TEOLOGIA
DELLA CHIESA
NEGLI ATTI
DEGLI APOSTOLI
Nuova edizione
ISBN 978-88-10-41022-6
5
le motivazioni che presento non sono e non hanno la pretesa di es
sere esaustive, ma vogliono solo essere un assaggio delle risorse e
dell'attual ità dell 'opera in questione.
6
bro di Luca si era aperto con l'oracolo salvifico posto sulle labbra del
vecchio Simeone nel tempio di Gerusalemme, <<i miei occhi hanno vi
sto la tua salvezza (to soterion sou!) preparata da te davanti a tutti i
popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele»
(Le 2,30-32); il secondo libro si chiude con «la salvezza di Dio (to
soterion tou Theou!) fu inviata alle nazioni» (28,28). È importante ri
levare però, che nell'uno e nell'altro testo, Israele e le nazioni sono
messe a confronto. Il viaggio della salvezza avviene con i d ue desti
natari uno di fronte all'altro.
7
L'utilizzo delle profezie antiche nei grandi discorsi di Atti dimo
stra ancora che, alla fine dei giorni, «l'intervento decisivo di Dio in
favore del proprio popolo dovesse allo stesso tempo andare a bene
ficio di tutte le nazioni della terra» (p. 143). In questo modo il cer
chio si chiude e si apre allo stesso tempo, perché le radici del popo
lo che Dio costituisce fra gli uomini «Si trovano incontestabilmente
in Israele, ma esso non potrebbe rimanere fedele alla sua vocazione
senza aprirsi a tutte le nazioni, a tutti gli uomini» (p. 144). In una
pubblicazione recente, partendo proprio da questo studio di Dupont,
riassumevo in questo modo il mio pensiero sulla delicata questione:
«Se analizziamo più da vicino il popolo che Dio si è acquistato tra i
pagani in At 15 alla luce del contesto delle ricorrenze di laos in Lu
ca, dobbiamo osservare quanto segue: il popolo che Dio prende tra
le nazioni per il suo nome non è un popolo distinto da Israele e tan
tomeno è la chiesa come nuovo Israele. Invece, la realtà dei creden
ti in Gesù provenienti dai pagani viene vista in continuità con la sto
ria di salvezza d'Israele. A questi credenti in Cristo "estranei alle al
leanze della promessa" (direbbe Ef 2,12) viene data la possibilità di
aver parte al patrimonio di Israele... Il popolo di Dio rimane Israele:
una parte di questo popolo ha creduto in Gesù messia (i cosiddetti
giudeo-cristiani) e questa parte non ha mai rinnegato le sue radici.
Questa parte dei figli di Israele diventata "chiesa" di Cristo- nella
cosiddetta assemblea di Gerusalemme - permette ai credenti di ori
gine pagana di aver parte al patrimonio di Israele, senza assumere
l'obbligo della circoncisione. Ancora una volta, raccento non è sul
l'elemento sostitutivo e nemmeno su quello di un popolo nuovo ri
spetto all'antico; l'accento è sullo sguardo elettivo di Dio che, sce
gliendosi un popolo tra i pagani, non fa altro che portare a compi
mento il suo disegno salvifico».3
8
la Chiesa: con Cristo come suo capo, la dignità di figli come condi
zione, l 'amore come legge, e la diffusione del Regno come prospetti
va missionaria ed escatologica (LG 9). Negli anni che seguirono im
mediatamente l'evento del concilio, il giovane teologo Hans Kting,
nel suo trattato sulla Chiesa, dopo aver descritto l'autocomprensio
ne della comunità cristiana delle origini come «coscienza di essere,
nella fede a Gesù messia, il vero Israele, il vero popolo di Dio: il nuo
vo popolo di Dio della fine dei tempi>> non esitava a definire la cate
goria «popolo di Dio» come «il più antico e fondamentale concetto
che serva a circoscrivere l'autocomprensione della Ekklesia. Di fron
te ad esso, immagini come quella del corpo di Cristo, del tempio, ecc.
sono secondarie. È sulla scorta del concetto di popolo di Dio che de
ve essere compresa la pluristratificata struttura della chiesa>>.4 Biso
gna riconoscere che, almeno negli anni del concilio, quando il con
cetto di Chiesa-popolo-di-Dio si affermò, esso costituì un progresso
dinamico e indubbiamente positivo rispetto alle visioni puramente
istituzionali e gerarchiche della comunità cristiana. E tuttavia, alla
luce di una riflessione più profonda, il concetto ha suscitato degli in
terrogativi di non poco conto, soprattutto per come l 'immagine è sta
ta ed è utilizzata negli stessi documenti conciliari e nella teologia.
In effetti, «popolo di Dio» non definisce propriamente nemmeno
Israele, perché il Dio di Israele ha un nome, e Israele è il popolo di
YHWH e non il popolo di Dio. Esegeti sensibili a questo problema
- come ad esempio Norbert Lohfink - lo hanno rilevato e messo in
evidenza5 anche mediante statistiche (anche se la statistica non è cer
tamente l'aspetto più importanti delle osservazioni di Lohfink) al
l 'interno della Bibbia ebraica.
Quanto alla «Chiesa di Cristo», invece, sono necessarie alcune
precisazioni. Sotto certi aspetti, la categoria «popolo di Dio>> - alme
no nelle intenzioni dei padri conciliari e di alcuni teologi pionieri -
era e rimane senz'altro un concetto che denota un'attenzione alla
Bibbia ben maggiore di tante altre definizioni impastate di giuridici
smo e istituzionalismo. E tuttavia nell 'assumere questa categoria i
9
documenti ecclesiali non hanno avvertito altre problematiche con
nesse. Questa mancata avvertenza ha portato di fatto a parlare della
.Chiesa come «nuovo popolo di Dio» o «nuovo Israele». Dovremmo
recuperare la ricchezza del termine Ekklesia, che definisce la comu
nità dei credenti in Cristo raccolti da Israele e dalle genti (cf. Rm
9,24) all'interno di una storia che riconosce l'unicità di Israele. E non
si dovrebbe mai dimenticare che i gentili entrano a far parte della
promessa salvifica fatta a Israele mediante la fede in Gesù, messia
d 'Israele. Insomma, la comunità cristiana, per affermare la propria
identità, non ha bisogno di escludere Israele. «Non si tratta di met
tere in dubbio la nostra identità cristiana in quanto tale. Al contra
rio: si tratta di formularla di nuovo, e meglio ... Non si tratta di desta
bilizzarci come cristiani. .. Si tratta semmai di formulare un 'identità
cristiana alla luce del fatto che Israele continua ad esistere».6 Occor
re riconoscere che tutta la tradizione cristiana ha Cristo come il kai
ros decisivo, come colui che «ha prodotto il passaggio. Egli ha trac
ciato la linea di divisione dei tempi. Egli ha separato, egli ha unito.
La croce di Cristo con la sua doppia sbarra, ha cambiato i segni. È
questo, se così si può dire, il perno della dialettica cristiana». Tutta
via, «per quanto giusto e positivo, per quanto eminentemente reale
sia il principio, essa [la croce di Cristo] era, riconosciamolo, nella sua
espressione corrente, fortemente tinta di spirito polemico. Essa lo
era dal tempo di San Paolo» .7 Bisogna, allora, avere il coraggio di ri
percorrere, con animo più pacificato, il cammino ebraico-cristiano,
perché solo una riflessione pacifica aiuta a capirsi e a capire. Nessu
no può raggiungere se stesso se rinnega o si distacca dalle sue radici
e i cristiani sono piantati sulla radice santa della promessa affidata a
Israele ( Rm 1 1 ,16-24). Lo studio di Dupont, che abbiamo tra le ma
ni, spinge in questa direzione, e non avrei dubbi a definirlo pioneri
stico. Lo è stato trent'anni fa, e lo è ancora oggi.
MASSIMO GRILLI
10
PRESENTAZIONE
11
opinione pubblica del mondo cristiano, ma anche di qualificate ten
denze esegetiche, vengono a poco a poco rivisti e si avverte l'esigen
za di sottolineare le radici storiche del cristianesimo. Lo studio accu
rato di J. Dupont costituisce un contributo di massima importanza
per la comprensione teologica del popolo ebraico e della Chiesa di
Cristo.
GIUSEPPE BARBAGLIO
12
SIGLE
13
NOTA BIBLIOGRAFICA
Nel corso della nostra ricerca, di alcuni autori più spesso citati
viene indicato soltanto il nome e relativa pagina. Si tratta degli au
tori seguenti:
15
NOTE PRELIMINARI
17
3. Gli Atti degli apostoli sono la seconda parte di un'opera della
quale il Vangelo di Luca risulta la parte iniziale. È chiaro che non ci
si dovrà esimere dal considerare le indicazioni fomite da questo Van
gelo. Già questo, infatti, aveva lasciato trasparire il pensiero ecclesio
logico di Luca. Si mutilerebbe tale pensiero isolando il racconto del
le origini della Chiesa, che è presente negli Atti, da quello, fatto dal
Vangelo, del ministero terreno di Gesù, che ne risulta la preparazio
ne; così come lo si mutilerebbe affrontando il racconto evangelico
senza tener conto del prolungamento che danno a esso gli Atti degli
apostoli. Le due parti della stessa opera devono chiarirsi a vicenda.
4. All'epoca nella quale Luca compone la sua opera, la Chiesa
esiste già da mezzo secolo. Luca non è evidentemente il primo a in
terrogarsi sul significato teologico dei fatti che riporta. L'aveva fatto
soprattutto Paolo, con una penetrazione e un'audacia ineguagliate.
Un problema assai delicato si pone in tal modo: quello relativo alla
possibilità di stabilire una demarcazione tra il pensiero personale del
nostro autore e quello presente in espressioni linguistiche che non
corrispondono esattamente al modo nel quale egli vede spontanea
mente le cose. Se Luca ha adottato una determinata formulazione,
noi non pensiamo che si possa trascurarla e ancor meno contrappor
la alle sue vedute; ma sarebbe forse inopportuno attribuirle un'im
portanza centrale, che rischierebbe di falsare la prospettiva nella
quale egli si colloca spontaneamente.
In pratica, il problema che evochiamo si pone essenzialmente a
proposito delle parole che Luca attribuisce a Paolo nel suo discorso
agli anziani della Chiesa di Efeso: «Attendete a voi stessi e a tutto il
gregge del quale lo Spirito Santo vi ha costituiti guardiani per pa
scere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata col proprio sangue»
(At 20,28) .
Si tratta di parole attribuite a Paolo. In una simile circostanza,
Luca sa adattarsi al linguaggio del suo personaggio. 1 Di fatto, l'e
spressione «Chiesa di Dio» non appare altrove nell'opera di Luca,
ma è familiare a Paolo (cf. 1Cor 1,2; 10,32; 1 1 ,16.22; 15,9; Gal 1 ,13;
lTs 2,1 4 . ). Il modo di parlare di un '«acquisizione>> trova il suo pa
. .
rallelo in lPt 2,9. Il ruolo del «Sangue>> di Cristo corrisponde alle pa-
18
role dell'istituzione eucaristica (Le 22,20; lCor 1 1 ,25), per le quali
Luca è evidentemente legato dalla tradizione; ma si sa che l'idea del
sacrificio espiatorio e dell'efficacia del sangue ripugna a Luca, men
tre essa assume molto rilievo in Paolo e nella tradizione paolina (Rm
3,25 ; 5 ,9; Ef 1 ,7; 2,13; Col 1 ,20; lPt 1,2. 1 9; Eb... ) .
19
Questo approccio non ne esclude tuttavia necessariamente altri.
Può essere interessante menzionarli, almeno rapidamente. Si eviterà
così l 'impressione di un approccio unilaterale e, allo stesso tempo, si
permetterà di cogliere ciò che altre prospettive possono far emerge
re dal testo e le ragioni per le quali esse risultano insufficienti ad ar
rivare al cuore del pensiero ecclesiologico di Luca.
schau 4 1 (1976), 271s, 281 , 290; 42(1 977), 51 -58; l'introduzione e la conclusione del no
stro articolo su « La conclusion des Actes et son rapport à I'ensemble de l'ouvrage de
Luc», in J. KREMER, Les Actes des Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48),
Gembloux-Leuven 1979, 359-404; i commentari di J. ERNST su Luca (1977) e di B. PA
PA sugli A tti ( 1 981 ) e l'articolo di B. PAPA, « Lo sfondo ecclesiale dell'opera lucana», in
Asprenas 27( 1 980), 27-40 (3ls).
20
Capitolo I
ALCUNI APPROCCI POSSIBILI
l. Il lessico
21
ro «i figli della stirpe di Abramo» e «i timorati di Dio» ( 1 3,26), esten
dendo dunque a questi ultimi l'appellativo «fratelli». Ne consegue
che, parlando dei «fratelli» in modo assoluto, gli Atti fanno di questo
termine una designazione corrente dei cristiani, sia che provengano
dal giudaismo che dal paganesimo.
. 1.1. Ekklesia
dunque a Luca. Ma l'uso che egli ne fa negli Atti richiede alcune os
servazioni.
1. Bisogna subito notare che gli Atti non usano il termine solo
nel suo significato cristiano. In At 19,32.39.41 esso appare tre volte
nel suo significato greco profano per indicare un 'assemblea del po
polo di Efeso. In At 7,38, nel discorso di Stefano, esso fa da eco alla
terminologia dei Settanta, dove ekklesia traduce qdhal e indica l'as
semblea cultuale del popolo di Dio. Il termine non separa dunque in
teramente la «Chiesa» da altre assemblee con le quali può avere dei
tratti comuni.
2. Ci si può domandare se Luca cerchi di evitare un uso pre
m aturo del termine. Egli, infatti, non solo non l'ha introdotto nel
Vangelo (a differenza di Mt 16,18 e 18,17), ma non ne fa uso nem
meno nei primi capitoli degli Atti. Prima di farvi ricorso, sembra at
tendere che la comunità cristiana di Gerusalemme sia pienamente
costituita e che debba affrontare il peccato di alcuni suoi membri
(A t 5 ,11 ) o la persecuzione che ne mette in pericolo l'esistenza
(8 1 3) Dopo un quarto uso nel sommario di 9,31, il termine torna
, . .
con una certa frequenza solo tra la fine del c. 1 1 e l'inizio del c. 1 6
( 1 1 ,22.26; 12,1.5; 1 3 ,1 ; 14,23,27; 1 5 ,3.4.22.41 ; 16,5). In seguito l o si
ritrova nella notizia alquanto enigmatica di 1 8,22 e in occasione dei
saluti di Paolo agli anziani della Chiesa di Efeso (20,17.28). Non
compare invece negli ultimi otto capitoli quando, con chiara evi
denza, non mancherebbero le occasioni per usarlo (cf. 21 ,4-6.7.8-
14.17-24; 24,23; 28,14. 15). La sua assenza in tutta l'ultima parte del
libro deve mettere in guardia da un 'eccessiva sottigliezza nell'in
terpretare il silenzio dei primi capitoli. Allo stesso tempo, la singo-
22
lare ripartizione degli usi del termine invita a non forzarne la por
tata teologica.1
3. Il termine ekklesia si applica a realtà molteplici che può esse
re interessante distinguere.
a) N el suo significato più concreto, esso indica in primo luogo
«un 'effettiva riunione di uomini convocati con un fine preciso, sem
pre religioso, se ci si attiene al senso dei testi biblici».2 Si tratta allo
ra dell'assemblea come tale.
b) Il termine viene in seguito a indicare il gruppo di persone che
si riuniscono in queste assemblee e che, a intervalli più o meno re
golari, «Si ritrovano insieme ( epi to auto), nello stesso luogo, per
compiere insieme un certo numero di atti>).3
c) Il termine si stacca infine dal suo rapporto con un'assemblea
e gruppo locale per indicare l 'insieme delle persone che, apparte
nenti allo stesso movimento, si riuniscono in luoghi diversi per for
mare assemblee concrete i cui partecipanti si riconoscono tutti come
membri di un unico gruppo, e dove ciascuna assemblea diviene
espressione locale di un 'assemblea idealmente unica che risponde a
una sola e medesima «convocazione)), L'uso del termine in questo
1 In A t 5, 1 1 il primo uso lucano del termine ekklesia si trova nel versetto che con
clude il racconto deiJa morte folgorante che ha punito la menzogna di Anania e Saf
fira: «Un grande timore s'impadronì dell'intera Chiesa e di tutti coloro che lo appre
sero». Si noti innanzitutto che questa notizia ripete amplificandola quella che aveva
fatto seguito alla menzione della morte di Anania: «Un grande timore si impadronl di
tutti quelli che l'appresero)) (v. 5b). Ci si interroga naturalmente sulla ragione per la
quale Luca ha giudicato utile distinguere la reazione della «Chiesa intera)) da quella
di «tutti coloro che l'appresero». B. PAPA (Atti, 149) ha ragione del cercare innanzitut
to una spiegazione di ordine letterario: A t 5.1 1 non conclude solamente l'episodio di
Anania e Saffira, bensì tutta la sezione che iniziava con 4,32: «La moltitudine di quel
li che avevano creduto non avevano che un cuore solo e un 'anima sola)). La menzio
ne della «Chiesa intera)) forma una sorta di inclusione con quella de «la moltitudine
di quelli che avevano creduto». Si esiterà di più a seguire l'autore quando s'avventu
ra nelle spiegazioni sull'intenzione teologica di questa prima menzione della Chiesa,
mcttendola in relazione con illogion di Le 1 2,10 sulla bestemmia contro Io Spirito (pp.
154- 1 56). La bibliografia del termine ekklesia è immensa. Segnaliamo almeno l'arti
colo che J. RoLOFF ha dedicato a questo termine nell Exegetisches Worterbuch zum
'
23
senso suppone nei cristiani la coscienza di formare un 'unica «Chie
sa», e non semplicemente una somma di «Chiese» particolari .
Come già nelle epistole paoline, le tre accezioni sono presenti ne
gli Atti. Non c'è dibattito tra gli esegeti che sul modo in cui Luca ar
ticola l'idea di una comunità locale con quella della Chiesa intesa in
senso sopra-locale. Alcuni di essi ritengono che, per Luca, ekklesia
indichi una comunità particolare; non si supererebbe questo oriz
zonte che in due passi: 9,31 e 20,28, che sarebbero da considerare co
me eccezioni che confermano la regola.4 Altri, al contrario, ritengo
no che Luca parli della Chiesa una e indi visibile, che trova la sua con
creta realizzazione in ciascuna assemblea locale.5 Il contrasto è insi
to in pratica nel significato da dare alla formula che menziona la
«Chiesa» aggiungendo una precisazione geografica: «Che è nel tal
luogo» (At 8,1 ; 9,31 ; 11,22; 13,1 ). Si tratta semplicemente della Chie
sa locale, o bisogna dare all'espressione il senso forte che essa pren
de naturalmente in Paolo quando egli parla della «Chiesa di Dio che
è in Corinto» (1 Cor 1 ,2; 2Cor 1 ,1 )? L'accezione lata del termine in
9,31 e soprattutto in 20,28 dimostra perlomeno che la seconda inter
pretazione non dovrebbe essere scartata alla leggera.
Possiamo concludere che il modo nel quale Luca usa il termine
ekklesia negli Atti non è sprovvisto di portata teologica. Ma bisogna
anche riconoscere che il problema del rapporto tra una Chiesa par
ticolare e la Chiesa universale non sembra avere particolarmente at
tirato l'attenzione del nostro autore. Esaminando da vicino, ci si può
render conto che egli non trascura questo problema, ma non lo af
fronta direttamente ed esso sembra rimanere a margine del suo pen
siero. Non è su questo punto che si fissa principalmente la sua rifles
sione sulla Chiesa.
1.2. Hod6s
24
Atti. Esso appare per la prima volta in 9,2: nel suo accanimento con
tro i «discepoli del Signore» (v. l), Saul ottiene dal sommo sacerdo
te delle lettere per le sinagoghe di Damasco che lo autorizzano a fer
mare quegli «adepti della via» (tinas tès hodou ontas: quelli che sa
rebbero della via) che trovasse là. La stessa espressione nel secondo
racconto dell'avvenimento di Damasco: «Ho perseguitato a morte
questa via, incatenando e gettando in prigione uomini e donne»
(22,4). Nel terzo racconto Paolo parla di «santi» che lui ha gettato in
prigione (26,10). Nelle sue lettere l'apostolo si rimprovera di avere
«perseguitato la Chiesa» (Fil 3,6), «perseguitato la Chiesa di Dio»
(lCor 15,9; Gal 1,13). Il tennine «Via» sembra così più o meno sino
nimo del termine «Chiesa».
Il capitolo 24 presenta un altro episodio istruttivo, quello della
comparizione di Paolo davanti al governatore Felice. L'avvocato del
l'accusa ha parlato di Paolo come di un «leader del partito dei naza
reni» (v. 5). Paolo replica : «lo ti confesso che è secondo la via defini
ta da essi come partito che io servo il Dio dei miei padri>> (v. 14) . Si
ritroverà sulle labbra dei giudei di Roma il termine «partito» (haire
sis) per qualificare il cristianesimo, collocato così sullo stesso piano
del «partito dei Sadducei» (5 ,17) o del «partito dei Farisei» ( 1 5,5;
26,5) . Questo termine è ritenuto inadeguato, e gli Atti gli contrap
pongono quello di «via», che corrisponderebbe meglio alla realtà: il
cristianesimo non è un «partito» che si potrebbe preferire ad altri
«partiti» del giudaismo; esso è «la via».
La designazione rimane ellittica, ma non è difficile integrare ciò
che manca. È sufficiente per questo ricordarsi del complimento fat
to a Gesù, nel Vangelo, dai suoi avversari: «Tu insegni la via di Dio in
verità» (Le 20,21 = Mc 12,14; Mt 22,16) . Se ne trova conferma nel
l'episodio di Apollo. Costui era stato «istruito sulla via del Signore»,
ma non conosceva che il battesimo di Giovanni (At 1 8,25); «avendo
lo saputo, Priscilla e Aquila gli esposero più esattamente la via di
Dio» (v. 26 ). Si possono anche menzionare le grida dell 'indovina di
Filippi che dice di Paolo e dei suoi compagni: «Questi uomini sono
dei se rvitori di Dio-Altissimo, essi vi annunciano la via della salvez
za» ( 16,17).
Ancora due espressioni assolute, a proposito del soggiorno di
Paolo a Efeso. Paolo vi ha iniziato la propria predicazione nella sina
goga, ma ha presto sollevato l'accesa opposizione di alcuni dei suoi
ascoltatori «che beffeggiavano la via davanti all'assemblea» ( 19,9).
25
Verso la fine del suo soggiorno, sono dei pagani che provocano un
grande tumulto «a proposito della via» (v. 23).
Sarebbe interessante interrogarsi sulle implicazioni ecclesiologi
che di questa designazione del cristianesimo: «la via». Ma bisogna
immediatamente riconoscere che il suo uso resta circoscritto a con
testi che possiamo chiamare «paolini», anche se non ci è possibile ve
rificare il suo carattere «paolino». Questo termine costituirebbe una
base troppo stretta per condurci al cuore del pensiero ecclesiologico
di Luca.
26
i miracoli che accompagnano la loro predicazione e non più l'inse
gnamento che essi impartiscono ai credenti. I vv. 44-45 spiegano che
la koinonia dei nuovi convertiti si traduce concretamente nella mes
sa in comune (koina) dei beni. Infine i vv. 46-47a commen tano ciò
che il v. 42b diceva della loro pratica religiosa: «Ciascun giorno, essi
perseveravano unanimemente nella (frequentazione) del tempio e
spezzando il pane nelle (loro) abitazioni».6
G. Betori scrive felicemente che questo sommario offre al lettore
una sorta di «Carta d'identità» della Chiesa (p. 29) . Sembra chiaro, in
effetti, che i tratti attraverso i quali Luca caratterizza la comunità
primitiva intendono proporre un modello rispetto al quale ogni co
munità cristiana potrà verificare la propria fedeltà al vangelo. La
Chiesa non sarà veramente tale che nella misura in cui i credenti che
la compongono praticheranno la quadruplice perseveranza enuncia
ta in 2,42. La descrizione che ci è data costituisce allo stesso tempo
un programma di vita cristiana vissuta come Chiesa.
Dopo il racconto della guarigione miracolosa di un infermo e del
le conseguenze che essa ha suscitato (3,1 -4,31 ), gli Atti tornano al te
ma della koinonia, non senza collegarlo strettamente al ruolo di pri
mo piano giocato dagli apostoli (4,32-5,16). Come in 2,44-45 , la
koinonia trova la sua espressione nella messa in comune dei beni; ma
4,32 manifesta che essa ha radici più profonde: «La moltitudine di
quelli che avevano creduto non erano che un cuore e un'anima». È
dalla comunione degli spiriti che scaturisce la condivisione dei beni:
«E nessuno chiamava proprio bene ciò che gli apparteneva, ma tut
to era loro comune» (v. 32bc ) I vv. 34-35 riprendono con insistenza:
.
«In effetti, non vi era alcun bisognoso tra loro, perché coloro che
possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato delle
vendite e lo deponevano ai piedi degli apostoli; allora si distribuiva
a ciascuno secondo le sue esigenze)).
Questa enunciazione generale ed esemplare della condotta fra
terna dei primi cristiani è seguita da due casi concreti: innanzitutto
6 Per l'analisi di questi versetti può essere qui sufficiente rinviare ai commentari
di G. ScHNEIDER ( 1 980). 2R3-290; B. PAPA ( 1 98 1 ) , 88-90: A. WEISER ( 198 1), 1 00-106, co
sì come a G. BETORJ, Perseguitati a causa del Nome. Struttura dei racconti di persecu
zione in Atti 1,12-8,4 (AnBib 97), Biblical institute press, Roma 198 1 , 28-35.
27
quello, altamente lodevole, di Barnaba, che aveva venduto un cam
po per deporne il ricavato ai piedi degli apostoli (vv. 36-37); succes
sivamente quello, assai meno edificante, di Anania e Saffira, che ave
vano creduto di poter ingannare gli apostoli non rimettendo loro che
una parte del ricavato della vendita di una proprietà (5,1-1 1 ) . Pietro
aveva svelato la loro frode, immediatamente punita da una morte re
pentina. Questa circostanza aveva gettato una luce temibile sul po
tere di cui godevano gli apostoli, più abitualmente palesato attraver
so atti di beneficenza (4,33 ; 5,12a. 15-16). Presiedendo alla suddivi
sione dei beni tra i membri della comunità (4,35.37), essi sono anche
coloro la cui «testimonianza resa alla risurrezione del Signore»
(4,33) sembra fondare la comunione spirituale dei credenti.
Non è del tutto chiaro se 5,12b-14 parla degli apostoli o dei cri
stiani dicendo «che essi stavano tutti di comune accordo sotto il por
tico di Salomone», aggiungendo inoltre che il numero dei credenti
era in aumento costante. Si ricordi comunque che già 2,46 diceva dei
primi convertiti che «ciascun giorno, essi perseveravano di comune
accordo nel tempio», prendendo parte alle preghiere della liturgia
ebraica. I grandi sommari di 4,32-35 e 5,12-16 rimangono nella linea
della prima descrizione della comunità cristiana, in 2,42 47 È sem
- .
pre davanti allo stesso modello di vita vissuta come Chiesa che Luca
colloca i suoi lettori.
Il quadro della comunità, i cui tratti essenziali sono stati delinea
ti in seguito al racconto della Pentecoste e in parte richiamati e pre
cisati nei sommari successivi, trova delle eco ulteriori che permetto
no di pensare che non lo si dimentica. È il caso dell'inizio del capi
tolo 6, dove si vede che la diakonia quotidiana non soddisfa tutti (v.
1 ) . Si tratta di un «servizio» che traduceva concretamente la koino
nia di cui si parlava in 2,42, e che 4,35 faceva consistere in una di
stribuzione nella quale ciascuno riceveva secondo i propri bisogni.
Su proposta dei Dodici, l'assemblea dei discepoli adotta un provve
dimento la cui portata storica è ricondotta da Luca alle semplici pro
porzioni di una divisione di competenze. I Dodici si consacreranno
interamente al loro ministero essenziale, quello della preghiera e
della diakonia della Parola; altri saranno eletti per farsi carico della
diakonia delle mense (vv. 2-4 ). I servizi sui quali si basa la coesione
della comunità e la sua unità sono così ripartiti tra persone diverse.
L'espansione del cristianesimo non tarderà a provocare un allar
gamento delle manifestazioni della koinonia: la comunità di Antio-
28
chia invia soccorsi a quella di Gerusalemme ( 1 1 ,29-30 e 12,25). In un
momento di persecuzione si vede a Gerusalemme un 'assemblea cri
stiana numerosa riunita nella casa di Maria, madre di Giovanni-Mar
co, e raccolta in preghiera per Pietro la cui vita è in pericolo
(12,5 .12). Ad Antiochia, la partenza di Barnaba e Paolo per il loro
primo viaggio missionario è legata a celebrazioni liturgiche accom
pagnate da digiuno ( 1 3 2-3). Si apprende anche che la comunità di
,
29
3. La Chiesa nel suo rapporto con lo Spirito Santo 7
7 Un'opera datata rimane fondamentale: H. VoN BAER, Der Heilige Geist in den
Lukasschriften, Stuttgart 1926. Se ne può trovare un buon riassunto in F. BovoN, Luc
le théologien. Vingt-cinq ans de recherches (1950-1975) , Neuchatel-Paris 1978, 21 7-220.
Bovon non ha potuto tener conto dell 'opera di G. HAYA-PRATS, L'Esprit, force de /'E
glise. Sa nature et son activité d'après /es Actes des Apotres (Lectio Divina. 8 1 ), Paris
1975. Segnaliamo: A. GEORGE, «L'Esprit Saint dans l'oeuvre de Luc», in Revue Bibli
que 85(1 978) 500-542; M.-A. CHEVALLIER, «Luc et l'Esprit Saint», in Revue des Scien
,
30
va una straordinaria effusione dello Spirito di Dio «SU ogni carne»,
sui giovani come sugli anziani, sui servi di Dio e sulle sue serve, co
me preludio alla venuta del gran giorno del Signore (2,17-21 = Gioe
le 3, 1-5a [LXX]). Pietro può dunque promettere questo dono a tutti
coloro che avranno ricevuto il battesimo (2,38-39). Non ci si meravi
glierà perciò della frequenza degli interventi dello Spirito segnalati
nel seguito del libro (4,8.3 1 ; 5,3.9.32; 6,3.5.10; 7,5 1 .55; 8, 15. 17-
1 9.29.39; 9,1 7.3 1 ; 10,19.44.45 .47; 1 1 , 1 2. 1 5 . 16.24.28; 1 3 ,2.4.9.52;
15,8. 18; 16,6.7; 1 9,2.6; 20,23.28; 21,4. 1 1 ). La Chiesa primitiva ha fatto
con ampiezza quest'esperienza dello Spirito che, secondo l'oracolo
di Gioele, doveva precedere la venuta del giorno del Signore.
È in funzione di quest'esperienza tanto frequentemente menzio
nata che si pone la questione così formulata da S.A. Panimolle:
«Questa chiesa, frutto dell'ascolto della Parola (At 15,7) , non è an
che il prodotto dello Spirito Santo, dono escatologico che crea la co
munità degli ultimi tempi?».8 Questo autore ha ben colto che il pun
to di vista di Luca è completamente differente da quello di Giovan
ni, che considera lo Spirito «in chiave di rivelazione» (p. 297). Egli
crede di poter dire che la prospettiva di Luca è «Soteriologica» (p.
298). Se questo fosse esatto, il pun to di vista di Luca si confondereb
be praticamente con quello di Paolo. Ora è precisamente questo che
contestano i principali studi consacrati alla pneumatologia di Luca.
Lo si vede molto bene in queste righe di H. Von Baer (p. 98) citate
da G. Haya-Prats (p. 97) : «Luca non vuole dare in primo luogo una
descrizione della forza rinnovatrice. morale e religiosa, dello Spirito;
egli vuole piuttosto presentare la forza e la sicurezza dello Spirito
missionario che si manifesta all'esterno e porta al mondo il messag
gio del Signore glorificato. È la linea fondamentale seguita da Luca
nello schema del suo secondo libro)).
Nella logica stessa del suo intento di storico, Luca porta la pro
pria attenzione sugli effetti esteriori e visibili dell'azione dello Spiri
to, piuttosto che sulla trasformazione interiore cui si interessa il teo
logo Paolo. Egli rimane nella linea portante della Bibbia, nella qua
le lo Spirito si manifesta soprattutto come Spirito profetico, che spin-
31
ge a parlare e dona forza alla testimonianza di coloro che ispira. Lu
ca preferisce vedere nello Spirito il principio del dinamismo che as
sicura la diffusione del messaggio evangelico e l'espansione della
Chiesa. La fede che conduce al battesimo e procura la remissione dei
peccati è un preliminare per l'accoglienza di questa forza che spinge
il cristiano e la Chiesa verso l'esterno. Non senza procurare, certa
mente, un rinvigorimento interiore; ma non è quest'aspetto che inte
ressa a Luca: egli non pensa mai, per esempio, di considerare il dono
dello Spirito come un'anticipazione della vita eterna.9
Lo Spirito appare dunque in Luca meno come una realtà costitu
tiva della Chiesa che come la forza motrice della sua crescita. Non è
la pneumatologia di Luca che ci darà la chiave della sua ecclesiologia.
