contestato. Paolo è perfettamente
integrato nell’impero. Volto verso Gerusalemme, egli non è tuttavia preso nel conflitto politico che
agitava Giudea nel suo rapporto con Roma. Egli, al contrario, è aperto alle dimensioni del mondo
del suo tempo; e così è preparato per la sua missione futura.

Uomo di relazioni tramite la famiglia


La famiglia di Paolo appartiene senza dubbio al mondo del commercio tessile, che è all’origine
della prosperità di Tarso. Gli spostamenti di Paolo sono facilitati dei collegamenti procuratigli dalla
famiglia (intesa in senso lato, come parentela), distribuita sulle sponde del Mediterraneo: incontra la
mercantessa di porpora a Filippi, fabbricanti di tende a Corinto, ecc.. Il clan, così disperso, mette in
opera la solidarietà.
Alcuni membri della rete familiare di Paolo sono: Andronico, compagno di una delle prigionie
di Paolo, quella di Efeso forse, partito per Roma, associato a Giunia (Rm 16,7). Giasone e
Sosipatro, parenti di Paolo. Si trovano a Corinto nel 54-55 (Rm 16,21). Giasone ha dato ospitalità a
Paolo durante il suo passaggio a Tessalonica (At 17,5-9). Erodione, parente di Paolo che vive a
Roma (Rm 16,11). Rufo, vive a Roma con la madre “che è anche mia madre” (Rm 16,13). Il figlio
della sorella di Paolo (At 23,16).

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La formazione
Paolo beneficia di una formazione intellettuale lunga e molto seria. È per questo che non gli
faceva impressione il cristianesimo nascente. Al contrario, egli è fornito di tutte le armi intellettuali,
per lottare contro di esso.

Un’educazione biblica
A partire da cinque anni d’età, Paolo riceve un’educazione biblica non soltanto in seno alla
famiglia, ma anche in seno alla sinagoga e alla scuola, perché non c’è frattura tra queste diverse
istanze. I riferimenti che Paolo fa alla Scrittura mostra la sua conoscenza, spesse volte a memoria di
diversi passi. Una tale formazione, nello stesso tempo, implica istruzione ed educazione: non solo
dà al fanciullo un sapere, ma forma in lui una chiara coscienza della propria identità, di quella del
proprio popolo e delle sue tradizioni.

Le lingue
In ambiente greco, nel caso di Tarso, l’educazione va di pari passo con l’apprendimento delle
lingue. L’ebraico si impari in famiglia. Il greco di Paolo è quello delle persone colte del mondo
degli affari. Paolo ha, quindi, le categorie mentali per farsi capire da questo mondo: “ma se io non
conosco il senso del linguaggio, per colui che mi parla sono uno straniero” (1Cor 14,11). Essendo
cittadino romano, deve potersi esprimere in latino. Tali conoscenze ispireranno i suoi spostamenti in
Asia minore ed in Europa. La formazione intellettuale è sempre accompagnata da una formazione
manuale235.

I riferimenti culturali
Paolo utilizza costantemente dei riferimenti culturali propri dell’ellenismo. Non bisogna
dimenticare che Tarso sta al crocevia delle strade che vanno da Efeso ad Antiochia o da Rodi ad
Alessandria. Città di scambi, di incontri; rivaleggia con Atene sul piano culturale. Paolo attribuisce
alla parola un valore primordiale e sa esporre il proprio pensiero secondo le regole della retorica. Le
lettere sono piene di riferimenti alla cultura del suo tempo: l’atleta, la corsa o la corona ricevuta in
battaglia236. Non solo: Paolo sa leggere e scrivere, ma sa anche nuotare (2Cor 11,25), il che è un
segno di cultura: secondo un adagio tratto da Platone, ignorante un uomo che “non sa leggere, né
nuotare”. Di più: saper nuotare è ciò che distingue il greco dal barbaro.

Paolo di dichiara: “Quanto alla legge, fariseo” 237


Per il sistema educativo dell’antichità, giudeo o greco che sia, è bene ad un certo momento
uscire dalla propria città per completare la formazione. I ragazzi a 14 anni venivano considerati
maggiorenni e potevano essere iniziati all’esegesi; verso i 19 anni l’élite intellettuale giudaica
sceglie una corrente, un maestro, mentre i giovani greci scelgono una scuola. A che età Paolo ha
lasciato Tarso? A 14 anni, maggiore età giudaica, o a vent’anni, maggiore età greca? È impossibile
decidere. Comunque sia, è presso Gamaliele, a Gerusalemme, che egli riceve una formazione tipica
dei farisei (At 22,3). La casa di Gamaliele una piccola cerchia che, secondo la testimonianza di una
delle tre lettere di Gamaliele che sono giunte a noi, si riunisce nell’abitazione del maestro, è pure

235 Secondo le prescrizioni della legge, Paolo ha imparato un mestiere manuale, senza dubbio nel campo tessile (cf. At

18,3).
236 Cf. 1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14; 2Tm 2,5.
237 Cf. Fil 3,5; At 23,6; 26,5.

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all’aria aperta. Paolo approfondisce la conoscenza delle Scritture ed impara tecniche di


interpretazione, che userà in seguito.
Gamaliele ci è noto dalle fonti rabbiniche e dal libro degli Atti degli apostoli (5,34-41; 22,3). È
senza dubbio il più realizzato dei maestri del suo tempo. Continua la tradizione inaugurata dal
nonno, il rabbi Hillel il Vecchio aveva fondato un’accademia farisaica, sotto il regno di Erode,
accademia famosa per il suo spirito conciliatore. Gamaliele era rispettoso della legge, il che non
impediva di avere lo spirito ampio e di essere aperto alle idee nuove, che circolavano in
Gerusalemme. Le decisioni che gli vengono attribuite in maniera di matrimonio, di divorzio e di
testimonianza ne sono la prova. Gamaliele prende anche la difesa di Pietro degli apostoli trascinati
davanti al sinedrio, di cui era stato presidente (At 5,34). Non dev’essere stato uomo da incoraggiare
Paolo ad un estremismo anti-cristiano. Come Filone d’Alessandria238, che aveva riproposto la fede
giudaica in categorie greche, come Flavio Giuseppe239, il quale da storico narrò la storia d’Israele,
Paolo è un uomo di due culture, quella giudaica e quella romana. Il che fa di lui un dotto secondo i
criteri di Flavio Giuseppe e lo prepara così alla sua missione futura.

I farisei
In precedenza ci siamo soffermati sulla descrizione della società ebraica. Adesso ci basterà
richiamare che al tempo di Paolo sono dei letterati, scritti e specialisti dell’esegesi. Provengono
dalle classi medie urbane, artigiani e commercianti. Si radunano sotto la direzione di un maestro.
Questi maestri si rifanno o alla linea di Hillel, un rabbi sostenitore di una mitigazione, o a quella di
Shammai, che rappresenta una tendenza più rigorosa. Alcuni passi delle lettere Paoline traccia un
ritratto del fariseo: Rm 2,7-24; 11,1; 2Cor 11,21s; Gal 1,13s. Il loro stile di vita diverso da quello
dei notabili e dei sacerdoti della corte di Erode, estremamente divinizzati. Sono dei giusti e dei
dotti. Praticano la pietà esemplare, centrata sulla legge che essi meritano instancabilmente e
assiduamente. Hanno un senso acuto del Dio vivente. Considerano il Tempio di Gerusalemme come
il santuario della presenza di YHWH (At 21,26). Esercitano una certa influenza sulla vita pubblica.
Quanto alla sinagoga, essa ha una grande importanza per l’interpretazione della legge e assicurerà la
continuità del giudaismo.

Paolo si dichiara: “quanto alla giustizia, una persona irreprensibile” 240


Per Paolo, ciò significa “camminare nelle vie di YHWH, osservare le sue leggi, i suoi comandi,
le sue norme” (Dt 26,17). Egli non si aspetta alcuna ricompensa immediata, ma ha il senso della
retribuzione: Dio da ciascuno secondo il suo merito. Per lui il cammino della legge non è mai una
visione della mente. Si tratta di un cammino concreto di esperienze esistenziali che rappresentano
l’impegno di tutta la sua vita. Questo ideale di santità non si limita al solo decalogo. Nel conto di
tutti i comandamenti dei farisei i precetti computati sono 613. Questi comandamenti costituivano
una vera linea di difesa attorno alla Torah e avevano lo scopo di mettere i farisei al riparo da
qualsiasi sincretismo, racchiudendo così l’umano in una vera e propria morsa.

238 Filone di Alessandria (13 a.C.–45 d.C.): filosofo giudaico di lingua greca, originario di Alessandria. Integrato nel mondo

greco-romana, cerca di far passare in quel mondo la cultura biblica. Ha partecipato ad un’ambasciata presso
l’imperatore Caligola. La maggior parte della sua opera giunta fino a noi è un commentario del Pentateuco.
239 Flavio Giuseppe (37-100 d.C.): storico giudaico di lingua greca, amico dei romani. Appartiene alla casta sacerdotale

Gerusalemme. Prende un comando militare all’inizio della guerra giudaica contro Roma nel 66. È autore di una storia
del popolo ebreo, in greco: la guerra giudaica e le Antichità Giudaiche.
240 Così Paolo si dichiara “quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge, una persona irreprensibile” (Fil 3,6;

At 22,3; 26,5-8).

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Le attese dei farisei e di Paolo


I farisei aspettavano la resurrezione generale dei morti, pur pensando che essa era riservata alla
fine dei tempi. Differiscono dai sadducei, che non ci credevano (Mt 22,23). A questo proposito
Paolo saprà manovrare le due tendenze del sinedrio ponendole una contro l’altra, come dicono gli
Atti (23,6-10). I farisei, come tutti giudei, eccetto, forse, i sadducei, aspettano, in una fiducia totale
unanime, il ritorno dei dispersi in nella Terra promessa, il crollo della dominazione straniera, lo
sterminio dei nemici, nonché l’avvento del regno del Messia. Contrariamente ai sadducei, essi non
collaborano con l’occupante romano. Tuttavia, non costituiscono un gruppo politico. A differenza
degli zeloti, non cercano di affrettare la venuta del Messia partecipando all’agitazione politica, che
intende scacciare l’occupante romano fuori della terra. Sono divisi tra coloro che desiderano
liberarsi da qualsiasi forma di oppressione, che impedisce Israele di compiere la sua missione, e
coloro che accettano il potere oppressore come un castigo di Dio mandato a causa dei peccati del
popolo. L’appartenenza farisaica di Paolo non fa di lui un nazionalista. Il suo impegno è quello di
un uomo che, amando la legge, vuole essere giusto di fronte a Dio e di fronte agli uomini.

1.2. Il persecutore dei cristiani


Paolo visse sino in fondo la sua appartenenza alla corrente farisaica, al punto da non tollerare
nulla che attenti a quell’ideale. In parecchie delle sue Lettere Paolo, ricordando il suo passato, da un
punto centrale e cioè il fatto di aver perseguitato i cristiani, scrive, così, ai Galati: “voi avete
certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo 241 : perseguitando
ferocemente la Chiesa di Dio la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei
coetanei connazionali, accanito come ero nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1,13s). Egli
confessa ai filippesi che prima dell’incontro con Cristo era “quanto lo zero, persecutore della
chiesa” (Fil 3,6). Rivolgendosi ai corinti, rivendica l’ultimo posto tra gli apostoli: “io infatti sono il
più piccolo tra gli apostoli non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la
Chiesa di Dio” (1Cor 15,9). Infine, in 1Tm 1,13, si tratta ancora di colui che era stato “prima un
bestemmiatore, un persecutore un violento…”. Paolo non esita a parlare di questo passato, non per
compiacenza, bensì per far comprendere ai suoi ascoltatori il rovesciamento che Cristo provoca
venendogli incontro. Gli Atti 242 fanno eco alle affermazioni di Paolo, mostrando come la
persecuzione sia la conseguenza del suo atteggiamento intransigente nei confronti della legge. Di
che cosa si tratta, in verità?

Il persecutore: i fatti
Secondo At 6-7, tutto ha inizio con Stefano. Costui è considerato dai giudei della diaspora
organizzata come un apostata243 che deve essere messo a morte per lapidazione. Paolo assiste alla
lapidazione di Stefano senza prendervi parte perché, sottolineano gli Atti, egli ancora giovane (At
7,58). Paolo, comunque, approva questa uccisione (At 8,1). Qualche tempo dopo Saulo diventa, a
sua volta il delatore dei cristiani in nome di quello che egli chiama il suo zelo244. Questo zero lo

241 Con giudaismo non si designa la religione giudaica. Il termine delinea in modo polemico un modo di vivere legato alle

tradizioni in opposizione all’ellenismo, il modo di vivere più influenzato dalla cultura greca (cf. 2Mac 2,21; 8,1).
242 Cf. At 22,4; 26,9-11.
243 Tra giudei di lingua greca apostata designa colui che rifiuta la legge.
244 Cf. Fil 3,6; Gal 1,14. Lo zero rivendicato da Paolo trova ispirazione nello zero di cui Dio stesso da prova nei confronti

del suo popolo, vigilando gelosamente a che esso non si smarrisca nell’idolatria (Es 20,5; 34,14; Dt 4,24; 5,9; 6,15). Nella
storia di Israele Pincas (Nm 25,6-13) o Elia (1Re 18) o ancora i Maccabei (1Mac 2,23-28) sono figure che incarnano
questo zero. Da notare che in Gal 1,14, il greco zēlōtés corrisponde a sostenitore fervido, accanito.

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porta ad ingaggiare una lotta armata come fanno gli zeloti o i sicari che, generalmente, prendono di
mira i romani. Per Paolo il conflitto con i cristiani non è politico, bensì religioso 245 . I giudei
avevano spostato il conflitto con Gesù sul terreno politico per ottenere dall’autorità romana la sua
condanna: stravolgendo le affermazioni di Gesù, essi lo avevano presentato Pilato come il re di
giudei, tale da minacciare la politica romana nella Giudea (Gv 19,1-15). Paolo, al contrario,
comprende bene le affermazioni di Gesù in un senso di interiorità, e che lo porta a ricollocare
ricollocarlo al centro della sfera religiosa, dalla quale giudei avevano voluto cacciarlo 246 . Così
facendo, egli spera di eliminarlo definitivamente. Nelle sinagoghe senza dubbio Paolo non perde
occasione per denunciare coloro che si rifanno a Cristo. Egli usa la sua forza di convinzione per
ricondurre questi ultimi ad una giusta visione delle cose, quella della legge. Non esita a farli
escludere dalle sinagoghe. Si oppone ad essi impegnandosi a impedire che diffondono il loro
messaggio. La sua azione è vigorosa247. Egli non si dedica a basse operazioni di polizia, ma può, in
compenso, far incarcerare i cristiani mediante la procedura della delazione, che introduce un’azione
giudiziaria. Paolo cerca veramente di distruggere (Gal 1,13), cioè di estirpare dal giudaismo, questa
nuova corrente. Ed è così che se la prende con la sinagoga di Damasco.

Un’opposizione a servizio della gloria di Dio


La persecuzione che gli allora porta avanti contro i discepoli di Cristo è in funzione dell’ideale
farisaico, nel quale è stato educato e al quale aderisce con tutto il cuore, con tutta la mente. È
l’espressione di un atteggiamento d’intransigenza, che gli viene dettato dalla legge. In effetti,
opporsi ai cristiani significa per lui salvaguardare la gloria di Dio, vale a dire la trascendenza del
Dio d’Israele, che non può essere confuso, né con la divinità di quei luoghi, né con la figura umana
quale che sia, nemmeno con Gesù di Nazareth. Per questo possiamo qualificare quella persecuzione
come teologale. Paolo non può ammettere che gli uomini della sua stirpe possano avere un rapporto
con Dio che passa per una via diversa da quella che egli conosce, quella della legge. Per lui l’ideale
della legge viene schernito dai cristiani che pretendono di liberarsene. Cristo è, per lui, il rivale per
eccellenza che bisogna ad ogni costo eliminare, perché la gloria di Dio sia tutelata. Sin dall’origine,
questo conflitto aperto con Cristo non è politico, bensì religioso. Perseguitando coloro che si
richiamano a Cristo, egli si impegna a combattere colui che pretende di essere figlio di Dio. In
effetti, per un fariseo, Gesù è un essere paradossale, che pretende di essere Dio. Tutto ciò è
impossibile, nel nome stesso della trascendenza di Dio, che Dio abbia preso carne nella nostra
umanità, nella nostra storia. “Noi conosciamo suo padre e sua madre” dicono quei medesimi farisei
le cui affermazioni vengono riferite dal Vangelo di Giovanni (6,42). Paolo condivide pienamente
questo punto di vista: è impossibile che un uomo della nostra umanità possa parlare e agire nel
nome di quel Dio che, oltretutto, egli osa chiamare suo padre. Una tale pretesa ha addirittura del
blasfemo.
Paolo si impegna a fondo nell’obbedienza della legge non per legalismo, ma perché è la
condizione per vivere il rapporto di alleanza con Dio. Paradossalmente, la profondità della

245 I cristiani non seguono l’esempio degli esseni allontanandosi dalla città di Gerusalemme alla ricerca della purezza

spirituale.
246 Questo è, comunque, spiegabile: le autorità giudaiche hanno di fronte Gesù stesso e soprattutto il seguito ampio delle

folle. Non possono sopprimere il Maestro come era loro desiderio senza, nello stesso tempo, indebolire la loro autorità
spirituale e politica. Paolo ha dinanzi la comunità cristiana, che non ha ancora il seguito raccolto da Gesù e si pone come
una pericolosa eresia all’interno del panorama giudaico. Le autorità giudaiche, dunque, avevano abbattuto il capo, Paolo
si trova dinanzi i discepoli, che costituiscono una corrente giudaica fuori di ogni ortodossia.
247 Cf. At 8,1-3; 9,1s; 22,4; 26,10.

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persecuzione che gli porta avanti, contribuisce a preparare il terreno all’incontro con Cristo.
L’evento di Damasco lo colpisce nel suo impegno di fariseo vissuto in una fedeltà, che ha un
corrispettivo solo nell’esigenza di santità.

Gesù si fa incontro a Paolo248


Mentre Paolo è interamente preso dalla lotta, che sta conducendo contro i cristiani, Cristo sta
per tagliare la sua strada cambiando il corso non soltanto della sua vita, ma della storia dell’umanità
intera. In effetti, grazie a questo evento, strano per noi, compreso spesso come meraviglioso a causa
delle rappresentazioni artistiche che i tre racconti degli Atti degli Apostoli hanno ispirato, la
diffusione del Vangelo cambia rotta. L’incontro di Damasco, a cui Paolo fa sempre riferimento ma
che non descrive mai, non è né un mito, non è una leggenda. È un’esperienza unica nella storia,
anche se è all’origine dell’espressione essere folgorato sulla via di Damasco utilizzata in seguito
per designare ogni conversione, appunto, folgorante. Questo incontro ha luogo nei dintorni di
Damasco, nell’anno 34 o nel 37.

