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Collana Studi biblici

25. Metodologia dell'Antico Testamento, a cura di H. Simian-Yofre


26. F. Manns, Il giudaismo
27. G. Cirignano - F. Montuschi, La personalità di Paolo
28. F. Manns, La preghiera d'Israele al tempo di Gesù
29. H. Simian-Yofre, Testi isaiani dell'Avvento
30. M. Nobile, Ecclesiologia biblica
31. L. Ballarini. Paolo e il dialogo Chiesa-Israele
32. F. Manns. L'Israele di Dio
33. A. Spreafico. La voce di Dio
34. G. Crocetti. Questo è il mio corpo e lo offro per voi
35. A. Rofé, La composizione del Pentateuco
36. P. Lapide, Bibbia tradotta Bibbia tradita
37. G. Cirignano - F. Montuschi. Marco. Un Vangelo di paura e di gioia
38. P. Grelot, Il mistero del Cristo nei Salmi
39. B. Costacurta, l/ laccio spezzato
40. G. lbba, La teologia di Qumran
41. A. Wénin, Entrare nei Salmi
42. B. Costacurta, Con la cetra e con la fionda
43. J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico
44. X. Léon-Dufour, Agire secondo il Vangelo
45. Bibbia e storia , a cura di M. Hermans P. Sauvage
-

46. W. Binni - B.G. Boschi. Cristologia primitiva


47. M. Remaud. Vangelo e tradizione rabbinica
48. B.G. Boschi. Le origini della Chiesa
49. A. Miranda ./ sentimenti di Gesù
50. W. Binni, La Chiesa nel Quarto Vangelo
51. X. Léon-Dufour.l/ Pane della vita
52. A. Wénin. // Sabato nella Bibbia
53. B. Costacurta, Lo scetrro e la spada
54. Y. Simoens, Il corpo sofferente: dall'uno all'altro Testamento
55. F. Urso, La sofferenza educatrice nella Lettera agli Ebrei
56. L. Mazzinghi, Storia d'Israele dalle origini al periodo romano
57. A. Pitta. Paolo, la Scrittura e la Legge
58. M. Grilli. L'impotenza che salva
59. L. Schiavo,// Vangelo perduto e ritrovato
60. R. Reggi. / «fratelli» di Gesù
61. S. Paganini. Qumran le rovine della luna
62. P. Lombardini. Cuore di Dio, cuore dell'uomo
63. M. L. Rigato, Discepole di Gesù
64. V. Polidori, La Bibbia dei Testimoni di Geova
65. M.L. Rigato, l genitori di Gesù
66. A. Spreafico, La voce di Dio. Nuova edizione
67. P. Lombardini, l profeti
68. G. Benzi. La profezia dell'Emmanuele
69. B. Standaert. /1 vangelo secondo Marco
70. W. Egger - P. Wick, Metodologia del Nuovo Testamento
71. J. Dupont, Teologia della Chiesa negli Atti degli apostoli
JACQUES DUPONT

TEOLOGIA
DELLA CHIESA
NEGLI ATTI
DEGLI APOSTOLI
Nuova edizione

Prefazione di Massimo Grilli

EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA


Titolo originale: Etudes sur l'ecclésiologie des Actes des Apotres
(dattiloscritto)

Traduzione dal francese: A. Teresa Malagutti

Redazione italiana: Giuseppe Barbaglio

Prima edizione: ottobre 1984


Nuova edizione: giugno 2015

Impaginazione: Emme2 sas, Bologna

c 201 5 Centro editoriale dehoniano


via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna
www.dehoniane.it
EDB®

ISBN 978-88-10-41022-6

Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI) 2015


Prefazione
L'ECCLESIOLOGIA
DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
SECONDOJACQUES D UPONT

Pochissime volte mi è capitato di riconoscere la sbalorditiva at­


tualità di un volume scritto trent'anni prima. Eppure, leggendo an­
cora una volta questo lavoro di Jacques Dupont sulla Teologia della
Chiesa negli Atti degli apostoli, sono rimasto impressionato dalla
straordinaria freschezza dell'opera, che le EDB hanno saggiamente
deciso di riproporre al pubblico. Un'opera che non risente del logo­
rio del tempo viene riconosciuta generalmente come un «classico» e
questo lavoro di Jacques Dupont Io è, sia per l'impeccabile imposta­
zione metodologica, sia per la densità dei contenuti. Nei trent'anni
che ci separano dalla sua apparizione sono stati scritti altri studi sul­
l'ecclesiologia lucana, 1 ma molti di essi riformulano in qualche mo­
do tesi già conosciute, e quindi non offrono un vero e proprio con­
tributo alla questione, altri affrontano il problema ecclesiologico
partendo da altri punti di vista.2 Ovviamente il tema è così ricco che
può essere letto da molteplici prospettive e lo stesso Dupont, ali 'ini­
zio del suo studio, seleziona alcuni approcci possibili, ma la corre t­
tezza metodologica e la ricchezza di contenuti che emergono dalla
Teologia della Chiesa negli Atti degli apostoli rimane, a mio parere,
un punto di riferimento indispensabile per ogni ulteriore approfon­
dimento. Provo a esporre le ragioni di questo mio giudizio, anche se

1 Cf. soprattutto la carrellata che fa F. BovoN, Luc le Théologien. Troisième édition


augmentée, Genève 2006, 507-517
2 Cf. ad esempio lo studio di W. REINHARDT, Das Wachstum des Gottesvolkes. Un­
tersuchungen zum Gemeindewachstum im lukanischem Doppelwerk auf dem Hinter­
grund des A lten Testament, Gottingen 1995.

5
le motivazioni che presento non sono e non hanno la pretesa di es­
sere esaustive, ma vogliono solo essere un assaggio delle risorse e
dell'attual ità dell 'opera in questione.

l. Il principio strutturante: il rapporto Israele-Chiesa

Gli studi sull'ecclesiologia degli Atti hanno assunto nel passato


sostanzialmente due diverse direzioni. Il filone classico ha percorso
una prospettiva più propriamente storica: prendendo l'avvio dall'au­
tocomprensione della primitiva comunità cristiana all'interno di
Israele, si passava attraverso il legame delle più antiche comunità
della diaspora con la Chiesa di Gerusalemme fino ad arrivare all'ini­
ziale organizzazione comunitaria e ai ministeri. L'altro filone dello
studio ecclesiologico degli Atti ha seguito maggiormente la compo­
nente teologica, soffermandosi sulla natura della Chiesa, sulla sua
funzione nel piano divino e sugli elementi di carattere teologico, cri­
stologico ed etico che la contraddistinguono.
Il merito di Dupont è anzitutto quello di individuare un criterio
di orientamento unitario in mezzo alla molteplicità di elementi pos­
sibili. Egli parte dal legame che intercorre tra la Chiesa di Cristo e
Israele e dall'interpretazione di questa profonda relazione fa dipen­
dere la ricostruzione dell'ecclesiologia lucana. Scrive Dupont nelle
«Note preliminari»: «L'ecclesiologia di Luca ci sembra centrata sul­
la questione del rapporto da stabilire tra Israele e la Chiesa, che è
nello stesso tempo la questione del rapporto tra le Scritture (quelle
che sono divenute per noi lH'Antico Testamento") e l'evento cristia­
no (che include sia Gesù Cristo che la comunità di coloro che credo­
no in lui)».
L'individuazione del principio d'ordine del pensiero ecclesiologi­
co lucano non poteva essere formulato più chiaramente. È dal rap­
porto Israele-Evento cristiano che Luca parte per comprendere la
storia della salvezza ed è alla luce del rapporto Israele-Cristo che rie­
labora la tradizione a lui pervenuta. Per convincersi della pertinenza
di questo principio strutturante, basterebbe riflettere attentamente
sull'impostazione dell'opera lucana, che ha in «Gerusalemme>> il suo
centro propulsore e «i confini della terra» come punto di arrivo, se­
condo quell'adagio che suona come programma non solo geografico,
ma anche teologico: «mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria, fino ai confini della terra» (A t 1 ,8). Il primo li-

6
bro di Luca si era aperto con l'oracolo salvifico posto sulle labbra del
vecchio Simeone nel tempio di Gerusalemme, <<i miei occhi hanno vi­
sto la tua salvezza (to soterion sou!) preparata da te davanti a tutti i
popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele»
(Le 2,30-32); il secondo libro si chiude con «la salvezza di Dio (to
soterion tou Theou!) fu inviata alle nazioni» (28,28). È importante ri­
levare però, che nell'uno e nell'altro testo, Israele e le nazioni sono
messe a confronto. Il viaggio della salvezza avviene con i d ue desti­
natari uno di fronte all'altro.

2. L'interpretazione del rapporto

Individuare l'angolo di visuale più adeguato per affrontare l'ec­


clesiologia di Atti, tuttavia, non è che l'inizio. Sia nel passato remoto
che in quello recente, molti autori hanno fatto dipendere la giusta
comprensione dell'ecclesiologia degli Atti dal rapporto Chiesa-giu­
daismo, ma le posizioni non sono univoche: gli uni considerano il li­
bro degli Atti come un progressivo allontanamento della giovane
Chiesa cristiana dal giudaismo, mentre gli altri ravvedono nel pro­
cesso di Atti una sostanziale continuità e il disegno di un terreno co­
mune su cui sono piantati Israele e la Chiesa.
Dupont affronta il problema da persona lucida, attenta: senza ir­
retirsi in una teologia di vecchio stampo, che contrapponeva il nuo­
vo e il vecchio partendo più da un principio dogmatico che da un di­
scernimento critico, ma anche senza scorciatoie o fughe in avanti. La
sua lettura si basa sostanzialmente su due considerazioni: il signifi­
cato e la funzione che il termine laos assume nel racconto degli Atti
e il modello promessa-compimento così come viene presentato nei
grandi discorsi del libro.
Un 'analisi attenta del materiale riguardante laos- nei suoi riferi­
menti a Israele o a una parte di Israele e anche nei riferimenti alle
uniche due eccezioni in cui il termine si applica ai seguaci di Cristo
(At 15,14 e At 18,10) - porta Dupont a concludere che «Israele non
ha perduto il proprio privilegio di popolo eletto( ... ]. Non si può dun­
que attribuire a Luca l'idea che esistano due popoli di Dio, uno an­
tico e uno nuovo. Al contrario, Luca è assai sensibile alla svolta che
gli avvenimenti di Pasqua hanno fatto prendere alla storia d eli 'unico
popolo di Dio, determinandone il passaggio dal tempo della pro­
messa al tempo del compimento» (pp. 142-1 43).

7
L'utilizzo delle profezie antiche nei grandi discorsi di Atti dimo­
stra ancora che, alla fine dei giorni, «l'intervento decisivo di Dio in
favore del proprio popolo dovesse allo stesso tempo andare a bene­
ficio di tutte le nazioni della terra» (p. 143). In questo modo il cer­
chio si chiude e si apre allo stesso tempo, perché le radici del popo­
lo che Dio costituisce fra gli uomini «Si trovano incontestabilmente
in Israele, ma esso non potrebbe rimanere fedele alla sua vocazione
senza aprirsi a tutte le nazioni, a tutti gli uomini» (p. 144). In una
pubblicazione recente, partendo proprio da questo studio di Dupont,
riassumevo in questo modo il mio pensiero sulla delicata questione:
«Se analizziamo più da vicino il popolo che Dio si è acquistato tra i
pagani in At 15 alla luce del contesto delle ricorrenze di laos in Lu­
ca, dobbiamo osservare quanto segue: il popolo che Dio prende tra
le nazioni per il suo nome non è un popolo distinto da Israele e tan­
tomeno è la chiesa come nuovo Israele. Invece, la realtà dei creden­
ti in Gesù provenienti dai pagani viene vista in continuità con la sto­
ria di salvezza d'Israele. A questi credenti in Cristo "estranei alle al­
leanze della promessa" (direbbe Ef 2,12) viene data la possibilità di
aver parte al patrimonio di Israele... Il popolo di Dio rimane Israele:
una parte di questo popolo ha creduto in Gesù messia (i cosiddetti
giudeo-cristiani) e questa parte non ha mai rinnegato le sue radici.
Questa parte dei figli di Israele diventata "chiesa" di Cristo- nella
cosiddetta assemblea di Gerusalemme - permette ai credenti di ori­
gine pagana di aver parte al patrimonio di Israele, senza assumere
l'obbligo della circoncisione. Ancora una volta, raccento non è sul­
l'elemento sostitutivo e nemmeno su quello di un popolo nuovo ri­
spetto all'antico; l'accento è sullo sguardo elettivo di Dio che, sce­
gliendosi un popolo tra i pagani, non fa altro che portare a compi­
mento il suo disegno salvifico».3

3. L'attualità del problema

Soprattutto a partire dal concilio Vaticano II la categoria teologi­


ca «popolo di Dio» è divenuta una delle più ricorrenti per designare

3 M. GRILLI, Scritture. Allt•anza. Popolo di Dio. Aspetti del dialogo ebraico-cristia­


no, EDB, Bologna 2014. H2-H3.

8
la Chiesa: con Cristo come suo capo, la dignità di figli come condi­
zione, l 'amore come legge, e la diffusione del Regno come prospetti­
va missionaria ed escatologica (LG 9). Negli anni che seguirono im­
mediatamente l'evento del concilio, il giovane teologo Hans Kting,
nel suo trattato sulla Chiesa, dopo aver descritto l'autocomprensio­
ne della comunità cristiana delle origini come «coscienza di essere,
nella fede a Gesù messia, il vero Israele, il vero popolo di Dio: il nuo­
vo popolo di Dio della fine dei tempi>> non esitava a definire la cate­
goria «popolo di Dio» come «il più antico e fondamentale concetto
che serva a circoscrivere l'autocomprensione della Ekklesia. Di fron­
te ad esso, immagini come quella del corpo di Cristo, del tempio, ecc.
sono secondarie. È sulla scorta del concetto di popolo di Dio che de­
ve essere compresa la pluristratificata struttura della chiesa>>.4 Biso­
gna riconoscere che, almeno negli anni del concilio, quando il con­
cetto di Chiesa-popolo-di-Dio si affermò, esso costituì un progresso
dinamico e indubbiamente positivo rispetto alle visioni puramente
istituzionali e gerarchiche della comunità cristiana. E tuttavia, alla
luce di una riflessione più profonda, il concetto ha suscitato degli in­
terrogativi di non poco conto, soprattutto per come l 'immagine è sta­
ta ed è utilizzata negli stessi documenti conciliari e nella teologia.
In effetti, «popolo di Dio» non definisce propriamente nemmeno
Israele, perché il Dio di Israele ha un nome, e Israele è il popolo di
YHWH e non il popolo di Dio. Esegeti sensibili a questo problema
- come ad esempio Norbert Lohfink - lo hanno rilevato e messo in
evidenza5 anche mediante statistiche (anche se la statistica non è cer­
tamente l'aspetto più importanti delle osservazioni di Lohfink) al­
l 'interno della Bibbia ebraica.
Quanto alla «Chiesa di Cristo», invece, sono necessarie alcune
precisazioni. Sotto certi aspetti, la categoria «popolo di Dio>> - alme­
no nelle intenzioni dei padri conciliari e di alcuni teologi pionieri -
era e rimane senz'altro un concetto che denota un'attenzione alla
Bibbia ben maggiore di tante altre definizioni impastate di giuridici­
smo e istituzionalismo. E tuttavia nell 'assumere questa categoria i

4 H. KONG, La Chiesa, Queriniana, Brescia 1%9, 133.


5 Cf. N. LoHFINK, Le nostre grandi parole. L'Antico Testamento su temi di questi an­
ni, Paideia, Brescia 1986, 127ss.

9
documenti ecclesiali non hanno avvertito altre problematiche con­
nesse. Questa mancata avvertenza ha portato di fatto a parlare della
.Chiesa come «nuovo popolo di Dio» o «nuovo Israele». Dovremmo
recuperare la ricchezza del termine Ekklesia, che definisce la comu­
nità dei credenti in Cristo raccolti da Israele e dalle genti (cf. Rm
9,24) all'interno di una storia che riconosce l'unicità di Israele. E non
si dovrebbe mai dimenticare che i gentili entrano a far parte della
promessa salvifica fatta a Israele mediante la fede in Gesù, messia
d 'Israele. Insomma, la comunità cristiana, per affermare la propria
identità, non ha bisogno di escludere Israele. «Non si tratta di met­
tere in dubbio la nostra identità cristiana in quanto tale. Al contra­
rio: si tratta di formularla di nuovo, e meglio ... Non si tratta di desta­
bilizzarci come cristiani. .. Si tratta semmai di formulare un 'identità
cristiana alla luce del fatto che Israele continua ad esistere».6 Occor­
re riconoscere che tutta la tradizione cristiana ha Cristo come il kai­
ros decisivo, come colui che «ha prodotto il passaggio. Egli ha trac­
ciato la linea di divisione dei tempi. Egli ha separato, egli ha unito.
La croce di Cristo con la sua doppia sbarra, ha cambiato i segni. È
questo, se così si può dire, il perno della dialettica cristiana». Tutta­
via, «per quanto giusto e positivo, per quanto eminentemente reale
sia il principio, essa [la croce di Cristo] era, riconosciamolo, nella sua
espressione corrente, fortemente tinta di spirito polemico. Essa lo
era dal tempo di San Paolo» .7 Bisogna, allora, avere il coraggio di ri­
percorrere, con animo più pacificato, il cammino ebraico-cristiano,
perché solo una riflessione pacifica aiuta a capirsi e a capire. Nessu­
no può raggiungere se stesso se rinnega o si distacca dalle sue radici
e i cristiani sono piantati sulla radice santa della promessa affidata a
Israele ( Rm 1 1 ,16-24). Lo studio di Dupont, che abbiamo tra le ma­
ni, spinge in questa direzione, e non avrei dubbi a definirlo pioneri­
stico. Lo è stato trent'anni fa, e lo è ancora oggi.

MASSIMO GRILLI

6 R. RENDTORFF. Cristiani ed Ebrei oggi. Nuove consapevolezze e nuovi compiti,


Claudiana, Torino 1 999, 126.
7 H. DE LUBAC. Esegesi medievale. / q u a ttro sensi della Scrittura. Jaca Book, Mila­
no 1996, III, 202.

10
PRESENTAZIONE

Nell'aprile del 1 983 padre J. Dupont tenne alla Facoltà teologica


della Sicilia ( Palermo) un corso speciale sull'ecclesiologia degli Atti
degli apostoli. La lettura del manoscritto ha subito rivelato lo straor­
dinario interesse di questa ricerca del noto esegeta. Perciò le EDB si
sono premurate di farla conoscere al grande pubblico italiano.
Punto focale dello studio è il rapporto tra la Chiesa e Israele, av­
vertito in tutto il Nuovo Testamento come problema di fondo. In
concreto, per la sua vasta incredulità Israele ha forse cessato di esse­
re popolo di Dio, cedendo il passo alla Chiesa, nuovo popolo di Dio
che prende il posto dell'antico? Oppure bisogna ammettere l'esi­
stenza permanente di un solo popolo di Dio che in Cristo ha cono­
sciuto una svolta epocale aprendosi a tutti i popoli? L'ecclesiologia
di Luca, testimoniata particolarmente negli Atti degli apostoli, si
qualifica secondo quest'ultima direttrice, come sintetizza il nostro
autore nella conclusione della sua opera: «Israele non ha perduto il
proprio privilegio di popolo eletto [... ]. Non si può dunque attribuire
a Luca l'idea che esistano due popoli di Dio, uno antico e uno nuo­
vo. Al contrario, Luca è assai sensibile alla svolta che gli avvenimen­
ti di Pasqua hanno fatto prendere alla storia dell'unico popolo di
Dio, determinandone il passaggio dal tempo della promessa a quel­
lo del compimento)).
Tale interpretazione di J. Dupont è frutto di pazienti e minuziose
analisi del testo lucano, che si rivelano concludenti e probanti. Ma
qui intendiamo soprattutto attirare l'attenzione sulla portata ecume­
nica del lavoro di padre Dupont. Il dialogo ebraico-cristiano conosce
ultimamente una stagione feconda. Luoghi comuni di tradizionale
contrapposizione tra Chiesa e Israele, tipici non solo di una vasta

11
opinione pubblica del mondo cristiano, ma anche di qualificate ten­
denze esegetiche, vengono a poco a poco rivisti e si avverte l'esigen­
za di sottolineare le radici storiche del cristianesimo. Lo studio accu­
rato di J. Dupont costituisce un contributo di massima importanza
per la comprensione teologica del popolo ebraico e della Chiesa di
Cristo.

GIUSEPPE BARBAGLIO

12
SIGLE

AnBib Analecta Biblica


BBB Banner Biblische Beitrage
BETL Bibliotheca Ephemer. Theol. Lovan.
BU Biblische Untersuchungen
BZNW Beihefte zur Zeitschrift jUr die neutestamentliche Wis­
senschaft
EWNT Exegetisches Worterbuch zum Neuen Testament
HTK Herders Theologischer Kommentar
NtlAbhNF Neutestamentliche Abhandlungen Neue Folge
NT Novum Testamentum
NTD Das Neue Testament Deutsch
NTS New Testament Studies
RB Revue Biblique
RSR Recherches de Science Religieuse
RTP Revue de Théologie et de Philosophie
SANT Studien zum Alten und Neuen Testament
SBL Society of Biblica] Literature
SBLMS Society of Biblical Literature, Monograph Series
SBS Stuttgarter Bibelstudien
SNT Studien zum Alten Testament
SNTSMS Society of New Testament, Studies, Monograph Series
StTh Studia Theologica
TWNT Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament
ZNW Zeitschrift fur die neutestamentliche Wissenschaft

13
NOTA BIBLIOGRAFICA

Nel corso della nostra ricerca, di alcuni autori più spesso citati
viene indicato soltanto il nome e relativa pagina. Si tratta degli au­
tori seguenti:

BETORI G., Perseguitati a causa del Nome. Struttura dei racconti di


persecuzione in At 1, 12-8,4, (AnBib 97), Roma 1981 .
DAHL N.A., « A People for his Name" (Acts XV. 14)», in New Testa­
''

ment Studies 4( 1957-1958), 31 9-327.


HAYA-PRATS G., L'Esprit force de l' Eglise. Sa nature et so n activité
d'après /es Actes des Apotres, (Lectio Divina 81), Paris 1975 .
RAsco E., «Spirito e istituzione nell'opera lucana», in Rivista Biblica
30( 1982).
VoN BAER H., Der Heilige Geist in den Lukasschriften, Stuttgart
1926.

15
NOTE PRELIMINARI

Il problema che dobbiamo affrontare in questo lavoro è relativo al


pensiero ecclesiologico dell'autore del libro degli Atti. Al fine di deli­
mitare l'oggetto è anzitutto necessaria una serie di puntualizzazioni.
l. Il racconto che fanno gli Atti degli eventi che hanno segnato la
storia della Chiesa primitiva, dall'ascensione del Signore e la venuta
dello Spirito Santo sui discepoli fino all'arrivo di Paolo nella capita­
le dell'impero romano, contiene grande quantità di materiali che una
teologia della Chiesa ha il dovere di introdurre nella propria costru­
zione. Per questa teologia è sommamente importante poter mostra­
re che una tale immagine di Chiesa risulta fedele rispetto a quella
che ci è data, fin dalle sue origini , dalla raccolta canonica degli scrit­
ti del Nuovo Testamento, e dal modo nel quale la tradizione aposto­
lica è stata successivamente recepita e vissuta dalle Chiese nelle va­
rie e mutate circostanze (in particolare a seguito della crisi «gnosti­
ca»). Noi qui non ci occupiamo dell'inserimento di fatti, riportati ne­
gli Atti, in una visione più ampia riguardante la Chiesa; intendiamo
semplicemente puntualizzare l'angolazione particolare e specifica
sotto la quale l 'autore degli Atti considera la realtà della Chiesa nei
primi anni della sua esistenza.
2. Gli Atti non si presentano come una trattazione dottrinale del­
l'idea che il loro autore si fa della Chiesa, bensì come un racconto del­
le grandi tappe di un «divenire», che sono, allo stesso tempo, le tappe
di uno spostamento geografico che parte da Gerusalemme per con­
cludersi a Roma. La nostra ricerca non si limiterà dunque ad alcuni
passaggi che parlano esplicitamente della Chiesa; si tratterà piuttosto
di individuare il pensiero sotteso al racconto nel suo complesso, di
rendere espliciti i presupposti teologici inseriti nella narrazione.

17
3. Gli Atti degli apostoli sono la seconda parte di un'opera della
quale il Vangelo di Luca risulta la parte iniziale. È chiaro che non ci
si dovrà esimere dal considerare le indicazioni fomite da questo Van­
gelo. Già questo, infatti, aveva lasciato trasparire il pensiero ecclesio­
logico di Luca. Si mutilerebbe tale pensiero isolando il racconto del­
le origini della Chiesa, che è presente negli Atti, da quello, fatto dal
Vangelo, del ministero terreno di Gesù, che ne risulta la preparazio­
ne; così come lo si mutilerebbe affrontando il racconto evangelico
senza tener conto del prolungamento che danno a esso gli Atti degli
apostoli. Le due parti della stessa opera devono chiarirsi a vicenda.
4. All'epoca nella quale Luca compone la sua opera, la Chiesa
esiste già da mezzo secolo. Luca non è evidentemente il primo a in­
terrogarsi sul significato teologico dei fatti che riporta. L'aveva fatto
soprattutto Paolo, con una penetrazione e un'audacia ineguagliate.
Un problema assai delicato si pone in tal modo: quello relativo alla
possibilità di stabilire una demarcazione tra il pensiero personale del
nostro autore e quello presente in espressioni linguistiche che non
corrispondono esattamente al modo nel quale egli vede spontanea­
mente le cose. Se Luca ha adottato una determinata formulazione,
noi non pensiamo che si possa trascurarla e ancor meno contrappor­
la alle sue vedute; ma sarebbe forse inopportuno attribuirle un'im­
portanza centrale, che rischierebbe di falsare la prospettiva nella
quale egli si colloca spontaneamente.
In pratica, il problema che evochiamo si pone essenzialmente a
proposito delle parole che Luca attribuisce a Paolo nel suo discorso
agli anziani della Chiesa di Efeso: «Attendete a voi stessi e a tutto il
gregge del quale lo Spirito Santo vi ha costituiti guardiani per pa­
scere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata col proprio sangue»
(At 20,28) .
Si tratta di parole attribuite a Paolo. In una simile circostanza,
Luca sa adattarsi al linguaggio del suo personaggio. 1 Di fatto, l'e­
spressione «Chiesa di Dio» non appare altrove nell'opera di Luca,
ma è familiare a Paolo (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 1 1 ,16.22; 15,9; Gal 1 ,13;
lTs 2,1 4 . ). Il modo di parlare di un '«acquisizione>> trova il suo pa­
. .

rallelo in lPt 2,9. Il ruolo del «Sangue>> di Cristo corrisponde alle pa-

1 Si veda il modo col quale evoca il tema della «giustificazione» in At 13,38-39.

18
role dell'istituzione eucaristica (Le 22,20; lCor 1 1 ,25), per le quali
Luca è evidentemente legato dalla tradizione; ma si sa che l'idea del
sacrificio espiatorio e dell'efficacia del sangue ripugna a Luca, men­
tre essa assume molto rilievo in Paolo e nella tradizione paolina (Rm
3,25 ; 5 ,9; Ef 1 ,7; 2,13; Col 1 ,20; lPt 1,2. 1 9; Eb... ) .

La portata teologica del versetto è considerevole, ma non sareb­


be prudente farne il vertice dell'ecclesiologia di Luca: egli cerca qui
di esprimersi nel modo in cui l'avrebbe fatto Paolo.
5. Non sembra possibile caratterizzare il pensiero di Luca sulla
Chiesa, della quale racconta gli inizi, senza identificare un principio
d'ordine che permetta di distinguere ciò che è centrale da ciò che ri­
mane marginale nella sua visione delle cose, e di accordare così pre­
ferenza a una via di approccio piuttosto che ad altre che corrispon­
derebbero meno bene alla prospettiva nella quale egli si colloca.
L'opzione è evidentemente importante, poiché l'angolazione con la
quale si affronta l'opera condiziona necessariamente i risultati ai
quali si approderà. Noi ci siamo dunque creduti in obbligo di tenta­
re diverse vie d'approccio prima di constatare che una di esse chiari­
va meglio il punto di vista di Luca nell 'insieme della sua opera, men­
tre le altre fornivano tutt'al più un chiarimento secondario, senza an­
dare al fondo del pensiero dell'autore.
In poche parole, siamo arrivati alla convinzione che l'angolo vi­
suale più adeguato per affrontare l'ecclesiologia di Luca è quello che
corrisponde alla sua costante preoccupazione di valorizzare la conti­
nuità del processo attraverso il quale la Chiesa cristiana si è progres­
sivamente staccata dal giudaismo ufficiale, continuità che è anche
quella che unisce il tempo delle promesse divine a quello del loro
compimento.
L'ecclesiologia di Luca ci sembra dunque centrata sulla questio­
ne del rapporto da stabilire tra Israele e la Chiesa, che è nello stesso
tempo la questione del rapporto tra le Scritture (quelle che sono di­
venute per noi l'<<Antico Testamento») e l'evento cristiano (che in­
clude sia Gesù Cristo che la comunità di coloro che credono in lui).2

2 Questo modo di comprendere l'intento fondamentale dell'opera di Luca non è


nuovo. Esso è stato in particolare oggetto della tesi di G. LoHFINK. La raccolta d'l­
.�raele. Una ricerca sull'ecclesiologia lucana, Marietti, Casale Monferrato 1983. Si veda
anche la rassegna di E. GRAESSER, «Acta-Forschung sei t 1960», in Theologische Rund-

19
Questo approccio non ne esclude tuttavia necessariamente altri.
Può essere interessante menzionarli, almeno rapidamente. Si eviterà
così l 'impressione di un approccio unilaterale e, allo stesso tempo, si
permetterà di cogliere ciò che altre prospettive possono far emerge­
re dal testo e le ragioni per le quali esse risultano insufficienti ad ar­
rivare al cuore del pensiero ecclesiologico di Luca.

schau 4 1 (1976), 271s, 281 , 290; 42(1 977), 51 -58; l'introduzione e la conclusione del no­
stro articolo su « La conclusion des Actes et son rapport à I'ensemble de l'ouvrage de
Luc», in J. KREMER, Les Actes des Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48),
Gembloux-Leuven 1979, 359-404; i commentari di J. ERNST su Luca (1977) e di B. PA­
PA sugli A tti ( 1 981 ) e l'articolo di B. PAPA, « Lo sfondo ecclesiale dell'opera lucana», in
Asprenas 27( 1 980), 27-40 (3ls).

20
Capitolo I
ALCUNI APPROCCI POSSIBILI

l. Il lessico

Può essere significativo il modo nel quale gli Atti designano la o


le comunità cristiane e coloro che ne fanno parte. Luca sa che i
membri della Chiesa sono designati come «cristiani» da quelli che
non ne fanno parte {1 1 ,26; 26,28)� ma egli non fa mai proprio questo
appe llativo, come d'altronde quello di «nazareni» (24,5) . Al contra­
rio, egli li designa 29 volte come i «discepoli>>, precisando una volta:
«i discepoli del Signore» (9,1 ); a questo s'aggiunge un uso del verbo
matheteuo in 14,21. Egli riprende in tal modo negli Atti una termi­
nologia che non si trova nel Nuovo Testamento al di fuori dei quat­
tro vangeli. Questa designazione sottolinea evidentemente la conti­
nuità che Luca vuole stabilire tra la storia evangelica e la vita della
Chiesa. Gli Atti parlano anche di «credenti», spesso in forma asso­
luta, senza sentire l'esigenza di precisare l'oggetto della loro fede
( participio: 2,44; 4,32; 13,39; 15,5; 18,27; 1 9,2. 18; 21 ,20.25; aggettivo:
1 0,45; 16,1). I cristiani sono anche indicati come i «Santi» (9.13.32.41;
26, 1 0) o i «santificati» (20,32; 26,18), e At 2,47 li definisce anche i
«salvati» (cf. Le 13,23).
I cristiani si chiamano tra di loro «fratelli>>. Quest'appellativo era
del tutto normale nel mondo giudaico, e non ci si meraviglia nel sen­
tire un giudeo divenuto cristiano contin uare a chiamare «fratelli» i
suoi «connazionali» che pure non condividono la sua fede (cf. 2,29;
3,17; 7,2; 13,15.26.38; 22,1-5; 23,1.5.6; 28,21). Non ci si esprimerebbe
così parlando a pagani {cf. 14,15). Bisogna tuttavia sottolineare che
Paolo, nel suo discorso nella sinagoga d'Antiochia di Pisidia, si rivol­
ge ai suoi uditori dicendo loro «uomini fratelli», distinguendo tra lo-

21
ro «i figli della stirpe di Abramo» e «i timorati di Dio» ( 1 3,26), esten­
dendo dunque a questi ultimi l'appellativo «fratelli». Ne consegue
che, parlando dei «fratelli» in modo assoluto, gli Atti fanno di questo
termine una designazione corrente dei cristiani, sia che provengano
dal giudaismo che dal paganesimo.

. 1.1. Ekklesia

Il gruppo cristiano si è ben presto applicato il termine ekklesia,


«Chiesa». Paolo ha ricevuto questa designazione da una tradizione
già consolidata, e ne suppone l'uso corrente già nella Prima lettera ai
Tessalonicesi (l Ts 1, 1; 2,1 4) A maggior ragione esso s'imponeva
.

dunque a Luca. Ma l'uso che egli ne fa negli Atti richiede alcune os­
servazioni.
1. Bisogna subito notare che gli Atti non usano il termine solo
nel suo significato cristiano. In At 19,32.39.41 esso appare tre volte
nel suo significato greco profano per indicare un 'assemblea del po­
polo di Efeso. In At 7,38, nel discorso di Stefano, esso fa da eco alla
terminologia dei Settanta, dove ekklesia traduce qdhal e indica l'as­
semblea cultuale del popolo di Dio. Il termine non separa dunque in­
teramente la «Chiesa» da altre assemblee con le quali può avere dei
tratti comuni.
2. Ci si può domandare se Luca cerchi di evitare un uso pre­
m aturo del termine. Egli, infatti, non solo non l'ha introdotto nel
Vangelo (a differenza di Mt 16,18 e 18,17), ma non ne fa uso nem­
meno nei primi capitoli degli Atti. Prima di farvi ricorso, sembra at­
tendere che la comunità cristiana di Gerusalemme sia pienamente
costituita e che debba affrontare il peccato di alcuni suoi membri
(A t 5 ,11 ) o la persecuzione che ne mette in pericolo l'esistenza
(8 1 3) Dopo un quarto uso nel sommario di 9,31, il termine torna
, . .

con una certa frequenza solo tra la fine del c. 1 1 e l'inizio del c. 1 6
( 1 1 ,22.26; 12,1.5; 1 3 ,1 ; 14,23,27; 1 5 ,3.4.22.41 ; 16,5). In seguito l o si
ritrova nella notizia alquanto enigmatica di 1 8,22 e in occasione dei
saluti di Paolo agli anziani della Chiesa di Efeso (20,17.28). Non
compare invece negli ultimi otto capitoli quando, con chiara evi­
denza, non mancherebbero le occasioni per usarlo (cf. 21 ,4-6.7.8-
14.17-24; 24,23; 28,14. 15). La sua assenza in tutta l'ultima parte del
libro deve mettere in guardia da un 'eccessiva sottigliezza nell'in­
terpretare il silenzio dei primi capitoli. Allo stesso tempo, la singo-

22
lare ripartizione degli usi del termine invita a non forzarne la por­
tata teologica.1
3. Il termine ekklesia si applica a realtà molteplici che può esse­
re interessante distinguere.
a) N el suo significato più concreto, esso indica in primo luogo
«un 'effettiva riunione di uomini convocati con un fine preciso, sem­
pre religioso, se ci si attiene al senso dei testi biblici».2 Si tratta allo­
ra dell'assemblea come tale.
b) Il termine viene in seguito a indicare il gruppo di persone che
si riuniscono in queste assemblee e che, a intervalli più o meno re­
golari, «Si ritrovano insieme ( epi to auto), nello stesso luogo, per
compiere insieme un certo numero di atti>).3
c) Il termine si stacca infine dal suo rapporto con un'assemblea
e gruppo locale per indicare l 'insieme delle persone che, apparte­
nenti allo stesso movimento, si riuniscono in luoghi diversi per for­
mare assemblee concrete i cui partecipanti si riconoscono tutti come
membri di un unico gruppo, e dove ciascuna assemblea diviene
espressione locale di un 'assemblea idealmente unica che risponde a
una sola e medesima «convocazione)), L'uso del termine in questo

1 In A t 5, 1 1 il primo uso lucano del termine ekklesia si trova nel versetto che con­
clude il racconto deiJa morte folgorante che ha punito la menzogna di Anania e Saf­
fira: «Un grande timore s'impadronì dell'intera Chiesa e di tutti coloro che lo appre­
sero». Si noti innanzitutto che questa notizia ripete amplificandola quella che aveva
fatto seguito alla menzione della morte di Anania: «Un grande timore si impadronl di
tutti quelli che l'appresero)) (v. 5b). Ci si interroga naturalmente sulla ragione per la
quale Luca ha giudicato utile distinguere la reazione della «Chiesa intera)) da quella
di «tutti coloro che l'appresero». B. PAPA (Atti, 149) ha ragione del cercare innanzitut­
to una spiegazione di ordine letterario: A t 5.1 1 non conclude solamente l'episodio di
Anania e Saffira, bensì tutta la sezione che iniziava con 4,32: «La moltitudine di quel­
li che avevano creduto non avevano che un cuore solo e un 'anima sola)). La menzio­
ne della «Chiesa intera)) forma una sorta di inclusione con quella de «la moltitudine
di quelli che avevano creduto». Si esiterà di più a seguire l'autore quando s'avventu­
ra nelle spiegazioni sull'intenzione teologica di questa prima menzione della Chiesa,
mcttendola in relazione con illogion di Le 1 2,10 sulla bestemmia contro Io Spirito (pp.
154- 1 56). La bibliografia del termine ekklesia è immensa. Segnaliamo almeno l'arti­
colo che J. RoLOFF ha dedicato a questo termine nell Exegetisches Worterbuch zum
'

Neuen Testament 1(1980), coll. 998-101 1 .


2 P. GRELOT, «Communion et prière dans l e Nouveau Testamenb, in L'année ca­
nonique 25( 1981 ) 81 .
,

3 GRELOT, «Communion et prière dans le Nouveau Testament».

23
senso suppone nei cristiani la coscienza di formare un 'unica «Chie­
sa», e non semplicemente una somma di «Chiese» particolari .
Come già nelle epistole paoline, le tre accezioni sono presenti ne­
gli Atti. Non c'è dibattito tra gli esegeti che sul modo in cui Luca ar­
ticola l'idea di una comunità locale con quella della Chiesa intesa in
senso sopra-locale. Alcuni di essi ritengono che, per Luca, ekklesia
indichi una comunità particolare; non si supererebbe questo oriz­
zonte che in due passi: 9,31 e 20,28, che sarebbero da considerare co­
me eccezioni che confermano la regola.4 Altri, al contrario, ritengo­
no che Luca parli della Chiesa una e indi visibile, che trova la sua con­
creta realizzazione in ciascuna assemblea locale.5 Il contrasto è insi­
to in pratica nel significato da dare alla formula che menziona la
«Chiesa» aggiungendo una precisazione geografica: «Che è nel tal
luogo» (At 8,1 ; 9,31 ; 11,22; 13,1 ). Si tratta semplicemente della Chie­
sa locale, o bisogna dare all'espressione il senso forte che essa pren­
de naturalmente in Paolo quando egli parla della «Chiesa di Dio che
è in Corinto» (1 Cor 1 ,2; 2Cor 1 ,1 )? L'accezione lata del termine in
9,31 e soprattutto in 20,28 dimostra perlomeno che la seconda inter­
pretazione non dovrebbe essere scartata alla leggera.
Possiamo concludere che il modo nel quale Luca usa il termine
ekklesia negli Atti non è sprovvisto di portata teologica. Ma bisogna
anche riconoscere che il problema del rapporto tra una Chiesa par­
ticolare e la Chiesa universale non sembra avere particolarmente at­
tirato l'attenzione del nostro autore. Esaminando da vicino, ci si può
render conto che egli non trascura questo problema, ma non lo af­
fronta direttamente ed esso sembra rimanere a margine del suo pen­
siero. Non è su questo punto che si fissa principalmente la sua rifles­
sione sulla Chiesa.

1.2. Hod6s

L'uso del sostantivo hod6s, la «via», il «cammino», per indicare il


movimento cristiano è un tratto caratteristico del vocabolario degli

4 Cosi il commentario di E. HAENCHEN e lo studio di W. ELTESTER, Israel im luka­


nischen Werk, in BZNW 40( 1972), 127- 129.
5 Cosl G. LoHFINK, La raccolta d'Israele. Una ricerca sull'ecclesiologia lucana, Ma­
rietti, Casale Monferrato 1 983. 68 e il commentario di B. PAPA.

24
Atti. Esso appare per la prima volta in 9,2: nel suo accanimento con­
tro i «discepoli del Signore» (v. l), Saul ottiene dal sommo sacerdo­
te delle lettere per le sinagoghe di Damasco che lo autorizzano a fer­
mare quegli «adepti della via» (tinas tès hodou ontas: quelli che sa­
rebbero della via) che trovasse là. La stessa espressione nel secondo
racconto dell'avvenimento di Damasco: «Ho perseguitato a morte
questa via, incatenando e gettando in prigione uomini e donne»
(22,4). Nel terzo racconto Paolo parla di «santi» che lui ha gettato in
prigione (26,10). Nelle sue lettere l'apostolo si rimprovera di avere
«perseguitato la Chiesa» (Fil 3,6), «perseguitato la Chiesa di Dio»
(lCor 15,9; Gal 1,13). Il tennine «Via» sembra così più o meno sino­
nimo del termine «Chiesa».
Il capitolo 24 presenta un altro episodio istruttivo, quello della
comparizione di Paolo davanti al governatore Felice. L'avvocato del­
l'accusa ha parlato di Paolo come di un «leader del partito dei naza­
reni» (v. 5). Paolo replica : «lo ti confesso che è secondo la via defini­
ta da essi come partito che io servo il Dio dei miei padri>> (v. 14) . Si
ritroverà sulle labbra dei giudei di Roma il termine «partito» (haire­
sis) per qualificare il cristianesimo, collocato così sullo stesso piano
del «partito dei Sadducei» (5 ,17) o del «partito dei Farisei» ( 1 5,5;
26,5) . Questo termine è ritenuto inadeguato, e gli Atti gli contrap­
pongono quello di «via», che corrisponderebbe meglio alla realtà: il
cristianesimo non è un «partito» che si potrebbe preferire ad altri
«partiti» del giudaismo; esso è «la via».
La designazione rimane ellittica, ma non è difficile integrare ciò
che manca. È sufficiente per questo ricordarsi del complimento fat­
to a Gesù, nel Vangelo, dai suoi avversari: «Tu insegni la via di Dio in
verità» (Le 20,21 = Mc 12,14; Mt 22,16) . Se ne trova conferma nel­
l'episodio di Apollo. Costui era stato «istruito sulla via del Signore»,
ma non conosceva che il battesimo di Giovanni (At 1 8,25); «avendo­
lo saputo, Priscilla e Aquila gli esposero più esattamente la via di
Dio» (v. 26 ). Si possono anche menzionare le grida dell 'indovina di
Filippi che dice di Paolo e dei suoi compagni: «Questi uomini sono
dei se rvitori di Dio-Altissimo, essi vi annunciano la via della salvez­
za» ( 16,17).
Ancora due espressioni assolute, a proposito del soggiorno di
Paolo a Efeso. Paolo vi ha iniziato la propria predicazione nella sina­
goga, ma ha presto sollevato l'accesa opposizione di alcuni dei suoi
ascoltatori «che beffeggiavano la via davanti all'assemblea» ( 19,9).

25
Verso la fine del suo soggiorno, sono dei pagani che provocano un
grande tumulto «a proposito della via» (v. 23).
Sarebbe interessante interrogarsi sulle implicazioni ecclesiologi­
che di questa designazione del cristianesimo: «la via». Ma bisogna
immediatamente riconoscere che il suo uso resta circoscritto a con­
testi che possiamo chiamare «paolini», anche se non ci è possibile ve­
rificare il suo carattere «paolino». Questo termine costituirebbe una
base troppo stretta per condurci al cuore del pensiero ecclesiologico
di Luca.

2. La vita della Chiesa

Il racconto che il capitolo 2 degli Atti fa dell 'avvenimento della


Pentecoste costituisce l'immediato punto di partenza e l'atto di na­
scita della Chiesa - anche se il termine non vi figura. I primi versetti
(2,1-4) descrivono il modo nel quale lo Spirito è disceso sul gruppo
di persone che era stato presentato in l ,13-14. Accorre una folla, la
cui meraviglia si traduce in una serie di domande (2,5-13) che intro­
ducono abilmente il lungo discorso interpretativo di Pietro (2,14-36).
Tale discorso sfocia in una nuova domanda da parte dei presenti:
«Che cosa dobbiamo fare?» (v. 37). Le spiegazion i dell'apostolo (vv.
38-40) conducono all '«aggregazione» di circa tremila persone «in
quel medesimo giorno>> (v. 41). A questo racconto sugli eventi di
«quel giorno>> (vv. l e 41), gli ultimi versetti del capitolo aggiungono
una descrizione di quello che è stato in seguito, «ciascun giorno» ( vv.
46 e 47), il comportamento di questo nuovo gruppo, presentando ta­
le comportamento sotto il segno della «perseveranza» che aveva già
caratterizzato il gruppo iniziale (esan proskarterountes: 1,14 e 2,42).
«Aggregata» al gruppo apostolico, questa folla, alla quale «Si aggre­
gano» senza sosta nuovi credenti (vv. 41 e 47), costituisce la comunità
che riceverà un po' più tardi il nome di «Chiesa» (5,1 1 ).
La «perseveranza» di questa comunità è specificata in 2,42 per
mezzo di quattro termini: «nell'insegnamento degli apostoli e nella
koinonia, nella frazione del pane e nelle preghiere». Si noti che que­
sti termini sono raggruppati due a due. I primi due qualificano le re­
lazioni all' interno del gruppo, mentre gli ultimi due riguardano quel­
la che possiamo chiamare la vita lit urgica della comunità. I versetti
che seguono commentano questi cenni del v. 42. Il v. 43 ritorna al
ruolo particolare svolto dagli apostoli, questa volta per sottolineare

26
i miracoli che accompagnano la loro predicazione e non più l'inse­
gnamento che essi impartiscono ai credenti. I vv. 44-45 spiegano che
la koinonia dei nuovi convertiti si traduce concretamente nella mes­
sa in comune (koina) dei beni. Infine i vv. 46-47a commen tano ciò
che il v. 42b diceva della loro pratica religiosa: «Ciascun giorno, essi
perseveravano unanimemente nella (frequentazione) del tempio e
spezzando il pane nelle (loro) abitazioni».6
G. Betori scrive felicemente che questo sommario offre al lettore
una sorta di «Carta d'identità» della Chiesa (p. 29) . Sembra chiaro, in
effetti, che i tratti attraverso i quali Luca caratterizza la comunità
primitiva intendono proporre un modello rispetto al quale ogni co­
munità cristiana potrà verificare la propria fedeltà al vangelo. La
Chiesa non sarà veramente tale che nella misura in cui i credenti che
la compongono praticheranno la quadruplice perseveranza enuncia­
ta in 2,42. La descrizione che ci è data costituisce allo stesso tempo
un programma di vita cristiana vissuta come Chiesa.
Dopo il racconto della guarigione miracolosa di un infermo e del­
le conseguenze che essa ha suscitato (3,1 -4,31 ), gli Atti tornano al te­
ma della koinonia, non senza collegarlo strettamente al ruolo di pri­
mo piano giocato dagli apostoli (4,32-5,16). Come in 2,44-45 , la
koinonia trova la sua espressione nella messa in comune dei beni; ma
4,32 manifesta che essa ha radici più profonde: «La moltitudine di
quelli che avevano creduto non erano che un cuore e un'anima». È
dalla comunione degli spiriti che scaturisce la condivisione dei beni:
«E nessuno chiamava proprio bene ciò che gli apparteneva, ma tut­
to era loro comune» (v. 32bc ) I vv. 34-35 riprendono con insistenza:
.

«In effetti, non vi era alcun bisognoso tra loro, perché coloro che
possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato delle
vendite e lo deponevano ai piedi degli apostoli; allora si distribuiva
a ciascuno secondo le sue esigenze)).
Questa enunciazione generale ed esemplare della condotta fra­
terna dei primi cristiani è seguita da due casi concreti: innanzitutto

6 Per l'analisi di questi versetti può essere qui sufficiente rinviare ai commentari
di G. ScHNEIDER ( 1 980). 2R3-290; B. PAPA ( 1 98 1 ) , 88-90: A. WEISER ( 198 1), 1 00-106, co­
sì come a G. BETORJ, Perseguitati a causa del Nome. Struttura dei racconti di persecu­
zione in Atti 1,12-8,4 (AnBib 97), Biblical institute press, Roma 198 1 , 28-35.