32
te sicuramente di reperirvi molte indicazioni in grado di appoggiare
una tesi preconcetta. È manifesto che le comunità cristiane di cui rac
conta Luca non sono sprovviste di strutture, funzioni e servizi specifi
ci. Ma ci si accorge presto che le indicazioni che egli fornisce in pro
posito rimangono sparse, occasionali e male coordinate. Non è sotto
quest'angolazione che egli si interessa alla Chiesa, e se la sua risposta
delude quelli che lo interrogano sull'organizz azione della stessa, è
perché la domanda che gli si pone è estranea alla prospettiva nella
quale lui si colloca.
Può essere utile che io evochi qui due esperienze personali. Nel
1973, innanzi tutto, ho preso parte a un simposio tenutosi a Sant'An
selmo, a Roma, sul tema Ministeri e celebrazione dell'eucaristia. Era
mio compito analizzare i dati degli Atti. Questi menzionano nume
rosi ministeri e parlano sovente della <1ractio panis». Ma mai essi sta
biliscono un rapporto tra queste due realtà: nemmeno nel racconto
dell'assemblea eucaristica di Troade, centrando tutta l'attenzione
sulla persona di Paolo (20,7- 12). Luca non considera i ministeri dal
punto di vista sacramentale. 10
Nel 1 978, a Losanna, ho partecipato a un seminario che doveva
mettere a confronto gli Atti canonici e gli Atti apocrifi degli Aposto
li. Io dovevo intervenire sulla figura dell'apostolo negli Atti canoni
ci. Rispetto agli Atti apocrifi, una differenza saltava immediatamen
te agli occhi: mentre gli Atti apocrifi si interessano vivamente alle
imprese degli apostoli nei diversi Paesi dove essi avrebbero compiu
to la loro missione, e mentre gli stessi Atti canonici assegnano loro
una missione universale, «fino all'estremità della terra» {At 1 ,8; cf.
Le 24,47), Luca non si interessa agli apostoli propriamente detti (si
veda la definizione di At 1 ,21-22) che nel quadro della Chiesa di Ge
rusalemme. Lasciando Gerusalemme e la zona circostante essi esco
no allo stesso tempo dalla scena del libro. Sarà possibile vedere Pie
tro a Cesarea (At 10), ma non ad Antiochia (Gal 2,1 1 -14). Come ai
suoi compagni nell'apostolato, a Pietro gli Atti assegnano un ruolo
solo nella Chiesa di Gerusalemme. 1 1
10 «Les ministères de l'Eglise naissante d'après les Actes des Ap6tres», in Studia
Anselmiana 61, Roma 1 973, 94-108.
11
«L'Apòtre comme intennédiaire du salut dans les Actes des Apòtres>>, in Re
vue de Théologie et de Philosophie 1 12( 1 980), 342-358.
33
Tali osservazioni possono sembrare sconcertanti dal punto di vi
sta di certa ecclesiologia, quella precisamente dalla quale il concilio
Vaticano II ha voluto prendere le distanze. Esse suggeriscono che
Luca si colloca in una prospettiva diversa. A. George lo ha visto con
chiarezza in un articolo del 1974, che conclude: <<Quando presenta i
ministeri della chiesa Luca non risponde alle numerose domande
che noi oggi ci poniamo: quali sono le istituzioni ecclesiali ed i servi
zi che dipendono dall 'iniziativa individuale? Quali sono i compiti
transitori e le funzioni permanenti? Come sono stati istituiti gli an
ziani di Gerusalemme, come riconosciuti i profeti? Quali sono i po
teri dei ministri? Chi dà il battesimo? Chi presiede la frazione del pa
ne? Luca non risponde a queste domande, non sembra porse le, evi
dentemente perché ciò non rientra nella sua ottica. Bisogna prende
re la sua opera così come è, domandare ad essa ciò che ci vuole dire.
Da buon storico del suo tempo, egli si interessa ai suoi personag
gi. Si ferma su quelli che hanno portato il vangelo: soprattutto i Do
dici, Pietro e Paolo, ed ancora Stefano, Filippo, Barnaba, Sila, Timo
teo, Apollo ... È attento più alla loro azione che ai loro titoli o ai loro
poteri. Si riferisce meno alla loro autorità che alla loro predicazione,
meno alla successione giuridica dei ministri che alla continuità vi
vente del vangelo>>.
A sua volta E. Rasco12 nota, in un articolo del 1982, 1 3 che «negli
Atti le funzioni o ministeri sono diversificati, ma appaiono o scom
paiono non senza sorpresa per il lettore» (p. 3 1 9) , e giustamente os
serva che «l'idea di successione» non appare in alcuna parte degli
Atti (p. 32 1 ).
È sulla situazione della Chiesa di Gerusalemme che le informa
zioni sono più numerose. Dopo il rilievo dato dal primo capitolo al
gruppo dei dodici apostoli ( 1 ,2.13- 1 4. 1 5-26), non ci si meraviglia di
vedere che questo gruppo costituisce il nucleo attorno al quale la co
munità cristiana si forma e dal quale riceve la sua coesione. In realtà,
uno solo di questi apostoli parla e agisce a nome di tutti: è il primo e
34
principale di essi, Pietro. Ma pur personalizzando così il gruppo, Lu
ca si preoccupa minuziosamente di non isolare Pietro dagli altri apo
stoli. Al prezzo, anche, di curiose anomalie grammaticali: «Prenden
do allora la parola [al singolare] , Pietro e gli apostoli dissero [al plu
rale] >> (5,29 . . . ) . 14
Il capitolo 6 fa assistere all'istituzione di un nuovo ministero. L'i
niziativa viene dai «Dodici)) (v. 2). Non potendo bastare a tutto, essi
vogliono riservarsi per ciò che considerano il loro compito principa
le: il servizio della Parola e la preghiera (vv. 2 e 4). La comunità sce
glierà dunque sette uomini che saranno incaricati del «servizio delle
mense». Gli eletti sono presentati agli apostoli, che pregano per loro
e impongono su di loro le mani (v. 6). In realtà, il primo di essi, Ste
fano, non attira l'attenzione che per il vigore di una predicazione che
gli otterrà il martirio ( 6,8-7 ,60).
A proposito del secondo della lista, Filippo, non si tratterà che
della sua attività di «evangelizzatore» (8,5-40; 21 ,8); se, al tempo del
l'ultima visita di Paolo a Gerusalemme, Filippo gli dà ospitalità nel
la sua casa di Cesarea (21 ,8), Luca non pensa di mettere questo in
rapporto con il ministero del «servizio delle mense» che gli era stato
affidato così solennemente. Si ha l'impressione che, appena istituito,
questo ministero scompaia.
L'attività di Stefano ha provocato una persecuzione che, secondo
8,1 , causa la dispersione di «tutti» i membri della comunità di Geru
salemme: solo gli apostoli restano sul posto. È dunque a Gerusalem
me che essi intendono parlare dei successi della missione di Filippo
in Samaria, dove inviano due di loro: Pietro e Giovanni (8,1 4-25). In
9,26, all'arrivo di Paolo convertito, essi non sono più soli: i «discepo
li» diffidano del nuovo venuto; è Barnaba che lo introduce presso gli
apostoli (v. 27) e gli permette di esercitare così un'attività che si col
loca in continuità con quella di Stefano (vv. 28s).
I tre racconti di 9,32-10,40 si situano al di fuori di Gerusalemme,
ma sempre nella sfera della città santa, e riguardano la figura di Pie
tro. Il terzo ( 10, 1-40) ha uno sviluppo considerevole: esso descrive in
modo circostanziato la situazione nella quale Pietro è stato indotto
14 Altri esempi nel nostro articolo «Les discours de Pierre dans les Actes et le
chapitre XXIV de l'évangile de Luc», in F. NEIRYNCK, L'Évangile de Luc. Problèmes
littéraires et théologiques, (BETL 32), Gembloux 1973, 329-374.371.
35
ad ammettere al battesimo un non-circonciso. Ma l 'iniziativa di Pie
tro diventa significativa solo dopo le spiegazioni che egli ha dovuto
darne «agli apostoli e ai fratelli» al suo ritorno a Gerusalemme e gra
zie alla loro unanime approvazione (11 ,1-18).
È a partire da qui che la situazione comincia a cambiare. Alcuni
cristiani che avevano dovuto abbandonare Gerusalemme al momen
to della morte di Stefano hanno fondato ad Antiochia una comunità
di tipo nuovo (1 1 ,19-2 1 ) La Chiesa di Gerusalemme vi invia Barna
.
ba, che non solamente approva ciò che è stato fatto, ma assume la
guida del movimento (11 ,22-26). In seguito, l'arrivo di profeti venuti
da Gerusalemme induce i «discepoli» di Antiochia a inviare soccor
si ai «fratelli>> di Gerusalemme, dove saranno rimessi agli «anziani»
(11 ,27-30) . Noi apprendiamo così, del tutto incidentalmente, l'esi
stenza di una nuova istituzione nella Chiesa-madre.
Quest'informazione è subito completata da ciò che viene in se
guito raccontato sulle circostanze nelle quali Pietro ha lasciato Ge
rusalemme. Liberato dalla sua prigione da un angelo, egli va a tro
vare l'assemblea che si è riunita presso la madre di Giovanni-Marco.
Dopo aver raccontato quello che gli è accaduto, egli richiede: «An
nunciatelo a Giacomo e ai fratelli», poi, scrive Luca, «USCÌ e se ne
andò in un altro luogo>> (1 2,17). Così Luca ha fatto in modo di men
zionare una prima volta il nome di «Giacomo» nel momento esatto
in cui Pietro scompare da Gerusalemme. È per bocca di colui che, fi
no ad allora, aveva presieduto alle sorti della Chiesa di Gerusalem
me che il lettore viene informato sul nome di colui che prenderà il
suo posto. Ma il lettore avrebbe probabilmente gradito qualche pun
tualizzazione su «l'altro luogo» nel quale si è recato Pietro: è forse
più importante rendersi conto che Pietro non interessa più a Luca
dopo che egli ha abbandonato Gerusalemme.
Come quello degli altri apostoli, il ministero di Pietro riguarda
Gerusalemme.
In realtà, la partenza di Pietro in 12,17 era ancora una falsa par
tenza. Assieme al gruppo degli apostoli, egli ricompare sulla scena di
Gerusalemme per la decisione capitale riportata dal capitolo 15.
Questa decisione sarà presentata da Luca come l'opera «degli apo
stoli e dei presbiteri» (15,2.4.6.22.23; 16,4), rispondente al duplice in
tervento di Pietro (15,7-1 1 ) e di Giacomo (15,13-21 ) , rappresentan
do così il consenso dell'antica e della nuova direzione della Chiesa
madre. Nell'economia degli Atti, il decreto liberatore emesso dagli
36
apostoli e dai presbiteri con l'aiuto dello Spirito Santo (v. 28) è l'at
to che conclude la missione degli apostoli di Gesù: in seguito, essi ab
bandonano definitivamente la scena, lasciando a Paolo il compito di
perfezionare la loro opera. La Chiesa di Gerusalemme continua a
giocare un ruolo centrale, ma i suoi rappresentanti sono ormai Gia
como e i presbiteri (cf. 21 ,18).
Le brevi notizie di 1 1 ,30 e 12,17 così come il lungo racconto del
capitolo 15 sottolineano la continuità che Luca intende ri levare tra
Pietro e Giacomo, tra gli apostoli e i presbiteri di Gerusalemme. Ma
nulla è detto sul modo col quale i presbiteri sono stati istituiti, né sul
la natura della preminenza di Giacomo. Luca arriva sino a omettere
di precisare di quale Giacomo si tratti, ed è grazie a Paolo che noi ap
prendiamo che era chiamato «il fratello del Signore» (Gal 1 ,19). Non
ci si può che appoggiare su antiche tradizioni (Egesippo) per sup
porre che il suo prestigio tra i giudaizzanti era precisamente dovuto
al fatto che egli era il parente più prossimo di Gesù, colui al quale in
assenza del sovrano spettava naturalmente l'ufficio di reggente.
Quest'ipotesi non invita a farne troppo facilmente un «successore»
di Pietro! Bisogna comunque constatare che Luca, desideroso di
continuità, non si preoccupa in alcun modo del meccanismo giuridi
co o sacramentale che dovrebbe garantire tale continuità, secondo
procedure alle quali ci si sarebbe interessati solo più tardi.
Un a volta scomparsi gli apostoli, la Chiesa di Gerusalemme pro
segue il suo cammino secondo il dispositivo messo in atto fin da pri
ma della loro partenza. Ma essa non interessa più all'autore degli At
ti, che si accontenterà di una breve notizia al momento dell'arrivo di
Paolo. Dopo l'assemblea degli apostoli e dei presbiteri e fino alla fi
ne del libro è Paolo che occupa da solo tutta la scena. Questo ruolo
primaziale era stato preparato da lungo tempo. Il racconto del mar
tirio di Stefano aveva già attirato l 'attenzione su di lui (8,1 .3). Il suo
incontro con Gesù sulla via di Damasco e la trasformazione che tale
incontro aveva prodotto nel persecutore erano stati a lungo riferiti
in 9,1 -30, e se ne ascolteranno altri due racconti dalla bocca stessa
dell'interessato ai capitoli 22 e 26: è sufficiente per dire l'importanza
che Luca assegna all'evento. Nei capitoli 13 e 1 4, Paolo accompagna
Barnaba in un lungo viaggio missionario, e fin da allora passa in pri
mo piano. Per mettere in rilievo la sua figura, Luca ricorre al proce
dimento classico del parallelismo: il comportamento di Paolo è si mi
le a quello di Pietro all'inizio del libro. Il suo conflitto col mago di
37
Pafo (13,6-12) richiama quello di Pietro con Simon Mago (8,18-24);
il suo discorso-programma nella sinagoga di Antiochia di Pisidia
( 13,16-4 1 ) segue lo stesso modulo del discorso di Pietro nel giorno
della Pentecoste (2, 14-41 ) � la guarigione dell'infermo di Listra ( 14,8-
10) rassomiglia stranamente a quella dell'infermo della porta Bella
(3,1 -8) . Paolo parteciperà d'altronde, con Barnaba, alle deliberazio
ni di Gerusalemme che legittimano la sua attività missionaria
(15,2.4.1 2.25-26).
Qual è dunque la posizione di Paolo in rapporto a Pietro e al col
legio apostolico? Secondo Le 24,47 e At 1 ,8, Gerusalemme doveva
essere il punto di partenza della testimonianza degli apostoli, desti
nata «a tutte le nazioni», «fino all'estremità della terra>>; nell'econo
mia degli Atti, gli apostoli restano tuttavia fissi a Gerusalemme, ed è
attraverso Paolo che la loro missione assumerà la sua dimensione
universale (cf. 13,47) Paolo concorre dunque alla realizzazione del
.
compito assegnato agli apostoli. All 'opera che essi hanno iniziato a
Gerusalemme egli reca il complemento che le era indispensabile. 1 5
Da u n certo punto d i vista, Paolo s i sostituisce dunque agli apostoli
nell'adempimento della loro missione. Ma se lo fa. è per un diretto in
tervento del Cristo, non in virtù di un mandato o di una delega che
avrebbe ricevuto da essi. In nessun modo il suo ministero deriva da lo
ro: su questo punto Luca esprime lo stesso pensiero di Paolo.16
Non si finirebbe mai di enumerare tutti i silenzi di Luca: essi stu
piscono quei lettori che pensano la Chiesa come un 'istituzione ge
rarchicamente organizzata. Contentiamoci di un ultimo accenno. Al
momento dell 'arrivo di Paolo a Roma, c'era già una comunità cri
stiana in questa città. Noi lo sappiamo bene dali 'Epistola ai Romani,
e Luca non lo ignora: egli racconta che «i fratellh> vennero incontro
38
a Paolo e ai suoi compagni sino al Foro di Appio e alle Tre Taverne,
e che questa attenzione fu per Paolo un incoraggiamento (28,1 5). Ma
una volta entrato nella capitale, Paolo prende contatto con i dirigen
ti della comunità giudaica (28,17-28) e si lancia in un'attività missio
naria intensa (28,30-31 ) : egli si comporta come se la Chiesa di Roma
non esistesse e come se le conversioni che la sua predicazione pote
va ottenere non dovessero far accrescere una comunità esistente e
che doveva avere i propri capi.
Questo è sufficiente a dimostrare che, se gli Atti forniscono delle
preziose indicazioni sull'organizzazione delle Chiese, lo fanno con
tali lacune che ci si deve arrendere all'evidenza: non è sotto questa
angolazione che Luca si interessa alla realtà della Chiesa. Si passe
rebbe a lato del suo specifico punto di vista se lo si interrogasse solo
sui meccanismi di funzionamento dell'autorità nella Chiesa.
5. La Chiesa e Io Stato
39
(23,4.14.22 ... ), la sua volontà di rilasciarlo (23,1 6.20.22), la pressio
ne dei giudei che lo inducono a cedere (23,24-25 )», e questi fatti sa
ranno richiamati nei discorsi degli Atti (At 3,13-14; 1 3 ,28). «Luca
non racconta questo per scusare il governatore, ma al contrario: se
sotto la pressione dei sommi sacerdoti Pilato manda a morte colui
che ha dichiarato innocente, egli tradisce la sua missione di giudice,
e quella aequitas romana alla quale Luca attribuisce tanto valore
(At 25, 1 6) . Ma si riconosce qui un tratto costan te del libro degli At
ti, nel cui racconto i magistrati romani intervengono sempre per di
chiarare il buon diritto dei predicatori del vangelo (At 1 3 ,7-12;
1 8,12-17; 23,23-30; 25,14-25; 26,31; 28,18). Quest'insistenza tradisce
un'intenzione apologetica di Luca: contro le accuse dei giudei [ ... ] ,
egli vuole far risaltare che l e autorità romane non vedono n e l van
gelo alcun pericolo per l'impero». 1 s
E possibile precisare quest' «intenzione apologetica)) di cui parla
il padre George? Dopo più di un secolo, si vede riapparire regolar
mente l'idea che Luca avrebbe redatto la sua opera per farla servire
alla difesa di Paolo davanti all'autorità romana, o, in senso più lato,
per convincere queste autorità che i cristiani non nutrono alcuna
ostilità nei confronti dello Stato e che il cristianesimo è nel diritto di
godere dello statuto di religio licita accordato al giudaismo.
Tali interpretazioni dell'intento generale di Luca sono palese
mente inadeguate:
l . Esse presupporrebbero che l'opera riguardasse direttamente
dei lettori pagani, e più precisamente dei detentori dell'autorità
pubblica: è disconoscere il ruolo che hanno nel complesso le consi
derazioni teologiche, in particolare quelle che si ricollegano al tema
del compimento delle Scritture. Luca non ignora che un tale lin
guaggio è incomprensibile per dei magistrati romani (cf. At 1 8,14-
15; 26,24) e che bisogna agire diversamente parlando ai pagani
(14,15-17; 1 7,22-32).
2. Se egli avesse voluto far beneficiare i cristiani dello statuto le
gale accordato al giudaismo, si può pensare che non avrebbe com
messo la goffaggine di sottolineare costantemente il ripetuto rigetto
40
del cristianesimo da parte di coloro che erano riconosciuti come i
rappresentanti accreditati del giudaismo ufficiale.
3. Lo statuto di religio licita non autorizzava in ogni caso il pro
selitismo testimoniato dalla storia della Chiesa primitiva e che so
prattutto incarna l'attività di Paolo. Luca sa perfettamente che non
si ha il diritto di sviare dei cittadini romani dalla religione che è uffi
cialmente quella dell'impero (cf. At 1 6,20-2 1 ) .
Non sembra necessario attardarsi ulteriormente: se Luca tiene a
stabilire la legittimità della Chiesa, non è in rapporto alle leggi dello
Stato romano, ma in rapporto alla rivelazione divina della quale
Israele è il depositario. Nella sua ottica è importante mostrare che la
religione di Abramo, di Mosè, dei profeti, quella che praticava l'élite
spirituale del popolo eletto, trova il suo autentico prolungamento
nella Chiesa cristiana, sola legittima erede di quella lunga tradizione
che è stata tradita dai capi ufficiali del giudaismo. La posta in gioco
è capitale, poiché ne va dell'identità stessa della Chiesa. Questa non
può comprendersi che alla luce delle promesse divine che trovano in
essa il loro adempimento.
È dunque davanti a una tesi teologica che gli Atti intendono por
re i propri lettori. La sua dimostrazione non segue però la via della
speculazione dottrinale nella quale si è impegnata la riflessione di
Paolo. La via seguita da Luca è quella del racconto storico, che valo
rizza la continuità del processo attraverso il quale la Chiesa, prima
inserita nel più profondo della religione giudaica, è stata progressi
vamente condotta ad allargare il proprio orizzonte per restare fede
le alle sue origini e rispondere agli appelli di Dio, e ha finito così per
trovarsi separata da un giudaismo incapace di fare il passaggio ri
chiesto dal cambiamento che trasformava il tempo della promessa in
quello della realizzazione.
41
Capitolo II
LA SVOLTA DECISIVA
DELL'ASSEMBLEA
DI GERUSALEMME
(At 15)
43
pioniere dell'opera che rimane quella della Chiesa ai tempi di Luca
e in tutti i tempi.
Ci sembra dunque vantaggioso iniziare la nostra ricerca da que
sto punto centrale, a partire dal quale le altre indicazioni dell'opera
prendono il loro pieno significato.
Tutta la vicenda inizia ad Antiochia (15,1-5) e lì si conclude
(15,30-35). Alcuni venuti dalla Giudea (v. l; il v. 24 precisa che essi
non avevano ricevuto alcun mandato dai capi della comunità) hanno
provocato disordine e agitazione fra i cristiani di A ntiochia dichia
rando la circoncisione necessaria alla salvezza (vv. 1-2). Dei delegati
ufficiali, portatori di un messaggio scritto, saranno là causa di gioia e
di conforto (vv. 30-3 1 )
.
44
l. Pietro: la lezione della sua esperienza a Cesarea (vv. 7-11)1
1 Cominciamo col richiamare l'attenzione sul fatto che questo discorso d i Pietro
è stato l'oggetto di un'ampia monografia in tre volumi, alla quale bisogna necessaria
mente riferirsi e della quale non rifaremo qui tutto il cammino: S.A. PANIMOLLE, Il di
scorso di Pietro all'assemblea apostolica, 1: Il concilio di Gerusalemme (Atti 15, 1-35);
2: Parola, fede e Spirito (Atti 15, 7-9) ; 3: Legge e grazia (Atti 15,10-11 ) Bologna 1 976,
,
1 977 e 1 978.
45
Ciò che era vero del centurione di Cafarnao lo era ancor più per
quello di Cesarea. Luca lo presenta immediatamente come un uomo
«pio e timorato di Dio con tutta la sua casa, che faceva al popolo
(giudeo) delle abbondanti elemosine e pregava Dio costantemente»
(A t 10,2) . Gli uomini che egli ha inviato per cercare Pietro dicono di
lui: è «Un uomo giusto e timorato di Dio, del quale l'intera nazione
giudea rende buona testimonianza» (v. 22). Ed è al suo indirizzo che
Pietro osserva: «In ogni nazione colui che teme (Dio) e pratica la
giustizia gli è gradito» (v. 35). Si tratta dunque di un uomo che rico
nosce il Dio di Israele come il vero Dio, che pratica la giustizia di
stinguendosi per la generosità delle offerte che fa ai giudei e per l'as
siduità delle preghiere. La qualifica di «pagano» mal si conviene per
un uomo che incarna così bene l'ideale religioso del giudaismo.
Egli rimane tuttavia uno «straniero» (allophylos), che un giudeo
non può frequentare (10,28), un incirconciso nella cui casa un giudeo
non si permette di entrare e del quale non dovrebbe condividere la
mensa ( 1 1 ,3 ) I rapporti con un tale uomo pongono a un giudeo il
.
46
è detto del dono della «conversione in vista della vita» accordata da
Dio ai gentili ( 1 1 ,1 8).
Queste osservazioni potrebbero dare l'impressione che ci si al
lontani dal problema ecclesiologico. Esse pe rmettono tuttavia di
rendersi conto della portata della «tesi» di questi capitoli: Dio ha
abolito la differenza che esisteva tra giudei e gentili chiamando gli
uni e gli altri a una stessa fede e a uno stesso battesimo. Pietro è par
ticolarmente esplicito in 15,9: Dio «non ha fatto nessuna differenza
tra noi (giudei) e loro (incirconcisi), avendo purificato i loro cuori
con la fede». Lo stesso apostolo aveva già dichiarato in 1 0,28: «Dio
mi ha manifestato che non bisogna chiamare alcun uomo immondo
o impuro», e in 10,34-35: «Dio non fa preferenza di persone, ma in
ogni nazione colui che lo teme e pratica la giustizia gli è gradito».
Questa parità assoluta è attestata, sempre secondo Pietro, dal fatto
che lo stesso dono dello Spirito è stato accordato agli uni come agli
altri. Questo è fortemente sottolineato nei testi: «Lo Spirito Santo è
sceso su di loro, esattamente come su di noi all'inizio» ( 1 1 ,1 5 ) , «Dio
ha loro accordato lo stesso dono fatto a noi» (v. 17), «Dio ha reso lo
ro testimonianza donando loro lo Spirito Santo, esattamente come a
noi» (15,8). L'analogia è tale che si possono anche invertire i termi
ni: «Noi crediamo che è per mezzo della grazia del Signore Gesù
che siamo salvati, ne/ loro stesso modo» (v. 1 1 ) . Giudei o gentili, tut
ti sono salvati in virtù della stessa fede, e tutti ricevono da Dio lo
stesso dono dello Spirito Santo. Come si potrebbero allora conside
rare due tipi di appartenenza alla stessa com unità di salvezza? O an
cora, come domanda Pietro in 10,47, come sarebbe possibile rifiuta
re il battesimo a coloro «che hanno ricevuto lo Spirito Santo esatta
mente come noi?».
Si è spesso sottolineato che il discorso «conciliare» di Pietro in A t
15,7- 1 1 ha un suono sensibilmente «paolino». Ma questo discorso
non fa che sviluppare le conseguenze che erano già sottese nel lun
go racconto di 10,1-48 e 1 1 ,1 - 1 8. Luca fa interamente propria la con
cezione dell'unità della Chiesa che vi si esprime: un'unità nella qua
le è superata la differenza fra giudei e gentili prima che diventasse
ro credenti e prima che avessero ricevuto il dono dello Spirito.
Si coglie forse meglio ora la prospettiva nella quale Luca aveva
iniziato a ridurre per quello che era possibile la distanza che separa
va dal giudaismo un incirconciso che «temeva Dio» e la cui condot
ta era esemplare dal punto di vista della pietà giudaica. Così egli pre-
47
parava già il suo lettore all'enunciazione di principi tendenti a sop
primere ogni differenza tra credenti provenienti e dal giudaismo e
dal mondo pagano nella loro comune appartenenza alla Chiesa.
In ciascuna delle due parti del suo discorso, Giacomo inizia dun
que col sottolineare il suo accordo con ciò che è stato detto da Pie
tro (vv. 14 e 1 9), per aggiungere successivamente un'integrazione che
gli è propria: una conferma ricavata dalle «parole dei profeti» (vv. l 5-
18), una restrizione che s'ispira a Mosè (vv. 20-2 1 ). Il modo col qua
le Giacomo formula il suo accordo al v. 14 è particolarmente signifi
cativo: «Simeone ha esposto come, una prima volta, Dio ha avuto cu
ra di prendere per suo nome un popolo tra le nazionh>. L'importan
za che quest'affermazione introduttiva potrebbe avere dal punto di
48
vista ecclesiologico ci consiglia di rinviare il suo esame e di studiare
anzitutto le due parti del discorso che sono destinate a illustrarla, la
prima direttamente, la seconda indirettamente. Potremo così essere
in grado di meglio precisare l'esatta portata di ciò che il v. 14 dice di
un «popolo» tratto da Dio di mezzo ai gentili.
49
Presa nel suo complesso, la citazione di Am 9, 1 1 -12 suppone la
versione dei Settanta, alla quale Luca deve l'apertura universalista
del v. 12. La prospettiva del testo ebraico è diversa, promettendo
semplicemente la restaurazione del regno davidico e l'estensione del
suo dominio su Edom e le nazioni vicine. Secondo il suo costume,
Luca non trascrive il suo modello senza praticarvi alcuni ritocchi at
ti a migliorarne la comprensione:
At 15,16 Am 9,1 1
Dopo questo, I n quel giorno,
io ritornerò io rinnalzerò
e ricostruirò
la tenda di Davide la tenda di Davide
che è caduta, che è caduta,
e ricostruirò e ricostruirò
le sue rovine ciò che di essa era caduto,
e la raddrizzerò. e rinnalzerò le sue rovine,
e la ricostruirò
come ai giorni d 'un tempo.
37-53. Dello stesso esegeta dobbiamo inoltre segnalare un altro studio del quale ab
biamo largamente usufruito: «The Divine Purpose: the Jews and the Gentile Mission
(Acts 1 5 )>), in Society of Biblica/ Lirerature Seminar Papers 1 980, 267-282. Ritornerò
sull'interpretazione che l'oracolo di Am 9,1 1 ha ricevuto in due testi qumraniani: 4Q
174, l , 1 0- 1 3 e CD VII, 14-19. Ma si può subito segnalare che nel 1965 due autori si so
no basati su queste testimonianze per difendere l'ipotesi secondo la quale la citazio
ne di At 1 5, 1 6 deriverebbe non dalla Settanta bensì da una tradizione indipendente,
conosciuta anche a Qumran. Si tratta in primo luogo di J. DE WAARD. A Comparative
Study of the O/d Testament Text in the Dea d Sea Scrol/s and in the New Testament (Stu
dies on the Texts of the Desert of Judah. 4), Leiden 1965, 24-26; poi di M. WILcox, The
Semitisms ofActs, Oxford 1965, 49. Le spiegazioni di J. De Waard sono state rifiutate
da C.M. MARTINI nella sua recensione in Biblica 50( 1 969), 272-275 (274); quelle di M.
Wilcox da E. RICHARD nell'articolo: «The Old Testament in Acts: Wilcox's Semitisms
in Retrospect» in Catholic Biblica/ Quarterly 42(1980), 330-341 (339). Sarebbe inuti
,
le riprendere qui questa discussione. È a partire dalla Settanta che la citazione degli
Atti deve essere interpretata .
50
inoltre la finale, «come ai giorni d'un tempo», che non si accorda evi
dentemente con la prospettiva universalista del versetto seguente.
Ali 'inizio, sostituisce «In quel giorno» con la formula che gli è fami
liare «Dopo questo», meta tauta (Le 5,27; 10, 1 ; 12,4; 17 ,8; 18,4; A t 7 ,7;
13,20; 18,1 ; mai in Mt e Mc), al contrario di ciò che fa in At 2, 17 do
ve, nelle prime parole della citazione di Gioele, sostituisce «Ed av
verrà negli ultimi giorni» a «Ed avverrà dopo questo». Al capitolo 2
era interessato a sottolineare che la promessa di Gioele riguardava i
«giorni» che dovevano precedere il grande «giorno del Signore» (v.
20). Qui, al contrario, era senza dubbio preferibile non insistere sul
l 'aspetto escatologico.
Richard4 suggerisce una spiegazione più puntuale: gli Atti riallac
cerebbero strettamente la citazione di Am 9,1 1s a quella di Am 5,25-
26 presente nel discorso di Stefano (7,42-43). Là si diceva che Dio si
è «distolto» ( estrepsen ) dal suo popolo in una fase che Luca identifi
ca esplicitamente con quella della deportazione a Babilonia; si vede
ora che Dio promette che «ritornerà» (anastrepso), per ricostruire
«dopo questo» ciò che era stato sconvolto al momento dell'esilio.
Quest'ipotesi conduce a un risultato che si lascia preferire per la pro
pria coerenza.
C'è un punto che Richard non approfondisce: da dove viene l'ag
giunta di questa nuova promessa, «ed io la raddrizzerò» (kai
anorthoso autèn ) , che non trova affatto spiegazione a livello del vo
ca bo lario familiare a Luca? Il verbo anorthoo non è frequente nella
Bi bbia greca, ma vi appare soprattutto in un preciso contesto: quel
lo della promessa fatta a David secondo la quale Dio «raddrizzerà»
(nel senso di «Consoliderà») il trono del suo discendente (2Sam
7,13.16.26; 1Cr 17,12. 14.24; 22,10). Ci sembra difficile attribuire al ca
so quest 'incontro tra una promessa riguardante il trono di Davide e
colui che sarà chiamato a succedergli, e la promessa che, alla fine del
libro di Amos, riguarda la «tenda di David».
Il legame appare assai meno fortuito se si considera che il solo te
sto della Bibbia greca che parli della «tenda di David>> oltre a Am
9. 1 1 si trova in Is 16,5 , un oracolo in cui si promette che il trono di
David «sarà raddrizzato» (diorthothèsetai) e che vi siederà colui che
51
deve giudicare con verità «nella tenda di David». Si vede attraverso
questo come sia facile passare dall'idea del trono di David a quella
della tenda di David.