Un viaggio in una zona a rischio


Paolo, difensore della gloria di Dio, si reca a Damasco per combattere direttamente la comunità
cristiana, senza dubbio composta da quegli ellenisti che egli aborrisce. L’autore degli Atti degli
Apostoli ci riferisce che il sommo sacerdote ha affidato a Paolo delle lettere per la sinagoga, perché
potesse arrestare i cristiani249 . Paolo avrebbe ricevuto “il potere e l’autorizzazione dei capi dei
sacerdoti” per recarsi a Damasco (26,12). Ciò non è molto verosimile per quell’epoca. Pare
difficile, in effetti, che la giurisdizione del sommo sacerdote250 si estendesse fino a Damasco. In
quella zona soltanto l’autorità romana era abilitata a conferire poteri coercitivi. Forse è stato
incoraggiato dal sommo sacerdote per portare a buon esito un’azione non solo contro i cristiani? La
cosa non impossibile. Comunque sia, Paolo ritiene che la coesione della comunità giudaica di
Damasco sia minacciata dai discepoli di Cristo, tanto più che essa è resa instabile dalla situazione
politica. Tutto questo basta senza dubbio a spiegare la sua partenza per Damasco. Recarsi a
Damasco in quel periodo era un viaggio rischioso. In effetti, situato sulla strada della diaspora
orientale, in una zona di commerci, la città di Damasco è al centro di tutti i conflitti tra gli Erodiani
ed i Nabatei. La regione di Damasco è in stato di guerra dagli anni 30. Dal 33-34 in avanti, le
popolazioni arabe cercano di impadronirsi del traffico tra l’Arabia e la costa siriaca. Riescono a
insediarsi a Damasco251. La città è ormai governata da un capo, che Paolo designa con il titolo di
“governatore/etnarca” (cf. 2Cor 11,32-33). Recarsi a Damasco, in quel contesto di guerriglia
permanente, è segno di una volontà accanita di perseguire fino in fondo i cristiani. Mentre Paolo
parte per Damasco, i romani preparano la spedizione di grande portata per prendere Petra. Vitellio,
il legato della Siria, è sul punto di mettersi in marcia al comando di una legione252. La strada che
percorre deve passare per Damasco. La città, per proteggersi, chiude le porte253. Sia che Paolo vada

248 Testi di riferimento: At 9,1-22; 22,3-21; 26,12-18; Rm 6,3-4; 1Cor 1,1-17; 9,1; 10,16-17; 11 23-26; 15,1-11; 2Cor

11,32-33; 12,1-10; Gal 1,11-24; Ef 3,3; Fil 3,4-14; 1Tm 1,12-14.


249 Cf. At 9,2; 22,4.
250 Sommo sacerdote: personaggio chiave della vita d’Israele, e il rappresentante della fedeltà alle alleanze il solo che

possa penetrare nel Santo dei santi, la parte più sacra del tempio di Gerusalemme. Scelto, all’epoca, dai romani tra i
sadducei, egli è diventato lo strumento della loro politica, incaricato di vegliare a che i giudei non provochino disordini.
251 Il conflitto viene innescato da Erode Antipa quando, nel 27, rifugge la sposa Nabatea, figlia del re Areta IV, onde

sposare Erodiade, colei che chiederà la testa di Giovanni battista (Mt 14,3-12; Mc 6,17-29; Lc 3,19s).
252 Sono circa 5000 uomini, senza contare le truppe ausiliarie.
253 Cf. 2Cor 11,33; At 9,25.

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Damasco nel 33-34, oppure nel 37, la regione non dava garanzie di sicurezza: la strada era rischiosa
per chiunque vi si avventurasse. Nel marzo del 37, tuttavia, l’annuncio della morte dell’imperatore
Tiberio interrompe la spedizione. Quanto a Paolo, la sua strada anch’essa sarà interrotta, ma in
modo del tutto inatteso e senza rapporto con la morte di Tiberio. L’evento ha luogo, secondo la
tradizione, nei pressi di Damasco254.

L’imprevisto di Cristo
La sorpresa non viene né da un’imboscata, né da un atto di cattiveria, né da un episodio di
guerra. E tuttavia, essa viene dal cielo: “Vidi sulla strada una luce dal cielo, più splendente del sole,
che avvolse me e i miei compagni di viaggio” (26,13). Questa grande luce venuta dal cielo e che lo
avvolse con il suo splendore (At 22,6) rovescia Paolo ferma nel suo slancio fino a gettarlo al suolo:
“Caddi a terra” (At 9,4; 22,7). Ora, questa luce, per quanto bella e potente possa essere, non è
un’astrazione, né un fantasma. Viene insieme ad una voce che la identifica: “Sentii una voce che mi
diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” (At 22,7). “Io sono Gesù, che tu perseguiti” (At 9,5;
26,15), “Gesù il Nazareno” (At 22,8). Paolo viene messo di fronte a qualcuno che i suoi occhi, fino
ad allora, non potevano riconoscere. Nessun dubbio possibile: colui che appare splendente di luce è
lo stesso che Paolo si ingegna di eliminare dalla comunità cristiana, usando dichiararlo maledetto da
Dio. Colui che Paolo ha trattato con tanto disprezzo gli si rivela, un anno appena o al massimo tre
dopo gli eventi del Golgota. Apparendogli, gli rivela la propria identità: “Io sono colui che tu
perseguiti”. Paolo è messo di fronte all’evidenza che lì non perseguita soltanto un gruppo di uomini,
i cristiani, ma, mediante loro, è Gesù stesso che viene coinvolto. È proprio Gesù, il crocifisso, al
quale egli proibiva di dirsi figlio di Dio, che è lì davanti a lui. Paolo, gettato a terra da questa
scoperta, perde la vista, e questo rivela la sua cecità spirituale. Diviene così tolta la sua sufficienza.
L’evento è fuori di qualsiasi schema. È per questo che Paolo può dire: “Ho veduto Gesù, Signore
nostro” (1Cor 9,1); Cristo “apparve anche a me come ad un aborto” (1Cor 15,8). Si tratta di
un’esperienza che non ha pari: Paolo incontra Cristo Signore Gesù, colui che era il motivo della sua
lotta fratricida contro i cristiani, colui cui discepoli li perseguitava. Vederlo significa essere messo
di fronte all’evidenza che il Nazareno, che egli combatte, è veramente risorto come proclamano i
discepoli. Certo, Paolo non racconta come Cristo gli si è manifestato sulla via di Damasco. Egli
parla di questo evento unicamente in funzione dell’irruzione che Cristo rappresenta nella sua vita:
“Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre mi chiamò con la sua grazia, si
compiacque di rivelare255 in me il figlio suo perché lo annunciasse in mezzo alle genti…” (Gal
1,15s). Si tratta di una rivelazione, perché non è in potere dell’essere umano darsi il Signore. Il

254 Se, stando a 2Cor 11,33, si è costretti a far uscire Paolo in una cesta dalle mura della città, è perché questa è chiusa.

Questa chiusura non può essere dovuta che al contesto di guerra in cui si trova Damasco. Tutta la questione sta nel
sapere se Paolo lasciato la città in uno stato di assedio durante il suo primo passaggio a Damasco, quindi, al momento
della sua conversione, o quando vi ritorna per una seconda volta e cioè tre anni dopo (Gal 1,17). Nel primo caso
l’incontro con Cristo Damasco ha luogo nel 37, nel secondo tre anni prima. Oggi è questa seconda data che viene
accertata per motivi logici. Se Paolo fugge da un pertugio, e perché è ricercato. Non può esserlo, quindi, che la seconda
volta, quando la sua conversione è nota a tutti. At 9,8-25 farebbe una presentazione sintetica del duplice soggiorno di
Paolo Damasco.
255 in greco rivelare significa dare un’informazione assoluta su ciò che non è conosciuto. “Il Vangelo da me annunciato

non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto nello imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal
1,11: cf. Ef 3,3). I termini rivelare o rivelazione non riguardano gli eventi terrificanti della storia che alimentano le nostre
paure. Trattandosi di una rivelazione, questi racconti vengono presentati in termini di visioni e di audizione. I verbi
vedere o apparire vengono, peraltro, utilizzati nei racconti delle apparizioni del risorto e ripresi negli Atti per evocare
l’evento di Damasco. Il termine rivelare ci dà la chiave di comprensione dell’evento ed elimina l’ambiguità possibile del
termine vedere.

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contenuto di questa rivelazione, che illumina Paolo nel cuore della sua coscienza, rappresenta per
lui una nuova nascita (cf. 2Cor 4,6).
Cristo lo capovolge completamente: Paolo “cade a terra” (At 22,7). La sua visione del mondo
e dell’uomo è anch’essa capovolta. E tutta la sua fede di fariseo, che viene spazzata via con la forza
della scoperta di Cristo perseguitato. Solo Dio può operare un tale rivolgimento. Damasco è
l’incontro per eccellenza con Cristo da parte di Paolo: “Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (Fil
3,12). È per questo che il Risorto merita ogni adorazione, al punto che, davanti a lui, non solo Paolo
cade a terra, ma “si piega ogni ginocchio” (Fil 2,10).
Questo evento è qualcosa di non rappresentabile; di qui il ricorso al genere letterario dei
racconti di vocazione profetica, per testimoniare la sua realtà, il suo significato. Cristo chiama Paolo
a suo seguito fermando, allo stesso momento, la sua mano di persecutore. Lo strappa al suo mondo
per introdurlo alla missione nuova che gli riserva. Apparendogli in questo modo, non sono Gesù
mette un termine alla persecuzione nella quale Paolo si è impegnato anima e corpo, ma lo mette a
parte per affidargli l’annuncio della buona notizia tutti gli uomini256, e non solo a quelli della sua
stirpe. In effetti, colui che Paolo scopre sulla via di Damasco come luce del mondo, non deve
restare sotto il moggio257. Paolo comprende che gli incombe di annunciarlo non solo i suoi fratelli
giudei, ma tutte le genti. Viene spossessato di tutte le sue certezze: “Ma queste cose, che per me
erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo” (Fil 3,7). L’incontro di
Damasco è, dunque, un rinnovamento assoluto. È una rottura nella vita di Paolo. Tale rottura non
può essere compresa se non a partire dall’opposizione a Cristo, sulla quale Paolo aveva costruito la
propria vita. Non soltanto, essa lo apre ad una conoscenza sul significato di Dio che egli credeva di
servire con zelo perseguitando i cristiani, ma lo fa entrare in un’esistenza nuova. Per questo tale
esperienza determinò un rapporto nuovo con il mondo e lo introduce, anche, ad una nuova visione
dell’uomo e della santità. Lo porta a rinnovare la sua lettura delle Scritture.

L’incontro di Damasco: tre punti di vista negli Atti degli Apostoli


Gli Atti degli Apostoli ci danno tre racconti dell’incontro di Damasco258. Tutto questo dice la
sua importanza per l’annuncio del Vangelo. Al contrario di Paolo che descrive un ribaltamento
interiore, l’autore degli Atti presenta la vocazione Paolo al modo degli storici dell’antichità.
Tuttavia, i due approcci non hanno che un unico scopo: parlare del trattamento particolare, che
Cristo riserva Paolo. Gli Atti contengono tre narrazioni dell’evento che cambia la vita di Saulo. La
prima in 9,1-19 in forma biografica; la seconda e la terza sono in forma autobiografica come
discorsi di Paolo in due diverse circostanze: nel tempio dinanzi alla folla che vuole ucciderlo (22,1-
21) e nel pretorio a Cesarea dinanzi al procuratore Festo ed al re Agrippa (26,1-23). Vi sono
differenze tra i tre resoconti ma concordano nei punti fondamentali.
Atti 9 Atti 22 Atti 26
~O de. Sau/loj e;ti evmpne,wn 4 o]j tau,thn th.n o`do.n evdi,wxa 9 evgw. me.n ou=n e;doxa evmautw/|
avpeilh/j kai. fo,nou eivj tou.j a;cri qana,tou desmeu,wn kai. pro.j to. o;noma VIhsou/ tou/
maqhta.j tou/ kuri,ou( paradidou.j eivj fulaka.j Nazwrai,ou dei/n polla.
proselqw.n tw/| avrcierei/ a;ndraj te kai. gunai/kaj( evnanti,a pra/xai(
2 hv|th,sato parV auvtou/ 10 o] kai. evpoi,hsa evn
evpistola.j eivj Damasko.n pro.j 5 w`j kai. o` avrciereu.j ~Ierosolu,moij( kai. pollou,j te

256 Cf. Rm 1,2.


257 Cf. Mt 5,13-14.
258 At 9,1-18; 22,4-16; 26,9-18.

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ta.j sunagwga,j( o[pwj eva,n marturei/ moi kai. pa/n to. tw/n a`gi,wn evgw. evn fulakai/j
tinaj eu[rh| th/j o`dou/ o;ntaj( presbute,rion( parV w-n kai. kate,kleisa th.n para. tw/n
a;ndraj te kai. gunai/kaj( evpistola.j dexa,menoj pro.j avrciere,wn evxousi,an labw,n
dedeme,nouj avga,gh| eivj tou.j avdelfou.j eivj Damasko.n avnairoume,nwn te auvtw/n
Vierousalh,mÅ evporeuo,mhn( a;xwn kai. tou.j kath,negka yh/fonÅ
evkei/se o;ntaj dedeme,nouj eivj 11 kai. kata. pa,saj ta.j
VIerousalh.m i[na timwrhqw/sinÅ sunagwga.j polla,kij timwrw/n
auvtou.j hvna,gkazon blasfhmei/n
perissw/j te evmmaino,menoj
auvtoi/j evdi,wkon e[wj kai. eivj
ta.j e;xw po,leijÅ
6 VEge,neto de, moi 12 VEn oi-j poreuo,menoj eivj
poreuome,nw| kai. evggi,zonti th/| th.n Damasko.n metV evxousi,aj
3 evn de. tw/| poreu,esqai Damaskw/| peri. meshmbri,an kai. evpitroph/j th/j tw/n
evge,neto auvto.n evggi,zein th/| evxai,fnhj evk tou/ ouvranou/ avrciere,wn
Damaskw/|( evxai,fnhj te auvto.n periastra,yai fw/j i`kano.n 13 h`me,raj me,shj kata. th.n
perih,strayen fw/j evk tou/ peri. evme,( o`do.n ei=don( basileu/(
ouvranou/ 7 e;pesa, te eivj to. e;dafoj kai. ouvrano,qen u`pe.r th.n
4 kai. pesw.n evpi. th.n gh/n h;kousa fwnh/j legou,shj moi( lampro,thta tou/ h`li,ou
h;kousen fwnh.n le,gousan Saou.l Saou,l( ti, me diw,keijÈ perila,myan me fw/j kai. tou.j
auvtw/|( Saou.l Saou,l( ti, me 8 evgw. de. avpekri,qhn( Ti,j ei=( su.n evmoi. poreuome,noujÅ
diw,keijÈ ku,rieÈ ei=pe,n te pro,j me( VEgw, 14 pa,ntwn te katapeso,ntwn
5 ei=pen de,( Ti,j ei=( ku,rieÈ o` eivmi VIhsou/j o` Nazwrai/oj o]n h`mw/n eivj th.n gh/n h;kousa
de,( VEgw, eivmi VIhsou/j o]n su. su. diw,keijÅ fwnh.n le,gousan pro,j me th/|
diw,keij\ 10 ei=pon de,( Ti, poih,sw( ~Ebrai<di diale,ktw|( Saou.l
ku,rieÈ o` de. ku,rioj ei=pen pro,j Saou,l( ti, me diw,keijÈ
6 avlla. avna,sthqi kai. ei;selqe me( VAnasta.j poreu,ou eivj sklhro,n soi pro.j ke,ntra
eivj th.n po,lin( kai. Damasko,n kavkei/ soi lakti,zeinÅ
lalhqh,setai, soi o[ ti, se dei/ lalhqh,setai peri. pa,ntwn w-n 15 evgw. de. ei=pa( Ti,j ei=(
poiei/nÅ te,taktai, soi poih/saiÅ ku,rieÈ o` de. ku,rioj ei=pen(
9 oi` de. su.n evmoi. o;ntej to. VEgw, eivmi VIhsou/j o]n su.
me.n fw/j evqea,santo th.n de. diw,keijÅ
fwnh.n ouvk h;kousan tou/ 16 avlla. avna,sthqi kai. sth/qi
7 oi` de. a;ndrej oi` lalou/nto,j moiÅ evpi. tou.j po,daj sou\ eivj tou/to
sunodeu,ontej auvtw/| ga.r w;fqhn soi(
ei`sth,keisan evneoi,( avkou,ontej 11 w`j de. ouvk evne,blepon avpo. proceiri,sasqai, se u`phre,thn
me.n th/j fwnh/j mhde,na de. th/j do,xhj tou/ fwto.j evkei,nou( kai. ma,rtura w-n te ei=de,j ÎmeÐ
Qewrou/ntejÅ ceiragwgou,menoj u`po. tw/n w-n te ovfqh,somai, soi(
8 hvge,rqh de. Sau/loj avpo. th/j suno,ntwn moi h=lqon eivj 17 evxairou,meno,j se evk tou/
gh/j( avnew|gme,nwn de. tw/n Damasko,nÅ laou/ kai. evk tw/n evqnw/n eivj
ovfqalmw/n auvtou/ ouvde.n ou]j evgw. avposte,llw se
e;blepen\ ceiragwgou/ntej de. 18 avnoi/xai ovfqalmou.j
auvto.n eivsh,gagon eivj auvtw/n( tou/ evpistre,yai avpo.
Damasko,nÅ sko,touj eivj fw/j kai. th/j
evxousi,aj tou/ Satana/ evpi. To.n
qeo,n( tou/ labei/n auvtou.j
a;fesin a`martiw/n kai. klh/ron
evn toi/j h`giasme,noij pi,stei th/|
eivj evme,Å

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Alcune note sui tre racconti di Atti:


1) Il diverso contesto in cui si pongono anche se tutte e tre sono dovute alla mano dell’autore;
2) La descrizione della fase precedente a ciò che accade sulla via di Damasco;
3) Ciò che accade sulla via di Damasco
4) La funzione di Anania:
a. La luce;
b. La Parola;
c. il comando;
d. coloro che sono presenti
5) La missione. In At 9 è specificata nelle parole di Anania, in quello di 22 nella parole di
Anania ma anche direttamente nel tempio dal Signore risorto

Il contesto
At 9: dopo l’espansione delle prime comunità cristiane a partire da Gerusalemme, dalla
Samaria, da Gaza e Cesarea, gli Atti presentano Paolo nel momento in cui inizia a perseguitare i
cristiani.
At 22: il racconto della vocazione di Paolo viene messo in bocca allo stesso apostolo. Paolo è
appena stato arrestato Gerusalemme. Dopo il suo arresto si rivolge giudei.
At 26: Paolo parla davanti al re Agrippa II, Fratello di Berenice, che si reca a Cesarea presso il
procuratore romano Festo, per fare atto di vassallaggio. Paolo è ancora tenuto in carcere. Vuole
difendere la propria causa davanti al re.

I tre racconti
Sono sostanzialmente identici: tutti e tre riferiscono l’incontro di Paolo con il risorto, e due
racconti riferiscono l’incontro anche con Anania (At 9 e 22). Mentre Paolo è in viaggio verso
Damasco, incontra una luce venuta dal cielo. I racconti insistono sul carattere improvviso (9,3;
22,6; 26,13). Paolo cade a terra (9,4; 22,7) con i suoi compagni (26,14). Essi scorgono la luce
(22,9), ma non vedono nessuno (9,7). Odono la voce (9,7) o, al contrario, non la odono (22,9).
Paolo sente una voce che gli dice: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. E gli chiede: “Chi sei?”.
Le risposte sono sensibilmente le stesse: “Io sono Gesù che tu perseguiti” (9,5; 22,8; 26,14-15).
Paolo chiede, allora, che cosa deve fare (22,10). Va Damasco (9,8-9; 22,1) e alloggia presso la
comunità cristiana (19,17-25). Con la loro espressione letteraria questi testi narrano come Paolo
esca irriconoscibile da una tale esperienza, mentre le Lettere, senza descrivere l’evento, attestano lo
sconvolgimento verificatosi nell’Apostolo.
Lasciano comunque perplessi i diversi dettagli dei racconti: se i compagni di Paolo rimangono
senza parole o cadono a terra; se sentono o meno la voce del cielo; sebbene Gesù si rivolga a Paolo
“nella lingua ebraica”, egli cita un proverbio greco (26,14). La mancanza di armonizzazione di tali
dettagli riflette la mancanza di preoccupazione di Luca per la concordanza. Tuttavia in ogni
racconto il messaggio essenziale è convogliato su Paolo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» -
“Chi sei, o Signore?” - “Io sono Gesù (di Nazareth), che tu perseguiti”.

