I SEGRETI
DELLA SAPIENZA
Introduzione a i Libri sapienziali e poetici
SAN PAOLO
© E D IZ IO N I SA N PA O LO s .r i , 2013
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PREMESSA
L IB R I S A P IE N Z IA L I
QUESTIONI INTRODUTTIVE.
«INIZIO DELLA SAPIENZA:
ACQUISTA LA SAPIENZA»
(Pr 4,7)
1. Paternità salomonica
2 Sotto questo punto di vista la tradizione dei sapienti in Israele sarebbe molto vicina
a quelle dell’Egitto e della Mesopotamia, le cui istruzioni offrono indicazioni concrete sul
la modalità con cui districarsi nell’insidioso mondo che ruotava attorno al sovrano. Un
esempio è rappresentato dalla storia del giusto ministro Achikar nell’opera sumerica Le
parole di Achikar, il quale viene tradito dal nipote ingrato per essere, successivamente, ria
bilitato al servizio del re. Un’eco della storia di Achikar si ritrova in Tb 14,10 in cui si no
minano gli intrighi di palazzo a Ninive, dove Nadab, figlio adottivo di Achikar che aveva
gettato discredito sulla sua persona, viene smascherato e punito per questa sua ingratitu
dine.
proprio per questa ragione e non solo, secondo l’autore, per
ché si può affermare che egli fu in realtà anche un vero sag
gio.3
Tuttavia, oggi si tende ad abbandonare queste ricostruzio
ni poiché si ritiene più probabile dare al postesilio la stesura
finale delle opere sapienziali, sebbene possa rimanere ancora
valida l’ambientazione (milieu) iniziale alla corte palatina. In
questo caso, però, saremmo al tempo di Ezechia (metà del-
l’VIII secolo a.C.), almeno stando a Pr 25,1: «Anche questi
sono proverbi di Salomone, che hanno trascritto gli uomini
di Ezechia, re Giuda». Possiamo ragionevolmente pensare
che la sapienza sia cortigiana almeno nelle sue prime attesta
zioni scritte, e che servisse nel periodo pre-esilico per la for
mazione dei funzionari del regno. Ne è prova l’insistenza sul
la virtù del consiglio, propria di ogni buon leader, che deve
guidare l’azione di governo (Pr 11,14; 15,22; 20,18; 24,6).
Meno chiaro, cioè ancora da dimostrare, è il luogo deputa
to alla scrittura delle sentenze: una scuola presso la reggia?
nella biblioteca del tempio (come lascerebbe intendere 2Mac
2,13-14)? Al momento non si dispone di alcuna scoperta ar
cheologica che possa permettere di attestare la presenza di
scuole scribali, anche se è probabile la loro esistenza nel pe
riodo persiano e, soprattutto, ellenistico. Solo in Sir 51,23 si
parla ma in modo generico di una bet-hammidras (casa della
ricerca),4 ma è chiaro che anche Qoelet (III secolo a.C.) ha
esercitato la sua docenza in un ambito non meglio precisato,
almeno stando a quanto si legge nell’epilogo del libro: «Qoe-
3 Cfr. R.N. WHYBRAY, Wisdom in Proverbs. The Concept of Wisdom in Proverhs 1-9
(SBT 45), SCM, London 1965,20.
4 Nella scuola di Ben Sira «alcuni vedono il riferimento a una qualche forma di scuo
la, più o meno istituzionalizzata, nel primo giudaismo; altri, invece, la interpretano in for
ma metaforica, cioè la “casa di studio” di Ben Sira sarebbe una metafora per il suo libro
quale compendio del suo insegnamento; ad ogni modo, Tuso metaforico dell’espressione
presuppone una realtà conosciuta nell’ambiente dell’epoca» (N. C a l d u c h -B e n a g e S, «L a
relazione maestro-discepolo in Ben Sira», in Parole, Spirito e Vita 61,2010,56).
let, oltre ad essere un sapiente, insegnò anche la scienza al
popolo. Ascoltò, meditò, scrisse molte massime. Qoelet si
sforzò di trovare parole piacevoli e scrisse la verità onesta
mente» (Qo 12,9-10).
Con G.L. Perdue possiamo ipotizzare che le scuole reali
israelitiche caddero con la dominazione babilonese (VI seco
lo a.C.), anche se istituzioni simili persistettero sotto i gover
ni coloniali di Giuda, in quanto era necessario avere del per
sonale istruito per mantenere il proprio potere. Nel postesi
lio le scuole godettero del patrocinio dei sacerdoti del tempio
di Gerusalemme: per redigere i testi, conservare i documenti
e registrare gli introiti legati al sacrificio, si rendeva necessa
ria la formazione dei sapienti; questo stato di cose spieghe
rebbe il rapporto stretto tra sacerdoti, scribi e sapienti in
epoca postesilica.5
Concludendo, possiamo dire che la paternità salomonica è
di natura simbolica e può essere intesa ricorrendo alla satira.
J.E . Miles identifica il figlio a cui si rivolge il libro dei Pro
verbi con Salomone stesso: l’istruzione impartita più che es
sere frutto della sapienza di Salomone è a lui rivolta perché
impari la sapienza.6 Questa critica al re, cui allude la tesi di
J.E . Miles, è suffragata dal rimando a IRe 1-11 in cui Saio-
mone è presentato non come re sapiente e accorto, ma come
sovrano stolto che in preda alla propria fame sessuale si uni
sce alle donne straniere peccando di idolatria. In effetti, a
conferma del richiamo a questo epilogo della vita del re, una
figura negativa che è centrale nella sezione di Pr 1-9 è pro
prio la donna straniera, la quale seduce e perverte il giovane
inesperto (cfr. Pr 2; 5; 7).
8 Si può dire che nel parallelismo il secondo membro conferisce un carattere enfatico
che funziona come un rafforzamento e consolidamento: B è connesso ad A, avendo qualco
sa in comune con esso, ma non è una semplice riaffermazione di A perché è connaturale a B
seguire A e, quindi, aggiungervi qualcosa (spesso sotto forma di specificazione o di un’e
spansione del significato); B riecheggia A connettendosi ad esso. In proposito si veda il capi
tolo «L a dinamica del parallelismo» in R. ALTER, Larte della poesia biblica, GBPress - San
Paolo, Cinisello Balsamo 2011,13-49.
9 Cfr. VON Rad , La Sapienza in Israele, 23-53.
- L ’enigma: una o più sentenze non immediatamente chiare e
che necessitano di essere decodificate; l’enigma vela e svela al
lo stesso tempo la realtà; è il gioco della scoperta della verità
(«Per chi i guai? Per chi i lamenti? Per chi le risse? Per chi i
gemiti? Per chi le ferite senza alcun motivo? Per chi gli occhi
sempre offuscati? Per chi si perde dietro al vino, per chi va in
cerca di vino pregiato»: Pr 23,20-30; «Che cosa c’è di più pe
sante del piombo? Eppure non deve considerarsi tale lo stol
to»: Sir 22,14).
- L’allegoria (da àllos «altro», agoréud «parlo»): è un metodo di
composizione dei testi che permette di rinviare a un livello dif
ferente il significato immediato delle parole (cfr. Qo 12,1-6).
3. Retribuzione
4.1. Egitto
4.1.3. Inculturazione
4.2. Mesopotamia
1. Questioni storico-letterarie
Anche noi, per comprendere gli altri libri del corpus sa
pienziale, muoviamo dai Proverbi perché in esso sono rac
chiuse le tematiche principali che si attestano - con variazio
ni e amplificazioni - anche nelle altre opere didattiche.
1.1. Struttura
3 Si pone in relazione la Donna Sapienza dei cc. 1, 8 e 9, con la madre di Lemuel (Pr
31,1-9) e la donna forte ( ’èset-hayil) di Pr 31,10-31; a quest’ultima si oppone la figura
della donna straniera descritta nei cc. 2, 5, 6 e 7.
pera in latino attingendo direttamente dall’ebraico e ricor
rendo al greco e alle traduzioni giudaiche (che confluiranno
successivamente nel midrash e nel targum) quando il testo gli
sembrava maggiormente attendibile.
Prologo: 1,1-7
Istruzioni Interludi Inserzioni minori
I: 1,8-19
A: 1,20-33
II: 2,1-22
III: 3,1-12 3,3a
B: 3,13-20
IV: 3,21-35
V: 4,1-9
VI: 4,10-19
VII: 4,20-27 4,27a.27b
V ili: 5,1-23 C: 6,1-19 6,8a-8c.lla
IX: 6,20-35
X: 7,1-27
D: 8,31-36 8,13a.l9
E: 9,1-6 + 11.13-18 9,7-10.12
10 Cfr. A. MEINHOLD, Die Sprìicke: Teii 1: Sprùche Kapitel 1-15 (Ziircher Bibelkom-
mentare. Altes Testament 16.1), Theologischer Verlag, Zùrich 1991, 43-46. Volendo esse
re un po’ critici con questa ipotesi, annotiamo che i w. 5-8, che riguardano la giusta rela
zione con Dio, possono anche rimanere legati ai w. 9-11 (da Meinhold letti in rapporto
alla giusta relazione con gli uomini): il tema delle relazioni sociali è, infatti, presente sia in
2,5-8 che in 2,9-11.
2.2. Traduzione e commento
12Per salvarti dalla via del malvagio, dalPuomo che parla di cose
perverse;
13da quelli che abbandonano i sentieri diritti, che vanno per vie
tenebrose,
14che godono nel fare il male ed esultano nella sua perversione:
13sono intrinsecamente contorti e sviati nelle loro decisioni.
16Per salvarti dalla donna sposata, dall'estranea che ha parole se
ducenti,
17che ha abbandonato il compagno della sua giovinezza e ha di
menticato l'alleanza del suo Dio.
18Daw ero la sua casa conduce verso la morte e i suoi sentieri
verso le ombre:
19tutti quelli che vanno da lei non ritornano e smarriscono il
senso della vita.
20Pcr questo andrai per vie buone serbando la giustizia:
21i retti, infatti, abiteranno la terra e gli integri vi porranno di
mora;
22i malvagi, invece, saranno eliminati dalla faccia della terra e gli
sleali saranno estirpati da essa.
» Ivi, 36.
14 Cfr. Fox, «The Pedagogy of Proverbs 2», 241.
12-19. La propositio. Dopo il lungo exordium la funzione
della propositio sembra passare in secondo piano, poiché il
messaggio è stato in parte consegnato: il maestro non ha fatto
la paternale sull’attuazione di minuziose norme comporta
mentali, ma ha indicato la scaturigine stessa della vita morale,
cioè la sapienza come opzione di fondo che precede ogni sin
gola scelta. Nei versetti che compongono il cuore dell’inse
gnamento si delineano due figure negative dalle quali il di
scepolo, ormai istruito e ben preparato, deve guardarsi: i
malvagi e la donna altrui. Se ne dipingono i tratti fondamen
tali in due strofe parallele (w. 12-15 e 16-19) costruite in ma
niera identica: le (per) + infinito costrutto + min (da). En
trambi i soggetti hanno abbandonato il bene (lo stesso verbo
‘zb), proferendo discorsi che nascono da intenzioni cattive
(w. 12 e 16). Comune è, inoltre, il verbo nsl («salvare»: w. 12
e 16) che attesta la valenza delle parole paterne in ordine alla
preservazione dalla pericolosa seduzione che caratterizza
questi anti-modelli.
12-15. I malvagi che hanno abbandonato la retta via. Si ri
trova un linguaggio riferito al male (via cattiva e cose perver
se: v. 12; fare il male e perversità del male: v. 14) e alla con
dotta malvagia (vie diritte abbandonate e vie tenebrose per
corse: v. 13; sentieri contorti e cammini sviati: v. 15). La lun
ga introduzione all’ammaestramento vero e proprio mira al
conseguimento di quelle virtù (umane e religiose) necessarie
per potersi salvare da coloro che pongono in essere il male e
che si dilettano nel perseguirlo. La loro pericolosità risiede
nella parola (così come per la donna straniera). Il termine
tahpukót del v. 12, attestato dieci volte nel libro dei Proverbi
(solo una volta in Dt 32,20), esprime la modalità del parlare
(Pr 2,12; 8,13; 10,31-32; 23,33) ma anche il contenuto di ciò
che si proferisce (Pr 6,14), esplicitando, inoltre, l’atteggia
mento stesso di chi agisce e pensa tahpukót (Pr 2,14;
16,28.30; cfr. Dt 32,20). Il senso complessivo di questo voca
bolo nella sua forma plurale è «cose perverse», cioè cose pre
se per un verso sbagliato, distorto, in quanto non corrispon
dente alla realtà. In una società orale dove la verità si afferma
o si nega in base all’uso buono o cattivo della parola, la per
versione del linguaggio può avere esiti profondamente sov
versivi.
L’immagine della via ( ’orhót ydser, cioè «sentieri diritti»: v.
13) richiama la condotta morale, mentre il riferimento alle te
nebre significa sia l’epilogo a cui conduce la condotta perver
sa (la morte come in Pr 9,17-18) sia l’habitat di chi delinque
(cfr. Gb 24,14-16: l’omicida, il ladro e l’adultero come com
pagni dell’oscurità; si veda anche Is 29,15). In 15b il testo
ebraico dice alla lettera che i sentieri dei malvagi sono sviati
nel loro percorso o cammino {bem a‘g^lótàm). L’autore sacro
vuole indicare che non solo la condotta dei malvagi è tortuo
sa ma essi stessi sono costituzionalmente perversi. L’aggettivo
con cui sono connotati i loro sentieri ('iqqesim) significa, in
fatti, «essere perversi, sviati»: nel libro dei Proverbi sta in
rapporto al parlare (4,24; 6,12; 8,8; 19,11), al cuore (11,20;
17,20; 19,1) e alla via percorsa (22,5; 28,6; 28,18). Da questo
piccolo quadretto emerge la fisionomia dei malvagi: «sembra
trattarsi di vere e proprie bande di violenti, malfattori, mafio
si che arricchiscono e cercano benessere con qualunque mez
zo, ivi compresa la violenza attuata con quell’efferata e sadica
soddisfazione che tradisce un grado eminente di malvagità e
contumacia».15
16-19. La donna sposata che ha abbandonato il proprio com
pagno. È questa la prima occorrenza dell’espressione ’issàh
zàràh (alla lettera «donna estranea») che nel v. 16 è in paral
lelo con nokrtyyàh («straniera»). L’aggettivo zar ha un signifi
cato etnico: è in rapporto alla legge del levirato, che impedi
sce allo straniero di sposare la vedova di un Israelita (Dt
16 L.G . PERDUE, Proverbi (Strumenti - Commentari 55), Claudiana, Torino 2011, 110.
Nel c. 2, in conclusione, si consegna l’assunto di fondo
che la sapienza è un dono divino: quando viene richiesta con
tutte le forze, accolta nel cuore e sentita nella propria interio
rità, viene donata al discepolo ben disposto che è pronto a ri
fiutare il vizio e le seduzioni della vita. Resistere alla seduzio
ne è, infatti, l’obiettivo globale cui mira l’intera sezione di Pr
1-9, e ciò spiega l’insistenza sull’adulterio che riflette la pre
occupazione dei maestri per una prassi che scompagina la vi
ta sociale e viola il comandamento della Legge. Società e reli
gione sono, in effetti, i due macro-orizzonti in cui si colloca
no le sentenze dell’intero libro dei Proverbi, nella consapevo
lezza che il comportamento deviante arreca danno non solo
alla comunità ma scompagina, allo stesso tempo, l’ordine re
ligioso voluto da Dio e fonda le regole etiche. La retribuzio
ne contenuta nella peroratio richiama il tema classico delle
due vie che ritornerà nel resto del libro: alla fine il maestro
mira a incentivare la pratica del bene, perché da questa sca
turiscono i beni fondamentali legati alle promesse divine di
cui la terra è cifra, beni dai quali i malvagi sono irrimediabil
mente esclusi.
3. Linee teologiche
1. Questioni storico-letterarie
1 Incipit Prologus Sancti Hieronymi in libro lob, in R. W e b e r (et al.), Bibita Sacra iuxta
Vulgatam versionemyDeutsche BibelgeseUschaft, Stuttgart 52007>731.
ogni altro libro biblico».2 Negli ultimi decenni le considera
zioni si sono fatte più caute anche grazie al progresso degli
studi nel campo della poesia ebraica e del confronto con la
linguistica comparata, sebbene la difficoltà di tanti passaggi
permanga anche in ragione degli innumerevoli hapax lego-
mena (termini che occorrono una sola volta nella Bibbia
ebraica). Il 30% del libro resta, per alcuni autori, scritto in
un ebraico incomprensibile. Il testo ebraico, che contiene
numerosi aramaismi, rimane spesso oscuro. Il confronto
con la versione greca non sempre è di grande aiuto, anzi
spesso complica le cose. Questo testo, infatti, è più breve ri
spetto a quello masoretico e talvolta ricorre a quella che pa
re essere una parafrasi dell’ebraico che, come indicato, pre
senta glosse e molte incertézze. Si ipotizza, perciò, che i co
pisti greci avessero tra le mani un testo ebraico differente
dal presente. Si nota però anche che il G iobbe greco è me
no «eversivo» rispetto a quello ebraico e, in alcuni passaggi,
più teologicamente connotato: i traduttori greci hanno for
se voluto mitigare alcuni passaggi ritenuti particolarmente
duri od offensivi.
A rao’ d ’esempio cito il caso di G b 19,26, perché le dif
ferenze testuali hanno avuto ripercussioni persino sull’uti-
lizzo nella liturgia cattolica. Il testo ebraico non è imme
diatamente comprensibile: «D opo che mi avranno strazia
to la pelle ormai senza carne vedrò D io». Il senso sarebbe:
Giobbe, ormai ridotto a pelle e ossa, spera di riuscire a ve
dere Dio (cioè di essere ascoltato e guarito). E possibile
un’altra traduzione (anche se meno sicura): «D opo il mio
risveglio, mi innalzerà presso di sé». I Settanta inseriscono
un elemento nuovo: «Risorgerà/si rimetterà la mia pelle
2 N.C. H a b e l , The Book o f]o b , Cambridge University Press, Cambridge 1975, 11.
Cfr. M. DAHOOD, «Northwest Semitic Texts and Textual Criticism of thè Hebrew Bible»,
in C. BREKELMANS (ed.), Questions disputées d’Ancien Testamenti méthode et théologie,
Leuven 1974, 11-37.
che sopporta tali cose, poiché il Signore me le ha presen
tate». Con il verbo amstémi che può significare «alzarsi/
mettersi in piedi», ma anche «risuscitare», il versetto rin
vierebbe a Dio come a colui che porrà fine alle sofferenze
di Giobbe, anche se il rimando alla risurrezione non sem
bra estraneo, così come si evince dalle variabili testuali
che esprimono quest’aspetto legato all’escatologia.3 R i
mando invece sviluppato dalla versione latina di G irola
mo, con l’esplicito intento di leggere l’esperienza di G iob
be alla luce della risurrezione, tanto che questo testo è sta
to incluso nel lezionario della liturgia dei defunti: «E t rur
sum circumdabor pelle mea et in carne mea videbo Deum»
(«Di nuovo sarò circondato della mia pelle e nella mia car
ne vedrò D io»). Questa sarà la lettura che i Padri della
Chiesa preferiranno.
1.2. Struttura
5 Manca l’ultimo discorso di Sofar che per la Bibbia di Gerusalemme (Dehoniane, Bo
logna 2009) sarebbe da individuarsi in 27,13-23 anche se nel testo non compare il suo no
me. Nella nota si legge: «Il brano del discorso di 27,13-28 difficilmente si può attribuire a
Giobbe, sembra piuttosto che debba venir attribuito a uno degli amici, di cui riprende
una delle tesi. L’attribuzione a Sofar è la più indicata. Tuttavia, se questi w. sono da asse
gnare a Giobbe, si possono intendere come un richiamo alla dottrina sulla retribuzione:
Giobbe vuol dire ai suoi amici che la conosce anche lui».
a) Gb 1-2 costituiscono il prologo in prosa del libro, spie
gano come su Giobbe, il «super giusto», riconosciuto tale an
che da Ezechiele (14,14.20), si sia abbattuta la sventura in
modo improvviso e drastico. L’insistenza su questo dato si
spiega in ragione del fatto che, all’insaputa del protagonista,
va maturando un vero e proprio processo a suo carico, nel
quale il capo d ’accusa è rappresentato proprio dalla sua giu
stizia. L’iniziativa è di Dio che convoca la sua corte celeste in
cui compare anche satana: «Hai fatto attenzione al mio servo
Giobbe? Sulla terra non c’è un altro come lui: uomo integro e
retto, timorato di Dio e alieno dal male» (1,8). Con queste pa
role rivolte proprio a colui che misteriosamente si rende pre
sente in un luogo che non dovrebbe appartenergli, Dio lancia
una sorta di scommessa. La risposta di satana non tarda a far
si udire, svelando il centro della questione affrontata nei qua
rantadue capitoli di cui consta lo scritto sapienziale: «Forse
che Giobbe teme Dio per niente? Non hai forse protetto con
una siepe lui, la sua casa e tutto ciò che possiede? Tu hai be
nedetto le sue imprese e i suoi greggi si dilatano nella regione.
Ma stendi la tua mano e colpisci i suoi averi e vedrai come ti
maledirà in faccia!» (1,9-11). A Giobbe, sembra insinuare sa
tana, conviene servire Dio: è ampiamente ricompensato per la
sua giustizia e per il suo timore religioso. Non avrebbe motivi
per avercela con Dio il quale è stato premuroso e oltre misura
generoso con il suo «campione». Dio ha coscienza del fatto
che la posta in gioco è alta e che Giobbe potrebbe non regge
re all’impatto di ciò che satana sta per scatenargli contro. Tut
tavia, gli concede un certo margine di autonomia: «Il Signore
disse a satana: Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non
stendere la mano su di lui. Satana si ritirò dalla presenza del
Signore» (1,12). In un sol giorno Giobbe perde i suoi averi e i
suoi figli ma non si scompone: «Nudo uscii dal seno di mia
madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha
tolto» (1,21). È un dato che forse stona con le sottigliezze di
certe teologie e teosofie sulla sofferenza, ma Giobbe orienta
tutto a Dio, anche il male, perché non c’è alcun altro princi
pio all’infuori di lui: «In tutto ciò, Giobbe non commise pec
cato né proferì alcuna insolenza contro Dio» (1,22).
Ma non è ancora tutto. Nel capitolo secondo si narra di una
seconda convocazione del tribunale divino: la scena è simile ma
la richiesta di satana questa volta mira direttamente a smontare
in modo irrevocabile la tesi dell’innocenza di Giobbe: «Satana
disse al Signore: pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uo
mo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi di grazia la tua
mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti male
dirà apertamente!» (2,4-5). Satana alza la posta in gioco e rilan
cia. Dio, con qualche precauzione, accetta: «Il Signore disse a
satana: Eccolo in tuo potere. Soltanto risparmia la sua vita»
(2,6). Giobbe si ammala di lebbra e neppure lo sfogo della mo
glie, che mal sopporta la sua fede incrollabile in Dio che elargi
sce incomprensibilmente una sofferenza così gratuita e deva
stante, riesce a smuoverlo. La prima reazione all’accanimento
della sciagura è, quindi, l’accoglienza docile e cieca del progetto
divino per quanto misterioso esso sia e neppure le parole della
moglie smontano la sua convinzione: «Sua moglie gli disse: “Ri
mani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”.