Arriviamo così alla questione essenziale per la nostra ricerca:
quella di sapere in che cosa consista, nel pensiero di Luca, questa «ri
costruzione della tenda di David>> che deve provocare la conversio
ne degli uomini di tutte le nazioni. Le opinioni degli esegeti sono
contrastanti. Per molti di loro non si può trattare che della restaura
zione di Israele: questa interpretazione si sosterrebbe sull'opposizio
ne che le due parti dell'oracolo stabiliscono tra la «tenda di David»
e ciò che è detto in seguito della conversione «del resto degli uomi
ni>>, di «tutte le nazioni». Molti altri ritengono che la «ricostruzione
della tenda di David» si debba intendere in senso cristologico, es
sendosi verificata la sua realizzazione nella missione di Gesù e so
prattutto nella sua risurrezione ed esaltazione celeste.5
5 1 -53; S.O. WILSON, The Genti/es and the Gentils Mission in Luke-Acts (SNTSMS 23),
Cambridge 1973; G. LoHFINK, Die Sammlung lsraels = La raccolta d'Israele, 7 1 -72; J.
KoE NIG , Jewis and Christians in Dialogue. New Testament Foundations, Philadelphia
1 979, 106; C. PERROT, «Les décisions de l'assemblée de Jérusalem», in RSR 69( 198 1 ),
1 95-208 (202-203); J. Ro LOFF, Die Apostelgeschichte (NTD 5), 17 éd., Gottingen 198 1 ,
232; V. Fusco, «Effusione dello Spirito e raduno dell'Israele disperso. Gerusalemme
nell'episodio di Pentecoste (Atti 2,1-1 3)», in AssoCIAZIONE BIB L I CA ITALIANA, Gerusa
lemme. A tti della XXVI Settimana Biblica, Brescia 1982, 201-21 8: J. JERVELL, «Die Mit
te der Schrift. Zum lukanischen Verstandnis des Alten Testaments», in U. Luz - H.
WEDER (a cura di), Die Mitte des Neuen Testaments. Einheit und Vie/fa/t neutestamen
tlicher Theologie. Festschrift E. Schweizer, Gottingen 1983, 78-96 (89). L'interpretazio
ne cristologica riceve la preferenza nei commentari di A. Wikenhauser ( 1 956 ), E.
Haenchen ( 1 977), G. Schneider ( 1 982), e nelle monografie di C. BvRGER, lesus als Da
vidssohn. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung, Gottingen 1970; E. KRANKL, Je
sus der Knecht Goues. Die heilsgeschichtliche Stellung Jesu in den Reden der Apostel
geschichte, Regensburg 1972; BovoN, Luc le théologien, 354. Un terzo gruppo sarebbe
composto dagli autori che evitano in varia maniera di pronunciarsi in un senso o nel
l'altro. Si potrebbe aggiungere che la promessa di Am 9,1 1 ha avuto fin dagli inizi in
terpretazioni diverse. A Qumràn essa è chiaramente interpretata in senso messianico
nel Florilegio di 4Q 174,1,10-13: dopo aver citato l'oracolo di Natan (2Sam
7,1 lc. 12bc. l 3b. 14a), il testo spiega: «E il Germe di David, che si leverà con il Cerca-
52
Dobbiamo dunque chiederci quale significato prenda natural
mente nel pensiero di Luca una promessa che riguarda «la tenda di
David>>. Abbiamo già constatato che Luca non si accontenta di par
lare di una ricostruzione di questa tenda; egli ha introdotto nel testo
di Amos l'idea di un «raddrizzamento>> di questa tenda, anorthoso,
richiamando un verbo che, nella Bibbia greca, è soprattutto associa
to alla promessa che Dio ha fatto in relazione al «trono di David» e
al discendente di David che vi prenderà posto dopo di lui. Ora Luca
si dimostra particolarmente interessato a questa promessa. Egli la ri
chiama in A t 2,30: «Essendo profeta, (David) sapeva che Dio gli ave
va giurato di far sedere sul suo trono un figlio del suo sangue», in A t
1 3,23: «E dal suo seme che, secondo la promessa, Dio ha suscitato un
salvatore ad Israele» . Sin dall'inizio del Vangelo, Gesù è annunciato
come l'erede di questa promessa nella parola dell'angelo a Maria: «Il
Signore Dio gli darà il trono di David suo padre» (Le 1 ,32).
Unico degli evangelisti a parlare del «trono di David», Luca è an
che il solo a parlare della «casa di David», un'espressione che evoca
ancora la promessa fatta a David, ma attraverso un'immagine che si
lega di più a quella di una «tenda». In due casi (Le 1,27 e 2,4) l'ap
partenenza alla «casa di David» caratterizza direttamente Giuseppe,
e così, indirettamente, Gesù. Nel terzo caso, si tratta direttamente di
Gesù, per la venuta del quale il cantico di Zaccaria benedice Dio:
tore della Legge e (troneggerà) a Si(on alla f)ine dei giorni, così come è scritto: Io rin
nalzerò la capanna di David che è caduta. Questa capanna di David che è caduta. (è)
colui che si leverà per salvare Israele». Am 9.1 1 è così affiancato ad altre profezie mes
sianiche. CD VII. 14-19 si abbandona a un'esegesi più avventurosa di Am 5,26-27 (il
testo citato in At 7,43) Là dove il testo parlava del «tabernacolo di Moloc», il com
.
mentatore intende «la tenda del vostro re>>, e, identificando questa con i «libri della
Legge». fa appello ad Am 9,1 1 : «lo rinnalzerò la tenda di David che è caduta», per
giungere all'idea che questo rinnalzamento si è realizzato nella comunità di «Dama
scO>> (Am 5,27). Un'eco di Am 9 . 1 1 si trova ancora in Dn 1 1 ,14 (LXX). Il testo origi
nale faceva allusione a una ribellione contro il «re del mezzogiorno» (un Tolomeo ) ,
facendo dunque il gioco del re del nord, Antioco III. Il traduttore parla di tutt'altra
cosa: «Ed in questi giorni il re d'Egitto sarà illuminato da nuovi pensieri, e egli rico
struirà ciò che era caduto del tuo popolo (anoikodomèsei ta peptokota tou ethnous
.wu ) e si leverà per realizzare la profezia, ed essi avanzeranno». Qui, la salvezza è at
.
tesa dal re d'Egitto: è lui che ricostruirà le peptokota, le rovine. non della tenda di Da
vid, ma della nazione giudaica (rovine che, in questo contesto, sono naturalmente at
tribuibili al re seleucide ) Sembra qui che si possa parlare di una sostituzione della
.
«nazione» giudaica all'espressione che parlava della «tenda di David»: nel senso del
la prima interpretazione che abbiamo riferito.
53
«Ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di David suo
servo» (Le 1 ,69). È ugualmente Luca che, contrariamente alla tradi
zione, che ne riserva l'appellativo a Gerusalemme, qualifica Betlem
me, luogo della nascita di Gesù, come «città di David» (2,4. 1 1 ). È an
cora un modo per legare Gesù alla promessa fatta da Dio a David.
Tutte le indicazioni vanno nella stessa direzione: trascrivendo
un oracolo che conteneva una promessa di Dio riguardante la rico
struzione della «tenda di David», non si vede come Luca potrebbe
pensare ad altro se non alla promessa fatta a David in relazione al
figlio che doveva assidersi sul suo trono. Nel contesto lucano, l'ora
colo di Am 9,1 1 deve intendersi in senso cristologico. La ricostru
zione della tenda di David che vi è annunciata è stata realizzata da
Gesù senza dubbio dalla sua risurrezione e dal suo assidersi alla de
stra di Dio (A t 2,30-31 ; 13,32-33). La restaurazione trascendente
della regalità davidica in Gesù Cristo non dovrebbe confondersi
con la restaurazione d 'Israele, che potrebbe tutt'al più esserne una
conseguenza, e una conseguenza aleatoria. La chiamata delle na
zioni ha come punto di partenza l 'evento messianico realizzato nel
la persona di Gesù.
54
luto dire che la ricostruzione della tenda di David la renderà «tale
(quale era) nei giorni d'un tempo ( tou aionos ) )), ma gli piace preci
sare che ciò che fa il Signore era «conosciuto da sempre)) (o, per con
servare il medesimo termine, «da tempo)), ap'aionos ) . Inutile attar
darsi su queste modifiche accessorie. Ciò che Luca corregge ad
Amos è assai più importante.
Per esprimere il fine perseguito da Dio ristabilendo la regalità
davidica, il testo utilizzava il verbo «Cercare)), ekzètéo, e Luca ha ag
giunto il complemento: affinché gli uomini «cerchino il Signore)). Lu
ca esprimerà un'idea simile poco oltre, ma parlando della creazione
dell'universo, nel quale tutte le cose sono state disposte in modo che
gli uomini «cerchino Dio per raggiungerlo, se possibile, come a ten
toni per trovarlo)) (At 17,27 ) . L'avvicinamento suggerisce una conti
nuità del progetto divino originale e dell'intenzione con la quale D io
è intervenuto per realizzare la promessa che aveva fatto a David: ec
co un pensiero caro a Luca e presente alla sua mente.
Il discorso davanti all'Areopago parla di una ricerca alla quale
«gli uomini)) sono chiamati; Amos greco parla del «resto degli uomi
ni)) ( hoi kataloipoi ton anthropon ) . In rapporto a chi bisogna inten
dere questo «resto))? La seconda parte della frase lo specifica con
tutta la chiarezza desiderabile: si tratta di «tutte le nazioni sulle qua
li è stato pronunciato il nome)) del Signore. A giudicare dalle parole
che sono servite da introduzione alla citazione, è precisamente su
questi termini del testo profetico che si è concentrata soprattutto
l 'attenzione di Luca. Parlando de l popolo che D io «ha preso tra le
nazioni per proprio nome)), il v. 1 4 preparava l'ascoltatore alla parte
della citazione che ripete le stesse parole: «tutte le nazionù) sulle
quali il Signore dichiara che «il proprio nome)) è stato pronunciato.
Noi abbiamo dunq ue delle buone ragioni per supporre che Luca si
sia particolarmente interessato a questa formula.
Si tratta effettivamente di una formula eccezionale nella B ibbia.
Vi si trovano abbastanza frequentemente delle espressioni che af
fermano che il nome del Signore è «pronunciato)) ( epikaléomai) su
diverse realtà: sull'arca di Dio (2Sam 6,2) , sul tempio ( l Re 8,43; 2Cr
6,33; Ger 7,1 0. 1 1 . 14.30; 39,34; 41,15; Bar 2,26; 1 Mac 7,37 ) , sulla città
di Gerusalemme (Dn 9,18.19 ) , sul popolo di Israele (2Cr 7,14; Ger
14,9; Bar 2,15; Dn 9,19 ) , o ugualmente su un profeta (Ger 15 , 1 6 ) . Il
pronunciare il nome fa di queste realtà la proprietà particolare del
Signore: esse gli sono consacrate e godono della sua protezione. Nel
55
Nuovo Testamento, Gc 2,7 riprende l'espressione per designare i cri
stiani nella loro appartenenza a Cristo.
Tutto ciò permette di cogliere la singolarità e l'audacia di questo
testo unico che non teme di applicare l'espressione a «tutte le nazio
ni», vale a dire al mondo pagano nella sua totalità. Luca ha certa
mente ben scelto la citazione della quale ha fatto il centro dell'epi
sodio del «concilio», collocato a sua volta nel cuore del libro degli
Atti! Si tratta de ll'oracolo nel quale Dio stesso rivendica la proprietà
di tutte la nazioni , considerando che tutte gli sono consacrate in for
za della pronuncia del suo nome. Questa consacrazione costituisce
anche il fondamento sulla base del quale tutte sono chiamate a «cer
care il Signore», almeno dal momento in cui il trono di David sarà
stato ristabilito dal Cristo. La restaurazione della regalità davidica, di
cui parlava la prima parte dell'oracolo, non è stata fatta semplice
mente a beneficio di Israele, come i discepoli pensavano ancora al
l'inizio degli Atti (1,6): essa riguarda tutte le nazioni, poiché è su tut
te loro che è stato pronunciato il nome del Signore. Sarebbe stato
diffici le per Luca trovare un testo profetico che esprimesse meglio la
prospettiva universalista della regalità di Cristo.
56
Non è dunque senza interesse segnalare che, sempre per quello
che concerne la sua struttura, la seconda parte del discorso di Gia
como trova un parallelo più completo nella seconda parte del rac
conto lucano dell'episodio del centurione di Cafarnao, Le 7,1-10.7 In
un primo tempo questo ufficiale aveva inviato a Gesù dei notabili
giudei che avevano interceduto in suo favore e ottenuto che Gesù li
accompagnasse per andare a operare la guarigione richiesta ( 7 ,2-6a ).
In un secondo tempo, gli fa dire da suoi amici che egli non merita di
ricevere Gesù sotto il suo tetto (v. 6b ). Egli espone allora la conse
guenza di quest'affermazione: « È per questo (dio) che io non mi so
no ritenuto degno di venire verso di te, ma di' una parola... Io stesso
in effetti... » (vv. 7-8). Come in At 15,1 9-21 , la conseguenza (dio) è
esposta innanzitutto attraverso una proposizione negativa, in segui
to attraverso una proposizione positiva (introdotta da alla), a sua
volta giustificata da una esplicativa (introdotta da gar). Questo pa
rallelo è soprattutto utile perché aiuta a cogliere meglio che la pro
posizione esplicativa (At 1 5 ,21) deve giustificare direttamente la
proposizione positiva, ed essa sola (v. 20).8
Un ulteriore dettaglio non dovrebbe passare inosservato. Al v. 7
Pietro aveva iniziato il suo discorso riferendosi all'esperienza che
aveva fatto «dai giorni antichi» (aph 'hèmeron archaion), mentre al v.
21 Giacomo conclude il suo discorso richiamandosi alla lettura che si
fa di Mosè «dalle generazioni antiche» (ek geneon archaion). Un
procedimento di inclusione associa così due argomentazioni com
plementari: quella che si richiama all'intervento diretto di Dio nel
caso di Cornelio, e quella che fa appello all'autorità di Mosè. Osser
vazione minore indubbiamente, ma che non è senza portata né per
quello che concerne l 'unità letteraria del brano tutto intero né per
quello che riguarda l'accento da collocare sul v. 21: non si tratta qui
57
di una considerazione accessoria rispetto alle quattro clausole del v.
20; sono al contrario le clausole che ricevono la loro valenza da que
sto riferimento finale a «Mosè».
Così come al v. 14 Giacomo era entrato in argomento sottoli
neando il suo accordo con il racconto fatto da Pietro (vv. 7-9), egli ri
prende la parola al v. 19 per concludere la sua lunga citazione del li
bro d'Amos con una raccomandazione negativa che dà ragione a
quella che Pietro aveva fatto al v. 10: non c'è ragione d'imporre ai
gentili che si convertono il fardello che vorrebbero loro imporre i
giudaizzanti (15,1 .5). Il decreto «conciliare» si adeguerà a questa
opinione al v. 28 (cf. v. 24) .
M a i giudaizzanti avevano fondato l e loro esigenze sull'autorità
di Mosè (vv. l e 5). Spetta a Giacomo mostrare che essi hanno mal
letto Mosè e che la stessa legge mosaica non intende imporre ai gen
tili né la circoncisione (v. l) né tutte le prescrizioni fatte per i giudei
(v. 5): per i gentili essa si accontenta dell'osservanza delle quattro
proibizioni enumerate al v. 20, riprese successivamente sotto una for
ma meno retorica e in ordine leggermente diverso al v. 29 e in 21,25:
essi devono «astenersi dagli idolotiti, dal sangue, dalle (carni) soffo
cate e dali 'impudicizia». Luca non sembra essere stato preoccupato
dal determinare l'origine delle quattro clausole, e si può ritenere che
egli le en umeri in funzione di una pratica passata dalla sinagoga alle
assemblee cristiane del mondo ellenistico. La loro provenienza ulti
ma non fa alcuna difficoltà: esse derivano dalle regole che Lv 17-1 8
dichiara esplicitamente applicabili anche agli stranieri che risiedono
tra i giudei. La proibizione degli idolotiti costituisce senza dubbio un
adattamento di quella che riguardava le immolazioni irregolari (Lv
17,3-9) ; la proibizione del sangue corrisponde a Lv 17,10-14, mentre
quella che concerne le carni soffocate potrebbe derivare da Lv
17,15-16. Quanto alla proibizione della porneia, essa deve riguarda
re non solamente le unioni incestuose, ma anche i disordini sessuali
di ogni genere enumerati in Lv 18, che concernono egualmente gli
stranieri residenti tra gli israeliti (1 8,26).
Il motivo dato a queste proibizioni in Lv 17-18 è la necessità per
gli israe liti di evitare ogni sozzura e ogni impurità. Abbiamo già os
servato che proprio questa problematica ha un posto considerevole
in tutta la storia di Cornelio (At 10,1-1 1 ,18) e che la si ritrova nel di
scorso di Pietro in 15,9. Sembra naturale supporre che le clausole di
Giacomo rispondano alla medesima preoccupazione. Esse tendono
58
così a permettere la convivenza tra i cristiani di origine giudaica e
quelli provenienti dal mondo dei gentili.
Ma non è evidentemente su questo punto che Giacomo insiste
(egli non usa il termine «sozzura», alisgema, che a proposito delle
carni offerte agli idoli: v. 20). Importante ai suoi occhi è il fatto che
Io stesso Mosè ha legiferato per gli stranieri in quanto tali, senza in
vi tarli a farsi giudei attraverso la circoncisione e l'insieme delle os
servanze destinate ai giudei (cf. v. 5). È in questo senso precisamen
te che il v. 21 sottolinea l'autorità di Mosè, autorità riconosciuta da
sempre e ovunque nel mondo dove vi sono delle sinagoghe e dove la
sua legge è così proclamata. I giudaizzanti sono dunque in errore
pretendendo di costringere i gentili a una legislazione che non è sta
ta fatta per loro. Mosè non li obbliga a niente altro che alle quattro
proibizioni di Lv 17-18. L'esistenza di queste quattro eccezioni atte
sta la loro libertà rispetto a tutto il resto. Si comprende allora ciò che
Luca dice dell'effetto provocato dalla lettura della lettera «concilia
re» ad Antiochia: gioia e consolazione (v. 3 1 ).
Il discorso che Giacomo e gli anziani tengono a Paolo in At 21 ,20-
25 si situa probabilmente nella stessa linea dell'intervento di Giaco
mo al «concilio». Esiste il problema innanzitutto di «coloro tra i giu
dei che hanno aderito alla fede» (v. 20): essi sono pieni di zelo per la
Legge e non ammettono che dei giudei, divenendo cristiani, abban
donino la pratica della Legge (vv. 20-24). Quanto ai «gentili che han
no aderito alla fede», essi non sono tenuti che alle quattro proibizio
ni di Lv 17-1 8 (v. 25). L'osservanza di queste regole deve permettere
ai giudeo-cristiani, di cui Giacomo è portavoce, di frequentarli senza
esporsi al rischio di contrarre un'impurità. L'essenziale nel loro caso
è che Dio abbia «purificato i loro cuori mediante la fede» (15,9).9
9 Può essere utile qui presentare l'ipotesi proposta da C. PERROT, «Les décisions
de l'assemblée de Jérusalem», in RSR 69( 1981), 1 95-208. Essa reagisce contro un'opi
nione molto diffusa che vuole che il racconto di At 15 raccolga in uno due eventi pre
sentati come distinti in Gal 2, 1-10 e 1 1 -14: da una parte le deliberazioni di Gerusa
lemme secondo cui la circoncisione non doveva essere imposta ai gentili che diveni
' ano credenti: dall'al tra il conflitto insorto ad Antiochia sulla possibilità di una co
munione di mensa tra i cristiani provenienti dal giudaismo e quelli del mondo paga
no che condividevano la stessa fede, ma non avevano ricevuto la circoncisione. Con
t ro l 'interpretazione più corrente, Perrot ritiene che le quattro proibizioni menziona
te da Giacomo non abbiano rapporto diretto con la questione della commensalità (re-
59
Concludendo, notiamo che le quattro cause di sozzura dalle qua
li devono astenersi gli stessi gentili in virtù della prescrizione di Mo
sè che li riguarda sono riprese in 15 ,29, nel testo del decreto «Conci
liare». Ma là si aggiunge una nuova precisazione: «Guardandovene,
voi farete bene» (eu praxete). L'espressione che conclude l'episodio:
«Voi farete bene>>, meraviglia per il contrasto che essa forma con
quella che era stata impiegata all'inizio: i giudaizzanti dichiaravano
agli elleno-cristiani: «Se non vi fate circoncidere secondo il costume
di Mosè, non potete essere salvati» (v. 1 ) . Si trattava là della possibi
lità «di essere salvati», ora non si tratta che di «fare bene», di agire
in maniera lodevole (cf. At 1 0,33; Mc 14,7). Tra le due estremità del
stando questa esclusa in ogni maniera); loro compito è dare agli elleno-cristiani, che
non possono più essere considerati come pagani ma che non sono integrati al popolo
di Israele, uno «Statuto canonico>> ispirato a quello che la legge mosaica accordava agli
stranieri residenti in Israele e analogo a que l lo che il giudaismo ellenistico accordava
ai <4imorati di Dio» ammessi a frequentare la sinagoga. L'osservanza delle quattro
proibizioni doveva dunque costituire il tratto distintivo del gruppo elleno-cristiano,
ciò che avrebbe permesso il suo riconoscimento giuridico come gruppo: più precisa
mente come «popolo associato». Questa ingegnosa ipotesi presenta, a nostro avviso,
l'inconveniente di basarsi troppo esclusivamente sulle quattro clausole, intese più nel
contesto della teoria di J. Jervell che non in quello delle indicazioni fornite da Luca
nell'insieme omogeneo che formano negli Atti i racconti di 10,1- 1 1 ,18 e 15,1-35.
l. Non abbiamo ancora esaminato la dichiarazione iniziale di Giacomo in At
15,14: «Dio ha avuto cura di prendere per il suo nome un popolo tra le nazioni». Spie
gheremo in seguito come mai noi non pensiamo che questo appellativo «Un popolo»
permetta di considerare gli elleno-cristiani come un gruppo costituito, distinto e mar
ginale rispetto a ciò che costituisce «il popolo>> per eccellenza, Israele.
2. Abbiamo già avuto occasione di sottolineare, inoltre, l'insistenza di tutto il rac
conto sull'abolizione di una differenza che autorizzerebbe a fare una distinzione tra
«essi» (gli elleno-cristiani) e «noi»> (i giudeo-cristiani): At 1 0,34-35.47; 1 1 ,15.17;
15,8.9. 1 1 .
3 . Abbiamo ugualmente constatato che, in questi capitoli, la problematica della
«purità» e delle cause di «impurità» ha un posto preponderante. In particolare non è
a caso che al suo ritorno a Gerusalemme Pietro abbia dovuto rispondere alla lamen
tela di «quelli della circoncisione>> che lo rimproveravano: «Tu hai frequentato degli
incirconcisi e hai mangiato con lorO>> ( 1 1 ,3) . Se è esatto che l'attenzione non si con
centra sullo specifico problema della «commensalità» tra giudeo-cristiani ed elleno
cristiani, non è meno vero che questo problema posto nel corso dell'intero racconto
rappresenta un aspetto concreto del problema più ampio delle regole di «purità». In
breve, non rimproveriamo a Perrot di aver proceduto dal punto di vista «fattuale» in
terrogandosi sul significato che uno storico può dare alle quattro clausole che Luca fa
risalire all'assemblea di Gerusalemme. Ma crediamo che la sua ipotesi parta da una
base troppo angusta, senza soprattutto prendere in considerazione il punto di vista di
Luca cosi come appare nel contesto nel quale sono situate le quattro clausole. È chia
ro che, nella presente ricerca, è il pensiero di Luca che ci interessa direttamente.
60
brano si è prodotto un mutamento di prospettiva, che impedisce di
mettere le istanze di Giacomo sullo stesso piano di quelle dei giu
daizzanti. Si comprende naturalmente come si tratti di riguardi do
vuti ai giudeo-cristiani da parte dei credenti venuti dal paganesimo.10
10
Cf. E. HAENCHEN, Die Apostelgeschichte, 78 ed . • Gottingen 1 977. 433 nota l .
1 1 Ritornare su questo v. 14 mi fa sentire come un anziano combattente che ritor
na sul campo di battaglia d'un tempo. Bisogna risalire sino al 1955. data nella quale il
rev. J.N. SANDERS aveva pubblicato una nota «Peter and Paul in the Acts» nella rivista
New Testament Studies (t. 2, 1 33-143). Essendosi fatta una certa idea del modo in cui
si sono svolte le relazioni tra Pietro e Paolo, Sanders tentava di conciliare i testi con
le proprie ipotesi. A distanza di tempo. ho qualche difficoltà a comprendere come
questa nota abbia potuto provocare da parte mia una critica d'insieme («Pierre et
Paul dans les Actes». in Revue Biblique 64(1957]. 35-47; «Etudes sur les Actes des
Apòtres)), in Lectio Divina 45. Paris 1967, 174-184 = Studi sugli Atti degli Apostoli, Ro
ma 1975) e una messa a punto di At 15,14: «Laos ex ethnòn (At 15,14)», in New Te
stament Studies 3(1956-1 957), 47-50 ( Etudes. 361 -364 ) . Sanders accettava la «Sostan
=
ziale» storicità dei discorsi attribuiti a Pietro e a Giacomo in At 15: bastava per que
sto escludere come glosse redazionali i tocchi paolini aggiunti al discorso di Pietro nei
vv. 9b e 1 1 , la notizia del v. 12 sull'intervento di Barnaba e Paolo, e infine i versetti 15b-
18 che mettono sulla bocca di Giacomo la citazione di un testo di Amos che non ave
va pertinenza se non letto nella versione della Settanta. Contrariamente a questo pro
cedimento di smembramento del testo, la mia nota del 1 956 tendeva a dimostrare che
l'influsso della Settanta si faceva già sentire al v. 14. La formula «Dio ha avuto cura di
prendere per il suo nome un popolo tra le nazioni» sembra ricavare tutta la sua forza
dal fatto che essa richiama la formula della Bibbia greca che dice che Dio ha fatto d'I
sraele il suo popolo particolare tra tutte le nazioni. Sottolineava il fatto che tale di
stinzione tra «popolo» e «nazioni» era tipica della versione greca in Es 1 9.5; 23,22; Dt
7,6, e sopratt l!.tto 14.2; in nessuno di questi passi la versione ebraica usava due termi
ni differenti. E vero che il nostro v. 14 parla non di «popolo particolare» ma di «po
polo per il suo nome)): questa menzione del «nome>) non trova forse la sua spiegazio
ne nella citazione di Amos (v. 1 7) che il v. 14 vuole introdurre e preparare? Questa no
ta ha provocato una prima reazione da parte di P. WINTER, «Acta 15,14 und die luka
nische Kompositionstechnik», in Evangelische Theologie 17( 1 957), 400-406. Questo
autore osservava che rantitesi tra «popolo» e «nazioni» si trova anche in Dt 26, 1 6- 1 9,
dove la versione greca riprende una distinzione che si trovava già nel testo ebraico.
Egli sottolineava allo stesso tempo la differenza dei punti di vista: nella Bibbia il «po
polo» eletto è opposto alle «nazioni», mentre Giacomo fa delle «nazioni» il punto di
partenza del «popolo» che Dio costituisce per il suo nome. La reazione di N. A. DAHL,
nel 1958, è assai più importante: « ..A People for His Name'' (Acts XV. l 4)» , in Ne�· Te
stament Studies 4(1957- 1958), 3 19-327. Dahl ha colto bene il punto debole della nostra
61
contano 14 per Matteo, 2 per Marco, 2 per Giovanni, 36 per Luca, 48
per Atti: ossia 84 per i due libri di Luca. In questa massa, l 'uso eccle
siologi co di At 15,14 e l'analogo di 18,10 costituiscono due eccezioni,
spiegazione: essa fa fatica a rendere conto dell'espressione «per il suo nome». Questa
forma non si trova né nella Bibbia masoretica né nella Settanta, ma è familiare al Tar
gum palestinese. Agli esempi che l'autore ricava dal Targum frammentario e da quel
lo dello Pseudo-Jonathan, si può ora aggiungere l'attestazione complessiva del Tar
gum Neofiti (si veda la lista predisposta da PANIMOLLE, Il discorso di Pietro all'assem
blea apostolica, I. 1 10 nota 75 ) . Si sarebbe dunque esercitato un influsso dell'aramai
co sulla formulazione di At 1 5,14. È nella tradizione aramaica che si passa dall'e
spressione «Un popolo per lui>> a «Un popolo davanti a lui)) e a «Un popolo per il suo
nome)). Dahl fa un ulteriore passo. Egli ritiene che, per entrare nella prospettiva del
discorso di Giacomo, non è tanto verso il Pentateuco che bisogna orientarsi, verso ciò
che vi si dice della situazione privilegiata di Israele rispetto agli altri popoli e verso le
difficoltà che trovano i traduttori a rendere dei termini ebraici la cui terminologia re
sta spesso sfumata. È molto più interessante prendere in considerazione i testi profe
,
tici che, come quello di Am 9,1 1 -12, riguardano il futuro escatologico. E già il caso di
Ez 36,24.28, dove la Settanta legge: «Ed io vi prenderò di mezzo alle nazioni ... , e voi
sarete per me un popolo)), e dove il Targum precisa: «lo vi ricondurrò di mezzo alle
nazioni ... , e voi sarete un popolo davanti a me)) (cf. Ez 37,2 1 -23 ) . «Davanti a me)), nel
linguaggio targumico, può essere considerato come un equivalente di «per il mio no
me)). Ma il passo più chiarificatore, perché interessato allo stesso tema dell'oracolo di
Amos, è Zc 2,14-17 ( 10-13 ) . Il v. 1 5 è reso secondo la Settanta: «E in quel tempo mol
te nazioni cercheranno rifugio presso il Signore, ed esse saranno per lui un popolo».
Nel Targum questo diviene: «E in quel tempo molti popoli saranno aggiunti al popo
lo del Signore, ed essi saranno un popolo davanti a me)). Nel linguaggio del Targum
Neofiti, la finale diventerebbe probabilmente: «Ed essi saranno un popolo per il mio
nome>>. Non si potrebbe supporre che At 15,14 faccia precisamente allusione a que
st'oracolo? Non si dovrebbe più parlare della sostituzione di un popolo nuovo a quel
lo che è sempre stato l'unico popolo di Dio; si tratterebbe dell'allargamento di questo
popolo al quale si aggiungerebbero le nazioni. Questo studio di Dahl mi è parso con
vincente, e io mi sono allineato alle sue principali conclusioni: Etudes sur /es Actes,
364-365; cf. Les Actes des Apotres (Bible de Jérusalem), Paris 1964, 1 39 nota i. Questa
capitolazione mi è stata rimproverata da un certo numero di autori, che avrebbero de
siderato che io mantenessi, almeno in parte. la spiegazione che avevo proposto nel
1 956. Mi sembra chiaro che oggi non si dovrebbe rimanere né sulla mia posizione del
1956, né su quella di Dahl del 1958. Alcune distinzioni sono necessarie.
l . Per quello che concerne la lingua, anzitutto, non ci si può fermare al dilemma:
septuagintismo o aramaismo. Dando la parola a Giacomo, Luca deve prestargli un
linguaggio appropriato (così come conveniva che l'angelo di 10,4.3 1 parlasse un lin
guaggio «liturgico))). L'intenzione è manifesta sin dalla prima parola, dove Pietro ri
ceve il nome di «Simeone)). La strana costruzione epeskepsato labein, Dio «ha avuto
cura (lett. ha visitato) di prendere», è opportunamente avvicinata da Haenchen a
quella che utilizza Elisabetta in Le 1 ,25: epeiden aphe/ein, il Signore «ha gettato gli
occhi per togliere» il mio obbrobrio (si veda anche Le 12,32; At 16,14 ) . La maniera
giudaica di parlare del «nome» divino è familiare a Luca (cf. Le 1 ,49; 1 1 ,2; 1 3,25;
1 9,38; 2 1 ,8.12.17; 24,47; At 2,21 .38; 3,6. 16; 4,7.10. 1 2. 1 7. 18.30; 5,28.40.41 ; 8, 1 6;
9, 14.16.21 .27.28; 10,43.48; 16,18; 1 9,5. 1 3.17 ... ) . E poiché Dahl osserva che nel Targum
esiste uno scambio tra le espressioni «per il suo «nome>> e «davanti a lui», come non
62
di cui è importante misurare l'esatta portata. Secondo J. Jervell, laos
significherebbe semplicemente nei due casi «eine Volksmenge >> , una
quantità di persone. 12 All'altro estremo, J. Roloff vede in 15,14 l'af
fermazione esplicita che riconosce gli elleno-cristiani come «das
Gottesvolk der Endzeit», il popolo di Dio della fine dei tempi.13 Bi
sognerebbe evitare sia di ingigantire sia di minimizzare l'interpreta
zione delle due eccezioni che, come tali, possono confermare l'uso
abituale così come aprire la possibilità di un superamento.