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Che cosa l’evento di Damasco non è


Damasco non è un’allucinazione di un mito. L’incontro con Cristo sconvolge in modo tale che
da un persecutore dei cristiani diventa testimone del Risorto. Questo sconvolgimento attestato dalle
Lettere, ma anche dei cristiani che ormai non temono più259. Damasco non è da interpretare con un
registro psicologico o para psicologico. Paolo non rovescia la sua scala di valori secondo lo schema
degli psicologi, che spiegano come lo stress del persecutore faccia sì che i carnefici adotti il punto
di vista della vittima. Damasco non è una conversione. Paolo non si converte nel senso in cui la
conversione implica la rinuncia ad una vita distrutta. L’immagine di Paolo che si converte è
ereditata da Agostino e da Lutero, i quali presentano Paolo, proiettando la loro esperienza
personale, come un uomo torturato dalle sue manchevolezze. Prima di Damasco Paolo è un uomo
teso alla santità, appassionato della gloria di Dio, brillante fariseo, “uomo irreprensibile”. La rottura
che si instaura nella vita di Paolo si colloca a livello della fede in Cristo e tocca le profondità più
determinanti della sua coscienza e del suo essere.

Paolo cade da cavallo?


Nell’immaginario cristiano Paolo simboleggia il tipo di conversione totale, radicale, folgorante.
La coscienza cristiana ne contrassegna al punto che le immagini utilizzate per descrivere l’evento
sono significative. Paolo, nel nostro immaginario sulla via di Damasco, cade da cavallo: ora, nel
Nuovo Testamento, non si parla mai di cavallo. Il cavallo viene da un tema iconografico apparso
nel 12º secolo che rappresenta Paolo nei tratti di un cavaliere. Tutto ciò perché il cavaliere è il
personaggio-chiave del medioevo; tale immagine è applicata anche a Paolo. Se questa immagine ha
il vantaggio di sottolineare il carattere nobile dell’impegno al servizio della gloria di Dio, è di per sé
insufficiente per esprimere la profondità del rifiuto che Paolo oppone a Cristo e della ribaltamento
che Damasco rappresenta.

Il tempo della maturazione


Dopo l’evento di Damasco Paolo non va a Gerusalemme a trovare gli apostoli per ricevere da
loro la conoscenza del Vangelo. È quello che scrive in Gal 1,16s: “Subito,… senza andare a
Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me…”. Ed è anche quello che suggerisce il
racconto degli Atti. Tutto questo equivale a dire che egli è nella certezza che il Cristo, che gli è
venuto incontro, è il medesimo predicato dagli apostoli. L’evento di Damasco lo mette nella
categoria degli apostoli. Non ne può dubitare. Vediamone i dati.
I dati provenienti da Atti e Galati presentano delle discordanze.

ATTI GALATI
ü Sulla via di Damasco 9,3ss la rivelazione 1,15-16
ü in Arabia 1, 17
ü cieco in casa di Giuda sulla via diritta 9,11
ü incontro con Anania e battesimo 9,17-19a
ü con i discepoli per alcuni giorni 9,19b
ü attività missionaria a Damasco 9,20-22 di nuovo a Damasco 1,17b

259 Cf. Gal 1,21-24; At 9,19-25.

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ü fuga da Damasco per la persecuzione dei


giudei 9,23-25
Ø a Gerusalemme entra in rapporto con i dopo tre anni a Gerusalemme per
discepoli per la mediazione di Barnaba quindici giorni con Cefa 1,18
9,26-28
Ø attività di disputa con i giudei ellenisti che
vogliono ucciderlo 9,29
o viene fatto fuggire a Cesarea; da qui a dalle parti della Siria e della Cilicia
Tarso 9,30 1,21
v Barnaba da Tarso lo conduce ad Antiochia
11,25-26a
v attività missionaria ad Antiochia 11,26b
o viaggio missionario di Paolo e Barnaba alle parti della Siria e della Cilicia
13-14 durante i quattordici anni prima del
secondo viaggio a Gerusalemme
1,21; 2,1
Ø il viaggio a Gerusalemme 15,2 quattordici anni dopo il secondo
viaggio a Gerusalemme 2,1

Pur in una certa unità di quadro, vi è una certa discordanza tra i dati provenienti da Atti e quelli
delle lettere.
ü Damasco è certamente il punto di riferimento del Paolo appena convertito: ciò emerge dai tre
racconti di Atti (9,1-19; 22,3-21; 26,9-18) ed anche da quell’espressione di Gal 1,17 (pa,lin
u`pe,streya eivj Damasko,n).
ü La discordanza emerge sulla prima permanenza in questa città: se essa, cioè, avvenga prima del
suo viaggio in Arabia o dopo
ü At 9 lascia intuire una presenza Damasco per un certo tempo prima con i discepoli poi in una
attività missionaria (9,19: VEge,neto de. meta. tw/n evn Damaskw/| maqhtw/n h`me,raj tina,j)GNT Act
9:20 kai. euvqe,wj evn tai/j sunagwgai/j evkh,russen to.n VIhsou/n o[ti ou-to,j evstin o` ui`o.j tou/ qeou/)).
Successivamente il viaggio a Gerusalemme.
ü Gal 1,16-17 sembra non aver dubbi sulla scelta di Paolo: euvqe,wj ouv prosaneqe,mhn sarki. kai.
ai[mati( ouvde. avnh/lqon eivj ~Ieroso,luma pro.j tou.j pro. evmou/ avposto,louj( avlla. avph/lqon eivj
VArabi,an. Sembra dunque da escludere una permanenza in Damasco. Forse il dato è da valutare
alla luce della lettera ai Galati e della sua polemica: il Vangelo di Paolo non proviene da alcun
uomo né Paolo lo ha appreso da alcuno.
ü Dov’è esattamente l’Arabia?
Arabia in quanto concetto geografico comprende il territorio ad occidente della Mesopotamia,
a est ed a sud della Siria e della Palestina, fino all’istmo di Suez. Nel periodo romano
sorsero dei regni indipendenti come quello dei Nabatei a sud di Damasco, che potrebbe
essere detto semplicemente Arabia (Diodoro Siculo ed altre citazioni) ed è regolarmente
chiamato così da Giuseppe.
ü Cosa fa esattamente Paolo da quelle parti? si dedica alla predicazione e per questo motivo il
governatore del re Areta lo fa espellere? o è un tempo di riflessione e approfondimento?

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ü Successivamente all’Arabia vi deve essere stata un’ulteriore permanenza di tre anni (At 9,23:
23 ~Wj de. evplhrou/nto h`me,rai i`kanai,( sunebouleu,santo oi` VIoudai/oi avnelei/n auvto,n\) con
un’attività missionaria che termina per la crescente opposizione dei giudei e la fuga da Damasco
testimoniata anche da 2Cor 11,32-33 per quanto in quest’ultimo testo si parli del governatore
della città ed in Atti no. I giudei possono certamente aver chiesto l’aiuto dell’autorità costituita.
Paolo, dunque, va a Damasco, con gli occhi chiusi, per ricevere Cristo. Non vi si reca più per
distruggere la comunità cristiana, ma per farsi iniziare da essa alla conoscenza di Cristo secondo
quanto gli ha detto il Risorto: “Ma tu alzati e rientra nella città, lì ti sarà detto ciò che devi fare”
(At 9,6); o ancora: “Alzati e proseguì verso Damasco; lì ti sarà detto tutto quello che è stabilito che
tu faccia” (At 22,10). L’ingresso di Paolo nella città di Damasco, è un ingresso nella comunità:
questa comunità, che Paolo, poco tempo prima, perseguitava, lo introduce alla conoscenza di Cristo.
Il ruolo della comunità è tanto importante che uno dei suoi membri, Anania, riceve da Cristo la
missione particolare di integrare Paolo nella comunità260. Confidando anche lui nella Parola del
Signore, Anania accetta di battezzare Paolo (At 9,18). In effetti, Paolo, che è stato immerso nella
gloria di Cristo sulla via di Damasco, deve ora essere immerso nel mistero della sua morte e della
sua vita. Il cammino che Cristo gli ha fatto fare non lo dispensa dal cammino che gli fa fare la
Chiesa261. Paolo è anche associato al pasto pasquale, sarà il primo a darne il racconto. Anania e la
comunità gli fanno scoprire il cuore della confessione di fede cristiana, cioè Cristo morto e risorto.
È ciò che la comunità ha ricevuto e che ora, sua volta, trasmette fedelmente. E ormai a partire da
questo incontro con Cristo che Paolo si ricostruirà.
Un rinnovamento assoluto, le cui conseguenze costituiscono nella vita di Paolo un punto di
partenza altrettanto assoluto. Nella sede della comunità Paolo trova la conferma della propria
esperienza fuori dal comune. È allora che egli recupera la vista; scopre di avere, nella chiesa, un
posto di cui si dirà sempre indegno. Come Cefa e i Dodici, che hanno visto Cristo risorto, Paolo
testimonierà, a sua volta, la tradizione ricevuta, comune a tutti gli apostoli262.
Paolo ha scritto della svolta determinante per la sua vita in Gal 1,16:
- “(Dio) si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani”263.
- Si ritirò in Arabia e, poi, ritornò a Damasco264.
- Tre anni dopo fuggì da Damasco (39 d.C. ca.) e andò a Gerusalemme (Gal 1,18).
- Così nel 36 ca. Paolo, prima fariseo, divenne un cristiano e un “apostolo dei gentili” (Rm
11,13)265.
Paolo chiaramente considerava l’esperienza sulla via di Damasco come la svolta nella sua vita
e in questo senso una conversione. Per lui fu un incontro con il Signore risorto (Kyrios), incontro

260 Cf. At 9,10-19; 22,12-16.


261 Nelle sue lettere Paolo avrà occasione di collocare il battesimo nell’ambito della fede. Al tempo della crisi di Corinto

(1Cor 1,10-17; 10,1-2) egli spiegherà che ciò che viene prima è la accettazione del Vangelo: il battesimo non è che una
conseguenza. In seguito, in occasione del dibattito sulla circoncisione, egli richiamerà il significato del battesimo (Rm
6,1-14; Gal 3,27; Col 2,11s).
262 Cf. 1Cor 11,23; 15,3. Tradizione, in greco parádosis, dal verbo paradídōmi che significa “consegnare” e che viene

spesso tradotto con “trasmettere”. Questi termini sono utilizzati nella tradizione farisaica a proposito della torah, ma
prendono senso più forte ancora perché, nel Nuovo Testamento, servono a dire che il Padre consegna il proprio Figlio,
che il Figlio è consegnato da Giuda e che il Vangelo è trasmesso.
263 Questa rivelazione venne dopo una vita nel giudaismo e la persecuzione della chiesa di Dio (1,13; cf. Fil 3,6 e A. J.

HULTGREN, in JBL 95[1976] 97-111).


264 Cf. Gal 1,17. Che la conversione abbia avuto luogo vicino a Damasco si deduce dal verbo ritornò.
265 A seconda di quanto si consideri lungo il controllo da parte di Areta su Damasco, le date della conversione e della

fuga di Paolo vengono calcolate in modo diverso: Lüdemann data la conversione nel 30 o nel 33, la fuga nel 33 o nel 36;
Jewett, invece, data la conversione nel 34 e la fuga nel 37.

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mai dimenticato. Quando il suo apostolato fu successivamente messo alla prova, era solito
chiedersi: “Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?” (1Cor 9,1; cf. 15,8). La
conseguenza di quella “rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12), fu che egli divenne “servitore di
Cristo” (Gal 1,10), con il dovere (avna,gkh, 1Cor 9,16) di predicare il vangelo di Cristo e per questo
si è fatto “tutto a tutti” (1Cor 9,22).
La conversione di Paolo non va considerata come il risultato della condizione umana descritta
in Rm 7,7-8,2, come se quello fosse un racconto autobiografico della sua stessa esperienza. Da
cristiano Paolo guardava indietro alla sua vita di giudeo con una coscienza forte: “Irreprensibile
quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6b). Non fu schiacciato dalla
legge. Le origini psicologiche dell’esperienza di Paolo rimangono in gran parte inaccessibili per
noi, ma in ogni caso c’è stato un rovesciamento o un trasferimento di valori (G. G. Gager) che lo
portarono ad una nuova comprensione di sé come apostolo del vangelo tra i pagani e ad
un’interpretazione , dell’evento-Cristo sotto diverse figure.
Prima di attraversare il Mediterraneo per annunciare il Vangelo, conformemente alla
testimonianza che gli deve ormai al mistero di Cristo, Paolo parte per l’Arabia: “Mi recai in
Arabia…” (Gal 1,17). Là egli interiorizza l’incontro di Damasco. L’Arabia non è una metafora, ma
implica un soggiorno del tutto reale nel sud della Transgiordania che, al tempo, fa parte del regno
nabateo. Il deserto, nella traduzione giudaica, rappresenta più che un luogo di soggiorno, il luogo di
passaggio, di un’esperienza dello spostamento, la scuola della Parola di Dio. Paolo non fornisce
particolari su quanto fa nel corso di questo soggiorno. Se non prova il bisogno di dirlo, è perché la
cosa va da sé. Egli è talmente abitato dall’esperienza inaudita appena fatta sulla via di Damasco che
essa nutre il tempo trascorso nel deserto. L’esperienza gli permette di leggere le Scritture, di cui è
compenetrato, alla luce di Cristo. È tutto il contenuto dell’Antico Testamento che prendono un
rilievo completamente nuovo. Per trovare Cristo, gli basta leggere le Scritture a ritroso. Egli si
appropria, in tal modo, dell’identità di colui che ha combattuto con tanto accanimento e
determinazione, perseguitando coloro, che confessano Gesù come il Signore. Questi tre anni di
maturazione preparano un futuro266.
Dopo questo soggiorno nel deserto, Paolo torna a Damasco, a vivere con la comunità cristiana
(Gal 1,17). E presso questa comunità che li scopre la vita e l’opera di Gesù, che all’inizio si è
rivelato lui come Signore. Per dire chiaramente che egli non deve la sua vocazione unica se non
all’appello di Cristo, Paolo sottolinea la sua distanza nei confronti della Chiesa di Gerusalemme:
non andrà a trovare gli apostoli se non nel volgere di 3 anni, dopo il suo ritorno in Arabia e questo
secondo soggiorno a Damasco (Gal 1,17s). Le chiese di Giudea non lo conoscono nemmeno (Gal
1,22), sono soltanto informate del cambiamento radicale avvenuto di lui. Nel corso di questo

266 La conoscenza di Cristo ereditata dalla comunità. Le lettere conservano la traccia di ciò che Paolo riceve dalla
comunità. I titoli dati a Gesù sono ereditati dalla comunità, tanto da quella di Gerusalemme quanto da quella di
Antiochia: “Signore” e “Cristo”. Paolo lega tra loro i due titoli. Il titolo “Figlio di Dio”, invece, è usato meno spesso (1Ts
1,10; Gal 4,4-6); si osserverà che gli Atti usano una sola volta questo titolo e lo metto in bocca Paolo (At 9,20). Paolo non
riporta anche delle parole attribuite Gesù. La più sorprendente di queste parole è quella che Gesù rivolge a Dio: “Abbà,
Padre” (Gal 4,6; Rm 8,15). Egli fa riferimento anche alle parole di Gesù sul matrimonio: “Agli sposati ordino, non io, ma il
Signore: la moglie non si separa dal marito” (1Cor 7,10; cf. Mt 19,1-9; Mc 10,1-12). Egli riprende anche delle espressioni
proprie di Gesù: “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi perseguitano” (Rm 12,14; Mt 5,44; Lc
6,27s); parlando del ritorno del Signore, egli parla del “giorno che viene come un ladro” (1Ts 5,2; Mt 24,43), o ancora, a
proposito del rispetto dovuto alle autorità, scrive: “Rendete a ciascuno ciò che di dovuto: a chi si devono le tasse date le
tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi rispetta, il rispetto” (Rm 13,7), che richiama il “rendete a
Cesare quello che è di Cesare” (Mt 22,21; Mc 12,17; Lc 20,25). Paolo evoca l’attesa del ritorno del Signore che la comunità
esprime in aramaico: “Maranatha/Il Signore viene” (1Cor 16,22). È possibile, inoltre, che faccia suoi i testi che sono
frutto di pratiche liturgiche o confessionali cristiane: l’inno di Fil 2,6-11, quello di Col 1,15-20 o anche alcuni frammenti
di inni (Ef 5,14).

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secondo soggiorno dovrà fuggire dalla città, dileguandosi lungo le mura di cinta. Il che
collocherebbe l’inizio del suo ministero verso il 37. Dopodiché egli parla di un passaggio a
Gerusalemme, di cui dice che fu breve, in contrasto con i tre anni, per significare chiaramente che
egli è l’uomo delle nazioni267.
A Damasco Paolo scopre che “il figlio di Dio, Gesù Cristo, che non fu sì e no, ma in lui vi fu il
sì. Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono si” (2Cor 1,19-20). Le Scritture si illuminano
prendendo un senso nuovo che rovescia interamente la conoscenza che egli ne aveva.

1.3. L’eredità farisaica rovesciata268


La potenza del suo pensiero è tale che Paolo è stato presentato come il fondatore del
cristianesimo. In realtà Paolo non inventa né Cristo, né tantomeno la Chiesa. Egli annuncia la
resurrezione, sviluppando le conseguenze umane e cosmiche di questo evento inaudito,
inaspettato269. La sua conoscenza di Cristo non gli viene dalla vita quotidiana, che egli avrebbe
condiviso con lui. Non è legata ad una scoperta progressiva fatta in vari contatti con lui, in momenti
di convivialità. Egli non ha preso parte, né da vicino né da lontano, ad alcun evento della vita di
Cristo. Paolo non ha mai incontrato Gesù, benché abbia frequentato Gerusalemme come lui. La
conoscenza che Paolo ha di Cristo è il risultato di un rovesciamento folgorante. Questo, comunque,
non dipende totalmente dalla scienza infusa. Paradossalmente, in questa rottura, Paolo non parte dal
nulla. Prima di Damasco, in quanto fariseo, egli si è fatto delle idee su Cristo. È quello che egli
chiama “conoscerlo secondo la carne” (cf. 2Cor 5,16), in base a ciò che ha sentito dire di lui.
Adesso, alla luce del Risorto, egli fa il cammino inverso. Impara a conoscere Cristo non alla
maniera umana, come faceva prima di Damasco, ma secondo lo Spirito di Dio: “Anche se abbiamo
conosciuto Cristo la maniera umana, ora non lo conosciamo più così” (2Cor 5,16).

Gesù si fa incontro a Paolo


Quando riceve Cristo dalla comunità, gli aspetti che egli combatteva sono rovesciati. Davanti a
lui si aprono orizzonti di senso, veramente inaudito. Alla luce del risorto e del messaggio
evangelico trasmesso dalla comunità, egli rovescia completamente l’Antico Testamento alla luce
dell’annuncio di Cristo.

Dal Maledetto al Benedetto


Fino ad allora Paolo considerava il Cristo crocifisso come maledetto, in base alle affermazioni
di Dt 21,23: “L’appeso è una maledizione di Dio”; era quindi pensabile ch’egli fosse il Messia.
Adesso scopre che, se Cristo è risorto, è perché Dio non lo ha lasciato nella morte. Egli non è il
Maledetto, bensì il Benedetto di Dio, perché la resurrezione lo rivela come il Figlio unico del Padre.

L’unico Giusto

267 Paolo e Qumran. Alcuni hanno pensato che Paolo avesse potuto avere dei contatti con la setta degli esseni a Qumran,

prima o dopo Damasco, a motivo di espressioni comuni agli scritti di Qumran e a certe sue lettere. In realtà, si esistono
delle espressioni comuni provenienti da mondo culturale comune, il significato non è identico, a motivo dei rispettivi
contesti. Così, a titolo di esempio, si può citare “ figli della luce”, espressione che a Qumran designa i discepoli della setta,
mentre nella prospettiva di Paolo la luce fa riferimento a Cristo “luce del mondo”. A Qumran il consiglio della comunità e
paragonato a una “piantagione eterna” o alla “casa della santità”. Simili immagini vengono usate anche da Paolo
proposito della Chiesa (cf. 1Cor 3,5-17).
268 Testi di riferimento: Mt 10,1-4; Mc 3,13-14; Lc 6,12-16; At 1,15-26; 9,10-19; 22,10-16; 1Cor 15,1-11; Gal 1,17-24; 2,1-

21; Fil 3,12-14.


