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Sebastiano Pinto

I SEGRETI
DELLA SAPIENZA
Introduzione a i Libri sapienziali e poetici

SAN PAOLO
© E D IZ IO N I SA N PA O LO s .r i , 2013
Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)
www.edizionisanpaolo.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.
C orso Regina Margherita, 2 -10153 Torino
ISB N 978-88-215-7877-9
PREMESSA

«DOVE ABITA LA SAPIENZA?»


(Gb 28,20)

Un giorno il saggio disse: «Seguirò la regola d’oro e convertirò


tutti gli uomini. M a... da dove comincerò? Il mondo è così
grande. Comincerò dal paese che conosco meglio, il mio. Ma è
così vasto il mio paese! Comincerò dalla città più vicina, la mia.
Ma è così grande la mia città! Allora comincerò dalla mia stra­
da... No, comincerò dal mio caseggiato, o meglio, comincerò
dalla mia famiglia. No, finalmente ho capito che cosa vuole la
regola d’oro: comincerò da me stesso» (Anonimo).

Non so se all’età di quindici anni, quando mi sono imbat­


tuto per la prima volta in alcune pagine del Siracide, avessi in
me chiara questa consapevolezza, quella di voler cambiare il
mondo. D ’altronde, se certi sogni non si fanno quando un
giovane si affaccia speranzoso alla vita, diventa davvero diffi­
cile osare qualcosa di nuovo in età adulta. E chissà: forse
proprio l’amara (e spesso vera) frase di Qoelet «Niente di
nuovo avviene sotto il sole» (Qo 1,9), ha stimolato in me la
ricerca della novità e, con essa, della sapienza.
Tale desiderio ha animato la stesura del presente manuale.
Ai cinque scritti (Proverbi, Giobbe, Qoelet, Siracide, Sapien­
za), che rientrano in quella che è stata definita la «pentapoli
sapienziale dai confini ben distinti»,1 ho voluto accostare
Cantico e Salmi, genericamente definiti «poetici» a motivo1

1 L. Alonso S chokel - J. V i'lchkz LIndez, l Proverbi (Commenti Biblici), Boria, Ro­


ma 1988,17.
della predominanza dell’aspetto lirico.2 Essi non appartengo­
no in senso stretto alla corrente sapienziale. Tuttavia, già la
tradizione ebraica palestinese e quella ebraica della diaspora
(poi, quella cristiana) hanno considerato i sette scritti come
appartenenti a un unico corpo canonico; inoltre, si constata
un qual certo legame con i temi di fondo che caratterizzano
gli scritti sapienziali in senso stretto, come il lettore constate­
rà utilizzando il presente volume.
L’ordine seguito nella trattazione è dettato da motivi di­
dattici e cronologici: il libro dei Proverbi costituisce la base
di partenza, essendo lo scritto più tipico e diretto in quanto
offre una visione classica della sapienza come ordine del
mondo (è quindi il più adatto ad aprire un corso su questa
letteratura). Con Giobbe e Qoelet si passa a una riflessione
più articolata e travagliata sul mondo e sul rapporto tra il
saggio e Dio, per approdare successivamente con il Siracide
ad argomenti sapienziali più tradizionali con cui si tentano
delle risposte alle questioni aperte dai maestri più critici. In­
fine, con il libro della Sapienza (il più recente) si giunge a
spostare nella vita oltre la morte la discussione sulla retribu­
zione dei giusti, consegnando la posizione più avanzata
dell’intero Antico Testamento su questo argomento.
La scelta di una bibliografia essenziale e principalmente in
lingua italiana è dettata dalla volontà di offrire gli strumenti
minimi per un primo approfondimento, rinviando il lettore
ormai ben equipaggiato a ricercare in proprio «dove abita la
sapienza».
Infatti, chi scrive si augura che chi legge intraprenda l’av­
ventura della personale conversione nella continua ricerca
dei segreti della Sapienza.3

2 Questa caratteristica appartiene anche a Proverbi, Giobbe (tranne prologo ed epilo­


go) e Siracide.
3 1 volumi sulla letteratura sapienziale di A. Bonora - M. Priotto, M. Gilbert, L. Mazzin-
ghi, V. Moria Asensio vengono citati per esteso una volta per sempre alla p. 32.
PRIMA PARTE

L IB R I S A P IE N Z IA L I
QUESTIONI INTRODUTTIVE.
«INIZIO DELLA SAPIENZA:
ACQUISTA LA SAPIENZA»
(Pr 4,7)

1. Paternità salomonica

La prima questione che affrontiamo è quella riguardante


Salomone e il motivo in base al quale egli è considerato l’ini­
ziatore degli scritti sapienziali. Da uno sguardo ad alcuni te­
sti anticotestamentari che presentano la figura del re Salomo­
ne emerge, effettivamente, la sapienza come suo tratto speci­
fico.
In IRe 3,4-15 si racconta il sogno di Gabaon. Agli inizi del
suo mandato regale Salomone chiese al Signore non la ric­
chezza e il potere, ma il dono della sapienza:Il

Il re si recò ad offrire sacrifici a Gabaon, che era l’altura più im­


portante; su quell’altare Salomone offrì mille olocausti. A G aba­
on il Signore apparve di notte in sogno a Salomone e gli disse:
«Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone rispose:
«Tu hai usato grande benevolenza verso il tuo servo Davide,
mio padre, ed egli ha camminato al tuo cospetto con lealtà, con
giustizia e con rettitudine di cuore verso di te. Tu gli hai conser­
vato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che se­
desse sul suo trono, come oggi accade. Ora, Signore mio Dio, tu
hai fatto re il tuo servo al posto di Davide mio padre, ma io sono
un ragazzo, non so come comportarmi. Il tuo servo si trova in
mezzo al popolo che hai scelto, un popolo numeroso, che non
può essere calcolato né contato, tanto è grande. Concedi dun­
que al tuo servo un cuore che sappia giudicare il tuo popolo, in
modo da distinguere il bene dal male; altrimenti chi potrà mai
governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque al Si­
gnore che Salomone avesse fatto questa richiesta (IRe 3,4-10).

Il capitolo si chiude con una dimostrazione della saggezza


del re che dirime la contesa tra due meretrici (IRe 3,16-28), e
con l’attestazione di riverenza di tutto il popolo: «Tutto Isra­
ele conobbe il giudizio emesso dal re e nutrì un profondo ri­
spetto nei suoi riguardi, perché vide che c’era in lui una sa­
pienza divina per rendere giustizia» (v. 28). Continuando a
scorrere 1 Re si legge che Salomone espresse tale sapienza
anche per iscritto perché pronunciò tremila proverbi e com­
pose millecinque odi (5,12), interessandosi e investigando an­
che il mondo vegetale e animale.
Queste sue prerogative sapienziali spiegano anche l’attri­
buzione della paternità salomonica di libri scritti diversi se­
coli dopo la sua morte. L’Antico Testamento riconduce a lui
esplicitamente il libro dei Proverbi, mentre il rimando alla
sua figura si può scorgere in Qoelet («Parole di Qoelet, figlio
di Davide [come Salomone], re di Gerusalemme»: Qo 1,1) e
nel libro della Sapienza. Questo accostamento si spiega con il
fenomeno letterario della pseudoepigrafia, secondo il quale si
attribuivano testi a personaggi illustri del passato. Tra gli
«Scritti» della tradizione ebraica anche il Cantico dei Cantici,
infatti, si apre menzionando Salomone come il protagonista
dell’appassionata storia d ’amore con la donna. Questa prassi
antica assolveva a due compiti principali: dare maggior valo­
re e autorità al testo e collegare al pensiero del maestro scritti
a lui successivi, creando una continuità di pensiero con i suoi
discepoli e attualizzandone la memoria. In questo senso pos­
siamo parlare di attribuzione tipologica,1 nel senso che si1

1 Cfr. W.A. BRUEGGEMANN, «The Social Significance of Solomon as a Patron of Wis-


dom», in J.G . G a m m ie - L.G. P e r d u e (edd.), The Sage in Israel and thè Ancient East,
Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1990, 117-132.
vuole presentare Salomone come l’ideale iniziatore del movi­
mento intellettuale in Israele.
Una simile raffigurazione di Salomone fa pensare che il
primo luogo di creazione e di trasmissione delle sentenze sa­
pienziali sia stato l’ambiente della vita di corte, oltretutto in
ragione delle numerose raccomandazioni rivolte al sovrano
(Pr 8,15; 14,35; 16,10; 25,1; 29,14).2 In effetti, secondo alcu­
ni autori, attorno al X secolo a.C., quando Israele visse una
condizione di grande prosperità, si crearono i presupposti di­
plomatici perché i funzionari della corte potessero recarsi in
Egitto a imparare l’arte scribale. Gli scribi, all’interno della
reggia, avevano una serie di mansioni: da consiglieri del re,
carica piena di responsabilità che richiedeva competenze
molto precise, ad addetti del registro delle entrate e delle
uscite del tempio. Questi ministri, tra i quali possiamo inclu­
dere lo stesso Siracide (Sir 34,9-12), partivano assai frequen­
temente in viaggio e dovevano rappresentare, nelle missioni
politiche e grazie alla propria arte oratoria, gli interessi del
loro paese presso le corti straniere (2Re 20,12-19; Ger 27,1-
3). La sapienza biblica, perciò, era rivolta a un contesto di
corte e assolveva la funzione di scienza adatta all’istruzione
dei rampolli dei nobili. Il matrimonio tra Salomone e la figlia
del faraone potrebbe essere una conferma della positività dei
rapporti diplomatici tra i due popoli (IRe 3,1; 7,8; 9,24).
R.N. Whybray fa notare che Israele non ha vissuto isolato
dalle culture limitrofe e, in particolare, da quella egizia e me-
sopotamica; la produzione sapienziale si ascrive a Salomone

2 Sotto questo punto di vista la tradizione dei sapienti in Israele sarebbe molto vicina
a quelle dell’Egitto e della Mesopotamia, le cui istruzioni offrono indicazioni concrete sul­
la modalità con cui districarsi nell’insidioso mondo che ruotava attorno al sovrano. Un
esempio è rappresentato dalla storia del giusto ministro Achikar nell’opera sumerica Le
parole di Achikar, il quale viene tradito dal nipote ingrato per essere, successivamente, ria­
bilitato al servizio del re. Un’eco della storia di Achikar si ritrova in Tb 14,10 in cui si no­
minano gli intrighi di palazzo a Ninive, dove Nadab, figlio adottivo di Achikar che aveva
gettato discredito sulla sua persona, viene smascherato e punito per questa sua ingratitu­
dine.
proprio per questa ragione e non solo, secondo l’autore, per­
ché si può affermare che egli fu in realtà anche un vero sag­
gio.3
Tuttavia, oggi si tende ad abbandonare queste ricostruzio­
ni poiché si ritiene più probabile dare al postesilio la stesura
finale delle opere sapienziali, sebbene possa rimanere ancora
valida l’ambientazione (milieu) iniziale alla corte palatina. In
questo caso, però, saremmo al tempo di Ezechia (metà del-
l’VIII secolo a.C.), almeno stando a Pr 25,1: «Anche questi
sono proverbi di Salomone, che hanno trascritto gli uomini
di Ezechia, re Giuda». Possiamo ragionevolmente pensare
che la sapienza sia cortigiana almeno nelle sue prime attesta­
zioni scritte, e che servisse nel periodo pre-esilico per la for­
mazione dei funzionari del regno. Ne è prova l’insistenza sul­
la virtù del consiglio, propria di ogni buon leader, che deve
guidare l’azione di governo (Pr 11,14; 15,22; 20,18; 24,6).
Meno chiaro, cioè ancora da dimostrare, è il luogo deputa­
to alla scrittura delle sentenze: una scuola presso la reggia?
nella biblioteca del tempio (come lascerebbe intendere 2Mac
2,13-14)? Al momento non si dispone di alcuna scoperta ar­
cheologica che possa permettere di attestare la presenza di
scuole scribali, anche se è probabile la loro esistenza nel pe­
riodo persiano e, soprattutto, ellenistico. Solo in Sir 51,23 si
parla ma in modo generico di una bet-hammidras (casa della
ricerca),4 ma è chiaro che anche Qoelet (III secolo a.C.) ha
esercitato la sua docenza in un ambito non meglio precisato,
almeno stando a quanto si legge nell’epilogo del libro: «Qoe-

3 Cfr. R.N. WHYBRAY, Wisdom in Proverbs. The Concept of Wisdom in Proverhs 1-9
(SBT 45), SCM, London 1965,20.
4 Nella scuola di Ben Sira «alcuni vedono il riferimento a una qualche forma di scuo­
la, più o meno istituzionalizzata, nel primo giudaismo; altri, invece, la interpretano in for­
ma metaforica, cioè la “casa di studio” di Ben Sira sarebbe una metafora per il suo libro
quale compendio del suo insegnamento; ad ogni modo, Tuso metaforico dell’espressione
presuppone una realtà conosciuta nell’ambiente dell’epoca» (N. C a l d u c h -B e n a g e S, «L a
relazione maestro-discepolo in Ben Sira», in Parole, Spirito e Vita 61,2010,56).
let, oltre ad essere un sapiente, insegnò anche la scienza al
popolo. Ascoltò, meditò, scrisse molte massime. Qoelet si
sforzò di trovare parole piacevoli e scrisse la verità onesta­
mente» (Qo 12,9-10).
Con G.L. Perdue possiamo ipotizzare che le scuole reali
israelitiche caddero con la dominazione babilonese (VI seco­
lo a.C.), anche se istituzioni simili persistettero sotto i gover­
ni coloniali di Giuda, in quanto era necessario avere del per­
sonale istruito per mantenere il proprio potere. Nel postesi­
lio le scuole godettero del patrocinio dei sacerdoti del tempio
di Gerusalemme: per redigere i testi, conservare i documenti
e registrare gli introiti legati al sacrificio, si rendeva necessa­
ria la formazione dei sapienti; questo stato di cose spieghe­
rebbe il rapporto stretto tra sacerdoti, scribi e sapienti in
epoca postesilica.5
Concludendo, possiamo dire che la paternità salomonica è
di natura simbolica e può essere intesa ricorrendo alla satira.
J.E . Miles identifica il figlio a cui si rivolge il libro dei Pro­
verbi con Salomone stesso: l’istruzione impartita più che es­
sere frutto della sapienza di Salomone è a lui rivolta perché
impari la sapienza.6 Questa critica al re, cui allude la tesi di
J.E . Miles, è suffragata dal rimando a IRe 1-11 in cui Saio-
mone è presentato non come re sapiente e accorto, ma come
sovrano stolto che in preda alla propria fame sessuale si uni­
sce alle donne straniere peccando di idolatria. In effetti, a
conferma del richiamo a questo epilogo della vita del re, una
figura negativa che è centrale nella sezione di Pr 1-9 è pro­
prio la donna straniera, la quale seduce e perverte il giovane
inesperto (cfr. Pr 2; 5; 7).

5 Cfr. L.G. P e r d u e , Proverbi (Strumenti - Commentari 55), Claudiana, Torino 2011,


30-32.
6 Cfr. J.E . MlLES, Wise King - Royal Pool. Semiotic, Satire and Proverbi 1-9 (JSOT.SS
399), Continuum, London 2004,53-54.
2. Procedimenti letterari

«In ogni fissazione gnomica si produce anche un’uma-


nizzazione dell’uomo».7 Con questa frase di G. von Rad (in
un classico degli studi sulla tradizione sapienziale biblica) ci
introduciamo nei procedimenti letterari attraverso i quali
essa viene comunicata, partendo da una premessa: la forma
letteraria incide sui contenuti perché quello che viene tra­
smesso è inscindibilmente legato al mezzo espressivo. Con
tale affermazione, che trova molta eco nei processi massme-
diali moderni, si vuole dire che forma e contenuto vanno te­
nuti insieme, in quanto l’oggetto della comunicazione risie­
de (con minore o maggiore incisività) nella modalità espres­
siva.
L’unità di base letteraria attorno alla quale si sviluppa la
sapienza biblica è il m àsàl. Il suo stile conciso e incisivo ne
facilita l’apprendimento mnemonico. Con una piccola frase
- quasi una giaculatoria - mette nella condizione di coglie­
re la verità sostanziale che si vuole comunicare: «L a porta
gira sul suo cardine e il pigro sul suo letto» (Pr 26,14). A tal
fine contribuiscono il parallelismo tra gli stichi, la sonorità
(ottenuta tramite rima, assonanza, allitterazione, paronoma­
sia ecc.) e il ritmo.
Il parallelismo è un prezioso sussidio per la comprensione
del detto. Nel m àsàl si ritrovano tre forme di parallelismo: si­
nonimico (i due membri esprimono la stessa idea, come in
Qo 10,1: «Una mosca morta guasta l’intero vasetto di un­
guento; un po’ di stoltezza ha più peso della sapienza e della
gloria»), antitetico (nei due stichi il contenuto è contrappo­
sto, come in Sir 21,20: «L o stolto spia dalla porta della casa,
la persona educata rimane fuori»), sintetico (il secondo stico
aggiunge qualcosa al primo, come in Sir 33,26: «Se fai lavora­

7 G. VON R ad , La Sapienza in Israele, Marietti, Casale Monferrato 1975,38.


re il tuo servo con rigore, starai in pace; se risparmi le sue
mani, cercherà la libertà»).8
Il m àsàl si coniuga e articola in forme espressive più evo­
lute. Vediamo alcuni esempi.9

- 1 dialoghi didattici: genere di proposizioni interrogative che


rinviano, almeno indirettamente, a un'attività di tipo scolastico
(«Cresce forse il papiro fuori dalla palude e si sviluppa forse il
giunco senz'acqua?»: G b 8,11).
- 1 questionari catechetici: domande retoriche, che hanno a che
fare con Dio e con l'uomo («Chi è salito al cielo e ne è disceso?
Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le ac­
que nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Qual
è il suo nome? Qual è il nome di suo figlio? Lo sai?»: Pr 30,4).
- Le comparazioni: m àsàl, introdotto dalla particella min («più
di, meglio che»), stabilisce la preferibilità di una realtà in rap­
porto a un'altra («E meglio poco con giustizia che molti beni
senza l'onestà»: Pr 16,8).
- 1 paragoni: m àsàl introdotto dalla particella k? («come») che
commisura una cosa in rapporto a un'altra («Come una cerva
anela ai corsi d’acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio»: Sai
42,2).
- 1 proverbi numerici: raggruppano realtà che considerate indi­
vidualmente non stanno insieme ma che, attraverso la progres­
sione numerica, sono accomunate dal medesimo giudizio
espresso: «Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non le
può sopportare: uno schiavo che si fa re, uno stolto che si sa­
zia di pane, una donna sgraziata che prende marito e una serva
che soppianta la padrona» (Pr 30,21-23).

8 Si può dire che nel parallelismo il secondo membro conferisce un carattere enfatico
che funziona come un rafforzamento e consolidamento: B è connesso ad A, avendo qualco­
sa in comune con esso, ma non è una semplice riaffermazione di A perché è connaturale a B
seguire A e, quindi, aggiungervi qualcosa (spesso sotto forma di specificazione o di un’e­
spansione del significato); B riecheggia A connettendosi ad esso. In proposito si veda il capi­
tolo «L a dinamica del parallelismo» in R. ALTER, Larte della poesia biblica, GBPress - San
Paolo, Cinisello Balsamo 2011,13-49.
9 Cfr. VON Rad , La Sapienza in Israele, 23-53.
- L ’enigma: una o più sentenze non immediatamente chiare e
che necessitano di essere decodificate; l’enigma vela e svela al­
lo stesso tempo la realtà; è il gioco della scoperta della verità
(«Per chi i guai? Per chi i lamenti? Per chi le risse? Per chi i
gemiti? Per chi le ferite senza alcun motivo? Per chi gli occhi
sempre offuscati? Per chi si perde dietro al vino, per chi va in
cerca di vino pregiato»: Pr 23,20-30; «Che cosa c’è di più pe­
sante del piombo? Eppure non deve considerarsi tale lo stol­
to»: Sir 22,14).
- L’allegoria (da àllos «altro», agoréud «parlo»): è un metodo di
composizione dei testi che permette di rinviare a un livello dif­
ferente il significato immediato delle parole (cfr. Qo 12,1-6).

3. Retribuzione

I libri sapienziali affrontano direttamente il problema del


male e della sofferenza. La fede ebraica serbava al suo inter­
no la credenza che se un uomo è buono riceverà il bene,
mentre se un altro è cattivo riceverà, prima o poi, il male.
Questa concezione sulla retribuzione è fortemente atte­
stata nella Scrittura, radicandosi nel concetto di elezione
del popolo e nella consapevolezza che Israele esiste solo per
la benevolenza divina. L’idea di fondo è la seguente: biso­
gna corrispondere alla munificenza divina con una condotta
adeguata, pena la perdita delle promesse e dei beni a questa
connessi (la terra, la ricchezza, la salute, la fecondità). Così
recita il libro del Deuteronomio: «N on dire nel tuo cuore:
“La mia forza e la robustezza della mia mano mi ha procu­
rato questa potenza” . Ricordati del Signore tuo Dio, poiché
lui ti ha dato la forza di procurarti questa potenza, per
mantenere l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri, come è
ancora oggi» (Dt 8,17-18). E nel Sal 1 si proclama beato chi
pratica la Legge («Sarà come albero piantato lungo corsi
d ’acqua, che darà frutto a suo tempo; riusciranno tutte le
sue opere»: v. 3), mentre gli empi saranno dispersi come
pula al vento (v. 4).
Esiste, dunque, un ordine iscritto nell’intero universo che
rinvia direttamente alla volontà del Creatore, e che permette
al sapiente di trovare la spiegazione al senso profondo della
vita: nelle sentenze sapienziali si riscontra «una fiducia nella
stabilità delle relazioni elementari tra uomo e uomo, una fi­
ducia nella conformità degli uomini e delle loro relazioni,
una fiducia nella costanza delle regole che reggono la vita
umana o, di conseguenza, esplicitamente e implicitamente,
una fiducia in Dio che ha messo in vigore queste regole».10
Possiamo distinguere due tipologie di retribuzione in base
alle quali l’equilibrio viene mantenuto. La prima è quella au­
tomatica, secondo la quale il male arrecato si ritorce, prima o
poi, contro il suo autore, in base a una retribuzione intrinse­
ca alle opere stesse: «I peccatori veramente al loro sangue
tendono insidie, pongono reti alle loro proprie vite. Così so­
no i sentieri di chiunque ammassa rapina: essa prenderà la vi­
ta di coloro che la possiedono» (Pr 1,18-19). Il Siracide arri­
va a formulare quella che possiamo chiamare la legge del
contrappasso: «Chi scava una fossa vi cade, e chi tende una
trappola vi incappa; chi fa il male gli rotola addosso, senza
che sappia da dove gli viene» (Sir 27,26-27). Su questa linea
si pone anche la riflessione di Bildad, uno dei tre amici di
Giobbe, a proposito della sorte dell’empio che incappa nella
rete e cade nella trappola (Gb 18,5-21).
La seconda tipologia di retribuzione si può denominare
teologica e chiama in causa direttamente l’agire punitivo di­
vino. È lui che dona sia il bene che il male (Gb 3,10) in quan­
to difensore della vita dei deboli che è minacciata dai cattivi
(Pr 3,32-35); perciò bisogna avere profonda fiducia nella sua
volontà, così come raccomanda Siracide: «Quanti temete il

10 VON Rad, La Sapienza in Israele, 65.


Signore, confidate in lui, perché non vi mancherà la sua ri­
compensa. Considerate le generazioni passate e osservate: chi
ha confidato nel Signore ed è rimasto confuso? Chi ha perse­
verato nel temerlo ed è rimasto abbandonato?» (Sir 2,8.10).

3.1. Il vocabolario della retribuzione

Il lessico della retribuzione ricorre a diversi termini ebraici


che esprimono aspetti diversi della ricompensa, la quale ri­
guarda sia le relazioni tra gli uomini sia quelle tra Dio e gli
esseri umani. La radice verbale più prossima al concetto di
retribuzione inteso nel senso comune - cioè una ricompensa,
in termini di punizione o di premio, per un determinato
comportamento, - è skr. Essa esprime il salario per una gior­
nata di lavoro (cfr. Gen 30,28) o per l’intera condotta di vita
di cui, in Qoelet, non è dato godere: «I vivi sanno che devo­
no morire, ma i morti non sanno nulla; per loro non c’è più
guadagno (sakàr)\ il loro ricordo è andato nell’oblìo» (Qo
9,3). Per il saggio, infatti, a differenza di quanto annuncia Is
62,11, non c’è alcuna ricompensa né individuale né collettiva.
Una seconda radice è slm, il cui significato è legato al sen­
so di pace e di appagamento che deriva dall’avere a sufficien­
za ciò che si sperava di ottenere. Per esempio, nel rapporto
con gli uomini essa descrive la soddisfazione per un credito
incassato (cfr. 2Re 4,7) o, nel rapporto con il Signore, per la
felicità da lui offerta perché si è compiuta un’opera meritoria
(Davide che risparmia la vita del suocero Saul in lSam
24,20). Possiamo estendere il nostro sguardo anche alla ri­
compensa di cui godono i giusti nella vita oltre la morte de­
scritta nel libro della Sapienza; in questo scritto ricorre l’idea
della pacificazione veicolata dalla radice slm, anche se la lin­
gua utilizzata è il greco: «Agli occhi degli stolti parve che i
giusti morissero, una disgrazia fu considerata la loro diparti-
ta, e il loro viaggio lontano da noi una rovina, ma essi sono
nella pace (eìréne)» (Sap 3,2-3).
Infine, la radice gml consegna l’idea generale dell’essere ri­
pagato, del ricevere una ricompensa, in bene o in male, in
base al comportamento. Si legge in Proverbi: «Dal frutto del­
la bocca l’uomo si sazia di beni, ciascuno sarà ripagato {gml)
secondo le sue opere» (Pr 12,14). Ciò vale anche in rapporto
all’agire divino: «Chi ha pietà del misero fa credito al Signo­
re; gli renderà {gml) la sua mercede» (Pr 19,17). Il salmista
prende atto che la misericordia del Signore va ben oltre le
colpe dell’uomo, che andrebbero punite e non perdonate:
«Non ci hai trattato secondo i nostri peccati; non ci hai ripa­
gati {gml) in base alle nostre colpe» (Sai 103,10).

3.2. Retribuzione collettiva

La Sacra Scrittura porta con sé un’idea di responsabilità


diversa rispetto a quella comunemente condivisa, secondo la
quale ognuno risponde delle proprie azioni. Per i popoli se­
miti antichi esisteva una concezione della responsabilità che
possiamo definire «oggettiva», secondo la quale il singolo è
coinvolto nella colpa del gruppo e, di conseguenza, nel pro­
cesso di riparazione. Il clan veniva prima del singolo mem­
bro, il quale si ritrova ad essere colpevole o giusto, indipen­
dentemente dalle proprie azioni.
Se perciò c’era una sofferenza, c’era stato evidentemente
anche un delitto per il quale si veniva castigati. Anche davan­
ti al male gratuito e alla sofferenza dell’innocente, si applica­
va questo schema legato alla colpa: qualcuno (i genitori, la
comunità, il popolo di appartenenza) ha peccato, quindi il
singolo sta pagando a causa dei misfatti altrui.
Alcuni esempi aiutano a comprendere questa particolare
concezione della responsabilità collettiva. In positivo, ricor­
diamo che la benedizione di Abramo si estende ai suoi di­
scendenti (Gen 12), così come la giustizia di uno solo «con-
tagerebbe» Sodoma e Gomorra salvandole dalla distruzione
(Gen 18,17-33). In Is 53,5 la sofferenza vicaria del servo di
Yhwh ha valore espiatorio per l’intero popolo («Egli fu tra­
fitto a causa dei nostri peccati, fu schiacciato a causa delle
nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace fu su di lui e per
le sue piaghe noi siamo stati guariti»). In negativo, invece,
non si può non citare la trasgressione di Adamo che ricade
su tutti gli uomini (Gen 3) e la maledizione di Noè che col­
pisce Canaan a causa di Cam che ha mancato di rispetto
contro di lui (Gen 9,25). Infine, il peccato di Davide con
Bersabea ricade sul figlio poiché era stato concepito e che
muore (2Sam 11-12), così come la richiesta che egli fa di un
censimento di tutto il popolo, colpisce l’intero regno (lC r
21,1-17).
Solo con il profeta Geremia si giunge all’annuncio della fi­
ne di questo rapporto mortificante legato alla responsabilità
collettiva, professando il passaggio a una logica di retribuzio­
ne personale: «In quei giorni [quando ci sarà la nuova allean­
za] non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti
dei figli si sono alligati» (Ger 31,29; cfr. anche Ez 18,2).

3.3. Le aporie della teoria davanti alla sofferenza

La teoria della ricompensa rivelava aporie e contraddizio­


ni alle quali non ci si poteva facilmente sottrarre con irenici e
preconfezionati asserti di fede sul male. Anche il tema della
morte - che non è affrontato come questione teologica in sé,
perché si è consapevoli della mortalità umana - si palesa nel­
la sua problematicità solo in presenza della fine prematura
del giovane o del giusto: costoro, infatti, pur senza colpa
hanno perso irrimediabilmente la possibilità di godere della
benedizione divina, visto che la credenza nella vita oltre la
morte non è molto sviluppata nell’Antico Testamento.
Giobbe e Qoelet in primis contestano, specificamente, l’e­
quazione: buono-benessere, cattivo-malessere. Significativo a
riguardo è il testo di G b 1,1-9 in cui per tre volte ricorre il ri­
tornello: Giobbe «era integro e retto, timorato di Dio e alie­
no dal male» (Gb 1,1.8; 2,3). La sua condizione agiata è de­
scritta in termini simbolici: l’abbondanza di figli e la disponi­
bilità economica esprimono la pienezza della benedizione di­
vina. La fede di Giobbe, però, sembra essere inficiata da un
tornaconto personale. In G b 1,8 è riportata, infatti, la do­
manda - quasi una sfida - posta da Dio a satana, alla presen­
za della corte celeste («i figli di Dio»), circa l’irreprensibilità
del suo servo Giobbe: «H ai posto attenzione al mio servo
Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra». La risposta “sata­
nica” è schietta ed esprime bene il senso dei fatti, chiamando
in causa la categoria dell’interesse personale: «Forse che
Giobbe teme Dio per nulla?» (1,9). Giobbe teme e rispetta
Dio perché gli conviene: gli viene facile amarlo e venerarlo
perché egli ha posto una siepe, una protezione, attorno a lui
e alla sua casa. Satana dice: «Tocca quanto ha e vedrai come
ti maledirà apertamente» (v. 11).
Il testo attribuisce a satana l’origine del male. L’intenzione
del redattore finale del prologo di Giobbe (IV secolo a.C.)
vuole sfumare la responsabilità divina anche se nei versetti
successivi non si fa problema di attribuire a Dio la sciagura:
«N udo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Si­
gnore ha dato, il Signore ha tolto» (Gb 1,21). Giobbe nei
primi due capitoli orienta tutto a Dio, anche il male, perché
non c’è alcun altro principio all’infuori di lui: «Se da Dio ac­
cettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?»
(Gb2,10).
La prima reazione alla sciagura che si abbatte sulla fami­
glia di Giobbe è, quindi, l’accoglienza docile del progetto di­
vino per quanto misterioso esso sia: «In tutto ciò Giobbe
non commise peccato né proferì alcuna insolenza contro
Dio» (Gb 1,22). In G b 2,1-7 è descritta la seconda udienza
presso la corte celeste. L’imputato è, nuovamente, Giobbe.
Questa volta è toccato nella sua carne con una malattia grave
e infamante, la lebbra (Gb 7,5). Il testo non ci spiega le ra­
gioni di tale accanimento, dichiarando solo che il protagoni­
sta persevera, pazientemente, nella sua sapienza, rimanendo
seduto sul suo giaciglio fatto di cenere (in segno di peniten­
za): «In tutto questo non peccò con la sua bocca» (Gb 2,10).
Giobbe viene raggiunto da tre suoi amici (Elifaz, Bildad,
Sofar) che, dopo una prima reazione silenziosa davanti alla
grande sciagura che lo ha colpito, si scagliano contro di lui
ribadendo i canoni classici della teoria retributiva. Questa
volta egli si ribella: dal capitolo terzo del libro inizia la sua
protesta e la proclamazione fiera della sua innocenza (fino a
giungere al c. 31): egli è pronto a entrare in un pubblico di-
battimento contro Dio stesso, chiamato in causa per rendere
ragione della sua condotta e, soprattutto, della sua ingiusti­
zia. Questa consiste nel non rispondere alle provocazioni e
agli appelli di Giobbe.
La risposta di Dio giunge nei due discorsi che egli rivolge
a Giobbe (cc. 38-41). È una replica che riconduce il soffe­
rente all’interno della storia della salvezza. Egli ha sollevato
numerosi dubbi ma la risposta di Dio riguarda la natura di
colui che lo contesta: «D ov’eri tu quando io creavo il mon­
do?». La lezione consiste, quindi, nell’umiltà: l’uomo ignora
il piano divino che si rivela nella creazione e, pur potendo
scorgere qualche barlume, non ha alcun potere sul creato.
Yhwh colloca Giobbe all’interno di un disegno molto più
grande che non inizia e non finisce con lui. Il pericolo di chi
soffre può risiedere nel chiudersi nel proprio dolore, man­
cando di uno sguardo sufficientemente ampio per individua­
re un progetto d’amore di più vasto respiro.
Solo alla fine Giobbe ammette di avere peccato e fa real­
mente penitenza su polvere e cenere (Gb 42,6). H a com­
preso la sua colpa: temeva per interesse un Dio di cui gli
era nota - per averla appresa da altri - la bontà, senza avere
ancora sperimentato in prima persona il Dio d ’Israele, e
contemplato il suo vero volto: «Io ti conoscevo per sentito
dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (Gb 42,5). Nell’e­
pilogo del libro (Gb 42,7 -16) si legge che anche gli amici di
G iobbe, proponendo acriticamente la retribuzione come
qualcosa di automatico, hanno parlato stoltamente, al pun­
to che Giobbe intercederà a loro favore. Tuttavia, se è vero
che la teoria della retribuzione è stata “smontata” lungo
tutta l’opera, Giobbe alla fine saprà di essere stato benedet­
to nuovamente da Dio perché gli viene restituito molto di
più di quello che possedeva, secondo un inatteso happy end.
Qoelet, come Giobbe, denuncia l’ingenuità con cui è for­
mulata la teoria della retribuzione senza, tuttavia, approdare a
una risoluzione piena del problema. Davanti a un pensiero
troppo ottimistico e naif, esageratamente distante dalla storia
degli uomini, Qoelet fa esperienza della complessità della vita
e delle dinamiche che ne determinano il corso. In Qo 1,3-8 è
descritta, infatti, una visione ciclica del tempo e della storia -
quasi un eterno ritorno - come se ci fosse un ineluttabile fato
che tutto riporta al punto di partenza, vanificando ogni novità.
Sebbene Qoelet possa essere stato influenzato dalla filosofia
della storia del mondo greco, il suo pensiero nasce dall’osser­
vazione e giunge alla conclusione che spesso ci si deve con­
frontare con l’abitudinarietà delle cose della vita e con la fatica
che tale esistenza comporta, soprattutto quando l’uomo assiste
passivam ente allo scorrere degli eventi. L’«ottim ism o
epistemologico»11 che guida il sapiente è possibile soltanto se
nel mondo esiste un ordine delle cose: quando tale equilibrio1

11 MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 35.


viene meno, salta la fiducia che anima la sua ricerca e, con
questa, anche l’accesso a una lettura profonda della realtà.
Qoelet, perciò, è conscio della superiorità della sapienza ri­
spetto alla stoltezza. Tuttavia deve ammettere che non c’è al­
cun vantaggio in ordine alla sorte finale dell’uomo: non è in­
differente essere stolti oppure essere saggi, in quanto vi è una
luce che proviene dalla sapienza che gli stolti non possono co­
gliere («Il saggio ha gli occhi ben aperti in testa, lo stolto inve­
ce cammina nel buio»: Qo 2,14a). Sebbene lo stesso Qoelet si
affretti a concludere che un’unica sorte, la morte, è riservata a
tutt’e due (Qo 2,14b). Egli interroga criticamente e mette in
discussione la teologia della storia della fede ebraica, incapace
di cogliere non solo la complessità della vita come problema
ma anche le dinamiche intrinseche e le sue risorse.

3.4. La scelta del male e il nuovo valore della sofferenza

Il Siracide cerca di offrire una risposta al problema dell’in­


giustizia divina, sottolineando la responsabilità personale
dell’uomo. In Sir 15,11-17 si scagiona Dio dalla responsabilità
della sciagura («Non dire: “Ho peccato per opera del Signo­
re”, perché egli non fa quello che odia. Non dire: “Lui mi ha
sedotto”, perché non gli serve l’uomo peccatore»: w. 11-12) e
da un certo determinismo («A nessuno Dio ha comandato
l’empietà, a nessuno ha dato la facoltà di peccare»: v. 20; egli
infatti la aborrisce: «Il Signore odia ogni abominio»: v. 13).
Tutte le opere di Dio sono buone e create con uno scopo ben
preciso: se esiste qualcosa di dannoso (la morte, le fiere, gli ele­
menti cosmici ecc.) è per colpa dei peccatori, confermando so­
stanzialmente gli assunti classici del «dogma» retributivo (Sir
39,12-35). All’uomo è lasciato l’arbitrio per scegliere secondo il
suo consiglio («Egli ha fatto l’uomo sin dal principio e l’ha la­
sciato in balìa del suo consiglio. Egli ti ha messo davanti il fuo­
co e l’acqua: dove tu vuoi, stendi la mano. Davanti all’uomo, la
vita e la morte, quanto desidera gli viene dato»: w. 14.16-17).
Soltanto con il libro della Sapienza (circa 30 a.C.) l’oriz­
zonte della riflessione sulla retribuzione si sposta in una con­
dizione ultraterrena, giacché solo con il suo autore si giunge
a dichiarare che la speranza delle anime giuste è piena d ’im­
mortalità (Sap 3,4), professando la sussistenza - oltre la mor­
te fisica - di una dimensione della vita umana, quella dell’a­
nima. Questo punto di approdo illumina le considerazioni
precedenti sull’ingiustizia e sul ruolo di Dio nella storia, de­
scrivendo l’aldilà come destino ultimo e come luogo dell’in-
veramento della condotta umana: solo ai giusti è riservata la
salvezza, mentre agli empi è preclusa (Sap 2,24). Se è vero
che Dio mette alla prova l’uomo con la sofferenza, è altret­
tanto vero che i giusti sperimenteranno alla fine, proprio gra­
zie a queste tribolazioni, l’immensa misericordia del Signore:
«D opo un breve soffrire, saranno largamente ricompensati,
perché li ha provati e li ha trovati degni di sé» (Sap 2,5).
Allargando lo sguardo al Nuovo Testamento, possiamo di­
re che il mistero del male e della sofferenza dell’innocente re­
sta un mistero anche per i contemporanei di Gesù, i quali,
davanti al cieco nato, chiedono al maestro di chi sia la colpa
di una simile situazione: egli spezza la spirale retributivo-pu-
nitiva indicando la gloria a Dio come scopo ultimo della sof­
ferenza di quell’uomo (Gv 9,2-4). Egli ha scelto ciò che ca­
ratterizza nell’intimo l’uomo, la sofferenza, proprio per redi­
merlo dal di dentro e rivelare la nuova e inaudita sapienza
della croce (lC or 1,17-24).

4. Rapporto tra sapienza biblica ed extrabiblica

Fino alla metà del X IX secolo si ignorava la reale consi­


stenza del rapporto tra la sapienza biblica e il mondo dei sa­
pienti presso le culture dell’Antico Vicino Oriente. Quando
si riuscì a decifrare l’antica lingua egizia (nel 1828 J.-F.
Champollion decifra la stele di Rosetta) si ebbe ampio acces­
so a tutta una serie di testi sapienziali dell’epoca faraonica, i
più antichi dei quali risalivano addirittura alla metà del terzo
millennio a.C. In particolare, per quanto riguarda il libro dei
Proverbi, quando negli anni Venti del secolo scorso fu pub­
blicata l’opera egizia Linsegnamento di Amenemope (1100
a.C.), innegabile parve il collegamento (per il contenuto e
per l’indicazione del numero trenta che indica le stanze/capi-
toli dell’istruzione egizia) con il più recente testo di Pr
22,17-24,22, giungendo alla conclusione circa la matrice ex­
trabiblica della sapienza d’Israele. Riportiamo ora, in estrema
sintesi, le principali teorie che spiegano la natura del legame
tra la sapienza israelitica e quella egizia e mesopotamica, par­
tendo dalla chiara consapevolezza che Israele non è vissuto
fuori dal comune background dell’Antico Vicino Oriente.

4.1. Egitto

In Egitto le scuole di sapienza, oltre ad avere un taglio


pratico, impartivano insegnamenti etici e religiosi, ponendosi
a un livello sia individuale che sociale. A queste scuole si sa­
rebbero formati gli scribi che, nei libri dei Re, in Isaia e in
Geremia, hanno ruoli simili a quelli dei colleghi egizi e babi­
lonesi. Da questi ambienti di corte, Israele avrebbe attinto
anche la visione elitaria che emerge dal Siracide circa la supe­
riorità dello scriba rispetto alle altre professioni (Sir 38,24-
34). Per cui, è probabile che la sapienza di questi popoli sia
giunta in Israele grazie ai legami degli scribi con i paesi stra­
nieri. La ragione, dunque, per la quale la sapienza straniera è
presa in prestito, sembra essere l’educazione della classe poli­
tica.
4.1.1. Il prestito estero

A livello contenutistico si ravvisa, per esempio, che tra le


istruzioni egiziane e i dieci discorsi che troviamo in Pr 1-9
esiste una chiara corrispondenza per quanto riguarda l’ac­
centuato pragmatismo degli ammonimenti, il concetto di
ordine, il concetto di divinità e di uomo, e circa l’autorità
dell’insegnamento impartito: i saggi israeliti avrebbero fat­
to un lavoro critico di selezione di questi aspetti accentuan­
do la dimensione religiosa. Per dirla con R.N. Whybray:
«gli autori israeliti hanno adattato e modificato la sapienza
non-israelita, per cui vanno guardati come coloro che pren­
dono a prestito una forma letteraria straniera».12 Altri ele­
menti in comune riguardano la dea egizia M a’at, che pre­
siede alla giustizia, accostata alla Sapienza personificata di
Pr 1 e 8, la divinità Iside che sarebbe il calco della Sapienza
di Sir 24.
«G li autori-editori dei Proverbi non solo hanno assem­
blato istruzioni e detti, ma li hanno anche risistemati e
rimodellati»:13 è questa la posizione di R.J. Clifford, il quale
sostiene che le istruzioni egizie e mesopotamiche sono state
modificate e ricucite successivamente con poemi della Sa­
pienza personificata, così da conferire loro un effetto più
incisivo, ponendole a un alto livello retorico. Per Clifford
gli autori biblici hanno attinto da opere egizie, quali Ame-
nemope, A ni, e mesopotamiche, quali Le istruzioni di Shu-
ruppak, Consigli di Saggezza, alcuni proverbi sumeri, Le pa­
role di Achikar. La personificazione della Sapienza si rin­
traccia in Pr 8,30a nella parola ’amón, l’originario accadico
di ummanu, che nella mitologia mesopotamica sarebbe il se­
mi-divino mediatore che dopo il diluvio porta la cultura
all’umanità. Tra i testi egizi si segnala, inoltre, un antesigna­

12 W h y b r a y , Wisdom in Proverbs, 53.


13 R.J. CLIFFORD, Proverbs: A Commentary (OTL), LouisviUe (KY) 1999, 2.
no del libro di Giobbe: Il Dialogo di un disperato con se
stesso (o con la sua anima), risalente al 2000 a.C. circa, in
cui di fronte al male e alla sofferenza l’unica via d ’uscita
sembra essere la morte.

4.1.2. Un comune stock di conoscenze

A questa prima posizione, che accentua fortemente il le­


game diretto con la cultura extrabiblica, se ne aggiunge una
seconda che attenua la portata della prima a favore di una
maggiore originalità della sapienza israelitica. Le similitudi­
ni esistenti tra il mondo egizio e quello dei Proverbi riguar­
dano, per R.E. Murphy, una comunanza di aspetti legati
all’esperienza umana.14 L’anteriorità degli scritti egizi non
dice automaticamente derivazione da questi ma, al limite,
l’espressione di un comune stock di massime, derivante da
varie fonti, che si diffonde in culture vicine, senza per forza
concludere l’esistenza di un’ovvia parentela tra di esse.
Questo spiegherebbe tra l’altro lo stretto rapporto che in­
tercorre tra Pr 22,17-24,22 e l’Insegnamento di Amenemo-
pe: entrambe le opere presentano una serie di consigli sulla
vita sociale, necessari a ogni educando perché apprenda co­
me comportarsi in maniera retta.
Anche in rapporto all’idea di ordine del mondo e di
Ma’at si sostiene, facendo leva sulla radicale originalità degli
scritti biblici, che gli Israeliti non hanno fatto propri ele­
menti dei testi egiziani facendone una sintesi e giungendo a
una propria teoria, alta e astratta, di natura filosofica: i saggi
d ’Israele non furono egittologi.15 Al limite si può definire il
rapporto tra le istruzioni egizie e quelle di Pr 1-9 come rap-

14 Cfr. R.E. M u r p h y , Proverbi (WBC 22), Thomas Nelson, Nashville 1998,288.


15 Cfr. M.V. Fox, «World Order and Ma’at: A Crooked Parallel», in JAN ES 23(1995),
37-48.
porto di analogia (e non di influenza od omologazione), cioè
di idee simili che si sviluppano indipendentemente in cultu­
re vicine.16

4.1.3. Inculturazione

Una terza via porta a considerare le somiglianze tra scritti


biblici ed extrabiblici nella logica delTinculturazione. Esisto­
no delle chiare derivazioni dalla sapienza egizia, che i maestri
in Israele hanno accolto nel proprio patrimonio sociale e
adattato alla propria fede yahvistica.
Pertanto, se esiste un legame tra la dea egizia Ma’at e la
Donna Sapienza di Proverbi (1; 8), si segnala anche la diffe­
renza legata all’uso della parola, in quanto nelle istruzioni
egizie mai Ma’at prende la parola per istruire e parlare di sé;
a ciò si aggiunga il fatto che nelle istruzioni egiziane non tro­
viamo l’idea della Sapienza come realtà in un certo qual mo­
do autonoma (in Pr 8 e Sir 24, per esempio, si parla della sa­
pienza che media il rapporto tra Dio e l’uomo, che parla, che
ha una sua identità). Il mondo in cui vive la Sapienza, infine,
è differente dal pantheon egizio e mesopotamico, abitato da
innumerevoli presenze preposte al controllo di un determi­
nato aspetto della vita (la fecondità, la vita agricola, le arti
ecc.).
A uno sguardo più attento non sfugge neppure la distanza
antropologica dei destinatari delle ammonizioni sapienziali.
Se, infatti, nell’Antico Vicino Oriente si registra una forte
stratificazione sociale, in base alla quale lo status di apparte­
nenza è fissato sin dall’inizio e la sapienza ha un valore pre­
cauzionale (bisogna fare in modo di perdere tale posizione
sociale con l’apprendimento), nella Bibbia non c’è questo de­

16 Per un approfondimento rinviamo al nostro articolo: «Il genere letterario nelle


istruzioni egizie e nelle istruzioni di Proverbi 1-9», in Estudios Biblicos 65(2007), 427-461.
terminismo etico. La sapienza è rivolta a tutti perché tutti so­
no in grado di capire e praticare i suoi consigli: essendo me­
no elitaria, è rivolta principalmente a chi ne ha bisogno, fa­
cendo udire la sua voce all’ingresso della città, nella piazza, ai
crocicchi delle strade (Pr 1,20-21 e 8,1-3): la Sapienza parla e
vuole entrare nel vivo della comunità umana, non rimanere
nel chiuso della corte a uso di pochi adepti ma scendere per
le strade e parlare a tutti.

4.2. Mesopotamia

Simile è il discorso che si può fare circa il rapporto di so­


miglianza ma anche di divergenza che esiste tra la sapienza
biblica e quella assiro-babilonese {Le istruzioni di Shuruppak,
I Consigli di Saggezza, Le parole di Achikar). All’euforia inizia­
le che induceva gli studiosi a leggere la Bibbia a partire da ca­
tegorie extrabibliche (è questa la stagione del panbabiloni-
smo tra la fine del X IX e l’inizio del X X secolo), seguì un ap­
proccio più cauto e ponderato che teneva nella giusta consi­
derazione i punti di contiguità ma anche quelli di eterogenei­
tà, senza necessariamente immolare il dato biblico a quello
extrabiblico. Con il progredire delle scoperte emergeva la
complessità del mondo raccontato nelle opere assiro-babilo­
nesi la cui caratteristica principale sembra essere il richiamo
alle pratiche magiche e divinatorie. Per quanto riguarda la sa­
pienza, segnaliamo la tesi di G. Buccellati, secondo cui in Me­
sopotamia non esisteva un vero e proprio genere sapienziale,
a causa di una non unificata dottrina sapienziale, o di un uni­
co sistema o programma intellettuale; se ci sono aspetti e te­
matiche sapienziali vanno rintracciati all’interno dei racconti
di cosmogonie, antropogonie e miti. Buccellati rimarca che
non ci sono temi sapienziali esclusivi nel panorama della pro­
duzione letteraria mesopotamica. Inoltre, la componente sa­
pienziale è una tra le altre componenti (accanto a quella reli­
giosa per esempio), e non è neanche quella preponderante.17
I paralleli, comunque, con la produzione letteraria assiro­
babilonese riguardano la figura del protagonista del libro di
Giobbe, in rapporto al quale esiste un collegamento con ope­
re quali L’uomo e il suo Dio (o Giobbe sumerico, l’originale
può datarsi attorno al 2000 a.C.), Voglio lodare il Signore
(XIII-XII secolo a.C.) e La teodicea babilonese (1000-750
a.C.). Come nel libro biblico, anche in queste opere l’argo­
mentazione è sviluppata sotto forma di dialoghi, e cosparsa
di interrogativi volti alla comprensione del senso della soffe­
renza che coinvolge il giusto oppresso sotto la pesante mano
delle divinità (tra le quali spicca Marduk).
Tra le opere mesopotamiche segnaliamo anche il poema di
Ghilgamesh (1700 a.C. circa) che condivide con il libro del
Qcfelet temi quali la vita come soffio, il tema della giustizia
divina e una certa visione pessimistica della vita.

In conclusione possiamo dire che oggi il rimando alla sa­


pienza extrabiblica è comunemente accettato. Permane la
differente rilevanza accordata alle opere bibliche, perché per
taluni studiosi questo contributo è esiguo rispetto alla premi­
nenza delle matrici egizie e mesopotamiche. Come sopra se­
gnalavamo, possiamo parlare di una vera e propria opera di
inculturazione che i maestri d ’Israele hanno compiuto attin­
gendo al patrimonio culturale delle culture limitrofe. Tre so­
no gli assunti fondamentali confluiti nella produzione israeli­
tica: l’importanza dell’esperienza come fonte del sapere e il
carattere pratico della sapienza, la cui natura non è esclusiva-
mente intellettuale (quest’aspetto differisce anche dalla con­
cezione greca del sapere); la dimensione pedagogica degli
ammonimenti e la grande importanza riconosciuta alla tradi-

17 Cfr. G . BUCCELLATI, «W isdom and not: thè Case o f M esopotamia», in JA O S


101(1981), 35-47.
zione e ai suoi rappresentanti, i quali sono i mediatori di quel
bagaglio di conoscenze necessario per comprendere l’arte del
vivere; infine, la dimensione religiosa dell’investigazione che
rinvia al divino come garante dell’ordine iscritto nel mondo,
anche quando quest’ordine viene messo in discussione dalla
sofferenza e dal male in genere.

Bibliografia di riferimento e di approfondimento

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MORLA ASENSIO V., Libri Sapienziali e altri Scritti (Introduzione al­
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M u r ph y R.E.,Lalbero della vita. Una esplorazione della letteratura
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R a d v o n G., La Sapienza in Israele, Marietti, Casale Monferrato
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ROFÉ A., Introduzione alla letteratura della Bibbia ebraica 2. Profeti,
salmi e libri sapienziali (Introduzione allo studio della Bibbia.
Supplementi 49), Paideia, Brescia 2011.
PROVERBI

1. Questioni storico-letterarie

Il libro dei Proverbi è certamente il più tipico tra i libri


sapienziali. I Padri della Chiesa lo hanno interpretato in
termini anagogici (tesi cioè a ricavarne indicazioni per lo
sviluppo morale del credente) collegandolo al libro del
Qoelet e a quello del Cantico dei Cantici; la sequenza rav­
visata pone il libro dei Proverbi al primo posto (seguito da
Qoelet e dal Cantico) o al secondo posto (preceduto da
Qoelet e seguito dal Cantico) dei gradi della sapienza, il
cui vertice resta il Cantico in quanto descrive l’unione mi­
stica con Dio.
L’intuizione di fondo è ben espressa dalla prefazione al
commento al Cantico di Origene:

Salomone, che primo insegna agli uomini la filosofia divina, co­


me inizio della sua opera ha messo il libro dei Proverbi, nel qua­
le è esposta la morale: in tal modo, allorché uno avrà progredito
nella riflessione e nei costumi, passerà alla disciplina che tratta
della conoscenza della natura e qui, distinguendo la natura e la
causa delle cose, conoscerà che bisogna abbandonare la vanità
delle vanità e affrettarsi invece alle realtà eterne e perpetue [...].
Perciò dopo i Proverbi si viene all’Ecclesiaste, il quale insegna
che tutte le cose visibili e corporee sono caduche e fragili; quan­
do se ne accorgerà, colui che si applica alla sapienza le disprez­
zerà, non le terrà in alcun conto e, rinunciando per così dire a
tutto questo mondo, tenderà alle realtà invisibili ed eterne, che
sono insegnate nel Cantico dei Cantici.1

Anche noi, per comprendere gli altri libri del corpus sa­
pienziale, muoviamo dai Proverbi perché in esso sono rac­
chiuse le tematiche principali che si attestano - con variazio­
ni e amplificazioni - anche nelle altre opere didattiche.

1.1. Struttura

La critica letteraria mette in luce l’eterogeneità del mate­


riale ponendo in risalto l’opera dei redattori.
Il ricorso al parallelismo è la struttura portante della com­
posizione attestandosi sin dal prologo (Pr 1,1-7). In questi
primi versetti i contenuti del libro vengono indicati attraver­
so una lunga serie di forme letterarie (massime, proverbi,
enigmi, parole dei sapienti ecc.), di indicazioni sull’oggetto
dell’insegnamento (sapienza, scienza, disciplina, destrezza,
assennatezza, acutezza) e di forme verbali legate all’appren­
dimento (conoscere, comprendere, ascoltare ecc.), offrendo
al lettore un assaggio del contenuto generale del libro. La ri­
petizione dei vocaboli è tipica di una modalità espressiva che
privilegia l’accostamento dei termini secondo quella caratte­
ristica che nel capitolo introduttivo ho denominato «paralle­
lismo delle idee». La Sapienza non viene cristallizzata in una
definizione né in questi versetti né lungo l’intero libro.12
Al prologo, in cui si indicano anche l’autore (Salomone) e
i destinatari (il giovane, l’inesperto e il saggio), seguono i pri­
mi nove capitoli nei quali, più che dettare delle puntuali nor­
me di comportamento, si offrono i criteri per essere saggi.

1 ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 41997,56-57.


2 In Pr 24,13-14 si ritrova un accostamento con il miele: essa è buona, serve a dare gu­
sto e dolcezza alla vita.
Tale sezione (Pr 1,8-9,18) costituisce una vera e propria
grande introduzione all’intera opera, per la quale è facilmen­
te pensabile una redazione finale postesilica in ragione del le­
game «al femminile» che connota sia i cc. 1-9 sia il c. 3 1.3
Questa cornice racchiude materiale più arcaico suddivisi-
bile in sei sezioni di ampiezza e forma letteraria differenti da­
tabili, forse, o al tempo di Salomone (X secolo a.C.) o a quel­
lo di Ezechia (V ili secolo a.C.), il quale è espressamente no­
minato in 25,1:

«Proverbi di Salomone» (10,1-22,16);


«Parole dei sapienti» (22,17-24,22);
«Anche queste sono parole dei sapienti» (24,23-34);
«Anche questi sono proverbi di Salomone, trascritti dagli uomi­
ni di Ezechia, re di Giuda» (25,1-29,27);
«Parole di Agur, figlio di Iake, da Massa» (30,1-14);
Raccolta senza titolo di proverbi numerici (30,15-33).

Dal punto di vista della trasmissione del testo segnaliamo


che spesso i Settanta si discostano dal testo ebraico (quest’ul­
timo è più lungo di venticinque versetti). Tale diversità non è
solo riconducibile al traduttore ma anche alla presenza di
uno scritto spesso diverso che viene letto dagli autori greci
(se anteriore o posteriore a quello ebraico non è sempre faci­
le stabilirlo). La presenza di doppioni di singoli proverbi (ri­
petuti totalmente o in parte) si potrebbe spiegare ipotizzan­
do diversi interventi redazionali: un primo testo greco (che
traduce liberamente dall’ebraico) fu rivisto in base a una ver­
sione ebraica diversa dalla prima che ha probabilmente avuto
la sua stesura finale attorno al 350 a.C.
Nel II secolo d.C. i Proverbi furono tradotti in siriaco di­
ventando parte della Peshitta. Girolamo nel 398 tradusse l’o­

3 Si pone in relazione la Donna Sapienza dei cc. 1, 8 e 9, con la madre di Lemuel (Pr
31,1-9) e la donna forte ( ’èset-hayil) di Pr 31,10-31; a quest’ultima si oppone la figura
della donna straniera descritta nei cc. 2, 5, 6 e 7.
pera in latino attingendo direttamente dall’ebraico e ricor­
rendo al greco e alle traduzioni giudaiche (che confluiranno
successivamente nel midrash e nel targum) quando il testo gli
sembrava maggiormente attendibile.

1.2. Genere letterario

a) Il màsàl. In ebraico il libro si intitola mislè Selómóh


(«Proverbi di Salomone»: 1,1) indicando l’unità fondamenta­
le di cui si compone, cioè il m àsàl o proverbio. Il m àsàl si ri­
trova nelle sezioni centrali del libro sotto forma di ammoni­
menti con sentenze binarie, cioè costruite su due stichi, che
affrontano varie tematiche sapienziali. In questi capitoli si
descrivono in dettaglio le regole della condotta che il saggio
deve far proprie o rifiutare (uso della parola, autocontrollo,
umiltà, rapporti umani, ricchezza, povertà ecc.). Sull’impor­
tanza del m àsàl, sulla sua struttura e sulla sua funzione didat­
tica rinvio a quanto detto nell’introduzione (pp. 14-15). Il te­
sto greco di Proverbi si apre in modo simile: Paroim lai
Salómdntos, cioè «detti», «paragoni», «sentenze» di Salomo­
ne, richiamandosi alla tradizione del re saggio per antonoma­
sia (cfr. pp. 5-6).
b) distruzione. Nella sezione introduttiva del libro (1,8-
9,18) e in 23,15-28 si ravvisa la presenza del genere letterario
conosciuto come «istruzione didattica». In dieci componi­
menti (1,8-19; 2,1-22; 3,1-12; 3,21-35; 4,1-9; 4,10-19; 4,20-27;
5,1-23; 6,20-35; 7,1-27) ispirati alla retorica classica, il padre­
maestro intende educare alla sapienza. La tripartizione in
exordium, propositio e peroratio, è di grande importanza in
ordine all’efficacia della comunicazione educativa. Il padre­
maestro si introduce con lo scopo di orientare all’ascolto sen­
za ancora consegnare un vero e proprio ammonimento, ma
facendone intuire la bontà (prima fase); successivamente en­
tra nel merito della “lezione” fornendo i contenuti centrali
della sua esposizione, illustrando i vantaggi e gli svantaggi le­
gati all’accoglienza o al rifiuto delle sue parole e, soprattutto,
specificando la ragionevolezza dell’ammaestramento (secon­
da fase); infine rinforza la sua parola reiterando il senso stes­
so dell’istruzione, ravvivando l’entusiasmo di chi ascolta in
vista dell’applicazione concreta (la terza fase è il momento
“patetico” del discorso).4
Per quanto riguarda la tripartizione del discorso va tenuto
presente che nella retorica classica l’oratore non è vincolato
nel seguire tutti i passaggi che le regole impongono; in base
al contesto egli può liberamente articolare e adattare le parti
del discorso, pur seguendo un canovaccio di fondo. Anche
nel libro dei Proverbi la struttura del discorso può essere
semplificata o, al contrario, applicata in toto, a seconda della
natura e della portata dello stesso: anche se nella tripartizio­
ne delle istruzioni bibliche formalmente manca, per esempio,
l’importante elemento del discorso retorico come la probatio,
è plausibile ipotizzare che i redattori di Pr 1-9 abbiano volu­
to porre in essere un testo intriso di tradizioni giudaiche ma
seguendo la forma ellenistica, per quanto riguarda la struttu­
ra. Solo di recente sono state studiate, con l’attenzione che
meritano, queste sezioni del libro dei Proverbi, facendo
emergere un aspetto in precedenza trascurato: il ruolo fonda-
mentale dei genitori nella trasmissione sapienziale giacché è
la loro vita, insieme alle parole, a fungere da insegnamento
da accogliere e praticare. E soprattutto il padre a impartire
l’ammaestramento nelle istruzioni di Pr 1-9 e 23,15-28,5 seb­
bene anche la madre compaia in alcuni testi (1,8; 6,20;

4 Questa suddivisione risale a O. P l ò g ER, (Spruche Salomos [Proverbia] [BKAT 17],


Neukirchener, Neukirchen-Vluyn, 1984, 23-24), ed è stata successivamente sviluppata da
M.V. F o x («Ideas of Wisdom in Pr 1-9», in JBL 116[1997], 614-615).
5 Cfr. D.A.N. NGUYEN, «Figlio mio, se il tuo cuore è saggio». Studio esegetico-teologico
del discorso paterno in Pro 23,15-28 (Analecta Gregoriana 299), Pontificia Università Gre­
goriana, Roma 2006.
23,22). In entrambi i casi in questi testi la loro parola è fatta
risuonare con una pregnanza tale da essere accostata a quella
della Sapienza.
Lo scopo dell’educazione mira a mettere in guardia dalla
seduzione della straniera e dei peccatori: le loro proposte al­
lettanti nascondono cattive intenzioni alle quali il figlio deve
saper opporre, se desidera vivere, un risoluto rifiuto. Sia i di­
scorsi in prima persona della Sapienza sia quelli dei genitori,
concorrono a sottolineare l’urgenza dell’ascolto.

2. Esegesi di Pr 2: «Se accoglierai le mie parole»

2.1. Le istruzioni come elemento strutturante di Pr 1-9 e il


rapporto con gli interludi

Il genere «istruzione» si caratterizza per la presenza di co­


mandi, esortazioni, direttive e motivazioni in base ai quali ac­
cogliere le indicazioni parentali. Gli elementi di cui si com­
pone in Pr 1-9 sono i seguenti:

- un’introduzione con l’invito all’ascolto («figlio mio»; solo in


4,1 c’è «figli»);
- il comando espresso in forme volitive (imperativo-iussivo negati­
vo) in cui un padre esorta il figlio a fare attenzione alle sue parole;
- l’affermazione dell’autorità di chi parla;
- l’esplicitazione dei vantaggi che dall’ascolto derivano e l’invito
a mettere in pratica l’insegnamento;
- l’insegnamento vero e proprio;
- un ulteriore invito a cogliere la preziosità di ciò che si insegna.

Queste componenti possono essere organizzate nello sche­


ma già segnalato da M.V. Fox,6 il quale considera il genere
istruzione come l’impalcatura della prima raccolta del libro dei
Proverbi, individuandovi una struttura tripartita assimilabile
allo schema della dispositio della retorica classica.7 In Pr 2 lo
schema della retorica classica si articola nel seguente modo:

- Exordium (w. 1-11). Dopo l’indirizzo «figlio mio», l’invito


consiste nell’accogliere le parole paterne e i suoi precetti, nel
tendere l’orecchio alla sapienza accogliendo nel cuore la pru­
denza, nel desiderare l’intelligenza e la sapienza più dei beni
preziosi (w. 1-4). La motivazione che sostiene tale invito con­
siste nell’accresciuta comprensione del timore di Yhwh e della
conoscenza del divino (v. 5).
- Propositio (w. 12-19). Il contenuto dell’insegnamento è evitare
la via della malvagità e coloro che la percorrono, cioè quelli
che godono nel delinquere contro gli altri e la donna straniera.
- Peroratio (w. 20-22). La conclusione del discorso e l’ulteriore
esortazione esplicita la convinzione che ai malvagi è destinata
una sorte di annientamento e distruzione, mentre ai retti tocca
in sorte la vita sulla terra.

Questo genere - secondo A. Lemaire - nasce come espres­


sione di uno status sociale altolocato per poi successivamente
assestarsi nei ceti più popolari: «l’istruzione del maestro ini­
zialmente ebbe come scopo l’educazione dei figli apparte­
nenti alle famiglie più importanti, ed era connessa con il pa­
lazzo regale o con il tempio, anche se successivamente vide
una crescente apertura all’istruzione popolare».8
Ma in Pr 1-9 accanto agli ammonimenti parentali si ravvi­
sano anche cinque interludi che offrono testi differenti:

7 Si veda anche quanto ho scritto in: «Ascolta Figlio». Autorità e Antropologia


dell insegnamento in Proverbi 1-9 (Studia Biblica 4), Città Nuova, Roma 2006, 25-39; 47-
49; 103-124.
8 A. L e m a ir e , «The Sage in School and Tempie», in J.G . G a m m ie - L.G . P e r d u e
(edd.), The Sage in Israel and thè Ancient Near Easty Eisenbrauns, Winona Lake (IN)
1990, 181; I d ., Le scuole e la formazione della Bibbia nellTsraele antico (Studi Biblici 57),
Paideia, Brescia 1981.
- condanna dello stolto da parte della donna Sapienza (1,20-33);
- elogio della sapienza (3,13-20);
- quattro epigrammi circa la stoltezza e la malvagità (6,1-19);
- autoelogio della donna Sapienza (8,1-36);
- inviti della donna Sapienza e della donna Follia (9,1-18).

Il lavoro redazionale ha legato questi interludi alle dieci


istruzioni che fungono, secondo il seguente schema, da prin­
cipio di unità strutturale della sezione:9

Prologo: 1,1-7
Istruzioni Interludi Inserzioni minori
I: 1,8-19
A: 1,20-33
II: 2,1-22
III: 3,1-12 3,3a
B: 3,13-20
IV: 3,21-35
V: 4,1-9
VI: 4,10-19
VII: 4,20-27 4,27a.27b
V ili: 5,1-23 C: 6,1-19 6,8a-8c.lla
IX: 6,20-35
X: 7,1-27
D: 8,31-36 8,13a.l9
E: 9,1-6 + 11.13-18 9,7-10.12

Evidenziamo di seguito il rapporto che esiste tra gli inter­


ludi (secondo la maggioranza degli studiosi l’ultimo strato

9 Cfr. F ox, Proverbi, 323-324.


aggiunto all’interno della serie delle istruzioni) e le istruzioni
stesse, per rilevare l’abile lavoro di tessitura finale di brani
originariamente indipendenti e così collocare Pr 2 nel suo
contesto prossimo.
La complementarietà finale tra istruzioni e interludi emer­
ge dallo sguardo complessivo all’intero contesto di Pr 1-9.
Circa il contenuto: l’interludio A (la Sapienza che ride e si fa
beffa di coloro che non l’hanno ascoltata) aggiunge ironia al­
le minacce della I istruzione; l’interludio B (incoraggiamento
allo studio della sapienza) ben completa l’istruzione III che
loda la pietà e intima una certa cautela circa le capacità
dell’intelligenza umana; l’interludio D (invito pubblico della
donna Sapienza) contrasta con l’invito furtivo della donna
straniera di 7,9-10; l’interludio E riprende il motivo dell’invi­
to della Sapienza (8,34) e il riferimento alla casa della donna
adultera (7,27), rielaborandoli nel tema dei due inviti contra­
ri. Possiamo dire che gli interludi hanno una propria colloca­
zione logica, che però non va ricercata nell’estensione della
logica delle istruzioni ma, al limite, nella logica della comple­
mentarietà. Ciò sembra suggerire che uno o più autori suc­
cessivi abbiano “mitigato” in qualche aspetto l’enfasi delle
letture.
Non si può, però, giungere alla conclusione che gli interlu­
di siano una trattazione a sé stante frutto del lavoro di un
unico autore, e ciò a causa delle differenze che corrono an­
che tra gli interludi stessi. L’interludio A, infatti, condanna
gli stolti che hanno ignorato il suo appello; ma in effetti la
menzione di una chiamata si ha solo in D ed E. L’interludio
E (9,1), in cui la Sapienza costruisce la sua casa, sembra non
seguire la logica di D (8,34), dove la casa è già bella e pronta.
L’autore dell’interludio D difficilmente avrebbe aggiunto
l’interludio E, in quanto D con la narrazione dell’origine del­
la Sapienza e della benedizione che tocca a tutti coloro che la
ascoltano, costituisce un gran finale alla sezione intera e ben
introduce alle raccolte che seguono. L’interludio E, perciò,
con la sua caduta di tono sembra un’interruzione dopo il so­
lenne invito del c. 8. Per cui, a rigor di logica, la sequenza
temporale degli interludi sembra essere E-D-A e non A-D-E.
Non si può fare a meno di rilevare, comunque, che accanto a
questa eterogeneità tra gli interludi esiste una coesione ine­
rente ai temi presenti negli stessi: oltre alla personificazione
della Sapienza come donna, abbiamo il comune luogo in cui
la Sapienza fa sentire la sua voce (alle porte della città e nelle
strade) e la tipologia dei suoi ascoltatori (gli inesperti). Que­
sti aspetti appartengono principalmente ad A, D ed E, ma
sono già prefigurati nell’encomio della sapienza in B (soprat­
tutto in 3,16-18).
A livello della forma, infatti, numerosi sono gli indizi che
ci permettono di rintracciare un’abile tessitura del testo. N u­
merose sono le ripetizioni lessicali e semantiche: timore di
Yhwh (1,7.29; 2,5; 9,10), le lusinghe della straniera (2,16;
6,24; 7,5.21), inebriarsi (5,19; 7,18), legali (le parole, i pre­
cetti) al tuo collo, alle tue dita, scrivile sulla tavola del tuo
cuore (3,3; 7,3), la saggezza come superiore all’argento, all’o­
ro e alle perle (3,15; 8,10-11), il Signore ha consolidato i cieli
(3,19; 8,27) e fondato la terra (3,19; 8,29); infine il sintagma
stereotipo proprio del genere letterario esortativo in riferi­
mento all’ascolto che il figlio (o i figli) deve al padre (1,8;
4,1.20; 5,1.7; 6.20; 7,1.24; 8,32). A ciò si aggiunge la presen­
za di alcune tematiche delle istruzioni negli interludi: l’invito
a cercare la sapienza (2,4; cfr. 1,28), ad ascoltarla (2,2; 4,20;
5,1; cfr. 1,24; 8,32), a invocarla (2,3; cfr. 1,28), a trovarla
(4,22; cfr. 1,28; 3,13; 8,17.35); le cattive conseguenze che
vengono dal non ascolto della Sapienza (5,12-14; cfr. 1,29-
32); la personificazione della sapienza che lungo le istruzioni
ricorre come metafora tra le altre (2,3-4; 4,8-9; 6,22; 7,4).
Inoltre la donna Follia ha alcuni aspetti in comune con la
donna straniera: la sua casa deve essere evitata (5,8; 7,25; cfr.
9,13-18), il suo sentiero porta alla morte (2,18-19; 5,5; 7,27;
cfr. 9,18).
Infine, non possiamo non segnalare le divergenze tra istru­
zioni e interludi. A livello concettuale la più evidente risiede
nel diverso concetto di sapienza che essi contengono; le pri­
me comprendono la sapienza nelle parole e nel pensiero de­
gli uomini, nei secondi invece essa trascende il pensiero del
singolo. Dal punto di vista dei destinatari, le istruzioni sono
indirizzate da un padre a un figlio, mentre la Sapienza che
parla negli interludi si rivolge agli uomini in generale (inter­
ludio B) o a uomini identificati nel testo (A, D, E).
Rispetto alle altre, l’istruzione del c. 2 spicca per una par­
ticolarità visibile anche a una prima lettura: Vexordium (w.
1-11) è più lungo della propositio (w. 12-19). Ciò significa
che il c. 2 ha un ruolo di rilievo, come ha avuto modo di evi­
denziare A. Meinhold, il quale collega questo capitolo all’in­
tera collezione rintracciando un’intricata rete di richiami.10 Il
c. 2 presenta il programma del maestro sui seguenti temi: la
giusta relazione con Dio (2,5-8 e 3,1-12) e con gli altri uomi­
ni (2,9-11 e 3,21-25), l’attenzione agli uomini cattivi (2,12-15
e 4,10-19 + 20-27) e alla donna straniera (2,16-19; 5,1-23 +
6,20-35 + 7,1-27). La seconda istruzione è, cioè, organizzata
in modo tale da rispondere a questo piano generale: ci sono
dieci insegnamenti del maestro (1,8-19; 2,1-22; 3,1-12; 3,21-
35; 4,1-9; 4,10-19; 4,20-27; 5,1-23; 6,20-35; 7,1-27), quattro
poemi sulla Sapienza (1,20-33; 8,1-36; 9,1-6; 9,13-18) e tre
brani-cerniera (3,13-20; 6,1-19; 9,7-12).
Ma è il momento di analizzare con maggior attenzione il
nostro testo.

10 Cfr. A. MEINHOLD, Die Sprìicke: Teii 1: Sprùche Kapitel 1-15 (Ziircher Bibelkom-
mentare. Altes Testament 16.1), Theologischer Verlag, Zùrich 1991, 43-46. Volendo esse­
re un po’ critici con questa ipotesi, annotiamo che i w. 5-8, che riguardano la giusta rela­
zione con Dio, possono anche rimanere legati ai w. 9-11 (da Meinhold letti in rapporto
alla giusta relazione con gli uomini): il tema delle relazioni sociali è, infatti, presente sia in
2,5-8 che in 2,9-11.
2.2. Traduzione e commento

f ig lio mio, se accoglierai le mie parole e conserverai i miei pre­


cetti,
prestan do ascolto alla sapienza e inclinando il tuo cuore alla
prudenza,
3se invocherai l'intelligenza e alla accortezza rivolgerai la tua vo­
ce,
4se la cercherai come Pargento e come un tesoro la scaverai,
5allora intenderai il timore del Signore e la scienza di Dio trove­
rai.
6Perché è il Signore che dona la sapienza, dalla sua bocca la co­
noscenza e il senno;
7Egli riserva per i giusti il sapere e il discernimento per coloro
che camminano rettamente,
proteggendo le vie che conducono al diritto e custodendo i sen­
tieri dei suoi fedeli.
9Allora intenderai giustizia e diritto, rettitudine e ogni via che
conduce al bene,
10perché la saggezza raggiungerà la tua anima e la scienza ti deli­
zierà,
u la riflessione veglierà su di te, la prudenza ti custodirà.

12Per salvarti dalla via del malvagio, dalPuomo che parla di cose
perverse;
13da quelli che abbandonano i sentieri diritti, che vanno per vie
tenebrose,
14che godono nel fare il male ed esultano nella sua perversione:
13sono intrinsecamente contorti e sviati nelle loro decisioni.
16Per salvarti dalla donna sposata, dall'estranea che ha parole se­
ducenti,
17che ha abbandonato il compagno della sua giovinezza e ha di­
menticato l'alleanza del suo Dio.
18Daw ero la sua casa conduce verso la morte e i suoi sentieri
verso le ombre:
19tutti quelli che vanno da lei non ritornano e smarriscono il
senso della vita.
20Pcr questo andrai per vie buone serbando la giustizia:
21i retti, infatti, abiteranno la terra e gli integri vi porranno di­
mora;
22i malvagi, invece, saranno eliminati dalla faccia della terra e gli
sleali saranno estirpati da essa.