Le spiegazioni date da Dahl nel 1958 conducono in un'altra direzione, anch'essa non
priva di rischi. Riconoscendo nell'affermazione di At 15,14 un'eco di Zc 2,1 5 e di tut
ta una speranza escatologica di Israele, non si è ancora provato che gli Atti non van
no più lontano di questa speranza. ma ci si sottrarrà alla tendenza di condurveli? In
questo caso, solo Israele sarebbe l'oggetto diretto dell'intervento salvifico di Dio,
mentre i gentili non ne beneficerebbero che attraverso la mediazione di Israele, sotto
la sua dipendenza e subordinandosi a esso. È quanto illustra bene l'immagine classica
del pellegrinaggio delle nazioni a Gerusalemme. Dahl evita questa riduzione, ma non
si oserebbe dire altrettanto di J. Jervell o di C. Perrot. Che questa non sia la prospet
tiva di Luca. ci sono buone ragioni di pensarlo, a iniziare dal fatto molto semplice del
ruolo che gioca il capitolo 15 degli Atti come conclusione definitiva del periodo gero
solimitano e apostolico della Chiesa. I dodici apostoli scompaiono e i nuovi capi del
la comunità-madre non ritorneranno che brevemente sulla scena, per dare a Paolo il
consiglio che provocherà la sua prigionia (21,18-25). Lo sguardo si volge ormai non
più verso Gerusalemme, ma verso Roma.
t2
StTh 1 965, 77 nota 22.
13 Die Apostelgeschichte, 232.
63
Cominciamo col mettere da parte tre usi di laos al plurale. At 4,25
legge nel Sal 2,1 : «Perché hanno fremuto le nazioni e i popoli hanno
formato vani progetti?». Il v. 27 spiega che il termine «nazioni» desi
gna, come d'abitudine, l'insieme del mondo non giudaico, e riserva il
termine «popoli» per Israele. L'anomalia del plurale non fa che ac
centuare la sottolineatura dell'applicazione normale del termine
«popolo» per Israele. Il caso di Le 2,3 1 è molto più difficile: «l miei
occhi hanno veduto la tua salvezza, che hai preparato davanti a tutti
i popoli, luce per illuminare le nazioni e gloria del tuo popolo Israe
le» (vv. 30-32). L'espressione «davanti a tutti i popoli» è tanto più si
gnificativa in quanto sembra ispirarsi a Is 52,10, che diceva: «davan
ti a tutte le nazioni». Come mai questa sostituzione del termine «po
poli» al termine «nazioni»? Gli esegeti sono divisi: per alcuni questi
«popoli» designerebbero ancora le «nazionh> per opposizione al
«popolo» eletto; per altri, al contrario, il termine, anche al plurale, si
applicherebbe a Israele, come in 4,27; per altri infine sarebbe stato
scelto per includere allo stesso tempo le «nazioni» e il «popolo». Non
ci attarderemo qui su questo problema.
Messi da parte questi tre usi del termine al plurale e i due casi nei
quali il termine «popolo» si applica ai cristiani (At 15,14 e 18,10), i
rimanenti 79 usi designano sia il popolo d'Israele come tale, sia un
gruppo di persone appartenenti a questo «popolo». Si noti immedia
tamente che questi usi non sono distribuiti in modo indifferenziato:
il termine non è mai usato nella grande sezione centrale del Vange
lo (concretamente: tra Le 9, 13 e 18,43), che Luca sembra voler situa
re al di fuori del territorio giudaico; negli Atti esso non appare nelle
«sezioni noi» (16,10-17; 20,5-15; 21 ,1-18; 27,1-28, 16) né nel loro im
mediato contesto (capitoli 1 6-1 7 e 20-22). Si potrebbe anche notare
che, nella tradizione evangelica, Luca non usa il termine che una so
la volta in dipendenza da Mc (Le 22,2, d'altronde costruito in modo
diverso da Mc 14,2), e che vi è un solo caso di accordo (Le 22,66) con
Matteo (27,1 ) contro Marco (15,1). Si tocca così con mano l'uso as
sai {'ersonale che fa Luca del termine laos.
E chiaro come il termine non riceva ovunque il medesimo valore
pregnante. Esso prende naturalmente la sua forza maggiore quando,
considerato globalmente, il «popolo» è inteso (mediante un prono
me possessivo) nel legame che lo unisce al Dio cui appartiene: Le
1 ,68.77; 2,32; 7,16; At 7,34. Ma il termine è utilizzato anche in senso
partitivo. È probabilmente il caso della definizione che Le 1 ,17 dà
64
della missione di Giovanni Battista: «preparare al Signore un popo
lo ben disposto)). Il caso è del tutto evidente in At 5,37: Giuda il Ga
lileo «trascinò un popolo al suo seguito)). Questo «popolo» non coin
cide con Israele in quanto tale; nel linguaggio di Luca non si tratta
neppure di persone qualsiasi: il termine designa un gruppo di perso
ne che appartengono al popolo di Israele.
Questo senso partitivo di laos ha un posto assai grande nell'uso
che Luca fa di questo termine. Quando egli mostra «tutta la moltitu
dine del popolo)) che assiste a una cerimonia liturgica nel tempio (Le
1 , 10-21), si tratta di un 'assemblea di israeliti: una parte del popolo
eletto piuttosto che questo stesso popolo. Bisogna dire la medesima
cosa quando parla di «tutto il popolo)) venuto per ascoltare Giovan
ni e ricevere il suo battesimo (3,15.18.21 ; 7,29), opponendo d'altron
de questo «popolo)) ai suoi capi (7 ,30). Lo stesso accade per il «popo
lo)) che costituisce l'uditorio di Gesù (6, 17; 7,1 ; 8,47; 9,13; 18,43; 1 9,48;
20,1 .6.9. 19.26.45; 21,38; 23,27.35; 24,1 9), poi quello degli apostoli (At
3,9. 1 1 . 12; 4,1 .2.17.21 ; 5,12. 13.20.25.26 ... ). Il contrasto costante con i
capi mostra che questo «popolo)) non si confonde con Israele anche
se lo può rappresentare idealmente (cf. 4,10; 13,24; 19,4).
Ed ecco quanto basta per attirare l'attenzione sul rischio che mi
naccia il traduttore dell 'espressione laos ex ethnon in At 15,14. Tra
durre «Un popolo)) elimina quasi fatalmente la sfumatura partitiva
che si accompagna così frequentemente al termine laos, e che racco
manda qui l'assenza dell'articolo (cf. Le 1 ,17; At 5,37). Ma ricorrere
al collettivo inglese people, come propone Dahl nel suo articolo del
1958 (p. 326), e intendere «delle persone)), «della gente)), presenta un
altro inconveniente: quello di far dimenticare che Luca non usa nor
malmente il termine che per designare un gruppo di persone appar
tenenti al popolo eletto. Non bisogna perdere la valenza religiosa
che Luca attribuisce al termine e che qui impone la diretta relazione
tra questo laos e il Dio che ne fa il proprio popolo. Non si tratta né
di «Un popolo)) a fianco di un altro, né di «gente)) costituente sem
plicemente un gruppo particolare senza specifica qualificazione, ma
di persone che l'iniziativa di Dio rende membri del suo popolo.14
14 Noi non pensiamo dunque che si possa stabilire un parallelo fra At 15,14 e At
13,1 7a, come propone G. DELLING, «lsraels Geschichte und Jesusgeschehen nach Ac
ta 13,16-41», in H. BALTENSWEILER - B. REICKE, Neues Testament und Geschichte. Hi-
65
4.2. Il popolo del Signore a Corinto (A t 18,10)
66
questa città io possiedo un popolo numeroso». L'incoraggiamento
dato a Paolo si comprende in relazione all'ostilità dei giudei (v. 6), e
deve essere chiaro, dopo la dichiarazione dello stesso v. 6, che il «po
polo» rivendicato dal Signore non è composto di giudei, perlomeno
non principalmente. Il meno che si possa dire è che esso include i
«gentili», che si dimostreranno più ben disposti dei giudei nei con
fronti del vangelo. 1s
Sembra chiaro che con la puntualizzazione «in questa città», il ter
mine /aos non designa un «popolo» che potrebbe distinguersi ade
guatamente dall'insieme di Israele, al quale Luca riserva normalmen
te questo termine. Il senso è evidentemente partitivo: vi sono a Co
rinto molte persone che appartengono al popolo rivendicato dal Si
gnore (che è qui il Cristo: vv. 5 e 8). Ma tradurre semplicemente: «Io
possiedo molta gente in questa città» non sarebbe possibile, se non di
sconoscendo il valore del termine laos, riservato da Luca al popolo di
Dio o a gruppi di persone che costituiscono questo popolo.
Il modo stesso nel quale si esprime il v. 10 indica la soluzione: i
numerosi corinzi che il Signore rivendica come propri possono esse
re designati come «popolo» proprio a causa della loro appartenenza
al Signore. Quest'appartenenza è costitutiva del «popolo)), è essa che
distingue i membri di questo «popolo» da coloro che non ne fanno
parte. Troviamo qui la correlazione tradizionale che definisce l'al
leanza: «lo sarò loro Dio ed essi saranno mio popolo)) (2Cor 6,16 =
Lv 26,16), «lo sarò Dio per loro ed essi saranno popolo per me)) (Eb
8,10 Ger 31 ,33). Il popolo come tale non esiste che nella sua rela
=
zione con il proprio Dio (un po' come un regno si definisce in rap
porto a un re). Se Israele merita il titolo di «popolo)) è precisamente
in virtù della scelta che fa di lui il popolo di Dio. Ugualmente, quan
do il Signore dichiara che gli appartiene un gran numero di corinzi,
conferisce loro ipso facto la qualità di «popolo». In relazione al rap-
67
porto che unisce i membri del «popolo» al loro Signore, la questione
della loro appartenenza etnica diventa del tutto secondaria.
La formulazione di At 18,10 non è dunque così insolita come ap
pare a prima vista. Essa tuttavia suppone una comprensione teologi
ca del termine «popolo» che supera una comprensione puramente
biologica: ciò che è determinante per fare parte del popolo del Si
gnore non è tanto la carne e il sangue, ma una specifica relazione con
il Signore. Non si dovrebbe rifiutare al Signore il diritto «di chiama
re mio popolo quello che non era mio popolo» (Rm 9,25 = Os 2,25).
Noi restiamo sullo slancio del l 'oracolo di Zc 2,15 (LXX) : «E nume
rosi gentili cercheranno rifugio presso il Signore in quel giorno, ed
essi saranno per lui popolo».
68
ci sia un rinvio al medesimo evento, situato allo stesso punto di par
tenza: «dai primi giorni» (v. 7), «dali 'inizio» (senso di proton al v. 14 )
.
69
giosa. È questo punto di vista, soprattutto, che gli permette di disso
ciare così facilmente il «popolo» dai suoi capi, quelli appunto che
«hanno rifiutato il disegno che Dio aveva su di loro>> (Le 7 ,30).
Quando parla del «popolo>>, così come qu a ndo parla della «Chiesa»,
Luca pensa molto meno alle istituzioni che non alle persone, molto
meno ali 'unità che assicurano i fattori sociologici che non a quella
che risulta da un legame particolare col Signore. A questo riguardo,
i due casi di At 1 5, 1 4 e 18,10 sono forse meno eccezionali di quanto
potrebbe sembrare a prima vista .
70
Capitolo III
PUNTO DI PARTENZA:
PIETRO E LE SCRITTURE
(At 2-4)
71
1. La Pentecoste, inaugurazione degli «ultimi giorni»
72
permesso a Gesù di effondere lo Spirito, la cui venuta sui discepoli
produce gli effetti che sorprendono gli ascoltatori.1
Costituendo la prima parte del discorso di Pietro, la citazione di
Gl 3,1-Sa si presenta direttamente ed esplicitamente come la chiave
73
interpretativa dell'avvenimento della venuta dello Spirito: in esso si
realizza quello che era stato annunciato per «gli ultimi giorni>>. La
prospettiva rimane la stessa nel richiamo de ll'oracolo che si trova al
la fine del discorso (v. 33; cf. v. 36) . L'annuncio del messaggio conte
nuto nel discorso propriamente detto (At 2,1 4-36) è completato con
un'esortazione (vv. 38-40) che s'interessa alle conseguenze pratiche i
cui termini non assumono tutto il loro significato se non vi si ricono
sce l'eco del v. 5 della profezia di Gioele. Noi c'interesseremo anzi
tutto al modo in cui Pietro usa l'oracolo per evidenziare il senso del
momento presente. Ci occuperemo in seguito della prospettiva che
esso apre sull'avvenire, partendo da Gl 3,5.
74
ranei a una grande manifestazione religiosa di conversione e suppli
ca (1,2-2,17), promettendo allora la fine del flagello e il ritorno del
l'abbondanza (2,18-27). Vi aggiungeva la promessa di una meravi
gliosa effusione dello Spirito divino (3,1-5: eb. 2,28-32) e quella di
una terribile vendetta contro le nazioni che avevano oppresso il po
polo eletto (capitolo 3 nell 'ebraico, 4 in quello greco). È evidente che
la rilettura degli Atti avviene in contrasto coi sentimenti sciovinisti
che animano questo piccolo libro: ciò risalterà soprattutto dal modo
in cui Pietro nel suo discorso tratta Gioele (3,5 [LXX]).
Ma già l'inizio del v. l poneva un problema. La promessa del do
no dello Spirito cominciava con le parole : «E avverrà dopo que
sto ... ». Nel testo di Gioele «dopo questo» stabiliva una successione:
anzitutto Dio concederà al suo popolo la prosperità materiale e, in
seguito, gli donerà lo Spirito. L'indicazione «dopo questo» non tro
vava senso migliore nel contesto del discorso di Pietro. Resta vero
che il dono dello Spirito fa seguito ali' elevazione celeste di Gesù
(2,33); ma tale elevazione non sarà citata che alla fine di lunghi svi
luppi: non si poteva partire da là.
Luca decide dunque di spiegare a suo modo la precisazione tem
porale : «E avverrà negli ultimi giorni, dice Dio» (At 2,17a). Il dono
dello Spirito alla Pentecoste adempie una promessa concernente «gli
ultimi giorni»,2 promessa di cui si sottolinea l'autorità definendola
«parola di Dio» .
2 Ciascuna delle due nuove espressioni solleva un problema di critica testuale. Sia
per l'una che per l'altra aderiamo al parere di B.M. METZUER, A Textual Commentary
on the Greek New Testament, London-New York 1 97 1 , 295 e 296. La lezione «dice il
Signore» in luogo di «dice Dio» non cambia affatto il senso, ed è d'altronde assai ma
le testimoniata. Più importante, dal nostro punto di vista, è il problema che solleva per
le parole «negli ultimi giorni» la presenza di una variante che legge «dopo questO>>,
come la Settanta. Tale variante, attestata dal Vaticanus e da qualche raro testimone, si
spiega con la preoccupazione che ha avuto un copista alessandrino di conformare la
citazione degli Atti al testo di Gioele, senza tener conto della difficoltà che essa crea
nel contesto degli Atti. Non sembra necessario attardarsi su questo punto, circa il qua
le esiste un accordo molto vasto tra gli esegeti. Vedere in particolare A. BARBI. // Cri
sto celeste presente nella Chiesa. Tradizione e redazione in Atti 3, 19-21 , Biblica! insti
tute press, Roma 1979, 174 nota 1 57 (con rinvio a L. Cerfaux, F. Mussner, E. Krankl,
H. Conze lmann, U. Wilckens, W.G. Ktimmel), come anche G. ScHNEIDER, Die Apostel
geschichte, Freiburg 1 980, l, 268. Il v. 17 si stacca ancora dalla Settanta invertendo l'or
dine dei due membri del versetto: i giovani sono nominati prima dei vecchi. Si è
senz'altro voluto assicurare maggiore continuità, situando giusto i giovani dopo i figli
e le figlie. Infine la parola «sogni» è scritta al dativo invece che all'accusativo. In rela-
75
L'espressione «negli ultimi giorni» per indicare il momento pre
sente simultaneo alla Pentecoste, non manca di sorprendere sotto la
penna di Luca. Certo, egli ama le precisazioni cronologiche in cui ap
pare la parola «giorno)) o «giorni» (Mt 45, Mc 27, Le 83, At 94) e il
suo uso al v. 17 ha potuto essergli suggerito dall'espressione «In quei
giornh) che ha ripreso da Gioele al versetto seguente. Non è meno
vero che Luca si preoccupa vivamente del pericolo rappresentato
per i cristiani dall'illusione di una prossima fine del mondo. Non per
nulla nel Vangelo egli evita di attribuire a Gesù un'affermazione co
me quella di Mc 1 ,15: «Il tempo è compiuto» per attribuirgli un'af
fermazione dello stesso genere : «Il tempo è vicino» ai falsi profeti da
cui i discepoli devono guardarsi (Le 21,8); o ancora egli presenta la
parabola delle mine come direttamente relativa all'errore di coloro
che si aspettavano un'imminente manifestazione del Regno (19,1 1 ).
Collocare la Pentecoste negli «Ultimi giorni)) non era presentarla co
me un segno della fine?
È sufficiente leggere la citazione sino in fondo per rendersi con
to che Luca non doveva temere alcun equivoco in questo caso. Egli
poteva facilmente riconoscere nel testo lo schema secondo il quale
aveva egli stesso organizzato, in Le 21 ,8-36, il discorso escatologico
di Gesù.3 Aveva accuratamente distinto, colà, gli avvenimenti di ri
lievo della storia della Chiesa ( Le 21,12-24) e le catastrofi cosmiche
(21 ,10- 1 1 e 25-26) che debbono precedere l'avvento glorioso del Fi
glio dell'uomo (21 ,27-33). La stessa distinzione scaturisce dalla di
sposizione del testo di Gioele, dove si tratta anzitutto delle manife
stazioni del dono dello Spirito (At 2,17-18) e in seguito dei segni co-
zione a Gl 3.2 il v. 18 inizia con la congiunzione kai ge, in luogo del semplice kai. Es
so aggiunge dei possessivi: «i miei servitori e le mie serve» allargando cosi la portata
di tali denominazioni che non riguardano più soltanto un gruppo sociale. Ma soprat
tutto il v. 18 aggiunge alla fine: «ed essi profetizzeranno», ripetendo così il verbo del
v. 17c. L'accento si pone in tal modo sul dono di profezia, che relativizza l'importanza
di ciò che aveva detto il v. 1 7 su visioni e sogni. Si percepisce meglio così il rapporto
col racconto dell'avvenimento e il modo in cui si sottolinea il «parlare>> degli aposto
li come effetto dello Spirito che hanno ricevuto. In relazione a 01 3,3 il v. 19 aggiunge
tre precisazioni: i prodigi celesti si producono «in alto» e corrispondono a «segni» ter
restri che avvengono «in basso». Si tratta semplicemente di piccole amplificazioni ora
torie. I vv. 20-21 riproducono esattamente il testo di Gl 3,4-5a.
3 Vedere Trente-troisième dimanche ordinaire», in Assemblées du Seigneur, 64,
«
76
smici (v. 19-20a) che debbono prodursi «prima che venga il giorno
del Signore, grande e glorioso)) (v. 20b ) , in cui avrà luogo il giudizio
(v. 21 ). La differenza fra i due testi risiede semplicemente nel conte
nuto riservato al «tempo della Chiesa»: in Le 21 ,12-19 è caratterizza
to dalle persecuzioni che i cristiani dovranno sopportare; in A t 2,17-
1 8 è segnato dalla presenza attiva dello Spirito.
Questi «Ultimi giorni», che sono quelli in cui lo Spirito è effuso a
profusione su un grande numero di persone, si distinguono natural
mente dal periodo del ministero di Gesù: periodo durante il quale la
pienezza dello Spirito riposa soltanto su Gesù (Le 3,22; 4,1 . 14.18;
10,21 ; At 1,2; 10,38). Si vedrà in 2,33 che l'effusione dello Spirito di
cui parla Gioele suppone la celeste elevazione di Gesù. Essa comin
cia dunque dopo l'ascensione, precisamente alla Pentecoste, ma per
caratterizzare in seguito il periodo indeterminato che si estende fino
ai segni precursori del giorno del Signore.4
La Pentecoste ci è così presentata come l'inaugurazione di un
tempo nuovo, quello degli «Ultimi giorni)), un tempo che qualifica la
profusione del dono dello Spirito, opposto ai due periodi anteceden
ti: quello precedente il ministero di Gesù, ove lo Spirito non era ac
cordato che a privilegiati, e quello del ministero di Gesù che su di lui
concentra la presenza dello Spirito. Non sembra qui necessario enu
merare tutte le occasioni in cui il seguito del racconto degli Atti mo
stra lo Spirito continuamente all'opera nella storia che ci è narrata:
una storia che la finale del libro si impegna a lasciare aperta. Il tem
po inaugurato dal giorno della Pentecoste non è ancora finito.
77
lemme e di Giuda, tutti gli israeliti senza distinzione di sesso, di età
o di condizione sociale. L'orizzonte del v. 5, in particolare, è perfetta
mente delimitato: «E chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvato, perché sul monte Sion e a Gerusalemme vi saranno degli
scampati, come il Signore ha detto, e dei destinatari della buona no
vella, che il Signore avrà convocato».
L'orizzonte di Luca è evidentemente diverso. Non a caso egli ha
fermato la citazione al primo stico del v. 5. La finale : «E chiunque in
vocherà il nome del Signore sarà salvato» (A t 2,21 ), rende natural
mente nella sua opera un accento molto simile alla finale della gran
de citazione di Is 40,3-5, collocata all'inizio della storia evangelica e
che termin ava con la promessa: «E ogni carne vedrà la salvezza di
Dio» (Le 3,6). Questo parallelo consente, nel contempo, di rendersi
conto della risonanza che poteva avere per lui la promessa del v. 1 :
« E io effonderò i l mio Spirito su ogni carne» (At 2,1 7b).
Ma Luca non si è accontentato di eliminare il seguito del v. 5 di
Gioele nella citazione che fa Pietro all'inizio del suo discorso. Egli vi
si ispira direttamente quando, per rispondere a una nuova questione
dei propri ascoltatori (v. 37), Pietro li invita a convertirsi e a farsi bat
tezzare, assicurandoli che anch'essi riceveranno il dono dello Spirito
Santo (v. 38). «In effetti, egli dice, per voi è la promessa e per i vostri
figli e per tutti quelli che sono lontani, in così grande numero come
li avrà convocati il Signore nostro Dio» (v. 39). La promessa che
Gioele aveva fatto per la gente di Gerusalemme è elargita a coloro
che sono «lontani»> (cf. Is 57 ,19); essa non riguarda qualche scampa
to, ma il gran numero di quelli «che il Signore avrà convocato». La
ripresa delle parole di Gioele mostra abbastanza la volontà di cor
reggere la prospettiva troppo ristretta del suo oracolo.
Ma non basta. Il v. 40 reca un ultimo richiamo agli uditori: «Sal
vatevi da questa generazione sviata !». Immediatamente dopo un ri
chiamo alla finale del v. 5 di Gioele, l'imperativo sothète, «salvatevi»
non può non ricordare la promessa di questo stesso versetto: «Chiun
que avrà invocato il nome del Signore sarà salvato (sothèsetai)». Ciò
che era promesso gli uditori sono invitati a riceverlo, e il verbo del v.
40 si tradurrebbe bene: «Lasciatevi salvare». Ma tale salvezza si de
finisce in rapporto e in opposizione a «questa generazione sviata». In
ciò si riconosce un'antica espressione biblica (Dt 32.5; Sal 77.8; cf. Fil
2,15), i cui equivalenti non mancano nella tradizione sinottica (vede
re in particolare Mt 17,17 = Le 9,4 1 ; Mt 12,39 = Le 1 1 ,29). Nel loro
78
insieme (25 volte) tali espressioni indicano la «generazione» presen
te del popolo d'Israele.
Siamo all'opposto del pensiero di Gioele: non soltanto la salvez
za non è riservata alla popolazione di Gerusalemme, essendo ugual
mente destinata a numerose genti che il Signore andrà a cercare lon
tano, ma separa coloro che la ricevono dalla «generazione» di Israe
le a cui essi appartengono. La salvezza non è per tale generazione.
Per gli ascoltatori giudei di Pietro implica una rottura col loro am
biente. Occorre senza dubbio evitare di forzare i testi. Ma importa
altresì cogliere i primi indizi di un pensiero che in seguito diverrà più
esplicito. Secondo Luca la Pentecoste non è soltanto il punto di par
tenza di una nuova tappa della storia del popolo eletto. Si tratta di
una tappa in cui si manifesta a un tempo un'espansione di questo po
polo eletto e un 'interna divisione che ne lascerà una gran parte al di
fuori del gruppo di coloro che la finale del capitolo definisce con tut
ta chiarezza «i salvati» (2,47).
(ri)suscitato il suo servo.. >> (v. 26). Lo sviluppo avviene in due tappe,
.
79
risuscitato Gesù (v. 13a e v. 1 5b ), mentre gli ascoltatori («VOi») si era
no assunti la responsabilità della sua morte (vv. l b-15a).
Abbozzata dall 'interpellanza del v. 17: «E ora, fratell i», la secon
da parte c'interessa più direttamente. Essa vuole chiarire le conse
guenze che la risurrezione di Gesù comporta per gli ascoltatori. Qui
ancora, le spiegazioni seguono uno schema concentrico. Alle due
estremità Pietro interpella i suoi uditori: «È per ignoranza che avete
agito)> (v. 17) , ciò che è successo vi riguarda direttamente (vv. 25-26) .
I versetti 1 8 e 24 aggiungono che quanto è successo è conforme a ciò
che avevano annunciato «tutti i profeti>). Il brano centrale inizia con
un esplicito appello alla conversione (v. 19) e termina con un invito
pressante ad «ascoltare» (v. 22b-23 ). Questa duplice esortazione è
motivata per un verso mediante un'evocazione del progetto di Dio,
così come è stato enunciato dai «Santi profeti dei tempi antichi» (vv.
20-21), per l'altro mediante la citazione di una promessa fatta da Mo
sè (v. 22), a sua volta completata (rapporto tra il men del v. 22 e il de
del v. 24) dalla menzione di ciò che «tutti i profeti hanno detto a pro
posito di questi giorni» (v. 24).
In ordine al tema ecclesiologico che qui ci interessa, può essere
sufficiente concentrare la nostra attenzione sul richiamo alle Scrittu
re. Il v. 21 serve da introduzione: «Il cielo deve accoglierlo (Gesù) fi
no ai tempi della restaurazione universale, di cui Dio ha parlato per
bocca dei suoi santi profeti dei tempi antichi». Questa generale men
zione dei profeti è seguita anzitutto da una citazione di ciò che ha
detto Mosè (vv. 22-23) e successivamente da un nuovo globale rinvio
a ciò che «tutti i profeti» hanno annunciato relativamente a «questi
giorni» (v. 24 ). L'esperienza che abbiamo fatto nel nostro studio dei
capitoli 15 e 2 ci spinge naturalmente a interessarci anzitutto della ci
tazione attribuita a Mosè.
80
questo Mosè che ha detto ai figli di Israele: Dio vi susciterà tra i vo
stri fratelli un profeta simile a me» (At 7,37). Evidentemente la cita
zione rinvia sia a Dt 1 8,15: «Il Signore tuo Dio ti susciterà fra i tuoi
fratelli un profeta simile a me: voi lo ascolterete», sia a Dt 18,18: «lo
gli susciterò fra i loro fratelli un profeta simile a te». Ma si sottolinea
subito che questi due testi non rendono conto né dell'uso della se
conda persona plurale in At 3,22 e in At 7,37, né della finale di 3,22:
«in tutto ciò che egli vi dirà». Ed evidentemente non spiegano la mi
naccia che aggiunge At 3,23. Per quanto concerne questa aggiunta
del v. 23 è consuetudine tra gli esegeti ricercarne l'origine in Lv
23,29: «Ogni anima che non si umilierà in quel giorno (il giorno del
l'espiazione) sarà tolta dal suo popolo». Luca utilizzerebbe così una
minaccia che non aveva nulla a che vedere con l'annuncio del profe
ta simile a Mosè. Quanto alle varianti del v. 22 in relazione a Dt 18,
parecchi autori se ne servono per rafforzare l 'ipotesi di utilizzazione,
in Atti, di un testo di base diverso dalla Settanta e vicino alla forma
in cui lo si trova nell'ebraico di 4Q 1 75 o nell'aramaico di Targum
Neofiti. Tutte queste congetture ci sembrano presentare l'inconve
niente di misconoscere l'analisi estremamente ponderata che C. M.
Martini ha fatto della citazione degli Atti nel 1969 e nel 1 973. Noi
facciamo nostre interamente le spiegazioni di questo autore, dimo
stranti che l 'intera citazione di A t 3,22-23 deriva dal testo greco di D t
18,15-19.5
5 Questo studio di C.M. MARTINI, «L'esclusione dalla comunità del popolo di Dio
e il nuovo Israele secondo Atti 3.23», è apparso dapprima in Biblica 50( 1 969), 1 - 1 4. in
seguito sotto forma rielaborata in Communio 1 2( 1 973). 63-82, ristampato nella rac
colta La parola di Dio alle origini della Chiesa, Roma 1980, 239-258. Esso non toglie
ogni interesse alle osservazioni di M. RESE, A lttestamentliche Motive in der Christolo
gie des Lukas (SNT l ), Gottingen 1 969, 66-77, rispetto alle quali l'articolo di Martini
costituisce tuttavia manifestamente un progresso. Possono considerarsi sorpassate le
posizioni alle quali sono rimasti in particolare A. EHRARDT, The Acts of the Apostles.
Ten Lectures. Manchester 1 969, 17: E. KRANKL, Jesus der Knecht Gottes. Die heilsge
schichtliche Stellung Jesu in den Reden der Apostelgeschichte (BU 8), Regensburg
1972, 1 98-202: K. KLIESCH, Das heilsgeschichtliche Credo in den Reden der Apostelge
schichte (BBB 44), Koln-Bonn 1 975, 129s. Ragione di più per notare l'accordo in cui
si trova con la tesi di Martini un autore che la ignora: W. RADL, Paulus und Jesus im
lukanischen Doppelwerk. Untersuchungen zu Parallelmotiven im Lukasevangelium
und in der Apostelgeschichte (Europaische Hochschulschriften, 23/49), Bem-Frank
furt 1 975, 284. Rimaneggiando il proprio articolo del 1969, Martini non ha ritenuto uti
le ritornare sulle critiche negative che aveva avuto occasione di fare in Biblica
50( 1969), 272-275, contro l'ipotesi secondo la quale la citazione degli Atti poggerebbe
81
La citazione di A t 3,22 comincia con il termine «Un profeta»: col
locato all 'inizio della frase, il complemento diretto risulta accentua
to. Tale costruzione è precisamente quella di Dt 1 8,15 e 18. La cita
zione aggiunge subito il complemento indiretto: «per voi»; nella Set
tanta il complemento indiretto non è citato che dopo il verbo: «per
te» (18,15), «per essi» ( 18,1 8).
Il passaggio alla seconda persona plurale si spiega facilmente a li
vello di redazione del discorso di Pietro: lo stile è adattato a quello
di tutto il contesto in cui l'apostolo interpella i suoi interlocutori di
cendo loro «VOi» (3,12-20.25.26). Il passaggio alla seconda persona
plurale comportava facilmente un'accentuazione del pronome, che si
fa passare prima del verbo: questa trasposizione si accorda bene con
la costruzione dei vv. 1 4,25 e 14,26.
Dopo questi due complementi collocati in testa alla frase, non
era più possibile proseguire coi due complementi, che in Dt 18,15
precedono ancora il verbo: «tra i tuoi fratelli - simile a me»; il ri
chiamo a Dt 18,18 non è necessario per spiegare l'inversione opera
ta da At 3,22, introducendo il verbo e il soggetto prima dei due altri
complementi: «susciterà il Signore vostro Dio fra i vostri fratelli - si
mile a me».
La raccomandazione «voi l'ascolterete» alla seconda persona
plurale dell'indicativo futuro corrisponde esattamente alle due ulti
me parole di Dt 18,1 5. Ma il v. 22 degli Atti aggiunge ancora una pre
cisazione: «in tutto ciò ch'egli vi dirà». Con tutta evidenza, l'autore
della citazione ha riallacciato al v. 15 del Deuteronomio le prime pa
role del v. 16: «In tutto ciò che (kata panta hosa) tu hai chiesto al Si-
prende senza alcuna fatica come Martin i, nella propria versione del 1973, abbia pre
ferito trascurare questa nota. Un'ipotesi simile a quella di J. De Waard è stata propo
sta lo stesso anno da M. WILcox, The Semitisms ofActs, Oxford 1965, 33. Si veda la cri
tica fattane da E. RICHARD, «The Old Testament in Acts: Wilcox's Semitisms in Re
trospect », in Catholic Biblica/ Quarterly 42(1980), 330-341 (336). Richard ignora lo
studio di Martini. Un buon riassunto delle posizioni di Martini si trova in BARBI, Il Cri
sto celeste presente nella Chiesa, 1 60s Quanto al commentario di B. PAPA, Atti degli
.
Apostoli, I, Bologna 198 1 , 127, esso sembra dare ragione sia a J. De Waard che a C.M.
Martini.
82
gnore tuo Dio» . Togliendo queste parole alla frase cui appartengo
no, egli ha trovato l'occasione per accentuare fortemente la racco
mandazione di ascoltare il profeta. È alla stessa preoccupazione di
sottolineare il dovere di prestare ascolto al profeta che corrisponde
il richiamo del v. 23: «E accadrà che ogni anima che non ascoltasse
questo profeta, sarà tolta dal popolo». Nel Deuteronomio l'annun
cio del profeta futuro era ugualmente seguito da un invito a fare at
tenzione: «E all'uomo che non ascoltasse tutto quello che dirà il pro
feta a nome mio, Io gliene chiederò conto» (v. 1 9) . Le due minacce
non hanno in comune che le parole della proposizione «chi non
ascoltasse)) insieme alla menzione del «profeta». Gli Atti calcano su
'
questa parola, aggiungendovi il dimostrativo ekeinos, «quel profe
ta»; la cura nell'accentuare l'importanza del personaggio corrispon
de a quella che aveva provocato il prolungamento del versetto pre
ceden te. Essa spiega contemporaneamente la scomparsa delle paro
le : «tutto ciò che egli dirà in mio nome» che nel Deuteronomio pre
paravano il problema di sapere come riconoscere un profeta auten
tico ( 1 8, 20-22).