Ma egli rispose: “Parli come un’insensata! Se da Dio accettia
mo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?”. In
tutto questo, Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,9-10). Il
timor di Dio, cioè l’assoluta venerazione del suo volere, sorreg
ge il sofferente rendendolo incrollabile nella fede, al punto che
la pazienza di Giobbe è diventata proverbiale e come tale viene
riconosciuta anche nel Nuovo Testamento (Gc 5,11).6
6 Questo aspetto ha ispirato autori del passato come Gregorio Magno e Tommaso
D ’Aquino, ma anche dell’epoca moderna come C.G. Jung, J.W. Goethe, F. Kafka, G. Le
opardi, S. Kierkegaard, R. Girard, E. Bloch. Cfr. A. PlERETTI, Giobbe: il problema del ma
le nel pensiero contemporaneo. Atti del seminario di studio, 23-26 Novembre 1993, Citta
della, Assisi 1996. Forse all’origine sta la lettura che ne dà Girolamo nella versione latina
del libro di Tobia: cfr. M. Zappella, Tobit, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010,189.
Il prologo si chiude menzionando i tre amici di Giobbe
(Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naama) che,
avendo saputo dell’accaduto, lo vanno a trovare: costernati
per tanto dolore gli si siedono accanto e si chiudono per sette
giorni e sette notti in un profondo e compassionevole silen
zio (2,11-13).
b) Gb 3—27 è il cuore del libro nel quale prende corpo la ri
flessione sulla ricerca del senso da attribuire alla sofferenza di
Giobbe. Forse è il nucleo più antico del libro. Non è facile se
guire la logica di questi capitoli perché gli argomenti sembra
no ripetersi sia in riferimento a Giobbe che, forte dell’eviden
za del contrasto che esiste tra la sua condizione di rettitudine
e la malattia che lo attanaglia, rifiuta di riconoscersi ingiusto
sottraendosi alle spire della teoria della retribuzione, sia in
rapporto agli amici che proprio attorno a questa argomentano
la difesa dell’onore divino e la conseguente accusa di Giobbe
(i malvagi periscono, i giusti prosperano, l’uomo è debole e li
mitato davanti a Dio e non può sindacarne la volontà).
Giobbe, dopo l’iniziale silenzio, dal c. 3 prorompe in un
grido di dolore maledicendo il giorno della nascita e conside
rando preferibile la morte a una malattia così atroce: alter
nandosi con i tre amici che a turno gli rispondono fino al c.
27, in tre cicli di discorsi (cc. 4-14; 15-21; 22-27) dibatte
sulla retribuzione intesa classicamente come rapporto diretto
tra delitto e castigo. Quanto più Giobbe protesta la propria
innocenza tanto più gli amici contestano la sua colpevolezza,
invitandolo a chiedere perdono per ottenere la salute del cor
po e il conseguente recupero della stima sociale persa a causa
dell’infamante malattia della lebbra. Nessuno è puro davanti
a Dio (4,17). Quindi Giobbe nasconde il proprio peccato; sa
rebbe meglio «patteggiare», riconoscere la colpa e invocare il
perdono: «Quanto a me, mi rivolgerei a Dio - suggerisce Eli
faz - a Dio affiderei la mia causa: a lui che compie prodigi in
sondabili e meraviglie senza numero. Perciò felice l’uomo
che Dio corregge. Non ricusare, dunque, la correzione
delPOnnipotente, perché è lui che produce la piaga e la gua
risce, colpisce e con le sue mani risana. Da sei angustie ti li
bererà, e alla settima non soffrirai nessun male. In tempo di
fame ti scamperà dalla morte e nel combattimento dal filo
della spada. Sarai al riparo dalla lingua pungente e non avrai
timore, quando giunge la rovina» (5,8-9.17-21).
La fanno facile i tre amici perché non sono essi a portare
direttamente il peso del dolore, proclamando una «grande
grazia» e una beatitudine riservate al sofferente che si dispo
ne ad accoglierle. Giobbe, invece, si guarda bene dall’ammis
sione di colpevolezza insistendo nel rivendicare la sua giusti
zia. Anzi, egli arriva a mettere sotto accusa Dio rimproveran
dolo di essere un despota che non si degna nemmeno di ri
spondere e che si accanisce contro un uomo fragile, sempre
impari al confronto con la sua onnipotenza: «Certo, so che è
così; come può un uomo essere giusto davanti a Dio? Se uno
volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su
mille. Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi può dir
gli: che cosa fai? Anche se rispondesse al mio appello, non
crederei che ascolti la mia voce, lui, che mi schiaccia nell’ura
gano e moltiplica senza ragione le mie ferite. Non mi lascia
riprendere fiato, anzi mi sazia di amarezze» ( 9,2-3.12.16-18).
In questi ventotto capitoli alcune tematiche, come già det
to, vengono reiterate nei tre cicli di discorsi: il destino dei
cattivi e dei giusti e le lamentazioni di Giobbe su e contro
Dio, occupano lo spazio maggiore; ma si parla anche della li
mitatezza umana, della lode che va tributata a Dio e della
speranza. Uno schema semplificato dei temi presenti in Gb
4-27 si ritrova in J. Lévèque, e tra questi ci sembra interes
sante evidenziare quello della speranza di Giobbe.7 Esplicita
mente la si menziona nella seconda serie di discorsi (16,18-
7 Cfr. L. LÉVÈQUE, Job. Le livre et le message (Cahiers Evangile 53), Cerf, Paris 1985,16.
22; 17,3; 19,25-27), ma un tono di speranza si coglie anche
implicitamente nella prima serie (7,16-19; 14,13-17). Ma di
che natura è la speranza di Giobbe? Quella di una vita oltre
la morte è da escludere in ragione dell’assenza di tale verità
teologica che si affermerà solo dal III secolo in poi (si veda
quanto dirò a proposito della sorte dei giusti nel libro della
Sapienza: pp. 173-174).
In 7,16-19 Giobbe desidera di essere sottratto dallo sguar
do pensante di Dio per respirare nuovamente e avere un po’
di pace, mentre in 14,13-17 vorrebbe scendere nel regno dei
morti e così essere al riparo, trovando sollievo alle sofferenze.
In questo secondo testo egli spera che Dio possa cambiare
atteggiamento, convertirsi e perdonare il suo peccato: «Oh,
volessi tu nascondermi nel regno dei morti e occultarmi, fin
ché sarà passata la tua ira, fissarmi un termine e poi ricordar
ti di me! Se l’uomo che muore potesse rivivere, allora io
aspetterei tutti i giorni del mio servizio, finché giunga il mio
cambio! Mi chiameresti e io risponderei, quando tu avessi
nostalgia per l’opera delle tue mani. Mentre ora tu vai con
tando i miei passi, non spieresti più il mio peccato: sigilleresti
in un sacco il mio peccato e cancelleresti la mia colpa». Ac
canto a questa prima espressione di speranza se ne segnala
una seconda legata all’aiuto di mediatore che consenta a
Giobbe di superare la terribile situazione che sta vivendo.
Egli si appella in 16,18-22 a un avvocato celeste, un arbitro
che, come accade nelle dispute umane, possa dirimere il suo
contenzioso con Dio: «O terra, non coprire il mio sangue e il
mio grido non abbia sosta! Ma, ecco, sin d’ora il mio testi
mone è nei cieli, il mio difensore è lassù in alto. Miei difenso
ri presso Dio sono i miei lamenti, mentre verso di lui alzo i
miei occhi piangenti. Se ci fosse un arbitro tra l’uomo e Dio,
come c’è tra un uomo e il suo avversario! Ma passano i miei
anni contati e io me ne vado per una via senza ritorno». L’ac
cusa di Giobbe è rivolta a Dio stesso dal quale, tuttavia, do
vrebbe giungere anche l’aiuto, rivelando la palese ambiguità
del ruolo riconosciuto a Dio che sembra avere due volti, uno
buono (perché deve prendere atto del sangue versato) e uno
cattivo (perché è lui che lo ha sparso); egli è, infatti, arbitro
ma anche parte coinvolta nella controversia.
Infine, tra i versetti più conosciuti del libro, anche in ra
gione del suo utilizzo nella liturgia funebre (cfr. pp. 64-65),
in 19,25-27 Giobbe si appella a un «vendicatore/riscattato-
re» (g d ’él): «Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ulti
mo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà
distrutta, io, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io
stesso; i miei occhi lo contempleranno, e non un altro. Le
mie viscere si consumano dentro di me». Il gd ’él è il parente
più stretto (Lv 25,25.49) incaricato di salvaguardare i diritti
del proprio clan in quattro situazioni principali: la perdita
del patrimonio (Lv 25,23-28), la limitazione della libertà (in
caso di schiavitù come in Lv 25,47-53), l’impossibilità di
avere una discendenza (il parente che è morto lasciando la
moglie senza figli come in Rt 3,9-13; 4,5-7), l’uccisione di un
membro del clan (Nm 35,12-13; Dt 19,6.12; G s 20,3.5.9). In
tutti questi casi il gd ’èl subentra nella situazione del sogget
to debole promuovendone la tutela. Nel caso di Giobbe la
menzione del sangue in G b 16,18-22 conferisce a tale figura
il ruolo di un mediatore che fa giustizia, riequilibrando i di
ritti delle parti ovvero liberando il sofferente dal proprio
male. In questa linea «garantista» Giobbe spera, ormai ri
dotto in fin di vita (cioè pelle e ossa), di essere nuovamente
ammesso alla presenza divina: è una speranza tenue che at
tende un nuovo contatto con Dio, una percezione «visiva»
diversa che, alla luce dell’intera vicenda, giungerà solo dopo
che Dio avrà smesso di avvalersi della facoltà di non rispon
dere e gli si sarà rivolto direttamente («Ti conoscevo per
sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono»: 42,5). Nei cc.
4-27, in realtà, tra Giobbe e i tre amici intercorre un dialogo
tra sordi, un girare a vuoto attorno al problema senza in ma
no una soluzione, perché ognuna delle parti è arroccata sulle
proprie posizioni.
c) Gb 28 è un capitolo autonomo rispetto al suo attuale
contesto e da un lato chiude l’interminabile quanto inutile
scambio tra Giobbe e i tre amici, dall’altro invita a fare un
primo bilancio del libro: la sapienza è inaccessibile all’uomo
se questi non si apre a una luce superiore che viene da Dio. Il
ritornello («Da dove viene la Sapienza? E il luogo dell’intelli
genza dov’è?»), formulato in modo quasi identico nei w. 12 e
20, segna il movimento del brano, delineando tre strofe. Nel
la prima (w. 1-12) il protagonista è 1'homo faber, egli scava
miniere, fora pozzi, fruga fino all’estremo limite della terra, è
artefice di profondi sconvolgimenti, riuscendo a scovare an
che le cose più nascoste pur rimanendo nell’ignoranza circa il
luogo in cui abita la Sapienza. Nella seconda strofa (w. 13-
20) viene presentato Yhomo oeconomicus, il quale, pur cono
scendo l’arte del commercio, non può esercitarla con la Sa
pienza perché questa non può essere trafficata: essa è supe
riore all’oro, quello più puro, all’argento, al berillo, allo zaffi
ro, al topazio e a tutte le perle preziose. Nella terza strofa si
interpella Yhomo religiosus (w. 21-28), il solo ad avere intuito
che la ricerca sapienziale può realizzarsi solo aprendosi al do
no che viene dall’alto. Infatti, anche gli esseri mitici, quali la
Morte e gli Abissi, devono confessare la propria incapacità di
rintracciare la Sapienza: ne hanno solo udito la fama, ma non
l’hanno incontrata personalmente (v. 22).
d) I cc. 29-31 costituiscono l’ultima arringa di Giobbe (ve
ra e propria apologia della propria innocenza piena) nella
forma di un monologo, giacché Elifaz di Teman, Bildad di
Suach e Sofar di Naama non prendono più la parola. Medi
tando sulla felicità di un tempo (c. 29) Giobbe constata ama
ramente lo stato di prostrazione nel quale egli versa attual
mente (c. 30), profondendosi in un ultimo appello a Dio per
ché possa rendere conto della sua condotta e liberarlo dalla
lebbra. Rivendica per l’ultima volta la sua innocenza (c. 31)
prima di sfidare sfacciatamente Dio: «Oh, avessi uno che mi
ascoltasse! Ecco la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Il
documento scritto dal mio avversario, io lo porterei sulle mie
spalle e me lo cingerei come un diadema! Gli darei resoconto
di tutta la mia condotta; mi presenterei a lui come un valoro
so» (w. 35-37).
e) Gb 32-37: questi capitoli ritardano la risposta di Dio
tanto invocata, presentando quattro discorsi del giovane sag
gio Eliu (cc. 33; 34; 35; 36-37) preceduti da un prologo nel
quale egli deplora la debolezza retorica dei tre amici che lo
hanno preceduto nel dibattimento e che non sono riusciti a
dimostrare la colpevolezza di Giobbe (c. 32). Dal suo nome
(Eliu significa «Lui è il mio Dio») si intuisce come egli sia un
figlio d ’Israele anche se non ci sono altri elementi che ne
connotino con più precisione la figura. Con un tono molto
più duro rispetto a quello di Elifaz, Bildad e Sofar, egli reite
ra la teoria della retribuzione rincarando la dose e citando
spesso le dirette parole di Giobbe nel tentativo di confutarle.
Per Eliu, Giobbe ha un deficit di comprendonio perché non
è attento alle modalità (sogni, visioni, dolori) con cui Dio si
rivela: «Dunque, tu hai detto alle mie orecchie e io ho udito
bene il suono delle tue parole: Puro sono io, senza peccato,
sono innocente, non ho colpa! Eppure Dio trova pretesti
contro di me e mi considera come suo nemico; pone in ceppi
i miei piedi e scruta tutti i miei passi. Ebbene, in questo non
hai ragione, io ti rispondo, perché Dio è più grande dell’uo
mo. Perché gli hai intentato un processo, dato che non ri
sponde ad ogni tua parola? Dio parla in un modo o in un al
tro, ma nessuno fa attenzione» (Gb 33,8-14). Nessuna eco
viene concessa a quest’ultimo ed estremo tentativo dei mae
stri d ’Israele di salvare un sistema religioso ormai in crisi che
non rende giustizia né a Dio né all’uomo.
f) N ei due discorsi (38,1-40,2; 40,6-41) che Dio rivolge a
Giobbe egli si rivela come il Dio d ’Israele, creatore e libera
tore: è questa la prima lezione che Giobbe è chiamato a re
cepire. Egli non sta dialogando direttamente con il Dio d ’I
sraele ma sta ponendo una generica - seppur autenticamen
te religiosa - obiezione teologica su Dio, semplificando la
questione del dolore ed eludendo la complessità della vita e
della fede. G iobbe si fa forte della propria rettitudine al
punto da proporsi come maestro di Dio: è talmente giusto
che giunge a montarsi la testa, diventando arrogante. Per
cui, «drammaticamente Dio deve parlare perché Giobbe lo
ha sfidato a un duello verbale; a questi livelli la neutralità di
Dio è impossibile: se non interviene affatto, la dottrina de
gli amici rimane screditata, poiché si può accusare Dio im
punemente. E Giobbe ne esce vincitore, perché ha lasciato
Dio senza parole».8 La risposta di Dio è globale e ricondu
ce, dunque, il sofferente all’interno della storia della salvez
za. Giobbe ha sollevato numerosi dubbi ma la risposta di
Dio è in ordine alla sua creaturalità: «D ov’eri tu quando io
creavo il m ondo?». La lezione riguarda, quindi, l’umiltà:
l’uomo ignora il piano divino che si rivela nella creazione e,
pur potendo scorgere qualche barlume, non ha alcun pote
re sul creato. Yhwh colloca Giobbe all’interno di un dise
gno molto più grande che non inizia e non finisce con lui. Il
pericolo di chi soffre può risiedere nella chiusura all’inter
no del proprio dolore, mancando di uno sguardo sufficien
temente ampio per individuarsi in un progetto d’amore di
più grande respiro. La sofferenza del giusto a volte ha un
effetto paralizzante e non permette di leggere la propria vi
cenda con serenità e verità.
La prima reazione di Giobbe al discorso divino è il silen
zio: «Che ti posso rispondere?» (40,3-5): solo adesso egli si
1.3.2. Il dramma
12 Un ultimo tentativo di spiegazione si lega al nome stesso di Giobbe i’tyyób) che po
trebbe anche essere inteso come «nemico» ( ’5yèb)> anche grazie alla collocazione di Uz,
nel territorio di Edom: Giobbe sarebbe un Edomita, grazie al discendente di Esaù (cfr.
Gen 36,11) e, perciò, nemico di Giacobbe. Tale ipotesi, un po’ articolata, supporrebbe
che la localizzazione di Uz fosse conosciuta al punto da menzionarla con il suo significato
specifico, senza neppure spiegare il senso della sua utilizzazione nel libro.
2. Esegesi di G b 3 1 :l’apologià del giusto
2.2. Struttura
17 Uebraico non è chiaro: «Poiché fin dalla mia fanciullezza mi allevò come un padre
e dal grembo di mia madre la guidai». Anche i Settanta leggono lo stesso testo. Manca il
soggetto dei verbi; per cui ho preferito tradurre come se fosse Giobbe.
19se mai ho visto un misero privo di vesti o un indigente senz'a
bito,
20se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldati con la lana
dei miei agnelli,
21se ho alzato la mano contro l'orfano sapendomi sostenuto dal
tribunale,
22mi si stacchi la scapola dalla spalla e il mio braccio si spezzi dal
gomito,
23poiché mi spaventa la paura di Dio e non potrei reggere da
vanti alla sua maestà.
24Se ho riposto la mia speranza nell'oro e detto all'oro fino: “Tu
sei la mia sicurezza! ”,
25se ho goduto perché molti erano i miei beni e perché la mia
mano aveva accumulato la ricchezza,
26se quando vedevo risplendere la luce e la luna che avanzava
maestosa,
27si lasciò sedurre segretamente il mio cuore, mandando un ba
cio con la mano alla bocca,
28anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché
avrei rinnegato Dio che sta in alto.
29Mi sono forse rallegrato della disgrazia del mio nemico e ho
goduto quando lo ha colpito la sventura?
30Non ho neppure permesso alla mia lingua di peccare, augu
randogli la morte con un'imprecazione.
31Non diceva forse la gente della mia tenda: “A chi non ha dato
le sue carni per saziarsi?".
32U forestiero non passava la notte all'aperto e al viandante io
aprivo le mie porte.
33Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato il
mio delitto dentro di me,
34come se temessi l'opinione della folla e il disprezzo della fami
glia mi spaventasse, sì da starmene zitto senza uscir di casa.
35Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia firma! L'Onni
potente mi risponda! Il documento scritto dal mio rivale,
36io lo porterei sulle mie spalle e me lo cingerei come un diadema!
37Gli renderò conto di tutti i miei passi; mi presenterò a lui co
me un valoroso.
38Se la mia terra ha gridato contro di me e i suoi solchi hanno
pianto con essa,
39se ho mangiato i suoi frutti senza pagarli, facendo sospirare i
suoi coltivatori,
40crescano spine al posto del frumento e ortiche al posto dell’or
zo».
Fine delle parole di Giobbe.
18 «N on stare a osservare una vergine, per non essere punito insieme con lei. Non dar
ti in balìa delle prostitute, per non perdere il tuo patrimonio. Non curiosare per le vie del
la città e non vagare nei suoi angoli deserti. Allontana Pocchio dalla donna avvenente e
non fissare le bellezze d’una estranea: molti ha sedotto la bellezza d’una donna, il suo
amore brucia come un fuoco» (Sir 9,5-8).
ro». ’èl (attestato 55 volte in Giobbe) è con ’eloha19 il sin
golare di ’éldhim, il nome divino del primo racconto della
creazione (Gen 1,1-2,4), nome generico degli altri dèi,
quelli pagani, i falsi dèi (Dt 6,14; 13,18; IRe 11,14.18; 14,9;
Sai 81,10; Ger 1,16; Dn 11,37). L’altro nome divino che tro
viamo in G b 31,2 è Sadday, il cui significato resta parzial
mente oscuro; probabilmente appartiene a un tipo comune
di epiteti divini legati a un elemento naturale. Il significato
sembra essere «D io della montagna», e ciò si ricava dal le
game con un vocabolo cananeo che significa «montagna»
(tdy). È impossibile determinare se Sadday sia: «a) Baal-Ha-
dad sul monte Saphon (luogo in cui si ritira B a‘al dopo aver
sconfitto il dio del mare Yam); b) un epiteto di El,20 oppure
c) un’antica divinità amorrea abitante sulla montagna, che
venne ben presto identificata dai patriarchi con il cananeo
El; in base a quanto ci è noto ‘b ’ e ‘c’ sembrano le soluzioni
più probabili»21. È interessante notare che su 48 attestazio
ni di Sadday nell’Antico Testamento 31 si ritrovano nel li
bro di Giobbe; ciò sta a dire che il Dio al quale il sofferente
si rivolge non è principalmente quello della fede yahvistica,
rivelando la parzialità della visióne teologica che fa da sfon
do all’intera questione del male. Questo deficit rende la
questione della sofferenza dell’innocenza un enigma insolu
bile, perché non lo colloca nella cornice biblica della storia
salvezza ma in un non meglio precisato universo dominato
da divinità dispotiche.
3-4. La convinzione classica della retribuzione è ripetuta
sotto forma di domanda retorica nel v. 3, idea portante
dell’autodifesa che Giobbe applica direttamente alla propria
22 Molto vicina a questo testo e a queste dinamiche che conducono al male è la breve
ma efficace descrizione del malvagio in Proverbi; «Il perverso, uomo iniquo, cammina
pronunciando parole tortuose, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi e fa cenni con le
dita. Nel suo cuore il malvagio trama cose perverse, in ogni tempo suscita liti» (6,12-14).
rio attraverso il quale si fa strada il desiderio del proibito (cfr.
Gen 3,6; Q o2,10).
L’apodosi del v. 8 indica la punizione conseguente al pre
sunto peccato di Giobbe. Il non trovare frutto è la maledizio
ne tipica che colpisce l’aspirazione dell’uomo e della donna
alla vita (si pensi al grembo sterile). La punizione per coloro
che non osservano i comandamenti divini in Lv 26,16 anno
vera, tra le altre sciagure, anche quella legata alla perdita del
raccolto: «Seminerete invano le vostre sementi: le mangeran-
no i vostri nemici» (cfr. anche Is 65,22 che dichiara la fine di
una simile prassi punitiva). I germogli possono richiamare
due aspetti: continuano la metafora vegetale ammiccando al
la continuità della specie e rinviando ai figli intesi, appunto,
come virgulti (Is 11,1); riferendosi alla discendenza, permet
tono un collegamento con il v. 1 del capitolo in cui Giobbe
evoca l’alleanza abramitica (Gen 12) che contiene la promes
sa di un popolo numeroso come le stelle del cielo e come la
sabbia del mare. Egli ha perso tutti i suoi figli pur avendo
perseverato nel patto di fedeltà. Anche sotto questo aspetto
egli dichiara, velatamente, che Dio è ingiusto.