269 La panoramica di questi studi sono stati presentati nel capitolo I, al punto 2.3.: Paolo e Gesù.

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Paolo comprende che il Risorto è l’unico giusto. In effetti, è risorto colui che si è dato al Padre
non mediante l’osservanza della legge, bensì offrendosi sulla croce. Questa scoperta ha provocato
un rovesciamento che contraddice tutto quello che Paolo ha creduto: egli, che cercava di essere
giusto davanti a Dio fino a maledire Cristo in nome della legge, scopre di non poter essere
giustificato se non da Cristo e in Cristo. Il giusto è il Signore, non Paolo. La sua ricerca di giustizia
disarmata e lo affida tutto intero Cristo: “Per me infatti il vivere Cristo” (Fil 1,21). Una simile
scoperta non è solo un faccia a faccia. È un’illuminazione. Anzi, di più: è un principio di
trasformazione che permette di entrare in comunione con Dio: Paolo la chiamerà giustificazione270.

Senza Legge, nella fede


Quello che Paolo cercava di tenere nella legge gli viene dato da un Altro. Scopre che non può
nulla senza Cristo. Egli considera tutto spazzatura e accetta di perdere tutto. Anzi, ritengo “che tutto
sia una perdita motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore” (Fil 3,8).
Tutti i vantaggi che la legge rappresenta, egli sacrifica: non sono più vantaggi di utilità. Paolo è
andato tanto avanti nell’idea di potersi salvare da se stesso che, quando scopre l’abisso che lo separa
da Gesù, non può altro che essere spossessato di se stesso (cf. Gal 2,20). Comprende, allora, che la
legge gli ha nascosto Cristo. La giustizia ch’egli cercava è Cristo: nient’altro che nessun altro. Gli
sforzi che ha fatto per essere fedeli alla legge ed il suo zelo accanito nel sostenere le tradizioni dei
padri (Gal 1,14), ormai per lui sono del tutto vani. Poiché, ormai, Paolo sa che cosa significa
contare sulle opere, potrà spiegare, dopo aver lungamente maturato, ciò che implica liberarsi delle
opere, nella Lettera ai Galati e nella Lettera ai Romani.

L’unico Signore
Se in Gesù risorto Paolo riconosce il Signore, è certamente per mezzo dello Spirito, come egli
affermerà: “Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire
Gesù è anatema! E nessuno può dire: Gesù è il Signore! Se non sotto l’azione dello Spirito Santo”
(1Cor 12,3). Egli riconosce che “Dio gli [a Gesù] donò il nome che al di sopra di ogni nome, perché
nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra sottoterra, e ogni lingua proclami:
Gesù Cristo Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,9-11). Ormai il suo unico desiderio sarà quello
di “conoscere lui, la potenza della sua resurrezione, la comunione alle sue sofferenze” (Fil 3,10).
Conoscerlo dipende dallo Spirito e porta ad una nuova sapienza (1Cor 2). Partecipare alle sue
sofferenze significa rifiutare tutto ciò che potrebbe esimere da Cristo (cf. Fil 3,10). Se, quindi,
Paolo vuole seguirlo, dovrà passare per le vie della passione “nella speranza di giungere alla
resurrezione dei morti” (Fil 3,11).

La sollecitudine per le chiese


Nell’udire la voce dirgli sulla via di Damasco: “Io sono Gesù Nazareno che tu perseguiti” (At
22,8), Paolo fa il collegamento tra i cristiani ed il Signore. Perseguitare i cristiani equivale a
perseguitare il Signore. Da persecutore accanito che era, diventerà colui che si prodiga senza misura

270 Non si dà dicotomia tra l’appartenenza giudaica di Paolo e la sua cultura. Paolo rimane giudeo per la cultura. Non

rinnega mai le proprie leggi. La separazione tra cristianesimo e giudaismo non risale a Paolo, ma si colloca molto dopo il
70. Per Paolo non si dà rottura tra il giudaismo la sequela di Cristo. Egli eredita un mondo greco-ellenistico con le
Scritture, con la sua lingua, il greco. Utilizzerà questa eredità per comprendere che cosa il mistero cristiano rappresenta.
Si potrebbe dire che egli opera il passaggio tra l’Antico Testamento ed il Nuovo Testamento.

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per tutte le chiese. Una tale presa di coscienza è all’origine della sua comprensione della Chiesa
come corpo di Cristo che si svilupperà in seguito271.

Il Vangelo delle nazioni


Damasco non fa di Paolo un saggio che si consacra d’ora in, poi, alla meditazione. Paolo
prende progressivamente coscienza che la conoscenza che egli riceve deve essere comunicata a tutti
perché vale per tutti: “A me, che sono l’ultimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia:
annunziare le genti le impenetrabili ricchezze di Cristo” (Ef 3,8). Quel Cristo risorto che lui ha
scoperto gli ha conferito la missione di annunciarla a tutte le genti: “Quando Dio, che mi scelse fin
dal seno di mia madre mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il figlio suo
perché lo annunziasse in mezzo alle genti” (Gal 1,15). Di qui il nome di apostolo delle nazioni o
delle genti che gli è stato dato (cf. Ger 1,5).
Paolo colloca la sua vocazione-missione nel disegno di Dio, il cui mistero dell’essere rivelato
tutta l’umanità. Questo incontro, unico nella storia, fonda la sua missione: “Infatti annunziare il
Vangelo non è per me un vanto, perché una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio
il Vangelo” (1Cor 9,16). L’apertura alle nazioni è all’opposto di ciò che Paolo riteneva prima, lui
che metteva il proprio zelo nel difendere l’alleanza contro l’indegnità degli altri popoli.

La storicità del suo ministero


Dopo l’evento di Damasco Paolo si presenta come apostolo di Cristo: “Io infatti sono il più
piccolo tra gli apostoli non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la
Chiesa di Dio” (1Cor 15,9). Scrivendo queste cose, Paolo non manifesta un complesso di
inferiorità. Egli non è un apostolo da scarto non si nasconde sotto la falsa modestia. Parlando di sé
in questi termini, egli esprime un paradosso. È inserito nella comunità apostolica in un modo che
non corrisponde ai criteri di appartenenza al corpo apostolico. In effetti, ciò che costituisce gli
apostoli è l’essere stati scelti da Gesù durante la sua esistenza terrena, l’aver vissuto con lui è l’aver
avuto il privilegio delle apparizioni272. Quando gli apostoli si trovano in 11, dopo gli eventi della
passione della resurrezione, ritengono necessario sostituire Giuda. Lo fanno secondo due criteri:
aver condiviso la vita di Gesù, essere testimone della sua resurrezione e delle apparizioni (At 1,21-
26).
Ma Paolo è integrato nel gruppo degli apostoli in maniera del tutto originale a motivo della
chiamata singolare che egli ha ricevuto. Non sono i 12 guidati dallo spirito a decidere di integrare
Paolo. E non è neanche Paolo che si inserisce nel loro gruppo. Egli si impone loro, non per sua
propria volontà, bensì per la forza dell’evento, che lo ha colpito. Apostolo, comunque, egli lo è nel
senso pieno del termine come lo sono coloro che, a Gerusalemme, erano apostoli prima di lui (Gal
1,7). Apostolo egli lo è “non da parte di uomini, né per mezzo di uomo” (Gal 1,1). Non lo è per suo
desiderio, né per decisione di una comunità, ma “per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha
risuscitato dai morti” (Gal 1,1). Egli è scelto, inviato da Cristo, che gli appare sulla via di Damasco
di cui, d’ora in poi, deve essere il testimone. È in base a questo evento che egli rivendica la sua

271 L’immagine dell’atleta simboleggia il rapporto con Cristo (cf. Fil 3,12-14). Paolo abbandona se stesso per andare

davanti a qualcuno che per prima venuto verso di lui. È afferrato dall’interno, spossessato di se stesso nell’amore che
Cristo li dimostra. Si slancia verso di lui. La metafora dell’atleta gli suggerisce la prospettiva di un premio da ottenere.
Arrivare al traguardo o ad ottenere il premio non è in funzione dell’osservanza della legge. Paolo utilizza di nuovo
questa immagine in 1Cor 9,24-27.
272 Mt 10,1-4; Mc 3,13-19; Lc 6,12-16.

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autorità: “Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù Cristo,
Signore nostro?” (1Cor 9,1)273.
Essere apostolo significa essere testimone di Cristo risorto. Paolo è uno come gli altri apostoli,
Paolo dipende interamente dalla scelta di Gesù. La differenza sta nella modalità grazie alle quali
egli viene abilitato ad annunciare la buona notizia, modalità che gli conferisce un posto particolare
nel gruppo degli apostoli. Egli viene riconosciuto da loro per il tramite di Cefa e Giacomo (Gal
1,18). La sua missione non differisce in nulla dalla loro: “Sia io che loro, così predichiamo così
avete creduto” (1Cor 15,11). Il suo ministero, tuttavia, verrà spesso contestato dai suoi avversari274.
Paolo dovrà sempre rivendicare la sua autorità e farla valere sulla base della chiamata particolare
che ha ricevuto. Comunque, questa chiamata non lo dispensa dalla conoscenza che gli viene data
della Chiesa.

Paolo, testimone del Risorto


L’evento di Gesù è tale che gli apostoli sono chiamati ad essere testimoni oculari della storicità
della vita di Gesù e di ciò che gli insegnò. Poiché la resurrezione fa entrare nella filiazione, essa è
tanto importante quanto la storicità della vita di Gesù. Ci vuole, quindi, qualcuno che, da testimone
del Risorto, sia chiamato a sviluppare le conseguenze della resurrezione per ogni uomo e per la
totalità della storia. La sua missione singolare ha una portata universale. Egli non trova Cristo, è
Cristo che va a lui. Paolo, come gli apostoli, ha un compito specifico, quello di dire delle cose che
non sono stata mai dette da Gesù e su di lui, e che fanno, comunque, parte integrante di ciò che
Cristo è. Simili luci sul Risorto gli vengono date, come del resto accade anche gli altri apostoli,
dallo spirito di Dio. Il che gli fa dire: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1Cor 2,16)275.
In seguito all’incontro di Damasco, Paolo beneficia del mistero che lo autorizza ad annunciare
la ricchezza ed a svilupparne la sorprendente novità. Come egli ha scritto: “A me, che sono l’ultimo
fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia: annunciare alle genti le impenetrabili ricchezze di
Cristo, illuminare tutti sull’attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio” (Ef 3,8s). È questa la
missione che lo spinge ad intraprendere grandi viaggi per diffondere la buona notizia, a mettere,
senza dubbio, per iscritto l’esortazione a rispondere a quell’Amore che la fede suscita.

2. MISSIONARIO CRISTIANO
2.1. Per una cronologia paolina
Due fonti principali: a) i passi delle sue lettere autentiche276; b) Atti degli apostoli277; c) alcuni
passi delle lettere di scuola paolina, secondo alcuni critici, sono di valore discutibile e possono

273 Ci sono altri titoli con i quali Paolo designa il suo ministero: “Amministratore dei misteri di Dio” (1Cor 4,1); “Ministro

di Gesù Cristo” (Rm 15,16); “Servo/schiavo di Cristo” (Rm 1,1; Gal 1,10; Fil 1,1; Col 1,25; Ef 3,7); “Prigioniero di Cristo” (Fil
1,7; Ef 3,1; 4,1; Fm 1.9); “ambasciatore del vangelo” (Ef 6,20).
274 Cf. 1Cor 3-4; 9; 2Cor 4-6; 10-12; Gal 1-2.
275 Pietro e Paolo. Paolo è riconosciuto dagli apostoli, e anche da Pietro. Egli riconosce l’autorità di Pietro. Lo nomina

sempre per primo (1Cor 15,5; Gal 1,18). È Pietro ad incontrarsi per primo con lui, prima degli altri apostoli (Gal 1,18),
mentre gli altri apostoli vengono situati in base al loro rapporto con Pietro. Paolo non esita rimettere al suo posto Pietro
(Gal 2,11-14). Pietro, da parte sua, farà riferimento a Paolo: 1Pt 3,15s. Pietro ha scelto di dissociarsi dagli osservanti e di
applicare i principi della legge mosaica, Paolo lo confina definitivamente nell’ambiente palestinese di cultura aramaica.
Lo chiamerà sempre con il suo nome aramaico, Cefa (Gal 1,18; 2,9.11.14; 1Cor 1,12; 3,22; 9,5; 15,5). Da tutto questo
deriva il giudizio di Paolo su Pietro: egli è l’apostolo di giudei, mentre Paolo apostolo delle nazioni.
276 1Ts 2,1-2.17-18; 3,1-3a; Gal 1,13-23; 2,1-14; 4,13; Fil 3,5-6; 4,15-16; 1Cor 5,9; 7,7-8; 16,1-9; 2Cor 2,1.9-13; 11,7-9.23-

27.32-33; 12,2-4.14,21; 13,1.10; Rm 11,1c; 15,19b.22-32; 16,1.


277 At 7,58; 8,1-3; 9,1-30; 11,25-30; 12-25; 13,1-28,31.

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essere usati soltanto come sostegno a ciò che si conosce dalle altre fonti. Le due fonti non sono di
uguale valore. Per alcuni predominanza delle lettere autentiche.278 Gli Atti sono inficiati di una
certa ricostruzione teologica. Possiamo distinguere le tappe principali della vita di Paolo279 . La
scarsità di fonti per il periodo che segue Paolo e la testimonianza contenuta in Atti e nelle lettere. La
valutazione delle fonti e il loro contributo ad una ricostruzione storica.

Le Fonti neotestamentarie
Sono fondamentale per la ricostruzione storica del periodo preso in esame ma anche
estremamente frammentarie. Se si prescinde dalle lettere di Paolo, che contengono precisi
riferimenti alle situazioni in cui furono scritte, per il resto si naviga nel buio. Anche gli stessi Atti
risultano frammentari pur nel tentativo di tracciare una storia continua delle origini.
La cronologia degli scritti neotestamentari:
∗ lettere di Paolo tra il 50 ed il 60
∗ vangeli sinottici tra il 60 e l’80
∗ Atti degli Apostoli intorno all’80
∗ lettera agli Ebrei prima del 70

Gli Altri scritti cristiani


Prima lettera di Clemente; Lettere di Ignazio; Lettera di Barnaba; Il pastore di Erma; La
Didachè.

Atti degli Apostoli


Fase iniziale
La prima apparizione pubblica id Paolo ha luogo in occasione del martirio di Stefano (7,58).
Subito dopo ha inizio la sua attività di persecutore (8,3; 9,1-2), che si conclude con la conversione e
l’inizio della predicazione a Damasco. Da questa città egli è costretto a fuggire in modo
avventuroso, e dopo aver soggiornato per un certo tempo a Gerusalemme, si ritira a Tarso (9,26-30).
In seguito Paolo è introdotto da Barnaba nella comunità di Antiochia (11,25-26); con lui va una
seconda volta a Gerusalemme per portarvi una colletta (11,28-30).

Fase successiva
Viene descritta secondo lo schema dei tre viaggi missionari. Anzitutto egli si reca a Cipro e in
seguito percorre le regioni meridionali dell’Anatolia (13-14); dopo l’assemblea di Gerusalemme
(15,1-35), raggiunge la Grecia e fonda le comunità di Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto (15,36-
18,17). Infine di stabilisce ad Efeso, da dove poi va a Corinto e di lì fa ritorno a Gerusalemme
(18,23-21,16). Qui è arrestato dai romani, i quali lo trasferiscono a Roma per essere processato dal
tribunale imperiale (21,17-28,31).
278 J. KNOX, D. W. RIDDLE, R. JEWETT, G. LUâ DEMANN, J. MURPHY-O’CONNOR, ed altri hanno provato ad elaborare un vita di Paolo

soltanto con la cronologia delle sue lettere, evitando riferimenti presi dagli Atti, salvo, poi, accogliere alcuni dati
indispensabili (comparizione davanti a Gallione [18,12]; soggiorno di Paolo a Corinto per 18 mesi [18,11]; o Listra come
città d’origine di Timoteo [16,2-3]).
279 Bisogna ammettere che un quadro completo della vita di Paolo, almeno a partire dal momento in cui aderì alla fede

cristiana, è fornito soltanto dagli Atti. Anche le lettere, però, presentano una certa successione di avvenimenti in base
alla quale si possono delineare le fasi essenziali della sua attività apostolica.

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Indicazioni ulteriori
Le indicazioni successive sono poche ed estremamente vaghe. Al momento dell’uccisione di
Stefano Paolo era giovane (8,58), aveva cioè circa 25-30 anni; egli restò parecchi giorni a Damasco
(9,23); per un anno intero svolge la sua attività ad Antiochia in compagnia di Barnaba (11,26);
prima di ripartire con Sila per il secondo viaggio di ferma alcuni giorni ad Antiochia (15,36). A
Corinto rimane un anno e mezzo (18,11) e poi ancora parecchi giorni dopo la comparsa davanti a
Gallione (18,18). Durante il terzo viaggio si ferma due anni ad Efeso (19,10), ma dal discorso
rivolto agli anziani di quella città risulta che vi è rimasto per tre anni (24,27). Infine rimane altri
due anni a Roma in attesa del processo (28,30).
Riporto in un quadro sinottico i dati che emergono dal testo di Atti:
11,26 un anno di permanenza di Paolo con Barnaba ad Antiochia: kai. eu`rw.n h;gagen eivj
VAntio,ceian) evge,neto de. auvtoi/j kai. evniauto.n o[lon sunacqh/nai evn th/| evkklhsi,a| kai.
dida,xai o;clon i`kano,n( crhmati,sai te prw,twj evn VAntiocei,a| tou.j maqhta.j Cristianou,j)
11,27 la carestia al tempo di Claudio VEn tau,taij de. tai/j h`me,raij kath/lqon avpo.
~Ierosolu,mwn profh/tai eivj VAntio,ceian\ avnasta.j de. ei-j evx auvtw/n ovno,mati {Agaboj
evsh,manen dia. tou/ pneu,matoj limo.n mega,lhn me,llein e;sesqai evfV o[lhn th.n oivkoume,nhn\
h[tij evge,neto evpi. Klaudi,ou) Claudio fu imperatore dal 41 al 54.
12,20-23 morte di Agrippa preceduta da quella di Giacomo di Zebedeo
17,2 soggiorno a Tessalonica
18,1-18 soggiorno di Paolo a Corinto. I seguenti dati
∗ v. 2: Paolo incontra qui Aquila e Priscilla provenienti da Roma dopo la cacciata
dei Giudei da parte di Claudio (circa 50 d.C.). kai. eu`rw,n tina VIoudai/on ovno,mati
VAku,lan( Pontiko.n tw/| ge,nei( prosfa,twj evlhluqo,ta avpo. th/j VItali,aj kai.
Pri,skillan gunai/ka auvtou/ dia. to. diatetace,nai Klau,dion cwri,zesqai pa,ntaj
tou.j VIoudai,ouj avpo. th/j ~Rw,mhj( prosh/lqen auvtoi/j
∗ v. 11: la permanenza di un anno e mezzo a Corinto. VEka,qisen de. evniauto.n kai.
mh/naj e]x dida,skwn evn auvtoi/j to.n lo,gon tou/ qeou/)
∗ v. 12: Gallione proconsole dell’Acaia Galli,wnoj de. avnqupa,tou o;ntoj th/j
VAcai<aj)(vedere sotto per la possibile datazione del proconsolato di Gallione).
∗ v. 18: ~O de. Pau/loj e;ti prosmei,naj h`me,raj i`kana.j
19,8-10 due anni e un quarto (cf 20,31): tou/to de. evge,neto evpi. e;th du,o( w[ste pa,ntaj tou.j
katoikou/ntaj th.n VAsi,an avkou/sai to.n lo,gon tou/ kuri,ou( VIoudai,ouj te kai. {Ellhnaj)
20,3 tre mesi in Grecia
20,31 tre anni ad Efeso (cf 19,10): dio. grhgorei/te( mnhmoneu,ontej o[ti trieti,an nu,kta kai.
h`me,ran ouvk evpausa,mhn meta. dakru,wn nouqetw/n e[na e[kaston)
24,27 Parla di un biennio dopo il quale Felice ebbe come successore Porcio Festo. Dieti,aj de.
plhrwqei,shj e;laben dia,docon o` Fh/lix Po,rkion Fh/ston\ qe,lwn te ca,rita kataqe,sqai
toi/j VIoudai,oij o` Fh/lix kate,lipe to.n Pau/lon dedeme,non)I due anni si riferiscono a
Felice od alla prigionia di Paolo? Più probabile quest’ultima.
Datazione probabile per la successione di Festo il 60 (il 55 o 56 supposto da alcuni
lascerebbe poco spazio ai grandi viaggi di Paolo)
28,11 tre mesi a Malta
28,30 due anni a Roma: VEne,meinen de. dieti,an o[lhn evn ivdi,w| misqw,mati( kai. avpede,ceto pa,ntaj
tou.j eivsporeuome,nouj pro.j auvto,n(