1-11. L’ exordium. La prima parte dell’istruzione può esse­


re suddivisa in tre sottosezioni in ragione della presenza della
proposizione condizionale ’im («se») nei w. 1.3.4, della cor­
relativa ’az («allora») nei w. 5 e 9 - che apre alle motivazioni
dell’insegnamento - e della congiunzione causale kt («per­
ché») nei w. 6 e 10. Si disegnano, perciò, una premessa (w.
1-4) e due strofe (w. 5-8 e 9-11).
1-4. Il discepolo come custode dei precetti. In questa prima
strofa le tre proposizioni ipotetiche (w. 1.3.4) esaminano l’at­
teggiamento del discepolo e il suo ruolo in rapporto all’ac­
quisizione della sapienza. Nel v. 1 le parole del padre-mae­
stro ( ’am àrày) sono in p arallelo con Ì suoi p recetti
{miswótay). La miswàh è un comando impartito da Dio, dai
suoi rappresentati come il re (2Re 18,36; Est 3,3), oppure da
altri leader come Mosè (Gs 22,5), Ionadab (Ger 35,14-16):
esso è sempre veicolato con una certa autorità. Questa con­
notazione della parola magistrale che si ritrova in Pr 2,1, è ri­
chiamata in altri passi di Proverbi (2,1; 3,1; 4,4; 6,20; 7,1-2),
testi in cui è sempre il padre il soggetto che consegna con au­
torevolezza il proprio insegnamento.
I verbi utilizzati («accogliere» e «conservare»: v. 1) espri­
mono la capacità positiva posseduta dall’educando di com­
prendere e di custodire, cioè osservare, i precetti. Questa cu­
stodia od osservanza è legata all’ascolto attento e vigile in vi­
sta della totale obbedienza all’ammaestramento del padre.
II verbo qàsab del v. 2 indica l’atteggiamento del dare ret­
ta, dell’ascolto attento, dell’essere attento (Is 28,23; 32,3; Sai
17,1). Quando si trascura questo atteggiamento, allora si in­
corre nella disobbedienza volontaria e colpevole. In Ger 6,10
e Zc 7,11 la radice verbale - come in Pr 2,2 legata al sostanti­
vo ’dzen («orecchio») - veicola l’idea di chi volontariamente
si rifiuta di dare ascolto alle parole profetiche, trascurando
l’urgenza e la vigilanza connesse a tale invito (Ger 6,17). Raf­
forza questa idea l’espressione «inclinare il cuore» (nàtah léb
del v. 2), che nella forma hifil esplicita lo slancio di chi, appli­
candosi, tende verso qualcosa (il cuore è il centro intellettivo-
volitivo della persona). Il padre-maestro consegna, cioè, in
questi versetti iniziali l’iter educativo che il figlio-discepolo
deve seguire: a un atteggiamento più passivo legato all’acco­
glienza dell’istruzione sapienziale, ne segue uno più attivo le­
gato all’invocazione (v. 3) e alla ricerca fattiva della sapienza
(v. 4).
Al termine ebraico hokmàh si possono attribuire quattro
distinti significati: una sagacia pratica, cioè la conoscenza
delle cause e delle conseguenze che nella vita di ogni giorno
un soggetto può individuare (cioè un’abilità generale all’uso
della ragione e alla comprensione, ma anche un’abilità politi­
ca e tecnica riferita a un mestiere o professione); una sapien­
za etica e religiosa; una sapienza speculativa per comprende­
re la vita e il mondo; una sapienza come tecnica intellettuale
per conseguire questa sapienza speculativa, legata a una di­
sciplina dell’apprendimento. Tra le eventuali definizioni che
si possono dare della sapienza (conoscenza pratica delle leggi
della vita e del mondo basata sull’esperienza; ricerca della
com prensione di sé in rapporto alle cose la gente e il
Creatore)11 preferisco intendere sinteticamente la hokmàh
come arte del vivere bene.
Questa sapienza va ricercata. Il tema della sua ricerca
(spesso faticosa) è un tema classico, un topos, degli scritti sa­
pienziali ed esprime il ruolo dell’uomo nell’acquisizione della1

11 Cfr. M o r la A s e n z io , Libri sapienziali>31-45.


sapienza (Gb 28; Qo 1,18; Sir 6,19.24-26). In Pr 8,5.10 l’ine­
sperto deve imparare ad accettare la correzione della Sapien­
za se vuole guadagnarla, così come in Sir 6,19.24-26.29 in cui
la fatica del discepolo è paragonata a quella del contadino
che coltiva la sua terra e che alla fine ne gusta i frutti, e anche
a quella di chi per essa si mortifica corporalmente con ceppi.
L’autore del Qoelet dice che per conseguire la sapienza è ne­
cessario molto affanno, molta fatica (Qo 1,18); in G b 28 l’uo­
mo mette in atto una pluralità di azioni (frugare, scavare,
scandagliare, scambiare, acquistare ecc.) per trovare il luogo
della Sapienza, eppure non ci riesce. Nel libro della Sapien­
za, infine, l’impegno nella ricerca è premiato dalla Sapienza
stessa, la quale previene per farsi conoscere quanti la deside­
rano, e chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la
troverà seduta alla porta (Sap 6,13-14).
5-8. Il Signore protegge la via dei giusti. Il v. 5 rappresenta
la seconda parte (apodosi) del periodo ipotetico iniziato con
il v. 1. Le premesse dei w. 1-4 consentono di maturare l’at­
teggiamento religioso legato al timore di Yhwh. Questa cate­
goria positiva, che è legata alla giusta venerazione da tributa­
re a Dio ed è all’origine della sapienza in Proverbi (Pr 1,7;
9,10) e in Siracide (Sir 1,14.18; 19,18; 50,29), è qui messa in
paragone con la rara espressione «scienza di Dio». Questo ti­
po di conoscenza in Os 4,1 e 6,6 è in rapporto alla presenza
interiore, e non solo formalistica, di Dio nella vita del cre­
dente.
L’accostamento del v. 5 tra le due espressioni sembra vei­
colare l’idea che dalla sapienza paterna derivi una maggiore
comprensione (il verbo ebraico byn ha una sfumatura intel­
lettiva) e una maggiore coscienza del sentimento religioso
che lega il discepolo a Yhwh. Non c’è, infatti, opposizione al­
cuna tra sfera intellettiva e quella religiosa perché entrambe
sono legate a Dio: da lui procedono la sapienza e la cono­
scenza, unitamente alla protezione che da queste discende.
A. Vignolo, a proposito del timore del Signore in Pr 2, anno­
ta che «questa sua qualifica di principio della sapienza in Pr
1-9 possiede senza dubbio una forte carica intellettuale, anzi
in nuce tutta una teoria della conoscenza, che dal senso reli­
gioso e dalla fede nel Signore non solo non si trova imbaraz­
zata o impedita, ma al contrario se ne sa inaugurata ed eman­
cipata; evidentemente l’idea non va verso una riduzione in­
tellettualistica, né rivendica alcuna pretesa esaustiva, quanto
piuttosto avanza un profilo fondativo».12
Nei w. 7 e 8 ricorre l’immagine «difensiva» che si struttu­
ra intrecciando due principali significati: Yhwh protegge i
giusti e come uno scudo li difende, Yhwh assicura la perma­
nenza nel bene di quanti si comportano con discernimento.
Si tratta della protezione costante e fedele di chi non fa man­
care la propria vicinanza attiva, più che di un’assistenza in
caso di pericolo.
9-11. La sapienza come delizia dell’anima. Questi versetti,
una piccola peroratio all’interno dei w. 1-11, costituiscono
la terza strofa dell’exordium: la particella avverbiale «allo­
ra» introduce il riepilogo degli effetti positivi che derivano
dall’ascolto delle parole paterne (la comprensione del bene,
il gusto della vita e la protezione), rafforzando l’invito all’a­
scolto. In questi undici versetti iniziali si può individuare lo
stile pedagogico sapienziale che prende avvio con l’acco­
glienza delle parole paterne (v. 1) per poi destare l’attenzio­
ne del discepolo (v. 2), invitandolo ad attivarsi per raggiun­
gere la sapienza, chiamandola (v. 3) e ricercandola attiva­
mente (v. 4). In un secondo momento è offerto un livello
religioso di sapienza che ritrova in Yhwh la sua sorgente
(w. 5-6), per poi esplicitare i benefici che sono legati alle
parole paterne: protezione divina (w. 7-8), piena luce nel

12 A. VlGNOLO, «Pregnanza e limiti della pedagogia sapienziale di Proverbi 2», in M.


M a c c a r in e l l i (ed.), Un padre per vivere. Lesperienza della figura paterna tra istanze reli­
giose e socio-culturali, Il Poligrafo, Padova 2001,32.
cammino morale e religioso unitamente a una vita «sapori­
ta» (w. 9-11).
Infatti, se il cuore è la sede in cui il figlio deve valutare la
bontà dell’insegnamento e decidersi per esso, è nella nefes
(interiorità) che deve gustare il sapore della sapienza. Le pa­
role parentali non vengono offerte con distacco né come una
semplice somma di virtù da maturare, ma si consegnano co­
me una proposta desiderabile di vita di cui l’educando può
godere e deliziarsi. La preponderanza dell’esortazione rispet­
to alla costatazione, si può, in ultima analisi, spiegare proprio
in ragione di tale vicinanza pedagogica: «le ragioni di
quest’espansione dell’ammonimento possono ricondursi al
fatto che l’evidenza fenomenologica constatativa, come pure
quella della pur motivata monizione abitualmente veicolate
dagli antichi meshalìm ormai non parlano più da sole, così
che vanno riaccese attraverso un contatto più caldo, meno
costrittivo, unito a un discorso più ampiamente ragionato,
capace piuttosto di far riflettere sulle sue impegnative condi­
zioni e di allettare per il cospicuo risultato attingibile, identi­
ficato nella scoperta di un’interiorità teologale».13
La conclusione di questa prima parte dell’istruzione resta
generica in quanto non ha ancora concretizzato le scelte che
il discepolo deve compiere; questa genericità persiste lungo
l’intero capitolo la cui sostanza non è tanto «cerca la sapien­
za», quanto piuttosto «se tu ricerchi la sapienza, la troverai».
Con M.V. Fox, notiamo che lo scopo dell’istruzione di Pr 2 è
quello di incoraggiare il neofita alla ricerca della sapienza
conducendolo attraverso il logico processo educativo. U exor­
dium, che generalmente introduce la lezione perché si presti
il dovuto ascolto, è il cuore stesso del messaggio, il centro del
capitolo, mentre la funzione della lezione è essenzialmente
retorica, illustrare il contenuto deW’exordium.14

» Ivi, 36.
14 Cfr. Fox, «The Pedagogy of Proverbs 2», 241.
12-19. La propositio. Dopo il lungo exordium la funzione
della propositio sembra passare in secondo piano, poiché il
messaggio è stato in parte consegnato: il maestro non ha fatto
la paternale sull’attuazione di minuziose norme comporta­
mentali, ma ha indicato la scaturigine stessa della vita morale,
cioè la sapienza come opzione di fondo che precede ogni sin­
gola scelta. Nei versetti che compongono il cuore dell’inse­
gnamento si delineano due figure negative dalle quali il di­
scepolo, ormai istruito e ben preparato, deve guardarsi: i
malvagi e la donna altrui. Se ne dipingono i tratti fondamen­
tali in due strofe parallele (w. 12-15 e 16-19) costruite in ma­
niera identica: le (per) + infinito costrutto + min (da). En­
trambi i soggetti hanno abbandonato il bene (lo stesso verbo
‘zb), proferendo discorsi che nascono da intenzioni cattive
(w. 12 e 16). Comune è, inoltre, il verbo nsl («salvare»: w. 12
e 16) che attesta la valenza delle parole paterne in ordine alla
preservazione dalla pericolosa seduzione che caratterizza
questi anti-modelli.
12-15. I malvagi che hanno abbandonato la retta via. Si ri­
trova un linguaggio riferito al male (via cattiva e cose perver­
se: v. 12; fare il male e perversità del male: v. 14) e alla con­
dotta malvagia (vie diritte abbandonate e vie tenebrose per­
corse: v. 13; sentieri contorti e cammini sviati: v. 15). La lun­
ga introduzione all’ammaestramento vero e proprio mira al
conseguimento di quelle virtù (umane e religiose) necessarie
per potersi salvare da coloro che pongono in essere il male e
che si dilettano nel perseguirlo. La loro pericolosità risiede
nella parola (così come per la donna straniera). Il termine
tahpukót del v. 12, attestato dieci volte nel libro dei Proverbi
(solo una volta in Dt 32,20), esprime la modalità del parlare
(Pr 2,12; 8,13; 10,31-32; 23,33) ma anche il contenuto di ciò
che si proferisce (Pr 6,14), esplicitando, inoltre, l’atteggia­
mento stesso di chi agisce e pensa tahpukót (Pr 2,14;
16,28.30; cfr. Dt 32,20). Il senso complessivo di questo voca­
bolo nella sua forma plurale è «cose perverse», cioè cose pre­
se per un verso sbagliato, distorto, in quanto non corrispon­
dente alla realtà. In una società orale dove la verità si afferma
o si nega in base all’uso buono o cattivo della parola, la per­
versione del linguaggio può avere esiti profondamente sov­
versivi.
L’immagine della via ( ’orhót ydser, cioè «sentieri diritti»: v.
13) richiama la condotta morale, mentre il riferimento alle te­
nebre significa sia l’epilogo a cui conduce la condotta perver­
sa (la morte come in Pr 9,17-18) sia l’habitat di chi delinque
(cfr. Gb 24,14-16: l’omicida, il ladro e l’adultero come com­
pagni dell’oscurità; si veda anche Is 29,15). In 15b il testo
ebraico dice alla lettera che i sentieri dei malvagi sono sviati
nel loro percorso o cammino {bem a‘g^lótàm). L’autore sacro
vuole indicare che non solo la condotta dei malvagi è tortuo­
sa ma essi stessi sono costituzionalmente perversi. L’aggettivo
con cui sono connotati i loro sentieri ('iqqesim) significa, in­
fatti, «essere perversi, sviati»: nel libro dei Proverbi sta in
rapporto al parlare (4,24; 6,12; 8,8; 19,11), al cuore (11,20;
17,20; 19,1) e alla via percorsa (22,5; 28,6; 28,18). Da questo
piccolo quadretto emerge la fisionomia dei malvagi: «sembra
trattarsi di vere e proprie bande di violenti, malfattori, mafio­
si che arricchiscono e cercano benessere con qualunque mez­
zo, ivi compresa la violenza attuata con quell’efferata e sadica
soddisfazione che tradisce un grado eminente di malvagità e
contumacia».15
16-19. La donna sposata che ha abbandonato il proprio com­
pagno. È questa la prima occorrenza dell’espressione ’issàh
zàràh (alla lettera «donna estranea») che nel v. 16 è in paral­
lelo con nokrtyyàh («straniera»). L’aggettivo zar ha un signifi­
cato etnico: è in rapporto alla legge del levirato, che impedi­
sce allo straniero di sposare la vedova di un Israelita (Dt

15 ViGNOLO, «Pregnanza e limiti della pedagogia sapienziale di Proverbi 2», 44.


25.5) e in rapporto al servizio dei leviti che esclude hazzàr
(Nm 1,51; 3,10; 18,4). Nei profeti zar designa chi non appar­
tiene a Israele e che, generalmente, è inteso come un nemico
(Is 1,7; Ger 2,25; Ez 31,12). Il significato di nokrìyyàh è simi­
le a quello di zar. «gente straniera» (Es 21,8), «uomo stranie­
ro» (Dt 17,15), «stranieri che non sono Israeliti» (G dc
19,12). Nel periodo esilico e postesilico la coppia zr/nkr ap­
pare soprattutto nella letteratura profetica, in cui si vietano i
matrimoni esogami (Esd 10,2.10-11.14.17-18.44; Ne 13,26-
27) con riferimento agli stranieri nemici di Giuda (Abd 11; Is
61.5) e alle straniere di Esd 9-10.
Accanto all’immediato significato etnico di ’issàh zàràh se
ne ricava uno etico: colei che osserva una condotta che la
rende «estranea», ovvero la pone fuori dalla prassi comune a
cui ella si dovrebbe attenere. E proprio sulla sua immoralità
che il padre punta il dito: ella ha rinunciato al patto coniuga­
le stabilito davanti a Dio tradendo il proprio marito (v. 17).
La fisionomia che si delinea da questa prima occorrenza del­
la straniera permette, perciò, al padre-maestro di stigmatizza­
re l’adulterio che nell’Antico Testamento è spesso associato
all’idolatria, come si legge in Osea (Os 4,13-14), Geremia
(Ger 5,7; 29,23), Ezechiele (Ez 23). Ricordiamo, a proposito
delle straniere, la vicenda dello stesso re Salomone il quale, a
causa delle tante mogli pagane, finì per peccare di idolatria:
egli, infatti, amò molte donne straniere (moabite, ammonite,
edomite e ittite), prassi proibita dal comando del Signore,
sposando settecento principesse e circondandosi di trecento
concubine; tutte queste donne a corte lo indussero all’idola­
tria (IRe 11,7-10).
Il maestro amplifica la portata di questa condotta immora­
le collocando tale specie di donna direttamente nella dimora
della morte: scoraggia quanti vogliono frequentare la sua ca­
sa perché, come dallo se ’òl, da essa non si fa più ritorno (v.
19). L’immagine dei passi e dei sentieri che conducono alla
morte trova eco nel più ampio contesto di Pr 1-9 e dell’inte­
ro libro (5,5; 7,27; 12,28; 14,12; 16,25). Analogamente a
quanto osservato a proposito dei perversi, anche per la don­
na si mette in guardia il discepolo dall’uso che ella fa della
parola. La seduzione delle sue parole è più pericolosa di
quella del suo stesso aspetto (menzionato solo in 6,25), rive­
lando che l’opposizione principale dell’intero c. 2 è da ravvi­
sare tra le parole di vita del padre-maestro e quelle di morte
dei suoi antagonisti (malvagi e donna straniera).
20-22. La peroratio. In questi versetti si tirano le conse­
guenze dell’insegnamento sopra esposto mentre se ne richia­
mano i temi portanti: la rettitudine morale e l’antitesi bene/
male (hlq/m date, smr/custodire, derek e ’arhót/vie, tobtm/
buoni, $edeq/giustizia, y asar/giusto, temim m/retti, r^sa'im /
malvagi).
L’affermazione circa la sorte dei giusti menziona la terra
( ’eres) come estensione della riflessione sulla vita che discen­
de dalla sapienza. «Non è una coincidenza il fatto che l’ac­
cento posto sull’abitare il paese si trovi immediatamente do­
po il primo discorso sulla donna estranea», fa notare L.G .
Perdue: «L’esplicito legame tra lo stare alla larga dalla donna
estranea e abitare il paese fa pensare che i saggi che hanno
formulato questa istruzione intendevano affermare che la
proprietà e l’eredità della terra - cui si dà un grande valore
ed è una preoccupazione reale dell’antico Giuda postesilico
- sono collegate alla pratica delle virtù della sapienza e della
rettitudine».16 La retribuzione riservata ai malvagi è indicata
dall’autore in forma impersonale, facendo supporre una sor­
ta di automatismo, insito nella realtà stessa, che bilancia le
sorti umane (Pr 11,18), sebbene nel capitolo successivo sia
attestato l’intervento diretto di Dio che punisce i cattivi e
premia i malvagi (Pr 3,32-35; cfr. anche Sap 3; 5,15; Sir 2,8).

16 L.G . PERDUE, Proverbi (Strumenti - Commentari 55), Claudiana, Torino 2011, 110.
Nel c. 2, in conclusione, si consegna l’assunto di fondo
che la sapienza è un dono divino: quando viene richiesta con
tutte le forze, accolta nel cuore e sentita nella propria interio­
rità, viene donata al discepolo ben disposto che è pronto a ri­
fiutare il vizio e le seduzioni della vita. Resistere alla seduzio­
ne è, infatti, l’obiettivo globale cui mira l’intera sezione di Pr
1-9, e ciò spiega l’insistenza sull’adulterio che riflette la pre­
occupazione dei maestri per una prassi che scompagina la vi­
ta sociale e viola il comandamento della Legge. Società e reli­
gione sono, in effetti, i due macro-orizzonti in cui si colloca­
no le sentenze dell’intero libro dei Proverbi, nella consapevo­
lezza che il comportamento deviante arreca danno non solo
alla comunità ma scompagina, allo stesso tempo, l’ordine re­
ligioso voluto da Dio e fonda le regole etiche. La retribuzio­
ne contenuta nella peroratio richiama il tema classico delle
due vie che ritornerà nel resto del libro: alla fine il maestro
mira a incentivare la pratica del bene, perché da questa sca­
turiscono i beni fondamentali legati alle promesse divine di
cui la terra è cifra, beni dai quali i malvagi sono irrimediabil­
mente esclusi.

3. Linee teologiche

Lo sfaccettato messaggio del libro dei Proverbi può essere


ricondotto a sei linee teologiche.
a) Il tim ore■ del Signore. «Il timore del Signore (yir’at
Yhwh) è l’inizio della sapienza» (Pr 1,7) e suo «fondamento»
(9,10). La sapienza che il padre-maestro trasmette ha un’ori­
gine teologale in quanto ha in Dio la sua fonte. Nel libro dei
Proverbi dal timore di Yhwh deriva la vita (10,27; 14,27;
19,23), l’umiltà (22,4) e la serenità che nasce dall’assenza di
invidia verso i peccatori (23,17-18). Questo timore di Dio è
un’espressione che richiama il contesto esodale della paura
davanti alla teofania sinaitica17 e rimanda ai doveri legati alla
vita religiosa e all’esecuzione minuziosa degli atti formali del
culto. La letteratura sapienziale estende la tematica del timo­
re di Yhwh fino a farne un leitmotiv dell’atteggiamento di af­
fettuosa riconoscenza e profonda gratitudine verso colui che
è la sorgente di ogni sapienza (1,7.33; 2,5; 9,10; 15,16.33;
19,23; cfr. anche Sir 1,9; 16,2; 19,18). Nel Salterio il timore di
Dio «abita» nei fedeli, nei «timorati», appunto, che parteci­
pano devotamente al culto e conducono una vita irreprensi­
bile (Sai 22,24; 31,20; 66,16; 103,11.13.17). Questa seconda
accezione etica diventa evidente soprattutto nei testi in cui si
trova la menzione dell’alleanza del Signore con il suo popolo
(Sai 25,12,12.14; 34,8.10). Si può dire che esiste un’identifi­
cazione tra l’osservante e il timorato, cioè tra colui che segue
piacevolmente i precetti del Signore e colui che lo teme.
Il timore di Yhwh in Proverbi esprime l’atteggiamento di
rispetto e venerazione nei confronti di Dio, l’obbedienza alla
sua volontà e la scoperta della sua santità. Yir’at Yhwh è, per­
ciò, un concetto positivo che pone nella giusta relazione co­
loro che ricercano la sapienza e non si chiudono nell’auto­
sufficienza (Pr 3,5). Inoltre in Pr 15,33 si dice che il timore di
Yhwh è musar, termine ebraico che significa «istruzione»,
«am m aestram ento», sostantivo che esprime il tratto più
orientativo e costrittivo dell’educazione, richiamando la cor­
rezione - legata a ogni sana pedagogia - alla quale si sotto­
mette chi ama il Signore.
h) L’educazione. Si può asserire che la teologia del libro
dei Proverbi si presenta, principalmente, sotto le vestigia
dell’antropologia. Sia i discorsi in prima persona della Sa­
pienza sia quelli dei maestri (presentati come genitori attenti
alla formazione dei propri figli), concorrono a porre l’accen­
to sull’urgenza dell’ascolto. Questo sdoppiamento di voci

17 Cfr. Es 19-20. In Dt 5,23-29, per esempio, il popolo avverte la paura di Yhwh e,


come in Es 20, chiede a Mosè di fungere da interlocutore diretto di Dio.
ottiene un’articolazione di appelli e di toni: entrambi i sog­
getti educanti sono concordi nel collegare esplicitamente l’a­
spetto morale a quello religioso. Il discepolo, chiamato a di­
ventare saggio, è colui che si lascia plasmare dalla voce dei
maestri in ragione della sua docilità spirituale: interiorizza le
norme - dettate da una buona dose di senso comune - in
quanto vi riconosce un disegno superiore e una valenza che
trascendono quella che potrebbe essere la contingenza di un
semplice bagaglio culturale, inserendosi nel cuore stesso del­
la fede ebraica.
Il sapiente, quindi, fa teologia quando educa e trasmette i
valori di cui è depositario: forgiando il carattere delle nuove
generazioni, professa il proprio Credo nell’uomo che Yhwh
ha creato, contribuendo a perpetuare e, laddove necessario,
ristabilire quell’equilibrio cosmico che è stato deturpato dal­
la cattiveria umana. Ed è proprio questo legame con il cosmo
a permettere la saldatura tra la riflessione, sull’uomo e quella
sul mistero di Dio, in quanto esso rappresenta l’essenza stes­
sa della teologia dei sapienti in genere e anche dei Proverbi.
c) Il giusto rapporto con gli altri uomini e con Dio. Il giova­
ne deve discernere le relazioni che conducono al bene da
quelle che portano alla morte. Queste ultime, anche se allet­
tanti in quanto promettono un immediato godimento econo­
mico (dividere il bottino con i delinquenti: Pr 1,13-14) e ses­
suale (soddisfare i propri impulsi peccando di adulterio e in­
frangendo ogni regola sociale e religiosa: cc. 2; 5; 6; 7), si ri­
velano disastrose nelle loro conseguenze.
Sin dalle prime battute del libro (1,4) ci si rivolge all’ine­
sperto, affinché colga la relazione che gli consenta il vero be­
nessere psico-fisico, sociale e religioso. A un primo livello,
quello fisico, egli deve apprendere a non sciupare le energie
economiche e sessuali in incontri occasionali («Chi frequenta
le prostitute dissipa i propri beni»: 29,3) alieni da qualsiasi
progettualità familiare. La raccomandazione parentale, con­
scia della bontà dell’unione fisica all’interno del matrimonio,
incita il giovane a godere della bellezza della propria moglie
(«donna della tua giovinezza»: 5,18), la cui presenza allieta il
marito (12,4). A un secondo livello, quello sociale, la condot­
ta improntata a saggezza porta con sé l’onore e la stima degli
uomini (3,4; 21,21). Il sapersi accontentare di ciò che si pos­
siede è la migliore garanzia di equilibrio e amabilità («Non
darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo neces­
sario»: 30,8) nella consapevolezza che «è meglio poco con
giustizia che molti beni senza l’onestà» (16,8). Infine, il cor­
retto orientamento a Dio dell’intera esistenza è fonte di be­
nedizione per il giusto, mentre i progetti del cattivo sono
sconvolti dall’intervento divino (10,3.6.7; 11,11; 14,11;
24,20). Il saggio ha ben chiara, inoltre, la consapevolezza del­
la corrispondenza tra l’azione moralmente buona e la fede, in
quanto «chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi
ha pietà del misero lo onora» (14,31).
d) Le compagnie da evitare. Nel libro dei Proverbi non è
attestato alcun determinismo morale: anzi, la Sapienza si ri­
volge espressamente all’inesperto e all’ingenuo (peti) affinché
si ravveda. Questi, a causa della giovane età e della scarsa co­
noscenza della vita, è facile preda dei malintenzionati. A una
lettura più attenta, tuttavia, si delinea la tipologia comporta­
mentale del lès («beffardo», «arrogante») il quale è così defi­
nito: «Orgoglioso e superbo sono i nomi del beffardo, egli è
uno che reagisce con orgoglio smisurato» (21,24). Il saggio sa
che la parola virulenta del lès rende inefficace, anzi dannoso,
ogni tentativo di correzione (9,8).
Dagli ammaestramenti si evince la volontà di mettere in
guardia dalle cattive compagnie le quali si concretizzano in
alcune figure negative. Anzitutto si disapprovano i peccatori,
gli hattà’im. Il termine è generico ma in 1,10-19 rimanda a un
gruppo dedito abitualmente alla delinquenza: essi affascina­
no il giovane promettendo un guadagno facile frutto di rapi­
na e violenza. Accanto ai peccatori si tratteggia la fisionomia
dei malvagi (ra'im ) soggetti pericolosi e intrinsecamente in­
capaci di comprendere il bene (28,5). Il male si annida nei lo­
ro pensieri perché lo desiderano (14,22; 21,10), emerge dalle
loro parole (2,12-15; 12,13) e si palesa nella condotta votata
all’ozio (6,12) e alla ribellione (17,11). Una terza figura «fata­
le» è la donna straniera, la ’issàh zàràh chiamata anche
nokriyyah, descritta in diversi passi (2,16-19; 5,1-23; 6,24-35;
7,5-27; 9,13-18): ella, presentata come una prostituta o un’a­
dultera (23,27), seduce il peti attirandolo nella sua casa dalla
quale, come dagli inferi, non c’è via d ’uscita.
e) La Sapienza in «persona». Abbiamo già posto in rilievo
l’accostamento tra la sapienza biblica e quella dell’Antico Vi­
cino Oriente (Egitto e Mesopotamia). Tra le tante considera­
zioni che si possono fare circa questo rapporto (tutte a favore
della diversità di contenuti a fronte di una formulazione
spesso simile) notiamo che l’accostamento tra la dea egizia
Ma’at che presiede alla giustizia e la Sapienza di Pr 1-9, pale­
sa una radicale differenza nell’uso della parola: mai Ma’at è
presentata nell’atto di proferire un discorso. Risalta, inoltre,
a uno sguardo attento - pur riconoscendo una contiguità
formale tra la sapienza biblica e quella extra-biblica (si pensi,
per esempio, alle opere didattiche egizie Ptahhotep, Merika-
ra, Ani, Amenemope e Ankhsheshonqy o all’istruzione babilo­
nese Le Parole di Ahikar) - la profonda distanza teologica (in
Proverbi lo sfondo è monoteistico e non politeistico), antro­
pologica (lo stolto può ravvedersi e divenire saggio nel testo
biblico, diversamente da quanto accade nelle opere egizie
nelle quali prevale una sorta di determinismo di status) e so­
ciologica (il mondo “magico” dei testi egizi e mesopotamici
stride con la laicità nella quale si muove l’Israelita, per il qua­
le l’unico riferimento al mondo sovra-umano è Yhwh).
Nei brani dei Proverbi in cui si rintraccia la personifica­
zione della Donna Sapienza (1,20-32; 8,1-36; 9,1-6.13-18), el­
la pronuncia un appello affinché il suo messaggio sia ascolta­
to. Tale Sapienza viene indicata in 1,20 e 9,1 con un sostanti­
vo femminile plurale (hokmót, «sapienze») anche se i verbi
sono accordati al singolare. La finale -òt può derivare da una
forma femminile arcaica nello stile cananeo o fenicio18. La
presenza del plurale nelle due occorrenze di 1,20 e 9,1 si può
anche interpretare in rapporto al ruolo della sapienza: questa
forma permette, in tal modo, di contrassegnare la Sapienza
personificata che parla in prima persona rispetto alla sapien­
za insegnata dai maestri. La Sapienza si narra, rivela il suo
rapporto di mediazione tra Yhwh e gli uomini, proclama
apertamente la propria missione nei luoghi in cui vivacemen­
te brulica la vita dei suoi destinatari («In cima alle alture,
lungo la via, agli incroci delle vie ella si pone; accanto alle
porte, all’ingresso della città, sulle vie di scorrimento ella gri­
da»; 8,2-3).
f) La sapienza e la Légge. Le parole del sapiente in Pr 1-9
spesso si caricano di risonanze bibliche che ammiccano ai te­
sti legislativi. Quando si leggono le raccomandazioni del pa­
dre ad accogliere la sua parola, non è difficile pensare ai testi
del Deuteronomio in cui si invita all’ascolto dell’insegnamen­
to che Mosè consegna prima di morire (Dt 4,1), insieme ai
brani che raccomandano l’osservanza delle norme e delle leg­
gi che rendono Israele il popolo intelligente: esso si guarda
bene dal dimenticare e trascurare i dettami di Yhwh (Dt 4,1-
9), l’unico Dio da temere e da amare con tutto il cuore e tut­
te le forze (Dt 6). Questi rimandi deuteronomistici conferi­
scono autorità canonica alle istruzioni che, a mo’ di introdu­
zione, aprono l’intero libro dei Proverbi. Con lo stesso orien­
tamento ermeneutico possono essere interpretate le parole di
rim provero/esortazione della Sapienza personificata (Pr
1,20-32). Echi del Decalogo (Es 20 e Dt 5) risuonano, anco­
ra, nella prima raccolta (cioè in Pr 1,8-9,18): alcune delle
«dieci parole», legate all’educazione del desiderio (il verbo
hàmad, «bramare», ricorre esplicitamente in Pr 6,25), sono
oggetto dell’ammaestramento sapienziale («non uccidere»:
1,10-12.15-16; «non commettere adulterio»: 2,18-19; 5,3-6;
7,22-27; «non rubare»: 1,10.13.19; «non pronunciare falsa
testimonianza»: 6,19; «non desiderare la moglie del tuo pros­
simo»: 6,25).
In un tempo storico (probabilmente il tardo periodo per­
siano, V-IV secolo a.C.) accanto al sacerdozio e alla profezia
le parole del saggio, più che in altri periodi storici, assolvono
al compito di attualizzare la Legge di Dio.

B ib liografìa di riferim ento e di approfon d im en to

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G IO B B E

1. Questioni storico-letterarie

Nel prologo al libro di G io b be, G irolam o constatava


che rendere dall’ebraico un simile testo è come tentare
di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena:
più forte la si prem e, più velocem ente sfugge di m a­
n o .1 Q uesta fam osa frase rende bene l’idea della com ­
plessità dello scritto sapienziale, redatto quando la co­
m unità d ’Israele sta sperim entando lo sm acco del rap ­
porto con Yhwh (il rientro non troppo esaltante dall’e­
silio al tem po di Neem ia, nel V secolo a.C .), rapporto
che si è incrinato a m otivo di un’idea di autom atism o
retributivo che sollevava più problem i di quanti ne ri­
solvesse.

1.1. Testo e versioni

Fino agli anni Settanta del secolo scorso si credeva che il


libro di Giobbe fosse tra i meno comprensibili dell’Antico
Testamento, almeno stando al giudizio di N.C. Habel: «Il
testo ebraico di Giobbe è probabilmente il più corrotto di1

1 Incipit Prologus Sancti Hieronymi in libro lob, in R. W e b e r (et al.), Bibita Sacra iuxta
Vulgatam versionemyDeutsche BibelgeseUschaft, Stuttgart 52007>731.
ogni altro libro biblico».2 Negli ultimi decenni le considera­
zioni si sono fatte più caute anche grazie al progresso degli
studi nel campo della poesia ebraica e del confronto con la
linguistica comparata, sebbene la difficoltà di tanti passaggi
permanga anche in ragione degli innumerevoli hapax lego-
mena (termini che occorrono una sola volta nella Bibbia
ebraica). Il 30% del libro resta, per alcuni autori, scritto in
un ebraico incomprensibile. Il testo ebraico, che contiene
numerosi aramaismi, rimane spesso oscuro. Il confronto
con la versione greca non sempre è di grande aiuto, anzi
spesso complica le cose. Questo testo, infatti, è più breve ri­
spetto a quello masoretico e talvolta ricorre a quella che pa­
re essere una parafrasi dell’ebraico che, come indicato, pre­
senta glosse e molte incertézze. Si ipotizza, perciò, che i co­
pisti greci avessero tra le mani un testo ebraico differente
dal presente. Si nota però anche che il G iobbe greco è me­
no «eversivo» rispetto a quello ebraico e, in alcuni passaggi,
più teologicamente connotato: i traduttori greci hanno for­
se voluto mitigare alcuni passaggi ritenuti particolarmente
duri od offensivi.
A rao’ d ’esempio cito il caso di G b 19,26, perché le dif­
ferenze testuali hanno avuto ripercussioni persino sull’uti-
lizzo nella liturgia cattolica. Il testo ebraico non è imme­
diatamente comprensibile: «D opo che mi avranno strazia­
to la pelle ormai senza carne vedrò D io». Il senso sarebbe:
Giobbe, ormai ridotto a pelle e ossa, spera di riuscire a ve­
dere Dio (cioè di essere ascoltato e guarito). E possibile
un’altra traduzione (anche se meno sicura): «D opo il mio
risveglio, mi innalzerà presso di sé». I Settanta inseriscono
un elemento nuovo: «Risorgerà/si rimetterà la mia pelle

2 N.C. H a b e l , The Book o f]o b , Cambridge University Press, Cambridge 1975, 11.
Cfr. M. DAHOOD, «Northwest Semitic Texts and Textual Criticism of thè Hebrew Bible»,
in C. BREKELMANS (ed.), Questions disputées d’Ancien Testamenti méthode et théologie,
Leuven 1974, 11-37.
che sopporta tali cose, poiché il Signore me le ha presen­
tate». Con il verbo amstémi che può significare «alzarsi/
mettersi in piedi», ma anche «risuscitare», il versetto rin­
vierebbe a Dio come a colui che porrà fine alle sofferenze
di Giobbe, anche se il rimando alla risurrezione non sem­
bra estraneo, così come si evince dalle variabili testuali
che esprimono quest’aspetto legato all’escatologia.3 R i­
mando invece sviluppato dalla versione latina di G irola­
mo, con l’esplicito intento di leggere l’esperienza di G iob­
be alla luce della risurrezione, tanto che questo testo è sta­
to incluso nel lezionario della liturgia dei defunti: «E t rur­
sum circumdabor pelle mea et in carne mea videbo Deum»
(«Di nuovo sarò circondato della mia pelle e nella mia car­
ne vedrò D io»). Questa sarà la lettura che i Padri della
Chiesa preferiranno.

1.2. Struttura

«È il solo libro sapienziale con una trama; il libro della Sa­


pienza di Salomone presenterà una reale unità interna, ma
più a livello d ’argomentazione teologica che di sviluppo di
una trama».4 Scorriamo i capitoli dell’opera alla ricerca del
piano redazionale che racchiude il cuore della storia (3,1—
42,6) che è in poesia dentro una cornice narrativa in prosa
(cc. 1-2; 42,7-17).

3 Cfr. T.X. T e r r en c e , «Resurrection: A Reai Preoccupation of thè Septuagint?», in G.


BONNEY - R. VlCENT (edd.), Sophia - Paideia. Sapienza e educazione (Sir 1,27). Miscellania
di studi offerti in onore del prof Don Mario Cimosa, LAS, Roma 2012,140.
4 G ilbert , La Sapienza del cielo, 64.
1-2 Prologo: iniziale benessere di Giobbe e sua perdita dei beni, dei
figlie e della salute.
3- 27
I: Dibattito tra Giobbe e suoi tre amici.
3 monologo iniziale di Giobbe: lamento sulla situazione di
disgrazia e desiderio della morte.
4- 14 Primo ciclo di discorsi
4-5 Elifaz: la sofferenza è legata alla colpa;
6-7 Giobbe: dichiara di non essere capito e rifiuta le spie­
gazioni perché egli sente di essere ormai prossima alla
morte;
8 Bildad: ribadisce il rapporto delitto-castigo;
9-10 Giobbe: Dio è despota e colpisce l’innocente;
11 Sofar: invita a Giobbe a chiedere perdono per essere
guarito;
12-14 Giobbe: ironizza sulle risposte degli amici, contesta i
loro argomenti e si appella direttamente a Dio.
15-21 Secondo ciclo di discorsi
15 Elifaz: critica Giobbe e rinnova la teoria della retribu­
zione;
16-17 Giobbe: descrive Dio come suo oppressore invocando
un difensore celeste e denuncia lo scherno che la sua si­
tuazione gli arreca;
18 Bildad: rimprovera Giobbe e descrive la sorte del malvagio;
19 Giobbe: accusa Dio e gli amici e rinnova l’aiuto di un
difensore;
20 Sofar: la prosperità degli empi è passeggera;
21 Giobbe: i malvagi prosperano e la retribuzione è falsa.
22- 27 Terzo ciclo di discorsi
22 Elifaz: accusa Giobbe invitandolo alla conversione;
23- 24 Giobbe: desiderio di un confronto con Dio;
25 Bildad: Dio è potente mentre l’uomo è debole;
26-27* Giobbe: respinge le argomentazioni, protesta la sua
giustizia e dichiara la sventurata sorte dei malvagi.
28 II: Inno sull’inconoscibilità della Sapienza.
29-31 Ili: Arringa finale di Giobbe.
32-37 IV: Discorsi di Eliu.
38,1-42,1-6 V: Due risposte di Dio a Giobbe e due sue reazioni.
42,7-17 Epilogo: Giobbe ristabilito nella sua situazione di prosperità.5

5 Manca l’ultimo discorso di Sofar che per la Bibbia di Gerusalemme (Dehoniane, Bo­
logna 2009) sarebbe da individuarsi in 27,13-23 anche se nel testo non compare il suo no­
me. Nella nota si legge: «Il brano del discorso di 27,13-28 difficilmente si può attribuire a
Giobbe, sembra piuttosto che debba venir attribuito a uno degli amici, di cui riprende
una delle tesi. L’attribuzione a Sofar è la più indicata. Tuttavia, se questi w. sono da asse­
gnare a Giobbe, si possono intendere come un richiamo alla dottrina sulla retribuzione:
Giobbe vuol dire ai suoi amici che la conosce anche lui».
a) Gb 1-2 costituiscono il prologo in prosa del libro, spie­
gano come su Giobbe, il «super giusto», riconosciuto tale an­
che da Ezechiele (14,14.20), si sia abbattuta la sventura in
modo improvviso e drastico. L’insistenza su questo dato si
spiega in ragione del fatto che, all’insaputa del protagonista,
va maturando un vero e proprio processo a suo carico, nel
quale il capo d ’accusa è rappresentato proprio dalla sua giu­
stizia. L’iniziativa è di Dio che convoca la sua corte celeste in
cui compare anche satana: «Hai fatto attenzione al mio servo
Giobbe? Sulla terra non c’è un altro come lui: uomo integro e
retto, timorato di Dio e alieno dal male» (1,8). Con queste pa­
role rivolte proprio a colui che misteriosamente si rende pre­
sente in un luogo che non dovrebbe appartenergli, Dio lancia
una sorta di scommessa. La risposta di satana non tarda a far­
si udire, svelando il centro della questione affrontata nei qua­
rantadue capitoli di cui consta lo scritto sapienziale: «Forse
che Giobbe teme Dio per niente? Non hai forse protetto con
una siepe lui, la sua casa e tutto ciò che possiede? Tu hai be­
nedetto le sue imprese e i suoi greggi si dilatano nella regione.
Ma stendi la tua mano e colpisci i suoi averi e vedrai come ti
maledirà in faccia!» (1,9-11). A Giobbe, sembra insinuare sa­
tana, conviene servire Dio: è ampiamente ricompensato per la
sua giustizia e per il suo timore religioso. Non avrebbe motivi
per avercela con Dio il quale è stato premuroso e oltre misura
generoso con il suo «campione». Dio ha coscienza del fatto
che la posta in gioco è alta e che Giobbe potrebbe non regge­
re all’impatto di ciò che satana sta per scatenargli contro. Tut­
tavia, gli concede un certo margine di autonomia: «Il Signore
disse a satana: Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non
stendere la mano su di lui. Satana si ritirò dalla presenza del
Signore» (1,12). In un sol giorno Giobbe perde i suoi averi e i
suoi figli ma non si scompone: «Nudo uscii dal seno di mia
madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha
tolto» (1,21). È un dato che forse stona con le sottigliezze di
certe teologie e teosofie sulla sofferenza, ma Giobbe orienta
tutto a Dio, anche il male, perché non c’è alcun altro princi­
pio all’infuori di lui: «In tutto ciò, Giobbe non commise pec­
cato né proferì alcuna insolenza contro Dio» (1,22).
Ma non è ancora tutto. Nel capitolo secondo si narra di una
seconda convocazione del tribunale divino: la scena è simile ma
la richiesta di satana questa volta mira direttamente a smontare
in modo irrevocabile la tesi dell’innocenza di Giobbe: «Satana
disse al Signore: pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uo­
mo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi di grazia la tua
mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti male­
dirà apertamente!» (2,4-5). Satana alza la posta in gioco e rilan­
cia. Dio, con qualche precauzione, accetta: «Il Signore disse a
satana: Eccolo in tuo potere. Soltanto risparmia la sua vita»
(2,6). Giobbe si ammala di lebbra e neppure lo sfogo della mo­
glie, che mal sopporta la sua fede incrollabile in Dio che elargi­
sce incomprensibilmente una sofferenza così gratuita e deva­
stante, riesce a smuoverlo. La prima reazione all’accanimento
della sciagura è, quindi, l’accoglienza docile e cieca del progetto
divino per quanto misterioso esso sia e neppure le parole della
moglie smontano la sua convinzione: «Sua moglie gli disse: “Ri­
mani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”.
Ma egli rispose: “Parli come un’insensata! Se da Dio accettia­
mo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?”. In
tutto questo, Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,9-10). Il
timor di Dio, cioè l’assoluta venerazione del suo volere, sorreg­
ge il sofferente rendendolo incrollabile nella fede, al punto che
la pazienza di Giobbe è diventata proverbiale e come tale viene
riconosciuta anche nel Nuovo Testamento (Gc 5,11).6

6 Questo aspetto ha ispirato autori del passato come Gregorio Magno e Tommaso
D ’Aquino, ma anche dell’epoca moderna come C.G. Jung, J.W. Goethe, F. Kafka, G. Le­
opardi, S. Kierkegaard, R. Girard, E. Bloch. Cfr. A. PlERETTI, Giobbe: il problema del ma­
le nel pensiero contemporaneo. Atti del seminario di studio, 23-26 Novembre 1993, Citta­
della, Assisi 1996. Forse all’origine sta la lettura che ne dà Girolamo nella versione latina
del libro di Tobia: cfr. M. Zappella, Tobit, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010,189.
Il prologo si chiude menzionando i tre amici di Giobbe
(Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naama) che,
avendo saputo dell’accaduto, lo vanno a trovare: costernati
per tanto dolore gli si siedono accanto e si chiudono per sette
giorni e sette notti in un profondo e compassionevole silen­
zio (2,11-13).
b) Gb 3—27 è il cuore del libro nel quale prende corpo la ri­
flessione sulla ricerca del senso da attribuire alla sofferenza di
Giobbe. Forse è il nucleo più antico del libro. Non è facile se­
guire la logica di questi capitoli perché gli argomenti sembra­
no ripetersi sia in riferimento a Giobbe che, forte dell’eviden­
za del contrasto che esiste tra la sua condizione di rettitudine
e la malattia che lo attanaglia, rifiuta di riconoscersi ingiusto
sottraendosi alle spire della teoria della retribuzione, sia in
rapporto agli amici che proprio attorno a questa argomentano
la difesa dell’onore divino e la conseguente accusa di Giobbe
(i malvagi periscono, i giusti prosperano, l’uomo è debole e li­
mitato davanti a Dio e non può sindacarne la volontà).
Giobbe, dopo l’iniziale silenzio, dal c. 3 prorompe in un
grido di dolore maledicendo il giorno della nascita e conside­
rando preferibile la morte a una malattia così atroce: alter­
nandosi con i tre amici che a turno gli rispondono fino al c.
27, in tre cicli di discorsi (cc. 4-14; 15-21; 22-27) dibatte
sulla retribuzione intesa classicamente come rapporto diretto
tra delitto e castigo. Quanto più Giobbe protesta la propria
innocenza tanto più gli amici contestano la sua colpevolezza,
invitandolo a chiedere perdono per ottenere la salute del cor­
po e il conseguente recupero della stima sociale persa a causa
dell’infamante malattia della lebbra. Nessuno è puro davanti
a Dio (4,17). Quindi Giobbe nasconde il proprio peccato; sa­
rebbe meglio «patteggiare», riconoscere la colpa e invocare il
perdono: «Quanto a me, mi rivolgerei a Dio - suggerisce Eli­
faz - a Dio affiderei la mia causa: a lui che compie prodigi in­
sondabili e meraviglie senza numero. Perciò felice l’uomo
che Dio corregge. Non ricusare, dunque, la correzione
delPOnnipotente, perché è lui che produce la piaga e la gua­
risce, colpisce e con le sue mani risana. Da sei angustie ti li­
bererà, e alla settima non soffrirai nessun male. In tempo di
fame ti scamperà dalla morte e nel combattimento dal filo
della spada. Sarai al riparo dalla lingua pungente e non avrai
timore, quando giunge la rovina» (5,8-9.17-21).
La fanno facile i tre amici perché non sono essi a portare
direttamente il peso del dolore, proclamando una «grande
grazia» e una beatitudine riservate al sofferente che si dispo­
ne ad accoglierle. Giobbe, invece, si guarda bene dall’ammis­
sione di colpevolezza insistendo nel rivendicare la sua giusti­
zia. Anzi, egli arriva a mettere sotto accusa Dio rimproveran­
dolo di essere un despota che non si degna nemmeno di ri­
spondere e che si accanisce contro un uomo fragile, sempre
impari al confronto con la sua onnipotenza: «Certo, so che è
così; come può un uomo essere giusto davanti a Dio? Se uno
volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su
mille. Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi può dir­
gli: che cosa fai? Anche se rispondesse al mio appello, non
crederei che ascolti la mia voce, lui, che mi schiaccia nell’ura­
gano e moltiplica senza ragione le mie ferite. Non mi lascia
riprendere fiato, anzi mi sazia di amarezze» ( 9,2-3.12.16-18).
In questi ventotto capitoli alcune tematiche, come già det­
to, vengono reiterate nei tre cicli di discorsi: il destino dei
cattivi e dei giusti e le lamentazioni di Giobbe su e contro
Dio, occupano lo spazio maggiore; ma si parla anche della li­
mitatezza umana, della lode che va tributata a Dio e della
speranza. Uno schema semplificato dei temi presenti in Gb
4-27 si ritrova in J. Lévèque, e tra questi ci sembra interes­
sante evidenziare quello della speranza di Giobbe.7 Esplicita­
mente la si menziona nella seconda serie di discorsi (16,18-

7 Cfr. L. LÉVÈQUE, Job. Le livre et le message (Cahiers Evangile 53), Cerf, Paris 1985,16.
22; 17,3; 19,25-27), ma un tono di speranza si coglie anche
implicitamente nella prima serie (7,16-19; 14,13-17). Ma di
che natura è la speranza di Giobbe? Quella di una vita oltre
la morte è da escludere in ragione dell’assenza di tale verità
teologica che si affermerà solo dal III secolo in poi (si veda
quanto dirò a proposito della sorte dei giusti nel libro della
Sapienza: pp. 173-174).
In 7,16-19 Giobbe desidera di essere sottratto dallo sguar­
do pensante di Dio per respirare nuovamente e avere un po’
di pace, mentre in 14,13-17 vorrebbe scendere nel regno dei
morti e così essere al riparo, trovando sollievo alle sofferenze.
In questo secondo testo egli spera che Dio possa cambiare
atteggiamento, convertirsi e perdonare il suo peccato: «Oh,
volessi tu nascondermi nel regno dei morti e occultarmi, fin­
ché sarà passata la tua ira, fissarmi un termine e poi ricordar­
ti di me! Se l’uomo che muore potesse rivivere, allora io
aspetterei tutti i giorni del mio servizio, finché giunga il mio
cambio! Mi chiameresti e io risponderei, quando tu avessi
nostalgia per l’opera delle tue mani. Mentre ora tu vai con­
tando i miei passi, non spieresti più il mio peccato: sigilleresti
in un sacco il mio peccato e cancelleresti la mia colpa». Ac­
canto a questa prima espressione di speranza se ne segnala
una seconda legata all’aiuto di mediatore che consenta a
Giobbe di superare la terribile situazione che sta vivendo.
Egli si appella in 16,18-22 a un avvocato celeste, un arbitro
che, come accade nelle dispute umane, possa dirimere il suo
contenzioso con Dio: «O terra, non coprire il mio sangue e il
mio grido non abbia sosta! Ma, ecco, sin d’ora il mio testi­
mone è nei cieli, il mio difensore è lassù in alto. Miei difenso­
ri presso Dio sono i miei lamenti, mentre verso di lui alzo i
miei occhi piangenti. Se ci fosse un arbitro tra l’uomo e Dio,
come c’è tra un uomo e il suo avversario! Ma passano i miei
anni contati e io me ne vado per una via senza ritorno». L’ac­
cusa di Giobbe è rivolta a Dio stesso dal quale, tuttavia, do­
vrebbe giungere anche l’aiuto, rivelando la palese ambiguità
del ruolo riconosciuto a Dio che sembra avere due volti, uno
buono (perché deve prendere atto del sangue versato) e uno
cattivo (perché è lui che lo ha sparso); egli è, infatti, arbitro
ma anche parte coinvolta nella controversia.
Infine, tra i versetti più conosciuti del libro, anche in ra­
gione del suo utilizzo nella liturgia funebre (cfr. pp. 64-65),
in 19,25-27 Giobbe si appella a un «vendicatore/riscattato-
re» (g d ’él): «Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ulti­
mo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà
distrutta, io, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io
stesso; i miei occhi lo contempleranno, e non un altro. Le
mie viscere si consumano dentro di me». Il gd ’él è il parente
più stretto (Lv 25,25.49) incaricato di salvaguardare i diritti
del proprio clan in quattro situazioni principali: la perdita
del patrimonio (Lv 25,23-28), la limitazione della libertà (in
caso di schiavitù come in Lv 25,47-53), l’impossibilità di
avere una discendenza (il parente che è morto lasciando la
moglie senza figli come in Rt 3,9-13; 4,5-7), l’uccisione di un
membro del clan (Nm 35,12-13; Dt 19,6.12; G s 20,3.5.9). In
tutti questi casi il gd ’èl subentra nella situazione del sogget­
to debole promuovendone la tutela. Nel caso di Giobbe la
menzione del sangue in G b 16,18-22 conferisce a tale figura
il ruolo di un mediatore che fa giustizia, riequilibrando i di­
ritti delle parti ovvero liberando il sofferente dal proprio
male. In questa linea «garantista» Giobbe spera, ormai ri­
dotto in fin di vita (cioè pelle e ossa), di essere nuovamente
ammesso alla presenza divina: è una speranza tenue che at­
tende un nuovo contatto con Dio, una percezione «visiva»
diversa che, alla luce dell’intera vicenda, giungerà solo dopo
che Dio avrà smesso di avvalersi della facoltà di non rispon­
dere e gli si sarà rivolto direttamente («Ti conoscevo per
sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono»: 42,5). Nei cc.
4-27, in realtà, tra Giobbe e i tre amici intercorre un dialogo
tra sordi, un girare a vuoto attorno al problema senza in ma­
no una soluzione, perché ognuna delle parti è arroccata sulle
proprie posizioni.
c) Gb 28 è un capitolo autonomo rispetto al suo attuale
contesto e da un lato chiude l’interminabile quanto inutile
scambio tra Giobbe e i tre amici, dall’altro invita a fare un
primo bilancio del libro: la sapienza è inaccessibile all’uomo
se questi non si apre a una luce superiore che viene da Dio. Il
ritornello («Da dove viene la Sapienza? E il luogo dell’intelli­
genza dov’è?»), formulato in modo quasi identico nei w. 12 e
20, segna il movimento del brano, delineando tre strofe. Nel­
la prima (w. 1-12) il protagonista è 1'homo faber, egli scava
miniere, fora pozzi, fruga fino all’estremo limite della terra, è
artefice di profondi sconvolgimenti, riuscendo a scovare an­
che le cose più nascoste pur rimanendo nell’ignoranza circa il
luogo in cui abita la Sapienza. Nella seconda strofa (w. 13-
20) viene presentato Yhomo oeconomicus, il quale, pur cono­
scendo l’arte del commercio, non può esercitarla con la Sa­
pienza perché questa non può essere trafficata: essa è supe­
riore all’oro, quello più puro, all’argento, al berillo, allo zaffi­
ro, al topazio e a tutte le perle preziose. Nella terza strofa si
interpella Yhomo religiosus (w. 21-28), il solo ad avere intuito
che la ricerca sapienziale può realizzarsi solo aprendosi al do­
no che viene dall’alto. Infatti, anche gli esseri mitici, quali la
Morte e gli Abissi, devono confessare la propria incapacità di
rintracciare la Sapienza: ne hanno solo udito la fama, ma non
l’hanno incontrata personalmente (v. 22).
d) I cc. 29-31 costituiscono l’ultima arringa di Giobbe (ve­
ra e propria apologia della propria innocenza piena) nella
forma di un monologo, giacché Elifaz di Teman, Bildad di
Suach e Sofar di Naama non prendono più la parola. Medi­
tando sulla felicità di un tempo (c. 29) Giobbe constata ama­
ramente lo stato di prostrazione nel quale egli versa attual­
mente (c. 30), profondendosi in un ultimo appello a Dio per­
ché possa rendere conto della sua condotta e liberarlo dalla
lebbra. Rivendica per l’ultima volta la sua innocenza (c. 31)
prima di sfidare sfacciatamente Dio: «Oh, avessi uno che mi
ascoltasse! Ecco la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Il
documento scritto dal mio avversario, io lo porterei sulle mie
spalle e me lo cingerei come un diadema! Gli darei resoconto
di tutta la mia condotta; mi presenterei a lui come un valoro­
so» (w. 35-37).
e) Gb 32-37: questi capitoli ritardano la risposta di Dio
tanto invocata, presentando quattro discorsi del giovane sag­
gio Eliu (cc. 33; 34; 35; 36-37) preceduti da un prologo nel
quale egli deplora la debolezza retorica dei tre amici che lo
hanno preceduto nel dibattimento e che non sono riusciti a
dimostrare la colpevolezza di Giobbe (c. 32). Dal suo nome
(Eliu significa «Lui è il mio Dio») si intuisce come egli sia un
figlio d ’Israele anche se non ci sono altri elementi che ne
connotino con più precisione la figura. Con un tono molto
più duro rispetto a quello di Elifaz, Bildad e Sofar, egli reite­
ra la teoria della retribuzione rincarando la dose e citando
spesso le dirette parole di Giobbe nel tentativo di confutarle.
Per Eliu, Giobbe ha un deficit di comprendonio perché non
è attento alle modalità (sogni, visioni, dolori) con cui Dio si
rivela: «Dunque, tu hai detto alle mie orecchie e io ho udito
bene il suono delle tue parole: Puro sono io, senza peccato,
sono innocente, non ho colpa! Eppure Dio trova pretesti
contro di me e mi considera come suo nemico; pone in ceppi
i miei piedi e scruta tutti i miei passi. Ebbene, in questo non
hai ragione, io ti rispondo, perché Dio è più grande dell’uo­
mo. Perché gli hai intentato un processo, dato che non ri­
sponde ad ogni tua parola? Dio parla in un modo o in un al­
tro, ma nessuno fa attenzione» (Gb 33,8-14). Nessuna eco
viene concessa a quest’ultimo ed estremo tentativo dei mae­
stri d ’Israele di salvare un sistema religioso ormai in crisi che
non rende giustizia né a Dio né all’uomo.
f) N ei due discorsi (38,1-40,2; 40,6-41) che Dio rivolge a
Giobbe egli si rivela come il Dio d ’Israele, creatore e libera­
tore: è questa la prima lezione che Giobbe è chiamato a re­
cepire. Egli non sta dialogando direttamente con il Dio d ’I­
sraele ma sta ponendo una generica - seppur autenticamen­
te religiosa - obiezione teologica su Dio, semplificando la
questione del dolore ed eludendo la complessità della vita e
della fede. G iobbe si fa forte della propria rettitudine al
punto da proporsi come maestro di Dio: è talmente giusto
che giunge a montarsi la testa, diventando arrogante. Per
cui, «drammaticamente Dio deve parlare perché Giobbe lo
ha sfidato a un duello verbale; a questi livelli la neutralità di
Dio è impossibile: se non interviene affatto, la dottrina de­
gli amici rimane screditata, poiché si può accusare Dio im­
punemente. E Giobbe ne esce vincitore, perché ha lasciato
Dio senza parole».8 La risposta di Dio è globale e ricondu­
ce, dunque, il sofferente all’interno della storia della salvez­
za. Giobbe ha sollevato numerosi dubbi ma la risposta di
Dio è in ordine alla sua creaturalità: «D ov’eri tu quando io
creavo il m ondo?». La lezione riguarda, quindi, l’umiltà:
l’uomo ignora il piano divino che si rivela nella creazione e,
pur potendo scorgere qualche barlume, non ha alcun pote­
re sul creato. Yhwh colloca Giobbe all’interno di un dise­
gno molto più grande che non inizia e non finisce con lui. Il
pericolo di chi soffre può risiedere nella chiusura all’inter­
no del proprio dolore, mancando di uno sguardo sufficien­
temente ampio per individuarsi in un progetto d’amore di
più grande respiro. La sofferenza del giusto a volte ha un
effetto paralizzante e non permette di leggere la propria vi­
cenda con serenità e verità.
La prima reazione di Giobbe al discorso divino è il silen­
zio: «Che ti posso rispondere?» (40,3-5): solo adesso egli si

8 L . ALONSO S c h ÒKEL - J.L . SlCRE D iaz , Giobbe. Commento teologico e letterario


(Commenti Biblici), Boria, Roma 1985,597.
rivolge direttamente a Dio chiamandolo Yhwh. Tacere per
cercare di capire è sapienza, mentre parlare a sproposito è
stoltezza. La seconda risposta di G iobbe (42,1-6), infatti,
ammette la sua mancanza di discernimento: si fa strada una
nuova concezione di Dio che nasce da un contatto diretto
con lui. La sofferenza, la ribellione, lo scoraggiamento, il
pianto, il grido, l’invocazione della morte, hanno trasforma­
to e trasfigurato Giobbe, il quale è ormai pronto per il fiori­
re di una nuova relazione. Solo adesso Giobbe ammette di
avere peccato e fa realmente penitenza su polvere e cenere
(42,6). Alla fine ha capito qual è la sua colpa: temeva per
interesse un Dio di cui gli era nota —per averla appresa da
altri - la bontà, senza avere ancora sperimentato in prima
persona il Dio d ’Israele, e contemplato il suo vero volto:
«Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti han­
no visto» (42,5).
g) N ell’epilogo (42,7-17) Dio loda Giobbe e lo reintegra
nella sua fortuna mentre non gradisce i discorsi dei suoi tre
amici i quali, proponendo semplicisticamente la retribuzio­
ne come qualcosa di automatico, hanno parlato stoltamen­
te, al punto che G iobbe dovrà intercedere a loro favore.
Sebbene tale «dogma retributivo» non sia una realtà auto­
matica, tuttavia l’uomo percepisce che Dio gli è favorevole
solo attraverso eventi concreti legati al benessere totale del­
la persona. Al redattore finale non è parsa una contraddi­
zione presentare il «doppio volto di G iobbe»9: il ribelle del
dramma poetico centrato sulla lamentazione e il pio del rac­
conto che nutre fiducia; per l’agiografo, nonostante la ten­
sione tra le due principali sezioni del libro, questi due at­
teggiamenti sono possibili e possono coesistere nella stessa
persona.

9 Cfr. C. WESTERMANN, «Il doppio volto di Giobbe», in Concilium 9 (1983), 33-48.


1.3. Genere letterario

Non è facile determinare il genere del libro. Esistono due


ipotesi principali, tra loro complementari, che presentiamo
con i loro punti di forza e di debolezza.

1.3.1. Dibattito giudiziale

Nel lontano 1953 J. Van Dijk10 pensò al dibattito come


genere noto in M esopotamia e applicabile alla storia di
Giobbe. Questo dibattito si sviluppa in quattro passaggi
fondamentali:

- un’introduzione in cui si precisano i contendenti, coloro che


interverranno e l’oggetto della controversia;
- il dibattito vero e proprio in cui si mettono a confronto i con­
tendenti e le loro ragioni;
- un appello alla divinità perché emetta la sentenza finale;
- la riconciliazione finale in cui la giustizia è ristabilita.

Nel libro di Giobbe si può ravvisare tale schema anche se


con qualche variazione.
In un primo caso di diatriba i soggetti coinvolti sono:
Dio che fa il giudice, Giobbe l’accusato, gli amici che difen­
dono l’onore di Dio, satana che agisce da pubblico ministe­
ro promotore della colpevolezza dell’accusato. Il capo d ’ac­
cusa attiene alla presunta giustizia di Giobbe: essa non è di­
mostrata e le prove (cioè la sua malattia) sembrano schiac­
cianti perché secondo lo schema classico della retribuzione
se uno ha commesso un delitto riceve, prima o poi, un ca­
stigo (in questo caso la lebbra). Satana è stato il primo a
sollevare il problema puntando il dito sul merito: la fede di

10 Cfr. J. VAN D i jk , La sagesse suméro-accadienne, Leiden, Brill 1953,38-40.


Giobbe è segnata dal tornaconto personale e non nasce da
autentica e gratuita religiosità. I tre amici di Giobbe, insie­
me al giovane sapiente Eliu, difendono l’idea di un Dio re­
tributore e giusto che rende a ciascuno in base alla propria
condotta: non hanno in mano argomenti schiaccianti contro
Giobbe e, in buona sostanza, la loro difesa è d ’ufficio per­
ché sono guidati da un concetto di giustizia troppo ingessa­
to e astratto, frutto di un automatismo religioso che vorreb­
be far controfirmare alla divinità proiezioni legalistiche tipi­
che degli uomini.
Le dinamiche appena descritte possono rendere ragione
di una prima parte del processo a carico di Giobbe ma non
dell’intero svolgimento. Cambiano, infatti, le parti coinvolte
o, meglio, si assiste a un capovolgimento del ruolo dell’ac­
cusato che diventa l ’accusatore. G io b b e non accetta
quell’applicazione particolare dello schema retributivo con
cui i suoi amici intendono dirimere la causa. Egli è piena­
mente consapevole di essere dalla parte del giusto; per cui
se c’è qualcuno che sta venendo meno alla sua funzione
questi è Dio. Paradossalmente egli rovescia l’automatismo
punitivo con cui è messo alla sbarra e lo rivolge contro Dio,
il quale è reputato ingiusto almeno per due motivi: non può
contendere con una creatura mortale poiché egli è un essere
onnipotente e, quindi, vincerebbe un’eventuale gara di for­
za. Il suo modo d ’agire è oltremodo dispotico perché non si
degna neppure di rispondere alle lamentele: qualora si de­
gnasse non potrebbe che riconoscere la rettitudine di G iob­
be. La sua apologia finale (cc. 29-31) non ha altro scopo se
non quello di forzare Dio a mostrarsi. Tuttavia, in questo
secondo caso di diatriba la differenza più marcata rispetto
al genere mesopotamico risiede proprio nell’ambiguità del
ruolo della divinità e il suo essere giudice (a cui spetta la
sentenza definitiva) ma anche parte in causa (responsabile
della disgrazia). Per cui potremmo dire che per il libro di
Giobbe si può parlare di un particolare caso di genere lette­
rario, il «dibattito giudiziale». C ’è da dire, inoltre, che non
tutto il materiale testuale si amalgama con tale genere: non
vi rientrano i cc. 28 (la meditazione sul luogo in cui abita la
Sapienza) e 32-37 (i discorsi di Eliu che riaprono l’accusa
contro Giobbe).

1.3.2. Il dramma

La seconda tesi in rapporto al genere è quella del dram­


ma già individuato da Teodoro di Mopsuestia (IV secolo)
nel suo commento a G iobbe (Patrologia Graeca 66, 697-
698) e riabilitato da L. Alonso Schòkel e Sicre Diaz.11 Il
dramma seguirebbe questo svolgimento: Prologo (1-2);
Preludio (3); Atto I (4-14); Atto II (15-21); Atto III (22-
27); Interludio (28); Atto IV: prima parte: parola di Giobbe
(29-31); Inserzione: parola di Eliu (32-37); Seconda parte:
parola di Dio (38,1-42,6); Epilogo (42,7-17). I cc. 28 e 32-
37 che meno si adattavano al genere «dibattito giudiziale»
in questa seconda ipotesi servirebbero, rispettivamente, ad
anticipare la soluzione del dramma (intermezzo) e a presen­
tare il dolore in una prospettiva pedagogica. Effettivamente
questo genere interessa l’intero libro e, per tale ragione, si
presenta molto interessante benché rimanga generico sui
suoi contenuti (non aiuta a capire il quid del dramma). Vo­
lendo tentare una sorta di sintesi, possiamo dire che si trat­
ta di un dramma a carattere giudiziale, salvando in questo
modo l’impianto di fondo ma caratterizzando l’oggetto del­
la tragedia.
1.4. l ì ambientazione

Il libro si apre affermando che « c ’era nella regione di


Uz un uomo chiamato G iobbe». La terra di Uz (proba­
bilmente tra Edom e la Siria) non è Israele. Una simile
ambientazione per un’opera così intrisa di fede ebraica
può avere differenti spiegazioni. L a prim a riguarda la
menzione di G iobbe in Ez 14,14 annoverato tra i giusti
insieme a N oè e Daniele. Probabilmente circolava un an­
tico racconto che risalirebbe all’epoca dei patriarchi, tra­
dizione che l ’autore del libro sapienziale avrebbe rispet­
tato e riportato all’inizio della sua opera. A questa prima
spiegazione se ne aggiunge un’altra, legata alla portata
delle parole pronunciate dal protagonista: avrebbe potu­
to un Israelita contestare la giustizia divina e criticare
aspramente gli assunti fondamentali della fede dei padri
senza creare scandalo? In bocca a un pagano le invettive
di G iobbe sarebbero parse meno dissacranti. O ppure, in
m odo più pertinente, collocando la vicenda fuori da Isra­
ele si intende universalizzare la situazione: in ogni parte
della terra esiste un giusto sofferente che invoca una ri­
sp osta che gli perm etta di com prendere il senso della
propria pena. Dalla lettura globale del libro emerge che
tale responso è possibile attingendo luce dalla fede giu­
daica, e dialogando non con un’anonima presenza divina
ma con il D io d ’Israele.12

12 Un ultimo tentativo di spiegazione si lega al nome stesso di Giobbe i’tyyób) che po­
trebbe anche essere inteso come «nemico» ( ’5yèb)> anche grazie alla collocazione di Uz,
nel territorio di Edom: Giobbe sarebbe un Edomita, grazie al discendente di Esaù (cfr.
Gen 36,11) e, perciò, nemico di Giacobbe. Tale ipotesi, un po’ articolata, supporrebbe
che la localizzazione di Uz fosse conosciuta al punto da menzionarla con il suo significato
specifico, senza neppure spiegare il senso della sua utilizzazione nel libro.
2. Esegesi di G b 3 1 :l’apologià del giusto

Questo capitolo del libro riporta le ultime parole pronun­


ciate da Giobbe che, nella sua arringa finale, fa emergere il
profondo convincimento, già espresso a più riprese nel dibat­
tito con gli amici (4-27), di essere giusto e irreprensibile.
Questa professione della propria rettitudine è presentata con
tale vigore da trasformarsi in un vero e proprio atto di forza
nei confronti di Dio, mirando a squarciare la sua sordità. Si è
giunti, infatti, a questo punto dell’opera, a un punto cruciale
in cui il silenzio divino è diventato per il giusto sofferente un
vero tormento: dalla sua risposta o dalla mancata risposta di­
pende l’esito dell’intera narrazione. Per questo Giobbe fa la
voce grossa nel tentativo di mettere sotto scacco Dio.

2.1. Genere letterario e contesto prossimo

Il c. 31 è incentrato sulla giustizia di Giobbe e appartiene


al genere «giuramento di innocenza»; egli afferma di essere
retto corroborando tale deposizione con una dichiarazione
solenne e definitiva.13 La formulazione ricorre al periodo
ipotetico che si compone di una protasi (prima parte) e un’a-
podosi (seconda parte). La protasi ha due sviluppi: uno posi­
tivo («Se ho commesso tale cosa...») e uno negativo («Se non
ho osservato tale cosa...»). Nella frase positiva si dichiara la

13 L’invito a giurare per il nome di Yhwh si attesta in Dt 6,13 e rielabora o, comun­


que, interpreta il comandamento del Decalogo di Es 20,7 in cui si vieta l’utilizzazione in­
debita del nome di Yhwh (lo spergiuro, la bestemmia o la magia) ma non il giuramento.
Sicuramente il ricorso a tale pratica esplicita la debolezza della parola umana e sottinten­
de la falsità delle intenzioni altrui se si invoca la presenza divina come garante della paro­
la. Questo intervento della divinità può indurre alla blasfemia nel momento in cui con fal­
sità ci si accosta al giuramento. Nel libro dei Numeri è descritta la motivazione, la ritualità
e la formula del giuramento (Nm 5,19-22); normalmente la casistica del giuramento ri­
guarda l’adulterio ma anche, più genericamente, i peccati contro il prossimo e contro Dio
(cfr. Sai 7 e 37).
trasgressione della quale si giura di non essere colpevoli; in
quella negativa si richiama una norma o un comportamento
per il quale si giura che è stato osservato. L’apodosi contiene
la punizione relativa e conseguente alla premessa.
In G b 31 sono almeno sei le colpe di cui il protagonista
ammette di non essersi mai macchiato, misfatti che si ricol­
legano a norme della legislazione israelitica (soprattutto il
Decalogo di Es 20): agire con falsità («non rubare»), w.
5-6, bramare i beni altrui («non desiderare la roba degli al­
tri...»), v. 7, desiderare la donna del prossimo e commettere
adulterio («non desiderare la donna del tuo prossim o...»:
vv. 9.11-12), venerare il sole e la luna («non avrai altri
d èi...»: w. 26-27), praticare la magia per procurare la mor­
te del nemico (cfr. Lv 20 che vieta la negromanzia). Negli
altri casi enunciati da Giobbe sembra esserci non un pun­
tuale riferimento morale alla Legge, ma un rimando ai con­
sigli dei sapienti, i quali invitavano a una carità che andasse
oltre il precetto e coinvolgesse direttamente il cuore (difen­
dere i deboli, gli schiavi, il forestiero). La formulazione del
giuramento, tuttavia, può presentarsi anche con una certa
libertà, al punto da sottintendere l’apodosi (che si immagi­
na, evidentemente, sempre negativa) e soffermandosi enfa­
ticamente sulla protasi.
G b 31 è il terzo capitolo della perorazione finale che
chiude la difesa di Giobbe e comprende, come segnalato,
tre momenti: il ricordo lieto di un passato ormai perso (Gb
29), l’amaro riscontro della disgraziata condizione presente
(G b 30) e la ferma rivendicazione della propria integrità
morale (Gb 31). Richiamare il passato conferisce maggiore
enfasi alle parole del c. 31 ancorandole alla scena madre del
libro, cioè la presentazione iniziale dell’integrità di Giobbe.
Egli non rinnega Dio come scaturigine della propria pro­
sperità rivelando, tuttavia, l’obiettivo al quale tende la sua
arringa finale: mettere al centro se stesso e la propria soffe­
renza. Abbiamo già detto che un limite grande che può ca­
ratterizzare l’uomo sofferente è quello di ingigantire la pro­
pria sventurata condizione al punto da perdere il contatto
con il resto del mondo: in ciò anche la memoria è inficiata
da questa inclinazione aH’autocommiserazione. I ricordi,
nel caso specifico, si tingono di orgoglio e compiacimento
nella raffigurazione di G iobbe come impavido giustiziere
(29,14-17). Questo glorioso passato rende ancora più inso­
stenibile il presente. Giobbe si profonde in una lunga la­
mentazione sulla sua miseria. Ciò che lo fa soffrire maggior­
mente è il disonore dei giovani e di coloro che, nella prece­
dente condizione di stima sociale, non sarebbero stati degni
di rivolgergli neppure la parola in ragione della loro bassa
condizione. Il responsabile di tutto questo male è Dio. E lui
che ha ritirato la protezione e lascia Giobbe in balìa dello
scherno e della malattia fisica che non gli lascia scampo
neppure di notte e, cosa ancora più insopportabile, neppu­
re gli risponde (30,20). Da questo sguardo sgorga l’accusa
di crudeltà e di «bullismo cosmico»14 rivolta a Dio: «Ti sei
fatto crudele con me e mi perseguiti con tutta la forza del
tuo braccio. Mi sollevi e mi poni a cavallo del vento, mi fai
travolgere dalla bufera» (30,21-22).