Le altre due modifiche sono più significative. All'inizio del ver
setto, gli Atti non si accontentano di dire semplicemente: « È l'uomo
che ... »; essi insistono: «E accadrà che (letteralmente: sarà) ogni ani-
ma che ... ». Il tono si presenta solenne, secondo l'usanza biblica: «E
accadrà ... » compariva due volte nell'oracolo di Gioele citato al capi-
tolo precedente (A t 2,17 e 2,2 1 ) .
Si vuole insistere nel contempo su li 'universalità della minaccia
che, secondo l'espressione molto frequente nella Bibbia greca, ri
guarda «ogni anima», espressione che Luca usava proprio alla fine
del capitolo precedente (At 2,43). L'accentuazione della minaccia
del v. 23 in relazione al testo biblico che l'ispira, corrisponde all'ac
centuazione della raccomandazione al v. 22.
Ma soprattutto, alla fine del versetto, l'oggetto della minaccia è
assai più esplicito. Quella del Dt 1 8,19 rimaneva vaga e generica: «lo
gliene chiederò conto», ego ekdikeso ex autou. Nel contesto del Nuo
vo Testamento almeno (cf. Le 1 8,3-8; Rm 12, 19 = Eb 1 0-30 = Dt
32,35 ) tale affermazione di Dio si comprenderebbe naturalmente
nella prospettiva del giudizio finale, ove ognuno dovrà rendere con
to della propria condotta. A questa formula il nostro versetto ne ha
sostituita un 'altra: «(quest'anima) sarà "tolta", o "sterminata" di
mezzo al suo popolo)), La minaccia diviene manifestamente più pre-
83
eisa, anzi più drammatica. Non è vano rendersi conto che essa fa eco
a una frequente sentenza nella Bibbia; è la condanna che riporta non
solamente Lv 23,29, ma altresì Es 30,33� Lv 17,4.9; 18,29; 19,8; 23,30;
Nm 9,13; 15,30-31 , o in modo equivalente Gen 17,14; Es 12,15. 1 9;
31 ,14; Lv 20, 17-18; 20,5-6. Va notato soprattutto che questa sentenza
di esclusione non si distingue da una semplice sentenza di morte; lo
si vede chiaramente in Es 3 1 , 14-15 o ancora in Lv 20,9-16.27; 24, 14-
18.2 1 .23. Il colpevole è minacciato non solo con il giudizio che sarà
diretto a lui, ma con l'esecuzione che deve eliminarlo.
Il modo con cui At 3,23 aggrava la minaccia di Dt 1 8,19 deve tro
vare la sua spiegazione nell'immediato contesto di questo versetto.
L'ultima parte del discorso di Pietro si presenta come un invito al
pentimento e alla conversione grazie ai quali gli ascoltatori otterran
no il perdono dei loro peccati ( 3,19 e 3,26 ) . Questo invito è sostenu
to da una promessa e da una minaccia. È la promessa che attrae pres
soché tutta l'attenzione: si tratta di farsi trovare fra i beneficiari dei
«tempi di sollievo» che verranno (v. 20 ) al momento della «restaura
zione» universale che coinciderà col ritorno di Cristo (v. 21 ) . La mi
naccia che aggiunge il v. 23 si colloca naturalmente nella medesima
prospettiva: il ritorno di Cristo sarà l'inaugurazione di un'era mera
vigliosa; e questo anzitutto a beneficio d'Israele (v. 26 ) ; ma quelli fra
gli israeliti che non avranno risposto all' appello che caratterizza
«questi giorni» (v. 24) - il periodo che intercorre fra la risurrezione
di Gesù e il suo glorioso ritorno - saranno esclusi dal numero dei be
neficiari della salvezza e saranno così votati alla definitiva perdizio
ne. La minaccia qui non dovrebbe essere intesa nel senso di un'im
mediata esclusione, quella che risulterebbe da una scomunica i cui
effetti ricadrebbero sui colpevoli già al tempo presente; essa deve in
tendersi riferita alla sentenza divina che, nel momento del giudizio
finale, interdirà loro l'accesso al regno di Dio, li separerà dai salvati
e costituirà per sempre una loro perdita.6
84
Si può aggiungere che questa interpretazione escatologica e non
ecclesiologica di 3,23 è altresì la sola che si accorda col linguaggio de
gli Atti, in cui mai è contestata l'appartenenza al «popolo» di Dio per
coloro fra i giudei che rifiutano il messaggio evangelico. La conclu
sione del libro è eloquente a questo riguardo. L'atteggiamento dei
giudei di Roma mostra a Paolo che egli ha realmente da fare con
«questo popolo» a cui Dio rimproverava, in Is 6,9-10, di avere occhi
per non vedere, orecchie per non udire, cuore per non capire la ne
cessità di convertirsi (At 28,25-27). Malgrado le accuse rivolte loro, i
giudei rimangono «questo popolo», un popolo per il quale Dio ha
molte ragioni di lamentarsi, ma che nondimeno resta il suo popolo
eletto. L'esclusione da cui i ribelli saranno colpiti non è intravvista
che per l'ora del giudizio finale ed essa comporterà per i colpevoli
una morte eterna. È a questo finale «sterminio» che si riferisce la mi
naccia di At 3,23. In attesa del giudizio di Dio, i giudei infedeli con
tinuano a far parte del «popolo» di Dio.
colo sulr Escatologia lucana apparso nel 1978 legge il versetto che ci interessa in una
diversa prospettiva: «II giudizio può comportare condanna. In ogni caso, i profeti di
Israele. e successivamente le apocalissi giudaiche, hanno spesso legato all 'annuncio
del giudizio di Dio il quadro del castigo dei condannati ... Luca non aggiunge nulla su
questo punto. Le sue esortazioni parenetiche sono sobrie quanto a minacce. Tutt'al più
si possono citare a questo proposito delle indicazioni di Paolo sul prossimo giudizio
che riempiono di timore il governatore Felice (At 24.25) e soprattutto la minaccia di
Pietro, che cita Lv 23,29: "Ogni uomo che non ascolterà questo profeta sarà strappa
to dal popolo'' (At 3,23)» ( Etudes sur l'oeuvre de Luc, 327). Nella nostra esposizione
alle Journées Bibliques di Lovanio ( 1 977), pubblicata da J. KREMER, Les A ctes des
Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48), Gemblo�x-Leuven 1979, 394, era
vamo rimasti alla prospettiva adottata da George nel 1 968. E anche la via nella quale
s'inserisce risolutamente F.W. HoRN, Glaube und /fonde/n in der Theologie des Lukas
(Gott. theol. Arbeiten, 26), Gottingen 1983, 237: «Grtindsatzlich dann Apg 3,22 f.: wer
auf Jesu Wort nicht hort, der hat das Anrecht auf Teilhabe an dem durch ihn begrtin
deten Gottesvolk verloren. Das Horen auf die Christusverktindigung wird so zum Si
gnum des wahren Gottesvolk (Apg 28,28)» . L'interpretazione escatologica alla quale
George si è avvicinato successivamente appare in particolare in R.F. ZEHNLE, Peter's
Pentecust Discourse. Tradition and Lukan Reinterpretation in Peter's Speeches ofActs
2 and 3 (SBLMS 15), Nashville-New York 1 97 1 . 90; in E. KRANKL, Jesus der Knecht
Gottes ( 1 972), 1 92 e 210, e nei contributi di tre partecipanti alle Joumées Bibliques di
Lovanio (1977): E. Graesser (124), F. Hahn ( 1 50), P. G. Mueller (526-528). Non bisogna
forse indurire esageratamente l'opposizione tra le due interpretazioni. Il cardinale
Martini. nel corso di una conversazione, sottolineava che l'esclusione non può diveni
re definitiva che al giudizio finale, ma che il processo è già in atto dal momento del ri
fiuto di ascoltare il profeta simile a Mosè.
85
2.2. La testinzonian za dei profeti
86
trana formano un insieme coerente. L'esortazione dei vv. l7-19 è po
larizzata sul pentimento e la conversione (v. 1 9) imposta dal mo
mento presente («ora», v. 17) in rapporto al crimine commesso sulla
persona di Gesù. La conversione interiore, richiesta agli uditori, è
collocata dai vv. 20-21 nella prospettiva del ritorno glorioso di Cristo.
Col richiamo dei vv. 22-23 all'autorità di Mosè, si ritorna al dovere
che caratterizza il momento presente per gli ascoltatori: «ascoltare>>
il profeta (ri)suscitato. Al v. 24, la menzione di ciò che i profeti han
no detto in relazione a «questi tempi» costituisce in realtà l'introdu
zione all'esortazione finale: la risurrezione del Se rvo di Dio sarà sor
gente di benedizione per gli ascoltatori a condizione che «ognuno si
allontani dalle proprie azioni malvagie» (v. 26) .
Non solo questi versetti esprimono un pensiero coerente, ma
questo pensiero si colloca nella stessa linea dell'oracolo di Gioele ci
tato al capitolo precedente. Con questa differenza: che la citazione di
Gioele fa iniziare «gli ultimi giorni» con l'effusione dello Spirito a
Pentecoste, non senza presentarla come conseguenza dell 'elevazione
celeste di Gesù (2,33); mentre il discorso del tempio fa iniziare «que
sti giorni» con la (ri)surrezione del Servo di Dio (vv. 13, 15, 22, 26), e
non senza precisare che, per effetto della sua risurrezione e in attesa
del suo glorioso ritorno, Gesù si trova in cielo (v. 21).
Si vede che, in un modo come nell' altro, gli avvenimenti di Pasqua
o della Pentecoste qualificano i «giorni» che essi inaugurano facendo
di essi la tappa decisiva della storia precedente la venuta: quello che
Gioele chiamava il grande giorno del Signore; ma che tali avveni
menti designano nel contempo una nuova esigenza per il popolo elet
to: esigenza di conversione e pentimento, esigenza che s' «invochi il
nome del Signore» (2,21 ) ; che si «ascolti» la parola del profeta
(ri)suscitato da Dio. In mancanza di questo, gli ascoltatori di Pietro ri
schiano di essere travolti nel disastro che minaccia «questa genera
zione sviata» (2,40), di vedersi «tolti dal popolo eletto» (3,23).7
7 Segnalo ancora una volta che le spiegazioni che ho dato sono largamente debi
trici della monografia di A. Barbi che. direttamente dedicata ad At 3 , 1 9-21, colloca
molto bene questi versetti nel loro immediato contesto (cf. specialmente BARBI, Il Cri
sto celeste presente nella Chiesa, 1 1 1 - 1 19).
87
2.3. I primi destinatari della salvezza
Non abbiamo ancora detto nulla sulla citazione che, al v. 25, so
stiene l'esortazione rivolta da Pietro ai suoi ascoltatori: «Siete voi i
figli dei profeti e dell 'alleanza che Dio ha stabilito a favore dei vostri
padri, quando ha detto ad Abramo: E nella tua discendenza saranno
benedette tutte le famiglie della terra». Questo versetto non dà forse
l'impressione che il discorso di Pietro voglia attenuare l'effetto della
minaccia che era stata così fortemente accentuata al v. 23: «Chiunque
non ascolterà quel profeta sarà tolto dal popolo»?
La citazione del v. 25 esige una prima osservazione: una parola vi
è stata sostituita. Più volte ripetuta nella Genesi , la promessa di Dio
ad Abramo dice abitual mente: «Nella tua discendenza saranno be
nedette tutte le nazioni de lla terra» (Gen 12,3; 18,18; 26,4); è altresì
sotto questa forma che la cita Paolo (Gal 3,8; cf. Rm 4,17 = Gen
17,5) . Si capisce naturalmente che «le nazioni» non giudaiche riceve
ranno la benedizione dal «popolo» uscito da Abramo. Il significato
non sembra diverso in Gen 22, 1 8, che parla di «tutte le tribù della
terra>>. Perché allora Pietro sostituisce «tutte le famiglie>> (patriai) a
«tutte le nazionù>? La spiegazione più plausibile di tale cambiamen
to è quella che suppone, in Luca, il desiderio d'includere il popolo
d'Israele nell'intero gruppo umano che dovrà la benedizione divina
alla discendenza di Abramo.
Questa interpretazione può reg�ersi sul fatto che il v. 26 imme
diatamente continua dichiarando: «E anzitutto per voi che Dio ha ri
suscitato il suo Servo>>. La priorità dei giudei non è posta in causa,
ma non è che una priorità; la precisazione «anzitutto» (proton) sup
pone un «in seguito>> che, nel contesto degli Atti (cf. 13,46; 26,20) ,
non può che applicarsi alle «nazionh> non giudaiche. Al capitolo 3, ta
le avverbio proton costituisce un addentellato la cui portata non si
manifesterà che nel proseguimento del racconto. Addentellato già
più chiaro con il richiamo a «Coloro che sono lontanh> introdotto con
2,39 per correggere la prospettiva troppo angusta del testo di Gl 3,5 .
L'autore del discorso è coerente con se stesso. I l modo i n cui ha
sottolineato e accentuato nei vv. 22-23 la necessità di ascoltare «in
tutto ciò che egli vi dirà>> il profeta simile a Mosè e la minaccia di
esclusione per tutti coloro che non l'ascolteranno trova il suo com
plemento nella dilatazione dell'orizzonte di cui testimonia la reda
zione dei vv. 25-26, che estende la benedizione di Abramo a «tutte le
88
famiglie della terra», tra le quali Israele non fruisce che di una sem
plice priorità. Il popolo di Dio sarà amputato di un buon numero dei
suoi membri, ma integrerà anche una quantità di uomini di «tutte le
famiglie della terra», che saranno partecipi della benedizione di
Abramo.
Sembrerebbe utile citare qui un passo del Vangelo in cui appaio
no preoccupazioni molto simili a quelle che si scoprono nei discorsi
che gli Atti attribuiscono a Pietro. Si tratta della pericope sulla «por
ta stretta» , Le 13,22-30. In occasione di una domanda che gli viene
fatta sul numero degli eletti, Gesù comincia esortando i suoi ascolta
tori: «Lottate per entrare attraverso la porta stretta, perché molti, io
vi dico, cercheranno di entrare e non vi riusciranno» (v. 24) . Questa
porta, in effetti, sarà subito chiusa. Coloro che non avranno potuto
varcarla in tempo, supplicheranno allora il maestro di casa di aprir
loro, ricordandogli: «Abbiamo mangiato e bevuto alla tua presenza,
e tu hai insegnato sulle nostre piazze» (v. 26). Ma il maestro sarà in
flessibile, e Gesù previene i propri ascoltatori: «Vi sarà pianto e stri
dore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i
profeti nel regno di Dio, e voi gettati fuori» (v. 28). Tale esclusione
sarà tanto più dolorosa per i destinatari di questo discorso, poiché si
annuncia loro nel contempo: «E verranno da oriente e da occidente,
da nord e da mezzogiorno per prender posto al festino nel regno di
Dio» (v. 29). Il brano termina con la riflessione: «Così vi sono degli
ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi» (v. 30).8
Questo passo del Vangelo di Luca risulta dalla raccolta di parec
chi frammenti tradizionali che si trovano sparsi in diversi altri luoghi
del Vangelo di Matteo (Mt 7,13-14 per Le 13,24; Mt 25,10- 12 per Le
13,25; Mt 7,22-23 per Le 13,26-27; Mt 8,1 1 -1 2 per Le 13,28-29; Mt
1 9,30 e 20, 16 per Le 13,30). Soprattutto colpisce il constatare che, in
8 Un serio studio su questa pericope deve ancora prendere come base l'attenta
analisi di P. HoFFMANN, «Pantes ergatas adikias. Redaktion und Tradition in Le 13.22-
30», in ZNW 58( 1 967), 1 88-2 14. Vi abbiamo fatto sovente ricorso in Les Béatitudes, III
( 1 973), 76s. ecc. Al di fuori dei commentari, si può segnalare una meditazione di M.
CoRBIN, «La Porte étroite. Une lecture théologique de Luc, 1 3,22-30». in Vie Chrétien
ne 203(1977), 1 1 -16, e un lavoro che di scientifico non ha che le apparenze: J.C. SAM
PREDO FoRNER, «Historia de Salvaciòn, o Salvaciòn en la Historia. Estudio exegético
theol6gico de Le 13,22-30», in Studium Legionense 2 1 ( 1 980), 9-48.
89
Matteo, quasi tutti questi frammenti sono a servizio di una parenesi
direttamente ecclesiale, annunciante ai cristiani che avverrà una se
parazione nel giudizio, dovendo i cattivi cristiani essere esclusi dalla
salvezza. Solo il frammento Mt 8,1 1 - 1 2 si riferisce al problema cui
tutta la pericope di Luca è consacrata: quello sollevato dall 'atteggia
mento dei compatrioti e dei giudei contemporanei di Gesù, che si
trovano esclusi dal festino escatologico presieduto dai patriarchi del
popolo eletto (Luca aggiunge «e [da] tutti i profeti)); si riconosce l'in
sistenza di At 3,18.21 .24), mentre vi saranno genti venute dai quattro
punti cardinali (Mt 8,1 1 non ne cita che due; ricordare invece il mo
do in cui At 2,39 corregge Gl 3,5, parlando di coloro che il Signore
chiamerà «da lontano))).
L'orientamento generale del brano di Luca invita a prestare
un'attenzione tutta particolare all'estrema prudenza con cui l'evan
gelista ha redatto la conclusione del v. 30. Traduciamolo letteralmen
te: «Ed ecco che vi sono degli ultimi che saranno primi; e vi sono dei
primi che saranno ultimi>>. «Ed ecco», kai idou, è una locuzione che
Matteo e Luca preferiscono (Mt 28, Mc O, Le 26, At 8), ma che usa
no raramente nello stesso punto. Il duplice uso di eisin ... hoi, «Ve ne
sono che . . . », utilizza una costruzione che si ritrova in Le 5,2 1 ; 9,9;
20,2; 22,28, ogni volta contro i paralleli (vedere anche passi propri di
Luca: Le 7,49; 16,1 .15; At 23 ,19) . Luca ha cura, nel contempo, di non
scrivere che «molti» (polloi) dei primi saranno ultimi (Mc 10,3 1 ; Mt
19,30), evitando così di ritornare alla fine sul problema sollevato al
l'inizio della pericope (13,23-24). Poiché i primi si identificano per lui
con i giudei contemporanei di Gesù, gli basta dire che alcuni fra lo
ro si ritroveranno ultimi nel mondo futuro. Egli non vuole fare del
rovesciamento escatologico una regola generalizzata e assoluta.
Resta che questo testo evangelico prevedeva già la perdita di un
certo numero di appartenenti al popolo eletto; essi saranno esclusi
dal festino escatologico presieduto dai patriarchi e da «tutti i profe
ti», mentre altri vi saranno ammessi: altri che, venuti da lontano,
sembravano non avere alcun titolo a tale privilegio che si sarebbe
creduto riservato ai giudei. Toccherà agli Atti dimostrare che il du
plice processo di esclusione e di aggregazione è iniziato con la pre
dicazione apostolica, senza attendere il giudizio finale.
90
3. La pietra disprezzata dai costruttori
91
(cf. 2,21 .38; 3,6.16; 4,17.1 8.30; 5,28.40.41 ). Il discorso tende veramen
te a dimostrare che Gesù possiede il «nome» al quale è collegata la
«salvezza» ( 4, 12). L'insistente associazione dei due termini, «nome»
e «salvezza» (o «essere salvato»), non può che richiamare l'afferma
zione di Gioele (3,5a) citata in At 2,21: «Chiunque avrà invocato il
nome del Signore sarà salvato».
Per giungervi, Pietro parte dal caso concreto: «il modo con cui
l'uomo infermo è stato salvato» (v. 9). Non si tratta che di un ritorno
alla salute: « È in nome di Gesù che quest'uomo si presenta guarito
davanti a voi» (v. 10). Tale guarigione diviene il segno che autorizza
un'affermazione molto più vasta: «E non v'è salvezza in alcun altro
(che lui), poiché non v'è sotto il cielo nessun altro nome accordato
agli uomini da cui dobbiamo essere salvati» (v. 12). Ma come effet
tuare il passaggio tra la guarigione deli 'infermo e questa dichiara
zione del tutto generale? II v. 11 ha precisamente la funzione di per
mettere questa dilatazione sulla base di una testimonianza scrittura
le: « È lui la pietra che è stata disprezzata da voi , i costruttori, e che è
divenuta la testata d'angolo».
La chiarezza di questo passaggio non è forse evidente. Ma abbia
mo visto che vi sono ragioni per pensare che, per Luca, si tratta di un
semplice richiamo di ciò che è stato già detto più esplicitamente.
Sembra ragionevole esaminare anzitutto il testo più esplicito, per in
terrogarsi in seguito sull'esatta portata di quello che qui ci interessa.
92
vavano ciò che avrebbero potuto fare, perché l'intero popolo, sospe
so (alle sue labbra) lo ascoltava» (Le 19,47-48). Dopo ciò, la disputa
sull'autorità di Gesù lo oppone ai «Sommi sacerdoti e agli scribi in
sieme agli anziani» (20,1). Con 20,8 questa disputa è chiusa: Gesù ri
fiuta di rispondere alla richiesta che gli è stata posta dai capi e, con il
v. 9, è indirizzandosi al popolo che narra la parabola.
Il racconto parabolico termina con un interrogativo: «Che farà
dunque il padrone della vigna a questi (vignaioli)?» (20, 13). In Lu
ca tale domanda è rivolta evidentemente al popolo e, dopo le paro
le minacciose con le quali Gesù stesso risponde, è dovuta ancora al
popolo la reazione che separa di nuovo Luca dai due altri evangeli
sti: «Sentendo questo essi dissero: "Dio non voglia! "» (v. 1 6). Ed è
ancora sugli stessi ascoltatori che Gesù «fissa il suo sguardo)) (v. 17:
proprio di Luca) per citare la Scrittura. Occorre attendere che Ge
sù abbia finito di parlare perché Luca informi il lettore: «E gli seri
bi e i sommi sacerdoti cercarono, in quella stessa ora, di mettere le
mani su di lui, ma ebbero paura del popolo. Effettivamente, aveva
no capito che era contro di essi che egli aveva narrato questa para
bola)) (v. 19).
Si vede la cura usata da Luca nel distinguere da un lato i destina
tari immediati della parabola: il popolo, dall 'altro coloro che questa
storia ha di mira in realtà, perché non ci si sbagli: i capi.
Nel racconto parabolico propriamente detto, considerato in rap
porto alle versioni parallele, Luca sfronda fortemente l 'inizio e le sue
allusioni a Is 5,2, ma tiene a precisare che il proprietario della vigna
è partito in viaggio «per un tempo abbastanza lungo» (v. 9). Tre soli
servi sono successivamente inviati ai vignaioli che infliggono loro
maltrattamenti accuratamente graduati: il primo è picchiato, il se
condo in più è insultato, il terzo ferito (v. 10-12). Nessuno di loro
dunque è stato ucciso (in contrapposizione a Mc 12,5 e soprattutto a
M t 21 ,35-36). Il proprietario della vigna, allora, delibera in se stesso,
parlando direttamente, secondo un procedimento letterario caro a
Luca (v. 13). Solo il figlio diletto è ucciso, dopo essere stato buttato
fuori dalla vigna (v. 15a). La successione, in crescendo, è migliore qui
che nei paralleli.
Abbiamo già osservato che la parte dialogata deve, in Luca, il
proprio tono al fatto che Gesù si rivolge al popolo, non direttamen
te ai suoi avversari. Essa si conclude con una questione riguardante
il significato di un testo scritturale:
93
17La pietra che i costruttori avevano scartato è divenuta testata d'angolo.
1 8Chiunque cadrà su questa pietra si sfracellerà e a chi essa cadrà addos
so lo stritolerà (20, 17-18).
9 Identica minaccia (ma senza il pas «chiunque», iniziale) è attestata dalla mag
gior parte dei testimoni del testo di Matteo, in cui tuttavia essa non è collegata alla ci
tazione del salmo, da cui è anche separata dalla conclusione redazionale di 21 ,43. Il v.
44 manca nella tradizione chiamata «occidentale»: sarebbe dunque un caso di « We
stern non-interpolation». Ma tanto questa etichetta, quanto le difficoltà logiche solle
vate dal passo ove si trova il logion , non permettono di giungere ancora alla certezza
circa la spiegazione che attribuisce questo versetto 44 a un copista desideroso di com
pletare il testo di Matteo con un versetto lucano. Per farsi un'idea della discussione in
corso a proposito del testo di Matteo segnaliamo semplicemente due note: M. Ht '
BAUT, La parabole des vignerons homicides (Cahiers RB), Paris 1976, Ms.; H .-J.
KLAUCK, Allegorie und Allegorese in synoptischen Gleichnistexten (NtlAbh NF 13),
Mtinster 1978, 289s. Quale che sia la soluzione a cui si dà la preferenza per quanto ri
guarda il testo di Matteo, la presentazione di Luca conserva in ogni caso l'originalità
di lasciar cadere il v. 23 del Sal 1 17, mettendo al suo posto la sentenza minacciosa che
costituisce il suo v. 18. Il procedimento che utilizza cosl in questo caso ricorda quello
davanti al quale ci ha messi la sua citazione di Dt 18 in At 3,22-23. Non sembra utile
indugiare qui sulla spiegazione proposta da M. LowE, «From the Parable of the Vi
neyard to a Pre-Synoptic Source», in NTS 28( 1982), 257-263: l'autore reputa evidente
che, nel suo contesto lucano (20,1-8). 1'omicidio del figlio diletto di cui parla la para
bola si riferisce alla sorte di Giovanni Battista. Né in Luca né negli altri vangeli, la ge
rarchia giudaica è resa responsabile di questo delitto.
94
boia rivela un intervento divino il cui effetto consisterà anzitutto nel
togliere la vigna a coloro che la detengono per darla ad altri (v. 1 6),
ma anche nel capovolgere la situazione per quanto concerne la pie
tra rigettata, altra immagine per designare il figlio assassinato: inve
stito di sovrano potere, egli costituirà la perdita di coloro che gli si
opporranno (v. 1 8).
Il capovolgimento della situazione riguardo alla «pietra)) o al «fi
glio diletto)) andrà necessariamente di pari passo col capovolgimen
to della situazione di coloro ai quali la vigna era stata affidata. Nes
sun dubbio che, per l'evangelista, quello che Gesù annunciava ai pro
pri contemporanei sia divenuto realtà al suo tempo.
95
senso non è realmente modificato. Non lo è neppure dal fatto che,
per dire «i costruttori», Luca usa il sostantivo in luogo del participio,
evitando così l'accumulo dei participi. Il più significativo intervento
letterario rimane l'aggiunta della precisazione hyph 'hymon, che tra
sforma il detto in una diretta accusa: «disprezzata da voi, i costrutto
ri». Tale accentuazione prolunga direttamente quella del versetto
precedente : «siete voi che l'avete crocifisso».
Il discorso di Pietro spiega dunque la portata dell'accusa che il
versetto del salmo rivolge ai «costruttori»; la citazione che si trova in
Le 20,17- 1 8 non lo faceva, e Luca l'aveva precisata solo nella nota fi
nale del v. 19c. In compenso, i termini molto generali della citazione
di Le 20 evocano le conseguenze tragiche dell'atteggiamento dei co
struttori riguardo alla «pietra» di cui Dio stava per fare la «testata
d'angolo» dell'edificio; nulla di simile vi è nel discorso di At 4. È ne
cessario rendersi conto che l'accusa non è priva di conseguenze.
La pericope di Le 20 associava due immagini disparate, ma adat
te entrambe a significare il ruolo dei capi del popolo eletto: come vi
gnaioli, hanno il compito di far produrre, dalla vigna che è Israele, il
frutto che Dio attende; come costruttori, essi debbono operare allo
sviluppo di un edificio che, ancora una volta, non può rappresentare
che il popolo eletto. Come quella della vigna, quest'immagine di un
edificio in via di costruzione s'iscrive naturalmente nella linea della
tradizione biblica. Essa corrisponde in modo particolare al linguag
gio di Geremia: «costruire» e �<piantare» sono due espressioni che
traducono il suo impegno profetico. Si sa che Paolo le riprende vo
lentieri per definire la propria missione apostolica. Egli può scrivere
ai cristiani di Corinto, ad esempio: «Voi siete il campo di Dio, l'edifi
cio di Dio» ( 1 Cor 3,9). I doni della grazia ricevuti da ciascuno deb
bono concorrere alla comune «edificazione» (cf. 1 Cor 14,3-
5. 12.17.26). Ma va da sé che questo compito di «Costruire» la comu
nità si addice specialmente a coloro che portano il peso della comu
nità in virtù di una funzione direttiva che essi devono adempiere.
Ora l'immagine parallela di una «pietra» che costituisce la «te
stata d'angolo», vale a dire la pietra principale dell'edificio, determi
na necessariamente il compito dei «costruttori». Essi non possono
costruire proficuamente che in funzione di questa pietra; tutto ciò
che essi potrebbero fare senza di essa, non apparterrebbe all'edificio.
Non vi è che un «edificio di Dio», un solo popolo di Dio. Se Dio stes
so ha fatto del Cristo la testata d'angolo del proprio edificio, non è
96
più possibile far parte dell'edificio senza riferirsi a questa «pietra».
La conseguenza che implicano queste immagini non è meno impor
tante di quella che At 3,23 ricava esplicitamente da Dt 1 8,15- 1 9.
Scartando o «disprezzando» la <<testata d'angolo» posta da Dio, i
dirigenti di Israele si trovano estranei all'edificio che hanno l'incari
co di costruire.
La minaccia di esclusione resta tacita in At 4,1 1 , ma è implicita
nella stessa immagine che questo versetto evoca. Senza soffermarvi
si, il discorso di Pietro passa subito all'altro aspetto della questione:
quello che Luca si compiace di collegare al primo. Qui ancora, l'af
fermazione del v. 1 2 è estremamente discreta, ma non si potrebbe mi
sconoscere la dimensione universale del ruolo di salvezza che esso
attribuisce a Gesù: è a lui solo che è stato accordato il nome dal qua
le tutti gli uomini debbono attendere la salvezza. La divisione che si
opera in Israele va di pari passo con un allargamento della prospet
tiva all'intera umanità. Il breve discorso del capitolo 4 testimonia an
ch 'esso, in modo velato, il duplice movimento che abbiamo osserva
to nei più lunghi discorsi dei capitoli 2 e 3: divisione interna nel po
polo di Dio ed estensione di questo popolo al mondo intero.
97
Capitolo IV
STEFANO E PAOLO
RILEGGONO LE SCRITIURE
(At 7; 13; 28)
99
Non torneremo più, qui, sull'episodio dell'evangelizzazione di
Corinto, malgrado il legame che esso comporta fra quello di Antio
chia di Pisidia e quello di Roma; gli manca il richiamo alla Scrittura
che caratterizza questi altri due episodi. Tale richiamo è sostituito, in
un certo modo, dalla dichiarazione notturna che il Signore Gesù fa a
Paolo, relativamente al «popolo>> ch'egli rivendica come suo a Co
rinto ( 1 8, 1 0): abbiamo avuto occasione di parlarne a proposito di ciò
che Giacomo dice in 15,14 del «popolo che Dio ha preso fra le na
zioni per il suo nome>>.
In compenso, ci sembra che i dati forniti dai discorsi dei capitoli
7, 13 e 28 si avvantaggino nell'essere completati da quelli di tipo di
verso, che si trovano nel discorso di Paolo al capitolo 26, e più spe
cialmente dalle parole che questo discorso attribuisce allo stesso Ge
sù, per definire la missione di Paolo in termini evidentemente ispi
rati da testi profetici (26,1 6-18). Tale defin izione della missione di
Paolo costituisce nel contempo una definizione della Chiesa.
100
gli Atti hanno da dirci sulla predicazione del vangelo a Gerusalem
me. Il martirio di Stefano provoca un totale mutamento di prospet
tiva: i cristiani di Gerusalemme si disperdono (8, 1 .4; 1 1 ,19) e diffon
dono dappertutto il messaggio di Gesù.
Partendo dal capitolo 8, la sola attività missionaria che interessa
gli Atti è quella che si svolge fuori di Gerusalemme. Il martirio di
Stefano pone fine alla prima tappa del programma che il Risorto
aveva fissato per i suoi apostoli, chiedendo loro d'iniziare la testi
monianza da Gerusalemme (Le 24,47; A t 1 ,8). Basta questo per dire
la gravità della svolta che i capitoli 6 e 7 imprimono al racconto de
gli Atti.
Il considerevole sviluppo dato al discorso di Stefano (7,2-53) , il
più lungo fra i discorsi degli Atti, basterebbe a dimostrare l'impor
tanza che Luca attribuisce al momento cruciale in cui lo pone. Ma
sembra chiaro che non ci si possa limitare a una così generale osser
vazione. Il contenuto di questo discorso richiede la più grande at
tenzione. A priori, infatti, ci si può aspettare di trovarvi le indicazio
ni che debbono illuminare il lettore del libro sul significato profon
do della svolta che prende la storia. È precisamente da questo pun
to di vista che dobbiamo occuparcene.