9-12. In questi versetti viene descritto l’adulterio e le sue
conseguenze negative. Il v. 9 costituisce la protasi, mentre il
10 l’apodosi. La donna al v. 9 richiama il peccato dell’adulte
rio; lo lascia intendere ’issàh usato in senso assoluto, senza
specificazioni, differentemente dal v. 1 in cui si menziona la
giovane non ancora sposata (betùlàh).
Il verbo «macinare» del v. 10 indica l’atto sessuale violen
to. Un’immagine simile ricorre anche nella tradizione profeti
ca; in Isaia, per esempio, nel lamento contro Babilonia e
nell’annuncio della sua distruzione, a proposito della donna
violata si legge: «Poiché non sarai più chiamata tenera e vo
luttuosa. Prendi la mola e macina la farina, togliti il velo, sol
leva i lembi della veste, scopriti le gambe, attraversa i fiumi.
Si scopra la tua nudità, si mostri la tua vergogna» (Is 47,1-3).
Nelle parole di Giobbe abbiamo una sorta di riproposizione
della legge del taglione: se ha desiderato la donna di un altro,
altri violentino sua moglie (un concetto simile si attesta anche
in 2Sam 12,11-12 circa il peccato di adulterio di Davide).
La proibizione dell’adulterio è espressa nel v. 11 con un
linguaggio giuridico (Lv 18,7; 20,14); è un delitto che va con
tro la Legge (Es 20,14). Per questo motivo deve ricevere una
pena. Sappiamo che la Legge contemplava una notevole di
sparità di trattamento circa l’adulterio. Il marito non incorre
va nell’adulterio se aveva rapporti con un’altra donna non
sposata in quanto la poligamia era permessa (si veda quanto
affermerà Gesù in Mt 19,9). Si ha, invece, adulterio qualora
questa donna sia sposata (Lv 20,10; Dt 22,22) o anche fidan
zata (Dt 22,23); in quest’ultimo caso la lapidazione costitui
sce la pena per tale delitto (Dt 22,14). Nel primo caso di
adulterio (includendo anche le donne sposate adultere) la pe
na è la morte. Il marito, comunque, poteva perdonare la mo
glie infedele oppure ripudiarla scrivendo un atto di ripudio
(Dt 24,1) ed esponendola a una sorte pubblica infamante (Ez
16). Giobbe, si dice nel v. 11, avvertirebbe l’onta dell’adulte
rio, qualora l’avesse commesso.
L’immagine del fuoco del v. 12 può richiamare il rogo co
me punizione dell’adulterio (si pensi alla sorte di Tamar, nuo
ra di Giuda, condannata a questa morte perché si è prostitui
ta in Gen 38), oppure, più opportunamente, può rimandare
al fuoco della gelosia del marito tradito, che si avventa contro
l’uomo che ha consumato il rapporto con sua moglie (cfr. Pr
6,27-28.34). Un ulteriore richiamo al fuoco si può ritrovare,
infine, in riferimento alla brama che arde nel cuore dei lussu
riosi secondo la descrizione che ne dà Sir 9,8; 23,17.
13-15. La colpa di cui G iobbe afferma di non essersi
macchiato inerisce alla prassi della schiavitù. Nel Penta
teuco si attestano tre autorevoli pronunciam enti sugli
schiavi: Es 21,2-11; Dt 15,12-18; Lv 25,39-55. Si nota che,
pur tra contraddizioni, si fa strada una legislazione più at
tenta al dato umano che condanna l’abuso sugli schiavi23.
Ma che lo schiavo abbia addirittura il diritto di citare in
giudizio il proprio padrone pare francamente poco proba
bile. Eppure G iobbe dichiara di essersi fatto attento an
che nei confronti di questi soggetti deboli, richiamando il
principio della parità di condizione di tutti gli uomini da
vanti a Dio (in Sap 7,1-6 il re racconta il suo ingresso nella
vita comune a ogni altro essere umano). Per la prima volta
è menzionato nel v. 14 il tribunale presieduto da Dio (è lui
che si alza nell’atto di leggere la sentenza, come in Is 31,2)
nel quale, però, egli è anche accusatore (intenta l’inquisi
toria). Anche nei Sai 50 e 76 (vv. 9-10) si ritrova questa
immagine di Dio-giudice.
16-18. Inizia una serie relativa a tutto ciò che possiamo
chiamare «opere di misericordia». I soggetti a cui sono ri
volte le attenzioni di Giobbe sono i più deboli della società
verso i quali egli non ha omesso il soccorso: i poveri in ge
nerale (dallim ) e, nel concreto, la vedova ( ’almànàti) e l’or
fano (yàtóm ). La Legge tutela gli orfani e le vedove (Es
22,22) tanto che Dio è descritto come loro difensore (Sai
68,6); per l’orfano e la vedova nel secondo tempio è riser
vato un deposito di carità (cfr. Tb 1,8; 2Mac 3,10) e a loro
andava una parte del bottino di guerra (cfr. 2Mac 8,28-30).
La predicazione di Isaia è rivolta alla difesa di quelle cate:
gorie sociali più vulnerabili alle quali il pio Israelita non
può non volgere la propria attenzione e il proprio aiuto; un
231 tre grandi codici legislativi, scritti in epoche differenti, palesano una serie di con
traddizioni relative al tempo in cui concedere la liberazione (dopo sei anni come esplicita
to in Esodo e Deuteronomio, mentre nel Levitico dopo cinquantanni), il sesso dei desti
natari (la liberazione è solo per gli schiavi uomini secondo quanto scritto in Esodo a diffe
renza del codice del Deuteronomio che la estende anche alle donne) e la loro nazionalità
(si può rendere schiavo un Ebreo per Esodo e Deuteronomio, mentre per il Levitico tale
prassi è proibita). Infine, si ricordi Am 2,7 in cui il profeta rimprovera il padre e il figlio
che si uniscono alla stessa schiava domestica.
culto che ostenti la sua fastosità autoreferenziale e trascuri
la giustizia sociale è un’offesa a Dio (Is 1,13; 10; cfr. anche
quanto si dice nella Lettera di Giacomo sulla vera religiosi
tà: G c 1,27).
Il v. 18 è un inciso a carattere agiografico che rincara la
dose con cui è descritta la carità di Giobbe. Egli sin dalla sua
tenera età è stato caritatevole: quando non aveva ancora l’età
per prendersi cura degli altri, egli come un padre ha soccorso
e guidato chi era privo della figura paterna.
19-20. Vestire chi è nudo e coprire chi è povero è l’atteg
giamento del vero credente e Giobbe, elencando la sua carità
sconfinata, sta neppure troppo sottilmente declinando la
propria religiosità irreprensibile. In Is 58,6-7, infatti, si legge:
«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le
catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli
oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel divi
dere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri,
senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i
tuoi parenti?». La benedizione che Giobbe dichiara di avere
ricevuto è riservata proprio a chi fa del bene ed è generoso
con il povero (Pr 22,9): a fronte di tanta bontà egli, tuttavia,
riceve nel presente disprezzo e malattia.
21-23. Nel v. 21 la protasi del giuramento descrive il gesto
dell’oppressione nei confronti dell’orfano in tribunale (alla
lettera: «porta», luogo della città dove si amministrava la giu
stizia). «Alzare la mano» può significare, in ragione della pre
posizione ‘al («su, contro»), usare violenza e, quindi, essere
ostili (cfr. Is 19,16) oppure fare segno (cfr. Is 11,15; 13,2; Zac
2,13), votando contro nella sentenza, perché il debole sia in
giustamente condannato.
La protasi del v. 22 è simile all’immagine del salmo che di
ce: «Se ti dimentico Gerusalemme si dimentichi di me la mia
destra» (Sai 137,5) con la differenza che qui si chiede qualco
sa di molto doloroso (frattura multipla scomposta) mentre
nel Salterio la punizione coincide con l’impossibilità di muo
vere il braccio.
Il v. 23 è ipotetico quanto l’intera serie, sin qui elencata,
dei «non delitti» di Giobbe. Egli dice che, qualora fosse in
stato di peccato, non potrebbe comparire alla presenza di
Dio e si sentirebbe schiacciato dalla sua sublimità. La forbice
tra l’idea di Dio che ha Giobbe e quella dei suoi amici si al
larga sempre più, perché se in G b 25,2 Bildad asserisce che
in Dio non vi è paura e dominio, qui Giobbe professa l’esat
to contrario; alla fine del libro entrambe le parti dovranno ri
vedere le proprie convinzioni teologiche. E bene, comunque,
ricordare che siamo nella sfera della pura ipotesi: poiché egli
è integro, non teme il confronto con Dio che, anzi, ricerca
apertamente.
24-25. La proposizione contenuta in questi versetti è so
spesa (come quella dei w. 26-27) e presenta l’imprecazione
corrispondente. G iobbe non ha confidato nelle ricchezze
perché sembra consapevole del pericolo di un simile atteg
giamento, così com’è bene esplicitato nel Sai 49. Chi fonda la
sua vita sulle certezze materiali illudendosi di vivere bene e a
lungo, illude se stesso perché la vita resta indisponibile per
l’uomo e non si può comprare. Il pericolo insito nell’abbon
danza di ricchezze risiede nel suo effetto narcotizzante:
«L’uomo nella prosperità non comprende di essere simile agli
animali che periscono» (Sai 49,21). Dalla ricchezza discende
anche l’idolatria perché ad essa l’uomo è disposto a legare il
suo cuore (cfr. Sai 62,11) e a tributare tutte le energie pur di
accaparrarsela (cfr. Le 12; Col 3,5). Il tema della vera ric
chezza riguarda sia i comandamenti divini (cfr. Sai 119,127)
sia la Sapienza come somma ricchezza per l’uomo (cfr. Pr
8,19): entrambi hanno un valore superiore a quello dell’oro
più fine.
26-28. Il richiamo all’idolatria appena evidenziato è esplici
tamente menzionato in questi versetti. La luce ('ór) che ri
splende nel primo stico è il sole, anche se non compare il so
stantivo ebraico semes (cfr. anche G b 37,21; Is 18,4; Ab 3,4).
Anche nel non utilizzo del nome della divinità Giobbe è accor
to, mettendo in atto una sorta di «repressione della lingua»24 a
conferma delle sue più intime disposizioni. Giobbe nega di
avere venerato gli astri dal cui fascino il Deuteronomio cerca
di mettere in guardia (Dt 4,19). In Israele, infatti, come in qua
si tutte le culture, il sole, la luna e gli astri in genere sono stati
oggetto di culto e di adorazione. La riforma del re Giosia (622
a.C.) cercò di purificare il tempio di Gerusalemme dalle statue
e dagli arredi che i re d’Israele avevano immagazzinato duran
te gli anni (cfr. 2Re 23; tra gli altri, al v. 5 si menzionano: il so
le, la luna, lo zodiaco e tutto l’esercito del cielo). Anche i pro
feti denunciano fermamente il culto astrale (cfr. Is 24,23; Ger
8,2; Ez 8,16) rivolto alla Regina del Cielo (cfr. Ger 7; 44).
Giobbe descrive le movenze dell’idolatra che, compiendo
un gesto molto comune nella pratica religiosa, si porta la ma
no alla bocca per mandare un bacio alla divinità. Egli non ha
peccato neppure nel suo intimo, perché il suo cuore è stato ir
reprensibile e - non contravvenendo all’autentica fede - non
ha commesso delitto contro il primo comandamento del De
calogo (Es 20,2-5; Dt 5,6-9). L’annotazione «Dio che sta in al
to» può avere una connotazione spaziale: gli astri sono sotto
la volta celeste in una posizione subordinata, in quanto crea
ture, rispetto a quella del Creatore il cui trono è collocato nel
la sfera più alta dei cieli (cfr. Sai 11,4; IRe 8,27; 2Cr 2,6).
29-30. L’ennesima «non colpa» di Giobbe è la vendetta.
Giobbe è esente dal piacere che si prova di fronte alla caduta
del nemico e non avverte neppure il trasporto di rispondere
al male ricevuto invocando lo stesso male. In effetti, alla fine
del libro, egli si dimostrerà magnanimo intercedendo per il
bene dei suoi tre amici (Gb 42,8-9).
28 M. C ucca - B. Rossi - S.M. S essa , «Quelli che amo io li accuso». Il rib come chiave
di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Cittadella Editrice, Assisi 2012, 11. La
frase è tratta dalla prefazione di P. Bovati. Accanto alla normale azione giudiziaria condot
ta nell’ambito del tribunale e conclusa con la condanna dell’accusato da parte del giudice
{mispàt)yl’antico Israele conosce un’altra procedura giuridica {rib)yil cui esito mira invece
alla diretta conciliazione tra il colpevole e l’innocente. Perché si possa dare un rib occorre
che i due contendenti siano legati da un vincolo di natura familiare o giuridica (per esem
pio, marito-moglie, suocero-genero, signore-vassallo): la parte che si considera offesa con
voca l’altra, rimproverando l’infrazione del patto, porta le prove, confuta le motivazioni
addotte come scuse. Il rib può concludersi in tre modi: con il pagamento del debito o la
riparazione dell’offesa, con una compensazione o composizione mutuamente concordata
(il patteggiamento), con il perdono pieno o parziale concesso dalla parte offesa.
29 A lo n so S c h ò k e l - S icre D iaz , Giobbe, 508.
mento d ’innocenza egli non si accusa di avere acquisito in
giustamente un campo e di non avere oppresso i suoi lavora
tori. Il grido della terra è una sorta di rivalsa ecologica con
un fine sanzionatorio: essa si ribella contro l’usurpatore e ha
diritto di parola per denunciarlo, alla stregua del legittimo
proprietario che si presenta in tribunale per far valere i pro
pri diritti. L’immagine della terra che solidarizza con la con
dotta umana o reagisce ad essa, si trova anche altrove nella
Bibbia rivelando le conseguenze dell’uso della libertà
dell’uomo sul suo habitat (cfr. Gen 3,17-19; 4,12; Lv 18,28).
Il capitolo si chiude annotando la fine del discorso di
Giobbe iniziato in Gb 29,1. Non c’è altro da aggiungere per
ché il protagonista della vicenda ha sviscerato ogni argomen
tazione a sua difesa. Giurando solennemente di non aver
peccato neppure col pensiero né contro Dio né contro il
prossimo, egli si è costruito un alibi intaccabile che lo richiu
de nella prigione della propria sofferenza elevata a sistema, a
partire dal quale egli giudica l’intera vicenda umana. L’atto di
forza contro Dio ha raggiunto la sua espressione più estrema:
secondo il pensiero di Giobbe, la prossima mossa di Dio,
qualunque essa sia, sarà comunque perdente, perché non po
trà che confermare la tesi dell’accusatore: Dio è ingiusto. E p
pure, proprio partendo da questa risposta, Giobbe vedrà
smantellato il proprio impianto accusatorio e, con umiltà,
dovrà rivedere i suoi giudizi, riconsiderare la propria teologia
e prendere atto della stoltezza delle sue parole.3
3. Linee teologiche
1. Questioni storico-letterarie
2 Simili parole ebraiche venivano utilizzate per indicare uffici o funzioni; mediante un
ampliamento secondario si riferivano al titolare di tale ufficio o funzione, come nel caso
di sdferet, «ufficio di scriba» o «scriba».
3 L’epilogo (Qo 12,12) potrebbe contenere una piccola critica nei confronti di Ben Sira:
«In Qo 12,12 probabilmente un secondo epiloghista [il primo si ritrova nei w. 9-11] ag
giunge un ulteriore ammonimento, diretto contro quei molti libri che si scrivono, ma che
non meritano di essere letti. L’atmosfera sembra essere quella della Gerusalemme del II se
colo a.C. e si ha quindi l’eco di un probabile dibattito intorno a quali testi dovessero costitu
ire il bagaglio dei giovani allievi della Gerusalemme del tempo, futuri funzionari pubblici»
(MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 137).
4 La sua mano si ritrova anche in altri luoghi del libro: nel titolo (1,1) e nei primi ver
setti (1,2-3), in 7,27 in cui si menziona l’autore e, come indicato, nell’epilogo.
Qoelet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, meditò e
scrisse molte massime» (Qo 12,9).
A proposito della paternità salomonica dello scritto, vale
la pena di ricordare che per la tradizione ebraica Salomone
avrebbe scritto il Cantico in gioventù, i Proverbi nella matu
rità e Qoelet nella vecchiaia (Shir Hashirim Rabbah 1,1); per
la tradizione patristica, coloro che progrediscono nella vita di
fede iniziano leggendo Proverbi, avanzano con Q oelet e
giungono alle vette della perfezione solo con il Cantico: da
una sapienza prettamente umana (Proverbi) l’uomo, con Q o
elet, si abitua a considerare vanità tutto quello che si fa sulla
terra per giungere, infine, alla sublime unione con Dio
espressa dal Cantico dei Cantici.5
5 Si veda, per esempio, ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Ro
ma 41997, 56-57. Sulla difficoltà nella lettura del libro e sulla necessità dell’interpretazio
ne spirituale, Gregorio di Nissa così si esprime: «Ci apprestiamo a spiegare l’Ecclesiaste,
un libro la cui utilità è pari alla fatica necessaria per interpretarlo; ora che il nostro intel
letto si è già esercitato nella riflessione di Proverbi [...], ecco che a coloro che hanno pro
gredito tanto da poter accedere agli insegnamenti più perfetti si offre l’ascesa a quest’altro
libro della Scrittura [...]. L’insegnamento di Proverbi è come un esercizio che allena e
predispone la nostra anima all’agone dell’Ecclesiaste» (Omelie suWEcclesiaste, Città Nuo
va, Roma 1990, 39-40).
6 Sulla lingua rimandiamo alla ricca discussione offerta da C.-L. SEOW, Ecclesiastes. A
New Translation with Introduction and Comtnentary, Yale University Press, New Haven -
London 1997, 11-21.
to, lo sfortunato (2,26; 8,12; 9,2) in contrapposizione con il
tób che non indicherebbe più il buono ma, appunto, il fortu
nato, colui che è felice.
La presenza di termini persiani (pardès, «parco, orto» in
2,5; pitgàm, «sentenza, editto» in 8,11) e l’ebraico molto si
mile a quello della Mishnà (27 sono gli hapax legomena ri
spetto all’Antico Testamento, che invece compaiono nella
M ishnà), portano alla conclusione che lo sfondo nel quale
collocare il pensiero di Qoelet sia il III secolo a.C., cioè il pe
riodo in cui l’ellenismo dei Lagidi d ’Egitto reggeva politica-
vmente Gerusalemme e in cui l’amministrazione centrale favo
riva l’aristocrazia locale palestinese ben disposta verso l’elle
nismo. L’assenza di richiami alle persecuzione dei Giudei da
parte di Antioco Epifane III e alla rivolta dei Maccabei (164
a.C.), fa propendere per il 250 a.C. circa come possibile data
di composizione. Circa il luogo, non si è arrivati a conclusio
ni condivise, anche se la maggior parte degli studiosi propen
de per Gerusalemme.7
7 Per G. Bellia non sarebbe stato scritto a Gerusalemme (come comprova il tardivo
inserimento nel canone ebraico): cfr. «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antro
pologico», in G. BELLIA - A. P assaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione■ redazione, te
ologia, Paoline, Milano 2001, 176.
al suo godimento. Così come a proposito del tema della gio
ia: essa è vanità (2,2-3.10-11), eppure viene descritta come un
dono che viene da Dio (2,24-26; 3,12-14; 5,19).
Molti studiosi se la cavano ipotizzando una struttura po
liedrica: il libro, a motivo delle sue ripetizioni, segue un per
corso che per alcuni è dialogo-polemico. Qoelet intesse un
dialogo fittizio con altri autori che egli cita nel corpo del te
sto, con l’intenzione di confutare la sapienza tradizionale. Se
condo questa ipotesi, perciò, le contraddizioni interne al li
bro si spiegherebbero come la menzione diretta delle tesi di
coloro ai quali il saggio si oppone. Si è anche pensato di rico
noscere delle aggiunte redazionali al libro che intendono mi
tigare, per esempio, la visione della vita non troppo religiosa
di 8,ll-12a («Non si emette subito la sentenza contro le azio
ni del malvagio, il cuore dell’uomo è pronto a fare il male.
Per di più, il peccatore che fa il male cento volte ha lunga vi
ta») con 8,12b-13 («Tuttavia ho capito anche questo: sarà fe
lice chi teme Dio, proprio perché lo teme, ma non sarà felice
il malvagio e i suoi giorni non si allungheranno come un’om
bra, perché egli non tèrne Dio»). Tale approccio al testo, co
me nell’ipotesi precedente del dialogo polemico, crea più
problemi di quanti ne risolva perché ogni studioso potrebbe
arbitrariamente ritrovare le «sue» glosse e riscrivere il «suo»
Qoelet.
Segnalo due ipotesi di strutturazione senza avere la prete
sa di risolvere la questione ormai diventata «l’enigma della
sfinge».8
a) La prima ipotesi è di A.G. Wright9 e si fonda su consi
derazioni numeriche a partire dalla parola hebel («vanità»).
Se tutti riconoscono un prologo (1,1-11) e un epilogo in cui
8 Così A.G. WRIGHT, «The Riddle of thè Sphinx. The Structure of thè Book of Qohe-
let», in CatholicBiblical Quarterly 30(1968), 313-334.
9 Cfr. I d ., «The Riddle of thè Sphinx Revisited: Numerical Patterns in thè Book of
Qohelet», in Catholic Biblical Quarterly 42(1980), 38-51.
si parla di Qoelet in terza persona (12,9-14), l’autore indivi
dua una cesura nel corpo del libro in base alla occorrenza di
«vanità» e di «inseguire il vento» ripetuti svariate volte in
1,12-6,9 con l’intenzione di segnalare la presenza della fine
di una sezione. In 6,9, cioè, il testo si dividerebbe in due par
ti, ciascuna di 111 versetti. La seconda parte, analogamente
alla prima, è dominata dalla ripetizione di una fraseologia
(«trovare/non trovare» e «sapere/non sapere») che segna la
sezione 6,10-11,6. La parte finale del libro è occupata dal
poema sulla giovinezza e sulla vecchiaia (11,7-12,8). A.G.
Wright spiega i fattori numerici che sono entrati in funzione.
Il valore numerico della parola chiave hebel è 37, il numero
delle volte che hebel ricorre nel libro (se si prescinde da 9,9).