27
quello, altamente lodevole, di Barnaba, che aveva venduto un cam­
po per deporne il ricavato ai piedi degli apostoli (vv. 36-37); succes­
sivamente quello, assai meno edificante, di Anania e Saffira, che ave­
vano creduto di poter ingannare gli apostoli non rimettendo loro che
una parte del ricavato della vendita di una proprietà (5,1-1 1 ) . Pietro
aveva svelato la loro frode, immediatamente punita da una morte re­
pentina. Questa circostanza aveva gettato una luce temibile sul po­
tere di cui godevano gli apostoli, più abitualmente palesato attraver­
so atti di beneficenza (4,33 ; 5,12a. 15-16). Presiedendo alla suddivi­
sione dei beni tra i membri della comunità (4,35.37), essi sono anche
coloro la cui «testimonianza resa alla risurrezione del Signore»
(4,33) sembra fondare la comunione spirituale dei credenti.
Non è del tutto chiaro se 5,12b-14 parla degli apostoli o dei cri­
stiani dicendo «che essi stavano tutti di comune accordo sotto il por­
tico di Salomone», aggiungendo inoltre che il numero dei credenti
era in aumento costante. Si ricordi comunque che già 2,46 diceva dei
primi convertiti che «ciascun giorno, essi perseveravano di comune
accordo nel tempio», prendendo parte alle preghiere della liturgia
ebraica. I grandi sommari di 4,32-35 e 5,12-16 rimangono nella linea
della prima descrizione della comunità cristiana, in 2,42 47 È sem­
- .

pre davanti allo stesso modello di vita vissuta come Chiesa che Luca
colloca i suoi lettori.
Il quadro della comunità, i cui tratti essenziali sono stati delinea­
ti in seguito al racconto della Pentecoste e in parte richiamati e pre­
cisati nei sommari successivi, trova delle eco ulteriori che permetto­
no di pensare che non lo si dimentica. È il caso dell'inizio del capi­
tolo 6, dove si vede che la diakonia quotidiana non soddisfa tutti (v.
1 ) . Si tratta di un «servizio» che traduceva concretamente la koino­
nia di cui si parlava in 2,42, e che 4,35 faceva consistere in una di­
stribuzione nella quale ciascuno riceveva secondo i propri bisogni.
Su proposta dei Dodici, l'assemblea dei discepoli adotta un provve­
dimento la cui portata storica è ricondotta da Luca alle semplici pro­
porzioni di una divisione di competenze. I Dodici si consacreranno
interamente al loro ministero essenziale, quello della preghiera e
della diakonia della Parola; altri saranno eletti per farsi carico della
diakonia delle mense (vv. 2-4 ). I servizi sui quali si basa la coesione
della comunità e la sua unità sono così ripartiti tra persone diverse.
L'espansione del cristianesimo non tarderà a provocare un allar­
gamento delle manifestazioni della koinonia: la comunità di Antio-

28
chia invia soccorsi a quella di Gerusalemme ( 1 1 ,29-30 e 12,25). In un
momento di persecuzione si vede a Gerusalemme un 'assemblea cri­
stiana numerosa riunita nella casa di Maria, madre di Giovanni-Mar­
co, e raccolta in preghiera per Pietro la cui vita è in pericolo
(12,5 .12). Ad Antiochia, la partenza di Barnaba e Paolo per il loro
primo viaggio missionario è legata a celebrazioni liturgiche accom­
pagnate da digiuno ( 1 3 2-3). Si apprende anche che la comunità di
,

Gerusalemme, che rimane per Luca il luogo di residenza degli apo­


stoli, esercita un ruolo di presidenza, assicurando l'unità delle comu­
nità che sorgono altrove; è essa che manda Pietro e Giovanni nella
Samaria evangelizzata da Filippo (8,14-25), è alla stessa che Pietro
rende conto dell'iniziativa assunta a Cesarea ( 1 1 ,1 -18), è ancora da
essa che la Chiesa di Antiochia attende la decisione che risolverà il
conflitto provocato al suo interno proprio da giudaizzanti venuti da
Gerusalemme (15,1-35).
Non si dovrebbe infine omettere il prezioso breve racconto che ci
è fatto in 20,7-12 di un'assemblea cristiana tenuta a Troade, nel mo­
mento in cui arriva Paolo alla fine della propria attività missionaria.
I membri della comunità si riuniscono il primo giorno della settima­
na, e questa assemblea, che si tiene alla sera, è qualificata da una pre­
cisa azione : celebra la «frazione del pane» (v. 7). Ma l'attenzione del
narratore si ferma meno su questo rito (cf. v. 1 1 a) e sulle preghiere
che lo dovevano accompagnare (cf. 2,42cd) che non sull'abbondanza
dei discorsi che Paolo ha protratto sino al mattino seguente. Vi tro­
viamo una buona illustrazione dell'importanza attribuita da Luca al
«servizio della Parola» (6,2.4), o all' «insegnamento degli apostoli»,
menzionato al primo posto nel sommario di 2,42.
Non è casuale che l'insieme delle osservazioni che abbiamo fatto
ci riconduca all'enunciazione fondamentale di 2,42, vera sintesi del
programma di vita che gli Atti offrono alla Chiesa, una vita che si de­
finisce come una quadruplice perseveranza dei credenti: perseveran­
za nell'insegnamento degli apostoli e nella koinonia, perseveranza
nella «frazione del pane» e nelle preghiere. Ciascuna di queste espres­
sioni di fede vissuta diviene allo stesso tempo fattore di unità tra i cri­
stiani e tra le comunità cui appartengono. La portata ecclesiologica di
un tale programma non ci pare contestabile. Noi non abbiamo tutta­
via l'impressione che si possa ridurre a una prassi l'ecclesiologia di
Luca: questa suppone uno sguardo più approfondito sulla natura stes­
sa della Chiesa, della quale egli racconta l'emergere progressivo.

29
3. La Chiesa nel suo rapporto con lo Spirito Santo 7

Se è corretto parlare dell'evento della Pentecoste come del mo­


mento della nascita della Chiesa, e se è facile constatare, nel seguito
degli Atti, gli interventi costanti dello Spirito per condurre avanti il
cammino della Chiesa, sembra normale domandarsi se il dono dello
Spirito non rappresenti nel pensiero di Luca una realtà propriamen­
te costitutiva della Chiesa.
Uno sguardo d'insieme sull'opera di Luca permette di distin­
guervi, per quello che concerne il ruolo dello Spirito, tre periodi ben
delimitati:
l . Quello innanzitutto che precede l'entrata in scena di Gesù.
Nella Scrittura, lo Spirito ha parlato attraverso i profeti, i quali «an­
nunciavano anticipatamente la venuta del Giusto>> (A t 7 ,52), ma an­
che l'opposizione che egli avrebbe incontrato {1 ,16; 4,25; 7,51; 28,25).
L'intervento dello Spirito si è fatto particolarmente intenso agli ini­
zi della storia evangelica (Le 1 , 1 5 . 17.35 .41 .67; 2,25-27). Esso sembra
così completamente orientato verso Gesù, del quale annuncia, pre­
para e opera la venuta.
2. A partire dal momento nel quale lo Spirito è disceso su Gesù,
dopo il suo battesimo (Le 3,22), è sulla sua persona che esso concen­
tra la propria presenza e la propria azione (4, 1ab 1 4. 1 8; 10,21 ; At 1 ,2;
.

1 0,38). Se si parla dello Spirito in relazione ai discepoli, non è che in


una prospettiva futura (Le 3,16; 1 1 ,13; 12,10.1 2; A t 1 ,5 .8).
3 . Dopo l'ascensione in cielo di Gesù (At 2,33) e conformemen­
te alla promessa che egli aveva fatto (1,5.8; cf. Le 24,49), lo Spirito è
effuso sui suoi discepoli (At 2,4). Così inizia la realizzazione dell'o­
racolo di Gioele, a proposito del quale Luca si premura di precisare
che esso riguardava «gli ultimi giorni» (2,17), oracolo che annuncia-

7 Un'opera datata rimane fondamentale: H. VoN BAER, Der Heilige Geist in den
Lukasschriften, Stuttgart 1926. Se ne può trovare un buon riassunto in F. BovoN, Luc
le théologien. Vingt-cinq ans de recherches (1950-1975) , Neuchatel-Paris 1978, 21 7-220.
Bovon non ha potuto tener conto dell 'opera di G. HAYA-PRATS, L'Esprit, force de /'E­
glise. Sa nature et son activité d'après /es Actes des Apotres (Lectio Divina. 8 1 ), Paris
1975. Segnaliamo: A. GEORGE, «L'Esprit Saint dans l'oeuvre de Luc», in Revue Bibli­
que 85(1 978) 500-542; M.-A. CHEVALLIER, «Luc et l'Esprit Saint», in Revue des Scien­
,

ces Religieuses 56(1982), 1-16; E. RAsco, «Spirito e istituzione nell'opera lucana», in


Rivista Biblica 30(1 982) , 301 322
- .

30
va una straordinaria effusione dello Spirito di Dio «SU ogni carne»,
sui giovani come sugli anziani, sui servi di Dio e sulle sue serve, co­
me preludio alla venuta del gran giorno del Signore (2,17-21 = Gioe­
le 3, 1-5a [LXX]). Pietro può dunque promettere questo dono a tutti
coloro che avranno ricevuto il battesimo (2,38-39). Non ci si meravi­
glierà perciò della frequenza degli interventi dello Spirito segnalati
nel seguito del libro (4,8.3 1 ; 5,3.9.32; 6,3.5.10; 7,5 1 .55; 8, 15. 17-
1 9.29.39; 9,1 7.3 1 ; 10,19.44.45 .47; 1 1 , 1 2. 1 5 . 16.24.28; 1 3 ,2.4.9.52;
15,8. 18; 16,6.7; 1 9,2.6; 20,23.28; 21,4. 1 1 ). La Chiesa primitiva ha fatto
con ampiezza quest'esperienza dello Spirito che, secondo l'oracolo
di Gioele, doveva precedere la venuta del giorno del Signore.
È in funzione di quest'esperienza tanto frequentemente menzio­
nata che si pone la questione così formulata da S.A. Panimolle:
«Questa chiesa, frutto dell'ascolto della Parola (At 15,7) , non è an­
che il prodotto dello Spirito Santo, dono escatologico che crea la co­
munità degli ultimi tempi?».8 Questo autore ha ben colto che il pun­
to di vista di Luca è completamente differente da quello di Giovan­
ni, che considera lo Spirito «in chiave di rivelazione» (p. 297). Egli
crede di poter dire che la prospettiva di Luca è «Soteriologica» (p.
298). Se questo fosse esatto, il pun to di vista di Luca si confondereb­
be praticamente con quello di Paolo. Ora è precisamente questo che
contestano i principali studi consacrati alla pneumatologia di Luca.
Lo si vede molto bene in queste righe di H. Von Baer (p. 98) citate
da G. Haya-Prats (p. 97) : «Luca non vuole dare in primo luogo una
descrizione della forza rinnovatrice. morale e religiosa, dello Spirito;
egli vuole piuttosto presentare la forza e la sicurezza dello Spirito
missionario che si manifesta all'esterno e porta al mondo il messag­
gio del Signore glorificato. È la linea fondamentale seguita da Luca
nello schema del suo secondo libro)).
Nella logica stessa del suo intento di storico, Luca porta la pro­
pria attenzione sugli effetti esteriori e visibili dell'azione dello Spiri­
to, piuttosto che sulla trasformazione interiore cui si interessa il teo­
logo Paolo. Egli rimane nella linea portante della Bibbia, nella qua­
le lo Spirito si manifesta soprattutto come Spirito profetico, che spin-

8 S.A. PANIMOLLE, Il discorso di Pietro all'assemblea apostolica, I I . Parola, fede e


Spirito (A tti 15, 7-9), Bologna 1977, 278.

31
ge a parlare e dona forza alla testimonianza di coloro che ispira. Lu­
ca preferisce vedere nello Spirito il principio del dinamismo che as­
sicura la diffusione del messaggio evangelico e l'espansione della
Chiesa. La fede che conduce al battesimo e procura la remissione dei
peccati è un preliminare per l'accoglienza di questa forza che spinge
il cristiano e la Chiesa verso l'esterno. Non senza procurare, certa­
mente, un rinvigorimento interiore; ma non è quest'aspetto che inte­
ressa a Luca: egli non pensa mai, per esempio, di considerare il dono
dello Spirito come un'anticipazione della vita eterna.9
Lo Spirito appare dunque in Luca meno come una realtà costitu­
tiva della Chiesa che come la forza motrice della sua crescita. Non è
la pneumatologia di Luca che ci darà la chiave della sua ecclesiologia.

4. La Chiesa come istituzione gerarchicamente organizzata

Rispetto alla teologia dei manuali il concilio Vaticano I I ha ope­


rato una sorta di rivoluzione copernicana iniziando la propria espo­
sizione della dottrina cattolica sulla Chiesa (costituzione dogmatica
Lumen gentium) con un capitolo consacrato al «mistero della Chie­
sa», considerata come «il sacramento dell'unione stretta con Dio e
nello stesso tempo dell'unità dell'intero genere umano» (n. 1), e ag­
giungendovi un secondo capitolo sul «popolo di Dio», «germe di
unità, di speranza e di salvezza per l'intero genere umano» (n. 9): è
solamente al III capitolo che si affronta la questione della «costitu­
zione gerarchica della Chiesa».
Bisogna senz'altro ammettere che l'interesse di molti autori per
l'ecclesiologia degli Atti rimane egemonizzato da un'ottica «precon­
ciliare». Quello che si cerca con maggior frequenza negli Atti è sia la
conferma dell'immagine che ci si fa delle strutture ministeriali della
Chiesa, sia una verifica dell'idea che ci si fa sul processo di alterazio­
ne che ha condotto il cristianesimo dalla sua comprensione originaria
della Chiesa a quella che è chiamata «protocattolica>> (fruhkatho­
lisch), per arrivare alla concezione «Cattolica» propriamente detta.
Apologetico o polemico, questo approccio ai testi degli Atti permet-

9 Rilievo di J. KREMER, �Pneuma)). in EWNT IV, 1 982, col. 288.

32
te sicuramente di reperirvi molte indicazioni in grado di appoggiare
una tesi preconcetta. È manifesto che le comunità cristiane di cui rac­
conta Luca non sono sprovviste di strutture, funzioni e servizi specifi­
ci. Ma ci si accorge presto che le indicazioni che egli fornisce in pro­
posito rimangono sparse, occasionali e male coordinate. Non è sotto
quest'angolazione che egli si interessa alla Chiesa, e se la sua risposta
delude quelli che lo interrogano sull'organizz azione della stessa, è
perché la domanda che gli si pone è estranea alla prospettiva nella
quale lui si colloca.
Può essere utile che io evochi qui due esperienze personali. Nel
1973, innanzi tutto, ho preso parte a un simposio tenutosi a Sant'An­
selmo, a Roma, sul tema Ministeri e celebrazione dell'eucaristia. Era
mio compito analizzare i dati degli Atti. Questi menzionano nume­
rosi ministeri e parlano sovente della <1ractio panis». Ma mai essi sta­
biliscono un rapporto tra queste due realtà: nemmeno nel racconto
dell'assemblea eucaristica di Troade, centrando tutta l'attenzione
sulla persona di Paolo (20,7- 12). Luca non considera i ministeri dal
punto di vista sacramentale. 10
Nel 1 978, a Losanna, ho partecipato a un seminario che doveva
mettere a confronto gli Atti canonici e gli Atti apocrifi degli Aposto­
li. Io dovevo intervenire sulla figura dell'apostolo negli Atti canoni­
ci. Rispetto agli Atti apocrifi, una differenza saltava immediatamen­
te agli occhi: mentre gli Atti apocrifi si interessano vivamente alle
imprese degli apostoli nei diversi Paesi dove essi avrebbero compiu­
to la loro missione, e mentre gli stessi Atti canonici assegnano loro
una missione universale, «fino all'estremità della terra» {At 1 ,8; cf.
Le 24,47), Luca non si interessa agli apostoli propriamente detti (si
veda la definizione di At 1 ,21-22) che nel quadro della Chiesa di Ge­
rusalemme. Lasciando Gerusalemme e la zona circostante essi esco­
no allo stesso tempo dalla scena del libro. Sarà possibile vedere Pie­
tro a Cesarea (At 10), ma non ad Antiochia (Gal 2,1 1 -14). Come ai
suoi compagni nell'apostolato, a Pietro gli Atti assegnano un ruolo
solo nella Chiesa di Gerusalemme. 1 1

10 «Les ministères de l'Eglise naissante d'après les Actes des Ap6tres», in Studia
Anselmiana 61, Roma 1 973, 94-108.
11
«L'Apòtre comme intennédiaire du salut dans les Actes des Apòtres>>, in Re­
vue de Théologie et de Philosophie 1 12( 1 980), 342-358.

33
Tali osservazioni possono sembrare sconcertanti dal punto di vi­
sta di certa ecclesiologia, quella precisamente dalla quale il concilio
Vaticano II ha voluto prendere le distanze. Esse suggeriscono che
Luca si colloca in una prospettiva diversa. A. George lo ha visto con
chiarezza in un articolo del 1974, che conclude: <<Quando presenta i
ministeri della chiesa Luca non risponde alle numerose domande
che noi oggi ci poniamo: quali sono le istituzioni ecclesiali ed i servi­
zi che dipendono dall 'iniziativa individuale? Quali sono i compiti
transitori e le funzioni permanenti? Come sono stati istituiti gli an­
ziani di Gerusalemme, come riconosciuti i profeti? Quali sono i po­
teri dei ministri? Chi dà il battesimo? Chi presiede la frazione del pa­
ne? Luca non risponde a queste domande, non sembra porse le, evi­
dentemente perché ciò non rientra nella sua ottica. Bisogna prende­
re la sua opera così come è, domandare ad essa ciò che ci vuole dire.
Da buon storico del suo tempo, egli si interessa ai suoi personag­
gi. Si ferma su quelli che hanno portato il vangelo: soprattutto i Do­
dici, Pietro e Paolo, ed ancora Stefano, Filippo, Barnaba, Sila, Timo­
teo, Apollo ... È attento più alla loro azione che ai loro titoli o ai loro
poteri. Si riferisce meno alla loro autorità che alla loro predicazione,
meno alla successione giuridica dei ministri che alla continuità vi­
vente del vangelo>>.
A sua volta E. Rasco12 nota, in un articolo del 1982, 1 3 che «negli
Atti le funzioni o ministeri sono diversificati, ma appaiono o scom­
paiono non senza sorpresa per il lettore» (p. 3 1 9) , e giustamente os­
serva che «l'idea di successione» non appare in alcuna parte degli
Atti (p. 32 1 ).
È sulla situazione della Chiesa di Gerusalemme che le informa­
zioni sono più numerose. Dopo il rilievo dato dal primo capitolo al
gruppo dei dodici apostoli ( 1 ,2.13- 1 4. 1 5-26), non ci si meraviglia di
vedere che questo gruppo costituisce il nucleo attorno al quale la co­
munità cristiana si forma e dal quale riceve la sua coesione. In realtà,
uno solo di questi apostoli parla e agisce a nome di tutti: è il primo e

12 E. RAsco, «L'oeuvre de Luc: Actes et Évangile», in J. DELORME, Le ministère et


les ministères selon le Nouveau Testament, Paris 1974, 207-240; lo. , «Les ministères», in
Etudes sur toeuvre de Luc, Paris 1978, 369-394.
13 E. RAsco, «Spirito e istituzione nell'opera lucana», in Rivista Biblica 30(1982),
301-322.

34
principale di essi, Pietro. Ma pur personalizzando così il gruppo, Lu­
ca si preoccupa minuziosamente di non isolare Pietro dagli altri apo­
stoli. Al prezzo, anche, di curiose anomalie grammaticali: «Prenden­
do allora la parola [al singolare] , Pietro e gli apostoli dissero [al plu­
rale] >> (5,29 . . . ) . 14
Il capitolo 6 fa assistere all'istituzione di un nuovo ministero. L'i­
niziativa viene dai «Dodici)) (v. 2). Non potendo bastare a tutto, essi
vogliono riservarsi per ciò che considerano il loro compito principa­
le: il servizio della Parola e la preghiera (vv. 2 e 4). La comunità sce­
glierà dunque sette uomini che saranno incaricati del «servizio delle
mense». Gli eletti sono presentati agli apostoli, che pregano per loro
e impongono su di loro le mani (v. 6). In realtà, il primo di essi, Ste­
fano, non attira l'attenzione che per il vigore di una predicazione che
gli otterrà il martirio ( 6,8-7 ,60).
A proposito del secondo della lista, Filippo, non si tratterà che
della sua attività di «evangelizzatore» (8,5-40; 21 ,8); se, al tempo del­
l'ultima visita di Paolo a Gerusalemme, Filippo gli dà ospitalità nel­
la sua casa di Cesarea (21 ,8), Luca non pensa di mettere questo in
rapporto con il ministero del «servizio delle mense» che gli era stato
affidato così solennemente. Si ha l'impressione che, appena istituito,
questo ministero scompaia.
L'attività di Stefano ha provocato una persecuzione che, secondo
8,1 , causa la dispersione di «tutti» i membri della comunità di Geru­
salemme: solo gli apostoli restano sul posto. È dunque a Gerusalem­
me che essi intendono parlare dei successi della missione di Filippo
in Samaria, dove inviano due di loro: Pietro e Giovanni (8,1 4-25). In
9,26, all'arrivo di Paolo convertito, essi non sono più soli: i «discepo­
li» diffidano del nuovo venuto; è Barnaba che lo introduce presso gli
apostoli (v. 27) e gli permette di esercitare così un'attività che si col­
loca in continuità con quella di Stefano (vv. 28s).
I tre racconti di 9,32-10,40 si situano al di fuori di Gerusalemme,
ma sempre nella sfera della città santa, e riguardano la figura di Pie­
tro. Il terzo ( 10, 1-40) ha uno sviluppo considerevole: esso descrive in
modo circostanziato la situazione nella quale Pietro è stato indotto

14 Altri esempi nel nostro articolo «Les discours de Pierre dans les Actes et le
chapitre XXIV de l'évangile de Luc», in F. NEIRYNCK, L'Évangile de Luc. Problèmes
littéraires et théologiques, (BETL 32), Gembloux 1973, 329-374.371.

35
ad ammettere al battesimo un non-circonciso. Ma l 'iniziativa di Pie­
tro diventa significativa solo dopo le spiegazioni che egli ha dovuto
darne «agli apostoli e ai fratelli» al suo ritorno a Gerusalemme e gra­
zie alla loro unanime approvazione (11 ,1-18).
È a partire da qui che la situazione comincia a cambiare. Alcuni
cristiani che avevano dovuto abbandonare Gerusalemme al momen­
to della morte di Stefano hanno fondato ad Antiochia una comunità
di tipo nuovo (1 1 ,19-2 1 ) La Chiesa di Gerusalemme vi invia Barna­
.

ba, che non solamente approva ciò che è stato fatto, ma assume la
guida del movimento (11 ,22-26). In seguito, l'arrivo di profeti venuti
da Gerusalemme induce i «discepoli» di Antiochia a inviare soccor­
si ai «fratelli>> di Gerusalemme, dove saranno rimessi agli «anziani»
(11 ,27-30) . Noi apprendiamo così, del tutto incidentalmente, l'esi­
stenza di una nuova istituzione nella Chiesa-madre.
Quest'informazione è subito completata da ciò che viene in se­
guito raccontato sulle circostanze nelle quali Pietro ha lasciato Ge­
rusalemme. Liberato dalla sua prigione da un angelo, egli va a tro­
vare l'assemblea che si è riunita presso la madre di Giovanni-Marco.
Dopo aver raccontato quello che gli è accaduto, egli richiede: «An­
nunciatelo a Giacomo e ai fratelli», poi, scrive Luca, «USCÌ e se ne
andò in un altro luogo>> (1 2,17). Così Luca ha fatto in modo di men­
zionare una prima volta il nome di «Giacomo» nel momento esatto
in cui Pietro scompare da Gerusalemme. È per bocca di colui che, fi­
no ad allora, aveva presieduto alle sorti della Chiesa di Gerusalem­
me che il lettore viene informato sul nome di colui che prenderà il
suo posto. Ma il lettore avrebbe probabilmente gradito qualche pun­
tualizzazione su «l'altro luogo» nel quale si è recato Pietro: è forse
più importante rendersi conto che Pietro non interessa più a Luca
dopo che egli ha abbandonato Gerusalemme.
Come quello degli altri apostoli, il ministero di Pietro riguarda
Gerusalemme.
In realtà, la partenza di Pietro in 12,17 era ancora una falsa par­
tenza. Assieme al gruppo degli apostoli, egli ricompare sulla scena di
Gerusalemme per la decisione capitale riportata dal capitolo 15.
Questa decisione sarà presentata da Luca come l'opera «degli apo­
stoli e dei presbiteri» (15,2.4.6.22.23; 16,4), rispondente al duplice in­
tervento di Pietro (15,7-1 1 ) e di Giacomo (15,13-21 ) , rappresentan­
do così il consenso dell'antica e della nuova direzione della Chiesa­
madre. Nell'economia degli Atti, il decreto liberatore emesso dagli

36
apostoli e dai presbiteri con l'aiuto dello Spirito Santo (v. 28) è l'at­
to che conclude la missione degli apostoli di Gesù: in seguito, essi ab­
bandonano definitivamente la scena, lasciando a Paolo il compito di
perfezionare la loro opera. La Chiesa di Gerusalemme continua a
giocare un ruolo centrale, ma i suoi rappresentanti sono ormai Gia­
como e i presbiteri (cf. 21 ,18).
Le brevi notizie di 1 1 ,30 e 12,17 così come il lungo racconto del
capitolo 15 sottolineano la continuità che Luca intende ri levare tra
Pietro e Giacomo, tra gli apostoli e i presbiteri di Gerusalemme. Ma
nulla è detto sul modo col quale i presbiteri sono stati istituiti, né sul­
la natura della preminenza di Giacomo. Luca arriva sino a omettere
di precisare di quale Giacomo si tratti, ed è grazie a Paolo che noi ap­
prendiamo che era chiamato «il fratello del Signore» (Gal 1 ,19). Non
ci si può che appoggiare su antiche tradizioni (Egesippo) per sup­
porre che il suo prestigio tra i giudaizzanti era precisamente dovuto
al fatto che egli era il parente più prossimo di Gesù, colui al quale in
assenza del sovrano spettava naturalmente l'ufficio di reggente.
Quest'ipotesi non invita a farne troppo facilmente un «successore»
di Pietro! Bisogna comunque constatare che Luca, desideroso di
continuità, non si preoccupa in alcun modo del meccanismo giuridi­
co o sacramentale che dovrebbe garantire tale continuità, secondo
procedure alle quali ci si sarebbe interessati solo più tardi.
Un a volta scomparsi gli apostoli, la Chiesa di Gerusalemme pro­
segue il suo cammino secondo il dispositivo messo in atto fin da pri­
ma della loro partenza. Ma essa non interessa più all'autore degli At­
ti, che si accontenterà di una breve notizia al momento dell'arrivo di
Paolo. Dopo l'assemblea degli apostoli e dei presbiteri e fino alla fi­
ne del libro è Paolo che occupa da solo tutta la scena. Questo ruolo
primaziale era stato preparato da lungo tempo. Il racconto del mar­
tirio di Stefano aveva già attirato l 'attenzione su di lui (8,1 .3). Il suo
incontro con Gesù sulla via di Damasco e la trasformazione che tale
incontro aveva prodotto nel persecutore erano stati a lungo riferiti
in 9,1 -30, e se ne ascolteranno altri due racconti dalla bocca stessa
dell'interessato ai capitoli 22 e 26: è sufficiente per dire l'importanza
che Luca assegna all'evento. Nei capitoli 13 e 1 4, Paolo accompagna
Barnaba in un lungo viaggio missionario, e fin da allora passa in pri­
mo piano. Per mettere in rilievo la sua figura, Luca ricorre al proce­
dimento classico del parallelismo: il comportamento di Paolo è si mi­
le a quello di Pietro all'inizio del libro. Il suo conflitto col mago di

37
Pafo (13,6-12) richiama quello di Pietro con Simon Mago (8,18-24);
il suo discorso-programma nella sinagoga di Antiochia di Pisidia
( 13,16-4 1 ) segue lo stesso modulo del discorso di Pietro nel giorno
della Pentecoste (2, 14-41 ) � la guarigione dell'infermo di Listra ( 14,8-
10) rassomiglia stranamente a quella dell'infermo della porta Bella
(3,1 -8) . Paolo parteciperà d'altronde, con Barnaba, alle deliberazio­
ni di Gerusalemme che legittimano la sua attività missionaria
(15,2.4.1 2.25-26).
Qual è dunque la posizione di Paolo in rapporto a Pietro e al col­
legio apostolico? Secondo Le 24,47 e At 1 ,8, Gerusalemme doveva
essere il punto di partenza della testimonianza degli apostoli, desti­
nata «a tutte le nazioni», «fino all'estremità della terra>>; nell'econo­
mia degli Atti, gli apostoli restano tuttavia fissi a Gerusalemme, ed è
attraverso Paolo che la loro missione assumerà la sua dimensione
universale (cf. 13,47) Paolo concorre dunque alla realizzazione del
.

compito assegnato agli apostoli. All 'opera che essi hanno iniziato a
Gerusalemme egli reca il complemento che le era indispensabile. 1 5
Da u n certo punto d i vista, Paolo s i sostituisce dunque agli apostoli
nell'adempimento della loro missione. Ma se lo fa. è per un diretto in­
tervento del Cristo, non in virtù di un mandato o di una delega che
avrebbe ricevuto da essi. In nessun modo il suo ministero deriva da lo­
ro: su questo punto Luca esprime lo stesso pensiero di Paolo.16
Non si finirebbe mai di enumerare tutti i silenzi di Luca: essi stu­
piscono quei lettori che pensano la Chiesa come un 'istituzione ge­
rarchicamente organizzata. Contentiamoci di un ultimo accenno. Al
momento dell 'arrivo di Paolo a Roma, c'era già una comunità cri­
stiana in questa città. Noi lo sappiamo bene dali 'Epistola ai Romani,
e Luca non lo ignora: egli racconta che «i fratellh> vennero incontro

15 Si vedano i nostri articoli: «L'Ap{)tre comme intermédiaire du salut dans les


Actes des Apotres», in RTP 1 12( 1 980). 342-358.353s; «La mission de Paul d'après Ac­
tes 26. 16-23 et la mission des Apòtres d'après Luc 24,44-49 et Actes 1 ,8», in M.D.
HooKER - S.G. WILSON, Pau/ and Paulinism. Essays in hon. C. K. Barrett, London 1982,
290-301 .
16 At 1 3 ,3 parla di un'imposizione delle mani fatta su Barnaba e Paolo al mo­
mento della loro partenza in missione. Il significato del gesto è perfettamente esplici­
tato in 1 4.26: essi sono stati «affidati alla grazia del Signore per l'opera che dovevano
compiere». Non si tratta né di una ordinazione né di una promozione per due uomini
che erano già a capo della Chiesa di Antiochia (13,1).

38
a Paolo e ai suoi compagni sino al Foro di Appio e alle Tre Taverne,
e che questa attenzione fu per Paolo un incoraggiamento (28,1 5). Ma
una volta entrato nella capitale, Paolo prende contatto con i dirigen­
ti della comunità giudaica (28,17-28) e si lancia in un'attività missio­
naria intensa (28,30-31 ) : egli si comporta come se la Chiesa di Roma
non esistesse e come se le conversioni che la sua predicazione pote­
va ottenere non dovessero far accrescere una comunità esistente e
che doveva avere i propri capi.
Questo è sufficiente a dimostrare che, se gli Atti forniscono delle
preziose indicazioni sull'organizzazione delle Chiese, lo fanno con
tali lacune che ci si deve arrendere all'evidenza: non è sotto questa
angolazione che Luca si interessa alla realtà della Chiesa. Si passe­
rebbe a lato del suo specifico punto di vista se lo si interrogasse solo
sui meccanismi di funzionamento dell'autorità nella Chiesa.

5. La Chiesa e Io Stato

Luca ha dedicato la sua opera a un certo Teofilo, al quale dà l'e­


piteto di kratistos (Le 1 ,3), quello che altrove usa parlando dei go­
vernatori Felice (A t 23,26; 24,3) e Festo (26,25 ). È così effettivamen­
te che si qualificavano gli alti funzionari imperiali. Ma, da solo, l'uso
di questo aggettivo in una dedica non basta a designare Teofilo come
un personaggio avente un ruolo di rilievo nell'amministrazione del­
lo Stato; egli potrebbe avere semplicemente goduto di una condizio­
ne sociale superiore.17
Gli alti funzionari imperiali non mancano nell'opera di Luca. È
interessante osservare l'atteggiamento che adotta l'autore al loro
riguardo. II caso di Pilato è particolarmente chiarificatore perché
permette di confrontare il racconto di Luca con i suoi paralleli.
Esplicitamente annunciato già da Le 20,20, il trasferimento di Gesù
davanti al tribunale del governatore, riportato in Le 23 ,1 , induce
quest'ultimo a intraprendere immediatame nte il processo. «Luca
sottolinea le sue reticenze, il suo tentativo di rinviare il processo a
Erode (23,6-12) , le sue tre proclamazioni dell'innocenza di Gesù

17 Cf. A. WEISER, in EWNT II, 198 1 , col. 779.

39
(23,4.14.22 ... ), la sua volontà di rilasciarlo (23,1 6.20.22), la pressio­
ne dei giudei che lo inducono a cedere (23,24-25 )», e questi fatti sa­
ranno richiamati nei discorsi degli Atti (At 3,13-14; 1 3 ,28). «Luca
non racconta questo per scusare il governatore, ma al contrario: se
sotto la pressione dei sommi sacerdoti Pilato manda a morte colui
che ha dichiarato innocente, egli tradisce la sua missione di giudice,
e quella aequitas romana alla quale Luca attribuisce tanto valore
(At 25, 1 6) . Ma si riconosce qui un tratto costan te del libro degli At­
ti, nel cui racconto i magistrati romani intervengono sempre per di­
chiarare il buon diritto dei predicatori del vangelo (At 1 3 ,7-12;
1 8,12-17; 23,23-30; 25,14-25; 26,31; 28,18). Quest'insistenza tradisce
un'intenzione apologetica di Luca: contro le accuse dei giudei [ ... ] ,
egli vuole far risaltare che l e autorità romane non vedono n e l van­
gelo alcun pericolo per l'impero». 1 s
E possibile precisare quest' «intenzione apologetica)) di cui parla
il padre George? Dopo più di un secolo, si vede riapparire regolar­
mente l'idea che Luca avrebbe redatto la sua opera per farla servire
alla difesa di Paolo davanti all'autorità romana, o, in senso più lato,
per convincere queste autorità che i cristiani non nutrono alcuna
ostilità nei confronti dello Stato e che il cristianesimo è nel diritto di
godere dello statuto di religio licita accordato al giudaismo.
Tali interpretazioni dell'intento generale di Luca sono palese­
mente inadeguate:
l . Esse presupporrebbero che l'opera riguardasse direttamente
dei lettori pagani, e più precisamente dei detentori dell'autorità
pubblica: è disconoscere il ruolo che hanno nel complesso le consi­
derazioni teologiche, in particolare quelle che si ricollegano al tema
del compimento delle Scritture. Luca non ignora che un tale lin­
guaggio è incomprensibile per dei magistrati romani (cf. At 1 8,14-
15; 26,24) e che bisogna agire diversamente parlando ai pagani
(14,15-17; 1 7,22-32).
2. Se egli avesse voluto far beneficiare i cristiani dello statuto le­
gale accordato al giudaismo, si può pensare che non avrebbe com­
messo la goffaggine di sottolineare costantemente il ripetuto rigetto

18 A. GEoRGE, «Le sens de la mort de Jésus pour Luc», in RB 80(1973), 186-217;


Io., Études sur l'oeuvre de Luc, 199s.

40
del cristianesimo da parte di coloro che erano riconosciuti come i
rappresentanti accreditati del giudaismo ufficiale.
3. Lo statuto di religio licita non autorizzava in ogni caso il pro­
selitismo testimoniato dalla storia della Chiesa primitiva e che so­
prattutto incarna l'attività di Paolo. Luca sa perfettamente che non
si ha il diritto di sviare dei cittadini romani dalla religione che è uffi­
cialmente quella dell'impero (cf. At 1 6,20-2 1 ) .
Non sembra necessario attardarsi ulteriormente: se Luca tiene a
stabilire la legittimità della Chiesa, non è in rapporto alle leggi dello
Stato romano, ma in rapporto alla rivelazione divina della quale
Israele è il depositario. Nella sua ottica è importante mostrare che la
religione di Abramo, di Mosè, dei profeti, quella che praticava l'élite
spirituale del popolo eletto, trova il suo autentico prolungamento
nella Chiesa cristiana, sola legittima erede di quella lunga tradizione
che è stata tradita dai capi ufficiali del giudaismo. La posta in gioco
è capitale, poiché ne va dell'identità stessa della Chiesa. Questa non
può comprendersi che alla luce delle promesse divine che trovano in
essa il loro adempimento.
È dunque davanti a una tesi teologica che gli Atti intendono por­
re i propri lettori. La sua dimostrazione non segue però la via della
speculazione dottrinale nella quale si è impegnata la riflessione di
Paolo. La via seguita da Luca è quella del racconto storico, che valo­
rizza la continuità del processo attraverso il quale la Chiesa, prima
inserita nel più profondo della religione giudaica, è stata progressi­
vamente condotta ad allargare il proprio orizzonte per restare fede­
le alle sue origini e rispondere agli appelli di Dio, e ha finito così per
trovarsi separata da un giudaismo incapace di fare il passaggio ri­
chiesto dal cambiamento che trasformava il tempo della promessa in
quello della realizzazione.

41
Capitolo II
LA SVOLTA DECISIVA
DELL'ASSEMBLEA
DI GERUSALEMME
(At 15)

Preoccupato dalla continuità, Luca ha preparato sin dall'inizio il


suo lettore al seguito degli eventi : il cantico del vecchio Simeone, al
momento della presentazione del bambino Gesù al tempio, non con­
tiene già il germe di tutta l'ecclesiologia che si manifesterà più tardi
(Le 2,29-32, senza separarlo dall'oracolo dei vv. 34-35)? Potrebbe
sembrare logico iniziare rilevando attraverso il vangelo e quindi ne­
gli Atti i tratti che disegnano poco a poco la fisionomia della Chiesa.
Ma come cogliere la loro portata reale se non a partire da un'imma­
gine più completa?
Ma allora, dove cercare quest'immagine? Sarebbe senz'altro pre­
maturo chiederla alla scena della predicazione inaugurale di Gesù
nella sinagoga di Nazaret (Le 4,16-30) , che è una sorta di program­
ma del ministero terreno di Gesù. L'annuncio diviene già più pun­
tuale al momento della grande svolta che segna la cerniera dei due
libri, laddove il Risorto, prima dell'ascensione al cielo, definisce la
missione degli apostoli (Le 24,36-49; At 1 ,4-14). Ma, al centro stesso
del libro degli Atti, il racconto che ci viene fatto dell'assemblea di
Gerusalemme (At 15,1-35) segna una svolta ancora più significativa
per il tema che ci riguarda. Mettendo un punto conclusivo al ruolo
giocato da Pietro e dal collegio apostolico, le deliberazioni del «con­
cilio» aprono allo stesso tempo la via sulla quale Paolo potrà impe­
gnarsi «senza ostacolo» (ultima espressione del libro, 28,31), come

43
pioniere dell'opera che rimane quella della Chiesa ai tempi di Luca
e in tutti i tempi.
Ci sembra dunque vantaggioso iniziare la nostra ricerca da que­
sto punto centrale, a partire dal quale le altre indicazioni dell'opera
prendono il loro pieno significato.
Tutta la vicenda inizia ad Antiochia (15,1-5) e lì si conclude
(15,30-35). Alcuni venuti dalla Giudea (v. l; il v. 24 precisa che essi
non avevano ricevuto alcun mandato dai capi della comunità) hanno
provocato disordine e agitazione fra i cristiani di A ntiochia dichia­
rando la circoncisione necessaria alla salvezza (vv. 1-2). Dei delegati
ufficiali, portatori di un messaggio scritto, saranno là causa di gioia e
di conforto (vv. 30-3 1 )
.

Nella stessa Gerusalemme la deliberazione si svolge in tre tappe


principali. Si ascolta innanzitutto un discorso di Pietro ( 15,7-1 1), che
risponde direttamente alla dichiarazione dei giudaizzanti riportata al
v. l , e lo fa chiarendo la portata dottrinale dell 'episodio di Cornelio,
al quale gli Atti avevano accordato un ampio sviluppo (10,1-48 e
1 1 , 1-18). Successivamente abbiamo un discorso di Giacomo, chiara­
mente diviso in due parti: egli conferma le conclusioni di Pietro me­
diante una citazione delle parole dei profeti ( 1 5,13-1 8), poi esprime
le esigenze che si appoggiano sulla Legge di Mosè (vv. 1 9-21). Ci vie­
ne dato infine il testo del «decreto» (vv. 22-29), che s'ispira nello stes­
so tempo alle parole di Pietro (v. 28) e di Giacomo (v. 29).
Incentrata sul discorso di Giacomo, questa relazione si presenta
come un tutto che ha una propria coerenza. Se l 'analisi non può sot­
trarsi alla necessità di distinguere le parti, essa non dovrebbe dimen­
ticare che queste devono chiarirsi l'una l'altra. Il rilievo concerne so­
prattutto gli interventi di Pietro e di Giacomo: si passerebbe senz'al­
tro a lato del pensiero di Luca apponendoli: l'importante è cogliere
la loro complementarità. L'ultima sezione (vv. 22-29) interessa meno
direttamente il nostro intento. Rileviamo comunque il modo attra­
verso il quale essa illustra una pratica concreta della comunione tra
due Chiese: Gerusalemme fa l 'elogio dei due delegati di Antiochia
(vv. 25-26) e, a sua volta, invia là due delegati rappresentativi (vv. 22
e 27). Delle lettere non basterebbero: i legami si stabiliscono a livel­
lo di persone.

44
l. Pietro: la lezione della sua esperienza a Cesarea (vv. 7-11)1

Al problema sollevato dai giudaizzanti che affermavano: «Se non


vi fate circoncidere secondo l'uso di Mosè non potete essere salvati»
(v. 1), è a Pietro che spetta in primo luogo rispondere nella conclu­
sione del suo discorso: «Crediamo che noi (giudei) siamo salvati nel­
lo stesso modo che loro (i non-circoncisi )» (v. 1 1 ). Giacomo rispon­
derà sull'altro punto, spiegando il senso che bisogna dare a «Mosè»
(v. 21).
Per dare fondamento all'affermazione che la circoncisione non
ha niente a che vedere con la salvezza, Pietro richiama le circostan­
ze nelle quali egli stesso ha accordato il battesimo al centurione di
Cesarea (vv. 7-9). Luca può accontentarsi di qualche battuta, dopo il
lungo racconto consacrato all'avvenimento.
In realtà, la vicenda del centurione di Cesarea era stata prepara­
ta da lungo tempo dal racconto della vicenda del centurione di Ca­
farnao (Le 7,1-lO). Allorché, nel racconto parallelo di Matteo, questo
ufficiale viene di persona a presentare la sua richiesta a Gesù (Mt
8 5 7), Luca afferma che egli ha inviato a Gesù come ambasciatori
, -

degli «anziani dei giudei» (7,3). L'evangelista può così esplicitare i


motivi per i quali quest'uomo merita il favore che sollecita. I notabi­
li giudei dichiarano a Gesù: «Egli è degno (axios) che tu glielo ac­
cordi, poiché ama il nostro popolo, ed è lui che ci ha costruito una si­
nagoga» (7,4-5). Per quanto egli non sia giudeo, il suo amore e la sua
generosità nei confronti dei giudei faranno del servizio che gli sarà
reso un segno di riconoscenza per il suo attaccamento al popolo giu­
deo. La guarigione che egli domanda non sarà accordata a uno stra­
niero in quanto tale, bensì a uno straniero strettamente legato ai giu­
dei per il suo atteggiamento nei loro riguardi. Un tale uomo non po­
teva essere semplicemente considerato come un «pagano» .

1 Cominciamo col richiamare l'attenzione sul fatto che questo discorso d i Pietro
è stato l'oggetto di un'ampia monografia in tre volumi, alla quale bisogna necessaria­
mente riferirsi e della quale non rifaremo qui tutto il cammino: S.A. PANIMOLLE, Il di­
scorso di Pietro all'assemblea apostolica, 1: Il concilio di Gerusalemme (Atti 15, 1-35);
2: Parola, fede e Spirito (Atti 15, 7-9) ; 3: Legge e grazia (Atti 15,10-11 ) Bologna 1 976,
,

1 977 e 1 978.

45
Ciò che era vero del centurione di Cafarnao lo era ancor più per
quello di Cesarea. Luca lo presenta immediatamente come un uomo
«pio e timorato di Dio con tutta la sua casa, che faceva al popolo
(giudeo) delle abbondanti elemosine e pregava Dio costantemente»
(A t 10,2) . Gli uomini che egli ha inviato per cercare Pietro dicono di
lui: è «Un uomo giusto e timorato di Dio, del quale l'intera nazione
giudea rende buona testimonianza» (v. 22). Ed è al suo indirizzo che
Pietro osserva: «In ogni nazione colui che teme (Dio) e pratica la
giustizia gli è gradito» (v. 35). Si tratta dunque di un uomo che rico­
nosce il Dio di Israele come il vero Dio, che pratica la giustizia di­
stinguendosi per la generosità delle offerte che fa ai giudei e per l'as­
siduità delle preghiere. La qualifica di «pagano» mal si conviene per
un uomo che incarna così bene l'ideale religioso del giudaismo.
Egli rimane tuttavia uno «straniero» (allophylos), che un giudeo
non può frequentare (10,28), un incirconciso nella cui casa un giudeo
non si permette di entrare e del quale non dovrebbe condividere la
mensa ( 1 1 ,3 ) I rapporti con un tale uomo pongono a un giudeo il
.

problema della «purità», che gioca un ruolo importante in tutto que­


sto racconto (10,14. 1 5 .28; 1 1 ,3.8.9) e sul quale Pietro ritorna nel suo
discorso «conciliare>> , precisando che Dio aveva «purificato per mez­
zo della fede il cuore>> di Cornelio e dei suoi ( 15 ,9), rendendoli così
pronti a ricevere il dono dello Spirito Santo. Potrebbe essere di un
certo interesse ricordarsi del ruolo accordato al tema della purità in
tutto questo contesto quando si affronterà la difficile questione del­
la portata delle clausole restrittive richieste da Giacomo.
Rispondendo a una domanda che riguardava la condizione per la
quale si «può essere salvati>> ( 15,1 ), Pietro non lo fa solamente affer­
mando che la salvezza dipende unicamente dalla fede (v. 1 1 ). Egli ar­
riva a questa conclusione passando per il problema della «purità» e
parlando di una J? Urificazione del cuore che Dio opera per mezzo
della fede (v. 9). E bene rendersi conto che i due temi, che noi sa­
remmo forse portati a dissociare, sono inestricabilmente legati in tut­
to l'insieme dell'episodio di Cornelio. Annotiamo i versetti che toc­
cano direttamente il tema della purità. Il tema della «salvezza» non
appare esplicitamente che in 1 1 ,14, nelle parole dell 'angelo che dice
a Cornelio: Pietro «ti dirà le parole grazie alle quali tu sarai salvato,
tu e tutta la tua casa». Ma non si dovrebbe separarne ciò che è detto
di un uomo che è «gradito» (dektos) a Dio (10,35 ), né ciò che è det­
to del «ricordo» di Dio a favore degli uomini pii ( 10,4.3 1 ), né ciò che

46
è detto del dono della «conversione in vista della vita» accordata da
Dio ai gentili ( 1 1 ,1 8).
Queste osservazioni potrebbero dare l'impressione che ci si al­
lontani dal problema ecclesiologico. Esse pe rmettono tuttavia di
rendersi conto della portata della «tesi» di questi capitoli: Dio ha
abolito la differenza che esisteva tra giudei e gentili chiamando gli
uni e gli altri a una stessa fede e a uno stesso battesimo. Pietro è par­
ticolarmente esplicito in 15,9: Dio «non ha fatto nessuna differenza
tra noi (giudei) e loro (incirconcisi), avendo purificato i loro cuori
con la fede». Lo stesso apostolo aveva già dichiarato in 1 0,28: «Dio
mi ha manifestato che non bisogna chiamare alcun uomo immondo
o impuro», e in 10,34-35: «Dio non fa preferenza di persone, ma in
ogni nazione colui che lo teme e pratica la giustizia gli è gradito».
Questa parità assoluta è attestata, sempre secondo Pietro, dal fatto
che lo stesso dono dello Spirito è stato accordato agli uni come agli
altri. Questo è fortemente sottolineato nei testi: «Lo Spirito Santo è
sceso su di loro, esattamente come su di noi all'inizio» ( 1 1 ,1 5 ) , «Dio
ha loro accordato lo stesso dono fatto a noi» (v. 17), «Dio ha reso lo­
ro testimonianza donando loro lo Spirito Santo, esattamente come a
noi» (15,8). L'analogia è tale che si possono anche invertire i termi­
ni: «Noi crediamo che è per mezzo della grazia del Signore Gesù
che siamo salvati, ne/ loro stesso modo» (v. 1 1 ) . Giudei o gentili, tut­
ti sono salvati in virtù della stessa fede, e tutti ricevono da Dio lo
stesso dono dello Spirito Santo. Come si potrebbero allora conside­
rare due tipi di appartenenza alla stessa com unità di salvezza? O an­
cora, come domanda Pietro in 10,47, come sarebbe possibile rifiuta­
re il battesimo a coloro «che hanno ricevuto lo Spirito Santo esatta­
mente come noi?».
Si è spesso sottolineato che il discorso «conciliare» di Pietro in A t
15,7- 1 1 ha un suono sensibilmente «paolino». Ma questo discorso
non fa che sviluppare le conseguenze che erano già sottese nel lun­
go racconto di 10,1-48 e 1 1 ,1 - 1 8. Luca fa interamente propria la con­
cezione dell'unità della Chiesa che vi si esprime: un'unità nella qua­
le è superata la differenza fra giudei e gentili prima che diventasse­
ro credenti e prima che avessero ricevuto il dono dello Spirito.
Si coglie forse meglio ora la prospettiva nella quale Luca aveva
iniziato a ridurre per quello che era possibile la distanza che separa­
va dal giudaismo un incirconciso che «temeva Dio» e la cui condot­
ta era esemplare dal punto di vista della pietà giudaica. Così egli pre-

47
parava già il suo lettore all'enunciazione di principi tendenti a sop­
primere ogni differenza tra credenti provenienti e dal giudaismo e
dal mondo pagano nella loro comune appartenenza alla Chiesa.