Questa prospettiva ci dispensa dall'affrontare la quantità di pro
blemi sollevati dall'esegesi di fronte al discorso; noi dobbiamo piut
tosto concentrare l'attenzione sulla funzione che esso ha di interpre
te del cambiamento che si produce nella storia del cristianesimo pri
mitivo. I discorsi di Pietro e di Giacomo, sui quali fin qui ci siamo sof
fermati, ci permettono già di supporre che il discorso di Stefano
adempia tale funzione dal modo con cui egli ricorre alle Scritture. La
difficoltà deriva senza dubbio dall'eccesso: nell'insieme, esso è una
trama di richiami alla storia biblica (soprattutto quella di Abramo,
7,2-8, di Giuseppe vv. 9- 16, di Mosè vv. 17-43, di Davide e Salomone
vv. 44-50), intessuto ugualmente di reminescenze bibliche, affiancate
da esplicite citazioni (vv. 3.6-7.27-28.32-34.35.37.40.42-43.48-50). È
evidente il rischio di perdervisi. Sembra chiaro come tutti questi da
ti non abbiano la stessa valenza di significato.
Ciò che sappiamo sui procedimenti di composizione di Luca atti
ra naturalmente la nostra attenzione sulle due grandi citazioni fina
li, le sole, d'altra parte, che si presentino come citazioni di testi bibli
ci : quella dei vv. 42-43, introdotta dal riferimento «come è scritto nel
libro dei profeti>) (v. 42a: cf. At 15,15), e quella dei vv. 49-50, intro-
101
dotta dalle parole: «Come dice il profeta» (v. 48) . Ma constatiamo
che, in realtà, la prima di queste due citazioni, quella che si rifà ad
Am 5,25-27, acquista tutto il proprio senso in virtù del rapporto che
l'unisce non soltanto al suo contesto immediato, ma altresì alla pri
ma sezione del discorso, quella che riguarda la storia di Abramo ( vv.
2-8), e più precisamente la grande citazione delle parole divine ri
portate nei vv. 6-7 sulla base di Gen 15,13-14. Dal punto di vista cir
coscritto della nostra ricerca è dunque sull'inizio e sulla fine del di
scorso che possiamo concentrare la nostra attenzione.1
1 Il lavoro fondamentale resta a mio parere quello di N.A. DAHL, «The Story of
Abraham in Luke-Acts», in L.E. KECK - J.L. MARTY N Studies in Luke-Acts (FS P.
,
Schubert), Nashville-New York 1966, 139-158 ( 1 42-148). Tener conto anche di E. RI
CHARD, Acts 6:1 - 8:4. The Author's Method of Composition , Missoula 1978; «The Crea
tive Use of Amos by the Author of Acts», in NT 24(1 982), 37-53 (38-44). Colpisce il
constatare come il nome di Dahl non figuri nell'indice degli autori della monografia
di J. KILGALLEN. The Stephen Speech. A Literary and Redactional Study of Acts 7,2-53
(AnBib 67), Roma 1976. L'articolo di Dahl non è citato neppure in G. LoHFINK, La
raccolta d 'Israele. Una ricerca sull'ecclesiologia lucana, Casale Monferrato 1983. È
senza tenere alcun conto delle osservazioni di Dahl che è proposta l 'ipotesi di G. ScH
NEIDER sulla genesi del discorso di Stefano (Die Apostelgeschichte, L Freiburg 1980,
448): un discorso giudeo-ellenistico (7,2b- 16.1 7-34.36.38.44-48a) sarebbe stato accre
sciuto di tratti polemici da un revisore cristiano ellenista di Palestina (7,35.37.39-
42a.5 1 .53), e infine Luca vi avrebbe ancora aggiunto le due citazioni di 7.42b-43 e 48b
SO. Come conciliare una simile frammentazione con le indicazioni di una grandissima
unità d'ispirazione che un attento esame può rilevare in tutto il brano?
102
ra che «Dio si scostò da loro e li abbandonò al culto dell'esercito del
cielo» (v 42a).
Il rapporto fra la citazione del profeta e la situazione a cui la si ri
ferisce non è evidentemente perfetto. Per lo meno ciò che si è rica
vato dall'episodio del vite llo d'oro mirava a prepararla nella misura
del possibile: menzione di un «sacrificio» e di un <<idolo», ma altresì
di un «culto» (latreuein al v. 42 prepara proskynein al v. 43) reso «al
l'esercito» del cielo (in funzione della «stella» del v. 43). Ciò che può
maggiormente sorprendere è che Luca abbia giudicato utile conser
vare, nella finale della citazione, l'annuncio dell'esilio a Babilonia (e
anzi «oltre Babilonia»), che giunge evidentemente troppo presto,
poiché il seguito del discorso si rifà alla situazione dell'Esodo, poi ai
tempi di Giosuè, di Davide e di Salomone (7,44-47). La sorpresa che
suscita questa precisazione «oltre Babilonia» è tanto maggiore in
quanto il testo del profeta diceva «Oltre Damasco». La misteriosa
minaccia non aveva forse il vantaggio di non evocare troppo diretta
mente un avvenimento che si sarebbe prodotto solo assai più tardi?
Un'altra precisazione era stata aggiunta al testo di Amos, là dove
si leggeva: «Queste immagini che avevate fatto per voi stessi», il v. 43
scrive: «queste immagini che avevate fatto per adorarle». Tale precisa
zione preparava giustamente il v. 42, riportando che Dio aveva abban
donato gli israeliti «affinché rendano un culto» (latreuein) all'esercito
celeste. Il passo è dunque importante per l'autore del discorso.
L'inizio del discorso consente di rendersi conto della portata della
strana citazione ai vv. 42-43 e dei ritocchi che vi sono stati praticati.
L'autore sembra attribuire molta importanza al fatto che l'appa
rizione di Dio ad Abramo abbia avuto luogo «quando egli era in Me
sopotamia, prima che venisse ad abitare a Carran» (v. 2), e che è in
seguito all'apparizione che Abramo, «uscendo dal paese dei caldei,
venne ad abitare a Carran>>, da dove Dio «l'ha trasportato nel pae
se» divenuto quello d'Israele (v. 4). Tali indicazioni contraddicono
quelle della Bibbia: Abramo già da lungo tempo aveva lasciato «Ur
dei caldei» in direzione del paese di Canaan e si era stabilito a Car
ran quando Dio gli apparve (Gen 1 1 ,31 e 12, 1 ) . Da Ur dei caldei a
Carran, in Aram, egli aveva già percorso più della metà del cammi
no che conduceva in Palestina. In pi ù, At 7,4 precisa che Dio ha «tra
sportato» (metoikisen) Abramo in Palestina: verbo raro, che non
s'incontra nella Genesi e non è mai messo in rapporto con le pere
grinazioni del patriarca.
103
Lo si osserva facilmente: questi due tratti che caratterizzano i vv.
2-4 allineano questi versetti coli 'ultima parte della citazione di Amos
al v. 43. Come Dio ha «trasportato» Abramo in terra d'Israele, così
egli «trasporterà» i suoi discendenti lontano da questa terra (il ver
bo metoikizo non è usato che in questi due casi nel Nuovo Testa
mento). E come Dio è andato a chiamare Abramo all'estremità del
la terra dei caldei, vicino al Golfo Persico, così minaccia di rimanda
re i suoi discendenti non solo a Carran, confinante con l'alto Eufra
te, non soltanto a Babilonia, già assai più in basso, ma «oltre Babilo
nia». È davvero il ritorno al punto di partenza, al punto in cui si tro
vava Abramo prima dell'apparizione divina, prima che alcuna pro
messa gli fosse stata fatta.
Non è tutto. Il v. 6 riferisce la promessa concernente il paese che
Dio darà alla posterità di Abramo, e i vv. 7-8 vi aggiungono la predi
zione direttamente attribuita a Dio e alla quale il discorso annette
capitale importanza, poiché essa fornisce il piano di tutto il seguito.
Eccola:
60ra Dio così disse: «La sua discendenza risiederà in un paese straniero,
la si ridurrà in schiavitù e la si maltratterà per quattrocento anni. 7Ma la
nazione di cui essi saranno stati schiavi, sarò io a giudicarla, dice Dio. E
dopo questo, essi se n'andranno e mi offriranno culto in questo luogo».
104
ove si trovava Abramo nel momento in cui il Signore gli ha fatto
questa dichiarazione. Ma il lettore attento non poteva non notare
che questo episodio segue immediatamente l'incontro di Abramo
con Melchisedec, re di Salem (Gen 14,18-24). L'avverbio «quh> assu
me allora un significato estremamente preciso: i discendenti di Abra
mo usciranno dall'Egitto per venire a Gerusalemme.
Di colpo, il «grosso bottino» di cui parlava alla fine il versetto per
de il proprio interesse, e lo si rimpiazza con i termini di un'altra di
chiarazione divina: quella che fu fatta a Mosè nell'episodio del rove
to ardente: «Quando avrai fatto uscire il mio popolo dall'Egitto, voi
renderete un culto (latreusete) a Dio su questa montagna» (Es 3,12).
Stefano evita quest'ultima precisazione, che rammenterebbe
troppo facilmente la «montagna)> del Sinai, e dice semplicemente dei
discendenti di Abramo: «Essi mi daranno un culto in questo luogo».
«In questo luogo», vale a dire, nel contesto di Gen 15, a Gerusalem
me. Il culto da rendergli a Gerusalemme è il fine per cui Dio ha fat
to uscire il suo popolo dall'Egitto.
Alla luce del modo in cui il discorso di Stefano ha esplicitato la fi
nale del v. 7, si coglie meglio la portata dei suoi interventi ai vv. 42 e
43. Anzitutto, per introdurre la citazione di Amos, dopo aver parlato
dell'idolatria degli israeliti nel deserto: «Dio si allontanò da essi e li
abbandonò al culto (latreuein) dell'esercito del cielo» (v. 42a). Poi
nella stessa citazione: «le immagini che avete fatto per adorarle (pro
skynein autois)», invece di «le immagini che avete fatto per voi stes
si». Così gli israeliti hanno sostituito il culto degli idoli al culto in vi
sta del quale Dio li aveva tratti dall 'Egitto!
Thtte queste osservazioni tendono a dimostrare che il discorso di
Stefano non è privo di coerenza. Fin dali 'inizio egli sa chiaramente
dove vuole arrivare. La questione essenziale, nel pensiero del suo au
tore, è il «culto» che gli israeliti debbono rendere a Dio a Gerusa
lemme (v. 7), un «culto» del quale l'idolatria praticata nel deserto co
stituisce la parodia sacrilega (vv. 40-43), causa del ritorno del popolo
«oltre Babilonia», alla condizione che era del loro padre prima che
Dio gli si manifestasse.
105
tutto lo sviluppo. L'appassionata perorazione che segue (vv. 51 -53)
non è altro che la diretta applicazione agli ascoltatori della tesi che
è stata lungamente esposta. Ma se essa è conclusione d'insieme, con
clude contemporaneamente l'ultima parte (vv. 44-50) in cui occorre
ammettere che il procedere della riflessione non è perfettamente
limpido.
Per cominciare, si può rimarcare che questi versetti si riferiscono
al periodo del «possesso» del paese che era stato promesso al v. 5
(kataskhesin) e che ha raggiunto la propria realizzazione con Giosuè
(kataskhesei: v. 45). Gli israeliti hanno allora presso di sé «la tenda
della testimonianza» (v. 44), la cui menzione contrasta con quella
della «tenda di Moloch», della quale parlava la citazione di Amos al
versetto precedente. Questa tenda era stata fatta da Mosè secondo
«l'immagine» (typon) che gli era stata mostrata: nuovo contrasto ri
spetto a ciò che il precedente versetto diceva delle «immagini» (ty
p o us ) che gli israeliti avevano fatto per adorarle. Il reimpiego degli
stessi termini sottolinea la continuità del pensiero.
La menzione della «tenda della testimonianza», messa in eviden
za al l'inizio del v. 44, assicura il passaggio fra il periodo di Mosè e
quello che va dall'entrata nella terra promessa fino a Davide (v. 45 ).
È con Davide che la situazione cambia. Il v. 46, che curiosamente gio
ca sul verbo «trovare», precisa subito che Davide «ha trovato grazia
dinnanzi a Dio»: basta questo per dire che si definisce lodevole la sua
preghiera in vista di «trovare una dimora (skenoma) per il Dio (va
riante: la casa) di Giacobbe».
I termini s'ispirano al Sal 131 ,5 (LXX), ove Davide rifiuta il son
no fino a che, dice, «io trovi un luogo per il Signore, una dimora per
il Dio di Giacobbe». Tale desiderio non doveva essere la realizzazio
ne dello scopo in vista del quale Dio aveva fatto uscire il suo popo
lo dall'Egitto: «essi mi renderanno il culto in questo luogo» (At 7,7)?
Il v. 47 aggiunge conformemente alla storia biblica che, infatti, è «Sa
lomone che gli costruì una casa». Il filo è ininterrotto e nessuna op
posizione è risentita quando si passa da skene, «tenda», a skenoma,
«dimora», per concludere con oikos, «casa>>. La congiunzione de, al
l'inizio del v. 47 probabilmente non ha alcuna sfumatura avversativa
(che indebolirebbe il «ma>>, alla, al principio del v. 48), o, se l'ha, è per
sottolineare che la preghiera di Davide è stata esaudita soltanto per
Salomone.
Qui interviene bruscamente la messa a punto dei vv. 48-50:
106
48Ma l'Altissimo non abita negli (edifici) fatti da mano d'uomo, come di
ce il profeta: 49«11 cielo è il mio trono e la terra lo sgabello dei miei piedi.
Quale casa mi costruirete, dice il Signore, o quale sarà il luogo del mio ri
poso? 50Non è la mia mano che ha fatto tutte queste cose?».
1 07
significato che gli viene dato appare soprattutto nel cantico di Zac
caria, in un contesto veramente molto somigliante a quello della pri
ma parte del discorso di Stefano:
68Benedetto il Signore Dio d'Israele, perché ha visitato e riscattato il suo
popolo, 69e ha suscitato per noi un corno di salvezza nella casa di Davide
suo servo [ . . . ], 72per usare misericordia verso i nostri padri, e ricordarsi
della sua santa alleanza, 73della promessa giurata ad Abramo nostro pa
dre, di concederci 74che, senza timore, liberati dalla mano dei nostri ne
mici , gli rendiamo un culto (latreuein auto;) 75 in santità e giustizia, din
nanzi a lui per tutti i nostri giorni (Le 1,68-69.72-75).
Il «culto» che Dio si aspetta dal suo popolo e in vista del quale
egli lo ha fatto uscire dall 'Egitto è quello che si realizza in una vita
santa e giusta, nella preghiera e nelle buone opere (cf. Le 2,37; At
24,14; 26,7; 27,23). Tale è giustamente il presupposto che dà conto del
brusco passaggio, nel discorso di Stefano, dalla denuncia de li 'idea
che l'Altissimo potrebbe abitare una casa fatta da mani d'uomo alla
violenta diatriba dei vv. 5 1 -53 con tro la costante indocilità d'Israele
verso Dio: «Quali furono i vostri padri, tali siete voi» (v. 5 1 ). La vo
stra condotta non è migliore di quella de i padri i quali, dopo aver ri
cevuto da Dio «gli oracoli di vita» (v. 38), si sono abbandonati all'i
dolatria (vv. 40-43). Voi vi richiamate al tempio, ma uccidete coloro
che Dio vi invia ! (v. 52) . Vi rifate a una legge che non osservate (v.
53). Il tempio non è contestato più della Legge; i rimproveri di Ste
fano riguardano un comportamento esattamente opposto al «culto»
che Dio si attende dal suo popolo. Quale idea vi fate, infine, di Dio?
Ecco dunque quello che sembra essere in causa nel discorso di
Stefano: l'idea che ci si fa di Dio e del culto al quale egli invita il suo
popolo. Tale culto non dovrebbe ridursi a pratiche compiute nel tem
pio. Esso esige una fedeltà assai più profonda e più ampia. Il popolo
di Dio non può realizzare la propria vocazione che nella santità e
nella giustizia. Privo di questa obbedienza che Dio si attende da lui,
esso non è che da rinviare «oltre Babilonia», in quel luogo e in quel
contesto pagano da cui Dio aveva fatto uscire Abramo.2
2 Nel suo commentario del 1981, B. PAPA dichiara: «II significato teologico del di
scorso di Stefano può essere dunque compreso soltanto alla luce della conce z ion e ec
clesiologica di Luca presente nei primi cinque capitoli degli Atti degli apostoli» (p.
108
2. Paolo ad Antiochia: avvertimento agli «sprezzanti»
109
Fra Antiochia di Siria e Antiochia di Pisidia (1 3,1-3 e 13,14ss), il
racconto indugia brevemente solo sulla tappa di Pafo (vv. 6-12): e là,
in occasione dell'incontro col proconsole Sergio Paolo, il personag
gio che era stato sempre indicato sotto il nome di «Saulo» diviene
improvvisamente «Paolo» (v. 9), ricevendo il nome che porterà or
mai esclusivamente (comunque ne sia del «Saulo» riservato all'epi
sodio di Damasco). Ad Antiochia di Pisidia è sufficiente qualche pa
rola per caratterizzare la situazione in cui Paolo pronuncia il grande
discorso dei vv. 16-41 . Tale discorso è completato da un racconto (vv.
42-52) che istruisce il lettore sulle reazioni a cui ha dato luogo. Que
sto racconto complementare è centrato su una nuova dichiarazione
(vv. 46-47) che, come lo stesso discorso (v. 41 ) , si conclude con la ci
tazione di un testo profetico (v. 47). S' indovina già che l'interesse vie
ne portato su queste due citazioni e sul ruolo che è loro assegnato
nel contesto in cui sono state poste.
Come gli altri discorsi missionari davanti ad ascoltatori giudei,
quello di Antiochia di Pisidia è essenzialmente proclamazione della
risurrezione di Gesù. Le interpellazioni dei vv. 16 e 26 lo dividono
chiaramente in due grandi parti. La prima (v. 1 6b-25) è caratterizza
ta dalla citazione, in forma diretta, di due testimonianze: quella che
Dio ha reso a David (v. 22) e quella che Giovanni il precursore ha re
so a Gesù (v. 25) . Più ampiamente, è possibile osservare un certo pa
rallelismo fra i vv. 21 -22 da un lato e i vv. 24-25 dall'altro. Al centro,
la dichiarazione del v. 23: « È dalla sua discendenza (di Davide) che,
secondo la sua promessa, Dio ha suscitato per Israele un Salvatore:
Gesù» . Il peso di tale dichiarazione centrale scaturisce dall'eco che
essa fa alle prime parole del discorso: «Il Dio di questo popolo Israe
le ha scelto ... » (v. 17), nonché dall'eco che gli fanno le prime parole
della seconda parte: « È a noi che la parola di questa salvezza è stata
inviata» (v. 26 ).
Questa seconda parte inizia con un'esposizione dei fatti: come gli
abitanti di Gerusalemme e i loro capi abbiano dato compimento al
le Scritture uccidendo Gesù (vv. 27-29) e come Dio l'abbia risuscita
to (vv. 30-31 ). Paolo dimostra in seguito che questa risurrezione
adempie la promessa fatta da Dio ai padri (vv. 32-37) . La dimostra
zione poggia principalmente su due citazioni di salmi: quella del Sal
2,7 (v. 33b) e quella del Sal 15,10 (LXX) (v. 35) .
Non è i l caso d i sostare qui maggiormente su tutto questo svilup
po cristologico. La nostra attenzione deve concentrarsi anzitutto sul-
1 10
l'ultima sezione del discorso (vv. 38-41 ). Essa si stacca da ciò che pre
cede tramite un nuovo appello all'indirizzo degli ascoltatori: «Uomi
ni fratelli» ( v. 38), con l'insistente uso della seconda persona plurale,
e infine con il suo intento direttamente parenetico: si tratta di con
seguenze pratiche da ricavare dal messaggio che si è ascoltato. Ma la
nostra attenzione dovrà portarsi anche su ciò che il seguito contiene
circa l'atteggiamento degli ascoltatori (vv. 42-52) e le conclusioni ri
cavatene da Paolo e Barnaba (vv. 46-47).
111
Sfrondando, la citazione degli Atti evita il sovraccarico ma non sen
za accrescere il risalto dell'imperativo minaccioso: «sparite».
Per contro l'ultima riga introduce tre nuove parole : la parola
«opera» è ripetuta una seconda volta, vi sono due negazioni invece
di una soltanto (abbiamo tentato di rendere questo raddoppio usan
do la parola «mai»), e il pronome «VOi» è aggiunto alla fine («Se qual
cuno la racconterà a voi» ). Si ha l'impressione che gli Atti si occupi
no meno dello stupore in cui l'intervento divino calerà gli ascoltato
ri, più che del disastroso effetto che esso avrà su di loro.
Nel contesto originale, il versetto introduceva un oracolo di ma
ledizione; il Signore susciterà i terribili eserciti caldei per castigare le
ingiustizie e le violenze commesse nel suo popolo. L'arrivo di queste
orde devastatrici sarà opera di Dio stesso. Introducendo qui l'impe
rativo «sparite», la versione greca evoca la soppressione degli empi,
il loro annientamento. Risulta chiaro che Paolo non minaccia i suoi
ascoltatori con un flagello simile. Nel contesto degli Atti, questo im
perativo «sparite» richiama naturalmente la minaccia di 3,23: «E
chiunque non ascolterà quel profeta, sarà tolto (più letteralmente
sterminato) dal suo popolo».
Per indicare quelli dei suoi ascoltatori che l'implacabile giudizio
di Dio minaccia, Paolo non ha mutato il termine dell 'oracolo: «gl i
sprezzanti» (hoi kataphronetai) . Ma il significato di questo appella
tivo, inquadrato dai due usi del verbo «credere», non lascia alcun
dubbio: si tratta di coloro che rifiuteranno di credere. Tale incredu
lità li conduce a «sparire»: essi non conteranno più di quanto conte
rebbero se non fossero mai esistiti. L'accostamento con At 3,23
esprime abbastanza bene ciò che implica una simile condanna. Il
profeta precisa che l'intervento divino avverrà «nei vostri giorni»;
troviamo qui un'indicazione cronologica analoga a quella che Luca
ha aggiunto in 2,17, ali 'inizio della citazione di Gioele, riferendosi
ad avvenimenti che dovevano verificarsi «negli ultimi giorni»; e ab
biamo visto che tale indicazione aveva riscontro in ciò che 3,24 dice
di «tutti i profeti che hanno parlato e annunciato questi giorni». La
portata attuale che Luca accorda a questi dati conse nte di supporre
ch'egli intenda nello stesso modo l'espressione «nei vostri giorni»
dell'oracolo di Abacuc. I giorni decisivi che i profeti annunciavano
per l'avvenire sono divenuti il presente per coloro che ascoltano la
buona novella.
Ma occorre tenere anche conto della promessa dei vv. 38-39:
1 12
38Vi sia dunque noto, fratelli, che è per mezzo suo che la remissione dei
peccati vi è annunciata; da tutto quello di cui non avete potuto essere giu
stificati dalla Legge di Mosè, 39è per (mezzo di) lui che chiunque crede è
giustifica t o.
113
se rifiutano di credere, si ritiene di dover aggiungere che la fede è un
principio di giustizia e di salvezza per «ogni uomo». Il venir meno de
gli uni non è intravvisto senza l'aprirsi di una prospettiva universale,
comprendente implicitamente i gentili.
Ma ciò che resta implicito in 13,38-41 diviene esplicito nei verset
ti successivi.
4 Cf. il nostro articolo «La question du pian des Actes des Apòtres à la lumière
d'un texte de Lucien de Samosate», in Novum Testamentum 21(1979), 220-231.
1 14
mediante la circoncisione al popolo eletto. Le reazioni che i vv. 42-43
attri buivano agli ascoltatori erano tutte favorevoli. La svolta sottoli
neata dai vv. 44-45 è tanto più brusca. Si vede anzitutto l'uditorio al
largarsi smisuratamente: «quasi tutta la città si radunò per ascoltare
la parola del Signore» (v. 44). Tale affluenza provoca un'inversione
nell'atteggiamento dei giudei: la «gelosia» li rende apertamente osti
li e li spinge a contraddire violentemente le proposte di Paolo (v. 45).
La svolta alla quale si assiste è legata al cambiamento che si è
prodotto nell'uditorio. Finora questo era composto da due categorie :
i giudei e i «timorati di Dio» (vv. 16.26.43). Partendo di qui, abbiamo
a che fare con due categorie che costituiscono da un lato «i giudei»
(vv. 45 e 50), dall'altro «le nazioni », o i «gentili (ta ethnè: vv. 46.47.48).
Fra questi ultimi, non si distinguono più i frequentatori della sinago
ga da quelli che sono ancora adepti della religione pagana. L'ottica
diviene in modo assai preciso quella che guida il racconto della con
versione di Cornelio e delle deliberazioni di Gerusalemme
(10,1-1 1 , 1 8; 15,1-35 ). L'antitesi oppone semplicemente quelli che so
no giudei e quelli che non lo sono.
L'ostruzione dei giudei provoca una dichiarazione che fa la gioia
dei gentili (v. 48). Tale dichiarazione è attribuita non solo a Paolo, ma
a Paolo e Barnaba che parlano insieme:
46È a voi anzitutto che era necessario fosse annunciata la parola di Dio.
Poiché la rifiutate e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco che noi
ci rivolgiamo alle Nazioni.
47Poiché così ci ha comandato il Signore: «TI ho stabilito luce per le Na
zioni , affinché tu sia salvezza fino all ' estremità della terra» ( Is 49,6).
115
è stata rispettata. Il rifiuto opposto dai giudei alla parola di Dio au
torizza i missionari a passare alla fase seguente. Sembra evidente che
soltanto questa seconda interpretazione si accorda col fatto che i
missionari basano la loro decisione su un testo profetico che fonda il
diritto delle «nazioni» a ricevere anch'esse la «luce».
Questo punto è importante e non è inutile sottolinearlo. Il testo
che abbiamo sotto gli occhi non fa della missione presso i gentili il ri
sultato della sconfitta incontrata coi giudei. Un tale punto di vista sa
rebbe in contraddizione col pensiero di Luca, e molto precisamente
con la cura ch'egli pone, attraverso tutta la propria opera e fin dall'i
nizio del suo Vangelo, nel dimostrare sulla base delle Scritture che la
salvezza dei gentili è voluta da Dio e che è stata annunciata dai pro
feti. Tale convinzione non gl'impedisce minimamente di riconoscere
e di affermare che la promessa riguarda «anzitutto» i giudei, e che è
a loro per priorità che il messaggio di salvezza deve essere annun
ciato. Israele non perde i propri diritti, ma questi non gli assicurano
l'esclusività della salvezza. La salvezza realizzata in Cristo è altresì
destinata alle nazioni. La cattiva volontà dei giudei, o di una parte di
essi (i «giudei» di cui parla il v. 45 non sono quelli in causa al v. 43 ! ) ,
non potrà impedire al disegno divino sulle nazioni di raggiungere il
proprio scopo.
Il senso esatto del v. 47 è oggetto di discussioni a non finire. Co
minciamo dunque col dire che il «Signore» dal quale i missionari ri
cevono un mandato attraverso un oracolo profetico designa Dio, non
Gesù, il cui «Comandamento» è stato ricordato in A t 1,2 (ordine di
rimanere a Gerusalemme fino alla venuta dello Spirito: Le 24,49?).
Ricordiamo poi che in At 26,23 la missione «di annunciare la luce al
popolo e alle nazioni» è direttamente attribuita al Cristo risorto,
mentre Le 24,47 fa della predicazione «a tutte le nazioni», così com'è
annunciata dalle Scritture, un compito che dev'essere compiuto «in
suo nome». L'eco che ls 49,6 sembra trovare nel cantico di Simeone
in Le 2,32, suppone anche l'interpretazione cristologica di questo
oracolo. D'altra parte il testo della Settanta, chiaramente più forte
dell'originale ebraico, fa del Servo stesso la luce e la salvezza per il
mondo intero. Un'immediata attribuzione ai missionari è tanto più
difficile, perché il versetto passa dal plurale «noi» al singolare «tu)).
Nella prospettiva di Luca, quale si esprime in At 26,23 , l'universale
realizzazione della salvezza è proprio l'opera dello stesso Cristo; ciò
che non impedisce che essa si realizzi «in nome suo)) (Le 24,47) me-
1 16
diante la predicazione dei suoi testimoni «fino aH'estremità della ter
ra» ( At 1 ,8).5
Concentrando in questa ricerca la nostra attenzione sul pensiero
ecclesiologico che si manifesta nei testi degli Atti, abbiamo cura di
non fasciarci imbrigliare dalle affermazioni cristologiche, che occu
pano evidentemente un posto assai più grande. È così che, pe r l'epi
sodio di Antiochia di Pisidia, non abbi amo gettato che un rapido col
po d'occhio sull'insieme del discorso, per non indugiare che sulla
conclusione e sull'epilogo. Ma la citazione di At 1 3,47 ricorda, op
portunamente forse, che l'ecclesiologia non è separabile dalla cristo
logia. Non è inutile sottolinearlo.
L'ultimo concilio ha promulgato una costituzione dogmatica sul
la Chiesa. Il suo titolo, Lumen gentium, è precisamente ricavato da Is
49,6. Ma il concilio non fa della stessa Chiesa «la luce delle nazioni>>.
Tale luce è Cristo: «Lumen gentium cum sit Christus» . La Chiesa si
definisce in rapporto a Cristo, luce delle nazioni e salvatore d eli 'in
tero genere umano. È questo stesso rapporto costitutivo che la uni
sce a Cristo, di cui essa è come il sacramento per il mondo, la pone
contemporaneamente in un rapporto ugualmente costitutivo riguar
do al mondo, all'universalità degli uomini. La Chiesa non potrebbe
chiudersi. Come i privilegi dati a Israele non costituivano per esso un
5 Secondo M. Buss ( Die Missionspredigt. 137), il «Signore» che ha dato i suoi or
dini ai missionari sarebbe Gesù, facendo fede dell'affermazione di M. Zerwick, per il
quale la parola kyrios con articolo si riferirebbe sempre a Cristo negli Atti. L'affer
mazione. semplicistica e falsa, è a sufficienza smentita dallo studio di G. ScHNEIDER,
«Gott und Christus als Kyrios nach der Apostelgeschichte», in J. ZMIJEWSKI - E. NEL
LESSEN. Begegnung mit dem Wort. FS H. Zimmermann ( BB B 53). Bonn 1 980, 161-174.
Ho avuto spesso occasione di ritornare suirinteressante caso che costituisce la cita
zione di At 13,47 come testo cristologico invocato in favore della missione ai gentili
(articoli del 1 953, 1959, 1962, 1969, 1974 ... ) . Conservando anche in questo caso il si
gnificato cristologico del testo di Is 49,6, avevo dovuto staccarmi dall'interpretazione
proposta da L. CERFAUX, «Saint Pau) et le .. serviteur de Dieu'' d'lsaie>>, in Miscellanea
Biblica et Orientalia A. Miller (Studia Anselmiana 27-28), Roma 195 1 , 35 1 -365 = Re
cueil Lucien Cerfaux, ( BETL 6-7), II, Gembloux 1954, 439-454 (439-45 1 ). La posizio
ne che ho così difeso è stata attaccata da M. RESE, «Die Funktion der alttestamentli
chen Zitate und Anspielungen in den Reden der Apostelgeschichte». in J. KREM ER,
Les Actes des Apotres. Traditions, rédaction, théologie (BETL 48), Gembloux-Leuven,
1979, 6 1 -79 (76-79). Le critiche di questo autore non mi sembrano intaccare le ragio
ni per cui io non credo che Luca deroghi qui alla propria abituale prospettiva. Si può
vedere, nello stesso senso. Buss, Die Missionspredigt, 1 38-140; P. GRELOT, «Note sur
Actes XIII,47», in RB 88(1981 ), 368-372.
1 17
diritto all'esclusività, così la Chiesa non potrebbe dimenticare che
quanto ha ricevuto da Cristo, l'ha ricevuto per tutti i popoli, per l'in
tera umanità.
6 Mi sarebbe difficile fare qui qualcosa di più che riprendere alcune osservazioni
di un lungo articolo: «La conclusion des Actes et son rapport à l'ensembie de l'oeuvre
de Luc», apparso in KREMER, Les Actes des Ap6tres, 359-404, a cui bisogna aggiunge
re la dissertazione dottorale di H.J. HAUSSER, Strukturen der Abschlusserziihlung der
Apostelgeschichte (Apg 28, 16-31) (AnBib 86), Roma 1979.
1 18
re informazioni su «questo partito» di cui non hanno che una cono
scenza indiretta.
Il secondo incontro (vv. 23-28) , che pone Paolo dinanzi a un udi
torio allargato, ha dunque per oggetto il messaggio cristiano. L'espo
sizione sarà lunga: «dal mattino a sera» (v. 23), ma Luca si acconten
ta di indicarne il tema generale. Si tratta di una testimonianza relati
va al regno di Dio e di un'argomentazione che, concernente Gesù,
poggia «sulla legge di Mosè e i profeti». Il tema non differisce da
quello che Gesù aveva esposto dopo la risurrezione (Le 24,25-
27.44.47; cf. At 1,3); inutile per Luca entrare qui nei dettagli, suffi
cientemente conosciuti dai suoi lettori tramite i discorsi di Pietro e
quello tenuto da Paolo alla sinagoga di Antiochia di Pisidia.