Questo vocabolo è ripetuto tre volte in 1,2 dando così il nu
mero 111 (= 3 7 x 3), cioè il numero dei versetti che compon
gono la prima metà del libro.
b) La seconda proposta di strutturazione è stata avanzata da
A. Bonora10 e si fonda sulla ripetizione del ritornello: «An
che questo è hebel»:
1.1 Titolo
1.2 Motto programmatico
1,3 -11 Frontespizio: l’uomo nel cosmo e nella storia
1,12-2,26 Pseudo Salomone e la sua esperienza
3,1-4,16 La società umana e le sue contraddizioni
4,17-6,9 Le istituzioni della società
6,10-8,14 Qoelet e la sapienza tradizionale
8,15-12,7 Invito alla gioia e all’azione
12,8 Motto programmatico
12,9-14 Epilogo
10 Cfr. A. B o nora , «Q ohelet», in B onora - P riotto , Libri sapienziali e altri scritti, 78.
dovuto fare un minuzioso e organico lavoro di stesura): è ac
cattivante perché gioca sulla simbologia numerica così impor
tante nella tradizione ebraica medievale, ma aiuta poco a inter
pretare il senso profondo del libro. La seconda sembra da pre
ferire perché presenta alcuni elementi formali ricorrenti (il ri
tornello «anche questo è hebel», il motto programmatico) che
scandisce le principali sezioni tematiche dell’opera.
Mancando una sostanziale convergenza sull’unità del li
bro, anche per la questione del genere letterario non si ravvi
sa unanimità di pareri sull’esistenza di una principale forma
letteraria. Nell’opera non è difficile ravvisare proverbi sciolti
(1,15.18.14; 3,20; 4,5-6.13; 5,27,16-17; 8,1; 9,2.8), paragoni
(2,13; 7,6; 9,12), poemi (1,4-7; 3,1-8; 12,1-7) e una piccola
parabola (9,14-15). Una prima sezione del libro (fino a 3,15)
può appartenere al testamento regale, tipico della letteratura
del Vicino Oriente Antico, perché il saggio veste gli abiti del
re di Gerusalemme.11 Altri suppongono il genere «diatriba»
sul modello dei pensatori stoico-cinici (IV secolo a.C.).1112 Tale
genere si caratterizzava per il tono polemico e provocatorio
dell’oratore, il ricorso all’ironia e al sarcasmo per esprimere
l’indignazione suscitata dalla stoltezza umana, per biasimare
energicamente il vizio e l’immoralità e per lo spiccato ricorso
alla sentenza. In verità ciò che maggiormente accomuna Q o
elet con questo genere è l’aspetto etico e il dialogo tra il reto
re (in questo caso lo scrittore) e un interlocutore. Per altri
autori, infine, il libro è una raccolta di esortazioni e ricordi
autobiografici di tipo diaristico, di aforismi formulati in pri
ma persona, di pensieri filosofici di un esistenzialista ante lit
teram.
11 «Il testamento regale ha la propria origine nelle antiche istruzioni egizie; faraoni e
visir tram andavano in forma autobiografica la loro visione del mondo e delle cose come
lascito intellettuale che potesse giovare ai giovani di famiglia patrizia aspiranti alle cariche
dell’amministrazione dello stato» (MORLA AsENZIO, Libri sapienziali, 156).
12 Cfr. N. LOHFINK, Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997, 26; cfr. anche V. D’Alario, Il
libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica, Dehoniane, Bologna 1992, 231-235.
2. Esegesi di Qo 3,1-15: c’è un tempo per ogni cosa
14 Ivi,142.
15 «Sotto il cielo» appare spesso nell’Antico Testamento: Gen 1,9; 6,17; 7,19; Es
17,14; Dt 7,24; 9,14.
sopra del firmamento: qui viene immaginata la dimora di Dio
collocata al vertice di una stratificazione secondo quanto si
può ricavare dall’espressione «cieli dei cieli».
2. «Un tempo per nascere e un tempo per morire». La pri
ma è, possiamo dire, l’antitesi madre ed è perfetta nei suoi
termini estremi. Siamo davanti a un merismo (dal greco meri-
smós perché divide in due metà una totalità), cioè un espe
diente retorico con il quale si intende esprimere tutto quanto
è compreso nei termini estremi (poli). E, dunque, una modali
tà espressiva polare che esprime la totalità mediante la men
zione dei due punti più lontani. Si vedano per esempio: «cielo
e terra» per indicare il tutto (Gen 14,19.22; 24,3), «notte e
giorno» per dire «sempre» o «continuamente» (Dt 28,66; IRe
8,29; Sai 22,2; 88,1), «quando mi siedo e quando mi alzo» per
dire «ogni azione» (Sai 139,2). Per «nascere» e «morire» non
c’è che un tempo e l’uomo non può farci nulla. Qoelet si limi
ta ad affermare lucidamente che tanto l’ingresso quanto la di
partita hanno un loro momento definitivo e preciso. Abbiamo
già avuto modo di vedere come per il sapiente la morte si rile
vi in tutto il suo potere nullificante, sebbene in questo verset
to egli prenda soltanto atto della sua esistenza rinviando alla
fine del c. 3 le sue amare considerazioni (la sorte degli uomini
e quella delle bestie è identica: Qo 3,16-22). Un tempo per
piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Dal
vertice della massima polarizzazione, l’autore scende a consi
derare il piantare e il raccogliere come un genere di nascita e
di morte molto concreto, trattandosi di un’antitesi apparte
nente all’ambito dei vegetali (ciclo della pianta).
3-8. Vi è descritta una visione ciclica del tempo e della sto
ria - quasi un eterno ritorno - come se ci fosse un ineluttabi
le fato che tutto riporta al punto di partenza, vanificando
ogni novità. Sebbene Qoelet possa essere stato influenzato
dalla visione ciclica della storia tipica del mondo greco, il suo
pensiero nasce dall’osservazione e giunge alla conclusione
che spesso ci si deve confrontare con l’abitudinarietà delle
cose della vita e con la fatica che. tale esistenza comporta, so
prattutto quando l’uomo assiste passivamente allo scorrere
degli eventi. Misurarsi con questo movimento circolare getta
nuova luce sulla concezione ebraica del tempo, orientata al
compimento, alla terra promessa da raggiungere, e innervata
- nonostante le battute d’arresto - da una tensione verso il
futuro.
3. «Un tempo per uccidere e un tempo per curare». La
terza antitesi è imperfetta perché a «uccidere» dovrebbe
corrispondere «dare vita»; ma non rientra tra le capacità
umane questa seconda possibilità. Pertanto, si indica l’azio
ne più prossima: il prendersi cura. Il passaggio alla vita so
ciale caratterizzata dai conflitti è brusco. Ancora una volta
sottolineiamo che Qoelet si limita a prendere atto di ciò che
sperimenta senza offrire un giudizio di valore: anche l’ucci
sione violenta (Gen 27,42; Es 2,14-15; 21,14) segna la vita
così come il lato buono dell’umanità che con premura ne
favorisce lo sviluppo. Possiamo anche considerare un altro
aspetto, più antropologico: se la coppia «uccidere/curare»
si riferisce alla stessa persona, saremmo davanti alla consi
derazione del pentimento che, a seguito di un’azione atro
ce, viene concesso come tempo in cui porre rimedio al male
perpetuato. Un tempo per demolire e un tempo per costrui
re. Questa seconda antitesi è in parallelismo alla prima:
«L’autore sta forse pensando ai tempi di guerra - commen
ta J. Vilchez Lindez - tempi di distruzione, e di pace, tem
po di costruzione, con un riferimento agli edifici e ai luoghi
in cui l’uomo solitamente abita. Nel suo agire storico l’uo
mo non fa che ripetere sempre la stessa attività: fare e disfa
re, per tornare a fare il disfatto. Non c’è niente di nuovo
sotto il sole».16
4. «Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tem
po per fare lutto e un tempo per danzare».17 Il rimando di
questo versetto può essere bellico e ricollegherebbe il pian
gere e il fare lutto all’uccisione di 3 a. Oppure, le quattro si
tuazioni descrivono la comune convivenza familiare e i senti
menti che la attraversano. Il tema della gioia e l’invito a go
derne caratterizza l’opera di Qoelet; qui si menziona anche
quello della tristezza che accompagna la morte (altro tema
importante dell’opera) perché entrambi coesistono specular
mente nell’animo umano.
5. «Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli».
Anche in questo caso l’interpretazione della contrapposizione
dipende dal contesto al quale la si collega. Può descrivere il la
voro agricolo della manutenzione ordinaria di un campo o di
un giardino in cui si spostano delle pietre e le si disloca diver
samente o altrove; così come può rinviare al gesto che si com
pie per offendere il nemico in tempo di guerra, cui segue l’a
zione contraria nel periodo della pace.18 In senso figurato si
possono intendere le immagini di 5a anche ravvisando un col-
legamento con l’attività sessuale evocata, o supposta tale, an
che da «abbracciare» e «astenersi dagli abbracci»: scagliare
sassi è usato come simbolo dell’unione sessuale, raccoglierli
invece come simbolo dell’astinenza. Il midrash su Qoelet (Qo
elet Rabbah) così recita: «Un tempo per scagliare sassi quando
la tua sposa è pura (dal punto di vista mestruale) e un tempo
per raccogliere pietre quando la tua sposa è impura». Anche
Agostino ha parole simili quando si rivolge alle vedove:
«Quanto a te, tu hai prole, e ti trovi a vivere nell’ultima era del
mondo, quando non è più il caso di scagliare pietre ma di rac
coglierle, non stringersi in amplessi ma astenersene» (La digni
tà dello stato vedovile 8,11). «Un tempo per abbracciare e un
23 La traduzione della CEI del 2008 rende con «durata dei tempi»; quella del 1974
aveva «nozione dell’eternità».
de, che oltre il suo limitato studio del mondo e delle sue leg
gi, esiste un flusso continuo nella storia fissato da Dio.
Il concetto di timor di Dio ha nella tradizione sapienziale
un valore positivo indicando il rispetto e la venerazione da
tributare a Dio. Tuttavia nel v. 14 si attesta un senso diverso:
«Il temere Dio ha prima di tutto una valenza negativa; all’uo
mo non serve la Legge; nella sua ricerca di Dio l’uomo deve
limitarsi ad accettarne la volontà imperscrutabile, deve cioè
temerlo; da questo punto di vista Qoelet non fa che ripren
dere l’idea di distanza tra Dio e l’uomo già insita nella visione
tradizionalmente israelita del “timore di D io”».24 Dio sembra
essere intenzionato a lasciare l’uomo nella situazione di igno
ranza e, perciò, di impotenza a causa delle sue contraddizio
ni. Si potrebbe quasi registrare un accenno all’idea della ge
losia che gli dèi provano nei confronti degli uomini (cfr. Gen
11,6: la torre di Babele).
«Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso» signifi
ca che solo lui ha cognizione del passato mentre l’uomo può
cogliere il breve tratto di presente che gli è concesso. M. Gil
bert commenta questo brano dicendo che «in tanta oscurità,
Qoelet non ha più che due certezze. La prima (Qo 3,12-13) è
che dobbiamo approfittare delle semplici gioie che Dio ci
dona: mangiare e bere, aver gusto per il nostro mestiere e
cercare di agire in modo decente nel corso della nostra vita.
Ciò permette di vincere l’angoscia metafisica. La seconda
convinzione di Qoelet (3,14) è che tutto ciò che Dio fa, le
circostanze per esempio che portano l’uomo ad agire in que
sta o quella maniera, tutto ha un senso in quella durata totale
di cui soltanto Dio è padrone [...] Ciò che resta all’uomo è
temere Dio».25
30 In questo senso notiamo che la frase di Qoelet «non essere troppo giusto... non es
sere troppo stolto» (7,16-17) è stata spesso interpretata come la ricerca del giusto mezzo:
«È chiaro che Qohelet consiglia in morale una via di mezzo, un’aurea mediocritas>ma poi
ché la sua problematica è diversa da quella di Orazio e da quella di Aristotele, è certo che
egli non vuole affatto dire né che ogni virtù è media tra due vizi, né che bisogna rinuncia
re alla virtù eroica» (P. SACCHI, Ecclesiaste, Paoline, Roma 1971, 185).
19) e la vita è troppo breve (11,7-12,7) - «ciò che Qoelet
consiglia, in tanto sfacelo della vita umana, è non lasciar pas
sare le poche gioie semplici e immediate del momento pre
sente; però non predica affatto il godimento sfrenato né gli
eccessi, ma suggerisce di restare ben incollati al presente,
senza lasciarsi sfuggire quella parte di felicità, per quanto mi
nuta, che Dio ci manda».31
1. Questioni storico-letterarie
1 Vanno presi sul serio i due postulati formulati da M. Zappella: «L o sforzo di rico
struire una forma testuale '‘originale” di Sir è destinato all’insuccesso [...] Il tentativo di
delinea una teologia di Ben Sira mi pare fortemente compromesso dalla precaria situazio
ne testuale» (in BONORA - P rio tto , Libri sapienziali e altri scritti, 224). La molteplicità di
testi permette di accettare una teologia del canone pluralistica.
verse sezioni del libro, al punto da disporre attualmente del
68% dell’opera in sei manoscritti (A, B, C, D, E, F) databili
attorno all’X-XII secolo.
L’attendibilità di tali testi è stata messa in discussione da
chi in passato li considerò una retroversione in ebraico dal
greco o dal siriaco. L’obiezione fu liquidata dalle scoperte di
Qumran e della fortezza giudaica di Masada: le pergamene
che vi furono ritrovate erano, giocoforza, anteriori al 68 d.C.
e al 73 d.C., gli anni della infruttuosa quanto eroica rivolta
giudaica contro i Romani. Sorprendentemente il Siracide qui
rinvenuto confermava sostanzialmente quello dei manoscritti
dei secoli X-XII. La qualità del testo, tuttavia, è ancora non
soddisfacente. Il confronto tra i diversi testimoni ebraici e il
tentativo di ricostruzione dell’originale libro di Ben Sira -
anche sulla base delle versioni greca e siriaca - ha evidenzia
to nei manoscritti ritrovati doppioni e aggiunte che fanno
pensare all’esistenza di due forme del testo ebraico, una più
breve (Ebraico I o H i) e una più lunga (Ebraico II o H2).
Sulla datazione e sul luogo di produzione della versione più
lunga le opinioni sono molto divergenti.
b) La versione greca. Dell’origine di questa ci parla il Pro
logo del libro in greco, redatto dal nipote dell’autore, opera
zione non facile almeno stando a quanto confessato dallo
stesso traduttore: «Siete pregati di farne la lettura con bene
volenza e attenzione e a usare indulgenza con noi quando,
nonostante l’impegno con cui ci siamo applicati alla tradu
zione, sembrerà che non siamo riusciti a rendere bene certe
espressioni. Queste, infatti, non hanno la stessa forza quando
sono dette in ebraico e quando vengono tradotte in un’altra
lingua. Ciò non vale solo per questo libro, ma anche per la
stessa legge, i profeti e i rimanenti libri, che presentano una
non piccola differenza nel loro tenore originale». Il nipote,
giunto in Egitto nel 132 a.C., scoprì l’opera del suo avo e de
cise di tradurla in greco: «H o impiegato molte veglie e tanta
scienza per condurre a termine questo libro e pubblicarlo a
beneficio di quelli che sono all’estero e, riformando i loro co
stumi, desiderano imparare a vivere secondo la legge».
La versione greca ci è trasmessa da manoscritti onciali
(cioè scritti con caratteri greci maiuscoli) del IV secolo (Si
naitico e Vaticano). Essi consegnano un testo di ottima quali
tà, probabile frutto della scuola che Origene aveva creato a
Cesarea nel III secolo. Chiamiamo questo testo Greco I o
G l. Ma, come per la versione ebraica, anche quella greca co
nobbe una seconda revisione con aggiunte al testo primario:
singole parole o gruppi di parole, stichi o versetti interi (qua
si 135). La versione più lunga (Greco II o G2) si ritrova in al
cuni manoscritti di epoca bizantina (a partire dal IX secolo),
scritti con caratteri minuscoli. Le aggiunte provengono da
scuole di pensiero diverse, o quanto meno gli studiosi fatica
no a individuarle con precisione (si tratterebbe o di giudei
alessandrini o di giudeo-cristiani).2 La cosa interessante è che
alcune di queste aggiunte compaiono anche nei manoscritti
ebraici, sono testimoniate nella versione latina e in quella si
riaca. Tutto ciò induce a pensare che nelle comunità di lingua
greca il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettu
ra non omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dal I
secolo a.C. a tutto il I sec. d.C.
Attualmente l’edizione critica più completa è quella curata
da J. Ziegler3, che include il Greco II, di cui è invece sprovvi
sta l’edizione di A. Rahlfs4. Va infine notato che la Bibbia a
cura della Conferenza Episcopale Italiana nella terza edizio
5 La Vetus Latina è vissuta almeno fino a Girolamo, ma in molti casi continua ad es
sere trasmessa fino al X secolo. Segnaliamo che le traduzioni in latino della Bibbia erano
numerose: si possono distinguere due forme principali: quella «africana» (attestata da
Cipriano e Tertulliano: Afra) e quella «non africana» o europea {Itala) ; cfr. M. CIMOSA,
Guida allo studio della Bibbia latina. D alla Vetus Latina, alla Vulgata, alla Nova Vulgata,
Istituto Patristico «Augustinianum», Roma 2008,20.
6 A. BONORA, «Siracid e», in BONORA - PRIOTTO, Libri sapienziali e altri scritti, 89.
I. 3. Genere letterario
8 Tutti sono attestati solo dalla versione greca, eccetto: 31,12 e 41,16 (solo dalla ver
sione ebraica), 44,1 (entrambe); in tre casi il titolo della versione greca si trova in passi at
testati anche in ebraico: 30,16; 44,1; 51,1.
9 Cfr. BONORA, «Siracide», 90.
10 Due sono le conclusioni del libro. La prima, posta in 50,27-29) è presente in greco
e in ebraico; la seconda in 51,30 è presente solo in ebraico.
be essere stato composto in svariati anni e senza un continu
um logico strutturalmente significativo. Esso appare, pertan
to, come un’antologia di testi di cui le sezioni più antiche po
trebbero essere rappresentate da 1,1-23,27 e 51,1-30 ai quali
sarebbero stati aggiunti tre complementi (24,1-32,13; 32,14-
38,23; 38,24-50,29).11
24,1-2: introduzione;
24,3-22: il discorso della Sapienza;
24,23 -29: il saggio spiega il senso del discorso della Sapienza;
24,30-34: il saggio illustra la propria funzione educativa.
2.2. Traduzione e commento
14 II v. 18 appartiene al Greco II. La Sapienza è come una madre che si offre ai figli con
ferendo l’amore, la conoscenza e il timore, doni che sono tradizionalmente presentati nelle
istruzioni sapienziali; qui si aggiunge la santa speranza che induce a pensare alla vita oltre la
morte che il Signore concede a coloro che da lui sono stati scelti.
15 II v. 24 appartiene al Greco II ed è l’unico tristico di tutto il capitolo. Si presenta
come una giustapposizione rispetto allo sviluppo tematico del capitolo: contiene un’esor
tazione perché il credente possa irrobustire la propria appartenenza al Signore e una di
chiarazione di fede nel monoteismo più esclusivo (tipica della tradizione dei deuterono-
misti) molto vicina a quello dello ì'm a* di Dt 6.
31ho detto: «Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola».
Ma ecco, il mio canale è diventato un fiume e il mio fiume è
diventato un mare.
32Farò ancora splendere l’insegnamento come l’aurora, lo farò
brillare molto lontano.
33Riverserò ancora la dottrina come profezia, lo lascerò alle ge
nerazioni future.
34Vedete che non ho faticato solo per me, ma per tutti quelli che
la cercano.
23 Si veda quanto ho scritto in Dove abita la Sapienza? La ricerca dei saggi per la vita
dell'uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009,49-58.
dotta di vita degna e all’altezza dei sacrifici da questi com
piuti: «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare
le doglie di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato:
che cosa darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?»
(7,27-28). Con un tratto di grande delicatezza il Siracide con
segna anche un ammonimento che considera lo stato di de
menza ai quali i genitori possono andare incontro con l’avan
zare con l’età: anche in questa fase critica vanno accuditi e ri
spettati («Sii indulgente, anche se perde il senno, e non di
sprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. L’opera buona ver
so il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei pec
cati, rinnoverà la tua casa»: 3,13-14).
L’educazione comporta in Siracide degli interventi energi
ci; per questo la correzione disciplinare è parte integrante
dell’ammaestramento dei saggi (7,23): si accentua la dimen
sione punitiva dell’educazione, aspetto che in Proverbi è pre
sente (Pr 10,17 e 13,24) ma non sottolineato come in questi
testi (Sir 22,6; 30,1).
c) L’uomo. La visione antropologica del Siracide si ispira ai
racconti della creazione del libro della Genesi presentandosi
come ampia e sfaccettata. In Sir 16,24-17,14, dopo avere
parlato delle creature, l’autore passa in rassegna la condizio
ne dell’uomo ricollegandosi al diretto rapporto con la terra
(cfr. Gen 2,7; 3,19). Sulla scia di altri testi biblici (Sai 8,5;
144,3; Gb 7,17) anche il Siracide si pone in 18,8 le domande
antropologiche fondamentali: Che cos’è l’uomo? A che cosa
può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? Questi
interrogativi restano aperti o, meglio, vengono sciolti nel ri
mando diretto alla grandezza di Dio che considera l’essere
umano, per quanto piccolo e insignificante rispetto all’uni
verso, il destinatario privilegiato della sua misericordia.
L’uomo va educato e la sofferenza gioca un ruolo fonda-
mentale per il raggiungimento della piena maturità: ha un va
lore medicinale perché lo purifica alla stregua della raffina
zione dei minerali grezzi dai quali si ricavano i metalli prezio
si («L’oro si prova al fuoco»: Sir 2,5).
Ma in Ben Sira si assiste anche al superamento di un’idea,
derivante dal convincimento anticotestamentario, secondo la
quale da Dio proverrebbero sia il bene che il male e anche la
sciagura sarebbe causata da Dio (cfr. le parole di Giobbe in
G b 2,10). Davanti a tale affermazione il Siracide si profonde
in alcune considerazioni di teodicea proponendo con forza il
principio della libertà individuale: l’uomo è stato creato libe
ro di rifiutare il male, realtà che Dio stesso ha in odio e che
conduce alla morte (Sir 15,11-20).