2. Giacomo: la testimonianza dei profeti (vv. 15-18)

Il discorso di Giacomo colpisce in primo luogo per il modo con il


quale riprende lo schema di base del discorso di Pietro. Il discorso di
Pietro era stato preceduto dalla menzione della riunione degli «apo­
stoli e dei presbiteri», i due gruppi dirigenti della Chiesa di Gerusa­
lemme (15,6); tra il discorso di Pietro e quello di Giacomo, Luca ha
inserito un cenno al racconto della propria missione fatto da Barna­
ba e Paolo, i due delegati della Chiesa di Antiochia, la cui esperien­
za presso i gentili prolunga quella di Pietro (v. 12). Ciascuno dei due
discorsi inizia con l'appellativo andres adelphoi, «Uomini fratelli»
(vv. 7 e 13). Ciascun discorso si compone di due parti. La prima ri­
porta a suo modo fatti conosciuti : Pietro inizia dicendo: «voi sapete
bene» e richiamando gli eventi che sono stati raccontati nei cc. 10 e
1 1 e che sono qui presentati come opera di Dio (vv. 7-9); Giacomo si
riferisce a ciò che «Simone» ha appena esposto (v. 1 4), pur aggiun­
gendo a questa breve menzione una lunga citazione profetica (vv. 15-
1 8). Nei due casi, la seconda parte si presenta come conseguenza del­
la prima: «Ora dunque», nyn oun (v. 10), «E per questo», dio (v. 1 9).
Pure nei due casi questa conseguenza è duplice. La struttura appare
più chiaramente nel discorso di Giacomo, che enuncia in primo luo­
go una proposizione negativa: «non tormentare>> (v. 1 9), «ma solo si
ordini loro>> (v. 20). Nel discorso di Pietro la proposizione negativa
ha preso il tono oratorio di una interrogativa: «Perché voi tentate
Dio?>> (v. 10), mentre l'affermazione che vi si oppone resta introdot­
ta da alla: «Ma noi crediamo . . >> (v. 1 1 ).
.

In ciascuna delle due parti del suo discorso, Giacomo inizia dun­
que col sottolineare il suo accordo con ciò che è stato detto da Pie­
tro (vv. 14 e 1 9), per aggiungere successivamente un'integrazione che
gli è propria: una conferma ricavata dalle «parole dei profeti» (vv. l 5-
18), una restrizione che s'ispira a Mosè (vv. 20-2 1 ). Il modo col qua­
le Giacomo formula il suo accordo al v. 14 è particolarmente signifi­
cativo: «Simeone ha esposto come, una prima volta, Dio ha avuto cu­
ra di prendere per suo nome un popolo tra le nazionh>. L'importan­
za che quest'affermazione introduttiva potrebbe avere dal punto di

48
vista ecclesiologico ci consiglia di rinviare il suo esame e di studiare
anzitutto le due parti del discorso che sono destinate a illustrarla, la
prima direttamente, la seconda indirettamente. Potremo così essere
in grado di meglio precisare l'esatta portata di ciò che il v. 14 dice di
un «popolo» tratto da Dio di mezzo ai gentili.

2.1. La ricostruzione della tenda di David

La prima parte del discorso di Pietro parlava del comportamen­


to di Dio in ciò che si è verificato a Cesarea: «Dio ha scelto ... , Dio ha
reso testimonianza ... , e non ha fatto alcuna differenza>> ( 1 5,7-9). È
ugualmente di Dio che parla la prima parte del discorso di Giacomo,
ritornando innanzitutto sul fatto che «Dio ha avuto cura» (v. 14), ma
proseguendo con una citazione nella quale Dio si esprime in prima
persona: «Dopo questo io ritornerò e ricostruirò la tenda di David
che è caduta, e ricostruirò le sue rovine e la raddrizzerò» (v. 16) . Que­
sto intervento divino in favore della «tenda di David» ha quale sco­
po e avrà come effetto la conversione del «resto degli uomini», di
«tutte le nazioni» (v. 17).
Prima di occuparci di questo risultato, conviene interrogarsi sul
senso che Luca ha potuto dare alla prima parte de ll'oracolo e a ciò
che vi si dice della «ricostruzione della tenda di David».
È anzitutto da notare l'importanza di questa lunga citazione
esplicita, della quale affrontiamo lo studio. Luca ha collocato due ci­
tazioni dello stesso genere all'inizio della storia evangelica: Is 40,3-5
in Le 3,4-6 e Is 61,1-2 in Le 4, 17- 1 9; all'apertura del suo secondo li­
bro egli ha collocato la citazione di Gl 3,1-5 in At 2,16-21 , e a con­
clusione quella di Is 6,9- 10: A t 28,25-27. Al capitolo 7 degli Atti, il di­
scorso di Stefano, col quale finisce il periodo propriamente gerosoli­
mitano della Chiesa, si conclude con le due citazioni complementari
di Am 5,25-27 e Is 66,1 -2 (At 7,42-43 e 48-50). Centro del libro, il ca­
pitolo 15 è a sua volta centrato sulla citazione di Am 9,1 1 - 1 2 davan­
ti alla quale noi ci troviamo. Anche solo il posto che le è riservato
mostra già l'interesse che Luca le attribuisce.2

2 Questa citazione di Am 9,1 1 - 1 2 in At 1 5 , 1 5-18 e il suo rapporto con la citazione


di Am 5,25-27 in At 7,42-43 è stata oggetto di un penetrante studio di E. RICHARD.
((The Creative Use of Amos by the Author of Acts», in Novum Testamentum 24( 1982).

49
Presa nel suo complesso, la citazione di Am 9, 1 1 -12 suppone la
versione dei Settanta, alla quale Luca deve l'apertura universalista
del v. 12. La prospettiva del testo ebraico è diversa, promettendo
semplicemente la restaurazione del regno davidico e l'estensione del
suo dominio su Edom e le nazioni vicine. Secondo il suo costume,
Luca non trascrive il suo modello senza praticarvi alcuni ritocchi at­
ti a migliorarne la comprensione:

At 15,16 Am 9,1 1
Dopo questo, I n quel giorno,
io ritornerò io rinnalzerò
e ricostruirò
la tenda di Davide la tenda di Davide
che è caduta, che è caduta,
e ricostruirò e ricostruirò
le sue rovine ciò che di essa era caduto,
e la raddrizzerò. e rinnalzerò le sue rovine,
e la ricostruirò
come ai giorni d 'un tempo.

A un primo sguardo si nota che Luca sintetizza un testo che po­


teva ritenere troppo pesante. Egli ne approfitta per eliminare il dop­
pio uso del verbo «io rinnalzerò», anastèso, troppo legato nel suo
pensiero all'intervento di Dio per «risuscitare» Gesù.3 Egli elimina

37-53. Dello stesso esegeta dobbiamo inoltre segnalare un altro studio del quale ab­
biamo largamente usufruito: «The Divine Purpose: the Jews and the Gentile Mission
(Acts 1 5 )>), in Society of Biblica/ Lirerature Seminar Papers 1 980, 267-282. Ritornerò
sull'interpretazione che l'oracolo di Am 9,1 1 ha ricevuto in due testi qumraniani: 4Q
174, l , 1 0- 1 3 e CD VII, 14-19. Ma si può subito segnalare che nel 1965 due autori si so­
no basati su queste testimonianze per difendere l'ipotesi secondo la quale la citazio­
ne di At 1 5, 1 6 deriverebbe non dalla Settanta bensì da una tradizione indipendente,
conosciuta anche a Qumran. Si tratta in primo luogo di J. DE WAARD. A Comparative
Study of the O/d Testament Text in the Dea d Sea Scrol/s and in the New Testament (Stu­
dies on the Texts of the Desert of Judah. 4), Leiden 1965, 24-26; poi di M. WILcox, The
Semitisms ofActs, Oxford 1965, 49. Le spiegazioni di J. De Waard sono state rifiutate
da C.M. MARTINI nella sua recensione in Biblica 50( 1 969), 272-275 (274); quelle di M.
Wilcox da E. RICHARD nell'articolo: «The Old Testament in Acts: Wilcox's Semitisms
in Retrospect» in Catholic Biblica/ Quarterly 42(1980), 330-341 (339). Sarebbe inuti­
,

le riprendere qui questa discussione. È a partire dalla Settanta che la citazione degli
Atti deve essere interpretata .

3 Cf. RICHARD, in Novum Testamentum 24(1982), 47.

50
inoltre la finale, «come ai giorni d'un tempo», che non si accorda evi­
dentemente con la prospettiva universalista del versetto seguente.
Ali 'inizio, sostituisce «In quel giorno» con la formula che gli è fami­
liare «Dopo questo», meta tauta (Le 5,27; 10, 1 ; 12,4; 17 ,8; 18,4; A t 7 ,7;
13,20; 18,1 ; mai in Mt e Mc), al contrario di ciò che fa in At 2, 17 do­
ve, nelle prime parole della citazione di Gioele, sostituisce «Ed av­
verrà negli ultimi giorni» a «Ed avverrà dopo questo». Al capitolo 2
era interessato a sottolineare che la promessa di Gioele riguardava i
«giorni» che dovevano precedere il grande «giorno del Signore» (v.
20). Qui, al contrario, era senza dubbio preferibile non insistere sul­
l 'aspetto escatologico.
Richard4 suggerisce una spiegazione più puntuale: gli Atti riallac­
cerebbero strettamente la citazione di Am 9,1 1s a quella di Am 5,25-
26 presente nel discorso di Stefano (7,42-43). Là si diceva che Dio si
è «distolto» ( estrepsen ) dal suo popolo in una fase che Luca identifi­
ca esplicitamente con quella della deportazione a Babilonia; si vede
ora che Dio promette che «ritornerà» (anastrepso), per ricostruire
«dopo questo» ciò che era stato sconvolto al momento dell'esilio.
Quest'ipotesi conduce a un risultato che si lascia preferire per la pro­
pria coerenza.
C'è un punto che Richard non approfondisce: da dove viene l'ag­
giunta di questa nuova promessa, «ed io la raddrizzerò» (kai
anorthoso autèn ) , che non trova affatto spiegazione a livello del vo­
ca bo lario familiare a Luca? Il verbo anorthoo non è frequente nella
Bi bbia greca, ma vi appare soprattutto in un preciso contesto: quel­
lo della promessa fatta a David secondo la quale Dio «raddrizzerà»
(nel senso di «Consoliderà») il trono del suo discendente (2Sam
7,13.16.26; 1Cr 17,12. 14.24; 22,10). Ci sembra difficile attribuire al ca­
so quest 'incontro tra una promessa riguardante il trono di Davide e
colui che sarà chiamato a succedergli, e la promessa che, alla fine del
libro di Amos, riguarda la «tenda di David».
Il legame appare assai meno fortuito se si considera che il solo te­
sto della Bibbia greca che parli della «tenda di David>> oltre a Am
9. 1 1 si trova in Is 16,5 , un oracolo in cui si promette che il trono di
David «sarà raddrizzato» (diorthothèsetai) e che vi siederà colui che

4 RICHARD, in Novum Testamentum 24( 1 982), 47.

51
deve giudicare con verità «nella tenda di David». Si vede attraverso
questo come sia facile passare dall'idea del trono di David a quella
della tenda di David.
Arriviamo così alla questione essenziale per la nostra ricerca:
quella di sapere in che cosa consista, nel pensiero di Luca, questa «ri­
costruzione della tenda di David>> che deve provocare la conversio­
ne degli uomini di tutte le nazioni. Le opinioni degli esegeti sono
contrastanti. Per molti di loro non si può trattare che della restaura­
zione di Israele: questa interpretazione si sosterrebbe sull'opposizio­
ne che le due parti dell'oracolo stabiliscono tra la «tenda di David»
e ciò che è detto in seguito della conversione «del resto degli uomi­
ni>>, di «tutte le nazioni». Molti altri ritengono che la «ricostruzione
della tenda di David» si debba intendere in senso cristologico, es­
sendosi verificata la sua realizzazione nella missione di Gesù e so­
prattutto nella sua risurrezione ed esaltazione celeste.5

5 Alcuni nomi. La prima interpretazione la si trova in F. MussNER, «Die Idee der


Apokatastasis in der Apostelgeschichte», in Lex tua Veritas. FS H. Junker, Trier 1961,
293-306 = Praesentia salutis. Gesammelte Studien zu Fragen und Themen des Neuen Te­
staments, Diisseldorf 1 967. 223-234 (228-230): G. STAEHLIN, Die Apostelgeschichte
(NTD 5), toa ed., Gottingen 1 962, 204; W. MICHAELIS, art . skènè, in 7WNT VI I , 1964,
375: J. JERVELL, Das gespaltene Jsrael und die Heidenvolker, in StTh 19(1965), 68-96
(79-81 ) Luke and the People of God. A New Look at Luke-Acts, Minneapolis 1972,
=

5 1 -53; S.O. WILSON, The Genti/es and the Gentils Mission in Luke-Acts (SNTSMS 23),
Cambridge 1973; G. LoHFINK, Die Sammlung lsraels = La raccolta d'Israele, 7 1 -72; J.
KoE NIG , Jewis and Christians in Dialogue. New Testament Foundations, Philadelphia
1 979, 106; C. PERROT, «Les décisions de l'assemblée de Jérusalem», in RSR 69( 198 1 ),
1 95-208 (202-203); J. Ro LOFF, Die Apostelgeschichte (NTD 5), 17 éd., Gottingen 198 1 ,
232; V. Fusco, «Effusione dello Spirito e raduno dell'Israele disperso. Gerusalemme
nell'episodio di Pentecoste (Atti 2,1-1 3)», in AssoCIAZIONE BIB L I CA ITALIANA, Gerusa­
lemme. A tti della XXVI Settimana Biblica, Brescia 1982, 201-21 8: J. JERVELL, «Die Mit­
te der Schrift. Zum lukanischen Verstandnis des Alten Testaments», in U. Luz - H.
WEDER (a cura di), Die Mitte des Neuen Testaments. Einheit und Vie/fa/t neutestamen­
tlicher Theologie. Festschrift E. Schweizer, Gottingen 1983, 78-96 (89). L'interpretazio­
ne cristologica riceve la preferenza nei commentari di A. Wikenhauser ( 1 956 ), E.
Haenchen ( 1 977), G. Schneider ( 1 982), e nelle monografie di C. BvRGER, lesus als Da­
vidssohn. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung, Gottingen 1970; E. KRANKL, Je­
sus der Knecht Goues. Die heilsgeschichtliche Stellung Jesu in den Reden der Apostel­
geschichte, Regensburg 1972; BovoN, Luc le théologien, 354. Un terzo gruppo sarebbe
composto dagli autori che evitano in varia maniera di pronunciarsi in un senso o nel­
l'altro. Si potrebbe aggiungere che la promessa di Am 9,1 1 ha avuto fin dagli inizi in­
terpretazioni diverse. A Qumràn essa è chiaramente interpretata in senso messianico
nel Florilegio di 4Q 174,1,10-13: dopo aver citato l'oracolo di Natan (2Sam
7,1 lc. 12bc. l 3b. 14a), il testo spiega: «E il Germe di David, che si leverà con il Cerca-

52
Dobbiamo dunque chiederci quale significato prenda natural­
mente nel pensiero di Luca una promessa che riguarda «la tenda di
David>>. Abbiamo già constatato che Luca non si accontenta di par­
lare di una ricostruzione di questa tenda; egli ha introdotto nel testo
di Amos l'idea di un «raddrizzamento>> di questa tenda, anorthoso,
richiamando un verbo che, nella Bibbia greca, è soprattutto associa­
to alla promessa che Dio ha fatto in relazione al «trono di David» e
al discendente di David che vi prenderà posto dopo di lui. Ora Luca
si dimostra particolarmente interessato a questa promessa. Egli la ri­
chiama in A t 2,30: «Essendo profeta, (David) sapeva che Dio gli ave­
va giurato di far sedere sul suo trono un figlio del suo sangue», in A t
1 3,23: «E dal suo seme che, secondo la promessa, Dio ha suscitato un
salvatore ad Israele» . Sin dall'inizio del Vangelo, Gesù è annunciato
come l'erede di questa promessa nella parola dell'angelo a Maria: «Il
Signore Dio gli darà il trono di David suo padre» (Le 1 ,32).
Unico degli evangelisti a parlare del «trono di David», Luca è an­
che il solo a parlare della «casa di David», un'espressione che evoca
ancora la promessa fatta a David, ma attraverso un'immagine che si
lega di più a quella di una «tenda». In due casi (Le 1,27 e 2,4) l'ap­
partenenza alla «casa di David» caratterizza direttamente Giuseppe,
e così, indirettamente, Gesù. Nel terzo caso, si tratta direttamente di
Gesù, per la venuta del quale il cantico di Zaccaria benedice Dio:

tore della Legge e (troneggerà) a Si(on alla f)ine dei giorni, così come è scritto: Io rin­
nalzerò la capanna di David che è caduta. Questa capanna di David che è caduta. (è)
colui che si leverà per salvare Israele». Am 9.1 1 è così affiancato ad altre profezie mes­
sianiche. CD VII. 14-19 si abbandona a un'esegesi più avventurosa di Am 5,26-27 (il
testo citato in At 7,43) Là dove il testo parlava del «tabernacolo di Moloc», il com­
.

mentatore intende «la tenda del vostro re>>, e, identificando questa con i «libri della
Legge». fa appello ad Am 9,1 1 : «lo rinnalzerò la tenda di David che è caduta», per
giungere all'idea che questo rinnalzamento si è realizzato nella comunità di «Dama­
scO>> (Am 5,27). Un'eco di Am 9 . 1 1 si trova ancora in Dn 1 1 ,14 (LXX). Il testo origi­
nale faceva allusione a una ribellione contro il «re del mezzogiorno» (un Tolomeo ) ,

facendo dunque il gioco del re del nord, Antioco III. Il traduttore parla di tutt'altra
cosa: «Ed in questi giorni il re d'Egitto sarà illuminato da nuovi pensieri, e egli rico­
struirà ciò che era caduto del tuo popolo (anoikodomèsei ta peptokota tou ethnous
.wu ) e si leverà per realizzare la profezia, ed essi avanzeranno». Qui, la salvezza è at­
.

tesa dal re d'Egitto: è lui che ricostruirà le peptokota, le rovine. non della tenda di Da­
vid, ma della nazione giudaica (rovine che, in questo contesto, sono naturalmente at­
tribuibili al re seleucide ) Sembra qui che si possa parlare di una sostituzione della
.

«nazione» giudaica all'espressione che parlava della «tenda di David»: nel senso del­
la prima interpretazione che abbiamo riferito.

53
«Ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di David suo
servo» (Le 1 ,69). È ugualmente Luca che, contrariamente alla tradi­
zione, che ne riserva l'appellativo a Gerusalemme, qualifica Betlem­
me, luogo della nascita di Gesù, come «città di David» (2,4. 1 1 ). È an­
cora un modo per legare Gesù alla promessa fatta da Dio a David.
Tutte le indicazioni vanno nella stessa direzione: trascrivendo
un oracolo che conteneva una promessa di Dio riguardante la rico­
struzione della «tenda di David», non si vede come Luca potrebbe
pensare ad altro se non alla promessa fatta a David in relazione al
figlio che doveva assidersi sul suo trono. Nel contesto lucano, l'ora­
colo di Am 9,1 1 deve intendersi in senso cristologico. La ricostru­
zione della tenda di David che vi è annunciata è stata realizzata da
Gesù senza dubbio dalla sua risurrezione e dal suo assidersi alla de­
stra di Dio (A t 2,30-31 ; 13,32-33). La restaurazione trascendente
della regalità davidica in Gesù Cristo non dovrebbe confondersi
con la restaurazione d 'Israele, che potrebbe tutt'al più esserne una
conseguenza, e una conseguenza aleatoria. La chiamata delle na­
zioni ha come punto di partenza l 'evento messianico realizzato nel­
la persona di Gesù.

2.2. L'esito per le nazioni

La seconda parte della citazione si allontana assai poco dal suo


modello:

At 15,17-18 Am 9,12 (LXX)


Affinché il resto degli uomini Affinché il resto degli uomini
cerchino il Signore cerchino
· e tutte le nazioni e tutte le nazioni
sulle quali il mio nome sulle quali il mio nome
è stato pronunciato, è stato pronunciato,
dice il Signore, dice il Signore,
che fa queste cose che fa queste cose.
conosciute da sempre.

Luca ha aggiunto un oggetto, «il Signore», al verbo «cercare».


Egli introduce soprattutto una nuova idea, d'altronde assai ellittica,
nel finale. Dà l'impressione di voler recuperare in certo qual modo
ciò che aveva omesso alla fine del versetto precedente: non aveva vo-

54
luto dire che la ricostruzione della tenda di David la renderà «tale
(quale era) nei giorni d'un tempo ( tou aionos ) )), ma gli piace preci­
sare che ciò che fa il Signore era «conosciuto da sempre)) (o, per con­
servare il medesimo termine, «da tempo)), ap'aionos ) . Inutile attar­
darsi su queste modifiche accessorie. Ciò che Luca corregge ad
Amos è assai più importante.
Per esprimere il fine perseguito da Dio ristabilendo la regalità
davidica, il testo utilizzava il verbo «Cercare)), ekzètéo, e Luca ha ag­
giunto il complemento: affinché gli uomini «cerchino il Signore)). Lu­
ca esprimerà un'idea simile poco oltre, ma parlando della creazione
dell'universo, nel quale tutte le cose sono state disposte in modo che
gli uomini «cerchino Dio per raggiungerlo, se possibile, come a ten­
toni per trovarlo)) (At 17,27 ) . L'avvicinamento suggerisce una conti­
nuità del progetto divino originale e dell'intenzione con la quale D io
è intervenuto per realizzare la promessa che aveva fatto a David: ec­
co un pensiero caro a Luca e presente alla sua mente.
Il discorso davanti all'Areopago parla di una ricerca alla quale
«gli uomini)) sono chiamati; Amos greco parla del «resto degli uomi­
ni)) ( hoi kataloipoi ton anthropon ) . In rapporto a chi bisogna inten­
dere questo «resto))? La seconda parte della frase lo specifica con
tutta la chiarezza desiderabile: si tratta di «tutte le nazioni sulle qua­
li è stato pronunciato il nome)) del Signore. A giudicare dalle parole
che sono servite da introduzione alla citazione, è precisamente su
questi termini del testo profetico che si è concentrata soprattutto
l 'attenzione di Luca. Parlando de l popolo che D io «ha preso tra le
nazioni per proprio nome)), il v. 1 4 preparava l'ascoltatore alla parte
della citazione che ripete le stesse parole: «tutte le nazionù) sulle
quali il Signore dichiara che «il proprio nome)) è stato pronunciato.
Noi abbiamo dunq ue delle buone ragioni per supporre che Luca si
sia particolarmente interessato a questa formula.
Si tratta effettivamente di una formula eccezionale nella B ibbia.
Vi si trovano abbastanza frequentemente delle espressioni che af­
fermano che il nome del Signore è «pronunciato)) ( epikaléomai) su
diverse realtà: sull'arca di Dio (2Sam 6,2) , sul tempio ( l Re 8,43; 2Cr
6,33; Ger 7,1 0. 1 1 . 14.30; 39,34; 41,15; Bar 2,26; 1 Mac 7,37 ) , sulla città
di Gerusalemme (Dn 9,18.19 ) , sul popolo di Israele (2Cr 7,14; Ger
14,9; Bar 2,15; Dn 9,19 ) , o ugualmente su un profeta (Ger 15 , 1 6 ) . Il
pronunciare il nome fa di queste realtà la proprietà particolare del
Signore: esse gli sono consacrate e godono della sua protezione. Nel

55
Nuovo Testamento, Gc 2,7 riprende l'espressione per designare i cri­
stiani nella loro appartenenza a Cristo.
Tutto ciò permette di cogliere la singolarità e l'audacia di questo
testo unico che non teme di applicare l'espressione a «tutte le nazio­
ni», vale a dire al mondo pagano nella sua totalità. Luca ha certa­
mente ben scelto la citazione della quale ha fatto il centro dell'epi­
sodio del «concilio», collocato a sua volta nel cuore del libro degli
Atti! Si tratta de ll'oracolo nel quale Dio stesso rivendica la proprietà
di tutte la nazioni , considerando che tutte gli sono consacrate in for­
za della pronuncia del suo nome. Questa consacrazione costituisce
anche il fondamento sulla base del quale tutte sono chiamate a «cer­
care il Signore», almeno dal momento in cui il trono di David sarà
stato ristabilito dal Cristo. La restaurazione della regalità davidica, di
cui parlava la prima parte dell'oracolo, non è stata fatta semplice­
mente a beneficio di Israele, come i discepoli pensavano ancora al­
l'inizio degli Atti (1,6): essa riguarda tutte le nazioni, poiché è su tut­
te loro che è stato pronunciato il nome del Signore. Sarebbe stato
diffici le per Luca trovare un testo profetico che esprimesse meglio la
prospettiva universalista della regalità di Cristo.

3. Giacomo: la testimonianza di Mosè (vv. 19-21)

Abbiamo già osservato che la seconda parte del discorso di Gia­


como è costruita sullo stesso schema della seconda parte del discor­
so di Pietro. Nei due casi, si tratta di tirare la conclusione da ciò che
è stato detto nella prima parte. C'è corrispondenza tra «Ora dun­
que» (nyn oun) del v. lO e « È per questo» (dio) del v. 19, tra una pri­
ma raccomandazione negativa (v. 10: non tentare Dio imponendo ai
discepoli un giogo ... ; v. 19: non infastidire quelli tra i gentili che si
convertissero... ) e una seconda raccomandazione positiva (v. 1 0: ma
noi crediamo... ; v. 20: ma si comandi loro... ) Il parallelismo non pro-
.

cede oltre; lascia da parte la proposizione esplicativa aggiunta da


Giacomo al v. 21: «Mosè in effetti. .. ». Destinata a giustificare la rac­
comandazione positiva del v. 20, questa spiegazione del v. 21 è evi­
dentemente importante.6

6 Bisogna rifiutare puramente e semplicemente il metodo di coloro che credono


di poter interpretare le clausole del v. 20 come se il v. 21 non esistesse: così C. MARUCCI,

56
Non è dunque senza interesse segnalare che, sempre per quello
che concerne la sua struttura, la seconda parte del discorso di Gia­
como trova un parallelo più completo nella seconda parte del rac­
conto lucano dell'episodio del centurione di Cafarnao, Le 7,1-10.7 In
un primo tempo questo ufficiale aveva inviato a Gesù dei notabili
giudei che avevano interceduto in suo favore e ottenuto che Gesù li
accompagnasse per andare a operare la guarigione richiesta ( 7 ,2-6a ).
In un secondo tempo, gli fa dire da suoi amici che egli non merita di
ricevere Gesù sotto il suo tetto (v. 6b ). Egli espone allora la conse­
guenza di quest'affermazione: « È per questo (dio) che io non mi so­
no ritenuto degno di venire verso di te, ma di' una parola... Io stesso
in effetti... » (vv. 7-8). Come in At 15,1 9-21 , la conseguenza (dio) è
esposta innanzitutto attraverso una proposizione negativa, in segui­
to attraverso una proposizione positiva (introdotta da alla), a sua
volta giustificata da una esplicativa (introdotta da gar). Questo pa­
rallelo è soprattutto utile perché aiuta a cogliere meglio che la pro­
posizione esplicativa (At 1 5 ,21) deve giustificare direttamente la
proposizione positiva, ed essa sola (v. 20).8
Un ulteriore dettaglio non dovrebbe passare inosservato. Al v. 7
Pietro aveva iniziato il suo discorso riferendosi all'esperienza che
aveva fatto «dai giorni antichi» (aph 'hèmeron archaion), mentre al v.
21 Giacomo conclude il suo discorso richiamandosi alla lettura che si
fa di Mosè «dalle generazioni antiche» (ek geneon archaion). Un
procedimento di inclusione associa così due argomentazioni com­
plementari: quella che si richiama all'intervento diretto di Dio nel
caso di Cornelio, e quella che fa appello all'autorità di Mosè. Osser­
vazione minore indubbiamente, ma che non è senza portata né per
quello che concerne l 'unità letteraria del brano tutto intero né per
quello che riguarda l'accento da collocare sul v. 21: non si tratta qui

Parole di Gesù sul divorzio. Ricerche scritturistiche previe ad un ripensamento teologi­


co, canonistico e pastorale della dottrina cattolica dell'indissolubilità del matrimonio
(Aloisiana, 1 6), Brescia 1982, 358-381 .
7 Dobbiamo questo accostamento chiarificatore a E. RICHARD, The Divine Pur­
pose, 1980, 272.
K Richard ha rilevato delle costruzioni analoghe in Le 1 ,35-36� At 25,26-27; 27,25-
26.34-35. Queste osservazioni sullo stile di Luca hanno il vantaggio di mostrare che,
nel pensiero del nostro autore. A t 15,20 e 21 sono strettamente complementari e de­
vono essere interpretati in funzione del rapporto che li unisce.

57
di una considerazione accessoria rispetto alle quattro clausole del v.
20; sono al contrario le clausole che ricevono la loro valenza da que­
sto riferimento finale a «Mosè».
Così come al v. 14 Giacomo era entrato in argomento sottoli­
neando il suo accordo con il racconto fatto da Pietro (vv. 7-9), egli ri­
prende la parola al v. 19 per concludere la sua lunga citazione del li­
bro d'Amos con una raccomandazione negativa che dà ragione a
quella che Pietro aveva fatto al v. 10: non c'è ragione d'imporre ai
gentili che si convertono il fardello che vorrebbero loro imporre i
giudaizzanti (15,1 .5). Il decreto «conciliare» si adeguerà a questa
opinione al v. 28 (cf. v. 24) .
M a i giudaizzanti avevano fondato l e loro esigenze sull'autorità
di Mosè (vv. l e 5). Spetta a Giacomo mostrare che essi hanno mal
letto Mosè e che la stessa legge mosaica non intende imporre ai gen­
tili né la circoncisione (v. l) né tutte le prescrizioni fatte per i giudei
(v. 5): per i gentili essa si accontenta dell'osservanza delle quattro
proibizioni enumerate al v. 20, riprese successivamente sotto una for­
ma meno retorica e in ordine leggermente diverso al v. 29 e in 21,25:
essi devono «astenersi dagli idolotiti, dal sangue, dalle (carni) soffo­
cate e dali 'impudicizia». Luca non sembra essere stato preoccupato
dal determinare l'origine delle quattro clausole, e si può ritenere che
egli le en umeri in funzione di una pratica passata dalla sinagoga alle
assemblee cristiane del mondo ellenistico. La loro provenienza ulti­
ma non fa alcuna difficoltà: esse derivano dalle regole che Lv 17-1 8
dichiara esplicitamente applicabili anche agli stranieri che risiedono
tra i giudei. La proibizione degli idolotiti costituisce senza dubbio un
adattamento di quella che riguardava le immolazioni irregolari (Lv
17,3-9) ; la proibizione del sangue corrisponde a Lv 17,10-14, mentre
quella che concerne le carni soffocate potrebbe derivare da Lv
17,15-16. Quanto alla proibizione della porneia, essa deve riguarda­
re non solamente le unioni incestuose, ma anche i disordini sessuali
di ogni genere enumerati in Lv 18, che concernono egualmente gli
stranieri residenti tra gli israeliti (1 8,26).
Il motivo dato a queste proibizioni in Lv 17-18 è la necessità per
gli israe liti di evitare ogni sozzura e ogni impurità. Abbiamo già os­
servato che proprio questa problematica ha un posto considerevole
in tutta la storia di Cornelio (At 10,1-1 1 ,18) e che la si ritrova nel di­
scorso di Pietro in 15,9. Sembra naturale supporre che le clausole di
Giacomo rispondano alla medesima preoccupazione. Esse tendono

58
così a permettere la convivenza tra i cristiani di origine giudaica e
quelli provenienti dal mondo dei gentili.
Ma non è evidentemente su questo punto che Giacomo insiste
(egli non usa il termine «sozzura», alisgema, che a proposito delle
carni offerte agli idoli: v. 20). Importante ai suoi occhi è il fatto che
Io stesso Mosè ha legiferato per gli stranieri in quanto tali, senza in­
vi tarli a farsi giudei attraverso la circoncisione e l'insieme delle os­
servanze destinate ai giudei (cf. v. 5). È in questo senso precisamen­
te che il v. 21 sottolinea l'autorità di Mosè, autorità riconosciuta da
sempre e ovunque nel mondo dove vi sono delle sinagoghe e dove la
sua legge è così proclamata. I giudaizzanti sono dunque in errore
pretendendo di costringere i gentili a una legislazione che non è sta­
ta fatta per loro. Mosè non li obbliga a niente altro che alle quattro
proibizioni di Lv 17-18. L'esistenza di queste quattro eccezioni atte­
sta la loro libertà rispetto a tutto il resto. Si comprende allora ciò che
Luca dice dell'effetto provocato dalla lettura della lettera «concilia­
re» ad Antiochia: gioia e consolazione (v. 3 1 ).
Il discorso che Giacomo e gli anziani tengono a Paolo in At 21 ,20-
25 si situa probabilmente nella stessa linea dell'intervento di Giaco­
mo al «concilio». Esiste il problema innanzitutto di «coloro tra i giu­
dei che hanno aderito alla fede» (v. 20): essi sono pieni di zelo per la
Legge e non ammettono che dei giudei, divenendo cristiani, abban­
donino la pratica della Legge (vv. 20-24). Quanto ai «gentili che han­
no aderito alla fede», essi non sono tenuti che alle quattro proibizio­
ni di Lv 17-1 8 (v. 25). L'osservanza di queste regole deve permettere
ai giudeo-cristiani, di cui Giacomo è portavoce, di frequentarli senza
esporsi al rischio di contrarre un'impurità. L'essenziale nel loro caso
è che Dio abbia «purificato i loro cuori mediante la fede» (15,9).9

9 Può essere utile qui presentare l'ipotesi proposta da C. PERROT, «Les décisions
de l'assemblée de Jérusalem», in RSR 69( 1981), 1 95-208. Essa reagisce contro un'opi­
nione molto diffusa che vuole che il racconto di At 15 raccolga in uno due eventi pre­
sentati come distinti in Gal 2, 1-10 e 1 1 -14: da una parte le deliberazioni di Gerusa­
lemme secondo cui la circoncisione non doveva essere imposta ai gentili che diveni­
' ano credenti: dall'al tra il conflitto insorto ad Antiochia sulla possibilità di una co­
munione di mensa tra i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli del mondo paga­
no che condividevano la stessa fede, ma non avevano ricevuto la circoncisione. Con­
t ro l 'interpretazione più corrente, Perrot ritiene che le quattro proibizioni menziona­
te da Giacomo non abbiano rapporto diretto con la questione della commensalità (re-

59
Concludendo, notiamo che le quattro cause di sozzura dalle qua­
li devono astenersi gli stessi gentili in virtù della prescrizione di Mo­
sè che li riguarda sono riprese in 15 ,29, nel testo del decreto «Conci­
liare». Ma là si aggiunge una nuova precisazione: «Guardandovene,
voi farete bene» (eu praxete). L'espressione che conclude l'episodio:
«Voi farete bene>>, meraviglia per il contrasto che essa forma con
quella che era stata impiegata all'inizio: i giudaizzanti dichiaravano
agli elleno-cristiani: «Se non vi fate circoncidere secondo il costume
di Mosè, non potete essere salvati» (v. 1 ) . Si trattava là della possibi­
lità «di essere salvati», ora non si tratta che di «fare bene», di agire
in maniera lodevole (cf. At 1 0,33; Mc 14,7). Tra le due estremità del

stando questa esclusa in ogni maniera); loro compito è dare agli elleno-cristiani, che
non possono più essere considerati come pagani ma che non sono integrati al popolo
di Israele, uno «Statuto canonico>> ispirato a quello che la legge mosaica accordava agli
stranieri residenti in Israele e analogo a que l lo che il giudaismo ellenistico accordava
ai <4imorati di Dio» ammessi a frequentare la sinagoga. L'osservanza delle quattro
proibizioni doveva dunque costituire il tratto distintivo del gruppo elleno-cristiano,
ciò che avrebbe permesso il suo riconoscimento giuridico come gruppo: più precisa­
mente come «popolo associato». Questa ingegnosa ipotesi presenta, a nostro avviso,
l'inconveniente di basarsi troppo esclusivamente sulle quattro clausole, intese più nel
contesto della teoria di J. Jervell che non in quello delle indicazioni fornite da Luca
nell'insieme omogeneo che formano negli Atti i racconti di 10,1- 1 1 ,18 e 15,1-35.
l. Non abbiamo ancora esaminato la dichiarazione iniziale di Giacomo in At
15,14: «Dio ha avuto cura di prendere per il suo nome un popolo tra le nazioni». Spie­
gheremo in seguito come mai noi non pensiamo che questo appellativo «Un popolo»
permetta di considerare gli elleno-cristiani come un gruppo costituito, distinto e mar­
ginale rispetto a ciò che costituisce «il popolo>> per eccellenza, Israele.
2. Abbiamo già avuto occasione di sottolineare, inoltre, l'insistenza di tutto il rac­
conto sull'abolizione di una differenza che autorizzerebbe a fare una distinzione tra
«essi» (gli elleno-cristiani) e «noi»> (i giudeo-cristiani): At 1 0,34-35.47; 1 1 ,15.17;
15,8.9. 1 1 .
3 . Abbiamo ugualmente constatato che, in questi capitoli, la problematica della
«purità» e delle cause di «impurità» ha un posto preponderante. In particolare non è
a caso che al suo ritorno a Gerusalemme Pietro abbia dovuto rispondere alla lamen­
tela di «quelli della circoncisione>> che lo rimproveravano: «Tu hai frequentato degli
incirconcisi e hai mangiato con lorO>> ( 1 1 ,3) . Se è esatto che l'attenzione non si con­
centra sullo specifico problema della «commensalità» tra giudeo-cristiani ed elleno­
cristiani, non è meno vero che questo problema posto nel corso dell'intero racconto
rappresenta un aspetto concreto del problema più ampio delle regole di «purità». In
breve, non rimproveriamo a Perrot di aver proceduto dal punto di vista «fattuale» in­
terrogandosi sul significato che uno storico può dare alle quattro clausole che Luca fa
risalire all'assemblea di Gerusalemme. Ma crediamo che la sua ipotesi parta da una
base troppo angusta, senza soprattutto prendere in considerazione il punto di vista di
Luca cosi come appare nel contesto nel quale sono situate le quattro clausole. È chia­
ro che, nella presente ricerca, è il pensiero di Luca che ci interessa direttamente.

60
brano si è prodotto un mutamento di prospettiva, che impedisce di
mettere le istanze di Giacomo sullo stesso piano di quelle dei giu­
daizzanti. Si comprende naturalmente come si tratti di riguardi do­
vuti ai giudeo-cristiani da parte dei credenti venuti dal paganesimo.10

4. Giacomo: «un popolo tra le nazioni» (v. 14) 11

4.1. Il termine «popolo» (laos) nel vocabolario di Luca

La grande frequenza del termine laos è uno dei tratti caratteristi­


ci del vocabolario di Luca. Dei 142 usi nel Nuovo Testamento se ne

10
Cf. E. HAENCHEN, Die Apostelgeschichte, 78 ed . • Gottingen 1 977. 433 nota l .
1 1 Ritornare su questo v. 14 mi fa sentire come un anziano combattente che ritor­
na sul campo di battaglia d'un tempo. Bisogna risalire sino al 1955. data nella quale il
rev. J.N. SANDERS aveva pubblicato una nota «Peter and Paul in the Acts» nella rivista
New Testament Studies (t. 2, 1 33-143). Essendosi fatta una certa idea del modo in cui
si sono svolte le relazioni tra Pietro e Paolo, Sanders tentava di conciliare i testi con
le proprie ipotesi. A distanza di tempo. ho qualche difficoltà a comprendere come
questa nota abbia potuto provocare da parte mia una critica d'insieme («Pierre et
Paul dans les Actes». in Revue Biblique 64(1957]. 35-47; «Etudes sur les Actes des
Apòtres)), in Lectio Divina 45. Paris 1967, 174-184 = Studi sugli Atti degli Apostoli, Ro­
ma 1975) e una messa a punto di At 15,14: «Laos ex ethnòn (At 15,14)», in New Te­
stament Studies 3(1956-1 957), 47-50 ( Etudes. 361 -364 ) . Sanders accettava la «Sostan­
=

ziale» storicità dei discorsi attribuiti a Pietro e a Giacomo in At 15: bastava per que­
sto escludere come glosse redazionali i tocchi paolini aggiunti al discorso di Pietro nei
vv. 9b e 1 1 , la notizia del v. 12 sull'intervento di Barnaba e Paolo, e infine i versetti 15b-
18 che mettono sulla bocca di Giacomo la citazione di un testo di Amos che non ave­
va pertinenza se non letto nella versione della Settanta. Contrariamente a questo pro­
cedimento di smembramento del testo, la mia nota del 1 956 tendeva a dimostrare che
l'influsso della Settanta si faceva già sentire al v. 14. La formula «Dio ha avuto cura di
prendere per il suo nome un popolo tra le nazioni» sembra ricavare tutta la sua forza
dal fatto che essa richiama la formula della Bibbia greca che dice che Dio ha fatto d'I­
sraele il suo popolo particolare tra tutte le nazioni. Sottolineava il fatto che tale di­
stinzione tra «popolo» e «nazioni» era tipica della versione greca in Es 1 9.5; 23,22; Dt
7,6, e sopratt l!.tto 14.2; in nessuno di questi passi la versione ebraica usava due termi­
ni differenti. E vero che il nostro v. 14 parla non di «popolo particolare» ma di «po­
polo per il suo nome)): questa menzione del «nome>) non trova forse la sua spiegazio­
ne nella citazione di Amos (v. 1 7) che il v. 14 vuole introdurre e preparare? Questa no­
ta ha provocato una prima reazione da parte di P. WINTER, «Acta 15,14 und die luka­
nische Kompositionstechnik», in Evangelische Theologie 17( 1 957), 400-406. Questo
autore osservava che rantitesi tra «popolo» e «nazioni» si trova anche in Dt 26, 1 6- 1 9,
dove la versione greca riprende una distinzione che si trovava già nel testo ebraico.
Egli sottolineava allo stesso tempo la differenza dei punti di vista: nella Bibbia il «po­
polo» eletto è opposto alle «nazioni», mentre Giacomo fa delle «nazioni» il punto di
partenza del «popolo» che Dio costituisce per il suo nome. La reazione di N. A. DAHL,
nel 1958, è assai più importante: « ..A People for His Name'' (Acts XV. l 4)» , in Ne�· Te­
stament Studies 4(1957- 1958), 3 19-327. Dahl ha colto bene il punto debole della nostra

61
contano 14 per Matteo, 2 per Marco, 2 per Giovanni, 36 per Luca, 48
per Atti: ossia 84 per i due libri di Luca. In questa massa, l 'uso eccle­
siologi co di At 15,14 e l'analogo di 18,10 costituiscono due eccezioni,

spiegazione: essa fa fatica a rendere conto dell'espressione «per il suo nome». Questa
forma non si trova né nella Bibbia masoretica né nella Settanta, ma è familiare al Tar­
gum palestinese. Agli esempi che l'autore ricava dal Targum frammentario e da quel­
lo dello Pseudo-Jonathan, si può ora aggiungere l'attestazione complessiva del Tar­
gum Neofiti (si veda la lista predisposta da PANIMOLLE, Il discorso di Pietro all'assem­
blea apostolica, I. 1 10 nota 75 ) . Si sarebbe dunque esercitato un influsso dell'aramai­
co sulla formulazione di At 1 5,14. È nella tradizione aramaica che si passa dall'e­
spressione «Un popolo per lui>> a «Un popolo davanti a lui)) e a «Un popolo per il suo
nome)). Dahl fa un ulteriore passo. Egli ritiene che, per entrare nella prospettiva del
discorso di Giacomo, non è tanto verso il Pentateuco che bisogna orientarsi, verso ciò
che vi si dice della situazione privilegiata di Israele rispetto agli altri popoli e verso le
difficoltà che trovano i traduttori a rendere dei termini ebraici la cui terminologia re­
sta spesso sfumata. È molto più interessante prendere in considerazione i testi profe­
,
tici che, come quello di Am 9,1 1 -12, riguardano il futuro escatologico. E già il caso di
Ez 36,24.28, dove la Settanta legge: «Ed io vi prenderò di mezzo alle nazioni ... , e voi
sarete per me un popolo)), e dove il Targum precisa: «lo vi ricondurrò di mezzo alle
nazioni ... , e voi sarete un popolo davanti a me)) (cf. Ez 37,2 1 -23 ) . «Davanti a me)), nel
linguaggio targumico, può essere considerato come un equivalente di «per il mio no­
me)). Ma il passo più chiarificatore, perché interessato allo stesso tema dell'oracolo di
Amos, è Zc 2,14-17 ( 10-13 ) . Il v. 1 5 è reso secondo la Settanta: «E in quel tempo mol­
te nazioni cercheranno rifugio presso il Signore, ed esse saranno per lui un popolo».
Nel Targum questo diviene: «E in quel tempo molti popoli saranno aggiunti al popo­
lo del Signore, ed essi saranno un popolo davanti a me)). Nel linguaggio del Targum
Neofiti, la finale diventerebbe probabilmente: «Ed essi saranno un popolo per il mio
nome>>. Non si potrebbe supporre che At 15,14 faccia precisamente allusione a que­
st'oracolo? Non si dovrebbe più parlare della sostituzione di un popolo nuovo a quel­
lo che è sempre stato l'unico popolo di Dio; si tratterebbe dell'allargamento di questo
popolo al quale si aggiungerebbero le nazioni. Questo studio di Dahl mi è parso con­
vincente, e io mi sono allineato alle sue principali conclusioni: Etudes sur /es Actes,
364-365; cf. Les Actes des Apotres (Bible de Jérusalem), Paris 1964, 1 39 nota i. Questa
capitolazione mi è stata rimproverata da un certo numero di autori, che avrebbero de­
siderato che io mantenessi, almeno in parte. la spiegazione che avevo proposto nel
1 956. Mi sembra chiaro che oggi non si dovrebbe rimanere né sulla mia posizione del
1956, né su quella di Dahl del 1958. Alcune distinzioni sono necessarie.
l . Per quello che concerne la lingua, anzitutto, non ci si può fermare al dilemma:
septuagintismo o aramaismo. Dando la parola a Giacomo, Luca deve prestargli un
linguaggio appropriato (così come conveniva che l'angelo di 10,4.3 1 parlasse un lin­
guaggio «liturgico))). L'intenzione è manifesta sin dalla prima parola, dove Pietro ri­
ceve il nome di «Simeone)). La strana costruzione epeskepsato labein, Dio «ha avuto
cura (lett. ha visitato) di prendere», è opportunamente avvicinata da Haenchen a
quella che utilizza Elisabetta in Le 1 ,25: epeiden aphe/ein, il Signore «ha gettato gli
occhi per togliere» il mio obbrobrio (si veda anche Le 12,32; At 16,14 ) . La maniera
giudaica di parlare del «nome» divino è familiare a Luca (cf. Le 1 ,49; 1 1 ,2; 1 3,25;
1 9,38; 2 1 ,8.12.17; 24,47; At 2,21 .38; 3,6. 16; 4,7.10. 1 2. 1 7. 18.30; 5,28.40.41 ; 8, 1 6;
9, 14.16.21 .27.28; 10,43.48; 16,18; 1 9,5. 1 3.17 ... ) . E poiché Dahl osserva che nel Targum
esiste uno scambio tra le espressioni «per il suo «nome>> e «davanti a lui», come non

62
di cui è importante misurare l'esatta portata. Secondo J. Jervell, laos
significherebbe semplicemente nei due casi «eine Volksmenge >> , una
quantità di persone. 12 All'altro estremo, J. Roloff vede in 15,14 l'af­
fermazione esplicita che riconosce gli elleno-cristiani come «das
Gottesvolk der Endzeit», il popolo di Dio della fine dei tempi.13 Bi­
sognerebbe evitare sia di ingigantire sia di minimizzare l'interpreta­
zione delle due eccezioni che, come tali, possono confermare l'uso
abituale così come aprire la possibilità di un superamento.

notare che enopion è proprio un termine caratteristico del vocabolario di Luca ( M t


O, Mc O, Le 22. Gv l , At 13)? Il legame paradossale dei termini laos e ethnè, «popo­
lo» e «nazioni». deriva naturalmente dalla medesima vena. Deve il proprio rilievo al­
l'antitesi che oppone abitualmente questi due termini nel linguaggio biblico e giu­
daico, come sarebbero normalmente opposte, al v. 17, la designazione di <<tutte le na­
zioni» e la qualificazione «sulle quali il mio nome è stato pronunciato>>. Queste an­
notazioni non escludono un influsso di Zaccaria, ma indicano che esso è difficilmen­
te dimostrabile. Ecco, su questo punto, la nostra risposta a H. CoNZELMANN, Die Apo­
stelgeschichte. Ttibingen 1 973. 83; PANIMOLLE, Il discorso di Pietro all'assemblea apo­
stolica. I, l 09- 1 1 2 ; R. E. BROWN. The Birth of the Messiah, Ne w York 1 977, 459: BovoN,
Luc le théologien, 344 nota l .
2 . La mia prudenza per quello che riguarda l e fonti dell'ispirazione del v. 1 4 è do­
vuta soprattutto a una coscienza più viva delle conseguenze che potrebbero derivar­
ne per la questione ecclesiologica. I collegamenti che proponeva la mia nota del 1956
non rischiavano di condurre all'idea che il «popolo tratto di mezzo alle nazioni» pren­
desse il posto fin là occupato da Israele? Mi sembra che una tale conclusione non con­
corderebbe affatto con il pensiero di Luca. Ancor meno, certamente, l'idea che Dio
potrebbe avere due popoli. Israele da una parte e dall'altra questo popolo tratto di
mezzo alle nazioni: non si potrebbe attribuire a Luca una simile enormità (si veda a
questo proposito P.-H. MENouo, «Le peuple de Dieu dans le christianisme primitif»,
in Foi et Vie 63( 1964), 386-400 Jésus Christ et la Foi. Neuchatel-Paris 1 975, 337-346).
=

Le spiegazioni date da Dahl nel 1958 conducono in un'altra direzione, anch'essa non
priva di rischi. Riconoscendo nell'affermazione di At 15,14 un'eco di Zc 2,1 5 e di tut­
ta una speranza escatologica di Israele, non si è ancora provato che gli Atti non van­
no più lontano di questa speranza. ma ci si sottrarrà alla tendenza di condurveli? In
questo caso, solo Israele sarebbe l'oggetto diretto dell'intervento salvifico di Dio,
mentre i gentili non ne beneficerebbero che attraverso la mediazione di Israele, sotto
la sua dipendenza e subordinandosi a esso. È quanto illustra bene l'immagine classica
del pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme. Dahl evita questa riduzione, ma non
si oserebbe dire altrettanto di J. Jervell o di C. Perrot. Che questa non sia la prospet­
tiva di Luca. ci sono buone ragioni di pensarlo, a iniziare dal fatto molto semplice del
ruolo che gioca il capitolo 15 degli Atti come conclusione definitiva del periodo gero­
solimitano e apostolico della Chiesa. I dodici apostoli scompaiono e i nuovi capi del­
la comunità-madre non ritorneranno che brevemente sulla scena, per dare a Paolo il
consiglio che provocherà la sua prigionia (21,18-25). Lo sguardo si volge ormai non
più verso Gerusalemme, ma verso Roma.
t2
StTh 1 965, 77 nota 22.
13 Die Apostelgeschichte, 232.