2.2. Struttura

Questo capitolo racchiude le ultime parole di Giobbe pri­


ma della risposta di Dio: «Sono compiute le parole di Giob­
be» (31,40b). Dal confronto con il passato e dalla disamina
della situazione presente, Giobbe ricava maggiore livore nel
protestare la propria irreprensibilità, giurando sull’integrità
della propria vita.

14 A lter , Larie della poesia biblica, 139.


Siamo davanti a un «esame di coscienza» centrato su quat­
tordici trasgressioni della morale:15

I. 1-4 lo sguardo impudico lanciato a una giovane donna


II. 5-6 la frode negli affari
III. 7-8 la sete di ricchezza
IV. 9-12 l’adulterio
V. 13-15 la mancanza di rispetto per i diritti dei servi
VI. 16-18 la mancata attenzione per gli affamati
VII. 19-20 il rifiuto di vestire i poveri
V ili. 21-23 ringiustizia pubblica verso l’orfano
IX. 24-25 la fiducia nei propri beni
X. 26-28 il culto del sole e della luna
XI. 29-30 godere della disgrazia di un avversario
XII. 31-32 il ripudio dello straniero
XIII. 33-34 non avere confessato una colpa
X IV 38-40 la disonesta acquisizione di un campo

L’ordine dei versetti viene spesso cambiato dai traduttori


moderni e dalle versioni ufficiali della Bibbia. Le ragioni van­
no rintracciate nella logica dei contenuti: secondo la nostra
logica i w. 38-40a dovrebbero seguire immediatamente il v.
34, per poi chiudere l’intero capitolo con il v. 40b. Questa è,
per esempio, la scelta della Bibbia CEI del 2008 e anche del­
la precedente traduzione del 1974.16 Dal punto di vista della
critica letteraria, invece, questa operazione non è giustificata
perché i testimoni antichi (testo ebraico, greco e latino) ri­
portano la sequenza progressiva dei versetti.

15 Cfr. J. LÉVÈQUE, «Ahamnèse et disculpation: la conscience du juste en Job, 29-31»,


in M. GILBERT (ed.), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL 31), University Press, Leu­
ven 21990, 240. Il numero quattordici per Fautore può avere una valenza simbolica:
Giobbe formula una dichiarazione d’innocenza totale ed esaustiva (p. 245).
16 La maggioranza degli studiosi moderni riconosce che i w. 38-40a fanno problema
nella collocazione attuale dopo le solenni parole pronunciate in 35-37. Diverse sono le
ipotesi di cambiamento: cfr. LÉVÈQUE, «Anamnèse et disculpation», 239-240.
2 3 . Traduzione e commento

*«Avevo fatto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguar­


do su una vergine.
2E invece quale sorte Dio mi ha assegnato di lassù e quale eredi­
tà l'Onnipotente ha preparato dall'alto?
3Non è forse la rovina per il perverso e la sventura per chi com­
pie il male?
4Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi?
5Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode,
6mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconosca la mia
integrità.
7Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguito i
miei occhi, o se la mia mano si è macchiata,
8io semini e un altro mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli.
9Se il mio cuore fu sedotto da una donna e ho spiato alla porta
del mio prossimo,
10mia moglie macini per un estraneo e altri giacciano con lei;
1poiché questo è un'infamia, un delitto da denunciare,
12un fuoco che divora fino alla distruzione, e avrebbe consuma­
to tutto il mio raccolto.
13Se ho rifiutato il diritto del mio schiavo e della schiava in lite
con me,
14che cosa farei, quando Dio si ergerà giudice, che cosa rispon­
derei, quando mi interrogherà?
15Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui?
Non fu lo stesso a formarci nel grembo?
16Se ho negato agli indigenti quanto desideravano, se ho lasciato
languire gli occhi della vedova,
17e da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza spartirlo con
l'orfano,
18poiché fin dall'infanzia come un padre io l'ho allevato e dal
grembo di mia madre gli ho fatto da guida,17

17 Uebraico non è chiaro: «Poiché fin dalla mia fanciullezza mi allevò come un padre
e dal grembo di mia madre la guidai». Anche i Settanta leggono lo stesso testo. Manca il
soggetto dei verbi; per cui ho preferito tradurre come se fosse Giobbe.
19se mai ho visto un misero privo di vesti o un indigente senz'a­
bito,
20se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldati con la lana
dei miei agnelli,
21se ho alzato la mano contro l'orfano sapendomi sostenuto dal
tribunale,
22mi si stacchi la scapola dalla spalla e il mio braccio si spezzi dal
gomito,
23poiché mi spaventa la paura di Dio e non potrei reggere da­
vanti alla sua maestà.
24Se ho riposto la mia speranza nell'oro e detto all'oro fino: “Tu
sei la mia sicurezza! ”,
25se ho goduto perché molti erano i miei beni e perché la mia
mano aveva accumulato la ricchezza,
26se quando vedevo risplendere la luce e la luna che avanzava
maestosa,
27si lasciò sedurre segretamente il mio cuore, mandando un ba­
cio con la mano alla bocca,
28anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché
avrei rinnegato Dio che sta in alto.
29Mi sono forse rallegrato della disgrazia del mio nemico e ho
goduto quando lo ha colpito la sventura?
30Non ho neppure permesso alla mia lingua di peccare, augu­
randogli la morte con un'imprecazione.
31Non diceva forse la gente della mia tenda: “A chi non ha dato
le sue carni per saziarsi?".
32U forestiero non passava la notte all'aperto e al viandante io
aprivo le mie porte.
33Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato il
mio delitto dentro di me,
34come se temessi l'opinione della folla e il disprezzo della fami­
glia mi spaventasse, sì da starmene zitto senza uscir di casa.
35Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia firma! L'Onni­
potente mi risponda! Il documento scritto dal mio rivale,
36io lo porterei sulle mie spalle e me lo cingerei come un diadema!
37Gli renderò conto di tutti i miei passi; mi presenterò a lui co­
me un valoroso.
38Se la mia terra ha gridato contro di me e i suoi solchi hanno
pianto con essa,
39se ho mangiato i suoi frutti senza pagarli, facendo sospirare i
suoi coltivatori,
40crescano spine al posto del frumento e ortiche al posto dell’or­
zo».
Fine delle parole di Giobbe.

1-4. G iobbe stipula un patto con i suoi occhi per non


guardare una betùlàh, cioè una vergine (cfr. Gen 24,16; Es
22,16; Lv 21,3.14; IRe 1,2). Il capitolo si apre esplicitando il
proposito di non peccare di adulterio neppure con gli occhi.
L’eccitazione visiva è, infatti, il primo passo verso la consu­
mazione di un rapporto fisico e per questo si raccomanda la
morigeratezza dello sguardo.18 Questo dato prudenziale na­
sce dal realismo antropologico che considera più intelligente
l’atteggiamento di chi evita di incorrere nell’occasione pecca­
minosa piuttosto che combatterla. Sin dall’inizio del poema
emerge come il pio Giobbe abbia ritenuto ogni consiglio dei
maestri adoperandosi per una purità non solo del suo corpo
ma anche del suo cuore. Nei versetti successivi ribadirà nuo­
vamente questo concetto (v. 7).
I w. 2-6 chiamano in causa direttamente Dio. I due nomi
divini che compaiono sono ’él e Sadday. Sappiam o che
nell’Antico Testamento a Dio si attribuiscono diversi nomi,
in precedenza attribuiti a divinità diverse, come bene atte­
sta Es 6,2-3: « ’élóhim disse a Mosè: io sono Yhwh. Sono
apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come ’él Sadday,
ma con il mio nome di Yhwh non mi sono manifestato a lo­

18 «N on stare a osservare una vergine, per non essere punito insieme con lei. Non dar­
ti in balìa delle prostitute, per non perdere il tuo patrimonio. Non curiosare per le vie del­
la città e non vagare nei suoi angoli deserti. Allontana Pocchio dalla donna avvenente e
non fissare le bellezze d’una estranea: molti ha sedotto la bellezza d’una donna, il suo
amore brucia come un fuoco» (Sir 9,5-8).
ro». ’èl (attestato 55 volte in Giobbe) è con ’eloha19 il sin­
golare di ’éldhim, il nome divino del primo racconto della
creazione (Gen 1,1-2,4), nome generico degli altri dèi,
quelli pagani, i falsi dèi (Dt 6,14; 13,18; IRe 11,14.18; 14,9;
Sai 81,10; Ger 1,16; Dn 11,37). L’altro nome divino che tro­
viamo in G b 31,2 è Sadday, il cui significato resta parzial­
mente oscuro; probabilmente appartiene a un tipo comune
di epiteti divini legati a un elemento naturale. Il significato
sembra essere «D io della montagna», e ciò si ricava dal le­
game con un vocabolo cananeo che significa «montagna»
(tdy). È impossibile determinare se Sadday sia: «a) Baal-Ha-
dad sul monte Saphon (luogo in cui si ritira B a‘al dopo aver
sconfitto il dio del mare Yam); b) un epiteto di El,20 oppure
c) un’antica divinità amorrea abitante sulla montagna, che
venne ben presto identificata dai patriarchi con il cananeo
El; in base a quanto ci è noto ‘b ’ e ‘c’ sembrano le soluzioni
più probabili»21. È interessante notare che su 48 attestazio­
ni di Sadday nell’Antico Testamento 31 si ritrovano nel li­
bro di Giobbe; ciò sta a dire che il Dio al quale il sofferente
si rivolge non è principalmente quello della fede yahvistica,
rivelando la parzialità della visióne teologica che fa da sfon­
do all’intera questione del male. Questo deficit rende la
questione della sofferenza dell’innocenza un enigma insolu­
bile, perché non lo colloca nella cornice biblica della storia
salvezza ma in un non meglio precisato universo dominato
da divinità dispotiche.
3-4. La convinzione classica della retribuzione è ripetuta
sotto forma di domanda retorica nel v. 3, idea portante
dell’autodifesa che Giobbe applica direttamente alla propria

19 Forma rara e tardiva, è utilizzata principalmente in Giobbe (41 volte su circa 60


complessive).
20 Si segnala nell’Antico Testamento anche l’uso composto di ’èl con un attributo: ’èl
'olam («Dio eterno/anziano»: Gen 21,33), ’èl 'eliyón («Dio altissimo»: Gen 14,18).
21 F.M . C r o s s , « ’£/», in H.-J. F abry - H. RiNGGREN (edd.), Grande Lessico dell’Antico
Testamento. /, Paideia, Brescia 2006,540-541.
condizione ricorrendo a un’altra domanda retorica circa l’o­
perato divino («Non vede... non conta...?»). Che Dio scruti
la condotta umana è un dato attestato nei salmi (33,13-15;
119,168; 139,1-4; ma cfr. anche Sir 17,15), ma che tale sguar­
do sia considerato alla stregua di un contabile che applica le
regole palesa l’idea che Giobbe ha della divinità.
5-6. Qui si incontra il primo ’im («se») del poema. La pro­
tasi evoca il peccato di truffa e, mediante l’immagine della bi­
lancia, invita alla pesatura del cuore del defunto, motivo ri­
corrente in Egitto in base al quale il destino dopo la morte
dipende dall’equilibrio tra il cuore e la giustizia (Libro dei
Morti, cap. 125). In Proverbi si legge a proposito: «L a bilan­
cia e i piatti giusti sono del Signore, tutti i pesi del sacco sono
sua opera» (16,11); e ancora: «Se dici: “Ecco, noi non lo sa­
p ev am o!” , forse chi pesa i cuori non ha intelligenza?»
(24,12a). Continua lo sviluppo dell’idea del Dio contabile: al­
la constatazione del peso deve seguire il calcolo del valore e
della preziosità della «merce G iobbe» («riconosca la mia in­
tegrità»).
7-8. Giobbe giura di non avere bramato le ricchezze. Nella
protasi (v. 7) viene coinvolto l’uomo colto nella condotta (i
passi), nelle intenzioni profonde (cuore), nei desideri proibiti
(gli occhi) e nell’operatività (la mano). La sequenza è la se­
guente: gli occhi percepiscono una realtà come attraente, il
cuore dà l’assenso e le mani eseguono quanto è maturato co­
me scelta.22 Nel giusto Giobbe non abita alcuna traccia di
cupidigia per le cose materiali. Egli ha già esplicitato nella
ouverture del capitolo che i suoi occhi sono castigati in rap­
porto alla brama sessuale; qui aggiunge che nessun’altra bra­
mosia è entrata in lui tramite il canale visivo, veicolo ordina­

22 Molto vicina a questo testo e a queste dinamiche che conducono al male è la breve
ma efficace descrizione del malvagio in Proverbi; «Il perverso, uomo iniquo, cammina
pronunciando parole tortuose, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi e fa cenni con le
dita. Nel suo cuore il malvagio trama cose perverse, in ogni tempo suscita liti» (6,12-14).
rio attraverso il quale si fa strada il desiderio del proibito (cfr.
Gen 3,6; Q o2,10).
L’apodosi del v. 8 indica la punizione conseguente al pre­
sunto peccato di Giobbe. Il non trovare frutto è la maledizio­
ne tipica che colpisce l’aspirazione dell’uomo e della donna
alla vita (si pensi al grembo sterile). La punizione per coloro
che non osservano i comandamenti divini in Lv 26,16 anno­
vera, tra le altre sciagure, anche quella legata alla perdita del
raccolto: «Seminerete invano le vostre sementi: le mangeran-
no i vostri nemici» (cfr. anche Is 65,22 che dichiara la fine di
una simile prassi punitiva). I germogli possono richiamare
due aspetti: continuano la metafora vegetale ammiccando al­
la continuità della specie e rinviando ai figli intesi, appunto,
come virgulti (Is 11,1); riferendosi alla discendenza, permet­
tono un collegamento con il v. 1 del capitolo in cui Giobbe
evoca l’alleanza abramitica (Gen 12) che contiene la promes­
sa di un popolo numeroso come le stelle del cielo e come la
sabbia del mare. Egli ha perso tutti i suoi figli pur avendo
perseverato nel patto di fedeltà. Anche sotto questo aspetto
egli dichiara, velatamente, che Dio è ingiusto.
9-12. In questi versetti viene descritto l’adulterio e le sue
conseguenze negative. Il v. 9 costituisce la protasi, mentre il
10 l’apodosi. La donna al v. 9 richiama il peccato dell’adulte­
rio; lo lascia intendere ’issàh usato in senso assoluto, senza
specificazioni, differentemente dal v. 1 in cui si menziona la
giovane non ancora sposata (betùlàh).
Il verbo «macinare» del v. 10 indica l’atto sessuale violen­
to. Un’immagine simile ricorre anche nella tradizione profeti­
ca; in Isaia, per esempio, nel lamento contro Babilonia e
nell’annuncio della sua distruzione, a proposito della donna
violata si legge: «Poiché non sarai più chiamata tenera e vo­
luttuosa. Prendi la mola e macina la farina, togliti il velo, sol­
leva i lembi della veste, scopriti le gambe, attraversa i fiumi.
Si scopra la tua nudità, si mostri la tua vergogna» (Is 47,1-3).
Nelle parole di Giobbe abbiamo una sorta di riproposizione
della legge del taglione: se ha desiderato la donna di un altro,
altri violentino sua moglie (un concetto simile si attesta anche
in 2Sam 12,11-12 circa il peccato di adulterio di Davide).
La proibizione dell’adulterio è espressa nel v. 11 con un
linguaggio giuridico (Lv 18,7; 20,14); è un delitto che va con­
tro la Legge (Es 20,14). Per questo motivo deve ricevere una
pena. Sappiamo che la Legge contemplava una notevole di­
sparità di trattamento circa l’adulterio. Il marito non incorre­
va nell’adulterio se aveva rapporti con un’altra donna non
sposata in quanto la poligamia era permessa (si veda quanto
affermerà Gesù in Mt 19,9). Si ha, invece, adulterio qualora
questa donna sia sposata (Lv 20,10; Dt 22,22) o anche fidan­
zata (Dt 22,23); in quest’ultimo caso la lapidazione costitui­
sce la pena per tale delitto (Dt 22,14). Nel primo caso di
adulterio (includendo anche le donne sposate adultere) la pe­
na è la morte. Il marito, comunque, poteva perdonare la mo­
glie infedele oppure ripudiarla scrivendo un atto di ripudio
(Dt 24,1) ed esponendola a una sorte pubblica infamante (Ez
16). Giobbe, si dice nel v. 11, avvertirebbe l’onta dell’adulte­
rio, qualora l’avesse commesso.
L’immagine del fuoco del v. 12 può richiamare il rogo co­
me punizione dell’adulterio (si pensi alla sorte di Tamar, nuo­
ra di Giuda, condannata a questa morte perché si è prostitui­
ta in Gen 38), oppure, più opportunamente, può rimandare
al fuoco della gelosia del marito tradito, che si avventa contro
l’uomo che ha consumato il rapporto con sua moglie (cfr. Pr
6,27-28.34). Un ulteriore richiamo al fuoco si può ritrovare,
infine, in riferimento alla brama che arde nel cuore dei lussu­
riosi secondo la descrizione che ne dà Sir 9,8; 23,17.
13-15. La colpa di cui G iobbe afferma di non essersi
macchiato inerisce alla prassi della schiavitù. Nel Penta­
teuco si attestano tre autorevoli pronunciam enti sugli
schiavi: Es 21,2-11; Dt 15,12-18; Lv 25,39-55. Si nota che,
pur tra contraddizioni, si fa strada una legislazione più at­
tenta al dato umano che condanna l’abuso sugli schiavi23.
Ma che lo schiavo abbia addirittura il diritto di citare in
giudizio il proprio padrone pare francamente poco proba­
bile. Eppure G iobbe dichiara di essersi fatto attento an­
che nei confronti di questi soggetti deboli, richiamando il
principio della parità di condizione di tutti gli uomini da­
vanti a Dio (in Sap 7,1-6 il re racconta il suo ingresso nella
vita comune a ogni altro essere umano). Per la prima volta
è menzionato nel v. 14 il tribunale presieduto da Dio (è lui
che si alza nell’atto di leggere la sentenza, come in Is 31,2)
nel quale, però, egli è anche accusatore (intenta l’inquisi­
toria). Anche nei Sai 50 e 76 (vv. 9-10) si ritrova questa
immagine di Dio-giudice.
16-18. Inizia una serie relativa a tutto ciò che possiamo
chiamare «opere di misericordia». I soggetti a cui sono ri­
volte le attenzioni di Giobbe sono i più deboli della società
verso i quali egli non ha omesso il soccorso: i poveri in ge­
nerale (dallim ) e, nel concreto, la vedova ( ’almànàti) e l’or­
fano (yàtóm ). La Legge tutela gli orfani e le vedove (Es
22,22) tanto che Dio è descritto come loro difensore (Sai
68,6); per l’orfano e la vedova nel secondo tempio è riser­
vato un deposito di carità (cfr. Tb 1,8; 2Mac 3,10) e a loro
andava una parte del bottino di guerra (cfr. 2Mac 8,28-30).
La predicazione di Isaia è rivolta alla difesa di quelle cate:
gorie sociali più vulnerabili alle quali il pio Israelita non
può non volgere la propria attenzione e il proprio aiuto; un

231 tre grandi codici legislativi, scritti in epoche differenti, palesano una serie di con­
traddizioni relative al tempo in cui concedere la liberazione (dopo sei anni come esplicita­
to in Esodo e Deuteronomio, mentre nel Levitico dopo cinquantanni), il sesso dei desti­
natari (la liberazione è solo per gli schiavi uomini secondo quanto scritto in Esodo a diffe­
renza del codice del Deuteronomio che la estende anche alle donne) e la loro nazionalità
(si può rendere schiavo un Ebreo per Esodo e Deuteronomio, mentre per il Levitico tale
prassi è proibita). Infine, si ricordi Am 2,7 in cui il profeta rimprovera il padre e il figlio
che si uniscono alla stessa schiava domestica.
culto che ostenti la sua fastosità autoreferenziale e trascuri
la giustizia sociale è un’offesa a Dio (Is 1,13; 10; cfr. anche
quanto si dice nella Lettera di Giacomo sulla vera religiosi­
tà: G c 1,27).
Il v. 18 è un inciso a carattere agiografico che rincara la
dose con cui è descritta la carità di Giobbe. Egli sin dalla sua
tenera età è stato caritatevole: quando non aveva ancora l’età
per prendersi cura degli altri, egli come un padre ha soccorso
e guidato chi era privo della figura paterna.
19-20. Vestire chi è nudo e coprire chi è povero è l’atteg­
giamento del vero credente e Giobbe, elencando la sua carità
sconfinata, sta neppure troppo sottilmente declinando la
propria religiosità irreprensibile. In Is 58,6-7, infatti, si legge:
«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le
catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli
oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel divi­
dere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri,
senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i
tuoi parenti?». La benedizione che Giobbe dichiara di avere
ricevuto è riservata proprio a chi fa del bene ed è generoso
con il povero (Pr 22,9): a fronte di tanta bontà egli, tuttavia,
riceve nel presente disprezzo e malattia.
21-23. Nel v. 21 la protasi del giuramento descrive il gesto
dell’oppressione nei confronti dell’orfano in tribunale (alla
lettera: «porta», luogo della città dove si amministrava la giu­
stizia). «Alzare la mano» può significare, in ragione della pre­
posizione ‘al («su, contro»), usare violenza e, quindi, essere
ostili (cfr. Is 19,16) oppure fare segno (cfr. Is 11,15; 13,2; Zac
2,13), votando contro nella sentenza, perché il debole sia in­
giustamente condannato.
La protasi del v. 22 è simile all’immagine del salmo che di­
ce: «Se ti dimentico Gerusalemme si dimentichi di me la mia
destra» (Sai 137,5) con la differenza che qui si chiede qualco­
sa di molto doloroso (frattura multipla scomposta) mentre
nel Salterio la punizione coincide con l’impossibilità di muo­
vere il braccio.
Il v. 23 è ipotetico quanto l’intera serie, sin qui elencata,
dei «non delitti» di Giobbe. Egli dice che, qualora fosse in
stato di peccato, non potrebbe comparire alla presenza di
Dio e si sentirebbe schiacciato dalla sua sublimità. La forbice
tra l’idea di Dio che ha Giobbe e quella dei suoi amici si al­
larga sempre più, perché se in G b 25,2 Bildad asserisce che
in Dio non vi è paura e dominio, qui Giobbe professa l’esat­
to contrario; alla fine del libro entrambe le parti dovranno ri­
vedere le proprie convinzioni teologiche. E bene, comunque,
ricordare che siamo nella sfera della pura ipotesi: poiché egli
è integro, non teme il confronto con Dio che, anzi, ricerca
apertamente.
24-25. La proposizione contenuta in questi versetti è so­
spesa (come quella dei w. 26-27) e presenta l’imprecazione
corrispondente. G iobbe non ha confidato nelle ricchezze
perché sembra consapevole del pericolo di un simile atteg­
giamento, così com’è bene esplicitato nel Sai 49. Chi fonda la
sua vita sulle certezze materiali illudendosi di vivere bene e a
lungo, illude se stesso perché la vita resta indisponibile per
l’uomo e non si può comprare. Il pericolo insito nell’abbon­
danza di ricchezze risiede nel suo effetto narcotizzante:
«L’uomo nella prosperità non comprende di essere simile agli
animali che periscono» (Sai 49,21). Dalla ricchezza discende
anche l’idolatria perché ad essa l’uomo è disposto a legare il
suo cuore (cfr. Sai 62,11) e a tributare tutte le energie pur di
accaparrarsela (cfr. Le 12; Col 3,5). Il tema della vera ric­
chezza riguarda sia i comandamenti divini (cfr. Sai 119,127)
sia la Sapienza come somma ricchezza per l’uomo (cfr. Pr
8,19): entrambi hanno un valore superiore a quello dell’oro
più fine.
26-28. Il richiamo all’idolatria appena evidenziato è esplici­
tamente menzionato in questi versetti. La luce ('ór) che ri­
splende nel primo stico è il sole, anche se non compare il so­
stantivo ebraico semes (cfr. anche G b 37,21; Is 18,4; Ab 3,4).
Anche nel non utilizzo del nome della divinità Giobbe è accor­
to, mettendo in atto una sorta di «repressione della lingua»24 a
conferma delle sue più intime disposizioni. Giobbe nega di
avere venerato gli astri dal cui fascino il Deuteronomio cerca
di mettere in guardia (Dt 4,19). In Israele, infatti, come in qua­
si tutte le culture, il sole, la luna e gli astri in genere sono stati
oggetto di culto e di adorazione. La riforma del re Giosia (622
a.C.) cercò di purificare il tempio di Gerusalemme dalle statue
e dagli arredi che i re d’Israele avevano immagazzinato duran­
te gli anni (cfr. 2Re 23; tra gli altri, al v. 5 si menzionano: il so­
le, la luna, lo zodiaco e tutto l’esercito del cielo). Anche i pro­
feti denunciano fermamente il culto astrale (cfr. Is 24,23; Ger
8,2; Ez 8,16) rivolto alla Regina del Cielo (cfr. Ger 7; 44).
Giobbe descrive le movenze dell’idolatra che, compiendo
un gesto molto comune nella pratica religiosa, si porta la ma­
no alla bocca per mandare un bacio alla divinità. Egli non ha
peccato neppure nel suo intimo, perché il suo cuore è stato ir­
reprensibile e - non contravvenendo all’autentica fede - non
ha commesso delitto contro il primo comandamento del De­
calogo (Es 20,2-5; Dt 5,6-9). L’annotazione «Dio che sta in al­
to» può avere una connotazione spaziale: gli astri sono sotto
la volta celeste in una posizione subordinata, in quanto crea­
ture, rispetto a quella del Creatore il cui trono è collocato nel­
la sfera più alta dei cieli (cfr. Sai 11,4; IRe 8,27; 2Cr 2,6).
29-30. L’ennesima «non colpa» di Giobbe è la vendetta.
Giobbe è esente dal piacere che si prova di fronte alla caduta
del nemico e non avverte neppure il trasporto di rispondere
al male ricevuto invocando lo stesso male. In effetti, alla fine
del libro, egli si dimostrerà magnanimo intercedendo per il
bene dei suoi tre amici (Gb 42,8-9).

24 D J.A . CLINES, Job, Thomas Nelson Publishers, Nashville 2006, 1026.


La Legge cercava di mitigare il rancore e lo spirito vendi­
cativo perché una moralità fondata sulla rivalsa a lungo anda­
re rivela tutta la sua forza disgregante per l’intera comunità
(cfr. Lv 19,18; Es 23,4), sebbene la caduta del nemico sia sa­
lutata con compiacimento (cfr. Sai 58,11). D libro dei Prover­
bi affronta direttamente questo tema, scoraggiando la ven­
detta personale e rinviando alla giustizia di Dio: «Non dire:
Renderò male per male, ma spera nel Signore ed egli ti salve­
rà» (Pr 20,22; cfr. anche 24,17). E in Sir 28,1 si legge: «Chi si
vendica troverà la vendetta del Signore, che gli chiederà rigo­
roso conto dei peccati». Permane, tuttavia, un certo senso di
rivincita in un proverbio confluito anche nel Nuovo Testa­
mento (cfr. Rm 12,20): «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane
da mangiare, se ha sete, dagli da bere, perché così ammasse­
rai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà»
(Pr 25,21-22). Notiamo, infine, che in Siracide c’è un testo
molto vicino a quello che sarà il messaggio di Gesù sul per­
dono dei nemici, raccomandazioni che si fondano sulla cadu­
cità umana che rende vano ogni atteggiamento di rancore
(cfr. Sir 28,2-4).
31-32. Orfani, vedove, schiavi e indigenti in genere: ma
Giobbe non si risparmia neppure nei confronti dello stranie­
ro. Il senso della frase «dare le proprie carni per saziarsi»
può avere tre principali significati. 1) E una metafora dell’ag­
gressività e rimanda alla violenza in genere. Mangiare la car­
ne di qualcuno ha un immediato senso legato all’ostilità per­
ché in genere il «cannibalismo» è sinonimo di oppressione
(cfr. Dt 9,19). Sono i cattivi, infatti, ad attentare all’incolumi­
tà del giusto (cfr. Sai 27,2). I nemici d ’Israele, invece, saranno
puniti sfamandosi della propria carne per il male commesso
contro il popolo eletto (cfr. Is 49,26). Stando a questa inter­
pretazione G iobbe non sarebbe stato aggressivo neanche
quando sarebbe stato incitato a farlo, proprio come non ha
gioito della disgrazia del nemico. 2) Dare la propria carne
per sfamarsi ha un rimando sessuale, sebbene questa espres­
sione non abbia dei paralleli in altri luoghi biblici. Il senso
del versetto sarebbe: ciò che la gente avrebbe potuto dire di
Giobbe è che si è dato a tutti cioè ha avuto continui rapporti
sessuali; in questa linea la menzione della tenda indicherebbe
il luogo in cui tali incontri si consumavano.25 Questa lettura
stride con quanto Giobbe dice di sé e con quello che dall’in­
tera vicenda conosciamo sulla sua moralità. 3) L’ultima inter­
pretazione va nella linea della totale disponibilità di Giobbe:
tenendo conto del contesto del brano in cui sono passati in
rassegna le “gesta” dell’eroe, qui si intende dire che Giobbe
è stato ospitale e disponibile oltre misura, similmente all’e­
spressione di Paolo «Mi sono fatto tutto a tutti» (lC or 9,22).
Come per gli schiavi anche per lo straniero igèr) la legisla­
zione d ’Israele conosce graduali aperture e maggiore atten­
zione umanitaria. In effetti il termine gèr non significa solo
estraneo nel senso etnico (cioè non appartenente al popolo
eletto) o religioso (colui che venera un culto diverso) ma, più
generalmente, estraneo al luogo e ai costumi di quella società
nella quale egli risiede stabilmente provenendo da un luogo
diverso (cfr. G dc 17,7). Tenendo presente che prima del-
l’VIII secolo i testi in cui si annoverano gli stranieri tra i sog­
getti da tutelare sono scarsi (cfr. G dc 19,16), si può ipotizza­
re che solo dopo la caduta di Efraim (722 a.C.) - così come si
legge anche negli oracoli di Geremia (Ger 7,6; 14,8; 22,3) ed
Ezechiele (Ez 14,7; 22,7.29; 47,22) che esercitarono la profe­
zia dopo questo evento - essi siano annoverati tra le catego­
rie deboli, cioè prive di diritti, a causa del mutato contesto
sociale. Questo nuovo quadro sociale esige nuove norme, dif­
ferenti da quelle di Es 34,11-16, e rinnovate basi teologiche.
Il Deuteronomio, infatti, estende il significato del termine
«straniero» riferendolo alle categorie delle vedove, degli or­
fani e anche dei leviti (Dt 14,28; 16,1.14; 24,17-21; 27,19).
Giobbe, dunque, ha ospitato prontamente i senzatetto con­
formemente ai dettami della Legge.
33-34. Giobbe giura di non avere nascosto alcuna colpa
(pésa 0 o delitto ( ‘àwón), alla maniera degli uomini in genere
e del primo uomo, Adamo, in particolare (Gen 3,8-10). Ciò
significa che egli ha peccato e, quindi, confessa il misfatto
senza nasconderlo, anzi, riconoscendolo (come nel Sai 32 in
cui l’orante non copre il peccato ma lo confessa). In altri pas­
saggi del libro, Giobbe cede alla possibilità di avere peccato
(Gb 7,20) anche a causa della natura umana (Gb 9,2), segna­
ta dal peccato di Adamo che egli ha avuto premura di richia­
mare, rimanendo però convinto che la pena che sta scontan­
do non derivi da una sua caduta. Per cui possiamo dire che,
siccome Giobbe non ha commesso alcuno dei peccati elenca­
ti fino ad ora egli vuole, in buona sostanza, che si riconosca
la verità di quanto fino a questo punto ha confessato.
Ma di quali peccati G iobbe non si accusa? Il termine
p ésa ' allude a una vasta gamma di reati. Nei suoi oracoli
contro le nazioni il profeta Amos specifica la casistica dei
peccati commessi accostando a questo sostantivo i delitti po­
litici legati ad alleanze non gradite al Signore e a deportazio­
ni di massa (c. 1), a violenze sui deboli (Am 1,13: sventrare
le donne incinte; 2,6: vendere i poveri, opprimerli con vio­
lenza), al disprezzo della legge di Dio (Am 2,4) mediante la
profanazione del tempio e l’appropriazione delle offerte ad
esso destinate (Am 2,8), infine a pratiche che rendono impu­
ri (Am 2,7: padre e figlio che vanno dalla stessa donna). G e­
remia annovera anche l’idolatria (Ger 5,6-8). Anche ‘àwón
riguarda i peccati contro Dio (cfr. Es 20,5; Dt 5,9; Is 1,4;
27,9; Ger 11,10) e quelli contro gli uomini; questi ultimi so­
no legati principalmente a pratiche rituali infrante a causa di
comportamenti sessuali (cfr. lSam 3,14; 2Sam 3,8). Parafra­
sando il v. 34 possiamo dire che, in ogni caso, Giobbe si sen-
te pienamente sicuro di sé al punto da non temere lo stigma
sociale conseguente allo smascheramento della propria ini­
qua condotta: ha agito alla luce del sole e non si è lasciato
intimorire da alcuna diceria nei suoi riguardi (anche perché
infondata).
35-37. «Incom incia la perorazione che chiude quanto
precede con la sfida finale all’avversario nel giudizio».26
Giobbe pronuncia le sue ultime parole raggiungendo il mo­
mento dell’arringa finale. Egli vuole qualcuno che lo ascol­
ti: è mai possibile, si chiede, che nessuno, neanche Dio On­
nipotente (Sadday) al quale a più riprese ha chiesto di esse­
re preso in considerazione (Gb 13,6.17; 21,2), gli risponda?
L’espressione «ecco la mia firma»27 suggella la parola defi­
nitiva di G iobbe che non ha più nulla da aggiungere. Fa
problema capire che cosa significhi «il documento (sefer)
scritto dal mio avversario» anche perché l’ebraico omette la
preposizione che aiuterebbe a capire l’autore del documen-
to/libro. Ipotizziamo due possibili interpretazioni. 1) G iob­
be presenta una petizione: ha scritto il suo documento, fir­
mandolo; in questo caso il documento è per o contro il suo
avversario. 2) Il documento lo deve scrivere il giudice che si
farà carico della causa: Giobbe ha firmato la querela e ora
la pratica passa al giudice. La prima interpretazione pare la
più corretta e coerente con il contesto giudiziale del libro: il
sefer è scritto per l’avversario di Giobbe, cioè per Dio che
egli considera come suo rivale nel contenzioso giudiziario
(rtb). Questa lettura del versetto aiuta a comprendere anche
il fine al quale tende il procedimento innescato da Giobbe:
«N ella lite, infatti, il querelante (l’accusatore, colui che ge­
stisce l’azione giuridica) non cerca la condanna del colpevo­
le, ma la sua conversione, nell’intento ultimo di perdonare e

26 A lo n so S ch Ok e l - S icre D iaz , Giobbe, 507.


27 Alla lettera: «ecco il mio tau», cioè l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, anticamen­
te a forma di X, usata anche come firma.
quindi di riannodare la relazione m ediante l ’auspicata
riconciliazione».28
I vv. 36-37 ritraggono G iobbe come il campione che
ostenta fieramente la sua giustizia. Egli è convinto di uscire
vincitore dal dibattimento e indossa il documento che garan­
tisce questo successo come un mantello sulle spalle e come
una corona. Il ragionamento di Giobbe è il seguente e sem­
bra mettere il suo avversario all’angolo: «D a parte di Giobbe
il giudizio è avviato, ora la parola spetta al contendente; se
tace è perché non ha ragione [...]; se parla o presenta un do­
cumento scritto, dovrà esporre le sue ragioni e Giobbe lo
confuterà; in entrambi i casi, silenzio o parola, Giobbe vince­
rà la sua causa con Dio».29
Egli parla di sé come di un valoroso (nàgid), un guerriero
abile in battaglia che non ha paura di presentarsi al cospetto
del nemico {nàgid è Saul in lSam 10,1 ma anche Davide in
lSam 25,3). L’espressione «gli renderò conto di tutti i miei pas­
si» svela la convinzione di voler palesare la propria integrità: se
precedentemente è Dio a contare i passi di Giobbe (14,16;
31,4), adesso è lui stesso che pone mano a tale computo.
38-40. Abbiamo già segnalato l’incongruenza «climatica»
{climax) di questi versetti, cioè la caduta di tono successiva
alla perorazione dei w. 35-37 e la ripresa della disamina della
moralità di Giobbe. In questi ultimi tratti del lungo giura­

28 M. C ucca - B. Rossi - S.M. S essa , «Quelli che amo io li accuso». Il rib come chiave
di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Cittadella Editrice, Assisi 2012, 11. La
frase è tratta dalla prefazione di P. Bovati. Accanto alla normale azione giudiziaria condot­
ta nell’ambito del tribunale e conclusa con la condanna dell’accusato da parte del giudice
{mispàt)yl’antico Israele conosce un’altra procedura giuridica {rib)yil cui esito mira invece
alla diretta conciliazione tra il colpevole e l’innocente. Perché si possa dare un rib occorre
che i due contendenti siano legati da un vincolo di natura familiare o giuridica (per esem­
pio, marito-moglie, suocero-genero, signore-vassallo): la parte che si considera offesa con­
voca l’altra, rimproverando l’infrazione del patto, porta le prove, confuta le motivazioni
addotte come scuse. Il rib può concludersi in tre modi: con il pagamento del debito o la
riparazione dell’offesa, con una compensazione o composizione mutuamente concordata
(il patteggiamento), con il perdono pieno o parziale concesso dalla parte offesa.
29 A lo n so S c h ò k e l - S icre D iaz , Giobbe, 508.
mento d ’innocenza egli non si accusa di avere acquisito in­
giustamente un campo e di non avere oppresso i suoi lavora­
tori. Il grido della terra è una sorta di rivalsa ecologica con
un fine sanzionatorio: essa si ribella contro l’usurpatore e ha
diritto di parola per denunciarlo, alla stregua del legittimo
proprietario che si presenta in tribunale per far valere i pro­
pri diritti. L’immagine della terra che solidarizza con la con­
dotta umana o reagisce ad essa, si trova anche altrove nella
Bibbia rivelando le conseguenze dell’uso della libertà
dell’uomo sul suo habitat (cfr. Gen 3,17-19; 4,12; Lv 18,28).
Il capitolo si chiude annotando la fine del discorso di
Giobbe iniziato in Gb 29,1. Non c’è altro da aggiungere per­
ché il protagonista della vicenda ha sviscerato ogni argomen­
tazione a sua difesa. Giurando solennemente di non aver
peccato neppure col pensiero né contro Dio né contro il
prossimo, egli si è costruito un alibi intaccabile che lo richiu­
de nella prigione della propria sofferenza elevata a sistema, a
partire dal quale egli giudica l’intera vicenda umana. L’atto di
forza contro Dio ha raggiunto la sua espressione più estrema:
secondo il pensiero di Giobbe, la prossima mossa di Dio,
qualunque essa sia, sarà comunque perdente, perché non po­
trà che confermare la tesi dell’accusatore: Dio è ingiusto. E p­
pure, proprio partendo da questa risposta, Giobbe vedrà
smantellato il proprio impianto accusatorio e, con umiltà,
dovrà rivedere i suoi giudizi, riconsiderare la propria teologia
e prendere atto della stoltezza delle sue parole.3

3. Linee teologiche

a) La sofferenza del giusto occasione per un nuovo rapporto


con Dio. La sofferenza del giusto è il cuore del libro. Dallo
sviluppo dell’opera si coglie il mutamento del valore attribui­
to al dolore rispetto ai convincimenti religiosi classici. Se ri-
mane valido quanto si credeva in altri luoghi biblici che, cioè,
la sofferenza mette alla prova le reali intenzioni dei cuori ed è
voluta da Dio che tramite essa corregge con amore paterno
(cfr. Dt 8,2-6; Pr 13,24), radicalmente nuovo è il ruolo del
sofferente. Egli non deve più invocare il perdono per espiare
una colpa e avere, in questo modo, la guarigione così come
spinge a fare il Sai 38, una preghiera che i tre amici di Giob­
be vedrebbero bene sulla sua bocca (w. 2-5.19). Il giusto che
soffre invoca giustizia perché è arbitrario credere che la ma­
lattia sia ipso facto la cifra del peccato. Giobbe vuole tirarsi
fuori da questa spirale teologica che gli toglie il fiato e la di­
gnità, appellandosi a un concetto nuovo di giustizia divina
che sappia tener conto della sua condizione.
Grazie a Giobbe anche il concetto di «giusto» va rivisita­
to: egli è così convinto del suo retto agire al punto da diven­
tare arrogante. La lezione che deve apprendere è in ordine
all’umiltà. La malattia è gravida di un valore medicinale per­
ché relativizza l’uomo facendogli riscoprire la propria natura
e, sebbene tale dolore innocente rimanga un mistero impene­
trabile, c’è un progetto d’amore che supera (perché precede
e sorpassa l’infermo) le sue timide riflessioni su Dio e sull’uo­
mo. Nella sua seconda reazione al discorso divino emerge
chiaramente l’esito al quale conduce la sofferenza di Giobbe:
«Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti han­
no visto» (Gb 42,5). E maturato un nuovo rapporto con Dio,
più diretto e coinvolgente: è un Dio al quale si può dare del
«tu» senza per questo mancargli di rispetto, un Dio che è da
temere e da amare allo stesso tempo, pantocratore perché
regge le sorti del mondo ma anche onnipotente nell’amore.
c) Il malessere (psichico, fisico, sociale, economico, religio­
so) non è, comunque, un valore: non lo è per l’uomo biblico
dell’Antico Testamento ancorato a questa terra e per cui la
prospettiva dell’aldilà non è il fine positivo al quale tutto ten­
de, e non lo è neppure per chi si proietta con slancio verso la
contemplazione del volto di Dio nella vita eterna. La fede nella
vita ultraterrena sposterà il momento della retribuzione rin­
viandolo alla vita dopo la morte e gettando, evidentemente,
una luce nuova sulla sofferenza (cfr. Sap 3), perché c’è ima sa­
pienza legata alla croce quando si scopre su quel legno il volto
di un Dio che è solidale con il sofferente (lCor 1,17-24). Ma
non sarebbe umanamente salutare (per non dire masochistico)
l’atteggiamento di chi considera la malattia una condizione
privilegiata e, addirittura, preferibile per incontrare Dio.
c) La sofferenza del giusto occasione per un nuovo concetto
di retribuzione. Come indicato nell’introduzione (pp. 16-18),
il concetto di retribuzione, pur esplicitandosi con molte sfu­
mature (può avere, cioè, sia un carattere personale che collet­
tivo), si fonda su una logica «dare-avere»: se uno è buono
avrà il bene, se è cattivo gli toccherà in sorte il male. Signifi­
cativi a riguardo sono i primi due capitoli del libro che pre­
sentano, per tre volte, un ritornello: «G iobbe era un uomo
giusto e retto, timorato di Dio ed era alieno dal male» (1,1.8;
2,3). La sua condizione agiata è descritta in termini simbolici:
l’abbondanza di figli e la disponibilità economica esprimono
la pienezza della benedizione divina. C ’è di più: Giobbe è,
addirittura, scrupoloso, offrendo dei sacrifici a favore dei
propri figli per gli eventuali peccati commessi. Giobbe anco­
ra non sa che la sua virtù sarà messa a dura prova dalle scia­
gure che satana, con il permesso divino, sta per scagliargli
contro. La sua reazione (cc. 3-27; 29-31) porterà a nuove
considerazioni su Dio, sull’uomo sofferente e sulla retribu­
zione in genere. Non reggerà ancora per molto la teoria clas­
sica della retribuzione che, davanti al male gratuito e alla sof­
ferenza dell’innocente, ricorreva a schematismi legati alla col­
pa: qualcuno (i genitori, la comunità di appartenenza, il po­
polo) ha peccato; quindi il singolo sta pagando a causa dei
peccati altrui. In verità, già con il profeta Geremia si palesa la
debolezza di tale impianto religioso, pervenendo all’annun­
ciò della fine di questo rapporto mortificante centrato inge­
nuamente sulla responsabilità collettiva, e professando il pas­
saggio alla logica della retribuzione personale: «In quei gior­
ni (quando ci sarà la nuova alleanza) non si dirà più: i padri
han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono alligati»
(Ger 31,29; cfr. anche Ez 18,2).
In conclusione: la teoria della retribuzione è stata smonta­
ta lungo tutta l’opera ma Giobbe alla fine saprà di essere sta­
to benedetto nuovamente da Dio perché gli viene restituito
quello che aveva e molto di più, secondo un repentino lieto
fine. Accogliendo tale messaggio che gli giunge dalla sua
nuova condizione, egli «può recuperare la pace del cuore e
assentire alla sua condizione; ma il mistero della sofferenza di
un innocente resta tutt’intero; Giobbe non ha che qualche
misero convincimento in più: che il senso della giustizia di
Dio non è alla sua portata; che il Signore non l’ha condanna­
to, anzi non l’ha nemmeno accusato, ma che, dilatando il suo
campo visivo, gli resta misteriosamente presente; e, infine,
che la sapienza, anche per chi soffre senza' ragione e per chi
soffre senza aver meritato quella sofferenza, è perseverare nel
timore del Signore, nell’adorazione amorevole del suo silen­
zio e nel tenersi lontano da ogni cattiveria».30
d) La malattia di Giobbe. Ritornando al «lieto fine» della
storia di Giobbe, negli ultimi anni è maturato un certo inte­
resse sulla questione della reale guarigione di Giobbe dalla
malattia. Segnalo la posizione di E Mies la quale sostiene che
egli non avrebbe recuperato la salute fisica: la sua malattia è
persistente ma non mortale e, sicuramente, non è la lebbra
intesa dalla scienza moderna.31 Tra i diversi argomenti che

30 G ilbert , La Sapienza del cielo, 103.


31 Cfr. F. M ie s , «Job a-t-il été guéri?», in Gregorianum 89(2007), 703-728; cfr. anche
B. C ostacurta , « “E il Signore cambiò le sorti di G iobbe” . Il problema interpretativo
dell’epilogo del libro di Giobbe», in V. COLLADO BERTOMEU (ed.), Palabra, prodigo, po­
esia. In memoriam P. Luis Alonso Schòkel, s.j. (Analecta Biblica 151), Pontificio Istituto
Biblico, Roma 2003,252-266.
l’autrice offre a sostegno della sua tesi segnaliamo: 1) se
Giobbe fosse stato guarito si sarebbe ritornati al punto di
partenza della storia, mentre il finale indica una novità nella
vicenda narrata (molti più figli, molti più beni ecc.); 2) il ver­
bo swb che compare in G b 42,10 («Il Signore ristabilì la sor­
te di Giobbe») non significa normalmente «guarire», azione
espressa mediante la radice rf\ 3) manca un momento pub­
blico e ufficiale attraverso il quale Giobbe è reinserito nella
comunità, aspetto necessario qualora la lebbra fosse sparita
così come prevedeva Lv 13 o vicende simili di guarigione
(Eliseo in rapporto a Naaman il siro: IRe 5). La mancata
guarigione conferirebbe al personaggio di Giobbe maggiore
libertà e autenticità di fede: «Il Dio della teofania si è rivelato
come un Dio libero il cui piano sorpassa ogni conoscenza
umana [...]; Giobbe, a sua volta, si mostra libero di abitare
nella malattia; gli basta essere al servizio del Signore (42,8) e
di vivere in tutta semplicità».32
Queste riflessioni, talvolta, sembrano risentire di una sorta
di letteralismo: nell’epilogo, infatti, non tutto viene spiegato
o ripreso (per esempio mancano le figure di satana e della
moglie di Giobbe), ed è chiaro il ricorso al linguaggio simbo­
lico tipico della leggenda popolare che, per quanto riguarda
l’età, esagera le cifre per dichiarare la pienezza della benedi­
zione divina (Giobbe visse altri centoquarant’anni: 42,16).
Pur accettando che la longevità di Giobbe si possa spiegare
con la natura della malattia (per E Mies è cronica ma non
mortale), sembra davvero strano che tale situazione grave, in­
guaribile e permanente consenta una vita oltre la durata na­
turale.33
Rimane interessante, comunque, il tentativo di collocare
teologicamente la complessa vicenda di Giobbe che, come

32 MlES, «Job a-t-il été guéri?», 726.


33 Infine, circa la lebbra, va evidenziato che il momento del pubblico reinserimento è
assente così come manca quello della pubblica estromissione.
aveva ben intuito Girolamo, sembra sempre fuggire di mano:
tale inafferrabilità vale non solo a proposito della questione
testuale ma anche del senso globale da attribuire all'opera.

Bibliografìa di riferimento e di approfondimento

A l o n so S c h o k e l L. - J.L. SlCRE D ì AZ, Giobbe. Commento teologi­


co e letterario, Boria, Roma 1985.
BORGONOVO G., La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel libro di
Giobbe. Analisi simbolica, Pontificio Istituto Biblico, Roma
1995.
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J a n z en G., Giobbe, Claudiana, Torino 2003.
M a rco n L., La notte oscura dell’anima: Giobbe e Leopardi, Guida,
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M a rco n i G. - T er m in i C. (edd.), I volti di Giobbe. Percorsi interdi­
sciplinari, Dehoniane, Bologna 2003.
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Dehoniane, Bologna 1999.
R avasi G., Giobbe. Traduzione e commento, Roma, Boria 1979.
W H YBRA Y N., Job, Academic Press, Sheffield 1998.
Q O ELET

1. Questioni storico-letterarie

«Qoelet, nel suo ufficio di obiettore, esprime la resistenza


di Israele a qualunque tentativo di trovare rifugio in un mon­
do parallelo; il suo messaggio agisce come una medicina, li­
berando il saggio da una certa pompa e dalla responsabilità
di essere un agente della storia universale».1 Questa frase di
P. Beauchamp proietta la lettura del piccolo libro di Qoelet
(appena l’ l% della Bibbia ebraica) su uno sfondo ermeneuti­
co che non intende addomesticare la carica provocatoria del
pensiero del saggio.
Le valutazioni complessive sul Qoelet sono davvero di­
scordi: egli è stato descritto come predicatore della gioia ma,
spesso, anche scettico, deluso dall’esperienza, contestatore,
accusatore di una facile felicità, cinico, ribelle, solitario, di­
sgustato dal mondo, sentinella critica, teologo insensibile,
maestro del sospetto, razionalista della sapienza, agnostico e
persino ateo. Insomma, nonostante le dimensioni ridotte, il
piccolo scritto suscita numerosi interrogativi, che meritano di
essere analizzati.1

1 P. BEAUCHAMP, L'Uno e l'Altro Testamento, Paideia, Brescia 2000,150.


1.1. Autore

In ebraico, qdhelet è un participio femminile della radice


verbale qhl («radunare») da cui deriva anche qàhàl, cioè «as­
semblea». In epoca persiana questo participio potrebbe com­
portare una sfumatura intensiva e significare «colui che chia­
ma a raccolta l ’assemblea».2 Nella versione greca Qoelet di­
venta ekklèsiastés che rinvia direttamente alla parola greca
ekklèsia («assemblea, comunità»): l’Ecclesiaste sarebbe colui
che prende la parola in un’adunanza. Quanto al senso preci­
so della parola possiamo parlare di uno pseudonimo che in­
dica sia l’ufficio, sia il soggetto che svolge, pensando a una
scuola sapienziale o a un pubblico più ampio (Qo 12,9), la
funzione di convocare il raduno.
In Qo 1,1 l’autore si presenta come figlio di Davide e re su
Gerusalemme mentre in 1,12 si aggiunge che egli è re d ’Isra­
ele in Gerusalemme: secondo la narrazione, soltanto Davide
e Salomone regnarono a Gerusalemme su tutte le dodici tri­
bù di Israele. Insomma il lettore si trova davanti a un nuovo
caso di attribuzione pseudoepigrafica di uno scritto sapien­
ziale al re saggio per antonomasia (Salomone) come già visto
per Proverbi e, come si annoterà, per il Cantico dei Cantici.
Qualche informazione in più sull’autore ci giunge dall’epilo­
go del libro (12,9-14)3 che insieme all’introduzione è chiara­
mente opera di un editore:4 «O ltre a essere un sapiente,

2 Simili parole ebraiche venivano utilizzate per indicare uffici o funzioni; mediante un
ampliamento secondario si riferivano al titolare di tale ufficio o funzione, come nel caso
di sdferet, «ufficio di scriba» o «scriba».
3 L’epilogo (Qo 12,12) potrebbe contenere una piccola critica nei confronti di Ben Sira:
«In Qo 12,12 probabilmente un secondo epiloghista [il primo si ritrova nei w. 9-11] ag­
giunge un ulteriore ammonimento, diretto contro quei molti libri che si scrivono, ma che
non meritano di essere letti. L’atmosfera sembra essere quella della Gerusalemme del II se­
colo a.C. e si ha quindi l’eco di un probabile dibattito intorno a quali testi dovessero costitu­
ire il bagaglio dei giovani allievi della Gerusalemme del tempo, futuri funzionari pubblici»
(MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 137).
4 La sua mano si ritrova anche in altri luoghi del libro: nel titolo (1,1) e nei primi ver­
setti (1,2-3), in 7,27 in cui si menziona l’autore e, come indicato, nell’epilogo.
Qoelet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, meditò e
scrisse molte massime» (Qo 12,9).
A proposito della paternità salomonica dello scritto, vale
la pena di ricordare che per la tradizione ebraica Salomone
avrebbe scritto il Cantico in gioventù, i Proverbi nella matu­
rità e Qoelet nella vecchiaia (Shir Hashirim Rabbah 1,1); per
la tradizione patristica, coloro che progrediscono nella vita di
fede iniziano leggendo Proverbi, avanzano con Q oelet e
giungono alle vette della perfezione solo con il Cantico: da
una sapienza prettamente umana (Proverbi) l’uomo, con Q o­
elet, si abitua a considerare vanità tutto quello che si fa sulla
terra per giungere, infine, alla sublime unione con Dio
espressa dal Cantico dei Cantici.5

1.2. Datazione e lingua6

Gli studiosi concordano su una datazione successiva all’e­


silio babilonese (587-539 a.C.), perché sia la grammatica che
il lessico sono tipicamente postesilici. Numerosi sono gli ara-
maismi; solo per citarne alcuni: il pronome relativo se («che»,
«colui che»; compare 68 volte sulle 89 del più comune ’àser)\
l<?bàr («già») in 1,10; pèser («spiegazione») in 8,1. Inoltre, al­
cuni termini possono assumere sfumature diverse rispetto
all’ebraico classico: hòte ’ non sarebbe il peccatore ma il falli­

5 Si veda, per esempio, ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Ro­
ma 41997, 56-57. Sulla difficoltà nella lettura del libro e sulla necessità dell’interpretazio­
ne spirituale, Gregorio di Nissa così si esprime: «Ci apprestiamo a spiegare l’Ecclesiaste,
un libro la cui utilità è pari alla fatica necessaria per interpretarlo; ora che il nostro intel­
letto si è già esercitato nella riflessione di Proverbi [...], ecco che a coloro che hanno pro­
gredito tanto da poter accedere agli insegnamenti più perfetti si offre l’ascesa a quest’altro
libro della Scrittura [...]. L’insegnamento di Proverbi è come un esercizio che allena e
predispone la nostra anima all’agone dell’Ecclesiaste» (Omelie suWEcclesiaste, Città Nuo­
va, Roma 1990, 39-40).
6 Sulla lingua rimandiamo alla ricca discussione offerta da C.-L. SEOW, Ecclesiastes. A
New Translation with Introduction and Comtnentary, Yale University Press, New Haven -
London 1997, 11-21.
to, lo sfortunato (2,26; 8,12; 9,2) in contrapposizione con il
tób che non indicherebbe più il buono ma, appunto, il fortu­
nato, colui che è felice.
La presenza di termini persiani (pardès, «parco, orto» in
2,5; pitgàm, «sentenza, editto» in 8,11) e l’ebraico molto si­
mile a quello della Mishnà (27 sono gli hapax legomena ri­
spetto all’Antico Testamento, che invece compaiono nella
M ishnà), portano alla conclusione che lo sfondo nel quale
collocare il pensiero di Qoelet sia il III secolo a.C., cioè il pe­
riodo in cui l’ellenismo dei Lagidi d ’Egitto reggeva politica-
vmente Gerusalemme e in cui l’amministrazione centrale favo­
riva l’aristocrazia locale palestinese ben disposta verso l’elle­
nismo. L’assenza di richiami alle persecuzione dei Giudei da
parte di Antioco Epifane III e alla rivolta dei Maccabei (164
a.C.), fa propendere per il 250 a.C. circa come possibile data
di composizione. Circa il luogo, non si è arrivati a conclusio­
ni condivise, anche se la maggior parte degli studiosi propen­
de per Gerusalemme.7

1.3. Struttura e genere letterario

Non è facile risolvere la questione dell’organizzazione del


libro e la sua unitarietà è stata messa in discussione a causa
delle contraddizioni interne. In 2,15-16, per esempio, si dice
che la sorte dello stolto e quella del giusto sono identiche, an­
che se in altri passi è asserita la superiorità della sapienza (cfr.
2,13; 7,11.19; 9,16-18); in 2,17 il saggio dice che prese in odio
la propria vita, preferendo, tuttavia, in 9,4 essere un cane vi­
vo che un leone morto, e invitando, comunque, in 11,7-10

7 Per G. Bellia non sarebbe stato scritto a Gerusalemme (come comprova il tardivo
inserimento nel canone ebraico): cfr. «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antro­
pologico», in G. BELLIA - A. P assaro (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione■ redazione, te­
ologia, Paoline, Milano 2001, 176.
al suo godimento. Così come a proposito del tema della gio­
ia: essa è vanità (2,2-3.10-11), eppure viene descritta come un
dono che viene da Dio (2,24-26; 3,12-14; 5,19).
Molti studiosi se la cavano ipotizzando una struttura po­
liedrica: il libro, a motivo delle sue ripetizioni, segue un per­
corso che per alcuni è dialogo-polemico. Qoelet intesse un
dialogo fittizio con altri autori che egli cita nel corpo del te­
sto, con l’intenzione di confutare la sapienza tradizionale. Se­
condo questa ipotesi, perciò, le contraddizioni interne al li­
bro si spiegherebbero come la menzione diretta delle tesi di
coloro ai quali il saggio si oppone. Si è anche pensato di rico­
noscere delle aggiunte redazionali al libro che intendono mi­
tigare, per esempio, la visione della vita non troppo religiosa
di 8,ll-12a («Non si emette subito la sentenza contro le azio­
ni del malvagio, il cuore dell’uomo è pronto a fare il male.
Per di più, il peccatore che fa il male cento volte ha lunga vi­
ta») con 8,12b-13 («Tuttavia ho capito anche questo: sarà fe­
lice chi teme Dio, proprio perché lo teme, ma non sarà felice
il malvagio e i suoi giorni non si allungheranno come un’om­
bra, perché egli non tèrne Dio»). Tale approccio al testo, co­
me nell’ipotesi precedente del dialogo polemico, crea più
problemi di quanti ne risolva perché ogni studioso potrebbe
arbitrariamente ritrovare le «sue» glosse e riscrivere il «suo»
Qoelet.
Segnalo due ipotesi di strutturazione senza avere la prete­
sa di risolvere la questione ormai diventata «l’enigma della
sfinge».8
a) La prima ipotesi è di A.G. Wright9 e si fonda su consi­
derazioni numeriche a partire dalla parola hebel («vanità»).
Se tutti riconoscono un prologo (1,1-11) e un epilogo in cui

8 Così A.G. WRIGHT, «The Riddle of thè Sphinx. The Structure of thè Book of Qohe-
let», in CatholicBiblical Quarterly 30(1968), 313-334.
9 Cfr. I d ., «The Riddle of thè Sphinx Revisited: Numerical Patterns in thè Book of
Qohelet», in Catholic Biblical Quarterly 42(1980), 38-51.
si parla di Qoelet in terza persona (12,9-14), l’autore indivi­
dua una cesura nel corpo del libro in base alla occorrenza di
«vanità» e di «inseguire il vento» ripetuti svariate volte in
1,12-6,9 con l’intenzione di segnalare la presenza della fine
di una sezione. In 6,9, cioè, il testo si dividerebbe in due par­
ti, ciascuna di 111 versetti. La seconda parte, analogamente
alla prima, è dominata dalla ripetizione di una fraseologia
(«trovare/non trovare» e «sapere/non sapere») che segna la
sezione 6,10-11,6. La parte finale del libro è occupata dal
poema sulla giovinezza e sulla vecchiaia (11,7-12,8). A.G.
Wright spiega i fattori numerici che sono entrati in funzione.
Il valore numerico della parola chiave hebel è 37, il numero
delle volte che hebel ricorre nel libro (se si prescinde da 9,9).
Questo vocabolo è ripetuto tre volte in 1,2 dando così il nu­
mero 111 (= 3 7 x 3), cioè il numero dei versetti che compon­
gono la prima metà del libro.
b) La seconda proposta di strutturazione è stata avanzata da
A. Bonora10 e si fonda sulla ripetizione del ritornello: «An­
che questo è hebel»:

1.1 Titolo
1.2 Motto programmatico
1,3 -11 Frontespizio: l’uomo nel cosmo e nella storia
1,12-2,26 Pseudo Salomone e la sua esperienza
3,1-4,16 La società umana e le sue contraddizioni
4,17-6,9 Le istituzioni della società
6,10-8,14 Qoelet e la sapienza tradizionale
8,15-12,7 Invito alla gioia e all’azione
12,8 Motto programmatico
12,9-14 Epilogo

La prima proposta sembra nascere da una lettura a poste­


riori più che dall’esplicita volontà dei redattori (che avrebbero

10 Cfr. A. B o nora , «Q ohelet», in B onora - P riotto , Libri sapienziali e altri scritti, 78.
dovuto fare un minuzioso e organico lavoro di stesura): è ac­
cattivante perché gioca sulla simbologia numerica così impor­
tante nella tradizione ebraica medievale, ma aiuta poco a inter­
pretare il senso profondo del libro. La seconda sembra da pre­
ferire perché presenta alcuni elementi formali ricorrenti (il ri­
tornello «anche questo è hebel», il motto programmatico) che
scandisce le principali sezioni tematiche dell’opera.
Mancando una sostanziale convergenza sull’unità del li­
bro, anche per la questione del genere letterario non si ravvi­
sa unanimità di pareri sull’esistenza di una principale forma
letteraria. Nell’opera non è difficile ravvisare proverbi sciolti
(1,15.18.14; 3,20; 4,5-6.13; 5,27,16-17; 8,1; 9,2.8), paragoni
(2,13; 7,6; 9,12), poemi (1,4-7; 3,1-8; 12,1-7) e una piccola
parabola (9,14-15). Una prima sezione del libro (fino a 3,15)
può appartenere al testamento regale, tipico della letteratura
del Vicino Oriente Antico, perché il saggio veste gli abiti del
re di Gerusalemme.11 Altri suppongono il genere «diatriba»
sul modello dei pensatori stoico-cinici (IV secolo a.C.).1112 Tale
genere si caratterizzava per il tono polemico e provocatorio
dell’oratore, il ricorso all’ironia e al sarcasmo per esprimere
l’indignazione suscitata dalla stoltezza umana, per biasimare
energicamente il vizio e l’immoralità e per lo spiccato ricorso
alla sentenza. In verità ciò che maggiormente accomuna Q o­
elet con questo genere è l’aspetto etico e il dialogo tra il reto­
re (in questo caso lo scrittore) e un interlocutore. Per altri
autori, infine, il libro è una raccolta di esortazioni e ricordi
autobiografici di tipo diaristico, di aforismi formulati in pri­
ma persona, di pensieri filosofici di un esistenzialista ante lit­
teram.

11 «Il testamento regale ha la propria origine nelle antiche istruzioni egizie; faraoni e
visir tram andavano in forma autobiografica la loro visione del mondo e delle cose come
lascito intellettuale che potesse giovare ai giovani di famiglia patrizia aspiranti alle cariche
dell’amministrazione dello stato» (MORLA AsENZIO, Libri sapienziali, 156).
12 Cfr. N. LOHFINK, Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997, 26; cfr. anche V. D’Alario, Il
libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica, Dehoniane, Bologna 1992, 231-235.
2. Esegesi di Qo 3,1-15: c’è un tempo per ogni cosa

Tra i testi più conosciuti del libro del Qoelet occupa un


posto particolare il poema sul tempo (3,1-8), che esprime,
con la forza delle antitesi, la contraddittorietà della realtà
così come è percepita dal sapiente. Accanto a questa serie di
azioni legate all’ambito della vita dell’uomo in cui tutto sem­
bra avere un proprio momento ben preciso, viene offerta
una profonda riflessione sul senso della vita, sull’agire divi­
no e sui limiti conoscitivi che egli ha posto (w. 9-15). Per
quanto amare siano le conclusioni alle quali giunge Qoelet,
3,1-15 rappresenta una delle più dense riflessioni teologiche
del libro.

2.1. Contesto prossimo e struttura

Siamo nella prima parte del libro secondo A.G. Wright


(1,12-6,9) e in quella che A. Bonora ha definito la sezione
dedicata alla società umana e le sue contraddizioni (3,1-
4,16).
La fluidità del testo di Qoelet non permette tagli netti per
cui consideriamo che 3,1-15 può essere legato anche ai due
capitoli precedenti perché 1,3-3,15 può essere considerata
una composizione tematicamente unitaria. In 1,3 e 3,9 abbia­
mo la domanda «Quale guadagno viene all’uomo per tutta la
fatica con cui si affanna sotto il sole?», quesito che apre i due
poemi di 1,4-11 e 3,1-8. Il centro della composizione è costi­
tuito da 1,12-2,26 (i propositi, la vita e il bilancio della vita
del re) mentre le riflessioni teologiche di 3,10-15 la chiosano.
Il resto del terzo capitolo (w. 16-22) presenta delle riflessioni
sui problemi umani: il tenore delle considerazioni fa ritenere
di non legare questi versetti a quanto precede, sebbene non
ci sia un’unità formale interna; l’autore consegna un esempio
del suo tipico metodo di ricerca: osservazione, riflessione e
conclusione sul tema della giustizia ma, soprattutto, della
morte.
Sicuramente possiamo distinguere in 3,1-15 due parti: i w.
1-9 e i w. 10-15. La seconda si può ulteriormente suddivide­
re in tre parti ciascuna introdotta da un verbo di osservazio­
ne: r a i t i { w. 10-11) yy àd a‘ti (w. 12-13) e y àd a'ti (w. 14-15).

2.2. Traduzione e commento

!Per ogni cosa c'è un momento e un tempo per ogni evento


sotto il cielo.
2Un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare
quel che si è piantato.
3Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
5Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi
dagli abbracci.
6Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttare via.
7Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
9Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?

10Ho considerato l'occupazione che Dio ha dato agli uomini


perché vi si affatichino.
u Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel
loro cuore l'eternità, senza però che l'uomo possa trovare la
ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine.
12H o capito che per non c’è nulla di meglio che godere e procu­
rarsi felicità durante la sua vita;
13e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche que­
sto è dono di Dio.
14Ho capito che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è
nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché
lo si tema.
15Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto.
Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso.

1-9.1 primi versetti sono costruiti in modo antitetico po­


nendo a confronto le realtà di cui il saggio fa esperienza e
sulle quali riflette: si succedono quattordici coppie relative a
situazioni/azioni antitetiche. L’enumerazione non cita tutte le
possibili circostanze della vita umana e neppure quelle più si­
gnificative; l’elenco ha una valenza simbolica proprio in ra­
gione dei ventotto (multiplo di sette) stichi. Il contesto vitale
al quale rinviano le ventisei azioni e i due sostantivi finali
(guerra e pace) può essere la famiglia con la sua vita domesti­
ca e ordinaria, il mondo agricolo e quello bellico.
1. Vi si espone la tesi di tutto il componimento con la chia­
ra volontà che ha l’autore di includere l’intera realtà nella sua
riflessione: «L a sfilata quasi processionale dei “tempi” umani
è aperta da una dichiarazione quasi a tesi: ogni evento storico
ha una sua “stagione” e un suo “tempo”» .13 Il termine «m o­
mento» traduce l’ebraico zemàn (parola di origine persiana)
mentre «tem po» rende l’ebraico ‘et. I due sostantivi sono
praticamente sinonimi indicando il tempo stabilito, l’ora fis­
sata. Tuttavia, può esistere una differenza: il primo richiama
la dimensione cronologica, il tempo misurabile e percepibile
da tutti allo stesso modo, mentre il secondo evoca i tempi e
le occasioni da cogliere nel più generale scorrere del tempo.