Sicuramente l’autore del libro è consapevole che il pensie
ro della morte segna la vita dell’uomo di ogni condizione so
ciale: è la paura capitale che getta un’ombra su tutte le attivi
tà e i progetti (Sir 40,1-17; cfr. Qo 11,7-12,7). Da uomo pio è
anche convinto che per il giusto tale peso sia reso più sop
portabile rispetto alla condizione sventurata dell’empio, per
ché di questo non rimarrà neppure la buona fama che i giusti
hanno, invece, meritato.
d) La preghiera. E alla base del percorso sapienziale dello
stesso Ben Sira: egli dichiara di avere ricercato la sapienza
nella sua preghiera davanti al tempio sin dalla giovinezza, ri
cerca che rinnoverà continuamente sino alla maturità (51,13-
14). La preghiera fiorisce come lode sulla bocca del pio che
di buon mattino eleva la voce al Signore, e dello scriba che
diligentemente si dedica allo studio delle profezie (4,12;
39,5-6), così come sgorga in chi contempla la natura come
opera meravigliosa del Creatore (42,15-43,33).24
Tuttavia, l’orazione non va staccata dalla vita, ma esige un
radicamento nella morale: è ascoltata quando è unita al ri
spetto per i genitori (3,5) e alle richieste del povero di cui
Dio ascolta sempre la voce (4,6; 21,5). Va perciò unita alla
26 R.E. MuRPHY, Inalbero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale bibli
ca (Biblioteca Biblica 13), Queriniana, Brescia 2000, 91.
27 La visione maschilista della donna trapela anche dal modo con cui è descritta: in
26,2 è chiamata «valorosa», alla lettera «virile» {andréia). Il saggio sembra descrivere la
donna in rapporto alla sua somiglianza o differenza rispetto all’uomo.
(25,22) o essere assoggettato ai figli (33,1-13). La malizia
femminile è oggetto di attenta riflessione (25,13-19.23; 42,14)
conformemente alle convinzioni dei maestri d ’Israele in pri
mis Qoelet (Qo 7,26). Comune alla tradizione è anche l’av
vertimento della pericolosità della straniera alla quale non bi
sogna consegnare il proprio vigore sessuale (Sir 26,19; cfr. Pr
2; 5; 6 e 7).
1. Questioni storico-letterarie
1 «Il libro della Sapienza ha meritato di essere letto tanti anni nella Chiesa cattolica e
di essere ascoltato con la venerazione dovuta all'autorità divina» (AGOSTINO, La predesti
nazione dei santi 14,27).
1.1. Autore
1.2. Data
1.3. Struttura
14 Ivi. 229.
una comparazione sistematica e prolungata, con l’eroe che si
vuole mettere in evidenza. Le differenze principali rispetto
alla synkrisis classica provengono dai temi religiosi affrontati
nel libro. Tale genere è ascrivibile principalmente all’ultima
parte del libro (i cc. 10-19).
d) Non si può, inoltre, trascurare che molti autori difendo
no l’ipotesi che Sapienza sia un midrash. A proposito di tale
genere letterario bisogna fare alcune puntualizzazioni che var
ranno anche per quanto diremo a proposito del Cantico dei
Cantici. Anzitutto è difficile definire precisamente il genere
letterario del midrash a causa dell’equivocità del termine stes
so: è bene essere prudenti quando si parla di genere letterario
midrashico perché bisogna distinguere tra l’attività di studio
dei rabbini, la loro attività di interpretazione biblica, una loro
tipologia di esegesi, e il corpo letterario all’interno della tradi
zione orale giudaica che chiamiamo, appunto, con questo no
me. I termini non sono sinonimi, in quanto per esempio nel
Talmud c’è un’esegesi di tipo derash (portata avanti cioè con il
metodo del midrash), eppure esso non è chiamato midrash.
Inoltre, non conosciamo la genesi e lo sviluppo storico di tale
letteratura: conosciamo il suo stadio finale ma non siamo in
grado di sapere se la letteratura definita midrashica sia stata
effettivamente orientata e ispirata a un unico/uniforme mo
dello iniziale. Perciò, possiamo indicare in senso ampio il mi
drash come riflessione omiletica o meditazione sulla Bibbia
che cerca di interpretare e attualizzare un testo del passato in
riferimento alle circostanze attuali sviluppandone il senso ini
ziale. Solo in questo senso Sapienza è un midrash P
e) Infine, per alcuni autori il libro della Sapienza sarebbe un
trattato di teologia politica il cui tema centrale è la giustizia nel
governare.1516 L’esplicito appello rivolto ai governanti e a chi si
15 Un’ampia discussione sul senso del midrash in rapporto al libro della Sapienza si
trova in VfLCHEZ L i'n d e z , Sapienza, 40-47.
16 Cfr. L. ALONSO S c h o k e l , Eclesiastes y Sabiduria, Cristiandad, Madrid 1974,73.
diletta di scettri e troni (Sap 6,21) supporterebbe tale propo
sta. Quest’aspetto politico rientra, tuttavia, tra quelli marginali
dell’opera non costituendo un vero e proprio genere.
In conclusione si può ritenere, dovendo fare una scelta,
che l’ipotesi più accreditata sia quella che ritiene Sapienza un
elogio sui generis poiché presenta caratteristiche proprie:
«Sulla base di quanto si è osservato, un giudizio d ’insieme sul
genere letterario della Sapienza richiede una certa cautela.
Pur ammettendo l’intonazione generale epidittica dell’opera,
è prudente sostenere l’inadeguatezza della pretesa di dedurre
un denominatore comune di genere per tutto il libro; nella
Sapienza si mescolano elementi sapienziali e apocalittici, si
trovano la diatriba e la sincrisi, né possono escludersi ele
menti esortativi, inoltre si riscontra spesso lo stile dell’esegesi
midrashica, in particolare nell’esposizione dell’esodo».17
!Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tor
mento li toccherà.
2Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu rite
nuta una sciagura,
Ha loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace.
4Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro spe
ranza resta piena d ’immortalità.
5In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, per
ché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé;
6li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha accolti in sacrificio,
come olocausto.
7Nel giorno in cui saranno visitati risplenderanno, come scintille
nella stoppia correranno.
Giudicheranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signo
re regnerà per sempre su di loro.
9Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli
nell’amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericor
dia sono per i suoi santi.
20 Cfr. anche G b 23,10; Pr 17,3; 27,21; Sir 2,5; Sai 66,10; Is 1,25; 48,10; Zc 13,9.
vita dei giusti e desidera verificarne la virtù perché, come
nella prova di Abramo (22,1), così anche ai giusti sia conces
sa la possibilità di manifestare la propria fedeltà e la propria
dignità di comparire al suo cospetto. G. Scarpat annota che
«questa paideia, punitrice e correttrice è azione provviden
ziale che rende fiduciosi e umili davanti al disegno di Dio, e
non sempre è comprensibile mentre si sta attuando».21 Il te
sto di 2Mac 6,14-16 esplicita questa logica divina a favore del
popolo eletto: «Il longanime Sovrano ha giudicato di com
portarsi con noi non come fa con le altre genti, che egli
aspetta fino a che siano giunte al colmo dei peccati per pu
nirle. E ciò per non dover punirci alla fine, quando i nostri
peccati fossero giunti a colmare la misura. Perciò egli non ri
tira mai da noi la sua misericordia, ma, correggendoci con la
sventura, non abbandona il suo popolo». La vita del giusto è,
perciò, considerata alla stregua di un olocausto, secondo la
concezione cultuale dell’esistenza: l’uomo non è chiamato ad
offrire a Dio animali o vegetali, ma a trarre dalla propria esi
stenza e dalle proprie sofferenze la materia per il sacrificio
(cfr. Rm 12,1).
7-9 (A’). Questi tre versetti presentano un linguaggio e dei
temi tipicamente apocalittici, cosa alquanto rara nel corpus
della letteratura sapienziale. Questa terza strofa richiama il
tema della sorte dei giusti già anticipato nella prima (w. 1-3)
esplicitando la modalità secondo la quale essi saranno pre
miati dal Signore.
7. L’ora del giudizio divino è descritta come un’ispezione
{episcopi), visita che, a differenza dei testi apocalittici in chi
ne viene raggiunto genera non angoscia ma premio e ricono
scenza, gioia e pubblica attestazione. Le scintille che corrono
nella stoppia sono metafora di un incendio che sta per svi
lupparsi, metafora del dominio finale dei giusti sugli empi:
25 Le considerazioni sul vuoto «fanno parte della topica sull’empio [...]; queste spe
ranze in Siracide 34,1 sono messe in parallelo con i sogni; la speranza degli empi è vuota,
vana come ogni sogno senza rispondenza alla realtà» (SCARPAT, Il Libro della Sapienza.
L 241).
ma sarà sterminato. Anche se avranno lunga vita, come cosa
da nulla saranno considerati e, infine, la loro vecchiaia sarà
senza onore. Se poi moriranno presto, non avranno speranza
né conforto nel giorno del giudizio, poiché triste è la fine di
una generazione ingiusta». L’oblìo, in una sorta di antigenesi
che dalla maledizione dei discendenti giunge a quella dei ge
nitori, è l’unico esito di una condotta dissoluta.
3. Linee teologiche
33 Ueffige imperiale era vista come sostitutiva della presenza del sovrano ed era in gra
do di compensare la sua assenza (14,17); aveva funzione taumaturgica (14,28) e veniva
sempre più idolatrata. L’autore di Sapienza evidenzia anche la pratica di portare in viag
gio con sé un’immagine divina (14,1) o statuette, medaglie, cappelle portatili. Tale usanza
era penetrata anche in certi ambienti giudaici.
ITINERARI TEOLOGICI.
«TEMI DIO E OSSERVA I COMANDAMENTI»
(Qo 12,13)
4 T. FRYDRYCH, Living under thè Sun. Examination of Proverhs and Qohelet (VTS 90),
Brill, Leiden-Boston-Kòln 2002,129.
Lo snodo cruciale del rapporto che lega la paideia sapien
ziale alla fede in Dio si individua nella seconda istruzione del
libro dei Proverbi, e precisamente in 2,5. In questo testo si
nota il parallelismo tra le due espressioni: yir ’at Yhwh («ti
more del Signore») e d a'at ’élóhim («conoscenza di Dio»).
Come sopra indicato, nel lungo exordium (w. 1-11) il padre
maestro mira a inclinare il cuore del figlio-discepolo all’acco
glienza dei suoi precetti, formulando un esteso periodo ipo
tetico che esplicita i vantaggi derivanti da tale acquisizione.
In Proverbi il timore del Signore viene presentato come
l’inizio della sapienza (Pr 1,7) e suo fondamento (Pr 9,10),
ed è attorno a questa categoria positiva che si costruisce la
novità dell’educazione israelitica: essa include non solo la
traditio di una serie di regole pratiche ma anche l’afflato teo
logico da cui tali regole derivano. Infatti, al timore di Yhwh
è legata anzitutto la vita dei fedeli (Pr 10,27; 14,27; 19,23), i
quali godono della pace che deriva da Dio anche in presenza
di avversità (Pr 23,17-18). Questo sentimento religioso esige
impegno in quanto è disciplina (musar. Pr 15,33) alla quale
è legata l’umiltà (Pr 22,4), la venerazione nei confronti di
Dio, unitamente all’obbedienza alla sua volontà. Inoltre, il
timore di Yhwh immunizza da ogni forma di auto-referen-
zialità (Pr 3,5).
In Pr 2,5 si esplicita che questa sapienza teologale è allo
stesso tempo frutto delle parole del saggio. L’espressione
da 'at ’élòhim e la comprensione del legame con il timore di
Yhwh, può aiutare a comprendere, come già evidenziato
nell’esegesi, il senso di questa sapienza che viene dall’alto,
poiché la rara formula d a'at ’élòhm (Os 4,1 e 6,6) esprime la
conoscenza di Dio, ispirata a lealtà, radicata nella vita inte
riore del credente. Vale a dire che se in Pr 1,7 i termini yir’at,
yhwh e da'at si introducono senza ulteriori spiegazioni, in
Pr 2,5 la conoscenza (da'at) è presentata come il frutto del ti
more (yir’at), cioè del rapporto affettivo/reverenziale verso
Dio. Si può asserire, cioè, che il timore di Yhwh non è tanto
(o solo) «sentito», quanto (o anche) «compreso» (byn) grazie
alla sapienza, che l’educazione trasmette. Pertanto, il paralle
lismo tra yir’at yhwh e da'at ’éldhim non è puramente sinoni
mico, in quanto il secondo sintagma aggiunge al primo una
più ampia dimensione cognitiva, alludendo a una conoscenza
critica del divino che proviene da Dio stesso. Nel v. 5, dun
que, si attesta - secondo il pensiero di A. Mùller - un nuovo
concetto di sapienza5 che introduce a un livello successivo di
comprensione della realtà umana e presa di coscienza del mi
stero divino.
5 Cfr, A. MOLLER, Proverbien 1-9. Der Weisheit neue Kleider (BZAW 291), Walter de
Gruyter, Berlin-New York 2000,57; si veda il capitolo «The Development of thè Concept
of Wisdom», in R.N. WHYBRAY, Wisdom in Proverbs, 72-104.
storia d ’Israele e di Giuda è costellata di regnanti infedeli, i
quali invece di pascere il popolo hanno preferito fare i propri
interessi perdendo di vista la missione loro affidata.
L’inedita «modernità» di queste considerazioni si ritrova
anche in G b 31,13-15, testo in cui Giobbe pone sullo stesso
piano la propria esperienza con quella degli schiavi. Il saggio
sofferente recepisce il dato antropologico genesiaco dell’esse
re immagine somigliante di Dio e lo esplicita - è questo il
proprium - all’interno delle relazioni sociali. La domanda sul
la natura dell’uomo e sulle sue potenzialità è, in fondo, la
grande conquista di Giobbe, il quale se davanti al suo dolore
si interroga sul senso dell’essere mortale («Che cosa è l’uomo
perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzio
ne?»: Gb 7,17), può attingere nuova luce sulla propria iden
tità solo dal rinnovato confronto con Yhwh il quale, seppur
misteriosamente, educa anche attraverso la sofferenza: «Io ti
conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno
veduto» (Gb 42,5).
10 Ivi, 294.
11 Ivi, 299.
3.2. La cultualizzazione della parola in Qoelet
» Ivi, 203-204.
spinte intellettuali, non facilmente conciliabili con la tradi
zione ma rispondenti ai nuovi bisogni avvertiti dal popolo.
L’autore così conclude il suo saggio: «vero antidoto contro
ogni rinascente misologia religiosa ed etica, Qoelet avrebbe
disposto Israele ad accettare realisticamente il confronto lea
le con le domande inquietanti e anticonformiste dell’elleni
smo medio, stabilendo così le basi per una riflessione teologi
ca in continuità con il proprio contesto religioso e insieme
aperta all’inevitabile lezione del tempo».14
M Ivi, 215-216.
15 E.S. G e r s t e n b e r g e r , Teologie nell'Antico Testamento. Pluralità e sincretismo della
fede veterotestamentaria (Introduzione allo studio della Bibbia Supplementi 25), Paideia,
Brescia 2005,321.
de religiosa, si esprime qua e là anche nei testi dell’Antico
Testamento, ma entro conformazioni e strutture culturali e
sociali diverse».161 libri sapienziali possono aiutare a cogliere
sfumature e significati che parlino al cuore e alla mente
dell’uomo (anche contemporaneo), perché attingono dal suo
nucleo più intimo.
K ivi, 16.
17 Cfr. E D a l l a VECCHIA, «Saggio, consigliere e modello eterno (Pr 8,22-31)» in La
Parola e le parole. Quaderni del Seminario di Brescia, Brescia 2003,52-71.
- La bambina. Con questa traduzione alcuni biblisti intendono
fare riferimento al fatto che la Sapienza, ancora piccolina, assi
stette all'attività organizzatrice di Yhwh e si mette, ora, a gio
care e a danzare davanti a Yhwh sulla superficie della terra;
’àmón sarebbe da correggere con il participio passivo ’àmun in
base a quanto riportato nella versione di Teodozione
(.tithènuméné - «pupillo portato in braccio» - da tithènuéd;
cfr. con lo stesso significato anche ydmèn in Nm 11,12). Questa
proposta ben si accorderebbe con il contesto di Pr 8 in cui si
attestano le fasi della crescita della Sapienza.18
- Il saggio. R.J. Clifford rintraccia nel termine yàmón (che egli
traduce «saggio, sapiente») riferito alla Sapienza in Pr 8,30a,
Foriginario accadico ummanu^ che nella mitologia mesopota-
mica sarebbe il mediatore semi-divino che dopo il diluvio por
ta la sapienza all'umanità.19 Il termine ummanu, però, non è
univoco perché non indica soltanto il saggio ma anche
l'artigiano;20
- La dea egizia Ma'at. Ci sarebbero elementi comuni tra la
dottrina su Ma'at e quella sulla Sapienza (la loro preesisten
za e filiazione divina, il rapporto di intimità che esse hanno
rispettivamente verso Amon e verso Yhwh, il riferimento
alla funzione sociale che esse rivestono). Ma, tra M a'at e
Sapienza, come abbiamo visto, ci sono anche differenze ri
conducibili anzitutto alla differenza di cultura e di religione
che intercorre tra Israele e l'Egitto. Nello specifico esse ri
guardano la diversa filiazione di Ma'at da Amon Ra' e della
Sapienza da Yhwh: se si può ragionevolmente avanzare
un'ipotesi di influenza egizia, non va sottovalutata la novità
18 Cfr. GILBERT, La Sapienza del cielo, 43; cfr. anche MAZZINGHI, Il Pentateuco sapien
ziale , 76.
19 Cfr. R.J. CLIFFORD, Proverbs: A Commentary (OTL), Louisville (KY) 1999, 98-101.
20 C ’è chi ha proposto un parallelo con i Proverbi bilingui, in cui abbiamo una lista di
re antidiluviani e dei loro saggi (apkallu e ummanu). I re nominati vanno da Ghilgamesh a
Asarhaddon. Questa lista ci informa che al tempo del re Assuah-iddina, in Mesopotamia,
Xummanu non è solo l’artigiano o l’uomo dotto, ma anche l’alto ufficiale di corte. L’iden
tità tra ummanu e apkallu è sostenuta anche da altri studiosi: l’identità tra ’àmón e umma
nu non può, quindi, essere difesa con la forza che Clifford vorrebbe proprio in forza
dell’intercambiabilità dei termini e del non così diretto rimando mitologico.
della riflessione dei saggi di Israele che hanno superato il
prototipo egiziano.21
- Cristo-Logos. Per la tradizione patristica la Sapienza è Cristo,
il Logos, la seconda persona della Trinità (cfr. Gv 1). Teofilo
di Antiochia scrive: «D io avendo il suo verbo immanente
nelle sue viscere, lo generò assieme alla sua Sapienza, espri
mendolo prima di ogni cosa [...]. La verità ci istruisce sul
Verbo che è daireternità immanente nel cuore del Padre.
Prima della creazione lo ebbe come consigliere, perché è la
sua mente e il suo pensiero. Quando Iddio volle creare quel
lo che aveva stabilito, generò questo verbo emettendolo fuo
ri, primogenito di tutta la creazione; e non rimase privo del
Verbo, ma dopo averlo generato si intrattiene sempre con il
suo Verbo».22
- Non si è citato a caso Teofilo di Antiochia. C'è chi ha ravvi
sato un'analogia tra la creazione e la generazione del Verbo
di cui egli parla con la nascita di una colonia dalla città ma
dre. Le tappe che conducono alla fondazione di una colonia
sono le seguenti: la città madre elegge alcuni e li invia perché
fondino la colonia, successivamente abbiamo la partenza di
questo gruppo, poi la fondazione della colonia e infine la co
lonia. V. Polidori23 legge questo processo in analogia con la
generazione del Verbo: l'ipostatizzazione del Logos imma
nente nel Padre, il proferimento del Logos e, infine, il Logos
proferito.
LIBRI POETICI
SALTERIO
I. Questioni storico-letterarie
1.2. Numerazione
114-115 113
116,1-9 114
117-146 116-145
147,1-11 146
147,12-20 147
148-150 148-150
1.3. Struttura
3 Gregorio segue la numerazione greca dei salmi. La divisione del Salterio in cinque
parti è attestata già da Eusebio, anche se fu Gregorio ad attribuirle un significato spiritua
le che egli lega all’immagine della cerva del Sai 42: «Colui che è stato iniziato alla vita vir
tuosa nella prima parte del Salterio e ha conosciuto e gustato la dolcezza di ciò che desi
dera, dopo aver eliminato in sé ogni strisciante ombra di brama ed essersi cibato delle
passioni invece che di animali con i denti della saggezza, ha sete di comunione, con Dio
più di quanto il cervo desideri le fonti» (GREGORIO DI NlSSA, Sui titoli dei Salmi, Città
Nuova, Roma 1994,55).
4 Interessante lavoro sull’accostamento dei componimenti salmi è quello di: D. SCAIO-
LA, «Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite», fenomeni di composizione appaiata nel Salte
rio Masoretico», Urbaniana University Press, Roma 2002.
(anche per questo non presentano come gli altri salmi le so
prascritte). La beatitudine del Sal 1 e la ferma convinzione
che il Signore protegge chi medita la Legge, mentre disperde
gli empi, trova eco nel Sai 2 in cui il protagonista di tale
sconfitta è il Signore attraverso il suo messia.
Oppure: il Sai 7 si chiude con la promessa di lode («Lode
rò il Signore...»: v. 18) e il Sai 8 si apre come prosecuzione e
realizzazione di tale impegno. La ripetizione del termine «no
me» (presente in 7 e 8) permette di collegare anche il Sai 9 in
un continuum tematico secondo il quale il nome di Dio scon
figge la forza dei nemici (cfr. il nome di 9,6) che attentano al
la vita del povero.5 Anche i Sai 149 e 150 sono posti alla fine
del Salterio per chiudere il libro attorno a temi comuni (si
può pensare a una danza rituale che celebra le lodi a Dio che
sconfigge i suoi nemici) e riportando l’invitatorio alleluiatico.
E ancora: i Sai 90, 91, 92, letti di seguito, disegnano la se
quenza tipica di una supplica (supplica, oracolo di salvezza,
rendimento di grazie). Oppure: i Sai 111 e 112 sono da leg
gere insieme a motivo del comune procedimento alfabetico
che li struttura. Infine: i Sai 50 e 51, sui quali torneremo
nell’esegesi, scandiscono le tappe di un percorso penitenziale
che dal riconoscimento della colpa mira alla riconciliazione
piena.
- introduzione: invocazione-appello;
- corpo della supplica: 1) Dio e il suo silenzio, 2) io e la mia sof
ferenza, 3) essi, i nemici;
- conclusione: voto e sacrificio, lode nell’assemblea, oracolo di
esaudimento.
7 «Contro uno stretto collegamento del Salterio con la liturgia del tempio e della sina
goga parlano anche le soprascritte midrashiche dei salmi, che hanno una relazione esplici
ta con la vita di Davide; questa davidizzazione narrativa fa del Salterio un libro di lettura
e di meditazione» (LORENZIN, I Salmi, 23).
8 Cfr. L. ALONSO S c h ò k e l , I Salmi della fiducia, Dehoniane, Bologna 2006, 5-24 (que
sto testo è un estratto di: Trenta Salmi: poesia e preghiera, Dehoniane, Bologna 1982).
glianze esteriori con altri salmi. Il fattore decisivo che costi
tuisce la sua unicità è l’organizzazione interna, la sua unità:
comuni con altri poemi potranno essere i motivi, lo schema
generale, intere frasi e tanti stilemi, ma l’organizzazione di
questi stilemi renderà unico quel salmo. Esso, quindi, non va
smembrato e il simbolismo che lo regge non va sciolto in un
lineare commento prosaico.