Le spiegazioni fornite da Paolo al tempo del suo primo incontro
erano state seguite da un resoconto sulla reazione dei suoi interlo
cutori (vv. 21 -22). Analogamente, qui, le indicazioni fornite sulla sua
predicazione sono seguite da una nota sull' atteggiamento degli
ascoltatori: «Gli uni erano persuasi da ciò ch'era stato detto, gli altri
rimanevano increduli . Erano in disaccordo fra loro» (vv. 24-25a) . Gli
interlocutori di Paolo non fanno dunque blocco in un senso o nel
l'altro: sono divisi.
Sino a qui i due incontri seguono un identico schema: discorso di
Paolo, reazione degli ascoltatori. Fra le due scene esiste tuttavia una
differenza di stile della quale un lettore di Luca non può mancare di
percepire l'importanza : nella prima i personaggi si esprimevano in
forma diretta e le loro parole erano oggetto di citazioni; nella se
conda Luca si attiene allo stile narrativo, incaricandosi egli stesso
d'indicare sommariamente il contenuto di ciò che si è detto. Lo sco
po di questa riserva è evidente: il tono mi nore assegnato alla secon
da scena tende a collocare tutto il peso dell'episodio sulla dichiara
zione conclusiva di Paolo, che costituisce un sovrappiù rispetto al
parallelismo delle scene ed è redatta in forma diretta. Questa di
chiarazione, ai vv. 25b-28, assume tanta maggiore importanza per
ché include una lunga citazione scritturate, contenente la parola di
Dio stesso. Poiché i vv. 30-31 non rappresentano che un semplice
epilogo (come l'epilogo similare con cui Le 24,5 1 -53 concludeva il
Vangelo), la dichiarazione che Paolo fa nei vv. 25b-28 costituisce
l'autentica conclusione non soltanto dei due incontri di Paolo con i
rappresentanti della comunità giudaica della capitale, ma dell'inte
ro libro.
1 19
È precisamente di questa conclusione che dobbiamo occuparci.
Vi è motivo di considerare anzitutto la formale citazione di Is 6,9-10,
riportata dai vv. 26-27; successivamente il complemento che vi ag
giunge il v. 28, facendo eco a Is 40,5.
120
Marco vi si riferisce chiaramente, ma senza conferirle la forma di una
esplicita citazione, nel capitolo delle parabole (Mc 4,12) . Nel passo
parallelo, Matteo ha ritenuto bene aggiungere all'allusione una cita
zione di compimento, rinviando formalmente a Isaia (Mt 13,14 e 14-
15). Le 8,10b ha reso l'allusione quasi impercettibile (ma si è ricor
dato del testo in 8J 2b, parlando dell'opera del diavolo). Se ne ritro
va l'eco in Rm 1 1 ,8.7
Sarebbe probabilmente temerario supporre che sfumando il rife
rimento a Is 6,9-10 Luca pensasse già, dal capitolo delle parabole, di
fare con questo testo la conclusione generale dell'intera sua opera.
Ma la formula con cui egli introduce la citazione in At 28,25 ci riser
va un 'altra sorpresa. Tale formula comincia con l'avverbio kalos (che
abbiamo tradotto: « È ben vero>>); l'autore della citazione constata che
la presente situazione corrisponde «ammirevolmente» a ciò eh 'è sta
to detto dal profeta. Questo modo di dire eccezionale non si ritrova
che nella discussione sul puro e l'impuro (Mc 7,1 -23; Mt 1 5 ,1-20), un
passo che Luca non ha giudicato utile riprendere, ed esso v'introduce
una citazione di Isaia in cui Dio parla ugualmente di «questo popo
lo». In Mc 7,6 Gesù dichiara ai farisei e agli scribi che criticano il las
sismo dei suoi discepoli: <<È ben vero ciò che Isaia ha profetizzato sul
vostro conto, ipocriti, com'è scritto: Questo popolo mi onora con le
labbra, ma il loro cuore è molto distante da me (Is 29, 13)». Luca con
serva ancora nell'orecchio questa formula utilizzata per introdurre Is
29,13, quando compone quella che, per lui, introduce Is 6,9-10?
Non è evidentemente possibile dare una risposta sicura a que
st'ultimo interrogativo. L'accostamento ha per lo meno interesse a
ricordare che il modo in cui il testo di Is 6,9- 10 parla di «questo po
polo» non ha nulla d'insolito nel linguaggio profetico (cf. Is 6,8;
8,6.1 1 . 12; 9, 1 6; 28,1 1. 14; 29, 14; 65,3; ecc.). Ci si meraviglierà meno nel
constatare che Luca introduce l'espressione nel discorso escatologi
co. Là ove Mc 1 3,19 scriveva: «Vi sarà effettivamente in quei giorni
una tribolazione quale non vi è stata mai uguale dall'inizio della
creazione», Luca preferisce parlare della distruzione di Gerusalem-
121
'me precisando: «in quei giorni, vi sarà effettivamente una grande an
goscia sulla terra e collera contro questo popolo>> (21 ,23). La dizione
«questo popolo>> scaturisce dal linguaggio profetico e non è il caso di
vedervi una manifestazione antisemitica.
Occorrerebbe aggiungere che, dappertutto ove appaia la citazio
ne di Is 6,9- 10, essa si presenta in un contesto che distingue il grup
po di israeliti fedeli da coloro a cui si applica l'appellativo «questo
popolo>>. È il caso del capitolo delle parabole. Si citano anzitutto «co
loro che erano attorno a lui coi Dodici>>, a cui «è stato confidato il
mistero del regno di Dio» (Mc 4,10. 1 1 a; cf. Mt 13,10. 1 1a; Le 8,9.10a),
in seguito «quelli che sono al di fuori», per applicare a loro soltanto
l'oracolo indirizzato a «questo popolo» (Mc 4, 1 1 b-12; Mt 1 3,1 lb- 1 5;
Le 8,10b). È lo stesso caso in Rm 1 1 ,1-10, nella misura in cui il v. 8 vi
è influenzato dall'oracolo di Isaia; Paolo fa opportunamente richia
mo al tema biblico del «resto». Ed è evidentemente il caso del passo
degli Atti che ci occupa: la condanna segnata da At 28,25b-27 contro
«questo popolo» non può includere i giudei di cui si è detto che si so
no lasciati persuadere da Paolo e si sono schierati col suo messaggio.
L'espressione «questo popolo» non si applica indistintamente a tutti
i membri del popolo eletto.
All'altra estremità dell 'interpretazione che vedrebbe in «questo
popolo>> tutto Israele preso in blocco, l'uso greco permetterebbe di
dare all'espressione un significato fortemente banale, che ne farebbe
l 'equivalente di «quella gente» . Questa soluzione dev'essere esclusa,
anzitutto in ragione della massiccia testimonianza fornita dal voca
bolario di Luca; al di fuori di due eccezioni in A t 15,14 e 18,10, ove il
termine laos è esteso a gentili divenuti cristiani, questo termine desi
gna sempre dei giudei, negli Atti come nel Vangelo. Luca non esita a
scrivere che Giuda il galileo trascinò «Un popolo» al suo seguito (At
5,37), poiché tutte le persone che l'hanno seguito erano giudee. Egli
non esita inoltre a parlare dell'ekklesia dei cittadini di Efeso
( 19,32.39.41), ma non è per caso che egli non impiega mai laos in un
contesto di questo genere. Una più precisa ragione di escludere qui
un significato puramente banale della parola laos si trova nel fatto
che le due menzioni dell 'espressione «questo popolo» nei vv. 26 e 27
sono immediatamente seguite, al v. 28, dalla designazione antitetica
di ethne, i non giudei. La relazione di contrasto che lega i due termi
ni mostra a sufficienza che la parola «popolo» resta una designazio
ne d'Israele.
122
Torniamo così alle conclusioni a cui ci aveva già condotto l 'esame
dell'uso della parola laos in At 15,14: nel vocabolario di Luca è cor
rentemente usato in senso partitivo. Si tratta non del popolo di Dio
considerato in blocco, ma di un gruppo appartenente a questo popo
lo. Se è vero che in At 15,14 e 18,10 dei non giudei possono essere
compresi nel termine che designa il <<popolo>> di Dio, non resta me
no vero che Luca non contesta tale designazione ai giudei che rifiu
tano la fede cristiana. Essi ricevono allora la qualifica peggiorativa
del linguaggio profetico: «questo popolo»; continuano non di meno
a far parte del «popolo>> di Dio.
Queste osservazioni debbono metterei in guardia contro la tenta
zione di accentuare unilateralmente una minaccia come quella di A t
3,23: «Chiunque non ascolterà quel profeta sarà tolto dal proprio po
polo». I giudei increduli divengono coloro che il profeta Isaia indica
come «questo popolo>>, ma il titolo di «popolo» continua a riferirsi a
loro. L'idea che Dio potrebbe avere due «popoli», uno antico e uno
nuovo, non sfiora il pensiero di Luca. Gli basta distinguere nel «po
polo» una porzione fedele e una ribelle. Divenuta «questo popolo»,
tale porzione infedele e indocile meriterebbe di essere tolta «dal suo
popolo»; tuttavia, seppure emarginata. Luca non ne mette in causa
l'appartenenza al popolo eletto. L'esclusione di cui essa è minaccia
ta non si produrrà, infatti, che al momento del giudizio, come dimo
stra l'importante pericope di Le 13,23-30 (di cui si è parlato in occa
sione dello studio di At 3,25-26).
La separazione che provoca il messaggio cristiano all'interno de]
«popolo» va di pari passo con un allargamento dell'orizzonte in di
rezione di tutte le nazioni dell'intero mondo non giudaico. L'asso
ciazione dei due aspetti complementari è così abituale negli Atti che
non sorprende trovarla ancora una volta alla conclusione del libro.
I rimproveri che Paolo rivolge ai giudei di Roma, che persistono
nella loro incredulità, non debbono ritenersi isolati dalla dichiara
zione che li accompagna al v. 28.
123
Il rapporto con la citazione profetica dei versetti precedenti è im
mediatamente assicurato dal complemento «ai gentili», evidenziato
all'inizio della dichiarazione, in contrasto con ciò che il profeta dice
va di «questo popolo». Ma non è meno confermato dall'affermazio
ne finale, fortemente sostenuta: «essi ascolteranno» ( o almeno «essi
capiranno»). Il verbo «ascoltare>> è il solo che appariva tre volte nel
la citazione. L'interesse rivolto a questo verbo si era manifestato già
dal v. 22, che assicurava il passaggio fra i due colloqui di Paolo con i
giudei di Roma. Costoro gli avevano chiesto: «vorremmo ascoltare
da te ciò che ne pensi».
È utile osservare le diverse sfumature inerenti al verbo «ascolta
re»; ripetuto cinque volte caratterizza tutto questo passo. Esprimen
do al v. 22 il loro desiderio di «ascoltare» l'opinione di Paolo, i giudei
non desideravano null'altro che un'informazione, di fronte a cui essi
mantengono un atteggiamento neutrale, riservandosi di giudicare
quello che sarà detto loro. Nel primo versetto della citazione l'im
portanza del verbo è sottolineata da un raddoppio: «ascoltare, ascol
terete, e voi non comprenderete». Gli ascoltatori sentiranno perfet
tamente ciò che è detto loro, ma non ne coglieranno il significato. Al
l'inizio del versetto seguente è l'ascolto stesso che diviene difficile:
«fecero fatica ad ascoltare coi loro orecchi». Sono divenuti duri d'o
recchi e percepiscono malamente ciò che è detto. Nella seconda
metà del versetto le loro cattive disposizioni fanno sì che essi non
ascoltino assolutamente più nulla: «per timore... che essi non ascolti
no coi loro orecchi». La gradualità è evidente. Dà tutto il proprio ri
lievo all'affermazione del v. 28 che dice dei gentili «essi ascolteran
no» : vale a dire che non soltanto percepiranno quello che è detto, ma
che l'ascolteranno con docilità e lo comprende ranno. Il contrasto è
completo, tanto con le tre utilizzazioni del verbo nella citazione, che
con quella del v. 22. In pratica Paolo troverà presso di loro la stessa
,
accoglienza dei giudei che si sono lasciati convincere dalle sue spie
gazioni (v. 24 )
.
124
mità della terra "» (13,46-47). La posta in gioco, che là era quella del
la «vita eterna», è ora quella della «salvezza>>; le due espressioni so
no equivalenti. Ma ad Antiochia i due missionari giustificavano la lo
ro decisione presentando, come un ordine divino, un testo di Isaia. A
Roma, Paolo si guarda dal fare una citazione. Ma Luca si arrangia in
modo che il suo lettore possa riconoscere, nei termini impiegati da
Paolo, l'eco di un passo di Isaia, già citato, in un contesto che gli ga
rantisca un particolare rilievo.
Nell'espressione di 28,28, «questa salvezza di Dio», il dimostrati
vo sembra voler rinviare a una «salvezza» di cui si è già parlato. Ora
nulla evocava questo tema in ciò che si è detto sulla predicazione di
Paolo a Roma, e il rapporto rimane molto vago con l 'espressione im
piegata da Paolo, parlando della propria situazione: «È a causa della
speranza d' Israele, che porto questa catena» (v. 20).
Si constata nello stesso tempo che, per indicare la «salvezza», Lu
ca non impiega il termine abituale, soteria, ma piuttosto soterion: una
parola frequente nella Settanta, ma che riappare solo tre volte nel
Nuovo Testamento: Le 2,30; 3,6 ed Ef 6,17. Ef 6,17 parla di «elmo di
salvezza», in relazione a Is 59,17. I tre usi che Luca fa della parola
soterion si caratterizzano per l'aggiunta del genitivo; si tratta ogni
volta della «salvezza di Dio». È anzitutto il caso del cantico di Si
meone: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza» (Le 2,30). È il ca
so, soprattutto, della grande citazione di Isaia 40,3-5 che Luca ha col
locato come motto all'inizio della storia evangelica, in Le 3 ,4-6. La
tradizione anteriore aveva già riconosciuto Giovanni Battista in ciò
che Is 40,3 dice della «voce che grida nel deserto: preparate la via del
Signore» (Mc 1 ,3; Mt 3,3). Ma Luca prolunga la citazione sino all'i
nizio del v. 5: «E ogni carne vedrà la salvezza di Dio». È perfetta
mente chiaro che Luca non pensa più di applicare tale affermazione
al ministero di Giovanni. Non pensa neppure di applicarla al com
plesso della storia evangelica che comincia a questo punto. Già lì egli
apre al lettore una prospettiva che non prenderà una certa consi
stenza che nella seconda metà degli Atti.
L'importanza che Luca ha attribuito alla prima esplicita citazione
del suo Vangelo e all 'affermazione fino alla quale l'ha voluta pro
lungare trova conferma nell'analogia del procedimento che, all 'ini
zio del secondo libro, utilizza il testo di Gl 3,1-5 come chiave erme
neutica dell'avvenimento della Pentecoste, ma prolungandolo fino
alle parole: «E chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà sal-
125
vato» (A t 2,21 ) Non è quindi forse così avventato, come potrebbe
.
126
cupano affatto del modo in cui si pone l'articolazione dei gentili re
lativamente al popolo della promessa. Questo problema non è toc
cato che in At 15 ,14 e 18,10. Qui si può vedere che Luca non trova
difficoltà a estendere ai cristiani usciti dal paganesimo la denomina
zione di «popolo», normalmente riservata a Israele. È, lui, sensibile
all' audacia richiesta da tale estensione del titolo? Di fatto essa ap
pare nelle parole di personaggi la cui autorità non è discutibile: Gia
como per primo, lo stesso Risorto, in seguito.
127
visione inaugurale di Geremia (Ger 1 ,5.7-8). L'inizio del v. 1 8 preci
sa: «Per aprir loro gli occhi, affinché ritornino dalle tenebre alla lu
ce». Si riconosce qui la missione del Servo in Is 42,7 (e 42, 16). Quan
to alle ultime parole di questo v. 18, che promettono ai beneficiari
della missione di Paolo «una parte di eredità» tra i santificati, si può
abbastanza facilmente riconoscervi il ricordo delle parole del Dt
33,3-4, introducenti le benedizioni pronunciate sui figli d'Israele da
Mosè prima di morire. Questo sfondo è manifestamente destinato a
dare tutto il suo rilievo alla missione di cui Paolo è stato investito da
Cristo.
Ma non è la vocazione di Paolo come tale che deve attirare qui la
nostra attenzione; se essa c'interessa, è a motivo delle sue implica
zioni ecclesiologiche. Da questo punto di vista, non si può non esse
re colpiti dalle ultime parole del discorso di Gesù (che sono anche le
sue ultime nell'opera di Luca): a quelli che Paolo condurrà dalle te
nebre alla luce, egli promette «una parte di eredità fra i santificati» .
Non significa questo, nel linguaggio biblico, che essi saranno parteci
pi dei privilegi del popolo santo, il popolo di Dio? Ci si ricorda na
turalmente della classica formula mediante cui Dio dichiara al suo
popolo: «Sono il Signore che vi santifica» (Es 31 ,13; Lv 20,8�
21 ,8.15 .23; 22,9.16.32; Ez 20,12; 37,28). Di qui la maniera mediante la
quale si può parlare d'Israele come di «popolo santificato» (Dn 4, 19
[LXX]; 1 2,7 TH), o semplicemente «i santificati», come è nel caso di
Dt 33,3-4:
3 Ha avuto pietà del suo popolo; tutti i santificati sono sotto la tua mano
( ) . 4E dalle sue parole egli
••• ha ricevuto una Legge, quella che ci ha pre
scritto Mosè, eredità per i convocati di Giacobbe (LXX).
128
bilmente legato a quello dell'interpretazione che conviene dare alla
formula, del tutto simile, di At 20,32 in cui Paolo affida i presbiteri
episcopi di Efeso «a Dio e alla parola della sua grazia, che ha il po
tere di costruire e di dare l 'eredità tra tutti i santificati». Qui, ugual
mente, l'espressione <<l'eredità tra tutti i santificati>> è intesa ora in
senso ecclesiologico, ora in senso puramente escatologico.8
JACQUIER (1926). F.F. BRucE ( 1 956), G. STA.H U N ( 1 962), in una nota di O. PRocKsCH, in
TWNT 1(1933), 108, nota 61 ; si veda anche H. BALZ, in EWNT 1 (1980), 41. Essa ha ri
cevuto soprattutto l 'appoggio di due eccellenti esposizioni, opportunamente motivate
e indipendenti l'una dall'altra: R.F. O'TooLE, Acts 26, The Christological Climax of
Paul's Defense (Ac 22:1 - 26:32) (An Bib 78), Rome, 1978, 78-80, e F. PRAST, Presbyter
und Evangelium in nachapostolischer Zeit. Abschiedsrede des Paulus in Mi/et (Apg
20,1 7-38) im Rahmen der lukanischen Konzeptiorr der Evangeliumsverkundigung ( For
schung zur Bibel, 29), Stuttgart 1979, 146-148. E chiaro che le osservazioni di questi
due autori meritano la maggiore attenzione. Può essere utile che io ricordi un articolo
sul passo che ci interessa: «La Mission de Paul d'après Actes 26. 16-23 et la Mission des
1 29
4. 1. Analisi della frase: At 26,16b-18
Apòtres d'après Luc 24.44-49 et Actes 1.8» che ho pubblicato in M.D. HooKER - S.G.
WILSON, Pau/ and Paulinism. FS C.K. Barrett, London 1982, 290-301 . Vi si sottolinea
particolarmente la correlazione in At 26 tra il modo in cui Gesù definisce la missione
di Paolo (vv. 16-18), quello mediante il quale Paolo parla della sua attuazione ( vv. 19-
20), poi di ciò che costituisce il suo contenuto (vv. 21-23).
130
so regge tosto una proposizione finale: «per costituirti». Due termini
definiscono la missione di Paolo: «servo e testimone». Tale duplice
espressione non può mancare di richiamare quella della prefazione,
ove si trattava dei autoptai kai hyperetai (Le 1 ,2). L'oggetto del ser
vizio e della testimonianza di Paolo è ugualmente duplice: ciò che
egli ha visto e ciò che ancora vedrà.
A questa missione è collegata una promessa, che il v. 17 esprime
mediante una proposizione participiale: «liberandoti dal popolo e
dai gentili». Il participio presente prende naturalmente il significato
che avrebbe un futuro indicativo: «ti libererò». Il complemento «dal
popolo e dai gentili» è seguito da una proposizione relativa: «verso
cui» o «verso i quali t'invio». Il verbo di questa relativa è assai im
portante, poiché comanda le tre proposizioni infinitive di cui è com
posto il v. 18. Di qui l'importanza di sapere a che cosa si riferisce il
pronome relativo «verso cui», eis hous: trattasi del «popolo e dei gen
tili» insieme, o soltanto dell'ultimo termine, «i gentili»?
Poiché tale versetto fa eco alla vocazione di Geremia. ci si può ri
cordare che il Signore aveva detto allora: «Ti ho stabilito profeta per
i gentili ( ... ]. Andrai verso tutti quelli a cui t'invierò» ( Ger 1 ,5.7). Il pa
rallelo tende ad accentuare la parola «gentili». Ma ciò che il v. 17 di
ce dell'«invio» di Paolo non può ignorare ciò ch'egli stesso dice subi
to dopo sul modo in cui ha compiuto la propria missione: «Agli abi
tanti di Damasco, anzitutto, e a Gerusalemme, e in tutto il paese del
la Giudea, poi ai gentili, ho predicato» (At 26,20). Occorre altresì
prendere in considerazione le ultime parole del discorso: secondo le
Scritture, il Cristo «doveva annunciare la luce al popolo e ai gentili»
(v. 23). Quest'opera, che effettivamente il Cristo compì mediante il
suo testimone, riguarda contemporaneamente il popolo giudaico e le
nazioni pagane. Ma non è ancora detto tutto, poiché bisogna ricono
scere che il modo in cui si esprime il v. 18, in particolare quando par
la di un ritorno «dall'impero di Satana a Dio», si comprende meglio
se si parla dei gentili, e questo è confermato da ciò che il v. 20 dice su
una «conversione a Dio». Il v. 17 non vuole limitare la missione di
Paolo ai soli gentili: essa concerne anche i giudei. Ma rimane che l'in
teresse si concentra più direttamente su questa missione ai gentili.
Le tre proposizioni infinitive del v. 18 precisano lo scopo per cui
Paolo è «inviato» dal Cristo. Il problema consiste nel sapere se tutte
e tre dipendono direttamente dal verbo «inviare», e allora sarebbe
ro semplicemente giustapposte l'una all'altra, o se soltanto la prima,
131
«per aprir loro gli occhi», si collega a «inviare», mentre la seconda sa
rebbe subordinata alla prima e la terza alla seconda. Il ritmo della
frase e, più chiaramente ancora, il contenuto delle proposizioni di
mostrano come la seconda ipotesi sia la buona: le proposizioni infi
nitive finali si susseguono a cascata. La missione di Paolo ha per sco
po «di aprire gli occhi» di coloro a cui è inviato; tale apertura dei lo
ro occhi deve condurre alla loro «conversione», e questa conversio
ne deve suscitare sia la remissione dei loro peccati sia la loro am
missione all'eredità dei santificati. Assistiamo dunque a una reale
progressione: ogni proposizione indica uno scopo, esso stesso orien
tato verso lo scopo espresso dalla successiva. La conclusione della
serie, «per la fede in me», che non parla più di scopo ma di mezzo,
segna una sorta di anticlimax, ma assume così un particolare rilievo.
Paragonate fra loro, queste tre proposizioni del v. 18 differiscono
per taglio e costruzione. La prima. molto breve, si limita a tre paro
le: «aprir loro gli occhi». La seconda, più pregnante, spiega la con
versione mediante un duplice movimento: quello anzitutto che fa
passare dalle tenebre alla luce e quello, successivo, che fa passare
dall'impero di Satana a Dio. Ma l'affermazione del secondo passo
che altro è se non l'esplicitazione di ciò che il primo diceva in forma
figurativa? Se vi è progressione fra i due modi di esprimere la con
versione, questa sembra non trovarsi che nell'esplicitazione. A parte
la precisazione finale «per la fede in me» ( che occorre collegare al
verbo «ricevere» ), la terza proposizione è costruita sull'identico mo
dello della seconda, ma più semplicemente. Questo è dovuto al fatto
che non c'è più motivo qui di parlare come per la conversione di un
punto di partenza e di uno d'arrivo. Quello che vi è da «ricevere» è
ancora espresso in due forme, ciascuna contenente due termini es
senziali, ma collegati invece di essere opposti: è anzitutto la «remis
sione dei peccati», poi «la parte di eredità tra i santificati». Il negati
vo e il positivo, che risultavano opposti in ognuna delle parti della se
conda proposizione (tenebre/luce, impero di Satana/di Dio), si tro
vano qui separati: la «remissione dei peccati» della prima parte co
stituisce il polo negativo rispetto al quale la «parte di eredità tra i
santificati» rappresenterà il polo positivo.
La conseguenza di tali osservazioni, forse fastidiose, sembra im
porsi immediatamente; il semplice esame della costruzione della fra
se non gioca a favore dell'interpretazione escatologica. In questa de
scrizione dell'opera affidata a Paolo, tutto si colloca a livello dei ri-
132
sultati terrestri della sua azione, e nulla fa supporre, al vertice conclu
sivo delle successive finalità, la comparsa di uno scopo riferito all'al
tro mondo. Occorre aggiungere d'altronde che la collocazione della
precisazione strumentale, «per la fede in me>>, in fondo alla frase, do
po la menzione della «parte di eredità tra i santificati», non favorisce
l'interpretazione escatologica; non si parla più di fede dopo la defini
tiva realizzazione della salvezza. La fede in Gesù, alla quale Paolo è
incaricato di chiamare gli uomini, deve procurare a questi sia la re
missione dei peccati sia la partecipazione al popolo dei santificati.
Occorre altresì tener conto dei versetti successivi, in cui, dopo aver
narrato la missione che Gesù gli aveva affidata, Paolo spiega come
l'abbia eseguita: dapprima ai giudei, in seguito ai gentili, egli ha «pre
dicato il pentimento e il ritorno a Dio, compiendo opere che corri
spondono al pentimento» (v. 20). Ecco certamente un modo di parla
re che non evoca la felicità dei beati. Il v. 23 invita a vedere nell'atti
vità di Paolo la realizzazione di ciò che le Scritture dicevano del Cri
sto stesso, il quale doveva «annunciare la luce al popolo e ai gentili».
Neppure qui si evocano le condizioni degli eletti nel mondo a venire.
L'immediato seguito conferma dunque ciò che scaturisce dalla co
struzione della frase e, più specialmente, dal v. 18; si tratta dello sco
po per il quale il Risorto invia Paolo agli uomini: aprir loro gli occhi
affinché si convertano e la fede ottenga loro la remissione dei pecca
ti, facendo di essi dei santificati che hanno parte ai privilegi del po
polo di Dio. Per quanto nel v. 17 la missione di Paolo sia stata desti
nata tanto ai giudei quanto ai gentili e i vv. 20 e 23 confermino tale
estensione, bisogna riconoscere che l'enumerazione dei benefici che
tale missione deve recare agli uomini si applica più direttamente ai
gentili che ai giudei. Nella seconda proposizione finale, la conversio
ne che deve ricondurre a Dio è citata in termini che si applicano me
no bene ai giudei che ai pagani. Sembra che debba dirsi altrettanto
dell'espressione della terza proposizione finale, dove si parla di una
parte (di eredità) fra (il popolo) dei santificati. Significa attribuire ai
credenti un privilegio che normalmente caratterizza Israele.
133
Espressioni simili, e suscettibili di chiarire la promessa che ci oc
cupa, sono state prese dall 'Antico Testamento, dalla letteratura giu
daica intertestamentaria e dalla prima letteratura cristiana. Il paral
lelo più completo è incontestabilmente quello fornito da Col l ,l 2-14:
12Rendete grazie al Padre che vi ha reso capaci d 'aver parte alla eredità dei
santi nella luce, 13egli che ci ha sottratto all'impero
delle tenebre e ci ha tra
sferito nel regno del suo Figlio diletto, 1 4in cui abbiamo la redenzione, la
remissione dei peccati.
134
Si riconosce il procedimento del raddoppio delle espressioni:
Dio e la sua parola, costruire ed elargire l'eredità. Ogni volta, il se
condo termine è più sviluppato: «e la parola della sua grazia», «ed
elargire l'eredità fra tutti i santificati». L'infinito aoristo «elargire»
(dounai) corrisponde all'infin ito aoristo <<ricevere>> (labein) di
26,18; il complemento di 26, 18 «Una parte di eredità fra i santifica
ti» non dice niente di diverso di quello di 20,32: «l'eredità fra tutti i
santificati», le parole kleros e kleronomia sono intercambiabili nel
greco biblico e l'aggettivo pantes «tutti» non mira che ad accrescere
l'enfasi dello stile.
Si ritrovano anche, a proposito di 20,32, problemi analoghi a
quelli che sollevava la frase di 26,16b- 1 8. A cominciare da quello del
pronome relativo (cf. 26,17); qual è l'antecedente del relativo singo
lare «che ha il potere» facente seguito a due sostantivi, Dio e la sua
parola? Il problema è senza dubbio meno grave di quando si tratta
va di sapere se la missione di Paolo riguardava nel contempo i giu
dei e i gentili, o più direttamente questi ultimi. Si capisce più facil
mente come Dio non faccia numero con la propria parola; ma il pro
blema non dovrebbe lasciare indifferente l'esegeta che s'interessa
della teologia lucana della Parola. Pensiamo che effettivamente il
relativo si rivolga direttamente al termine logos, accentuato d'al
tronde con l'aggiunta del complemento: «la parola della sua grazia».
È alla Parola che va direttamente attribuito il potere divino di co
struire e di dare l'eredità, in quanto essa è strumento di cui Dio si
serve per realizzare il proprio disegno di salvezza.
Troviamo soprattutto, a proposito del rapporto tra i due infiniti
vi aoristi «costruire» e «dare l'eredità», un problema analogo a
quello posto dalla relazione tra i due complementi di 26,1 8c: «per ri
cevere la remissione dei peccati e una parte di eredità tra i santifi
cati». La semplice coordinazione grammaticale corrisponde natu
ralmente a una progressione, mentre il secondo verbo sottolinea lo
scopo o la conseguenza del primo. Il primo parla della costruzione
spirituale della comunità e si pone dunque chiaramente sul piano
ecclesiologico. «L'eredità» di cui parla il secondo può porsi nella
stessa prospettiva ecclesiologica: si tratterebbe allora del godimen
to dei beni che Dio accorda, per mezzo della sua parola, al popolo
santo che gli appartiene; ma si può anche intenderlo in un senso
escatologico, in cui designerebbe la salvezza che si realizzerà nel
mondo a venire.
135
Per veder chiaro in 26,18c, abbiamo messo in evidenza che la pre
cisazione <<per la fede in me>>, collegata al verbo «ricevere>>, qualifica
nel contempo le due espressioni: «la remissione dei peccati» e la
«parte di eredità tra i santificati». Nel caso di 20,32 è sufficiente os
servare che i due verbi «costruire» e «dare l'eredità» si presentano
come il risultato della stessa «Parola»: risultato che tale Parola non
realizza, evidentemente, che per coloro che l'accolgono con fede.
Questa implicazione si verifica a livello di un ascolto attuale, relati
vo al mondo presente; l'entrata in possesso dell 'eredità futura non è
legata a un nuovo annuncio della Parola. Non più che in 26, 1 8 vi è
motivo di far intervenire qui un passaggio dal piano ecclesiologico a
quello escatologico.
Come per 26,18, tale conclusione può essere confermata da un
colpo d'occhio sull 'insieme del discorso che trova, qui, la propria
conclusione. In 20,1 8b-21 Paolo ha ricordato ciò che è stato il suo mi
nistero in Asia; modello di quello per cui i presbiteri debbono met
tersi al servizio della Parola: non vi si oltrepassava l'orizzonte terre
stre. Nei vv. 22-24, Paolo intravvede la possibilità di una morte pros
sima, non in prospettiva di una ricompensa nell'aldilà, ma pensando
solo a perseguire sino alla fine la propria missione terrestre. Nei vv.
25-28, la dipartita di Paolo pone i presbiteri di fronte alla loro re
sponsabilità nei confronti della Chiesa di Dio, tanto più grave per il
fatto che questa incontra le difficoltà annunciate dai vv. 29-3 1. L'epi
logo, vv. 33-35, torna indietro per sottolineare il disinteresse di cui
Paolo lascia l'esempio ai propri ascoltatori: qui ancora, nessuna aper
tura su li' aldilà.
Resta chiaro che questo contesto, interamente occupato dai do
veri di coloro che sono al servizio della parola di Dio, sconsiglia l 'in
terpretazione che cerca nella menzione dell'«eredità» , al v. 32, l'evo
cazione di uno stato proprio del mondo futuro. Alla fine di un di
scorso interamente consacrato al ministero della Parola, il v. 32 s'in
teressa al risultato di questa Parola: da un lato l'edificazione spiri
tuale della comunità e, dall'altro, la garanzia che essa fornisce sul go
dimento dei privilegi riservati al popolo dei «santificati». Questo po
polo è identificato con la «Chiesa di Dio» (v. 28), composta di «giu
dei e di greci» che hanno accolto la testimonianza di Paolo, che li
chiamava a convertirsi a Dio e a credere nel nostro Signore Gesù (v.