13 G. R avaSI, Qohelet. Il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San


Paolo, Cinisello Balsamo 1988, 141.
Tale differenziazione semantica è mutuata dal confronto con
la versione greca dei Settanta che rende zemàn con krónos ed
‘et con kairós: «il contenitore cronologico (zemàn) ha tempi
Cet) diversi, cioè atti concreti».14
La dottrina secondo cui c’è un tempo adatto per ogni cosa
è molto più antica di Qoelet e rientra in quelle verità univer­
sali che i sapienti di ogni tempo intuiscono. L’autore, distin­
guendo momenti e tempi, intende dichiarare che tutto è già
stato stabilito? Non possiamo desumerlo da questo primo
versetto, possiamo al momento solo constatare che nel libro
l’accento cade sul secondo termine (‘et) attestato una quaran­
tina di volte. L’uomo può sicuramente avere consapevolezza
della durata e rimanere vigile per non lasciarsi sfuggire l’oc­
casione, quando arriva, per approfittare di ciò che la vita of­
fre. Se, come si vedrà, egli può fare solo questo e non preve­
nire l’accadimento delle varie situazioni o trattenerlo nella
memoria per i posteri, ancora non ci è dato di capirlo.
L’espressione «sotto il cielo»,15 non è identica a «sotto il
sole»; per Qoelet non ci sarebbe nulla di nuovo sotto il sole
ma non sotto il cielo, espressione che è cifra dell’ampio rag­
gio della sua ricerca, ambito che gli sfugge nella sua interezza.
Proviamo a spiegarci. Il campo di studio del maestro è tutto
ciò che si fa sotto il sole (1,3) anche se sotto il sole egli non
scorge novità. Bisogna fare una precisazione tenendo presen­
te la visione ebraica del mondo (cosmologia). In Gen 1,6 si
presenta il firmamento (rnqia ‘) termine che indica la volta ce­
leste (l’arco in metallo battuto) tesa da un estremo all’altro
della piattaforma terrestre, la quale separa le acque che stan­
no sopra il cielo da quelle che stanno sotto (Sai 148,4). Nel
firmamento sono incastonati il sole, la luna e le stelle con il fi­
ne di illuminare la terra abitata. La sfera divina è quella al di

14 Ivi,142.
15 «Sotto il cielo» appare spesso nell’Antico Testamento: Gen 1,9; 6,17; 7,19; Es
17,14; Dt 7,24; 9,14.
sopra del firmamento: qui viene immaginata la dimora di Dio
collocata al vertice di una stratificazione secondo quanto si
può ricavare dall’espressione «cieli dei cieli».
2. «Un tempo per nascere e un tempo per morire». La pri­
ma è, possiamo dire, l’antitesi madre ed è perfetta nei suoi
termini estremi. Siamo davanti a un merismo (dal greco meri-
smós perché divide in due metà una totalità), cioè un espe­
diente retorico con il quale si intende esprimere tutto quanto
è compreso nei termini estremi (poli). E, dunque, una modali­
tà espressiva polare che esprime la totalità mediante la men­
zione dei due punti più lontani. Si vedano per esempio: «cielo
e terra» per indicare il tutto (Gen 14,19.22; 24,3), «notte e
giorno» per dire «sempre» o «continuamente» (Dt 28,66; IRe
8,29; Sai 22,2; 88,1), «quando mi siedo e quando mi alzo» per
dire «ogni azione» (Sai 139,2). Per «nascere» e «morire» non
c’è che un tempo e l’uomo non può farci nulla. Qoelet si limi­
ta ad affermare lucidamente che tanto l’ingresso quanto la di­
partita hanno un loro momento definitivo e preciso. Abbiamo
già avuto modo di vedere come per il sapiente la morte si rile­
vi in tutto il suo potere nullificante, sebbene in questo verset­
to egli prenda soltanto atto della sua esistenza rinviando alla
fine del c. 3 le sue amare considerazioni (la sorte degli uomini
e quella delle bestie è identica: Qo 3,16-22). Un tempo per
piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Dal
vertice della massima polarizzazione, l’autore scende a consi­
derare il piantare e il raccogliere come un genere di nascita e
di morte molto concreto, trattandosi di un’antitesi apparte­
nente all’ambito dei vegetali (ciclo della pianta).
3-8. Vi è descritta una visione ciclica del tempo e della sto­
ria - quasi un eterno ritorno - come se ci fosse un ineluttabi­
le fato che tutto riporta al punto di partenza, vanificando
ogni novità. Sebbene Qoelet possa essere stato influenzato
dalla visione ciclica della storia tipica del mondo greco, il suo
pensiero nasce dall’osservazione e giunge alla conclusione
che spesso ci si deve confrontare con l’abitudinarietà delle
cose della vita e con la fatica che. tale esistenza comporta, so­
prattutto quando l’uomo assiste passivamente allo scorrere
degli eventi. Misurarsi con questo movimento circolare getta
nuova luce sulla concezione ebraica del tempo, orientata al
compimento, alla terra promessa da raggiungere, e innervata
- nonostante le battute d’arresto - da una tensione verso il
futuro.
3. «Un tempo per uccidere e un tempo per curare». La
terza antitesi è imperfetta perché a «uccidere» dovrebbe
corrispondere «dare vita»; ma non rientra tra le capacità
umane questa seconda possibilità. Pertanto, si indica l’azio­
ne più prossima: il prendersi cura. Il passaggio alla vita so­
ciale caratterizzata dai conflitti è brusco. Ancora una volta
sottolineiamo che Qoelet si limita a prendere atto di ciò che
sperimenta senza offrire un giudizio di valore: anche l’ucci­
sione violenta (Gen 27,42; Es 2,14-15; 21,14) segna la vita
così come il lato buono dell’umanità che con premura ne
favorisce lo sviluppo. Possiamo anche considerare un altro
aspetto, più antropologico: se la coppia «uccidere/curare»
si riferisce alla stessa persona, saremmo davanti alla consi­
derazione del pentimento che, a seguito di un’azione atro­
ce, viene concesso come tempo in cui porre rimedio al male
perpetuato. Un tempo per demolire e un tempo per costrui­
re. Questa seconda antitesi è in parallelismo alla prima:
«L’autore sta forse pensando ai tempi di guerra - commen­
ta J. Vilchez Lindez - tempi di distruzione, e di pace, tem­
po di costruzione, con un riferimento agli edifici e ai luoghi
in cui l’uomo solitamente abita. Nel suo agire storico l’uo­
mo non fa che ripetere sempre la stessa attività: fare e disfa­
re, per tornare a fare il disfatto. Non c’è niente di nuovo
sotto il sole».16
4. «Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tem­
po per fare lutto e un tempo per danzare».17 Il rimando di
questo versetto può essere bellico e ricollegherebbe il pian­
gere e il fare lutto all’uccisione di 3 a. Oppure, le quattro si­
tuazioni descrivono la comune convivenza familiare e i senti­
menti che la attraversano. Il tema della gioia e l’invito a go­
derne caratterizza l’opera di Qoelet; qui si menziona anche
quello della tristezza che accompagna la morte (altro tema
importante dell’opera) perché entrambi coesistono specular­
mente nell’animo umano.
5. «Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli».
Anche in questo caso l’interpretazione della contrapposizione
dipende dal contesto al quale la si collega. Può descrivere il la­
voro agricolo della manutenzione ordinaria di un campo o di
un giardino in cui si spostano delle pietre e le si disloca diver­
samente o altrove; così come può rinviare al gesto che si com­
pie per offendere il nemico in tempo di guerra, cui segue l’a­
zione contraria nel periodo della pace.18 In senso figurato si
possono intendere le immagini di 5a anche ravvisando un col-
legamento con l’attività sessuale evocata, o supposta tale, an­
che da «abbracciare» e «astenersi dagli abbracci»: scagliare
sassi è usato come simbolo dell’unione sessuale, raccoglierli
invece come simbolo dell’astinenza. Il midrash su Qoelet (Qo­
elet Rabbah) così recita: «Un tempo per scagliare sassi quando
la tua sposa è pura (dal punto di vista mestruale) e un tempo
per raccogliere pietre quando la tua sposa è impura». Anche
Agostino ha parole simili quando si rivolge alle vedove:
«Quanto a te, tu hai prole, e ti trovi a vivere nell’ultima era del
mondo, quando non è più il caso di scagliare pietre ma di rac­
coglierle, non stringersi in amplessi ma astenersene» (La digni­
tà dello stato vedovile 8,11). «Un tempo per abbracciare e un

17 In 4b manca la preposizione le («per») davanti ai verbi «fare lutto» e «danzare».


18 Sempre nell’ambito bellico segnaliamo la prassi di riempire di pietre il campo del
nemico per ostacolarne la coltivazione (cfr. 2Re 3,19).
tempo per astenersi dagli abbracci». 5b può avallare l’inter­
pretazione figurata di 5a, così come abbiamo visto. Tuttavia,
può anche essere letto come un generico rimando, tipico di
ogni cultura, all’usanza di abbracciarsi e/o non abbracciarsi
tra persone in base al grado di familiarità e amicizia.
6. «U n tempo per cercare e un tempo per perdere, un
tempo per conservare e un tempo per buttare via». Diceva­
mo sopra che lo spettro delle circostanze richiamate da Qoe­
let non comprende l’intera realtà né le azioni più significati­
ve. Anche questi gesti del v. 6 legati all’ordinaria vita quoti­
diana in cui capita di smarrire qualcosa per poi ritrovarla do­
po averla cercata o di buttare un oggetto ormai divenuto inu­
tile che altre volte è stato conservato, catturano l’attenzione
del sapiente. Nulla accade a caso ma ogni avvenimento ha il
suo tempo opportuno.
7. «Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tem­
po per tacere e un tempo per parlare». Se colleghiamo «strap­
pare» a «cucire» e «tacere» a «parlare» possiamo pensare alla
ritualità e alle usanze relative al lutto. Davanti a una grande di­
sgrazia in segno di dolore ci si strappava gli indumenti: così fa
Ruben quando non trova più il fratello Giuseppe nella cisterna
e il padre Giacobbe quando gli viene notificata la notizia della
scomparsa del figlio amato (Gen 37,29.34), Iefte quando è co­
stretto - a causa del giuramento - a sacrificare la figlia (Gdc
11,35), Davide alla morte del figlio Assalonne (2Sam 13,31),
Giobbe alla morte dei figli (Gb 1,20) e i suoi amici quando si
accorgono della sua grave situazione di salute (Gb 2,12).
Quest’ultima citazione aiuta a spiegare perché c’è un tempo
per tacere, sebbene la cosa più consueta sia che si palesi il do­
lore rumorosamente con lagnanze, grida e pianti (cfr. Gen
27,34: il pianto di Esaù; G b 7,11: lo sfogo del sofferente Giob­
be; Ger 31,15: il pianto di Rachele; Mi 1,8: il lamento del pro­
feta sul popolo). Tuttavia, anche per le antitesi di questo setti­
mo versetto si può ipotizzare un senso molto ordinario (lacera­
re un vestito e poi rammendarlo, alternare la parola e il silen­
zio nel turno della comunicazione) oppure uno legato all’umile
silenzio che deve caratterizzare il vero sapiente (cfr. Pr 10,19;
18,17; 29,20; Sir 19,18; 21,7).
8. «Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo
per la guerra e un tempo per la pace». Si conclude in senso
volutamente positivo («pace» è l’ultima parola) la serie delle
coppie con queste ultime due che sono in perfetta corrispon­
denza antitetica: amare-odiare/guerra-pace. Commentando il
v. 3 (uccidere/curare) ho sottolineato come Qoelet non in­
tenda leggere in maniera assiologica queste azioni; questo va­
le anche per amare/odiare, i due sentimenti più estremi per­
ché agli antipodi tra di loro che, però, spesso coabitano nella
stessa persona o all’interno di una relazione che nel tempo
può deteriorarsi sostituendo l’iniziale amore con l’odio. L’ul­
tima antitesi (guerra/pace) è, fra le ventotto del poema, l’uni­
ca in cui l’autore non ricorre alla forma verbale ma a quella
nominale. Un brano che può aiutare a leggere complessiva­
mente Qo 3,1-9 è Is 11,1-9 in cui si menziona la pace messia­
nica che rende possibili convivenze che in natura normal­
mente non si realizzano (lupo/agnello; pantera/capretto, vi-
tello/leoncello, mucca/orso). Nel testo isaiano le opposizioni
trovano senso nel raggiungimento di un’armonia superiore
che Qoelet, a differenza del profeta, non ravvisa ancora: egli
si limita a registrarle e a mantenerle senza risolverle.
9. Questo versetto permette la transizione dal poema sul
tempo ai w. 10-15,«una delle più dense riflessioni teologiche
del libro di Qoelet».19 La domanda sul guadagno che ricava
l’uomo da tutta la sua fatica rinvia a quella di 1,3 e di 2,22.
Possiamo dire che è la questione cardine di Qoelet perché
punta al cuore dell’attività del sapiente che, secondo le con­
vinzioni classiche, sarà premiata dal successo anche se costa

19 V ilc h ez L in d ez , Qoèlet, 242.


sforzo e sudore (Pr 2,1-10; Sir 7,18-38). Tale domanda fa
echeggiare quella posta sulla bocca di satana in Giobbe:
«Forse che Giobbe teme Dio per nulla?» (Gb 1,9), palesan­
do le considerazioni legate al giusto merito alle quali spinge­
va la teoria classica della retribuzione e che ormai, proprio
con Qoelet e Giobbe, non possono essere più affrontate se­
guendo - quasi in automatico - la logica compensatoria.20
10-15. La seconda parte si sviluppa in modo più discorsivo
menzionando per sei volte Dio (’èlóhim: 10.11.13.14[bis].15).
10-11. Il verbo di osservazione vaiti introduce le riflessio­
ni dei w. 10-11 che in parte Qoelet aveva avuto modo di
esplicitare a proposito del duro lavoro umano in 1,13. Qui
non dice che tale lavoro rappresenti un’occupazione gravosa
anche se dalla lettura dei versetti si deduce la finalità per la
quale è stato dato tale onere all’uomo: affaticandosi in esso
(senza, tra l’altro, venire a capo di nulla) egli viene distolto
da altre considerazioni sulla sua condizione. Qoelet sottoli­
nea la dimensione faticosa della condizione umana, ricolle­
gandosi alla vicenda della punizione dopo la disobbedienza
di Gen 3,17-19, alla quale ammicca anche il termine ’àdàm.
Ma il richiamo al libro della Genesi si attesta anche nel v. 11
(per qualche autore è il «versetto chiave di tutto il libro»)21
che ricorda la caratteristica della creazione sia nelle singole
opere sia nel suo complesso: essa è intrinsecamente buona
(Gen 1,31). Qoelet non utilizza l’aggettivo (db) ma, esplici­
tando il senso estetico,yàfeh («bello»).
La frase «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo» è am­
bigua. Può essere letta in riferimento a Dio o alle creature.

20 La figura di satana in Giobbe ha la funzione del provocatore, essendo convinto che


Giobbe è virtuoso a causa della prosperità voluta da Dio in cui egli vive. Dio permette a
satana di causare la sciagura ma la sua figura non è qui teologicamente connotata (non è
cioè il demonio tentatore del Nuovo Testamento), avendo il ruolo di attenuare l’interven­
to diretto di Dio.
21 B. ISAKSSON, Studies in Language of Qohelet, Almqvist & Wiksell, Uppsala 1987,
179.
Nel primo caso si vuole indicare che Dio è l’arbitro del mo­
mento ( ‘et) di ogni cosa così come l’aggettivo «bello» sembra
richiamare («suo», cioè al momento della creazione); nel se­
condo caso «suo» sarebbe da legare alla cosa stessa che ha un
proprio tempo propizio nel quale appare nella sua luce posi­
tiva. Le due possibili letture non si escludono.
La seconda parte del v. 11 ci dice che Dio gli ha messo
‘òlàm nel cuore umano. 1) Tale vocabolo si utilizza per in­
dicare la lunga durata del regno davidico (lC r 17,14), per
ricordare l’antichità di un oracolo profetico (Ger 28,8) o la
perpetuità della lode da tributare a Dio (Sai 41,4; 106,48;
Ne 9,5; lC r 16,36) che vive in eterno (Dn 12,7). 2) ‘ólàm,
qui è stato reso con «eternità»: posto che per Qoelet non
esiste la nozione di vita eterna dopo la morte, qui significa
il senso globale delle cose cioè la loro durata complessiva,
la loro continuità dall’inizio alla fine. «Q uesto termine
dall’etimo incerto (“essere nascosto” ?) indica il tempo re­
moto, dalla durata incontrollabile, sopra e al di là del
“tempo” circoscritto e sperimentabile; è fuori di dubbio -
continua G. Ravasi - «che il vocabolo esprime simbolica-
mente il concetto di eternità, concetto difficile a formularsi
nel contesto culturale semitico; ‘ólàm è il tempo supremo
di D io che ingloba e supera quello dei “tem pi” speri­
mentabili».22 3 Yólàm riguarda la parte più intima e razio­
nale dell’uomo (il suo cuore): essendo un dono divino,
questa capacità sembra porre direttamente in relazione con
Dio, sebbene questo dato non sia stato ancora esplicitato
dal saggio. Saremmo, cioè, davanti a un atto di fede di Q o­
elet nel Dio creatore e a un insegnamento sull’accettazione
della condizione umana. Dio ha posto nella parte più inti­
ma dell’uomo la capacità di percepire il tutto senza, tutta­
via, riuscirci. Solo Dio possiede questa visione totalizzante

22 RAVASI, Qohelet, 148. Cfr. anche lo status quaestionis offerto da L. MAZZINGHI, H o


cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Dehoniane, Bologna 2001,217-221.
mentre all’uomo è concesso soltanto un ‘et, sguardo parzia­
le sulla realtà.23
12-13. Continua la riflessione frutto dell’osservazione
(y àd a'ti, v. 12) che Qoelet rivolge direttamente all’uomo.
Mangiare e bere costituiscono un bisogno fisico primario ma
possono anche essere un’occasione di godimento perché nu­
trendosi e dissetandosi si prova piacere. Qoelet sta parlando
dei piaceri della tavola, ma anche del valore simbolico del
condividere con il cibo anche i sentimenti più profondi nella
gioia dell’ospitalità e dell’amicizia.
Il diletto che si prova nell’attività lavorativa può riguarda­
re il senso di soddisfazione provato davanti all’opera del pro­
prio impegno fisico o intellettuale. La radice ‘am ai nelle oc­
correnze dell’Antico Testamento indica la sofferenza legata
all’oppressione della schiavitù in Egitto (Dt 26,7), alla pena
per una situazione di angustia provata dal salmista (Sai 7,17;
25,18) e, soprattutto in Qoelet, alla fatica del duro lavoro:
delle 54 frequenze del sostantivo, 21 sono attestate in questo
libro, mentre 13 volte compare il verbo in Qoelet su 20 tota­
li: il significato è sostanzialmente negativo. Per cui possiamo
dire che, se è vero che il saggio inviti a godere anche del lavo­
ro, tale gioia ha un sapore amaro perché nasce da un’occupa­
zione gravosa e ineluttabile.
La visione religiosa di Qoelet si mostra nuovamente nella
presa d ’atto che mangiare, bere e lavorare sono doni divini,
palesando una visione genuinamente ottimista e non materia-
lista o epicurea. La sottolineatura enfatica di wegam («an­
che») in ebraico all’inizio del v. 13 dichiara che Dio è la sor­
gente non soltanto di tutte le cose ma anche di tutte le gioie.
14-13. Si ripete la formula introduttiva del v. 12 (yàda'ti,
«ho com preso»). Qoelet ha appena confessato l’oscurità
dell’agire divino ma sa anche, perché lo attinge dalla sua fe­

23 La traduzione della CEI del 2008 rende con «durata dei tempi»; quella del 1974
aveva «nozione dell’eternità».
de, che oltre il suo limitato studio del mondo e delle sue leg­
gi, esiste un flusso continuo nella storia fissato da Dio.
Il concetto di timor di Dio ha nella tradizione sapienziale
un valore positivo indicando il rispetto e la venerazione da
tributare a Dio. Tuttavia nel v. 14 si attesta un senso diverso:
«Il temere Dio ha prima di tutto una valenza negativa; all’uo­
mo non serve la Legge; nella sua ricerca di Dio l’uomo deve
limitarsi ad accettarne la volontà imperscrutabile, deve cioè
temerlo; da questo punto di vista Qoelet non fa che ripren­
dere l’idea di distanza tra Dio e l’uomo già insita nella visione
tradizionalmente israelita del “timore di D io”».24 Dio sembra
essere intenzionato a lasciare l’uomo nella situazione di igno­
ranza e, perciò, di impotenza a causa delle sue contraddizio­
ni. Si potrebbe quasi registrare un accenno all’idea della ge­
losia che gli dèi provano nei confronti degli uomini (cfr. Gen
11,6: la torre di Babele).
«Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso» signifi­
ca che solo lui ha cognizione del passato mentre l’uomo può
cogliere il breve tratto di presente che gli è concesso. M. Gil­
bert commenta questo brano dicendo che «in tanta oscurità,
Qoelet non ha più che due certezze. La prima (Qo 3,12-13) è
che dobbiamo approfittare delle semplici gioie che Dio ci
dona: mangiare e bere, aver gusto per il nostro mestiere e
cercare di agire in modo decente nel corso della nostra vita.
Ciò permette di vincere l’angoscia metafisica. La seconda
convinzione di Qoelet (3,14) è che tutto ciò che Dio fa, le
circostanze per esempio che portano l’uomo ad agire in que­
sta o quella maniera, tutto ha un senso in quella durata totale
di cui soltanto Dio è padrone [...] Ciò che resta all’uomo è
temere Dio».25

24 M a zzin gh i , H o cercato e ho esplorato, 232-233.


25 GlLBERT, La Sapienza del cielo, 124.
3. Linee teologiche

«In Qoelet si riscontra un atteggiamento eclettico rispetto


al materiale teologico dell’Antico Testamento: egli sceglie gli
elementi che gli sono utili e passa sotto silenzio gli altri; inol­
tre intese secondo una nuova prospettiva e impose un di­
verso andamento alle idee che condivideva con l’Antico
Testamento».26 Questa constatazione aiuta a cogliere la por­
tata della teologia racchiusa nel libro del Qoelet offrendo
una chiave di lettura biblica che permette di collocare il pen­
siero del saggio sulla scia della tradizione da un lato, eviden­
ziando la libera reinterpretazione operata nei suoi confronti
dall’altro.
Evidenziamo di seguito le principali tematiche teologiche.
a) Vanità delle vanità. «Vanità delle vanità, dice Qoelet, va­
nità delle vanità, tutto è vanità» (1,2). Questa frase ha segna­
to interi trattati di una certa morale cristiana che denunciava
l’eccessiva mondanità della vita, sebbene questo significato
morale (vanità contrapposto a sobrietà) non sia immediata­
mente palese. Hebel («vanità») ricorre 73 volte nella Bibbia
ebraica e ben 38 in Qoelet. Il suo significato letterale è «va­
pore», rinviando a qualcosa di inconsistente ed evanescente,
al soffio di vento (cfr. Is 57,13) ed è spesso accostato all’atti­
vità umana: i giorni dell’uomo sono soffio (cfr. Sai 39,6-7;
62,10; G b 7,16), così come i suoi progetti e le sue azioni (cfr.
Sai 94,11; G b 9,29; Is 49,4). Hebel sono anche gli idoli (cfr.
Dt 32,21; Ger 2,5; 14,22). Nelle occorrenze in Qoelet hebel
si attesta sia come conclusione di un’esperienza fatta e analiz­
zata sia come valutazione relativa alla fugacità della vita (cfr.
Qo 6,12; 7,16; 9,9; 11,8.10). Il termine non esprime una con­
siderazione di tipo estetico contrapponendo ciò che è frivolo
e frutto di vanità con ciò che, al contrario, sarebbe essenziale
e serio. Sin dall’inizio dall’antichità si inaugura un’ermeneuti­
ca che conferisce al sostantivo hebel un senso metafisico: la
traduzione greca dei Settanta è mataiótès («vanità, menzo­
gna, futilità») e lo stesso Girolamo rende con vanitas. Su
questa scia gli studiosi moderni hanno reso hebel con «assur­
do, caduco, inutile, fumo, non senso, zero, nulla, disillusione,
vuoto». Forse quest’ultimo termine può coniugare, meglio di
«nulla», la portata esistenziale e filosofica con la concretezza
della lingua ebraica.
La costruzione superlativa «vanità delle vanità» sembra si­
mile a quella di «Cantico dei Cantici» o «santo dei santi»:27
se, però, per queste due espressioni si può rendere il superla­
tivo con «il più bello dei canti» e con «il luogo santo per ec­
cellenza», la formula «vanità delle vanità» sarebbe da rende­
re con «interamente, del tutto vano, vuoto», riconoscendo
una formula di intensificazione che rafforza un significato
negativo. Tale formula, posta all’inizio dell’opera, ha il valore
di un vero e proprio slogan o di una «sigla simbolica di
Q oelet»,28 giacché si ritrova anche alla fine (12,8) come
espressione della volontà dell’editore di racchiudere il libro
sotto questa frase.
b) La ricerca del nuovo. Già nell’esegesi abbiamo posto in
evidenza come le due espressioni «sotto il cielo» e «sotto il
sole» non siano sinonimiche. Il maestro, infatti, riesce a per­
cepire che sotto il sole, cioè fino al punto limite che l’uomo
può raggiungere, non c’è novità sostanziale circa i moti che
governano l’universo. La sua saggezza vorrebbe spingersi ol­
tre ma è frustrata nelle sue aspirazioni e, concentrandosi solo
sulle vicende sotto il sole, non può che constatare il parziale
fallimento del lavoro sapienziale. Il maestro, in effetti, si ren­

27 Questa costruzione si ha quando ci sono due sostantivi identici e il secondo è al


plurale. Il senso di questa espressione tipicamente ebraica è quello di esprimere un’idea al
superlativo.
28 RAVASI, Q oh elet , 21.
de conto che esistono delle realtà che sfuggono al controllo
degli uomini e che, all’interno della ricerca, frustrano ogni
desiderio di piena conoscenza: «Ciò che è storto non si può
raddrizzare e quel che manca non si può contare» (1,15). E
bene fare una prima precisazione. Il saggio non cade nel di­
sfattismo né nel relativismo assoluto, secondo il quale non
esistono parametri di valutazione certi e immutabili; tuttavia,
Qoelet precisa che la fatica posta in essere nello studio non è
sempre proporzionata ai risultati e che spesso l’unica merce­
de è la sofferenza: «Dove c’è molta sapienza, c’è molto tor­
mento, e se si aumenta il sapere, si aumenta il dolore» (1,18).
Provoca, infatti, sofferenza constatare l’esistenza e la perma­
nenza della contraddizione dentro di sé e attorno a sé.
Ma, allora, con quale autorità il maestro può salire in cat­
tedra se alla fine l’unico esito dello sforzo conoscitivo è il fal­
limento? A cosa serve essere saggi? La risposta giunge dallo
stesso saggio: «Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e
bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che
anche questo viene da Dio» (2,24). Il cammino di ricerca ha
dunque portato il maestro d’Israele a una conclusione: «Temi
Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uo­
mo è tutto» (12,13). Dopo che Qoelet ha ascoltato ogni cosa,
ha ricercato e scrutato ciò che umanamente è possibile osser­
vare, approda a un’affermazione teologica e antropologica
che - per quanto minimalista - è una reale professione di fe­
de, riconducendo a Dio l’intera vita morale e intellettiva.
Qoelet non è, quindi, un fedele disincantato, né un edoni­
sta che incoraggia il godimento sfrenato della vita: per questa
sua profondità, pur tra le critiche dei più devoti, è stato ac­
colto nel canone ebraico tra i libri che «sporcano le mani»,
cioè ispirati.29 La lettura di Qoelet nella liturgia sinagogale
durante la festa delle Capanne (Sukkót), esprime, già a parti­

29 Sulla discussione circa la canonicità di Q oelet rim andiam o a: VfLCHEZ LlNDEZ,


Qoelet, 91-100.
re dal XII secolo, la reale ricezione di questo scritto sapien­
ziale, per quanto provocatorie rimangano - anche per il più
disincantato lettore moderno - le sue pagine. Le sue conside­
razioni abbracciano i doni che procedono da Dio, per cui an­
che le piccole e ordinarie gioie sono segno della sua benevo­
lenza. Restano, tuttavia, le aporie del pensiero di Qoelet con
le sue amare considerazioni: egli non nasconde - come ogni
buon docente - le sfide della vita poste in evidenza dalla let­
tura dialettica della realtà, ma è conscio che la sapienza si
esprime, precipuamente, nella maturazione di una visione
della vita che può scorgere, davanti all’ambivalenza e alle
contraddizioni, la forza insita in ogni avvenimento. Questo
momento può essere percepito dal cuore umano come un
semplice tratto di un’esistenza superficiale e rassegnata, op­
pure può rivelarsi come tempo buono, favorevole e, seppur
misteriosamente, fecondo in ordine al conseguimento della
felicità.
c) Il metodo. Qoelet è il primo sapiente d ’Israele a parlare
della propria ricerca attraverso uno stile autobiografico: «Io,
Qoelet, sono stato re d ’Israele in Gerusalemme. Mi sono
proposto di investigare e di riflettere, per mezzo della sapien­
za, su tutto ciò che avviene sotto il cielo. Questa è un’occu­
pazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché in essa
si tormentino» (1,12-13). Egli penetra in profondità il senso
delle cose attraverso lo studio del mondo e delle leggi che lo
governano. Il metodo è di natura dialettica: confronta le teo­
rie, legge, approfondisce, confuta alcuni assiomi (12,9). Il
suo lavoro è profondo e faticoso («troppo studio affatica il
corpo»: 12,12) sebbene gli procuri anche delle soddisfazioni;
ha le caratteristiche della moderna ricerca intellettuale che
procede per ipotesi, verifiche e successiva critica dei risultati
ottenuti in vista della migliore formulazione della tesi. Il sag­
gio comprende che spesso la realtà si presenta nella sua con­
traddittorietà, al punto da preferire le mezze misure e da dis-
suadere dagli estremi: «Non essere troppo scrupoloso né sag­
gio oltre misura. Perché vuoi rovinarti? Non essere troppo
malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire?» (7,16-17;
cfr. anche Pr 26,4-5).
Il poema sul tempo (Qo 3,1-15) prima analizzato esprime
significativamente il metodo sapienziale di Qoelet: attraverso
una serie di quattordici coppie si richiamano - appaiandole
l’una accanto all’altra - le realtà essenziali che cadono sotto i
sensi dell’uomo: c’è un tempo per nascere e un tempo per
morire, un tempo per abbracciarsi e un tempo per astenersi
dagli abbracci ecc. Cogliere le antitesi e tenerle unite, rispet­
tando le tensioni tra realtà opposte, è sapienza. E sapienza
saper accettare questo limite legato al tempo: ciò che si può
cogliere, valutare e persino gustare, sono i tempi parziali del­
la vita, non la durata del complessivo scorrere né l’interezza
del progetto divino (anch’esso oggetto di esplorazione), per­
ché «solo Dio riporta sempre ciò che è scomparso» (3,15).
Perciò, se è vero che il tempo vissuto qui e ora - pur tra ten­
sioni - è buono, la realtà ultima rimane incomprensibile o so­
lo parzialmente disponibile all’intelligenza del ricercatore.
Solo Dio possiede l’intera visione del mondo, sebbene egli
abbia posto nel cuore umano il mistero dell’eternità senza
che l’uomo riesca a cogliere l’unità del disegno.
Ma anche questo desiderio di totalità - sebbene sia blocca­
to in una lettura terrena e orizzontale perché per Qoelet non
c’è la vita oltre la morte - resta fuori dalla portata dell’essere
umano. All’uomo è dato, però, di cogliere il tempo opportu­
no {‘et) nel generale accadere degli eventi (zeman) comune a
tutti (3,1). Detto in altri termini: il Signore, quindi, ha fatto
ogni cosa in un krónos ma ha dato di cogliere la bellezza delle
singole cose nel suo kairós (3,11). La sapienza consiste nell’ac-
cogliere questo tempo bello e nel prendere coscienza della
sua vocazione a trascendere il singolo momento, aprendosi a
una visione della vita legata a orizzonti più ampi.
d) La sapienza. Qoelet è in cerca della sapienza. Il termine
si ritrova nei cc. 1-2 e 7-10, cioè non se ne parla diffusamen­
te. Egli fu un sapiente illustre, nel senso che ne conseguì una
misura considerevole più di chiunque altro lo abbia precedu­
to senza, tuttavia, goderne a pieno. Per Qoelet il risultato
della sua ricerca è, in buona sostanza, deludente: ammette
che il vantaggio del saggio sullo stolto è che il primo ha gli
occhi in fronte, cioè ha coscienza di sé e di ciò che gli accade
attorno, anche se alla fine entrambi faranno la stessa fine
(2,13-14). La sua accezione di sapienza è quella classica - di
regola di vita e di comportamento - ma a che serve essere sa­
pienti se troppo sapere affatica il corpo (12,12)? Anche la
sua sapienza è vanità? Egli non arriva ad asserire ciò ma si
comprende tutta la frustrazione nel mancato raggiungimento
di quella padronanza delle leggi della vita che ogni sapiente
vorrebbe conseguire. E vero che la sapienza è più sicura del
denaro (7,11-12) e che conferisce un potere più stabile di
quello dei regnanti; è forza che può salvare dagli eserciti (an­
che se colui che ha salvato la città con la sua sapienza viene
subito dimenticato e messo da parte: 9,14-18). Possiamo dire
che la sapienza conferisce un potere assimilabile a quello
dell’incantatore di serpenti: l’abilità di non farsi mordere
schivando il veleno dell’animale (10,10). Ma nonostante tutto
ciò, neanche il sapiente porta la sua sapienza nello se’ól
(9,10).
e) Il profitto. Il termine ebraico yitrón compare dieci volte
nel libro e quindi ha una sua importanza. Per Qoelet, se tut­
to è vanità, è perché non scorge alcun profitto per l’uomo
che si affatica sotto il sole. Anche perché la morte giunge ine­
sorabilmente vanificando ogni sforzo e ogni pena umana. Se
la sapienza classica lodava il laborioso e deplorava il pigro, il
vantaggio del primo sul secondo non sembra più essere, in
ultima analisi, così evidente: dove starebbe il reale profitto, si
domanda Qoelet, considerando che la morte costringe ad ab­
bandonare tutto (beni, figli, fama ecc.) ad altri? Come e più
di Giobbe, egli denuncia l’ingenuità con cui è formulata la
teoria della retribuzione. Davanti a un pensiero troppo otti­
mistico e naif, esageratamente distante dalla vicenda degli
uomini, egli fa esperienza della complessità della vita e delle
dinamiche che determinano il suo corso. Interroga critica-
mente il sistema chiuso di una certa teologia retributiva, in­
capace di dialogare con l’ambiguità dell’esperienza. Non in­
dividuando alcuna prospettiva ultraterrena e imprigionato
nell’orizzonte terreno, non può che constatare l’illusorietà di
una vita spesa alla ricerca della sapienza senza mai raggiun­
gerla.
f) La gioia e la sofferenza. Queste considerazioni non getta­
no nella disperazione il saggio ma ne ridimensionano forte­
mente le attese di gloria e benessere che, secondo i canoni
della sapienza tradizionale, dovrebbero rendere pienamente
felice la vita dei giusti. Per tale ragione Qoelet per sette volte
menziona le gioie che egli considera buone, incoraggiandone
il godimento e invitando a interpretarle come dono di Dio:
mangiare, bere e godere del lavoro (2,24; 3,12-13.22; 5,17;
8,15), la propria sposa (9,9) e la giovinezza in genere (11,9).
Il concedersi ai piaceri ha portato alcuni autori a considerare
il saggio come un edonista. Ciò non sembra corrispondere al
vero in quanto egli professa un castigato equilibrio nei con­
fronti della vita non incoraggiando mai gli eccessi.30 Potrem­
mo dire che, a fronte delle delusioni - la fatica umana non
porta a nulla (2,12-23; 5,12-16), l’uomo ignora il proprio fu­
turo (3,1-15) e l’agire divino (8,16-9,6), l’ingiustizia regna e
resta impunita (3,16-21; 8,10-14), la ricchezza non giova (5,9-

30 In questo senso notiamo che la frase di Qoelet «non essere troppo giusto... non es­
sere troppo stolto» (7,16-17) è stata spesso interpretata come la ricerca del giusto mezzo:
«È chiaro che Qohelet consiglia in morale una via di mezzo, un’aurea mediocritas>ma poi­
ché la sua problematica è diversa da quella di Orazio e da quella di Aristotele, è certo che
egli non vuole affatto dire né che ogni virtù è media tra due vizi, né che bisogna rinuncia­
re alla virtù eroica» (P. SACCHI, Ecclesiaste, Paoline, Roma 1971, 185).
19) e la vita è troppo breve (11,7-12,7) - «ciò che Qoelet
consiglia, in tanto sfacelo della vita umana, è non lasciar pas­
sare le poche gioie semplici e immediate del momento pre­
sente; però non predica affatto il godimento sfrenato né gli
eccessi, ma suggerisce di restare ben incollati al presente,
senza lasciarsi sfuggire quella parte di felicità, per quanto mi­
nuta, che Dio ci manda».31

Bibliografia dì riferimento e di approfondimento

- PASSARO A. (edd.), Il libro del Qoelet. Tradizione, reda­


B e l l ia G.
zione, teologia, Paoline, Milano 2001.
D ’ALARIO V., Il libro del Qoelet. Struttura letteraria e retorica,
Dehoniane, Bologna 1993.
L o h f in k N., Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997.
MAGGIONI B ., Giobbe e Qoelet. La contestazione sapienziale nella
Bibbia, Cittadella, Assisi 2002.
MAZZINGHI L., H o cercato e ho esplorato. Studi sul Qoelet, Deho­
niane, Bologna 2001.
Qoelet, il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico
R avasi G .,
Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001.
SACCHIP , Ecclesiaste, Paoline, Roma 1971.
SEOW C.-L., Ecclesiastes. A New Translation with Introduction and
Commentary, Yale University Press, New Haven - London 1997.
VfLCHEZ LlNDEZ J., Qoelet, Boria, Roma 1997.
SIRACIDE

1. Questioni storico-letterarie

È il libro più lungo della tradizione dei sapienti (cinquan­


tuno capitoli) ma non fa parte del canone ebraico perché alla
fine del I secolo d.C. ne fu vietato Pinserimento. Non ne fu
bandita, tuttavia, la presenza negli scritti giudaici: esso, infat­
ti, continuò ad essere utilizzato dal giudaismo come attestano
le citazioni (un’ottantina) ravvisabili negli scritti dei rabbini.
Notevole sembra, anzi, l’importanza accordata al libro le cui
citazioni sono introdotte secondo il consueto modo di citare
le Scritture: «come sta scritto...». Possiamo perciò pensare
che il divieto riguardasse l’uso liturgico del Siracide ma non
il suo utilizzo in altri contesti.
Attualmente grande è l’interesse per quest’opera da parte
del mondo accademico (anche ebraico) soprattutto perché a
partire dal 1896 a II Cairo furono fatte le prime scoperte di
manoscritti ebraici, prima sconosciuti.

1.1. Autore e datazione

Il figlio di Sira è un maestro profondamente giudeo che


conosce la tradizione biblica a lui precedente: è uno scriba
dedito alla ricerca e all’insegnamento, un uomo che fa della
Sapienza la propria ragione di vita e che non esita a presenta­
re se stesso come modello (24,30-34). H a molto viaggiato
nella sua vita forse, come membro del consiglio degli anziani
di Gerusalemme, apprendendo dalle culture che ha incontra­
to. Ciò spiega anche i contatti che si riscontrano con l’Egitto
e la sua produzione letteraria, scambi culturali resi possibili
dall’atteggiamento benevolo dei Tolomei verso la Giudea che
favorì frequenti rapporti degli Ebrei di Gerusalemme con
l’ambiente di Alessandria. Nei confronti dell’ellenismo Ben
Sira ha una posizione aperta, assumendo il buono che a suo
parere offre e riadattandolo alla tradizione dei padri: sull’a­
micizia e sul modo di comportarsi a tavola, per esempio, si
serve di Teognide (VI-V a.C.). Altri autori hanno colto dei
paralleli anche con Euripide, Senofonte, Esiodo, Omero e
Sofocle. Con lo stoicismo comuni sono i temi della dignità
umana e il senso dell’onore (15,11-17), del dominio di sé
(22,7-23,6), dell’atarassia nel dolore (38,16-23), della com­
prensibilità e unità del cosmo (17,1-12; 39,16-35). Un influs­
so ellenistico (comune anche nel mondo egizio) potrebbe
rintracciarsi in 38,24-34 in cui l’autore fa trasparire una certa
superiorità intellettuale dello scriba, in ragione del suo im­
prescindibile ruolo sociale, rispetto agli altri mestieri: «L a sa­
pienza dello scriba scaturisce dalla quiete del riposo; diventa
sapiente chi è libero dal lavoro manuale. Come può pensare
alla sapienza chi tiene l’aratro? La sua preoccupazione è
quella di un buon pungolo; conduce i buoi e pensa al lo­
ro lavoro, i suoi discorsi riguardano i figli delle vacche»
(w. 24-25).
Rispetto a Qoelet, il saggio Ben Sira appare meno in balìa
della propria ansia conoscitiva. H a una visione sostanzial­
mente positiva dell’uomo e delle sue capacità (14,1-19): con­
stata la piccolezza dell’essere umano rispetto al creato, nella
consapevolezza che non tutto si arriva a comprendere del
mondo (42,15-43,33).
La menzione della morte del sommo sacerdote Simone, fi-
glio di Onia (50,1-21) e il mancato riferimento alla rivolta dei
Maccabei (167-164 a.C.), spingono a datare la composizione
del libro nella lingua ebraica attorno al 187-180 a.C., mentre
la traduzione in greco avvenne, come indicato dallo stesso ni­
pote di Ben Sira, nel trentottesimo anno del re Evergete II
(132 a.C.).

1.2. La trasmissione testuale

Prima di affrontare questioni legate al testo, bisogna chia­


rire l’intricata trasmissione e situazione testuale dell’opera di
Ben Sira. Attualmente infatti possediamo versioni in quattro
lingue principali (ebraico, greco, latino, siriaco), ma tutte co­
noscono tante e tali varianti oppure lacune da rendere diffici­
le parlare di un libro di Ben Sira.1
a) Il testo ebraico. Per duemila anni il testo ebraico fu con­
siderato irrimediabilmente perduto fino a quando a Cam­
bridge nel 1896 venne identificato un foglio proveniente dal
deposito della sinagoga dei Caraiti a II Cairo. Verso la fine
delTVIII secolo questa setta del giudaismo trovò in una grot­
ta presso Gerico, non lontano da una di quelle grotte in cui
dal 1947 furono rinvenuti i famosi rotoli di Qumran, e utiliz­
zò il testo di cui fecero divèrse copie lungo i secoli. Una di
queste fu appunto ritrovata a II Cairo nell’ambiente in cui si
depositavano i rotoli non più utilizzati in sinagoga (gheniza)
risalente, perciò, al tempo in cui i Caraiti soggiornarono in
Egitto prima di spostarsi sul Mar Nero. Dalla fine X IX e per
gran parte del X X secolo (fino al 2010) furono rinvenute di­

1 Vanno presi sul serio i due postulati formulati da M. Zappella: «L o sforzo di rico­
struire una forma testuale '‘originale” di Sir è destinato all’insuccesso [...] Il tentativo di
delinea una teologia di Ben Sira mi pare fortemente compromesso dalla precaria situazio­
ne testuale» (in BONORA - P rio tto , Libri sapienziali e altri scritti, 224). La molteplicità di
testi permette di accettare una teologia del canone pluralistica.
verse sezioni del libro, al punto da disporre attualmente del
68% dell’opera in sei manoscritti (A, B, C, D, E, F) databili
attorno all’X-XII secolo.
L’attendibilità di tali testi è stata messa in discussione da
chi in passato li considerò una retroversione in ebraico dal
greco o dal siriaco. L’obiezione fu liquidata dalle scoperte di
Qumran e della fortezza giudaica di Masada: le pergamene
che vi furono ritrovate erano, giocoforza, anteriori al 68 d.C.
e al 73 d.C., gli anni della infruttuosa quanto eroica rivolta
giudaica contro i Romani. Sorprendentemente il Siracide qui
rinvenuto confermava sostanzialmente quello dei manoscritti
dei secoli X-XII. La qualità del testo, tuttavia, è ancora non
soddisfacente. Il confronto tra i diversi testimoni ebraici e il
tentativo di ricostruzione dell’originale libro di Ben Sira -
anche sulla base delle versioni greca e siriaca - ha evidenzia­
to nei manoscritti ritrovati doppioni e aggiunte che fanno
pensare all’esistenza di due forme del testo ebraico, una più
breve (Ebraico I o H i) e una più lunga (Ebraico II o H2).
Sulla datazione e sul luogo di produzione della versione più
lunga le opinioni sono molto divergenti.
b) La versione greca. Dell’origine di questa ci parla il Pro­
logo del libro in greco, redatto dal nipote dell’autore, opera­
zione non facile almeno stando a quanto confessato dallo
stesso traduttore: «Siete pregati di farne la lettura con bene­
volenza e attenzione e a usare indulgenza con noi quando,
nonostante l’impegno con cui ci siamo applicati alla tradu­
zione, sembrerà che non siamo riusciti a rendere bene certe
espressioni. Queste, infatti, non hanno la stessa forza quando
sono dette in ebraico e quando vengono tradotte in un’altra
lingua. Ciò non vale solo per questo libro, ma anche per la
stessa legge, i profeti e i rimanenti libri, che presentano una
non piccola differenza nel loro tenore originale». Il nipote,
giunto in Egitto nel 132 a.C., scoprì l’opera del suo avo e de­
cise di tradurla in greco: «H o impiegato molte veglie e tanta
scienza per condurre a termine questo libro e pubblicarlo a
beneficio di quelli che sono all’estero e, riformando i loro co­
stumi, desiderano imparare a vivere secondo la legge».
La versione greca ci è trasmessa da manoscritti onciali
(cioè scritti con caratteri greci maiuscoli) del IV secolo (Si­
naitico e Vaticano). Essi consegnano un testo di ottima quali­
tà, probabile frutto della scuola che Origene aveva creato a
Cesarea nel III secolo. Chiamiamo questo testo Greco I o
G l. Ma, come per la versione ebraica, anche quella greca co­
nobbe una seconda revisione con aggiunte al testo primario:
singole parole o gruppi di parole, stichi o versetti interi (qua­
si 135). La versione più lunga (Greco II o G2) si ritrova in al­
cuni manoscritti di epoca bizantina (a partire dal IX secolo),
scritti con caratteri minuscoli. Le aggiunte provengono da
scuole di pensiero diverse, o quanto meno gli studiosi fatica­
no a individuarle con precisione (si tratterebbe o di giudei
alessandrini o di giudeo-cristiani).2 La cosa interessante è che
alcune di queste aggiunte compaiono anche nei manoscritti
ebraici, sono testimoniate nella versione latina e in quella si­
riaca. Tutto ciò induce a pensare che nelle comunità di lingua
greca il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettu­
ra non omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dal I
secolo a.C. a tutto il I sec. d.C.
Attualmente l’edizione critica più completa è quella curata
da J. Ziegler3, che include il Greco II, di cui è invece sprovvi­
sta l’edizione di A. Rahlfs4. Va infine notato che la Bibbia a
cura della Conferenza Episcopale Italiana nella terza edizio­

2 All’ambiente giudaico d à la sua preferenza G il b e r t , La Sapienza del cielo, 138. La


più famosa delle aggiunte è quella del c. 24 («Io sono la madre del bell’amore e del timo­
re, della conoscenza e della santa speranza; eterna, sono donata a tutti i miei figli, a coloro
che sono scelti da lui»: v. 24,18), che tra l’altro è all’origine a partire dal X secolo di una
messa della «beata Vergine Maria Regina di tutti i santi e Madre del bell’amore». Secondo
Mazzinghi, si tratta di una glossa ispirata a Gv 14,6 {Il Pentateuco sapienziale, 192).
3 Sapientia lesu F ilii Sirach> Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 21980.
4 Septuaginta: id est Vetus Testamentum graece iuxta LX X interpretes, Deutsche Bibel-
gesellschaft, Stuttgart 22006.
ne (2008) traduce il testo offerto da Ziegler, nella seconda
edizione (1974) seguiva quello di Rahlfs.
c) La Vetus Latina. Fu una delle traduzioni in latino della
Bibbia attestata a partire dal II-III secolo nell’Africa setten­
trionale cristiana (attuali Algeria e Tunisia), nella Gallia me­
ridionale e in Italia.5 La traduzione latina di Ben Sira pare
essere «opera di un cristiano dell’Africa del nord che tra­
dusse dal Greco II i cc. 1-43 e 51; le altre parti saranno tra­
dotte più tardi, probabilmente nel secolo V I».6 E curioso
notare come questa versione sia arrivata fino a noi perché
Girolamo non volle ritradurre nella lingua latina un testo
che non faceva parte della Bibbia ebraica. Ma il Ben Sira
della Vetus fu comunque incorporato nella Bibbia Vulgata,
probabilmente alla fine del V secolo, ed è ancora esso che si
ritrova, appena emendato, nella Nova Vulgata (1979). La
preziosità di questo testo è testim oniata dal fatto che
nell’ultima versione della Bibbia elaborata dalla Conferenza
Episcopale Italiana (2008) le aggiunte latine vengono ripor­
tate in nota.
d) La versione siriaca. Di sicuro è stata condotta su un te­
sto ebraico molto vicino all’Ebraico II; si tratta di una tradu­
zione libera, talvolta imprecisa, con numerose parafrasi (rese
targumiche). Forse venne realizzata in un ambiente giudeo­
cristiano e poi rivista da un cristiano della corrente ortodossa
per essere inclusa nella Bibbia delle comunità di lingua siria­
ca (Peshitta).

5 La Vetus Latina è vissuta almeno fino a Girolamo, ma in molti casi continua ad es­
sere trasmessa fino al X secolo. Segnaliamo che le traduzioni in latino della Bibbia erano
numerose: si possono distinguere due forme principali: quella «africana» (attestata da
Cipriano e Tertulliano: Afra) e quella «non africana» o europea {Itala) ; cfr. M. CIMOSA,
Guida allo studio della Bibbia latina. D alla Vetus Latina, alla Vulgata, alla Nova Vulgata,
Istituto Patristico «Augustinianum», Roma 2008,20.
6 A. BONORA, «Siracid e», in BONORA - PRIOTTO, Libri sapienziali e altri scritti, 89.
I. 3. Genere letterario

In cinquantun capitoli sono disseminati diversi generi let­


terari che rendono l’opera ricca e varia. La struttura di base
dei generi attestati in Ben Sira è quella tipica della tradizione
didattica sapienziale e, in particolare, quella del libro dei
Proverbi. Una differenza con i nfsàlim dei Proverbi concer­
ne il loro raggruppamento tematico: si attestano delle descri­
zioni abbastanza lunghe che sviluppano un argomento e lo
articolano in piccoli quadretti a sfondo morale (sia positivi
sia negativi) e pedagogico.
Peculiari sono le narrazioni autobiografiche (33,16-18;
51,13-15) e le suppliche (22,17-23,6; 36,1.22). Diffusi l’elogio
e l’inno di lode, su cui vale la pena soffermarsi, a) L’elogio
quantitativamente più ampio si legge nella parte finale del li­
bro (44,1-50,24) ed è riferito ai padri (del c. 24 si parlerà in
seguito). Questo genere, tipico dell’ellenismo, è qui attestato
per la prima volta in un libro biblico (esempi successivi sono:
lM ac 2,49-68; 3,1-9; 14,4-15; Sap 10,1-15; cfr. anche Eb
I I , 1-17). Esso celebra coloro che nel passato si sono resi di­
sponibili per servire il Signore e che, nel desiderio di acco­
gliere la Sapienza, l’hanno trasmessa ai posteri. «Questi uo­
mini illustri»7 (Sir 44,la) continuano a offrire, alle presenti
generazioni, l’esempio concreto di credenti pienamente rea­
lizzati perché sapientemente illuminati nel loro percorso di
vita, b) Come nel Salterio anche in Ben Sira si loda Dio per la
creazione e la redenzione (16,24-18,14; 39,12-35). Di partico­
lare bellezza è l’inno di 42,15-43,33, in cui dalla meraviglia e
dallo stupore davanti alla creazione nasce la lode riconoscen­
te e benedicente verso Dio, artefice dell’ordine iscritto nel
cosmo.
1.4. Struttura

Il libro è scandito da sezioni tematiche che sono introdotte,


come nel libro dei Proverbi, da titoletti (non sempre evidenzia­
ti nelle traduzioni): «Sapienza di Gesù figlio di Sira» (prima di
1.1) , «dominio di sé» (prima di 18,30), «detti proverbiali» (pri­
ma di 20,27), «disciplina nel parlare» (prima di 23,7), «elogio
della Sapienza» (prima di 24,1), «a proposito dei figli» (prima
di 30,1), «a proposito dei pasti» (prima di 30,16), «ammaestra­
mento circa il pane e il vino» (prima di 31,12 in ebraico ma
non in greco), «ammaestramento circa il pudore» (prima di
41,16 in ebraico ma non in greco), «elogio dei Padri» (prima di
44.1) , «preghiera di Gesù figlio di Sira» (prima di 51,l).8 Inol­
tre, nel manoscritto ebraico B si individuano delle pe (per pa-
rashah) per indicare delle pericopi in 36,1.18 (l’inizio della pre­
ghiera), in 38,13 e in 51,12 (per indicare l’inizio del salmo).
La questione della strutturazione è molto complessa. Si
può semplificare suddividendo così:9

Prologo (solo in greco)


1-23 Parte I (con un inno sulla sapienza in 1,1-21 che fun­
ge da introduzione);
24,1-42,14 Parte II (con elogio della sapienza del cap. 24 che
funge da introduzione);
42,15-50,29 Parte III: (con un inno a Dio in 42,15-43,33 che fun­
ge da introduzione);
51 Epilogo10

La connessione delle sezioni tematiche, tuttavia, non è


chiara agli studiosi. Essendo un libro molto corposo potreb­

8 Tutti sono attestati solo dalla versione greca, eccetto: 31,12 e 41,16 (solo dalla ver­
sione ebraica), 44,1 (entrambe); in tre casi il titolo della versione greca si trova in passi at­
testati anche in ebraico: 30,16; 44,1; 51,1.
9 Cfr. BONORA, «Siracide», 90.
10 Due sono le conclusioni del libro. La prima, posta in 50,27-29) è presente in greco
e in ebraico; la seconda in 51,30 è presente solo in ebraico.
be essere stato composto in svariati anni e senza un continu­
um logico strutturalmente significativo. Esso appare, pertan­
to, come un’antologia di testi di cui le sezioni più antiche po­
trebbero essere rappresentate da 1,1-23,27 e 51,1-30 ai quali
sarebbero stati aggiunti tre complementi (24,1-32,13; 32,14-
38,23; 38,24-50,29).11

1.5. Ricezione del libro

Il Siracide fa parte degli scritti dell’Antico Testamento


chiamati «deuterocanonici» insieme a Sapienza, Tobia, Giu­
ditta, 1-2 Maccabei, Baruc e le aggiunte a Daniele ed Ester. Il
motivo per cui nella tradizione latina tale libro è chiamato
anche Ecclesiastico è probabilmente legato al suo utilizzo per
le catechesi dei catecumeni.
I cristiani, di Occidente e di Oriente, hanno trasmesso e ci­
tato la sapienza di Ben Sira utilizzando sia il testo corto sia
quello lungo.1112 La duplice versione del testo greco ha lasciato
traccia nei Padri greci che li utilizzano entrambi. Per quanto
riguarda il latino: la Vetus Latina trasmette il testo lungo ed è
perciò quello che di norma citano i Padri latini (il libro com­
pare nel canone fissato al Concilio di Ippona del 393).
In Oriente il percorso fu un po’ più contorto. Già nel 170
il problema venne sollevato da Melitone di Sardi che porta in
Palestina una lista di libri biblici in cui Ben Sira non appare.
All’inizio del III secolo, al contrario, Clemente d’Alessandria
ammette l’autorità scritturistica della versione greca di Ben
Sira e verso il 240 Origene riconosce la distanza che c’è fra la
Bibbia ebraica e l’Antico Testamento dei cristiani: nel dialo­
go fra ebrei e cristiani non si utilizzeranno perciò che i libri

11 Cfr. W. R o t h , «On thè Gnomic-Discursive Wisdom of Jesus Ben Sìrah», in Semeia


17(1980), 59-79.
12 Cfr. G il b e r t , La Sapienza del cielo, 140-142.
ammessi dai primi. Su questa linea si pone anche Girolamo
che decide di non tradurre il Siracide perché non scritto in
ebraico anche se poi lo cita al pari delle altre Scritture. La
tradizione riformata rifiuta la canonicità del libro (accoglie,
infatti, il canone ebraico per l’Antico Testamento), mentre
nel 1545 il Concilio di Trento confermerà solennemente la li­
sta dei libri canonici riconosciuti dalla Chiesa cattolica: l’ope­
ra di Ben Sira fa parte dei 73 libri.
Ci chiediamo con M. Gilbert: ma quale testo di Ben Sira
un cattolico deve ritenere canonico? La Chiesa cattolica non
ha mai definito la lingua, né la forma (breve o lunga) del li­
bro di Ben Sira. L’ininterrotta tradizione ecclesiale è inoltre
la prova che su questi due punti non intende prendere posi­
zione, salvo dire che non si può escludere la forma lunga del­
la Vulgata. Nessuno si deve stupire, dunque, di vedere le Bib­
bie cattoliche, ecumeniche o moderne, scegliere fra testi di­
versi. Secondo il biblista belga non si può neppure escludere
la canonicità, o perlomeno l’ispirazione, del testo ebraico (sa­
rebbe un testo ispirato ma non canonico), nei limiti in cui è
recuperabile.13

2. Esegesi di Sir 24: la Sapienza si racconta

Questo splendido poema è di fondamentale importanza


perché esprime la sintesi del pensiero di Ben Sira attorno a
tre aspetti centrali: la natura della Sapienza e il suo rapporto
con Dio e il mondo, il legame tra la Sapienza e la Legge e il
ruolo centrale del maestro che trasmette il suo insegnamento
agli allievi.

13 Ivi, 142. Cfr. N. C a l d u c h -B e n a g e s , «Il Siracide un libro deuterocanonico molto


particolare», in P. DUBOVSKY - J.-P. SONNET (ed.), Ogni Scrittura è ispirata. Nuove prospet­
tive su ll ispirazione biblica (Lectio 5), GBPress - San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 124-
135.
In Sir 24 la Sapienza si narra, racconta le sue origini e la
sua missione (cfr. Pr 8; G b 28). Questa personificazione
della figura della Sapienza permette di cogliere il ruolo at­
tribuito dal giudaismo del II secolo a.C. a questa figura: es­
sa riassume il libro dell’alleanza, attualizza la Legge mosaica
(cfr. 24,23) veicolando la stessa carica spirituale e autoritati-
va riconosciuta al Decalogo e, più in generale, al Pentateu­
co. Infine, il testo ha interessato da sempre gli autori anche
in ragione della sua utilizzazione in campo cristologico
(Cristo-Logos/Sapienza).

2.1. Contesto prossimo, genere letterario e struttura

Con il c. 24 inizia la seconda parte del libro (24,1-42,14)


che presenta una certa coerenza tematica con la prima: ri­
prende alcuni temi e ne affronta di nuovi. Di particolare ri­
lievo è, evidentemente, questo poema in cui la Sapienza si
narra.
Il genere letterario è quello dell’elogio o, meglio, dell’auto-
elogio visto che è la Sapienza in persona a prendere la parola
raccontando le proprie origini, le proprie scelte e il proprio
ruolo come mediatrice tra Dio e gli uomini. Il testo è in gre­
co: purtroppo nessun manoscritto ebraico contiene la mini­
ma traccia di questo brano.
La struttura del capitolo è basata principalmente sui con­
tenuti:

24,1-2: introduzione;
24,3-22: il discorso della Sapienza;
24,23 -29: il saggio spiega il senso del discorso della Sapienza;
24,30-34: il saggio illustra la propria funzione educativa.
2.2. Traduzione e commento

lLa Sapienza loda se stessa, in mezzo al suo popolo si vanta.


2Neirassemblea deirAltissimo apre la bocca, dinanzi alla sua
potenza si glorifica:
3«Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo e come nube ho rico­
perto la terra.
4Io ho posto la mia dimora lassù, il mio trono era su una colonna di nubi.
3Ho percorso da sola il giro del cielo, ho passeggiato nelle pro­
fondità degli abissi.
6Sulle onde del mare e su tutta la terra, su ogni popolo e nazione
ho preso dominio.
7Fra tutti questi ho cercato un luogo di riposo, qualcuno nel cui
territorio potessi stabilirmi.
8Allora il creatore delPuniverso mi diede un ordine, colui che mi
ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: ‘Fissa la tenda in
Giacobbe e prendi eredità in Israele’.
9Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta
l’eternità non verrò meno.
10Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono sta­
bilita in Sion.
11Nella città amata mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio
potere.
12Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzio­
ne del Signore è la mia eredità.
13Sono cresciuta come un cedro sul Libano, come un cipresso
sui monti dell’Ermon.
14Sono cresciuta come una palma in Engaddi e come le piante di
rose in Gerico, come un ulivo maestoso nella pianura e come
un platano mi sono elevata.
15Come cinnamomo e balsamo di aromi, come mirra scelta ho
sparso profumo, come galbano, onice e storace, come nuvola
d’incenso nella tenda.
16Come un terebinto io ho esteso i miei rami e i miei rami sono
piacevoli e belli.
17Io come vite ho prodotto splendidi germogli e i miei fiori dan­
no frutti di gloria e ricchezza.
18Io sono la madre del bell’amore e del timore, della conoscenza
e della santa speranza; eterna, sono donata a tutti i miei figli, a
coloro che sono scelti da lui.14
^Avvicinatevi a me, voi che mi desiderate, e saziatevi dei miei
frutti,
20perché il ricordo di me è più dolce del miele, il possedermi va­
le più del favo di miele.
2g u a n ti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono
di me avranno ancora sete.
22Chi mi obbedisce non si vergognerà, chi compie le mie opere
non peccherà ».
23Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge
che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe.
24Non cessate di rafforzarvi nel Signore, aderite a lui perché vi
dia vigore. Il Signore onnipotente è l’unico Dio e non c’è altro
salvatore al di fuori di lui15.
25Essa trabocca di sapienza come il Pison e come il Tigri nella
stagione delle primizie,
26effonde intelligenza come l’Eufrate e come il Giordano nei
giorni della mietitura,
27come luce irradia l’insegnamento, come il Ghicon nei giorni
della vendemmia.
28I1 primo uomo non ne ha esaurito la conoscenza e così l’ultimo
non l’ha mai pienamente indagata.
29U suo pensiero infatti è più vasto del mare e il suo consiglio è
più profondo del grande abisso.
30Io, come un canale che esce da un fiume e come un acquedot­
to che entra in un giardino,

14 II v. 18 appartiene al Greco II. La Sapienza è come una madre che si offre ai figli con­
ferendo l’amore, la conoscenza e il timore, doni che sono tradizionalmente presentati nelle
istruzioni sapienziali; qui si aggiunge la santa speranza che induce a pensare alla vita oltre la
morte che il Signore concede a coloro che da lui sono stati scelti.
15 II v. 24 appartiene al Greco II ed è l’unico tristico di tutto il capitolo. Si presenta
come una giustapposizione rispetto allo sviluppo tematico del capitolo: contiene un’esor­
tazione perché il credente possa irrobustire la propria appartenenza al Signore e una di­
chiarazione di fede nel monoteismo più esclusivo (tipica della tradizione dei deuterono-
misti) molto vicina a quello dello ì'm a* di Dt 6.
31ho detto: «Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola».
Ma ecco, il mio canale è diventato un fiume e il mio fiume è
diventato un mare.
32Farò ancora splendere l’insegnamento come l’aurora, lo farò
brillare molto lontano.
33Riverserò ancora la dottrina come profezia, lo lascerò alle ge­
nerazioni future.
34Vedete che non ho faticato solo per me, ma per tutti quelli che
la cercano.

1-2. Introduzione. Il luogo dal quale la Sapienza sta per


pronunciare il discorso è in mezzo al suo popolo (Israele) e
in mezzo all’assemblea dell’Altissimo. Si potrebbe pensare
che essa si trovi nell’assemblea celeste, anche se non avrebbe
senso un discorso fatto lontano dagli uomini e senza che que­
sti ne possano ascoltare la voce; con buona probabilità la Sa­
pienza parla in occasione di un’assemblea nel tempio di G e­
rusalemme: come una sacerdotessa, presiede la liturgia che
riunisce nel luogo sacro il cielo e la terra. Del resto, anche in
altri luoghi biblici in cui si riportano discorsi proclamati di­
rettamente dalla bocca della Sapienza (cfr. Pr 1,20-33; 8,1-36;
Sir 4,15-19), essa si rivolge agli esseri umani. Sin dalle prime
battute si evince la- matrice giudaica della Sapienza: se in altri
testi essa ha un carattere più universalistico, qui si dichiara
l’appartenenza al popolo ebraico esplicitata dall’aggettivo
possessivo {«suo popolo») e dall’indicazione dell’adunanza
alla presenza dell’Altissimo che nel tempio dimorava.
3-22. Il discorso della Sapienza. La Sapienza traccia il suo
identikit disegnando la trama delle sue relazioni.
3-9. La prima tradizione biblica alla quale Ben Sira si ispi­
ra per narrare la natura della Sapienza è quella della cosmo­
logia dei racconti genesiaci (Gen 1). Sin dalle prime battute
si intuisce come si giunga a una sintesi sapienziale tra crea­
zione e redenzione, tra cosmologia e storia, tra il Dio creato­
re e il Dio salvatore. Con il pronome personale «io» si apre il
discorso diretto della Sapienza che si descrive nel suo cam­
mino: esce dalla bocca dell’Altissimo e come rugiada ricopre
la terra, similmente a quanto è scritto in Is 55,10-11 in cui si
stila un paragone tra la Parola divina alla pioggia che scende
dal cielo e feconda la terra. La Sapienza sembra avere due
abitazioni. La prima è nelle altezze perché ha il suo trono su
una colonna di nubi. La seconda è in Israele: dopo aver per­
corso l’universo in verticale (il cielo e l’abisso) e in orizzonta­
le (il mare e la terra abitata), essa si stabilisce - su ordine del
Signore - «in Giacobbe», cioè in Israele. Il viaggio della Sa­
pienza attraverso il cosmo richiama G b 28, in cui si descrive
il suo passaggio attraverso l’abisso e il mare che hanno avuto
un certo sentore della Sapienza, sebbene non la contengano
(cfr. G b 28,14). Anche Pr 8,27 si avvicina al nostro testo so­
prattutto in riferimento sia al tempo prima del tempo, quan­
do la Sapienza era presso Dio, sia al legame con gli uomini.
La seconda tradizione biblica che funge da background di
Sir 24 è quella dell’esodo: la nube guida il popolo durante
l’uscita dall’Egitto e gioca un ruolo fondamentale nel passag­
gio del mar Rosso e nel proseguimento del viaggio. Anche la
menzione della tenda rinvia al luogo in cui è situata l’arca
dell’alleanza, la dimora che è riempita proprio dalla presenza
della nube (Es 40,34-39). Inoltre, l’insistenza su Israele come
«eredità» di Yhwh colora l’intero c. 24 di tinte deuteronomi-
ste, e ciò si palesa maggiormente in rapporto al luogo in cui
bisogna rendere il culto gradito a Dio di cui parla Dt 12.
L’autore anticipa di un secolo e mezzo quella che sarà la me­
ditazione del libro della Sapienza sugli avvenimenti narrati in
Esodo e Numeri: è la Sapienza a guidare il popolo verso la li­
berazione dalla schiavitù (cfr. Sap 10-19).
10-12. La Sapienza, dopo aver percorso l’intero cosmo e
aver piantato la tenda in Israele, officia la santa liturgia in
Gerusalemme che è qui descritta come Sion (in virtù del
monte principale sul quale si colloca e che simbolicamente
esprime la sua bellezza: cfr. Sai 48; 76; 78; 87), e come città
amata dal Signore. Come già anticipato, in questo inno si di­
chiara espressamente che la Sapienza è di casa in Israele: le
espressioni «popolo glorioso» (laòs dedoxaménos) e «porzio­
ne del Signore» (kyriou klèronomias) del v. 12 evocano Dt
32,9 e Zc 2,16, testi in cui si esalta la superiorità d’Israele ri­
spetto alle popolazioni pagane in virtù dell’elezione divina.
La menzione delle radici anticipa e, allo stesso tempo, crea
un legame con i versetti successivi in cui si accosterà la Sa­
pienza al mondo vegetale in espansione.
13-17. Ai w. 13-14 si legge il verbo anypsód che descrive
la crescita e il percorso compiuto dalla Sapienza a contatto
con gli uomini. Per ben due volte l’autore non disdegna di
descrivere la Sapienza in progress. La Sapienza si sviluppa al­
la stregua del cedro, del cipresso, della palma, delle rose,
dell’ulivo e del platano, e come queste piante si estendono in
altezza e in profondità, così essa si radica in mezzo al popolo
eletto e si espande in tutta la sua fragranza (w. 15-17). La
geografia della Sapienza è quella della terra d’Israele di cui si
indicano i confini: a nord il Libano e il monte Ermon, ad est
Engaddi e Gerico, a ovest la fertile pianura che costeggia il
mar Mediterraneo. Su questa linea diffusiva anche la similitu­
dine con il mondo degli aromi e delle essenze profumate
consente di cogliere il dinamismo della Sapienza. Il cinnamo­
mo (albero sempreverde simile al lauro, della stessa famiglia
della cannella e della cassia, originario dello Sri Lanka), la
mirra (gommaresina aromatica già conosciuta nell’antico
Egitto, estratta da un albero o un arbusto del Commiphora),
il galbano (pianta sempre verde originaria dell’Asia centrale e
occidentale), l’onice (una varietà di calcedonio, cioè quarzo,
di colore opaco o semi-opaco che copre le tonalità rosso-bru­
no e l’intera gamma di grigi fino al nero) e, infine, lo storace
(pianta mediterranea dai fiori bianchi e dal profumo intenso
e dolce): queste fragranze e minerali normalmente sono riser­
vati a Dio nel culto (cfr. Es 25,7; 28,9.20; 30,23; 39,6.13) o
agli affetti più intimi (cfr. Ct 4,14; Pr 7,17). La Sapienza è tra
queste realtà ricercate, preziose e gradevoli per l’uomo.
Il v. 15 assimila la Sapienza al profumo dell’olio che serve
per l’unzione sacra (cfr. Es 30,23-25) e al buon odore dell’in­
censo (cfr. Es 30,34-36). Il ritorno al tempio di Sion e ai profu­
mi che lo abitano, fanno della Sapienza una realtà spirituale che
è offerta per raggiungere il cielo ed essere gradita a Dio: come
la preghiera, di cui l’incenso è espressione, tende verso l’alto
raggiungendo la sfera del divino dalla quale essa discende.
I w. 16-17 riprendono il paragone della vegetazione in cre­
scita: dopo il cedro, il cipresso, la palma, le rose, l’ulivo e il
platano, l’accostamento è con il terebinto e la vite dei quali si
descrive, rispettivamente, la bella e rigogliosa crescita e la
gemmazione-fioritura che precede la fruttificazione. Quanto al
terebinto (Is 6,13) e alla vigna (Is 5,1-7; 27,2-6; Sai 80,9-12) si
tratta di simboli del popolo eletto. La contiguità tra Israele e
la Sapienza è tale da giungere quasi all’identificazione: del re­
sto che Israele sia un popolo saggio è un dato assodato nella
meditazione che offre il Deuteronomio, in cui si dichiara la
sua superiorità in ragione delle leggi e delle norme che gli con­
feriscono più sapienza di qualunque altro popolo (Dt 4,1-8).
19-22. L’invito al banchetto è comune a quello che risuona
in Pr 9,1-6. Questo dato antropologico - così comune in tut­
te le culture - accosterebbe la Sapienza alla padrona di casa
che offre un pranzo ai suoi invitati. Non è, infatti, inusuale il
legame tra il cibo e le realtà di fede come la manna celeste
(Dt 8,3) o la parola profetica (Is 55,1-3; Am 8,11; cfr. anche
Gv 6). La Sapienza appare ben disposta verso coloro che
convoca ai quali offre, insieme al vitto, la vita e la sapienza
stessa di cui il miele è immagine secondo quanto si legge in
Pr 24,13-14a («Mangia, figlio mio, il miele, perché è buono e
dolce sarà il favo al tuo palato. Sappi che tale è la sapienza
per te»). L’alimento più succulento in assoluto esprime, come
indicato in Proverbi, le proprietà della faokmàh: dare sapore
alla vita. Conoscere la Sapienza e nutrirsi di essa non è, dun­
que, solo un corretto processo cerebrale o mnemonico, ma
richiama la fame e la sete del senso ultimo che regge la realtà.
Tale ricerca non ha mai fine e per tale ragione non si prova
nausea o disgusto della Sapienza.
Il v. 22 continua il tono dell’istruzione classica e il suo col-
legamento con l’aspetto religioso: si intima l’obbedienza e la
messa in opera degli ammonimenti sapienziali, vero ed effica­
ce antidoto contro il peccato.
23-29. L’interpretazione del saggio. Per Ben Sira il discor­
so della Sapienza, o perlomeno una sua parte, va messo in re­
lazione con il libro dell’alleanza (il Pentateuco). Anche per
Bar 4,1 la via che porta alla Sapienza si è resa accessibile nel­
la terra d ’Israele; nella formulazione di Sir 24,23 si aggiunge
una citazione tratta da Dt 33,34.
Almeno tre sono le interpretazioni di questo legame, a)
Identità tra Sapienza e Legge. Nel postesilio, al rientro da Ba­
bilonia, si indica la Legge (probabilmente il Pentateuco o i
suoi blocchi legislativi) come sapienza di Dio (Esd 7,25). In Si­
racide è sicuramente un rapporto diretto. Non sembra, tutta­
via, che ci sia questa perfetta coincidenza tra le due realtà: l’u-
na non sembra ridursi all’altra o dissolversi in essa.16 b) Sim­
biosi formale.17 La Legge e la Sapienza si rendono un recipro­
co servizio perché l’una porta l’altra; la Legge si carica della
Sapienza e la Sapienza esprime la Legge. Formalmente, cioè
nella formulazione letteraria, l’una è cifra dell’altra, sebbene la
Sapienza sia cronologicamente più ampia della Legge in quan­
to ne incarna lo spirito orientandone l’interpretazione e l’at-

16 Cfr. G. BOCCACCINI, «The Preexistence of thè Torah: A Commonplace in Second


Tempie Judaism or a Later Rabbinic Development?», in Enoch 17(1995), 331-332.
17 Cfr, F. FORESTI, «Il Deuteronomio: nascita della Torah come proposta di sapienza»,
in Sapienza e Torah. A tti della X X IX settimana biblica delTAssociazione Biblica Italiana,
Dehoniane, Bologna 1987, 23.
tualizzazione: in questo senso è superiore alla Legge, c) Conti­
guità. Personalmente crediamo che la Sapienza e la Legge so­
no cosi prossime che si toccano sovrapponendosi. In questa
prospettiva vanno interpretati testi come Pr 1-9 in cui il ri­
chiamo ad alcuni passi del Deuteronomio (Dt 4; 6) e del Deca­
logo (Es 20; Dt 5) serve a stabilire un collegamento tra il tono
autorevole delle parole dei maestri e quello autoritativo della
parola di Dio; il pater fam ilas di Proverbi vuole esplicitamente
sovrapporre la sua voce umana a quella divina senza per que­
sto diventare blasfemo o irrispettoso. Ben Sira, ultimo dei sag­
gi, compie un passo in avanti in questo processo ermeneutico.
Detto in altri termini: la legislazione necessariamente in­
clude un ethos che gli uomini devono seguire se vogliono pia­
cere a Dio; ed è proprio questa dimensione etica, intrinseca
al Decalogo, che permette di stabilire un rapporto tra Sa­
pienza e Legge: da un lato è presente una promulgazione ca­
tegorica della volontà di Dio nella Legge; dall’altro l’ordine
creato è rivelato da Yhwh nella letteratura sapienziale. Il Si­
racide formula questa convinzione sin dall’inizio del libro:
«Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti; allora il Si­
gnore te la concederà» (Sir 1,23).
E importante considerare, pertanto, la portata complessiva
della rilettura che il saggio compie: « l’accostamento operato
da Ben Sira propone una diversa ermeneutica degli elementi
raffrontati, creandone per cosi dire un terzo che non è una
loro semplice somma; mentre in questa assimilazione sono
coinvolti tendenzialmente tutti i contenuti del proprio patri­
monio storico-culturale (e quindi di per sé non sol quelli pro­
priamente religiosi), è questa nuova interpretazione ciò che
viene proposto per una più adeguata comprensione della
propria storia e in vista eventualmente di un’identità cultura­
le che si vuole riformulare».18

18 G .L. PRATO, «Sapienza e Torah in Ben Sira: meccanismi comparative culturali e


conseguenze ideologico-religiose», in Ricerche Storico Bibliche 1-2(1998), 135.
La superiorità della Sapienza rispetto alla Legge-Penta-
teuco si evince anche da Sir 24,25-27. La pienezza e la
propagazione della Sapienza è paragonabile a quella dei
quattro fiumi del paradiso (Gen 2,10-14) ai quali si ag­
giunge il G iordano:19 il percorso della Sapienza non coin­
cide più con la storia raccontata nei libri del Pentateuco
(«la Legge di M osè») ma «eson da» anche nella terra di
Canaan.
Il «prim o uom o» di Sir 24,28 è probabilmente Adamo,
che secondo Sap 10,1-2 fu sollevato dalla Sapienza dopo
la caduta. L’ultimo che ancora non ha pienamente indaga­
to la Sapienza è lo stesso Ben Sira: «Anch’io, venuto per
ultimo, mi sono tenuto desto, come uno che racimola die­
tro i vendemmiatori: con la benedizione del Signore sono
giunto per primo, come un vendemmiatore ho riempito il
tino. Badate che non ho faticato solo per me, ma per tutti
quelli che ricercano l’istruzione» (Sir 33,16-18). Il v. 18 di
questa citazione è form ulato quasi identicam ente nella
conclusione del c. 24.
30-34. La funzione educativa del saggio. Anche in questi
ultimi versetti si ritrova sia l’utilizzo della similitudine con
l’elemento acquatico sia il rinvio alla creazione. Il saggio defi­
nisce se stesso come un canale dopo avere parlato della Sa­
pienza come fiume: è chiaro l’intento di sviluppare il collega­
mento tra il suo insegnamento e la sapienza che irriga la sua
scuola che è qui descritta nella m etafora del giardino
(paradeisos) ,20 Commenta M. Gilbert: «la sua attività è simile

19 Si potrebbe leggere nel v. 27 anche «N ilo»: il traduttore avrebbe confuso y’wr


(«Nilo») con ’wr («luce»), sebbene l’accostamento tra Sapienza e la luce si attesti anche in
Sir 3,25. La versione siriaca riporta «Nilo».
20 «Il carattere specifico della scuola di Ben Sira rimane incerto e molto difficile da
precisare; aveva una sede locale? Era la stessa casa del saggio? Quanti alunni la frequenta­
vano? Come si svolgevano le lezioni? Era conosciuta e apprezzata nella città? Era una
scuola influente? Anche se non possiamo rispondere a tutte queste domande, una cosa è
certa: l’insegnamento del saggio è rivolto a una piccola élite, cioè, un gruppo di giovani
delle famiglie potenti e ricche di Gerusalemme; egli intendeva prepararli ad affrontare la
a quella della legge: questa esprime al meglio ciò che la Sa­
pienza propone, arrecando così a chi l’accoglie un’abbon­
dante sapienza; quanto al sapiente, egli scopre che ciò che
trasmette va ben oltre la sua funzione di mediatore, dato che,
dice, il canale che egli è si trasforma in fiume e poi il fiume
diventa immenso come il mare. Ebbene, se la Sapienza è pa­
ragonabile a un possente fiume, i suoi pensieri e i suoi dise­
gni sono più vasti del mare (Sir 24,29). Insomma, l’insegna­
mento del maestro trasporta ben più di quanto ha ricevuto:
attraverso lui passa l’immensità della sapienza, ricolmandone
i discepoli».21
Gli ultimi versetti (32-34) rivelano la chiara consapevolez­
za del credente Ben Sira: l’autorevolezza del sapiente in Isra­
ele, abbandonata la pseudoepigrafia salomonica, deriva or­
mai dall’aver fatto propria la Legge ed essersi impossessati
della tradizione liturgica.22 Perciò Ben Sira è conscio dell’i­
spirazione della propria opera, proiettando la paidéia (acco­
stata alla luce come la Sapienza stessa nel v. 27) ben oltre
l’immediato contesto scolastico. La sua è una profezia: non
solo la Sapienza supera la Legge, ma attira su di sé la capacità
profetica di interpretare la storia alla luce della Parola divina.
La fatica che viene indicata come necessaria al discepolo che
intraprende il percorso formativo (2,1), è condivisa anche dal
maestro, ad un tempo discepolo e mediatore fra la Sapienza e
coloro che la cercano (51,13-30).

vita e le future responsabilità sociali» (N. CALDUCH-BENAGES, «L a relazione maestro-


discepolo in Ben Sira», in Parole, Spirito e Vita 61, 2010, 57).
21 G ilbert , La Sapienza del cielo, 187.
22 La riflessione ebraica insiste su questo dato teologico di sintesi. Ben Sira funge da
ponte per la successiva tradizione rabbinica che continuerà e svilupperà le sue intuizioni
per esempio nel trattato ’Abot («Le massime dei padri»): cfr. A. Ro fé , Introduzione alla
letteratura della Bibbia ebraica 2. Profeti, salm i e libri sapienziali, Paideia, Brescia 2011,
496-505.
3. Linee teologiche