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Le Lettere
Le indicazioni autobiografiche contenute nella lettera ai Galati permettono di stabilire la
seguente successione di avvenimenti: conversione, soggiorno in Arabia e ritorno a Damasco (Gal
1,15-17); dopo tre anni visita a Gerusalemme, incontro con Pietro e successiva attività in Siria e
Cilicia (1,18-21). Quattordici anni dopo, non è chiaro se a partire dalla conversione o dalla prima
visita a Gerusalemme, ha luogo un secondo viaggio nella città santa, durante il quale l’apostolo si
incontra con Pietro, Giacomo e Giovanni; subito dopo Paolo si trova ad Antiochia, dove ha luogo lo
scontro con Pietro (2,11).
Questi i dati della Lettera ai Galati:
1,15-17 la vocazione
1,18 dopo tre anni per la prima volta a Gerusalemme: :Epeita meta. e;th tri,a avnh/lqon eivj
~Ieroso,luma i`storh/sai Khfa/n( kai. evpe,meina pro.j auvto.n h`me,raj dekape,nte\
2,1 dopo (altri) 14 anni al « concilio apostolico »: :Epeita dia. dekatessa,rwn evtw/n pa,lin
avne,bhn eivj ~Ieroso,luma meta. Barnaba/( sumparalabw.n kai. Ti,ton\

Altre informazioni
1Ts rivela un periodo di attività in Macedonia e in Acaia (1Ts 1,7-8), con soste a Filippi (2,2),
Tessalonica ed Atene (3,1); dalle due lettere ai Corinzi appare, invece, che Paolo, dopo aver
evangelizzato Corinto, si fermò per un certo tempo ad Efeso (16,8), da dove raggiunse la
Macedonia (2Cor 2,13; 7,5). Quando scrive Rm si trova con ogni probabilità a Corinto (Rm 16,23;
cf. 1Cor 1,14) e sta per intraprendere un viaggio verso Gerusalemme (il terzo?), al termine del quale
intende recarsi a Roma e poi in Spagna (Rm 15,25-26). Infine Gal rivela che ha evangelizzato la
Galazia in un periodo imprecisato, in occasione di una malattia (Gal 4,13).
Questi i riferimenti appena citati:
1Ts 1,7-8 è ricordata l’attività in Macedonia ed in Acaia: 7 w[ste gene,sqai u`ma/j tu,pon pa/sin toi/j
pisteu,ousin evn th/| Makedoni,a| kai. evn th/| VAcai<a|Å 8 avfV u`mw/n ga.r evxh,chtai o` lo,goj
tou/ kuri,ou ouv mo,non evn th/| Makedoni,a| kai. Îevn th/|Ð VAcai<a|( avllV evn panti. to,pw| h`
pi,stij u`mw/n h` pro.j to.n qeo.n evxelh,luqen( w[ste mh. crei,an e;cein h`ma/j lalei/n tiÅ
1Ts 2,2 qui è ricordato il passaggio da Filippi: 2 avlla. propaqo,ntej kai. u`brisqe,ntej( kaqw.j
oi;date( evn Fili,ppoij evparrhsiasa,meqa evn tw/| qew/| h`mw/n lalh/sai pro.j u`ma/j to.
euvagge,lion tou/ qeou/ evn pollw/| avgw/niÅ
1Ts 3,1 ed infine il passaggio da Tessalonica ed Atene: Dio. mhke,ti ste,gontej euvdokh,samen
kataleifqh/nai evn VAqh,naij mo,noi
1Cor 16,8 dopo l’evangelizzazione di Corinto si ferma ad Efeso: 8 evpimenw/ de. evn VEfe,sw| e[wj th/j
penthkosth/j
2Cor 2,13 da Efeso raggiunge la Macedonia: 13 ouvk e;schka a;nesin tw/| pneu,mati, mou tw/| mh. eu`rei/n
me Ti,ton to.n avdelfo,n mou( avlla. avpotaxa,menoj auvtoi/j evxh/lqon eivj Makedoni,anÅ
Rm 16,23 Quando scrive Romani, si trova probabilmente a Corinto: 23 avspa,zetai u`ma/j Ga,i?oj o`
xe,noj mou kai. o[lhj th/j evkklhsi,ajÅ avspa,zetai u`ma/j :Erastoj o` oivkono,moj th/j po,lewj
kai. Kou,artoj o` avdelfo,j (Si ricorda la figura di Gaio. Cf. 1Cor 1,14: 14 euvcaristw/ Îtw/|
qew/|Ð o[ti ouvde,na u`mw/n evba,ptisa eiv mh. Kri,spon kai. Ga,i?on)
Rm 15,25s Dopo essere passato da Gerusalemme intende recarsi a Roma e, poi, in Spagna: 25 nuni.
de. poreu,omai eivj VIerousalh.m diakonw/n toi/j a`gi,oijÅ 26 euvdo,khsan ga.r Makedoni,a kai.
VAcai<a koinwni,an tina. poih,sasqai eivj tou.j ptwcou.j tw/n a`gi,wn tw/n evn VIerousalh,mÅ
Gal 4,13 Ci riferisce di aver evangelizzato la Galazia in un periodo imprecisato a seguito di una
malattia: 13 oi;date de. o[ti diV avsqe,neian th/j sarko.j euvhggelisa,mhn u`mi/n to. pro,teron

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Gli Atti descrivono, dunque, un susseguirsi di avvenimenti, ma indicano solo in modo piuttosto
vago ed incompleto il tempo che li separa l’uno dall’altro.
Le lettere documentano l’attività di Paolo sia in Anatolia che in Grecia, ma non dicono se essa
è avvenuta prima o dopo la seconda visita a Gerusalemme menzionata in Gal 2,1. Paolo, infatti,
ricorda solo che prima di questa visita ha svolto la sua attività in Arabia (Gal 1,17) e Siria e Cilicia
(Gal 1,21). Dall’altra parte, afferma che in quella occasione non ha ceduto alle pressione dei falsi
fratelli: “perché la verità del Vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi” (Gal 2,5). Ciò
potrebbe significare che allora aveva già evangelizzato la Galazia, e forse anche la Macedonia e
l’Acaia.

2.2. Gli eventi databili


Una cronologia relativa può essere trasformata in assoluta solo se in essa compaiono almeno
alcuni eventi conosciuti per altra via, ai quali è possibile attribuire una data precisa. Di fatto gli Atti
e le lettere paoline accennano ad alcuni avvenimenti che in teoria dovrebbero essere noti e quindi
facilmente databili. Purtroppo, però, alcuni di essi non sono verificabili in base a fonti sicure: è
questo il caso della carestia in occasione della quale Paolo e Barnaba portarono a Gerusalemme le
collette fatte ad Antiochia (At 11,27-30) e del proconsolato di Sergio Paolo a Cipro (At 13,7). Altri,
invece, sono noti, ma la loro datazione risulta in gran parte problematica.

L’etnarca del re Areta


Secondo gli Atti, dopo la conversione di Paolo dovette lasciare Damasco calandosi dalle mura
per sfuggire ad un complotto ordito contro di lui dai giudei (At 9,23-25). Paolo stesso ricorda
questo episodio, ma con diverse modalità: “A Damasco il governatore (lett. Etnarca) del re Areta
montava la guardia alla città dei damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il
muro in una cesta e così sfuggì dalle sue mani” (2Cor 11,32-33). Questo importante riferimento
storico suscita difficoltà quasi insormontabili. L’apostolo allude certamente ad Areta IV, re dei
nabatei, il quale regnò dal 9 a. C. fino al 40 d. C. La presenza di un rappresentante di questo re a
Damasco è, però, difficilmente spiegabile, in quanto la città era stata occupata dai romani fin dal
tempo di Pompeo (63 a.C.). Siccome non sono state trovate a Damasco monete che portino l’effigie
degli imperatori Caligola e Claudio (37-54 d. C.), è stata avanzata l’ipotesi che alla morte di Tiberio
(37 d. C.) la città fosse caduta nuovamente in possesso dei nabatei, ma ciò non è provato.
È, dunque, impossibile utilizzare l’episodio narrato da Paolo per stabilire la data della sua
conversione al cristianesimo. Tutt’al più si può far ricorso ad esso per escludere che sia avvenuta
dopo il 40, l’anno cioè della morte di Areta IV.

L’editto di Claudio
Secondo gli Atti, a Corinto Paolo incontrò Aquila e Priscilla, una coppia di giudei, forse già
cristiani, i quali avevano lasciato la capitale dell’impero: “in seguito all’ordine di Claudio che
allontanava da Roma tutti i giudei” (At 18,2). Di questo editto parla anche lo storico romano
Svetonio, secondo il quale: “Claudio espulse da Roma i giudei che tumultuavano continuamente
per istigazione di Cresto” (Vita Claudii, 25). A questo fatto, ignorato sia da Giuseppe Flavio che da
Tacito, sembra alludere Dione Cassio (vissuto tra il II ed il III secolo), il quale precisa, però, che
Claudio non scacciò i giudei da Roma, “ma ordinò loro di non tenere riunioni” (Historia romana
60,6,6). L’intervento di Claudio (che regnò dal 41 al 54) viene solitamente collocato, a partire da

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Paolo Orosio, uno storico cristiano del V secolo, nell’anno nono del suo governo, cioè nel 49.
Dione Cassio parla, invece, di un fatto avvenuto all’inizio del regno di Claudio, e cioé nel 41. Se
effettivamente Dione Cassio si riferisce allo stesso evento ricordato da Svetonio, la sua datazione
sarebbe forse da preferirsi a quella basata su Orosio.

Il proconsole Gallione
Secondo At 18,12, durante la sua prima permanenza a Corinto Paolo fu accusato dai giudei
davanti al proconsole romano Lucio Giunio Gallione, fratello del filosofo Seneca. La data precisa
del proconsolato di Gallione in Acaia non è nota, ma si può ricavare con una certa approssimazione
dall’iscrizione di Delfi, una lapide scoperta in questa città nel 1905. In essa Claudio, dopo aver
menzionato il fatto di essere stato proclamato imperatore per la 26a volta, risponde ad alcuni quesiti
che gli aveva posto Gallione, “suo amico e proconsole”. Dal confronto con altro materiale
epigrafico risulta che la 26a acclamazione imperiale di Claudio ebbe luogo tra gennaio e agosto del
52. Siccome il proconsole durava un anno a partire da aprile, il rescritto di Claudio può essergli
pervenuto all’inizio o alla fine del suo mandato: nel primo caso Gallione fu proconsole dal 52 al 53,
altrimenti nel 51/52.
Di queste due possibilità è più probabile la seconda, in quanto Claudio rispose in base ad
informazioni che egli in precedenza gli aveva inviato. In questo periodo, probabilmente agli inizi
del 52, Paolo venne, dunque, accusato di fronte al proconsole dell’Acaia, Gallione.
Vediamo meglio i dati riferentesi all’iscrizione di Delfi:
Essa contiene il nome di L. Iunius Gallio, proconsole dell’Acaia quando Paolo si trovava a
Corinto280. Il testo italiano dell’iscrizione suona così:
“Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, nella [XII] tribunizia potestà, acclamato
imperator 26 volte, padre della patria, [saluta – – –]. Già prima nei confronti della città di
Delfi ero non solo [ben disposto, ma anche sollecito] del (suo) destino, e osservai sempre il
culto di Apollo [Pizio; e poiché] ora si dice che la città è priva anche di cittadini, come [mi
riferì poco fa L.] Giunio Gallione mio amico e proconsole, [– – – i Delfi] avranno ancora
[intatto] il passato [decoro, ordino – –] di chiamare da altre città [a Delfi degli ingenui come
nuovi residenti e [di assegnare loro e [ai loro discendenti di avere tutti] i privilegi [che hanno i
Delfi] come cittadini [in condizione di parità]; se infatti [– – –] qualcuno si è trasferito come
cittadino in questi luoghi [– II.12-16 –] ordino, affinché [– – –], come conviene, non sia
oggetto di contestazione [nessuna] delle disposizioni scritte su di esso”.
Tiberio concede che venga trasferita popolazione in questa città: ciò probabilmente a causa di
uno spopolamento dovuto alla carestia verificatasi in Grecia nel nono anno di Claudio (49-50). È
proconsole dell’Acaia Gallione. La datazione è data dalla notazione iniziale che parla della
ventiseiesima acclamazione imperiale; confrontando altro materiale archeologico e letterario si può
desumere che “la 26a sia da collocare nell’anno della 12a potestà tribunizia, fra 25.1.52 e
1.8.52”281. Poiché i proconsoli duravano in carica un anno ed il loro mandato in genere iniziava in
primavera-estate, “si può ritenere che il personaggio avesse ricoperto la carica nell’anno
primavera 51-estate 52” 282.
In rapporto a questi dati come può essere valutato cronologicamente il periodo di un anno e
mezzo di Paolo a Corinto? Emergono i seguenti dati:

280 L. BOFFO, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Paideia, Brescia 1994, 247-256.
281 L. BOFFO, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Paideia, Brescia 1994, 250.
282 L. BOFFO, Iscrizioni greche e latine per lo studio della Bibbia, Paideia, Brescia 1994, 251.

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1. è probabile che gli avversari di Paolo abbiano approfittato dell’ingresso del nuovo proconsole
per tentare di estorcere una condanna e che, perciò, l’episodio riportato in At 18,12-17 sia da
porre nei primi mesi del proconsolato ovvero nella tarda estate del 51;
2. il v. 11 parla un anno e sei mesi: è il periodo complessivo della permanenza a Corinto, e
quindi comprendente anche i h`me,raj i`kana.j di At 18,18, od è il periodo precedente la
comparsa dinanzi a Gallione e quindi bisogna aggiungere ad esso anche il non meglio
precisato periodo successivo di 18,18?
3. lo storico Orosio riferisce che “anno eiusdem nono [25.1.49 - 24.1.50] expulsos per Claudium
urbe Iudaeos Iosephus refert” 283 ; ciò porterebbe il periodo di arrivo di Paolo a Corinto
nell’inverno 49/50 e ivi egli incontra Aquila e Priscilla. In questo senso allora l’anno e mezzo
indica il periodo dall’arrivo sino alla comparsa dinanzi a Gallione.

I procuratori romani
Secondo gli Atti, giunto a Gerusalemme Paolo fu arrestato dai romani e condotto a Cesarea,
dove comparve davanti al procuratore romano Antonio Felice (cf. At 23,24) e al suo successore
Porcio Festo (cf. At 24,1-7). La data di questo avvicendamento nel governo della Giudea può essere
dedotto da Giuseppe Flavio, secondo il quale Felice dopo essere stato richiamato a Roma fu
accusato dai giudei di Cesarea, ma fu prosciolto dall’accusa grazie all’intervento di suo fratello
Pallante. Per ottenere ciò, Pallante doveva essere ancora molto influente a corte. Ora si sa che egli
cadde in disgrazia prima dell’avvelenamento di Britannico, figlio di Claudio, che, stando alla
testimonianza di Tacito, avvenne alla fine del 55: la destituzione di Felice deve, dunque, essersi
verificata precisamente nel corso di quell’anno, non molto tempo dopo l’ascesa al trono di Nerone
(13 ottobre 54). Ne segue che il trasferimento di Paolo a Roma sarebbe da collocare nello stesso
anno.
Non tutti gli studiosi sono, però, d’accordo con questa ipotesi. Se essa rispondesse a verità, il
governo di Felice sotto l’imperatore Nerone sarebbe durato solo un tempo brevissimo; ma ciò è
improbabile, poiché gli avvenimenti collocati da Giuseppe Flavio in questo periodo richiedono un
tempo più lungo. Inoltre non è escluso che Pallante sia rimasto influente malgrado la sua
destituzione. Perciò il richiamo di Felice potrebbe essere avvenuto qualche anno dopo l’ascensione
al trono di Nerone, cioè tra il 58 ed il 60. La data dell’imprigionamento di Paolo a Cesarea rimane,
dunque, incerta.
I dati cronologici presenti negli Atti e nell’epistolario paolino non permettono di elaborare una
cronologia assoluta sufficientemente completa e sicura. Si assiste, perciò, al moltiplicarsi di ipotesi
spesso contrastanti. Ma, mentre le soluzioni tradizionali propongono con alcune varianti uno
schema comune, quelle più recenti mettono in discussione la successione stessa degli eventi che
solitamente viene data per scontata.

Cronologia tradizionale
Le cronologie tradizionali utilizzano soprattutto gli Atti, completandoli con i dati forniti dalle
lettere284. Nella cronologia diventata ormai classica, l’anello portante è rappresentato dall’incontro
con il proconsole Gallione. Se si ammette che quando fu deferito al suo tribunale all’inizio del 52,
Paolo era alla fine del soggiorno di 18 mesi a Corinto, il suo arrivo in questa città dev’essere

283 PAOLO OROSIO, Historiarum adversus paganos libri septem, 7.6.15.


284 In questa linea si veda G. BORNKAMM, Paolo apostolo, 9-10; H. CONZELMANN, Le origini del cristianesimo. I risultati della

critica storica, Claudiana, Torino 1976, 42-44; ecc.

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collocato verso la metà o la fine del 50. Questa datazione verrebbe confermata dal fatto che a
Corinto egli incontra Aquila e Priscilla, i quali avrebbero lasciato Roma nel 49, data che
tradizionalmente viene assegnata all’editto di Claudio. Di conseguenza bisogna ritenere che il
concilio di Gerusalemme (At 15; Gal 2,1) abbia avuto luogo nel 49. Si può, quindi, collocare la
conversione di Paolo, avvenuta circa 14 anni prima (Gal 2,1), agli inizi del 36. Ma è possibile che ai
14 anni che precedettero la seconda visita a Gerusalemme si debbano aggiungere i tre antecedenti la
prima (Gal 1,18). In questo caso Paolo sarebbe diventato cristiano nel 33. In definitiva la sua
conversione si deve collocare tra il 32 ed il 36 285 , ed in ogni caso non oltre il 40, poiché in
quell’anno moriva il re Areta IV.
L’anno della nascita di Paolo non è conosciuto. Se al momento della lapidazione di Stefano
Paolo era giovane (At 7,58), ossia 25-30 anni, bisogna ritenere che fosse poco più giovane di Gesù.
Questa ipotesi trova conferma nella lettera a Filemone, scritta verso la metà degli anni 50, nella
quale l’apostolo si definisce vecchio, espressione che nell’antichità poteva indicare un uomo di
circa 55 anni. Gli avvenimenti che fanno seguito alla comparsa di Paolo davanti a Gallione sono
databili con maggior difficoltà, data l’incertezza del cambio di guardia tra Felice e Festo. In genere
si pensa che l’apostolo sia giunto a Gerusalemme, al termine del terzo viaggio, nel 56/57 e sia stato
condotto a Roma, due anni dopo, verso il 58/59. Non è escluso, però, che sia arrivato a
Gerusalemme agli inizi del 55, sul finire cioè del mandato di Felice, e dopo qualche mese sia stato
inviato da Festo a Roma286. La sua morte, quindi, qualora sia avvenuta dopo altri due anni trascorsi
nella capitale, si situerebbe verso il 60/61, oppure addirittura verso la fine del 57.