Il microcosmo simbolico «impone» le sue regole ermeneu
tiche.9 Il primo dato da tenere presente è quello antropologi
co. L’uomo è spirito, cuore, immaginazione, e quando pensa
a Dio e vive la propria fede lo fa con tutto se stesso. Non è
solo ragione, intelletto o fredda somma algebrica di variabili.
I simboli esprimono il «sapore» della teologia e, in ultima
analisi, dell’esistenza.
Tre sono le categorie fondamentali che raccontano l’uomo
simbolico. La prima è quella verticale: « l’uomo in piedi» in
una linea ascensionale-discensionale, colto nel suo processo di
elevazione morale e sociale. Si pensi al simbolo dello scettro
(2,9; 45,7; 60,9; 108,9), al tempio sul monte (147), allo schiavo
che eleva gli occhi verso il suo padrone (123,1), al Dio Altissi
mo, al Dio delle montagne (Sadday), a Yhwh-altezza (92,9;
93,4; 102,20). La seconda categoria è quella orizzontale: «l’uo
mo seduto», come segno di intimità. Si pensi ai riferimenti al
verbo yàsab (abitare/dimorare/giacere) e ai luoghi in cui si
abita: la casa (26,8; 84,5; 101,7; 113,9), il tempio (11,4; 27,4;
65,5;), la città rifugio (18,3; 62,3.7; 144,2). Infine, la terza cate
goria è quella dinamica e temporale: «l’uomo in cammino».
Qui domina l’immagine della «via» (derek), che indica la stra
da ma anche la condotta morale. Non è, cioè, solo un simbolo
geografico ma anche di esistenza (orientamento di vita: 49,14;
119). Il movimento può essere ascensionale (verso il tempio
nei Sai 120-134) o legato allo scorrere del tempo (16,10-11).
2. Saggi dì esegesi
10 Ivi, 196. Questa suddivisione dello spazio (una sfera divina e l’altra affidata al do
minio delle forze che gli si oppongono) si attesta anche in altri passi dell’Antico Testa
mento che parlano di un confine, una frontiera, un circolo, un limite, una barriera (Sai
74,13; 104,9; 148,6; Gb 7,12; 24,12; 38,11; Pr 8,27; Is 51,9-10).
di due principali risonanze. La prima riguarda l’atteggia
mento infantile dell’essere umano che, giorno per giorno,
scopre il mondo con meraviglia e stupore perché si affaccia
alla soglia della vita con semplicità, costruendo a piccoli
passi il proprio universo di senso mentre si apre alla bellez
za del creato. Questo atteggiamento “infantile” è lodato dal
salm ista perché libera l’uomo dall’insubordinazione: il
bambino sa accettare il mondo e il proprio posto in esso.
La seconda risonanza riguarda la bocca dei bambini. L’o
rante sa che essa è inadeguata per descrivere la grandezza
che gli viene posta innanzi. Sulle sue labbra fioriscono, bal
bettando, le domande cariche di curiosità, meraviglia e non
le constatazioni disincantate e smaliziate dell’adulto: la rea
zione davanti all’opera del creato non è la medesima nell’a
dulto e nel bambino. In questo senso il salmista desidera
provare quell’inadeguatezza dei piccoli rispetto a ciò che
supera la propria capacità di comprensione, preferendo
balbettare frasi incompiute che essere ridotto al mutismo
dal Signore.
4. In questo versetto si descrive l’uomo che di notte con
templa il cielo stellato. La sua posizione è intermedia e, per
tale ragione, ambigua: pur appartenendo alla terra egli si in
nalza (o almeno vorrebbe farlo nello slancio poetico) sopra
di essa e oltre se stesso. Tale condizione non appartiene agli
animali perché solo l’uomo può stupirsi dell’opera del crea
to. Il salmista presenta un’immagine molto delicata: è come
se Dio incastonasse una ad una le stelle e la luna nel firma
mento, alla stregua di un orefice che con cura e maestria
(sembra intendersi con la punta delle dita) abbellisce la pro
pria opera ponendovi le pietre preziose: la creazione «non è
un atto di intelligenza, “sapienza” puramente intellettuale, né
un’azione “a distanza”; è un atto artigiano che richiede deli
catezza e tenerezza; un passare e ripassare le dita, modellan
do la forma perfetta degli astri: come maioliche preziose, co-
me gioielli, gli astri sono per il poeta pezzi della sapiente arte
divina».11
5. Qui la particella mah introduce una domanda: «Che co
sa è mai l’uomo?». Se la contemplazione del mondo suscita
un grido di ammirazione, la visione dell’uomo provoca una
domanda di senso. L’intero versetto è ripetuto in Sai 144,3 in
cui, al colmo dello stupore, si loda Dio perché rivolge la sua
protezione a un essere cosi piccolo e fragile, per la vittoria
che Egli concede a Davide: si può intendere questo poema
come la lode che segue la sconfitta del gigante Golia (cfr.
lSam 17), e questo indurrebbe a leggere il v. 5 come una sfu
matura intensiva: i nemici del Signore (sia quelli mitologici
sia quelli storici) si possono vincere solo se ci si affida a lui
impugnando l’arma della fiducia piena.
Che cos’è, dunque l’uomo? «L’uomo è esattamente questo
grande interrogativo che si leva sull’orizzonte piano della ter
ra; questa curva che ritorna continuamente su se stessa do
mandandosi; l’uomo sempre s’interroga su ciò che è, e sem
pre continuerà ad interrogarsi, senza arrivare a una risposta
definitiva [...]; Che cosa è l’uomo? Un essere terrestre, un
vassallo capace di contemplare un’opera di Dio e dominarne
altre; è una risposta o un trampolino di lancio per altri
interrogativi?».1112 L’orante, che pone questa domanda sta così
rappresentando tutta l’umanità e ciascun uomo. E una do
manda provocata anche da una contemplazione religiosa del
la creazione. Sorge da uno sguardo trascendente: è un volger
si verso se stessi dopo avere levato gli occhi verso Dio. E una
domanda che non attende una risposta nell’immanente: l’uo
mo, infatti, non si può definire solo nel suo rapporto con la
terra.
La ripetizione della particella interrogativa serve, inoltre,
per stabilire altre corrispondenze come, per esempio tra i no
3Pietà di me, o Dio, nella tua bontà; nella tua grande misericor
dia cancella la mia iniquità.
4Lavami del tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi
puro.
15 Possiamo dividerlo in quattro parti: introduzione, dove si esplicita la lite di Dio con
il suo popolo, un Dio che chiama anche il cielo e la terra come testimoni (w. 1-7); descri
zione del misfatto per il quale Israele è condannato da Dio (w. 8-15); richiesta di conver
sione: non sono i sacrifici che il Signore gradisce, ma la lode fatta con giustizia (w. 16-21);
perorazione finale (w. 22-23).
^perché, le mie iniquità io riconosco, il mio peccato mi sta sem
pre dinanzi.
6Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai
tuoi occhi, io Tho fatto:
così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio.
7Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito
mia madre.
8Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuo
re mi insegni la sapienza.
Aspergim i con issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco
della neve.
10Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spez
zato.
1d isto gli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.
12Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito
saldo.
13Non scacciarmi dal tuo volto e non privarmi del tuo santo spi
rito.
14Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito
generoso.
^Insegnerò ai malvagi le tue vie e i peccatori a te ritorneranno.
16Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza: la mia lingua
esalterà la tua giustizia.
17Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
18Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti.
19Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e af
franto tu, o Dio, non disprezzi.
20Nella tua bontà fa’ grazia a Sion, ricostruisci le mura di Geru
salemme.
21Allora gradirai i sacrifici legittimi, l’olocausto e Finterà obla
zione;
allora si immoleranno giovenchi sopra il tuo altare.
16 È importante notare come i tre termini siano spesso accostati l’uno all’altro per
esprimere la totalità delle trasgressioni. In Lv 16, per esempio, il santuario è stato reso im
puro dai peccati {hà\tà ’im) e dalle ribellioni (peSa ‘im) d’Israele e dalle colpe ( ‘àwón).
17 Cfr. H. S e e b a s s , «PàSaV PéSa4», in H.-J. FABRY - H. RlNGGREN (ed d .), Grande Les
sico dell’Antico Testamento. V7,386-387.
vocabolo p ésa ‘ rimanda, perciò, alle ribellioni sociali e reli
giose che macchiano il popolo e per le quali è necessaria una
purificazione.
Anche il termine ‘àwdn è utilizzato per i peccati contro
Dio (Es 20,5; Dt 5,9; Is 1,4; 27,9; Ger 11,10) e quelli contro
gli uomini; questi ultimi sono legati principalmente a prati
che rituali infrante a causa di comportamenti sessuali (lSam
3,14; 2Sam 3,8). In Ez 18,30, per esempio, l’invito alla con
versione mira a liberare Israele dalle ribellioni che sono una
vera «trappola di male» (miksól ‘àwdn), ribellioni che nei
versetti precedenti sono descritte in riferimento alla condotta
dalla quale bisogna tenersi alla larga: l’empio fa «pasti sacri
sulle alture, profana la moglie del prossimo, opprime il pove
ro e il misero, commette rapina, non restituisce il pegno, vol
ge gli occhi agli idoli, commette abominazioni, presta a inte
resse e vuole la percentuale, di certo non vivrà; ha commesso
tutte queste abominazioni: deve morire; il suo sangue ricade
su di lui» (Ez 18,11-13).
Il terzo nome con cui è chiamato il peccato è bàtta ’, termi
ne che più degli altri, anche in ragione della maggiore generi
cità a cui rinvia, è la cifra con cui è indicato il peccato nella
Bibbia (595 sono le sue occorrenze). Etimologicamente sug
gerisce l’idea del mancare/fallire il bersaglio; in senso traslato
rinvia all’incompletezza nel raggiungimento dell’obiettivo
morale e religioso. Chi commette bàtta’ non segue la traietto
ria giusta, devia, si allontana dal target: se i frombolieri be-
niaminiti erano abili a colpire con un sasso un capello senza
sbagliare (G dc 20,16), il peccatore il capello neppure lo
sfiora.
Nel salmo si chiede che questi tre peccati siano, rispettiva
mente, cancellati (mhh), lavati (kbs) e mondati (thr). Il primo
verbo si lega al mondo giudiziario e commerciale (Es 32,32-
33; Nm 5,23): cancellare una scrittura, un documento (Es
17,14; Dt 9,14). Il concetto di peccato è assimilato al debito
contratto di cui esiste una copia che lo testimonia. L’ambien
te dei lavandai è, invece, il contesto di kbs: si lavano le vesti e
gli oggetti così come si mondano i peccati; il passaggio alla
sfera sacra nasce con quella sensibilità propria della tradizio
ne sacerdotale che attraverso queste pratiche ricerca la purità
rituale e la santità che consente di avvicinarsi alla sfera del di
vino (Es 19,10.14; Lv 6,20-21; 11,25.28.40). Il terzo verbo
(thr) evoca l’idea dello splendore (vicina è la radice araba e
aramaica zhr. brillare). Il peccato offusca, opacizza e per tale
ragione la realtà o la situazione che ha perso la sua luminosità
(il parto: Lv 12,7; la lebbra: Lv 13; 14; 22,4; i liquidi sessuali:
Lv 15; 22,4; Dt 23,11; il contatto con i cadaveri: Lv 21,1-4;
Nm 6,6-9) vanno riportate al naturale splendore. L’orante in
voca, pertanto, il pieno perdono divino richiamando l’ampio
ventaglio della propria situazione di peccato e facendo appel
lo all’amore misericordioso di Dio (il verbo hànan significa
avere pietà, avere misericordia, fare grazia a qualcuno), la sua
hesed cioè la sua fedeltà amorosa.18 Questo sostantivo ritorna
spesso nei salmi (per esempio, nel Sai 136) e si lega a «visce
re» (rahàmtm): le viscere materne di Dio devono commuo
versi al punto da perdonare il grande peccato commesso (Is
49,15; Sai 103,13).
5-8. La confessione del peccato. Dopo la richiesta di perdo
no, il primo atto del penitente è quello di ri-conoscere il pro
prio peccato. Prendere atto della propria condizione senza
nasconderla esprime l’atteggiamento di chi si dispone alla ri
conciliazione (Sai 32,5; 38,19). Al contrario, chi occulta la
colpa, non solo non possiede consapevolezza psicologica di
sé ma ha un’idea parziale anche di Dio che è percepito con
timore. Nel v. 5 non solo non è nascosto ma si dice, addirittu
ra, che il p é sa ' è quasi ossessivamente presente nella vita
dell’orante. Il peccato commesso contro gli uomini (secondo
18 Nel Salterio hesed comporta tenerezza, bontà, grazia che Dio riserva all’orante (cfr.
Sai 33,22; 86,13; 89,25; 117,2; 119,41).
il titolo del salmo sarebbe il peccato di adulterio) è, in ultima
istanza, una colpa contro Dio (v. 6); per questo Davide dopo
l’omicidio di Uria e l’adulterio con la moglie dice: «H o pec
cato contro Dio» (2Sam 12,13). La giustizia di Dio va intesa
come innocenza: il misfatto ha leso la parte innocente del
rapporto a cui ora si chiede il perdono, pur sapendo che tale
partner potrebbe punire l’offesa emettendo una sentenza di
condanna (Ez 28,22; Sir 36,4).
Il v. 7 reitera la professione da parte dell’orante del pro
prio stato di peccato. Egli è radicalmente sommerso da
questa realtà cattiva sin dal concepimento; tale convinzione
si radica nella Bibbia, in cui si dichiara la tragica condizionè
umana a partire dal racconto di Gen 3: l’uomo davanti a
Dio non può comparire perché essenzialmente ingiusto (Sai
143,2) perché sin dalla giovinezza il suo cuore è incline al
male (Gen 8,21). Il raro verbo yhm esprime lo stato di calo
re delle bestie come in Gen 30,38.41; si potrebbe pensare
che tale istinto sia legato al momento dell’accoppiamento,
atto in sé peccaminoso che ferisce l’inizio della nuova vita.
Lungo la storia dell’interpretazione, infatti, questo versetto
è stato interpretato come prova dell’impurità dell’unione
sessuale anche nel matrimonio. A quanto pare, il testo non
intende dire ciò ma intensifica la prospettiva del penitente
che avverte un’arcaica e connaturata propensione al pec
cato.
La sincerità fernet) manifestata dall’orante è motivo per
operare una sostituzione: se è vero che alberga nel cuore
umano l’inclinazione al male, è anche vero che Dio può do
nare la sapienza che orienta una nuova esistenza (v. 8). L’in
segnamento della sapienza comporta non una sostituzione
passiva (un semplice «trapianto» di cuore) ma una dimensio
ne dinamica perché essa è legata alla vita, attraversandone le
fasi. Dio viene presentato come un maestro esperto che edu
ca il discepolo disposto all’ammaestramento, così come si
legge in Is 54,13: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Si
gnore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli».
9-11. Invocazione di purificazione. C’è un richiamo diretto
tra questi versetti e i w. 3-4 (ricorrono gli stessi verbi). L’isso
po è un parente dell’origano, una pianta aromatica, cono
sciuta per le proprietà sterilizzanti; fungeva da aspersorio nei
casi di lebbra (Lv 14,4.6) e nei sacrifici espiatori (Nm
19.6.18) ; lo si ritrova anche in riferimento all’alleanza del Si
nai (Es 24,8). Il valore dell’issopo e la sua funzione propizia-
trice si attesta anche nel rito dell’agnello pasquale in cui si
aspergono gli architravi degli Ebrei con il sangue (Es 12,22).
L’altro elemento che richiama la catarsi è la neve, il cui ri
mando più diretto è in Is 1,18: «Su, venite e discutiamo - di
ce il Signore - anche se i vostri peccati fossero come scarlat
to, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come
porpora, diventeranno come lana». Il senso del v. 9 è chiaro:
dalla opacità e dalla sporcizia del peccato si viene depurati
divenendo candidi come la neve (elemento raro nella terra
d’Israele e per questo ancora più bello da guardare: cfr. Sir
43.18) .
Il collegamento classico peccato-castigo spiega lo stato di
benessere descritto nel v. 10: se il peccato provoca afflizione
anche fisica, quando si è perdonati è logico sperimentare la
gioia e la salute di tutta la persona. Le ossa indicano la parte
più interna della struttura fisica (Gb 7,15) che partecipa del
rigoglio pieno della vita che rifiorisce (si usa il verbo «senti
re» per indicare la percezione del nuovo stato d’animo), ana
logamente a quanto si legge in Is 66,14: «Vedrete e il vostro
cuore gioirà, le vostre ossa prenderanno vigore come erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi e la sua
ira ai suoi nemici».
Se il peccato rende l’uomo uno scheletro, il perdono ne
rimpolpa le carni (cfr. Ez 37). Per questo si reitera la richiesta
di misericordia che pervade questa prima parte del salmo,
domandando a Dio, dopo avere esibito le proprie mancanze,
di non considerarle più (v. 11).
12-21. Inizia la terza parte del rìb, cioè la domanda di un
nuovo rapporto con Dio.
12-14. Cuore e spirito. L’imperativo iniziale segna la svolta
del salmo. Il verbo b a ra’ («creare») appartiene solo a Dio
(Gen 1,1) perché egli è l’unico a porre in essere le cose dal
nulla (Sai 104,30; 148,5). La ri-creazione dell’uomo nuovo
coinvolge il cuore (lèb), cioè il suo centro intellettivo-volitivo
ma anche il suo soffio {ruoli) vitale (Gen 2,7). Il cuore e lo
spirito richiamano la nuova alleanza di Ger 31,33 in cui Dio
stesso stabilirà un patto nuovo non su tavole di pietra ma
nell’intimo dell’animo umano. Insieme al cuore puro viene
chiesto uno spirito che sia saldo (nakón), cioè fermo, forte:
non più in balia dell’inclinazione al male (quasi uno spirito
da «invertebrato»), ma costante e robusto. Accanto a questa
caratterizzazione nel v. 14 se ne trova un’altra: spirito genero
so {nedibàh), cioè disponibile, obbediente. Gli imperativi
«rinnova» e «sostienimi» esprimono l’idea che le qualità di
tale spirito, la nuova architettura, la nuova struttura portante
del penitente, si esplicitano in un percorso che porta al pieno
rinnovamento: come per l’insegnamento della sapienza del v.
8, è l’inizio della nuova condizione.
Nel v. 13 c’è anche un altro spirito, quello di Dio. Viene
definito «santo» (qàdds) perché solo Dio è il Santo in assolu
to (Is 6,3) mentre l’uomo lo è solo se conforma la sua vita alla
santità divina separandosi dalle impurità (Es 19,6; Is 62,12;
63,18; Ger 2,3). Non essere ammessi alla presenza di Dio
equivale ad essere rigettati da lui, non ascoltati e, quindi, non
reinseriti nel progetto d’amore. Quando Yhwh si sottrae, si
decreta la rottura di un rapporto di fiducia (come con Saul in
lSam 28,26) e di alleanza (come per il regno d’Israele e di
Giuda in 2Re 17,20 e 24,20). La presenza (il volto) di Dio e il
suo spirito santo sono, perciò, immagini della medesima per
sona divina che in maniera performativa si volge benevol
mente verso il penitente.
15-19. La promessa di un impegno. Come spesso capita
nelle suppliche, l’orante propone di assumersi un impegno
che attesti le proprie intenzioni: «Il ringraziamento per la li
berazione ottenuta si trasforma in canto catechetico e missio
nario, il peccatore diventa un predicatore, il suo dramma di
venta esemplare, la sapienza acquistata dopo il perdono (v. 8)
viene comunicata come strumento efficace per combattere la
follia del peccato».19
L’alleluia (v. 17) rivolto a Dio è la migliore offerta che gli si
possa fare; vale più degli olocausti e dei sacrifici rituali (Sai
22,23). Tutto è nuovo nella vita di chi ha sperimentato il per
dono: cuore, spirito, ossa, bocca, labbra, lingua.
L’espressione del v. 16 «liberami dal sangue» (in ebraico il
sostantivo è al plurale: «sangui») può spiegarsi collegandola
all’omicidio di Uria da parte di Davide (2Sam 12,9.13) oppu
re può rinviare a un non meglio precisato delitto con spargi
mento di sangue (Ger 26,15): sarebbe, perciò, l’ultima richie
sta per essere affrancato definitivamente dalla colpa grave di
cui l’orante si è macchiato.
Nei w. 18-19 si formula il proposito di non fermarsi più a
un culto esteriore: questo è, in fondo, il capo d’imputazione
espresso nell’intero Sai 50. Il vero olocausto è il cuore del fe
dele (Is 1,11-14; Os 6,6; Am 5,21-27; Ger 6,20). Il rìb può
concludersi perché c’è stata la definitiva dichiarazione di col
pevolezza dalla parte che ha offeso. La parte lesa, ormai sod
disfatta, concede il perdono.
20-21. La finale postesilica. Gli ultimi due versetti sono
un’aggiunta che risale all’esilio o all’immediato postesilio.
Come spesso accade nei salmi, la comunità avverte il bisogno
di attualizzare il contenuto del poema rileggendolo alla luce
2La mia voce verso Dio: io grido aiuto! La mia voce verso Dio,
perché mi ascolti.
3Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, nella notte la
mia mano è tesa e non si
stanca; l'anima mia non si lascia acquietare.
4Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito.
5Tu trattieni dal sonno i miei occhi, sono turbato e incapace di
parlare.
6Rifletto sui giorni passati, sugli anni lontani.
7Un canto nella notte mi ritorna nel cuore: medito e il mio spiri
to si va interrogando.
8Forse il Signore ci respingerà per sempre, non sarà mai più be
nevolo con noi?
9È forse finito per sempre il suo amore, è cessata la sua promes
sa per sempre?
10Può Dio aver dimenticato la pietà, aver chiuso nell'ira la sua
misericordia?
n E ho detto: «Q uesto è il mio tormento: è mutata la destra
dell'Altissimo».
22 In questo senso va letta anche la storia tra Rut e Booz in cui quest’ultimo - in quan
to parente prossimo di Maclon, marito ormai deceduto di Rut - riscatta il campo e con
esso la stessa Rut da colui al quale precedentemente appartenevano (Rut 3-4).
scena è terrificante: il Sinai in fuoco (un vulcano in piena
eruzione), il suono sempre più assordante della tromba e la
voce tuonante di Dio che parla a Mosè, costituiscono un rea
le pericolo per la vita del popolo, al punto che lo stesso
Yhwh scongiura di tenersi a debita distanza. In Sai 77,18 si
aggiunge la menzione dell’acqua (una sorta di violento nubi
fragio) che ricorre in altre manifestazioni teofaniche (Sai
18.13- 14; 68,10).