Richiamo in maniera sintetica alcuni tra gli argomenti più


importanti trattati da Ben Sira nel suo ammaestramento.
a) Il timore di Dio, la Sapienza e Legge. «Tutta la sapienza
viene dal Signore e con lui rimane sempre» (1,1). Quest’af­
fermazione densa di fede intitola l’intera opera in cui si alter­
nano i riferimenti alla sapienza con la « s» minuscola con altri
alla Sapienza in persona: essa è un dono divino e solo dispo­
nendosi a tale logica diventa possibile accoglierla.
Il timore di Dio è quanto di più prossimo esista alla s/Sa-
pienza, un vero refrain del libro. Ad esso è collegato il cammino
sapienziale come già anticipato commentando Proverbi: è l’ini­
zio della sapienza (1,14), la radice (1,29), la pienezza (1,16) e la
corona (1,18), cioè la sua vera natura. L’autore collega stretta-
mente e indissolubilmente il timore di Dio alla sapienza (termi­
ne attestato 55 volte in greco), volendo probabilmente precisa­
re la superiorità della sophia giudaica rispetto a quella greca.
Questa Sapienza è ormai la nuova Legge. Nel c. 24 si giun­
ge a stabilire un legame strettissimo tra Sophia (intesa come
personificazione) e Nómos: «Tutto questo è il libro dell’alle­
anza del Dio altissimo, la legge che ci ha comandato Mosè, e
forma l’eredità delle assemblee di Giacobbe» (24,23). Que­
sto rapporto unico e inedito sembra fondere la tóràh con la
hokmàh sino a quasi identificarle, operando una sintesi sa­
pienziale di tutto il percorso storico e soteriologico del popo­
lo d’Israele.
b) Leducazione. In 50,27 si legge: «Un insegnamento di sa­
pienza e di scienza ha condensato in questo libro Gesù, figlio
di Sira, figlio di Eleazaro, di Gerusalemme, che ha effuso la
saggezza dal suo cuore». L’insegnamento, in greco paideia
(«insegnamento»), racchiude e sintetizza la portata e il valore
dell’intero libro la cui esplicita intenzione è pedagogica così
come esplicitato sin dal prologo.
La prima agenzia educativa è quella che si situa nel cuore
stesso di Dio, il quale non fa mancare le prove come parte in­
tegrante del cammino di colui che ricerca la sapienza (2,1). Il
saggio - ultimo anello di una catena di uomini che si sono
misurati con i limiti e le possibilità connessi a un percorso
esistenziale serio e rigoroso - presenta il frutto delle sue fati­
che senza dissimulare i pericoli e le difficoltà che si incontra­
no nel seguire i dettami della Sapienza, al punto da allertare
chi dovesse decidere di servire il Signore, con questi ammo­
nimenti: «Figlio, se ti presenti per servire il Signore prepara
il tuo animo alla prova; tieni pronto il tuo cuore, fatti corag­
gio e non smarrirti nel tempo della sventura» (2,1-2).23 Da
buon maestro Ben Sira illustra le tappe di questo itinerario
religioso-sapienziale, vero e proprio progetto di vita. In un
primo momento il discepolo è invitato a non smarrirsi nel
tempo della sventura e della disgrazia {epagoge). Il giovane
può essere portato a desistere dal suo proposito davanti alla
prima difficoltà, manifestando, in questo modo, la debolezza
legata all’inesperienza: si mette in guardia da quel preciso
tempo dell’afflizione del cuore che, prima a poi, giungerà
nella vita di colui che si mette a disposizione di Dio. In que­
sta precisa fase della vita, gravida di circostanze avverse, il
cuore rischia di fiaccarsi; perciò, saperlo dirigere e indirizza­
re bene, rappresenta il primo solido gradino che consente un
secondo passaggio di fede: «Sta’ unito al Signore senza sepa­
rartene» (2,3).
In 4,11-19 si specifica che anche la Sapienza è artefice di
una pedagogia legata alla disciplina e all’osservanza dei pre­
cetti della Legge. Tale cammino, che è un vero banco di pro­
va, nonostante la difficoltà iniziale, ha uno sbocco positivo
(4,18). Fanno eco agli ammonimenti sapienziali quelli dei ge­
nitori, la cui memoria va venerata e rispettata con una con­

23 Si veda quanto ho scritto in Dove abita la Sapienza? La ricerca dei saggi per la vita
dell'uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009,49-58.
dotta di vita degna e all’altezza dei sacrifici da questi com­
piuti: «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare
le doglie di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato:
che cosa darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?»
(7,27-28). Con un tratto di grande delicatezza il Siracide con­
segna anche un ammonimento che considera lo stato di de­
menza ai quali i genitori possono andare incontro con l’avan­
zare con l’età: anche in questa fase critica vanno accuditi e ri­
spettati («Sii indulgente, anche se perde il senno, e non di­
sprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore. L’opera buona ver­
so il padre non sarà dimenticata, otterrà il perdono dei pec­
cati, rinnoverà la tua casa»: 3,13-14).
L’educazione comporta in Siracide degli interventi energi­
ci; per questo la correzione disciplinare è parte integrante
dell’ammaestramento dei saggi (7,23): si accentua la dimen­
sione punitiva dell’educazione, aspetto che in Proverbi è pre­
sente (Pr 10,17 e 13,24) ma non sottolineato come in questi
testi (Sir 22,6; 30,1).
c) L’uomo. La visione antropologica del Siracide si ispira ai
racconti della creazione del libro della Genesi presentandosi
come ampia e sfaccettata. In Sir 16,24-17,14, dopo avere
parlato delle creature, l’autore passa in rassegna la condizio­
ne dell’uomo ricollegandosi al diretto rapporto con la terra
(cfr. Gen 2,7; 3,19). Sulla scia di altri testi biblici (Sai 8,5;
144,3; Gb 7,17) anche il Siracide si pone in 18,8 le domande
antropologiche fondamentali: Che cos’è l’uomo? A che cosa
può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? Questi
interrogativi restano aperti o, meglio, vengono sciolti nel ri­
mando diretto alla grandezza di Dio che considera l’essere
umano, per quanto piccolo e insignificante rispetto all’uni­
verso, il destinatario privilegiato della sua misericordia.
L’uomo va educato e la sofferenza gioca un ruolo fonda-
mentale per il raggiungimento della piena maturità: ha un va­
lore medicinale perché lo purifica alla stregua della raffina­
zione dei minerali grezzi dai quali si ricavano i metalli prezio­
si («L’oro si prova al fuoco»: Sir 2,5).
Ma in Ben Sira si assiste anche al superamento di un’idea,
derivante dal convincimento anticotestamentario, secondo la
quale da Dio proverrebbero sia il bene che il male e anche la
sciagura sarebbe causata da Dio (cfr. le parole di Giobbe in
G b 2,10). Davanti a tale affermazione il Siracide si profonde
in alcune considerazioni di teodicea proponendo con forza il
principio della libertà individuale: l’uomo è stato creato libe­
ro di rifiutare il male, realtà che Dio stesso ha in odio e che
conduce alla morte (Sir 15,11-20).
Sicuramente l’autore del libro è consapevole che il pensie­
ro della morte segna la vita dell’uomo di ogni condizione so­
ciale: è la paura capitale che getta un’ombra su tutte le attivi­
tà e i progetti (Sir 40,1-17; cfr. Qo 11,7-12,7). Da uomo pio è
anche convinto che per il giusto tale peso sia reso più sop­
portabile rispetto alla condizione sventurata dell’empio, per­
ché di questo non rimarrà neppure la buona fama che i giusti
hanno, invece, meritato.
d) La preghiera. E alla base del percorso sapienziale dello
stesso Ben Sira: egli dichiara di avere ricercato la sapienza
nella sua preghiera davanti al tempio sin dalla giovinezza, ri­
cerca che rinnoverà continuamente sino alla maturità (51,13-
14). La preghiera fiorisce come lode sulla bocca del pio che
di buon mattino eleva la voce al Signore, e dello scriba che
diligentemente si dedica allo studio delle profezie (4,12;
39,5-6), così come sgorga in chi contempla la natura come
opera meravigliosa del Creatore (42,15-43,33).24
Tuttavia, l’orazione non va staccata dalla vita, ma esige un
radicamento nella morale: è ascoltata quando è unita al ri­
spetto per i genitori (3,5) e alle richieste del povero di cui
Dio ascolta sempre la voce (4,6; 21,5). Va perciò unita alla

24 Cfr. N. C a l d u c h -B e n a g e s - J. Y e o n g -S ik P a h k , La preghiera dei saggi. La preghie­


ra nel Pentateuco sapienziale, Apostolato della Preghiera, Roma 2004, 95-129.
carità e offerta con fedeltà e costanza (7,9-10). Questo atteg­
giamento di coerenza inclina Dio alla misericordia (28,2),
perché la preghiera dell’indigente attraversa le nubi giungen­
do direttamente al suo cuore (36,16-21). Prega chi è nella
sofferenza, secondo uno dei capisaldi della fede tradizionale:
esiste un legame tra la malattia e il peccato, e per questo pre­
gare il Signore significa invocare il perdono e la conseguente
guarigione (38,9); prega, inoltre, anche il medico affinché
possa fare una corretta diagnosi (38,14).
e) La tradizione. Ben Sira descrive se stesso come un tor­
rente che lascia passare la grazia per irrigare gli altri e che -
mentre convoglia le sue acquisizioni sulla Sapienza (intesa sia
come bagaglio di esperienze sia come «persona») - accresce
la personale conoscenza diventando un vero e proprio mare
di dottrina, fondata sulla tradizione di fede dei padri e sulla
testimonianza personale del maestro (24,30-34). Il dono (la
tradizione) e la ricerca personale si esprimono in questa nuo­
va via attraverso la quale si comunica la volontà divina.
Il ruolo del saggio permette, in questo modo, di affrontare
le difficoltà personali e culturali, sostenute da una guida sicu­
ra e luminosa: «l’esempio emblematico del passato viene at­
tualizzato nell’esperienza viva e vicina del presente; fedeltà al
Dio d’Israele non è l’equivalente di una mentalità chiusa ed
impaurita di fronte alle nuove correnti ellenistiche che si
stanno infiltrando nelle istituzioni giudaiche; concretamente,
cercare la sapienza è aggrapparsi al Signore in apertura sere­
na ed equilibrata senza pregiudizi. E questo, né più né meno,
il programma di Ben Sira».25
Il cammino di trasmissione della sapienza si offre come un
vero e proprio ministero di comunione, attraverso il quale il
sapiente affida alle nuove generazioni i valori degli antenati
in ordine alle sfide del presente, senza celare i costi connessi

25 N. C alduch -Benages , Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2, Paoline, Mila­


no 2001,165.
- in termini di sofferenza personale - per rimanere fedeli a
tale traditio: chi si applica e medita la legge dell’Altissimo, in­
daga la sapienza di tutti gli antichi, si dedica allo studio delle
profezie (39,1).
Non è un caso, perciò, se Ben Sira è stato definito «il sa­
piente tradizionalista».26 L’elogio degli antenati di Sir 44,1-
50,21 celebra - specificamente - coloro che nel passato si so­
no resi disponibili per servire il Signore e che, nel desiderio
di accogliere la Sapienza, l’hanno trasmessa ai posteri. «Q ue­
sti uomini illustri» o «pii» (44,la) continuano a offrire alle
presenti generazioni l’esempio concreto di credenti realizzati
perché sapientemente illuminati nel loro percorso di vita. A
giusto titolo costoro possono essere chiamati «padri nella
storia» o «nelle loro generazioni» (44,lb).
f i La donna. La donna trova spesso spazio nelle riflessioni
del Siracide (23,16-17; 25,1-26,28; 41,14-42,14), palesando
la sua sostanziale misoginia il cui fondamento ultimo sta pro­
prio nella Bibbia: «Dalla donna ebbe inizio il peccato e per
causa sua tutti moriamo» (25,24).27 O meglio: poiché il pun­
to di partenza è il bene coniugale, la donna è colta nella sua
funzione di moglie e madre restando, in questo modo, in se­
condo piano. Una buona moglie è, infatti, una benedizione
per il marito (26,1) proprio in ordine alla sua importanza
nell’educazione dei figli. Un matrimonio sbagliato è una vera
sciagura.
Alla donna è richiesta l’obbedienza passiva e incondizio­
nata, pena il divorzio (25,26). Il capo della famiglia non deve
dipendere da nessuno ma tutti deve sottomettere (33,20) e,
men che mai, deve dipendere economicamente dalla moglie

26 R.E. MuRPHY, Inalbero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale bibli­
ca (Biblioteca Biblica 13), Queriniana, Brescia 2000, 91.
27 La visione maschilista della donna trapela anche dal modo con cui è descritta: in
26,2 è chiamata «valorosa», alla lettera «virile» {andréia). Il saggio sembra descrivere la
donna in rapporto alla sua somiglianza o differenza rispetto all’uomo.
(25,22) o essere assoggettato ai figli (33,1-13). La malizia
femminile è oggetto di attenta riflessione (25,13-19.23; 42,14)
conformemente alle convinzioni dei maestri d ’Israele in pri­
mis Qoelet (Qo 7,26). Comune alla tradizione è anche l’av­
vertimento della pericolosità della straniera alla quale non bi­
sogna consegnare il proprio vigore sessuale (Sir 26,19; cfr. Pr
2; 5; 6 e 7).

Bibliografìa di riferimento e di approfondimento

The Wisdom ofBen Sira: Studies on


B e l l ia G. - PASSARO A. (edd.),
Tradition, Redaction, and Theology, Walter de Gruyter, Berlin -
New York 2008.
Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2,
C a l d u c h -B e n a g e s N.,
Paoline, Milano 2001.
M in issa l e A., Siracide (Ecclesiastico), Paoline, Roma 1980.
NlCCACCI O., Siracide o Ecclesiastico. Scuola di vita per il popolo di
Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.
P a l m isa n o M .C ., Siracide. Introduzione, traduzione e commento
(Nuova versione della Bibbia dai testi antichi 34), San Paolo, Ci­
nisello Balsamo (di prossima pubblicazione).
R e y J.-S. - J o o st e n J. (ed.), The Texts and Versions of thè Book of
Ben Sira. Transmission and Interpretation, Brill, Leiden 2011.
SKEHAN P.W. - Di L e l l a A. A., The Wisdom ofBen Sira, Double-
day, New York 1987.
ZAPPELLA M., «L a Sapienza di Ben Sira», in P. Sacchi (ed.), La Bib­
bia dei Settanta. IV, a cura di C. Martone, Morcelliana, Brescia
(in stampa).
SAPIENZA

1. Questioni storico-letterarie

L’ultimo libro del Pentateuco sapienziale è il libro della


Sapienza, scritto a ridosso del Nuovo Testamento e diretta-
mente in greco. Per tale ragione non fa parte del canone
ebraico anche se la tradizione cristiana lo ha letto e accolto
come ispirato sin dall’antichità (fin dal II secolo compare
tra i libri canonici del cosiddetto Canone Muratoriano).
All’interno della tradizione patristica la posizione di Girola­
mo che escludeva il libro della Sapienza dai suoi progetti di
traduttore, fu controbilanciata dalle convinzioni di Agosti­
no che ne difese la canonicità, l’ispirazione e la sua lettura
nella Chiesa.1 Attualmente questo scritto, come già segnala­
to per il Siracide, per la tradizione Riformata che accoglie il
canone ebraico dell’Antico Testamento, rientra tra i libri
deuterocanonici, cioè tra gli scritti che compaiono nella
Bibbia, ma che non sono considerati vincolanti in materia
di fede.1

1 «Il libro della Sapienza ha meritato di essere letto tanti anni nella Chiesa cattolica e
di essere ascoltato con la venerazione dovuta all'autorità divina» (AGOSTINO, La predesti­
nazione dei santi 14,27).
1.1. Autore

I codici più antichi2 ci hanno tramandato lo scritto sotto il


titolo «Sapienza di Salomone». Nell’antichità lo si identifica­
va con il figlio e successore di Davide, re dell’intero Israele,
anche sulla base di Sap 9,7-8 («Tu mi hai scelto come re del
tuo popolo, e giudice dei tuoi figli e figlie, mi hai ordinato di
edificare un tempio sul tuo monte santo e un altare nella città
della tua dimora e immagine della tua tenda santa che avevi
preparato sin dal principio»; cfr. lC r 28,5-6 e lRe 3,7). Lo ri­
tennero Salomone anche alcuni Padri e scrittori cristiani dei
primi secoli; lo stesso fecero molti altri autori cristiani ed
ebrei, durante il Medioevo e in seguito.
Oggi si nega la paternità salomonica per diversi motivi.
Anzitutto stilistici: lo pseudo-Salomone scrive in un greco che
assomiglia troppo a quello dei classici (su 1734 vocaboli 335
non compaiono in nessun altro libro canonico della Bibbia
greca dei Settanta). Poi contenutistici: il suo pensiero è co­
struito secondo categorie greche.3 Profondamente influenzato
dalla cultura ellenistica e dalla filosofia stoica, l’anonimo au­
tore4 del libro fa trasparire tuttavia il suo profondo ancora-
mento alle tradizioni giudaiche che conosce in profondità e
difende apertamente. In questo senso il libro della Sapienza è
un ottimo esempio d ’inculturazione della fede giudaica
nell’universo ellenistico, rivolto ai leader della comunità affin­

2 I codici Vaticano e Sinaitico del IV secolo e l’Alessandrino del V ci danno il testo


più antico. L’edizione critica più attendibile è quella curata da J. ZlEGLER, Sapientia Salo­
monis, Vandenhoeck & Ruprecht, Gòttingen 21980.
3 Cfr. A. BONORA, « L ib r o della S ap ie n z a», in BONORA - PRIOTTO, Libri sapienziali e al­
tri scritti, 100. U n a v o ce d iversa è q u ella di G . S ca rp at che co n sid era la su a cultu ra p retta ­
m en te giu d aica: « L e in fluen ze registrate, su cui q ualch e stu d io so in siste, seco n d o n oi non
rivelano una p artico lare e a p p ro p riata cultu ra greca. L a su a cultu ra è g iu d aica e i su oi li­
b ri so n o la leg g e, i salm i e i lib ri sap ie n z iali» ( Libro della Sapienza. I, P aid e ia, B re scia
1999, 28).
4 Sebbene molti critici siano del parere che Sapienza vada attribuito a vari autori, at­
tualmente prevale l’opinione secondo cui l’opera è riconducibile a un solo autore; il piano
e la struttura del libro recano solidi fondamenti in questo senso.
ché siano intellettualmente preparati per affrontare l’impatto
con il mondo che li circonda. J. Vilchez Lindez lo presenta
con dovizia di particolari, affermando che del giudeo possie­
de la fede nel Dio unico e onnipotente, Signore sovrano
dell’universo; l’aberrazione del politeismo, degli idoli e
dell’immoralità dei pagani; l’orgoglio di appartenere alla na­
zione eletta, il popolo santo, la razza irreprensibile, l’ammira­
zione per il proprio passato e per gli eroi, le cui imprese è feli­
ce di ricordare; la certezza della sua missione nel mondo.5

1.2. Data

La datazione di Sapienza, come spesso accade per i libri


sapienziali molto evanescenti nei loro rimandi storici, è molto
discussa. Per questo è prevalso tra gli autori un metodo di
approssimazione segnalando un ampio lasso di tempo rac­
chiuso da epoche limite all’interno delle quali dovette essere
scritto il libro. Due pietre miliari indicano i due estremi: la
versione greca dei Settanta e Filone Alessandrino. A proposi­
to del primo, si ritiene che l’autore si sia riferito ai Settanta
ma non si sa con certezza quando sia terminata la traduzione
dei libri che la compongono e di cui l’autore ha fatto uso. Vi
è perciò un apprezzabile margine prima del quale tale libro
non potè essere scritto: l’inizio o la fine del III secolo a.C. Il
secondo riferimento, prima del quale fu scritto il libro della
Sapienza, è Filone Alessandrino: sebbene non vi sia unanimi­
tà tra gli studiosi, Sapienza è anteriore a Filone (ca. 20 a.C.-
40 d.C.), poiché nel libro non si riscontrano influssi dovuti a
lui o al suo metodo allegorico.6 Similmente G. Scarpat crede
che, nonostante resti esclusa, ipso facto, una datazione preci­
sa sull’anno di composizione di Sapienza, il libro in esame sia

5 Cfr. J. VILCHEZ L ìNDEZ, Sapienza, Boria, Roma 1990,58.


6 Cfr. Ivi, 60-61.
stato scritto dopo il 30 a.C., cioè dopo che il dominio roma­
no si era stabilito fortemente in Alessandria con Augusto. In
base ad argomenti interni, la data di composizione potrebbe
risalire al tempo di Caligola, cioè verso il 40 d.C.7
D ’altro canto, ci sono proposte di datazione alternative. M.
Gilbert, per esempio, afferma che è probabilmente all’inizio
della dominazione romana sull’Egitto che bisogna datare la
stesura di Sapienza, cioè all’indomani della vittoria navale di
Ottavio, il futuro imperatore Augusto, ad Anzio nel 31 a.C.8
Lo studio del vocabolario si rivela decisivo perché in Sap 6,3 è
attestato il sostantivo kratèsis («dominio, sovranità») un termi­
ne tecnico per indicare la presa di possesso dell’Egitto da par­
te dei Romani nel 30 a.C.9 Sulla stessa linea anche J. Vilchez
Lindez, il quale sostiene che il libro della Sapienza fu scritto
molto probabilmente tra il 30 a.C. e il 14 d.C.101Lo stesso au­
tore ritiene che in quel periodo confluiscano tutti i requisiti
per realizzare questa grande opera e lo deduce dall’analisi del
testo: probabili allusioni a situazioni storiche dell’epoca
dell’autore, influssi filosofici e letterari, vocabolario ecc.
Concludendo: si può ritenere che il libro della Sapienza
sia stato composto ad Alessandria d ’Egitto, intorno al 30 a.C.

1.3. Struttura

La ricerca sulla struttura del libro della Sapienza si è allar­


gata all’intero libro a partire da uno studio di A.G. Wright11

7 Cfr. SCARPAT, Libro della Sapienza. 1, 16; 21.


8 Cfr. GILBERT, La Sapienza del cielo, 209- 210.
9 Altri indizi in questa direzione sono: Sap 14,22 che allude alla pax romana proclama­
ta da Ottaviano Augusto, così come Sap 14,16-22 alluderebbe al nascente culto dell’impe­
ratore: cfr. L. M a zzin gh i , «Sapienza», in R. PENNA - G. PEREGO - G. RAVASI (edd.), Di­
zionario dei Temi Teologici della Bibbia, 1245.
10 Cfr. VfLCHEZ L ìn d ez , Sapienza, 64-65.
11 Cfr. A.G. W r ig h t , «The Structure of thè Book of Wisdom», in Biblica 48(1967),
165-184.
poiché l’interesse degli studiosi era principalmente rivolto
all’organizzazione di alcuni capitoli del testo. La prima fase
della ricerca per il libro della Sapienza approda alla scoperta
di una struttura concentrica dei cc. 1-6 (1,1-15 trova una
corrispondenza in 6,1-11.17-21): la prima parte del libro si
concluderebbe in 6,21 e gli ultimi versetti del cap. 6 (22-25)
apparterrebbero alla parte seguente: fungono da introduzio­
ne e ne annunciano i temi. Gradualmente si giunge a consi­
derare che il libro della Sapienza consta, sostanzialmente, di
due parti. La prima (1,1-6,23) è un invito alla Sapienza; la se­
conda (cc. 7-19) introduce la figura di Salomone, il re saggio
che descrive gli interventi della Sapienza nella storia, in parti­
colare nella storia della liberazione del popolo ebraico. E
possibile, tuttavia, l’individuazione di una strutturazione in
tre parti:12 1,1-6,21; 6,22-9,18; 10- 19.
Ispirandosi alla retorica classica e allo sviluppo del pensie­
ro dell’autore, M. Gilbert ha proposto di suddividere il libro
nel modo seguente:13

1,1-6,25: esordio del discorso


7-8: elogio della Sapienza
9: preghiera per acquisire la Sapienza
10-19: amplificazione

L’esordio deve coinvolgere l’uditorio facendo sentire che


l’argomento che si sta per trattare lo riguarda. L’esordio è il
momento in cui l’uditore è sollecitato ad ascoltare, in cui si
presentano i protagonisti che dominano la scena (giusti ed
empi) e si dà voce ai loro pensieri. L’elogio della Sapienza
mira a indicarne la natura e l’origine, unitamente ai benefici
che concede. Il c. 9 contiene la preghiera per ottenere la Sa­
pienza: il retore non deve solo esibire ciò che la Sapienza è in

12 Cfr. VlLCI-IEZ U n d e z , Sapienza, 20-22.


13 GILBERT, La Sapienza del cielo, 210-236.
sé o i doni che elargisce, ma deve anche illustrare la via che
conduce ad essa. Infine, l’ultima parte del libro (Sap 10-19):
«un discorso di elogio non può fermarsi alla definizione di
quel che uno loda; per far ben cogliere il concreto valore
dell’oggetto dell’elogio, conviene farne risaltare gli effetti con
noti esempi ricavati dalla storia: questa parte del discorso
viene chiamata amplificazione».14

1.4. Genere letterario

Diverse sono le ipotesi. Segnalo le più importanti.


a) Il libro della Sapienza appartiene al genere dimostrativo
o epidittico. Tale genere, che ha un carattere scolastico ed è
rivolto principalmente ai giovani, non ha tanto la forza della
dimostrazione quanto quella dell’esposizione, intendendo il­
lustrare se è lodevole o reprensibile la persona (o la qualità)
oggetto della trattazione. Il libro sarebbe, perciò, un elogio o
encomio della Sapienza, sebbene tale encomio sia particolare
in quanto non si assoggetta ai modelli classici greci e latini
avendo caratteristiche proprie.
b) Altri autori sostengono l’appartenenza di Sapienza al
genere protrettico-. un’opera di propaganda, un discorso,
un’esortazione in favore della filosofia o di un concreto stile
di vita. Seguendo quest’ipotesi, il libro sarebbe un’esortazio­
ne per conseguire non la filosofia ma la sapienza che Dio of­
fre e nella quale si compiono i piani relativi al popolo e agli
individui.
c) Segnaliamo, inoltre, il genere del paragone (synkrisis): la
synkrisis era la parte della retorica in cui si offriva il ricordo
(abbastanza libero per abbellire la storia) degli esempi di uo­
mini illustri e famosi con lo scopo di stabilire un confronto,

14 Ivi. 229.
una comparazione sistematica e prolungata, con l’eroe che si
vuole mettere in evidenza. Le differenze principali rispetto
alla synkrisis classica provengono dai temi religiosi affrontati
nel libro. Tale genere è ascrivibile principalmente all’ultima
parte del libro (i cc. 10-19).
d) Non si può, inoltre, trascurare che molti autori difendo­
no l’ipotesi che Sapienza sia un midrash. A proposito di tale
genere letterario bisogna fare alcune puntualizzazioni che var­
ranno anche per quanto diremo a proposito del Cantico dei
Cantici. Anzitutto è difficile definire precisamente il genere
letterario del midrash a causa dell’equivocità del termine stes­
so: è bene essere prudenti quando si parla di genere letterario
midrashico perché bisogna distinguere tra l’attività di studio
dei rabbini, la loro attività di interpretazione biblica, una loro
tipologia di esegesi, e il corpo letterario all’interno della tradi­
zione orale giudaica che chiamiamo, appunto, con questo no­
me. I termini non sono sinonimi, in quanto per esempio nel
Talmud c’è un’esegesi di tipo derash (portata avanti cioè con il
metodo del midrash), eppure esso non è chiamato midrash.
Inoltre, non conosciamo la genesi e lo sviluppo storico di tale
letteratura: conosciamo il suo stadio finale ma non siamo in
grado di sapere se la letteratura definita midrashica sia stata
effettivamente orientata e ispirata a un unico/uniforme mo­
dello iniziale. Perciò, possiamo indicare in senso ampio il mi­
drash come riflessione omiletica o meditazione sulla Bibbia
che cerca di interpretare e attualizzare un testo del passato in
riferimento alle circostanze attuali sviluppandone il senso ini­
ziale. Solo in questo senso Sapienza è un midrash P
e) Infine, per alcuni autori il libro della Sapienza sarebbe un
trattato di teologia politica il cui tema centrale è la giustizia nel
governare.1516 L’esplicito appello rivolto ai governanti e a chi si

15 Un’ampia discussione sul senso del midrash in rapporto al libro della Sapienza si
trova in VfLCHEZ L i'n d e z , Sapienza, 40-47.
16 Cfr. L. ALONSO S c h o k e l , Eclesiastes y Sabiduria, Cristiandad, Madrid 1974,73.
diletta di scettri e troni (Sap 6,21) supporterebbe tale propo­
sta. Quest’aspetto politico rientra, tuttavia, tra quelli marginali
dell’opera non costituendo un vero e proprio genere.
In conclusione si può ritenere, dovendo fare una scelta,
che l’ipotesi più accreditata sia quella che ritiene Sapienza un
elogio sui generis poiché presenta caratteristiche proprie:
«Sulla base di quanto si è osservato, un giudizio d ’insieme sul
genere letterario della Sapienza richiede una certa cautela.
Pur ammettendo l’intonazione generale epidittica dell’opera,
è prudente sostenere l’inadeguatezza della pretesa di dedurre
un denominatore comune di genere per tutto il libro; nella
Sapienza si mescolano elementi sapienziali e apocalittici, si
trovano la diatriba e la sincrisi, né possono escludersi ele­
menti esortativi, inoltre si riscontra spesso lo stile dell’esegesi
midrashica, in particolare nell’esposizione dell’esodo».17

2. Esegesi di Sap 3,1-12: la ricompensa dopo la morte

La proposta di lettura di questo brano si spiega in base al


legame con il tema della retribuzione che, come abbiamo vi­
sto, attraversa il Pentateuco sapienziale. Con 3,1-12 l’autore
«risponde all’interrogativo permanente che nasce come sfida
alla fede in Dio, per l’evidente contraddizione che si presenta
nella vita: la rovina dei giusti e il trionfo dei malvagi [...]. Il
nostro autore ha una risposta per questo enigma irrisolto del­
la vita umana».18 Vi ritroviamo il primo esplicito riferimento
della tradizione sapienziale alla vita oltre la morte come «luo­
go» in cui il giusto potrà sperimentare da un lato la ricom­
pensa per le sue sofferenze terrene, e dall’altro prendere atto
della punizione degli empi.

17 MORLA ASENSIO, Libri sapienziali, 218.


18 VtLCHEZ LfNDEZ, Sapienza, 198.
2.1. Contesto prossimo, genere letterario e struttura

L’exordium del libro della Sapienza, come segnalato nel


paragrafo sulla struttura, comprende i cc. 1-6. La sezione
centrale di questa prima parte del libro è occupata dai cc.
3-4. Qui sono contenuti i cosiddetti «paradossi della vita»: la
prova dei giusti e il castigo degli empi (3,1-12), la sterilità
contro la fecondità (3,13—4,6), la morte prematura del giusto
e la fine sventurata degli empi (4,7-20).
3,1-12 costituisce la prima delle antitesi che seguiranno.
Da un punto di vista formale l’unità del brano è confermata
da un’inclusione: aphróndn di 2a e àphrones di 12a. Il gene­
re a cui appartiene il brano è quello del paragone, del con­
fronto (synkrisis) tra giusti ed empi: dei primi ci si occupa
nei w. 1-9, mentre nei w. 10-12 si descrivono gli empi e la
loro sorte.

2.2. Traduzione e commento

!Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tor­
mento li toccherà.
2Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu rite­
nuta una sciagura,
Ha loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace.
4Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro spe­
ranza resta piena d ’immortalità.
5In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici, per­
ché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé;
6li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha accolti in sacrificio,
come olocausto.
7Nel giorno in cui saranno visitati risplenderanno, come scintille
nella stoppia correranno.
Giudicheranno le nazioni, avranno potere sui popoli e il Signo­
re regnerà per sempre su di loro.
9Coloro che confidano in lui comprenderanno la verità, i fedeli
nell’amore rimarranno presso di lui, perché grazia e misericor­
dia sono per i suoi santi.

10Gli empi, invece, riceveranno una pena conforme ai loro pen­


sieri; non hanno avuto cura del giusto e si sono allontanati dal
Signore.
11Infatti è infelice chi disprezza la sapienza e l’educazione. Vuo­
ta è la loro speranza e le loro fatiche inutili, le loro opere sono
senza frutto.
12Le loro mogli sono stolte, cattivi i loro figli, maledetta la loro
stirpe.

1-9. Sul piano formale si nota un palese richiamo, quasi


un’inclusione, tra i w. 1 e 9: tra i soggetti (i giusti: v. 1; coloro
che confidano nel Signore del v. 9) e la loro sorte in rapporto
al Signore («sono nelle mani di Dio»: v. 1; «rimarranno pres­
so di lui»: v. 9). Dal punto di vista contenutistico l’autore svi­
luppa la prima strofa in tre momenti successivi posti in forma
concentrica: A ( w - 1-3); B (w. 4-6); A1 (w. 7-9).
1-3 (A). La particella greca avversativa de del v. 1 (qui resa
con «invece») sottolinea intenzionalmente il contrasto tra il
destino dei giusti e quello dei malvagi di cui ci si occupa dif­
fusamente da 1,16 («Gli empi con gesti e con parole invoca­
no su di sé la morte; credendola amica, si consumano per es­
sa e con essa fanno alleanza, perché sono degni di apparte­
nerle»). I giusti non presentano una fisionomia univoca ma
includono i Giudei della diaspora in primis e tutti coloro che
soffrono a causa della cattiveria degli uomini e che, per rima­
nere fedeli alle proprie convinzioni religiose, sono disposti a
pagare con la vita.
Il versetto si comprende leggendolo in continuità con
quanto asserito in 2,24: «Per l’invidia del diavolo la morte è
entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono nel suo
numero». Dalla morte - che, alludendo a Gen 3, è qui da in­
tendersi come perdita della comunione con Dio e non come
immortalità fisica alla quale non rimanda neppure il racconto
della creazione - scampano i giusti mentre gli empi, come già
notato, che con essa hanno fatto un patto al punto da appar­
tenerle, non hanno altro destino (1,16). La sorte dei giusti
dopo la morte è descritta con un’espressione tipicamente
ebraica: la «mano di Dio» (in greco c’è il singolare) ha qui un
senso positivo e indica in Sapienza l’assoluto dominio di Dio
sulle sue creature (cfr. 7,16; 11,17; 14,6; 16,15; 19,8). Nella
Bibbia tale mano può anche essere «pesante», cioè esprimere
la punizione divina verso gli uomini (cfr. ISam 5,11) o, co­
munque, un suo tratto duro e incomprensibile per l’uomo
come nel caso di Giobbe che soffre (cfr. G b 19,21; 31,23). Il
senso positivo dell’espressione si attesta anche in Sapienza
(Sap 10,20: Dio che combatte per il Israele): la vita oltre la
morte dei giusti non è un salto nel buio dello se>ól come atte­
stato in altri passi scritturistici (cfr. Sai 6,6; Sir 17,27; Is
38,10; Bar 2,17), ma un incontro con il volto benevolo di Dio
che ha cura dei suoi giusti.
Il v. 1 si riferisce allo stadio della vita post mortem. Non ci
sarà ombra di supplizio per le anime dei giusti. L’autore men­
ziona le anime (psychài) ma non il corpo: come segnalato, è
solo la dimensione psichica del giusto che ha un destino oltre
la morte. Il corpo si corromperà, sia quello dei giusti sia
quello degli empi. Il libro della Sapienza è l ’unico libro
dell’Antico Testamento in cui si attesta un’antropologia dua­
listica (figlia della filosofia greca platonica) in cui il corpo è
addirittura considerato un ostacolo per la ricerca umana:
«Timidi sono i ragionamenti dei mortali e incerti i nostri pen­
sieri; perché un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la
tenda terrena opprime la mente, agitata da molti pensieri. A
stento ci raffiguriamo le cose terrene e con fatica compren­
diamo quelle che sono a portata di mano; ma chi potrà rin­
tracciare le cose celesti?» (Sap 9,14-16).
Il senso complessivo del primo e importante versetto è,
perciò, la dichiarazione della sicura protezione del Signore
verso i giusti, già liberi da qualsiasi tormento immediatamen­
te dopo la morte. Questo modo di concepire lo stato di per­
manente felicità come l’assenza totale di ogni elemento nega­
tivo, è il primo tassello della più ampia descrizione che l’au­
tore offre dell’aldilà.
Ai w. 2-3 si contrappone nuovamente l’opinione errata
dei malvagi (1,3.5; 2,1.21) che qui sono chiamati «stolti».
L’errore è dovuto all’ignoranza nei riguardi del segreto piano
divino, trascurando il quale hanno condotto una vita senza
speranza per sé e nella cattiveria pura verso chi aveva una vi­
sione della realtà differente: è questa la loro insensatezza.
Il verbo «sembrare» (dokéd) veicola l’idea della superfi­
cialità con cui gli stolti hanno valutato la vita. Essi, infatti,
proprio perché chiusi a un orizzonte ultraterreno, hanno
considerato una rovina e una sciagura la morte ignominiosa
dei giusti che su questa terra, dove l’uomo non è altro che
fumo (2,2), non hanno goduto pienamente dei piaceri per­
dendo l’unica possibilità loro concessa. Questo transito è
descritto come una dipartita (éxodos), al pari di quanto si
legge in 7,6, «uscita» col significato metaforico di «m orte»
(contrapposta a eìsodos, «entrata»). «Nella grecità profana
questo uso eufemistico sembra cominciare con Epitteto
(Diatribe 4,4,38), ma i due termini sono usati per il giusto
intenzionalmente, più che un eufemisticamente: il giusto
non muore, ma esce, si distacca da noi quasi partisse per un
viaggio».19
I giusti però, sono nella pace, in una condizione di benes­
sere ormai definitiva. Non in una condizione di inattività e di
assoluto vuoto ma in quella pace che è pienezza di vita e di
felicità - conformemente allo sàldm ebraico che soggiace al

19 S carpai, Libro della Sapienza. /, 230-231.


concetto greco di eiréne (Sai 37[36],11; 85[84],9.11; Is 52,7)
- poiché essi sono già presso Dio.
4- 6 (B), Questi versetti costituiscono il centro del brano e
racchiudono il cuore del messaggio teologico relativo alla
sorte dei giusti; la sofferenza nella vita presente è la prova cui
Dio li sottopone per purificarli. Qui si offre la risposta alle
sciagure di Giobbe: la sofferenza non è fine a se stessa né è
espressione del sadismo di Dio in quanto prepara un’intimità
divina, che si gode pienamente solo dopo la morte. I giusti,
perseguitati e derisi su questa terra, hanno ben riposto la
propria speranza nell’immortalità futura e, alla fine, hanno
avuto piena ragione.
4. Per la prima volta nel libro compare il sostantivo «im ­
mortalità» (athanasta), nella pienezza del suo significato di vi­
ta senza fine (cfr. anche 4,1; 8,13.17; 15,3). Il sostantivo non
è riferito direttamente né ai giusti né alle loro anime ma alla
loro speranza; questo dice la volontà di sfumare un rimando
troppo diretto su ciò che l’autore non sviluppa, probabil­
mente perché non ne conosce la piena portata, cioè sulla
condizione dell’uomo dopo la morte. Anche se questa idea
teologica è solo accennata, si fa strada una nuova speranza
per la fede giudaica nell’aldilà.
5- 6. Si spiega il senso pieno della sofferenza. Alla doman­
da «perché Dio fa soffrire il giusto?» è offerta una risposta
netta e chiarificatrice, che da un lato segue la concezione at­
testata in ambito sapienziale della sofferenza come mezzo di
purificazione alla stregua del metallo prezioso (l’oro grezzo
portato ad alte temperature si purifica delle sue scorie);20
dall’altro, conferisce un nuovo senso alla prova: essa ha un fi­
ne di bene perché è per la correzione dei giusti, è un mezzo
educativo (il verbo è un participio di paideùd) che Dio, in
quanto maestro, dispone per l’uomo. Egli vuole vagliare la

20 Cfr. anche G b 23,10; Pr 17,3; 27,21; Sir 2,5; Sai 66,10; Is 1,25; 48,10; Zc 13,9.
vita dei giusti e desidera verificarne la virtù perché, come
nella prova di Abramo (22,1), così anche ai giusti sia conces­
sa la possibilità di manifestare la propria fedeltà e la propria
dignità di comparire al suo cospetto. G. Scarpat annota che
«questa paideia, punitrice e correttrice è azione provviden­
ziale che rende fiduciosi e umili davanti al disegno di Dio, e
non sempre è comprensibile mentre si sta attuando».21 Il te­
sto di 2Mac 6,14-16 esplicita questa logica divina a favore del
popolo eletto: «Il longanime Sovrano ha giudicato di com­
portarsi con noi non come fa con le altre genti, che egli
aspetta fino a che siano giunte al colmo dei peccati per pu­
nirle. E ciò per non dover punirci alla fine, quando i nostri
peccati fossero giunti a colmare la misura. Perciò egli non ri­
tira mai da noi la sua misericordia, ma, correggendoci con la
sventura, non abbandona il suo popolo». La vita del giusto è,
perciò, considerata alla stregua di un olocausto, secondo la
concezione cultuale dell’esistenza: l’uomo non è chiamato ad
offrire a Dio animali o vegetali, ma a trarre dalla propria esi­
stenza e dalle proprie sofferenze la materia per il sacrificio
(cfr. Rm 12,1).
7-9 (A’). Questi tre versetti presentano un linguaggio e dei
temi tipicamente apocalittici, cosa alquanto rara nel corpus
della letteratura sapienziale. Questa terza strofa richiama il
tema della sorte dei giusti già anticipato nella prima (w. 1-3)
esplicitando la modalità secondo la quale essi saranno pre­
miati dal Signore.
7. L’ora del giudizio divino è descritta come un’ispezione
{episcopi), visita che, a differenza dei testi apocalittici in chi
ne viene raggiunto genera non angoscia ma premio e ricono­
scenza, gioia e pubblica attestazione. Le scintille che corrono
nella stoppia sono metafora di un incendio che sta per svi­
lupparsi, metafora del dominio finale dei giusti sugli empi:

21 SCARPAT, Libro della Sapienza. 1, 72-73.


conformemente alla parabola terrena dei giusti contrassegna­
ta da pacatezza verso i nemici e piena fiducia nel futuro a lo­
ro riservato, così nell’aldilà i deboli fuochi iniziali sono forie­
ri di un fuoco ardente che ristabilirà la giustizia punendo i
nemici (cfr. Is 5,24; 47,14; Gl 2,5; Mi 3,19; Zc 12,6).
8. Rispetto all’apocalittica classica si assiste a un amplia­
mento di orizzonte: i giusti regneranno su tutte le nazioni
(éthnè indica normalmente i popoli pagani: Gen 10,5.20.
31.32) secondo un progetto di ampio respiro universalistico
in cui la loro vittoria definitiva sui malvagi - subalterna al ri­
conoscimento di Dio come signore e giudice dei vivi e morti
- si instaura ben oltre i confini d’Israele. Se, cioè, nel profeta
Daniele si legge che «il regno, il potere e la grandezza dei re­
gni, che sono sotto tutti i cieli, saranno dati al popolo dei
santi dell’Altissimo. Il suo regno è un regno eterno; tutti gli
imperi lo serviranno e a lui obbediranno» (Dan 7,27), qui
l’autore di Sapienza ha in mente una sorta di anticipazione
del giudizio universale non strettamente circoscritto al popo­
lo eletto e che viene concesso ai giusti (di ogni popolo) già
nel momento della loro dipartita. Ovviamente, in base all’in­
terpretazione data della figura del giusto in Sapienza, a Israe­
le vanno accordati i primi posti in quanto popolo perseguita­
to e ingiustamente oppresso (cfr. quanto detto sul contesto
culturale del libro). Con L. Alonso Schòkel notiamo che «nei
testi escatologici e apocalittici ebraici è normale che si parli
del trionfo finale d’Israele, costituito signore di tutti i popoli,
sotto l’immediato regno del Signore suo Dio; se tale regno si
installerà in questo mondo in un tempo finale, oppure in un
altro mondo futuro, sono le due fondamentali interpretazioni
ammesse dal versetti».22 Il contesto generale dell’intero bra­
no sembra collocare l’esercizio di questa regalità in una nuo­
va situazione, che non è la riproposizione della situazione
storica dell’Israele in cui i giusti hanno vissuto, ma in un non
ulteriormente precisato stadio finale della storia.
9. Qui, conformemente alla riflessione teologica sul senso
della storia, si palesa la piena comprensione dei giusti del senso
ultimo degli eventi: se agli empi manca l’intelligenza, nel senso
di intus-legere, per scoprire il progetto di Dio che si cela in pro­
fondità nel divenire umano (Sap 3,2), i giusti partecipano inve­
ce al disvelamento pieno di questa verità (alétheia). «Compren­
dere la verità» significa che «coloro che hanno confidato (spe­
rato) nel Signore capiranno perché il loro Dio ha permesso le
sofferenze sulla terra e perché ha tollerato il temporaneo trion­
fo dell’empio; la loro fedeltà in amore, la loro resistenza alle lu­
singhe dell’empietà vengono ora premiate con la vicinanza a
Dio che ai suoi eletti riserva grazia e misericordia».23
Il termine «verità» va inteso non solo nel suo significato
gnoseologico ma, soprattutto, nel suo senso biblico di fedel­
tà. La radice ’mn richiama, infatti, il concetto di fermezza e
stabilità (cfr. lSam 2,35; 2Sam 7,16; 2Cr 20,20; Is 7,9); da qui
discende l’idea di affidabilità (cfr. Dt 7,9; Is 49,7) e veracità
(cfr. Gen 42,20; Sai 19,8; 93,5; Is 55,3), il cui riferimento im­
mediato e la cui principale scaturigine è Dio (cfr. Gen 24,27;
2Sam 2,6; Sai 71,22; 88,12; 89,2-3.6).
L’intimità con Dio è riservata a coloro che sono fedeli
nell’amore {agape) e che già su questa terra avevano dato
prova di perseveranza nelle avversità. La motivazione che
viene addotta è legata a due termini (chàris ed éleos, «grazia»
e «misericordia», che non si trovano in coppia in tutto l’Anti­
co Testamento greco (fatta eccezione per Sap 4,15): questi
due sostantivi, qui praticamente sinonimi, esprimono la be­
nevolenza divina, il suo amore generoso.24 Questa epifania

23 S ca rpa i , Libro della Sapienza. I , 237.


24 Nello sviluppo neotestamentario del pensiero teologico, la coppia «grazia-fedeltà»
dichiara la rivelazione piena del mistero salvifico di Dio nella storia in Cristo (cfr. lTm
1,2; 2Tm 1,2; Tt 1,4; 2Gv 3; Eb 4,16).
«agapica» è riservata ai giusti che sono chiamati «santi», ter­
mine dalle molteplici risonanze che conferma lo stretto rap­
porto tra Dio e ad alcuni uomini decisivi nell’attuazione della
storia della salvezza: Davide (cfr. lSam 10,24; Sai 89), Mosè
(cfr. Sai 106,23); Giacobbe-Israele (cfr. Is 44,1; 45,4), il Servo
di Yhwh (cfr. Is 42,1), Ciro (cfr. Is 45,1), Zorobabele (cfr. Ag
2,23). La dimensione carismatico-regale legata all’eletto co­
me strumento nelle mani di Dio, giungerà sino al Nuovo Te­
stamento individuando in Gesù il compimento delle attese
messianiche dell’Antico Testamento (cfr. Le 9,35; 23,35).
10- 12. Il de iniziale («ma, invece») del v. 12 segna il pas­
saggio nel secondo quadro che l’autore di Sapienza consegna
in questo confronto.
10. Il contrasto tra il destino luminoso dei giusti rende
ancora più fosche le tinte con cui si descrive la sorte degli
empi, vittime dei propri errori e peccati (alla lettera sono
coloro che sono privi della virtù della religiosità, a-sebéis).
I loro pensieri sono ispirati a stoltezza perché ciechi nella
propria analisi della vita e, soprattutto, chiusi nel proprio
godimento egoistico del presente (2,1.21). All’ignoranza si
aggiunge la cattiveria e l’infedeltà; l’autore del libro, con­
formemente alla tradizione dei sapienti, non scinde l’etica
dalla religione: il malvagio è anche l’infedele, l’apostata
che, sedotto dalla cultura dominante dell’ellenismo, si al­
lontana dalla fede giudaica. Il capo d’accusa contro l’em­
pio è la negligenza nei confronti del «giusto»: cioè sia la
mancanza di cura nei confronti dei giusti (orfani, vedove,
anziani: 2,10) che hanno anche sbeffeggiato e condannato
a morte (2,19-20), sia l’avere trascurato ciò che è giusto,
cioè la giustizia. Questo secondo riferimento più ampio
che considera dikatou («giusto») come neutro ben si rial­
laccia al disprezzo per la sapienza e l’educazione (sebbene
non sia da escludere anche il riferimento alla figura concre­
ta del giusto) del v. 11.
11. L’autore sembra citare direttamente Pr 1,7: «Il timore del
Signore è principio della scienza; sapienza e disciplina sono di­
sprezzati dagli stolti». La natura pedagogica della sapienza, se­
condo i maestri in Israele, si rivela nell’ammaestramento co­
stante dell’uomo affinché impari l’arte del vivere, apprendendo
e applicando i dettami che gli giungono tramite la bocca dei
maestri e della stessa Sapienza in persona. Nel nostro brano
questa pedagogia potrebbe, in aggiunta a ciò, richiamare quan­
to annunciato in Sap 3,5: gli empi non hanno capito la portata
sapienziale della sofferenza che, al contrario, i retti hanno sapu­
to vivere e orientare al Signore. Si riafferma, per l’ennesima vol­
ta, l’ottusità colpevole di questi soggetti che sono schiavi della
propria stoltezza. Pertanto, se la speranza dei giusti è piena
d’immortalità, quella degli empi è vuota (kené) così come essi
stessi palesano nelle loro insensate e fallaci macchinazioni:
«Breve e triste è la nostra vita, il rimedio non sta nella fine
dell’uomo, né si conosce qualcuno che sia tornato dagli inferi»
(Sap 2,1).25 Nell’asserire che le opere degli empi sono infrut­
tuose (3,1 lb), si stabilisce il primo legame con la seconda con­
trapposizione del capitolo, quella tra sterilità e fecondità (w.
13-19): è preferibile un giusto che non ha materialmente la pos­
sibilità di procreare (la sterile e l’eunuco) ma che ha vissuto nel­
la fedeltà, perché godrà di quanto ha seminato su questa terra,
all’empio di cui non resterà neppure memoria.
12. Il secondo rimando ai w. 13-19 si incentra nuovamen­
te sulla fecondità e sulla posterità, il cui miglior commento è
consegnato in 3,16-19 a proposito della sorte sventurata dei
figli degli adulteri, categoria che qui possiamo considerare
prossima a quella più generica degli empi/stolti: «I figli degli
adulteri resteranno imperfetti e il seme di un’unione illegitti­

25 Le considerazioni sul vuoto «fanno parte della topica sull’empio [...]; queste spe­
ranze in Siracide 34,1 sono messe in parallelo con i sogni; la speranza degli empi è vuota,
vana come ogni sogno senza rispondenza alla realtà» (SCARPAT, Il Libro della Sapienza.
L 241).
ma sarà sterminato. Anche se avranno lunga vita, come cosa
da nulla saranno considerati e, infine, la loro vecchiaia sarà
senza onore. Se poi moriranno presto, non avranno speranza
né conforto nel giorno del giudizio, poiché triste è la fine di
una generazione ingiusta». L’oblìo, in una sorta di antigenesi
che dalla maledizione dei discendenti giunge a quella dei ge­
nitori, è l’unico esito di una condotta dissoluta.

3. Linee teologiche

a) La contrapposizione tra giusti ed empi. L’autore asserisce


che la sapienza (intesa sia come persona sia come virtù) porta
alla vita eterna e che, nonostante le beffe e le cattiverie degli
uomini, il giusto non verrà deluso nelle sue aspettative e sarà
esaudito, perché solo chi disprezza la sapienza e la disciplina
è infelice (3,11). Perseverare nella propria fede è sapienza:
essere denigrati, derisi, beffeggiati e perseguitati, può rende­
re l’esistenza cupa e perfino insopportabile. È più facile con­
vincersi che solo ciò che si vede e si tocca sia la realtà ultima
dell’uomo; più difficile è il tentativo di chi si sforza di scorge­
re orizzonti più ampi per sé e per il mondo intero. Il saggio
incoraggia tale ricerca consegnando la speranza della vicinan­
za divina esperita già su questa terra, per goderne - piena­
mente - dopo la morte, ed esortando ad attendere con fidu­
cia la prossimità e l’accessibilità della Sapienza: «facilmente è
conosciuta da quanti la amano e si lascia trovare da quanti la
cercano» (6,12).
L’autore del libro della Sapienza risponde, perciò, a quelle
categorie di persone che negano la trascendenza dell’uomo,
perseguendo un’antropologia materialista e nichilista ante lit­
teram.26

26 Cfr. G ilbert , La Sapienza del cielo, 213-216.


- Egli sembrerebbe rispondere a distanza a Qoelet, il quale resta
neirorizzonte di questo mondo terreno, sebbene anche
quest'ultimo affermi che «lo spirito torna a Dio che lo ha da­
to» (Qo 12,7). A questa considerazione se ne aggiunge una se­
conda: l'assenza di citazioni dirette del libro di Qoelet nel te­
sto della Sapienza. Non sembra essere, dunque, il Qoelet l'in­
terlocutore principale.
- Sotto le spoglie degli empi si possono nascondere i sadducei;
d'altronde è bene ricordare che solo pochi decenni separano il
testo di Sapienza dalla venuta di Gesù e che questo gruppo re­
ligioso, al contrario dei farisei, respinge l'idea della risurrezio­
ne (cfr. Le 20,27). Tuttavia, gli empi del libro della Sapienza
disobbediscono alla propria educazione giudaica e trasgredi­
scono la Legge (il giusto «ci è molesto, si oppone alle nostre
azioni, ci rinfaccia le trasgressioni della legge e ci rimprovera
le trasgressioni contro l'educazione da noi ricevuta»: Sap
2,12). Questo rende poco credibile l'accostamento con i sad­
ducei. Inoltre non risulta che costoro professassero aperta­
mente l'edonismo e il materialismo.
- Neppure gli epicurei - che predicano il sensismo (la sensazio­
ne è il criterio di verità) e il semi-ateismo (gli dèi esistono ma
sono praticamente ininfluenti nel governo del mondo) - sem­
bra che possano essere identificati con gli empi: essi, infatti,
predicavano l'ataraxia, cioè l'imperturbabilità, e non l'accani­
mento contro i poveri e i giusti. La loro fisionomia, si distan­
zia, perciò, da quella tratteggiata nel libro.

Forse, in conclusione, quando Fautore parla degli empi, non


rinvia a una categoria specifica, generalizzando il riferimento e
consentendo in questo modo ai lettori di ogni tempo di fare
un'applicazione attualizzante del messaggio: chi si preclude il
rapporto con Dio e ostacola coloro che credono nella ricompen­
sa che viene donata a chi spera nella vita eterna, costui è lontano
dalla strada che conduce alla Sapienza. Anzi: Farroganza con la
quale ci si beffa del giusto, sarà ampiamente ripagata dall'inter­
vento di Dio che conosce e visita coloro che Egli ama.
Lo stesso discorso si deve fare per il giusto (dikàios): an­
che se nulla vieta l’accostamento con il sofferente dei Sai 2 e
22 o con il Servo di Yhwh di Isaia (Is 52,13-53,12), resta il
fatto che i contorni anticotestamentari del giusto - non trop­
po distanti dalla figura del Cristo sofferente che confida nel
Padre, attestato dagli scrittori del Nuovo Testamento - ri­
mangono generici. Possiamo dire, perciò, che «il giusto com­
prende diverse categorie di persone: il povero, la vedova, il
vecchio; a partire dal c. 3 si parla sempre di “giusti”, al plura­
le; il giusto è figlio di Dio (2,18): nel libro della Sapienza il
termine “figlio di D io” designa sempre il popolo di Dio
(18,13 ed Es 4,22); il giusto qui è un personaggio tipico rap­
presentando il popolo credente d ’Israele rimasto fedele e
perseguitato da quelli che hanno apostatato».27
b) La vita oltre la morte per le anime dei giusti28. L’autore
di Sapienza fa intravedere un orizzonte ultraterreno come
nessuno dei sapienti aveva ancora fatto. Sin dal primo capito­
lo menziona l’empio (asebés) e mette in guardia dalla sua
cattiveria annunciando un giudizio sulla sua condotta (Sap
1,9). Gli empi, infatti, insidiano la vita dei giusti e la ostacola­
no; non conoscono i segreti di Dio e non attendono da Lui
alcuna ricompensa. L’autore ha in mente degli individui che
non credono nella vita ultraterrena e che, anzi, con animo
sprezzante invocano su di sé la morte (2,1). La valutazione fi­
nale sulla vita umana è la seguente: «Per caso siamo nati e
dopo morte saremo come se non fossimo stati: fumo è il sof­
fio nelle nostre narici e la parola è una scintilla nel palpito
del nostro cuore, spenta la quale, il corpo diventerà cenere e
lo spirito si disperderà come aria leggera» (2,2-3). Gli empi si
sprofondano in questi pensieri perché sono incapaci di una
lettura veritiera della realtà: a uno sguardo superficiale ere-

27 BONORA, «Libro della Sapienza», 106.


28 Molti rimandi di queste pagine sono a quanto ho scritto in: Dove abita la Sapienza?>
59-68.
dono, erroneamente, che la morte sia l’unica sorte per gli uo­
mini. Hanno un deficit di conoscenza, di speranza e di fede
(2,22) e per tale motivo si pongono nell’impossibilità di spin­
gersi oltre l’orizzonte terreno, perdendo di vista che le anime
dei giusti sono, invece, custodite dal Signore. «Essere nelle
mani di Dio» (3,1) significa sapersi da lui protetti e ricevere
nell’aldilà, in cambio delle persecuzioni terrene, grandi bene­
fici. Dio, infatti, esegue Yepiskopé (3,7): è colui che saggia e
sorveglia, che si premura di non lasciare cadere invano nes­
suna lacrima dei giusti sovvertendo, in questo modo, la per­
versa logica di quanti hanno perpetrato il male. La sofferenza
si rivela - come in fondo per Giobbe e Siracide - nel suo va­
lore purificatorio: essa raffina come il crogiuolo per fare ri­
splendere l’oro più fino (3,6).
L’autore utilizza il termine «anime» - psychài - non asse­
rendo nulla circa i corpi dei giusti. Evidentemente qui non si
allude alla risurrezione dei corpi ma alla vita oltre la morte:
l’Antico Testamento non concepisce ancora questa verità,
che sarà pienamente rivelata nel Nuovo Testamento. Tutta­
via, in altri tre luoghi dell’Antico Testamento (Dn 12,2-3;
2Mac 7,23; 12,43) - riconducibili al II secolo a.C. - si attesta
la fede esplicita nella risurrezione, sebbene gli autori non svi­
luppino ampiamente questa dottrina teologica, omettendo di
precisare i tempi e i modi della sua attuazione. Dichiarare in
Sap 3,4 che la speranza delle anime giuste è piena d ’immor­
talità (athanasm) significa professare la sussistenza - oltre la
morte fisica - di una dimensione della vita umana, quella
«psichica». Non si accenna alla sorte dei corpi postulando,
senza ulteriori specificazioni, l’incorruttibilità (aphtharsta)
dell’uomo pio e devoto e cioè la sua amicizia con Dio, men­
tre gli empi sono annoverati tra coloro che fanno esperienza
della morte (2,24). «L’uomo diventa un’immagine dell’eterni­
tà divina ed è destinato a condividere l’esistenza indefettibile
del Dio eterno o è chiamato, attraverso la sua anima, ad esse­
re immagine, un riflesso di Dio (cf Gen 1,26), anche se non è
chiaro in che senso ciò debba avvenire».29 Per G. Scarpat, in­
fatti, in Sap 3,4 non c’è alcun rimando all’immortalità comu­
nemente intesa ma solo alle realtà immortali, cioè le promes­
se divine; se esiste un rimando all’aldilà è in rapporto alla
menzione della visita divina in cui il Signore premierà i giusti
e punirà gli empi (3,1.7.18).30
c) La natura spirituale della Sapienza. La riflessione dei sa­
pienti giunge, in questo scritto greco, a una constatazione
che a Qoelet sarebbe sembrata assurda. Questi, infatti, seb­
bene non asserisca l’irraggiungibilità della Sapienza, non ne
attesta neppure l’immediata accessibilità sottolineando la fa­
tica legata alla sua acquisizione. In Sapienza, invece, si affer­
ma serenamente che «chi si leva per essa di buon mattino
non faticherà e la troverà seduta alla porta» (6,14). C ’è di
più: ella stessa va in cerca di quanti sono degni di lei, appare
loro ben disposta per le strade, va loro incontro con ogni be­
nevolenza (6,16). Nel piccolo brano di 6,17-20 si inanella una
serie di immagini concatenate attraverso la figura retorica del
sorite: la ripetizione dell’ultima parola del primo emistichio
permette il passaggio a quello successivo, formulando una
catena ascendente che sfocia in una conclusione teologica, in
base alla quale l’amore per l’istruzione (paideias agape: v. 17)
porta a Dio: principio della Sapienza «è un sincero desiderio
di istruzione; la cura per l’istruzione è amore; l’amore è os­
servanza delle sue leggi; il rispetto delle sue leggi è garanzia
di incorruttibilità e rincorruttibilità ci fa stare vicini a Dio:
così il desiderio della sapienza conduce al regno».
Dio non è la divinità imperscrutabile e a tratti ostile di
Giobbe e di Qoelet: egli si manifesta pienamente attraverso

29 E. D e l l a C o r t e , « L 'afthama nel libro della Sapienza», in C . M a r c h e s e l l i -C a sa l e


(ed.), Oltre il racconto. Esegesi ed ermeneutica: alla ricerca del senso, D ’Auria Editore, N a­
poli 1994,70.
30 Cfr. SCARPAT, Libro della Sapienza. J, 208-218.
la Sapienza. Tra Sophia e Theós c’è un rapporto di mutua do­
nazione: la prima rende amici di Dio e questi non ama se non
chi possiede la sapienza (7,27-28). Sembra che l’autore del li­
bro voglia offrire una risposta a tutti coloro che si sono av­
venturati alla ricerca del volto di Dio e che sono stati frustra­
ti, in questo loro anelito, perché la divinità è rimasta inacces­
sibile. In questo testo si consegna una risposta al mistero del­
la non piena conoscibilità del divino: dalla constatazione che
quanto più Dio è messo alla prova dalla superbia conoscitiva
degli uomini tanto più si ritrae («I ragionamenti distorti se­
parano da Dio; l’onnipotente, messo alla prova, caccia gli
stolti»: 1,3), deriva la consapevolezza della piccolezza umana
che non riesce neppure a farsi un’idea esaustiva delle realtà
che cadono sotto i suoi sensi («A stento ci raffiguriamo le co­
se terrene e con fatica comprendiamo quelle che sono a por­
tata di mano; ma chi potrà rintracciare le cose celesti?»:
9,16), e si giunge alla conclusione che il percorso sapienziale
è di natura spirituale: «Chi avrebbe potuto conoscere il tuo
consiglio, se tu non gli avessi dato la sapienza e non gli avessi
inviato dall’alto il tuo santo spirito?» (9,17).
d) La rilettura sapienziale dell’esodo. Come segnalato, i cc.
10-19 sono un midrash riferito agli avvenimenti narrati nei li­
bri dell’Esodo e dei Numeri, il cui punto di partenza è che la
Sapienza ha liberato il popolo santo da una nazione di op­
pressori (10,15). L’autore sviluppa la sua riflessione teologica
muovendo dall’episodio delle piaghe d’Egitto e affrontando
con estrema libertà i racconti esodali, non preoccupandosi di
rimanere fedele alle tradizioni bibliche: le completa o, al con­
trario, elimina alcune loro parti, le abbellisce secondo le ne­
cessità o impone loro un senso nuovo. Per esempio: in 18,20
si ricorda la morte dei membri del popolo di Dio in riferi­
mento alla rivolta di Core, Datan e Abiram (Nm 17,6-15; cfr.
anche Nm 16,2.35), omettendo il ricordo del motivo che cau­
sò la strage, cioè la ribellione del popolo contro Mosè e
Aronne (Nm 17,6-10). Oppure: nel c. 17 si riferisce la piaga
delle tenebre esagerando iperbolicamente la reazione degli
Egiziani e dei loro maghi che sono impotenti davanti a un si­
mile prodigio; essi si spaventano senza ragione come tormen­
tati da fantasmi mostruosi (Sap 17,14) e sono atterriti e con­
fusi al rumore del passaggio di animali che non riuscivano a
vedere a causa delle fitte tenebre (Sap 17,17-18).
Lo scopo della memoria e della rielaborazione del passato
è mostrare l’agire divino a favore del suo popolo, ricavando
una lezione di fede e di speranza per il presente. Il paralleli­
smo tra le sette catastrofi che si abbatterono sugli uomini del
faraone e i sette benefici che, invece, il Signore concedeva a
Israele, mira precipuamente a rinsaldare la fiducia nel giudi­
zio di Dio (l’acqua imbevibile del Nilo/l’acqua dalla roccia
per Israele: 11,4-14; le rane/le quaglie: 16,1-4; le cavallette e
le mosche/il serpente di bronzo: 16,5-14; la grandine e i ful-
mini/la manna: 16,15-29; le tenebre/la luce: 17,1-18,4; la
morte dei primogeniti/la salvezza degli Israeliti nel deserto
per mano di Aronne: 18,5-25; l’annegamento nel mar Rosso/
il passaggio all’asciutto: 19,1-9). Tale giudizio ha un valore
escatologico: «D i qui a pensare che per l’autore di Sapienza
l’esodo che salvò i giusti sia il prototipo di ogni azione salvifi­
ca, non c’è che un passo; l’esodo, siccome evento fondatore
d ’Israele, prefigura ogni azione salvifica del Signore, anche al
termine della storia».3132
e) La difesa della fede giudaica?2 In quest’epoca in cui re­
gnano i Romani, sotto l’imperatore Augusto, ai giudei è con­
cesso di mantenere una comunità autonoma retta dalla legge
dei padri, conformemente alla politica conciliante dell’impe­
ratore verso tutti i popoli sottomessi.

31 G il b e r t , La Sapienza del cielo, 238.


32 Per questo paragrafo rimando a: M.-F. BASLEZ, «Uambiente della Sapienza e l’am­
biente colto di Alessandria», in G. BELLIA - A. PASSARO (edd.), Il Libro della Sapienza.
Tradizione, redazione, teologia, Città Nuova, Roma 2004,47-66.
In un simile ambiente, in cui la grecità sembrava avere il
sopravvento, una serie di fattori culturali e religiosi inducono
l’autore di Sapienza ad affermare la necessità di restare anco­
rati alla legge dei padri e a ribadire l’urgenza della conversio­
ne da parte dei pagani nell’unico Dio degli Ebrei. Egli non
condivide il filo-ellenismo tra i giudei di Alessandria, con­
danna l’idolatria, sotto le sue varie sembianze, perché incon­
ciliabile con l’osservanza della Legge. Culti vari (degli anima­
li e delle immagini), pratiche selvagge delle religioni misteri­
che che avrebbero previsto sacrifici umani, conflitti interetni­
ci, xenofobia verso i giudei trattati dagli Egiziani come un
popolo servile senza diritti, degrado di status successivo
all’instaurazione del dominio di Roma: in questa situazione
complessa l’autore del libro prende di mira l'élite socio-cul­
turale di Alessandria, quanti si formano al Ginnasio e gli in­
tellettuali del Museo. L’autore di Sapienza rinvia in particola­
re alla prassi tipica dell’ambiente colto di Alessandria, l’eroi-
cizzazione dei defunti giovani, per affermare che la vera im­
mortalità sta nella virtù e non nei figli.
Un altro spaccato dell’ambiente alessandrino, presentato
all’inizio del libro della Sapienza (1,16-2,9) è legato all’impe­
gno nelle associazioni conviviali; la burla faceva addirittura
parte dell’educazione che si riceve al Ginnasio. In queste as­
sociazioni si mescolava la serietà al riso, alla chiacchiera, al
comportamento derisorio. Sotto le vestigia di feste religiose,
si beveva, ci si azzuffava e si faceva anche politica in un’at­
mosfera dionisiaca. L’autore di Sapienza procede a un attac­
co diretto (14,23) di iniziazioni fatte con l’omicidio rituale di
un bambino, di pratiche misteriche, di cortei in trance (tratto
rilevante, quest’ultimo, della religione dionisiaca); in 12,3-7
c’è l’allusione all’antropofagia sacra e all’omofagia (la consu­
mazione di carne cruda). Si critica questo fenomeno per ra­
gioni teologiche e morali, poiché costituiscono un illusorio
polo d’attrazione, un divertimento che impedisce di prende­
re la vita sul serio: opponendo religione e cultura, lo pseudo-
Salomone getta lo stesso biasimo su Alessandrini e giudei che
appartengono a questi circoli.
Sembra che il giudizio contro il dionisismo si inserisca in
un contesto più ampio caratterizzato da un crescente fascino
esercitato dalle immagini: sia che si tratti del culto del sovra­
no o di un giovane defunto, l’immagine è diventata il riflesso
del divino.33

Bibliografia di riferimento e di approfondimento

ALONSO S c h o k e l A .,Eclesiastes y Sabidurìa, Cristiandad, Madrid


1974.
B e l l ia G. - A. PASSARO (edd.), Il libro della Sapienza. Tradizione,
redazione, teologia, Città Nuova, Roma 2004.
GILBERT M La Sapienza di Salomone, Apostolato della Preghiera,
Roma 1995.
LARCHER C ., Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de Salomon, 3 voli.,
Gabalda, Paris 1983-1985.
SCARPAT G ., Il Libro della Sapienza, 3 voli., Paideia, Brescia 1989-
1992.
SlSTl A., Il Libro della Sapienza, Porziuncola, Assisi 1992.
VlLCHEZ LlNDEZ J ., Sapienza, Boria, R om a 1990.
WINSTON D., The Wisdom of Salomon. A New Translation with In-
troduction and Commentary, Doubleday, New York 1979.

33 Ueffige imperiale era vista come sostitutiva della presenza del sovrano ed era in gra­
do di compensare la sua assenza (14,17); aveva funzione taumaturgica (14,28) e veniva
sempre più idolatrata. L’autore di Sapienza evidenzia anche la pratica di portare in viag­
gio con sé un’immagine divina (14,1) o statuette, medaglie, cappelle portatili. Tale usanza
era penetrata anche in certi ambienti giudaici.
ITINERARI TEOLOGICI.
«TEMI DIO E OSSERVA I COMANDAMENTI»
(Qo 12,13)

Ricapitoliamo le tematiche che percorrono, in maniera tra­


sversale, gli scritti sapienziali che abbiamo analizzato. Questo
richiamo teologico permette di individuare alcune piste at­
torno alle quali tentare una sintesi dell’ampia tradizione di­
dattica dell’Antico Testamento.

1. La pedagogia dei saggi

Quale l’intenzione formativa animava i sapienti della co­


siddetta «Pentapoli sapienziale» (Proverbi, Giobbe, Qoelet,
Siracide e Sapienza)?1 Quale scopo volevano raggiungere nei
loro testi educativi?
Anzitutto bisogna tenere presente che i sapienti erano de­
gli intellettuali desiderosi di conoscenza (cfr. Qo 1,13-14); la
connotazione semantica della radice verbale y d ‘ (conoscere)
e del sostantivo d a ‘at (conoscenza/sapere) esprime l’attività
di ricerca e di investigazione dei maestri nei confronti della
ìiokmàh (sapienza). A questa dimensione «scolastica» se ne
affiancano altre due che ad essa sono inscindibilmente legate:
quella religiosa e quella relativa alla sapienza pratica, perché i
sapienti erano educatori che insegnavano il giusto modo di

1 L’espressione, come indicato nella premessa, è adoperata per la prima volta da L.


A l o n s o S c h ò k e l - J. V I l c h e z LlNDEZ, I Proverbi (Commenti Biblici), Boria, Roma
1988, 17.
vivere. Non erano dei moralisti autoritari o istitutori preoc­
cupati solo di trasmettere o imporre una dottrina. Lo scopo
dei sapienti è la formazione e l’educazione per consentire al
discepolo una maturità umana equilibrata. «In linea con i
saggi d’Israele, Ben Sira trasmette alle generazioni future la
sua esperienza, il suo sapere e la sua religiosità», asserisce N.
Calduch-Benages a proposito di Ben Sira ma si può applicare
anche ai maestri in genere, «in un linguaggio sempre rispet­
toso della libertà umana, cioè per mezzo di osservazioni, ri­
flessioni, consigli e suggerimenti; la scuola del saggio si di­
stingue, quindi, per un clima di totale libertà, sia da parte di
colui che insegna che di colui che riceve l’insegnamento».2
Possiamo dire che è la felicità del discepolo l’obiettivo che
gli ammaestramenti vogliono conseguire, una felicità che non
disgiunge l’aspetto intellettuale da quello pratico-morale e da
quello religioso. Per i sapienti, infatti, colui che comprende
la sapienza è anche colui che pratica il bene e cammina retta-
mente, così che il dotto non può che essere anche il giusto.
Lo stesso dicasi in rapporto alla fede ebraica: il saggio è an­
che religioso e «pio», mentre lo stolto è anche «em-pio».
Non c’è spazio nella tradizione sapienziale per un intellettua­
lismo etico e religioso.
Per realizzare l’obiettivo generale appena formulato, di­
venta necessaria la maturazione di una sana criticità nei con­
fronti del «senso comune»; la stoltezza va a braccetto con
l’ingenuità e se lo sprovveduto non scorge il pericolo lascian­
dosi ammaliare dalle proposte allettanti dei cattivi, il sapiente
è ispirato da un sano realismo critico verso se stesso: «L a via
dell’empio è diritta ai propri occhi, ma chi ascolta il consiglio
è saggio» (Pr 12,15). Anche davanti al mistero di Dio il sag­
gio deve essere accorto e parco nelle parole per non essere
stoltamente precipitoso: «Bada ai tuoi passi, quando ti rechi

2 N . CALDUCH-BENAGES, « L a relazione m ae stro -d isce p o lo in B en S ira », in Parole, Spi­


rito e Vita 61, 2010, 60.
alla casa di Dio; avvicinarsi per ascoltare vale più del sacrifi­
cio offerto dagli stolti che non comprendono neppure di fare
male» (Qo 5,1).
Questa consapevolezza religiosa non porta a distogliere lo
sguardo dall’esperienza: anzi, essa è maestra di vita perché
dalle sue multiformi espressioni giunge un insegnamento cir­
ca le relazioni individuali e sociali, il mondo degli animali e
delle piante (cfr. IRe 5,13), il susseguirsi delle stagioni, le bel­
lezze del creato narrano (Sir 42,15-43,33; Sai 19) la sapienza
del Creatore diffusa sulle sue opere. L’uomo che il saggio ha
in mente sa cogliere, tramite le sue facoltà e mediante l’istru­
zione, questa lezione sapienziale della vita.
Abbondano, così, nelle opere dei saggi, i verbi di esperien­
za: vedere, esplorare, cercare, riflettere, applicare alla mente
e al cuore, volgersi, udire, constatare. È importante sottoli­
neare che il sapere acquisito in questa maniera non è mai
concluso e definitivo; il bagaglio già indagato rimette in di­
scussione e aggiorna quanto già sedimentato. Il processo au­
tocorrettivo di apprendimento avanza sempre, poiché la sa­
pienza non è una realtà fissata una volta per tutte ma è un
iter dinamico.
I contenuti didattici non riguardano la sola sfera enuncia­
tiva ma si trasmettono anche attraverso una modalità che
possiamo chiamare esistenziale; la vita stessa dei maestri è la
prima lezione che i discepoli devono apprendere: attraverso
di essa la sapienza transita e raggiunge l’educando, in quanto
l’esempio dei maestri si offre come modello antropologico a
cui guardare e a cui ispirarsi. La relazione maestro-discepolo
crea, così, le condizioni per raggiungere quella maturità e
quella felicità a cui gli insegnamenti stessi tendono. Questo
ruolo della guida non fa del discepolo una semplice mario­
netta nelle sue mani ma, al contrario, lo educa a una sana
consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità:
il saggio non è il dispensatore di soluzioni preconfezionate né
il discepolo è un semplice receiver passivo (come emerso
dall’analisi di Pr 2).
L’educazione sapienziale, che è guidata da quello che è
stato indicato come «ottimismo epistemologico»,3 fa leva sul­
le capacità di apprendimento dell’educando e, allo stesso
tempo, sulla sua capacità di tradurre in pratica morale quan­
to appreso. Tale progetto educativo mira all’acquisizione da
parte del discepolo di scelte libere, pur nella consapevolezza
delle difficoltà e delle insidie della vita. L’accompagnamento
spirituale del saggio è garanzia ed espressione di una maturi­
tà umana e religiosa possibile: l’apprendimento per imitazio­
ne del modello, dunque, esprime la finezza pedagogica dei
saggi che, consci del loro ruolo etico, traducono la volontà di
Dio in insegnamenti di vita.