DATA EVENTO LETTERE


30 d.C. morte di Gesù
31-33ca persecuzione degli ellenisti
34ca conversione di Paolo
36ca primo viaggio a Gerusalemme
secondo Galati (e Atti)
dopo il 36 attività di Paolo « dalle parti della
Siria e della Cilicia » (Gal 1,21)
48ca « concilio di Gerusalemme »
inverno 49/50-estate 51 a Corinto 1-2 Tessalonicesi
52-55 a Efeso Galati
1 Corinti
55 a Filippi? 2 Corinzi
inverno 55/56 a Corinto Romani
Pentecoste 56 arresto di Paolo
56-58 prigionia a Cesarea Filippesi?
Filemone?
Colossesi - Efesini?

inverno 58/59 in viaggio verso Roma e naufragio

285 Quest’ultima è la data più probabile.


286 Questa ipotesi, che si basa sulla data più probabile della sostituzione di Felice, è possibile solo se i due anni di cui si

parla in At 24,27 si riferiscono non alla prigionia di Paolo, ma alla durate del governatorato di Felice.

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DATA EVENTO LETTERE


con permanenza a Malta
primavera 59 da Malta a Roma
59-61 prigionia a Roma Filippesi?
Filemone?
Colossesi - Efesini?

Nuovi orientamenti
In questi anni hanno messo in discussione la cronologia tradizionale, dalla quale si distaccano
facendo leva soprattutto sui dati contenuti nelle lettere di Paolo, la cui testimonianza è da loro
considerata più attendibile di quella degli Atti. Secondo Lüdemann 287 la missione europea ebbe
luogo, stando a Gal 2,5, prima della seconda visita di Paolo alla città santa. Di conseguenza egli
colloca la sua conversione nel 33 e la prima visita a Gerusalemme (cf. Gal 1,18) nel 36. Dopo di
essa l’apostolo si sarebbe dedicato, negli anni 37-41, alla predicazione in Siria e Cilicia, nonché
all’evangelizzazione dell’Anatolia e della Grecia (primo e secondo viaggio missionario secondo lo
schema degli Atti)288; il concilio di Gerusalemme si collocherebbe nel 47, oppure, in armonia con la
datazione tradizionale, nel 50, mentre il periodo efesino andrebbe dal 51 al 55. nel 52, in occasione
della visita intermedia a Corinto (2Cor 2,1), Paolo si sarebbe incontrato con Gallione. Infine nel 55
sarebbe giunto per la terza volta a Gerusalemme, portandovi le collette, proprio quando Felice stava
per lasciare il suo posto a Festo. Subito dopo sarebbe stato trasferito a Roma, dove sarebbe rimasto
agli arresti domiciliari dal 56 al 58.
Anche R. Jewett289 colloca la missione europea prima del concilio, ma ritiene che essa abbia
avuto luogo negli anni 49/51. Di conseguenza sposta il concilio di Gerusalemme alla fine del 51.
Colloca il periodo efesino negli anni 51/57 e fa slittare al 57/59 la prigionia di Cesarea e al 60/62
quella romana.
A. Suhl290, ritenendo che l’apostolo Giovanni sia stato ucciso insieme a suo fratello Giacomo
nel 44 (cf. At 12,1), anticipa il concilio di Gerusalemme al 43/44 e situa il primo viaggio tra questo
avvenimento e la disputa di Antiochia, avvenuta nel 47/48. In seguito avrebbero avuto luogo la
missione in Europa (49/51) ed il soggiorno efesino (52/54). Nel 55 Paolo sarebbe ritornato a
Gerusalemme con le collette e subito sarebbe stato arrestato e trasferito a Roma (inverno 55/56). La
morte sarebbe avvenuta due anni dopo, nel 58.
J. Murphy-O’Connor, ritiene probabile un’attività di Paolo in Galazia, Macedonia e Acaia
prima della conferenza di Gerusalemme (tra il 37 ed il 51). Dello stesso parere è anche Barbaglio291.
Malgrado i tentativi fatti, la cronologia paolina resta ancora in gran parte oscura. Gli studi
recenti, nei quali sono stati messi in discussione i risultati che sembravano in gran parte acquisiti,
meritano attenzione e forse un giorno riusciranno ad ottenere un consenso più ampio. Per il
momento, però, la posizione classica è ancora la più seguita.

287 G. LUâ DEMANN, Paulus, der Heidenapostel. I: Studien zur Chronologie., München 1980.
288 Secondo Lüdemann in Gal 1-2 Paolo non accenna alla missione in Galazia ed in Grecia perché è preoccupato non di

raccontare in modo completo il suo passato, ma di descrivere i suoi rapporti con la chiesa di Gerusalemme.
289 R. JEWETT, Dating Paul’s life, 1979.
290 A. SUHL, Paulus und seine Briefe. Ein Beitrag zur paulinischen Chronologie, NTS 38(1992), 430-447.
291 G. BARBAGLIO, Paolo di Tarso, Cittadella, Assisi 1985, 32.

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Le visite di Paolo a Gerusalemme


Secondo le sue lettere, Paolo visitò Gerusalemme di due volte dopo la sua conversione, una dopo tre
anni (Gal 1,18) e “di nuovo dopo quattordici anni” (Gal 1,18). In Rom 15,25 programmava un’altra
visita, prima li andare a Roma e in Spagna.
Secondo gli Atti, tuttavia, Paolo visita Gerusalemme dopo la sua conversione cinque e forse sei
volte:
û (1) 9,26-29, dopo la sua fuga da Damasco (cf. 22,17);
û (2) 11,29-30, Barnaba e Saulo portano una colletta da Antiochia a ai fratelli della Giudea -
collegato da Luca alla carestia ai tempi di Claudio;
û (3) 12,25, Barnaba e Saulo, tornano a Gerusalemme292;
û (4) 15,1-2, la visita di Paolo a Barnaba al “concilio”;
û (5) 18,22, dopo la II missione, Paolo va a salutare la chiesa prima di scendere ad Antiochia;
û (6) 21,15-17, la visita alla fine della III missione, quando Paolo viene arrestato.
La correlazione dei dati paolini e lucani riguardo alle a Gerusalemme dopo la conversione
rappresenta l’aspetto più difficile di ogni ricostruzione della vita di Paolo. La soluzione migliore è di
considerare come la stessa cosa la visita lucana (1) e Gal 1,18 e di considerare le visite lucane (2), (3) e
(4), come riferimenti allo evento, il “concilio” (Gal 2,1-10). Luca senza dubbio ha storicizzato e ha
considerato come visite separate quelli che erano i riferimenti a una sola visita, ma trovati in fonti
diverse. La visita lucana (5) non crea alcun problema e la visita (6) è quella programmata da Paolo in Rm
15,25. Così, dopo che Paolo fuggi da Damasco nel 39 d.C., venne a Gerusalemme per la prima volta (Gal
1,18)293.
Durante i 15 giorni ivi trascorsi incontrò Giacomo, “il fratello del Signore”, ma nessuno degli altri
apostoli; d’altronde egli personalmente era sconosciuto per le chiese della Giudea. Secondo la versione
lucana della visita (1), Barnaba introduce Paolo agli “apostoli” e racconta loro come abbia predicato con
coraggio a Damasco nel nome di Gesù. Paolo circola a Gerusalemme tra di loro, continuando a predicare
audacemente e provocando gli ellenisti, che cercano di ucciderlo (At 9,27-29).
Dopo i 15 giorni a Gerusalemme, stando a Gal 1,21 Paolo si ritirò in Siria e Cilicia - ma non dice per
quanto tempo. Intorno a questo periodo deve aver avuto la visione a cui fa riferimento in 2Cor 12,2-4;
avvenne 14 anni prima che fosse scritta 2Cor, ma si concorda male con l’esperienza della conversione.
Secondo At 22,17-21 Paolo ha un’estasi mentre prega nel Tempio di Gerusalemme durante la visita (1).
È il pericolo rappresentato dagli ellenisti provocati che spinge i fratelli a portare Paolo da Gerusalemme a
Cesarea e a inviarlo a Tarso (At 9,30). Gli Atti non specificano quanto tempo Paolo si trattenga in questa
città della Cilicia, ma la sequenza dà un numero di anni non del tutto improbabile (forse dal 40 al 44
d.C.). La permanenza termina con una visita da parte di Barnaba che lo conduce ad Antiochia dove
rimane un anno intero (11,25-26), impegnato nell’evangelizzazione. Luca collega la visita (2) a
Gerusalemme, la “visita della carestia”, con questo periodo294.

2.3. I viaggi missionari


Gli Atti organizzano l’attività missionaria di Paolo in 3 Segmenti; ma, come osserva Knox: “se tu
avessi fermato Paolo per le strade di Efeso e gli avessi chiesto, Paolo, in quale viaggio missionario ti trovi

292 “Di nuovo?” alcuni manoscritti, invece, leggono “da” Gerusalemme, che significherebbe il loro ritorno ad Antiochia

dopo la precedente visita, ma eis, “a”, è la lettura preferita.


293 Il significato dell’espressione i`storh/sai Khfa/n è discusso: “avere informazioni da Cefa” o “a far visita a Cefa”.
294 Cf. A. MEEKS - R. WILCKEN, Jews and Christians in Antioch, Missoula 1978.

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ora? Ti avrebbe guardato in modo assente senza la più lontana idea di ciò che tu intendessi” 295 .
Comunque il problema non è solo di Luca; deriva dal modo in cui leggiamo gli Atti, dal momento che
non è Luca a distinguere in I, II e III missione, come invece i moderni tendono a fare. Inoltre abbiamo
visto (cfr. Tavola degli spostamenti) che c’è una certa correlazione tra i dati di Paolo e Luca per quanto
riguarda i viaggi missionari di Paolo, a parte il primo. I suoi viaggi coprono approssimativamente un
periodo che va dal 46 al 58 d.C., gli anni più attivi della sua vita durante i quali ha predicato il vangelo
nell’Asia Minore e nella Grecia.

Prima missione (46-49)


Il resoconto di questa missione pre-“conciliare” è narrato solo dagli Atti (13,3-14,28) ed è limitato
all’essenziale affinché si adatti al proposito letterario di Luca (cf. 2Tm 3,11). Paolo non ci ha dato alcun
dettaglio riguardo alla sua attività missionaria nel periodo pre-“conciliare” di 14 anni (Gal 2,1). Per un
certo tempo fu nelle “regioni della Siria e della Cilicia” (1,21) e “annunziava la fede” (1,23) “tra i
pagani” (2,2).
Quando più tardi scrisse la lettera ai Filippesi, ricordò che “all’inizio della predicazione del vangelo,
quando partii dalla Macedonia, nessuna chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli”
(4,15). Quando lasciò la Macedonia, allora (ca. 50 d.C.), c’erano altre chiese, presumibilmente
evangelizzate da Paolo stesso. Dove erano? Dal momento che passò a Filippi in Macedonia
dall’Asia Minore, potrebbe far riferimento alle chiese della Galazia del Sud nel racconto della I missione
(At 13,13-14,25) - o, meno probabilmente, a quelle della Galazia del Nord, Misia o Troade all’inizio
della II missione. In ogni caso, è quasi impossibile che la Macedonia sia stata la prima area evangelizzata
da Paolo ed il racconto della I missione negli Atti non contraddice gli scarsi dettagli paolini.
Liturgia di Antiochia Saulo e Barnaba in compagnia di Giovanni Marco, cugino di Barnaba (Col
1,10). Tappe:
û Salpano da Seleucia, il porto di Antiochia di Siria diretti verso Cipro e attraversano l’isola da
Salamina a Pafo.
û Qui viene convertito il proconsole Sergio Paolo (13,7-12).
û Da Pafo i missionari salpano per Perge nella Panfilia (sulla costa meridionale dell’Asia
Minore centrale), dove Giovanni Marco si separa da Barnaba e Paolo e ritorna a
Gerusalemme.
û Questi ultimi Proseguono il loro viaggio verso le città della Galazia meridionale: Antiochia di
Pisidia, Iconio, Listra e Derbi.
û Ad Antiochia Paolo predica prima ai Giudei nella loro sinagoga e quando incontra aperta
opposizione dichiara la sua intenzione di rivolgersi ai Gentili (13,46).
û Dopo aver evangelizzato la zona e aver incontrato opposizione da parte dei Giudei in varie
città (persino il tentativo di lapidazione a Iconio), Paolo e Barnaba fanno il viaggio di ritorno
ripassando per Derbe, Listra, Ieconio e Antiochia di Pisidia fino a Perge e salpano da Attalia
verso Antiochia di Siria, dove Paolo trascorre “non poco tempo” con i cristiani (14,28).
û Una delle questioni che emergono nella I missione è la relazione della nuova fede con il
giudaismo e, più in particolare, La relazione dei pagano-cristiani con i primi convertiti del
giudaismo. I convertiti dal paganesimo devono essere circoncisi e devono osservare la legge
di Mosè?

295 J. KNOX, Chapters in a Life of Paul, Abingdon-Cokesbury Press , 41-42.

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Viaggio Missionario 1

Vediamone i dati con precisione:


evento cronologia riferimenti
partenza da Antiochia 13,3b-4a
imbarco a Seleucia 13,4
Cipro Salamina 13,5
Pafo 13,6
a Perge 13,13
Antiochia di Pisidia 13,14-52 due sabati? 13,14.44 2Tm 3,11 (oi-a, moi evge,neto evn
VAntiocei,a|( evn VIkoni,w|( evn
Lu,stroij)
Iconio 14,1-5 molto tempo (i`kano.n me.n ou=n 2Cor 11,25 (a[pax evliqa,sqhn)
cro,non) 14,3
Listra 14,8-20 “il giorno dopo” 14,20
Derbe 14,20b-21a
Listra, Iconio, Antiochia 14,21b
Perge 14,25
Attalia 14,25
Antiochia 14,26-28 un tempo non piccolo (cro,non
ouvk ovli,gon ) 14,28

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Si possono fare alcune note:


Ø I dati cronologici sono estremamente vaghi: ciò potrebbe significare che l’autore non ha a
disposizione materiali legati tra di loro in successione cronologica e, quindi, il legame è
piuttosto blando.
Ø la presenza di dati provenienti dalle lettere (la stessa successione delle città in 2Tm e il ricordo
di una lapidazione in 2Cor) contribuisce al valore storico dei dati provenienti da Atti.
Ø La visita a Cipro ed il suo significato dal momento che Cipro doveva aver ricevuto un annuncio
cristiano se tra quelli che predicavano il vangelo ad Antiochia vi erano dei ciprioti (11,20).

Visita per il “Concilio” (49 d.C.)


Stando a Luca, durante la permanenza di Paolo ad Antiochia (fine della I missione) alcuni convertiti
provenienti dalla Giudea arrivano e incominciano a insistere sulla circoncisione come necessaria per la
salvezza (15,1-3). Quando tutto ciò porta a una disputa tra loro e Paolo e Barnaba, la chiesa di Antiochia
invia Paolo, Barnaba e alcuni altri a Gerusalemme per consultarsi con gli apostoli e gli anziani riguardo
allo stato dei convertiti dal paganesimo. Questa visita si risolve nel cosiddetto concilio di Gerusalemme.
In Gal 2,1-10 Paolo ha parlato di questa visita; andò a Gerusalemme con Barnaba e Tito “di nuovo
dopo 14 anni”296. Paolo ha parlato di questa visita come il risultato di “una rivelazione” (2,2) ed espose
alle “persone più ragguardevoli” di Gerusalemme il vangelo che aveva finora predicato ai pagani e da
essi “non fu imposto nulla di più”. Giacomo, Cefa e Giovanni riconobbero la grazia conferita a Paolo e a
Barnaba e gli diedero la loro destra in segno di comunione - non influenzati dai “falsi fratelli” che si
erano intromessi a spiare la libertà (dalla legge) avuta in Cristo e ai quali Paolo non aveva ceduto “perché
la verità del vangelo continuasse a rimanere salda” (2,4-5). La questione trattata in questa occasione fu
la circoncisione: non era obbligatoria per la salvezza; e Tito, sebbene fosse greco, non fu obbligato a farsi
circoncidere. La prima parte di At 15 (vv. 4-12) tratta della stessa questione dottrinale. Coloro ai quali
Paolo dava l’appellativo di “falsi fratelli” sono qui identificati come “alcuni della setta dei farisei” (15,5).
Quando questo problema viene discusso dagli apostoli e dagli anziani, la voce di Pietro sembra prevalere
e l’assemblea accetta la sua decisione297. Il “concilio” di Gerusalemme in questo modo libera la chiesa
nascente dalle sue radici giudaiche e la apre all’apostolato universale che gli stava di fronte. La posizione
di Paolo viene approvata.

L’incidente di Antiochia (49 d.C.)


Dopo il “concilio” di Gerusalemme Paolo si recò ad Antiochia e dopo non molto tempo vi giunse
anche Pietro. All’inizio entrambi mangiavano in compagnia di pagano-cristiani, ma ben presto “alcuni da
parte di Giacomo” (Gal 2,12), vale a dire, cristiani con pronunziate tendenze giudaiche, arrivarono e
criticarono Pietro per il fatto che mangiava insieme ai convertiti dal cristianesimo. Cedendo alla loro
critica, Pietro si isolò e la sua azione indusse altri giudeo-cristiani, persino Barnaba stesso, a fare
altrettanto. Paolo protestò e si oppose a Pietro a viso aperto, perché non si comportava “correttamente
secondo la verità del vangelo” (2,11-14). Può essere implicito che a Paolo fu data ragione nella sua
critica, ma anche in questo caso la questione disciplinare delle prescrizioni giudaiche relative ai cibi per i
convertiti dal paganesimo rimaneva un problema298.

296 Da calcolare a partire dalla sua conversione, cioè nell’anno 49-50.


297 Basata sulla sua esperienza in At 10,1-11,18.
298 Cf. R. E. BROWN - J. P. MEYER, Antiochia e Roma, New York 1982, 28-44.

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Il decreto di Gerusalemme in materia di cibi


L’opposizione di Paolo a Pietro non risolse il problema dei cibi ad Antiochia. Sembra siano stati
inviati di nuovo degli emissari a Gerusalemme, presumibilmente dopo la partenza di Paolo e di Pietro da
Antiochia. Giacomo convoca nuovamente gli apostoli e gli anziani e la loro decisione è inviata sotto
forma di lettera alle chiese locali di Antiochia, Siria e Cilicia (At 15,13-19); Paolo stesso non dice nulla a
proposito di questa decisione e anche negli Atti egli ne è informato soltanto successivamente da Giacomo
al suo arrivo a Gerusalemme dopo la 111 missione (21,25).
Il capitolo 15 degli Atti è problematico e composito, un capitolo in cui Luca senza dubbio ha unito
insieme due incidenti che erano invece distinti sia per il contenuto che per il tempo in cui ebbero luogo.
Da notare:
û (1) i vv. 1-2 sono una sutura letteraria il cui scopo è di collegare informazioni provenienti da
fonti diverse.
û (2) Il v. 34 manca nei migliori mss. greci, ma è stato aggiunto nella tradizione testuale
occidentale per spiegare dove fosse Sila all’inizio della II missione299.
û (3) Simeone (15,14), che di solito viene identificato con Simon Pietro300, probabilmente era
qualcun altro nella fonte usata. Altrove negli Atti Pietro è chiamato Pétros (15,7) o Simon
Petros (10,5; 18,32), ma mai Symeon. Nella fonte di Luca il Simeone di 15,14 probabilmente
può stato Simeone Niger, uno dei profeti o dottori di Antiochia (13,1); egli è probabilmente
uno dei delegati, mandato a consultare Giacomo a Gerusalemme riguardo alle prescrizioni sui
cibi.
û (4) Il discorso di Pietro sulla circoncisione e sulla legge mosaica (15,7-11) non concorda con
l’argomento principale trattato da Giacomo (15,14-21).
Come risultato della consultazione Giacomo manda una lettera ad Antiochia, Siria e Cilicia (15,22-
29), raccomandando che i pagano-cristiani in queste comunità miste si astenessero dalle carni offerte agli
idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Sarebbe stata mandata con Giuda Barsabba
e Sila (15,22) Ad Antiochia e a Paolo e Barnaba che si pensava fossero ancora là. At 15,35-36 fanno
menzione di Paolo e Barnaba che predicano ad Antiochia; ma questo dovrebbe essere inteso nel senso
del loro soggiorno immediatamente dopo il “concilio”, dopo il quale Paolo avrebbe lasciato Antiochia
per la III missione. Paolo viene a sapere più tardi di questa lettera (21,25).
Provo a ricapitolare un quadro sinottico:
Le fonti per questo evento sono ancora due: At 15 e Gal 2.