63
Cominciamo col mettere da parte tre usi di laos al plurale. At 4,25
legge nel Sal 2,1 : «Perché hanno fremuto le nazioni e i popoli hanno
formato vani progetti?». Il v. 27 spiega che il termine «nazioni» desi­
gna, come d'abitudine, l'insieme del mondo non giudaico, e riserva il
termine «popoli» per Israele. L'anomalia del plurale non fa che ac­
centuare la sottolineatura dell'applicazione normale del termine
«popolo» per Israele. Il caso di Le 2,3 1 è molto più difficile: «l miei
occhi hanno veduto la tua salvezza, che hai preparato davanti a tutti
i popoli, luce per illuminare le nazioni e gloria del tuo popolo Israe­
le» (vv. 30-32). L'espressione «davanti a tutti i popoli» è tanto più si­
gnificativa in quanto sembra ispirarsi a Is 52,10, che diceva: «davan­
ti a tutte le nazioni». Come mai questa sostituzione del termine «po­
poli» al termine «nazioni»? Gli esegeti sono divisi: per alcuni questi
«popoli» designerebbero ancora le «nazionh> per opposizione al
«popolo» eletto; per altri, al contrario, il termine, anche al plurale, si
applicherebbe a Israele, come in 4,27; per altri infine sarebbe stato
scelto per includere allo stesso tempo le «nazioni» e il «popolo». Non
ci attarderemo qui su questo problema.
Messi da parte questi tre usi del termine al plurale e i due casi nei
quali il termine «popolo» si applica ai cristiani (At 15,14 e 18,10), i
rimanenti 79 usi designano sia il popolo d'Israele come tale, sia un
gruppo di persone appartenenti a questo «popolo». Si noti immedia­
tamente che questi usi non sono distribuiti in modo indifferenziato:
il termine non è mai usato nella grande sezione centrale del Vange­
lo (concretamente: tra Le 9, 13 e 18,43), che Luca sembra voler situa­
re al di fuori del territorio giudaico; negli Atti esso non appare nelle
«sezioni noi» (16,10-17; 20,5-15; 21 ,1-18; 27,1-28, 16) né nel loro im­
mediato contesto (capitoli 1 6-1 7 e 20-22). Si potrebbe anche notare
che, nella tradizione evangelica, Luca non usa il termine che una so­
la volta in dipendenza da Mc (Le 22,2, d'altronde costruito in modo
diverso da Mc 14,2), e che vi è un solo caso di accordo (Le 22,66) con
Matteo (27,1 ) contro Marco (15,1). Si tocca così con mano l'uso as­
sai {'ersonale che fa Luca del termine laos.
E chiaro come il termine non riceva ovunque il medesimo valore
pregnante. Esso prende naturalmente la sua forza maggiore quando,
considerato globalmente, il «popolo» è inteso (mediante un prono­
me possessivo) nel legame che lo unisce al Dio cui appartiene: Le
1 ,68.77; 2,32; 7,16; At 7,34. Ma il termine è utilizzato anche in senso
partitivo. È probabilmente il caso della definizione che Le 1 ,17 dà

64
della missione di Giovanni Battista: «preparare al Signore un popo­
lo ben disposto)). Il caso è del tutto evidente in At 5,37: Giuda il Ga­
lileo «trascinò un popolo al suo seguito)). Questo «popolo» non coin­
cide con Israele in quanto tale; nel linguaggio di Luca non si tratta
neppure di persone qualsiasi: il termine designa un gruppo di perso­
ne che appartengono al popolo di Israele.
Questo senso partitivo di laos ha un posto assai grande nell'uso
che Luca fa di questo termine. Quando egli mostra «tutta la moltitu­
dine del popolo)) che assiste a una cerimonia liturgica nel tempio (Le
1 , 10-21), si tratta di un 'assemblea di israeliti: una parte del popolo
eletto piuttosto che questo stesso popolo. Bisogna dire la medesima
cosa quando parla di «tutto il popolo)) venuto per ascoltare Giovan­
ni e ricevere il suo battesimo (3,15.18.21 ; 7,29), opponendo d'altron­
de questo «popolo)) ai suoi capi (7 ,30). Lo stesso accade per il «popo­
lo)) che costituisce l'uditorio di Gesù (6, 17; 7,1 ; 8,47; 9,13; 18,43; 1 9,48;
20,1 .6.9. 19.26.45; 21,38; 23,27.35; 24,1 9), poi quello degli apostoli (At
3,9. 1 1 . 12; 4,1 .2.17.21 ; 5,12. 13.20.25.26 ... ). Il contrasto costante con i
capi mostra che questo «popolo)) non si confonde con Israele anche
se lo può rappresentare idealmente (cf. 4,10; 13,24; 19,4).
Ed ecco quanto basta per attirare l'attenzione sul rischio che mi­
naccia il traduttore dell 'espressione laos ex ethnon in At 15,14. Tra­
durre «Un popolo)) elimina quasi fatalmente la sfumatura partitiva
che si accompagna così frequentemente al termine laos, e che racco­
manda qui l'assenza dell'articolo (cf. Le 1 ,17; At 5,37). Ma ricorrere
al collettivo inglese people, come propone Dahl nel suo articolo del
1958 (p. 326), e intendere «delle persone)), «della gente)), presenta un
altro inconveniente: quello di far dimenticare che Luca non usa nor­
malmente il termine che per designare un gruppo di persone appar­
tenenti al popolo eletto. Non bisogna perdere la valenza religiosa
che Luca attribuisce al termine e che qui impone la diretta relazione
tra questo laos e il Dio che ne fa il proprio popolo. Non si tratta né
di «Un popolo)) a fianco di un altro, né di «gente)) costituente sem­
plicemente un gruppo particolare senza specifica qualificazione, ma
di persone che l'iniziativa di Dio rende membri del suo popolo.14

14 Noi non pensiamo dunque che si possa stabilire un parallelo fra At 15,14 e At
13,1 7a, come propone G. DELLING, «lsraels Geschichte und Jesusgeschehen nach Ac­
ta 13,16-41», in H. BALTENSWEILER - B. REICKE, Neues Testament und Geschichte. Hi-

65
4.2. Il popolo del Signore a Corinto (A t 18,10)

At 15,14 non è la sola eccezione alla regola secondo la quale Lu­


ca riserva il termine laos per indicare il popolo giudaico o un gruppo
particolare all'interno di questo popolo: c'è anche il caso di 18, 1 0.
Sembra venuto il momento di prendere conoscenza di questo testo
gemello e di rendersi conto del chiarimento che può apportare sul­
l'uso ecclesiologico di laos.
I racconti riguardanti l'evangelizzazione di Corinto sono intro­
dotti da una notizia generale: l'arrivo di Paolo (1 8,1 ), l'ospi talità che
trova presso Aquila e Priscilla (vv. 2-3), la sua predicazione nella si­
nagoga indirizzata ai giudei e ai greci (v. 4). L'arrivo di Sila e Timo­
teo gli permette di consacrarsi interamente alla Parola (v. Sa), e si di­
stinguono a partire da questo momento due fasi nella sua attività.
Occasione che consente a Luca di attivare il procedimento dell'in­
treccio a lui caro. Vi si parla innanzitutto degli sforzi consacrati ai
giudei (v. 5b ) Il v. 6 dà l'impressione di un fallimento e di una rottu­
.

ra: Paolo si rivolge ai gentili. Il v. Sa corregge quest'impressione dan­


do notizia della conversione di Crispo, capo della sinagoga, e di tutti
i suoi. Nel frattempo, si è già passati dalla sinagoga alla casa di Tizio
Giusto (v. 7), informazione che trova il suo prolungamento naturale
nella notizia del v. 11 sulla durata del soggiorno di Paolo. Nell'inter­
vallo, la visione riportata ai vv. 9- 10 si ricollega piuttosto alla rottura
ricordata al v. 6: lasciando i giudei, Paolo si rivolge ai gentili.
I vv. 9- 10 riportano una visione notturna nella quale il Signore ha
detto a Paolo: «Non temere, ma parla e non tacere, perché io sono
con te e nessuno metterà le mani su di te per maltrattarti, perché in

storisches Geschehen und Deutung im Neuen Testament: FS O. Cullmann, Ztirich·Til­


bingen 1 972, 1 87- 197 ( 1 88s). Nella sinagoga di Antiochia di Pisidia Paolo inizia il suo
discorso dicendo: «II Dio di questo popolo (ho theos tou /aou toutou) Israele ha scel­
to i nostri padri». Quest'espressione implicherebbe che Dio abbia preso Israele dal
mezzo delle nazioni per farne il suo popolo particolare (cf. Es 1 9,5; 23.22: Dt 7,6; 14,2;
cf. Lv 20,26). A ciò che Dio ha fatto nel caso del popolo di Dio dell'Antico Testamen­
to. Atti metterebbe in parallelo ciò che ha fatto nel caso del popolo della salvezza al
tempo messianico. II termine laos sarebbe qui messo in rapporto al «nuovo popolo di
Dio». Non è fare di Cornelio e della sua famiglia (è di loro che si parla in 15,14) i pa­
triarchi di questo «nuovo popolo di Dio», mettendoli allo stesso livello di Abramo e
dei patriarchi come stirpe di quello che bisognerebbe chiamare «l'antico popolo di
Dio»? Tali conseguenze sono estranee non solo al pensiero di Luca, ma semplice­
mente al modo in cui egli si esprime, del tutto differente da un testo all'altro.

66
questa città io possiedo un popolo numeroso». L'incoraggiamento
dato a Paolo si comprende in relazione all'ostilità dei giudei (v. 6), e
deve essere chiaro, dopo la dichiarazione dello stesso v. 6, che il «po­
polo» rivendicato dal Signore non è composto di giudei, perlomeno
non principalmente. Il meno che si possa dire è che esso include i
«gentili», che si dimostreranno più ben disposti dei giudei nei con­
fronti del vangelo. 1s
Sembra chiaro che con la puntualizzazione «in questa città», il ter­
mine /aos non designa un «popolo» che potrebbe distinguersi ade­
guatamente dall'insieme di Israele, al quale Luca riserva normalmen­
te questo termine. Il senso è evidentemente partitivo: vi sono a Co­
rinto molte persone che appartengono al popolo rivendicato dal Si­
gnore (che è qui il Cristo: vv. 5 e 8). Ma tradurre semplicemente: «Io
possiedo molta gente in questa città» non sarebbe possibile, se non di­
sconoscendo il valore del termine laos, riservato da Luca al popolo di
Dio o a gruppi di persone che costituiscono questo popolo.
Il modo stesso nel quale si esprime il v. 10 indica la soluzione: i
numerosi corinzi che il Signore rivendica come propri possono esse­
re designati come «popolo» proprio a causa della loro appartenenza
al Signore. Quest'appartenenza è costitutiva del «popolo)), è essa che
distingue i membri di questo «popolo» da coloro che non ne fanno
parte. Troviamo qui la correlazione tradizionale che definisce l'al­
leanza: «lo sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo)) (2Cor 6,16 =
Lv 26,16), «lo sarò Dio per loro ed essi saranno popolo per me)) (Eb
8,10 Ger 31 ,33). Il popolo come tale non esiste che nella sua rela­
=

zione con il proprio Dio (un po' come un regno si definisce in rap­
porto a un re). Se Israele merita il titolo di «popolo)) è precisamente
in virtù della scelta che fa di lui il popolo di Dio. Ugualmente, quan­
do il Signore dichiara che gli appartiene un gran numero di corinzi,
conferisce loro ipso facto la qualità di «popolo». In relazione al rap-

15 Il Signore dichiara a Paolo: «Ho un popolo numeroso in questa città», letteral­


mente: «Un popolo numeroso è a me». Questa costruzione che ricorre al verbo «es­
sere» con un complemento al dativo è corrente nella B ibbia dei Settanta; nel Nuovo
Testamento (38 volte), essa caratterizza lo stile di Luca: Mt 3, Mc 2, Le 15, Gv 2, At 10.
Più precisamente ancora, essa caratterizza lo stile delle parole che Luca presta ai per­
sonaggi del suo racconto: dei 25 usi di Lc-At rilevati da J.C. HAWKINS (Horae Synopti­
cae, za ed., Oxford 1909, 38), 4 solamente riguardano notizie narrative (Le 2,7; 10,39;
At 4,32; 21,9).

67
porto che unisce i membri del «popolo» al loro Signore, la questione
della loro appartenenza etnica diventa del tutto secondaria.
La formulazione di At 18,10 non è dunque così insolita come ap­
pare a prima vista. Essa tuttavia suppone una comprensione teologi­
ca del termine «popolo» che supera una comprensione puramente
biologica: ciò che è determinante per fare parte del popolo del Si­
gnore non è tanto la carne e il sangue, ma una specifica relazione con
il Signore. Non si dovrebbe rifiutare al Signore il diritto «di chiama­
re mio popolo quello che non era mio popolo» (Rm 9,25 = Os 2,25).
Noi restiamo sullo slancio del l 'oracolo di Zc 2,15 (LXX) : «E nume­
rosi gentili cercheranno rifugio presso il Signore in quel giorno, ed
essi saranno per lui popolo».

4.3. Dio ha avuto cura di prendere un popolo per il suo nome

I rilievi che abbiamo fatto a proposito di At 1 8,10 non sono sen­


za importanza per l'interpretazione di 15, 1 4. Venendo dopo una di­
chiarazione che mette fine alla predicazione indirizzata ai giudei e
annuncia l 'evangelizzazione dei gentili (1 8,6), il «popolo numeroso>>
di cui parla 18,10 sarà anch 'esso, perlomeno in maggior parte, un
«popolo tratto dai gentili>>, secondo l'espressione di 15, 14. La quali­
fica di «popolo>> converrà ai credenti per il fatto che il Signore li ri­
vendica come propri, in virtù dunque della loro appartenenza al Si­
gnore. Tutta l'attenzione converge su questa relazione col Signore,
non sulla questione del rapporto che potrebbe esservi tra questo
«popolo)) e i giudei, ai quali Luca riserva normalmente l 'appellativo
di «popolo». Ritornando a 15,14 questa osservazione invita a non la­
sciarsi ipnotizzare dalla form ulazione paradossale che parla di un
«popolo tra i gentili», e a misurare l 'importanza del fatto che il «po­
polo» di cui si tratta è definito in relazione al rapporto che lo unisce
a Dio.
È in effetti di Dio che si parla. Il v. 14 si presenta innanzitutto co­
me una sintesi del racconto fatto da «Simeone». Dicendo che Si­
meone «ha raccontato», exegesato, Giacomo usa un verbo che fa da
eco al verbo con il quale Pietro aveva iniziato il suo discorso, richia­
mando come Dio «ha scelto», exelexato (v. 7), eco che prolunga il se­
condo verbo del v. 14: Dio «ha avuto cura», epeskepsato. La somi­
glianza di questi verbi non sfuggirebbe all'orecchio di chi ascolta il
testo nella lingua originale. Non è dunque fortuito che, nei due casi,

68
ci sia un rinvio al medesimo evento, situato allo stesso punto di par­
tenza: «dai primi giorni» (v. 7), «dali 'inizio» (senso di proton al v. 14 )
.

Si tratta dell'iniziativa presa da Dio al momento dell'ammissione di


Cornelio nella Chiesa. Riferendosi allo stesso evento, le due frasi so­
no costruite sullo stesso modello: al v. 7 il verbo exelexato comanda
due infiniti: «per intendere» e «per credere»; al v. 14 epeskepsato co­
manda l'infinito «per prendere». Si può aggiungere che l'azione di
Dio ha anche, in realtà, lo stesso oggetto: al v. 7 essa riguarda diret­
tamente i gentili, ta ethnè, mentre al v. 14 essa opera una distinzione
tra i gentili, ex ethnon.
Dopo l 'introduzione del v. 7 il discorso di Pietro continua parlan­
do dell'azione di Dio: Dio «ha reso testimonianza» (v. 8), egli «non
ha fatta alcuna differenza» (v. 8). Dopo il passaggio costituito dal v.
1 4, Giacomo cita un oracolo nel quale Dio parla in prima persona:
«lo ritornerò e ricostruirò ... » (v. 16). Attraverso l'iniziativa presa al
momento della conversione di Cornelio, Dio dava compimento alla
promessa che aveva fatto egli stesso attraverso la voce dei profeti.
Come Pietro, Giacomo parla di Dio e di ciò che ha fatto.
Il risultato dell'azione divina è espresso in due diversi modi. Se­
condo il v. 9, Dio «ha purificato per mezzo della fede i cuori» dei gen­
tili. Secondo il v. 14, ha preso tra loro «un popolo per il suo nome».
L'uso di Luca, e particolarmente il parallelo di 18,10, invitano natu­
ralmente a prendere questo termine «popolo» nel suo significato
partitivo. Non si tratta di un «altro popolo)) o di un «nuovo popolo))
rispetto a quello che risultava fino ad allora il popolo di Dio; si trat­
ta semplicemente di un certo numero di persone alle quali il termi­
ne «popolo)) conviene proprio in virtù del rapporto che Dio stabili­
sce tra loro e il proprio «nome)), vale a dire tra loro e se stesso. L'ap­
partenenza al popolo di Dio si definisce non rispetto a Israele, ma ri­
spetto a Dio.
I due usi del termine laos in At 15,14 e 18,10 risultano innanzi­
tutto come eccezioni nell 'insieme degli usi che, presso Luca, riserva­
no il termine a Israele o a un particolare gruppo di israeliti. Reste­
rebbe da interrogarsi sul chiarimento che queste eccezioni possono
proiettare su tutto l'insieme. Noi siamo forse troppo facilmente por­
tati a intendere il termine in una prospettiva «laica», nella quale es­
so riguarda una realtà etnica, sociale, culturale, istituzionale, politica.
Non sono questi gli aspetti che raccolgono l'attenzione di Luca, mol­
to più spontaneamente interessato alla dimensione teologica e reli-

69
giosa. È questo punto di vista, soprattutto, che gli permette di disso­
ciare così facilmente il «popolo» dai suoi capi, quelli appunto che
«hanno rifiutato il disegno che Dio aveva su di loro>> (Le 7 ,30).
Quando parla del «popolo>>, così come qu a ndo parla della «Chiesa»,
Luca pensa molto meno alle istituzioni che non alle persone, molto
meno ali 'unità che assicurano i fattori sociologici che non a quella
che risulta da un legame particolare col Signore. A questo riguardo,
i due casi di At 1 5, 1 4 e 18,10 sono forse meno eccezionali di quanto
potrebbe sembrare a prima vista .

70
Capitolo III
PUNTO DI PARTENZA:
PIETRO E LE SCRITTURE
(At 2-4)

All'assemblea di Gerusalemme, Pietro non fondava il proprio


giudizio che sui fatti; spettava alla scienza biblica di Giacomo dimo­
strare il radicamento di questi fatti nelle Scritture, non solo nei pro­
feti, ma anche nella stessa legge di Mosè. È questa testimonianza
delle Scritture che assicurava alla decisione «conciliare» la sua piena
dimensione teologica ed ecclesiologica.
Nessuna esplicita citazione biblica è stata attribuita a Pietro in ta­
le occasione, neppure per l'episodio di Cornelio ( 10,1-1 1 ,1 8) che qui
trova la propria conclusione. Ma Pietro conosce anche lui la Bibbia
e le citazioni non difettano: né nel suo discorso della Pentecoste al
capitolo 2, né in quello che il capitolo 3 colloca nel tempio. Va da sé
che queste citazioni sono anzitutto a servizio della cristologia. Ma ta­
le cristologia è nel contempo sote riologia e questa porta dritto a
un 'ecclesiologia.
Infatti il richiamo a 01 3,1-5 (LXX) nel discorso di Pentecoste ha
una notevole portata ecclesiologica. Così si può dire per il riferi­
mento a Dt 18,15- 19 che il discorso cita al capitolo 3.
A questi due richiami della Scrittura nei discorsi di Pietro sem­
bra necessario aggiungerne un terzo, anche se non si presenta in ve­
ste di esplicita citazione: è quello che fa Pietro al Sal 1 17( e b.
1 1 8),22 nel suo discorso del capitolo 4 (v. l l ) . Nei tre casi si può di­
re che gli Atti pongono il lettore di fronte a un autentico program­
ma ecclesiologico.

71
1. La Pentecoste, inaugurazione degli «ultimi giorni»

All'inizio della storia evangelica, la predicazione di Giovanni


Battista riceveva tradizionalmente il suo significato provvidenziale
da un riferimento a Is 40,3: «Voce di colui che grida nel deserto; pre­
parate la via del Signore» (Mt 3,3; Mc 1 ,3). Luca aveva molto volen­
tieri fatta propria questa chiave ermeneutica. Però, non contento di
citare il v. 3 di Isaia, aveva aggiunto il v. 4, nonché una parte del ver­
setto seguente (v. 5b ), in modo da completare la citazione con le pa­
role che aprivano una prospettiva assai più vasta, che va al di là del
min istero di Giovanni: «E ogni carne vedrà la salvezza di Dio)) (Le
3,4-6).
Il procedimento gli è dovuto sembrare buono, poiché lo riprende
all'inizio del suo secondo libro, ove la chiave ermeneutica dell'avve­
nimento della Pentecoste è demandata a una lunga citazione di Gl
3,1-5 (LXX) che costituisce tutta la prima parte della predicazione
inaugurale di Pietro e degli altri apostoli (A t 2,17-21 ) Si tratta di un
.

oracolo in cui effettivamente Dio prometteva un' «effusione del suo


Spirito>> (At 2, 17 e 18). La relazione dell'immediato prosieguo (vv.
19-20) con l'avvenimento è assai meno evidente; ma sembra chiaro
che Luca non ha voluto terminare la citazione prima di aver riporta­
to le prime parole del v. 5 di Gioele che allargavano la prospettiva:
«E accadrà che ogni uomo che invocherà il nome del Signore sarà
salvato)) (At 2,21). La somiglianza con Le 3,6 salta agli occhi: nei due
casi si tratta di un'apertura sul proseguimento della storia e sul si­
gnificato del racconto che ne sarà fatto.
Aggiungiamo immediatamente che, se è vero che in At 2,21 l'e­
splicita citazione dell'oracolo di Gioele si ferma col v. Sa, Luca non
perde di vista il seguito del testo profetico; si riconoscerà l'eco di Gl
3,5bc nell 'esortazione finale di Pietro in At 2,39-40. Basta questo per
dire l'importanza del testo per la comprensione dell'avvenimento
che costituisce il punto di partenza della storia narrata negli Atti.
Fra la citazione iniziale di At 2,17-21 e la velata allusione dei vv.
39-40, il discorso di Pietro si estende anzitutto lungamente sulla ri­
surrezione di Gesù, vista come uscita dalla tomba (vv. 22-31). Questo
annuncio del messaggio pasquale non manifesta alcun rapporto con
l'avvenimento della Pentecoste che ha fornito l'occasione per questa
predicazione. Ci si torna coi vv. 32-36, che proclamano la risurrezio­
ne di Gesù come un'ascesa al cielo: un'ascesa che ha precisamente

72
permesso a Gesù di effondere lo Spirito, la cui venuta sui discepoli
produce gli effetti che sorprendono gli ascoltatori.1
Costituendo la prima parte del discorso di Pietro, la citazione di
Gl 3,1-Sa si presenta direttamente ed esplicitamente come la chiave

1 La costruzione del discorso è interpretata in modi diversi. A prima vista essa


sembra guidata dalle interpellanze indirizzate agli ascoltatori: «Uomini di Giudea e
voi tutti, abitanti di Gerusalemme ... » (v. 14), «Uomini di Israele ... » (v. 22), «Uomini
fratelli ... » (v. 29), poi, come conclusione: «Che tutta la casa di Israele lo sappia con cer­
tezza... » (v. 36). Ma non è difficile rendersi conto che l 'interpellanza del v. 29 si collo­
ca tra una lunga citazione del Sal 15 (LXX) (vv. 25-28) e la spiegazione che ne è data
nei vv. 29-31 : due brani che non si potrebbero separare l'uno dall'altro. La funzione
letteraria dell'interpellanza collocata all'inizio del v. 29 è di segnare la fine della cita­
zione e d'introdurre il commento che ne è fornito. Non esiste qui passaggio a una nuo­
va considerazione, a una nuova parte del discorso. Osservazioni stilistiche più perti­
nenti sono state proposte da A. DELZANT, La communication de Dieu. Par-delà utile et
inutile. Essai théologique sur l'ordre symbolique (Cogitatio fidei, 92), Paris 1978, 253-
284. Si può partire dal fatto che il nome di Gesù è ricordato tre volte, ogni volta al­
l'accusativo con l'articolo: ton Jesoun (vv. 22, 32 e 36), accompagnato ogni volta anche
dal dimostrativo prossimo: touton (vv. 22, 32 e 36; nessun altro uso nel discorso). Na­
turalmente enfatico, tale dimostrativo è ogni volta prolungato con una proposizione
relativa: hon (v. 24), hou (v. 32), hon (v. 36). Se il nome Iesoun è all'accusativo, lo si de­
ve al fatto che esso è, ogni volta, il complemento diretto di un 'azione di cui « Dio)) è il
soggetto, ho theos (vv. 24, 32 e 36). Nei due primi casi, Pietro dichiara che «Dio l'ha ri­
suscitato)); nel terzo che «Dio l'ha fatto Signore e Cristo)), Occorre aggiungere che le
affermazioni principali dei vv. 22-24 e 32-33 sono seguite da una giustificazione scrit­
turale, introdotta dalla congiunzione gar (vv. 25-25 e 34) e poggiante su parole di Da­
vid (vv. 25 e 34). Quanto al v. 36, esso si presenta come la conclusione di tutto lo svi­
luppo cristologico, di cui ripete d'altronde i termini più caratteristici: quelli dei vv. 22-
24a e quelli del v. 32. Questa conclusione riprende contemporaneamente le due ca­
ratteristiche designazioni: quella di kyrios, usata al v. 24, e quella di christos, menzio­
nata al v. 31 . La conclusione del v. 36 mostra senza ambiguità che. nel pensiero del­
l'autore del discorso, l'annuncio dell'avvenimento pasquale ha seguito due tappe. Cia­
scuna di esse afferma la risurrezione di Gesù, presentata nei vv. 22-31 come un 'uscita
dal sepolcro. nei vv. 32-35 come un 'ascesa al cielo. Le dichiarazioni fatte da Davide nei
Salmi (vv. 25-28 e 34-35) non possono applicarsi a lui stesso. giacché egli non è né usci­
to dal sepolcro né asceso al cielo. Esse trovano il loro compimento in Gesù, che Dio
ha risuscitato dai morti. Partendo dalla prima parte del discorso (vv. 14-2 1 ) e dal mo­
do in cui essa vuole illuminare l'avvenimento della Pentecoste per mezzo della profe­
zia di Gioele, la prima tappa del messaggio pasquale (vv. 22-3 1 ) dà l'impressione di
non apportare che considerazioni estranee al problema (la menzione dei segni e dei
prodigi al v. 22 non stabilisce che un legame assai superficiale col v. 19). Ma essa con­
duce alla seconda tappa, in cui non è a caso che si ritrova il verbo ekche6, «effonde­
re)), usato a proposito dello Spirito (v. 33: cf. 17 e 1 8). E se il titolo di Kyrios «Signo­
re)) vi è attribuito a Gesù in funzione del Sal 1 10 (At 2,34 e 36), non si dovrebbe di­
menticare che la citazione di Gioele terminava proprio con l'affermazione: «Ogni uo­
mo che invocherà il Signore sarà salvato» (v. 2 1 ). Costituito Signore alla destra di Dio,
Gesù è altresì il Signore di cui bisogna invocare il nome.

73
interpretativa dell'avvenimento della venuta dello Spirito: in esso si
realizza quello che era stato annunciato per «gli ultimi giorni>>. La
prospettiva rimane la stessa nel richiamo de ll'oracolo che si trova al­
la fine del discorso (v. 33; cf. v. 36) . L'annuncio del messaggio conte­
nuto nel discorso propriamente detto (At 2,1 4-36) è completato con
un'esortazione (vv. 38-40) che s'interessa alle conseguenze pratiche i
cui termini non assumono tutto il loro significato se non vi si ricono­
sce l'eco del v. 5 della profezia di Gioele. Noi c'interesseremo anzi­
tutto al modo in cui Pietro usa l'oracolo per evidenziare il senso del
momento presente. Ci occuperemo in seguito della prospettiva che
esso apre sull'avvenire, partendo da Gl 3,5.

1. 1. Significato dell'avvenimento della Pentecoste

Immediatamente, con le prime parole del capitolo 2, l'avveni­


mento era stato presentato come un «portare a termine», un «com­
pletamento»: «mentre si compiva (syntplerousthai) il giorno della
Pentecoste» (v. 1 ). Luca aveva già usato la medesima espressione,
molto solenne e carica di significato nel suo pensiero, per sottolinea­
re. nel Vangelo, la svolta decisiva che aveva costituito nel ministero
di Gesù la sua partenza per Gerusalemme: «Mentre si compivano
(symplerousthai) i giorni della sua dipartita, egli indurì il suo volto
per dirigersi a Gerusalemme» (Le 9,51 ). Si trattava del viaggio al ter­
mine del quale Gesù doveva realizzare a Gerusalemme le profezie
che riguardavano il proprio destino. In At 2,1 la venuta dello Spirito
si presenta come il portare a termine un tempo d'attesa e insieme co­
me il punto di partenza di un nuovo tempo, posto sotto il segno del
compimento. Ciò che trova allora il suo compimento, è concreta­
mente l'oracolo di Gioele (contemporaneamente d'altronde alla
promessa di Gesù: Le 24,49; A t 1 ,4-5.8) .
Disceso sugli apostoli sotto forma di «lingue simili a del fuoco»
(At 2,3), lo Spirito si manifesta tosto col «parlare» che egli ispira
(2,4.6. 7. 1 1 ). Questo straordinario «parlare» provoca lo stupore dei
presenti e tutti gli interrogativi che essi si pongono ( vv. 7-12). L'ulti­
mo ne riassume bene il senso: «Che cosa può essere questo?» (v. 12).
Pietro può collegare: « È quanto è stato detto dal profeta Gioele»
(v. 16).
In occasione di una pubblica calamità, e più specialmente di
un ' invasione di cavallette, Gioele aveva chiamato i suoi contempo-

74
ranei a una grande manifestazione religiosa di conversione e suppli­
ca (1,2-2,17), promettendo allora la fine del flagello e il ritorno del­
l'abbondanza (2,18-27). Vi aggiungeva la promessa di una meravi­
gliosa effusione dello Spirito divino (3,1-5: eb. 2,28-32) e quella di
una terribile vendetta contro le nazioni che avevano oppresso il po­
polo eletto (capitolo 3 nell 'ebraico, 4 in quello greco). È evidente che
la rilettura degli Atti avviene in contrasto coi sentimenti sciovinisti
che animano questo piccolo libro: ciò risalterà soprattutto dal modo
in cui Pietro nel suo discorso tratta Gioele (3,5 [LXX]).
Ma già l'inizio del v. l poneva un problema. La promessa del do­
no dello Spirito cominciava con le parole : «E avverrà dopo que­
sto ... ». Nel testo di Gioele «dopo questo» stabiliva una successione:
anzitutto Dio concederà al suo popolo la prosperità materiale e, in
seguito, gli donerà lo Spirito. L'indicazione «dopo questo» non tro­
vava senso migliore nel contesto del discorso di Pietro. Resta vero
che il dono dello Spirito fa seguito ali' elevazione celeste di Gesù
(2,33); ma tale elevazione non sarà citata che alla fine di lunghi svi­
luppi: non si poteva partire da là.
Luca decide dunque di spiegare a suo modo la precisazione tem­
porale : «E avverrà negli ultimi giorni, dice Dio» (At 2,17a). Il dono
dello Spirito alla Pentecoste adempie una promessa concernente «gli
ultimi giorni»,2 promessa di cui si sottolinea l'autorità definendola
«parola di Dio» .

2 Ciascuna delle due nuove espressioni solleva un problema di critica testuale. Sia
per l'una che per l'altra aderiamo al parere di B.M. METZUER, A Textual Commentary
on the Greek New Testament, London-New York 1 97 1 , 295 e 296. La lezione «dice il
Signore» in luogo di «dice Dio» non cambia affatto il senso, ed è d'altronde assai ma­
le testimoniata. Più importante, dal nostro punto di vista, è il problema che solleva per
le parole «negli ultimi giorni» la presenza di una variante che legge «dopo questO>>,
come la Settanta. Tale variante, attestata dal Vaticanus e da qualche raro testimone, si
spiega con la preoccupazione che ha avuto un copista alessandrino di conformare la
citazione degli Atti al testo di Gioele, senza tener conto della difficoltà che essa crea
nel contesto degli Atti. Non sembra necessario attardarsi su questo punto, circa il qua­
le esiste un accordo molto vasto tra gli esegeti. Vedere in particolare A. BARBI. // Cri­
sto celeste presente nella Chiesa. Tradizione e redazione in Atti 3, 19-21 , Biblica! insti­
tute press, Roma 1979, 174 nota 1 57 (con rinvio a L. Cerfaux, F. Mussner, E. Krankl,
H. Conze lmann, U. Wilckens, W.G. Ktimmel), come anche G. ScHNEIDER, Die Apostel­
geschichte, Freiburg 1 980, l, 268. Il v. 17 si stacca ancora dalla Settanta invertendo l'or­
dine dei due membri del versetto: i giovani sono nominati prima dei vecchi. Si è
senz'altro voluto assicurare maggiore continuità, situando giusto i giovani dopo i figli
e le figlie. Infine la parola «sogni» è scritta al dativo invece che all'accusativo. In rela-

75
L'espressione «negli ultimi giorni» per indicare il momento pre­
sente simultaneo alla Pentecoste, non manca di sorprendere sotto la
penna di Luca. Certo, egli ama le precisazioni cronologiche in cui ap­
pare la parola «giorno)) o «giorni» (Mt 45, Mc 27, Le 83, At 94) e il
suo uso al v. 17 ha potuto essergli suggerito dall'espressione «In quei
giornh) che ha ripreso da Gioele al versetto seguente. Non è meno
vero che Luca si preoccupa vivamente del pericolo rappresentato
per i cristiani dall'illusione di una prossima fine del mondo. Non per
nulla nel Vangelo egli evita di attribuire a Gesù un'affermazione co­
me quella di Mc 1 ,15: «Il tempo è compiuto» per attribuirgli un'af­
fermazione dello stesso genere : «Il tempo è vicino» ai falsi profeti da
cui i discepoli devono guardarsi (Le 21,8); o ancora egli presenta la
parabola delle mine come direttamente relativa all'errore di coloro
che si aspettavano un'imminente manifestazione del Regno (19,1 1 ).
Collocare la Pentecoste negli «Ultimi giorni)) non era presentarla co­
me un segno della fine?
È sufficiente leggere la citazione sino in fondo per rendersi con­
to che Luca non doveva temere alcun equivoco in questo caso. Egli
poteva facilmente riconoscere nel testo lo schema secondo il quale
aveva egli stesso organizzato, in Le 21 ,8-36, il discorso escatologico
di Gesù.3 Aveva accuratamente distinto, colà, gli avvenimenti di ri­
lievo della storia della Chiesa ( Le 21,12-24) e le catastrofi cosmiche
(21 ,10- 1 1 e 25-26) che debbono precedere l'avvento glorioso del Fi­
glio dell'uomo (21 ,27-33). La stessa distinzione scaturisce dalla di­
sposizione del testo di Gioele, dove si tratta anzitutto delle manife­
stazioni del dono dello Spirito (At 2,17-18) e in seguito dei segni co-

zione a Gl 3.2 il v. 18 inizia con la congiunzione kai ge, in luogo del semplice kai. Es­
so aggiunge dei possessivi: «i miei servitori e le mie serve» allargando cosi la portata
di tali denominazioni che non riguardano più soltanto un gruppo sociale. Ma soprat­
tutto il v. 18 aggiunge alla fine: «ed essi profetizzeranno», ripetendo così il verbo del
v. 17c. L'accento si pone in tal modo sul dono di profezia, che relativizza l'importanza
di ciò che aveva detto il v. 1 7 su visioni e sogni. Si percepisce meglio così il rapporto
col racconto dell'avvenimento e il modo in cui si sottolinea il «parlare>> degli aposto­
li come effetto dello Spirito che hanno ricevuto. In relazione a 01 3,3 il v. 19 aggiunge
tre precisazioni: i prodigi celesti si producono «in alto» e corrispondono a «segni» ter­
restri che avvengono «in basso». Si tratta semplicemente di piccole amplificazioni ora­
torie. I vv. 20-21 riproducono esattamente il testo di Gl 3,4-5a.
3 Vedere Trente-troisième dimanche ordinaire», in Assemblées du Seigneur, 64,
«

Paris 1969, 77-86.

76
smici (v. 19-20a) che debbono prodursi «prima che venga il giorno
del Signore, grande e glorioso)) (v. 20b ) , in cui avrà luogo il giudizio
(v. 21 ). La differenza fra i due testi risiede semplicemente nel conte­
nuto riservato al «tempo della Chiesa»: in Le 21 ,12-19 è caratterizza­
to dalle persecuzioni che i cristiani dovranno sopportare; in A t 2,17-
1 8 è segnato dalla presenza attiva dello Spirito.
Questi «Ultimi giorni», che sono quelli in cui lo Spirito è effuso a
profusione su un grande numero di persone, si distinguono natural­
mente dal periodo del ministero di Gesù: periodo durante il quale la
pienezza dello Spirito riposa soltanto su Gesù (Le 3,22; 4,1 . 14.18;
10,21 ; At 1,2; 10,38). Si vedrà in 2,33 che l'effusione dello Spirito di
cui parla Gioele suppone la celeste elevazione di Gesù. Essa comin­
cia dunque dopo l'ascensione, precisamente alla Pentecoste, ma per
caratterizzare in seguito il periodo indeterminato che si estende fino
ai segni precursori del giorno del Signore.4
La Pentecoste ci è così presentata come l'inaugurazione di un
tempo nuovo, quello degli «Ultimi giorni)), un tempo che qualifica la
profusione del dono dello Spirito, opposto ai due periodi anteceden­
ti: quello precedente il ministero di Gesù, ove lo Spirito non era ac­
cordato che a privilegiati, e quello del ministero di Gesù che su di lui
concentra la presenza dello Spirito. Non sembra qui necessario enu­
merare tutte le occasioni in cui il seguito del racconto degli Atti mo­
stra lo Spirito continuamente all'opera nella storia che ci è narrata:
una storia che la finale del libro si impegna a lasciare aperta. Il tem­
po inaugurato dal giorno della Pentecoste non è ancora finito.

1.2. Quelli sui quali lo Spirito è effuso

Il testo e il contesto di Gioele non consentono alcuna esitazione:


la promessa del dono dello Spirito riguarda gli abitanti di Gerusa-

4 La prospettiva escatologica secondo la quale Luca coglie l'evento della Pente­


coste è stata ben sottolineata da V. Fusco nel suo articolo del 1982, «Effusione dello
Spirito e raduno dell'Israele disperso. Gerusalemme nell'episodio di Pentecoste (At­
ti 2,1 -1 3)», in AssociAZIONE BIBLICA ITALIANA, Gerusalemme. Atti della XXVI Settima­
na Biblica, Brescia 1982, 216. B. PRETE chiarisce che «gli ultimi giorni» in oggetto so­
no quelli «non di un compimento immediato della storia, ma dell'inizio di un compi­
mento che si realizza nella storia»: «Luca teologo della .. storia della salvezza"», in Pa­
role di vita 27(1 982), 404-425 (418).

77
lemme e di Giuda, tutti gli israeliti senza distinzione di sesso, di età
o di condizione sociale. L'orizzonte del v. 5, in particolare, è perfetta­
mente delimitato: «E chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvato, perché sul monte Sion e a Gerusalemme vi saranno degli
scampati, come il Signore ha detto, e dei destinatari della buona no­
vella, che il Signore avrà convocato».
L'orizzonte di Luca è evidentemente diverso. Non a caso egli ha
fermato la citazione al primo stico del v. 5. La finale : «E chiunque in­
vocherà il nome del Signore sarà salvato» (A t 2,21 ), rende natural­
mente nella sua opera un accento molto simile alla finale della gran­
de citazione di Is 40,3-5, collocata all'inizio della storia evangelica e
che termin ava con la promessa: «E ogni carne vedrà la salvezza di
Dio» (Le 3,6). Questo parallelo consente, nel contempo, di rendersi
conto della risonanza che poteva avere per lui la promessa del v. 1 :
« E io effonderò i l mio Spirito su ogni carne» (At 2,1 7b).
Ma Luca non si è accontentato di eliminare il seguito del v. 5 di
Gioele nella citazione che fa Pietro all'inizio del suo discorso. Egli vi
si ispira direttamente quando, per rispondere a una nuova questione
dei propri ascoltatori (v. 37), Pietro li invita a convertirsi e a farsi bat­
tezzare, assicurandoli che anch'essi riceveranno il dono dello Spirito
Santo (v. 38). «In effetti, egli dice, per voi è la promessa e per i vostri
figli e per tutti quelli che sono lontani, in così grande numero come
li avrà convocati il Signore nostro Dio» (v. 39). La promessa che
Gioele aveva fatto per la gente di Gerusalemme è elargita a coloro
che sono «lontani»> (cf. Is 57 ,19); essa non riguarda qualche scampa­
to, ma il gran numero di quelli «che il Signore avrà convocato». La
ripresa delle parole di Gioele mostra abbastanza la volontà di cor­
reggere la prospettiva troppo ristretta del suo oracolo.
Ma non basta. Il v. 40 reca un ultimo richiamo agli uditori: «Sal­
vatevi da questa generazione sviata !». Immediatamente dopo un ri­
chiamo alla finale del v. 5 di Gioele, l'imperativo sothète, «salvatevi»
non può non ricordare la promessa di questo stesso versetto: «Chiun­
que avrà invocato il nome del Signore sarà salvato (sothèsetai)». Ciò
che era promesso gli uditori sono invitati a riceverlo, e il verbo del v.
40 si tradurrebbe bene: «Lasciatevi salvare». Ma tale salvezza si de­
finisce in rapporto e in opposizione a «questa generazione sviata». In
ciò si riconosce un'antica espressione biblica (Dt 32.5; Sal 77.8; cf. Fil
2,15), i cui equivalenti non mancano nella tradizione sinottica (vede­
re in particolare Mt 17,17 = Le 9,4 1 ; Mt 12,39 = Le 1 1 ,29). Nel loro

78
insieme (25 volte) tali espressioni indicano la «generazione» presen­
te del popolo d'Israele.
Siamo all'opposto del pensiero di Gioele: non soltanto la salvez­
za non è riservata alla popolazione di Gerusalemme, essendo ugual­
mente destinata a numerose genti che il Signore andrà a cercare lon­
tano, ma separa coloro che la ricevono dalla «generazione» di Israe­
le a cui essi appartengono. La salvezza non è per tale generazione.
Per gli ascoltatori giudei di Pietro implica una rottura col loro am­
biente. Occorre senza dubbio evitare di forzare i testi. Ma importa
altresì cogliere i primi indizi di un pensiero che in seguito diverrà più
esplicito. Secondo Luca la Pentecoste non è soltanto il punto di par­
tenza di una nuova tappa della storia del popolo eletto. Si tratta di
una tappa in cui si manifesta a un tempo un'espansione di questo po­
polo eletto e un 'interna divisione che ne lascerà una gran parte al di
fuori del gruppo di coloro che la finale del capitolo definisce con tut­
ta chiarezza «i salvati» (2,47).

2. Il profeta che bisogna ascoltare

All'entrata del tempio, Pietro e Giovanni hanno guarito miraco­


losamente un infermo (At 3,1 -8). «Tutto il popolo» è testimone del
prodigio (v. 9) e ne prova stupore (v. 10), che non manca di richia­
mare quello dei testimoni della Pentecoste (2,7.12). «Tutto il popo­
lo» corre dunque verso gli apostoli al portico di Salomone (3,1 1 ). Il
racconto della Pentecoste aveva indugiato sugli interrogativi che la
gente si poneva (2,7- 1 2), sull'interpretazione ironica cui pote vano
prestarsi gli effetti prodotti dallo Spirito (v. 13). Al capitolo 3 Pietro
risponde immediatamente alla domanda che pone il miracolo e alla
falsa interpretazione che gli si potrebbe attribuire : «No, non è me­
diante la nostra potenza o per la nostra pietà che abbiamo fatto cam­
minare quest'uomo» (v. 12). Il messaggio è così saldamente ancora­
to a una situazione concreta: questa esige una spiegazione e il di­
scorso che segue (vv. 13-26) ha lo scopo di fornirla.
Una significativa inclusione esprime bene l 'unità e la coerenza di
questo discorso: «Il Dio di Abramo... ha glorificato il suo servo Gesù
che voi avete consegnato . » (v. 13), « È anzitutto per voi che Dio ha
..

(ri)suscitato il suo servo.. >> (v. 26). Lo sviluppo avviene in due tappe,
.

chiaramente distinte. La prima (vv. 13-16) stabilisce un rapporto fra


il miracolo che viene a prodursi (v. 16) e l'intervento per cui Dio ha

79
risuscitato Gesù (v. 13a e v. 1 5b ), mentre gli ascoltatori («VOi») si era­
no assunti la responsabilità della sua morte (vv. l b-15a).
Abbozzata dall 'interpellanza del v. 17: «E ora, fratell i», la secon­
da parte c'interessa più direttamente. Essa vuole chiarire le conse­
guenze che la risurrezione di Gesù comporta per gli ascoltatori. Qui
ancora, le spiegazioni seguono uno schema concentrico. Alle due
estremità Pietro interpella i suoi uditori: «È per ignoranza che avete
agito)> (v. 17) , ciò che è successo vi riguarda direttamente (vv. 25-26) .
I versetti 1 8 e 24 aggiungono che quanto è successo è conforme a ciò
che avevano annunciato «tutti i profeti>). Il brano centrale inizia con
un esplicito appello alla conversione (v. 19) e termina con un invito
pressante ad «ascoltare» (v. 22b-23 ). Questa duplice esortazione è
motivata per un verso mediante un'evocazione del progetto di Dio,
così come è stato enunciato dai «Santi profeti dei tempi antichi» (vv.
20-21), per l'altro mediante la citazione di una promessa fatta da Mo­
sè (v. 22), a sua volta completata (rapporto tra il men del v. 22 e il de
del v. 24) dalla menzione di ciò che «tutti i profeti hanno detto a pro­
posito di questi giorni» (v. 24).
In ordine al tema ecclesiologico che qui ci interessa, può essere
sufficiente concentrare la nostra attenzione sul richiamo alle Scrittu­
re. Il v. 21 serve da introduzione: «Il cielo deve accoglierlo (Gesù) fi­
no ai tempi della restaurazione universale, di cui Dio ha parlato per
bocca dei suoi santi profeti dei tempi antichi». Questa generale men­
zione dei profeti è seguita anzitutto da una citazione di ciò che ha
detto Mosè (vv. 22-23) e successivamente da un nuovo globale rinvio
a ciò che «tutti i profeti» hanno annunciato relativamente a «questi
giorni» (v. 24 ). L'esperienza che abbiamo fatto nel nostro studio dei
capitoli 15 e 2 ci spinge naturalmente a interessarci anzitutto della ci­
tazione attribuita a Mosè.