2. L’educazione: tra paideia e fede

Esiste uno stretto legame tra le parole dei sapienti e la di­


mensione religiosa che queste implicano. Evidenziamo le di­
namiche di questo rapporto e le conseguenze per la forma­
zione degli allievi.

2.1. Intelligenza e potenziale pedagogico

Le conoscenze alle quali il sapiente introduce non sono


immediatamente disponibili. Al discepolo è richiesto il di­
spiegamento di tutte le sue facoltà: intelligenza, volontà e
memoria sono deputate all’apprendimento e alla custodia
«cordiale» delle istruzioni. L’elenco dei sostantivi e dei ver­
bi raccolti nel prologo di Proverbi (1,2-8) è direttamente

3 MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 35.


connesso con la sfera intellettiva, perché essere saggi signi­
fica - almeno nei primi passi del processo formativo - di­
sporsi alla massima apertura di mente. Tuttavia, il rischio
della presunzione e deirautosufficienza è reale. Per tale mo­
tivo con sana prudenza pedagogica si consiglia: «Confida
nel Signore con tutto il tuo cuore e non affidarti alla tua in­
telligenza» (Pr 3,5).
Al pari dell’uomo forte e del ricco, colui che possiede un
cospicuo bagaglio di conoscenze può essere distolto dal cor­
retto rapporto di fede, cadere nella vanagloria e insuperbirsi;
l’abbondanza di cose e/o di potere porta con sé una perico­
losa ebbrezza: ciò spiega perché in Proverbi si raccomandi
l’immunizzazione da tale atteggiamento attraverso la fiducia
in Dio (Pr 16,20; 28,25; 29,25), ricetta che è prescritta anche
nel Salterio (Sai 4,6; 9,11; 31,7.15; 55,24; 84,13) e in altri testi
della tradizione profetica (Ger 9,22-23; cfr. anche 17,5.7;
39,18; Is 12,2; 50,10).
Il saggio non sponsorizza di certo l’affievolimento menta­
le, anche perché la stessa intelligenza proviene dal Signore
(Pr 2,6); tuttavia, diffida prudentemente delle proprie capa­
cità orientando verso una maggiore auto-coscienza, per un
vero discernimento di ciò che veicola reale sapienza e benes­
sere da ciò che, al contrario, porta con sé solo piacere illuso­
rio e passeggero. Con T. Frydrych si può affermare che, «a
dispetto del riscontro relativo ai limiti dell’umana abilità,
Proverbi in genere è più che ottimista sulle potenzialità uma­
ne e, all’interno del mondo assoggettato all’ordine divino, la
vita àéX'homo docilis è concepita in termini lineari, come
progressiva continuità. La sapienza e la rettitudine promuo­
vono l’avanzamento e facilitano il successo; la stoltezza impe­
disce il progresso nella vita e conduce alla caduta e alla
perdita».4

4 T. FRYDRYCH, Living under thè Sun. Examination of Proverhs and Qohelet (VTS 90),
Brill, Leiden-Boston-Kòln 2002,129.
Lo snodo cruciale del rapporto che lega la paideia sapien­
ziale alla fede in Dio si individua nella seconda istruzione del
libro dei Proverbi, e precisamente in 2,5. In questo testo si
nota il parallelismo tra le due espressioni: yir ’at Yhwh («ti­
more del Signore») e d a'at ’élóhim («conoscenza di Dio»).
Come sopra indicato, nel lungo exordium (w. 1-11) il padre­
maestro mira a inclinare il cuore del figlio-discepolo all’acco­
glienza dei suoi precetti, formulando un esteso periodo ipo­
tetico che esplicita i vantaggi derivanti da tale acquisizione.
In Proverbi il timore del Signore viene presentato come
l’inizio della sapienza (Pr 1,7) e suo fondamento (Pr 9,10),
ed è attorno a questa categoria positiva che si costruisce la
novità dell’educazione israelitica: essa include non solo la
traditio di una serie di regole pratiche ma anche l’afflato teo­
logico da cui tali regole derivano. Infatti, al timore di Yhwh
è legata anzitutto la vita dei fedeli (Pr 10,27; 14,27; 19,23), i
quali godono della pace che deriva da Dio anche in presenza
di avversità (Pr 23,17-18). Questo sentimento religioso esige
impegno in quanto è disciplina (musar. Pr 15,33) alla quale
è legata l’umiltà (Pr 22,4), la venerazione nei confronti di
Dio, unitamente all’obbedienza alla sua volontà. Inoltre, il
timore di Yhwh immunizza da ogni forma di auto-referen-
zialità (Pr 3,5).
In Pr 2,5 si esplicita che questa sapienza teologale è allo
stesso tempo frutto delle parole del saggio. L’espressione
da 'at ’élòhim e la comprensione del legame con il timore di
Yhwh, può aiutare a comprendere, come già evidenziato
nell’esegesi, il senso di questa sapienza che viene dall’alto,
poiché la rara formula d a'at ’élòhm (Os 4,1 e 6,6) esprime la
conoscenza di Dio, ispirata a lealtà, radicata nella vita inte­
riore del credente. Vale a dire che se in Pr 1,7 i termini yir’at,
yhwh e da'at si introducono senza ulteriori spiegazioni, in
Pr 2,5 la conoscenza (da'at) è presentata come il frutto del ti­
more (yir’at), cioè del rapporto affettivo/reverenziale verso
Dio. Si può asserire, cioè, che il timore di Yhwh non è tanto
(o solo) «sentito», quanto (o anche) «compreso» (byn) grazie
alla sapienza, che l’educazione trasmette. Pertanto, il paralle­
lismo tra yir’at yhwh e da'at ’éldhim non è puramente sinoni­
mico, in quanto il secondo sintagma aggiunge al primo una
più ampia dimensione cognitiva, alludendo a una conoscenza
critica del divino che proviene da Dio stesso. Nel v. 5, dun­
que, si attesta - secondo il pensiero di A. Mùller - un nuovo
concetto di sapienza5 che introduce a un livello successivo di
comprensione della realtà umana e presa di coscienza del mi­
stero divino.

2.3. La riscoperta della propria umanità

Nel settimo capitolo del libro della Sapienza l’autore pre­


senta la preghiera per ottenere la sophia (w. 7-30), brano
preceduto da ima dichiarazione dello stesso sovrano sugli ini­
zi della propria vita (w. 1-6) in cui si richiama il legame car­
nale con Adamo, il primo uomo, menzionando quelle azioni
che nella loro ordinarietà costituiscono il patrimonio di ogni
essere umano: essere il frutto di un’unione d ’amore dei pro­
pri genitori, respirare, piangere, essere accudito e allevato.
L’inizio e il termine di ogni vita sono identici e questa con­
sapevolezza deve albergare soprattutto nel cuore e nella men­
te di chi, come il sovrano, è chiamato ad esercitare potere e
autorità sul popolo, perché, come si legge in Dt 17, reale e
insidioso è il rischio di assolutizzare se stessi. E bene non di­
menticare che l’autore del libro della Sapienza sa bene che la

5 Cfr, A. MOLLER, Proverbien 1-9. Der Weisheit neue Kleider (BZAW 291), Walter de
Gruyter, Berlin-New York 2000,57; si veda il capitolo «The Development of thè Concept
of Wisdom», in R.N. WHYBRAY, Wisdom in Proverbs, 72-104.
storia d ’Israele e di Giuda è costellata di regnanti infedeli, i
quali invece di pascere il popolo hanno preferito fare i propri
interessi perdendo di vista la missione loro affidata.
L’inedita «modernità» di queste considerazioni si ritrova
anche in G b 31,13-15, testo in cui Giobbe pone sullo stesso
piano la propria esperienza con quella degli schiavi. Il saggio
sofferente recepisce il dato antropologico genesiaco dell’esse­
re immagine somigliante di Dio e lo esplicita - è questo il
proprium - all’interno delle relazioni sociali. La domanda sul­
la natura dell’uomo e sulle sue potenzialità è, in fondo, la
grande conquista di Giobbe, il quale se davanti al suo dolore
si interroga sul senso dell’essere mortale («Che cosa è l’uomo
perché tu lo consideri grande e a lui rivolga la tua attenzio­
ne?»: Gb 7,17), può attingere nuova luce sulla propria iden­
tità solo dal rinnovato confronto con Yhwh il quale, seppur
misteriosamente, educa anche attraverso la sofferenza: «Io ti
conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno
veduto» (Gb 42,5).

In conclusione possiamo dire che il rapporto tra paideia e


fede si sviluppa attorno a un triplice processo. Il primo è di
formalizzazione didattica: attraverso la parola umana si fa stra­
da quella divina. La seconda, sotto le spoglie della prima, si of­
fre come istruzione parentale, ammaestramento morale e ri­
sposta di fede alle nuove domande legate al rapporto con Dio.
Tali interrogativi sorgono da una nuova visione dell’uomo e
del suo destino. A questo primo processo se ne affianca un al­
tro: la risemantizzazione della Legge. I sapienti non bypassano
la Legge ma le conferiscono nuovi significati in ordine alla pre­
sente emergenza educativa. Essi promuovono una morale delle
intenzioni cogliendo non solo l’oggettività della norma, ma an­
che la sua valenza soggettiva e le sue ricadute esistenziali (co­
me emerge dall’esame di coscienza di G b 31). Infine, il centro
attorno al quale prende fisionomia questa nuova morale è il
padre-maestro. Si assiste, cioè, a una fecalizzazione parentale
della trasmissione della fede. Il maestro si pone come la più si­
gnificativa agenzia educativa per le nuove generazioni, chiaro
punto di riferimento solido e chiaro al quale guardare per otte­
nere benessere religioso e sociale.

3. L’antropologìa dei sapienti

La lettura dei testi sapienziali si apre a innumerevoli riso­


nanze ermeneutiche ma, «la questione fondamentale della sa­
pienza potrebbe essere formulata nel seguente modo: che co­
sa è bene per l’uomo? L’essere umano costituisce il punto di
partenza, il fondam ento e il fine ultim o dell’im presa
sapienziale»6. Attraverso due autori (R. Vignolo e G. Bellia)
cercheremo di cògliere un aspetto, quello antropologico,
tratteggiato dal libro della Sapienza e da quello del Qoelet:
dall’interrogazione dei testi può emergere la ricchezza umana
tipica di questa tradizione biblica che concepisce l’uomo co­
me la migliore metafora per parlare di Dio.

3.1. La demitizzazione del potente

R. Vignolo offre un interessante saggio di esegesi su Sap


9,7 che già nel titolo pone in evidenza il tema della regalità e
il suo rapporto con la sapienza: «la Sapienza di Salomone -
così si esprime lo studioso - condivide e recupera l’idea di un
destino regale da Dio effettivamente attribuito all’uomo (Sai 8;

6 M o r l a Asenzio, Libri sapienziali, 69.


7 Cfr. R. VIGNOLO, «Sapienza, preghiera e modello regale. Teologia, antropologia,
spiritualità di Sap 9», in G. B e l l ia - A. P a ssa r o (edd.), Il Libro della Sapienza. Tradi­
zione, redazione, teologia, Città Nuova, Roma 2004, 271-300; rimando anche al mio:
«L a teologia e l’antropologia dei sapienti», in Rivista di Scienze Religiose 38(2005), 297-
302; 312-313.
Gen 1-2), nonostante la sua condizione mortale, in vista
delPimmortalità-incorruttibilità (Sap 2,23)».8 La funzione
della preghiera nel conseguire questa vocazione regale consi­
ste nel porre l’orante in una posizione favorevole all’acco­
glienza della divina sapienza; come Salomone in IRe 3,9 (cfr.
anche 2Cr 1) chiede a Dio un cuore che ascolta, discerne e
giudica rettamente (léb sòm èa‘), così in Sap 9 si domanda al
Signore la Sapienza per poter emettere un giudizio intelligen­
te (Sap 9,10-12).
In questo capitolo nono c’è una sottile polemica con l’an­
tropologia appartenente allo stoicismo, che rende incomuni­
cabili i protagonisti della relazione religiosa, cioè Dio e l’uo­
mo: la preghiera biblica, così, esprime, da un lato, la capacità
e il desiderio umano di auto-trascendersi; dall’altro, si mani­
festa come risposta libera di Dio che si auto-comunica al
mondo e all’uomo: «di qui la valenza davvero strutturale e
innovativa della dimensione orante, del fattore preghiera in
rapporto al modello antropologico».9
L’esegesi del brano della Sapienza offre, successivamente,
un allargamento di prospettiva attraverso un confronto tra
testi sapienziali accomunati dal tema della regalità; precisa-
mente, dopo uno sguardo alla «cifra regale» del Sai 8 e alla
domanda antropologica di G b 7 («Che è quest’uomo che tu
ne fai tanto conto?»: v. 17a), si intesse un confronto dialetti­
co tra la regalità e la finitezza dell’uomo in Sapienza (7-9) e
Qoelet (1-2): mentre in Qoelet la regalità è solo auto-illusio­
ne umana, in Sapienza è reale possibilità offerta da Dio
all’uomo. La domanda antropologica riecheggia in Qo 1,3
(«Che guadagno c’è per l’uomo da tutta la sua fatica per cui
si affatica sotto il sole?») in cui si assume una valenza econo-
micistico-utilitarista che fa trapelare la concezione della rega­
lità del sapiente; tale visione è viziata dall’eccesso di potere e

8 VlGNOLO, «Sapienza, preghiera e modello regale», 282.


9 Ivi, 284.
dall’ossessione del «troppo» concentrato nelle proprie mani.
Emerge una componente importante della psicologica del re:
egli è vittima della sua pretesa narcisistica e del suo desiderio
infantile di onnipotenza. Anche l’auto-narrazione del saggio
(Qo 1,12-18), che riflette il desiderio di rimuovere l’idea del­
la morte, tradisce i sintomi della «sindrome regale»: «quell’il­
lusione ossessiva e compulsiva, almeno virtualmente comune
a tutti gli uomini, di costruirsi un’immortalità con le proprie
mani».101La visione dell’autore del libro della Sapienza è dif­
ferente: nonostante la presenza della morte, la vera vocazione
dell’uomo rimane la regalità. La riflessione sulla morte non
conduce ad esiti negativi come in Qoelet; sin dall’inizio, in­
fatti, il re si immunizza dalla pretesa onnipotenza legata al
suo status e si “de-mitizza” raccontando la sua nascita in tut­
to uguale e identica a quella degli altri uomini (Sap 7,1).
R. Vignolo individua un sottile percorso tra la domanda
antropologica e la confessione antropologica nel libro della
Sapienza e in altri passi della Bibbia, facendo notare che a
fronte di una tradizione biblica che maledice la propria na­
scita (cfr. Ger 20,14-18; G b 3), fa da contraltare il più nutrito
filone che si muove nella linea dell’accettazione della vita co­
me dono (cfr. Sai 22,10-11; 71,6; 139,13; G b 31,18): se l’esito
della rimozione della morte porta in sé una riduzione antro­
pologica, l’accettazione realistica della mortalità umana com­
porta la serena confessione della propria dipendenza ontolo­
gica da un altro. Possiamo, perciò, concludere che «regalità e
mortalità sono coniugabili antropologicamente e politica-
mente in forza del dono della Sapienza e della sua supplica,
nonché in ragione della destinazione escatologica dell’uomo
all’eternità, all’incorruttibilità, all’immortalità».11

10 Ivi, 294.
11 Ivi, 299.
3.2. La cultualizzazione della parola in Qoelet

L’approccio di G. Bellia, secondo le sue parole, «vuole


tentare un’integrazione tra le scienze umane, la storia e l’ese­
gesi che, da qualche tempo e a mezza voce, comincia ad esse­
re tentata anche in ambito biblico».12 Dall’indagine sociolo­
gica G. Bellia ricava alcuni dati. Anzitutto emergono dal te­
sto alcune figure di specialisti socio-religiosi quali re, potenti,
sapienti, maestri, che non sembrano essere in relazione con­
flittuale tra di loro, come normalmente ci si aspetterebbe da
istituzioni forti. La non facile collocazione sociale del saggio
consente, al limite, solo di segnalare la sua emarginazione so­
cio-politica: egli è un uomo rispettato e stimato, ha al suo se­
guito discepoli, ma «la stoltezza occupa i posti elevati» (Qo
10,6). La narrazione che il saggio fa di sé rivela l’appartenen­
za alle classi superiori della società: solo chi ha sufficienti
mezzi di sostentamento può dedicarsi a tempo pieno allo stu­
dio e alla ricerca (Qo 1,12-13). La questione più difficile è
tracciare un quadro storico preciso e chiaro del tempo in cui
Qoelet scrive o del tempo a cui si riferisce. È qui che l’autore
propone la sua posizióne avallata dalla lettura antropologica:
la tipologia di questo sapiente è legata a una fase precisa di
transizione in cui il suo ruolo, già pubblico, va gradualmente
istituzionalizzandosi. Questa conclusione nasce dal variegato
materiale didattico che il libro presenta, rivelando una socie­
tà complessa e composita, vivace e innovativa, ricca e agiata.
Le parole del saggio, in un contesto così indefinito, si
muovono su due poli linguistico-concettuali: quello della va­
nità e quello del timore di Dio. Queste due idee-guida riman­
gono in costante tensione in Qoelet: la laicità delle afferma­
zioni sembra non contrastare i riferimenti religiosi, così come

12 G. B e l l ia , «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico-antropologico», in G.


BELLIA - A. P a ssa r o (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Paoline,
Milano 2001,172.
l’affermazione della «cultualizzazzione» della parola va a
braccetto con la ricerca teologica. Qui, secondo G. Bellia, va
ricercato lo spartiacque culturale e religioso che contraddi­
stingue la figura di Qoelet; si assiste, infatti, all’affermazione,
tipica della cultura greca, di una visione antropocentrica e
laica del mondo: «la desacralizzazione del potere regale e la
laicizzazione del sapere religioso andavano di pari passo ver­
so un modo di pensare, ormai affrancato dalle teogonie delle
origini, che non chiedeva all’uomo greco di trasformare la
natura ma, con la sua carica vitale, lo spingeva a cercare di
avere presa sugli altri uomini con l’unico strumento idoneo e
funzionale in quel contesto libero e paritario: la parola».13
La visione del mondo che appartiene al sapiente è, per
certi versi, capovolta in quanto non si guarda al mondo di
Dio e degli uomini dalla prospettiva religiosa che aveva ca­
ratterizzato la sapienza fino a quel momento, ma si pone in
termini più laici e realistici. Dove prima c’era pacifica accet­
tazione della volontà di Dio ora si pongono domande sul
perché del male, sulle sue logiche, sui suoi risvolti antropolo­
gici e teologici. Alle convenzioni teologiche semplicistiche
vengono ora sostituite le argomentazioni disincantate, che in­
crinano e rovesciano una visione del mondo troppo statica in
rapporto alle nuove esigenze e urgenze sociali. Se ne può ri­
cavare, perciò, che Qoelet, «uom o dell’assem blea», sia
espressione di una transizione legata al processo di «liturgiz-
zazione» della Parola nel culto sinagogale: egli svolgerebbe
un ruolo che va istituzionalizzandosi sempre più in continui­
tà con un certo giudaismo ufficiale ma aperto a stimoli nuovi.
G. Bellia, dunque, è a favore di una pluralità di correnti
all’interno del composito ambiente giudaico; se al centro, a
Gerusalemme, la teologia tradizionale segue i suoi percorsi,
in periferia nuove istanze e nuovi problemi generano nuove

» Ivi, 203-204.
spinte intellettuali, non facilmente conciliabili con la tradi­
zione ma rispondenti ai nuovi bisogni avvertiti dal popolo.
L’autore così conclude il suo saggio: «vero antidoto contro
ogni rinascente misologia religiosa ed etica, Qoelet avrebbe
disposto Israele ad accettare realisticamente il confronto lea­
le con le domande inquietanti e anticonformiste dell’elleni­
smo medio, stabilendo così le basi per una riflessione teologi­
ca in continuità con il proprio contesto religioso e insieme
aperta all’inevitabile lezione del tempo».14

3.3. L'uomo al centro della Bibbia

La discussione è ampia e non può esaurirsi in queste pagi­


ne. Mi sembra di poter dire che l’antropologia dei testi sa­
pienziali possa aiutare a ripensare in termini positivi il rap­
porto tra Antico e Nuovo Testamento; e ciò senza ridurre ne­
cessariamente il primo a semplice premessa del secondo. I te­
sti sapienziali si offrono come via percorribile che consente
di porre l’attenzione della ricerca biblica sull’umano: l’uomo
è l’unico criterio di unità attorno al quale fare sintesi, e se la
teologia biblica vuole offrire un reale contributo alla cono­
scenza del mistero di Dio, può indicare nell’antropologia la
sua via maestra.
Per dirla con E.S. Gerstenberger: «la questione di Dio è
un problema dell’umanità».15 L’autore individua le «costanti
antropologiche» dell’Antico Testamento che valgono ancora
oggi in quanto l’uomo è sempre lo stesso sotto tanti punti di
vista: «quel che è l’umano di sempre, concernente la gioia di
vivere e l’angoscia della vita, la responsabilità sociale e la fe-

M Ivi, 215-216.
15 E.S. G e r s t e n b e r g e r , Teologie nell'Antico Testamento. Pluralità e sincretismo della
fede veterotestamentaria (Introduzione allo studio della Bibbia Supplementi 25), Paideia,
Brescia 2005,321.
de religiosa, si esprime qua e là anche nei testi dell’Antico
Testamento, ma entro conformazioni e strutture culturali e
sociali diverse».161 libri sapienziali possono aiutare a cogliere
sfumature e significati che parlino al cuore e alla mente
dell’uomo (anche contemporaneo), perché attingono dal suo
nucleo più intimo.

4. La personificazione della Sapienza

Abbiamo già segnalato nel capitolo sui Proverbi che in Pr


1,20 e 9,1 compare il termine hokmót («sapienze»), che è un
sostantivo femminile plurale anche se i verbi sono accordati
al singolare. La presenza del plurale si può anche spiegare in
riferimento al ruolo della sapienza: tale forma permette di di­
stinguere la Sapienza personificata che parla in prima perso­
na dalla sapienza raccomandata dai maestri. Questa traccia
lessicale dice che la Sapienza personificata non deve essere
considerata come un attributo di Dio al pari, per esempio,
della misericordia. Inoltre, non sembra neppure essere un
semplice artificio letterario come la prosopopea.
Vediamo alcune ipotesi in rapporto a quanto si legge in Pr
8,30: «Allora io ero con lui come ’amóri ed ero la sua delizia
ogni giorno». Riguardo al significato da attribuire ad 'amóri:17

~Lordinatrice. I Settanta leggono harmózousa presupponendo


l’ebraico ’ammari (analogamente anche la Peshitta e la Vulgata
che riporta «cuncta conponens»); ’àmmàn ritorna anche in Ct
7,2 con il significato di «artista, artigiano». Molte traduzioni
moderne riportano, pertanto, «architetto» perché la Sapienza
era al fianco di Dio quando diede al mondo la sua struttura.

K ivi, 16.
17 Cfr. E D a l l a VECCHIA, «Saggio, consigliere e modello eterno (Pr 8,22-31)» in La
Parola e le parole. Quaderni del Seminario di Brescia, Brescia 2003,52-71.
- La bambina. Con questa traduzione alcuni biblisti intendono
fare riferimento al fatto che la Sapienza, ancora piccolina, assi­
stette all'attività organizzatrice di Yhwh e si mette, ora, a gio­
care e a danzare davanti a Yhwh sulla superficie della terra;
’àmón sarebbe da correggere con il participio passivo ’àmun in
base a quanto riportato nella versione di Teodozione
(.tithènuméné - «pupillo portato in braccio» - da tithènuéd;
cfr. con lo stesso significato anche ydmèn in Nm 11,12). Questa
proposta ben si accorderebbe con il contesto di Pr 8 in cui si
attestano le fasi della crescita della Sapienza.18
- Il saggio. R.J. Clifford rintraccia nel termine yàmón (che egli
traduce «saggio, sapiente») riferito alla Sapienza in Pr 8,30a,
Foriginario accadico ummanu^ che nella mitologia mesopota-
mica sarebbe il mediatore semi-divino che dopo il diluvio por­
ta la sapienza all'umanità.19 Il termine ummanu, però, non è
univoco perché non indica soltanto il saggio ma anche
l'artigiano;20
- La dea egizia Ma'at. Ci sarebbero elementi comuni tra la
dottrina su Ma'at e quella sulla Sapienza (la loro preesisten­
za e filiazione divina, il rapporto di intimità che esse hanno
rispettivamente verso Amon e verso Yhwh, il riferimento
alla funzione sociale che esse rivestono). Ma, tra M a'at e
Sapienza, come abbiamo visto, ci sono anche differenze ri­
conducibili anzitutto alla differenza di cultura e di religione
che intercorre tra Israele e l'Egitto. Nello specifico esse ri­
guardano la diversa filiazione di Ma'at da Amon Ra' e della
Sapienza da Yhwh: se si può ragionevolmente avanzare
un'ipotesi di influenza egizia, non va sottovalutata la novità

18 Cfr. GILBERT, La Sapienza del cielo, 43; cfr. anche MAZZINGHI, Il Pentateuco sapien­
ziale , 76.
19 Cfr. R.J. CLIFFORD, Proverbs: A Commentary (OTL), Louisville (KY) 1999, 98-101.
20 C ’è chi ha proposto un parallelo con i Proverbi bilingui, in cui abbiamo una lista di
re antidiluviani e dei loro saggi (apkallu e ummanu). I re nominati vanno da Ghilgamesh a
Asarhaddon. Questa lista ci informa che al tempo del re Assuah-iddina, in Mesopotamia,
Xummanu non è solo l’artigiano o l’uomo dotto, ma anche l’alto ufficiale di corte. L’iden­
tità tra ummanu e apkallu è sostenuta anche da altri studiosi: l’identità tra ’àmón e umma­
nu non può, quindi, essere difesa con la forza che Clifford vorrebbe proprio in forza
dell’intercambiabilità dei termini e del non così diretto rimando mitologico.
della riflessione dei saggi di Israele che hanno superato il
prototipo egiziano.21
- Cristo-Logos. Per la tradizione patristica la Sapienza è Cristo,
il Logos, la seconda persona della Trinità (cfr. Gv 1). Teofilo
di Antiochia scrive: «D io avendo il suo verbo immanente
nelle sue viscere, lo generò assieme alla sua Sapienza, espri­
mendolo prima di ogni cosa [...]. La verità ci istruisce sul
Verbo che è daireternità immanente nel cuore del Padre.
Prima della creazione lo ebbe come consigliere, perché è la
sua mente e il suo pensiero. Quando Iddio volle creare quel­
lo che aveva stabilito, generò questo verbo emettendolo fuo­
ri, primogenito di tutta la creazione; e non rimase privo del
Verbo, ma dopo averlo generato si intrattiene sempre con il
suo Verbo».22
- Non si è citato a caso Teofilo di Antiochia. C'è chi ha ravvi­
sato un'analogia tra la creazione e la generazione del Verbo
di cui egli parla con la nascita di una colonia dalla città ma­
dre. Le tappe che conducono alla fondazione di una colonia
sono le seguenti: la città madre elegge alcuni e li invia perché
fondino la colonia, successivamente abbiamo la partenza di
questo gruppo, poi la fondazione della colonia e infine la co­
lonia. V. Polidori23 legge questo processo in analogia con la
generazione del Verbo: l'ipostatizzazione del Logos imma­
nente nel Padre, il proferimento del Logos e, infine, il Logos
proferito.

Faccio mia la prima ipotesi qui riportata per i motivi te­


stuali sopra indicati, sebbene la seconda non sia totalmente
da rigettare in base alla conformità con le immagini. Il senso
cristologico non è da escludere - in un percorso «dalla Sa­

21 Cfr. A. L e l i ÈVRE - A. MAILLOT, Commentane des Proverbes. Ili, (LD. Commen-


taires 8), Cerf, Paris 2000,233-239.
22 TfcoFiLO d i A n t io c h ia , Ad Autolico 2,10, in M. S im o n e t t i - E . P r in z iv a l l i , Lette­
ratura cristiana antica, Marietti, Casale Monferrato 2003,22.
23 Cfr. V. P o l id o r i , « N e lla ktisis colon iale la chiave erm en eutica di P r 8 ,2 2 », in Bibbia
e Oriente 48(2006), 3-9.
pienza personificata alla Sapienza in persona»24 - ma non è il
primo rimando del testo di Proverbi.
Chi è dunque la Sapienza alla luce di Pr 8? Sembra esse­
re una figura femminile dal momento che la parola «S a ­
pienza» è femminile in ebraico, greco, latino, e nelle lingue
moderne, anche se non ci sono elementi espliciti che con­
ducano ad affermare con certezza che la Sapienza sia una
donna; seguendo l’antitesi con la donna straniera e la donna
stoltezza, l’accostamento alla donna Sapienza della sezione
e alla propria moglie di Pr 1-9 e collegandosi, infine, alla
donna forte di Pr 31,10-31, si è indotti a legare la hokmàh
alla figura femminile.
La Sapienza, in Pr 8, sarebbe il progetto che Dio ha in
mente. Proprio come chi vuole costruire una casa prende le
mosse dal progetto che solo successivamente riporta sulla
carta per essere realizzato, così il Creatore all’inizio della sua
opera. Ma se in Pr 8 la Sapienza è inattiva o, meglio, si limita
a giocare al cospetto di Dio e si delizia di abitare con gli uo­
mini, in Sir 24 si coglie la sua multiforme attività: percorre la
terra, si stabilisce in Israele, officia nel tempio, cresce come
pianta offrendo i suoi frutti agli uomini.
Concludendo, possiamo dire che gli autori di questi testi
(ai quali si possono aggiungere G b 28; Sap 6-8; Bar 3,9—4),
presentano diversi aspetti della Sapienza, la quale è doppia­
mente distinta da Dio e dal mondo, vicina ad entrambi per­
ché essa è l’ordine, il logos del cosmo, senza, tuttavia, mi­
schiarsi con esso.

24 P.-E. BONNARD, «D e la Sagesse personnifiée dans l’Ancien Testament à la Sagesse


en personne dans le Nouveau», in M. GILBERT (ed.), La sagesse de I'Ancient Testament
(BETL 51), University Press, Leuven 21990, 117-149. In questo gioco di parole è riassun­
to il percorso che P.-E. Bonnard offre a proposito della hokmà: il suo scopo è quello di
leggere i testi sapienziali e di intrawedere nella Sapienza in persona del Nuovo Testamen­
to lo stesso Gesù Cristo.
Bibliografia di riferimento e di approfondimento

AA.VV., Sapienza e Torah. A tti della X X IX Settim ana Biblica,


Dehoniane, Bologna 1987.
PlNTO S., «I maestri di Israele: tra paideia e fede», in G. MAZZA -
G. PEREGO (edd.), Pedagogie della Parola, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2010, 63-78.
—, «L’approccio antropologico alla Bibbia, “Cosa dice la Scrittu­
ra?” (Gal 4,30)», in Rivista di Scienze Religiose 45(2009), 57-70.
—, «La teologia e l’antropologia dei sapienti», in Rivista di Scienze
Religiose 38(2005), 281-313.
SECO N DA PARTE

LIBRI POETICI
SALTERIO

I. Questioni storico-letterarie

«Se la Bibbia è il “grande codice” , il libro più tradotto


della letteratura universale, all’interno della Bibbia sono i
Vangeli e i Salm i a rip o rtare la palm a dei lib ri più
tradotti».1 Questa frase di L. Alonso Schòkel introduce
molto bene il libro al quale ora rivolgiamo la nostra atten­
zione.
Il termine ebraico con cui sono chiamati i salmi è sefer
tehillim («libro delle lodi»), mentre in greco abbiamo psal­
mos («canto»). Nel libro di Daniele si menzionano diversi
strumenti musicali tra i quali il salterio: « ... il suono del
corno, del flauto, della cetra, dell’arpicordo, del salterio,
della zampogna e di ogni specie di strumenti m usicali»
(Dn 3,5.7). Nell’accezione della Bibbia greca il legame tra
i salmi e la musica è indissolubile, secondo quanto risulta
da lC r 16,4-6 e 2Cr 34,12 che presentano i leviti come
cantori e suonatori (anche se questo non significa che la
recita dei salmi sia sem pre stata accom pagnata da uno
strumento).

1 L . A l o n s o S c h ò k e l - C . C a r n it i , I Salm i. /, Boria, Roma 1992,99.


Il processo di trasmissione del testo del Salterio è alquanto
travagliato. I salmi furono composti in ebraico ma i mano­
scritti sono relativamente recenti perché risalgono alla fine
del primo millennio d.C.: il Codice di Aleppo (930 d.C. cir­
ca) e il Codice di Leningrado (1008 d.C. circa). Dal confron­
to con i diversi salteri (spesso frammentari) ritrovati a
Qumran (la grotta IV ha 18 manoscritti, la grotta X I ne ha
5), si registra una certa oscillazione nel dato testuale fino al I
secolo a.C. (cioè, appunto, il tempo della comunità essena).
Questa fluttuazione si spiega in ragione dell’ampio uso del
Salterio che, composto in un arco temporale che oscilla tra i
sei e gli otto secoli, andò incontro a numerose copiature e
adattamenti il cui effetto fu, spesso, un testo finale lacunoso
e/o oscuro.
La versione greca dei Settanta è la più importante delle an­
tiche versioni per quanto riguarda il Salterio. Questo testo -
che abbraccia un periodo tra il II sec. a.C. fino al I d.C. - è ri­
levante perché è il testimone più vicino all’originale ebraico
(sebbene la traduzione non sia di particolare pregio): alcune
incongruenze tra l’attuale testo ebraico e quello greco potreb­
bero spiegarsi con il fatto che i traduttori della Settanta aveva­
no davanti un testo ebraico differente rispetto a quello a no­
stra disposizione. Fu il testo greco e non quello ebraico ad es­
sere citato dagli autori del Nuovo Testamento quando riman­
davano all’Antico (l’85% delle citazioni dei salmi è tratto dal­
la versione greca dei Settanta); analogo è il discorso relativo
all’utilizzo del Salterio da parte dei Padri della Chiesa.
E principalmente la lingua latina a farsi foriera della più
ampia diffusione del Salterio. Esiste quello che è chiamato
Psalterium Romanum, frutto della revisione di Girolamo
operata su quella che sembra essere la Vetus Latina dei salmi.
Nel 386 Girolamo a Betlemme preparò lo Psalterium Gallica-
num che poi diventò il Salterio della Vulgata: fu operata a
partire dal testo greco degli Esapla di Origene; forse anche
per tale ragione Girolamo tradusse direttamente dall’ebraico
quello che si chiama lo Psalterium juxta Hebraeos che non fu
mai accolto nell’uso ecclesiastico.
L’attuale forma in ebraico come libro del Salterio può farsi
risalire al 200-150 a.C. per i seguenti motivi: a) la somiglianza
tra l’apertura (1-2) e la chiusura (149-150) del Salterio con il
tenore tematico del libro del Siracide; b) l’affinità teologica
(sapienza della Legge, escatologia, lode a Dio) di questa cor­
nice del Salterio con i testi essenici datati dal 200 al 150 a.C.,
trovati a Qumran (gli insegnamenti sapienziali «m usar
lammébin» e il «Libro dei misteri»); c) la comunanza tra l’or­
dine e il numero dei salmi con quanto riportato nei Settanta
(la cui traduzione dall’ebraico risale al 100 a.C.).
Circa le soprascritte o intestazioni dei Salmi: «non fanno
parte del testo ispirato, anche se la loro antichità è indiscuti­
bile, data la loro presenza nella versione dei LX X , che spesso
non ne comprendeva il senso; esse furono aggiunte dalla tra­
dizione giudaica precristiana».2 Esse sono di tre tipi: termini
tecnici musicali e istruzioni per l’esecuzione, nomi personali
ai quali è associato il salmo e intestazioni storiche. Nella tra­
dizione ebraica 74 sono di Davide, 12 di Asaf (cantore in lC r
6,24), 11 dei figli di Core (portieri del tempio: lC r 26,19), 3
di Idutum (levita: lC r 9,16), 1 di Mosè e 1 di Etan (levita:
lC r 15,17); 48 sono anonime. Nei Settanta e nelle antiche
versioni le attribuzioni nelle soprascritte sono ancora più nu­
merose.
L’alto numero di salmi recanti nella loro intestazione il no­
me del re Davide ricorda la presunta paternità salomonica
dei libri sapienziali (cfr. pp. 9-13). Davide, secondo quanto si
apprende dalle Cronache, è colui che ha composto i salmi e

2 T. LORENZIN, I Salmi. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano


2000,14.
sta all’inizio della liturgia in Israele: in lC r 16,8-22 è riporta­
to Sai 105,1-15 in cui egli è presentato come colui che ha in­
trodotto e inaugurato il servizio levitico davanti all’arca nella
tenda.

1.2. Numerazione

L’attuale numerazione dei salmi si deve a Girolamo. Se la


suddivisione della Bibbia ebraica in capitoli e versetti avven­
ne in un periodo che abbraccia i secoli IV-Vili d.C., la prima
suddivisione del Salterio ebraico in versetti - con una lettera
ebraica ogni cinque versetti - si ebbe soltanto con la pubbli­
cazione della Bibbia rabbinica di D. Bomberg (Venezia,
1547-1548). Anche la numerazione dei salmi è, perciò, tardi­
va: nel Codice di Aleppo (X secolo d.C.) i salmi sono riporta­
ti su due colonne senza numeri o lettere (le prime parole del
poema lo identificavano). Solo nel 1563 J. Froben pubblicò il
primo Salterio ebraico con i numeri arabi posti all’inizio di
ogni versetto.
Per quanto riguarda la numerazione, i problemi iniziano
con il Sai 9, la cui seconda metà è considerata dal testo ebrai­
co il Sai 10 mentre sia nei Settanta sia nella Vulgata (che nel
frattempo con S. Langton aveva assunto l’attuale numerazio­
ne) esso non va diviso. Inizia, quindi dal Sai 9 una differente
numerazione che nelle moderne traduzioni della Bibbia è co­
sì riportata: quella più alta (normalmente tra parentesi) segue
l’ebraico, quella inferiore rispecchia l’ordine dei Settanta e
della Vulgata. La doppia numerazione termina con il Sai 147,
in cui ritroviamo il procedimento esattamente inverso a quel­
lo presente al Sai 9. Perciò sia per la Bibbia ebraica che per
quella greca i salmi sono 150.
TESTO EBRAICO TESTO G RECO
1-8 1-8
9-10 9
11-113 10-112

114-115 113

116,1-9 114
117-146 116-145
147,1-11 146
147,12-20 147
148-150 148-150

Nella Liturgia delle ore della Chiesa Cattolica si continua


a usare la numerazione dei Settanta, mentre nella nuova tra­
duzione CEI del 2008 il salmo è indicato con la numerazione
ebraica e, tra parentesi, con quella dei Settanta (diversamente
da quanto accadeva nella traduzione CEI del 1974 in cui c’e­
ra prima quella greca e poi quella ebraica).

1.3. Struttura

Il Salterio è sempre stato visto come un corpus a sé (come


un vero e proprio libro), sebbene questa unità sia difficile da
ravvisare nella sua articolazione immediata. Per tale ragione i
commenti esegetici spesso prescindono dall’individuazione
dei legami interni preferendo soffermarsi sulle singole com­
posizioni. All’interno del Salterio si ritrovano, comunque,
degli elementi che consentono di strutturarlo in cinque parti,
secondo l’intuizione di Gregorio di Nissa che aveva colto
nelle dossologie il tratto fondamentale per distinguere le sot­
tosezioni (41,14; 72,18-19; 89,53; 106,48; 150).J Accanto a
questo primo aspetto se ne segnala un secondo: la presenza
dei salmi regali che presentano la figura del monarca come il
campione della fede (2; 41; 72; 89; 106 celebrano la regalità
di Dio). Alla luce di questi due indizi, possiamo suddividere
il Salterio in cinque parti o libri:

1-41: primo libro


42-72: secondo libro
73-89: terzo libro
90-106: quarto libro
107-150: quinto libro

La presenza di cinque libri evidenzia la volontà dei redat­


tori finali di collegare il Salterio al Pentateuco. La lode che
chiude i singoli libri e l’intero Sai 150, inno totalmente dos­
sologico, attestano il punto di arrivo al quale tende la descri­
zione salmica: nonostante la prova, l’infedeltà, il peccato del
popolo e dei singoli, la promessa del Signore rimane stabile
assicurando agli Israeliti il recupero della salute del corpo e
la comunione dello spirito.
Accanto a questa grande suddivisione in cinque libri, è
possibile stilare una serie di collegamenti tra i singoli poemi.34
Per esempio: i Sai 1-2 aprono il Salterio fungendo da intro­
duzione generale e da portale attraverso il quale vi si accede

3 Gregorio segue la numerazione greca dei salmi. La divisione del Salterio in cinque
parti è attestata già da Eusebio, anche se fu Gregorio ad attribuirle un significato spiritua­
le che egli lega all’immagine della cerva del Sai 42: «Colui che è stato iniziato alla vita vir­
tuosa nella prima parte del Salterio e ha conosciuto e gustato la dolcezza di ciò che desi­
dera, dopo aver eliminato in sé ogni strisciante ombra di brama ed essersi cibato delle
passioni invece che di animali con i denti della saggezza, ha sete di comunione, con Dio
più di quanto il cervo desideri le fonti» (GREGORIO DI NlSSA, Sui titoli dei Salmi, Città
Nuova, Roma 1994,55).
4 Interessante lavoro sull’accostamento dei componimenti salmi è quello di: D. SCAIO-
LA, «Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite», fenomeni di composizione appaiata nel Salte­
rio Masoretico», Urbaniana University Press, Roma 2002.
(anche per questo non presentano come gli altri salmi le so­
prascritte). La beatitudine del Sal 1 e la ferma convinzione
che il Signore protegge chi medita la Legge, mentre disperde
gli empi, trova eco nel Sai 2 in cui il protagonista di tale
sconfitta è il Signore attraverso il suo messia.
Oppure: il Sai 7 si chiude con la promessa di lode («Lode­
rò il Signore...»: v. 18) e il Sai 8 si apre come prosecuzione e
realizzazione di tale impegno. La ripetizione del termine «no­
me» (presente in 7 e 8) permette di collegare anche il Sai 9 in
un continuum tematico secondo il quale il nome di Dio scon­
figge la forza dei nemici (cfr. il nome di 9,6) che attentano al­
la vita del povero.5 Anche i Sai 149 e 150 sono posti alla fine
del Salterio per chiudere il libro attorno a temi comuni (si
può pensare a una danza rituale che celebra le lodi a Dio che
sconfigge i suoi nemici) e riportando l’invitatorio alleluiatico.
E ancora: i Sai 90, 91, 92, letti di seguito, disegnano la se­
quenza tipica di una supplica (supplica, oracolo di salvezza,
rendimento di grazie). Oppure: i Sai 111 e 112 sono da leg­
gere insieme a motivo del comune procedimento alfabetico
che li struttura. Infine: i Sai 50 e 51, sui quali torneremo
nell’esegesi, scandiscono le tappe di un percorso penitenziale
che dal riconoscimento della colpa mira alla riconciliazione
piena.

1.4. Generi letterari e linguaggio simbolico

I due principali generi attestati nel Salterio sono l’inno e il


lamento. Il primo nasce dal riconoscimento dei doni (la vita,
la salute, la terra, la Legge ecc.) ricevuti da Dio o da lui riac­
quistati dopo una fase temporanea di privazione; il secondo

5 II commentario di X Lorenzin è organizzato proprio seguendo gli abbinamenti che è


possibile fare tra i poemi in base a tre elementi: le iscrizioni dei salmi, le affinità tematiche
e i segnali di struttura (I Salmi, 17-22).
caratterizza la fase della notte della fede: l’orante è grave­
mente ammalato, perseguitato dai nemici o in esilio, e conse­
gna alla preghiera il suo strazio, la richiesta di aiuto.
L’inno si articola su tre movimenti:

- invito alla lode con forme verbali (coortativo-imperativo), mu­


sicali (lira, cetra, tamburi ecc.) o rituali (applauso, prostrazio­
ne, canto ecc.);
- corpo dell’inno: la lode può essere descrittiva, narrativa ecc.; si
sviluppano i motivi della professione di fede, rivolgendosi di­
rettamente a Dio;
- conclusione: spesso forma un’inclusione con l’invitatorio.

Anche la supplica conosce tre fasi:

- introduzione: invocazione-appello;
- corpo della supplica: 1) Dio e il suo silenzio, 2) io e la mia sof­
ferenza, 3) essi, i nemici;
- conclusione: voto e sacrificio, lode nell’assemblea, oracolo di
esaudimento.

Tra questi due poli si delinea una serie di componimenti


intermedi che - con Ravasi - possiamo associare a delle «fa­
miglie», cioè a dei sottoinsiemi che si collegano all’inno e/o
alla supplica. Esistono, comunque, anche altri generi che ci
limitiamo a segnalare: salmi regali, requisitori, sapienziali, li­
turgici, storici.6
Richiamare il genere letterario pone la questione del luogo
in cui esso ha preso vita. Normalmente si pensa che il Sitz itn
Leben naturale dei salmi sia il tempio di Gerusalemme, an­
che se non bisogna confondere il luogo in cui le composizio­
ni sono state celebrate, e probabilmente anche rielaborate,
con il contesto che ha innescato l’intuizione poetica e spiri­

6 Cfr. G. RAVASI, I l lib ro d e i Salm i. I y Dehoniane, Bologna 71997,46-65.


tuale, e che ha spinto l’orante a consegnare in un testo scritto
la profondità della propria esperienza.7
Quanto detto può aiutare a comprendere l’ermeneutica
dei salmi: chi si pone davanti al poema non può limitare la
propria comprensione volgendo lo sguardo alla sua genesi
storico-sociologica, ma è chiamato a provare a immedesimar­
si in quella che è stata l’intuizione originaria del salmista (in­
tuizione che rimane, comunque, sempre indisponibile perché
unica), confrontandosi con l’opera ultima che ha tra le mani,
frutto di un lungo processo di sedimentazione religiosa e let­
teraria. E duplice, per dirla con L. Alonso Schòkel,8 la com­
petenza del lettore dei salmi: una è poetica (per cogliere le fi­
nezze che la poesia ebraica esprime), l’altra è di fede (per co­
glierne il valore spirituale), Anche la catalogazione dei generi
letterari andrebbe, perciò, limitata e, soprattutto, non impo­
sta meccanicamente: se un salmo non si inquadra bene in un
genere, bisogna rispettarne l’autonomia e, se la sua classifica­
zione esige grandi sforzi e sottili distinzioni, allora non ap­
partiene probabilmente ad alcuno dei generi tra i quali si è
soliti catalogare.
I procedimenti stilistici (figure retoriche, strutture, tecni­
che numeriche o alfabetiche di composizione ecc.) possono
trascendere il territorio di qualsiasi genere: ogni salmo pos­
siede una propria unicità anche se ci sono delle forme comu­
ni che ne facilitano la comprensione e l’interpretazione. Pro­
prio in merito a quest’ultimo aspetto, sempre Alonso Schòkel
fa notare come ciò che a noi interessa sia comprendere ed
esporre il senso dei salmi. Il senso è una realtà specifica che
non può dissolvere il salmo nel generico rimando a somi­

7 «Contro uno stretto collegamento del Salterio con la liturgia del tempio e della sina­
goga parlano anche le soprascritte midrashiche dei salmi, che hanno una relazione esplici­
ta con la vita di Davide; questa davidizzazione narrativa fa del Salterio un libro di lettura
e di meditazione» (LORENZIN, I Salmi, 23).
8 Cfr. L. ALONSO S c h ò k e l , I Salmi della fiducia, Dehoniane, Bologna 2006, 5-24 (que­
sto testo è un estratto di: Trenta Salmi: poesia e preghiera, Dehoniane, Bologna 1982).
glianze esteriori con altri salmi. Il fattore decisivo che costi­
tuisce la sua unicità è l’organizzazione interna, la sua unità:
comuni con altri poemi potranno essere i motivi, lo schema
generale, intere frasi e tanti stilemi, ma l’organizzazione di
questi stilemi renderà unico quel salmo. Esso, quindi, non va
smembrato e il simbolismo che lo regge non va sciolto in un
lineare commento prosaico.
Il microcosmo simbolico «impone» le sue regole ermeneu­
tiche.9 Il primo dato da tenere presente è quello antropologi­
co. L’uomo è spirito, cuore, immaginazione, e quando pensa
a Dio e vive la propria fede lo fa con tutto se stesso. Non è
solo ragione, intelletto o fredda somma algebrica di variabili.
I simboli esprimono il «sapore» della teologia e, in ultima
analisi, dell’esistenza.
Tre sono le categorie fondamentali che raccontano l’uomo
simbolico. La prima è quella verticale: « l’uomo in piedi» in
una linea ascensionale-discensionale, colto nel suo processo di
elevazione morale e sociale. Si pensi al simbolo dello scettro
(2,9; 45,7; 60,9; 108,9), al tempio sul monte (147), allo schiavo
che eleva gli occhi verso il suo padrone (123,1), al Dio Altissi­
mo, al Dio delle montagne (Sadday), a Yhwh-altezza (92,9;
93,4; 102,20). La seconda categoria è quella orizzontale: «l’uo­
mo seduto», come segno di intimità. Si pensi ai riferimenti al
verbo yàsab (abitare/dimorare/giacere) e ai luoghi in cui si
abita: la casa (26,8; 84,5; 101,7; 113,9), il tempio (11,4; 27,4;
65,5;), la città rifugio (18,3; 62,3.7; 144,2). Infine, la terza cate­
goria è quella dinamica e temporale: «l’uomo in cammino».
Qui domina l’immagine della «via» (derek), che indica la stra­
da ma anche la condotta morale. Non è, cioè, solo un simbolo
geografico ma anche di esistenza (orientamento di vita: 49,14;
119). Il movimento può essere ascensionale (verso il tempio
nei Sai 120-134) o legato allo scorrere del tempo (16,10-11).

9 Cfr. R avasi, I Libro dei Salmi. /, 30-34.


Rimanendo nella simbologia spaziale, possiamo dire che i
salmi seguono una quadruplice linea: quella verticale-teologi­
ca (verso il cielo), quella orizzontale-antropologica (verso
l’uomo), quella orizzontale-cosmologica (verso il creato) e
quella verticale-infernale (verso il mondo delle tenebre).

2. Saggi dì esegesi

Si propone di seguito l’esegesi di sei salmi. I primi cin­


que sono stati scelti per la diversità (di generi e temi) che
esprimono, in rappresentanza dei rispettivi libri del Salterio
dai quali sono tratti (Sai 8; 51; 77; 92; 111); il sesto (Sai 58)
viene segnalato per la particolarità del suo carattere impre­
catorio: riteniamo interessante affrontare direttamente que­
sto tema così difficile per le problematiche teologiche che
solleva.

2.1. Sai 8: inno alla grandezza dell’uomo

1A1 maestro del coro. Su Gat. Sai. Di Davide.


20 Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su
tutta la terra! Voglio innalzare sopra i cieli la tua magnificenza,
3con la bocca di bambini e di lattanti: hai posto una difesa con­
tro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli.
4Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle
che tu hai fissato,
5che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uo­
mo, perché te ne curi?
6Dawero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo
hai coronato.
7Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto
sotto i suoi piedi:
8tutte le greggi, gli armenti e anche le bestie della campagna,
9gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre
le vie dei mari.
i°0 Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su
tutta la terra!

È il primo inno di lode del Salterio. Si apre e si chiude con


il medesimo ritornello (w. 2.10), contenente l’indicazione del
nome di Dio. Inoltre la medesima particella mah si ritrova
all’inizio («quanto»: v. 2), al centro («che cosa»: v. 5) e alla fi­
ne («quanto»: v. 10). L’intera composizione si può suddivide­
re, seguendo alcuni elementi formali e contenutistici, in due
strofe (w. 2-4 e 5-10). Nella prima lo sguardo è verso l’alto;
nella seconda verso il basso.

1. La soprascritta è rivolta al maestro del coro, esplicitan­


do che si tratta di un salmo «di Davide». La parola gai (nel
versetto al plurale) può essere anche uno strumento musicale
(cfr. 81,1; 84,1), un’arpa filistea costruita a Gat da cui «ghit-
tea»; oppure c’è chi pensa a una melodia composta a Gat. Il
greco rende gat (cfr. Getsemani) con «torchi» (lènon), con un
richiamo alle melodie che si eseguivano durante la mietitura,
anche se il contenuto del salmo non sembra avere molta atti­
nenza con tale contesto. Il versetto resta incomprensibile ri­
ferendosi, probabilmente, alla modalità di esecuzione del
componimento.
2. La particella mah stabilisce fin dall’inizio la tonalità del
poema: ammirazione, stupore, riflessione. Il nome di Dio apre
e chiude il salmo ed è il protagonista di quasi tutte le azioni: il
salmo non è una lode all’uomo ma un inno a Dio attraverso
l’uomo; è lui il protagonista, l’attore principale che compie ot­
to azioni, di cui due rivolte al creato (fondare le basi della ca­
lotta celeste: v. 3; fissare gli astri: v 4) e sei all’uomo (ricordare
e curare: v. 5; renderlo poco meno di Dio, coronarlo: v. 6; da­
re la signoria e porre tutto sotto i suoi piedi: v. 7).
Lo spazio in cui l’orante si colloca lungo il salmo è diviso in
tre piani: all’inizio si nominano il cielo e la terra ma alla fine
esso sarà “tridimensionale” perché includerà anche le acque
(v. 9); tale estensione spaziale sarà completamente affidata al
dominio umano.
3. 1 ribelli s’inseriscono come figure che creano una frattu­
ra nell’iniziale ordine descritto dal salmo. Possono essere
identificati con le figure mitologiche del Leviatano (Gb 40-
41), dei Tannin o di Rahab (Sai 89,12); altri pensano ai gigan­
ti semidivini di Gen 6,4 (i ne'filini) o i r*fa ’im («fantasmi, om­
bre»: Sai 88,11). Probabilmente il salmista si riferisce a que­
gli esseri che non accettano Dio né intendono sottomettersi a
lui: tentano una rivolta - forse per non essere stati creati pie­
namente come gli ’élóhtm - scalando il cielo dove si situa la
fortezza inaccessibile (Sai 31,22).
Di fronte ad essi il Signore fonda ed erige una fortezza
inespugnabile, similmente a quanto si legge in Gen 3,24 dove
i cherubini e la spada fiammeggiante difendono l’accesso al
paradiso. La fortezza potrebbe essere il firmamento, la calot­
ta celeste, che impedisce ai rivoltosi di scalare ed espugnare
la zona celeste, seguendo una supposta «mappa cosmica»10
simile a quella di Sai 31,22 che menziona la città fortificata
come luogo della dimora divina o a quella di Sai 150,1 in cui
si parla del firmamento della sua potenza.
L’atteggiamento opposto alla ribellione è quello della do­
cile confidenza del bambino. La figura del lattante non si
oppone, come potrebbe sembrare al lettore moderno, a
quella del bambino, perché si allattava anche per un perio­
do che raggiungeva i due/tre anni di età (cfr. lSam 1,24). Il
salmista menziona la bocca dei bimbi caricando l’immagine

10 Ivi, 196. Questa suddivisione dello spazio (una sfera divina e l’altra affidata al do­
minio delle forze che gli si oppongono) si attesta anche in altri passi dell’Antico Testa­
mento che parlano di un confine, una frontiera, un circolo, un limite, una barriera (Sai
74,13; 104,9; 148,6; Gb 7,12; 24,12; 38,11; Pr 8,27; Is 51,9-10).
di due principali risonanze. La prima riguarda l’atteggia­
mento infantile dell’essere umano che, giorno per giorno,
scopre il mondo con meraviglia e stupore perché si affaccia
alla soglia della vita con semplicità, costruendo a piccoli
passi il proprio universo di senso mentre si apre alla bellez­
za del creato. Questo atteggiamento “infantile” è lodato dal
salm ista perché libera l’uomo dall’insubordinazione: il
bambino sa accettare il mondo e il proprio posto in esso.
La seconda risonanza riguarda la bocca dei bambini. L’o­
rante sa che essa è inadeguata per descrivere la grandezza
che gli viene posta innanzi. Sulle sue labbra fioriscono, bal­
bettando, le domande cariche di curiosità, meraviglia e non
le constatazioni disincantate e smaliziate dell’adulto: la rea­
zione davanti all’opera del creato non è la medesima nell’a­
dulto e nel bambino. In questo senso il salmista desidera
provare quell’inadeguatezza dei piccoli rispetto a ciò che
supera la propria capacità di comprensione, preferendo
balbettare frasi incompiute che essere ridotto al mutismo
dal Signore.
4. In questo versetto si descrive l’uomo che di notte con­
templa il cielo stellato. La sua posizione è intermedia e, per
tale ragione, ambigua: pur appartenendo alla terra egli si in­
nalza (o almeno vorrebbe farlo nello slancio poetico) sopra
di essa e oltre se stesso. Tale condizione non appartiene agli
animali perché solo l’uomo può stupirsi dell’opera del crea­
to. Il salmista presenta un’immagine molto delicata: è come
se Dio incastonasse una ad una le stelle e la luna nel firma­
mento, alla stregua di un orefice che con cura e maestria
(sembra intendersi con la punta delle dita) abbellisce la pro­
pria opera ponendovi le pietre preziose: la creazione «non è
un atto di intelligenza, “sapienza” puramente intellettuale, né
un’azione “a distanza”; è un atto artigiano che richiede deli­
catezza e tenerezza; un passare e ripassare le dita, modellan­
do la forma perfetta degli astri: come maioliche preziose, co-
me gioielli, gli astri sono per il poeta pezzi della sapiente arte
divina».11
5. Qui la particella mah introduce una domanda: «Che co­
sa è mai l’uomo?». Se la contemplazione del mondo suscita
un grido di ammirazione, la visione dell’uomo provoca una
domanda di senso. L’intero versetto è ripetuto in Sai 144,3 in
cui, al colmo dello stupore, si loda Dio perché rivolge la sua
protezione a un essere cosi piccolo e fragile, per la vittoria
che Egli concede a Davide: si può intendere questo poema
come la lode che segue la sconfitta del gigante Golia (cfr.
lSam 17), e questo indurrebbe a leggere il v. 5 come una sfu­
matura intensiva: i nemici del Signore (sia quelli mitologici
sia quelli storici) si possono vincere solo se ci si affida a lui
impugnando l’arma della fiducia piena.
Che cos’è, dunque l’uomo? «L’uomo è esattamente questo
grande interrogativo che si leva sull’orizzonte piano della ter­
ra; questa curva che ritorna continuamente su se stessa do­
mandandosi; l’uomo sempre s’interroga su ciò che è, e sem­
pre continuerà ad interrogarsi, senza arrivare a una risposta
definitiva [...]; Che cosa è l’uomo? Un essere terrestre, un
vassallo capace di contemplare un’opera di Dio e dominarne
altre; è una risposta o un trampolino di lancio per altri
interrogativi?».1112 L’orante, che pone questa domanda sta così
rappresentando tutta l’umanità e ciascun uomo. E una do­
manda provocata anche da una contemplazione religiosa del­
la creazione. Sorge da uno sguardo trascendente: è un volger­
si verso se stessi dopo avere levato gli occhi verso Dio. E una
domanda che non attende una risposta nell’immanente: l’uo­
mo, infatti, non si può definire solo nel suo rapporto con la
terra.
La ripetizione della particella interrogativa serve, inoltre,
per stabilire altre corrispondenze come, per esempio tra i no­

11 A lo n so S c h ó k e l , Trenta Salm i, 72.


‘2 Ivi, 66.67.
mi e i titoli. Dio porta il suo nome proprio (Yhwh) e un tito­
lo ( ’addnày, «Signore») che è riferito ai governanti e ai leader
politici (cfr. 2Sam 14,19; Is 37,4; Ger 38,9); l’uomo è descrit­
to con un nome generico ( ’énds) specificato da una sorta di
cognome (ben ’àdàm), dato che i cognomi si formano con
«figlio d i...» più il nome del padre, ’énds/ben ’àdàm sono
senza articolo e indicano la condizione umana in genere; una
sfumatura legata alla caducità dell’essere umano può essere
ravvisata nel termine ’énds (cfr. Sai 10,18; Is 13,7; 51,12).
6. Gli ’éldhim sono divinità, creature superiori agli uomini
ma sottomesse a Yhwh. Il termine è generico perché gli
’éldhim sono anche gli altri dèi, quelli pagani, i falsi dèi (cfr.
Dt 6,14; 13,18; IRe 11,14; 11,18; 14,9; Sai 81,10; Ger 1,16;
Dan 11,37). Nei tempi antichi erano pensati come subordi­
nati al Dio supremo, più tardi furono considerati come ange­
li (i Settanta traducono appunto con àngeloi). In ambedue le
interpretazioni sono esseri sovrumani, più vicini a Dio di
quanto non lo sia l’uomo, ’éldhim è anche il nome del Dio
del primo racconto della creazione. Accostando quanto si
legge in Gen 1,26 (l’uomo creato come immagine e somi­
glianza di ’éldhim) con quanto riportato nel salmo (l’uomo
creato un po’ inferiore degli ’éldhim), si ricava che l’uomo
non è uguale a Dio anche se gli è molto vicino in una manie­
ra simile a quella degli esseri divini. In questo senso il riferi­
mento agli ’éldhim mitiga il rimando diretto alla divinità, la
quale rimane sempre nella sua trascendenza e si pone oltre
ogni raffigurazione umana. L’uomo è più vicino agli dèi che
agli animali ed è definito per sottrazione più che per addizio­
ne. Egli è un come un re coronato di gloria e di onore: eserci­
ta una regalità non per diritto acquisito in battaglia, ma per
un dono che viene dall’alto. Dio lo intronizza come viceré
dell’universo. In filigrana si intravede l’antropologia genesia-
ca dell’uomo fatto a immagine di Dio (Gen 1,26) secondo
quella che si può denominare «interpretazione monarchica»,
e che richiama l’usanza egizia e mesopotamica della raffigu­
razione della divinità nella statua del sovrano.
7-9. Quanto alla funzione, Dio è Signore, l’uomo invece è
mósél (capo) poiché subordinato al signore/padrone ( ’àddn);
potremmo dire che l’uomo è il vassallo di Dio sul creato se­
condo quanto si ricava dai racconti della creazione (cfr. Gen
1-2). L’avverbio kol («tutto») dichiara la sua piena sovranità
mentre il rimando ai piedi è la tipica immagine di vittoria at­
testata sia nella Bibbia (cfr. Sai 47,4; 110,1; Gs 10,24; ISam
17,51) sia nel mondo egizio e mesopotamico: il vincitore pog­
giava i piedi su uno sgabello sul quale erano rappresentati i
popoli assoggettai e sconfitti.
Terra, cielo e mare: non c’è spazio precluso alla signoria
dell’essere umano. L’accostamento al secondo racconto della
creazione (cfr. Gen 2,18-20) in cui l’uomo nomina le creature
(e, quindi, le domina) è posto in maniera esplicita. Chi è, alla
fine, quest’uomo? E un essere terrestre, un signore vassallo,
capace di contemplare l’opera di Dio perché proteso oltre i
propri limiti. Eppure, dobbiamo notare che, nonostante le
evidenti affinità, esiste una differenza tra il Sai 8 e Genesi in
ragione della poesia con cui è celebrato l’atto creativo: «Il Sai
8 non espone la creazione come un susseguirsi di atti; parte
dalla realtà totale del creato percepito in un istante mediante
un’intuizione sintetica; inoltre il poeta non necessita della lu­
ce primordiale per vedere e contemplare; gli basta il mistero
del cielo stellato per volgere d’intorno uno sguardo estasiato;
la poesia - conclude Moria Asensio - è il mezzo più adatto
per ricostruire alla luce della fede il tempo e lo spazio, l’ordi­
ne della storia e della società».13
10. L’esclamazione iniziale si è, alla fine del poema, arric­
chita dei significati antropologici e teologici maturati lungo il
percorso. Eppure, non tutto è stato ancora detto: la ricono-
scenza per la grandezza del Creatore non si esaurisce ma in­
voca un rinnovato slancio di meraviglia e stupore. La fine del
salmo è solo il suo inizio.

2.2. Sai S I: la riconciliazione dopo il peccato

Molte possono essere le chiavi di lettura del Sai 51. Tra


queste scegliamo quella di chi allarga la prospettiva includen­
do anche il Sai 50.14 I due salmi possono essere letti insieme
anche se non c’è dubbio che sono diversi e un tempo furono
indipendenti. Il Sai 50 è collettivo, rivolto a un popolo impe­
gnato con Dio nell’alleanza; il Sai 51 è invece pronunciato da
un penitente in prima persona. I due salmi furono uniti per
la loro parentela tematica in vista di un uso nella liturgia; essi
sono accomunati dal percorso giuridico che disegnano: re­
quisitoria giudiziaria (Sai 50), confessione del peccato e ri­
chiesta di perdono (Sai 51). Il Sai 50 presenta la situazione di
un giudizio bilaterale. Si è già parlato del rib a proposito del
contenzioso tra Giobbe e Dio (cfr. pp. 99-100).
L’esempio più interessante che si incontra nell’Antico Te­
stamento è quello di lSam 24: Saul e Davide sono legati da
due vincoli che stabiliscono muti doveri: la parentela di suo­
cero e genero, la relazione di signore e di vassallo. Saul pensa
che Davide attenti alla sua vita e al suo regno, e lo perseguita,
ma Davide, in un momento decisivo in cui pur avendo l’oc­
casione di vendicarsi rispetta la vita del sovrano, ottiene di
confrontarsi con lui. Il conflitto si risolve con il riconosci­
mento da parte di Saul del proprio comportamento sbaglia­
to, con la fine della persecuzione e l’inizio della riconciliazio­
ne (ognuno proseguirà in pace per la propria strada).
Nel Sai 50 Dio e il popolo sono le due parti, legate dall’im­

14 Cfr. A lo n so S ch Ok e l , Trenta Salm i, 201-250.


pegno dell’alleanza, le cui clausole sono i comandamenti (spe­
cialmente il Decalogo).15 Dio è la parte offesa e innocente (il
cielo annunzia la sua giustizia) ed è lui che provoca e dirige il
giudizio bilaterale (Dio è il giudice); il popolo è la parte che ha
recato l’offesa. Dio accusa, rimprovera e pone ben in vista il
peccato del popolo; colui che pronuncia il salmo in presenza
dell’assemblea è il mediatore e il rappresentante di Dio. Il Si­
gnore rifiuta un certo tipo di culto: non sono graditi alcuni sa­
crifici ( ‘òlàh e zebah, olocausti e sacrificio: 50,8) mentre se ne
accettano altri (tódàh e neder, confessione di lode e voto:
50,14). Il culto esteriore è aborrito a favore di uno interiore.
Ciò che il testo del discorso contrappone è un culto con giusti­
zia a un culto senza giustizia: il popolo adempie perfettamente
tutti i doveri cultuali (su questo campo non merita rimprovero
né deve confessarsi), ma è peccatore perché si comporta ingiu­
stamente contro il prossimo, ingiustizia che inquina l’azione li­
turgica. Dio non ammette i sacrifici dell’empio.
La prima parte del rìb è costituita dall’intero Sai 50 men­
tre le altre due parti si ritrovano nei w. 3-11 (confessione del
peccato e richiesta di perdono) e 12-21 (petizione di una
nuovo rapporto in vista della riconciliazione) del Sai 51.

!A1 maestro del coro, salmo. Di Davide.


2Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsa­
bea.

3Pietà di me, o Dio, nella tua bontà; nella tua grande misericor­
dia cancella la mia iniquità.
4Lavami del tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi
puro.

15 Possiamo dividerlo in quattro parti: introduzione, dove si esplicita la lite di Dio con
il suo popolo, un Dio che chiama anche il cielo e la terra come testimoni (w. 1-7); descri­
zione del misfatto per il quale Israele è condannato da Dio (w. 8-15); richiesta di conver­
sione: non sono i sacrifici che il Signore gradisce, ma la lode fatta con giustizia (w. 16-21);
perorazione finale (w. 22-23).
^perché, le mie iniquità io riconosco, il mio peccato mi sta sem­
pre dinanzi.
6Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai
tuoi occhi, io Tho fatto:
così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio.
7Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito
mia madre.
8Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuo­
re mi insegni la sapienza.
Aspergim i con issopo e sarò puro; lavami e sarò più bianco
della neve.
10Fammi sentire gioia e letizia: esulteranno le ossa che hai spez­
zato.

1d isto gli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.
12Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito
saldo.
13Non scacciarmi dal tuo volto e non privarmi del tuo santo spi­
rito.
14Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito
generoso.
^Insegnerò ai malvagi le tue vie e i peccatori a te ritorneranno.
16Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza: la mia lingua
esalterà la tua giustizia.
17Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode.
18Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti.
19Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e af­
franto tu, o Dio, non disprezzi.
20Nella tua bontà fa’ grazia a Sion, ricostruisci le mura di Geru­
salemme.
21Allora gradirai i sacrifici legittimi, l’olocausto e Finterà obla­
zione;
allora si immoleranno giovenchi sopra il tuo altare.