Del passaggio del mar Rosso il salmista conserva la memo
ria mitologica della lotta con le acque primordiali: il termine
del v. 17 tehóm («oceano-abisso») è molto simile a Tiamat,
una divinità mesopotamica - dell’opera chiamata Enuma elis
- contro la quale lotta Marduk, il Dio creatore, affermando
la propria superiorità e autorità. Il rimando alle acque rivela,
oltre a questa dimensione mitica legata al Dio cosmico (Sai
74.14- 15; 107,23.26; Is 43,2-3), anche un significato storico
in rapporto ai nemici d ’Israele che Dio combatte e vince (Sai
144,7; Is 17,13; Ger 46,7-8; Ez 32,2.14).
Eppure quest’azione potente di Dio sembra non lasciare
tracce per coloro che sono incapaci di una lettura di fede:
forse l’orante allude alla poca fiducia del popolo verso Dio
nonostante i suoi interventi (Es 17; Nm 20) oppure, più ge
nerale, professa la superiorità del Deus absconditus, sempre
oltre l’umana comprensione (Qo 3,10-15).
L’ultimo versetto del componimento (v. 21) continua l’im
magine della via dei w. 14 e 20, presentando Dio come il
buon pastore (Sai 23,1) che guida, mediante Mosè e Aronne,
l’Israele-gregge. Possiamo concludere dicendo che il timore
del salmista di rimanere senza la solida guida di Dio è «esor
cizzato» e superato ancorandosi ai capisaldi della fede dei
padri. Perciò, alle domande dei vv. 8-10 sul mutamento
dell’amore divino, egli oppone la certezza del suo comprova
to amore pastorale.
2.4. Sai 92: il canto del giusto
24 L o r e n z in , I Salm i , 363.
La bontà del rendimento di grazie rivolto a Dio nel canto
(qui chiamato Yhwh e ‘eliyón, «Altissimo») non ha sosta (v.
3): dalla mattina alla sera fino a percorrere l’intera nottata,
secondo un merismo consueto che indica gli estremi del gior
no per includere l’intero scorrere del tempo (Sai 1,2; 22,3;
32,4). L’amore misericordioso (hesed) e la fedeltà ( ’émunàh)
sono gli attributi divini che vengono lodati: termini che ca
ratterizzano l’agire divino al punto da venire personificate
nei Sai 85 e 89.
Non è facile capire quali siano gli strumenti musicali men
zionati, anche perché del primo l’ebraico riporta la parola
«dieci» che è da leggersi come uno strumento con più corde
che veniva suonato come un’arpa o qualcosa di simile. Sicu
ramente l’immaginario del Salterio ricorre a tali strumenti
per descrivere l’anima stessa della lode, in cui il canto e la
musica si accordano per esprimere la gioia dello spirito
dell’orante (lC r 16,4-6 e 2Cr 34,12).
5-14. Corpo dell’inno. La ripetizione della particella k i
(«perché»: w. 5 e 10) segnala la divisione in due strofe del
corpo laudativo (w. 5-9; 10-14).
5-9. Il Signore è più forte dei malvagi. I primi due versetti
(5-6) si concentrano su Yhwh. Egli è motivo di gioia per l’o
rante a causa delle sue meraviglie e dell’opera delle sue mani,
secondo uno stereotipo del suo agire come Creatore (Sai 8,7;
143,5). La sequenza dei sostantivi prodigi-opere/opere-pen-
sieri pone al centro la visibilità dell’intervento divino di cui
l’uomo fa esperienza: questo amore è un dato di fatto, non è
soltanto frutto di una proclamazione vaga e, perciò, gratuita.
L’insistenza su questo dato teologico sembra trovare una ra
gione ben precisa, perché nei w. 7-8 l’esperienza del salmista
registra un’anomalia nel piano superiore che egli intrawede.
La sua esperienza, infatti, non è universale, nel senso che non
è esperita da tutti i suoi simili; anzi: lo stupido non la cono
sce e lo stolto non la comprende. Il primo {’is ba‘ar\ cfr. Ger
10,8) ma, soprattutto, il secondo (testi) appartengono a quel
la categoria di soggetti privi del necessario comprendonio e
che, proprio per questo, necessitano dell’istruzione (Pr 3,32-
35). Ma possiamo intendere l’accostamento di questi soggetti
accentuando la loro dimensione morale: ’is ba ‘ar in Ez 21,36
è l’uomo violento, mentre kesil in Pr 18,2.6 è colui che pro
voca imprudentemente, suscita litigi; per cui non solo non
capiscono ma, ostinati, non vogliono intendere.
Infatti, il lungo v. 8 (si compone di tre stichi) menziona
esplicitamente il malvagio (r a s a ') e i malfattori in genere,
gente cattiva che non può conoscere e apprezzare le opere
meravigliose di Dio o, per dirla con il libro della Sapienza,
tentano Dio, lo mettono alla prova, sragionano su di lui e
non hanno rette intenzioni: per tali ragioni restano esclusi
dalla sua presenza e dall’intimità del suo progetto (Sap 1,1-
4). Il giudizio sulla loro sorte è netto: come l’erba ha vita bre
ve (è questa in fondo la condizione di ogni mortale secondo
Sai 103,15-16), così il rigoglio dei malvagi è solo un fenome
no momentaneo. Alla brevità della loro vita su questa terra
corrisponde, in aggiunta, una rovina eterna.
I Sai 37 e 73 sono accomunati con questo salmo dalla te
matica della retribuzione, in cui fa problema il rigoglio del
malvagio che, secondo la teoria classica della retribuzione,
dovrebbe soccombere e patire malattia, miseria e morte. Nel
Sai 92 questa questione, che rischia di complicarsi come nella
vicenda di Giobbe e Qoelet, è risolta con una professione di
fede: «Tu sei l’eccelso!» (v. 9). La superiorità di Yhwh non
teme la momentanea aporia del suo progetto perché egli,
dall’alto della sua posizione, tutto domina. Egli è màróm, so
stantivo che ha connotazioni sia storiche che mitologiche: il
più alto di tutti gli altri dèi, l’irraggiungibile, l’imbattibile
(Gb 31,2; Is 33,16; Mi 6,6). Il testo di Is 57,15 esprime a pie
no il senso del v. 9 del nostro salmo: «Così parla l’Alto e l’Ec
celso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: in un luo
go eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi
e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il
cuore degli oppressi».
10-14. Il vigore del giusto. Dopo le dichiarazioni del v. 8, si
reitera la ferma convinzione che i malvagi, qui chiamati per
due volte «nemici» a conferma del profilo negativo che sin
qui si è andato tracciando, saranno eliminati e dispersi (v.
10). Continuando l’analogia con l’erba del v. 8 si dice che essi
saranno separati, sparpagliati, dispersi, similmente alla pula
di Sai 2,4.
L’immagine del bufalo (v. 11) è particolarmente evocativa.
L’orante, che recupera le proprie convinzioni di fede davanti
al possibile smacco rappresentato dai malvagi, è presentato
come un bufalo nel pieno delle propria potenza muscolare,
animale indomito che non si piega ad essere utilizzato in
agricoltura (Gb 39,9-12) e la cui rabbia gli fa avere la meglio
sui nemici (Nm 23,22; 24,8; Dt 33,17; Sai 22,22; Is 34,7).
Possiamo dire che il simbolo del bufalo veicola universal
mente l’idea di forza e di potenza selvaggia. Nel Vicino
Oriente Antico venne adorato nelle sembianze di un animale
sacro, il toro lunare, associato alla grande Madre e, in segui
to, a Mitra. Grandi bovini (uri) sono dipinti sulla porta di
Istar: le corna dell’animale servivano ad allontanare il male.
Non è un caso che il termine ebraico «forza», utilizzato dal
salmista, sia qeren, che significa «corno» (cfr. Sai 75,5-6;
89,18), secondo un comune immaginario attestato anche nel
la lingua egizia che include tale segno (insieme al braccio e al
piede) tra quelli che compongono il vocabolo «forza» {‘ab).
L’unzione («mi hai cosparso di olio splendente», v. 11) to
nifica il muscolo, lo rende più splendente e pronto per la bat
taglia. Dalla descrizione di questa forza della natura si passa
al contesto tutto umano della sfida tra nemici (v. 12): lo
sguardo lanciato contro il proprio avversario esprime corag
gio e sprezzante risentimento. Le due immagini (gli occhi e
l’olio) compaiono anche in Sai 23,5 in cui l’orante può tran
quillamente sedere a mensa, ormai al sicuro, sotto lo sguardo
dei propri avversari resi inoffensivi. Udire la sventura del ne
mico significa prendere atto della sciagura che li ha colpiti
(Ez 7,5.26) e di quel ristabilimento della giustizia che è stato
annunciato nei versetti precedenti (anche se non si specifica
no le modalità di tale ribaltamento di fronti).
Il secondo simbolo che domina il Sai 92 è la palma (w. 13-
14). Con questa immagine si apre il Salterio (1,3): il giusto
Csàddiq) è presentato come una pianta sempre fruttifera che
non secca mai. Nel Sai 92 l’accentuazione è non tanto sui
frutti quanto sulla rigogliosità (fiori), coerentemente con l’al
tra immagine, quella del bufalo. L’accostamento con l’albero
di cedro che proviene dal Libano conferma l’idea della po
tenza che caratterizza il giusto (Ez 31,3), il quale è fisso, ben
piantato come un albero maestro ricavato dal tronco di que
sta pianta (Ez 27,5). La particolarità di questi due alberi è
data dal luogo in cui sono interrati perché essi abbelliscono
l’atrio del tempio. Il messaggio sembra essere il seguente: so
lo se l’orante resta nello spazio della fede può godere della
linfa che dona il Signore e ricevere stabilità.
15-16. Rinnovato invito al riconoscimento della rettitudi
ne di Dio. Questi due versetti chiudono il compimento che,
secondo il genere letterario dell’inno, dovrebbero servire per
reiterare l’invito alla lode. Qui tale invito è un po’ sfumato,
anche se presente. Si completa il ciclo vegetativo iniziato con
la fioritura (w. 13-14) perché si menzionano i frutti donati
nella vecchiaia (cioè anche se le piante non sono più nel pie
no ciclo produttivo), mentre si sottolinea nuovamente il vigo
re mai appassito della palma e del cedro (v. 15). L’invito alla
lode, anche se non è consegnato con la solita forma verbale
(coortativo), è espresso nell’infinito del verbo «annunciare»
[lehaggìd) che crea un’inclusione con il v. 3, che si apre con la
medesima forma verbale. Alla fine il salmista scopre le sue
carte: non è da attribuire alla responsabilità divina la sventu
ra del giusto e il favore di cui gode, invece, il malvagio; il Si
gnore è retto e lo dimostra fortificando il giusto, rinverden
dolo nella fede, inserendolo in un rapporto vitale con lui (gli
alberi piantati nel tempio), liberandolo dalle sabbie mobili
dell’incredulità perché Yhwh è roccia (2Sam 22,2; Sai 18,3;
31,4; 62,3.7; 144).
27 Le antiche versioni hanno il suffisso di terza persona singolare riferito alla saggezza
(così anche la traduzione CEI del 2008). Il testo ebraico ha, invece, il suffisso al plurale ri
ferito ai comandamenti.
ma portante del salmo, indugiando sulla constatazione che la
lode rivolta al Signore non conosce interruzione, perché si
trasmetterà di generazione in generazione, senza fine: eterna
è la sua giustizia (v. 3), la sua alleanza (v. 5.9), le sue opere (v.
8) e, quindi, anche l’inno di lode riconoscente per tutti questi
suoi doni. Con le medesime parole il Sai 145, simile anche
perché segue l’acrostico numerico, chiude la lode a Dio de
scritto come re potente (v. 21).
7Dio, spezza i loro denti nella loro bocca; le zanne da leoni fran
tuma, Signore!
8Si disperdano come le acque, scorrano via con esse, come erba
calpestata si inaridiscano.
9Siano come lumaca36 che si scioglie strisciando, come aborto di
donna che non ha mai visto il sole.
10Prima che le vostre pentole sentano il calore dei rovi, crudi o
cotti, il turbine li37 porti via.
11Si rallegrerà il giusto nel vedere la vendetta, laverà i suoi piedi
nel sangue degli empi.
12E gli uomini diranno: «Certo, c'è una ricompensa per il giu
sto! Certo, c'è Dio che fa giustizia sulla terra!».
Dn 10,15). La traduzione, che evidenzia rossimoro (parlare della giustizia senza parlar
ne), sarebbe: «Davvero voi parlate in silenzio della giustizia?». Segnaliamo, inoltre, che
*élem è stato tradotto anche «montoni» usato come termine onorifico di «potenti, nobili»
(Es 15,11; Ger 4,22). Per uno status quaestionis sulle varie ipotesi di traduzione del Sai 58
rimando a D. SCAIOLA, «I Salmi imprecatori/il linguaggio violento dei Salmi. Preghiera e
violenza», in Ricerche Storico-Bibliche 1-2(2008), 61-79.
35 Alla lettera: «operate perfino iniquità nel cuore».
36 I Settanta, la Vulgata e la versione siriaca rendono questo difficile sostantivo con
«cera».
37 Alla lettera: «lo». Alonso Schòkel - Camiti offrono con una chiara premessa («que
sto è un versetto impossibile; a titolo di congettura non scapestrata proponiamo timida
mente») la seguente traduzione: «Via li mulini un turbine improvviso, come rovi, come
fiere, come un rogo» (I Salmi. I, 58). Per Ravasi, emendando il testo si arriva alla seguente
traduzione: «Airimprowiso li strappino via rovi spinosi o belva o incendio» (Il Libro dei
Salmi. II, 166).
1. La stessa soprascritta si trova anche nei Sai 57 e 59. Un
segnale che per il redattore vanno letti insieme. Anche se ap
partengono a generi diversi, hanno in comune il tema della
persecuzione da parte dei cattivi e la richiesta di soccorso
dell’orante: il Sai 58 risponde al grido d ’aiuto lanciato nel Sai
57, mentre il Sai 59 è un lamento di un innocente perseguita
to. In comune i Sai 57 e 58 hanno: la metafora dei nemici-le
oni (58,7 e 57,5 anche se in questo secondo salmo si usa un
termine diverso), le immagini dei denti (57,5 e 58,7) e dei
piedi dell’orante (57,7; 58,11). Con il Sai 59, il 58 condivide
la gioia per l’annientamento dei nemici (58,11 e 59,11) e l’af
fermazione che gli uomini riconosceranno il dominio di Dio
(58,12; 59,14). La comune soprascritta dei Sai 57-59 riman
da, nella tradizione rabbinica, alla persecuzione di Saul con
tro Davide a motivo del «non distruggere», anche se il conte
sto più ampio in cui si colloca il Sai 58 è costituito è dato dalla
serie dei Sai 56-60: «Davide, alla cui storia i Sai 56-57.59-60
si riferiscono secondo la contestualizzazione fornita dai titoli,
è presentato, sullo sfondo del Primo libro di Samuele, come
l’innocente che è perseguitato a torto; il Sai 58, al centro del
gruppo, può essere interpretato come una denuncia profetica
e come riflessione di carattere sapienziale che apre come una
finestra sui sentimenti che Davide ha vissuto in quella
circostanza».38 Nel Sai 58 Davide si appella a Dio rinuncian
do a farsi giustizia con le sue mani (lSam 24) senza però ta
cere il male ricevuto.
2-6. Invettiva contro i potenti oppressori. Il salmista rievoca
le denunce profetiche contro i capi che opprimono il popolo
con la propria perversità (Is 1,23; 5,23; 10,1-2; Ger 5,27-30;
Ez 22,27; Am 5,7; 6,12; Mi 3,11; 7,3). Nello specifico l’invet
tiva ha la forma di un giudizio contro i giudici e i potenti in
generale, i quali si sono macchiati della colpa di non avere
59 Es 15,7a; Is 22,19b; Ger 24,6; 42,10; 45,4; 50,15; Ez 13,14a; 38,20; Mi 5,10b; Sai
28,5.
pe (chiara rappresentazione della morte in 2Sam 14,14), e co
me erba secca ormai totalmente privata di qualsiasi linfa vita
le. Il Salterio si apre proprio offrendo questa profonda con
vinzione sulla giustizia divina, secondo la quale l’erba che in
giallisce e marcisce è metafora della distruzione dei cattivi:
«Non così gli empi; essi al contrario [dei giusti] saranno co
me pula che il vento disperde» (Sai 1,5; cfr. anche 37,2; 90,5-
6; 92,8; 103,15; 129,6). La quarta immagine veicola l’idea
dello sfinimento. La lumaca che si scioglie strisciando (di cui
si parla solo qui in tutta la Bibbia), svela la convinzione se
condo la quale tale animale, lasciando dietro di sé la scia,
progressivamente giunge a dissolversi totalmente. Oppure
possiamo pensare a una seconda interpretazione: non è tanto
la lumaca a consumarsi ma la bava che si lascia dietro. Resta
l’idea di fondo: l’empio ridotto all’impotenza, alla molle e vi
scida nudità.
La quinta immagine porta con sé, insieme all’intima soffe
renza che ogni aborto evoca, l’idea dell’oblìo. La «non vita»
del feto abortito, viene desiderata da Giobbe quando si ribel
la a causa della sua terribile malattia (Gb 3,11.16) e da Gere
mia che soffre a motivo della sua missione profetica (Ger
20,17-18). Anche il saggio Qoelet menziona l’aborto come si
tuazione preferibile a quella di chi prende atto che non può
godere dei suoi beni: «Anche se quest’uomo generasse cento
figli, vivesse molti anni e grande fosse il numero dei giorni
della sua vita, ma se non trova soddisfazione nei beni che
possiede e per di più non ha nemmeno una tomba, io dico
che migliore di lui è un aborto. Infatti questi viene dal vuoto
e se ne va nella tenebra, e l’oscurità copre il suo nome. Per
quanto non abbia visto né conosciuto il sole, tuttavia la sua
sorte resta sempre migliore di quella dell’altro. E se quello vi
vesse anche due volte mille anni, senza però poter godere i
suoi beni, non va forse a finire nello stesso luogo dell’abor
to?» (Qo 6,3-6). Il saggio, estremizzando la sua riflessione,
dice che la situazione del feto è da preferire perché gli è stata
risparmiata la sofferenza della vita, sofferenza che è toccata,
invece, all’uomo ricco, il quale dovrà comunque andare in
contro alla morte. Possiamo dire, ritornando al Sai 58, che
l’orante stia augurando agli empi quanto di più terribile pos
sa capitare a un uomo: non avere un’opportunità di vita.
Ho già segnalato la difficoltà di interpretare il v. 10. Se
guendo la traduzione riportata, si può dire che «il salmista
sembra avere in mente l’immagine del fuoco preparato con
rami spinosi da nomadi o viandanti per cuocere la carne; nel
caso di un attacco improvviso di nemici o ladroni, devono
abbandonare tutto il cibo, crudo o cotto, e fuggire; così Dio
cacci quanto prima i nemici dalla terra».40 Il verbo s V (o s V:
«portare via»), utilizzato quando si parla dei fenomeni mete-
reologici (Gb 27,21), appartiene al campo semantico delle te
ofanie e ricorre anche nelle metafore della guerra santa. Nel
nostro testo indica il «procedere tempestoso di Dio»41 con
tro i colpevoli (Ger 30,23). L’idea di fondo del versetto è
quella dell’annientamento improvviso e radicale.
In conclusione nei w. 7-10 il salmista chiede che, a qual
siasi velocità (lentamente sino a sfinire o improvvisamente
quasi senza accorgersi di nulla) e con qualunque modalità
(attraverso un atto violento o semplicemente lasciando pro
sciugare), l’intervento divino cancelli per sempre gli empi
dalla faccia della terra.
Nel v. 11 abbiamo l’immagine più macabra del salmo. La
vendetta del giusto consiste in un pediluvio nel sangue, simil
mente a quanto si legge in Sai 68,24 («Perché tu lavi nel san
gue il tuo piede e la lingua dei tuoi cani riceva la sua parte
dai nemici»). Il termine naqam ha nel Salterio diverse sfuma
ture di significato: vendetta, liberazione, vittoria, rivincita,
salvezza (Sai 18,48; 69,10; 94,1; 149,7). Innegabile è, comun-
40 L o r e n z in , I Salmi, 233.
41 SCAIOLA, «I Salm i im p re c a to ri», 69.
ie, il senso complessivo del versetto del nostro salmo, che
insiste nel provare il gusto di sguazzare nel sangue degli
api. Provando a interpretare questa immagine e rifiutando i
ntativi di affievolirne la crudezza, possiamo specificare che
salmista non si rallegra tanto (o solo) della distruzione del
alvagio ma, in definitiva, del giudizio, legando tale giudizio
la signoria di Dio, così com’è espresso altrove attraverso la
etafora della pigiatura dell’uva che avveniva, appunto, con
)iedi (Sai 60,10; 68,24; 110,6-7; Is 63,1-4).
La gioia della giustizia ritrovata «si tramuta in una contes
ane di fede, venata di soddisfazione sanguigna com’è la poe-
i sociale e politica di tutti i tempi»42 (v. 12). Il senso ultimo
;1 Sai 58 è espresso bene da Sai 64,10-11 («Tutti gli uomini
ranno presi da timore, racconteranno le opere di Dio e
merenderanno ciò che egli ha fatto. Il giusto si rallegrerà
;1 Signore e confiderà in lui, e gioiranno tutti i retti di cuo-
») e 140,13-14 («Io so che il Signore difenderà la causa del
isero, il diritto del povero. Sì, i giusti renderanno grazie al
io nome; gli uomini retti abiteranno alla tua presenza»),
uesta giustizia ha una sorta di carattere epifanico: rivela il
>lto di Dio, smaschera l’arroganza dei cattivi, illumina la fe-
; del credente che si sente rincuorato nelle sue certezze di
de e mostra a tutti gli uomini la potenza del Dio d ’Israele.
In conclusione, notiamo che l’inevitabile imbarazzo che
iscitano le invettive di questo componimento nel momento
cui si tenta una lettura del loro senso teologico, può essere
itigato da una constatazione legata alla qualità etica dell’im-
recazione del giusto; consegnando l’invettiva a Dio egli
>mpie già un primo atto di sublimazione, perché l’impreca-
one ingiusta non raggiunge il suo scopo ricadendo su chi
ìa pronunciata (Sai 109,16-19); questa dimensione teologi-
i, per quanto minimale, differenzia sensibilmente il tono del
Sal 58 dalle pratiche esecratorie del Vicino Oriente Antico
(per le quali rimando alle riflessioni del paragrafo successi
vo). Inoltre, legata alla dimensione epifanica sopra richiama
ta, si può aggiungere con D. Scaiola che «questo tipo di pre
ghiera intende reagire di fronte al male e all’ingiustizia, di cui
smaschera le dinamiche, le connivenze e gli attori, che vengo
no individuati all’interno della storia e non proiettati in un
mondo mitico; colui che prega questi salmi vuole denunciare
il male come contrario al Dio biblico che ha creato il mondo
sette volte buono e bello, rendendosi sensibile alla sofferenza
ingiusta che colpisce soprattutto le persone più deboli».43
3. Linee teologiche
50 L’esegesi patristica legge nelle espressioni di questi salmi una profezia degli avveni
menti della passione di Gesù Cristo e della partecipazione della Chiesa alle sue sofferen
ze, operando un’esegesi tipologica che vede nei personaggi e negli avvenimenti dell’Anti
co Testamento una prefigurazione di quanto narrato nel Nuovo: cfr. R. SPATARO, «E pos
sibile pregare con i Salmi imprecatori? La lezione dei Padri», in Salesianum 71(2009),
453-471.