2.1. La testimonianza di Mosè

Cominciamo col rileggere questi due versetti (At 3,22-23):


22Da una parte Mosè ha detto: «Il Signore vostro Dio susciterà per voi tra
i vostri fratelli un profeta simile a me: voi lo ascolterete in tutto ciò che vi
dirà. 23E chiunque non ascolterà quel profeta sarà tolto dal popolo».

L'importanza che Luca attribuisce a questa dichiarazione di Mo­


sè è confermata dal richiamo che ne fa nel discorso di Stefano: « È

80
questo Mosè che ha detto ai figli di Israele: Dio vi susciterà tra i vo­
stri fratelli un profeta simile a me» (At 7,37). Evidentemente la cita­
zione rinvia sia a Dt 1 8,15: «Il Signore tuo Dio ti susciterà fra i tuoi
fratelli un profeta simile a me: voi lo ascolterete», sia a Dt 18,18: «lo
gli susciterò fra i loro fratelli un profeta simile a te». Ma si sottolinea
subito che questi due testi non rendono conto né dell'uso della se­
conda persona plurale in At 3,22 e in At 7,37, né della finale di 3,22:
«in tutto ciò che egli vi dirà». Ed evidentemente non spiegano la mi­
naccia che aggiunge At 3,23. Per quanto concerne questa aggiunta
del v. 23 è consuetudine tra gli esegeti ricercarne l'origine in Lv
23,29: «Ogni anima che non si umilierà in quel giorno (il giorno del­
l'espiazione) sarà tolta dal suo popolo». Luca utilizzerebbe così una
minaccia che non aveva nulla a che vedere con l'annuncio del profe­
ta simile a Mosè. Quanto alle varianti del v. 22 in relazione a Dt 18,
parecchi autori se ne servono per rafforzare l 'ipotesi di utilizzazione,
in Atti, di un testo di base diverso dalla Settanta e vicino alla forma
in cui lo si trova nell'ebraico di 4Q 1 75 o nell'aramaico di Targum
Neofiti. Tutte queste congetture ci sembrano presentare l'inconve­
niente di misconoscere l'analisi estremamente ponderata che C. M.
Martini ha fatto della citazione degli Atti nel 1969 e nel 1 973. Noi
facciamo nostre interamente le spiegazioni di questo autore, dimo­
stranti che l 'intera citazione di A t 3,22-23 deriva dal testo greco di D t
18,15-19.5

5 Questo studio di C.M. MARTINI, «L'esclusione dalla comunità del popolo di Dio
e il nuovo Israele secondo Atti 3.23», è apparso dapprima in Biblica 50( 1 969), 1 - 1 4. in
seguito sotto forma rielaborata in Communio 1 2( 1 973). 63-82, ristampato nella rac­
colta La parola di Dio alle origini della Chiesa, Roma 1980, 239-258. Esso non toglie
ogni interesse alle osservazioni di M. RESE, A lttestamentliche Motive in der Christolo­
gie des Lukas (SNT l ), Gottingen 1 969, 66-77, rispetto alle quali l'articolo di Martini
costituisce tuttavia manifestamente un progresso. Possono considerarsi sorpassate le
posizioni alle quali sono rimasti in particolare A. EHRARDT, The Acts of the Apostles.
Ten Lectures. Manchester 1 969, 17: E. KRANKL, Jesus der Knecht Gottes. Die heilsge­
schichtliche Stellung Jesu in den Reden der Apostelgeschichte (BU 8), Regensburg
1972, 1 98-202: K. KLIESCH, Das heilsgeschichtliche Credo in den Reden der Apostelge­
schichte (BBB 44), Koln-Bonn 1 975, 129s. Ragione di più per notare l'accordo in cui
si trova con la tesi di Martini un autore che la ignora: W. RADL, Paulus und Jesus im
lukanischen Doppelwerk. Untersuchungen zu Parallelmotiven im Lukasevangelium
und in der Apostelgeschichte (Europaische Hochschulschriften, 23/49), Bem-Frank­
furt 1 975, 284. Rimaneggiando il proprio articolo del 1969, Martini non ha ritenuto uti­
le ritornare sulle critiche negative che aveva avuto occasione di fare in Biblica
50( 1969), 272-275, contro l'ipotesi secondo la quale la citazione degli Atti poggerebbe

81
La citazione di A t 3,22 comincia con il termine «Un profeta»: col­
locato all 'inizio della frase, il complemento diretto risulta accentua­
to. Tale costruzione è precisamente quella di Dt 1 8,15 e 18. La cita­
zione aggiunge subito il complemento indiretto: «per voi»; nella Set­
tanta il complemento indiretto non è citato che dopo il verbo: «per
te» (18,15), «per essi» ( 18,1 8).
Il passaggio alla seconda persona plurale si spiega facilmente a li­
vello di redazione del discorso di Pietro: lo stile è adattato a quello
di tutto il contesto in cui l'apostolo interpella i suoi interlocutori di­
cendo loro «VOi» (3,12-20.25.26). Il passaggio alla seconda persona
plurale comportava facilmente un'accentuazione del pronome, che si
fa passare prima del verbo: questa trasposizione si accorda bene con
la costruzione dei vv. 1 4,25 e 14,26.
Dopo questi due complementi collocati in testa alla frase, non
era più possibile proseguire coi due complementi, che in Dt 18,15
precedono ancora il verbo: «tra i tuoi fratelli - simile a me»; il ri­
chiamo a Dt 18,18 non è necessario per spiegare l'inversione opera­
ta da At 3,22, introducendo il verbo e il soggetto prima dei due altri
complementi: «susciterà il Signore vostro Dio fra i vostri fratelli - si­
mile a me».
La raccomandazione «voi l'ascolterete» alla seconda persona
plurale dell'indicativo futuro corrisponde esattamente alle due ulti­
me parole di Dt 18,1 5. Ma il v. 22 degli Atti aggiunge ancora una pre­
cisazione: «in tutto ciò ch'egli vi dirà». Con tutta evidenza, l'autore
della citazione ha riallacciato al v. 15 del Deuteronomio le prime pa­
role del v. 16: «In tutto ciò che (kata panta hosa) tu hai chiesto al Si-

su un altro testo rispetto alla Settanta, ipotesi difesa da J. DE WAARD, A Comparative


Study ofthe 0/d Testament Text in the Dead Sea Scrol/s and in the New Testament (Stu­
dies on the Texts of the Desert of Judah, 4), Leiden 1 965, 21-24; lo stesso autore è ri­
tornato alla carica con la nota «The Quotations from Deuteronomy in Acts 3,22.23
an d the Palestinian Te x t. Additional Arguments», in Biblica 52(197 1 ) 537-540. Si com­
,

prende senza alcuna fatica come Martin i, nella propria versione del 1973, abbia pre­
ferito trascurare questa nota. Un'ipotesi simile a quella di J. De Waard è stata propo­
sta lo stesso anno da M. WILcox, The Semitisms ofActs, Oxford 1965, 33. Si veda la cri­
tica fattane da E. RICHARD, «The Old Testament in Acts: Wilcox's Semitisms in Re­
trospect », in Catholic Biblica/ Quarterly 42(1980), 330-341 (336). Richard ignora lo
studio di Martini. Un buon riassunto delle posizioni di Martini si trova in BARBI, Il Cri­
sto celeste presente nella Chiesa, 1 60s Quanto al commentario di B. PAPA, Atti degli
.

Apostoli, I, Bologna 198 1 , 127, esso sembra dare ragione sia a J. De Waard che a C.M.
Martini.

82
gnore tuo Dio» . Togliendo queste parole alla frase cui appartengo­
no, egli ha trovato l'occasione per accentuare fortemente la racco­
mandazione di ascoltare il profeta. È alla stessa preoccupazione di
sottolineare il dovere di prestare ascolto al profeta che corrisponde
il richiamo del v. 23: «E accadrà che ogni anima che non ascoltasse
questo profeta, sarà tolta dal popolo». Nel Deuteronomio l'annun­
cio del profeta futuro era ugualmente seguito da un invito a fare at­
tenzione: «E all'uomo che non ascoltasse tutto quello che dirà il pro­
feta a nome mio, Io gliene chiederò conto» (v. 1 9) . Le due minacce
non hanno in comune che le parole della proposizione «chi non
ascoltasse)) insieme alla menzione del «profeta». Gli Atti calcano su
'
questa parola, aggiungendovi il dimostrativo ekeinos, «quel profe­
ta»; la cura nell'accentuare l'importanza del personaggio corrispon­
de a quella che aveva provocato il prolungamento del versetto pre­
ceden te. Essa spiega contemporaneamente la scomparsa delle paro­
le : «tutto ciò che egli dirà in mio nome» che nel Deuteronomio pre­
paravano il problema di sapere come riconoscere un profeta auten­
tico ( 1 8, 20-22).
Le altre due modifiche sono più significative. All'inizio del ver­
setto, gli Atti non si accontentano di dire semplicemente: « È l'uomo
che ... »; essi insistono: «E accadrà che (letteralmente: sarà) ogni ani-
ma che ... ». Il tono si presenta solenne, secondo l'usanza biblica: «E
accadrà ... » compariva due volte nell'oracolo di Gioele citato al capi-
tolo precedente (A t 2,17 e 2,2 1 ) .
Si vuole insistere nel contempo su li 'universalità della minaccia
che, secondo l'espressione molto frequente nella Bibbia greca, ri­
guarda «ogni anima», espressione che Luca usava proprio alla fine
del capitolo precedente (At 2,43). L'accentuazione della minaccia
del v. 23 in relazione al testo biblico che l'ispira, corrisponde all'ac­
centuazione della raccomandazione al v. 22.
Ma soprattutto, alla fine del versetto, l'oggetto della minaccia è
assai più esplicito. Quella del Dt 1 8,19 rimaneva vaga e generica: «lo
gliene chiederò conto», ego ekdikeso ex autou. Nel contesto del Nuo­
vo Testamento almeno (cf. Le 1 8,3-8; Rm 12, 19 = Eb 1 0-30 = Dt
32,35 ) tale affermazione di Dio si comprenderebbe naturalmente
nella prospettiva del giudizio finale, ove ognuno dovrà rendere con­
to della propria condotta. A questa formula il nostro versetto ne ha
sostituita un 'altra: «(quest'anima) sarà "tolta", o "sterminata" di
mezzo al suo popolo)), La minaccia diviene manifestamente più pre-

83
eisa, anzi più drammatica. Non è vano rendersi conto che essa fa eco
a una frequente sentenza nella Bibbia; è la condanna che riporta non
solamente Lv 23,29, ma altresì Es 30,33� Lv 17,4.9; 18,29; 19,8; 23,30;
Nm 9,13; 15,30-31 , o in modo equivalente Gen 17,14; Es 12,15. 1 9;
31 ,14; Lv 20, 17-18; 20,5-6. Va notato soprattutto che questa sentenza
di esclusione non si distingue da una semplice sentenza di morte; lo
si vede chiaramente in Es 3 1 , 14-15 o ancora in Lv 20,9-16.27; 24, 14-
18.2 1 .23. Il colpevole è minacciato non solo con il giudizio che sarà
diretto a lui, ma con l'esecuzione che deve eliminarlo.
Il modo con cui At 3,23 aggrava la minaccia di Dt 1 8,19 deve tro­
vare la sua spiegazione nell'immediato contesto di questo versetto.
L'ultima parte del discorso di Pietro si presenta come un invito al
pentimento e alla conversione grazie ai quali gli ascoltatori otterran­
no il perdono dei loro peccati ( 3,19 e 3,26 ) . Questo invito è sostenu­
to da una promessa e da una minaccia. È la promessa che attrae pres­
soché tutta l'attenzione: si tratta di farsi trovare fra i beneficiari dei
«tempi di sollievo» che verranno (v. 20 ) al momento della «restaura­
zione» universale che coinciderà col ritorno di Cristo (v. 21 ) . La mi­
naccia che aggiunge il v. 23 si colloca naturalmente nella medesima
prospettiva: il ritorno di Cristo sarà l'inaugurazione di un'era mera­
vigliosa; e questo anzitutto a beneficio d'Israele (v. 26 ) ; ma quelli fra
gli israeliti che non avranno risposto all' appello che caratterizza
«questi giorni» (v. 24) - il periodo che intercorre fra la risurrezione
di Gesù e il suo glorioso ritorno - saranno esclusi dal numero dei be­
neficiari della salvezza e saranno così votati alla definitiva perdizio­
ne. La minaccia qui non dovrebbe essere intesa nel senso di un'im­
mediata esclusione, quella che risulterebbe da una scomunica i cui
effetti ricadrebbero sui colpevoli già al tempo presente; essa deve in­
tendersi riferita alla sentenza divina che, nel momento del giudizio
finale, interdirà loro l'accesso al regno di Dio, li separerà dai salvati
e costituirà per sempre una loro perdita.6

6 L'evoluzione del pensiero di A. GEORGE su questo punto merita di essere ricor­


data. Egli non esitava a scrivere nel 1968: «Uccidendo Stefano l'Israele incredulo di
Giudea consuma il proprio rifiuto di Gesù e si priva della predicazione del vangelo
( ... ]. Il suo rigetto di Gesù lo esclude dal popolo di Dio (At 3,23 = Lv 23,29). Esso non
è più che una razza ed una nazione tra gli altri popoli» ( «Israel dans l'oeuvre de Luc»,
in RB 75(1968), 481-525: 512 Etudes sur /'oeuvre de Luc, Paris 1978, 1 14). Un arti-
=

84
Si può aggiungere che questa interpretazione escatologica e non
ecclesiologica di 3,23 è altresì la sola che si accorda col linguaggio de­
gli Atti, in cui mai è contestata l'appartenenza al «popolo» di Dio per
coloro fra i giudei che rifiutano il messaggio evangelico. La conclu­
sione del libro è eloquente a questo riguardo. L'atteggiamento dei
giudei di Roma mostra a Paolo che egli ha realmente da fare con
«questo popolo» a cui Dio rimproverava, in Is 6,9-10, di avere occhi
per non vedere, orecchie per non udire, cuore per non capire la ne­
cessità di convertirsi (At 28,25-27). Malgrado le accuse rivolte loro, i
giudei rimangono «questo popolo», un popolo per il quale Dio ha
molte ragioni di lamentarsi, ma che nondimeno resta il suo popolo
eletto. L'esclusione da cui i ribelli saranno colpiti non è intravvista
che per l'ora del giudizio finale ed essa comporterà per i colpevoli
una morte eterna. È a questo finale «sterminio» che si riferisce la mi­
naccia di At 3,23. In attesa del giudizio di Dio, i giudei infedeli con­
tinuano a far parte del «popolo» di Dio.

colo sulr Escatologia lucana apparso nel 1978 legge il versetto che ci interessa in una
diversa prospettiva: «II giudizio può comportare condanna. In ogni caso, i profeti di
Israele. e successivamente le apocalissi giudaiche, hanno spesso legato all 'annuncio
del giudizio di Dio il quadro del castigo dei condannati ... Luca non aggiunge nulla su
questo punto. Le sue esortazioni parenetiche sono sobrie quanto a minacce. Tutt'al più
si possono citare a questo proposito delle indicazioni di Paolo sul prossimo giudizio
che riempiono di timore il governatore Felice (At 24.25) e soprattutto la minaccia di
Pietro, che cita Lv 23,29: "Ogni uomo che non ascolterà questo profeta sarà strappa­
to dal popolo'' (At 3,23)» ( Etudes sur l'oeuvre de Luc, 327). Nella nostra esposizione
alle Journées Bibliques di Lovanio ( 1 977), pubblicata da J. KREMER, Les A ctes des
Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48), Gemblo�x-Leuven 1979, 394, era­
vamo rimasti alla prospettiva adottata da George nel 1 968. E anche la via nella quale
s'inserisce risolutamente F.W. HoRN, Glaube und /fonde/n in der Theologie des Lukas
(Gott. theol. Arbeiten, 26), Gottingen 1983, 237: «Grtindsatzlich dann Apg 3,22 f.: wer
auf Jesu Wort nicht hort, der hat das Anrecht auf Teilhabe an dem durch ihn begrtin­
deten Gottesvolk verloren. Das Horen auf die Christusverktindigung wird so zum Si­
gnum des wahren Gottesvolk (Apg 28,28)» . L'interpretazione escatologica alla quale
George si è avvicinato successivamente appare in particolare in R.F. ZEHNLE, Peter's
Pentecust Discourse. Tradition and Lukan Reinterpretation in Peter's Speeches ofActs
2 and 3 (SBLMS 15), Nashville-New York 1 97 1 . 90; in E. KRANKL, Jesus der Knecht
Gottes ( 1 972), 1 92 e 210, e nei contributi di tre partecipanti alle Joumées Bibliques di
Lovanio (1977): E. Graesser (124), F. Hahn ( 1 50), P. G. Mueller (526-528). Non bisogna
forse indurire esageratamente l'opposizione tra le due interpretazioni. Il cardinale
Martini. nel corso di una conversazione, sottolineava che l'esclusione non può diveni­
re definitiva che al giudizio finale, ma che il processo è già in atto dal momento del ri­
fiuto di ascoltare il profeta simile a Mosè.

85
2.2. La testinzonian za dei profeti

Durante il «Concilio apostolico», Giacomo s'è richiamato anzitut­


to alle «parole dei profeti» (At 15,15), in seguito all'autorità di Mo­
sè (v. 2 1 ). Nel suo discorso del tempio, Pietro non vuole separare il
testo che preleva anzitutto (men) da Mosè (3,22-23) e il richiamo ge­
nerale che egli fa in seguito (de) a quello che hanno detto «tutti i pro­
feti dopo Samue le e i suoi successori» (v. 24). Lo stretto legame che
unisce il v. 24 ai vv. 22-23 invita a prendere in considerazione il com­
plemento che questo versetto aggiunge ai precedenti. Il suo enun­
ciato resta estremamente generale : «E per altro tutti i profeti che
hanno parlato dopo Samuele e i suoi successori hanno pure annun­
ciato questi giorni». La precisazione temporale, «questi giorni», con
cui il versetto termina, ci fa ritrovare una prospettiva molto simile a
quella di fronte a cui ci ha posti la precisazione «negli ultimi giorni»,
introdotta in 2,17 ali 'inizio della citazione di Gioele.
«Tutti i profeti»: essi erano già stati citati una prima volta al v. 1 8
come annunciatori delle sofferenze d i Cristo. Senza esplicitare «tut­
ti», il v. 21 li cita una seconda volta come coloro che hanno parlato
dei «tempi della restaurazione universale», coincidenti senza dubbio
con i «tempi di sollievo» di cui si parlava al v. 20. Questi tempi me­
ravigliosi debbono iniziare quando Dio invierà dal cielo Cristo, che
vi è in attesa (vv. 20-21). Sono quelli che seguiranno il ritorno glo­
rioso della parusia.
Citati una terza volta al v. 24, «tutti i profeti» vi compaiono come
coloro che hanno annunciato «questi giorni» (tas hemeras tautas).
Data la relazione che collega il v. 24 ai due versetti precedenti, si è
naturalmente portati a supporre che si tratti dei giorni in cui è ur­
gente ascoltare il profeta simile a Mosè. Tale profeta che Dio dove­
va suscitare è identificato dal v. 26 col Servo che Dio ha «risuscita­
to», vale a dire Gesù «glorificato» mediante la risurrezione (vv. 13 e
15). Strettamente collegata all'elevazione al cielo (cf. 2,33) , questa
(ri)surrezione di Gesù costituisce il punto di partenza di «questi tem­
pi» (3,24 ), allo stesso modo in cui il suo ritorno dal cielo sulla terra
(3,20-21 ) deve inaugurare «i tempi di sollievo» (v. 20), «i tempi della
restaurazione universale» (v. 21 ).
Occorre riconoscere che la logica secondo la quale il pensiero
progredisce in questi versetti non è quella della cronologia degli av­
venimenti di cui si parla. Ma le indicazioni cronologiche che s'incon-

86
trana formano un insieme coerente. L'esortazione dei vv. l7-19 è po­
larizzata sul pentimento e la conversione (v. 1 9) imposta dal mo­
mento presente («ora», v. 17) in rapporto al crimine commesso sulla
persona di Gesù. La conversione interiore, richiesta agli uditori, è
collocata dai vv. 20-21 nella prospettiva del ritorno glorioso di Cristo.
Col richiamo dei vv. 22-23 all'autorità di Mosè, si ritorna al dovere
che caratterizza il momento presente per gli ascoltatori: «ascoltare>>
il profeta (ri)suscitato. Al v. 24, la menzione di ciò che i profeti han­
no detto in relazione a «questi tempi» costituisce in realtà l'introdu­
zione all'esortazione finale: la risurrezione del Se rvo di Dio sarà sor­
gente di benedizione per gli ascoltatori a condizione che «ognuno si
allontani dalle proprie azioni malvagie» (v. 26) .
Non solo questi versetti esprimono un pensiero coerente, ma
questo pensiero si colloca nella stessa linea dell'oracolo di Gioele ci­
tato al capitolo precedente. Con questa differenza: che la citazione di
Gioele fa iniziare «gli ultimi giorni» con l'effusione dello Spirito a
Pentecoste, non senza presentarla come conseguenza dell 'elevazione
celeste di Gesù (2,33); mentre il discorso del tempio fa iniziare «que­
sti giorni» con la (ri)surrezione del Servo di Dio (vv. 13, 15, 22, 26), e
non senza precisare che, per effetto della sua risurrezione e in attesa
del suo glorioso ritorno, Gesù si trova in cielo (v. 21).
Si vede che, in un modo come nell' altro, gli avvenimenti di Pasqua
o della Pentecoste qualificano i «giorni» che essi inaugurano facendo
di essi la tappa decisiva della storia precedente la venuta: quello che
Gioele chiamava il grande giorno del Signore; ma che tali avveni­
menti designano nel contempo una nuova esigenza per il popolo elet­
to: esigenza di conversione e pentimento, esigenza che s' «invochi il
nome del Signore» (2,21 ) ; che si «ascolti» la parola del profeta
(ri)suscitato da Dio. In mancanza di questo, gli ascoltatori di Pietro ri­
schiano di essere travolti nel disastro che minaccia «questa genera­
zione sviata» (2,40), di vedersi «tolti dal popolo eletto» (3,23).7

7 Segnalo ancora una volta che le spiegazioni che ho dato sono largamente debi­
trici della monografia di A. Barbi che. direttamente dedicata ad At 3 , 1 9-21, colloca
molto bene questi versetti nel loro immediato contesto (cf. specialmente BARBI, Il Cri­
sto celeste presente nella Chiesa, 1 1 1 - 1 19).

87
2.3. I primi destinatari della salvezza

Non abbiamo ancora detto nulla sulla citazione che, al v. 25, so­
stiene l'esortazione rivolta da Pietro ai suoi ascoltatori: «Siete voi i
figli dei profeti e dell 'alleanza che Dio ha stabilito a favore dei vostri
padri, quando ha detto ad Abramo: E nella tua discendenza saranno
benedette tutte le famiglie della terra». Questo versetto non dà forse
l'impressione che il discorso di Pietro voglia attenuare l'effetto della
minaccia che era stata così fortemente accentuata al v. 23: «Chiunque
non ascolterà quel profeta sarà tolto dal popolo»?
La citazione del v. 25 esige una prima osservazione: una parola vi
è stata sostituita. Più volte ripetuta nella Genesi , la promessa di Dio
ad Abramo dice abitual mente: «Nella tua discendenza saranno be­
nedette tutte le nazioni de lla terra» (Gen 12,3; 18,18; 26,4); è altresì
sotto questa forma che la cita Paolo (Gal 3,8; cf. Rm 4,17 = Gen
17,5) . Si capisce naturalmente che «le nazioni» non giudaiche riceve­
ranno la benedizione dal «popolo» uscito da Abramo. Il significato
non sembra diverso in Gen 22, 1 8, che parla di «tutte le tribù della
terra>>. Perché allora Pietro sostituisce «tutte le famiglie>> (patriai) a
«tutte le nazionù>? La spiegazione più plausibile di tale cambiamen­
to è quella che suppone, in Luca, il desiderio d'includere il popolo
d'Israele nell'intero gruppo umano che dovrà la benedizione divina
alla discendenza di Abramo.
Questa interpretazione può reg�ersi sul fatto che il v. 26 imme­
diatamente continua dichiarando: «E anzitutto per voi che Dio ha ri­
suscitato il suo Servo>>. La priorità dei giudei non è posta in causa,
ma non è che una priorità; la precisazione «anzitutto» (proton) sup­
pone un «in seguito>> che, nel contesto degli Atti (cf. 13,46; 26,20) ,
non può che applicarsi alle «nazionh> non giudaiche. Al capitolo 3, ta­
le avverbio proton costituisce un addentellato la cui portata non si
manifesterà che nel proseguimento del racconto. Addentellato già
più chiaro con il richiamo a «Coloro che sono lontanh> introdotto con
2,39 per correggere la prospettiva troppo angusta del testo di Gl 3,5 .
L'autore del discorso è coerente con se stesso. I l modo i n cui ha
sottolineato e accentuato nei vv. 22-23 la necessità di ascoltare «in
tutto ciò che egli vi dirà>> il profeta simile a Mosè e la minaccia di
esclusione per tutti coloro che non l'ascolteranno trova il suo com­
plemento nella dilatazione dell'orizzonte di cui testimonia la reda­
zione dei vv. 25-26, che estende la benedizione di Abramo a «tutte le

88
famiglie della terra», tra le quali Israele non fruisce che di una sem­
plice priorità. Il popolo di Dio sarà amputato di un buon numero dei
suoi membri, ma integrerà anche una quantità di uomini di «tutte le
famiglie della terra», che saranno partecipi della benedizione di
Abramo.
Sembrerebbe utile citare qui un passo del Vangelo in cui appaio­
no preoccupazioni molto simili a quelle che si scoprono nei discorsi
che gli Atti attribuiscono a Pietro. Si tratta della pericope sulla «por­
ta stretta» , Le 13,22-30. In occasione di una domanda che gli viene
fatta sul numero degli eletti, Gesù comincia esortando i suoi ascolta­
tori: «Lottate per entrare attraverso la porta stretta, perché molti, io
vi dico, cercheranno di entrare e non vi riusciranno» (v. 24) . Questa
porta, in effetti, sarà subito chiusa. Coloro che non avranno potuto
varcarla in tempo, supplicheranno allora il maestro di casa di aprir
loro, ricordandogli: «Abbiamo mangiato e bevuto alla tua presenza,
e tu hai insegnato sulle nostre piazze» (v. 26). Ma il maestro sarà in­
flessibile, e Gesù previene i propri ascoltatori: «Vi sarà pianto e stri­
dore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i
profeti nel regno di Dio, e voi gettati fuori» (v. 28). Tale esclusione
sarà tanto più dolorosa per i destinatari di questo discorso, poiché si
annuncia loro nel contempo: «E verranno da oriente e da occidente,
da nord e da mezzogiorno per prender posto al festino nel regno di
Dio» (v. 29). Il brano termina con la riflessione: «Così vi sono degli
ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi» (v. 30).8
Questo passo del Vangelo di Luca risulta dalla raccolta di parec­
chi frammenti tradizionali che si trovano sparsi in diversi altri luoghi
del Vangelo di Matteo (Mt 7,13-14 per Le 13,24; Mt 25,10- 12 per Le
13,25; Mt 7,22-23 per Le 13,26-27; Mt 8,1 1 -1 2 per Le 13,28-29; Mt
1 9,30 e 20, 16 per Le 13,30). Soprattutto colpisce il constatare che, in

8 Un serio studio su questa pericope deve ancora prendere come base l'attenta
analisi di P. HoFFMANN, «Pantes ergatas adikias. Redaktion und Tradition in Le 13.22-
30», in ZNW 58( 1 967), 1 88-2 14. Vi abbiamo fatto sovente ricorso in Les Béatitudes, III
( 1 973), 76s. ecc. Al di fuori dei commentari, si può segnalare una meditazione di M.
CoRBIN, «La Porte étroite. Une lecture théologique de Luc, 1 3,22-30». in Vie Chrétien­
ne 203(1977), 1 1 -16, e un lavoro che di scientifico non ha che le apparenze: J.C. SAM­
PREDO FoRNER, «Historia de Salvaciòn, o Salvaciòn en la Historia. Estudio exegético­
theol6gico de Le 13,22-30», in Studium Legionense 2 1 ( 1 980), 9-48.

89
Matteo, quasi tutti questi frammenti sono a servizio di una parenesi
direttamente ecclesiale, annunciante ai cristiani che avverrà una se­
parazione nel giudizio, dovendo i cattivi cristiani essere esclusi dalla
salvezza. Solo il frammento Mt 8,1 1 - 1 2 si riferisce al problema cui
tutta la pericope di Luca è consacrata: quello sollevato dall 'atteggia­
mento dei compatrioti e dei giudei contemporanei di Gesù, che si
trovano esclusi dal festino escatologico presieduto dai patriarchi del
popolo eletto (Luca aggiunge «e [da] tutti i profeti)); si riconosce l'in­
sistenza di At 3,18.21 .24), mentre vi saranno genti venute dai quattro
punti cardinali (Mt 8,1 1 non ne cita che due; ricordare invece il mo­
do in cui At 2,39 corregge Gl 3,5, parlando di coloro che il Signore
chiamerà «da lontano))).
L'orientamento generale del brano di Luca invita a prestare
un'attenzione tutta particolare all'estrema prudenza con cui l'evan­
gelista ha redatto la conclusione del v. 30. Traduciamolo letteralmen­
te: «Ed ecco che vi sono degli ultimi che saranno primi; e vi sono dei
primi che saranno ultimi>>. «Ed ecco», kai idou, è una locuzione che
Matteo e Luca preferiscono (Mt 28, Mc O, Le 26, At 8), ma che usa­
no raramente nello stesso punto. Il duplice uso di eisin ... hoi, «Ve ne
sono che . . . », utilizza una costruzione che si ritrova in Le 5,2 1 ; 9,9;
20,2; 22,28, ogni volta contro i paralleli (vedere anche passi propri di
Luca: Le 7,49; 16,1 .15; At 23 ,19) . Luca ha cura, nel contempo, di non
scrivere che «molti» (polloi) dei primi saranno ultimi (Mc 10,3 1 ; Mt
19,30), evitando così di ritornare alla fine sul problema sollevato al­
l'inizio della pericope (13,23-24). Poiché i primi si identificano per lui
con i giudei contemporanei di Gesù, gli basta dire che alcuni fra lo­
ro si ritroveranno ultimi nel mondo futuro. Egli non vuole fare del
rovesciamento escatologico una regola generalizzata e assoluta.
Resta che questo testo evangelico prevedeva già la perdita di un
certo numero di appartenenti al popolo eletto; essi saranno esclusi
dal festino escatologico presieduto dai patriarchi e da «tutti i profe­
ti», mentre altri vi saranno ammessi: altri che, venuti da lontano,
sembravano non avere alcun titolo a tale privilegio che si sarebbe
creduto riservato ai giudei. Toccherà agli Atti dimostrare che il du­
plice processo di esclusione e di aggregazione è iniziato con la pre­
dicazione apostolica, senza attendere il giudizio finale.

90
3. La pietra disprezzata dai costruttori

Del Sal 1 17 ,22 (LXX) A t 4,1 1 non fa che un semplice richiamo. A


questo riguardo, il caso può sembrare molto diverso da quello dei
due passi che abbiamo esaminato. Tuttavia la citazione di Dt 1 8,15-
19 in A t 3,22-23 ci aveva già condotti a puntualizzare che lo stesso te­
sto è richiamato nel discorso di Stefano, in At 7,37, ma sotto forma
più breve, più approssimativa e senza presentarsi formalmente come
una citazione scritturale. Il caso non è molto diverso per il semplice
richiamo del Sal 15,10 (LXX) in At 13,35, giusto sufficiente per ri­
cordare al lettore l'estesa citazione dello stesso salmo in At 2,25-28.
Non v'è dubbio che quando Pietro ricorda l'inizio dei ministero di
Gesù nel suo discorso in casa di Cornelio (At 1 0,38), Luca si ispira
alle prime parole della citazione di Is 6 1 , 1 -2, della quale aveva fatto
l'introduzione alla predicazione inaugurale di Gesù nella sinagoga di
Cafarnao (Le 4,18-19). È evidente che Luca ha buona memoria e si
può pensare che, se si accontenta di un richiamo in At 4,1 1 , Io fa ri­
cordandosi perfettamente che ha già citato esplicitamente il versetto
del salmo in Le 20, 17, alla fine della parabola dei vignaioli omicidi.
Non sarà possibile trascurare il fatto che la stessa forma del richia­
mo in At 4,1 1 ci rinvia al passo ove il testo scritturale è stato citato
come tale.
Il racconto della prima comparizione degli apostoli davanti al
sinedrio (At 4,1 -22) è strettamente collegato sia all'episodio della
guarigione dell'infermo, riportato in 3,1-10, che alla predicazione di
3,1 2-26 che lo segue. La preoccupazione di assicurare la continuità
fra i due capitoli è resa bene dal procedimento che racconta l'arre­
sto degli apostoli ( 4,1 -3) prima di parlare dell'effetto del discorso
di Pietro sui suoi ascoltatori (v. 4) La solennità della scena è sotto­
.

lineata dall'elenco che i vv. 5-6 fanno delle personalità dinnanzi a


cui gli apostoli debbono spiegarsi: la gerarchia di Israele al gran
completo.
La questione posta conduce il lettore nel vivo del soggetto: «Con
quale potere o in quale nome voi avete fatto questo?» (v. 7). La pa­
rola «potere» o «potenza» (dynamis) non richiama l'attenzione. Pie­
tro s'era già spiegato su questo punto in 3,12: non è «per nostro po­
tere proprio o per pietà che abbiamo fatto camminare quest'uomo».
È sulla parola «nome» che verterà la risposta di Pietro (vv. 1 0 e 1 2);
è d'altronde la parola che caratterizza la tematica di questi capitoli

91
(cf. 2,21 .38; 3,6.16; 4,17.1 8.30; 5,28.40.41 ). Il discorso tende veramen­
te a dimostrare che Gesù possiede il «nome» al quale è collegata la
«salvezza» ( 4, 12). L'insistente associazione dei due termini, «nome»
e «salvezza» (o «essere salvato»), non può che richiamare l'afferma­
zione di Gioele (3,5a) citata in At 2,21: «Chiunque avrà invocato il
nome del Signore sarà salvato».
Per giungervi, Pietro parte dal caso concreto: «il modo con cui
l'uomo infermo è stato salvato» (v. 9). Non si tratta che di un ritorno
alla salute: « È in nome di Gesù che quest'uomo si presenta guarito
davanti a voi» (v. 10). Tale guarigione diviene il segno che autorizza
un'affermazione molto più vasta: «E non v'è salvezza in alcun altro
(che lui), poiché non v'è sotto il cielo nessun altro nome accordato
agli uomini da cui dobbiamo essere salvati» (v. 12). Ma come effet­
tuare il passaggio tra la guarigione deli 'infermo e questa dichiara­
zione del tutto generale? II v. 11 ha precisamente la funzione di per­
mettere questa dilatazione sulla base di una testimonianza scrittura­
le: « È lui la pietra che è stata disprezzata da voi , i costruttori, e che è
divenuta la testata d'angolo».
La chiarezza di questo passaggio non è forse evidente. Ma abbia­
mo visto che vi sono ragioni per pensare che, per Luca, si tratta di un
semplice richiamo di ciò che è stato già detto più esplicitamente.
Sembra ragionevole esaminare anzitutto il testo più esplicito, per in­
terrogarsi in seguito sull'esatta portata di quello che qui ci interessa.

3. 1. I vignaioli omicidi (Le 20, 9-19)

Secondo la sua introduzione, questa parabola è stata narrata da


Gesù «per il popolo», pros ton laon (v. 9) . Per tale precisazione, Lu­
ca si separa deliberatamente dagli altri due sinottici: in Marco, la pa­
rabola si collega immediatamente al conflitto che, a proposito del­
l'autorità di cui dà prova, oppone Gesù all 'impressionante auditorio
formato dai «sommi sacerdoti e dagli scribi e dagli anziani» (Mc
1 1 ,27). Riferendo il medesimo conflitto, Matteo omette gli scribi e
conserva «i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo» (Mt 21 ,23), i
quali rimangono i destinatari non soltanto della parabola dei vi­
gnaioli omicidi, ma anche delle altre due parabole in cui questa è sta­
ta inquadrata (Mt 21 ,28-22,14). In Luca l'episodio della purificazio­
ne del tempio terminava con l'asserzione: «l som mi sacerdoti e gli
scribi cercavano di farlo perire, così i notabili del popolo; ma non tro-

92
vavano ciò che avrebbero potuto fare, perché l'intero popolo, sospe­
so (alle sue labbra) lo ascoltava» (Le 19,47-48). Dopo ciò, la disputa
sull'autorità di Gesù lo oppone ai «Sommi sacerdoti e agli scribi in­
sieme agli anziani» (20,1). Con 20,8 questa disputa è chiusa: Gesù ri­
fiuta di rispondere alla richiesta che gli è stata posta dai capi e, con il
v. 9, è indirizzandosi al popolo che narra la parabola.
Il racconto parabolico termina con un interrogativo: «Che farà
dunque il padrone della vigna a questi (vignaioli)?» (20, 13). In Lu­
ca tale domanda è rivolta evidentemente al popolo e, dopo le paro­
le minacciose con le quali Gesù stesso risponde, è dovuta ancora al
popolo la reazione che separa di nuovo Luca dai due altri evangeli­
sti: «Sentendo questo essi dissero: "Dio non voglia! "» (v. 1 6). Ed è
ancora sugli stessi ascoltatori che Gesù «fissa il suo sguardo)) (v. 17:
proprio di Luca) per citare la Scrittura. Occorre attendere che Ge­
sù abbia finito di parlare perché Luca informi il lettore: «E gli seri­
bi e i sommi sacerdoti cercarono, in quella stessa ora, di mettere le
mani su di lui, ma ebbero paura del popolo. Effettivamente, aveva­
no capito che era contro di essi che egli aveva narrato questa para­
bola)) (v. 19).
Si vede la cura usata da Luca nel distinguere da un lato i destina­
tari immediati della parabola: il popolo, dall 'altro coloro che questa
storia ha di mira in realtà, perché non ci si sbagli: i capi.
Nel racconto parabolico propriamente detto, considerato in rap­
porto alle versioni parallele, Luca sfronda fortemente l 'inizio e le sue
allusioni a Is 5,2, ma tiene a precisare che il proprietario della vigna
è partito in viaggio «per un tempo abbastanza lungo» (v. 9). Tre soli
servi sono successivamente inviati ai vignaioli che infliggono loro
maltrattamenti accuratamente graduati: il primo è picchiato, il se­
condo in più è insultato, il terzo ferito (v. 10-12). Nessuno di loro
dunque è stato ucciso (in contrapposizione a Mc 12,5 e soprattutto a
M t 21 ,35-36). Il proprietario della vigna, allora, delibera in se stesso,
parlando direttamente, secondo un procedimento letterario caro a
Luca (v. 13). Solo il figlio diletto è ucciso, dopo essere stato buttato
fuori dalla vigna (v. 15a). La successione, in crescendo, è migliore qui
che nei paralleli.
Abbiamo già osservato che la parte dialogata deve, in Luca, il
proprio tono al fatto che Gesù si rivolge al popolo, non direttamen­
te ai suoi avversari. Essa si conclude con una questione riguardante
il significato di un testo scritturale:

93
17La pietra che i costruttori avevano scartato è divenuta testata d'angolo.
1 8Chiunque cadrà su questa pietra si sfracellerà e a chi essa cadrà addos­
so lo stritolerà (20, 17-18).

La prima parte della citazione corrisponde esattamente a ciò che


si legge nelle due versioni parallele e al testo del Sal 1 17,22 nella Set­
tanta. La seconda parte si sostituisce al v. 23 del salmo, citato in que­
sto punto dagli altri due evangelisti: «Ecco l'opera del Signore; essa
è meravigliosa ai nostri occhi». Non si trova in alcuna parte della
Bibbia, anche se la sua formulazione può ispirarsi a passi biblici (Is
8,14s; Do 2,34.44) . Il grido di ammirazione del salmista è così sosti­
tuito con una terribile minaccia. E Luca aggiunge che gli scribi e i
sommi sacerdoti avevano perfettamente capito d'essere stati presi di
mira (v. 19).9
Il lettore cristiano riconosce spontaneamente Gesù stesso in ciò
che dice la parabola sul figlio diletto del padrone della vigna e le cir­
costanze della sua morte, in ciò che è detto sul modo in cui i vignaioli
l'hanno gettato fuori per ucciderlo. Nella versione di Luca, la re­
sponsabilità di questo delitto è imputata molto precisamente agli
«Scribi e ai sommi sacerdoti» (v. 19). Tale accusa è lanciata loro da­
vanti al «popolo)) e senza comprometterlo. Ma soprattutto la para-

9 Identica minaccia (ma senza il pas «chiunque», iniziale) è attestata dalla mag­
gior parte dei testimoni del testo di Matteo, in cui tuttavia essa non è collegata alla ci­
tazione del salmo, da cui è anche separata dalla conclusione redazionale di 21 ,43. Il v.
44 manca nella tradizione chiamata «occidentale»: sarebbe dunque un caso di « We­
stern non-interpolation». Ma tanto questa etichetta, quanto le difficoltà logiche solle­
vate dal passo ove si trova il logion , non permettono di giungere ancora alla certezza
circa la spiegazione che attribuisce questo versetto 44 a un copista desideroso di com­
pletare il testo di Matteo con un versetto lucano. Per farsi un'idea della discussione in
corso a proposito del testo di Matteo segnaliamo semplicemente due note: M. Ht ' ­
BAUT, La parabole des vignerons homicides (Cahiers RB), Paris 1976, Ms.; H .-J.
KLAUCK, Allegorie und Allegorese in synoptischen Gleichnistexten (NtlAbh NF 13),
Mtinster 1978, 289s. Quale che sia la soluzione a cui si dà la preferenza per quanto ri­
guarda il testo di Matteo, la presentazione di Luca conserva in ogni caso l'originalità
di lasciar cadere il v. 23 del Sal 1 17, mettendo al suo posto la sentenza minacciosa che
costituisce il suo v. 18. Il procedimento che utilizza cosl in questo caso ricorda quello
davanti al quale ci ha messi la sua citazione di Dt 18 in At 3,22-23. Non sembra utile
indugiare qui sulla spiegazione proposta da M. LowE, «From the Parable of the Vi­
neyard to a Pre-Synoptic Source», in NTS 28( 1982), 257-263: l'autore reputa evidente
che, nel suo contesto lucano (20,1-8). 1'omicidio del figlio diletto di cui parla la para­
bola si riferisce alla sorte di Giovanni Battista. Né in Luca né negli altri vangeli, la ge­
rarchia giudaica è resa responsabile di questo delitto.

94
boia rivela un intervento divino il cui effetto consisterà anzitutto nel
togliere la vigna a coloro che la detengono per darla ad altri (v. 1 6),
ma anche nel capovolgere la situazione per quanto concerne la pie­
tra rigettata, altra immagine per designare il figlio assassinato: inve­
stito di sovrano potere, egli costituirà la perdita di coloro che gli si
opporranno (v. 1 8).
Il capovolgimento della situazione riguardo alla «pietra)) o al «fi­
glio diletto)) andrà necessariamente di pari passo col capovolgimen­
to della situazione di coloro ai quali la vigna era stata affidata. Nes­
sun dubbio che, per l'evangelista, quello che Gesù annunciava ai pro­
pri contemporanei sia divenuto realtà al suo tempo.

3.2. I costruttori di Israele

Ritornando al discorso di Pietro davanti all'assemblea che riuni­


sce tutti i capi d'Israele (A t 4,5-6) constatiamo anzitutto che il suo ri­
chiamo alla dichiarazione del salmo riguardante la «pietra)) (v. 1 1 )
non è legato a minaccia alcuna: divenuto «testata d'angolo)), Gesù
possiede un potere esclusivo e universale per salvare (v. 1 2). Il tono
minaccioso che poteva essere adatto per un discorso che Gesù indi­
rizzava al popolo, come in quello che Pietro indirizza al popolo in At
3, non è più opportuno dinanzi ai detentori di un potere più diretta­
mente preso di mira da tale minaccia.
Il richiamo al testo dei salmi non è presentato sotto forma di ci­
tazione, ma come affermazione molto solenne: « È lui la pietra)). Il
pronome dimostrativo houtos, che il versetto del salmo poneva in te­
sta al secondo stico, diviene negli Atti la prima parola del v. 1 1 : que­
sta trasposizione si accorda a meraviglia con l'orientamento forte­
mente cristologico del passo (vv. 1 0- 12). Essa permette nel contem­
po di migliorare notevolmente lo stile; l'affermazione principale: « È
lui)), è seguita da due proposizioni participiali in parallelismo antite­
tico. Il salmo iniziava con un accusativo isolato, seguito da una pro­
posizione relativa, poi dalla principale a cui il ridondante dimostrati­
vo assicurava il soggetto che gli era necessario.
Un mutamento di verbo meraviglia nella prima parte: là ove il
salmo diceva che la pietra era stata «rigettata)), Pietro dice «disprez­
�:ata)). È il verbo corrispondente a quello che si trova in Mc 9,1 2 che
rinvia all'oracolo del Servo sofferente (cf. Is 53,3). Il ricordo di tale
oracolo ha qui interferito con quello del salmo? Comunque sia, il

95
senso non è realmente modificato. Non lo è neppure dal fatto che,
per dire «i costruttori», Luca usa il sostantivo in luogo del participio,
evitando così l'accumulo dei participi. Il più significativo intervento
letterario rimane l'aggiunta della precisazione hyph 'hymon, che tra­
sforma il detto in una diretta accusa: «disprezzata da voi, i costrutto­
ri». Tale accentuazione prolunga direttamente quella del versetto
precedente : «siete voi che l'avete crocifisso».
Il discorso di Pietro spiega dunque la portata dell'accusa che il
versetto del salmo rivolge ai «costruttori»; la citazione che si trova in
Le 20,17- 1 8 non lo faceva, e Luca l'aveva precisata solo nella nota fi­
nale del v. 19c. In compenso, i termini molto generali della citazione
di Le 20 evocano le conseguenze tragiche dell'atteggiamento dei co­
struttori riguardo alla «pietra» di cui Dio stava per fare la «testata
d'angolo» dell'edificio; nulla di simile vi è nel discorso di At 4. È ne­
cessario rendersi conto che l'accusa non è priva di conseguenze.
La pericope di Le 20 associava due immagini disparate, ma adat­
te entrambe a significare il ruolo dei capi del popolo eletto: come vi­
gnaioli, hanno il compito di far produrre, dalla vigna che è Israele, il
frutto che Dio attende; come costruttori, essi debbono operare allo
sviluppo di un edificio che, ancora una volta, non può rappresentare
che il popolo eletto. Come quella della vigna, quest'immagine di un
edificio in via di costruzione s'iscrive naturalmente nella linea della
tradizione biblica. Essa corrisponde in modo particolare al linguag­
gio di Geremia: «costruire» e �<piantare» sono due espressioni che
traducono il suo impegno profetico. Si sa che Paolo le riprende vo­
lentieri per definire la propria missione apostolica. Egli può scrivere
ai cristiani di Corinto, ad esempio: «Voi siete il campo di Dio, l'edifi­
cio di Dio» ( 1 Cor 3,9). I doni della grazia ricevuti da ciascuno deb­
bono concorrere alla comune «edificazione» (cf. 1 Cor 14,3-
5. 12.17.26). Ma va da sé che questo compito di «Costruire» la comu­
nità si addice specialmente a coloro che portano il peso della comu­
nità in virtù di una funzione direttiva che essi devono adempiere.
Ora l'immagine parallela di una «pietra» che costituisce la «te­
stata d'angolo», vale a dire la pietra principale dell'edificio, determi­
na necessariamente il compito dei «costruttori». Essi non possono
costruire proficuamente che in funzione di questa pietra; tutto ciò
che essi potrebbero fare senza di essa, non apparterrebbe all'edificio.
Non vi è che un «edificio di Dio», un solo popolo di Dio. Se Dio stes­
so ha fatto del Cristo la testata d'angolo del proprio edificio, non è

96
più possibile far parte dell'edificio senza riferirsi a questa «pietra».
La conseguenza che implicano queste immagini non è meno impor­
tante di quella che At 3,23 ricava esplicitamente da Dt 1 8,15- 1 9.
Scartando o «disprezzando» la <<testata d'angolo» posta da Dio, i
dirigenti di Israele si trovano estranei all'edificio che hanno l'incari­
co di costruire.
La minaccia di esclusione resta tacita in At 4,1 1 , ma è implicita
nella stessa immagine che questo versetto evoca. Senza soffermarvi­
si, il discorso di Pietro passa subito all'altro aspetto della questione:
quello che Luca si compiace di collegare al primo. Qui ancora, l'af­
fermazione del v. 1 2 è estremamente discreta, ma non si potrebbe mi­
sconoscere la dimensione universale del ruolo di salvezza che esso
attribuisce a Gesù: è a lui solo che è stato accordato il nome dal qua­
le tutti gli uomini debbono attendere la salvezza. La divisione che si
opera in Israele va di pari passo con un allargamento della prospet­
tiva all'intera umanità. Il breve discorso del capitolo 4 testimonia an­
ch 'esso, in modo velato, il duplice movimento che abbiamo osserva­
to nei più lunghi discorsi dei capitoli 2 e 3: divisione interna nel po­
polo di Dio ed estensione di questo popolo al mondo intero.