21 ). La denominazione «i santificati», che tradizionalmente designa
va i membri del popolo d'Israele, è applicata puramente e semplice-
136
mente ai membri della Chiesa di Dio, da lui acquistata a prezzo del
proprio sangue (v. 28).
Tale designazione dei cristiani deriva dal fatto che, in virtù della
sua appartenenza a Dio, Israele è chiamata «nazione santa» (Es 19,6),
10
Non vi sono negli Atti che altri due casi di tale denominazione «i santi» appli
cata a cristiani; ambedue nella seconda metà del capitolo 9: al v. 32 Pietro fa visita ai
«santi» che abitavano a Lidda e, al v. 4 1 , lo si vede chiamare «i santi e le vedove» di
Giaffa. Abituale nelle lettere paoline, questa designazione sembra essere stata utiliz
zata assai presto dai cristiani, forse più particolarmente a Gerusalemme. Comunque
sia, essa rimane eccezionale negli Atti, e legata specialmente alla persecuzione che ha
colpito la primitiva comunità.
1 37
«popolo santo» (Dt 7,6), i suoi membri invitati a dimostrarsi effica
cemente «Santi>> (Lv 1 1 ,44-45 ) e interpellati come «santi» (Sal 33 ,9
[LXX] ; Tb 8,15). I monaci di Qumran amano darsi il titolo di «Co
munità di santi» o di «santi del suo popolo» . Il contesto della perse
cuzione ricorda più specialmente il modo in cui Dn 7 parla della per
secuzione di Antioco Epifane contro «i santi dell'Altissimo» (vv. 21
e 25; cf. v. 8 [LXX] ). Ma resta chiaro che in A t 9 e 26 la denomina
zione deve il proprio significato specifico a ciò per cui essa distingue
i membri della comunità cristiana dagli altri membri del popolo giu
daico. In relazione agli altri giudei, i cristiani di Gerusalemme, giudei
anch'essi, sono considerati «santi» in virtù di un legame di privile
giata appartenenza che li lega a Dio (o al Cristo, in 9, 13).
Tale osservazione può condurci a 26,1 8 invitandoci a chiederci se,
corrispondentemente alla denominazione «i santi» per cui i cristiani
sono distinti dai giudei, la denominazione «i santificati» non distin
gua i cristiani non soltanto dai non cristiani, ma forse più precisa
mente dai non giudei che ancora non sono divenuti credenti. Ricor
diamoci che le espressioni di 26,18 a e b orientano l'interpretazione
in questa direzione, dicendo che la missione di Paolo ha lo scopo <<di
aprire loro gli occhi, affinché ritornino dalle tenebre alla luce e dal
l'impero di Satana a Dio». Questi termini, per definire una conver
sione, si applicano ovviamente meglio a pagani che non a giudei. At
tenendoci a questa indicazione, si potrebbe avere l'impressione che
convertendosi al cristianesimo i pagani ricevano la denominazione di
«santificati» nel senso in cui tale denominazione non distinguerebbe
i cristiani dai giudei.
Riteniamo che questa interpretazione non corrisponda alla pro
spettiva del testo e che debba escludersi . Anzitutto perché non sem
bra applicabile a 20,32, il primo passo in cui Luca parla di «santifica
ti», in un contesto in cui nulla giustificherebbe la distinzione fra due
categorie di non cristiani (cf. 20,21 ). Inoltre, in 26,18, la menzione di
«santificati» non si collega direttamente al modo in cui 18ab parla
della conversione; essa è strettamente legata alla «remissione dei
peccati», che è presentata come il fine a cui tende la conversione:
«affinché essi ricevano la remissione dei peccati e una parte di ere
dità fra i santificati, mediante la fede in me». È grazie alla fede in Cri
sto che la conversione a Dio ottiene il suo duplice effetto: purifica
zione dai peccati e partecipazione all'eredità dei santificati. Il modo
in cui il testo si esprime riserva, evidentemente, questa partecipazio-
1 38
ne a coloro che credono in Cristo; i giudei come i pagani hanno bi
sogno di tale fede per ottenere il perdono dei peccati che introduce
nell'eredità dei «santificati».
Abbiamo dovuto riconoscere che l'uso lucano della parola laos
sottolinea maggiormente la continuità che Luca pone fra la comu
nità cristiana e il popolo d'Israele. Dobbiamo aggiungere ora che il
modo in cui egli parla dei cristiani come dei «santi)) o dei «santifica
ti)), sottolinea ancor più la differenza e la discontinuità. In quanto co
munità fruitrice di privilegi accordati ai «santificati)), i cristiani sono
tutti assieme separati dal giudaismo e dal paganesimo, e ciò in virtù
della potenza della parola di Dio (20,32) e della fede suscitata da
questa Parola (26, 18). La prospettiva di Luca si caratterizza per il
modo in cui egli definisce la nuova comunità, non come istituzione
organizzata, ma nella sua relazione al dinamico principio suscitatore
della sua nascita: l'azione della parola di Dio e la fede che permette
a questa Parola di produrre il proprio effetto santificatore.
139
CONCLUSIONE
141
Ma a fianco del1a regola generale bisogna considerare due ecce
zioni: due casi in cui il termine «popolo» si applica a cristiani che non
si ricollegano a Israele. In At 1 5 ,14 Giacomo, dall 'intervento divino
nella conversione del centurione Cornelio e della sua famiglia, con
clude che Dio stesso «ha avuto cura di prendere tra le nazioni un po
polo per il suo nome»; in A t 1 8,10 il Signore Gesù appare a Paolo per
incoraggiarlo dopo la rottura con la sinagoga dei giudei di Corinto, e
gli dichiara: «Ho per me un popolo numeroso in questa città>>. Sem
bra necessario evitare qui di accrescere l'importanza di queste due
eccezioni, che non potrebbero controbilanciare la testimonianza
massiccia dell'insieme degli usi di laos sotto la penna di Luca, ma evi
tare anche di minimizzare la loro significativa importanza.
Non sembra esservi dubbio che in questi due casi il significato
globale del termine laos debba essere escluso: né la famiglia di Cor
nelio né i convertiti di Corinto potrebbero costituire, accanto a Israe
le, un altro popolo di Dio, un nuovo popolo di Dio. Bisogna dunque
attenersi all'accezione partitiva: i cristiani di Cesarea e quelli di Co
rinto possono e devono essere considerati come membri del popolo
di Dio.
Il problema che si pone è dunque quello di sapere come questi
cristiani possono far parte del popolo di Dio non essendo integrati a
Israele. La risposta sembra doversi cercare nel fatto che i due passi
pongono l'accento non su un legame da stabilirsi tra i nuovi conver
titi e un popolo anteriore, ma sul legame stabilito direttamente tra
loro e il Dio, o il Signore, che li rivendica come propri. Il «popolo» si
definisce più per il rapporto che unisce i suoi membri al Signore che
non per la loro appartenenza etnica.
Se è vero, in questi due casi, che il termine «popolo)) riceve un'e
stensione che travalica Israele, è altrettanto vero che, per i giudei che
rifiutano il messaggio evangelico, gli Atti non mettono in discussio
ne la loro appartenenza al popolo di Dio. È significativo a questo ri
guardo che l'opera si concluda con la citazione di Is 6,9- 10 che de
nuncia l'accecamento di «questo popolo» (At 28,26.27): il suo acce
camento non gli impedisce di conservare il titolo di «popolo». Israe
le non ha perduto il proprio privilegio di popolo eletto. La minaccia
che At 3,23 attribuisce a Mosè ed è rivolta a coloro che rifiutano di
ascoltare il profeta degli ultimi tempi, meritando così di essere
«estirpati dal popolo», rimane una minaccia; essa non si verificherà
pienamente e definitivamente che al momento del giudizio.
1 42
Non si può dunque attribuire a Luca l'idea che esistano due po
poli di Dio, uno antico e uno nuovo. Al contrario, Luca è assa i se nsi
bile alla svolta che gli avvenimenti di Pasqua hanno fat to prendl."re
alla storia deli 'unico popolo di Dio, determinandone il passaggio da l
tempo della promessa a quello del compimento.
2. La realizzazione delle profezie. È su questo pun to che hanno
condotto le nostre analisi dell'utilizzo dell'argomento delle profezie
fatto nei grandi discorsi degli Atti. Indubbiamente, è nelramhito del
la cristologia che tale argomento trova la propria principale applica
zione. La predicazione apostolica, nel programma fissatole in Le 24
dal messaggio degli angeli alle pie donne (v. 7). dalle spiegazioni del
Risorto ai discepoli di Emmaus (vv. 25-27) e da quelle che definisco
no la missione degli apostoli (vv. 44-48), poi nella messa in opera de
scritta nei discorsi degli Atti, ritorna senza sosta sullo schema secon
do il quale le profezie annunciavano da una parte le sofferenze del
Messia e la sua morte, dall'altra la sua risurrezione ed elevazione
nella gloria divina: dagli avvenimenti di Pasqua risulta dunque che
Gesù era proprio colui del quale si interessavano le Scritture. Que
ste trovano in lui il proprio compimento e danno così legittimità al
messaggio di salvezza proclamato in suo nome.
Abbiamo potuto constatare che, dal punto di vista dell'ecclesio
logia, il meccanismo dell'argomento profetico agisce in modo simile:
gli oracoli della Scrittura prevedevano, per gli ultimi giorni, da una
parte il pericolo che il popolo eletto si mostri indocile, cieco e indu
rito, come era spesso avvenuto in occasione degli interventi di Dio
nel corso della sua storia; dall'altra parte, la Scrittura prevedeva,
inoltre, che l 'intervento decisivo di Dio in favore del proprio popolo
dovesse allo stesso tempo andare a beneficio di tutte le nazioni del
la terra. Non meraviglia dunque che l'inaugurazione dei tempi mes
sianici provochi una crisi temibile all'interno di Israele, mentre chia
ma il popolo eletto ad aprirsi alle dimensioni dell'intera umanità.
Concludendo, bisogna riconoscere che questo modo di cogliere la
continuità del popolo eletto nella discontinuità dei tempi solleva al
cuni problemi. Non è solamente sulla messa in opera e sul funziona
mento delle strutture della Chiesa che si vorrebbe sapere di più di
quanto non ci dicano gli Atti. Le stesse frontiere del popolo di Dio
possono sembrarci assai indefinite. Israele e la Chiesa non sono con
side rati come due realtà ch iuse e statiche, poste l'una di fronte al
l'altra. Il popolo che Dio stesso si costituisce fra gli uomini è in con-
143
tinuo divenire; vi si può essere collegati a diverso titolo e più o me
no completamente, per cui quest'appartenenza resta dinamica. Le
radici di questo popolo si trovano incontestabilmente in Israele, ma
esso non potrebbe rimanere fedele alla sua vocazione senza aprirsi a
tutte le nazioni, a tutti gli uomini. Ammesso fin d'ora a beneficiare
dei doni della salvezza messianica, questo popolo non resta tuttavia
meno teso verso l'adempimento definitivo che deve realizzarsi con il
ritorno del Signore Gesù.
144
Appendice
LE PROFEZIE
DEL VECCHIO SIMEONE
(Le 2,25-35)
Nella dichiarazione finale del libro degli Atti: « È alle nazioni che
è stata inviata questa salvezza di Dio>> (At 28,28), l'uso della rara pa
rola soterion per designare la «salvezza» ci ha aiutato a riconoscere
una rievocazione del testo di Is 40,5 che Luca aveva citato all'inizio
della storia evangelica (Le 3,6) e a cui una prima allusione era già
stata fatta nel cantico del vecchio Simeone, alla fine del ciclo delle
natività (2,30). Relativamente alla citazione di Is 49,6, che segna il
punto culminante dell'episodio di Antiochia di Pisidia: «Ti ho stabi
lito per essere la luce delle nazioni» (At 13,47), si pone il problema
dell'influsso che questo testo ha esercitato non solo sulla fine del di
scorso di Paolo davanti al re Agrippa (26,23 ), ma altresì sullo stesso
cantico di Simeone (Le 2,32). Abbiamo osservato inoltre che l'iden
tica preoccupazione per il «culto» autentico caratterizza nel contem
po il discorso di Stefano (At 7,7.42-43) e il cantico di Zaccaria, in Le
1 ,68-75, il cantico in rapporto al quale quello di Simeone (2,29-32)
dev'essere considerato come il corrispettivo nell'economia di Le 1-2.
Cantico di ringraziamento, questo cantico di Simeone non può es
sere separato dall'oracolo minaccioso da cui è seguito (Le 2,34-35),
che può anche ricordare l'implicita citazione del Sal 1 1 7,22 (LXX) a
conclusione dei primo discorso di Pietro davanti al sinedrio (A t 4,1 1 ) ,
sia i l modo i n cui l o stesso versetto del salmo era stato citato e inter
pretato in Le 20,17-1 8. Ritroviamo così nel duplice intervento di Si
meone in Le 2,29-32 e 34-35 l'insistenza che abbiamo incontrato nel
la maggior parte dei discorsi degli Atti sui due aspetti complementa-
145
ri del messaggio di salvezza: la promessa della salvezza che si estende
a tutte le nazioni, la minaccia che esso fa scendere sugli israeliti che
lo rifiutano.
Non sembra necessario sottolineare maggiormente l'opportunità
di prendere in considerazione anche questo passo: le parole che esso
attribuisce al vecchio Simeone contengono il primo abbozzo dei te
mi che hanno richiamato la nostra attenzione nei discorsi degli Atti.
Sia qui che là, l'interesse dell 'evangelista si porta direttamente sul
l'affermazione cristologica. Non ne trascura però le conseguenze ec
clesiologiche, che costituiscono l'oggetto della nostra ricerca.
Nel contesto di Le 1-2 l'episodio del vecchio Simeone (2,25-35)
fa parte di un insieme più esteso. Anzitutto si presenta come ele
mento della vasta unità letteraria che costituisce Le 2,1 -40, narra
zione delle circostanze della natività di Gesù, parallela al racconto
delle circostanze della natività di Giovanni: Le 1 ,57-80. Sussiste
un'evidente inclusione fra la nota di 2,4: «Anche Giuseppe salì dal
la Galilea, dalla città di Nazaret, in Giudea» , e quella di 2,39: «essi
tornarono in Galilea, verso la loro città di Nazaret». Nello stesso
tempo un contrasto: la partenza è stata motivata da «Un decreto
emanato da Cesare Augusto» (2, 1 1 ) mentre il ritorno è condiziona
,
146
E immediatamente salta agli occhi un contrasto. Mentre i genito
ri di Gesù non hanno altra premura che l'osservanza esatta delle pre
scrizioni della Legge, essi vanno all'incontro coi due vecchi, la cui
pietà è certamente esemplare (vv. 25 e 37), ma che contemporanea
mente si trovano sotto l'influenza dello Spirito Santo. Il tratto è for
temente sottolineato per Simeone: «Egli aspettava la consolazione
d'Israele e lo Spirito Santo era su di lui. Egli era stato avvertito dallo
Spirito Santo che non avrebbe visto la morte prima d'aver visto il Cri
sto del Signore. E venne al tempio (spinto) dallo Spirito» (vv. 25-27).
Ci si renderà conto così del carattere profetico delle sue parole.
Quanto ad Anna, ella è immediatamente qualificata come «profetes
sa» (v. 36); si comprenderà quindi che è sotto l'azione dello Spirito
che «esaltava Dio e parlava del fanciullo a tutti quelli che aspettava
no la redenzione di Gerusalemme>> (v. 38) .
Ma sono i due oracoli attribuiti a Simeone che esigono la nostra
attenzione. Il primo celebra la realizzazione della salvezza e la sua di
mensione universale (vv. 29-32), mentre il secondo rievoca la terribi
le crisi che Israele sta per attraversare (vv. 34-35).
147
loro contesto lucano, le ultime parole, «i miei occhi hanno visto la tua
salvezza», non possono non evocare l'oracolo di Is 40,5, che sarà for
malmente citato un po' più avanti: «E ogni carne vedrà la salvezza di
D io » (Le 3,6). Il legame s'impone tanto più che, per parlare di que
sta «salvezza di Dio», Luca impiega la parola eccezionale soterion, la
quale non riapparirà che in At 28,28, ancora con probabile riferi
mento a Is 40,5.
Il v. 31 precisa: la tua salvezza «che tu hai preparata davanti a tut
ti i popoli». Si leggeva in Is 52,1 0: «Il Signore rivelerà le sue sante
braccia davanti a tutte le nazioni, e tutti i confini della terra vedran
no la salvezza (soterian, la parola corrente) che viene da Dio». È pro
prio lo stesso tema e ci si può chiedere se non sia precisamente sot
to l'influenza del verbo di questo versetto di Isaia, «rivelerà>>, che
Luca parla al v. 32 della «rivelazione delle nazioni>>. Il cambiamento
più considerevole è quello che fa scrivere a Luca «di fronte a tutti i
popoli (laon )>>, al posto di «di fronte a tutte le nazioni ( ethnon )>>.
Questo non corrisponde al vocabolario di Luca, che riserva la paro
la laos per indicare il popolo d'Israele (e anche al plurale: A t 4,25-
27). Ma il significato della correzione è troppo chiaro nel caso pre
sente : la prospettiva di Luca non è più quella di Isaia, in cui la sal
vezza è realizzata da Dio a favore d'Israele, non essendo le nazioni
pagane che i testimoni. Per Luca la salvezza che si trova nella perso
na del bambino riguarda «tutti i popoli>>, il popolo d'Israele come le
nazioni pagane. L'uso plurale della parola «popoli>> elimina la distin
zione fra il «popolo>> e le «nazioni».
Tale distinzione riappare ne li 'ultimo distico: «luce per la rivela
zione delle nazioni e gloria del tuo popolo Israele» (v. 32). Tale ver
setto pone anzitutto un problema di costruzione: se è evidente che la
parola «luce» è apposizione della parola «salvezza», è meno chiaro
se la parola «gloria» sia ugualmente app�sizione di «salvezza» («sal
vezza» che è nel contempo «luce» per le nazioni e «gloria» per Israe
le), o se sia apposizione di «rivelazione» (la «rivelazione» che la sal
vezza fornisce alle nazioni fa contemporaneamente la «gloria» d'I
sraele ). Nella prima interpretazione, la «salvezza» perviene in due
differenti forme alle nazioni e a Israele; nella seconda la «salvezza»
sembra riguardare Israele e ha quale effetto l'apertura degli occhi al
le nazioni, per la maggior gloria d'Israele. Questa seconda interpre
tazione ci sembra difficilmente conciliabile col ritmo del poema e col
significativo cambiamento che, al v. 31 , ha sostituito «tutti i popoli»
148
(i vi compreso Israele) a <<tutte le nazioni» (a esclusione d'Israele, che
non è semplicemente testimone di salvezza, dato che ne sarebbe il
solo beneficiario ).l
Occorre riconoscere che il v. 32a sarebbe stato più chi aro se, per
definire la salvezza accordata da Dio nella persona di Gesù, Luca si
fosse accontentato dell'espressione «luce delle nazioni>> (At 13,47 =
Is 49,6). Ma il ritmo esigeva più spazio e occorreva trovare un mo
do di dire biblico. Is 52,10 sembra aver suggerito il termine «rivela
zione», impiegato qui con un significato che le analoghe afferma
zioni del discorso di Paolo davanti al re Agrippa permettono di co
gliere senza troppa fatica. Luca scrive colà che il Cristo risorto do
veva, secondo le Scritture, «annunciare la luce tanto al popolo che
alle nazioni>> (At 26,23); la missione di Paolo a tutti gli uomini ha
per scopo di «aprire loro gli occhi, affinché si convertano dalle te
nebre alla luce» (v. 18). Relativamente alle nazion i, il Cristo gioca il
proprio ruolo di «luce>>, in quanto manifesta il Dio che le salva per
mezzo suo.
Perché è di Cristo che qui si tratta. I problemi contro cui troppo
spesso cozza l'esegesi del v. 32 trovano il loro punto di partenza in
una comprensione della parola neutra to soterion al v. 30: si crede di
sapere che si tratti di una salvezza astratta, e si suppone che il v. 32
debba informare circa il modo in cui funziona questo fantasma. Ora
è troppo chiaro che l'affermazione del v. 30: «i miei occhi hanno vi
sto la tua salvezza», rinvia alla promessa di cui parlava il v. 26: lo Spi
rito Santo aveva fatto sapere a Simeone «che egl i non avrebbe ve
duto la morte prima d'aver visto il Cristo del Signore». Il soterion che
i suoi occhi hanno visto non è cosa astratta; è il personaggio che gli
era stato annunciato, «il Cristo del Signore», il bambino che l'angelo
aveva presentato ai pastori come «il Salvatore (soter), che è il Cristo
Signore» (v. 1 1 ). È lui la luce destinata a illuminare le nazioni. Luca
non vuole dire di più, per il momento; mostrerà negli Atti che il Cri
sto realizzerà questo ruolo mediante la predicazione dei suoi inviati
e la fede che essa susciterà nei loro ascoltatori.
149
Ci sembra fuori di dubbio che l'espressione «e gloria del tuo po
polo Israele», al v. 32b, scaturisce dalla stessa prospettiva cristologi
ca. Non si tratta della gloria che Israele potrebbe ricavare dalla pro
pria salvezza o dalla salvezza delle nazioni. Si tratta della gloria che
questo Salvatore, che il vecchio Simeone vede coi propri occhi (v.
30), che tiene tra le proprie braccia (v. 28), rappresenta per Israele.
La gloria d 'Israele non è altro che la stessa persona del «Cristo del
Signore» (v. 26), colui che il cantico di Zaccaria chiama «il corno di
salvezza che Dio ha suscitato per noi nella casa di Davide suo servo»
(1 ,69). Ma mentre l'orizzonte del cantico di Zaccaria rimaneva ri
stretto a Israele, quello del cantico di Simeone si apre alle dimensio
ni dell'universo. Un universo di cui, d'altronde, Israele resta il centro,
poiché è su questo popolo che ricade l'onore di dare al mondo colui
che incarna la salvezza di Dio.
Certo, la salvezza che Dio accorda tramite la persona del Cristo
non è una salvezza che si realizza automaticamente. Affinché le na
zioni ne siano illuminate e Israele ne riceva la gloria che gli spetta,
occorrerà che la salvezza sia accolta dalla fede (cf. A t 26,18). Ed è qui
che inizia il dramma evocato dal secondo oracolo di Simeone.
Dopo aver benedetto Dio per la salvezza che egli dona agli uo
mini in Gesù, Simeone non poteva più rivolgersi a Dio per parlare
del futuro doloroso che deve ancora annunciare. Egli si rivolge a Ma
ria. Il procedimento corrisponde a quello della sconosciuta che, in Le
1 1 ,27, prorompe dinanzi a Gesù: «Beato il ventre che t'ha portato e
il seno che hai succhiato!». Il rapporto fra la madre e suo figlio è co
sì stretto, che si loda la prima per elogiare il secondo; ma si com
piange anche la prima per la sofferenza di questo figlio. È ancora al
destino di Gesù che Simeone guarda quando dichiara a Maria: «E a
te una spada trafiggerà l'anima» (v. 35a, che costituisce una parente
si in quello che è direttamente annunciato riguardo al bambino: vv.
34 e 35b) .2
2 Non sembra molto utile impegnarsi qui in una lunga discussione circa l'inter
pretazione del v. 35a, a cui gli esegeti attribuiscono molti significati. L'interpretazione
proposta è segnatamente quella di A. GEORGE, «La présentation de Jésus au Tempie.
150
Si tratta ora non più semplicemente della missione di Gesù, come
Salvatore, ma della divisione che ne sarà l'effetto, secondo l'acco
glienza che gli si farà (cf. Le 12,5 1 -53). È quanto meno ciò che scatu
risce dalla prima affermazione dell'oracolo: «Ecco, costui è stato po
sto per la caduta e la risurrezione di molti in Israele». Il verbo keftai
significherebbe propriamente «è steso»; ma lo s'impiega per sostitui
re il perfetto passivo di tithemi, inusitato. Il vero significato è dunque
«è stato posto», col valore che prende naturalmente il modo di dire
passivo per parlare di un'azione di cui Dio sarebbe il soggetto; si
avrebbe così a che fare con un equivalente grammaticale dell'affer
mazione: «Ti ho stabilito (tetheika se) per (essere) luce delle nazio
ni» (At 1 3,47 = Is 49,6). Ma il ruolo di Gesù è visto qui in relazione
a Israele.
Gli effetti della sua venuta saranno contrastanti: caduta per gli
uni, rialzamento per gli altri, e in ogni caso il numero degli israeliti
sarà grande. Nel senso in cui Luca preciserà oltre: «In una casa di cin
que persone vi sarà divisione: tre contro due e due contro tre» (Le
12,52; diverso in Mt 10,3 5). L'uso della parola «caduta», in primo luo
go, evoca facilmente l'immagine di una pietra, que lla in pa rticolare
di cui parla Is 8,14: una pietra d'inciampo e una roccia che provoca
la caduta. Infatti, il seguito della profezia di Simeone non parla pi ù
che del risultato negativo di questa «caduta» di cui Gesù sarà occa
sione per tante persone in Israele.
Il seguito del v. 34 aggiunge anzitutto: «e in segno contestato)). La
parola «segno» può essere chiarita da Is 8,1 8: «Ecco che io e i figli che
Dio mi ha dato saremo dei segni e dei presagi nella casa di Israele)).
Segno di salvezza accordata da Dio ( vv. 30- 32 ) , Gesù pone Israele di
nanzi a un 'operazione a cui nessuno potrà sottrarsi. Ma non è più
questione di rifiuto di coloro che lo contesterebbero. Il punto di vista
negativo è piuttosto quello che scaturisce dali 'insieme del racconto
degli Atti, specialmente dalle due dichiarazioni-chiave di Paolo, in
13,41 e 28,26-27. Ci si può ricordare di Is 65 ,2: «Ogni giorno ho teso
le mani verso un popolo che non si lascia persuadere e che contesta».
151
Il v. 35b spiega inoltre: «affinché siano rivelati i ragionamenti
d'un gran numero di cuori». Come più spesso nel greco biblico, il ter
mine «ragionamenti» (dialogismoi) è peggiorativo: si tratta di rifles
sioni scaturite da incredulità o da cattive disposizioni (cf. Le 5,22; 6,8;
9,46.47; 24,38). Numerosi saranno gli israeliti a inciampare su colui
che Dio ha costituito segno della salvezza promessa; nella loro cadu
ta si dovrà vedere la testimonianza e la manifestazione delle loro di
fettose disposizioni, dell'accecamento del cuore di «questo popolo»
di cui già parlava il profeta Isaia (Is 6,10 = At 28,27). Il Salvatore che
doveva essere la gloria d'Israele (v. 32) diviene così occasione di con
danna «d'un gran numero in Israele» (v. 34); di tutti quelli che avran
no rifiutato il suo divino significato.
Il contrasto estremamente forte che oppone l'una all'altra le due
profezie di Simeone alla fine dei racconti che Luca ha consacrato al
la natività di Gesù, prende tutto il proprio significato nel rapporto
che unisce questi testi al tema centrale dell'ecclesiologia degli Atti.
Ci si rende conto immediatamente che tale ecclesiologia è indisso
ciabile dalla soteriologia e dalla cristologia. La Chiesa è meno consi
derata per se stessa che nella relazione stabilita fra i suoi membri e
colui che, invocato come Signore, è contemporaneamente il loro Sal
vatore (A t 2,21 ). È su questa relazione che Israele si scinde in due
parti: coloro per i quali Cristo è occasione di caduta e quelli a cui egli
reca il rialzamento. Ma nel contempo l 'orizzonte si allarga a «tutti i
popoli)) (Le 2,31); non soltanto «il popolo» per eccellenza, Israele, di
cui «il Cristo del Signore» è la gloria, ma anche «le nazioni» di cui è
la luce (v. 32).
Nelle profezie di Simeone non c'è posto per esplicite citazioni
dell'Antico Testamento. Il linguaggio altamente biblico di cui esso fa
uso mostra sufficientemente la continuità che sta tanto a cuore a Lu
ca: la nuova situazione che la venuta di Cristo crea per Israele e per
le nazioni risulta semplicemente dal passaggio che si determina fra il
tempo delle promesse e quello del loro compimento. La Chiesa non
è un «nuovo» popolo di Dio, essa costituisce semplicemente l'unico
popolo di Dio giunto alla fase del compimento della promessa.
152
INDICE
PREFAZIONE
L'ECCLESIOLOGIA DEGLI ATII DEGLI APOSTOLI
SECONDO JACQUES DUPO NT di Massimo Grilli p. 5
l . Il principio strutturante:
il rapporto Israele-Chiesa ........................................... . )) 6
2. L'interpretazione del rapporto ... ................................ . )) 7
3. L'attualità del problema ............................................. . )) 8
SIGLE . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . )) 13
CAPITOLO I
ALCUNI APPROCCI POSSIBILI ..................................... . » 21
l . Il lessico ......................................................................... . )) 21
1.1. Ekklesia ...................................................................... . )) 22
1.2. Hod6s ......................................................................... . )) 24
2. La vita della Chiesa ........... .......................................... . )) 26
3. La Chiesa nel suo rapporto con lo Spirito Santo ... . )) 30
4. La Chiesa come istituzione
gerarchicamente organizzata ...................................... . )) 32
5. La Chiesa e lo Stato ............. ....................................... . )) 39
153
CAPITOLO I I
LA SVOLTA DECISIVA DELL'ASSEMBLEA
DI GERUSALEMME (At 15) . . . . . . . . .. .. .
.... . . .. .
........ .. .... ... )) 43
l . Pietro: l a lezione della sua esperienza a Cesarea
(vv. 7-1 1 ) ........................................................................ . » 45
2. Giacomo: la testimonianza dei profeti (vv. 15-18) .. . )) 48
2.1. La ricostruzione della tenda di David .......... ......... . )) 49
2.2. L'esito per le nazioni ................................................ . )) 54
3. Giacomo: la testimonianza di Mosè (vv. 19-21) ...... . )) 56
4. Giacomo: «Un popolo tra le nazioni>) (v. 14) ........... . )) 61
4. 1. Il termine «popolo» (laos) nel vocabolario di Luca )) 61
4.2. Il popolo del Signore a Corinto (At 18,10) .......... . )) 66
4.3. Dio ha avuto cura di prendere un popolo
per il suo nome ......................................................... . )) 68
CAPITOLO III
PUNTO DI PARTENZA: PIETRO E LE SCRITIURE
(At 2--4) ........... ............................................... ..................... )) 71
l . La Pentecoste, inaugurazione degli «Ultimi giorni» . )) 72
1 . 1. Significato dell'avvenimento della Pentecoste ....... . )) 74
1.2. Quelli sui quali lo Spirito è effuso ......................... . )) 77
2. Il profeta che bisogna ascoltare .. ............................. . . )) 79
2. 1. La testimonianza di Mosè ...................................... .. » 80
2.2. La testimonianza dei profeti .......................... .. ...... .. » 86
2.3. l primi destinatari della salvezza ............................ . )) 88
3. La pietra disprezzata dai costruttori ......................... . )) 91
3. 1. l vigna io/i omicidi (Le 20, 9-19) .............................. . )) 92
3.2. I costruttori di Israele ............................................... . )) 95
CAPITOLO IV
STEFANO E PAOLO RI LE GGONO LE SCRITIURE
(At 7; 13; 28) ..................................................................... . » 99
l . Stefano: un popolo per il culto di Dio .......... ........... . )) 100
1.1. La citazione di A mos in At 7,42-43 ....................... . )) 102
1.2. La citazione di Isaia in At 7,49-50 ......................... . )) 105
2. Paolo ad Antiochia: avvertimento agli «sprezzanti» . )) 109
2.1. La citazione di Abacuc nel suo contesto
(13,38-41) ............................. ............. .............. ...... ..... . » 111
2.2. La citazione di Isaia nel suo contesto (13, 42-52) .. )) 1 14
154
3. Paolo a Rom a : la cecità di «questo popolo» ...... ..... . )) 1 1 8
3. 1. La citazionl' di /.\· (), CJ- /0 in A t 28,26-27 .... . . . . . . . . . . . . . )) 120
3.2. Il richiamo di !J -10,5 in A t 28,28 .. . . . .. .... ......... . . . . . . . . )) 123
4. La missione di Paolo «pe r una parte di eredità
fra i santificati » ( A t 26, 1 X ) ......................................... . )) 1 27
4. 1. Analisi della fra.\'C'.' A t 26, /6b-18 . .. . . . ............... . . . . . . . . . )) 130
4.2. La parola che procura «l 'eredità tra i santificati»
(A t 20,32) .............................. ..................................... . » 133
4.3. I «santificati» di 26, 18 e i «santi» di 26,10 ............ . )) 137
APPENDICE
LE PROFEZIE DEL VECCHIO SIMEONE
(Le 2,25-35 ) . . . . . . . . . . . . . ............... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............... . » 145
l . Luce delle nazioni e gloria d'Israele ................ ........ . )) 147
2. Per la caduta e la risurrezione di molti in Israele .. )) 150
155