1-2. H peccato con Betsabea. In 2Sam 12,1-14 si racconta


quanto il titoletto del salmo richiama: Davide pecca di adul­
terio con la moglie di Uria e, quando viene denunciato dal
profeta Natan, intona la richiesta di perdono per il suo gran­
de delitto. La soprascritta, come si vede, non lega i due Sai
50-51, ma rinvia al peccato d ’impurità commesso dal re. In
questa linea è stato da sempre interpretato nella tradizione li­
turgica che lo ha sempre collocato - nominandolo, non a ca­
so, Miserere - nei sette salmi penitenziali (Sai 6; 32; 38; 102;
130; 143).
3-11. Si apre la seconda parte del rìb: la confessione della
colpa e la richiesta di perdono per il peccato.
3-4. Richiesta di purificazione. Il peccato è chiamato con
tre nomi differenti:p é sa ' (v. 3), ‘àwón e haffà’t (v. 4).16 II ter­
mine p ésa* richiama una vasta gamma di significati (cfr.
quanto detto a proposito di G b 31,33: pp. 98-99). P ésa' sem­
bra riguardare la rottura dell’armonia giuridica nei confronti
di qualcuno (Dio e il prossimo) o della comunità, armonia
che doveva essere recuperata mediante un processo, a meno
che colui che può far valere il proprio diritto non desista dal
porre in essere l’azione giuridica, concedendo il perdono.17
La tradizione profetica (cfr. Am 1-2) include i misfatti politi­
ci, il sopruso sui poveri, l’idolatria e la profanazione del tem­
pio. Pesa ‘im ricorre anche in IRe 8,50 in cui Salomone innal­
za una preghiera a Yhwh davanti al popolo e davanti all’alta­
re: in questa richiesta pubblica di perdono si specifica che i
peccati d’Israele per i quali si richiede il perdono sono le tra­
sgressioni contro Yhwh. Una simile accezione di p es a ‘im si
può ritrovare anche in Ger 5, in cui si condanna il pésa ‘ d’I­
sraele che consiste nell’avere abbandonato i legami con Dio e
nell’essersi votato all’idolatria e all’adulterio (Ger 5,6-8). Il

16 È importante notare come i tre termini siano spesso accostati l’uno all’altro per
esprimere la totalità delle trasgressioni. In Lv 16, per esempio, il santuario è stato reso im­
puro dai peccati {hà\tà ’im) e dalle ribellioni (peSa ‘im) d’Israele e dalle colpe ( ‘àwón).
17 Cfr. H. S e e b a s s , «PàSaV PéSa4», in H.-J. FABRY - H. RlNGGREN (ed d .), Grande Les­
sico dell’Antico Testamento. V7,386-387.
vocabolo p ésa ‘ rimanda, perciò, alle ribellioni sociali e reli­
giose che macchiano il popolo e per le quali è necessaria una
purificazione.
Anche il termine ‘àwdn è utilizzato per i peccati contro
Dio (Es 20,5; Dt 5,9; Is 1,4; 27,9; Ger 11,10) e quelli contro
gli uomini; questi ultimi sono legati principalmente a prati­
che rituali infrante a causa di comportamenti sessuali (lSam
3,14; 2Sam 3,8). In Ez 18,30, per esempio, l’invito alla con­
versione mira a liberare Israele dalle ribellioni che sono una
vera «trappola di male» (miksól ‘àwdn), ribellioni che nei
versetti precedenti sono descritte in riferimento alla condotta
dalla quale bisogna tenersi alla larga: l’empio fa «pasti sacri
sulle alture, profana la moglie del prossimo, opprime il pove­
ro e il misero, commette rapina, non restituisce il pegno, vol­
ge gli occhi agli idoli, commette abominazioni, presta a inte­
resse e vuole la percentuale, di certo non vivrà; ha commesso
tutte queste abominazioni: deve morire; il suo sangue ricade
su di lui» (Ez 18,11-13).
Il terzo nome con cui è chiamato il peccato è bàtta ’, termi­
ne che più degli altri, anche in ragione della maggiore generi­
cità a cui rinvia, è la cifra con cui è indicato il peccato nella
Bibbia (595 sono le sue occorrenze). Etimologicamente sug­
gerisce l’idea del mancare/fallire il bersaglio; in senso traslato
rinvia all’incompletezza nel raggiungimento dell’obiettivo
morale e religioso. Chi commette bàtta’ non segue la traietto­
ria giusta, devia, si allontana dal target: se i frombolieri be-
niaminiti erano abili a colpire con un sasso un capello senza
sbagliare (G dc 20,16), il peccatore il capello neppure lo
sfiora.
Nel salmo si chiede che questi tre peccati siano, rispettiva­
mente, cancellati (mhh), lavati (kbs) e mondati (thr). Il primo
verbo si lega al mondo giudiziario e commerciale (Es 32,32-
33; Nm 5,23): cancellare una scrittura, un documento (Es
17,14; Dt 9,14). Il concetto di peccato è assimilato al debito
contratto di cui esiste una copia che lo testimonia. L’ambien­
te dei lavandai è, invece, il contesto di kbs: si lavano le vesti e
gli oggetti così come si mondano i peccati; il passaggio alla
sfera sacra nasce con quella sensibilità propria della tradizio­
ne sacerdotale che attraverso queste pratiche ricerca la purità
rituale e la santità che consente di avvicinarsi alla sfera del di­
vino (Es 19,10.14; Lv 6,20-21; 11,25.28.40). Il terzo verbo
(thr) evoca l’idea dello splendore (vicina è la radice araba e
aramaica zhr. brillare). Il peccato offusca, opacizza e per tale
ragione la realtà o la situazione che ha perso la sua luminosità
(il parto: Lv 12,7; la lebbra: Lv 13; 14; 22,4; i liquidi sessuali:
Lv 15; 22,4; Dt 23,11; il contatto con i cadaveri: Lv 21,1-4;
Nm 6,6-9) vanno riportate al naturale splendore. L’orante in­
voca, pertanto, il pieno perdono divino richiamando l’ampio
ventaglio della propria situazione di peccato e facendo appel­
lo all’amore misericordioso di Dio (il verbo hànan significa
avere pietà, avere misericordia, fare grazia a qualcuno), la sua
hesed cioè la sua fedeltà amorosa.18 Questo sostantivo ritorna
spesso nei salmi (per esempio, nel Sai 136) e si lega a «visce­
re» (rahàmtm): le viscere materne di Dio devono commuo­
versi al punto da perdonare il grande peccato commesso (Is
49,15; Sai 103,13).
5-8. La confessione del peccato. Dopo la richiesta di perdo­
no, il primo atto del penitente è quello di ri-conoscere il pro­
prio peccato. Prendere atto della propria condizione senza
nasconderla esprime l’atteggiamento di chi si dispone alla ri­
conciliazione (Sai 32,5; 38,19). Al contrario, chi occulta la
colpa, non solo non possiede consapevolezza psicologica di
sé ma ha un’idea parziale anche di Dio che è percepito con
timore. Nel v. 5 non solo non è nascosto ma si dice, addirittu­
ra, che il p é sa ' è quasi ossessivamente presente nella vita
dell’orante. Il peccato commesso contro gli uomini (secondo

18 Nel Salterio hesed comporta tenerezza, bontà, grazia che Dio riserva all’orante (cfr.
Sai 33,22; 86,13; 89,25; 117,2; 119,41).
il titolo del salmo sarebbe il peccato di adulterio) è, in ultima
istanza, una colpa contro Dio (v. 6); per questo Davide dopo
l’omicidio di Uria e l’adulterio con la moglie dice: «H o pec­
cato contro Dio» (2Sam 12,13). La giustizia di Dio va intesa
come innocenza: il misfatto ha leso la parte innocente del
rapporto a cui ora si chiede il perdono, pur sapendo che tale
partner potrebbe punire l’offesa emettendo una sentenza di
condanna (Ez 28,22; Sir 36,4).
Il v. 7 reitera la professione da parte dell’orante del pro­
prio stato di peccato. Egli è radicalmente sommerso da
questa realtà cattiva sin dal concepimento; tale convinzione
si radica nella Bibbia, in cui si dichiara la tragica condizionè
umana a partire dal racconto di Gen 3: l’uomo davanti a
Dio non può comparire perché essenzialmente ingiusto (Sai
143,2) perché sin dalla giovinezza il suo cuore è incline al
male (Gen 8,21). Il raro verbo yhm esprime lo stato di calo­
re delle bestie come in Gen 30,38.41; si potrebbe pensare
che tale istinto sia legato al momento dell’accoppiamento,
atto in sé peccaminoso che ferisce l’inizio della nuova vita.
Lungo la storia dell’interpretazione, infatti, questo versetto
è stato interpretato come prova dell’impurità dell’unione
sessuale anche nel matrimonio. A quanto pare, il testo non
intende dire ciò ma intensifica la prospettiva del penitente
che avverte un’arcaica e connaturata propensione al pec­
cato.
La sincerità fernet) manifestata dall’orante è motivo per
operare una sostituzione: se è vero che alberga nel cuore
umano l’inclinazione al male, è anche vero che Dio può do­
nare la sapienza che orienta una nuova esistenza (v. 8). L’in­
segnamento della sapienza comporta non una sostituzione
passiva (un semplice «trapianto» di cuore) ma una dimensio­
ne dinamica perché essa è legata alla vita, attraversandone le
fasi. Dio viene presentato come un maestro esperto che edu­
ca il discepolo disposto all’ammaestramento, così come si
legge in Is 54,13: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Si­
gnore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli».
9-11. Invocazione di purificazione. C’è un richiamo diretto
tra questi versetti e i w. 3-4 (ricorrono gli stessi verbi). L’isso­
po è un parente dell’origano, una pianta aromatica, cono­
sciuta per le proprietà sterilizzanti; fungeva da aspersorio nei
casi di lebbra (Lv 14,4.6) e nei sacrifici espiatori (Nm
19.6.18) ; lo si ritrova anche in riferimento all’alleanza del Si­
nai (Es 24,8). Il valore dell’issopo e la sua funzione propizia-
trice si attesta anche nel rito dell’agnello pasquale in cui si
aspergono gli architravi degli Ebrei con il sangue (Es 12,22).
L’altro elemento che richiama la catarsi è la neve, il cui ri­
mando più diretto è in Is 1,18: «Su, venite e discutiamo - di­
ce il Signore - anche se i vostri peccati fossero come scarlat­
to, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come
porpora, diventeranno come lana». Il senso del v. 9 è chiaro:
dalla opacità e dalla sporcizia del peccato si viene depurati
divenendo candidi come la neve (elemento raro nella terra
d’Israele e per questo ancora più bello da guardare: cfr. Sir
43.18) .
Il collegamento classico peccato-castigo spiega lo stato di
benessere descritto nel v. 10: se il peccato provoca afflizione
anche fisica, quando si è perdonati è logico sperimentare la
gioia e la salute di tutta la persona. Le ossa indicano la parte
più interna della struttura fisica (Gb 7,15) che partecipa del
rigoglio pieno della vita che rifiorisce (si usa il verbo «senti­
re» per indicare la percezione del nuovo stato d’animo), ana­
logamente a quanto si legge in Is 66,14: «Vedrete e il vostro
cuore gioirà, le vostre ossa prenderanno vigore come erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi e la sua
ira ai suoi nemici».
Se il peccato rende l’uomo uno scheletro, il perdono ne
rimpolpa le carni (cfr. Ez 37). Per questo si reitera la richiesta
di misericordia che pervade questa prima parte del salmo,
domandando a Dio, dopo avere esibito le proprie mancanze,
di non considerarle più (v. 11).
12-21. Inizia la terza parte del rìb, cioè la domanda di un
nuovo rapporto con Dio.
12-14. Cuore e spirito. L’imperativo iniziale segna la svolta
del salmo. Il verbo b a ra’ («creare») appartiene solo a Dio
(Gen 1,1) perché egli è l’unico a porre in essere le cose dal
nulla (Sai 104,30; 148,5). La ri-creazione dell’uomo nuovo
coinvolge il cuore (lèb), cioè il suo centro intellettivo-volitivo
ma anche il suo soffio {ruoli) vitale (Gen 2,7). Il cuore e lo
spirito richiamano la nuova alleanza di Ger 31,33 in cui Dio
stesso stabilirà un patto nuovo non su tavole di pietra ma
nell’intimo dell’animo umano. Insieme al cuore puro viene
chiesto uno spirito che sia saldo (nakón), cioè fermo, forte:
non più in balia dell’inclinazione al male (quasi uno spirito
da «invertebrato»), ma costante e robusto. Accanto a questa
caratterizzazione nel v. 14 se ne trova un’altra: spirito genero­
so {nedibàh), cioè disponibile, obbediente. Gli imperativi
«rinnova» e «sostienimi» esprimono l’idea che le qualità di
tale spirito, la nuova architettura, la nuova struttura portante
del penitente, si esplicitano in un percorso che porta al pieno
rinnovamento: come per l’insegnamento della sapienza del v.
8, è l’inizio della nuova condizione.
Nel v. 13 c’è anche un altro spirito, quello di Dio. Viene
definito «santo» (qàdds) perché solo Dio è il Santo in assolu­
to (Is 6,3) mentre l’uomo lo è solo se conforma la sua vita alla
santità divina separandosi dalle impurità (Es 19,6; Is 62,12;
63,18; Ger 2,3). Non essere ammessi alla presenza di Dio
equivale ad essere rigettati da lui, non ascoltati e, quindi, non
reinseriti nel progetto d’amore. Quando Yhwh si sottrae, si
decreta la rottura di un rapporto di fiducia (come con Saul in
lSam 28,26) e di alleanza (come per il regno d’Israele e di
Giuda in 2Re 17,20 e 24,20). La presenza (il volto) di Dio e il
suo spirito santo sono, perciò, immagini della medesima per­
sona divina che in maniera performativa si volge benevol­
mente verso il penitente.
15-19. La promessa di un impegno. Come spesso capita
nelle suppliche, l’orante propone di assumersi un impegno
che attesti le proprie intenzioni: «Il ringraziamento per la li­
berazione ottenuta si trasforma in canto catechetico e missio­
nario, il peccatore diventa un predicatore, il suo dramma di­
venta esemplare, la sapienza acquistata dopo il perdono (v. 8)
viene comunicata come strumento efficace per combattere la
follia del peccato».19
L’alleluia (v. 17) rivolto a Dio è la migliore offerta che gli si
possa fare; vale più degli olocausti e dei sacrifici rituali (Sai
22,23). Tutto è nuovo nella vita di chi ha sperimentato il per­
dono: cuore, spirito, ossa, bocca, labbra, lingua.
L’espressione del v. 16 «liberami dal sangue» (in ebraico il
sostantivo è al plurale: «sangui») può spiegarsi collegandola
all’omicidio di Uria da parte di Davide (2Sam 12,9.13) oppu­
re può rinviare a un non meglio precisato delitto con spargi­
mento di sangue (Ger 26,15): sarebbe, perciò, l’ultima richie­
sta per essere affrancato definitivamente dalla colpa grave di
cui l’orante si è macchiato.
Nei w. 18-19 si formula il proposito di non fermarsi più a
un culto esteriore: questo è, in fondo, il capo d’imputazione
espresso nell’intero Sai 50. Il vero olocausto è il cuore del fe­
dele (Is 1,11-14; Os 6,6; Am 5,21-27; Ger 6,20). Il rìb può
concludersi perché c’è stata la definitiva dichiarazione di col­
pevolezza dalla parte che ha offeso. La parte lesa, ormai sod­
disfatta, concede il perdono.
20-21. La finale postesilica. Gli ultimi due versetti sono
un’aggiunta che risale all’esilio o all’immediato postesilio.
Come spesso accade nei salmi, la comunità avverte il bisogno
di attualizzare il contenuto del poema rileggendolo alla luce

19 R avasi, Il Libro dei Salm i. II , 54.


degli avvenimenti che ne segnano la storia. La deportazione
in Babilonia diventa la punizione per il peccato, scontata la
quale Israele può nuovamente rivolgere al Signore la preghie­
ra per riedificare la città santa (Ne 2,17-20) e il tempio per il
sacrificio (Is 62,6). Il sacrificio menzionato anche nel v. 19
(zebah) è l’olocausto { ‘òlàh). Il sacrifico si riferisce general­
mente allo sgozzamento di un animale (Gen 31,54; 46,1), ma
qui compare con l’olocausto (Es 10,25) perché l’animale ma­
cellato spesso veniva in parte bruciato. L’olocausto, infatti,
avveniva attraverso la consumazione caustica, di tutto l’ani­
male o di una parte di esso (Lv 16,3), sull’altare del tempio
dove ardeva, generalmente, un fuoco (Lv 6,5). Esso esprime­
va, normalmente, la dimensione del dono del sacrificio che
veniva offerto cosi come emerge da Lv 9,12-14 in cui si offre
prima l’olocausto e poi il sacrificio espiatorio per il popolo.
La rilettura nazionalistica del salmo giunge alla considera­
zione che, se durante l’esilio la materia del sacrificio era rap­
presentata dal pianto amaro (Sai 137), adesso è il momento
di una liturgia più pura e, quindi, più gradita perché ispirata
da un cuore umiliato.

2.3. Sai 77: il ricordo delle meraviglie passate

Il salmo fonde insieme due generi letterari: la supplica e


l’inno. La cesura tra le due originali composizioni si registra
nel v. 12 in cui ci si rivolge a Dio alla seconda persona. L’o­
rante si rivolge a Dio affinché si ricordi del suo popolo che è
nella prova e intervenga a suo favore. Egli si trova in esilio e
si interroga sul senso dell’agire divino: meditando sugli avve­
nimenti dell’esodo cerca di ancorare la propria speranza alla
memoria dei prodigi passati.20
*A1 maestro del coro. Su «Iedutun». Di Asaf. Salmo.

2La mia voce verso Dio: io grido aiuto! La mia voce verso Dio,
perché mi ascolti.
3Nel giorno della mia angoscia io cerco il Signore, nella notte la
mia mano è tesa e non si
stanca; l'anima mia non si lascia acquietare.
4Mi ricordo di Dio e gemo, medito e viene meno il mio spirito.
5Tu trattieni dal sonno i miei occhi, sono turbato e incapace di
parlare.
6Rifletto sui giorni passati, sugli anni lontani.
7Un canto nella notte mi ritorna nel cuore: medito e il mio spiri­
to si va interrogando.
8Forse il Signore ci respingerà per sempre, non sarà mai più be­
nevolo con noi?
9È forse finito per sempre il suo amore, è cessata la sua promes­
sa per sempre?
10Può Dio aver dimenticato la pietà, aver chiuso nell'ira la sua
misericordia?
n E ho detto: «Q uesto è il mio tormento: è mutata la destra
dell'Altissimo».

12Ricordo i prodigi del Signore, sì, ricordo le tue meraviglie di


un tempo.
13Vado considerando le tue opere, medito tutte le tue prodez­
ze.
140 Dio, santa è la tua via; quale dio è grande come il nostro
Dio?
13Tu sei il Dio che opera meraviglie, manifesti la tua forza fra i
popoli.
16Hai riscattato il tuo popolo con il tuo braccio, i figli di G ia­
cobbe e di Giuseppe.
17Ti videro le acque, o Dio, ti videro le acque e ne furono scon­
volte; sussultarono anche
gli abissi.
18Le nubi rovesciavano acqua, scoppiava il tuono nel cielo; le
tue saette guizzavano.
19U rimbombo dei tuoi tuoni nel turbine, le tue folgori rischiara­
vano il mondo; tremava e si scuoteva la terra.
20Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue
orme non furono riconosciute.
21Guidasti come un gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di
Aronne.

1. La soprascrìtta che segue «al maestro del coro» nomina


Iedutun, uno dei membri della comunità del tempio postesi-
lico; si aggiunge «di Asaf. Salmo». In Ne 11,17-18 leggiamo a
proposito di questi due personaggi: «Mattania, figlio di Mica,
figlio di Zabdi, figlio di Asaf, il capo che iniziava intonando
la preghiera, e Bakbukia, secondo tra i suoi fratelli; Abda, fi­
glio di Sammua, figlio di Galal, figlio di Iedutun. Totale dei
leviti nella città santa: duecentoottantaquattro».
2- 11. Supplica sul presente e sul silenzio di Dio. La prima
parte si struttura nel seguente modo: introduzione (v. 2), la
notte e il ricordo (w. 3-7), le domande su Dio (w. 8-10), sin­
tesi teologica (v. 11).
2. La prima parte del salmo si apre con il v. 2 che funge da
introduzione. E come l’antifona di un invitatorio che pone
enfaticamente la voce del salmista all’inizio del versetto e
all’inizio del secondo stico, ritmandone la lettura {qólt ’el
’élòhim we ’es ‘àqàh / qólt ’el ’éldhtm wehàztn ’èlày). Senza
troppi giri di parole si entra nello stato d ’animo di chi grida
pressantemente al Signore in attesa di un barlume di luce: sa­
rà il tema di questa prima parte.
3- 7. La notte e il ricordo. Il «giorno dell’angoscia» (v. 3) è
annunciato ma non si spiegano i motivi di tale stato d ’animo
che turba, agita l’anima e toglie il respiro (nefes) all’orante
che ansima faticosamente di giorno e di notte. E una condi­
zione conosciuta nella Bibbia (Sai 42,12; 43,5; 55,18); l’e­
spressione ricorre altre due volte: riassume la vicenda trava­
gliata di Giacobbe in Gen 35,3 e ricorre anche in Sai 86,7 in
cui l’orante si sente aggredito da nemici arroganti. In questa
situazione di sofferenza egli ricerca il Signore senza posa,
tendendo le mani verso di lui. È una preghiera notturna (Sai
6,7; 22,3; 32,4; 42,4.9; 88,2) che attende, con l’arrivo del
giorno, una risposta.
Il ricordo del Signore toglie il sonno (w. 4-5): la medita­
zione degli avvenimenti passati (che ancora non sono richia­
mati con precisione) è causa di svenimenti. Lo spirito (ruah)
dell’orante è così debole che - come indica la radice verbale
( '//) - è in una situazione prossima alla morte (Is 57,16). In
un simile frangente sembra trovarsi Giona nel ventre del pe­
sce: anche lui geme, come se fosse negli inferi, e invoca atten­
dendo il sospirato sollievo (Gio 2,7). Le notti insonni inquie­
tano e stremano l’orante al punto da paralizzarne la parola,
come se avesse una grave malattia (Sai 39,3): con gli occhi
sbarrati e la bocca atrofizzata egli sembra nell’anticamera
della morte. Eppure si fa strada un pensiero, un barlume di
speranza (w. 6-7): il ricordo degli anni che furono, una can­
zone che ha impresso la sua melodia nel cuore e la reiterata
meditazione (syh è anche al v. 4) non possono che condurre a
un unico amaro interrogativo.
8-10. Le domande su Dio. La domanda fondamentale ri­
guarda il cambiamento in Dio. Si può provare a riformularla
così: il nostro è un Dio che cambia parere? Ma non era un
Dio fedele che mantiene la sua fedeltà di generazione in ge­
nerazione? Non è egli il «benevolo», colui che ama diversa-
mente dall’amore incostante degli uomini perché egli è Dio e
non uomo (Sai 110,5; 103,17; 106,1; 107,1)? La perdita del
gradimento, quasi un calo di desiderio di Dio nei confronti
del popolo, è uno dei principali motivi di sofferenza e di la­
mentazione nella tradizione orante d ’Israele (Sai 22,2; 43,2;
44,10.24; 60,3; 74,1.8; 88,15; 89,39.47; Lam 2,7; 3,17; 5,22).
Conseguentemente a ciò nel v. 8 si menziona la perdita della
fedeltà: è quindi un Dio infedele? Eppure il Sai 136 fa della
sua misericordia il ritornello che scandisce la storia d’Israele.
La promessa della consegna della terra fatta ad Abramo
(Gen 17,8) e a Mosè (Es 19,5-6; Dt 11,22-24) è stata annulla­
ta (v. 9)? Questo riferimento alla promessa ( ’òmer) palesa la
situazione di esiliato che sta vivendo l’orante, sebbene possa
anche rinviare più genericamente al mutato atteggiamento di
Dio che ha sostituito la bontà con l’ira. In effetti, il v. 10 sem­
bra confermare questa seconda interpretazione. La fedeltà
(hesed) e l’amore viscerale (rahàmim) sono svanite. Tipico
delle lamentazioni è il convincimento che ormai non ci sia
più spazio se non per l’ira e il castigo, e che la situazione sia
irrimediabilmente precipitata: «Perché ci vuoi dimenticare
per sempre? Ci vuoi abbandonare per tutta la vita?» (Lam
5,20). Eppure fa parte sempre di tale genere la consapevolez­
za che «Perché il Signore non allontana per sempre. Ma, se
affligge, avrà anche pietà, secondo l’abbondanza delle sue
grazie» (Lam 3,31-32; cfr. anche Sai 13,2; 39,2-5; 74,1.10.19;
85,6; 89,47).
11. Sintesi teologica. La conclusione alla quale giunge la
meditazione del salmista è che ormai l’agire di Dio - di cui la
mano destra esprime la potenza salvatrice come nel passag­
gio del mar Rosso (Es 15,6; cfr. anche Sai 118,15-16; 138,7) -
non è più conforme a quanto raccontato dai padri. Crollano
le certezze teologiche nel momento in cui Dio non fa ciò che
si spera e che ci si aspetterebbe: questo è un vero tormento
per il pio Israelita o, secondo una traduzione possibile, que­
sta è per l’orante una profonda ferita.21
12-21. Inno sul passato salvifico e memoria della teofania.
Questo inno presenta dei tratti arcaizzanti e dei collegamenti
con elementi mitologici di Es 14, caratteristiche che hanno
spinto alcuni autori a ipotizzare una possibile datazione anti­
ca (X sec. a.C.). Netto è, comunque, l’inserimento di motivi

21 Cfr. L o ren zin , l S a lm i, 294.


desunti dai racconti della teofania esodica (le acque, il tuono,
le folgori, il terremoto).
12-13. Introduzione anamnetica. Con il v. 12 l’orante inizia
a rivolgersi a Dio dandogli del tu. Se è vero che anche nel v. 5
ciò era accaduto, è altrettanto chiaro il tono più distaccato
della prima parte del componimento. Il verbo zàkar («ricor­
dare») compare due volte nel v. 12. L’attitudine a fare memo­
ria dei prodigi divini (anamnesi) prepara l’invocazione del
suo rinnovato e puntuale intervento (epiclesi), anticipando la
sua futura epifania, attesa con fiducia e abbandono. Questo
stile di preghiera - tipico del postesilio - caratterizza la pre­
ghiera di alcuni salmi legati all’esperienza di dolore. I Sai 41-
42, per esempio, esprimono la nostalgia del ricordo dei tempi
passati in cui nella liturgia templare si sperimentava la vici­
nanza di Dio (41,5); il presente, tuttavia, è segnato dall’ingiu­
stizia e dalla beffa (42,1-2) e solo sotto la guida sicura di Dio,
attraverso la sua luce e la sua verità (42,3), si potranno di
nuovo cantare inni di gioia e di ringraziamento. La medita­
zione mormorata di cui parla il v. 13 (radice del verbo hàgàh)
conferisce a questo memoriale in cui convivono due stati d ’a­
nimo - l’angoscia per il silenzio divino e la speranza di un
suo pronto intervento - la dimensione della preghiera. Medi­
tare, infatti, non esprime solo una fredda attività mentale ma
è una professione di fede: è la ripetizione sussurrata di testi
biblici, richiamando i quali si stabilisce un legame tra passato
e presente; è anche il canto a cui accennava il salmista nel v.
7. Ciò che l’orante medita sono, perciò, le meraviglie del Si­
gnore e le sue portentose azioni salvifiche.
14-21. Corpo dell’inno teofanico.
14-16. Introduzione. Anzitutto si dichiara la superiorità di
Dio (’éldhim) sugli altri dèi (v. 14). Non è primaria preoccu­
pazione del salmista negare l’esistenza degli dèi ma professa­
re il primato del suo Dio; in questo senso il componimento
rivela elementi teologici anteriori al monoteismo esclusivo ti­
pico della scuola deuteronomista. Il collegamento tra i w.
12.14 e 15 con Es 15,11 è lampante: «Chi è come te fra gli
dèi, Signore? Chi è come te, magnifico in santità, terribile
nelle imprese, operatore di prodigi?».
La via (derek) è il suo piano, il suo progetto (Sai 18,21-22;
67,3; 95,10; 138,5). È santa nel senso di retta, ispirata a veri­
tà, non fallibile né arrestabile; è perfetta perché la sua parola
è integra (2Sam 22,31), è diritta perché tale parola del Signo­
re è provata al fuoco (Sai 18,31). La superiorità di Dio si pa­
lesa nella storia (Sai 77,15-16) sconfiggendo i popoli pagani e
liberando il popolo d ’Israele. Il braccio di Dio è simbolo del­
la sua stessa forza e potenza (Es 6,6; 13,14; 15,16; Dt 4,34;
5,15; 26,8).
La radice g ’I - legata al riscatto dei beni o delle persone
da parte del parente più vicino22 (cfr. Lv 25,25-27; Nm 35: il
vendicatore del sangue) - rivela il concetto di segullàh tipico
del contesto dell’alleanza sinaitica (Es 19,5); Yhwh è il libera­
tore (g d ’él) che acquisisce Israele riscattandolo dalla mano
del faraone: Israele ormai gli appartiene come proprietà
esclusiva, come figlio primogenito (Es 4,22-23). L’espressione
«figli di Giacobbe e di Giuseppe» è attestata nella Bibbia so­
lo qui (v. 16); forse si allude al regno del Nord (Samaria) al
quale il salmista appartiene.
17-21. L’inno teofanico. Questi versetti fondono insieme la
manifestazione sinaitica e il passaggio del mar Rosso. Della
teofania di Es 19,16-25 che presenta 1’awicinarsi di Dio al
popolo come un elemento terrificante e, addirittura, perico­
loso, ricorrono i seguenti motivi: la nube, elemento cosmico
che ha la capacità di velare e, allo stesso tempo, di svelare la
presenza attiva di Dio (facendo supporre che egli abiti nel
cielo); la luce (i lampi); il tuono e la tromba; il terremoto. La

22 In questo senso va letta anche la storia tra Rut e Booz in cui quest’ultimo - in quan­
to parente prossimo di Maclon, marito ormai deceduto di Rut - riscatta il campo e con
esso la stessa Rut da colui al quale precedentemente appartenevano (Rut 3-4).
scena è terrificante: il Sinai in fuoco (un vulcano in piena
eruzione), il suono sempre più assordante della tromba e la
voce tuonante di Dio che parla a Mosè, costituiscono un rea­
le pericolo per la vita del popolo, al punto che lo stesso
Yhwh scongiura di tenersi a debita distanza. In Sai 77,18 si
aggiunge la menzione dell’acqua (una sorta di violento nubi­
fragio) che ricorre in altre manifestazioni teofaniche (Sai
18.13- 14; 68,10).
Del passaggio del mar Rosso il salmista conserva la memo­
ria mitologica della lotta con le acque primordiali: il termine
del v. 17 tehóm («oceano-abisso») è molto simile a Tiamat,
una divinità mesopotamica - dell’opera chiamata Enuma elis
- contro la quale lotta Marduk, il Dio creatore, affermando
la propria superiorità e autorità. Il rimando alle acque rivela,
oltre a questa dimensione mitica legata al Dio cosmico (Sai
74.14- 15; 107,23.26; Is 43,2-3), anche un significato storico
in rapporto ai nemici d ’Israele che Dio combatte e vince (Sai
144,7; Is 17,13; Ger 46,7-8; Ez 32,2.14).
Eppure quest’azione potente di Dio sembra non lasciare
tracce per coloro che sono incapaci di una lettura di fede:
forse l’orante allude alla poca fiducia del popolo verso Dio
nonostante i suoi interventi (Es 17; Nm 20) oppure, più ge­
nerale, professa la superiorità del Deus absconditus, sempre
oltre l’umana comprensione (Qo 3,10-15).
L’ultimo versetto del componimento (v. 21) continua l’im­
magine della via dei w. 14 e 20, presentando Dio come il
buon pastore (Sai 23,1) che guida, mediante Mosè e Aronne,
l’Israele-gregge. Possiamo concludere dicendo che il timore
del salmista di rimanere senza la solida guida di Dio è «esor­
cizzato» e superato ancorandosi ai capisaldi della fede dei
padri. Perciò, alle domande dei vv. 8-10 sul mutamento
dell’amore divino, egli oppone la certezza del suo comprova­
to amore pastorale.
2.4. Sai 92: il canto del giusto

Il salmo è un tipico esempio di inno: invito alla lode con


strumenti musicali a corde (w. 2-4); corpo dell’inno che svi­
luppa i motivi della lode: la ricompensa dei giusti (w. 5-14);
conclusione: rinnovato invito al riconoscimento della rettitu­
dine di Dio (w. 15-16). Il componimento, la cui unità si rav­
visa principalmente a livello tematico, non rivela una struttu­
razione marcata.
Il Sitz im Leben originario è sfumato: potrebbe trattarsi di
un’istruzione impartita da un maestro sotto forma di pre-
ghiera/canto, perché la centralità della tematica della retribu­
zione e il tentativo di offrire delle risposte è tipica di una
trattazione sapienziale «classica» (Proverbi e Siracide).23

ialino. Canto. Per il giorno del sabato.

2È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altis­


simo,
3annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte,
4sulle dieci corde e sull’arpa, con arie sulla cetra.

^Perché mi dai gioia, Signore, con le tue meraviglie, esulto per


l’opera delle tue mani.
6Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi
pensieri!
7L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non li capisce:
8se i malvagi spuntano come l’erba e fioriscono tutti i malfattori,
è solo per la loro eterna rovina,
9ma tu, o Signore, sei l’eccelso per sempre.
loperché ecco, i tuoi nemici, o Signore, i tuoi nemici, ecco, peri­
ranno, saranno dispersi tutti i malfattori.
nTu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splen­
dente.

23 Cfr. R avasi, Il libro dei Salmi. II, 919-937.


12I miei occhi disprezzeranno i miei nemici e, contro quelli che
mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure.
13I1 giusto germoglierà come palma, crescerà come cedro del L i­
bano;
spiantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro
Dio.

13Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno verdi e rigoglio­


si,
16per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non
c’è ingiustizia.

1. Il titolo accosta i due termini «salmo» e «canto» legan­


doli alla celebrazione del giorno di sabato: «è l’unico salmo
nel Testo Masoretico con la rubrica, che ne stabilisce l’uso li­
turgico nel giorno di sabato; il Salterio greco, invece, contie­
ne cinque salmi con soprascritte riguardanti l’uso nelle litur­
gie del sabato (Sai 24; 48; 92, 93 ; 94)».24 Il trattato Tamid
della Mishnà accoglie questa intestazione e la orienta escato­
logicamente legando il riposo sabbatico alla pace eterna.
2-4. Invito a lodare Yhwh. Il versetto iniziale si apre con
l’aggettivo tób che ricorre nell’Antico Testamento 741 volte.
Tre sono i suoi principali significati. Il primo è di natura etica
(per esempio in rapporto alla bontà di Yhwh in Sai 34,9); in
questo senso «buono» è opposto a «cattivo» (Am 5,14); il se­
condo è funzionale, cioè in rapporto alla convenienza di una
cosa rispetto a un’altra (vedi per esempio Es 14,12; Nm 14,3;
lSam 27,1); il terzo significato è estetico e rimanda alla bel­
lezza del corpo umano e al fascino ad essa legato (Gen 6,2;
24,16; 26,7; 2Sam 11,2; Est 2,2.3.7). Il Sai 92 è l’unico a ini­
ziare con questo aggettivo, il cui valore richiama il macari-
smo («B eato...») con cui si aprono altri salmi (1,1; 32,1.2;
41,2; 112,1).

24 L o r e n z in , I Salm i , 363.
La bontà del rendimento di grazie rivolto a Dio nel canto
(qui chiamato Yhwh e ‘eliyón, «Altissimo») non ha sosta (v.
3): dalla mattina alla sera fino a percorrere l’intera nottata,
secondo un merismo consueto che indica gli estremi del gior­
no per includere l’intero scorrere del tempo (Sai 1,2; 22,3;
32,4). L’amore misericordioso (hesed) e la fedeltà ( ’émunàh)
sono gli attributi divini che vengono lodati: termini che ca­
ratterizzano l’agire divino al punto da venire personificate
nei Sai 85 e 89.
Non è facile capire quali siano gli strumenti musicali men­
zionati, anche perché del primo l’ebraico riporta la parola
«dieci» che è da leggersi come uno strumento con più corde
che veniva suonato come un’arpa o qualcosa di simile. Sicu­
ramente l’immaginario del Salterio ricorre a tali strumenti
per descrivere l’anima stessa della lode, in cui il canto e la
musica si accordano per esprimere la gioia dello spirito
dell’orante (lC r 16,4-6 e 2Cr 34,12).
5-14. Corpo dell’inno. La ripetizione della particella k i
(«perché»: w. 5 e 10) segnala la divisione in due strofe del
corpo laudativo (w. 5-9; 10-14).
5-9. Il Signore è più forte dei malvagi. I primi due versetti
(5-6) si concentrano su Yhwh. Egli è motivo di gioia per l’o­
rante a causa delle sue meraviglie e dell’opera delle sue mani,
secondo uno stereotipo del suo agire come Creatore (Sai 8,7;
143,5). La sequenza dei sostantivi prodigi-opere/opere-pen-
sieri pone al centro la visibilità dell’intervento divino di cui
l’uomo fa esperienza: questo amore è un dato di fatto, non è
soltanto frutto di una proclamazione vaga e, perciò, gratuita.
L’insistenza su questo dato teologico sembra trovare una ra­
gione ben precisa, perché nei w. 7-8 l’esperienza del salmista
registra un’anomalia nel piano superiore che egli intrawede.
La sua esperienza, infatti, non è universale, nel senso che non
è esperita da tutti i suoi simili; anzi: lo stupido non la cono­
sce e lo stolto non la comprende. Il primo {’is ba‘ar\ cfr. Ger
10,8) ma, soprattutto, il secondo (testi) appartengono a quel­
la categoria di soggetti privi del necessario comprendonio e
che, proprio per questo, necessitano dell’istruzione (Pr 3,32-
35). Ma possiamo intendere l’accostamento di questi soggetti
accentuando la loro dimensione morale: ’is ba ‘ar in Ez 21,36
è l’uomo violento, mentre kesil in Pr 18,2.6 è colui che pro­
voca imprudentemente, suscita litigi; per cui non solo non
capiscono ma, ostinati, non vogliono intendere.
Infatti, il lungo v. 8 (si compone di tre stichi) menziona
esplicitamente il malvagio (r a s a ') e i malfattori in genere,
gente cattiva che non può conoscere e apprezzare le opere
meravigliose di Dio o, per dirla con il libro della Sapienza,
tentano Dio, lo mettono alla prova, sragionano su di lui e
non hanno rette intenzioni: per tali ragioni restano esclusi
dalla sua presenza e dall’intimità del suo progetto (Sap 1,1-
4). Il giudizio sulla loro sorte è netto: come l’erba ha vita bre­
ve (è questa in fondo la condizione di ogni mortale secondo
Sai 103,15-16), così il rigoglio dei malvagi è solo un fenome­
no momentaneo. Alla brevità della loro vita su questa terra
corrisponde, in aggiunta, una rovina eterna.
I Sai 37 e 73 sono accomunati con questo salmo dalla te­
matica della retribuzione, in cui fa problema il rigoglio del
malvagio che, secondo la teoria classica della retribuzione,
dovrebbe soccombere e patire malattia, miseria e morte. Nel
Sai 92 questa questione, che rischia di complicarsi come nella
vicenda di Giobbe e Qoelet, è risolta con una professione di
fede: «Tu sei l’eccelso!» (v. 9). La superiorità di Yhwh non
teme la momentanea aporia del suo progetto perché egli,
dall’alto della sua posizione, tutto domina. Egli è màróm, so­
stantivo che ha connotazioni sia storiche che mitologiche: il
più alto di tutti gli altri dèi, l’irraggiungibile, l’imbattibile
(Gb 31,2; Is 33,16; Mi 6,6). Il testo di Is 57,15 esprime a pie­
no il senso del v. 9 del nostro salmo: «Così parla l’Alto e l’Ec­
celso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: in un luo­
go eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi
e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il
cuore degli oppressi».
10-14. Il vigore del giusto. Dopo le dichiarazioni del v. 8, si
reitera la ferma convinzione che i malvagi, qui chiamati per
due volte «nemici» a conferma del profilo negativo che sin
qui si è andato tracciando, saranno eliminati e dispersi (v.
10). Continuando l’analogia con l’erba del v. 8 si dice che essi
saranno separati, sparpagliati, dispersi, similmente alla pula
di Sai 2,4.
L’immagine del bufalo (v. 11) è particolarmente evocativa.
L’orante, che recupera le proprie convinzioni di fede davanti
al possibile smacco rappresentato dai malvagi, è presentato
come un bufalo nel pieno delle propria potenza muscolare,
animale indomito che non si piega ad essere utilizzato in
agricoltura (Gb 39,9-12) e la cui rabbia gli fa avere la meglio
sui nemici (Nm 23,22; 24,8; Dt 33,17; Sai 22,22; Is 34,7).
Possiamo dire che il simbolo del bufalo veicola universal­
mente l’idea di forza e di potenza selvaggia. Nel Vicino
Oriente Antico venne adorato nelle sembianze di un animale
sacro, il toro lunare, associato alla grande Madre e, in segui­
to, a Mitra. Grandi bovini (uri) sono dipinti sulla porta di
Istar: le corna dell’animale servivano ad allontanare il male.
Non è un caso che il termine ebraico «forza», utilizzato dal
salmista, sia qeren, che significa «corno» (cfr. Sai 75,5-6;
89,18), secondo un comune immaginario attestato anche nel­
la lingua egizia che include tale segno (insieme al braccio e al
piede) tra quelli che compongono il vocabolo «forza» {‘ab).
L’unzione («mi hai cosparso di olio splendente», v. 11) to­
nifica il muscolo, lo rende più splendente e pronto per la bat­
taglia. Dalla descrizione di questa forza della natura si passa
al contesto tutto umano della sfida tra nemici (v. 12): lo
sguardo lanciato contro il proprio avversario esprime corag­
gio e sprezzante risentimento. Le due immagini (gli occhi e
l’olio) compaiono anche in Sai 23,5 in cui l’orante può tran­
quillamente sedere a mensa, ormai al sicuro, sotto lo sguardo
dei propri avversari resi inoffensivi. Udire la sventura del ne­
mico significa prendere atto della sciagura che li ha colpiti
(Ez 7,5.26) e di quel ristabilimento della giustizia che è stato
annunciato nei versetti precedenti (anche se non si specifica­
no le modalità di tale ribaltamento di fronti).
Il secondo simbolo che domina il Sai 92 è la palma (w. 13-
14). Con questa immagine si apre il Salterio (1,3): il giusto
Csàddiq) è presentato come una pianta sempre fruttifera che
non secca mai. Nel Sai 92 l’accentuazione è non tanto sui
frutti quanto sulla rigogliosità (fiori), coerentemente con l’al­
tra immagine, quella del bufalo. L’accostamento con l’albero
di cedro che proviene dal Libano conferma l’idea della po­
tenza che caratterizza il giusto (Ez 31,3), il quale è fisso, ben
piantato come un albero maestro ricavato dal tronco di que­
sta pianta (Ez 27,5). La particolarità di questi due alberi è
data dal luogo in cui sono interrati perché essi abbelliscono
l’atrio del tempio. Il messaggio sembra essere il seguente: so­
lo se l’orante resta nello spazio della fede può godere della
linfa che dona il Signore e ricevere stabilità.
15-16. Rinnovato invito al riconoscimento della rettitudi­
ne di Dio. Questi due versetti chiudono il compimento che,
secondo il genere letterario dell’inno, dovrebbero servire per
reiterare l’invito alla lode. Qui tale invito è un po’ sfumato,
anche se presente. Si completa il ciclo vegetativo iniziato con
la fioritura (w. 13-14) perché si menzionano i frutti donati
nella vecchiaia (cioè anche se le piante non sono più nel pie­
no ciclo produttivo), mentre si sottolinea nuovamente il vigo­
re mai appassito della palma e del cedro (v. 15). L’invito alla
lode, anche se non è consegnato con la solita forma verbale
(coortativo), è espresso nell’infinito del verbo «annunciare»
[lehaggìd) che crea un’inclusione con il v. 3, che si apre con la
medesima forma verbale. Alla fine il salmista scopre le sue
carte: non è da attribuire alla responsabilità divina la sventu­
ra del giusto e il favore di cui gode, invece, il malvagio; il Si­
gnore è retto e lo dimostra fortificando il giusto, rinverden­
dolo nella fede, inserendolo in un rapporto vitale con lui (gli
alberi piantati nel tempio), liberandolo dalle sabbie mobili
dell’incredulità perché Yhwh è roccia (2Sam 22,2; Sai 18,3;
31,4; 62,3.7; 144).

2.5. Sai 111: l’elogio della bontà divina

Inizia con questo salmo25 una piccola serie di componi­


menti alleluiatici (Sai 111-117), quasi un libretto liturgico di
cui il primo versetto funge da antifona: «L odate Y ah!»
(halelu yàh). La composizione alfabetica (acrostico alfabeti­
co) caratterizza il Sai 111 e lo lega al 112. Come anche in altri
componimenti, fare iniziare un versetto (25; 34; 145) o un
gruppo di versetti (9-10; 119;) con una lettera dell’alfabeto
ebraico, ha una funzione mnemonica e un rimando alla tota­
lità che caratterizza il componimento. In questo caso, già dal­
la prima lettura, risalta il tema della pienezza della lode ispi­
rata dall’agire storico-salvifico di Dio.
Il legame con il Sai 112 è da riscontrare a livello termino­
logico, sebbene quest’ultimo si concentri sull’uomo giusto,
aprendosi con un macarismo che ne connota il genere, men­
tre il Sai 111 si rivolge a Dio con «inno di ringraziamento»
(quindi è una via di mezzo tra l’inno e la tódàh): la stabilità
dei comandi divini, la sua giustizia, la sua generosità, il suo
agire per sempre trovano eco nella vita del giusto.

25RAVASI, Il libro dei Salmi. IH, 301-315.


1 Alleluia.
Alef Voglio rendere grazie al Signore con tutto il cuore,
Bet tra gli uomini retti riuniti in assemblea.
Ghimel 2 Grandi sono le opere del Signore:
Dalet le ricerchino coloro che le amano.
He 3 Il suo agire è splendido e maestoso,
Waw la sua giustizia rimane per sempre.
Zain 4 Ha lasciato un ricordo delle sue meraviglie:
Het misericordioso e pietoso è il Signore.
Tet 5 Donò il cibo a chi lo teme,
Yod si ricorda sempre della sua alleanza.
Kaf 6 Mostrò al suo popolo la potenza delle sue opere,
Lamed gli diede l’eredità delle genti.
Mem 7 Le opere delle sue mani sono verità e diritto,
Nun stabili sono tutti i suoi comandi,
Samek 8 immutabili nei secoli, per sempre,
‘Ayn da eseguire con verità e rettitudine.
Pe 9 Mandò a liberare il suo popolo,
$ade stabilì la sua alleanza per sempre.
Kof Santo e terribile è il suo nome.
Res 10 Principio della sapienza è il timore del Signore:
Sin rende saggio chi mette in pratica i precetti
Tau La sua lode rimane per sempre.

1. H primo verbo che apre il componimento con la consonan­


te alef è yàdah v&ì'hifil ( ’ódeh nella forma coortativa: «Voglio ren­
dere grazie»). I luoghi in cui si rende questa azione di grazie sono
rintimo dell’uomo colto nella sua dimensione intelletivo-volitiva
(il cuore) e l’assemblea comunitaria. «Con tutto il cuore» può far
pensare alla fraseologia tipica della scuola deuteronomistica (Dt
4,29; 6,5-6; 30,2.6.10), sebbene possa anche indicare, più sempli­
cemente, l’indivisibilità dello spirito umano che si protende in­
tensamente verso il Signore. In un caso o nell’altro, commenta L.
Alonso Schòkel, «è il punto di partenza di tutto il salmo: il rosa­
rio di aforismi vuole essere un’espressione “ cordiale”».26

26 A lo n so S ch ò k e l - C arniti , I Salm i. II, 519.


Il consiglio e l’assemblea dei giusti sono i luoghi pubblici della
punizione per i delitti più gravi quali l’adulterio (cfr., per
esempio, Dn 13,41: il caso della giovane Susanna accusata di
adulterio e giudicata davanti all’assemblea; si vedano anche
lSam 14,44-45; IRe 21,12; Ne 5,7). In Siracide si nomina l’as­
semblea della città come luogo in cui pubblicamente si può es­
sere svergognati (Sir 1,28; 7,7; anche in Pr 5,14), e al cui co­
spetto (nelle piazze: Sir 23,21) il peccatore sarà punito e/o giu­
stiziato (cfr. anche Sir 23,22-24). Il salmista, perciò, probabil­
mente non sta pensando direttamente a un’assise liturgica an­
che se tale significato non sarebbe totalmente da escludere.
2-3. Che le opere di Yhwh (la creazione, la liberazione, il
dono della Legge e della terra) siano grandi e vadano lodate
è un dato assodato e già proclamato anche in altri passi (Sai
46,49; 107,24; 118,17; Sir 12,4; 40,16.33). Meno usuale è l’in­
vito a ricercarle rivolto a coloro che le amano. Il verbo dàras
significa «ricercare, investigare» (da cui midrash) e «studia­
re» (Esd 7,10). Possiamo dire che quanto il Signore pone in
essere a favore degli uomini è meraviglioso, splendido e mae­
stoso, dal momento che è oggettivamente all’evidenza di tut­
ti; più discutibile è il suo significato soggettivo, cioè il signifi­
cato che ogni uomo trae dalla contemplazione del creato e
della storia. Questo senso di fede è accessibile solo a chi si
applica con amore (hàfès si legge anche in Sai 1,2: «coloro
che provano diletto, gusto») allo studio attento del passaggio
di Dio. La coppia «splendido-maestoso» (abbiamo frasi no­
minali: hód wehàdàr, «maestà e splendore») è un ritornello
abbastanza attestato anche in altri salmi (21,6; 96,6; 104,1;
cfr. anche lC r 16,27) e decanta la grandezza di Dio che sor­
prende e meraviglia l’uomo. In questo senso, come attributo
divino, va inteso anche sedàqdh («giustizia»): essa resta per
sempre perché solo Dio è senza ombra di cambiamento il
giusto (Sai 71,16).
4. La costruzione zèker ‘àsah («fare un ricordo») compare
solo qui. «Meraviglie», abbastanza frequente nel Salterio
(72,18; 86,10; 106,22; 119,18; 136,4), si può rendere con
«prodigi». Dopo la prima (v. 3) compare la seconda coppia
di titoli teologici «m isericordioso e p ieto so » (fyannun
werahum) che rinvia a Es 34,6 (cfr. Sai 103,8). In effetti, i w.
4-9 evocano gli avvenimenti dell’esodo dalla liberazione
all’ingresso nella terra. La pietà divina ha a che fare con le
sue viscere (rehem) ed esprime un amore profondo e intenso
(Is 49,15).
5-6. Il primo prodigio ad essere citato è quello del cibo.
Non si nominano esplicitamente la manna e le quaglie ma si
utilizza il vocabolo teref che significa «preda, provvista, bot­
tino» (Sai 76,5; Mi 3,10; Pr 31,15). Tale sostantivo permette
di stabilire un legame con il v. 6 in cui si richiama l’occupa­
zione di Canaan e l’espropriazione degli altri popoli per fare
posto a Israele; nahalàh è, infatti, il possesso della terra inte­
sa come dono (Dt 4,38; 9,4-6; Sai 2,8; 135,12; 136,22). La
potenza delle opere di Yhwh richiama le dieci piaghe ma an­
che il passaggio del mar Rosso (Es 7-14).
L’alleanza (berit si legge anche nel v. 9), di cui il Signore si
ricorda, è quella di Abramo (Gen 15) ma anche il patto bila­
terale sancito in Es 19-20; qui si sottolinea maggiormente la
partecipazione attiva di Dio a tale impegno. In questo senso
berìt più che rimandare al patto tra due contraenti i quali «ta­
gliano» un’alleanza (kàrat berit), pone l’accento sull’auto-as­
sunzione del vincolo da parte di Dio, come in Gen 15 (alle­
anza unilaterale da rendere con «impegno, promessa»).
7-8. Il contenuto di questo versetto è molto simile a quello
del v. 3. La coppia «verità e diritto» ( ’émet v^mispat) compa­
re anche in Zc 8,13 in rapporto alla nuova condotta degli
abitanti di Gerusalemme. Il termine piqqudim (sinonimo di
comandamenti) è raro ed è usato solo nei salmi più recenti
(19,9; 103,18; 119,21). L’idea della perennità caratterizza l’in­
tero Sai 111 ricorrendo nei w. 3, 5, 7, 8 e 9, così come Tinsi-
stenza sul «fare»: il Signore fa tanto per il suo popolo che, a
sua volta, deve praticare con verità e rettitudine i comandi ri­
cevuti.
9. È il versetto più lungo perché si sviluppa su tre stichi.
La liberazione è quella dalla schiavitù d ’Egitto e la menzione
dell’alleanza invita a spiegare gli aggettivi qàdós wen ó rà’
(«santo e terribile») come collegati alla teofania sinaitica in
cui il popolo ha paura di Yhwh perché teme per la propria
incolumità (Es 19). Sia «santo» che «terribile» sono attestati
in rapporto a Dio o al suo nome (Sai 99; 96,4; 103; Dt 28,58):
Yhwh è santo, cioè separato da tutto ciò che non è santo e
puro. Per cui quanti sono privi di tale attributo non possono
accedere alla sua presenza; anzi, potrebbero perire se doves­
sero vederlo faccia a faccia (Es 33). «Stabilì»: in ebraico si ha
il verbo swh da cui deriva il sostantivo miswàh e sottolinea la
perentorietà e l ’irrevocabilità del patto (Es 12,28.50;
16,16.24.32.34; 19,7; 23,15; 34,4.11.18.32.34).
10. Anche l’ultimo versetto abbraccia tre stichi. I primi
due sono tratti dal cuore della tradizione sapienziale. Che il
timore di Yhwh sia l’inizio della Sapienza è un dato assodato
sin da Pr 1,7 e ripetuto a più riprese (Pr 9,10; 15,33; Gb
28,28; Sir 1,14.20). Temere Dio significa non avere terrore di
lui ma provare quella giusta venerazione e quel profondo ri­
spetto che la creatura deve al suo Creatore (cfr. quanto detto
a proposito di Pr 2,5: pp. 196-197). Sempre nella tradizione
sapienziale si colloca l’insistenza sulla pratica dei precetti (Pr
6,6-11). E saggio (qui compare il termine sekel che esprime la
sfumatura dell’essere intelligente nella fede: Dn 1,4) chi con­
cretamente non si pone solo in un rapporto di natura mera­
mente intellettuale ma si dispone all’applicazione concreta.27
L’ultimo stico, che si apre con la lettera tau, rinnova il te-

27 Le antiche versioni hanno il suffisso di terza persona singolare riferito alla saggezza
(così anche la traduzione CEI del 2008). Il testo ebraico ha, invece, il suffisso al plurale ri­
ferito ai comandamenti.
ma portante del salmo, indugiando sulla constatazione che la
lode rivolta al Signore non conosce interruzione, perché si
trasmetterà di generazione in generazione, senza fine: eterna
è la sua giustizia (v. 3), la sua alleanza (v. 5.9), le sue opere (v.
8) e, quindi, anche l’inno di lode riconoscente per tutti questi
suoi doni. Con le medesime parole il Sai 145, simile anche
perché segue l’acrostico numerico, chiude la lode a Dio de­
scritto come re potente (v. 21).

2.6. Sai 58: c’è un Dio che fa giustizia

Partiamo da una considerazione generale: per quanto si


debba considerare che il giusto rinunci a farsi giustizia da sé
ma affidi a Dio la vendetta, resta che «il Samo 58 è una delle
pagine più imbarazzanti del Salterio [...]: lo è per il lettore cri­
stiano a causa del tessuto d ’invettive che lo costituisce, a causa
dello spirito di vendetta che trasuda da ogni riga [...], lo è an­
che per gli esegeti a causa del suo testo giunto a noi in condi­
zioni pessime, in qualche punto incomprensibile e oscuro o in­
traducibile senza ricorrere a congetture e restauri ipotetici».28
Il poema, infatti, fa parte di quei componimenti che ven­
gono annoverati tra i salmi imprecatori (Sai 83 e 109), lamen­
ti individuali o collettivi caratterizzati dall’esplicito desiderio
dell’orante di vedere perire i propri nemici e da un chiaro
senso di rivalsa e di vendetta.29 Un’inclusione racchiude il
componimento (giustizia/giudicare ai w. 2ab e 12ab), la cui
struttura è concentrica: A. invettiva contro i potenti oppres­
sori (w. 2-6); B. intervento divino (v. 7); A’, rovesciamento
della situazione (w. 8-12).

28R avasi, Il Libro dei Salmi. Il,


167.
29 Testi affini si trovano anche altrove nel Salterio: 5,11; 121,9-13; 28,4-5; 31,18-19;
35,3a4.8.24-26; 40,15-16; 54,7; 55,16; 56,8; 59,6-9.12-16; 63,10-12; 69,23-29; 79,6-7;
110,6; 137,7-9; 139,19-22; 140,10-12; 141,10; 143,12.
Due sono i livelli che trovano espressione nella stesura fi­
nale del testo. Il primo è quello più arcaico in cui c’è una
protesta-accusa contro gli dèi pagani che Yhwh ha detroniz­
zato (w. 2-3.8-10.12). Un segno di questa arcaicità si può ri­
conoscere nel v. 2 in cui compare ’élem (qui reso con «poten­
ti»), in origine ’élim /’éldhim «dèi». Il secondo livello del sal­
mo sarebbe più recente (postesilico per Ravasi, ma non è fa­
cile dedurlo): presenta una lamentazione-invettiva contro i
rappresentanti del potere esecutivo e giudiziario attraverso
immagini molto cruente, ricordando loro che la propria ne­
gligenza sarà punita dal solo giudice giusto, Dio (vv. 4.5-
7.11). Il risultato finale del componimento è dato dalla riela­
borazione di questi due livelli: «di fronte alla miseria altezzo­
sa e prepotente affiorano spontanee le parole dell’antica ma­
ledizione anti-idolatrica che ora viene colorita con nuove im­
magini, orientata verso la giustizia e nutrita dall’etica del ta­
glione; nasce così una preghiera “sociale” , sanguigna, non
ancorata a moduli ieratici».30

•Al maestro di coro. Su «Non distruggere».31 Di Davide. Mik-


tam.32

2Amministrate davvero33 la giustizia con fedeltà, o potenti?34

30 R avasi, Il Libro dei Salmi. IL 177.


31 «Non distruggere» può anche indicare la modalità con cui il salmo va recitato, cioè
senza abbreviarlo.
32 II termine miktal è stato variamente interpretato. Per alcuni significa «preghiera
segreta» o «preghiera da recitarsi a bassa voce o a bocca chiusa», per altri ancora esso
significa «dottrina» o «avvenimento ineffabile». Per i Settanta si tratta di un’iscrizione su
stele, probabilmente collegando mitkal alla parola ketem («oro»); ciò permetterebbe di
comprendere anche l’indicazione «non distruggere»: la soprascritta sarebbe un’iscrizione
aurea che assicurerebbe la conservazione del salmo.
33 II salmo si apre con un termine molto raro che è formato da una particella interro­
gativa più un avverbio enfatico («certo, veramente»), che può avere risposta positiva o ne­
gativa.
34 Non tutti gli autori leggono il testo in questo modo: c’è chi legge 'èlem (che compa­
re solo qui e nel titolo del Sai 56) come un sostantivo della radice II di ’lm che al nifal si­
gnifica «tacere, stare zitto, ammutolire» (Is 53,7; Ez 3,26; 24,27; 33,22; Sai 31,19; 39,3.10;
Giudicate forse con rettitudine i figli degli uomini?
3Voi invece premeditate iniquità,35 nel paese fate pesare la vio­
lenza delle vostre mani.
4Gli empi sono sviati fin dalla nascita, fin dal seno materno sono
traviati quelli che dicono menzogne.
5Hanno veleno simile a quello del serpente, sono come vipera
sorda che si tura le orecchie,
6che non dà ascolto alla voce dell'incantatore, del mago abile ne­
gli incantesimi.

7Dio, spezza i loro denti nella loro bocca; le zanne da leoni fran­
tuma, Signore!

8Si disperdano come le acque, scorrano via con esse, come erba
calpestata si inaridiscano.
9Siano come lumaca36 che si scioglie strisciando, come aborto di
donna che non ha mai visto il sole.
10Prima che le vostre pentole sentano il calore dei rovi, crudi o
cotti, il turbine li37 porti via.
11Si rallegrerà il giusto nel vedere la vendetta, laverà i suoi piedi
nel sangue degli empi.
12E gli uomini diranno: «Certo, c'è una ricompensa per il giu­
sto! Certo, c'è Dio che fa giustizia sulla terra!».

Dn 10,15). La traduzione, che evidenzia rossimoro (parlare della giustizia senza parlar­
ne), sarebbe: «Davvero voi parlate in silenzio della giustizia?». Segnaliamo, inoltre, che
*élem è stato tradotto anche «montoni» usato come termine onorifico di «potenti, nobili»
(Es 15,11; Ger 4,22). Per uno status quaestionis sulle varie ipotesi di traduzione del Sai 58
rimando a D. SCAIOLA, «I Salmi imprecatori/il linguaggio violento dei Salmi. Preghiera e
violenza», in Ricerche Storico-Bibliche 1-2(2008), 61-79.
35 Alla lettera: «operate perfino iniquità nel cuore».
36 I Settanta, la Vulgata e la versione siriaca rendono questo difficile sostantivo con
«cera».
37 Alla lettera: «lo». Alonso Schòkel - Camiti offrono con una chiara premessa («que­
sto è un versetto impossibile; a titolo di congettura non scapestrata proponiamo timida­
mente») la seguente traduzione: «Via li mulini un turbine improvviso, come rovi, come
fiere, come un rogo» (I Salmi. I, 58). Per Ravasi, emendando il testo si arriva alla seguente
traduzione: «Airimprowiso li strappino via rovi spinosi o belva o incendio» (Il Libro dei
Salmi. II, 166).
1. La stessa soprascritta si trova anche nei Sai 57 e 59. Un
segnale che per il redattore vanno letti insieme. Anche se ap­
partengono a generi diversi, hanno in comune il tema della
persecuzione da parte dei cattivi e la richiesta di soccorso
dell’orante: il Sai 58 risponde al grido d ’aiuto lanciato nel Sai
57, mentre il Sai 59 è un lamento di un innocente perseguita­
to. In comune i Sai 57 e 58 hanno: la metafora dei nemici-le­
oni (58,7 e 57,5 anche se in questo secondo salmo si usa un
termine diverso), le immagini dei denti (57,5 e 58,7) e dei
piedi dell’orante (57,7; 58,11). Con il Sai 59, il 58 condivide
la gioia per l’annientamento dei nemici (58,11 e 59,11) e l’af­
fermazione che gli uomini riconosceranno il dominio di Dio
(58,12; 59,14). La comune soprascritta dei Sai 57-59 riman­
da, nella tradizione rabbinica, alla persecuzione di Saul con­
tro Davide a motivo del «non distruggere», anche se il conte­
sto più ampio in cui si colloca il Sai 58 è costituito è dato dalla
serie dei Sai 56-60: «Davide, alla cui storia i Sai 56-57.59-60
si riferiscono secondo la contestualizzazione fornita dai titoli,
è presentato, sullo sfondo del Primo libro di Samuele, come
l’innocente che è perseguitato a torto; il Sai 58, al centro del
gruppo, può essere interpretato come una denuncia profetica
e come riflessione di carattere sapienziale che apre come una
finestra sui sentimenti che Davide ha vissuto in quella
circostanza».38 Nel Sai 58 Davide si appella a Dio rinuncian­
do a farsi giustizia con le sue mani (lSam 24) senza però ta­
cere il male ricevuto.
2-6. Invettiva contro i potenti oppressori. Il salmista rievoca
le denunce profetiche contro i capi che opprimono il popolo
con la propria perversità (Is 1,23; 5,23; 10,1-2; Ger 5,27-30;
Ez 22,27; Am 5,7; 6,12; Mi 3,11; 7,3). Nello specifico l’invet­
tiva ha la forma di un giudizio contro i giudici e i potenti in
generale, i quali si sono macchiati della colpa di non avere

38 Se ÀIÒLÀ, «I Salmi imprecatori», 76.


emesso sentenze con rettitudine. Si può ipotizzare che ciò ac­
cadeva a causa delle regalie, così com’è attestato - per esem­
pio - a proposito dei due figli di Samuele, Ioel e Abia, i quali
si allontanarono dalle orme paterne e si pervertirono a causa
della brama di denaro (lSam 8,1-3). Essi, cioè, non esercita­
rono il proprio mandato (che in questa fase storica concentra
molte competenze) con imparzialità ma si fecero corrompere
emettendo sentenze inique. La gravità di una simile condotta
ha forti ricadute sociali perché favorisce i potenti e opprime i
più deboli (cfr. la storia di Susanna e dei due giudici perversi:
Dn 13).
Nei w. 3-4 si dice che questa colpa è intenzionale e pre­
meditata, espressione di un radicamento nel male che non è
occasionale ma sistematico. Sin dal seno materno i giudici/
potenti sono segnati da questa inclinazione essendo intrinse­
camente corrotti, secondo quanto è scritto in Isaia a proposi­
to della malvagità d’Israele: «Non avevi udito né saputo, né il
tuo orecchio si era aperto prima, perché sapevo che agivi
perfidamente e sin dal seno materno eri chiamato infedele»
(Is 48,8). E come sé il salmista dicesse che, come per il nazi-
reo (Gdc 13,7) e il profeta (Ger 1,15) c’è una vocazione già
iscritta nel DNA sin dalla vita intrauterina, così c’è una via
remotamente tracciata anche per il malvagio. Il grande pote­
re di vita o di morte che era nelle loro mani, stimolava in loro
un certo senso di onnipotenza. Contro tali giudici che ri­
schiano di montarsi la testa in Sai 82,6-7 si legge: « “Voi siete
dèi, siete tutti figli dell’Altissimo” . Eppure morirete come
ogni uomo, cadrete come tutti i potenti».
La radice pls («pesare, valutare») del v. 3 ha in sé una
grande forza evocativa perché richiama l’immaginaria bilan­
cia della giustizia che è stata volutamente manomessa; ai giu­
dici compete il riequilibrio di quei rapporti che a causa di un
misfatto sono entrati in conflitto; se, invece di ristabilire la
giustizia essi emettono false sentenze, fanno pesare le conse­
guenze di queste scelte perché hanno valutato (soppesato)
più conveniente il proprio tornaconto e non il benessere del­
la comunità.
I w. 5-6 contengono la prima metafora teriomorfa del com­
ponimento. Con un ammiccamento a Gen 3, i malvagi sono
presentati come serpenti velenosi. Tale richiamo dice qualcosa
sulla natura della pericolosità del serpente, la quale non risie­
de tanto nel morso quanto nel sovvertimento della parola e
nell’astuzia, aspetto che ben si addice all’attività del cattivo
giudice. Accanto a questo, se ne aggiunge un secondo legato
all’aggressività dei cattivi (descritti come serpenti letali anche
in Sai 140,4): nei w. 5-6 si insiste, infatti, sulla velenosità del
rettile dalla quale non sfuggono neppure i più abili incantato­
ri, qui chiamati anche maghi perché considerati come deten­
tori di arti esoteriche (Dt 18,11). Anche l’indicazione della
sordità della vipera (essa segue con determinazione la propria
strada senza lasciarsi spaventare da alcun rumore) potrebbe
lasciare intendere l’ennesimo richiamo alla condotta dei giu-
dici/potenti che non ascoltano le cause di chi chiede il loro in­
tervento, atteggiamento che connota, invece, il giudice divino:
«Accogli, Signore, la causa del giusto, sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera: sulle mie labbra non c’è
inganno» (Sai 17,1; cfr. anche la vedova molesta e il giudice
che non temeva Dio di Le 18,2-5).
A proposito dell’aspetto mitologico del salmo (le invettive
contro gli dèi che Yhwh ha destituito di ogni potere), anche
la menzione del serpente potrebbe richiamare tale aspetto te­
nendo presente che tale culto al serpente è attestato in Israe­
le (2Re 18,4).
7. Intervento divino. Il versetto è costruito in maniera chia-
stica (come evidenziato nella traduzione) e mette in rilievo il
rovesciamento della situazione descritta nei w. 2-6 grazie
all’azione potente di Dio che annienterà i potenti (w. 8-12).
Per la prima volta compare il nome di Dio (’élóhim e Yhwh).
È il centro del componimento e mette in risalto ciò che il Si­
gnore compie a difesa dei deboli oppressi. La prima immagi­
ne è quella dei denti spezzati. Gli empi sono spesso descritti
nel Salterio come dotati di denti aguzzi, come quelli dei leo­
ni, con i quali essi divorano i giusti (Sai 17,12; 22,14; 35,17;
57,5; 91,13). La prima richiesta del salmista è che Dio possa
porre fine a questa triturazione riservando agli empi lo stesso
trattamento. Il verbo hrs («distruggere») compare nell’Anti­
co Testamento 43 volte e per 15 volte ha Yhwh come sogget­
to, diventando quasi un verbo tecnico dell’azione giudicante
di Dio.39 Nel Sai 58 il verbo non ha per oggetto, come capita
normalmente, delle costruzioni, delle città e non è neppure
usato in modo astratto; il suo oggetto sono i denti dei nemici.
Come nel Sai 3, l’orante chiede che i nemici, conformemente
alla legge del taglione evocata dall’immagine dei denti, siano
colpiti proprio nell’organo mediante il quale hanno offeso i
deboli.
Nella menzione della bocca può esserci un richiamo alla
dimensione sapienziale dell’uso della parola, aspetto che ben
si accorda con l’attività giudicante dei potenti di questo sal­
mo. Il parlare dello stolto, infatti, può essere inteso come
un’arma contro gli altri (Sai 50,19; Pr 10,6.11.14.31; 18,7; Qo
10,12-13): la verità si afferma o si nega attraverso la parola e
ciò rende particolarmente importante la rettitudine con cui si
parla, perché la menzogna e l’intrigo può condurre anche al­
la morte. Nel v. 7 si chiede a Dio di intervenire per distrugge­
re l’arma con cui è perpetrata l’ingiustizia, cioè la parola stes­
sa dei giudici.
8-12. Rovesciamento della situazione. La seconda e la terza
immagine esprimono l’idea della piena dissoluzione (v. 8).
Per l’orante gli empi devono diventare come acqua passata di
cui non c’è più ricordo (Gb 11,16) perché assorbita dalle cre-

59 Es 15,7a; Is 22,19b; Ger 24,6; 42,10; 45,4; 50,15; Ez 13,14a; 38,20; Mi 5,10b; Sai
28,5.
pe (chiara rappresentazione della morte in 2Sam 14,14), e co­
me erba secca ormai totalmente privata di qualsiasi linfa vita­
le. Il Salterio si apre proprio offrendo questa profonda con­
vinzione sulla giustizia divina, secondo la quale l’erba che in­
giallisce e marcisce è metafora della distruzione dei cattivi:
«Non così gli empi; essi al contrario [dei giusti] saranno co­
me pula che il vento disperde» (Sai 1,5; cfr. anche 37,2; 90,5-
6; 92,8; 103,15; 129,6). La quarta immagine veicola l’idea
dello sfinimento. La lumaca che si scioglie strisciando (di cui
si parla solo qui in tutta la Bibbia), svela la convinzione se­
condo la quale tale animale, lasciando dietro di sé la scia,
progressivamente giunge a dissolversi totalmente. Oppure
possiamo pensare a una seconda interpretazione: non è tanto
la lumaca a consumarsi ma la bava che si lascia dietro. Resta
l’idea di fondo: l’empio ridotto all’impotenza, alla molle e vi­
scida nudità.
La quinta immagine porta con sé, insieme all’intima soffe­
renza che ogni aborto evoca, l’idea dell’oblìo. La «non vita»
del feto abortito, viene desiderata da Giobbe quando si ribel­
la a causa della sua terribile malattia (Gb 3,11.16) e da Gere­
mia che soffre a motivo della sua missione profetica (Ger
20,17-18). Anche il saggio Qoelet menziona l’aborto come si­
tuazione preferibile a quella di chi prende atto che non può
godere dei suoi beni: «Anche se quest’uomo generasse cento
figli, vivesse molti anni e grande fosse il numero dei giorni
della sua vita, ma se non trova soddisfazione nei beni che
possiede e per di più non ha nemmeno una tomba, io dico
che migliore di lui è un aborto. Infatti questi viene dal vuoto
e se ne va nella tenebra, e l’oscurità copre il suo nome. Per
quanto non abbia visto né conosciuto il sole, tuttavia la sua
sorte resta sempre migliore di quella dell’altro. E se quello vi­
vesse anche due volte mille anni, senza però poter godere i
suoi beni, non va forse a finire nello stesso luogo dell’abor­
to?» (Qo 6,3-6). Il saggio, estremizzando la sua riflessione,
dice che la situazione del feto è da preferire perché gli è stata
risparmiata la sofferenza della vita, sofferenza che è toccata,
invece, all’uomo ricco, il quale dovrà comunque andare in­
contro alla morte. Possiamo dire, ritornando al Sai 58, che
l’orante stia augurando agli empi quanto di più terribile pos­
sa capitare a un uomo: non avere un’opportunità di vita.
Ho già segnalato la difficoltà di interpretare il v. 10. Se­
guendo la traduzione riportata, si può dire che «il salmista
sembra avere in mente l’immagine del fuoco preparato con
rami spinosi da nomadi o viandanti per cuocere la carne; nel
caso di un attacco improvviso di nemici o ladroni, devono
abbandonare tutto il cibo, crudo o cotto, e fuggire; così Dio
cacci quanto prima i nemici dalla terra».40 Il verbo s V (o s V:
«portare via»), utilizzato quando si parla dei fenomeni mete-
reologici (Gb 27,21), appartiene al campo semantico delle te­
ofanie e ricorre anche nelle metafore della guerra santa. Nel
nostro testo indica il «procedere tempestoso di Dio»41 con­
tro i colpevoli (Ger 30,23). L’idea di fondo del versetto è
quella dell’annientamento improvviso e radicale.
In conclusione nei w. 7-10 il salmista chiede che, a qual­
siasi velocità (lentamente sino a sfinire o improvvisamente
quasi senza accorgersi di nulla) e con qualunque modalità
(attraverso un atto violento o semplicemente lasciando pro­
sciugare), l’intervento divino cancelli per sempre gli empi
dalla faccia della terra.
Nel v. 11 abbiamo l’immagine più macabra del salmo. La
vendetta del giusto consiste in un pediluvio nel sangue, simil­
mente a quanto si legge in Sai 68,24 («Perché tu lavi nel san­
gue il tuo piede e la lingua dei tuoi cani riceva la sua parte
dai nemici»). Il termine naqam ha nel Salterio diverse sfuma­
ture di significato: vendetta, liberazione, vittoria, rivincita,
salvezza (Sai 18,48; 69,10; 94,1; 149,7). Innegabile è, comun-

40 L o r e n z in , I Salmi, 233.
41 SCAIOLA, «I Salm i im p re c a to ri», 69.
ie, il senso complessivo del versetto del nostro salmo, che
insiste nel provare il gusto di sguazzare nel sangue degli
api. Provando a interpretare questa immagine e rifiutando i
ntativi di affievolirne la crudezza, possiamo specificare che
salmista non si rallegra tanto (o solo) della distruzione del
alvagio ma, in definitiva, del giudizio, legando tale giudizio
la signoria di Dio, così com’è espresso altrove attraverso la
etafora della pigiatura dell’uva che avveniva, appunto, con
)iedi (Sai 60,10; 68,24; 110,6-7; Is 63,1-4).
La gioia della giustizia ritrovata «si tramuta in una contes­
ane di fede, venata di soddisfazione sanguigna com’è la poe-
i sociale e politica di tutti i tempi»42 (v. 12). Il senso ultimo
;1 Sai 58 è espresso bene da Sai 64,10-11 («Tutti gli uomini
ranno presi da timore, racconteranno le opere di Dio e
merenderanno ciò che egli ha fatto. Il giusto si rallegrerà
;1 Signore e confiderà in lui, e gioiranno tutti i retti di cuo-
») e 140,13-14 («Io so che il Signore difenderà la causa del
isero, il diritto del povero. Sì, i giusti renderanno grazie al
io nome; gli uomini retti abiteranno alla tua presenza»),
uesta giustizia ha una sorta di carattere epifanico: rivela il
>lto di Dio, smaschera l’arroganza dei cattivi, illumina la fe-
; del credente che si sente rincuorato nelle sue certezze di
de e mostra a tutti gli uomini la potenza del Dio d ’Israele.
In conclusione, notiamo che l’inevitabile imbarazzo che
iscitano le invettive di questo componimento nel momento
cui si tenta una lettura del loro senso teologico, può essere
itigato da una constatazione legata alla qualità etica dell’im-
recazione del giusto; consegnando l’invettiva a Dio egli
>mpie già un primo atto di sublimazione, perché l’impreca-
one ingiusta non raggiunge il suo scopo ricadendo su chi
ìa pronunciata (Sai 109,16-19); questa dimensione teologi-
i, per quanto minimale, differenzia sensibilmente il tono del
Sal 58 dalle pratiche esecratorie del Vicino Oriente Antico
(per le quali rimando alle riflessioni del paragrafo successi­
vo). Inoltre, legata alla dimensione epifanica sopra richiama­
ta, si può aggiungere con D. Scaiola che «questo tipo di pre­
ghiera intende reagire di fronte al male e all’ingiustizia, di cui
smaschera le dinamiche, le connivenze e gli attori, che vengo­
no individuati all’interno della storia e non proiettati in un
mondo mitico; colui che prega questi salmi vuole denunciare
il male come contrario al Dio biblico che ha creato il mondo
sette volte buono e bello, rendendosi sensibile alla sofferenza
ingiusta che colpisce soprattutto le persone più deboli».43

3. Linee teologiche

Il Salterio è un microcosmo in cui trova espressione l’am­


pio ventaglio degli atteggiamenti umani: dalla gioia più solare
all’angoscia più cupa, dalla delusione più amara alla fiducia
piena, dalle tenebre del cuore alla speranza di un rapporto ri­
trovato, dalla contestazione di Dio alla comunione con lui.
«Microcosmo» è il termine più appropriato per indicare la
polisemia del Salterio. Esso, a partire dal monumentale com­
mentario in tre volumi di G. Ravasi, compare in ogni intro­
duzione che cerca di offrire la chiave giusta per avere accesso
al mondo dei centocinquanta componimenti poetici: micro­
cosmo dell’Antico Testamento, dell’umanità, di lettori, della
storia, della preghiera; e ancora: microcosmo redazionale,
letterario, teologico, liturgico, cristiano, musicale, simbolico,
poetico, testuale, biografico.44
Diversi sono i tentativi dei vari autori di raccogliere sotto
un unico percorso tematico i centocinquanta salmi.
a) I gradini della perfezione spirituale. Ritorniamo a parlare

43 SCAIOLA, « I Salm i im p re cato ri», 78.


44 RAVASI, Il libro dei Salmi. I, 14-45.
di Gregorio di Nissa e della suddivisione del Salterio per co­
gliere il valore spirituale della sua intuizione. La sequenza dei
cinque libri, fatta di idee ordinate logicamente, scandisce l’a­
scesa spirituale verso la beatitudine suprema. Il salmo con
cui si apre ciascuna delle cinque sequenze rappresenta il gra­
dino che permette questa scalata, poiché il primo componi­
mento racchiude il senso dell’intera serie. Ci sono, perciò,
cinque tappe contrassegnate da cinque salmi: invito a rinun­
ciare al male per aderire al bene (Sal 1); desiderio di essere
unito a Dio (Sai 41); discernimento del vero bene, che nasce
all’amara constatazione della sciagura toccata in sorte ai buo­
ni e del successo riservato ai cattivi (Sai 72); riflessione sulla
natura immutabile di Dio e su quella mutevole dell’uomo
(Sai 89); espressione della salvezza dell’intera umanità (Sai
106); conclusione di tutto il Salterio con la lode di tutte le
creature a Dio (Sai 150). La lettura teologica fatta da Grego­
rio individua, a proposito del quarto gradino (Sai 106), l’a­
zione universale del Verbo come liberatore e rinnovatore del
cosmo: «Il buon pastore rese [gli uomini] bestiame del padre
da belve che erano [...]; questa è la vetta dei beni, il sommo
della speranza, il fine di ogni beatitudine: che la natura non
sia più turbata dal vizio ma che ogni iniquità sia scacciata
[...]. Quando sarà eliminato tutto ciò che è opposto al bene,
si impossesserà di noi quella condizione per la quale non si
possono trovare parole atte a definirla e che, per testimo­
nianza della voce divina, è al di sopra della percezione e della
conoscenza».45
b) Itinerario diuturno di preghiera. E possibile rintracciare
un cammino scandito dalle fasi del giorno: si parte dalla not­
te, in cui si invoca Dio (I libro), per poi passare al giorno in
cui si avverte maggiore fiducia in Dio (II libro); successiva­
mente si giunge a mezzogiorno (III libro), mentre a sera il
salmista inizia a sperimentare la presenza forte di Dio (IV li­
bro). L’ultimo libro (V libro) riconduce l’orante al nuovo
mattino.46
c) Cammino spirituale. Nei cinque libri possono essere rin­
venuti diversi temi del cammino spirituale: la vocazione (I li­
bro); la giovinezza (II libro); la crisi (III libro); l’uscita dalla
crisi (IV libro); la maturità spirituale (V libro).47
d) L’amore di Dio. Questo tema viene rintracciato un po’
dovunque nel Salterio, prescindendo dalla sequenza narrati­
va dei cinque libri (Sai 5 e 6; 13 e 17; 18 e 23; 25; 31; 33; 36;
42; 59; 66 e 69; 77; 86; 88; 103; 107; 119; 141) ed è visto co­
me il centro del libro, declinato secondo i diversi casi della
vita: amore come miracolo, amore fedele, ordinato, amore e
malattia, amore e morte ecc.48 Chi si pone in questa linea er­
meneutica pone l’accento sulla portata spirituale dei salmi e
il loro rimando alla vita del credente nel suo rapporto con
Dio.
e) Richiamiamo, infine, i cosiddetti salmi «imprecatori». In
Principi e Norme per la Liturgia delle ore (1 novembre 1970)
al n. 131 si legge: «I tre salmi 57, 82 e 108, nei quali prevale il
carattere imprecatorio, vengono esclusi dal Salterio corrente.
Così pure alcuni versetti di qualche salmo sono stati omessi
come viene indicato all’inizio del salmo. L’omissione di questi
testi è dovuta unicamente a una certa qual difficoltà psicologi­
ca. Infatti questi stessi salmi imprecatori si trovano nella pietà
del Nuovo Testamento, per esempio nell’Apocalisse al cap.
6,10, e in nessun modo intendono indurre a maledire».49
Tra i motivi per cui tali salmi sono presenti all’interno del

46 Cfr. A. C h o u r a q u i , II Cantico dei Cantici e introduzione ai Salmi, Città Nuova, Ro­


ma 1980.
47 Cfr. A MELLO, L’arpa a dieci corde. Introduzione al Salterio, Qiqajon, Magnano
1998.
48 Cfr. A M e l l o , Idatnore di Dio nei Salmi, Qiqajon, Magnano 1998, 205.
49 Nella liturgia monastica si è generalmente conservata la tradizione della recita inte­
grale e continua dell’intero Salterio secondo l’ordinamento della Regola di San Benedetto.
Salterio può esservi il seguente: per la sensibilità dell’Antico
Testamento un Dio che si presentasse incapace di sconfigge­
re i propri nemici, quindi un debole, non sarebbe credibile.
Per un cristiano la difficoltà ad accettare tali salmi, caratteriz­
zati da immagini cruente con cui si augura l’eliminazione del
nemico, nasce proprio dalla percezione di un Dio «diverso»
che chiede addirittura l’amore per i nemici.50 Il tema è deli­
cato e complesso; tra le tante osservazioni che si possono fare
abbiamo già evidenziato nell’esegesi che chi prega invocando
la giustizia divina compie già un primo atto morale: rinuncia
a farsi giustizia con le proprie mani demandando a Dio, il so­
lo giusto, il ristabilimento dell’ordine. Alla luce del Nuovo
Testamento chi prega con questi salmi chiede al Signore di
eliminare la sofferenza (personale o comunitaria) aprendosi a
una giustizia che va oltre (senza saltarla a piè pari) l’umana
comprensione del progetto d’amore di Dio, di cui l’orante ha
solo una parziale percezione. Tale giustizia si compirà nel
giudizio finale ma inizia già su questa terra: «il regno di Dio
- spiega G. Ravasi - che è già in mezzo a noi, suppone que­
sto impegno presente nella trasformazione radicale di ogni
struttura ingiusta così che si prepari il regno di giustizia per­
fetta; “liberaci dal male” è la preghiera del cristiano pellegri­
no qui e ora, che inizia da se stesso, prima ancora che negli
altri, l’estirpazione del male e dell’ingiustizia»51
Il problema del giusto sofferente, da Giobbe sino ad oggi,
chiede un grande atto di fede nella giustizia misericordiosa di
Dio.