97
Capitolo IV
STEFANO E PAOLO
RILEGGONO LE SCRITIURE
(At 7; 13; 28)

Gli avvenimenti dai quali la prima comunità cristiana ha ricevu­


to il proprio impulso hanno posto il popolo d'Israele e i suoi capi . a
Gerusalemme, di fronte a una nuova situazione. Per chiarire il signi­
ficato e la portata di ciò che accade, i discorsi di Pietro si richiamano
alle Scritture: esse avevano annunciato quanto sta per realizzarsi. Si
tratta anzitutto e soprattutto del significato della persona e della
missione di Gesù: questo insegnamento cristologico non c'interessa
qui direttamente. Noi ci occupiamo delle conseguenze che ne deri­
vano per Israele; gli «ultimi giorni» sono cominciati (At 2,17), Dio ha
suscitato il profeta che non si può rifiutare di ascoltare senza esclu­
dersi dal popolo eletto (3 ,22-23), ha fatto di Gesù la «pietra» al di
fuori della quale non è più possibile appartenere all'edificio (4,1 1 ).
Tra questi primi bagliori e la grande svolta del «concilio» di Ge­
rusalemme (esso stesso inseparabile dalla storia della conversione di
Cornelio), due grossi discorsi segnano due tappe decisive: al capito­
lo 7, il discorso di Stefano segna, dal punto di vista degli Atti, la so­
lenne chiusura dell'evangelizzazione di Gerusalemme; al capitolo 13,
il discorso inaugurale di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia
costituisce in un certo modo il programma del personaggio che deve
occupare il proscenio in tutta la seconda metà del libro. Tale discor­
so termina con dichiarazioni che, appoggiandosi sulle parole dei pro­
feti, annunciano già la citazione che serve da conclusione sia all'epi­
sodio sui rapporti di Paolo coi giudei di Roma che all'intera opera di
Luca (28,26-28).

99
Non torneremo più, qui, sull'episodio dell'evangelizzazione di
Corinto, malgrado il legame che esso comporta fra quello di Antio­
chia di Pisidia e quello di Roma; gli manca il richiamo alla Scrittura
che caratterizza questi altri due episodi. Tale richiamo è sostituito, in
un certo modo, dalla dichiarazione notturna che il Signore Gesù fa a
Paolo, relativamente al «popolo>> ch'egli rivendica come suo a Co­
rinto ( 1 8, 1 0): abbiamo avuto occasione di parlarne a proposito di ciò
che Giacomo dice in 15,14 del «popolo che Dio ha preso fra le na­
zioni per il suo nome>>.
In compenso, ci sembra che i dati forniti dai discorsi dei capitoli
7, 13 e 28 si avvantaggino nell'essere completati da quelli di tipo di­
verso, che si trovano nel discorso di Paolo al capitolo 26, e più spe­
cialmente dalle parole che questo discorso attribuisce allo stesso Ge­
sù, per definire la missione di Paolo in termini evidentemente ispi­
rati da testi profetici (26,1 6-18). Tale defin izione della missione di
Paolo costituisce nel contempo una definizione della Chiesa.

l. Stefano: un popolo per il culto di Dio

All'in izio del capitolo 6, la storia di Stefano si apre con un pro­


cesso di sovrapposizione che era già stato utilizzato al l'inizio del ca­
pitolo 4. Dopo aver riferito il discorso di Pietro al popolo radunato
sotto il portico di Salomone (3, 1 1 -26), Luca aveva immediatamente
narrato l'arresto di Pietro e Giovanni (4,1-3), preparazione evidente
della loro comparizione davanti al sinedrio (4,5-22), per segnalare
solamente in seguito (v. 4) l'esito della predicazione di Pietro sui suoi
ascoltatori. Il capitolo 6 comincia col riportare le circostanze dell 'i­
stituzione dei Sette (v. 1 -6), presentando così al lettore la persona di
Stefano, di cui si sta per narrare la comparizione davanti al sinedrio
e la lapidazione (6,8--8,3). È soltanto in 6,7 che si trova il sommario
che dovrebbe normalmente collegarsi alla finale del capitolo 5: «E
ogni giorno, al tempio e nelle case, essi (gli apostoli ) non cessavano
d'insegnare e di annunciare la buona novella del Cristo Gesù»
(5 ,42). Risultato di quest'attività: «La parola di Dio cresceva e il nu­
mero dei discepoli aumentava considerevolmente a Gerusalemme, e
grande era la folla dei sacerdoti che obbedivano alla fede)) ( 6,7).
Non è senza importanza rendersi conto che questo bilancio trion­
fale conclude non soltanto ciò che i capitoli dal 2 al 5 hanno narrato
sull'attività degli apostoli a Gerusalemme, ma anche tutto quello che

100
gli Atti hanno da dirci sulla predicazione del vangelo a Gerusalem­
me. Il martirio di Stefano provoca un totale mutamento di prospet­
tiva: i cristiani di Gerusalemme si disperdono (8, 1 .4; 1 1 ,19) e diffon­
dono dappertutto il messaggio di Gesù.
Partendo dal capitolo 8, la sola attività missionaria che interessa
gli Atti è quella che si svolge fuori di Gerusalemme. Il martirio di
Stefano pone fine alla prima tappa del programma che il Risorto
aveva fissato per i suoi apostoli, chiedendo loro d'iniziare la testi­
monianza da Gerusalemme (Le 24,47; A t 1 ,8). Basta questo per dire
la gravità della svolta che i capitoli 6 e 7 imprimono al racconto de­
gli Atti.
Il considerevole sviluppo dato al discorso di Stefano (7,2-53) , il
più lungo fra i discorsi degli Atti, basterebbe a dimostrare l'impor­
tanza che Luca attribuisce al momento cruciale in cui lo pone. Ma
sembra chiaro che non ci si possa limitare a una così generale osser­
vazione. Il contenuto di questo discorso richiede la più grande at­
tenzione. A priori, infatti, ci si può aspettare di trovarvi le indicazio­
ni che debbono illuminare il lettore del libro sul significato profon­
do della svolta che prende la storia. È precisamente da questo pun­
to di vista che dobbiamo occuparcene.
Questa prospettiva ci dispensa dall'affrontare la quantità di pro­
blemi sollevati dall'esegesi di fronte al discorso; noi dobbiamo piut­
tosto concentrare l'attenzione sulla funzione che esso ha di interpre­
te del cambiamento che si produce nella storia del cristianesimo pri­
mitivo. I discorsi di Pietro e di Giacomo, sui quali fin qui ci siamo sof­
fermati, ci permettono già di supporre che il discorso di Stefano
adempia tale funzione dal modo con cui egli ricorre alle Scritture. La
difficoltà deriva senza dubbio dall'eccesso: nell'insieme, esso è una
trama di richiami alla storia biblica (soprattutto quella di Abramo,
7,2-8, di Giuseppe vv. 9- 16, di Mosè vv. 17-43, di Davide e Salomone
vv. 44-50), intessuto ugualmente di reminescenze bibliche, affiancate
da esplicite citazioni (vv. 3.6-7.27-28.32-34.35.37.40.42-43.48-50). È
evidente il rischio di perdervisi. Sembra chiaro come tutti questi da­
ti non abbiano la stessa valenza di significato.
Ciò che sappiamo sui procedimenti di composizione di Luca atti­
ra naturalmente la nostra attenzione sulle due grandi citazioni fina­
li, le sole, d'altra parte, che si presentino come citazioni di testi bibli­
ci : quella dei vv. 42-43, introdotta dal riferimento «come è scritto nel
libro dei profeti>) (v. 42a: cf. At 15,15), e quella dei vv. 49-50, intro-

101
dotta dalle parole: «Come dice il profeta» (v. 48) . Ma constatiamo
che, in realtà, la prima di queste due citazioni, quella che si rifà ad
Am 5,25-27, acquista tutto il proprio senso in virtù del rapporto che
l'unisce non soltanto al suo contesto immediato, ma altresì alla pri­
ma sezione del discorso, quella che riguarda la storia di Abramo ( vv.
2-8), e più precisamente la grande citazione delle parole divine ri­
portate nei vv. 6-7 sulla base di Gen 15,13-14. Dal punto di vista cir­
coscritto della nostra ricerca è dunque sull'inizio e sulla fine del di­
scorso che possiamo concentrare la nostra attenzione.1

1.1. La citazione di Amos in At 7,42-43

Cominciamo col rileggere il testo:


42hVittime e sacrifici me ne avete presentati durante i quarant'anni del de­
serto, casa di Israele?
43E voi avete condotto la tenda di Moloch e la stella del vostro dio Refan,
queste immagini che voi avete fatto per adorarle ! Perciò vi condurrò al di
là di Babilonia.

Questa citazione conclude il richiamo all 'idolatria a cui gli israe­


liti si sono abbandonati nel deserto, quando hanno chiesto ad Aron­
ne di far loro degli «dè i che procedessero dinanzi a loro>> (v. 40 = Es
32, 1 ) , quando hanno fabbricato un vitello, offerto un sacrificio a que­
st'idolo e si sono rallegrati per l'opera delle loro mani (v. 41 ). È allo-

1 Il lavoro fondamentale resta a mio parere quello di N.A. DAHL, «The Story of
Abraham in Luke-Acts», in L.E. KECK - J.L. MARTY N Studies in Luke-Acts (FS P.
,

Schubert), Nashville-New York 1966, 139-158 ( 1 42-148). Tener conto anche di E. RI­
CHARD, Acts 6:1 - 8:4. The Author's Method of Composition , Missoula 1978; «The Crea­
tive Use of Amos by the Author of Acts», in NT 24(1 982), 37-53 (38-44). Colpisce il
constatare come il nome di Dahl non figuri nell'indice degli autori della monografia
di J. KILGALLEN. The Stephen Speech. A Literary and Redactional Study of Acts 7,2-53
(AnBib 67), Roma 1976. L'articolo di Dahl non è citato neppure in G. LoHFINK, La
raccolta d 'Israele. Una ricerca sull'ecclesiologia lucana, Casale Monferrato 1983. È
senza tenere alcun conto delle osservazioni di Dahl che è proposta l 'ipotesi di G. ScH­
NEIDER sulla genesi del discorso di Stefano (Die Apostelgeschichte, L Freiburg 1980,
448): un discorso giudeo-ellenistico (7,2b- 16.1 7-34.36.38.44-48a) sarebbe stato accre­
sciuto di tratti polemici da un revisore cristiano ellenista di Palestina (7,35.37.39-
42a.5 1 .53), e infine Luca vi avrebbe ancora aggiunto le due citazioni di 7.42b-43 e 48b­
SO. Come conciliare una simile frammentazione con le indicazioni di una grandissima
unità d'ispirazione che un attento esame può rilevare in tutto il brano?

102
ra che «Dio si scostò da loro e li abbandonò al culto dell'esercito del
cielo» (v 42a).
Il rapporto fra la citazione del profeta e la situazione a cui la si ri­
ferisce non è evidentemente perfetto. Per lo meno ciò che si è rica­
vato dall'episodio del vite llo d'oro mirava a prepararla nella misura
del possibile: menzione di un «sacrificio» e di un <<idolo», ma altresì
di un «culto» (latreuein al v. 42 prepara proskynein al v. 43) reso «al­
l'esercito» del cielo (in funzione della «stella» del v. 43). Ciò che può
maggiormente sorprendere è che Luca abbia giudicato utile conser­
vare, nella finale della citazione, l'annuncio dell'esilio a Babilonia (e
anzi «oltre Babilonia»), che giunge evidentemente troppo presto,
poiché il seguito del discorso si rifà alla situazione dell'Esodo, poi ai
tempi di Giosuè, di Davide e di Salomone (7,44-47). La sorpresa che
suscita questa precisazione «oltre Babilonia» è tanto maggiore in
quanto il testo del profeta diceva «Oltre Damasco». La misteriosa
minaccia non aveva forse il vantaggio di non evocare troppo diretta­
mente un avvenimento che si sarebbe prodotto solo assai più tardi?
Un'altra precisazione era stata aggiunta al testo di Amos, là dove
si leggeva: «Queste immagini che avevate fatto per voi stessi», il v. 43
scrive: «queste immagini che avevate fatto per adorarle». Tale precisa­
zione preparava giustamente il v. 42, riportando che Dio aveva abban­
donato gli israeliti «affinché rendano un culto» (latreuein) all'esercito
celeste. Il passo è dunque importante per l'autore del discorso.
L'inizio del discorso consente di rendersi conto della portata della
strana citazione ai vv. 42-43 e dei ritocchi che vi sono stati praticati.
L'autore sembra attribuire molta importanza al fatto che l'appa­
rizione di Dio ad Abramo abbia avuto luogo «quando egli era in Me­
sopotamia, prima che venisse ad abitare a Carran» (v. 2), e che è in
seguito all'apparizione che Abramo, «uscendo dal paese dei caldei,
venne ad abitare a Carran>>, da dove Dio «l'ha trasportato nel pae­
se» divenuto quello d'Israele (v. 4). Tali indicazioni contraddicono
quelle della Bibbia: Abramo già da lungo tempo aveva lasciato «Ur
dei caldei» in direzione del paese di Canaan e si era stabilito a Car­
ran quando Dio gli apparve (Gen 1 1 ,31 e 12, 1 ) . Da Ur dei caldei a
Carran, in Aram, egli aveva già percorso più della metà del cammi­
no che conduceva in Palestina. In pi ù, At 7,4 precisa che Dio ha «tra­
sportato» (metoikisen) Abramo in Palestina: verbo raro, che non
s'incontra nella Genesi e non è mai messo in rapporto con le pere­
grinazioni del patriarca.

103
Lo si osserva facilmente: questi due tratti che caratterizzano i vv.
2-4 allineano questi versetti coli 'ultima parte della citazione di Amos
al v. 43. Come Dio ha «trasportato» Abramo in terra d'Israele, così
egli «trasporterà» i suoi discendenti lontano da questa terra (il ver­
bo metoikizo non è usato che in questi due casi nel Nuovo Testa­
mento). E come Dio è andato a chiamare Abramo all'estremità del­
la terra dei caldei, vicino al Golfo Persico, così minaccia di rimanda­
re i suoi discendenti non solo a Carran, confinante con l'alto Eufra­
te, non soltanto a Babilonia, già assai più in basso, ma «oltre Babilo­
nia». È davvero il ritorno al punto di partenza, al punto in cui si tro­
vava Abramo prima dell'apparizione divina, prima che alcuna pro­
messa gli fosse stata fatta.
Non è tutto. Il v. 6 riferisce la promessa concernente il paese che
Dio darà alla posterità di Abramo, e i vv. 7-8 vi aggiungono la predi­
zione direttamente attribuita a Dio e alla quale il discorso annette
capitale importanza, poiché essa fornisce il piano di tutto il seguito.
Eccola:
60ra Dio così disse: «La sua discendenza risiederà in un paese straniero,
la si ridurrà in schiavitù e la si maltratterà per quattrocento anni. 7Ma la
nazione di cui essi saranno stati schiavi, sarò io a giudicarla, dice Dio. E
dopo questo, essi se n'andranno e mi offriranno culto in questo luogo».

Secondo lo schema di questi due versetti, Stefano racconterà an­


zitutto come i discendenti di Abramo siano venuti ad abitare in Egit­
to: è la storia di Giuseppe (7,9-16), poi come, dopo essere stati mal­
trattati in questo paese, ne siano usciti sotto la direzione di Mosè (v.
17-39). Circa la questione del «culto» (latreuo) di cui parla la fine
della citazione, essa costituisce precisamente il tema dei vv. 40-50.
Il testo cui si riferisce la citazione non è difficile da identificare.
Si tratta di Gen 15,13-14:
13E fu detto ad Abramo: «Sappi bene che la tua discendenza risiederà in
un paese che non sarà il suo. e che la si ridurrà in schiavitù, la si maltrat­
terà e la si umilierà durante quattrocento anni.
14Ma la nazione di cui saranno stati schiavi , sono io a giudicarla. E dopo
ciò, essi se ne andranno (qui) con un grosso bottino».

Non vi è un significativo cambiamento che nelle ultime parole.


Dopo il verbo «se ne andranno», la Settanta introduce l 'avverbio ho­
de, «qui». Il testo della Genesi non sembra preoccuparsi del luogo

104
ove si trovava Abramo nel momento in cui il Signore gli ha fatto
questa dichiarazione. Ma il lettore attento non poteva non notare
che questo episodio segue immediatamente l'incontro di Abramo
con Melchisedec, re di Salem (Gen 14,18-24). L'avverbio «quh> assu­
me allora un significato estremamente preciso: i discendenti di Abra­
mo usciranno dall'Egitto per venire a Gerusalemme.
Di colpo, il «grosso bottino» di cui parlava alla fine il versetto per­
de il proprio interesse, e lo si rimpiazza con i termini di un'altra di­
chiarazione divina: quella che fu fatta a Mosè nell'episodio del rove­
to ardente: «Quando avrai fatto uscire il mio popolo dall'Egitto, voi
renderete un culto (latreusete) a Dio su questa montagna» (Es 3,12).
Stefano evita quest'ultima precisazione, che rammenterebbe
troppo facilmente la «montagna)> del Sinai, e dice semplicemente dei
discendenti di Abramo: «Essi mi daranno un culto in questo luogo».
«In questo luogo», vale a dire, nel contesto di Gen 15, a Gerusalem­
me. Il culto da rendergli a Gerusalemme è il fine per cui Dio ha fat­
to uscire il suo popolo dall'Egitto.
Alla luce del modo in cui il discorso di Stefano ha esplicitato la fi­
nale del v. 7, si coglie meglio la portata dei suoi interventi ai vv. 42 e
43. Anzitutto, per introdurre la citazione di Amos, dopo aver parlato
dell'idolatria degli israeliti nel deserto: «Dio si allontanò da essi e li
abbandonò al culto (latreuein) dell'esercito del cielo» (v. 42a). Poi
nella stessa citazione: «le immagini che avete fatto per adorarle (pro­
skynein autois)», invece di «le immagini che avete fatto per voi stes­
si». Così gli israeliti hanno sostituito il culto degli idoli al culto in vi­
sta del quale Dio li aveva tratti dall 'Egitto!
Thtte queste osservazioni tendono a dimostrare che il discorso di
Stefano non è privo di coerenza. Fin dali 'inizio egli sa chiaramente
dove vuole arrivare. La questione essenziale, nel pensiero del suo au­
tore, è il «culto» che gli israeliti debbono rendere a Dio a Gerusa­
lemme (v. 7), un «culto» del quale l'idolatria praticata nel deserto co­
stituisce la parodia sacrilega (vv. 40-43), causa del ritorno del popolo
«oltre Babilonia», alla condizione che era del loro padre prima che
Dio gli si manifestasse.

1.2. La citazione di Isaia in At 7, 49-50

È da segnalare l'importanza di questa citazione nell'economia


del discorso di Stefano. Essa costituisce la solenne conclusione di

105
tutto lo sviluppo. L'appassionata perorazione che segue (vv. 51 -53)
non è altro che la diretta applicazione agli ascoltatori della tesi che
è stata lungamente esposta. Ma se essa è conclusione d'insieme, con­
clude contemporaneamente l'ultima parte (vv. 44-50) in cui occorre
ammettere che il procedere della riflessione non è perfettamente
limpido.
Per cominciare, si può rimarcare che questi versetti si riferiscono
al periodo del «possesso» del paese che era stato promesso al v. 5
(kataskhesin) e che ha raggiunto la propria realizzazione con Giosuè
(kataskhesei: v. 45). Gli israeliti hanno allora presso di sé «la tenda
della testimonianza» (v. 44), la cui menzione contrasta con quella
della «tenda di Moloch», della quale parlava la citazione di Amos al
versetto precedente. Questa tenda era stata fatta da Mosè secondo
«l'immagine» (typon) che gli era stata mostrata: nuovo contrasto ri­
spetto a ciò che il precedente versetto diceva delle «immagini» (ty­
p o us ) che gli israeliti avevano fatto per adorarle. Il reimpiego degli
stessi termini sottolinea la continuità del pensiero.
La menzione della «tenda della testimonianza», messa in eviden­
za al l'inizio del v. 44, assicura il passaggio fra il periodo di Mosè e
quello che va dall'entrata nella terra promessa fino a Davide (v. 45 ).
È con Davide che la situazione cambia. Il v. 46, che curiosamente gio­
ca sul verbo «trovare», precisa subito che Davide «ha trovato grazia
dinnanzi a Dio»: basta questo per dire che si definisce lodevole la sua
preghiera in vista di «trovare una dimora (skenoma) per il Dio (va­
riante: la casa) di Giacobbe».
I termini s'ispirano al Sal 131 ,5 (LXX), ove Davide rifiuta il son­
no fino a che, dice, «io trovi un luogo per il Signore, una dimora per
il Dio di Giacobbe». Tale desiderio non doveva essere la realizzazio­
ne dello scopo in vista del quale Dio aveva fatto uscire il suo popo­
lo dall'Egitto: «essi mi renderanno il culto in questo luogo» (At 7,7)?
Il v. 47 aggiunge conformemente alla storia biblica che, infatti, è «Sa­
lomone che gli costruì una casa». Il filo è ininterrotto e nessuna op­
posizione è risentita quando si passa da skene, «tenda», a skenoma,
«dimora», per concludere con oikos, «casa>>. La congiunzione de, al­
l'inizio del v. 47 probabilmente non ha alcuna sfumatura avversativa
(che indebolirebbe il «ma>>, alla, al principio del v. 48), o, se l'ha, è per
sottolineare che la preghiera di Davide è stata esaudita soltanto per
Salomone.
Qui interviene bruscamente la messa a punto dei vv. 48-50:

106
48Ma l'Altissimo non abita negli (edifici) fatti da mano d'uomo, come di­
ce il profeta: 49«11 cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi.
Quale casa mi costruirete, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio ri­
poso? 50Non è la mia mano che ha fatto tutte queste cose?».

Il testo citato riproduce, senza notevole modificazione, quello di


Is 66,1-2a (LXX). La frase che l'introduce non ha nulla di urtante per
le orecchie giudaiche. L'idea che essa esprime è familiare e compare
più di una volta nella Bibbia, cominciando dalle parole che sono at­
tribuite allo stesso Salomone: «Davvero Dio abiterà con gli uomini
sulla terra? Se il cielo e il cielo del cielo non possono contenerti, a
maggior ragione questa casa che ho costruito per il tuo nome» ( l Re
8,27). La tradizione biblica e giudaica vuole prendere le distanze da
una concezione che vincola la divinità a un luogo, a un tempio, a
un 'immagine: la stessa concezione che si compiace di attribuire ai
pagani. Non per nulla la nota polemica del v. 48 ritornerà nel discor­
so di Paolo dinanzi all'Areopago di Atene (1 7,24).
È dunque necessario vedere, in quest'ultima citazione del di­
scorso di Stefano, l'espressione di un atteggiamento ostile riguardo
al tempio di Gerusalemme? Benché non sia rara, un 'interpretazio­
ne di questo genere è chiaramente troppo corta. Non è col tempio
che il discorso se la prende qui, ma con una certa immagine di Dio,
quella stessa che agli occhi dei giudei caratterizza il paganesimo.
Come la nota polemica della citazione di Amos nei vv. 42-43, così
quella della citazione di Isaia nei vv. 48-50 riguarda una forma d 'i­
dolatria: quella, in fin dei conti, che farà consistere nella liturgia del
tempio, nelle «Vittime e nei sacrifici» che vi si presentano a Dio (cf.
v. 42b ), il «culto» in vista del quale Dio ha fatto uscire il suo popolo
dall'Egitto (v. 7) .
È proprio di ciò, infatti, che si trattava nell'oracolo di Is 66, di cui
Stefano cita l'inizio: il Signore si compiace non per una casa che gli
si costruisce, ma per «colui che trema alla sua parola» ( 66,2.5). Le co­
se non sono meno chiare nel contesto lucano. Luca non prova alcu­
na ostilità riguardo al tempio di Gerusalemme, che d'altronde non
esiste più nel momento in cui compone la sua opera. Ma si fa un 'idea
abbastanza precisa sulla natura del «culto», la cui menzione è stata
introdotta al v. 7, correggendo la citazione di Gen 15,14 e preparan­
do il tema dell'ultima parte del discorso. Questo verbo latreuo carat­
terizza d'altronde il suo vocabolario (M t l, Mc O volte, Le 3, A t 5). Il

1 07
significato che gli viene dato appare soprattutto nel cantico di Zac­
caria, in un contesto veramente molto somigliante a quello della pri­
ma parte del discorso di Stefano:
68Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e riscattato il suo
popolo, 69e ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di Davide
suo servo [ . . . ], 72per usare misericordia verso i nostri padri, e ricordarsi
della sua santa alleanza, 73della promessa giurata ad Abramo nostro pa­
dre, di concederci 74che, senza timore, liberati dalla mano dei nostri ne­
mici , gli rendiamo un culto (latreuein auto;) 75 in santità e giustizia, din­
nanzi a lui per tutti i nostri giorni (Le 1,68-69.72-75).
Il «culto» che Dio si aspetta dal suo popolo e in vista del quale
egli lo ha fatto uscire dall 'Egitto è quello che si realizza in una vita
santa e giusta, nella preghiera e nelle buone opere (cf. Le 2,37; At
24,14; 26,7; 27,23). Tale è giustamente il presupposto che dà conto del
brusco passaggio, nel discorso di Stefano, dalla denuncia de li 'idea
che l'Altissimo potrebbe abitare una casa fatta da mani d'uomo alla
violenta diatriba dei vv. 5 1 -53 con tro la costante indocilità d'Israele
verso Dio: «Quali furono i vostri padri, tali siete voi» (v. 5 1 ). La vo­
stra condotta non è migliore di quella de i padri i quali, dopo aver ri­
cevuto da Dio «gli oracoli di vita» (v. 38), si sono abbandonati all'i­
dolatria (vv. 40-43). Voi vi richiamate al tempio, ma uccidete coloro
che Dio vi invia ! (v. 52) . Vi rifate a una legge che non osservate (v.
53). Il tempio non è contestato più della Legge; i rimproveri di Ste­
fano riguardano un comportamento esattamente opposto al «culto»
che Dio si attende dal suo popolo. Quale idea vi fate, infine, di Dio?
Ecco dunque quello che sembra essere in causa nel discorso di
Stefano: l'idea che ci si fa di Dio e del culto al quale egli invita il suo
popolo. Tale culto non dovrebbe ridursi a pratiche compiute nel tem­
pio. Esso esige una fedeltà assai più profonda e più ampia. Il popolo
di Dio non può realizzare la propria vocazione che nella santità e
nella giustizia. Privo di questa obbedienza che Dio si attende da lui,
esso non è che da rinviare «oltre Babilonia», in quel luogo e in quel
contesto pagano da cui Dio aveva fatto uscire Abramo.2

2 Nel suo commentario del 1981, B. PAPA dichiara: «II significato teologico del di­
scorso di Stefano può essere dunque compreso soltanto alla luce della conce z ion e ec­
clesiologica di Luca presente nei primi cinque capitoli degli Atti degli apostoli» (p.

108
2. Paolo ad Antiochia: avvertimento agli «sprezzanti»

Nella grande metropoli di Antiochia di Siria non era possibile ac­


cordare un ruolo primario a Paolo. È in una città dello stesso nome,
Antiochia di Pisidia, che avverrà il fatto che inaugura solennemente
il suo ministero. Sono stati spesso osservati i particolari che portano
alla rassomiglianza di questo fatto con quello della predicazione
inaugurale nella sinagoga di Nazaret con la quale, in Luca, si apre il
ministero pubblico di Gesù (Le 4,1 6-30) . Tale rassomiglianza non è
fortuita; non più d'altronde di quella che obbliga ad avvicinare il di­
scorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia al discorso di
Pietro il giorno della Pentecoste (At 2). Avremo anche occasione di
osservare che una stretta parentela collega la finale della predicazio­
ne di Paolo al capitolo 13 alla finale del suo colloquio coi giudei di
Roma, che nello stesso tempo costituisce la conclusione del libro de­
gli Atti.3

222). Si potrebbe molto bene anche rovesciare la posizione: la concezione ecclesiolo­


gica di Luca nei primi capitoli degli Atti diviene più chiara grazie al discorso di Stefa­
no, nel quale termina la proclamazione del messaggio evangelico a Gerusalemme. Ma
l'autore insiste in modo forse unilaterale sull'aspetto negativo dell'insegnamento che
emerge da questo insieme, sottolineando il crescendo dell'ostilità dei giudei e accen­
tuando il tema della loro responsabilità di fronte alla predicazione missionaria degli
apostoli (pp. 222-223). L'impressione che si ricava da questi capitoli è semplicemente
che «quel popolo d'Israele che non accoglie con fede la proposta missionaria degli
apostoli è escluso per sempre dall'Israele di Dio che è la Chiesa» (p. 223)? Si può se­
parare la minaccia di esclusione, che è evidentemente presente, dal richiamo alla fe­
deltà di Israele alla propria vocazione di popolo di Dio, una vocazione che 7,7 defini­
sce in una prospettiva «cultuale»? Le parole che Luca ha posto sulla bocca di Stefano
non gl'impediranno di far dire più tardi a Paolo: « È per aver sperato nella promessa
fatta da Dio ai nostri padri che sono tradotto in giudizio, (questa promessa) che le no­
stre dodici tribù, offrendo senza sosta un culto (latreuon ) a Dio notte e giorno, spera­
no di vedere compiuta» (26,6-7). Privo della fede nella realizzazione della promessa.
il giudaismo ne conserva perlomeno la speranza, grazie alla quale gli è possibile offri­
re a Dio un vero «culto». Sembra che si possa applicare al capitolo 7 l'osservazione
che E. RrcHARD fa a proposito del capitolo 15: «A .. once and for all" view of Acts 15
misrepresents the fundamental nature of Acts» (SBL Seminar Papers 1 980, 275).
3 Un ottimo lavoro è stato dedicato all'episodio di Antiochia di Pisidia: M.F.-J.
Buss, Die Missionspredigt des Apostels Paulus im Pisidischen Antiochien. A nalyse von
Apg /3, 16-41 im Hinblick auf die literarische und thematische Einheit der Paulusrede
(Forschung zur Bi bel, 38), Stuttgart 1980. Segnalo anche il commentario di G. ScHNEI­
DER, Die Apostelgeschichte, II (HTK 5/2), Freiburg 1 982, che fornisce un'ampia bi­
bliografia ( 1 24s).

109
Fra Antiochia di Siria e Antiochia di Pisidia (1 3,1-3 e 13,14ss), il
racconto indugia brevemente solo sulla tappa di Pafo (vv. 6-12): e là,
in occasione dell'incontro col proconsole Sergio Paolo, il personag­
gio che era stato sempre indicato sotto il nome di «Saulo» diviene
improvvisamente «Paolo» (v. 9), ricevendo il nome che porterà or­
mai esclusivamente (comunque ne sia del «Saulo» riservato all'epi­
sodio di Damasco). Ad Antiochia di Pisidia è sufficiente qualche pa­
rola per caratterizzare la situazione in cui Paolo pronuncia il grande
discorso dei vv. 16-41 . Tale discorso è completato da un racconto (vv.
42-52) che istruisce il lettore sulle reazioni a cui ha dato luogo. Que­
sto racconto complementare è centrato su una nuova dichiarazione
(vv. 46-47) che, come lo stesso discorso (v. 41 ) , si conclude con la ci­
tazione di un testo profetico (v. 47). S' indovina già che l'interesse vie­
ne portato su queste due citazioni e sul ruolo che è loro assegnato
nel contesto in cui sono state poste.
Come gli altri discorsi missionari davanti ad ascoltatori giudei,
quello di Antiochia di Pisidia è essenzialmente proclamazione della
risurrezione di Gesù. Le interpellazioni dei vv. 16 e 26 lo dividono
chiaramente in due grandi parti. La prima (v. 1 6b-25) è caratterizza­
ta dalla citazione, in forma diretta, di due testimonianze: quella che
Dio ha reso a David (v. 22) e quella che Giovanni il precursore ha re­
so a Gesù (v. 25) . Più ampiamente, è possibile osservare un certo pa­
rallelismo fra i vv. 21 -22 da un lato e i vv. 24-25 dall'altro. Al centro,
la dichiarazione del v. 23: « È dalla sua discendenza (di Davide) che,
secondo la sua promessa, Dio ha suscitato per Israele un Salvatore:
Gesù» . Il peso di tale dichiarazione centrale scaturisce dall'eco che
essa fa alle prime parole del discorso: «Il Dio di questo popolo Israe­
le ha scelto ... » (v. 17), nonché dall'eco che gli fanno le prime parole
della seconda parte: « È a noi che la parola di questa salvezza è stata
inviata» (v. 26 ).
Questa seconda parte inizia con un'esposizione dei fatti: come gli
abitanti di Gerusalemme e i loro capi abbiano dato compimento al­
le Scritture uccidendo Gesù (vv. 27-29) e come Dio l'abbia risuscita­
to (vv. 30-31 ). Paolo dimostra in seguito che questa risurrezione
adempie la promessa fatta da Dio ai padri (vv. 32-37) . La dimostra­
zione poggia principalmente su due citazioni di salmi: quella del Sal
2,7 (v. 33b) e quella del Sal 15,10 (LXX) (v. 35) .
Non è i l caso d i sostare qui maggiormente su tutto questo svilup­
po cristologico. La nostra attenzione deve concentrarsi anzitutto sul-

1 10
l'ultima sezione del discorso (vv. 38-41 ). Essa si stacca da ciò che pre­
cede tramite un nuovo appello all'indirizzo degli ascoltatori: «Uomi­
ni fratelli» ( v. 38), con l'insistente uso della seconda persona plurale,
e infine con il suo intento direttamente parenetico: si tratta di con­
seguenze pratiche da ricavare dal messaggio che si è ascoltato. Ma la
nostra attenzione dovrà portarsi anche su ciò che il seguito contiene
circa l'atteggiamento degli ascoltatori (vv. 42-52) e le conclusioni ri­
cavatene da Paolo e Barnaba (vv. 46-47).

2.1. La citazione di Abacuc nel suo contesto (13,38-41)

L'esortazione che conclude il discorso congiunge, a un richiamo


pressante che si colloca dal punto di vista positivo (vv. 38-39) , una
minacciosa messa in guardia verso un atteggiamento negativo ( vv.
40 4 1 ) . Il messaggio di salvezza (v. 26) che è stato annunciato mette
-

gli ascoltatori dinanzi a una scelta, le cui conseguenze potrebbero ri­


sultare assai felici o molto negative. È di tutta evidenza che promes­
sa e minaccia costituiscono i due aspetti di uno stesso insegnamento
e questo collegamento è troppo frequente nella Bibbia perché non ci
si aspetti di ritrovare qui certi caratteristici procedimenti. Non ab­
biamo a che fare, tuttavia, col gioco molto semplice del parallelismo
antitetico. Simili nell'inizio (38: «Sappiate dunque... »; 40: «Guardate
dunque ... »), le due frasi si avviano su due strade differenti. Per con­
cludere, è vero, con un contrasto circa l'impiego del solo termine si­
gnificativo usato dalle due parti, il verbo «credere»: «chiunque cre­
de» (39) e «voi non lo credereste» (41 ). La complementarità dei ter­
mini designanti «la legge di Mosè» (38) e «i profeti» ( 40) non intac­
ca il parallelismo. La contrapposizione fra la promessa e la minaccia
non si colloca particolarmente a livello delle parole e delle costru­
zioni grammaticali, per cui resta da chiedersi se essa non si trovi a li­
vello dei contenuti. Proponiamo d'iniziare con la minaccia.

40Fate attenzione che n o n si avveri ciò che è detto n e i Profeti: 41 «Guarda­


te (voi) sprezzanti, stupitevi e sparite, perché nei vostri giorni attuerò
un'opera, un'opera che mai credereste se qualcuno la racconterà a voi».

La citazione è tratta da Ab 1 ,5. Rispetto al testo della Settanta, la


prima parte del versetto è alleggerita. La seconda riga diceva agli
sprezzanti: «e riflettete e siate sbalorditi per lo stupore e sparite».

111
Sfrondando, la citazione degli Atti evita il sovraccarico ma non sen­
za accrescere il risalto dell'imperativo minaccioso: «sparite».
Per contro l'ultima riga introduce tre nuove parole : la parola
«opera» è ripetuta una seconda volta, vi sono due negazioni invece
di una soltanto (abbiamo tentato di rendere questo raddoppio usan­
do la parola «mai»), e il pronome «VOi» è aggiunto alla fine («Se qual­
cuno la racconterà a voi» ). Si ha l'impressione che gli Atti si occupi­
no meno dello stupore in cui l'intervento divino calerà gli ascoltato­
ri, più che del disastroso effetto che esso avrà su di loro.
Nel contesto originale, il versetto introduceva un oracolo di ma­
ledizione; il Signore susciterà i terribili eserciti caldei per castigare le
ingiustizie e le violenze commesse nel suo popolo. L'arrivo di queste
orde devastatrici sarà opera di Dio stesso. Introducendo qui l'impe­
rativo «sparite», la versione greca evoca la soppressione degli empi,
il loro annientamento. Risulta chiaro che Paolo non minaccia i suoi
ascoltatori con un flagello simile. Nel contesto degli Atti, questo im­
perativo «sparite» richiama naturalmente la minaccia di 3,23: «E
chiunque non ascolterà quel profeta, sarà tolto (più letteralmente
sterminato) dal suo popolo».
Per indicare quelli dei suoi ascoltatori che l'implacabile giudizio
di Dio minaccia, Paolo non ha mutato il termine dell 'oracolo: «gl i
sprezzanti» (hoi kataphronetai) . Ma il significato di questo appella­
tivo, inquadrato dai due usi del verbo «credere», non lascia alcun
dubbio: si tratta di coloro che rifiuteranno di credere. Tale incredu­
lità li conduce a «sparire»: essi non conteranno più di quanto conte­
rebbero se non fossero mai esistiti. L'accostamento con At 3,23
esprime abbastanza bene ciò che implica una simile condanna. Il
profeta precisa che l'intervento divino avverrà «nei vostri giorni»;
troviamo qui un'indicazione cronologica analoga a quella che Luca
ha aggiunto in 2,17, ali 'inizio della citazione di Gioele, riferendosi
ad avvenimenti che dovevano verificarsi «negli ultimi giorni»; e ab­
biamo visto che tale indicazione aveva riscontro in ciò che 3,24 dice
di «tutti i profeti che hanno parlato e annunciato questi giorni». La
portata attuale che Luca accorda a questi dati conse nte di supporre
ch'egli intenda nello stesso modo l'espressione «nei vostri giorni»
dell'oracolo di Abacuc. I giorni decisivi che i profeti annunciavano
per l'avvenire sono divenuti il presente per coloro che ascoltano la
buona novella.
Ma occorre tenere anche conto della promessa dei vv. 38-39:

1 12
38Vi sia dunque noto, fratelli, che è per mezzo suo che la remissione dei
peccati vi è annunciata; da tutto quello di cui non avete potuto essere giu­
stificati dalla Legge di Mosè, 39è per (mezzo di) lui che chiunque crede è
giustifica t o.

Il discorso si era presentato come un messaggio di salvezza (v.


26), annunciante Gesù come il Salvatore suscitato da Dio (v. 23) . Si
tratta, ora, di «remissione dei peccati» e di «giustificazione». Risul­
ta chiaro che questo cambiamento di registro tende a dare a questi
versetti una tonalità tipicamente paolina. È ancora la teologia di
Paolo che si riflette nel passaggio tra il v. 38, il suo uso insistente del
pronome «voi» e dei verbi alla seconda persona plurale, e il v. 39,
che si presenta come l'enunciazione di una verità generale, di uni­
versale applicazione. Ma come la formulazione di questo v. 39 non
richiamerebbe, contemporaneamente, a quel testo-chiave della teo­
logia paolina che è Ab 2,5: «Il giusto mediante la fede vivrà» (Rm
1 ,1 7; Gal 3,1 1 ; cf. Eb 10,38)? E non soltanto il testo di Abacuc, ma
altresì l'interpretazione che ne dà Paolo, quando unisce il comple­
mento «mediante la fede» al sostantivo «il giusto» piuttosto che al
verbo «Vivrà».
Il piccolo libro di Abacuc non impiega il termine «fede» che in 2,4
e il verbo «credere» che in 1,5. È dovuto al caso se la formulazione
di A t 13,39, così vicina a quella di Ab 2.4, è seguita da una citazione
di Ab 1,5 (At 13,41 )? Non è la fortuna che ha conosciuto la promes­
sa di Ab 2,4 nella teologia paolina ad attrarre l'attenzione sulla mi­
naccia che Ab 1 ,5 fa scendere su quelli che rifiutano la fede?
Torniamo piuttosto al problema sul rapporto da stabilire fra la
promessa in A t 13,38-39 e la minaccia in 13,40-4 1. Anche qui sembra
difficile poter attribuire al caso il fatto che un richiamo alla fede di­
rettamente indirizzato agli ascoltatori (v. 38) e l'evocazione dell'e­
sclusione che li minaccia (vv. 40-41 ) siano divisi da una sentenza del
tutto generale, che non concerne più semplicemente questi ascolta­
tori ma che assume valore universale. Cosa universale, ad esempio,
come l'affermazione che conclude la citazione di Gioele in At 2,21:
«Chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato», o quella
con cui Pietro termina il proprio discorso «conciliare» in 15,1 1 : « È
mediante la grazia del Signore Gesù che noi (i giudei) crediamo di
essere salvati, allo stesso modo di loro (i gentili)». Proprio quando si
dice che i giudei sono chiamati alla fede e avvertiti che «spariranno»

113
se rifiutano di credere, si ritiene di dover aggiungere che la fede è un
principio di giustizia e di salvezza per «ogni uomo». Il venir meno de­
gli uni non è intravvisto senza l'aprirsi di una prospettiva universale,
comprendente implicitamente i gentili.
Ma ciò che resta implicito in 13,38-41 diviene esplicito nei verset­
ti successivi.

2.2. La citazione di Isaia nel suo contesto (13,42-52)

Ancora una volta il lettore moderno rischia di avere un'impres­


sione di disordine dinanzi a un passo che testimonia la cura con la
quale Luca ricorre al procedimento della symperip/okè, dell'intrec­
cio a cui si rifaceva allora l'arte di scrivere la storia.4 Il discorso di
Paolo si è concluso col grave avvertimento ricavato da Abacuc; Lu­
ca informa subito il lettore sull'incontro fissato per il sabato succes­
sivo (v. 42): ecco annunciata la scena che sarà narrata nei vv. 44ss. Il
v. 43 s'interessa dell'effetto prodotto dal discorso sugli ascoltatori:
molti giudei e proseliti seguono Paolo e Barnaba, chiaramente con­
quistati, per cui basta esortarli alla perseveranza.
Il procedimento è un po' più complesso nella nota che segue i
versetti relativi agli avvenimenti del sabato seguente (vv. 44-48).
Un primo riassunto evoca la diffusione della parola di Dio in tut­
ta la contrada (v. 49). I vv. 50-5 1 narrano le circostanze dell'espulsio­
ne di Paolo e Barnaba che, obbligati a lasciare Antiochia, raggiungo­
no Iconio; eccoci dunque trasferiti a !conio, dove, in effetti, si svolge
l'episodio narrato in 14,1-7. Ma, precedentemente, un nuovo rias­
sunto ci riporta indietro, per segnalarci un 'immagine edificante di
«discepoli» che i missionari lasceranno dietro di sé ad Antiochia:
«riempiti di gioia e di Spirito Santo» (v. 52).
È sull 'episodio del secondo sabato che deve fissarsi la nostra at­
tenzione. Fin qui Paolo e Barnaba non avevano avuto a che fare che
con i frequentatori abituali della sinagoga: i giudei e i <<timorati di
Dio» («prose liti» in senso lato), vale a dire coloro, fra i gentili, che
accoglievano la fede monoteista d'Israele, senza giungere a unirsi

4 Cf. il nostro articolo «La question du pian des Actes des Apòtres à la lumière
d'un texte de Lucien de Samosate», in Novum Testamentum 21(1979), 220-231.

1 14
mediante la circoncisione al popolo eletto. Le reazioni che i vv. 42-43
attri buivano agli ascoltatori erano tutte favorevoli. La svolta sottoli­
neata dai vv. 44-45 è tanto più brusca. Si vede anzitutto l'uditorio al­
largarsi smisuratamente: «quasi tutta la città si radunò per ascoltare
la parola del Signore» (v. 44). Tale affluenza provoca un'inversione
nell'atteggiamento dei giudei: la «gelosia» li rende apertamente osti­
li e li spinge a contraddire violentemente le proposte di Paolo (v. 45).
La svolta alla quale si assiste è legata al cambiamento che si è
prodotto nell'uditorio. Finora questo era composto da due categorie :
i giudei e i «timorati di Dio» (vv. 16.26.43). Partendo di qui, abbiamo
a che fare con due categorie che costituiscono da un lato «i giudei»
(vv. 45 e 50), dall'altro «le nazioni », o i «gentili (ta ethnè: vv. 46.47.48).
Fra questi ultimi, non si distinguono più i frequentatori della sinago­
ga da quelli che sono ancora adepti della religione pagana. L'ottica
diviene in modo assai preciso quella che guida il racconto della con­
versione di Cornelio e delle deliberazioni di Gerusalemme
(10,1-1 1 , 1 8; 15,1-35 ). L'antitesi oppone semplicemente quelli che so­
no giudei e quelli che non lo sono.
L'ostruzione dei giudei provoca una dichiarazione che fa la gioia
dei gentili (v. 48). Tale dichiarazione è attribuita non solo a Paolo, ma
a Paolo e Barnaba che parlano insieme:
46È a voi anzitutto che era necessario fosse annunciata la parola di Dio.
Poiché la rifiutate e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco che noi
ci rivolgiamo alle Nazioni.
47Poiché così ci ha comandato il Signore: «TI ho stabilito luce per le Na­
zioni , affinché tu sia salvezza fino all ' estremità della terra» ( Is 49,6).