Le motivazioni del viaggio a Gerusalemme


a. Atti
1. la questione
Secondo Atti 15,1-5 la motivazione di fondo è così formulata
a. v. 1 VEa.n mh. peritmhqh/te tw/| e;qei tw/| Mwu?se,wj( ouv du,nasqe swqh/nai)
b. v. 5 dei/ perite,mnein auvtou.j paragge,llein te threi/n to.n no,mon Mwu?se,wj)
Intorno a questo punto vi è molta discussione: due volte Atti usa il termine zh,thsij (vv. 2.7) ovvero
un dibattimento molto approfondito e la questione da dirimere viene indicata con il termine
zh,thma.
2. chi ne è sostenitore

299 Se si omette il v. 34, l’ubicazione di Sila diventa un problematica: quando si unisce egli a Paolo nella II missione?
300 E così deve essere inteso nella storia fusa di Luca.

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Secondo At 1,1 sono “Alcuni scesi dalla Giudea” (inej katelqo,ntej avpo. th/j VIoudai,aj); in 15,5
sono “alcuni della setta dei farisei” (tinej tw/n avpo. th/j ai`re,sewj tw/n Farisai,wn).
3. la decisione
La decisione che viene presa ad Antiochia è quella di interpellare gli apostoli e gli anziani di
Gerusalemme e mandare a questo scopo Paolo e Barnaba con altri. La Chiesa di
Gerusalemme è sentita come fondamentale punto di riferimento.
b. Galati
In Galati sono ancora ricuperabili alcune motivazioni.
1. La decisione è di Paolo: non vi è alle spalle una discussione come quella di cui parla Atti.
Anche se i 2,4-5 lasciano ancora intravedere un’accesa polemica.
2. Non vi è un invio da parte della comunità di Antiochia, come in Atti, ma il viaggio a
Gerusalemme avviene “per una rivelazione” (kata. avpoka,luyin), forse attraverso una parola
profetica come quella in At 13,2. In questo modo Paolo rivendica la sua totale autonomia: ciò
è in accordo con quanto va scrivendo nella lettera.
3. L’approvazione di coloro che sono i punti di riferimento della Chiesa di Gerusalemme sono
fondamentali anche per Paolo: “per non correre o aver corso invano” (mh, pwj eivj keno.n
tre,cw h’ e;dramon).
4. A Gerusalemme insieme a Paolo salgono anche Barnaba e Tito. Quest’ultimo, essendo greco
({Ellhn), è il segno del nuovo cristianesimo svincolato dalla Legge ed il fatto che non sia
costretto a farsi circoncidere è la prova dell’atteggiamento disponibile dei responsabili della
Chiesa di Gerusalemme

Lo svolgimento degli eventi a Gerusalemme


c. Atti
1. primo incontro in cui Paolo e Barnaba riferiscono della missione alle genti (4-5)
2. assemblea di apostoli ed anziani
a. primo dibattimento (7: zh,thsij)
b. intervento di Pietro in cui ricorda quello che Dio ha operato attraverso di lui a favore dei
pagani (8-11)
c. intervento di Barnaba e Paolo (12). L’ordine di citazione è inverso rispetto a quello del
v. 2 (Paolo e Barnaba): forse è importante la figura di Barnaba per il suo passato
rapporto con la Chiesa gerosolimitana.
d. intervento di Giacomo (13-21)
e. decisione (22)
3. lettera degli apostoli e degli anziani ai fratelli di Antiochia, della Siria e della Cilicia
d. Galati
1. Secondo Galati non vi è un’assemblea ma un incontro con “le colonne” (9: stu/loi) od anche
con le “persone più ragguardevoli” (6: oi` dokou/ntej ei=nai, ti) ovvero Giacomo, Cefa e
Giovanni.
2. Essi riconoscono che l’opera di Paolo viene da Dio. Le espressioni usate non lasciano dubbio
su questo: “visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro
quello per i circoncisi poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei
circoncisi aveva agito anche in me per i pagani e riconoscendo la grazia a me conferita...”
(7-9: touvnanti,on ivdo,ntej o[ti pepi,steumai to. euvagge,lion th/j avkrobusti,aj kaqw.j Pe,troj th/j

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peritomh/j( o` ga.r evnergh,saj Pe,trw| eivj avpostolh.n th/j peritomh/j evnh,rghsen kai. evmoi. eivj ta.
e;qnh( kai. gno,ntej th.n ca,rin th.n doqei/sa,n moi).
3. Le conclusioni di questo incontro sono:
a. piena comunione (viene data la destra)
b. riconoscimento della priorità missionaria di Paolo verso le genti (9: a h`mei/j eivj ta. e;qnh(
auvtoi. de. eivj th.n peritomh,n\)
c. nessuna ulteriore imposizione salvo il ricordarsi dei poveri: ouvde.n prosane,qento ...mo,non
tw/n ptwcw/n i[na mnhmoneu,wmen (6.10).

e. sintesi

Le decisioni prese
La decisione che emerge da Atti e da Galati è la possibilità di rivolgersi alle genti senza
obbligare a passare per l’osservanza della Legge. Secondo Atti tuttavia vengono poste alcune
condizioni che sono (v. 20; cf. 29):
1. si ordini loro di astenersi dalle sozzure degli idoli (evpistei/lai auvtoi/j tou/ avpe,cesqai tw/n
avlisghma,twn tw/n eivdw,lwn)
2. dalla impudicizia (th/j pornei,aj )
3. dagli animali soffocati (tou/ pniktou/ )
4. dal sangue (tou/ ai[matoj\).
Sempre secondo Atti, Paolo esegue la decisione degli apostoli e degli anziani nelle diverse
comunità (16,4; 21,25).

Seconda missione (50-52 d.C.)


Stando ad At 15,37-39, Paolo rifiuta di portare con sé Giovanni Marco nella Il missione a causa della
sua precedente defezione. È Sila, invece, ad accompagnare Paolo e, partendo da Antiochia, attraversano
la Siria e la Cilicia verso le città della Galazia meridionale, Derbe e Listra301. Da lì, passando attraverso la
Frigia, si reca nella Galazia settentrionale (Pessino, Ancira e Tavio) e fonda nuove chiese. Impossibilitato
a proseguire verso la Bitinia, dalla Galazia va verso la Misia e Troade. Qui sembra si sia associato a lui
Luca - o almeno i dati dal diario di Luca cominciano a questo punto (At 16,10-17, la prima delle
“Sezioni-Noi”). In risposta a una visione avuta in sogno, fa la traversata fino a Neapoli, il porto di Filippi,
e quest’ultima città diventa il luogo della sua prima chiesa cristiana in Europa.
Dopo essere stato imprigionato e flagellato a Filippi per aver esorcizzato una giovane schiava che
era stata fonte di grandi guadagni per i suoi padroni, si reca a Tessalonica, seguendo la via di Anfipoli e
Apollonia (At 17,1-9). La sua breve permanenza a Tessalonica viene impegnata dall’evangelizzazione e
dalle dispute con i Giudei; termina con la sua fuga verso Berea (17,10) e infine ad Atene (17,15). Ad
Atene, fallisce: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” (At 17,32).
Corinto (51 d.C.). A quell’epoca una delle città più importanti del mondo mediterraneo. Là vive con
Aquila e Priscilla (18,2-3), giudeo-cristiani giunti di recente dall’Italia, di mestiere fabbricatori di tende
come Paolo. Durante il suo soggiorno a Corinto, che dura 18 mesi, converte molti giudei e greci e fonda
una solida chiesa a predominanza pagano-cristiana. Nel 51 d.C. Paolo scrisse la sua prima lettera ai
Tessalonicesi. Il termine di questa permanenza (52 d.C.), Paolo viene trascinato davanti al proconsole L.
Giunio Gallione, il quale respinge il caso considerando una questione di parole, nomi e legge giudaici
(18,15). Qualche tempo dopo Paolo si ritira da Corinto salpando dal suo porto di Cencre diretto ad Efeso

301 Dove Paolo prende Timoteo come compagno, dopo averlo fatto circoncidere (At 16,1-3).

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e a Cesarea Marittima. Dopo una visita alla chiesa di Gerusalemme (18,22) va ad Antiochia, dove si
ferma per più di un anno (forse dal tardo autunno del 52 fino alla primavera del 54).

Viaggio Missionario 2

Vediamo i dati che emergono dal testo:


eventi cronologia riferimenti
Siria e Cilicia 15,41
vengono solo
attraversate
Derbe e Listra 16,1
incontro con Timoteo
Frigia

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Galazia (Galatikh. cw,ra) 16,6 Gal 4,13 oi;date de. o[ti diV
avsqe,neian th/j sarko.j
euvhggelisa,mhn u`mi/n to.
pro,teron (Sapete che fu a
causa di una malattia del
corpo che vi annunziai la
prima volta il vangelo
Misia 16,7-8
viene solo attraversata
Troade 16,8
Filippi 16,12-40 alcuni giorni (h`me,raj tina,j) 1Ts 2,2 propaqo,ntej kai.
incontro con Lidia 16,12 u`brisqe,ntej kaqw.j oi;date evn
la schiava indovina molti giorni (tou/to de. evpoi,ei Fili,ppoij evparrhsiasa,meqa
fustigazione e prigione evpi. polla.j h`me,raj) (16,18) evn tw/| qew/| h`mw/n lalh/sai
pro.j u`ma/j to. euvagge,lion tou/
conversione del
qeou/ evn pollw/| avgw/ni)
carceriere
Tessalonica (Qessaloni,kh) per tre sabati (evpi. sa,bbata Fil 4,15-16 :Oidate de. kai.
17,1-10 tri,a) 17,2 u`mei/j( Filipph,sioi( o[ti evn
predicazione per tre avrch/| tou/ euvaggeli,ou( o[te
sabati evxh/lqon avpo. Makedoni,aj(
ouvdemi,a moi evkklhsi,a
i giudei sobillano
evkoinw,nhsen eivj lo,gon
Giasone e i suoi dai capi do,sewj kai. lh,myewj eiv mh.
della città u`mei/j mo,noi\ o[ti kai. evn
Qessaloni,kh| kai. a[pax kai. di.j
eivj th.n crei,an moi evpe,myate)
1Ts 2-3 l’opera di Paolo a
Tessalon.
Berea (Be,roia) 17,10-14
Atene 17,15-34 1Ts 3,1 euvdokh,samen
predicazione nella kataleifqh/nai evn VAqh,naij
sinagoga mo,noi
discorso sull’Areopago Riferimenti ad Atene come
o dinanzi all’Aereo. (evpi. luogo di stesura di 1Ts e 2Ts
to.n :Areion Pa,gon% nella subscriptio di alcuni
codici.
Corinto 18,1-18 un anno e sei mesi (VEka,qisen
incontro con Aquila e de. evniauto.n kai. mh/naj e]x)
Priscilla 18,11
predicazione prima ad parecchi giorni (h`me,raj
Ebrei poi ai pagani i`kana.j) 18.18
davanti a Gallione
Efeso 18,19-21
Antiochia

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Terza missione (54-58 d.C.)


Partendo da Antiochia (At 18,23), Paolo viaggia via terra attraversando un’altra volta la Galazia
settentrionale e la Frigia fino ad Efeso. La capitale della provincia dell’Asia diventa il centro della sua
attività missionaria per i successivi tre anni (At 20,31) e per “due anni” insegna nella scuola di Tiranno
(19,10). Poco dopo il suo arrivo ad Efeso, Paolo scrive ai Galati (ca. nel 54). Gli Atti non dicono nulla a
proposito di un suo imprigionamento a Efeso302. Alcuni dei problemi che Paolo dovette affrontare e che
ha descritto in 2Cor 11,24-27 si possono essere verificati proprio in questo periodo di attività missionaria.
Durante questo periodo giunsero a Paolo delle notizie sulla situazione della chiesa di Corinto. Per far
fronte a quella situazione - dubbi, scissioni, risentimento nei confronti di Paolo stesso, scandali - egli
scrisse almeno cinque lettere ai Corinzi, delle quali ne rimangono solamente due (di cui una è composita:
2Cor). Una lettera precedeva 1Cor (cf. 1Cor 5,9), la quale ammoniva i Corinzi a non associarsi con i
cristiani impudichi (e che probabilmente raccomandava di fare una colletta per i poveri di Gerusalemme,
una questione intorno alla quale i Corinzi inviarono una successiva richiesta di informazione, (cf. 1Cor
16,1). Allora, per commentare le informazioni e per rispondere alle domande inviategli, Paolo scrisse
1Cor poco prima della Pentecoste (probabilmente nel 57).
Questa lettera, tuttavia, non fu bene accolta e le sue relazioni con la chiesa di Corinto, lacerata dalle
divisioni, peggiorarono. La situazione richiese una tempestiva visita a Corinto stessa 2Cor 12,14; 13,1-2;
2,1 (“una visita dolorosa” 12,21), che in realtà non giovò a nulla. Al suo ritorno ad Efeso, Paolo scrisse ai
Corinzi una terza volta, una lettera composta “tra molte lacrime” (2Cor 2,3-4,9; 7,8.12; 10,1.9). Questa
lettera può essere stata portata da Tito, che fece visita personalmente ai Corinzi nel tentativo di migliorare
le relazioni.
La rivolta degli orefici efesini probabilmente avviene durante l’assenza di Tito (At 19,23-20,1).
Rivolta di Demetrio. Questa esperienza indusse Paolo a lasciare Efeso e ad andare a Troade (2Cor 2,12) a
lavorare. Non trovando là Tito, decise di recarsi in Macedonia (2Cor 2,13). Da qualche parte in
Macedonia (forse a Filippi) incontrò Tito e apprese da lui che era avvenuta una riconciliazione dei
Corinzi con Paolo. Dalla Macedonia Paolo scrisse ai Corinzi la sua quarta lettera (Lettera A di 2Cor)
nell’autunno del 57. Non è possibile dire se Paolo proseguì direttamente per Corinto o se andò prima
dalla macedonia all’Illiria (cf. Rm 15,19) da dove può avere scritto 2Cor 10-13 (Lettera B). In ogni caso,
Paolo arrivò a Corinto, per la sua terza visita, probabilmente nell’inverno del 57 e si fermò per tre mesi
nell’Acaia (At 20,2-3; cf. 1Cor 16,5-6; 2Cor 1,16).
Nel frattempo Paolo aveva cominciato a pensare di ritornare a Gerusalemme. Memore della
raccomandazione del “concilio” che bisogna ricordarsi dei poveri (Gal 2,10), organizzò una colletta tra le
chiese dei Gentili a favore dei poveri di Gerusalemme. Questa raccolta venne fatta nelle chiese della
Galazia, Macedonia ed Acaia (1Cor 16,1; Rm 15,25-26). Paolo progettò di portare la colletta a
Gerusalemme e di completare in tal modo la sua evangelizzazione del mondo mediterraneo orientale.
Voleva visitare Roma (Rm 15,22-24) e di qui andare in Spagna e in occidente. Durante la permanenza di
tre mesi nell’Acaia, Paolo scrisse la lettera ai Romani probabilmente da Corinto, o dal suo porto Cencre
(Rm 16,11), all’inizio del 58303.
Quando arriva la primavera, Paolo decide di salpare da Corinto (At 20,3) per la Siria. Ma quando sta
per imbarcarsi, viene tramata una congiura contro di lui da alcuni giudei; allora decide di viaggiare via
terra, attraverso la Macedonia. Lo accompagnano alcuni discepoli provenienti da Berea, Tessalonica,

302 Cf. 1Cor 15,32; 2Cor 1,8-9; Fil 1,20-26.


303 Cf. inoltre R. E. BROWN - J. P. MEIER, Antiochia e Roma, 105-127.

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Derbe ed Efeso. Passano la Pasqua del 58 a Filippi304 . Dopo le festività partono con la nave con
destinazione Troade e poi viaggiano per via terra fino ad Asso, dove prendono di nuovo la nave per
Mitilene. Costeggiando l’Asia Minore Paolo naviga da Chio fino a Samo e poi fino a Mileto, dove
rivolge un discorso agli anziani di Efeso là radunati (At 20,17-35). Non si lascia intimorire dalla loro
predizione del suo imminente imprigionamento e per mare fino a Cos, Rodi, Patara nella Licia, Tiro nella
Fenicia, Tolemaide e Cesarea Marittima. Un viaggio per via terra lo porta a Gerusalemme, che sperava
raggiungere per il giorno della Pentecoste del 58 (20,16; 21,17)305.

Viaggio Missionario 3

Anche qui fornisco un quadro sinottico dei dati emergenti dal testo:
eventi cronologia riferimenti
Frigia e Galazia (Galatikh.
cw,ra kai. Frugi,a) 18,23. In
19,1 dette le regioni superiori
(ta. Avnwterika. me,rh)

304 Dove Luca si unisce di nuovo At 20,5, una “Sezione-Noi”.


305 Cf. G. OGG, Cronology, 133-145. COMPLETA CITAZIONE

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Efeso 19,1-41 tre mesi (evpi. mh/naj trei/j) 1Cor 15,32 eiv kata.
∗ incontro con i discepoli 19,8 a;nqrwpon evqhrioma,chsa evn
di Giovanni due anni (evpi. e;th du,o) 19,10 VEfe,sw|( ti, moi to. o;feloj*
∗ attività di insegnamento si trattenne ancora un po’ di 1Co 16,8 evpimenw/ de. evn
e taumaturgica di Paolo tempo (evpe,scen cro,non) 19,22 VEfe,sw| e[wj th/j penthkosth/j\
∗ invia Timoteo ed Erasto tre anni (trieti,an) 20,31 Secondo la subscriptio di
in Macedonia (ed alcuni codici a 1Cor Paolo
Acaia) scrive questa lettera da Efeso
∗ scoppia un tumulto
Macedonia 20,1 Secondo la subscriptio di
alcuni codici a 1Cor e 2Cor
Paolo scrive queste lettere da
Filippi
in Grecia (dove?) 20,2 tre mesi (poih,saj te mh/naj
trei/j) 20,3
attraverso la Macedonia 20,3
Filippi 20,6 dopo i giorni degli Azzimi
(meta. ta.j h`me,raj tw/n
avzu,mwn) 20,6
in navigazione da Filippi a cinque giorni (a;cri h`merw/n
Troade pe,nte)
Troade 20,7-12 una settimana (h`me,raj e`pta,)
20,6
in navigazione lungo la costa
dell’Asia 20,13-14
da Mitilene a Chio un giorno
da Chio a Samo un giorno
da Samo a Mileto un giorno
Mileto 20,15-38
incontro con gli anziani
di Efeso
in navigazione verso la Siria
21,1-2
da Mileto a Cos un giorno
da Cos a Rodi
da Rodi a Patara
costeggiando Cipro
a Tiro 21,3-6 una settimana (h`me,raj e`pta,)
21,4
a Tolemaide 21,7 un giorno (h`me,ran mi,an)
a Cesarea 21,8-14 alcuni giorni 21,10.15
Filippo e le sue figlie h`me,raj plei,ouj
il profeta Agabo Meta. de. ta.j h`me,raj
tau,taj
a Gerusalemme 21,15

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Ultimo imprigionamento di Paolo


Per il resto della vita di Paolo dipendiamo unicamente e dalle informazioni di Luca contenute negli
Atti; abbraccia parecchi anni dopo il 58, periodo durante il quale deve affrontare una lunga prigionia.