Bibliografìa di riferimento e di approfondimento
1. Questioni storico-letterarie
1.2. Struttura
Prologo: 1,2-2,7
(«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbrac
cia»: 2,6;
«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le
cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finché essa non lo voglia»: 2,7)
I Parte: 2,8-3,5
(«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per
le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finché essa non lo voglia»: 3,5)
Epilogo: 8,5-14
(«Chi è colei che sale dal deserto?»: 8,5).
6 Alcuni individuano il genere letterario wasf, legato alle descrizioni del corpo della
donna, attestato nel mondo arabo ma i cui antecedenti sarebbero egizi; oppure prenden
do spunto dall’immagine della porta chiusa, il genere di derivazione ellenistica del pa-
raklausithyron, assunto liberamente in 2,8-17; 5,2-8. Infine segnalo che, tra le descrizioni
che rientrano nel procedimento poetico tipico del Cantico, c’è anche il travestimento del
diletto che è presentato a volte come un re (1,4.12), a volte come un pastore (1,7).
b) Màsàl, la forma sapienziale più tipica. Sarebbe il genere
di 8,5-7 (si veda quanto detto sul m àsàl a proposito del libro
dei Proverbi: pp. 36-38). I motivi formali che avallano questa
posizione sono i seguenti:
7 Anche se tra gli autori non c’è accordo unanime sulla metrica di 6b, che per alcuni si
presenta come 3 + 2 , per altri come 3 + 3 e 2 + 2, o, come il testo masoretico presenta, 3
+ 2; mentre c’è accordo circa 7a visto come 3 + 2 + 2.
8 II v. 5a presenta l’allitterazione con la consonante iniziale mem {mi zdt 'dlàh min-
hammidbàr mitvappeqet)\ in 5b troviamo il parallelismo tra sàmmàh hibbelatkà («lì dove ti ha
concepito») e sàmmàh faibbelàh («lì dove ha concepito»); inoltre incontriamo il fenomeno
della rima a causa del suffisso di 2a persona singolare maschile: hibbelatkà ’ìmmekà sàmmàh
hibbelàh yelàdatkà. Nel v. 6 abbiamo i fenomeni dell’allitterazione con k/q e s , nonché
dell’alternanza delle vocali a ed o: simèni kahótàm 'al-libbekà kahótàm 'al-z^ró ‘ekà ki~ ‘azzàh
kammàwet ’ahàbàh qàsàh kis ’ól qin ’àh rtsàfeyhà vispe ’és salhebetyàh. Infine nel v. 7 domi
na il suono della consonante b\ mayim rabbim là ’yùtelù lekabbót ’et-hà ’ahàbàh ùnehàvót lo ’
yisipfùhà ‘im-yitlèn ’is ’et-kól-hón bètó b à ’ahàbàh bóz yàbuzu lo.
9 «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo. Non scorrano
fuori le tue fontane né sulle piazze i tuoi ruscelli. Siano per te soltanto e non per gli estra
nei insieme a te. Sia benedetta la tua sorgente! Possa tu trovare la gioia nella donna della
tua giovinezza, amabile cerbiatta e gazzella deliziosa. I suoi seni ti inebrino in ogni tempo:
sii tu sempre attratto dal suo amore!».
mento di certi ammonimenti sapienziali a favore di una con
cezione più libera dell’amore (e della donna). Per esempio,
se in Pr 5,3 si mette in guardia dalla pericolosa dolcezza delle
labbra della donna straniera, cioè delle sue parole («Vera
mente le labbra della straniera stillano miele e il suo palato è
più molle dell’olio»), in Ct 4,11 tale consiglio è ripreso e ri-
consegnato con una valenza positiva in rapporto all’amata:
«Nettare stillano le tue labbra, o sposa, miele e latte sono sot
to la tua lingua e la fragranza delle tue vesti è come la fra
granza del Libano». Questa dolcezza è in contrasto, inoltre,
con l’amarezza con cui la donna è presentata in Qo 7,26-27,
sebbene anche il disincantato Qoelet riconosca che l’amore
verso la propria donna rientra tra le poche gioie della vita
(Qo 9,9).
Il tratto sapienziale del Cantico si ravvisa, perciò, nella sua
apparente profanità, frutto del suo radicamento in quelle real
tà fondamentali e necessarie per la vita, com’è appunto l’a
more; ed è precisamente questo radicamento nell’essere uma
no che porta con sé un forte rimando al divino.
c) Midrash. Altri autori vedono il Cantico come un midrash
di Gen 1-3, sulla creazione dell’uomo e della donna. Fatte
salve le considerazioni generali a proposito del midrash nel li
bro della Sapienza (cfr. supra, pp. 169-170), anche per il Can
tico resta valida la seguente affermazione: più che un genere
letterario sarebbe meglio considerarlo un procedimento (o un
approccio) letterario d’interpretazione, perché non si rintrac
ciano in esso dei motivi formali caratteristici che possano con
tribuire a determinare e catalogare il genere in modo chiaro e
inequivocabile (vocabolario tipico, espressioni stereotipate,
formule fisse, con figure retoriche specifiche, temi tipici). Se,
comunque, si intende ravvisare un midrash nel Cantico, esso
sarebbe orientato alla redenzione di una storia d’amore anda
ta male, per così dare all’uomo la possibilità di ritornare alle
sue origini, cioè all’ideale progetto voluto da Dio.
d) Poesia erotica. C ’è chi ha ravvisato il genere letterario
della lirica erotica: il Cantico è una trattazione sull’amore e la
donna, che ne è protagonista (nelle tre tipologie della sposa,
della donna libera e della prostituta), esprime la sua sessuali
tà con totale libertà, sprezzante dei freni inibitori imposti dai
maestri di Pr 1-9.10 Nel descrivere la carnalità e la sublimità
dell’amore, l’autore ricorre a un ricco repertorio di immagi
ni. Egli prende a prestito il mondo della natura, coinvolgen
do il cosmo intero in questo risveglio dell’amore simbolizzato
dalla primavera (2,11-12). La rappresentazione coinvolge i
cinque sensi umani facendo emergere la sensualità degli af
fetti: l’odorato («L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli
aromi»: 2,10; «Il profumo delle tue vesti è come profumo del
Libano»: 2,11), la vista («Come sei bella, amica mia, come sei
bella! Gli occhi tuoi sono come colombe, dietro il tuo velo;
le tue chiome come un gregge di capre»: 4,1), il gusto («Le
tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte
sotto la tua lingua»: 2,11), il tatto («La sua sinistra è sotto il
mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6 e 8,3; «Trovando
ti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi; ti
condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre, mi insegne
resti l’arte dell’amore»: 8,1) e l’udito («Una voce! Il mio di
letto!»: 2,8; «Il tempo del canto è tornato»: 2,12).
Un aspetto particolare del genere «poesia erotica » è quel
lo della ierogamia così come è stata descritta all’interno del
culto mesopotamico. Il Cantico sarebbe una specie di libro
liturgico che, sotto le spoglie dell’amore tra lui e lei, celebra
il rito delle nozze divine tra due divinità che presiedono alla
fertilità e fecondità (Istar e Tammuz, Astarte e Adone, Iside e
Osiride, ‘Anat e Ba’al, Salmit e Dòd, cioè tra le divinità che
presiedono alla fertilità e alla fecondità). Un esempio di que
sta interpretazione, che chiamiamo mitico-cultica, si trova
11 M .-H , POPE, Song ofSongs, A New Translation with Introduction and Commentary,
Anchor Bible 7C, Doubleday, New York 1977.
12 Cfr. E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dellAntico Egitto, Einaudi, Torino 1990,
452-477.
amanti, il ricorso alla metafora, il travestimento dei personag
gi). Questo accostamento permetterebbe anche di precisare
meglio, secondo G. Barbiero, la datazione del Cantico: «La col-
locazione del Cantico nell’epoca tolemaica può rendere conto
della particolare vicinanza con i canti d’amore egiziani; anche
se anteriori di un millennio, è verosimile che essi fossero cono
sciuti nell’ambiente raffinatamente culturale di Alessandria».13
23 Cfr. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, 650. Diversi sono stati i tentativi di spiegazione
del valore da attribuire al ki\ gli autori che propendono per un valore causativo si preoc
cupano di mitigarne il valore e parlano di connessione allentata e di artificio abbastanza
precario.
que, il senso complessivo del versetto del nostro salmo, che
consiste nel provare il gusto di sguazzare nel sangue degli
empi. Provando a interpretare questa immagine e rifiutando i
tentativi di affievolirne la crudezza, possiamo specificare che
il salmista non si rallegra tanto (o solo) della distruzione del
malvagio ma, in definitiva, del giudizio, legando tale giudizio
alla signoria di Dio, così com’è espresso altrove attraverso la
metafora della pigiatura dell’uva che avveniva, appunto, con
i piedi (Sai 60,10; 68,24; 110,6-7; Is 63,1-4).
La gioia della giustizia ritrovata «si tramuta in una confes
sione di fede, venata di soddisfazione sanguigna com’è la poe
sia sociale e politica di tutti i tempi»42 (v. 12). Il senso ultimo
del Sai 58 è espresso bene da Sai 64,10-11 («Tutti gli uomini
saranno presi da timore, racconteranno le opere di Dio e
comprenderanno ciò che egli ha fatto. Il giusto si rallegrerà
nel Signore e confiderà in lui, e gioiranno tutti i retti di cuo
re») e 140,13-14 («Io so che il Signore difenderà la causa del
misero, il diritto del povero. Sì, i giusti renderanno grazie al
tuo nome; gli uomini retti abiteranno alla tua presenza»).
Questa giustizia ha una sorta di carattere epifanico: rivela il
volto di Dio, smaschera l’arroganza dei cattivi, illumina la fe
de del credente che si sente rincuorato nelle sue certezze di
fede e mostra a tutti gli uomini la potenza del Dio d’Israele.
In conclusione, notiamo che l’inevitabile imbarazzo che
suscitano le invettive di questo componimento nel momento
in cui si tenta una lettura del loro senso teologico, può essere
mitigato da una constatazione legata alla qualità etica dell’im
precazione del giusto; consegnando l’invettiva a Dio egli
compie già un primo atto di sublimazione, perché l’impreca
zione ingiusta non raggiunge il suo scopo ricadendo su chi
l’ha pronunciata (Sai 109,16-19); questa dimensione teologi
ca, per quanto minimale, differenzia sensibilmente il tono del
3. Linee teologiche
24 Uaccostamento tra il Cantico e il libro della Genesi è stato ravvisato anche da altri
autorevoli autori, tra i quali ricordiamo D. Lys, per il quale «il Cantico non è nient’altro
che un commento a Gen 2» {Le plus beau chant de la création, 52).
25 Anche GARBINI giunge a una conclusione «teologica» sebbene di ben altra portata;
Fautore segue un'interpretazione mitica di tutto il Cantico e accosta il termine ’ahàbdh
(«amore», che in ebraico è di genere femminile) a una divinità greca che parla e che si
rivela all’uomo {Il Cantico dei Cantici, 269).
26 Cfr. Biblia Hebraica Quinta. Megbillot, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2004,
siderazione che il nome di Yhwh compare l’unica volta qui
all’interno di tutto il libro del Cantico; si tratterebbe, quindi,
della rivelazione del nome divino alla fine del libro, luogo
culminante in cui l’autore svela a quale amore ci si è voluti ri
ferire lungo il Cantico. Proviamo ad esporre almeno quattro
spiegazioni di salhebetyàh.21
36 U. N eri (a cura di), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche,
Città Nuova, Roma, 1987, 84-85.
per abbassare le montagne e innalzare le valli, e uccidere tutti
i serpenti infuocati e gli scorpioni del deserto, e cercava per
loro il luogo adatto per passarvi la notte».57 O, ancora, il ver
setto che recita «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le
gazzelle e per le cerve del campo: non svegliate, non risveglia
te l’amore, finché non lo desideri!» (3,5), è collegato alla per
manenza nel deserto: poiché gli abitanti di Canaan hanno di
strutto il loro paese per renderlo inospitale, il Signore ha deci
so di trattenere il suo popolo nel deserto, sia per concedere il
tempo necessario per la ricostruzione sia perché la Legge pos
sa impregnare il corpo degli israeliti; perciò «Disse Mosè ai fi
gli d’Israele: Io vi scongiuro, o assemblea d’Israele, per il Si
gnore delle schiere e per il potente della casa d ’Israele, che
non osiate salire alla terra dei Cananei finché non siano com
piuti quarant’anni e non sia beneplacito davanti al Signore di
dare nelle vostre mani gli abitanti di quella terra».38
L’influsso dell’ermeneutica allegorica ha portato le versio
ni antiche (greca, siriaca e latina) a leggere il testo nella pro
spettiva della storia amorosa tra Dio e il suo popolo. Accanto
ad armonizzazioni con i passi paralleli, espansioni testuali
con l’intento di spiegare il senso oscuro dell’ebraico, si nota,
per esempio, che se nell’ebraico in 8,5 è la donna che sveglia,
genera e partorisce l’uomo, la versione siriaca muta il genere
dei suffissi facendo così della figura maschile (Dio o Cristo) il
protagonista dell’azione. Da parte sua, in riferimento ai verbi
«svegliare, concepire e partorire» e al sostantivo «madre», la
versione siriaca presenta un suffisso di seconda persona fem
minile singolare e non di seconda maschile singolare, come
invece ha il testo masoretico; ciò può essere attribuito all’in
terpretazione allegorica che tale versione ha fatto del testo,
ermeneutica che ha portato a individuare la donna come
l’oggetto dei verbi in quanto identificato con la fanciulla Isra-
” Ivi, 99-100.
5* Ivi, 115.
eie, mentre il soggetto era maschile perché identificato con
Yhwh. Tale lettura si presterebbe a un’interpretazione mito
logica in quanto vedrebbe la divinità maschile (Tammuz,
Adone, Dód in questo caso) mentre risveglia quella femmini
le (Istar, Astarte, Salmit in questo caso).
Anche in ambito cristiano l’esegesi patristica e spirituale ha
operato la medesima «traslazione» di senso, lasciando alla sto
ria dell’interpretazione interessanti commenti morali e spiri
tuali del Cantico. Ricordiamo, per esempio, il commento di
Origene (che giunge solo fino a 2,15), di Gregorio di Nissa
(anch’esso incompleto perché commenta fino a 6,9) e di Teo-
doreto di Cirro. Menzioniamo anche il commento di Teodoro
di Mopsuestia (IV secolo) che, fedele alla scuola antiochena,
elabora un’esegesi letterale del testo biblico, arrivando alla
conclusione che, poiché non compare mai nel Cantico né il
nome del Signore né di Yhwh, il libro non aveva la forza della
profezia, cioè non era ispirato. La posizione «audace» di Teo
doro fu condannata nel II Concilio di Costantinopoli (553),
che riaffermò l’ispirazione e la canonicità del Cantico.39
Ambrogio, sulla scia delle interpretazioni moralistiche,
non ha un commento esplicito al Cantico dei Cantici, anche
se nelle sue opere si attestano spessissimo dei riferimenti al li
bro (Le1vergini del ò l i, La verginità del 386-387, Leducazio
ne della vergine del 393).40 Sappiamo che il vescovo di Mila
no è il primo a identificare ne L’educazione della vergine la
sposa del Cantico con la Vergine Maria, la quale è vista an
che come «tipo della Chiesa».41 Ma è soprattutto in opere
39 Anche Girolamo testimonia il timore della lettura del Cantico: egli raccomanda alla
giovane Melania di iniziare a leggere i salmi e gli scritti morali dell’Antico Testamento
(Proverbi), per poi continuare con i vangeli e gli scritti apostolici; successivamente si con
sigliano i libri profetici e storici dell’Antico Testamento e, solo alla fine, si permette la let
tura del Cantico {Lettera 108,26).
40 S a n t ’AMBROGIO, Verginità e vedovanza, in F. Gori (a cura di), Biblioteca ambrosia
na 14.2, Città Nuova, Roma 1989.
41 Ivi, 173-174.
come Commento al Sai 118 e Isacco o l'anima che egli cita di
versi passi del Cantico, al punto da permettere a Guglielmo
abate di Saint-Thierry (nel XII secolo) la minuziosa raccolta
di queste citazioni in un unico volume.42
In chiave ecclesiale sono interpretate anche le volpi di Ct
2,15: sono figura di coloro che creano divisioni e seminano
menzogne nella Chiesa, ingannando i cristiani che non sono
ancora saldi nella vera fede. Afferma Teodoreto di Cirro che
«con il termine “volpi” si intendono gli eretici che portano
guerra al popolo nella Chiesa e che tentano furtivamente e
subdolamente di trarre in inganno coloro che non sono anco
ra saldi nella fede. Tramite una parola persuasiva e incalzan
te, e intricate argomentazioni essi ingannano i semplici e dan
neggiano le vigne».43
La «densa» ermeneutica rabbinica e patristica sviscera dal
testo significati profondi che non gli appartengono immedia
tamente, anche se non gli sono del tutto estranei in una logi
ca di senso pieno delle Scritture. Questa lettura del Cantico
ha permesso, comunque, l’ampia fruibilità dell’opera e la sua
larga diffusione.
b) La storia d ’amore tra Yhtvh e Israele. Senza ricorrere
all’allegoria è stata anche operata del Cantico una lettura teo
logica attraverso la tecnica dei parallelismi biblici, rintraccian
do i quali si può cogliere la descrizione del rapporto d’amore
che vede protagonisti Yhwh e il suo popolo. Lo scriba finale è
ricorso a testi biblici più antichi in riferimento alla Legge, ai
profeti, ai salmi, ai Proverbi per esprimere il suo pensiero. Ciò
significa che in ogni frase e in ogni parola del testo è da ravvi
sare un luogo scritturistico a cui l’autore si è ispirato. Non si
42 Citiamo l’opera curata da G. Banterle nella collana delle opere di S. Ambrogio; GU
GLIELMO DI SAINT-THIERRY, Commento ambrosiano al Cantico dei Cantici, Città Nuova,
Roma, 1993.
43 TEODORETO DI CIRRO, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 2010,
103.
voleva, perciò, cantare l’amore umano ma quello tra Dio e
Israele. Tuttavia, dichiarare che il Cantico presenta la storia
d’amore tra Yhwh e Israele sotto «mentite spoglie», se da un
lato lo toglie dall’isolamento biblico a cui l’interpretazione mi
tologica lo ha relegato, dall’altro rischia di svuotare il valore
dell’amore di coppia perché lo rende un pretesto per parlare
di Dio. Detto in altri termini: l’amore umano, concretamente
compreso, nella Bibbia non costituirebbe in sé un valore reale.
È plausibile, pertanto, che il poeta nell’esprimere l’amore divi
no abbia così ben celato quello umano al fondo del suo pen
siero, al punto da sembrare strano, inopportuno o una forzatu
ra il riferimento a tale sentimento?
c) La natura teologica dell’amore umano. Con P. Grelot no
tiamo che a partire dal profeta Osea la teologia profetica ha vi
sto nell’amore di Yhwh per il suo popolo l’archetipo trascen
dente del vero amore umano, proprio perché esso era il sim
bolo di quello divino. Per cui è molto probabile che ci sia stata
un’influenza di tale concezione biblica dell’amore umano nel
Cantico: se da un lato l’autore del Cantico ha voluto demitiz
zare il linguaggio dell’amore umano, dall’altro lo ha caricato di
risonanze nuove proprio in ragione di questa interdipendenza
dei due amori. Per cui il rapporto che lega l’amore umano a
quello divino è di natura tipologica, cioè il primo ravvisa nel
secondo il suo modello soprannaturale.44 Secondo questa pro
spettiva, emerge come siano proprie del senso letterale del
Cantico le sfumature teologiche che esso presenta, senza mu
tuarle dall’esterno con una forzatura del testo e senza operare
dei riduzionismi (sacrificare l’amore umano a quello divino,
ravvisare nel Cantico solo un racconto di un amore umano tra
un uomo e una donna o ridurlo a un racconto di una ieroga-
mia). Il Cantico dei Cantici si offrirebbe, quindi, come testo
sacro in quanto racconta l’amore umano che ha già in sé una
45 N.-J. TkOMP, «Wisdom and thè Canticle. Ct 8,6c-7b: Text, Character, Message and
Import», in M. G il b e r t (ed.), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL 51), University
Press, Leuven 21990, 94.
M a z z in g h i L ., 11 Cantico dei Cantici, San Paolo, Cinisello Balsamo
2012.
MURPHY R.-E., The Song ofSongs, Fortress, Minneapolis 1990.
N eri U. (ed.), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazio
ni ebraiche, Città Nuova, Roma 1987.
RAVASI G ., Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione,
Dehoniane, Bologna 1992.
CO N C LU SIO N E
PRIMA PARTE
LIBRI SAPIENZIALI
QU ESTIO NI INTRODUTTIVE.
«INIZIO DELLA SAPIENZA: ACQUISTA LA SAPIENZA» (Pr 4,7)
1. Paternità salomonica » 9
2. Procedimenti letterari » 14
3. Retribuzione » 16
3.1. Il vocabolario della retribuzione » 18
3.2. Retribuzione collettiva » 19
3.3. Le aporie della teoria davanti alla sofferenza » 20
3.4. La scelta del male e il nuovo valore
della sofferenza » 24
4. Rapporto tra sapienza biblica ed extrabiblica » 25
4.1. Egitto » 26
4.1.1. Il prestito estero » 27
4.1.2. Un comune stock di conoscenze » 28
4.1.3. Inculturazione » 29
4.2. Mesopotamia » 30
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 32
1. Questioni storico-letterarie pag. 33
1.1. Struttura » 34
1.2. Genere letterario » 36
2. Esegesi di Pr 2: «Se accoglierai le mie parole» » 38
2.1. Le istruzioni come elemento strutturante
di Pr 1-9 e il rapporto con gli interludi » 38
2.2. Traduzione e commento » 44
3. Linee teologiche » 54
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 60
Giobbe
1. Questioni storico-letterarie » 63
1.1. Testo e versioni » 63
1.2. Struttura » 65
1.3. Genere letterario » 77
1.3.1. Dibattito giudiziale » 77
1.3.2. Il dramma » 79
1.4. Lambientazione » 80
2. Esegesi di G b 31: l’apologià del giusto » 81
2.1. Genere letterario e contesto prossimo » 81
2.2. Struttura » 83
2.3.Traduzione e commento » 85
3. Linee teologiche » 101
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 106
Qoelet
Siracide
Sapienza
SECONDA PARTE
LIBRI PO ETICI
SALTERIO