Secondo l 'uso consueto di Luca, la congiunzione épeidè riceve al


v. 46 il suo significato causale: «poiché». Ma la relazione di causa ed
effetto può intendersi qui in due modi diversi. Paolo e Barnaba po­
trebbero voler dire che il rifiuto dei giudei giustifica il loro passaggio
alle nazioni. Si capirebbe facilmente, in tal caso, che i gentili saranno
chiamati a prendere i posti che i giudei si ostinano a lasciar vuoti. Ma
un'altra spiegazione può essere intravvista, tenendo conto del­
l' «anzitutto» (proton), la cui «esigenza>> è stata sottolineata nella pri­
ma parte della dichiarazione. Questo «anzitutto» implica natural­
mente un «poi», e tale successione, ugualmente «necessaria», giusti­
ficherebbe la decisione dei missionari. Il diritto dei giudei a ricevere
la parola di D io non garantiva loro che una priorità. Questa priorità

115
è stata rispettata. Il rifiuto opposto dai giudei alla parola di Dio au­
torizza i missionari a passare alla fase seguente. Sembra evidente che
soltanto questa seconda interpretazione si accorda col fatto che i
missionari basano la loro decisione su un testo profetico che fonda il
diritto delle «nazioni» a ricevere anch'esse la «luce».
Questo punto è importante e non è inutile sottolinearlo. Il testo
che abbiamo sotto gli occhi non fa della missione presso i gentili il ri­
sultato della sconfitta incontrata coi giudei. Un tale punto di vista sa­
rebbe in contraddizione col pensiero di Luca, e molto precisamente
con la cura ch'egli pone, attraverso tutta la propria opera e fin dall'i­
nizio del suo Vangelo, nel dimostrare sulla base delle Scritture che la
salvezza dei gentili è voluta da Dio e che è stata annunciata dai pro­
feti. Tale convinzione non gl'impedisce minimamente di riconoscere
e di affermare che la promessa riguarda «anzitutto» i giudei, e che è
a loro per priorità che il messaggio di salvezza deve essere annun­
ciato. Israele non perde i propri diritti, ma questi non gli assicurano
l'esclusività della salvezza. La salvezza realizzata in Cristo è altresì
destinata alle nazioni. La cattiva volontà dei giudei, o di una parte di
essi (i «giudei» di cui parla il v. 45 non sono quelli in causa al v. 43 ! ) ,
non potrà impedire al disegno divino sulle nazioni di raggiungere il
proprio scopo.
Il senso esatto del v. 47 è oggetto di discussioni a non finire. Co­
minciamo dunque col dire che il «Signore» dal quale i missionari ri­
cevono un mandato attraverso un oracolo profetico designa Dio, non
Gesù, il cui «Comandamento» è stato ricordato in A t 1,2 (ordine di
rimanere a Gerusalemme fino alla venuta dello Spirito: Le 24,49?).
Ricordiamo poi che in At 26,23 la missione «di annunciare la luce al
popolo e alle nazioni» è direttamente attribuita al Cristo risorto,
mentre Le 24,47 fa della predicazione «a tutte le nazioni», così com'è
annunciata dalle Scritture, un compito che dev'essere compiuto «in
suo nome». L'eco che ls 49,6 sembra trovare nel cantico di Simeone
in Le 2,32, suppone anche l'interpretazione cristologica di questo
oracolo. D'altra parte il testo della Settanta, chiaramente più forte
dell'originale ebraico, fa del Servo stesso la luce e la salvezza per il
mondo intero. Un'immediata attribuzione ai missionari è tanto più
difficile, perché il versetto passa dal plurale «noi» al singolare «tu)).
Nella prospettiva di Luca, quale si esprime in At 26,23 , l'universale
realizzazione della salvezza è proprio l'opera dello stesso Cristo; ciò
che non impedisce che essa si realizzi «in nome suo)) (Le 24,47) me-

1 16
diante la predicazione dei suoi testimoni «fino aH'estremità della ter­
ra» ( At 1 ,8).5
Concentrando in questa ricerca la nostra attenzione sul pensiero
ecclesiologico che si manifesta nei testi degli Atti, abbiamo cura di
non fasciarci imbrigliare dalle affermazioni cristologiche, che occu­
pano evidentemente un posto assai più grande. È così che, pe r l'epi­
sodio di Antiochia di Pisidia, non abbi amo gettato che un rapido col­
po d'occhio sull'insieme del discorso, per non indugiare che sulla
conclusione e sull'epilogo. Ma la citazione di At 1 3,47 ricorda, op­
portunamente forse, che l'ecclesiologia non è separabile dalla cristo­
logia. Non è inutile sottolinearlo.
L'ultimo concilio ha promulgato una costituzione dogmatica sul­
la Chiesa. Il suo titolo, Lumen gentium, è precisamente ricavato da Is
49,6. Ma il concilio non fa della stessa Chiesa «la luce delle nazioni>>.
Tale luce è Cristo: «Lumen gentium cum sit Christus» . La Chiesa si
definisce in rapporto a Cristo, luce delle nazioni e salvatore d eli 'in­
tero genere umano. È questo stesso rapporto costitutivo che la uni­
sce a Cristo, di cui essa è come il sacramento per il mondo, la pone
contemporaneamente in un rapporto ugualmente costitutivo riguar­
do al mondo, all'universalità degli uomini. La Chiesa non potrebbe
chiudersi. Come i privilegi dati a Israele non costituivano per esso un

5 Secondo M. Buss ( Die Missionspredigt. 137), il «Signore» che ha dato i suoi or­
dini ai missionari sarebbe Gesù, facendo fede dell'affermazione di M. Zerwick, per il
quale la parola kyrios con articolo si riferirebbe sempre a Cristo negli Atti. L'affer­
mazione. semplicistica e falsa, è a sufficienza smentita dallo studio di G. ScHNEIDER,
«Gott und Christus als Kyrios nach der Apostelgeschichte», in J. ZMIJEWSKI - E. NEL­
LESSEN. Begegnung mit dem Wort. FS H. Zimmermann ( BB B 53). Bonn 1 980, 161-174.
Ho avuto spesso occasione di ritornare suirinteressante caso che costituisce la cita­
zione di At 13,47 come testo cristologico invocato in favore della missione ai gentili
(articoli del 1 953, 1959, 1962, 1969, 1974 ... ) . Conservando anche in questo caso il si­
gnificato cristologico del testo di Is 49,6, avevo dovuto staccarmi dall'interpretazione
proposta da L. CERFAUX, «Saint Pau) et le .. serviteur de Dieu'' d'lsaie>>, in Miscellanea
Biblica et Orientalia A. Miller (Studia Anselmiana 27-28), Roma 195 1 , 35 1 -365 = Re­
cueil Lucien Cerfaux, ( BETL 6-7), II, Gembloux 1954, 439-454 (439-45 1 ). La posizio­
ne che ho così difeso è stata attaccata da M. RESE, «Die Funktion der alttestamentli­
chen Zitate und Anspielungen in den Reden der Apostelgeschichte». in J. KREM ER,
Les Actes des Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48), Gembloux-Leuven,
1979, 6 1 -79 (76-79). Le critiche di questo autore non mi sembrano intaccare le ragio­
ni per cui io non credo che Luca deroghi qui alla propria abituale prospettiva. Si può
vedere, nello stesso senso. Buss, Die Missionspredigt, 1 38-140; P. GRELOT, «Note sur
Actes XIII,47», in RB 88(1981 ), 368-372.

1 17
diritto all'esclusività, così la Chiesa non potrebbe dimenticare che
quanto ha ricevuto da Cristo, l'ha ricevuto per tutti i popoli, per l'in­
tera umanità.

3. Paolo a Roma: la cecità di «questo popolo»6

Sappiamo dalle epistole di Paolo che il cristianesimo si è intro­


dotto assai presto nella capitale dell'impero, più precisamente nella
colonia giudaica quivi importante. Luca ha informato il proprio let­
tore che a Corinto Paolo ha lavorato per conto di Aquila e Priscil­
la, giudei provenienti da Roma (At 18,2-3), ma non ha detto se que­
sta coppia era già cristiana o se lo è divenuta grazie a Paolo. Per l'ar­
rivo di Paolo a Roma, egli s'industria per far uscire «i fratelli» dalla
città e mostrarli mentre vengono incontro a Paolo fino a una buona
distanza (28,15). Dopo questo essi scompaiono del tutto, e Paolo
può figurare come primo annunciatore del vangelo presso alcuni
notabili giudaici, che danno l'impressione di non aver avuto mai oc­
casione d'informazione diretta a questo proposito (v. 22). L'artificio
letterario consente di mostrare Paolo nel ruolo conveniente al pro­
prio personaggio.
Al suo giungere a Roma, il primo intento di Paolo è di mettersi
in contatto con la comunità giudaica. Non permettendogli la propria
situazione di prigioniero di recarsi in una sinagoga per l'assemblea
sabbatica, gli è necessario prendere l'iniziativa d'invitare i notabili
giudaici a venirlo a trovare (v. 17). Infatti, egli avrà due incontri con
loro. Il primo sarà dedicato a spiegazioni sulla sua situazione perso­
nale: in seguito a una querela mossagli dai giudei di Gerusalemme,
egli ha rivolto appello al tribunale imperiale, ma senza accusare in
nulla la propria nazione (v. 19). Rispondendogli con la circospezio­
ne del caso, i suoi interlocutori si mostrano disposti ad approfittare
dell'occasione per ascoltare l'esposizione del suo pensiero e riceve-

6 Mi sarebbe difficile fare qui qualcosa di più che riprendere alcune osservazioni
di un lungo articolo: «La conclusion des Actes et son rapport à l'ensembie de l'oeuvre
de Luc», apparso in KREMER, Les Actes des Ap6tres, 359-404, a cui bisogna aggiunge­
re la dissertazione dottorale di H.J. HAUSSER, Strukturen der Abschlusserziihlung der
Apostelgeschichte (Apg 28, 16-31) (AnBib 86), Roma 1979.

1 18
re informazioni su «questo partito» di cui non hanno che una cono­
scenza indiretta.
Il secondo incontro (vv. 23-28) , che pone Paolo dinanzi a un udi­
torio allargato, ha dunque per oggetto il messaggio cristiano. L'espo­
sizione sarà lunga: «dal mattino a sera» (v. 23), ma Luca si acconten­
ta di indicarne il tema generale. Si tratta di una testimonianza relati­
va al regno di Dio e di un'argomentazione che, concernente Gesù,
poggia «sulla legge di Mosè e i profeti». Il tema non differisce da
quello che Gesù aveva esposto dopo la risurrezione (Le 24,25-
27.44.47; cf. At 1,3); inutile per Luca entrare qui nei dettagli, suffi­
cientemente conosciuti dai suoi lettori tramite i discorsi di Pietro e
quello tenuto da Paolo alla sinagoga di Antiochia di Pisidia.
Le spiegazioni fornite da Paolo al tempo del suo primo incontro
erano state seguite da un resoconto sulla reazione dei suoi interlo­
cutori (vv. 21 -22). Analogamente, qui, le indicazioni fornite sulla sua
predicazione sono seguite da una nota sull' atteggiamento degli
ascoltatori: «Gli uni erano persuasi da ciò ch'era stato detto, gli altri
rimanevano increduli . Erano in disaccordo fra loro» (vv. 24-25a) . Gli
interlocutori di Paolo non fanno dunque blocco in un senso o nel­
l'altro: sono divisi.
Sino a qui i due incontri seguono un identico schema: discorso di
Paolo, reazione degli ascoltatori. Fra le due scene esiste tuttavia una
differenza di stile della quale un lettore di Luca non può mancare di
percepire l'importanza : nella prima i personaggi si esprimevano in
forma diretta e le loro parole erano oggetto di citazioni; nella se­
conda Luca si attiene allo stile narrativo, incaricandosi egli stesso
d'indicare sommariamente il contenuto di ciò che si è detto. Lo sco­
po di questa riserva è evidente: il tono mi nore assegnato alla secon­
da scena tende a collocare tutto il peso dell'episodio sulla dichiara­
zione conclusiva di Paolo, che costituisce un sovrappiù rispetto al
parallelismo delle scene ed è redatta in forma diretta. Questa di­
chiarazione, ai vv. 25b-28, assume tanta maggiore importanza per­
ché include una lunga citazione scritturate, contenente la parola di
Dio stesso. Poiché i vv. 30-31 non rappresentano che un semplice
epilogo (come l'epilogo similare con cui Le 24,5 1 -53 concludeva il
Vangelo), la dichiarazione che Paolo fa nei vv. 25b-28 costituisce
l'autentica conclusione non soltanto dei due incontri di Paolo con i
rappresentanti della comunità giudaica della capitale, ma dell'inte­
ro libro.

1 19
È precisamente di questa conclusione che dobbiamo occuparci.
Vi è motivo di considerare anzitutto la formale citazione di Is 6,9-10,
riportata dai vv. 26-27; successivamente il complemento che vi ag­
giunge il v. 28, facendo eco a Is 40,5.

3.1. La citazione di Is 6, 9-10 in At 28,26-27

Deve essere subito chiaro che non si potrebbe validamente inter­


pretare la citazione facendo astrazione dal contesto in cui essa è pro­
posta. Questo contesto sottolinea con insistenza la divisione che si è
creata fra i giudei di fronte al messaggio evangelico che è stato loro
proposto. Anzitutto il v. 24 ha espressamente puntualizzato che alcu­
ni fra di loro si sono lasciati persuadere, mentre altri si mostrano in­
creduli. L'incredulità di questi ultimi non dovrebbe far trascurare il
fatto che Luca ha tenuto a segnalare, da parte dei primi, un'adesione
corrispondente agli sforzi con cui Paolo «cercava di persuaderli sul
conto di Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai profeti» (v. 23). A
sua volta il v. 25a osservava che i giudei «Si trovavano in disaccordo
fra loro». La loro condivisione, positiva o negativa, li oppone gli uni
agli altri; opposizione che si traduce naturalmente in discussione de­
gli uni con gli altri . Dal punto di vista di Paolo, vale a dire di Luca.
non si tratta né di completo successo, né di totale sconfitta. Poco im­
porta la proporzione; non è questione di maggioranza o minoranza;
conta soltanto il fatto del disaccordo.
È precisamente su questo disaccordo che cade il giudizio che
Paolo pronuncia al momento della partenza:
25 bÈ ben vero quello che lo Spirito Santo ha dichiarato tramite il profeta
Isaia: 26«Va' a trovare questo popolo e di ' : "Ascoltare, ascolterete e non
capirete; guardare, guarderete e non vedrete, 27perché il cuore di questo
popolo s'è indurito. e fecero fatica a sentire con le loro orecchie, e si sono
tappati gli occhi, per timore di non vedere coi loro occhi, di non ascolta­
re con le loro orecchie, di non comprendere col loro cuore, e di non con­
vertirsi e che io li abbia guariti "».

Rigorosamente identica alla citazione di Mt 13,14-15 (che non ha


ripreso l'ordine iniziale: «Va' a trovare questo popolo e di'»), il testo
di Isaia segue la Settanta (a parte il fatto che la citazione non riporta
il possessivo «loro» alla prima menzione delle «orecchie»). Si sa che
questa profezia aveva attirato l'attenzione della Chiesa primitiva.

120
Marco vi si riferisce chiaramente, ma senza conferirle la forma di una
esplicita citazione, nel capitolo delle parabole (Mc 4,12) . Nel passo
parallelo, Matteo ha ritenuto bene aggiungere all'allusione una cita­
zione di compimento, rinviando formalmente a Isaia (Mt 13,14 e 14-
15). Le 8,10b ha reso l'allusione quasi impercettibile (ma si è ricor­
dato del testo in 8J 2b, parlando dell'opera del diavolo). Se ne ritro­
va l'eco in Rm 1 1 ,8.7
Sarebbe probabilmente temerario supporre che sfumando il rife­
rimento a Is 6,9-10 Luca pensasse già, dal capitolo delle parabole, di
fare con questo testo la conclusione generale dell'intera sua opera.
Ma la formula con cui egli introduce la citazione in At 28,25 ci riser­
va un 'altra sorpresa. Tale formula comincia con l'avverbio kalos (che
abbiamo tradotto: « È ben vero>>); l'autore della citazione constata che
la presente situazione corrisponde «ammirevolmente» a ciò eh 'è sta­
to detto dal profeta. Questo modo di dire eccezionale non si ritrova
che nella discussione sul puro e l'impuro (Mc 7,1 -23; Mt 1 5 ,1-20), un
passo che Luca non ha giudicato utile riprendere, ed esso v'introduce
una citazione di Isaia in cui Dio parla ugualmente di «questo popo­
lo». In Mc 7,6 Gesù dichiara ai farisei e agli scribi che criticano il las­
sismo dei suoi discepoli: <<È ben vero ciò che Isaia ha profetizzato sul
vostro conto, ipocriti, com'è scritto: Questo popolo mi onora con le
labbra, ma il loro cuore è molto distante da me (Is 29, 13)». Luca con­
serva ancora nell'orecchio questa formula utilizzata per introdurre Is
29,13, quando compone quella che, per lui, introduce Is 6,9-10?
Non è evidentemente possibile dare una risposta sicura a que­
st'ultimo interrogativo. L'accostamento ha per lo meno interesse a
ricordare che il modo in cui il testo di Is 6,9- 10 parla di «questo po­
polo» non ha nulla d'insolito nel linguaggio profetico (cf. Is 6,8;
8,6.1 1 . 12; 9, 1 6; 28,1 1. 14; 29, 14; 65,3; ecc.). Ci si meraviglierà meno nel
constatare che Luca introduce l'espressione nel discorso escatologi­
co. Là ove Mc 1 3,19 scriveva: «Vi sarà effettivamente in quei giorni
una tribolazione quale non vi è stata mai uguale dall'inizio della
creazione», Luca preferisce parlare della distruzione di Gerusalem-

7 Già remota, la dissertazione di J. GNILKA sulla rilettura cristiana di questo testo


conserva il proprio valore: Die Verstockung lsraels. Jsaias 6,9-10 in der Theologie der
Synoptiker (SANT 3), Miinchen 1961.

121
'me precisando: «in quei giorni, vi sarà effettivamente una grande an­
goscia sulla terra e collera contro questo popolo>> (21 ,23). La dizione
«questo popolo>> scaturisce dal linguaggio profetico e non è il caso di
vedervi una manifestazione antisemitica.
Occorrerebbe aggiungere che, dappertutto ove appaia la citazio­
ne di Is 6,9- 10, essa si presenta in un contesto che distingue il grup­
po di israeliti fedeli da coloro a cui si applica l'appellativo «questo
popolo>>. È il caso del capitolo delle parabole. Si citano anzitutto «co­
loro che erano attorno a lui coi Dodici>>, a cui «è stato confidato il
mistero del regno di Dio» (Mc 4,10. 1 1 a; cf. Mt 13,10. 1 1a; Le 8,9.10a),
in seguito «quelli che sono al di fuori», per applicare a loro soltanto
l'oracolo indirizzato a «questo popolo» (Mc 4, 1 1 b-12; Mt 1 3,1 lb- 1 5;
Le 8,10b). È lo stesso caso in Rm 1 1 ,1-10, nella misura in cui il v. 8 vi
è influenzato dall'oracolo di Isaia; Paolo fa opportunamente richia­
mo al tema biblico del «resto». Ed è evidentemente il caso del passo
degli Atti che ci occupa: la condanna segnata da At 28,25b-27 contro
«questo popolo» non può includere i giudei di cui si è detto che si so­
no lasciati persuadere da Paolo e si sono schierati col suo messaggio.
L'espressione «questo popolo» non si applica indistintamente a tutti
i membri del popolo eletto.
All'altra estremità dell 'interpretazione che vedrebbe in «questo
popolo>> tutto Israele preso in blocco, l'uso greco permetterebbe di
dare all'espressione un significato fortemente banale, che ne farebbe
l 'equivalente di «quella gente» . Questa soluzione dev'essere esclusa,
anzitutto in ragione della massiccia testimonianza fornita dal voca­
bolario di Luca; al di fuori di due eccezioni in A t 15,14 e 18,10, ove il
termine laos è esteso a gentili divenuti cristiani, questo termine desi­
gna sempre dei giudei, negli Atti come nel Vangelo. Luca non esita a
scrivere che Giuda il galileo trascinò «Un popolo» al suo seguito (At
5,37), poiché tutte le persone che l'hanno seguito erano giudee. Egli
non esita inoltre a parlare dell'ekklesia dei cittadini di Efeso
( 19,32.39.41), ma non è per caso che egli non impiega mai laos in un
contesto di questo genere. Una più precisa ragione di escludere qui
un significato puramente banale della parola laos si trova nel fatto
che le due menzioni dell 'espressione «questo popolo» nei vv. 26 e 27
sono immediatamente seguite, al v. 28, dalla designazione antitetica
di ethne, i non giudei. La relazione di contrasto che lega i due termi­
ni mostra a sufficienza che la parola «popolo» resta una designazio­
ne d'Israele.

122
Torniamo così alle conclusioni a cui ci aveva già condotto l 'esame
dell'uso della parola laos in At 15,14: nel vocabolario di Luca è cor­
rentemente usato in senso partitivo. Si tratta non del popolo di Dio
considerato in blocco, ma di un gruppo appartenente a questo popo­
lo. Se è vero che in At 15,14 e 18,10 dei non giudei possono essere
compresi nel termine che designa il <<popolo>> di Dio, non resta me­
no vero che Luca non contesta tale designazione ai giudei che rifiu­
tano la fede cristiana. Essi ricevono allora la qualifica peggiorativa
del linguaggio profetico: «questo popolo»; continuano non di meno
a far parte del «popolo>> di Dio.
Queste osservazioni debbono metterei in guardia contro la tenta­
zione di accentuare unilateralmente una minaccia come quella di A t
3,23: «Chiunque non ascolterà quel profeta sarà tolto dal proprio po­
polo». I giudei increduli divengono coloro che il profeta Isaia indica
come «questo popolo>>, ma il titolo di «popolo» continua a riferirsi a
loro. L'idea che Dio potrebbe avere due «popoli», uno antico e uno
nuovo, non sfiora il pensiero di Luca. Gli basta distinguere nel «po­
polo» una porzione fedele e una ribelle. Divenuta «questo popolo»,
tale porzione infedele e indocile meriterebbe di essere tolta «dal suo
popolo»; tuttavia, seppure emarginata. Luca non ne mette in causa
l'appartenenza al popolo eletto. L'esclusione di cui essa è minaccia­
ta non si produrrà, infatti, che al momento del giudizio, come dimo­
stra l'importante pericope di Le 13,23-30 (di cui si è parlato in occa­
sione dello studio di At 3,25-26).
La separazione che provoca il messaggio cristiano all'interno de]
«popolo» va di pari passo con un allargamento dell'orizzonte in di­
rezione di tutte le nazioni dell'intero mondo non giudaico. L'asso­
ciazione dei due aspetti complementari è così abituale negli Atti che
non sorprende trovarla ancora una volta alla conclusione del libro.
I rimproveri che Paolo rivolge ai giudei di Roma, che persistono
nella loro incredulità, non debbono ritenersi isolati dalla dichiara­
zione che li accompagna al v. 28.

3.2. Il richiamo di fs 40,5 in At 28,28

Anzitutto, trascriviamo letteralmente il versetto:


28Sia dunque noto a voi che è ai gentili che è stata inviata questa salvezza
di Dio; essi intenderanno.

123
Il rapporto con la citazione profetica dei versetti precedenti è im­
mediatamente assicurato dal complemento «ai gentili», evidenziato
all'inizio della dichiarazione, in contrasto con ciò che il profeta dice­
va di «questo popolo». Ma non è meno confermato dall'affermazio­
ne finale, fortemente sostenuta: «essi ascolteranno» ( o almeno «essi
capiranno»). Il verbo «ascoltare>> è il solo che appariva tre volte nel­
la citazione. L'interesse rivolto a questo verbo si era manifestato già
dal v. 22, che assicurava il passaggio fra i due colloqui di Paolo con i
giudei di Roma. Costoro gli avevano chiesto: «vorremmo ascoltare
da te ciò che ne pensi».
È utile osservare le diverse sfumature inerenti al verbo «ascolta­
re»; ripetuto cinque volte caratterizza tutto questo passo. Esprimen­
do al v. 22 il loro desiderio di «ascoltare» l'opinione di Paolo, i giudei
non desideravano null'altro che un'informazione, di fronte a cui essi
mantengono un atteggiamento neutrale, riservandosi di giudicare
quello che sarà detto loro. Nel primo versetto della citazione l'im­
portanza del verbo è sottolineata da un raddoppio: «ascoltare, ascol­
terete, e voi non comprenderete». Gli ascoltatori sentiranno perfet­
tamente ciò che è detto loro, ma non ne coglieranno il significato. Al­
l'inizio del versetto seguente è l'ascolto stesso che diviene difficile:
«fecero fatica ad ascoltare coi loro orecchi». Sono divenuti duri d'o­
recchi e percepiscono malamente ciò che è detto. Nella seconda
metà del versetto le loro cattive disposizioni fanno sì che essi non
ascoltino assolutamente più nulla: «per timore... che essi non ascolti­
no coi loro orecchi». La gradualità è evidente. Dà tutto il proprio ri­
lievo all'affermazione del v. 28 che dice dei gentili «essi ascolteran­
no» : vale a dire che non soltanto percepiranno quello che è detto, ma
che l'ascolteranno con docilità e lo comprende ranno. Il contrasto è
completo, tanto con le tre utilizzazioni del verbo nella citazione, che
con quella del v. 22. In pratica Paolo troverà presso di loro la stessa
,

accoglienza dei giudei che si sono lasciati convincere dalle sue spie­
gazioni (v. 24 )
.

In fondo, tale dichiarazione ai giudei di Roma costituisce l'equi­


valente di quella che Paolo e Barnaba avevano fatta, in forma meno
raccolta, all'indirizzo dei giudei di Antiochia di Pisidia: « È a voi an­
zitutto che era necessario fosse annunciata la parola di Dio. Poiché
la rifiutate e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco che ci ri­
volgiamo alle nazioni. Perché così ce l 'ha comandato il Signore: "Ti
ho stabilito luce per i gentili, affinché tu sia salvezza fino alle estre-

124
mità della terra "» (13,46-47). La posta in gioco, che là era quella del­
la «vita eterna», è ora quella della «salvezza>>; le due espressioni so­
no equivalenti. Ma ad Antiochia i due missionari giustificavano la lo­
ro decisione presentando, come un ordine divino, un testo di Isaia. A
Roma, Paolo si guarda dal fare una citazione. Ma Luca si arrangia in
modo che il suo lettore possa riconoscere, nei termini impiegati da
Paolo, l'eco di un passo di Isaia, già citato, in un contesto che gli ga­
rantisca un particolare rilievo.
Nell'espressione di 28,28, «questa salvezza di Dio», il dimostrati­
vo sembra voler rinviare a una «salvezza» di cui si è già parlato. Ora
nulla evocava questo tema in ciò che si è detto sulla predicazione di
Paolo a Roma, e il rapporto rimane molto vago con l 'espressione im­
piegata da Paolo, parlando della propria situazione: «È a causa della
speranza d' Israele, che porto questa catena» (v. 20).
Si constata nello stesso tempo che, per indicare la «salvezza», Lu­
ca non impiega il termine abituale, soteria, ma piuttosto soterion: una
parola frequente nella Settanta, ma che riappare solo tre volte nel
Nuovo Testamento: Le 2,30; 3,6 ed Ef 6,17. Ef 6,17 parla di «elmo di
salvezza», in relazione a Is 59,17. I tre usi che Luca fa della parola
soterion si caratterizzano per l'aggiunta del genitivo; si tratta ogni
volta della «salvezza di Dio». È anzitutto il caso del cantico di Si­
meone: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Le 2,30). È il ca­
so, soprattutto, della grande citazione di Isaia 40,3-5 che Luca ha col­
locato come motto all'inizio della storia evangelica, in Le 3 ,4-6. La
tradizione anteriore aveva già riconosciuto Giovanni Battista in ciò
che Is 40,3 dice della «voce che grida nel deserto: preparate la via del
Signore» (Mc 1 ,3; Mt 3,3). Ma Luca prolunga la citazione sino all'i­
nizio del v. 5: «E ogni carne vedrà la salvezza di Dio». È perfetta­
mente chiaro che Luca non pensa più di applicare tale affermazione
al ministero di Giovanni. Non pensa neppure di applicarla al com­
plesso della storia evangelica che comincia a questo punto. Già lì egli
apre al lettore una prospettiva che non prenderà una certa consi­
stenza che nella seconda metà degli Atti.
L'importanza che Luca ha attribuito alla prima esplicita citazione
del suo Vangelo e all 'affermazione fino alla quale l'ha voluta pro­
lungare trova conferma nell'analogia del procedimento che, all 'ini­
zio del secondo libro, utilizza il testo di Gl 3,1-5 come chiave erme­
neutica dell'avvenimento della Pentecoste, ma prolungandolo fino
alle parole: «E chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà sal-

125
vato» (A t 2,21 ) Non è quindi forse così avventato, come potrebbe
.

sembrare a prima vista, intravvedere la possibilità di una certa este­


sa inclusione che unisce la citazione molto valorizzata posta da Luca
all'inizio della storia evangelica e un richiamo allo stesso testo pro­
fetico a chiusura della dichiarazione di Paolo che serve da conclu­
sione agli Atti.
Questa ipotesi spiega non soltanto la presenza della stessa ecce­
zionale espressione to soterion tou theou in Le 3,6 e A t 28,28, ma an­
che il dimostrativo touto, «questa salvezza di Dio», che rinvia il let­
tore a un'espressione già intesa. Non vi sono forse molti elementi per
parlare di un «richiamo»? Non bisogna tuttavia dimenticare che
l' immediato contesto in At 28,28 impegnava Luca a modificare le al­
tre due caratteristiche espressioni di ls 40,5a: sostituzione di «ogni
carne» con «i gentili», in contrasto con la duplice menzione di «que­
sto popolo», e sostituzione del verbo «Vedere>> (al futuro) col verbo
«ascoltare» (ugualmente al futuro), in connessione con il triplice uso
di tale verbo in Is 6,9-10. È proprio con l'ascolto dei gentili che si rea­
lizza, secondo Luca, la promessa in virtù della quale «ogni carne» do­
veva «vedere la salvezza di Dio».
Si coglie meglio così il parallelismo che lega la finale dei due in­
contri di Paolo con i giudei di Roma alla finale di ciascuno dei due
episodi della sinagoga di Antiochia di Pisidia: anzitutto un grave av­
vertimento all'indirizzo dei giudei increduli, sotto forma di citazione
di un minaccioso oracolo (Ab 1 ,5; Is 6,9-10), successivamente l'an­
nuncio di un'apertura verso i gentili, che deve realizzare la prospet­
tiva universalistica degli oracoli di Is 49,6 o 40,5. Sia la divisione del
popolo giudaico dinanzi al messaggio di salvezza, sia la destinazione
di questo alle nazioni erano previste nel disegno di Dio di cui testi­
moniano le profezie.
Resta che, né nel caso d'Antiochia di Pisidia, né in quello di Ro­
ma, Luca ci autorizza a parlare di un rigetto del popolo eletto come
tale, e neppure dell'emergere di un nuovo popolo. La presenza di
giudei credenti (1 3,43; 28,24-25a) impedisce di confondere gli incre­
duli, qualificati come «Sprezzanti» o designati come «questo popo­
lo», con il popolo di Dio tout court. E la minaccia di esclusione che
pesa su di loro si colloca in una prospettiva che è quella della «Vita
eterna» ( 13 ,46) o della «salvezza» (28,28), relativa al giudizio escato­
logico piuttosto che a un ordine istituzionale del mondo presente.
Occorre constatare, in compenso, che questi due passi non si preoc-

126
cupano affatto del modo in cui si pone l'articolazione dei gentili re­
lativamente al popolo della promessa. Questo problema non è toc­
cato che in At 15 ,14 e 18,10. Qui si può vedere che Luca non trova
difficoltà a estendere ai cristiani usciti dal paganesimo la denomina­
zione di «popolo», normalmente riservata a Israele. È, lui, sensibile
all' audacia richiesta da tale estensione del titolo? Di fatto essa ap­
pare nelle parole di personaggi la cui autorità non è discutibile: Gia­
como per primo, lo stesso Risorto, in seguito.

4. La missione di Paolo «per una parte di eredità


fra i santificati» (At 26,18)

Se il duplice incontro di Paolo coi giudei di Roma non manca di


solennità, non è tuttavia là che Luca h a posto l'ultimo grande di­
scorso di Paolo negli Atti. Tale discorso avviene a Cesarea, s'indiriz­
za al re giudaico Agrippa, in presenza di Festo. il governatore roma­
no, di tutta la scorta reale e delle personalità civili e militari della ca­
pitale amministrativa della Palestina (At 25,23) . Il governatore in
persona, che aveva già messo il re al corrente (25,1 3-22), fa la pre­
sentazione di rito (25 ,24-27). Evidentemente Luca ha voluto valoriz­
zare la circostanza per quanto gli era possibile. Il discorso di Paolo si
distingue d'altronde per lo stile particolarmente fiorito (26,2-23) .
Per i l contenuto questo discorso offre soprattutto a Luca l'occa­
sione di fare al proprio lettore un terzo racconto dell'incontro di
Paolo con Gesù sulla via di Damasco (vv. 9- 18). Il Risorto si è mani­
festato a Paolo in vista della missione a cui Io destinava. Sulla natu­
ra di questa missione, il lettore era già stato informato nella prima
narrazione mediante le parole di Gesù ad Anania (9,15); nella se­
conda tramite la parola di Anania a Paolo (22,14-15); in questa, è Ge­
sù stesso che si rivolge direttamente a Paolo, al quale tiene un picco­
lo discorso (26,16-18). A differenza dei discorsi fin qui studiati, que­
sto non contiene alcuna citazione formale della Scrittura; in com­
penso esso è intessuto di reminiscenze bibliche, dense di significato.
Salta immediatamente agli occhi il fatto che la missione di Paolo
è definita in termini che vogliono ricordare quelle dei grandi profe­
ti. Gesù inizia col dirgli: «Rialzati e tieniti in piedi» (26,16). È quan­
to Dio aveva detto a Ezechiele nel momento di affidargli la sua mis­
sione (Ez 2, 1). Al v. 17 Gesù promette: «Ti libererò dal popolo e dai
gentili verso cui t'invio». Questi termini fanno da eco a quelli della

127
visione inaugurale di Geremia (Ger 1 ,5.7-8). L'inizio del v. 1 8 preci­
sa: «Per aprir loro gli occhi, affinché ritornino dalle tenebre alla lu­
ce». Si riconosce qui la missione del Servo in Is 42,7 (e 42, 16). Quan­
to alle ultime parole di questo v. 18, che promettono ai beneficiari
della missione di Paolo «una parte di eredità» tra i santificati, si può
abbastanza facilmente riconoscervi il ricordo delle parole del Dt
33,3-4, introducenti le benedizioni pronunciate sui figli d'Israele da
Mosè prima di morire. Questo sfondo è manifestamente destinato a
dare tutto il suo rilievo alla missione di cui Paolo è stato investito da
Cristo.
Ma non è la vocazione di Paolo come tale che deve attirare qui la
nostra attenzione; se essa c'interessa, è a motivo delle sue implica­
zioni ecclesiologiche. Da questo punto di vista, non si può non esse­
re colpiti dalle ultime parole del discorso di Gesù (che sono anche le
sue ultime nell'opera di Luca): a quelli che Paolo condurrà dalle te­
nebre alla luce, egli promette «una parte di eredità fra i santificati» .
Non significa questo, nel linguaggio biblico, che essi saranno parteci­
pi dei privilegi del popolo santo, il popolo di Dio? Ci si ricorda na­
turalmente della classica formula mediante cui Dio dichiara al suo
popolo: «Sono il Signore che vi santifica» (Es 31 ,13; Lv 20,8�
21 ,8.15 .23; 22,9.16.32; Ez 20,12; 37,28). Di qui la maniera mediante la
quale si può parlare d'Israele come di «popolo santificato» (Dn 4, 19
[LXX]; 1 2,7 TH), o semplicemente «i santificati», come è nel caso di
Dt 33,3-4:
3 Ha avuto pietà del suo popolo; tutti i santificati sono sotto la tua mano
( ) . 4E dalle sue parole egli
••• ha ricevuto una Legge, quella che ci ha pre­
scritto Mosè, eredità per i convocati di Giacobbe (LXX).

In realtà, l'esegesi della finale del v. 18 s'inoltra su due vie diffe­


renti, entro cui sarà necessario operare una scelta. Per un buon nu­
mero di esegeti, «la parte di eredità tra i santificati» che è promessa
ai beneficiari della missione di Paolo, a coloro dunque che abbracce­
ranno la fede cristiana, anche se si tratta di non giudei, li farà gioire
della condizione privilegiata che, fin d'ora, caratterizza il popolo di
Dio. Altri, non meno numerosi, pensano si tratti di una partecipazio­
ne all'eredità spettante agli eletti del mondo a venire, nell'attuarsi
della definitiva salvezza. Nel primo caso l'espressione avrebbe una
considerevole portata ecclesiologica; nel secondo, non interessereb­
be l 'ecclesiologia. Aggiungiamo subito che il problema è insepara-

128
bilmente legato a quello dell'interpretazione che conviene dare alla
formula, del tutto simile, di At 20,32 in cui Paolo affida i presbiteri­
episcopi di Efeso «a Dio e alla parola della sua grazia, che ha il po­
tere di costruire e di dare l 'eredità tra tutti i santificati». Qui, ugual­
mente, l'espressione <<l'eredità tra tutti i santificati>> è intesa ora in
senso ecclesiologico, ora in senso puramente escatologico.8

8 È precisamente lo studio su At 20,32 che mi ha indotto a difendere per questo


versetto e per 26,18 l'interpretazione ecclesiologica: Le Discours de Mi/et, testament
pastoral de saint Pau/ (Actes 20,28-36) (Lectio Divina, 32), Paris 1962, 261-283. Questa
interpretazione sembrerebbe imporsi se si proiettasse sulla formulazione di questi due
passi di Atti la luce delle analoghe espressioni dell'Antico Testamento, di molti testi di
Qumran e del Nuovo Testamento stesso; gli Atti riportano sulla Chiesa una designa­
zione d'Israele come popolo consacrato a Dio. Tale dimostrazione riguardava un
aspetto del problema, ma teneva sufficientemente conto di un altro aspetto, quanto
meno altrettanto importante, che è quello della prospettiva in cui Luca riprende que­
ste espressioni? È il punto su cui ho dovuto interrogarmi dieci anni più tardi dovendo
occupanni dell 'escatologia lucana. A livello della redazione, in ogni caso. le formule di
At 20,32 e 26, 18 dovevano trovar posto nell'insieme dei dati forniti dal terzo Vangelo
e dagli Atti. Ho trovato interessanti, da questo punto di vista, le osservazioni fatte da
due autori: W. PE scH , «Zur Formgeschichte und Exegese von Lk 12,32», in Biblica
41(1960). 25-40, e R. PESCH , «uSei getrost, kleine Herde" (Lk 12,32). Exegetische und
ekklesiologische Erwagungen», in K. FAERBER, Krise der Kirche - Chance des Glau­
bens. Die «kleine Herde>> heute und morgen, Frankfurt 1968, 85- 1 18. Ho così riunito i
due versetti che ci interessano fra i testi che testimoniano l' «escatologia individuale»
di Luca: «L'après-mort dans l'oeuvre de Luc», in Revue Théologique de Louvain
3(1 972), 3-21(1 0s); Les Béatitudes (Etudes Bibliques), III, Paris 1973, 1 26-129. Simile
ritorno all'interpretazione escatologica mi fece riscoprire l'opinione probabilmente
più diffusa: quella che si trova in particolare nei commentari di H.H. WENDT (1 913), T.
ZAHN (1921), A. LoJsY ( 1 925), A. B o uoou ( 1 933), A. WIKENHAUSER ( 1 956), E. HAEN­
CHEN (1956/1977), C.M. MARTINI ( 1970), R. FABRIS ( 1 977), C. GHIDELLI ( 1 978 ) J. RoLOFF
,

( 1981 ), G. ScHNEIDER ( 1981 ), o ancora nell'articolo di W. FoERSTER, in TWNT III


( 1 938), 781 , nelle opere di H. -J. MICHEL, Die Abschiedsrede des Paulus an die Kirche
Apg 20, 1 7-38. Morivgeschichte und theologische Bedeutung (SANT 35), Miinchen
1973, 89, e di O. KNoCH, Die « Testamente)> des Petrus und Paulus. Die Sicherung der
apostolischen Ueberlieferung in der spiitneutestamentlichen Zeit (SBS 62), Stuttgart
1973, 37. Ma l'interpretazione ecclesiologica ha pure i suoi sostenitori. La si trova, ad
esempio, nei commentari di T. M LINDSAY ( 1 89511950), R B. RACKHAM ( 1 901/1919), E.
. .

JACQUIER (1926). F.F. BRucE ( 1 956), G. STA.H U N ( 1 962), in una nota di O. PRocKsCH, in
TWNT 1(1933), 108, nota 61 ; si veda anche H. BALZ, in EWNT 1 (1980), 41. Essa ha ri­
cevuto soprattutto l 'appoggio di due eccellenti esposizioni, opportunamente motivate
e indipendenti l'una dall'altra: R.F. O'TooLE, Acts 26, The Christological Climax of
Paul's Defense (Ac 22:1 - 26:32) (An Bib 78), Rome, 1978, 78-80, e F. PRAST, Presbyter
und Evangelium in nachapostolischer Zeit. Abschiedsrede des Paulus in Mi/et (Apg
20,1 7-38) im Rahmen der lukanischen Konzeptiorr der Evangeliumsverkundigung ( For­
schung zur Bibel, 29), Stuttgart 1979, 146-148. E chiaro che le osservazioni di questi
due autori meritano la maggiore attenzione. Può essere utile che io ricordi un articolo
sul passo che ci interessa: «La Mission de Paul d'après Actes 26. 16-23 et la Mission des

1 29
4. 1. Analisi della frase: At 26,16b-18

La dichiarazione del Risorto che costituisce l'investitura del pro­


prio messaggero doveva avere un andamento di particolare rilievo.
Luca ha messo in opera ogni mezzo per renderla molto solenne. Ab­
biamo già notato uno di questi mezzi: una serie di allusioni bibliche
le conferiscono le risonanze di un linguaggio sacro. Si vede che vi
gioca in pieno il procedimento oratorio delle espressioni ripetute. E
soprattutto essa è costituita da una sola frase, ove la sottile architet­
tura delle proposizioni non è esente dal porre qualche problema di
sintassi per un lettore sconcertato da uno stile sì ampio. Non vi si in­
contrano meno di quattro proposizioni infinitive finali, che testimo­
niano la sua alta qualità letteraria, ma la cui concatenazione non è
per noi facile da afferrare. Interessandoci direttamente del modo in
cui termina questa frase, non ci si può dispensare dal leggerla intera­
mente. Ne diamo anzitutto una traduzione letterale che sicuramente
non corrisponderà ai nostri gusti letterari:
1 6bPerché è per questo che io ti sono apparso,
per costituirti servo e testimone
della visione che hai avuto (di me) e di quelle in cui io ti apparirò,
171iberandoti dal popolo e dai gentili
verso cui t'invio,
1 8a per aprir loro gli occhi,
tsbper farli tornare dalle tenebre alla luce
e dall'impero di Satana a Dio,
t &affinché essi ricevano il perdono dei peccati
e una parte di eredità fra i santificati
per la fede in me.

Le prime parole «per questo» caratterizzano bene l'orientamen­


to di tutta la frase, che indica anzitutto il fine dell'apparizione; suc­
cessivamente lo scopo della missione a cui tendeva quest'apparizio­
ne. Il verbo principale segue immediatamente: «ti sono apparso». Es-

Apòtres d'après Luc 24.44-49 et Actes 1.8» che ho pubblicato in M.D. HooKER - S.G.
WILSON, Pau/ and Paulinism. FS C.K. Barrett, London 1982, 290-301 . Vi si sottolinea
particolarmente la correlazione in At 26 tra il modo in cui Gesù definisce la missione
di Paolo (vv. 16-18), quello mediante il quale Paolo parla della sua attuazione ( vv. 19-
20), poi di ciò che costituisce il suo contenuto (vv. 21-23).

130
so regge tosto una proposizione finale: «per costituirti». Due termini
definiscono la missione di Paolo: «servo e testimone». Tale duplice
espressione non può mancare di richiamare quella della prefazione,
ove si trattava dei autoptai kai hyperetai (Le 1 ,2). L'oggetto del ser­
vizio e della testimonianza di Paolo è ugualmente duplice: ciò che
egli ha visto e ciò che ancora vedrà.
A questa missione è collegata una promessa, che il v. 17 esprime
mediante una proposizione participiale: «liberandoti dal popolo e
dai gentili». Il participio presente prende naturalmente il significato
che avrebbe un futuro indicativo: «ti libererò». Il complemento «dal
popolo e dai gentili» è seguito da una proposizione relativa: «verso
cui» o «verso i quali t'invio». Il verbo di questa relativa è assai im­
portante, poiché comanda le tre proposizioni infinitive di cui è com­
posto il v. 18. Di qui l'importanza di sapere a che cosa si riferisce il
pronome relativo «verso cui», eis hous: trattasi del «popolo e dei gen­
tili» insieme, o soltanto dell'ultimo termine, «i gentili»?
Poiché tale versetto fa eco alla vocazione di Geremia. ci si può ri­
cordare che il Signore aveva detto allora: «Ti ho stabilito profeta per
i gentili ( ... ]. Andrai verso tutti quelli a cui t'invierò» ( Ger 1 ,5.7). Il pa­
rallelo tende ad accentuare la parola «gentili». Ma ciò che il v. 17 di­
ce dell'«invio» di Paolo non può ignorare ciò ch'egli stesso dice subi­
to dopo sul modo in cui ha compiuto la propria missione: «Agli abi­
tanti di Damasco, anzitutto, e a Gerusalemme, e in tutto il paese del­
la Giudea, poi ai gentili, ho predicato» (At 26,20). Occorre altresì
prendere in considerazione le ultime parole del discorso: secondo le
Scritture, il Cristo «doveva annunciare la luce al popolo e ai gentili»
(v. 23). Quest'opera, che effettivamente il Cristo compì mediante il
suo testimone, riguarda contemporaneamente il popolo giudaico e le
nazioni pagane. Ma non è ancora detto tutto, poiché bisogna ricono­
scere che il modo in cui si esprime il v. 18, in particolare quando par­
la di un ritorno «dall'impero di Satana a Dio», si comprende meglio
se si parla dei gentili, e questo è confermato da ciò che il v. 20 dice su
una «conversione a Dio». Il v. 17 non vuole limitare la missione di
Paolo ai soli gentili: essa concerne anche i giudei. Ma rimane che l'in­
teresse si concentra più direttamente su questa missione ai gentili.
Le tre proposizioni infinitive del v. 18 precisano lo scopo per cui
Paolo è «inviato» dal Cristo. Il problema consiste nel sapere se tutte
e tre dipendono direttamente dal verbo «inviare», e allora sarebbe­
ro semplicemente giustapposte l'una all'altra, o se soltanto la prima,

131
«per aprir loro gli occhi», si collega a «inviare», mentre la seconda sa­
rebbe subordinata alla prima e la terza alla seconda. Il ritmo della
frase e, più chiaramente ancora, il contenuto delle proposizioni di­
mostrano come la seconda ipotesi sia la buona: le proposizioni infi­
nitive finali si susseguono a cascata. La missione di Paolo ha per sco­
po «di aprire gli occhi» di coloro a cui è inviato; tale apertura dei lo­
ro occhi deve condurre alla loro «conversione», e questa conversio­
ne deve suscitare sia la remissione dei loro peccati sia la loro am­
missione all'eredità dei santificati. Assistiamo dunque a una reale
progressione: ogni proposizione indica uno scopo, esso stesso orien­
tato verso lo scopo espresso dalla successiva. La conclusione della
serie, «per la fede in me», che non parla più di scopo ma di mezzo,
segna una sorta di anticlimax, ma assume così un particolare rilievo.
Paragonate fra loro, queste tre proposizioni del v. 18 differiscono
per taglio e costruzione. La prima. molto breve, si limita a tre paro­
le: «aprir loro gli occhi». La seconda, più pregnante, spiega la con­
versione mediante un duplice movimento: quello anzitutto che fa
passare dalle tenebre alla luce e quello, successivo, che fa passare
dall'impero di Satana a Dio. Ma l'affermazione del secondo passo
che altro è se non l'esplicitazione di ciò che il primo diceva in forma
figurativa? Se vi è progressione fra i due modi di esprimere la con­
versione, questa sembra non trovarsi che nell'esplicitazione. A parte
la precisazione finale «per la fede in me» ( che occorre collegare al
verbo «ricevere» ), la terza proposizione è costruita sull'identico mo­
dello della seconda, ma più semplicemente. Questo è dovuto al fatto
che non c'è più motivo qui di parlare come per la conversione di un
punto di partenza e di uno d'arrivo. Quello che vi è da «ricevere» è
ancora espresso in due forme, ciascuna contenente due termini es­
senziali, ma collegati invece di essere opposti: è anzitutto la «remis­
sione dei peccati», poi «la parte di eredità tra i santificati». Il negati­
vo e il positivo, che risultavano opposti in ognuna delle parti della se­
conda proposizione (tenebre/luce, impero di Satana/di Dio), si tro­
vano qui separati: la «remissione dei peccati» della prima parte co­
stituisce il polo negativo rispetto al quale la «parte di eredità tra i
santificati» rappresenterà il polo positivo.
La conseguenza di tali osservazioni, forse fastidiose, sembra im­
porsi immediatamente; il semplice esame della costruzione della fra­
se non gioca a favore dell'interpretazione escatologica. In questa de­
scrizione dell'opera affidata a Paolo, tutto si colloca a livello dei ri-

132
sultati terrestri della sua azione, e nulla fa supporre, al vertice conclu­
sivo delle successive finalità, la comparsa di uno scopo riferito all'al­
tro mondo. Occorre aggiungere d'altronde che la collocazione della
precisazione strumentale, «per la fede in me>>, in fondo alla frase, do­
po la menzione della «parte di eredità tra i santificati», non favorisce
l'interpretazione escatologica; non si parla più di fede dopo la defini­
tiva realizzazione della salvezza. La fede in Gesù, alla quale Paolo è
incaricato di chiamare gli uomini, deve procurare a questi sia la re­
missione dei peccati sia la partecipazione al popolo dei santificati.
Occorre altresì tener conto dei versetti successivi, in cui, dopo aver
narrato la missione che Gesù gli aveva affidata, Paolo spiega come
l'abbia eseguita: dapprima ai giudei, in seguito ai gentili, egli ha «pre­
dicato il pentimento e il ritorno a Dio, compiendo opere che corri­
spondono al pentimento» (v. 20). Ecco certamente un modo di parla­
re che non evoca la felicità dei beati. Il v. 23 invita a vedere nell'atti­
vità di Paolo la realizzazione di ciò che le Scritture dicevano del Cri­
sto stesso, il quale doveva «annunciare la luce al popolo e ai gentili».
Neppure qui si evocano le condizioni degli eletti nel mondo a venire.
L'immediato seguito conferma dunque ciò che scaturisce dalla co­
struzione della frase e, più specialmente, dal v. 18; si tratta dello sco­
po per il quale il Risorto invia Paolo agli uomini: aprir loro gli occhi
affinché si convertano e la fede ottenga loro la remissione dei pecca­
ti, facendo di essi dei santificati che hanno parte ai privilegi del po­
polo di Dio. Per quanto nel v. 17 la missione di Paolo sia stata desti­
nata tanto ai giudei quanto ai gentili e i vv. 20 e 23 confermino tale
estensione, bisogna riconoscere che l'enumerazione dei benefici che
tale missione deve recare agli uomini si applica più direttamente ai
gentili che ai giudei. Nella seconda proposizione finale, la conversio­
ne che deve ricondurre a Dio è citata in termini che si applicano me­
no bene ai giudei che ai pagani. Sembra che debba dirsi altrettanto
dell'espressione della terza proposizione finale, dove si parla di una
parte (di eredità) fra (il popolo) dei santificati. Significa attribuire ai
credenti un privilegio che normalmente caratterizza Israele.