Viaggio Missionario 4

Questi i dati:
In Atti 21,15 inizia la narrazione dell’ultima permanenza di Paolo a Gerusalemme. Si può cercare di
schematizzare lo svolgersi degli eventi secondo Atti.

Eventi cronologia riferimenti


Arrivo a Gerusalemme 21,17
Incontro con Giacomo e gli il giorno dopo
anziani 21,18-25
Nel tempio per la il giorno dopo
purificazione 21,26

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È imprigionato 21,27-22,29 sette giorni dopo circa 21,27


è riconosciuto 27-30
interviene il tribuno 31-
36
chiede di parlare 37-40
discorso alla folla 22,1-
21
è portato nella fortezza
22-29
Paolo nel sinedrio 22,30- il giorno dopo 22,30
23,11
La congiura contro Paolo il giorno dopo 23,12
23,12-22
Viaggio nella notte verso il giorno dopo 23,32
Cesarea a cui giunge il giorno
dopo 23,23-35
Le accuse davanti al cinque giorni dopo 24,1
procuratore Felice 24.1-23
Passa il tempo: Felice ascolta due anni 24,27
e non decide
Festo a Gerusalemme 25,1— tre giorni dopo il suo arrivo
5 25,1
otto o dieci giorni 25,6
Udienza a Cesarea 25,6-12 il giorno dopo 25,6
Agrippa e Berenice da Felice alcuni giorni dopo 25,13
25,13-22
Paolo dinanzi a Agrippa e il giorno dopo 25,23
Berenice 25,23-26,32

Abbiamo, dunque, questa scansione:


Per tutto ciò che riguarda i fatti che accadono a Gerusalemme l’unica fonte a disposizione sono gli
Atti. L’ordine degli eventi è il seguente:
21,17 Arrivo a Gerusalemme
21,18-25 Incontro con Giacomo e gli anziani
21,26 Nel tempio per la purificazione
21,27-22,29 È imprigionato
27-30 è riconosciuto
31-36 interviene il tribuno
37-40 chiede di parlare
22,1-21 discorso alla folla
22-29 è portato nella fortezza
22,30-23,11 Paolo nel sinedrio
12-22 La congiura contro Paolo
23-35 Viaggio nella notte verso Cesarea a cui giunge il giorno dopo
24,1-23 Le accuse davanti al procuratore Felice

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Passa il tempo: Felice ascolta e non decide


25,1-5 Festo a Gerusalemme
6-12 Udienza a Cesarea
13-22 Agrippa e Berenice da Felice
25,23-26,32 Paolo dinanzi a Agrippa e Berenice

Alcune valutazioni sui viaggi


1. Le traiettorie fondamentali dei due viaggi (secondo e terzo). Date presumibili: 49-51 e 52-56.
a. secondo viaggio: Siria Cilicia, lasciata da parte l’Asia e la Bitinia verso Troade. Quindi
la Macedonia e la Grecia. Viaggio concentrato sulla Grecia.
b. terzo viaggio: altopiani interni della penisola anatolica; Efeso; quindi Corinto. Viaggio
concentrato sull’Asia.
2. La lettura che di questi viaggi è fatta da Atti: sono guidati da Dio: 13,1-3; 16,6-7.9-10; 18,9;
23,11; 27,23-24
3. Le tappe fondamentali
a. Filippi. La testimonianza di Atti in ordine all’evangelizzazione. La testimonianza della
lettera a proposito della venuta nel cap. 4.
b. Tessalonica. La testimonianza di Atti e quella di 1Ts a proposito delle vicende dopo la
partenza di Paolo da Tessalonica
c. Corinto. La testimonianza di Atti 18
d. Efeso. La testimonianza di Atti.
e. Corinto. I fatti secondo Atti e secondo 2Cor.

L’Ultima visita a Gerusalemme e l’arresto (58 d.C.)


Arrivati a Gerusalemme, Paolo e i suoi compagni fanno visita a Giacomo alla presenza degli anziani
di quella Chiesa (At 21,18). Giacomo si rende subito conto che la presenza di Paolo a Gerusalemme
potrebbe causare delle agitazioni tra i giudeo-cristiani. Pertanto consiglia Paolo di associarsi a quattro
uomini che si apprestano a fare il voto di nazireato e di sostenere le loro spese quale gesto della buona
disposizione nei confronti dei giudeo-cristiani.
Paolo acconsente e il periodo di sette giorni prescritto dal cerimoniale è quasi al termine quando
viene visto nel Tempio da alcuni giudei provenienti dalla provincia dell’Asia. Lo accusano di
incoraggiare la violazione della legge mosaica e di profanare la santità del Tempio introducendovi un
greco. Lo assalgono, lo trascinano fuori del Tempio e tentano di ucciderlo. Viene però salvato dal tribuno
della coorte romana stazionata nella Fortezza Antonia.
Alla fine il tribuno lo mette in carcere preventivo (22,27) e lo porta davanti al sinedrio. Ma la paura
dei Giudei induce il tribuno a inviare Paolo al procuratore della Giudea, Antonio Felice, con residenza a
Cesarea Marittima (23,23-33). Felice, che si aspetta che Paolo lo corrompa con del denaro (24,26) lo
tiene in prigione per due anni (58-60).

Appello a Cesare; viaggio a Roma (60 d.C.)


Quando arriva il nuovo procuratore Porcio Festo (forse nel 60 ca.), Paolo si “appella a Cesare”, cioè
chiede di essere processato a Roma (25,11) in virtù della sua cittadinanza romana. Festo deve accogliere
questa richiesta306. Scortato da un centurione romano307, salpa da Cesarea Marittima per Sidone e passa

306 Cf. A. N. SHERWIN-WHITE, Roman Society, 48-70.


307 E probabilmente da Luca, come indicano le “Sezioni-Noi”.

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Cipro per giungere a Mira nella Licia.


Sul finire dell’autunno del 60 (27,9) lasciano Mira su una nave alessandrina diretta in Italia,
aspettandosi cattivo tempo. La loro rotta li porta prima a Cidno (sulla costa meridionale dell’Asia
Minore), poi in direzione sud “al riparo di Creta, dalle parti di Salmone” fino a una località chiamata
Buoni Porti vicino alla città cretese di Lasea (27,7-8). Quando tentano di raggiungere il porto di Fenice,
la nave viene investita dal vento di nord-est che la trascina per giorni attraverso l’Adriatico verso Malta,
dove alla fine fanno naufragio (28,1).
Dopo aver trascorso l’inverno a Malta, Paolo e la sua scorta salpano per Siracusa in Sicilia, poi per
Rhegium (l’odierna Reggio Calabria) e infine per Puteoli (l’ordierna Pozzuoli, presso Napoli). Il loro
viaggio verso Roma per via terra li conduce attraverso il Foro di Appio le Tre Taverne (28,15). Paolo
arriva nella capitale dell’impero nella primavera del 61 e per due anni viene tenuto agli arresti domiciliari
(61-63) con un soldato di guardia. Questa situazione, tuttavia, non gli impedisce di convocare in casa sua
i giudei romani per evangelizzarli (28,17-28). L’interpretazione ascrive a questo periodo di
imprigionamento gli scritti di Paolo a Filemone, ai Colossesi e agli Efesini.

La conclusione della vita di Paolo


Gli Atti terminano con il breve resoconto degli arresti domiciliari di Paolo. Il suo arrivo a Roma e la
possibilità di predicarvi il vangelo senza alcun impedimento rappresentano il punto culminante del
racconto della diffusione della parola di Dio da Gerusalemme alla capitale del mondo civilizzato di quel
tempo - essendo Roma il simbolo dei “confini della terra” (At 1,8). Ma ciò non rappresentava la fine
della vita di Paolo. La menzione di “due anni interi” (28,30) non significa che egli sia morto
immediatamente dopo quel biennio, quale che sia l’interpretazione data alla conclusione enigmatica degli
Atti.
Le Lettere pastorali (Tt; 1-2 Tm) sono state spesso considerate come scritti autentici di Paolo e
ritenute redatte da lui dopo gli arresti domiciliari romani. Invero, queste lasciano pensare che egli abbia
visitato di nuovo l’Oriente (Efeso, la Macedonia e la Grecia). Stando ad esse, Paolo avrebbe posto Tito a
capo della chiesa cretese e Timoteo a capo di quella efesina.
2Tm dà l’impressione di essere il testamento e le ultime volontà di Paolo, scritta quando stava per
affrontare la morte. Essa lascia pensare che egli sia stato arrestato a Troade (4,13) e condotto di nuovo a
Roma (1,17), dove questa lettera sarebbe stata scritta dalla prigione.
Ultimi anni: dipendiamo dalla tradizione ecclesiastica. Paolo ha visitato la Spagna? Forse non si
tratta di altro che di una storicizzazione dei suoi progetti di viaggio espressi in Rm 15,24.28. La
tradizione successiva ci dice che Paolo, liberato dopo i due anni di arresti domiciliari andò in Spagna.
Clemente di Roma (1Cor 5,7) riferisce che Paolo “insegnò la giustizia al mondo intero e viaggiò fino ai
confini dell’ovest. E dopo aver reso testimonianza davanti alle autorità, fu tolto da questo mondo e se ne
andò nel luogo santo, avendo dimostrato di essere il più grande modello di sopportazione». La
testimonianza di Clemente (del 95 ca.) fa pensare che ci sia stata una visita in Spagna, un altro processo e
il martirio.
Il Frammento Muratoriano (180 ca.; righe 38-39; EB 4) afferma implicitamente che l’ultima parte
degli Atti, con il racconto della “partenza di Paolo dalla Città (Roma) per recarsi in Spagna”, sia andata
perduta. Eusebio (HE 2.22.3) è il primo a parlare del secondo imprigionamento di Paolo a Roma e del
suo martirio sotto Nerone: “Dopo aver difeso se stesso, [Paolo] fu nuovamente inviato in missione a
predicare e giunto per la seconda volta nella stessa città subì il martirio sotto Nerone. Durante questa
prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, informandolo nel contempo che la sua prima difesa aveva
avuto luogo e il suo martirio era prossimo». Eusebio inoltre cita Dionisio di Corinto (ca. 170), il quale

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affermava che Pietro e Paolo “furono martirizzati nello stesso tempo” (HE 2.25.8). Tertulliano (De
praescr. 36) paragona la morte di Paolo con quella di Giovanni Battista, cioè per decapitazione.
La testimonianza di Eusebio relativa alla morte di Paolo durante la persecuzione di Nerone è
ampiamente accettata. Questa persecuzione, comunque, durò dall’estate del 64 d.C. fino alla morte
dell’imperatore (9 giugno del 68) ed è pertanto difficile precisare l’anno del martirio di Paolo.
L’informazione di Dionisio di Corinto secondo cui Pietro e Paolo “furono martirizzati nello stesso
tempo” (katà tòn autòn kairon) è stata spesso intesa nel senso di “nello stesso anno”, e l’anno
comunemente avanzato per la morte di Paolo è il 67, verso la fine della persecuzione di Nerone, come
sembra suggerire la narrazione di Eusebio.
Questa cronologia, comunque, non è universalmente accettata e non manca di presentare le sue
difficoltà. Paolo si dice sia stato sepolto sulla via Ostiense, presso l’odierna basilica di San Paolo fuori le
Mura. Nel 258, quando le tombe cristiane di Roma rischiavano di essere profanate durante la
persecuzione di Valeriano, i resti di Paolo furono trasferiti per un certo tempo in un luogo chiamato Ad
Catacumbas sulla via Appia. Successivamente furono riportati al loro luogo originario di riposo, dove
Costantino costruì la sua basilica.

Il ritratto di Paolo
È possibile tracciare un ritratto di Paolo sulla base dei dati che provengono dalle lettere in
primo luogo e poi dagli Atti?

Le lettere
1. La gelosia di Dio che caratterizza il fariseo
Rom 10,2: marturw/ ga.r auvtoi/j o[ti zh/lon qeou/ e;cousin avllV ouv katV evpi,gnwsin
Gal 1,14 kai. proe,kopton evn tw/| VIoudai?smw/| u`pe.r pollou.j sunhlikiw,taj evn tw/| ge,nei mou(
perissote,rwj zhlwth.j u`pa,rcwn tw/n patrikw/n mou parado,sewn
Fil 3,6 kata. zh/loj diw,kwn th.n evkklhsi,an
Questo elemento va considerato un tratto tipico di Paolo: il modo con cui ha vissuto la sua
dimensione giudaica è lo stesso che lo anima nella sua nuova dimensione. La gelosia di Dio
di cui parla in Rom 10,2 è quell’amore appassionato per Dio che diventerà poi passione per
Cristo.
2. Il rapporto con Gesù è evidentemente il punto fondamentale di tutta l’esperienza di Paolo.
L’essere con Cristo (su.n Cristw/| ei=nai Fil 1,23) rappresenta certamente il desiderio di Paolo
nel suo “essere sciolto dal corpo”, come già aveva scritto ai tessalonicesi (1Ts 4,17: kai.
ou[twj pa,ntote su.n kuri,w| evso,meqa). Ma esso in realtà rappresenta la sua dimensione
esistenziale dal giorno di Damasco: “per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21); ed ai galati può
dire: “non vivo più io ma Cristo vive in me” (2,20: zw/ de. ouvke,ti evgw,( zh/| de. evn evmoi. Cristo,j).
3. Più precisamente si potrebbe dire.
a. con l’evento di Damasco Paolo è attratto nella signoria del Cristo risorto; è
“conquistato” (Fil 3,12: katelh,mfqhn u`po. Cristou/ ÎvIhsou/Ð). Qui inizia quella
dimensione cristocentrica di cui al punto 2.
b. Ciò significa per lui sondare l’amore infinito di Cristo “che mi ha amato ed ha dato se
stesso per me” (Gal 2, tou/ avgaph,santo,j me kai. parado,ntoj e`auto.n u`pe.r evmou/).
Sull’amore di Cristo, Figlio di Dio, Paolo ritorna nelle sue lettere con accenti profondi:
“chi ci separerà dall’amore di Cristo” (Rom 8,35: ti,j h`ma/j cwri,sei avpo. th/j avga,phj

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tou/ Cristou/); nelle parole che Paolo qui dice si riflette tutta la sua esperienza, quella di
un amore trascinante e travolgente.
c. l’esperienza dell’amore nel Cristo crocifisso, il Cristo dato e che si è dato. 2Cor 5
d. Il desiderio della conoscenza di Cristo che è poi il desiderio di una comunione totale
con lui oltre la morte e nella resurrezione finale (Fil 3)
4. Lo zelo per la Chiesa
5. La passione missionaria e la percezione di se stesso in una oblatività totale

Il ritratto di Atti
In generale
Gli Atti degli Apostoli accreditano un ritratto di Paolo che risponde agli intenti dell’autore.
Quali sono i tatti della fisionomia di Paolo in Atti?
1. Tre volte è narrata la conversione di Paolo: una volta è parte integrante della narrazione (At
9); le altre due volte essa è narrazione autobiografica, posta in bocca all’apostolo, con intenti
apologetici. Essa accredita Paolo anzitutto agli occhi del lettore poi agli occhi dei giudei di
Gerusalemme ed infine agli occhi dei pagani rappresentati da Agrippa, Berenice e Festo.
Questo aspetto dice quanto sia importante per Luca questo momento: esso trasforma il
personaggio Saulo in un apostolo. Ciò è il segno della potenza divina
2. Attraverso quest’uomo agisce il Signore risorto stesso: è lui a chiamare Paolo, è lui ad
indicargli la via delle genti, è lui a sostenerlo nei momenti fondamentali. La relazione che si
stabilisce tra Paolo e Gesù è ripetutamente e fortemente sottolineata.
3. Per mezzo di Paolo lo euvagge,lion giunge agli estremi confini della terra. Il confronto con
l’altra figura dominante in Atti, quella di Pietro, è significativo. Pietro è lasciato a
Gerusalemme nel cap. 12 e nei capp. Precedenti egli si è mosso solo per arrivare sino a
Cesarea.
4. L’ultimo aspetto della figura di Paolo è quello di colui che da la vita sull’esempio di Gesù e
per lui. Già in 9,16 è detto: evgw. ga.r u`podei,xw auvtw/| o[sa dei/ auvto.n u`pe.r tou/ ovno,mato,j mou
paqei/n. Il patire per Cristo e sul suo esempio è mostrato sin dall’inizio: è costretto a fuggire da
Damasco; altrettanto avviene a Gerusalemme e successivamente in diverse città che egli
tocca. Ma è soprattutto nell’ultimo viaggio che questo elemento traspare. Il viaggio a
Gerusalemme richiama quello di Gesù in Lc 9,51-19; esso è accompagnato da profezie:
“Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai
Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani” (21,11). Alla
profezia di Agabo Paolo risponde: “Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il
cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome
del Signore Gesù” (21,13).

At 20,18-35: un testo particolarmente significativo


1. È il discorso di addio di Paolo agli anziani di Efeso: lo si è chiamato anche “testamento
pastorale” o “testamento dell’apostolo”. Proprio per questo esso estende il suo sguardo dal
passato, al presente, al futuro. Gli argomenti si accavallano e si ripetono senza un apparente
ordine. Si possono distinguere due grandi parti: i vv. 18-27, in cui Paolo parla

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prevalentemente di sé, e i vv. 28-35 che contengono l’esortazione agli anziani. Anche
nell’esortazione però la figura di Paolo rimane sullo sfondo come esemplare.
2. Il passato di Paolo:
a. per molto tempo Paolo è rimasto ad Efeso (v. 18: dal primo giorno in cui arrivai in Asia
e per tutto questo tempo; al v. 31 parla di tre anni);
b. secondo i vv. 19-20 Paolo ha servito il Signore ed ha continuamente ed in ogni modo
esortato alla conversione;
c. nei vv. 25-26 ritorna sul motivo della sua presenza: “sono passato annunziando il regno
di Dio...tutta la volontà di Dio”; sente perciò di non aver nulla da rimproverarsi in
ordine a quelli che si perdessero (“sono puro del sangue di tutti”).
d. al v. 31 richiama alla memoria la sua continua esortazione nei confronti dei membri
della comunità;
e. infine nei vv. 33-35 richiama il modo della sua presenza: lavorando con le proprie mani
e faticando così da non sfruttare nessuno.
3. Il futuro di Paolo si muove lentamente dal futuro immediato (v. 22: “io vado a Gerusalemme
senza sapere ciò che là mi accadrà”) fino al futuro più lontano che è dominato dalla
prospettiva del compimento: “purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu
affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio” (v. 24).
4. Su questo sfondo è posta l’esortazione agli anziani che è contenuta nella seconda parte del
discorso (vv. 28-35): quella Chiesa, che Dio si è acquistata con il sangue del suo Figlio, che
Paolo ha generato mediante la parola evangelica (“il vangelo della grazia”) è ora affidata a
loro ed essi debbono “pascere”. Questo compito essi debbono svolgerlo soprattutto facendo
attenzione a gente che potrebbe infiltrarsi con “dottrine perverse” e, quindi, dividere la
Chiesa.

Conclusione
Abbiamo, dunque, percorso in quest’ultimo capitolo la vita dell’apostolo delle genti
soffermandoci in particolare sulla sua attività apostolica incentrata sui viaggi. I primi due capitoli ci
hanno messo in contatto con l’epistolario (I capitolo) e con l’ambiente umano e culturale nel quale
Paolo è cresciuto (II capitolo).
Conclusa l’introduzione, adesso ci soffermeremo sulla sua attività apostolica vista, però, a
partire dai suoi scritti. Per fare ciò ripercorreremo i suoi viaggi attraverso i suoi scritti. Ogni
capitolo si soffermerà sulle tappe principali delle sue peregrinazioni apostoliche.

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