50 L’esegesi patristica legge nelle espressioni di questi salmi una profezia degli avveni­
menti della passione di Gesù Cristo e della partecipazione della Chiesa alle sue sofferen­
ze, operando un’esegesi tipologica che vede nei personaggi e negli avvenimenti dell’Anti­
co Testamento una prefigurazione di quanto narrato nel Nuovo: cfr. R. SPATARO, «E pos­
sibile pregare con i Salmi imprecatori? La lezione dei Padri», in Salesianum 71(2009),
453-471.
Bibliografìa di riferimento e di approfondimento

ALONSO S c h ò KEL L ., Trenta Salmi: poesia e preghiera, Dehoniane,


Bologna 1982.
A l o n so S c h ò k e l L. - C a rn iti C., I Salmi. I-II, Boria, Roma 1992.
B e AUCHAMP R, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1993.
D e l l ’O rto G ., I Salmi: canti per Dio. Come parlare a Dio con paro­
le di Dio, Dehoniane, Bologna 2000.
LORENZIN T., I Salmi, Paoline, Milano 2000.
MELLO A., Carpa a dieci corde. Introduzione al Salterio, Qiqajon,
Magnano 1998.
R avasi G., Il Libro dei Salmi. LITU I, Dehoniane, Bologna 71997.
S e ÀIÒLÀ D., «Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite». Fenomeni di
composizione appaiata nel Salterio Masoretico, Urbaniana Uni­
versity Press, Roma 2002.
SCIPPA V., ISalm i. LITUI, Messaggero, Padova 2002-2003.
CANTICO DEI CANTICI

1. Questioni storico-letterarie

Il Cantico dei Cantici si apre con parole appassionate: «Bacia­


mi con i baci della tua bocca: le tue carezze sono migliori del vi­
no. I tuoi profumi sono soavi a respirare, aroma che si effonde è
il tuo nome: per questo ti amano le fanciulle. Attirami a te, corria­
mo! Fammi entrare, o re, nelle tue stanze: esulteremo e gioiremo
per amore tuo, celebreremo i tuoi amori più che il vino. Com e
bello amarti!» (1,2-4). Palese e incalzante è il desiderio dell’in­
contro tra gli amanti che si cercano per consumare nell’intimità la
propria unione. Questa è la peculiarità di una composizione bre­
ve ma intensa, che tanto ha influito su ebraismo e cristianesimo.

1.1. Autore, lingua e datazione

La tradizione ebraica attribuisce a Salomone la paternità


dello scritto (1,1). Oggi lo si considera un anonimo, di cui
però si può delineare un profilo: «è senz’altro un ebreo colto,
aperto alla cultura greca, buon conoscitore della lirica ales­
sandrina e della letteratura d’amore egiziana classica; il no­
stro poeta resta tuttavia un israelita profondamente ancorato
alla propria tradizione».1
La sua raffinata formazione trova un riscontro nel suo vo­
cabolario ricercato: il testo ebraico del Cantico consta di ap­
pena 1250 parole (lo 0,42% dell’intera Bibbia ebraica); di
queste una quarantina (per alcuni autori 37, per altri 49) so­
no hapax legomena, cioè ricorrono solo qui non attestandosi
nel resto della Bibbia.
La presenza di aramaismi, grecismi e influssi persiani2 in­
duce a collocare la stesura finale del libro in epoca postesilica
(più probabilmente nel IV secolo a.C.). La scoperta di quat­
tro manoscritti a Qumran (4Q106, 107, 108; 6Q6) composti
tra il 30 a.C. e il 50 d.C. confermano sostanzialmente il testo
masoretico che è giunto fino a noi e dimostrano che come
opera esisteva già nel I secolo a.C.

1.2. Struttura

Non è facile districarsi nella giungla delle proposte di


strutturazione del Cantico dei Cantici; le ipotesi in merito in­
dividuano un ventaglio di strutture che si distende da un mi­
nimo di 4 parti a un massimo di 52.3
La presenza di ritornelli che attraversano il libro (l’invito a
non svegliare l’amore di 2,7; 3,5; 8,4; la dichiarazione dell’u­
nione tra i due di 2,16; 6,3; 7,11; il richiamo alla «salita» di
3,6; 6,10; 8,5), l’attestazione di simboli costanti (il giardino in
4,12-16; 5,1; 6,2; la vigna in 1,6; 8,11-12; i fiori di papavero
in 2,1.2.16; 4,5; 5,13; 6,2-3; 7,3; il melograno in 4,3.13;
6,7.11; 7,13; 8,3), la reiterazione strategica di parole-chiave

2 Va segnalato il termine attestato nell’ebraico postesilico pardés di 4,13 («giardino»,


anche in Gen 2,9; Qo 2,5; Ne 2,8) da pairi-daèza («recinto» o «orto con mura di cinta») o
para-didam («dietro il muro») che i Settanta hanno tradotto paràdeisos (mentre la Vulgata
mantiene il senso ebraico rendendo con hortum).
3 In proposito rimando al quadro riassuntivo offerto dal poderoso commentario di G.
RAVASI, Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione, Dehoniane, Bologna 1992,
90-91.
(«figlie di Gerusalemme» per 6 volte; «amore» per 18 volte;
«amica» per 9 volte) e il dialogo tra la donna, l’uomo e il co­
ro, sono i chiari indizi di un’organizzazione testuale che ha
voluto organizzare brani in origine indipendenti.
La nostra scelta, solo una tra le altre, accoglie la proposta
di M.T. Elliot in quanto basata non solo su elementi contenu­
tistici e tematici ma anche su espedienti letterari (ritornelli,
termini iniziali e finali):4

Prologo: 1,2-2,7
(«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbrac­
cia»: 2,6;
«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le
cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finché essa non lo voglia»: 2,7)

I Parte: 2,8-3,5
(«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per
le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finché essa non lo voglia»: 3,5)

II Parte: 3,6-6,3 («Cos’è che sale dal deserto...?»: 3,6)


a) 3,6-4,5 («... che pascolano tra i gigli»: 4,5)
b) 4,6-6,3 («... che pascola il gregge tra i gigli»: 6,3)

III Parte: 6,4-8,4


(«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbrac­
cia»: 8,3;
«Io vi scongiuro figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le
cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata,
finché non lo voglia»: 8,4)

Epilogo: 8,5-14
(«Chi è colei che sale dal deserto?»: 8,5).

4 M.T. ELLIOT, The Literary Unity of thè Canticle (Europàische Hochschulschriften


23), Peter Lang, New York 1989,40.
Questo schema non individua delle chiare corrispon­
denze tra le parti: ci limitiamo a mettere in luce come la
ripetizione di alcune frasi conferisca al testo del Cantico,
che rimane composito, un’intelaiatura di fondo voluta da
un redattore finale. L’unità del Cantico è imposta dall’e­
sterno e non può rintracciarsi dalla logica interna; se ci si
sposta al contenuto del libro allora si può dire che ciò che
può unificare le diverse parti è la tematica amorosa. Non è
neppure possibile cogliere la progressione di quest’amore
(sebbene in 8,5-7 sembri palesarsi un possibile vertice che
però viene abbandonato nei versetti successivi): i due
amanti si rincorrono ma non c’è una trama reale che uni­
sce le scene.

1.3. Genere letterario

Non si può legare il Cantico a un solo genere letterario.


Tutt’al più si può supporre l’esistenza di più generi che ri­
guardano alcune sue parti.
a) Poesia nuziale. Coloro che rinvengono tale genere leg­
gono in 3,6-11 il Sitz im Leben di un matrimonio con la de­
scrizione di un corteo nuziale (che, come nelle tragedie gre­
che, funge da voce fuori campo e rannoda al poema successi­
vo). Questi canti matrimoniali troverebbero il culmine in 8,6-
7, in cui ci sarebbe lo scambio del dono dell’amore e della
promessa di fedeltà.
L’ipotesi sarebbe avallata da almeno due brani (1,5-6 e
8,8-10) che rientrerebbero nel genere nuziale e che sarebbero
da attribuire al sottogenere «auto-descrizione», cioè la pre­
sentazione che la sposa fa di sé all’interno di tale poesia d’a­
more. Più precisamente R.E. Murphy3 attribuisce 1,5-6 al ge-5

5 R.-E. M u r p h y , The Song ofSongs, Fortress, Minneapolis 1990, 60-62.


nere in questione. Gli elementi della struttura di tale genere
che l’autore rintraccia in 1,5-6 sono:

dichiarazione «io» («Bruna sono ma bella»: v. 5a);


indirizzo, cioè a chi si parla («Oh figlie di Gerusalemme»: v. 5a);
elemento di paragone («Come le tende di Kedar, come i padi­
glioni di Salma»: v. 5b);
proibizione («Non state a guardare che sono bruna»: v. 6a);
atteggiamento dei fratelli («I figli di mia madre si sono sdegnati
con me»: v. 6b);
cura per la propria vigna («la mia vigna, la mia, non l’ho custo­
dita»: v. 6b).

Anche in 8,10-12 comparirebbero quattro elementi di tale


struttura e cioè la dichiarazione «io» («Io sono un muro»: v.
IOa), l’indicazione di colui a cui si parla («Così sono io ai tuoi
occhi»: v. lOb), l’elemento di paragone («Come torri»: v. IOa;
«Come colei che ha trovato pace»: v. lOb) e l’indicazione della
cura della propria vigna espressa con l’affermazione della sua
unicità («La mia vigna, proprio mia, mi sta davanti... »: v. 12a)
e del suo valore superiore al denaro («A te Salomone i mille si­
cli, e duecento per i custodi del suo frutto»: v.l2b).6
Se è possibile individuare uno schema formale di tale ge­
nere, più difficile è, tuttavia, rintracciare la situazione concre­
ta all’interno del quale collocare tale auto-descrizione. Non
possedendo ulteriori elementi per ragioni contenutistiche,
possiamo ipotizzare che il canto nuziale fosse composto da
una parte in cui la sposa (o qualcuno per lei) parlava in pri­
ma persona di se stessa e delle difficoltà che aveva incontrato
per custodire il suo amore fino al giorno del suo matrimonio.

6 Alcuni individuano il genere letterario wasf, legato alle descrizioni del corpo della
donna, attestato nel mondo arabo ma i cui antecedenti sarebbero egizi; oppure prenden­
do spunto dall’immagine della porta chiusa, il genere di derivazione ellenistica del pa-
raklausithyron, assunto liberamente in 2,8-17; 5,2-8. Infine segnalo che, tra le descrizioni
che rientrano nel procedimento poetico tipico del Cantico, c’è anche il travestimento del
diletto che è presentato a volte come un re (1,4.12), a volte come un pastore (1,7).
b) Màsàl, la forma sapienziale più tipica. Sarebbe il genere
di 8,5-7 (si veda quanto detto sul m àsàl a proposito del libro
dei Proverbi: pp. 36-38). I motivi formali che avallano questa
posizione sono i seguenti:

- ricorso a una struttura ritmica: nei versetti in questione si pre­


ferisce l’accento 3 + 3;7
- utilizzo del parallelismo, il ricorso stilistico più usato nel gene­
re m àsàl; nel nostro testo abbiamo un parallelismo sinonimico
e binario (forte-insaziabile, morte-se’ól, amore-gelosia, grandi
acque-fiumi, spegnere-travolgere);
- assonanza vocalica e consonantica;8
- stile conciso e vivace.

Accanto a questi riferimenti, la dimensione sapienziale del


Cantico emerge più diffusamente nel momento in cui riporta
l’amore di coppia alla sua dimensione secolare, sganciandolo
dai culti pagani (cananei e greci). Il passo di Pr 5,5-19, in cui
il padre-maestro invita a godere della bellezza della propria
moglie,9 trova infatti eco in quei passi del Cantico in cui si
accosta la donna all’acqua (Ct 4,12.15) e si menzionano i suoi
seni (Ct 4,5; 7,4.8-9). Ma la cosa che più colpisce è il supera-

7 Anche se tra gli autori non c’è accordo unanime sulla metrica di 6b, che per alcuni si
presenta come 3 + 2 , per altri come 3 + 3 e 2 + 2, o, come il testo masoretico presenta, 3
+ 2; mentre c’è accordo circa 7a visto come 3 + 2 + 2.
8 II v. 5a presenta l’allitterazione con la consonante iniziale mem {mi zdt 'dlàh min-
hammidbàr mitvappeqet)\ in 5b troviamo il parallelismo tra sàmmàh hibbelatkà («lì dove ti ha
concepito») e sàmmàh faibbelàh («lì dove ha concepito»); inoltre incontriamo il fenomeno
della rima a causa del suffisso di 2a persona singolare maschile: hibbelatkà ’ìmmekà sàmmàh
hibbelàh yelàdatkà. Nel v. 6 abbiamo i fenomeni dell’allitterazione con k/q e s , nonché
dell’alternanza delle vocali a ed o: simèni kahótàm 'al-libbekà kahótàm 'al-z^ró ‘ekà ki~ ‘azzàh
kammàwet ’ahàbàh qàsàh kis ’ól qin ’àh rtsàfeyhà vispe ’és salhebetyàh. Infine nel v. 7 domi­
na il suono della consonante b\ mayim rabbim là ’yùtelù lekabbót ’et-hà ’ahàbàh ùnehàvót lo ’
yisipfùhà ‘im-yitlèn ’is ’et-kól-hón bètó b à ’ahàbàh bóz yàbuzu lo.
9 «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo. Non scorrano
fuori le tue fontane né sulle piazze i tuoi ruscelli. Siano per te soltanto e non per gli estra­
nei insieme a te. Sia benedetta la tua sorgente! Possa tu trovare la gioia nella donna della
tua giovinezza, amabile cerbiatta e gazzella deliziosa. I suoi seni ti inebrino in ogni tempo:
sii tu sempre attratto dal suo amore!».
mento di certi ammonimenti sapienziali a favore di una con­
cezione più libera dell’amore (e della donna). Per esempio,
se in Pr 5,3 si mette in guardia dalla pericolosa dolcezza delle
labbra della donna straniera, cioè delle sue parole («Vera­
mente le labbra della straniera stillano miele e il suo palato è
più molle dell’olio»), in Ct 4,11 tale consiglio è ripreso e ri-
consegnato con una valenza positiva in rapporto all’amata:
«Nettare stillano le tue labbra, o sposa, miele e latte sono sot­
to la tua lingua e la fragranza delle tue vesti è come la fra­
granza del Libano». Questa dolcezza è in contrasto, inoltre,
con l’amarezza con cui la donna è presentata in Qo 7,26-27,
sebbene anche il disincantato Qoelet riconosca che l’amore
verso la propria donna rientra tra le poche gioie della vita
(Qo 9,9).
Il tratto sapienziale del Cantico si ravvisa, perciò, nella sua
apparente profanità, frutto del suo radicamento in quelle real­
tà fondamentali e necessarie per la vita, com’è appunto l’a­
more; ed è precisamente questo radicamento nell’essere uma­
no che porta con sé un forte rimando al divino.
c) Midrash. Altri autori vedono il Cantico come un midrash
di Gen 1-3, sulla creazione dell’uomo e della donna. Fatte
salve le considerazioni generali a proposito del midrash nel li­
bro della Sapienza (cfr. supra, pp. 169-170), anche per il Can­
tico resta valida la seguente affermazione: più che un genere
letterario sarebbe meglio considerarlo un procedimento (o un
approccio) letterario d’interpretazione, perché non si rintrac­
ciano in esso dei motivi formali caratteristici che possano con­
tribuire a determinare e catalogare il genere in modo chiaro e
inequivocabile (vocabolario tipico, espressioni stereotipate,
formule fisse, con figure retoriche specifiche, temi tipici). Se,
comunque, si intende ravvisare un midrash nel Cantico, esso
sarebbe orientato alla redenzione di una storia d’amore anda­
ta male, per così dare all’uomo la possibilità di ritornare alle
sue origini, cioè all’ideale progetto voluto da Dio.
d) Poesia erotica. C ’è chi ha ravvisato il genere letterario
della lirica erotica: il Cantico è una trattazione sull’amore e la
donna, che ne è protagonista (nelle tre tipologie della sposa,
della donna libera e della prostituta), esprime la sua sessuali­
tà con totale libertà, sprezzante dei freni inibitori imposti dai
maestri di Pr 1-9.10 Nel descrivere la carnalità e la sublimità
dell’amore, l’autore ricorre a un ricco repertorio di immagi­
ni. Egli prende a prestito il mondo della natura, coinvolgen­
do il cosmo intero in questo risveglio dell’amore simbolizzato
dalla primavera (2,11-12). La rappresentazione coinvolge i
cinque sensi umani facendo emergere la sensualità degli af­
fetti: l’odorato («L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli
aromi»: 2,10; «Il profumo delle tue vesti è come profumo del
Libano»: 2,11), la vista («Come sei bella, amica mia, come sei
bella! Gli occhi tuoi sono come colombe, dietro il tuo velo;
le tue chiome come un gregge di capre»: 4,1), il gusto («Le
tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte
sotto la tua lingua»: 2,11), il tatto («La sua sinistra è sotto il
mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6 e 8,3; «Trovando­
ti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi; ti
condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre, mi insegne­
resti l’arte dell’amore»: 8,1) e l’udito («Una voce! Il mio di­
letto!»: 2,8; «Il tempo del canto è tornato»: 2,12).
Un aspetto particolare del genere «poesia erotica » è quel­
lo della ierogamia così come è stata descritta all’interno del
culto mesopotamico. Il Cantico sarebbe una specie di libro
liturgico che, sotto le spoglie dell’amore tra lui e lei, celebra
il rito delle nozze divine tra due divinità che presiedono alla
fertilità e fecondità (Istar e Tammuz, Astarte e Adone, Iside e
Osiride, ‘Anat e Ba’al, Salmit e Dòd, cioè tra le divinità che
presiedono alla fertilità e alla fecondità). Un esempio di que­
sta interpretazione, che chiamiamo mitico-cultica, si trova

10 G . G a r b in i , I l Cantico dei C antici, P aid e ia, B re scia 1992.


nella posizione di M.H. Pope: egli classifica Ct 8,6 («Forte
come la morte è l’amore, insaziabile come gli inferi è la gelo­
sia») come genere letterario «canto funebre», in cui si esalta
la vittoria dell’Amore sulla Morte secondo il modello caro al
mondo greco di Eros e Thanatos; la dimensione erotica che
emerge dall’intero Cantico ben si accorderebbe con tali cele­
brazioni funerarie, che nell’Antico Oriente comprendevano
anche banchetti con pratiche sessuali.11
Questa interpretazione tradisce chiaramente una pre-com-
prensione ermeneutica dell’intero Cantico incline al compa­
rativismo, pregiudizio che ha dominato per diversi decenni
nell’esegesi secondo il quale il paragone con le culture con
cui Israele è venuto a contatto ha contribuito a determinare
anche la sua religiosità. Difficilmente si può accettare una ta­
le proposta in quanto non è facile immaginare un Sitz im Le-
ben in Israele in cui tale letteratura possa essere concepita,
vista anche la costante polemica che la Bibbia lancia nei con­
fronti della sessualità legata a un culto della fertilità. Un’im­
postazione del genere comporta, inoltre, la svalutazione del
testo biblico operando nei suoi confronti un riduzionismo
che non lascia spazio all’originalità della tradizione biblica
(cfr. quanto detto nell’introduzione a proposito del panbabi-
lonismo).
Sono convinto, in conclusione, che l’amore del Cantico sia
quello tra un uomo e una donna: il genere nuziale, pur con i li­
miti segnalati, mi pare quello che maggiormente possa aiutare a
comprenderne il senso. Forse in origine tali poemi s’ispiravano
ai canti d’amore egiziani con cui venivano istruiti i giovani di
corte:1112 nonostante la distanza temporale tra questi (1300-1100
a.C.) e il Cantico, alcuni temi sono comuni (la reciprocità tra gli

11 M .-H , POPE, Song ofSongs, A New Translation with Introduction and Commentary,
Anchor Bible 7C, Doubleday, New York 1977.
12 Cfr. E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dellAntico Egitto, Einaudi, Torino 1990,
452-477.
amanti, il ricorso alla metafora, il travestimento dei personag­
gi). Questo accostamento permetterebbe anche di precisare
meglio, secondo G. Barbiero, la datazione del Cantico: «La col-
locazione del Cantico nell’epoca tolemaica può rendere conto
della particolare vicinanza con i canti d’amore egiziani; anche
se anteriori di un millennio, è verosimile che essi fossero cono­
sciuti nell’ambiente raffinatamente culturale di Alessandria».13

1.4. Canonicità discussa

La discussione rabbinica registra una pluralità di posizioni


sulla canonicità del Cantico (perché ritenuto troppo scanda­
loso) riguardo alla sua «pesantezza» o «leggerezza», alla ca­
pacità di «sporcare le mani» o di «non sporcarle» e, in defi­
nitiva, alla natura di testo ispirato. La posizione di rabbi Aqi-
ba alla fine prevale: «Dio ne scampi! Nessuno in Israele ha
mai contestato che il Cantico dei Cantici sporchi le mani,
perché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei
Cantici è stato donato a Israele».14
La celeberrima frase di Aqiba, secondo cui «tutte le Scrit­
ture sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei San­
ti» (Mishnà, Yadayim 111,5) pronunciata intorno al 90 d.C.,
durante il sinodo rabbinico di Yamnia, spinge nella direzione
di una «canonizzazione»: la soluzione all’imbarazzo che la
tradizione ebraica prova davanti all’eccessiva sensualità del
Cantico viene risolta attraverso un’ermeneutica allegorica del
testo15. Analoga opzione sarà fatta dalla tradizione cristiana.

13 G. BARBIERO, Cantico dei Cantici, Paoline, Milano 2004,48.


14 II rimando principale di questo capitolo sul Cantico è al mio articolo: «L a natura
teologica dell’amore umano in Cantico dei Cantici 8,5-7», in Rivista di Scienze Religiose
37(2005), 5-31.
15 II Cantico fu inserito dalla tradizione liturgica ebraica nelle megillót> cioè nei cinque
rotoli destinati alla lettura sinagogale (Rut, Cantico, Lamentazioni, Qoelet, Ester) e, pro­
babilmente a partire dal V secolo, fu letto in occasione della festa di Pasqua.
2. Esegesi di Ct 8,5-7: «Forte come la morte»

Proponiamo l’esegesi di questi versetti che sono tra i più


conosciuti del Cantico, sia per la forza delle immagini che
descrivono il vertice al quale sembra giungere la ricerca degli
amanti, sia in ragione del rimando teologico dovuto alla par­
ziale menzione del nome di Yhwh in 8,6c.

2.1. Genere letterario

Secondo quanto evidenziato prima, consideriamo 8,5-7


come un insieme di mesàltm didattici. Alle annotazioni for­
mali si aggiungono quelle contenutistiche relative alle temati­
che trattate (la morte, l’amore, la gelosia, la ricchezza) che
sono presentate come verità universali iscritte nel cosmo pro­
prio come accade in alcuni brani che appartengono al genere
sapienziale. Il riferimento al sigillo (v. 6a) lo si ritrova nel li­
bro di Giobbe in riferimento alla capacità di determinare, di
fissare, di unire qualcosa, che in qualche modo è legato alla
propria identità (Gb 9,9; 37,7; 41,7); lo s e’ól si caratterizza
per una voracità tale che non permette di restituire ciò che
ha inghiottito come in Sir 28,21; Sai 18,5-6; Pr 2,18-19;
27,20; 30,15.
Diversi sono i testi cosmologici sapienziali vicini all’espres­
sione mayim rabbim («grandi acque») di 7a (Gb 37,10; 38,4-
11; Sai 18,17; 29,3; 69,2.14; 77,17.20; 93,4; 107,23-26;
144,17), mentre la medesima espressione kdl-hón bètó («tutte
le ricchezze della sua casa») di 7b ricorre in Pr 6,31; in Pr
6,34.35, come in Ct 6b, troviam o il termine «g elo sia»
{qin’àh), ed è nel contesto dell’adulterio in cui la gelosia ac­
cende l’ira del marito; nei testi sapienziali il termine si confi­
gura per il suo riferimento a realtà come lo sdegno, l’ira, la
tensione e l’invidia, lo zelo (Sai 119,139; G b 5,2; Pr 14,30).
Anche la contrapposizione classica tra ricchezza e sapienza
ritorna in diversi brani (Pr 3,14; 4,7; 8,11; Sap 8,8-14). Oltre
a questi riferimenti puntuali a testi sapienziali dobbiamo dire
che, in genere, la tematica amorosa e i rapporti di coppia in
particolare, hanno ricevuto l’attenzione dei maestri d’Israele
(Pr 5; 6,20-35; 31,10-31; Sir 9,1-9; 25,13-26,18).
Possiamo ipotizzare, con qualche autore, che il Sitz im
Leben di tale genere letterario sia quello scolastico: si tratte­
rebbe di un insegnamento sulla bellezza dell’amore imparti­
to a dei discepoli da un maestro con lo scopo di inculcare la
teologia dell’amore. Poiché il nome di Yhwh ricorre solo
qui (come suffisso al termine «fiam m a» nel v. 6b), M.
Sadgrove individua un tentativo di «battezzare» la sapienza
profana con la teologia circa l’origine divina dell’amore
umano.16
Per questi motivi possiamo, dunque, concludere che Ct
8,5-7 siano dei mesàlim sulla sublimità dell’amore umano.

2.2. Contesto prossimo e struttura

Motivi formali e contenutistici permettono di individuare


in 8,5-14 il contesto prossimo di 8,5-7. Di tale epilogo si pos­
sono disegnare le sottosequenze.
Anzitutto notiamo come la ripetizione dei termini estremi
dódàh («suo diletto») al v. 5a e di dòdi («mio diletto») al v. 14
formi un’inclusione. Tra m idbàr («deserto») del v. 5 a e
gannim («giardini») del v. 13 crea un contrasto tra l’immagi­
ne del deserto e quella del giardino (una realtà selvatica, l’al­
tra coltivata; una fertile, l’altra sterile).
Rileviamo una certa unità circa le immagini in cui domina
l’elemento della «chiusura», quali l’abbraccio (v. 5), il sigillo

16 Cfr. M. S a d g r o v e , The Song o f Songs as Wisdom literature, Sheffield 1978, 245-


248; cfr. p. 287.
(v. 6), la città fortificata (w. 8-10), la vigna e il giardino (w.
11-13). Accanto a queste immagini, ce ne sono altre che al
contrario richiamano una realtà «aperta», quali il deserto (v.
5a) e i monti degli aromi (v. 14b). Un ulteriore elemento di
unità: 5 a inizia con la formula di introduzione che serve da
termine iniziale all’intera sequenza come in 3,6: in 8,5a si an­
nuncia l’ingresso della donna che sarà la protagonista dell’e­
pilogo, in quanto è sempre lei a parlare (w. 5b-7; 10-13; 14) o
ad essere l’oggetto del discorso (v. 5a; 8-9).
A livello tematico i w. 5b-7 presentano la triplice ripetizio­
ne del termine «amore», di cui si afferma la forza e la supe­
riorità contro la morte e lo se’ól, le grandi acque e i fiumi (5b-
6), le ricchezze e i beni materiali (7). I w. 11-12 riprendono
con immagini diverse lo stesso contenuto del v. 7: la vigna,
che sembra avere qui il significato della donna stessa (cfr.
1,6), è più preziosa del denaro, non la si vende, non ha biso­
gno di custodi, al limite la si dona.
In 8-10 M. T. Elliot17 individua la ripetizione dei termi­
ni «m uro» e «seni» in posizione chiastica (seni-muro/mu-
ro-seni). A livello contenutistico notiamo che in 8,8-9 ab­
biamo probabilmente lo stesso soggetto di 1,6, cioè i fra­
telli che parlano della sorella, i quali nel prologo sono
chiamati «figli di mia m adre»; sia in 1,6 che in 8,8-9 sono
protagonisti di un’azione rivolta alla sorella, che consiste
nello sdegnarsi con lei e nel porla a guardia della vigna nel
prologo (1,6), e nel cercare di trovare una soluzione alla
immaturità sessuale della sorella nell’epilogo (8,8-9). I fra­
telli esprimono ciò ricorrendo al medesimo campo seman­
tico che ha a che fare con una città fortificata (costruire,
rafforzare, muro, porta, recinto, tavole di cedro: cfr. Dt
3,5; 2Cr 14,6; Ne 3,15; Ez 38,11), lessico che la sorella nel
v. 10 continua (muro-torri), affermando che la sua maturi­

17ELLIOT, The literary Unity of thè Canticle, 203.


tà sessuale è raggiunta, e la sua posizione è quella di chi ha
trovato pace.
Letterariamente i vv. 11-12 presentano delle somiglian­
ze in quanto i termini sono ripetuti sostanzialmente nello
stesso modo, anche se è presente una piccola variante nel­
l’ordine:

v. 11: vigne-Salomone-vigne-custodi-mille sicli;


v. 12: vigne-Salomone-mille sicli-custodi.

I vv. 11-12 a livello di contenuto presentano un contra­


sto tra la vigna di Salomone e quella propria della donna:
la prima può essere affittata, o comunque affidata a qual­
cuno affinché renda i suoi frutti; l’altra invece non è in
vendita, perché essa è l’immagine della donna stessa; in
1,6 infatti, la donna parla di sé come della vigna, quella
sua, che non è stata capace di custodire e preservare dal­
l’amore.
Per cui si potrebbe strutturare il testo in quattro sottose­
quenze:

5-7 : la sublimità dell’amore;


8-10: la maturità sessuale della donna;
11-12: la donna-vigna che si dona;
13-14: il diletto-capriolo ossia la libertà dell’amore.

2.3. Traduzione e commento

5 Chi è colei che sale dal deserto appoggiata al suo diletto?


Sotto il melo ti ho svegliato, lì dove ti ha concepito tua madre,
lì dove ha concepito e ti ha partorito.
6aPonimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio,
óbperché forte come la morte è l’amore, insaziabile come gli in­
feri è la gelosia,
6cle sue vampe sono vampe di fuoco ardente, una fiamma divina.
7aLe grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi tra­
volgerlo.
7bSe uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’a­
more,
non ne avrebbe che disprezzo.

5. Per cercare di com prendere il senso com plessivo


deH’immagine della marcia dei due amanti dal deserto, se­
gnaliamo la posizione di D. Lys18; egli vede il risveglio di 5b
da parte della ragazza nei confronti del ragazzo come avente,
in origine, un riferimento mitologico che l’autore del Cantico
ha poi demitizzato associandolo a una tematica tipica dell’al­
leanza tra Yhwh e il suo popolo; questo spiega la menzione
della salita dal deserto di 5 a.
Il risveglio, che la donna provoca sotto il melo, produce una
sorta di nuova nascita non alla stessa maniera della madre di
lui ma con la medesima portata di vitalità: è lei ora che col suo
amore genera lo sposo a nuova vita e lo fa pienamente uomo.
E come se la donna dicesse al suo amato: «Tu stai per nascere
di nuovo nel luogo stesso in cui fosti concepito da tua madre,
cioè non nella tua casa, ma nell’abbraccio d’amore».19
6a. Il sigillo rinvia all’identità della persona che tramite es­
so è rappresentata; guardandolo si può risalire al possessore,
alla sua potestà concreta di esercitare un potere e all’esclusi­
vità di tale potere (Gen 38,17-18; IRe 21,8; G b 9,7; 37,7; Es
28,11-12). Qui il sigillo riproduce le fattezze della ragazza
stessa: è lei che domanda al suo amato di essere impressa nel
suo cuore e sul suo braccio.
Quattro sono le principali sfumature legate a questa affer­
mazione della donna, a) L’intimità: l’amato dovrebbe essere in­

18 D. LYS, Le plus beau chant de la création: commentaire du Cantique des Cantiques


(Lectio Divina 51), Cerf, Paris 1968,284.
v iv i, 285.
timo con la sua donna come i sigilli da lui indossati, b) La fissi­
tà: l’idea è quella della marchiatura del sigillo sulla carne, co­
me avviene per la creta, la ceralacca e la cera, c) La fusione:
l’immagine suggerisce uno scambio perfetto di affetti e senti­
menti, l’essere ima sola carne (Gen 2,24), fino a giungere «alla
fusione d’identità che non è lontana dall’affermazione di una
consumazione dell’amore fra i due amanti», come la particella
ebraica ‘al (su o contro) sembra suggerire.20 d) L’esclusività: la
sposa vuole essere considerata come proprietà totale ed esclu­
siva dell’amato, una specie di sua segullah (Dt 7,6), e forse pos­
siamo vedere un «ammiccamento» dell’autore del Cantico al
libro del Deuteronomio in cui la Legge doveva legarsi alla ma­
no o al braccio, così da essere “il tutto” dell’Israelita perché
posta sul cuore e nella mente (Dt 6,5-9; 11,18). Effettivamente
la stessa intenzione totalizzante si ritrova in Ct 6a: la ragazza
chiede che quanto lo sposo possa pensare e fare, desiderare e
eseguire, sia unicamente rivolto a lei, nel senso che lei sia il suo
unico pensiero, la sua unica azione in una «coincidenza totale
a tal punto che la caduta diventa inconcepibile».21
6b. Se nell’immagine del sigillo, l’amore raggiungeva il
massimo nella rivendicazione di un possesso reciproco che
diventava la nuova identità degli amanti, ora tale messaggio
in riferimento all’amore tra i due è ripreso e ampliato
dall’immagine dell’amore-gelosia che afferma la sua potenza
e invincibilità anche su quell’unica realtà, la morte-ì^'ó/, che
potrebbe minare il rapporto tra i due amanti. Questa supe­
riorità nei commenti allegorici e spirituali è asserita con gran­
de naturalezza. Non mi pare corretto tradurre il ke come par­
ticella comparativa («come») o renderla con min, cioè «più
di» come fa, senza dare alcuna spiegazione convincente, G.
Garbini nel suo commentario.22

20 D. COLOMBO, Cantico dei Cantici, Paoline, Roma 1979, 114.


21 A. CHOURAQUI, Il Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 1980, 23.
22G a r b in i , Il Cantico dei Cantici, 278.
La Vulgata dà una connotazione causale al k i dell’inizio
del versetto, che rende con quia, mentre i Settanta riportano
boti che però può avere un valore sia causale («poiché») che
esplicativo («perché»). Si può attribuire al k i un valore blan­
damente causale, anzi causale-asseverativo, rendendolo con
«perché» in base a quanto affermato a proposito del sigillo.
L’indissolubilità dell’amore che questo realizza può sfidare
anche la morte: «Il sigillo ha in sé la forza di esprimere qual­
cosa di definitivo, irreversibile, siglato per sempre; questo sa­
rebbe successivamente motivato dalla tenacia, dall’inflessibi­
lità e indistruttibilità dell’amore rispetto alla realtà più tena­
ce, la Morte».23
Ma per poter leggere correttamente lo stico e il suo conte­
nuto - il rapporto tra morte e amore e tra se’òl (inferi) e gelo­
sia - si rende necessario comprendere il significato delle im­
magini che in esso vi troviamo. Il termine «gelosia» (qin ’àh)
è utilizzato in Pr 6,34 per esprimere la passione che accende
il marito davanti al tradimento della moglie; ricorre anche in
Nm 4,11-31 in rapporto alla «legge sulla gelosia», cioè alla
purificazione della donna che ha tradito il marito per essere
perdonata dal suo adulterio (qin ’àh compare 9 volte). Lo
stesso vocabolo viene utilizzato per descrivere l’intensità
dell’amore di Dio nei confronti di Israele: Yhwh è un Dio ge­
loso e non tollera altri dèi/mariti che possano contendere l’a­
more esclusivo che il popolo deve solo a Lui (Es 20,5; Dt
32,16; Ez 5,13). L’amore geloso e ardente tra l’uomo e la
donna del Cantico sembra prendere a prestito il modo di de­
scrivere l’amore passionale di Dio per il suo popolo, carican­
dosi della sua forza e della sua vitalità. Questa contiguità
nell’intensità di ciò che si prova, avvicina l’invincibilità

23 Cfr. RAVASI, Il Cantico dei Cantici, 650. Diversi sono stati i tentativi di spiegazione
del valore da attribuire al ki\ gli autori che propendono per un valore causativo si preoc­
cupano di mitigarne il valore e parlano di connessione allentata e di artificio abbastanza
precario.
que, il senso complessivo del versetto del nostro salmo, che
consiste nel provare il gusto di sguazzare nel sangue degli
empi. Provando a interpretare questa immagine e rifiutando i
tentativi di affievolirne la crudezza, possiamo specificare che
il salmista non si rallegra tanto (o solo) della distruzione del
malvagio ma, in definitiva, del giudizio, legando tale giudizio
alla signoria di Dio, così com’è espresso altrove attraverso la
metafora della pigiatura dell’uva che avveniva, appunto, con
i piedi (Sai 60,10; 68,24; 110,6-7; Is 63,1-4).
La gioia della giustizia ritrovata «si tramuta in una confes­
sione di fede, venata di soddisfazione sanguigna com’è la poe­
sia sociale e politica di tutti i tempi»42 (v. 12). Il senso ultimo
del Sai 58 è espresso bene da Sai 64,10-11 («Tutti gli uomini
saranno presi da timore, racconteranno le opere di Dio e
comprenderanno ciò che egli ha fatto. Il giusto si rallegrerà
nel Signore e confiderà in lui, e gioiranno tutti i retti di cuo­
re») e 140,13-14 («Io so che il Signore difenderà la causa del
misero, il diritto del povero. Sì, i giusti renderanno grazie al
tuo nome; gli uomini retti abiteranno alla tua presenza»).
Questa giustizia ha una sorta di carattere epifanico: rivela il
volto di Dio, smaschera l’arroganza dei cattivi, illumina la fe­
de del credente che si sente rincuorato nelle sue certezze di
fede e mostra a tutti gli uomini la potenza del Dio d’Israele.
In conclusione, notiamo che l’inevitabile imbarazzo che
suscitano le invettive di questo componimento nel momento
in cui si tenta una lettura del loro senso teologico, può essere
mitigato da una constatazione legata alla qualità etica dell’im­
precazione del giusto; consegnando l’invettiva a Dio egli
compie già un primo atto di sublimazione, perché l’impreca­
zione ingiusta non raggiunge il suo scopo ricadendo su chi
l’ha pronunciata (Sai 109,16-19); questa dimensione teologi­
ca, per quanto minimale, differenzia sensibilmente il tono del

42 R avàSI, Il Libro dei Salmi. Il, 185.


Sal 58 dalle pratiche esecratorie del Vicino Oriente Antico
(per le quali rimando alle riflessioni del paragrafo successi­
vo). Inoltre, legata alla dimensione epifanica sopra richiama­
ta, si può aggiungere con D. Scaiola che «questo tipo di pre­
ghiera intende reagire di fronte al male e all’ingiustizia, di cui
smaschera le dinamiche, le connivenze e gli attori, che vengo­
no individuati all’interno della storia e non proiettati in un
mondo mitico; colui che prega questi salmi vuole denunciare
il male come contrario al Dio biblico che ha creato il mondo
sette volte buono e bello, rendendosi sensibile alla sofferenza
ingiusta che colpisce soprattutto le persone più deboli».43

3. Linee teologiche

Il Salterio è un microcosmo in cui trova espressione l’am­


pio ventaglio degli atteggiamenti umani: dalla gioia più solare
all’angoscia più cupa, dalla delusione più amara alla fiducia
piena, dalle tenebre del cuore alla speranza di un rapporto ri­
trovato, dalla contestazione di Dio alla comunione con lui.
«Microcosmo» è il termine più appropriato per indicare la
polisemia del Salterio. Esso, a partire dal monumentale com­
mentario in tre volumi di G. Ravasi, compare in ogni intro­
duzione che cerca di offrire la chiave giusta per avere accesso
al mondo dei centocinquanta componimenti poetici: micro­
cosmo dell’Antico Testamento, dell’umanità, di lettori, della
storia, della preghiera; e ancora: microcosmo redazionale,
letterario, teologico, liturgico, cristiano, musicale, simbolico,
poetico, testuale, biografico.44
Diversi sono i tentativi dei vari autori di raccogliere sotto
un unico percorso tematico i centocinquanta salmi.
a) I gradini della perfezione spirituale. Ritorniamo a parlare

43 S c a io l a , «I Salmi imprecatori», 78.


44 R avasi , Il libro dei Salmi. I, 14-45.
dell’amore divino al più modesto e flebile sentimento degli
amanti, sentimento che proprio in ragione di tale accosta­
mento può sconfiggere - come solo Yhwh può fare salvando
dalla potenza divoratrice dello se’ól (cfr. Sai 49,16; 139,8) -
anche la morte.
Questo versetto, quindi, può costituire la vetta teologica
del libro dichiarando esplicitamente la vittoria dell’amore
sulla morte, verità già espressa lungo l’intero Cantico attra­
verso le immagini del fiore di loto (Ct 2,2.16; 4,5; 6,2-3; 7,3),
della mirra (1,13; 3,6; 4,6; 6,5), dell’alcanna (1,14; 4,13; 7,12)
e del capriolo (2,7.9.17; 3,5; 8,14). Questo conferisce nuovo
senso anche alla menzione del melo: se nel libro della Genesi
la donna porgeva un frutto portatore di morte, nel Cantico
ella, svegliando l’uomo, gli dona la vita.24 Pertanto, superan­
do l’ambiguità del valore da attribuire al k ì che apre 6b, pos­
siamo dire che l’autore del Cantico dichiara la superiorità e
la robustezza dell’amore tra l’uomo e la donna, anche davan­
ti alla realtà che più di tutte si presenta come inesorabile e
nullificante, cioè la morte.25
6c. L’apparato critico della Bibbia ebraica del Cantico26
considera il fatto che, a proposito di salhebetyàh, si è in pre­
senza di uno degli otto casi in cui il testo di Ben Naftali si di­
scosta da quello di Ben Aser {salhebet-yàh). Yàh può essere
interpretato, infatti, come suffisso possessivo di «fiamme»
(«sua fiamma») o come abbreviazione del nome di Yhwh che
viene separato con un trattino (maqqef) da salhebet («fiamma
di Yàh»). Le difficoltà nell’interpretazione nascono dalla con­

24 Uaccostamento tra il Cantico e il libro della Genesi è stato ravvisato anche da altri
autorevoli autori, tra i quali ricordiamo D. Lys, per il quale «il Cantico non è nient’altro
che un commento a Gen 2» {Le plus beau chant de la création, 52).
25 Anche GARBINI giunge a una conclusione «teologica» sebbene di ben altra portata;
Fautore segue un'interpretazione mitica di tutto il Cantico e accosta il termine ’ahàbdh
(«amore», che in ebraico è di genere femminile) a una divinità greca che parla e che si
rivela all’uomo {Il Cantico dei Cantici, 269).
26 Cfr. Biblia Hebraica Quinta. Megbillot, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2004,
siderazione che il nome di Yhwh compare l’unica volta qui
all’interno di tutto il libro del Cantico; si tratterebbe, quindi,
della rivelazione del nome divino alla fine del libro, luogo
culminante in cui l’autore svela a quale amore ci si è voluti ri­
ferire lungo il Cantico. Proviamo ad esporre almeno quattro
spiegazioni di salhebetyàh.21

- L’amore è come una fiamma la cui origine è Yhwh. Dobbiamo


tenere presente che «fiamma» (salhebet) nella Bibbia ebraica
ricorre due volte ed entrambe in riferimento a Yhwh (cfr. Ez
21,3 e Gb 15,30); dunque nel riferimento alle fiamme, in rap­
porto con il fuoco divorante, possiamo vedere un «ammicca­
mento» alla realtà stessa di Yhwh (cfr. Dt 32,24; Ab 3,5; G b
5,6; Sai 76,3-4).
- Il nome divino serve da superlativo. In effetti, la prima im­
pressione che si ha è quella di essere in presenza di un espe­
diente letterario che mette in parallelo la seconda occorrenza
del sostantivo «vampe» intensificando il senso di «fiamma».
Qui il superlativo sarebbe dato dalla presenza del nome di
Yhwh associato al sostantivo, così come nella Bibbia ricorre
altrove e, principalmente, in Gen 1,2: lo spirito divino che
aleggia sulle acque, cioè un vento fortissimo (cfr. anche Sai
36,7; 104,16). Dovremmo tradurre con «le sue vampe sono
vampe ardenti, veementi». Anche P. Joùon-T. Muraoka,2728
nell’edizione inglese della loro grammatica, evidenziano la
portata superlativa della costruzione del sintagma, da tradursi
con «fiamma terribile».
—Il secondo nome serve come semplice aggettivo per dire che si
tratta di una fiamma divina (come per il monte di Dio in Sai
68,16, la misericordia del Signore in ISam 20,14 e 2Sam 9,3,
la parola del Signore in Ger 2,31).
—Il fuoco che viene da Yhwh è il fulmine. Il nome yàh sta in pa­
rallelo con resef («vampe»), che potrebbe essere il nome di

27 Cfr. L ys , Le plus beau chant de la création, 288.


28 Cfr. P. JOUON, A Grammar o f Biblical Hebreto (a cura di T. Muraoka), Pontificio
Istituto Biblico, Roma 1991,141n.
una divinità demitizzata; dunque, per l’autore l’espressione fa
pensare a un modo poetico di esprimersi, da tradursi con
«colpo di fulmine» (ipotesi che non ci pare pertinente con il
senso complessivo del Cantico).

In conclusione possiamo che le prime tre interpretazioni


non si escludono reciprocamente: infatti, se da un lato è pos­
sibile attribuire un senso superlativo e intensivo alla presenza
del nome divino, è altrettanto possibile intendere un esplicito
riferimento religioso che pone la fiamma a diretto contatto
col divino.29 Per cui una traduzione che rispetti l’insieme del­
le risonanze qui accennate, potrebbe essere quella che pro­
pone L. Alonso Schòkel, «fiamma divina».30
7a. Le grandi acque e i fiumi hanno sia una connotazione
mitica (Sai 74,14-15; 77,17.20; 107,23.26; Is 43,2-3) in quan­
to descrivono la supremazia di Yhwh sul caos e sulle acque
primordiali (t*hóm),31 sia un significato storico (Sai 144,7; Is
17,13; Ger 46,7-8; Ez 32,2.14), in riferimento ai nemici d’I­
sraele che Dio combatte e vince.
Circa la dimensione mitica, solo Yhwh può salvare dalle
acque abissali e letali dello s^ól, così come emerge anche da
un testo del profeta Giona: «Dal ventre del pesce Giona pre­
gò il Signore suo Dio e disse: Nella mia angoscia ho invocato
il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi
{se>ót) ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato
nell’abisso, nel cuore del mare (yammìm) e un torrente
(inàhàr) mi ha circondato; tutti i tuoi flutti e le onde sono
passati sopra di me. Le acque (;mayim) mi hanno sommerso

29 Cfr. D. WiNTON T h o m a s , «A Consideratiori of Some Usuai Ways of Expressing thè


Superlative in Hebrew», in VT 3(1953), 215.
30 L . ALONSO SCHÒKEL, Il Cantico dei Cantici: la dignità dell’amore, Piemme, Casale
Monferrato 1990, 77.
31 II plurale di fiume (n à h à r) è normalmente n a h à n m e non n eh à r ó t : il cambiamento
sembra essere motivato dalla volontà di evocare il caos originale, lo stato primordiale e
confuso della terra che il suono o richiama, similmente a quanto si legge in Gen 1,2 (td hu
w à b ó h u cioè «informe e deserta»).
fino alla gola, l’abisso (tehóm) mi ha avvolto, l’alga si è avvin­
ta al mio capo» (Gio 2,2-6). Anche a proposito della dimen­
sione storica il rimando è a Yhwh, l’unico che può assicurare
la sua protezione contro i nemici potenti che nella storia
ostacolano il cammino del popolo eletto: è proprio nel con­
tatto con la storia che Yhwh si rivela come il salvatore.
Possiamo dire che anche nel Cantico il Signore si manifesta
nella storia di un amore umano, mostrandone tutta la forza, la
trascendenza, l’aspirazione all’eternità: «l’amore riesce a parte­
cipare della stessa forza divina: nessun genere di difficoltà,
nemmeno quelle capaci di distruggere l’intera creazione, può
soffocare l’amore».32 L’antitesi tra l’elemento acquatico (v.7a) e
quello pirico (v. 6b), dunque, aggiunge a quanto si è detto cir­
ca il rapporto morte-amore, un tassello importante: il fatto che
si affermi che l’amore sia forte come la morte e che gli inferi sia­
no insaziabili come la gelosia, non significa che morte e amore
e se’ól e gelosia siano da collocare sullo stesso piano; se c’è il
potere reale e nullificante della morte-inferi, c’è lo strapotere
vivificante dell’amore-gelosia, la cui vittoria è garantita da
Yhwh stesso. Per cui, se da un lato si deve dire che nel Cantico
mai il termine «amore» ( ’ahàbàh) è relazionato direttamente e
immediatamente a Yhwh, dall’altro si può affermare che pro­
prio l’amore si rivela come la più grande analogia per parlare
di Dio. In altri termini, «le parole del Cantico sono adatte a
tradurre parallelamente il rapporto personale tra l’uomo e la
donna, e il rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo; esse
appartengono ai due registri espressivi».33
7b. Qui ci si riferisce alla dote matrimoniale (móhar; cfr.
Gen 34,12): l’imposizione di versare un importo monetario o
l’equivalente in natura alla famiglia della fidanzata e prossi-

32 J.-M. R e e s e , The Book ofWisdom, Song o f Songs, Michael Glazier, Wilmington


1983,251.
33 P. GRELOT, «L e sens du Cantique des Cantiques», in Revue Biblique 71(1964), 52-
53.
ma sposa, conferisce evidentemente al matrimonio israelitico
le sembianze di una vera e propria compravendita. In 8,7b si
afferma, perciò, che: anche se uno avesse una grande dispo­
nibilità economica tale da permettersi di sposare qualsiasi ra­
gazza, questa ricchezza non basterebbe e non servirebbe per
assicurare l’amore della ragazza. Come segnalato a proposito
delle tematiche sapienziali attestate nel Cantico, qui ci può
essere un riferimento al valore incalcolabile della donna vir­
tuosa di Pr 31,10-31 e, in genere, alla superiorità della sa­
pienza in quanto bene indisponibile e non commerciabile,
per acquisire la quale è necessario impegnarsi con tutte le
forze, rinunciando a tutto, poiché essa è più preziosa di tutti
i tesori (Pr 3,14-15; 4,7-5; 8,11; G b 287; Sap 7,7-8.10-11.14).
Possiamo allora dire che il redattore finale del Cantico ha
voluto operare una sorta di «rivoluzione sociologica»34 in ri­
ferimento al mòhar, il quale può al limite ottenere la mano
della sposa, ma non il suo cuore. Per cui, accanto alla men­
zione dell’impotenza sull’amore degli elementi quali la mor­
te, lo s e ’ól e le acque primordiali, si aggiunge ora l’impotenza
delle ricchezze e dei beni materiali. Possiamo dire con G.
Barbiero che «la vita, la sapienza, l’amore sono i campi dove
l’uomo sperimenta i propri limiti; con il denaro si può acqui­
stare ciò che è umano; ciò che è divino non ha prezzo, esso
non può essere comprato: può soltanto essere donato».35

3. Visione teologica globale: amore umano e/o divino

Il tentativo di rintracciare uno o più generi nel Cantico fa


emergere la complessità del libro stesso in rapporto alla natu­
ra dell’amore in esso descritto. Muovendo dall’interpretazio­
ne allegorica che ha segnato per secoli l’ermeneutica del Can-

34 Cfr. L y s , Le plus beau chant de la création, 293.


35 B a r b ie r o , Cantico dei Cantici, 388.
tico, volgeremo la nostra attenzione al dato letterale, nel ten­
tativo di evidenziare il senso teologico in esso presente senza
necessariamente mutuarlo dall’esterno.
a) Lallegoria dell’amore divino. Nella tradizione ebraica si
opera un’interpretazione in chiave messianico-escatologica
del Cantico, tendenza già presente dalle prime battute del
Targum in cui si enumerano i dieci cantici che sono stati for­
mulati lungo la storia della salvezza, da Adamo fino all’ulti­
mo, quello escatologico, il cantico dei redenti; il Cantico dei
Cantici è il nono canto ponendosi immediatamente prima del­
la parousta finale. In Ct 1,5, per esempio, si legge: «Io sono
bruna ma graziosa, figlie di Gerusalemme, come le tende di
Kedar, come le cortine di Salma». La donna si scusa per il co­
lore della pelle che tradisce la sua bassa condizione sociale (si
è abbronzata lavorando all’aperto). Il Targum rilegge il verset­
to in chiave idolatrica collegandolo all’episodio del vitello
d ’oro di Es 32: «Quando i figli della casa d’Israele fecero il vi­
tello, il loro volti divennero neri come quelli dei figli di Kush,
che abitano nelle tende di Kedar. Quando invece si pentirono
e si convertirono, lo splendore della gloria del loro volto di­
venne come quello degli angeli: poiché essi fecero la cortina
del tabernacolo».36 Oppure, la frase che descrive l’abbraccio
amoroso tra il diletto e l’amata («La sua mano sinistra è sotto
il mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6) diventa la meta­
fora della protezione assicurata al popolo nel deserto da parte
di Dio: «Quando il popolo della casa d’Israele andava nel de­
serto, le nubi della gloria li abbracciavano. Quattro ai quattro
venti del mondo, perché contro di loro non avesse forza il
malocchio; uno sopra di loro, perché su loro non avessero
forza né l’ardore e il sole, né la pioggia e la grandine; una sot­
to di loro, che li portava come il papà porta in braccio il suo
bambino, e una che li precedeva di un cammino di tre giorni,

36 U. N eri (a cura di), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche,
Città Nuova, Roma, 1987, 84-85.
per abbassare le montagne e innalzare le valli, e uccidere tutti
i serpenti infuocati e gli scorpioni del deserto, e cercava per
loro il luogo adatto per passarvi la notte».57 O, ancora, il ver­
setto che recita «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le
gazzelle e per le cerve del campo: non svegliate, non risveglia­
te l’amore, finché non lo desideri!» (3,5), è collegato alla per­
manenza nel deserto: poiché gli abitanti di Canaan hanno di­
strutto il loro paese per renderlo inospitale, il Signore ha deci­
so di trattenere il suo popolo nel deserto, sia per concedere il
tempo necessario per la ricostruzione sia perché la Legge pos­
sa impregnare il corpo degli israeliti; perciò «Disse Mosè ai fi­
gli d’Israele: Io vi scongiuro, o assemblea d’Israele, per il Si­
gnore delle schiere e per il potente della casa d ’Israele, che
non osiate salire alla terra dei Cananei finché non siano com­
piuti quarant’anni e non sia beneplacito davanti al Signore di
dare nelle vostre mani gli abitanti di quella terra».38
L’influsso dell’ermeneutica allegorica ha portato le versio­
ni antiche (greca, siriaca e latina) a leggere il testo nella pro­
spettiva della storia amorosa tra Dio e il suo popolo. Accanto
ad armonizzazioni con i passi paralleli, espansioni testuali
con l’intento di spiegare il senso oscuro dell’ebraico, si nota,
per esempio, che se nell’ebraico in 8,5 è la donna che sveglia,
genera e partorisce l’uomo, la versione siriaca muta il genere
dei suffissi facendo così della figura maschile (Dio o Cristo) il
protagonista dell’azione. Da parte sua, in riferimento ai verbi
«svegliare, concepire e partorire» e al sostantivo «madre», la
versione siriaca presenta un suffisso di seconda persona fem­
minile singolare e non di seconda maschile singolare, come
invece ha il testo masoretico; ciò può essere attribuito all’in­
terpretazione allegorica che tale versione ha fatto del testo,
ermeneutica che ha portato a individuare la donna come
l’oggetto dei verbi in quanto identificato con la fanciulla Isra-

” Ivi, 99-100.
5* Ivi, 115.
eie, mentre il soggetto era maschile perché identificato con
Yhwh. Tale lettura si presterebbe a un’interpretazione mito­
logica in quanto vedrebbe la divinità maschile (Tammuz,
Adone, Dód in questo caso) mentre risveglia quella femmini­
le (Istar, Astarte, Salmit in questo caso).
Anche in ambito cristiano l’esegesi patristica e spirituale ha
operato la medesima «traslazione» di senso, lasciando alla sto­
ria dell’interpretazione interessanti commenti morali e spiri­
tuali del Cantico. Ricordiamo, per esempio, il commento di
Origene (che giunge solo fino a 2,15), di Gregorio di Nissa
(anch’esso incompleto perché commenta fino a 6,9) e di Teo-
doreto di Cirro. Menzioniamo anche il commento di Teodoro
di Mopsuestia (IV secolo) che, fedele alla scuola antiochena,
elabora un’esegesi letterale del testo biblico, arrivando alla
conclusione che, poiché non compare mai nel Cantico né il
nome del Signore né di Yhwh, il libro non aveva la forza della
profezia, cioè non era ispirato. La posizione «audace» di Teo­
doro fu condannata nel II Concilio di Costantinopoli (553),
che riaffermò l’ispirazione e la canonicità del Cantico.39
Ambrogio, sulla scia delle interpretazioni moralistiche,
non ha un commento esplicito al Cantico dei Cantici, anche
se nelle sue opere si attestano spessissimo dei riferimenti al li­
bro (Le1vergini del ò l i, La verginità del 386-387, Leducazio­
ne della vergine del 393).40 Sappiamo che il vescovo di Mila­
no è il primo a identificare ne L’educazione della vergine la
sposa del Cantico con la Vergine Maria, la quale è vista an­
che come «tipo della Chiesa».41 Ma è soprattutto in opere

39 Anche Girolamo testimonia il timore della lettura del Cantico: egli raccomanda alla
giovane Melania di iniziare a leggere i salmi e gli scritti morali dell’Antico Testamento
(Proverbi), per poi continuare con i vangeli e gli scritti apostolici; successivamente si con­
sigliano i libri profetici e storici dell’Antico Testamento e, solo alla fine, si permette la let­
tura del Cantico {Lettera 108,26).
40 S a n t ’AMBROGIO, Verginità e vedovanza, in F. Gori (a cura di), Biblioteca ambrosia­
na 14.2, Città Nuova, Roma 1989.
41 Ivi, 173-174.
come Commento al Sai 118 e Isacco o l'anima che egli cita di­
versi passi del Cantico, al punto da permettere a Guglielmo
abate di Saint-Thierry (nel XII secolo) la minuziosa raccolta
di queste citazioni in un unico volume.42
In chiave ecclesiale sono interpretate anche le volpi di Ct
2,15: sono figura di coloro che creano divisioni e seminano
menzogne nella Chiesa, ingannando i cristiani che non sono
ancora saldi nella vera fede. Afferma Teodoreto di Cirro che
«con il termine “volpi” si intendono gli eretici che portano
guerra al popolo nella Chiesa e che tentano furtivamente e
subdolamente di trarre in inganno coloro che non sono anco­
ra saldi nella fede. Tramite una parola persuasiva e incalzan­
te, e intricate argomentazioni essi ingannano i semplici e dan­
neggiano le vigne».43
La «densa» ermeneutica rabbinica e patristica sviscera dal
testo significati profondi che non gli appartengono immedia­
tamente, anche se non gli sono del tutto estranei in una logi­
ca di senso pieno delle Scritture. Questa lettura del Cantico
ha permesso, comunque, l’ampia fruibilità dell’opera e la sua
larga diffusione.
b) La storia d ’amore tra Yhtvh e Israele. Senza ricorrere
all’allegoria è stata anche operata del Cantico una lettura teo­
logica attraverso la tecnica dei parallelismi biblici, rintraccian­
do i quali si può cogliere la descrizione del rapporto d’amore
che vede protagonisti Yhwh e il suo popolo. Lo scriba finale è
ricorso a testi biblici più antichi in riferimento alla Legge, ai
profeti, ai salmi, ai Proverbi per esprimere il suo pensiero. Ciò
significa che in ogni frase e in ogni parola del testo è da ravvi­
sare un luogo scritturistico a cui l’autore si è ispirato. Non si

42 Citiamo l’opera curata da G. Banterle nella collana delle opere di S. Ambrogio; GU­
GLIELMO DI SAINT-THIERRY, Commento ambrosiano al Cantico dei Cantici, Città Nuova,
Roma, 1993.
43 TEODORETO DI CIRRO, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 2010,
103.
voleva, perciò, cantare l’amore umano ma quello tra Dio e
Israele. Tuttavia, dichiarare che il Cantico presenta la storia
d’amore tra Yhwh e Israele sotto «mentite spoglie», se da un
lato lo toglie dall’isolamento biblico a cui l’interpretazione mi­
tologica lo ha relegato, dall’altro rischia di svuotare il valore
dell’amore di coppia perché lo rende un pretesto per parlare
di Dio. Detto in altri termini: l’amore umano, concretamente
compreso, nella Bibbia non costituirebbe in sé un valore reale.
È plausibile, pertanto, che il poeta nell’esprimere l’amore divi­
no abbia così ben celato quello umano al fondo del suo pen­
siero, al punto da sembrare strano, inopportuno o una forzatu­
ra il riferimento a tale sentimento?
c) La natura teologica dell’amore umano. Con P. Grelot no­
tiamo che a partire dal profeta Osea la teologia profetica ha vi­
sto nell’amore di Yhwh per il suo popolo l’archetipo trascen­
dente del vero amore umano, proprio perché esso era il sim­
bolo di quello divino. Per cui è molto probabile che ci sia stata
un’influenza di tale concezione biblica dell’amore umano nel
Cantico: se da un lato l’autore del Cantico ha voluto demitiz­
zare il linguaggio dell’amore umano, dall’altro lo ha caricato di
risonanze nuove proprio in ragione di questa interdipendenza
dei due amori. Per cui il rapporto che lega l’amore umano a
quello divino è di natura tipologica, cioè il primo ravvisa nel
secondo il suo modello soprannaturale.44 Secondo questa pro­
spettiva, emerge come siano proprie del senso letterale del
Cantico le sfumature teologiche che esso presenta, senza mu­
tuarle dall’esterno con una forzatura del testo e senza operare
dei riduzionismi (sacrificare l’amore umano a quello divino,
ravvisare nel Cantico solo un racconto di un amore umano tra
un uomo e una donna o ridurlo a un racconto di una ieroga-
mia). Il Cantico dei Cantici si offrirebbe, quindi, come testo
sacro in quanto racconta l’amore umano che ha già in sé una

44 Cfr. G r e l o t , «L e sens du Cantique des Cantiques», 54.


valenza religiosa. È questo, dunque, il messaggio che l’autore
del Cantico vuole lanciare: l’amore umano «è una realtà irresi­
stibile e quasi fatale, una forza vitale e dinamica, un potere crea­
tivo e divino, che unisce un uomo e una donna in ima esclusi­
va e duratura relazione».45
La dimensione teologica non è estranea all’amore umano
né esterna ad esso ma è, con tale dimensione, connaturata;
possiamo dire che in ogni frammento d ’amore risplende un
barlume della presenza divina. Questa dimensione teandrica
dell’amore consente di meglio comprendere sia l’interpreta­
zione allegorica (ebraica e patristica) sia la rilettura del Canti­
co alla luce dell’incarnazione del Verbo di Dio: la ricchezza
del simbolo nuziale che il libro evoca, riecheggia nello sposa­
lizio di Gesù con l’umanità, nell’indissolubilità del suo amore
per l’uomo, nel mistero grande dell’unione Cristo-Chiesa e
marito-moglie (Gv 2,1-11; E f 5,25-27) e, infine, nel destino
della nuova Gerusalemme che troviamo nel libro dell’Apoca­
lisse, in cui l’intimità tra Dio e l’umanità viene descritta pro­
prio attraverso l’immagine matrimoniale tra la Sposa e l’A­
gnello (Ap 21-22).

B ib liografìa di riferim ento e di approfon d im en to

Il Cantico dei Cantici, Paoline, Milano 2004.


B a r b ie r o G.,
CHOURAQUI A., Il Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 1980.
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45 N.-J. TkOMP, «Wisdom and thè Canticle. Ct 8,6c-7b: Text, Character, Message and
Import», in M. G il b e r t (ed.), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL 51), University
Press, Leuven 21990, 94.
M a z z in g h i L ., 11 Cantico dei Cantici, San Paolo, Cinisello Balsamo
2012.
MURPHY R.-E., The Song ofSongs, Fortress, Minneapolis 1990.
N eri U. (ed.), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazio­
ni ebraiche, Città Nuova, Roma 1987.
RAVASI G ., Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione,
Dehoniane, Bologna 1992.
CO N C LU SIO N E

«IL SENTIERO DELL’UOMO»


(Pr 30,19)

Il proverbio deriva dal fatto che un tempo le strade non erano


segnate da alcun segnale. Gli antichi li posero in alcuni luoghi.
In questo modo servivano a due scopi: da una parte indicavano
al viaggiatore la lunghezza del viaggio, dall’altra mentre uno leg­
geva l’iscrizione e si teneva occupato a comprenderla, si liberava
dalla fatica (Didimo il Cieco).

La ricchezza spirituale dei testi sapienziali è un dato in­


confutabile e ciò che maggiormente la caratterizza è la natura
di «avvenimento».1 La storia che la Bibbia racconta non è in­
tesa come una serie di puntuali e distaccati interventi salvifici
ma è la relazione d’amore tra Dio e l’uomo. La letteratura sa­
pienziale è la narrazione del valore teologico insito nella ri­
sposta che l’uomo, mentre comprende il suo universo e in es­
so impara a muoversi, offre a Dio. Questa teologia della sto­
ria dell’Antico Testamento ha una struttura in progress per­
ché i doni della sapienza sono la maturità, la longevità, la ri-
produzione e, in generale, lo sviluppo della vita che muove
sin dalle prime pagine del libro della Genesi: occorre sapien­
za per coltivare un campo, per il buon esito di un matrimo­
nio, per l’educazione dei figli e per superare i problemi di
ogni giorno.
In questo divenire continuo, il proverbio e, in generale, le

1 C. W e s t e r m a n n , Teologia dell’Antico Testamento (Supplementi 6), Paideia, Brescia


1983, 11.
massime dei saggi stimolano l’autocomprensione dell’uomo,
manifestando l’intenzione di Dio di creare un essere indipen­
dente che sia capace di orientarsi con il mondo circostante,
comunicando con esso: fedele a se stesso (perché non è svuo­
tato della sua personalità) e fedele al Signore.
Custodire la sapienza nella Bibbia significa affermare il
primato di questo Sitz im Mensch (contesto antropologico), il
valore creaturale dell’uomo contro ogni spiritualismo mistifi­
cante. L’Antico Testamento e il Nuovo ruotano attorno a
questo fulcro antropologico che permette di cogliere l’analo­
gia strutturale esistente tra i due testamenti: l’uomo è il prin­
cipio architettonico di ogni autentica riflessione biblica, e il
suo essere in relazione (e in continua interazione) orienta alla
reale comprensione di quell’uomo nuovo (Ef 2,15) che è il
vertice dell’intero cosmo, Cristo Gesù.
IN D ICE

Premessa - «Dove abita la Sapienza?» (Gb 28,20) pag. 5

PRIMA PARTE
LIBRI SAPIENZIALI

QU ESTIO NI INTRODUTTIVE.
«INIZIO DELLA SAPIENZA: ACQUISTA LA SAPIENZA» (Pr 4,7)

1. Paternità salomonica » 9
2. Procedimenti letterari » 14
3. Retribuzione » 16
3.1. Il vocabolario della retribuzione » 18
3.2. Retribuzione collettiva » 19
3.3. Le aporie della teoria davanti alla sofferenza » 20
3.4. La scelta del male e il nuovo valore
della sofferenza » 24
4. Rapporto tra sapienza biblica ed extrabiblica » 25
4.1. Egitto » 26
4.1.1. Il prestito estero » 27
4.1.2. Un comune stock di conoscenze » 28
4.1.3. Inculturazione » 29
4.2. Mesopotamia » 30
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 32
1. Questioni storico-letterarie pag. 33
1.1. Struttura » 34
1.2. Genere letterario » 36
2. Esegesi di Pr 2: «Se accoglierai le mie parole» » 38
2.1. Le istruzioni come elemento strutturante
di Pr 1-9 e il rapporto con gli interludi » 38
2.2. Traduzione e commento » 44
3. Linee teologiche » 54
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 60

Giobbe

1. Questioni storico-letterarie » 63
1.1. Testo e versioni » 63
1.2. Struttura » 65
1.3. Genere letterario » 77
1.3.1. Dibattito giudiziale » 77
1.3.2. Il dramma » 79
1.4. Lambientazione » 80
2. Esegesi di G b 31: l’apologià del giusto » 81
2.1. Genere letterario e contesto prossimo » 81
2.2. Struttura » 83
2.3.Traduzione e commento » 85
3. Linee teologiche » 101
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 106

Qoelet

1. Questioni storico-letterarie » 107


1.1. Autore » 108
1.2. Datazione e lingua » 109
1.3. Struttura e genere letterario » 110
2. Esegesi di Qo 3,1-15: c’è un tempo per ogni cosa pag. 114
2.1. Contesto prossimo e struttura » 114
2.2. Traduzione e commento » 115
3. Linee teologiche » 127
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 134

Siracide

1. Questioni storico-letterarie » 135


1.1. Autore e datazione » 135
1.2. La trasmissione testuale » 137
1.3. Genere letterario » 141
1.4. Struttura » 142
1.5. Ricezione del libro » 143
2. Esegesi di Sir 24: la Sapienza si racconta » 144
2.1. Contesto prossimo, genere letterario e struttura » 145
2.2. Traduzione e commento » 146
3. Linee teologiche » 156
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 162

Sapienza

1. Questioni storico-letterarie » 163


1.1. Autore » 164
1.2. Data » 165
1.3. Struttura » 166
1.4. Genere letterario » 168
2. Esegesi di Sap 3,1-12: la ricompensa dopo la morte » 170
2.1. Contesto prossimo, genere letterario e struttura » 171
2.2. Traduzione e commento » 171
3. Linee teologiche » 181
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 189
ITINERARI T E O L O G IC I
«TEM I D IO E OSSERVA I CO M ANDAM ENTI» (Qo 12,13)

1. La pedagogia dei saggi pag. 191


2. Leducazione: trapaideia e fede » 194
2.1. Intelligenza e potenziale pedagogico » 194
2.2. Sapienza teologale » 196
2.3. La riscoperta della propria umanità » 197
3. Lantropologia dei sapienti » 199
3.1. La demitizzazione del potente » 199
3.2. La cultualizzazione della parola in Qoelet » 202
3.3. Luom o al centro della Bibbia » 204
4. La personificazione della Sapienza » 205
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 209

SECONDA PARTE
LIBRI PO ETICI

SALTERIO

1. Questioni storico-letterarie » 213


1.1. Testo e soprascritte » 214
1.2. Numerazione » 216
1.3. Struttura » 217
1.4. Generi letterari e linguaggio simbolico » 219
2. Saggi di esegesi » 223
2.1. Sai 8: inno alla grandezza dell’uomo » 223
2.2. Sai 51: la riconciliazione dopo il peccato » 230
2.3. Sai 77: il ricordo delle meraviglie passate » 240
2.4. Sai 92: il canto del giusto » 248
2.5. Sai 111: l’elogio della bontà divina » 254
2.6. Sai 58: c’è un Dio che fa giustizia » 259
3. Linee teologiche » 269
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 273
1. Questioni storico-letterarie pag. 275
1.1. Autore, lingua e datazione » 275
1.2. Struttura » 276
1.3. Genere letterario » 278
1.4. Canonicità discussa » 284
2. Esegesi di Ct 8,5-7: «Forte come la morte» » 285
2.1. Genere letterario » 285
2.2. Contesto prossimo e struttura » 286
2.3. Traduzione e commento » 288
3. Visione teologica globale: amore umano e/o divino » 296
Bibliografia di riferimento e di approfondimento » 302

Conclusione - «Il sentiero dell’uomo» (Pr 30,19) » 305

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