4.2. La parola che procura «l'eredità tra i santificati» (At 20,32)

Rievocando la prospettiva dell'acquisizione di «una parte di ere­


dità tra i santificati», At 26,18 s'ispira a un modo di parlare assai con­
venzionale.

133
Espressioni simili, e suscettibili di chiarire la promessa che ci oc­
cupa, sono state prese dall 'Antico Testamento, dalla letteratura giu­
daica intertestamentaria e dalla prima letteratura cristiana. Il paral­
lelo più completo è incontestabilmente quello fornito da Col l ,l 2-14:
12Rendete grazie al Padre che vi ha reso capaci d 'aver parte alla eredità dei
santi nella luce, 13egli che ci ha sottratto all'impero
delle tenebre e ci ha tra­
sferito nel regno del suo Figlio diletto, 1 4in cui abbiamo la redenzione, la
remissione dei peccati.

I paralleli di tal genere sono estremamente utili, perché chiari­


scono il significato del linguaggio a cui s'ispira quello degli Atti. Ma
essi non risolvono ancora la questione se gli Atti attribuiscono alle
espressioni attinte il significato che esse hanno potuto avere in un
differente contesto. Per l'interpretazione di At 26,18, sembra molto
più importante rendersi conto del fatto che la promessa, con cui si
chiude la dichiarazione del Risorto, riprende un'espressione che era
stata impiegata un po' più sopra, in 20,32, nel versetto che costituiva
la conclusione del «testamento pastorale» di Paolo, indirizzato ai
presbiteri-episcopi della Chiesa di Efeso (20,18-35).9
Meno pregnante della dichiarazione di Gesù in 26, 16b-1 8, la be­
nedizione che conclude il discorso di Paolo a Mileto si rivela molto
solenne.
32Ed ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha il potere di
costruire e di elargire l'eredità fra tutti i santificati (At 20,3 2).

9 Sul modo in cui credo di dover comprendere la costruzione di questo discorso,


mi sono spiegato nell'edizione italiana dell'opera Il testamento pastorale di san Paolo.
Il discorso di Mileto (La parola di Dio. 21), Roma 1 980, 49-71. Il risultato a cui sono
ciunto differisce sensibilmente dal piano che F. PRAST ha proposto quando il mio libro
era alle stampe: Presbyter und Evangelium in nachapostolischer Zeit, 1979, 49 s. Trovo
poco illuminanti dal punto di vista esegetico le categorie in funzione delle quali gli
elementi del testo sono ripartiti da J.S. PETOEFI , «La struttura della comunicazione in
Atti 20, 17-38», in Rivista Biblica 29( 1981), 359-378. Inquadrato da un'introduzione e
una conclusione narrative (20, 1 7- 1 8a e 36-38), il discorso ricorda anzitutto ciò che è
stato il ministero di Paolo in Asia (1 8b-21 ), esprime i sentimenti che animano l'apo­
stolo al momento attuale ( 22-24), invita i suoi ascoltatori a prendere coscienza della
loro responsabilità pastorale (25-28) e li previene sulle difficoltà che esigono la loro
vigilanza (29-31 ). La benedizione del v. 32 costituisce la conclusione, seguita tuttavia
da un'ultima raccomandazione in forma di epilogo (33-35).

134
Si riconosce il procedimento del raddoppio delle espressioni:
Dio e la sua parola, costruire ed elargire l'eredità. Ogni volta, il se­
condo termine è più sviluppato: «e la parola della sua grazia», «ed
elargire l'eredità fra tutti i santificati». L'infinito aoristo «elargire»
(dounai) corrisponde all'infin ito aoristo <<ricevere>> (labein) di
26,18; il complemento di 26, 18 «Una parte di eredità fra i santifica­
ti» non dice niente di diverso di quello di 20,32: «l'eredità fra tutti i
santificati», le parole kleros e kleronomia sono intercambiabili nel
greco biblico e l'aggettivo pantes «tutti» non mira che ad accrescere
l'enfasi dello stile.
Si ritrovano anche, a proposito di 20,32, problemi analoghi a
quelli che sollevava la frase di 26,16b- 1 8. A cominciare da quello del
pronome relativo (cf. 26,17); qual è l'antecedente del relativo singo­
lare «che ha il potere» facente seguito a due sostantivi, Dio e la sua
parola? Il problema è senza dubbio meno grave di quando si tratta­
va di sapere se la missione di Paolo riguardava nel contempo i giu­
dei e i gentili, o più direttamente questi ultimi. Si capisce più facil­
mente come Dio non faccia numero con la propria parola; ma il pro­
blema non dovrebbe lasciare indifferente l'esegeta che s'interessa
della teologia lucana della Parola. Pensiamo che effettivamente il
relativo si rivolga direttamente al termine logos, accentuato d'al­
tronde con l'aggiunta del complemento: «la parola della sua grazia».
È alla Parola che va direttamente attribuito il potere divino di co­
struire e di dare l'eredità, in quanto essa è strumento di cui Dio si
serve per realizzare il proprio disegno di salvezza.
Troviamo soprattutto, a proposito del rapporto tra i due infiniti­
vi aoristi «costruire» e «dare l'eredità», un problema analogo a
quello posto dalla relazione tra i due complementi di 26,1 8c: «per ri­
cevere la remissione dei peccati e una parte di eredità tra i santifi­
cati». La semplice coordinazione grammaticale corrisponde natu­
ralmente a una progressione, mentre il secondo verbo sottolinea lo
scopo o la conseguenza del primo. Il primo parla della costruzione
spirituale della comunità e si pone dunque chiaramente sul piano
ecclesiologico. «L'eredità» di cui parla il secondo può porsi nella
stessa prospettiva ecclesiologica: si tratterebbe allora del godimen­
to dei beni che Dio accorda, per mezzo della sua parola, al popolo
santo che gli appartiene; ma si può anche intenderlo in un senso
escatologico, in cui designerebbe la salvezza che si realizzerà nel
mondo a venire.

135
Per veder chiaro in 26,18c, abbiamo messo in evidenza che la pre­
cisazione <<per la fede in me>>, collegata al verbo «ricevere>>, qualifica
nel contempo le due espressioni: «la remissione dei peccati» e la
«parte di eredità tra i santificati». Nel caso di 20,32 è sufficiente os­
servare che i due verbi «costruire» e «dare l'eredità» si presentano
come il risultato della stessa «Parola»: risultato che tale Parola non
realizza, evidentemente, che per coloro che l'accolgono con fede.
Questa implicazione si verifica a livello di un ascolto attuale, relati­
vo al mondo presente; l'entrata in possesso dell 'eredità futura non è
legata a un nuovo annuncio della Parola. Non più che in 26, 1 8 vi è
motivo di far intervenire qui un passaggio dal piano ecclesiologico a
quello escatologico.
Come per 26,18, tale conclusione può essere confermata da un
colpo d'occhio sull 'insieme del discorso che trova, qui, la propria
conclusione. In 20,1 8b-21 Paolo ha ricordato ciò che è stato il suo mi­
nistero in Asia; modello di quello per cui i presbiteri debbono met­
tersi al servizio della Parola: non vi si oltrepassava l'orizzonte terre­
stre. Nei vv. 22-24, Paolo intravvede la possibilità di una morte pros­
sima, non in prospettiva di una ricompensa nell'aldilà, ma pensando
solo a perseguire sino alla fine la propria missione terrestre. Nei vv.
25-28, la dipartita di Paolo pone i presbiteri di fronte alla loro re­
sponsabilità nei confronti della Chiesa di Dio, tanto più grave per il
fatto che questa incontra le difficoltà annunciate dai vv. 29-3 1. L'epi­
logo, vv. 33-35, torna indietro per sottolineare il disinteresse di cui
Paolo lascia l'esempio ai propri ascoltatori: qui ancora, nessuna aper­
tura su li' aldilà.
Resta chiaro che questo contesto, interamente occupato dai do­
veri di coloro che sono al servizio della parola di Dio, sconsiglia l 'in­
terpretazione che cerca nella menzione dell'«eredità» , al v. 32, l'evo­
cazione di uno stato proprio del mondo futuro. Alla fine di un di­
scorso interamente consacrato al ministero della Parola, il v. 32 s'in­
teressa al risultato di questa Parola: da un lato l'edificazione spiri­
tuale della comunità e, dall'altro, la garanzia che essa fornisce sul go­
dimento dei privilegi riservati al popolo dei «santificati». Questo po­
polo è identificato con la «Chiesa di Dio» (v. 28), composta di «giu­
dei e di greci» che hanno accolto la testimonianza di Paolo, che li
chiamava a convertirsi a Dio e a credere nel nostro Signore Gesù (v.
21 ). La denominazione «i santificati», che tradizionalmente designa­
va i membri del popolo d'Israele, è applicata puramente e semplice-

136
mente ai membri della Chiesa di Dio, da lui acquistata a prezzo del
proprio sangue (v. 28).

4.3. I «Santificati» di 26,18 e i «santi» di 26,1 O

Abbiamo già citato il significativo parallelo di At 26,18 offerto da


Col 1,12-14, che invita i propri destinatari a «rendere grazie al Padre
che vi ha reso capaci d'aver parte alla eredità dei santi nella luce».
Esiste tuttavia una differenza, poiché qui è questione di «santi>>, an­
ziché di «santificati>>. Tale differenza può sembrare accessoria; essa
non fa che invitare maggiormente a non trascurare il fatto che, pri­
ma di menzionare i «Santificati» al v. 1 8, il discorso di Paolo davanti
al re Agrippa aveva già parlato di «santi» un po' prima, al v. 10. Non
è forse il caso d'interrogarsi sulla possibilità di un rapporto tra que­
ste due espressioni nel contesto dello stesso discorso?
Prima di fare il racconto dell'apparizione di Damasco (26,12-18) ,
Paolo aveva sottolineato l'ostilità che l o spingeva sino a d allora con­
tro il cristianesimo ( vv. 9- 1 1 ). La sua opposizione si è manifestata an­
zitutto a Gerusalemme ove, precisa, «ho io stesso chiuso nelle pri­
gioni un gran numero di santi, avendone ricevuto il potere da parte
dei sommi sacerdoti» (v. 10). L'uso a questo proposito della designa­
zione «i santi» non è certo fortuita. Il lettore degli Atti l'aveva già in­
contrata nel primo racconto dell'avvenimento di Damasco, in cui era
apparsa sulle labbra di Anania che, invitato dal Signore ad andare a
trovare Paolo, obietta:
L 3Signore, ho saputo da molta gente, riguardo a quest'uomo, tutto il male
che egli ha fatto ai tuoi santi, a Gerusalemme (9, 1 3 ).10

Tale designazione dei cristiani deriva dal fatto che, in virtù della
sua appartenenza a Dio, Israele è chiamata «nazione santa» (Es 19,6),

10
Non vi sono negli Atti che altri due casi di tale denominazione «i santi» appli­
cata a cristiani; ambedue nella seconda metà del capitolo 9: al v. 32 Pietro fa visita ai
«santi» che abitavano a Lidda e, al v. 4 1 , lo si vede chiamare «i santi e le vedove» di
Giaffa. Abituale nelle lettere paoline, questa designazione sembra essere stata utiliz­
zata assai presto dai cristiani, forse più particolarmente a Gerusalemme. Comunque
sia, essa rimane eccezionale negli Atti, e legata specialmente alla persecuzione che ha
colpito la primitiva comunità.

1 37
«popolo santo» (Dt 7,6), i suoi membri invitati a dimostrarsi effica­
cemente «Santi>> (Lv 1 1 ,44-45 ) e interpellati come «santi» (Sal 33 ,9
[LXX] ; Tb 8,15). I monaci di Qumran amano darsi il titolo di «Co­
munità di santi» o di «santi del suo popolo» . Il contesto della perse­
cuzione ricorda più specialmente il modo in cui Dn 7 parla della per­
secuzione di Antioco Epifane contro «i santi dell'Altissimo» (vv. 21
e 25; cf. v. 8 [LXX] ). Ma resta chiaro che in A t 9 e 26 la denomina­
zione deve il proprio significato specifico a ciò per cui essa distingue
i membri della comunità cristiana dagli altri membri del popolo giu­
daico. In relazione agli altri giudei, i cristiani di Gerusalemme, giudei
anch'essi, sono considerati «santi» in virtù di un legame di privile­
giata appartenenza che li lega a Dio (o al Cristo, in 9, 13).
Tale osservazione può condurci a 26,1 8 invitandoci a chiederci se,
corrispondentemente alla denominazione «i santi» per cui i cristiani
sono distinti dai giudei, la denominazione «i santificati» non distin­
gua i cristiani non soltanto dai non cristiani, ma forse più precisa­
mente dai non giudei che ancora non sono divenuti credenti. Ricor­
diamoci che le espressioni di 26,18 a e b orientano l'interpretazione
in questa direzione, dicendo che la missione di Paolo ha lo scopo <<di
aprire loro gli occhi, affinché ritornino dalle tenebre alla luce e dal­
l'impero di Satana a Dio». Questi termini, per definire una conver­
sione, si applicano ovviamente meglio a pagani che non a giudei. At­
tenendoci a questa indicazione, si potrebbe avere l'impressione che
convertendosi al cristianesimo i pagani ricevano la denominazione di
«santificati» nel senso in cui tale denominazione non distinguerebbe
i cristiani dai giudei.
Riteniamo che questa interpretazione non corrisponda alla pro­
spettiva del testo e che debba escludersi . Anzitutto perché non sem­
bra applicabile a 20,32, il primo passo in cui Luca parla di «santifica­
ti», in un contesto in cui nulla giustificherebbe la distinzione fra due
categorie di non cristiani (cf. 20,21 ). Inoltre, in 26,18, la menzione di
«santificati» non si collega direttamente al modo in cui 18ab parla
della conversione; essa è strettamente legata alla «remissione dei
peccati», che è presentata come il fine a cui tende la conversione:
«affinché essi ricevano la remissione dei peccati e una parte di ere­
dità fra i santificati, mediante la fede in me». È grazie alla fede in Cri­
sto che la conversione a Dio ottiene il suo duplice effetto: purifica­
zione dai peccati e partecipazione all'eredità dei santificati. Il modo
in cui il testo si esprime riserva, evidentemente, questa partecipazio-

1 38
ne a coloro che credono in Cristo; i giudei come i pagani hanno bi­
sogno di tale fede per ottenere il perdono dei peccati che introduce
nell'eredità dei «santificati».
Abbiamo dovuto riconoscere che l'uso lucano della parola laos
sottolinea maggiormente la continuità che Luca pone fra la comu­
nità cristiana e il popolo d'Israele. Dobbiamo aggiungere ora che il
modo in cui egli parla dei cristiani come dei «santi)) o dei «santifica­
ti)), sottolinea ancor più la differenza e la discontinuità. In quanto co­
munità fruitrice di privilegi accordati ai «santificati)), i cristiani sono
tutti assieme separati dal giudaismo e dal paganesimo, e ciò in virtù
della potenza della parola di Dio (20,32) e della fede suscitata da
questa Parola (26, 18). La prospettiva di Luca si caratterizza per il
modo in cui egli definisce la nuova comunità, non come istituzione
organizzata, ma nella sua relazione al dinamico principio suscitatore
della sua nascita: l'azione della parola di Dio e la fede che permette
a questa Parola di produrre il proprio effetto santificatore.

139
CONCLUSIONE

Nel presentarsi come un racconto delle origini e della prima


espansione della Chiesa, l'opera di Luca non si preoccupa affatto di
fornire una definizione che permetta d'identificare questa Chiesa o
una sistematica esposizione dei tratti che la caratterizzano. La storia
che ci viene narrata suppone nondimeno un certo modo di conside­
rare la realtà in oggetto. Per mettere in luce tale prospettiva, il no­
stro studio si è basato su due considerazioni principali. Nel vocabo­
lario di Luca, anzitutto la nostra attenzione si è diretta particolar­
mente sull'uso della parola laos. Ma soprattutto abbiamo indugiato
sul procedimento tramite cui i discorsi degli Atti si richiamano a una
lunga serie di profezie della Scrittura per chiarire la situazione at­
tuale del popolo di Dio alla luce degli avvenimenti della Pasqua. L'e­
same di questo procedimento ci ha indotti ad analizzare più da vici­
no gli otto principali discorsi degli Atti: tre discorsi di Pietro (capito­
li 2, 3 e 4) , il discorso di Stefano (capitolo 7), quello di Giacomo (ca­
pitolo 15) e tre discorsi di Paolo (capitoli 13, 26 e 28).
l . Per quanto concerne l'uso del termine laos, non si può non es­
sere innanzitutto colpiti dalla frequenza con la quale Luca l'utilizza:
il totale delle sue utilizzazioni nel terzo Vangelo (36) e negli Atti
( 48) supera largamente il totale degli altri scritti del Nuovo Testa­
mento (58). Ma stupisce ancora di più il constatare che Luca non
usa a caso questo termine : egli lo utilizza sia in senso globale per de­
signare il popolo di Israele in quanto tale, sia con un significato par­
titivo per indicare gruppi di persone che appartengono a Israele,
senza confondersi con lo stesso popolo eletto. Questo senso partiti­
va è presente, in particolare, quando Luca parla del «popolo» ap­
ponendolo ai suoi capi.

141
Ma a fianco del1a regola generale bisogna considerare due ecce­
zioni: due casi in cui il termine «popolo» si applica a cristiani che non
si ricollegano a Israele. In At 1 5 ,14 Giacomo, dall 'intervento divino
nella conversione del centurione Cornelio e della sua famiglia, con­
clude che Dio stesso «ha avuto cura di prendere tra le nazioni un po­
polo per il suo nome»; in A t 1 8,10 il Signore Gesù appare a Paolo per
incoraggiarlo dopo la rottura con la sinagoga dei giudei di Corinto, e
gli dichiara: «Ho per me un popolo numeroso in questa città>>. Sem­
bra necessario evitare qui di accrescere l'importanza di queste due
eccezioni, che non potrebbero controbilanciare la testimonianza
massiccia dell'insieme degli usi di laos sotto la penna di Luca, ma evi­
tare anche di minimizzare la loro significativa importanza.
Non sembra esservi dubbio che in questi due casi il significato
globale del termine laos debba essere escluso: né la famiglia di Cor­
nelio né i convertiti di Corinto potrebbero costituire, accanto a Israe­
le, un altro popolo di Dio, un nuovo popolo di Dio. Bisogna dunque
attenersi all'accezione partitiva: i cristiani di Cesarea e quelli di Co­
rinto possono e devono essere considerati come membri del popolo
di Dio.
Il problema che si pone è dunque quello di sapere come questi
cristiani possono far parte del popolo di Dio non essendo integrati a
Israele. La risposta sembra doversi cercare nel fatto che i due passi
pongono l'accento non su un legame da stabilirsi tra i nuovi conver­
titi e un popolo anteriore, ma sul legame stabilito direttamente tra
loro e il Dio, o il Signore, che li rivendica come propri. Il «popolo» si
definisce più per il rapporto che unisce i suoi membri al Signore che
non per la loro appartenenza etnica.
Se è vero, in questi due casi, che il termine «popolo)) riceve un'e­
stensione che travalica Israele, è altrettanto vero che, per i giudei che
rifiutano il messaggio evangelico, gli Atti non mettono in discussio­
ne la loro appartenenza al popolo di Dio. È significativo a questo ri­
guardo che l'opera si concluda con la citazione di Is 6,9- 10 che de­
nuncia l'accecamento di «questo popolo» (At 28,26.27): il suo acce­
camento non gli impedisce di conservare il titolo di «popolo». Israe­
le non ha perduto il proprio privilegio di popolo eletto. La minaccia
che At 3,23 attribuisce a Mosè ed è rivolta a coloro che rifiutano di
ascoltare il profeta degli ultimi tempi, meritando così di essere
«estirpati dal popolo», rimane una minaccia; essa non si verificherà
pienamente e definitivamente che al momento del giudizio.

1 42
Non si può dunque attribuire a Luca l'idea che esistano due po­
poli di Dio, uno antico e uno nuovo. Al contrario, Luca è assa i se nsi­
bile alla svolta che gli avvenimenti di Pasqua hanno fat to prendl."re
alla storia deli 'unico popolo di Dio, determinandone il passaggio da l
tempo della promessa a quello del compimento.
2. La realizzazione delle profezie. È su questo pun to che hanno
condotto le nostre analisi dell'utilizzo dell'argomento delle profezie
fatto nei grandi discorsi degli Atti. Indubbiamente, è nelramhito del­
la cristologia che tale argomento trova la propria principale applica­
zione. La predicazione apostolica, nel programma fissatole in Le 24
dal messaggio degli angeli alle pie donne (v. 7). dalle spiegazioni del
Risorto ai discepoli di Emmaus (vv. 25-27) e da quelle che definisco­
no la missione degli apostoli (vv. 44-48), poi nella messa in opera de­
scritta nei discorsi degli Atti, ritorna senza sosta sullo schema secon­
do il quale le profezie annunciavano da una parte le sofferenze del
Messia e la sua morte, dall'altra la sua risurrezione ed elevazione
nella gloria divina: dagli avvenimenti di Pasqua risulta dunque che
Gesù era proprio colui del quale si interessavano le Scritture. Que­
ste trovano in lui il proprio compimento e danno così legittimità al
messaggio di salvezza proclamato in suo nome.
Abbiamo potuto constatare che, dal punto di vista dell'ecclesio­
logia, il meccanismo dell'argomento profetico agisce in modo simile:
gli oracoli della Scrittura prevedevano, per gli ultimi giorni, da una
parte il pericolo che il popolo eletto si mostri indocile, cieco e indu­
rito, come era spesso avvenuto in occasione degli interventi di Dio
nel corso della sua storia; dall'altra parte, la Scrittura prevedeva,
inoltre, che l 'intervento decisivo di Dio in favore del proprio popolo
dovesse allo stesso tempo andare a beneficio di tutte le nazioni del­
la terra. Non meraviglia dunque che l'inaugurazione dei tempi mes­
sianici provochi una crisi temibile all'interno di Israele, mentre chia­
ma il popolo eletto ad aprirsi alle dimensioni dell'intera umanità.
Concludendo, bisogna riconoscere che questo modo di cogliere la
continuità del popolo eletto nella discontinuità dei tempi solleva al­
cuni problemi. Non è solamente sulla messa in opera e sul funziona­
mento delle strutture della Chiesa che si vorrebbe sapere di più di
quanto non ci dicano gli Atti. Le stesse frontiere del popolo di Dio
possono sembrarci assai indefinite. Israele e la Chiesa non sono con­
side rati come due realtà ch iuse e statiche, poste l'una di fronte al­
l'altra. Il popolo che Dio stesso si costituisce fra gli uomini è in con-

143
tinuo divenire; vi si può essere collegati a diverso titolo e più o me­
no completamente, per cui quest'appartenenza resta dinamica. Le
radici di questo popolo si trovano incontestabilmente in Israele, ma
esso non potrebbe rimanere fedele alla sua vocazione senza aprirsi a
tutte le nazioni, a tutti gli uomini. Ammesso fin d'ora a beneficiare
dei doni della salvezza messianica, questo popolo non resta tuttavia
meno teso verso l'adempimento definitivo che deve realizzarsi con il
ritorno del Signore Gesù.

144
Appendice
LE PROFEZIE
DEL VECCHIO SIMEONE
(Le 2,25-35)

Nella dichiarazione finale del libro degli Atti: « È alle nazioni che
è stata inviata questa salvezza di Dio>> (At 28,28), l'uso della rara pa­
rola soterion per designare la «salvezza» ci ha aiutato a riconoscere
una rievocazione del testo di Is 40,5 che Luca aveva citato all'inizio
della storia evangelica (Le 3,6) e a cui una prima allusione era già
stata fatta nel cantico del vecchio Simeone, alla fine del ciclo delle
natività (2,30). Relativamente alla citazione di Is 49,6, che segna il
punto culminante dell'episodio di Antiochia di Pisidia: «Ti ho stabi­
lito per essere la luce delle nazioni» (At 13,47), si pone il problema
dell'influsso che questo testo ha esercitato non solo sulla fine del di­
scorso di Paolo davanti al re Agrippa (26,23 ), ma altresì sullo stesso
cantico di Simeone (Le 2,32). Abbiamo osservato inoltre che l'iden­
tica preoccupazione per il «culto» autentico caratterizza nel contem­
po il discorso di Stefano (At 7,7.42-43) e il cantico di Zaccaria, in Le
1 ,68-75, il cantico in rapporto al quale quello di Simeone (2,29-32)
dev'essere considerato come il corrispettivo nell'economia di Le 1-2.
Cantico di ringraziamento, questo cantico di Simeone non può es­
sere separato dall'oracolo minaccioso da cui è seguito (Le 2,34-35),
che può anche ricordare l'implicita citazione del Sal 1 1 7,22 (LXX) a
conclusione dei primo discorso di Pietro davanti al sinedrio (A t 4,1 1 ) ,
sia i l modo i n cui l o stesso versetto del salmo era stato citato e inter­
pretato in Le 20,17-1 8. Ritroviamo così nel duplice intervento di Si­
meone in Le 2,29-32 e 34-35 l'insistenza che abbiamo incontrato nel­
la maggior parte dei discorsi degli Atti sui due aspetti complementa-

145
ri del messaggio di salvezza: la promessa della salvezza che si estende
a tutte le nazioni, la minaccia che esso fa scendere sugli israeliti che
lo rifiutano.
Non sembra necessario sottolineare maggiormente l'opportunità
di prendere in considerazione anche questo passo: le parole che esso
attribuisce al vecchio Simeone contengono il primo abbozzo dei te­
mi che hanno richiamato la nostra attenzione nei discorsi degli Atti.
Sia qui che là, l'interesse dell 'evangelista si porta direttamente sul­
l'affermazione cristologica. Non ne trascura però le conseguenze ec­
clesiologiche, che costituiscono l'oggetto della nostra ricerca.
Nel contesto di Le 1-2 l'episodio del vecchio Simeone (2,25-35)
fa parte di un insieme più esteso. Anzitutto si presenta come ele­
mento della vasta unità letteraria che costituisce Le 2,1 -40, narra­
zione delle circostanze della natività di Gesù, parallela al racconto
delle circostanze della natività di Giovanni: Le 1 ,57-80. Sussiste
un'evidente inclusione fra la nota di 2,4: «Anche Giuseppe salì dal­
la Galilea, dalla città di Nazaret, in Giudea» , e quella di 2,39: «essi
tornarono in Galilea, verso la loro città di Nazaret». Nello stesso
tempo un contrasto: la partenza è stata motivata da «Un decreto
emanato da Cesare Augusto» (2, 1 1 ) mentre il ritorno è condiziona­
,

to dall'adempimento di «tutto ciò che era conforme alla Legge del


Signore» (v. 39a).
Questa parte è composta di due episodi ben distinti, il primo si­
tuato a Betlemme (2,1-21 ), il secondo nel tempio di Gerusalemme
(2,22-38). Mentre Luca aveva avuto poche cose da dire sulla natività
di Giovanni e sulle conseguenti felicitazioni a Elisabetta da parte di
vicini e parenti (1 ,57-58), egli indugia lungamente sulla natività di
Gesù e sulle circostanze in cui i suoi genitori avevano ricevuto la vi­
sita dei pastori dei dintorni (2, 1-20), e nomina subito la circoncisio­
ne del fanciullo (v. 21 ) . La circoncisione di Giovanni è oggetto di una
lunga descrizione (1 ,59-79), valorizzata dal grande cantico profetico
di Zaccaria (vv. 68-79). È a tale descrizione che corrisponde, per Ge­
sù, l 'episodio della presentazione al tempio di Gerusalemme (2,22-
38). Anche qui il procedimento di inclusione è assai chiaro: l'inizio
del racconto precisa le prescrizioni della legge di Mosè che i genito­
ri del bambino dovevano compiere, considerato che si trattava di un
«primogenito» (2,22-24; cf. v. 7), e nel finale si osserva: «Quando essi
ebbero compiuto tutto ciò che era conforme alla legge del Signore»
(v. 39a).

146
E immediatamente salta agli occhi un contrasto. Mentre i genito­
ri di Gesù non hanno altra premura che l'osservanza esatta delle pre­
scrizioni della Legge, essi vanno all'incontro coi due vecchi, la cui
pietà è certamente esemplare (vv. 25 e 37), ma che contemporanea­
mente si trovano sotto l'influenza dello Spirito Santo. Il tratto è for­
temente sottolineato per Simeone: «Egli aspettava la consolazione
d'Israele e lo Spirito Santo era su di lui. Egli era stato avvertito dallo
Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima d'aver visto il Cri­
sto del Signore. E venne al tempio (spinto) dallo Spirito» (vv. 25-27).
Ci si renderà conto così del carattere profetico delle sue parole.
Quanto ad Anna, ella è immediatamente qualificata come «profetes­
sa» (v. 36); si comprenderà quindi che è sotto l'azione dello Spirito
che «esaltava Dio e parlava del fanciullo a tutti quelli che aspettava­
no la redenzione di Gerusalemme>> (v. 38) .
Ma sono i due oracoli attribuiti a Simeone che esigono la nostra
attenzione. Il primo celebra la realizzazione della salvezza e la sua di­
mensione universale (vv. 29-32), mentre il secondo rievoca la terribi­
le crisi che Israele sta per attraversare (vv. 34-35).

l. Luce delle nazioni e gloria d'Israele

Lo stile antologico del cantico invita a non trascurare due indica­


zioni che lo inquadrano. In 2,25 Luca ha presentato Simeone come
«chi aspetta la consolazione d'Israele»; in 2,38 riporta che la profe­
tessa Anna parlava del bambino «a tutti quelli che aspettavano la re­
denzione di Gerusalemme». La menzione della «consolazione d'I­
sraele» rinvia naturalmente al tema che caratterizza la seconda par­
te del libro di Isaia, che comincia precisamente con queste parole:
«Consolate, consolate il mio popolo, dice Dio» (Is 40,1 ) . Il sostanti­
vo «redenzione», lytrosis, ricorda il verbo corrispondente che affer­
ma come Dio sta per «riscattare» Israele (Is 41 ,14; 43,1; 44,22-24) ; ma
gli accostamenti del cantico con Is 52,10 debbono far pensare so­
prattutto a 52,9: << Il Signore ha avuto pietà di lei e ha liberato (erry­
sato) Gerusalemme». L'evangelista ricorre deliberatamente alla si­
gnificativa fraseologia di Isaia.
La prima parte del cantico assicura il suo collegamento alla si­
tuazione in cui è collocato. Il pio vegliardo dichiara: «Ora, o Signore
(sovrano), puoi, secondo la tua parola, lasciar andare in pace il tuo
servo, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza» (vv. 29-30). Nel

147
loro contesto lucano, le ultime parole, «i miei occhi hanno visto la tua
salvezza», non possono non evocare l'oracolo di Is 40,5, che sarà for­
malmente citato un po' più avanti: «E ogni carne vedrà la salvezza di
D io » (Le 3,6). Il legame s'impone tanto più che, per parlare di que­
sta «salvezza di Dio», Luca impiega la parola eccezionale soterion, la
quale non riapparirà che in At 28,28, ancora con probabile riferi­
mento a Is 40,5.
Il v. 31 precisa: la tua salvezza «che tu hai preparata davanti a tut­
ti i popoli». Si leggeva in Is 52,1 0: «Il Signore rivelerà le sue sante
braccia davanti a tutte le nazioni, e tutti i confini della terra vedran­
no la salvezza (soterian, la parola corrente) che viene da Dio». È pro­
prio lo stesso tema e ci si può chiedere se non sia precisamente sot­
to l'influenza del verbo di questo versetto di Isaia, «rivelerà>>, che
Luca parla al v. 32 della «rivelazione delle nazioni>>. Il cambiamento
più considerevole è quello che fa scrivere a Luca «di fronte a tutti i
popoli (laon )>>, al posto di «di fronte a tutte le nazioni ( ethnon )>>.
Questo non corrisponde al vocabolario di Luca, che riserva la paro­
la laos per indicare il popolo d'Israele (e anche al plurale: A t 4,25-
27). Ma il significato della correzione è troppo chiaro nel caso pre­
sente : la prospettiva di Luca non è più quella di Isaia, in cui la sal­
vezza è realizzata da Dio a favore d'Israele, non essendo le nazioni
pagane che i testimoni. Per Luca la salvezza che si trova nella perso­
na del bambino riguarda «tutti i popoli>>, il popolo d'Israele come le
nazioni pagane. L'uso plurale della parola «popoli>> elimina la distin­
zione fra il «popolo>> e le «nazioni».
Tale distinzione riappare ne li 'ultimo distico: «luce per la rivela­
zione delle nazioni e gloria del tuo popolo Israele» (v. 32). Tale ver­
setto pone anzitutto un problema di costruzione: se è evidente che la
parola «luce» è apposizione della parola «salvezza», è meno chiaro
se la parola «gloria» sia ugualmente app�sizione di «salvezza» («sal­
vezza» che è nel contempo «luce» per le nazioni e «gloria» per Israe­
le), o se sia apposizione di «rivelazione» (la «rivelazione» che la sal­
vezza fornisce alle nazioni fa contemporaneamente la «gloria» d'I­
sraele ). Nella prima interpretazione, la «salvezza» perviene in due
differenti forme alle nazioni e a Israele; nella seconda la «salvezza»
sembra riguardare Israele e ha quale effetto l'apertura degli occhi al­
le nazioni, per la maggior gloria d'Israele. Questa seconda interpre­
tazione ci sembra difficilmente conciliabile col ritmo del poema e col
significativo cambiamento che, al v. 31 , ha sostituito «tutti i popoli»

148
(i vi compreso Israele) a <<tutte le nazioni» (a esclusione d'Israele, che
non è semplicemente testimone di salvezza, dato che ne sarebbe il
solo beneficiario ).l
Occorre riconoscere che il v. 32a sarebbe stato più chi aro se, per
definire la salvezza accordata da Dio nella persona di Gesù, Luca si
fosse accontentato dell'espressione «luce delle nazioni>> (At 13,47 =
Is 49,6). Ma il ritmo esigeva più spazio e occorreva trovare un mo­
do di dire biblico. Is 52,10 sembra aver suggerito il termine «rivela­
zione», impiegato qui con un significato che le analoghe afferma­
zioni del discorso di Paolo davanti al re Agrippa permettono di co­
gliere senza troppa fatica. Luca scrive colà che il Cristo risorto do­
veva, secondo le Scritture, «annunciare la luce tanto al popolo che
alle nazioni>> (At 26,23); la missione di Paolo a tutti gli uomini ha
per scopo di «aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle te­
nebre alla luce» (v. 18). Relativamente alle nazion i, il Cristo gioca il
proprio ruolo di «luce>>, in quanto manifesta il Dio che le salva per
mezzo suo.
Perché è di Cristo che qui si tratta. I problemi contro cui troppo
spesso cozza l'esegesi del v. 32 trovano il loro punto di partenza in
una comprensione della parola neutra to soterion al v. 30: si crede di
sapere che si tratti di una salvezza astratta, e si suppone che il v. 32
debba informare circa il modo in cui funziona questo fantasma. Ora
è troppo chiaro che l'affermazione del v. 30: «i miei occhi hanno vi­
sto la tua salvezza», rinvia alla promessa di cui parlava il v. 26: lo Spi­
rito Santo aveva fatto sapere a Simeone «che egl i non avrebbe ve­
duto la morte prima d'aver visto il Cristo del Signore». Il soterion che
i suoi occhi hanno visto non è cosa astratta; è il personaggio che gli
era stato annunciato, «il Cristo del Signore», il bambino che l'angelo
aveva presentato ai pastori come «il Salvatore (soter), che è il Cristo
Signore» (v. 1 1 ). È lui la luce destinata a illuminare le nazioni. Luca
non vuole dire di più, per il momento; mostrerà negli Atti che il Cri­
sto realizzerà questo ruolo mediante la predicazione dei suoi inviati
e la fede che essa susciterà nei loro ascoltatori.

1 Propendendo per la prima costruzione, mi trovo d'accordo con l'insieme degli


esegeti contro l'interpretazione difesa da R.E. BRoWN, The Birth of the Messiah. A
Commentary on the lnfancy Narratives in Matthew and Luke, New York 1 977, 440, se­
guita da J.A. FITZMYER, The Gospel According to Luke (l-IX) (Anchor Bible, 28), New
York 1981 , 428.

149
Ci sembra fuori di dubbio che l'espressione «e gloria del tuo po­
polo Israele», al v. 32b, scaturisce dalla stessa prospettiva cristologi­
ca. Non si tratta della gloria che Israele potrebbe ricavare dalla pro­
pria salvezza o dalla salvezza delle nazioni. Si tratta della gloria che
questo Salvatore, che il vecchio Simeone vede coi propri occhi (v.
30), che tiene tra le proprie braccia (v. 28), rappresenta per Israele.
La gloria d 'Israele non è altro che la stessa persona del «Cristo del
Signore» (v. 26), colui che il cantico di Zaccaria chiama «il corno di
salvezza che Dio ha suscitato per noi nella casa di Davide suo servo»
(1 ,69). Ma mentre l'orizzonte del cantico di Zaccaria rimaneva ri­
stretto a Israele, quello del cantico di Simeone si apre alle dimensio­
ni dell'universo. Un universo di cui, d'altronde, Israele resta il centro,
poiché è su questo popolo che ricade l'onore di dare al mondo colui
che incarna la salvezza di Dio.
Certo, la salvezza che Dio accorda tramite la persona del Cristo
non è una salvezza che si realizza automaticamente. Affinché le na­
zioni ne siano illuminate e Israele ne riceva la gloria che gli spetta,
occorrerà che la salvezza sia accolta dalla fede (cf. A t 26,18). Ed è qui
che inizia il dramma evocato dal secondo oracolo di Simeone.

2. Per la caduta e la risurrezione di molti in Israele

Dopo aver benedetto Dio per la salvezza che egli dona agli uo­
mini in Gesù, Simeone non poteva più rivolgersi a Dio per parlare
del futuro doloroso che deve ancora annunciare. Egli si rivolge a Ma­
ria. Il procedimento corrisponde a quello della sconosciuta che, in Le
1 1 ,27, prorompe dinanzi a Gesù: «Beato il ventre che t'ha portato e
il seno che hai succhiato!». Il rapporto fra la madre e suo figlio è co­
sì stretto, che si loda la prima per elogiare il secondo; ma si com­
piange anche la prima per la sofferenza di questo figlio. È ancora al
destino di Gesù che Simeone guarda quando dichiara a Maria: «E a
te una spada trafiggerà l'anima» (v. 35a, che costituisce una parente­
si in quello che è direttamente annunciato riguardo al bambino: vv.
34 e 35b) .2

2 Non sembra molto utile impegnarsi qui in una lunga discussione circa l'inter­
pretazione del v. 35a, a cui gli esegeti attribuiscono molti significati. L'interpretazione
proposta è segnatamente quella di A. GEORGE, «La présentation de Jésus au Tempie.

150
Si tratta ora non più semplicemente della missione di Gesù, come
Salvatore, ma della divisione che ne sarà l'effetto, secondo l'acco­
glienza che gli si farà (cf. Le 12,5 1 -53). È quanto meno ciò che scatu­
risce dalla prima affermazione dell'oracolo: «Ecco, costui è stato po­
sto per la caduta e la risurrezione di molti in Israele». Il verbo keftai
significherebbe propriamente «è steso»; ma lo s'impiega per sostitui­
re il perfetto passivo di tithemi, inusitato. Il vero significato è dunque
«è stato posto», col valore che prende naturalmente il modo di dire
passivo per parlare di un'azione di cui Dio sarebbe il soggetto; si
avrebbe così a che fare con un equivalente grammaticale dell'affer­
mazione: «Ti ho stabilito (tetheika se) per (essere) luce delle nazio­
ni» (At 1 3,47 = Is 49,6). Ma il ruolo di Gesù è visto qui in relazione
a Israele.
Gli effetti della sua venuta saranno contrastanti: caduta per gli
uni, rialzamento per gli altri, e in ogni caso il numero degli israeliti
sarà grande. Nel senso in cui Luca preciserà oltre: «In una casa di cin­
que persone vi sarà divisione: tre contro due e due contro tre» (Le
12,52; diverso in Mt 10,3 5). L'uso della parola «caduta», in primo luo­
go, evoca facilmente l'immagine di una pietra, que lla in pa rticolare
di cui parla Is 8,14: una pietra d'inciampo e una roccia che provoca
la caduta. Infatti, il seguito della profezia di Simeone non parla pi ù
che del risultato negativo di questa «caduta» di cui Gesù sarà occa­
sione per tante persone in Israele.
Il seguito del v. 34 aggiunge anzitutto: «e in segno contestato)). La
parola «segno» può essere chiarita da Is 8,1 8: «Ecco che io e i figli che
Dio mi ha dato saremo dei segni e dei presagi nella casa di Israele)).
Segno di salvezza accordata da Dio ( vv. 30- 32 ) , Gesù pone Israele di­
nanzi a un 'operazione a cui nessuno potrà sottrarsi. Ma non è più
questione di rifiuto di coloro che lo contesterebbero. Il punto di vista
negativo è piuttosto quello che scaturisce dali 'insieme del racconto
degli Atti, specialmente dalle due dichiarazioni-chiave di Paolo, in
13,41 e 28,26-27. Ci si può ricordare di Is 65 ,2: «Ogni giorno ho teso
le mani verso un popolo che non si lascia persuadere e che contesta».

Le 2,22-40», in De Noi!/ à l'Epiphanie (Assemblées du Seigneur, 2e série, t. 1 1 ). Paris


1971 , 24-39 (34s); «La Mère de Jésus», in Études sur /'oeu vre de Luc (Sources bibli­
ques). Paris 1978, 429-464 (448s). Non vi è motivo, in ogni caso nel contesto lucano, di
considerare Maria interiormente divisa.

151
Il v. 35b spiega inoltre: «affinché siano rivelati i ragionamenti
d'un gran numero di cuori». Come più spesso nel greco biblico, il ter­
mine «ragionamenti» (dialogismoi) è peggiorativo: si tratta di rifles­
sioni scaturite da incredulità o da cattive disposizioni (cf. Le 5,22; 6,8;
9,46.47; 24,38). Numerosi saranno gli israeliti a inciampare su colui
che Dio ha costituito segno della salvezza promessa; nella loro cadu­
ta si dovrà vedere la testimonianza e la manifestazione delle loro di­
fettose disposizioni, dell'accecamento del cuore di «questo popolo»
di cui già parlava il profeta Isaia (Is 6,10 = At 28,27). Il Salvatore che
doveva essere la gloria d'Israele (v. 32) diviene così occasione di con­
danna «d'un gran numero in Israele» (v. 34); di tutti quelli che avran­
no rifiutato il suo divino significato.
Il contrasto estremamente forte che oppone l'una all'altra le due
profezie di Simeone alla fine dei racconti che Luca ha consacrato al­
la natività di Gesù, prende tutto il proprio significato nel rapporto
che unisce questi testi al tema centrale dell'ecclesiologia degli Atti.
Ci si rende conto immediatamente che tale ecclesiologia è indisso­
ciabile dalla soteriologia e dalla cristologia. La Chiesa è meno consi­
derata per se stessa che nella relazione stabilita fra i suoi membri e
colui che, invocato come Signore, è contemporaneamente il loro Sal­
vatore (A t 2,21 ). È su questa relazione che Israele si scinde in due
parti: coloro per i quali Cristo è occasione di caduta e quelli a cui egli
reca il rialzamento. Ma nel contempo l 'orizzonte si allarga a «tutti i
popoli)) (Le 2,31); non soltanto «il popolo» per eccellenza, Israele, di
cui «il Cristo del Signore» è la gloria, ma anche «le nazioni» di cui è
la luce (v. 32).
Nelle profezie di Simeone non c'è posto per esplicite citazioni
dell'Antico Testamento. Il linguaggio altamente biblico di cui esso fa
uso mostra sufficientemente la continuità che sta tanto a cuore a Lu­
ca: la nuova situazione che la venuta di Cristo crea per Israele e per
le nazioni risulta semplicemente dal passaggio che si determina fra il
tempo delle promesse e quello del loro compimento. La Chiesa non
è un «nuovo» popolo di Dio, essa costituisce semplicemente l'unico
popolo di Dio giunto alla fase del compimento della promessa.

152
INDICE

PREFAZIONE
L'ECCLESIOLOGIA DEGLI ATII DEGLI APOSTOLI
SECONDO JACQUES DUPO NT di Massimo Grilli p. 5
l . Il principio strutturante:
il rapporto Israele-Chiesa ........................................... . )) 6
2. L'interpretazione del rapporto ... ................................ . )) 7
3. L'attualità del problema ............................................. . )) 8

PRESENTAZIONE di Giuseppe Barbaglio ..................... . � 11

SIGLE . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 13

NOTA BIBLIOGRAFICA .................................................. . ,. 15

NOTE PRELIMINARI ........................................................ . » 17

CAPITOLO I
ALCUNI APPROCCI POSSIBILI ..................................... . » 21
l . Il lessico ......................................................................... . )) 21
1.1. Ekklesia ...................................................................... . )) 22
1.2. Hod6s ......................................................................... . )) 24
2. La vita della Chiesa ........... .......................................... . )) 26
3. La Chiesa nel suo rapporto con lo Spirito Santo ... . )) 30
4. La Chiesa come istituzione
gerarchicamente organizzata ...................................... . )) 32
5. La Chiesa e lo Stato ............. ....................................... . )) 39

153
CAPITOLO I I
LA SVOLTA DECISIVA DELL'ASSEMBLEA
DI GERUSALEMME (At 15) . . . . . . . . .. .. .
.... . . .. .
........ .. .... ... )) 43
l . Pietro: l a lezione della sua esperienza a Cesarea
(vv. 7-1 1 ) ........................................................................ . » 45
2. Giacomo: la testimonianza dei profeti (vv. 15-18) .. . )) 48
2.1. La ricostruzione della tenda di David .......... ......... . )) 49
2.2. L'esito per le nazioni ................................................ . )) 54
3. Giacomo: la testimonianza di Mosè (vv. 19-21) ...... . )) 56
4. Giacomo: «Un popolo tra le nazioni>) (v. 14) ........... . )) 61
4. 1. Il termine «popolo» (laos) nel vocabolario di Luca )) 61
4.2. Il popolo del Signore a Corinto (At 18,10) .......... . )) 66
4.3. Dio ha avuto cura di prendere un popolo
per il suo nome ......................................................... . )) 68

CAPITOLO III
PUNTO DI PARTENZA: PIETRO E LE SCRITIURE
(At 2--4) ........... ............................................... ..................... )) 71
l . La Pentecoste, inaugurazione degli «Ultimi giorni» . )) 72
1 . 1. Significato dell'avvenimento della Pentecoste ....... . )) 74
1.2. Quelli sui quali lo Spirito è effuso ......................... . )) 77
2. Il profeta che bisogna ascoltare .. ............................. . . )) 79
2. 1. La testimonianza di Mosè ...................................... .. » 80
2.2. La testimonianza dei profeti .......................... .. ...... .. » 86
2.3. l primi destinatari della salvezza ............................ . )) 88
3. La pietra disprezzata dai costruttori ......................... . )) 91
3. 1. l vigna io/i omicidi (Le 20, 9-19) .............................. . )) 92
3.2. I costruttori di Israele ............................................... . )) 95

CAPITOLO IV
STEFANO E PAOLO RI LE GGONO LE SCRITIURE
(At 7; 13; 28) ..................................................................... . » 99
l . Stefano: un popolo per il culto di Dio .......... ........... . )) 100
1.1. La citazione di A mos in At 7,42-43 ....................... . )) 102
1.2. La citazione di Isaia in At 7,49-50 ......................... . )) 105
2. Paolo ad Antiochia: avvertimento agli «sprezzanti» . )) 109
2.1. La citazione di Abacuc nel suo contesto
(13,38-41) ............................. ............. .............. ...... ..... . » 111
2.2. La citazione di Isaia nel suo contesto (13, 42-52) .. )) 1 14

154
3. Paolo a Rom a : la cecità di «questo popolo» ...... ..... . )) 1 1 8
3. 1. La citazionl' di /.\· (), CJ- /0 in A t 28,26-27 .... . . . . . . . . . . . . . )) 120
3.2. Il richiamo di !J -10,5 in A t 28,28 .. . . . .. .... ......... . . . . . . . . )) 123
4. La missione di Paolo «pe r una parte di eredità
fra i santificati » ( A t 26, 1 X ) ......................................... . )) 1 27
4. 1. Analisi della fra.\'C'.' A t 26, /6b-18 . .. . . . ............... . . . . . . . . . )) 130
4.2. La parola che procura «l 'eredità tra i santificati»
(A t 20,32) .............................. ..................................... . » 133
4.3. I «santificati» di 26, 18 e i «santi» di 26,10 ............ . )) 137

CONCLUSIONE ............ .... . . . . . . ..... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . )) 141

APPENDICE
LE PROFEZIE DEL VECCHIO SIMEONE
(Le 2,25-35 ) . . . . . . . . . . . . . ............... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............... . » 145
l . Luce delle nazioni e gloria d'Israele ................ ........ . )) 147
2. Per la caduta e la risurrezione di molti in Israele .. )) 150

155

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